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KATHY REICHS MORTE DI LUNEDÌ (Monday Mourning, 2004) Ringraziamenti Ringrazio Darden Hood, direttore presso Beta Analytic Inc., per la consulenza sulla datazione al carbonio 14. Ringrazio anche W. Alan Gorman e James K.W. Lee della facoltà di scienze geologiche presso la Queens University di Kingston, in Ontario, e Brian Beard della facoltà di geologia della University of Wisconsin, per aver diviso con me le loro conoscenze sulla geologia della roccia madre e sull'analisi dell'isotopo dello stronzio. Michael Finnegan della facoltà di antropologia della Kansas State University, mi ha fornito la sua consulenza riguardo l'esame delle ossa antiche con i raggi ultravioletti. Robert B.J. Dorion del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale ha contribuito con le sue conoscenze in materia di ricerche sulla proprietà a Montréal. Il sergente Pierre Marineau, Special Constable della Securité Publique, mi ha guidato in una visita del palazzo di giustizia di Montréal. Claude Pothel del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale, ha risposto alle mie domande in tema di patologia medica e autopsie. Michael Abel mi ha illuminato riguardo le tradizioni del mondo ebraico. Jim Junot ha verificato con puntualità infiniti particolari. Paul Reichs mi ha offerto la sua consulenza riguardo i titoli e le qualifiche professionali degli esperti chiamati a testimoniare in tribunale. Come sempre lo ringrazio infinitamente per i suoi preziosi commenti sul manoscritto. Ringrazio la mia amica Michelle Phillips per avermi autorizzato a citare il testo di Monday, Monday. Sono molto riconoscente a James Woodward, rettore della University of North Carolina di Charlotte per il suo costante sostegno. Merci ad André Lauzon, Chef de service, e a tutti i colleghi del Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale. Ringrazio infine la mia editor, Susanne Kirk, e la mia agente, Jennifer Walsh, per il grande sostegno, per la pazienza e per la comprensione. Per Deborah Miner La mia soreüina.
La mia Harry. Grazie per esserci sempre. Oh Monday mornin' you gave me no warnin' of what was to be... John Phillips, The Mamas and the Papas 1 Monday, Monday, Can't trust that day... Mentre in testa mi risuonavano le note della canzone dei The Mamas and the Papas, nell'angusto seminterrato in cui mi trovavo risuonarono i colpi di una pistola. Un istante dopo alzai lo sguardo e vidi una massa informe di ossa, viscere e muscoli spiaccicata alla base di una parete a meno di un metro da me. Per un attimo il corpo massacrato sembrò rimanere incollato al muro, poi lentamente scivolò a terra, lasciandosi dietro una scia di sangue e di peli. Sentii qualche goccia calda colarmi sulla guancia, e subito la asciugai con la mano coperta da un guanto di gomma. Senza alzarmi da terra, mi voltai. «Assez!» Basta! Il tenente Luc Claudel aggrottò la fronte e si abbassò, senza rinfoderare la sua 9mm. «Topi. I figli del diavolo.» Il francese di Claudel era stretto e nasale, come volevano le sue origini benestanti. «Non poteva tirargli una pietra?» ribattei stizzita. «Quel bastardo era grande abbastanza per tirarcela addosso lui.» Le ore di lavoro accovacciata a terra ed esposta al freddo e all'umidità di un lunedì di dicembre a Montréal iniziavano a farsi sentire. Quando mi alzai, le ginocchia non mancarono di protestare. «Dov'è finito Charbonneau?» domandai, mentre cercavo di sgranchirmi le gambe. «Sta interrogando il proprietario. E c'è da augurargli buona fortuna, visto che il tizio non dev'essere più intelligente di un pisello nella minestra.» «È stato il proprietario a trovarlo?» domandai, indicando il pavimento alle mie spalle.
«Non. Le plombier.» «E che cosa ci faceva l'idraulico nel seminterrato?» «Quel genio mentre lavorava ha trovato una botola e ha pensato di scendere a farsi un giretto sottoterra per prendere confidenza con le fognature.» Ripensando alla mia discesa lungo la ripidissima e traballante scaletta, mi chiesi per quale motivo un idraulico avrebbe deciso di correre un tale rischio. «Le ossa erano in superficie?» «Dice che ha inciampato su qualcosa che spuntava da terra. Più o meno in quel punto.» Claudel indicò con un cenno un avvallamento dove la parete di fondo incontrava il pavimento di terra battuta. «Ha dissotterrato le ossa e le ha mostrate al proprietario. Insieme, hanno controllato su un libro di anatomia preso della biblioteca rionale se erano ossa umane. Ne hanno scelto uno con delle belle illustrazioni a colori perché è probabile che non sappiano neanche leggere.» Stavo per fare un'altra domanda, quando dal piano di sopra giunse un rumore. Io e Claudel alzammo lo sguardo, pensando di vedere arrivare Charbonneau, il suo collega. Invece oltre la botola comparve una sorta di spaventapasseri con una felpa lunga fino alle ginocchia, jeans oversize e luride Nike azzurre. Un paio di lunghi codini spuntavano dal bordo della bandana rossa che gli fasciava la testa. L'uomo, inginocchiato sull'orlo della botola che portava nello scantinato, puntò una Kodak usa e getta verso di me e scattò alcune fotografie. Claudel aggrottò le sopracciglia e il suo naso aquilino d'un tratto diventò rosso. «Tabernac!» Un altro paio di scatti e la bandana rossa sgusciò via. Claudel infilò la pistola nel fodero e afferrò il mancorrente della scaletta. «Finché non arrivano quelli della SIJ, si difenda tirando pietre.» SIJ, Section d'Identité Judiciaire. In Québec l'equivalente della Scientifica. Osservai l'agile posteriore di Claudel scomparire oltre l'apertura rettangolare della botola. E non cedetti alla tentazione di armarmi con una pietra. Di sopra, voci soffocate e rumore di stivali. Di sotto, solo il ronzio del generatore che alimentava le luci portatili. Trattenendo il respiro, ascoltai le ombre che si muovevano intorno a me. Niente squittii. Niente zampetta. Rapido esame visivo dell'ambiente.
Niente occhi tondi. Niente codine nude guizzanti. I bastardelli probabilmente si erano ritirati per organizzare la prossima offensiva. Anche se non condividevo l'approccio di Claudel al problema, su una cosa ero d'accordo con lui: dei roditori facevo volentieri a meno. Contenta di essere rimasta sola, mi concentrai di nuovo sulla buca ai miei piedi. Dottor Energy, drink energizzante. Stanco morto? Dottor Energy restituisce alle tue ossa la voglia di ballare. Non a queste ossa, dottore. Osservai il macabro contenuto della buca. Anche se gran parte dello scheletro era ancora interrata, alcune ossa erano pulite e sotto la debole luce dell'impianto portatile la loro superficie appariva color castagna. Una clavicola. Alcune costole. Il bacino. Un teschio umano. Maledizione! Ero arrivata a Montréal da Charlotte, nel North Carolina, il giorno prima per prepararmi a una deposizione prevista per il martedì. Un uomo era stato accusato di aver ucciso e fatto a pezzi la moglie. Io dovevo riferire alla corte circa l'analisi delle tracce lasciate dalla sega sullo scheletro della donna. Si trattava di una perizia piuttosto delicata e prima di andare in tribunale volevo rivedere il materiale che avevo raccolto. Invece, mi stavo congelando il posteriore nello scantinato di una pizzeria. In mattinata Pierre LaManche era passato da me in ufficio. Mi era bastato guardarlo in faccia per capire che cosa dovevo aspettarmi. Nello scantinato di un locale dove vendevano pizza al trancio erano state trovate delle ossa, mi aveva spiegato il mio capo. Il proprietario aveva chiamato la polizia. La polizia aveva chiamato il coroner. Il coroner aveva chiamato l'Istituto di medicina legale. LaManche mi aveva chiesto di andare a controllare. «Oggi?» «S'il vous plaît.» «Domani devo deporre in tribunale.» «Il processo Pétit?» Annuii. «Quasi sicuramente si tratta di resti animali» aveva detto LaManche nel suo elegante francese parigino. «Non dovrebbe essere una faccenda lunga.» «Dove?»
LaManche aveva letto l'indirizzo da un foglietto che aveva in mano. Rue Sainte-Catherine, qualche isolato a est di Centre-Ville. Territorio della CUM. Claudel. Il pensiero di lavorare con Claudel aveva prodotto la prima imprecazione della giornata. Nella città di Montréal i tutori dell'ordine appartengono a due diversi corpi di polizia: la SQ e la CUM. La Sûreté du Québec è la polizia provinciale e ha giurisdizione su tutto il territorio nazionale e nelle cittadine dove mancano i corpi municipali, mentre la Police de la Communauté Urbaine de Montréal è la polizia municipale di Montréal e opera essenzialmente nella zona dell'isola sul San Lorenzo. I detective Luc Claudel e Michel Charbonneau lavorano nella Squadra Omicidi della CUM. Come antropologa forense della provincia del Québec, negli anni mi è capitato di lavorare con entrambi. Con Charbonneau, l'esperienza è sempre un piacere; con Claudel, l'esperienza è sempre... un'esperienza. Pur essendo un ottimo poliziotto, Luc Claudel ha la pazienza di un petardo, la sensibilità di Jack lo Squartatore e un persistente scetticismo nei confronti dell'antropologia forense. A parte questo, è sempre elegante come un damerino. Al mio arrivo nella cantina della pizzeria, due ore prima, avevo trovato la cassa di bibite Dottor Energy già riempita con le ossa non interrate. Claudel non mi aveva ancora fornito tutti i particolari del caso, ma avevo immaginato che le ossa fossero state rimosse dal proprietario, forse aiutato dallo sfortunato idraulico. Il mio primo compito era stato stabilire se i resti erano umani. Lo erano. La scoperta aveva prodotto la seconda imprecazione della giornata. Il compito successivo era scoprire se sotto il pavimento dello scantinato qualcun altro riposava in pace. Avevo iniziato utilizzando tre diverse tecniche esplorative. L'illuminazione orizzontale del pavimento con il fascio di luce di una torcia aveva rivelato alcune depressioni della terra battuta. Il conseguente sondaggio delle depressioni aveva prodotto una certa resistenza, che suggeriva la presenza di oggetti sotto la superficie. Dagli scavi di prova erano affiorate alcune ossa umane. Pessima notizia per il ripasso in tutto relax del caso Pétit. Quando avevo messo a parte i due detective delle mie conclusioni, Claudel e Charbonne-
au avevano reagito con le imprecazioni tre, quattro e cinque. Subito era stata convocata la Scientifica e le operazioni di routine erano iniziate. Illuminazione. Fotografie. Interrogatorio del proprietario e del suo aiutante. Il pavimento dello scantinato era stato ispezionato con un'apparecchiatura laser penetrante, o GPR. Il GPR aveva rivelato interferenze nel sottosuolo a dieci centimetri di profondità sotto ogni avvallamento. A parte questo, lo scantinato era pulito. Mentre i tecnici della Scientifica facevano una pausa e Claudel e la sua semiautomatica decidevano di dichiarare guerra ai topi, io creai una semplice griglia a quattro quadranti. Stavo fissando l'ultimo cordino all'ultimo piolo quando Claudel si trasformò in Rambo e iniziò la sua battaglia contro i topi. E adesso? Dovevo aspettare che tornassero quelli della Scientifica? Faceva troppo freddo. Utilizzando le apparecchiature della Scientifica, scattai alcune foto e girai un breve video. Dopodiché, cercai di riattivare la circolazione strofinandomi energicamente le mani, mi rimisi i guanti e, accovacciata sul pavimento, iniziai a rimuovere la terra con una paletta dal quadrante A-1. Mentre scavavo, mi sentii assalire dalle variegate emozioni che sempre mi coglievano in simili occasioni. I sensi all'erta. L'intensa curiosità. E se non era niente? E se invece era qualcosa? L'ansia. E se avessi compromesso un indizio cruciale? Pensai ad altri scavi. Ad altre morti. Un'aspirante santa in una chiesa andata a fuoco. Un'adolescente decapitata nel covo di una banda di biker. Due tossici crivellati di colpi sepolti sul greto di un fiume. Non so da quanto tempo stavo scavando, quando tornarono i tecnici della Scientifica. Il più alto mi porse un bicchiere di polistirolo. Esplorai la mia memoria in cerca del suo nome. Racine. Radice. Lungo e sottile come una radice. I miei neuroni funzionavano ancora. Rene Racine. Uno nuovo. Avevamo già lavorato insieme a qualche recupero. Il collega più basso era Pierre Gilbert. Lo conoscevo da una decina d'anni. Sorseggiando caffè tiepido, spiegai che cosa avevo fatto in loro assenza. Poi chiesi a Gilbert di filmare e di spostare la terra. A Racine di setacciare. Dopodiché tornai alla griglia. Quando ebbi finito con il quadrante A-1, che avevo scavato per circa set-
te centimetri, passai al quadrante B-1. Poi al C-1 e infine al D-1. Nient'altro che terra. Okay. Il GPR rivelò un'anomalia a una decina di centimetri sotto la superficie. Continuai a scavare. Le dita dei piedi e delle mani si erano addormentate. Persi la nozione del tempo. Gilbert trasportava secchi di terra dalla griglia al setaccio. Racine setacciava. Di tanto in tanto Gilbert filmava o scattava una fotografia. Quando tutta la griglia fu scavata per più o meno sette centimetri, tornai al quadrante A-1. Quando raggiunsi una profondità di circa quindici centimetri cambiai quadrante, come avevo fatto precedentemente. Dopo due palettate nel quadrante B-1, notai una variazione nel colore del terreno. Chiesi a Gilbert di riposizionare le luci. Un'occhiata, e il cuore saltò un battito. «Bingo!» Gilbert si accovacciò accanto a me. Racine lo raggiunse. «Quoi?» domandò Gilbert. Passai la punta della paletta lungo il margine esterno della chiazza che affiorava nel quadrante B-1. «Qui la terra è più scura» osservò Racine. «Questa macchia indica un processo di decomposizione» spiegai. I due tecnici mi guardarono. Indicai i quadranti C-1 e D-1. «Là sotto qualcosa o qualcuno sta affondando nel terreno.» «Devo avvertire Claudel?» domandò Gilbert. «Direi di sì.» Quattro ore dopo avevo le dita completamente congelate. Nonostante mi fossi imbacuccata con sciarpa e cappello, nonostante il mio giaccone cento per cento microfibra foderato in lana merino e garantito fino a quaranta gradi sottozero, tremavo come una foglia. Gilbert si spostava in continuazione per lo scantinato scattando e filmando da tutte le angolazioni possibili. Racine osservava, le mani nascoste sotto le ascelle in cerca di calore. I due tecnici sembravano perfettamente a loro agio nelle loro tenute da inverno artico. I due investigatori della Omicidi, Claudel e Charbonneau, aspettavano uno accanto all'altro, gambe divaricate e mani unite davanti ai genitali. In-
dossavano entrambi cappotto nero di lana e guanti neri di pelle. Nessuno dei due aveva l'aria contenta. Otto topi morti decoravano i bordi del pavimento. La buca dell'idraulico e due avvallamenti erano stati scavati per circa sessanta centimetri. La prima aveva restituito alcune ossa dimenticate dall'idraulico e dal proprietario della pizzeria. Gli scavi degli avvallamenti erano un'altra storia. Lo scheletro sotto la griglia numero 1 giaceva in posizione fetale. Non aveva vestiti addosso e la setacciatura del terreno non aveva restituito alcun oggetto. L'individuo sotto la griglia numero 2 era stato legato prima di essere sotterrato. Le parti visibili erano del tutto scheletrizzate. Dopo aver pulito le ultime particelle di terra dai resti del secondo individuo, posai il pennello, mi alzai e saltellai per qualche secondo per scaldarmi i piedi. «Quella è una coperta?» domandò Charbonneau. La sua voce suonò roca per il freddo. «Si direbbe qualcosa di pelle, o di cuoio» risposi. Il detective indicò la cassa di Dottor Energy con il dito. «Quelli sono i resti del tizio là sotto?» Il tenente Michel Charbonneau era nato a Chicotoumi, sulle rive del San Lorenzo, a sei ore di strada da Montréal, in una regione nota con il nome di Saguenay. Prima di entrare nella CUM, aveva lavorato per diversi anni nei campi petroliferi del Texas occidentale. Fiero della sua gioventù nel selvaggio West, Charbonneau mi parlava sempre nella mia lingua madre. In effetti il suo inglese era buono, anche se quasi sempre le parole erano accentate nel modo sbagliato e le sue frasi contenevano più slang delle canzoni di un rapper del Bronx. «Speriamo.» «Speriamo?» Dalla bocca di Claudel uscì una nuvoletta di vapore. «Proprio così, monsieur Claudel. Speriamo.» Claudel fece per ribattere, ma poi optò per il silenzio. Quando Gilbert finì di filmare i resti legati, mi inginocchiai e tirai leggermente un lémbo dell'involucro di cuoio. Che si lacerò. Dopo aver sostituito i guanti di lana con quelli in lattice, mi sporsi in avanti e iniziai a liberare un intero angolo di cuoio, e con grande cautela lo separai dal contenuto, lo sollevai e poi lo arrotolai su se stesso. Dopo aver interamente sollevato lo strato esterno, procedetti con quello
interno. In alcuni punti, le fibre aderivano allo scheletro. Nonostante le mani tremanti per il freddo e per la tensione, riuscii a staccare con il bisturi tutto lo strato di cuoio. «Che cos'è quella roba bianca?» domandò Racine. «Adipocera.» «Adipocera?» «Sì. È il grasso che si forma nei cadaveri.» Non avevo l'umore giusto per una lezione di biochimica. «Gli acidi grassi e i saponi di calcio dei muscoli e dei grassi stessi subiscono una trasformazione chimica, in genere dopo una lunga sepoltura o dopo una lunga immersione in acqua.» «Perché nell'altro scheletro non c'è?» «Non lo so.» Claudel sbuffò. Lo ignorai. Quindici minuti dopo avevo completamente staccato e sollevato lo strato interno, esponendo l'intero scheletro. Il cranio era presente, anche se danneggiato. «Tre teste, tre persone» affermò Charbonneau. «Tabernouche!» imprecò Claudel. «Maledizione!» imprecai io. Gilbert e Racine non parlarono. «Lei ha qualche idea in merito, dottoressa?» mi domandò Charbonneau. Mi alzai in piedi. Quattro paia di occhi mi seguirono mentre mi spostavo verso la cassa del Dottor Energy. Lentamente, sollevai i due bacini e li esaminai. Poi feci altrettanto con i crani. Santo cielo!, pensai. Posai le ossa, andai al secondo scavo e studiai ancora i frammenti del cranio appena rinvenuto. No. Ancora una volta. Le vittime universali. Spostai delicatamente la porzione destra del bacino. Dalla bocca delle cinque persone presenti continuavano a uscire nuvolette di vapore. Seduta sui talloni, pulii la terra dalla sinfisi pubica. E una sensazione di gelo mi calò sul petto. Tre donne. Tre ragazze. 2
Il martedì, quando aprii gli occhi svegliata dal bollettino meteorologico del giornale radio, capii subito che dovevo aspettarmi una giornata gelida. Non l'occasionale freddo umido di cui ci lamentiamo a gennaio in North Carolina, ma una temperatura di parecchi gradi sotto lo zero. Un freddo polare. Un freddo del tipo «se mi fermo muoio e divento cibo per i lupi». Adoro Montréal. Adoro la sua collinetta, il vecchio porto, il quartiere di Little Italy, Chinatown, il Gay Village, i grattacieli di vetro e acciaio di Centre-Ville, l'intreccio di vicoli dei quartieri vecchi con le case di pietra grigia e le scalette impossibili. Montréal è una città sempre in lotta con se stessa, una città di contraddizioni. Anglofona e francofona. Separatista e federalista. Cattolica e protestante. Vecchia e nuova. La trovo davvero affascinante. Adoro il suo multiculturalismo, fatto anche di empenada e di falafel, di poutine e di KongPao. Il pub irlandese Hurley's. Il Katsura. L'Express. Fairmont Bagel. La Trattoria Trastevere. Non manco mai di partecipare all'infinito programma di eventi offerto dalla città. Le Festival International de Jazz, Les Fêtes Gourmandes Internationales, Le Festival International des Films du Monde, la mostra degli insetti chiamata Insectarium. Frequento i grandi magazzini di Rue SainteCatherine, i mercati all'aperto delle zone di Jean Talon e di Atwater, i negozietti di antiquariato lungo Nôtre-Dame. Visito i musei, faccio i picnic nei parchi, vado in bicicletta lungo il Lachine Canal. E mi godo tutto questo con gioia infinita. Mentre non mi godo affatto il clima da novembre a maggio. Lo ammetto. Ho vissuto troppo tempo al sud. Detesto patire il freddo. Non ho pazienza per il ghiaccio e per la neve. Tenetevi pure stivali, giacconi e piste di pattinaggio e datemi calzoncini, sandali e crema solare a schermo totale. Birdie, il mio gatto, è d'accordo con me. Quando mi alzai a sedere sul letto, lui inarcò la schiena e si infilò all'istante sotto le coperte. Con un sorriso, guardai il suo corpo sinuoso arrotolarsi in una ciambella compatta. Birdie. Il mio unico e più fedele compagno. «Ti capisco» dissi, e spensi la radio. La ciambella si arrotolò ancora di più. Guardai l'ora. Le cinque e mezzo. Lanciai un'occhiata fuori dalla finestra. Buio pesto. Schizzai in bagno. Venti minuti dopo ero seduta al tavolo della cucina, con una tazza di caf-
fè a destra e il fascicolo del caso Pétit a sinistra. Marie-Reine Pétit era una madre di tre figli di quarantadue anni che faceva la commessa in una boulangerie. Due anni prima era scomparsa. E quattro mesi dopo il suo busto in decomposizione era stato scoperto in una sacca da hockey in un capanno degli attrezzi dietro la casa dei Pétit. La testa e gli arti erano stati occultati non lontano in un'altra sacca da hockey. Dalla perquisizione del seminterrato dei Pétit erano risultati seghe, seghetti e altri attrezzi da taglio. L'esame che avevo eseguito sulle ossa di Marie-Reine Pétit per stabilire se i segni visibili su di esse potevano derivare da uno degli attrezzi del marito aveva dato esito positivo. Erano stati lasciati dal seghetto da ferro. E Rejean Pétit era stato accusato dell'omicidio della moglie. Due ore e tre caffè dopo, raccolsi le fotografie e la documentazione e ricontrollai la convocazione del tribunale in qualità di testimone. ...de comparaître personnellement devant la Cour du Québec, chambre criminelle et pénal, au Palais de justice de Montréal, à 9:00 heures le 3 décembre... Magnifico. Invitata a testimoniare di persona. Un invito che non si poteva rifiutare. Come quello dell'ufficio delle tasse. Non era neppure necessario rispondere. Presi nota del numero dell'aula di tribunale. Mi infilai gli stivali e il giaccone imbottito, presi guanti, cappello e sciarpa, inserii l'antifurto della casa e andai in garage. Birdie non si era ancora mosso da sotto le coperte. Probabilmente il mio gatto aveva approfittato di una colazione antelucana. La mia vecchia Mazda partì al primo colpo. Buon segno. In cima alla rampa del garage, frenai troppo bruscamente e imboccai la stradina sgommando come un ragazzino sulla slitta. Brutto segno. Ora di punta. Le strade erano intasate e ogni veicolo in transito schizzava ventagli di neve e fanghiglia. Il sole del primo mattino aveva appannato il mio parabrezza spruzzato di sale. Nonostante i tergicristalli e i continui spruzzi d'acqua, mi ritrovai a percorrere interi tratti completamente alla cieca. Dopo alcuni isolati, mi pentii di non aver preso un taxi. Verso la fine del Sedicesimo secolo, un gruppo di irochesi laurenziani fissarono la loro dimora presso un villaggio che chiamarono Hochelaga, situato tra una collinetta e un grande fiume, appena oltre l'ultimo tratto di ra-
pide pericolose. Nel 1642, alcuni missionari e avventurieri francesi giunsero al villaggio e vi si stabilirono. I francesi chiamarono il loro avamposto Ville-Marie. Nel corso dei secoli, i residenti di Ville-Marie aumentarono, e il villaggio si trasformò in una città con strade lastricate e grandi edifici. La città prese il nome della collina alle sue spalle, il Mont Réal. Il fiume fu chiamato San Lorenzo. Benvenuti europei. Addio popoli nativi. Oggi l'antico nucleo Hochelaga/Ville-Marie è noto con il nome di vieux Montréal. E i turisti lo adorano. Adagiata alle pendici della collinetta, la Vecchia Montréal è un borgo molto pittoresco, illuminato da lampade a gas, percorso da carrozze a cavalli e punteggiato di bancarelle e di caffè all'aperto. I solidi edifici di pietra che furono costruiti dai coloni insieme a scuderie, botteghe e magazzini oggi ospitano musei, negozi, gallerie e ristoranti, e le strade acciottolate sono strette e tortuose come allora. E non offrono alcuna possibilità di parcheggio. Pentendomi ancora una volta di non aver preso un taxi, lasciai la mia auto in un parcheggio a pagamento e percorsi rapidamente a piedi Boulevard Saint-Laurent fino al Palais de Justice, situato al numero 1 di Rue NôtreDame, la via che delimitava a nord il centro storico. Sentivo il sale scricchiolarmi sotto gli stivali. Il mio respiro si congelava sui lembi della sciarpa. Notai che i piccioni mi ignoravano e rimanevano stretti l'uno all'altro, preferendo il calore collettivo alla sicurezza del volo. Mentre camminavo, pensai agli scheletri nello scantinato della pizzeria. Chissà se quelle ossa appartenevano veramente a delle ragazze. Sperai di no, ma dentro di me conoscevo già la risposta. Pensai anche a Marie-Reine Pétit, e mi addolorò l'idea di quella vita interrotta da un'inspiegabile cattiveria. Pensai ai suoi figli. Al padre in carcere accusato di aver ucciso la madre. Quei bambini avrebbero mai potuto riprendersi da una simile sciagura? O sarebbero rimasti irrimediabilmente segnati dall'orrore che si era spalancato davanti a loro? Arrivata vicino al Palais de Justice, lanciai uno sguardo al McDonald's di fronte all'edificio, sul Boulevard Saint-Laurent. I proprietari avevano tentato di uniformasi allo stile dei primi coloni, rinunciando agli archi e inserendo dei tendoni azzurri. Il risultato era discutibile, ma almeno ci avevano provato. Al contrario, gli architetti del tribunale di Montréal non si erano impe-
gnati molto nel tentativo di armonizzare il loro edificio a quelli preesistenti. I piani inferiori consistevano in una scatola oblunga coperta di barre nere verticali che sporgeva su un'altra scatola più piccola e dalla facciata interamente in vetro. I piani superiori svettavano verso il cielo come un anonimo monolito. L'edificio si inseriva nel contesto come una Porsche parcheggiata in una comunità Amish. L'interno del Palais era affollatissimo. Cercai di farmi largo tra una folla di signore in pellicce alla caviglia, di ragazzi con vestiti grandi a sufficienza per coprire un gigante, uomini in giacca e cravatta, avvocati e giudici in abito scuro. Alcuni aspettavano. Altri correvano. Non c'erano vie di mezzo. Aggirando enormi fioriere e piantane cariche di luci da palcoscenico, mi avvicinai a un gruppo di ascensori in fondo all'atrio. Dall'attiguo Café Vienne arrivava un allettante aroma di caffè. Nonostante la tensione, pensai per un attimo di fermarmi a bere il quarto caffè della giornata, ma poi saggiamente rinunciai. Di sopra, l'atmosfera era molto simile a quella che avevo trovato nell'atrio, anche se le persone in attesa erano in maggioranza. Qualcuno sedeva su panche in metallo rosso, altri ciondolavano appoggiati alle pareti, altri ancora chiacchieravano in piedi a voce bassa. Qualcuno parlava con gli avvocati nelle salette degli interrogatori che si affacciavano sul corridoio. Nessuno aveva l'aria felice. Mi sedetti su un sedile fuori dall'aula 4.01 e presi dalla portadocumenti il fascicolo del caso Pétit. Una decina di minuti dopo Louise Cloutier uscì dall'aula del tribunale. Con i lunghi capelli biondi e gli enormi occhiali, il pubblico ministero non dimostrava più di diciassette anni. «Lei dovrebbe essere il mio primo testimone, giusto?» Louise Cloutier sembrava piuttosto tesa. «Sono pronta» dissi. «La sua testimonianza sembra essere fondamentale.» Il pubblico ministero giocherellò nervosamente con una graffetta. Avrebbe voluto vedermi il giorno prima, ma il recupero degli scheletri nella pizzeria aveva reso impossibile il nostro incontro. E la telefonata avuta in tarda serata non aveva prodotto il livello di preparazione che l'avvocato auspicava. Cercai di rassicurarla. «Non mi è stato possibile riferire i segni sulle ossa di Marie-Reine Pétit a un seghetto in particolare, ma posso affermare con sicurezza che derivano tutti dallo stesso attrezzo.» Louise Cloutier annuì. «Quindi corrispondono.»
«Esattamente» confermai. «La sua testimonianza sarà cruciale, perché nella sua prima deposizione, Rejean Pétit sostiene di non aver mai visto quel seghetto. Un analista dell'Istituto di medicina legale dichiarerà che dopo aver rimosso il manico dell'attrezzo, ha trovato minuscole tracce di sangue nella scanalatura del perno a vite.» Louise Cloutier mi aveva già informato di questo durante la telefonata della sera prima. Ma mi rendevo conto che l'avvocato stava verbalizzando le accuse contro Pétit più per se stessa che per me. «Un esperto nell'analisi del DNA testimonierà che il sangue di quelle tracce appartiene a Pétit. E questo lo lega inevitabilmente al seghetto.» «Mentre io legherò il seghetto alla vittima.» Cloutier annuì. «Questo giudice è un vero rompiballe riguardo gli esperti che chiamiamo a deporre.» «Non sono tutti così, i giudici?» L'avvocato sorrise nervosamente. «L'usciere la chiamerà tra cinque minuti.» In realtà ne passarono quasi venti. L'aula era un'anonima e tipica aula di tribunale. Pareti grigie. Moquette grigia. Lunghe panche coperte da imbottiture in tessuto grigio. Gli unici colori erano al centro del palcoscenico, dietro il cancelletto che separava il pubblico dagli addetti ai lavori. Le poltroncine degli avvocati foderate in tessuto rosso, giallo e marrone. Il blu, il rosso e il bianco delle bandiere del Québec e del Canada. Le panche riservate agli spettatori erano occupate da una decina di persone. Molti occhi mi seguirono mentre mi avvicinavo al centro dell'aula e salivo sul banco dei testimoni. Avevo il giudice alla mia sinistra, la giuria di fronte, e l'imputato, Pétit, alla mia destra. Avevo già deposto in tribunale in qualità di esperto altre volte. Mi sono trovata di fronte a uomini e donne accusati di crimini orrendi. Omicidio. Stupro. Tortura. Smembramento di cadaveri. E gli imputati mi lasciano sempre annichilita. Quello non faceva eccezione. Rejean Pétit era un uomo comune. Perfino timido. Avrebbe potuto essere uno dei miei zii. L'usciere mi fece giurare. Louise Cloutier si alzò e iniziò a interrogarmi dal banco della pubblica accusa. «Per favore, dica il suo nome completo.» «Temperance Daessee Brennan.»
I microfoni in cui parlavamo scendevano dal soffitto, e le nostre voci erano l'unico suono che si udiva nell'aula. «Qual è la sua professione?» «Sono un'antropologa forense.» «Da quanto tempo esercita la sua professione?» «Da circa vent'anni.» «Dove esercita la sua professione?» «Sono professore ordinario presso la University of North Carolina di Charlotte. Lavoro come antropologa forense per la provincia del Québec presso il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale di Montréal, e per lo Stato del North Carolina presso l'Office of the Chief Medical Examiner di Chapel Hill.» «È cittadina americana?» «Sì. Ma ho un permesso di lavoro rilasciato dallo Stato canadese. Lavoro sia qui a Montréal sia a Charlotte, in North Carolina.» «Come mai una cittadina americana lavora come antropologa forense per la provincia del Québec?» «Perché non esiste un cittadino canadese che abbia l'abilitazione a questa professione e al tempo stesso parli correntemente il francese.» «Parleremo in seguito della sua abilitazione. Adesso vorrebbe descriverci la sua formazione?» «Ho conseguito la laurea in antropologia presso la American University di Washington e il dottorato in Antropologia biologica presso la Northwestern University di Evanston, in Illinois.» Seguì una serie infinita di domande sulla mia carriera universitaria, dai corsi frequentati agli argomenti della tesi e del dottorato, dalle ricerche, ai riconoscimenti ottenuti, alle pubblicazioni. Dove? Quando? Con chi? Quali riviste? Per un attimo ho pensato che mi avrebbero chiesto anche il colore delle mutande che indossavo il giorno della laurea. «Ha pubblicato qualche libro, dottoressa Brennan?» Citai l'elenco completo. «Appartiene a qualche associazione professionale?» Citai anche queste. «Ha mai avuto qualche incarico specifico all'interno di tali associazioni?» Altro elenco. «Lei è abilitata allo svolgimento della sua professione da qualche organismo ufficiale?»
«Sono abilitata dall'American Board of Forensic Anthropology.» «Vuole spiegare alla corte che cosa significa?» Descrissi l'iter di ammissione, dalla presentazione della domanda, all'esame dei titoli, all'accertamento della deontologia del candidato; inoltre spiegai l'importanza di tali organismi nel valutare la competenza di chi offre la propria collaborazione come esperto del settore. «Oltre agli istituti di medicina legale del Québec e del North Carolina, esistono altri contesti in cui lei svolge la sua attività professionale?» «Ho lavorato per le Nazioni Unite, per il Military Central Identification Laboratory degli Stati Uniti di Honolulu, come istruttore presso l'Accademia dell'FBI di Quantico, come istruttore presso l'Accademia della Royal Canadian Mounted Police a Ottawa. Sono membro della National Disaster Mortuary Response Team degli Stati Uniti. Saltuariamente, lavoro anche come consulente per clienti privati.» La giuria ascoltava immobile, forse affascinata, forse addormentata. L'avvocato di Pétit non prendeva appunti. «Potrebbe spiegarci, dottoressa Brennan, in che cosa consiste esattamente il lavoro di un antropologo?» Parlai direttamente alla giuria. «Gli antropologi forensi sono specialisti dello scheletro umano. In genere, ma non sempre, ci occupiamo di un caso perché contattati dall'anatomo-patologo. La nostra consulenza viene richiesta quando una normale autopsia, eseguita su organi e tessuti molli, può essere eseguita solo in modo parziale o non può essere eseguita affatto. In questi casi, è necessario ricorrere all'esame delle ossa per fornire una risposta a domande cruciali.» «Che genere di domande?» «Quasi sempre domande che riguardano l'identità della vittima, le modalità del decesso, eventuali mutilazioni postmortem o altre anomalie.» «In che modo l'antropologo contribuisce a determinare l'identità della vittima?» «Attraverso l'esame dello scheletro siamo in grado di stilare il profilo biologico della salma, che comprende l'età, il sesso, la razza, l'altezza. In alcuni casi, siamo anche in grado di confrontare alcune caratteristiche anatomiche osservate su un individuo sconosciuto con caratteristiche simili presenti su radiografie antemortem di un individuo conosciuto.» «Ma gran parte delle identificazioni non vengono eseguite con l'ausilio delle impronte digitali, del DNA O della documentazione odontoiatrica?» «Sì. Ma per utilizzare le informazioni delle cartelle mediche o della do-
cumentazione odontoiatrica prima è necessario restringere il più possibile il campione su cui effettuare le analisi. Avvalendosi del profilo antropologico, gli investigatori possono cercare negli archivi delle persone scomparse, trovare dei nomi e ottenere la documentazione individuale per poi mettere a confronto i dati relativi ai resti rinvenuti. Spesso noi antropologi forniamo un primo livello di analisi su resti appartenenti a persone completamente sconosciute.» «In che modo invece vengono stabilite le modalità del decesso?» «Analizzando il tipo e la localizzazione delle fratture, l'antropologo è in grado di ricostruire gli eventi che possono avere causato ferite o lesioni particolari.» «Che tipo di ferite esamina in genere, dottoressa Brennan?» «Ferite da arma da fuoco. Ferite da taglio. Ferite da corpi contundenti. Strangolamenti. Ma ancora una volta devo sottolineare che questo genere di perizie vengono richieste solo nel caso in cui il corpo sia compromesso in modo tale da impedire il normale esame autoptico degli organi e dei tessuti molli.» «Che cosa intende quando dice che il corpo è compromesso?» «Mi riferisco a un corpo decomposto, bruciato, mummificato, scheletrizzato...» «Anche smembrato?» «Sì.» «Grazie, dottoressa.» Avevo finalmente attirato l'attenzione della giuria. Tre persone mi fissavano con gli occhi sgranati. Una donna seduta in seconda fila si teneva una mano davanti alla bocca. «Avete già testimoniato presso altre corti della provincia del Québec o di altri Stati in qualità di esperta durante un processo penale?» «Sì. Molte volte.» Cloutier si rivolse al giudice. «Vostro onore, invitiamo la dottoressa Brennan a deporre in qualità di esperta nel campo dell'antropologia forense.» La difesa non sollevò alcuna obiezione. Potevamo iniziare. A metà del pomeriggio Louise Cloutier concluse il mio interrogatorio. Quando l'avvocato della difesa si alzò sentii una stretta allo stomaco. Adesso arriva il brutto, pensai. Diffidenza, trabocchetti e generica cattiveria.
L'avvocato di Pétit fu organizzato e corretto. E concluse entro le cinque. Per come si sarebbero messe le cose, il suo controinterrogatorio non fu niente in confronto a quello che mi aspettava nello scantinato della pizzeria. 3 Era già buio quando uscii dal palazzo di giustizia. Gli alberi di Rue Nôtre-Dame erano illuminati da festoni di lucine bianche; un calesse mi passò davanti, tirato da un cavallo con paraocchi rossi e un rametto d'abete infilato nei finimenti. I fiocchi di neve fluttuavano intorno ai finti lampioni a gas. Bonne fête! Natale in Québec. Le strade erano di nuovo intasate dal traffico, come al mattino. Salii in auto e lentamente iniziai a risalire lungo Boulevard Saint-Laurent, ancora tesa per la mia deposizione. Le mie dita tamburellavano sul voltante. La mente non riusciva a fermarsi, e i pensieri continuavano a rimbalzare da una vicenda all'altra. La mia testimonianza in tribunale. Gli scheletri nello scantinato della pizzeria. Mia figlia. La serata che mi aspettava. Cosa avrei potuto dire di più alla giuria? Le mie spiegazioni potevano essere più chiare? Avevano capito? Avrebbero condannato quel bastardo di Pétit? Che cosa avrei scoperto in Istituto l'indomani mattina? Gli scheletri si sarebbero rivelati quello che già sospettavo? Claudel sarebbe stato sgradevole come sempre? Perché mia figlia Katy era infelice? L'ultima volta che ci eravamo sentite, aveva lasciato intendere che le cose non andavano benissimo a Charlottesville. Sarebbe riuscita a finire l'ultimo anno di università? Oppure a Natale mi avrebbe annunciato che intendeva lasciare gli studi senza laurearsi? Come sarebbe andata la cena che mi aspettava quella sera? Il mio recente amore stava per implodere? Era vero amore? All'incrocio con Rue de la Gauchetière passai sotto la porta con il drago ed entrai in Chinatown. I negozi stavano chiudendo e gli ultimi pedoni si affrettavano a rientrare a casa, la testa avvolta nella sciarpa e la schiena curva per il freddo. La domenica, a Chinatown regna la strana atmosfera di un bazar. I risto-
ranti servono Dim Sum e se il tempo è clemente, fuori dalle botteghe spuntano bancarelle cariche di prodotti esotici, di uova conservate, di pesce essiccato, di erbe aromatiche cinesi. Nei giorni di festa, si susseguono le danze dei draghi, le dimostrazioni di arti marziali, i fuochi di artificio. Ma il lunedì, tutto cambia e c'è spazio solo per gli affari. I pensieri tornarono a mia figlia. Katy adorava quel quartiere. Quando veniva a Montréal un giro a Chinatown non poteva mai mancare. Prima di svoltare sulla René-Lévesque, lanciai un'occhiata all'incrocio che avevo di fronte. Come Rue Nôtre-Dame, la Main era tutto uno splendore di addobbi natalizi. Il San Lorenzo. La Main. Un secolo fa, la principale arteria commerciale della città. E sosta obbligata per i gruppi di immigranti. Irlandesi. Portoghesi. Italiani. Ebrei. A prescindere dal Paese di origine, gran parte dei nuovi arrivati a Montréal trovavano la loro prima dimora nelle vie e nei viali intorno a Boulevard Saint-Laurent. Mentre aspettavo ferma al semaforo della Peel, un uomo passò davanti ai miei fanali. Alto, la pelle arrossata dal freddo, i capelli biondi e scompigliati dal vento. Associazione mentale. Andrew Ryan, tenente della Section de Crimes contre la Personne, Sûreté du Québec. La mia prima storia d'amore dopo la fine del mio ventennale matrimonio. Una relazione destinata a essere la più breve della storia? Le mie dita presero a tamburellare sempre più veloci. Poiché Ryan lavora per la Squadra Omicidi e io lavoro per l'obitorio, è molto facile che le nostre vite professionali si incrocino. Io identifico le vittime. Lui inchioda i cattivi. Da una decina d'anni ci occupiamo entrambi di biker, di gang giovanili, di sette, di psicopatici e di uomini che detestavano genuinamente le loro spose. Nel corso degli anni avevo sentito moltissimi racconti sul passato di Ryan. Sulla sua giovinezza violenta. Sulla sua conversione e conseguente passaggio tra le fila dei buoni. Sulla sua fulgida carriera nella polizia di Stato. Anche molti racconti sul suo presente. Che invariabilmente vertevano sullo stesso argomento. Il ragazzo si dava un gran daffare. E spesso aveva lasciato intendere di volersi dar daffare anche con me. Ma io sono decisamente contraria alle storie d'amore tra colleghi. Del resto non è raro che le idee di Ryan non coincidano con le mie. E
poi a lui piacciono molto le sfide. Ryan insisteva, io tenevo duro. Attacchi reiterati. Resistenza passiva. Anche se ormai ero separata da due anni, sapevo che non sarei mai tornata con Pete, il mio ex marito, e Ryan mi piaceva moltissimo. Era intelligente, sensibile e sexy da impazzire. Quattro mesi prima. In Guatemala. Un momento emotivamente molto difficile per tutti e due. Decido di rivedere le mie posizioni. Invito Ryan a casa mia, nel North Carolina. Mi compro la biancheria intima più striminzita che trovo, un tubino nero che avrebbe steso qualsiasi uomo e mi butto. Ryan e io passiamo una settimana al mare e non vediamo quasi mai l'oceano. Né il tubino nero, se è per questo. Sentii uno strano sfarfallio nello stomaco, come sempre quando pensavo a Ryan. E a quella settimana al mare insieme. E per allungare la lista dei suoi pregi, il ragazzo a letto non era niente male. Da agosto, eravamo se non proprio fidanzati, sicuramente amanti. Amanti clandestini. Ci piaceva tenere la cosa per noi. Le ore passate insieme rispettavano tutti i cliché delle commedie romantiche. Passeggiate mano nella mano. Coccole davanti al fuoco. Corse nei parchi. Sesso sfrenato. Allora perché quella sensazione che qualcosa non funzionasse? Mentre svoltavo sulla Guy, riflettei qualche istante. Dopo il ritorno di Ryan a Montréal dal North Carolina, c'erano state molte e lunghe telefonate notturne. Ma di recente, la frequenza di quelle telefonate era diminuita. Non è poi così grave, Brennan. Torni a Montréal tutti i mesi. Vero. Ma durante l'ultimo viaggio, Ryan era stato meno disponibile del solito. Era molto preso dal lavoro, aveva detto. Chissà se era veramente così? Ero stata così felice con lui. Mi era sfuggito qualche segnale? O magari avevo male interpretato? Per caso Ryan stava cercando di prendere le distanze? Avevo forse immaginato tutto, fantasticando come l'eroina di un fumetto romantico di serie B? Per distrarmi, accesi la radio. Daniel Bélanger cantava Sèche tes pleurs. Asciuga le tue lacrime. Ottima idea, Daniel.
Cominciò a nevicare fitto fitto. Avviai i tergicristalli e mi concentrai sulla guida. Quando ci vediamo per cena, in genere cucina Ryan, anche se siamo a casa mia. Quella sera, però, mi ero offerta volontaria. Sono una brava cuoca, ma non so cucinare a istinto. Ho bisogno delle ricette. Arrivai a casa alle sei e subito dedicai qualche minuto a Birdie, fornendogli un rapido ma dettagliato resoconto della mia giornata. Quindi presi la cartellina dove raccoglievo le ricette ritagliate dalla «Gazette» e diedi un'occhiata. Dopo una ricerca di ben cinque minuti, trovai quel che cercavo. Petti di pollo alla griglia con salsa di melone. Riso selvatico. Tortillas e insalata di arugula. La lista degli ingredienti era relativamente breve. Mi infilai il giaccone e andai a Le Faubourg Sainte-Catherine. Pollame. Verdure. Riso. Nessun problema. Mai provato a cercare un melone a dicembre in zona artica? Uno scambio di idee con l'addetto al magazzino risolse la crisi. Mi propose un cantalupo. Alle sette e un quarto avevo già preparato la salsa, il riso stava bollendo, il pollo era in forno e stavo mescolando l'insalata. Sinatra cantava dal mio lettore CD e io profumavo di Chanel No. 5. Ero pronta. Un paio di jeans rossi natalizi. Capelli dietro le orecchie, ciuffi vaporosi, ombretto orchidea e lavanda. Idea di Katy. Occhi nocciola, palpebre color lavanda. Sarei stata sfolgorante! Ryan arrivò alle sette e mezzo con una confezione da sei di birra Moosehead, una baguette e una piccola scatola bianca proveniente da una patisserie. Aveva il viso arrossato per il freddo e qualche fiocco di neve sui capelli e sulle spalle. Si chinò per baciarmi sulle labbra e poi mi strinse tra le braccia. «Sei carina.» Ryan mi strinse più forte. Sentii il profumo del suo dopobarba. «Grazie» dissi. Quando mi lasciò, si tolse il giaccone e lo gettò sul divano. Birdie saltò sul tappeto e schizzò in corridoio. «Oh, scusa. Non l'avevo visto» disse Ryan. «Sopravviverà.»
«Ehi, sei davvero molto carina.» Ryan mi accarezzò una guancia con le nocche. Sentii lo stomaco fare le capriole. «Anche tu non sei niente male, tenente.» Era vero. Ryan è un uomo alto e snello, con i capelli biondi e incredibili occhi azzurri. Quella sera indossava jeans e maglione irlandese. Discendo da generazioni di agricoltori e pescatori irlandesi e forse sarà una questione di DNA, ma agli occhi azzurri e ai maglioni con le trecce non so proprio resistere. «Cosa c'è nella scatola?» domandai. «Una sorpresa per lo chef.» Ryan staccò una birra dalla confezione e mise il resto in frigorifero. «Sento un buon profumino.» Sollevò il coperchio della casseruola con la salsa. «Salsa di melone. Una vera impresa trovarne uno in dicembre da queste parti.» «Che cosa ti servo, cara? Un drink? Una birra?» mi chiese Ryan fingendo di fumare il sigaro e assumendo un tono da alta società. «Il solito, caro.» Controllai il riso mentre Ryan prendeva la mia Diet Coke dal frigo. Quando me la porse, mi accorsi che stava sorridendo. «Allora, chi chiama di più?» «Prego?» «Agenti o talent scout?» Rimasi con la mano a mezz'aria. Avevo già capito che cosa stava per dirmi. «Dove?» «Sul "Journal de Montréal".» «Oggi?» Ryan annuì. «Prima pagina?» Ero costernata. «No. Quattordici. Foto a colori. Ottima inquadratura.» «Fotografie?» D'un tratto mi venne in mente un'immagine. Un ometto magro con un maglione lungo fino alle ginocchia. Una botola. Una macchina fotografica. Lo stronzetto della pizzeria si era venduto le foto. Quando lavoro a un caso, non rilascio mai interviste. Molti giornalisti per questo mi ritengono maleducata. Altri mi descrivono in termini più co-
loriti. Non mi interessa. Nel corso degli anni ho imparato a mie spese che le dichiarazioni inevitabilmente portano a citazioni errate. E le citazioni errate creano sempre problemi. E poi non vengo mai bene in fotografia. «Posso aprirti la Diet Coke?» Ryan mi prese la lattina di mano, sollevò la linguetta e me la porse. «Sono sicura che mi hai portato una copia del giornale» dissi, posando la lattina sul piano di lavoro e aprendo lo sportello del forno. «Per la sicurezza dei commensali, la copia verrà mostrata solo quando tutte le posate saranno sparite dalla circolazione.» Durante la cena raccontai a Ryan della mia giornata in tribunale. «Le recensioni sono buone» mi disse. Ryan può contare su una rete di spie da far invidia alla CIA. In genere viene a sapere tutto quello che faccio prima ancora che glielo racconti. E questo mi infastidisce da morire. E il divertimento di Ryan per l'articolo di giornale aveva già abbassato di molto la mia soglia di tolleranza all'irritazione. Lascia perdere, Brennan. Non prenderti troppo sul serio. «Davvero?» chiesi sorridendo. «La critica ti assegna quattro stelle.» Solo quattro? «Ah...» «Le voci di corridoio dicono che Pétit non ce la fa.» Non commentai. «Raccontami di questi scheletri nella pizzeria, invece» disse Ryan, cambiando argomento. «Come? Non hanno già pubblicato tutta la storia su "Le Journal"?» dissi ironica, servendomi altra insalata. «Veramente l'articolo è un po' vago. Posso avere anch'io dell'altra insalata?» Gli passai la terrina. Masticammo arugula per tre interi minuti. Poi Ryan ruppe il silenzio. «Allora, non hai proprio intenzione di raccontarmi delle tue ossa?» Lo guardai negli occhi. Il suo interesse sembrava sincero. Lo accontentai, ma il mio racconto fu stringato. Quando ebbi finito, Ryan si alzò e andò a prendere la pagina di giornale che aveva nel giaccone. Le fotografie erano state scattate dall'alto. Nella prima, stavo discutendo
con Claudel, guardandolo con aria irritata e con un dito puntato verso il soffitto. La seconda mi ritraeva a quattro zampe e con il fondoschiena all'aria. «Per caso sai come "Le Journal" si sia procurato queste foto?» domandò Ryan. «Dev'essere stato il viscido assistente del proprietario della pizzeria.» «Chi si occupa del caso? Claudel?» «Sì.» Raccolsi qualche briciola dal ripiano del tavolo. Ryan posò una mano sopra la mia. «Claudel è molto cambiato.» Non replicai. Ryan stava per aggiungere qualcosa, quando il suo cellulare trillò. Mi strinse la mano e dopo aver preso di tasca il telefono, controllò il display. Nel suo sguardo comparve un'ombra di fastidio. O di irritazione. O forse qualcosa che non riuscii a decifrare. «Scusami. Devo proprio rispondere» mi disse. Si alzò da tavola e si spostò in corridoio. Mentre sparecchiavo, non riuscii a evitare di sentire la conversazione. Le parole non erano chiare, ma il tono suggeriva agitazione. Dopo qualche minuto Ryan tornò in cucina. «Scusami, pasticcino. Ma devo andare.» «Devi andare?» Ero sconcertata. «Si tratta di una faccenda davvero ingrata.» «Non abbiamo mangiato la tua sorpresa.» Lo sguardo azzurro Irlanda non incrociò il mio. «Mi dispiace.» Un buffetto sulla guancia. E lo chef rimase solo con la sua sorpresa ancora intatta. 4 Mi svegliai depressa e senza sapere il perché. Perché ero sola? Perché il mio unico compagno era un gattone bianco? Non avevo pensato la mia vita in quel modo. Pete e io volevamo invecchiare insieme. E veleggiare insieme verso l'altro mondo. Ma poi il mio marito-per-sempre aveva pensato di dividere la sua felicità con un'agente immobiliare. E io mi ero presa una sbandata per la bottiglia. Pazienza, avrebbe detto Katy. La vita continua.
Fuori, la giornata era grigia, uggiosa e poco invitante. La sveglia diceva sette e dieci. Birdie non era in vista. In bagno, mi tolsi la camicia da notte e mi infilai sotto la doccia. Dopo una rapida e sommaria asciugatura dei capelli, passai all'igiene orale, e solo a quel punto Birdie mi onorò della sua presenza. Lo salutai, poi sorrisi allo specchio, valutando se fosse o meno una giornata da mascara. Poi mi tornò mente. La frettolosa ritirata di Ryan. Lo sguardo che colsi nei suoi occhi. Riposi lo spazzolino, tornai in camera da letto e guardai fuori dalla finestra. Spirali cristalline e geometrie di fiocchi di neve. Così delicate. Così fragili. Come le fantasie che mi ero costruita riguardo una possibile vita con Ryan? Ancora una volta mi chiesi che cosa stava succedendo. E perché mi comportavo come Doris Day in una delle sue commedie rosa. «Al diavolo, Doris» dissi a voce alta. Birdie mi guardò, ma tenne i suoi pensieri per sé. «E al diavolo anche a te, Andrew Ryan.» Tornai in bagno e abbondai con il mascara. Il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale occupa il dodicesimo e tredicesimo piano di un palazzo chiamato Édifice WilfridDerome situato nella zona di Hochelaga-Maisonneuve, a est del quartiere centrale di Centre-Ville. L'undicesimo piano è occupato dal Bureau du Coroner, l'obitorio si trova nel seminterrato. I piani intermedi appartengono alla SQ. Alle otto e un quarto, il dodicesimo piano era già affollato di donne e uomini in camice bianco. Molti di loro mi salutarono mentre passavo il tesserino di riconoscimento nelle apposite macchinette, prima nell'atrio e poi davanti alle porte di vetro che separavano l'Istituto di medicina legale dal resto dell'edificio. Restituii i molti «bonjour» e mi diressi verso il mio ufficio. Non ero dell'umore giusto per darmi alla conversazione. Ero ancora delusa per la serata con Ryan. Anzi, per la non serata con Ryan. Come capita in quasi tutti gli istituti di medicina legale, la giornata di lavoro inizia con una riunione dei collaboratori. Non feci in tempo a togliermi il giaccone che squillò il telefono. Era Pierre LaManche. Era stata una notte movimentata. Il mio capo era impaziente di iniziare.
Quando entrai in sala riunioni, gli unici seduti al tavolo erano LaManche e Pelletier. Entrambi fecero il gesto di alzarsi dalla sedia, come ancora fanno gli uomini di una certa età in presenza di una donna. LaManche mi chiese del processo Pétit. Dissi che a mio parere la mia deposizione era andata bene. «E il recupero di lunedì?» «A parte il rischio di morire assiderata, e il fatto che le famose ossa di animali si sono rivelate gli scheletri di tre persone, direi che anche quello è andato bene.» «Inizierà le sue analisi oggi stesso, vero?» mi domandò LaManche nel suo francese impeccabile. «Sì.» Non accennai a ciò che ritenevo già di sapere sulla base del rapido esame fatto nello scantinato. Volevo prima esserne certa. «Il detective Claudel mi ha chiesto di avvisarla che oggi sarebbe passato qui all'una e mezzo.» «Il detective Claudel dovrà aspettare. Sono appena all'inizio.» Sentii Pelletier tossire e mi voltai verso di lui. Benché inferiore a LaManche nel livello gerarchico dell'ufficio, Jean Pelletier aveva iniziato a lavorare in Istituto una decina di anni prima del mio attuale capo. Era un uomo piccolo e compatto, con sottili capelli grigi e grandi borse sotto gli occhi. Pelletier era un lettore affezionato del «Journal». Avevo già intuito che cosa stesse per dire. «Oui.» Le dita di Pelletier erano ingiallite da mezzo secolo di Gauloises senza filtro. E una delle sue sigarette ora indicava me. «Oui. Questa inquadratura è decisamente migliore. Anche perché mette in risalto i tuoi incantevoli occhi.» Per tutta risposta, alzai i miei incantevoli occhi al cielo. Mentre prendevo posto, entrarono anche Nathalie Ayers, Marcel Morin ed Emily Santangelo. Seguì uno scambio di «bonjour!» e di «comment ça va?», dopodiché Pelletier si complimentò con Emily per il nuovo taglio di capelli. Lo sguardo con cui rispose la mia collega suggerì che era meglio cambiare argomento. Dopo aver distribuito alcune copie dell'ordine di servizio, LaManche iniziò a discutere e ad assegnare i casi. Un uomo di quarantasette anni era stato trovato appeso a una trave del suo garage, a Lavai. Un uomo di cinquantaquattro anni era stato accoltellato dal figlio dopo
un litigio provocato pare da certe salsicce avanzate. La madre aveva chiamato la polizia di Saint-Hyacinthe. Un residente di Longueuil si era schiantato con il suo fuoristrada contro un cumulo di neve in una strada di campagna del Gatineau. Probabile stato di ubriachezza. Una coppia di coniugi separati era stata trovata morta in seguito a ferite da arma da fuoco in una casa di Saint-Léonard. Due colpi per lei, uno per lui. L'uomo era morto con una Glock 9mm in bocca. «Se non posso averti io, non ti avrà nessun altro» commentò Pelletier, facendo schioccare la dentiera. «Tipico» osservò Nathalie Ayers in tono amaro. Aveva ragione. Era un copione che vedevamo recitare anche troppo spesso. Una ragazza era stata ritrovata dietro un karaoke bar in Rue Jean Talon. Si sospettava l'effetto combinato di overdose e ipotermia. Agli scheletri della pizzeria furono assegnati i numeri di laboratorio LSJML 38426, LSJML 38427 e LSJML 38428. «Il detective Claudel ha la sensazione che si tratti di scheletri antichi che probabilmente non saranno di grande interesse per l'esame forense» disse LaManche. Ma più che di un'affermazione, si trattava di una domanda. «E come può il signor Claudel fare una simile affermazione?» Anche se era plausibile che la sensazione di Claudel si rivelasse fondata, mi dava estremamente fastidio che il detective si pronunciasse in un campo che esulava dalle sue competenze. «Monsieur Claudel è un uomo dai molti talenti» commentò Pelletier con aria indifferente. Ma io non ero stupida, e sapevo che l'anziano patologo era perfettamente a conoscenza delle frizioni esistenti tra me e Claudel, e si divertiva a stuzzicarmi. «Per caso Claudel ha studiato archeologia?» domandai. Pelletier alzò il sopracciglio. «Monsieur Claudel dedica ore e ore allo studio dei resti antichi.» Gli altri rimasero in silenzio, in attesa della battuta. «Davvero?» Cerchiamo di chiudere questa storia al più presto, pensai. «Bien sûr. Si esamina il pisello tutte le mattine.» «Grazie, dottor Pelletier.» E con la stessa aria indifferente, LaManche disse: «Tra una battuta e l'altra, per cortesia, potrebbe occuparsi dell'impiccato?». A Nathalie Ayers toccò l'accoltellamento. L'incidente con il fuoristrada
andò a Emily Santangelo e l'omicidio-suicidio a Morin. Dopo aver assegnato i casi del giorno, LaManche appose le relative iniziali sul registro dei casi: Pe. Ay. Sa. Mo. Br. risultò accanto ai casi 38426, 38427 e 38428, gli scheletri nello scantinato della pizzeria. Prevedendo una lunga riunione con l'organismo che monitorava le morti infantili nella provincia del Québec, LaManche non assegnò a se stesso alcuna autopsia. Conclusa la riunione, tornai al mio ufficio. LaManche fece capolino qualche minuto dopo. Uno dei tecnici dell'Istituto era a casa con la bronchite. Con cinque autopsie da fare, la giornata sarebbe stata difficile. Per caso mi dispiaceva lavorare da sola? Fantastico. Mentre inserivo tre moduli su un supporto rigido, notai che la spia rossa del mio cellulare stava lampeggiando. Un istante di batticuore. Ryan? Passa oltre, Doris! Digitai il numero di accesso e la password della casella vocale. Un giornalista di «Allô Police». Un giornalista della «Gazette». Un giornalista del TG serale della CTV. Delusa, cancellai i messaggi e mi affrettai verso lo spogliatoio femminile. Indossata la divisa da sala operatoria e il camice, imboccai un corridoio laterale e raggiunsi l'ascensore nascosto tra la segreteria e la biblioteca. Riservato agli addetti ai lavori, quell'ascensore prevedeva solo tre fermate. L'Istituto di medicina legale. L'ufficio del coroner. L'obitorio. Premetti il piano dell'obitorio e le porte si chiusero. Arrivata a destinazione, superai un'altra porta di sicurezza e imboccai un lungo corridoio che percorreva l'intera lunghezza dell'edificio. A sinistra, una sala per le radiografie e quattro sale autopsia, di cui tre con un unico tavolo operatorio e una con due. A destra, rastrelliere per l'asciugatura, stazioni informatiche, vasche su ruote e carrelli per il trasporto dei campioni nei laboratori di istologia, patologia, tossicologia, odontologia, DNA e antropologia situati ai piani superiori. Attraverso la finestrella sulle porte delle sale autopsia, vidi che Ayers e Morin erano già al lavoro nelle sale 1 e 2. Entrambi erano coadiuvati da un fotografo della polizia e da un tecnico di autopsia. Un altro tecnico stava preparando gli strumenti nella sala 3. Avrebbe as-
sistito Emily Santangelo. Io avrei lavorato da sola. E Claudel sarebbe arrivato tra meno di quattro ore. Essendomi svegliata depressa, il mio umore non poteva che essere in caduta libera. Proseguii fino alla sala 4. La mia sala. Uno spazio appositamente aerato e ventilato per neutralizzare gli odori dei corpi decomposti, mummificati, immersi in acqua per lungo tempo. E altre piacevolezze. Come le altre sale, anche la numero 4 aveva una porta a doppio battente che conduceva nel settore dell'obitorio con le celle frigorifere, ciascuna contenente una doppia lettiga. Posai i moduli sul bancone, presi un grembiule di plastica da un cassetto, guanti e mascherina da un altro, li indossai e mi affacciai in corridoio per prendere un carrellino di metallo. Rientrai in retromarcia nella sala 4 e spinsi il carrello oltre la porta a doppio battente. Sei cartellini bianchi. Un adesivo rosso. Sei corpi in attesa, uno HIV positivo. Individuai i cartellini con le miei iniziali. LSJML 38426, LSJML 38427 e LSJML 38428. Ossements. Inconnu. Ossa. Sconosciuto. In genere, mi occupo dei miei casi in ordine progressivo, e concludo sempre un esame prima di iniziare il successivo. Ma il detective Delizia sarebbe arrivato da me all'una e mezzo. E conoscendo l'impazienza di Claudel, decisi di ignorare la procedura e di eseguire una rapida stima dell'età e del sesso di ciascun gruppo di resti. Un errore di cui in seguito mi sarei pentita. Aprendo uno sportello di acciaio, poi un secondo e infine un terzo, presi le stesse ossa esaminate nello scantinato della pizzeria e le posai sul carrello per portarle in sala 4. Dopo aver inserito i dati richiesti dal modulo, iniziai con il caso 38426, le ossa contenute nella cassa di Dottor Energy. Iniziai dal cranio. Inserzioni gracili. Occipite arrotondato. Processi mastoidei piccoli. Arcate sopraccigliari non pronunciate. Margini orbitali sottili. Passai alle ossa del bacino. Anche allargate e aperte verso l'esterno. Pube allungato solcato da sottili crestoline in rilievo sulla faccia ventrale. Angolo sub-pubico ottuso. Incisura sciatica ampia. Spuntai queste caratteristiche dall'elenco inserito nello spazio riservato
alla determinazione del genere, e scrissi le mie conclusioni. Femmina. Passai alla sezione riservata alla stima dell'età. Annotai che la sincondrosi sfenooccipitale, cioè l'articolazione tra l'osso occipitale e lo sfenoide alla base del cranio, risultava fusa di recente. Questo mi diceva che la ragazza era probabilmente adolescente o tardo adolescente. Tornai al bacino. Durante l'infanzia, le due metà del bacino sono composte da tre elementi distinti: l'ileo, l'ischio e il pube. Nella prima adolescenza, queste tre ossa si fondono all'interno dell'articolazione dell'anca. Quel bacino aveva visto la pubertà arrivare e andare via. Segnalai la presenza di solchi sulla superficie delle sinfisi pubiche, la porzione anteriore del bacino dove le due metà si uniscono. Osservai rapidamente l'osso. Il margine superiore dell'anca si presentava come una sorta di crenatura, il che escludeva la presenza di una finitura smussata. La crenatura era anche evidente sull'ischio, vicino al punto in cui il corpo viene sostenuto in posizione seduta. Sentii una familiare sensazione di freddo prendermi allo stomaco. Dovevo ancora controllare i denti e le ossa lunghe, ma tutti gli indizi confermavano la mia impressione iniziale. Il contenuto della cassa di Dottor Energy era una ragazza morta adolescente o tardo adolescente. Riposi il caso 38426 sul carrello e mi occupai delle ossa del caso 38427. Poi di quelle del caso 38428. Il mondo intorno a me entrò in una dimensione parallela. Telefoni. Stampanti. Voci. Carrelli. Tutto scomparve. Niente più esisteva tranne i fragili resti sul mio tavolo operatorio. Lavorai senza interruzione fino all'ora di pranzo, mentre la tristezza aumentava a ogni osservazione. Spesso mi accusano di provare più simpatia per i morti che per i vivi. Questo non è vero. Certo, i morti che esamino sul mio tavolo mi addolorano. Ma sono anche acutamente consapevole della sofferenza di chi resta. Quel caso non faceva eccezione. Provai una grande e istintiva comprensione per le famiglie che avevano amato e perso quelle ragazze. All'una e mezzo in punto il telefono squillò. Abbassai la mascherina e mi avvicinai alla scrivania. «Dottoressa Brennan.»
«Ha finito?» La voce non si era qualificata, ma l'avevo riconosciuta. «Ho qualche informazione preliminare. Sala 4.» «L'aspetto qui nel suo ufficio.» Ma certo, Claudel. Nessun problema. Faccia come fosse a casa sua. «Non vuole dare un'occhiata a ciò che ho rilevato?» «Non credo sia necessario.» L'avversione di Claudel per autopsie e affini era leggendaria. In passato giocavo spesso con questa sua fobia, cercando sempre nuovi stratagemmi per costringerlo a scendere in obitorio. Ma ormai non mi interessava più. «Mi serve qualche minuto per riordinare la sala» dissi. «Comunque, credo che questi esami siano superflui.» «Lo spero anch'io. Mi creda.» Abbassai la cornetta. Coprii il tavolo operatorio con un telo, mi sfilai i guanti, mi lavai e salii al mio ufficio con addosso l'opprimente sensazione della paura. Conoscevo bene le ossa. Sapevo di avere ragione. Nonostante la sua saccente arroganza, sperai con tutta me stessa che anche Claudel avesse ragione. 5 Claudel sedeva alla mia scrivania. Quando entrai, non si alzò né mi salutò. Risposi con la stessa cordialità. «Ha finito?» «No, monsieur Claudel. Non ho ancora finito. Anzi, direi che ho a malapena iniziato.» Mi sedetti. «Comunque, posso già riferirle alcune inquietanti osservazioni.» Claudel si piegò verso di sé, come per dire: dammi tutto quello che hai. «Sulla base delle caratteristiche pelviche e craniche, posso affermare che lo scheletro 38426 appartiene a una femmina morta adolescente o tardo adolescente. L'analisi delle ossa lunghe mi consentirà di essere più precisa nella stima dell'età, ma è già evidente che la sincondrosi sfenooccipitale si è fusa solo di recente, che la cresta iliaca...» «Non ho bisogno di una lezione di anatomia.» Che ne diresti di un bel calcio nel culo? «La vittima è giovane.» Gelida. «Continui.» «Sono tutte giovani.» Claudel sollevò le sopracciglia con aria interrogativa.
«Femmine. Tra i quindici e i vent'anni.» «Causa del decesso?» «Per questo sarà necessario l'esame dettagliato di ciascuno scheletro.» «La gente muore.» «In genere non i ragazzini.» «Storia razziale?» «Per il momento è ancora incerta.» In realtà, anche se dovevo ancora verificare con esattezza la razza, i dettagli cranio-facciali suggerivano razza caucasoide per tutt'e tre le vittime. «Quindi, potrebbe essere possibile che abbiamo recuperato Pocahontas e la sua corte.» Evitai di ribattere. Non volevo farmi indurre da Claudel a formulare una valutazione prematura. «Mentre le ossa della cassa e quelle dell'avvallamento situato nel quadrante nordoccidentale non presentano tessuti molli, lo scheletro avvolto nell'involucro di presunto cuoio mostra tracce di adipocera. Pertanto non sono convinta che la morte sia sopraggiunta in tempi remoti.» Claudel allargò le braccia, con i palmi rivolti verso l'alto. «Cinque anni, dieci? Un secolo?» «La determinazione della data del decesso richiede ulteriori indagini. A questo punto, non potrei ancora stabilire se si tratta di morti storici o preistorici.» «Non ho bisogno di ricevere istruzioni su come compilare i miei verbali. Che cosa mi sta dicendo esattamente?» «Le sto dicendo che abbiamo appena recuperato tre ragazze morte nello scantinato di una pizzeria. In questa fase delle mie analisi, è ancora prematuro concludere che i resti siano di origine remota.» Per alcuni secondi Claudel e io ci guardammo con aria torva. Poi il detective estrasse una bustina con zip dal taschino della giacca e la gettò sulla scrivania. Lentamente, abbassai lo sguardo. La bustina conteneva tre oggettini rotondi. «Può prenderli» disse Claudel. Aprii la bustina e mi lasciai cadere il contenuto sul palmo della mano. Si trattava di tre dischetti di metallo di circa due centimetri e mezzo di diametro. Nonostante il metallo fosse piuttosto corroso, si riusciva a distinguere una sagoma femminile incisa su una faccia e un'asola sull'altra. Accanto all'asola, spiccavano le iniziali ST.
Guardai Claudel con aria interrogativa. «Ho fatto qualche pressione sul Principe della Pizza e sono riuscito a fargli ammettere che mentre spostava le ossa nella cassa di bibite, aveva trovato alcuni reperti interessanti. Cioè questi.» «Dei bottoni?» Claudel annuì. «Erano sepolti insieme allo scheletro?» «Il Principe è stato un po' vago circa la loro provenienza. Comunque, sì, si tratta di bottoni. Ed è evidente che sono vecchi.» «Come può affermare con certezza che siano vecchi?» «Infatti non sono io ad affermarlo. Lo dice la dottoressa Antoinette Lagault, del McCord.» Il McCord Museum of Canadian History raccoglie più di un milione di manufatti, di cui più oltre sedicimila appartenenti alla collezione di vestiti e articoli di abbigliamento. «Antoinette Lagault è un'esperta di bottoni?» Claudel ignorò la mia domanda. «Quei bottoni sono stati prodotti nel Diciannovesimo secolo.» Prima che potessi replicare, il cellulare di Claudel trillò. Senza scusarsi, si alzò e uscì in corridoio. Riportai lo sguardo sui bottoni. La loro presenza significava che gli scheletri erano sottoterra da più di un secolo? Dopo meno di un minuto Claudel fu di ritorno. «Mi hanno chiamato per un fatto grave.» Si stava congedando. Ho un bel caratterino, lo ammetto. E qualche volta perdo la pazienza. La condiscendenza di Claudel mi stava spingendo al limite. Mi ero adattata ai suoi tempi e avevo eseguito in tutta fretta una valutazione preliminare supponendo che quell'indagine avesse una priorità assoluta. E adesso, dopo qualche sommaria domanda, mi metteva da parte. «Intende dire che gli scheletri di tre ragazze in uno scantinato non sono un fatto grave?» Claudel abbassò il mento e mi guardò negli occhi, con l'aria di chi sente messa a dura prova la propria pazienza. «Sono un poliziotto, non uno storico.» «E io sono una scienziata, non una maga.» «Questi oggetti...» e indicò i bottoni «... appartengono a un altro secolo.» «E queste tre ragazze adesso appartengono a questo secolo.» Mi alzai di
scatto. Claudel si irrigidì. I suoi occhi diventarono due fessure. «Una prostituta è appena arrivata all'ospedale Nôtre-Dame con il cranio fratturato e un coltello nella pancia. La sua collega è stata fortunata. È morta. Insieme al mio compagno, sto andando ad arrestare un certo protettore per aumentare le probabilità di sopravvivenza delle altre signore.» Claudel puntò il dito verso di me. «Questo, madame, è un fatto grave.» Dopodiché prese la porta e uscì. Io avvampai di rabbia e per qualche istante rimasi immobile. Non sopporto il fatto che Claudel abbia il potere di farmi saltare i nervi, talvolta anche in modo assolutamente irrazionale. Eppure era così. Era successo ancora una volta. Mi lasciai cadere sulla sedia, ruotai verso la finestra e appoggiando i piedi sul davanzale mi abbandonai sullo schienale. Dodici piani sotto, la città scendeva verso il fiume. Miniature di veicoli scorrevano sul Pont Jacques Cartier, diretti verso Île Sainte-Hélène, i quartieri a sud dell'isola, lo Stato di New York. Chiusi gli occhi e cercai di fare qualche respirazione yoga. Lentamente, la mia rabbia svanì. Quando li riaprii, mi sentii... come? Abbacchiata. Confusa. Le indagini sugli omicidi sono sempre piuttosto complicate. Perché con Claudel finivano per esserlo ancora di più? Perché io e lui non potevamo collaborare in armonia come capitava con gli altri detective della Omicidi? Come capitava con Ryan, per esempio. Ryan. Doris Day mi batté una mano sulla spalla, pronta a fornirmi qualche fotogramma de Il letto racconta. Una cosa era chiara. Claudel aveva preso la sua decisione. Detestava i topi. Detestava le pizzerie al trancio. Non era convinto che quelle ossa meritassero la sua attenzione. Perciò, se avessi dovuto aver bisogno di qualcuno che appoggiasse le mie indagini, mi sarei dovuta rivolgere altrove. «Okay, razza di scettico arrogante e impulsivo. Puoi anche deridere le mie analisi senza nemmeno cercare di comprenderle. Andrò avanti facendo a meno di te.» Presi la mia cartellina e scesi in obitorio.
