TOM HARPER MOSAICO D'OMBRE (The Mosaic Of Shadows, 2004)
A Marianna Άνδρα μοι εννεπε, μοϋσα, πολυτροπον, δς μάλα πολλά...
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TOM HARPER MOSAICO D'OMBRE (The Mosaic Of Shadows, 2004)
A Marianna Άνδρα μοι εννεπε, μοϋσα, πολυτροπον, δς μάλα πολλά πλάγχθη Per circa mille anni dopo la caduta dell'impero d'Occidente, l'impero di Bisanzio, al cui centro si ergeva la maestosa città di Costantinopoli, perpetuò la viva e indomita eredità di Roma. Esso raggiunse l'apice ultimo della sua potenza nel 1025, sotto l'imperatore Basilio Π, ma una lunga serie di successori deboli e corrotti vanificò le sue conquiste fino a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell'impero. In tali circostanze, un dinamico, giovane capo di nome Alessio Comneno salì al trono grazie a un accordo fra le famiglie più influenti che detenevano il potere militare e riuscì, attraverso battaglie campali e scaltre mosse diplomatiche, a ristabilire il potere e la gloria di Bisanzio. Durante il suo regno fu costretto ad affrontare non poche difficoltà: Turchi, Normanni, Bulgari, Germani e veneziani premevano alle frontiere, mentre avversari provenienti dalla sua stessa famiglia e da quelle rivali tramavano incessantemente per usurpare il suo trono. In particolare contro i Turchi che continuavano ad avanzare nell'entroterra dell'Asia minore, Alessio si vide costretto a pregare il lontano papa di Roma che inviasse dei soldati a dare manforte alle deboli armate bizantine. Β con sua grande sorpresa, e conseguente preoccupazione, ne ottenne fin troppi: il papa indisse la prima Crociata e decine di migliaia di cavalieri dell'Occidente si mobilitarono per calare su Bisanzio. La lingua parlata a Bisanzio era il greco, ma nel corso di tutta la sua storia gli abitanti della città si riferirono a se stessi sempre come Romani. Tutti i popoli al di là dei confini dell'impero venivano considerati barbari. Perché i nostri due consoli e i pretori stamane sono usciti in toga rossa ricamata? Perché portano bracciali con tante ametiste e anelli con smeraldi che mandano barbagli? Perché hanno in mano le rare bacchette tutte d'oro e d'argento rifinito? Oggi arrivano i barbari
e queste cose ai barbari fan colpo. K. KAVAFIS (trad. di M. Dalmàti e N. Risi) α Scendeva la sera quando i barbari giunsero alla mia porta con le asce in pugno. Il sole stava tramontando dietro i bastioni occidentali, tingendo di rame il cielo e tutto ciò che vi stava sotto. Nell'aria priva di vento, i baldacchini e i tendoni della regina delle città erano immobili come la miriade di torri e cupole che li sovrastavano. Bastava tendere l'orecchio per sentire le note lievi e vibranti dei canti che salivano dalle cento chiese dei dintorni. Per tutto il giorno una marea umana aveva riempito le strade, gli abitanti di Bisanzio si erano radunati per celebrare la festa di San Nicola e per assistere al passaggio dell'imperatore; al calar della sera quella marea stava lentamente ritraendosi verso i portici e le abitazioni da cui era venuta. Io ero seduto sul mio tetto e osservavo lo spettacolo sorseggiando una coppa di vino, particolarmente gradita dopo una settimana di digiuno. Zoe, la più giovane delle mie figlie, annunciò i barbari. Con la coda dell'occhio vidi il suo volto spuntare dalla botola in cima alla scala a pioli. La fronte, abitualmente serena sotto la folta capigliatura ricciuta, era aggrottata per la preoccupazione e la perplessità. «Ci sono degli uomini che vogliono vederti», disse senza fiato, ancora in piedi sulla scala. S'interruppe per un istante, riconsiderando la situazione. «Giganti. Titani. Sono in tre, con delle asce enormi. Uno di loro ha una barba di fuoco, come Prometeo.» Mia figlia è sempre stata portata per la poesia, anche se ultimamente me ne accorgo più spesso. «Ci passano dalla porta?» chiesi. «O devo montare il mio destriero alato e volare giù per guardarli negli occhi?» Zoe rifletté per un attimo. «Sì, ci possono passare», concesse. «E attraverso quell'apertura dove te ne stai in piedi?» «Forse. Ma potrebbero far crollare la scala con il loro peso», aggiunse. «E tu rimarresti bloccato di sopra.» «Vorrà dire che dovranno comprarmene una nuova.» La faccia imbronciata di Zoe sparì e dalla stanza di sotto giunse un gran frastuono. Forse Zoe non aveva esagerato: potevo infatti sentire passi fra-
gorosi di uomini che muovevano i piedi come fossero magli; gente che, con mezza giornata di marcia, avrebbe spianato persino i sette colli. La scala tremò e io immaginai i pioli che si piegavano come fuscelli sotto un insopportabile peso. Ormai aspettavo di udire lo schiocco del legno spezzato seguito dal fragore di un uomo che cade, ma la mia scala - solida quercia della Bitinia - resse, sostenendoli fino a quando emersero dall'oscurità nella fresca aria della sera. Erano in tre, come Zoe aveva annunciato; e, proprio come aveva detto, erano giganti. Indossavano cotte di maglia lunghe sino alle ginocchia, serrate da alte cinture di pelle che reggevano pesanti mazze di ferro. In spalla portavano grandi asce bipenni che non avevano deposto neppure per affrontare la pericolosa ascensione della scala a pioli. Anche senza le insegne della loro legione, un quadrato blu di stoffa guarnita di pelliccia attaccato al collo, erano inconfondibili. Variaghi, le guardie scelte del palazzo, protettori dell'imperatore. Anche se mi alzai lentamente per salutarli, la mano che reggeva la coppa di vino cominciò a tremare leggermente. «Siete voi Demetrios Askiates, risolutore di misteri?» Aveva parlato il più vicino dei tre giganti. Come i suoi compagni, era di pelle chiara, anche se il nostro sole aveva infierito sulla sua carnagione ovunque, tranne che alla base del collo, dove era ancora visibile una sfumatura color latte. Come Zoe aveva detto, i capelli e la barba erano di quel colore del fuoco che la natura non ha mai concesso alla nostra gente, una criniera sospesa sopra le spalle immense. Era, in breve, un perfetto esemplare di quella razza che abita la gelida isola di Thule - Britannia, come la chiamarono i nostri antenati quando la conquistarono - anche se doveva aver lasciato tali luoghi da molti anni, a giudicare dalla sicurezza con cui si esprimeva in greco. Risposi alla sua domanda con un cenno del capo, cogliendo l'assurdità di quell'epiteto, che io stesso avevo coniato, di fronte a quella forza bruta e selvaggia. Il Variago, pensai, non sarebbe stato in grado di risolvere alcun mistero: l'avrebbe ridotto in polvere con la sua mazza, ο tranciato con un colpo di scure come Alessandro il nodo gordiano. Mi chiesi nervosamente che cosa potesse volere da me. «Siete richiesto a palazzo», disse. Accanto alla sua mano sinistra appoggiata sull'impugnatura dell'ascia, notai una fila di tacche nel legno scuro, che correva praticamente ininterrotta dal pomolo alla lama. Rappresentavano le sue vittime? Annuii una seconda volta, e poi - del tutto confuso - involontariamente
altre due volte. «Perché?» «Questo», dichiarò il Variago in tono grave, «vi sarà rivelato quando arriverete a destinazione.» Sotto la folta barba, mi sembrò di vedere la sua bocca contrarsi in una smorfia. C'era ancora un po' di luce in cielo quando uscimmo di casa, ma i banchi dei negozianti erano già stati ritirati e la folla si era ormai ridotta a rare frettolose figure. A pochi piaceva farsi sorprendere ancora in giro al calar della notte, quando usciva la Guardia. E ancora meno erano quelli che volevano ritrovarsi nei pressi della falange delle guardie - almeno una dozzina - che io vidi, con un certo sconcerto, schierata davanti alla mia dimora. Tutto ciò non accrescerà certo la mia reputazione fra i miei sospettosi vicini, pensai mestamente. Non c'era da stupirsi che non ci fossero bambini a giocare per la via, e neppure venditori di frutta ο mercanti di dolciumi ancora in giro con le loro mercanzie. Il palazzo distava una mezz'ora di cammino, ma con una compagnia di scandinavi alle mie spalle e il loro silenzioso capitano dalla testa rossa davanti a me, il tragitto mi sembrò dieci volte più lungo. Dai passanti mi arrivavano occhiate in cui la pietà si mescolava al sospetto: non è in catene, pensavano, ma neppure è vestito in modo tale da giustificare una simile scorta. La giornata era ovunque ormai giunta al termine, a raccontarla rimanevano ancora soltanto alcuni odori sospesi nell'aria: il tanfo delle botteghe dei conciatori e dei tintori, la calda fragranza di quelle dei fornai, il sentore di sangue proveniente da quelle dei macellai e - quando finalmente arrivammo in cima alla strada - l'intensa dolcezza dei negozi dei venditori di profumi. Il portico di marmo dell'Augusteo si trovava ora di fronte a noi; il cancello del palazzo si trovava più avanti e l'immensa cupola della chiesa alla nostra sinistra. Gli interrogativi che mi martellavano nella testa avevano raggiunto una frastornante intensità; tuttavia piombai improvvisamente in una confusione ancora maggiore quando il capitano svoltò di colpo a destra, allontanandosi dal palazzo e proseguendo per una lunga strada il cui muro, da quel che potevo vedere, seguiva il vasto perimetro dell'ippodromo. Un avambraccio, appesantito dalla corazza, premuto contro la mia spalla mi indusse a seguirlo ubbidiente nell'oscurità. «Il palazzo è da quella parte», protestai ad alta voce, aumentando la mia già sostenuta andatura. «Il palazzo», replicò il capitano senza neppure voltarsi, «ha molte entrate e non tutte sono accessibili a chiunque. I pescivendoli, per esempio, uti-
lizzano solo il loro ingresso. Per non far penetrare la puzza», aggiunse tagliente. Adesso le mura erano butterate di archi e ornate a perdita d'occhio con ogni genere di statue sacre e pagane. Procedemmo in quella direzione e attraversammo un cancello di ferro, un ingresso secondario lasciato stranamente aperto. Per un momento ci ritrovammo al buio, frastornati dall'eco rumorosa dei nostri passi sulla pietra; poi il cielo violetto tornò ad aprirsi sopra di noi e io sentii la sabbia calda infilarsi nei sandali. Eravamo nell'arena, sulla pista che portava ancora le tracce e i solchi delle attività del giorno. Era deserta, ma il silenzio di centomila spettatori assenti non faceva che sottolineare il senso di vastità, mentre davanti a noi una schiera di pali e colonne si ergeva dalla spina - il muro divisorio centrale - come un fascio di lance. «Venite», intimò il capitano, le sue parole attutite da quell'opprimente vastità. Mi guidò lungo la pista e per una stretta scala tagliata attraverso la spina. Ora eravamo proprio sotto quegli imponenti monumenti, come fra le dita di una mano gigantesca, e per un momento, stupidamente, immaginai tale mano che si chiudeva su di noi serrando un pugno di pietra. Era un'immagine assurda, ma non potei fare a meno di rabbrividire. I miei accompagnatori, per quanto robusti e risoluti, non sembravano più inclini di me a indugiare in quel luogo. Altri gradini ci riportarono sul fondo dell'arena, ma dall'altra parte dello stadio; camminammo per un po' lungo la pista, poi la attraversammo dirigendoci verso il muro opposto e salimmo un'altra rampa di scale fra le file di panche vuote. Giungemmo a una terrazza che, a sua volta, s'affacciava su un'altra scala, tanto tortuosa che ben presto cominciò a girarmi la testa. Ora il cielo era quasi del tutto invisibile, solo un debole chiarore impediva che l'oscurità fosse completa, e già un corno della luna crescente faceva capolino dietro il muro, ma l'andatura dei soldati rimaneva costante. Inciampando e barcollando riuscii a salire gli ultimi gradini e a emergere, senza fiato e disorientato, su un'ampia balconata che si estendeva alta al di sopra della pista. «Benvenuto al Kathisma», disse il capitano variago, e, nonostante i miei polmoni provati dalla salita, trovai in qualche modo il fiato per un sospiro dal profondo del cuore. Certo, mi avevano annunciato che sarei andato al palazzo, ma mi aspettavo una porta laterale e una scrivania della cancelleria in uno dei cortili aperti al pubblico; non questo, non il Kathisma. Si trattava del palco imperiale, la balconata da cui il sovrano si mostrava al mondo - al suo mondo in tutta la sua intoccabile maestà per farsi acclama-
re. Io stesso lo avevo visto affacciarsi da lì un centinaio di volte, ma sempre da una grande distanza. Una delle guardie prese una torcia da una nicchia e accese le lampade che pendevano dal soffitto. Il fuoco sfavillò nel vetro e, in un istante, riverberò migliaia di volte: sulle catene d'oro che sostenevano le lampade, sui mosaici dorati collocati in ogni arcata, sul trono vuoto al centro della stanza. Improvvisamente mi trovai circondato da un'illustre schiera: le guizzanti sagome di un centinaio di re ed eroi emersero dallo sfondo dorato, mentre, dall'alto, i grandi aurighi del passato sembravano incitare i loro cavalli contro di me, come verso il profeta Elia. «Siete voi Demetrios, il risolutore di misteri? Colui che illumina le ombre? Il maestro dell'apocalisse?» La voce che mi interpellava era dolce come miele, ma fin dalle prime parole io mi feci piccolo piccolo, poiché sembrava provenire dai muri stessi. Il tono era privo di minaccia ο di malvagità, ma fu con il cuore in tumulto che diressi lo sguardo verso il punto da cui proveniva. Per un istante pensai con sgomento che il muro avesse realmente preso vita, poiché vidi una figura che scaturiva dalle ombre dorate. Solo quando arrivò alla luce mi resi conto che era un uomo in carne e ossa. La tunica sontuosa trapuntata di gemme con le insegne degli alti funzionari, la testa rotonda, il volto senza barba liscio come quello di una fanciulla. I suoi occhi vivacissimi brillavano sotto la luce come l'olio nei suoi capelli neri, mentre mi squadrava con attenzione. «Sono Demetrios», farfugliai alla fine. «Io sono Krysafios», replicò gentilmente. «Ciambellano di sua augusta maestà l'imperatore Alessio.» Annuii lentamente, senza proferire verbo. Il rituale con cui di solito accoglievo i miei clienti sarebbe sembrato ridicolo in questo maestoso luogo, e c'era qualcosa nello sguardo dell'eunuco che mi faceva pensare che doveva già avermi preso le misure. «Mi hanno raccontato che voi sapete sciogliere enigmi che lasciano perplessi gli altri uomini», disse. «Svelate ciò che è nascosto e portate alla luce la verità.» «Il Signore ha benedetto alcuni dei miei sforzi», risposi con più umiltà di quella di cui di solito davo prova durante tali fatiche. «Avete ritrovato la figlia dell'eparca quando la sua famiglia aveva già organizzato il suo funerale», commentò incoraggiante l'eunuco. «Un'ottima cosa. Ho bisogno di talenti come i vostri.»
Fino a quel momento aveva tenuto le mani giunte dietro la schiena; ora protese verso di me una palma grassoccia. La pelle era morbida e liscia, ma non c'era nulla di morbido in ciò che teneva in mano e mi stava tendendo. Alla fine cominciai a capire che cosa doveva avermi portato qui, e perché i miei metodi poco ortodossi potevano essergli utili. Molte cose mi erano ancora del tutto oscure, certo, ma se la faccenda coinvolgeva il palazzo e richiedeva una tale segretezza doveva riguardare le più alte autorità. E implicare forse, pensai distrattamente, i più alti compensi. L'oggetto che Krysafios teneva in mano era lungo più ο meno una spanna e spesso quanto un dito; era un'asta di legno con una estremità di ferro, ricavata da un blocco grezzo e limata fino a essere ridotta a una punta triangolare spaventosamente aguzza. La punta e una buona metà dell'asta erano incrostate di una sostanza color vinaccia che avrebbe dovuto essermi molto meno familiare di quanto lo era, purtroppo, nella realtà dei fatti. Intorno all'estremità non appuntita si vedevano gli sfilacciati resti di quelle che dovevano essere state le piume. «Una freccia?» azzardai, prendendola cautamente fra le dita. Nonostante le ridotte dimensioni era stranamente pesante. «Ma sembra troppo corta per un simile scopo - sarebbe caduta dall'arco ben prima di poter essere lanciata.» Ragionavo freneticamente, consapevole dello sguardo dell'eunuco. «Con una macchina da assedio, una balista, si potrebbe scagliarla, forse, ma sarebbe come far tirare un aratro da un cane.» Mi resi conto che stavo facendo congetture a voce troppo alta, e troppo all'oscuro dei fatti, entrambe pessime abitudini da un punto di vista professionale. «Comunque è un'arma, devo dedurre, ο almeno uno strumento che come tale è stato usato.» Il sangue secco me lo rivelava con chiarezza. «E di recente, direi.» Krysafios sospirò e per la prima volta vidi che la tensione disegnava alcune rughe sulla sua pelle liscia come marmo. «È stata tirata», spiegò, «come una freccia ma con una forza fuori dall'ordinario - non sappiamo in che modo - contro una guardia. Oggi. La sua potenza è stata tale che ha trapassato l'armatura andando a conficcarsi fra le coste. Il soldato è morto quasi all'istante.» «Straordinario.» Per un momento soppesai silenziosamente le sue parole: sembravano prive di senso. Ο forse era la mia spiegazione di quell'arma che non aveva senso. Nel frattempo, mentre mi affannavo, cercai scampo in qualche logora frase fatta.
«Che tragedia per quel soldato», mormorai. «E per la sua povera famiglia. Le mie preghiere...» «Le vostre preghiere conservatele per la chiesa», rispose seccamente l'eunuco. «Il soldato è irrilevante. Ciò che importa», aggiunse stringendo le sue dita grassocce, «è che quando è morto si trovava in piedi, in una pubblica via, proprio accanto, vicino come lo sono io adesso a voi, al suo signore. L'imperatore.» Ho sbagliato anche in questo, pensai. Il compenso per questo incarico non sarà semplicemente ricco: sarà davvero al di là di ogni immaginazione. Posto, naturalmente, che io riesca a guadagnarmelo. Pur con qualche esitazione, chiesi: «Volete che io scopra chi ha tentato di assassinare l'imperatore?» Le parole non suonarono meno assurde sulle mie labbra di quanto non lo fossero già nella mia testa, ma ciò nonostante vidi l'eunuco annuire. «Qualcuno ha tentato di ucciderlo e io devo smascherare il colpevole?» «Pensate di essere all'altezza dell'incarico?» domandò seccamente Krysafios. «Oppure ho chiamato l'uomo sbagliato, distogliendolo dalle sue libagioni? L'eparca mi ha assicurato di no, sebbene non gli abbia rivelato tutta la verità riguardo al vostro compito.» «Posso accettare la sfida», risposi, con una sicurezza che il mattino dopo avrei rimpianto. «Ma a quale prezzo?» «Il vostro onorario, Askiates? Penso che possiamo permettercelo.» L'eunuco esibì sgarbatamente il sogghigno compiaciuto di chi poteva tranquillamente non curarsi del denaro. «Anche il doppio, se occorre. Due monete d'oro al giorno dovrebbero bastare per il vostro tempo.» «Non era del costo per voi che mi preoccupavo», risposi irritato dalla sua convinzione di potermi comprare così facilmente. «A parte il fatto che non potrei farlo per meno di cinque monete d'oro al giorno, vogliamo parlare del pericolo che significherebbe per me? Dubito che sia opera di un commerciante convinto di aver subito un torto ο di un fabbricante di candele che ha ritenuto le sue tasse troppo onerose, ο di un droghiere scoperto a truccare la bilancia.» «Sono quelle le vostre prede abituali?» commentò beffardo Krysafios. I pannelli d'oro guizzanti di luce alle sue spalle parevano aver preso fuoco. «I commercianti che rubano una moneta ο due quando i loro clienti sono troppo ottusi per accorgersene? Se volete restare in loro compagnia, Askiates, posso farvi riaccompagnare subito dai Variaghi. Invece di farvi guadagnare la gloria e la gratitudine di un imperatore.»
«La gratitudine di un imperatore morto vale ben poco. L'odio dei suoi nemici conta molto di più.» «Se svolgerete bene il vostro lavoro, l'imperatore non morirà. E, se muore, l'odio dei suoi nemici sarà l'ultima delle vostre preoccupazioni. Quindici anni hanno reso così labile la vostra memoria? Non ricordate gli incendi? Le chiese saccheggiate? Le donne violentate nelle strade?» Quando l'ultimo imperatore era caduto avevo diciannove anni, una giovane moglie e una figlia appena nata in casa; non lo avevo dimenticato. E neppure che l'usurpatore di quei giorni, il cui ingresso in città aveva fornito il pretesto per l'orgia di saccheggi che seguì, era diventato adesso il mio probabile datore di lavoro, sua maestà l'imperatore Alessio. Il mio sguardo si indurì al ricordo, ma l'ammonimento che lessi negli occhi di Krysafios mi indusse a tacere. «Sono accadute cose che non sarebbero dovute accadere», aggiunse, come recitando una confessione. «E altre sarebbero dovute andare diversamente. Ma abbiamo avuto quindici anni di pace a partire da quei giorni oscuri, e di ciò dovremmo essere grati. Possiamo costruire innumerevoli torri e mura, mettere diecimila uomini sui loro bastioni, ma a proteggere il confine tra la pace e la rovina ci sarà sempre e solo una vita. Di certo, per un padre con due figlie ancora nubili, vale la pena di proteggerla, quella vita.» Avrei potuto prenderlo a pugni, per aver inserito con tanta noncuranza le mie figlie nella sua rete di persuasione, questo mezzo uomo un attimo prima così arrogante e subito dopo mellifluo, ma con i Variaghi tutti intorno e niente da guadagnare dalla violenza, mantenni le braccia lungo i fianchi. Inoltre, diceva la verità. Abbassai la testa in segno di resa, anche se odiavo me stesso per quello che stavo facendo. Krysafios sorrise con malignità: evidentemente assaporava anche questa facile vittoria. «In questo caso, maestro Askiates», concluse, «fareste bene ad assicurarvi che l'imperatore rimanga vivo. Per tre monete d'oro al giorno.» Se la mia sorte dipendeva ormai da quella di un imperatore già condannato e di un eunuco privo di scrupoli, mi consolai pensando che mi ero almeno assicurato delle condizioni favorevoli. β Krysafios voleva assolutamente che io iniziassi interrogando i membri
della corte imperiale, gli uomini che potevano trarre maggior profitto dalla morte dell'imperatore, ma io decisi per prima cosa di visitare il luogo dov'era avvenuto il fatto. Così, il mattino seguente, una gelida alba mi accolse all'esterno della casa di Simeone l'intagliatore, proprio davanti al colonnato della Mese vicino al foro di Costantino. Molti intagliatori d'avorio avevano qui i loro negozi, con le insegne raffiguranti un corno e un coltello incrociati appese alle arcate. Immaginai che la casa di Simeone fosse quella con le finestre serrate, il cancello chiuso e i due Variaghi di guardia davanti alla porta, armati di tutto punto. Notai che i vicini che stavano esponendo le loro merci facevano di tutto per ignorarli. Attraversai la strada e mi accovacciai sulla pavimentazione di marmo, scrutando le venature grigie della sua superficie alla ricerca di qualche traccia dell'omicidio. Durante la notte avevo sentito il rumore della pioggia, mentre giacevo insonne nel mio letto, ma conservavo la speranza che le tracce di sangue non sparissero tanto facilmente. La pietra era fredda contro il mio ginocchio nudo e molti piedi mi calpestavano distrattamente le dita delle mani, poiché la folla del giorno fluiva intorno a me, ma io mantenni gli occhi fissi sul terreno finché non trovai ciò che stavo cercando: una sbiadita chiazza rosa sulla bianca superficie del marmo. Era quello il punto dove una leale guardia aveva inconsapevolmente sacrificato la sua vita per l'imperatore, mi chiesi, ο era solo un residuo di colore che un tintore frettoloso aveva fatto gocciolare sulla strada? «È caduto qui. Ero proprio in piedi dietro di lui quando è stato colpito.» Sollevai il capo e incrociai gli stanchi occhi azzurri di un Variago. L'ascia che portava sulla spalla brillava come un'aureola accanto al suo viso, sebbene la pelle fosse troppo ruvida e segnata per essere quella di un santo. I suoi capelli color paglia erano striati di grigio e, sebbene fosse alto come tutti quelli della sua razza, sembrava anziano per essere una guardia. Ripresi la posizione eretta e mi presentai: «Demetrios Askiates». «Aelric», rispose lui, tendendo la sua possente mano in segno di saluto. Io l'afferrai con cautela, consapevole della pressione delle pesanti dita serrate intorno al mio polso. «Il capitano vi aspetta in casa.» «Il soldato è caduto qui?» Fece segno di sì. «È successo all'improvviso?» «Come un fulmine a ciel sereno. Non ho fatto in tempo a vedere altro che il soldato disteso al suolo, trapassato al fianco come un cinghiale; era completamente ricoperto di sangue. È accaduto in un batter d'occhio. E il dardo s'è infilato dritto attraverso la sua armatura», aggiunse con stupore.
«Come se fosse fatta di seta.» «Sul fianco destro ο sul sinistro?» La guardia si voltò in direzione della strada, cercando di ricordare gli ultimi passi del compagno morto, poi si appoggiò pensosamente la mano sul petto, verso destra. «Da questa parte», aggiunse, parlando con lentezza, «sul lato dove cavalcava l'imperatore.» «Così la freccia deve essere stata lanciata dall'altro lato della strada, dalla casa dell'intagliatore. E dall'alto, altrimenti non avrebbe mai potuto passare sopra l'imperatore a cavallo.» «È proprio in quel punto che il capitano vi sta aspettando», mi ricordò la guardia, con una sottile sfumatura di impazienza nella voce. «Rimanete qui, allora, voglio vedere quello che ha visto l'assassino.» Tornai ad attraversare lentamente la strada, salendo i gradini fra le colonne fino al cancello che proteggeva la porta dell'intagliatore. Filtrava poca luce all'interno, ma riuscii a scorgere il bagliore metallico delle scaglie di una corazza a breve distanza dall'ingresso. «Demetrios Askiates», gridai, ponendomi davanti alle sbarre. L'intagliatore doveva averle messe per difendere la casa e le sue merci; ma ora, pensai, erano diventate una prigione. «So chi siete, Demetrios Askiates», rispose dall'interno una voce burbera. Nell'incerta luce che filtrava tra le sbarre apparve il capitano variago dalla testa rossa incontrato la notte precedente. Vidi il suo enorme pugno che girava una chiave nella serratura. La porta ruotò verso l'interno aprendosi su una stanza piuttosto buia, piena di ogni genere di ninnoli, reliquie, specchi e scrigni. Donne e uomini ricchi avrebbero pagato generosamente per averli, ma, nelle attuali circostanze, a me facevano venire in mente una tomba, una cripta, piuttosto che una sontuosa immagine di lusso. «Il grattaossa è di sopra», disse il capitano. «Vive sopra il laboratorio.» Indicò nervosamente il soffitto con il pollice. «Ci sono anche i due apprendisti. E la sua famiglia.» Erano stati tenuti prigionieri per tutta la notte, pensai, mentre mi arrampicavo su per la ripida scala nell'angolo. Arrivai al primo piano, un'altra grande stanza ricoperta di finissimi trucioli bianchi, come una coltre di neve. Nel centro si vedevano dei lunghi tavoli ancora ingombri di attrezzi abbandonati e pezzi lavorati a metà; le alte finestre si affacciavano sulle tegole oblique che coprivano il tetto del porticato. Da lì, potevo giusto vedere la punta di un elmo: Aelric il Variago, ancora in piedi dove lo avevo lasciato.
«La freccia non è stata scoccata da qui», dissi, più rivolto a me stesso che al capitano, salito dietro di me con passo pesante. Arrivammo all'ultimo piano. Qui dei tendaggi di lana pendevano dal soffitto, suddividendo la stanza in diversi spazi privati. Passandoci in mezzo, raggiunsi la facciata anteriore dell'edificio, dove diverse finestre - più piccole - si affacciavano sulla strada. Eravamo a una certa altezza, eppure soltanto un piccolo spazio separava il bordo del porticato dalla sommità dell'elmo di Aelric. Con un cenno, invitai il capitano ad avvicinarsi e a mettersi accanto a me. «Eravate là quando è stato ucciso?» chiesi, parlando istintivamente con maggior lentezza del solito, a vantaggio delle sue orecchie straniere. «Sì.» «E avete potuto vedere che il soldato si trovava proprio accanto al cavallo dell'imperatore?» «Sì.» «E pensate», continuai, «che una freccia scoccata da qui avrebbe potuto superare in altezza un cavallo - e forse anche il suo cavaliere - e riuscire a colpire un uomo che si trovava praticamente all'ombra di quell'animale?» Il capitano aggrottò la fronte, mentre guardava fuori dalla finestra. «Forse no», grugnì, «però non ho neanche mai visto una freccia capace di trapassare una cotta di maglia, indipendentemente dal fatto che un cavallo si trovasse ο meno sulla sua traiettoria. Ma adesso interrogate l'intagliatore.» «Lo farò», risposi, più ruvidamente di quanto sarebbe stato saggio davanti a quel gigante con l'ascia. «Ma prima voglio esaminare il tetto.» «L'intagliatore e i suoi apprendisti erano sui gradini all'esterno quando ci siamo diretti qui», ribatté il capitano. «Nessuno di loro avrebbe avuto il tempo di scendere dal tetto così in fretta.» «Allora forse non erano loro i colpevoli.» Superai un altro divisorio e mi ritrovai nella stanza sul retro, dove c'erano un tavolo e alcuni sgabelli, e una scala a pioli che portava a una botola sul soffitto. Arrampicandomi velocemente, aprii il chiavistello che la chiudeva e con un brivido mi sporsi fuori sul tetto. Interrotto soltanto da bassi parapetti, questo si estendeva a sinistra come a destra, collegando tutte le case su questo lato della Mese in un'unica elegante linea. Deve essere stato facile per l'assassino, pensai, fuggire da una delle tante scale. Davanti a me potevo vedere Costantino il Grande in cima alla sua colonna nel foro, appena un po' più in alto di me, e dietro di lui le cupole di Aghia Sofia, la chiesa della saggezza divina. Saggezza, pensai, che di certo mi farebbe comodo.
Abbassando lo sguardo verso la strada, fui nuovamente in grado di scorgere Aelric, sempre impassibile in mezzo alla folla. Sebbene apparisse più piccolo da quell'altezza, riuscivo a vederlo meglio che dal basso, anche quando gli altri gli passavano davanti. E lui poteva fare altrettanto con me; infatti mi rivolse un cenno di saluto quando si accorse che lo stavo osservando. «Sì», mormorai. «È da qui che puoi aver scoccato la freccia contro l'imperatore, colpendo per errore la guardia che si trovava dall'altra parte.» Mi inginocchiai accanto al parapetto. Con crescente eccitazione, notai che c'erano dei graffi sulla pietra, e là, proprio alla base del muro, in una crepa in ombra dove era cresciuto del muschio... «Noccioli di datteri?» Il capitano variago aveva seguito il mio sguardo e aveva notato ciò che avevo visto: un mucchietto di semi di datteri; a quel punto rovesciò indietro la testa scoppiando in una fragorosa risata. Non era un suono rassicurante. «Congratulazioni, Demetrios Askiates», commentò, raccogliendo uno dei semi e facendolo saltare sulla mano. «Avete trovato un assassino che tira come Ullr il Cacciatore e ha una passione per la frutta secca. Miracoloso!» Il capitano rimase con me mentre interrogavo l'intagliatore e la sua famiglia, e dubito che ciò li mettesse a loro agio. L'artigiano, un uomo magro dalle dita sottili, tremava e balbettava mentre cercava di dire semplicemente la verità: era stato in negozio tutta la mattina, mentre gli apprendisti lavoravano al piano di sopra; tutti e tre erano usciti sotto il porticato per vedere il passaggio dell'imperatore, ed erano rimasti sbalorditi quando, un attimo dopo, erano stati sequestrati dai Variaghi. Non avevano neppure visto il soldato morire, anche se avevano notato un po' di scompiglio dall'altra parte della strada. L'intagliatore si mordeva le unghie, torcendole come se volesse strapparle, mentre giurava di essersi chiuso la porta alle spalle, ripetendo che nessuno avrebbe potuto sgattaiolare dentro mentre lui era fuori. Sua moglie era rimasta di sopra, spiegò, e in passato erano stati già visitati dai ladri, che fossero maledetti, persino nei giorni dedicati ai santi. Ora, esclamò con tono lugubre, doveva stare sempre all'erta. A quel punto il capitano variago sbuffò, cosa che certo non rassicurò l'intagliatore. Gli apprendisti non avevano molto da aggiungere, anche se mi ci volle più di mezz'ora per stabilirlo. Rimasero seduti sui loro sgabelli con aria scontrosa e non dissero nulla al di fuori del copione già stabilito, guardan-
domi per la maggior parte del tempo con l'imperscrutabile fissità degli adolescenti. Sì, erano impegnati a lavorare nel laboratorio quando il loro maestro li aveva fatti scendere per assistere alla processione: era un brav'uomo, dissero, anche se molto esigente sul lavoro. Doveva aver chiuso a chiave la porta; non ne erano certi, ma di solito lo faceva: aveva il terrore dei ladri. «Quando siete arrivati, la porta era chiusa a chiave?» chiesi al capitano dopo aver congedato i ragazzi. «Non sono stato io il primo ad arrivare, ma Aelric.» «Potete chiederglielo?» Il volto del capitano, di solito poco eloquente, espresse chiaramente il suo disappunto per un incarico che riteneva indegno di un ufficiale della Guardia Variaga dell'imperatore, e mi sembrò che facesse ancora più rumore del solito mentre scendeva pesantemente le scale. Non me ne curai. Nel frattempo, la moglie dell'intagliatore era entrata nella stanza. Era più giovane del marito, di carnagione più scura e decisamente più in carne di lui. Vestiva modestamente e portava un velo che le copriva parte del viso, lasciando gli occhi in ombra. Aveva con sé i figli - due bambine e un ragazzino di circa dieci anni - nessuno dei quali mi rivolse uno sguardo. Dietro di loro, notai che la tenda si muoveva, lasciando intravedere i piedi impolverati dell'intagliatore. Era solo un marito geloso, mi chiesi, ο c'erano dei segreti che non voleva venissero rivelati? Iniziai con una domanda piuttosto innocente: «Sono tutti qui i vostri figli?» «Questi sono solo tre», rispose la donna, con un tono così basso che faticai a udirla. «Ho anche un figlio, apprendista da un altro intagliatore, un amico di mio marito, e due figlie già sposate.» «Voi e i vostri figli stavate guardando la parata dalla finestra ieri?» Annuì senza dire una parola. «Avete sentito qualcun altro in casa in quel momento? Magari qualcuno che saliva le scale?» Scosse la testa, poi pensò bene di aggiungere, quasi in un sussurro: «Nessuno può salire qui, a parte la famiglia. Mio marito è molto severo al riguardo». Fra il sempre vigile intagliatore, la porta chiusa e la famiglia al piano di sopra, decisi, neppure Odisseo in persona sarebbe riuscito a penetrare in quella casa. «E avete visto - ο sentito - qualcosa che poteva sembrare una freccia
lanciata da qui vicino?» continuai. «Durante la sfilata c'era molto rumore, acclamazioni e grida.» La voce di quella donna sembrava non aver mai conosciuto acclamazioni ο grida. Poi aggrottò la fronte e proseguì: «Ma forse ho sentito un colpo che veniva dall'alto, appena prima che il soldato cadesse per terra, proprio mentre l'imperatore passava davanti alla nostra finestra». «Un colpo dall'alto», ripetei. «Non siete per caso salita sul tetto ieri mattina? A stendere i panni ο a prendere un po' d'aria, o...» Feci una pausa, sentendo un lontano rumore di passi sulla scala. «Ο a mangiare della fratta?» Scosse di nuovo la testa. «Noi non andiamo sul tetto.» Era come se fosse un comandamento inciso sulle tavole di Mosè. «I monelli e i vagabondi gironzolano là sopra. Alcuni degli altri artigiani e commercianti permettono loro di salire ma non dovrebbero farlo. Noi teniamo la porta del tetto chiusa col catenaccio.» Il rumore sulle scale toccò il suo culmine e il capitano variago irruppe nella stanza, quasi strappando via dai ganci la tenda divisoria. «La porta era chiusa a chiave», annunciò bruscamente; poi, rivolgendosi verso la madre e i ragazzi, che si erano fatti piccoli piccoli, chiese: «A voi piacciono i datteri?» «Chiunque sia stato a scoccare la freccia deve essere salito da uno degli altri edifici ed essere passato dal tetto», dissi al capitano. Eravamo nel laboratorio e io stavo sollevando grandi nuvole di polvere d'osso camminando su e giù per la stanza immerso nei miei pensieri, mentre il Variago se ne stava appoggiato al tavolo e giocherellava con uno scalpello che, fra le sue dita, sembrava un giocattolo. «E passerete la giornata a interrogare ogni negoziante della strada per sapere se ha visto un temibile assassino che girovagava sulle scale, con in mano un'arma degna di un racconto mitologico e una manciata di datteri?» Ci pensai su. «No», decisi. Per tre monete d'oro al giorno, mi dissi, una simile attività non sarebbe stata degna di me: Krysafios non avrebbe gradito che il suo tesoro fosse sprecato a quel modo! «Sarete voi a farlo.» Il volto rosso del capitano si scurì di colpo e, con un movimento repentino, egli conficcò lo scalpello nel tavolo. La punta sottile si spezzò con un colpo secco. «Fate attenzione, maestro Askiates», urlò, scagliando in un angolo l'attrezzo ormai rotto. «I Variaghi sono al servizio dell'imperatore, per proteggere la sua vita e distruggere i suoi nemici. Ho combattuto al suo
fianco in una dozzina di furiose battaglie, dove il sangue scorreva come un fiume in piena e gli uccelli che si cibano di carogne potevano banchettare per settimane. Non andrò in giro a raccogliere le chiacchiere dei mercanti.» Il sole entrava dalla finestra e una miriade di frammenti di legno e di avorio turbinavano nella luce, mentre il Variago e io ci fissavamo senza dire una parola. Mi aveva lanciato un'occhiata furibonda, una mano sulla mazza appesa alla cintura, mentre io gli tenevo gli occhi puntati addosso e irrigidivo le spalle. Proprio in quell'attimo di silenziosa sospensione, si sentì il lieve rumore di uno starnuto lasciato sfuggire incautamente. Ci precipitammo entrambi verso le scale da dove il rumore era venuto. Là, immersa in un alone di luce e di polvere, trovammo una delle figlie piccole dell'intagliatore, seduta sull'ultimo gradino e intenta a mordicchiarsi una ciocca di capelli neri. Si pulì il naso in una manica del vestito, ciancicò la gonna con le dita e guardò timidamente verso di me. «Io sono stata sul tetto ieri», dichiarò a bassa voce. «La mamma non vuole, ma io ci sono stata.» Quelle semplici parole mi fecero quasi attraversare di corsa la stanza, ma riuscii a controllarmi abbastanza da avvicinarmi lentamente alla bambina, con un ampio sorriso stampato sul volto. Mi accovacciai davanti a lei, in modo che le nostre teste si trovassero alla stessa altezza, le accarezzai un braccio e le spostai una ciocca dalla fronte. «Tu sei stata sul tetto ieri», ripetei. «Come ti chiami?» «Miriam», rispose, guardandosi le mani. «E cosa hai visto sul tetto ieri, Miriam?» Anche se avevo assunto un tono pacato e lieve, dalla mia espressione si intuiva sicuramente che tutti i miei nervi vibravano nell'attesa. Un'attesa destinata a essere frustrata; lei scosse la testa, soffocando una risatina nervosa. «I miei amici», disse. «Ci andiamo a giocare.» «I tuoi amici», le feci eco. «Altri bambini? Non hai visto un uomo, un uomo con un grande arco e una freccia, un soldato? Uno come lui», aggiunsi, indicando il Variago alle mie spalle. Ma di nuovo lei scosse la testa, questa volta con più vigore. «Non come lui. Stavamo giocando. Poi la mamma mi ha scoperto e si è infuriata. Mi ha picchiato. Ho ancora il livido.» Cominciò a sollevare la gonna per farmi vedere, ma io mi affrettai a tirargliela giù sulle gambe: era un tipo di cosa per cui non avevo bisogno di alcuna prova. «Ed è accaduto molto prima del momento in cui hai visto passare la grande sfilata?»
Ci pensò su per un momento, con la massima serietà. «No. Lei mi ha picchiato e, subito dopo, abbiamo visto passare sul cavallo l'uomo vestito di porpora.» Sembrava che stesse per aggiungere qualcosa, ma in quel momento udimmo qualcuno dall'alto chiamare il suo nome, e il tono di sua madre era molto meno timido ed esitante di quando aveva parlato con me. Miriam saltò su dal gradino dov'era seduta, spalancò gli occhi e si mise un dito davanti alle labbra, poi si girò e corse su per la scala. I piedi nudi non produssero alcun rumore sulla pietra liscia. «Bene», soggiunse il capitano, incrociando le braccia sul torace ampio come una botte. «Colpisce come un fulmine, mangia datteri ed è invisibile. Come farete a scoprire un uomo invisibile, Askiates?» «Me ne vado», annunciai bruscamente, ignorando il suo sarcasmo. «Ci sono alcune persone che devo vedere.» «Non uomini invisibili, quindi?» Chiaramente, trovava la battuta infinitamente divertente. «No, non uomini invisibili.» «Aelric e Sweyn verranno con voi. L'eunuco vuole che siate sempre scortato.» «È impossibile.» Mi chiesi se Krysafios voleva che fossi scortato ο piuttosto sorvegliato. «Gli uomini che devo incontrare non sono di quelli che parlerebbero liberamente davanti alle guardie del palazzo.» Anzi, quella era una compagnia che non avrebbero gradito affatto. Mi aspettavo che il capitano protestasse, facendomi notare che quelli che volevano evitare le guardie erano gli stessi che più avrebbero dovuto incontrarle; invece si limitò a scrollare le spalle. «Come volete», grugnì. «Ma, se volete fare il vostro rapporto all'eunuco, dovrete essere di ritorno al palazzo prima del calare della notte. Altrimenti verrete fermato dalla Guardia, e frustato per aver violato il coprifuoco.» Il pensiero non sembrava affatto dispiacergli. γ Attraversai la strada, girai in una via laterale e mi affrettai lungo la collina, diretto verso i quartieri dei mercanti e il Corno d'Oro. Il sentiero era ripido e tortuoso, frequentemente interrotto da piccole rampe di scale dove la pendenza diventava eccessiva, ed ero contento che il cielo color cenere non avesse ancora scaricato la sua pioggia, altrimenti sarei finito a gambe
all'aria più di una volta. Intorno a me alte mura a picco, interrotte da qualche rara porta ma prive di finestre: erano i cortili fortificati dei mercanti veneziani, che tenevano le loro merci, e del resto le loro esistenze, ben al riparo dagli sguardi altrui. Ogni tanto uno schiavo ο un domestico sgattaiolava tra i battenti di uno dei massicci portoni di bronzo, ma per la maggior parte la strada era deserta. Gradualmente, il panorama circostante cominciò a perdere la sua imponenza, e gli edifici, già all'inizio senza troppe pretese, diventarono modesti e infine decisamente umili. Apparvero dei negozi, che riempivano il vicolo di merci e di fumo, oltre che delle grida dei proprietari impegnati a vantare la qualità delle loro cose e a promettere affari incredibili. Ormai ero costretto a farmi largo a fatica, resistendo a ogni genere di lusinga e seduzione, mentre i piani superiori delle case si facevano sempre più vicini, tanto da suggerirmi l'impressione di essere all'interno dell'alta navata di un'enorme chiesa. Così, alla fine, arrivai alla casa del fabbricante di frecce. «Demetrios!» Appena mi chinai per varcare la sua porta, mise giù il mazzo di piume che teneva in mano e si alzò in piedi zoppicando dal bancone per venirmi ad abbracciare come un fratello. «Lukas!» Gli diedi qualche pacca sulla schiena, poi indietreggiai di un passo per permettergli di far riposare la gamba storpia. «Come vanno gli affari?» Lukas scoppiò a ridere, trasse da sotto il bancone una bottiglia e due boccali sbeccati, e versò una generosa dose di vino per entrambi. «Abbastanza bene per poterti offrire da bere. Fino a quando i Turchi e i Normanni continueranno a far fare figli alle loro donne, ci saranno bersagli a sufficienza per le mie frecce.» Si protese verso di me. «E si parla, Demetrios, di una nuova guerra, di un grande esercito di barbari che sta arrivando per ricacciare i Turchi in Persia.» «Queste voci sono giunte anche a me», ammisi. «Ma le sento ogni mese da quando io e te abbiamo combattuto al lago dei Quaranta Martiri, e tutto ciò che ho visto è stato qualche avventuriero pronto a rivoltarsi contro di noi non appena avuto il nostro oro, ο qualche contadino visionario.» Lukas scrollò le spalle, e versò dell'altro vino. «Barbari ο no, io trovo sempre da guadagnarmi da vivere. I miei padroni al palazzo non hanno mai ridotto i loro ordini in questi dodici anni.» Continuammo a discorrere per qualche minuto, mescolando ricordi vecchi e nuovi, solo in piccola parte condivisi, fino a quando estrassi - senza dire una parola - il misterioso dardo di Krysafios dalle pieghe del mio
mantello. «Che ne pensi di questo?» Lo passai a Lukas. «Sapresti fabbricare un arco in grado di lanciarlo, e con tale forza da bucare una cotta di maglia di ferro?» Lukas prese tra le mani la freccia e la esaminò da vicino, strizzando gli occhi a causa della luce fioca della sua bottega. «Un fabbricante di archi potrebbe costruirtene uno in grado di scoccarla», rispose con prudenza, «se vuoi un giocattolo, un trastullo per tua figlia. Forse ha bisogno di liberarsi di un corteggiatore inopportuno?» Inarcò un sopracciglio. «Ma questa freccia può diventare un giocattolo pericoloso, qualcuno potrebbe farsi male.» Sfiorò con un dito il sangue incrostato. «Anzi, sembra che sia già capitato...» «In effetti», ammisi. «Forse a qualcuno che indossava una cotta di maglia di ferro?» Lukas mi rivolse uno sguardo penetrante. «Forse.» Il fabbricante d'armi mi restituì la freccia. «No. Se tu la scoccassi con un arco, saresti già fortunato se riuscissi a conficcarla in un albero. Nessuna delle armi che conosco può renderla così letale.» Riposi la freccia sotto il mantello, con la magra soddisfazione che, almeno, il capitano variago non era lì a sbeffeggiarmi. Lukas mi chiese di fermarmi, ma parte della giornata era già trascorsa e io non volevo che quel primo giorno pagato dall'oro di Krysafios si rivelasse infruttuoso. Per tre ore girovagai per le strade della Platea per cercare di scovare tutti i mercenari e gli informatori che conoscevo, sostando in tutti i posti che di solito frequentavano. Nessuno riusciva a immaginarsi un'arma come quella che cercavo, anche se tutti si dicevano interessati a possederne una, nel caso io fossi riuscito a trovarla. Qualcuno tentava di indovinare le mie vere intenzioni; altri facevano gli spacconi e giuravano che potevano fare a pezzi un uomo, con ο senza cotta di maglia, per un buon prezzo. Uno era un pazzo e tentò - fortunatamente con scarsa convinzione - di pugnalarmi. Alla fine, seduto per i fatti miei in una piccola taverna fetida a masticare un po' di maiale, decisi che se la memoria collettiva dei briganti e dei sicari che avevo incontrato non era in grado di risolvere questo enigma, la risposta doveva trovarsi più lontano, al di là del regno del nostro sapere bizantino. Avevo ragione: era proprio così. Ma la soluzione del mistero non era poi così tanto al di là dei nostro regno. Si trovava, come scoprii, in una piccola
taverna dietro il molo degli ebrei, nella persona di un uomo piccolo e rotondo, con la pelle untuosa e un vocabolario ben ristretto. Lo trovai per puro caso. Ero andato in quella taverna per cercare un soldato di nome Xerxes, un saraceno che avevo incrociato in un brutto periodo della mia esistenza. Se l'arma proveniva da Oriente, speravo che lui potesse confermarmelo. Non era in grado di farlo ma, prima che potessi inventarmi una scusa, mi aveva trascinato al suo tavolo e mi aveva obbligato a condividere con lui l'aspro vino che stava bevendo. Aveva un gusto di resina cotta, e io mi misi la tazza proprio davanti alla bocca per nascondere una smorfia, mentre lui mi presentava l'uomo con cui stava bevendo, un grasso genovese di nome Cabo, che mi strinse la mano con vigore sputandomi addosso un po' di saliva. «Una volta Demetrios vendeva la sua spada», spiegò Xerxes, rievocando un passato che io preferivo dimenticare, «ora mette in vendita il suo cervello. Non so se nel cambio ci abbia guadagnato.» «Mai tanto quanto vale», gli assicurai, anche se tre monete d'oro potevano già sembrare più che generose. «Cabo è molto più furbo», mi confidò Xerxes. «Anche lui era uno dei nostri. Ora è un rispettabile mercante.» «In cosa commerci?» chiesi. Non me ne importava molto, ma parlare mi dispensava dal bere. Cabo mi lanciò un malizioso sguardo d'intesa da sotto le spesse sopracciglia. «Sete. Gemme. Oro. Armi. Tutto ciò che la gente vuole acquistare.» «Cabo non ama i monopoli imperiali», aggiunse Xerxes ammiccando. «Pensa che siano un'infamia davanti a Dio. È come un predicatore.» «Armi», mormorai, ignorando Xerxes. «Io sto cercando proprio un'arma.» La testa di Cabo si sollevò appena; gli occhi si strinsero a fessura. «Davvero?» disse Xerxes. «Stai tornando sui tuoi passi?» «Una spada per dieci monete d'oro.» Cabo parlava lentamente e io pensai che la sua conoscenza del greco doveva essere appena sufficiente per tirare sul prezzo delle merci ο trattare con i funzionari quando se ne presentava la necessità. Forse sapeva quel poco che bastava per contrattare vino e donne. «Questo è più di un onesto guadagno», osservai. «E io ho già una spada. Mi serve un arco.» «Un arco per cinque monete d'oro. Scita. Molto potente.»
«L'arco di cui ho bisogno deve essere davvero potente. Più potente di qualunque altro, ma abbastanza corto da lanciare una freccia non più lunga di una spanna. Tanto potente da forare il metallo.» «E da affondare una trireme con un colpo e da volare fino alla luna», commentò Xerxes. «Cabo è un uomo d'affari, Demetrios, non un mago. Hai venduto il tuo cervello troppo spesso, non te n'è rimasto neanche un po',» «Io posso venderti un'arma del genere.» Cabo si asciugò il sudore dalla testa pelata e appoggiò le dita sul tavolo, forse notando che la tazza aveva cominciato a tremarmi nella mano. «Per sette libbre d'oro.» «Sette libbre d'oro? Ci puoi comprare un esercito!» Xerxes pensò a uno scherzo e ordinò altro vino, ma io ero sordo alle sue interruzioni. «Puoi averla subito quest'arma?» chiesi. Cabo scosse la testa. «Forse in sei mesi. Forse in otto.» «E quale aspetto avrebbe un'arma del genere?» Non cercavo di nascondere il mio interesse; pensavo che avrebbe potuto convincerlo della serietà delle mie intenzioni. Cabo, da parte sua, non celava la sua diffidenza, ma aveva l'istinto del mercante e non poteva resistere. «La chiamano tzangra, è simile a un arco a forma di croce. Come una balista, ma può tenerla in mano un uomo da solo. Può penetrare un'armatura, se è quello che vuoi.» «E per quale miracolosa invenzione può fare questo?» Il sangue nelle mie vene e il mio respiro acquistarono una maggiore intensità. Cabo aggrottò la fronte mentre cercava di decifrare la mia domanda, poi si batté sulla tempia con un sogghigno. «Per magia.» «Magia genovese?» Non avevo mai inteso parlare di una simile arma dalle nostre parti. Cabo annuì. «E a Genova ce l'hanno tutti?» Mi rivolse un cenno di diniego. «Costa molto. E non è facile da costruire. Ma puoi procurartene una, se lo vuoi. Se paghi. Cinque libbre d'oro subito. Altre due alla consegna.» Per qualche istante lasciai la sua offerta senza risposta, fingendo di riflettere, mentre il sudore cominciava a imperlargli la pelle del cranio. «Ci devo pensare», dissi infine. «Perché? Hai lasciato le tue cinque libbre d'oro a casa?» Xerxes era impaziente; forse era preoccupato che io avessi davvero una simile somma a disposizione.
«Le ho giocate su un cavallo all'ippodromo» gli risposi. «Devo incassare la mia vincita.» Mentre mi alzavo per andarmene, un ultimo pensiero mi attraversò la mente. «Dimmi, Xerxes», soggiunsi, lasciando cadere una moneta di rame sul tavolo per la mia parte di vino. «Sono passati troppi anni da quando mi sono ritirato. Dove trattano i loro affari i mercenari stranieri, adesso?» «Nel Paradiso», rispose Xerxes imbronciato. «Sulla via per la porta di Selimbria.» «Chi è il migliore?» Xerxes alzò le spalle. «Nessuno di loro. Lo sai come fanno. Ogni settimana c'è un nuovo gallo nel pollaio. Vai là e chiedi in giro; qualcuno ti troverà. Ο ti taglierà la gola.» A queste parole Cabo scoppiò a ridere, spruzzando vino per tutto il tavolo. Il crepuscolo stava calando senza un vero e proprio tramonto mentre imboccavo la via. Ero esausto - era passata veramente una vita da quando avevo fatto tanta strada in un solo giorno, e stanato così tante vecchie conoscenze, ma il conforto di aver trovato almeno un anello della catena aiutò le mie stanche gambe a risalire la collina, oltre le mura di Aghia Sofia e fin dentro l'ampio colonnato dell'Augusteo. Una dozzina di antichi signori appollaiati sui loro trespoli mi fissavano dall'alto: alcuni benevoli, alcuni con l'aria sapiente, altri minacciosi, ognuno con il suo posto nella storia, ma io li ignorai tutti. Passai il grande cancello sulla mia destra e mi diressi verso una piccola porta all'estremità della piazza, davanti alla quale stazionavano due Variaghi, con i loro elmi dalle creste piumate e le loro asce. Uno di loro era Aelric, il soldato a cui avevo chiesto quella mattina di rimanere a guardia della chiazza di sangue. Sollevò l'ascia in segno di saluto. «Venite per l'eunuco? Mi hanno detto che sareste arrivato.» Guardò in alto, verso il cielo ormai quasi scuro. «E neanche troppo presto.» «Sono qui per vedere Krysafios. Penso che voglia conoscere i miei progressi.» «Spero siano più dei nostri.» Aelric mi rivolse una smorfia scherzosa. «Non ho mai salito tante scale come oggi. Sigurd ci ha fatto entrare in ogni casa della strada a chiedere se per caso avevano visto passare un assassino.»
«Sigurd?» «Il capitano. Ha detto che voi lo avevate ordinato.» «Davvero? Avete trovato qualcosa di interessante?» Aelric scosse la testa brizzolata. «Solo una ragazza che stava allattando il figlio e non è riuscita a rivestirsi abbastanza in fretta quando noi siamo arrivati. Niente che possa interessare l'eunuco.» «Bene, andrò a vederlo.» Lasciando il suo compagno di guardia, Aelric mi fece passare dalla porta e mi guidò lungo uno stretto portico che costeggiava un frutteto. Gli alberi da frutta erano inariditi, i rami pallidi e spinosi, ma si sentivano ancora i richiami degli uccelli. Passammo davanti a un'enorme sala sulla nostra sinistra, le grandi porte sbarrate, poi attraversammo un secondo atrio da cui imboccammo un ampio corridoio. Svoltammo di nuovo e io mi ritrovai perso in un labirinto di sale e passaggi, colonne e portici, fontane, giardini, statue e cortili. Persino l'aria era sorprendente: dolce come miele e profumata di incenso e di rose, calda come in un giorno d'estate, mentre fuori eravamo in pieno inverno. Alle orecchie mi arrivava un suono di acqua che scorreva, insieme al mormorio di lontane conversazioni e a un soffocato tintinnio di attrezzi. Luci dorate sfuggivano dalle porte al nostro passaggio, incorniciando come icone le immagini di questo mondo separato da tutto il resto. Ogni sala era affollata di gente: senatori vestiti in pompa magna, generali in armatura, scrivani e segretari sotto montagne di pergamene. Vidi nobildonne che ridevano fra di loro, e postulanti con l'espressione contrita di chi ha aspettato lunghe ore invano. Era come un'immagine del paradiso, attraverso la quale io passavo in silenzio, invisibile e ignorato da tutti. Alla fine Aelric mi condusse in un cortile di pietra. Sembrava più antico rispetto alla zona che avevamo attraversato: qui i mosaici erano pieni di crepe e i muri erano spogli, a parte le teste scolpite degli antichi imperatori nelle loro basse nicchie. I rumori del palazzo adesso giungevano attutiti, e i profumi nell'aria dovevano lottare contro il lezzo della città. Il porticato era vuoto, a parte una solitaria figura seduta su una panca di marmo, che si alzò graziosamente in piedi al mio arrivo. Aelric, realizzai improvvisamente, era sparito. «Il capitano variago pensa che siate un pazzo, uno che spreca il suo tempo a parlare con i commercianti.» Krysafios accennò un passo verso di me. Una lampada ardeva su una colonna proprio accanto a lui. «E anche un uomo che sfida i suoi datori di lavoro, rifiutando di farsi scortare come io
avevo ordinato.» «Se il capitano variago avesse la minima idea di come si fa a trovare un assassino», replicai lentamente, «potrei avere ragione di preoccuparmi di ciò che pensa.» «Dice che avete costretto i suoi uomini a passare tutto il pomeriggio a bussare alle porte per porre domande inutili», proseguì Krysafios. «La Guardia imperiale! Mi chiedo, Askiates, se possedete abbastanza immaginazione per questo lavoro.» «A sufficienza per trovare un'arma di cui tutti ignoravano l'esistenza.» Gli descrissi brevemente la tzangra di cui il genovese Cabo aveva parlato. «E immagino che quest'arma straniera sia stata impugnata da mani forestiere.» «Un mercenario?» Krysafios ci pensò su. «È possibile. Voi dovreste conoscerle bene queste cose. Ο sbaglio?» Osservò la collera trattenuta che si dipingeva sul mio viso. «Conosco la vostra storia, Demetrios Askiates. Posso non avere la minima idea di come si trova un assassino, ma sono un esperto nell'arte di inchiodare un uomo al suo passato. Anche quando si tratta di un passato che si vorrebbe dimenticare, ο nascondere. Specialmente un passato che si vorrebbe celare.» Non risposi alla provocazione. «Comunque sia...» Krysafios allargò le braccia, come a dire che non gliene importava nulla. «La mano che ha teso l'arco può anche essere stata straniera, ma la mente che l'ha ispirata, ne sono certo, si trova molto più vicino.» Si spostò verso una nicchia, dove ai piedi di una statua giaceva un rotolo di pergamena. «Ho chiesto ai miei segretari di preparare una lista di tutti quelli che potrebbero trarre vantaggio da un trono lasciato vuoto.» La presi in mano. «Una lunga lista.» Che si apriva, come notai con un brivido, con lo stesso sebastocratore, il fratello maggiore dell'imperatore, la seconda carica dell'impero. Forse Krysafios e Sigurd avevano ragione: forse avrei dovuto rimanermene in compagnia dei mercanti e dei negozianti che conoscevo tanto bene. «Una lunga lista, sì», ammise Krysafios. «Un elenco che potrebbe provocare tumulti e rivolte se cadesse nelle mani di coloro che vi appaiono. Osservatela bene e imparatela a memoria.» Avvicinai la pergamena alla luce e cominciai a studiarla con estrema attenzione. Molti dei nomi mi erano familiari, ma altri erano del tutto sconosciuti. Krysafios rimase in silenzio per tutto il tempo, osservandomi, fino a
quando non gli restituii il documento. «Ripetete ciò che vi è scritto», mi ordinò. «Sono in grado di ricordarmelo abbastanza bene anche senza recitarlo a memoria come uno scolaro.» «Ripetetelo», insistette, con gli occhi pieni di collera. «Vi ho pagato per la vostra mente, Askiates, e voglio sapere cosa c'è dentro.» «Mi avete pagato per i risultati che vi porterò. E poi, cosa devo andare a chiedere a questi uomini? 'Siete voi il responsabile del tentato omicidio dell'imperatore?' 'Possedete per caso una fantastica invenzione genovese che chiamano tzangra?' Inoltre, quale nobiluomo si degnerebbe anche solo di parlare con me?» «Sarete adeguatamente presentato», ribatté Krysafios. «Per quanto riguarda ciò che potreste chiedere, non mi sogno neanche di darvi istruzioni. Voi, dopotutto, sapete tutto ciò che c'è da sapere su come si trova un assassino. Venite domani a riferirmi. Ora, se non volete ripetere la mia lista, andate. Una delle guardie vi riaccompagnerà a casa.» Appallottolò il foglio fra le mani e lo gettò nell'incavo della lampada; il documento si incendiò subito fiammeggiando nel vetro, e ben presto si ridusse in cenere. δ Nelle sale del palazzo mi ero sentito come in cielo, ma solo il mattino dopo raggiunsi il Paradiso. Ο almeno il luogo che portava questo nome, anche se non poteva certo reggere il confronto. Dicevano che una volta i fianchi della collina erano ricoperti di campi, gialli di grano e ricchi di pascoli, ma, da molto tempo, non era rimasto più nulla. Le messi si erano trasformate in polvere, gli animali al pascolo erano stati macellati, mentre le propaggini della città in continua crescita si estendevano inesorabilmente. Più che un vero e proprio quartiere di bassifondi, era un'accozzaglia di baracche e di povere capanne, dove tutti quelli che avevano dato fondo alle loro riserve di energie e denaro per raggiungere la città potevano infine accasciarsi al riparo delle sue mura. Molti non se ne andavano mai, e con le torri di guardia del presidio così a portata di mano era inevitabile che fiorissero certi commerci, quelli che sempre prosperano fra i poveri e i disperati. Tale era la reputazione del luogo, anche se tutto sembrava piuttosto tranquillo mentre camminavo lentamente, attento a dove mettevo i piedi,
fra i solchi e le pietre dissestate della via che portava alla porta di Selimbria. Bambini giocavano sul ciglio della strada, donne avvizzite si trascinavano a fatica portando sulle spalle enormi cumuli di stracci, uomini dai volti emaciati e cotti dal sole se ne stavano seduti davanti ai loro vassoi di noci, datteri ο fichi secchi. Mi avvicinai a uno di questi, accovacciandomi per poterlo guardare negli occhi. «Cerco un uomo per un lavoro pericoloso», dissi, utilizzando una vecchia espressione ben nota nell'ambiente. L'uomo mi guardò strizzando gli occhi, mentre uno scarafaggio gli si arrampicava sulla gamba per raggiungere il vassoio dei fichi. Sembrava concentrato, come alle prese con un silenzioso dilemma; poi, improvvisamente, mi spinse sotto il naso un pugno di frutta. Scossi la testa con impazienza. «No, grazie. Cerco un uomo...» Mi bloccai subito, vedendo comparire una seconda manciata di fichi accanto alla prima. L'uomo aveva cominciato a guardarmi male e a scrollare le braccia, manifestando un evidente disagio. Colto da un'improvvisa ispirazione, chiesi: «Parli greco?» Il silenzio che seguì fu più che eloquente. Abbozzai un gesto di scusa, spingendo via la frutta che l'uomo continuava a tendermi, e mi alzai per andarmene. Non avevo fatto ancora dieci passi quando sentii un acuto dolore a una gamba: qualcuno mi aveva colpito con un sasso, ma io decisi di lasciar correre. Continuai a camminare lentamente lungo la strada. Tre ο quattro volte cercai di attaccare discorso con qualche passante ο con uno dei venditori ambulanti, solo per rendermi conto che avevo ormai oltrepassato i confini del mondo civile: nessuno parlava altro che le lingue dei barbari. Pensai che sarei dovuto ritornare in compagnia di un interprete. Ne conoscevo alcuni che frequentavano il porto e vendevano i loro servizi ai mercanti. In tal caso, mi sarebbe rimasto però ben poco tempo per occuparmi dei dignitari di Krysafios, e la mancanza mi sarebbe stata sicuramente rimproverata. Un improvviso strattone all'orlo del mio mantello mi riportò alla realtà. Istintivamente, tastai con la mano il borsellino per accertarmi che fosse ancora al suo posto. Lo era, e quel gesto mi fece guadagnare uno sguardo di rimprovero da parte del cencioso bambino che si era materializzato al mio fianco. «Tu mi capisci?» domandai, senza nutrire eccessive speranze. Con mia grande sorpresa, il bambino annuì. «Davvero?» Assentì di nuovo, e sorrise mettendo in mostra i denti bian-
chi. «Sai dove posso trovare un uomo per un lavoro pericoloso?» Disegnai nell'aria il movimento di una spada. Il ragazzo ci pensò su un attimo e poi annuì per la terza volta. «Elymas», esclamò, con una vocina pigolante. «Elymas?» «Sì, certo, Elymas.» Fino a quel momento mi ero mantenuto a prudente distanza da lui, ma a quel punto gli permisi di afferrarmi una mano e di trascinarmi via, fuori della strada principale e giù per uno stretto vicolo fra due file di rozze baracche. Ero piuttosto teso, i miei occhi guizzavano in tutte le direzioni, nell'attesa di un'imboscata, di una rapina. Avevo con me troppe delle monete d'oro di Krysafios per potermi sentire a mio agio; ed ero praticamente disarmato, a parte il pugnale infilato nello stivale. Ma il monello che camminava davanti a me, con la sua tunica stracciata e i piedi nudi, sembrava invece del tutto tranquillo, mentre saltellando mi guidava sempre più all'interno di quel labirinto di costruzioni decrepite. Cominciavo ad avvertire la pesante atmosfera del luogo, del tutto aderente alla sua cattiva fama. Percepivo gli occhi ostili che mi scrutavano da dietro le assi scheggiate e le logore stoffe che fungevano da porte e da finestre. Al nostro passaggio, gli uomini fermi sul bordo della strada interrompevano le conversazioni per lanciare sguardi insolenti, mentre le donne rimanevano sedute a gambe aperte, offrendosi in modo indecente. La mia unica consolazione era che tutto ciò non sembrava turbare minimamente il ragazzo. La mia guida mi condusse infine in uno spiazzo dove una vecchia se ne stava seduta davanti a un focolare quasi spento, intenta a rimestare dentro un pentolone scuro e a farfugliare parole incomprensibili. Lì accanto c'era una specie di tenda, un largo rotolo di stoffa color porpora drappeggiata sopra due bastoni come a formare una porta. Il tessuto assomigliava in modo stupefacente a quello usato per addobbare le strade durante le parate imperiali, ma mi guardai bene dal dirlo. «Elymas», annunciò il ragazzo, e corse via. Lo vidi scomparire dietro un mucchio di macerie, tutto ciò che restava di quella che una volta doveva essere stata una casa, e sentii l'irrefrenabile impulso di seguirlo. Ma ero arrivato fin lì: avrei fatto anche l'ultimo passo, per quanto pericoloso e imprudente. Ignorando la megera accanto al fuoco, che si era messa a ridere come una pazza, mi piegai sulle ginocchia e strisciai dentro la tenda. La stoffa doveva in effetti essere di buona qualità, perché all'interno tut-
to era avvolto nel buio. Il fumo proveniente dal vicino focolare era però riuscito a penetrare all'interno, saturando l'aria scura. Cominciai a tossire, mentre mi lacrimavano gli occhi. Percepii un movimento nel buio e subito la mia mano corse al coltello infilato nello stivale. «Elymas?» chiesi in tono perentorio. Dal fondo della tenda mi giunse il rumore di un respiro affannoso e di qualcuno che cercava di schiarirsi la voce. «Elymas», mi rispose infine una voce. Era esitante, incerta, e non sembrava di origini romane. «Lo capite il greco?» I miei piedi erano ben piantati per terra, sempre pronti a scattare, ma avevo abbassato il pugnale. Elymas non rispose, assestando così un duro colpo alle mie speranze. Poi, nel silenzio, un cane abbaiò due volte, così vicino che il mio braccio armato scattò verso l'alto descrivendo un semicerchio. Il movimento mi fece perdere l'equilibrio. Caddi sul pavimento di terra. «Non abbiate paura», disse Elymas, con voce tutt'altro che rassicurante. «Sofia risponde a tutte le domande.» «Sofia?» Intendeva forse la strega accanto al focolare? Speravo proprio di no. Il cane, che doveva essere da qualche parte vicino a Elymas, abbaiò altre due volte. I miei occhi si stavano lentamente abituando all'oscurità della tenda e riuscii finalmente a distinguere la sagoma incerta e spettrale di un vecchio dalle spalle curve, con una gran barba bianca, seduto a gambe incrociate proprio di fronte a me. Una delle sue mani era appoggiata su una forma scura accovacciata al suo fianco, che avrebbe potuto sembrare un cuscino, se non avesse abbaiato. «Sofia», ripeté il mio ospite, e, di nuovo, il cane abbaiò due volte. Un'idea grottesca mi passò per la mente. «Sofia è il vostro cane?» Due brevi latrati suonarono come un'evidente, seppur improbabile, conferma della mia teoria. «E Sofia risponderà alle mie domande?» Mi chiedevo se per caso stesse bruciando qualcos'altro insieme al legno, su quel fuoco il cui fumo mi aveva riempito i polmoni. «E parla greco, naturalmente,» Questa volta echeggiò un unico latrato. «Cosa significa? Non parla greco?» Due latrati. Mi guardai intorno alla ricerca del varco da cui ero entrato, che sembrava inspiegabilmente essersi richiuso. Cosa avrebbe detto Krysafios se a-
vesse saputo che sprecavo il mio tempo e i suoi soldi conversando con un animale ammaestrato? Mi rimproverai per aver seguito quella traccia. Vidi Elymas assestare un colpetto affettuoso sul fianco della cagna. «Non parla», affermò con voce incerta, «però capisce.» Lo fissai con un certo astio. «Lei comprende il greco?» Due latrati suonarono come un sì. «Allora dimmi, Sofia», cominciai, chiedendomi fino a quando avrei avuto voglia di continuare con quegli indovinelli. «Da queste parti, posso trovare un mercenario?» Sofia mi guardò con disapprovazione, abbassò la testa fra le zampe ed emise una specie di sospiro risentito. «Cosa?» domandai, colto dall'impazienza ma anche in parte soggiogato dal fascino di quell'inverosimile situazione. Elymas dondolava il busto avanti e indietro, come in preda a un silenzioso attacco di nervi. Quando si calmò, infilò una delle sue dita scarne nella sabbia e disegnò un cerchio, con all'interno un altro cerchio più piccolo, e poi due occhi e una bocca. La mia lunga esperienza di ciarlatani e l'esplicita chiarezza del disegno mi fornirono la risposta. «Volete del denaro per farmi parlare col vostro cane?» Un'espressione di dolore gli passò sul volto, poi scosse la testa con vigore e indicò la cagna. «Il vostro cane vuole del denaro per parlare con me?» Sofia sollevò un po' il muso, giusto a sufficienza per emettere un paio di stanchi latrati. Dandomi silenziosamente dell'idiota, estrassi un obolo dalla mia sacca e lo lanciai sulla sabbia, davanti al cane. Ma quest'ultimo degnò a malapena la moneta di uno sguardo, continuando a leccarsi il sedere. Con molta riluttanza, aggiunsi un secondo obolo. Ma di nuovo la cagna non mi prestò la minima attenzione. Un terzo obolo andò ad aggiungersi, e infine - giurando a me stesso che quello sarebbe stato l'ultimo - un keration d'argento. Sofia si volse finalmente verso di me ed espresse tutta la sua soddisfazione con due vivaci latrati. «Allora», dissi con durezza, «è possibile trovare un mercenario da queste parti?» Due latrati. Ma quella era una cosa che sapevano tutti, anche i cani. Le mie monete meritavano domande ben più difficili. «Dove lo posso trovare?»
Mi guadagnai uno sguardo sprezzante, sia dal cane che dal padrone. «Posso trovarlo sulla strada di Selimbria?» Un latrato. «Vicino alla strada?» Due latrati. Mi interruppi per un istante, incapace di pensare a un punto di riferimento che potesse aiutarmi a indirizzare meglio le mie domande. «Ci sono molti uomini in grado di aiutarmi?» Un latrato. «Solo un uomo?» Due latrati. «Un barbaro? Un Franco?» Un latrato. «Un Romano, come me?» Due latrati. «E quest'uomo mi troverà un mercenario?» Due latrati. «Ha un nome?» Due latrati. Di nuovo mi bloccai, di fronte all'insuperabile ostacolo rappresentato dal fatto che senza un nome, di persona ο di luogo, il cane non era in grado di dirmi nulla. Nulla, in effetti, che io già non sapessi ο non fossi comunque in grado di immaginare, e il trucco - ovviamente - era proprio quello. Ero stato un pazzo a convincermi che poteva essere altrimenti, soccombendo al fumo e all'oscurità, e alle sentenziose parole di quel falso mago. Lentamente, cominciai ad arretrare verso la porta, scoccando un'ultima occhiataccia alla cagna. Proprio nell'attimo in cui i nostri sguardi si incrociarono, giuro che vidi il cane sollevare la testa, aprire la bocca e pronunciare abbastanza distintamente la parola «Vassos». Rimasi a bocca aperta per lo stupore. «Vassos?» Due gentili latrati. «Un uomo di nome Vassos?» ripetei, sempre piuttosto esitante. «L'uomo che cerco si chiama Vassos?» Con due ultimi latrati, il cane mi volse le terga e cominciò a giocare con la propria coda. Mi ritrovai a barcollare alla luce del giorno, stordito dallo strano incon-
tro, con la mente ancora incerta fra il dubbio e la meraviglia. La donna col pentolone era scomparsa e il fuoco si era spento; respirai a pieni polmoni l'aria fresca, sperando che sarebbe riuscita a sgombrarmi anche la testa. Nella mia insolita professione, avevo ottenuto informazioni praticamente da tutti, dai notabili della città come da famigerati criminali, e spesso avevo supplicato da Dio stesso qualche rivelazione; però non mi era mai capitato di parlare con uno stupido animale. Comunque, cosa potevo fare se non cercare di capire cosa c'era di vero in quella storia? Scoprii ben presto che la cagna mi aveva reso un gran servigio,ben superiore a quello fornito da molti informatori umani. Sebbene io non conoscessi né la lingua franca né il bulgaro, né il serbo, né nessun altro degli idiomi parlati dagli immigrati che vivevano in quel luogo, il nome «Vassos» funzionava come una formula magica. Appena lo pronunciavo, tutti sembravano capire al volo e incominciavano subito a gesticolare animatamente in una direzione ο nell'altra. Gradualmente fui condotto verso ovest, in direzione delle mura, attraverso interminabili vicoli pieni di baracche in rovina, fino a quando, finalmente, uno zingaro che ciondolava nei pressi di un pozzo mi indicò senza esitare un punto al di sopra della mia spalla, affermando con decisione: «Vassos». Mi voltai e vidi una casa, dall'aspetto piuttosto fuori dal comune in quella zona. Sembrava, infatti, molto più antica e meglio costruita di tutte le altre nei paraggi. Una volta doveva essere stata una casa colonica, quando lì intorno si estendevano ancora i campi, ma ora era ormai decaduta e in rovina. Tuttavia, chiunque fosse il proprietario aveva abbastanza denaro per permettersi una robusta porta di quercia e sbarre di ferro sulle finestre dalle tende color cremisi. Bussai alla porta, chiedendomi che genere di affari stavo andando a disturbare. Non ricevetti risposta. «Vassos», confermò lo zingaro dall'altra parte della strada, guardando verso di me e ridendo. Bussai di nuovo. Anche questa volta nessuna reazione. Ma con la coda dell'occhio vidi muoversi una delle tende. Corsi in quella direzione, appena in tempo per veder scomparire all'interno una testa femminile. «Vassos!» gridai, mentre cercavo di spostare la tenda infilando una mano attraverso le sbarre. «Vassos?» «No», rispose una voce dall'interno. «No Vassos. No Vassos.» «Dov'è?» Lasciai la tenda, allontanandomi di un passo dalla finestra. Ci fu un silenzio, ma la mia ritirata venne ben presto ricompensata, quando
due energiche braccia riaprirono la tenda e rivelarono un viso pesantemente imbellettato e due occhi minacciosi. Il vestito della donna era un disordinato mosaico di stoffe differenti, nessuna delle quali sembrava avere la minima relazione con le altre, legate insieme come a formare una fascia sotto i suoi seni, che sembravano spingersi avanti verso di me. Aveva delle callosità rossastre intorno alla bocca e un graffio su una guancia. I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio. «No Vassos», ripeté con enfasi. «Vassos lavoro. Lavoro.» «Domani?» Si strinse nelle spalle, accentuando ancor di più il profondo solco fra i due seni. «Domani? Sì, domani.» «Verrò domani.» Che mi avesse capito ο meno, la conversazione era finita. La tenda si chiuse e la casa ritornò silenziosa. Trascorsi il pomeriggio seduto nel cortile di un nobiluomo neppure tanto potente, osservando la sua fontana e giocando col suo gatto. Ogni ora il suo intendente compariva per assicurarmi che sarei stato ricevuto entro breve tempo. Una bugia che cominciò ben presto ad annoiarmi. Preferivo l'onestà degli abitanti dei bassifondi. Avevo deciso di partire dal fondo della lista di Krysafios, pensando che sarei stato almeno ricevuto, anche se magari non a braccia aperte. La mia speranza si rivelò vana, tuttavia. Inoltre, poiché era un giorno di digiuno, non potevo neppure convincere l'intendente a offrirmi qualcosa da bere. Quando le ombre iniziarono ad allungarsi, decisi di andarmene, dirigendomi verso il palazzo. Krysafios accolse il racconto della mia giornata con impassibile indifferenza; lo stesso scarso interesse che manifestarono le mie figlie quando più tardi arrivai a casa. «Arrivi sempre quando è già notte, padre», mi accusò Elena. «E tardi per la cena.» «La figlia premurosa accoglie il padre con il cibo nelle mani», declamai sorridendo. «La moglie premurosa», corresse bruscamente Elena. «La figlia dovrebbe essere già a letto quando suo padre si degna di arrivare.» Mi accomodai sulla mia sedia e presi una cucchiaiata dello stufato che aveva preparato. «Mi dispiace», replicai umilmente. «Lo stufato è delizioso.» E in effetti lo era: Elena aveva ereditato il tocco di sua madre in cucina. «Quelli che mi pagano al palazzo mi fanno sgobbare, ma mi danno abbastanza soldi perché un giorno io possa smettere di lavorare a questo
ritmo. E allora potremo cenare in orario.» «È bello il palazzo, papà?» chiese Zoe, mentre trangugiava il cibo come un soldato. «È tutto pieno di fontane e di luci?» «Sì. Fontane e luci e oro e risate», risposi, descrivendo come meglio potevo i pochi angoli che avevo intravisto. E, con appena qualche abbellimento, Zoe finì con lo spalancare gli occhi per la meraviglia. «Pensavo che il regno di Dio fosse dei poveri.» Elena era rimasta con gli occhi chini sul piatto, senza dire una parola, mentre io parlavo, ma ora sollevò la testa con un movimento sprezzante. «Credevo che il Signore avrebbe trascinato giù i potenti dai loro troni, scacciato l'arroganza dai loro cuori malvagi. Come puoi lavorare per un simile tiranno, che non si perita neppure di nascondere i suoi peccati?» «Lavoro per lui perché la sua vita è preziosa come quella di qualsiasi altro uomo.» Ne avevamo già discusso la sera precedente. «E perché, nell'arco della mia esistenza, è stato l'unico sovrano che non ci ha portati sull'orlo della rovina. Potrà anche banchettare in saloni dorati e bere da tazze profumate, ma mantiene i confini sicuri e i suoi eserciti lontano dalla città. Secondo me, è sufficiente.» Sebbene credessi in quello che avevo appena detto, potevo ben comprendere il disprezzo negli occhi di Elena, poiché immaginavo quanto le suonassero vuote quelle frasi, esattamente come lo sarebbero state per me alla sua età. Mi ricordavo i monaci che mi avevano educato predicando la povertà e l'umiltà, mentre si arricchivano con i frutteti nei quali ero costretto a lavorare, e il modo in cui mi infiammavo davanti a quell'ingiustizia. Ero forse ormai diventato solo uno dei tanti apologeti dell'ortodossia? Chiaramente Elena lo pensava. Si alzò rumorosamente da tavola, sbattendo il piatto e la sedia, e marciò rigida fuori dalla stanza. Zoe la seguì con lo sguardo. «Vuole un marito», affermò con l'allegra indifferenza di una dodicenne. «È per questo che è così irrequieta.» «Lo so», risposi stancamente. «E presto farò qualcosa in proposito.» Infilzai col coltello un pezzo di verdura. «Ma lei deve tenere a freno la lingua, quando si tratta dell'imperatore. Egli può contare su molte orecchie, molte spie.» E io, pensai mentre mi stendevo sul letto, ero proprio uno di loro. ε Era quasi mezzogiorno quando riuscii a ritrovare la casa di Vassos. A-
vevo trascorso la mattina a elaborare piani e poi avevo scoperto che i suoi vicini non erano affatto bendisposti a fornire indicazioni, se chi le chiedeva era accompagnato da soldati armati. Con questa convinzione, mi avvicinai da solo alla robusta porta. Questa volta non ebbi bisogno di bussare. Il solitario zingaro che avevo visto il giorno prima adesso era in compagnia di un trio di ragazzi dai volti duri e insolenti, che ciondolavano proprio sotto le finestre fissandomi con aria indolente. «Sono qui per vedere Vassos», dissi nel modo più amichevole possibile. «Vassos indaffarato.» Era stato il ragazzo più vicino a me a parlare. Doveva essersi battuto con il coltello almeno una dozzina di volte, a giudicare dalle cicatrici, ma erano i foruncoli a deturpargli realmente il viso. Indossava una tunica verde stretta in vita con una cintura di cuoio e, mentre parlava, fece scivolare una mano dietro la schiena, con un movimento poco rassicurante. «Vassos non è così indaffarato da non poter vedere me.» Un nomisma d'oro apparve fra le mie dita, come per caso, ma appena il ragazzo si piegò in avanti per vedere meglio sparì. Con un'alzata di spalle, gli mostrai la mano vuota. «Vassos mi vedrà», ripetei. «Vassos vedere te.» Il ragazzo protese un braccio e batté tre volte sulla porta, che si aprì silenziosamente verso l'interno. Con un beffardo inchino e un sogghigno mi esortò a entrare. Appena mi trovai in quella stanza buia, vidi che il ragazzo non si era inventato delle stupide scuse: Vassos in effetti doveva essersi dato parecchio da fare, e sembrava aver appena concluso il lavoro. Stava infatti coprendosi il ventre grasso e nudo, intanto che si detergeva il sudore dal petto villoso. Accanto a lui, una donna si stava tirando su il vestito per coprirsi il seno, senza mostrare la minima inclinazione alla modestia. Su un divano alle loro spalle, una seconda ragazza se ne stava lunga distesa sulla pancia, sfacciatamente nuda e ricoperta da un lucido velo di sudore. Per qualche attimo mi concessi di ammirarla apertamente, pensando che poteva anche essere un modo per entrare in confidenza con Vassos; fra l'altro, erano anni che non provavo simili piaceri, pur essendo tutt'altro che immune da quei desideri che Dio ha dato a ogni uomo. Poi notai le striature rossastre sulla sua schiena, i fianchi stretti, la pelle liscia al di sotto delle spalle; realizzai che al massimo poteva avere l'età di Elena. Disgustato, distolsi lo sguardo.
«Non è di tuo gusto?» Vassos fraintese il mio gesto. «Non ti preoccupare, ne ho altre. Cosa preferisci? Contadine della provincia che s'accoppiano come mule? Arabe dalla pelle bruna che arrivano dalla corte del sultano e conoscono le settecento vie per portare al piacere un uomo? Bionde vergini dalla Macedonia? Se ti senti particolarmente patriottico, ho persino una fanciulla normanna sulla quale puoi vendicare tutti i tradimenti della sua razza. Però ti costerà un extra se io poi non la potrò più usare.» Fissavo questo orco che se ne stava davanti a me mezzo nudo. I lunghi e folti capelli gli cadevano sulle enormi spalle, incorniciando un viso dominato dal naso schiacciato e dagli zigomi pronunciati, più adatti a un toro che a un uomo. Portava intorno al collo una spessa catena d'oro, e mentre parlava la faceva girare fra le dita grasse. Solo a fatica, mi trattenni dal tirargli subito un pugno. «Non voglio delle ragazze», replicai seccamente. «Cerco...» «Ragazzi?» Le labbra grasse di Vassos si contorsero in una smorfia maliziosa. «Posso procurarti dei ragazzi, amico mio, se preferisci i piaceri carnali dei Greci antichi. Ogni tanto me li concedo anch'io. Sai, li devo ben conoscere i gusti dei miei clienti. Ma ci vorrà un po' di tempo: i ragazzi li tengo da un'altra parte.» La ragazza che si stava rivestendo mentre io entravo era nel frattempo uscita dalla stanza ed era poi ritornata portando una tazza tutta ricoperta di pietre colorate. La porse a Vassos, che la svuotò con un'unica sorsata, a parte qualche goccia che gli scivolò lungo il mento. Con noncuranza, l'uomo lasciò poi cadere la tazza sul pavimento, indifferente al rumore, e io approfittai della pausa per ricominciare a parlare. «Io non cerco ragazzi ma uomini, e non per i piaceri della carne. Per un lavoro pericoloso. Mi hanno detto che tu puoi procurarli.» Anche se a questo punto mi era rimasta giusto una vaga speranza. In ogni caso, mi sarebbe servito da lezione per la prossima volta che mi fosse venuto in mente di dar retta a un ciarlatano e al suo cane. Ma Vassos si era fatto molto attento. «Uomini per un lavoro pericoloso?» ripeté. «Più pericoloso di porgerti il culo?» «Un lavoro da uomini, non da puttane.» «Io ti posso vendere uomini per ogni tipo di lavoro.» Ora Vassos sembrava pesare ogni singola parola. «Purché sia di mio gradimento. E io non lo so se il tuo lavoro mi piace.» «Altri potrebbero averti già pagato per qualcosa di simile», suggerii. «Gli affari che faccio con gli altri riguardano solo me. L'affare che posso
concludere con te...» Esitò un attimo. «Preferisco non stringere alcun accordo con te. Conosci le parole d'ordine e parli di pericoli, ma io comincio a pensare che tu sia il pericolo, amico mio. Vattene da casa mia, per favore.» «Ho bisogno di sapere se qualcuno ha assoldato uno dei tuoi uomini, la scorsa settimana ο quella prima. Pagherò generosamente l'informazione.» Di nuovo feci rapidamente apparire e sparire la moneta d'oro nella mia mano. Vassos si limitò a ridere, un suono sgradevole che indusse la ragazza sul letto a sollevare la testa e a guardarci con gli occhi spalancati. «Tu puoi comprare le mie puttane, e trattarle come vuoi visto che paghi, ma non puoi comprare me col tuo oro da ciarlatano. Tutti conoscono la mia reputazione», spiegò solennemente. «E adesso vattene.» «Dimmi chi ha assoldato i tuoi mercenari», insistetti. «Dimmelo e...» La mia supplica fu interrotta da un fischio acuto. Vassos si era infilato due dita fra i denti gialli e aveva soffiato con forza. «Te ne devi andare da casa mia», intimò con un sogghigno compiaciuto. «L'ospitalità di Vassos è leggendaria, ma non bisogna abusarne. Vorrà dire che ti butteranno fuori i miei ragazzi.» Io rimasi immobile. Udii dei passi di corsa, delle grida di allarme, infine un rumore di lotta. Un'espressione perplessa si dipinse sul volto di Vassos, ma prima che potesse reagire la porta si aprì con uno schianto e due giganti fecero irruzione. Come leoni nell'arena, mi superarono con un balzo e scaraventarono Vassos contro il muro di pietra che si trovava alle sue spalle. Il dorso di un'ascia fu spinto senza pietà fra le pieghe di grasso del suo ventre, strappandogli un urlo di dolore. La sottana che portava gli scivolò dai fianchi, cadendo sul pavimento e svelando i suoi lombi avvizziti. Poi si ritrovò con il manico di un'altra ascia premuto sul collo, con tanta forza da impedirgli quasi di respirare, e smise di lamentarsi. Una terza figura entrò dalla porta divelta. Era poco più di un'ombra in controluce, ma quell'ampio torace e quelle armi minacciose mi erano ormai familiari: Sigurd, il capitano variago. Appoggiò l'ascia su una sedia e slacciò la mazza dalla cintura, sollevandola nella sua enorme mano mentre si avvicinava al ruffiano che se ne stava rintanato contro il muro. Quando lo vide, la ragazza che aveva portato la tazza a Vassos lanciò un urlo e sparì dietro una tenda che dava su un'altra stanza, mentre quella sul letto si mise a sedere con l'aria un po' stordita, del tutto indifferente al fatto di essere nuda.