Tre ore dopo avevo concluso l'inventario dello scheletro LSJML 38426. I resti erano completi a parte lo ioide, un ossicino a forma di U sospeso nei tessuti molli della gola, e alcune piccole ossa della mano e del piede. Le ossa lunghe continuano a svilupparsi nel senso della lunghezza fino a che le loro epifisi - cioè la piccola porzione di tessuto presente alle due estremità di un osso lungo - rimangono separate dalla diafisi. La crescita si interrompe quando le epifisi si riuniscono alla diafisi, cioè al corpo principale. Fortunatamente per gli antropologi, ciascuna coppia di epifisi ha un tempo di sviluppo diverso. Osservando lo stato di sviluppo del braccio, della gamba e della clavicola, ero stata in grado di essere più precisa nella stima dell'età. Avevo richiesto una lastra dei denti per poter osservare lo sviluppo delle radici dei molari, per conferma, ma ero già piuttosto sicura. La ragazza nella cassa di bibite era morta a un'età compresa tra i sedici e i diciotto anni. Riguardo alla razza, il modulo che dovevo compilare prevedeva la spunta di almeno una decina di voci, nella colonna relativa alla razza europea. Aperture nasali strette. Margine nasale inferiore sporgente e affilato. Ponte del naso fortemente angolato. Dorso del naso prominente. Zigomi aderenti al viso. Ogni caratteristica e misura inseriva nettamente il cranio nella categoria caucasoide. Ero certa che la ragazza fosse di razza bianca. E piccola. Le misure dell'osso della gamba indicavano che era alta appena un metro e cinquanta. Pur avendo esaminato tutte le ossa e tutti i frammenti di tessuto osseo, non avevo trovato alcun segno di violenza. I pochi graffi in prossimità del canale auditivo destro alla lente di ingrandimento apparivano superficiali e a forma di V. Immaginai che quei segni fossero dovuti a un evento postmortem, forse dall'abrasione con la superficie del terreno, o da una manipolazione maldestra in occasione dello spostamento nella cassa di bibite. I denti mostravano tracce di scarsa igiene e nessuna otturazione. Quindi mi dedicai all'intervallo postmortem. Da quanto tempo era morta? Determinare la data del decesso analizzando unicamente le ossa è un'impresa ardua. Il corpo umano è un microcosmo copernicano composto di carbonio, idrogeno, azoto e ossigeno. Il cuore rappresenta la stella centrale del microcosmo, e fornisce la linfa vitale a ogni sistema metabolico della galassia. Quando il cuore smette di pompare, scoppia il caos citoplasmico. Gli enzimi cellulari danno inizio a un banchetto cannibalesco divorando le proteine e i carboidrati del corpo stesso. Le membrane cellulari si deterio-
rano, rilasciando cibo per eserciti di microrganismi. I batteri intestinali iniziano a mangiare verso l'esterno. I batteri ambientali, gli insetti e gli animali necrofagi iniziano a mangiare verso l'interno. La sepoltura, l'immersione o l'imbalsamatura ritardano il processo di decomposizione. Alcuni agenti meccanici o chimici la velocizzano. Quindi, quanto tempo ci vuole per tornare a essere polvere, come vuole la Bibbia? In presenza di temperature e umidità elevate, la perdita dei tessuti molli può verificarsi in soli tre giorni. Anche se si tratta comunque di un tempo limite. In condizioni normali, con una sepoltura di scarsa profondità, un corpo diventa scheletro in un periodo di tempo compreso tra i sei e i dodici mesi. Il fatto di essere chiuso in un seminterrato può rallentare il processo. Se poi il seminterrato si trova in una zona subartica, il processo viene rallentato ulteriormente. Che elementi avevo per valutare? I corpi erano stati sepolti a una scarsa profondità. Ma si trattava del luogo di sepoltura originario? E quanto tempo dopo la morte erano stati trasportati in quel luogo? Almeno due dei tre scheletri erano in posizione fetale, con le ginocchia flesse davanti al petto. Almeno uno dei tre era stato avvolto in un involucro esterno, probabilmente di cuoio. A parte questo, non sapevo niente. Umidità. Acidità del terreno. Variazioni della temperatura. Che cosa potevo affermare con certezza? Le ossa erano asciutte, disarticolate e del tutto prive di odore e di tessuti molli. Avevo rilevato la presenza di chiazze, e la presenza parziale di terra nei seni craniali e nelle cavità midollari. Le ragazze erano state sepolte in quel luogo nude e anonime, e prive di qualsiasi oggetto. A meno che i bottoni di Claudel non appartenessero a quegli scheletri. La stima più plausibile? Più di un anno e meno di un millennio. Claudel sarebbe stato felicissimo per quel risultato. Frustrata, impacchettai il caso LSJML 38426 decisa a fare qualche indagine supplementare. Stavo rivolgendo la mia attenzione al caso LSJML 38427, quando il telefono alle mie spalle iniziò a squillare. Irritata per l'interruzione, e prevedendo di dover subire ancora l'arrogante cinismo di Claudel, abbassai la mascherina e alzai bruscamente la cornetta. «Brennan.»
«La dottoressa Tempe Brennan?» Una voce femminile, tremante e incerta. «Oui.» Guardai l'orologio. Cinque minuti e il centralino sarebbe passato al servizio notturno. «Non mi aspettavo che mi rispondesse proprio lei. Cioè... credevo di parlare con una segretaria. L'operatr...» «Posso fare qualcosa per lei, signora?» Ero passata all'inglese, come la mia interlocutrice. Ci fu una pausa, come se la donna stesse effettivamente riflettendo sulla mia domanda. In sottofondo sembrava di sentire un rumore di uccelli. «Be', ecco. Non so. Veramente, pensavo di essere io a poter fare qualcosa per lei.» Fantastico. Un altro cittadino volontario. In genere le unità della Scientifica che intervengono sulla scena di un delitto o di un recupero sono formate da tecnici, non da scienziati. I tecnici si occupano di raccogliere peli, capelli, fibre, frammenti di vetro, scaglie di pittura, sangue, sperma, saliva e altro. Rilevano le impronte digitali. Scattano fotografie. Ma una volta che tutti i reperti sono stati catalogati ed etichettati, il loro lavoro è finito. Niente tecnologie avanzate. Niente appostamenti ad alta tensione. Niente sparatorie all'ultimo sangue. Gli specialisti con lauree e dottorati si occupano delle analisi scientifiche. I poliziotti stanano i cattivi. Ma di recente, il pubblico è stato indotto a credere che i tecnici della Scientifica siano invece scienziati e investigatori, e ogni settimana vengo contattata da testimoni oculari che credono di aver scoperto qualcosa. Io cerco sempre di essere cortese, ma ultimamente penso che quest'ultimo mito hollywoodiano vada distrutto al più presto. «Mi deve scusare, signora. Ma per lavorare qui in Istituto è necessario presentare un curriculum e una regolare domanda di assunzione.» «Ah.» La sentii respirare a fondo. «Se passa all'Ufficio Personale, sono certa che potrà ritirare degli opuscoli informativi che spiegano...» «No, no. Non ha capito. Ieri ho visto la sua fotografia su "Le Journal" e ho pensato di telefonare al suo ufficio.» Ho capito. Un'altra innamorata del tenente Colombo. Oppure una gran ficcanaso con la notizia del secolo. O forse solo una stordita che cercava di rimediare qualche dollaro di ricompensa.
Mi avvicinai una sedia e mi sedetti. Aveva tutta l'aria di essere una telefonata lunga. «Forse le sembrerà strano.» La donna si schiarì nervosamente la gola. «E immagino che lei sarà molto occupata.» «In effetti, sto lavorando, signora...?» Il suo nome mi arrivò distorto da una scarica elettrostatica. Gallant? Ballant? Talent? «... quelle ossa che ha recuperato.» Un'altra pausa. Altri rumori in sottofondo. «Sì. Mi dica, signora.» La voce della donna si fece più decisa. «Sento che è un mio preciso dovere morale.» Non dissi niente, e mi limitai a fissare le ossa che mi aspettavano sul tavolo riflettendo sul dovere morale. «Sento che dovevo farlo. Questa telefonata era il minimo che potevo fare. Prima di andare via. Le persone ormai non pensano più agli altri. A nessuno importa più di niente. Nessuno vuole compromettersi.» Sentii delle voci in corridoio, alcune porte si chiusero, poi silenzio. I tecnici di autopsia avevano finito il loro turno di lavoro. Mi appoggiai allo schienale, stanca, ma anche impaziente di concludere la conversazione e di tornare al mio lavoro. «Coraggio, signora. Che cosa mi vuole dire?» «Vivo a Montréal da tanto tempo. E io so che cosa succedeva in quella casa.» «Quale casa?» «Quella dove hanno nascosto le ossa.» Adesso la donna aveva la mia totale attenzione. «Intende dire la pizzeria?» «Adesso è una pizzeria.» «La ascolto.» In quel momento suonò una campana, di quelle che annunciano l'inizio e la fine delle lezioni nelle vecchie scuole. Poi la comunicazione si interruppe. 6 Premetti più volte il pulsante, per attirare l'attenzione della centralinista. Niente.
Dannazione! Sbattei giù la cornetta e mi precipitai all'ascensore. Susanne, la receptionist dell'LSJML, abita in una piccola cittadina a metà strada fra Montréal e il confine dello Stato dell'Ontano. Ogni giorno per arrivare al lavoro, prende il treno e il metrò, e i tempi tra l'uno e l'altro sono così stretti che deve quasi contare il secondo. Alla fine della giornata di lavoro, Susanne schizza via come un razzo. Sperai che per qualche miracolo, quel giorno avesse tardato di qualche minuto. Le cifre luminose indicarono che l'ascensore era fermo al tredicesimo piano. Forza. Forza. Ci volle un mese prima che l'ascensore scendesse, e un altro mese per la risalita. Al dodicesimo, quasi non aspettai che le porte si aprissero e mi lanciai verso il banco della reception. Susanne non c'era. Pregando che la donna avesse richiamato, e che la telefonata fosse stata dirottata sulla mia segreteria telefonica dal servizio automatico notturno, andai velocemente nel mio ufficio. La spia rossa lampeggiava. Sì! Una voce meccanica mi annunciò cinque messaggi. La mia amica Anne, dal South Carolina. «Allô Police». Di nuovo. La «Gazette». Di nuovo. Un altro giornalista del TG di CFCF. Ryan. Un misto di emozioni. Curiosità per la chiamata di Anne. Sollievo per il fatto che Ryan aveva cercato di parlarmi. Frustrazione per l'assenza di una chiamata della mia misteriosa informatrice. Timore di aver perso la donna per sempre. Come si chiamava? Gallant? Ballant? Talent? Perché non le avevo chiesto di ripetere? Mi lasciai cadere sulla sedia e fissai il telefono, sperando che il piccolo quadratino rosso si illuminasse e mi dicesse che era arrivata una chiamata per me. Tamburellai con le dita sul ripiano della scrivania. Giocherellai con il filo del telefono. Poi lasciai che la spirale di plastica si arrotolasse come più gli piaceva. Perché quella donna non aveva tentato di richiamare? Aveva il mio nu-
mero. Un momento? Non aveva parlato di una precedente chiamata? Forse aveva pensato che non fossi interessata? Che le avevo attaccato il telefono? Aveva rinunciato? Aprii il cassetto della scrivania. Cercai una penna. Richiusi il cassetto. Quella donna non aveva accennato al fatto che dovesse andare via. Lasciare la sua casa? La città? Lo Stato? Per qualche giorno? Per sempre? Mentre cercavo di ingannare l'attesa dividendo triangoli in triangoli più piccoli, e maledicendo me stessa per la mia disattenzione, il cellulare trillò. Corsi a prendere la borsetta e risposi. «Signora Gallant?» «Mi avevano dato del galante altre volte, ma mai della signora.» Ryan. «Pensavo fosse un'altra persona.» Mi resi conto della sciocchezza appena pronunciai quelle parole. La signora Gallant/Ballant/Talent aveva chiamato passando per il centralino. Non poteva avere il mio numero privato. «Sentire una tale delusione nella tua voce mi distrugge.» Tornai a sedere e sulle mie labbra comparve il primo sorriso della giornata. «Tu sei fantastico, Ryan. La mia delusione riguarda il caso di cui mi sto occupando.» «Quale caso?» «Gli scheletri nella pizzeria.» Mentre parlavamo, non perdevo di vista la spia del telefono fisso. Al primo lampeggio, mi sarei buttata sulla mia segreteria telefonica. «Per caso oggi hai avuto il piacere della compagnia di Claudel?» «Già. È stato qui.» «Solo?» «Il resto del plotone delle ss non ce l'ha fatta.» «In effetti Claudel a volte è un po' rigido.» «Claudel è un uomo di Neanderthal. Anzi, no. Del Paleolitico. Perché l'uomo di Neanderthal aveva il cervello perfettamente funzionante.» «Non c'è niente di anomalo nel cervello di Claudel. Diciamo che tende a dare troppa importanza alle esperienze passate e alle consuetudini. Charbonneau dov'era?» «Hanno aggredito due prostitute. Una è morta. L'altra è all'ospedale Nôtre-Dame.» «Sì. L'ho sentito.» Ovviamente. Provai una punta di irritazione.
«Credo che il direttore commerciale delle signore sia stato invitato in centrale per uno scambio di idee.» «Se lo dici tu, sarà sicuramente così.» Ryan ignorò, o non si accorse, del fastidio che traspariva dalla mia voce. «Che cosa vuol fare Claudel con le tue ossa?» «Purtroppo, molto poco.» «Non sai che cosa ci farei io, con le tue ossa!» «A quanto pare, ieri sera non avevi le idee così chiare» ribatté Doris Day prima che potessi fermarla. Ryan non replicò. «I tre scheletri sono tutti resti di ragazze» ripresi. «Recenti?» «Claudel si è fatto consegnare dal proprietario alcuni bottoni che il tizio sostiene di aver trovato vicino ai corpi. Un'esperta del museo McCord ha stimato che siano del Diciannovesimo secolo.» «Lasciami indovinare. Claudel non è interessato alle ossa perché le considera preistoriche?» «Strano, vero? Visto che la sua testa da culo risale al Neolitico.» «Brutta giornata, vero, splendore?» Il divertimento nella voce di Ryan mi irritò. La sua mancata spiegazione circa la sua frettolosa ritirata la sera prima mi irritò. Il mio desiderio di avere questa spiegazione mi irritò. Qual era il motto di Anne? Niente spiegazioni, niente lamentele. Okay. Facciamo come dice Anne. «Diciamo che questa settimana non sembra essere una passeggiata» dissi, senza smettere di fissare il mio telefono. Ma il quadratino rosso rimaneva tristemente spento. «Claudel è un bravo poliziotto» disse Ryan. «A volte però per convincersi ha bisogno di un po' più di tempo, rispetto a noi intuitivi.» «Ormai ha deciso.» «E tu fagli cambiare idea.» «Non ci avevo pensato.» Ci fu un attimo di silenzio, poi Ryan disse: «Secondo te, quanto sono vecchie quelle ossa?». «Non sono sicura. Non sono neppure certa che le tre ragazze siano morte tutte nello stesso tempo.» «I denti, che dicono?» «Non ho visto niente di significativo.» Altro silenzio.
«Sensazione di pancia?» «Quegli scheletri non erano in quello scantinato da tantissimo tempo.» «Il che significa?» «Che non dovremmo prendere il caso sottogamba.» Di nuovo, Ryan ignorò il mio tono polemico. «Su che cosa si basano le tue sensazioni?» Mi chiedevo la stessa cosa da tre giorni. «Esperienza.» Non parlai a Ryan della mia misteriosa informatrice. Né della sconsiderata indifferenza con cui l'avevo trattata. «Bene, splendore...» «Sì, pasticcino?» tagliai corto. Pausa. «Dovresti trovare qualcosa che convinca Claudel che si è sbagliato.» Paziente. Come un vecchio maestro che istruisce una scolaretta. Lunga pausa, densa di sospiri irritati. Di nuovo, Ryan fu il primo a riprendere la parola. «Non mi è difficile capire che per te non è serata.» «In che senso?» «Capisco che sei stanca e frustrata. Quindi spero che tu vada a casa e ti faccia uno dei tuoi adorati bagni con tanta schiuma. Vedrai che domattina il mondo ti sembrerà migliore.» Quando abbassai la cornetta, rimasi seduta ad ascoltare il ronzio del palazzo ormai vuoto. Inutile negarlo. Ero a Montréal da tre giorni. E da tre notti. E Ryan era stato amabile e affascinante come sempre. Anche se quasi completamente non disponibile. Il pensiero tornò a Claudel. Mi sentii sull'orlo delle lacrime. Riuscii a riprendermi. Avevo vissuto fino a quel momento senza Ryan. Avrei continuato a farlo. Avevo coesistito con Claudel fino a quel momento. Avrei continuato a farlo. Ma qual era il mio problema con Ryan? Perché ero stata così odiosa al telefono, poco prima? Fuori, si era alzato il vento. Di sotto, tre ragazze giacevano silenziose su un tavolo di acciaio. Guardai il telefono. La signora Gallant/Ballant/Talent non aveva premu-
to il pulsante per ripetere il numero appena digitato. «Al diavolo il bagno con la schiuma» dissi, alzandomi dalla sedia. «E al diavolo anche Andrew Ryan. Ovunque tu sia.» Alle nove avevo concluso l'esame del caso LSJML 38427, lo scheletro del secondo avvallamento. Femmina. Bianca. Tra i quindici e i diciassette anni. Altezza compresa fra il metro e sessanta e il metro e sessantotto. Niente odore. Niente peli o capelli. Non un frammento di tessuto molle. Le ossa erano ben conservate, ma secche e scolorite, con parziale infiltrazione di terra. Danni craniali postmortem, compresa la frammentazione della zona temporale destra, delle ossa facciali destre e del ramo mandibolare. Niente traumi scheletrici perimortem. Niente interventi odontoiatrici. Niente abiti o oggetti associati al corpo. Il caso LSJML 38427 era la fotocopia del caso LSJML 38426. Con una differenza. Avevo visto la ragazza in situ, e avevo qualche dato sul luogo della sepoltura. La vittima LSJML 38427 era stata ritrovata in una buca nuda e rannicchiata in posizione fetale. Noi che apparteniamo alla tradizione ebraico-cristiana prepariamo i nostri morti per l'ultimo viaggio con il vestito della domenica. Li stendiamo con le gambe allungate, le mani sul ventre o stese lungo i fianchi. La posizione rannicchiata è più tipica dei nostri fratelli precolombiani. Quindi, quella posizione confermava in qualche modo le supposizioni di Claudel circa l'antichità degli scheletri? Non era così semplice. Un corpo in posizione flessa richiede una buca più piccola per la sepoltura. Quindi meno scavo. Quindi meno tempo e fatica. La sepoltura in una buca è anche molto in voga presso chi ha fretta. Come gli assassini. Esausta, riportai le ossa nelle loro celle frigorifere, mi cambiai e tornai nel mio ufficio per ricontrollare il telefono. Niente messaggi. Quando uscii per rientrare a casa, erano le dieci passate. Il vento soffiava dietro l'angolo del palazzo Wilfrid-Derome, penetrando nei miei vestiti come una lama. Mentre mi affrettavo verso la mia auto, vedevo il mio respiro addensarsi in una nuvoletta. Durante il tragitto verso casa, non riuscii a distogliere la mente dalle ragazze che avevo lasciato in obitorio. Erano morte di malattia? Erano state assassinate da qualcuno che non
aveva voluto lasciare tracce sulle ossa? Avvelenate? Soffocate? Erano morte di freddo? Al semaforo della Viger, due adolescenti sbucarono dal buio del Pont Jacques Cartier. Tatuaggi, piercing e cresta regolamentari, sollevarono la spatolina per lavare i vetri con consumata disinvoltura. Feci loro cenno di procedere e mentre li osservavo pulire il mio parabrezza, presi un dollaro dalla borsetta. Chissà se le ragazze della pizzeria erano giovani ribelli come questi di fronte a me, diretti a passo di carica verso l'anticonformismo lungo strade già battute da molti altri? Erano sole al mondo? Vittime di abusi famigliari? Ragazze in fuga che cercavano di sopravvivere a una vita randagia? Non avevo trovato nessuna indicazione riguardo l'abbigliamento. Le fibre naturali come il lino, il cotone e la lana si deteriorano molto rapidamente. Ma perché non c'erano i dentini delle cerniere? Asole particolari? I gancetti del reggiseno? Tre ragazze erano state denudate prima di essere sepolte in tombe anonime. Erano morte insieme? A distanza di mesi? Di anni? E come sempre la domanda fondamentale era: quando? Dieci anni prima? Un secolo? Arrivai a casa con un fortissimo mal di testa, ed ero così affamata che avrei divorato l'intera Lituania. A parte qualche barretta al muesli e qualche bibita in lattina, non avevo mangiato niente per tutta la giornata. Dopo la doccia, aprii il frigo e decisi per un piatto pronto messicano surgelato. Mentre cenavo davanti al David Letterman Show, pensai ad Anne. Anne mi avrebbe capita. Mi avrebbe ascoltata. Avrebbe detto qualcosa di rassicurante. Stavo per sollevare la cornetta, quando il telefono prese a squillare. «Allora, Birdie come sta?» Era Anne. «Mi chiami per sapere del mio gatto?» «Non credo il mostriciattolo riceva troppe attenzioni in questo periodo.» Il mostriciattolo era accoccolato accanto a me sul divano, concentrato sulla panna acida che colava dai resti del mio burrito. «Sono sicura che Birdie sarebbe d'accordo.» Posai la cena sul tavolino, intinsi un dito nella panna acida e lo offrii a Birdie. Lui leccò con cura e si concentrò nuovamente sul piatto. «E tu?» Mi ero persa. «E io che cosa?» «Tu stai ricevendo tante attenzioni?»
Anche se Anne aveva l'intuito di un navigatore satellitare, quella sera in effetti non poteva sapere della mia tensione con Ryan. «Stavo per chiamarti» dissi. «Io no» continuò la mia amica, senza badare a ciò che avevo detto. «Di cosa stai parlando?» «Di Tom-Ted.» Anne è sposata con un avvocato di nome Tom Turnip. Quando Tom lavorava già da due anni nel suo studio legale, un socio anziano l'aveva chiamato Ted per un mese di fila e da allora per noi è diventato Tom-Ted. «Che succede con TT?» «Indovina?» Volevo essere comprensiva, ma ero troppo stanca per gli indovinelli. «Ti prego, Anne. Dimmelo e basta.» «Ottima idea. Domani sono da te.» 7 Otto ore dopo, le mie condizioni mentali erano molto migliorate. Il mal di testa era sparito. Il sole splendeva. La mia migliore amica stava arrivando. Forse. Anne aveva il vezzo di cambiare spesso idea all'ultimo minuto. A proposito di cambiare idea, Ryan aveva ragione. Trovare degli elementi che definissero l'intervallo postmortem, cioè il tempo trascorso dalla data del decesso, era cruciale per convincere Claudel. Valutai il problema davanti a una ciotola di cornflakes. A quel punto, sapevo che i casi LSJML 38426 e LSJML 38427 provenivano da una sepoltura abbastanza superficiale in uno scantinato asciutto. Gli scheletri erano privi di tessuti molli ma ben conservati, e non presentavano screpolature o escoriazioni superficiali. Dopo aver fatto mente locale, cercai di riassumere il genere di informazioni utili per determinare la data del decesso. Il deterioramento dei materiali associati. Non c'erano. Analisi di inclusioni di insetti. Non c'erano. Birdie allungò il muso verso la mia tazza di cereali, sperando di ottenere un po' di latte. Lo spostai sulla sedia. Dovevo passare al caso LSJML 38428 o dovevo prima determinare la data del decesso? Birdie tornò sornionamente sul tavolo. Di nuovo, lo spostai sulla sedia.
Se avessi potuto dimostrare che quei morti erano antichi, mi sarei potuta rilassare e passare semplicemente il caso agli archeologi. D'altra parte, se invece avessi dimostrato che si trattava di morti recenti, come sospettavo, il coroner avrebbe insistito per procedere con le indagini, e Claudel non avrebbe avuto scelta. Lui e Charbonneau potevano iniziare a chiedere un po' in giro, mentre io analizzavo il terzo scheletro. Mentre mi versavo una tazza di caffè, Birdie tentò la terza sortita. Di nuovo, lo spinsi giù, questa volta un po' meno gentilmente. Okay. Non avevo né oggetti, né insetti. Che cosa mi restava? Sapevo che la composizione delle ossa varia con il tempo. La quantità di azoto diminuisce, quella di fluoruro aumenta. Ma queste variazioni sono troppo lente per essere utilizzate nella valutazione dell'età dei resti recenti. Avevo letto studi che riguardavano radiografia, istologia, reazione chimica, e contenuto isotopico. Ero a conoscenza di studi che dimostravano l'utilità degli aminoacidi per la distinzione delle ossa recenti da quelle antiche. Ma i processi fisici e biochimici sono influenzati da una miriade di fattori. Temperatura. Umidità del suolo. Tensione dell'ossigeno. Attività microbica. PH del terreno. Nessuna tecnica era sufficientemente precisa e affidabile. Una volta che i tessuti molli e gli insetti scompaiono, il tempo trascorso dal decesso diventa il triangolo delle Bermuda dell'antropologia forense. Mi venne in mente un solo esame che avrebbe potuto fornire risultati definitivi. Ma era molto lungo e molto costoso. E veniva effettuato solo da pochi laboratori. Vista la situazione finanziaria dell'Istituto, sapevo che ottenere l'approvazione di LaManche per quell'esame sarebbe stato arduo. Ma valeva la pena di tentare. Posai la mia tazza sul pavimento, presi borsetta e portatile e uscii. Arrivata in ufficio, trovai la spia dei messaggi ricevuti ostinatamente spenta. La riunione del mattino procedette come di consueto. Un uomo morto per le esalazioni di una stufetta malfunzionante. Un incidente automobilistico causato dall'alcol. Un patito dell'autoerotismo il cui nodo scorsoio aveva funzionato troppo bene. Un corpo carbonizzato nell'incendio di un camper. Pelletier ebbe la vittima dell'incendio. Anche se i resti dovevano essere quelli del proprietario del camper, chiese la mia collaborazione in caso il riconoscimento fosse complicato. Mentre i colleghi lasciavano la sala riunioni, io mi avvicinai a LaMan-
che. «Posso parlarle un secondo?» «Mais oui» LaManche si rimise a sedere. «Ho esaminato due dei tre scheletri trovati nello scantinato della pizzeria.» Quando LaManche alzò il sopracciglio, le rughe del suo viso si allungarono e si fecero più profonde. D'un tratto apparve più vecchio, e più stanco di come lo ricordavo. Era la fredda luce del mattino che filtrava dalla finestra alle mie spalle? O forse il mio capo non si sentiva bene? O più semplicemente non avevo mai osservato da vicino il suo viso prima di questo momento? «Le due vittime che ho esaminato sono giovani e femmine» spiegai. «E sono certa che anche la terza è una femmina giovane.» «Ha usato la parola "vittima".» «Sono tre ragazzine e sono morte.» I malinconici occhi di LaManche non reagirono alla durezza della mia risposta. «Ma non ho rilevato alcun segno di violenza» ammisi. «Monsieur Claudel ha la sensazione che quei resti non siano recenti.» «Il proprietario del ristorante ha trovato alcuni bottoni che potrebbero risalire all'Ottocento.» «Potrebbero?» Di nuovo, LaManche sollevò il sopracciglio. «Claudel li ha fatti esaminare al museo McCord.» «Lei non mi sembra convinta.» «Anche se i bottoni sono originali, non è chiaro se appartengano o meno a uno degli scheletri. La loro presenza nello scantinato potrebbe essere dovuta a diversi motivi.» LaManche sospirò e si tirò il lobo di un orecchio. «Monsieur Claudel mi ha anche detto che l'edificio che ospita la pizzeria ha più di cent'anni.» «Claudel ha fatto indagini sulla proprietà?» Mi sentii avvampare. «Non me ne aveva parlato.» «La costruzione dell'edificio iniziò più di un secolo fa.» Sono una persona irascibile. Come mio padre. Che spesso si faceva dominare dalla rabbia. Sono cresciuta destreggiandomi tra i suoi scoppi d'ira. Come mio padre, ho ceduto alle lusinghe della bottiglia. Diversamente da lui, ne ho preso le distanze. E sempre diversamente da lui, ho imparato a controllare la mia rabbia. E quando mi sento bruciare dentro, fuori divento incredibilmente calma.
«Monsieur Claudel non si è reso conto che queste informazioni sono importanti per il mio lavoro?» domandai con voce glaciale. «Sono certo che la informerà della cosa con tutti i dettagli del caso.» «Prima della mia morte, o dopo?» «Non si metta sulla difensiva. Io non sono contro di lei.» Inspirai a fondo. «Esiste un sistema di datazione che potrebbe risolvere la questione.» «La ascolto.» «Ha mai sentito parlare del metodo del carbonio 14?» «So che viene utilizzato per stabilire l'età di reperti di origine biologica, comprese le ossa umane. Ma non so come funziona.» «Il radiocarbonio, o carbonio 14, è un isotopo instabile. Come tutte le sostanze radioattive, decade rilasciando particelle subatomiche con tasso costante.» Gli occhi di LaManche si fissarono sui miei. «Nel giro di circa 5730 anni, metà della popolazione di atomi di radiocarbonio decadono in azoto.» «È il cosiddetto tempo di dimezzamento.» Annuii. «Dopo 11460 anni, resta solo un quarto della quantità originale di radiocarbonio. Dopo altri 5730, ne resta solo un ottavo, e così via.» LaManche non mi interruppe. «La quantità di radiocarbonio presente nell'atmosfera è molto ridotta. Diciamo che esiste solo un atomo di radiocarbonio ogni mille miliardi di atomi di carbonio stabile. Il radiocarbonio è creato in modo costante negli strati più elevati dell'atmosfera dai raggi cosmici che bombardano l'azoto. Una certa parte di questo azoto si trasforma in radiocarbonio, o carbonio 14, che immediatamente si ossida in diossido di carbonio. Questo diossido di carbonio scende nella biosfera dove viene fissata dalle piante. Dato che gli esseri umani, gli animali e le piante fanno parte della stessa catena alimentare, finché sono vivi hanno al loro interno un contenuto costante di radiocarbonio, perché anche se il radiocarbonio diminuisce a causa del decadimento radioattivo, il suo livello viene continuamente ristabilito attraverso l'ingestione di cibo per l'uomo e attraverso la fotosintesi per le piante. Questo equilibrio esiste finché un organismo è vivente e si interrompe al momento della morte perché il decadimento radioattivo continua, mentre gli altri processi si interrompono. La datazione attraverso il metodo del carbonio permette di determinare il momento in cui questo disequilibrio è iniziato.»
LaManche sollevò le mani in un gesto di scetticismo. «Mi sta parlando di cinquemila anni e più. Come può un processo così lento aiutare a stabilire l'età di resti recenti?» «Domanda pertinente. E infatti il metodo del carbonio 14 viene utilizzato per lo più dagli archeologi, e ha quasi sempre fornito risultati attendibili. Ma questa tecnica si basa su alcune ipotesi, una delle quali è che il livello atmosferico di radiocarbonio è rimasto costante nel corso del tempo. I dati che non sono omogenei con questa ipotesi possono essere utilizzati per rendere la procedura di più vasta applicazione.» «E come?» «Alcune ricerche hanno documentato discrepanze significative nei dati relativi ai livelli di radiocarbonio in alcuni periodi di tempo. Nel corso degli ultimi ottanta anni, si sono verificate due perturbazioni nell'equilibrio del sistema, entrambe causate dall'attività umana.» LaManche si appoggiò allo schienale, intrecciò le dita e si portò le mani sul petto. Un invito a essere concisa? Cercai di riassumere la mia spiegazione. «Il periodo compreso tra il 1910 e il 1950 fu caratterizzato da una diminuzione del radiocarbonio atmosferico, probabilmente dovuta al rilascio nell'atmosfera dei prodotti di combustione di carburanti fossili come petrolio, carbone e gas naturali.» «Perché?» «Perché a causa della loro antichità, i combustibili fossili non contengono quantità rilevabili di radiocarbonio. In gergo si dice che sono sostanze morte. E poiché la combustione di queste sostanze rilascia diossido di carbonio privo di radiocarbonio, la quantità relativa di carbonio 14 nell'atmosfera diminuisce.» «Oui...» «Ma a partire dagli anni Cinquanta, i test delle armi termonucleari eseguiti nell'atmosfera hanno invertito questa tendenza.» «Quindi il radiocarbonio presente negli esseri viventi è aumentato.» «Enormemente. Dal 1950 al 1963 i valori hanno subito un aumento di circa l'85 per cento rispetto ai livelli di riferimento odierni. Nel 1963 un accordo internazionale ratificato dalla maggior parte degli Stati ha interrotto la sperimentazione nucleare nell'atmosfera e i livelli di radiocarbonio nella biosfera hanno iniziato a trovare un nuovo equilibrio. «Che follia.» LaManche scosse la testa con aria triste. «Queste perturbazioni sono note come l'effetto combustibile fossile e
l'effetto bombe nucleari.» LaManche diede uno sguardo all'orologio. «Il succo di tutto questo discorso è che il carbonio 14 "artificiale", cioè derivato dalle radiazioni degli esperimenti nucleari nell'atmosfera, può essere utilizzato per stabilire se il decesso di una persona è avvenuto prima o dopo tali esperimenti.» «E in concreto come lo si stabilisce?» «Esistono due diversi metodi. La tecnica standard è quella radiometrica, in cui i materiali vengono analizzati sintetizzando il campione di carbonio in benzene e poi misurando il contenuto di carbonio 14 con uno spettrometro a scintillazione.» «E l'altro metodo?» «Se si segue l'altro metodo, i risultati vengono ottenuti riducendo il campione di carbonio in grafite. Questa grafite viene poi analizzata allo scopo di rilevarne il contenuto di carbonio 14 in uno spettrometro di massa.» LaManche rifletté in silenzio per qualche secondo. Poi: «Quanto tessuto osseo è necessario?». «Per il metodo convenzionale, duecentocinquanta grammi. Per la spettrometria con acceleratore di massa, un grammo, o anche meno.» «Questo secondo metodo è più costoso?» «Sì.» «Quanto?» Glielo dissi. LaManche si tolse gli occhiali e si strinse il ponte del naso tra il pollice e l'indice. «Esiste un test preliminare con cui stabilire inequivocabilmente che una simile spesa è giustificata?» «Sì. Posso fare un tentativo. Questa tecnica non è del tutto affidabile, ma è semplice e potrebbe essere utile a stabilire se la morte è avvenuta prima o dopo un secolo fa.» LaManche fece per ribattere. «E non costa nulla» aggiunsi. «Posso fare tutto io stessa. Ma devo sottolineare che con questa tecnica saremo in grado di sapere solo se quelle ossa sono più o meno vecchie di un secolo.» «Ho capito. Ma la pregherei di procedere ugualmente.» LaManche si rimise gli occhiali e si alzò. «Nel frattempo, illustrerò la sua proposta al dottor Authier.»
Jean-François Authier, il direttore dell'intero Istituto, valutava tutte le richieste di spese straordinarie. E le autorizzava molto raramente. Presi al volo un camice nel mio ufficio e scesi in obitorio. Morin e Ayers stavano già praticando incisioni a Y nella sala autopsie numero 2. Io richiesi un'apparecchiatura a raggi ultravioletti e attesi che arrivasse il tecnico. Quando arrivò, andai a prendere dalle celle frigorifere gli scheletri dei casi LSJML 38426, 38427 e 38428. In sala 4, scrissi i rispettivi numeri di caso sulle estremità prossimali e distali dei tre femori e li posai sul tavolo operatorio. Dopo aver indossato la mascherina, inserii la spina di una sega Striker nella presa e procedetti a dividere in due ciascun femore. Mentre lavoravo, sul tavolo scese uno strato di polvere bianca e l'aria si riempì di un odore acre. Ancora una volta, mi interrogai sulle donne a cui appartenevano quelle ossa. Erano morte circondate dai loro cari? Probabilmente no. Erano morte sole e spaventate? Assai più probabile. Speravano di essere salvate? Erano disperate? Sollevate? Tutte le ipotesi erano possibili. E loro di sicuro non avrebbero mai potuto confermarne alcuna. Quando ebbi finito di segare, raccolsi i segmenti ottenuti, presi la luce ultravioletta e portai il tutto in uno stanzino in fondo al corridoio. Forza, Brennan. Mettiti al lavoro. Cercai subito una presa e accesi i raggi ultravioletti, quindi posai i tre mezzi femori su una mensola in modo che si vedesse chiaramente la superficie appena segata. Quando chiusi la porta, all'interno si creò il buio totale. Trattenendo il respiro, premetti l'interruttore dei raggi ultravioletti. 8 «Sì!» esclamai, senza poter trattenere un gesto di vittoria. Se illuminate dai raggi ultravioletti, le ossa degli arti di un'età non superiore ai cent'anni, possono diventare fluorescenti. La fluorescenza diminuisce a seconda dell'età dell'osso e la zona in ombra progredisce verso l'esterno a partire dalla cavità midollare, e verso l'interno a partire dalla superficie esterna. Per un decesso di oltre un secolo, la luce giallo-verdastra è del tutto assente. Quelle ragazze brillavano come un neon.
Okay, Claudel. Questo è solo il primo passo. Riposi i tre femori nei rispettivi sacchi mortuari e andai a cercare il mio capo. LaManche stava affettando un cervello nel laboratorio di istologia. Quando entrai, sollevò lo sguardo, con un coltello in mano e il grembiulone di plastica legato in vita. Gli spiegai ciò che avevo appena fatto. «E il risultato?» «Le superfici che avevo segato splendevano come una supernova.» «Il che significa?» «Che in quelle ossa esistono ancora dei costituenti organici.» LaManche posò il coltello sul sostegno di sughero. «Quindi non si tratta di sepolture di nativi.» «Quelle ragazze sono morte dopo il 1900.» «È sicura?» «È molto probabile» dissi leggermente meno enfatica. «L'edificio risale ai primi del secolo.» Non replicai. «Ricorda i resti trovati vicino alla cattedrale di Marie-Reine du Monde?» LaManche si riferiva alla volta in cui mi venne affidato l'incarico di esaminare certi corpi trovati da una squadra di operai dell'acquedotto. Giunta sul posto, avevo trovato escavatori, camion e un'enorme buca in Boulevard René-Lévesque. Allineati sul marciapiede e sul fondo della buca appena scavata, frammenti di cranio, costole e ossa lunghe. Confusi tra i frammenti di ossa umane, schegge di legno e viti corrose. Facile. Resti umani in una bara. In seguito gli archeologi avevano confermato la mia valutazione. La zona su cui sorgeva la cattedrale che oggi osserva il traffico sfrecciare sul Boulevard René-Lévesque, un tempo era occupata da un cimitero, finché a metà del Diciottesimo secolo, un'epidemia di colera aveva forzato il suo perimetro. La squadra di operai dell'acquedotto aveva trovato una serie di corpi dimenticati durante il trasferimento del cimitero. «Lei crede che quell'accidenti di edificio della pizzeria sia stato costruito su una serie di tombe non segnalate?» domandai. «Non ho trovato niente che confermasse la presenza di bare.» I franco-canadesi sono dei virtuosi della scrollata di spalle e utilizzano sottili variazioni nel movimento delle mani, degli occhi e delle spalle per comunicare infiniti significati. Sono d'accordo. Non sono d'accordo. Non mi interessa. Cosa posso fare? E chi lo sa? Sei pazzo. Fai come vuoi.
LaManche alzò una spalla ed entrambe le sopracciglia. Questa scrollata voleva dire «forse sì, forse no». «Ha già parlato ad Authier della datazione con il carbonio 14?» domandai. «Il dottor Authier si sta occupando di una delegazione dell'Istituto di Medicina Legale del Marocco in visita qui da noi. Gli ho lasciato un messaggio chiedendogli di richiamarmi.» «Per quell'esame ci vorrà molto tempo.» Non cercai di nascondere la mia apprensione. «Temperance.» LaManche era l'unica persona al mondo a chiamarmi così. Pronunciato da lui, il mio nome aveva un accento completamente diverso e faceva rima con «France». «Lei si sta lasciando coinvolgere troppo da quelle ossa.» «Non credo che siano ossa antiche. Gli ultravioletti lo confermano, e il contesto in cui le ho trovate è improprio. Penso...» «Quelle ragazze sono morte la settimana scorsa?» la faccia di LaManche assunse un'espressione paziente. «No.» «Esiste una reale urgenza di occuparcene?» Non risposi. Il mio capo mi fissò così a lungo che credetti si fosse distratto e stesse pensando ad altro. Poi: «Mandi pure campioni a chi di dovere. Io cercherò di convincere il dottor Authier». «Grazie.» Resistetti all'impulso di abbracciarlo. «Nel frattempo, forse il terzo scheletro ci fornirà qualche informazione preziosa.» E con quel suggerimento non troppo velato, LaManche tornò al suo cervello. Esultante, scesi in obitorio e mi cambiai. Lisa mi fermò mentre andavo in sala 4. La vittima dell'incendio nel camper non aveva denti, né dentiera, né impronte digitali. L'identificazione sarebbe stata problematica e il dottor Pelletier voleva il mio parere. Le dissi che sarei stata da lui dopo una mezz'oretta. Animata da una certa fretta, tagliai un frammento di due centimetri dalla metà di ciascun femore, corsi di sopra, e dopo essermi connessa in rete, digitai l'indirizzo del laboratorio in Florida che avrebbe eseguito le analisi in Internet. Cliccai con il mouse sul modulo da compilare, inserii i dati necessari e richiesi una spettrometria di massa con acceleratore. Mi fermai alla sezione che riguardava la consegna. La procedura stan-
dard richiedeva dalle due alle quattro settimane. Con procedura urgente avrei avuto i risultati nel giro di sei giorni. A un costo nettamente superiore. Al diavolo. Se Authier avesse protestato, avrei pagato io. Attivai il secondo quadratino e premetti il tasto INVIO. Dopo aver completato la procedura, diedi a Denis l'indirizzo del laboratorio, e gli chiesi di imballare i campioni e di spedirli subito con un corriere espresso. Tornai di sotto. Dovevo andare da Pelletier. Il quale mi disse che il proprietario di quel camper era un maschio bianco di sessantaquattro anni. Ma sul corpo steso sul suo tavolo operatorio vedevo i resti carbonizzati di un Wonder-Bra e un paio di manette. Okay. Il ragazzo aveva gusti sessuali particolari. Niente da fare. Le radiografie rilevavano la presenza di diaframma pelvico. Venimmo a capo del caso solo nel primo pomeriggio. La vittima dell'incendio era femmina, bianca, e senza denti, con fratture consolidate ormai guarite del radio destro e delle ossa nasali. Ed era sulla terra da un periodo compreso tra i trentacinque e i cinquant'anni. E allora dov'era il nostro camperista? Questo adesso era un problema della polizia. Alle tre e quaranta, mi lavai, mi cambiai e tornai di sopra. Mentre andavo nel mio ufficio, mi fermai ai distributori automatici e presi una Diet Coke e due ciambelle. Il telefono lampeggiava come un albero di natale. Schizzai alla mia scrivania e alzai la cornetta. Anne. Il suo volo arrivava alle cinque e venticinque. Arthur Holliday, la persona che avrebbe eseguito la datazione al carbonio 14. Il suo messaggio chiedeva di contattarlo prima di inviare i campioni. Mi precipitai in segreteria e controllai la pila di posta in partenza. Il corriere espresso non aveva ancora ritirato il mio pacchetto. Lo presi, tornai al mio ufficio e chiamai il laboratorio in Florida, curiosa di sapere quale fosse il problema. «Tempe, ciao. Fortuna che hai chiamato. Ti ho telefonato appena ho ricevuto la tua e-mail. Hai già spedito i campioni?» «Sono pronti, ma li ho ancora qui con me. C'è qualche problema?»
«No, no. Affatto. Anzi, la tua richiesta arriva giusto a proposito. Ascolta, le tue sconosciute hanno i denti, per caso?» «Sì.» «Benissimo. Perché qui al laboratorio avremmo un piccolo progetto di ricerca, e volevamo sapere se per caso eri interessata anche al luogo di nascita.» «Non ci avevo pensato, ma direi di sì. Saperlo potrebbe essere utile. Siete in grado di stabilire anche il luogo di nascita?» «In quello scantinato per caso il terreno ti risulta permeato d'acqua? Da una falda freatica?» «No. Anzi, direi che è piuttosto asciutto.» «Non posso prometterti niente, ma stiamo ottenendo risultati interessanti con l'analisi dell'isotopo dello stronzio. Se ci autorizzi ad archiviare i risultati nel nostro database, e poi ci ricontatti quando le tue ragazze verranno identificate, sarò lieto di eseguire questi test sperimentali sui tuoi campioni gratuitamente.» «Gratuitamente, hai detto?» «Sì, perché dobbiamo ampliare il più possibile il nostro database di riferimento.» «Che cosa ti devo mandare?» Arthur mi diede le istruzioni del caso e iniziò a spiegarmi perché era importante avere sia le ossa sia i denti. L'orologio diceva tre e cinquanta. Dovetti interromperlo. «Arthur, non potremmo parlare di questo quando mi darai i risultati? Perché se voglio far partire questi campioni con la posta di oggi, devo tornare agli scheletri e recuperare i denti nei prossimi trenta minuti.» «Sì, sì, certo Tempe. Ti dirò tutto con i risultati. Tieni conto che questi test potrebbero anche non portare a nulla, però... tentar non nuoce, giusto?» Ci salutammo e tornai rapidamente in obitorio. Dopo aver preso gli scheletri, tagliai un altro frammento di osso dal femore di ciascun corpo, riposi l'osso, presi la mandibola, tornai al mio laboratorio, fotografai le tre mandibole, estrassi il secondo molare destro da ognuna, imballai di nuovo il tutto, e riportai il pacchetto nella posta in partenza. Fortuna che avevo già fatto fare radiografie dentali. Alle quattro e mezzo, tornai in ufficio. Allungando le gambe sul davanzale della finestra, sorseggiai la mia Diet Coke e mangiai la prima delle due ciambelle cercando di non pensare alle
tre ragazze della pizzeria. Katy. Come stava Katy? Non avevo nessuna idea di cosa stesse facendo mia figlia in quel momento. Né sapevo esattamente dove fosse. Dovevo chiamarla? Guardai l'ora. Probabilmente era fuori, a lezione, oppure a studiare in biblioteca. Bene. Katy stava diligentemente frequentando le lezioni e progettando il suo futuro dopo l'università. E non mi teneva informata. Voleva dire che la mia bambina stava entrando nell'età adulta e d'ora in poi avrei avuto un ruolo solo marginale nella sua vita? Quel pensiero mi riportò alle ragazze i cui scheletri giacevano nel nostro obitorio. Perché non avevo neppure una fibra di tessuto? Mi era sfuggito qualcosa? Avrei dovuto usare un setaccio dalle maglie più fini? Il proprietario della pizzeria aveva trovato altri bottoni? Che cosa poteva spiegare tre ragazze sepolte nude in uno scantinato? Diet Coke. Altro genere di pensieri. Anne. Perché quella visita inaspettata? Che cosa si nascondeva dietro quella sua strana telefonata? Con la seconda ciambella, la mia mente tornò per l'ennesima volta agli scheletri. Se le tre ragazze erano morte tutte nello stesso momento, perché avevo rilevato la presenza di adipocera solo nel terzo gruppo di resti? Okay, perché erano avvolte in quell'involucro di cuoio. Ma perché solo uno dei tre scheletri? Un paio di morsi e nuovi temi per i miei pensieri. Un maglione che avevo visto nella vetrina di Ogilvy. Un rumorino nuovo nel motore della mia auto. Uno strano brufolo marrone sulla mia spalla destra. Alla fine della seconda ciambella, la mia mente non poté fare a meno di tornare agli scheletri. I corpi erano sepolti a meno di quindici centimetri. Perché così vicino alla superficie? Le sepolture dei nativi in genere sono molto più profonde. E anche le tombe antiche. E se davvero Arthur fosse riuscito a dirmi dov'erano nate le tre ragazze? Il luogo di nascita mi avrebbe aiutato? Oppure le sue analisi avrebbero semplicemente indicato che si trattava di persone della zona?
Forse LaManche in una cosa aveva ragione. Forse mi stavo lasciando coinvolgere troppo. Ero nervosa e sempre sulla difensiva. E non riuscivo a dormire bene. Quel caso era addirittura entrato nei miei sogni. La mia mente prese un'altra direzione. Era possibile che le mie insoddisfazioni sul lavoro fossero all'origine dei miei problemi con Ryan? Stavo per caso proiettando su di lui l'ansia e la frustrazione che provavo? Ryan. Come sollecitato da qualche elettrone sfuggito ai miei pensieri, il telefono squillò. Feci ruotare la sedia e sollevai la cornetta. «Dottoressa Brennan.» Susanne mi informò che un detective stava arrivando nel mio ufficio. Claudel. Proprio quello che mi mancava. Invece non era lui. Con il suo metro e ottantacinque, pantaloni di velluto e giacca di tweed, Ryan comparve sulla porta del mio ufficio. Guardò la Diet Coke e il velo di zucchero che mi punteggiava il camice e scosse la testa. «Questa donna è una contraddizione vivente.» «Ho gusti eclettici.» «I tuoi gusti faranno impazzire il tuo pancreas.» «Be'? Tanto è il mio pancreas.» Ryan sembrò sorpreso dalla durezza della mia risposta. «Ti ho colto in un brutto momento, pasticcino?» «Aspettavo un'altra persona.» Posai la lattina. «Tortino.» «Ultimamente mi capita di sentirlo spesso.» «Che cosa? Tortino?» «Che non sono in cima alle tue aspettative.» «Pensavo che mi chiamasse qualcuno con certe informazioni su un caso.» «Ancora una volta ho deluso aspettative di cui non sapevo nulla.» «Sembra di sentire Winston Churchill» dissi abbandonandomi sulla sedia. «Questa è una sciocchezza che non posso tollerare di sentir dire.» «Appena sufficiente, detective.» Cercai di raccogliere un po' di zucchero a velo dal camice con la punta del dito. «L'ha detta il caro vecchio Winnie.» «E tu l'hai ripetuta.» «Come vanno le cose con Claudel?» Ryan si appoggiò allo stipite e in-
crociò le gambe. Come sempre, non riuscii a fare a meno di guardarlo negli occhi. E come sempre, l'intensità di quelle iridi azzurre mi prese alla sprovvista. «Claudel può contare su una scorta molto limitata di cellule cerebrali. E le poche che possiede devono inviarsi e-mail regolarmente per tenersi in contatto.» «E il computer è spento oggi?» «A quanto pare. Oggi non l'ho sentito. E pensare che non vedo l'ora di parlare con lui per comunicargli una cosetta.» Mi leccai lo zucchero dalle dita e ne raccolsi un altro po'.» «E non vorresti dirla anche al tuo tortino?» «LaManche ha autorizzato la spesa per un test speciale che ho richiesto.» «Senza prima passare per Authier?» Annuii. «LaManche a volte è un vero birbante. Quale test?» «Datazione al carbonio 14.» «Come per le mummie e i dinosauri?» Ripetei a Ryan la breve spiegazione che avevo dato a LaManche, ma decisi di non parlare dell'analisi dell'isotopo di stronzio. Era un'ipotesi ancora troppo aleatoria. «Tra quanto i risultati?» «Spero tra non più di una settimana. LaManche mi ha consigliato di passare al terzo scheletro. In pratica, mi ha detto di lasciar perdere per ora la data del decesso.» «Non è un cattivo consiglio.» «Un po' frustrante.» «Fa parte del lavoro.» Il cercapersone di Ryan trillò. Lui controllò il numero e si rimise l'aggeggio alla cintura. «Okay, queste ragazze non sono morte la settimana scorsa. E nemmeno il mese scorso» proseguii. «Ma non posso fare a meno di pensare che stiamo perdendo del tempo prezioso. Non so perché, ma ho delle cattive sensazioni riguardo a questo caso.» «In che senso?» Raccontai a Ryan della signora Gallant/Ballant/Talent. «Che cosa ti ha detto esattamente?» «Che sapeva che cosa era successo in quell'edificio.»
«E cioè?» «Non l'ha detto.» «Potrebbe essere una mitomane.» «Potrebbe.» «Hai detto che sembrava una persona anziana, giusto? E possibile che...» «Ci ho pensato, Ryan. Ma se invece non è una mitomane? E se invece sapesse veramente qualcosa?» «Ti richiamerà.» «Non l'ha ancora fatto.» «Hai fatto qualcosa per rintracciare la chiamata?» «Sì.» «Vuoi che veda che cosa riesco a scoprire?» «No. Posso fare da sola.» «Che minaccia può rappresentare una vecchia signora?» «Questa donna sa della nostra gita in quella cantina. Dio solo sa che cos'altro ha letto o ha sentito su quegli scheletri. Hai visto "Le Journal". I media si sono buttati sulla notizia come cani sull'osso.» «A parte l'età, che cos'altro sai di questo edificio?» «Che tre ragazze erano sepolte nella sua cantina.» «Quando vuoi, sai essere una vera stronza, Brennan.» «Mi impegno molto.» «Ti va di cenare con me stasera?» «Ho da fare.» L'ufficio fu immerso in un silenzio opprimente. Trenta secondi. Un intero minuto. Poi Ryan si staccò dallo stipite e puntò i suoi fanali azzurri dritti su di me. Non aveva l'aria contenta. «Io e te dobbiamo parlare.» «Va bene» risposi. Adiós, cowboy, pensai mentre osservavo Ryan sparire oltre la porta. 9 Il tardo pomeriggio di un giorno feriale non è il momento migliore per circolare, a Montréal. Superato il tunnel Ville-Marie e imboccata la 20, procedevo a una velocità che al suo massimo raggiungeva i cinquanta chilometri orari. Al Turcot Interchange, avanzavo a singhiozzo, non più di tre o quattro metri per volta.
Sul paraurti di fronte, notai uno strano adesivo. LE SCONFITTE AUMENTERANNO FINCHÉ IL MORALE NON MIGLIORA. La prima lettura mi strappò un sorriso. Alla decima, l'avrei strappato dal paraurti. Traduzione. La rabbia da traffico aumenterà finché l'impazienza non scompare. Per ingannare l'attesa, presi a leggere i cartelloni pubblicitari. Gli slogan in pessimo inglese e francese attiravano l'attenzione su cellulari, Honda, fiction televisive e lacca per capelli. Con il buio, si era alzato un forte vento. Di tanto in tanto la mia auto si muoveva, come sospinta dall'invisibile piede di un gigante. Lentamente, la città in versione invernale sfilava davanti al mio parabrezza. Finestre illuminate sulle colline di Westmount. Lo scalo ferroviario immerso nel buio. Villette di periferia scintillanti di addobbi natalizi di pessimo gusto. Superata Ville Saint-Pierre, la situazione migliorò, e riuscii a raggiungere l'impetuosa velocità di quarantacinque chilometri orari. Le mie dita tamburellavano sul volante. L'orologio sul cruscotto diceva cinque e mezzo. L'aereo di Anne probabilmente era già atterrato. Un'ora dopo aver lasciato l'Istituto entrai nel terminal dell'aeroporto di Dorval. Anne aveva già passato la dogana e si trovava in mezzo a un gruppo di persone in attesa davanti agli arrivi. Per attirare la sua attenzione, alzai un braccio e lo agitai. Anne mi vide, afferrò il manico di un valigione grande quanto un vagone merci e si diresse verso di me. A tracolla aveva un computer portatile, appesa all'altra spalla una enorme borsetta di pelle. Improvviso déjà-vu. Mia sorella Harry, circondata da un mare di Louis Vuitton come se dovesse partire per il giro del mondo. Era venuta a trovarmi per una settimana. Si era fermata un mese. Oh, santo cielo. Anne è molto alta e molto bionda. Molti occhi oltre ai miei la seguirono, mentre trascinava il suo carro merci attraverso la folla. Quando mi raggiunse, si chinò in avanti e mi gettò le braccia al collo. Il computer scivolò in avanti e mi colpì in pieno petto. «C'era un traffico da incubo. Scusami» dissi, prendendo la borsa che Anne portava sulla spalla. «Sei davvero un tesoro a fare tutta questa strada per me.» «Sono felicissima di averti qui.» «Il pilota ha detto che ci sono diciotto gradi sottozero. Ma è possibile?» L'accento di Anne suonava quanto mai fuori posto nel vociare québécois
dell'aeroporto. «Sì. Sono gradi Celsius.» Evitai di farle notare che, anche in gradi Fahrenheit, la temperatura sarebbe stata giusto un pelo sopra lo zero. «Spero che ci sia una bufera di neve. Sarebbe davvero una ciliegina sulla torta.» «Ti sei portata degli abiti caldi?» Anne allargò le braccia in un gesto che voleva dire: controlla tu stessa. La mia amica indossava un maglione fatto a mano, giacca scamosciata, pantaloni di velluto a coste e sciarpa in lana d'angora rosa con berretto abbinato. Ero certa che in borsa avesse anche un paio di muffole rosa per completare la sua mise. Conoscevo il suo pensiero in merito. «Chic sempre e comunque.» Anne era nata in Alabama e aveva studiato in Mississippi, ma aveva percorso in lungo e in larga l'America del Nord, perciò come molti «meridionali» aveva acquisito una comprensione teorica del concetto di freddo. Peccato che il cervello sia un genitore iperprotettivo. E quello che non giudica importante, lo nasconde. Come molti abitanti dei sub-tropici, Anne aveva rimosso la realtà delle temperature sottozero. Qui eravamo in Québec. Anne era vestita per affrontare un autunno fresco nelle Blue Ridge Mountains. Uscendo dal terminal, sentii Miss Inverno Chic trattenere il fiato. Sorrisi, e la guidai rapidamente verso la mia auto. Non potevo biasimare Anne. Nonostante mi spostassi regolarmente tra Charlotte e Montréal, quelle prime avvisaglie di inverno avevano colto alla sprovvista perfino me. Anne mi parlò di tante cose durante il tragitto verso casa. Dei suoi gatti, Regis e Kathie-Lee. Dei gemelli, Josh e Lola. Del figlio più giovane, Stuart, che era diventato un portavoce del movimento per i diritti civili dei gay. Di tanto in tanto taceva, e uno strano silenzio scendeva nel piccolo spazio intorno a noi. Mentre guidavo, ogni tanto mi voltavo e le lanciavo un rapido sguardo. Sul viso di Anne brillava un mosaico di neon e di luci di automobili. Ma dalla sua espressione non riuscivo a capire granché. Non aveva ancora detto una parola circa il motivo della sua visita. Okay, amica mia. Raccontami tutto quando sarai pronta. Un'ora e mezza dopo Anne iniziò ad abbozzare una spiegazione. Mentre parlava, percepii nel suo tono di voce una certa esitazione, come se mettesse a fuoco i concetti nel momento stesso in cui li pronunciava.
Eravamo passate a casa per lasciare i bagagli di Anne, e adesso stavamo cenando alla Trattoria Trastevere di Lower Crescent. Il cameriere ci aveva appena portato le nostre insalate Caesar. Io bevevo Perrier. Anne era al terzo chardonnay. E il vino stava sortendo il suo effetto. «Ho quarantasei anni, Tempe. Se non cerco di dare un qualche significato alla vita adesso, rischio di non trovare più niente per me là fuori.» E battendosi un dito sul petto, aggiunse: «E nemmeno qui dentro». Di nuovo, non riuscii a non pensare a mia sorella. Harry era venuta da me a Montréal in cerca della pace interiore. E aveva finito per lasciarsi irretire da una setta di pazzi apocalittici che stavano per regalarle la pace permanente. Fortunatamente, era sopravvissuta. Il discorso di Anne sembrava orientato verso gli stessi psicosproloqui pseudonaturali. «Quindi i ragazzi stanno bene?» «Benissimo.» «Per caso Tom ha fatto qualcosa per farti arrabbiare?» Il dito di Anne si volse verso di me. «No, Tom non ha fatto proprio niente. Lui non ha mai fatto niente. A parte difendere un branco di stronzi che vogliono far fuori tutti gli alberi del mondo, e passare il resto del suo tempo in cerca del Sacro Graal. Ma dovevo immaginarlo, quando ho sposato uno che mi chiama Turnip.» In effetti quel cognome, che significava «rapa», nel corso degli anni era sempre stato oggetto di grandi battute da parte degli amici. «Ma con i tuberi ormai ho chiuso.» «L'hai lasciato?» Non potevo crederci. «Sì.» «Dopo ventiquattro anni e tre figli?» «Tutto questo non riguarda i miei figli.» Rimasi con la forchetta a mezz'aria. Anne e io ci guardammo negli occhi. «Sai bene che cosa intendo dire, Tempe» disse. «I ragazzi ormai sono grandi. Josh e Lola si sono laureati. Stuart è via, a far quell'accidente che fa lui.» Infilzò una foglia di lattuga. «Loro ormai si stanno facendo la loro vita, e a me non resta altro che vendere case e coltivare quelle fottute azalee.» Alla fine del mio dottorato alla Northwestern, Pete era entrato in uno studio legale di Charlotte e io avevo accettato un incarico alla University of North Carolina della stessa città. Ero felice di lasciare Chicago e di tor-
nare alla mia adorata città d'origine. Ma ovviamente la decisione aveva anche i suoi lati negativi. Nel giro di un attimo, mi ritrovai circondata da docenti universitari. Impegnati. Determinati. Intelligenti. E con una vita sociale inesistente. I miei colleghi non avevano figli e non sapevano nulla delle esigenze della vita di una famiglia. Ogni pomeriggio, andavo a riprendere la mia bambina all'asilo ed entravo in una specie di spot del circolo del golf. Prati inglesi impeccabili. Automobili classe A. Mogli griffate dalla testa ai piedi senza nessun desiderio di lavorare fuori casa. Conversazioni che non esulavano mai dal tennis, dal golf e dal parco macchine dei mariti. Quando ormai avevo rinunciato a ogni speranza di trovare un'amica, incontrai Anne, a un tè di beneficenza dato da una vicina. O per essere più precisi, la sentii parlare. Mi avvicinai. E l'intesa fu immediata. Da quel momento, Anne e io avevamo cresciuto insieme i nostri figli, superando ossa rotte e cuori infranti. Le nostre famiglie avevano condiviso vent'anni di campeggio e di settimane bianche, cene del Ringraziamento, battesimi e funerali. Fino al fallimento del mio matrimonio, i Turnip e i Peterson non avevano mai saltato un'estate sull'oceano. E adesso Anne e io andavamo al mare da sole. «Che cosa hai detto ai ragazzi?» «Niente. In realtà, sono ancora a casa. Diciamo che mi sono presa una vacanza. Che sono in viaggio.» «Ma...» «Basta parlare di me, tesoro mio. Parliamo di te, invece. A che cosa stai lavorando in questo periodo?» Inutile insistere, quando Anne decideva di non parlare. Le raccontai per sommi capi il caso degli scheletri nella pizzeria. E le parlai delle mie frustrazioni con il detective Claudel. «Ne verrai a capo, vedrai. Come hai sempre fatto. Cerca di guardare al lato positivo della cosa. Stai uscendo con qualcuno?» «Più o meno.» Il cameriere ci portò i piatti che avevamo ordinato. Lasagne per Anne. Piccata di vitello per me. Anne ordinò dell'altro vino, poi aggiunse pepe e parmigiano sulle sue lasagne. Io feci un altro tentativo di farla parlare di Tom. «Qual è esattamente lo scopo di questo tuo nuovo progetto di crescita
personale?» Cercai di nascondere il più possibile il cinismo dal mio tono. «Autorealizzazione. Autostima. Riconoscimento» disse sbattendo il macinapepe sul tavolo. «E non pensarci nemmeno. Non ho nessuna intenzione di iscrivermi nemmeno a uno di quei corsi di merda.» Mangiammo in silenzio per qualche istante. Quando Anne riprese la parola, il suo tono era più disteso, ma in un certo senso anche più formale. «Ho ricevuto più attenzioni dal bellone del 3C di quelle che mi ha rivolto Tom negli ultimi dodici mesi. Secondo me il ragazzo mi starà già comprando una pianta.» Anne prese un sorso di vino. «Anzi, mentre parliamo, la tua segreteria telefonica si starà riempiendo di messaggi.» «Chi è questo bellone del 3C?» «Un caro e dolce ometto che ho conosciuto in aereo.» «E gli hai dato il mio numero di telefono?» «Tranquilla, è innocuo.» «E tu come sai che è innocuo?» «Perché era in prima classe.» «Anche i cari ragazzi che hanno raso al suolo le Torri Gemelle erano seduti in prima classe.» La mia amica mi guardò come se stessi insinuando che aveva fatto un passo falso. «Calma, Tempe. Non ho detto che ho intenzione di uscire con lui.» Non ne ero troppo convinta. Sono estremamente cauta quando si tratta di dare il mio numero di telefono. E Anne l'aveva allegramente spifferato a uno sconosciuto, che adesso poteva già essersi attaccato al telefono in cerca della mia amica. «Avevo bevuto un paio di Manhattan» proseguì Anne ignorando quanto fossi seccata. «Abbiamo parlato. Mi ha chiesto dove poteva trovarmi, e gli ho scribacchiato il tutto su un tovagliolo.» «Il tutto? Intendi dire che gli hai dato anche l'indirizzo?» Anne ha alzato gli occhi al soffitto con uno stile degno di un Oscar. «Sono sicura che il nostro amico l'ha buttato appena uscito dall'aeroporto. Com'è la tua piccata di vitello?» Diversamente dalla nostra conversazione, la mia carne era perfetta. «Buona» bofonchiai. In effetti il tizio forse non avrebbe chiamato. Me lo sarei trovato direttamente sulla porta di casa. «Le mie lasagne sono parfait. Visto? Sono già lontana una galassia dalla cara vecchia Clover e dal South Carolina.» Anne disegnò un cerchio nell'aria con la forchetta. «Québec! La belle province! C'est magnifique!»
Mi hanno spesso incolpata di parlare un francese del Sud. Ma il mio accento è quasi parigino in confronto a quello di Anne. «Sto solo prendendo una boccata di ossigeno, okay? Una delle nostre "separazioni sabbatiche", ricordi?» Quando ero ancora sposata con Pete, Anne e io scherzavamo spesso sulle nostre «separazioni sabbatiche». Era la nostra frase in codice per dire «un viaggetto tra di noi, uomini esclusi». «Potrei essere morta da una settimana e Tom Turnip non se ne accorgerebbe.» La forchetta di Anne ora puntava verso di me. «No. Forse no. Se rimane senza carta igienica, potrebbe mettersi a gridare per sapere dove sono finita.» Anne scoppiò a ridere. «Un'immagine carina, vero, tesoro? Il grande avvocato, sorpreso a culo in aria...» «Annie...» «Dolcezza, tranquilla. Il tizio dell'aereo l'ho già dimenticato.» Mangiammo in silenzio per un po'. Quando ebbi finito la carne, tentai di riprendere l'argomento. «Annie, guardami. Sono io, Tempe. Conosco te. Conosco Tom. Vi ho visti insieme per vent'anni. Per favore, dimmi che cosa sta succedendo.» Anne posò la forchetta e stropicciò nervosamente il tovagliolo di carta. Passò un intero minuto prima che iniziasse a parlare. «Quando io e Tom ci siamo conosciuti, le cose tra noi erano fantastiche. Una festa tutte le notti. E non solo all'inizio. I libri e i talk show dicono che con il tempo le cose tra marito e moglie si fanno un po' tiepide, e che è normale. Ma tra me e Tom non era così.» Il tovagliolo iniziò ad avere il bordo frastagliato. «Almeno, non fino a un paio di anni fa.» «Stai parlando di sesso, Anne?» «Sto parlando di un totale disastro. Tom ha smesso di bruciare e ha preso a interessarsi a tutto tranne che a me. Ho iniziato ad accettare di averlo sempre meno. E l'altra settimana mi sono resa conto che ormai quasi non ci incrociamo più.» «Per caso è successo qualcosa di grave?» «È proprio questo il punto, Tempe. Non è successo niente. Non sta succedendo niente. Non sta per succedere niente. Ho iniziato a non provare più niente. E ho iniziato a pensare che non provare più niente non era poi così male. Non provare più niente ha iniziato a sembrarmi normale.» Anne raccolse il tovagliolo ridotto a brandelli in un mucchietto.
«La vita è breve, Tempe. Non voglio che il mio epitaffio reciti: QUI GIACE UNA DONNA CHE VENDEVA CASE.» «Non ti sembra un po' presto per staccare la spina?» Anne ebbe un gesto di stizza, e i pezzetti di tovagliolo volteggiarono sul pavimento. «Ho voluto essere la moglie perfetta per metà della mia vita. Il risultato è stato una profonda delusione. Mordi e fuggi, questa è la mia nuova filosofia.» «Hai pensato di andare da un consulente matrimoniale insieme a Tom?» «E quando? Tra una partita di golf e una di bridge?» «Lo sai che Tom ti ama.» «Davvero?» «Nel corso della vita incontriamo poche persone che ci vogliono bene veramente.» «Come te, tesoro.» Anne scolò il quarto bicchiere di chardonnay in una volta sola. «E sono proprio quelle le persone che ci feriscono di più.» «Annie.» La costrinsi a guardarmi negli occhi. I suoi erano di un profondo verde bosco, e le pupille brillavano lucide di alcol. «Sei sicura?» Anne si prese la testa fra le mani. Un attimo di esitazione, e poi tornò a guardami. «No.» L'infelicità della sua voce mi strinse il cuore. Durante la cena, il vento si era alzato e la temperatura, viceversa, si era abbassata di molto. Percorrere le poche centinaia di metri che ci separavano da casa fu un'impresa non da poco. Le raffiche di vento imperversavano lungo la Sainte-Catherine, tormentando i nostri vestiti e sferzandoci il viso di ghiaccio e neve. Anne e io correvamo curve come soldati alla carica. Svoltato l'angolo del mio isolato, notai qualcosa di strano nella neve che si era accumulata davanti al portone esterno. Nonostante le lacrime causate dal freddo e dal vento, mi accorsi che il cumulo di neve era davvero molto strano. Mentre cercavo di mettere a fuoco, il cumulo si espanse, cambiò forma e tornò compatto. Mi fermai e corrugai la fronte. Possibile? Un'appendice si staccò dal cumulo, poi rientrò. Che diavolo stava succedendo? Schizzai sull'altro lato della strada e salii di corsa i gradini esterni.
«Birdie!» Il mio gatto sollevò lentamente la testa e alzò gli occhi verso di me. Quando mi riconobbe, mi saltò in braccio senza quasi flettere le zampe. Una nuvoletta di vapore mi uscì dalle labbra quando il mio petto accolse il peso della bestiola. Subito, Birdie risalì fino alla spalla e mi appoggiò la testa sul collo, premendo il resto del corpo sul giaccone. Aveva il pelo bagnato. E tremava. Forse di freddo, forse di paura. «Che cosa ci fa qui fuori?» Una raffica di vento si portò via la domanda di Anne e la sospinse verso la strada. «Non lo so.» «Non può andar fuori da solo?» «No. Qualcuno deve avergli aperto la porta.» «Sei in confidenza con qualcuno e gli hai lasciato le chiavi?» «No.» «Allora, chi è entrato?» «Non ne ho la più pallida idea.» «Forse è meglio che andiamo a dare un'occhiata.» Anne si tolse i guanti e prese dalla borsetta uno spray irritante.» «Credo che qui sia illegale» dissi. «Be', allora sparami.» Anne aprì il portone. Entrare nell'atrio fu come passare da un vortice al vuoto. Posai Birdie, mi tolsi i guanti e presi le chiavi di tasca. Con le mani sudate aprii la porta interna. L'ingresso era tranquillo come un cimitero. Sul pavimento di marmo e sulla passatoia non c'erano tracce di neve né impronte. Con il cuore che batteva forte, attraversai l'ingresso e svoltai a destra. Anne mi seguì. I corridoi e il resto dell'ingresso erano illuminati da applique in falso ottone. In genere anche con l'interruttore posizionato sul minimo, l'illuminazione è sufficiente. Quella sera, due lampadine erano fulminate e alcune zone rimanevano al buio. Quand'ero uscita quelle lampadine erano già fulminate? Non ricordavo. La porta di casa mia era di fronte a me. Quando la vidi, mi fermai di colpo, tesa come una corda di violino. Uno spazio nero si apriva tra il battente e lo stipite. 10
Attraverso la porta aperta, intravidi delle ombre confuse e una strana luminescenza, come quella della luna sull'acqua. Mi voltai indietro. Anne mi fissava, con un braccio intorno al gatto e l'altro alzato, pronto a usare lo spray urticante. Birdie, aggrappato al suo petto, girava la testa di centottanta gradi per guardare la porta di casa. Guardai avanti, sforzandomi di cogliere qualche rumore. Udii dei passi. Un colpo di tosse. Il fruscio di una manica. Alle mie spalle, il respiro agitato di Anne. Oltre la porta, un silenzio scoraggiante. Eravamo tutti e tre immobili, in apprensione, gli occhi sgranati. Poi Birdie fece la sua mossa. Salì sulla spalla di Anne e in un lampo balzò a terra e schizzò verso la porta aperta. Cercando di trattenerlo, Anne riuscì soltanto a deviare la sua traiettoria di volo. Le zampe del mio gatto finirono sul battente, sbattendolo contro la parete. Birdie si lanciò all'interno, mentre la porta rimbalzava sullo stipite, richiudendosi. Mi sentii il sangue defluire dal cervello. Per un attimo fui incapace di reagire. Andare via? Gridare aiuto? Chiamare il soccorso d'emergenza? Ma poiché trovo insopportabili i cellulari che trillano al ristorante, avevo deciso di lasciare il mio a casa. Maledizione! Mi voltai verso Anne. Nella penombra, il suo viso era una maschera di tensione. A gesti, le chiesi di prendere il cellulare. Lei scosse la testa, senza abbassare la bomboletta neanche per un secondo. Lady Liberty con lo spray al peperoncino ma senza cellulare. Ci scambiammo una serie di sguardi indecisi. Fui la prima a parlare. «Quando siamo uscite per andare al ristorante, è possibile che la serratura della porta non abbia scattato?» le sussurrai. «Io ho tirato forte. Ma quella è la tua porta. La conosci meglio di me.» E poi, senza quasi emettere suono, riuscì ad aggiungere: «Comunque, questo non spiega perché Birdie era fuori nella neve». «Se qualcuno ci aspettasse in casa per aggredirci, la porta non sarebbe aperta, giusto?» dissi. «Per aggredirci?» Anne sgranò gli occhi. «Oh, santo cielo. Per caso con il tuo lavoro non avrai rotto le scatole a qualche pazzo omicida?» «Non intendevo dire questo, Anne.» Era esattamente quel che intendevo
dire. «Parlavo di qualcuno che casualmente si è introdotto in casa mia.» Anne alzò gli occhi al cielo. «Fantastico. Uno stupratore pazzo.» «Il punto non è questo. Voglio dire che la porta aperta è un chiaro indizio che all'interno è entrato qualcuno.» «Adesso che mi hai detto questo mi sento più sollevata.» Quando Anne è tesa, le è difficile tenere a freno il sarcasmo. «Se si trattasse di normali ladri di appartamento, non annuncerebbero la loro presenza con una porta aperta. Quella porta non ha senso, se c'è qualcuno all'interno.» Lady Liberty abbassò il braccio per un attimo, ma non rispose. Lentamente mi spostai verso la porta e avvicinai l'orecchio alla porta. Nessun rumore. Ma qualcos'altro. Mi chinai a terra e abbassai la mano vicino alla soglia. Dalla fessura filtrava una corrente d'aria fredda. «Cosa c'è?» chiese Anne, sempre sussurrando. Mi alzai. «Dentro dev'esserci una porta o una finestra aperta.» «Significa che Jack lo Squartatore se l'è filata?» In quel momento la porta dell'atrio si aprì. Tutt'e due ci irrigidimmo. Voci. Maschili. Lo spray di Anne schizzò in avanti. Dei passi si allontanarono nel corridoio di fronte al mio. Una porta si aprì e poi si richiuse. Silenzio. Altri passi. Questa volta diretti verso di noi! Indicai ad Anne di nascondersi sotto la scala parallela alla mia porta e io feci altrettanto. Una figura comparve all'inizio del mio corridoio, un berretto di lana calcato sugli occhi. La poca luce e il cappello impedivano di vedere il viso dell'uomo. Riuscii solo a distinguere la sagoma del suo corpo. Era alto. E snello. L'uomo esitò, poi si tolse il berretto e avanzò verso di noi. Le nocche di Anne diventarono bianche intorno alla bomboletta. La figura passò sotto una applique. Capelli biondi. Giubbotto. Mi sentii invadere dal sollievo. Subito seguito dall'imbarazzo. E da altri sentimenti di cui non ero troppo sicura. Fermai Anne con un gesto e uscii dal nascondiglio.