Sigurd la guardò, notando le coste sporgenti e i seni appena più sviluppati di quelli di un ragazzo. Raccolse la veste che aveva indosso Vassos e gliela buttò sul letto. «Copriti», le intimò seccamente. Dubitò che lei potesse capirlo, poiché Vassos doveva avere l'abitudine di usare stranieri e immigrati per i suoi turpi scopi. Comunque, la ragazza si strinse il pezzo di stoffa al petto, incrociandovi sopra le braccia nude. E ciò parve soddisfare Sigurd. «Allora», ringhiò, andandosi a mettere davanti a Vassos. «Hai una brutta faccia, ma se mi metto d'impegno posso farla diventare ancora più brutta. Chi ha assoldato gli uomini che hanno tentato di uccidere l'imperatore?» Feci una smorfia: non era quella la tattica che avrei adottato. Ma io non avevo una mazza spaventosa nelle mani e neanche due luogotenenti che mi tenevano bloccato Vassos contro il muro. Rimasi in silenzio a guardare. «Io non ho mai assoldato degli uomini per uccidere l'imperatore», farfugliò Vassos, la cui voce era diventata curiosamente acuta. «Io amo l'imperatore, io...» Sigurd lo interruppe stampandogli un ceffone sulla guancia sinistra. Il Variago portava molti anelli e ritirò la mano imbrattata di sangue. «No, tu non ami l'imperatore», disse a Vassos. «Io amo l'imperatore. Tu lo avresti ucciso per una manciata d'argento.» Vassos gli scoccò uno sguardo truce, senza dissimulare l'odio, e tentò di sputargli sul viso. Ma l'impugnatura dell'ascia gli schiacciava la gola in tal modo che riuscì solo a farsi colare sul mento un po' di saliva e di sangue. Sigurd lo osservò con disprezzo. «Non avresti dovuto farlo», ammonì minacciosamente. «Se la tua bava mi avesse raggiunto, avrei fatto in modo che dalla tua bocca non potesse uscire mai più nulla.» Sollevò la mazza con il braccio rigido e spinse la palla chiodata verso la bocca di Vassos, così vicina da fargliela succhiare come fosse un lattante. La ragazza sul letto fu colta da un'improvvisa agitazione. «Era un monaco.» Il suo contributo giunse così inaspettato che la mazza di Sigurd sobbalzò, dilaniando un angolo della bocca di Vassos. La donna stava tremando di paura, pensai, poiché nel frattempo si era tirata addosso una coperta e non aveva più un aspetto indecente - ma la sua voce suonava sincera. «Un monaco», la incalzò Sigurd. «Di che genere? Un monaco romano?» La ragazza alzò le spalle, facendo scivolare giù la coperta. «Un monaco. Io ero qui. E Vassos gli ha detto che poteva avermi senza pagare, visto che aveva già versato tanti soldi.» La sua voce era desolata. «Mi ha presa come
un ragazzo. Come un animale.» Sigurd accolse le sue parole in silenzio e, a giudicare dal colore delle sue guance, anche con un certo imbarazzo davanti a tanta degradazione. Approfittai del silenzio per intervenire gentilmente. «Come ti chiami?» «Efrosene.» Sembrò sorpresa della domanda. «Di dove sei, Efrosene?» «Della Dacia.» «Da quanto tempo sei in città?» Scrollò di nuovo le spalle, ma questa volta tenendo la coperta per non farla scivolare giù. «Sei mesi? Otto?» «E dici che era un monaco. Quanto tempo fa?» «Tre settimane, forse quattro. È venuto diverse volte. Dopo la prima volta, tentavo di nascondermi quando sapevo che doveva arrivare, ma ogni tanto compariva senza preavviso. Qualche volta Vassos mi ha trascinato da lui con la forza.» «E veniva apposta per te?» Una lacrima le scese sulla guancia. Io mi avvicinai al letto e mi andai a sedere vicino a lei, cingendole con un braccio la vita sottile. «Va tutto bene, Efrosene», le dissi. «Ora sei al sicuro. Non devi più temere né il monaco, né Vassos, né nessuno. Guarda Sigurd», aggiunsi indicando il Variago, la cui mazza non avrebbe certo esitato davanti alla bocca del ruffiano. «Se lui ti protegge, chi può farti del male?» La ragazza si asciugò la guancia, spingendo indietro i capelli che le cadevano sul viso. «Il monaco veniva per i soldati. Io ero solo un passatempo. Voleva quattro uomini e un ragazzo.» Si morse un labbro, mentre i tre Variaghi e io apprendevamo con disgusto questo ennesimo particolare: tutti potevano immaginare facilmente perché aveva voluto anche il giovane. «Disse a che cosa gli servivano i soldati?» Scosse la testa. «'Un lavoro pericoloso', questo fu tutto ciò che disse. Pagò molto oro e Vassos era contento. Mi comprò un anello d'argento.» A quel punto rabbrividì. «E quando lo hai visto per l'ultima volta?» Ci pensò un momento. «Il monaco... due settimane fa, mi sembra. Venne per incontrare i Bulgari, per portarli via con sé.» «E tu conoscevi questi Bulgari?» «No.»
«Non li avevi mai visti prima?» «No.» Aveva smesso di piangere. Spostai il braccio e feci per alzarmi in piedi. Ma Efrosene non aveva finito. «Però, in seguito, ho rivisto uno di loro. Vassos lo aveva mandato a chiamare. Aveva un altro lavoro per lui.» Mi bloccai. «Di recente?» Non cercai neppure di dissimulare l'ansia nella mia voce. «Hai visto questo Bulgaro di recente?» Con viva sorpresa di tutti gli uomini che si trovavano nella stanza, la ragazza scoppiò in una risata. «Certo», disse semplicemente. «Era qui questa mattina. L'ho visto andare via. Proprio prima che arrivaste voi.» Nella stanza calò un attimo di attonito silenzio; poi, prima che io potessi muovermi, Sigurd percosse la bocca di Vassos con la mazza e si avvicinò a tal punto alla testa del ruffiano, che avrebbe potuto fargli il solletico al collo con la barba. «Che cosa gli hai ordinato, pezzo di sterco?» domandò, con una voce ruvida come carta vetrata. «Dove possiamo trovarlo?» Il suo sguardo si posò sulla pancia sformata di Vassos, e si spostò poi più in giù, sotto la cintola, accarezzando amorevolmente la carne con l'estremità della mazza. «Dove?» Vassos sembrava aver perso molta della sua voglia di parlare, ma dopo che Sigurd gli ebbe a malincuore concesso di indossare una tunica, fu ben lieto di condurci in un posto dove avremmo potuto trovare il Bulgaro. Uscendo dalla casa vidi Aelric, in piedi a guardia dei tre ragazzi che giacevano legati sulla strada, con un bel numero di contusioni e lividi da esibire. Sigurd li ignorò, ordinando ad Aelric di accompagnare Efrosene alla ricerca di un convento dove le suore avrebbero potuto occuparsi di lei. Tutti gli altri seguirono Vassos, addentrandosi ancora di più fra i contorti vicoli dei bassifondi. I tre Variaghi marciavano all'unisono, battendo il passo con perfetto tempismo e tenendo costantemente il prigioniero in mezzo a loro. Io arrancavo un passo indietro. «Siete armato, Askiates?» mi chiese Sigurd voltandosi indietro. «Non vorrete raggiungere il regno di Dio troppo presto! Ci sono dei misteri che forse non volete ancora che vi siano svelati.» «Ho il mio coltello», risposi, respirando a fatica. «In questi paraggi, avete bisogno di un'arma da uomo.» Rallentando il
passo, Sigurd staccò la mazza che gli pendeva dalla cintura e la passò indietro verso di me. Io la presi con due mani, perdendo quasi l'equilibrio a causa del suo peso. «La sapete usare?» «La so usare.» Ο almeno, una volta era stato così. Era passato molto tempo da allora, molti anni dai giorni in cui avevo brandito con rabbia un'arma del genere. Ora le braccia mi facevano male anche solo a portarla. «Dobbiamo prenderlo vivo questo Bulgaro», ricordai a Sigurd. «Dobbiamo scoprire che cosa sa.» «Ammesso che sappia qualcosa. Ci sono diecimila mercenari in questa città, e le parole di una puttana in lacrime sono una ben misera garanzia riguardo al fatto che sia proprio l'uomo che cerchiamo.» «In effetti.» Però era assai improbabile che un monaco che assoldava dei mercenari stranieri da un tipo come Vassos nutrisse dei buoni propositi. Forse solo per questo valeva la pena di rintracciarlo. E siccome Vassos aveva giurato - nonostante gli incoraggiamenti di Sigurd - di non sapere assolutamente dove trovarlo, il Bulgaro poteva essere il nostro solo legame con lui. Gli edifici intorno a noi si erano fatti più imponenti. Non eravamo più in uno squallido ammasso di baracche dove non si erano mai viste delle vere e proprie case, ma in una zona dove i vecchi palazzi erano andati in rovina perdendo a poco a poco la loro rispettabilità. Le strade erano diventate più strette, e i bastioni bassi ci nascondevano alla vista il pallido sole di dicembre. Percepivo molti occhi intorno a noi, che ci scrutavano da dietro le finestre rotte e i muri in rovina, ma la strada rimaneva deserta. Forse il suono degli stivali dei Variaghi aveva indotto la gente a ritirarsi in casa, ma dubitavo che avrebbero continuato ad aver paura di noi dopo aver visto che eravamo così pochi. Sigurd si voltò a guardarmi, e io vidi i miei pensieri riflettersi come in uno specchio nei suoi occhi preoccupati: quella lunga e stretta strada era come un passo di montagna, il posto perfetto per un'imboscata. E Vassos era una guida di cui diffidare. Continuai a camminare, e avevo appena cominciato a convincermi che stavo immaginando pericoli inesistenti quando un grido disperato lacerò il silenzio del vicolo. Mi rannicchiai al suolo, con la mazza di Sigurd stretta in pugno, mentre davanti a me i tre Variaghi brandivano le asce, pronti a colpire. Scrutai nei portoni bui e nelle alcove, ma senza vedere nulla: nessuna freccia stava piovendo dall'alto, nessun assalitore si stava lanciando contro di noi. Mi ritornò in mente la battuta che Sigurd aveva detto due
giorni prima a proposito dell'assassino invisibile, e improvvisamente non la trovai più così divertente: dopo tutto, forse ci trovavamo davvero di fronte a un nemico che non era di questo mondo. Nelle nostre orecchie risuonò un altro grido; e io mi convinsi che questo - qualunque altra cosa il destino avesse in serbo per noi - doveva essere senz'altro di questo mondo. Il grido era arrivato da un punto in fondo alla via e io, senza fermarmi a riflettere, cominciai a correre. La mazza era diventata leggera nelle mie mani, sorretta dall'ondata di paura e di eccitazione che mi scorreva nelle vene, e superai i miei compagni ancora prima che iniziassero a muoversi. Le case finivano bruscamente, poiché la strada terminava in quella che una volta doveva essere stata una gradevole piazza. Proprio al centro c'era una fontana rotonda, e doveva essere asciutta da molto tempo, poiché era circondata da erbacce e muschio e la vasca era piena di crepe. Ma non era abbandonata: un uomo alto quasi quanto Sigurd, con indosso una tunica di pelle, era in piedi accanto al bordo. Ci voltava le spalle e stava guardando dentro la fontana, dove si intravedeva un'altra figura sdraiata. Nella mano stringeva una spada insanguinata. Con un urlo di sfida mi lanciai su di lui. L'uomo si voltò brandendo la spada, mentre sulla sua faccia rotonda la sorpresa lasciava il posto a un ghigno insolente. Era più veloce di quanto mi aspettassi, ma ormai non potevo più tirarmi indietro: appena gli arrivai vicino, portai all'indietro il braccio destro, caricando con forza sulla spalla, con l'intenzione di fracassargli il ginocchio con la mazza e farlo cadere. Ma fui troppo lento; erano passati più di dieci anni dall'ultima volta che avevo esercitato il mio mestiere su un campo di battaglia, e la mia velocità e la mia forza, messe alla prova soltanto in qualche rissa occasionale, non erano più sufficienti per affrontare un mercenario. Schivò il colpo, puntando la spada sull'impugnatura della mia mazza e allontanandola dal suo corpo. Mancò di poco la mia mano, ma il colpo raggiunse il suo scopo. Il mio braccio subì un doloroso contraccolpo e la mazza mi cadde dalle mani. Mi ritrovai completamente esposto, senza difesa e troppo vicino al mio avversario per potermi tirare indietro. Giocando d'anticipo, cercai di evitare un secondo fendente di spada, ma lui riuscì di nuovo a ingannarmi, percuotendomi al mento con una ginocchiata che mi fece esplodere di dolore la mascella. Barcollai all'indietro e caddi disteso sulla schiena, avvertendo una fitta dolorosa alla spina dorsale e il sapore del sangue in bocca. Con un balzo, il mio nemico si staccò dalla fontana e si avventò su di
me. Fendette rumorosamente l'aria con la spada riprendendo il controllo del braccio con due colpi rapidi ed esperti. Cercai affannosamente di afferrare il pugnale che tenevo alla caviglia, ma lui se ne accorse e mi schiacciò la mano con un piede. Due dita si ruppero, e io urlai, soprattutto perché vidi che stava sollevando la spada sopra la mia testa per sferrarmi il colpo di grazia. Ma il fendente non arrivò mai. Un nuovo rumore echeggiò nella piazza, un urlo selvaggio emesso con rabbia. Era il grido che doveva aver udito Quintilio Varo quando aveva visto le sue legioni fatte a pezzi nelle foreste germaniche, il richiamo barbarico in cui si imbatté Giulio Cesare mentre risaliva i grandi fiumi della Britannia, l'urlo di un guerriero invincibile e fiero della sua ferocia. La lama di una gigantesca ascia tagliò l'aria sopra la mia testa e strappò via la spada dal pugno del mio nemico, mandandola a cadere con un inoffensivo tintinnio a qualche metro di distanza. E le mani che avevano impugnato quella spada erano ancora sospese sopra la mia testa, quando un secondo colpo si abbatté sull'uomo, che si ritrovò così scaraventato all'indietro, disteso per terra, senza fiato. Braccia possenti lo inchiodarono al suolo, mentre Sigurd si chinava su di lui e gli appoggiava l'ascia alla gola. «Fai un movimento e perderai la testa», sibilò col respiro pesante. Intanto, io mi guardavo intorno ancora stordito. «È questo il Bulgaro? E questo l'uomo da cui ci doveva portare Vassos?» Scossi la testa, cercando di liberarmi di un po' di dolore. «Dov'è Vassos?» Sigurd scoccò un'occhiata alla piazza e lanciò un'imprecazione così rabbiosa che io pensai che forse avrebbe decapitato il prigioniero per pura e semplice frustrazione. Vassos non c'era più. Doveva essere sgusciato via approfittando della rissa. «Questo è il Bulgaro», affermò Sigurd. «Ο almeno così ci ha detto il ruffiano. È stato quando abbiamo cominciato a correre. Certo non abbastanza in fretta», aggiunse, lanciandomi uno sguardo di rimprovero. Il mio ringraziamento proveniva dal cuore. «Quanto bastava per arrivare al momento giusto. Mi avete salvato la vita.» «Ti abbiamo salvato da te stesso», brontolò Sigurd. «Portare una mazza non fa di te un Variago, Demetrios. Sei stato un pazzo a lanciarti così.» Un gemito proveniente dall'interno della fontana mi rammentò l'origine del mio slancio. Mi diressi subito verso il punto in cui avevo visto il Bulgaro fermo e intento a guardare verso il basso. La figura che avevo visto era ancora là e dubitavo che avesse mosso anche solo un muscolo dal mo-
mento in cui avevo ingaggiato lo scontro, poiché il suo povero corpo e la bianca tunica erano ricoperti di sangue, e un taglio lungo e profondo gli attraversava una gamba. Giaceva con le ginocchia premute contro il petto e le braccia intorno alla testa, in perfetto silenzio. «Anch'io ho salvato qualcuno, alla fine.» Entrai nella fontana e mi inginocchiai accanto a lui, sollevandogli una spalla il più gentilmente possibile per poterlo vedere in faccia. Emise un gemito quando gli presi la mano che teneva appoggiata sugli occhi, e a quel punto la sorpresa fu tale da farmi quasi perdere l'equilibrio. Quella creatura, l'uomo che il guerriero bulgaro stava smembrando quando io mi ero lanciato all'attacco, non era in realtà affatto un uomo: era appena un ragazzo, le cui guance incavate erano ancora ricoperte dalla lieve peluria che precede la vera e propria barba. Era robusto per la sua età, ma doveva essere persino più giovane della povera Efrosene. «Un bambino», mormorai sbalordito, «Il Bulgaro stava tentando di uccidere un bambino.» «Forse stava tentando di borseggiarlo», disse Sigurd. «C'è una sacca lì accanto.» Si chinò a raccogliere il sacchetto di pelle e se lo agganciò alla cintura. «Questo bastardo non ne ha bisogno per il momento. Magari il ragazzo si scopava sua sorella. Che importa?» Avrei voluto ribattere, ma Sigurd sembrava essersi già dimenticato del ragazzo nella fontana. Era tornato indietro a guardare il suo prigioniero. «Mettetelo in piedi», ordinò. «E legategli le braccia dietro la schiena. Adesso ti farò marciare per tutta la strada fino al palazzo con la mia ascia attaccata al collo», disse al Bulgaro, «e se farai tanto di inciampare le tue spalle rimarranno senza testa.» «E il ragazzo?» chiesi. «Ha bisogno di aiuto, altrimenti morirà dissanguato.» «Il ragazzo?» Sigurd scrollò le spalle. «Ho già distaccato uno dei miei uomini per cercare di redimere un'insignificante puttana, e mi sono fatto scappare quel ruffiano di Vassos. Questo Bulgaro arriverà in catene al palazzo, che si tratti dell'uomo che ha tentato di uccidere l'imperatore, ο solo di un pellegrino che ha smarrito la strada verso il tempio. Non rischierò di perderlo usando i miei uomini come barellieri per un borsaiolo che ha scelto male il suo obiettivo. E tu», aggiunse puntandomi un dito sul petto, «dovresti pulirti il sangue dalla faccia e venire con noi, se vuoi che l'eunuco continui a pensare che sta spendendo bene i suoi soldi.» «Lo deciderò io quando venire al palazzo», replicai con fierezza, indie-
treggiando di un passo. «E sarà solo dopo aver trovato un letto pulito e un medico per questo ragazzo. A costo di fare tutto da solo.» «Fai come ti pare. Se vai verso sud seguendo quella strada, dovresti incrociare la Mese.» Sigurd raccolse da terra la sua mazza, aggrottò la fronte vedendo il taglio nel manico, e se la rimise alla cintura. Assestò poi un colpetto al prigioniero per incitarlo a muoversi. Insieme ai suoi luogotenenti, che marciavano a fianco del prigioniero, si allontanò con passo risoluto lasciandomi solo nella piazza. La testa mi scoppiava dal dolore e il braccio destro era ancora intorpidito, ma in qualche modo riuscii a sollevare il ragazzo e a tirarlo fuori dalla vasca dove giaceva inerte. I miei movimenti erano goffi e vacillanti, e temevo che da un momento all'altro sarei potuto cadere a terra e provocare al ragazzo danni ancora peggiori. Facendo spesso ricorso al sostegno dei muri vicini, riuscii a uscire dalla piazza e ad avviarmi giù per la collina. Ora potevo intravedere la strada principale alla fine del vicolo, e cercai di raggiungerla il più velocemente possibile. Sebbene fosse una giornata fresca e io mi trovassi ancora all'ombra delle case, il sudore cominciò a bruciarmi gli occhi e a colarmi lungo il viso, mentre la barba mi prudeva in modo insopportabile. Le mie braccia e la schiena pretendevano una pausa, mi chiedevano di sedermi a riposare anche solo un minuto, ma temevo che se avessi appoggiato a terra il ragazzo non sarei mai più stato in grado di risollevarlo. Maledissi Sigurd e la sua crudeltà; maledissi Vassos e la sua feccia bulgara, e maledissi me stesso, perché rischiavo di perdere il mio incarico a palazzo solo per portare un ragazzo moribondo un centinaio di passi più vicino alla morte. Avvolto in una nuvola di dolore e di furia, raggiunsi infine la strada. Là non ce la feci più, e crollai proprio davanti a una pietra che indicava che mi trovavo esattamente a tre miglia dal Milion. «State bene?» Aprii gli occhi, che si erano chiusi per qualche secondo. Ero seduto sul bordo della via Egnatia, con la schiena appoggiata contro la pietra miliare. La testa del ragazzo giaceva sulle mie ginocchia. Il suo volto sembrava rilassato, certo più del resto del suo corpo massacrato, ma era pallido e sudaticcio. Quando gli toccai una guancia con la mano sentii che era spaventosamente fredda. «State bene?» Sollevai gli occhi verso quella voce insistente. Era un carrettiere, il volto
in ombra sotto un cappello a larga tesa, in piedi accanto a un carro carico di vasi di argilla. Parlava con un tono gentile e, dopo un attimo di confusione, riuscii a rispondergli. «Abbastanza bene. Ma il ragazzo è in pericolo. Ha bisogno di un medico.» Il carrettiere annuì. «C'è un medico al monastero di Sant'Andrea. Posso portare là il ragazzo sul mio carro, ci passo davanti. Sto andando al cimitero.» «Sto facendo del mio meglio per evitare il cimitero», replicai con grande trasporto. «Ma sarò ben lieto di arrivare fino al monastero.» Con molta prudenza mettemmo il ragazzo sul carro, adagiandolo sui vasi di incenso e di unguenti, e ci avviammo alla massima velocità consentita dalla strada disastrata e dal desiderio di non peggiorare le sue ferite. «Per chi sono i vostri profumi?» chiesi al carrettiere, pensando che il minimo che potessi fare era ricompensare il suo aiuto con un po' di conversazione. «Per i morti», rispose solennemente. «Li usano gli imbalsamatori.» Trascorremmo in silenzio il resto del viaggio, che, per fortuna, fu breve. Il carrettiere spinse il suo carro attraverso il basso arco che segnava l'ingresso al monastero ed entrò in un cortile imbiancato a calce, dove adagiammo il ragazzo sui lastroni di pietra. Prima che se ne andasse, diedi all'uomo qualche moneta per il suo aiuto. Apparve un monaco che mi squadrò con disapprovazione. «Siamo in preghiera», mi disse. «I postulanti vengono ricevuti all'ora decima.» «La mia supplica non può aspettare tanto.» Troppo esausto per sostenere le mie ragioni in modo più incisivo, mi limitai a indicare con un brusco movimento della mano il ragazzo disteso per terra. «Se il Signore non ascolterà la mia preghiera fino ad allora, magari il vostro medico lo farà.» Forse il mio suggerimento era suonato blasfemo, ma ormai non mi importava più di nulla. Il monaco schioccò la lingua come in segno di rimprovero e corse via. La campana della chiesa suonò le otto e i monaci cominciarono a uscire dalla cappella che si trovava lì davanti. Nessuno si curò di me. Mentre li osservavo passare di corsa, cominciai a dirmi che avrei dovuto sputare sui loro volti indifferenti tutto quello che pensavo della loro carità cristiana. Ma proprio in quell'istante apparve una nuova figura, una giovane serva vestita di un semplice abito verde privo di ornamenti, legato in vita con un
cordone di seta. Fui sorpreso di vederla, poiché ero convinto che i lavori domestici fossero eseguiti dai novizi. Comunque, lei sembrava avermi notato, e di questo le ero già riconoscente. «Avete chiesto un medico?» mi chiese, fissandomi con uno sguardo che non esprimeva nulla di quell'umiltà e di quel riserbo che ci si poteva aspettare dal suo sesso e dalla sua condizione. Non ci feci caso. «Sì. Puoi trovarmene uno?» esclamai, lasciando da parte tutti i convenevoli. «Questo ragazzo sta morendo.» «Lo vedo.» Si inginocchiò accanto a lui, sentendogli il polso con due dita e appoggiandogli l'altra mano sulla fronte. Le sue mani, notai, erano molto pulite per essere quelle di una serva. «Ha perduto molto sangue?» «Tutto quello che puoi vedere.» Una gamba era completamente ricoperta di sangue incrostato. «E anche di più. Ma trovami un medico, lui saprà cosa fare.» «Lo saprà senz'altro.» Il tono con cui questa ragazza parlava era sfrontato come il suo abbigliamento, infatti non portava il velo sulla testa e sulle spalle. Inoltre, mi resi conto che, a ben vedere, non si poteva neppure definirla una ragazza, poiché il volto scoperto e gli occhi brillanti esprimevano una saggezza e una cognizione che solo l'età può imprimere. Tuttavia, portava i lunghi capelli neri legati con un nastro verde, come una bambina. E, come una bambina, non sembrava minimamente in soggezione davanti a me. Continuava a fissarmi con tranquilla indifferenza. «Trovami il medico». tornai a insistere. «A ogni minuto che passa, la sua morte è più vicina.» Alla fine le mie parole sortirono qualche effetto: la donna si alzò in piedi e guardò verso una porta rimasta aperta. Ma invece di correre via, si voltò verso di me e, con stupefacente temerarietà, cominciò a rimproverarmi. «Fate presto», mi ordinò. «Lo avete trasportato fino a qui, potete sorreggerlo ancora per qualche passo. I monaci qui hanno paura di toccare i moribondi, pensano di rimanerne contaminati. Portatelo all'interno, dove potremo lavare le sue ferite e tenerlo al caldo.» Rimasi praticamente senza parole. «Certo, ma solo il medico saprà se è prudente spostarlo.» A quel punto, appoggiò le mani sui fianchi e mi lanciò uno sguardo esasperato. «Certo, e infatti io sono il medico», replicò bruscamente. «E dico di portare il ragazzo all'interno in modo da pulire e fasciare le sue ferite, prima che sia tardi.» I suoi occhi scuri furono attraversati da un lampo di impazienza. «Ora farete come vi ho detto?»
Il mio viso coperto di lividi si imporporò per la vergogna, mentre io ubbidivo umilmente. Poi, dopo aver fatto tutto, mi diressi in gran fretta verso il palazzo. ς Non avevo mai visto prima le prigioni sotterranee del palazzo, e non correrei certo a visitarle di nuovo. Una guardia mi guidò sottoterra, per una scala a chiocciola, fino a una camera illuminata soltanto da alcune torce. Massicci pilastri di mattoni spuntavano dal pavimento e andavano a formare un arco sopra le nostre teste, come costole di un mostro marino. Dai muri pendeva un gran numero di strumenti dall'aspetto orribile. Nel centro della stanza c'erano un tavolaccio grezzo e alcune panche, su cui erano seduti alcuni Variaghi intenti a giocare a dadi. Persino da seduti, dovevano stare attenti a non andare a sbattere con la testa contro le lampade nere appese sopra di loro. Lanciando una manciata di monete sul tavolo, Sigurd alzò gli occhi. «Eccoti», grugnì. «Hai finito di fare il samaritano?» «Il ragazzo è stato affidato alle cure di un medico», risposi con calma. «Dov'è il Bulgaro?» Sigurd mosse la testa in direzione di un basso arco alle sue spalle. «Là dentro. Appeso per le braccia. Non lo abbiamo ancora toccato.» «Non avreste dovuto aspettare me... può essere importante scoprire subito cosa sa.» Il volto di Sigurd si indurì. «Pensavo che l'eunuco ti pagasse a giornata. In ogni caso, non stavamo aspettando te, ma un interprete. A meno che, naturalmente, tu non parli la lingua dei Bulgari.» Mi strinsi nelle spalle in segno di resa, anche se Sigurd nel frattempo era già tornato alla sua partita. Non mi invitò a unirmi a loro e io, dopo un attimo di imbarazzo, arretrai verso un angolo in penombra, lontano dalla luce delle lampade. Me ne rimasi là in silenzio, cercando di non ascoltare i lugubri rumori della prigione. In quel triste luogo è difficile conservare anche la cognizione del tempo, ma devo aver trascorso almeno un'ora a osservare i cambiamenti di umore di Sigurd in relazione alla quantità di monete impilate davanti a lui. Finalmente giunse un suono dall'alto. Io scrutai verso la scala a chiocciola e vidi scendere una costellazione di minuscole fiammelle, dozzine di lampade in processione come uno sciame di lucciole. Schiavi vestiti di seta le teneva-
no in alto e riuscivano a non farle vacillare nonostante il pavimento irregolare. Sfilarono lungo il perimetro della cripta, fino a disporsi intorno a noi come uno scintillante muro di seta e di fuoco. In coda a loro entrarono due persone che non portavano alcuna lampada: uno indossava il mantello color cremisi dei preti, l'altro una ricca tunica intessuta di lucenti fili d'oro. Era Krysafios. Tutti i Variaghi erano in piedi, l'argento e i dadi spariti immediatamente nelle borse. «Mio signore», disse Sigurd inchinandosi. Pensai che l'umiltà non gli si addiceva. «Capitano», rispose Krysafios, «dov'è il prigioniero?» «Nell'altra stanza. In solitaria riflessione sui suoi peccati. Abbiamo bisogno di un interprete.» «Fratello Gregorias ha dedicato la sua vita alla lingua bulgara.» Krysafios indicò il prete al suo fianco. «Ha trascritto la vita di non meno di trecento santi per la loro edificazione.» Pensai che questo doveva avergli fornito il vocabolario necessario per la tortura. «Se il vostro prigioniero ha qualcosa da dire, lo decifrerà.» «Il prigioniero parlerà», ribatté con durezza Sigurd. «Appena mi sarò occupato di lui.» Lasciammo la silenziosa scorta dell'eunuco nella stanza principale e, camminando curvi, percorremmo la bassa galleria che portava alla cella adiacente. Io seguii Sigurd, Krysafios e il prete all'interno. Qui l'aria era più viziata e sgradevole; ma sospettavo che il prigioniero doveva sentirsi ben più a disagio di noi. Le sue braccia erano appese a dei grossi uncini piantati nel soffitto, in modo tale che soltanto le dita dei piedi potessero toccare terra. Oscillava appena avanti e indietro e gemeva piano. I suoi vestiti erano stati strappati via, lasciando solo una stretta striscia di tela intorno ai lombi, e i polsi erano insanguinati dove le catene mordevano la pelle. Per un attimo, mi fece stranamente pensare a Cristo torturato sulla croce. Rabbrividii, e scacciai immediatamente quel pensiero blasfemo. «Demetrios!» Mi accorsi che Krysafios mi stava fissando. «Voi siete un esperto di queste faccende: scoprite che cosa sa quest'uomo.» Io ero un esperto nell'interrogare piccoli ladri e delatori al mercato, non nello strappare confessioni in una prigione imperiale. Ma davanti al mio protettore non potevo dare segni di cedimento. Compii un passo avanti e mi resi conto subito che non sapevo nemmeno dove rivolgere lo sguardo, se verso il prete ο il prigioniero. In silenzio, guardai prima uno e poi l'altro
e tentai di mascherare la mia confusione incrociando le braccia sul petto ed emettendo profondi e meditabondi sospiri. «Un monaco ti ha assoldato tramite un uomo di nome Vassos», cominciai infine, rivolgendomi a quel disgraziato. Non appena iniziai a parlare, il corso dei miei pensieri venne interrotto dalla voce quieta e monotona del sacerdote, che cominciò a sussurrare rozze sillabe di una lingua straniera alle orecchie del prigioniero. Dopo un attimo di esitazione, ripresi l'interrogatorio. «Tre settimane fa, questo monaco ti ha commissionato l'assassinio dell'imperatore. Dovevate usare uno strumento particolare, un'arma dei barbari che viene chiamata tzangra, per ucciderlo su una pubblica strada, durante la sacra festa di San Nicola.» Mi interruppi brevemente, aspettando che il prete finisse di tradurre le mie parole, ma continuai a fissare con durezza il prigioniero. Quando anche il prete tacque, quattro paia di orecchie rimasero come sospese in ansiosa attesa di una risposta. Solo il tintinnio dell'armatura di Sigurd ruppe a un certo punto il perfetto silenzio della stanza. Il Bulgaro sollevò la testa lanciandoci uno sguardo sprezzante. Disse solo una parola, e nessuno di noi ebbe bisogno della traduzione del prete per capirne il significato: «No». «Chiedetegli se crede nella nostra religione», dissi al prete in tono un po' teatrale. Il Bulgaro sembrò voler ignorare la domanda; ma, dopo qualche esortazione da parte dell'interprete, rispose affermativamente. «Ditegli allora che si è macchiato di una grave colpa», continuai. «Ma riferitegli anche che Cristo predica il perdono per coloro che confessano i loro peccati. Spiegategli che, seguendo Vassos e il monaco, si è messo al servizio di malvagi padroni, padroni che lo hanno tradito. Noi invece possiamo aiutarlo.» «Possiamo aiutarlo piangendo sulla sua tomba», mi interruppe Sigurd. Io gli feci cenno di tacere, sperando che il prete non traducesse le sue parole. Il Bulgaro lanciò tuttavia uno sguardo in direzione del Variago. «Fino a quando rimane in silenzio, non ha alcuna speranza di poter uscire da questo sotterraneo.» Il perdurante mutismo del prigioniero stava cominciando a riempirmi di frustrazione, ma almeno mi stavo abituando a parlare senza farmi distrarre dal costante mormorio della traduzione. «Il monaco e Vassos in questo momento sono liberi di bere, andare a
puttane, continuare a ordire le loro congiure. Perché dovrebbe soffrire lui, mentre uomini ben più malvagi vengono risparmiati?» Con un fruscio di seta, Krysafios iniziava ad agitarsi. «Non mi sembra che vi stia prestando molto ascolto, Demetrios», osservò. «Ο forse il meglio della vostra retorica si perde nel passaggio da una lingua a un'altra.» Nessuno dei miei compagni aveva idea di quanto tempo potesse occorrere per strappare delle informazioni a qualcuno che non aveva alcun desiderio di parlare, anche dopo averlo imprigionato e ridotto all'impotenza. Krysafios doveva essere abituato a vedere i suoi desideri immediatamente realizzati, non certo a dover aspettare che un criminale immigrato si decidesse a parlare. Temevo che di lì a poco avrebbe ordinato di passare alle maniere forti. «Dicci come avete tentato di uccidere l'imperatore», insistetti, con un tono di voce ancora più incalzante. «Rivelaci gli scopi del monaco, in che modo vi ha indotti a fare questa terribile cosa.» Mentre io e Krysafios discutevamo, il Bulgaro aveva tenuto la testa abbassata, ma ora l'aveva di nuovo sollevata. Aprì la bocca, deglutì, e io pensai che volesse parlare. Stavo già per chiedere che gli dessero un po' d'acqua, ma lui invece sputò, con un movimento convulso dell'intero corpo. Non aveva potuto mettere una grande energia nel suo sforzo, e, sebbene gli fossi vicino, la saliva non mi raggiunse. Compii un passo indietro, con un sospiro di stanchezza e frustrazione. Ci sarebbero volute molte ore, che mi sarebbero sembrate ancora più lunghe con Krysafios appollaiato alle mie spalle. Decisamente troppe, in particolare per un uomo: nel momento stesso in cui lo sputo del Bulgaro toccava terra, sentii un ringhio dietro di me. Con un balzo, Sigurd si lanciò sul prigioniero, assestandogli un calcio sui piedi che sfioravano a malapena il suolo. Il Bulgaro oscillò come un pendolo e lanciò un grido quando la catena che gli stringeva i polsi penetrò più a fondo nella carne. La striscia di tessuto che ancora lo copriva fu strappata via ed egli si ritrovò appeso completamente nudo, con il volto di Sigurd a un palmo dalle sue guance tremolanti. L'ascia brillava nelle mani del Variago. «Il mio amico Demetrios cerca di fare appello al tuo buon senso e alla tua ragione», sibilò furioso Sigurd, incurante dell'interprete che cercava di seguire le sue parole, «io preferisco fare appello a qualcosa che in questo momento forse ti interessa di più. Hai tentato di uccidere l'imperatore, tu,
lurido Bulgaro. Avresti portato sul trono un usurpatore. Sai cosa facciamo agli usurpatori in questo regno?» Fece scorrere l'ascia come un rasoio sul volto dell'uomo. «Strappiamo loro gli occhi e mozziamo loro il naso, in modo da renderli così deformi che nessuno possa mai pensare di acclamarli imperatori.» Con aria meditabonda, fece un passo indietro, poi, quasi con un gesto distratto, sferrò un pugno nello stomaco del prigioniero, che gridò di nuovo facendo tintinnare le catene. «Gli avete detto tutto, prete?» L'interprete annuì con forza, tremando sotto il feroce sguardo di Sigurd. «Allora spiegategli anche», continuò, «che se vogliamo essere sicuri che l'usurpatore non ci darà mai più guai, noi non ci fermiamo alla sua faccia. Oh no!» Rise con malignità. «Lo priviamo della sua virilità, in modo da essere certi che non potrà mai diventare imperatore, e non potrà nemmeno imporci qualche bastardo che voglia vendicarsi.» Prese l'ascia con entrambe le mani e si mise a guardarla con aria pensierosa. «Naturalmente, tu non avresti mai potuto sederti sul trono, Bulgaro, ma forse potrei esercitarmi su di te in attesa di catturare l'uomo che ha pensato di farlo. Devo procedere? Devo trasformarti in un eunuco? Condannarti a fare la parte della cagna, se mai vorrai ancora avere qualche piacere nella tua miserabile vita?» Continuò a fissare il prigioniero, facendo scorrere lo sguardo verso il basso, al di sotto della cintola, mentre un'espressione di scherno gli si dipingeva sul volto. Io rivolsi un rapido sguardo a Krysafios, ma il suo viso liscio era rimasto del tutto inespressivo. «Posso renderti piuttosto prezioso», continuò Sigurd con un sorriso malizioso. «Non come quei ragazzi armeni i cui genitori si sono limitati a comprimere e a ricacciare indietro le palle da dove erano venute. Io posso trasformarti in un carzimasian, puro come una ragazza e senza neppure più un brandello di virilità. Potrai raggiungere una quotazione ben più alta di quella che avevi da mercenario.» A quel punto si zittì, come se si fosse improvvisamente stancato del suo monologo. Persino il prete, che aveva tradotto ogni parola, sembrava spaventato. Penso che Krysafios fosse l'unico sul quale le minacce di Sigurd non avevano la minima presa. Il Bulgaro adesso era estremamente attento e concentrato, con gli occhi terrorizzati fissi sulla sinistra lama ricurva dell'ascia di Sigurd, che si muoveva a scatti e sembrava contorcersi come se fosse stregata. Quell'ascia che Sigurd aveva sollevato, tanto in alto quanto lo permetteva il soffitto del sotterraneo, e ora sembrava sospesa sulla sua spalla, come un angelo della vendetta in attesa di sferrare il suo colpo. «No», tentai di protestare, ma avevo la bocca secca e le parole mi usci-
vano a fatica. E comunque troppo tardi: l'ascia calò all'improvviso descrivendo un rapido arco e sprigionando scintille mentre andava a colpire il pavimento di pietra. Il prigioniero emise un grido da animale ferito e si dimenò scuotendo le catene. Il sangue aveva ricominciato a scorrere dai suoi polsi, e il prete emise un gemito di orrore. Ma il sangue non stava zampillando dall'inguine del Bulgaro, e nessun raccapricciante pezzo di carne giaceva flaccido sul pavimento. L'ascia doveva essere passata a pochi millimetri dal suo corpo. Sigurd alzò la lama da terra, osservandola con curiosità. «Ho mancato il colpo», esclamò con un tono quasi di sorpresa. «Devo riprovarci?» Il prete era rimasto immobile e Sigurd fu costretto a dargli una spinta per convincerlo a tradurre anche questa frase; ma in realtà, ancora prima che finisse di parlare, il nostro prigioniero cominciò a vomitare un fiume di parole. Lo shock di essere arrivato a un passo dalla castrazione lo aveva scosso fin nel profondo; cominciò a singhiozzare e a sbraitare come se un demone l'avesse improvvisamente posseduto. Io ero lieto del fatto che la sua furia fosse limitata dalle catene. Solo dopo essersi un po' calmato, e dopo che Sigurd si fu ritirato in un angolo, ricominciò a parlare abbastanza lentamente perché il traduttore potesse cogliere il significato delle sue parole. Il suo nome, disse, era Kaloyan. Sì, lavorava per Vassos, il ruffiano. Di solito lo aiutava a riscuotere i debiti e a picchiare le ragazze che non volevano più lavorare per lui, ma qualche volta le proteggeva anche dagli uomini quando diventavano violenti ο non volevano pagare. Occasionalmente, faceva anche delle altre cose, più pericolose, perché Vassos era un uomo ambizioso e gli piaceva l'idea di avere un suo esercito privato. Tuttavia esso era in gran parte costituito da un mucchio cencioso di ex soldati e bravacci che passavano il loro tempo a bere e ad azzuffarsi quando non dovevano combattere. Fino a quando non era arrivato il monaco. «Descrivimelo», gli intimai, stringendo convulsamente fra le dita l'orlo della mia tunica. «Non può», rispose il traduttore dopo una breve consultazione, «Dice che il monaco indossava sempre un cappuccio, anche quando erano nella foresta.» «Nella foresta?» Realizzai che stavo interrompendo il racconto. «Non importa. Che cosa voleva il monaco?» «Il monaco voleva cinque uomini e il ruffiano glieli procurò. Kaloyan era uno di questi. Li portò in una casa nella foresta, dove per due settimane
uno di loro dovette allenarsi a usare una strana arma, un'arma dei barbari. Kaloyan non aveva mai visto prima niente di simile.» «Era una tzangra?» chiesi, cercando di descrivere quello strano arco meglio che potevo. «Sì», confermò l'interprete. «Proprio così. Può colpire attraverso il metallo. Kaloyan avrebbe voluto provarla lui stesso, ma il monaco la conservava gelosamente e permetteva solo al suo apprendista di usare quell'arma. Uno dei compagni di Kaloyan tentò di rubare quella specie di balista mentre il monaco dormiva. Non è più uscito vivo dalla foresta.» «E così Kaloyan non è l'assassino.» Non sapevo se essere più euforico ο confuso, pensando a quanto vicino ero arrivato. «Ma lui sa chi è?» Vidi il Bulgaro scuotere debolmente la testa. «Non lo aveva mai visto prima», confermò il prete. «Vassos lo aveva trovato da qualche parte nei bassifondi.» «Il monaco non ha mai detto che cosa intendeva fare con quell'arma? Perché si è preso la briga di addestrare un altro uomo?» Le domande si accavallavano sempre più rapide nella mia mente, perché praticamente ogni parola pronunciata dal Bulgaro richiedeva una spiegazione, e cominciavo a sentirmi frustrato da quelle lunghe pause in cui l'interprete parlava con il prigioniero e traduceva poi le sue frasi. «Il monaco non ha mai parlato dei suoi scopi, e non amava le domande. Ha detto soltanto che aveva un potente nemico di cui voleva liberarsi, e che non poteva farlo da solo.» Un altro pensiero mi colpì. «Ma allora, se ha addestrato solo uno degli uomini nell'uso della tzangra, a cosa dovevano servire Kaloyan e gli altri? Temeva per la sua incolumità? Il monaco aveva forse degli altri nemici di cui noi non sappiamo nulla?» «No, non aveva paura per se stesso.» L'interprete sembrò per un attimo perplesso. «Temeva che l'apprendista sarebbe scappato via, se ne avesse avuto la possibilità.» «Perché avrebbe dovuto farlo?» Il monaco pagava sicuramente abbastanza bene, se poteva permettersi un quartetto di guardie del corpo. Una pausa ancora più lunga. «A causa della sua età. Non era ancora neanche un ragazzo, era un piccolo selvaggio, imprevedibile.» Si udì un rumore sordo, di metallo contro la pietra, mentre un'ascia cadeva al suolo. L'interprete si ritrasse spaventato, il Bulgaro lanciò un grido. Ma era solo Sigurd che per sbaglio aveva lasciato cadere la sua arma. Ci volle qualche minuto per riportare la calma, durante i quali mi sforzai di
tenere a bada l'impazienza che ormai mi bruciava, in attesa di porre la mia ultima domanda. «Un ragazzo?» chiesi infine. «L'assassino era un ragazzo? E il Bulgaro lo ha poi rivisto?» Mi sembrò che trascorresse un'eternità, mentre le mie parole venivano trasferite nella lingua del Bulgaro, e poi mentre l'interprete aggrottava la fronte concentrato sulla lunga risposta che aveva ricevuto. Si passò un dito sulla barba, guardandomi nervosamente e percependo tutta l'importanza di quell'ultima domanda, anche se non era assolutamente in grado di comprenderne la ragione. «Sì», disse infine semplicemente. «Lo ha incontrato di nuovo. Dice di aver tentato di ucciderlo questa mattina.» ζ Ancora prima che il prete finisse di parlare, io stavo già correndo fuori dal sotterraneo, oltre le bianche file di schiavi con le lampade, su per le scale a spirale, nell'aria fresca del cortile superiore, che in quel momento mi parve un dono del cielo. Alle mie spalle sentivo grida e rumori di passi, ma non me ne importava: solo poche ore prima avevo tenuto nelle mie braccia l'assassino, e lo avevo salvato da morte quasi certa. Mi guardai intorno, notando solo in quel momento le grandi colonne che mi circondavano da ogni parte, come un'enorme gabbia. Mi resi conto che non sapevo neppure come uscire dal palazzo. «Dove lo hai portato?» Mi girai e vidi Sigurd emergere dalle scale alle mie spalle. Aveva il respiro pesante, ma poteva ancora tenere l'ascia con una mano sola. «In un monastero.» Esitai, pensando improvvisamente a cosa avrebbe potuto fare al ragazzo che aveva tentato di uccidere l'imperatore. Naturalmente, un assassino merita la morte, ma io gli avevo salvato la vita e non mi ero mai liberato da quell'idea superstiziosa, in cui tutti i soldati credono, secondo la quale puoi comprare la vita di un uomo solo pagandola con un pezzetto della tua. «Quale monastero?» domandò Sigurd. «Cristo! Il ragazzo potrebbe essersene già andato. Non c'è tempo.» «Il monastero di Sant'Andrea, nel quartiere Sigma.» «Seguimi.» Con la sua sferragliante armatura, mi guidò di corsa attraverso i corridoi
del palazzo. Passammo davanti a scribi e nobili, che si limitarono a fissarci senza proferire parola. Nessuna guardia osò sbarrarci il passo. Le porte si aprivano davanti a noi come spinte da mani invisibili, mentre stanze fino a quel momento chiuse e buie sembravano riempirsi improvvisamente di luce al nostro arrivo. Poi le lampade cominciarono a diventare più rare, mentre le scale si facevano più ripide. In questa parte del palazzo c'era molta meno animazione, per lo più incontrammo schiavi dai volti furtivi, che si muovevano frettolosi e con gli occhi fissi al suolo. Io affrettai il passo per rimanere vicino a Sigurd. Finalmente le colonne e i pavimenti di marmo finirono e noi ci ritrovammo in una bassa galleria. Sigurd indicò con un cenno la volta di mattoni sopra le nostre teste. «Gli stallaggi imperiali.» Ci passammo sotto in silenzio, i nostri passi attutiti dal fondo sabbioso. In fondo c'era un cancello di cui Sigurd aveva la chiave. Al di là di esso si sentivano diversi rumori, risate, gente al lavoro, e l'odore caldo dei cavalli. «Ipparco!» urlò Sigurd. «Ipparco! Abbiamo bisogno di due cavalli, sellati e imbrigliati.» «Di nuovo in ritardo per la tua amante?» Un uomo alto, vestito elegantemente, entrò nel recinto della scuderia. «Almeno io ho una donna, a differenza di te che t'accoppi con i cavalli.» Sigurd gli diede un colpetto su una spalla. «Ma lei dovrà aspettare.» L'ipparco inarcò un sopracciglio. «È così urgente? Ho due cavalcature in attesa dei dispacci del logoteta.» «I dispacci possono attendere. Manda un ragazzo dal ciambellano a dirgli che noi siamo andati al monastero di Sant'Andrea, a Sigma.» Fu colto da un dubbio improvviso. «Sai cavalcare, vero, Demetrios?» Sapevo cavalcare, anche se galoppare in sella a un cavallo selezionato per i servizi di posta dell'imperatore, nelle strade ormai buie della città, non era esattamente quello a cui ero abituato. Dovetti mettere a dura prova tutta la mia fortuna e la mia capacità di concentrazione solo per riuscire a rimanere dritto in sella. Grazie al cielo, essendo la giornata ormai alla fine, non c'era più tanta folla in giro, e le guardie che stavano cominciando a pattugliare le strade ebbero il buon senso di ritirarsi sotto i portici mentre Sigurd e io passavamo con grande strepito. Arrivammo al monastero. Sigurd scivolò giù dal suo cavallo, dirigendosi svelto verso il portone. Era sbarrato, ma il manico della sua ascia, a suon di martellate, ben presto annunciò il nostro arrivo abbastanza forte da sve-
gliare anche i morti della lontana necropoli. Una piccola porta all'interno del portone si aprì con un cigolio, giusto lo spazio di un dito. «Chi è là?» Il sospetto e la paura avevano cancellato ogni traccia di sonno dalla voce di colui che stava parlando. «Sigurd, capitano della Guardia Variaga dell'imperatore. Avete qui da voi un ragazzo che devo vedere.» Sigurd urlò quelle parole come se si trattasse di una sfida nell'arena. Il monaco, con mia grande sorpresa, riuscì a trovare una sufficiente indignazione morale per abbozzare un moto di resistenza. «Il monastero è chiuso, riservato alla contemplazione e alla preghiera. Dovete tornare al mattino. Nessuno può varcare questa porta dopo il cadere dell'oscurità.» «Ho quasi azzoppato due dei migliori cavalli del logoteta per arrivare qui.» Sigurd stava perdendo la pazienza. «Non me ne starò qui seduto davanti alla vostra porta.» Senza preavviso, sollevò lo stivale e lo sbatté con forza contro il battente di legno; si sentì un gemito di dolore e il portale si aprì verso l'interno. Seguii Sigurd, che entrò sfiorando lo stipite superiore. All'interno il monaco si stava sfregando una spalla ammaccata, lanciandoci maledizioni che nessun uomo di Dio dovrebbe conoscere, ma noi lo ignorammo. Attraversai il cortile diretto verso la porta ad arco dove avevo lasciato il ragazzo. Bussai, giocando d'anticipo sull'ascia di Sigurd. «Un giorno la tua pazienza ti tradirà», esclamò Sigurd, già irritato dall'attesa nella fredda aria della notte. «Se questo medico c'è, lascia che lo chiami io.» «Un giorno butterai giù la porta sbagliata», gli risposi, «e troverai un numero così grande di nemici che la tua ascia finirà spuntata prima che tu possa ucciderli tutti.» Sigurd alzò le spalle. «Vorrà dire che userò il manico per spaccar loro la testa.» «E lascerai a qualcun altro il compito di pulire le loro ferite.» Ci voltammo entrambi verso la porta, che si era silenziosamente aperta rivelando la donna medico alla quale avevo affidato il ragazzo. Teneva in mano una candela e indossava solo una lunga tunica di lana che le lasciava scoperti i piedi e le braccia. All'altezza dei suoi capezzoli, il tessuto presentava due lievi rigonfiamenti e quella vista mi smosse qualcosa dentro; l'espressione sul suo viso era però di pura collera.
«Cosa pensate di fare, abbattendo la porta del monastero a quest'ora e strappandomi al mio lavoro? Se proprio volete profanare le leggi di Dio, dovreste almeno rispettare i malati.» «Cerchiamo il ragazzo che è stato portato qui questa mattina», rispose Sigurd, prima che io potessi offrire le mie scuse. «È qui?» La donna gli rivolse uno sguardo sprezzante, mentre il mio cuore accelerava i battiti nell'attesa della sua risposta. Eravamo arrivati così vicino per poi vederci privati del successo a causa della mia compassione? Annuì. «È qui. Ben difficilmente avrebbe potuto andarsene. Non è in grado né di stare in piedi, né di camminare. In questo momento dorme.» «Dobbiamo vederlo. Subito.» La voce di Sigurd era decisamente minacciosa. «Siamo qui per affari di palazzo.» Gli occhi scuri della donna parvero mandare fiamme. «Persino l'imperatore in persona non può guarire un ragazzo malato con un semplice ordine. Quel giovane ha la febbre e delira. Adesso sta dormendo e questa è probabilmente la cosa più sana che abbia fatto nell'ultimo mese. A meno che non siate voi l'uomo che gli ha quasi tagliato via la gamba, non dovreste neppure pensare di svegliarlo.» «Signora, io sono l'uomo che ha impedito al Bulgaro di ucciderlo.» Sigurd aveva alzato la voce e fatto un passo avanti, tanto da arrivare quasi a toccare la donna. Lei appariva minuta davanti a lui, come Andromeda ai piedi del Kraken, ma non vacillava. «No», ribadì ancora. «Fino a quando il ragazzo dorme, voi aspettate.» «E se dovesse scappare dalla porta sul retro?» Sigurd stava battendo in ritirata, ma non si sarebbe arreso fino a quando non fosse stato del tutto persuaso. «Non c'è una porta sul retro, capitano, solo due finestre in alto da cui passerebbe a fatica il vostro avambraccio. Buonanotte.» Detto ciò, spense la candela lasciandoci al buio. Dall'altro lato della porta, sentii il rumore di un chiavistello che veniva chiuso. Sigurd rimase immobile, con lo sguardo fisso sulla sua ascia che brillava sotto la luce della luna. «Non puoi farti largo a colpi d'ascia», lo ammonii stancamente, sedendomi sul gradino e appoggiando la schiena alla base della colonna. «E il ragazzo non se ne andrà. Cosa possiamo fare se non aspettare?» Sigurd aveva sicuramente più di un'idea in proposito; ma alla fine, pur con qualche riluttanza, appoggiò l'arma sul pavimento di pietra e con un brontolio si sedette lì accanto.
«Non ci muoveremo da qui», mi ammonì a sua volta. «E non dormiremo. Chiunque esca da questa porta prima dell'alba si troverà la mia ascia puntata alla gola.» Non gli chiesi che cosa mi sarebbe accaduto se non fossi riuscito a rimanere sveglio. Per un po' esitai a rivolgergli la parola, ma dopo una mezz'ora di silenzio mi arrischiai a parlare, sperando che l'aria fresca avesse almeno in parte calmato la sua furia. «Il tuo zelo in difesa dell'imperatore sembra uscito da una leggenda», dissi pacatamente, pensando che se avesse voluto avrebbe anche potuto ignorarmi. «Non c'è da stupirsi per il fatto che l'imperatore tenga in così gran conto i suoi Variaghi.» «Solo gli Inglesi.» Sigurd teneva gli occhi fissi sui propri pugni e non sembrava di buon umore. «Ce n'erano altri nella guardia, Vichinghi, Danesi e simili, ma li ha buttati fuori perché non poteva fidarsi di loro.» «Perché gli Inglesi?» Ero sinceramente incuriosito: a me quei barbari biondi e giganteschi sembravano tutti uguali. Sigurd grugnì. «Perché gli Inglesi sono gli unici in grado di odiare i nemici dell'imperatore proprio come se fossero i loro nemici. Ti racconterò una storia. Quindici anni fa, durante la battaglia di Dirrachio, i Normanni intrappolarono una compagnia di Variaghi in una chiesa. In un primo momento, poiché conoscevano bene la loro fama in battaglia, offrirono oro e ricchezze, affinché disertassero unendosi ai nemici dell'imperatore, ma i Variaghi rifiutarono. I Normanni allora diventarono furiosi, e minacciarono di massacrarli fino all'ultimo uomo se non si fossero arresi; ma ancora una volta gli Inglesi rifiutarono. Alla fine i Normanni appiccarono il fuoco al sacro edificio dove gli altri avevano trovato riparo e lo rasero al suolo. Nessuno sopravvisse. Noi preferiamo farci bruciare vivi dai Normanni che arrenderci a loro. Ecco fino a dove può spingerci l'odio.» «Ma perché? Perché resero vedove le loro mogli, quando avrebbero potuto essere riscattati sani e salvi dopo la battaglia?» Sigurd si piegò in avanti. «Perché i Normanni hanno ucciso il nostro re e si sono impadroniti del nostro paese. Il loro duca bastardo è salito al trono a furia di inganni e menzogne e poi ha abbandonato il paese ai saccheggi.» «Quando è stato?» Parlava con tale furia che avrebbe potuto essere accaduto il giorno prima. «Trent'anni fa. Ma noi non dimentichiamo.»
«Dovevi essere un bambino, trent'anni fa. Non dovevi avere più di cinque ο sei anni. Come me.» Un rumore proveniente dalla porta alle nostre spalle interruppe di colpo la nostra conversazione. Ancora prima che io avessi il tempo di girare la testa, Sigurd era già in piedi e con l'ascia alzata, pronta a colpire. Ebbi un attimo di panico all'idea che avrebbe potuto decapitare qualche innocente monaco spinto solo da un bisogno fisiologico, ma non era un monaco, e neppure il ragazzo in fuga: era il medico, ο meglio la donna. Si era avvolta una stola intorno alle spalle, coprendo la tunica poco modesta, e teneva in mano due fumanti ciotole di argilla. Se fossi stato al suo posto, pensai, le avrei forse gettate in faccia all'arrogante Variago, ma lei si limitò ad appoggiarle sul pavimento davanti a noi. «Zuppa», disse. «Ho pensato che potevate aver freddo. Non vorrei ritrovarmi domani mattina con un paio di uomini ostinati completamente congelati.» Sigurd si rimise seduto, ed entrambi vuotammo avidamente quel cibo bollente nelle nostre gole. La signora rimase lì ferma in piedi a guardarci, finché non finimmo di pulire le scodelle con il pane che ci aveva dato. Infine, le restituimmo le scodelle; ma, con mia grande sorpresa, lei non si ritirò subito all'interno; invece si lisciò la gonna dietro le gambe e si sedette sul gradino, proprio in mezzo a noi. «Fa freddo qui fuori», l'avvertii, mentre la nuvoletta di vapore che fuoriusciva dalla mia bocca illustrava perfettamente le mie parole. «In effetti», rispose. «Troppo freddo perché due uomini se ne stiano qui tutta la notte per impedire che uno storpio in stato di incoscienza possa uscire dal letto e andarsene.» «Noi non siamo qui solo per impedirgli di fuggire. Là fuori ci sono degli uomini che vorrebbero che non potesse alzarsi mai più da quel letto, se solo riuscissero ad arrivare a lui.» «E voi invece che cosa volete da lui?» insistette la donna. «Offrirgli delle preghiere per accelerare la sua guarigione?» «Giustizia», rispose duramente Sigurd. «Ditemi, come siete diventata medico?» intervenni, cercando di spingere rapidamente la conversazione su un terreno meno polemico. «E in un convento di monaci, poi! Io sono Demetrios», aggiunsi, improvvisamente cosciente del fatto che in nessuno dei nostri turbolenti incontri c'era mai stato il tempo di presentarsi. «Questo è Sigurd.» «Io sono Anna. E sono diventata medico a causa di un padre saggio e di
un innamorato rozzo. Mio padre mi ha insegnato a leggere e a studiare il sapere degli antichi, i testi di Galeno e di Aristotele. Il mio innamorato, al quale ero stata promessa, mi ha abbandonata proprio alla vigilia del matrimonio. Dopo una simile umiliazione, nessun altro mi avrebbe mai sposata, e così, dopo aver consumato tutte le mie lacrime, ho scelto questa professione. Ho visto molte amiche soffrire orribilmente, dopo essere finite nelle mani di chirurghi incompetenti, e uomini che conoscevano meglio un cammello del corpo di una donna. Ho pensato che avrei potuto fare di meglio.» La vidi stringere le mani, una palma contro l'altra, e nella luce della luna mi accorsi che stava tremando, nonostante il mantello. «Pensate che io sia sfacciata?» ci chiese, «perché racconto i fatti miei a degli sconosciuti?» Si piegò in avanti. «Vedo una dozzina di pazienti al giorno, e ognuno di loro mi chiede di raccontargli la mia storia. Quindi mi ci sono abituata.» «Avreste potuto dirgli che siete stata ispirata dall'esempio di santa Lucilla», suggerì Sigurd con un tono burbero. Anna scoppiò a ridere. «Forse sarebbe stato più semplice. Quanto ai monaci, il loro týpikon impone loro di provvedere a un ospizio con medici che possano offrire assistenza a entrambi i sessi. Solitamente siamo in due, ma il mio collega è morto la scorsa primavera e non lo hanno ancora sostituito. Perciò svolgo un doppio lavoro.» Annuii. «Ed è meglio del matrimonio?» Scoppiò di nuovo a ridere. «Di solito sì. Capita che ogni tanto qualcuno me lo proponga, ma è difficile che un uomo possa ispirarti qualcosa nel momento in cui stai esaminando il contenuto delle sue viscere alla ricerca di umori maligni. I monaci, naturalmente, temono che io possa corrompere i loro pensieri e si tengono il più possibile a distanza.» Probabilmente i monaci pensavano a lei come a un perfetto succubus, un demone tentatore che si librava nei loro sogni agitati, ma non glielo dissi. «E cosa mi dite di voi? Di questo strano individuo che la mattina mi porta un giovane moribondo e la sera lo rivuole indietro? Lavorate per l'imperatore, come il vostro compagno?» «Io lavoro per me stesso», risposi con decisione. «Nessun uomo lavora per se stesso.» Rimasi sorpreso dal suo tono assertivo. «Gli uomini lavorano per avidità, ο per amore, ο per vendetta, ο per bisogno.» «Allora io lavoro per avidità, suppongo. E per la vendetta di altri uomi-
ni. In questo caso dell'imperatore.» «E come siete diventato, Demetrios, l'angelo della vendetta dell'imperatore?» Indicai con un gesto le mura del monastero che si estendevano intorno a noi. «Ho iniziato in un posto molto simile a questo, un monastero in Isauria. I miei genitori mi ci mandarono.» «E la vita da novizio faceva per voi?» «Il cibo era abbondante e regolare. Io avevo una predilezione per il burro, che i miei genitori non erano in grado di procurare, così decisi di rimanere.» «Ma non per sempre?» Scossi la testa. «A quindici anni scappai per unirmi all'esercito. Volevo uccidere i Turchi e gli Ismaeliti.» «E ci riusciste?» «No, i generali erano troppo impegnati a usare i loro eserciti l'uno contro l'altro, cercando di porre se stessi sul trono imperiale. L'unica volta che ebbi la possibilità di uccidere dei Turchi fu quando combattemmo contro un signore che li aveva assoldati come mercenari. Non volevo morire con una freccia nella gola perché le nostre nobili famiglie avevano messo sottosopra l'impero con le loro faide. Così decisi di mettermi in proprio, in modo da potermi almeno scegliere la causa per cui combattere. Un mercante mi assoldò come guardia del corpo, ma io non riuscii a proteggerlo; così, per salvare la mia reputazione, trovai i suoi assassini e li uccisi a mia volta. Poi scoprii che anche altri potevano aver bisogno di simili servizi.» «Così siete diventato un cacciatore di taglie?» «Sì», ammisi. «Non un'occupazione di cui andar fieri, ma redditizia. E via via che il mio nome circolava e i miei clienti diventavano sempre più illustri, i confini del mio lavoro si andavano spostando dall'esercitare la vendetta allo svelare la colpa. Segretari che derubavano i padroni, zii che rapivano i nipoti tenendoli in ostaggio, figli che uccidevano i padri per ottenere l'eredità.» «E vostra moglie come considerava questa professione?» Alzai bruscamente la testa. «Cosa c'entra mia moglie?» «Ho solo visto l'anello al vostro dito.» Indicò la mia mano destra, dove ancora portavo il sottile pegno d'amore che mi ero infilato al dito sedici anni prima. Avevo diciotto anni, bruciavo di amore e di eccitazione, e sentivo nelle tasche il peso delle prime monete che mi ero guadagnato; così avevo insistito per andare dal più importante
orafo della città, lungo la Mese, anche se con tutte le mie nuove ricchezze avevo potuto permettermi solo il meno caro dei suoi gioielli. Più tardi, scoprii che mi aveva anche truffato, che l'anello era solo placcato d'oro, ma da allora era rimasto sul mio dito e io ero troppo orgoglioso per toglierlo. Persino ora. «Mia moglie è morta. Sette anni fa, dopo aver perso tutto il suo sangue dal grembo.» Inaspettatamente, Anna si protese in avanti e mi prese una mano fra le sue, accarezzandola dolcemente. «Mi dispiace. Non avrei dovuto impicciarmi.» «Non avreste mai potuto sapere in che cosa non dovevate impicciarvi, se non aveste chiesto», risposi automaticamente, lottando contro la sensazione di calma ma anche di disagio che mi dava il tocco delle sue mani. Provai una fitta di delusione quando mi lasciò andare. «Inoltre», ripresi, «sto parlando troppo.» Non sapevo bene di cosa lamentarmi, ma - come il tocco delle sue mani - tutta la situazione stava cominciando a sembrarmi al tempo stesso innaturale e confortante. In questa donna c'era qualcosa che ispirava fiducia e invitava a confidarsi. «Sigurd deve essersi stufato di sentirmi chiacchierare del mio passato.» Ci voltammo entrambi verso di lui, e Anna soffocò una risata. Sembrava che in effetti avessi annoiato molto il Variago, tanto che giaceva profondamente addormentato, con la testa appoggiata alla colonna. Pensai che Anna dovesse aver freddo ο fosse stanca, ma non accennava ad andarsene. Continuammo a parlare a voce bassa, fino a quando anche i miei occhi cominciarono a chiudersi. Le pause fra una frase e l'altra finirono con l'allungarsi sempre di più e, almeno in un'occasione, fu soltanto una scherzosa pacca sul ginocchio che mi impedì di raggiungere Sigurd nel mondo dei sogni. Anna si alzò, distendendo le braccia verso l'alto e mettendo in evidenza le curve del suo corpo sotto il mantello. «Dovrei dormire», disse. «Ci saranno altri pazienti da vedere domani, oltre al ragazzo. C'è un letto libero nell'infermeria, Demetrios, se volete venire al coperto e ripararvi dal freddo.» Sebbene non ci fosse la minima sfumatura equivoca nelle sue parole, io arrossii. «E Sigurd?» chiesi. Anna si chinò sopra di lui, mettendogli il dorso di una mano sulla guancia. «È abbastanza caldo.» «Arriva da un'isola gelida ai confini del mondo.» Mi domandai perché
mi ero irrigidito quando lei gli aveva toccato il volto. «Probabilmente è cresciuto in castelli di ghiaccio.» «Gli metterò sopra qualche coperta. Se si sveglia infreddolito può sempre venire dentro.» Anna mi lasciò nell'infermeria, dopo avermi assicurato che lì intorno non c'erano né lebbrosi né appestati. Rannicchiato sotto le coperte, mi ritrovai ben presto nel mondo dei sogni, dove restai fino a quando il gallo si mise a cantare, i monaci cominciarono a sfilare diretti alla cappella e Sigurd iniziò a tuonare di là dalla porta giurando che non avrebbe aspettato neanche un momento di più. η Il ragazzo giaceva immobile sul letto. Indossava una semplice tunica che copriva le fasciature. Un panno bagnato gli inumidiva la fronte; aveva l'aspetto di un cadavere pronto per la sepoltura, ma, per la paura, sbarrò gli occhi azzurri non appena vide Sigurd e me. Rimasi turbato dalla scoperta di aver dormito per tutta la notte nel letto accanto al suo. Sigurd si accigliò notando Anna in piedi accanto al ragazzo. Non sembrava avere intenzione di allontanarsi. «Non vogliamo torturarlo», le disse. «Solo parlare.» Si strofinò il collo e io pensai che doveva essere indolenzito, dopo aver passato una notte al freddo e appoggiato a un guanciale di pietra. «Ma dobbiamo discutere di cose che voi non dovreste sentire.» Con mio grande sollievo, in tutte le nostre chiacchiere durante la notte appena trascorsa, Anna non aveva mai insistito per sapere che cosa volessimo dal ragazzo. Ma adesso aveva incrociato le braccia sul petto e guardava dritto negli occhi l'irascibile Sigurd. «Non potete parlare con lui», gli rispose. «Non senza di me.» «Parlerò con lui, signora, che voi lo vogliate ο meno.» La stanchezza e la frustrazione non si addicevano a Sigurd. «E, se vi dico che non potete prendere parte a questo colloquio, vuol dire che dovete uscire e rimanere fuori fino a quando non vi chiamerò, oppure posso insegnarvi l'ubbidienza facendovi trascinare dai miei uomini nelle prigioni dell'imperatore.» Una dozzina di Variaghi erano arrivati all'alba al monastero e si erano appostati davanti a tutti gli ingressi, creando ovviamente un certo allarme fra i monaci. Anna strinse con più forza il telaio del letto. «E chi di voi parla la lingua
dei Franchi?» La guardammo entrambi con perplessità. «La lingua dei Franchi?» le feci eco. «Perché dovremmo parlare l'idioma di quei barbari?» Dal suo silenzio, potevo intuire che Sigurd non conosceva quella lingua meglio di me. «Perché se non siete in grado di farlo, tanto varrebbe parlare con un pesce. Ieri ho passato tutta la giornata con questo ragazzo, e parla e capisce soltanto la lingua franca.» «E anche voi naturalmente lo parlate e lo capite!» Il tono di Sigurd traboccava di rabbia, ma Anna si limitò ad alzare le spalle. «Abbastanza», rispose. «Qui siamo vicini alle porte della città e, nel mio lavoro, mi capita di vedere molti pellegrini. Molti di loro sono Franchi. Un medico che non è in grado di farsi raccontare dai suoi pazienti i disturbi di cui soffrono ben difficilmente potrà curarli.» Seguì un silenzio ostile. Maledissi il monaco e la sua idea di usare questa plebaglia barbara formata da stranieri. Che si trattasse di una scelta deliberata, ο dovuta al fatto che quelli erano gli unici uomini disponibili, aveva comunque gettato sulla nostra strada ogni possibile ostacolo. «Lo porteremo a palazzo», dichiarò infine Sigurd, con la voce fremente di collera. «Uno dei segretari parlerà bene la sua lingua. E potremo tenere il ragazzo in un luogo da cui non possa scappare.» «Se spostate questo ragazzo, soprattutto in una prigione, sarà morto prima del tramonto.» Davanti alla collera di Sigurd, Anna continuava a rimanere impassibile, anzi, sembrava piuttosto trarne forza, come se riuscisse a rivolgere la sua stessa ira contro di lui. «Dovrebbe morire comunque.» Sigurd stava stringendo il pugno intorno al manico dell'ascia, come se fosse il collo di un uomo da sopprimere. Temevo che la violenza che traspariva dalle sue parole si sarebbe ben presto manifestata anche nelle sue azioni. «Per il suo crimine, la morte è l'unica possibile pena secondo giustizia.» «Noi non vogliamo che il ragazzo muoia.» Mi espressi con determinazione, riservando a entrambi un'occhiata accigliata. «Se il medico dice che non possiamo spostarlo, allora non lo sposteremo.» Con un gesto circolare che comprendeva l'intera stanza, indicai le poche finestre: erano talmente piccole che persino un uccello avrebbe fatto fatica a passarci. «Se mettiamo una guardia alla porta e un'altra all'interno, il ragazzo sarà al sicuro e non potrà scappare. Ora, poiché abbiamo aspettato tutta la notte per parlare con lui, e poiché ogni minuto che perdiamo va a profitto dei nemici dell'imperatore - rispetto ai quali questo ragazzo rappresenta il nostro unico
collegamento - propongo di utilizzare immediatamente il talento di Anna.» Il petto di Sigurd si gonfiò a tal punto che, per un attimo, pensai che avrebbe fatto esplodere l'armatura. Facendo cozzare insieme gli avambracci ricoperti di metallo, sferrò un gran pugno sul tavolo di legno accanto a lui. «Io andrò al palazzo a cercare qualcuno che sappia parlare la lingua franca», dichiarò, con una voce resa stridula dall'ira tenuta a freno. «Qualcuno di cui ci si possa fidare. Che cosa decidi di fare prima del mio ritorno sono solo affari tuoi, Askiates, e sarai solo tu a risponderne.» «Ne risponderò all'uomo che mi paga», risposi. Stavo cominciando a stancarmi degli accessi d'ira di Sigurd, anche se. non pensavo certo che stesse bluffando. «E non mi paga per perdere tempo.» Con un'ultima risatina di scherno, Sigurd si precipitò fuori, e trovando i suoi uomini nel cortile li redarguì subito per qualche presunta inadeguatezza. Poi ritornò finalmente la calma: dalla finestra potevo sentire le basse voci dei monaci in preghiera. Guardai Anna, avvampando di vergogna. «Mi scuso per il suo temperamento. Si fida solo dei suoi pugni e della spada, e tiene in gran considerazione il suo incarico.» Lei accennò a un sorriso. «Non è colpa vostra. Ma se volete fare il miglior uso del vostro tempo, fareste meglio ad allontanarvi anche voi.» «Cosa? Non avete sentito che cosa gli ho detto? Ho bisogno di parlare subito con il ragazzo.» «Potrete saperne di più dal ragazzo se andrete a sedervi fuori sui gradini. Guardatelo. Voi e la guardia lo avete spaventato a morte - e la morte gli era già fin troppo vicina perché potesse sentirsi a suo agio.» Era vero: mentre discutevamo il ragazzo si era come infossato sotto le coperte, e ora stringeva convulsamente il cuscino, come un bambino attaccato alle gonne della madre. Teneva gli occhi stretti e chiusi. «Spiegatemi che cosa gli volete chiedere», insistette Anna. «Ditemelo e poi lasciatemi sola con lui.» Per un attimo esitai, cercando sul suo viso qualche traccia di slealtà. Potevo fidarmi di lei? Se si fosse diffusa la voce che un ragazzo era arrivato a un passo dall'uccidere l'imperatore, e che ora si trovava alloggiato in questo monastero, avrebbe potuto accadere di tutto. Nessuno di noi sarebbe stato al sicuro, e io meno degli altri. Ma, nel momento in cui avevo deciso di tener testa a Sigurd, mi ero già impegnato a fidarmi di lei: a questo punto non mi restava che dirle tutto, se non volevo limitarmi ad aspettare il trionfante ritorno del capitano. Un'eventualità che il mio orgoglio non era
disposto a prendere neppure in considerazione. Con il respiro pesante e il cuore che mi martellava in petto, raccontai ad Anna ogni cosa sin da principio. L'assalto all'imperatore, il ruffiano Vassos, il Bulgaro Kaloyan e lo strano monaco che lo aveva assoldato, e infine come avevamo trovato il ragazzo. Le dissi persino della tzangra, l'arma barbara dalla forza miracolosa, perché ero particolarmente ansioso di scoprire che cosa ne sapeva il ragazzo. Quando infine conclusi il racconto, seguii il suo consiglio: me ne andai fuori, cercando di evitare gli sguardi sospettosi delle guardie di Sigurd, e mi accomodai sui gradini nell'aria fresca del mattino. Rimasi ad aspettare in quel punto. Anna riapparve prima di Sigurd, fortunatamente. Mi salutò con un sorriso, ma non c'era alcuna allegria sul suo volto, e diventò ancora più seria non appena cominciò a parlare. Io la ascoltai interrompendola il meno possibile, chiedendole solo qualche dettaglio ogni tanto. La storia che Anna mi riportò era tristemente ordinaria, quasi banale, e io non ebbi molti dubbi riguardo al fatto che fosse sostanzialmente vera, al di là dei limiti dovuti alla sua parziale conoscenza della lingua. Solo un particolare a un certo punto mi suonò falso, e io convinsi Anna a tornare dal ragazzo e a insistere con lui, fino a quando non fui pienamente soddisfatto della sua risposta. Poi mi alzai in piedi, intenzionato ad andarmene. «Non aspettate il vostro amico?» mi chiese Anna. «Dovrebbe essere di ritorno fra poco.» Non era detto. Dubitavo che sarebbe riuscito a farsi prestare qualche altro animale dall'ipparco, dopo l'uso che ne avevamo fatto la notte precedente. «Credo che farei meglio ad avviarmi. Ci sono alcuni aspetti della storia del ragazzo su cui devo indagare.» Inoltre, scoprire che me n'ero andato avrebbe irritato immensamente Sigurd. «Penso che Sigurd vi esporrà chiaramente tutte le sue esigenze, ma non permettetegli a nessun costo di portare via il ragazzo da qui.» Anna sorrise scoprendo i denti. «Lasciate che ci provi!» «Bene.» Il ragazzo era troppo prezioso per lasciarlo alle cure di carcerieri e torturatori, e ferite come le sue sarebbero andate in cancrena fino all'osso nella fetida aria dei sotterranei. Inoltre, non riuscivo a scacciare la sensazione sempre più forte che tutta una parte della mia vita fosse ormai investita in questa impresa. «Sarò di ritorno questa sera, ο forse domani.»