«Che cosa ci fai qui?» sussurrai. La mia voce era tesa per via di tutta l'adrenalina che avevo in corpo. Il sorriso di Ryan si fece meno convinto, ma resistette. «Sto imparando a considerare questa frase come un saluto affettuoso.» «Continuo a ripeterti questa frase perché arrivi sempre quando meno me lo aspetto.» Ryan si portò le mani sul petto. «Sono un uomo innamorato.» Allargò le braccia. «Non posso starti lontano.» Anne abbassò la bomboletta e mi guardò con aria confusa. Ryan si voltò, pronto a regalare alla mia amica il suo sguardo più affascinante. Ma quando vide lo spray, ebbe un attimo di esitazione. E mi guardò con aria interrogativa. Fastidio e imbarazzo iniziarono una dura lotta con paura e sollievo. Se in casa mia non c'era nessun ladro, non volevo far la figura della stupida. Se invece c'era, non volevo aver bisogno dell'aiuto di Ryan. Né della sua protezione. Purtroppo, in quel momento temetti di aver bisogno di entrambe le cose. «Credo che qualcuno si sia introdotto in casa mia.» Ryan non mi chiese nulla. Parlò senza muoversi. «Quanto tempo siete state fuori?» «Un paio d'ore. Siamo tornate da cinque minuti, anche meno.» «Hai inserito l'antifurto quando sei uscita?» In genere, sono attenta a questo genere di cose. Quella sera, la presenza di Anne forse mi aveva distratto. «È probabile.» Non ero affatto sicura. Ryan infilò in tasca guanti e berretto, si abbassò la cerniera del giubbotto e prese la sua Glock. Poi con un gesto ci indicò di tornare verso le scale. Anne ubbidì, e si allontanò di qualche passo con la schiena contro la parete. Io mi spostai dietro Ryan. Ryan si avvicinò al muro, e con il calcio della pistola batté sulla porta. «Police! On entre!» Nessuna risposta. Nessun movimento. Ryan ripeté il suo avvertimento. Prima in francese, poi in inglese. Silenzio. Ryan puntò l'arma contro la serratura. Io presi le chiavi dalla borsa e aprii. Ryan mi spostò dietro di sé con un braccio e aprì la porta con un piede. «Non ti muovere» mi ordinò, e impugnando la pistola con due mani, su-
però la soglia. Qualcosa gli scricchiolò sotto le scarpe. Un passo. Due. La parete a specchio dell'ingresso era un enorme spazio nero. Le luci del cortile scintillavano come fosforo sul pavimento di marmo. Tre. Due puntini color zafferano scintillarono sul tavolo di vetro della sala da pranzo. Altre sagome presero lentamente forma nel buio. Lo scrittoio. Un angolo del buffet. Un improvviso presentimento. Di nuovo, Ryan gridò il suo avvertimento. Di nuovo, non ci fu risposta. Ryan e io avanzammo nel buio, come bestie feroci che fiutavano l'aria. Rumori di vuoto. Il frigorifero. L'umidificatore. Freddo. Dal soggiorno. Dal corridoio laterale, Ryan allungò una mano e premette l'interruttore. Indicandomi di stare ferma, proseguì verso destra e scomparve dietro l'angolo della parete. Una a una, si accesero le luci della camera da letto, del bagno, dello studio. Nessuno si mosse. Nessuno scappò via. Gli unici rumori erano gli appostamenti di Ryan. Tornato nell'ingresso principale, Ryan entrò in cucina, e poi nel soggiorno. Dopo qualche secondo ricomparve. «Pulito.» Presi il primo vero respiro da quando eravamo entrati nell'appartamento. Nel vedermi così terrorizzata, Ryan mise la sicura alla pistola, la infilò nella fondina e mi strinse tra le braccia. «Ti hanno tagliato un pannello di vetro dalla vetrata del soggiorno.» «E l'antifurto?» chiesi con voce spaventata e tremante. «Non è entrato in funzione. Non hai anche un individuatore di movimento?» «Disattivato.» Sentii Ryan toccarmi la testa con il mento. «Birdie continuava a farlo suonare» dissi, per giustificarmi. «Che diavolo sta succedendo?» Ryan e io ci voltammo. Anne era ferma sulla soglia, spray in mano, occhi sgranati. «Bienvenue à Montréal» disse Ryan.
Anne alzò un sopracciglio. «È un poliziotto» spiegai. «Per servirvi e proteggervi» disse Ryan. Anne abbassò il sopracciglio e lo spray. «Quel che si dice, un poliziotto al servizio della comunità.» Ryan mi lasciò e io procedetti alle presentazioni. Nel sentire la mia voce, Birdie uscì dalla camera da letto e prese a disegnare degli otto intorno alle mie caviglie, con il pelo dritto per l'agitazione. «Il detective Ryan sarebbe il "più o meno" di cui mi hai accennato a cena?» Anne alzò di nuovo il sopracciglio con aria interrogativa. «Qualcuno è entrato in casa» dissi, facendole chiaramente capire con uno sguardo che non era il momento di parlarne. «Merda!» esclamò Anne entrando nell'ingresso accompagnata da uno scricchiolio di cocci sotto le scarpe. Ryan chiamò la polizia, e Anne e io cercammo di valutare i danni. Mentre il pannello della vetrata del soggiorno era stato tagliato di netto, senza arrecare nessun danno ai fili del sistema antifurto, tutti i vetri dell'ingresso e del soggiorno erano stati frantumati, così come gli specchi del bagno e i vetri di tutte le cornici della casa, e i cocci scintillavano su quasi tutte le superfici orizzontali della casa. A parte qualche libro e giornale sparso qui e là, la zona giorno non aveva subito grossi danni. Al contrario, le stanze da letto erano nel caos. I cuscini erano stati sventrati, i cassetti rovesciati sul pavimento, gli armadi svuotati. Dopo un rapido inventario, avevamo individuato due oggetti mancanti: la macchina fotografica digitale di Anne, e il suo computer portatile. Il resto, sembrava esserci tutto. «Grazie a Dio», commentò Anne, scomodando la divinità. «Sono davvero desolata» dissi, indicando le sue cose con aria colpevole. Gettando il sacchetto con i gioielli sulla specchiera, Anne si mise una mano sul fianco e disse: «Mi sembra di capire che gli stronzetti non hanno apprezzato il gusto di Tom Turnip in fatto di pietre preziose». Ci volle un'ora per completare tutti i verbali del caso. Gli agenti promisero che il mattino dopo avrebbero mandato qualcuno a compiere le rilevazioni di impronte digitali e delle scarpe e gli eventuali segni di effrazione. Anne e io li ringraziammo, ma senza grande entusiasmo. Sapevamo tutti che le sue cose erano scomparse nel buco nero dei piccoli furti.
Ryan si fermò. Forse per convincere i colleghi della CUM della sua diligenza. Forse per risollevare il mio spirito. Quando i poliziotti lasciarono l'appartamento, Ryan offrì casa sua come rifugio. Io guardai Anne. Lei scosse la testa. I suoi occhi mi dissero che l'adrenalina stava già cedendo il posto all'alcol. Anne e io cercammo di pulire l'appartamento alla bell'e meglio, mentre Ryan andò a cercare nastro adesivo, cartone e plastica. Quando tornò, lo osservammo rattoppare il pannello di vetro, poi Anne prese congedo e scomparve nel bagno. Mentre guardavo Ryan riporre il rotolo di nastro adesivo in un sacchetto di carta, mi resi conto che non avevo idea per quale motivo era passato da me. «Non so come ringraziarti» iniziai. «Non devi ringraziarmi.» «Sono stata così assorbita da questo...» alzai una mano e indicai il disastro che avevo intorno «... pasticcio, che non ti ho nemmeno chiesto perché sei passato.» Ryan posò il sacchetto sul tavolino, si alzò e mi mise le mani sulle spalle. Per un lungo momento non disse nulla. Poi il suo viso sembrò distendersi, e mi spostò una ciocca di capelli dal viso. Quando credetti di non poter più sopportare quel silenzio, parlò. «Volevo dirti che per un po' non sarò molto disponibile.» Stretta allo stomaco. Ci siamo. La fine della fine. «Non posso scendere nei dettagli, ma è una cosa grossa. CUM, SQ, RCMP. Ci sono perfino gli americani. L'operazione è iniziata da diversi mesi.» Ci volle un attimo prima che afferrassi il senso di ciò che mi stava dicendo. «Stai parlando di un'operazione sotto copertura?» «Ci sono dentro anche Claudel e Charbonneau. Non comprometto nulla, se te lo dico.» La mia mente si rifiutava di trarre conclusioni. «Perché mi stai dicendo questo?» «Per spiegarti il disinteresse di Claudel per le tue ossa. So che ti sta dando sui nervi.» «Andrai via?» «Non è quello che voglio.» Un accenno di sorriso. «Ma fa parte del gioco.»
Abbassai lo sguardo sulle mie mani. «Detesto lasciarti sola in questo casino.» «Non ho chiamato rinforzi, Ryan. Sei capitato qui per caso.» «Questa storia non mi piace, Tempe.» La voce di Ryan era delicata. «Non è poi una cosa così grave.» Sentii due occhi cobalto indagare i miei lineamenti. «Pensavo di fare richiesta affinché ti mettano una pattuglia di sorveglianza qui fuori.» «Vedrai che non ce ne sarà bisogno.» Ryan mi sollevò il mento con un dito. «Non ho capito che cosa sia successo qui questa sera, ma ho intenzione di scoprirlo.» «Sarà semplicemente uno stupidissimo topo d'appartamenti.» Il dito di Ryan si spostò sulle mie labbra. «Pensaci bene. Che cosa hanno preso? Che cosa hanno lasciato? Perché sono entrati così lisci, e poi hanno spaccato tutti i vetri?» Ryan mi strinse le mani nelle sue, in un gesto inteso a tranquillizzarmi. Invece, quel gesto aumentò la mia agitazione. «Vorrei davvero fermarmi, Tempe.» Osservai il suo viso, sperando in qualche parola che potesse confortarmi. Invece, Ryan mi lasciò e si infilò il giubbotto. Quindi prese il sacchetto con il nastro adesivo, mi sfiorò la guancia e uscì. Rimasi immobile dov'ero per qualche secondo, riflettendo sulla sua ultima frase. Fermarsi quanto? Una notte? Una vita? Fermarsi dove? Dallo studio non arrivava nessun rumore. La luce di Anne era spenta. Alzai il riscaldamento, controllai la chiusura di tutte le porte e di tutte le finestre, inserii l'antifurto e controllai il telefono. Poi andai nella mia stanza. Prima non l'avevo notato. Quando superai la soglia, attirò la mia attenzione come un fantasma malevolo. Le gambe presero a tremarmi per lo shock quando vidi il macabro oltraggio sopra il mio letto. 11 «No!» Saltai sul letto e strappai con veemenza una lunga scheggia acuminata
dal quadro sopra la testata. Poi la scagliai con tutte le forze in fondo alla stanza. Il vetro si frantumò in mille pezzi e i frammenti rimbalzarono sul muro e ricaddero sugli altri che io e Anne avevamo spazzato ai lati del pavimento nella nostra veloce pulizia. «Ma guarda che razza di figlio di puttana!» Avevo il cuore che batteva all'impazzata e le lacrime mi bruciavano dietro le palpebre. Mi spogliai e scagliai lontano i vestiti uno a uno, come avevo fatto con la scheggia di vetro. Poi mi infilai sotto le coperte, nuda e tremante. Quando era ancora una matricola all'università, Katy aveva frequentato un corso di storia dell'arte. Il suo interesse era stato di breve durata, ma durante quella rapida fioritura, mia figlia aveva vissuto per le beaux arts una divorante passione. In un semestre, aveva prodotto quattro stampe, quattordici disegni e sei tele a olio. Per il mio quarantesimo compleanno, la mia unica figlia mi aveva regalato un Katy Peterson originale che raffigurava un'aspra interpretazione Matisse-incontra-Rousseau di un paesaggio collinare di Charlottesville. Quella tela per me è sempre stata molto preziosa, ed è uno dei pochi oggetti che ho portato in Québec per sentirmi a casa anche in questo appartamento. Il paesaggio di Katy è l'ultima cosa che guardo quando mi infilo sotto le coperte, e non manca mai di attirare il mio sguardo quando mi muovo per la stanza. Perché non ti sei preso quello che volevi? Perché hai dovuto rovinare il quadro di Katy? Perché hai rovinato il meraviglioso quadro di mia figlia? Mi sfregai gli occhi, troppo furiosa per piangere, troppo furiosa per non piangere. Le mie mani continuarono a stringere le coperte. I minuti passarono. Uno. Due. Sentii scivolare le prime lacrime sulle tempie. Tre. Quattro. Infine, il mio respiro si fece regolare e le mani allentarono la presa sulle coperte. Aprii gli occhi nel buio, e trovai solo il morbido riverbero arancione della radiosveglia. Fissai i numeri, cercando di tornare a formulare solo pensieri razionali. Poco alla volta, la rabbia scemò e iniziai a ricomporre il mosaico delle
ultime tre ore. Che cosa era successo dentro casa mia? Io e Anne avevamo solo interrotto un furto o eravamo capitate nel mezzo di qualcosa di più sinistro? Di nuovo, sentii le mie dita serrare le coperte. Uno sconosciuto aveva violato l'intimità del mio spazio. Chi? Un ladro che cercava oggetti di particolare valore? Un tossico in cerca di qualunque cosa potesse finanziare un buco? Ragazzini in cerca di un brivido? Perché? E soprattutto, perché quella violenza gratuita? Ricordai le parola di Ryan. Che cosa avevano rubato? Il portatile e la macchina fotografica di Anne. Che cosa c'era di strano? Il sacchetto con i gioielli era perfettamente in vista. E conteneva oggetti piccoli e di grande valore. Perché non hanno rubato quelli? Il televisore? Il lettore DVD? Non erano maneggevoli? Il mio computer portatile? Nella confusione dell'arrivo di Anne, l'avevo lasciato nel bagagliaio dell'auto. Il ladro era stato disturbato prima di trovare la roba buona? Non molto probabile. Aveva già avuto il tempo di rompere i vetri. Ammesso che fosse un uomo. Anche se la violenza gratuita era una caratteristica più comune nei maschi della specie. La porta principale era aperta quando siamo arrivate. Le porte che danno sul cortile erano chiuse dall'interno. Fuggire dalle vetrate del salone avrebbe significato saltare il recinto del cortile sul retro. E allora? Era lo stesso recinto da cui era entrato. La porta principale era stata lasciata aperta solo per l'effetto che mi avrebbe fatto trovarla così al mio ritorno? Birdie era stato cacciato fuori, oppure era fuggito attraverso la vetrata quando il ladro aveva iniziato a frantumare i vetri? Mi girai. Diedi un pugno al cuscino. Mi rigirai. Perché tutti quei danni? Dov'erano i miei vicini? Possibile che nessuno abbia sentito? Aveva ragione Ryan? Si trattava di qualcosa di più di un semplice furto? I ladri lavorano in silenzio. Perché tagliare con tanta precisione la vetrata del salone e poi fracassare specchi e quadri? Perché infierire sul quadro di Katy? Un'altra fitta di rabbia. Quel gesto era forse una minaccia? Un avvertimento? E se lo era, a chi era rivolto? A me? Alla mia amica Anne?
E da parte di chi? Da uno dei pazzi omicidi di cui mi ero occupata? Da un pazzo omicida sconosciuto? Dal tizio che Anne aveva incontrato sull'aereo? I pensieri si rincorrevano nella testa. Sentii un debole scricchiolio, come di passi sulla sabbia. Il letto accolse un nuovo peso, e dopo un attimo Birdie si accoccolò dietro le mie ginocchia. Abbassai una mano e lo accarezzai. «Ti voglio bene, piccolo Birdie.» Il mio gatto si allungò del tutto contro la mia gamba. «Quanto a te, disgustoso figlio di puttana, questa volta sei arrivato fino a me, ma un giorno o l'altro potrebbe esserci la resa dei conti» dissi ad alta voce coprendo il suono delle fusa delicate di Birdie. Mi svegliai con la sensazione che qualcosa non andasse. Non un ricordo preciso, piuttosto un suggerimento dei miei centri nervosi. Poi ricordai tutto. Aprii gli occhi. La luce si rifletteva sui cocci rimasti sulla moquette e sul ripiano della specchiera. Birdie non c'era. Dalla porta socchiusa arrivava il suono di una radio accesa. Trovai Anne in cucina, davanti a una tazza di caffè e a uno schema di parola crociate. Canticchiava David Bowie. Quando mi sentì arrivare, prese a cantare a voce alta. «Ch-ch-ch... changes!» «È un consiglio?» domandai. Anne lanciò un'occhiata ai miei capelli da sopra la montatura a motivi floreali verdi e rosa dei suoi occhiali da lettura, un paio fra le varie decine che comprava ogni anno. «Ehi, bella pettinatura» mi disse. «Be', neanche tu sembri appena uscita dal parrucchiere.» Anne aveva i capelli raccolti sulla testa e fermati con una pinza, con le punte rivolte in avanti che formavano una specie di cresta. «Avevo pensato di fare ancora un po' d'ordine, ma non sapevo cosa potevo toccare e cosa no.» Anne si alzò, prese una tazza da un pensile e mi versò un caffè. «Grazie» le dissi, quando me la porse. «Allora, che cosa frigge in padella?»
Anne amava modificare le espressioni di uso comune a suo piacimento. Questa non l'avevo ancora sentita. «Forniscimi la traduzione, prego.» «Che cosa bolle in pentola? Cosa pensi di fare oggi?» «Ho un appuntamento con l'ultimo dei tre scheletri della pizzeria. E tu?» «Museo di Arte Contemporanea. Dovrebbe essere in Place des Arts, giusto?» «Giusto.» Versai un po' di latte nel caffè, poi misi due metà di un muffin nel tostapane. «Sapevi che in quella piazza venticinque deficienti si sono denudati i loro bei culoni sotto la pioggia per una fotografia di Spencer Tunick?» «E come fai a sapere che erano dei culoni?» «Sei mai stata in una spiaggia di nudisti?» Anne aveva ragione. Pare che siano proprio quelli che farebbero meglio che lo evitassero a essere i più disponibili a mostrarsi come mamma li aveva fatti. «E poi vado in Saint-Denis per il pranzo e un po' di shopping» proseguì. «Sola?» domandai, ripensando al tizio dell'aereo. «Sì, mamma. Sola.» «Annie, hai pensato che potrebbe essere stato quell'uomo a entrare in casa ieri sera?» «Ma perché diavolo avrebbe dovuto fare una cosa simile? Probabilmente non ha mai sentito parlare di te, e di certo non è questo il modo di far colpo su di me. Perché avrebbe dovuto fare una cosa così assurda?» «Qualcuno l'ha fatta.» «Non credo possa essere stato lui, non credo proprio. Quel tizio sembrava perfettamente normale. Ma...» Si interruppe. Poi: «Scusa, Tempe. In effetti ho fatto una stupidaggine». Stavo spalmando un po' di marmellata di more sul muffin, quando Annie riprese a parlare. «Insensibile. Sette lettere.» «Spietato.» «Spietato ne ha otto. E poi inizia con la C.» «Claudel.» Gli occhi di Anne si alzarono oltre la montatura fiorita. «Credo che "crudele" possa andar bene» disse. Anne tornò a concentrarsi sulle sue parole crociate. Io mi sedetti di fron-
te e lei e ascoltai il notiziario. Un incendio a Saint-Léonard. Un incidente stradale a Centre-Ville. Altra neve in arrivo. Avevo appena finito il mio muffin, quando Anne si tolse gli occhiali e posò la penna. «Questo Claudel è un bravo detective?» La guardai con un'espressione poco convinta. «Devo considerarla una risposta negativa?» «Claudel è molto scrupoloso, ma è cocciuto, caparbio e ha i paraocchi. Inoltre, considera inutili gli antropologi forensi, in particolare se sono donne. Per lui, ogni suggerimento diventa un'interferenza.» «Lasciami indovinare: e non si sta per niente dando da fare per i tuoi scheletri.» «E in più mi mette i bastoni tra le ruote. E lo considera uno dei suoi casi, non il mio.» «Hai già avuto problemi con lui in passato, giusto?» «Già. Lui è il genere di persona che magari si sbaglia ma non ha mai dubbi.» «Quindi, non è in cima alla tua lista di preferenze, giusto?» «Claudel non è un tipo facile. Il suo modo di relazionarsi sfiora la maleducazione, e non ti dice perché certi particolari gli interessano, né perché, al contrario, le mie opinioni non lo interessano per niente.» «Che cosa dovresti fare per farti ascoltare?» «Forse potrei cantare un Alleluja completamente nuda.» Mi alzai e infilai un altro muffin nel tostapane. «Hai ancora il fisico, Tempe, ma non hai mai avuto la voce. Pensavo a qualcosa di più professionale.» «Il pomo della discordia è l'intervallo di tempo dopo il decesso. Claudel è convinto che le ossa siano antiche. Io no. Ho spedito dei campioni in Florida, per la datazione al carbonio 14, ma non avrò i risultati prima di una settimana.» «Cos'altro potrebbe attirare la sua attenzione?» «Sei o sette bambini morti.» «Inizi a darmi sui nervi, Tempe. Sto parlando sul serio.» Anne mi porse la sua tazza vuota. «Che cosa potrebbe convincere questo Claudel a mostrare più interesse per le tue ossa?» «La prova che si tratta di morti recenti.» Riempii le due tazze e ne porsi una ad Anne. «In altre parole?» mi disse Anne prendendo la tazza.
«Claudel è convinto che non sia possibile dimostrarlo.» «Non aspettare la datazione al carbonio 14. Fagli cambiare idea.» «Non vuole nemmeno prendere in considerazione l'eventualità.» «Allora dagli altro su cui riflettere.» «Che cosa dovrei fare? Assoldare un sicario e farlo pestare finché non è d'accordo?» «D'accordo su cosa?» «D'accordo sull'indagare.» «Il che significa?» «Ehi, ma cos'è? Un quiz a premi?» tornai a sedermi con il mio secondo muffin e la seconda tazza di caffè. «Che cosa vorresti che Claudel facesse?» Riflettei qualche secondo. «Dovrebbe rivoltare il quartiere. Cercare di sapere tutto il possibile su quella pizzeria. Fare ricerche sugli inquilini precedenti. Scoprire chi era il proprietario dell'edificio. Chi ci viveva. Da quanto tempo lo spazio al pian terreno è adibito a uso commerciale. Quali attività hanno occupato quello spazio. Quali licenze sono state concesse. E chi le ha concesse.» «Vedi che ci sei» disse la mia amica con aria rassicurante. «In che senso?» «Sei arrivata alla soluzione del tuo problema.» Era ancora presto e faticavo a trovare il nesso logico. «Cioè?» «Ricorri a un po' di fai-da-te.» «Claudel darebbe fuori di matto.» «Perché? Lui dice che le ossa sono antiche. E non vede motivo di approfondire il caso. Tu stai semplicemente facendo un po' di ricerche supplementari.» «Non è il mio lavoro.» «A quanto pare Claudel pensa che non sia nemmeno il suo.» «Claudel non è interessato ai miei suggerimenti, ma se provo a far qualcosa che solo lontanamente assomiglia al lavoro degli investigatori, diventa esageratamente ostile.» «Ascolta. Non devi ricavare una serie TV da questa storia. Devi solo ficcare un po' il naso in giro e vedere cosa salta fuori.» Riflettei sulle sue parole, mentre Anne scriveva, cancellava e riscriveva il trentaquattro orizzontale nel suo schema. Su una cosa aveva ragione. Cosa c'era di male a controllare qualche vecchio atto, i registri dell'ufficio
delle tasse e i documenti del catasto? Se Claudel aveva ragione, avrei finito col lavorare con gli archeologi in ogni caso. E poi lui sarebbe stato preso da questa operazione di polizia cui aveva accennato Ryan. E se una volta più libero, avesse scoperto che stavo facendo qualche indagine, sarebbe andato su tutte le furie ma si sarebbe anche sentito obbligato a occuparsi del caso, giusto per impedirmi di scoprire qualcosa al posto suo. In quel momento, il citofono trillò. Quando andai alla porta, i tecnici della Scientifica annunciarono il loro arrivo. Aprii il portone e quando arrivarono nell'appartamento, indicai loro la vetrata danneggiata e il quadro di Katy chiedendo se per cortesia potevano iniziare dal soggiorno. Mentre i tecnici scattavano foto e rilevavano le impronte, Anne e io ci ritirammo nelle rispettive stanze per vestirci, pettinarci e truccarci. Durante la mia toeletta, valutai le diverse opzioni. Era venerdì. Gli uffici pubblici il fine settimana erano chiusi. Se avessi esaminato il terzo scheletro quel giorno, non avrei potuto andare né in tribunale né in comune fino al lunedì successivo. Mentre potevo lavorare in Istituto, quando volevo, anche durante il fine settimana, se fosse stato necessario. Decisione presa. Ancora una volta, l'analisi completa del terzo scheletro era rimandata. Dopo aver rifornito Birdie di cibo e di acqua, andai dai tecnici della Scientifica. Per il momento, niente. Stavo per sollevare la cornetta, quando Anne comparve in camera da letto. Indossava gli stivali e il giaccone che aveva rifiutato la sera prima. La sciarpa rosa d'angora era già al suo posto, mentre i guanti e il cappello erano ancora tra le sue mani. «Stai uscendo?» domandai. «No. Stiamo uscendo» mi corresse Anne. «E la visita al museo?» «L'arte è eterna. Sarà lì anche domani. Oggi, mi do alle indagini. Visto? La mia vita è già multidimensionale. Tu e io. Cagney e Lacey. Una vera figata.» «Sicura?» «Sicurissima.» «Cagney e Lacey erano investigatori fatti e finiti, con tanto di distintivo e pistola. Noi siamo piuttosto Miss Marple e una delle sue amiche del circolo del giardinaggio. Comunque, va bene. Facciamo un tentativo. I tecnici della Scientifica se ne andranno quando avranno finito. Controllo i mes-
saggi in ufficio e usciamo.» Chiamai l'Istituto, inserii il numero della mia casella vocale e il codice di accesso. Un messaggio. Alle nove e quarantatré della sera prima. Le parole della donna scatenarono nella mia testa una ridda di ipotesi, una più fosca dell'altra. 12 Cercai istericamente una penna sul ripiano della specchiera. Anne me ne porse una all'istante. «Dottoressa Brennan, sento che devo fare quest'ultimo tentativo, o non riuscirò più a guardare in faccia me stessa.» Cercai di registrare i particolari della voce. Anziana. Femminile. «Ho chiamato l'altro giorno per quell'articolo comparso su "Le Journal".» Una pausa. Come durante la telefonata precedente, udii un sottofondo di cinguettii vagamente familiare. «Credo di sapere chi sono i morti e perché sono morti.» Il tono di voce oscillò tra lo scoraggiato e il dubbioso. «Forza» la sollecitai sottovoce. «Chi sei?» «Lei sa già il mio nome.» «No. Non lo so!» Il mio grido suscitò in Anne un moto di sorpresa. «Se vuole mi può chiamare al 514-937...» «Perfetto!» Anne mi osservò scrivere il numero, interrompere la comunicazione e richiamare. Da qualche parte sull'isola di Montréal un telefono squillò dieci, undici, dodici volte. Abbassai la cornetta e ricomposi il numero. Un'altra decina di squilli. «Maledizione!» Interruppi la comunicazione e gettai la cornetta sul letto, il corpo teso per la delusione. Mi alzai e presi a camminare per la stanza, poi ripresi la cornetta e provai a richiamare. Nessuna risposta. «Alza quel maledetto telefono!» gridai. Che fare? Chiamare Claudel o Charbonneau e dar loro il numero? Chia-
mare Ryan? Quei tre probabilmente erano immersi nella loro massiccia operazione congiunta e non avevano certo tempo per un numero di telefono. Attaccai, presi le chiavi e corsi in garage a prendere il portatile dal bagagliaio dell'auto. Quando tornai in camera da letto, Anne era seduta sul letto, le braccia conserte e un piede che dondolava nervosamente. Mi osservò avviare il computer e digitare il numero di telefono in un motore di ricerca senza commentare. Nessun risultato. Il motore suggeriva di controllare l'ortografia o provare con un'altra parola. «Come diavolo faccio a controllare l'ortografia di un numero, razza di demente?» Provai un altro motore di ricerca. Poi un altro. Niente. Solo gli stessi utilissimi suggerimenti. «Siete davvero molto bravi!» Ripresi la cornetta, digitai un altro numero, richiesi un operatore e posi la mia domanda. No. La chiamata di mercoledì non era ancora stata registrata. Perché no? Queste cose hanno bisogno di tempo. Bene, allora scriviti questo numero e vedi se riesci a capire a chi appartiene. Ributtai la cornetta sul letto, andai alla specchiera, cercai un paio di guanti e richiusi con rabbia il cassetto. Mentre infilavo il guanto destro, il sinistro mi cadde di mano. Mi chinai per raccoglierlo, mi cadde di nuovo, lo calciai contro la parete, andai a recuperarlo e finalmente ci infilai dentro la mano. Quando mi voltai, Anne mi stava osservando, le braccia ancora conserte, sul viso un'espressione divertita. «Questa sarebbe la nostra famosa specialista forense impegnata in una dimostrazione sull'arte della crisi isterica?» mi chiese Anne in tono da maestrina. «Secondo te questa è una crisi isterica? Fammi girare le scatole e poi vedrai che cos'è una crisi isterica alla Tempe Brennan.» «Non ti vedevo così agitata da quella volta in cui hai beccato Pete che si scopava la tipa dell'agenzia di viaggi.» «Aveva un'agenzia immobiliare.» Non riuscii a non sorridere. «Quella sì che aveva un culo enorme.» «Lasciami indovinare. Non siamo contente del messaggio che ti hanno lasciato?»
«No. Non siamo affatto contente.» Riferii per sommi capi le chiamate della signora Gallant/Ballant/Talent. «La cara signora probabilmente sarà uscita a comprarsi l'adesivo per la dentiera. Ha già chiamato due volte. Vedrai che chiamerà ancora.» Di nuovo, Anne mi parlava come una maestrina paziente. «E se non telefona, hai sempre il suo numero e la puoi chiamare tu. Dai, con il numero di telefono, non sarà difficile farsi dare il nominativo corrispondente da un qualsiasi servizio di informazioni telefoniche.» Non riuscii a dissimulare la mia agitazione. «Anne, quella donna ha detto che sapeva chi erano i morti e perché erano morti. Se questo è vero, la cara nonnina può dare una svolta alle indagini. Certo, potrebbe anche essere una mitomane. Perciò vorrei parlare con lei prima di mettere Claudel su una falsa pista. Hai ragione, devo fare un altro tentativo per cercare di parlarle di persona. Del resto, quella donna ha chiamato me, non la polizia.» «Avrei un'altra domanda.» Sollevai la mano e la invitai a parlare. «Come pensi di abbottonarti il giaccone?» Mi sfilai i guanti e glieli tirai addosso. Per la seconda volta in una settimana, entrai in un parcheggio a pagamento nel centro storico. Il cielo era plumbeo, l'aria carica di neve. «Chiuditi bene il giaccone» dissi ad Anne mentre alzavo la cerniera del mio parka. «Dove stiamo andando?» «In un posto che si chiama Hotel de Ville.» «Dobbiamo prenotare una stanza?» La sua voce mi arrivò attutita dai molti giri di angora rosa. «È il palazzo del municipio. Si trova a quattro isolati da qui.» Situato al centro Place Jacques Cartier, il municipio di Montréal è uno stravagante palazzo di epoca vittoriana tutto rame e pietra, costruito tra il 1872 e il 1878. Al primo sguardo, si direbbe che il suo architetto non avesse le idee chiare su quando chiudere il cantiere. Tetto mansardato? Sì, très parisien. Colonne? Perché no. Porticati? Ma certo. Grondaie, abbaini, balconi, cupola, orologio? Sì. Sì. Sì. E ancora sì. Nonostante l'incendio del 1922, la struttura dell'Hotel de Ville rimase pressoché intatta, e l'edificio fu rinnovato e oggi è una delle mete preferite di residenti e visitatori, nonché uno dei suoi simboli più affascinanti. «Certo che nessuno potrebbe confonderlo con il municipio di Clover»
disse Anne, mentre salivamo la gradinata frontale. Indicai un balcone sul portone principale. «Vedi quello?» Anne fece di sì con la testa. «Charles de Gaulle pronunciò il suo famoso discorso "Vive le Québec libre" proprio da quel balcone.» «Quando?» «Nel '67.» «E allora?» «Ai separatisti piacque molto.» Nonostante il suo moderno status di meta turistica, l'Hotel de Ville resta il principale centro amministrativo della città. Nonché custode delle informazioni che stavo cercando. Speravo. Anne e io entrammo nell'atrio e fummo subito accolte da un odore di riscaldamento e di lana bagnata. In fondo all'atrio notai uno sportello con la scritta RENSEIGNEMENTS. Informazioni. Quando mi avvicinai, l'impiegata seduta dietro il bancone alzò lo sguardo. Era una ragazza sulla ventina, con una torreggiante chioma bionda che aggiungeva un bel po' di centimetri alla sua altezza. La ragazza trattenne a stento uno sbadiglio, mentre le spiegavo che cosa cercavo. Prima che avessi finito, mi indicò con il braccio carico di bracciali di plastica un tabellone con l'elenco dei vari uffici presenti nell'edificio. «Accès Montréal» mi disse. «Merci» risposi. Anne e io ci inoltrammo nel dedalo di corridoi e dopo poco raggiungemmo l'ufficio che la receptionist ci aveva indicato. Qui, incontrammo una versione più anziana, più massiccia e decisamente più cortese dell'impiegata delle informazioni. La donna ci salutò nel tipico francoinglese di Montréal. «Bonjour. Hi.» Le spiegai il mio problema in francese. La donna si lasciò cadere la catenella con gli occhiali sul petto e replicò in inglese. «Se avete un indirizzo, posso controllare il numero catastale e il numero del lotto.» Probabilmente la guardai con aria molto confusa, perché subito l'impiegata aggiunse: «Il numero catastale definisce la porzione di terreno su cui sorge l'edificio. Ma ancora più importante è il numero del lotto, perché è quello che permette di fare indagini sulla storia della proprietà presso l'uf-
ficio del Registre foncier du Québec, che si trova al Bureau d'Enregistrement». «Si trova qui?» «No. Al Palais de Justice. Secondo piano. Stanza 2175.» Scrissi su un foglio l'indirizzo della pizzeria e lo posai sul bancone. «Non dovrebbe volerci molto.» Infatti fu così. Dopo dieci minuti, la donna tornò con i numeri. La ringraziai e uscimmo dall'ufficio. I tre diversi palazzi di giustizia di Montréal si trovano tutti a ovest del municipio. Mentre percorrevamo Rue Nôtre-Dame, Anne studiò le vetrine dei caffè e dei negozi che incontravamo, si fermò ad accarezzare un cavallo, rimase a bocca aperta di fronte alla bellezza dello Château Ramezay, rise delle automobili parcheggiate e imprigionate nella neve dal passaggio degli spazzaneve. Dal punto di vista architettonico, il municipio e il moderno tribunale hanno ben poco in comune, a parte il fatto di essere entrambi degli edifici. Prima di entrare, presi il cellulare e provai a chiamare la signora Gallant/Ballant/Talent. Niente. Come il giorno della mia deposizione, il tribunale era affollato di avvocati, magistrati, giornalisti, guardie di sicurezza e persone preoccupate in attesa. Nell'atrio regnava un'animata confusione, e ogni faccia aveva l'aria di volere essere altrove. Anne e io salimmo in ascensore fino al secondo piano e andammo direttamente alla stanza 2175. Quando arrivò il nostro turno, spiegai che cosa cercavo, questa volta a un uomo basso e calvo che aveva la forma di un vaso per i biscotti. «Bisogna pagare» disse il solerte impiegato. «Quanto?» Mi disse la cifra. Gli passai il denaro e lui mi rilasciò una ricevuta. «Questo le permetterà di fare le sue ricerche per tutta la giornata.» Gli presentai il numero catastale e il numero del lotto. L'impiegato studiò il foglietto. Poi alzò la testa e mi guardò spingendosi gli occhiali dalla spessa montatura di plastica nera in cima al naso. «Questi numeri indicano un edificio piuttosto antico. E tutto ciò che risale a prima del 1974 non può essere ricercato a computer. Questo significa che ci vorrà più o meno tempo, a seconda di quanti cambiamenti di pro-
prietà si sono verificati.» «Ma è possibile sapere il nome dei vari proprietari?» L'impiegato annuì. «Ogni atto di cambiamento di proprietà viene registrato dalle autorità provinciali.» Prese il foglietto. «Adesso che cosa c'è in questo posto?» «L'edificio ha una serie di unità abitative ai piani superiori e alcune piccole attività commerciali al piano terreno. La porzione che interessa a me attualmente è una pizzeria.» L'impiegato scosse la testa. «Se si tratta di locali adibiti a uso commerciale, non le sarà possibile sapere quali attività vi si sono svolte, a meno che i vari proprietari non l'abbiano indicato sull'atto.» «E come devo fare per saperlo?» «Forse può controllare sulla documentazione fiscale depositata all'Ufficio delle tasse. O forse all'ufficio che rilascia le licenze commerciali.» «Ma consultando quei documenti, è sicuro che posso risalire al nome dei proprietari?» L'impiegato annuì. «È già qualcosa» dissi. L'uomo mi indicò una postazione informatica libera in fondo alla stanza. «Se cerca qualcosa antecedente al 1974, le spiegherò come consultare questi registri.» Andai al terminale, mi tolsi il giaccone e lo appesi allo schienale della sedia. Anne mi seguì. Mentre appendevo la borsetta sopra il giaccone, mi voltai verso di lei. «Anne, non è necessario che tu stia lì seduta a guardarmi mentre scrivo su una tastiera e sfoglio vecchi registri polverosi.» «Per me non c'è problema.» «Ascolta, Anne. Le distrazioni che sei venuta a cercare a mille e cinquecento chilometri da casa tua non si trovano in questi registri.» «Sempre meglio che cucinare e congelare manicaretti per famigliari e parenti, no?» «Non hai voglia di andare a fare un po' di shopping?» Anne era in una fossa delle Marianne di depressione. Stare a lì a guardare me non l'avrebbe di certo tirata su di morale. «Vai alla basilica. Trova un posticino dove mangiare. E quando ho finito ti chiamo sul cellulare.» «E se poi ti scoraggi e ti fai venire un'altra delle tue crisi isteriche?» Le misi una mano sulla spalla.
«Forza, Anne. Vai e divertiti a fare shopping. Qui hai già fatto tutto quello che potevi fare.» Tre ore dopo, ero ancora immersa nelle mie ricerche. La ricerca a computer era durata quaranta minuti, di cui trentasette per capire che cosa stavo facendo, e tre per stampare le informazioni relative all'attuale proprietario dell'edificio. Invece, ricercare nei faldoni di atti rilegati aveva richiesto un tempo vicino al millennio. L'impiegato era stato gentile e disponibile, e con pazienza aveva preso il mio denaro e fotocopiato la documentazione di tutti i cambiamenti di proprietà che avevo trovato. Durante le mie ricerche, avevo scoperto diverse cose. Claudel aveva ragione circa l'età dell'edificio. Il terreno su cui sorgeva, in precedenza faceva parte dello scalo ferroviario della città. In seguito, la proprietà era cambiata diverse volte. Mentre studiavo il mio fascicolo di fotocopie, mi saltò all'occhio un nome. L'avevo già sentito. Perché? Era un politico locale? Un cantante? Fissai il nome, cercando un collegamento. Un personaggio televisivo? Un caso a cui avevo lavorato? Qualcuno che conoscevo? La data del cambiamento di proprietà era precedente al mio primo incarico a Montréal. Allora perché quella sensazione? E poi, di colpo, mi venne in mente. «Santa madre di Dio!» Infilai in borsa stampate e fotocopie e schizzai fuori. 13 Fuori, la neve imbiancava le scale e le ringhiere, e si posava sui cumuli che già ingombravano le strade e i marciapiedi. Non mi importava. Appena uscita dall'edificio, chiamai Claudel. L'operatore della CUM mi disse che Claudel era fuori ufficio. Chiesi di parlare con Charbonneau. Non c'era nemmeno lui. «Sono la dottoressa Brennan, dell'Istituto di medicina legale. Mi può di-
re quando rientreranno?» «No.» Distratto. «Ha provato sul cercapersone?» «Mi può dare i loro numeri?» L'operatore eseguì e io chiamai subito entrambi i detective. Anche se non avevo grandi speranze di essere richiamata in tempi brevi. Soprattutto Claudel non credo fosse molto dell'idea di abbandonare un'importante operazione di polizia per chiamarmi in merito a un caso verso cui non aveva pressoché alcun interesse. Dopodiché chiamai la signora Gallant/Ballant/Talent. Nessuna risposta. Sforzandomi di ritrovare la calma, telefonai ad Anne. Stava comprando decorazioni natalizie in un negozietto del centro. La mia amica propose di pranzare a Le Jardin Nelson e fece per darmi indicazioni su come raggiungerlo. «So dov'è» la interruppi. Un lungo silenzio, poi: «Allora, come sono andate le nostre ricerche?». «Credo di aver trovato qualcosa. Ci vediamo tra una decina di minuti.» Con le spalle curve per ripararmi dalla neve, raggiunsi rapidamente Place Jacques Cartier, un'isola pedonale che da Rue Nôtre-Dame proseguiva in direzione del fiume fino a Rue de la Commune. Con il bel tempo, la piazza - su cui si affacciavano numerosi caffè, ristoranti e negozietti di souvenir - brulicava di vita, ma quel giorno vidi solo una manciata di turisti, un artista di strada e un terrier smunto e giallognolo che faceva pipì contro un lampione. I fiocchi di neve avevano già nascosto l'acciottolato, i segnali stradali, la colonna in memoria dell'ammiraglio Nelson, il comandante inglese che sbaragliò la flotta francese di Napoleone nella battaglia di Trafalgar. Mai amato dai separatisti. Oltre la piazza, si intravedeva la sagoma argentea della cupola del Marché de Bonsecours, sede del municipio di Montréal prima di essere soppiantata dal palazzo mansardato alle mie spalle. Québec. Le Solitudini Gemelle. Una cattolica e francese, l'altra inglese e calvinista. Qui le due culture e le due lingue si scontravano fin da quando gli inglesi presero la città, nel 1760. Place Jacques Cartier è un microcosmo in pietra del locale tribalismo linguistico. Le Jardin Nelson era un ristorante situato al centro del lato occidentale della piazza dall'aspetto sobrio e compatto con le vetrine affacciate sulla piazza. Quando entrai, Anne stava consultando il menù. Mi vide e alzò un brac-
cio per farsi notare. «Nevica tantissimo» dissi, togliendomi il giaccone. «Pensi che attaccherà?» «A Montréal la neve attacca sempre.» «Ottimo.» «Mah...» Posai il cellulare sul tavolo. Una ragazza si avvicinò e ci riempì i bicchieri di acqua. Anne ordinò crêpes forestiers e un calice di chardonnay. Io scelsi crêpes argenteuil e una Diet Coke. «Allora, hai trovato qualche tesoro?» domandai quando la cameriera si allontanò. Anche in preda all'apatia, Anne è un kamikaze dello shopping. Mi mostrò i suoi acquisti. Maglione color mandarino. Tazze provenzali dipinte a mano. Sei rane di peltro avvolte in raso rosso. «Strano acquisto, per una che sta per iniziare una vita senza vincoli né costrizioni» commentai, indicando gli oggetti. «Posso sempre regalarli a qualcuno» rispose Anne, riponendo i suoi acquisti. La cameriera ci portò da bere. Io bevvi un sorso di Diet Coke e aprii il tovagliolo. Quindi, sistemai le posate. Spostai la forchetta. Allineai cucchiaio e coltello. Rispostai la forchetta. Controllai il cellulare per accertarmi che fosse acceso. Altro sorso di Coca. Passai a spianare i bordi della mia tovaglietta con i palmi della mano. A ordinare le frange. Presi il telefono. Lo posai. Anne sollevò il sopracciglio. «Per caso aspetti una telefonata?» «Ho lasciato un messaggio a Claudel e al suo compagno.» «Pensi di volermi dire che cosa hai scoperto?» Presi le fotocopie e le stampate dalla borsa e le posai accanto alla mia tovaglietta. «Non voglio tirarla troppo in lungo. Comunque, l'edificio è stato costruito nel 1901 e apparteneva a un uomo chiamato Yves Sauriol. All'epoca era interamente destinato a uso residenziale. Il figlio di Sauriol, Jacques, lo eredita nel '28, e il figlio di Jacques, Yves, lo eredita a sua volta nel '39. «Nel 1947 Yves Sauriol junior, il nipote, vende la proprietà a un certo Éric-Emmanuel Gratton. A questo punto il pian terreno viene destinato a
uso commerciale e viene occupato da una piccola tipografia fino al 1970. «Éric-Emmanuel Gratton muore nel 1958 e la moglie, Marie, eredita l'edificio. Marie passa a miglior vita nel '63 e il palazzo passa al figlio Gille Gratton, il quale vende tutto nel 1970.» «È ancora molto lunga?» «Gille Gratton vende a un certo Nicolò Cataneo.» Anne accolse quel nome con aria indifferente. «Cioè a dire: Nick "Knife" Cataneo.» Gli occhi verdi della mia amica si spalancarono. «Mafia?» Annuii. «"Knife" hai detto? Knife come coltello?» Annuii ancora. «Questo spiegherebbe la folle intrusione nel tuo appartamento.» «Non so granché della malavita, ma Nicolò Cataneo è un nome che ho sentito molte volte nel corso degli anni.» «Ma questa è una zona di mafia?» «Sin dall'inizio del secolo.» «Credevo che qui aveste solo i biker.» «Infatti li abbiamo. E al momento sono i numeri uno. Ma i biker sono solo uno degli elementi che compongono il magico mondo del crimine organizzato di Montréal. La mafia, la West End gang e gli Hells Angels formano un'organizzazione nota con il nome di "Consorzio".» «Un po' come la "Commissione" di New York?» «Esattamente.» «E i ragazzi di qui vanno d'accordo con i ragazzi oltre il confine? O si considerano degli isolani?» «Come la Sicilia rispetto all'Italia? Non sono molto informata sui rapporti geografici e non tra le varie famiglie. So solo che c'è stato un periodo, nel passato, in cui Montréal era letteralmente una filiale del crimine organizzato di New York.» «Parli della famiglia dei Bonanno? Ho letto un libro in proposito.» Annuii. «L'organizzazione di Montréal era guidata da un certo Vic "Egg" Cotroni. Credo che questo Cotroni sia morto verso la metà degli anni Ottanta.» Controllai il cellulare. Ancora nessun messaggio. «Cosa mi dici di questa West End gang?» domandò Anne. «È una banda formata soprattutto da irlandesi.» «I tuoi compaesani.»
«Noi irlandesi siamo solo soldati di fanteria nell'esercito del Signore.» «Più che altro poeti e ubriaconi, in ordine inverso quanto a eccellenza.» «Attenta.» «Di che si occupa, questo Consorzio?» «Prostituzione. Gioco d'azzardo. Sostanze illegali di vario genere. Il Consorzio decide il prezzo della droga, le quantità da importare, chi sono i fortunati compratori. Pare che negli anni la rete di Cotroni abbia immesso sul mercato americano stupefacenti per un valore pari a milioni e milioni di dollari. E poi i profitti di queste attività vengono riciclati attraverso attività perfettamente legali.» «Uno schema collaudato, da quel che leggo.» «Lo stesso adottato dalle gang di biker. Potrebbero insegnarlo ai master di amministrazione aziendale.» In quel momento la cameriera arrivò con le nostre ordinazioni. Controllai ancora una volta il cellulare. Niente messaggi. «Tornando al nostro edificio» dissi, dopo qualche boccone di crêpe, «Nick Knife lo comprò nel 1970, e ne rimase in possesso per dieci anni.» «E questo che cosa c'entra con i tuoi scheletri?» «Sto parlando di delinquenti, Anne. Non di chierichetti. In quello scantinato potrebbero averci sepolto chiunque.» «Non stiamo un po' drammatizzando, Tempe?» «A quei tempi la gente spariva con grande facilità.» «Anche le ragazzine?» «Mai sentito parlare di prostituzione? Di strip-club? La vita non ha molto valore per questa gente.» Soprattutto la vita delle donne, pensai, e rividi un'immagine della prostituta con il coltello nella pancia che adesso era all'ospedale Nôtre-Dame. Anne si concentrò sulla sua crêpe finché non l'ebbe terminata. Poi: «Che cosa facevano al pian terreno, quando l'edificio apparteneva a questo Nick the Knife?». «Queste informazioni non erano disponibili.» «Chi comprò la proprietà in seguito?» Controllai la mia stampata. «Nei 1980 l'edificio viene venduto a un certo Richard Cyr. Stando ai documenti, Cyr è l'attuale proprietario.» «Adesso che cosa c'è nello spazio al pian terreno?» «Ci sono quattro diverse attività commerciali.» «Compresa la pizzeria.»
«Sì.» «Dove vive monsieur Cyr?» Tornai alla stampata. «Nôtre-Dame-de-Grâce.» «È lontano da Montréal?» «È un quartiere a ovest di Centre-Ville.» Anne rimase con il calice di vino bianco sospeso a mezz'aria. Poi: «Ci siamo». La guardai con aria confusa. «Ma sì... il nostro prossimo passo. Facciamo una telefonata a questo Cyr. No, meglio. Se è così vicino come hai detto, che ne dici di una visita a sorpresa? Io non ho fatto ancora niente finora. Forza, Tempe. Cagney e Lacey vanno a risolvere questo caso.» Spostai lo sguardo sul telefono accanto al mio piatto. Il piccolo display non offriva altro che l'ora e il mio nome. Era evidente che né Claudel né Charbonneau avevano intenzione di rispondere al mio messaggio. Alzai la mia Diet Coke. Anne alzò il suo calice di vino. «Alle ricerche archeologiche» dissi, incrociando i nostri bicchieri. «Alle ricerche archeologiche.» Anne finì d'un fiato il suo chardonnay. Nôtre-Dame-de-Grâce, o anche NGD, è un tranquillo quartiere residenziale non lontano da Centre-Ville. Non come il Westmount degli inglesi facoltosi, né l'Outremont della loro controparte francese, ma ugualmente gradevole. Ceto medio. Un bel posto dove crescere i bambini e portare a spasso i collie. Richard Cyr viveva in una villetta bifamiliare sulla Coronation, vicinissimo al campus Loyola della Concordia University. Ci vollero una ventina di minuti per arrivare, altri cinque per trovare il posto. Due francobolli di giardino davanti e dietro, un vialetto che non portava da nessuna parte, piccola veranda protetta da una sottile tettoia di metallo. Ford Falcon azzurra. «Monsieur Cyr non sembra interessato a rispondere al richiamo della pala» osservò Anne. In inverno, i proprietari di case di Montréal spalano sempre la neve dal loro segmento di marciapiede, oppure affidano l'incombenza a un'impresa specializzata, o anche ai figli dei vicini. Cyr non aveva fatto niente di tutto questo e la nevicata del pomeriggio stava imbiancando un marciapiede già
coperto da uno strato compatto di neve e ghiaccio. Anne e io camminammo con grande cautela fino alla veranda della villetta. Quando suonai alla porta, un elaborato campanello suonò all'interno della casa. Dopo un buon minuto, nessuno aveva ancora risposto. Suonai ancora. Niente. «Cyr dev'essere fisicamente impedito nonché il più grande taccagno dell'universo» osservò Anne. «Forse spende i suoi soldi in altre cose.» «Che bel pensiero. Questo testa-vuota che se la spassa alle Barbados sul suo yacht mentre noi dobbiamo fare attenzione a non ucciderci mentre saliamo i gradini di casa sua.» «La macchina è qui.» Anne si voltò per guardare. «Direi che le auto nuove fiammanti non sono la sua passione.» Stavo per suonare una terza volta, quando udii cigolare la porta interna. Un uomo guardò fuori attraverso il portoncino esterno in vetro e alluminio. Non aveva un'aria felice, ma non fu la sua espressione a preoccuparci. Anne e io d'istinto indietreggiammo. 14 L'uomo di fronte a noi era basso e tarchiato, con capelli bianchi ingialliti ed elaborati baffi brizzolati. Portava un paio di occhiali dalle lenti sporche di unto e una serie di catene d'oro al collo. Nient'altro. Solo gli occhiali e le catene. L'espressione dell'uomo cambiò in una smorfia di soddisfazione, non appena vide me e Anne indietreggiare con passi incerti sulla sua veranda. Poi l'espressione del suo viso si fece di nuovo violenta. «Je suis catholique!» I miei stivali scivolarono sulla superficie insidiosa della veranda. Cyr si afferrò il pene e lo agitò davanti a noi. Accanto a me, Anne afferrò il mancorrente e fece dietrofront scendendo i gradini. «Catholique!» ripeté l'uomo urlando. Cattolico? Mi fermai. Avevo visto Harry ricorrere allo stesso espediente. Vestita.
«Non siamo missionarie, monsieur Cyr.» L'espressione ostile dell'uomo si ammorbidì, poi tornò uguale a prima. «E non sono Pee Wee Herman.» Quel nome suonò strano pronunciato con l'accento francese locale. Cercai nella borsetta. Cyr si avvicinò alla porta. «Andatevene!» Presi un biglietto da visita. «E non lasciatemi nessuno dei vostri maledetti opuscoli, tabernouche!» «Non apparteniamo a nessuna congregazione.» Quando capì che cosa stava succedendo, Anne si voltò di nuovo verso la casa, senza lasciare il mancorrente. Cyr ripropose la sua virilissima minaccia, questa volta in direzione di Anne. «Orrore!» disse Anne sottovoce. «Aggressione con arma mortale.» Le lenti unticce si fissarono sulla mia amica. Un sorriso affiorò lentamente sulle labbra raggrinzite dell'uomo. Cyr agitò di nuovo la sua arma impropria. Anne replicò con la solita frase. «Che ne dici, Tempe? Sembrerebbe un pene, solo un po' più piccolo.» Cyr agitò. Anne aprì la bocca per replicare. Decisi di intervenire per interrompere lo scambio. «Monsieur Cyr, sto svolgendo delle indagini su una delle sue proprietà e dovrei rivolgerle alcune domande sull'edificio.» Cyr si voltò verso di me, con le dita di una mano ancora strette sulla mercanzia. «Quindi non siete qui per salvare la mia anima dannata?» «Signore, siamo qui per parlare dell'edificio in suo possesso.» «Siete del Comune?» Esitai. «Sì.» In fondo, lavoravo per lo Stato, e Cyr non mi aveva chiesto di mostrargli nessun tesserino. «Un inquilino rompiballe ha protestato per qualcosa?» «Non che io sappia.» «E lei? Anche lei è del Comune?» chiese Cyr indicando Anne con la testa. «Lei lavora con me.» «Bel pezzo di figliola.» «Sì. Senta, monsieur Cyr, dovremmo rivolgerle alcune domande molto
importanti.» Cyr aprì il portoncino. Anne e io entrammo. Quando Cyr chiuse la porta, il piccolo ingresso tornò in penombra. Sembrava aver dimenticato di essere completamente nudo. «Non vuole mettersi addosso una coperta?» suggerì Anne. «Pensavo che eravate quelli della Torre di Guardia» disse Cyr. «Quella gente ha meno buon senso di una rapa. Ma se ti trovano nudo, ti lasciano in pace. Oppure, gli devi dire che sei cattolico.» Anne indicò i genitali di Cyr. L'uomo ci indicò il soggiorno, sulla destra. «Torno tra un minuto.» Cyr iniziò a salire la scala al centro della villetta, mettendo prima un piede poi l'altro sullo stesso gradino. Il suo corpo nudo spiccava bianco come la pancia di una rana contro il legno scuro della scala, mentre il suo fondoschiena appariva scuro e peloso. Anne e io ci sedemmo alle estremità opposte di un divano foderato in broccato rosa coperto da un telo protettivo di plastica. Mi tolsi il giaccone. Anne rimase completamente vestita. «Non ho visto una cosa del genere in Cagney e Lacey.» Sorrisi, e iniziai a guardarmi intorno. Di fronte al divano, una poltrona, anche questa foderata con la plastica e una poltrona reclinabile. A destra, il caminetto, con i mattoni dipinti in marrone. A sinistra un piccolo organetto, un grande televisore con una poltrona lisa vicina allo schermo. Niente plastica. Ovunque, silenzio ovattato. Mi chiesi se fosse stato Cyr ad aggiungere la plastica, o se la protezione fosse in realtà parte dell'imballaggio con cui avevano consegnato i mobili. Dubitai che esistesse una signora Cyr. Non c'era nessuna fotografia dei bei vecchi tempi, il posacenere era stracolmo. Pile di «Playboy» e di «National Geographic» ornavano le pareti. Mi accorsi che anche Anne stava osservando il posto. «Pensa, Anne, tutto questo potrebbe essere tuo» dissi a voce bassa. «Credo che Cyr si sia preso una cotta per te.» «Io invece credo che il vecchio sia assolutamente innocuo» replicò Anne, sussurrando. «Tu hai detto che avevi fame di vita nella corsia di sorpasso.» Dopo qualche minuto udimmo un rumore di passi. Cyr ricomparve in scarpe da tennis, camicia verde a scacchi e calzoni
grigi di lana tirati su all'altezza delle ascelle. «Volete qualcosa da bere?» Rifiutammo entrambe. «Non vi va un bel goccetto in una giornata di neve?» «No, grazie.» «Se cambiate idea, non avete che da dirlo.» Cyr andò a sedersi sulla poltrona reclinabile, lasciandosi dietro una scia di tabacco d'Arar. «Figliola, lei ha una cascata di capelli davvero straordinaria» disse Cyr ad Anne. «Grazie.» Era vero. Per una strana combinazione genetica, Anne aveva capelli biondi e folti e capaci di crescere all'infinito. Al momento non li aveva molto lunghi, ma se avesse voluto farli crescere, non avrebbe avuto alcun problema. Io avevo sempre cercato di non odiarla per tanta perfezione, ma in passato a volte era stato difficile. «Ed è anche molto alta.» Cyr respirò con il naso, pronunciando le parole tra un respiro e l'altro. «È sposata?» «Sì.» «Be', se per caso cambia idea, me lo faccia sapere.» Cyr si rivolse a me. «Le bionde mi fanno impazzire.» Io cercai di portare le cose su un piano più ufficiale. «Monsieur Cyr...» «Come trova il mio inglese?» «Perfetto.» E in effetti, a parte l'accento, era davvero molto buono. Cyr indicò con il mento le riviste impilate lungo le pareti. «Lo tengo vivo con la lettura.» «Non le danno fastidio tutte quelle donne nude che interrompono gli articoli?» domandò Anne, vanificando tutti i miei sforzi di condurre una inchiesta ufficiale. Cyr fece una specie di fischio che voleva essere una risata. «È proprio un bel tipetto, la sua collega, vero?» «Sì, proprio un bel tipetto.» Quindi mi alzai e porsi a Cyr la mia stampata. Dai registri risulta che questo edificio sia di sua proprietà.» Cyr portò il foglio a pochi centimetri dalla faccia e lesse nella mente per quasi un minuto. «Oui. È roba mia.»
«L'avete comprata nel 1980, giusto?» «Una vera seccatura.» Cyr mi restituì il foglio. Presi la stampata e tornai a sedere. «Lei ha comprato la proprietà da Nicolò Cataneo?» «Sì.» «Per caso lei sa perché il signor Cataneo la vendette?» «Non ho chiesto. Per me era semplicemente una proprietà in vendita.» «Ma non è una domanda normale, quando si procede a un investimento così importante?» «Da fare a Nicolò Cataneo?» Non aveva tutti i torti. «Posso chiederle quale attività commerciale veniva esercitata al pian terreno, all'epoca del suo acquisto?» Cyr rispose senza esitazioni. «Un forno. "La boulangerie Lugano". Ma se ne sono andati prima che arrivassi io.» «E questo forno da che cosa è stato sostituito?» «Ho suddiviso lo spazio. Ci ho messo quattro negozi diversi. Era più redditizio.» «Uno di questi negozi è la pizzeria?» «Sì. "Le Pizza Paradis Express".» «Da quanto tempo è in attività?» «Dal 2001.» Cyr fece una smorfia e aggiunse: «Ma sarebbe meglio chiamarlo "Peli di topo e scarafaggi al taglio". Questi accidenti di emigranti non saprebbero riconoscere l'igiene nemmeno se gli saltasse addosso». Cyr usò la parola «emigranti» come un politico d'altri tempi. «Ma non ho niente da dire su Matoub. Mi paga l'affitto e non è mai in ritardo.» «L'ultimo affittuario è questo Matoub?» Lo aveva già saputo da Claudel, il giorno del recupero. Cyr si infilò un dito nell'orecchio e poi distrattamente lo ispezionò. «Si ricorda per caso qualche inquilino precedente al signor Matoub?» proseguii. «Ma certo che me li ricordo, che domande. Li ricordo tutti. Ho l'aria di uno in lista d'attesa per l'ospizio?» Gli stereotipi sono spesso all'origine di supposizioni errate. E, anche se odiavo ammetterlo, anch'io a volte ne ero vittima. Poiché Cyr era anziano, avevo dato per scontato che la sua memoria non fosse buona. Ma dovetti subito ricredermi. Quell'uomo era tutt'altro che stupido.
«No, ecco...» «Ho avuto più inquilini io di quanti capelli ha in testa la sua amica.» Cyr lanciò ad Anne un'occhiata ammiccante. Anne rispose con un cenno della sua testolina. «Prima della pizzeria, c'era un salone di bellezza specializzato nella cura delle unghie» mi disse Cyr. «C'era una vietnamita di nome Truong con una decina di lavoranti. Ma non deve aver avuto molta fortuna perché dopo un paio d'anni se ne sono andati.» «E prima?» «Mi piacevano, le signorine delle unghie. Sembravano tante bamboline cinesi. Quando ridevano, si coprivano i denti.» «E prima del salone di bellezza?» «Prima, c'era un banco dei pegni. Un tizio che si chiamava Ménard.» Cyr puntò un dito davanti a sé. «Stéphane. Sébastien. Sylvain. Un nome così. Vendeva e comprava roba. E doveva anche essere bravo, perché è durato nove anni. Dall'89 al '98.» Feci un rapido calcolo. «Quindi tra il salone di bellezza e l'agenzia di pegni, è rimasto vuoto per un anno?» «Direi di sì.» «E prima dell'agenzia di pegni, chi c'era?» «Vediamo. Dal '76 all'89 c'erano un negozio di valigie, un macellaio e una specie di agenzia di viaggio. Per i nomi e le date dovrei guardare i miei documenti.» «Potrebbe prenderli, per cortesia?» Gli occhi di Cyr si socchiusero dietro le lenti. «Bella signora, adesso le dispiacerebbe dirmi perché mi sta facendo tutte queste domande?» Mi aspettavo la domanda, anzi, ero sorpresa che non fosse arrivata prima. Che cosa dovevo dirgli? Che cosa dovevo tacergli? «Nello scantinato del suo edificio è stato trovato qualcosa, e adesso si stanno conducendo delle indagini in merito.» Se per caso avessi sperato in una reazione, non l'avrei avuta. Cyr non mi chiese neppure chi stava investigando. «Potrei sapere come si accede allo scantinato della pizzeria?» proseguii. «Una volta si scendeva da una scala sistemata davanti a una porta a livello strada. Ma poi è stata eliminata con la ristrutturazione.» «È possibile accedere allo scantinato da qualche altra parte dell'edificio?»
Cyr scosse la testa. «Quello scantinato non viene usato da anni. L'unico modo di scendere è attraverso una botola nel cacatoio.» Cyr si voltò verso Anne. «Mi perdoni l'espressione, madame.» «Ma si immagini. Una vera licenza poetica.» «Sacrifice! Ma sa che è proprio simpatica, bella figliola? Quando il contratto con suo marito scade, si ricordi di fare un colpo di telefono al vecchio Richard Cyr.» «Tranquillo. Il suo numero è già in cima alla mia lista d'attesa.» Cyr si alzò aiutandosi con entrambe le mani.» «Ci vorrà un po' prima che trovi quei documenti. Sicure che non volete un po' di scotch per scaldarvi le budella?» Di nuovo, Anne e io rifiutammo. Dopo una mezz'oretta, Cyr tornò ciabattando in soggiorno, con un foglio in mano. Anne e io ci alzammo. «Perché non vi fermate per cena, belle signore? Potremmo ordinare qualcosa al messicano, e farci fuori anche qualche margarita. Che ne dite?» «Ci piacerebbe molto, monsieur Cyr» dissi io. «Ma in questo momento stiamo lavorando, e non abbiamo molto tempo per la vita sociale.» «Pazienza. Comunque sapete dove trovarmi.» Mi chiusi la cerniera del giaccone e Cyr ci accompagnò all'ingresso. Prima di uscire, gli allungai un biglietto da visita. «Se dovesse venirle in mente qualcosa, la prego di telefonarmi.» Cyr mi porse il documento. «Se ben ricordo, questa gente era losca come una minestra di funghi.» «Merci, monsieur Cyr.» «Se hanno ucciso qualcuno, io non c'entro niente.» A voce bassa e senza nessuna traccia di umorismo. «Che cosa le fa credere che abbiano ucciso qualcuno?» Dato che Cyr non aveva fatto cenno a «Le Journal», avevo dato per scontato che non avesse letto l'articolo. «Quel detective mi ha raccontato che cosa hanno trovato nello scantinato.» Sicché Claudel aveva già interrogato Cyr. Accidenti a lui. Ancora una volta non mi aveva tenuto informata. «Già. È un fatto.» «Un vero stronzetto arrogante e pieno di boria.» «Chi? Il detective Claudel?»
«Lo stronzo pensava che non ci fossi con la testa. E così non gli ho detto un bel niente.» «Mi dica, monsieur Cyr, secondo lei com'è possibile che tre persone siano finite sepolte nel suo scantinato?» «Se è successo qualcosa di brutto, sicuramente è successo prima che io diventassi il proprietario.» «Come può esserne così sicuro?» «Ha mai conosciuto Nicolò Cataneo?» La voce del vecchio avrebbe potuto affilare un rasoio. Scossi la testa. «Be', allora faccia molta attenzione.» 15 Le neve continuava a cedere incessante, e presto una spessa coltre bianca avrebbe ricoperto ogni elemento del paesaggio cittadino. Anne non disse una parola durante il breve tragitto che ci riportò all'auto. E impassibile, mi osservò comporre il numero che mi collegava alla segreteria telefonica dell'ufficio. Nessun messaggio. Chiamai la signora Gallant/Ballant/Talent. Nessuna riposta. Telefonai al servizio informazioni utenti, per sapere se la sua chiamata in Istituto di mercoledì era già stata registrata, o se il numero che mi aveva lasciato giovedì corrispondesse a un nome o a un indirizzo. Ci stavano ancora lavorando. «Maledizione!» Perché non mi avevano almeno dato il nome in elenco per il numero che avevo già fornito loro? Avrebbero potuto confrontare la chiamata del mercoledì precedente con quel numero, non appena questa fosse stata registrata. O forse la mia richiesta era stata messa in coda, per dare la precedenza alle richieste della polizia? Gettai il cellulare in borsa, recuperai un raschietto dal sedile posteriore e uscii a pulire parabrezza e finestrini. Poi tornai al volante e chiusi con forza la portiera. Dopo aver avviato il motore, uscii dal parcheggio con qualche cauta manovra e al primo segno di attrito delle ruote, accelerai per immettermi nel flusso del traffico slittando leggermente con le ruote posteriori. Con le mani strette sul volante, mi sporsi in avanti cercando di distinguere la strada
come meglio potevo oltre la cortina di fiocchi bianchi che cadevano davanti sul parabrezza. Dopo due isolati, Anne ruppe il silenzio. «Potremmo cercare sui vecchi quotidiani gli articoli sulle ragazze scomparse.» «Inglesi o francesi?» «Gli scomparsi non dovrebbero risultare su entrambi?» «Non necessariamente.» Ero completamente concentrata nel seguire le tracce lasciate dalle auto che mi precedevano. «E a Montréal nel corso degli anni si sono pubblicati tantissimi quotidiani in lingua francese.» La parte posteriore della Mazda sbandò leggermente verso sinistra. Sterzai e raddrizzai l'auto. «Allora potremmo iniziare con la stampa di lingua inglese.» «Quali annate? Quell'edificio è stato costruito all'inizio del secolo.» La neve continuava ad accumularsi sul parabrezza. Attivai lo sbrinatore. «Il test della fluorescenza a raggi ultravioletti mi dice che quelle ossa probabilmente non sono più antiche dell'edificio. Ma più di questo, non posso sapere.» «Okay. Non faremo ricerche negli archivi dei giornali.» «Senza sapere il periodo esatto e la lingua da ricercare, rischieremmo di impiegarci tutto l'inverno. Inoltre, le ragazze sono state ritrovate qui, ma potrebbero essere scomparse anche altrove.» Lentamente, avanzammo di un altro isolato. «E che mi dici dei bottoni?» «Quali bottoni?» scattai, innervosita dall'eccessiva attenzione che mi richiedeva la guida. Anne si allentò la sciarpa, e si abbandonò sul sedile, assumendo un atteggiamento che significava che meritavo solo di essere ignorata. «Scusami.» Mi stavo comportando come Claudel. Il silenzio perdurò. Era evidente che toccava a me rimediare. «Ti chiedo scusa, Anne. Guidare con la neve mi mette molto in tensione. Che cosa volevi dirmi sui bottoni?» Dopo qualche altro istante di silenzio che stava a significare «sei proprio una stronza», Anne mi mise a parte dei suoi pensieri. «Forse potresti portare quei bottoni da un altro esperto. Per tentare di ottenere altre informazioni.» Toccai delicatamente il freno e fermai l'auto. Sulla Sherbrooke, una donna anziana portava a passeggio un vecchio cane. Tutti e due indossava-
no degli stivali. Tutti e due avevano gli occhi socchiusi contro la neve. Guardai Anne. In effetti, perché no? Rilasciai il pedale dell'acceleratore molto lentamente, occupai l'incrocio e svoltai a sinistra. Gesù. Ma certo che potevo fare così. Non avevo più pensato a quei bottoni, accettando il parere di Claudel. In fondo la sua esperta del McCord poteva anche sbagliarsi. D'un tratto, ebbi una terribile fretta di avere un'altra opinione in merito. «Annie, sei davvero un genio.» «Mi impegno molto.» «Sei pronta a sbrigare un paio di cosette, prima di andare a cena?» «Vai.» Arrivate in Istituto, Anne attese in macchina mentre io salivo velocemente nel mio ufficio per fare una rapida telefonata e prendere i bottoni. Quando tornai giù, Anne stava ascoltando un motivo di Zachary Richard su una stazione in lingua francese. «Che cosa dicono le parole?» «Parlano di qualcuno che si chiama Marjolaine.» «Si direbbe che lui senta la mancanza di lei.» «Così dice.» «Un talento locale?» «No, della Louisiana. Dalle tue parti.» Anne si appoggiò al sedile e socchiuse gli occhi. Tornare nel centro storico richiese il doppio del tempo normale e anche se erano appena passate le cinque, ormai era già buio. I lampioni erano accesi, i negozi stavano chiudendo, i pedoni camminavano veloci, spalle curve e borse strette contro il petto. Lasciato Boulevard René-Lévesque, imboccai Rue Berri fino in fondo, quindi svoltai a destra e percorsi tutta Rue de la Commune. Alla nostra destra, i vicoli stretti del quartiere Vieux Montréal si intrecciavano sulle pendici della collina, mentre a sinistra incontrammo uno dopo l'altro il Marche Bonsecours, il Pavillon Jacques Cartier, il Centre des Sciences de Montréal. Alle loro spalle, il San Lorenzo era una lucente lastra di ghiaccio color ebano. «È bellissimo» disse Anne. «Come una specie di tundra artica.» «Occhio al caribù.»
Nei mesi più caldi, i pontili che sporgono sulle rive del fiume sono orlati da imbarcazioni di tutte le stazze, mentre i parchi e i giardini adiacenti sono affollati da una variegata confusione di turisti, cicloamatori, ragazzi con lo skate-board e famiglie con il cesto da picnic. Quella sera, il lungofiume era deserto e buio. In fondo a Place d'Yuoville, svoltai in una stradina secondaria, e parcheggiai di fronte al vecchio palazzo della dogana. Anne mi seguì lungo un marciapiede in discesa, cercando di camminare dietro la mia scia. Guardando verso il fiume, l'occhio mi cadde sul profilo incerto di Habitat '67. Costruito quell'anno in occasione del World Expo, il complesso era un geometrico insieme di cubi che sfidava la sottile arte dell'equilibrio. Frutto più dell'immaginazione che del pragmatismo architettonico, i suoi portici e i suoi vialetti erano una delizia d'estate e una condanna alla morte per assideramento d'inverno. Andrew Ryan viveva a Habitat '67. Una girandola di domande mise a dura prova la mia concentrazione. Dov'era Ryan? Che cosa provava nei miei confronti? Che cosa provavo io nei suoi confronti? Perché voleva parlarmi? E di che cosa? Impegno? Scelta? Rottura? Cercai di mettere da parte le domande. Ryan era impegnato in un'importante operazione di polizia e di certo non stava pensando a quello che provava per me. In Rue de la Commune, entrammo in un futuristico edificio in pietra grigia, tutto angoli e spigoli. In alto, uno striscione spiccava in cima a una torre. «Ici naquit Montréal» Qui nacque Montréal. «Che cos'è questo posto?» Anne si scrollò la neve dagli stivali sbattendo i piedi sul pavimento di mattonelle verdi. «Pointe-a-Callière, il museo di Montréal di storia e archeologia.» Il viso di un uomo spuntò da dietro un bancone circolare sul fondo dell'atrio. L'uomo era smunto e pallido, e aveva la barba lunga. «Scusate, signore.» Si alzò e indicò un cartello. Indossava un cappottone militare, e aveva uno scarpone in mano. «Il museo è chiuso.» «Ho un appuntamento con la dottoressa Mousseau.» Sorpresa. «Mi può dire il suo nome, per favore?» «Tempe Brennan.» L'uomo digitò un numero, parlò per qualche secondo, poi abbassò la cornetta. «La dottoressa Mousseau è nel sotterraneo. Conosce già la strada?»
«Sì, grazie.» Attraversammo l'atrio e superammo un piccolo anfiteatro, poi scendemmo una scala di metallo ed entrammo in un ingresso lungo e stretto, dalla luce soffusa e con pareti e pavimento interamente di pietra. «Mi sento come Alice che insegue il cappellaio matto nella galleria» disse Anne. «Questo punto è il luogo in cui sorse l'insediamento che diede origine alla città di Montréal. Quel muro mostra come la città sia cresciuta e sia cambiata nel corso degli ultimi tre secoli.» Anne indicò la porzione di muro che spuntava dal pavimento. «Vuoi dire che queste sono le fondamenta originarie?» «No, ma quasi. È un muro molto antico.» Indicai un punto in fondo all'ingresso. «Quel camminamento si trova esattamente sotto Place d'Youville, vicino al punto in cui abbiamo parcheggiato. Quella che adesso è una strada, un tempo era una fognatura, e prima ancora, un fiume.» «Tempe?» La voce risuonò tra i muri di pietra. «Est-ce toi, Tempe?» «Oui, c'est moi.» «Par ici.» Da questa parte. «Chi è questa dottoressa?» sussurrò Anne. «L'archeologa del museo.» «Scommetto che quella donna ha un sacco di bottoni.» «Già. Ha più bottoni lei dell'ascensore di un grattacielo.» Monique Mousseau stava lavorando a una delle diverse decine di teche di vetro allineate lungo i corridoi che si irradiavano dalla stanza principale. Accanto, su un carrellino di metallo, erano appoggiati un computer portatile, un raccoglitore, alcuni libri, una macchina fotografica, una lente d'ingrandimento. Quando ci vide, la dottoressa Mousseau ripose un oggetto, chiuse a chiave un armadietto e lasciando cadere gli occhialini alla Harry Potter sul petto, ci venne subito incontro. «Bonjour, Tempe. Comment ça va?» L'archeologa mi baciò sulle guance e mi abbracciò con trasporto, poi scostò il busto all'indietro e mi guardò con aria interrogativa, senza allentare la presa sulle mie braccia. «Stai bene, Tempe?» «Sto bene, Monique» risposi in inglese, poi le presentai Anne. «Sono davvero molto lieta di conoscerti» disse la dottoressa Mousseau, abbracciando calorosamente anche lei.
«Anch'io» replicò Anne, disorientata dal turbine di energia con cui l'archeologa ci aveva travolto. Le due donne sembravano appartenere a due specie diverse. Anne era alta e bionda; la scienziata non arrivava al metro e cinquanta e aveva capelli neri e ricci. Anne era avvolta nel suo sciarpone d'angora rosa, l'altra indossava una camicia da uomo, jeans neri, pedule con la suola a carrarmato. Inoltre, da un passante dei calzoni, le pendeva un enorme mazzo di chiavi. «Innanzitutto lascia che ti ringrazi per aver accettato di vederci a quest'ora di un venerdì di neve.» «Sta nevicando?» mi chiese l'archeologa interdetta. Avevo conosciuto Monique Mousseau una decina d'anni addietro, ai tempi del mio incarico a Montréal. Nel corso degli anni mi era capitato spesso di lavorare con lei, e avevo avuto modo di capire che la sua energia non era il frutto di uno stimolante chimico ma del suo amore per la vita e per il suo lavoro. Datele una paletta e scaverà tutto il New England, si sarebbe potuto dire di lei. «Fortissimo.» «Che meraviglia. Oggi sono stata tutto il giorno sottoterra, e ho perso ogni contatto con il mondo esterno. Il panorama com'è?» «Molto bianco.» La sonora risata dell'archeologa risuonò molto più potente di quanto la taglia della donna avrebbe lasciato immaginare. «Coraggio, Tempe. Parlami di questi bottoni.» Le descrissi i bottoni trovati nello scantinato. «Affascinante» disse, sinceramente colpita. «Fammi dare un'occhiata.» Cercai nella borsetta e le porsi una bustina trasparente. Monique Mousseau si posò gli occhialini alla Harry Potter sul naso ed esaminò con attenzione i bottoni, rigirandosi la bustina tra le mani. Passò un intero minuto. Poi un altro. Sul viso della studiosa si formò un'espressione perplessa. Anne e io ci guardammo. L'archeologa puntò le lenti verso di me. «Posso toglierli dalla bustina?» «Certamente.» Mousseau fece scorrere la zip di plastica, lasciò cadere i bottoni e si avvicinò al carrellino per prendere la lente di ingrandimento con cui studiarli. Con la punta delle dita capovolse i bottoni, li osservò in ogni loro parte, li rivoltò ancora una volta. A ogni movimento, la sua espressione si faceva
sempre più perplessa. Anne e io ci scambiammo un altro sguardo. L'esame dell'archeologa sembrò durare all'infinito. Poi: «Potete scusarmi un momento?». Annuii. La studiosa si allontanò lasciando due dei tre bottoni sul carrello. Intorno a noi scese un inquietante silenzio. Da fuori, arrivava soltanto il rumore di qualche clacson. L'attesa mi innervosì. Perché quell'aria perplessa? Che cosa aveva visto di strano la dottoressa? Una vita dopo, Monique Mousseau tornò, riprese in mano gli altri due bottoni e continuò il suo esame. Infine, alzò lo sguardo su di noi. «Questi bottoni sono già stati esaminati da Antoinette Legault avete detto?» «Un detective li ha portati da lei al museo McCord.» «E lei ha detto che a suo parere risalgono al tardo Ottocento, giusto?» «Giusto.» «Ha ragione.» Mi sentii invadere dalla delusione. L'archeologa si avvicinò a me, sollevò il palmo e mosse i due bottoni con la punta di una penna. «Questi due sono in argento 925, realizzati da un gioielliere e orologiaio di nome Christie.» «Dove?» «A Edimburgo, in Scozia.» «Quando?» «Diciamo tra il 1890 e il 1900.» «Sei sicura?» «Ero piuttosto sicura di aver riconosciuto la mano di Christie ma ho controllato meglio, giusto per averne la certezza.» Annuii, troppo scoraggiata per pensare a qualcosa da dire. «Ma questo» proseguì l'archeologa, toccando il terzo bottone con la punta della penna, «questo è una copia, e nemmeno troppo ben fatta.» La guardai con aria confusa. Monique Mousseau mi passò la lente. «Confronta questo bottone» e mi indicò uno dei due oggetti di Christie «con questo.» La penna si spostò sulla copia. Sotto la lente d'ingrandimento, i particolari della testa femminile incisa
da Christie erano nitidi. Occhi. Naso. Riccioli. Al contrario, la sagoma impressa sul falso era un semplice ovale senza lineamenti. Monique Mousseau girò i bottoni. «Osserva le iniziali incise all'interno dell'asola.» Anche a un occhio inesperto, la differenza era evidente. Christie aveva inciso le due lettere con tratti tondeggianti e leggiadri. Sul falso, invece la S risultava semplicemente da una serie di tagli che si intersecavano. Rimasi perplessa e in un certo senso sconcertata. Ma quel mio stato d'animo non era niente in confronto a come mi sarei sentita il lunedì mattina. 16 Il mio appartamento si trova al pian terreno di un edificio a quattro piani, in un cortile interno di un quartiere centrale. Due stanze da letto. Due bagni. Soggiorno e sala da pranzo. Minuscola cucina. Ingresso. Dal lungo corridoio che unisce l'entrata principale al soggiorno, proprio di fronte alla cucina, una grande vetrata si affaccia su un porticato che costeggia il cortile interno. Dal soggiorno, un'altra vetrata si apre su un fazzoletto di giardino. In estate, pianto le piantine aromatiche lungo il margine del prato. D'inverno, osservo la neve accumularsi sullo steccato di legno, e sui rami del pino al centro della recinzione. Cinque metri quadrati. Un'estensione extraordinaire per un appartamento cittadino. Quella sera, quel buio cortiletto mi faceva sentire scoperta e vulnerabile. Anche se la pattuglia che Ryan aveva richiesto per la mia protezione passava di frequente. In più, il suo rattoppo sulla vetrata non smetteva di ricordarmi il mio sgradito visitatore e il punto da cui aveva pensato di entrare in casa mia. Quali altre possibilità avrebbe potuto avere? Dovevo ammettere che avere Anne con me era un sollievo. Dopo una rapida cena a base di cibo thailandese da asporto, Anne e io cercammo di rimettere in ordine la casa. Mentre spazzavo e passavo l'aspirapolvere, mi sentii assalire dalla rabbia. Di nuovo, quando andai a letto, faticai ad addormentarmi per i tanti pensieri che mi affollavano la mente. Il mio nido era stato violato da un tossico in cerca di merce da vendere? Sembrava la risposta più probabile. Qualcuno che aveva un bisogno disperato di contanti per un buco e che si è lasciato prendere dalla rabbia quan-
do non ne ha trovato. Nessun ladro di appartamenti si sarebbe comportato così. E se invece la sua intenzione era quella di spaventarmi? E se invece qualche boss avesse ordinato a qualcuno di distogliermi da eventuali segreti della malavita a lungo nascosti, lanciandomi un messaggio del tipo «sappiamo dove abiti»? Oppure era uno psicopatico con uno specifico problema nei miei confronti? Che cosa significavano quei tre bottoni? Perché Claudel e Charbonneau non avevano risposto alle mie chiamate? Dov'era Ryan? Perché non aveva telefonato? Il sabato mattina Anne andò a fare un giro a Le Faubourg mentre io chiamavo un vetraio per far riparare la vetrata. A mezzogiorno il nuovo pannello di vetro era al suo posto, il frigorifero era stato rifornito e l'appartamento decentemente ripulito. Per certe ragioni di cui il mio inconscio preferisce non mettermi a parte, ci sono alcuni articoli di cui io non riesco mai a liberarmi. Per esempio, le ricette mediche. O le copie del «National Geographic». Gli elenchi dell'American Academy of Forensic Sciences. Elenchi telefonici. Be', non si può mai sapere. Dopo aver mangiato qualche sandwich al formaggio, pomodoro e maionese con Anne, radunai tutti i manuali sulle ossa che avevo in casa e li posai accanto al computer. Quindi presi i fogli che mi aveva dato Cyr. Da dove dovevo iniziare a cercare i vari inquilini? Dovevo procedere in avanti o a ritroso? Iniziai dai primi. Dal 1976 al 1982, lo spazio in cui attualmente c'era la pizzeria era stato occupato da una valigeria. Il titolare era una donna di nome Sylvie Vasco. Composi il numero sull'elenco che mi aveva passato Cyr e mi rispose uno studente universitario che viveva all'interno della McGill. E che non aveva idea di ciò di cui stavo parlando. Gli elenchi e il mio computer non mi fornirono nessun nominativo corrispondente a Sylvie Vasco, ma insieme riuscirono a darmi sette S. Vasco. Un numero risultava disattivato. Due suonarono a vuoto. Il quarto corrispondeva allo studio di un avvocato. Agli ultimi tre numeri risposero tre donne. Nessuna si chiamava Sylvie o conosceva una Vasco con questo nome o uno molto simile. Cerchiai i due numeri senza risposta, e proseguii. Dal 1982 al 1987 la pizzeria era stata occupata da una macelleria chiamata «Boucherie Lehaim». Cyr aveva scritto che il proprietario era un cer-
to Abraham Cohen, e accanto c'era l'annotazione «sp?». L'elenco telefonico dava migliaia di Cohen, dentro e fuori Montréal. Inoltre, c'erano le versioni alternative, come Coen, Coehn, Cohn, Kohen e Kohn. Fantastico. Le pagine gialle davano una «Boucherie Lehaim» a Hampstead. Ma quando telefonai, nessuno mi rispose. Tornai all'elenco di Cyr. Patrick Ockleman e Ilya Fabian erano stati inquilini di Cyr dal 1897 al 1988. Cyr aveva scritto accanto ai loro nomi le parole «checca» e «viaggi». Sotto il nome Ockleman non trovai niente in nessun elenco. Ilya Fabian risultava residente ad Amherst, presso un indirizzo del Gay Village. Il telefono squillò solo una volta. Quando mi risposero, chiesi se stavo parlando con Ilya Fabian. Era lui. Domandai se la persona al telefono era lo stesso Ilya Fabian che aveva gestito un'agenzia di viaggio in Rue Ste-Catherine alla fine degli anni Ottanta. «Sì.» Circospetto. Domandai se lui o il suo collega Ockleman avessero utilizzato o visitato lo scantinato durante la loro permanenza nell'edificio. «Mi ha detto che lavora con il coroner?» Diffidenza mista a disgusto. «Sì.» «Oh, mio Dio. Non mi dica che là sotto c'era un morto? Avete trovato un cadavere in cantina?» Cosa dovevo rispondere? «Sto svolgendo delle indagini su certe ossa trovate sepolte sotto il pavimento.» «Oh, mio Dio!» «Probabilmente si tratta di materiale molto antico.» «Oh, mio Dio! Come l'Esorcista. No, no. Qual era quel film con la ragazzina? Quello dove costruiscono la casa su un cimitero? Sì! Poltergeist.» «Signor Fabian...» «Non sono sorpreso di quello che mi dice. Patrick e io una volta avevamo dato un'occhiata a quella fogna lurida e puzzolente e non ci abbiamo più messo piede. Mi viene ancora la pelle d'oca quando penso a tutti quei
topi e quegli scarafaggi.» Fabian pronunciò topi e scarafaggi con almeno cinque «i» finali ciascuno. «Quello scantinato brulicava di insetti orribili.» anche in questo caso le «i» si moltiplicarono. «E adesso mi dice che là sotto c'erano anche dei cadaveri?» «Avete mai usato la cantina per tenerci qualcosa?» «Dio ce ne scampi.» Lo immaginai rabbrividire in modo teatrale. Un po' schizzinoso, per essere uno abituato a viaggiare, pensai. «Per caso la vostra agenzia era specializzata in una zona specifica, signor Fabian? «Patrick e io organizzavamo pacchetti per luoghi sacri rivolti in particolare ai gay.» Sospiro. «Ma non era un momento favorevole ai viaggi spirituali. Abbiamo chiuso dopo un anno e mezzo.» «Patrick Ockleman?» «Sì.» «Adesso dove si trova il signor Ockleman.» «È morto.» Attesi che Fabian aggiungesse qualche particolare. Ma lui non disse altro. «Posso chiederle come e quando è morto il suo socio?» «È stato investito da un pullman. Ironia della sorte, era un pullman di turisti.» Voce lacrimevole. «A Stowe, nel Vermont. Quattro anni fa. Le ruote gli hanno schiacciato la testa come una...» «La ringrazio, signor Fabian. Se ci sarà bisogno di ulteriori chiarimenti, la richiameremo.» Attaccai. Fabian e Ockleman sembravano due candidati piuttosto improbabili al ruolo di serial killer, ma sottolineai il numero di telefono e annotai qualche appunto. Il nome successivo era S. Ménard; accanto, Cyr aveva segnato «agenzia pegni» e le date 1989 e 1998. Sull'elenco telefonico di Montréal trovai quattro pagine di Ménard, e settantotto di questi nominativi avevano un nome che iniziava per S. Dopo quarantadue chiamate decisi che Ménard era un lavoro da detective. Il prossimo. Il salone di bellezza di Phan Loc Truong aveva occupato i locali di Cyr dal 1998 al 1999. Meno scoraggiante di Ménard, ma nelle sole pagine gialle i Truong era-
no duecentoventisette. Nessun Phan Loc. Due avevano il nome che iniziava con P. Nessuna delle due P era un Phan Loc. Nessuno dei due conosceva un Phan Loc che aveva un salone di bellezza. Iniziai a contattare il resto dei Truong. Molti parlavano a stento sia l'inglese che il francese e molti in qualche modo erano legati a un salone di bellezza. Nessuno invece conosceva il negozio situato nell'edificio di Richard Cyr. Stavo chiamando il ventinovesimo Truong, quando una voce mi interruppe. «Trovato niente?» mi domandò Anne entrando nella stanza ormai buia. «Molte signore si farebbero volentieri fare le unghie da me.» Scoraggiata, spensi il computer. Dopodiché Anne e io andammo in cucina a preparare una cena a base di bistecche, patate e asparagi. A tavola, le raccontai del mio infruttuoso pomeriggio. Dopo cena, guardammo due film dell'ispettore Clouseau con Birdie accanto a noi sul divano. I film non riuscirono a farci ridere molto e ci ritirammo a dormire piuttosto presto. La domenica, verso mezzogiorno, riprovai a chiamare la «Boucherie Lehaim». Niente. Alle due finalmente qualcuno mi rispose. «Shalom.» Voce che ricordava un oboe baritono. Mi presentai. L'uomo disse di chiamarsi Harry Cohen. «Per caso la sua è la stessa "Boucherie Lehaim" che negli anni Ottanta si trovava in Rue Ste-Catherine.» «Sì. Quel negozio apparteneva a mio padre.» «Abraham?» «Sì. Ci siamo trasferiti nell'87.» «Posso chiedere il motivo?» «Noi abbiamo una clientela rigorosamente kosher. E da questo punto di vista la zona in cui lavoriamo attualmente sembra essere più vantaggiosa.» «Capisco che la domanda che sto per farle potrà sembrarle strana, signor Cohen, ma... per caso ricorda qualcosa dello scantinato dell'edificio?» «Alla cantina si poteva accedere dal nostro negozio. Ma noi non tene-
vamo niente là sotto, e non ricordo di aver mai visto nessuno uscire o entrare.» «Secondo lei, è possibile che altri inquilini abbiano utilizzato lo scantinato come magazzino?» «Noi non avremmo dato a nessuno il permesso di utilizzare un nostro spazio a questo scopo. E l'unico modo di scendere era attraverso una piccola porta situata nel nostro bagno. Ricordo che mio padre teneva quella porta sempre chiusa con un lucchetto.» «Lei sa per quale ragione?» «Mio padre è molto attento in fatto di sicurezza.» «Come mai?» «È un ebreo nato in Ucraina nel 1927.» «Capisco.» Stavo brancolando nel buio. Cosa potevo chiedere ancora? «Lei conosceva l'inquilino che vi ha preceduto o seguito?» «No.» «Siete stati in quel posto per almeno sei anni. Per caso la vostra decisione di trasferirvi è stata innescata da qualcosa in particolare?» «Diciamo che la zona è diventata...» Cohen esitò. «Diciamo... sgradevole.» «Sgradevole?» «Sì. Noi siamo Chabad-Lubavitch, dottoressa Brennan. Ebrei ultra ortodossi. E anche a Montréal non sempre siamo capiti.» Ringraziai Cohen e attaccai. Al centro del cortile interno, in un'aiuola di pietra, cresce un piccolo abete. Ogni anno, a dicembre, il custode lo addobba con festoni e luci natalizie. E per il signor Winston, che non si distingue per il suo innato buon gusto, le decorazioni di Natale non hanno senso se non sono un arcobaleno di colori. E il mio gatto è un grande estimatore dello stile del signor Winston. Birdie infatti trascorre ore accoccolato davanti al caminetto dividendo la sua attenzione tra le fiamme e il piccolo miracolo di colori che spicca nella neve. Anne e io seguimmo l'esempio di Birdie, e ci impigrimmo per tutto il pomeriggio. Trascorremmo lunghe pause sul divano, con i piedi vicino al fuoco. E accompagnate da infinite tazze di tè e di caffè ci lamentammo io di Claudel e Ryan, lei di Tom, a volte ridendo, altre facendoci prendere dallo sconforto.
Dopo ore di chiacchiere, finalmente riuscii a capire la profondità della tristezza della mia amica. Il suo desiderio di svago e di shopping erano soltanto un tentativo di distrarsi. Forza con il cerone e su il sipario. Lo show deve continuare. Anne era sempre stata una persona insondabile. Io trovai la sua tristezza inquietante e pregai che non si insediasse in lei in modo permanente. Mentre parlavamo, cercai di pensare a qualcosa di incoraggiante da dirle. O di consolatorio. O che almeno la distraesse. Ma riuscii a trovare solo qualche cliché trito e ritrito. Alla fine mi limitai a mostrarle il mio sostegno. Ma lo stato della mia amica mi preoccupava. A parte questo, Anne e io ricordammo i momenti belli della lunga amicizia. La sera del bagno nude nel lago. La festa in cui Anne fece una clamorosa caduta. La gita al mare in cui avevamo perso suo figlio Stuart, di appena due anni. Il giorno in cui mi sono presentata ubriaca al saggio di fine anno di Katy. L'anno in cui mi presentavo ubriaca ovunque. Tra una chiacchiera e l'altra, controllavamo i nostri messaggi. Molti da Tom. Nessuno da Ryan. E nonostante le mie molte chiamate alla signora Gallant/Ballant/Talent, continuavo a non ricevere da lei nessuna risposta. E nessuna chiamata. Ogni tanto la conversazione virava sui bottoni di Claudel. Monique Mousseau non aveva azzardato alcuna opinione sull'età o sul significato del falso. Anne e io immaginammo un'infinità di scenari, nessuno dei quali aveva senso. Birdie ci offrì pochi spunti. Domenica sera convinsi finalmente Anne a parlare al telefono con Tom. In seguito si scolò un bicchiere di vino dietro l'altro. In silenzio. 17 Anne dormiva quando uscii per andare in Istituto, il lunedì mattina. Le scrissi un rapido messaggio in cui le chiedevo di chiamarmi al suo risveglio. Ma già sapevo che non l'avrei sentita prima di mezzogiorno. Uscendo dal garage, rimasi quasi accecata. Il cielo era terso e il sole finalmente splendeva dopo il lungo fine settimana di neve. Ancora una volta, l'armata cittadina degli spazzaneve aveva avuto la meglio. Tutte le strade di Centre-Ville erano sgombre, mentre nelle zone più esterne avevano pulito solo le strade principali, orlate di veicoli sepolti
oltre i finestrini. Tutte quelle auto ricordavano una fila di ippopotami congelati in un fiume di latte. Di tanto in tanto incrociavo sconsolati automobilisti, costretti a cominciare la settimana spalando la neve in cui erano stati seppelliti i loro mezzi di trasporto. Le strade secondarie erano impraticabili, perciò decisi di lasciare la mia auto nel parcheggio del palazzo Wilfrid-Derome. Per raggiungere l'entrata principale, dovetti aggirare alcuni imponenti cumuli bianchi e un piccolo spazzaneve che stava sgomberando il marciapiede con la sua luce ambrata che lampeggiava nella luce cristallina. I passi suonavano nitidi e scricchiolanti. In lontananza, due rumorosissimi camion davano un fastidioso risveglio ai residenti della zona che ancora dormivano. La prima sorpresa della giornata si fece avanti mentre controllavo la mia segreteria telefonica. Michel Charbonneau è un omone imponente, la cui stazza con gli anni non accenna affatto a diminuire e le cui caratteristiche fisiche più evidenti sono il collo taurino, il viso dai tratti marcati e i capelli ispidi. Diversamente dal suo collega Claudel, che ama gli abiti firmati in fibre rigorosamente naturali, Charbonneau propende per sintetici e sottomarche. Quel giorno indossava una camicia color ruggine, calzoni neri e una cravatta che ricordava uno scontro di piazza all'estremo sud di una girandola cromatica. La giacca era di un infelice scozzese marrone e beige. L'investigatore si mise a sedere e si appoggiò la giacca sulle ginocchia. Notai un'abrasione sulla sua guancia sinistra. Charbonneau notò che l'avevo notata. «Dovrebbe vedere come ho ridotto l'altro.» Sorrise. Lasciò cadere. Io no. «Scusi se non ho risposto alla sua chiamata. Claudel e io eravamo impegnati in un'operazione contro uno smercio illecito di narcosostanze, e il cerchio è stato chiuso proprio venerdì. Immagino che ne abbia letto o sentito parlare, no?» «Veramente non ho letto niente durante il fine settimana.» Anne e io avevamo deciso di rinunciare a ogni forma di giornalismo durante il weekend e di dedicarci esclusivamente a documentari e vecchi film. «I corpi speciali stavano addosso a quei narcotrafficanti da mesi.» Lo lasciai continuare.
«Un paio di imprese farmaceutiche stavano smerciando pseudoefedrina sottobanco. È una roba che si usa nella produzione delle metanfetamine. La roba veniva immagazzinata in Québec e nell'Ontano e poi trasportata in tutto il Canada e i sottostanti quarantotto Stati.» Charbonneau si sporse in avanti e si posò i gomiti sulle ginocchia. «Questa gente stava rifornendo tutti e due i Paesi da Halifax a Houston. Ne abbiamo portati dentro quarantatré venerdì e altri undici sabato. Un sacco di avvocati staranno già mettendo in banca gli anticipi sulla loro parcella.» «A questa operazione vi ha preso parte anche Andrew Ryan?» Charbonneau sorrise, e poi scosse la testa. «Devo ammettere che anche se lavora per la SQ, il ragazzo è sempre all'altezza della sua leggenda.» Dire che tra la SQ e la CUM esistesse rivalità, era come dire che tra Palestina e Israele c'era una leggera divergenza di opinione. «In che senso?» domandai, iniziando a disegnare una serie di quadrati con una penna. «Sabato mattina a momenti fanno saltare le cervella a Ryan, e sabato sera lo vedo tranquillo e rilassato con una tipetta che aveva metà dei suoi anni.» Charbonneau alzò le mani e disegnò la sagoma di un otto nell'aria. «Pochissimo elasticizzato iperaderente addosso e metri e metri quadri di pelle nuda. Quanti anni avrà, Ryan? Quarantacinque? Quarantasette? La ragazza aveva appena smesso di bere il latte.» Iniziai a suddividere i quadrati. Disinteressata. «La ragazza resiste, quindi immagino che il nostro bel tenente abbia ancora quel ci vuole.» Ryan e io eravamo stati molto discreti. Troppo discreti, direi. E Charbonneau non aveva nessuna idea che avessimo una relazione. «Resiste?» Apparentemente disinvolta. Charbonneau scrollò le spalle. «Li avevo già visti insieme.» «Davvero?» «Vediamo... quand'era?» Charbonneau cercò di ricordare, senza rendersi conto dell'effetto che le sue parole stavano avendo su di me. «Agosto? Sì, era in agosto. Faceva più caldo che all'inferno.» Un grosso dito puntò nella mia direzione. «Era venuto qui per parlare di un caso. Lei era a casa, al sud. Dovevo testimoniare in tribunale, e l'udienza preliminare era stata fissata in agosto. Avevo notato Ryan e la sua reginetta del ballo mentre uscivo dal tribunale.
Sì. Era la prima settimana di agosto.» La prima settimana di agosto. Ryan era a Charlotte. Una chiamata urgente. Problemi con la nipote. Rientro fuori programma in Canada. Posai la penna e iniziai a pensare al lavoro. «Monsieur Charbonneau, venerdì l'ho chiamata perché volevo comunicarvi certe importanti informazioni riguardo gli scheletri trovati nello scantinato della pizzeria.» Charbonneau si appoggiò allo schienale e allungò le gambe. «La ascolto» disse. «Ho avuto un secondo parere circa i tre bottoni trovati da Said Matoub.» Charbonneau mi guardò disorientato. «Il proprietario della pizzeria.» «Il tizio che ha trovato gli scheletri, giusto?» «Veramente, li ha trovati l'idraulico, ma non importa. Matoub ha ammesso di essersi infilato in tasca tre bottoni d'argento mentre raccoglieva le ossa.» «Continui.» «E il suo collega ha portato questi bottoni al museo McCord per farli stimare.» «E la signora ha detto che erano vecchi.» «Antoinette Legault. Ma aveva ragione solo in parte.» «Ah, sì?» «Secondo Monique Mousseau, del Pointe-à-Callièrs, solo due dei tre bottoni sono originali dell'Ottocento. Il terzo è una copia.» «Il che significa?» «La mia esperta non ha idea.» «A quando risale questa copia?» «Non è stato possibile precisare una data, ma questa persona dubita che si tratti di un bottone molto antico.» «Okay. Quindi è possibile che i bottoni non c'entrino con le ossa.» «Ha mai sentito parlare di un uomo chiamato Nicolò Cataneo?» «Nick Knife? E chi non lo conosce?» «L'edificio che comprende i locali della pizzeria di Matoub attualmente appartiene a Richard Cyr. Cyr ha acquistato la proprietà da Nicolò Cataneo.» «Ah sì? E quando?» «Nel 1980.» Charbonneau cambiò posizione.
«Per quanto tempo Cataneo è rimasto in possesso dell'edificio?» «Dieci anni.» Charbonneau aggrottò la fronte. «Questo per lei ha un qualche significato?» «Potrebbe.» «So che Cataneo faceva parte di un certo mondo.» Charbonneau iniziò a tormentarsi le pellicine delle unghie. «C'è qualcosa che non mi dice, monsieur Charbonneau?» Per qualche istante il detective mi guardò indeciso, poi si appoggiò di nuovo allo schienale. «Negli anni Settanta da queste parti ci fu un gran casino. Il clan dei calabresi e quello dei siciliani si scagliarono l'uno contro l'altro e la lotta di potere finì con l'assassinio di un boss chiamato Paolo Violi.» «E poi?» «Arrivò un altro boss.» In fondo al corridoio sentii squillare un telefono, poi un altro, e un altro ancora. LaManche stava radunando le truppe per la riunione del mattino. «E poi?» «Il nuovo boss ruppe con i Bonanno di New York e strinse delle alleanze con la famiglia di Montréal e con la famiglia dei Caruana/Cuntrera.» «Tutto questo per dire che cosa?» domandai, guardando eloquentemente il mio orologio. «Fu una mossa molto azzardata.» Charbonneau scrollò le spalle. «Perché un certo numero di gente finì morta ammazzata.» «E magari anche qualche ragazza?» Charbonneau scrollò di nuovo le spalle. «Lei ha detto che su quelle ossa non c'erano segni di trauma.» «Infatti non ne ho trovati. Ha già parlato con il suo collega?» Charbonneau si toccò un orecchio, guardò altrove e poi tornò su di me. Dopo qualche istante di esitazione, sembrò prendere una decisione. «Luc ha parlato con Cyr.» «Lo so.» «Immagino che non gliene abbia parlato.» «Infatti.» «Probabilmente avremmo dovuto farlo.» «Sì, sarebbe stato carino da parte vostra.» «Il vecchio Cyr però non ci ha fatto il nome di Cataneo.» «Forse la cosa dipende dai modi poco urbani del suo collega.»
«Lei ha scoperto qualcosa?» Gli parlai della lista degli inquilini di Cyr, e delle telefonate che avevo fatto. «In conclusione, lei chi preferisce? La drag queen o il tizio con il ricciolo e il cappello nero?» «I Chabad-Lubavitch non portano le peiot e nemmeno lo streimel.» «Stavo solo scherzando, dottoressa. Secondo lei, qualcuno di loro potrebbe aver avuto un ruolo?» «Sta chiedendo la mia opinione?» Charbonneau annuì. «Non è molto probabile.» Mi alzai. Charbonneau si alzò a sua volta, si mise il giaccone su un braccio e si tolse un foglietto di tasca. «Dovevo portarle questo.» Il biglietto conteneva il numero di telefono lasciato dalla signora Ballant/Gallant/Talent, il nome Alban Fisher e un indirizzo di Candiac. «È il risultato del tabulato telefonico?» mi domandò il detective. Annuii. «Qualcuno le sta dando qualche problema, dottoressa?» «A parte lo schizzato che mi è entrato in casa?» «E cioè?» Il viso di Charbonneau si fece teso. Errore. «No, niente. Comunque, Ryan ha fatto mettere una pattuglia di sorveglianza davanti a casa mia.» Guardai il foglio che l'investigatore mi aveva passato. «Questa donna ha chiamato sostenendo di sapere qualcosa sugli scheletri trovati nello scantinato della pizzeria.» «Che cosa?» «Che ne so. Ha detto che sapeva che cosa era successo nell'edificio di Cyr.» «Appena lo sa, mi faccia sapere che cosa le ha detto questa signora. Se non riesce a sentirla entro oggi, magari vado a fare un giro fino a casa sua. E se qualcuno la molesta, dottoressa, mi dica anche questo. Mi raccomando.» Poi, ancora una volta, Charbonneau ebbe un'esitazione. «E non si lasci irritare da Luc. Vedrà che prima o poi la smette. E comunque, nemmeno lui sopporta l'idea che qualcuno le dia fastidio. Mi creda.» Su questo avevo qualche dubbio.
Dopo essere sopravvissuta al campo minato della conversazione con Charbonneau, sarei dovuta essere pronta per la sorpresa che mi aspettava. Invece non lo ero. Quando arrivai in sala riunioni, i miei cinque colleghi patologi erano impegnati in una vivace discussione. Borbottai qualche parola di scusa per il ritardo e LaManche mi passò una fotocopia. Tre autopsie erano già state assegnate. Pelletier aveva due tossicodipendenti trovati nella fermata del metrò di Lionel-Groulx. Morin doveva occuparsi di un ciclista investito da un mezzo dei vigili del fuoco. Voltai il foglio e scorsi rapidamente gli altri due casi. Un uomo ritrovato a testa in giù sotto la scala della Drummond, lato Mont Rovai. NOM DU DECÈDÈ
Inconnu
Una donna trovata morta nel suo letto. NOM DU DECÈDÈ DATE DE NAISSANCE INFORMATION
Louise Parent 18 giugno 1943 Mort suspecte
Spostai gli occhi sulla riga successiva. E mi sentii cadere il mondo addosso. 18 La voce di LaManche si fece distante e la stanza intorno a me si fece più vaga. D'istinto, cercai nella tasca del camice e presi il foglietto avuto da Charbonneau. Gesù santo! L'indirizzo che stavo leggendo corrispondeva a quello sulla fotocopia di LaManche. Mentre fissavo il nome della donna, LaManche lo pronunciò. «Louise Parent.» Ballant. Gallant. Talent. Parent. Mi sentii serrare il petto dalla tensione.
«Chi l'ha scoperta?» Tutti si voltarono, sorpresi dalla mia veemenza. Senza parlare, LaManche prese il verbale di polizia. «Claudia Bastillo. La nipote della vittima.» «Che cosa è successo?» LaManche lesse in silenzio per qualche secondo. «La signora Bastillo aveva l'abitudine di parlare regolarmente con la madre. Questa, Rose Fisher, e Louise Parent, la vittima, erano sorelle e condividevano la stessa residenza, a Candiac.» LaManche elencò i fatti più salienti. «Durante il fine settimana, Claudia Bastillo ha chiamato più volte ma non ha mai ricevuto risposta, così questa mattina presto la donna è andata a controllare di persona. E ha trovato il corpo della zia nel letto.» Dio santo! Anch'io avevo cercato di chiamare Louise Parent durante il fine settimana, proprio come la nipote! «Rose Fisher sta bene?» LaManche finì di leggere. «Il verbale non dice niente di madame Fisher. Immagino che la signora sia ancora tra i vivi, visto che qui non è arrivata.» «Causa del decesso?» Mi resi conto della stupidaggine, appena pronunciai quelle parole. LaManche mi guardò da sopra gli occhiali. «Questo è il motivo per cui l'hanno portata da noi.» Le domande iniziarono ad affollarmi la mente. Omicidio o terribile coincidenza? Louise Parent era stata uccisa o era morta di cause naturali? La sua morte era da mettere in relazione con le telefonate che aveva fatto a me? E le chiamate erano effettivamente state fatte da Louise Parent? Dire qualcosa? Tacere? Guardai la riga che indicava il corpo di polizia competente. Sûreté du Québec. Decisi di aspettare finché non avessi parlato con gli agenti incaricati delle indagini. E finché LaManche non avesse concluso la sua autopsia. «Dottoressa Santangelo, potrebbe occuparsi dell'uomo trovato sotto la scala?» proseguì LaManche. Emily Santangelo spuntò la sua lista. «Io prenderò madame Parent, quando arriverà» disse LaManche. Il mio capo scrisse «La.» accanto al nome della donna. Conclusa la riu-
nione, tutti uscirono per mettersi al lavoro. Rientrata nel mio ufficio, digitai subito il numero di Ryan. Mi rispose al primo squillo. «Chi lavora al caso di Louise Parent?» «Sì, è bello sentire la tua voce. Sì, è vero, oggi è un po' più caldo. Sì, ho avuto un week-end di merda» disse Ryan. «Com'è stato il week-end?» «Una merda.» «La grande operazione?» «Tutto finito.» «Adesso sei libero?» «Sì.» Aspettai. Lui non aggiunse altro. «Allora, chi si occupa del caso Parent?» Dai rumori che sentivo in sottofondo, capii che Ryan era in centrale, e quindi pochi piani sotto di me. «Candiac, hai presente?» specificai. «Una donna di sessant'anni trovata morta nel suo letto questa mattina... Chi ci lavora?» «Stai parlando con la persona giusta, piccola.» «Be', non ti hanno dato molto tempo per riprenderti.» «Che vuoi, pare che qui sentissero molto la mia mancanza.» «Hai già trovato qualcuno che venga in giro con te?» Alcuni anni prima, il compagno di Ryan era morto in un incidente aereo mentre scortava un prigioniero dalla GeOrgia a Montréal. Da allora, Ryan aveva sempre lavorato solo, passando da un incarico speciale all'altro. «No. Pare che abbia un carisma soverchiante.» «Magari, è solo una questione di dopobarba.» «Diciamo che mi piace navigare in solitaria.» «Perché Louise Parent è considerata una mort suspecte?» «Immagino perché la sua morte è sembrata sospetta.» «Senti, vuoi smetterla di scherzare, per favore?» «La vittima era in buona salute e di un'età non così avanzata. Nessun guasto al riscaldamento. Niente perdite di gas o di anidride carbonica. Niente precedenti di depressione o cose simili. Niente lettera o biglietto che spieghi il suicidio. La sorella sessantaquattrenne della vittima non si sa dove sia. Scomparsa. Secondo la polizia di Candiac, c'erano gli estremi per una visita dei fratelli più grandi.» «LaManche eseguirà l'autopsia questa mattina.»
Immaginai Ryan seduto alla sua scrivania con il telefono appoggiato sulla spalla. Immaginai Ryan sdraiato nel mio letto. Immaginai Ryan fare il cretino con una ragazzina. «Il corpo è stato trovato dalla nipote. La donna sostiene che non è abitudine di sua madre andare via senza dirle niente.» «Rose Fisher?» Rumore di fogli. «Centro.» «La state cercando?» «Sì, signora.» «Chi è Alban Fisher?» Attimo di esitazione. «Posso scoprirlo. Perché?» «Ricordi la donna che mi aveva telefonato per parlarmi degli scheletri nella pizzeria?» «Sì.» «Le due chiamate arrivavano dalla casa di Rose Fisher, a Candiac.» «La Parent?» «Con la linea disturbata, potrebbe essere.» «Il telefono è intestato ad Alban Fisher, giusto?» indovinò Ryan. «Sì.» «Alban è in elenco?» «Un momento.» Posai la cornetta, presi l'elenco del telefono e cercai sotto la F. Talvolta il lavoro di investigatore non richiede una grande genialità. Alban Fisher era in elenco e risultava abitare all'indirizzo di Candiac. «Sì, c'è.» «La nipote non ha parlato di nessun altro. Ha dichiarato che la donna viveva sola. Adesso le telefono.» «Ti richiamo quando LaManche ha finito.» «Potrebbe essere un semplice infarto.» «Potrebbe.» «Succede di continuo.» «Seconda causa di morte.» «Sicura che la nostra vecchia pompa non sia la numero uno?» «No.» «Ci sono altre novità?» «Veramente, sì.»
Gli parlai del bottone falso. Lui mi chiese secondo me che cosa significava e io risposi che non ne avevo idea. Poi gli dissi di Nicolò Cataneo. Ci fu una pausa, e dopo la voce di Ryan era diversa. In un certo senso, più dura. «Questa storia non mi piace, Tempe. Per quella gente la vita delle persone non ha più valore del filo interdentale. Guardati la schiena.» «Non manco mai di farlo.» «Hai fatto riparare la vetrata?» «Sì.» «Mi sei mancata, questo fine settimana.» «Davvero?» «La tua amica è ancora qui?» «Sì.» «Quando se ne va, dobbiamo parlare.» «Anne non morde.» Lungo silenzio. Fu Ryan a interromperlo. «Fammi sapere che cosa dice LaManche. Se non ci sono, lasciami un messaggio.» Prima di procedere con l'esame del terzo scheletro, andai nella sala autopsie principale. Pelletier aveva il primo dei due tossicodipendenti sul tavolo operatorio numero 1. LaManche aveva Louise Parent sul numero 2. La donna era arrivata in Istituto con indosso una camicia da notte. Il lungo indumento di flanella giaceva steso sul bancone. Rose rosse su fondo rosato. Il davantino era orlato di pizzo e chiuso con una fila di bottoncini a perla. Un ricordo. Mia nonna che andava a dormire con le ciabatte di panno scozzese e una tazza di camomilla in mano. Lo sguardo si spostò sul corpo. Madame Parent sembrava piccola e triste sulla superficie di metallo perforato. Così sola. Così morta. Una fitta di dolore. La scacciai. LaManche delicatamente girò la testa della donna. Le aprì la mandibola. Sollevò una spalla. La schiena e il fondoschiena erano bluastre. LaManche premette un dito contro la carne livida. Il punto in cui aveva premuto non sbiancò.
Il patologo lasciò che il corpo si adagiasse nuovamente sul dorso, poi sollevò una mano. Alcune squame sottili come carta si stavano staccando dagli strati sottostanti del derma. «La lividura cadaverica è permanente. Il rigor mortis è già scomparso. La desquamazione è appena iniziata.» Mentre LaManche appuntava le sue annotazioni, lasciai vagare il mio sguardo sulla geografia del corpo che avevo davanti. I muscoli della donna avevano perso il loro tono, i capelli erano grigi, la pelle pallida, quasi trasparente. Il seno giaceva abbandonato sul petto. La pancia stava diventando verde. «Secondo te da quanto tempo è morta?» domandai. «Non vedo marmorizzazione, niente gonfiore, solo un primissimo stadio di putrefazione. La casa era calda, ma non caldissima. Ovviamente, devo controllare il contenuto dello stomaco e i fluidi oculari, ma a questo punto potrei dire dalle quarantotto alle settantadue ore.» Un'altra fitta di dolore. Avevo parlato con quella donna il mercoledì. Mi aveva richiamata il giovedì. La data del decesso stimata da LaManche corrispondeva al venerdì o al sabato. Notai una sottile linea bianca sull'addome. «Sembra che abbia avuto un'operazione.» LaManche stava già disegnando la cicatrice in un grafico. Il mio sguardo si spostò sul viso della donna. Gli occhi erano socchiusi e coperti da strisce scure. Con la morte, i muscoli delle palpebre si rilassano e scoprono le cornee, permettendo al tessuto epiteliale di asciugare. Tache noir sclérotique. Normale. Ma il cambiamento conferiva a Louise Parent l'aspetto macabro di un morto per incidente del giorno prima. Mi chinai ed esaminai i denti. Erano puliti e solo moderatamente scoloriti. Le gengive mostravano solo un lieve gonfiore e riassorbimento. Mi stavo alzando, quando il mio sguardo fu attirato da qualcosa incastrato tra l'incisivo laterale e il canino destro. Mi avvicinai. In effetti c'era qualcosa. Presi una lente da un cassetto e tornai al tavolo operatorio. Sotto la lente, i particolari erano più chiari. «Dottor LaManche» dissi. «Potrebbe dare un'occhiata qui?» 19
LaManche si spostò dalla mia parte del tavolo e dopo aver preso la lente esaminò i denti della donna. «Una piuma.» «Già» concordai. LaManche utilizzò una pinzetta per trasferire la piuma in una fialetta di plastica. Quindi aprì le mandibole della signora Parent per esaminare i denti posteriori. «Non ne vedo altre.» Il suono arrivò attutito dalla mascherina. «Luma-Lite?» «Sì, grazie.» Il patologo si rivolse alla tecnica di laboratorio. «Lisa?» Mentre io prendevo lo strumento da un armadietto, Lisa trasferì la donna su una lettiga e la trasportò nell'attigua sala radiologica. Quando la raggiunsi, Lisa aveva già sistemato la camicia da notte della donna sul tavolo. LaManche e io indossammo gli speciali occhialini arancioni e Lisa collegò il Luma-Lite a una presa elettrica. Lo strumento era una fonte di luce alternata composta da una scatola nera e un cavo in fibra ottica blu potenziata con cui avremmo potuto rilevare tracce altrimenti invisibili a occhio nudo. «Pronti?» domandò Lisa. LaManche annuì. Lisa si infilò gli occhialini e accese la luce. Al buio il patologo iniziò a esaminare la camicia della donna. Qui e là qualche capello si illuminava come un minuscolo cavo bianco. E ogni volta Lisa lo raccoglieva con le pinzette e lo trasferiva in una fíaletta di plastica. Una volta concluso l'esame della camicia da notte, LaManche si concentrò sul corpo. Lentamente, la luce passò sui piedi e sulle gambe di Louise Parent, sondò le colline e le valli della zona pubica, l'addome, la cassa toracica, il petto. Illuminò l'avvallamento alla base della gola. Non vedemmo splendere più nulla, a parte qualche altro capello. «Sembrano identici a quelli della sua testa» dissi. «Già» concordò LaManche. Le mani e le unghie della donna non produssero nulla, così come occhi, narici e orecchie. Poi il raggio di luce penetrò la buia cavità della bocca. «Bonjour!» esclamò Lisa nell'oscurità. Un molare si illuminò come fosforo lungo il margine della gengiva.
«Questo non è un capello» dissi. Lisa prelevò il corpo estraneo con le pinzette. Nonostante lavorammo per altri minuti al buio, i nostri sforzi produssero solo altri due capelli, entrambi sottili e ondulati come quelli della vittima. Quando Lisa riaccese la luce, LaManche e io tornammo in sala autopsie. Qui il patologo aprì la fialetta con la particella estratta dal molare e ne esaminò il contenuto con la lente di ingrandimento. Passò almeno un decennio prima che parlasse. «È un altro frammento di piuma.» LaManche e io ci scambiammo un sguardo, mentre il medesimo sospetto ci attraversava la mente. In quel momento, Lisa tornò con la signora Parent. LaManche si avvicinò subito alla lettiga, e io lo seguii. Il patologo strinse il labbro superiore tra due dita e lo sollevò. La superficie interna appariva normale. Ma quando abbassò il labbro inferiore, notai che alcune minuscole lacerazioni solcavano la carne liscia e violacea. Ciascuna corrispondeva al margine di un incisivo inferiore. Con il pollice e l'indice, il patologo sollevò le palpebre sinistre. Poi quelle destre. Entrambi gli occhi mostravano segni di emorragia petecchiale, puntini rossi e rigonfiamento della sclerotica e della congiuntiva. «Asfissia» dissi, mentre una serie di immagini terribili mi attraversava la mente. Vidi la donna sola nel suo letto, nel suo rifugio. Una sagoma nascosta nel buio. Due mani che le stringevano la gola. Mancanza di ossigeno. Il cuore che scoppiava nel petto per il terrore. «L'emorragia petecchiale può essere causata da molti fattori, Temperance. La sua presenza indica semplicemente che si è verificata una rottura dei capillari.» «Provocata da un aumento improvviso della congestione vascolare nella testa» dissi. «Sì» confermò LaManche. «Come accade nello strangolamento» aggiunsi. «L'emorragia petecchiale può insorgere anche per un colpo di tosse violento, per uno starnuto, per il vomito, per difficoltà nella defecazione, durante il travaglio per le donne incinte...» «Non credo che questa donna stesse per avere un figlio.» LaManche continuò a parlare e intanto premette leggermente con il dito
la gola di Louise Parent. «... per l'ostruzione provocata da un corpo estraneo, per l'inserimento di un divaricatore boccale, per il gonfiore della membrana esterna che riveste le vie respiratorie.» «Ma qui se non sbaglio non esiste alcuna traccia di questi fattori.» LaManche alzò lo sguardo verso di me. «Sono appena all'inizio dell'esame esterno.» «Potrebbero averla soffocata.» «Non ci sono graffi né unghie spezzate. Nessun segno di violenza né di lotta.» Parlava più a se stesso che a me. «Potrebbero averla soffocata nel sonno. Con un cuscino.» Stavo dando voce ai miei pensieri via via che si formavano nella mia mente. «Un cuscino non avrebbe lasciato segni. Un cuscino spiegherebbe le piume in bocca e i tagli sotto le labbra.» «Una lieve emorragia petecchiale non è rara nei cadaveri trovati in posizione prona e con la testa più bassa rispetto al resto del corpo.» «La lividura cadaverica sul dorso e le spalle sembra suggerire una morte in posizione supina.» LaManche si allontanò dal cadavere. «L'investigatore Ryan ha promesso di farmi avere le fotografie scattate sul luogo del ritrovamento questo pomeriggio.» I nostri sguardi si incrociarono per un istante. Poi mi abbassai la mascherina e raccontai a LaManche la storia della signora Parent. Quando terminai il mio racconto, i suoi vecchi occhi si posarono sui miei. Poi: «La ringrazio per avermi messo a parte del suo speciale interessamento alla vittima. Le prometto che sarò particolarmente accurato nell'eseguire l'esame interno». In realtà era una rassicurazione assolutamente non necessaria, perché sapevo che LaManche sarebbe stato meticoloso con Louise Parent quanto con qualunque altro cadavere, fosse quello del primo ministro o di un ladruncolo. Pierre LaManche semplicemente rifiutava l'idea di una morte senza spiegazione. Alle dieci e mezzo iniziai a occuparmi dello scheletro trovato nel secondo avvallamento dello scantinato avvolto nel suo strano involucro. Alle undici e mezzo avevo liberato lo scheletro dal suo sudario di cuoio, asportato il calco di terra e adipocera e disposto le ossa in ordine anatomico sul tavolo operatorio.
Alle tre e quaranta avevo concluso l'inventario e il mio esame. Lo scheletro indicato con il numero LSJML 38428 apparteneva a una femmina bianca, altezza compresa fra i 162 e i 170 centimetri. Età stimata al momento del decesso: tra i diciotto e i ventidue anni. Scarsa igiene dentale, nessuna otturazione, frattura di Colles al radio destro ben consolidata. Lo scheletro mostrava minime alterazioni postmortem e non presentava segni evidenti di trauma verificatisi durante o in prossimità del momento del decesso. Le mie conclusioni preliminari si erano rivelate corrette. Anche se poco più grande di età, la terza ragazza presentava le stesse inquietanti caratteristiche delle altre due. Stavo scrivendo qualche appunto, quando sentii la porta dello spazio antistante la sala autopsia aprirsi e chiudersi. Dopo qualche secondo arrivò LaManche. Dalla sua espressione capii che non era venuto a parlarmi di un aneurisma. «Ho rilevato un eccesso di emoglobina non ossigenata nel sangue venoso, indicante cianosi.» «Quindi asfissia?» «Sì.» «Nient'altro?» «Niente di atipico in una donna nel settimo decennio di vita.» «Perciò, potrebbe essere stata soffocata?» «Sì, temo che esista questa possibilità.» «Ferite?» LaManche scosse la testa. «Niente fratture. Niente emorragia. Niente graffi o segni di unghiate. Sotto le unghie non ho trovato tessuti di nessun genere. Niente che suggerisca una colluttazione.» «Potrebbe essere stata aggredita nel sonno. O drogata.» «Richiederò un esame tossicologico completo.» Di nuovo, la porta esterna si aprì e richiuse. Poi un rumore di passi risuonò nell'ufficio davanti alla sala autopsie. Quel giorno Ryan era in versione casual. Camicia sportiva, jeans, cardigan di lana con toppe sui gomiti. Ryan e LaManche si scambiarono un «bonjour». Ryan e io ci scambiammo un cenno della testa. LaManche mise il detective al corrente delle sue conclusioni. «Ora approssimativa del decesso?» domandò Ryan. «Nell'appartamento ci sono tracce di un ultimo pasto?»
«Casseruola, cucchiaio e bicchiere sullo scolapiatti. Barattolo di minestra vuoto nella pattumiera. Passato di verdura.» «I contenuti dello stomaco erano stati completamente evacuati. Questo succede nel giro di tre ore dal momento dell'ingestione.» «La nipote dice che le signore in genere cenavano verso le sette, e andavano a dormire verso le nove o le dieci.» «Ammesso che la minestra fosse la cena, e non il pranzo.» LaManche alzò un dito. «E tenga anche presente che la fisiologia gastrica è estremamente variabile, e soggettiva. Lo stress nervoso, per esempio, e alcune malattie possono ritardare lo svuotamento dello stomaco.» Ripensai alla voce esistente che avevo sentito dall'altra parte del filo. L'agitazione di Louise Parent era palpabile anche a distanza. «Richiederò un mandato per consultare i tabulati telefonici.» «Comunque lo stato di decomposizione suggerisce che la morte è avvenuta con molta probabilità venerdì. E adesso» LaManche intrecciò le mani dietro la schiena «monsieur Ryan, vediamo che cosa ci ha portato.» Ryan prese una busta marroncina da una tasca della giacca e sparpagliò una serie di fotografie a colori sul banco di lavoro. Una alla volta, quelle immagini otto per tredici ci portarono sulla scena dell'ultimo giorno di Louise Parent. Veduta esterna di una villetta in mattoni chiari. Sentierini sgombri. Veranda. Finestre decorate con fili di luci colorate. Porta blu di legno. Ghirlanda con la scritta JOYEUSES FÊTES! su un nastro di velluto rosso. Prato con renna finta. Cortile sul retro recintato, un'altalena per bambini. Tettoia in cemento antighiaccio. Pala da neve. Senza commentare, LaManche e io osservammo le fotografie. Primi piani della porta principale e di quella di servizio, con maniglie e serrature intatte. La cucina inquadrata da destra, poi da sinistra. Fornelli, frigorifero, piano di lavoro e lavello in acciaio. Mobiletto con asse di legno incorporato. Un cucchiaio, una tazza e una casseruola sullo scolapiatti. «Il posto sembra in ordine» osservai. «Non c'era niente fuori posto» confermò Ryan. «Nessun segno di effrazione. Nessun segno che lasci intuire la presenza di un'altra persona.» «Le porte erano chiuse a chiave?» domandò LaManche. «Claudia Bastillo dice di sì, ma non potrei giurarci.» «Sarebbe la nipote?»
Ryan annuì. «Claudia Bastillo ha ricevuto una chiamata al cellulare appena è arrivata davanti alla porta della madre. Ricorda di aver avuto qualche problema nel trovare le chiavi, ma poi ha pensato che fosse perché stava reggendo il telefono con una mano e al tempo stesso cercando di aprire la porta con l'altra. Ma ammette che se non fosse stata chiusa a chiave, avrebbe anche potuto chiuderla lei e poi riaprirla senza rendersene conto.» «La casa aveva un impianto antifurto?» chiese LaManche. Ryan scosse la testa, poi estrasse di tasca un'istantanea e la passò a LaManche. Il patologo la passò a me. L'immagine mostrava una donna piuttosto robusta, con capelli color albicocca e un trucco degno di Jackson Pollock. Aveva l'aria di essere oltre la sessantina. «Rose Fisher?» domandai. Ryan confermò. Restituii le istantanee e tornai alle immagini della casa di Louise Parent. Soggiorno con divano e poltrone coperte di centrini. Finestre con tendine di pizzo. Veneziane chiuse. Gabbia su trespolo decorato. Mi venne in mente il cinguettio che avevo sentito in sottofondo durante la chiamata di Louise Parent. «Nella gabbia che cosa c'era?» chiesi, desolata. «Una specie di piccolo pappagallo grigio con la cresta gialla e le guance arancioni. Pare si chiami cacatua delle ninfe.» Come quello di Katy. Erano quelli i suoni che avevo cercato di riconoscere al telefono. «Chi se ne occupa?» Ryan mi guardò stranito. «Claudia Bastillo.» «La sorella della vittima si è fatta viva?» domandò LaManche. «Rose Fisher? No.» «E che cosa pensate di fare?» «Claudia Bastillo dice che la madre e la zia spesso facevano delle gite. Però la avvertivano sempre.» «Così poteva occuparsi degli uccellini» supposi. Ryan annuì. «E queste signore, quando partivano per le loro gite, usavano l'automobile?» domandò LaManche. «Quella di Rose Fisher. Una Pontiac Gran Prix del '94.» «Il veicolo adesso dove si trova?» «Non a casa di Rose Fisher. Ho fatto richiesta per effettuare le ricerche.
Se è fuori da qualche parte, qualcuno sicuramente riconoscerà la targa.» «Chi è Alban Fisher?» domandai. «Il marito di Rose. Un commercialista. Morto nel '94. Rose non si è mai preoccupata di cambiare il nome sull'elenco del telefono.» «La Bastillo potrebbe aiutarci a capire se esiste qualcuno che poteva volere il male della madre o della zia?» «Le due donne avevano una questione in sospeso con un vicino perché parcheggiava una SUV troppo vicina al loro vialetto. La nipote insiste che dovremmo controllare questo tizio.» «La nipote sembra credibile?» domandai. «Non credo potrebbe partecipare a una tavola rotonda alla Berkeley University, ma sembra abbastanza sincera.» Poi Ryan si rivolse a LaManche. «Se lei mi dice che si tratta di presunto omicidio, inizio a scavare nel passato della signora.» LaManche e Ryan diventarono voci incorporee mentre io continuavo ad analizzare le fotografie. Un corridoio. Una camera da letto. Un bagno. Una seconda camera da letto, leggermente più piccola della prima. Specchiera di acero, comodino, letto a baldacchino. Corpo senza vita. Louise Parent giaceva sotto le lenzuola rosa pallido, non più grande di una bambina. Era voltata verso la porta, il braccio destro alzato, la testa abbandonata su un cuscino. Gli occhi erano vuoti e oscuri. Qualche ciocca di capelli grigi le ricadeva sul viso. Una trapunta rosa a motivi floreali era ordinatamente piegata ai piedi del letto, sormontata da un secondo cuscino. Senza federa. «Claudia Bastillo ha spostato il corpo?» domandai. «Dice che quando ha trovato la zia ha pensato che fosse svenuta e ha provato a farla rinvenire.» «Ha toccato il cuscino?» «Non ricorda.» Sotto il letto notai le ciabatte, perfettamente allineate. Sul comodino, un paio di occhiali, una tazza e un flacone di pillole. «Sono le stesse pillole di sonnifero che avete consegnato a noi?» domandò LaManche. «Sì. Il flacone è stato riempito dal farmacista mercoledì scorso. Dall'etichetta risulta che in origine erano trenta. Me mancano otto.» «Conoscete il contenuto della tazza?»
«Acqua. La nipote ha detto che l'ha riempita lei quando ha visto che non riusciva a far rinvenire la zia. Dice che era sconvolta. Che non sapeva cosa fare.» «L'ha trovata vuota?» «Crede di sì. Tenga presente che questa Bastillo non è che quel che si dice un'aquila.» «Avete trovato altri medicinali, a parte quelli che ci avete mandato insieme al corpo?» «No, le pastiglie per l'artrite ve le abbiamo mandate. A parte quelle, solo le solite medicine che si tengono in casa. Aspirina. Calcio in compresse. Farmaci da banco contro le allergie.» «La tazza sul comodino? Non era una cosa strana?» domandai. «Secondo la nipote, sua madre quando russa provoca delle scosse sismiche del settimo grado sulla scala Richter. Louise Parent aveva il sonno leggero, così prima di andare a dormire aveva l'abitudine di prendere un paio di pillole di sonnifero con la tisana. Ammesso che la tazza fosse piena, e non ne è sicura, Claudia Bastillo dice che avrebbe pensato che fosse camomilla e l'avrebbe svuotata.» «Forse non sarebbe una cattiva idea prendere quella tazza» osservai. «Sì, signora» rispose Ryan annuendo con aria compresa. Mi sentii avvampare. Era ovvio che avevano prelevato la tazza. «Possiamo procedere con l'analisi dell'amilasi sulla saliva che Louise Parent ha lasciato sul cuscino, anche se non sarà particolarmente significativo» disse LaManche. «Le vecchiette sbavano» dissi. «Già. Tutti sanno che è così» concordò Ryan. «Per caso siete riusciti a capire quando Rose Fisher ha dormito a casa per l'ultima volta?» domandò LaManche. «Il letto era fatto. La camicia da notte era appesa dietro la porta del bagno.» Ryan puntò il dito verso di me. «E niente tazze sul comodino.» Non mi venne in mente nessuna risposta brillante. «Claudia Bastillo ha detto che la madre spesso si ritirava più tardi della zia» aggiunse Ryan. Dopodiché tutti e tre studiammo le fotografie per un minuto buono. E Ryan disse a LaManche: «Allora, che cosa mi dice, dottore? Omicidio?». LaManche distolse lo sguardo dalle immagini. Aveva ancora le mani intrecciate dietro la schiena. «Forse è meglio che continui a indagare, tenente. Direi che si tratta di un
caso decisamente sospetto. La terrò informata circa i risultati degli esami tossicologici.» Quando LaManche uscì dalla sala autopsie, Ryan e io osservammo le foto ancora per qualche minuto, mentre una sensazione di piombo mi serrava lo stomaco. Fui io a parlare per prima. «L'hanno uccisa.» «LaManche non sembra del tutto convinto» rispose Ryan con un tono molto ragionevole. «Louise Parent mi chiama dicendo di avere delle informazioni riguardo tre ragazze morte. E quattro giorni dopo la trovano morta nel suo letto con delle piume in bocca.» «Le donne anziane muoiono.» «Allora dov'è la sorella?» «Questo è un mistero.» «Che cosa mi voleva dire Louise Parent su quelle ossa?» «Anche questo è un mistero.» Ryan mi fece l'occhiolino. Ma io non sentii il solito solletico allo stomaco. Respirai a fondo. «Andy, che cosa sta succedendo?» Ryan mi guardò con gli occhi più azzurri di una baia alle Bahamas. Dentro la mia testa si scatenò una furiosa lotta di potere. Pro: chiedigli conto della lolita con cui l'ha visto Charbonneau. Contro: tieniti la cosa per te. Vinsero i contro. Era molto più saggio non dire nulla. Ma poi, inspiegabilmente, cambiai idea. «Questa mattina Charbonneau mi ha detto una cosa strana.» «Se ti riferisci alla sparatoria di sabato, non è stata poi così terribile.» «Mi ha detto che lo scorso agosto ti ha visto in tribunale.» «Sai com'è... sono un tipo sempre molto impegnato.» Sorriso da bravo ragazzo. «La settimana in cui sei partito da Charlotte.» L'uomo con gli occhi più blu dell'acqua delle Bahamas non fece una piega. «Sì. Avevo dei problemi famigliari e dovevo andare in Nuova Scozia.» Calma, Brennan. «Pare che non fossi solo, in tribunale.»
«Non è come pensi tu.» «E che cosa penso, io?» Per un attimo Ryan smise di sorridere. Solo per un attimo. Poi mi sfiorò una guancia con la punta delle dita e raccolse le fotografie dal piano di lavoro. Per un tempo infinito i suoi occhi non lasciarono i miei. Poi: «Lo sai che ti amo, pasticcino». Mi guardai le scarpe, il petto agitato da mille emozioni. Chiusi gli occhi. La porta della stanza si aprì. Poi si chiuse. Quando li riaprii, Ryan non c'era più. Per i tre giorni che seguirono non successe niente di particolare. Finché non riuscii a giungere a un primo indizio utile. E il secondo. E il terzo. 20 Per qualche giorno nessun morto della provincia ebbe bisogno di essere esaminato dall'antropologa forense. Non ci furono cadaveri decomposti in auto abbandonate. Niente corpi mummificati in soffitta. Non una sola porzione di corpo congelata. Il martedì cercai ancora di chiamare Ménard e Truong, ma poi fui distolta da verbali, e-mail e corrispondenza varia. Anne dormì fino alle due, poi senza troppo entusiasmo guardò soap e repliche di ogni genere. Parlò molto poco, anche se io mi ero tenuta il pomeriggio libero per stare con lei. A cena bevve una bottiglia di Lindenmans quasi intera, si dichiarò molto stanca e si trascinò a letto alle dieci. Ma quanto può essere stanca una persona che è rimasta alzata solo otto ore e non ha fatto nulla per tutto il tempo?, mi domandai. A dicembre, gli artigiani di tutta la provincia convergono a Montréal per vendere i loro articoli al Salon des métiers d'arts du Québec. Il mercoledì svegliai Anne a mezzogiorno e le proposi un'uscita di shopping natalizio. Lei rifiutò. Ma io insistetti. A Place Bonaventure c'erano solo qualche milione di persone. Io comprai una tazza di ceramica per Katy, un sostegno per pipa di quercia intagliata per Pete, una sciarpa di lana d'alpaca per Harry. Birdie e Boyd, il convivente canino di Pete, a Charlotte, rimediarono due elegantissimi col-
lari in pelle scamosciata. Verde bosco per il chow-chow e albicocca per il gatto. Una vetrina con articoli di seta dipinta a mano mi fece venire in mente Ryan. Foulard da collo? Forse non era il caso. Anne si trascinò da un banchetto all'altro come in letargo, mostrando il livello di interesse di una cavia da laboratorio. Le comprai una fetta di torta, provai dei cappelli buffi. Provai perfino il collare del cane. Ma la mia amica, nonostante gli sforzi, era sprofondata in una sorta di apatia e non sembrava neppure vedermi. Niente la divertiva. Non fece neppure un piccolo acquisto. La depressione di Anne aveva raggiunto profondità sconosciute anche nella fossa delle Marianne. Per tutto il giorno la abbracciai e cercai di dirle parole confortanti. Ma a parte questo non avevo proprio idea di cosa avrei potuto fare. Anne semplicemente non comunicava, il che per lei era una condizione del tutto innaturale. A cena, si limitò a mangiucchiare un po' di sushi, e di nuovo abbondò con il bere. Arrivate a casa, disse di nuovo di sentirsi molto stanca e si ritirò nella sua stanza. Non avevo mai visto la mia amica così e non riuscivo a valutare la gravita della sua situazione. Sapevo che qualcosa andava malissimo, ma fino a che punto ero autorizzata a interferire? Forse il suo pessimo umore nel giro di qualche giorno sarebbe svanito. Andai a dormire preoccupata e sognai di Anne su una spiaggia buia e deserta. Il giovedì mattina, tra le e-mail in arrivo trovai i risultati della datazione al carbonio 14 eseguita da Arthur Holliday. Ma dopo aver letto la riga dell'oggetto, mi accorsi che le mie dita si erano paralizzate sulla tastiera. Ero impaziente di leggere quel referto. E allora perché adesso esitavo? Facile. Dentro di me, rifiutavo di ricevere conferma di una ennesima violenza perpetrata su giovani donne innocenti. Non volevo sapere che la vita di qualcuno aveva appena superato l'infanzia e se n'era andata. E per mano di chi? Di qualche perverso con la testa piena di pornografia che riesce a vivere la sessualità solo attraverso la sottomissione fisica? O di un maniaco psicopatico con videocamera che poi deve distruggere le prove di ciò che ha fatto? O di un macho mutante
che considera le donne semplici articoli usa e getta, di cui liberarsi dopo l'ennesimo abuso? Tutte queste persone purtroppo erano in giro per il mondo. Avrei quasi preferito che avesse ragione Claudel. E che quelle ossa appartenessero al lontano passato. A qualche figlia di un'altra era sepolta a riposare in pace da famigliari in lutto. Ma sapevo che non era così. Sapevo che avrei dovuto affrontare l'evidenza se avessi voluto contribuire a identificare le vittime. Profondo respiro. Aprii il file dell'allegato con Acrobat. La trasmissione consisteva di due pagine. Una lettera con il risultato delle analisi al radiocarbonio, e tre curve di calibrazione che riportavano le età stabilite dalla datazione al carbonio 14 rispetto agli anni di calendario. Guardai le età misurate al radiocarbonio e quelle di riferimento, poi passai alle curve di calibrazione. Una girandola di immagini si alternarono nella mia mente. Stampai il referto e andai in Istituto. Trovai LaManche nel suo ufficio. Dopo il nostro ultimo incontro, lui o la sua segretaria avevano aggiunto un alberello di Natale in ceramica al caos che affollava la sua scrivania. Bussai alla porta con le nocche. LaManche alzò lo sguardo. «Temperance. Entri, prego. Ha sentito la notizia?» Lo guardai confusa. «La giuria ha deciso per la colpevolezza di monsieur Pétit.» «Quando?» «Ieri.» «Sono stati veloci.» «Il pubblico ministero mi ha chiamato, e tra l'altro mi ha anche detto che secondo lei la sua testimonianza è stata decisiva.» LaManche guardò i fogli che avevo in mano. «Ma vedo che non è questo il motivo per cui è qui.» «Infatti. Ho i risultati della datazione al carbonio 14.» «Anche loro sono stati veloci.» Sorpreso. «Quel laboratorio è molto efficiente.» Non feci cenno al costo aggiuntivo. LaManche si alzò e sedette con me al tavolo ovale accanto alla sua scri-
vania. Allargai i fogli sul ripiano e per qualche secondo entrambi li osservammo. «Ci sono due variabili interessanti» iniziai. «La radioattività di uno standard conosciuto, e la radioattività di un campione sconosciuto. Abbiamo già parlato del fenomeno dei test nucleari nell'atmosfera e del loro effetto sui livelli di carbonio 14, quindi, per semplificare, supponiamo che il valore standard del carbonio 14 nel 1950 sia del 100 per cento. Qualsiasi valore superiore corrisponde al carbonio delle "bombe" o carbonio moderno, e indica una data di morte posteriore al 1950.» Indicai l'ultima cifra in una colonna nominata «Età misurata con il radiocarbonio». «Il pMC per il caso LSJML 38428 è 120,5. Più o meno 0,5.» «Una percentuale di carbonio moderno significativamente superiore a quel 100 per cento.» «Esatto.» «Il che significa che questa ragazza è morta dopo il 1950.» «Esatto.» «Quanto tempo dopo il 1950?» «Questo è più complicato. Quando nel 1963 gli esperimenti nucleari nell'atmosfera sono stati vietati, i valori di pMC si sono innalzati fino al 190 per cento. Ma quello che sale prima o poi deve anche scendere. Quindi, un valore del 120 per cento potrebbe indicare un punto sulla parte ascendente della curva, cioè di un periodo in cui i livelli stavano salendo, oppure un punto sulla parte discendente, quando al contrario i valori si stavano abbassando.» «Conclusione?» «La morte di queste ragazze può risalire alla fine degli anni Cinquanta oppure alla seconda metà degli anni Ottanta.» LaManche assunse un'aria delusa. «Non è ancora finita. L'attuale valore di pMC si aggira intorno al 107 per cento.» Indicai le cifre relative ai casi LSJML 38426 e LSJML 38427. «Mon dieu!» «Queste ragazze possono essere morte o nei primi anni Cinquanta, o nei primi anni Novanta.» «Informerà monsieur Claudel di questi risultati?» «Certamente.» E con grande soddisfazione. LaManche unì le mani davanti alla bocca e tamburellò con le dita sulle labbra.
«Se queste ragazze sono scomparse negli ultimi vent'anni, è probabile che siano state inserite nel database. Dobbiamo mandare i dati al CPIC.» LaManche si stava riferendo al Canadian Police Information Center, l'equivalente dell'organismo statunitense del NCIC, o National Crime Information Center. Sia il CPIC sia il NCIC, gestiti rispettivamente dalla Royal Canadian Mounted Police e dall'FBI, sono raccolte computerizzate di informazioni relative alla giustizia penale, e comprendono gli elenchi dei reati penali commessi, dati sugli oggetti rubati, sulle persone in fuga e sulle persone scomparse. I due database sono disponibili per le forze dell'ordine e per gli organismi che si occupano a vario titolo dei reati penali ventiquattr'ore al giorno, trecentosessantacinque giorni all'anno. Quando ci alzammo, LaManche mi mise una mano sulla spalla. «Adesso dovremo impegnarci molto, Tempe. Dobbiamo andare a fondo di questa cosa.» «Certamente» risposi con altrettanta soddisfazione. Trenta secondi dopo ero già nel mio ufficio al telefono con Claudel, anche se il contributo al dialogo del tenente della CUM era davvero minimo. «Non così veloce.» «3-8-4-2-6» ripetei con la velocità di un bradipo che parla francese. «Femmina.» Pausa. «Bianca.» Pausa. «Tra i sedici e i diciotto.» Pausa. «Altezza tra i 145 e i 155 centimetri.» «Denti?» Il tono di Claudel avrebbe potuto essere usato per falciare il grano. «Niente otturazioni. Ma ho eseguito delle radiografie postmortem.» «Queste sono le ossa trasferite nella cassa, giusto?» «Sì.» «Il prossimo.» «38427. Femmina. Bianca. Età quindici-diciassette. Altezza 160-168 centimetri. Niente otturazioni.» «Le ossa recuperate dal primo avvallamento?» «Sì.» «Continui.» «38428. Femmina, bianca, età diciotto-ventidue, 162-168 centimetri di altezza, frattura di Colles saldata sulla parte distale del radio destro.» «Il che significa?» «Che si è fratturata il polso destro diversi anni prima di morire. La frat-
tura di Colles si verifica tipicamente quando le mani vengono utilizzate istintivamente per proteggersi da una caduta.» «Le ossa del secondo avvallamento?» «Sì.» «Segni caratteristici?» «Una era bassa. Una si era fratturata un braccio.» «Se queste persone sono morte negli anni Cinquanta, è una perdita di tempo.» «I loro parenti potrebbero non essere d'accordo.» «A quest'ora i parenti chissà dove sono. Ammesso che siano ancora vivi.» «Queste ragazze sono state sepolte nude in uno scantinato.» «Se queste ragazze c'entrano qualcosa con Cataneo, probabilmente erano puttane.» Profondo respiro. Il tenente Claudel non si smentiva mai. «Sì, forse erano prostitute, colpevoli di essere persone ignoranti e bisognose. O forse erano ragazze scappate di casa, colpevoli di sfortuna e di scarsa capacità di giudizio. E potrebbero anche essere ragazze normali, strappate alla loro vita e colpevoli di niente. Comunque, a prescindere da chi siano queste tre ragazze, monsieur Claudel, si meritano qualcosa di più di essere sepolte in una cantina schifosa e puzzolente. Anche se non siamo riusciti ad aiutare queste ragazze quando sono morte, forse potremmo impedire che altre in futuro facciano la loro fine.» Claudel fece una lunga pausa. Poi: «Ha detto che gli scheletri non riportano segni di violenza». Ignorai la sua domanda. «Come entrambi sappiamo» pausa, per far capire a Claudel che sapevo della sua visita a Cyr, «l'edificio attualmente appartiene a Richard Cyr. E come io ho scoperto, il proprietario precedente era Nick Cataneo, e il periodo in cui Cataneo era in possesso dell'edificio corrisponde a uno dei periodi indicati dalla datazione al carbonio 14.» Il silenzio che seguì fu lunghissimo e ostile. «Lei si rende conto del numero di possibilità che questa informazione introduce?» Sì, me ne rendevo conto. «Riesaminerò le ossa per vedere se trovo qualcosa che possa esserle di ulteriore aiuto.» «Sì, direi che è il caso.» Tu-tuuu...