«Vi aspetterò con impazienza.» Stranamente riscaldato da queste parole di saluto, lasciai il monastero e mi diressi in fretta verso la città, tenendomi alla larga dalla strada principale, poiché volevo evitare un incontro con Sigurd. Visitai il porto e il negozio di Lukas, il mio amico costruttore di frecce, e un uomo che mi vendette tre zucche appassite, poi mi appartai nei campi vicini alle mura occidentali, dove trascorsi il pomeriggio a slogarmi le spalle e a spaventare uno stormo di corvi che mi osservava. Alla fine, stanco morto ma soddisfatto, ripresi la strada verso il palazzo. Aelric, il Variago dai capelli grigi, era al cancello. Sorrise quando mi vide. «Benvenuto alla mia porta, Demetrios. Oggi il vostro nome è stato pronunciato spesso a palazzo, e di rado con simpatia.» «Sigurd?» «Certo!» Aelric spostò appena il peso dell'ascia. «Giura che siete un agente al soldo di quelli che vogliono nuocere all'imperatore. E questo quando non vi lancia maledizioni accusandovi di essere solo un mercenario che mira a impoverire l'erario.» Sbuffai. Ne avevo sentite fin troppe sul denaro. «E perché Sigurd combatte per l'imperatore? È forse un Romano che lotta per difendere il suo governo e il suo paese? No, combatte per le stesse ragioni degli altri, dei Peceneghi, dei Turchi, dei veneziani e dei nordici presenti nelle nostre legioni: per l'oro e per la gloria. Molti direbbero che sono le uniche cose per cui vale la pena di combattere.» L'espressione di Aelric si incupì. «Non dovete dubitare della devozione di Sigurd nei riguardi di Bisanzio, Demetrios. Egli accetta l'oro e si gode la gloria, come ogni guerriero, ma ama l'imperatore come un monaco ama il suo Dio. Se l'imperatore si trovasse circondato da infinite schiere di nemici, e tutto fosse ormai perduto, Sigurd sarebbe l'ultimo uomo a restare in piedi al suo fianco, sia che ci fosse oro per pagarlo oppure no. Di quanti Turchi ο Peceneghi potreste dire lo stesso?» Alzai gli occhi al cielo. «Un credente può diventare santo, ma un fanatico è sempre pericoloso: il suo amore può trasformarsi nel suo contrario fin troppo facilmente. Comunque, sono venuto per parlare con il ciambellano, Krysafios, non con Sigurd.» «Avete un regalo per lui, vero?» Aelric stava scrutando l'involto che tenevo sotto il braccio. Era largo e piatto, avvolto in tela da sacco, e avrebbe
potuto sembrare un'icona dipinta, però non lo era. «Qualcosa che sarà felice di vedere», dissi. «Sempre che io non sia stato bandito dal palazzo solo perché desidero mantenere in vita i testimoni che possono essere utili, almeno fino a quando non hanno finito di raccontare le loro storie.» Aelric annuì. «Krysafios vi riceverà.» Lanciando un ultimo sguardo sospettoso al mio pacco, aprì il cancello. Poi mi guidò all'interno del palazzo. Di nuovo passammo attraverso una miriade di cortili e di saloni illuminati, ma era una impressione diversa rispetto alla mia visita precedente: nessuno di essi mi parve così magnifico come la prima volta. Gli spruzzi delle fontane sembravano meno vivaci, i profumi nell'aria meno fragranti, i volti di coloro che incrociavamo più duri e tesi. Non vidi Aelric parlare con nessuno, ma Krysafios mi stava aspettando, nello stesso luogo dove c'eravamo incontrati la prima volta, sotto il colonnato contornato dai busti di marmo delle antiche dinastie. Le sue labbra erano strette per la rabbia e mi accolse con parole aspre, senza darmi neppure il tempo di attraversare la piazza. «Il capitano variago giura che avete fatto un gran pasticcio, Demetrios. Siete stato assoldato per scoprire l'aspirante assassino dell'imperatore, non per nasconderlo al riparo di un monastero. Ammesso che questo efebo barbaro sia davvero colui che cerchiamo.» Per quel giorno ne avevo sentite più che a sufficienza di chiacchiere di quel genere. Senza degnarmi di rispondere, liberai l'oggetto che tenevo sotto il braccio dalla tela di sacco che lo ricopriva, e lo impugnai sollevandolo sulla spalla. Gli occhi dell'eunuco si spalancarono per il terrore, non appena indovinò le mie intenzioni. Poi si gettò scompostamente a terra, in modo tutt'altro che dignitoso, mentre - con uno schiocco sordo - la freccia scoccava nell'aria, andando a colpire un busto che si trovava a molti passi da lui e riducendo in tanti piccoli frammenti quel volto di pietra. Dietro di me, potevo già sentire i passi di corsa delle guardie, ma ormai avevo ottenuto il mio scopo. Abbassai l'arma, e allargai le braccia con aria del tutto innocente. Krysafios si rimise in piedi, con la sua scintillante tunica sgualcita e ricoperta di polvere, il copricapo dorato messo di traverso. Il suo volto liscio sembrava velato di rabbia. «Pensate di poter entrare in questo luogo sacro e uccidermi?» urlò. «Devo farvi trascinare in catene nei sotterranei, e farvi straziare a poco a poco
ogni muscolo del corpo? Come osate puntare una simile arma contro di me? Io che dormo ai piedi dell'imperatore e guido il destino della nazione! Tanto vale che voi lo facciate contro il mio stesso signore.» «Non mi direte che vi siete davvero spaventato?» Con il mio gesto provocatorio, volevo solo attirare la sua attenzione, ma ora stavamo entrambi perdendo il controllo. «È questa l'arma che è stata rivolta contro il vostro signore, quella che solo per un soffio non gli ha spaccato il cranio come è successo a quella testa di marmo. Io, Demetrios, l'ho trovata. Così come ho trovato il ragazzo che l'ha brandita contro l'imperatore quattro giorni or sono. Se pensate che avrebbe potuto fare altrettanto un barbaro pazzo furioso, che preferisce tagliar via la testa alle persone piuttosto che ascoltare i loro segreti, allora rivolgetevi a lui la prossima volta.» A quel punto, mi voltai e guardai verso le porte di bronzo. Erano sbarrate da una fila di Variaghi con le asce sollevate e pronte a colpire: Sigurd non era fra loro, grazie a Dio. Improvvisamente, mi chiesi se per caso non avevo commesso un terribile errore di valutazione. «Demetrios.» Il tono di Krysafios mi rassicurò, però continuai a mantenere lo sguardo fisso altrove. «Demetrios.» Il timbro della sua voce era tranquillo adesso; sembrava che fosse riuscito a dominare la collera. Un po' riluttante, mi girai verso di lui. «Non potete scoccare una freccia sul parakoimómenos e aspettarvi di vedermi ridere come davanti a una facezia.» La violenza che aveva attenuato nella voce gli ardeva ancora sul volto. Mi concessi un risolino sardonico. «Credetemi, eunuco, se avessi puntato il mio arco verso di voi non avreste avuto il tempo né di ridere né di maledirmi.» Alzai un mano per prevenire la sua risposta. «E neppure io, lo so. Non intendevo minacciarvi, ma soltanto mostrarvi la meravigliosa precisione di quest'arma straniera, questa tzangra. E la sua terribile potenza.» Krysafios osservò i frammenti della statua sparsi sul pavimento davanti ai suoi piedi. «Era la madre dell'imperatore», borbottò, «intagliata in antica pietra. Ne sarà dispiaciuto.» «Lo sarebbe stato ancora di più se la freccia avesse colpito la sua testa.» Mi avvicinai a Krysafios porgendogli l'arco, in modo che potesse esaminarlo. Era un'arma straordinaria, ed era proprio come l'aveva descritta il mercante genovese alla taverna, però in qualche modo la sua forma era ancora più elegante e letale. Due corni piegati ad arco formavano come
due ali intorno al manico, che era scavato all'estremità per poterlo appoggiare alla spalla. La scanalatura che correva dritta proprio nel mezzo consentiva di trattenere la corta freccia, mentre una leva a uncino permetteva di tendere la fune. Come avevo scoperto quel pomeriggio esercitandomi con le zucche, era meravigliosamente facile prendere la mira ma molto doloroso per le spalle tendere la corda. Non c'era dunque da stupirsi che l'assassino avesse tirato un colpo solo. «E l'avete trovata insieme al ragazzo?» Krysafios tentò di tendere la corda, ma riuscì appena a muoverla. «Sigurd non me lo ha detto.» «Il ragazzo l'aveva nascosta nei pressi del porto. Mi ha detto dov'era e io l'ho recuperata.» Per la verità, inizialmente mi aveva detto di averla gettata in mare, ma io mi ero rifiutato di credere che avesse potuto buttare via un'arma così preziosa. «L'ha chiamata 'balestra'.» «E come l'ha avuta?» Il tono di Krysafios era diventato incalzante. L'eunuco camminava inquieto sul pavimento di piastrelle, prendendo a calci i cocci della statua. «Il ragazzo parla solo la lingua dei Franchi. Ho appreso la sua storia grazie a un'interprete. Molte cose lei non è riuscita a capirle, ο forse lui non ha voluto farsi comprendere, comunque penso di aver colto l'essenziale. Il ragazzo è arrivato qui con un gruppo di pellegrini qualche tempo fa, insieme ai suoi genitori, credo, che adesso però sono morti. Dopo la loro dipartita, è sopravvissuto girando per i bassifondi, rubacchiando e chiedendo l'elemosina. Poi, all'incirca un mese fa, un uomo l'ha avvicinato e gli ha promesso dell'oro se avesse accettato di seguirlo. Lo ha condotto da un monaco, che l'ha portato, insieme a quattro mercenari bulgari, in una villa nel profondo della foresta. Là, per due settimane, il monaco gli ha insegnato a usare la balestra: come avete visto, è un'arma che risponde con miracolosa facilità alle mani umane. Quando sono tornati, gli hanno detto di salire sul tetto di un edificio lungo la Mese, di attendere il passaggio dell'imperatore e di ucciderlo. Ieri ha ricevuto un messaggio in cui gli si diceva che avrebbe ottenuto la sua ricompensa se si fosse recato presso una certa fontana, ma appena arrivato là è stato aggredito dal Bulgaro e quasi ucciso. È là che l'abbiamo trovato.» «Perché il ragazzo? Perché usare lui per questo compito quando c'erano a portata di mano quattro robusti mercenari? Non sarebbero stati ben più adatti di lui a maneggiare quest'arma?» Nel corso del pomeriggio mi ero posto la medesima domanda. «Ci sono posti dove un ragazzo può andare senza farsi notare, mentre degli uomini
adulti verrebbero immediatamente bloccati. Molti bambini giocano sul tetto della casa dell'intagliatore, se anche lo avessero visto salire non avrebbe destato alcun sospetto. E, una volta conclusa la faccenda, sarebbe stato più facile liberarsi di lui.» Krysafios sembrò soddisfatto della mia teoria, anche se non rispose nulla. Però sollevò un dito della mano destra, e da dietro una colonna comparve uno schiavo. «Invia un messaggio al guardiano della prigione. Ordinagli di estorcere al prigioniero bulgaro tutto ciò che sa del ragazzo, anche l'esatta ubicazione di questa villa nella foresta dove è stato addestrato. Può darsi che questo monaco straniero abbia ancora dei traffici laggiù.» Lo schiavo si inchinò profondamente e corse via. Krysafios si voltò verso di me. «Il ragazzo ha descritto il monaco?» «Ha detto che aveva i capelli neri, come i miei, ma con la tonsura, e che aveva il naso storto, come se se lo fosse rotto in una rissa. Per il resto, aveva lineamenti squadrati e duri. Ha detto che parlavano la stessa lingua. Non ho insistito di più, poiché era ancora debole per le ferite. Per quello, credo che ci sarà tempo più tardi.» «Meno di quello che pensate.» Krysafios incrociò le braccia. «Un grande pericolo si sta avvicinando alla nostra città, Demetrios, e quando si abbatterà su di noi avremo bisogno di tutta la nostra forza per non soccombere. Se non troviamo questo monaco entro le prossime due settimane, potrebbe riuscire a provocare un tale danno da distruggerci tutti. L'imperatore è la testa in cima al corpo della nazione; se dovesse scomparire noi saremmo solo un corpo inanimato in attesa della putrefazione.» «Quale pericolo?» Krysafios aveva parlato come se i sette angeli avessero suonato le loro trombe e la bestia dalle dieci corna si fosse levata contro di noi per divorarci. «Stanno ritornando i Normanni? Non ho sentito di eserciti riuniti lungo l'Hebdomon e non ho visto l'imperatore cavalcare alla testa dei suoi uomini in assetto di guerra. Sicuramente, se un pericolo così terribile fosse vicino, egli andrebbe ad affrontarlo; non ci lascerebbe indifesi davanti a esso. Non è forse vero?» «La natura della minaccia e come l'imperatore intende affrontarla non sono affare vostro», rispose cupamente Krysafios. «Voi dovete concentrarvi sulla ricerca di quelli che lo vogliono uccidere.» «È quello che ho fatto.» Nessun eunuco sarebbe riuscito a turbarmi con quelle vaghe immagini di sventura, e poi io non ho mai sopportato di sentirmi dire che non ero degno di conoscere i segreti più interessanti. Forse è
proprio per questo che ho scelto questo lavoro. «Ho trovato il ragazzo che avrebbe dovuto diventare l'assassino, e l'arma usata nell'attentato. Agendo così rapidamente, vi ho persino fatto risparmiare.» «La mia borsa è fornita più che a sufficienza. Ma voi pensate di aver davvero raggiunto il vostro obiettivo, trovando un ragazzo spaventato e il suo giocattolo da barbaro? E il monaco? Pensate che il suo sia stato solo un capriccio, e che, avendo fallito, stia ora faticosamente arrancando verso le terre dei Franchi? Aveva denaro a sufficienza per comprarsi quattro guardie del corpo, una villa e quest'arma meravigliosa: pensate che l'abbia raccolto chiedendo l'elemosina? E cosa avrebbe guadagnato dalla morte dell'imperatore? Qualcuno deve avergli procurato il denaro, qualcuno che potrebbe guadagnarci molto se il trono rimanesse vuoto. Qualcuno che ben difficilmente cambierà idea solo perché il suo primo tentativo è andato a vuoto.» Sbuffò. «Voi non avete scoperto nulla, Demetrios, avete solo trovato il primo anello di una lunga e aggrovigliata catena. Il vostro orgoglio vi permetterà di abbandonare l'impresa così presto?» Poteva avere una voce da donna e aver perso la virilità, ma la mente e la lingua erano quelle di un serpente. E conosceva bene l'animo umano: non avrei rinunciato all'incarico, perché sapevo bene quanto lui che era appena agli inizi. Cantare vittoria a questo punto significava imitare il medico che taglia il braccio a un lebbroso e lo dichiara guarito. Ma non volevo ammetterlo così facilmente. «Se devo continuare, ho bisogno di alcune garanzie. I Variaghi devono ubbidirmi quando mi accompagnano. Il ragazzo deve essere lasciato alle cure del medico nel monastero dove si trova attualmente: la nostra catena è certo attorcigliata, ma lui rappresenta l'unico anello in nostro possesso, ed è un anello fragile. E voi dovete avere fiducia in me...» Fui interrotto da uno schiavo che sbucò correndo dall'oscurità, lo stesso che Krysafios aveva mandato ai sotterranei. Si avvicinò a noi senza esitare un attimo, andandosi a inginocchiare davanti all'eunuco. «Pietà, signore», farfugliò, ancora prima di aver avuto il permesso di parlare. «La guardia ha aperto la cella del Bulgaro. È morto.» Il Bulgaro era ancora appeso per i polsi, come lo avevo visto il giorno prima, ma adesso il suo mento era accasciato sul petto e le gambe pendevano inerti. La parte anteriore della tunica era intrisa di sangue, almeno fino alla cintola, e quando gli tirai indietro la testa compresi perché. Qualcuno gli aveva tagliato la gola, aprendogli il collo quasi da una parte all'al-
tra. Nessun gorgoglio dai lembi aperti della ferita; la mia mano rimase asciutta. «Il sangue è secco», dissi. «È accaduto diverse ore fa, forse addirittura la notte scorsa. Da allora non è entrato più nessuno?» «Doveva rimanere senza cibo tutto il giorno, per stimolare il suo desiderio di rispondere alle nostre domande.» Neppure questo orrore era in grado di rendere meno pungente la voce di Krysafios. «Nessuno è entrato qui dopo che vostra Eccellenza lo ha lasciato», dichiarò la guardia. E i Variaghi lo avevano sorvegliato tutta la notte. Mi voltai verso Krysafios. «Sembra che voi siate stato l'ultimo a vederlo vivo, dopo che io e Sigurd siamo corsi via per andare al monastero.» «Non l'ultimo, Demetrios.» Gli occhi dell'eunuco erano di ghiaccio. «Sicuramente un uomo con le vostre capacità è in grado di capire che il Bulgaro non può essersi fatto tutto questo da solo, a meno che non fosse il più abile degli acrobati. Inoltre, l'arma che è servita allo scopo è sparita. Anche se sostenete il contrario, carceriere, qualcuno è entrato qui.» «Qualcuno che voleva essere sicuro che il Bulgaro non potesse rivelare ulteriori segreti», ammisi. «E qualcuno che voleva mandarci un messaggio.» «Un messaggio? Quale, oltre al fatto di voler ridurre al silenzio il Bulgaro?» Krysafios era impaziente. «Il messaggio che il palazzo non è sicuro, che egli - chiunque sia - può colpire dove vuole. Se avesse voluto farlo in segreto, avrebbe potuto tirare giù il Bulgaro dalla catena e lasciare il coltello accanto a lui, dando così l'impressione che si fosse suicidato. Chiunque lo abbia ucciso è entrato passando sotto gli occhi delle guardie. E vuole farci sapere che è in grado di farlo di nuovo.» Krysafios si voltò verso il Variago in piedi sulla soglia. «Trova il tuo capitano e ordinagli di raddoppiare la guardia dell'imperatore questa notte. Poi perlustrate accuratamente il palazzo, può darsi che l'assassino sia ancora nascosto in mezzo a noi.» Avevo i miei dubbi, ma li tenni per me. «E il ragazzo?» esclamai. «Se i nostri nemici avevano paura di quello che il Bulgaro poteva rivelare, non dovrebbero essere ben più preoccupati riguardo al ragazzo?» «Sigurd è di guardia al monastero, e ha con sé più uomini di quanti gliene occorrano. Potete raggiungerlo se volete.» Krysafios si mosse verso la porta delimitata da una bassa arcata. «Io devo badare all'imperatore.» «E io andrò a casa.» Erano due giorni che non vedevo le mie figlie e,
sebbene fosse già capitato che non ritornassi per diverse notti, loro si preoccupavano sempre. E anch'io. «Domani vedrò quali altri misteri ci può svelare il ragazzo.» «Se sarà vivo. Ricordate, Demetrios, non abbiamo molto tempo per sbrogliare questa matassa. Due settimane prima che il pericolo ci sovrasti.» Krysafios rivolse un ultimo sguardo indagatore a quel corpo ciondolante. «Forse anche meno.» Ancora non sapevo quale pericolo incombente potesse giustificare una tale fretta. Ma se esso era in grado di insinuare un simile tremore nella voce di Krysafios, l'eunuco che dormiva accanto all'imperatore e guidava la nazione, sapevo per certo che doveva far paura anche a me. θ Le mie figlie si dimostrarono insolitamente educate quando ritornai a casa: Elena era già a letto e si limitò a emettere un indistinto borbottio quando mi avvicinai, mentre Zoe mi preparò un piatto di verdure fredde chiacchierando del più e del meno. Tuttavia, il mattino dopo, a colazione, non potei sottrarmi alle aspre parole di biasimo di Elena. «Tu trascuri i tuoi doveri di padre», si lamentò. «E se un razziatore normanno fosse venuto di notte e mi avesse portato via con la forza? E se io avessi approfittato della tua assenza per fuggire col figlio del fabbro?» «E allora? Non lo hai fatto. E il mio primo dovere di padre è mettere il pane nelle nostre pance.» Consumai rumorosamente la mia colazione per sottolineare quanto seriamente prendessi quell'impegno. «Se non sei mai qui a proteggermi, ti potresti almeno disturbare a trovarmi un uomo che lo faccia.» «Io preferisco avere il pane.» Zoe addentò la sua fetta, strizzandomi un occhio attraverso il tavolo. Io tentai di risponderle con uno sguardo severo, per dissuaderla dal provocare la sorella, ma temo di non essere stato molto convincente. «La zia del venditore di spezie è venuta qui ieri, per parlare di suo nipote», continuò Elena. «E anche il giorno prima. Penso che abbia quasi abbandonato ogni speranza di riuscire a trovarti.» «Potrebbe non tornare mai più», aggiunse Zoe, con un'espressione solenne. «E allora tu rimarrai per sempre una zitella, Elena, condannata a passare tutta la tua vita seduta al telaio a tessere. Come Penelope.» Deglutii il boccone che avevo in bocca. Sapevo che la famiglia del ven-
ditore di spezie aveva manifestato dell'interesse per Elena e che sarei dovuto andare da sua madre a contrattare la dote, ma non avevo mai trovato il tempo per farlo. «Se la zia del venditore di spezie ritorna, e io non ci sono, hai il mio permesso di accordarti con lei per la dote.» «E se io mi metto d'accordo per qualcosa di strano? Se lei sostiene che suo nipote è la cosa più preziosa che il denaro possa comprare e io le do ragione?» «Allora», le risposi, pulendomi la bocca, «dovrai essere contenta che io lavori così tanto da potermelo permettere.» So che ci sono uomini che mangiano separatamente dalle loro donne; molte autorità, in effetti, condannano la pratica di consumare i pasti tutti insieme, considerandola un'occasione di conflitto e di discordia. È vero che se avessi dato loro retta sarei stato da solo, ma c'erano delle volte in cui mi chiedevo se non avrei tratto vantaggio da un maggior rispetto delle tradizioni. In ogni modo, ciò mi aveva preparato agli incontri con donne decise. Come quella che trovai quando raggiunsi il cortile del monastero di Sant'Andrea. «Non potete vedere il ragazzo, e certamente non potete spostarlo.» Anna, il medico, mi fronteggiava con le braccia incrociate sul petto e i piedi ben piantati per terra. I capelli erano legati dietro e coperti da una semplice sciarpa di lino, meno appariscenti rispetto alle altre volte in cui l'avevo vista, ma indossava ancora il suo abito verde. Un'alta cintura di seta le circondava i fianchi e formava nel mezzo una sorta di V, attirando irresistibilmente il mio sguardo. E fu proprio ciò a turbarmi, insieme al tono intransigente della sua voce. «Sta per morire?» Non era il momento di perdersi in contemplazione. Scosse la testa. «Avete così poca fiducia nelle mie capacità, Demetrios? Pensate che una donna non possa - ο addirittura non debba - esercitare l'arte di guarire?» «Le donne possiedono il dono di dare la vita. Non posso quindi non pensare che l'arte di guarire sia ben poca cosa al confronto.» «Il Celta vostro amico non la pensa così.» Fece un cenno in direzione di Sigurd, che se ne stava davanti al portone insieme a tre dei suoi uomini, intento a scrutare ogni monaco e novizio che gli passasse davanti. «Ho sentito quello che diceva.» «È un barbaro. Ma se voi avete guarito il ragazzo, avrei bisogno di parla-
re con lui.» Ero ben deciso a scovare la villa nella foresta dove il monaco aveva addestrato il ragazzo. «È in grado di andare a cavallo?» Anna mi lanciò uno sguardo sprezzante. «Due giorni fa era praticamente a pezzi, e oggi volete sapere se può montare a cavallo? Se si sforza, riesce a malapena a mandare giù un po' di zuppa leggera. Soltanto un essere è in grado di guarirlo con la velocità che volete voi, e i monaci nella cappella stanno appunto implorando il Suo intervento.» «Allora, lasciatemi almeno parlare con il ragazzo.» «Quando si riprenderà potrai parlare con lui.» Mi voltai di scatto. Non era stata Anna a parlare ma Sigurd; aveva silenziosamente lasciato la sua postazione davanti al portone e mi stava fissando con aria di disapprovazione. «Sigurd?» Il suo intervento mi aveva colto impreparato. «Ieri hai minacciato di trascinare Anna in prigione perché voleva impedirci di vedere il ragazzo. Pensavo che tu fossi impaziente quanto me di arrivare in fondo a questo affare.» Sigurd non reagì e neppure sembrò imbarazzato. «Thomas è troppo prezioso, non possiamo sottoporlo a pressioni che non è in grado di sopportare, Demetrios. La nostra missione è importante, a tal punto che non possiamo rischiare di perderlo.» Aggrottai la fronte, pensando che non doveva aver deciso da solo tutto ciò. E non mi piaceva il pensiero di Anna e lui che cospiravano insieme contro di me. Mi faceva sentire tradito. E ingiustificatamente geloso. Sarebbe già stato abbastanza difficile spuntarla con Anna, perché c'era qualcosa nel suo atteggiamento che non ammetteva repliche, ma contro Sigurd e lei insieme non avevo alcuna possibilità. «Tornerò domani», conclusi. «Forse sarete riuscita a far funzionare la vostra cura. Forse persino bene quanto un uomo», aggiunsi con malignità. Rimpiansi quelle ultime parole - e la furiosa rabbia che vidi dipingersi sul volto di Anna - per tutta la strada fino al porto. Naturalmente non me ne importava nulla che lei fosse una donna e al tempo stesso un medico: avevo solo voluto colpirla - esattamente come io ero rimasto piccato dalla sua alleanza con Sigurd - proprio come Zoe punzecchiava Elena fino a farla urlare quando erano piccole. I miei motivi erano altrettanto infantili. Ormai preda di un cattivo umore che non voleva lasciarmi, trascorsi tutta la mattina in compagnia di mercanti e commercianti, stivatori, capisquadra e barcaioli, in un improbabile tentativo di scoprire quando e come la tzan-
gra fosse entrata in città. L'odore di pesce e di liquami che infestava le banchine del porto riuscì a peggiorare ulteriormente il mio stato d'animo, insieme alla consapevolezza del mio prevedibile insuccesso nello scovare qualche nuova informazione. Le puttane mi facevano delle proposte - forse, anche dopo così tanti anni, era rimasto qualcosa del soldato nella mia andatura - e i venditori ambulanti cercavano insistentemente di richiamare la mia attenzione sulle loro merci: profumi appena giunti dall'India, miele dalle api dell'Epiro, reliquie dei santi trovate nel deserto, conservate così bene come se fossero morti il giorno prima. Arrivai pericolosamente vicino a rompere l'astinenza con un uomo che portava furtivamente un otre di vino sotto il mantello, ma riuscii a resistere. Non avevo bisogno di altre ragioni per disprezzarmi. Passai tutta la mattina fra schiamazzi e seccature, fino a quando non mi arresi. Riportai a galla la lista di dignitari compilata da Krysafios, tirandola fuori dall'angolo della mente dove l'avevo riposta e dimenticata, e considerai i nomi che conteneva. Un'altra lezione imparata durante gli anni trascorsi nell'esercito: se non fai progressi con il compito che ti è stato assegnato, fai esattamente ciò che ha ordinato il tuo superiore. Per la maggior parte del tèmpo, si preoccupano molto di più di essere ubbiditi che di ottenere dei risultati. All'inizio della settimana, avevo tentato di cominciare con l'ultimo nome della lista, ed ero stato clamorosamente ignorato; questa volta mi sarei diretto verso l'estremo opposto. Il nome affiorò facilmente dalla mia memoria, e il mio umore, già pessimo, trovò un ulteriore motivo di cupa gioia nell'idea di passare il pomeriggio a crogiolarmi nella più virtuosa frustrazione. Non avevo neppure bisogno di chiedere dove abitasse: in una giornata in cui tutte le mie domande ottenevano regolarmente delle risposte negative, potevo anche andare a trovare il fratello maggiore dell'imperatore. Naturalmente non viveva all'insegna della modestia, ma in un palazzo costruito sulle terrazze lungo il fianco boscoso della collina che si estendeva al di sopra del porto. Il palazzo era appartenuto in passato a un uomo di nome Botaniates, che aveva avuto la sfortuna di essere imperatore quando i fratelli Comneni - Isacco e Alessio - avevano deciso che lo scettro imperiale si addiceva meglio a uno di loro. Alessio si era preso il trono, Isacco la casa, anche se - considerate le sue dimensioni - si sarebbe potuto pensare che, in realtà, avesse ottenuto entrambe le cose.
Con mia grande sorpresa, il mio nome bastò per farmi passare attraverso il primo cancello e farmi ammettere in un atrio dove dozzine di fiduciosi postulanti giocavano a dadi seduti per terra. Molte partite sembravano avviate da diverso tempo, e io pensai che avrei perso ben più di qualche obolo prima che arrivasse il mio turno. Ma quasi subito uno schiavo con indosso una tunica color ocra mi fece strada attraverso una porticina, e da lì in un cortile interno, al riparo dagli sguardi invidiosi dei meno favoriti. «Dirò al sebastocratore che siete arrivato», mi disse, allontanandosi subito. Nell'attesa, cominciai a passeggiare per il cortile. Un doppio porticato correva tutto intorno, ma non si vedeva nessuno nelle gallerie. L'unica luce proveniva da un riquadro di cielo grigio alto sopra di me, indifferente e remoto, ma un po' di sole doveva ogni tanto essere riuscito a insinuarsi fin lì, perché una vite si era chissà come arrampicata lungo la parete rivolta a nord. Il suo tronco spesso, avvolto a spirale intorno alle colonne di marmo, si ramificava e si estendeva sulla facciata del muro, come in un disperato tentativo di raggiungere l'aria libera sovrastante, mentre le foglie avvizzite che aveva sparso intorno non erano state spazzate via dalle piastrelle incrinate del pavimento. Pensai che il sebastocratore non doveva passare molto tempo in quel posto. Era un luogo lugubre, silenzioso e triste. Tranne che in un angolo. Quasi tutti i muri erano scrostati e scoloriti, ma lì c'era un mosaico dai colori brillanti, posato di recente e vivido persino in quella grigia penombra. Sempre da solo, attraversai il pavimento sconnesso per guardarlo da vicino. Era un lavoro notevole, un trittico dai colori vivaci, le cui figure sembravano balzare fuori dallo sfondo dorato. Anche il soggetto era inusuale. Nel primo pannello, un uomo con la barba bianca osservava una donna che stringeva al seno un bambino biondo; sullo sfondo pascolavano delle pecore e tre angeli stavano seduti a una tavola imbandita di frutta. Il secondo pannello, quello centrale, rappresentava un drammatico contrasto: ora il vecchio era in piedi, con le braccia sollevate verso l'alto, un tizzone ardente in una mano e un coltello nell'altra, pronto a colpire il bambino indifeso che giaceva legato su un tavolo di legno davanti a lui. I suoi occhi spalancati erano pieni di un terribile fervore e sembravano fissare un invisibile pubblico. Grazie a qualche trucco dell'artista, il coltello sembrava protendersi fuori dal quadro, fino quasi a trovarsi sospeso nell'aria sopra di me. Un ragazzo dalla pelle scura con i capelli arruffati stava in piedi accanto all'uomo; nonostante l'orrore della scena di cui era testimone, sembrava che stesse ridendo.
La violenza dell'immagine era tale da trasmettere una forza magnetica, ma io distolsi lo sguardo per osservare il terzo pannello. Adesso era tornata l'armonia, e gli occhi del vecchio erano di nuovo benevoli. Teneva fra le braccia il bambino biondo e sembrava mostrargli le verdi colline che si estendevano in lontananza. Le pecore erano ritornate, e un angelo stava soffiando nella sua tromba fra le nuvole. Ma non tutto era innocenza, poiché nell'angolo in basso del quadro il ragazzo dalla testa arruffata si stava dileguando nell'oscurità, con la testa bassa e uno scorpione attaccato ai suoi nudi calcagni. «Vi piacciono i mosaici?» Sussultai. Per un attimo immaginai con un brivido di paura che la voce fosse arrivata direttamente dal quadro. Poi mi voltai e vidi che un nuovo arrivato era silenziosamente comparso alle mie spalle. Era più basso di me e un po' più vecchio, con i capelli chiari e la barba rada. Le braccia grosse e le spalle larghe gli conferivano un'aria marziale, ma indossava una semplice dalmatica bianca. Non sembrava un segretario, ed era troppo disinvolto per essere uno schiavo. «Rappresenta un'immagine molto vivida», risposi. Tanto vivida da confondere, in effetti. «Così reale da poter quasi attirare la censura della Chiesa. L'artista deve avere un talento eccezionale.» Esitai, ancora incerto sull'identità del mio interlocutore. «Ma il soggetto mi confonde.» «Racconta la storia di Abramo e dei suoi figli.» Il mio compagno indicò il primo pannello. «Qui lui e Sara si rallegrano per la nascita del figlio Isacco, annunciato dagli angeli quando già tutti pensavano che Sara fosse sterile. Nella seconda immagine, Abramo è pronto a sacrificare Isacco, poiché il Signore glielo ha ordinato per metterlo alla prova. Infine Abramo abbraccia Isacco, salutandolo come il futuro della sua stirpe.» Lo avevo in gran parte indovinato, ma alcuni elementi iconografici mi confondevano. «Chi è il ragazzo dai capelli neri che nel pannello centrale osserva la scena e nell'ultimo si allontana?» domandai. «È il figlio illegittimo di Abramo, Ismaele, nato dalla schiava Agar. Nell'ultima scena viene cacciato via da Abramo, espulso dalla famiglia.» Rabbrividii, perché improvvisamente mi sembrò che quelle immagini fossero in tutto e per tutto pericolose quanto l'uomo dallo sguardo folle che brandiva il pugnale. Non avevo bisogno della familiarità di Krysafios con i pettegolezzi di palazzo per indovinare il loro significato, ancora meno nella casa del sebastocratore Isacco, messo da parte dal padre, che, per il trono imperiale, gli aveva preferito il fratello minore. Anche semplicemente
pensare che lui, come il legittimo erede di Abramo, potesse prima ο poi riavere la sua eredità a spese del fratello era di fatto un tradimento. Mi chiesi se l'imperatore Alessio avesse mai visitato questa parte del palazzo di suo fratello. Ma non ebbi tempo di riflettere sull'allegoria, perché il mio ospite si era nel frattempo allontanato di un passo per esaminare alcuni dettagli delle figure. Nel movimento, la sua tunica bianca si sollevò scoprendo le caviglie e rivelando un paio di stivali spaiati. Uno era nero, ma la lucida pelle dell'altro - identico quanto a forma - era indiscutibilmente rossa. Solo un uomo in tutto l'impero indossava stivali rossi, e solo pochi altri avevano il diritto di indossare un unico stivale di quello stesso colore in onore della loro parentela con lui. Mi inginocchiai immediatamente, appoggiando la fronte sul pavimento e recitando le formule di rito come una preghiera. Avevo visto troppi pretendenti e usurpatori per credere che un uomo potesse davvero meritare tutti gli inchini che il rituale esigeva, ma non mi sarei mai immaginato di ritrovarmi nel palazzo del sebastocratore a discutere dei meriti del suo artista. Tenni gli occhi fissi sul pavimento pregando di non averlo offeso. «Alzatevi, Demetrios Askiates.» Con mio immenso sollievo, sentii nella sua voce una nota di divertimento. «Se avessi voluto le vostre genuflessioni, mi sarei presentato avvolto nella mia stola tempestata di gemme preziose e con la corona ricoperta di perle, così non avreste avuto dubbi riguardo al mio rango. Desideravo incontrarvi come un uomo, non come uno schiavo.» «Mi aspettavate, signore?» Non mi era mai capitato prima di rivolgere la parola a un uomo di così alto lignaggio, e faticavo a trovare il tono giusto. Sospettavo che i suoi modi deliberatamente informali avessero comunque dei limiti. «Vi sto aspettando da tre giorni. A palazzo ho sentito che siete stato incaricato di scoprire i briganti che hanno tentato di assassinare il mio caro fratello, il nobile imperatore. Speravo proprio di parlare con voi.» «Perché, signore?» «I burocrati e gli schiavi che vivono a palazzo mi nascondono le cose, Demetrios. È così che si tengono aggrappati al potere. Ma ci sono fatti troppo importanti per servire semplicemente a rafforzare l'orgoglio degli eunuchi... fatti che riguardano l'incolumità di mio fratello, per esempio. Noi Comneni confidiamo in noi stessi, poiché chi altri ci difenderà con
maggior vigore della nostra stessa stirpe?» La sua fiducia non era chiaramente condivisa da Krysafios, visto che nella lista dell'eunuco c'erano sei fratelli dell'imperatore, oltre a un buon numero di cugini e di figli. «I congiunti possono essere invidiosi», osservai. Qualunque fosse il gioco delle fazioni a palazzo, io ero lì per cercare di valutare un possibile tradimento da parte di Isacco, non per fargli delle confidenze. «Assalonne ha guidato il suo esercito contro il padre, re David. Simeone ha massacrato Shechem e tutti i suoi parenti. E, come Caino, non ogni uomo è il custode di suo fratello.» Isacco proseguì. «E non dimenticate che Shadrach fu gettato in una fornace perché rifiutò di ubbidire al suo signore. Vi ho convocato perché io sono il custode di mio fratello, Demetrios Askiates; condivido con lui tutto il peso del governo e devo sapere se è in pericolo.» «Un uomo malvagio potrebbe invece pensare che abbiate dei buoni motivi per odiarlo.» Stavo camminando ormai sul filo del rasoio. «Che il fatto che vostro padre abbia offerto il trono a lui, invece che a voi, il figlio maggiore, sia per voi una ferita ancora aperta. Un uomo del genere potrebbe sbagliando - avvicinarvi con la speranza di coinvolgervi nella sua cospirazione, facendo leva proprio su quel presunto rancore.» Isacco allargò le braccia, imitando inconsciamente la torreggiante figura di Abramo nel mosaico alle sue spalle. «Rancore? È accaduto quindici anni fa, e tutte le famiglie che contano erano d'accordo sul fatto che mio fratello Alessio era il miglior candidato. Dovrei avere un cuore davvero nero per riuscire ancora oggi a farmi cattivo sangue per questa cosa.» «E nessuno ha mai tentato di sussurrare altre cose nelle vostre orecchie? Nessuno vi ha mai fatto intendere che se aveste voluto il trono, avrebbero potuto aiutarvi a ottenerlo?» «Nessuno prima di voi.» Isacco strinse le labbra. «No, Demetrios, ci sono sempre degli adulatori che cercano di convincermi che il mio ruolo è inadeguato ai miei meriti, ma lo dicono solo perché pensano che sia quello che io voglio sentirmi dire, perché ritengono che se io mi rivoltassi contro mio fratello anche loro potrebbero avere dei vantaggi rimanendo attaccati al mio carro. Io li ignoro, e cerco di impedir loro di varcare la mia soglia.» Se le cose stavano così, allora aveva fatto una ben strana scelta per il suo mosaico. Ma avevo già insistito fin troppo con il sebastocratore per poter ribattere di nuovo. «Non pensate che uno di questi sicofanti potrebbe avere in mente davve-
ro qualcosa di grave?» «No, nessuno di loro si prenderebbe il rischio di alzare la mano contro l'imperatore solo per avere il diritto di cucirsi sull'abito qualche rubino in più, ο per ottenere un'altra fattoria in Scizia. Chi commetterebbe il crimine peggiore, rischiando la pena più severa, se non fosse in grado di ottenere anche la ricompensa più alta?» Doveva aver notato un'ombra di sospetto nei miei occhi. «Certo, direte voi, io potrei ottenere la ricompensa più alta. Ma non la desidero.» «Conoscete qualcuno che invece la voglia?» «Anna, la figlia dell'imperatore, mia nipote, è recentemente diventata maggiorenne ed è fidanzata con l'erede dell'uomo che mio fratello aveva destituito. Quest'ultimo potrebbe forse pensare di avere un duplice diritto al trono, sia attraverso il padre sia attraverso il suocero, e si trova in un'età in cui gli uomini diventano spesso vittime di impulsi incontrollabili. Mio cognato Melisseno decise un giorno che voleva lo scettro e si proclamò imperatore, prima di riconoscere che non era in grado di competere con me e con mio fratello.» Isacco rovesciò la testa all'indietro e scoppiò a ridere, intuendo dall'espressione del mio volto che non stavo più seguendo le sue parole. «Troppi nomi per voi, Demetrios, e tutti intrecciati e ingarbugliati insieme, vero? Non c'è nessuna delle grandi famiglie che non abbia toccato lo scettro in un momento ο in un altro, e ci sposiamo gli uni con gli altri con indecente frequenza. Anche se limitaste la vostra ricerca solo a quelli che possono vantare qualche diritto al trono, fareste in tempo a riempire tre volte la sala dei Diciannove Tavoli. Ora ditemi che cosa avete scoperto, in modo che possa informare mio fratello. Quel bastardo di un eunuco non gli racconta nulla.» «È quel bastardo di un eunuco che mi paga», ribattei. E continuai, in modo assurdamente provocatorio: «Se l'imperatore desidera sapere che cosa ho scoperto e non riesce a ottenerlo dal suo ciambellano, allora può convocarmi direttamente». Guardai titubante il sebastocratore, chiedendomi se non mi fossi spinto troppo in là. L'espressione del suo viso era piuttosto fredda, certo, ma non malevola. «Chiaramente, conoscete molto poco i meandri del palazzo», replicò bruscamente. «Non dovete pensare che mio fratello, per il solo fatto di essere l'imperatore, possa fare tutto ciò che vuole. È condizionato da innumerevoli piccoli vincoli: tradizioni, protocolli, consuetudini, precedenti, impegni. Non è più libero dello schiavo che rema sull'imbarcazione da
parata. Il suo potere è fragile ed esposto a minacce ben più subdole della freccia di un assassino. Non può inimicarsi i consiglieri dando l'impressione di usurpare la loro autorità.» «Anch'io non posso.» Dio sa quanto poco amassi Krysafios, ma ero entrato in un territorio così melmoso che non osavo fare neppure un passo fuori del cammino fissato. Il sebastocratore serrò le labbra. «Mi deludete, Demetrios Askiates. Mi avevano detto che voi, cosa non molto frequente fra gli uomini, siete un tipo capace di andare dritto per la sua strada, e anche di capire quando conviene rispondere con giudiziosa fiducia alle richieste di una più alta autorità. Evidentemente mi sbagliavo.» Senza aspettare una risposta, si girò su se stesso e si allontanò con passo risoluto, ignorando l'inchino che saggiamente pensai di offrirgli. Mentre mi spazzolavo la polvere rimasta sulle ginocchia, mi chiedevo se ero riuscito a farmi il mio primo nemico a palazzo. Un pensiero tutt'altro che confortante. ι Il giorno dopo espressi nuovamente la volontà di condurre il ragazzo, Thomas, nella foresta, ma di nuovo Anna si oppose. E lo stesso avvenne il giorno seguente. L'unica consolazione per quell'ennesima proroga fu il fatto che ebbi così modo di fare decisi progressi riguardo alla lista di nobili di Krysafios. Come mi aspettavo, non ricavai nulla da loro, ma la mia ubbidienza ebbe perlomeno l'effetto di attenuare la diffidenza dell'eunuco quando mi presentai per fargli rapporto. Presi anche in considerazione l'idea di avventurarmi nella foresta senza il ragazzo, per cercare di trovare il posto dove il monaco lo aveva addestrato basandomi sulla pura e semplice descrizione che mi era stata fatta, ma le risposte del ragazzo alle mie domande erano così vaghe che dubitavo che sarei riuscito a trovare persino casa mia basandomi solo su di esse. Soltanto al terzo giorno Anna mi fece sapere - con un tono risentito, evidente persino nella voce del novizio che mi portò il suo messaggio - che il ragazzo si era ristabilito a sufficienza per poter affrontare il viaggio. Partimmo prima dell'alba. Sigurd e la sua compagnia di Variaghi mi vennero a prendere davanti a casa, con il fiato dei cavalli che si alzava nell'aria fredda. Li accompagnava padre Gregorias, poiché si era scoperto che il piccolo prete parlava la lingua dei Franchi bene quanto il bulgaro ed era
quindi stato cooptato nel gruppo in qualità di interprete. Agli angoli delle strade deserte erano ancora appostate le guardie incaricate di far rispettare il coprifuoco, ma si tiravano indietro rispettosamente al passaggio del nostro corteo, inchinandosi con deferenza davanti a quei barbari che galoppavano nella nebbia del mattino. Ci fermammo davanti al monastero. Una dozzina di Variaghi si disposero prontamente a ventaglio tutto intorno al portone, mentre io e Sigurd smontavamo da cavallo per andare a prendere il ragazzo. A parte due ο tre monaci che stavano attraversando il cortile, probabilmente per portar via dalle celle le deiezioni notturne, tutto il resto era avvolto nel silenzio. Ero teso, scrutavo ogni architrave e ogni angolo di tetto alla ricerca di qualche movimento sospetto, poiché ero molto preoccupato all'idea di far uscire il ragazzo dal suo isolamento e di portarlo in giro su pubbliche strade piene di traffico. Mi ci sarebbero voluti molti mesi prima di dimenticare la vista della gola squarciata del Bulgaro, e che fosse stata opera dell'inafferrabile monaco, di un suo scagnozzo ο di qualcuno ben più in alto, non potevo credere che sarebbero rimasti con le mani in mano mentre il loro mancato assassino se ne stava in cattività. Ma avevo sprecato tre giorni a inimicarmi mercanti e nobili, e se il ragazzo avesse potuto guidarmi alla casa dove era stato addestrato dal monaco, forse avrei potuto finalmente trovare qualcosa per orientare la mia ricerca. Inoltre, non volevo causare ad Anna ulteriori rischi. Anna era già sveglia, avvolta in una pesante cotta di lana, e con aria risoluta si dava da fare con una cassetta di medicine. «Questo è l'unguento da frizionare sulle ferite», mi disse, indicando un vasetto di argilla. «E in questa borsa ci sono delle bende pulite. Dovreste sostituirle ogni giorno. Dentro ci sono anche alcune cortecce, sempre per lui, da masticare se il dolore dovesse diventare troppo fastidioso. Se trovate dell'acqua pulita nella foresta, potete usarla per risciacquargli la gamba.» Aggrottai la fronte: la levataccia mattutina, lo stomaco vuoto e la tensione del momento mi rendevano piuttosto acido. «Ho combattuto in una dozzina di battaglie», le rammentai, «e ho visto uomini marciare per più di venti miglia con ferite ben peggiori di quelle del ragazzo. Non accetto lezioni riguardo alla medicina da campo.» Lei ignorò il mio tono scontroso. «Sigurd conosce le mie istruzioni, può badare lui a Thomas. E mantenetelo ben nutrito: ha bisogno di recuperare le forze.» «Naturalmente.» Non volevo certo che il ragazzo stesse male, però l'ul-
tima cosa che desideravo era vederlo ritornare in piena forma proprio durante il viaggio. Se fosse fuggito, dubitavo che tutti noi saremmo sopravvissuti a lungo. Per tutto quel tempo, il ragazzo era rimasto in piedi in un angolo, senza dire una parola. Anna gli aveva procurato una ruvida tunica da monaco, che gli stava un po' corta, e un pesante mantello; lo baciò su una guancia, sollevò un lembo del mantello a coprirgli il viso e infine lo sospinse dolcemente verso di me. «Dovete affrettarvi», disse, lanciando uno sguardo in direzione della porta rimasta aperta. «Il sole sorgerà presto.» Era il pensiero che dominava anche la mia mente, tuttavia esitai ancora un attimo nell'assurda speranza di meritarmi un bacio a mia volta. Scossi la testa rivolgendomi un muto rimprovero: mi stavo comportando come un adolescente, non come un adulto, un padre, un vedovo. Accompagnai il ragazzo all'esterno. Non oppose resistenza quando gli avvolsi i polsi con una fune, che legai ben stretta, lasciandogli appena lo spazio sufficiente per aggrapparsi alla sella con le mani. Il mio cavallo era agitato, forse perché sentiva il mio nervosismo, e io gli diedi un buffetto sul collo tentando di calmare la sua irrequietudine. Senza alcuno sforzo, Sigurd sollevò Thomas e lo sistemò sulla sella davanti a me. Mi guardai intorno, sempre nell'attesa di qualche minaccia; le imposte stavano cominciando ad aprirsi e si intravedevano figure che si muovevano dietro le finestre. Guardai il ragazzo davanti a me e lo immaginai nell'atto di stringere l'impugnatura della tzangra, in piedi sul tetto della casa dell'intagliatore di avorio, mentre sotto transitava come in processione il corteo dell'imperatore. Poteva esserci un altro uomo, in quell'esatto momento, che stava mirando allo stesso bersaglio? Spronai il mio cavallo verso il punto dove Sigurd e Aelric si stavano consultando. «Passeremo per la porta di Carisio», mi annunciarono. «È la strada più veloce.» «E la più ovvia», ribattei. «Loro potrebbero sorvegliarla. Sarebbe meglio passare per la porta di San Romano e attraversare il fiume più a monte.» Sigurd mi scoccò uno sguardo impaziente. Notai la custodia di pelle della sua ascia che pendeva dalla sella, proprio davanti al suo ginocchio. «Loro? E chi sono questi loro? Pensate di avere di fronte un'armata delle tenebre che ha spie in ogni angolo? Un singolo monaco e un pugno di mercenari bulgari non possono mica essere dappertutto.»
«Se aspettiamo ancora un po', ci troveranno senza neanche bisogno di cercarci. Abbiamo convenuto con Krysafios che l'ultima parola sulle decisioni pratiche debba spettare a me. Andiamo a San Romano.» Sigurd diede uno strappo alle redini e batté un pugno contro il gambale di bronzo. «L'ultima parola, Demetrios, spetta alla forza che c'è nelle braccia di un uomo. Se i nostri nemici ci aspettano, lasciamo pure che vengano.» «Il tuo braccio non varrà più della tua armatura contro le armi che impugnano quegli uomini, a meno che non riusciamo a incontrarli al momento giusto. Hai passato così tanto tempo su e giù per i corridoi del palazzo, da dimenticare quanto sia importante non sottovalutare gli avversari?» Detto ciò, spronai in avanti il mio cavallo, per non dare a Sigurd il tempo di ribattere. Con sollievo, sentii alle mie spalle il rumore degli zoccoli in movimento. Cavalcando velocemente, almeno quanto lo consentiva il ragazzo infermo sul mio cavallo, attraversammo la città che si stava svegliando nell'incerta luce del mattino, arrivando infine alla porta di San Romano. Alla vista di Sigurd, le guardie si fecero da parte e noi ci trovammo ben presto all'esterno, negli ampi campi aperti che si estendevano al di là delle mura. Le messi erano già state raccolte da tempo, ma squadre di uomini e ragazzi erano là con i loro buoi ad arare i campi per prepararli alla semina. Il sole che si stava alzando si mostrava pallido attraverso le nuvole grigie, ma ben presto lo sforzo per me inusuale della cavalcata mi indusse comunque a spingere all'indietro il mantello, finché non lo ficcai in una delle bisacce della sella. Avevamo rallentato l'andatura per evitare di riaprire le ferite di Thomas, e potevo godermi l'aria fresca del mattino, mentre tentavo di ignorare la pesante massa di Sigurd a pochi passi da me. Da quando avevamo lasciato il monastero non mi aveva più rivolto la parola. Un rumore di ferraglia alla mia sinistra mi indusse a girare la testa e vidi che Aelric era venuto a mettersi al mio fianco. Nonostante i capelli bianchi e l'età non più verde, sembrava stare in sella senza la minima fatica, canticchiando sottovoce un motivo che non ero in grado di riconoscere. «Hai irritato il capitano», esclamò, interrompendo la canzone. «È un guerriero, non gli piace che qualcuno gli ricordi che è soltanto un ornamento dell'imperatore alla stessa stregua del suo buscarl. Sfilare in parata solo per impressionare ambasciatori e nobili non si adatta molto bene a un uomo come lui, che preferirebbe invece uccidere i Normanni.» Lanciai uno sguardo nervoso in direzione di Sigurd, ma sembrava pro-
prio che non ci stesse ascoltando. «So che non ama affatto i Normanni. Mi ha detto che hanno usurpato il vostro regno, come hanno sottratto a noi la Sicilia, e forse ci avrebbero preso anche l'Attica se l'imperatore non glielo avesse impedito.» Aelric annuì. «Sono arrivati trent'anni fa e neppure il più potente dei re che hanno governato la nostra isola sarebbe stato in grado di opporre resistenza. Sigurd era allora soltanto un bambino, ma io ero già un uomo e ho fatto il mio dovere sul campo di battaglia.» «Hai combattuto i Normanni?» Guardando le braccia di Aelric si aveva ancora un'impressione di asciutta forza; tuttavia era difficile immaginare questo affabile nonno nell'atto di castigare i nemici con la sua ascia sulle montagne di Ulule. «Ho combattuto i loro alleati», mi corresse Aelric. «I Normanni convinsero i Norvegesi ad attaccare con il loro esercito da nord, mentre loro si appostavano a sud, lungo la costa del mare che divide la nostra isola dal loro paese. Combattemmo due grandi battaglie lungo i fiumi del Danelaw;* perdemmo la prima, ma vincemmo la seconda. Come scoprì il re norvegese, è l'ultima battaglia quella che conta.» Io mi ero già perso, davanti alle sottilissime differenze che sembrava fare fra Norvegesi, Normanni e Scandinavi di Thule, sulla base dell'antica distinzione nata dalla rivalità fra i regni. Ma nella sua testa doveva essere tutto estremamente chiaro, tanto che continuò senza la minima esitazione. «La seconda battaglia, quello fu un giorno da eroi. Io da solo ne uccisi diciassette, eppure continuarono a combattere fino all'ultimo uomo. Persino Sigurd se lo ricorda.» Mi voltai sulla sella protendendo il collo all'indietro. Sigurd cavalcava in silenzio subito alle nostre spalle. Che fosse di cattivo umore glielo si leggeva ancora in volto. «C'eri?» gli domandai, stuzzicando il suo orgoglio. «Ma se era trent'anni fa, dovevi essere troppo piccolo persino per riuscire a sollevarla, un'ascia!» Sigurd alzò il mento con aria sprezzante. «Io portavo un'ascia già all'età in cui tu probabilmente ti succhiavi ancora il pollice», mi ribadì. Poi, troppo orgoglioso per trattenersi, proseguì: «Io c'ero, il giorno della battaglia. Avevo solo sei anni, ma mio padre, che combatteva per il nostro re Harald, mi portò con sé, lasciandomi sotto un albero dietro le nostre linee». «Sigurd vide tutto quanto», intervenne Aelric. «Più di noi, che non riuscivamo a vedere neppure i nostri vicini, in quella mischia fatale.» «Ricordo che vidi il vessillo del loro re, Harald il Distruttore, sventolare
ancora in aria quando tutto il suo esercito era già in rotta.» La voce aspra di Sigurd era diventata stranamente malinconica. «Le sue guardie del corpo menavano fendenti tali da riuscire a parare i colpi di tutti gli assalitori, pur circondati da una marea di guerrieri inglesi. Quando lui cadde, loro continuarono a combattere, e quando alla fine la battaglia si concluse e i nostri uomini vollero recuperare il corpo del re, dovettero prima spostare i sette cadaveri dei soldati che erano caduti per proteggerlo. Scoprii più tardi che avevano imparato il mestiere della guerra qui a Bisanzio, servendo come Variaghi.» Normanni e Norvegesi, e ora due re Harald: portavano tutti lo stesso nome ο era per il fatto che le parole barbare suonavano tutte identiche alle mie orecchie poco avvezze al loro suono? «Mi sembrava che tu avessi detto che i Normanni avevano conquistato il vostro regno. Ma ora mi stai dicendo che alla fine li avete sconfitti.» «Sconfiggemmo Harald e i Norvegesi al nord», rispose Aelric. «Ma una settimana dopo, William, duca bastardo dei Normanni, sbarcò sulla nostra costa meridionale. Marciammo attraverso il paese e lo affrontammo in battaglia, ma eravamo ormai esausti e loro combattevano con la disperazione di chi non ha nulla da perdere. Uccisero il nostro re e usurparono il suo trono. Come ho detto, è l'ultima battaglia quella che conta.» «Dopo la loro vittoria avete lasciato il vostro paese, quindi, e siete venuti qui?» «Non subito.» Aelric si interruppe per grattarsi la barba grigia. «Per tre anni il bastardo si accontentò di saccheggiare il sud, ricompensando i suoi alleati con bocconi della nostra terra e consolidando il suo potere. Poi si spostò al nord. Alcuni dei nostri signori che in un primo momento gli avevano giurato fedeltà si ribellarono, ma troppo tardi: non erano in grado di opporsi al suo esercito e furono distrutti uno dopo l'altro, ο costretti alla resa. Il bastardo trasformò le fertili terre lungo la costa in un deserto: i cadaveri giacevano a migliaia nei campi e chi rimase vivo ben presto fu così affamato da ridursi a rosicchiare le ossa dei morti. Tutti i villaggi furono rasi al suolo, i raccolti distrutti, anche l'ultima oncia di cibo rimasto fu bruciata davanti ai nostri occhi. Poi il duca incoraggiò i Danesi a venire a loro volta a depredare le nostre coste, così vennero estirpati e distrutti anche quei pochi germogli di vita che erano riusciti a sopravvivere alla prima ondata devastatrice. Dopo, al nord non rimase più alcuna vita: un uomo poteva cavalcare nel deserto per giorni e giorni, senza mai sentire una voce che non fosse la sua. È stato allora che sono venuto qui a Bisanzio.»
«Lo stesso vale per me.» Il volto di Sigurd era pallido sotto l'elmo di bronzo e i suoi occhi si muovevano inquieti, come se non riuscisse a dominarli. «I Normanni arrivarono al nostro villaggio una notte; uccisero mio padre e irruppero nella nostra casa. Per tutta la notte sentii le urla di mia madre e delle mie sorelle, e all'alba erano tutte morte. Non mi fu neppure permesso di seppellirli, perché i Normanni trasformarono la nostra casa in una grande pira. Fui portato via da mio zio, prima in Caledonia, poi oltre il mare in Danimarca, e alla fine, attraverso tante strade e fiumi, in questa città.» Si strofinò la mano inguantata su una guancia, poi afferrò l'ascia appena sotto l'impugnatura e la sfilò dal fodero. «Vedi queste tacche, Demetrios? È il numero dei Normanni che ho ucciso da allora», grugnì. «O meglio, il numero di quelli che ho ucciso da quando l'ultima impugnatura si è spezzata perché il legno era stato troppo intaccato.» «Avrebbe potuto andare ancora peggio», osservò Aelric. «Pensa all'eunuco.» «Quale eunuco?» chiesi, senza capire cosa intendesse dire. «Il ciambellano, Krysafios.» «Cosa vuoi dire?» Nei suoi vestiti, nei suoi modi, come nella lingua che parlava non c'era nulla che potesse far pensare che non fosse Romano. «Viene forse da Thule?» Era una domanda sciocca, ma Sigurd e Aelric mi risposero ridendo così forte da spaventare i cavalli. «Dall'Inghilterra!» ripeté Sigurd. «Perché, Demetrios, vedi forse qualche somiglianza fra noi e lui?» Pensai all'eunuco, alla sua pelle liscia e olivastra, al suo volto glabro, e lo confrontai con questi rugosi e irsuti giganti con gli occhi azzurri. «Non molte.» «Anche Krysafios ha avuto modo di conoscere i Normanni», mi spiegò Aelric soffocando l'ilarità. «Da giovane viveva a Nicomedia.» «A Malagina», lo interruppe Sigurd. «Io ho sentito Nicomedia, ma non ha importanza. Comunque sotto il regno di Michele Ducas, più di venti anni fa. Uno dei mercenari normanni al servizio dell'imperatore, di nome Urselio, diede prova della sua propensione al tradimento, come è del resto loro abitudine, e si rivoltò contro colui che lo pagava. Riuscì a conquistare molte province asiatiche prima di essere alla fine catturato, e la sua rivolta coincise con un periodo di saccheggi e barbarie. Si dice che una notte alcuni soldati di Urselio catturarono Krysa-
fios, che allora era appena un ragazzo, e lo condussero al loro accampamento.» La luce divertita adesso era scomparsa dal volto di Aelric. «Quando lo lasciarono andare, il mattino dopo, era diventato un eunuco.» Non era la prima volta che sentivo di storie simili; sapevo che i barbari provenienti da ovest trovavano il terzo sesso al tempo stesso affascinante e repellente, e molti ci deridevano per la fiducia che riponevamo in loro e arrivavano a credere che la nostra intera razza fosse in qualche modo contagiata da tale mancanza di virilità. Non ci voleva molta fantasia per immaginare quali tormenti potevano essere inflitti a uno sventurato prigioniero da una banda di mercenari imbottita di simili convinzioni e di alcol. Se Krysafios era davvero passato attraverso una simile prova, potevo solo ammirare la volontà che doveva aver dimostrato per riuscire a volgerla a proprio vantaggio, raggiungendo l'autorità di cui ora godeva. La voce di Sigurd interruppe il corso dei miei pensieri. «Sai che l'imperatore può contare sui Variaghi proprio a causa dell'odio che essi nutrono per i Normanni. Puoi quindi immaginare quanto egli possa contare sull'eunuco.» Simili racconti dell'orrore non potevano che scoraggiare il desiderio di proseguire la conversazione. Continuammo così a cavalcare in silenzio, tutti tranne padre Gregorias, che ci seguiva lamentandosi in continuazione: perché il suo cavallo zoppicava, la sua sella era consumata, l'acqua nella sua borraccia era salmastra. Sembrava proprio che fra le sue tante doti non si potesse annoverare l'abilità nell'equitazione. Dopo qualche tempo, guadammo il fiume in un punto in cui l'acqua era poco profonda e raggiungemmo la strada principale che puntava verso nord. Un acquedotto dalle alte arcate si ergeva a circa mezzo miglio sulla nostra destra, lungo il tracciato della strada, e noi lo seguimmo, mentre la campagna intorno si faceva sempre più selvaggia. Le macchie di alberi all'inizio sporadiche cominciarono a farsi più fitte, fino a saldarsi insieme in una vera e propria foresta che ci premeva ormai da ogni lato, estendendosi in lontananza verso le colline. Un rumore di acqua corrente ci seguiva costantemente, e a tratti potevamo intravedere attraverso i rami i muri coperti di muschio di una cisterna ο il bordo di un canale. Si sentiva il canto di qualche temerario uccello, e ogni tanto incrociavamo un solitario pellegrino ο un mercante, ma a parte ciò la foresta sembrava deserta. Pini, querce e faggi incombevano sopra di noi e non ci volle molto prima che cominciassi a sentirmi oppresso da un vago senso di timore. Ogni ramoscello che si spezzava, ogni ramo che cadeva, ogni fruscio di animale mi faceva sobbalzare, e non
potevo fare a meno di scrutare in tutte le direzioni alla ricerca di qualche segno di pericolo. Come intere generazioni di incauti viaggiatori avevano scoperto a loro spese, un posto così, remoto e senza via di fuga, era davvero perfetto per un'imboscata. Sigurd doveva condividere la mia apprensione, perché, quando ci fermammo a consumare il pasto, mise quattro dei suoi uomini di guardia lungo il margine della radura che avevamo scelto. I cavalli brucavano soddisfatti, ma anche la vista del cielo aperto sopra le nostre teste non riuscì a migliorare il mio umore. Mangiammo in fretta il nostro pane. «Sarò molto felice all'arrivo del Natale», borbottò Sigurd, guardando con disprezzo il suo magro pasto. «La festa della Natività, come la chiamate voi. Se un uomo non vive di solo pane, ancor meno può farlo un soldato.» «Dieci giorni», convenne Aelric. «E finalmente potremo banchettare.» «Se per allora saremo fuori da questa desolata foresta.» Sigurd sputò un nocciolo di oliva nei cespugli. «Se il ragazzo è in grado di condurci alla casa che stiamo cercando, e se non scappa via fra gli alberi approfittando di un nostro momento di distrazione.» Thomas, del tutto inconsapevole delle nostre parole, stava mangiando i datteri secchi che avevo portato per lui. La medicazione che Anna gli aveva applicato sulla gamba sembrava aver resistito alle sollecitazioni della cavalcata - non era colata neanche una goccia di sangue — e io ero contento di vedere che l'aria fresca e l'ambiente più salubre avevano restituito un po' di colore alle sue guance. Era la prima volta che lo vedevo in una condizione diversa da quella di moribondo e mi colpì il fatto che ora sembrava al tempo stesso più giovane e più vecchio. Più giovane se si guardavano quelle braccia troppo lunghe per il suo corpo, anche se certo abbastanza forti da impugnare la balestra, ο le guance imberbi, che solo nel giro di un anno ο due avrebbero potuto esprimere una bellezza virile, ο i suoi capelli biondi spettinati che il vento aveva arruffato. Ma negli occhi azzurri c'era un dolore che anche quell'ambiente bucolico non era in grado di alleviare neppure per un attimo, una tensione evidente anche nel modo in cui teneva le ampie spalle. Aveva conosciuto la sofferenza, e non solo quella fisica che poteva infliggere la spada di un Bulgaro. «Ebbene?» Riemersi dai miei pensieri. Sigurd era andato avanti a parlare tutto il tempo, ma le sue parole mi erano scivolate addosso. Stava fissando padre Gregorias e sembrava in attesa.
Il prete si rivolse al ragazzo pronunciando una sfilza di sillabe incomprensibili. La risposta fu molto più breve. «Dice che sarà in grado di ritrovare la casa», dichiarò padre Gregorias col volto accigliato. «Riuscirà a ricordare la strada.» «E come? Srotolando un gomitolo di corda come Teseo nel labirinto?» Sigurd era sprezzante. «Oppure è in grado di parlare con gli uccelli?» Gregorias riferì la domanda al ragazzo, eliminando forse il sarcasmo. «Dice che non è sopravvissuto nei bassifondi della città sognando a occhi aperti. Ha osservato con attenzione tutto il percorso, nella speranza di riuscire a fuggire.» «Allora è meglio proseguire. La sera cala presto fra questi boschi.» Sigurd rimontò a cavallo. «Anche un ragazzo con una memoria eccezionale potrebbe non riuscire a trovare quella casa nell'oscurità.» Cavalcammo per altre due ore, incontrando ancor meno movimento sulla nostra strada solitaria. I nostri animali cominciavano a essere stanchi e anche padre Gregorias non aveva più la forza di lamentarsi, al punto che dovetti voltarmi due volte per controllare che il suo cavallo non lo avesse gettato in un boschetto. La luce stava lentamente scomparendo dal cielo e, sebbene la maggior parte degli alberi fosse priva di foglie, al di sotto di quella sorta di tettoia naturale incombeva l'oscurità. Un gomito aguzzo premuto fra le mie costole interruppe il corso dei miei pensieri. Tirai le redini, chiedendomi se per caso Thomas non avesse intenzione di approfittare dell'oscurità per darsi alla fuga. Mi resi però conto che mi aveva urtato intenzionalmente, e che aveva steso una mano - per quel poco che la corda gli consentiva - in direzione di una quercia. Il suo massiccio tronco era ricoperto di edera e le radici rugose invadevano in parte il terreno sotto i nostri piedi, ma a parte questo non c'era nulla di particolare nel suo aspetto. Fermai la colonna e chiamai accanto a me padre Gregorias. «Chiedetegli che cosa vuole.» Anche in quella occasione, sopportai la solita frustrante pausa. «Ha riconosciuto l'albero. Dice che il sentiero che porta alla casa è subito dopo la prossima curva, sulla sinistra.» «Davvero?» Sigurd oscillò sulla sella, mentre il suo cavallo scalpitava. «Sa riconoscere anche la forma degli aghi dei pini?» Ma la sua diffidenza non era giustificata; svoltammo seguendo la strada ormai quasi avvolta dall'oscurità e là, proprio come aveva detto Thomas, c'era l'imboccatura di un sentiero. Ne avevamo incrociati diversi nel corso
della giornata, alcuni stretti come le piste seguite dagli animali, altri talmente ampi da essere difficili da distinguere rispetto alla strada principale. Quello davanti a cui ci trovavamo era piuttosto largo, ma il fondo era accidentato e scavato da solchi dovuti alle piogge. Chiunque ne fosse il proprietario, era evidente che doveva preoccuparsi ben poco della sua manutenzione. Forse sperava così di non attirare, in quel luogo selvaggio, l'attenzione dei briganti. Tuttavia, il sentiero era stato sicuramente usato di recente. Proseguendo su di esso, notai mucchietti di sterco secco e tracce di carri stampate nel fango. La foresta era diventata completamente silenziosa e pareva ancor più sinistra. Notai che Sigurd aveva impugnato la sua ascia, imitato dalla maggior parte dei suoi uomini. Rabbrividii dalla paura, rendendomi conto che il ragazzo davanti a me era totalmente indifeso e rappresentava l'obiettivo più ovvio, una cosa che avrei molto apprezzato all'epoca in cui facevo il cacciatore di taglie. E ogni colpo diretto a lui avrebbe con ogni probabilità colpito anche me. Ma nessuno ci assalì. Passammo in mezzo a due colonne di pietra sormontate da basilischi scolpiti, poi il sentiero cominciò a inerpicarsi su una collina la cui sommità si perdeva fra gli alberi. Sfiorai una spalla di Thomas, indicando con un cenno le colonne, e lui annuì come se le riconoscesse. Il fogliame intorno a noi era diventato meno fitto e guardandovi attraverso potevo vedere il cielo scuro sempre più incombente. Proseguimmo per un buon quarto d'ora, e avrei potuto scommettere che la sommità della collina fosse proprio davanti a noi, ma in realtà ogni curva del sentiero non rivelava altro che una nuova salita. Poi, senza preavviso, ci trovammo davanti a un'apertura in un muro e da lì entrammo in un'ampia radura, che tagliava la sommità della collina come la tonsura di un monaco. Avevo l'impressione che ci trovassimo piuttosto in alto, ma i grandi alberi che crescevano lungo il muro che ci circondava da ogni lato impedivano di spingere lo sguardo oltre. Il muro correva intorno all'intero perimetro, salvo nel punto da cui eravamo entrati; all'interno di quella sorta di recinto c'era una mezza dozzina di fabbricati, fra cui la stalla e, più lontano, una grande casa a due piani. Puntammo verso di essa. «Sembra tranquillo.» Eravamo tutti contenti di avere dello spazio libero intorno, ma quell'impressione di isolamento e solitudine era comunque inquietante. Anche per Sigurd. «Wulfric, Helm, andate a vedere se c'è del foraggio per i cavalli.» Due Variaghi si diressero subito verso la stalla. Uno smontò da cavallo,
impugnò l'ascia e spinse la porta, che evidentemente non era chiusa a chiave. Intorno erano cresciute le erbacce, di cui del resto era piena tutta la radura. Feci cenno a padre Gregorias di avvicinarsi. «È questo il posto? Il posto dove il monaco e i Bulgari hanno portato Thomas?» Non ebbi neppure bisogno della risposta. Il modo in cui il ragazzo incurvò le spalle non appena vide la casa, stringendo spasmodicamente il bordo della sella, mi sembrò più che esplicito. «Vuota, capitano.» I due Variaghi stavano ritornando verso di noi. «È stata completamente ripulita.» Proseguimmo in direzione della casa. Doveva essere costato uno sforzo titanico costruirla in un posto così isolato, e veniva da pensare che chiunque lo avesse fatto dovesse aver avuto non pochi problemi anche per impedire che poi cadesse a pezzi. In effetti, a mano a mano che ci avvicinavamo, la costruzione appariva in rovina. Edera e altri rampicanti erano cresciuti sui muri, e i vetri delle finestre erano tutti in frantumi. L'intonaco era chiazzato e pieno di crepe, e in alcuni punti si era completamente scrostato mettendo in vista la struttura grigia di mattoni sottostante. Una piccola rampa di gradini conduceva all'arco che sovrastava l'ingresso principale, ma anche là il marmo era crepato e dissestato. Sigurd scivolò giù dal suo cavallo, lanciando le redini a uno dei suoi uomini. «È questo il posto dove sei stato?» Thomas annuì. «Chi altro c'era qui?» «Solo quelli con cui era arrivato», tradusse il prete. «Il monaco e i quattro Bulgari. Per il resto la casa era abbandonata come adesso.» «Adesso vedremo se è davvero vuota.» Sigurd sollevò l'ascia e la picchiò contro il battente di legno. Si sentì un rumore sordo, che risuonò piuttosto sinistro in quella generale desolazione, ma la porta non si aprì. Sigurd provò a girare la maniglia, un pomolo di ottone scolpito a forma di cinghiale ululante, e la porta cedette senza difficoltà. «Ricordi se il monaco aveva chiuso la porta quando ve ne siete andati?» chiesi al ragazzo, attento a ogni possibile indizio della presenza di qualche altro visitatore. Ma Thomas non se lo rammentava. «Lo stabiliremo subito, se c'è qualcuno qui.» Con una spinta, Sigurd spalancò la porta, chinandosi per passare sotto l'architrave basso e pieno di crepe. «Wulfric, tu rimani con i cavalli. Tutti gli altri mi seguano.»
Varcammo la soglia guardandoci nervosamente intorno, e ci ritrovammo in uno stretto corridoio che sbucava quasi subito in un peristilio quadrato. Anche qui tutto era in rovina: i mosaici sul pavimento, raffiguranti guerrieri a torso nudo che affrontavano orsi e leoni, erano scoloriti e danneggiati. L'acqua piovana aveva formato delle pozzanghere nei punti in cui il suolo era più sconnesso, mentre in un angolo un cespuglio era riuscito a farsi strada. Su ognuna delle pareti si aprivano delle porte che davano su altre stanze buie. «Perlustrate la casa», ordinò Sigurd. «Dividetevi in gruppi di quattro. Demetrios e Aelric possono rimanere qui con il ragazzo e il prete. In caso di guai, ritroviamoci immediatamente qui.» Thomas e io ci sedemmo su una panca di marmo, mentre Aelric camminava su e giù per il cortile e padre Gregorias scrutava i mosaici con aria preoccupata. Il rumore delle pesanti calzature dei Variaghi svanì in lontananza e noi rimanemmo soli. Da qualche parte lì intorno sentivo provenire un costante rumore di acqua che gocciolava. Mi voltai verso Thomas. Aveva appoggiato il mento sulle nocche delle dita e fissava tristemente il pavimento. «Dove stavate?» Il ragazzo alzò lo sguardo, ascoltando la traduzione del prete, poi indicò verso sinistra. «Risiedevate tutti là?» «Sì.» «E il monaco non ha lasciato qui nulla al momento della partenza?» Il ragazzo scosse la testa. Avrei potuto anche immaginarlo da solo: era molto improbabile che il monaco, intenzionato a non lasciare vivo alcun testimone delle sue macchinazioni, avesse abbandonato fra quelle rovine un indizio che potesse svelare la sua identità. «Demetrios!» Sollevai gli occhi. Sigurd era apparso nella galleria davanti a me, insieme a due dei suoi uomini. «Non c'è nessuno qui. Qualche letto, un tavolo, degli attrezzi, ed è tutto marcio, a giudicare dall'odore. Nient'altro.» «Anche qui.» Uno dei luogotenenti di Sigurd era apparso sulla balconata opposta. «Questa casa è tranquilla come una tomba. C'è una bella vista, comunque.» Bella davvero. Il terzo corridoio portava dal peristilio a un'ampia terrazza sul retro della costruzione, che si affacciava sul ripido fianco della col-
lina. Restammo là in piedi in silenzio, ad ammirare il panorama di rilievi e valli boscose che si estendeva di fronte a noi. Verso ovest, dove il sole stava tramontando, il cielo all'orizzonte mostrava ancora delle striature color arancio, mentre verso sud-est notai con piacere che si intravedevano le scintillanti cupole di Costantinopoli. Rappresentava un magnifico punto di osservazione, costruito ingegnosamente, in modo che gli alberi ne occultassero completamente la vista dal basso pur lasciando completa libertà allo sguardo dall'alto. Una brezza fredda ci accarezzava il volto, e stavamo per ritirarci all'interno quando Thomas ci sorprese mettendosi a parlare anche se nessuno lo aveva interrogato, e così a lungo da mettere quasi in difficoltà la memoria di padre Gregorias. «Sostiene che il monaco veniva spesso qui. Fissava lo sguardo sulla regina delle città e implorava Dio perché la distruggesse, come aveva fatto con Sodoma e Gerico.» «E diceva tutto questo nella lingua dei Franchi?» Mi sembrava strano che un monaco potesse rivolgersi al suo Dio in un idioma straniero. Gregorias si consultò con Thomas. «Nella lingua dell'antica Roma, in latino. Thomas conosce quelle parole perché i Franchi e i Normanni le usano nelle loro preghiere.» Questo era ancora più strano, ma io mi arresi scuotendo la testa. Ogni volta riuscivo a trovare almeno una dozzina di nuove domande, ma mai uno straccio di risposta. Sigurd sollevò gli occhi verso il cielo. «Passeremo la notte nella stalla», annunciò. «Con le bestie. Non voglio ritrovarmi bloccato qui a causa di qualche bracconiere a caccia di carne di cavallo. E in più c'è solo una porta da sorvegliare.» Il rombo di un tuono risuonò nella valle. «Oltre a ciò», aggiunse con una smorfia, «il tetto è intatto.» Io passai un'altra mezz'ora a esplorare quella lugubre casa, ma non trovai alcuna risposta fra i muri cadenti e i mobili marci. Il temporale si stava lentamente avvicinando e a ogni colpo di tuono giravo di scatto la testa per guardarmi intorno, reso inquieto dall'ambiente circostante. Alla fine fui ben felice di abbandonare la casa e di ritrovare la compagnia dei Variaghi, che avevano già legato i cavalli nella stalla e acceso all'esterno un piccolo fuoco circondato di pietre. Su di esso arrostirono del pesce salato e della verdura che mandammo giù in fretta: quella sera non era rimasto granché della voglia di scherzare tipica dei soldati in marcia. Ci sistemammo sul
pavimento, maledicendo chiunque avesse deciso di spazzare via tutta la paglia prima di abbandonare quel posto. Avevo appena chiuso gli occhi quando sentii cadere le prime gocce di pioggia sulle tegole di piombo sopra le nostre teste. Stava ancora piovendo quando mi svegliai, ed era ancora buio. Da qualche parte, sulla mia destra, sentivo sbuffare uno dei cavalli, ma a parte quello non si muoveva nulla. Rimasi disteso un attimo, ripensando al luogo in cui mi trovavo e cercando di tenere a bada gli inevitabili timori notturni, grazie alla consapevolezza di essere circondato da una dozzina dei più temibili guerrieri dell'impero. Era un pensiero confortante. Infilai una mano sotto il mantello appallottolato che stavo usando come cuscino e toccai il manico del mio coltello; poi, più che altro per scaramanzia, mi protesi a cercare con la mano la spalla di Thomas. Ma le mie dita incontrarono solo il vuoto, e subito dopo la gelida pietra. Mi protesi ancora di più, con il cuore che mi saltava nel petto per la paura, ma di nuovo la mia mano incontrò solo il pavimento. Dov'era? Gettai indietro la coperta e balzai in piedi, facendomi largo fra i Variaghi addormentati fino alla porta. Saranno anche stati dei guerrieri, ma notai che nessuno accennò a muoversi mentre passavo come un ladro in mezzo a loro. Ο almeno, nessuno tranne Aelric, ma non avrebbe proprio potuto farne a meno. Era seduto davanti alla porta, con la schiena appoggiata ai cardini, e nell'affacciarmi all'esterno finii per inciampare e cadergli addosso. Lanciò un'imprecazione, mentre si alzava in piedi barcollando ma con la mano già stretta sull'ascia. «Sono io, Demetrios», sibilai. Per quanto fosse vecchio per la sua professione, ero convinto che non sarei sopravvissuto a più di un colpo della sua ascia. «Π ragazzo è sparito.» «Cristo!» Aelric si fregò gli occhi. «Oh, Cristo!» Un rombo di tuono esplose sopra le nostre teste e quasi simultaneamente un lampo si fece strada fra le nuvole. «Là!» Stavo scrutando nella pioggia, alla vana e disperata ricerca di qualche segno della presenza del ragazzo, e alla luce abbagliante del fulmine pensai di aver visto qualcosa. «C'è qualcuno che si muove, là vicino alla casa.» «E chi ci dice che sia il ragazzo?» ribatté Aelric. «Sei armato?» «Ho il mio coltello.» Le sue parole provocarono in me un'ondata di terrore; fui assalito da ogni genere di timori riguardo ai banditi, ai briganti,
agli uomini del monaco, a quel posto isolato, ma non c'era tempo. Mi lanciai fuori nella pioggia, barcollando sotto l'impeto dell'acqua che formava quasi una barriera, e cominciai a correre attraverso la radura in direzione della casa, tallonato da Aelric. I miei piedi arrancavano nel fango e nelle pozzanghere, mentre la tunica aderente sulle gambe mi ostacolava nei movimenti. La pioggia mi buttava i capelli fradici negli occhi, che quasi non riuscivo a tenere aperti, ma la luce di un altro fulmine mi guidò verso la casa. Notai che la porta era aperta. «Seguimi», urlai, lanciando appena uno sguardo alle mie spalle. Aelric era invisibile, e ogni rumore era coperto dal vento che fischiava intorno a noi. Il vento cessò quando spinsi la porta, e per un attimo le mie calzature inzuppate d'acqua parvero terribilmente pesanti nel piccolo corridoio. Dopo poco sentii di nuovo la pioggia abbattersi sul mio volto e mi resi conto di essere arrivato nel peristilio. La pioggia crepitava sul pavimento di pietra ma io ebbi l'impressione di sentire, da qualche parte nell'oscurità che mi circondava, un suono più animato, come se qualcuno stesse raschiando qualcosa. Compii un passo avanti, cercando di capire da dove proveniva il rumore. Il mio sforzo fu però frustrato dal rimbombo di un tuono proprio sopra alla casa, che risuonò fra i muri e le gallerie con un rumore assordante che riuscì a farmi vacillare. Tentai di riprendere l'equilibrio appoggiandomi a una delle colonne, ma senza un grande risultato; poi, per un istante, la luce di un lampo esplose in alto nel cielo. L'intero cortile si ritrovò per un attimo sotto il suo freddo splendore e grazie alla luce vidi il ragazzo, Thomas, rannicchiato nell'angolo opposto, vicino al cespuglio cresciuto in mezzo ai mosaici. La luce svanì; io feci un passo in direzione del ragazzo, ma proprio in quel momento qualcosa di pesante e smussato mi colpì alla schiena, fra le scapole. L'istinto prese il sopravvento, l'energia accumulata nei mesi di duro addestramento passati nell'esercito ricominciò a pulsare nelle mie vene, e appena la mia spalla toccò il suolo rotolai via sul pavimento. Se il mio assalitore avesse colpito una seconda volta nel punto in cui ero caduto, avrebbe trovato soltanto la pietra. «Aelric?» urlai, chiedendomi se per caso nell'oscurità non fossimo finiti uno addosso all'altro. Non ci fu alcuna risposta, e io mi spostai di nuovo proprio mentre sentivo qualcosa che cadeva con un gran fracasso esattamente nel punto in cui
ero un attimo prima. C'è qualcun altro qui, pensai incredulo. Un assassino deciso a uccidermi. Thomas mi ha volutamente attirato in una trappola? Avevo sempre il coltello in pugno: l'istinto e la disciplina avevano reso la mia presa ancora più salda, in un frangente in cui altri uomini lo avrebbero forse lasciato cadere. Lo sollevai davanti al volto, cercando di acuire tutti i sensi per cogliere un eventuale segno della presenza del mio nemico. Qualcuno si stava muovendo nell'oscurità davanti a me, ma non avrei saputo dire dove. Non sembrava così vicino, ma con il fragore del temporale avrebbe anche potuto essere vicino a sufficienza. E che fine aveva fatto Thomas? Era proprio davanti a me quando io ero stato colpito da dietro: dov'era adesso? Forse il mio invisibile assalitore non stava affatto dando la caccia a me. Forse era venuto per sgozzare il ragazzo. Un'altra lama di luce calò dal cielo interrompendo le mie frenetiche elucubrazioni. Tuoni e fulmini sembravano ora essersi riuniti proprio sopra la mia testa e la scintilla della loro unione illuminò di nuovo il cortile. Fu allora che vidi nell'ombra, proprio nel vano della porta di fronte a me, la sagoma massiccia di qualcuno che brandiva un'arma. La luce svanì e io mi scagliai in avanti, a passo di carica sulle piastrelle scivolose, incurante della pioggia come del fatto che potessero esserci anche altri invisibili nemici. Quando arrivai vicino abbassai le spalle - come il decarca mi aveva insegnato su così tante piazze d'armi -, tirai indietro il coltello e irrigidii il collo preparandomi all'impatto. Lo sconosciuto non si era mosso in quei pochi secondi; lo colpii al ventre affondando il mio pugnale. Con un grugnito cadde indietro, facendomi ruzzolare sopra di lui, e fui io a gridare più forte, perché il suo stomaco sembrava ricoperto di acciaio e il mio coltello era rimbalzato su di lui senza provocare alcun danno. Capii con orrore che lui portava un'armatura, mentre io ero completamente indifeso. Tentai di allontanarmi ma mi aveva afferrato con un braccio e immobilizzato al suolo, mentre tastava affannosamente il pavimento alla ricerca dell'arma che aveva lasciato cadere. «Merda», imprecò. Il mio cuore si fermò. «Aelric?» farfugliai. «Aelric? Sono Demetrios.» Una lama affilata era sospesa sopra il mio collo. «Demetrios?» ringhiò. «E allora, per tutti i diavoli dell'inferno, perché hai tentato di sbudellarmi?» Mollò la presa e io riuscii a tirarmi su. «C'era un uomo qui dentro, che mi ha assalito.» Mi scrollai la testa fradicia. «Eri sempre tu?»
«Tu cosa ne dici?» La voce di Aelric era sgarbata; forse ero riuscito a ferirlo nonostante l'armatura. «Ti ho seguito. Ero appena entrato quando mi hai assalito.» «Ma io sono stato qui...» Un tremolio di luce vicino alla porta ci zittì entrambi; ci tirammo subito in piedi, le braccia tese in avanti con le armi in pugno. «Aelric? Demetrios?» «Sigurd?» Il capitano variago entrò nella stanza, l'ascia in una mano e una torcia nell'altra. Dio solo sa come fosse riuscito ad accenderla nel bel mezzo della tempesta. La teneva sotto il colonnato ma il suo vivo bagliore perforava la notte, illuminando l'intero cortile, fissato come in un quadro dove persino la pioggia sembrava essersi bloccata. Aelric e io eravamo in piedi davanti alla porta situata alla sinistra di Sigurd, accanto al passaggio che conduceva verso la parte occidentale della casa. Sigurd, insieme a due dei suoi uomini, era davanti all'ingresso principale e fissava rabbiosamente Thomas, ancora rintanato nell'angolo dove lo avevo individuato alla luce dei lampi, e con le mani sempre legate, nonostante la corda allentata. Del misterioso personaggio con cui potevo aver ingaggiato battaglia nell'oscurità non vi era alcuna traccia. «Suppongo», esclamo Sigurd, «che ci sia una spiegazione per tutto questo.» Aelric rispose per primo. «Il ragazzo è riuscito a fuggire dalla stalla. Demetrios e io lo abbiamo inseguito, ma nel temporale ho perso l'orientamento. Alla luce dei lampi l'ho visto entrare dalla porta ovest e l'ho seguito. Ero appena entrato qui quando lui mi ha speronato come una trireme e siamo entrambi caduti. Fortunatamente ho riconosciuto la sua voce prima di staccargli la testa.» «Ma io non sono entrato dalla porta a ovest», obiettai. «Sono entrato dall'ingresso principale, che era aperto. Esattamente dove si trova ora Sigurd. Ed ero qui già da diversi minuti quando ti ho aggredito... Per errore», aggiunsi. «Ma prima avevo lottato con qualcun altro.» «Forse era il ragazzo.» Sigurd non aveva alcuna pazienza per questo genere di cose; inoltre doveva essere furioso per il fatto che Thomas non fosse riuscito a fuggire solo per un soffio. «Domani ci faremo dare una spiegazione da lui. Fino ad allora raddoppieremo la guardia e lo legheremo nella stalla.» «E per quanto riguarda l'altro uomo? Può essere ancora nella casa, ο
comunque qui intorno. E se fosse un assassino mandato dal monaco, ο addirittura il monaco stesso?» Sigurd sbuffò. «Anche se quest'uomo esiste e non è un fantasma uscito dai tuoi incubi, non sprecherò la notte a dargli la caccia in mezzo alle rovine e al fango. Se vuoi rimanere in questa casa e cercartelo da solo, fai pure. Io non rischierò una storta alla caviglia ο una coltellata nel buio.» E anche a me bastò un attimo di riflessione per abbandonare quel progetto. * Parte dell'Inghilterra settentrionale prese questo nome dopo essere stata occupata dai Danesi nel IX secolo e lo conservò anche in seguito. (N.d.T.) ια Null'altro giunse a disturbare il mio sonno, e del resto non c'era alcun sonno da turbare: giacqui sveglio, all'erta per ogni trave che scricchiolava ο per un fruscio di coperte, finché l'aria fuori della porta iniziò a schiarirsi, e quei pochi uccelli che ancora non erano migrati prima dell'inverno iniziarono il loro canto mattutino. Lieto di qualunque pretesto per abbandonare il mio inquieto giaciglio, mi alzai, passai accanto alle sentinelle sulla porta e ancora una volta mi diressi verso la casa. La testa già mi doleva per la mancanza di sonno, e la rigida temperatura dell'aria non era certo d'aiuto, ma almeno la pioggia era cessata. Mi guardai intorno, esaminando nervosamente ogni spanna di terreno intorno a me. Nulla si muoveva. Le mie pulsazioni accelerarono quando raggiunsi la casa, e neppure la vista del cortile deserto fu sufficiente a rasserenarmi. Alzai lo sguardo verso le logge tutt'intorno, incapace di scrollarmi di dosso l'impressione che qualcuno mi stesse osservando; giunsi al punto di percorrere l'intero perimetro del colonnato, per essere certo che non ci fosse nessuno a spiarmi da dietro un pilastro. Non c'era. Rivolsi la mia attenzione all'angolo dove durante la notte avevamo trovato il ragazzo. Il suo comportamento era un mistero, perché se avesse voluto fuggire non sarebbe certamente entrato lì. E doveva davvero essere stato ridotto alla disperazione per tentare di scappare nel mezzo di un temporale, nel cuore della foresta, con le gambe bendate e le braccia legate davanti a sé. Non sarebbe sopravvissuto un solo giorno. E allora perché
aveva rischiato così tanto entrando lì, dove un Variago troppo zelante avrebbe potuto facilmente accopparlo nell'oscurità? Osservai il pavimento. Le tessere del mosaico erano allentate, spinte di lato dal cespuglio che era spuntato negli interstizi. Infilai il pollice sotto una di esse e tirai, finché si staccò e mi rimase in mano. La calce si disperse in una polvere fine, trasformandosi nuovamente in una pasta grigia sul pavimento umido. Staccai ancora una mezza dozzina di tessere, concentrandomi in particolare su quelle che erano già allentate. Dovevano essere quelle più vicine allo stelo della pianta, immaginai, e mi graffiai più volte le braccia infilandole sotto i rami per afferrare le tessere. Forse eliminare una possibilità improbabile era solo un futile esercizio, ma l'intera spedizione era stata tutta uno sforzo di quel tipo: che differenza facevano ancora pochi minuti sprecati? E poi capii perché il ragazzo aveva corso un simile rischio per entrare là dentro. Una tessera nera, una striscia sul fianco di una tigre, si staccò, e quando infilai un dito nella cavità sottostante avvertii il freddo di una superficie metallica lucidata. Era un anello, l'oro appena appannato dalla permanenza sottoterra, con incastonata una pietra rossa, probabilmente un granato. La gemma era attraversata da un solco sinuoso, simile a un serpente, e intorno era incisa un'iscrizione in rozzi caratteri latini. «Il capitano dice che la colazione è pronta, se ne vuoi.» Mi guardai intorno e vidi Aelric. «Riferisci a Sigurd che ho trovato qualcosa», ordinai. «Digli di mandare qui il ragazzo con l'interprete.» Nell'attesa mi sciacquai le mani in una pozzanghera e strofinai l'anello sul bordo della tunica, prima di stringerlo in pugno; in quel mentre, Thomas arrivò barcollando. Il suo volto aveva assunto un'espressione rigida, e le sue bende erano macchiate di fango. «Chiedetegli cosa stava facendo qui questa notte», dissi a padre Gregorias. «Pensava davvero di poterci sfuggire?» «Dice che la natura lo chiamava,» «E il suo pudore è tale che invece di liberarsi contro un muro, ha camminato per duecento iarde nel mezzo di un temporale per venire a svuotare la vescica qui?» Alzai gli occhi al cielo. «Chiedetegli se stava cercando questo.» Mentre parlavo, avevo aperto la mano mostrando l'anello, tenendo sempre lo sguardo fisso sul volto di Thomas. Poteva aver affinato le sue capacità nei bassifondi della città, ma non riuscì a nascondere il lampo che at-
traversò il suo viso mentre riconosceva l'oggetto. Non ci provò neppure; al contrario, fece un passo avanti e sputò verso di me. «Dove lo avete trovato?» chiese il prete. «Sotto una pietra. Cosa dice l'iscrizione?» Il religioso prese l'anello e lo osservò. «San Remigio, guidami sulla via della verità», lesse. Non avevo mai sentito parlare di questo san Remigio in nessuna ricorrenza ο liturgia, ma compresi abbastanza chiaramente il significato di quel gingillo. Era un anello da pellegrino, del tipo di quelli venduti dagli ambulanti in prossimità dei templi dedicati ai santi. Era stato il ragazzo a lasciarlo lì? I suoi genitori erano stati pellegrini, mi ricordai: era appartenuto a loro? «Chiedetegli se era di sua madre.» Il ragazzo arrossì, e parlò con rabbia per un periodo di tempo piuttosto lungo. Mi rigirai l'anello tra le dita nell'attesa che l'anziano religioso fosse pronto a tradurre. «Dice che è suo. Il monaco che lo ha condotto qui lo portava appeso al collo con una cordicella. Una notte il ragazzo è riuscito a tagliare lo spago e l'ha nascosto. Il monaco era furente e l'ha cercato ovunque, ma alla fine si è rassegnato all'idea che la funicella si fosse allentata e che l'anello fosse caduto a terra da qualche parte. Il ragazzo però non ha più avuto la possibilità di riprenderlo dal suo nascondiglio.» Il prete si schiarì la voce. «Secondo il ragazzo, la cosa gli è tornata alla mente nel cuore della notte ed è venuto qua a cercarlo per voi.» Quanta devozione! «Ditegli che non gli credo.» Il ragazzo borbottò una breve frase, che padre Gregorias sembrò far fatica a tradurre. «Dice che voi... insiste che è la verità.» «Devo pensare che stamattina mi avrebbe semplicemente fatto dono dell'anello?» dissi con scetticismo. «Se lo ha rubato una volta, non lo avrebbe di certo consegnato così alla leggera.» Il prete tradusse le mie parole mentre le pronunciavo, ma esse non produssero alcun effetto sul volto indurito del ragazzo. Cominciai a credere che non avrei ottenuto nulla, continuando in quello scontro fatto di contraddizioni e dinieghi. «Quali che fossero i suoi scopi», aggiunsi alzando le spalle, «potete dirgli che scappando via nella notte non ha fatto nulla per migliorare la sua posizione nei nostri confronti. Né ha aiutato le sue ferite a guarire immer-
gendole nel fango.» Guardai i suoi abiti stracciati e le bende sporche. «Ho visto una sorgente in giardino; sarà meglio usarla per pulirlo.» Camminammo intorno all'edificio, Aelric, il prete, Thomas e io, e scendemmo delle scale fino a raggiungere un frutteto posto al di sotto del livello del terreno e circondato da mura. Al centro c'era un basso plinto, dal quale un canale di pietra correva tra gli alberi fino alla cisterna sistemata sotto la casa. Il canale era rotto e alimentava solamente un tratto di terreno paludoso, ma la sorgente era ancora in funzione e faceva sgorgare sul bordo ricoperto di muschio del canale una quantità d'acqua sufficiente perché potessi versarla sulla gamba di Thomas. Lo avevo appena asciugato col mio mantello, e lo stavo avvolgendo con le fasciature di ricambio che Anna mi aveva dato, quando inaspettatamente parlò. «Che ha detto?» chiesi, mentre stringevo le bende di lino. Gregorias tradusse. «Ha detto che è qui che il monaco lo portava per esercitarsi con la balestra. Passavano buona parte della giornata mirando a dei bersagli appesi laggiù, al muro più lontano.» Legai con un nodo i bendaggi, poi attraversai il giardino fino al muro che il ragazzo aveva indicato. Come in tutto il resto della proprietà, erbacce e licheni se ne erano impadroniti, ma c'erano molti punti in cui la pietra era ancora visibile, pulita e scabra, e segnata da bianche scalfitture. Molte frecce dovevano essere state scagliate lì contro, per allenare sempre più l'occhio del ragazzo al momento in cui, mirando al suo vero bersaglio, avrebbe visto il suo dardo andare a segno e colpire l'imperatore. Era stata una fortuna che non si fosse esercitato di più. Un grido proveniente dall'alto interruppe i miei pensieri; alzai lo sguardo sopra il parapetto del giardino per vedere il recinto principale. Una delle nostre sentinelle aveva intimato il chi va là a un uomo che stava varcando l'ingresso cavalcando una bella giumenta bianca. Vidi Sigurd uscire dalla stalla e andargli incontro in tutta fretta, con il resto della sua compagnia prontamente schierata dietro di lui su un'unica linea. Li raggiunsi di corsa. L'uomo a cavallo non sembrava turbato dalla compagine dei Variaghi, tutti con l'ascia in pugno. Più che altro, sul suo volto sembrava esserci un'aria di divertita arroganza mentre guardava in basso dall'alto della sella. «Cosa state facendo qui?» chiese. Sebbene il suo mantello verde e gli alti stivali sembrassero costosi, il suo accento era rozzo. «Ci è giunta voce che qui si radunassero i nemici dell'imperatore», disse Sigurd in tono neutro. «Siamo venuti a cercarli.»
Il cavaliere lo guardò in tralice. «Li avete trovati?» «No. Non ancora.» Credo che Sigurd la intendesse come una minaccia, ma la frase provocò una risata da parte del nostro visitatore. «Sono Kosmas, e non sono nemico né di questo né di qualunque altro imperatore. Sono guardaboschi, e sorveglio questa proprietà per conto della mia padrona, la proprietaria.» Sigurd mosse il capo in un ampio arco, osservando con ostentazione quel panorama in rovina. «Ti paga bene per questo?» «Quanto basta perché io non tolleri visitatori non invitati. Se avete trovato tutto quello che c'era da trovare, cioè niente, dovreste andarvene.» Mi accorsi che Sigurd si tratteneva a stento dal rispondere all'intimazione dell'uomo, e non volevo che si verificasse uno scontro. «Dimmi, guardaboschi», mi intromisi. «Chi è questa padrona inospitale?» «La mia padrona, che è molto ospitale verso coloro che invita, è la nobile signora Teodora Trichas, moglie del sebastocratore Isacco e cognata dell'imperatore Alessio Comneno.» Sorrise. «Una famiglia che ben difficilmente potrebbe dare asilo a traditori e tradimenti.» La frase suonava talmente ottimistica da apparire ridicola. Ma in ogni caso ce ne andammo. La lunga cavalcata di ritorno fu silenziosa, e l'arrivo burrascoso. La strada si fece sempre più affollata a mano a mano che ci avvicinavamo alla città, e sebbene avessimo scelto un ingresso minore in modo da arrivare inosservati, trovammo comunque una massa di persone che si accalcavano per entrare. Le guardie erano in agitazione, urlavano domande a coloro che entravano e frugavano i loro beni con un atteggiamento rudemente sprezzante; quasi tutti quelli che erano intorno a noi sembravano provenire dalle campagne, e molti dovevano aver portato sulle proprie spalle la maggior parte delle loro proprietà. Saremmo rimasti lì fino al cadere della notte se Sigurd, spingendo e scalciando, non fosse riuscito ad aprire un varco per noi, e per fortuna le guardie lo riconobbero. Quando anche l'ultimo di noi fu all'interno delle mura, ordinò l'alt. «Porteremo il giovane a palazzo, e lo terremo in prigione», dichiarò. «Se sta abbastanza bene per scappare una volta, allora si è sufficientemente rimesso per uscire da quel monastero.» «Se lo metti là dentro, morirà in una settimana.» «E per quanto mi riguarda non sarà una perdita.» Sigurd fece schioccare le redini con rabbia. «Lasciamo che la malattia se lo porti via, se questa è
la volontà di Dio.» «La malattia è l'ultima delle mie preoccupazioni. Ti sei scordato di quello che è accaduto al Bulgaro? Il monaco, ο i suoi agenti, possono entrare nelle prigioni a loro piacimento.» Anche se pochi sembravano preoccuparsi della morte del Bulgaro, la cosa mi turbava ogni volta che ci ripensavo. Come aveva potuto un assassino penetrare fin nei sotterranei del palazzo, oltrepassando un cancello chiuso e una legione di Variaghi? Nessuna delle indagini che Krysafios, Sigurd ο io avevamo condotto aveva fornito una risposta. «Questa volta faremo più attenzione», disse Sigurd. «Penseremo a tutto.» «Vuoi che porti la questione davanti al ciambellano? È lui che mi ha dato facoltà di decidere. Io dico che il ragazzo non andrà nelle prigioni.» Sigurd si infiammò. «E allora dove lo porti, Demetrios? Al monastero, per affidarlo alle cure dei monaci e delle donne? Dio lo proteggerà laggiù?» Per un attimo mi trovai in difficoltà. Avevo avuto tutto il giorno per ponderare la cosa, ma i miei pensieri erano sempre stati distratti da altre questioni. Ora annaspavo in cerca di una soluzione, mentre Sigurd mi guardava con un ghigno sulle labbra. Dissi la prima cosa che mi venne in mente. «Verrà a casa mia.» «A casa tua?» Sigurd sembrò divertito dalla mia follia. «Il tuo castello? La tua torre, circondata da un fossato e sorvegliata da mille arcieri? Oppure la tua casupola, dove il ragazzo può tagliare la gola a tutta la tua famiglia e scappare lungo i tetti nel giro di un attimo?» Erano tutte solide obiezioni, ma non gli avrei dato la soddisfazione di considerarle. «Se il ragazzo vuole scappare, alla fine ci riuscirà. A meno che non lo mettiamo in prigione, nel qual caso morirà. Tu mi presterai due dei tuoi soldati per sorvegliare la mia porta. Per quanto riguarda la mia famiglia...» Esitai. «Farò in modo che sia al sicuro.» Sigurd mi fissò con un silenzio ostile. «Il ragazzo non è un alleato del monaco più di quanto lo fosse la prostituta di cui quell'uomo si è servito. Forse un po' di gentilezza e di generosità potranno convincerlo a fornirci altre informazioni.» Alzai le mani. «Oppure, posso parlarne con Krysafios.» «Stai attento», mi ammonì Sigurd. «Per adesso puoi convincerlo a fare a modo tuo, ma a chi ti rivolgerai quando perderà la pazienza? Prendi il ragazzo; lascerò con te Aelric e Sweyn, per il momento.»