Nel corso degli anni, ho concluso che Claudel è semplicemente un uomo rigido e ostinato, più che detestarlo. Ma quel caso minacciava di produrre un'inversione di tendenza nelle mie convinzioni. Rapida discesa ai piani inferiori per un caffè. Rapida chiamata ad Anne per proporle di pranzare insieme. Ma come temevo, Anne rifiutò. Le raccontai della datazione al carbonio 14. «Tu sei molto occupata con le tue ossa, Tempe. È meglio se io me ne sto tranquilla qui a casa.» «D'accordo. Però se cambi idea, fammelo sapere. Sono un'amica molto flessibile.» Quando ci salutammo, liberai i due tavoli operatori del laboratorio e il piano di lavoro e vi appoggiai i tre scheletri. Stavo esaminando la tibia della ragazza nella cassa di Dottor Energy, quando entrò Marc Bergeron. Dire che Bergeron è un uomo dall'aspetto originale sarebbe come dire che la melassa è un filino dolce. Con il metro e novanta, la schiena sempre curva, e i suoi ottanta chili di peso circa, Bergeron ha tutta la grazia e la coordinazione di una cicogna che cammina. Marc Bergeron è l'odontologo forense della provincia del Québec. Ormai da trent'anni trapana e ottura i vivi dal lunedì al giovedì, ed esamina i denti dei morti il venerdì. Ci salutammo e subito gli espressi la mia sorpresa nel vederlo in Istituto di giovedì. «Matrimonio in famiglia. Domani devo essere a Ottawa.» Bergeron si avvicinò a un armadietto, prese un camice da un attaccapanni e se lo infilò. Addosso a lui, i camici facevano l'effetto di un lenzuolo su uno spaventapasseri. «Chi sono queste persone?» domandò indicando gli scheletri. «Trovati nello scantinato di una pizzeria.» «Osservazioni sul cibo?» «Non direi.» «Morti antichi?» «So solo che sono morti dopo il 1950. Idee?» Bergeron si sistemò il colletto e i capelli. I suoi proverbiali capelli candidi e crespi partivano a un chilometro dalla fronte e crescevano verticali avvolgendogli parte della testa in una nuvola bianca. E contro ogni logica estetica, Bergeron li lasciava crescere pressoché incolti. «La datazione al carbonio 14 sembrerebbe indicare che il decesso è av-
venuto o negli anni Cinquanta, o negli anni Ottanta e Novanta.» Bergeron prese una penna ottica da un cassetto, sollevò il cranio dello scheletro trovato nella cassa ed esaminò le arcate dentarie. «Igiene orale molto scarsa. Hai estratto un molare per farlo analizzare?» Annuii. «Immagino che tu abbia già richiesto l'esame radiologico?» Staccai una busta marroncina dal fascicolo del caso LSJML-38426 e sistemai dieci porzioni di pellicola sul diafanoscopio. Bergeron li studiò attentamente, con la sua chioma di soffione elettrizzata dalla fluorescenza dello strumento. «A parte un generale deterioramento, direi che non vedo granché di particolare. Il canino superiore destro è leggermente ruotato.» Indicò una radiografia con una delle sue dita nodose. «Stima dell'età?» «Sedici, forse diciotto.» «Anche per me.» Beigeron passò al caso LSJML 38428. «Questo scheletro è stato sepolto in un involucro di cuoio.» «Sul corpo è stata eseguita un'autopsia?» «In che senso?» La sua domanda mi colpì. «Questi tagli sull'osso temporale. Potrebbero essere stati inferti durante il distaccamento del cuoio capelluto.» «Non l'avevo preso in considerazione.» Portai il cranio al microscopio da dissezione e studiai i segni sotto lenti di ingrandimento sempre più potenti. Bergeron continuò il suo ragionamento. «Forse si tratta di vecchi campioni biologici, o di scheletri per l'insegnamento. Forse qualcuno li teneva per curiosità, e in seguito ha perso interesse, oppure ha pensato che averli fosse rischioso.» Questo l'avevo considerato. Era una possibilità relativamente probabile. «Non ci sono fori prodotti dalla trapanazione, non ci sono frammenti di fil di ferro, nessun segno di trattamento chimico o di modifiche meccaniche. Quindi non si tratta di ossa assemblate per essere esposte.» Sotto la lente d'ingrandimento, i segni temporali apparivano come ampie vallate dal fondo a V. Alcuni correvano paralleli all'apertura auricolare, altri si distribuivano casualmente intorno a essa. La microscheggiatura lungo i bordi suggeriva che il danno si era verificato quando l'osso era secco e scarnificato.
«Questi segni non derivano dal bisturi. La sezione trasversale mostra che sono troppo ampi. Inoltre, l'allineamento è più casuale di quanto in genere si verifica con i segni lasciati da un'autopsia.» Uno strano pensiero si presentò con discrezione alla mia mente. Perché quella forma a V? Non è tipica di un danno da abrasione. «Questo scheletro ha problemi dentari notevolmente inferiori.» Alzai lo sguardo. Bergeron era passato al secondo tavolo e stava esaminando i frammenti di mandibola del caso LSJML 38427. «Le apicali sono nel fascicolo.» Indicai una cartellina gialla accanto alle ossa. Bergeron sistemò le radiografie sul diafanoscopio. «Questa potrebbe essere leggermente più giovane. Direi tra i quindici e i diciassette.» «Per caso noti qualcosa di caratteristico?» Bergeron scosse la testa e la nuvola bianca oscillò. L'odontologo posò i frammenti di mandibola sul tavolo e passò al caso 38428. Dopo aver esaminato il cranio con la penna ottica, disse: «Mi sembra che su questo ci sia...». La voce di Bergeron si interruppe. «Che cosa?» L'odontologo scambiò il cranio con la mandibola e puntò il raggio di luce sull'arcata inferiore. «Sì.» Io lasciai il microscopio e lo raggiunsi. «Che cosa?» «Questo dovrebbe chiarire i tuoi dubbi riguardo l'incertezza delle date di morte.» E mi passò il cranio e la penna ottica. 21 «Sposta il raggio di luce avanti e indietro sui molari.» Feci come diceva Bergeron. «Non vedi una specie di lucentezza tra le pieghe dello smalto?» Non la vedevo. «Sposta la luce.» Bergeron aveva ragione. La lucentezza di cui parlava era vaga ma presente negli anfratti della superficie del dente.
«Che cos'è?» «Se non sbaglio, i molari dovrebbero essere stati trattati con un sigillante per fori e fessure.» Quando alzai lo sguardo, Bergeron stava andando al microscopio. Decisamente, quell'uomo non era il ritratto dell'armonia motoria. «Il sigillante è un sottile rivestimento di resina che viene applicato sulla superficie di mastificazione di molari e premolari. Si spennella come un liquido e nel giro di non più di un minuto si indurisce formando uno strato protettivo.» «Lo scopo?» «Serve a prevenire la carie occlusale. La degenerazione del dente.» Bergeron infilò la mandibola inferiore del caso LSJML 38428 sotto la lente del microscopio, guardò dentro l'oculare e mise a fuoco. «Oui, madame. Si tratta di un sigillante.» Le ali della speranza mi frullarono nel petto. «Quando entrarono in uso questi sigillanti?» «I primi sigillanti disponibili sul mercato iniziarono a essere proposti ai dentisti all'inizio degli anni Settanta. E il loro uso si è attestato a partire dagli anni Ottanta.» Bergeron parlava senza distogliere lo guardo dal microscopio. Il frullo diventò un volo spiegato. La morte della ragazza nell'involucro di cuoio non poteva essere avvenuta negli anni Cinquanta. Per esclusione, doveva risalire ai tardi anni Ottanta! Cercai di mantenere un tono di voce rilassato. «Questi sigillanti sono molto comuni?» «Sì, molto. E questo dal punto di vista forense ovviamente non è un bene. Gran parte dei dentisti per bambini, per esempio, oggi consigliano l'applicazione del sigillante subito dopo l'eruzione dei molari permanenti. E da almeno vent'anni, negli Stati Uniti, le scuole di quasi tutti gli Stati hanno adottato programmi di cura indirizzati in tal senso. Il Canada è leggermente indietro, ma anche qui i sigillanti si sono molto diffusi a partire almeno dalla metà degli anni Ottanta.» Bergeron spense la penna a fibra ottiche. «Anche se i sigillanti non hanno aiutato granché questa ragazza.» E indicò con il mento lo scheletro della cassa di bibite. «Lo stato della sua dentizione è decisamente peggiore rispetto all'altra ragazza.» «Quindi, potrebbe aver frequentato un dentista fino a un certo punto, e
poi aver smesso di curare l'igiene dei denti.» «E questo è uno schema tipico dei ragazzi che fuggono di casa. I genitori li mandano dal dentista durante il periodo dello sviluppo, e poi quando il ragazzo inizia la sua vita vagabonda, l'alimentazione e l'igiene orale vanno a farsi benedire, e i denti ne patiscono.» «Quanti anni potrebbe avere?» Bergeron tornò al diafanoscopio e studiò le radiografie del caso LSJML 38428. «Leggermente più grande delle altre due. Direi tra i diciotto e i ventun anni.» Di nuovo, l'età stimata dall'odontologo corrispondeva a quella che avevo desunto dall'esame delle ossa. «Sugli altri due scheletri, hai notato tracce di questo sigillante?» Bergeron riesaminò le arcate dentarie dei casi 38426 e 38427. Nessuno di quei denti era stato trattato con i sigillanti. «Un vero peccato che non ci siano otturazioni. Tienimi al corrente e fammi sapere se posso esserti ancora d'aiuto.» «Quello che mi hai detto è stato di grandissimo aiuto.» Tornai subito nel mio ufficio e chiamai Claudel. Lui e Charbonneau erano impegnati con un'intervista e non potevano essere disturbati. Lasciai un messaggio chiedendo di essere richiamata prima possibile. Tornai in laboratorio e andai a prendere un segmento di mandibola che Bergeron aveva lasciato accanto al microscopio. Mentre lo riunivo al suo scheletro, notai una piccola tacca sul condilo mandibolare destro. Tornai subito al microscopio. Spostando la fibra ottica sulla superficie dell'osso, trovai altre due tacche sul ramo ascendente e un minuscolo solco all'angolo mandibolare. Controllai la porzione sinistra della mandibola. Niente tacche né solchi. Uno a uno, esaminai con cura i frammenti isolati che si erano staccati dallo zigomo destro e dalle ossa temporali. La fibra ottica individuò sei solchi superficiali, ciascuno di circa cinque millimetri di lunghezza, raggruppati in tre coppie distinte. Un'altra pacca sulla spalla per me. Aumentai l'ingrandimento. Le tacche e i solchi, anche se ovviamente non erano naturali, avevano un aspetto differente da quelli sul caso 38428. Avevano la stessa forma a V,
ma qui la sezione trasversale li indicava più stretti, e non scheggiati lungo il margine. Come i segni lasciati da un bisturi. Sull'osso fresco. Mi appoggiai allo schienale, riflettendo su ciò che quei segni potevano significare. Nella mente, ricostruii il cranio con i vari frammenti che avevo, e rimisi al suo posto la mandibola. I tagli circondavano il foro auricolare. Che diavolo era successo? Coincidenza? O qualcosa di più macabro? Stavo per riesaminare il cranio e la mandibola dello scheletro nella cassa di Dottor Energy, quando notai Charbonneau dalla finestra sopra il lavandino. Gli indicai con un gesto di andare nel mio ufficio, mentre io mi toglievo i guanti e mi lavavo le mani. Quando entrai, trovai Charbonneau seduto davanti alla mia scrivania nella sua solita posizione: gambe larghe e spalle abbandonate sullo schienale. Quel giorno indossava una giacca color mirtillo più lucida del sigillante per i denti. «Monsieur Claudel è in riunione con il comitato per il Premio Nobel, questa mattina?» Charbonneau alzò gli occhi al cielo e allargò le braccia. «Ma come? Sta dicendo che io non vado bene? E poi oggi Luc è davvero molto impegnato.» «Immagino che si starà provando un altro Ermenegildo Zegna.» Charbonneau mi guardò come se avessi parlato etrusco. «È uno stilista. Fa completi da uomo» spiegai. Charbonneau trattenne un sorriso. «Si sta occupando della lista di inquilini di Cyr.» «Davvero?» Le mie sopracciglia si alzarono per la sorpresa. «Ha telefonato Authier.» LaManche probabilmente aveva chiamato il suo capo, che aveva chiesto a Claudel di svolgere indagini più serie sul caso delle ossa trovate nello scantinato della pizzeria. «Non credo che il suo collega sia molto contento per questa telefonata.» «Diciamo che la considera un caldo suggerimento.» Spiegai a Charbonneau ciò che mi aveva detto Bergeron. «Quindi è convinto che sia davvero questo sigillante?» «Assolutamente. Credo che potremmo considerare il suo parere quello
che i giornalisti chiamano una "conferma da fonte indipendente".» «Quindi, secondo Bergeron almeno una delle tre ragazze è morta negli anni Settanta o più tardi.» «E la datazione al carbonio 14 limita i decessi agli anni Cinquanta o agli anni Ottanta.» «Immagino che in questo caso si parli di anni Ottanta?» «Immagina giusto.» «È la ragazza con il polso fratturato?» Annuii. «Lo scheletro nell'involucro di cuoio.» «Bastardi.» Charbonneau si alzò dalla sedia. «Inserisco subito i dati nel database.» Charbonneau si era appena richiuso la porta alle spalle che il mio telefono squillò. Era Arthur Holliday, dalla Florida. «Hai ricevuto il referto sulla datazione al carbonio 14?» «Sì, grazie. Ti ringrazio molto per essere stato così rapido.» «Il nostro obiettivo è soddisfare le vostre richieste. Ascolta, Tempe, forse ho ancora qualcosa per te.» In effetti avevo dimenticato che Arthur mi aveva proposto un esame aggiuntivo. Ai fini processuali, il test degli isotopi di stronzio è ancora in via sperimentale. Ma abbiamo già applicato la tecnica in ambito forense. In un caso, abbiamo individuato la zona di origine di sei cervi dalla coda bianca. Abbiamo utilizzato le corna. Ovviamente, sapevamo che gli animali dovevano essere arrivati da uno dei due Stati, perciò avevamo delle aree geografiche distinte dal punto di vista isotopico da cui misurare i gruppi di controllo. E questo ci ha facilitato il compito. Nel corso degli anni, ho imparato che è impossibile mettere fretta ad Arthur Holliday. Sicché, non si può far altro che seguire la corrente, ascoltando senza troppa attenzione il lungo preambolo e concentrandosi poi sulle conclusioni. «Stiamo ottenendo buoni risultati analizzando i modelli di immigrazione e insediamento delle antiche popolazioni.» La frase mi portò nel mondo dell'archeologia. «Per caso voi siete il gruppo che analizza il materiale dei pueblos in Arizona?» «Tombe del Tredicesimo e Quattordicesimo secolo. La costruzione e l'occupazione di alcuni fra i pueblos più importanti si sono spalmate su più generazioni. Centinaia di persone le hanno occupate, probabilmente un mi-
sto di residenti a lungo termine e immigranti provenienti da fuori. Stiamo cercando di stabilire proprio questo.» «L'analisi degli isotopi dello stronzio è in grado di distinguere le persone di recente insediamento dagli abitanti originari all'interno di una zona?» «Esatto.» Di nuovo, mi sentii un frullo d'ali nel petto. «Questa tecnica quindi può stabilire dove una persona ha vissuto?» «Sempre che esistano dei campioni di riferimento. In alcune circostanze, se un soggetto si è spostato da una regione all'altra, l'analisi dello stronzio può dire dove il soggetto è nato, e dove ha trascorso gli ultimi sei, dieci anni della sua vita.» A quel punto nel petto mi sentii un volo ad ali spiegate. «Ferma tutto e riprendi dall'inizio.» Presi carta e penna. «E non usare parole più lunghe di tre sillabe.» «Ci sono quattro isotopi stabili dello stronzio e uno di questi, lo stronzio 87, è prodotto dal decadimento radioattivo del rubidio 87, che ha un tempo di dimezzamento pari a 4,88 per 1010 anni. Cioè quasi quarantanove miliardi di anni.» «Quindi molto più lento del carbonio 14.» «Più lento del mio vecchio cane Spud.» Spud? «La geologia del Nordamerica presenta notevolissime variazioni quanto all'età di formazione» proseguì Arthur, ignorando la mia confusione riguardo al riferimento al suo cane. «Per esempio, l'età della crosta terrestre varia da meno di un milione di anni nelle Hawaii a quattro miliardi di anni in alcune zone dei territori del Nord-Ovest, in Canada.» «Il che produce delle differenze nei valori dello stronzio presenti nel terreno e nella roccia madre delle diverse regioni» dissi io. «Sì. Ma queste differenze sono anche dovute alle variazioni nella composizione della roccia madre.» «Quando usi il termine "valore", intendi il rapporto tra lo stronzio instabile e quello stabile?» «Per l'appunto. Ciò che conta è proprio il rapporto tra l'isotopo stronzio 87 e l'isotopo stronzio 86, e non il livello assoluto di ciascuno.» Lo lasciai proseguire. «Per esempio, le lave basaltiche, la pietra calcarea e i marmi presentano tassi di stronzio molto bassi, mentre nelle arenarie, negli scisti e nel granito, questo rapporto è generalmente molto elevato. Nei minerali di argilla,
poi, si trovano i tassi più elevati.» «Quindi, in regioni geografiche diverse, le differenze che si riscontrano nell'età geologica o nella composizione della roccia madre producono variazioni nei tassi dell'isotopo dello stronzio.» «Precisamente. Ma un'ultima cosa da tenere presente è che, vista la difficoltà con cui si ricordano i tassi a causa di tutti quei decimali, in genere confrontiamo il tasso di stronzio misurato con il tasso di stronzio medio di tutta la terra. Se il tasso misurato è maggiore di questo, otterremo un valore positivo. Se invece è inferiore, il valore sarà negativo.» «Tutto questo che cosa c'entra con la determinazione del luogo di nascita di una persona?» «Lo stronzio appartiene al gruppo dei metalli alcalino-terrosi, che presenta proprietà chimiche simili a quelle del calcio.» A quel punto fu facile trovare il nesso. «Lo stronzio presente nel terreno e nell'acqua viene assorbito dalle piante. Gli erbivori mangiano le piante, e così via lungo la catena alimentare.» «In altre parole: siamo ciò che mangiamo.» «Quindi la composizione dell'isotopo dello stronzio nelle ossa e nei denti di un individuo riflette la composizione degli alimenti di cui l'individuo si è nutrito nel periodo in cui quelle parti corporee erano in fase di sviluppo.» «Esattamente.» «Ricordo che mia nonna si preoccupava della quantità di stronzio che ingeriva.» «E non era la sola. L'elaborazione biologica dello stronzio fu studiata in modo estensivo durante gli anni Cinquanta per indagare la potenziale ingestione di stronzio 90, pericolosissimo per l'uomo, dovuta agli esperimenti al suolo delle armi nucleari.» Iniziavo a vedere la luce. «In altre parole, stai dicendo che lo stronzio è un elemento costitutivo delle ossa e dei denti, proprio come il calcio.» «Esatto.» «E il calcio nello scheletro umano viene sostituito all'incirca dopo un ciclo di sei anni.» «Già.» «Quindi, al pari del calcio scheletrico, anche lo stronzio scheletrico riflette l'alimentazione degli ultimi sei anni di vita di un individuo.» «Tra i sei e i dieci anni» precisò Arthur. «Ma i livelli del calcio presenti nello smalto dei denti non variano, come
invece accade per il calcio presente nelle ossa. Una volta formato, lo smalto è stabile.» «E lo stesso si può dire per lo stronzio. Quindi lo smalto dei denti continua a riflettere la stessa composizione isotopica dello stronzio presente nella dieta al momento della formazione del dente.» «Perciò, se qualcuno si allontana dal luogo di origine quando i denti sono in formazione, i livelli di stronzio nei denti e nello scheletro saranno differenti. Se invece la persona non si sposta, quei livelli rimangono simili.» «Precisamente. I valori dello smalto in genere indicano il luogo di nascita e di residenza nella prima infanzia. I valori delle ossa, invece, indicano il luogo di residenza degli ultimi anni di vita.» Un pensiero mi fece smettere di annotare quelle informazioni. «Ma ai giorni nostri, il cibo ci arriva anche da luoghi molto lontani.» «Vero. Però beviamo acqua locale. Almeno, quasi sempre.» «Vero. Dimmi che cosa hai fatto con i miei campioni.» «Dopo aver asportato tutto il materiale estraneo, li abbiamo polverizzati. Quindi abbiamo separato lo stronzio per mezzo della cromatografia a scambio ionico, analizzato lo stronzio purificato utilizzando la spettrometria di massa a ionizzazione termica, infine raccolto i tassi di stronzio attraverso l'analisi del multi-collettore dinam...» «Arthur.» «Dimmi.» «Che cosa hai trovato?» «Una delle tre ha visto una bella fetta di mondo.» 22 «Vai avanti.» «Innanzitutto, parliamo dei denti. Due dei tre individui si sovrappongono rispetto ai valori dello stronzio presenti nei denti.» «Quali?» Frusciare di fogli. «Vediamo i casi 38426 e 38427. Per queste persone, mi aspetterei un'alimentazione infantile con un valore medio di stronzio compreso fra +90 e +105. Il 38428 è statisticamente distinto. La composizione dell'isotopo di stronzio del campione dentario riferito a quell'individuo suggerisce una dieta infantile con un valore medio dello stronzio compreso fra +50 e
+60.» «Il che significa che il 38428 non è nato nella stessa regione degli altri due.» «Giusto.» «Sapresti dire da dove proviene?» «È proprio questo l'interessante. L'anno scorso abbiamo avuto un caso di resti mischiati, trovati in un barile nascosto nel seminterrato di una casa di Detroit. La polizia sapeva che le vittime erano soci in affari dello spacciatore proprietario della casa, ma volevano che le ossa fossero suddivise per individuo. Nessuno aveva otturazioni, erano tutti neri sui venticinque anni, e più o meno della stessa altezza e corporatura. Uno dei tre era nato in California, l'altro in Kansas e l'ultimo era un talento locale, del Michigan. «Non avevamo a disposizione gruppi di controllo delle tre zone in questione, così abbiamo dovuto ricavare la composizione isotopica dello stronzio alimentare dalla geologia di ciascuna regione geografica, e poi applicarla alle varie ossa trovate nel barile. Mi segui?» «Ti seguo.» «Qualcuno che ha trascorso l'infanzia nella zona centrosettentrionale della California dovrebbe presentare valori compresi tra +30 e +60.» Fruscio di fogli. «Ed è esattamente in questo range che ricadono i valori del caso 38428.» Per un attimo rimasi senza parole. «Significa che la mia ragazza potrebbe essere californiana?» «Significa che potrebbe esserlo. Se non hai altre idee, è un punto di partenza come tanti altri. Ovviamente, potrebbe anche provenire da un'altra regione geografica con caratteristiche geologiche simili.» «E le altre sconosciute?» «Un paio di anni fa abbiamo avuto un caso che riguardava certi resti umani di varia provenienza recuperati in una fossa comune nel Vietnam. Si trattava di due soldati di cui erano note le identità, ma l'esercito voleva che le ossa fossero separate e attribuite ai rispettivi individui. Un soldato era cresciuto nel Vermont nordorientale, l'altro era dello Utah.» Arthur non diede il tempo di interromperlo. «Uno studio della composizione dell'isotopo di stronzio delle falde freatiche vicino a St. Johnsbury suggeriva valori compresi tra +84 e +94. I denti di uno dei soldati avevano valori perfettamente compresi in questo range.»
«Quello nato in Vermont.» «Sì. I denti del caso 38426 e del caso 38427 hanno gli stessi valori.» «Questo significa che le due ragazze sono del Vermont?» «Attenzione, non così in fretta. Le stesse formazioni rocciose si estendono oltre il confine e raggiungono il Québec. Ciò che voglio dire è che i valori dello stronzio delle due ragazze sono coerenti con quelli che mi aspetterei di trovare nelle persone nate nella regione in cui i resti sono stati trovati.» «La zona di Montréal.» «Sì. Adesso parliamo delle ossa. Per i casi 38426 e 38427, i valori dello stronzio presenti nei denti sono simili a quelli presenti nelle ossa.» «Il che lascerebbe pensare che non si sono allontanate troppo da casa.» «Giusto. Ma per il caso 38428 le cose non stanno così.» Attesi senza interrompere. «I valori dello stronzio di questo scheletro sono superiori ai valori dello stronzio dei denti. Inoltre, questi valori dello stronzio presenti nello scheletro sono molto simili ai valori scheletrici dello stronzio presenti negli altri due casi.» «Le ragazze del Québec che non si sono allontanate troppo da casa.» «Appunto.» Ci volle qualche secondo perché potessi assorbire l'ultima informazione. «Stai dicendo che la ragazza del caso 38428 è stata cresciuta in un posto, ma ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in un altro.» «Così sembrerebbe.» «Per esempio, questa ragazza potrebbe essere cresciuta in California.» «O in una regione isotopicamente simile.» «E in seguito potrebbe essersi trasferita in Québec o in Vermont.» «O in una regione isotopicamente simile a queste due.» Non vedevo l'ora di parlare con Charbonneau. «Arthur, tutto questo è davvero fantastico. Grazie.» «Te l'ho detto. Il nostro obiettivo è soddisfare le vostre richieste. Fammi sapere se riesci a identificare queste ragazze.» Ero così impaziente che digitai un numero sbagliato e dovetti richiamare. Charbonneau era fuori. E anche Claudel. Ma quei due si fermavano in ufficio ogni tanto? Lasciai un messaggio alla segretaria e inviai anche una chiamata al cercapersone di Charbonneau.
Quindi tornai in laboratorio. Prevedendo ciò che avrei trovato, portai al microscopio il cranio e la mandibola della ragazza nella cassa di Dottor Energy. Eccoli. Cinque minuscoli solchi, due in posizione superiore e tre in posizione posteriore rispetto al canale auricolare sull'osso temporale destro. Ingranditi, i tagli erano simili a quelli del caso 38427. Sulla mandibola e sulle altre ossa craniali non rilevai nulla. Gesù santo. Che cosa avevano fatto a queste ragazze? Anne mi chiamò all'una e un quarto, apatica e giù di corda. Dopo essersi scusata per il pessimo umore che l'aveva accompagnata per tutta la settimana, mi disse che pensava di ripartire. E aggiunse che non voleva approfittare oltre della mia ospitalità. Le assicurai che non stava affatto approfittando, e che averla con me mi faceva molto piacere. Visto il suo umore, la seconda affermazione era un filo esagerata, ma la incoraggiai ugualmente a fermarsi da me, finché non avrebbe trovato un posto migliore dove andare. Charbonneau telefonò all'una e quaranta. «Cibole! Oggi fa più freddo qui che nello spazio siderale.» «Ha ottenuto qualche risultato dal database del CPIC?» «Sì.» Sentii un rumore di cellophane. «Visto che non sappiamo se le due ragazze senza sigillante dentario sono morte prima o dopo quella con il sigillante, ho impostato le ricerche in due modi. Prima, ho richiesto i casi di persone scomparse degli anni Novanta.» «Ragionevole, visto la datazione al carbonio 14.» «Ho trovato qualcosa di vicino, ma niente di che.» Dai rumori che sentivo, sembrava che Charbonneau stesse mangiando qualcosa a base di caramello o di toffee. «Poi ho tralasciato la data della scomparsa. E ho ottenuto quello che mi aspettavo, vista la mancanza di indicazioni su denti, segni particolari e date.» «Molte persone?» «Un elenco lungo da qui a Sidney.» «Che cosa mi dice del caso 38428?» «Ho cercato fino all'inizio degli anni Ottanta. Il braccio rotto ha dimezzato i casi. Anche qui, alcuni casi si avvicinano, ma nessuno corrisponde. Di sicuro sapere dove vivevano queste ragazze aiuterebbe.»
«Che mi dice di California centrosettentrionale?» «Sì. Ecco, una cosa così.» «Sono seria.» Qualsiasi rumore di masticazione si interruppe. «È uno scherzo.» Senza soffermarmi troppo sui dettagli biochimici e geofisici, spiegai a Charbonneau che cosa mi aveva riferito Arthur Holliday. «A Luc verrà un travaso di bile.» «Dovrete inviare i dati delle tre ragazze oltre confine.» «NCIC. Già fatto. E già che ci sono, li mando anche alla polizia di Stato del Vermont e della California.» «Forse questo è eccessivo.» «Non farà male a nessuno.» «A parte al suo collega.» Charbonneau rise. «Veramente, c'è un'altra cosa» dissi. «La ascolto.» Gli parlai delle tacche e dei solchi. «E secondo lei quei segni sono stati lasciati da un bisturi?» «Oppure da una lama estremamente affilata e sottile.» «Su tutti e tre gli scheletri?» «Sì. Anche se i segni sui resti nell'involucro di cuoio sono diversi dagli altri.» «In che cosa?» «Sono più grossolani. E i margini sembrano scheggiati.» «Significa che sono stati lasciati da oggetti diversi?» «Forse. Oppure, sono stati lasciati sulle ossa già secche. O forse non sono affatto il risultato di una incisione ma sono segni postmortem simili ai tagli.» «Per esempio graffi causati dal trascinamento del corpo. O dal suo rotolamento.» «Forse.» «Non sembra convinta.» «Sembra che questi segni seguano un disegno preciso.» Mi interruppi, visualizzando nella mente cranio e mandibole. «Si trovano tutti intorno al foro auricolare.» «Su quale scheletro?» «Su tutti e tre.»
«E in altri punti? Niente?» «No.» «Santa merda. Pensa che qualcuno abbia tagliato le orecchie a quelle ragazze?» Ci avevo pensato anch'io. «Non so.» Dopo aver comunicato a LaManche ciò che avevo appreso da Arthur Holliday, trascorsi il resto del pomeriggio in compagnia delle ragazze della pizzeria. Ormai pensavo a loro in questi termini. Le mie ragazze. Le mie ragazze perdute. Riesaminai ogni osso, tutti i frammenti e i denti. Studiai le radiografie dei denti e dello scheletro. Ripassai la terra al setaccio. Mi scervellai sui bottoni. Quando infine tornai a sedere, le finestre erano scure e il corridoio era immerso nel silenzio. L'orologio diceva cinque e venti. Non avevo scoperto una sola informazione aggiuntiva. Chiusi gli occhi. La mia incapacità di dare un nome a quelle ragazze mi riempiva di tristezza. La mia incapacità di dare risposte soddisfacenti a Claudel mi riempiva di rabbia. L'incapacità di capire il senso di quei bottoni mi faceva sentire frustrata. La mia incapacità di individuare quei segni sul cranio prima che Bergeron me li facesse notare mi faceva sentire in colpa. Com'era possibile che quei segni mi fossero sfuggiti? Sì, è vero che mi ero interrotta molte volte. Sì, è vero che avevo lavorato su altri aspetti del caso. Sì, è vero che i segni erano quasi invisibili. Sì, è vero che uno dei tre crani era frammentato. Tuttavia, com'era possibile che una cosa così importante mi fosse sfuggita? Fallimento su tutti i fronti, e non un goccio da bere. Fallimento con Anne. Fallimento con Ryan. «Ryan!» esclamai, stizzita. «Sì?» Aprii gli occhi. Ryan mi guardava dalla soglia, trattenendo il cappotto sulla spalla con un dito. Aveva un'espressione che non avrei saputo decifrare. Il tenente della SQ alzò la mano, palmo avanti. «Lo so. Che cosa ci fai qui? Giusto?» mi disse.
Feci per rispondere, ma Ryan mi interruppe. «Lavoro qualche piano più sotto.» Sorrise. «Sono un poliziotto.» Cambiai posizione sulla sedia, e mi portai i capelli dietro le orecchie. «Hai notizie di Louise Parent?» «No.» «Hai trovato Rose Fisher?» Il sorriso di Ryan svanì. «No. E ho la sensazione che non sarà facile trovarla.» «Credi che sia morta?» «Ha sessantaquattro anni. Manca da almeno una settimana.» «Che genere di pazzo psicopatico se ne va in giro a uccidere donne anziane?» Ryan interpretò la mia frase come una domanda retorica. «Davanti a casa tua c'è ancora la pattuglia di sorveglianza?» «Sì.» Se fossi venuto a trovarmi, l'avresti vista. «Per caso stai insinuando che sono anziana?» «Voglio che tu tenga gli occhi ben aperti, Tempe.» «Li chiudo raramente in questo periodo, Andy.» Ryan ignorò la mia allusione. «Sto per andare a dare un'occhiata alla casa di Rose Fisher. Ho pensato che forse ti faceva piacere esserci.» Infatti. Indicai con la mano gli scheletri. «Sono piuttosto occupata.» «Quelli non vanno da nessuna parte.» Un altro dei suoi sorrisi disarmanti. Di nuovo mi sentii divisa sull'atteggiamento da tenere. Dovevo affrontarlo a viso aperto? Oppure era meglio lasciar cadere la cosa? Decisi di rimanere sul vago. E dare a Ryan la possibilità di essere il primo a parlarne. «Andy, a te capita mai di porti delle domande?» «Certo. Che cosa è successo ad Alice Cooper?» «Parlo di domande importanti.» «Che cos'era Alice Cooper?» «Non sto scherzando.» «Nemmeno io.» La voce di Ryan era calma. «Allora, ti va di venire?» Al diavolo le relazioni. Al diavolo Andrew Ryan. Cauterizza la ferita. Fai il tuo lavoro. Mi tolsi il camice. Buttai le chiavi nella borsa e presi il giaccone dall'at-
taccapanni. «Andiamo.» Attraversammo la città nella lentezza del traffico delle ore di punta. In auto, l'atmosfera era rilassata come un serpente avvolto a spirare. La conversazione era inesistente. Una serie di immagini familiari mi galopparono nella mente. Ryan in spiaggia. Ryan e io in Guatemala. Ryan nel mio letto. Ryan e la sua lolita. A un certo punto mi accarezzò un ginocchio. Un missile partì alla volta della mia libido. Chiusi gli occhi, e mi sforzai di mantenere il controllo. E respirai a fondo. Quando arrivammo a Candiac, avevo i muscoli del collo tesi come corde di volino. Le persiane di tutte le finestre della casa di Rose Fisher erano chiuse. Da una finestra filtrava una morbida luce gialla. «Strano.» Ryan accostò al marciapiede e spense il motore. «Che cosa?» «Non ricordo di aver lasciato luci accese.» «Il posto è ancora sigillato?» «Non più. La Scientifica ha concluso il suo lavoro giorni fa. E hanno tolto i sigilli.» Ryan aprì la portiera. «Rimani qui.» Concessi a Ryan qualche secondo, poi lo seguii fino alla porta di ingresso. Una ghirlanda natalizia augurava ancora a tutti JOYEUSES FÊTES. Ryan suonò il campanello. All'interno, il rumore risuonò debole. La mia sciarpa sventolò agitata dal vento. Ryan suonò ancora. I secondi passarono. Un'altra raffica di vento. Sentii una lacrima scivolarmi sulla guancia. Mi abbassai il cappello sulla fronte. Ryan stava cercando le chiavi quando nel soggiorno si accese una luce. Una chiave girò nella serratura e poi il pomo della porta ruotò. Dalla porta ancora socchiusa spuntò una faccia. Era l'ultima faccia che mi aspettavo di vedere. 23 «Voi chi sciete?» Le parole suonarono umide e scivolose, come pronun-
ciate da qualcuno con la bocca piena di piselli. Ryan mostrò il distintivo. «Poliscia?» Intimorita. «Possiamo entrare, signora Fisher?» «Dov'è Louisc? Dov'è mia sciorella?» Santo cielo. Non sapeva niente. «Volevamo parlarle proprio di questo.» La voce di Ryan era calma e rassicurante. La porta si aprì. Il viso di Rose Fisher ricordava una zucca, ed era stranamente concavo intorno alla bocca. «Ascpettate.» La porta si richiuse. Il vento mi continuava a tormentare la sciarpa e il colletto. Abbassai la testa. Pestai i piedi per terra per riscaldarli. Mi sentivo il cuore pesante. Ryan e io eravamo latori di una terribile notizia. Le nostre parole avrebbero cambiato la vita di Rose Fisher per sempre. Detestavo quello cui stavo per assistere. Non faceva parte del mio lavoro, e ne ero grata, ma quando in qualche modo mi coinvolgeva, lo detestavo. Dopo qualche minuto la porta si riaprì e Ryan e io entrammo in casa. Subito mi sentii avvolgere da una piacevole sensazione di calore. Rose Fisher non era una donna robusta. Era semplicemente enorme. La permanente e la tintura mal fatte davano al suo faccione gonfio un aspetto da clown. E la sovrabbondanza di cosmetici di certo non aiutava a migliorare il suo aspetto. «Dov'è mia sorella?» La paura c'era ancora, ma il difetto di pronuncia era sparito. Anche se raggrinzita e coperta di rossetto, la bocca di Rose Fisher adesso aveva un'apparenza normale. La sensazione che mi pesava sul cuore si fece più intensa. Gesù santo. La donna si era messa la dentiera e altro trucco. Per accogliere i visitatori. Ryan posò una mano sulla spalla di Rose Fisher. «Possiamo sederci?» Una mano paffuta volò alla bocca. «Oh, mio Dio. È successo qualcosa a Louise, vero?» Due carichi di mascara si spostarono da Ryan a me. «Siete venuti a dirmi che è successo qualcosa a Louise. Dov'è mia sorella?» Ryan accompagnò la donna fino al divano del soggiorno e si sedette accanto a lei. In un angolo, il piccolo cacatua grigio e giallo cinguettò, poi fischiò sei note di Edelweiss. Mi sedetti alla sinistra di Rose Fisher e le presi la mano paffuta.
Ryan mi fece un cenno con il mento, invitandomi a parlare. Il cacatua disse «Bonjour!». Ripeté il suo saluto. Cinguettò. «Signora Fisher, purtroppo le portiamo cattive notizie.» La donna chiuse gli occhi. Le sue dita si strinsero in una stretta di morte. «Mi dispiace moltissimo, ma devo comunicarle che sua sorella è morta.» Rose Fisher iniziò a dondolare la testa avanti e indietro, gli occhi serrati al punto da sparire nel grasso che circondava le orbite. A ogni oscillazione un suono acuto e sottile le usciva dalla gola e poi andava a morire dietro la dentiera saldamente posizionata sulle gengive. Passai un braccio sulle spalle della donna. «Mi dispiace davvero tanto.» Rose Fisher continuò il suo lamento funebre, mentre ombretto e mascara le colavano dagli occhi mescolandosi con il fard rosato. Il pappagallo aveva smesso di cinguettare. Ryan strinse la spalla destra della donna. I nostri occhi si incontrarono. Scoprii che i suoi erano velati dalla stessa mia tristezza. Il cacatua guardò la sua padrona, la cresta alzata, la testa inclinata di quaranta gradi. Su un orologio da tavolo ticchettavano i secondi. Il cacatua provò a fischiettare qualche nota di Alouette. Ma poi si interruppe. Fisher continuò a dondolare la testa e a lamentarsi. Un minuto. Due. Ryan uscì dalla stanza, e tornò con una scatola di fazzoletti di carta. Tre. Lentamente, la reazione di Rose Fisher divenne più controllata. «Ti voglio bene.» Cinguettio. «Je t'aìme.» Gli occhi porcini si aprirono e la testa della donna si voltò verso il cacatua. «Anch'io ti voglio bene, 'Tit Ange.» Il Piccolo Angelo inclinò la testa, ma non aggiunse altro. «Mia sorella adora quello sciocco d'un pappagallo.» Quasi impercettibile. «Adorava.» Ryan le porse la scatola con i fazzolettini di carta. Lei ne prese alcuni e si voltò verso di me, la faccia un ghiacciolo arcobaleno lasciato a sciogliersi nel fango. «Lei chi è?» «Sono la dottoressa Temperance Brennan. Lavoro all'Istituto di medicina legale.»
Sotto la maschera da clown, la faccia di Rose Fisher si fece pallida. «È stata una reazione allergica, vero?» «Al momento la causa del decesso non è stata ancora determinata con certezza.» Rose Fisher si asciugò il pasticcio che aveva sulla faccia. «Non avrei mai dovuto lasciarla sola. Non stava bene.» Fisher si abbandonò sul divano. «Sua sorella era malata?» domandò Ryan. «Allergica. Le lacrimavano gli occhi, si grattava in continuazione, le colava il naso. Ma non avrei mai immaginato...» Il petto della donna si sollevò per un altro spasmo involontario. Presi un fazzolettino e glielo porsi. «Mi rendo conto che per lei è molto difficile» dissi con la voce più tranquillizzante che riuscii a trovare. «E sono davvero desolata di doverle fare queste domande. Ma nel corso della settimana, moltissime persone hanno cercato di rintracciarla. Potrebbe dire al tenente Ryan e a me dov'è stata?» «Louise e io ci eravamo iscritte a un corso di ceramica a Pointe-auxPics. Pensavamo che sarebbe stato divertente imparare a fare qualche vaso...» Singhiozzo. Altro singhiozzo. «... e dormire in un Bed&Breakfast e fare le compere di Natale nella zona di Charlevoix.» «Sua sorella non si è sentita di venire con lei?» Quando Rose Fisher annuì, il mento affondò tra le pieghe di grasso che aveva sotto la gola. «Louise ha insistito perché andassi. Diceva che se la sarebbe cavata. E che se proprio avesse avuto bisogno di qualcosa avrebbe chiamato Claudia. Che è mia figlia.» La gola di Rose Fisher sembrò stringersi. «Oh, mio Dio. Claudia sa quello che è successo?» «Sì, signora Fisher. Ed era preoccupata per lei.» «Avremmo dovuto dirglielo. Io avrei dovuto dirglielo. Quando Louise ha deciso di stare a casa, non ci era sembrato necessario. Claudia mi assilla con il fatto che non vuole vedermi guidare in inverno. Mi tratta come una vecchietta che non riesce nemmeno a stare in piedi. Vorrebbe che stessi sempre a casa.» «Quando è rientrata da Charlevoix?» domandò Ryan. «Poco prima che arrivaste voi. Credevo che Louise fosse andata in chiesa. Il giovedì sera giocano a Bingo. Io ero molto stanca per il viaggio, per-
ciò stavo per scriverle un messaggio e andare a letto.» Rose Fisher continuava a tormentare il fazzolettino ormai logoro. «Il letto di Louise è sfatto. E questo non è da lei.» Il mastodontico petto della donna prese di nuovo a sussultare per i singhiozzi, singhiozzò ancora. «Lasci che le porti un po' d'acqua.» Mentre riempivo il bicchiere dal rubinetto della cucina, Ryan e Rose Fisher continuarono a parlare in soggiorno. Di tanto in tanto, il cacatua cinguettava o cantava un frammento di canzone. Prima di tornare in soggiorno, andai a fare un rapidissimo sopralluogo nella camera di Louise Parent. Il luogo non era molto diverso da ciò che avevo visto sulle fotografie della polizia. Il letto adesso era completamente disfatto, e sul materasso spiccava una macchia. Era il punto in cui la vescica di Louise Parent si era svuotata, al momento della morte. Davanti alla testiera c'era un unico cuscino. Tornai in soggiorno e porsi a Rose Fisher il bicchiere d'acqua. Ryan mi guardò e scosse impercettibilmente la testa, per dire che la donna era troppo scossa per rispondere in modo utile e sensato alle domande. «Adesso chiamo sua figlia e la avverto» disse Ryan. Rose Fisher sorseggiò rumorosamente l'acqua. «Ci rivediamo domani, signora Fisher. Quando si sarà un po' ripresa.» «Quando posso vedere mia sorella?» Ryan mi guardò. «Se lei vuole, possiamo fissare un appuntamento per una visita in obitorio.» «Che terribile Natale» disse Rose Fisher con voce tremante, mentre le lacrime le luccicavano sulle guance. Le strinsi ancora la mano. «So bene come sia duro perdere qualcuno a cui si vuol bene.» «Devo organizzare il funerale.» «Sono sicura che Claudia le sarà di grande aiuto.» «So tutto quello che Louise avrebbe voluto.» «Bene» dissi. «Così sarà più facile.» «Ci siamo dette tutto.» Bene, pensai di nuovo. Claudia arrivò nel giro di qualche minuto. Prima di lasciare le due donne, avevo un'ultima domanda. «Signora Fisher, sua sorella dormiva con un cuscino di piume?»
«Mai. Louise era allergica.» «E lei? Lei usa un cuscino di piume?» «Piumino d'oca.» Rose Fisher si rabbuiò. «Perché? Il mio cuscino era sul letto di Louise?» Il mio sguardo incontrò quello di Ryan. «Sembra una brava donna» dissi, salendo in auto. «Soprattutto, è una donna viva.» «Non c'è da meravigliarsi che nessuno avesse visto la sua macchina.» «Non era molto probabile, visto che era parcheggiata davanti a qualche squallido B&B di Pointe-aux-Pics.» Procedemmo nel traffico in silenzio, mentre i rami spogli disegnavano strane forme nei coni di luce dei lampioni. Dopo qualche minuto, Ryan imboccò il Pont Victoria e le ruote produssero il rumore di un pollice che strisciava sul bordo di un grande bicchiere. Sotto di noi, il San Lorenzo nero e immobile. «Louise Parent è stata assassinata» dissi, cupa. «Sembrerebbe così.» «Con il cuscino di Rose Fisher.» «I tecnici che si occupano dell'esame delle fibre saranno in grado di confrontare le piume.» «Qualche bastardo senza scrupoli si è infilato in casa, ha preso un cuscino dal letto di Rose Fisher e l'ha usato per soffocare Louise Parent.» «Mentre lei era persa nel suo sonno chimico.» «Com'è possibile che qualcuno riesca a introdursi in una casa senza lasciare nessuna traccia?» «Voglio discutere proprio di questo, con la signora Fisher.» «E con la nipote.» «E con la nipote.» «Pensi che Rose Fisher sapesse della telefonata che ho ricevuto da parte di Louise Parent?» «Un altro argomento di discussione.» La conversazione si limitò a questo. Bene. Non volevo pensare a Rose Fisher. Né a Louise Parent. Né a Ryan, ad Anne o alle mie ragazze perdute. Appoggiai la testa allo schienale del sedile, chiusi gli occhi e occupai la mia mente cercando di formulare frasi che descrivessero il silenzio sceso
nell'abitacolo. Il silenzio di una tomba murata. Di una biblioteca abbandonata in un sotterraneo del Vaticano. Di un buco ai confini di una galassia spiraliforme. Di un cacatua spaventato. Ryan mi accompagnò fino alla mia auto. «Ci sei tu per domani?» «Per domani?» «Per la chiacchierata con Rose Fisher.» «A che ora?» «Ti chiamo dopo che abbiamo contattato la nipote.» Il tempo di percorrere il tratto di strada che separava l'Istituto di medicina legale da Centre-Ville ed erano già le sette e trentacinque. Anne stava sonnecchiando, con gli occhiali floreali sul naso, un libro aperto sul petto. Birdie era accoccolato accanto a lei. Anne aveva cucinato un arrosto. Preparammo la tavola e la cena chiacchierando del più e del meno. A tavola, Anne mi parlò del libro che stava leggendo, un saggio sulla morte. Trovava la prospettiva dell'autore niente meno che illuminante. Io invece trovai questo suo interesse inquietante. «Perché questo morboso interesse per la morte?» «Sembri Annie Hall.» «E tu ti comporti come Woody Allen.» Anne rifletté qualche secondo. «Per andare oltre talvolta si impone un cambiamento.» «Andare oltre che cosa e cambiare come?» «Nella sostanza.» «Di che cosa stai parlando?» «Di cicli.» Mentre cercavo di capire il senso di quella enigmatica risposta, squillò il telefono. Era Katy. «Ciao, mamma.» «Ciao, piccola. Dove sei?» «A Charlottesville, ma domani torno a casa.» «Gli esami sono andati bene?» «Sicuro! Ti chiamo perché volevo essere sicura che tu fossi a Charlotte il 22.» Il 22? «Ti ricordi che c'è la festa dei regali per il matrimonio a casa di Hannah?
Avevi promesso di aiutarmi.» Ma quale idiota universale può organizzare un matrimonio durante le feste di Natale? «Certo che ci sarò, Katy.» «Conto sui tuoi anni e anni di esperienza, mamma.» «Carina.» «Ah... ti ho mandato due mail. Notizie varie, auguri di Natale, lista dei regali preferiti eccetera eccetera. Mi piacerebbe da morire la felpa Anthropologie.» «Vedremo.» «Ti voglio bene, mammina. Ora devo andare.» La voce di Katy sembrava intrecciata di vischio e agrifoglio. Ci salutammo e tornai da Anne. Si era già ritirata in camera sua. Finite le spiegazioni sulla realizzazione e sulla sostanza. Ebbi la sensazione che avesse utilizzato la telefonata di Katy come una scusa per prendere congedo. Mi spogliai, struccai, spazzolai i capelli, lavai i denti, senza smettere di pensare alla promessa che mi aveva estorto Katy. Ero così impegnata con le ragazze della pizzeria e la vicenda di Louise Parent che avevo letteralmente dimenticato il Natale. E anche la festa prematrimoniale di Hannah. Sarei riuscita a venire a capo di quel caso nel giro di una settimana, o avrei dovuto mettere in attesa le mie ragazze e rimandarle a dopo la pausa natalizia? Tornai in camera e feci per puntare la sveglia. Ma poi mi venne in mente che Ryan non mi aveva dato un orario per il nostro appuntamento. Ricordavo di averglielo domandato ma non ero sicura che mi avesse risposto. Le dieci e mezzo. Probabilmente era a casa. Premetti il pulsante della chiamata rapida. Mi rispose al secondo squillo. «Sì?» Voce femminile. Una sensazione incandescente mi attraversò lo stomaco e i polmoni. «Andrew Ryan, per cortesia.» «Con chi parlo?» Donna giovane. «La dottoressa Brennan.» «Ah, è lei.» Donna giovane e affilata come una lama. «Perché non lo lascia in pace?» «Prego?» «Lei deve toglierselo dalla testa, ha capito?» «Lei è Danielle?»
Lungo silenzio. Cercai di ricordare. Come si chiamava quella ragazza? «Lei è la nipote del tenente Ryan?» La donna sbuffò, stizzita. «La nipote? Lui le ha detto così? E lei ci ha creduto? È davvero più scema di quel che pensassi.» La verità entrò in scena come una lama di ghigliottina. «Lo deve lasciare in pace, capito?» Un secondo dopo sentivo solo il suono della linea interrotta. 24 Dopo essermi rigirata nel letto per gran parte della notte, quasi più depressa della mia amica Anne, verso il mattino iniziai a dormire un sonno agitato. E sognai Ryan. Eravamo in una lunga e oscura galleria. Mentre parlavamo, Ryan si allontanava sempre di più, finché il suo corpo non fu che una sagoma confusa all'imboccatura del tunnel. Io cercavo di raggiungerlo, ma sentivo le gambe pesanti, immobili. Gridavo, lo chiamavo, ma la mia bocca non aveva voce. Poi, nel buio, qualcosa mi sfiorava, asciutto e avvolgente come l'ala di un pipistrello. Io cercavo di sollevare un braccio. Ma il braccio non si muoveva. Poi mi sentivo sfiorare una guancia... Sussultai. E mi svegliai con Birdie che mi leccava il viso. L'uomo della galleria telefonò mentre stavo mangiucchiando pane tostato e cornflakes. Decisi di andare a Candiac con lui come previsto. Volevo parlare con Rose Fisher. Dopodiché: sayonara, adieu, bye bye... Troppi batticuori. Troppe notti insonni. Troppe lolite. Valutai un'eventuale richiesta di spiegazioni riguardo la donna che aveva risposto al telefono la sera prima. Ma poi rinunciai. Quella scena l'avevo già recitata. Avevo già vissuto le lacrime e le accuse. L'evidenza negata con ostile determinazione. Non avrei rivissuto il dramma una seconda volta. E Birdie approvò la mia decisione. «Dormito bene, splendore?» «Come un sasso.»
«Claudia Bastillo accompagnerà Rose Fisher a vedere la salma della sorella alle dieci. Ha proposto di passare a casa loro alle undici.» Udii il rumore di un fiammifero acceso, poi una boccata di fumo. «Ti vengo a prendere alle dieci e mezzo. Va bene?» «Okay. Ti aspetto.» Claudel mi chiamò mentre mi stavo asciugando i capelli. Come sempre, niente saluti, niente domande di cortesia circa la mia salute o la mia giornata. «Il tenente Charbonneau mi ha detto di chiamarla, anche se non riesco a capire perché.» Quasi sempre, il francese è una lingua che accarezza le orecchie come seta. In bocca a Claudel, aveva l'effetto di una patata che rotola su un pendio. «Non ho niente da riferire.» «In che senso?» «Niente pistoleri tra gli inquilini di Cyr. Nessun risultato positivo dal database del CPIC. Idem con il NCIC. Niente di significativo in California o Vermont.» «Nemmeno una persona scomparsa che si avvicinava al nostro profilo?» «Una ragazza in California. Polso destro rotto. Sfiora il valore minimo del range che lei ha fornito per l'altezza.» «Quanto?» «160.» Sentii una sorta di scossa elettrica. «Potrebbe starci. A quando risale la denuncia della scomparsa?» «All'85.» «Qual è il problema?» «La ragazzina aveva quindici anni.» La scossa svanì. «Lo scheletro con il polso fratturato dovrebbe essere vicino ai vent'anni.» Ripensai alle ossa della ragazza nel loro involucro di cuoio, alla radice dei molari sulle radiografie. «Forse possiamo scendere a diciotto, ma quindici è praticamente impossibile.» «Esattamente quello che pensavo.» «Ovviamente, la data della scomparsa non deve necessariamente coincidere con la data di morte. Ha scoperto altro?» «Ogni anno, scompaiono interi battaglioni di ragazze.» Brennan, concludi subito questa telefonata, suggerì una voce dentro di me. Altrimenti Claudel dovrà subire un altro duro colpo. Il mio campanello non suona, cinguetta. E decise di farlo proprio in quel
momento. «Se è possibile, vorrei una stampata di tutte le femmine di quindici anni che risultano scomparse in Québec negli ultimi vent'anni.» «Sta parlando di decine e decine di persone. E scoprirebbe che gran parte di queste sono ragazzi scappati di casa che tornano da mamma e papà quando si stufano di mangiare scatole di fagioli e di dormire per terra.» Facile. «Per me sarebbe di grande aiuto scoprire chi non è un ragazzo scappato di casa.» Un altro cinguettio. «Madame, il...» «Monsieur Claudel, il tenente Ryan è qui. Mi spiace ma la devo lasciare.» «Andrew Ryan?» «Stiamo andando a interrogare la sorella di Louise Parent.» «La donna trovata morta nel suo letto a Candiac?» «Sì.» «La vecchietta che ha surriscaldato la sua linea telefonica?» «Sì, mi ha chiamata.» «E cosa voleva?» «È esattamente quello che vorrei scoprire.» «La sorella, quando si è fatta viva?» «Ieri.» «Dove?» «A casa sua.» «E dove si nascondeva?» «A Pointe-aux-Pics.» Gelida. «Vorrei quella stampata prima possibile, per cortesia.» «Sacrifice.» «Merci» Stronzo. Corsi in bagno. Una parte dei capelli era asciutta. L'altra mi ricadeva sulle spalle divisa in tante spirali umide. Presi l'asciugacapelli. Cinguettio. Con una punta di nervosismo. «Fantastico.» Birdie mi guardava dalla soglia. Quando sentì la mia voce, si alzò, allungò le zampe in avanti e se ne andò. Non avevo tempo per lasciare un biglietto ad Anne. Infilai l'asciugacapelli nella sua custodia, mi calcai un berretto in testa e
uscii. Ryan mi aspettava nell'atrio interno, la faccia arrossata dal freddo. Occhiali da sole marroni. Bomber. Una scarica di libido partì. Anche se la telefonata della sera prima stringeva ancora le mie emozioni in una camicia di forza, a quanto pare il desiderio era un mago degno del grande Houdini. «Ti ho svegliata, pasticcino?» Grande sorriso alla Ryan. «No, non mi hai svegliata.» Cercai di non lasciar trasparire nessuna ostilità dalla mia voce. «Siamo un po' tesi, questa mattina?» «Abbiamo fumato, questa mattina?» «Giusto un piccolo contrattempo.» Ryan spense la sigaretta in un contenitore di sabbia accanto alla porta. Fuori, il freddo mi colpì come un'esplosione gelata, mentre il sole trionfava da un cielo terso e azzurrissimo. L'auto di Ryan aspettava accanto al marciapiede. Entrai e mi allacciai subito la cintura. Prima di allacciare la sua, Ryan si voltò verso di me e si spostò gli occhiali da sole sulla testa. Aveva gli occhi cerchiati da due grandi aloni scuri. «Che cos'hai?» Non risposi. «Si vede benissimo che hai qualcosa.» Continuai a non rispondere, questa volta più convinta. «Mi sembra di intuire che ce l'hai con me.» Ryan sorrideva, ma gli occhi e le mascelle dicevano che era teso. «So che ti consideri una persona molto importante, Ryan, ma ho altre cose a cui pensare, oltre a te.» E a tua nipote. Mi sentivo vulnerabile come un nervo scoperto. «Vuoi parlare?» mi domandò Ryan. «Voglio andare a Candiac» dissi. Non ero sicura che la mia voce potesse dire altro senza denunciare tutto il mio malessere. Partimmo. Immersi nel silenzio. La porta della casa di Candiac fu aperta da Claudia Bastillo. Mi misi addosso un sorriso di circostanza e la salutai con calore.
Rose Fisher era seduta in soggiorno, sola. Fissava le veneziane. Indossava un vestito di nailon verde punteggiato di papaveri. I capelli arancioni erano trattenuti sulla testa da una grossa pinza di plastica. Si era truccata in modo ancora più stravagante rispetto al giorno prima. Ammesso che fosse possibile. 'Tit Ange era assorbito da Frère Jacques. Quando entrammo nella stanza, Rose Fisher non si mosse. Si voltò solo quando sentì la voce della figlia, e ci guardò, stupita, come se cercasse di capire chi potevamo essere. «È un poliziotto, mamma. E la signora è quella delle autopsie.» E dopo la sommaria presentazione, Claudia Bastillo si ritirò. Ryan e io ci sedemmo ai lati della donna. Il «poliziotto» indicò a «quella delle autopsie» di procedere. «Spero che oggi si senta meglio, signora.» Rose Fisher annuì con un gesto quasi impercettibile. «Signora Fisher, vorrei farle qualche domanda riguardo certe telefonate che sua sorella ha fatto a me, chiamandomi all'Istituto di medicina legale.» Rose Fisher abbassò lo sguardo. «Quando?» «La settimana scorsa.» «Per quale motivo?» Gli occhi della signora Fisher non si spostarono da terra. «La signora Parent...» «Louise non si è mai sposata.» «La signora Parent mi ha parlato di un edificio situato in Rue SteCatherine.» Le dita a salamino della donna si strinsero e si riaprirono. «Diceva che era preoccupata per certi fatti che erano accaduti laggiù.» Il nervosismo delle dita di Rose Fisher aumentò. «Sua sorella ha affermato di sentirsi moralmente obbligata a rivelare certe informazioni di cui era al corrente alle autorità.» «E ha chiamato lei?» domandò Rose Fisher alzando lo sguardo, e mi fissò con gli occhi sgranati. «Due volte. Lei sa perché?» «Non credo che lo avrebbe fatto.» «Di che cosa voleva parlarmi sua sorella?» In quel momento la nipote entrò in soggiorno e venne a sedersi nella poltrona di fronte al divano. Il cacatua smise di cinguettare e passò a emet-
tere una serie di suoni acuti e fastidiosi. «'Tit Ange!» urlò Claudia Bastillo. Il cacatua per tutta risposta produsse un'altra serie di laceranti acuti. «Basta!» Il cacatua disse «bel pappagallo» in inglese e francese, poi iniziò a indagare il contenuto della sua ciotolina di semi. «Sta imitando il rivelatore di fumo» spiegò la nipote. «Quel piccolo idiota ha imparato il suono un fine settimana che è rimasto solo in casa e l'allarme si attivava in continuazione.» «Ha davvero un grande talento» osservai. «Ed è anche bilingue.» «È un rompiscatole.» Era chiaro che Claudia Bastillo non amava il pennuto. «Trilingue.» Ci voltammo tutti verso Rose Fisher. «Inglese, francese e cacatua. Louise rideva sempre di questa battuta.» La voce di Rose Fisher era rotta dai singhiozzi. «Mia sorella era una traduttrice.» «Non lo sapevamo.» La donna annuì e il suo doppio mento prese a tremolare. «Traduceva libri dal francese all'inglese. E anche viceversa.» «Un lavoro molto impegnativo» commentai, e poi mi voltai verso la nipote. «Stavamo chiedendo a sua madre se era a conoscenza di certe telefonate che sua zia ha effettuato all'Istituto di medicina legale poco prima di morire.» «C'entrano qualcosa con la sua morte?» «Non ne siamo sicuri.» «State per caso insinuando che mia zia non è morta per cause naturali?» «Noi dobbiamo indagare in ogni direzione» precisò Ryan. «Sospettate di noi?» Voce acuta come quella del cacatua. «Ovviamente no.» Ryan suonò come la rassicurazione fatta persona. «Stiamo semplicemente cercando di capire che cosa passava per la mente di sua zia.» Dopodiché Ryan si rivolse a Rose Fisher. «Per caso lei sa che cosa la signora Parent volesse dire alla dottoressa Brennan?» Quando la donna annuì, una lama di luce biancastra scivolò sulla sua guancia.
'Tit Ange fischiettò un verso di Camelot. Rose Fisher inspirò a fondo. «Louise ha vissuto in Rue Ste-Catherine per quasi diciassette anni. Quando morì mio marito, nel '94, l'ho convinta a trasferirsi da me. Quella casa era uno di quei palazzi molto grandi, con i negozi a livello strada, e la gente che ti vive sopra la testa. Troppo rumoroso per me, ma a Louise piaceva. Aveva un bilocale che dava sulla via, e le piaceva guardare fuori dalla finestra mentre lavorava alla sua scrivania. Si definiva la spiona del vicinato.» «Che negozi c'erano al pian terreno?» domandai cercando di non essere invadente. «Di tutti i generi. Una signora che vendeva valigie. Un macellaio. E poi il tizio con il banco dei pegni.» Rose Fisher abbassò lo sguardo. «A Louise quell'uomo non piaceva. Non gli piaceva per niente.» «Come si chiamava?» «Iniziava per M. Maynard? Martin? Mi sembra che Louise mi avesse detto che era americano. Non ricordo. Sono passati tanti anni.» Stéphane Ménard. Il tizio sulla lista degli inquilini di Cyr. Quello che aveva affittato i locali nell'edificio di Cyr dall'89 al '98. «Perché a sua sorella quest'uomo non piaceva?» «Non fraintendetemi. Louise voleva bene a tutti. Ma questo signore le dava una cattiva sensazione.» «Lei sa perché?» Rose Fisher guardò la figlia. E Claudia Bastillo annuì. «Perché una sera l'aveva visto portare una ragazza addormentata nel suo negozio. Louise mi aveva detto che sembrava la stesse cullando, come una bambina.» «Una bambina?» «Be', diciamo che era una ragazzina.» «Forse era la figlia.» «Louise mi aveva raccontato che una volta lui le aveva detto di non essersi mai sposato e di non avere figli. Mia sorella aveva un vero talento per aiutare le persone ad aprirsi. Nel giro di cinque minuti, Louise era capace di farsi raccontare la storia di tutta una vita.» «Nient'altro?» Il mio cuore iniziava a battere più veloce. «Un'altra volta Louise aveva visto una ragazza scappare via dal negozio. E questo tizio era uscito di corsa in strada e l'aveva riportata dentro.»
«E quando era successo?» Fisher equivocò la mia domanda. «La sera tardi.» Guardai Ryan. E mi sembrò colpito almeno quanto me. «Louise si era tenuta tutto dentro finché non è venuta a stare qua da me. Ma poi ha cominciato ad avere dei rimorsi di coscienza e mi ha raccontato quello che aveva visto.» «Sua sorella aveva mai cercato di parlare con il venditore di peltri di questi strani fatti?» Rose Fisher annuì. «Louise mi aveva detto che aveva provato a chiedergli conto di quelle ragazze diverse volte, sa, non proprio direttamente, con qualche giro di parola. Ma in un modo o nell'altro questo tizio aveva sempre evitato di rispondere, e anzi alla fine era anche piuttosto seccato per queste domande, così Louise ha lasciato perdere.» La donna alzò lo sguardo e mi fissò. «Louise continuava a tormentarsi, a chiedersi se avrebbe dovuto chiamare la polizia. Per dare almeno una controllata. Io però le ho detto di non impicciarsi. Di non lasciarsi coinvolgere.» «Questi fatti si sono verificati prima del 1994?» Rose Fisher annuì. «Secondo lei, l'ho consigliata male?» 'Tit Ange cinguettò e poi lanciò uno dei suoi laceranti acuti. 25 Ryan continuò l'interrogatorio di Rose Fisher. La figlia rimase nella stanza. Io mi allontanai per chiamare Claudel. Con mia grande sorpresa, rispose al secondo squillo. Gli raccontai ciò che avevamo saputo da Rose Fisher. «L'ho già controllato mentre esaminavo la lista degli inquilini di Cyr. Ménard è un santo.» «Non risulta niente su di lui?» «Ufficialmente, il tipo non mai nemmeno sputato per strada.» «È ancora a Montréal?» «Ha una casa a Pointe-Saint-Charles.» «Adesso che cosa fa?» «Niente, per quel che ne sappiamo noi.» «Ménard ha gestito quel banco dei pegni dall'89 al '98. Prima, di che cosa si occupava?» Breve pausa.
«La documentazione non è chiara.» «Come, non è chiara?» «Si ferma all'89.» «Non è possibile.» «Non c'è niente su Ménard, prima dell'89.» «Niente certificato di nascita, dichiarazione delle tasse, estratti conto, documentazione medica? Niente?» Silenzio. «Rose Fisher crede di aver sentito dire dalla sorella che questo Ménard era americano. Avete mandato il suo nome oltre confine?» Aspettai la risposta di Claudel. Quando sentii che non arrivava, aggiunsi: «Telefono a monsieur Authier e gli dico che abbiamo una pista». Dopodiché, caro monsieur Claudel, sarai tu a spiegare al grande capo la tua mancanza di entusiasmo per questo caso. Dopo la chiamata, tornai in soggiorno. Ryan interrogò per un'altra mezz'oretta Rose Fisher e io mi limitai a osservare in silenzio. Durante la mia assenza, avevano di nuovo devastato lo sgargiante makeup della donna. Il dolore di Rose Fisher stringeva il cuore. Claudia Bastillo era un'altra storia. Aveva la schiena rigida, lo sguardo fisso e privo di qualsiasi comprensione per la sofferenza della madre. Di tanto in tanto, accavallava le gambe, o incrociava le braccia sul petto. A parte questo, era rimasta sempre immobile e in silenzio. Poi finalmente le domande di Ryan finirono. Ci alzammo, rinnovammo le nostre condoglianze a Rose Fisher e alla figlia, e ci congedammo. Rientrati in auto, Ryan propose di andare a prendere un sandwich. «No, grazie.» Il mio stomaco scelse proprio quel momento per brontolare. «Lo considero un veto metabolico alla tua decisione di saltare il pranzo.» Senza discutere oltre, Ryan entrò nel parcheggio di un Lafleur, la risposta di Montréal alla ristorazione veloce. Scese dall'auto, fece il giro e venne ad aprirmi la portiera. Mentre uscivo, si chinò fino alla vita e fece uno svolazzo con la mano. Che diamine. Avevo fame. I ristoranti Lafleur sono famosi per i loro hot dog al vapore e per le patatine fritte. Steamé et frites, si dice da queste parti. Dopo qualche minuto, Ryan ed io eravamo seduti uno di fronte all'altro a
un tavolo di fòrmica, separati da quattro würstel e una tonnellata di patate fritte. Il cellulare trillò mentre stavo iniziando il secondo hot dog. Come sempre, Claudel non si perse in convenevoli. «Vous aviez raison.» Il würstel mi andò quasi di traverso. Claudel stava ammettendo che avevo ragione in qualcosa? «Monsieur Stéphane Ménard è nato Stephen Timothy Ménard a St. Johnsbury, nel Vermont. I suoi genitori erano una certa Genéviève Rose Corneau e un certo Simon Timothy Ménard.» «Quindi Rose Fisher non si è sbagliata.» «I Ménard erano insegnanti di scuola ma avevano anche una piccola azienda agricola a una ventina di chilometri da St. Johnsbury. Il padre è morto nel '67, quando il figlio aveva cinque anni. La madre è morta nell'82.» «Come mai Ménard è finito in Canada?» «Legalmente. La madre era nata a Montréal. Dopo aver conosciuto il futuro marito, si è trasferita in Vermont, si è sposata e ha acquisito la cittadinanza americana. E com'era ovvio, quando il piccolo Stephen ha segnalato la sua presenza, è rientrata in Canada, dai genitori.» «Quindi Ménard ha la doppia cittadinanza.» «Sì.» «Ma non si è stabilito in Canada prima dell'89.» «Quando Genéviève Corneau è morta, nell'82, Ménard ha ereditato l'azienda agricola. Un bell'appezzamento di terra e una casa con due stanze.» Fece un rapido calcolo. «Ménard aveva vent'anni.» «Sì.» Ryan stava mettendo un po' d'aceto sulle sue patatine, ma non perdeva una parola. «Ménard è rimasto in Vermont?» «Charbonneau sta cercando di chiarire la cosa con la polizia di St. Johnsbury. Ho scoperto che i nonni di Ménard sono morti in un incidente d'auto qui a Montréal, nel 1988.» «Mi lasci indovinare. Ménard ha ereditato la casa dei nonni Corneau, ha detto au revoir al Vermont e ha puntato dritto verso nord.» «È entrato in possesso della casa dei Corneau nel novembre del 1988.» «Pointe-Saint-Charles.» Claudel mi lesse un indirizzo.
Feci un cenno a Ryan e lui mi passò una penna. Annotai l'indirizzo su un tovagliolo di carta. «Vive solo?» «Dalla documentazione risulterebbe di sì.» «Ménard ha qualche precedente negli Stati Uniti?» domandai. «Guida in stato di ebrezza a diciassette anni. A parte questo, il giovanotto era un modello di virtù.» Il consueto atteggiamento sprezzante di Claudel stava avendo il consueto effetto sul mio umore. «Ascolti, finora ci siamo concentrati sulle vittime, e abbiamo lavorato dal basso verso l'alto. Direi che adesso è il momento di invertire il senso di marcia, e di procedere dall'alto verso il basso. In altre parole, di cercare chi potrebbe aver messo quelle ragazze nello scantinato.» «E lei è convinta che questo Ménard sia il nostro uomo?» «Per caso lei ha qualche idea migliore, monsieur Claudel?» Interrompemmo la comunicazione simultaneamente. Tra un boccone e l'altro del mio secondo hot dog, riferii a Ryan le informazioni avute da Claudel. Se anche Ryan avesse avuto dei dubbi riguardo i miei sospetti su Ménard, li tenne per sé. «Ménard ormai dovrebbe essere un uomo sulla quarantina» disse, appallottolando l'unto involucro di cartone dove c'erano gli hot dog. «Senza evidenti mezzi di sostentamento.» «Ma con proprietà di immobili in Québec e Vermont.» «E molti parenti morti» aggiunsi. Charbonneau chiamò mentre stavamo accostando al marciapiede di fronte al mio condominio. «Come se la passa, dottoressa?» «Bene, grazie.» «Ho fatto un po' di interessanti ricerche presso i nostri colleghi dello Stato delle Verdi Montagne... Pare che il nostro uomo sia un laureato.» «Dove?» «University of Vermont. Classe 1984. Una bella signora che lavora presso gli uffici amministrativi dell'università mi ha perfino faxato la foto di un annuario studentesco. Il ragazzo potrebbe essere il sogno di ogni madre. Riccioli scompigliati, lentiggini, occhiali alla Clark Kent, sorriso smagliante.» «Capelli rossi?» «Un vero pel di carota con gli occhiali. Ah, questo le piacerà molto, dot-
toressa. Ménard è laureato in antropologia.» «Sta scherzando?» «Per niente. E non è finita qui. Ménard ha proseguito gli studi e ha frequentato un master in archeologia in un posto chiamato...» Pausa. «Un momento. Eccolo. In un posto chiamato Chico.» Il cuore mi schizzò nella stratosfera. «California State University di Chico?» «Proprio così. Direi un bel viaggetto, per un ragazzo del Vermont, no?» Senza scendere nei particolari, spiegai a Charbonneau del test sugli isotopi di stronzio che Arthur Holliday aveva eseguito sui campioni degli scheletri. «Quindi il tasso di stronzio presente nei denti indicherebbe che la ragazza nell'involucro di cuoio potrebbe essere cresciuta nella California centrosettentrionale.» «Ah sì?» «E Chico si trova per l'appunto nella California centrosettentrionale.» «Mi venisse un accidente.» «Inoltre, i tassi di stronzio presenti nello scheletro indicano che potrebbe aver trascorso gli ultimi anni della sua vita nel Vermont.» «Maledetto bastardo.» «Avete trovato altro?» «Pare che i risultati accademici di Ménard lasciassero alquanto a desiderare. Dopo il primo anno di dottorato ha mollato tutto, oppure l'hanno espulso. In ogni caso... hasta la vista. Niente master.» «E dov'è andato?» «Nel gennaio dell'86 è tornato dalla mamma, all'azienda agricola nel Vermont.» «Se ha lasciato Chico dopo un anno di dottorato, rimane un vuoto tra la fine del semestre estivo dell'85 e il gennaio dell'86. Dov'è stato in quel periodo?» «Penso che farò qualche telefonata a Chico.» «E quando è tornato in Vermont, che cosa faceva?» «Coltivava ortaggi, immagino. E viveva con i proventi dell'eredità. E non pagava le tasse.» «Avete contattato qualche residente locale?» «Sono riuscito a scovare un paio di vicini che ricordavano il ragazzo. Dopo che Ménard ha lasciato il Vermont, in quella zona si sono stabiliti molti nuovi residenti; ma qualche anziano del luogo ricordava ancora Ge-
néviève Ménard e il figlio. Pare la signora fosse una donna di polso. E il guinzaglio del figlio era sempre molto corto.» «Genéviève Corneau non si è mai risposata?» «No. I vicini ricordano il piccolo Stephen come un ragazzo tranquillo che rimaneva spesso in casa. Non praticava sport né partecipava alle consuete attività extrascolastiche. Un paio di loro ricordano di averlo visto durante l'anno che seguì il suo rientro da Chico. Il ragazzo doveva aver avuto una specie di epifania durante l'anno di dottorato, perché è rientrato a casa con barba e dreadlock.» «Be', tipico del Vermont.» «In che senso?» «Laggiù sono dei gran conservatori. Che altro hanno detto i vicini?» «Non molto. Pare che Ménard facesse vita molto ritirata, e che uscisse solo per rifornire la dispensa e fare il pieno di benzina.» «Forse è il caso di fare una telefonata a Chico. E di scoprire tutto il possibile su questo tizio. E poi bisognerebbe anche dare un elenco di tutte le ragazze tra i quindici e i venticinque anni scomparse nella zona mentre Ménard era lì.» «Mi par di capire che questo Ménard le sembra il candidato ideale per gli scheletri della pizzeria, giusto?» «Be', corrisponde al profilo classico. Madre dominante. Ambizioni frustrate. Solitario. Abitazione isolata.» «Mah... non so.» «Unisca i punti, tenente Charbonneau. Tre ragazze sono state sepolte nello scantinato di un locale che Ménard ha tenuto in affitto per anni. La datazione al carbonio 14 suggerisce che la data di morte coincide con il periodo in cui Ménard ha affittato i locali. Louise Parent aveva sospetti che l'hanno spinta a chiamarmi due volte.» Stavo riassumendo non tanto per Charbonneau, quanto per Ryan. «Secondo la sorella, Louise Parent voleva dirmi che aveva visto Ménard portare una ragazza adolescente priva di conoscenza dentro il suo negozio. E che un'altra volta lo aveva visto riportare nel suo negozio una ragazza che scappava in strada. Ed entrambi gli episodi si sono verificati a tarda sera.» «E adesso Louise Parent è morta» aggiunse Charbonneau. Guardai Ryan. Stava seguendo ogni parola. «Appunto. E adesso Louise Parent è morta» dissi. «Si direbbe che ci ritroveremo tutti a lavorare alla stessa pista.»
«Così pare.» «Ryan è lì?» «Sì.» «Posso parlargli?» Passai il cellulare a Ryan, poi lo osservai parlare con Charbonneau. Ero molto tesa, ma riuscii a mantenere un'espressione neutra. Nessuna traccia del colpo involontario che Charbonneau mi aveva inferto quel lunedì. Nessuna traccia della sofferenza che la sua rivelazione aveva innescato. Nessuna traccia del tormento patito a causa della telefonata della sera prima. Avevo giurato di prendere le distanze da Ryan, ma a quel punto tutte le tessere del mosaico stavano andando a posto. E se le indagini sugli scheletri della pizzeria iniziavano a convergere, rimanere distanti sarebbe stato piuttosto difficile. C'est la vie. Mi sarei comportata in modo professionale. Avrei fatto il mio lavoro. Dopodiché avrei augurato al tenente Andrew Ryan ogni bene e sarei andata oltre. «Sì, in effetti lei è proprio così.» Ryan fece una risatina, quella tipica di un uomo che sente una battuta da un altro uomo su una donna. Di nuovo mi sentii assalire dalla paranoia. Così come? E poi, chi era questa lei? Lascia perdere, Brennan. Concentrati sul caso. Conserva tutte le tue energie per questo. Ripensai alle ossa nella loro tomba anonima, e Ménard che comprava e vendeva al piano di sopra. Aggeggi elettronici rubati per pagare un buco. Cimeli di famiglia consegnati con riluttanza. Immaginai Ménard nel Vermont, tra piselli e patate. Ménard in California, impegnato a studiare Struever, Binford, Buikstra e Fagan. Un pensiero indefinito cercò di attirare la mia attenzione. Chico. «... sì, ce l'ho qui davanti» disse Ryan, girando il tovagliolino dalla sua parte per leggere l'indirizzo di Ménard. Chico è nella California centrosettentrionale. Okay, questo lo so. Ma allora che cos'era, quel pensiero? Che cosa voleva dirmi? C'era dell'altro. Ma che cosa? «Andrà bene così» disse Ryan. Charbonneau rispose qualcosa. «Sì. Diamo al nostro uomo una bella torchiata e vediamo come reagisce.»
Ryan concluse la chiamata e mi passò il cellulare. «Ti va di venire a fare due chiacchiere con il nostro uomo?» «Ménard?» Ryan annuì. «Certamente.» Il pensiero indefinito sembrò tornare da dove era venuto. Mentre Ryan e io lasciavamo il ristorante, non avevamo idea che qualcuno ci stesse osservando. 26 La cartina di Montréal mi fa sempre venire in mente un piede, con l'aeroporto Dorval e i quartieri occidentali dell'isola che formano la caviglia, le dita che puntano verso est, e il tallone che si immerge nel fleuve San Lorenzo. Verdun forma il cuscinetto di grasso del calcagno, mentre PointeSaint-Charles potrebbe essere una cipolla che spunta dall'alluce. La Punta si trova sotto il Lachine Canal e sopra lo scalo ferroviario. A est di questa zona si trovano il Vieux Montréal e il porto. Originariamente abitata dagli immigrati che lavoravano alla costruzione dei ponti di Montréal, la Punta ha una toponomastica che riflette la forte presenza irlandese di quell'epoca. Rue St-Patrick. Sullivan. Dublin. Mullins. Ma questa ormai è storia. Oggi la Punta è una zona quasi interamente francese. Una ventina di minuti dopo aver lasciato Lafleur, Ryan svoltò in Rue Wellington, la principale arteria est-ovest del quartiere. Superammo grandi negozi di articoli sportivi, saloni per tatuaggi, il negozio di abbigliamento MH Grover, da decenni un'istituzione, in questa via. Qui e là, incontravamo affollati caffè che interrompevano la lunga fila dei negozi. Ryan si fermò nel punto in cui Rue Dublin si unisce a Rue Wellington, sulla sinistra. A destra, una fila di case in stile vittoriano apparivano incongruamente allegre, con i loro colori pastello, le decorazioni di legno intagliato, gli archi in mattoni e le finestre di vetro colorato. Sul vetro lattiginoso di un portoncino lessi la scritta DOTTOR GEORGE HALL. Ryan notò il mio sguardo incuriosito. «Dottor Baruffa» disse. «Costruito da un gruppo di medici ricchi sfondati bisognosi di abitazioni prestigiose. Anche se da allora il quartiere è un po' cambiato.» «Sono ancora case private?»
«Credo che adesso siano suddivise in tanti appartamenti.» «Dov'è Rue Sébastopol?» Ryan indicò con la testa verso sinistra. «È un vero labirinto, laggiù. Un sacco di vicoli ciechi e sensi unici. Credo che Rue Sébastopol fiancheggi un lato dello scalo ferroviario.» Mentre Ryan svoltava in Rue Dublin, notai un'indicazione storica. «Che cos'è il Parc Marguerite-Bourgeois?» «Mon dieu, madame la Docteur... Stai parlando di una delle signore più amate del Québec. Sorella Maggie nel Diciassettesimo secolo apriva scuole per bambine. Un'idea piuttosto rivoluzionaria per il Québec dell'epoca. Ha anche fondato l'ordine delle Soeurs de la Congrégation de Nôtre-Dame. Qualche anno fa, è stato avviato il processo di beatificazione.» «Perché quel cartello?» «Perché intorno alla metà del 1600, Marguerite Bourgeois ricevette una sostanziosa porzione di questa piccola penisola. Poco alla volta, le suore vendettero la terra, e Pointe-Saint-Charles oggi occupa gran parte di quel terreno. Ma la scuola originaria fatta costruire da Marguerite si trova un po' più avanti, e oggi è diventata un museo.» «Maison Saint-Gabriel?» Ryan annuì. Nel quartiere la rimozione della neve era stata alquanto sommaria, e i marciapiedi erano occupati da grossi cumuli bianchi. Le auto parcheggiate, inoltre, avevano meno spazio del solito, e tendevano a sporgere molto verso le corsie di marcia. Ryan guidava lentamente, tenendosi lontano dalla destra per evitare il traffico in entrata. Mentre entravamo sempre di più nella Punta, mi guardai intorno per conoscere meglio il circondario. L'architettura era un miscuglio di edifici del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, gran parte dei quali sembravano destinati in origine ai lavoratori del ceto operaio. Molte vie erano fiancheggiate da case di mattoni a un piano, non intonacate, con la porta d'ingresso che si apriva direttamente sul marciapiede. Altre vie tendevano maggiormente verso la pietra calcarea grossolanamente sbozzata. Gli edifici erano in gran parte spogli, senza rifiniture particolari, e solo alcuni esibivano cornicioni, false mansarde e abbaini in legno intagliato. Confusi tra l'architettura di due secoli fa, notai alcuni edifici a due piani suddivisi in tre o sei unità costruiti all'inizio del Ventesimo secolo. Qui, gli architetti erano stati più generosi, e avevano concesso minuscoli giardinetti, ingressi più riparati, facciate in mattoni tinteggiate in giallo, beige o
marrone, e scale esterne che portavano ai ballatoi del primo e secondo piano. Vicino all'ingresso della Maison Saint-Gabriel, superammo alcune mostruosità a quattro piani, frutto probabilmente della tristezza postbellica, con ingressi sormontati da tettoie di plastica o di cemento. Gli architetti di questi obbrobri probabilmente mettevano la funzionalità al primo posto, e ai posti successivi nient'altro. E pazienza per il Feng Shui. Dopo una serie di svolte, Ryan prese a destra e ci trovammo in Rue Sébastopol. Alla nostra sinistra avevamo lo scalo ferroviario, seminascosto da una recinzione alta almeno due metri e siepi di sempreverdi. Attraverso i rami riuscii a distinguere file e file di vagoni merci. La neve scricchiolò sotto gli pneumatici, mentre Ryan rallentava. Quando fermò l'auto ci guardammo intorno in silenzio. A metà isolato, una serie di case in mattoni non intonacate si allineavano lungo il marciapiede, dando la sensazione di stringersi le une alle altre in cerca di sostegno. O di calore. Oltre questa fila di case, notai un vuoto, e poi una confusione di strutture in cemento coperte di graffiti sui muri esterni. A destra, un capannone fatiscente circondato da un recinto decrepito, e all'interno del recinto un cane, che subito notò la nostra presenza e iniziò ad abbaiare. File di alberi spogli salivano fino ai cavi delle linee elettriche, e cumuli di neve si ammonticchiavano sui marciapiedi sporchi di fango. Rue Sébastopol era una delle tante vie tutte uguali della Punta. Ma in un certo senso, più cupa. Più isolata. Alla nostra sinistra si spalancava il vasto terreno disabitato dello scalo ferroviario. Alle nostre spalle, avevamo l'unico accesso per veicoli alla via. Mentre osservavamo la lunghezza dell'isolato, ebbi un oscuro presentimento. Ryan indicò con un cenno la fila di case. «Questa è Sébastopol Row, costruita nel 1850 dalla Grand Trunk Railway.» «Sembra che le ferrovie non badassero granché all'estetica.» Ryan prese il tovagliolo dalla tasca, controllò l'indirizzo e avanzò verso la prima casa per verificare il numero civico. Il cane smise di abbaiare, si alzò sulle zampe anteriori e controllò i nostri movimenti. «Che numero è?» Ryan me lo disse.
«Dev'essere più avanti.» Proseguimmo, e intanto io controllai tutti i numeri che incontravamo. Ma la numerazione sulla fila di case non cresceva abbastanza, e il numero sulla prima struttura in cemento indicava che eravamo andati oltre. «Forse la casa non si affaccia sul marciapiede, ma è più interna, verso quella zona vuota» suggerii. Ryan invertì il senso di marcia e parcheggiò di fronte all'ultimo edificio della fila di case. Una sagoma era vagamente visibile oltre gli alberi spogli e i folti rami dei pini. «Pronta?» Ryan prese i guanti dal sedile posteriore. «Pronta.» Io infilai le muffole e uscii. Quando sentì il rumore delle portiere, il cane riprese ad abbaiare. Ryan percorse una stradina coperta di ghiaccio che si trovava a circa un metro e mezzo oltre il muro esterno dell'ultima casa della fila. Rami spogli e rami di sempreverdi oscuravano la vista del cielo, dando la sensazione di entrare in una galleria. L'aria profumava di pino, di fumo di carbone e di qualcosa di organico. «Che cos'è questo odore?» sussurrai. «Sterco di cavallo» rispose Ryan, anche lui sottovoce. «Il cagnaccio fa la guardia a una scuderia di cavalli da calesse.» «Quelli che tirano i calèche nel centro storico?» «Proprio quelli.» Annusai ancora. Può darsi. Ma c'era anche qualcos'altro. Ryan e io percorremmo con grande attenzione il vialetto dal fondo irregolare, e ci tirammo su il bavero per proteggerci dal freddo pungente. A dieci metri da Rue Sébastopol, il vicolo piegava bruscamente sulla sinistra e Ryan e io ci trovammo di fronte a un fatiscente edificio in mattoni rossi. Ci fermammo e leggemmo i numeri arrugginiti sopra la porta d'ingresso. «Ci siamo» disse Ryan. L'ingresso era rientrato, la porta era malandata e vecchia, ma intagliata con motivi ornamentali. Le finestre erano opache, alcune buie, altre bianche per il ghiaccio e per la neve accumulata sui vetri per via del vento. Piante di rampicanti secche disegnavano una sorta di ragnatela su muri e tetto, e un davanzale di legno sembrava sul punto di staccarsi dalla inte-
laiatura della finestra. Qui i pini erano più folti e creavano intorno alla casa e all'angusto cortile un'ombra ancora più fitta. Obbedendo a un impulso del tutto irrazionale, la peluria alla base del collo si sollevò. Inspirai a fondo, e cercai di mantenere la massima calma. Ryan raggiunse la porta. Io lo seguii. Il campanello era in ottone, uno di quei vecchi campanelli che suonavano quando ruotati in senso orario. Ryan procedette. All'interno della casa, risuonò un trillo. Ryan attese un minuto buono, poi suonò ancora. Dopo qualche secondo la serratura girò e la porta si scostò di qualche centimetro. Ryan mostrò il distintivo attraverso la fessura. «Il signor Ménard?» domandò in inglese. La fessura non si allargò. Non riuscivo a vedere la persona dietro la porta. «Stephen Ménard?» ripeté Ryan. «Qu'est-ce que vous voulez?» Pronunciato con forte accento americano. «Polizia, signor Ménard. Vorremmo parlare con lei» insisté Ryan in inglese. «Laissez-moi tranquille.» La porta fece per chiudersi. Ryan la bloccò con un gesto fulmineo. «Lei è Stephen Ménard?» «Je m'appelle Stéphane Ménard» rispose l'uomo pronunciando il suo nome in francese. «Qui êtes-vous?» «Sono il tenente Andrew Ryan.» E indicando me, aggiunse: «E questa è la dottoressa Temperance Brennan. Dobbiamo parlare con lei». «Allez-vous en!» La voce suonava aspra, e quasi fragile. Io continuavo a non vedere il suo proprietario. «Non abbiamo nessuna intenzione di andarcene, signor Ménard. Le consiglio di collaborare, e le nostre domande le ruberanno solo pochi minuti.» Ménard non rispose. «O se preferisce, la portiamo direttamente in centrale.» Il tono di Ryan era acciaio temperato. «Tabernac!» La porta si richiuse. Seguì un rumore di catenaccio, e poi si riaprì. Ryan entrò per primo, io lo seguii. Il pavimento era coperto di linoleum, le pareti troppo scure per una stanza senza finestre. L'aria odorava di nafta-
lina, di carta da pareti vecchia e di tessuto ammuffito. Il minuscolo ingresso era illuminato da una piccola lampada in ceramica. Ménard era in ombra, vicino alla porta, una mano sulla maniglia e l'altra, premuta contro il petto, stringeva un tagliacarte d'ottone. Quando Ménard chiuse la porta e si voltò verso di noi, per la prima volta riuscii a vederlo. Stephen Ménard doveva essere sul metro e novanta. Con la testa calva e le lentiggini, era uno degli uomini più particolari che avessi mai visto. Avrebbe potuto avere quarant'anni portati male, oppure una sessantina portati molto bene. «Qu'est-ce que vous voulez?» domandò ancora Ménard. «Possiamo sederci?» replicò Ryan abbassando la cerniera del bomber. Una scrollata di spalle. «N'importe.» Fate come volete. Ménard ci accompagnò in un salottino buio come l'ingresso. Pesanti tendaggi rossi, secrétaire di mogano, tavolini. Tappezzeria floreale scura. Pezzi rivestiti in color prugna scuro. Ménard posò il tagliacarte sul secrétaire e andò a sedersi sul divano, accavallando subito le gambe. Io mi tolsi il giaccone e mi accomodai su una poltrona, alla sua destra. Ryan fece il giro della stanza e accese il lampadario e un paio di lampade di ottone e cristallo accanto al divano. Il miglioramento dell'illuminazione ci permise di valutare meglio il padrone di casa. Stephen Ménard non era solo calvo, era totalmente glabro. Niente basette. Niente ciglia. Nessun pelo sul corpo. Questa caratteristica gli conferiva un'aria levigata e stranamente pallida. Mi chiesi se la mancanza di peli fosse una caratteristica genetica o un look bizzarro creato intenzionalmente. Ryan prese una sedia imbottita da dietro il secrétaire e la sistemò di fronte a Ménard, ricorrendo di proposito a un body language mirato a innervosire. Una volta seduto, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, con la faccia a meno di un metro da quella di Ménard. Il nostro riluttante ospite era in ciabatte, e indossava jeans e felpa con le maniche alzate fino ai gomiti. Ritraendosi da Ryan, Ménard riabbassò le maniche fino ai polsi, le rialzò, si aggiustò gli occhiali, e attese. «Voglio essere sincero, con lei, signor Ménard. Purtroppo ha attirato la nostra attenzione.» «Je suis...» «Mi sembra di aver capito che lei è americano, quindi l'inglese non dovrebbe essere un problema per lei, giusto?»
Ménard fece per replicare, ma poi rinunciò. «Il signor Richard Cyr ci ha riferito che fino a qualche anno fa lei ha gestito un banco dei pegni in un locale di sua proprietà in Rue SteCatherine.» Le labbra di Ménard si fecero sottili come un ago, e una ruga si formò nel punto in cui avrebbe dovuto avere le sopracciglia. «Per caso la infastidisce il fatto che le faccia questa domanda?» Ménard si sfiorò la guancia con la mano e si riaggiustò gli occhiali. «Un'attività piuttosto redditizia. Quanto è andata avanti? Nove anni? Lei è un uomo giovane. Come mai ha deciso di chiudere il banco dei pegni?» «Non era un semplice monte dei pegni. Trattavo anche articoli da collezionismo.» «Potrebbe spiegarsi meglio?» «Aiutavo i collezionisti a trovare i pezzi più difficili. Francobolli. Monete. Soldatini.» Avevo già visto Ryan interrogare i sospetti, in passato. Ci sapeva fare con il silenzio. La persona interrogata concludeva la sua risposta, e lui, invece di passare alla domanda successiva, guardava la persona con aria interrogativa e aspettava. Proprio come fece in quel momento. Ménard deglutì. Ryan attese. «Era un'attività perfettamente legale» mormorò Ménard. Da qualche parte all'interno della casa mi sembrò di sentire una porta aprirsi e richiudersi. «Ma poi le cose si sono complicate. Gli affari hanno iniziato a diminuire. L'affitto è aumentato. Così ho deciso di non continuare.» «In che senso, si sono complicate?» «Semplicemente si sono fatte più complicate. Senta, tenente. Io sono un cittadino canadese. E so quali sono i miei diritti.» «Le sto solo facendo qualche domanda, signor Ménard.» Reggere lo sguardo di Ryan era diventato piuttosto difficile per Ménard. I suoi occhi continuavano a rimbalzare dalle sue mani a quelle di Ryan, e ritorno. Ryan si concesse un'altra lunga pausa. E poi: «Perché ha lasciato perdere l'archeologia?». «Di che cosa sta parlando?» «Che cosa è successo a Chico?» Un'idea prese a vagarmi per la mente. Non la inseguii.
«Avete un mandato?» domandò Ménard, aggiustandosi per l'ennesima volta gli occhiali. «No, signore» rispose Ryan. Lo sguardo di Ménard si spostò oltre le spalle di Ryan. Ci voltammo entrambi. Sulla soglia, si era fermata una donna. Era alta e sottile, con la pelle color avorio e una lunga treccia nera. Valutai che dovesse avere tra i venticinque e i trent'anni. Le zampe di gallina ai lati degli occhi di Ménard si contrassero. La donna si irrigidì così visibilmente che sembrò quasi trasalire. Poi si cinse la vita con le braccia e sgusciò via. Ménard si alzò in piedi. «Non ho intenzione di rispondere ad altre domande. O mi arrestate, o uscite da casa mia.» Ryan non si affrettò ad alzarsi. «Per caso c'è qualche motivo per cui dovremmo arrestarla, signor Ménard?» «Ovviamente no.» «Bene.» Ryan si chiuse la cerniera del bomber. Io infilai il mio giaccone e mi avviai verso l'ingresso. Quando passai accanto al secrétaire, notai il tagliacarte. Con la coda dell'occhio, vidi Ryan avvicinare la faccia a quella di Ménard. «Per il momento faremo come vuole lei, signore. Ma se per caso ci sta tenendo all'oscuro di qualcosa, può star certo che se ne pentirà.» Questa volta Ménard guardò Ryan negli occhi e per qualche secondo i due rimasero faccia a faccia. Io, intanto, mi voltai dando la schiena a Ryan e Ménard e furtivamente infilai il tagliacarte in borsetta. 27 «Allora, che ne pensi?» mi chiese Ryan lasciando Rue Sébastopol. «Se per caso decidessero di ripristinare l'Inquisizione, tu saresti il primo a essere assunto.» «Lo considero un complimento. Che ne dici di Ménard?» «Quel tipo mi fa venire i brividi. Credi che la totale mancanza di peli sia
una condizione clinica?» Ryan scosse la testa. «Ho visto che ha dei segni sul cuoio capelluto.» «Ma perché un uomo dovrebbe rasarsi e togliersi tutti i peli?» «Un fan di Telly Savalas?» «Li avrà tolti su tutto il corpo?» «Vuol tagliare sulle spese delle shampoo?» «Ryan...» «No. Forse si sta allenando per i prossimi mondiali di nuoto.» Dopo questa battuta, non ottenne risposta. «Non lo so. Un fuori di testa maniaco del look? Pidocchi? Una qualche fobia nei confronti dei peli?» «Ti sei accorto dello strano comportamento di quella donna?» «Sì. In effetti non è venuta a offrirci il tè.» «Sembrava terrorizzata.» Ryan scrollò le spalle. «Forse. O forse la signora detesta ricevere ospiti inattesi.» «Claudel dice che in quella casa non dovrebbe viverci nessun altro. Chi potrebbe essere quella donna?» «Non lo so, ma intendo scoprirlo.» Gli dissi del tagliacarte. «Appropriazione indebita.» «Già» confermai. «Un giudice escluderebbe qualsiasi informazione derivante da quell'oggetto.» «Già. Ma un'impronta digitale potrebbe identificare la donna.» «Potrebbe.» «Insomma, l'ho fatto d'istinto. Il tagliacarte era lì, abbandonato. Ho pensato che la donna forse l'aveva toccato. E diciamo che l'ho preso in prestito.» «Ah.» «Guarda che intendo restituirlo.» «Non ne ho mai dubitato.» Il sole iniziava la sua lenta discesa, e il parabrezza era opaco per gli schizzi salati che arrivavano dalle ruote delle automobili che ci precedevano. Ryan si concentrò sulla guida e nell'abitacolo ancora una volta calò il silenzio. «Potrebbe spiegare i bottoni antichi» dissi, mentre attraversavamo il Lachine Canal e svoltavamo su Rue de la Montagne.
«Potrebbe.» D'un tratto mi venne in mente una cosa. «Il falso» dissi, voltandomi verso Ryan. «Credi che Ménard stesse aiutando i suoi clienti a rimpolpare le loro collezioni con qualche oggettino autoprodotto?» Mi venne in mente un'altra cosa. «O forse Ménard ha ritrovato gli scheletri per caso, e non ha detto niente a nessuno pensando che magari un giorno avrebbe potuto rivendere le ossa a un collezionista. Sono piuttosto sicura che in Canada rivendere parti dello scheletro umano sia illegale.» «Un'altra possibilità.» «Eppure il mio istinto mi dice che c'è di più.» «Se il nostro uomo ha qualcosa da nascondere, lo scoprirò.» «Ménard non era affatto contento di vederci.» «Trasmetteva il calore di una sala d'autopsia. Il che mi ricorda che non so dove devo portarti.» «In Istituto.» Chiamai a casa per sapere quali fossero i programmi di Anne, ma non mi rispose nessuno. Lasciai un messaggio chiedendole di richiamarmi. Venti minuti dopo ero seduta alla scrivania del mio ufficio. Ryan aveva promesso di portare il tagliacarte al laboratorio della Scientifica. Se avessero trovato impronte significative, lui o un tecnico del laboratorio mi avrebbero richiamato. Da quando la conoscevo, Anne aveva sempre sostenuto di detestare la cucina indiana. La richiamai per proporle di cenare a La Maison du Cari, sicura che il loro agnello korma le avrebbe fatto cambiare idea. Di nuovo nessuna risposta. Secondo messaggio per lei. Sulla scrivania trovai due stampate. La più lunga era l'elenco delle ragazze in Québec. La più corta la lista di Charbonneau delle ragazze scomparse nella California centrosettentrionale. Iniziai con la prima. Uno a uno, studiai tutti i nomi, escludendo le ragazze il cui profilo non corrispondeva con quello degli scheletri della pizzeria. Quando arrivai a Manon Violette, iniziavo a sentire le prime avvisaglie di un violento mal di testa. Manon Violette aveva un canino superiore destro ruotato e nessuna otturazione.
Mi sporsi in avanti, agitata da un improvviso senso di ansia. La ragazza nella cassa di Dottor Energy aveva un canino superiore destro ruotato e nessuna otturazione. Senza quasi riuscire a respirare lessi gli altri particolari. Manon Violette era scomparsa nove anni prima, dopo avere lasciato la sua casa di Longueuil per prendere l'autobus verso Centre-Ville. Violette era bianca. Violette aveva quindici anni. L'informazione successiva fu come un pugno in pieno petto. Manon Violette era alta un metro e settanta. Maledizione! Avevo stimato che la statura della ragazza nella cassa di Dottor Energy doveva essere intorno al metro e cinquanta. Possibile che mi fossi sbagliata di tanto? Schizzai in laboratorio e controllai. Niente da fare. La ragazza nella cassa era piccolina. E quella del caso 38427? Avevo calcolato che doveva avere tra i quindici e i diciassette anni e che la sua statura doveva essere tra il metro e sessanta e il metro e sessantotto. Presi il cranio e controllai i denti. Il sogno di ogni dentista. Allineamento perfetto. Nessuna rotazione. Tornai alla lista. Un'ora dopo posai il foglio, in preda alla frustrazione. Detestavo ammetterlo, ma Claudel aveva ragione. Non c'era nessun profilo corrispondente a quello degli scheletri. Se c'era l'altezza, mancava l'età. Se c'erano altezza ed età, la possibile candidata era esclusa a causa della razza o di qualche altra caratteristica. Nessun delle persone scomparse del Québec, e solo una di quelle californiane, aveva subito una frattura di Colles al polso destro. Durante il nostro ultimo incontro, Claudel aveva fatto riferimento alla ragazza californiana. Lessi il suo profilo. Nel 1985 un certo Leonard Alexander Robinson denunciò la scomparsa della ragazza presso l'ufficio dello sceriffo della contea di Tehama. La figlia di Robinson, Angela, una ragazza bianca, di quattordici anni e nove mesi, aveva lasciato la sua casa la notte del 21 ottobre e non era mai più ricomparsa. Gli amici avevano dichiarato che voleva andare a una festa in autostop. Angela Robinson, «Angie», era caduta dall'altalena a otto anni e si era
fratturata il polso destro. Angie era alta un metro e cinquantacinque. Tornai in laboratorio per ricontrollare le mie misurazioni. Angie Robinson era troppo giovane per essere la ragazza nell'involucro di pelle. E troppo bassa. Ero scoraggiata, e il mal di testa stava aumentando a ritmi supersonici. E se Angie non fosse morta subito dopo la denuncia della sua scomparsa? In questo caso sarebbe diventata più grande. E magari anche più alta. Di nuovo, il mio inconscio sembrò voler attirare la mia attenzione. Che cosa? L'orologio diceva cinque e dieci. Decisi di mettere fine alla mia giornata di lavoro. Tornai in ufficio e chiamai Anne. Nessuna risposta. Stavo abbassando la cornetta quando qualcuno bussò alla porta. «Salve, dottoressa.» Charbonneau vestito di sintetico da capo a piedi. E stivali da cowboy. «Salve.» «Stavo per andare via, ma ho pensato di fare un salto da lei per scambiarci le ultime news...» Con quello che rimaneva delle mie funzioni cerebrali cercai di decifrare il linguaggio del tenente. «News»? Charbonneau si tolse di bocca un'enorme gomma da masticare e mi chiese con un cenno della testa dove fosse il cestino della carta. Gli porsi un post-it. Charbonneau avvolse la gomma e la lanciò nel cestino. «Ryan mi ha detto della vostra visita a sorpresa nella tana di Ménard. Pare che il tipo sia un articolo molto interessante.» «Già.» Mi massaggiai delicatamente le tempie con la base delle dita. «Mal di testa?» Annuii. «Provi a mangiare qualcosa di molto piccante. Con me funziona.» «Grazie. Proverò.» «Per quanto mi riguarda, non ho grandi novità da dirle. Ménard non ha nessun precedente in California. Però ho una precisazione sulla sua carriera accademica. Il nostro uomo non è stato sbattuto fuori, perché si è rego-
larmente iscritto al secondo anno, a Chico.» «E poi?» «Non si è fatto vedere.» Smisi di massaggiarmi. «Ménard ha pagato l'iscrizione, si è iscritto ai corsi e poi non si è mai presentato?» «Proprio così.» «Perché?» Charbonneau scrollò le spalle. «Non si sa. Il nostro uomo non si è più fatto vivo.» «Ha chiuso eventuali conti in banca? Ha abitato nella casa dove stava fino alla scadenza del contratto d'affitto?» «Su questo, ci sto ancora lavorando.» «E dov'è stato prima di arrivare nel Vermont in gennaio?» Charbonneau sorrise. «Sto lavorando anche su questo.» Quando arrivai a casa, il mio appartamento era immerso nel buio. Birdie stava dormendo sul divano. Quando accesi la luce, sollevò il muso e strizzò gli occhi. «Anne?» chiamai a voce alta. Nessuna risposta. Birdie si stiracchiò, saltò sul pavimento e si mise a pancia in su. «Anne?» chiamai ancora, mentre accarezzavo la pancia del mio gatto. Silenzio. «Dov'è andata, Birdie?» Il gatto rotolò sul dorso, si alzò, allungò le zampe posteriori e trotterellò in cucina. Dopo qualche secondo sentii rumore di croccantini. «Annie?» La porta della sua stanza era ancora chiusa. Bussai ed entrai. E il cuore mi salì in gola. La roba di Anne non c'era più. Sulla scrivania c'era un biglietto. Lo fissai per qualche secondo. Poi aprii il foglio. Carissima Tempe, non ho parole per dirti quanto ho apprezzato la tua pazienza e le tue premure. Non mi riferisco solo a questa settimana, ma a tutti gli anni della nostra meravigliosa, felice, preziosa amicizia. Sei sempre stata il mio sostegno, il vento delle mie ali. (Ricordi il «nostro» film?) Noi due siamo simili in tante cose. Per esempio, nemmeno sono brava a
parlare dei miei sentimenti. E non sono nemmeno brava a pensare ai miei sentimenti. Tu eri perfetta per me. Ma ora è tempo di prendere in mano la situazione. Anche se non sono mai riuscita a dirtelo, sappi che ti voglio un bene infinito. Ti prego, non essere arrabbiata con me perché ho deciso di fare in questo modo. Anne Mi sentii assalire da una girandola di emozioni. Amore. Conoscevo la mia amica e capivo com'era stato difficile per lei scrivere quelle parole. Colpa. Sprofondata nei miei problemi, non mi ero occupata a sufficienza di Anne. Come avevo potuto essere così egoista? Rabbia. Aveva fatto i bagagli e se n'era andata senza dirmi niente. Perché era stata così insensibile? E poi arrivò la paura. Era tornata a casa? Quale situazione doveva prendere in mano? Aveva deciso di fare in quale modo? Mi venne in mente il libro che Anne stava leggendo la sera prima, e la nostra conversazione durante la cena. Però non mi aveva detto di volere andar via. Che cosa aveva detto? Qualcosa sui cicli e sul cambiare nella sostanza. E poi l'avevo interrotta. Gesù santo! Per caso non stava parlando di morte? Impossibile. Depressa o no, Anne non era tipo da suicidio. Ma potevo veramente escluderlo? Un ricordo mi attraversò la mente. Un'altra amica che avevo ospitato in quella stanza, era andata via e l'avevamo ritrovata morta. Possibile che Anne si fosse imbarcata in qualche impresa ad alto rischio? La chiamai al cellulare. Nessuna risposta. Chiamai Tom. «Pronto?» «Anne è lì?» «Tempe?» «Anne è rientrata a casa?» «Veramente, pensavo fosse da te.» «È andata via.» Lessi a Tom il suo biglietto. «A che cosa si riferisce?» «Non sono sicura.»
«So che era piuttosto arrabbiata con me.» «Sì.» «Non credi che stia facendo una pazzia, vero?» La stessa domanda si era affacciata anche alla mia mente. «Ha chiamato?» «No.» «Chiama tutte le linee aeree. Controlla se ha prenotato un volo per Charlotte.» «Non credo proprio che me lo dicano.» «Caspita, Tom. Inventati qualcosa.» Stavo quasi piangendo. «Racconta una palla! Fatti venire in mente qualcosa.» «Va bene. D'accordo.» «E chiamami appena hai qualche novità.» «Anche tu.» Mentre avevo ancora la cornetta in mano, colsi un'immagine di me stessa riflessa nello specchio appena sostituito della sala da pranzo. Il corpo teso, la faccia un ovale bianco spaventato. Come Anne in corridoio, la sera del furto in casa mia. Santo cielo! Speriamo che stia bene. Che fare? Telefonare alle compagnie aeree? No, ci pensava Tom. Agli autonoleggi? Ai taxi? Alla polizia? Stavo esagerando? Forse Anne voleva semplicemente stare un po' per conto suo. Forse dovevo solo stare tranquilla e aspettare. Ma Anne aveva lasciato un biglietto. Aveva in mente di fare qualcosa. Ma che cosa? Il telefono mi squillò tra le mani e io sobbalzai per la tensione. «Anne?» «Sono io.» Ryan doveva aver colto la tensione nella mia voce. «Che succede?» Gli raccontai dell'improvvisa partenza di Anne. «Nel biglietto dice che tornava a casa?» «No.» «Ha chiamato qualcuno?» «Il mio telefono non registra le telefonate in uscita.» «E nemmeno quelle in entrate. E non dice da chi arrivano le chiamate. Dovresti aggiornarti un po', Tempe.» «Grazie per la consulenza tecnica.» «Farò qualche indagine.»
«Grazie. Ryan?» «Sì?» «Anne era molto giù.» «Ha preso le sue cose. Questo è un buon segno.» «Sì.» Non ci avevo pensato. Pausa. «Vuoi che venga lì da te.» Sì. «No, grazie. Non ti preoccupare. A proposito, perché hai chiamato?» «Perché la Scientifica è riuscita a prendere le impronte digitali dal tagliacarte. Di due persone.» «Ménard e la donna.» «Indovinato solo a metà.» «In che senso?» «Nel senso che il tizio non è Ménard.» 28 Le impronte sono state lasciate da due persone diverse. E nessuna delle due è Ménard.» «Sei sicuro?» «Ho mandato tutti i risultati nel Vermont. I tecnici del loro laboratorio hanno confrontato le latenti lasciate sul tagliacarte con quelle rilevate quando Ménard era stato fermato per guida in stato di ebrezza.» «Ma Ménard l'ho visto io con il tagliacarte in mano.» Non riuscivo a credere a ciò che Ryan mi stava dicendo. «No. Tu hai visto il tizio della casa con il tagliacarte in mano. Ma quel tizio non è Ménard.» «Le altre impronte corrispondono a qualcuno di noto?» «No. Le stiamo confrontando con quelle del nostro database. Ma pensiamo di mandarle anche negli Stati Uniti, per farle inserire nell'AFIS.» L'AFIS, o Automated Fingerprints Information System, è una sorta di database delle impronte digitali. «Ma se questo tizio non è Ménard, chi è?» «Domanda eccezionalmente acuta, dottoressa Brennan.» No, questa cosa non aveva senso. «Forse c'è stato un errore con le impronte digitali.» «Succede.»
«Charbonneau ha una foto dell'annuario del college di Ménard. Portiamolo da Cyr e vediamo cosa dice.» «Male non può fare» concordò Ryan. Aspettai, quasi sperando che Ryan rinnovasse la sua offerta di venire da me. Ma non lo fece. «Mi farò dare quella fot...» ma poi Ryan si interruppe. Sentii una voce che poteva essere femminile in sottofondo, e poi il suono attutito di una cornetta telefonica coperta con la mano. «Scusa.» Adesso la voce di Ryan era quasi un sussurro. «Mi faccio dare la foto da Charbonneau e ti passo a prendere alle otto.» Riuscii a resistere per tutta una cena solitaria a base di pasta e di formaggio. Per tutto un lungo bagno caldo. Per tutto il telegiornale delle undici. Ma poi, a letto, nel buio della mia stanza, una raffica di immagini mi bombardò la mente. Uno scantinato sudicio. Delle ossa in una cassa. Delle ossa sepolte sotto il pavimento di terra battuta. Una donna nel suo letto, i capelli grigi e scompigliati sulla faccia. Un materasso macchiato. Un corpo esanime sul tavolo di acciaio inossidabile. Specchi in frantumi. Una scheggia conficcata in un quadro. Anne con il suo bagaglio. Anne che mi guarda da sopra gli occhiali floreali. Sentii un urlo nascermi nello stomaco, e poi rivoli caldi colarmi sul viso. L'ultima volta che mi ero sentita così disperata, ero con Ryan. Ripensai a come lui mi aveva stretto fra le braccia, e mi aveva accarezzato la testa. Ripensai al suo cuore che batteva. A come mi aveva fatto sentire forte, bella, a come avevo creduto che tutto sarebbe andato bene. Sentii il petto sollevarsi e un singhiozzo mi salì in gola. Feci un lungo respiro, raccolsi le ginocchia sul petto e mi lasciai andare. Un bel pianto è di gran lunga più terapeutico di un'ora con lo strizzacervelli. Mi svegliai libera da ogni frustrazione e da ogni dolore. Vivificata. Con la situazione sotto controllo. Finché, dodici ore dopo, non mi abbandonai a una crisi di nervi. Tom chiamò alle sette per sapere se avevo notizie di Anne. Ma non ne avevo.
Era riuscito a scoprire che la moglie quella settimana non aveva prenotato nessun volo da Montréal per Charlotte. Io gli dissi che avevo parlato con un tenente della SQ. Tom suggerì che probabilmente Anne voleva stare un po' per conto suo per riflettere, e presto avrebbe fatto avere sue notizie. Dissi che forse aveva ragione. Avevamo tutti e due bisogno di crederlo. Quando abbassai la cornetta, ancora una volta i miei occhi si posarono sullo specchio del corridoio. Erano passati nove giorni da quando qualcuno era entrato in casa mia, e la polizia non aveva trovato niente. D'un tratto mi venne in mente una cosa. Il tizio del sedile 3C. Gesù santo! Vuoi vedere che era scappata da qualche parte con quello sconosciuto incontrato in aereo? E chissà se quell'uomo era anche la stessa persona che aveva devastato casa mia. Un altro ricordo. La pattuglia di sorveglianza messa da Ryan davanti a casa mia. C'era ancora? Forse gli agenti di pattuglia avevano visto Anne andare via. Improbabile, ma valeva la pena tentare. Mi avvolsi nel giaccone e uscii. Era un'altra giornata di cielo terso. La radio aveva previsto un breve innalzamento della temperatura. Ma di sicuro, alle sette e cinquantacinque, ancora non si sentiva. Nel giro di una decina di minuti, davanti al mio isolato passò una volante. Uscii sul marciapiede e agitai la mano per farli fermare. Sì, passavano ancora molto di frequente. Sì, la sua squadra aveva lavorato per tutta la settimana. No, non avevano visto una donna alta e bionda uscire in strada con molti bagagli. Mi promisero di chiedere ai colleghi dell'altro turno. Rientrai nell'atrio, dove la temperatura consentiva almeno al sangue di circolare. Ryan arrivò alle otto e dieci. Salii in auto. Sentii subito odore di fumo. «Bonjour.» «Bonjour.» Ryan mi passò il fax della foto dell'annuario scolastico di Ménard. L'immagine era piccola e scura, e nella trasmissione via fax aveva perso tutto il colore e un po' di contrasto. Ma la faccia era ragionevolmente riconoscibile.
«Sembrerebbe Ménard» osservai. «E un migliaio di altri tizi con capelli rossi, occhiali e lentiggini.» In effetti... «La tua amica si è fatta sentire?» «No.» Spostai i piedi. Abbassai la cerniera del giaccone. Non sapevo cosa fare con gli occhi. O con le gambe. O con le braccia. Mi sentivo goffa e a disagio vicino a Ryan. Non ero sicura di poter reggere una conversazione con lui. «Brutta nottata?» mi domandò. «Come mai questo improvviso interesse per le modalità del mio riposo?» «Perché hai l'aria stanca.» Guardai Ryan. Le ombre scure sotto i suoi occhi sembravano più profonde del solito, il viso più tirato. Che caspita ti sta succedendo, avrei voluto domandargli. «Diciamo che ho in ballo un bel po' di cose.» Ryan mi appoggiò il dito sulla punta del naso. «Non è così per tutti?» Venti minuti dopo arrivammo a casa di Cyr. Ryan l'aveva avvertito con una telefonata, e Cyr aveva aperto al primo trillo di campanello. Questa volta era completamente vestito. In soggiorno, Cyr si sedette sulla stessa poltrona reclinabile che aveva occupato durante la mia visita con Anne. Presentai Ryan e lasciai che fosse lui a parlare. «Monsieur Cyr, nous avons...» «Parli pure inglese, per la graziosa signora.» Cyr mi sorrise. «Dov'è oggi la sua bella amica?» «Anne è andata a casa.» Cyr inclinò la testa. «È una vera bomba, quella ragazza.» «Ci vorrà solo un momento.» Ryan prese il fax di tasca e lo porse a Cyr. «Questa persona è Stephen Ménard?» «Chi?» «Stéphane Ménard. L'uomo che gestiva il banco dei pegni nel suo edificio.» Cyr guardò il fax. «Tabernouche! Forse sembro ancora un giovanotto, ma ho pur sempre ottantadue anni!» Cyr si alzò dalla poltrona, si avvicinò al televisore e lo accese. Poi prese
una specie di grossa lente di ingrandimento collegata con un cavo al retro del televisore. Quindi premette un pulsante e osservò il fax. Di colpo la faccia di Ménard comparve sullo schermo. «Fantastico» esclamai. «È il Videolupe. Un aggeggio davvero carino. Ingrandisce proiettando sullo schermo del televisore. Così posso leggere tutto quello che voglio.» Cyr spostò la lente su tutta la foto, e poi si concentrò sull'orecchio di Ménard. L'immagine si ingrandì finché il margine superiore dell'elice occupava quasi tutto lo schermo. «No.» Cyr raddrizzò la schiena. «Non è il vostro uomo.» «E come può dirlo?» La sua sicurezza mi aveva sorpresa. Cyr posò la lente, tornò alla poltrona e mi fece un segno con il dito. Mi alzai. «Vede questo?» Cyr si toccò un'escrescenza di cartilagine sul bordo esterno dell'orecchio. «Un tubercolo di Darwin» dissi. Cyr mi guardò stupito. «In gamba, la signora.» Ryan ci osservava con aria perplessa. «Non ho mai conosciuto nessuno con un bozzo come il mio, così una volta l'ho fatto vedere al dottore. E lui mi ha detto che era un tratto recessivo e mi ha dato da leggere qualche articolo.» Cyr si toccò di nuovo l'orecchio. «Lo sa perché si chiamano così, questi stronzetti?» «Perché una volta si pensava che fossero un residuo dell'orecchio a punta dei quadrupedi.» Cyr fece un saltello, deliziato dalla mia risposta. «Che cosa c'entra tutto questo con Ménard?» intervenne Ryan. «Ménard ha i più grossi tubercoli che io abbia mai visto. Lo prendevo addirittura in giro per questo. Gli dicevo che un giorno l'avrei visto brucare foglie su qualche albero, o mangiare piccole creature pelose nello scantinato. Ma lui non lo trovava affatto divertente.» Ryan si alzò. «E l'uomo della fotografia?» Cyr restituì il fax. «Niente protuberanze.» Sulla porta, Ryan si fermò. «Un'ultima domanda, signor Cyr. Lei e il signor Ménard siete rimasti in buoni rapporti?» «Proprio per niente. L'ho sbattuto fuori.» «Perché?» «Perché mi ero stufato di tutte le lamentele che arrivano dagli altri inqui-
lini.» «Lamentele per che cosa?» «Per lo più, clientela sgradevole. E poi perché faceva rumore di notte.» «Che genere di rumore?» «E che ne so. Fatto sta che continuavo ad avere queste lamentele e mi sono stufato.» Ryan mi accompagnò fino a casa, poi si scusò ma disse che per quel fine settimana sarebbe stato di turno in centrale. Mi promise di telefonare se avesse avuto novità su Ménard o sulle altre impronte digitali. O per qualsiasi cosa riguardo Anne. Non gli domandai se i suoi impegni di lavoro includevano anche il sabato sera. Fottiti. Chi se ne frega? La mia segreteria telefonica non aveva messaggi. Katy voleva che fossi a Charlotte per il ventuno, perciò cercai di tenermi occupata sbrigando una serie di faccende che dovevo fare prima di partire. Cambio delle lenzuola. Piante. Impacchettare i regali per il custode e i tecnici dell'Istituto. E per Ryan? Quello lo misi da parte. Cercai anche di tenermi occupata con una serie di compiti che dovevano essere fatti comunque. Bucato. Lettiera del gatto. Posta. Cercai una stazione radio con un po' di musica natalizia, sperando che Jingle Bells e simili riuscissero a regalarmi un po' di umore natalizio. Niente da fare. Non riuscivo a pensare ad altro che alle ossa che mi aspettavano in laboratorio, alle stampate sulla scrivania e a dove diavolo fosse finita Anne. Alle tre, mi arresi e uscii per andare al Wilfrid-Derome. Era un tipico sabato pomeriggio. I piani dell'Istituto erano deserti e immobili come una tomba. Un modulo di Demande d'Expertise aspettava sul ripiano della mia scrivania. Quattro mesi prima, un tecnico di ascensore era scomparso durante un sopralluogo in un palazzo di Côte Saint-Luc. Quel giovedì il suo cadavere decomposto era stato ritrovato nel Parc Angrignon di LaSalle. Le radiografie avevano rivelato la presenza di fratture multiple. Pelletier voleva che analizzassi i vari traumi, una volta che le ossa erano state ripulite.
Misi da parte il modulo, e presi la lista di Claudel. Sopra di me, il tubo al neon ronzava. Fuori, le raffiche di vento colpivano le intelaiature delle finestre. Di tanto in tanto qualche particella ghiacciata ticchettava sui vetri. Simone Badeau. Troppo vecchia. Isabelle Lemieux. Otturazioni. Marie-Lucilie d'Aquin. Nera. Micheline Thibault. Troppo giovane. Tawny McGee. Decisamente troppo giovane. Céline Dallaire. Frattura alla clavicola a quattordici anni. La lista proseguiva. Dopo un'ora passai all'elenco di Charbonneau. Jennifer Kay. Esther Anne Pigeon. Elaine Masse. Amy Fish. Theresa Perez. Di tanto in tanto tornavo in laboratorio per controllare un osso, sperando di trovare qualche particolare che mi era sfuggito. E ogni volto rimanevo delusa. Quando esaurii i nominativi, riesaminai l'elenco partendo dall'età. Poi dall'altezza. Infine dalla data della scomparsa. Sapevo che mi stavo arrampicando sui vetri. Ma ero in preda a una sorta di ossessione. Non riuscivo a smettere. In fondo al corridoio, sentii il rumore delle porte dell'uscita di sicurezza. Luogo della scomparsa. Terrebonne. Anjou. Gatineau. Beaconsfield. Butte County. Tehama County. San Mateo County. Alle sei mi interruppi, scoraggiata. Due ore e mezzo, e non avevo concluso niente. Dal corridoio vuoto arrivò un rumore di passi. Probabilmente era LaManche. A parte me, il mio capo era l'unico che poteva trovarsi in Istituto un sabato pomeriggio. Congratulazioni, Brennan. Hai la stessa vita sociale di un uomo di sessant'anni con sette nipoti. Tornai agli elenchi. Continuavo ad avere la netta sensazione che qualche nesso mi sfuggisse. Ma quale? I segni dei tagli? Sui tre crani avevo rilevato i segni evidenti di uno strumento affilato. Sui resti della ragazza nell'involucro di cuoio, i tagli sembravano essere stati
praticati postmortem. Negli altri due, antemortem, sull'osso fresco. In tutti e tre, i segni si limitavano alla regione auricolare. Successione dei decessi? La datazione al carbonio 14 indicava che la ragazza nell'involucro di cuoio era morta negli anni Ottanta, le altre due negli anni Novanta. Luogo di origine? Dall'analisi dell'isotopo di stronzio risultava che la ragazza nel cuoio poteva essere nata o vissuta durante l'infanzia nella California centrosettentrionale, per poi spostarsi in Québec o Vermont. Mentre le altre due potevano aver vissuto l'intera vita in Québec. Forse. E forse io stavo attribuendo troppo valore all'analisi dello stronzio. Forse la pista californiana era un vicolo cieco. Un altro rumore di porte, poi il suono di alcune voci. Però Ménard aveva frequentato un master all'università di Chico. E Chico si trovava nella California centrosettentrionale. Ménard aveva in affitto i locali in cui erano stati ritrovati i resti delle ragazze. E il periodo in cui li aveva affittati coincideva con la presunta data di morte di almeno due delle ragazze. Louise Parent lo aveva visto con due ragazze giovani in due occasioni diverse. E una delle ragazze scappava. L'altra sembrava svenuta. La pista che portava in California era una mera coincidenza? Nei meandri del mio cervello un pensiero vago si formò, poi scomparve. Che cos'era? Ma per quanto mi sforzassi, non riuscii a portare quel pensiero alla soglia cosciente. Tornai a Ménard. Quell'uomo era entrato in possesso della casa dei nonni a Montréal nel 1988. Ma il tizio che adesso viveva in quella casa non era Ménard, anche se si spacciava per lui. Gettai la penna sul ripiano della scrivania. «Allora chi diavolo è, quell'uomo?» «Non lo so.» La voce mi fece sussultare. Alzai lo sguardo e vidi Ryan sulla soglia della porta. «Però abbiamo qualcosa sulla sua ragazza.» 29
«Anique Pomerleau.» Con un cenno del dito gli chiesi di mostrarmi il foglio. «Denuncia della scomparsa nel 1990.» «Età?» «Quindici anni.» Corrispondeva. La donna a casa di Ménard sembrava avere tra i venticinque e i trent'anni. «Nata dove?» «Mascouche.» «Cosa è successo?» «La ragazzina aveva raccontato ai genitori che avrebbe passato il fine settimana con un'amica. In realtà le due ragazze avevano inventato una scusa per permettere ad Anique di uscire con il suo nuovo amichetto. Quando la domenica non è rientrata, i genitori hanno iniziato a cercarla. Il lunedì hanno denunciato la scomparsa. A quel punto Anique mancava da casa da almeno sessanta ore.» «Non è mai arrivata a casa del fidanzato?» «Sì. I due si sono fatti vedere in un paio di bar il venerdì sera. Hanno litigato. La ragazza se n'è andata infuriata. Ma il nostro latin lover è stato fortunato, perché ha passato il fine settimana con la fidanzatina numero due.» «I poliziotti hanno creduto a questa versione?» «È stata confermata dal gestore del bar e dalla fidanzatina numero due. Anique Pomerleau era una ragazzina difficile, che aveva tentato di fuggire di casa parecchie volte. I genitori hanno insistito nel dire che era stata rapita, ma la polizia ha ritenuto che fosse semplicemente scappata.» «Hanno indagato?» «Finché le piste non sono diventate vaghe.» «È tutto?» «Non proprio. Tre anni dopo, i Pomerleau hanno ricevuto una chiamata dalla piccola Anique. La ragazza diceva che stava bene, ma che non avrebbe rivelato dove si trovava.» «Dev'essere stato uno shock, per i genitori.» «Un paio di anni fa, il telefono squilla ancora. Stessa storia. Anique dice che sta bene, ma non una parola sul luogo in cui vive. L'ultima chiamata arriva nel '97, e nel frattempo il padre è morto.» «Le impronte di Anique Pomerleau erano in archivio qui in Québec?»
Ryan annuì. «La ragazza ha diversi precedenti per reati minori. Vandalismo. Furto. Un incidente con un'auto rubata.» Sentii l'agitazione affiorare in superficie. Ecco un altro aspetto della vicenda che non quadrava. «Ma che diavolo ci fa Anique Pomerleau con Stephen Ménard?» «Non è Ménard.» «Ryan, non darmi lezioni.» Raccolsi la penna dalla scrivania, e la scagliai di nuovo sul ripiano. «Allora chiamiamolo Mister X. Monsieur X. Come mai la ragazza è finita con quel tipo?» Puntai la penna verso Ryan. «E perché non riusciamo a capire chi è il tipo? E dove invece si trova il vero Stephen Ménard? E quando c'è stato questo cambio di identità?» «Ti va di venire a cena con me?» «Cosa?» «A cena.» «Perché?» «Perché vorrei parlarti.» «Ma certo. Tu e Claudel potete parlare con me quando e dove volete, vero? A proposito, dove diavolo è finito, Claudel?» Ryan fece per parlare, ma lo interruppi. «Sono stufa marcia di Claudel e del suo atteggiamento se-ti-va-è-cosìaltrimenti-fottiti. Charbonneau è l'unico che mi tratta con un po' di rispetto.» «Claudel ha il suo modo di fare.» «Anche gli echinodermi hanno il loro modo di fare.» «Sei molto dura nel giudicare Claudel. Che cosa sono gli echinodermi?» A quel punto non riuscii più a trattenermi. «Ah, è così? Secondo te sarei molto dura nel giudicarlo? Ma se fin dal primo giorno ho dovuto lottare per farmi prendere sul serio da quel damerino narcisista. Per farmi prendere sul serio da chiunque.» Mi venne l'impulso di spezzare la penna. «Le ossa sono troppo vecchie. La datazione al carbonio è costosa. Le ragazze erano solo puttane. Louise Parent è morta nel sonno. Le vecchie signore fanno così. Si sa che succede.» «Io parlavo del cuscino sbavato.» «Attento, Ryan.» Puntai la penna verso di lui. «Sappi che questo tuo atteggiamento simpatico e disinvolto non aiuta.» «Tempe, ascolta...» Ryan fece per accarezzarmi. Io mi ritrassi.
«Ma certo. Dimenticavo. Tu mi ami. Ma tu ami anche un sacco di altre cose. Il formaggio di capra. La Guinness. I parrocchetti.» La bocca di Ryan si aprì per dire qualcosa. Ma io ancora una volta lo interruppi. «Giusto. Tu mi ami. Solo che non trovi un attimo di tempo per stare con me.» Sentivo che tutta la frustrazione accumulata in quei giorni era sul punto di tracimare come un fiume in piena. «E adesso, improvvisamente, sei libero per cena! Di sabato sera! Ma sono proprio una donna fortunata!» Le parole continuarono a dilagare come acqua attraverso una saracinesca. «Ma non dovevi essere in servizio? E con la tua "nipotina"» e misi la parole fra virgolette con le dita a uncino «come la mettiamo?» Scagliai la penna contro il ripiano della scrivania, e l'oggetto rimbalzando schizzò verso Ryan. Lui d'istinto lo evitò deviandolo con la mano. Scattai in piedi. «Dio santo, scusami Ryan. Non intendevo affatto colpirti.» Poi mi lasciai ricadere sulla sedia e mi presi la testa fra le mani. Le mie guance erano calde e bagnate. «Cristo. Ma che cosa mi succede?» Sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Mi asciugai le guance, mi spostai i capelli dietro le orecchie e alzai la testa. Ryan mi stava guardando, i proverbiali occhi azzurri colmi di preoccupazione. O di commiserazione? O di che cosa? «Scusami» dissi. «Non so perché mi sono lasciata andare così.» «Siamo tutti sotto pressione.» «Ma nessuno si trasforma in una furia come me.» Mi accorsi della presenza di LaManche prima ancora di vederlo. Un leggero movimento alla periferia del mio campo visivo. L'odore del tabacco da pipa e di dopobarba da supermercato. Il mio capo si schiarì la gola. Ryan e io ci voltammo. LaManche era sulla soglia. «Pensavo che vi avrebbe fatto piacere sapere che il coroner ha ufficialmente aperto un'inchiesta sulla morte di Lonise Parent per sospetto omici-
dio.» «È stata soffocata?» domandai. «Credo di sì.» «Avete già i risultati degli esami tossicologici?» domandò Ryan. «Tracce di sonniferi sono state trovate nelle urine e nel sangue. I livelli corrispondevano all'ingestione di dieci milligrammi alcune ore prima della morte.» «E che cosa mi dice dei tempi?» domandò Ryan. «Avete stabilito se Louise Parent ha mangiato quella minestra per cena o per pranzo?» «Dai tabulati telefonici risultano alcune chiamate partite dalla casa di Rose Fisher; e precisamente alle quindici e cinquantacinque, alle sedici e quindici e alle cinque e diciannove di quel venerdì. La prima era diretta al prete della donna, la seconda a una farmacia a due isolati da casa. La terza a un cellulare. Su quello stiamo ancora lavorando.» Guardai Ryan. Nessuno mi aveva parlato di questo. «Quindi il pasto di Louise Parent era la cena.» «La minestra dovrebbe aver lasciato lo stomaco nel giro di tre ore. Il sonnifero dopo due» disse LaManche. «Il sonnifero dovrebbe essere stato sciolto nella camomilla.» «Secondo la nipote, Louise Parent in genere cenava verso le sette. Supponendo che abbia fatto altrettanto anche venerdì, dovremmo arrivare alle dieci di sera» calcolò Ryan. «E supponendo che abbia preso il sonnifero prima di andare a letto, arriviamo alle undici o mezzanotte. Quindi la donna dovrebbe essere morta intorno alle prime ore di sabato.» «Orario coerente con lo stato di decomposizione» osservò LaManche. «La mia offerta è sempre valida» disse Ryan, appena LaManche ebbe lasciato l'ufficio. «Quando hai saputo delle telefonate?» domandai. «Oggi. È una delle cose di cui ti volevo parlare. Andiamo da Hurley's?» Guardai Ryan a lungo, molto a lungo, poi sulle mie labbra si aprì un sorriso. «A una condizione.» Ryan allargò le braccia. «Il conto è mio.» «Urrà!» commentò Ryan. Il pub Hurley's si trova in Rue Crescent, appena sotto Rue SainteCatherine. Mentre guidavo per raggiungere il luogo del mio appuntamento, cercai di valutare il da farsi: parcheggiare sotto casa e rischiare di morire
assiderata mentre andavo da Hurley's a piedi, oppure morire di morte naturale mentre cercavo parcheggio vicino al pub? Optai per l'assideramento. Ma mentre percorrevo quasi di corsa Rue Sainte-Catherine, la saggezza della mia scelta mi sollevò forti dubbi. Ryan era seduto in un angolino nascosto, quando arrivai. Sul suo tavolo una pinta di birra consumata a metà. Ordinai stufato di agnello con una Perrier. Lui prese pollo alla Saint-Ambroise. Mentre aspettavamo i nostri piatti, Ryan e io ci studiammo con circospezione. Cercammo anche di fare qualche battuta. Ma quasi tutte caddero nel vuoto. Intorno a noi, turbinava la solita folla del sabato sera. Alcune persone sembravano felici. Altre disperate. Altre non sembravano niente. Chissà quali e quanti problemi si nascondevano dietro quelle facce, pensai. Accanto a noi, una coppia sedeva più appiccicata di un calzino appena uscito dalla lavatrice. Lui portava un paio di corna di cervo di feltro rosso. Lei un maglione natalizio. Mentre li guardavo, corna di feltro stuzzicò il collo di maglione natalizio. Lei rise. Sembravano così felici. Così a loro agio l'uno con l'altra. Gli occhi di maglione natalizio incontrarono i miei. Distolsi subito lo sguardo, e lo portai su un cartello sopra la testa di Ryan. BIENVENU. WELCOME. FÁILTE. Qualcuno aveva appeso una ghirlanda di pino sul bordo superiore. Una ragazza passò davanti al nostro tavolo, muovendosi con l'esagerata attenzione cui si ricorre per mascherare l'effetto dell'alcol. Aveva la pelle molto chiara e una lunga treccia nera. Mi venne in mente Anique Pomerleau. Dov'era stata per quasi quindici anni? E perché adesso era con l'uomo che utilizzava l'identità di Ménard? La cameriera ci portò le ordinazioni. Ryan prese un'altra birra. Io un'altra Perrier. Mentre mangiavamo, la conversazione scivolò sul lavoro. Territorio neutro. «Claudel è andato in Vermont.» Sollevai le sopracciglia. «Per cercare il vero Ménard?» Ryan annuì. «E l'idea di chi è stata?» «Claudel è un bravo poliziotto.» «Ed è convinto che io sia un'idiota.»
«Io non starei con un'idiota.» Ma tu non stai neanche con me, pensai. Ma non lo dissi. «Tu pensi che questo falso Ménard abbia ucciso Louise Parent?» domandai. «È una possibilità.» «Direi una buona possibilità, no? Louise Parent mi ha chiamata per parlarmi di Ménard. E qualche giorno dopo qualcuno la fa fuori con un cuscino.» Ryan non commentò. «Ma questo falso Ménard come avrà scoperto che Louise Parent mi aveva cercata?» «E noi come facciamo a saperlo?» Non trovai risposta. «Hai parlato con il vicino della SUV?» «È pulito.» «Continuo a pensare all'ultima notte di Louise Parent. Ai suoi ultimi pensieri. Alle ultime sensazioni. Secondo te, si è resa conto?» «Non ci sono segni di colluttazione. Era stordita dal sonnifero.» «Uno psicopatico dal sangue freddo ha trovato il modo di infilarsi in casa nel cuore della notte e ha soffocato Louise Parent con il cuscino della sorella. Secondo te, è possibile che abbia sentito la pressione sulla faccia? Annusato l'ammorbidente nel tessuto? Sentito il sapore delle piume? Provato una qualche forma di paura?» «Ti prego, Tempe. Non farti del male in questo modo.» «Non riesco a smettere di pensare alle sue ultime sensazioni.» Per impedirmi di pensare alle tre ragazze sepolte nello scantinato. Ma non dissi nemmeno questo. «C'è ancora qualcosa di cui non ti ho parlato.» Aspettai che Ryan proseguisse. «Louise Parent ha lasciato un immobile che vale quasi mezzo milione di dollari. Ed era assicurata per altri duecentocinquanta milioni.» «Il beneficiario?» «La sorella, Rose Fisher.» Ryan mi riaccompagnò a casa verso le nove e mezzo. Non mi chiese di entrare. Io non lo invitai. La segreteria telefonica era spenta e immobile. Dove diavolo era finita Anne?
Doccia. Denti. Faccia. A letto. Birdie saltò sulle coperte e si accoccolò accanto a me. Cercai di leggere. Troppo agitata. Chiusi il libro e spensi la luce. Logoramento subliminale. Mi girai dal fianco destro a quello sinistro. Di nuovo su quello destro. Birdie scivolò nell'angolo del letto. Non avevo mai desiderato bere come in quel momento. Che cosa poteva farmi un piccolo chardonnay? Brennan, sei un'ex alcolista. E gli alcolisti non possono bere. Niente. Colpii il cuscino. Mi voltai sulla schiena. Rinunciai all'idea di dormire, e accesi il televisore con il telecomando. Trovai solo un'inutile sitcom. Che cosa mi stava sfuggendo? Anique Pomerleau era scomparsa da Mascouche nel 1990. Aveva quindici anni. Ma era viva e adesso viveva a Montréal. Due delle ragazze della pizzeria avevano più o meno quindici anni. Quella nell'involucro di cuoio era più grande. Angie Robinson era scomparsa nel 1988. Aveva quasi quindici anni. Diversamente da Anique Pomerleau, non era più ricomparsa. Gli attori divennero sagome di uno spettacolo di ombre cinesi. I dialoghi e le risate registrate scivolarono in sottofondo. Angie Robinson si era fratturata un polso. La ragazza dell'involucro di cuoio si era fratturata il polso. Ma l'età con corrispondeva. E nemmeno l'altezza. Che cosa continuava a sfuggirmi? Angie Robinson era scomparsa nella California centrosettentrionale. Non ricordavo il nome della località. Conners? Corners? Cornero? C'entrava Butte County? No. Quella era la contea di Chico. Ménard aveva trascorso almeno un anno a Chico. Ma quale Ménard? Quello vero? Il padre di Angie Robinson aveva denunciato la scomparsa della figlia presso l'ufficio della sceriffo della contea di Tehama. Gettai via le coperte, mi alzai, e una volta acceso il computer mi collegai a Yahoo e richiesi una cartina della California centrosettentrionale. La contea di Tehama si trovava a nord-ovest della contea di Butte. Trovai Chico, e quasi perfettamente sopra, il paesino di Corning.
Ingrandii quella porzione di cartina. Comparve un reticolo di strade secondarie, e molte cittadine. Hamilton City. Willows. Orland. Cliccai su una freccia e mi spostai a nord. Red Bluff. Il pensiero che giaceva nel mio inconscio arrivò a fuoco, poi scomparve di nuovo. Red Bluff. Che cosa? Pensa, Brennan. Pensa. Il più infinitesimo degli atomi di un'idea si affacciò alla mente. Il nome di Red Bluff era salito agli onori della cronaca. Ma quando? Dieci anni prima? Venti? E perché? Pensa! Mi alzai e spensi il televisore. Poi gettai via il telecomando e presi a passeggiare su e giù per la stanza, sforzandomi con tutta me stessa di scendere nei recessi del mio inconscio. L'appartamento era immerso nel silenzio. Non il piacevole silenzio dei momenti in cui ci si gode la propria solitudine. Un silenzio opprimente. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Red Bluff. Red Bluff. Infine, una pista che sembrava neutra, si spalancò davanti a me. Mi fermai. Dio santo! Era proprio quello? Volai al computer. Chi era la vittima? Utilizzai un motore di ricerca, e dopo una serie di labirintici link e connessioni, finalmente arrivai al nome che cercavo. Altre ricerche. Gli archivi del «Red Bluff Daily News». Gli archivi del «Chico Examiner». I consueti suoni della notte si ritirarono ai margini del mio udito. Birdie si appisolò. Ore dopo, mi fermai, stordita dall'orrore dell'enigma che stavo sciogliendo. Avevo capito che cosa stava succedendo.
30 Riuscii a resistere fino alle sette prima di chiamare Ryan. Lui mi rispose subito, con un tono vivace, ma affaticato. «Ti ho svegliato?» «Non importa. Tanto mi sarei dovuto alzare comunque per rispondere al telefono.» «Vecchia battuta, Ryan.» «Sembri agitata. Che succede?» Gli esposi la mia teoria, e gli spiegai che cosa avevo trovato nel corso delle mie navigazioni notturne. «Porca miseria, Brennan.» «Dobbiamo assolutamente entrare in quella casa, Ryan.» «Gli scheletri della pizzeria non sono un caso di mia competenza.» «Però l'omicidio di Louise Parent lo è. Ménard o chi per lui probabilmente ha ucciso la donna per impedirle di parlare con me.» Sentii il rumore di un fiammifero acceso, poi una lenta boccata di fumo. «Voglio che Claudel e Charbonneau ascoltino questa storia» disse Ryan. «Ti trovo lì ancora per quanto?» «Ti aspetto.» Ryan mi richiamò alle nove per dirmi che si erano dati appuntamento tutti e tre a casa mia per le undici. «Claudel è d'accordo?» «Luc è un ottimo poliziotto.» «Sì, ma con il carisma di un serial killer. Preparo il caffè.» Sapendo che Claudel sarebbe stato un osso duro, cercai di raccogliere più informazioni possibili prima del nostro incontro. Claudel arrivò per primo, con il suo solito piglio arrogante. «Bonjour» dissi, indicandogli il divano. «Bonjour.» Claudel si tolse il cappotto. Lo presi. Dopodiché il tenente della CUM si aggiustò le maniche della sua giacca Armani per coprire gli immacolati polsini della camicia Burberry e si sedette sul divano accavallando le gambe. «Du café?» proposi. «Non.» Claudel controllò l'orologio con un gesto studiato. «Merci.» Ryan e Charbonneau arrivarono a distanza di qualche minuto l'uno dall'altro, entrambi in jeans sbiaditi e maglione. Ryan era passato in una pâtis-
serie. Riempii due tazze di caffè per Ryan e per Charbonneau, poi tutti e tre ci servimmo dal vassoio di paste portato da Ryan. In tutto questo, Claudel assunse un atteggiamento di regale distacco. Fu Ryan a dare inizio alla riunione. «Tempe, per favore, racconta anche a loro quello che mi hai già detto questa mattina.» Poi, rivolto a Claudel: «Luc, voglio che tu faccia bene attenzione». Iniziai scegliendo con cura le parole. «Il 19 maggio del 1977, una ragazza di vent'anni di nome Colleen Stan parte in autostop da Eugene, in Oregon, diretta a Westwood, in California. Dopo diversi passaggi, viene raccolta da Cameron Hooker e la moglie Jan. Gli Hooker conducono Colleen Stan nella Lassen National Forest, la ammanettano, la legano, la imbavagliano, le bendano gli occhi e la portano a casa loro.» Birdie entrò in soggiorno, annusò due paia di scarponcini e un paio di mocassini, e fece la sua scelta. «Ehi, Luc, il micio ha scelto te» disse Charbonneau strizzando l'occhio al suo compagno. «Scusate.» Andai a togliere Birdie dalle ginocchia di Claudel. Birdie assunse la sua aria più offesa. «Cameron Hooker tenne Colleen Stan chiusa nel buio più completo e in una totale deprivazione sensoriale fino a ventitré ore al giorno. Per sette anni.» «Bastardo figlio di puttana» esclamò Charbonneau. «Hooker teneva prigioniera Colleen Stan in una serie di casse che lui stesso aveva progettato a questo scopo. E quando ne aveva voglia, la faceva uscire, la appendeva ai tubi, la legava a una rastrelliera, la frustava, la folgorava con i cavi elettrici, la stuprava, la lasciava morire di fame, la terrorizzava in ogni modo.» Claudel si tolse un pelo del gatto dalla manica. «Alla fine la moglie di Hooker la liberò. Hooker fu arrestato nel novembre del 1984. Un anno dopo, fu condannato per rapimento, violenza carnale, sodomia, e una serie di altri capi d'accusa. I media ci sguazzarono come topi nel formaggio.» «Che rilevanza ha tutto questo con il nostro caso?» domandò Claudel con un sospiro. «Il calvario di Colleen Stan ebbe luogo a Red Bluff, in California. Red
Bluff si trova a sessanta chilometri da Chico.» «Stephen Ménard frequentava un master presso l'università di Chico nel 1985» disse Claudel, prendendo la sua seconda ciambella. Io annuii. Birdie sgusciò vicino al divano, inarcò il dorso e andò a strofinarsi sulla gamba di Claudel. Poi si alzò sulle zampe posteriore e appoggiò quelle anteriori sulle ginocchia del tenente. Mi scusai di nuovo, sollevai il mio gatto e decisi di chiuderlo in camera mia. «Ma il tizio che abbiamo qui a Montréal non è Ménard» osservò Charbonneau quando tornai in soggiorno. «Usa quel nome solo per comodità.» «Allora, dov'è il vero Ménard?» «Non lo so. Forse è stato ucciso dall'uomo che adesso vive a Pointe Saint-Charles. Questo è il vostro lavoro.» «Continua» mi sollecitò Ryan. «Il caso di Colleen Stan rimase in primo piano su tutti i media dall'autunno dell'84 all'autunno dell'anno dopo. La stampa era impazzita per la vicenda di Colleen Stan. Lo chiamavano il caso della "ragazza nella cassa". Poi il caso della "bambola da sesso".» Claudel guardò l'orologio. «Lo stesso anno, una ragazzina di quattordici anni, una certa Angie Robinson, scomparve da Corning, in California. Corning si trova fra Chico e Red Bluff.» Mi fermai per dare più risalto alla frase successiva. «Ho motivo di credere che lo scheletro di una delle tre ragazze della pizzeria appartenga ad Angie Robinson.» Charbonneau rimase con un boccone di ciambella a mezz'aria. «La ragazza nell'involucro di cuoio?» «Sì.» «Quella con il polso fratturato» intervenne Claudel. «Dottoressa, lei aveva detto di essere certa che le età fossero incompatibili.» «Ho detto che Angie Robinson era troppo giovane e troppo bassa per corrispondere allo scheletro 38428. Ma se Angie dopo il suo allontanamento da casa ha vissuto per un certo periodo di tempo, questo spiegherebbe la discrepanza.» «Forse dovresti spiegare anche a loro i risultati dell'esame dell'isotopo di stronzio e della datazione al carbonio» suggerì Ryan. Spiegai.
E la storia del sigillante dentario. Spiegai ancora. «Porca miseria» esclamò Charbonneau. «Quindi lei è convinta che Ménard abbia seguito il caso sui giornali e sia stato ispirato da questo pazzo maniaco di Hooker?» «Sì. Ma c'è di più. Anique Pomerleau è scomparsa da Mascouche nel 1990 all'età di quindici anni. Venerdì Ryan e io la ritroviamo a casa di Ménard.» «Ménard abita in quella casa dal 1988» disse Charbonneau. Claudel fece un cenno con la testa e parlò con la solita voce nasale. «Quindi, sulla base di questa storia della ragazza nelle casse...» «La ragazza ha un nome.» Il cinismo di Claudel mi stava dando sui nervi. «Si chiama Colleen Stan.» Notai le narici di Claudel tendersi. «Quindi lei è convinta che Ménard stia trattenendo Anique Pomerleau contro la sua volontà da almeno quindici anni? E che Angela Robinson e le altre due ragazze sepolte nello scantinato erano anche loro sue prigioniere?» Annuii. Per qualche secondo nessuno parlò. «Anique Pomerleau ha tentato di fuggire?» «No.» «Per caso vi ha segnalato in qualche modo che volesse lasciare la casa di Ménard?» «Non aveva nessun cartello con la scritta AIUTATEMI, se è questo che intende dire.» Claudel sollevò un sopracciglio, rivolto a Ryan. «La Pomerleau sembrava piuttosto spaventata» disse Ryan. «Io direi che sembrava terrorizzata» precisai. «Che cosa ha fatto, esattamente?» domandò Charbonneau. «È sgusciata via appena Ménard ha alzato lo guardo su di lei. Si è comportata come un cagnolino maltrattato.» «Lei crede che Ménard stia sequestrando Anique Pomerleau come una sorta di oggetto sessuale?» domandò Charbonneau. «Non sto suggerendo nessuna motivazione.» «Cazzate» sbuffò Claudel. «In che senso, scusi?» domandai. Claudel sollevò le spalle e allargò le braccia. «Qualsiasi persona adulta
in grado di intendere e di volere avrebbe chiesto aiuto.» «Gli psicologi non sarebbero d'accordo con lei» ribattei. «Pare che lei non abbia troppa confidenza con la sindrome di Stoccolma.» Claudel allargò le mani con i palmi rivolti verso l'alto. «È una forma di adattamento a una forte condizione di stress patito in condizioni di reclusione e di tortura.» La mani di Claudel gli ricaddero in grembo, il suo mento si abbassò. «La sindrome di Stoccolma si registra nelle vittime dei rapimenti, nei prigionieri, nei membri delle sette, negli ostaggi, perfino nelle mogli maltrattate e nei bambini. Le vittime sembrano accettare la loro condizione, e possono perfino provare sentimenti di attaccamento per i loro carcerieri.» «Strano nome» commentò Charbonneau. «Il nome della sindrome deriva da un episodio che si è verificato a Stoccolma nel 1973. Tre donne e un uomo erano stati tenuti in ostaggio per sei giorni da due ex detenuti che stavano rapinando una banca. Gli ostaggi avevano finito per credere che i rapinatori li stessero proteggendo dalla polizia. E dopo la liberazione, una delle donne si era fidanzata con uno dei rapinatori, mentre l'altra aveva aperto una sottoscrizione per la difesa degli imputati.» «La caratteristica fondamentale è la reazione passiva a una situazione pericolosa» aggiunse Ryan. «Insomma, oltre al danno anche la beffa» sintetizzò Charbonneau. «Ben più di questo» dissi. «Le persone oggetto di questa sindrome, si sentono legate ai loro carcerieri da un vincolo molto stretto, talvolta addirittura si identificano con essi. E possono comportarsi con gratitudine nei loro confronti. O perfino sviluppare un sentimento d'amore.» «E in quali circostanze, si sviluppa questa sindrome?» domandò Claudel. «Gli psicologi sono concordi nell'affermare che per sviluppare la sindrome si devono verificare quattro fattori.» Li elencai sulla punta delle dita. «Uno, la vittima sente che la sua sopravvivenza è minacciata dal carceriere, e crede che questo porterà a compimento la sua minaccia. Due, alla vittima viene concessa qualche gentilezza, secondo il capriccio del carceriere.» «Come per esempio essere lasciati in vita,» esclamò Charbonneau. «Per esempio. Ma anche una breve pausa dalla tortura. Brevi periodi di libertà, un pasto decente, un bagno.» «Sacre bleu.» Charbonneau di nuovo scosse la testa, incredulo.