Spronò il cavallo e si allontanò al galoppo, seguito da vicino da tutti i suoi uomini tranne i due che aveva nominato. «Devo andare anch'io», esclamò padre Gregorias. Sembrava che non vedesse l'ora di liberarsi della sua cavalcatura. «C'è bisogno di me alla mia chiesa.» «Anch'io ho bisogno di voi», risposi. «Come farò altrimenti a parlare col ragazzo?» «Chiamate la donna medico. Parla la sua lingua.» E, nonostante tutta la sua aria mansueta, mi abbandonò. In compagnia di due Variaghi riluttanti e un ragazzo che nessuno di noi era in grado di capire. Guidai i miei compagni fino alla mia casa, e mi resi conto di non disporre di un posto dove sistemare i cavalli. «Dovremmo riportarli al palazzo», disse Aelric. «L'ipparco li vorrà immediatamente.» «Posso andare io», mi offrii. «Devo anche riferire a Krysafios.» Aelric scosse la testa brizzolata. «Non puoi andare solo. Si sta facendo buio, e quelli della Guardia ti arresteranno come ladro di cavalli se ti vedono. E io non posso venire con te: non vorrai che Sweyn rimanga solo con le tue figlie, no?» Sorrisi stancamente. «Le mie figlie sono dalla zia, mia cognata.» Avrei dovuto lasciarle là un'altra notte, anche se sarebbero tornate ancora più cariche di disprezzo verso la mia disonorevole professione e verso la mia incapacità di genitore di combinare per loro dei matrimoni convenienti. «Allora tu e io possiamo sorvegliare il ragazzo, e Sweyn può riportare i cavalli.» Aelric smontò dalla sua cavalcatura e avanzò a grandi passi, sollevando Thomas e posandolo al suolo. Smontai anch'io, e porsi le redini di entrambi i cavalli al taciturno Sweyn. «Torna in fretta», gli disse Aelric. «Meglio non fare affidamento sui miei vecchi occhi per tutta la notte.» «Non se la scorsa notte deve servire come esempio», dissi, mentre i cavalli sparivano dietro l'angolo. Non avevo ancora sollevato la questione di come non fosse riuscito a impedire a Thomas di fuggire dalla stalla, per timore di provocare in Sigurd una collera ancora più grande, ma non avevo dimenticato. Né perdonato. Aelric mi fissò negli occhi. «Tutti compiamo dei passi falsi, Demetrios. Sei stato gentile a nascondere il mio al capitano. Ma il ragazzo è sano e
salvo, e non è accaduto nulla di male. Se in vita mia ho imparato una cosa, è che quando riesco a evitare le conseguenze più gravi dei miei errori, devo ringraziare il mio Dio e dimenticare.» Mi batté una mano sul braccio. «Adesso leviamo il ragazzo dalla strada, prima che qualche monaco con una balestra in pugno arrivi al galoppo e gli piazzi una freccia in corpo.» Salimmo le scale di casa mia, tenendo sempre Thomas tra di noi. «Questa è l'unica entrata?» chiese Aelric, mentre aprivo la pesante porta. «All'interno c'è un'uscita che si affaccia sul tetto.» Oltrepassai la soglia, chinandomi a raccogliere un pezzo di carta che qualcuno doveva aver infilato sotto la porta. «Sfortunatamente, si chiude solo dall'interno. Questa casa non è stata costruita per essere una prigione.» «Ma siamo qui per tenere il ragazzo dentro, ο per tenere gli altri fuori?» Aelric attraversò la stanza e scosse le imposte. «Se non altro, ci sono le sbarre alle finestre.» «Una precauzione sensata per un uomo che abbia delle figlie giovani.» Le mie capacità di segugio e di cacciatore di taglie mi avevano consentito di andare ad abitare lontano dagli angoli più pericolosi della città, ma non sempre di tenere alla larga coloro che in quelle zone abitavano. Aelric continuò a esplorare la casa mentre io esaminavo il frammento di carta. «Il mercante Domenico desidera vedermi a casa sua a Galata.» «Lo conosci?» «Non l'ho mai sentito nominare.» Posai il biglietto su un tavolo. «Forse vuole vendermi una balestra.» «Se è così, faresti meglio ad andare prima dall'eunuco per farti dare la tua paga», ridacchiò Aelric. Infilò la testa oltre una delle tende divisorie. «Chi dorme lì dentro?» «Le mie figlie.» Anche se loro non c'erano, non volevo che Aelric ο Thomas usassero quella stanza. Ma dovevo ancora studiare come dare una sistemazione a quella comitiva nella mia abitazione. «Il ragazzo e io possiamo dormire nella mia camera; voi potete sistemarvi qui, sulla panca.» «Domani mi procurerò un pagliericcio dalla caserma.» Aelric evidentemente non era molto impressionato dalla prospettiva di un'altra notte scomoda. In assenza delle mie figlie, tritai un po' di cipolle e di porri e li mescolai con una salsa eusina che un vecchio cliente mi aveva mandato. Sweyn tornò con del pane che aveva avuto dalle cucine del palazzo, e tutti e quattro dividemmo quel pasto frugale alla luce della mia candela. Poi Aelric prese la panca e la spinse contro la porta chiusa che dava sui tetti, mentre Sweyn
scese in strada. «Meglio sorvegliare da una certa distanza», spiegò solennemente. «Altrimenti, quando li si vede, è troppo tardi.» Mi ritirai nella mia camera con il ragazzo e mi stesi sul letto, facendogli segno che poteva dividerlo con me. Anziché mostrare gratitudine, tuttavia, si ritrasse, e si acquattò contro il muro come una lepre chiusa nell'angolo, le braccia strettamente incrociate sul petto. Mi osservava con occhi ostili, e mi accorsi che gli tremavano le gambe. «Mi hai preso per una specie di pederasta?» Ero in collera e imbarazzato. Al tono della mia voce si fece ancora più piccolo, e una lacrima gli scese lungo una guancia. Con un sospiro che poteva essere sia di esasperazione che di pietà, mi rotolai dalla parte del letto più lontana dal ragazzo e mi alzai in piedi, indicando prima lui, poi il materasso, poi me stesso e infine il pavimento. Ancora rimase immobile. «Molto bene.» Se le parole e i gesti non erano sufficienti, mi avrebbe giudicato dalle azioni, oppure poteva restare rattrappito nel suo angolo per tutta la notte. Con gesti ostentati misi una coperta sul pavimento, mi ci stesi sopra, e con un soffio spensi la candela. Poi rimasi in ascolto nell'oscurità. Dovette passare almeno una buona mezz'ora prima che udissi finalmente il ragazzo scivolare nel letto sopra di me. E fu solo molto tempo dopo che riuscii finalmente ad addormentarmi. ιβ La mattina seguente di buon'ora andai direttamente a palazzo, pensando che Krysafios desiderasse essere informato immediatamente dei miei progressi. Non era così. Al contrario, un usciere mi indirizzò verso un porticato lungo il quale erano allineate delle panche, dove già si erano radunate decine di questuanti. Alcuni erano talmente fissi al loro posto da apparire del tutto simili alle statue marmoree che li circondavano, come se una Gorgone fosse arrivata e avesse posato lo sguardo su di loro. Tentai di spiegare la mia importanza all'usciere, ma non mi prestò ascolto: promettendo di prendere nota del mio nome, scomparve. Mi appoggiai a un freddo pilastro - le panche erano tutte occupate - e attesi. Un pallido sole si muoveva al di sopra di una fontana alle mie spalle; uscieri e impiegati, uomini ed eunuchi, si agitavano tutt'intorno, parlando
con un tono d'urgenza e ignorando i postulanti che incrociavano il loro cammino. In oltre un'ora, a nessuno di essi venne concesso di entrare. Ed entrare dove? mi chiedevo. Dubitavo che l'imperatore Alessio, ο anche il suo ciambellano Krysafios, mi aspettasse dall'altra parte di quella porta alla fine della galleria. Mi avrebbero ammesso alla presenza di un altro segretario, che avrebbe potuto indirizzarmi verso un altro atrio ο vestibolo, dove un nuovo usciere avrebbe preso nota del mio nome e mi avrebbe pregato di attendere. In questi ambiti celesti, gli uomini si muovevano come stelle, lungo un percorso predeterminato da leggi superiori, destinati a non deviare mai, né a entrare in contatto con un altro corpo. Decisi di andarmene. Il pensiero del ragazzo e dei due Variaghi in casa mia mi rendeva ansioso, e l'oro dell'eunuco serviva solo a rendermi più insopportabile una simile perdita di tempo. Mi staccai dalla colonna, e per un momento pensai di aver compiuto una grave scorrettezza: dall'estremità del corridoio giunse un possente fragore di cimbali, e tutt'intorno a me si scatenò una grande agitazione. Uomini che per tutta la mattina non avevano mosso un muscolo di colpo abbandonarono i loro sedili e si gettarono in ginocchio, toccando il pavimento con la fronte e tentando di borbottare le parole di un inno di adorazione. Udii lo scalpiccio di molti passi, che scandivano un ritmo sul quale si elevavano le squillanti cadenze dei flauti e delle arpe. Mi inginocchiai, ma non mi inchinai così a fondo da non poter vedere chi stesse arrivando. Per primo avanzò un plotone di Variaghi, ma nessuno che conoscessi. Le loro asce brunite erano appoggiate sopra le spalle, le impugnature ornate dalle piume di grandi uccelli, e perfino in quella luce esangue le corazze scintillavano. Dietro di loro sopraggiunsero i musici, i volti contratti per la concentrazione, e poi un sacerdote che agitava dinanzi a sé un turibolo che impregnava l'aria del ricco profumo dell'incenso. Da ultimo avanzò il loro padrone. Le punte dei suoi stivali si muovevano solennemente sul pavimento come se non lo toccassero neppure; il suo capo, sotto la corona tempestata di perle, era chino in solenne contemplazione e brillava dello splendore riflesso dai suoi abiti dorati. Appariva assai diverso dall'ultima volta che l'avevo visto, in una semplice dalmatica bianca, in piedi davanti al suo inquietante mosaico. Il sebastocratore Isacco. Della cui consorte, pensai, avevo visitato solo il giorno prima il decrepito padiglione di caccia. Quando giunse alla mia altezza, pensai che poteva essere un'opportunità. «Possiate vivere mille anni, signore», dissi. «Sono Demetrios. Devo conferire con voi.»
Neppure un pelo della sua barba si mosse, e i suoi occhi rimasero fissi su ciò che era invisibile agli altri uomini, e che lui solo poteva vedere, qualunque cosa fosse. Passò oltre, e lo spazio si riempì del suo seguito, dozzine di nobili che venivano dietro di lui come corvi dietro un esercito. Era già da tempo scomparso oltre le porte di bronzo quando passò l'ultimo di loro. Non appena la via si liberò, feci per andarmene, ma di nuovo fui bloccato, questa volta da uno schiavo, un robusto nano che mi afferrò per un gomito. «Venite con me», mi disse. «Siete richiesto.» «Dove?» Ma era già scomparso dietro una colonna, e dovetti affrettarmi per ritrovarlo. Mi condusse a una porta, non il grande portone dal quale era passato il sebastocratore, ma un varco dalle dimensioni più adatte a un nano che a me, che si apriva nella parete a poca distanza dal portone principale. Non portava in una sala splendente d'oro, ma in un passaggio stretto e basso dove le lampade erano di poco aiuto per affrontare i gradini irregolari e le svolte di cui era disseminato il percorso. Non incontrammo nessuno, fino a quando improvvisamente il corridoio finì dinanzi a una parete di pietra. «Alla vostra destra», sussurrò il nano. Mi diressi a destra, e d'un tratto mi ritrovai fuori del corridoio, in una stanza luminosa e ampia. L'alto soffitto a volta era munito di molte finestre e affrescato con immagini di antichi re, mentre la luce che proveniva dalle pareti dorate splendeva come un'eterna aurora. Battei le palpebre e mi guardai alle spalle, ma dietro di me sembrava esserci solo solida muratura. Della mia piccola guida, e del passaggio attraverso il quale ero entrato, non sembrava esserci più alcuna traccia. «Demetrios.» Mi volsi verso il centro della sala, dove si trovavano due uomini circondati da colonne di marmo. Uno era Krysafios, con indosso abiti più immacolati che mai; l'altro... Per la seconda volta nel corso della mattinata, mi prosternai dinanzi al sebastocratore. Accolse i miei omaggi con un sorriso, poi mi fece cenno di alzarmi e di avvicinarmi. «Vi ho convocato, Demetrios, dopo avervi visto nel vestibolo. Sono venuto con delle notizie che vi riguardano, e non esito a condividerle con coloro che potrebbero trarne giovamento.» Abbassò il mento e mi guardò. «Terribili notizie mi sono giunte dalla mia consorte. Il suo guardaboschi ha
riferito che un monaco e un gruppo di Bulgari sono penetrati nel suo padiglione di caccia nella grande foresta; temo che se ne siano serviti per mettere a punto il complotto che è quasi costato la vita a mio fratello. Mi sono affrettato a riferire la cosa al ciambellano, perché in coscienza non potevo sopportare il peso di aver potuto prestare aiuto ai nemici di mio fratello, per quanto inconsapevolmente.» Ora toccava a me riservargli un'occhiata scettica. «Il guardaboschi di vostra moglie vi ha anche raccontato che una dozzina di Variaghi ieri si trovavano presso quella casa, e hanno scoperto tutto quanto, prima che un servitore inospitale di nome Kosmas ci cacciasse via?» Il sebastocratore non vacillò. «Non sapevo nulla di tutto ciò, Demetrios. Questo messaggio mi è giunto solo stamattina. Penso ci siano voluti molti giorni per recapitarmelo. Vi avrei inviato un messaggero, ma ho pensato fosse più saggio riferire prima al ciambellano. Pensavo che potesse ricevermi più prontamente di quanto non avrebbe fatto con voi.» «Certamente», disse Krysafios. «Talvolta ho questioni più urgenti cui badare che non pettegolezzi tardivi e inconcludenti.» Guardava me, ma ebbi la sensazione che stesse parlando rivolto al sebastocratore. «Questioni più urgenti?» disse Isacco come per prendere le mie difese. «Cosa ci può essere di più urgente della sicurezza dell'imperatore?» «La sicurezza dell'impero, come voi ben sapete, signore.» «È la stessa cosa. E dov'è mio fratello?» «È ai bastioni, per sovrintendere alle opere di difesa, I muratori sono al lavoro dall'alba per risistemarli a dovere,» «Perché?» mi intromisi. Forse questo aveva a che fare con la folla che avevo visto la sera prima riversarsi in città dalle campagne? «Perché presto potremmo essere attaccati», rispose seccamente l'eunuco. «Per quale altro motivo altrimenti? Ma questo non vi riguarda. Ciò che vi concerne è che, qualora un esercito di barbari cinga d'assedio le nostre mura, non vi sia in circolazione un monaco omicida che possa eliminare l'imperatore proprio quando c'è più bisogno di lui. E non credo che possiate scovarlo rimanendo in questa stanza a perdere tempo.» Mosse di scatto il polso, e le porte alle mie spalle si aprirono silenziosamente. Avendo compreso il messaggio, mi inchinai profondamente e me ne andai, oltrepassando una folla di musici e di sicofanti che indugiavano nella sala adiacente. Al mio ingresso, la loro attenzione si ridestò di colpo, ma con altrettanta rapidità si dimenticarono di me non appena mi riconobbero.
Dato che mi trovavo già a palazzo, cercai l'archivista della biblioteca imperiale, perché c'era un dettaglio che volevo approfondire. Era un uomo meticoloso e non mi permise di toccare i suoi preziosi libri e i rotoli; invece insistette perché attendessi nella sala di scrittura in mezzo alle file di monaci chini sui loro banchi, mentre i suoi accoliti cercavano tra pile di carte e di pergamene. Era una stanza luminosa, rischiarata da enormi finestre ad arco poste a entrambe le estremità; l'unico suono udibile era il grattare delle cannucce delle penne, simile a un cicaleccio di insetti. Dopo un'attesa che può essere durata minuti oppure ore, vidi uno degli assistenti emergere dalla muraglia di scaffali e sussurrare qualcosa all'orecchio dell'archivista. Il vecchio annuì lentamente, poi con fatica attraversò la stanza dirigendosi verso di me. «Abbiamo trovato quello che cercavate», mi bisbigliò. La sua voce era simile a un fruscio di vecchie carte. «Questo san Remigio di cui chiedete non è noto alla nostra Chiesa, ma è molto importante per i barbari franchi.» Di nuovo i Franchi. Il ragazzo aveva detto che il monaco parlava nella loro lingua; ora sembrava che venerasse anche i loro santi. «Perché?» chiesi. «Qual è la storia di questo Remigio?» L'archivista congiunse le mani in modo da farle sparire nelle lunghe maniche. «Dopo la caduta dell'impero d'Occidente, quando i barbari si impadronirono della Gallia romana, e il paganesimo e l'eresia spadroneggiavano, Remigio convertì il loro re alla vera fede. Così i Franchi furono salvi in Cristo.» «Che altro?» Per quanto di indubbia importanza nella storia ecclesiastica, non vedevo molte ragioni per le quali tutto questo avrebbe dovuto far guadagnare al santo la devozione di un assassino. L'archivista mi guardò severamente, come se la mia impazienza fosse un affronto alla sua dottrina. «Non c'è nient'altro. Fu fatto vescovo, e morì in veneranda età. Il suo santuario si trova nella città franca di Rheims, dove i barbari mantengono uno dei loro pochi centri di apprendimento. Sta scritto che laggiù egli compia numerosi miracoli.» Non ero certo se egli considerasse l'istruzione dei barbari come uno di quei miracoli, ma era evidente che ricavava scarsa soddisfazione dal dispensare i tesori della sua erudizione a un questuante incolto come me. Ringraziai e me ne andai, incerto sull'importanza di ciò che avevo appreso. Era un ulteriore indizio che collegava il monaco ai barbari d'Occidente, ma
io cercavo legami con i Romani, con coloro che erano pronti a insediarsi sul trono imperiale se l'imperatore fosse caduto. Quali che fossero i santi che il monaco invocava, e che salmodiasse in greco ο in latino, dovevo trovare i suoi padroni. Quel mattino, comunque, non avevo idea di dove cercarli. Potevo tentare di parlare ancora con Thomas, ma ero irrequieto, e non riuscivo a entusiasmarmi all'idea. C'erano ancora molti nomi importanti sulla lista di coloro che dovevo interrogare, ma temevo che parlare la mia stessa lingua non li avrebbe resi più disponibili di quanto non fosse il ragazzo. E camminare per le strade nella speranza di adocchiare un monaco dal naso storto sarebbe stato ancora meno utile. Tirai fuori il biglietto che avevo trovato sotto la mia porta la sera prima, e lo rilessi. «Il mercante Domenico desidera vedervi a casa sua a Galata.» Sarebbe stata una novità parlare con qualcuno che desiderava vedermi. Svoltai verso una ripida scalinata, e iniziai a scendere in direzione del porto. Un barcaiolo mi trasportò a forza di remi attraverso il Corno d'Oro, aprendosi la strada tra i battelli, le biremi, le scialuppe e i sambuchi che intasavano la grande baia. Mi aveva sempre stupito il fatto che il Corno fosse chiamato «d'Oro», perché, anche se d'oro ce n'era parecchio caricato sui ponti e sulle banchine, sia in denaro che in natura, l'acqua di per sé era piena di rifiuti: resti lignei delle ceste gettate via, pesci morti caduti dalle reti, oltre ai fluidi mefitici delle fogne. Per fortuna, non ebbi il tempo di soffermarmi su nessuna di queste cose, perché il barcaiolo aveva costantemente bisogno che il mio sguardo vigilasse al di sopra delle sue spalle e lo guidasse tra i minacciosi scafi dei vascelli più grandi. «La flotta è entrata», disse, con un cenno verso destra. «È arrivata stanotte.» Arrischiai una rapida occhiata nella direzione che aveva indicato, e vidi le grandi poppe delle triremi imperiali ormeggiate più avanti nel canale. Su quella più grande sventolava il vessillo dell'Alto Ammiraglio in persona, e i ponti di tutte le navi erano affollati di uomini. «Come mai?» «I barbari.» Π barcaiolo si concentrò per oltrepassare la prora di una nave mercantile levantina. «Dicono che i Normanni stanno arrivando di nuovo. Sono a tre giorni di marcia, questo riferiscono.» «Mi sembra improbabile. L'imperatore li avrebbe affrontati sulle coste
dell'Adriatico, prima che potessero arrivare fin qui.» Il barcaiolo scrollò le spalle. «Ripeto quello che sento dire. Quando lo vedrò, ci crederò.» Ci avvicinammo alle alte mura che circondavano Galata, sulla costa opposta. «Che molo volete?» chiese il barcaiolo. «Sto cercando il mercante Domenico. Ha una banchina sua?» «Mai sentito questo nome. Un veneziano?» «O forse un genovese.» Esaminai i moli, e le navi lì attraccate, in cerca di indicazioni sull'identità dei proprietari. Il barcaiolo chiamò uno stivatore su uno dei moli, e gli fece il nome di Domenico. L'uomo si accigliò, poi scosse il capo e indicò più in giù lungo la riva, in direzione della banchina successiva. «La maggior parte dei genovesi hanno casa in città», osservò il barcaiolo, senza rendersi particolarmente utile. Dovemmo chiedere ad altri tre moli prima di ottenere finalmente una reazione al nome di Domenico. Un corpulento caposquadra ci fece segno di accostare, afferrò la cima che gli gettammo e mi aiutò a salire la scaletta. «Volete che vi aspetti?» chiese il barcaiolo, guardando in su dalle fondamenta della banchina. Sembrava impaziente di ripartire, perché il cielo si stava oscurando, e avevo l'impressione che una burrasca stesse arrivando dalla costa asiatica. «Troverò qualcun altro.» Mentre il barcaiolo affrontava il tragitto di ritorno attraverso il Corno, mi feci indicare la direzione dal caposquadra e iniziai a salire la collina. Il terreno nei pressi della costa era ingombro di magazzini e di strette viuzze, ma salendo più in alto questi cedettero rapidamente il passo ad ampie abitazioni costruite su terrazze, con vista che spaziava al di sopra della zona commerciale sottostante, fino alla sommità della città dall'altra parte della baia. Le dimensioni delle case aumentavano man mano che si saliva, anche se a me sembrava che tutta quella magnificenza ad alta quota potesse garantire ai proprietari solamente ginocchia doloranti e polmoni esausti. E solitudine, poiché il trambusto dei moli sottostanti era ormai ben lontano. La casa del mercante Domenico non era situata sulla sommità della collina, ma era più vicina a essa che non alla pianura. Un giorno il mercante sarebbe vissuto in una splendida dimora, dato che si trattava di una proprietà vasta e imponente, ma per il momento la gran massa di operai, stuccatori, carpentieri e muratori a cui aveva dato lavoro stava solo distrug-
gendo ogni bellezza. L'aria nel cortile esterno era spessa di polvere, e risuonava del fragore di martelli che scalpellavano la pietra. C'era dello stucco incrostato sui tronchi degli alberi di arancio piantati nella terra fresca, e un paio di cavalletti avevano trasformato il ninfeo in una segheria. Cercai un domestico e gli mostrai il messaggio, tentando di farmi sentire al di sopra del frastuono. Dovevo essermi fatto capire, perché mi precedette in una vasta sala che, per quanto in preda al travaglio della ristrutturazione, era se non altro momentaneamente deserta. In origine il pavimento era stato decorato con immagini di pesci e di mostri marini che si snodavano attraverso le tessere azzurro-verdi, ma ormai una buona metà del mosaico era ricoperta da grandi lastre di marmo circondate lungo i bordi da sottili decorazioni rosa, verdi e nere. In lontananza, attraverso tre grandi finestre ad arco, potevo scorgere le cupole della città che scendevano a cascata dai pinnacoli di Aghia Sofia giù fino alle piccole chiese in prossimità del mare, i pini e i cipressi sparsi lungo i declivi a oriente, le colonne di trionfo degli imperatori che svettavano sulla linea dell'orizzonte, e la grande mole del faro che torreggiava sulla città. «Demetrios Askiates... Grazie di essere venuto.» Mi voltai per incontrare il mio sconosciuto anfitrione. La sua voce era calda e cordiale, anche se guastata da una nota di falsità a causa della dizione troppo studiata. Era più ο meno della mia età, forse un po' più vecchio, e la sua figura faceva ritenere che non dovesse affrontare troppo spesso a piedi la salita fino alla sua casa. Le guance erano arrossate, forse per lo sforzo di indossare l'immacolato, elegantissimo abito di seta che portava, ma i suoi occhi rotondi guizzavano energicamente. «Stavate ammirando il mio nuovo pavimento? Gli operai avrebbero dovuto finirlo una settimana fa.» Ridacchiò. «Posso sapere con due giorni di anticipo quando le mie navi arriveranno da Pisa, nonostante debbano percorrere centinaia di miglia in balia dei venti, delle correnti e delle tempeste. Ma chiedi a un artigiano quando pensa di finire il suo lavoro, e ti risponderà in maniera nebulosa, come un astrologo che debba tracciare un oroscopo.» «Il vecchio pavimento mi piaceva di più.» «Anche a me, Demetrios, anche a me. Posso chiamarti Demetrios? Bene. Ma la moda stabilisce che il pavimento deve essere semplice, sobrie linee di puro marmo, e io devo adeguarmi ai suoi dettami.» Strofinò la punta del piede sulla pietra. «Pare che aiuti a concentrare lo sguardo sullo splendore delle pareti. Quando quei bastardi di pittori avranno fatto la loro parte,
naturalmente.» Stavo per prendere la parola, quando lui mi anticipò. «Ma non sei venuto qui per parlare di estetica. Sei venuto perché io, Domenico, ti ho invitato. E per quale motivo? Perché, amico mio, penso che entrambi operiamo nello stesso mercato.» «Davvero?» L'esperienza mi aveva insegnato che chiunque si proclamasse mio amico solitamente mentiva, ο era un inguaribile ottimista. «Forse io vendo qualcosa che tu potresti caricare sulle tue navi e portare a Pisa?» Domenico rise come di fronte alla più grande delle spiritosaggini. «No, a meno che tu non ti occupi di tessuti pregiati, ο di spezie orientali, ο di miniature in avorio. Ma il vento che spinge le mie navi porta con sé anche altri beni, oltre a quelli che posso vendere nel foro. Notizie, per esempio. Un po' di vino?» Prese una bottiglia di terracotta e un paio di calici da una nicchia in una parete. «Non in periodo di digiuno.» «Peccato. Questo mi è arrivato da Monemvasia, nel Peloponneso. Davvero ottimo.» Riempì il bicchiere fin quasi all'orlo e sorseggiò entusiasticamente. Mi avvicinai a una finestra e guardai fuori, osservando le grandi navi da guerra della nostra marina ormeggiate nella baia sottostante. «Parli di notizie. Quali? Notizie che potrebbero interessarmi?» «Penso proprio di sì.» Domenico posò il calice con un movimento tutt'altro che elegante. «Se riusciamo ad accordarci sul loro valore.» Ora toccava a me ridere. Avevo incontrato un sacco di uomini del genere nella mia professione, vermi e sanguisughe che erano al corrente di qualche diceria e cercavano di convertirla in oro sonante tramite oscuri accenni e promesse stravaganti. «No, grazie», dissi. «Non ho bisogno di pettegolezzi da portuale, e sicuramente non ho soldi per pagarli.» Domenico si mostrò offeso. «Pettegolezzi da portuale? Demetrios, amico mio, qui si tratta di molto di più che di pettegolezzi da portuale. E per quanto riguarda il prezzo... mi dicono che sei influente a palazzo.» Chissà da chi lo aveva saputo! «A volte faccio degli affari a palazzo. Come tanti altri. Ma la mia influenza non è superiore a quella che un marinaio su una delle tue navi può avere sui tuoi affari.» Domenico sembrò deluso. «Avevo udito diversamente. Ma ciò nondi-
meno», insistette, «puoi riferire a palazzo, e lasciare che quelli che contano decidano come ricompensare la notizia.» «Posso riferire a palazzo. Ma non farei troppo affidamento sulla generosità dei miei padroni.» «Nemmeno se si tratta di informazioni su un complotto per assassinare l'imperatore?» Domenico bevve il suo vino e si volse a guardare il panorama sottostante con aria innocente, anche se doveva aver visto i miei occhi spalancarsi. «Un complotto per assassinare l'imperatore?» «Demetrios, amico mio, sono arrivato da poco in questa città, e sono venuto per mettere in piedi la mia impresa e fare fortuna onestamente per il mio caro padre a Pisa. Ma qui la vita di un mercante è difficile. Molti prima di me hanno ottenuto un rango, una posizione, dei privilegi, e non sono disposti a cederli tanto facilmente. Vedi come sono esiliato dai quartieri commerciali all'interno della città, costretto a lavorare in questo sobborgo remoto e poco elegante. Come posso forgiare alleanze, Demetrios, se nessuno di quelli che potrebbero rivelarsi utili si avventurerebbe mai ad attraversare la baia per incontrarmi?» Mi afferrò per le braccia. «Se voglio che i miei semi attecchiscano qui, anziché avvizzire e morire, devo trovare amici potenti. Uomini che possano aprire le porte che per me sono sbarrate, che possano garantire che le mie merci non sono le ultime sul mercato. Ho bisogno di raccomandazioni, Demetrios.» «Hai parlato di un complotto per assassinare l'imperatore.» «Se ti racconto, farai in modo che a palazzo sappiano dei servigi che ho reso? Posso confidare che l'eparca avrà un occhio di riguardo per me quando mi rivolgerò a lui?» Il suo tono sembrava quasi disperato. «Puoi confidare nel palazzo per quanto è possibile confidare in esso.» Si torse le mani, poi sospirò. «Molto bene, Demetrios. Come segno della mia fiducia, ti riferirò ciò che ho da dire, e lascerò alla tua coscienza di fare in modo che io venga ricompensato come merito.» «Nessuno di noi viene ricompensato come merita, certamente non in questa vita. Ma farò quello che posso, se tu garantisci ciò che stai per dirmi.» Sembrò soddisfatto. «Allora sappi questo. Mi ha avvicinato un uomo che si presentava come un monaco, anche se non era realmente un uomo di Dio. Mi ha proposto una sorta di investimento. Mi ha detto che, come Cristo, avrebbe abbattuto il tempio del vostro impero per costruirne uno nuo-
vo. Ha detto che il vecchio ordine sarebbe stato spazzato via, e che ci sarebbe stata la possibilità per i poveri e gli oppressi di reclamare la loro ricompensa, e che coloro che l'avessero aiutato ora non sarebbero stati dimenticati in seguito, quando l'imperatore fosse morto e il suo trono fosse stato occupato da un altro.» Da qualche parte fuori della finestra un gabbiano emise il suo stridio suadente, ma all'interno tutto taceva. Potevo a malapena muovermi, tanto ero scosso per quello che l'uomo mi aveva raccontato, e al tempo stesso incredulo riguardo al fatto che potesse davvero offrirmi notizie così interessanti. Quanto a lui, esaurita la sua nervosa energia, era rimasto immobile a fissarmi. «Potresti descrivere questo monaco?» domandai infine. «Purtroppo no. Portava un cappuccio calato sul volto e non lo ha mai levato. Tutto quello che ho visto è stato il suo mento: ossuto, e grinzoso per l'età.» «E non ti ha spiegato come intendeva compiere questo regicidio?» «Ha detto di avere agenti vicini all'imperatore, dai quali egli non sarà in grado di difendersi. Tutto quello che gli serviva, ha detto, era dell'oro per suggellare gli accordi finali.» «Gliene hai dato?» Domenico sembrò offeso. «Certo che no, Demetrios. Sono un amico della tua gente. So che sono i miei stessi compatrioti a tramare per mettermi al bando, non i tuoi. La mia lealtà è adamantina. Gli ho detto che non avrebbe ottenuto nulla da me, e che doveva sparire in fretta se non voleva che lo consegnassi alla Guardia.» «Non ha aggiunto nient'altro?» «Se n'è andato, come gli avevo suggerito.» Domenico si passò la lingua sulle labbra. «Forse avrei potuto metterlo alle strette per avere altri dettagli, ma avevo paura. So che l'imperatore ha molte orecchie, anche in quest'angolo del suo regno, e sarei mortificato se si pensasse che ho avuto qualche parte in un simile tradimento.» Riflettei per un istante mentre le mie pulsazioni rallentavano. Anche se l'informazione era utile, e anche se probabilmente avrei riferito la cosa all'eparca elogiando l'operato del mercante, tuttavia non mi faceva compiere alcun passo avanti. Confermava le intenzioni del monaco, certamente, ma quelle le conoscevo già. Suggeriva che potesse disporre di spie a palazzo, ma anche quella era una cosa che sospettavo da tempo. Oltre a questo, nulla.
«E questo sarebbe accaduto circa tre settimane fa?» chiesi, ripensando agli eventi. Probabilmente prima che il monaco trovasse altrove il denaro, assoldasse i Bulgari e si rifugiasse nella foresta. Ma Domenico stava scuotendo il capo con forza. «Tre settimane fa? Assolutamente no. Credi che avrei tenuta nascosta un'informazione del genere per tre settimane, quando la vita stessa dell'imperatore poteva essere in pericolo? Non per tre settimane, no, nemmeno per tre giorni.» Deglutì. «È accaduto ieri l'altro.» ιγ Per tutta la settimana seguente la città mi apparve ancora più opprimente, come se le mura stesse si stringessero intorno a noi. La folla nelle strade diventava ogni giorno più densa, e ogni notte i colonnati lungo i grandi viali erano affollati da coloro che non avevano trovato altro riparo. Le chiese furono aperte, e quando non vi fu più spazio, l'ippodromo si trasformò in un enorme ostello all'aperto. I prezzi salirono, e il cibo iniziò a scarseggiare. Neppure il tempo era clemente. Un vento aspro scendeva da nord, il vento russo, come lo chiamavamo a causa dei selvaggi che erano venuti al suo seguito, e anche i cittadini più benestanti coprivano i loro abiti eleganti con pesanti mantelli. Di notte le strade erano animate dalle fiammelle dei ceri dei monaci e delle suore che lavoravano instancabili per impedire che i poveri e i senzatetto morissero assiderati, mentre a ogni angolo di strada si avvertiva odore di legna bruciata. I fornai non avevano mai goduto di tanta popolarità. In mezzo a tutto ciò, le dicerie si diffondevano. Un esercito di barbari stava arrivando, dicevano alcuni; sì, ma per porre la loro vita al servizio dell'imperatore contro i Turchi e i Saraceni, argomentavano altri. No, insistevano i pessimisti: avrebbero portato a termine l'opera che Boemondo il Normanno aveva iniziato, depredando le nostre terre e passando a fil di spada le nostre città. E perché l'imperatore Alessio non esce per affrontarli in battaglia? chiedevano. Non passava ora senza che le strade echeggiassero del rumore di soldati in marcia, senza che uno squadrone di cavalleria magnificamente equipaggiato passasse al galoppo con un rombo di tuono. Perché l'imperatore non se ne serviva? Ci aveva traditi, ο era impietrito da un attacco di panico? Perché non poteva mostrarsi per rassicurare la sua gente?
Molti mi chiedevano la mia opinione, a causa dei miei rapporti con il palazzo, ma in verità io ne sapevo quanto loro. Krysafios aveva semplicemente preso atto del mio resoconto sulla possibilità di un nuovo imminente attentato, ma dopo quel momento non lo avevo più visto. Lo stesso valeva per Sigurd: Aelric mi aveva detto che lavorava incessantemente per fortificare le mura, e per tre giorni non aveva neppure fatto ritorno in caserma. Aelric restava con me per sorvegliare Thomas, ma per il resto io ero stato dimenticato, e lasciavano che trascorressi i miei giorni ponendo domande indesiderate a nobiluomini svogliati. Il fatto che la villa nella foresta appartenesse alla moglie del sebastocratore inevitabilmente aveva attirato la mia attenzione nella sua direzione, ma per quanto avessi interrogato con discrezione molti servitori, non ne avevo trovato neppure uno che fosse al corrente di suoi rapporti con un monaco straniero. Con riluttanza, almeno fino a quando non avessi trovato prove più convincenti, fui costretto ad ammettere che forse il monaco si era servito della casa all'insaputa del sebastocratore. A giorni alterni Anna veniva a casa mia, per controllare le ferite di Thomas e cambiare le fasciature. Le sue visite erano una rara fonte di piacere in quei giorni di apprensione, e la terza volta la invitai a cena. «Il moralista Cecaumeno ci dice che dovremmo usare cautela nel cenare con amici, per timore di essere sospettati di tramare complotti e tradimenti», mi disse ridendo, mentre ripiegava le estremità delle bende di Thomas. «Quel vecchio misantropo dice anche che tu maltratterai la mia servitù e corromperai le mie figlie. Ma io non ho servitù, e mi fiderò di te per quanto riguarda le figlie. Se tu ti fiderai della loro cucina.» Respinse indietro una ciocca di capelli che le era sfuggita dal cappuccio. «Molto bene. Domani sera?» Avevo sperato che potesse venire quella sera stessa, quando l'interruzione domenicale del digiuno mi avrebbe consentito di servirle un pasto migliore, ma accettai lo stesso nascondendo la mia delusione. Così, in un freddo lunedì prima della festa della Natività, Anna, Thomas, Aelric, le mie figlie e io ci sedemmo a tavola per cenare insieme. «Avete saputo fare virtù delle prescrizioni della Chiesa», disse Anna alle ragazze, servendosi un'altra abbondante porzione di stufato senza carne. «Un giorno farete ingrassare i vostri mariti.» Mi massaggiai le tempie. Era la cosa sbagliata da dire, ed Elena colse spietatamente l'occasione. «Non fino a quando sarà mio padre a comandare. La zia del droghiere
vorrebbe sistemare suo figlio, ma mio padre non vuole nemmeno incontrarla. Preferisce che io mi occupi di lui fino a quando sarà morto e io sarò avvizzita, piuttosto che lasciare che io trovi la felicità con un altro uomo.» «Allora non dovresti cucinare così bene», suggerì Zoe. «Dovresti sputare nelle pentole e servire solamente fagioli.» Notai che Aelric e Thomas tenevano gli occhi fissi sui loro piatti, e portavano alla bocca dei bocconi sempre più piccoli, come se cercassero in quel modo di far durare di più il loro pasto. «Quando avrò messo da parte una dote sufficiente a trovarti un uomo che sia degno di te, allora andrò a cercarlo», tentai di argomentare. «Non vorrai buttarti via con qualche indegno miserabile che puzzi di aglio?» «Tu mi vedresti sprecata anche con un principe della casa reale, anche se i suoi possedimenti andassero dall'Arcadia a Trebisonda.» Ora il volto di Elena era in fiamme. «E poi, come faccio a capire come dovrebbe essere un uomo degno di me, se le uniche persone che frequento sono le donne al mercato?» «Un marito non è tutto», replicò Anna pacatamente. «Io sono sopravvissuta senza averne uno.» «Ma tu lo hai scelto. Non avevi un padre che preferiva vederti sposata negli inferi, come Persefone, piuttosto che da viva. E avevi una nobile vocazione che ti ha sostenuto. Io non faccio altro che comprare verdure e cucinarle per questa tavola.» «E lo fai molto bene», intervenne Aelric. Mi rivolsi ad Anna, cercando disperatamente di cambiare l'argomento della conversazione. «A proposito della tua vocazione, devo congratularmi con te per la guarigione di Thomas. Sembra quasi miracolosa. Quando l'ho trovato insanguinato e moribondo in quella fontana, ho pensato che difficilmente avrebbe superato il pomeriggio.» Anna sorrise, mentre la luce delle candele disegnava riflessi dorati sulla sua pelle. «Con ferite nette come quelle che aveva, la sua sopravvivenza era più nelle mani di Dio che nelle mie. Ho solamente arrestato l'emorragia e ripulito la ferita dai cattivi umori che potevano essersi sviluppati. È stato altrettanto importante il fatto che tu me l'abbia portato così prontamente. E che in seguito tu l'abbia accolto in casa tua. È difficile guarire in prigione.» Mi strinsi nelle spalle, imbarazzato. «Avevo i miei motivi per agire così. Avevo bisogno di lui per il mio lavoro. Ma... sono lieto di essergli stato d'aiuto. Aveva bisogno di un po' di gentilezza.» «Ah!» Elena incrociò le braccia, fissando il suo piatto vuoto.
Mi accigliai. «Non sei d'accordo? Forse, ora che ci penso, rinchiuderlo qui in tua compagnia è stato un gesto meno gentile di quanto pensassi.» «Bah! È stata una fortuna per lui che io fossi qui. Aveva bisogno di attenzione e di comprensione. A te non importava di come si sentisse, ο di quello che provava in cuor suo, purché restasse qui incatenato come una pecora. Non eri nemmeno qui per accorgertene.» «E tu lo hai soccorso come un samaritano, vero?» «Come una ragazza?» suggerì Zoe, ridacchiando. Elena scosse la testa. «Vi basti sapere che merita molta più simpatia di quanta gliene abbiate mai mostrata.» Guardai Aelric con rabbia, a disagio per quello che la ragazza aveva sottinteso. «Pensavo che tu fossi qui allo scopo di impedire che accadesse alcunché di sconveniente tra le mie figlie e il ragazzo. Diversamente, come avrei potuto consentire a lasciarlo solo in casa con loro?» Il Variago alzò le braccia protestando la sua innocenza. «L'ho sorvegliato tutti i giorni, a tutte le ore, oppure l'ha fatto Sweyn al posto mio. Nulla può essere accaduto. E comunque», aggiunse, «il mio compito era sorvegliare che non gli accadesse nulla di male, non vigilare sulla virtù delle tue figlie.» Elena sibilò come un gatto. «La mia virtù è difesa meglio di quanto potrebbero fare tutte insieme le mura che Costantino, Teodosio e Severo hanno costruito. Tutto quello che ho fatto è stato parlare con il ragazzo. Ma anche questo, a quanto pare, dispiace a mio padre.» «Parlare?» Ora ero piuttosto incredulo. «Hai imparato anche la lingua dei Franchi, quindi? Oppure hai fatto venire un prete per tradurre?» «Se ti fossi mai curato di provare, avresti scoperto che il ragazzo capisce il greco molto meglio di quanto tu pensi. E, con un po' di incoraggiamento, lo parla anche.» Per un istante rimasi in silenzio, a bocca aperta davanti a quella rivelazione, mentre frugavo disperatamente nei miei ricordi e pensavo a quello che potevo aver detto in presenza del ragazzo, alla ricerca di confidenze rivelate od offese pronunciate inconsapevolmente. Ma Elena non aveva finito. «E se tu gli avessi parlato, e avessi ascoltato la sua storia, ti sentiresti sinceramente dispiaciuto per la sua condizione.» «E qual è la sua storia?» «Ti interessa veramente ascoltarla?» «Sì», risposi asciutto.
Anna posò una mano sul braccio di Elena. «E se anche a tuo padre non importasse, a me certamente sì. Dopotutto, l'ho curato io.» Elena inarcò la schiena, il trionfo dipinto sul giovane viso. «Non credo di aver mai udito nulla di più triste. I suoi genitori furono sedotti da qualche ciarlatano, laggiù nella loro patria, e come sotto l'effetto di un maleficio abbandonarono i loro campi per viaggiare per il mondo. Il loro patriarca aveva predicato che ogni cristiano dovrebbe combattere gli Ismaeliti, e questo imbonitore li convinse che, anche se erano disarmati, la mano di Dio li avrebbe protetti e avrebbe disperso i loro nemici.» Scosse il capo. «Non ho mai sentito delle stupidaggini simili.» «Io invece sì. Prosegui.» «Passarono per la nostra città lo scorso agosto, due settimane prima della festa dell'Assunta. Il nostro imperatore diede loro del cibo e li fece traghettare verso la costa più lontana del Bosforo.» «Li ho visti», interruppi. «Una massa di contadini e schiavi, più che altro, con poco più che dei vomeri e delle roncole con cui combattere. Sono entrati in Bitinia, nel territorio turco, e, per quanto ne so, non hanno fatto mai ritorno. Tuttavia ho sentito dire che nel corso della loro ricerca hanno massacrato interi villaggi della nostra stessa gente.» «Thomas non ha parlato di questo. Ma il suo gruppo iniziò a litigare. Alcuni se ne andarono in cerca di bottino, mentre gli altri aspettavano che i capi decidessero il da farsi. Giunse voce che la loro avanguardia fosse andata avanti, persino che avesse conquistato Nicea, e se ne rallegrarono, ma poi si seppe che i Turchi in realtà avevano massacrato la loro spedizione ed erano accampati a meno di dieci miglia di distanza. Alcuni cavalieri partirono per incontrarli, ma subirono un agguato e dovettero tornare indietro. Alle loro spalle giunsero i Turchi, e irruppero nel loro accampamento animati da una frenesia omicida. Thomas vide i suoi genitori fatti a pezzi e la sorella inghiottita dal caos.» Vidi Elena protendersi sotto il tavolo e prendere la mano di Thomas, ma non la rimproverai. «Thomas e pochi altri del gruppo trovarono rifugio in un castello abbandonato lungo la costa. Tra le montagne e il mare, mi ha raccontato, non c'era una spanna di terreno che non fosse ricoperta di cadaveri, ma lui e i suoi compagni riuscirono a improvvisare una difesa, usando le ossa dei loro parenti come materiale da costruzione, e resistettero all'assedio dei Turchi. Finalmente l'imperatore venne a conoscenza del pericolo che correvano, e inviò una flotta per soccorrerli e riportarli nella nostra città. I
sopravvissuti erano meno di un decimo del gruppo iniziale.» Alcune di queste cose le avevo sentite raccontare come dicerie ο semplici chiacchiere, ma nulla di così terribile, di così cupamente desolato. Né raccontato in maniera così vivida: dubitavo che tutte le parole che Elena aveva usato provenissero dalla lingua rozza e non istruita del ragazzo. Osservai Thomas con una compassione nuova, meravigliandomi che fosse sopravvissuto a una simile ordalia. Come aveva detto Elena, doveva aver compreso molto di quello che dicevamo, perché i suoi occhi azzurri erano umidi di lacrime trattenute, e le sue mani erano strette a pugno. «Quando è accaduto tutto questo?» chiese Anna. «Due mesi fa. Un mese dopo è arrivato in città e nessuno si è preso cura di lui. Per una settimana è sopravvissuto da solo per le strade, prima che un uomo senza scrupoli lo trovasse e gli promettesse dell'oro se avesse partecipato ai suoi sordidi progetti. Quale altra scelta aveva?» Aelric si protese attraverso il tavolo e mise una mano sulla spalla di Thomas. «Sei stato coraggioso. E fortunato, anche se forse ora sei convinto del contrario. Nella mia terra natale, ho visto molti ragazzi come te.» «Se questa è la sua storia, allora penso che tu abbia fatto bene a fare in modo che ne parlasse», disse Anna a Elena. «Per quanto le cospargiamo di unguenti e le avvolgiamo nelle bende, quasi tutte le ferite hanno bisogno di luce e di aria per guarire. Quelle dell'anima soprattutto.» Elena sembrò compiaciuta. «Ma dovresti anche rispettare tuo padre. Se Demetrios non avesse soccorso Thomas, non avresti potuto a tua volta aiutarlo.» Adesso ero io a essere compiaciuto. Doppiamente compiaciuto, in realtà. Da quel momento la cena procedette in maniera più rilassata, anche se più di una volta vidi che gli altri osservavano Thomas, pur senza darlo a vedere. Anna parlò della sua professione, con Zoe ed Elena che l'ascoltavano con passione, e Aelric lasciò che lo stuzzicassero alla ricerca di pettegolezzi provenienti dal palazzo, come le nuove mode degli abiti delle signore e i gusti dell'imperatrice. Era una compagnia piacevole, e la candela si era quasi tutta consumata quando alla fine Anna annunciò che doveva andare. «Ti accompagno al monastero», si offrì Aelric. «Posso cavarmela da sola. La Guardia in questi giorni si è quasi scordata del coprifuoco, da quando si sono diffuse le voci sull'esercito dei barbari. Le strade sono così affollate che, se c'è la luna piena, si può scambiare la mezzanotte con il mezzogiorno.»
«Ma stanotte è luna nuova e, se la Guardia non vigila, non ci saranno in circolazione solo innocui ritardatari.» «Vai con Aelric», insistetti. «Pensa che soddisfazione per i moralisti se ti accadesse qualcosa dopo che hai ignorato i loro precetti venendo a cena qui.» Mentre Aelric cercava il suo mantello, accompagnai Anna giù per le scale e l'aiutai ad avvolgersi nel suo manto. La notte era gelida, e nel cerchio di luce emanato dalla lampada che portavo potei vedere i primi fiocchi di neve scendere danzando dal cielo. «Questo peggiorerà la condizione di tutti quelli che non hanno un tetto», osservò Anna. «Ho già visto una dozzina di famiglie con principi di assideramento e di congelamento, costrette a cercare medicine quando sarebbe bastato il calore di un fuoco a salvarle.» «Forse si congelerà anche l'esercito dei barbari, se esiste davvero. Così i tuoi pazienti potranno tornare ai loro villaggi.» Anna stava tirando i lembi del mantello. «Me lo puoi sistemare, Demetrios? Il fermaglio si è slacciato.» Mi feci avanti, le mani esitanti sul metallo freddo. Dovetti chinarmi e avvicinarmi a lei per vedere quello che facevo, ma il profumo mielato proveniente dal suo collo confuse i miei sensi distraendomi. Al punto che in seguito non avrei saputo dire se veramente, mentre armeggiavo nel buio, avevo sentito il calore delle sue labbra sfiorare la mia guancia gelata. «Ecco.» Strinsi il fermaglio e indietreggiai, mentre il rimbombo dei passi di Aelric annunciava il suo arrivo. «Grazie per la compagnia, e per aver rischiato i rimproveri dei moralisti. Mi capita di rado di vedere degli amici.» «È stato un piacere.» Un fiocco di neve atterrò sulla punta del suo naso, si sciolse e scivolò sul suo labbro. Lo leccò via. «È un piacere incontrare la tua famiglia. Sono ragazze dal carattere forte. E hanno fiducia in te.» «Quando non mi maltrattano e non mi insultano.» Aelric uscì in strada e scrutò il cielo. La neve ora cadeva più fitta: uno strato soffice come piuma d'oca già ricopriva la via. «Tornerò tra un'ora», disse. «Cercherò di non svegliarti.» Prese il braccio di Anna, e io avvertii una fitta di gelosia per il fatto che lei non lo ritraesse immediatamente. Cercai di ridere di me stesso. Se quasi non riuscivo a pensare di trovare un marito per mia figlia, come potevo prendere in considerazione i miei stessi desideri? Elena certamente non me lo avrebbe mai perdonato.
Augurai la buonanotte, e guardai i due scomparire nella neve. ιδ Mi svegliai di buon'ora dopo una notte infestata da sogni bizzarri. La casa era terribilmente fredda, e mi raggomitolai strettamente sotto le coperte per cercare un po' di calore. A dispetto degli sforzi che Elena aveva compiuto la sera prima, c'era nel mio stomaco una fame che faceva solo sembrare ancora più freddi i miei arti; come sempre, gli ultimi due giorni del digiuno sarebbero stati i più duri. Mi sollevai sui gomiti e guardai oltre il bordo del letto, per vedere come fosse sistemato Thomas sul pavimento. Anna mi aveva rimproverato per averlo lasciato lì, ammonendomi sugli umori maligni che si nascondevano nel suolo, ma Aelric aveva scovato un materasso di paglia e da allora il ragazzo sembrava essersi trovato abbastanza a suo agio. Ma non c'era. Mi sfregai gli occhi e guardai di nuovo. Le coperte erano gettate all'indietro, e c'era una depressione nel punto in cui aveva dormito, ma di Thomas nessuna traccia. Mi alzai e, scostando la tenda, passai nella stanza principale. Forse era andato a raccogliere le croste avanzate dalla cena della sera prima. Non era così. E non c'era neppure Aelric: il suo materasso, anche se usato di recente, era vuoto. Cominciavo a sentirmi a disagio, anche se non ancora veramente preoccupato. Nelle ultime mattine Aelric era uscito presto per andare a prendere del pane dal fornaio; ipotizzai che stavolta potesse aver portato con sé Thomas. Aprii le imposte della finestra che dava sulla strada, sperando di vedere qualche traccia dei due. Le imposte non cedettero facilmente - il gelo notturno doveva aver bloccato i cardini — ma quando finalmente si spalancarono rimasi abbagliato dalla luce vivida che si riversò nella stanza. L'intera strada era diventata bianca, coperta da un mare di neve fin dove i miei occhi potevano spingersi. Nulla l'aveva smossa se non il vento, e dalla mia posizione elevata sembrava levigata come i pavimenti di marmo del palazzo. E altrettanto fredda. Un'unica sagoma interrompeva quella coltre intatta, un uomo solo, quasi direttamente sotto la mia finestra. Indossava un saio da monaco, ma nonostante il gelo del mattino aveva spinto indietro il suo cappuccio, così che la
sua tonsura sembrava guardare in su verso di me. Il fiato gelato si condensava uscendo dalle sue labbra; l'uomo non si muoveva, ma sembrava all'erta in attesa di qualcosa. Restai immobile per un attimo come se l'aria mi avesse gelato anche l'anima. Era forse il monaco, mi chiesi, l'uomo che aveva tramato per uccidere l'imperatore? Perché sarebbe dovuto rimanere in attesa fuori della mia casa nel freddo dell'alba? Ma, d'altra parte, chi altri avrebbe potuto essere? E Thomas era scomparso. Mi scossi dal mio stupore e corsi nella stanza delle ragazze, «Elena», esclamai, «Zoe. Svegliatevi. L'uomo che sto cercando...» Non appena i miei occhi si abituarono alla penombra, dopo la luce abbagliante della strada, le parole mi mancarono. Se non altro uno dei misteri era risolto. «Thomas! Cosa diavolo ci fai qui?» Era seduto a un'estremità del loro letto, avvolto in una coperta, e mi guardava con un'espressione di stupore e di incontrollabile paura. «Elena! Ne hai combinata una delle tue? Sei impazzita?» Lo sdegno e l'urgenza lottavano nella mia mente. «Non importa, di questo parleremo più tardi. Un uomo pericoloso, l'uomo che sto cercando, è qui fuori della nostra casa, e non posso lasciarlo scappare. Se arrivasse Aelric e io non ci fossi, ditegli di seguirmi se può. E tu», dissi a Thomas, «stai alla larga dal letto delle mie figlie e chiuditi nella mia stanza. Mi occuperò quanto prima della tua scelleratezza. E lo stesso vale per te, Elena.» Combattendo con la confusione che infuriava dentro di me, mi infilai gli stivali, afferrai il coltello e mi precipitai giù per le scale. Sbucai in strada sbattendo le palpebre: il monaco era scomparso. Me lo ero immaginato? No; potevo vedere le sue impronte sulla neve, il cerchio calpestato dove era rimasto in attesa, e due linee parallele lungo le quali era arrivato e se n'era andato. Le seguii con gli occhi e in fondo, proprio all'incrocio, vidi un'ombra scura sulla neve sparire dietro l'angolo di un edificio. Con l'aria gelata che mi bruciava la gola, e la camicia da notte che non mi proteggeva dal freddo, mi lanciai all'inseguimento. Nulla si muoveva nelle strade piene di neve ed era facile distinguere le impronte; non altrettanto seguirle. La neve mi arrivava alle caviglie, penetrava negli stivali e scivolava all'interno, rendendomi i piedi fradici e intorpiditi. Nonostante lo sforzo della corsa le mie gambe tremavano per il freddo, e rimpiansi ardentemente di non aver afferrato un mantello, ο magari delle galosce, prima di uscire. Ma
così facendo avrei potuto perderlo, perché quei pochi minuti di ritardo passati con Thomas ed Elena gli avevano concesso un vantaggio che non riuscivo a colmare, e nel primo mezzo miglio potei a stento a vederlo per pochi secondi prima che svoltasse un altro angolo. Fortunatamente non procedeva verso il centro della città, dove altre impronte avrebbero potuto nascondere le sue tracce, ma sembrava piuttosto diretto verso le mura. Lo seguii lungo vicoli ventosi e scalinate irregolari, scivolando e cadendo dove la neve celava gli ostacoli più insidiosi. Panni stesi e dimenticati, gelati come piastre di piombo, pendevano dalle corde tese sopra di me, ma nessuno si affacciava alle finestre per ritirarli. Era come se la bufera invernale avesse bloccato l'intera città, tutti tranne me e l'uomo che inseguivo. Il silenzio cessò quando sbucai improvvisamente sulla via di Adrianopoli. Pochi audaci viaggiatori vi si avventuravano, per lo più a cavallo, ma avevo visto il monaco svoltare a ovest e, ora che lo strato di neve era più sottile e la via diritta, potevo allungare il passo e braccarlo più da vicino. Per qualche istante di vitale importanza continuai a non essere visto né notato, ma poi il monaco gettò uno sguardo dietro di sé da sopra le spalle, mi vide e iniziò a correre. Tentai di accelerare ulteriormente il passo, ma era difficile guadagnare terreno su quella strada, e le mie gambe erano già rigide per il freddo. Per fortuna la via era larga e diritta, per cui non era possibile perdere di vista il monaco, ma egli continuava a rimanere ben al di fuori della mia portata. Attraversammo di gran carriera il flusso del traffico, sollevando fiocchi di neve alle nostre spalle, anche se non c'era nulla a cui potessi appellarmi per guadagnare terreno su di lui. Ma presto saremmo arrivati alle mura, e allora sarebbe stato in trappola. Probabilmente se ne rese conto, perché proprio in quel momento svoltò improvvisamente a destra infilandosi in un vicoletto. Annaspai con le braccia per mantenere l'equilibrio mentre lo seguivo, ma era troppo tardi: era scomparso. Maledissi la mia malasorte e la sua astuzia, ma non mi arresi allo sconforto, perché la neve era di nuovo spessa e le sue impronte erano fresche. Ma a un certo punto era volato via, ο così sembrava, perché davanti a me le tracce si arrestavano improvvisamente nel mezzo della strada. Mi avvicinai sempre più, guardandomi intorno per paura che potesse essersi nascosto in un androne per tendermi un agguato, ma avrebbe dovuto essere un gigante per compiere un simile balzo; e infatti non c'era nessuno. Esisteva forse qualche altra invenzione genovese in grado di trasportare in aria gli uomini?
Raggiunsi il punto in cui le sue impronte si arrestavano e compresi. Non era scomparso in aria, ma nel terreno: le orme terminavano davanti a uno stretto foro, un cerchio scuro nella neve intonsa. Il disco metallico che lo aveva ricoperto giaceva abbandonato poco distante, e sull'orlo del pozzo vidi il primo gradino di una scaletta che scendeva. Dal fondo, forse una trentina di piedi al di sotto, il riverbero dell'acqua scura mi fece capire che si trattava di una cisterna. Un uomo più cauto sarebbe rimasto lì ad aspettare che qualcuno venisse in suo aiuto, uomini armati e muniti di torce che avrebbero costretto il monaco a uscire dal nascondiglio come un cinghiale braccato. Ma il sangue mi scorreva veloce nelle vene, e non sapevo quanti altri tunnel potessero permettere di uscire da quella cavità. Quasi senza pensare, infilai le gambe nell'apertura e scivolai giù lungo la scaletta. Le palme delle mani mi bruciavano per l'attrito e per le schegge che si staccavano dal legno grezzo, ma non osavo scendere più lentamente temendo che il monaco potesse nascondersi ai piedi della scala e infilzarmi ancora prima che io riuscissi ad arrivare in fondo. Quando vidi che l'acqua era vicina, posai il piede su un gradino e saltai nell'oscurità. La morsa gelida dell'acqua si strinse intorno a me e urlai. Se il monaco fosse stato li vicino avrebbe potuto stendermi con un solo colpo, intirizzito com'ero nell'acqua gelata. Temetti di non riuscire più a muovere un solo arto, tanto forte era la morsa del gelo. Il mio urlo echeggiò nella vasta oscurità, risuonando tra i soffitti a volta e le file di colonne i cui profili incerti riuscivo a distinguere nella pozza di luce che penetrava dall'alto. Poi ci fu silenzio. E subito dopo, da qualche parte intorno a me, un frenetico agitarsi nell'acqua. Il monaco, pensai, e quel rumore fu sufficiente a rimettere in moto le mie gambe e a farmi avanzare nell'acqua che mi arrivava al torace. Non potevo muovermi velocemente, ma mi ci vollero solo pochi secondi per uscire dal cono di luce e trovarmi in piena oscurità. Era questo che Giona aveva provato nel ventre della balena? Avanzavo alla cieca, sentendo il mio petto smuovere una piccola onda che andava a infrangersi contro la foresta di colonne che mi circondava. Uno a uno, i miei sensi mi abbandonarono: prima la vista, poi l'udito, quando i vari echi che risuonavano iniziarono a sovrapporsi nelle mie orecchie. Poi, a mano a mano che l'acqua mi intorpidiva, anche il tatto. Mi graffiavo contro le colonne e i loro basamenti, e quasi non me ne accorgevo, sebbene la pietra grezza lacerasse la mia pelle raggrinzita. Una volta le mie mani sfiorarono qualcosa di freddo e viscido, ed emisi un urlo, ma era solo un pesce che
l'acquedotto aveva trasportato nelle profondità della città. Mi domandai se avessi maggiori probabilità di uscire di lì di quante ne avesse lui. Troppo tardi compresi l'inutilità del mio tentativo. Non avrei mai trovato il monaco laggiù. Anche con una moltitudine di uomini e di torce, ci sarebbero state per lui infinite colonne dietro le quali nascondersi; da solo, e al buio, non avevo speranze. Ora il mio unico pensiero era uscire, abbandonare quegli abissi e tornare alla luce. Girai su me stesso, facendo turbinare l'acqua intorno alle mie gambe, e cercai disperatamente quel raggio di luce che indicava il punto da cui ero entrato. «Il Signore libera», mormorai battendo i denti. «Il Signore libera. Dal fondo dell'abisso ti ho invocato, ο Signore. Ascolta la mia preghiera.» Mi parve di vedere un pallido riflesso di luce da qualche parte alla mia sinistra, sorprendentemente più vicino di quanto mi aspettassi. Avevo forse girato in circolo? «Cristo abbi pietà. Cristo abbi pietà. Cristo abbi pietà.» Ripetevo le mie preghiere con un'intensità che non avevo più provato dai giorni del mio noviziato, e a ogni «Cristo» avanzavo di un passo. Presto il nome del Salvatore divenne poco più di un sussurro, un po' d'aria soffiata fuori attraverso i denti gelati, ma ancora sufficiente a spingermi avanti. Ora la luce era vicina, fredda, silenziosa e bellissima, e mi trascinai nella sua direzione con rinnovata speranza. Vedevo i gradini della scaletta risplendere come argento nel punto in cui la luce del giorno lì illuminava; vedevo il piccolo foro nel soffitto dove il resto del mondo mi aspettava. E là, ben al di sotto, vidi una sagoma scura che si stava issando fuori dall'acqua. I suoi abiti bagnati gli aderivano addosso, conferendogli l'aspetto di un'anguilla ο di un serpente, e il tessuto umido scintillava come squame. Gli arti che si allungavano verso l'alto sembravano uniti al suo corpo da una membrana. Emisi un gemito gorgogliante e mi gettai in avanti, annaspando per raggiungerlo prima che potesse fuggire. Nonostante gli echi che si sovrapponevano, doveva avermi sentito, perché vidi la sua testa voltarsi all'indietro e poi le sue braccia protendersi freneticamente verso l'alto. Allungai una mano e gli afferrai un piede; lui scalciò, sollevando il piede dal gradino e spingendomi indietro, ma io non lo lasciai andare. Con un grido il monaco perse la presa e io non feci in tempo a spostarmi: mi rovinò addosso. Il suo peso in caduta libera mi spinse giù, e affondai, agitandomi mentre i polmoni mi si riempivano di grandi sorsate di acqua gelata. Cercai di colpirlo con il coltello, ma la mia mano era vuota: nella confusione dovevo averlo lasciato cadere senza neppure
accorgermene. Svaniva così anche la mia ultima speranza, perché il mio nemico ora aveva trovato un punto d'appoggio e mi teneva sotto, aspettando che l'acqua mi togliesse la vita. Non avevo la forza per opporre resistenza, e qualche debole calcio non bastò certo a spostarlo. Ero stato uno sciocco insensato a pensare di poterlo intrappolare in quella caverna, e ora avrei pagato il prezzo del mio orgoglio. La calma scendeva in me. Cessai di lottare, e il monaco doveva essere sfinito quasi quanto me, perché sembrò accontentarsi di tenermi in quella posizione e lasciare che la natura facesse il suo corso, senza affrettare il momento esercitando ulteriore violenza. Ero sospeso nel vuoto; l'acqua richiusa sopra di me, la nera profondità tutt'intorno. Potevo immaginare che le dita che mi stringevano la gola non fossero altro che alghe alla deriva. Mi era capitato spesso, dopo una battaglia, di ascoltare storie di uomini che, nell'imminenza di una morte certa, si erano sentiti trasportati in qualche momento precedente della loro vita, ma io non provavo nulla di simile: solo un pigro calore che mi scivolava nelle vene, una serena consapevolezza del fatto che la mia lotta era finita, e che presto sarei stato in compagnia degli angeli. E di Maria, mia moglie. Ma il momento non era ancora venuto. Improvvisamente, le mani che mi avevano tenuto sotto scivolarono via. Mi risollevai nell'acqua, e avvertii un morso pungente alla sommità del capo ora esposta all'aria. Poi toccò alle spalle e al dorso. Il mio corpo ondeggiò e i piedi si posarono a terra; mi spinsi verso l'alto con un rantolo mentre la mia testa si liberava dalla morsa dell'acqua. Nessuno la spinse di nuovo giù. Respirai affannosamente, tossendo e sputando acqua dai polmoni, cercando di superare il dolore lancinante che mi era esploso nella testa. Da qualche parte, mi parve di udire qualcuno che mi chiamava per nome. «Demetrios. Demetrios.» Aprii gli occhi doloranti. Non era Maria, né tanto meno gli angeli. Contro ogni speranza e ogni aspettativa, era Sigurd. Mi trasportò fuori da quella caverna e mi caricò sulle spalle, pompandomi fuori ancora più acqua con la corazza che si alzava e si abbassava contro il mio stomaco. Stordito e inzuppato, vidi passarmi dinanzi capovolta la città innevata. Continuò instancabile, senza mai fermarsi, salendo scale e percorrendo vicoli tortuosi e grandi viali, lungo stradine strette e attraverso solide cancellate, finché non mi trovai all'interno di una stanza e fui adagiato su un letto. Chiusi gli occhi, sentendo delle voci sopra di me,
troppo soffocate per riuscire a scuotermi dal mio torpore. Caddi in un sonno profondo. Potevo aver dormito per un'eternità, ma era ancora chiaro quando mi svegliai. La mia prima percezione fu quella del tepore. Un tepore meraviglioso, beato, come il tepore che può avvertire un santo al cospetto dello sguardo eterno di Dio. Un materasso tiepido sotto di me, coperte tiepide avvolte intorno a me, e da qualche parte al di là delle pareti il suono di una campana. Mi rigirai nel letto, aprendo del tutto gli occhi. Riconobbi la stanza, le pareti imbiancate e le piccole finestre: era l'ospedale del monastero di Sant'Andrea, e poco distante, accanto a una cassapanca, c'era Anna. Lei non era tiepida, neanche lontanamente. Era interamente nuda. Si stava spazzolando i capelli, e il movimento delle braccia al di sopra della testa sollevava i suoi séni nudi come in una statua antica. I suoi piccoli capezzoli erano eretti e duri, mentre all'altezza dei fianchi la pelle olivastra del suo ventre si sollevava lievemente al ritmo del suo respiro. La sua spudoratezza era tale che non provò nemmeno a nascondere l'ombra scura fra le sue cosce. Per un attimo restai lì a guardare come una vergine la prima notte di nozze, poi, sopraffatto dal senso di colpa, affondai tardivamente nel cuscino il mio volto in fiamme. Anna rise. Una risata lieve, indulgente. «Avanti, Demetrios», mi canzonò. «Sei stato sposato, e hai cresciuto due figlie fino a farle diventare donne. Sicuramente devi aver già scoperto questi misteri. Sono una visione così vergognosa?» «Svergognata, direi.» Un po' del mio spirito era tornato, e mi arrischiai a guardare di nuovo. Giusto in tempo per vedere le sue braccia contorcersi dentro le maniche di una sottoveste di lana, che le ricadde lungo il corpo coprendo le sue tentazioni. Provai una punta di rimpianto per non aver guardato più a lungo, ma subito allontanai quel pensiero. «Ti capita spesso di spogliarti di fronte a estranei nel bel mezzo del giorno?» La guardai indossare il suo abito verde e stringersi alla vita la fascia di seta. «Solo se compaiono alla mia porta semicongelati e prossimi alla morte. Dovevo trasmetterti un po' di calore, quindi mi sono coricata accanto a te nel letto finché non hai smesso di tremare. Hai prestato servizio nelle legioni, sicuramente quando vi accampavate sulle montagne ti stringevi vi-
cino ai tuoi commilitoni durante la notte, no?» «Se lo facevamo, ci tenevamo gli abiti addosso.» Quel giorno avevo dovuto sopportare molte cose. Mi parve troppo dover pensare anche di aver rischiato il peccato mortale giacendo con Anna, e non averne avuto coscienza neppure per un attimo. Di nuovo distolsi i miei pensieri dalla direzione che avevano imboccato. «E come sono arrivato qui?» «Ti ha portato Sigurd. Ha raccontato di averti trovato quasi annegato in fondo a una cisterna.» «È qui adesso?» Aveva visto Anna spogliarsi e dividere il letto con me? «Aveva cose più importanti da sbrigare. Ha detto che sarebbe tornato, e che avrebbe cercato di portare abiti puliti.» Solo allora mi resi conto che anch'io ero completamente nudo. Mi strinsi addosso le coperte. Anna si legò la fascia intorno alla testa e si diresse verso la porta. «Devo andare. Ho altri pazienti da visitare. Manderò un apprendista con un po' di zuppa, e cercherò di tornare presto.» «Dividerai il letto con tutta la corsia?» esclamai, appoggiandomi su un gomito. La porta si chiuse senza una risposta. Non molto tempo dopo, arrivò Sigurd. Il volto rosso e accaldato nonostante il freddo; aspettò mentre indossavo la tunica, i gambali, gli stivali e il mantello che mi aveva portato. Doveva essere andato a casa mia, ο aver mandato qualcuno, perché gli abiti erano miei. Il che era un bene, perché la sua tunica mi sarebbe arrivata quasi fino ai piedi. «Questa è la seconda volta che ti salvo da una battaglia che sei stato tanto stolto da ingaggiare», disse senza giri di parole. «Potrebbe non essercene una terza.» «Lo so.» La mia gratitudine era sincera. «Ma come hai fatto a trovarmi? E cosa ne è stato del monaco?» «La tua figlia maggiore mi ha trovato in compagnia di Aelric. Lo avevo incontrato per strada; aveva abbandonato la sua postazione per andare a comprare del cibo.» Non invidiavo Aelric che aveva dovuto spiegare la situazione al suo capitano. «Abbiamo seguito le tue tracce fino alla via di Adrianopoli, dove c'erano molti testimoni che ricordavano un monaco a capo scoperto e un pazzo mezzo svestito che lo inseguiva. Da lì abbiamo cercato nelle strade laterali finché non ti abbiamo trovato.»
«E il monaco?» «Lo abbiamo visto che cercava di annegarti in fondo a quel buco, ma mentre scendevo la scala è filato via. L'ho lasciato andare; solo un pazzo avrebbe inseguito un uomo in quell'abisso. I miei compagni sorvegliano l'entrata. Se viene fuori, lo prenderemo.» Alzò lo sguardo al cielo, anche se il sole era velato dalle nubi. «Se è ancora laggiù, sarà già morto.» «Dovremmo scendere ad accertarcene.» Mi alzai, e sentii le gambe tremare sotto il mio stesso peso. Ero debole, ma il cibo che Anna mi aveva fatto portare mi dava forza, ed ero divorato dalla voglia di vedere il monaco che mi aveva quasi ammazzato. «Il dottore ti lascerà andare?» chiese Sigurd con un sorriso. «Sai, protegge i suoi pazienti come una tigre.» Questo era vero solo in parte. Alcuni li proteggeva come una tigre; quanto a me, mi fece cenno di andare con una semplice smorfia di congedo. «Se decidi di rischiare la tua salute e le tue forze andandotene in giro per la città, cercando di portare a termine l'opera del monaco al posto suo, fai pure», disse bruscamente. «In ogni modo, il tuo letto mi serve per quelli che ne hanno più bisogno.» Sigurd e io uscimmo dal monastero. Era tardo pomeriggio, e la strada era affollata da una vera muraglia umana. La neve, che al mattino appariva così immacolata, era diventata una poltiglia grigia, mescolata a sabbia e fango. Per fortuna il terreno rimaneva gelato, altrimenti molti sarebbero affondati in una fanghiglia da cui sarebbe stato difficile uscire. «Per prima cosa devo andare alle mura», disse Sigurd. Si era mostrato gentile al mio capezzale, ma il suo umore non era dei migliori. «Devo controllare la guarnigione. Il monaco aspetterà per un'altra mezz'ora, che si trovi sotto terra ο fuori.» Non sollevai obiezioni, affrettandomi dietro di lui attraverso la marea di uomini e bestie che scorreva in direzione contraria alla nostra. Era un'impresa estenuante, e se non avessi avuto la mole imponente di Sigurd da seguire, dubito che sarei riuscito ad avanzare di un solo passo. C'era ora una tensione nella folla che non avevo notato in precedenza: le schiene erano ingobbite e si vedeva la disperazione sui volti scarni. Forse era il fardello della neve e del freddo che si era aggiunto a una condizione già difficile, ο forse sapevano che la città ben difficilmente sarebbe stata in grado di provvedere a loro, dopo i molti altri che li avevano preceduti. Sigurd aveva previsto una mezz'ora, ma quasi un'ora era trascorsa ed era
ormai il tramonto quando raggiungemmo finalmente le mura. La Guardia aveva mantenuto libero un corridoio lungo la cinta per permettere a messaggeri e araldi di passare al galoppo, e quando arrivammo in quello spazio fui lieto di poter respirare. «I miei uomini sono su quella torre», mi disse Sigurd. «Mi aspetti qui?» Uno squadrone di cavalleria passò fragorosamente, coprendo la mia risposta e spruzzandomi addosso il fango. Sopra di me, una balista montata su un'impalcatura veniva issata in cima a una torre, con un evidente sforzo delle spesse funi che la trattenevano. «Vengo su.» Non volevo finire la giornata schiacciato da un cavallo ο da un'arma da assedio in caduta libera. Come sempre, Sigurd fu riconosciuto, e fummo salutati dalla guardia ai piedi della scala. Non era una salita difficile, ma la testa mi doleva nuovamente e le mie gambe imploravano riposo. Intorno a me, vedevo le sentinelle che si agitavano, urlando e chiamandosi a vicenda, anche se non riuscivo a capire cosa dicessero. Arrivammo sulla sommità dell'ampio bastione, e il mio interesse improvvisamente aumentò d'intensità. Era sceso il silenzio, e le guardie erano immobili, le facce schiacciate contro le feritoie come se stessero osservando un miracolo. Sigurd le ignorò e continuò a salire i gradini che portavano alla torretta, ma io, attirato dallo spettacolo, mi diressi verso le merlature e guardai. Fuori, al di là dei campi ricoperti di neve, il sole era sceso fino a sfiorare il profilo delle colline, e ci stava dinanzi come un occhio infuocato. Il cielo e la terra insieme erano avvolti dal suo abbagliante splendore rosso cremisi, ma non era quello che aveva zittito le sentinelle. Sulla cresta al di là della pianura, a un paio di miglia di distanza, era comparso un esercito. Cavalcavano verso di noi con il sole alle spalle, le lance simili a punte infuocate e gli stendardi scuri sopra di loro. Avanzavano, ma non appena una fila passava nell'ombra scendendo la cresta, un'altra appariva alle sue spalle e ne prendeva il posto. Era una moltitudine, migliaia, decine di migliaia di uomini, e la neve diventava nera sotto i loro piedi mentre marciavano verso le nostre porte. I barbari erano arrivati. ιε «Questo cambia tutto.» Avevo atteso tre giorni per ottenere udienza da
Krysafios, e ora che mi trovavo al suo cospetto stavo dando libero sfogo alle mie sensazioni. «Potete credere che sia una pura coincidenza il fatto che, meno di tre settimane dopo il fallito attentato all'imperatore, un esercito di barbari sia giunto fino alle nostre mura?» Krysafios si sfregò il mento glabro. «Questo non cambia nulla», disse con calma. «Salvo aggravare la sanzione nel caso di un vostro fallimento.» «L'uomo che ha progettato l'assassinio era un monaco che segue la liturgia dell'Occidente, e si è servito di un'arma barbara sconosciuta alla nostra gente. E ora diecimila suoi compatrioti, in assetto di guerra, sono accampati appena al di là del Corno d'Oro. Può essere un caso?» «Mi deludete, Demetrios. Avevate fama di saper vedere in profondità, di saper cogliere le verità nascoste che gli altri uomini non vedono. Non di affidarvi alle casualità.» «Può darsi che io veda più in profondità degli altri uomini, ma se trovo un uomo in piedi accanto a un cadavere, con un coltello che gronda sangue in una mano e un portamonete rubato, non lo lascio andare pensando che ci debba essere una spiegazione più sottile.» «In questo caso dovreste.» Krysafios giunse le mani. «Tre settimane fa l'esercito dei barbari aveva a malapena passato le nostre frontiere. Anche se l'attentato contro la vita dell'imperatore avesse avuto successo, loro non ne avrebbero tratto alcun vantaggio. E, a parte questo, sono venuti in nostro aiuto, per cacciare i Turchi e i Saraceni dalle terre in Asia e restituirle a noi, che ne siamo legittimi proprietari. Per quanto la folla possa temerli, sono nostri alleati, nostri ospiti benvenuti.» Non cercò di nascondere lo scetticismo che punteggiava le sue parole. «È sulla base di questa intesa che l'imperatore li tollera, e fornisce cibo per le loro pance e fieno per i loro cavalli.» «Ciò nondimeno», insistetti, «mi piacerebbe incontrare questi uomini. Anche se si tratta di una stupida fantasia, voi sapete che preferisco essere coscienzioso.» «Coscienzioso come lo siete stato nella cisterna?» Krysafios si prendeva gioco di me. Aelric e i suoi compagni avevano passato un giorno e una notte a sorvegliare l'entrata della cisterna, ma nessuno era uscito. Ne avevano concluso che il monaco doveva essere morto, ma io avevo insistito per trovare il cadavere e avevo condotto laggiù in perlustrazione parecchi uomini armati di torce e reti. Non avevamo rinvenuto nulla se non pesci: il monaco, a quanto pareva, si era dissolto come polvere nell'acqua. Ο più probabilmente, come aveva suggerito l'idrarca,
era sgusciato via attraverso uno dei condotti che alimentavano la cisterna. «Coscienzioso come lo sono stato nella cisterna.» Non mi ero fatto smuovere dai dubbi e dalle lamentele dei Variaghi, e non mi sarei sottomesso allo scherno dell'eunuco. «Il mio istinto ha solide basi, Krysafios, anche se non sempre si dimostra esatto. Ho bisogno di un lasciapassare per l'accampamento dei barbari, e magari di una lettera di presentazione per il loro comandante.» Gli occhi di Krysafios assunsero una luce pensierosa. «Dopotutto», aggiunsi, «anche se, come voi ritenete, l'uomo che voleva uccidere l'imperatore si trova ancora in città, non gli sfugge di certo che la presenza di un esercito straniero può offrirgli grandi opportunità di commettere i suoi misfatti.» Krysafios alzò lo sguardo. «Temo che vi facciate tentare troppo facilmente dalle digressioni, Demetrios, e rischiate così di diventare vittima delle vostre fantasie.» «Le mie fantasie, finora, mi hanno reso un buon servizio.» «Ed è per questo che vi offrirò l'opportunità che cercate. Domani l'imperatore manderà un inviato presso i comandanti barbari, e voi potrete accompagnarlo. Ben inteso, se riuscite a sopportare la loro puzza. Quando farete ritorno, verrete a riferirmi nel palazzo nuovo, accanto alle mura.» Il tragitto che conduceva fuori da quella corte mi era divenuto familiare nelle ultime settimane, e la mia faccia era ormai abbastanza conosciuta da far sì che le sentinelle non mi intimassero più il chi va là. L'inverno era infine entrato a palazzo; la gaiezza e le risate che ricordavo dalla mia prima visita erano state sostituite da un'atmosfera tetra, mentre le pareti dorate sembravano essere diventate opache. «Demetrios!» Almeno un uomo riusciva a manifestare un po' di calore: Sigurd, che mi si fece incontro lungo il portico. Aveva occhiaie scure, ancora più evidenti in contrasto con la pelle pallida, ma il suo saluto fu abbastanza cordiale. «Pensavo fossi alle mura.» Dopo l'arrivo dei barbari, c'era stata grande agitazione, e nella confusione avevo perso Sigurd. «Ero là. Ma i Franchi rimangono nel loro accampamento e sembrano abbastanza tranquilli, e, senza macchine da guerra ο navi, non sono in grado di procurarci guai.» «Ma non farebbero in ogni caso nulla per metterci nei guai! Krysafios sostiene che sono nostri alleati.»
Sigurd mi riservò un'occhiata come quella di un insegnante che si rivolge a uno studente particolarmente ottuso. «Quando ventimila mercenari stranieri sono accampati fuori delle mura della città, non ci si fida delle parole gentili e delle nobili intenzioni. Soprattutto quando si tratta di uomini infidi e avidi come i Franchi. L'imperatore non crederà che siano suoi alleati fino a quando non avranno sconfitto i suoi nemici e non saranno tornati nel loro regno. Fino a quel momento, li tratterà come ci si comporta con un leopardo addomesticato: con buona volontà e grande cautela. Diversamente, egli potrebbe scoprire un giorno che gli hanno divorato una mano, e magari anche molto di più.» Sigurd si grattò la barba. «Ma non ho tempo da perdere per cercare di salvarti dalla tua ingenuità, Demetrios, perché devo preparare la mia compagnia per la visita ai Franchi prevista per domani. Faremo da scorta all'ambasciatore dell'imperatore, lo stimato conte di Vermandois.» «Il conte di che?» «Vermandois.» «So che le terre dell'imperatore abbracciano una vasta parte del mondo, ma questo non sembra un luogo romano.» «No.» Sigurd sogghignò. «Si trova nel regno dei Franchi, non lontano dalla mia patria. Il conte è il fratello del loro re, a quanto pare.» «Ed è lui che l'imperatore ha scelto come suo emissario presso i barbari?» «È stato qui per qualche settimana come gradito ospite dell'imperatore. Uno sventurato naufragio lo ha privato di un'entrata in scena più grandiosa. Il periodo trascorso qui lo ha convinto a giurare lealtà all'imperatore, perché qui finalmente ha trovato un uomo che rispetta il suo rango e lo premia con tutte le ricchezze e le donne che merita.» «È stato comprato.» Sigurd mi ammonì con lo sguardo. «Sì, Demetrios, certo. Proprio come te.» Ero stato comprato, ma il mio prezzo era una misera bagattella rispetto a quello che il conte di Vermandois - Ugo il Grande, come si faceva chiamare - doveva aver preteso. Ci apparve davanti il mattino seguente, dopo un'ora di attesa, con indosso un abito le cui stesse fibre sembravano essere state filate usando perle e smeraldi. La sua pelle era pallida e levigata come seta sotto i capelli dorati: senza dubbio desiderava avere un aspetto magnifico, quasi angelico, ma i suoi occhi erano troppo freddi, troppo pe-
tulanti per ottenere lo scopo. Neppure della barba poteva vantarsi, poiché sembrava una creazione recente: una cosa sottile, irregolare che non sarebbe sembrata fuori posto su un adolescente. Non ci rivolse la parola; montò in sella alla testa della nostra colonna, chiuso in un arrogante silenzio. Dovevano esserci una cinquantina di Variaghi disposti su due file, guidati da Sigurd, che aveva un aspetto particolarmente marziale con la maglia di ferro e l'elmo scintillanti. Le asce d'ordinanza delle guardie erano appese ai loro fianchi, e al loro posto brandivano delle belle lance sormontate da pennacchi che sventolavano nella brezza. Da ultimi, padre Gregorias e io - con indosso un saio da monaco eravamo una coda tutt'altro che adeguata per il glorioso corteo. Spronammo i cavalli al trotto e uscimmo dal palazzo, attraversammo l'Augusteo e scendemmo per la vasta Mese. La nostra solennità attirò la folla, che iniziò ad agitarsi intorno a noi convinta che la nostra presenza preannunciasse un'apparizione dell'imperatore; ma quando tutti si accorsero che non era un Romano a guidare la nostra colonna, ma di fatto un barbaro, le loro urla si tramutarono in scherno, e ci volsero le spalle. Non essendoci più un varco aperto dinanzi a noi, le nostre file si dispersero in modo irregolare, dato che ogni uomo doveva aprirsi la propria strada attraverso la folla. Avevo indossato il cappuccio, per conservare l'anonimato così come per stare al caldo, ma a quel punto lo spinsi indietro in modo che coloro che mi circondavano potessero vedere che ero un loro simile. La cosa sembrò facilitare un po' il mio compito. Alla porta dei Laghi ci arrestammo, all'ombra del nuovo palazzo nel quale, secondo quanto si diceva, l'imperatore Alessio intendeva stabilire i suoi quartieri privati. Sigurd impartì imperiosamente un ordine, e una fanfara di trombe risuonò dalla torre mentre i cancelli si aprivano. Era uno spettacolo grandioso, anche se non so chi potesse impressionare a parte il conte. Attraversammo l'arco e uscimmo dalla città, mantenendoci nei pressi delle placide acque del Corno d'Oro. Circa due miglia ci separavano dal villaggio dove i barbari si erano accampati, ma lungo tutto quel percorso non incontrammo quasi anima viva. Nessuno lavorava i campi, nessuno percorreva la nostra strada; neppure una gallina becchettava ai lati del sentiero, nessun filo di fumo si levava dalle abitazioni che incontravamo. Rammentai i racconti di Aelric sulla desolazione che i Normanni avevano portato nella sua terra, e rabbrividii al pensiero che la stessa cosa potesse accadere da noi.