«Tre, la vittima viene completamente privata di altri riferimenti, se non quelli forniti dal carceriere. Quattro, la vittima è convinta, a torto o a ragione, di non avere via di fuga.» Né Charbonneau né Claudel dissero una parola. «Cameron Hooker era un vero maestro a questo gioco» dissi. «Teneva Colleen Stan sepolta viva in una sorta di bara sotto il suo letto, e in genere la faceva uscire solo per brutalizzarla. Ma di tanto in tanto le concedeva dei brevi periodi di libertà. Talvolta poteva fare un po' di jogging, lavorare in giardino, andare in chiesa. Una volta l'aveva perfino portata a visitare i suoi parenti.» «Ma perché questa ragazza non è scappata?» domandò Charbonneau passandosi una mano fra i capelli. «Perché Hooker l'aveva convinta che fosse di sua proprietà.» «Come, di sua proprietà?» chiese Charbonneau. «Le aveva mostrato un finto contratto raccontandole che l'aveva comprata come una schiava in un posto chiamato "The Company". Le aveva fatto credere di essere sempre sotto sorveglianza, e che se avesse tentato di fuggire, i membri di "The Company" le avrebbero dato la caccia e l'avrebbero uccisa, insieme ai suoi famigliari.» «Cibole!» Charbonneau alzò le braccia al cielo. «Perciò questo Hooker traumatizza la ragazza, lei si sente completamente isolata, deve rivolgersi a lui per ogni minimo bisogno, e finisce per sviluppare un sentimento per questo rifiuto umano?» «Esattamente» confermai. «Una delle testimonianze più controverse si basava su una lettera d'amore scritta dalla ragazza a Hooker.» Charbonneau mi guardò inorridito. «Un altro caso è quello di Elizabeth Smart, sequestrata da una banda di pazzi per quasi un anno» continuai. «A lei era capitato di sentire le persone che la cercavano, una volta perfino la voce dello zio. Ma non ha mai concretamente cercato di fuggire.» «Elizabeth Smart era una ragazzina di quattordici anni» osservò Charbonneau. «Ricordate Patricia Hearst?» domandò Ryan. «L'Esercito di liberazione simbionese l'aveva rapita e rinchiusa in un armadio. E lei ha finito per rapinare una banca insieme ai suoi rapitori.» «Quella era una storia politica.» Charbonneau si alzò in piedi di scatto e iniziò a passeggiare avanti e indietro per la stanza. «Questo Hooker doveva essere una sorta di psicopatico mutante. Le persone non vanno in giro a se-
questrare ragazze e a rinchiuderle nelle casse.» «Il fenomeno potrebbe essere molto più comune di quel che pensiamo» dissi. Charbonneau smise di camminare. Lui e Claudel mi guardarono. «Nel 2003 John Jamelske si dichiarò colpevole per il reato di aver rinchiuso cinque donne in un bunker di cemento costruito sotto il suo cortile, e di averle usate come giocattoli sessuali.» «Proprio dietro l'angolo» intervenne Claudel, passando finalmente all'inglese. «A Syracuse, nello Stato di New York.» «Oh, Dio.» Di nuovo Charbonneau si passò una mano tra i capelli. «Ricordi il caso Lake e Ng?» Leonard Lake e Charles Ng erano una coppia di misogini patologici che costruì una camera di tortura in un ranch isolato della contea di Calaveras, in California. Almeno due donne erano state filmate mentre subivano le torture della coppia. Il nastro era intitolato M ladies, dove M stava per «murdered», assassinate. «Come sono finiti quei bastardi?» La voce di Claudel trasudava disgusto. «Lake era stato beccato mentre rubacchiava in un negozio e si era tolto di mezzo con una capsula di cianuro. Ng invece era stato fermato in Canada, a Calgary, e ha lottato contro l'estradizione per circa dieci anni, giusto, dottoressa?» «Sì. Ci sono voluti sei anni di battaglie legali, ma alla fine Ng è dovuto tornare in California per il processo. Nel 1998 la giuria lo ha dichiarato colpevole di aver assassinato tre donne, sette uomini, e due neonati.» «Basta.» La voce di Claudel aveva perso qualsiasi freddezza. «Lei è convinta che Ménard abbia trasferito il suo orrendo teatrino qui a Montréal?» «Secondo Rose Fisher, Louise Parent mi aveva chiamata per raccontarmi che aveva visto Ménard due volte con delle ragazze molto giovani. E nello scantinato dei locali che questa persona aveva in affitto abbiamo trovato tre scheletri sepolti sotto il pavimento.» «Crede che Ménard abbia trasportato Angie Robinson da Corning, in California, a Montréal?» «Angie, o il suo cadavere.» «E che abbia sequestrato e sottomesso Anique Pomerleau?» «Sì.» Claudel diede voce alle mie paure.
«E che, se si dovesse sentire minacciato, potrebbe uccidere Anique Pomerleau?» «Sì.» Gli occhi di Claudel diventarono una fessura. Il tenente guardò il suo compagno e si alzò. «Un giudice dovrebbe prendere in considerazione tutta questa storia.» «Ha intenzione di farsi firmare un mandato?» «Appena il nostro amico mette piede in tribunale.» «Voglio venire con voi a Pointe-Saint Charles.» «Non se ne parla nemmeno.» «Perché?» «Se quello che dice è vero, questo Ménard è un tipo pericoloso.» «Sono adulta e vaccinata.» Claudel mi fissò così a lungo che pensai non avesse alcuna intenzione di replicare. Invece, ammiccando a Ryan, disse: «Ehi, porta un'altra colt per il cowboy». Ero sbalordita. Quel pezzo di ghiaccio di Claudel aveva tentato di fare una battuta. Il resto di quella domenica fu una vera agonia. Cercai di occupare il tempo dedicandomi a vari lavoretti, ma non riuscii ugualmente a scacciare la tristezza e la delusione che sentivo. Perché non mi ero resa conto prima che le ossa potevano appartenere a ragazze tenute segregate? Perché non avevo capito subito il motivo per cui i miei profili non corrispondevano alle descrizioni registrate negli elenchi delle persone scomparse? Continuavo a chiedermi perché, all'infinito. Ma avrebbe fatto qualche differenza? Una serie di immagini inquietanti si alternavano nella mia testa. Anique Pomerleau, con la sua carnagione pallida e la lunga treccia bruna. Angie Robinson, sepolta in uno scantinato in un involucro di cuoio. Ryan. Anne. Dove diavolo era finita? Avrei dovuto impegnarmi di più per ritrovarla? E che cosa avrei dovuto fare? Provai con qualche canzone natalizia. Mi tirarono su il morale come un Babbo Natale dell'Esercito della Salvezza. Andai in palestra, percorsi cinque chilometri sul tapis roulant con le cuffiette in testa e un CD di vecchi successi. The Lovin' Spoonful. Donovan. The Mamas and the Papas. Le Supremes.
Quella notte, mentre mi giravo e rigiravo nel letto, un ritornello continuava a girarmi in testa. Monday, Monday... Due lunedì prima avevo recuperato dal pavimento di uno scantinato le ossa di tre ragazze. Un lunedì prima avevo tolto delle piume dalla bocca di Louise Parent. L'indomani mi sarei potuta ritrovare nella casa degli orrori. Can't trust that day... Il pensiero di ciò che avrebbe potuto portare quel nuovo lunedì mi fece rabbrividire. 31 Alle nove Claudel ottenne il mandato. Ryan era arrivato a prendermi alle nove meno un quarto. Quando salii sulla sua jeep, mi passò un bicchiere di caffè. Ma la caffeina non era quello di cui avevo bisogno. Ero così carica che avrei potuto intonacare tutto il Pentagono. Lo ringraziai, mi tolsi i guanti e strinsi le dita intorno al bicchiere di polistirolo, cercando di controllare il ritmo cardiaco nonostante stessi bevendo. Dopo cinque minuti, Ryan aprì il finestrino e si accese una Player. In una situazione normale mi avrebbe chiesto se mi dava fastidio. Quella mattina, no. Immaginai che fosse teso almeno quanto me. Per le strade circolavano gli ultimi strascichi del traffico dell'ora di punta mattutina. Un decennio e venti minuti dopo arrivammo alla Punta. Quando svoltammo su Rue de Sébastopol, notai due autopattuglie e un'Impala senza scritte di riconoscimento posizionati lungo l'isolato. Dal tubo di scappamento dei tre veicoli uscivano nuvole di fumo. Ryan parcheggiò dietro la volante più vicina. Mentre spegneva il motore, si voltò verso di me. «Se Ménard fa solo il gesto di guardare nella tua direzione, giri i tacchi e te ne vai. Immediatamente. Ci siamo capiti?» «Stiamo andando a fare una perquisizione, non a espugnare quella casa.» «Le cose potrebbero mettersi male.» «Ci sono sette poliziotti, Ryan. Se Ménard non collabora, mettetegli le manette.» «Un atteggiamento minaccioso qualsiasi, e tu molli il colpo. Capito?»
Risposi con un provocatorio saluto militare. La voce di Ryan si fece più severa. «Non sto scherzando, maledizione. Se ti dico di andartene, tu te la fili.» Per tutta risposta, alzai gli occhi al cielo. «O così, o niente.» Ryan fece per riavviare il motore. «D'accordo» dissi, infilando i guanti. «Obbedisco agli ordini, signore.» «Non fare la furba, Tempe. Questa è una faccenda pericolosa.» Dopodiché uscimmo e richiudemmo le portiere silenziosamente. Nel corso della notte il tempo era cambiato. L'aria si era fatta umida e gelida, e nel cielo si erano accumulati pesanti nuvoloni grigi. Appena ci vide, il cane del capannone iniziò ad abbaiare. Ma questo rimase l'unico segno di vita di quel tratto di Rue de Sébastopol. Niente bambini che fingevano di giocare a hockey. Niente casalinghe cariche di borse della spesa. Niente pensionati che chiacchieravano sui balconi o davanti ai negozi. Una tipica giornata invernale a Montréal. Restare al chiuso. Nel metrò. Sottoterra. Tapparsi in casa e sopravvivere fino alla primavera. L'abbaiare del cane risuonava ancora più potente nel silenzio che avvolgeva tutto il quartiere. Ryan e io procedemmo di qualche metro. Quando ci avvicinammo all'Impala, l'intrepida coppia uscì. Claudel indossava un cappotto di cashmire color cammello. Charbonneau un giaccone di materiale indefinito che probabilmente aveva fatto la guerra. Ci salutammo con un cenno della testa. «Qual è il programma?» domandò Ryan in inglese. Claudel allargò le gambe. Charbonneau appoggiò il fondoschiena all'Impala. «Una pattuglia si ferma qui.» Claudel indicò con il pollice la volante in fondo all'isolato. «L'altra si fermerà su Rue de la Congrégation.» Charbonneau si aprì il giaccone, infilò le mani in tasca, fece tintinnare qualche moneta. «Michel starà alla porta sul retro.» Un walkie-talkie gracchiò al fianco di Charbonneau. Il tenente spostò la mano e giocherellò per qualche secondo con un pulsante. Claudel spostò lo sguardo su di me, poi su Ryan, con aria interrogativa. «Brennan sa quello che deve fare» disse Ryan. La bocca di Claudel si fece sottile, ma lui non disse nulla. «Presentiamo a Ménard gli auguri di Natale del giudice, gli ordiniamo di
stare seduto, poi rivoltiamo la casa.» Charbonneau posò una mano sulla pistola. «Spero proprio che il tizio non faccia cazzate. Non vorrei mai rovinarmi le vacanze.» «Tutto a posto?» Claudel prese il walkie-talkie dalla tasca e si richiuse il cappotto. Un giro di cenni di assenso. «Allons-y» disse Claudel. «Andiamo» ripeté il suo compagno. Charbonneau raggiunse la fine dell'isolato, parlò per qualche secondo con l'agente alla guida della volante. L'autopattuglia scomparve dietro l'angolo e il tenente della CUM cambiò direzione e si spostò diagonalmente verso il terreno incolto. Trenta secondi dopo, la voce di Charbonneau ci arrivò attraverso il walkie-talkie di Claudel. Si trovava davanti alla porta di servizio di Ménard. Claudel fece cenno con la mano all'altra squadra di agenti di avvicinarsi. Mentre procedevamo lungo il marciapiede ghiacciato, Claudel in testa, Ryan e io dietro, la seconda volante fiancheggiò il marciapiede dietro di noi. Mentre camminavo insieme al nostro piccolo drappello, mi sentii avvolgere dalla stessa indefinita sensazione di paura che avevo provato il venerdì precedente. Ma ora la paura di era trasformata in qualcosa di più. Il cuore mi batteva come un tamburo africano. Prima di svoltare nella vietta che portava alla casa di Ménard, Claudel parlò nel suo walkie-talkie. Io osservai la casa che avevo di fronte, chiedendomi come doveva essere, quando ci abitavano i nonni del vero Ménard, i Corneau. Quel posto era così tetro, così minaccioso. Era difficile immaginare qualcuno in cucina che preparava torte, o in soggiorno a guardare partite di baseball, oppure gattini che giocano con il gomitolo. La radio di Claudel gracchiò. Charbonneau era in posizione. Ci avvicinammo alla porta. Ryan ruotò il vecchio campanello di ottone. All'interno risuonò un trillo acuto, come già era successo venerdì. Un intero minuto passò senza che Ryan ottenesse risposta. Il tenente riprovò. Mi sembrò di sentire qualche movimento all'interno. Vidi il corpo di Ryan farsi più teso, e la sua mano scivolare sulla Glock. Claudel si sbottonò il cappotto.
Ancora nessuna risposta. Ryan suonò il campanello una terza volta. Silenzio totale. Ryan colpì la porta con la mano. «Aprite! Polizia!» Ryan stava alzando il pugno per un altro colpo, quando il rumore attutito di uno sparo risuonò nel silenzio. Una luce bianca e azzurrina filtrò per una frazione di secondo dalle tende della finestra alla mia destra. In quel preciso istante, Claudel e Ryan sfoderarono le pistole e si accovacciarono nella stessa posizione. Tirandomi per il polso, Ryan mi costrinse ad abbassarmi. Claudel urlò nel walkie-talkie. «Michel! Es-tu là? Répet. Es-tu là?» Un attimo dopo, la voce di Charbonneau gracchiò nella radio. «Ci sono. Era uno sparo?» «Sì. All'interno.» «Chi ha sparato?» «Non lo so. Là dietro ci sono movimenti?» «Nessuno.» «Stai in posizione. Stiamo entrando.» «Dentro!» Ryan mi indicò con un gesto di tenermi indietro. Io rimasi accovacciata e mi spostai nel punto indicato. Claudel e Ryan schizzarono in piedi e iniziarono a sfondare la porta, prima a spallate, poi a calci. Ma la porta resisteva. In lontananza, i latrati del cane del capannone avevano raggiunto il delirio. I due uomini insistettero. Qualche scheggia dello stipite saltò via. Un ventaglio di frammenti di legno volò in aria. Ma la vecchia porta non cedette. Altri calci. Altre imprecazioni. La faccia di Claudel paonazza. La fronte di Ryan coperta di sudore. Alla fine la bocchetta della serratura iniziò a cedere. Facendo cenno a Claudel di farsi indietro, Ryan alzò il ginocchio e sferrò un poderoso e definitivo calcio. La serratura di colpo di cedette e la porta si spalancò rumorosamente verso l'interno. «Stai lì» ordinò Ryan rivolto verso di me. Ansimando vistosamente, con le pistole impugnate a due mani all'altezza del naso, Claudel e Ryan entrarono all'interno, uno sulla destra, l'altro sulla
sinistra. Io sgusciai dentro e mi fermai contro la parete a destra della porta. L'ingresso era buio e nell'aria aleggiava ancora un vago odore di polvere da sparo. Claudel e Ryan avanzarono con grande cautela nel corridoio, le armi spianate, gli occhi e i corpi si muovevano in sincronia. Vuoto. Si spostarono nel salotto. Io lentamente li seguii. Dopo qualche secondo, i miei occhi si abituarono alla penombra. E d'istinto mi portai la mano alla bocca. «Rest!» Claudel abbassò l'arma. Senza parlare, Ryan abbassò il gomito e puntò la Glock verso il soffitto. Ménard era seduto nello stesso posto che aveva occupato il venerdì, il corpo leggermente piegato verso sinistra, la testa reclinata contro lo schienale del divano. La mano destra pendeva oltre il bracciolo, la sinistra abbandonata in grembo, il palmo rivolto verso l'alto, le dita piegate intorno a una Smith & Wesson 9mm. La voce di Charbonneau gracchiò nel walkie-talkie. Claudel rispose. Ryan e io ci avvicinammo a Ménard. Claudel e Charbonneau si scambiarono qualche frase concitata. Udii parole come suicidio, Scientifica, coroner. Il resto della conversazione mi sfuggì. Ero ipnotizzata dal corpo abbandonato sul divano. Ménard aveva un foro grande quanto una monetina sulla tempia destra. Un rivolo di sangue colava dai bordi bianchi e frastagliati. Il foro di uscita si trovava sulla tempia sinistra. Gran parte del lato sinistro della testa non c'era più, o era finito spiaccicato sulla lampada di ottone e sulla tappezzeria a motivi floreali della parete vicina. Mescolata ai resti del cranio di Ménard, una massa indefinita di sangue e materia cerebrale. Sentii un tremito sotto la lingua. Ryan prese una sedia e la portò il più lontano possibile dal cadavere, poi mi accompagnò a sedermi, premendo delicatamente sulle mie spalle. Io mi sedetti e mi presi la testa fra le mani. Sentii la squadra degli agenti entrare in casa. Sentii la voce di Ryan che impartiva gli ordini. Sentii Charbonneau. La parola ambulanza. La parola Pomerleau. Sentii porte aperte a calci, e Ryan e gli altri che si muovevano all'interno
della casa. Per sfuggire al presente, cercai di concentrarmi su tutto ciò che avrei dovuto fare di lì a poco. Riesaminare l'elenco delle persone scomparse. Ripresentare i dettagli scheletrici con stima dell'età incerta. Ottenere i campioni di DNA dalla famiglia di Angie Robinson. Niente da fare. Non riuscivo a pensare. La mia attenzione continuava a tornare in quella stanza. I miei occhi frugavano la mano, le gambe scomposte, la pistola. La faccia. Le lentiggini di Ménard spiccavano come tanti minuscoli fagioli sulla carnagione pallida. Aveva gli occhi aperti, totalmente inespressivi. Nessun dolore. Nessuna sorpresa. Nessuna paura. Solo il vuoto della morte. Il mio cervello era una zona di combattimento: sollievo per il fatto che Ménard non avrebbe fatto del male a nessun altro. Rabbia perché ci era sfuggito con tanta facilità. Pena per una vita così grottescamente sprecata. Angoscia per le sorti di Anique Pomerleau. Preoccupazione per le risposte che ancora non avevamo. Se quella persona non era Ménard, chi era? E Ménard dov'era? Mi sentii accarezzare i capelli. Alzai lo sguardo. «Stai bene?» Annuii, commossa dalla tenerezza dell'espressione di Ryan. «Hai trovato Anique Pomerleau?» «La casa è vuota.» La voce di Ryan era pesante come il coperchio di una bara. «Ma c'è qualcosa che forse vorresti vedere.» Lo seguii fino a una stanza sul retro della casa, e poi scendemmo una scaletta che portava in una cantina poco illuminata. I muri erano di mattone, il pavimento in cemento. Non c'erano finestre. L'aria era umida e puzzava di muffa, di polvere e di marcio. Intorno a me vidi il consueto assortimento di ciarpame da cantina. Una vasca da bagno in metallo. Attrezzi da giardino. Pile di scatoloni. Una vecchia macchina per cucire. Udii delle voci. Poi una imprecazione soffocata davanti a me, e alla mia destra. Ryan mi condusse oltre una porta aperta, in una seconda stanza. Benché simile al resto del seminterrato, questa stanza era più piccola e più illuminata. Le pareti e il soffitto erano ricoperti di pannelli di polistirolo. Claudel e Charbonneau si trovavano vicino a un bancone che in passato
poteva essere stato un banco da lavoro. Indossavano entrambi guanti di lattice. Nel sentirci entrare, Charbonneau si voltò. Era pallido come la morte. Ryan uscì per fare un secondo giro del seminterrato. «Il piccolo bastardo si era costruito un rifugio speciale qui sotto.» Charbonneau indicò il locale con un gesto della mano. «Perfettamente insonorizzato.» I miei occhi seguirono l'arco disegnato dal gesto di Charbonneau. In un angolo due paia di manette penzolavano da due anelli fissati al soffitto. Accanto alla parete di fronte, notai un tavolo piuttosto rozzo. Mi avvicinai, e mi sentii stringere lo stomaco. Il tavolo era formato da un semplice riquadro di compensato e da due cavalletti. Agli angoli, quattro ganci, e un polsino di pelle legato a ciascun gancio. Accanto ai polsini, quattro catene arrotolate. «Non mi pare vecchio, questo tavolo, giusto?» domandai. «Tavolo?» La voce di Charbonneau tremò di rabbia. «Questo è un cavalletto di tortura!» Mi avvicinai al bancone da lavoro. Claudel mi guardò e si fece da parte, il viso una maschera che non lasciava trapelare alcun sentimento. Di nuovo mi sentii stringere lo stomaco. Una frusta. Un gatto a nove code. Uno scudiscio. Una sorta di pagaia coperta di pelle nera. Un cappio con un nodo enorme. «Tutti i giocattolini necessari a far capire chi è il padrone e chi lo schiavo.» Una vena pulsava sulla tempia di Charbonneau. Nei suoi occhi vidi un sentimento che si avvicinava alla rabbia cieca. «Calme-toi, Michel.» La voce di Claudel era una linea piatta. «E questo maledetto era anche molto creativo.» Charbonneau prese un morso da cavallo, un ferro per arricciare i capelli, un approssimativo bavaglio con una sfera al centro. «Guardi anche le sue letture preferite.» La rabbia rendeva Charbonneau imperativo. Prese una pila di riviste e la gettò per terra. «Pura pornografia. Bondage. Sado-maso.» Prese una videocassetta. Histoire d'O. In quel momento entrò Ryan, le mascelle tese come un arco. «Ho trovato qualcosa.» Ci muovemmo all'unisono, e lo seguimmo attraverso il seminterrato, aggirammo una sorta di forno ed entrammo in una stanza simile a quella che avevamo appena lasciato.
Tre pareti su quattro erano coperte da scaffalature dal pavimento al soffitto. Un'unica lampadina illuminava l'ambiente. Ryan si avvicinò alla parete libera. Lo seguimmo. Sui muri, gli stessi pannelli di polistirolo dell'altra stanza. Il bordo di uno dei pannelli era stato sollevato. «Questa parete non è di mattoni. È compensato.» Ryan sfiorò con le dita il bordo del compensato appena esposto. «Qui c'è una specie di gradino.» Claudel si tolse un guanto, ripeté il gesto di Ryan e annuì. Ryan indicò la porta attraverso cui eravamo entrati. «Controlliamo le luci.» Ci voltammo. Un interruttore sembrava lucido e nuovo, l'altro era sporco e rovinato. «Quello vecchio accende la lampadina.» Dell'altro non disse nulla. Claudel si tolse anche il secondo guanto. Senza parlare, lui e Ryan iniziarono a staccare il polistirolo. Charbonneau uscì dalla stanza. Lo sentimmo armeggiare con qualcosa, poi rientrò con un piede di porco arrugginito. Nel giro di pochi minuti Ryan e Claudel avevano liberato una striscia di parete di quindici centimetri in cui si notavano una fessura e due cardini. Oltre la fessura, il buio totale. Si spostarono di lato e iniziarono a staccare un'altra porzione di polistirolo. I loro sforzi scoprirono un'altra fessura nel compensato, nel punto in cui due pannelli si incontravano. «Lasciate fare a me.» Charbonneau si fece avanti. Ryan e Claudel arretrarono di un passo. Charbonneau inserì la punta del piede di porco nella fessura e fece leva. Un'intera sezione della parete schizzò in avanti. Charbonneau affondò la punta del piede di porco e fece di nuovo leva. La finta parete di compensato cedette rivelando un'apertura di circa un metro e mezzo per una sessantina di centimetri. La lampadina illuminò la prima porzione della cavità. Oltre, era buio pesto. Mi diressi verso i due interruttori e accesi quello nuovo, mentre sentivo un nodo stringermi la gola. 32
In origine, la stanza che avevamo appena scoperto doveva essere una cantina dove tenere la frutta, o un luogo per riporre le conserve. Era all'incirca tre metri per due e mezzo, e, come la stanza dei divertimenti di Ménard, interamente insonorizzata. All'interno il puzzo di muffa e di terra era coperto da un odore chimico e da qualcosa di organico. L'arredamento era sinistramente essenziale. Una lampadina attaccata a un filo. Un wc da campeggio. Una rozza piattaforma di legno. Due coperte lise. Sulla piattaforma di legno, due donne, testa bassa, schiena appoggiata ai fogli di polistirolo. Entrambe portavano un collare di pelle. E nient'altro. La pelle delle donne era innaturalmente bianca, e interrotta dalle ombre delle costole e delle vertebre disegnate dalla debole luce della lampadina. Una lunga treccia partiva dalla nuca di entrambe. Charbonneau si lasciò sfuggire un'imprecazione carica di tutto il lessico della rabbia e dell'orrore. Una faccia si alzò. Espressione tirata. Occhi di un animale selvatico spaventato dai fari nella notte. Anique Pomerleau. La sua compagna rimase immobile, la testa china, le braccia ossute strette intorno alle ginocchia. Claudel si voltò e uscì nel seminterrato. Sentii un rumore di passi che camminavano sul cemento e poi salivano le scale. «Stai tranquilla, Anique» dissi, con tutta la delicatezza che riuscii a trovare. Gli occhi di Anique Pomerleau ebbero un debole movimento. L'altra donna si strinse ancora più alle sue ginocchia. «Siamo qui per aiutarvi.» Lo sguardo di Anique si spostò su Ryan e su Charbonneau. Indicai ai due uomini di farsi da parte ed entrai nella cella. «Queste due persone sono detective.» Anique mi guardò, gli occhi due enorme pozze nere. «È tutto finito, Anique. Tutto finito.» Muovendomi lentamente, mi avvicinai alla piattaforma e posai una mano sulla spalla di Anique. Lei si ritrasse. «Lui non potrà più farvi del male, Anique.» «Je m'appelle Q.» La voce della ragazza era inespressiva, senza vita. Mi tolsi il giaccone e lo posai sulle spalle di Anique. Lei non fece nulla
per trattenere l'indumento. «Io sono Q. Lei è D» disse in inglese, con un forte accento francese. Anique era francofona. Ryan si tolse il giubbotto e me lo porse. Mi avvicinai con grande cautela a «D», e le sfiorai appena i capelli. La donna si strinse ancora più forte alle ginocchia, e chiuse i pugni. Avvolsi «D» nel giubbotto di Ryan e mi chinai alla sua altezza. «Lui è morto» dissi in francese. «Non potrà mai più farvi del male.» La donna prese a dondolare la testa da una parte all'altra, come se non volesse vedermi né sentirmi. Evitai di insistere. Avremmo avuto altri momenti per parlare. «Starò con voi.» La mia voce ebbe un tremito. «Non vi lascerò.» Accarezzai i piedi di «D», poi mi alzai e uscii. Mentre Charbonneau restava nella stanza attigua alla cella, io tornai nel seminterrato. Ryan mi seguì. La sincera verità? Non riuscivo più a capire le mie emozioni. La mente era paralizzata dallo shock e dall'angoscia per quelle due donne, lo stomaco era annodato per l'odio che provavo per il mostro che le aveva ridotte in quello stato. «Stai bene?» domandò Ryan. «Sì» dissi con il tono più calmo che riuscii a trovare. Ma mentivo. E temevo di essere sul punto di crollare. Incrociai le braccia per nascondere il tremore che mi stava scuotendo, e attesi. Una vita dopo, il suono distante delle sirene lacerò il silenzio finché non diventò una urlante presenza. Rumore di passi sopra la testa e poi giù per la scala. Quando vide gli infermieri, Anique si lasciò prendere dal panico. Schizzò verso il wc chimico, ci salì sopra e si schiacciò contro l'angolo della parete con le braccia puntate davanti a sé. Né io né i paramedici riuscimmo a calmarla. E più cercavamo di rassicurarla, più lei resisteva. Alla fine fu necessario usare la forza. L'altra donna si mise in posizione fetale e si lasciò deporre su una lettiga, coprire e portar fuori dalla sua cella. Ryan e io accompagnammo l'ambulanza fino al Montréal General Hospital. Claudel e Charbonneau rimasero ad aspettare LaManche e il furgone del coroner, e a dirigere le operazioni dei tecnici della Scientifica attesi per i rilevamenti.
Durante il tragitto, Ryan fumò. Io osservai la città che mi sfilava accanto, oltre il finestrino. Arrivati al pronto soccorso, Ryan prese a passeggiare avanti e indietro, io invece mi sedetti, e mi ritrovai immersa in una cacofonia di colpi di tosse, di lamenti, di gemiti, e di conversazioni ansiose. Di tanto in tanto Ryan si avvicinava e sussurrando ci scambiavamo qualche rapido commento. «Quelle ragazze non sapevano nemmeno i loro nomi.» «Oppure sono troppo terrorizzate per usarli.» «Sembrano alla fame.» «Già.» «Quella che si chiama "D" sembra in condizioni peggiori.» «Credo che sia più giovane.» «Non sono riuscita a vederla in faccia.» «Maledetto bastardo.» «Figlio d'un cane.» Eravamo lì da circa un'ora, quando il cellulare di Ryan vibrò. Uscì all'esterno. Dopo qualche minuto, rientrò in sala d'attesa. «Era Claudel. Pare che il pervertito girasse anche dei video.» Io annuii. Non avevo parole per commentare oltre. «Quando usciamo di qui, devo chiamare Charbonneau.» Venti minuti dopo una donna con i capelli crespi uscì dalle porte scorrevoli che portavano al pronto soccorso e si avvicinò. Indossava un camice bianco e teneva in mano due cartelline e una di quelle buste trasparenti utilizzata per contenere gli oggetti personali dei pazienti. Un'enorme donna nera con un seno altrettanto enorme e un neonato tra le braccia si alzò di scatto e si avvicinò alla dottoressa. Questa le indicò di tornare a sedere, osservò il neonato e le sussurrò qualche parola. La donna si appoggiò il piccolo alla spalla e gli diede qualche colpetto sulla schiena. La dottoressa ci fece un cenno, dietro la piccola folla di parenti e pazienti che la seguivano con gli occhi, qualcuno spaventato, qualcuno arrabbiato, tutti palesemente in apprensione. Di nuovo, il medico fu fermato da una persona. Questa volta era un uomo corpulento con una mano avvolta in un asciugamano. Come prima, la dottoressa si fermò e cercò di rassicurarlo. Ryan e io ci alzammo. «Sono la dottoressa Feldman.» Aveva gli occhi arrossati. Sembrava sfinita. «Mi occupo delle due donne arrivate qui al pronto soccorso poco fa.»
Ryan procedette alle presentazioni. «La più grande...» «Anique Pomerleau» precisai. Il medico prese nota del nome sulla sua cartellina. «La signorina Pomerleau presenta solo qualche livido e qualche piccola escoriazione. Ma a parte questo, fisicamente sta abbastanza bene. I polmoni sono a posto. Dalle radiografie non risulta niente di anomalo. Stiamo aspettando i risultati degli esami del sangue. E tanto per essere sicuri, le faremo un check-up più completo, appena possibile.» «Ha parlato?» domandai. «No.» Stringata. Come per dire: ho centinaia di altri pazienti che aspettano di essere visitati. «Presenta segni di abusi sessuali?» domandò Ryan. «No. Ma per la piccola, la situazione è molto diversa.» «La piccola?» La dottoressa scambiò l'ordine delle cartelline. «Avete un nome da darmi?» Ryan e io scuotemmo la testa. «Direi che la ragazza potrebbe avere quindici, forse sedici anni, anche se lo stato di denutrizione è tale che potrei sbagliarmi. Purtroppo qualcuno deve aver usato questa ragazza come sacco da boxe per molto tempo.» Sentii una rabbia al calor bianco invadermi il cervello. La dottoressa Feldman voltò una pagina e lesse alcuni appunti. «Lividi ed escoriazioni antichi e recenti. Fratture malamente saldate dell'ulna sinistra e di alcune costole. Cicatrici intorno all'ano e sui genitali. Bruciature sul seno e sugli arti procurate da una specie di...» «Potrebbe essere un ferro arricciacapelli?» domandai, cercando di controllare la voce e di mantenere un'espressione neutra. «Potrebbe essere.» «È lucida?» «È praticamente catatonica. Non risponde agli stimoli. Ha lo sguardo assente. Ma io non sono uno psichiatra.» Il viso della dottoressa si spostò su Ryan e poi di nuovo su di me. «Ma questa ragazzina potrebbe non essere mai più lucida.» «Adesso dove sono?» domandò Ryan. «Le stanno portando di sopra, in reparto.» Un infermiere comparve davanti alle porte scorrevoli e attirò l'attenzione della dottoressa mostrandole un foglio. Lei gli fece un cenno con la mano.
«Potremmo parlare con loro?» domandò Ryan. «Non sono sicura.» L'infermiere continuò a chiamare la dottoressa. Questa gli fece cenno di aspettare. «Avete pensato alla sicurezza delle ragazze? In giro per caso c'è qualche padre o ex marito psicopatico che potrebbe venire a reclamare le sue proprietà?» «In questo caso lo psicopatico ha pensato bene di farsi saltare il cervello.» «Peccato.» Consegnammo alla dottoressa i nostri biglietti da visita. Lei li infilò nella tasca del camice. «Vi terrò informati.» Ci porse la busta di plastica. «Qui ci sono i loro...» Attraverso la plastica, vidi i due collari borchiati. Ryan e io avevamo appuntamento con Charbonneau da Schwartz's, sul Boulevard Saint-Laurent. Non avevo nessun appetito, ma Ryan aveva insistito dicendo che un po' di cibo ci avrebbe affilato la mente. Ordinammo tutti e tre la stessa cosa. Sandwich con carne affumicata. Sottaceti. Patatine fritte. Bibita gassata. Mentre mangiavamo, ci aggiornammo reciprocamente su quanto era successo. «Il dottor LaManche ha preso le impronte del cadavere che non era Ménard. Sono uguali a quelle rilevate sul tagliacarte. Luc sta chiamando nella terra della frutta.» «Le impronte quando sono state immesse nel database californiano?» domandò Ryan. «Venerdì scorso.» Charbonneau prese un boccone del suo sandwich e si pulì uno sbaffo di senape dall'angolo della bocca. «Se in California facciamo un buco nell'acqua, Luc farà fare il giro delle impronte in Canada e nel resto degli Stati Uniti.» Ryan raccontò a Charbonneau che cosa ci aveva riferito la dottoressa Feldman. «Quel pazzo era un fottuto sadico.» Charbonneau prese un altro boccone. «Aveva scattato una serie di foto dei bei tempi per tenersi eccitato il pisello.» Il tenente finì il sandwich poi inclinò la testa e bevve tutta la bibita. «Quello che abbiamo trovato nel suo album dei ricordi assomiglia a una specie di galleria porno per principianti. Quello schifoso bastardo cercava di rallegrarsi la vita con la sua arte.» «Avete trovato fotografie di "D"?» La mia voce non sembrava la mia. Rapido cenno di conferma. «Una foto della faccia abbastanza buona.
Luc la sta facendo circolare in Canada e oltre confine.» «Dov'erano gli homevideo?» domandò Ryan. «Mescolati ai film porno.» «Li hai qui con te?» Charbonneau annuì. «Da voi o da noi?» «Quella merda di videoregistratore si è di nuovo scassato.» Charbonneau appallottolò il tovagliolino e lo gettò sul piatto. «Nella nostra sala riunioni c'è un videoregistratore già sistemato» dissi. «Allora andiamo lì.» Ryan prese il conto. Il mio sandwich rimase nel piatto, intatto. Era peggio di quel che potevo immaginare. Ragazze appese per le braccia. Legate mani e piedi. Ammanettate al tavolo. Sempre incappucciate. Sempre passive. Ryan, Charbonneau e io guardavamo in silenzio. Di tanto in tanto Charbonneau si schiariva la gola, spostava i piedi, incrociava le braccia. Di tanto in tanto Ryan faceva il gesto di prendere il pacchetto di sigarette, ricordava di essere al chiuso, tamburellava con le dita sul tavolo. In alcuni punti, il filmato era mosso, come se la videocamera fosse tenuta a mano. In altre, le riprese erano stabili, perché probabilmente la videocamera era stata appoggiata a un treppiede, o a un qualche sostegno. I nastri erano numerati da uno a sei. Eravamo arrivati quasi alla fine del primo, quando entrò Claudel. Tre teste si girarono contemporaneamente. «Tawny McGee.» Claudel aveva l'aria di uno che aveva succhiato un limone. Premetti il tasto PAUSE. «"D"?» domandai. Rapidissimo cenno di conferma. «I genitori avevano denunciato la sua scomparsa nel '99.» «Dove?» chiese Ryan. «Maniwaki.» Claudel posò un fax sul tavolo. Charbonneau gli diede un'occhiata, poi lo passò a Ryan, che lo passò a me. Mi sentii rabbrividire. Stavo guardando il viso di una bambina. Guance paffute. Trecce. Occhi curiosi, sempre impegnati a indagare qualcosa.
Birba. Mia madre avrebbe definito questa bambina una birba. Come chiamava me. Come io chiamavo Katy. Scorsi rapidamente le informazioni sulla ragazza. Tawny McGee era scomparsa all'età di dodici anni. Deglutii. «Siete sicuri che si tratti di "D"?» Claudel posò sul tavolo un altro fax. Lo raccolsi. Era il documento che aveva fatto circolare per l'identificazione. La faccia nella fotografia era una copia versione Auschwitz di quella che avevo appena osservato. Tawny era più vecchia. Molto più magra. Espressione disperata. No. Non era corretto. La faccia di Tawny McGee non aveva nessuna espressione. «Avete trovato nulla sul bastardo che la teneva prigioniera?» domandai, la voce tesa per la rabbia. «Ci sto lavorando.» «La famiglia? Li avete già contattati?» «Se ne stanno occupando i colleghi di Maniwaki.» «Dove diavolo è finito Stephen Ménard?» Il tono della mia voce stava salendo a ogni domanda. «Possibile che ci sia lui dietro tutto questo? Possibile che Ménard e questo tizio abbiano organizzato un gioco di squadra? Quelli della Scientifica hanno trovato altre impronte, nella casa?» Claudel abbassò la testa e mi guardò con l'aria di chi ammette di non sapere altro. Charbonneau scattò in piedi. «Me ne occupo io, di questo Ménard.» Quando uscirono dalla sala riunioni, premetti il tasto PLAY e senza rendermene conto mi morsi una nocca per mantenere il controllo dei nervi. Guardavamo il secondo nastro da una ventina di minuti, quando squillò il telefono. La centralinista annunciò la chiamata della dottoressa Feldman. Io mimai il nome a Ryan e attesi la connessione. «Dottoressa Brennan.» «Sono Penny Feldman, del Montréal General Hospital.» «Come stanno?» «La piccola si è svegliata ed è in preda a una crisi isterica. Non si lascia toccare da nessuno. Dice che qualcuno vuole ammazzarla.» «Anglofona o francofona?» «Inglese. Continua a chiedere della donna della casa.»
«Anique Pomerleau?» «No. Anique è nel letto accanto. Credo che parli di lei. Qualche volta ha detto "la donna con il poliziotto". Oppure "la donna del giubbotto". Non voglio doverle somministrare un calmante prima che uno psichiatra possa...» «Arrivo.» «Allora cerco di non darle nessun sedativo.» «A proposito. La ragazza si chiama Tawny McGee. I genitori sono stati avvertiti.» Ryan usò la luce lampeggiante e la sirena. Dopo venti minuti eravamo all'ospedale. La dottoressa Feldman era al pronto soccorso. Insieme salimmo al quarto piano. Prima di entrare nella stanza osservai le ragazze da dietro la porta. Era come se le vittime di Ménard avessero invertito i ruoli. Anique Pomerleau giaceva immobile nel suo letto. Tawny McGee era seduta sul letto, il viso rosso, la fronte sudata. Gli occhi irrequieti. Le dita si stringevano sul bordo della coperta che teneva sotto il mento. Ryan e la dottoressa Feldman attesero fuori, io entrai. «Bonjour, Anique.» La ragazza girò la testa. Il suo sguardo era assente, l'interesse per il mondo circostante nullo. Tawny McGee reclinò la testa. La camicia da notte le scivolò di lato, scoprendole la spalla scarna. «È tutto a posto, Tawny. Adesso vedrai che le cose andranno meglio.» Mi avvicinai al letto. Tawny buttò indietro la testa. Sulla sua gola incredibilmente bianca, di colpo spuntarono i segni della cartilagine. «D'ora in poi starai meglio.» Tawny aprì la bocca e un singhiozzo le sfuggì dalle labbra. «Sono qui.» Allungai la mano per sistemarle la camicia da notte. Tawny abbassò la testa di colpo, e le dita serrarono di nuovo il bordo della coperta. Sotto le unghie notai uno spesso strato di sudiciume. «Nessuno potrà più farti del male.» Il suo viso di bambola maltrattata si voltò verso Anique. La ragazza ci guardava con vitreo disinteresse. Tawny si voltò ancora verso di me, gettò via la coperta e iniziò a strap-
parsi l'ago per le endovenose fissato con il cerotto sul suo avambraccio. «Devo andare via!» «Ma qui sei al sicuro.» Posai le mie mani sulle sue. Tawny McGee si irrigidì. «I medici ti aiuteranno» le dissi in tono rassicurante. «No! No!» «Tu e Anique vi riprenderete.» «Portami con te!» «Non posso farlo, Tawny.» La ragazza tolse la mano e si mise a tirare furiosamente il cerotto che fissava l'ago. Ansimava. Le lacrime le rigavano le guance. Le presi i polsi. Lei iniziò a dibattersi, a lottare, le due forze moltiplicate dalla disperazione e dalla paura. La dottoressa si precipitò nella stanza, seguita da un'infermiera. Tawny mi afferrò il braccio. «Portami con te!» Sguardo disperato. «Ti prego! Portami con te!» La dottoressa fece un cenno all'infermiera. La donna procedette con un'iniezione. «Ti prego! Ti prego! Portami con te!» Allargando delicatamente le dita di Tawny, la dottoressa mi liberò il braccio e mi invitò a farmi da parte. Io indietreggiai, tremante. Che cosa potevo fare? Mi sentii inutile e inefficace, e non sapendo cosa fare, presi un biglietto da visita dalla borsa, scrissi il mio numero di cellulare e lo posai sul comodino. Qualche attimo dopo, uscii in corridoio, i pugni chiusi, la mascella serrata e ascoltai le invocazioni di Tawny cedere all'effetto del sedativo. Ogni volta in cui ripenso a quel momento, vorrei con tutta me stessa aver fatto ciò che Tawny mi chiedeva. Vorrei averla ascoltata e capita. 33 Trascorsi un'altra notte agitata. Continuavo a svegliarmi, ogni volta impigliata nei brandelli di un sogno che non riuscivo a ricordare. Quando la radiosveglia si accese, mi sollevai e guardai l'ora. Le cinque e un quarto. Perché avevo puntato la sveglia alle cinque e un quarto? Premetti il pulsante di arresto. La musica continuò.
Lentamente, mi resi conto. Non avevo puntato la sveglia. Non era la sveglia. Gettai via il piumone e schizzai a prendere la borsetta. Occhiali da sole. Portafoglio. Trucchi. Assegni. Agenda. «Maledizione!» Frustrata, rovesciai la borsa e finalmente trovai il cellulare. La musica si interruppe. Il piccolo display digitale mi diceva che non avevo risposto a una chiamata. Chi diavolo poteva chiamarmi alle cinque del mattino? Katy! Con il cuore che mi batteva forte, premetti il pulsante e cercai l'elenco delle chiamate in arrivo. Il numero del cellulare di Anne. Omioddio! Premetti OPZIONI e selezionai CHIAMA. «Siamo spiacenti. La persona da lei chiamata non è al momento raggiungibile...» Lo stesso messaggio che sentivo da venerdì. Interruppi la chiamata e tornai al display. La data del giorno. E poi l'ora. 5:14:44. La chiamata era partita dal cellulare di Anne, ma il cellulare di Anne era spento. Che cosa significava? Che Anne aveva chiamato e poi spento il telefono? Che la batteria si era scaricata? Che si è spostata in un punto senza campo? Che qualcun altro stava usando il cellulare di Anne? Chi? Perché? Di nuovo premetti OPZIONI, poi selezionai INVIA MESSAGGIO. Digitai CHIAMAMI! e premetti INVIA. Digitai un altro numero. Tom mi rispose al quarto squillo con la voce assonnata. Anne non era a casa. Lui non aveva ricevuto nessuna notizia. E nemmeno gli amici che aveva contattato. Scagliai il cellulare contro il cuscino. In genere, la notte lascio sempre il telefono sul comodino, ma lo stress della giornata mi aveva distratto. E il telefono era rimasto nella borsa. Un piccolo errore, e sei finito. Tornare a dormire era fuori questione. Andai a fare la doccia, versai i croccantini di Birdie nella ciotola, e uscii per andare in Istituto.
Ryan entrò nel mio ufficio qualche minuto dopo le otto. «Claudel ha vinto alla lotteria.» Alzai lo sguardo. «Le impronte prese dal corpo del finto Ménard appartengono a un bastardo chiamato Neal Wesley Catts.» «Chi è?» «Teppistello di strada. Vagabondo. Fermato per commercio ambulante. È così che le sue impronte sono finite nel database. Dalla California stanno faxando il suo fascicolo.» «Claudel sta continuando le ricerche?» «Vuole scoprire tutti gli sciacquoni che ha tirato quel figlio d'un cane.» «Guarda qua.» Indicai con la penna l'elenco delle persone scomparse di Claudel. Ryan fece il giro della scrivania e si mise accanto a me. «Ho segnato i nominativi possibili.» Ryan studiò i nomi che avevo cerchiato. Erano la maggioranza. «Le non bianche sono fuori.» «E quelle troppo vecchie o troppo alte al momento della scomparsa.» Ryan mi guardò. «Lo so. Ma senza valori più circoscritti per età e altezza, non riesco a definire meglio il sottogruppo in cui cercare.» Feci un gesto con la mano per indicare gli scheletri che mi aspettavano in laboratorio. «Quelle ragazze possono essere sopravvissute per anni in cattività.» Come Angela Robinson, Anique Pomerleau e Tawny McGee. «Ho prelevato dei campioni per l'esame del DNA su Angela Robinson.» «Quella nell'involucro di cuoio?» Annuii. «Sono sicura che è lei.» «E io credo che tu abbia ragione.» «L'ufficio del coroner sta contattando la famiglia Robinson. Ci serve un parente in linea materna per eseguire il confronto mitocondriale.» Mi appoggiai allo schienale. «Questa mattina mi ha chiamato Anne.» «Ottimo.» La faccia di Ryan si aprì in un grande sorriso. «No. Niente affatto.» Quando gli raccontai che cosa era successo, il sorriso di Ryan svanì. «Ho chiamato le cooperative dei taxi. Stanno controllando i loro tabulati per verificare se Anne venerdì si è fatta venire a prendere. Vuoi che contatti anche gli autonoleggi?»
«Forse sarebbe il caso» dissi. «Sono passati solo quattro giorni.» «Già.» «Ma se lei fosse...» Ryan esitò. «Se fosse successo qualcosa, noi saremmo i primi a saperlo, giusto?» «Giusto.» Il cellulare di Ryan trillò. Controllò il display, aggrottò la fronte e poi mi rivolse uno dei suoi sorrisi assassini. «Scusami...» «Lo so. Devi rispondere.» Ryan era appena uscito dal mio ufficio, che il telefono che avevo sulla scrivania squillò. Come da mia richiesta, la bibliotecaria aveva trovato del materiale sul sadismo sessuale e sulla sindrome di Stoccolma. Mentre leggevo un articolo sul «Journal of Forensic Sciences», arrivò Claudel. «L'uomo che si è suicidato si chiama Neal Wesley Catts.» «S'il vous plaît.» Gli indicai la sedia di fronte alla scrivania. «Asseyezvous.» Claudel fece una smorfia ma si sedette. «Catts è nato a Stockton, in California, nel 1963. La solita triste storia: famiglia inesistente, madre alcolista eccetera eccetera.» Claudel mi parlava in inglese. Cosa poteva significare? «Catts ha lasciato la scuola nel '79, ha girato con i Banditos per un po', ma non è riuscito a entrare come membro effettivo nella banda. È stato dentro per droga.» «Ha mai lavorato?» «Fast food. Una volta in un bar. In una fabbrica di intelaiature per finestre. Ma c'è qualcos'altro che potrebbe interessarle. A questo pervertito piaceva guardare quando non era il momento.» Ascoltai senza interrompere. «Catts è stato fermato diverse volte perché accusato di essere un guardone.» «La cosa non mi sorprende.» «Ma i colleghi non hanno mai avuto prove sufficienti per condannarlo.» «Il voyeurismo è il tipico primo passo dei maniaci sessuali.» «Una vecchietta l'aveva accusato di averle fatto fuori il barboncino. Ma, di nuovo, niente prove, niente condanna.» «Questo dov'era successo?»
«Yuba City, in California.» Quel nome mi fece l'effetto di un pugno in pieno viso. «Yuba City è vicinissima a Chico.» Le labbra di Claudel abbozzarono qualcosa di molto simile a un sorriso. «E a Red Bluff.» «Catts si trovava nei paraggi? Quando?» «Fine anni Settanta, inizio anni Ottanta. E poi è sparito dalla circolazione verso la metà degli Ottanta.» «Per caso doveva mettere la firma da qualche parte, o qualcosa di simile?» «Nell'84 ha chiuso tutti i conti con la giustizia del suo Stato.» Quando Claudel uscì per andare da LaManche, io tornai alle mie letture. Durante il mio secondo viaggio in biblioteca, incontrai il mio capo. «Una giornataccia, ieri, vero, Temperance?» «Davvero. Per caso ha parlato con Claudel?» «Gli ho appena fornito i risultati preliminari di monsieur Catts.» «Qualche sorpresa?» LaManche mi fece un gesto con le mani che voleva dire: forse sì, forse no. «Che cosa?» «Non ho trovato polvere da sparo sulle mani.» «Erano state chiuse negli appositi sacchetti?» «Sì.» «Ma se lui si è sparato, non dovrebbe avere la polvere da sparo sulle mani?» «Sì.» «E allora, com'è possibile?» LaManche sollevò una spalla ed entrambe le sopracciglia. Charbonneau fu il primo del mio elenco di contatti telefonici. «Ménard e Catts si conoscevano» disse senza preamboli. «Sì.» «Sono riuscito a trovare uno degli ex insegnanti. Il tizio è in attività sin dai tempi in cui Truman ha ridecorato La Casa Bianca e ha ancora una memoria di ferro. Mi ha dato il nome di una vecchia fidanzatina di Ménard. Una certa Carla Greensberg.» Il nome non mi diceva nulla. «Carla Greensberg lavora in un piccolo college della Pennsylvania. Dice
che lei e Ménard uscivano insieme quando frequentavano il primo anno del master. Poi lei è partita per il Belize. Ménard non aveva in ballo nessun lavoro o progetto particolare, così era rimasto a Chico per tutta l'estate. Quando Carla Greensberg era rientrata, aveva scoperto che Ménard trascorreva gran parte del suo tempo con un tizio di Yuba City.» «Catts?» «Proprio il nostro eroe.» «E come si sono conosciuti, Catts e Ménard?» «Si assomigliavano.» «Dai...» Charbonneau sollevò una mano. «Non sto scherzando, dottoressa. Secondo Carla Greensberg, la gente continuava a ripetergli che un tizio con un banco dei pegni di Yuba City era il suo sosia. Gli studenti di archeologia amavano bazzicare il negozio di questo tipo perché non era troppo rigido con le leggi che regolano il movimento dei reperti antichi. Non so se mi sono spiegato...» «E allora?» «Un giorno Ménard è andato a fare una visita e sono diventati amici. Almeno, questa è la storia che Ménard ha raccontato alla fidanzatina dell'epoca.» «Suona un po' assurda.» «Carla Greensberg ci ha mandato questo via e-mail.» Charbonneau mi porse una fotografia a colori stampata su carta da computer. Vi si vedevano tre persone che si tenevano sottobraccio su un pontile. La donna era tozza e muscolosa, con lunghi capelli castani e occhi distanti. Gli uomini al suo fianco sembravano dei fermalibri. Erano entrambi alti e sottili, con una chioma di capelli rossi incolti e la faccia tempestata di lentiggini. «Accidenti.» «Secondo Carla Greensberg, Ménard passava sempre meno tempo a Chico, e alla fine ha buttato via il master. Lei però era molto occupata con la tesi, e non aveva avuto tempo di pensare a lui.» «Per caso a Yuba City avete trovato qualcuno che ricordava Catts?» «Una vecchia coppia. I due vivono ancora nella roulotte a fianco a quella affittata da Catts.» «Mi lasci indovinare. Un bravo giovane. Tranquillo. Molto riservato.» «Esattamente.»
Charbonneau riprese la fotografia di Carla Greensberg e la guardò come si potrebbe guardare un escremento in un giardino. «Luc e io stiamo andando a fare un giretto in Vermont. Mostriamo qualche foto in giro e vediamo se riusciamo a rinverdire qualche ricordo.» Quando Charbonneau uscì, provai a chiamare Anne al cellulare. «Siamo spiacenti. La persona da lei chiamata non è al momento raggiungibile...» Per distrarmi, cercai di rimettermi sulle pubblicazioni che la bibliotecaria aveva cercato per me. «British Journal of Psychiatry». «Behavioral Sciences and the Law». «Medicine and the Law». «Bulletin of the American Academy for Science and the Law». Niente da fare. Continuavo a pensare ad altro. Richiamai Anne. Il suo cellulare era sempre spento. Telefonai a Tom. La moglie non si era fatta viva. Chiamai i fratelli di Anne, nel Mississippi. Anne non c'era e non si era fatta sentire. Mi costrinsi a rimettermi sulle riviste. Un articolo parlava di Leonard Lake e Charles Ng, i due geni californiani che si erano costruiti dei bunker sotterranei per rinchiudere delle donne che usavano come giocattoli sessuali. Al processo, gli avvocati di Ng avevano argomentato che il loro cliente era un semplice spettatore, una personalità dipendente che aspettava di essere guidata. Secondo la difesa, la vera colpevole era la ex moglie di Lake. Ma certo, Charlie. Tu eri solo una povera vittima... Come Karla Homolka. Nel 1991, il corpo della quattordicenne Leslie Mahaffy era stato ritrovato smembrato e sepolto nel cemento sul Lago Ontario. L'anno seguente, Kristin French, di quindici anni, era stata ritrovata nuda e morta in un fossato. Entrambe le ragazzine erano state seviziate, stuprate e poi assassinate. Le indagini avevano portato all'arresto di Paul Bernardo e della moglie, Karla Homolka. Giovani, biondi e bellissimi, i due erano stati ribattezzati dalla stampa Ken e Barbie. In cambio della testimonianza contro l'ex marito, Karla Homolka aveva ottenuto di dover rispondere in tribunale di omicidio preterintenzionale. Bernardo era stato incriminato del primo omicidio, di violenze sessuali reiterate e aggravate, di rapimento, segregazione e oltraggio a cadavere. Come già avevano fatto Lake e Ng, i Bernardo avevano ripreso le loro piccole orge. Quando infine i nastri furono ritrovati, le immagini mostravano chiaramente che marito e moglie erano egualmente entusiasti nel pra-
ticare le sevizie e i due omicidi. Ma Karla aveva già ottenuto il suo trattamento di favore. Stavo passando all'articolo successivo, quando il telefono squillò per l'ennesima volta. «Se ne sono andate.» Ryan sembrava chiamare dal pianeta Urano. «Chi?» «Anique Pomerleau e Tawny McGee.» 34 «Com'è possibile che se ne siano andate?» «Al cambio di turno, quando l'infermiera ha fatto il giro, ha trovato i letti vuoti.» «Non c'era un servizio di guardia?» «Avevamo detto alla dottoressa che la sicurezza non era un problema perché Catts era morto.» «Erano state dimesse?» «No.» «Erano sole?» «Nessuno le ha viste uscire.» «Avevano ricevuto visite?» Stavo quasi gridando. «Magari dai famigliari?» «Dobbiamo ancora rintracciare i parenti di Anique Pomerleau. La sorella di Tawny McGee ha preso un aereo dall'Alberta ieri sera. Si chiama Sandra qualcosa. Lei e la madre dovrebbero essere in arrivo.» Sentii l'adrenalina entrare in circolo. «Ménard!» «Ho fatto circolare il suo profilo per il piano. Nessuno ha visto qualcuno che gli assomigliava.» «Ieri Tawny McGee era in preda a una crisi isterica. E adesso questi geni stanno dicendo che le due ragazze si sono infilate i pantaloni e se ne sono andate?» «La caposala è convinta che se la siano filata durante il cambio di turno. O nella notte.» «Ma non avevano vestiti!» «Dallo spogliatoio del personale mancano due cappotti e due paia di scarponcini. E anche diciassette dollari della cassa caffè.» «Ma dove possono andare a finire due ragazze disorientate e senza ca-
sa?» «Tempe, calmati.» Chiusi gli occhi e ordinai all'adrenalina di tornare alle sue miriadi di fonti. «Potrebbero non essere andate da nessuna parte. Il General Hospital è pieno di cunicoli e di stanzini. Il seminterrato è un vero labirinto. Io sono qui all'ospedale. Se non le troviamo qui dentro, rivoltiamo il quartiere.» «E poi?» «Quando la madre e la sorella di Tawny McGee arrivano, verifico se la ragazza per caso conosce qualcuno a Montréal.» «Gesù, Ryan. Quella poveretta ha perso la figlia, probabilmente si era rassegnata a pensarla morta, poi dopo anni le dicono che è viva, e quando arriva per vederla, le diciamo che è scomparsa di nuovo?» «La troveremo.» La voce di Ryan era acciaio temperato. «Intanto io provo a chiamare le Case delle donne.» «Buona idea.» Era un vicolo cieco. Nessuno aveva visto o accolto nessuna donna che corrispondesse alla descrizione che avevo fornito. Tornai alle mie riviste, ma ero più distratta di prima. Non riuscivo a stare seduta. Non riuscivo a leggere. Ero così carica di energia che avrei potuto far saltare in aria un blocco di granito. Quelle ragazze erano state rapite un certo numero di anni prima. Angela Robinson nel 1985. Anique Pomerleau nel 1990 e Tawny McGee nel 1999. Il loro sequestratore adesso era morto. Allora perché avevo un senso di terrore crescente? Ci eravamo sbagliati? Catts era l'unico carceriere? Stephan Ménard era complice di Neal Wesley Catts in quel gioco perverso, o viceversa? Ménard era ancora vivo? Anique e Tawny erano ricadute nelle mani di Ménard? Le aveva costrette a lasciare l'ospedale? Le ragazze erano fuggite di loro spontanea volontà, oppure erano ancora sottomesse alla volontà di Ménard? Catts aveva ucciso Ménard? Quando? Perché? Catts avrebbe dovuto avere tracce di polvere da sparo sulle mani. Ma LaManche non ne aveva trovate. Forse era il contrario? Forse era stato Ménard a uccidere Catts? Ripensai a come Tawny mi aveva implorata di portarla via dall'ospedale. Tawny aveva convinto Anique a fuggire? Ma poi, erano veramente fuggite? Forse era stato l'ambiente nuovo a spaventarle e a indurle a scappare?
Ma scappare dove? Perché quella forte sensazione che le due ragazze fossero in pericolo? E che avrei potuto salvarle se solo fossi riuscita a trovare il nesso giusto? Perché Ryan non chiamava? Avevo spremuto ogni informazione dalle ossa che avevo in laboratorio. Avevo riguardato gli elenchi delle persone scomparse. Che altro potevo fare? I video. Mi alzai dalla scrivania e corsi in sala riunioni. I video erano dove Ryan e Charbonneau li avevano lasciati il pomeriggio precedente. Premetti PLAY e guardai infinite scene di donne incappucciate e seviziate. Riavvolgendo il nastro ripetutamente e osservando le immagini al rallentatore, riuscii a distinguere tre diverse vittime. Una aveva il seno più grande. Un'altra aveva un grosso neo a sinistra dell'ombelico, un'altra ancora sembrava più alta, in relazione agli oggetti che la circondavano. Il set era sempre lo stesso, ma l'attrezzatura variava. Una frusta. Un pungolo elettrico. Una fiala di vetro. Ogni tanto Catts entrava nell'inquadratura per seviziare o minacciare una vittima o l'altra. Ero orripilata e disgustata. Quelle ragazze avrebbero dovuto tremare per un compito di algebra, innamorarsi, litigare con le madri, comprarsi dei vestiti. Non ritrovarsi appese per i polsi in una cantina puzzolente. Eravamo in Canada, non nella Transilvania medioevale. Mi era capitato poche volte di provare una simile rabbia. Cerca di essere oggettiva, Brennan. Cerca dei collegamenti. Individua degli schemi di comportamento. Ricominciai con il nastro 1. Via via che notavo qualcosa di significativo, lo annotavo in un elenco. Le ragazze comparivano in sequenza. La più alta delle tre si vedeva solo nella prima parte del primo nastro. Quella con il seno più grosso entrava in scena alla fine del nastro 1 e compariva in tutto il nastro 2. Nel nastro 3 era stata sostituita dalla ragazza con il neo. Nessuna scena includeva commento sonoro. Tutte le scene iniziavano e finivano bruscamente. In alcune scene le immagini erano stabili, registrate con la videocamera appoggiata su un sostegno. In altre, le immagini erano mosse, registrate con la videocamera a mano. D'un tratto ci pensai. Quando la registrazione era mossa, Catts per caso veniva inquadrato? E
se era così, chi stava riprendendo? Stavo guardando quei nastri da quasi tre ore quando finalmente trovai la scena che stavo cercando. D'un tratto l'inquadratura cambia e la videocamera riprende la stanza con un movimento circolare e tremolante. Durante il passaggio, l'obiettivo riprende una ragazza distesa sul tavolo di Catts e legata ai polsi e alle caviglie con lacci di pelle. Dietro di lei si vede uno specchio rettangolare, all'incirca trenta per sessanta. Catts compare nell'inquadratura, davanti all'obiettivo. Sentii una scarica di adrenalina. Scattai in piedi e andai al videoregistratore. Premetti REWIND e poi PLAY. Avevo notato una figura confusa riflessa nello specchio. Ménard? Riavvolsi ancora il nastro, lo feci avanzare al rallentatore e lo fermai. Ma le mie speranze svanirono di colpo. «Merda!» Anche se sgranata e parziale, l'immagine riflessa nello specchio era riconoscibile. Anique Pomerleau. «Davvero geniale, razza di schifoso bastardo.» La mia voce risuonò aspra nel vuoto della sala riunioni. «Costringere una prigioniera a filmare mentre tu torturi l'altra.» Cercai di esaminare altri spezzoni, ma non riuscivo a star ferma. Continuavo ad alzarmi, ad andare in ufficio a controllare la segreteria telefonica, a guardare in corridoio. Dopo una ventina di minuti, decisi di tornare in ufficio, quasi nauseata dalla rabbia e dall'angoscia. Aprii una rivista che riportava un articolo sulla sindrome di Stoccolma, ma la confusione di immagini che si alternavano nella mia testa mi distolse dalla pagina. Rividi Anique Pomerleau che attraversava furtivamente il salotto di Catts. Tawny McGee che mi pregava di portarla via dall'ospedale. Colleen Stan rinchiusa in una bara sotto un letto. Pensai a quelle ragazze, sigillate in un buio claustrofobico, paralizzate dal terrore, nude, sole. Cameron Hooker aveva appeso Colleen per i polsi, l'aveva allungata su un tavolo di tortura, frustata, folgorata con i fili elettrici fino a che la sua pelle non si copriva di vesciche. Neal Catts aveva sot-
tomesso le sue vittime nello stesso modo, spezzando la loro volontà con la deprivazione sensoriale, con il terrore, con il dolore. Cercai di immaginare l'odissea patita da quelle ragazze. Erano rimaste al buio ad ascoltare il suono del loro respiro? Il martellare del loro cuore? Riuscivano a distinguere il giorno dalla notte? Cadevano nel terrore ogni volta che sentivano il rumore della serratura? Avevano perso ogni speranza? I ricordi della loro vita precedente erano svaniti con il passare del tempo, come la nebbia evapora alle prime luci del mattino? Qualcosa mi si indurì dentro. Mi costrinsi a concentrarmi. Come già avevo fatto con i nastri, iniziai a prendere appunti anche con gli articoli che stavo leggendo. Bondage. Amplificazione della tensione sessuale attraverso la limitazione fisica del movimento. Sadomasochismo. Ricerca dell'eccitazione sessuale attraverso il dolore, inflitto o subito. Nelle forme patologiche estreme, rapimento, segregazione, imposizione di schiavitù involontaria. Sindrome di Stoccolma. Iniziai a delineare uno schema, aggiungendo nuovi punti a mano a mano che procedevo con la lettura. Uno. Sequestro seguito da isolamento. La vittima è reclusa, denudata, umiliata, degradata. Due. Ricorso a violenza fisica o sessuale. La vittima si sente vulnerabile. Tre. Eliminazione del normale alternarsi di notte e giorno. La vittima viene tenuta in condizioni di buio o di luce permanente. Utilizzo di cappucci, bende, scatole, casse. Quattro. Distruzione della privacy. Evacuazione, minzione e mestruazioni controllate e osservate dal carceriere. Cinque. Controllo e riduzione di cibo e acqua. La vittima sviluppa dipendenza nei confronti del carceriere. Ryan chiamò alle tre. Avevano messo sottosopra l'intero ospedale, ma le due ragazze non c'erano. Tornai alle mie ricerche. Sei. Imposizione di punizione imprevedibili. Alla vittima viene negata qualsiasi spiegazione razionale. Sette. Richiesta di permesso. La vittima deve chiedere il permesso di mangiare, parlare, alzarsi, eccetera... Otto. Ripetuti episodi di violenza fisica e sessuale. La vittima si convince dell'ineluttabilità del suo destino.
Nove. Isolamento continuato. La vittima vede nel carceriere la sola fonte di contatto e informazione. Ryan richiamò alle quattro. «La signora McGee e la figlia sono qui.» «Hai già parlato con loro?» «Sì.» «Come l'hanno presa?» «La madre è disperata. La figlia è furiosa.» «Adesso dove sono?» «Le ho fatte sistemare al Delta Hotel.» «Per caso Tawny conosce qualcuno a Montréal?» «Secondo la sorella, la migliore amica di Tawny a Maniwaki aveva dei cugini in qualche sobborgo della periferia.» Un'idea. «Tawny e Anique sapevano che Catts era morto. Forse quella casa è l'unico posto dove si sentono al sicuro.» «Brava, Brennan. Ma purtroppo, niente da fare. Ho già fatto controllare. Quella casa è vuota. Ti richiamo se ci sono novità.» Tornai alle mie riviste. Dieci. Minacce di nuocere a famigliari e parenti. Undici. Minacce di trasferimento a carcerieri più severi. Dodici. Imprevista indulgenza. Alla vittima vengono concessi privilegi inesplicati, regali, periodi di libertà. Tredici. Comparsa inaspettata. La vittima sviluppa la sensazione che il carceriere sia onnipresente. Alle sei e mezzo trillò il mio cellulare. La voce che sentii mi fece saltare il cuore in gola. «"D" ti vuole.» Femmina. Forte accento francese. «Anique?» «Ha bisogno di aiuto.» «Sono contenta di sentirti.» Cercai di mantenere un tono controllato. «Siamo preoccupati per voi.» «"D" non voleva stare in quell'ospedale.» «State bene?» «"D" potrebbe farsi del male.» «Dove siete?» «A casa.» Dov'era «casa» per Anique Pomerleau? Mascouche? Pointe-Saint Char-
les? «Siete al sicuro?» «"D" ti vuole.» «Dimmi dove siete.» Presi una penna. «Rue de Sébastopol.» «Ma abbiamo già controllato la casa» dissi d'istinto. Silenzio. Che stupida, Brennan! Che stupida! «Eravamo preoccupati per voi» dissi. «Vieni sola.» «Porto il tenente Ryan.» «No!» «Potete fidarvi del tenente. È una brava persona.» «Niente uomini.» Secca. «Sto arrivando.» Feci per premere il numero di Ryan, ma poi cambiai idea. 35 Rimasi con lo sguardo incollato al telefono, la mente agitata da un turbinio di ipotesi. E se avessi telefonato a Ryan? O a Claudel? O a Charbonneau? Non volevo trovarmi da sola in quella situazione. E se invece fossi corsa subito in Rue de Sébastopol? Quelle ragazze dovevano essere salvate. Anique Pomerleau mi aveva chiesto di essere sola. Niente uomini. Da quello che avevo letto, era il minimo che potesse pretendere. Lei e Tawny avevano subito anni di violenze a opera di un uomo. Dentro di me sentivo infuriare una battaglia di emozioni contrastanti. Rabbia. Odio. Comprensione. Urgenza. I tre detective si sarebbero infuriati se fossi andata da sola. Ryan avrebbe potuto aspettare fuori. Di nuovo, feci per premere il tasto del numero di Ryan. Di nuovo, mi fermai. E se Ryan avesse insistito per accompagnarmi all'interno? Anique e Tawny avevano una tana in quella casa. La presenza di Ryan avrebbe potuto spingerle a rifugiarsi di nuovo sottoterra. Avrebbe potuto distruggere la fiducia che avevano in me. Forse non erano neppure lì, ma
mi avrebbero chiamato e rivelato dove si trovavano solo se mi avessero visto sola. La presenza della polizia nel quartiere sarebbe stata difficile da nascondere. Nella mente, risentii le preghiere terrorizzate di Tawny, rividi la speranza e la disperazione nei suoi occhi, la sentii ancora stringermi il braccio. Nei miei pensieri si affacciarono il senso di colpa e il rimprovero. All'ospedale, non ero stata in grado di calmare Tawny. Anzi, forse avevo addirittura aumentato la sua angoscia. E se la presenza di Ryan l'avesse gettata di nuovo nel panico? Mi alzai in piedi. Lentamente, andai a prendere il giaccone dall'attaccapanni. Questa volta avrei fatto ciò che mi chiedeva. Glielo dovevo. Lo dovevo a entrambe. Ma poi, un nuovo pensiero mi paralizzò. E se Tawny e Anique non fossero state sole? E se Ménard fosse stato ancora in grado di manipolarle? E se quella fosse semplicemente una trappola? Ménard avrebbe osato fare del male anche a me? In fondo, perché no? La sua prospettiva era l'ergastolo, ed era pur sempre uno psicopatico perverso. «Maledizione! Maledizione! Maledizione!» A chi potevo telefonare? Ryan non mi avrebbe risparmiato il suo solito paternalismo. E non era certo quello di cui avevo bisogno. Claudel era fuori questione. Con il cuore che mi martellava nel petto, provai a chiamare Charbonneau, tanto per informare qualcuno dei miei spostamenti. Una voce metallica mi informò che l'abbonato non era raggiungibile, e interruppe la comunicazione senza invitarmi a lasciare messaggi. Controllai l'ora. Le sei e quarantadue. Chiamai la centrale della CUM e lasciai un messaggio per Charbonneau. Lui e Claudel probabilmente erano ancora in Vermont, ma almeno avrebbero saputo dove mi trovavo. Ero immersa nel silenzio. Mi vennero altri dubbi. E se Tawny si fosse fatta del male? E se si fosse trattata di una mossa di Ménard per attirare anche me nella sua sala giochi? E se Ménard pensava di ficcarmi una pallottola in testa?
Stavo cercando di valutare tutti i terribili scenari che avevo immaginato, quando il telefono mi squillò in mano. Sussultai, come se avessi ricevuto una scossa elettrica, e l'apparecchio mi sfuggì di mano andando a ricadere sotto la scrivania. Mi misi a quattro zampe, lo recuperai a tentoni e premetti il pulsante della risposta. Un altro shock. Senza preamboli, Anne si lanciò in un'articolata richiesta di scuse. Di colpo, mi trovai lacerata tra una sensazione di sollievo e un forte risentimento nei suoi confronti. La interruppi. «Dove sei?» Anne equivocò l'ansia che trapelava dalla mia voce. «Non te ne voglio, Tempe, se sei arrabbiata con me. Il mio comportamento è stato inqualificabile, il massimo dell'egoismo, ma vedi, vorrei che tu capissi che...» Il tempo passava. Un tempo in cui Tawny McGee avrebbe potuto tagliarsi le vene. «Dove sei?» Più convinta. «Mi dispiace tantissimo, Tempe...» «Anne, dimmi dove sei.» «Dalle Sorelle della Provvidenza.» La voce di Anne aveva aperto una minuscola finestra nel mio cervello. E qualche pensiero lucido e razionale finalmente stava entrando. «Il convento all'angolo tra la Sainte-Catherine e la Fullum?» «Sì.» Anne si trovava a meno di cinque minuti dall'Istituto. Anne era una donna. Decisi lì, su due piedi. «Ho bisogno del tuo aiuto.» «Tutto quello che vuoi.» «Vengo a prenderti.» «Quando?» «Adesso.» «Ti aspetto fuori.» Raggiunsi la mia auto quasi correndo, con il cuore che batteva come un tamburo. Era un errore coinvolgere Anne? Non era già molto provata dal punto di vista emotivo? Le stavo facendo correre dei rischi?