Presto, tuttavia, numerosi segnali di vita apparvero dinanzi a noi: il fumo di un centinaio di fuochi, sebbene fosse solo mezzogiorno, e l'odore che uomini e cavalli portano ovunque si stabiliscano. Potevo distinguere un cordone di soldati a cavallo dispiegati lungo l'orizzonte e sul crinale delle colline in lontananza, distanziati tra loro come le torri che sormontano le mura di una città. Mentre ci avvicinavamo, uno di loro ci apostrofò. «Chi percorre questa strada?» «Il conte Ugo il Grande», rispose Sigurd. «E la sua scorta. Siamo qui per recare un'ambasciata da parte dell'imperatore. E che possa tornarci utile», aggiunse in un soffio. «Dovrete avere pazienza», osservò la sentinella. Eravamo abbastanza vicini perché potessi notare che si trattava di un Pecenego dal volto sfregiato e gli occhi sottili, appartenente a un'altra delle legioni mercenarie dell'imperatore. Parlando con Sigurd e Aelric, avevo scoperto che persino i Variaghi nutrivano nei loro riguardi un riluttante rispetto. «I Franchi vi hanno assoldato come guardie per la sicurezza del campo?» chiese Sigurd. «Dovreste proteggere l'imperatore, non questi figli di buona donna.» «Noi li proteggiamo da loro stessi», rispose il Pecenego con un ghigno sdentato. «Vengono in nome della Croce, dicono, così noi manteniamo le loro anime al sicuro dalle preoccupazioni del mondo esterno. Come fra le mura di un monastero.» «Ο di una prigione.» «Ο di una prigione.» Il Pecenego fece arretrare il suo cavallo, invitandoci a passare. «È strano, la scorsa notte ci siamo azzuffati con alcuni di loro. Hanno detto più ο meno la stessa cosa.» Proseguimmo, facendo il nostro ingresso in quella città improvvisata che si era materializzata sulla nostra pianura come una nuova Gerusalemme. Erano lì solo da quattro giorni, ma già il terreno era ridotto a fango per il passaggio di migliaia di piedi, e gli alberi erano stati abbattuti per farne legna da ardere. I fabbri e i maniscalchi avevano costruito rudimentali fucine e incudini al riparo delle tende, e le scintille sprizzavano attraverso il fumo azzurro mentre il lavoro ferveva per far fronte all'incessante richiesta di armi e di ferri per i cavalli. Ambulanti di una dozzina di razze diverse vantavano le loro merci insolite e multiformi, mentre a ogni angolo di quella tendopoli c'erano donne che urlavano le loro offerte, perfettamente comprensibili in qualunque lingua fossero pronunciate. Molti di quelli che vedevo, mi accorsi, appartenevano alla mia stessa gente, e chiaramente
dovevano essere passati attraverso il cordone dei Peceneghi di nascosto, ο corrompendo qualcuno. Giungemmo alla fine in quella che in precedenza era stata la piazza del villaggio, e che era ora occupata da una vasta tenda. I cavalieri che stazionavano in gruppo dinanzi a essa sembravano più alti e più forti delle creature macilente che avevamo visto fino ad allora, e c'era una certa durezza nel loro atteggiamento. Appeso a un rozzo palo alle loro spalle, a fianco dell'ingresso del tendone, c'era un drappo con una croce rosso sangue e una frase in caratteri barbari: DEUS LE VOLT. «Dio lo vuole», mi sussurrò all'orecchio padre Gregorias. «Davvero?» Il conte Ugo smontò da cavallo con una smorfia, mentre i suoi stivali di pelo affondavano nel fango. Sigurd e i Variaghi più vicini lo imitarono. «Alt.» Una guardia in piedi accanto all'ingresso abbassò la sua lancia per bloccare il passo al conte e pronunciò qualche parola con tono rude. Il nobile rispose rabbiosamente, ma con scarsi risultati. «Dice che nessuno può entrare nella camera del suo signore con le armi», spiegò padre Gregorias. «Il conte risponde che l'essere privato della sua scorta rappresenta una offesa al suo onore.» Onore ο meno, alla fine il conte accettò che i Variaghi attendessero all'esterno, durante il suo colloquio con i barbari. Gregorias e io ci avvicinammo. «I miei segretari», ci presentò bruscamente il conte. «Così che nessuno possa riportare falsamente ciò che verrà detto.» La guardia ci scrutò con la stessa diffidenza che aveva riservato ai Variaghi che brandivano le loro asce, ma ci lasciò entrare nella penombra della tenda. Ci volle qualche istante perché i miei occhi si adattassero, poiché all'interno l'unica luce proveniva da un candelabro a tre bracci posto su una cassapanca di legno, e dai deboli bagliori dei carboni che ardevano in un braciere di ferro. Dietro il palo che sosteneva il soffitto conico c'era un tavolaccio con due scanni sui quali sedevano due barbari intenti a discutere. Per il resto, la sala era vuota. Il conte avanzò verso lo spazio centrale, l'unico punto nel quale non era costretto a curvarsi, mentre Gregorias e io ci appollaiammo su una panchetta di fianco all'ingresso. Da quel momento in poi, tutta la discussione si svolse in lingua franca, ma, scrutando ciò che Gregorias scarabocchiava velocemente, e con l'ausilio saltuario delle sue spiegazioni sussurrate quando le mani non riusciva-
no a tener dietro alla velocità dei dialoghi, riuscii a comprendere abbastanza bene tutto quanto. Con il cerimoniale consacrato dal tempo che è proprio degli ambasciatori, il conte iniziò annunciando se stesso. «Sono Ugo le Maisné, secondo figlio di Enrico, re dei Franchi, conte di Vermandois...» «Sappiamo chi sei.» L'interruzione fu tanto inaspettata quanto brusca, e giunse dall'uomo alla destra del tavolo, un individuo alto, dai neri capelli scarmigliati e dalla pelle così pallida da sembrare quasi luminosa. Sembrava che un'abitudine da lungo tempo coltivata avesse bloccato i suoi lineamenti in un perenne sorriso di scherno. «E ti diamo il benvenuto, conte Ugo.» L'altro barbaro parlò con un tono calmo e diplomatico, in aperto contrasto con il suo compagno. I suoi capelli erano biondi, ma più scuri e più lunghi di quelli del conte, e i mesi di viaggio gli avevano conferito un colorito sano che gli donava. Indossava un bell'abito color ruggine, e si sporgeva in avanti sopra il tavolo con un atteggiamento serio e non privo di calore. «Avevamo sperato di ritrovarti qui sano e salvo.» «Affettato come un Greco, e vestito come uno dei loro eunuchi. Hanno fatto di te la loro puttana, Ugo, ο ti hanno ricoperto di così tante bugie dorate che ti sei scordato dei tuoi veri compatrioti?» «Pace, fratello», lo rimproverò l'uomo biondo. Ma la delicata pelle del conte era già in fiamme, e il mento gli tremava. «Il grande imperatore Alessio mi concede questi doni in onore del mio rango», strillò. «E io li indosso in segno di cortesia verso di lui. Pensaci, Baldovino Senza Terra: una sola fibra di questo abito potrebbe comprare più di quanto tu possa permetterti nella tua miserabile posizione, e tuttavia non è che la minima parte dei magnifici doni dell'imperatore.» Volse lo sguardo verso l'altra estremità del tavolo. «Comunque, l'imperatore sarà altrettanto generoso nei tuoi confronti, duca Goffredo. Nel suo palazzo vi sono tesori quali non si sono mai visti nella cristianità, ed egli è desideroso di donarli agli uomini dotati di vera fede, a coloro che seguono il sentiero di Cristo.» Baldovino tentò di replicare ma suo fratello lo bloccò, parlando per primo. «Non sono venuto qui in cerca di favori, conte Ugo, e il vero pellegrino ha bisogno di poco bagaglio lungo la sua santa via. Anche quando il sentiero si fa più periglioso, una spada e uno scudo e un po' di foraggio per il mio cavallo mi sono più che sufficienti.» Con un gesto indicò l'ambiente circostante. «Tu vedi il mio alloggio: un pavimento nudo e un posto nel
quale trattare i miei affari. Non mi servono encomi né ninnoli da parte del re dei Greci, solo un passaggio sicuro al di là dello stretto per i miei uomini. Se ce lo concede, entro una settimana me ne sarò andato. Non ho intenzione di sprecare il mio tempo qui.» Il conte spostò il peso da un piede all'altro. «L'imperatore plaude al tuo nobile proposito, duca Goffredo, perché la purezza del tuo cuore è ben nota anche in queste terre lontane. Egli sarà lieto di fare ciò che è in suo potere per propiziare la tua vittoria definitiva sui Saraceni. Tutto ciò che chiede è che tu prometta di restituirgli, come è suo diritto, qualunque territorio tu conquisterai ai Saraceni e che in precedenza gli sia appartenuto.» Il pugno di Baldovino si abbatté fragorosamente sul tavolo, sparpagliando le carte che vi erano posate. «Ci chiede cosa? Di sacrificare le nostre vite in modo che la sua miserabile nazione di grecucci possa tornare a diffondere la sua semenza bastarda nelle terre che la sua debolezza non è riuscita a difendere? Noi combattiamo per Dio, conte, non per la gloria dei tiranni. Tutti i territori che conquisteremo in battaglia apparterranno a noi, guadagnati con le nostre spade e pagati con il nostro sangue. Se il tuo padrone li vuole, può venire a reclamarli di persona. In combattimento.» Il duca Goffredo si accigliò. «Mio fratello parla rudemente», disse a Ugo, «ma c'è del vero in quel che dice. Sono venuto per servire Cristo, non gli uomini, e ho già giurato fedeltà all'imperatore Enrico. Non posso servire due padroni.» «Non nominare l'imperatore Enrico all'imperatore Alessio», lo mise in guardia Ugo. «La cosa non gli fa piacere.» «Se Alessio mi fornirà le imbarcazioni per attraversare lo stretto, non avremo neppure bisogno di incontrarci. Non mi servono le lusinghe dei re.» «E non chiamarlo re. Egli pretende il rispetto dovuto alla sua carica, invitta dai giorni dei primi Cesari.» Baldovino si alzò di scatto. Girò intorno al tavolo, vi si fermò dinanzi, sollevò l'orlo della sua tunica e spruzzò un getto di urina sul pavimento accanto ai piedi di Ugo. Il conte balzò indietro con orrore, sollevando la sua preziosa veste come una ragazza. «Te lo mostro io il rispetto dovuto alla sua carica», sogghignò Baldovino. «Non può implorare il nostro aiuto e poi trattarci come zotici. Digli che dovrà lasciarci passare, altrimenti potrebbe scoprire a un certo punto di non avere più un regno sul quale governare.» «Se solo tu possedessi qualche terra, Baldovino duca-di-nessun-posto, potresti avere una pallida idea di cosa significhi regnare.»
«Meglio non possedere alcuna terra che ottenerla fottendo una principessa norvegese come hai fatto tu, conte.» «Basta!» Il duca Goffredo si alzò frapponendosi tra i due. Era anch'egli di alta statura, anche se non quanto il fratello. «Non dovrebbero esserci liti tra noi qui. Sei venuto come ambasciatore del re, conte Ugo, perciò dimmi semplicemente: quando potremo attraversare lo stretto?» Ugo sporse in fuori il petto come un uccello canterino. «Non appena avrai pronunciato il giuramento che l'imperatore richiede, di restituirgli le terre che sono sue di diritto.» «Tu sai che non posso farlo.» «Ti prego, duca Goffredo, devi farlo. Ο almeno vieni a palazzo con me. Il mio signore Alessio ti invita a festeggiare con lui la ricorrenza di San Basilio e a godere della sua ospitalità. È un uomo ragionevole e generoso. Sono sicuro che un'ora in sua compagnia ti convincerà dell'opportunità di un'alleanza.» Goffredo scosse lentamente la testa. «Non credo che ciò possa essere utile.» «E chi ci dice che se entriamo in città potremo poi uscirne?» chiese Baldovino. «Ho sentito dire che il fratello del re dei Franchi vi entrò da uomo libero e ne uscì ridotto a schiavo, avvolto in catene dorate e con le palle tagliate. Come si comporterà con noi il re dei Greci, una volta che saremo entrati nella sua fortezza? Preferirei entrare disarmato nella corte del califfo saraceno, perché almeno quello mi pugnalerebbe al petto, e non alle spalle.» «Credo che ciò che mio fratello intende dire», disse Goffredo a disagio, «è che non comprende perché tu voglia farci incontrare con questo re straniero. Egli si è già dimostrato ostile alla nostra gente per il trattamento che ha riservato all'eremita Pietro e al suo esercito di umili che giunsero qui prima di noi. Ora tenta di estorcerci giuramenti e impegni solo per consentirci di proseguire il nostro viaggio? Non mi fido di lui né delle sue offerte. Riferisci questo: 'Prega il Signore Dio tuo, e servi solamente Lui'.» «E digli anche che noi non siamo che l'avanguardia di un esercito più grande, e che presto le nostre decine di migliaia diventeranno centinaia di migliaia. Vedremo se oserà ancora sfidarci quando saranno arrivati.» Baldovino tornò a sedersi dietro al tavolo, e iniziò a togliersi il sudiciume da sotto le unghie. «Aspetterò qui finché non ci concederà il permesso di passare», concluse Goffredo. «Ma non mi consegnerò come ostaggio nella sua città. E anche
tu faresti meglio a riconsiderare la tua posizione.» «Ritornerò dall'imperatore», rispose Ugo furioso. «E resterò suo ospite onorato. Ripensateci quando arriverà la pioggia, e l'acqua si alzerà sotto il vostro misero letto di paglia, quando le vostre spade e le vostre armature arrugginiranno e la febbre divorerà le vostre membra. Allora rimpiangerete questa ostentazione di orgoglio. Ma l'imperatore è un uomo clemente: quando deciderete di dimostrargli il rispetto che gli è dovuto, vi accoglierà come si accoglie il figliol prodigo. Fino ad allora, potete restarvene qui a marcire.» ις Avevo sperato di poter disporre di un paio d'ore per esplorare l'accampamento con padre Gregorias, e individuare qualche indizio che testimoniasse la presenza del monaco, ma la cosa era chiaramente impossibile. Il duca Goffredo poteva aver dato prova di una certa rude cortesia, ma la rozza malevolenza di suo fratello Baldovino rispecchiava perfettamente i sentimenti che vedemmo dipinti sui volti che ci accolsero all'uscita dalla tenda. Mentre risalivamo in sella, notai che il conte Ugo aveva deciso di non riprendere la sua posizione alla testa della colonna, ma di restare indietro in mezzo ai Variaghi. Gregorias e io non godemmo della stessa sorte: ci trovammo nuovamente in coda al corteo, e fummo costretti a sopportare una mezz'ora di tensione nel continuo timore di essere disarcionati e massacrati, ο di ritrovarci una freccia in mezzo alla schiena, finché finalmente non attraversammo il cordone dei Peceneghi. Alla porta dei Laghi ci arrestammo nuovamente, questa volta per permettere a Ugo di abbandonare la colonna e di entrare attraverso un altro portone nel primo cortile del palazzo nuovo. Rammentando che Krysafios mi aveva ordinato di presentarmi a rapporto proprio lì, lo seguii. In contrasto con la decadente, disordinata estensione del vecchio palazzo, che era andato espandendosi nel corso di molti secoli, quello nuovo era un edificio compatto, la cui crescita era esclusivamente, vertiginosamente verticale. Era edificato su una collina, con una vista che dominava il Corno d'Oro a nord e la linea dei bastioni a sud. La maggior parte dei muri era ancora priva di intonaco, ma non c'era nulla che assomigliasse al caotico cantiere che avevo visto a casa di Domenico. Un ragazzo venne a prendersi cura dei nostri cavalli, e una guardia ci guidò su per una ripida scala fino a un'alta terrazza, dove due porte dai
battenti bronzei si aprivano su una sala dagli alti soffitti a volta. Non c'era alcun ornamento ο decorazione sulle pareti, e i pavimenti di marmo erano in linea con il semplice stile moderno. Ma la vista in fondo alla sala toglieva il fiato: una fila di finestre ad arco a tutta altezza, che si affacciavano sull'oscura distesa dell'accampamento dei barbari. La stanza doveva essere stata costruita al di sopra delle grandi mura, pensai, al limite estremo delle nostre linee difensive. Bisognava sentirsi molto sicuri di sé per affacciarsi a quelle finestre, e notai che nessuno dei presenti aveva ritenuto di correre quel rischio. «Conte Ugo. Quali buone nuove?» Era Krysafios, che aveva appena interrotto la sua conversazione con il sebastocratore Isacco. «Nessuna.» Ugo si diresse verso una sedia finemente lavorata e intarsiata d'oro, e vi si lasciò cadere. «Sono intollerabili, i miei compatrioti, con il loro falso orgoglio e le loro minacce inconcludenti. Non hanno alcun attaccamento per la nobiltà, nessun rispetto per chi è migliore di loro. Non si può discutere con loro.» «Minacce?» Isacco gli rivolse uno sguardo penetrante. «Quali minacce?» «Nulla che possa turbare un uomo della vostra potenza. Vogliono solo delle imbarcazioni per attraversare lo stretto, e dicono che poi se ne andranno. Ma non pronunceranno il giuramento che l'imperatore richiede.» «Con le barche potrebbero assalire le mura dalla parte del mare, coglierci di sorpresa.» Isacco andava su e giù per la stanza in preda all'agitazione. «Quali sono state esattamente le loro minacce?» Ugo si passò sulla fronte un fazzoletto ricamato, che rimase macchiato di sudiciume. «Hanno detto di essere solo l'avanguardia di un esercito più grande - esattamente come io stesso vi avevo preannunciato - e che l'imperatore non potrà sfidarli quando si saranno riuniti. Hanno detto... non ricordo con precisione. I vostri segretari hanno preso nota di tutto, credo.» Isacco e Krysafios mi guardarono. «Allora, mio segretario spione, cos'avete scoperto?» chiese l'eunuco. «Ben poco», ammisi. «Non erano molto propensi a fornire delle risposte. Erano in due, il duca Goffredo e suo fratello Baldovino. Goffredo è un uomo retto, direi, ma testardo: non si farà distrarre dai suoi progetti. Baldovino è molto più pericoloso. Non ha nulla da perdere e una fortuna da conquistare, ed è divorato dall'orgoglio e dall'invidia. Penso che voglia conquistare un regno per sé, dove e come non importa.» «E pensate che possa giungere al punto di far uccidere l'imperatore per
ottenere il suo scopo?» La voce di Krysafios era acuta. «Credete che sia in combutta con il monaco?» Riflettei sulla questione. «Non penso. Non ha l'aria di essere così scaltro.» «Esattamente quello che un uomo scaltro vi avrebbe indotto a credere.» «Ha detto anche che sono venuti qui su richiesta dell'imperatore. È vero?» «Bah!» Isacco smise di camminare nervosamente e mi guardò. «Due anni fa inviammo degli ambasciatori alla loro Chiesa per richiedere una compagnia di mercenari. Non chiedemmo un esercito di decine di migliaia di uomini, comandato dai nostri nemici di un tempo e piegato ai loro fini personali. Si sono serviti della nostra richiesta come di un pretesto, Demetrios, perché è risaputo che vorrebbero rovesciare il nostro potere ed elevare se stessi al rango di padroni dell'Oriente.» «Devo protestare, mio signore», replicò Ugo. «Non posso parlare per tutti i miei compatrioti, ma sicuramente per la maggior parte di loro. Siamo venuti spinti da nobili motivi, per liberare la Terra Santa e la grande città di Gerusalemme dal giogo dei Turchi, così che tutti i cristiani siano liberi di seguire i passi di nostro Signore Gesù Cristo. Non lasciate che le ambizioni di un'infima minoranza oscurino la virtù dei più.» «Un esercito che intenda liberare Gerusalemme non serve a molto, dato che il sultano mantiene la sua corte a Nicea», osservò Isacco. «E serve ancora meno se resta accampato fuori delle mura di Costantinopoli. Se desiderano veramente pregare dinanzi al Santo Sepolcro, allora dovrebbero pronunciare il giuramento e incamminarsi, non proferire minacce contro l'imperatore.» Ugo giunse le mani. «Lo so, Isacco, mio signore. Sapete bene che, se il mio esercito non fosse andato perduto nella tempesta e nel naufragio, io già mi troverei a Gerusalemme. Ma questi non sono uomini ragionevoli, e temono le astuzie dei Greci. Potrebbero interpretare in maniera sinistra persino la vostra generosità, che io so bene essere solamente carità cristiana.» «Se non intendono accettare i nostri doni, allora potranno farne a meno fino a che non ritroveranno il buonsenso», esclamò Krysafios. «Si ordini all'eparca di ridurre la loro provvista di grano. Vedremo per quanto tempo sopporteranno la pancia vuota e le piogge invernali. E prepariamoci a farli trasferire dall'altra parte del Corno, a Galata. Là saranno più lontani dalle tentazioni e più facili da contenere.»
«E per quanto riguarda il mio incarico?» tentai di chiedere. «Come desiderate che io proceda?» Krysafios mi fissò. «Come ritenete più opportuno, Demetrios, come ritenete più opportuno. Che il comandante dei barbari voglia rovesciare il nostro potere ο meno, non dubito che approfitterebbe di qualunque nostra debolezza per provocare tutto il male possibile. Perciò, chiunque sia colui che vuole l'imperatore morto, fareste meglio a trovarlo in fretta. Andate ora.» Tornai a casa rapidamente, perché era passata meno di una settimana dal culmine dell'inverno e le giornate erano ancora corte. Non potevo più permettermi di ignorare il coprifuoco, avendo perso la mia scorta di Variaghi da quando avevo rimandato Thomas al monastero di Anna, perché imparasse la nostra lingua e le nostre usanze, e per tenerlo lontano dalle mie figlie. Elena, in particolare, non me lo aveva perdonato, né mi aveva perdonato i rimproveri ricevuti per il suo contegno impudico quella mattina che avevo trovato Thomas nella sua stanza. Mi aveva convinto che fra loro non era accaduto nulla di più reprensibile di una chiacchierata, e Zoe, per una volta, aveva sostenuto la sua versione, ma tutto ciò era servito a placarmi solo in parte. E non aveva mutato la mia decisione di mandare via il ragazzo. A Elena la cosa ancora bruciava. «Dopo che è stato rapito e ridotto in schiavitù da quel monaco malvagio, come hai potuto rinchiuderlo in un monastero? Diventerà pazzo.» «Dubito che i monaci di Sant'Andrea lo costringeranno a impugnare un arco e ad attentare alla vita dell'imperatore. E perché non c'è carne in questo stufato? Il digiuno è terminato tre giorni fa.» «Il digiuno continuerà finché l'esercito barbaro non se ne sarà andato. Almeno, questo è ciò che si sente dire. Pochi portano le loro bestie al mercato, per paura che finiscano fra le grinfie dei Franchi e dei Celti, e quei pochi animali che vi arrivano vengono comprati dal commissario imperiale e portati via per nutrire i nostri nemici. Così noi soffriamo la farne.» «'Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare del pane; se ha sete, acqua da bere, poiché così tu accumuli carboni ardenti sul suo capo e Dio te ne ricompenserà'», le dissi. «Oggi ho incontrato il fratello del re dei Franchi.» «Era grasso?» «Difficile a dirsi. Indossava un abito ampio, che non gli donava. E non aveva carboni ardenti sul capo.»
«Ha detto quando se ne andranno?» chiese piano Zoe. Era in un'età nella quale il più piccolo cambiamento d'umore poteva farla sembrare quasi una donna ο a malapena una bambina. Ora sembrava solo spaventata. «Non sta a lui decidere. Hanno bisogno del permesso da parte dell'imperatore.» «Allora l'imperatore dovrebbe concederglielo e lasciare che se ne vadano.» Il suo tono di voce si stava alzando, le parole le uscivano in modo confuso, e si arrotolava i capelli intorno a un dito come non faceva più da molti anni. Cercai di parlare con gentilezza. «Perché? Hai fame, Zoe? L'imperatore non può semplicemente lasciare che un'orda di barbari attraversi il suo impero. Deve accertarsi che venga loro impedito di causare qualunque danno.» «Be', dovrebbe mandarli via. Le strade sono piene di stranieri, e non c'è cibo, e presto sarà la festa di San Basilio e non potremo celebrarla come si deve, e intanto ci sono migliaia di Franchi alle nostre porte, armati di tutto punto e pronti per la guerra. Odio tutto questo. Voglio che i barbari se ne vadano, e che la città torni a essere normale.» «Anch'io.» Le passai un braccio intorno alle spalle e l'attirai contro il mio petto. «Senza dubbio l'imperatore ordinerà di farli partire il più presto possibile.» Ma non lo fece. Per tutto un lungo e umido mese di gennaio i barbari rimasero accampati all'imbocco del Corno d'Oro, mentre io cercavo con un senso crescente di frustrazione di individuare una qualunque traccia del monaco, per capire se fosse vivo ο morto, e, nel caso fosse vivo, se fosse in combutta con l'esercito dei Franchi ο meno. Non trovai nulla. Dopo un paio di settimane iniziai io stesso a dubitare, a chiedermi se non fosse veramente morto in quella gelida cisterna. Sarei andato volentieri a setacciarla di nuovo, ma non ero più in grado di ottenere che le mie richieste fossero immediatamente accolte a palazzo: a mano a mano che le giornate trascorrevano infruttuose, i miei incontri con Krysafios diventavano sempre meno frequenti, e le ore di attesa nei corridoi affollati aumentavano. Gennaio passò: il giorno del prelato Basilio, poi l'Epifania, e anche la festa di Gregorio il Teologo, e ancora, per quanto potevo vedere, i barbari non sembravano disposti a venire a più miti consigli. Ogni giorno portava
nuove voci: altri grandi eserciti a Tessalonica, a Eraclea ο persino a Selimbria, villaggi razziati ο bestiame rubato, barbari che durante la notte entravano dalle finestre e rubavano. Poiché il mio incarico mi portava ancora occasionalmente a palazzo, forse avevo la possibilità di sentire più spesso storie di questo tipo, rispetto alla maggioranza delle altre persone, tuttavia i pettegolezzi scambiati in quei corridoi dorati non sembravano più credibili di quelli che si sentivano al mercato. E la nostra fame continuava ad aumentare, le strade erano sempre più affollate di gente venuta a cercare rifugio, i barbari continuavano a sembrare al tempo stesso i nostri assedianti e i nostri alleati. Una sera, pochi giorni prima dell'inizio di febbraio, giunse a casa mia un messaggero con indosso la livrea del palazzo. «Vengo da parte del mio signore, l'imperatore», annunciò. L'acqua gocciolava dall'orlo del suo mantello e bagnava il pavimento. «Davvero?» Ormai da qualche giorno aspettavo quel momento, la notizia che i miei servigi non erano più richiesti. Non potevo dire che al posto dell'imperatore avrei agito diversamente. «I condottieri barbari hanno accettato di inviare ambasciatori per incontrare l'imperatore e discutere le sue richieste; l'imperatore teme che il monaco possa cercare di penetrare nel palazzo facendosi passare per un membro del loro seguito. Poiché voi siete l'unico Romano che ha visto quell'uomo ed è vissuto abbastanza da poterlo raccontare, egli vi chiede di essere presente.» Era confortante sapere che a palazzo c'era ancora qualcuno che pensava al monaco. «Ci sarò», risposi. Non sarebbe stato bello vedere l'imperatore assassinato davanti agli emissari dei barbari, e sarebbe stato interessante ascoltare quello che avevano da dire, dopo la sfida di cui ero stato testimone nel loro accampamento. Come minimo, si preannunciava un avvenimento spettacolare. ιζ Ι cimbali risuonarono, e mille guardie batterono i loro tacchi come un sol uomo. Una tromba solitaria intonò il suo motivo dolente e il coro riprese a cantare, con le voci che si alzavano di un semitono a ogni ripetizione. La luce di innumerevoli candele era riflessa dalle schiere di asce, dalle squame delle corazze, dall'oro e dall'argento degli abiti dei cortigiani, e dagli smeraldi, zaffiri, rubini e ametiste che li ornavano, un mosaico di
luce colorata. L'acclamazione imperiale risuonò nella sala. Guardate, la stella del mattino si avvicina la stella diurna avanza i suoi occhi uno specchio per il sole, Alessio, il nostro principe, castigo del Saraceno. Una dozzina di prelati erano fermi a un'estremità della sala, e le spire di incenso si levavano dai turiboli che ondeggiavano nelle loro mani. Cantavano un loro inno a contrappunto di quello principale, e ne sposavano il ritmo alla perfezione in maniera tale che le due melodie fluissero insieme come acqua. Un Egizio percuoteva un paio di tamburi di pelle di capra, raggiungendo il parossismo al termine di ciascun verso, fino a quando, con un'unica voce, tutti gli uomini nella sala gridarono: «Salve!» «Con tutti questi applausi, ci si aspetterebbe qualche segno di gratitudine da parte dell'imperatore», esclamò Aelric in piedi di fianco a me. Eravamo in una galleria posta al di sopra della sala principale, e osservavamo da dietro un arco chiuso da una tenda. Sotto di noi, su un trono collocato su un piedistallo di marmo, l'imperatore in persona sedeva immobile come una statua. Una stola tempestata di gioielli splendenti gli ricopriva il torace e le spalle, adagiata sopra una dalmatica di scintillante seta viola. Quando la luce la colpiva era possibile distinguere la raffinatezza dei motivi da cui era percorsa. Il diadema imperiale costellato di perle e pietre preziose gli copriva il capo, e un paio di leoni di bronzo giacevano come sentinelle ai suoi piedi. Alla sua destra, su una predella più bassa, sedeva il sebastocratore Isacco, abbigliato con un'eleganza tale da eclissare quella di chiunque altro a parte il fratello, mentre alla sua sinistra si trovava l'eunuco Krysafios. Al di sotto di loro, una galassia di nobili di rango inferiore e di vescovi gareggiavano tra loro quanto a opulenza degli abiti. Il coro di sacerdoti tacque, lasciando da solo il percussionista nel suo crepitante ritmo. Si alzò nel silenzio simile a un tuono, risuonando tra le pareti e le colonne; sembrò attenuarsi sotto di noi, ma l'eco all'estremità opposta della sala crebbe ancora più forte, finché non compresi che si era trasformata nel suono di qualcuno che bussava alla porta dorata che avevo di fronte. Krysafios alzò una mano e la porta si aprì, spinta dalle mani di un gigan-
te seminudo che entrò con il suo passo pesante, simile a un Polifemo dei nostri tempi. Era più alto di Sigurd almeno di una testa, e la sua pelle unta d'olio luccicava; guidava un gruppo di otto eunuchi che trasportavano sulle spalle argentei catafalchi, sulla sommità dei quali erano seduti due barbari che avevano l'aria di essere al tempo stesso a disagio e spaventati. I loro abiti erano banali e scialbi, privi della finezza e dell'eleganza che contraddistingueva quelli della nostra gente. Sembravano quasi smorzare lo splendore dell'atmosfera in cui si trovavano. Non riconobbi nessuno dei due. Gli eunuchi posarono i catafalchi sul pavimento dinanzi all'imperatore, si inchinarono profondamente e se ne andarono. I due sembrarono incerti se alzarsi ο restare seduti. Uno accennò a levarsi in piedi, ma subito la coppia di leoni bronzei ai piedi dell'imperatore prese vita. Le loro fauci si aprirono e si chiusero; le criniere fremettero, e le code percossero sonoramente il pavimento. I barbari rimasero lì a guardare a bocca aperta, come temendo di essere divorati da quei giocattoli meccanici. «Benvenuti alla corte del principe della pace», intonò Krysafios. «Egli vi ordina di presentare il vostro messaggio.» Dopo un'occhiata esitante in direzione del leone più vicino, che era tornato all'immobilità, uno dei Franchi si alzò e fece un breve inchino. La folla si agitò, e io immaginai che il protocollo prevedesse qualcosa di diverso, ma l'uomo rimase in piedi e pronunciò un breve discorso nella sua lingua. «Sono Goffredo di Esch, compagno di Goffredo, duca di Lorena.» Forse nella sua lingua la frase suonava grandiosa, ma l'intonazione monotona dell'interprete la privava di qualsiasi magnificenza. «È per ordine del duca Goffredo che io parlo qui, ο stella del mattino, nobilissimo imperatore.» «Chiaramente l'interprete ha ricevuto istruzioni di evitare guai», mormorò Aelric. «Dubito che le sue vere parole siano state anche solo lontanamente così umili.» Parlava con un tono leggermente vuoto, distaccato, molto distante dal suo abituale spirito pungente. Le sue nocche erano bianche mentre stringeva la balaustra, e sembrava oscillare lievemente, come se, privato di un sostegno, potesse cadere. Forse era preoccupato per l'incolumità dell'imperatore, io certamente lo ero. Un branco di barbari si era riversato nella sala al seguito dei capi; se ne stavano cupi vicino alla porta, e io li esaminai ansiosamente in cerca di qualche traccia del monaco. Tuttavia, con il fumo delle candele e l'incenso che mi facevano lacrimare gli occhi, e una luce radiosa che penetrava dalla porta, era difficile distinguere i particolari.
Il barbaro parlò nuovamente, anche se neppure una fibra degli abiti dell'imperatore si era mossa in segno di risposta. «Principe della pace, abbiamo percorso molte miglia, e attraversato molti pericoli, per venire in vostro aiuto, per unirci a voi nella guerra santa di Dio contro i Saraceni e gli Ismaeliti che infestano i luoghi più sacri della cristianità. Ma la strada è lunga, e abbiamo già sprecato un mese qui, mentre in terre lontane le scorrerie dei pagani continuano indisturbate. Vi chiediamo, grande imperatore, di concederci il permesso di partire da qui, e di fornirci i mezzi per attraversare le acque, per compiere al meglio l'opera di Dio.» L'interprete tacque, mentre ogni uomo nella sala tendeva le orecchie alla risposta di Krysafios. «Onorati ospiti, venuti da tutte le nazioni di Cristo, il serenissimo imperatore condivide fin nel profondo del cuore i vostri propositi. Egli ringrazia l'Unico Dio che voi siate venuti a combattere al suo fianco per la causa della giustizia, e non desidera vedere le vostre spade affilate spuntarsi nell'inerzia. Ma, prima che vi allontaniate dalle nostre mura, egli vi chiede di pronunciare il giuramento che per noi è consuetudine, di servirlo lealmente e di restituirgli ciò che gli appartiene di diritto, gli antichi possedimenti romani dell'Asia.» Un mormorio si levò dal fondo della sala, e il volto dell'ambasciatore si fece scuro. Neppure il tatto dell'interprete poté mascherare il vero significato delle sue parole, poiché parlò con tono rabbioso e ostile, puntando spesso il dito contro l'imperatore impassibile. «Grande stella del mattino, umilmente imploriamo la vostra indulgenza. Mentre nulla ci preme più del desiderio di vedere la vostra gloria e il vostro potere ripristinati nel loro pieno lustro...» Il traduttore incespicò, il suo talento nel giocare con le parole era evidentemente vicino a un punto di rottura. «Ma noi Franchi teniamo molto ai nostri giuramenti, e non li concediamo alla leggera. Chiediamo altro tempo per riflettere.» Le labbra di Krysafios si arricciarono. «Sappiamo bene quanto voi rispettiate i vostri impegni di lealtà. È per questo che vi onoriamo come alleati. Ma il munifico imperatore desidera che voi teniate a mente che egli non esita mai a dimostrare la sua gratitudine verso coloro che gli prestano aiuto.» Gli eunuchi che avevano introdotto i barbari ricomparvero, tenendo sospesi tra loro quattro scrigni di mogano. Avvicinandosi alle predelle sembrarono quasi inciampare, caddero sulle ginocchia e ribaltarono in avanti il
loro carico. Le casse si aprirono e i barbari trattennero il respiro, mentre un tesoro reale si spargeva sul pavimento. Calici e piatti d'oro, coppe e bracciali, collari incastonati di perle, innumerevoli gioielli scintillanti e in mezzo a tutto questo monete sufficienti a pagare un esercito. Entrambi i barbari erano balzati in piedi e si erano chinati per toccare i tesori che avevano davanti, con un'espressione di meraviglia dipinta sul volto. Uno raccolse una manciata di pietre e le lasciò lentamente ricadere dalle dita incredule. L'altro impugnò una coppa, e la fissò come se avesse trovato il calice di Cristo. «Grande è la ricompensa per coloro che giurano lealtà alla nostra causa», ribadì Krysafios. Ma i barbari non sembravano prestargli attenzione. Stavano discutendo animatamente fra di loro, e intanto gesticolavano indicando il tesoro. Sembravano essere in disaccordo. «La cosa li ha turbati», esclamò Aelric. «Così tanto oro può far cambiare idea a chiunque.» «Comprare le alleanze può essere una pratica dispendiosa. La fedeltà comprata con l'oro è come la carne al sole: si corrompe in fretta.» I due barbari conclusero la loro discussione e si volsero nuovamente verso Krysafios. Nonostante tutta la ricchezza ai loro piedi, nessuno dei due aveva un'aria felice. «L'amicizia dei Greci è un grande onore», disse l'interprete. «Ma nulla guadagna maggior pregio con la fretta. Chiediamo tempo, una pausa per recare questa offerta», e indicò con la mano il tesoro sparpagliato ai suoi piedi, «al nostro signore Goffredo.» «Il duca Goffredo avrebbe dovuto inviare ambasciatori che potessero garantire sui suoi intendimenti e parlare con la sua voce», rispose Krysafios. «Ma forse desiderate ritirarvi in una stanza privata per chiedere consiglio ai vostri cuori.» Gli ambasciatori annuirono con aria dubbiosa. Di nuovo, gli eunuchi si fecero avanti per sollevare le portantine, ma i barbari le disdegnarono, incamminandosi lungo la sala in direzione della porta. «Fermi», intimò Krysafios, e i due si bloccarono. «Nessuno può andarsene finché l'imperatore è presente.» Senza preavviso un rumore tremendo esplose nella sala, e una colonna di fumo ondeggiante si levò intorno al piedistallo su cui sedeva l'imperatore. I barbari trasalirono e si afferrarono l'un l'altro in cerca di aiuto, come se si aspettassero di sentire il morso bruciante di un fulmine sulle loro stesse
carni. Il fumo iniziò a diradarsi, e io sentii salire un'ondata di panico quando guardai giù verso il punto dove era stato seduto l'imperatore. Era scomparso, e con lui il trono dorato, i leoni bronzei, tutto quanto: tutto ciò che restava era un disco di marmo bianco levigato. Aelric doveva aver notato il mio pallore e la mia sorpresa. «Non preoccuparti, Demetrios», mi disse, toccandomi un braccio. «Non è una miracolosa arma barbara. Fanno sempre così, per fare colpo sugli stranieri.» C'era un accenno di derisione nella sua voce, ma ero troppo confuso per commentare. Guardando attraverso le ultime turbinanti spire di fumo, vidi gli ambasciatori affrettarsi verso la porta, lanciandosi nervose occhiate dietro le spalle. Notai che anche Krysafios e Isacco erano scomparsi. «Bene, io non ho visto traccia del monaco nel loro seguito. E tu, Aelric?» «Niente.» «Tuttavia, se preferisce assoldare altri per compiere la sua opera, chiunque tra loro avrebbe potuto essere pericoloso.» Era difficile pensare al monaco in quel momento: non mi ero ancora ripreso dalla meraviglia di essere stato così vicino all'imperatore e alla gloria che lo circondava. Stavo ancora ricordando la magnificenza che aveva accompagnato l'ingresso dei barbari, quando la porta alle mie spalle si aprì. Una certa agitazione nella stanza catturò la mia attenzione, ma fu solo al suono della voce che mi scossi dal mio sogno a occhi aperti. «Perché insistiamo con tutto questo teatro? Il fumo mi macchia gli abiti e mi scotta le guance. È un miracolo che non mi abbia bruciato la barba. Come apparirei ai barbari allora, Krysafios, con una guancia carbonizzata e senza peli?» «Serve al suo scopo, Sire.» Mi girai, dimenticandomi persino di inginocchiarmi. L'uomo che avevo visto così immobile e intangibile seduto su quel trono, il principe della pace, la stella del mattino, il cuore dell'impero, ora camminava a pochi passi da me. Sotto la barba ben curata, le guance erano rubizze, come quelle di un contadino; gli occhi dardeggianti erano sormontati da spesse sopracciglia. Anche sotto il suo abito largo era possibile cogliere l'ampiezza del torace e delle spalle, avvertire la forza delle braccia. Si muoveva con un'energia irrequieta, esponendo animatamente il suo pensiero a Krysafios e al sebastocratore, che rimanevano rispettosamente accanto alla porta. Mi gettai sul pavimento e resi il dovuto omaggio, irrigidito dall'appren-
sione. Avevo passato quasi due mesi pensando ossessivamente alla sua sicurezza, alle intenzioni e ai moventi dei suoi attentatori, ma come un'astrazione, un enigma: non lo avevo mai considerato come un uomo in carne e ossa, che viveva e respirava. Ora che lo vedevo camminare avanti e indietro in quella piccola stanza, era difficile immaginarlo altrimenti. «E questo chi è?» chiese, interrompendo la sua insofferente litania contro il cerimoniale. «Perché è qui?» «Demetrios Askiates, Sire», mormorò Krysafios. «È l'unico ad aver visto il monaco che ha tentato di assassinarvi durante la festa di San Nicola. È qui per proteggervi.» «Alzatevi, allora, Demetrios Askiates.» L'imperatore fissò su di me il suo sguardo curioso. «Ho sentito parlare di voi. Ma ditemi, siete in grado di proteggermi dalle esagerazioni incendiarie che le menti credule dei barbari richiedono?» «Sire...» balbettai. «Non importa. Quando ho accettato di sedere sul trono, sapevo che assassini, ingrati, invasori e usurpatori avrebbero tentato di depormi: ma non pensavo che avrei dovuto mettermi lì in posa come una statua con delle colonne di fumo tutt'intorno. Forse dovrei tirare giù dalla sua colonna il grande fondatore Costantino e mettere lui su quel trono. Andrebbe ugualmente bene.» «Ma non avete visto il terrore nei loro occhi, fratello?» chiese Isacco allegramente. «Hanno creduto che foste un qualche dio pagano dell'antichità, uno Zeus sceso a reclamare le loro anime.» «Temo che l'oro abbia avuto su di loro un impatto maggiore. Che ne dici, Krysafios?» «Temo che neppure lo splendore dell'oro riscalderà i loro cuori. Il tradimento era chiaro sui loro volti. Il loro condottiero li ha inviati come diversivo, per distrarci con la speranza di future promesse fino a quando la loro forza sarà tale che non potremo resistere. Allora sarà lui a venire, e a porre le sue condizioni.» «Il ciambellano ha ragione.» Le dita di Isacco giocherellavano con una perla che pendeva dal suo orecchio. «Se il duca Goffredo avesse voluto solamente infilzare i Saraceni in nome della sua Chiesa, avrebbe già pronunciato il giuramento e a quest'ora starebbe cingendo d'assedio Nicea, invece di lanciare minacce fuori delle nostre mura. Questo ritardo favorisce le sue ambizioni.» L'imperatore si appoggiò a una parete e osservò un'icona della beata
Vergine che vi era appesa. «Quindi i barbari sono in malafede. Questo lo sapevamo. Cosa proponete di fare con loro, fratello?» «Radunare le nostre truppe e affrontarli.» Non c'era alcuna esitazione nel tono di Isacco. «Quando vedranno l'imponenza delle nostre forze, accetteranno immediatamente le nostre richieste.» «E se non lo fanno?» sondò Alessio. «Le nostre legioni non sono più così invincibili come ai tempi di nostro nonno, ο anche di nostro zio. È per questo che i barbari sono venuti.» Si udì del chiasso alla porta, e tutti ci voltammo mentre Sigurd faceva il suo ingresso. Appoggiato sulle spalle aveva un mantello di pelle di lupo, mentre il suo usbergo proiettava luminosi riflessi a forma di mezzaluna sul pavimento. «Vi chiedo perdono, Sire.» Si genuflesse. «Gli ambasciatori chiedono di accomiatarsi. Tu cosa ci fai qui?» aggiunse, stupito. Pensai che si rivolgesse a me, ma il suo sguardo era puntato su Aelric. «Lascia che i barbari attendano», rispose Krysafios. «Potranno andarsene quando l'imperatore li congederà.» «Ancora fumo e balocchi», mugugnò Alessio. Mi riusciva difficile conciliare questa figura di uomo riluttante e pragmatico con quella dell'autocrate che controllava il destino delle nazioni. Isacco alzò lo sguardo. «Ma cosa dicono? Hanno accettato di pronunciare il nostro giuramento?» «Hanno addotto a pretesto di dover consultare il loro condottiero. Desiderano rimandare la decisione a un momento successivo.» «Se avevano bisogno dell'assenso del loro comandante, allora poteva venire lui di persona.» Isacco si batté un dito sulla palma di una mano. «Ve l'avevo detto, fratello, ci faranno ballare fino a quando non saranno in grado di colpirci. La nostra sola speranza sta nel colpire per primi.» «E se non si arrenderanno neppure davanti alle nostre truppe schierate? Cosa succederà se mi troverò in sella, alla testa della nostra cavalleria, e i barbari rifiuteranno le nostre richieste? A quel punto, ο farò la figura del codardo, ο sarò costretto a portare la guerra in casa. Uno scontro tra noi e i barbari farà ridere tutti alla corte del sultano, e non sarà di alcun aiuto per riconquistare la nostra eredità. E se saremo sconfitti in battaglia, allora che accadrà? Le nostre mura resteranno senza difesa, e i barbari potranno conquistare la città. Perderemo tutto.» «Non perderemo la battaglia, non contro questi barbari. Basta gettare un po' d'oro per terra, e loro ci si buttano sopra grufolando come maiali.»
«Dirrachio. Ioànnina. Ochrida. Arta. Vi siete scordato di queste battaglie, Isacco, solo perché non ci sono colonne ο archi trionfali che vi rinfreschino la memoria? Io non le ho scordate. I barbari là ci hanno sconfitto; e, quali che siano i loro limiti, ricordate che sanno combattere tanto quanto noi, e anche di più, se ci sono ricchezze da conquistare. Sono una razza di predatori e, se si convinceranno di potersi impadronire della nostra città, non esiteranno a rischiare il colpo.» Accanto alla porta, Sigurd spostò appena il peso da un piede all'altro. È il movimento non sfuggì all'imperatore. «Ma tu vuoi sapere cosa devi fare, vero? Riferisci loro, capitano, che...» Ero veramente curioso di sapere cosa avrebbe deciso l'imperatore, ma a quel punto un movimento al mio fianco mi distrasse dalle sue parole. Aelric, che era rimasto in silenzio accanto a me per tutto quel tempo, si protese in avanti, senza che gli fosse stato ordinato. Vacillava leggermente, come sotto un pesante fardello, e c'era nei suoi occhi un'espressione vuota e assente. Si sarebbe potuto pensare che avesse bevuto troppo, non fosse stato per la fermezza con la quale si tolse l'ascia dalla spalla e l'impugnò. Quel peso sembrò riequilibrarlo: il suo passo si fece più sicuro, e i muscoli del braccio si tesero mentre l'ascia si alzava al di sopra della sua testa. «Cosa...?» Quasi ottenebrato dalla sorpresa, e con un attimo di ritardo, realizzai l'impossibile verità e mi lanciai in avanti. L'imperatore ci volgeva le spalle, ma doveva aver capito che qualcosa non andava, perché iniziò a voltarsi; Krysafios stava guardando altrove, mentre Isacco parlava con Sigurd. Un arco di luce giocò sulla lama quando questa oscillò davanti alla lampada che pendeva dal soffitto, e un ruggito si levò dalla gola di Aelric. Per un istante il mio cuore sembrò arrestarsi, e insieme a esso anche il tempo, ma fortunatamente il mio corpo continuò a muoversi. Mi tuffai verso i piedi di Aelric, annaspando in avanti con le braccia per riuscire ad afferrarlo. La sua ascia stava già fendendo l'aria, quando sentii le mie dita sfiorare i suoi stivali dagli anelli di ottone. Strinsi la presa intorno a essi e mi buttai col peso in avanti a bloccare le sue gambe. Si udirono molte urla, ma tra tutte anche il suo grido. Le sue ginocchia si piegarono, e cadde in avanti, urtandomi con gli stinchi mentre l'ascia colpiva il pavimento. Cos'altro poteva aver colpito nel suo percorso non ero in grado di dirlo. Lo slancio ci fece scivolare sul marmo, finché non riuscimmo a fermarci. Ma nemmeno allora si diede per vinto. Si liberò della mia presa e iniziò a rialzarsi, l'ascia ancora stretta in pugno.
Un ruggito risuonò dall'alto, e alzai lo sguardo. Sigurd era in piedi sopra di me, una torre di rabbia e furia. Il suo volto era cinereo, scosso, ma nei suoi occhi non c'era la minima traccia di pietà. «Ci hai traditi», disse in un soffio. «Hai tradito tutto.» La sua ascia si abbatté, e del sangue caldo schizzò sulla mia guancia. Poco lontano, la testa di Aelric rotolò libera sul pavimento. ιη Per un momento rimanemmo immobili come le icone sui muri: Sigurd, Alessio, Krysafios, Isacco e io. Il sangue zampillava dal collo di Aelric, inzuppandomi il vestito, ma io non avevo la forza di muovermi. Una goccia di sudore, ο forse una lacrima, scivolò lungo la guancia di Sigurd, mentre le maglie della sua corazza si tendevano e si allentavano seguendo il movimento del suo petto ansimante. Il sebastocratore Isacco fu il primo a ritrovare la voce. «I barbari», sibilò. «Devono aver progettato tutto questo per uccidervi nel vostro stesso palazzo e impadronirsi della corona nel momento stesso in cui fosse scivolata dalla vostra testa. Uccidiamoli subito e poi prendiamo d'assalto il loro accampamento.» Vidi Krysafios annuire alle sue spalle, ma Alessio sollevò stancamente una mano per calmarli. C'era uno squarcio nella sua manica, dove Aelric aveva sferrato il suo ultimo rapido colpo. «Non toccate gli ambasciatori», comandò, cercando di imporre autorevolezza alla propria voce ancora tremante. «Perché avrebbero dovuto tentare un simile crimine nel momento in cui erano miei ostaggi? Dovevano sapere bene che avrebbero pagato con la vita, se mi fosse accaduto qualcosa proprio mentre si trovavano qui.» S'interruppe per un attimo. «A meno che, naturalmente, non contassero su un candidato pronto a raccogliere la corona e a ordinare alla folla di salvarli.» I suoi occhi severi si fissarono a turno su ognuno di noi, indugiando almeno così mi sembrò - più su Isacco che sugli altri. «Scopriremo chi pretende di avanzare diritti sul trono, e come», esclamò Krysafios. «Ma dovremo anche dispiegare la Guardia nelle strade, con la massima rapidità: qualcuno potrebbe aver già iniziato a muoversi contro di voi.» «Possiamo fare affidamento sulle guardie?» chiese Alessio. «Se uno dei Variaghi da più tempo al mio servizio mi tradisce, di chi mi posso allora
fidare?» Sigurd trasalì. Sembrava sull'orlo delle lacrime. «I Variaghi vi difenderanno fino alla morte, Sire. Ma se non avete fiducia in noi, prendetevi le nostre armi e fate di noi i vostri schiavi.» Inginocchiandosi, afferrò l'ascia per la lama imbrattata di sangue e la offri all'imperatore. «Prendetela, Sire.» Krysafios colpì rabbiosamente con un calcio il cadavere decapitato di Aelric. «Se non sappiamo perché un Variago possa aver commesso un atto così orrendo, non siamo neanche in grado di dire perché un altro non dovrebbe provarci a sua volta. Per tutto questo tempo è sempre stato un traditore, in attesa del momento giusto per colpire? E se è così, perché proprio ora? È stato un attimo di follia? Ο in realtà ha convinto alla sua causa anche altri all'interno della sua legione?» «In fin dei conti», osservai, «se Sigurd non fosse stato così rapido nel farlo a pezzi sarebbe stato meglio.» Guardai gli occhi fissi e senza vita e rabbrividii. Quell'uomo aveva cavalcato al mio fianco e mangiato nella mia casa: non era facile guardarlo. «Sarebbe stato molto utile conoscere il suo movente.» Sigurd, ancora inginocchiato, grugnì. «Puoi scaraventare a terra un serpente, Demetrios, ma per essere sicuro che non ti morderà devi tagliargli la testa. Il mio compito è impedire che qualcuno possa nuocere all'imperatore, il tuo è invece quello di individuare chiunque possa fargli del male prima che arrivi al suo cospetto. Chi di noi ha fallito oggi?» «Il mio compito sarebbe più facile se tu non aiutassi il monaco distruggendo ogni possibile collegamento con lui.» Sembrò che Sigurd avesse voglia di usare di nuovo l'ascia, ma Isacco intervenne. «Che ci importa del monaco? Ci deve essere un potere ben più grande all'opera, se l'imperatore può essere quasi assassinato nel suo stesso palazzo. E voi pensate solo a spie e a soldati! Dimenticate il monaco, ammesso poi che esista, e scoprite invece i suoi padroni.» Stavo per ribattere in modo tutt'altro che prudente, visto che in tutta la discussione sembrava che il mio ruolo nell'abbattere l'assassino fosse stato del tutto dimenticato, ma fui preceduto da un convulso picchiare alla porta e da un suono di voci che proveniva dal corridoio esterno. Ci voltammo e Sigurd sollevò l'ascia, mentre Alessio rimaneva perfettamente immobile. «Chi disturba l'imperatore?» La paura colorò di collera la voce di Krysafios. «Perdonatemi, signore, ma è urgente», gridò una voce al di là della porta. «Gli uomini di guardia sulle mura riferiscono che si vede del fumo che
si alza dai villaggi esterni. L'esercito barbaro è in tumulto, dicono che stiamo tenendo i loro ambasciatori in ostaggio e chiedono il loro rilascio.» Isacco esplose. «Lo vedete, fratello, si stanno già muovendo. La loro fretta li tradisce. Incateniamo gli ostaggi e usciamo a cavallo ad affrontare i nostri nemici.» Alessio lo ignorò. «Capitano», disse, rivolgendosi a Sigurd. «Non scioglierò la tua legione. Ha dato prova del suo valore prestando servizio per lunghi anni; sarei un ingrato e un folle se la disperdessi a causa del tradimento di un singolo uomo.» Più semplicemente, pensai, non poteva rischiare di perdere delle buone truppe con i barbari alle mura. «Prendi la tua compagnia e scorta gli ambasciatori fino alle porte. Spiega che io aspetterò la loro risposta nei prossimi giorni.» Lisciò la sua stola, asciugando una goccia di sangue rimasta su una delle gemme. «Se gli verrà torto anche solo un capello, dai tuoi uomini ο dalla folla in città, ne risponderai personalmente, capitano. È chiaro?» Sigurd annuì, s'inchinò e indietreggiò fino a uscire dalla stanza, mentre Isacco dall'angolo lo guardava torvo. «Ora», continuò l'imperatore, «trovatemi il capitano dei Peceneghi. Ho perdonato i Variaghi per aver dato inconsapevolmente asilo a un traditore, ma non posso tenerli nel palazzo se anche un solo uomo è sospettabile. Avrò bisogno di avere intorno uomini di cui possa fidarmi, poiché dovremo aspettare almeno un altro giorno prima di sapere se il pericolo è passato.» «Il pericolo non potrà essere scongiurato così presto, finché i barbari continueranno a vivere appena fuori delle nostre mura», borbottò Isacco. «A meno che il pericolo non sia già all'interno.» Krysafios si volse verso di me. «Demetrios, vi ricordate ancora la lista che vi avevo mostrato quella volta?» Erano passati quasi due mesi da quando l'avevo vista. Ma rammentavo a sufficienza i suoi eminenti nomi per potermi permettere di annuire con convinzione. «Allora, prendete una compagnia di Peceneghi e scoprite il più in fretta possibile dove si trovano quegli uomini. Riferitemi se qualcuno ha fatto un improvviso viaggio nella sua tenuta di campagna, se qualcuno ha dei cumuli di armi nascosti in cantina ο se ha cercato di uscire dalle porte senza farsi notare. Io sarò al palazzo nuovo con l'imperatore.» Chinai il capo in segno di obbedienza. «E per quanto riguarda Aelric? Qualcuno può sapere, ο magari indovinare, il movente del suo tradimento.
Qualcuno dei suoi compagni? Ο della sua famiglia, magari?» Krysafios scosse le spalle con impazienza. «Magari. Al ritorno di Sigurd, potete chiedere a lui. Ma non cercatelo a palazzo; dopo il tramonto tutti i Variaghi saranno nei loro alloggiamenti alla porta di Adrianopoli.» Mi inchinai rispettosamente e uscii, scavalcando la testa mozzata di Aelric. Il sangue aveva inzuppato i suoi capelli ingrigiti e la mascella pendeva inerte, ma gli occhi erano rimasti quelli di sempre, fissi sul punto in cui la lama vendicatrice di Sigurd aveva colpito. Le ore seguenti trascorsero in uno stato di intontimento. L'emozione per gli eventi dei quali ero stato testimone, per la sciagura che era stata sul punto di accadere, e per l'inaspettato ruolo che avevo avuto nell'evitarla, occupava la mia mente mentre guidavo il drappello di mercenari peceneghi tra le dimore della nobiltà. Interrogai i portieri e i camerieri, ispezionai le sale e le cantine alla ricerca di indizi che segnalassero una fuga ο un tentativo di rivolta, ma non trovai granché. La maggior parte dei nobili erano stati a palazzo per assistere alla visita degli ambasciatori; alcuni erano fuori nelle campagne, altri a casa a badare ai loro affari personali. Presi nota di tutti i loro nomi nel taccuino che portavo con me, registrando le loro scuse e i loro alibi con grande accuratezza. Krysafios poteva scorrere la lista alla ricerca di qualunque capo d'accusa desiderasse, ma nessuno degli uomini che incontrai sembrava manifestamente colpevole. Intanto che passavano le ore, mentre ponevo le solite domande e ricevevo le solite risposte, mi interrogavo sui moventi di quel crimine. Aelric non poteva aver sperato di ricavare qualcosa dal suo tradimento, poiché, quand'anche fosse riuscito ad abbattere l'imperatore, sarebbe comunque morto l'istante successivo. A meno che non fosse stato posseduto dalla pazzia ο da qualche spirito maligno, qualcuno doveva averlo indotto a tentare il regicidio servendosi di una minaccia peggiore della morte certa. Quale poteva essere stata? E da parte di chi? Poteva essere stato il monaco, ma per servire agli scopi di chi? Poteva essere accaduto, come aveva suggerito Isacco, che gli ambasciatori barbari avessero sperato di approfittare della confusione per trarne vantaggio? Anche questa era una pazzia, perché sarebbero stati tutti massacrati. Oppure erano stati i condottieri barbari, lontani nel loro accampamento, a sperare che la morte dell'imperatore avrebbe fornito loro una scusa e un'opportunità per conquistare la città? Questa ipotesi era un po' troppo fantasiosa per essere credibile. Ο forse i barbari erano semplicemente un elemento di distrazione, un fattore irrile-
vante nel contesto di una lotta politica combattuta all'interno della nostra stessa nobiltà? Non trovai risposte, ma quando infine conclusi la mia missione andai al palazzo nuovo per consegnare i miei appunti a Krysafios. La mia stanchezza e il mio turbamento erano tali che non tentai di discutere quando la guardia mi annunciò che l'eunuco non era disponibile: feci chiamare un segretario, sigillai il taccuino con la ceralacca, e glielo lasciai perché lo consegnasse al suo padrone. Poi, dato che non ero lontano, percorsi la sommità della collina all'ombra delle mura e raggiunsi gli alloggiamenti dei Variaghi. «È qui il capitano Sigurd?» chiesi. «Sui bastioni», rispose la sentinella. «Posso parlargli?» «Sì», rispose con aria dubbiosa, «ma potreste pentirvene. È di. cattivo umore.» «Correrò il rischio.» Attraversai la piazza d'armi e salii l'ampia scala che portava in cima alle mura, guardando il mio fiato condensarsi nell'aria pungente. Il cielo era chiaro, con una striscia di porpora lontana sopra di me, ma le prime stelle stavano iniziando a far capolino. Mi fecero pensare all'opulenza dell'imperatore, alle gemme scintillanti che tempestavano la stoffa del suo abito, e mi domandai chi avrebbe indossato quei vestiti quella sera se io mi fossi mosso con un secondo di ritardo. Il sebastocratore Isacco? Il figlio maggiore dell'imperatore, con i suoi otto anni non ancora compiuti? Una di quelle personalità di cui avevo interrogato nel pomeriggio i servitori? Ο un barbaro proveniente da Occidente, che si sarebbe seduto goffamente sul trono a osservare il degrado di un impero? Trovai Sigurd da solo, che si sporgeva nella profonda feritoia tra due merli e osservava i bagliori nella pianura dove ardevano i falò dei barbari. Borbottò qualcosa quando lo salutai, ma non volse il capo nella mia direzione. «Sembra così tranquillo», esclamai meditabondo, stringendomi addosso il mantello. «La notte appiana davvero le fratture del mondo.» «Ma la notte finisce con l'alba, e ci vorrà molto tempo per rimettere insieme tutto ciò che è andato in pezzi oggi.» Sigurd si portò alle labbra un bricco di argilla, e udii il gorgoglio del liquido che scorreva dal collo del recipiente nella sua gola. «Vino?» «Grazie.» Era di qualità ordinaria, tuttavia rappresentava un tonico ben
accetto contro il freddo. «Ma tu non ti devi più preoccupare. Hai salvato la vita all'imperatore. Puoi aspettarti una casa e un vitalizio per un simile servigio. Io ho lasciato che un traditore rovinasse l'onore dei Variaghi, e arrivasse a un pelo dal distruggere l'impero.» «Chi vigila sull'imperatore adesso, se i Variaghi sono stati allontanati dai palazzi?» La mia mente si domandava febbrilmente se il gesto di Aelric non fosse stato semplicemente un trucco per screditare la sua legione e lasciare l'imperatore più vulnerabile. «I Peceneghi.» Sigurd avrebbe avuto lo stesso tono se fossero stati dei lebbrosi. «Barbari dell'est con la faccia rotonda: una brutta razza, con brutte donne, e usanze ancora peggiori.» «Affidabili?» «Come rocce. L'imperatore li ha sconfitti in battaglia, e ora lo adorano come un dio e lo servono come fanatici. Una volta ho visto un Pecenego rimanere fermo in piedi per quattro giorni e quattro notti sotto una bufera di neve, perché non era giunto nessun ordine di dargli il cambio.» Calò il silenzio mentre ci passavamo nuovamente il vino. Mi appoggiai contro il massiccio parapetto, e avvertii il freddo della pietra su una guancia. «So che la ferita brucia ancora», ripresi, «ma ci sono domande che hanno bisogno di risposte rapide, prima che le tracce svaniscano. Aelric era particolarmente legato a qualche commilitone nella Guardia? Aveva famiglia?» «Faceva parte di una compagnia di uomini che erano tutti come fratelli. Ma non cercare risposte da Sweyn, da Stigand, ο da chiunque altro: erano all'oscuro di tutto, come me. Diversamente Aelric non avrebbe mai oltrepassato la soglia del palazzo, se non in catene. Però aveva una famiglia: una moglie, Freya, e un figlio.» «Vivono qui negli alloggiamenti?» «Nessuna donna vive qua. La moglie ha una casa a Petrion, non lontano da qui. Il figlio se n'è andato di casa anni fa; avrà avuto a sua volta dei figli. Ricorda che Aelric era già un guerriero quando la maggior parte di noi ancora succhiava il latte da sua madre.» «Tu lo conoscevi già quando eravate ancora a Thule?» «In Inghilterra?» mi corresse Sigurd automaticamente. «No, non siamo arrivati qui seguendo gli stessi sentieri, ed è stato solo molti anni più tardi, quando ero un uomo fatto, che ci siamo incontrati.»
«E sua moglie l'ha incontrata qui, ο viene anche lei dall'Inghilterra?» «È inglese. Scappò con lui dopo che il Bastardo ci conquistò.» «Penso che farei meglio a incontrarla. È già stata informata della sorte di Aelric?» «Dubito che qualcuno abbia pensato a lei prima di te, Demetrios. Dovrai essere tu a comunicarle la notizia.» «Vieni con me?» Sigurd bevve quel che restava del vino e scagliò il bricco al di là del parapetto. Lo udii infrangersi sulle pietre sottostanti. «Non posso abbandonare questo posto.» Diede un calcio al bastione davanti a lui. «Non abbiamo il permesso di avvicinarci al palazzo oltre il limite di queste mura.» Comunque, pensai, sarebbe stato forse meglio arrivare a casa della vedova senza colui che aveva ucciso suo marito. Lasciai Sigurd alla sua solitudine, incamminandomi lungo la linea di confine tra la città e le terre circostanti, e mi diressi verso la casa che lui mi aveva descritto. Anche se ero ben consapevole del fatto che il trascorrere del tempo non giocava a mio favore, mi muovevo svogliatamente, respingendo le attenzioni della Guardia e odiando il fatto che avrei dovuto raccontare alla moglie di Aelric del tradimento e della morte di suo marito. Fin troppo presto mi ritrovai davanti alla sua porta, a battere un pugno infreddolito contro lo spesso legno di quercia. Ogni colpo trasmetteva un brivido alla mia mano intorpidita, ma insistetti finché finalmente non udii dall'interno una voce che mi chiedeva in tono sospettoso cosa volessi. «Vengo dal palazzo. La cosa riguarda vostro marito.» Le mie parole risuonarono nella via deserta. Per tre volte udii il suono di catenacci che venivano tirati. Poi la porta si aprì. «Non siete un Variago. Vi ho già visto prima?» Era tutto buio oltre la soglia, ma la voce era quella di una persona anziana, una donna provata da una vita non facile. «Noi non ci conosciamo», ammisi, «ma conoscevo vostro marito. Lui...» «Conoscevate mio marito?» La porta si aprì ancora un poco. «Perché dite che conoscevate mio marito? Dov'è adesso?» «È morto.» Non avevo l'intenzione di riferire tale notizia in modo così brutale, ma ormai le parole mi erano uscite dalle labbra, e avrei potuto maledire la mia
indelicatezza più tardi. Udii un gemito provenire dall'interno della stanza, il rumore di qualcuno che vagava barcollando, e oltrepassai la porta prima che la donna potesse richiudermela in faccia. Una scarica di deboli colpi mi percosse il torace, e alzai le braccia per difendermi, anche se c'era ben poca forza in quei pugni ossuti. L'oscurità mi confondeva, ma alla fine riuscii a bloccare i suoi polsi e ad allontanarli da me, fino a che le urla di sfida non si spezzarono in un pianto sconsolato. Con tutta la gentilezza di cui ero capace la condussi via dalla porta. Piangeva, invocando il nome del marito e dicendo molte altre cose in una lingua che non ero in grado di comprendere. «Avete una candela?» le chiesi quando si fermò per riprendere fiato. «Sarebbe meglio se potessi vedervi.» Provai ad allentare un poco la presa, per vedere se avrebbe ancora tentato di colpirmi. Non ci fu nessun movimento improvviso, né si mise a piangere più forte, perciò la lasciai andare. Si allontanò. Per un istante temetti che potesse andare a cercare un coltello e assalirmi nell'oscurità, ma poi vidi una pioggia di scintille in un angolo e la luce tremolante di uno stoppino. La candela era quasi consumata, incrostata dalla cera colata tutt'intorno, ma produceva abbastanza luce da permettermi di vedere finalmente la povera vedova di Aelric. Era vecchia, almeno quanto lui, e le profonde rughe che segnavano il viso le aggiungevano anche qualche anno in più. I capelli scarmigliati erano grigi e sciolti in ciocche disordinate, mentre la pelle era lucida di lacrime. Con indosso solo una tunica di lana, si lasciò cadere su uno sgabello e mi fece segno di prendere una panca. Protesi una mano per sfiorarle un braccio, ma si ritrasse disgustata, raggomitolandosi lontana da me. «Lo ha ucciso Sigurd?» chiese. La domanda mi sorprese, al punto che non potei fare altro che esitare per un attimo prima di ammettere: «Sì». E poi, sforzandomi di mantenere un tono tranquillo: «Perché lo avete pensato?» «Mio marito ha sempre avuto paura che lo avrebbe fatto, che avrebbe scoperto il suo segreto e che lo avrebbe ucciso in un impeto di rabbia. Ogni giorno negli ultimi dieci anni, da quando Sigurd si è arruolato nei Variaghi, Aelric ha avuto paura di lui.» Si grattò il cranio sotto i capelli sottili, e rabbrividì come per un'improvvisa corrente d'aria. «Perché Aelric aveva paura di lui?» chiesi. «Quale poteva essere il segreto che avrebbe scatenato Sigurd? Le sue intenzioni verso l'imperatore
sono sempre state...?» «L'imperatore?» La moglie di Aelric - Freya, mi ricordai, era il suo nome - scoppiò in una risata amara. «Cosa importava ad Aelric dell'imperatore? Ο a Sigurd, se è per questo?» «Sigurd ama l'imperatore come un padre.» «Amore?» Freya sputò sul pavimento. «Nessuno di voi agisce per amore, ma per odio. Sigurd non ama l'imperatore; odia i Normanni, e con un ardore sfrenato. Per quale altro motivo non avrebbe perdonato Aelric, che lo fece entrare tra i Variaghi, ed era per lui come un fratello maggiore?» «Ma cosa aveva fatto Aelric?» Ero sconcertato. Ragionare con quella donna era come cercare di impastare dell'olio. Mi ignorò. «Sapeva che il suo segreto stava riemergendo. E anch'io lo sapevo. Dal momento in cui Asgard è comparso alla nostra porta tre settimane fa, Aelric non ha smesso di tormentarsi. Lui, che ha servito l'imperatore ben oltre l'età in cui la maggior parte dei suoi commilitoni appende l'armatura e si compra una fattoria in campagna. Quando Sigurd avrà l'età di Aelric, presterà ancora servizio? No di certo.» «Chi era questo Asgard? Un altro Variago?» «È venuto tre settimane fa, e Aelric è cambiato. Il suo sorriso è scomparso e le sue spalle si sono incurvate. Non mangiava quasi più. In principio non ne parlava, ma io sapevo, perché che cos'altro poteva avergli detto Asgard? Poi Asgard si è fatto vivo di nuovo e lo ha portato via: per incontrare i suoi amici, ha detto. E adesso è morto, il più fedele tra gli uomini che abbiano mai impugnato un'ascia. Mio marito.» Mi chinai verso di lei, cercando di trovare un filo che mi guidasse attraverso la nebbia delle sue chiacchiere. «E qual era questo segreto di Aelric di cui Asgard voleva parlare?» Freya si drizzò, e l'aria di sfida si riaccese in lei. «Perché dovrei raccontare i suoi segreti a un estraneo, al corvo che gracchia sulla sua morte?» «Perché la salvezza di tutti noi dipende da questo, e specialmente la vostra. Se non me lo dite, altri verranno, e non saranno gentili come me. Prima di morire, Aelric ha tradito l'imperatore e i Variaghi, e questo non verrà perdonato facilmente.» Avevo pensato di non parlare del tradimento di Aelric, e sarebbe stata una decisione sensata, perché Freya, sentendo questa cosa, affondò il volto nelle mani. «Mio marito era un uomo onesto che ha servito lealmente i suoi padroni», gemette. «Se essi erano infidi, ο malvagi, ο lo hanno indotto a deviare dalla sua natura, allora Dio giudicherà loro, non lui. E tu dici di essere
gentile, tu che bestemmi il suo nome quando le mie lacrime sono ancora calde, ancora prima che lui possa giacere nella terra. Esci dalla mia casa, e lasciami soffrire senza avvelenare il mio dolore.» «Non posso. Devo sapere...» «Fuori! Fuori!» Non poteva essere consolata in quel momento, certamente non da me, e fino a che non lo fosse stata non avrei ottenuto da lei nulla che avesse un senso. La lasciai alle sue lacrime, e tornai in fretta verso le mura. Sembrava che fosse passata un'eternità, ma Sigurd era ancora là, che percorreva a grandi passi i bastioni e scrutava l'orizzonte buio con uno sguardo vacuo. Non ci salutammo neppure. «Conosci un uomo di nome Asgard?» chiesi. «Forse un Variago, ο qualcuno dal palazzo.» Lo sguardo arcigno di Sigurd, se possibile, si incupì. «Conosco Asgard», grugnì. «Era un Variago, fino a qualche anno fa. Lo espulsi io stesso perché rubava le nostre cose dagli alloggiamenti.» «Conosceva Aelric?» «Fuggirono dall'Inghilterra nello stesso periodo, e arrivarono in città insieme: Asgard e Aelric, le loro mogli, e pochi altri. La maggior parte di loro ormai è morta.» «Ma Asgard no, vero?» Sigurd sollevò le mani, ammettendo così la sua ignoranza. «Non me ne sono occupato. Ho sentito dire che aveva un banco al mercato, e vendeva pellicce rognose che i mercanti russi non riuscivano a smerciare a nessun altro. Forse è ancora là, forse no. Era un verme, e abbiamo fatto bene a sbarazzarci di lui.» «Non si è mantenuto in contatto con nessuno dei tuoi uomini?» «Lo avrebbero respinto con disprezzo. Rubare ai tuoi compagni di mensa è come rubare in chiesa, salvo che noi non abbiamo l'obbligo di perdonare. Perché tutta questa curiosità? Vuoi uno scialle a poco prezzo per tua figlia?» «Ha fatto visita ad Aelric diverse volte nelle ultime settimane. Freya attribuiva a lui la colpa del cambiamento di umore di Aelric, e penso che potrebbe aver portato dei messaggi da parte del monaco.» Sigurd sbuffò. «Il monaco? Il monaco è un fantasma, Demetrios, un'apparizione. Il tipo d'uomo da incolpare quando non si sa che pesci pigliare.» Fece una pausa, pensando a quello che stava per dire. «Asgard, d'altra parte, è reale quanto basta. Cercalo al mercato.»
ιθ Il mattino dopo, il mercato delle pelli aveva un aspetto piuttosto tetro. Una pioggia sottile aveva cominciato a cadere fin dall'alba, e per quanto i venditori tentassero in ogni modo di tenere al coperto sotto le tende le loro merci, le pelli apparivano sempre più chiazzate e rovinate. Solo i mercanti più ricchi, favoriti dalla corporazione, se la cavavano bene, perché avevano diritto ai posti sotto i portici: se ne stavano seduti intirizziti ai loro tavoli e solo di rado si alzavano a sollecitare i clienti. La puzza del pellame trattato si espandeva in ogni direzione, a partire dall'estremità del mercato dove i conciatori e gli altri uomini che lavoravano il pellame avevano le loro bancarelle; se si aggiungeva poi la vista delle carcasse di animali in decomposizione, non c'era certo da meravigliarsi che i compratori fossero pochi. La pioggia mi colava lungo il collo e mi inzuppava le spalle della tunica, mentre gli stivali erano sempre più simili a enormi spugne. Musi di animali morti mi fissavano tristi da ogni scaffale e ogni trespolo: conigli e lepri appesi per le orecchie, lupi dai lunghi musi accatastati gli uni sugli altri, cervi le cui corna erano già state vendute agli intagliatori di avorio, e infine un enorme orso, attaccato a un palo. Mi fermai a diverse bancarelle per chiedere di Asgard, ricevendo in cambio una prevedibile varietà di risposte. Si trovava nella parte occidentale del mercato, pretendeva un uomo; no, a nord insisteva il suo vicino. Forse aveva ceduto del tutto la sua bancarella e abbandonato gli affari, suggerì un altro, visto che le sue merci erano sempre di seconda scelta e gli capitava di rado di veder ritornare i suoi clienti. Qualcuno lo aveva visto ma non riusciva a ricordare dove, altri lo conoscevano ma quel giorno non lo avevano visto. Un campionario di risposte del tutto normale, ma in quella triste giornata, con la pioggia che incessantemente mi gocciolava negli occhi, tutto sembrava ancora più futile del solito. E non si può nemmeno dire che i mercanti fossero una piacevole compagnia. Nelle province si dice che un pastore finisce sempre col rassomigliare al suo gregge, ed era proprio ciò che accadeva in quel luogo. Tutti gli uomini che potevo vedere intorno a me erano grossi e irsuti, con facce larghe tutt'altro che rassicuranti e folte barbe spesso unte di grasso per mantenerle asciutte. Molti dovevano essere la prole bastarda di mercanti norvegesi, e infatti intercalavano le loro frasi con dei suoni bizzarri che sembravano appartenere più alla lingua delle bestie che a quella degli uo-
mini. Alla fine, comunque, trovai la mia preda. Non in uno dei negozi regolari sotto i portici, e neppure dietro una delle bancarelle coperte della piazza. Era rannicchiato in un angolo, avvolto in un mantello di pelliccia mangiato dai topi, i capelli grigi miseramente spiaccicati sul cranio, gli occhi blu quasi del tutto chiusi per difendersi dalla pioggia. Davanti a lui, una cassetta conteneva le pelli di qualche animaletto. «Quanto per una pelliccia di ermellino?» chiesi, fingendo di esaminare la sua mercanzia. «Quattordici oboli.» I suoi occhi si fecero più rotondi, mentre mi fissava con interesse. «Troppo cara. Non hai nient'altro da vendermi?» Fece una smorfia. «Ahimè, solo quello che potete vedere. La corporazione non mi permette altro.» Con una leggera sensazione di disgusto, presi in mano la putrida pelle di ermellino e la sollevai soppesandola con aria meditabonda. Mentre la esaminavo, spostai la mano destra verso la borsa appesa alla cintura e tirai fuori un nomisma d'oro. «Non mi servono i tuoi topi», gli dissi, tenendo l'animale morto per la collottola e facendolo dondolare, prima di lasciarlo cadere. Gli occhi di Asgard lo ignorarono, rimanendo fissi sulla mia mano destra. «Mi occorrono notizie, informazioni. Un uomo attento, in un mercato così affollato, deve vedere molte cose.» «Capita, a volte. Quando non sono occupato a badare ai miei affari.» Raccolsi un'altra pelliccia, rigirandomela fra le mani. «Sono pellicce locali?» Vedevo bene che le mie domande in apparenza casuali non gli piacevano, e che il dubbio nei suoi occhi si stava trasformando in sospetto, ma non riuscì comunque a trattenersi dal ricorrere alle abituali ciance da venditore. «Locali? Per la verità, no. Le hanno portate qui i possenti russi, dalle selvagge foreste del nord, giù per i grandi fiumi e attraverso il Ponto Eusino, per adornare i vostri abiti. Non troverete da nessuna parte pelli di qualità migliore nel raggio di un migliaio di miglia.» Parole che suonavano stanche e vuote, anche se non dovevano essere pronunciate molto spesso. «Chiaramente, conosci bene la loro provenienza. Sei uno di questi russi?» «No», ammise con prudenza, «ma discendo da loro. Vengo dal regno di
Inghilterra, dalla Britannia, come qualcuno di voi la chiama, un'isola appena oltre le coste russe.» «Dove il santo imperatore, possa vivere mille anni, recluta gli uomini della sua guardia?» «Proprio da lì. In effetti, io stesso in passato sono stato al servizio dell'imperatore, fra i Variaghi dalle grandi asce. Fui scelto per la mia onestà.» «Davvero?» Spostai una ciocca di capelli dagli occhi. «Cerco proprio un uomo che conosce i Variaghi, ο meglio un uomo che sembra molto interessato a conoscerli. Un monaco che gira per la città, facendo affari con guardie che erano in servizio e con altre che lo sono tuttora. Hai visto un uomo del genere?» La moneta d'oro che avevo in mano scivolò dalle mie dita e atterrò senza rumore su una pila di pellicce. Io non la raccolsi, e la cosa agitò Asgard: gettò uno sguardo in basso, poi di lato, poi cominciò a giocherellare nervosamente con la fibbia del mantello. I suoi occhi continuavano a tornare sullo scintillante nomisma nella cassetta davanti ai suoi piedi. «Perché dovrei conoscerlo?» gracchiò. «Ci sono molti Variaghi in città, e molti che si sono ritirati dopo una vita di leale e onorato servizio. Chi si spingerebbe fino all'angolo più remoto di questo schifoso mercato, in un posto che persino quei figli di puttana della gilda valutano talmente poco da affittarlo per non più di un obolo, per fare domande a un povero mercante?» «Un uomo che assegna un grande valore a ciò che quel mercante potrebbe riferirgli», gli risposi. «E questo è proprio il mio caso.» Lasciai cadere davanti ai suoi piedi altre due monete d'oro. «No», bisbigliò il vecchio. «Non ho visto il vostro monaco.» «Sì che lo hai visto. Lo hai portato dal tuo vecchio compagno Aelric e gli hai rivelato qualche terribile segreto, che ha spinto Aelric a tradire tutto ciò che aveva di più caro. Non negarlo.» Asgard cominciò ad arretrare, guardandosi intorno alla ricerca di una via di fuga. Io lo incalzai, ribaltando la sua cassetta e sparpagliando le pelli sul selciato bagnato. Sfoderai il coltello. «Scoprirò che cosa hai detto e fatto, Asgard. In cambio puoi avere dell'oro ο il ferro di questa lama. Conosci un capitano variago di nome Sigurd?» Rimase a bocca aperta. «Sigurd? È un pazzo, una furia scatenata. Ucciderebbe la sua stessa madre se pensasse che si è avvicinata troppo all'imperatore. Ho servito ai suoi ordini nel corpo di guardia.»
«E ora lo hai rovinato, con il tradimento che hai architettato insieme ad Aelric. Se non mi dici che cosa hai fatto, verrà lui con la sua ascia a strapparti la risposta che cerco.» In tutto questo tempo, avevo continuato a incalzare Asgard mentre lui arretrava, fino a ritrovarsi con la schiena contro una larga colonna. Lo vidi dimenarsi e mi tenni pronto a colpire nel caso tentasse di scappare. Ma correre non era nel carattere di Asgard più di quanto lo fosse combattere: non c'era più forza nelle sue membra segnate dal tempo, e lo sapeva. «Mi ucciderà», disse implorante. «Π monaco ha giurato che mi avrebbe ucciso se io avessi parlato con qualcun altro.» «Se il monaco non ha più bisogno di te, probabilmente ti ucciderà in ogni caso. Almeno, io ti sto dando una possibilità di restare in vita.» «Ma io non ho fatto niente di male. Non ho tradito Aelric, ha fatto tutto da solo. Io non ho mai assassinato i miei compatrioti, non ho mai sterminato famiglie innocenti, distrutto le case e i raccolti, avvelenato i pozzi in modo da fare terra bruciata per almeno una generazione. Io no, mai. Perché puntate su di me il vostro coltello, quando dovrebbe essere il collo di Aelric a sentirne la lama?» «Il collo di Aelric ha già ricevuto il suo ultimo colpo.» Risposi con poche, brusche parole: che cos'erano questi orrori di cui stava incolpando quel Variago dall'apparenza tanto mite? «Non cercare di salvarti infangando il nome di un morto.» «Se è morto, vuol dire che è stata fatta almeno un po' di giustizia. È la lealtà che contraddistingue un uomo, e lui non ne possedeva affatto.» «La tua testa, allora, dovrebbe andare a far compagnia alla sua, visto che hai cospirato col monaco e quindi tradito l'imperatore, esattamente come Aelric.» «L'imperatore?» Asgard proruppe in un'orribile e stridula risata. «Che mi importa dell'imperatore? Per alcuni anni mi ha pagato per servirlo, e poi non lo ha più fatto. Ma Aelric non ha tradito qualche Greco pieno di sé, ha tradito il suo popolo. La sua stessa stirpe. Gli Inglesi.» In qualche modo, nonostante l'evidente paura, Asgard riuscì a contorcere il volto in un maligno sorriso. «Aelric aveva combattuto a fianco del vostro re contro gli invasori.» Ricordavo i suoi ingarbugliati racconti a proposito di Normanni e Norvegesi. «Mi ha raccontato una menzogna?» Il mercante di pelli scosse la testa. «Solo una parte di verità. Quello che
non vi ha detto è che tre anni dopo l'invasione, quando il Bastardo conquistatore portò la rovina anche nelle regioni del nord, il signore di Aelric gli diede il suo appoggio, e Aelric lo seguì. Non c'erano solo i Normanni lassù, anche gli Inglesi se la presero con i loro vicini. E c'è chi dice che erano loro i peggiori, i più feroci. Aelric ha sempre sostenuto di averlo fatto perché il suo capo glielo aveva ordinato, ma chi può dire qual è la verità?» «Aelric ne aveva parlato con gli altri Variaghi?» Di nuovo quell'orribile sogghigno. «No, con i Variaghi no. Bastava che a uno piacesse una puttana normanna perché lo sbattessero fuori dai ranghi con la testa spaccata in due. Però ne aveva parlato con me, nelle lunghe notti durante il nostro viaggio dall'Inghilterra. Si svegliava urlando nel buio, ricordando le cose che aveva fatto, spinto dal bisogno di confessarle. Erano brutte storie, ma io ho sempre mantenuto il segreto. Poi mi hanno buttato fuori dalla caserma e lui non ha alzato un dito per difendermi, dopo che io lo avevo coperto per tutti quegli anni. Così, quando il monaco è venuto a cercarmi, chiedendomi se conoscevo qualche guardia infedele ο che poteva diventare tale, non ha avuto bisogno di offrirmi molto oro per ottenere il nome di Aelric.» «Poi hai accompagnato questo monaco a casa di Aelric? Lo hai costretto a tradire l'imperatore?» «Non l'ho costretto a fare proprio nulla. L'ho solo convinto a venire a bere qualcosa insieme a me. Lì l'ho presentato al monaco. Quest'ultimo ha spiegato ad Aelric che, se lo avesse servito lealmente, anche se fosse morto sua moglie sarebbe vissuta nell'agiatezza; in caso contrario, il suo vecchio tradimento sarebbe stato svelato e lui sarebbe morto nell'ignominia, mentre sua moglie per sopravvivere avrebbe dovuto prostituirsi ai Normanni. Aelric a quel punto acconsentì, il monaco mi ricompensò per il mio lavoro e io me ne andai lasciandoli ai loro affari.» «Dove è avvenuto questo incontro?» Ero talmente in ansia che mi avvicinai ancora di più ad Asgard, fino quasi a pungerlo con la punta del coltello. Cominciò a gemere, pulendosi il naso su una falda del mantello. «In una taverna dalle parti del porto. Il monaco arrivò dopo di noi, da solo. Non l'ho mai più rivisto.» «E così non sai dove trovarlo? Non ti ha lasciato istruzioni nel caso ti fosse venuto in mente il nome di qualche altra vittima che lui avrebbe potuto indurre a tradire?» Asgard scosse la testa così violentemente che quasi gli credetti.
«Ti porterò alle prigioni imperiali», gli dissi. «Là potrai ritrovare Sigurd e ripetere la tua storia. Forse ti aiuterà a ricordare tutte le cose che hai dimenticato.» Terrorizzato, Asgard si ritrasse, schiacciandosi contro la colonna come se avesse voluto trasformarsi in una statua. «Non portatemi da Sigurd», mi implorò. «Non da Sigurd.» Una maliziosa luce di speranza gli si accese negli occhi. «Ora che ci penso, forse mi viene in mente anche qualcos'altro.» «Qualcos'altro?» Asgard sollevò il mento in un insolito gesto di sfida. «Il monaco non mi ha lasciato istruzioni, ma questo non significa che io sia stato così stupido da non prendere le mie informazioni. Asgard è sempre alla ricerca di nuovi affari.» Rimasi del tutto immobile. «E che cosa hai scoperto?» «Che un uomo che apprezza certe informazioni è disposto anche a pagare per averle.» «Sei stato coinvolto in un complotto per uccidere l'imperatore», gli ricordai, «e la tua vita non vale più molto, a meno che tu non riesca a riscattarla con qualcosa di particolare valore. Quello che sai basta a salvarti l'anima?» Asgard assunse un'espressione profondamente infelice ma, con un coltello alla gola e la prospettiva della vendetta di Sigurd, non aveva molta scelta. «Ho pagato un ragazzo per seguire il monaco quando ha lasciato la taverna. Un ragazzo sveglio e furbo, capace di scomparire nell'ombra tutte le volte che il monaco si voltava per guardarsi alle spalle. Cosa che a quanto pare ha fatto spesso... un uomo sospettoso. Ma il ragazzo è riuscito a non perdere le sue tracce, come quando si segue un cervo, fino a una casa nel quartiere di Libos.» «Dove a Libos? E quando è accaduto tutto ciò?» Sollevai il coltello proprio all'altezza dei suoi occhi. Tale gesto sembrò sciogliergli ancora di più la lingua. «Due settimane fa, forse tre. Non so se si trova ancora là. Ma questo lo potete scoprire da solo. È a ovest della colonna di Marciano, vicino alla riva settentrionale del Lycus. Al piano terra si trova la bottega di un droghiere chiamato Vichos.» Lo guardai fisso negli occhi, cercando di capire se mi aveva detto la verità, ma la paura aveva eliminato dal suo volto ogni traccia di onestà, quin-
di era difficile dirlo. «Se troviamo il monaco, avrai salva la vita. Anche se forse non ti rimarranno più molte possibilità di spassartela. Per il momento, verrai con me a palazzo, almeno fino a quando non sarò sicuro della veridicità del tuo racconto.» Gli occhi di Asgard si spalancarono per il terrore, mentre si lasciava cadere in ginocchio. «No», mi implorò. «Non al palazzo. Se mi portate là mi uccideranno. Per quanto ho potuto, vi ho aiutato... abbiate pietà di me! Lasciatemi andare, datemi solo un'ora per scappare; mi sembra un buon affare!» «Lo decido io che cos'è un buon affare», gli risposi, senza provare alcuna compassione per quel traditore. Se aveva sperato di ottenere pietà strisciando ai miei piedi, allora mi aveva proprio giudicato male. «Alzati!» Ma quel cervello di serpente aveva ancora in serbo un'ultima dose di veleno. Mentre lui si alzava, io feci probabilmente un mezzo passo indietro e quei pochi pollici di distanza gli diedero lo spazio di cui aveva bisogno per slanciarsi in avanti, assestarmi un colpo alle gambe e spingermi via con violenza, I miei piedi scalciarono scivolando sul selciato bagnato e io caddi all'indietro, atterrando pesantemente sulla schiena. Buttai fuori l'aria, sentendo un terribile dolore ai polmoni e alla gola, e quando riuscii a rimettermi in piedi Asgard era sparito. Imprecai, anche se la sua fuga non era così grave. Non credevo ad almeno metà della sua storia, ed ero convinto che avesse ancora molte altre cose da raccontarmi, ma potevo aspettare: la Guardia lo avrebbe sicuramente preso prima del calare della notte, se il monaco non lo avesse trovato prima. Per il momento, la prima cosa da fare era raggiungere la casa a Libos, la casa di Vichos il droghiere. Se il monaco era veramente là, allora la fuga di Asgard poteva rappresentare un ben piccolo prezzo da pagare. Ritornai faticosamente verso il palazzo e mandai a chiamare le guardie. Era strano incontrare i Peceneghi, con le loro spade corte e gli elmi a punta, nei posti dove avrebbero dovuto esserci i Variaghi, e la mia scarsa familiarità con loro comportò un ulteriore ritardo, prima che io riuscissi a farmi capire dal loro capitano. Ascoltò la mia storia con crescente attenzione e cominciò a snocciolare ordini ai suoi sottoposti non appena conclusi il racconto. «Chiederemo alla Guardia di trovare questo Asgard, e intanto con una compagnia dei miei uomini andremo alla casa di Libos.»
Annuii in segno di approvazione. «Bene, verrò con voi.» Avremmo dovuto essere prima di tutto rapidi, e invece ci volle parecchio tempo per mettere insieme gli uomini, mentre io vagavo per il cortile roso dal pensiero che il monaco stesse magari fuggendo da quella casa proprio in quel preciso momento, e che avremmo potuto di nuovo perderlo per un soffio. Tentai anche di pungolare i Peceneghi, spronandoli a essere più veloci, ma essi mi trattavano con indifferenza, ignorando le mie richieste. Solo quando il capitano si convinse che i suoi uomini erano tutti schierati ed equipaggiati correttamente, ci mettemmo finalmente in marcia uscendo dall'Augusteo. La folla si stava riversando nelle strade, più fitta che mai nonostante la pioggia persistente, e il passaggio proprio in mezzo alla gente di una colonna di un centinaio di guardie provocava un costante attrito. I Peceneghi si facevano strada con la forza, calpestando piedi, rovesciando cesti, inzaccherando i vestiti. Sigurd aveva parlato della loro assoluta devozione all'imperatore, ma in realtà sembravano degli automi, come i leoni che c'erano a palazzo, la cui apparente obbedienza era interamente priva di volontà ο di ragione. Era strano, mi metteva a disagio essere in loro compagnia, avrei certamente preferito trovarmi con Sigurd e i suoi uomini. Per quanto rozzi e selvaggi fossero i Variaghi, in loro potevo almeno ammirare la passione, l'impetuoso slancio che li guidava. Non c'era nulla di tutto ciò negli immobili volti dei Peceneghi che mi seguivano. E non erano neppure così fisicamente prestanti come i giganti di Thule. Se Sigurd era un orso, il suo omologo pecenego era più simile a un mulo: più basso e di corporatura decisamente più normale, ma capace di mantenere quell'andatura senza mai vacillare, a mio avviso, nemmeno dopo un mese di marce incessanti. Le sue braccia oscillavano liberamente lungo i fianchi e la testa sobbalzava a intermittenza seguendo il movimento dei passi. Aveva il volto di un uomo che preferiva pugnalare qualcuno alle spalle piuttosto che incontrarlo faccia a faccia in duello, e supponevo che in uno scontro diretto avrebbe fatto ricorso all'astuzia per fiaccare la resistenza di un avversario più forte. Se si fosse trovato una volta su un campo di battaglia, pensai che non avrebbe potuto cavarsela a buon mercato. Passati sotto la colonna di Costantino e attraverso l'arco di Teodosio, proseguimmo lungo la strada che portava alla piccola piazza dove l'imperatore Marciano aveva trovato un po' di spazio libero per il suo monumento. Camminare all'ombra di tale passato avrebbe dovuto certo ispirarci a emulare gesta leggendarie, ma con la pioggia che mi colava nelle orecchie
e le figure scolpite in alto, verso il cielo, praticamente invisibili, mi fece sentire solo un po' più depresso. Persino la prospettiva di trovare il monaco non riusciva a infondermi speranza: avevo visto troppe persone ferite nelle ultime ore. E mi era difficile risollevarmi l'umore appoggiandomi alle bugie disperate di un traditore. Dopo la colonna di Marciano, seguendo le indicazioni di Asgard, voltammo verso sinistra. Era una stradina stretta, non lastricata, che la pioggia stava trasformando in un pantano, e l'acqua che scorreva si scavava il corso proprio nel centro. Gli edifici erano di legno non dipinto, scuro e marcio, con tutta l'umidità che avevano assorbito, e sembravano vacillare al di sopra di noi come giganti ubriachi. Avanzammo lentamente sulla strada. I Peceneghi avevano sguainato le spade, attenti a ogni possibile pericolo, ma intorno a noi non si vedeva nessuno e l'unico rumore che si sentiva era quello del costante tintinnio delle gocce d'acqua sulle pozzanghere e sulle tegole dei tetti. Sebbene i gruppi di soldati in marcia fossero uno spettacolo piuttosto comune lungo la Mese, un centinaio di armati che si aggiravano furtivi all'interno di un quartiere tranquillo erano più che sufficienti a convincere ogni abitante, onesto ο meno, a tenersi a debita distanza. Niente ostacolava la nostra visuale, quindi riuscimmo a vedere chiaramente davanti a noi il negozio del droghiere, e la sbiadita scritta sull'architrave appena visibile nella foschia - mi confermò anche il nome: Vichos. «Fino a questo punto il vostro informatore non ha mentito», mormorò il capitano. «Ma mi chiedo cosa troveremo in quel negozio.» «Fareste meglio a schierare i vostri uomini tutti intorno, prima di andare a scoprirlo. Non è certo il caso di ritrovarci in cento all'interno della casa, mentre il monaco salta fuori da una finestra e si dà alla fuga.» Con un gesto, il capitano ordinò al sergente di disporre gli uomini come avevo suggerito, tenendone vicino a noi soltanto una dozzina. Le imposte e la porta della drogheria parevano ermeticamente chiuse, almeno quanto potevano permetterlo i cardini del tutto sgangherati, ma attraverso una delle fessure mi sembrò di vedere un'ombra che si muoveva. Ci stava osservando? Stava rendendosi conto che era ormai perduto, che presto gli aguzzini dell'imperatore avrebbero arroventato i loro ferri davanti ai suoi occhi? Oppure aveva un piano, aveva in serbo qualche altra mossa per beffarci? Ed era poi davvero là dentro? «I miei uomini sono pronti», mi disse il capitano. Anche se la nostra presenza non aveva certo potuto passare inosservata, la sua voce era bassissima. «Devo far venire le baliste e le catapulte ο pensate che siamo in
grado di venire a capo di questo assedio da soli?» Ignorai il suo sarcasmo. «Questo monaco dispone di armi così potenti che voi non siete nemmeno in grado di concepirle. Dite ai vostri uomini di fare attenzione, perché la loro armatura potrebbe rivelarsi una protezione insufficiente.» Il capitano si limitò a scrollare le spalle e rimase in silenzio, mentre i suoi uomini si avvicinavano all'edificio. Il sergente alla loro testa batté sulla porta, ma senza ricevere alcuna risposta. «Buttatela giù», ordinò il capitano. L'acqua mi gocciolava dietro le orecchie e sul naso, il mio fiato si trasformava immediatamente in frastagliate nuvolette, ma, nonostante tutto il tormento del freddo e della pioggia, sentii il mio cuore battere più in fretta mentre nella mia mente si risvegliava la speranza di un successo. Alla porta, il sergente aveva preso in mano un piccone e lo stava facendo roteare con forza contro il legno screpolato. Il legno non scricchiolò e neppure si spaccò sotto i colpi, perché era troppo inzuppato e marcio: invece l'attrezzo asportò per intero dal telaio uno dei pannelli. Il sergente sbraitò un ordine e i suoi uomini si buttarono in massa in avanti, lanciando spalle e stivali contro quella fragile barriera, che non resistette più di un secondo. Con le spade sguainate e gli scudi sollevati a proteggere il volto, i Peceneghi si lanciarono alla carica, scomparendo oltre la soglia immersa nell'oscurità. Sentii urla e grida di donna, il fracasso di tavoli rovesciati e spaccati, poi un brusco strepitare di ordini. Non potevo rimanermene lì in strada. Corsi verso la casa, senza preoccuparmi troppo scavalcai la porta divelta e atterrai nel bel mezzo di un macello. Due soldati erano inginocchiati sopra un vecchio e sua moglie, e li tenevano immobilizzati al suolo in mezzo a un mare di stoviglie rotte e verdure sparpagliate. C'era del pesce secco che galleggiava dentro pozzanghere di olio di oliva, mentre la salamoia era schizzata tutta intorno sul pavimento di terra. In meno di un minuto, i soldati erano riusciti a non lasciare intatto praticamente niente in quella stanza. «Dove sono gli altri?» domandai. Uno dei Peceneghi sollevò un pollice in direzione della stretta scala che si vedeva in un angolo. Salii facendo due gradini alla volta e sperando che non si spaccasse sotto il mio peso; sbucai infine, attraverso una piccola apertura, in una stanza al piano superiore. Le logore tende che la separavano dalla scala erano state strappate via e giacevano ammucchiate sul pavimento, dove era evidente un altro bel disastro: pezzi sparsi di mobili rove-
sciati, vestiti e oggetti vari tirati fuori dai bauli, persino un'icona della santa Vergine strappata via dal muro. Ma neppure un Pecenego. Una seconda scala continuava la salita verso il piano più alto, da dove provenivano grida di trionfo e di rabbia. Senza un attimo di esitazione, mi lanciai sulla scala ed entrai con un balzo nella stanza di sopra. E finalmente posai gli occhi sul nostro nuovo prigioniero. Due Peceneghi lo tenevano per le braccia, artigliandogli le carni con le dita per tenerlo fermo, mentre si dimenava e cercava di divincolarsi. Non era vestito da monaco; indossava una banalissima tunica di lana che gli arrivava quasi alle caviglie e sui suoi stivali c'era del fango fresco, che insieme alle macchie di bagnato sui vestiti indicava che doveva essere rientrato in casa da poco. Aveva la pelle scura e un viso duro, dove spiccavano due occhi neri che guizzavano disperatamente in giro per la stanza. Era più magro di quello che mi aspettavo; la tunica gli pendeva addosso come un sudario, e teneva la schiena incurvata in un modo di cui non mi ero affatto reso conto quando lo avevo inseguito per le strade ingombre di neve. Non diede alcun segno di avermi riconosciuto. In un angolo, il sergente se ne stava in piedi con le braccia incrociate sul petto, contemplando la sua preda. «È lui?» mi chiese. «Non lo so.» Improvvisamente, dopo l'energia e l'impeto della caccia, sentii una fitta di incertezza. Sicuramente era l'uomo giusto: come poteva non esserlo? Sentendo un improvviso brivido di tensione per tutto il corpo, girai lentamente intorno al prigioniero fino a gettare uno sguardo sulla sua nuca. Non aveva la tonsura. Mi sentii come piegato in due, come se mi avessero dato un calcio all'inguine ο un pugno alla gola. Con lo stomaco inondato di bile nera, mi allontanai dal prigioniero. E tuttavia mi tenevo ancora aggrappato alla mia convinzione, come un marinaio che sta affondando attaccato al suo relitto. Erano passate settimane da quando avevo sorpreso il monaco davanti a casa mia, un tempo più che sufficiente perché i suoi capelli potessero ricrescere. In effetti, un uomo così prudente difficilmente si sarebbe regolato in altro modo, specialmente sapendo che lo avevo visto. Il capitano pecenego era nel frattempo arrivato. Vidi la sua testa spuntare dalla botola dove sbucava la scala. «Mandate subito due dei vostri uomini al monastero di Sant'Andrea», gli intimai, «e fategli portare qui un ragazzo di nome Thomas che vive là.» Per spazzare via ogni eventuale obiezione ο perplessità da parte sua, ag-
giunsi: «È l'unico in grado di dire se questo è l'uomo che cerchiamo oppure no». L'ora successiva fu un'autentica sofferenza: ogni mia speranza era appesa all'arrivo di Thomas. Perquisimmo tutta la casa, e in particolare la stanza superiore, ma senza trovare nulla di significativo: il nostro prigioniero aveva un letto basso, un tavolaccio grezzo, un paio di sgabelli e poco altro. Non parlava e io non ero in grado di raccogliere le poche forze che mi erano rimaste per interrogarlo, così lo lasciammo seduto contro il muro, con le mani legate, circondato da quattro Peceneghi. La maggior parte delle guardie era stata rimandata a palazzo, mentre alcune erano ancora di sotto a perquisire le stanze del droghiere. Ogni rumore mi faceva sobbalzare e mi spingeva ad affacciarmi alla scala per vedere se Thomas era arrivato, e ogni volta mi davo dell'idiota per aver fatto vedere tutta la mia agitazione. Come era prevedibile, quando finalmente arrivò io quasi non me ne accorsi. Ero in piedi alla finestra e guardavo fuori, pensieroso, quell'area desolata disseminata di case fatiscenti, e solo quando sentii il chi va là della sentinella mi voltai e lo vidi. Aveva un bell'aspetto. Anna doveva essersi premurata di impedire che i monaci che si prendevano cura di lui applicassero i loro principi ascetici troppo rigorosamente; e, nelle settimane che erano passate dall'ultima volta che lo avevo visto, le spalle e il petto gli si erano gonfiati come quelli di un guerriero. I suoi capelli chiari erano puliti e pettinati, e una barba da adolescente stava cominciando a ricoprirgli il mento. Si guardò intorno perplesso, probabilmente incerto riguardo al motivo per cui era stato condotto lì. Ancor prima che avessi il tempo di fargli la domanda, i suoi occhi mi risposero. Vidi che aveva notato il prigioniero seduto in un angolo, legato e sorvegliato, e capii che quella vista aveva stimolato la sua curiosità. Nei suoi occhi avevo potuto scorgere del turbamento, e forse anche un po' di paura, poiché non era passato molto tempo da quando lui stesso si era trovato in una simile posizione. Ma, con mia somma frustrazione, neppure il più piccolo cenno di riconoscimento. κ «Non è lui.» Il mese passato al monastero aveva fatto miracoli sul greco di Thomas, anche se non ero affatto dell'umore giusto per apprezzarlo. Il ragazzo si avvicinò mantenendo lo sguardo fisso sul prigioniero. Le sue
labbra esitanti si muovevano silenziosamente, come se stesse facendo le prove di quello che stava per dire: «Ma gli somiglia». «Gli somiglia? In che senso? Questo uomo assomiglia al monaco?» Un'espressione di infelicità si disegnò sul volto di Thomas, e io mi sforzai di ripetere la domanda più lentamente. Annuì. «Sì, gli somiglia.» «Come un fratello, forse?» Mi voltai verso il nostro intimidito prigioniero, che aveva ascoltato ogni parola. «Hai un fratello monaco? Vive con te?» Ero fermamente deciso a strappargli una risposta, ma lui si limitò a emettere un gemito e ad appoggiare la testa sulle ginocchia. Uno dei Peceneghi gli affibbiò uno schiaffo che lasciò il segno sulla guancia. Mi voltai verso il sergente. «Andate giù e chiedete al droghiere se quest'uomo riceveva dei visitatori, un monaco in particolare. Scusatevi per il danno che avete causato alla sua casa, ditegli che l'eparca provvederà affinché il suo disturbo sia ben ricompensato.» Il sergente mi rivolse un'occhiata dubbiosa, ma in quella stanza io ero l'unico che poteva parlare a nome dell'eparca. Aspettammo in silenzio, mentre il sergente scendeva rumorosamente le scale; poi sentimmo delle voci che si alzavano, le grida di protesta della moglie del droghiere, il rumore di vasellame che andava in frantumi. Il sergente tornò tra noi, col volto arrossato per l'eccitazione. «C'era un altro uomo che stava spesso qui. La moglie del droghiere ha litigato più di una volta con il suo inquilino, che lei chiama Paolo, perché voleva che pagasse un'ulteriore pigione per il suo ospite. Trovava offensivo che un uomo di Dio approfittasse così di loro. 'Perché non può restarsene al monastero insieme ai suoi confratelli?', si chiedeva.» Mi sentii pervaso da un'improvvisa euforia, ma cercai di rimanere calmo per procedere con metodo. «E il nostro Paolo che cosa rispondeva?» «Che quell'uomo era suo fratello, condotto in città da un pellegrinaggio voluto da Dio. Come poteva negargli la sua ospitalità?» «E quando è stata l'ultima volta che hanno visto il monaco?» Il sergente sorrise trionfante: «Due giorni fa». Mi voltai verso il prigioniero. «Tuo fratello è il monaco che sto cercando, l'uomo che vorrebbe uccidere l'imperatore.» Non sapevo se provare gioia ο rabbia per il fatto di esserci arrivato così vicino. «Sergente, portatelo al palazzo in modo che gli aguzzini possano iniziare il loro lavoro. Lasciate qui sei dei vostri uomini, nel caso il monaco dovesse tornare,»
Come avevo sperato, Paolo, il prigioniero, era impallidito di colpo non appena avevo menzionato la possibilità di affidarlo in mano ai carnefici. «Non è qui che lo troverete, mio fratello», protestò. «Se n'è andato.» Lo fissai con freddezza. «Ovvio che tu dica questo, adesso. Vedremo che cosa dirai dopo un mese nelle segrete.» Il prigioniero rimase per un attimo in silenzio, mordicchiandosi le labbra; teneva le mani una sull'altra, strettamente intrecciate, con le unghie conficcate nella carne. «È scappato», insistette. «Lo giuro. L'ho visto ieri sera, al foro di Arcadio, e mi ha detto che sarebbe andato via all'alba. Qualunque cosa vogliate da lui, non avete più modo di ottenerla qui.» «Vorrà dire che la otterremo nelle segrete.» «Ma anche là che cosa potrei dirvi di più?» Il prigioniero lanciava occhiate disperate in giro per la stanza, implorando pietà, anche se sui volti dei Peceneghi non poteva leggere altro che minaccia. «Se n'è andato, che sia maledetto, e non ritornerà. Dite che voleva uccidere l'imperatore, al quale io auguro di vivere mille anni. Forse è vero. Quando è arrivato qui, mio fratello era molto cambiato, io ho pensato che il male fosse sbocciato nel suo cuore, ma cosa potevo fare? Non potevo sbarrargli la porta: non me lo avrebbe permesso, e comunque era carne della mia carne. 'Non esitate a dare ospitalità ai viandanti', mi ha detto, 'a taluni capita in questo modo di ospitare angeli in incognito.'» «Era ben lontano dall'essere un angelo», sbottai. «Lui la pensava diversamente.» Il prigioniero mosse un poco le spalle nel tentativo di lisciare la tunica. «Quante notti ho ascoltato i suoi sermoni, riguardo a quanto l'impero avesse bisogno di un fuoco purificatore per bruciare i suoi rami appassiti.» Paolo mi guardò implorante. «Non era così quando eravamo giovani.» Dopo l'iniziale silenzio, la storia che Paolo cominciò a raccontare si trasformò ben presto in un torrente dai mille rivoli, tanto che non si riusciva a scegliere quale esaminare per primo. Decisi di cominciare dall'inizio. «Quando eravate giovani», ripetei. «Vale a dire quando?» «Trent'anni fa?» Paolo si strinse nelle spalle. «Ho perso il conto. Siamo cresciuti sui monti della Macedonia, figli di un agricoltore. Michele e io...» «Michele? Il nome di tuo fratello è Michele?» Paolo scosse la testa. «Lo era a quei tempi. Ma quando io l'ho chiamato così, dopo il suo ritorno, mi ha rimproverato severamente. 'Sono rinato in Cristo', mi ha detto. 'Ho preso il nome di Odo.' E da allora mi ha obbligato a chiamarlo sempre con il suo nuovo, barbaro nome.»
Ancora una volta, la storia sembrava ritornare a fluttuare vaga in lontananza. «Dopo il suo ritorno... da dove? Dove era andato?» «Se ne andò subito dopo aver raggiunto la maggiore età. Lui e nostro padre... si trovarono in disaccordo.» «Riguardo a cosa?» Paolo sollevò le mani legate, passandosi un polso sulla fronte. «Nostro padre aveva combinato il suo matrimonio, ma Michele non voleva sposare quella ragazza. Rifiutò, nonostante le insistenze di nostro padre. A quel punto, lasciò il nostro villaggio e venne qui, nella regina delle città. Disse che voleva fare un pellegrinaggio alle reliquie di san Giovanni Battista per ottenere l'assoluzione.» «E l'ottenne?» «Non qui. Arrivò qui ma non rimase a lungo. Non aveva i mezzi per godersi tutti i frutti della città e, sebbene non mi abbia mai raccontato molto, penso che fosse finito in qualche giro poco raccomandabile. Fuggì anche da questo e i suoi vagabondaggi lo condussero ai confini del mondo, nelle terre dei Celti e dei Franchi, e delle altre tribù barbare che stanno aggrappate ai margini del mondo. Là trovò la sua salvezza.» «Nella Chiesa occidentale?» Non c'era dunque da stupirsi che avesse preso un nome barbaro, seguendo gli usi della sua nuova religione. «Quando è accaduto tutto ciò?» «In qualche momento del passato.» Paolo mi rivolse uno sguardo pieno di disperazione. «Dopo la sua partenza dal villaggio, per molti anni non ebbi alcuna notizia da parte sua. So solo quello che mi ha poi raccontato al suo ritorno. Circa tre mesi fa», aggiunse, anticipando la mia inevitabile domanda. «Non mi aveva fatto avere alcun messaggio per annunciarmi il suo arrivo; e non pensavo neppure che sapesse che io ero qui. Io ci sono venuto molti anni più tardi, dopo la morte di nostro padre. Un giorno sono tornato dal lavoro e ho trovato Michele - Odo - seduto su una pietra nei pressi della porta del droghiere. Quasi non l'ho riconosciuto, mentre invece lui è parso riconoscermi immediatamente. Mi ha detto che era venuto a stare da me. Come potevo rifiutare?» «Ti ha detto quali erano le sue intenzioni qui?» «Mai. E, dopo un primo tentativo, non ho più fatto domande. Mio fratello era sempre stato un uomo molto solitario, e lo era diventato ancora di più durante i suoi vagabondaggi. Non mi diceva nulla, neppure quando sarebbe venuto da me. A volte, spariva per giorni ο addirittura settimane, senza una parola, e io pensavo che forse se n'era ritornato dai suoi amici
d'Occidente, ma poi ricompariva inaspettatamente e di nuovo chiedeva la mia ospitalità. Solo ieri mi ha annunciato che sarebbe andato via per sempre. Come vi ho appena riferito.» «E dove stava andando?» «Non l'ha detto.» Non potevo certo rimanerne sorpreso. «Tuo fratello non ha mai menzionato qualche notabile della città?» domandai, chiedendomi se potevo almeno riuscire a individuare qualche traccia che ci portasse ai suoi padroni. Come aveva già ripetutamente fatto, Paolo scosse la testa, fissandomi con aria esitante. «Una sera l'ho rimproverato perché aveva mangiato tutta la mia cena. Non avevo preparato nulla per lui, pensando che quella notte non sarebbe tornato. Com'era sua abitudine, mi ha risposto con un'aspra arringa riguardo all'importanza del suo lavoro: mi ha detto che era al servizio di un grande signore, e che gli uomini inferiori non dovevano fare altro che spianargli la strada.» Cercai di tenere sotto controllo il tono della mia voce. «Ha detto quale signore?» «Naturalmente no, ma presumo che intendesse il Signore Iddio. Spesso ne parlava chiamandolo il Signore Vendicatore, la fiamma purificatrice dello Spirito Santo.» «Ma di cosa intendeva vendicarsi? Ne parlava mai?» Per la prima volta, riuscii a strappare a Paolo un vago sorriso. «Costantemente. Voleva ripulire la città dalla sua corruzione e dalle sue eresie, restituire la purezza alle sue strade. Per lui questa città è Babilonia, grande madre di puttane e sacrileghi, ebbra del sangue dei santi. Michele giurava che nell'ora del giudizio sarebbe rimasta nuda e abbandonata, che la sua carne sarebbe stata divorata e bruciata dal fuoco, e che proprio lui sarebbe stato l'agente della sua distruzione.» Il suo sorriso si allargò un poco. «Se leggete l'Apocalisse del divino san Giovanni, capirete.» «Conosco l'Apocalisse.» «Durante i suoi anni a Rheims, si era in qualche modo convinto che proprio quello era il compito che lo attendeva.» «I suoi anni dove?» «Rheims. Mi pare che la chiamasse così. Una città dei barbari. Ha trascorso in quel luogo diverso tempo, per i suoi studi, e più tardi ha preso i voti nella sua abbazia. È là che è stato ribattezzato col nome di Odo. Non so dove si trovi.» Anch'io non sapevo dov'era Rheims, ma ricordavo di averne sentito par-
lare. Mi tornò alla mente una polverosa biblioteca e un severo archivista che mi aveva impartito una lezione sui santi dei Franchi. «Tuo fratello non ti ha mai parlato di san Remigio?» domandai. «Ο mostrato un anello che reca inciso quel nome e su cui è montato un granato?» Mi frugai in tasca, tastando alla ricerca dell'anello che avevo sempre portato con me da quel giorno nella foresta, come se conservare quella sorta di amuleto potesse condurmi automaticamente a conoscere meglio il monaco stesso. «Questo anello?» Indifferente all'ansia che vibrava nella mia voce, Paolo si strinse nelle spalle. «Aveva un anello, ma non l'ho mai visto da vicino. Era rosso; potrebbe essere quello che avete voi. L'ho intravisto di sfuggita mentre lui si lavava. Mi ha detto che era l'emblema di quella città barbara.» «Non hai mai visto nessun altro con un anello del genere?» «No. Come vi ho detto, nessuno veniva mai a fare visita a mio fratello.» Impiegai un'altra ora a spremere il prigioniero con le mie domande, controllando i dettagli della sua storia e sollecitandolo a fornirmi tutti gli indizi in suo possesso, compresi quelli di cui non era neppure consapevole. Mi informai sulla sua condizione, scoprendo che non era sposato, che lavorava come impiegato da un notaio e che una parte dei suoi guadagni era strettamente legata al numero dei documenti che redigeva. Prendeva parte alle cerimonie religiose nei modi appropriati, con il giusto fervore ma senza quello zelo bigotto che i Padri condannano. Mi disse il nome del suo villaggio e io me lo scrissi, pensando che qualcuno sarebbe dovuto andarci a raccogliere informazioni su suo fratello. Ma non sarei stato io: un viaggio attraverso le montagne della Macedonia in pieno inverno non rappresentava certo l'uso migliore che potevo fare del mio tempo e dei miei talenti. Fuori delle finestre, la sera stava già calando, precoce conclusione di una giornata grigia e senza luce, e io ero ormai pronto ad andarmene. Mi rimaneva ancora solo una domanda, più per curiosità che nella speranza di scoprire qualcosa. «Dimmi, Paolo, tuo fratello è un uomo violento?» Queste parole sembrarono suscitare una viva agitazione nel prigioniero. Non rispose, ma abbassò di colpo la testa sulla spalla, come se volesse scuotere via dell'acqua da un orecchio. «Slegatemi e vi mostrerò.» Ordinai a un Pecenego di recidere le funi che lo trattenevano. Non appena ebbe le mani libere, Paolo mi rivolse una smorfia di ringraziamento e si rimboccò una manica. Rimasi senza fiato, perché tutto il suo braccio, fino al polso, era nero, come se fosse stato bruciato ο lasciato andare in cancre-
na. Solo dopo qualche momento mi resi conto che in effetti si trattava di una sorta di confuso mosaico di lividi sovrapposti gli uni agli altri. «Un uomo non dovrebbe parlare male del proprio fratello», esclamò Paolo con voce grave, «ma Michele era già crudele da bambino. Vi ho detto che aveva lasciato il nostro villaggio perché non era d'accordo con la scelta della sposa fatta da mio padre; per la verità, egli fuggì per evitare la vendetta del padre della ragazza, dopo aver quasi ucciso quella poveretta in un impeto di rabbia. In seguito, ha imparato molte cose nuove nei suoi viaggi, ma non ha dimenticato nulla di ciò che già sapeva. Se potesse gettare la nostra città in un calderone di sangue, non esiterebbe un attimo.» Sì sfregò i polsi slegati. «Ne trarrebbe anzi un gran diletto.» «Così è un Romano, corrotto dai Franchi e spinto a rivoltarsi contro Costantinopoli, ritornato qui a portare violenza e sedizione.» Krysafios si stava leccando il miele dalle dita, mentre considerava la cosa; quando ero andato a cercarlo a palazzo lo avevo trovato intento a mangiare, e le mie notizie, per quanto urgenti, non erano riuscite a distoglierlo dal suo pranzo. «E appena al di là delle acque del Corno abbiamo diecimila Franchi armati che provocano i nostri ambasciatori e sembrano farsi beffe della nostra ospitalità. E sono arrivati appena qualche settimana dopo il vostro monaco. Immagino che abbiate notato la coincidenza.» «L'ho notata.» «Ma quale vantaggio potrebbero trarre dall'assassinio dell'imperatore, se non fossero in grado di prendere la città? E cosa può far loro pensare di essere in grado? Non hanno macchine da assedio in grado di abbattere le nostre mura rivolte verso terra, e neppure una flotta per attaccarci dal mare. Sono completamente alla mercé dell'imperatore. Se tentano un assalto e falliscono, possiamo lasciarli morire di fame ο giustiziarli a nostro piacimento.» «Allora, devono essere ben sicuri di sé. Oppure folli.» Le contraddizioni disturbavano anche me, perché il mio compito era sempre stato quello di analizzare le anomalie che gli altri uomini decidevano di ignorare ο addirittura non vedevano, ma in questo frangente non ero capace di comprenderle. Sono barbari - mi dicevo - non pensano come noi. «Forse contavano sul fatto che il monaco ο Aelric avrebbero aperto loro la strada.» «Avrebbero avuto bisogno di ben più di un Variago traditore per aprire le porte della città a un'orda nemica.» Fra i denti di Krysafios una noce ricoperta di miele finì rumorosamente sgranocchiata. «E le mie spie sono
ancora al lavoro per scoprire eventuali altri complici di Aelric.» «I Variaghi non sono ancora stati riammessi a palazzo», constatai. Davanti a ogni porta ο alcova c'erano sempre i Peceneghi. «I Variaghi sono appostati sulle mura, lontano dalle porte, e rimarranno là a tempo indeterminato. Abbiamo bisogno di circondarci di uomini fidati, Demetrios, e i Peceneghi sono feroci nella loro lealtà.» «Almeno fino a quando il monaco non riuscirà a corrompere uno di loro.» Krysafios corrugò la fronte levigata, manifestando una certa perplessità. «Tuttavia mi avete riferito che il monaco è partito. Così sostiene suo fratello, almeno. Non pensate che possa essersene tornato nella terra dei Franchi?» «Dubito che sia a più di un miglio dalle nostre mura; probabilmente è al sicuro a Calata insieme ai barbari.» «Pensate che tornerà indietro? Che tenterà una terza volta di uccidere l'imperatore?» «Sì. Se suo fratello ha detto la verità, e io penso che lo abbia fatto, il monaco è troppo fanatico per non ritentare. Chiunque sia il suo padrone.» Krysafios mi fissò con uno sguardo indecifrabile. «E allora? Cosa proponete di fare a questo punto?» Quanto a quello andavo sul sicuro, perché avevo speso tutto il tempo impiegato per tornare a piedi al palazzo ponderando proprio il da farsi. «Per prima cosa, dobbiamo trovare una casa per il fratello del monaco. Io l'ho portato qui, ma non penso che dovrebbe essere gettato in prigione. Non ha fatto nulla per meritarlo e una piccola gentilezza nei suoi confronti potrebbe essere ripagata con qualche nuova notizia sul monaco. Dovremmo sistemarlo in un posto confortevole ma sicuro.» Krysafios annui. «La vostra bontà è forse eccessiva, Demetrios, ma farò come suggerite. Potete alloggiarlo in una delle case che usiamo per gli emissari stranieri.» «Bene. In secondo luogo, dobbiamo introdurre una spia nell'accampamento dei barbari. Qualcuno in grado di scoprire se il monaco si nasconde là, e in grado di capire ogni parola che possa rimandare a un complotto contro l'imperatore.» «Questo sarà più difficile. Abbiamo già molti occhi che osservano i barbari: i Peceneghi, i mercanti che si occupano dei loro rifornimenti, fino ai mandriani e ai carrettieri che li consegnano, tutto ciò che loro vedono mi viene riportato. Ma riuscire a conquistare la loro fiducia... non vedo pro-
prio come potremmo fare.» «Io sì.» In poche parole, gli esposi il mio piano. Non gli piacque affatto: anzi, si ribellò all'idea e mi accusò di essere un pazzo sentimentale. Ma dopo un'ora di discussione riuscii a convincerlo. Anche ad Anna non piacque il mio piano, quando glielo esposi il mattino seguente. «Quasi certamente fallirà», esclamò. «O perché ti tradirà nel momento stesso in cui attraverserà il Corno, ο perché verrà scoperto e torturato fino alla morte. In entrambi i casi, non te lo perdonerai mai.» Mi massaggiai il mento. «Lo so. Ma non riesco a escogitare un'alternativa. Se mi tradirà, vorrà dire che se ne tornerà fra la sua gente e io mi farò una ragione della sua perdita. Ci sono molte pedine in questo gioco e lui è una di quelle che hanno ormai esaurito il loro ruolo. Se riesce nella sua missione, per noi è un'autentica benedizione; se fallisce, non abbiamo perso nulla.» La scelta delle parole non era stata delle migliori e Anna reagì sibilando con rabbia: «Hai passato troppo tempo nei saloni del palazzo, fra generali ed eunuchi, se credi che uomini e ragazzi siano soltanto pedine che possono essere scartate dal gioco semplicemente tirando i dadi». «Lo sto rimandando fra la sua gente.» Le sue parole mi avevano trafitto come frecce, soprattutto all'idea che mi immaginasse così insensibile, ma decisi di far finta di nulla e insistere. «Un ragazzo della sua età non dovrebbe essere tenuto chiuso in un monastero lontano da casa, sotto la tutela dei monaci. Se deciderà di ritornare qui, si sarà guadagnato la libertà e non solo quella; se non lo farà, sarà comunque libero.» «E se tenta di tornare ma viene scoperto e ucciso dai barbari?» L'ira di Anna non accennava a placarsi. «In quel caso cosa farai, Demetrios?» «Pregherò per la sua anima. E per la mia. Non sto decidendo a cuor leggero, Anna, ma non ci sono altri che possano introdursi tranquillamente nell'accampamento dei barbari facendosi passare per Franchi.» «Thomas non passa per un Franco: è un Franco», osservò acidamente Anna. «E cosa mi dici del tuo monaco? Se è nel campo, come tu credi, riconoscerà senz'altro Thomas e lo ucciderà, come aveva già tentato di fare in passato.» «Sì.» La mia intenzione era quella di dire ad Anna che avrei portato via Thomas, e nient'altro, ma lei mi aveva rapidamente estorto l'intera storia, tutto il mio piano e le ragioni che mi avevano spinto a concepirlo. «Ma ci
sono diecimila uomini accampati a Galata. Con un po' di fortuna, riuscirà a tenersi alla larga dal monaco.» «Fortuna!» esclamò Anna, sbuffando in un modo ben poco femminile. «Se fai affidamento sulla fortuna, Demetrios, allora sei ancora più pazzo di quello che pensavo.» Si passò le dita fra i capelli e sembrò placarsi un po'. «Sei davvero disposto a tutto pur di tenerlo lontano dalle tue figlie?» Nonostante la gravità del momento, scoppiai a ridere. «Se non riferirai tutto questo a Elena, te ne sarò molto grato. Ma non posso obbligare Thomas a fare nulla contro la sua volontà, quindi è meglio, a questo punto, che parli direttamente con lui.» Pur riluttante, Anna si dichiarò d'accordo. Mi guidò attraverso il cortile del monastero fino alla porta della cucina, dove l'odore fragrante del pane appena cotto si mescolava con quello delle cipolle. I due profumi mi smossero lo stomaco, poiché non avevo ancora mangiato nulla, ma mi fecero anche ritornare alla mente l'altra ragione della mia visita. «Anna», esclamai, bloccandola proprio davanti alla porta. «Prima di parlare con Thomas, mi stavo quasi dimenticando: volevo chiederti se ti andrebbe di cenare con me. E con le ragazze», aggiunsi subito, per evitare sconvenienti malintesi. «Magari una sera della prossima settimana, prima che il digiuno della Quaresima imponga restrizioni alla mia ospitalità.» Anna si voltò verso di me, guardandomi con un certo sospetto. Quel giorno indossava una dalmatica di un color bruno rossiccio, una tinta curiosa che faceva l'effetto di una corteccia ο di foglie screziate. Intorno ai fianchi aveva legata la cintura di seta che portava sempre, e il vento nel cortile le spingeva la veste contro le gambe. «Accetto il tuo invito», mi rispose. «Ma se stai solo cercando di corrompermi per farmi accettare il tuo spregevole piano, sappi che non ti servirà a nulla.» «Non sta a te acconsentire ο meno: è Thomas che deve decidere.» Thomas era in cucina, occupato a rimescolare senza alcun entusiasmo una ribollente pentola di fagioli, mentre un monaco seduto sulle scale gli leggeva qualcosa da una Bibbia tutta consumata. Alla vista di Anna, il monaco aggrottò la fronte e chiuse il libro, avviandosi immediatamente su per le scale per uscire dalla stanza. «Capita spesso», disse Anna, senza alcun risentimento. «Alcuni di loro non amano avere una donna fra le loro mura, e tutti hanno comunque paura di quello che potrebbe succedere se venissero scoperti da soli in sua compagnia.»
«Che sventura!» Vedendoci arrivare, Thomas sollevò la testa dal pentolone. La vista di Anna gli strappò un timido sorriso, che si allargò vedendo la precipitosa fuga del monaco. A me rivolse invece un'occhiata nervosa. Il mestolo gli sfuggì dalle mani e Thomas imprecò con energia, vedendolo scomparire al di sotto della melmosa superficie del brodo. Non penso che avesse imparato quelle espressioni dalla lettura della Bibbia. «Demetrios», disse Anna scandendo bene le parole, «è venuto qui per chiederti una cosa.» Spinsi via una pila di recipienti di ferro, andandomi a mettere accanto a lei. «Ho notizie del monaco.» Feci una pausa per vedere se aveva afferrato le mie parole. Dal modo in cui i suoi occhi rimasero immobili mentre la sua mascella si contraeva, pensai che doveva aver capito. «Pensiamo che ora si trovi in un grande accampamento di barb... della tua gente, al di fuori delle mura della città.» Thomas lanciò uno sguardo esitante ad Anna, che aggiunse qualche parola nella lingua del ragazzo. «Voglio che tu vada là e lo trovi.» Per un lungo momento, Thomas rimase in silenzio, mentre la pentola alle sue spalle continuava a bollire, spruzzando il brodo tutto intorno. Un po' di liquido andò a finire anche sulla sua tunica, ma lui sembrò non accorgersene neppure. «Se io vado, lui mi uccide», esclamò alla fine. Scossi la testa. «No, devi solo scoprire dove si trova e poi andare a casa di un mio amico.» Preso dal fervore, avevo lasciato che le mie parole corressero a briglia sciolta, dovetti quindi sforzarmi di frenarle mentre le ripetevo. «Lui ti proteggerà e ci farà avere tue notizie. Noi potremo così arrivare con molti soldati, prendere il monaco e rinchiuderlo nelle prigioni.» Di nuovo Anna aggiunse qualche parola nella lingua di Thomas. Io tenevo gli occhi fissi su di lui, sperando che Anna non approfittasse della mia ignoranza per cercare di dissuaderlo. Thomas rispose sempre nella lingua dei Franchi, incurvando le spalle e gesticolando con le braccia, mentre il fatto di essere tagliato fuori dalla loro conversazione mi rendeva sempre più nervoso. «Ci vado.» Dopo una lunga serie di suoni per me del tutto stranieri, mi resi conto che Thomas era ritornato al greco quando ripeté di nuovo: «Ci vado». «Ci andrai?»
Annuì, con un'aria un po' incerta. «Bene. Molto bene.» «E quando ritornerà, sarà Libero di andare dove vuole, di ritornare nella terra dei Franchi, di rimanere a Costantinopoli ο di stabilirsi in qualunque altra città dell'impero.» Anna mi fissava con occhi di ghiaccio. «Lo hai promesso.» «Ho promesso.» Ci avrei pensato in seguito a come convincere Krysafios a mantenere la parola, se il ragazzo avesse davvero consegnato il monaco nelle nostre mani, e se non ci avesse tradito per unirsi alla sua gente. E se fosse rimasto vivo abbastanza a lungo. κα Ci ritrovammo alla porta di Adriano, tremanti di freddo nonostante i mantelli. La pioggia che il giorno prima si era un po' calmata era tornata a cadere con implacabile costanza durante la notte, picchiando così forte sulle tegole sopra la mia testa da impedirmi di prendere sonno anche per quelle poche ore che avevo a disposizione. Anna, Thomas e io ci incontrammo davanti alla porta due ore prima dell'alba; l'unica luce proveniva da una torcia di pece incassata sotto l'arcata. Frammenti incandescenti gocciolavano sul terreno, sfrigolando quando toccavano il fango. Non era un inizio particolarmente favorevole per un'impresa che già si annunciava di poche speranze. «Se te lo chiedono, racconta la tua vera storia: come sei arrivato qui, la morte dei tuoi genitori, come sei fuggito e sei finito a vivere nei bassifondi della città. Puoi anche addossare la colpa delle tue disgrazie ai Romani, maledirci per non aver fornito maggiore aiuto al vostro esercito e maggiori soccorsi al vostro ritorno.» Non aspettai che Anna traducesse le mie parole, e neanche mi preoccupai che il ragazzo le avesse ben comprese. Gli avevo già detto tutto quanto almeno una dozzina di volte, durante il pomeriggio precedente, e in quel momento parlavo più per calmare i miei nervi che per rammentargli i suoi compiti. «Devi girare tutto intorno al Corno e tornare indietro sull'altro lato. Non sarà un viaggio piacevole, ma non possiamo correre il rischio che ti vedano attraversare in barca da qui. Dammi il mantello.» Controvoglia, Thomas si tolse dalle spalle il mantello fradicio di pioggia e me lo tese. Sotto, portava solo una leggera tunica che era stata intenzionalmente strappata sfregandola su una pietra e poi insozzata di fango.
«Sarà morto di freddo ancora prima di essere arrivato a metà della strada che deve percorrere fino al Lago d'Argento», mormorò Anna. Quasi mi aspettavo che anche in quel momento potesse tentare di convincerlo ad abbandonare l'impresa. «Sembrerà miserabile, sporco e infangato.» Non mi preoccupai di nascondere un'ombra di rabbia nella mia voce. «Proprio come si addice a un ragazzo che ha passato le ultime settimane girando nei bassifondi. È già fin troppo grasso.» Riportai la mia attenzione su Thomas. «Cerca di muoverli a compassione con la tua storia e trova un cavaliere ο un soldato di buon cuore che ti prenda con sé come servo ο staffiere. Poi cerca di scoprire se il monaco è nel campo, ed esattamente dove lo possiamo trovare. Appena lo scopri, raggiungi la casa di Domenico il mercante. Ti ricordi il punto che ti ho mostrato sulla mappa?» Thomas annuì, ma forse soltanto perché avevo smesso di parlare. Una sentinella si affacciò pigramente dalla guardiola, col mantello ben stretto sulle spalle. Un rapido sguardo al lasciapassare che Krysafios mi aveva procurato bastò a soddisfarlo, e si diede subito da fare per tirare indietro le sbarre del pesante portone. Speravo che, con la pioggia negli occhi, non fosse stato in grado di osservare bene Thomas: preferivo che nessuno potesse ricordarsi di averlo visto lasciare la città. «Non mi piace questa idea», mi ribadì Anna, con la tristezza dipinta sul volto. «Ma Thomas ha acconsentito e tu pensi che sia necessario tentare, quindi non ho più niente da dire.» Dopo aver tolto l'ultima sbarra, la sentinella cominciò a spingere il portone. Per aprirlo, dovette appoggiarsi con le spalle e premere con tutte le sue forze. Nella notte che si estendeva al di là, potevo vedere solo pioggia sferzante e oscurità. «Vai, Thomas.» Gli diedi una piccola spinta per invitarlo ad affrettarsi. Abbracciò Anna, che lo tenne stretto per un momento, poi mi voltò le spalle e uscì fuori nella notte. Il tempo di richiudere il portone, ed era già sparito. Una volta a casa, ritornai al mio letto, ma quella notte agitata mi aveva scombussolato quanto bastava per impedirmi di riprendere sonno. Rimasi disteso là per ore, rigirandomi prima su un fianco e poi sull'altro, oppure cercando di rimanere perfettamente fermo, ma anche con gli occhi chiusi la mia mente continuava a produrre immagini di ogni sorta. A un certo
punto, la tetra luce del giorno cominciò a filtrare dalla finestra, insieme al trambusto proveniente dalla strada, e io riuscii a dimenticare per un attimo le preoccupazioni riguardo a Thomas e a smetterla di ripensare ossessivamente alla sua partenza; tuttavia, non trovai lo stesso alcun sollievo. Alla fine mi arresi e gettai indietro le coperte. Guardando fuori della finestra era impossibile capire che ore fossero; era una di quelle giornate in cui fra l'alba e il tramonto non c'è una grande differenza. Comunque, dovevamo essere più ο meno a metà mattina. Tirai indietro le tende e, a fatica, mi trascinai fino al lavabo in pietra per gettarmi un po' di acqua sul viso. Era fredda come il pavimento, ma ciò non contribuì molto a svegliarmi. «Hai dormito persino più di Elena.» Zoe era seduta al tavolo, intenta a rammendare uno strappo nella sua camisia. «E lei non è molto contenta; dice che un padre dovrebbe svegliarsi prima dell'alba per provvedere alle proprie figlie.» «Può fare a meno di indignarsi: non ho dormito molto.» Riuscii a scovare un avanzo di pane, ci spalmai sopra del miele e cominciai a masticarlo senza grande entusiasmo. Zoe sollevò gli occhi dal suo lavoro di cucito. «Sei uscito questa notte? Elena è convinta di aver sentito il rumore della porta.» Una briciola di crosta mi grattò il palato e io feci una smorfia. «Sì. Talvolta le ore più buie sono il momento migliore per i segreti che non si vogliono rivelare.» «Ma anche per le disgrazie», mi ammonì. Sentii una porta che si chiudeva e dei passi leggeri sulle scale. Sembrò metterci molto più tempo del solito, ma alla fine la porta interna si spalancò. «Ti sei alzato!» Elena mi scrutò con aria di rimprovero. Portava sotto il braccio un cesto di pane e verdura, e il suo mantello era rigato di fango. «Pensavo che fossi diventato l'ottavo dormiente di Efeso.» «Anche il mio cuore gioisce nel rivederti.» Stavo cominciando ad avvertire un dolore martellante proprio in mezzo agli occhi e il tono sprezzante di Elena non mi piaceva, ma cercai di mantenere la calma. «Cosa mi hai portato per il pranzo? Montone?» «Non ce n'era, di montone.» Elena appoggiò rumorosamente il cesto sul tavolo. «Solo questo.» Diedi un'occhiata a quello che aveva portato. «Il digiuno non inizia che fra una settimana, anzi, di più», le dissi. «Non potevi trovare un po' di pe-
sce ο qualche volatile?» «I giusti non hanno bisogno del prete per sapere quando digiunare e quando banchettare», mi rispose Elena, con una certa durezza. «Lui non c'era allora?» domandò Zoe. Guardai le mie due figlie. «Chi è che non c'era?» «Il macellaio», rispose in fretta Elena. «Non c'era. Aveva venduto la sua carne ed era già tornato a casa. In questa città devono essere tutti ingordi come te, padre, ma almeno gli altri si alzano dal letto a un'ora decente.» «Bene, voglio dell'agnello stufato. Se mia figlia non è in grado di metterlo in tavola, vorrà dire che andrò a ordinarlo alla taverna.» Mi infilai dalla testa una pesante dalmatica e calzai gli stivali, aggiungendo: «Forse nel pomeriggio potremmo andare a fare visita alla zia del venditore di spezie e a suo nipote». Lo avevo detto per cercare di essere conciliante ma, appena sentì le mie parole, Elena batté i piedi per terra, mi lanciò un'occhiata torva e andò a chiudersi in camera con aria offesa. Alzai le braccia e mi voltai verso Zoe. «Perché deve fare così?» Ma Zoe in quel momento sembrava volersi occupare solo del suo lavoro di cucito. Mantenne gli occhi fissi sull'ago e non mi degnò di una risposta, impenetrabile, a modo suo, proprio come sua sorella. Abbandonai ogni tentativo di mostrarmi un padre premuroso. «Sarò nella taverna in fondo alla strada», dissi a Zoe, «a mangiare stufato di agnello.» Ma sembrava proprio che quel giorno fossi destinato a non mangiare carne. Non feci in tempo a uscire di casa che mi trovai di fronte un quartetto di Peceneghi. Tre erano ancora in sella, il quarto era già sceso da cavallo e si stava avvicinando alla mia porta. Un altro teneva le redini di un quinto cavallo. «Siete atteso a palazzo», mi annunciò l'uomo che era smontato da cavallo. «Immediatamente.» Mi grattai una tempia. «Il monaco è stato per caso trovato? Se non è così, io me ne vado a consumare il mio pranzo. Dite a Krysafios di aspettare.» Il Pecenego compì un passo avanti, con aria irritata. «L'ordine che vi riguarda non proviene dall'eunuco ma da un potere davanti a cui non potete indugiare. Venite.» Andai.
C'erano molte ragioni per cui rimpiangevo l'esilio dei Variaghi spediti a presidiare le mura, non ultima la loro compagnia. Per quanto rozzi ed eccentrici, mi avevano a un certo punto accolto in mezzo a loro, concedendomi anche un po' di confidenza: un calore che i Peceneghi non dimostravano affatto. Due cavalcavano davanti a me e due dietro, a un'andatura che non consentiva molto più di qualche occasionale grugnito per indicare la direzione. Mi ritrovai addirittura a pensare che sarei stato grato ai cavalli se avessero abbreviato il più possibile il tragitto, anche se gli scossoni della loro andatura aggiungevano ulteriori dolorose sfumature al mio mal di testa. La strada scelta dai Peceneghi era diretta come i loro modi: risalimmo senza indugio la Mese, passando il Milion e il tetrápylon, fino ad arrivare all'Augusteo, sotto gli sguardi dei nostri antichi sovrani. Appena ci fermammo, le guardie smontarono da cavallo e, ben piantate sui piedi, cominciarono a spingere via i venditori di candele e i mercanti di reliquie che affollavano la piazza di Aghia Sofia. Si aprirono un varco fino alla grande porta della Chalke, ficcarono le briglie dei cavalli in mano a un inserviente in attesa, e spinsero via i postulanti e i visitatori che fluivano incessantemente nel primo cortile del palazzo. In tutto ciò, io rimasi docile e ubbidiente. Persi il conto di tutte le volte che girammo a destra ο a sinistra, dei corridoi e dei cortili che mi fecero attraversare, perché con due Peceneghi attaccati alla schiena non ebbi mai neppure un istante per fermarmi e cercare di orientarmi. Gli interminabili saloni di marmo e gli infiniti mosaici dorati rendevano difficile distinguere una parte del palazzo da un'altra; inoltre, tutte le stanze davanti a cui passavamo sembravano al tempo stesso sconosciute e familiari. Solo il numero sempre minore di persone in circolazione suggeriva che stessimo entrando negli appartamenti privati. Ci fermammo davanti a una porta fiancheggiata da due enormi urne, entrambe più alte di un uomo. Il primo Pecenego si voltò verso di me e stese un braccio in direzione del cortile verde che si intravedeva al di là della porta. «Per di qua.» Mi fermai un secondo, per tirare il fiato ma anche per sottolineare in qualche modo la mia autonomia. Poi abbandonai quel lungo corridoio, per entrare in un mondo completamente diverso. Non era un cortile, come avevo pensato: era un giardino. Ma un giardino come non mi era mai capitato di vedere, e neppure di immaginare. Fuori, in città, c'era un giorno piovoso di pieno inverno; qui sembrava di essere
improvvisamente trasportati al culmine dell'estate. Gli alberi intorno a me non erano spogli ma carichi di frutti e fiori, e una luce dorata permeava l'aria rendendola brillante, come se il sole splendesse attraverso le foglie. Il suolo era soffice e silenzioso sotto i miei piedi, come se stessi camminando su dei cuscini, anche se l'erba sembrava del tutto autentica. Era umida, ma doveva essere solo un po' di rugiada, perché quando guardai in su, attraverso l'intrico di foglie e rami, vidi soltanto la profondità dell'azzurro. E, da qualche parte fra gli alberi, si udiva il canto degli uccelli. Cominciai a sentirmi frastornato e stordito. Avevo fatto solo pochi passi all'interno di questo frutteto, ma quando mi voltai indietro non vidi più alcun segno dell'ingresso da cui ero entrato. Poi sentii un suono provenire da dietro le mie spalle, un lieve fruscio come di foglie ο di seta, anche se non c'era vento, e mi voltai per vedere quale meravigliosa creatura sarebbe apparsa. Sulle ali della fantasia, mi ero quasi convinto che mi sarei trovato di fronte a un centauro, un grifone ο un unicorno, ma in realtà era un uomo. Un uomo, tuttavia, la cui magnificenza sembrava uscita da un mito. La corona sulla sua testa scintillava come un sole, come se fosse quella l'unica sorgente della luce misteriosa. La sua veste era tinta di porpora fino agli orli e intessuta d'oro, mentre la stola che gli attraversava l'ampio petto sarebbe potuta servire da corazza per una divinità, tale era lo spessore delle pietre preziose che la ricoprivano. Mi prostrai al suolo ancora prima di vedere le punte rosse dei suoi stivali. La terra sembrò sprofondare sotto di me, come se mi volesse inghiottire, e dovetti allargare le braccia per non perdere l'equilibrio, mentre scandivo la formula di rito. Anche se gli ambienti in cui mi era in precedenza capitato di vederlo - la grande chiesa, la sala d'oro e l'ippodromo - erano tutti a loro modo magnifici, fu soltanto in quel giardino che per la prima volta mi ritrovai a credere che un uomo poteva essere davvero una divinità vivente, capace di sopravvivere per mille anni. «Alzatevi, Demetrios Askiates.» Con un certo sforzo, riuscii a staccarmi dal suolo morbido, dalla consistenza quasi spugnosa, tenendo sempre gli occhi rivolti verso il basso. C'era qualcosa di rassicurante nella sua voce, qualcosa di poco raffinato che sembrava fuori posto nell'ambiente meraviglioso che ci circondava. «Vi piace il mio giardino?» «Il vostro... il vostro giardino? Certo, Sire», balbettai. «Non intendevo turbarvi; ma questo giardino mi calma: è un mondo a
parte rispetto al mondo che sono chiamato a governare.» «Sì, Sire.» Si passò una mano fra i ruvidi peli della barba e mi guardò negli occhi. «Vi ho chiamato qui per ringraziarvi, Demetrios. Senza di voi, non avrei più avuto bisogno dei trucchi degli artigiani per credere di essere nei giardini celesti.»_ Mai nessun imperatore mi aveva espresso la sua gratitudine, prima di allora, e non sapevo bene come rispondere. Optai per il mimetismo. «Trucchi, Sire?» «Non crederete certo che io possa addirittura piegare le stagioni e il tempo ai miei desideri. Toccate le foglie di quell'albero, quei germogli sul punto di sbocciare e diventare fiori.» Mi avvicinai all'albero e toccai una delle foglie, sfregandola fra indice e pollice. Aveva lo splendore di cera di una foglia di quercia appena spuntata, e potevo vedere le linee scure delle venature che l'attraversavano. Tuttavia, al tatto... «Sembra seta», esclamai stupito. «Esattamente.» L'imperatore Alessio stese la mano indicando il giardino tutto intorno. «Tutti questi alberi, e anche l'erba e il cielo, è tutto di seta. Fuochi e specchi imitano il sole, e se vi venisse voglia di cogliere una di quelle belle mele rotonde e di addentarla, vi rompereste i denti. In questo modo, qui viene mantenuto un mondo che è sempre al culmine dell'estate, che non declina mai verso la tristezza dell'autunno. A differenza del mio regno reale.» «Ci sono stanze per tutte le stagioni?» mi domandai meravigliato a voce alta. Alessio scoppiò a ridere, una risata gutturale, volgare. «Può darsi, ma devo ancora scoprirle. Ho vissuto cinque anni in questo palazzo prima di scoprire l'esistenza di questa stanza, e i lavori per riportarla al suo pieno splendore hanno richiesto altrettanto tempo.» Tossì. «Ma non vi ho convocato qui per parlare del mio giardino, Demetrios. Come dicevo, voglio ringraziarvi per aver allontanato dal mio collo l'ascia del traditore.» «Avrei fatto la stessa cosa per qualunque uomo.» «Non ne dubito. Ma non ogni uomo può ricompensarvi come posso fare io.» «Il vostro ciambellano mi paga già più di quanto merito per proteggervi. Io ero semplicemente...» Alessio sorrise. «Non importa quanto valete voi: il mio ciambellano vi
paga per quello che valgo io. E io pago per quello a cui do valore. Ho dato istruzioni ai segretari perché provvedano a tempo debito al pagamento dovuto. Credo che ne sarete soddisfatto.» «Grazie, mio Sire. I doni della vostra generosità scorrono dalle vostre mani come acqua dal...» L'imperatore scosse bruscamente la testa. «Non mi occorre la vostra adulazione. La lascio a quelli che non possiedono talenti migliori. Se volete dimostrare la vostra lealtà, fatelo con i fatti.» «Sempre, mio Sire.» «Secondo Krysafios, voi siete convinto che siano stati i barbari a tentare di uccidermi. Gli uomini che sono accampati a Galata, a consumare i miei raccolti e a bistrattare i miei ambasciatori.» «Ci sono buone ragioni per pensarlo.» L'imperatore strappò una foglia da un ramo, rigirandosela fra le dita. «Mio fratello, Isacco, ritiene che dovremmo piombare subito su di loro e massacrarli nelle strade di Galata, e rimandare indietro i sopravvissuti al di là del mare in catene. Molti, sia a corte che in città, la pensano allo stesso modo.» «Offenderebbe le leggi di Dio», tentai di rispondere, non avendo nulla di meglio da suggerire. Alessio gettò via la foglia ormai spiegazzata. «Offenderebbe le leggi della ragione. Quei barbari sono là perché io ho chiesto loro di venire, e se sono giunti in un numero maggiore di quello che speravo, e con in mente i loro propri scopi, questo non riduce comunque le mie necessità. Non se devo liberare le terre dell'Asia che i miei predecessori hanno abbandonato al loro destino.» «Alcuni sostengono che i barbari non sono venuti a liberare quelle terre ma a conquistarle per loro stessi.» Quasi non potevo credere di essere davvero lì a parlare in quel modo con l'imperatore, su argomenti della massima importanza; ma, contro ogni aspettativa, lui sembrò accogliere con favore le mie parole. «È ovvio che i barbari siano venuti per conquistarsi delle terre! In caso contrario, perché mai avrebbero dovuto attraversare mezzo mondo per venire a combattere per me? È per questo che li devo tenere qui fino a quando non avranno giurato di restituirmi ciò che è mio di diritto. Se, dopo di ciò, vorranno costruirsi i loro reami, al di là delle nostre vecchie frontiere, allora lasciamoli fare. Lungo i miei confini preferisco avere dei cristiani legati da giuramenti, piuttosto che Turchi e Fatimidi.»
«Quindi vi fidate dei barbari?» «Mi fido di loro fino a quando tengono le loro spade lontane da me, ma in questo momento non sembra proprio che siano lontane a sufficienza. Quando i Normanni ci invasero, io li affrontai in una dozzina di battaglie, perdendole tutte, ma alla fine riuscii a spingerli fuori dalle nostre terre. Perché? Perché non si fidano a lungo gli uni degli altri: sono inclini alla faziosità e all'invidia persino più dei Saraceni. È a causa dell'oro e dell'ambizione che si presentano divisi gli uni dagli altri, è per questo che davanti a noi rimangono deboli. D'altra parte, ciò che li unisce è il loro odio contro gli Ismaeliti. Loro otterranno oro e regni, noi riavremo indietro le nostre terre, e vivremo insieme in una condizione di instabile reciproca dipendenza.» «Funzionerà?» Alessio sbuffò, in un modo poco consono a un imperatore. «Forse. Se i barbari non vengono massacrati dai Turchi, se non si mettono a litigare fra loro ancor prima di aver raggiunto Nicea, se i loro preti non scoprono che in effetti il Signore Iddio aveva affidato al loro esercito qualche scopo del tutto differente. Ma niente di tutto ciò accadrà se non riuscirò a ottenere quei giuramenti dai loro comandanti.» Mi afferrò per un braccio. «Per questo dovete assicurarvi che niente possa distruggere la nostra alleanza con loro. Se riescono ad assassinarmi, ο si viene anche soltanto a sapere del loro tentativo di farlo, ci sarà la guerra fra i nostri due popoli e gli unici vincitori saranno i Turchi.» L'udienza era finita. Lasciai quel giardino incantato dove era sempre primavera e ritornai al mondo che ben conoscevo. Dove la pioggia continuava a cadere. κβ La pioggia cadde ancora per gran parte delle due settimane seguenti, inzaccherandomi i calcagni durante i vagabondaggi per la città. Passai molte ore davanti alle porte, a osservare piccoli gruppi di barbari che venivano ammessi ad ammirare i monumenti della città e la nostra civiltà. Molti si accontentavano di ammirarli in silenzio, ma altri sembravano nascondere il loro senso di soggezione con battute sprezzanti e volgarità. Ogni tanto scatenavano qualche rissa con i Romani, ma le guardie erano sempre all'erta, pronte a dividere i contendenti senza ricorrere alla violenza. Chiaramente, avevano anche loro ricevuto ordini precisi dall'imperatore. In tutto questo
periodo, io continuavo a pensare a Thomas. Nei primi due giorni dopo la sua partenza non ero riuscito quasi a pensare ad altro, anche se sapevo che ci sarebbero volute settimane prima di avere sue notizie. Il suo destino mi pesava sulla coscienza e avevo una gran voglia di chiedere ai mercanti di passaggio che commerciavano con i Franchi se avevano per caso sentito parlare di lui, ma non osavo farlo, nel timore di mettere a repentaglio la sua incolumità. Comunque, non erano arrivate notizie della sua morte; e, col passare dei giorni, i miei pensieri tornarono a concentrarsi su preoccupazioni più immediate. Tuttavia, mi sentivo sempre un peso sul cuore, una punta di angoscia, che mi ossessionava spesso anche in sogno. Trascorsi anche lunghe giornate a palazzo, vagando per i corridoi come un fantasma, interrogando guardie e funzionari, alla ricerca di qualche segno di turbamento e - come Krysafios mi aveva ordinato - tenendo gli occhi aperti. Non sembrava un gran lavoro per l'oro che ricevevo in cambio, ma la tensione era alta, poiché per tutto il tempo che passavo in quelle sale vivevo nel terrore di veder arrivare uno schiavo con l'annuncio che l'imperatore era morto. Non lo avevo più visto, dopo quel giorno nel giardino artificiale, tranne una volta a grande distanza: una statua d'oro in mezzo a un infinito corteo di monaci, guardie e nobili; li vidi sfilare in lontananza, oltre una porta, avvolti in una nuvola di musica e incenso. Per il resto, era come se abitasse in un altro mondo. Circa una settimana dopo il mio incontro con l'imperatore, vidi, però, suo fratello. Una mattinata trascorsa sulle mura mi aveva stancato troppo per fronteggiare impiegati che si inorgoglivano per tutto il tempo impiegato a non dirmi assolutamente nulla. Avevo quindi deciso di passeggiare sotto un porticato vuoto e disertato da tutti, quando udii alcune voci. Non avevano il timbro gaio delle chiacchiere da cortigiani e neppure assomigliavano al borbottio tipico dei servi, ma piuttosto al mormorio attutito di uomini che non desiderano essere ascoltati. Sembravano provenire da dietro una piccola porta quasi nascosta fra due colonne, appena socchiusa, ma non abbastanza da permettere di indovinare l'identità degli uomini all'interno. Mi avvicinai, ma, al suono dei miei passi, le voci si acquietarono. Scoccai un'occhiata in giro, consapevole del fatto di essere completamente solo, appoggiai uno stivale contro la porta e la spinsi. «Demetrios!» Mi ritrovai davanti il volto del sebastocratore e subito caddi in ginocchio, tenendo tuttavia gli occhi abbastanza alti da vedere che
si stava intrattenendo in colloquio riservato con un altro uomo, che indietreggiò verso un angolo della piccola stanza mentre Isacco compiva invece un passo avanti. Sembrava agitato, ma, mentre io recitavo la rituale proskynesis, ebbe il tempo di ricomporsi. «Alzatevi», mi disse. «Che cosa state facendo in questo angolo del palazzo?» «Mi sono perso», risposi umilmente. «Ho sentito delle voci e ho pensato che avrei potuto trovare qualcuno che mi guidasse fuori di qui.» Isacco aggrottò la fronte. «Conte Ugo, avete già conosciuto Demetrios Askiates? Lavora per noi contro i nostri nemici.» Mi inchinai. Sembrava che il conte Ugo avesse dimenticato lo scriba che lo aveva accompagnato nella sua missione diplomatica presso i barbari, mentre per me ci sarebbero voluti diversi mesi per scordare il Franco agghindato come una cortigiana che si era quasi fatto pisciare addosso nella tenda dei barbari. «Molto onorato, Sire.» «Il conte Ugo è uno dei pochi Franchi che comprende la necessità per tutti i cristiani di unirsi nel nome di Dio e del suo imperatore», spiegò Isacco. «Spera di riuscire a persuadere i suoi compatrioti a seguire la sua stessa saggezza.» «Finora senza successo», replicò Ugo lugubre, sfiorando con le dita la fibbia di agata del suo mantello. «Alcuni di loro sono uomini assennati, è vero, ma sono molti di più quelli che prestano ascolto al veleno che sgorga dal giovane Baldovino.» Isacco mi scrutò per un attimo. «Ma tali preoccupazioni di stato non interessano a Demetrios. Se cercate l'uscita, da questo corridoio prendete la porta a nord e proseguite fino a quando non trovate la cappella di San Teodoro. Da là ritroverete certo la strada.» Mi inchinai. «Grazie, mio gentile Sire.» Mi rivolse un sorriso ipocrita. «È dovere di un Cesare venire in aiuto dei suoi sudditi. Forse vi incontrerò la prossima settimana, ai giochi?» Lo rividi ai giochi, anche se dubito che lui abbia visto me. Era seduto su un trono d'oro a fianco di suo fratello sulla balconata del Kathisma, mentre io dividevo una panca del lato sud con un gruppo di grassi armeni interessati solo alle scommesse e ai fichi ricoperti di miele. E, quel che è peggio, facevano il tifo per i Verdi. «Perché qualcuno dovrebbe fare il tifo per i Verdi?» chiesi al mio vicino, un ometto magro che si rosicchiava incessantemente le unghie. «Allora
tanto varrebbe dichiararsi sostenitori del sole!» L'uomo mi lanciò uno sguardo terrorizzato e ritornò subito a concentrarsi sulle sue unghie. «Demetrios!» Alzai gli occhi con diffidenza, perché all'ippodromo si fanno tanti incontri, non sempre graditi. In questo caso fui piuttosto contento, anche se faticai a riconoscere Sigurd, senza l'ascia e l'armatura. Indossava una tunica di lana marrone con una cintura di pelle adorna di borchie, e degli stivali alti che ebbero qualche difficoltà a infilarsi nell'angusto spazio fra me e il mio timido vicino. «Non dovresti essere alle mura?» domandai. «Le mura hanno resistito per sette secoli e fermato tutti gli eserciti che le hanno attaccate. Possono sopravvivere un pomeriggio senza di me.» Sigurd si spostò un po' sulla panca, approfittando dello spazio che si era creato. «Ho pensato che potevo prendermi qualche ora per vedere vincere i Verdi.» «Non i Verdi», gemetti. «Perché vuoi veder vincere loro?» Sigurd mi guardò perplesso. «Perché saranno loro a vincere. Chi non farebbe il tifo per la squadra più forte? Non mi dirai che sostieni i Blu?» «I Bianchi, per la verità.» Sigurd sghignazzò, più felice di quanto lo avessi mai visto nelle ultime settimane. «I Bianchi? Non puoi tenere per i Bianchi, nessuno lo fa. Hanno vinto una sola volta, in tutta la tua vita?» «Non ancora, ma il loro giorno arriverà.» «Ma non corrono neanche per vincere. Il loro unico obiettivo è quello di fare da gregari ai Blu, spingere i Verdi fuori pista per lasciar passare i Blu. Non sono neppure in gara. Sarebbe come se mi mettessi a fare il tifo per i Rossi.» Per uno che come me sosteneva i Bianchi, non è che ci fossero poi molti argomenti. «Forse non c'è nulla che io desideri di più che vedere il carro dei Verdi ribaltato sulla spina. La prima e unica volta che mio padre mi portò a Costantinopoli, mi accompagnò qui e mi disse di scegliere una squadra. Indossavo una tunica bianca quel giorno, quindi quando vidi i Bianchi decisi che sarebbero stati la mia squadra.» «Devi aver rimpianto il fatto di non aver avuto una tunica verde.» Sigurd non aveva pietà. «Niente affatto. Perché un giorno i Bianchi vinceranno...» «Solo se la peste abbatte prima i Verdi, i Blu e i Rossi.»
«Ma trarrò più gioia io da quella singola vittoria, che tu da una vita intera passata a vedere i Verdi tagliare il traguardo da vincitori.» Sigurd scosse la testa con aria triste. «Morirai infelice, se aspetti quel giorno, Demetrios.» Fortunatamente, una fanfara di trombe mi salvò. Smettemmo di parlare, mentre l'imperatore si alzava dal trono. Era la prima corsa del pomeriggio e l'ippodromo era ancora pieno solo per tre quarti, ma la vista non era per questo meno notevole. I bracci dell'arena si estendevano ben oltre il punto dove eravamo seduti e brulicavano di gente e colori: decine di migliaia di uomini di tutte le razze e fazioni. In lontananza, sopra l'ingresso opposto a noi, quattro cavalli di bronzo si impennavano come a voler lanciare verso il cielo la loro quadriga d'oro, mentre la grande cupola di Aghia Sofia si stagliava all'orizzonte. In primo piano, lungo la spina centrale, c'erano statue e colonne; i monumenti di un migliaio di anni di competizioni svettavano sopra di noi. C'erano imperatori e obelischi, fianco a fianco con una mezza dozzina di rappresentazioni di Porfirio e degli altri leggendari aurighi: la Chiesa aveva a sua volta aggiunto santi e profeti. Potevo vedere Mosè che stringeva in mano le tavole di pietra e sembrava volersi precipitare verso l'ingresso settentrionale, san Giorgio che brandiva la sua lancia, e Giosuè che suonava il suo corno dalla cima di una colonna di arenaria. Giù nel Kathisma l'ovazione era finita. L'imperatore si era seduto, accompagnato dal boato della folla, mentre i cancelli si aprivano e i carri facevano la loro apparizione. Ben presto furono sulla sabbia umida dell'arena, in una manciata di secondi superarono la linea nord. Le diverse fazioni si alzarono in piedi mentre i loro campioni passavano al galoppo, grandi blocchi di blu e verde, intere file che comprendevano molte centinaia di uomini che urlavano all'unisono. Nessuno ostentava il bianco ο il rosso, perché erano ben pochi quelli così pazzi da fare il tifo per le squadre juniores che correvano solo in appoggio dei loro seniores. Le squadre rallentarono per affrontare la prima curva intorno al traguardo sud. Erano arrivati proprio sotto di me, ma alcuni esagitati sostenitori dei Verdi scelsero quel preciso momento per alzare un enorme striscione che mi coprì la visuale. Quando riuscii di nuovo a vedere qualcosa, avevano già superato il Kathisma sulla mia destra ed erano ritornati quasi all'estremità della pista. «Sono i Bianchi al comando?» domandai scrutando in lontananza. «E i Verdi sono là dispersi in ultima fila?»
«Se i Bianchi fossero in grado di correre per sette giri così bene come hanno fatto per i primi due, uno dei loro cocchieri potrebbe forse essere immortalato nella pietra sulla spina centrale.» Sigurd era piegato in avanti, seduto proprio sull'orlo della panca, e si sporgeva per vedere che cosa stava succedendo. Sembrava felice come un bambino. «Tattica», mormorai fra i denti. Come sempre, i Bianchi avevano iniziato bene; quando ritornarono verso di noi conducevano per una lunghezza sui Rossi, e molte di più sui Blu e sui Verdi. Ma era un'illusione: le squadre maggiori se la stavano prendendo comoda, lasciando ai loro cavalli il tempo di sciogliere le zampe durante i primi giri, mentre i loro partner più giovani ci davano dentro. «Stanno prendendo tempo.» Sigurd si mordicchiò una nocca, osservando ansiosamente la sua squadra. «Non vogliono avere troppo da fare nelle curve.» «Non ce l'avranno. Non con quel mulo zoppo all'esterno.» Ma in me parlava più la speranza che la ragione. Potevo vedere che i cocchieri verdi e blu avevano cominciato a usare più liberamente le loro fruste, incitando le squadre a un ritmo sempre più rapido. Le pariglie al comando stavano cominciando a dare segni di stanchezza - i Bianchi più rapidamente dei Rossi, purtroppo - e furono presto raggiunte. Ogni singolo uomo nell'ippodromo era in tensione, alcuni per l'ansia non riuscivano più a stare seduti e rimbalzavano su e giù come marionette. «Adesso è la volta dei Rossi. I tuoi Bianchi si sono avvicinati troppo alla spina. Non riusciranno mai a prendere bene la curva.» Sembrava che Sigurd avesse ragione, perché i Bianchi avevano mantenuto una linea retta impossibile nel rettilineo verso di noi e avrebbero dovuto rallentare i cavalli fino quasi fermarsi, se volevano fare la curva senza schiantarsi. Cogliendo l'occasione, il cocchiere rosso stava scivolando sulla destra, con l'intenzione di tagliare la strada al carro bianco e spingerlo verso il muro esterno, per permettere il passaggio ai suoi alleati verdi. «Non preoccuparti se i tuoi cavalli non sanno correre, tanto il tuo cocchiere non sa condurli.» Sigurd non dissimulava la sua gioia. Ma aveva cantato vittoria troppo presto, perché i Bianchi non stavano affatto rallentando prima della curva. Stavano piuttosto accelerando. Vidi il cocchiere rosso guardare il suo sfidante, e poi iniziare a frustare convulsamente i suoi animali, nel tardivo tentativo di sorpassare i Bianchi. Si sollevò sulle redini cercando di accostarsi ai Bianchi, ma non c'era spazio a sufficienza e il suo tentativo fallì.
Con perfetto tempismo, il cocchiere bianco si protese all'indietro sul carro tirando le redini. I cavalli rallentarono fino quasi a fermarsi, descrissero un arco perfetto intorno al traguardo sotto di noi e galopparono via dall'altra parte, mentre i Rossi, in ritardo sulla curva e costretti quasi contro il muro, videro passare al galoppo i Blu e i Verdi. «Questo non aiuterà molto i Verdi», urlai nelle orecchie di Sigurd. «Pensavo che i Bianchi dovessero eliminare i Verdi, non i Rossi. Non è che hanno preso una squadra per un'altra?» Il rumore della folla era soverchiante; tutti erano in piedi, ad anelare che i loro favoriti strappassero il comando ai Bianchi, i quali stavano rallentando visibilmente. Al prossimo passaggio dalla linea del traguardo, se non prima, le altre squadre li avrebbero raggiunti e la loro corsa sarebbe effettivamente finita. L'avevo già visto succedere fin troppe volte. Ma, come Sigurd aveva detto, dovevano ancora ostacolare i Verdi per un po', in modo da permettere ai Blu di passare in testa. Sul rettilineo, in una gara ruota contro ruota, neanche un uomo in tutto lo stadio avrebbe scommesso contro la potenza dei quattro cavalli dei Verdi. Il cocchiere bianco aveva cominciato ad adottare una strategia difensiva, appoggiandosi quasi sul fianco della quadriga mentre si voltava indietro per controllare il suo avversario. A ogni secondo che passava, riduceva sempre più la velocità procedendo a zigzag sulla pista, nel tentativo di impedire il passaggio ai Verdi senza però bloccare l'alleato blu. Era una grande esibizione di destrezza, ma quando i cavalli sono stanchi e gli avversari sono attaccati alle tue ruote, la destrezza può essere insufficiente. Erano a circa tre quarti del rettilineo orientale, al quinto giro, quando il cocchiere verde deviò il suo carro leggermente a sinistra. Il cocchiere bianco reagì immediatamente, ma troppo in fretta: il verde lo aveva tratto in inganno, e il bianco ebbe appena il tempo di tirarsi indietro prima di trascinare i suoi cavalli in una sbandata che avrebbe potuto mandare in pezzi i raggi delle ruote. Il cocchiere bianco incitò i cavalli ad aumentare l'andatura, battendo la frusta sulle loro schiene, e per un momento riuscì a galoppare in tandem con il verde, come se gli otto cavalli tirassero un unico carro con due cocchieri. Le urla della folla - provenienti dalle varie fazioni, dagli scommettitori, dai venditori di frutta, persino dall'imbronciato ometto che Sigurd aveva sloggiato - aumentarono fino a trasformarsi in un boato assordante. Sigurd e io urlavamo il nostro incoraggiamento, snocciolando insulti come pazzi. Se i Bianchi riuscivano a tenere a bada i Verdi fino alla prossima curva, pensavo, potevano avere una piccola speranza di
riuscire a ostacolarli e disturbare il loro ritmo. Non ci riuscirono. Con disinvoltura, quasi con indifferenza, il cocchiere verde fece schioccare le redini, godendosi la vista dei Bianchi che continuavano a perdere terreno. Quando arrivò alla curva, erano già usciti dalla sua vista, e, da quel momento, la distanza non fece che crescere. I Blu tentarono di competere in velocità, ma avevano confidato eccessivamente nei Bianchi e avevano aspettato troppo a impegnarsi. Il frastuono cominciò a diminuire e tutto intorno all'ippodromo gli uomini cominciarono a riprendere posto sulle panche. Solo quelli della fazione verde rimanevano in piedi: in qualche modo, riuscirono a prolungare i loro incessanti evviva fino a quando la loro squadra non completò i due giri rimanenti. «Non male, come corsa», esclamò Sigurd. «Avremmo potuto fare di meglio. Ha aspettato troppo prima di attaccare. Ma non ho mai dubitato che lo avrebbe fatto.» «Ecco perché», gli risposi, «io non farò mai il tifo per i Verdi.» Alcuni della fazione verde avevano saltato il muro e si erano messi a correre sulla pista per andare ad abbracciare il loro campione, avvolgerlo nel manto del vincitore e portarlo in trionfo sulle spalle. In fondo sulla destra, le guardie del palazzo avevano aperto l'ingresso alla scalinata del Kathisma, dove gli aunghi stavano per salire per ricevere la benedizione dell'imperatore. Gli armeni accanto a me schiamazzavano contenti e si scambiavano manciate di monete, mentre altri spettatori litigavano per decidere se i Blu dovevano trovare un cocchiere migliore, ο se dovevano mandare a pascolare i loro cavalli e procurarsene di nuovi. Stavo per mettermi a cercare un venditore di frutta, quando un movimento sul fondo dell'arena catturò la mia attenzione. Uno spettatore aveva attraversato il cancello d'ingresso e stava scendendo giù lungo il bordo della pista; mentre lo osservavo, arrivò ai piedi della scalinata, colse di sorpresa le guardie, superandole di slancio, e cominciò a salire di corsa verso il Kathisma. Dritto verso l'imperatore. Saltai su dalla mia panca in preda al panico. E se proprio quello fosse stato il momento che mi era stato ordinato di impedire, quello in cui un assassino avrebbe ucciso l'imperatore sotto gli occhi di centomila Romani? Poteva essere addirittura il monaco? Era troppo lontano per poterlo riconoscere, e in più all'ombra del muro della scala, che gli offriva riparo. Dopo un attimo di esitazione, le guardie si erano lanciate all'inseguimento, ma lui era nettamente in vantaggio su di loro e si era già arrampicato più in alto. Se avesse tirato fuori un arco da sotto la tunica, pensai, avrebbe avuto
una vista perfetta dell'imperatore. Senza sapere cosa fare, cominciai a correre. Non verso il basso, perché era troppo lontano e affollato, ma su, verso la lunga galleria che correva lungo il bordo dello stadio. A quell'ora era quasi vuota, a parte alcuni ragazzi che erano andati lì per sfuggire alla folla e alla confusione, e io scattai, come portato da Porfirio in persona, intorno alla curva e lungo il rettilineo che portava alla gradinata che scendeva verso il Kathisma. Mi precipitai giù a una tale velocità che rischiai di ammazzarmi cadendo in avanti; riuscii a tenermi in equilibrio solo allargando disperatamente le braccia e afferrandomi alle spalle di un venditore di vino che passava in quel momento. Raggiunsi un mezzanino, alla stessa altezza del secondo piano del Kathisma, e lì mi fermai. L'intruso si era arrestato sulla pedana dei vincitori, una piattaforma allo scoperto davanti al Kathisma dove venivano consegnate le ghirlande, e si era messo in ginocchio. I Peceneghi nel frattempo erano sbucati dal palco imperiale e lo avevano circondato, ma si tennero a prudente distanza mentre lui concludeva il suo rispettoso inchino e si rialzava in piedi. «Principe di Pace», declamò, «l'ultimo dei vostri sudditi chiede udienza. Ecco la mia supplica, Sire; che voi possiate conoscere l'opinione del vostro popolo.» Parlava a voce alta, con un timbro che sembrava impostato, da attore di teatro ο da mercante. Le sue parole percorsero le file di panche, mentre tutto intorno a lui scendeva il silenzio; subito dopo sentii un mormorio, mentre il suo discorso veniva ripetuto per tutto l'ippodromo. Dalla mia posizione avvantaggiata potevo anche vedere l'imperatore, rannicchiato sul suo trono come una statua di Salomone. Era rimasto immobile e silenzioso, e le sue guardie e i cortigiani avevano seguito il suo esempio. Un silenzio piuttosto inquietante, che l'oratore sembrò voler spezzare subito e con forza. «Perché, mio Signore, le vostre terre vengono saccheggiate da barbari infedeli, che occupano le nostre case e mangiano il nostro pane? Perché tollerate la loro invasione e nutrite il loro appetito di ricatto e saccheggio? Ogni uomo del vostro reame preferirebbe morire difendendo la propria casa da queste carogne, piuttosto che invitarle ad accomodarsi, lasciando le nostre greggi in pasto ai lupi. Prendete il comando e guidate i vostri eserciti all'assalto, Sire, e spazzateli via dalle nostre terre, come avete già fatto in passato con i Normanni e i Turchi. Cadremo vittime dei loro
inganni e schiavi della loro forza? No.» Non era da solo a rispondere alle sue stesse domande; da tutte le direzioni cominciarono ad alzarsi voci che facevano eco alla sua sfida. «Vedremo i Celti violentare le nostre figlie, saccheggiare i nostri averi e dormire sotto i nostri tetti? Saremo costretti a dichiarare, contro tutti gli insegnamenti della Chiesa e di Dio, che lo Spirito procede dal Figlio? Che il nostro patriarca dovrebbe essere servo di un pontefice normanno? Che, alla maniera degli eretici, dovremmo soffocarci con il pane azzimo quando rendiamo onore a Cristo? No.» Ora potevo udire il «no» risuonare da una parte all'altra dell'arena. Tuttavia, l'imperatore era ancora immobile. «Questi barbari sono un abominio davanti a Dio e alla sua Chiesa, davanti a tutto ciò in cui crediamo sinceramente.» L'oratore sembrava in preda al parossismo, con le braccia spalancate e il volto in fiamme. «Li abbiamo in pugno: non dobbiamo tendere la mano in segno di amicizia ma stringerla fino a vedere il loro sangue schizzare fra le nostre dita. Principe di Pace, il vostro popolo vi supplica di guidare il vostro esercito in battaglia verso una vittoria che possa stare alla pari con i vostri trionfi a La rissa, a Lebunium. Se non volete farlo voi, allora lasciate che qualche altro membro della vostra famiglia lo guidi, scacciando i barbari dalle nostre case. Difendete l'onore di Cristo e l'impero. Sterminate i barbari!» Le sue parole furono come vento sulla cenere ardente: non aveva ancora finito di pronunciarle che già erano state riprese dalla folla intorno a lui. Immediatamente da quelli che si trovavano più vicini, poi via via da tutti gli altri, fino a quando l'intero stadio non risuonò dello stesso grido, scandito come uno slogan. Più fragoroso di qualunque acclamazione di un auriga che mi fosse mai capitato di sentire, persino più delle ovazioni che avevano accompagnato l'incoronazione dell'imperatore. «Sterminate i barbari! Sterminate i barbari! Sterminate i barbari!» In tutto ciò, l'oratore venne dimenticato. Guardando in giù, vidi che i Peceneghi lo avevano circondato e lo stavano trascinando via dalla piattaforma, ma il danno ormai era fatto. Qualunque partito ο fazione lo avesse assoldato - un'informazione che non sarebbe certo stato difficile strappargli dopo averlo condotto nelle prigioni - aveva raggiunto il suo scopo. Quanto fosse saggio l'imperatore a riporre la propria fiducia nei barbari, ad affidare a loro la riconquista dell'Asia, non potevo saperlo e neppure mi importava scoprirlo; quello che era certo era che aveva detto la verità quando mi aveva parlato nel giardino. La sua morte avrebbe significato la guerra. E anche
se tutti quelli che urlavano intorno a me, con l'odio dipinto sui volti, sembravano molto sicuri di loro stessi, io temevo invece che in quella battaglia non ci sarebbero stati vincitori. κγ La Quaresima, quell'anno, parve non voler finire mai, una stagione più di paura che di penitenza. Un umore cupo sembrava pesare sulla città: la rabbia di migliaia di persone contro i barbari che li affamavano e li schernivano. Sembrava che ci avessero rubato persino la sacralità del digiuno, perché che cosa c'era di lodevole nel digiunare se non c'era comunque niente da mangiare? Ogni giorno Elena andava al mercato e girava a lungo, alla ricerca di qualche rimasuglio di cibo. La maggior parte dei proprietari delle bancarelle non avevano praticamente altro da fare se non spettegolare, e persino gli intagliatori di avorio e gli argentieri se ne stavano seduti davanti alle loro porte lungo la Mese, a guardarsi le mani che diventavano sempre più lisce. Soltanto le chiese non avevano perso i loro clienti, anzi, li avevano visti aumentare, e le cupole inondate di incenso risuonavano delle preghiere di una città che implorava da Dio il cibo, la liberazione ο la vendetta. Tutto questo mentre il fumo dell'accampamento dei barbari si alzava dall'altra parte del Corno d'Oro, da dietro le mura di Galata. Ne arrivavano sempre di più, di tutte le razze e tribù, e solo una grande determinazione da parte dell'imperatore e degli inflessibili Peceneghi riuscì a tenerli acquartierati nei villaggi più lontani, impedendo che si ricongiungessero con i loro compatrioti di Galata. In città, le risse fra i Romani e i Franchi di passaggio stavano diventando sempre più frequenti: un giorno una guardia rischiò di perdere un occhio per essere intervenuta in difesa di alcuni giovani scudieri aggrediti dalla folla. Dopo quell'episodio, nessun barbaro attraversò più le nostre porte, e la mia area di intervento si ridusse ancor di più all'interno dei confini del palazzo. Era un compito logorante, solitario, poiché non avevo molto altro da fare a parte guardarmi intorno. Una volta, agli inizi di marzo, andai anche da Krysafios per chiedergli di esonerarmi dal mio incarico, ma lui non acconsentì: l'imperatore, mi rispose, non voleva correre neppure il più piccolo rischio. Così continuai il mio sgradevole lavoro di vigilanza, ben ricompensato ma del tutto privo di gratificazioni. In quelle tetre giornate, mentre i bastioni dell'inverno sbarravano ancora
il passo alla primavera in arrivo, l'unica consolazione fu l'amicizia di Anna. Anche se non mi aveva perdonato per i rischi cui avevo esposto Thomas, aveva accettato il mio invito a cena prima dell'inizio della Quaresima, e anche molti altri nelle settimane successive, fino a quando non ebbi neppure più bisogno di invitarla. Diventò una gradita ospite in casa nostra, seduta con noi alla sera a dividere il nostro cibo, e se i suoi monaci ο i miei vicini disapprovavano la cosa, furono comunque abbastanza gentili da non darlo a vedere. Quelli che conoscevano meglio la mia famiglia, in effetti, dichiararono che per le mie figlie era una benedizione avere una donna in casa, invece delle incerte attenzioni di un padre sempre troppo preso dal suo lavoro. E avevano probabilmente ragione: per le mie figlie quello fu un periodo pesante e ritengo che Anna rappresentasse per loro un grande conforto. Elena si mostrò sempre particolarmente cupa in quelle settimane, e smise persino di strapazzarmi per costringermi a combinarle un matrimonio. E meno male, visto che c'erano ben poche famiglie rispettabili disposte a incoraggiare una nuova unione in tempi così incerti. Trascorremmo le otto settimane della Quaresima come circondati da una gran massa di legna da ardere, mentre le scintille ci piovevano sulla testa. Ci fu qualche scaramuccia con i barbari arrivati più di recente, nel tentativo di tenerli confinati a Sosthenium, sul mare di Mannara, e girava voce che l'imperatore avesse riunito un esercito a Filea, a solo un giorno di marcia dalla città. Poi c'erano le chiacchiere che raccoglievo in prima persona, parlando con i diversi mercanti di passaggio. Questi mi riferivano che i carichi forniti ai barbari erano stati molto ridotti per ordine dell'eparca, poiché l'imperatore intendeva piegare alla sua volontà l'esercito straniero affamando uomini e bestie. Nessuna di queste scintille riuscì a incendiare la città; tutti però sapevano che il fuoco non sarebbe rimasto ancora a lungo a covare sotto la cenere. E i tanti messi diplomatici che andavano a visitare i comandanti franchi continuavano a tornare senza avere neppure ottenuto udienza. Proprio il mercoledì della Settimana Santa, durante gli ultimi giorni di digiuno, la rete che l'imperatore aveva intrecciato intorno ai barbari cominciò a sbrogliarsi. Anna era a casa mia e, dopo le preghiere della sera, stavamo consumando insieme una minestra, mentre discutevamo, come spesso accadeva in quelle settimane, della possibilità di sbarazzarci dei barbari. «Passi tutte le tue giornate a palazzo, padre», disse Elena, «cosa hai sentito raccontare?» I suoi discorsi erano molto più ragionevoli e ponderati quando Anna era presente.
«Poco più di quello che mi capita di ascoltare nelle strade e nei mercati», le risposi. «O i droghieri sono particolarmente ben informati, ο i segretari sono decisamente ignoranti.» Era vero: mi era forse capitato di sentire a palazzo giusto qualche singolo brandello di notizia che già non fosse una voce di pubblico dominio. «Oggi ho visto un mercante di granaglie che conosco e mi ha detto - in confidenza, naturalmente - che ha ricevuto l'ordine di non consegnare più alcun carico ai barbari. A meno che abbiano cominciato a far crescere il loro grano e ad allevare il loro bestiame, presto saranno ridotti alla fame. E non hanno neanche ricevuto foraggio per i cavalli nelle ultime due settimane, almeno per quanto ne so.» Anna vuotò la sua ciotola di minestra. «È una cosa saggia? Ho una cugina che abita a Pikridiou; mi ha detto che i Franchi stanno diventando sempre più aggressivi. Ieri hanno lasciato il loro accampamento per saccheggiare il suo villaggio. Solo la forza dei Peceneghi li tiene ormai a freno.» «Perché non se ne vanno e basta?» domandò Zoe. «Le nostre mura sono troppo alte per loro, e i nostri eserciti troppo forti: perché rimangono qui a darci fastidio?» Appoggiai la mia mano sul suo piccolo pugno rabbiosamente stretto. «Perché sia loro che l'imperatore desiderano la medesima cosa, le terre perdute dell'Asia, ed entrambi non vogliono rischiare di perderle. Essi non possono raggiungere quelle terre senza il permesso dell'imperatore, e quest'ultimo non lo concederà mai, a meno che non rinuncino alle loro rivendicazioni. Lui non può scacciarli se non con la forza, ma l'uso della forza significa rompere l'alleanza e perdere l'opportunità di invadere l'Asia. Siamo come due serpenti, così avvinghiati che nessuno dei due può mordere l'altro.» «Sono entrambi barbari.» Elena, come sempre, vedeva il problema alla luce delle sue convinzioni. «Perché dei grandi uomini dovrebbero litigare e tenersi il broncio come Achille davanti alle mura di Troia? Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di liberare i Romani - i cristiani - che vivono sotto il giogo turco. Che cosa importa che sia un esercito ο un altro a farlo?» «Importa enormemente.» La guardai con fermezza. «Chiedi a Sigurd che cosa fecero i Normanni nel suo paese quando lo conquistarono. Tutti gli uomini furono ridotti in schiavitù e l'intero regno diventò nient'altro che un bottino da saccheggiare. Sono brutali e feroci, questi barbari; il loro dominio non sarebbe migliore di quello dei Turchi. Potrebbe anzi essere peggiore. È per questo che l'imperatore sta resistendo.»
«Allora perché...» Anna fu interrotta da un furioso rumore di colpi proveniente dal piano di sotto. Mi lanciò uno sguardo interrogativo: «Aspettavi che qualcuno si unisse a noi?» «Nessuno che io abbia invitato.» L'improvviso rumore mi aveva fatto sobbalzare per lo spavento, facendomi rovesciare la zuppa sul tavolo, ma mi ripresi subito. «Vado a vedere.» Mi diressi verso la camera da letto e tirai fuori il coltello dalla cassetta dove di solito lo tenevo. Quindi scesi le scale. «Chi è là?» «Sigurd. L'eunuco ti vuole a palazzo.» Sbuffai. Sembrava che non ci fosse nessuna ora del giorno ο della notte in cui Krysafios potesse fare a meno di convocarmi. «Non poteva aspettare almeno fino all'alba, quando sarei ritornato là comunque?» Non poteva. Risalii le scale di corsa, per andare a rassicurare le tre persone in attesa al piano di sopra. «Sono richiesto a palazzo», esclamai. «Non so quando potrò essere di ritorno. Rimarresti con le ragazze, Anna? Puoi prenderti il mio letto. Io... posso arrangiarmi sul pavimento quando ritorno.» Elena sembrò sul punto di protestare: poteva tranquillamente badare da sola sia a se stessa che a sua sorella, ma un'occhiata di Anna bastò a zittirla. «Naturalmente», rispose Anna. «Però domani mattina devo essere al monastero.» «Spero che il ciambellano non voglia trattenermi così a lungo!» La notte era fredda fuori, anche se durante il giorno avevo pensato che l'inverno stava ormai cominciando ad allentare la sua morsa per cedere il passo alla primavera. Sigurd mi stava aspettando sotto il portico della casa di fronte; attraversò la strada per raggiungermi, mentre io chiudevo la porta. «Che cosa c'è?» chiesi tranquillamente, mentre ci avviavamo a grandi passi verso la collina. «I barbari si sono mossi?» Sigurd scrollò le spalle. «Ne dubito, dalle mura non ho visto nulla. Un messaggero è arrivato alla porta due ore fa e ha chiesto di essere accompagnato a palazzo. Ho avuto appena il tempo di annunciarlo alla guardia, quando alcuni melliflui nobili sono comparsi e lo hanno portato via. Mi era stato ordinato di attendere. Poi uno degli schiavi dell'eunuco è apparso e mi ha detto di venire a prenderti. Ed è quello che ho fatto.» Fece una pau-
sa, lasciando che il rumore dei suoi passi riempisse il silenzio. «Persino montare la guardia sulle mura è più onorevole che fare da galoppino all'eunuco.» «Stavi facendo più ο meno la stessa cosa la prima sera che ci siamo incontrati», gli rammentai. «Era diverso.» La luna stava calando, ma mostrava ancora più di metà della sua faccia e ciò bastava a illuminare a sufficienza il nostro cammino fra le fioche ombre della notte. Passammo davanti alle austere statue delle grandi piazze, sotto gli incombenti archi trionfali, percorrendo le strade vuote fino al palazzo. Sigurd si consultò brevemente con le guardie alla porta, poi si spostò un po' più lontano per parlare con un segretario che stava seduto a un tavolo appena dentro, intento a scribacchiare qualcosa alla luce di una lampada a olio. Il segretario sollevò gli occhi verso di me. «Vi accompagnerà lui alla sala del trono», mi disse, indicando uno schiavo silenziosamente apparso da dietro una colonna. «E tu, Sigurd?» «Io aspetterò qui.» Senza una parola, lo schiavo si voltò, avviandosi lungo uno dei corridoi principali. Lo avevo attraversato molte volte durante i mesi appena trascorsi e lo avevo sempre trovato brulicante di vita; vi si incontravano tutti gli abitanti del palazzo, dai lontani parenti della famiglia imperiale fino agli schiavi e ai garzoni. In quell'occasione era vuoto e sul pavimento le zone in ombra fra un cono di luce e l'altro sembravano innaturalmente buie. Ben presto, lasciammo la galleria principale per inoltrarci in una serie di corridoi più piccoli debolmente illuminati, dove l'odore di olio e rose lasciava il posto a un sentore di polvere e rifiuti. Alcuni di questi luoghi mi erano decisamente familiari e altri non mi sembravano del tutto sconosciuti, ma senza la mia silenziosa guida mi sarei perso come Teseo nel labirinto. Mi accompagnò fino a un peristilio aperto e scomparve. Il porticato tutto intorno risplendeva alla luce calda di molte lampade sospese al soffitto per mezzo di spesse catene d'oro, mentre proprio nel centro il pavimento lucido come argento rifletteva l'incompleto disco della luna. Respirai profondamente. Non era un pavimento di argento, realizzai, ma un lago, una piscina che occupava l'intero spazio, e si stendeva incredibilmente liscia, senza una grinza. Un sentiero di marmo la attraversava, con-
ducendo a una sorta di isola che si trovava proprio al centro, dove potevo vedere il profilo di alcune sculture scure che sorgevano dall'acqua. «Demetrios.» Mi voltai e guardai verso il porticato. La voce sembrava provenire dalla mia sinistra e da una certa distanza, ma non si vedeva nessuno. Le spesse colonne che mi limitavano la visuale mi spinsero ad alzare gli occhi e, una volta di più, rimasi a bocca aperta realizzando la loro altezza, almeno quattro volte quella di un uomo e ben più larghe. Ne avevo viste di più grandi, naturalmente, non ultime quelle della grande navata di Aghia Sofia, ma la spoglia bellezza di questi tronchi di pietra incombenti sulla piscina incuteva un senso di soggezione del tutto particolare. Mi avventurai sotto il portico, verso sinistra, osservando le figure un po' sbiadite che i miei piedi stavano calpestando. Sembravano dei bozzetti di vita bucolica, ο meglio quello che un artista di città aveva immaginato che potesse essere la vita bucolica: bambini che giocavano ο correvano sugli asini, capre al pascolo, cacciatori alle prese con una tigre. Ma in mezzo all'idillio c'erano degli sprazzi di brutalità: un cane squartato da un orso, un'aquila nelle contorte spire di un serpente, un grifone che banchettava su una cerva macellata. Volti proteiformi in blu e verde mi fissavano dai bordi, avvolti da fronde e foglie, e con il lieve dondolio delle lampade a olio appese in alto potevo quasi immaginare i loro lineamenti che mutavano e si contorcevano al mio passaggio. Girai l'angolo e vidi l'origine della voce che mi aveva chiamato: Krysafios. Era forse a metà del corridoio, ma per raggiungerlo fui costretto a compiere diversi passi sotto il suo sgradevole sguardo. «Il sebastocratore Isacco mi ha inviato notizie», mi disse. «Ha delle spie nell'accampamento dei barbari. È là che hanno trovato il monaco.» «Il monaco?» Nelle ultime settimane era quasi del tutto scomparso dai miei pensieri. Anche se c'erano buone possibilità che non avesse lasciato la città, che fosse ancora in attesa del momento giusto per colpire l'imperatore, ogni giorno che passava senza sue notizie rendeva quell'eventualità meno probabile. Era diventato un fantasma, uno spettro che poteva scivolare nei miei pensieri - e qualche volta anche nei miei sogni - senza mai diventare una presenza concreta. «Nel campo dei barbari, ma dove esattamente?» «Vicino ai moli di Galata, in una locanda nei pressi delle mura. Dietro ai magazzini, che a quanto pare i mercanti hanno abbandonato, perché ormai hanno paura a fare affari nell'accampamento dei barbari.»
«Perché non mi è stato detto che il sebastocratore aveva delle spie là?» domandai. «Come potete pretendere che io svolga il mio lavoro se ci sono elementi di vitale importanza di cui vengo tenuto all'oscuro?» «Ci sono molte cose che non sapete. Ero convinto che sareste arrivato da solo a immaginare che il sebastocratore doveva avere le sue spie, come del resto ogni membro della famiglia imperiale. Una volta non vi ha forse chiesto di servirlo esattamente in questo modo?» «Può darsi. Ma come possiamo attirare il monaco fuori da Galata? Possiamo anche essere invincibili all'interno delle nostre mura, ma Galata è diventata praticamente un territorio dei Franchi. Diecimila dei loro guerrieri rappresentano un'imponente guardia del corpo.» «Non possiamo attirarlo fuori. Ci abbiamo messo settimane a trovarlo, e se dovesse anche solo lontanamente sospettare una trappola, certo sparirebbe di nuovo. Dobbiamo entrare a Galata e catturarlo. Ο meglio, voi dovete entrare a Galata e catturarlo.» Lo fissai dritto negli occhi. «Io devo entrare a Galata? E come? Una fedele vedova mi farà passare dalla sua finestra tirandomi su con un cesto?» «Andrete con duecento Peceneghi, che vi proteggeranno. E sarete ben accolto, perché scorterete un convoglio di grano inviato dall'imperatore. Mentre i barbari saranno distratti, con le teste affondate nei trogoli, voi e le guardie scivolerete via, e catturerete il monaco prima che abbiano il tempo di capire che cosa sta succedendo.» Scossi la testa. «Se invadiamo il loro campo, e portiamo via con la forza uno dei loro accoliti, ci sarà la guerra. Nessuno desidera più di me che il monaco venga catturato, ma fino a quando rimane a Galata la sua pericolosità è relativa. Sicuramente non basta a giustificare il rischio di mettere a repentaglio tutte le manovre diplomatiche dell'imperatore.» Krysafios incrociò le dita e mi fissò con tutto il disappunto di un eunuco imperiale. «L'imperatore desidera esattamente quello che vi sto ordinando. Il sebastocratore si è dichiarato d'accordo e voi sarete lo strumento della loro volontà. Il monaco ha già dimostrato di essere in grado di penetrare fin nel cuore del palazzo e di corrompere anche i più fidati servitori; se dovesse riuscire a farlo di nuovo, proprio mentre i rapporti con i Franchi sono vicini alla crisi, le conseguenze per l'impero potrebbero essere devastanti. E non c'è molto tempo, al massimo due settimane. Boemondo di Sicilia, sconfitto dall'imperatore a La rissa, sta accorrendo con il suo esercito di Normanni per dare man forte ai Franchi. Se uniscono le loro forze, non saremo in grado di resistere.»
Deglutii a fatica. Erano notizie che non avevo sentito nei mercati e neppure girando per le sale del palazzo. Mi tornarono in mente i racconti di Sigurd a proposito delle atrocità commesse dai Normanni nella sua terra natale e, molto più vicino a casa mia, la loro crudeltà ai tempi della conquista di Dirrachio e Avlona, circa dieci anni prima. «Quando dobbiamo partire?» «Presto, in modo da arrivare sotto le mura di Galata all'alba, e coglierli quindi impreparati. Uscirete dalla porta di Blacherna e prenderete la strada che gira intorno al Corno d'Oro.» «Delle barche sarebbero più veloci, e renderebbero la nostra fuga più facile se dovessimo incontrare resistenza», obiettai. «Ma non potreste attraversare il Corno fino alle prime luci del giorno. E allora vi vedrebbero arrivare e avrebbero tutto il tempo di prepararsi. Seguendo la strada, potrete rimanere nascosti ai loro occhi fino al vostro arrivo. Ho già predisposto tutto: troverete i carri di grano alla porta di Blacherna.» «Una ragione in più per avere duecento uomini e il favore dell'oscurità», gli risposi. «Saremmo massacrati dalla folla se ci vedessero sottrarre carri di cibo dai granai della città per portarli dai barbari.» Krysafios ignorò le mie parole. «Dormirete nel palazzo questa notte; ho ordinato agli schiavi di prepararvi un letto negli alloggi delle guardie. Non mancano molte ore alla vostra partenza.» «Dormirò a casa mia, stanotte», ribattei, stizzito davanti al suo tentativo di dettare legge anche riguardo ai miei più piccoli movimenti. «Preferisco una mezza notte di sonno nel mio letto che una notte intera in un altro. Posso incontrarmi con i Peceneghi direttamente alla porta.» Krysafios mi scoccò uno sguardo irritato, ma agitò una mano in segno di noncuranza. «Come volete. Ho pensato che avreste preferito evitare distrazioni ora che il monaco è così a portata di mano.» «Non ci saranno distrazioni.» E neppure alcuna soddisfazione, almeno fino a quando il monaco non sarebbe stato incatenato nelle prigioni. Anche con duecento Peceneghi pronti a proteggermi, penetrare all'interno dell'accampamento dei barbari equivaleva a infilarsi fra le fauci di un leone. Facevo fatica a credere che dopo quella lunga caccia, tutti quei mesi passati a inseguirlo, avrei potuto finalmente prendere in trappola il monaco. Ma anche se ci fossi riuscito, sarebbe bastato a giustificare il rischio di portare verso la guerra aperta i due grandi eserciti dell'Est e dell'Ovest? Lasciai Krysafios sotto le ombre di quelle grandi colonne, accanto alla
piscina della luna, e corsi fuori dal palazzo. Lo schiavo che mi aveva guidato fin lì riapparve silenzioso come prima, e mi accompagnò velocemente verso il cortile esterno. Lo scriba era ancora là, sempre intento a scrivere alla luce della lampada, e vicino a lui Sigurd, assopito su una panca. «La tua ascia è ancora affilata?» chiesi con tono tranquillo, dandogli un colpetto su una spalla. Mentre apriva lentamente gli occhi, gli ripetei la domanda. «O le lunghe giornate passate sulle mura umide di pioggia l'hanno arrugginita?» Rispose con un grugnito. «La mia lama può spuntarsi solo contro le ossa, ma non ne ha incontrate negli ultimi due mesi. Perché?» «Devo imbarcarmi in un'impresa pericolosa domani, e mi piacerebbe avere al mio fianco una solida ascia.» «Quale impresa?» Sigurd mi guardava diffidente. «Un'impresa pericolosa. Sarebbe ancora più pericoloso per te saperne di più, anche se forse puoi indovinare facilmente da dove possono venire i pericoli più gravi in questo momento. Verrai?» «Dovrei essere sulle mura.» «Come mi hai detto una volta, le mura hanno resistito per sette secoli senza di te. Possono sopravvivere ancora una mattina.» Parlavo con un tono lieve, quasi frivolo, ma le minacciose parole di Krysafios a proposito dei Normanni mi ronzavano nella testa, e forse non era più tempo di scherzi e facezie. Sigurd si sfregò le spalle, poi si alzò in piedi. «Molto bene, Demetrios. Ci hai fatto l'abitudine a contare sul mio aiuto nei posti pericolosi e la mia coscienza è già fin troppo tormentata. Quando partiamo?» Combinai di incontrarlo alla porta di Blacherna alla fine del turno di guardia di mezzanotte, poi scivolai fuori dal palazzo e mi affrettai verso casa. Era già sera tardi, e cominciavo a dubitare di aver fatto una cosa saggia rifiutando il letto che Krysafios mi aveva offerto. La mattina dopo, nell'accampamento dei barbari, non avrei potuto permettermi di fare qualche errore per stanchezza, perché rischiavo di pagarlo con la vita. Ormai ero ben noto alle guardie, che da diverse settimane mi vedevano tornare a casa dal palazzo dopo il tramonto, e attraversai tutte le strade indisturbato. Il pensiero dei Normanni continuava a preoccuparmi, e le ombre nell'oscurità intorno a me non fecero che acuire la mia paura lungo tutta la strada fino alla porta di casa mia. Mi sentii invadere da un'ondata di sollievo solo quando potei finalmente chiudermela alle spalle, salire le
scale e guadagnare la salvezza della mia camera da letto. Le mie parsimoniose figlie non avevano lasciato nessuna luce accesa, ma io conoscevo la casa abbastanza bene da poterla attraversare a occhi chiusi. Entrai dunque al buio, togliendomi mantello e tunica e lasciandoli cadere sul pavimento senza curarmene particolarmente. Faceva freddo nella stanza e mi sentii rabbrividire. Pensando che avrei dovuto fare assegnamento sulla mia vecchia abitudine da soldato di svegliarmi da solo all'ora stabilita, tastai l'estremità del letto e mi infilai sotto le coperte. Dove scoprii di non essere solo. Quasi gridai dal terrore, un attimo prima di realizzare la mia sconsiderata follia. Naturalmente, avevo chiesto ad Anna di rimanere con le mie figlie, e le avevo offerto il mio letto mentre io ero via! Come avevo potuto dimenticarlo, pur con la mente ossessionata da centinaia di immagini dei Peceneghi, dei Franchi, dei Normanni e della guerra? E - peggio ancora - anche lei era nuda, a giudicare dal liscio calore della sua pelle contro di me. Per un attimo non riuscii neppure a muovermi, paralizzato dalla sorpresa, dall'imbarazzo e da un desiderio che da anni non mi capitava più di avvertire. E poi, sentendomi ancor più a disagio, mi accorsi di reagire alla sua presenza con un evidente irrigidimento che sembrava puntare verso le cavità del suo corpo. Tentai di tirarmi indietro ma lei mormorò qualcosa nel sonno e spinse avanti un braccio, cingendomi una spalla e attirandomi più vicino. Che Dio mi perdoni. E non era addormentata, perché le parole che pronunciò subito dopo, anche se velate di sonno, furono perfettamente chiare: «Demetrios? È questa la tua tattica, attirare donne ingenue nel tuo letto e poi saltare loro addosso all'improvviso?» «Mi ero scordato che eri qui», dissi, disperatamente consapevole del suono falso delle mie parole. «Al buio, e con la testa piena di preoccupazioni, io...» Lei mi mise una mano sulle labbra. «Non ti agitare, Demetrios. Una donna vuole un uomo che la desidera, non uno che inciampa per caso su di lei nell'oscurità, come se fosse l'angolo di un tavolo.» «Ma questo è...» «Peccaminoso?» Scoppiò a ridere. «Ho passato la vita a esplorare i segreti della carne: ho trovato sangue, bile, ossa e tendini, ma mai nulla che assomigliasse al peccato. Sei stato nell'esercito, non hai mai cercato compagnia quando eri lontano da casa?» Il suo parlare schietto mi scandalizzava, ma il modo in cui le sue dita
giocavano sulla mia schiena all'altezza delle reni attutì molto il mio imbarazzo. «Un giovane uomo può trovarsi una schiava per soddisfare i suoi bisogni», ammisi. «E anche una donna lo può fare.» «L'ho confessato e sono stato assolto. Questo non mi autorizza a trasformarlo in un'abitudine.» «Ma tu hai combattuto con degli uomini, talvolta li hai uccisi. Perché puoi cedere alla collera ma vuoi resistere al piacere?» I suoi modi erano seducenti e il suo ostinato argomentare non lasciava scampo. E neppure si poteva dire che la fermezza del mio spirito improntasse di sé la mia carne, poiché con la mano avevo cominciato ad accarezzarla fra i seni, arrivando su fino alla gola e giù lungo la curva del collo. Pensai a mia moglie, Maria, e per un attimo esitai, ma il ricordo del tocco delle sue mani raddoppiò il mio desiderio, e io mi strinsi ancor di più contro l'arrendevole corpo di Anna. Lei mi avvolse le braccia intorno alla testa e mi attirò verso il petto, trascinando la mia bocca sulla sua pelle in un tumulto di piccoli baci. Nel mio corpo non c'era più alcuna traccia di resistenza, ogni parte di me stava stringendola, baciandola, abbracciandola, ma la mia mente ancora si opponeva. Era qualcosa di empio? Stavo profanando la memoria di Maria, il nostro matrimonio davanti a Dio? Ma il Signore non mi aveva condannato alla vita solitaria di un vedovo per sempre. E Maria, che riuniva in sé il pragmatismo della sua figlia maggiore e l'allegria di quella minore, non avrebbe voluto, pensai, che io vivessi una vita da monaco in nome suo. Forse era vero, ο forse le circostanze mi fecero desiderare che fosse vero. In ogni caso, non ero nella condizione di trovare risposte razionali a quesiti di ordine morale. Mi lasciai andare, sprofondando fra le braccia di Anna e stringendola forte contro di me in un silenzioso amplesso. κδ Faceva freddo quando arrivai alla porta di Blacherna, e forse avevo anche più freddo a causa del sonno che avevo perso. Staccarsi dal calore appassionato di Anna era già stato piuttosto difficile, ma quando mi ritrovai ad arrancare sulle strade deserte in direzione delle mura, fui sopraffatto dai dubbi, dalla vergogna e dai sensi di colpa. Come avevo potuto abbandonarmi così, e nella più sacra settimana dell'anno? Cosa avrebbe detto il mio confessore? Che avrebbe fatto di me il Signore? Con la lunga marcia nella
notte che ci attendeva, alla fine della quale non avremmo trovato altro che diecimila barbari ostili, avevo scelto un momento ben poco favorevole per offendere le leggi di Dio. Sigurd era già là. Aveva la sua ascia in spalla, la mazza sul fianco e una corta spada alla cintura, e aveva ancora la forza di tenere in mano due scudi e un'altra spada. «Questi sono per te», mormorò. C'era qualcosa nell'aria della notte che ci spronava a parlare a voce bassa. «Li ho presi all'armeria.» Fissai lo scudo sul braccio e mi attaccai la spada alla cintura. La strada che ci aspettava mi sembrò immediatamente più lunga. «Sono diventati più pesanti rispetto ai tempi in cui ero nell'esercito», mi lamentai. «Come si fa a combattere con questo peso?» «Forse sei tu che sei diventato più pesante rispetto ai tempi in cui eri nell'esercito.» «Chi è questo?» Il capitano dei Peceneghi, lo stesso che aveva guidato la spedizione verso la casa del fratello del monaco, puntò un dito verso Sigurd. «Non abbiamo bisogno dei Variaghi.» «Sigurd è la mia guardia del corpo», spiegai seccamente. «Viene con me.» Il Pecenego non sembrò molto impressionato, ma scrollò le spalle e si allontanò per raggiungere la testa dei suoi uomini. Sigurd mi lanciò un'occhiataccia. «Due mesi fa ero la guardia del corpo dell'imperatore. Ora sembra che io protegga solo quelli che proprio nessuno vuole uccidere.» «Forse.» Mi sistemai lo scudo sul braccio, tirandolo un po' più verso l'alto. «Speriamo che tu possa ripeterlo ancora questo pomeriggio.» Dalla testa del plotone riecheggiò l'ordine di muoversi. Due colonne di Peceneghi si misero in marcia, accompagnate dallo stridente rumore dei carri carichi di grano. I buoi che li tiravano muggivano il loro scontento, con il pelo lucido per l'umidità dell'aria e il fiato che si trasformava in vapore uscendo dalle narici rincagnate. Sigurd e io andammo a raggiungere la retroguardia, in coda alla colonna. In alto sopra di noi, piccole luci dorate brillavano dietro le finestre del palazzo nuovo, dove forse persino in quel momento l'imperatore stava sognando conquiste, ma scomparvero quando passammo sotto l'arco e ci ritrovammo all'esterno, nella pianura. La luna era sparita e le nuvole avevano coperto le stelle, così procedevamo quasi alla cieca, avendo come unica compagnia l'ansito degli animali e il cigolio dei carri.
Come travestimento, quei carri potevano anche essere stati una buona idea, ma per viaggiare nell'oscurità non erano altro che un impaccio. Uno rimase bloccato su un tratto di strada dissestato e dovette essere tirato su a forza di braccia dai Peceneghi; inoltre il loro peso ci costrinse a evitare tutti i ponti e ad arrivare fino all'estremità del Corno. Lo scudo mi pesava sul braccio, ma quando cercai di legarmelo sulla schiena, come ero uso fare ai tempi della legione, le cinghie quasi mi strangolarono. «E pensare che è Giovedì Santo», mormorai, rivolto più a me stesso che a Sigurd. «Dovremmo essere raccolti in preghiera, non in guerra con altri cristiani.» «Se la pensano anche loro così, potrai essere nella tua chiesa per mezzogiorno.» I passi di Sigurd erano, come sempre, almeno un piede più lunghi dei miei, e io dovevo quasi correre per rimanergli al pari. «In caso contrario, oggi potresti anche avere la possibilità di parlare direttamente con Dio.» Continuammo a procedere alla spicciolata, mentre la mia gratitudine nei riguardi dei buoi aumentava, visto che erano gli unici del gruppo ad avere un'andatura più lenta della mia. Ora stavamo tornando indietro lungo la riva settentrionale del Corno ed eravamo esattamente nel punto in cui essa curva per andare a formare l'insenatura del porto. Al di là dell'acqua potevo vedere delle luci, piccoli fuochi che si alzavano sulle creste delle colline, anche se gran parte della città giaceva ancora avvolta nell'oscurità. Dovevamo ormai essere vicini a Galata. Come a conferma dei miei pensieri, sentii il rumore di un richiamo davanti a me, e il suono di due Peceneghi che stavano parlando nella loro strana lingua. Dovevamo aver raggiunto la linea delle sentinelle che circondava il campo, che doveva ormai essere a non più di qualche centinaio di passi. La notte stava declinando, cedendo il passo a una grigia penombra che consentiva finalmente ai miei occhi di vedere quello che mi circondava. In lontananza, potevo scorgere le ombre scure delle mura di Galata. Avevamo scelto il momento giusto per arrivare: le sentinelle probabilmente si sfregavano gli occhi pregustando il sonno, ringraziando Dio per aver concesso loro di passare indenni un'altra notte, mentre tutti gli altri dovevano ancora essere nei loro letti. Incluso il monaco, mi auguravo, nella sua casetta all'estremità delle mura, sulla strada dietro i magazzini. Mi diressi fino alla testa della colonna, tallonato da Sigurd. «Rammentate il nostro piano?» domandai al capitano dei Peceneghi. «Appena si apre la porta, lasciamo i carri e ci lanciamo dritti nell'accampamento lungo la
strada principale.» Il capitano sogghignò. «Se il monaco è qui, lo prenderemo.» «Vivo», gli ricordai. Eravamo a una ventina di passi dalla porta quando risuonò il chi va là della sentinella, un fievole grido proveniente da un ragazzo che doveva essere poco più grande di Thomas. «Cibo dall'imperatore», risposi. «Cinque carri di grano. Aprite la porta.» «Come mai arriva prima dell'alba?» C'era una sfumatura di dubbio nella voce del ragazzo, non sapevo se dovuta solo a un po' di nervosismo ο a un vero e proprio sospetto. «E perché è circondato da uomini in armi?» «In modo che possiate godervi la colazione e per evitare che i briganti svuotassero i carri lungo la strada, prima che arrivassero da voi. L'imperatore non vuole vedervi affamati.» La mia frase provocò un risolino di scherno, seguito da una lunga attesa, probabilmente dovuta al fatto che il ragazzo si stava consultando con il suo superiore. Cominciavo a dubitare del piano di Krysafios, e mi chiedevo se non saremmo stati costretti a rimanere davanti alla porta mentre i Franchi prendevano in consegna i carri. In quel caso che cosa avremmo potuto fare? Non potevo certo assediare Galata con duecento uomini, e non aveva senso rischiare di scatenare una guerra senza essere neppure sicuri di catturare il monaco. Senza preavviso, le porte si spalancarono. Persino i Peceneghi, che sarebbero andati all'assalto anche delle mura dell'inferno se glielo avessero ordinato, sembravano esitanti mentre marciavano dentro il campo. Come avevamo sperato, c'erano pochi Franchi in giro a quell'ora, e tutti rimasero immobili sul bordo della strada a guardarci passare in un silenzio affamato. Tenevano le braccia incrociate sul petto e l'odio era evidente sui loro volti emaciati. Anche la vista dei carri di grano che procedevano barcollando alle nostre spalle non sembrava in grado di ammorbidirli, anche se qualcuno dei bambini era già corso via per infilarsi nei vicoli dietro la strada principale, senza dubbio per spargere la voce del nostro arrivo. «C'è da chiedersi perché l'imperatore gli ha permesso di stabilire il loro campo all'interno di una colonia ben fortificata», dissi a Sigurd, rompendo l'ostile silenzio che ci circondava. «Sarebbero certamente stati più collaborativi se non avessero avuto altro che le tende a proteggerli.» «Forse voleva dimostrare loro la sua fiducia. Ο forse voleva intrappolarli in un luogo circoscritto e facile da tenere sotto controllo. Le prigioni sono
circondate da mura, esattamente come i forti.» «Ma in questo momento chi è imprigionato dalle mura?» Raggiungemmo una piazza, il foro principale di Galata. C'era un maggior numero di Franchi in quella zona, in gran parte donne e bambini con i cesti per portare a casa il grano. Si fecero avanti appena i carri tirati dai buoi si fermarono, ma la nostra colonna di Peceneghi non rallentò neppure il passo. Da qualche parte, alle nostre spalle, un uomo gridò che dovevamo fermarci; noi lo ignorammo, proseguendo nella nostra marcia. Dovevo riconoscere l'astuzia di Krysafios, perché il grano stava egregiamente servendo allo scopo: dovendo scegliere fra bloccare una compagnia di Peceneghi ο mangiare per la prima volta dopo giorni, tutti i Franchi decisero di ascoltare lo stomaco. Senza incontrare ostacoli, attraversammo la piazza per inoltrarci nella stradina serpeggiante che la spia del sebastocratore aveva descritto. Essa seguiva la linea della costa che si trovava a poche dozzine di passi, ma gli edifici erano così attaccati gli uni agli altri che l'acqua si intravedeva appena. Sembrava quasi deserta, forse a causa dell'ora ο forse perché tutti i suoi abitanti si erano riuniti nella piazza del foro. Comunque fosse, meno persone ci vedevano catturare il monaco e meglio era per noi. Più ci inoltravamo nella città, più le botteghe e le taverne allineate lungo la strada cedevano il posto ai magazzini, edifici più alti e imponenti che sembravano sempre più restringere il passaggio. C'erano poche finestre e ancora meno porte, e nessuno di quei meravigliosi odori che pervadevano gli analoghi quartieri che si trovavano dall'altra parte del Corno. Avevo sentito che il commercio era praticamente morto da quando erano arrivati i barbari, e da quando l'imperatore aveva deciso il blocco dei rifornimenti. Certo, non c'era più traccia della fervida attività di mercanti, intermediari e bottegai che io ricordavo dalla mia ultima visita. Avevamo ormai superato il centro della città di Galata; davanti a noi potevo già vedere gli spalti delle mura occidentali che chiudevano il fondo della strada, e proprio di fronte, in un interstizio fra due magazzini, in quello che una volta doveva essere stato un vicolo, si ergeva una piccola casa. Diedi un leggero colpo sulla spalla del capitano pecenego, ricoperta dall'armatura, sobbalzando per la rapidità con cui si voltò verso di me. Era grosso e tarchiato, quasi come un cinghiale, e le maglie della sua corazza metallica erano talmente tese da sembrare sul punto di rompersi, ma nei suoi occhi cisposi c'era un'inquietudine che mi preoccupò.
«La casa è quella», gli dissi, indicando lo striminzito edificio. «Dobbiamo mandare qualche uomo sull'altro lato, ma forse non vale la pena di preoccuparci anche dei tetti dei magazzini.» Si innalzavano su entrambi i lati della casa e sarebbe stato necessario un balzo degno di Ercole per fuggire da quella parte. Il capitano fece un brusco cenno con la testa, e subito si sentì un tintinnio di metallo, mentre due dozzine di uomini si precipitavano nel vicolo alle nostre spalle per chiudere al monaco ogni possibile via di fuga. «Bussiamo alla porta?» mi chiese con malizia. «La buttiamo giù, piuttosto.» Impartì un ordine e sei uomini scattarono in avanti. Invece di spade impugnavano asce; non grandi asce da battaglia, come quella di Sigurd, ma attrezzi da taglialegna adatti ad abbattere gli alberi. Il grosso della compagnia si radunò davanti alla porta, pronto a partire alla carica non appena l'avesse vista crollare, il resto si divise in due gruppi a guardia di entrambe le estremità della strada. Sembrava assurdo un tale spiegamento di forze per catturare un solo uomo, ma lo conoscevo troppo bene per ritenerla una cosa superflua. «Ora.» Due asce si abbatterono sulla porta, le lame si conficcarono nel legno scavando profonde fenditure. Vidi i Peceneghi sollevare le armi in modo da liberarle e con un movimento rotatorio abbatterle di nuovo sul battente, che vibrava e aveva cominciato a scheggiarsi ma ancora resisteva. La sua tenacia doveva aver frustrato gli assalitori, che sollevarono di nuovo le asce per infliggere un terzo possente colpo. Uno degli uomini imprecò, mentre si voltava verso il suo capitano. Urlò con veemenza qualcosa nella sua lingua, che io non riuscii ad afferrare. «Che cosa ha detto?» «Ha detto...» Le parole gli rimasero inspiegabilmente in gola; il capitano si portò convulsamente le mani al collo e si girò a guardarmi, mentre i miei occhi si spalancavano per l'orrore. Una freccia gli aveva trafitto la gola e il sangue gli ruscellava sulle mani. Cadde sulle ginocchia, senza proferire verbo, e io rimasi lì a fissarlo senza capire, anche se tutto intorno cominciavo a sentir esplodere le urla insieme al sibilo sordo delle frecce in volo. «Sono sul tetto», urlò Sigurd. «Entra nella casa! E tieni lo scudo davanti al viso», aggiunse. Si lanciò attraverso la strada, scagliandosi con la spalla contro la porta già intaccata dell'abitazione. Un colpo in grado di abbattere un bue, contro la decrepita porta di un'abitazione di fortuna, ma Sigurd
rimbalzò all'indietro come se avesse colpito la pietra. «L'hanno barricata», esclamò. «È una trappola. Alza lo scudo, maledizione!» Ancora stordito, ebbi la prontezza di spirito di alzare il braccio con lo scudo all'altezza degli occhi, mentre mi rannicchiavo per terra. Appena in tempo, poiché proprio mentre lo facevo sentii il sibilo di una freccia che si andava a conficcare con un rumore sordo nel cuoio, a pochi centimetri dalla mia testa. L'impatto mi fece perdere l'equilibrio e io ruzzolai su un fianco, prima che due grosse braccia mi afferrassero con forza tirandomi in piedi e trascinandomi all'ombra del magazzino. «I loro arcieri sono sul tetto», ribadì torvo Sigurd. «Ci stavano aspettando.» «Ma da quando siamo arrivati non possono aver avuto il tempo di radunarli...» Sigurd tagliò corto, senza lasciarmi finire. «Ne hanno avuto quanto bastava. Per questo, e per chissà cos'altro. Dobbiamo scappare prima che chiamino i rinforzi.» Tenendo lo scudo sulla testa, mi guardai intorno. Già una dozzina di cadaveri giacevano riversi sulla strada, ma gli altri Peceneghi erano riusciti a stringersi insieme formando quattro cerchi. Tenevano gli scudi alti sulla testa e, in questo modo, riuscivano a evitare la maggior parte delle frecce che piovevano su di loro. «Se tengono questa formazione possiamo riuscire a ritirarci verso il porto», pensai a voce alta. «Possiamo trovare una nave per andarcene.» Stavo già per dirigermi verso il gruppo più vicino, ma Sigurd mi bloccò. «Non troveremo mai un'imbarcazione che possa portare duecento di noi e sia subito pronta per salpare. Finiremmo intrappolati con le spalle al mare, gettati in acqua ο massacrati. Dobbiamo dirigerci verso la piazza, verso le porte.» «Ma è ad almeno mezzo miglio», protestai. «Non possiamo fare tutta quella strada strisciando come granchi.» «Possiamo eccome, se l'alternativa è la morte. E quando ci saremo allontanati da questi magazzini, ci saremo anche lasciati alle spalle gli arcieri. A meno che non ce ne siano altri lungo la strada.» Chi lo sapeva dove ci aspettavano i barbari? Comunque, non ebbi il tempo di riflettere oltre, perché all'improvviso - esattamente come era iniziata - la pioggia di frecce contro il muro alle mie spalle cessò. E non soltanto nel punto in cui ci trovavamo noi, perché potevo vedere che i Pece-
neghi sulla strada avevano un pochino allentato la presa sugli scudi, fino a quel momento rimasti ben chiusi sopra le loro teste, e ora facevano capolino dai loro improvvisati ripari. «Hanno finito le frecce?» mi chiesi a voce alta. «Tutti in una volta?» Sigurd lanciò verso l'alto uno sguardo truce. «Ne dubito. Sarà qualche nuova diavoleria. Dobbiamo muoverci subito.» Proprio in quel mentre, sentii un rombo che si propagava sul terreno, come quelli delle scosse che precedono i terremoti. Persino Dio si era messo contro di noi? I Peceneghi stretti in formazione si guardavano intorno nervosamente, con gli scudi per metà abbassati. Il rombo sembrava aumentare e Sigurd probabilmente lo riconobbe un attimo prima di tutti gli altri, perché lo sentii urlare agli uomini di formare una linea, proprio mentre la cavalleria barbara sbucava al galoppo dalla curva della strada. Alcuni Peceneghi rimasero fermi a bocca aperta, pietrificati dall'orrore, ma nella maggior parte degli altri la disciplina e l'istinto ebbero la meglio, e cominciarono a distribuirsi attraverso la strada con gli scudi in avanti. Non avevamo lance, ma gli speroni non sono sufficienti per convincere un cavallo a lanciarsi contro una fila di uomini, e se anche una sola bestia si tira indietro trascina nel caos le altre, aprendo una breccia che poteva permetterci di tentare una carica. Ma comunque non avevamo scampo. Gli arcieri sopra di noi lasciarono partire un altro nugolo di frecce, abbattendo tutti quei Peceneghi che si erano lasciati distrarre dall'aravo dei cavalieri: presi fra due fuochi, incerti sul da farsi, morirono senza riuscire a opporre alcuna resistenza. Sigurd si gettò in mezzo a loro, tentando di schierarli in qualche modo, ma la confusione rese vani i suoi ordini, e la compagnia era già troppo decimata per poter contenere l'avanzata della cavalleria. Si abbatterono su di noi come un'ondata di lance e spade, colpendo, infilzando e facendo a pezzi chiunque opponesse resistenza. Uno passò al galoppo a pochi centimetri dal mio volto, ma il muro alle mie spalle frenò il suo slancio allontanando la sua spada da me. Alla cieca, protesi la spada a mia volta, ma quello si era già allontanato e il mio colpo non andò a segno. Poi lo spazio intorno a noi fu di nuovo vuoto e io avanzai barcollando in mezzo alla strada. Il suolo era ricoperto di sangue, di scudi e di uomini fatti a pezzi; qualcuno stava cercando di rimettersi in piedi, ma la maggior parte non sarebbe stata più in grado di farlo. Sigurd, ancora incolume, svettava come una montagna al di sopra della carneficina; stava strappando via la sua ascia dal petto di un Franco che aveva disarcionato e urlava rab-
bioso degli ordini, ma erano rimasti in pochi ad ascoltarlo. Una freccia atterrò sulla strada proprio accanto al mio piede e io mi tuffai di nuovo a terra, ma gli arcieri dovevano averne avuto abbastanza di quel facile massacro, poiché i loro tiri ormai erano sporadici. Agitai il braccio verso l'estremità della strada, dove la cavalleria si stava raggruppando di nuovo. «La prossima carica ci spazzerà via di sicuro», gridai. «Non siamo in grado di resistere.» «Combatterò fino alla morte», rispose Sigurd, con il volto arrossato di sangue e di rabbia. «Non c'è onore nella resa.» «Ancora meno nel lasciare le mie figlie orfane. Muori per l'imperatore, se devi, ma non sprecare le tue ultime forze in un'inutile scaramuccia. Per i barbari valiamo di più come ostaggi che come cadaveri.» I più accaniti dei cavalieri franchi stavano già cominciando a spronare i cavalli, colpendoli ai fianchi e urlando le loro grida di guerra. Le lance erano già puntate; ci sarebbero arrivati addosso nel giro di pochi secondi. «I Variaghi non si arrendono mai», urlò selvaggiamente Sigurd. «Solo da morti possiamo lasciare il campo di battaglia prima dei nemici. Alzati e combatti.» Ma la sua era una voce solitaria nel deserto. Non so se i Variaghi avrebbero davvero combattuto fino alla fine; i Peceneghi non lo fecero. Intorno a me, tutti quelli che riuscivano ancora a stare in piedi lasciarono cadere le spade e gli scudi, e alzarono le braccia in segno di resa. Per un attimo pensai che i Franchi ci avrebbero caricato ugualmente, ma all'ultimo momento si divisero, disponendosi a cerchio intorno a noi. Solo Sigurd sembrava ancora voler resistere all'inevitabile sconfitta, ringhiando, scuotendosi e lanciando sfide ai nostri nemici, ma alla fine anche la sua testa si abbassò, mentre la sua ascia cadeva a terra. I barbari non ci rivolsero la parola: lasciarono che fossero le lance a parlare per loro. Quelli in prima linea cominciarono ad allontanarsi, mentre si facevano avanti quelli in precedenza rimasti al riparo, che ci pungolavano per farci marciare. Non ci diedero neppure il tempo di rimettere in piedi i feriti e vidi almeno un uomo, ancora vivo, calpestato con indifferenza dagli zoccoli dei cavalli. La vergogna e il furore erano evidenti su tutti i nostri volti, e in particolare su quello di Sigurd, ma eravamo impotenti: i Franchi avrebbero potuto massacrarci tutti in un attimo. Spingendoci come animali ci ricondussero al foro. I carri di grano erano spariti, senza dubbio ripuliti di tutto il loro carico, ma una gran folla accalcata in più file si era nel frattempo radunata. Ci stavano aspettando, realiz-
zai, cogliendo intorno a noi un senso di allegria e di eccitazione, esattamente come ci aspettavano gli arcieri e la cavalleria. Mi disgustava pensare alla facilità con cui eravamo stati attirati in una trappola. Quattro tavoli erano stati trascinati all'estremità della piazza a formare una rudimentale piattaforma, sulla quale se ne stavano in piedi una dozzina di capitani franchi. Indossavano tutti l'armatura e molti avevano i volti nascosti dagli elmi, ma l'uomo in piedi nel mezzo era a capo scoperto e il suo volto mi era familiare. Era Goffredo, il duca dai capelli biondi che aveva ricevuto nella sua tenda l'ambasciata del conte Ugo. Ricordavo che aveva accolto il conte cortesemente, anche se con una certa diffidenza, mentre suo fratello invece urinava sul pavimento. Per quanto fossi provato dalla battaglia, dalla marcia forzata in punta di lancia e dal pericolo della nostra situazione, la sua vista mi diede qualche ragione di speranza. Una speranza che svanì quando il comandante della cavalleria girò intorno alla piazza al galoppo, andando a fermare il suo imponente stallone baio davanti al palco, e si strappò via Telino dalla testa. Apparve una massa disordinata di capelli neri e crespi, come se si fosse appena alzato dal letto, e al di sotto un volto gelido e bianco come non mai. Baldovino, mi ricordai, il fratello senza terra del duca Goffredo. Scese da cavallo e si diresse verso il fratello, con un sorriso di trionfo stampato sul volto. Cominciò a parlare, veloce, in tono sfrontato, gesticolando in direzione dei prigionieri e parlando sia alla folla che al fratello. Parlava nella lingua dei Franchi, ma la feroce esultanza che vibrava nella sua voce non si prestava ad alcun equivoco. Sembrava che stesse perorando una causa, perché più di una volta il duca lo interruppe bruscamente; ma il favore della folla era chiaramente tutto per Baldovino. Quando quest'ultimo si indirizzava direttamente agli ascoltatori, essi emettevano grida di approvazione e applaudivano; appena accennava con la mano in direzione di suo fratello, la gente fischiava e sembrava schernirlo. Comunque dovevano aver raggiunto l'accordo almeno su qualcosa, perché alla fine Baldovino saltò giù dalla piattaforma e si diresse verso di noi. «Sicuramente viene a comunicarci quale sarà il prezzo del nostro riscatto», sussurrai a Sigurd. «Hai capito qualcosa di quello che hanno detto?» Sigurd scosse la testa, lo strazio della disfatta ancora dipinto sul volto. Senza attendere un interprete, ο cercare di scoprire chi di noi fosse il capo, il capitano barbaro si rivolse al Pecenego più vicino. Il suo braccio, trafitto da una lancia, stava sanguinando, ma l'uomo sollevò il mento e tirò indietro le spalle quando Baldovino si fermò davanti a lui fissandolo con
arroganza. Il barbaro tirò lentamente indietro la testa, poi la fece scattare in avanti e sputò sulla faccia del prigioniero. Il soldato pecenego indietreggiò appena, ma per il resto rimase perfettamente immobile, mentre Baldovino si girava sogghignando verso la folla, che salutò il suo gesto con un mormorio di approvazione. Era ancora rivolto verso di loro, e ancora sogghignava, quando la sua mano si posò sulla spada che teneva appesa alla cintura. E il sorriso rimase sul suo volto anche quando si girò su se stesso, tirò fuori la spada dal fodero e, con un unico movimento ad arco, tagliò la gola del Pecenego. Il soldato assassinato scivolò a terra morto ancor prima che sul suo volto avesse fatto in tempo a dipingersi la sorpresa. Una macchia di sangue cominciò ad allargarsi fra le pietre tutto intorno al cadavere. Grida di giubilo si alzarono dalla folla, mentre Baldovino accennava un inchino di scherno intanto che ripuliva la lama su una manica del morto. Suo fratello aveva seguito la scena con silenzioso sdegno, sapendo bene di non poter sfidare la folla, il cui entusiasmo aumentò ulteriormente quando Baldovino si avvicinò, esagerando a bella posta il movimento, a un altro Pecenego. Fece oscillare la lama davanti al viso della guardia, prima a destra e poi a sinistra, rapidamente, quindi, mentre l'uomo tentava a fatica di tenersi fuori della sua traiettoria, abbassò la spada trafiggendogli con forza una gamba. La guardia urlò di dolore e si piegò in avanti, offrendo il collo alla lama di Baldovino. Probabilmente non vide neppure arrivare il colpo che lo uccise. Per un attimo chiusi gli occhi, nauseato, poi li riaprii e guardai Sigurd. «Non possiamo restare qui», sibilai. «Ci ucciderà tutti solo per divertirsi, se la folla non ci fa a pezzi prima. Dobbiamo scappare.» «Tu hai detto che per loro potevamo valere più come ostaggi che come cadaveri.» Non avevo mai sentito prima così tanta amarezza nella voce di Sigurd. «Avevo torto. Se proprio dobbiamo morire, almeno che sia combattendo. E se possiamo evitarlo...» Dovevano essere almeno un'ottantina i prigionieri radunati nella piazza, e la barbarie di Baldovino aveva suscitato in tutti i cuori la medesima decisione. Uno dei Peceneghi prese l'iniziativa. Rifiutandosi di aspettare inerte il proprio destino, si lanciò verso una delle estremità della piazza, dove la folla era meno fitta. Il cavaliere più vicino alzò la spada per colpirlo con un fendente, ma lui riuscì a evitarlo buttandosi sotto il cavallo. Vidi le sue mani che afferravano una gamba del barbaro e iniziavano a tirarla, mentre con la spalla aveva probabilmente colpito l'animale fra le coste; il cavallo
si alzò infatti sulle zampe posteriori, disarcionando il suo cavaliere. Questi cadde al suolo con un urlo di terrore, e un istante dopo la sua spada era nelle mani del Pecenego, che la brandì verso la folla con un grido di sfida. La disperazione mi riempì i polmoni. «Adesso», urlai. Afferrai Sigurd per un braccio e puntai deciso verso destra: poiché la cavalleria franca e la plebaglia erano balzate in avanti per bloccare la fuga del solitario Pecenego, nel cordone che ci circondava si era creato un buco. Mi precipitai in quella direzione, tallonato da Sigurd, sferrando un pugno contro l'unico uomo che mi sbarrò la strada, e completando l'opera con una ginocchiata all'inguine. Si afflosciò a terra lasciandomi via libera. Alle mie spalle sentivo altre urla e strepiti, man mano che Sigurd si faceva largo spaccando le ossa di quelli che tentavano di fermarlo. Eravamo liberi, ma potevo sentire il rumore di molti passi di corsa dietro di me. Se si trattasse di inseguitori barbari ο di Peceneghi che avevano deciso di seguirci nella fuga, non avrei saputo dirlo, e non osavo voltarmi per scoprirlo. In ogni caso, quei passi mi spinsero a imboccare un vicoletto che portava lontano dalla piazza, via dal confuso tumulto della plebaglia franca. Superai di slancio le prime due strade che incontrai, svoltai nella terza e subito dopo mi buttai dentro un altro viottolo, sperando di non scoprire che era una strada senza uscita, visto che gli inseguitori sembravano vicinissimi. Era deserto, ma non lo sarebbe rimasto a lungo, e con così tanti barbari sulle nostre tracce non potevamo continuare a correre per sempre in quel labirinto. Vidi un malmesso capanno appoggiato al muro di una casa e tentai di aprirne la porta, pregando il mio Dio che non fosse chiusa a chiave, mentre Sigurd spingeva a sua volta alle mie spalle, e intanto scrutava la strada in cerca di nemici. La porta resistette al mio primo colpo, ma un calcio disperato ebbe la meglio sui cardini arrugginiti e riuscì a spalancarla. Mi girai per chiamare Sigurd, perché avremmo potuto nasconderci lì, aspettando che i barbari fossero passati, ma il grido mi morì in gola. Un barbaro mi aveva trovato. Stava in piedi alle mie spalle, con un'aria curiosa, quasi indolente, sebbene non ci fosse la minima traccia di debolezza nelle sue braccia e nelle sue spalle. La lama che mi puntava alla gola non tremava affatto. κε Negli ultimi due mesi era cresciuto ma al tempo stesso deperito. La sua
barba ora era folta, sebbene ancora concentrata solo sul mento, e la fame aveva cesellato il suo volto portando allo scoperto dei lineamenti già da uomo. Ma era magro, molto più magro di com'era dopo le settimane in cui aveva goduto dell'ospitalità dei monaci, e se la fatica aveva dato nuovo vigore a braccia e gambe gli aveva anche un po' incurvato la schiena. Che cosa aveva prodotto nel suo spirito? Sembrava che non sapesse bene cosa dire, ma non era il momento adatto per un lungo silenzio. «Hai intenzione di uccidermi, Thomas? Ο di consegnarmi a quel demonio di Baldovino che mi farà a pezzi?» «Sei un nemico del mio popolo», rispose aspramente. «Sono tuo amico. Ti ho salvato la vita, una volta, te lo ricordi?» «Incatenandomi come un ladro.» «Ma in seguito ti ho reso la libertà.» Per un attimo, vidi la punta della sua spada abbassarsi, ma subito dopo il suo braccio si irrigidì di nuovo. «Sei un nemico del mio popolo. Vuoi affamarci e ucciderci.» «Vuoi rendere orfane le mie figlie solo perché serviamo padroni diversi?» Il mio accenno all'essere orfani doveva aver colpito nel segno, perché improvvisamente si azzittì e gli occhi, che teneva fissi su di me, tornarono a essere quelli di un bambino, almeno brevemente. Pensai di continuare, di rievocare direttamente i suoi genitori, ma poi decisi di non rigirare troppo il coltello nella piaga dei ricordi. Non li aveva certo dimenticati, mi dissi; se il pensiero della loro perdita poteva influenzare la sua scelta, bene, in caso contrario sarei morto. «Lo faccio per tua figlia», mormorò alla fine. «E perché tu mi hai salvato la vita.» «Grazie.» Potevo sentire ancora delle grida e l'eco degli zoccoli dei cavalli che si avvicinavano. «Puoi aiutarmi a raggiungere il porto? A trovare una barca?» Thomas scosse la testa. «Non ci sono barche. I Greci le hanno prese tutte. E la mia gente vi cerca proprio là. Andate via, sulla collina, dal tuo amico.» Per un attimo mi sentii sconvolto, in preda al panico e incapace di capire che cosa intendesse dire. Poi realizzai: «Il mercante Domenico? Intendi lui? È ancora là?» Thomas si strinse nelle spalle. «Lo vedo ogni tanto. Ti aiuterà.» Questo era qualcosa che avrei dovuto scoprire da solo. Era dalla festa
della Natività che non vedevo più il mercante Domenico, e la sua famiglia discendeva più dai barbari che dai Romani. Ma Thomas aveva detto il vero riguardo alle alternative: l'imperatore aveva fatto portare via da Galata tutte le imbarcazioni, per completare in quel modo l'isolamento dei barbari, e sarebbe stato comunque lungo i confini della città, intorno ai moli e alle porte, che avrebbero intensificato la nostra ricerca. «Puoi guidarci?» Thomas non mi rispose, ma si voltò e cominciò a risalire la strada con un passo quasi di corsa. Lo seguii insieme a Sigurd, che aveva assistito in silenzio alla nostra conversazione. «Ti fidi di lui?» mi sussurrò mentre stavamo per raggiungere l'angolo della strada. «Avrei preferito non doverlo fare, ma non abbiamo molta scelta.» «Può comunque essere la soluzione sbagliata. Potevamo tramortirlo e lasciarlo in un angolo. Così almeno avremmo avuto una spada.» «Ci serve ben più di una spada per riuscire a fuggire da questa trappola.» Avevo risposto bruscamente, perché davanti a me Thomas non si era fermato all'angolo ma aveva proseguito la sua corsa, e sentii levarsi urla convulse non appena fece la sua comparsa nel centro dell'incrocio. Lo avevano riconosciuto, e mi accorsi con impotente disperazione che anche lui rispondeva alle grida, gesticolando con l'aria di uno sicuro di sé. Ci stava tradendo? Riuscivo a malapena a rimanere fermo nell'attesa, del tutto incapace di organizzare una reazione, senza sapere se si stesse decidendo la nostra condanna ο la nostra salvezza. Sentivo anche tutta la tensione di Sigurd, che era lì al mio fianco e sembrava sul punto di balzare in avanti per colpire Thomas. Gli toccai un braccio per calmarlo. Se Thomas avesse rivelato la nostra presenza ai suoi compatrioti, non avremmo comunque avuto molte opportunità. Thomas si girò e cominciò a camminare verso di noi, muovendosi quasi con noncuranza. Solo quando fu fuori dalla vista della strada principale, interruppe la finzione e si mise a correre verso di noi. «Gli ho detto che non siete qui», disse seccamente. «Sono andati.» «Hai mandato via i Franchi? La tua gente?» Potevo sentire con le mie orecchie che era vero, perché i rumori che prima udivamo intorno a noi si erano affievoliti fino a trasformarsi in qualche grido sparuto. Aspettammo fino a quando il silenzio non fu completo, poi seguimmo Thomas via da quel luogo, verso le strade che dal porto conducevano all'entroterra. Il giovane ci guidava con sicurezza e, a mano a mano che la costa e i barbari si
allontanavano, diventò anche sempre più rapido, sia a guardarsi intorno agli angoli della strada, sia a individuare un nascondiglio in caso di pericolo. Una volta scattò con una tale velocità che pensai volesse abbandonarci, ma anche allora ricomparve, facendoci cenno di proseguire. All'improvviso, ci trovammo all'inizio di un vicolo che terminava con un muro a calce e un cancello, lo stesso attraverso cui ero già passato una volta, in un pomeriggio di dicembre. Thomas lo indicò, dicendo: «Domenico». Gli afferrai un braccio per ringraziarlo, ma lui si divincolò bruscamente. «Puoi venire con noi», gli dissi. «Con questo, ti sei guadagnato la libertà. Puoi vivere in città e farti una nuova vita.» Non rispose, e scomparve giù per la collina, fra i barbari. Attraversammo il cancello e aspettammo, carichi di tensione e di paura, mentre il sospettoso portinaio si avvicinava, discuteva con noi, riferiva i nostri nomi al suo padrone e finalmente ritornava, riluttante, e ci faceva entrare. Il cortile non era molto migliorato dalla mia ultima visita, anzi, da un certo punto di vista era peggiorato, perché gli aranci non avevano attecchito nel terreno e avevano sparpagliato gran parte delle foglie sul suolo non lastricato. La facciata era ancora incompleta e non dipinta, ma non c'era alcuna traccia di artigiani ο dei loro utensili. Dubitavo che Domenico ci tenesse a farsi notare, con i barbari così vicini. Tuttavia, nonostante l'invasione, l'assedio, la carestia e la guerra, il piccolo mercante era in qualche modo riuscito a mantenersi grasso e ben pasciuto come sempre. Solo le rughe intorno agli occhi denunciavano la tensione che gli costava accoglierci nella sua casa. «Stai abusando delle leggi dell'ospitalità, Demetrios», mi ammonì, subito dopo averci fatto accomodare in una stanza fredda e senza finestre sul retro della casa. «Di solito non ospito fuorilegge.» «E non lo stai facendo neppure ora. La legge dell'impero è ancora valida qui.» Domenico ridacchiò nervosamente, asciugandosi la fronte con la manica della tunica. «È in base alla legge dell'impero che dei soldati di Alessio vengono giustiziati su una pubblica piazza da un Franco completamente pazzo? Che una plebaglia isterica governa le strade di Galata amministrando la giustizia con la spada?» Mi protesi in avanti, con una certa ansia negli occhi. «Eri là nella piazza? Hai visto cosa ci è accaduto?» «Io? No, per la verità, no. Ma mi hanno raccontato tutto.»
«C'è stata una discussione fra due dei capitani barbari, il duca Goffredo e suo fratello Baldovino. Sai che cosa si sono detti?» Fummo interrotti dall'arrivo di un servitore, che portava un boccale di vino e un piatto di pernici affumicate. Tracannai il mio bicchiere non appena mi fu offerto e trangugiai golosamente la tenera carne. «Non stai rispettando il digiuno», osservò Domenico. «Oggi no», ammisi fra un boccone e l'altro. Avrei espiato la mia colpa in seguito. «Ma dimmi dei barbari.» Domenico leccò un po' del grasso che aveva sulle dita. «Mi hanno riferito che Baldovino, il più giovane dei due, ha dichiarato che l'imperatore ha finalmente svelato le sue vere intenzioni: dopo averli rinchiusi, averli privati del cibo, aver risposto solo con insulti alle loro sacrosante richieste, ha dichiarato la guerra. E per questo - ha affermato - c'è solo una possibile risposta: conquistare la città e buttare giù dal suo trono l'empio usurpatore. Solo così sarà reso giusto onore a Dio.» «Lascia che ci provino», ringhiò Sigurd. «Non ho visto macchine da assedio nel loro campo. Se assaltano le mura e le legioni di Costantinopoli con la loro plebaglia, impareranno a loro spese cosa accade quando l'imperatore entra in guerra.» «Sono state esattamente le parole del duca Goffredo. Ma suo fratello gli ha risposto che c'è una spia dentro le mura che aprirà loro le porte della città, come il Signore le aprì a Gerico per Giosuè. Ha poi aggiunto qualche calunnia riguardo alla mancanza di coraggio della vostra razza, che non ho bisogno di ripeterti ma che ha entusiasmato la folla. Soprattutto quando ha poi dimostrato con che facilità morivano i vostri soldati.» Mi versai dell'altro vino e, per la fretta, ne spruzzai un po' oltre il bordo della tazza. «Ha fatto il nome della spia?» Domenico mi rivolse uno sguardo duro. «E magari ha rivelato anche quando ha intenzione di colpire e quali stratagemmi userà per aprire le porte? No, non lo ha fatto. Però ha detto altre cose che immagino possano interessarti molto. Un esercito normanno è in arrivo...» «Lo so.» Sollevai stancamente una mano. «Fra due settimane sarà qui e a quel punto avremo a che fare con un numero di barbari esattamente raddoppiato. Non è una novità per me. Sicuramente Baldovino aspetterà fino ad allora.» Domenico sospirò. «Tu non hai capito come ragiona quella gente, Demetrios. Baldovino non è venuto fin qui per ammirare i sacri monumenti di Gerusalemme, e neanche per aiutare i suoi rivali normanni a conquistarsi
un trono. È venuto per se stesso ed è atterrito dall'idea che un ulteriore indugio potrebbe consentire ad altri di strappargli il premio finale. E per questo che in questo preciso momento, mentre noi stiamo parlando, i suoi soldati stanno già indossando le armature e si stanno preparando per la battaglia.» «Sembrate ben informato circa i piani dei barbari.» Sigurd strinse le mani a pugno e poi le riaprì. «Come può un mercante conoscere così bene le intenzioni dei nostri nemici?» «Nello stesso modo in cui riesco ad avere carne e vino sulla mia tavola, mentre tutti gli altri si mangiano i topi. Tengo le orecchie ben aperte alla ricerca di quello che mi serve, e pago generosamente quando lo trovo. Baldovino e suo fratello sono i signori di questa comunità, così io cerco di sapere tutto ciò che posso di loro, nella speranza che un giorno quelle informazioni possano tornarmi utili.» Nella stanza debolmente illuminata calò il silenzio; ognuno di noi sembrava immerso nei suoi pensieri. Alla fine fui io a parlare: «Se i barbari stanno per marciare sulla città, nella speranza che un traditore apra loro le porte, allora non possiamo certo indugiare. Dobbiamo farlo sapere a palazzo, avvertire l'imperatore delle loro intenzioni». «Non potete lasciare questa casa», rispose Domenico. «Baldovino ha aizzato la folla di Galata. Un gesto calcolato per eccitarli fino al parossismo e assicurarsi la loro fedeltà. Se vi avventurate fuori di qui, finirete massacrati. Molto meglio aspettare fino a quando il furore non si sarà un po' placato e l'esercito sarà partito. Allora, col favore della notte, potrete andarvene.» Prevenne anche l'obiezione che stavo per sollevare. «Non hanno imbarcazioni, ed è una lunga marcia intorno al Como. Non potranno prendere la città di sorpresa.» «E la loro spia?» Nella mia mente le avevo già dato il nome del monaco. «Che cosa succede se mette in atto i suoi malvagi propositi prima che l'imperatore sia stato messo in guardia?» Domenico scrollò le sue spalle rotonde. «E allora? Se partite stanotte potrebbe anche riuscire ad agire prima del vostro arrivo, ma se uscite adesso arriverete certamente troppo tardi, perché non ce la farete mai a raggiungerlo.» «E questa notte ci aiuterete a scappare?» lo incalzò Sigurd. «A Dio piacendo. Se la folla nel frattempo non brucia la mia casa e non saccheggia tutti i miei averi. Spero che non arrivino fin qui; del resto, la salita dovrebbe scoraggiarli, almeno penso.»
«E nel frattempo?» «Nel frattempo potete rimanere qui. C'è dell'altro cibo se volete. Oppure potete pregare. Dopotutto, è proprio il giorno adatto.» Io pregai davvero, nelle lunghe ore che seguirono, ripetendo ancora e ancora le parole dei profeti, fino a quando un'occhiataccia di Sigurd mi zittì. Continuai a pregare in silenzio, mentre Sigurd si aggirava per la piccola stanza come un orso in gabbia. Ogni tanto scambiavamo qualche parola, ma né io né lui avevamo voglia di sforzarci troppo e finivamo col lasciare cadere ogni discorso. Il servitore di Domenico portò un po' di acqua e di pane, che mangiammo con piacere, e un momento dopo fui capace di allontanare dalla mia mente i pensieri più spaventosi abbastanza a lungo da riuscire ad addormentarmi. A un certo punto mi svegliai pensando di aver udito delle grida in lontananza, ma non le sentii avvicinarsi e scivolai di nuovo nel mondo dei sogni. Mi destai ancora quando mi accorsi che qualcuno mi stava tirando per un braccio. Aprii gli occhi e vidi Domenico chino su di me. «Sta facendo buio», mi disse. «Fra mezz'ora sarà notte, e potremo andare.» Mi massaggiai le palpebre e presi un sorso dell'acqua che aveva portato. «I barbari sono partiti?» «I soldati sono partiti diverse ore fa, ma tutti gli altri sono ancora nelle strade alla ricerca di qualcos'altro da saccheggiare. Avventurarsi in mezzo a loro può essere ancora pericoloso.» «Meno pericoloso di quando siamo arrivati qui», risposi. «Oggi ci hai salvato la vita, e non lo dimenticherò.» Il mercante venne a sedersi di fronte a me, su una sedia che scricchiolò sotto il suo peso. «Per la verità, amico mio, non lo sto facendo per amore del tuo popolo, anche se non ho alcun motivo di risentimento nei suoi confronti.» Si lanciò un'occhiata nervosa alle spalle, dove nella penombra potevo vedere la sagoma di Sigurd addormentato su una panca. «Però il blocco deciso dall'imperatore mi ha praticamente rovinato, mentre ogni giorno dalle mie finestre posso vedere le barche dei miei rivali che vengono scaricate dall'altra parte della baia.» «Se arrivo vivo a palazzo», gli risposi, «e se riesco a farmi ascoltare anche solo da una persona in tutta la corte, tu avrai la più grande dimora che si elevi all'ombra dell'antica acropoli.» «Lo spero, amico mio, lo spero. Mio padre a Pisa sarebbe molto infelice
di vedermi tornare da mendicante.» Per qualche attimo, rimanemmo seduti là in silenzio, immersi nell'oscurità. L'unico suono era il lieve russare di Sigurd nel suo angolo. «Dimmi che cos'altro sai di Baldovino», dissi. Ero ormai troppo sveglio per potermi riaddormentare, e non conoscevo Domenico così intimamente da potermene stare lì tranquillamente in silenzio. Scrollò le spalle, intanto che succhiava un fico secco. «Piccole cose, chiacchiere, dicerie. Ha portato con sé moglie e figli, lo sapevi?» «No, non lo sapevo», ammisi. «Il nostro clima giova alla loro salute?» Domenico soffocò una risata. «Gli gioverà, quando diventeranno rispettivamente la regina e i principi del suo nuovo regno.» «Non ha delle terre in Occidente, nel regno dei Franchi?» Era in parte una domanda e in parte una constatazione, poiché ricordavo che era proprio questo che il conte Ugo gli aveva duramente rinfacciato nella sua tenda. «No, nessuna. Suo padre era conte e sua madre erede di un ducato, ma lui era il terzo dei figli e non ha ottenuto nulla. Da quanto si dice, era stato destinato alla Chiesa, ma hai potuto vedere la sua indole. Non credo che sia rimasto a lungo nella scuola della grande cattedrale di Rheims. Dopo di che...» Domenico non era mai stato uno di quelli che tendono ad abbreviare un racconto che può essere allungato, ma si interruppe confuso al mio grido di stupore. «Rheims? Baldovino era a Rheims? La città dei barbari dov'è conservata la reliquia del loro san Remigio?» «Credo di sì.» Domenico mi guardava spaventato, mentre alle sue spalle Sigurd stava cominciando a svegliarsi. «Non ci sono mai stato. Perché?» «Perché il monaco è vissuto a Rheims: è là che ha preso gli ordini e ha cominciato a coltivare il suo odio per i Romani. È là che Baldovino deve averlo incontrato.» Mi ritornò in mente il fratello del monaco, quando ci aveva descritto la sua crudeltà. «Devono aver scoperto di avere molte cose in comune. Così quando Baldovino è venuto in Oriente, e ha avuto bisogno di un uomo che potesse farsi passare per Romano, nonostante la fede barbara che celava nel suo cuore, ha scelto il monaco, Odo.» Domenico mi osservava perplesso. «Tu credi che questo monaco — l'uomo che una volta mi ha avvicinato per cercare finanziamenti per il suo complotto - sia il sicario di Baldovino?» «Sì. Hai detto che ha portato con sé moglie e figli, e che la sua intenzio-
ne è quella di reclamare un regno qui in Oriente perché non lo possiede in Occidente. Quale ricompensa migliore della stessa Bisanzio?» Molte di queste cose le avevo già sospettate ο pensate, ma riuscire alla fine a stabilire un preciso collegamento fra Baldovino e il monaco mi diede un brivido di trionfo. Anche se non c'era ancora nulla di cui esultare, rammentai a me stesso, con il monaco ancora a piede libero e i barbari sul piede di guerra. «Dobbiamo avvertire l'imperatore», esclamai. Domenico socchiuse appena la porta. Fuori doveva essere praticamente buio come all'interno, perché non vidi entrare la minima luce. «Possiamo andare», annunciò. «Allora è meglio muoversi in fretta.» Armati dei lunghi coltelli che Domenico ci aveva dato, corremmo fuori del cortile e giù per la collina. La sua casa era rimasta sana e salva, ma appena cinquanta passi più in là si vedevano i primi segni di devastazione. Avresti quasi potuto dire con precisione dove la folla si era fermata, il punto esatto dov'era arrivata la marea distruttiva: fino a un certo punto le case erano intatte e da un momento all'altro diventavano delle rovine senza più il tetto, con le porte strappate dai cardini e le finestre in frantumi. Il fumo riempiva l'aria, l'acre fumo dell'umana miseria, e dovevo tenermi una manica davanti alla faccia per evitare di soffocare. Domenico aveva parlato genericamente di una folla scatenata, ma sembrava proprio che ci fosse stato del metodo nella sua furia, perché neppure un singolo edificio era stato evitato ο dimenticato. Una debole brezza portava ancora alle mie orecchie urla di rabbia e di saccheggio. Rabbrividii. «Il Signore Iddio ci aiuti se riescono a entrare in città. Egli stesso non avrebbe potuto portare distruzioni maggiori di queste.» Scendemmo sempre più in basso. Con qualche incertezza, Domenico ci stava guidando fra strade dove i fuochi non si erano ancora spenti e vicoli cosparsi di macerie. Non incontrammo nessuno, né vivo né morto, anche perché la paura ci aveva aguzzato l'udito, facendoci sentire subito se qualcuno si avvicinava. Più di una volta fummo costretti ad accovacciarci fra le rovine, aspettando impazienti che il pericolo passasse. Avanzammo quindi in modo faticoso, irregolare, fino a quando finalmente il pendio non cominciò a digradare verso il piatto terreno che portava al litorale. Raggiungemmo un'ampia strada, la stessa, mi accorsi, che avevamo percorso quel mattino. In quei momenti ci sentivamo forti, quasi invulnerabili, ma quanti
degli uomini della nostra colonna erano ancora vivi? Domenico attraversò la via di corsa, diretto verso l'ombra di un magazzino, e ci esortò a raggiungerlo. Probabilmente era già vuoto anche prima dell'arrivo dei vandali, e benché fosse stato annerito dal fuoco, i mattoni nuovi dei suoi muri lo avevano salvato dagli effetti peggiori delle fiamme. La porta non era stata altrettanto fortunata, ma per noi quello fu un vantaggio, mentre seguivamo Domenico sotto l'architrave carbonizzata. Con le braccia il mercante descrisse un ampio e malinconico movimento. «Una volta, questa doveva essere la culla della mia fortuna, ora è la sua tomba. Ma in questa Settimana Santa dovremmo ricordarci che la salvezza può provenire anche dai sepolcri. Aiutatemi a sollevare il pavimento.» Ci piegammo sulle ginocchia, premendo le dita sulla scanalatura che ci stava indicando. Tirando, ci ritrovammo in mano un ampio riquadro di assito, che rivelò alla nostra vista una buca poco profonda. All'interno, sulla terra battuta, giaceva una piccola barca. «Il mercante saggio è quello che sa difendersi da ogni rischio», affermò orgogliosamente Domenico. «E così non perde mai tutto.» «E potrai guadagnare ben di più, se ci fai attraversare il Corno.» Ci piegammo sul buco e tirammo fuori la barca prendendola per la prua. Apprezzai molto la forza di Sigurd, visto che Domenico non era in grado di fare granché, a parte un po' di confusione; insieme, riuscimmo a trasportare l'imbarcazione fino alla porta che dava sul pontile. Lo scafo strideva e cigolava orribilmente, mentre lo trascinavamo sul pavimento, e il rumore veniva amplificato dalle alte pareti, ma i barbari dovevano aver esaurito la loro voglia di saccheggio, ο forse si stavano dando da fare da un'altra parte: fatto sta che nessuno venne a disturbarci. Con un'ultima spinta, Sigurd sollevò la barca sopra il bordo del pontile e la guardò cadere con un tonfo nelle acque nere del Corno. Attaccata a uno dei pali c'era una scala a pioli che i Franchi non si erano dati la pena di distruggere: ci calammo giù da lì e un attimo dopo stavamo già schizzando via dal porto, via dal pericolo, via dall'inferno in cui si era trasformata Galata. Tuttavia, dirigere lo sguardo verso l'altra estremità del Corno non era di grande conforto, poiché per qualche ignota diavoleria sembrava che anche là ci fossero dei fuochi. Mi appoggiai a una delle panche e mi misi a fissare il cielo, fra le due rive di un mondo in fiamme. κς
Era come una visione dell'Apocalisse: intorno a tutto il profilo della baia le fiamme si alzavano nella notte. A Galata i fuochi si stavano spegnendo, in una lenta agonia, ma lungo la costa l'avanzata dei barbari poteva essere misurata dall'altezza che le fiamme raggiungevano in ogni villaggio e insediamento. Con grande spavento mi resi conto che non si erano fermati sul ponte, ma avevano continuato lungo il litorale meridionale fino all'interno della città. Scrutavo nell'oscurità, nel tentativo di capire se qualcuno era già arrivato nelle vicinanze di casa mia, ma c'erano le colline a nasconderla. Dov'erano i barbari in quel momento? Erano entrati in città, come Baldovino aveva promesso loro, e come le fiamme sembravano annunciare? L'impero tradito era già stato ridotto in schiavitù? Avrei voluto piangere, ma le lacrime non salivano agli occhi. L'ultima volta che c'erano state delle violenze in città avevo passato tre giorni e tre notti davanti alla porta, con la spada in pugno, scacciando il sonno per paura che la plebaglia potesse assalire la mia famiglia. Non avrei mai potuto perdonarmelo, se questa volta fossi mancato ai miei doveri. Sigurd era piuttosto inesperto come barcaiolo, ma riuscì a condurci attraverso il Corno, fra le navi ormeggiate, in direzione delle mura. Queste ultime si vedevano bene, poiché quella notte persino le onde bruciavano: boe incendiate erano state sparse sull'acqua, per scoraggiare tutti quelli che intendevano avvicinarsi e illuminare coloro che avessero deciso di farlo comunque. Potevo fiutare l'odore di olio bruciato, sentire il crepitio delle fiamme che danzavano e oscillavano sull'acqua. «Dove stai andando?» chiesi a Sigurd. Sembrava che fossimo diretti verso nord-ovest, verso le sorgenti. «Conducimi alla porta di Santa Teodosia, in modo che possa tornare a casa mia a ritrovare le mie figlie.» Sigurd non si voltò neppure indietro. «Stiamo andando verso il palazzo nuovo. L'imperatore sarà là, a meno che non abbia cambiato le sue abitudini. Dobbiamo avvertirlo del pericolo che ha di fronte.» Scoppiai quasi a ridere. «Guardati intorno: può immaginarselo da solo il pericolo, se è ancora vivo. Io devo occuparmi della mia famiglia.» «Tutti abbiamo dei familiari, Demetrios. Ma se l'impero soccomberà ai Franchi, finiremo con l'augurarci che non siano sopravvissuti.» Ero troppo stanco per discutere e non dissi più nulla, mentre Sigurd spingeva la barca verso il molo di pietra del palazzo nuovo. Ci eravamo avvicinati allo sbarramento formato dalle boe incendiate e io mi drizzai a sedere, preso dal terrore che la corrente ci spingesse proprio in quella direzione; ma era rimasta una piccola apertura, e Sigurd riuscì abilmente a
passarci in mezzo. Alcune guardie arrivarono di corsa, e io vidi con sollievo che almeno in quel punto i Romani controllavano ancora le mura. Alla luce dei fuochi, i loro volti erano di un vivido color arancio, lo stesso delle pietre, dell'acqua e persino dell'aria intorno a noi, ma grazie a Dio non sembravano in preda al panico. «Chi va là?» ci intimarono. «Fatevi riconoscere, se non volete essere uccisi.» «Sigurd, capitano dei Variaghi, con notizie per l'imperatore. È qui?» «Sì, è qui. E dal suo trono dirige la guerra contro i barbari.» «Guerra?» gli feci eco. «La guerra è già iniziata? Sono già entrati in città?» La guardia scoppiò a ridere. «Hanno saccheggiato i villaggi esterni e sfilato davanti alle mura, ma ci vuole ben più di una marmaglia di uomini e cavalli per sfondare le nostre difese. La città è abbastanza al sicuro, per il momento.» «Ma perché i fuochi?» «Colpa della nostra plebaglia. Questo pomeriggio sono scesi in strada, chiedendo all'imperatore di scatenare tutta la sua potenza contro i barbari e di arrossare il Lycus con il loro sangue. Quando lui si è rifiutato, sono scoppiati i tumulti e qualcuno ha dato fuoco all'ufficio dell'esattore delle tasse. Ma la Guardia ha arrestato i capi della rivolta e le strade sono ora rigorosamente sotto coprifuoco.» «Che Dio sia ringraziato», esclamai sollevato. «Ringraziatelo quando sarà tutto finito», ribatté la sentinella. «I barbari sono ancora tutt'intorno alle mura, mentre all'interno la furia sta crescendo. Comunque, per il momento vi accompagno a corte.» Ci liberammo in fretta della barca e attraversammo il pontile che portava al palazzo nuovo. Era tutto in fermento: compagnie di soldati correvano fra le mura, mentre nei cortili le mole sfregate sulle lame d'acciaio sprigionavano minute scintille. Lance e scudi erano ammucchiati ovunque, mentre i garzoni delle cucine trascinavano a fatica grandi cesti di frecce. Salimmo molte scale, costretti spesso a fermarci per lasciare il passo a file di guardie, fino a quando non arrivammo al grande portone di bronzo. Una dozzina di Peceneghi armati di tutto punto, con gli elmi sul capo e le lance in mano, ci sbarrò la strada. «L'imperatore è riunito in consiglio», grugnì il loro sergente. «Non può ricevere postulanti. Il segretario...» Non gli diedi il tempo di concludere. «Il ciambellano è dentro? Ditegli
che Demetrios Askiates e Sigurd il Variago sono tornati da Galata. Riferitegli che abbiamo informazioni che deve conoscere.» Forse per la sorpresa di essere stato contraddetto, ο per la perentoria sicurezza del mio tono di voce, il sergente scomparve subito dietro la porta e riemerse dieci minuti dopo con aria avvilita, per confermarmi che il ciambellano mi avrebbe ricevuto subito. Era probabilmente la riunione più importante a cui mi fosse mai capitato di assistere, pensai, mentre la porta di bronzo si chiudeva alle mie spalle. Mi ritrovai nella stanza dove una volta avevo incontrato il sebastocratore, l'ampia sala costruita in cima alle mura, da cui si dominava la piana. Era illuminata dalla luce di molte candele, e dagli ornamenti scintillanti di più generali e consiglieri - ognuno accompagnato dalla sua scorta - di quanti riuscissi a contarne. Oltre a Isacco e a Krysafios, riconobbi il Cesare Briennio, il primo genero dell'imperatore, il grande eunuco generale Tatikios, di cui ricordavo il trionfo contro i Cumani, e una miriade di altri nelle loro corazze dorate, con ben in vista le insegne delle rispettive cariche. Tutti erano in piedi, a parte l'imperatore, seduto sul suo trono d'oro nel centro della stanza, con la testa leggermente inclinata ad ascoltare i tanti discorsi che sembravano tutti confluire verso di lui. Sul pavimento di marmo, fra le appuntite scarpe dei suoi cortigiani, mi sembrò di vedere del sangue. Ero troppo trasandato per essere notato da quella scintillante assemblea, ma Krysafios si accorse del mio arrivo e, girando discretamente intorno alla folla, mi venne incontro in un angolo. «Siete tornato», mi disse con tono tranquillo. «Quando abbiamo visto i barbari marciare fuori dal campo, abbiamo temuto il peggio. Soprattutto quando ci hanno riferito che alcuni dei nostri soldati erano stati giustiziati.» Cercai di catturare il suo sguardo sfuggente. «Era una trappola. Ammesso che il monaco sia mai stato là, sicuramente non era in quella casa quando ci siamo arrivati noi. Al suo posto, abbiamo trovato ad aspettarci i barbari, a centinaia. Hanno ucciso gran parte delle nostre truppe e preso prigionieri gli altri Peceneghi. Quando hanno cominciato a giustiziare i prigionieri giusto per divertire la folla, siamo scappati. Sanno che i Normanni sono in arrivo e sono decisi ad arraffare la loro parte di bottino prima di quel giorno.» Mi piegai verso di lui, abbassando la voce. «Quando il capitano barbaro Baldovino si è rivolto ai suoi uomini, ha detto loro di avere
una spia in città che avrebbe provveduto ad aprirgli le porte. Ho scoperto che ha frequentato la stessa scuola in cui il monaco ha imparato a odiare Bisanzio. Lui e il monaco devono essere in combutta.» Con mia grande sorpresa e delusione, Krysafios scoppiò apertamente a ridere davanti alle mie notizie. «I vostri sforzi vi fanno onore, Demetrios», mi rispose con un tono di pura condiscendenza. «Ma siete arrivato tardi. I nemici dell'imperatore sono già usciti allo scoperto.» Girai lo sguardo nella stanza. L'imperatore Alessio era ancora vivo e vegeto, quanto a quello non c'erano dubbi. «Il sangue sul pavimento...?» «Opera del monaco? No. Quelle finestre, attraverso cui l'imperatore stava osservando la battaglia, rappresentano dall'esterno un invitante bersaglio. Molti Franchi le hanno prese di mira con le loro frecce, e una ha colpito l'uomo che si trovava accanto al trono.» «Tremo al pensiero di quanto siamo stati vicini alla rovina. Ma di quale battaglia parlate?» Krysafios lanciò un eloquente sguardo verso il centro della stanza, dove un corpulento generale stava facendo un'appassionata requisitoria contro i barbari, ricapitolando tutte le loro storiche colpe. «Vi ho detto che i barbari si erano rivelati nostri nemici: e questo è risultato evidente nel momento in cui hanno teso un'imboscata alla vostra spedizione. Dopo aver lasciato Galata, si sono fatti strada intorno al Corno d'Oro a furia di saccheggi e devastazioni, fino ad arrivare sotto le mura. Il palazzo del Lago d'Argento è stato interamente distrutto.» «Hanno lasciato ben poco di intatto anche a Galata.» «Poi hanno radunato là il loro esercito.» Krysafios indicò vagamente fuori delle finestre. «E hanno dato l'assalto alle porte del palazzo, tentando di abbatterle con il fuoco. Per tutto il pomeriggio si sono lanciati contro le nostre fortificazioni, mentre all'interno delle nostre mura la folla insorgeva invocando la guerra.» «Ma l'imperatore non si è piegato?» domandai, memore delle parole della sentinella di guardia al pontile. Gli occhi di Krysafios si strinsero. «Non ancora. Invocando la santità della giornata, ha ordinato agli arcieri di rimanere sulle mura e di scagliare le frecce al di sopra delle teste dei barbari, ο di mirare ai loro cavalli se si avvicinavano troppo. Persino ora, mentre loro si accaniscono contro le nostre porte, continua a mantenere viva la speranza che possa esserci la pace, e non vuole ammettere che si tratta di una pazzia. Ma domani la for-
tuna li abbandonerà. Anche l'imperatore non può sfidare per sempre le urla della folla, e quando i barbari attaccheranno di nuovo non avrà altra scelta che annientarli. Come molti chiedono da tempo.» «Ma cosa succederà, se si impegna in battaglia ma non riesce ad annientarli? Se loro riescono a travolgere le nostre difese e a entrare in città?» Vidi che un sorriso di scherno si stava affacciando sulle labbra di Krysafios, e mi affrettai a concludere. «E il monaco? Sicuramente sarà domani il giorno in cui colpirà.» Inopinatamente, Krysafios soffocò una risatina. «Il Venerdì Santo, un giorno buono per il martirio! Ma l'imperatore non sarà mai lasciato solo; le sue guardie, i suoi familiari e i suoi comandanti rimarranno sempre con lui. E per aprire le nostre porte, contro la volontà di tutti quelli che le presidiano, ci vuole ben più di un singolo uomo. Se siete comunque preoccupato, rimanete qui e proseguite il vostro lavoro di sorveglianza. A meno che non preferiate, anche questa volta, la comodità del vostro letto.» «In me è rimasto ancora abbastanza del soldato di una volta da poter dormire ovunque sia necessaria la mia presenza. Ma ho paura per le mie figlie. Se domani la folla insorgesse di nuovo e loro dovessero finire coinvolte nei disordini, non potrei mai perdonarmelo.» Krysafios arricciò appena le labbra. «Ogni uomo in questo palazzo ha una famiglia, Demetrios, e tutti, le mogli, i figli e le figlie, devono aspettare nelle loro case, esattamente come il resto del nostro popolo. Davvero non sapete scegliere, fra gli obblighi che avete nei confronti di due ragazze e i vostri doveri verso milioni di persone nell'impero?» Non mi era più possibile sopportare simili facezie. «Se l'impero non è in grado di proteggere la mia famiglia, allora non so che farmene. I miei doveri sono verso la mia stirpe. E anche voi potreste capirlo, se foste in grado di avere dei figli.» Rimpiansi quelle parole nel momento stesso in cui le pronunciavo, ma la fatica della giornata aveva esaurito la mia pazienza e indebolito le mie facoltà mentali. Vidi la rabbia che lentamente montava sul volto di Krysafios, e non mi disturbai ad aspettare il suo scoppio. «Vado a occuparmi della mia famiglia. Se fossi in voi, Krysafios, non starei troppo vicino alle finestre domani.» Girai sui tacchi e mi incamminai rigidamente verso l'uscita, invisibile alla dorata compagnia che ancora era impegnata in un inesauribile tira e molla sempre sugli stessi argomenti. Né Krysafios né le guardie cercarono di fermarmi e, una volta superate le porte di bronzo, la confusione era tale
da farmi passare del tutto inosservato. Scesi le scale in uno stato di intontimento, amareggiato e depresso, e avevo appena raggiunto il secondo cortile quando sentii dei passi di corsa dietro le mie spalle, e una mano che si appoggiava sul mio braccio. Mi voltai e mi trovai davanti il viso giovane e bello di un uomo in atteggiamento di scusa. La sua dalmatica era della stoffa più fine, chiusa con un fermaglio a forma di leone, mentre la decorazione sul suo tablíon rivelava un rango ben più alto della sua età. «Le mie scuse, mastro Askiates.» La sua voce era piacevole e i suoi modi amichevoli. «Il mio signore Alessio l'imperatore vi ha visto andare via e vi prega invece di rimanere. Teme che potrebbe aver bisogno di voi domani.» «L'imperatore era impegnato in un consiglio di guerra, quando me ne sono andato; davvero mi ha visto?» «Il mio signore Alessio ha due occhi e due orecchie, e non sempre li utilizza all'unisono. Rimarrete, su suo invito?» Era difficile resistere alla piacevole lusinga di quel giovane, ma il proposito che avevo in mente prevaleva su tutti gli altri. «Devo tornare a casa. Sono preoccupato per l'incolumità delle mie figlie, e temo che domani ci sarà ancora più pericolo nelle strade.» «E l'imperatore condivide le vostre preoccupazioni. Manderà le sue guardie per farle accompagnare qui.» Di colpo, tutte le mie resistenze vennero meno. Anche se il palazzo non era affatto sicuro, e le battaglie più intense all'interno della città si sarebbero certo concentrate qui, preferivo vedere le mie figlie accanto a me all'interno di una solida fortezza, piuttosto che fuori in balia della plebaglia. Annuii in segno di assenso. «Rimango.» Il giovane sorrise, anche se questo non fece scomparire dal suo volto una certa espressione preoccupata. «Grazie, per l'imperatore sarà un sollievo. Dio solo sa che altro accadrà in questi giorni maledetti.» «Maledetti davvero, se le mie capacità sono il suo unico conforto.» «Oggi è stata una pessima giornata. I suoi nemici hanno alzato la testa e i suoi amici stanno lì intorno al trono come cani; le alternative che ha davanti sono poche e diminuiscono sempre più. E forse queste sono soltanto le prime avvisaglie della tempesta.» Giocherellava distrattamente col fermaglio della sua spilla, e intanto scrutava il cielo come cercando un presagio. «Domani, temo, la tempesta si scatenerà.»
κζ Era il venerdì di Pasqua, il sacro giorno in cui nostro Signore fu crocefisso, e io mi svegliai in preda alla paura. Non paura delle armate barbare che si stavano ammassando per colpirci, non degli assassini che potevano infestare le sale del palazzo, e neppure della folla che avrebbe potuto fare a pezzi la città in risposta alla codardia del suo imperatore. Era paura delle mie figlie. Paura che si svegliassero troppo presto nella piccola camera in cui eravamo stati alloggiati e potessero vedere il loro padre impudicamente raggomitolato su un materasso con una donna che non era la loro madre. Anna doveva aver percepito la mia agitazione, perché si girò su se stessa fino ad arrivare a guardarmi dritto in viso. «Devo andare. Ci sarà sicuramente qualcuno che ha bisogno di un dottore, dopo le violenze di ieri.» Scosse i capelli arruffati. «E anche se le tue figlie indovinano molte cose, ce ne sono alcune che non dovrebbero vedere.» «Cose che il loro padre non vorrebbe che vedessero», aggiunsi con dolcezza. Il mio umore era improvvisamente cambiato quando Zoe ed Elena erano giunte a palazzo insieme ad Anna, che si trovava ancora a casa mia all'arrivo delle guardie. Quando alla fine, ben oltre mezzanotte, avevo smesso di vagabondare per i corridoi degli appartamenti dell'imperatore, avevo molto apprezzato - pur con discrezione - i suoi abbracci. Tutti i miei pensieri furono spazzati via da un pesante colpo battuto alla porta. In un istante mi alzai in piedi, scaldando nel tentativo di liberarmi dalle coperte che mi imprigionavano le gambe, mentre Anna si girava verso il muro facendo finta di dormire. Dall'angolo sentii provenire un incerto rumore, ma quando la testa di Zoe fece capolino dalle coperte io ero già arrivato alla porta e stavo fissando l'inespressiva faccia di una guardia. «Siete richiesto.» Cominciavo a essere stanco di quella frase così sbrigativa, che sembrava essere l'unica formula di invito che le guardie conoscessero, ma in quel momento ero contento di avere una scusa per uscire dalla stanza, e quindi la seguii volentieri. La scarsa luce che si intravedeva al di là delle finestre suggeriva che l'alba non era ancora spuntata; fummo tuttavia costretti a farci largo attraverso un'agitata folla di funzionari dall'aria esausta, fino a quando non arrivammo davanti a una porta sorvegliata da quattro Peceneghi. La mia scorta pronunciò qualche parola inintelligibile ed essi si fecero da parte, schierandosi sui due lati della porta.
«Salite», mi disse la guardia. «Noi aspettiamo qui.» Fingendo la massima calma, sotto lo sguardo ostile dei Peceneghi, superai la porta e cominciai a salire la scala che si trovava dall'altra parte. Dopo un po', cominciai a chiedermi se non si trattasse di uno scherzo da parte delle guardie, perché sembrava che quelle scale non avessero fine, che fossero solo una successione infinita di rampe e di svolte che portavano inesorabilmente sempre più in alto. Sembrava anche che nessun altro fosse impegnato nella salita: non superai nessuno e neppure vidi qualcuno scendere, ο sentii altro rumore al di fuori di quello dei miei passi solitari. Anche le strette finestre erano così lontane e incassate nei muri da non rivelare altro che un'indistinta luce grigiastra. Girai l'ennesimo angolo, identico a tutti quelli precedenti, e vidi apparire in alto uno spicchio di cielo. Feci di corsa l'ultima dozzina di gradini e mi ritrovai su un'ampia piattaforma orizzontale. Era altissima, il posto più alto dove mi fosse mai capitato di trovarmi in tutta la mia vita, forse il più alto che l'uomo potesse costruire senza suscitare la gelosia del Signore. Di giorno doveva consentire una straordinaria vista della città e della campagna intorno per miglia e miglia, ma nella penombra che precede l'alba potevo vedere soltanto confusi resti di fuochi sparsi all'orizzonte. Un basso muro delimitava il bordo della torre, del tutto sproporzionato alla profondità del baratro che si estendeva al di là. Certamente inadeguato a confronto dell'importanza della vita imperiale che doveva in quel momento proteggere. Caddi in ginocchio, lieto di avere una scusa per dissimulare il senso di vertigine che mi dava quello spazio aperto tutto intorno a me, e mi prostrai al suolo. «Alzatevi. Da domani potreste dover riservare i vostri omaggi a un altro uomo.» La sua voce suonava tranquilla, ma sul suo volto c'era una stanchezza che colorava le parole di un'involontaria amarezza. «La vostra fiducia in me è così scarsa, Sire?» L'altezza doveva avermi indebolito la mente: come avrei potuto, altrimenti, pensare di mettermi a scherzare con l'imperatore? Strinse appena le labbra sotto la folta barba. «Fiducia? Demetrios Askiates, voi siete uno dei pochi uomini nei quali ripongo la massima fiducia. Tutti i miei generali pensano che sono un vigliacco, ο addirittura peggio, e i miei sudditi inveiscono contro di me nelle strade. A molti dei miei predecessori hanno cavato gli occhi e tagliato il naso per molto meno.» «Pregano perché voi viviate per mille anni», protestai, mentre i suoi oc-
chi saettavano impazienti. «Ho già governato per quindici anni», rispose. «Più a lungo di chiunque altro dai tempi del grande sterminatore dei Bulgari. E cosa potrà scrivere un giorno del mio regno un altro Teofano ο un altro Procopio? 'Passò la vita a combattere i barbari lanciati all'attacco, e poi consegnò loro del tutto spontaneamente l'impero quando essi giunsero come ospiti.'» Si voltò verso est, dove una striscia color cremisi annunciava il levarsi del sole. «Ero qui quando Calcedonia bruciava sotto i colpi dell'esercito turco, quando appena un miglio di acqua tranquilla ci proteggeva dalla loro avanzata. Senza i Franchi, e i Normanni e i Celti e i Latini, e chiunque altro il pontefice dell'Occidente ci manderà, i Turchi ritorneranno e non si fermeranno sulle sponde del Bosforo.» Diede un calcio alla balaustra, e io mi irrigidii per il timore che potesse inciampare e cadere di sotto. «I miei consiglieri e la loro plebaglia non capiscono che non abbiamo più la potenza dei nostri antenati. Non possiamo conquistare il mondo come fecero Giustiniano ο Basilio. Siamo una nazione ricca d'oro ma povera di armi, e se voglio proteggere la mia gente devo lasciare che siano altri a combattere al suo posto.» «Allora non c'è da stupirsi che i vostri generali siano in collera, mio Sire.» L'imperatore scoppiò a ridere. «Proprio no. Anzi, c'è da stupirsi che mi abbiano lasciato sul trono così a lungo. In questi quindici anni non ho mai cercato la guerra; perché avrei dovuto? Se avessi vinto, i miei comandanti si sarebbero rafforzati e avrebbero complottato per prendere il mio posto; se avessi perso, migliaia di Romani si sarebbero ritrovati alla mercé dei nostri nemici. Spingere quelli che vogliono attaccarci gli uni contro gli altri: questo è l'unico modo per proteggere il mio popolo. Solo che adesso i barbari non si stanno lasciando manovrare, e il precario edificio creato dalla mia politica si sta rivelando un trucco da prestigiatore.» «Tuttavia, le mura rimangono solide», replicai. «Fino a quando saranno presidiate, i barbari non potranno fare molto di più che saccheggiare i sobborghi.» «Le mura rimangono solide fino a quando la guarnigione è fedele. Per quanto ancora continueranno a ubbidire a un codardo che non reagisce davanti a tutte le provocazioni dei barbari?» Un sole scarlatto stava sorgendo, proiettando verso est una fredda luce rossastra, mentre sopra di noi grandi banchi di nuvole fluttuavano gli uni sugli altri sfregiando il cielo. Le prime campane avevano cominciato a
suonare nelle chiese sotto di noi e potevo vedere le loro tante cupole brillare nella luce cremisi dell'aurora. Rabbrividii, e l'imperatore probabilmente lo notò, perché la sua voce diventò un po' più calda. «Abbiate fede, Demetrios, e rimanete al mio fianco. Non avete ancora indovinato il loro piano?» Mi colse di sorpresa. Durante la notte avevo concepito almeno un centinaio di complotti che i barbari avrebbero potuto ordire, ma nessuno che mi sembrasse probabile. «Intendono uccidermi oggi.» Valutava la prospettiva con calma. «Da morto, passerò dalla codardia al martirio. La folla e i miei generali si precipiteranno ad aprire le porte per vendicare la mia memoria, e i barbari li sconfiggeranno. Questo è quello che farei io. Finché rimaniamo all'interno delle nostre mura, non possono farci niente, quindi devono indurci a uscire. E noi resteremo dietro le mura fin quando io rimarrò al potere. Per questo devono eliminarmi.» «Potreste rimanere qui, mio Signore», suggerii, «su questa torre. Così nessuno potrebbe avvicinarsi e voi sareste al sicuro fino a quando i barbari non se ne fossero andati.» Alessio scosse mestamente la testa. «Se rimanessi qui sopra, isolato e solo, sarebbe lo stesso che se fossi morto. I miei generali potrebbero emanare ordini che io non sarei in grado di revocare, e ci sarebbe battaglia. No, io devo stare in mezzo a loro, esercitando tutto il potere che ancora possiedo. E voi dovrete vigilare affinché l'agente dei barbari - il monaco, forse non riesca a sopraffarmi. Fino a quando sapremo difendere le nostre mura, saremo al sicuro.» Guardai verso ovest. La luce era giunta fino a lì e potevo ormai vedere l'avanguardia di un vasto esercito che si stava radunando per la guerra. Dovevano aver passato la notte all'addiaccio, al freddo e immersi nell'umidità, ma questo non aveva certo arrugginito le loro spade. E da qualche parte in mezzo a loro doveva esserci Baldovino, chiuso nella sua armatura e nel sogno di impadronirsi del nostro impero prima del calare della notte. L'imperatore non aveva altro da dire. Lo seguii giù per la lunga scala, mentre il frastuono del nostro esercito saliva dal cortile sottostante. Ci vollero almeno due ore prima che i barbari riuscissero a mostrare anche solo una parvenza di ordine, due ore durante le quali io indugiai nella sala del trono tentando di tenere gli occhi fissi sullo spazio intorno all'imperatore, invece di seguire quello che stava accadendo al di là delle finestre. Era stupefacente vedere come l'energico e combattivo uomo che ave-
vo incontrato sulla terrazza e nel giardino potesse immobilizzarsi nella rigida compostezza richiesta dal rituale. Stava seduto sul suo trono d'oro, girato in modo che potesse guardare fuori verso i propri nemici, del tutto immobile, mentre una fiumana di cortigiani e soldati sfilava davanti a lui. Alla maggior parte delle suppliche non rispondeva neppure, lasciando a Krysafios il compito di farlo; in alcuni casi, quando la richiesta era particolarmente complessa ο il postulante più benvoluto di altri, rispondeva con lievi mutamenti di espressione che manifestavano disapprovazione ο condiscendenza a seconda dei casi. Io mi stupivo che le complesse dispute dell'impero potessero essere composte così, ma non ebbi comunque mai la sensazione che lasciasse il minimo dubbio riguardo ai suoi intenti. Per tutto quel tempo, il sommesso canto dei preti non smise mai di elevarsi e ridiscendere in sottofondo. Poiché l'imperatore non poteva intervenire alle cerimonie nella chiesa di Aghia Sofia, era stato eretto alle sue spalle un altare a paravento dietro al quale tre preti intonavano i malinconici canti della liturgia del Venerdì Santo. Forse, se la mia fede fosse stata più profonda, avrei potuto trarne un conforto, pensando alla promessa che persino le peggiori sofferenze e la morte sarebbero state riscattate dalla vita eterna; ma, a dire il vero, ascoltare il tragico racconto della passione riusciva solo a turbarmi ancora di più. Non so dire che effetto avesse sull'imperatore che comunque dava l'impressione di ignorarlo, salvo quando i preti gli si avvicinavano per invitarlo ad adempiere il ruolo che per consuetudine gli spettava. Mentre lui pronunciava le parole ο faceva i gesti richiesti, l'udienza si interrompeva, per riprendere poi subito dopo. Insieme con i suoni, da dietro il paravento saliva l'incenso, e il profumo, unito a un familiare senso di solennità, mi rallentava i riflessi dandomi una sgradevole sensazione di intorpidimento. Con il progredire della mattinata, la stanza andò lentamente riempiendosi di cortigiani. Si raggruppavano negli angoli e conversavano a voce bassa, così abituati a dissimulare le proprie voci che persino io, che mi trovavo quasi al loro fianco, discernevo a fatica qualche parola. La loro presenza acuiva la mia inquietudine, ma almeno mi spingeva ad aumentare la vigilanza; forse fin troppo, perché ormai c'erano troppi volti da scrutare, troppe mani da tenere sotto controllo alla ricerca di un pugnale nascosto, nell'attesa di un improvviso movimento. Anche se dalle finestre aperte entrava aria fresca, cominciai a sudare e a chiedermi di nuovo come l'imperatore potesse sembrare così gelido sotto lo splendente peso dei suoi magnifici abiti.
Verso l'ora quarta, le porte di bronzo si aprirono per far passare una figura familiare, il conte barbaro Ugo, preceduto da un quartetto di guardie e seguito da numerosi paggi. Io mi irrigidii e feci segno al capitano dei Peceneghi di avvicinarsi al trono. Ero stato ampiamente rassicurato riguardo alla lealtà del conte Ugo nei confronti dell'imperatore, ο almeno del suo tesoro, ma avere un barbaro nelle vicinanze, in quel giorno fatidico, sembrava un'indicibile imprudenza. L'imperatore, come sempre, non diede alcun segno di disagio. «Conte Ugo!» Krysafios parlava tenendosi a fianco dell'imperatore. «La vostra gente sta di nuovo marciando in armi contro di noi. Noi siamo un popolo amante della pace, ma nei loro cuori c'è soltanto la guerra. Potete ricordare loro ancora una volta che il nostro più vivo desiderio è quello di offrire la nostra fratellanza? Coloro che ci sono amici possono ottenere grandi vantaggi; i nostri nemici solo le sofferenze della morte.» Il conte Ugo deglutì, portandosi una mano alla gola e toccando il luccicante pendente che portava al collo. «Sapete che io sono sempre agli ordini del mio signore l'imperatore. Ma fra la mia gente si è diffusa una follia che non sono in grado né di guarire né di comprendere. Hanno dimenticato tutto ciò che è bene, e sembrano posseduti da una vera e propria sete di sangue e di guerra. Per lealtà verso il mio signore, devo dire che non penso che mi ascolteranno.» Abbassò un po' la voce. «Potrebbero addirittura ignorare il rispetto dovuto al mio rango.» Krysafios sembrò sul punto di ribattere aspramente, ma l'imperatore lo prevenne. Fu un movimento impercettibile; abbassò appena il mento allargando leggermente gli occhi, ma nelle orecchie di Krysafios risuonò evidentemente come un grido assordante, perché si ricompose subito e continuò. «L'imperatore vi ricorda che in questo santo giorno tutti i cristiani dovrebbero unirsi in amicizia. Come il Signore Gesù Cristo predica: 'Benedetti siano i pacificatori, perché grande sarà la loro ricompensa in paradiso'.» Non era il Vangelo come lo ricordavo io, ma sembrò tranquillizzare il conte Ugo. Spostò il peso della sua enorme stola, così carica di pietre preziose che temevo potesse schiacciarlo, fece il suo inchino e si allontanò in fretta. Da fuori, sentii il sergente che chiedeva a gran voce i cavalli. Se fosse dipeso da lui, sospetto che il conte Ugo avrebbe rinviato il più a lungo possibile la sua missione, ma l'imperatore doveva aver fatto in modo che la sua volontà fosse subito nota in tutto il palazzo, tanto che appena un quarto d'ora dopo vidi il loro piccolo corteo trottare fuori dal cancello sot-
tostante e attraversare la piana in direzione dei barbari. Io mi spostai nella stanza, in modo da guadagnare una posizione che mi consentisse di tenere sott'occhio sia l'imperatore che i Franchi. Il conte Ugo e il suo seguito erano appena scomparsi in un avvallamento del terreno, fuori dalla nostra vista, quando le porte furono spalancate con un gran fracasso. Mi voltai, la mano sulla spada, e vidi Isacco, il fratello dell'imperatore, precipitarsi dentro in totale spregio di tutte le regole e usanze, oltre che privo del suo abituale seguito. «Cos'è questa storia?» domandò a Krysafios. «I barbari si stanno concentrando per attaccarci di nuovo e le nostre legioni se ne stanno sedute nelle caserme a pulire gli scudi, quando dovrebbero essere dietro gli spalti, pronte a essere sguinzagliate non appena avremo intrappolato sotto le mura i nostri nemici.» Krysafios lo fissò con grande calma. «L'imperatore crede che la vista del nostro esercito nelle strade potrebbe incitare la folla a richiedere un'azione immediata, e aumentare il rischio di un attacco avventato da parte di un comandante precipitoso.» «È il timore della folla a guidare adesso la politica dell'imperatore? Ha ormai del tutto perso la fiducia nei suoi capitani e nella loro capacità di mantenere la disciplina fra i loro uomini?» «Se, quanto a strategia, ci si potesse fidare dei capitani, allora sarebbero generali.» Krysafios stava cominciando a spazientirsi. «E abbiamo le compagnie di arcieri a presidiare le mura.» «E mireranno alle nuvole come hanno fatto ieri?» Isacco era paonazzo di rabbia. «Ogni volta che evitiamo di schiacciare questi barbari, essi diventano più arditi. La sconfitta è l'unica lezione che possono imparare, la sconfitta da parte del nostro esercito.» La discussione sembrava sul punto di degenerare, quando in un istante l'imperatore placò sia il ciambellano che Isacco. Apparentemente si era limitato ad allungare le dita della mano destra, quasi a voler esibire i suoi anelli, tuttavia Krysafios e Isacco e tutti i cortigiani lì riuniti si zittirono, volgendo lo sguardo verso la pianura all'esterno. Il conte Ugo era di ritorno, e galoppava come se fosse inseguito dalle Furie; aveva parecchio vantaggio sul resto della sua scorta, e riuscì a entrare dalle porte, a salire le scale e a farsi ammettere alla presenza dell'imperatore ancora prima che l'ultimo del suo seguito avesse avuto il tempo di raggiungere le mura. Per tutto quel tempo nessuno parlò, a parte i preti che continuarono il loro incessante canto dietro l'altare.
La missione aveva appannato lo sfarzo del conte Ugo, ma non aveva piegato il suo orgoglio. Sulla sua stola c'erano degli strappi, dove le gemme dovevano essersi staccate per gli scossoni della furiosa cavalcata, e il fango aveva inzaccherato fino a metà le falde della sua dalmatica. Il copricapo tempestato di pietre che indossava sempre era scivolato su un orecchio, rosso come se fosse stato appena schiaffeggiato. Krysafios aspettò che avesse recitato l'intera formula di saluto, prima di lasciarlo parlare. «Mio signore», disse con tono sdegnato. «È come vi avevo detto: sono completamente sordi a ragione e pietà. Mi hanno chiamato schiavo - me, signore dei Franchi e fratello di un re. Il loro re, niente di meno. Come posso trattare con uomini simili?» «Come avete fatto?» Krysafios non sembrava mostrare molta comprensione. La risposta del conte Ugo dovette però essere rimandata, perché in quel momento i tre preti uscirono improvvisamente in processione da dietro il loro paravento, camminando solennemente fin davanti all'imperatore. Uno portava un'alta croce su un bastone di legno, il secondo un incensiere, il terzo una coppa d'oro. Quest'ultimo accostò la coppa alla bocca dell'imperatore, mentre gli altri due si mettevano al suo fianco e continuavano a intonare le loro orazioni. Quando lui ebbe bevuto, tutti e tre si ritirarono senza dare il minimo segno di essersi accorti della moltitudine intorno, intenta a osservarli. Il conte Ugo lanciò loro uno sguardo torvo e continuò. «Ho fatto come il mio signore l'imperatore desiderava. Ho detto loro che dovrebbero tutti offrire la propria fedeltà al più grande potere della cristianità. Ho ricordato loro che si trovano lontani da casa e dai loro alleati, e che invece di cercare di distruggere i nobili romani dovrebbero essere grati del loro aiuto. Ho fatto appello al loro amore per tutte le cose buone in cielo e in terra, ed essi hanno riso di me. Me, il fratello di...» Un'occhiata di Krysafios bloccò la sua digressione. «Mi hanno detto: 'Perché mendicare un tesoro di cui possiamo impadronirci da soli, da un re la cui corona sarà caduta ancora prima di arrivare all'interno delle sue mura?' Avrei voluto ribattere, ma sembravano ormai stanchi del colloquio, e temevo che mi avrebbero ucciso se avessi indugiato ancora. 'Corri dai Greci', mi hanno detto mentre me ne andavo, 'ma non pensare di trovare la salvezza là. Perché noi stiamo arrivando e nessuno può resisterci.'» «E in effetti stanno arrivando.» Il sebastocratore Isacco era davanti alle finestre, dalle quali si potevano vedere le schiere della cavalleria franca
che avanzavano in formazione da battaglia. «Ora mi ascolterete, fratello?» Krysafios guardò verso l'imperatore, immobile come una roccia, e di nuovo verso Isacco. «Vostro fratello vi ricorda che, a meno che non abbiano costruito un esercito di macchine da assedio durante la notte, le mura sono sicure. Possiamo resistere a migliaia di attacchi simili.» «E ogni volta i nostri uomini moriranno.» Isacco stava ora parlando a tutte le persone nella sala, non solo a quelle radunate intorno al trono. «Renderemo vedove le nostre donne e orfani i nostri figli solo perché non osiamo opporci ai barbari? Io dico che è meglio se alcuni di noi muoiono nella gloria della battaglia, piuttosto che lasciare che i barbari ci tirino giù dalle mura uno a uno.» «Domando perdono, Signore», interruppe il conte Ugo. «Chiedo all'imperatore di concedermi il permesso di ritirarmi nei miei appartamenti. La fatica della mia ambasciata mi ha prostrato.» Krysafios gli fece segno di andarsene. Tuttavia lo vidi uscire seguito dai Peceneghi. Ugo non sarebbe andato a riposare - pensai - ma a stipare i suoi bauli con tutto quello che poteva mettere in salvo, per paura che i barbari potessero mettere in atto le loro minacce. «Mio Sire.» Ora Krysafios si stava rivolgendo all'imperatore. «È evidente che i barbari diffidano del conte Ugo. Temono che abbia tradito la sua razza, per questo non prendono neppure in considerazione le sue proposte. Ma i cristiani non devono combattere, fino a quando rimane una speranza di pace. Inviate un altro emissario, uno che per la sua statura e fermezza possa incutere timore e rispetto nei barbari. Mandate uno dei vostri generali con una piccola scorta, poiché le stesse parole avranno un altro peso se pronunciate da un soldato.» «E una legione di catafratti un peso ancora maggiore.» Il profilo di Isacco si stagliava sotto l'arcata della finestra; dietro di lui si vedevano i barbari sempre più vicini. «Potreste essere anche voi in persona a cavalcare là fuori, fratello, e non vi darebbero retta lo stesso. Sentite?» Fece una pausa, in modo da permettere al rombo che si udiva in lontananza di penetrare nella stanza, un rumore come di cascata ο di un forte vento. «È il popolo. Sanno che i barbari stanno arrivando e chiedono di reagire.» Attraversò la stanza diretto verso il trono, e anch'io mi avvicinai, poiché non avevo ancora del tutto abbandonato i miei sospetti su di lui. «Non potete fermare i barbari con le parole. In questa situazione, non potete pensare che un singolo uomo sia in grado di indebolire la loro determinazione, mentre al tempo stesso i vostri nemici dentro la città ci stanno trascinando verso i
disordini e i massacri. Se noi attacchiamo, possiamo in un colpo solo riconquistare la fedeltà del nostro popolo e distruggere la minaccia dei barbari.» «E consegnarci in questo modo ai Turchi.» Per la prima volta da quando aveva messo piede nella stanza, Alessio aveva parlato. «Se ci manteniamo fermi e decisi, alla fine avremo ragione della folla, dei barbari e anche dei Turchi, ma se vacilliamo ognuno di loro può distruggerci.» «Lasciate perdere i Turchi!» Isacco si era messo a urlare, incurante del protocollo e del decoro. «Ci sono forse i Turchi qui sotto a picchiare contro le nostre porte e a chiedere il nostro sangue? In questi quindici anni, siamo sopravvissuti. perché ci siamo di volta in volta concentrati sui pericoli imminenti, non su quelli ancora di là da venire. Questo non è uno di quei giochi in cui potete disegnare le vostre strategie con molte mosse d'anticipo, sacrificando i pezzi meno importanti pur di raggiungere uno scopo più alto. Qui ogni mossa può portare alla rovina, e alla fine sacrificherete solo voi stesso. Tutti noi. Per favore, fratello, abbandonate questa follia prima che ci travolga.» Era stupefacente vedere questi due fratelli, così simili nell'aspetto ma così diversi quanto a temperamento. Più cresceva la frenesia di Isacco, più aumentava la compostezza di Alessio. Quando alla fine l'imperatore rispose, fu ancora una volta Krysafios a parlare per lui. «Invieremo il capitano degli Immortali, con dieci dei suoi uomini, per mettere in guardia i barbari dal proseguire nella loro follia.» Isacco sembrava sul punto di andarsene in preda a un'incontenibile furia, ma Krysafios continuò: «Nel frattempo, ordinate a tutte le legioni di guardia di radunarsi dietro le porte». «Le radunerò io stesso. Voi informate il capitano degli Immortali», sibilò fra i denti Isacco, accennando appena un inchino e uscendo dalla sala a grandi passi. Il rumore della folla diventò più forte quando le porte si aprirono, per abbassarsi subito dopo quando vennero chiuse con uno scatto secco. E di nuovo il canto dei preti rimase l'unico suono. I cortigiani tenevano gli occhi fissi sul pavimento e non parlavano, forse incerti su come reagire al braccio di ferro pubblicamente ingaggiato dall'imperatore, forse intenti a interrogarsi preoccupati sul proprio legame con un sovrano ormai condannato. Li osservai tutti a uno a uno, spostando rapidamente gli occhi da uno all'altro alla ricerca di qualche segno di ribellione. Avevano tutti un'aria tetra, ma nessuno sembrava a un passo dall'omicidio. «Là.» Krysafios fu il primo a vederli, i cavalli della spedizione degli
Immortali, ο forse era stato l'imperatore a indicarglieli. Cavalcavano bestie massicce allevate proprio per quello scopo, capaci di portare un uomo interamente ricoperto dalla sua armatura fin nel cuore della battaglia. Avevo visto le loro cariche più di una volta, durante gli anni che avevo trascorso nell'esercito, e sempre mi ero meravigliato di vedere quanto poco utilizzassero le lance ο le mazze, quanto rapidamente la loro semplice forza d'urto riuscisse a fare breccia fra le linee nemiche e a mettere in fuga gli avversari. Isacco aveva ragione: nessuno meglio di loro avrebbe potuto convincere i barbari della nostra forza militare. Quando uscirono da sotto le mura e arrivarono in piena vista, li contai. Il loro capitano cavalcava davanti, con quattro catafratti al suo fianco e altri quattro alle sue spalle. Sembrava una forza più che sufficiente. Ma dietro ne venivano altri, che trottavano in avanti una linea dopo l'altra: venti, poi sessanta, infine un centinaio. «Il mio ordine parlava di dieci uomini.» Tutti gli uomini nella sala guardarono verso l'imperatore, che si era a metà sollevato sul trono per vedere meglio. Non c'era più nulla della statua in lui: sul suo volto si era dipinta una terrificante furia e ogni muscolo sembrava tremare di rabbia. «Richiamateli indietro subito, prima che i barbari lo prendano per un attacco.» Gli ordini furono gridati dalle porte, e dai bastioni sentii risuonare il suono delle trombe, ma i catafratti non avevano una gran distanza da coprire e la testa della colonna era già vicina all'avanguardia dei barbari. Erano troppo lontani per sentire e comunque troppo vicini ai barbari per tornare indietro: noi potevamo soltanto guardarli come se stessimo assistendo a uno spettacolo di mimi. Né l'uno né l'altro esercito rallentò: i catafratti mantennero il loro passo di carica, i Franchi continuarono ad avanzare inesorabili. A separarli non erano rimasti che una cinquantina di passi, che si riducevano sempre più. Tenevo gli occhi fissi nell'attesa di veder apparire un varco, mi chiedevo se avrebbero lasciato passare i nostri emissari, ma le file dei Franchi continuavano a rimanere serrate. «Tornate indietro», mormorò una voce. Poi una nuvola di frecce e giavellotti cadde dal cielo, e la battaglia cominciò. Ancora prima che fosse scoccata una freccia la nostra cavalleria aveva già reagito: gli uomini ruppero le file e galopparono a formare una doppia linea di fronte ai Franchi che avanzavano. I dardi dovevano aver fatto poco danno ai nostri uomini, poiché la loro armatura era più resistente di quella degli avversari, ma vidi che diversi cavalli già erano caduti, e i cavalieri
lottavano per liberarsi dalle bardature prima che i barbari arrivassero sopra di loro. Con un grido che giunse fino alle nostre orecchie, i Franchi abbassarono le lance e caricarono. I nostri catafratti spronarono i cavalli verso di loro e, per un attimo, vidi soltanto due onde di marrone e nero e argento che si precipitavano una addosso all'altra, scontrandosi sul terreno che le separava. Poi iniziò il combattimento, e le sagome dei singoli uomini scomparvero nel mare della battaglia. «Dobbiamo mandare dei rinforzi, maestà.» Krysafios parlò con tono incalzante, ma senza lasciarsi prendere dal turbamento che aveva afferrato tutti gli altri uomini presenti nella stanza. «Un centinaio contro diecimila: si faranno massacrare inutilmente.» «Se mando fuori degli altri uomini, ci saranno solo più morti. E, in primo luogo, perché sono un centinaio? Io avevo ordinato dieci.» «Mio signore, il popolo...» «Lasciate stare il popolo! Il mio compito è quello di tenerlo a freno, non di fare da ruffiano ai loro sogni codardi. Per quello abbiamo l'ippodromo. Dov'è mio fratello?» «Alla porta Regia con i Variaghi, Sire», intervenne un giovane cortigiano senza essere stato interpellato. «Attende solo il vostro ordine per marciare alla testa della cavalleria.» «Dovrà aspettare a lungo, allora. Andate a dirgli, a nome mio, che per nessuna ragione dovrà lasciare la città.» Il cortigiano stava per andare, quando un gesto di Krysafios lo bloccò. Gli occhi dell'eunuco percorsero la stanza e si posarono su di me. «Demetrios, voi conoscete il capitano variago. Queste istruzioni sarebbero accolte meglio se foste voi a portarle.» Non ero molto abituato a rifiutare degli ordini diretti al cospetto dell'imperatore, ma il mio senso del dovere si ribellò. «L'imperatore ha bisogno di me...» «Ha bisogno di voi dove siete stato inviato. Andate.» Nonostante i miei timori, non potevo disobbedire. Corsi verso la porta, scivolando per la fretta sul pavimento di marmo. Mi appoggiai a una colonna per riprendere l'equilibrio e guardai verso l'imperatore, sperando forse in una sua parola che annullasse il mio incarico e mi trattenesse lì dove mi sentivo più necessario. Non mi vide neppure; era in piedi davanti al trono, immobile e silenzioso, con lo sguardo fisso al di là delle finestre ad arco, mentre i nobili intorno a lui litigavano apertamente e a voce alta. Solo i preti sembravano impassibili, e continuavano la loro liturgia anche
mentre il destino dell'impero veniva deciso nella pianura davanti a loro. Anche in quel momento li vidi spuntare dall'angolo del paravento, portando l'icona che l'imperatore avrebbe baciato. Avrei dovuto ammirarli per la loro devozione, la loro pia indifferenza a tutto ciò che era terreno, anche se sembrava quasi sacrilego ignorare eventi così straordinari. Forse li invidiavo anche. L'imperatore si accorse di loro e riprese posto sul trono, pronto a fare la sua parte nel rito. Certo, avrebbe dovuto assumere di nuovo la totale impassibilità che il suo ruolo gli prescriveva, ma le preoccupazioni del momento lo avevano privato di ogni attitudine alla finzione, e così si mise a fissarli apertamente, con evidente interesse. E non poté impedirsi di aggrottare anche un po' le sopracciglia, come se qualche pensiero, ο qualcosa che aveva visto, lo avesse improvvisamente urtato. Il suo viso era rivolto nella mia direzione e - pensando che stesse disapprovando il mio indugio stavo già per andarmene, quando compresi che i suoi occhi non erano fissi su di me, ma sui preti che si stavano avvicinando. Seguii il suo sguardo. Due li riconobbi, erano gli stessi che avevo visto fin dal mattino, ma il terzo era nuovo: doveva aver sostituito l'altro per permettergli di riposarsi. Le sue mani erano strette intorno all'alta croce che portava, e che fissava con una devozione quasi febbrile, gettando la testa all'indietro come se si stesse crogiolando al sole del paradiso. Quella postura accentuava gli angoli del suo volto irregolare, in particolare la linea arcuata del suo naso, e pensai che doveva essere arrivato da poco da un monastero, perché la pelle del suo cranio era ancora rosa dove gli era stata praticata la tonsura. Fin troppo lentamente, mi resi conto di quello che i miei occhi stavano vedendo. Forse l'imperatore aveva riconosciuto qualcosa di empio in lui, ο forse era rimasto solo sorpreso scorgendo un viso non familiare, ma non poteva sapere chi fosse; quello era in effetti il mio compito. Mi precipitai attraverso la stanza, travolgendo tutti quelli che trovai sulla mia strada e urlando per avvertire l'imperatore. E il monaco colpì. κη L'imperatore non aveva più scampo, perché il monaco lo aveva intrappolato sul trono. Chiunque altro al suo posto sarebbe probabilmente rimasto paralizzato dal terrore, ο non sarebbe riuscito a fare altro che starsene lì a tremare, ma Alessio aveva l'istinto di un soldato e in quell'istante si gettò
in avanti. Ma era troppo tardi. Mentre i due preti rimanevano lì a guardare, senza parole davanti a quell'apparizione di morte, il monaco calò la croce come una mazza sulla testa del sovrano. Il diadema adorno di perle schizzò via, e il sangue sgorgò dalla folta capigliatura inondando il collo e le spalle di Alessio, mentre questi cadeva sul pavimento a faccia in giù. Mi aspettavo che il monaco sollevasse la sua arma per assestare un secondo colpo, invece afferrò con una mano la croce d'oro e la staccò dal suo sostegno. Appena la croce toccò terra con un gran fracasso, mi accorsi che quello che il monaco teneva in mano non era un normale bastone di legno, ma una lancia sguainata, la cui punta era stata nascosta dentro il crocefisso. Nella stanza erano ancora tutti immobili, pietrificati dall'improvvisa aggressione. L'imperatore emise un gemito e tentò di sollevarsi sulle braccia, ma il monaco gli sferrò un calcio al volto e sollevò la lancia sopra la testa. Urlò qualcosa in una lingua sconosciuta, un feroce sguardo di trionfo negli occhi, mentre si preparava a conficcare la punta della lancia nella gola dell'imperatore. Per tutto quel tempo io avevo continuato a correre verso di lui, troppo in fretta per pensare, e la mia frenetica reazione istintiva mi permise di arrivare vicino quanto bastava. Mi slanciai su di lui, troppo tardi per bloccare il colpo, ma in tempo per fargli sbagliare mira. La lancia colpì alla schiena l'imperatore che lanciò un grido. Il monaco rotolò al suolo spinto dal mio slancio. Dita sottili mi artigliarono il viso graffiandomi gli occhi e, mentre tentavo di evitarle, il monaco mi ribaltò sulla schiena e si allontanò con un balzo. La lancia era ancora infissa nella schiena dell'imperatore e oscillava come un giovane albero nella tempesta; l'assassino la estrasse e la fece roteare descrivendo un mezzo cerchio intorno a me, per tenere a bada chiunque volesse avvicinarsi. Ma, a parte me, sembrava che non ci fosse proprio nessuno desideroso di intervenire. Anche se decine di guardie e di nobili affollavano la stanza, nessuno si mosse. Forse a causa della loro codardia, ο forse perché troppo spaventati; ma più probabilmente non sapevano come intervenire, nella situazione di incertezza in cui l'impero si trovava. Così si ritrassero tutti, accalcandosi in un cerchio di volti che osservavano e ci circondavano come le mura di un'arena. Era come se io e il monaco fossimo i due campioni consacrati, Ettore e Aiace, e il mondo avesse interrotto le sue guerre mentre noi ci battevamo in singolar tenzone. Ma io non avevo Apollo a guidare la mia mano, e neppure una spada, perché mi era caduta quando mi ero scontrato con il monaco. E quest'ulti-
mo si stava avvicinando, sollevando la lancia per portare a termine il suo proposito. Forse aveva riconosciuto in me l'uomo che lo aveva inseguito quel giorno nella gelida cisterna, ο forse nel dare la morte era anche rassegnato a subirla, ma c'era in lui una gran calma, come se la punta insanguinata della lancia fosse da sola in grado di rendere vano ogni mio tentativo di diversione. Indietreggiai lentamente, tenendo gli occhi fissi nei suoi. «Il colpo della lancia ha origine sulla faccia di un uomo», mi aveva detto una volta un sergente, e fino a quando avessi sostenuto il suo sguardo gli sarebbe stato difficile colpirmi. Ma la mia concentrazione non era destinata a durare. Compii un altro passo indietro e il mio braccio andò a urtare contro un gomito; istintivamente girai gli occhi verso l'uomo con cui mi ero scontrato, uno dei preti, e in quel momento il monaco scattò in avanti. Fu il prete a salvarmi. Non agendo ο intercedendo in qualche modo, anche se magari una preghiera l'aveva formulata, ma solo grazie all'abisso di paura in cui era sprofondato. Vide il movimento del monaco prima di me e, nella fretta di scansarsi, mi trascinò a terra in un groviglio di membra. La lancia mi passò sopra la testa, senza che il monaco avesse il tempo di cambiarne la traiettoria, e mentre tendevo le braccia per cercare di attutire la caduta sentii sotto le mani una catena di ferro. Era l'incensiere, che il prete nel ritrarsi aveva fatto cadere. Lo afferrai e, quando il monaco venne a trovarsi sopra di me, lo lanciai in aria con tutta la forza che potevo. Andò a schiantarsi contro il suo volto in un'esplosione di olio bollente e grida. Non avrei saputo dire se fossero del prete, del monaco ο addirittura mie. Mi ritrovai sulle ginocchia, la pelle che bruciava nel punto in cui il liquido l'aveva inondata. Il prete era dietro di me, e si lamentava penosamente, ma il monaco era ancora in piedi, la lancia ancora salda in pugno. Metà della sua faccia era marchiata da una piaga purpurea, dove l'incensiere lo aveva colpito, e i suoi occhi erano serrati per il dolore, ma sembrava ancora in grado di trovare la forza per un ultimo, definitivo colpo. Poi la sua bocca si spalancò e la lancia gli cadde dalle mani, gocce di sangue gli scivolarono sul mento e gli occhi si spalancarono. Il suo corpo sottile si contorse mentre l'anima abbandonava la vuota spoglia, che si abbatté al suolo. Alle sue spalle, Sigurd guardava con disgusto la corta spada che teneva in mano, imbrattata di sangue fin quasi all'impugnatura. Senza una parola, la lasciò cadere sul cadavere del monaco, poi mi aiutò a rimettermi in piedi e insieme corremmo dall'imperatore.
L'incantesimo creato dal monaco si era rotto e dalla sala si levava ora un gran frastuono, fatto di urla e recriminazioni, in mezzo alle quali sembrava che tutti si fossero dimenticati di Alessio. Era morto? Tutto ciò per cui lui aveva lavorato, tutto ciò che io avevo giurato di proteggere, era andato irrimediabilmente distrutto? Krysafios era inginocchiato al suo fianco, una mano sul suo collo insanguinato; alzò gli occhi verso di noi, con ansia, mentre ci avvicinavamo. «Vive ancora», disse. «Ma a fatica. Le guardie lo porteranno dal suo medico.» «Andremo con lui.» Sigurd fece per seguire le guardie che stavano ubbidendo all'ordine di Krysafios, ma l'eunuco lo bloccò bruscamente. «Voi no», esclamò. «Vi attendono compiti più importanti. Guardate.» Indicò la finestra, attraverso la quale si vedevano i catafratti sopravvissuti incalzati dalle schiere dei barbari. «Fra poco saranno sotto le mura, e se noi non riusciamo a tenere le porte la nostra cavalleria sarà massacrata proprio sotto gli occhi del popolo. Sapete che cosa accadrebbe poi.» Il sangue, il combattimento, il fracasso e il caos che regnava nella stanza avevano lasciato la mia mente pericolosamente confusa, a malapena in grado di registrare le parole pronunciate dall'eunuco, ma l'accenno alle porte accese nel fondò della mia memoria una scintilla che cercai di riportare a galla. «Le porte», mormorai. Krysafios mi guardò come un pazzo: «Le porte, sì. Dobbiamo proteggerle». «Ma questo era il loro piano. L'imperatore lo aveva indovinato. Quando il monaco lo avesse ucciso, la folla infuriata avrebbe aperto le porte e i barbari si sarebbero riversati dentro. Ora che il monaco ha fallito, anche loro hanno perso.» Sigurd gettò un'occhiata verso l'esterno. «Sembra che non lo sappiano che hanno perso.» «E allora dobbiamo provarglielo!» Le necessità del momento ebbero la meglio sul mio stato di stordimento e riuscii a mettere insieme i miei pensieri. «Dobbiamo dimostrare ai capi barbari, a Baldovino, a Goffredo e ai loro capitani, che il loro sforzo è inutile, che le porte non verranno mai aperte, tranne che per permettere alle nostre armate di scatenare la loro piena potenza.» «C'è un modo più semplice», replicò Sigurd, «scatenare la piena potenza delle nostre armate ora. Così non dubiteranno più della loro sconfitta.» «No, questo è proprio quello che l'imperatore ha cercato di impedire an-
che a costo della vita. Non ci ringrazierebbe, se noi ora distruggessimo quella speranza senza fare un ultimo tentativo di mantenere la pace.» Krysafios e Sigurd si guardarono l'un l'altro e poi rivolsero i loro sguardi su di me; per un momento fummo un bizzarro trio silenzioso in mezzo al tumulto della sala. «Molto bene», rispose Krysafios. «Ma come proponete di raggiungere i barbari?» Uscire dalle porte del palazzo, con il nemico così vicino, era fuori questione, così perdemmo dei minuti preziosi galoppando lungo le mura fino alla porta di Adrianopoli. Questo quartiere della città era diventato un accampamento militare e le legioni in attesa erano schierate dietro di noi in lunghe file serrate, col compito di tenere la folla lontana dalle porte, oltre che di affrontare i nemici. Aprirono comunque un varco per farci passare. Eravamo sette in tutto: Sigurd, io, tre Variaghi, un interprete prelevato dalla cancelleria e il monaco morto legato sul dorso del mio cavallo. Il suo cadavere mi rallentava; invece dei robusti animali dei catafratti, avevamo preso i destrieri del servizio di posta imperiale, la cui forza stava tutta nella velocità, e dovevo in continuazione farmi sentire perché gli altri non mi lasciassero indietro. La folla era più compatta nei pressi della porta di Adrianopoli, perché c'erano meno guardie a contenerla, e per un attimo ebbi paura che il nostro passaggio le avrebbe dato l'opportunità di dilagare all'esterno. I volti erano contorti dall'odio e dalla furia, mentre lanciavano sassi e cocci di vasellame che spaventavano i nostri animali e ci impedivano di proseguire. Se avessero saputo che cosa aveva tentato di fare l'uomo che io trasportavo, non dubitavo che avrebbero fatto a pezzi il suo cadavere e danzato sulle sue ossa. Io me la sarei probabilmente cavata solo un po' meglio. Fortunatamente, il soldato di guardia alla porta si dimostrò all'altezza del suo compito. Lasciò la porta chiusa fino a quando non arrivammo proprio lì davanti, così vicini che io ebbi appena il tempo di fermare il mio cavallo, poi la aprì giusto a sufficienza per far passare un cavaliere alla volta. Sigurd, che cavalcava in testa, non ebbe la minima esitazione e il mio cavallo seguì le sue orme infilandosi nella stretta apertura. Con un colpo sordo, la testa del monaco andò a sbattere contro il bordo del portone, ma la fune con cui avevo legato il cadavere gli impedì di scivolare; ci trovammo così fuori dalla città, al galoppo sulla strada di Adrianopoli, in direzione del fianco destro dell'esercito dei barbari. Anche se dalle finestre della sala del
trono erano sembrati così incombenti, erano in realtà a una certa distanza da noi, nella valle fra il nostro crinale e la sponda del Corno. Dovevano aver concentrato tutte le loro forze sulle porte del palazzo, dove le mura erano più vicine e dove, supponevo, avevano pensato di poter ricevere la notizia della morte dell'imperatore prima che altrove. Le truppe appiedate erano disposte alla base delle mura esterne; c'era chi posizionava degli arieti davanti alle porte e chi sistemava tizzoni ardenti contro le parti in muratura, forse nel tentativo di farle crollare. La loro cavalleria si era arrestata molto più indietro, ben al di fuori della portata dei nostri archi, in attesa che venisse aperta una breccia, mentre gli arcieri tentavano di tenere bloccati i nostri difensori dietro i bastioni. Sull'altura che si alzava dietro le loro spalle, un fascio di stendardi era piantato in mezzo a un gruppo di uomini a cavallo. Sigurd rallentò l'andatura in modo che potessi affiancarlo. «Sarei dovuto uscire da quelle porte alla testa della mia compagnia», brontolò, «invece di essere qui a girare intorno ai fianchi del nemico.» «Una gloriosa battaglia è proprio ciò che noi speriamo di impedire», gli ricordai. «In ogni caso, i fianchi sono sempre il lato debole del nemico.» «Non al punto che sei uomini e un cadavere possano aggirarlo. Guarda.» Sigurd puntò la sua ascia verso destra, e io mi sentii attraversato da un fremito di paura, vedendo una schiera di cavalieri barbari puntare al galoppo verso di noi. Volavano scintille dove gli zoccoli dei loro cavalli colpivano le rocce, mentre galoppavano lancia in resta. «Possiamo lasciarli indietro», dissi, lanciando un'occhiata verso la collina dove si trovavano i capitani barbari. «Queste bestie vengono allevate proprio per la velocità.» «Possiamo lasciarli indietro», concesse Sigurd, «ma ci andremmo semplicemente a gettare a spron battuto in un vicolo cieco. C'è una compagnia di lancieri su quella collina, e ci vorrebbe ben più di mezza dozzina di cavalli da posta per rompere le loro linee.» Mi voltai indietro a guardare i cavalieri che si stavano avvicinando, aprendosi a ventaglio nel tentativo di circondarci. Ingaggiare battaglia era inutile, poiché erano quattro volte più numerosi di noi: davanti alla loro superiorità, persino i Variaghi non avrebbero potuto far altro che soccombere. Frugando sotto l'usbergo che avevo in fretta e furia infilato prima di lasciare il palazzo, afferrai l'orlo della mia tunica e lo tirai, riuscendo a strapparne una striscia sottile. La annodai sulla punta della mia spada e cominciai a farla disperatamente oscillare sopra la mia testa, urlando l'uni-
co termine nella lingua dei Franchi che avevo imparato: «Parlare! Parlare!» Fortunatamente, non portavano archi, perché in quel caso ci avrebbero abbattuti ancor prima di arrivare a portata di voce. Avevano armi corte e forse non presero particolarmente sul serio la minaccia rappresentata dal nostro branco di Variaghi; così arrivarono abbastanza vicini da sentire il nostro disperato appello. Vidi il loro capo rallentare il suo destriero e drizzare le orecchie per sentire quello che stavamo dicendo, mentre i suoi uomini si allargavano creando una sorta di cordone tutto intorno a noi. Guardai verso l'interprete, che sembrava ammutolito per il terrore. Dubito che avesse mai pensato di dover svolgere il suo lavoro nel bel mezzo di un campo di battaglia. «Ditegli che chiediamo di parlare», gli gridai. «Riferitegli che veniamo da parte dell'imperatore e che dobbiamo vedere Baldovino ο il duca Goffredo.» In qualche modo l'interprete trovò abbastanza voce per farfugliare qualche parola nella lingua franca. Il barbaro ascoltò impassibile, il volto in gran parte nascosto dalle pesanti guance del suo elmo; poi rispose bruscamente. «Dice che non ci porterà dal suo capitano», mi riferì l'interprete. «Teme che noi siamo degli assassini.» Rovesciai la mia spada e la lasciai cadere. Rimase infissa nel terreno molle, la stoffa bianca sulla sua lama che sventolava piano mossa dal vento. «Non siamo assassini.» Anche se non sarebbe stata di grande utilità contro le loro lance, mi sentii più esposto senza la mia spada; tuttavia mi sforzai di apparire tranquillo. «Ditegli di portare questo da Baldovino.» Tirai fuori l'anello del monaco, quello col granato, dalla tasca dove lo avevo tenuto per tutti quei mesi, e lo gettai al Franco. Le sue mani ricoperte dai guanti di maglia di ferro non erano molto agili e per poco non lo fece cadere nel fango, prima di riuscire a bloccarlo sul bordo della sella. «Ditegli che porto notizie di Odo il monaco.» Non potevo indovinare nulla dei pensieri del barbaro, ma era facile immaginare che non gradiva affatto una missione del genere. Per alcuni lunghi e penosi secondi rimase in silenzio, chiedendosi senza dubbio se poteva massacrare la nostra piccola banda e liberarsi semplicemente di noi. Dietro di me, sentivo l'interprete che mormorava fra sé e sé un lamentoso «Kyrie eléison», incurante di tutti quelli che lo circondavano.
Cristo abbi pietà. Cristo abbi pietà. Cristo abbi pietà. Senza rendermene conto, avevo chiuso gli occhi mentre sentivo risuonarmi nella testa le parole della preghiera. Li riaprii di colpo, giusto in tempo per vedere il capo del drappello di Franchi che passava l'anello a un uomo alle sue spalle, sbraitando un breve ordine. Il subordinato annuì, fece girare su se stesso il cavallo e lo spronò lungo il crinale in direzione degli stendardi dei capitani. Nessuno degli altri Franchi si mosse, e la punta delle loro lance non si abbassò mai neppure di un dito. Non so dire quanto tempo aspettammo, perché ogni secondo sembrava durare un'eternità. Sulla piana davanti a noi l'esercito barbaro pareva essersi un po' ritirato, e crebbe in me la speranza che forse si fossero resi conto della inutilità dei loro assalti, ma in realtà lo avevano fatto solo per riorganizzarsi. Tornarono all'attacco, caricando in avanti sotto una pioggia di frecce, con gli scudi piatti sopra le teste. Speravo che i nostri uomini sulle mura fossero in grado di resistere: anche se i nostri arcieri ricacciavano indietro gran parte dell'orda, erano molti quelli che riuscivano ad appoggiare le loro scale sui bastioni e a inerpicarsi verso l'alto. Immaginavo le legioni chiuse dentro in città, con le spade sguainate e le corde degli archi già tese, in attesa solo di un ordine per lanciarsi fuori dalle porte e ingaggiare battaglia. E se fosse accaduto sarebbe stato davvero un massacro, visto che già contro le nostre mura inespugnabili i barbari stavano combattendo come bestie feroci. Un fragore di bardature metalliche sulla sinistra attirò la mia attenzione, distogliendomi dalla battaglia: quattro cavalieri si stavano avvicinando lungo il crinale; il loro capo montava un grande stallone baio che io riconobbi, per averlo già visto durante l'imboscata a Galata il giorno prima. I Franchi che ci circondavano si spostarono per lasciarlo passare; lui veniva verso di noi al galoppo, lancia in resta, e per un attimo sembrò intenzionato a caricarci da solo, ma si venne poi a fermare davanti a me, con gli occhi fissi sul cadavere legato sul mio cavallo. Anche se l'elmo gli copriva gran parte del volto, quel poco di pelle dal pallore cadaverico che si intravedeva era inconfondibile. Io recisi la fune che tratteneva il monaco e lo lasciai cadere a terra. «Questo è l'uomo che nelle vostre speranze avrebbe dovuto assassinare l'imperatore e aprirvi le porte della città», dissi, ignorando l'eco di una frettolosa traduzione. «Ha fallito. Voi avete fallito.» Un secondo uomo si fece avanti. Qualche ricciolo biondo gli spuntava dal cappuccio di maglia, ma l'espressione era cupa. Si rivolse rabbiosa-
mente al suo compagno, senza preoccuparsi di dissimulare le sue parole davanti all'interprete. «Dunque è vero, fratello? È questo l'uomo che a tuo dire...» Si interruppe, improvvisamente consapevole del fatto che le sue parole potevano essere ascoltate e comprese, e continuò in un sussurro direttamente nell'orecchio di Baldovino. «Duca Goffredo», cominciai. «Fin dal vostro arrivo, l'imperatore ha desiderato solo pace e alleanza, in modo da unire tutti i cristiani contro i nostri comuni nemici. Molte voci in città si sono levate a condannare la sua generosità, ma lui ha saputo tenerle a bada resistendo a ogni provocazione. Anche ora, con il vostro esercito all'assalto delle mura, ancora non ha reagito mettendo in campo tutta la sua potenza.» «Perché è un codardo», farfugliò Baldovino. «Perché conosce troppo bene la forza dell'esercito franco in confronto alla sua marmaglia di eunuchi ed efebi.» «Silenzio!» sbraitò Goffredo. Il vento fischiava sul grande stendardo bianco con la croce rosso sangue che l'araldo faceva sventolare alle sue spalle. «Io non ho mai voluto questa battaglia, anche quando il re ha mandato i suoi mercenari ad attaccarci nel nostro campo. Per due giorni mi sono piegato alle tue richieste, Baldovino, ma le porte non si sono aperte come avevi promesso.» «E neppure si apriranno in futuro», incalzai io. «L'imperatore è sopravvissuto al vostro complotto e, dall'alto delle sue mura, vi distruggerà se non abbandonate subito la battaglia.» Gli occhi di Baldovino erano neri di odio, più profondi degli abissi infernali di Sheol, ma suo fratello sembrava inflessibile. «Richiamerò il mio esercito», dichiarò Goffredo, «se l'imperatore mi consentirà di proseguire verso la Terra Santa, l'unico luogo dove io sia mai stato intenzionato ad andare. Abbiamo già indugiato fin troppo.» «Non vi lascerà passare senza il giuramento», gli ricordai) «Ma non sono io a dover discutere questo con voi. L'imperatore manderà un suo emissario al vostro campo questa sera, se sarete abbastanza saggio da garantire la sua incolumità.» Goffredo annuì e, senza una parola di saluto, girò il suo cavallo e puntò verso la collina dove lo attendevano i suoi capitani. La compagnia che ci aveva circondato lo seguì, disponendosi in file; ne vidi molti lanciarsi al galoppo giù dall'altura per portare le notizie ai soldati. Baldovino, però, non si mosse. «Non conosco il tuo nome, piccolo Gre-
co», sibilò, «ma so che non hai nessuna prova di quello che hai detto.» «La risposta di vostro fratello mi ha fornito una prova più che sufficiente.» Vidi che Sigurd, al mio fianco, aveva sollevato un po' la sua ascia e sperai che sarebbe riuscito a essere abbastanza veloce, nel caso che Baldovino decidesse di cedere alla tentazione così evidente sul suo viso. Ma, almeno per il momento, sembrava che il Franco volesse accontentarsi di esprimere la violenza solo a parole. «Mio fratello è un codardo, tanto quanto il tuo re. Battere in ritirata e indugiare sono le sue uniche strategie.» «Allora è un uomo più saggio di voi.» La lancia di Baldovino vibrò, come per uno scatto nervoso. «Saggio quanto un Greco?» sogghignò. «Se davvero io avessi trovato questo crudele piccolo monaco e rivolto i suoi istinti omicidi contro il suo re, pensi che lui da solo avrebbe potuto aprirmi la vostra città? Pensi che possa essere stato io a dirgli quando l'imperatore si sarebbe trovato a portata del suo arco, ο a farlo passare attraverso le porte segrete del palazzo? Poteva essere lui a salire al trono una volta che l'imperatore fosse morto? Come avrei potuto anche solo immaginare di rivolgere il mio esercito contro la città, se non ci fossero stati degli uomini all'interno - uomini importanti, di potere a chiamarmi a farlo?» Davanti alla mia espressione confusa e sbalordita, proruppe in una selvaggia risata e, prima che potessi ribattere, piantò la sua lancia nel cadavere disarticolato del monaco, così in profondità da mandarla a infiggersi nel fango sottostante. Poi spronò il suo cavallo e si allontanò. «Salire al trono?» ripetei come inebetito. Un terribile panico mi invase, togliendomi il respiro. «E così c'è un nemico...» Le parole di Sigurd fecero eco alle mie: «...all'interno del palazzo». Il vento soffiava contro di noi mentre galoppavamo attraverso la piana, a testa bassa, con i volti affondati nelle criniere dei cavalli, rannicchiati sulle staffe per andare più veloci. L'esercito barbaro era in piena ritirata ora, e si stava disperdendo in direzione di quel che restava del suo campo. La stanchezza del fallimento si era diffusa fra i soldati, e nessuno ci ostacolò mentre costeggiavamo i loro fianchi nella nostra corsa verso il palazzo. Quanto a me, li notai appena. Avevo solo un nome fisso in mente, accompagnato dall'incombente orrore di quelle che potevano essere le sue intenzioni, e del caos che avrebbe potuto provocare se le avesse messe in pratica. Più di una volta i miei pensieri toccarono vertici di insostenibile paura, e per la
frustrazione colpii ancora più forte il mio povero cavallo. «Guarda.» Era la voce di Sigurd, portata fino a me dal vento, e io staccai gli occhi da terra per posarli sull'orizzonte davanti a me. Eravamo ormai vicini alle mura, e potevo vedere le nere bruciacchiature dove i barbari avevano tentato di appiccare fuoco alle porte, le frecce e i cadaveri sparpagliati al suolo. Alcuni erano catafratti - li riconobbi con le armature squarciate, ma la maggior parte erano Franchi. «Le porte...» concluse Sigurd indicando col pugno. Io guardai e per un attimo pensai che sarei scivolato giù dalla sella, tanto mi sentii improvvisamente esausto. Le porte erano aperte e una gran colonna di soldati le stava attraversando a passo di marcia; non barellieri ο becchini che uscissero a prendere i caduti, ma un'intera legione di Immortali in ordine di battaglia. Alcune delle loro staffette ruppero i ranghi per dirigersi a spron battuto verso di noi, ma Sigurd sventolò in aria la sua ascia da Variago ed essi rallentarono, salutandoci con urla incalzanti. «Cosa state facendo?» domandai. «L'imperatore vi aveva ordinato di difendere le mura. I barbari sono in ritirata e voi li provocherete soltanto, esibendo un simile spiegamento di forze.» «Non intendiamo limitarci a provocarli», urlò uno di loro, un ufficiale. «L'imperatore sta morendo; ci hanno ordinato di distruggere i barbari in ritirata. Contro la nostra cavalleria non avranno scampo.» «Il sebastocratore lo ha ordinato?» Un gran senso di vuoto stava penetrando dentro di me: avevo fallito. L'imperatore sarebbe morto e con lui tutte le speranze di pace con i Franchi, i Turchi, persino fra gli stessi Romani. Ma l'ufficiale scosse la testa. «Il sebastocratore è ancora alla porta Regia, penso, in attesa con i Variaghi. Che io sappia non ha dato alcun ordine.» «E allora chi ha...» «Il ciambellano, che diventerà presto il reggente. L'eunuco Krysafios.» Per fortuna Sigurd prese la parola, mentre io rimanevo ammutolito per lo stupore. Si tolse l'elmo, guardando fisso l'ufficiale degli Immortali. «Mi riconosci, Diogenes Sgouros?» Non c'era neppure un palmo del suo corpo che non fosse ricoperto dall'armatura d'acciaio, e tuttavia l'Immortale sembrò farsi piccolo piccolo. «Voi siete Sigurd, capitano dei Variaghi.» «Puoi dubitare della mia lealtà all'imperatore?» «Mai.» La voce di Sgouros era diventata più incerta. «Ma l'imperatore sta morendo e...»
«Non vuol dire che sia già morto.» Sigurd appoggiò la sua ascia sul pomello della sella. «Ti ricordi la leggenda dell'imperatore che si finse morto per mettere alla prova la lealtà dei suoi uomini?» «Sì.» «Ti ricordi che cosa fece a quelli che lo tradirono?» «Sì.» «Allora, a meno che non desideri un simile destino, Diogenes, tieni ferma qui la tua compagnia e non avvicinarti ai barbari neppure di un passo, fino a quando io ο l'imperatore in persona non ti faremo sapere che gli ordini sono cambiati. Hai capito?» L'elmo sembrava legato troppo stretto sotto il mento di Sgouros; faceva fatica a respirare. «Ma...» «Se vieni meno ai tuoi doveri, anche senza volerlo, la punizione sarà terribile», lo ammonì Sigurd. «E non sarà la vendetta dei Comneni, così pronti a perdonare i loro nemici, ma quella di Sigurd, che finora non ha mai dimenticato un torto. Vuoi correre questo rischio per andare a mordere i calcagni a un po' di barbari in fuga?» Il trono nella grande sala del palazzo nuovo era vuoto, ed era praticamente l'unico spazio libero nella stanza. Ogni generale e cortigiano doveva aver saputo delle ferite dell'imperatore, ed era corso a reclamare il proprio posto nella successione - ο a pregare per la sua guarigione, come avrebbero senza dubbio dichiarato in seguito - tanto che Sigurd e io fummo costretti a spingerli da parte per riuscire faticosamente a farci strada. Cercavo disperatamente Krysafios, tentando di individuare una testa sontuosa all'interno di una calca dorata, ma fu Sigurd, dall'alto della sua statura, che lo vide per primo. Era in piedi accanto al trono, attorniato da nobili, e parlava con piglio arrogante ed energico, anche se il frastuono impediva di cogliere le sue parole. I suoi occhi saettavano sui volti circostanti, alla ricerca di segni di dissenso ο di infedeltà, e non ci vide avvicinare fino a quando Sigurd non spinse via un piagnucolante chierico e non gli si parò davanti con aria minacciosa. «Cosa avete combinato con gli Immortali?» domandò Sigurd. «Perché, quando i barbari si erano arresi, avete ordinato alla nostra cavalleria di distruggerli, se il più grande desiderio dell'imperatore era che fossero risparmiati?» Vidi Krysafios lanciare uno sguardo di lato e piegare appena la testa, come per rivolgere un cenno a qualcuno. Alle guardie, pensai. «L'impera-
tore sta morendo, e chiunque gli succeda potrà fare grande affidamento sul suo ciambellano, mentre si abituerà a governare. Se disapprovate la mia politica a causa dei sentimenti che vi legano a un pazzo senza spina dorsale, che nelle nostre ore più buie ha perso il controllo dei suoi nervi, fareste meglio a ripensarci. Avrò bisogno di guerrieri forti, quando servirò il nuovo imperatore, ma solo di quelli disposti a ubbidire.» Il cerchio di persone intorno a noi si era un po' allargato, perché molti erano chiaramente a disagio davanti alla nostra discussione e non sapevano bene a chi fosse meglio mostrare lealtà. Tentai di accentuare ulteriormente il loro disagio. «Vi siete alleato con i barbari fin dall'inizio, Krysafios? Davvero volevate consegnare il nostro impero alla loro tirannia, almeno fino a quando non avete visto che erano stati sconfitti?» Le guance di Krysafios si gonfiarono come quelle di un serpente. «Questo è tradimento, Demetrios Askiates, e questa volta non sfuggirete alla punizione. E non avrete neppure la consolazione di essere stato nel giusto, quando le vostre figlie grideranno nelle mie prigioni, perché nessuno ha lavorato contro i barbari più diligentemente di me. Io avrei consegnato il trionfo della nostra civiltà a una piagnucolosa razza di animali, a malapena in grado di fornicare nei bassifondi di questa città? Proprio io, che sarò ricordato come colui che ha salvato l'impero, mentre l'imperatore Alessio sarà maledetto come un empio traditore, amico dei barbari!» Sentii dell'agitazione fra la folla ammassata alle mie spalle: le guardie dell'eunuco, pensai, stavano arrivando per trascinarmi via. Sigurd aveva sollevato la sua ascia, anche se difficilmente sarebbe riuscito a usarla in quella stanza. Io rimasi fermo. La maligna allusione alle mie figlie aveva fiaccato la mia volontà, poiché si trovavano ancora nel palazzo e, se io resistevo, l'eunuco avrebbe sicuramente inflitto loro indicibili orrori. «Ditemi», lo esortai bruscamente, «l'imperatore è morto a causa delle sue ferite?» «Morirà presto.» Krysafios sollevò gli occhi al cielo. «Abbiamo cercato ovunque, ma non è stato possibile trovare il suo medico perché lo guarisse.» Le sue ultime parole mi sembrarono pronunciate con un tono di voce stranamente alto, ma solo quando finì di parlare mi resi conto del completo silenzio che era caduto nella stanza. «E chi aveva mandato via il mio medico questa mattina?» Anche se lenta e affaticata, e più tesa del solito, la voce era inconfondibile. Dimenticai Krysafios e mi voltai stupito verso le porte di bronzo. E-
rano state spalancate e fra i loro possenti stipiti, appoggiato a un bastone e con una benda come corona, c'era l'imperatore Alessio. Tutti i presenti nella stanza caddero in ginocchio, strisciando poi all'indietro per fargli strada mentre avanzava verso il trono. Camminava rigido, gli occhi ridotti a due fessure per il dolore, ma le sue parole risuonarono più chiare che mai. «Chi ha ordinato all'ipparco di mandare un centinaio di uomini quando mio fratello ne aveva richiesti dieci? Chi ha ordinato agli Immortali di massacrare i barbari che si stavano ritirando? Chi si trova adesso accanto al mio trono, e progetta di occuparlo con i suoi fantocci?» L'imperatore ci raggiunse, e io vidi una falange di Variaghi schierata al di là delle porte. «Vi siete ripreso, mio Sire.» Solo Krysafios non si era inchinato all'imperatore, e non lo fece neppure in quel momento. «Sia ringraziato il Signore. Ma la vostra mente è ottenebrata. Ci vuole altro che una fasciatura per eliminare l'intontimento lasciato dal colpo dell'assassino.» «E lo stesso vale per la stoccata della lancia, se non c'è un medico a occuparsene. Se il ciambellano gli ha ordinato di andare a raccogliere erbe nel Bucoleon, mentre l'imperatore giace nel suo sangue. Grazie a Dio, ho potuto trovarne un altro a palazzo.» Cominciavo finalmente a capire come l'imperatore aveva potuto sopravvivere agli innumerevoli rovesci del suo regno, e perché la lealtà dei suoi eserciti non aveva mai vacillato, conducendo alle disfatte che avevano rovinato i suoi predecessori. Anche in quel momento, zoppicante e affannato, aveva una forza sul suo volto che andava al di là della pura e semplice autorità: era la perfetta sicurezza, l'assoluta consapevolezza del vincitore. Nonostante ciò, Krysafios continuava a resistere, facendo guizzare gli occhi in giro per la stanza alla ricerca di alleati, senza trovarne più nessuno. «Sire», implorò, «non apriamo contese nel momento della vittoria. Se ho errato, l'ho fatto per servire l'impero. Un peccato che di certo può essere perdonato.» «Tu hai cospirato con i barbari per uccidermi», disse Alessio. «Tu, di tutti i miei consiglieri. Che cosa ti hanno promesso? Che dopo aver saccheggiato la nostra città, e violentato le nostre donne, e portato via il nostro tesoro, tu saresti rimasto come loro reggente? Ο avevi pensato di poter...» «No.» Krysafios quasi urlò il suo diniego. «Come potete chiamarmi traditore, se voi stesso avreste dato metà dell'impero a quei demoni?» Si abbassò, come per rendere omaggio all'imperatore, ο baciare l'orlo della sua
veste, ma invece sollevò il proprio abito fin al di sopra della vita. Ci fu un sussulto di disgusto da parte della folla e molti si coprirono gli occhi, ma molti di più rimasero lì a fissare, subendone il macabro fascino, l'esposta nudità dell'eunuco. I suoi organi sessuali erano totalmente mancanti, come in un carzimasian, ma l'orrore della sua carne contro natura era ancor più esaltato dalla terribile rete di cicatrici di cui era ricoperta. «Vedete questo?» urlò, esibendosi senza pudore. «Questo sfregio? Questo è ciò che i barbari fanno ai loro nemici, per divertimento! Dategli un prigioniero e le loro menti malvagie penseranno solo alla crudeltà e alla tortura.» Pietosamente, lasciò ricadere i panni al suolo. «Avrei dato il mio ultimo soffio di vita per salvare l'impero dalla loro violenza, e anche il vostro, se non aveste dato retta ai miei avvertimenti.» «Hai tentato di assassinarmi.» La voce di Alessio tremava di dolore. «Avresti scatenato una guerra civile e consegnato l'impero alle peggiori devastazioni da parte di tutti i suoi nemici.» «Se ho cospirato con i barbari, è stato solo per indurli a rivelare la nera verità dei loro cuori e darvi la possibilità di scoprire la loro malvagità. Ma voi non avete voluto vederla. Il vostro amore per la conquista vi ha accecato, e avete preferito governare un impero saccheggiato che proteggere il vostro popolo. E ora, per aver protetto quel popolo che voi avete dimenticato, io sarò sacrificato.» «Come non ti sei mai stancato di dirmi, io sono misericordioso - troppo misericordioso - con i miei nemici sconfitti.» «Voi mentite.» Per tutto quel tempo, Krysafios si era mosso lentamente all'indietro, facendosi strada fra la folla, nel tentativo di sottrarsi allo sguardo dell'imperatore; si ritrovò così all'estremità della stanza, sotto le finestre. «Mi farete gettare nelle segrete, dove i vostri aguzzini potranno dar sfogo alle loro arti su di me.» Alzò di scatto la testa e incrociò gli occhi dell'imperatore. «Ma io sono già stato un prigioniero, e non subirò una simile misericordia una seconda volta. Lasciate pure che i barbari vengano, e permettete loro di spolpare il vostro impero: io non sarò qui a vederlo.» Con un ultimo sogghigno, che si spense in un singhiozzo, piegò la testa e si buttò oltre il parapetto. Alessio si lanciò in avanti, un braccio sollevato a metà, ma Krysafios avrebbe toccato il suolo ancora prima che lui fosse riuscito a percorrere metà della distanza, e così non andò oltre. Una grande tristezza avvolse il suo volto. Corsi alla finestra e guardai giù. Le mura erano alte in quel punto, e ca-
devano a picco, con un unico salto, sulle rocce sottostanti. Il suolo era una macchia confusa nella luce che sbiadiva, i particolari erano indistinti, ma in mezzo alle pietre silenziose riuscii ancora a vedere il corpo dell'eunuco. Giaceva steso là come un angelo caduto, un frammento d'oro nell'oscurità. κθ Una ragnatela di incenso sembrava pendere dalla grande cupola di Aghia Sofia, le volute a spirale illuminate dal sole che entrava dalle finestre. Un raggio cadeva giusto dietro la testa dell'imperatore, illuminando lo schienale del suo trono e disegnando nell'aria nebbiosa una sorta di aureola. Alla sua destra sedeva il patriarca Nicola, alla sua sinistra il fratello Isacco, un triumvirato di indiscutibile maestà. Nel resto della città risuonavano i rintocchi delle campane e i canti in onore della grande festa di Pasqua, ma qui la gran folla era silenziosa, in attesa dell'inizio della cerimonia. Nella sezione anteriore della chiesa avevano preso posto i capitani barbari, seduti su una fila di sedie intarsiate d'argento. Il duca Goffredo era là, col fratello Baldovino e i due ambasciatori che ricordavo dal giorno del tradimento di Aelric; c'erano anche altri che non avevo mai visto prima e, all'estremità della fila, il conte Ugo. Apparentemente, si era riconciliato con la sua gente, dopo esserne stato schernito e disprezzato, e tuttavia sembrava a disagio. I suoi compagni non avevano un'aria più felice, con le loro espressioni arcigne e diffidenti. Squillarono le trombe e, non appena l'araldo annunciò il nome e i titoli del duca Goffredo, questi si alzò e si avvicinò al trono. Dalla mia posizione nella navata occidentale non potevo vedere il suo volto, ma il silenzio della folla riunita nell'imponente tempio rese perfettamente intelligibili le sue parole. Imbeccato da un interprete, pronunciò le formule del giuramento concordato la notte precedente: prometteva solennemente di rispettare gli antichi confini dei Romani, di servire fedelmente l'imperatore in battaglia e di rendergli tutte le terre che i suoi antenati legittimamente detenevano. Sette scrivani seduti a un tavolo registrarono ogni parola e, quando il giuramento fu concluso, il genero dell'imperatore, Briennio, fece un passo avanti per offrirgli una ghirlanda d'oro. E sapevo che sarebbe stata seguita da quantità di oro ben maggiori, poiché l'imperatore si era sempre dimostrato generoso con i suoi nemici sconfitti. Il duca Goffredo riprese posto sulla sua sedia, con un movimento tutt'altro che elegante, portando la ghirlanda come se fosse una corona di spine.
Poi gli araldi chiamarono suo fratello e io trattenni il respiro, mentre sette penne rimanevano sospese in aria in attesa di sentire che cosa avrebbe detto. Per un attimo pensai che si fosse avvicinato troppo al trono, e che i Variaghi gli sarebbero balzati addosso; invece si era già messo in ginocchio e stava borbottando indistinte parole di ubbidienza. Dopo aver finito, non aspettò Briennio, ma ritornò subito alla sua sedia, irrigidito dalla vergogna. Un'eruzione di macchie rosse gli deturpava il viso, come se fosse un appestato. Il giuramento durò almeno un'ora, seguito da inni di ovazione e dalla liturgia di Pasqua. Quando il patriarca appoggiò la coppa di Cristo sulle labbra di Baldovino, ebbi paura che avrebbe sputato il vino, invece riuscì a inghiottirlo, sotto i severi occhi di suo fratello. Poi ci furono diversi inni di lode e di concorde armonia - messaggi indubbiamente sprecati con i barbari - e infine la lunga processione fra la plaudente folla dell'Augusteo. Una doppia linea di Variaghi aveva diviso la folla formando una sorta di corridoio umano fra la chiesa e il palazzo, e quando riemersi alla luce del sole vidi la coda del corteo imperiale che scompariva all'interno. Forse l'imperatore era generoso con i suoi nemici, pensai, ma non gentile: tre ore in chiesa seguite dai rigidi cerimoniali di un banchetto imperiale avrebbero ridotto i Franchi in una condizione di nera infelicità. Certamente, però, ne sarebbero stati ricompensati. «Non eri stato invitato a festeggiare alla tavola dell'imperatore?» Alzai lo sguardo. Sigurd era in piedi accanto a me, vicino a una colonna, intento a sorvegliare con tranquillo orgoglio i suoi uomini. «Ho parlato fin troppo con i barbari», risposi, «e troppo poco con le mie figlie.» Sigurd annuì. «Ben presto ce ne saranno ancora di più, di barbari. Il logoteta sostiene che i Normanni saranno qui fra una settimana.» «Non causeranno difficoltà.» La stanchezza mi spingeva a coltivare quella speranza, ma la ragione non le si opponeva. «La notizia dell'umiliazione subita dai Franchi è senz'altro giunta fino a loro, e ci penseranno due volte prima di sfidare apertamente l'imperatore.» «E questa volta non ci sarà un eunuco pazzo a incitarli. Ma anche se ci fosse», aggiunse Sigurd, «si guarderebbe bene dal coinvolgere Demetrios Askiates nei suoi intrighi.» Sorrisi al complimento, anche se non sentivo di meritarlo. «Sono stato fin troppo utile agli scopi di Krysafios: non avrebbe avuto niente di cui lamentarsi. Voleva che io scoprissi che il monaco era in combutta con i barbari, e che loro stavano complottando per usurpare il potere dell'impe-
ratore, in modo da avere il pretesto per schiacciarli definitivamente. Mi aveva giudicato perfettamente; invece non ha tenuto nella giusta considerazione la tenacia dell'imperatore.» Sigurd fece finta di risentirsi. «È dei Variaghi che non ha tenuto conto», mi rispose, agitando un braccio in direzione della schiera di corazze brunite davanti a lui. «Se non ci fosse stata la mia spada nella sala del trono, Demetrios, la tua testa sarebbe ora issata su una lancia dei Franchi, accanto a quella dell'imperatore.» Scoppiai a ridere. «Sei stato reintegrato nel tuo ruolo. E l'eunuco non c'è più.» In fondo al cuore, sentivo ancora un po' di pietà per Krysafios, per le terribili prove attraverso cui era passato e che lo avevano portato a tradire, ma non potevo perdonarlo per aver affidato le sorti dell'impero al filo di una spada. «Krysafios non aveva imparato la lezione del passato», meditai ad alta voce. «Apparteneva a una generazione di persone convinte che il trono imperiale fosse un mero strumento nelle loro mani; uno strumento che potevano occupare, usare ο mettere da parte come meglio credevano. Una generazione che in nemmeno cinquant'anni ha fatto sì che un impero glorioso e invincibile subisse invasioni e ribellioni. Non hanno mai capito che il trono è come l'uovo del serpente: molto più pericoloso quando è vuoto.» Con mio rammarico, il Variago rise delle mie malinconiche riflessioni. «Userai la ricompensa per ritirarti a scrivere epigrammi? E questo è lo stesso Demetrios Askiates che quattro mesi fa era così riluttante a legare il proprio destino a quello dell'imperatore?» «A questo punto non ho più scelta. Ormai sono marchiato come uomo dell'imperatore, con tutti i vantaggi e i pregiudizi che ciò implica.» Quando salvi la vita di un uomo, pensai, comperi la sua esistenza con un pezzetto della tua. In alto, nel cielo, il vento stava spingendo via gli ultimi brandelli delle nuvole che prima coprivano il sole, e io sorrisi. «E tu, Sigurd? Sei invitato al banchetto dell'imperatore ο vuoi unirti alla mia famiglia per il pranzo di Pasqua?» Sigurd si gonfiò di orgoglio. «Credi che l'imperatore possa permettersi di stare in una stanza piena di suoi nemici senza prendere le dovute precauzioni? Io sarò nella Sala dei diciannove divani, a tener d'occhio ogni Franco che dovesse agitare contro di lui anche solo un osso di quaglia.» Lasciai Sigurd che urlava ordini alla sua compagnia e mi feci lentamente
largo per uscire dall'Augusteo, in direzione della Mese. Mi sembrava strano di essere ritornato a guardare l'imperatore solo di lontano, a vederlo come l'intoccabile statua che per me era sempre stato. Quella manciata di giorni in cui avevo combattuto, discusso e battagliato con i più importanti uomini dell'impero sembravano già infinitamente lontani. Ora la crisi era passata e la sua orbita si sarebbe allontanata dalla mia, nei rarefatti circoli in cui anche i più potenti si muovono con precauzione. Sarebbe stato chiuso dietro un centinaio di porte, ognuna gelosamente sorvegliata da un esercito di funzionari, e le sue parole sarebbero giunte attraverso le bocche di altri. Davanti a ogni tribolazione si sarebbe mantenuto perfettamente immobile e tranquillo, perché era lui la chiave di volta dell'impero, in grado di tenere a bada le fluttuanti ambizioni dei nobili e di non farle gravare sulle spalle del popolo al di sotto. Anche se una singola pietra preziosa dei suoi abiti sarebbe bastata per tutte le mie necessità di un anno, non provavo alcuna invidia nei suoi confronti. Lasciai la Mese per imboccare la strada che portava verso casa mia. Le strade erano piene di famiglie, di bambini e di agnelli arrostiti appena arrivati dal mercato. L'odore mi fece avvertire la fame, dopo le lunghe ore passate in piedi in chiesa, e fui lieto di scoprire che la mia famiglia si era già premurata di mettere la carne ad arrostire sulla brace incandescente. «Si sono comportati bene, i barbari?» Anna si allontanò dallo spiedo lasciando a Zoe il compito di rigirarlo. «O sarò convocata di nuovo a palazzo a curare l'imperatore?» «Sigurd farà in modo che non ci sia più bisogno di te. A parte forse per ricucire qualche cranio barbaro. Temo che la tua carriera a palazzo sia già finita.» Anna inarcò le sopracciglia. «Per essere un uomo che si proclama maestro nell'arte di svelare i misteri, sai essere talvolta incredibilmente ignorante, Demetrios. La mia carriera a palazzo è solo all'inizio, poiché l'imperatrice in persona ha fatto sapere che ha bisogno di un medico che si occupi di lei. Penso che Alessio sarà ben lieto di non lasciarmi andare via, ora che mi ha trovato.» «Pensavo che tu avessi trovato lui.» L'odore di limone e di rosmarino mi solleticava il naso, stimolandomi ancor di più la fame. «Sanguinante e moribondo nei corridoi del palazzo, mentre i suoi servitori si agitavano impotenti.» Anna infilò un coltello nell'agnello e osservò l'untuoso sugo che gocciolava dai fianchi. «Penso che questo sia cotto. Elena è andata a prendere il
pane in casa.» Raschiai il mio coltello su una pietra e cominciai a separare la carne dalle ossa. Un lavoro fastidioso, per il calore che si alzava dalla brace e il grasso che mi schizzava sulle mani; così non sentii il rumore dei passi alle mie spalle e non alzai la testa neppure quando vidi apparire un'ombra. Il rumore di un piatto che cadeva proprio sulla soglia di casa attirò tuttavia la mia attenzione. Elena era là in piedi in mezzo ai cocci di terracotta, intenta a fissare qualcosa dietro le mie spalle, come Maria davanti all'arcangelo Gabriele. Mi voltai e, per la sorpresa, quasi lasciai cadere il coltello nel fuoco. Era Thomas, più alto e robusto che mai, tanto che ormai mi sovrastava, e tuttavia ancora con una timida esitazione sul volto. «Sono tornato da te», disse semplicemente. Mi resi conto che non stava parlando con me e stavo già per lanciarmi in una sfilza di domande, quando avvertii la pressione della mano di Anna sul mio braccio. «Ti servirà un altro piatto», disse, indicando con un cenno ai piedi di Elena. «Almeno uno.» «Ne prenderò due.» Thomas aveva dovuto sopportare l'omicidio dei suoi genitori, le violenze del monaco e infine, potevo indovinarlo dal sangue incrostato sulle sue guance, il tradimento della sua stessa razza. Mi aveva anche salvato la vita. Accoglierlo alla mia tavola era il minimo che potessi fare. Che cos'altro desiderasse potevo indovinarlo dalle mute e imbarazzate occhiate che lui ed Elena si scambiavano, ma decisi di occuparmene più tardi. In quel momento, mi limitai a servirgli il pezzo più grosso di arrosto, a riempirgli la coppa fino all'orlo e a non dire una parola quando vidi la sua mano che stringeva quella di Elena, e neppure quando mormorarono una scusa e si allontanarono lungo la strada, verso il punto in cui cresceva un cipresso. Non era giornata da discussioni. Molto più tardi, dopo che il sole era tramontato, salii sul tetto con un boccale di vino. Giù in basso le strade erano buie, tranne che per i resti di qualche brace che si andava spegnendo, ma il cielo era carico di stelle. Le fissai con gli occhi socchiusi, alla ricerca delle antiche costellazioni che governavano la nostra vita. C'erano Lyra, Krios l'ariete e Argo, e un centinaio d'altre che non ricordavo ο non ero in grado di riconoscere. Dopo aver dato un nome a tutte quelle che conoscevo, rinunciai a proseguire, rilassai gli occhi e mi limitai a osservare gli sparsi frammenti di luce che vorticavano insieme, formando disegni che era la mia stessa immaginazione a
creare. A volte ne emergevano animali ed eroi, oppure figure di foglie ο di frutti, ma più spesso si trattava semplicemente di informi ragnatele intrecciate dalla mia fantasia. Abbassando gli occhi, feci correre il mio sguardo sui tetti e le cupole che mi circondavano, e lasciai che i miei pensieri scendessero dalle stelle alle terre che si estendevano oltre i confini dell'impero. Da ovest, sapevo che erano in arrivo i Normanni, e dietro di loro i Celti, mentre verso est e verso sud si aprivano le terre selvagge abitate dai Turchi, dai Fatimidi, dagli Ismaeliti e dai Saraceni. Non c'era da stupirsi che l'imperatore fosse arrivato più di una volta a un passo dalla morte, nel tentativo di tenere sotto controllo il pericolo che rappresentavano. Poiché il suo impero provocava l'avidità e l'invidia del mondo intero, non c'era dubbio che avrebbe dovuto farlo di nuovo. Ma quella notte il suo potere era saldo, e sotto il cielo la regina delle città dormiva. Τέλος RINGRAZIAMENTI Due nobili storici, una principessa e un cavaliere, sono stati indispensabili guide in questo progetto. L'Alessiade di Anna Comnena e Storia delle crociate di Sir Steven Runciman (Rizzoli, Milano, 2002) hanno fornito il nucleo storico del mio romanzo, e sono stati pochi i giorni in cui non ho fatto ricorso a uno ο a entrambi questi libri. Tutti e due sono tanto piacevoli quanto rigorosi e, nella cronologia generale degli eventi, in particolare riguardo alle battaglie durante la Settimana Santa, ho seguito le loro indicazioni il più strettamente possibile. Come per Alessio Comneno e il suo impero, un saggio matrimonio e una famiglia in grado di fornire il proprio sostegno si sono rivelati di fondamentale importanza nella realizzazione delle mie ambizioni. I miei suoceri greci mi hanno offerto ospitalità e preziosi giudizi sulla prima stesura del manoscritto, mentre mia madre è stata sempre disponibile ad aiutarmi per i riferimenti religiosi e alle Sacre Scritture. Mia sorella Iona mi ha accompagnato nel mio viaggio di ricerca intercontinentale, e ha passato molto tempo in giro per biblioteche per fornirmi aneddoti classici e traduzioni dal greco. Per quanto riguarda mia moglie Marianna, dal momento in cui ha fornito l'idea originale, ha avuto un'influenza incommensurabile come ammiratrice, critica, prima lettrice e musa.
Al di fuori della famiglia, Jane Conway-Gordon ha incoraggiato questo lavoro quando era ancora a uno stadio iniziale, dimostrando che i Bizantini non avevano nulla da insegnarle riguardo alle oscure arti tipiche degli agenti letterari. Oliver Johnson alla Century è stato un editor generoso e affabile, e si è dimostrato ottimo anche come consulente in trasferimenti. Le vaste risorse della Bodleian Library di Oxford mi hanno infallibilmente permesso di portare a termine anche i lavori più difficili richiesti dal labirintico andamento delle mie ricerche; senza di esse non avrei mai scritto questo libro. Molti amici a Oxford e a Londra mi hanno offerto indispensabili momenti di svago dal lavoro, durante i quali hanno probabilmente imparato sugli eunuchi molto più di quello che avrebbero mai voluto sapere. FINE