Decisi di raccontarle tutto e lasciar decidere a lei. Una coltre di gelo notturno era scesa sulla città. Il vento era umido, le nuvole basse e lente, come indecise tra la pioggia e la neve. Anne mi aspettava tremante fuori dall'antica casa madre con una pila di valigie ai piedi. I passanti che rientravano a casa affollavano ancora i marciapiedi e gli incroci delle strade. Durante il tragitto verso la casa di Ménard, le raccontai tutto ciò che avevo scoperto da quando lei se n'era andata. Anne mi ascoltò senza interrompermi, il viso teso, le dita occupate a stropicciare nervosamente i lembi della sciarpa. Quando ebbi concluso, Anne rimase in silenzio per un intero lunghissimo minuto. Ero certa che mi avrebbe chiesto di riportarla a casa. «Sono davvero la più grande stronza dell'universo.» «Non dire così, Anne.» «Mentre io mi gingillavo con il pensiero di non essere all'altezza del comitato accoglienza di Dio, queste ragazze hanno vissuto un incubo durato anni.» Anne si voltò verso di me. «Che razza di mostro psicopatico intossicato di testosterone può provare piacere a torturare delle ragazzine?» «Anne, non devi sentirti obbligata a seguirmi. Se non vuoi lasciarti coinvolgere in questa storia, lo capirò.» «Niente da fare, tesorino. Lo voglio proprio vedere in faccia, questo pervertito.» «Ecco, Anne, questo è esattamente quello che non farai.» Stavo parlando come Ryan. «Hai il cellulare?» «Quel rottame è morto mentre cercavo di chiamarti, questa mattina.» Anne diede un colpetto alla borsa che aveva sulle ginocchia. «Ma ho il mio spray al peperoncino.» Indicai la mia borsetta. «Prendi il mio telefono.» Mentre svoltavo in Rue de Sébastopol, Anne fece come le dicevo. Parcheggiai di fronte alle scuderie. Prima di spegnere i fari, notai il cane alzarsi e attraversare il cortile, gli occhi allerta e il naso impegnato a fiutare l'aria. Anne e io sbirciammo la strada. Alla nostra destra, un unico lampione proiettava un cono di luce sul portone delle scuderie. A sinistra, gli spazi dello scalo ferroviario si aprivano oscuri e vuoti. «Tu resta in macchina» sussurrai. «Scordatelo.»
«Devi restare in macchina.» «No.» «Sì» sibilai. Anne incrociò le braccia sul petto. Nella luce fioca che arrivava dal lampione della scuderia, vidi che la mia amica si stava mordendo le labbra. Le presi la mano, e le rivolsi un vago sorriso. «Ho bisogno del tuo aiuto, Anne. Ma devi aiutarmi a distanza. Quelle ragazze sono rimaste isolate per anni. Il mondo le terrorizza.» Le strinsi appena la mano, e addolcii la voce. «Non ti conoscono.» «Ma non conoscono nemmeno te» borbottò. «Però mi hanno chiesto aiuto.» «E se quel bastardo di Ménard è dentro quella casa?» «Là dentro c'è un telefono. Se non ti chiamo o non mi faccio vedere in alcun modo nel giro di dieci minuti, chiama Ryan. Il numero lo trovi nelle chiamate dirette.» «E se Ryan non c'è?» «Chiama il soccorso d'emergenza.» Quando scesi dall'auto, il cane delle scuderie si avvicinò alla recinzione e mi seguì per un tratto di marciapiede, iniziando a ringhiare quando raggiunsi la fine del suo recinto. Per ragioni note soltanto a lui, decise di non abbaiare. L'aria della notte odorava di cavalli, di fiume e di neve imminente. Prima di svoltare nella vietta che portava alla casa di Ménard, udii un cigolio metallico, e con uno scatto mi riparai nel portoncino dell'ultima casa dell'isolato. Immobile, mi sforzai di cogliere ogni minimo rumore. Niente. Uscii dal mio nascondiglio e sbirciai oltre l'angolo. Sul marciapiede notai una bottiglia marrone. Budweiser, propose qualche cellula del mio cervello. Un soffio di vento mosse la bottiglia che si mise a rotolare sulla ghiaia coperta di neve. Presi coraggio e mi avviai verso la casa, attenta a non inciampare o a non mettere piedi in fallo. Nell'oscurità che mi circondava, riuscivo solo a distinguere la sagoma irregolare di alberi e cespugli, che cambiavano continuamente forma agitati dal vento. La casa si stagliava di fronte a me, nera e silenziosa. Non un filo di luce sfuggiva dall'interno. Raggiunsi la porta d'ingresso, ruotai il campanello, attesi. Suonai ancora,
il corpo teso, pronto a retrocedere, in caso di pericolo. Il chiavistello e la serratura si mossero. La porta si schiuse. Mi avvicinai, carica di adrenalina come un soldato prima della battaglia. Di fronte a me, un viso dal pallore mortale. Occhi enormi e attenti. Sentii il rumore del mio respiro. «Anique, sono la dottoressa Brennan.» Lo sguardo della ragazza si spostò oltre le mie spalle. «Sono sola.» Anique indietreggiò e aprì la porta. Entrai. L'aria puzzava ancora di muffa e di chiuso. Anique accostò la porta e la chiuse con il chiavistello. Indossava un paio di jeans neri e una felpa azzurra. «Tawny sta bene?» domandai subito. Anique si voltò con una lentezza da zombie. «"D" sta bene?» mi corressi. «È spaventata» rispose in un sussurro. «Posso?» domandai mentre abbassavo la cerniera del giaccone. Anique Pomerleau mi lasciò spogliare e fece per accompagnarmi all'interno. Quando si voltò, ne approfittai per appendere il giaccone alla maniglia della porta e aprire il chiavistello. Anique mi fece strada fino al salottino che Catts aveva battezzato con il suo cervello. La seguii. Il divano di Catts era coperto con un telo e spostato contro il secrétaire. Un'unica lampada di ottone illuminava l'ambiente con una luce ambrata. Tawny McGee era seduta in una delle poltrone, ginocchia sollevate contro il petto, testa reclinata, nella stessa posizione in cui l'avevo trovata nella sua prigione. Addosso, aveva la stessa coperta che stringeva quel giorno. «Tawny?» Non si mosse. «Tawny?» Il fragile corpicino della ragazza si contrasse. Mi avvicinai, attenta al minimo segno di una terza presenza. La casa era sinistramente immersa nel silenzio. «Tawny, sono la dottoressa Brennan.» La ragazza ebbe un tremito e urtò il bordo del tavolino. La lampada oscillò e un ventaglio di puntini gialli si posò per un istante sulla sua testa. Mi inginocchiai e le posai una mano sul piede. Sentii i suoi muscoli contrarsi.
«Vedrai che adesso starai bene, Tawny.» Non si mosse. Cercai la sua mano. Attraverso la lana della coperta, le mie dita sentirono qualcosa di duro e sinuoso. In quel momento, una serie di colpi contro la porta d'ingresso spezzò il silenzio della casa. Tawny d'istinto si ritrasse. Anique si irrigidì. Il battente scricchiolò, poi una voce arrivò dall'ingresso. «C'è nessuno?» Era la voce di Anne. «Bonjour!» Anique fece una smorfia. «Hai mentito», sibilò rivolta verso di me. Prima che potessi replicare, Anne comparve davanti alla porta del salotto, il cellulare in una mano, le chiavi dell'auto nell'altra. «Perché sei entrata?» la apostrofai, scattando in piedi. «Ti hanno chiamata. Ho pensato che fosse importante.» Anne spostò lo sguardo da me ad Anique Pomerleau e poi alla forma catatonica che si nascondeva sotto la coperta. «Ho pensato che fosse importante per tutte.» «Potevo anche aspettare» replicai, senza nascondere la mia irritazione. Sapendo che aveva commesso un errore, Anne continuò, cercando di spiegarsi. «Charbonneau ha lasciato un messaggio alla centrale della CUM.» Mi mostrò il cellulare. «E dal centralino ti hanno chiamata subito.» Mi accorsi che Anique scomparve in fondo al corridoio. «Stephen Ménard è morto» proseguì Anne, gli occhi fissi sui miei in cerca del mio perdono. «È morto da anni. L'ha ammazzato Catts.» Un suono si alzò dalla forma rannicchiata sotto la coperta alle mie spalle. A metà fra un gemito e un lamento. «Scusami, Tempe» mormorò Anne. «Ho pensato che fosse importante. Torno in macchina.» E Anne rapidamente uscì dal salotto. Io mi chinai e posai la mano sui piedi di Tawny. La schiena della ragazza si sollevò e subito si curvò. La coperta scivolò sul petto scoprendo un viso che ricordava una pallida luna invernale. Le labbra di Tawny tremavano. «Ormai sei al sicuro, Tawny. Tu e Anique siete tutt'e due al sicuro.» La ragazza spostò una spalla. La coperta le scivolò in grembo. Tawny aveva i polsi legati con una corda. L'immagine non quadrava. Una corda. Perché una corda? Sentii la porta d'ingresso che si apriva. Alzai lo sguardo. Gli occhi di Tawny erano colmi di terrore. Seguii il
suo sguardo. Era fisso sulla schiena di Anique, che stava uscendo dalla stanza. Mi mancò il respiro. Sentii il cuore fermarsi. Il mio viso sbiancare. Il terrore di Tawny all'ospedale. Una faccia dietro una videocamera. Niente polvere da sparo sulle mani. Karla Homolka, che partecipava spontaneamente alle azioni depravate del marito. Scattai in piedi. Anique Pomerleau era uscita in corridoio. Sembrava posseduta. Sentii uno schianto. Poi un colpo sordo. Mi precipitai verso l'ingresso. La porta era aperta. Anne era distesa sul ventre, il corpo sulla soglia, le gambe abbandonate sul linoleum. Guardai fuori, nel buio della notte. Nessun segno di Anique. «Anne!» Mi chinai accanto a lei, e le tastai la gola per cercare il battito. Troppo tardi, percepii un movimento alle mie spalle. Il battente si spostò, urtò la scarpa di Anne. Prima che potessi voltarmi, una luce mi esplose nella testa. E poi scivolai nel buio. 36 Dopo qualche secondo, o almeno questa fu la sensazione, mi sentii il cervello premere contro il cranio, in un'aggressiva ricerca di spazio. Aprii gli occhi e iniziai a muovere la testa. Particelle di vetro in frantumi vagarono nel mio campo visivo. Chiusi gli occhi e cercai di orientarmi. Sentivo un intenso bruciore al petto. Ero sdraiata per terra, sul fianco sinistro. Deglutii, cercai di mettermi seduta. Le braccia e le gambe non risposero agli ordini del mio cervello. Ero legata mani e piedi, le caviglie insieme ai polsi. Lentamente, mi resi conto della situazione. Non sentivo le mani. Né i piedi. Dovevo muovermi. Contrassi gli addominali e cercai di nuovo di mettermi in ginocchio. Mi sentii assalire dalla nausea. Vomitai. Utilizzando fianchi e caviglie, cercai di allontanarmi dal sudiciume. Lo sforzo mi fece vomitare ancora, fino a che il mio stomaco produsse solo bile.
Mi fermai per qualche secondo. Respirai a fondo e intanto cercai spiegazioni al contesto in cui mi trovavo. Dov'ero? Da quanto tempo? Con grande cautela, ruotai la testa. Provai un dolore atroce, che mi strappò quasi un grido. Pensa, Brennan!, mi urlò un malandato neurone. Cercai di ubbidire. Ma i miei pensieri non riuscivano a concretizzarsi in immagini riconoscibili. Concentrati sul presente, Brennan! Annusa! Muffa. Tessuto marcio. Legno. Qualcos'altro. Smacchiatore chimico? Cherosene? Tocca! Sentivo delle fibre grossolane raschiarmi la guancia. Sabbietta in bocca. Polvere nelle narici. Un tappeto? Ascolta! Vento. Un ramo che sbatteva contro la finestra. Gli scricchiolii e i cigolii dell'interno di una casa. Le pulsazioni mi martellavano nelle orecchie. Rumore attutito di passi. Un rumore sordo e distante. Qualcuno si stava muovendo. In un'altra stanza? Riaprii gli occhi. Ero distesa su un tappeto molto sporco. Intorno, vedevo gambe di legno intagliato, poltrone imbottite, il lembo di una coperta. Avevo capito. Ero nel salotto di Catts. La lampada era stata spenta. Rumore di una porta sbattuta. Di nuovo silenzio. Davanti a me, una poltrona. Un'altra porta sbattuta, questa volta più distante. Il mio cervello assimilava informazioni con la velocità della deriva dei continenti. Qualcuno aveva utilizzato un'entrata di servizio? Magari in cucina? Nella cucina di Catts? Cercai di riportare alla memoria la piantina della casa, così come la ricordavo dalle visite precedenti. Non c'era. Trattenni il respiro. Ascoltai. La casa era immersa nel silenzio più assoluto. In testa continuavano a martellarmi le pulsazioni. Un battito. Una decina. Un migliaio. La porta di servizio sbatté di nuovo. Rumore di passi affrettati. Chiusi gli occhi e rimasi immobile, ogni fibra del mio corpo tesa allo spasimo. Sentii una sorta di gemito, poi qualcosa di simile a uno scroscio.
L'odore allarmò tutti i miei sensi. Le mani si strinsero a pugno. Benzina! Le palpebre si alzarono di scatto e riuscii a distinguere due sagome. Tawny McGee era ancora infagottata sulla poltrona. Anique Pomerleau stava cospargendo la stanza con una grossa latta di liquido. La paura paralizzò i pochi pensieri razionali che ero riuscita a mettere insieme. Che fare? Parlare con Anique? Parlare con Tawny? Fingere di essere morta? La palpebre si richiusero. Ascoltai il suono liquido di una morte terribile. Dopo qualche secondo sentii un altro rumore sordo, passi che si allontanavano, la porta sbattuta. Riaprii gli occhi. Accanto al battiscopa, vidi una latta vuota. Anique era andata a prendere altra benzina? Dove? Nel capanno degli attrezzi fuori in cortile? Quanto tempo aveva impiegato per il viaggio precedente? Un minuto? Due? I miei pensieri si focalizzarono su un unico concetto. Scappa! Una girandola di immagini. Anne. Anique. Una corda intorno ai polsi di Tawny. Tawny era ancora legata? I suoi piedi erano liberi? Le avevo accarezzato una caviglia, non avevo sentito nulla. Un barlume di speranza. «Tawny.» Silenzio. «Tawny.» Un leggero movimento nella poltrona? Alzai la testa. La stanza era immersa nella penombra, i mobili sagome irregolari confuse nel buio. «"Q" vuole bruciare la casa. Dobbiamo scappare.» Il soffio di un respiro? «So che cosa ti ha fatto "Q".» La porta di servizio si aprì e si richiuse. Rumore di passi. Abbassai la testa. Attraverso una fessura tra le palpebre osservai Anique entrare con una nuova latta di benzina e versarla sul secrétaire e sul divano. Quando la latta fu vuota, la gettò sul pavimento e scomparve a prenderne un'altra. «Nessuno sa che siamo qui, Tawny.» Nel silenzio assoluto, la stanza sembrava ancora più buia, ancora più si-
nistra. «Nessuno verrà a salvarci. Dobbiamo fare tutto da sole.» Nessuna risposta. «Se mi avvicino, riesci a slegarmi?» Silenzio. «Sei in grado di parlare?» Era come parlare a un morto. Mi lasciai prendere dall'agitazione, e iniziai a dimenarmi per cercare di sciogliermi polsi e caviglie. Ma riuscii solo a procurarmi delle escoriazioni. Di nuovo, la porta di servizio sbatté. Mi calmai, chiusi gli occhi. Anique tornò con altra benzina. Dio santo. Dov'era finita Anne? Non era in quella stanza. Sarei riuscita a portare fuori da quella casa lei e Tawny? Saremmo morte prima dell'arrivo del soccorso di emergenza? Dovevo parlare ad Anique? Ero in grado di pensare a un argomento, a un pensiero che potesse farci guadagnare un po' di tempo? Importava qualcosa? La casa era stata già stata perquisita, e la polizia non aveva trovato niente. Io non avevo avvisato Ryan che stavo venendo qui. Chissà se Charbonneau aveva ricevuto il mio messaggio? Avevo gli occhi pieni di lacrime. Cercai ancora di liberarmi i polsi con una serie di strattoni convulsi, ma i miei movimenti mi procurarono solo altro dolore e altre escoriazioni. Dopo qualche minuto, mi calmai e aspettai. Adesso l'odore di benzina era molto forte. In bocca sentivo ancora il saporaccio della bile. Un'altra latta finì sul pavimento. Spiai i piedi di Anique uscire dal salotto. Questa volta la porta di servizio non sbatté. Seguii il rumore dei passi. Corridoio. Stanza sul retro. «Tawny, dobbiamo muoverci!» sibilai. Era inutile. Avrei dovuto fare tutto da sola. Inarcando e stendendo la schiena, lottai con ogni fibra del mio essere per liberarmi le caviglie dai polsi. I nodi reggevano. Avrei voluto gridare per il dolore e la frustrazione. I passi di Anique risuonarono ancora nell'ingresso, poi si allontanarono verso una stanza attigua. Dopo qualche secondo, stavano rapidamente tor-
nando in salotto. Mi stesi sul pavimento. Troppo tardi. I passi si fermarono. Poi si spostarono verso la poltrona. Sentii un lamento, che ricordava molto un miagolio. Poi i passi si avvicinarono a me. «E così, i miei topolini si sono svegliati.» Oramai era inutile fingersi svenuta. Raccogliendo le ultime forze indotte dall'adrenalina, mi alzai in ginocchio e aprii gli occhi. Anique Pomerleau era una sagoma color ebano ritagliata nell'oscurità della stanza. Una sagoma che reggeva un'ennesima latta di benzina. La paura rimbalzò da una terminazione nervosa all'altra. Esagerare? Persuadere? Accusare? Implorare? «Dov'è la mia amica?» Anne era riuscita in qualche modo a fuggire? Anique mi guardò con un ghigno orrendo. «Non ha resistito. È caduta oltre lo specchio.» Sconfortata, ribattei: «Non è stato Catts ad assassinare quelle ragazze. Sei stata tu». Quando Anique si avvicinò, una vaga lama di luce grigia le illuminò il viso. «Assassinare?» Voce roca. «E dov'è il divertimento?» «Le hai torturate e lasciate morire di fame.» «Sono cadute oltre il mio specchio.» «Angie Robinson.» Sentii, più che vedere, che Anique Pomerleau si irrigidiva. «Dimmi perché» insistei. «Acqua o fuoco? Acqua o fuoco?» Tono cantilenante. Gesù santo! Quella ragazza si stava divertendo! «Hai seviziato Tawny.» «Un'altra Alice nel mio Paese delle meraviglie.» Sorriso di serpente. «Hai ucciso delle bambine.» «Alcune hanno resistito. Altre no.» «Dimmi i loro nomi.» «Perché?» «Perché le loro famiglie hanno il diritto di sapere.» «Le loro famiglie possono marcire all'inferno, e non andrai a dirgli proprio un bel niente. Stupida! Non dirai più niente a nessuno!» «I tuoi genitori ti hanno cercata a lungo.» Tono supplichevole. «Non abbastanza.» Risentita.
«Hanno detto che sentono molto la tua mancanza» mentii. «Vogliono che torni da loro.» «Non c'è ritorno per me.» «Ci sono persone che possono aiutarti.» «Lo specchio si rompe.» D'un tratto, un'illuminazione. Il mio appartamento. I vetri e gli specchi in frantumi. Anique sembrò seguire il filo dei suoi pensieri e mi canticchiò una celebre filastrocca adattata alla situazione. «All the king's horses and all the king's men can't put the damned back together again...» Tutti i cavalli del re e tutti gli uomini del re non potranno più rimettere insieme quelle maledette. «Che cosa è successo ad Angie Robinson?» «Semplicemente una delle tante ragazze perdute.» «Perdute o... distrutte?» «Ormai è solo una palata di terra.» Continua a farla parlare! «Quando è morta Angie?» «Prima che arrivassi io.» «So che cosa è successo, Anique. Catts ti ha fatto del male, e poi ti ha costretta a far del male alle altre.» «Chi è Catts?» «Ménard. Catts ha ucciso Ménard e ha preso il suo nome.» «Ménard. Catts.» Anique sbuffò, apparentemente annoiata. «Dilettanti.» «Quell'uomo era malvagio. Ti ha torturato. Ha torturato Angie Robinson. Tu hai dovuto fingere di stare al gioco per compiacerlo.» «Io non ho finto.» Anique si puntò un dito verso il petto. «Io dettavo le regole. Io sono la regina.» Ma certo... «Q» stava per «Queen of Hearts». Regina di cuori. «Tu hai fatto quello che era necessario per sopravvivere.» «Tu non capisci. Io sono la regina, non il coniglio.» Continua! Falla parlare! «Lo so. Tu sei forte, Anique. Sei tu che hai ucciso Catts.» «Stava diventando debole.» «Hai anche soffocato Louise Parent.» «Un gesto di pietà.» La sua superficiale indifferenza innescò in me una rabbia disperata e furiosa. Di colpo, persi il controllo. E senza pensare, abbandonai ogni tenta-
tivo di dialogare e iniziai a dimenarmi e contorcermi mentre il sudore mi imperlava la fronte e mi colava lungo la schiena. «Razza di insensibile bastarda!» Anique scoppiò a ridere e prese a saltellare come una bambina eccitata finché io non mi fermai, ansante e sfinita. «La polizia ti troverà» le dissi senza quasi riuscire a parlare per il fiatone. «Non riuscirai a cavartela.» Anique Pomerleau infilò un dito sotto il collare borchiato che le circondava la gola. Un sorriso maligno si aprì sul suo viso pallido come la morte. «Tre cadaveri sono stati tolti alla cenere» recitò con il suo tono cantilenante «ma sia ringraziato Dio, una vittima è sfuggita alle fiamme.» Anique rovesciò la latta e mi impregnò i vestiti di benzina. Sentii lo stomaco rivoltarsi. Il cuore mi saltò in gola. Calma, Brennan! Stai calma! Anique Pomerleau gettò via la latta e uscì dal salotto. La sentii attraversare l'ingresso, poi spostarsi in cucina, nella stanza sul retro, nella stanza attigua al salotto soffermandosi brevemente in ciascuna di esse. I miei pensieri si spostarono su Anne. Mi dispiace così tanto, Annie. Sono stata così stupida. Non avrei mai dovuto coinvolgerti in questa storia. Un odore acre iniziò a spandersi nell'aria. Gesù! «Scappa, Tawny!» urlai. «Esci di qui!» Di nuovo, iniziai a dimenarmi, a contorcermi, il petto che mi bruciava, il dolore che mi rimbalzava nella testa. Dopo qualche minuto, Anique era tornata, il viso pervaso da... che cosa? Euforia? Gioia? «I vicini chiameranno il soccorso d'emergenza» gridai. «Non andrai molto lontano.» «Ma voi morirete comunque per il fumo.» Anique strofinò un fiammifero e osservò la piccola fiamma sbocciare. «Ci vediamo nel Paese delle meraviglie.» Il suo polso fece un movimento deciso. Sentii una vampata, e poi un forte calore dietro di me. Un attimo dopo vidi la stanza danzare in una tremolante luce arancione. 37 Il bagliore della fiamma svanì dopo lo scoppio iniziale, ma un soffocante
fumo nero iniziò a riempire la stanza. Non riuscivo ad alzarmi in piedi, impedita dalle corde che mi legavano polsi e caviglie. Rotolai indietro e riuscii a mettermi in ginocchio. Mi bruciavano gli occhi. Sentivo la gola raschiare. Il calore stava aumentando, eppure il mio corpo tremava. Quel fuoco non si sarebbe estinto da solo. Dovevo liberarmi, o sarei morta. Cercai di ragionare, ma il mio cervello non rispondeva, e mi rimandava solo spaventose immagini di altri luoghi, di altri giorni. Ossa bianche come gesso in una stufa a legna. Uno scheletro carbonizzato in un seminterrato distrutto da un incendio. Due cadaveri anneriti in un Cessna bruciato. «Basta, Brennan!» gridai a me stessa. «Pensa!» Cercai di respirare con calma, tossii, cercai di mettere a fuoco la situazione. «Pensa!» gridai ancora. Sentii un conato di vomito. Deglutii. Decisi di rivolgermi a Tawny. «Tawny! Riesci a sentirmi?» Il fuoco sfrigolava e scoppiettava dietro di me. Dalla direzione di Tawny arrivava solo un fumo sempre più denso. «Tawny!» gridai ancora. Tornai a sdraiarmi sulla schiena, e flettendo e allungando le anche e le ginocchia mi spostai sul tappeto. Alla terza spinta, un grido che sembrava arrivare dall'oltretomba si levò dalla poltrona. Mi pietrificai, e un brivido freddo mi percorse la schiena. «Tawny!» Continuai a strisciare, sul punto di cadere in preda al panico. Gesù santo! Quella ragazza per caso stava bruciando? «Tawny? Riesci a camminare?» gridai. Il terrificante lamento di Tawny cessò, e si trasformò in un accesso di tosse. «Tieni duro» dissi più a me stessa che alla ragazza. «Sto arrivando.» Un ultimo sforzo e arrivai alla poltrona. Sentivo sulla pelle un misto di benzina e di polvere. «Copriti la bocca», dissi ansimando, con il tono più sicuro che riuscii a trovare. «Se ci riesci, scendi sul pavimento.» La tosse aumentò. Spingendomi contro la poltrona con la spalla, riuscii a rimettermi in ginocchio.
«Tawny! Scendi da questa poltrona!» urlai. «Subito!» Alle nostre spalle qualcosa prese fuoco. Una parete si coprì di fiamme fino al soffitto, e la stanza fu inondata di una luce arancione. Percepii un movimento, poi Tawny raccolse le ginocchia e si lasciò scivolare per terra, accanto a me. La nausea, il dolore e la paura iniziavano a non darmi più tregua. Riuscivo a stento a respirare, a pensare. Ma il mio annebbiato cervello riuscì a elaborare quello che i miei occhi non avevano visto. Dal collare di Tawny pendeva una corda. Aveva le mani e i piedi liberi! Faticosamente, mi voltai verso di lei. «Tawny» la chiamai tossendo. «Devi aiutarmi. Solo tu puoi salvarci, Tawny. Devi salvarci.» Il corpo raggomitolato accanto a me si contrasse. Pensa, Brennan. Pensa! Che cosa l'ha fatta muovere? La paura del fuoco? Oppure l'ordine che le hai gridato? Quella ragazza era ancora soggiogata al punto che rispondeva solo agli ordini? Tanto valeva rischiare. «Tawny, slegami!» gridai ancora. Dal fagotto che avevo di fianco lentamente si alzò una testa. «Adesso, Tawny! Devi slegarmi adesso!» Il viso di Tawny si voltò verso di me. Quando i nostri sguardi si incrociarono, la determinazione a trattarla con durezza vacillò. «Adesso andrai a casa, tesorino. A Maniwaki. Dalla mamma.» Sentivo un bruciore terribile dentro al petto. Presi a tossire in modo incontrollabile. «Torni da Sandra» dissi tra un colpo di tosse e l'altro. Qualcosa si mosse nel vuoto dei suoi occhi. «Da Sandra» ripetei. La tensione sul viso di Tawny sembrò allentarsi, mentre un mondo che sembrava morto le balenò alla mente. La sua bocca si aprì, tremò, poi si arrotondò in una O. «Sandra» ripetei. Senza una parola, Tawny si voltò e si allontanò carponi sotto la coltre di fumo. Cercai di afferrarla. Le corde mi bloccarono accanto alla poltrona. «Tawny!» Ma il grido mi si strozzò in gola. Iniziai a tossire e continuai finché non sentii in bocca un dolciastro sapore di sangue. Quando l'accesso si calmò, mi voltai nella direzione in cui era fuggita
Tawny. Ma vidi solo una densa cortina di fumo. Mi sentii stringere il cuore. Mi aveva lasciata sola. A morire. Ma ero veramente sola? E Anne? Era già morta? Era fuggita? «Tawny!» gridai ancora. «Ti prego!» Niente. Come qualche minuto prima, iniziai a contorcermi per cercare di liberarmi. Come qualche minuto prima, crollai sfinita sul tappeto lurido, la pelle devastata, i polmoni in agonia. La stanza iniziò ad allontanarsi. I pensieri si fecero ipnotici. Sto per morire. Sto per morire. Sto per morire. D'un tratto sentii dei rumori, come se qualcuno stesse aprendo istericamente dei cassetti per cercare qualcosa. Dopo qualche secondo, una sagoma scura prese forma nel fumo e strisciò accanto a me. La pelle di Tawny risplendeva come alabastro. Con una mano si copriva la bocca. Con l'altra stringeva un oggetto lungo e piatto. Che cosa? Tawny si muoveva in modo convulso. Una lama scintillò nella luce delle fiamme. Un coltello! Le nocche di Tawny erano bianche ed esangui. Per un attimo la ragazza si fissò le mani, come per cercare di capire perché un coltello fosse finito lì. Poi, con un movimento brusco e improvviso, mi voltò a faccia in giù. Sentii il suo respiro sul mio collo, il suo peso sulla schiena. Signore, aiutami. Mi vuole uccidere con il coltello. «Q» ha ancora il controllo della sua mente. Attesi che affondasse la lama. Invece, sentii un'inattesa pressione sui polsi. Tawny stava tagliando la corda che mi legava! Voltai la testa quel tanto che riuscii e cercai di respirare. «Più veloce, Tawny. Svelta!» Mentre la ragazza manovrava la lama avanti e indietro, io cercavo di allargare le mani verso l'esterno, per mettere la corda in tensione. D'un tratto, nonostante le braccia avessero perso sensibilità, sentii le fibre della corda cedere a una a una e lo spazio tra i miei polsi allargarsi. Un eone dopo, avevo le mani libere. Abbassai le gambe e mi voltai sulla schiena.
Un dolore atroce mi percorse la schiena, dalle spalle alle anche. Per un attimo mi si annebbiò la vista. «Il coltello» sussurrai. Due Tawny mi porsero la lama, poi scoppiarono in un accesso di tosse. Afferrai il coltello, ma questo cadde a terra. Non avevo sensibilità nelle dita. Unii le mani, le agitai, le sbattei sul pavimento. Quando provai a raccoglierlo, riuscii faticosamente a stringere il manico. Nel giro di qualche secondo, mi liberai le caviglie. Cercai di alzarmi, caddi a terra. Accanto a me, Tawny tossiva e si premeva la mano contro la bocca. Cercando a tentoni, trovai un cuscino. Con due colpi tagliai la fodera esterna e la divisi in due. Con una metà coprii la bocca e il naso di Tawny, poi le premetti il palmo sulla stoffa. L'altra, la usai per me. Sentii un gelido formicolio diffondersi nei miei piedi. Mi alzai, provai a fare un passo, a muovere la mano. Un altro passo. Le gambe avevano ripreso a funzionare. Afferrai il braccio di Tawny e la feci mettere a quattro zampe. Insieme, uscimmo dal salotto e ci spostammo verso l'ingresso, dove le fiamme erano meno violente. In corridoio, dopo qualche metro, un filo d'aria sembrò dare un po' di sollievo alle nostre narici. Con le poche forze che mi rimanevano, percorsi furiosamente gli ultimi metri di corridoio trascinandomi dietro Tawny. Mentre spalancavo violentemente la porta, inciampai nel mio giaccone, lo scalciai via e schizzai all'aperto. La notte sapeva di gelo, di cavalli. Di vita. Il vento mi rinfrescò il viso madido di sudore. Frammenti di ghiaccio mi colpirono le guance, rimbalzarono su testa e spalle. Mi asciugai gli occhi dalle lacrime, poi guardai Tawny. Era seduta sul ghiaccio, nuda. Singhiozzava e si dondolava come un bambino spaventato. Guardai la casa. Dalle finestre filtrava un fumo nero, che davanti alla porta d'ingresso spalancata si ingrossava in una colonna. Alimentate dall'aria che entrava dall'esterno, le fiamme si stavano alzando rapidamente. A parte questo, niente lasciava supporre l'incubo che si era scatenato all'interno. Poi, di colpo mi bloccai. Ascoltai. Niente sirene.
Non stava arrivando nessuno! Anne non aveva telefonato! Mi portai una mano alla bocca. Anne. Era viva? «Q» aveva parlato di tre corpi nella cenere. Anne era ancora all'interno! Corsi alla porta, afferrai il mio giaccone e tornai a coprire Tawny. «Ricordi se hai visto un'altra donna nella casa?» Tawny continuò a dondolarsi e a singhiozzare. La strinsi per le spalle e ripetei la domanda. Tawny annuì. «Dove?» Sentii le sue spalle ossute tremare. «Al... al p... piano...» «In che stanza?» La ragazza mi guardò, muta. «In che stanza si trova, Tawny? Quale stanza?» La strattonai, ripetei la domanda. «Al... al piano di sotto.» Il suo viso era punteggiato di cenere. Aveva i capelli impregnati di sudore. Mentre la guardavo immobile, senza capire cosa fare, l'odore acre del fuoco mi invase le narici, mentre il bagliore arancione si faceva più intenso. Anne non aveva avuto il tempo di chiamare il soccorso d'emergenza! Dovevo tornare là dentro! Ma ero impregnata di benzina. Con mano tremante, mi slacciai e tolsi gli scarponcini, mi spogliai restando con la sola biancheria intima, quindi mi rinfilai le scarpe. Dopo aver bagnato il mio mezzo cuscino con la neve, schizzai di nuovo dentro la casa, la testa un vortice di dolore. Davanti alla porta aperta, mi accovacciai e strisciai all'interno. Arrivata alla poltrona, afferrai la coperta di Tawny, mi coprii le spalle e proseguii verso il retro della casa. Di nuovo, cercai di visualizzare la pianta dell'edificio. Cucina a sinistra, salotto a destra, studio o camera da letto oltre il salotto. La scala che portava di sotto partiva dalla stanza che avevo di fronte. L'ingresso non era ancora stato invaso dalle fiamme, ma era completamente oscurato da una fitta cortina di fumo. Avanzai alla cieca, il petto e la gola torturati da ciò che stavo respirando. Ogni tanto, urtavo qualche sporgenza con il gomito o con il ginocchio.
Continuai a camminare, una mano tesa in avanti, l'altra premuta contro la bocca. Il mio unico pensiero era trovare Anne. Poi, la mia mano urtò qualcosa di solido. Sentii lo stomaco contrarsi, in bocca mi arrivò il sapore della bile. Appiattii il palmo sulla porta. Il legno era caldo. Lo spostai. Più caldo. No! Ti prego, no! Toccai la maniglia. Bollente. La aprii, socchiusi la porta. Dal letto si alzavano delle fiamme che avevano già raggiunto le tende. A fatica, nel gioco di ombre e di luci, riuscii a distinguere una sagoma sul pavimento. Spalancai la porta. «Anne!» La sagoma non si mosse. «Annie!» Nessuna reazione. Gettai via il cuscino che mi riparava la bocca, strisciai fino ad Anne e stesi la coperta accanto a lei. Quando raddrizzai la schiena, mi sentii esplodere in testa un dolore atroce. Cercai di spingerlo nelle cantine del mio cranio. Ricorrendo alle ultime energie di cui disponevo, feci rotolare Anne sulla coperta, poi cercai con la mano sotto il suo corpo e trovai un angolo dell'improvvisata lettiga. Feci altrettanto con l'altra mano, strinsi i lembi tra i pugni e faticosamente iniziai a uscire dalla stanza e a percorrere a ritroso il corridoio. Anne era pesantissima. Mentre la trascinavo, cercavo di rassicurarla, di consolarla. Non avevo avuto tempo di controllarle le pulsazioni. Era viva? Signore, ti prego! Continuai a far strisciare la mia amica sul pavimento, pochi centimetri alla volta, con le braccia e le gambe che di colpo si erano fatte di gomma. Faticavo a respirare, tossivo, ansimavo, ogni cellula del mio corpo alla disperata ricerca d'aria. D'un tratto qualcosa all'interno della casa esplose o si schiantò, facendomi sussultare. Arrivata in salotto, mi guardai intorno per valutare la situazione. Attraverso la coltre di fumo, mi accorsi che le fiamme avevano aggredito le pareti lasciando un unico spazio libero al centro della stanza. Dopo un tempo che mi sembrò infinito, riuscii a raggiungere l'ingresso. Mi bruciavano gli occhi. Mi bruciava il petto. Mi bruciava lo stomaco.
Appoggiai una mano sullo stipite della porta, mi sporsi in avanti e vomitai altra bile. Avrei voluto sedermi, raggomitolarmi in una palla e dormire. Quando mi ripresi. Riafferrai la coperta. Mentre procedevo all'indietro, tirando con tutte le mie forze, sentivo gambe e braccia tremare per lo sforzo. Il salotto intanto si era trasformato in un inferno: le fiamme erano ovunque, avevano divorato il secrétaire, gli altri mobili, stavano consumando il divano. Il legno crepitava ed esplodeva per effetto delle fiamme, e le scintille schizzavano ovunque, raggiungendo anche l'ingresso. Non sentivo più niente. Non pensavo più a niente. Sapevo solo che dovevo tirare, fare un passo indietro, tirare ancora. La porta d'ingresso era a meno di cinque metri da me. Tre. Due. La mia mente recitò un mantra per convincere il corpo a non cedere. Arriva in fondo all'ingresso. Supera la soglia. Esci sulla verandina. Quando i piedi di Anne furono oltre la soglia, mi chinai e le posai le dita sulla gola. Non sentii nessuna pulsazione evidente. Mi accasciai su di lei. «Vedrai che ne usciremo, amica mia.» Una girandola di puntini neri si agitò dietro le mie palpebre. Il nevischio mi colpiva la schiena. Le ginocchia sentirono il pavimento ghiacciato della verandina. Intorno a me, una cacofonia di rumori. Mi sforzai di distinguerli. Singhiozzi. Era Anne? Mia figlia Katy? Il ruggito delle fiamme. Il crepitio del legno bruciato. Un ticchettio. Pioggia sulle magnolie? No. Montréal. Rue de Sébastopol. Il nevischio sui container dello scalo ferroviario. Quale scalo ferroviario? Il rombo di motori distanti. Clacson attutiti dalla lontananza. Coyote che urlavano negli spazi del deserto. No. Non coyote. Sirene.
I puntini si trasformarono in un unico schermo nero. 38 Sono dell'opinione che gli ospedali vadano evitati. Negli ospedali la gente ci muore. Dieci ore dopo il mio arrivo al Montréal General Hospital in ambulanza, mi alzai, mi infilai la tuta che Charbonneau mi aveva dato la sera prima davanti alla casa di Catts, e lasciai l'ospedale. Come? Uscii. Come avevano fatto McGee e Pomerleau. Facile, no? Diversamente dalle due ragazze, però, lasciai un biglietto di saluto in cui sollevavo gli infermieri di turno da qualsiasi responsabilità. Impresa ardua, con entrambe le mani medicate e fasciate. Un taxi mi riportò a casa nel giro di dieci minuti. Ryan era al telefono dopo venti. «Sei pazza?» «Senti, ho solo qualche bruciatura lieve e un bozzo in testa. I canadesi che scendono al Sud a volte riportano ustioni più serie a causa del sole.» «Hai bisogno di riposo.» «A casa mia dormirò meglio.» «La tua complice ti ha seguita?» Sorrisi, ma fu come se una scheggia mi sfregiasse la faccia. «Anne ha una commozione cerebrale. È rimasta lì.» «Anne è una donna molto fortunata.» «Già. Comunque verrà dimessa domani. E venerdì prendiamo un aereo per Charlotte.» «Dove l'inverno è considerato un fastidio passeggero...» «Niente guanti, niente neve da spalare.» «Ti ha spiegato come le è saltato in mente di andare dalle suore?» «Anne cercava un po' di solitudine. A poco prezzo. Il convento le offriva una camera pulita, pasti decenti e tutta la solitudine che poteva desiderare.» I ricordi più recenti mi tornarono in mente. Nevischio sulla schiena. Ghiaccio sotto la pancia. Fuoco. Charbonneau che urlava e impartiva ordini. Claudel che mi copriva con qualcosa di morbido e caldo. «Hai saputo qualcosa di Anique Pomerleau?» domandai. «Non andrà lontano.»
«A quest'ora potrebbe già essere arrivata in Ontario. O anche oltre il confine.» «Nella rimessa di Catts abbiamo trovato uno scooter. Probabilmente è il suo principale mezzo di trasporto.» «Secondo te come ha fatto a portare Tawny dall'ospedale a Rue de Sébastopol?» «Taxi. Autobus. Metrò. Autostop.» «Adesso Tawny dov'è?» «L'abbiamo riportata al Montréal General Hospital.» «Che cosa sta succedendo nella casa di Catts?» «La Scientifica ha trovato una seconda falsa parete nel seminterrato.» «Dove Anique ha nascosto Tawny quando siete andati a perquisire la casa, giusto?» «Probabile. Là dentro abbiamo trovato anche il computer e la macchina fotografica di Anne.» «Quindi la persona che ha devastato il mio appartamento era Anique Pomerleau?» «Così sembrerebbe. Forse Catts l'ha aiutata.» «Per spaventarmi e distogliermi dagli scheletri della pizzeria?» «Secondo me, sì. La ragazza potrebbe aver visto il portatile di Anne e la macchina fotografica a casa tua, e convinta che fossero tuoi, ha pensato che contenessero materiale scottante riguardo gli scheletri. Comunque, quando la prenderemo, vedrai che ci racconterà tutto.» «Ma come poteva sapere dove abito?» «Grazie a "La Presse", il tuo aspetto e il tuo lavoro non sono un segreto. Anique aveva lo scooter. Potrebbe averti aspettato fuori dal WilfridDerome e seguito fino al tuo palazzo. Una volta lì, ha guardato quale luce si accendeva, dopo che eri entrata.» «Credo che Anique soffra di una specie di fobia per gli specchi.» «Direi che la ragazza ha problemi più seri di una fobia per gli specchi.» «Però il modo con cui ha sviato i sospetti è stato molto astuto.» «Già. Le è bastato mettere un collare, denudarsi, ed eccola trasformata da carnefice in vittima.» «Eppure io ci ho creduto, Ryan. Quando l'ho vista, in quella celletta, mi sarei messa a piangere.» «Ci abbiamo creduto tutti. Il mazzolino ti è arrivato?» Mi voltai e guardai il tavolo della sala da pranzo. Il «mazzolino» di cui parlava Ryan era grande quanto tutto il Québec.
«È bellissimo. Chiederò all'acquedotto municipale di concedermi una fornitura di acqua supplementare.» Sentii che le mie riserve si stavano esaurendo. Ryan percepì la stanchezza nella mia voce. «Claudel e Charbonneau hanno un sacco di cose da raccontarti, quando ti sarai ripresa. Per il momento, mangia qualcosa, stacca il telefono e mettiti a cuccia, panterona.» Così feci. E dormii fino a pomeriggio inoltrato. Al mio risveglio, mi sentivo un'altra. Ero piena di energie. Rinvigorita. Carica di onnipotente vitalità. Finché non mi guardai allo specchio. La mia faccia era completamente gonfia e graffiata. I capelli bruciacchiati. Quello che restava di ciglia e sopracciglia non era più degno di essere chiamato con quei nomi. La doccia non aiutò granché. Il trucco ancora meno. Immaginai le reazioni di Katy, il venerdì. Pensai a Claudel e al suo stile sempre impeccabile. «Al diavolo.» Mi fasciai di nuovo le mani e andai alla centrale della CUM. «Sergeant-détective Charbonneau ou Claudel, s'il vous plaît» richiesi alla receptionist dell'atrio. «Serata movimenta, vero?» mi disse in inglese la ragazza. «Una vera seccatura.» Ripensai a me in mutande, nel cortile della casa di Catts. Fantastico. La notizia aveva già fatto il giro. I miei colleghi maschi avranno la loro grande occasione per ridere alle mie spalle. Charbonneau scese nell'atrio e mi accompagnò oltre il sistema di sicurezza. Mi domandò come stavo e poi mi fece strada fino alla centrale della CUM, gli occhi sempre rivolti a terra. Quando entrai, fui accolta da fischi e applausi. Il tenente Alain Tibo prese un sacchetto dalla sua scrivania, si alzò e mi venne incontro. Con il suo aspetto, avrebbe potuto fare la parte del bulldog in un film di Walt Disney. «Ehi, dottoressa. Qui non siamo nel caro vecchio Sud. In Québec fa un freddo cane.» Conoscevo il senso dell'umorismo di Tibo. Se la CUM avesse avuto bisogno di un clown, avrebbero sicuramente scelto lui. «Abbiamo fatto una colletta e le abbiamo preso qualcosa di adatto a lei.»
Tibo mi porse il sacchetto con un gesto solenne. Era una felpa blu, con una scritta rosso fuoco. «NON ESISTE IL BRUTTO TEMPO, MA SOLO I VESTITI SBAGLIATI.» VECCHIO PROVERBIO DEI MARINAI SCOZZESI Sotto la scritta, una donna con i capelli e la carnagione rosata modellava un pupazzo di neve in un turbine di fiocchi bianchi. Il pupazzo indossava un cappello. La donna solo tacchi a spillo, reggiseno e mutandine. Alzai gli occhi al cielo e ficcai la felpa nel sacchetto. Dopodiché, insieme a Charbonneau raggiunsi Claudel al suo posto zigzagando fra scrivanie, gambe allungate e cestini per la carta. «Claudel ha detto che il cappotto lo mette in conto a lei, dottoressa» disse una voce alle mie spalle. «Oppure lo infila nella lista dei rimborsi spese che passerà al capitano.» «Il leopardato è lo stile del martedì, dottoressa?» mi domandò Tibo. «Ho sentito che il giorno del circo è il mercoledì» rispose un'altra voce. Rivolta a Charbonneau, alzai ciò che mi rimaneva del sopracciglio. Lui fece per dire qualcosa, ma Tibo lo anticipò. «Non si preoccupi, dottoressa. Claudel possiede un intero assortimento di boxer con tanti piccoli Smile sorridenti. Gli tengono il culo allegro, quando il resto di lui fa il broncio.» Prendendo un fascicolo dal suo vassoio della posta in arrivo, Claudel si alzò e insieme ci infilammo in una sala riunioni. «Mi sembra di capire che le mie mutande sono diventate una delle prove a carico.» Il tono avrebbe potuto mantenere a temperatura il gelato per una settimana. «Le voci corrono» disse Claudel. «Già.» «Non siamo stati noi, dottoressa» aggiunse Charbonneau. «Giuro su Dio.» Per qualche strano motivo, mi lasciai convincere. Ci sedemmo intorno a un tavolo che poteva aver fatto la guerra di secessione. «Vedo che in qualche modo si è già ripresa.» disse Claudel. «Sì, grazie.» Claudel aveva sacrificato il suo preziosissimo cappotto di cashmire per riscaldarmi. «Ah, la ringrazio molto per avermi prestato il
suo cappotto.» Claudel annuì. «Ménard è morto, allora?» Cambiai argomento. Claudel di nuovo annuì. «Come potete esserne certi?» Claudel aprì il suo fascicolo e appoggiò una fotografia sul tavolo. «Nella casa di Ménard, in Vermont, abbiamo trovato questa.» Era un'immagine in bianco e nero e l'inquadratura non era centrata. Sembrava lo scatto di un principiante. Ma, qualità della foto a parte, il soggetto era chiaro. Un uomo alto e sottile in una fossa, le ginocchia raccolte contro il petto, polsi e caviglie legati insieme. Nonostante i lineamenti fossero distorti dalla maschera della morte, la faccia di Ménard era inconfondibile. Voltai la foto. Sul retro, una mano aveva scritto le iniziali S.M., e la data: 26 settembre 1985. «Catts ha ucciso Ménard nel settembre dell'85? E ha conservato una fotografia del cadavere?» «Lo sceriffo della contea ha intenzione di fare un po' di ricerche. Vuole scavare intorno alla vecchia roulotte di Catts» disse Claudel. «Angela Robinson è scomparsa nell'ottobre del'85» osservai. «Secondo i vicini, Ménard è tornato in Vermont il gennaio seguente.» «Solo che non era Ménard.» Charbonneau appoggiò i gomiti sul tavolo e si sporse in avanti. «Pensiamo che Catts abbia avuto l'ispirazione per il piccolo circo degli orrori dopo il caso Cameron Hooker-Colleen Stan. Lo psicopatico all'epoca abitava a Yuba City, a un passo da Red Bluff. E la stampa non dava un attimo di tregua, sul caso della "ragazza nella cassa".» «All'incirca nello stesso periodo, Catts stava stringendo amicizia con Ménard» proseguì Claudel. «Ma Catts non vuole ripetere l'errore di Hooker, che era rimasto troppo vicino al luogo in cui aveva rapito la sua vittima, e pensa che la fattoria di Ménard sia la soluzione ideale per mettere in scena le sue fantasie. Così Catts uccide Ménard e inizia ad aspettare la sua preda.» «Angie Robinson» dissi. «Catts rapisce Angie Robinson e la porta in Vermont» continuò Claudel. «Una volta lì, sfrutta la somiglianza con Ménard.» «Si lascia crescere i capelli, si fa una chioma di dreadlock e si tiene lontano dagli abitanti locali» conclusi io. «Esatto.» Charbonneau incise l'aria con un dito, poi si lasciò ricadere
sulla sedia. «Ma perché ha lasciato il Vermont?» domandai. «Forse Catts iniziava a non stare tranquillo. Nella zona non dovevano essere poche le persone che avevano conosciuto il vero Ménard» suggerì Claudel. «O forse Angie Robinson era morta.» «Secondo le mie stime, Angie deve aver vissuto fino a circa diciotto anni. Il che significa che non è morta prima del 1988, l'anno in cui i nonni Corneau sono deceduti in quell'incidente.» «Già» commentò Charbonneau con una smorfia. «Dobbiamo tornare anche su questa storia.» «Forse a Catts piaceva l'idea di un Paese senza pena di morte. Forse era convinto che oltre confine trovarlo sarebbe stato più difficile. Forse ha pensato che a Montréal nessuno conosceva Ménard. Qualunque sia stata la ragione, ha piantato tutto e se n'è andato al Nord» disse Claudel. «Con Angie. O con il suo cadavere» dissi io. «In qualche modo è riuscito a spacciarsi per il legittimo erede, si è fatto francese diventando Stéphane Ménard, ha affittato i locali da Cyr e ha aperto un negozio simile a quello che aveva a Yuba City» disse Charbonneau. «Articoli per collezionisti» dissi io. «E quel perverso bastardo era anche lui un collezionista.» Claudel spinse un'altra fotografia sul tavolo. Da un'etichetta della Scientifica si capiva che era stata scattata dai loro tecnici. L'oggetto centrale era una teca foderata di feltro. All'interno, tre orecchie umane, due complete e una parziale. Le orecchie erano state appiattite e fissate come insetti con lo spillo. Sentii lo stomaco rivoltarsi. «Quello schifoso d'un bastardo depravato conservava parti corporee delle sue vittime» commentò Charbonneau. Ricordai i tagli sui crani che avevo ancora in laboratorio. «Questi souvenir potrebbero essere un'idea di Anique Pomerleau.» «Ah sì?» Indicai l'orecchio parziale. «L'orecchio di Angie Robinson è stato asportato molto tempo dopo la sua morte, quando l'osso era già secco. Questo significa che inizialmente Catts non ci aveva pensato. Gli altri invece sono stati asportati quando l'osso era ancora fresco.» «E lei è in grado di stabilire questo osservando i tagli?» Annuii.
«Tra il rapimento di Anique Pomerleau e quello di Tawny McGee sono trascorsi nove anni. Durante questo periodo, immagino che l'equilibrio del potere si sia invertito, passando dal carnefice alla vittima.» «Una sindrome di Stoccolma al contrario.» Charbonneau si passò una mano tra i capelli. «Patricia Hearst è rimasta chiusa in un armadio per otto settimane» dissi. «Colleen Stan è stata segregata in una cassa per setti anni. Anique Pomerleau è stata rapita nel 1990, e aveva solo quindici anni.» Nella sala riunioni cadde il silenzio, e tutti e tre riflettemmo sull'indicibile danno che Anique poteva aver subito in tutto quel tempo. Claudel fu il primo a parlare. «Anique Pomerleau all'inizio era oggetto delle sevizie di Catts. Poi ha cercato di compiacere il suo carceriere, e forse è stata proprio lei a suggerire l'idea di un'altra vittima.» «O forse trovare carne fresca era un'idea di Catts. Forse è diventato ingordo e ha deciso di allargare la sua collezione» proseguì Charbonneau. «Anique Pomerleau forse ha visto nella nuova arrivata la possibilità di fare un passo avanti nella catena alimentare, e così ha iniziato a seviziare Tawny per compiacere Catts. E poi ha finito per prenderci gusto.» «La vittima si è trasformata in carnefice» dissi. «Oppure Anique e Catts semplicemente si sono trovati.» Come la Homolka e la Balazs, pensai. «Tra Anique Pomerleau e Tawny McCee, Catts ha rapito almeno altre due ragazze» ricordai agli investigatori. «Ragazze del luogo, secondo le analisi dell'isotopo dello stronzio.» «Dobbiamo scoprire chi erano» disse Claudel serrando le mascelle. E poi, più rilassato: «È una promessa». «Ho una domanda, dottoressa.» Charbonneau si appoggiò di nuovo al tavolo. «Angie Robinson era la prima ragazza rapita da Catts. Ma perché le sue sono le uniche ossa con quella roba intorno? Come l'aveva chiamata? Adipocera?» Mi ero domandata la stessa cosa. «L'acido tannico, usato per conciare la pelle, agisce come conservante alterando la velocità di decomposizione. E poi Angie inizialmente potrebbe essere stata sepolta altrove, in un luogo più umido dello scantinato della pizzeria.» «Anche secondo noi.» Charbonneau fece un cenno con il mento a Claudel. «Riteniamo che la ragazza sia morta in Vermont e che Catts l'abbia
sepolta lì, e che poi abbia recuperato il cadavere in un secondo tempo. Ma ci stiamo spaccando la testa per spiegarci il motivo di un simile comportamento. Forse questa storia delle orecchie potrebbe essere il tassello mancante.» «Cioè Catts sarebbe tornato in Vermont a prendere l'orecchio, ma poi avrebbe finito col portare l'intero cadavere a Montréal? Perché?» «Forse l'idea di avere il corpo sotto i suoi piedi lo faceva sentire più sicuro.» «Ma Cyr lo ha sfrattato nel '98. Se aveva già dissotterrato e spostato Angie Robinson una volta, perché lasciarsi alle spalle lei e altre due ragazze in quello scantinato?» Charbonneau scrollò le spalle. «Catts l'aveva sempre fatta franca, fin dal rapimento di Angie Robinson, nell'85. Forse iniziava a sentirsi invincibile. Inoltre, dove avrebbe potuto seppellirla? Non certo nel giardino dei Corneau.» «E il seminterrato era già destinato ad altro uso» disse amaramente. Seguì un attimo di silenzio, mentre tutti riflettevamo su quell'orrore. Questa volta fu spezzato da me. «Secondo voi chi aveva visto Louise Parent?» «Forse Anique Pomerleau. Forse una delle altre. Catts potrebbe aver rinchiuso le ragazze nello scantinato del suo banco dei pegni, mentre nel frattempo allestiva il seminterrato della casa di Rue de Sébastopol» disse Charbonneau. «Anique Pomerleau ha ammesso di aver ucciso Louise Parent» dissi. «È chiaro che la ragazza c'era dentro fino al collo. La Scientifica ha trovato l'indirizzo di Rose Fisher nel seminterrato di Rue de Sébastopol. Ma l'omicidio di Louise Parent potrebbe essere stato istigato da Catts. Probabilmente ha detto ad Anique Pomerleau che la donna lo aveva visto un paio di volte davanti al banco dei pegni con le sue prigioniere. E quando gli scheletri sono stati ritrovati, hanno capito che dovevano agire prima che lei parlasse.» Charbonneau scosse la testa. «Che ironia, vero? Per anni hanno tentato di nascondere tutto in quel seminterrato. Ed è proprio il seminterrato l'unica cosa sopravvissuta al fuoco. E che adesso ci sta rivelando tutto.» «Forse potrebbe essere questo il motivo per cui la sua amica non è finita là sotto» disse Claudel. «Anique Pomerleau probabilmente aveva pensato di trascinare lì madame Turnip, ma poi ha cambiato idea, temendo che il fuoco non l'avrebbe mai raggiunta.»
«O forse si è solo stancata di trascinarla e l'ha abbandonata in quella stanza.» Mi sentii le mani stringersi in un pugno. «Aveva ragione circa i bottoni, dottoressa» disse Claudel guardandomi negli occhi. «Sicuramente Catts li ha persi nel periodo in cui aveva in affitto i locali di Cyr. Non hanno alcuna attinenza con gli scheletri.» Non provai alcuna soddisfazione ad avere ragione, ma solo un profondo dolore. E tanta stanchezza. Di nuovo, sentii che la mia energia si stava esaurendo. Rilassai le mani e intrecciai le dita. Mi restava ancora una domanda. «Quando avete saputo che ero andata in Rue de Sébastopol?» «Ho avuto il suo messaggio mentre tornavamo dal Vermont» rispose Charbonneau. «Avevamo scoperto dalla fotografia che Ménard era morto e che era stato Catts a ucciderlo. Sapevamo che Anique Pomerleau e Tawny McGee erano scappate dall'ospedale. Sapevamo che Catts era morto. Luc e io siamo andati direttamente alla CUM e abbiamo trovato un verbale in cui si diceva che sulla pistola usata da Catts per farsi saltare le cervella c'erano le impronte di Anique Pomerleau.» «E nessuna impronta di Catts» conclusi. «Nessuna. Inoltre il dottor LaManche aveva detto che sulle mani di Catts non c'erano tracce di polvere da sparo. Ci ricordavamo quello che lei ci aveva spiegato sul lavaggio del cervello eccetera eccetera, perciò abbiamo fatto due più due e ci siamo precipitati in Rue de Sébastopol sperando di arrivare prima che lei trovasse Anique Pomerleau e dovesse pentirsene.» «Grazie.» «Dovere, madame.» Charbonneau sorrise. Mi voltai verso Claudel. «La ringrazio molto, tenente. E mi creda, mi dispiace davvero tantissimo per il suo cappotto.» Claudel rispose con un cenno della testa. «Lei ha dimostrato grande coraggio e intraprendenza, dottoressa.» «Grazie di nuovo. A tutti e due.» Dopodiché ci alzammo e raggiungemmo la porta. «Ah... dottoressa Brennan...» Mi voltai ancora verso Claudel. «Non sono mai stato un estimatore dell'articolo.» Gli angoli della sua bocca accennarono qualcosa che poteva ricordare un sorriso. «Ma devo ammettere che lei mi ha aperto nuove prospettive sulla biancheria leopar-
data.» 39 Mercoledì sera, quando Ryan mi chiamò, quasi non riuscii a svegliarmi. E dopo aver borbottato una serie di «Mah...», «Boh...» e «Non so...», risprofondai nel sonno. Il ricordo successivo è il sole che filtrava nella mia finestra, la sveglia che diceva dieci e mezzo, e Birdie a qualche centimetro dalla mia faccia. E il campanello che suonava. Mi infilai l'accappatoio e barcollai fino al videocitofono. Nel monitor comparve Ryan con un cappello da Babbo Natale e la scritta PÈRE NOËL ricamata sul bordo di pelliccia. Mi sistemai i capelli dietro le orecchie e sfoderai il mio miglior sorriso. Ma poi sullo schermo vidi anche una ragazza che entrava nell'atrio. Una chioma di riccioli neri. Alta. Orecchini grandi come ponticelli da croquet. Ryan abbracciò la donna al suo fianco. Lei rispose togliendogli il cappello. La mia mano si fermò a mezz'aria. Il sorriso svanì. La lolita. Dentro la testa mi si formò un iceberg. La lolita si voltò. Pelle color caffellatte. Un'espressione che diceva che avrebbe voluto essere altrove. Ovunque, ma non in quell'atrio. Ryan sorrise e l'abbracciò ancora. La ragazza si divincolò e gli restituì il cappello. Gesù santo del Paradiso! Quel bastardo d'un egoista non stava per caso pensando di presentarmela? Colsi un riflesso di me nello specchio dell'ingresso. Accappatoio liso. Faccia da sonno. Capelli come una scopa. «E va bene, sbirro.» Premetti il pulsante. «Portala qui.» Ma quando aprii la porta, Ryan era solo. Il corridoio alle sue spalle era vuoto. L'aveva nascosta, la sua lolita. Bene. Meglio. «Sì?» Glaciale. Sorridendo, Ryan mi squadrò da capo a piedi. «Sei pronta per uscire, vedo.» Non sorrisi. Ryan studiò la mia faccia.
«Strane, le sopracciglia. Ti accorgi di averle solo quando hanno qualche problema.» Ryan fece per toccarmi la fronte. Ma io mi ritrassi. «O quando cadono.» «Sei qui per criticare le mie sopracciglia?» «Quali sopracciglia?» Nemmeno un accenno di sorriso. Ryan incrociò le braccia. «Vorrei parlarti.» «Non è un buon momento.» «Hai un aspetto magnifico.» Mi morsi le labbra per non replicare. «Direi... focosa.» Le grandi assenti ingiustificate della mia fronte si incresparono. «Incandescente.» L'increspatura si trasformò in una ruga di disapprovazione. «Se ti prometto di smetterla con le battute, posso tornare tra una decina di minuti? Direi che è un tempo più che sufficiente per trasformarti in una donna meravigliosa.» Stavo per rifiutare. «Ti prego...» Sincerità al lapislazzuli. La mia libido si risvegliò. Cercai di rimetterla a dormire. «Ma certo, Ryan. Perché no?» Caffè. Jeans e felpa. Denti. Fasciatura pulita. Capelli? Trucco? Al diavolo. Quindici minuti dopo, il campanello trillò ancora. Quando aprii la porta, la ragazza era con lui. Mi irrigidii. Ryan fissò i suoi occhi nei miei. «Sono lieto di presentarti Lily.» «Ryan» dissi. «Non mi sembra...» «Mia figlia.» Rimasi a bocca aperta, mentre il cervello cercava di elaborare quelle parole. «Lily, ti presento Tempe.» Lily mosse nervosamente i piedi. «Salve» mormorò. «Sono felice di conoscerti, Lily.» Sua figlia? O mio Dio!
Guardai Ryan con aria interrogativa. «Lily vive a Halifax.» Mi voltai verso Lily. «Nova Scotia?» Idiota che sono! Ma certo, Nova Scotia. «Già.» Lily osservò i miei capelli bruciacchiati e il viso coperto di vesciche, ma non commentò. «Lily è arrivata qui a Montréal dal 3» mi spiegò Ryan. Il giorno in cui avevo deposto per il processo Pétit. «Durante gli ultimi mesi Lily e io stiamo imparando a conoscerci.» Lily scrollò una spalla, si aggiustò il manico della borsetta. «E così ho pensato che anche le donne della mia vita dovessero conoscersi.» Le donne della sua vita? «Sono davvero molto felice di conoscerti, Lily.» Gesù! Sembravo un dizionario delle frasi fatte. Lo sguardo di Lily si spostò su Ryan. Lui le rivolse un cenno quasi impercettibile. «Volevo scusarmi per quella telefonata. Non... non avrei dovuto dire che eri una scema.» Quindi la donna a casa di Ryan, giovedì sera, era Lily. «Ti capisco.» Sorrisi. «Dividere tuo padre con qualcun altro dev'essere molto difficile.» Un'altra scrollata di spalle, poi la ragazza si voltò ancora verso il padre. «Adesso posso andare?» Ryan annuì. «Hai preso le chiavi?» Lily diede un colpetto alla borsa, poi si voltò e si allontanò nel corridoio. «Entra.» Indietreggiai di un passo e aprii la porta. «Paparino.» Ryan mi seguì nel soggiorno, si tolse il giubbotto e si lasciò cadere sul divano. «Mi sembra tutto assurdo, Ryan» dissi, accoccolandomi in una poltrona. «Lo è, Tempe» rispose Ryan. «Non sapevo avessi una figlia.» «Nemmeno io. Fino ad agosto.» Il viaggio imprevisto da Charlotte a Halifax. «Quindi il problema non era tua nipote.» «Tutto è iniziato con mia nipote. Dopo l'overdose, ho aiutato mia sorella a portare Danielle in una comunità di recupero, in Nova Scotia. E quando sono arrivato lì, mi sono accorto che una delle infermiere era una donna
che avevo frequentato all'università.» «Una studentessa della St. Francis Xavier?» Ryan scosse la testa. «No. Io andavo all'università. Lei no. Ti ho già raccontato che durante i primi due anni, avevo uno stile di vita un po'... diciamo un po' selvaggio. E Lutetia, la madre di Lily, era una delle mie amiche abituali. All'epoca lei girava con un gruppo di chiassose ragazze che si facevano chiamare le Sacre Sorelle dell'Amore Contrattabile.» Raccolsi i piedi sotto il sedere. «La storia la conosci già. I miei anni turbolenti sono finiti con un'arteria recisa, un soggiorno in ospedale e una prospettiva tutta mia sulla vita universitaria. Lutetia e io abbiamo preso strade diverse. L'ho rivista una volta sola, cinque anni dopo la laurea, quando sono tornato in Nova Scotia per una visita ai miei genitori. In quell'occasione abbiamo finito per...» Ryan esitò «... per condividere la nostra ultima esperienza religiosa. Poi io sono tornato a Montréal, Lutetia è rientrata alle Bahamas, e ci siamo persi di vista.» «Quindi Lily è la figlia di Lutetia» conclusi. Ryan confermò con un cenno. «Lutetia non ti aveva mai detto di essere rimasta incinta?» «No. Aveva paura che l'avrei costretta a rimanere in Canada.» «Si è sposata?» «Sì. Ma il matrimonio è finito quando Lily aveva dodici anni. E Lutetia è tornata a Halifax con lei.» Birdie arrivò in soggiorno e si strusciò sulle gambe di Ryan. Lui gli grattò distrattamente la testa. «Ma perché te lo ha detto solo adesso?» «Perché Lily ha iniziato a chiedere del padre naturale. E iniziava anche a prendere una brutta strada. Un po' come Danielle. E quando sono comparso...» Ryan allargò le braccia. «Non ti aspettavi di averla qui a Montréal, vero?» «Ho aperto la porta e mi sono trovato di fronte Lily. Quella stupidina è arrivata in autostop da Halifax.» Non riuscivo a capire esattamente come mi sentivo. Sollevata perché la ragazza non era un flirt di Ryan? Delusa perché Ryan non mi aveva confidato il suo segreto? «Perché non me ne hai parlato?» «Perché tra noi c'era un po' di tensione, Tempe.» Sorriso alla Ryan. «Probabilmente per colpa mia. Ultimamente sono stato molto sotto pres-
sione. Lily. L'operazione di polizia congiunta.» Ryan si toccò il taschino della camicia. Poi ricordò il mio divieto assoluto di fumare, e lasciò ricadere la mano. «Ma più che altro non te ne ho parlato perché volevo essere sicuro.» «Hai chiesto il test sulla paternità?» Ryan annuì. «E Lily come ha reagito?» «Malissimo. Ha dato fuori di matto.» Ecco spiegata quella ricaduta nel fumo. E le occhiaie. Negli ultimi tempi Ryan aveva subito molto più stress di me. «L'altra settimana ho ricevuto l'esito del test.» Attesi. «Lily è mia figlia.» «Ryan, è meraviglioso.» «Infatti. Ma la ragazza è un osso duro, e io non so neanche da che parte cominciare con il mestiere di padre.» «Finora che cosa hai capito?» «Che Lutetia ha fatto un buon lavoro con Lily. E Lily vuol bene alla madre e continuerà a vivere con lei. Se però decide che vuole un altro genitore nella sua vita, io ci sarò. Costi quel che costi.» Mi alzai e andai a sedermi accanto a Ryan. Lui mi guardò e mi rivolse un sorriso disarmante. Gli presi la mano. «Sarai un padre fantastico.» «Avrò bisogno di molto aiuto.» «E lo avrai, cowboy.» Avvicinai il viso a quello di Ryan, sentii il solletico della sua barba sulla guancia. Ryan mi strinse per un attimo, poi mi allontanò di nuovo e si alzò. «Stai qui e non ti muovere.» Aspettai, senza capire che cosa sarebbe successo. Sentii la porta d'ingresso aprirsi. Dopo qualche secondo, la sentii richiudersi. Un fruscio. Un campanellino. Ryan ricomparve con indosso il cappello da Babbo Natale e con una gabbia grande quanto una palestra. Dentro, un cacatua grigio si dondolava sulla sua altalena. Ryan posò la gabbia sul tavolino di fronte al divano, venne a sedersi accanto a me e mi abbracciò. Il cacatua continuò a dondolarsi voltandosi ogni tanto verso di noi.
«Buon Natale» disse Ryan. «Charlie, ti presento Tempe.» L'altalena si fermò. Charlie mi osservò per bene, prima con un occhio, poi con l'altro. «Non posso tenerlo. Mi sposto troppo spesso da una città all'altra.» Charlie volò via dall'altalena e si posò sulla mangiatoia. Intanto, Birdie iniziò le manovre di avvicinamento, coda grossa e sguardo fisso sul cacatua. «Birdie, ti presento Charlie» disse Ryan al mio gatto. Birdie strisciò guardingo sul tappeto, simile a una pantera bianca tesa a controllare la preda. Arrivato al tavolino, posò le zampe anteriori sul ripiano e allungò il muso verso la gabbia, la punta della coda mossa da un fremito. Charlie sollevò la cresta, si voltò verso Birdie e poi si concentrò ancora sui suoi semi. «È bellissimo, Ryan.» E lo era davvero, con il suo corpo grigio e morbido, la testa gialla. Birdie saltò sul tavolino, si accucciò con le zampe raccolte sotto il petto e fissò il cacatua. Con quelle macchie arancioni sulle guance. «È un'idea deliziosa, Ryan. Ma non può funzionare.» Senza smettere di osservare il nuovo arrivato, Birdie si accoccolò definitivamente sul tavolino e ritirò ancora di più le zampe sotto di sé. Con le delicate striature bianche sulle ali. Birdie iniziò a fare le fusa. Io lo guardai, stupefatta. «Ehi, direi che Birdie ha apprezzato il regalo» disse Ryan. «Non posso prendere l'aereo tutti i mesi con un gatto e un cacatua.» «Ho un'idea.» Guardai Ryan. «Vieni a vivere con me.» «Eh?» «Trasferisciti da me.» Ero scioccata. L'idea di convivere non mi aveva mai nemmeno sfiorata. Volevo vivere con Ryan? Sì. No. Non lo sapevo. Cercai di trovare una risposta adeguata. «Forse» mancava di stile. «No» sembrava piuttosto definitiva. Ryan non insisté. «Piano B. Affidamento congiunto. Quando te ne torni al Sud, Charlie re-
sta con me.» Guardai il cacatua. Era veramente bellissimo. E a Birdie piaceva. Tesi la mano. «Affare fatto.» Ryan e io sancimmo l'accordo con una stretta. «Nel frattempo, il piano B rimane sul piatto.» Vivere con Ryan? Forse. Ci dovevo pensare. Quel pomeriggio decisi di passare in ufficio. Ero lì da un'oretta quando squillò il telefono. «La dottoressa Brennan?» «Sì.» «Sono Pamela Lindahl. Sono la psichiatra incaricata dai servizi sociali di prestare a Tawny McGee le cure e l'assistenza adeguate al suo caso. Tra quarantacinque minuti pensa di essere ancora in ufficio?» «Sì.» «Se per lei non è un problema, vorrei passare da lei per una visita. Potrebbe avvertire la reception che sto arrivando?» «Certamente. A dopo.» Appena posai la cornetta, avrei voluto disdire l'appuntamento. Anche se riconoscevo l'importanza di fornire tutte le informazioni necessarie al lavoro degli assistenti sociali, non me la sentivo ancora di ricordare o riparlare della depravazione e del male di cui ero stata testimone. Pensai di richiamare la dottoressa Lindahl e di dirle di non passare, ma poi il senso del dovere prevalse e, dopo aver avvertito la reception della visita, iniziai a pensare alle cose che avrei potuto riferire alla psichiatra. Quaranta minuti dopo sentii bussare alla porta. «Entrez!» Sulla soglia del mio ufficio comparve una donna minuta dai capelli bruni che indossava un trench e un baschetto color castagna, seguita da una donna più matura, con cappotto e senza cappello. Un attimo di confusione e poi il riconoscimento. «Ciao, Tawny» dissi rivolta alla più giovane, e feci il giro della scrivania tendendo le mani. Tawny si ritrasse leggermente e non mi porse le mani. Io feci finta di nulla e dissi: «Sono davvero molto contenta di vederti. E
innanzitutto lascia che ti ringrazi per avermi salvato la vita». Dapprima nessuna risposta. Poi: «Veramente è lei che mi ha salvato la vita». Un attimo di esitazione. Poi, parlando molto lentamente: «Ho chiesto di poterla incontrare perché volevo che mi vedesse. Volevo che vedesse che sono una persona e non un animale in gabbia». Questa volta, quando mi avvicinai, Tawny non si ritrasse. La strinsi in un abbraccio e appoggiai la mia testa sulla sua. Mi sentii travolgere da una valanga di emozioni diverse, per Tawny, per Katy, per tutte le ragazze del mondo, adorate o maltrattate, e non riuscii a trattenere le lacrime. Tawny non pianse, ma accettò il mio abbraccio. Quando la lasciai, indietreggiai e le presi le mani. «Tawny, non ho mai pensato a te se non come a una persona, e di certo la stessa cosa pensano gli assistenti che adesso si occupano di te. E sono sicura che la tua famiglia è impaziente di riaverti con sé.» Tawny mi guardò. Ritirò le mani e indietreggiò. «Addio, dottoressa Brennan.» Sulla sua faccia non lessi nessuna espressione particolare. Ma negli occhi notai una profondità del tutto diversa dallo sguardo vuoto dei giorni precedenti. «Addio, Tawny. Sono davvero felice che tu sia passata a trovarmi.» La dottoressa Lindahl mi sorrise, poi le due donne uscirono dal mio ufficio. Tornai a sedermi alla mia scrivania, sfinita ma sollevata. 40 Le vacanze arrivarono e finirono. Il sole si levò e tramontò su un inverno terribile. In uno dei tantissimi scatoloni recuperati dal seminterrato di Rue de Sébastopol, gli investigatori trovarono un diario. Il diario conteneva dei nomi. Angela Robinson. Kimberly Hamilton. Anique Pomerleau. Manon Violette. Marie-Joëlle Bastien. Tawny McGee. Il caso LSJML 38427 fu identificato come Marie-Joëlle Bastien, una sedicenne di Bouctouche, nel New Brunswick. Marie-Joëlle era scomparsa nella primavera del 1994. Nel corso degli anni, il suo fascicolo era andato disperso e il suo nome era stato depennato dagli elenchi delle persone scomparse. La mia stima dell'età e dell'altezza suggerivano che MarieJoëlle era morta subito dopo la cattura. La ragazza nella cassa di Dottor Energy fu identificata come Manon
Violette, una tredicenne di Montréal scomparsa nell'autunno del 1994, sei mesi dopo Marie-Joëlle Bastier. Lo scheletro di Manon indicava che aveva vissuto prigioniera per alcuni anni ma non era cresciuta di molto. A marzo, le ossa di Angie Robinson, Manon Violette e Marie-Joëlle Bastien furono restituite alle famiglie e ognuna di loro trovò finalmente la pace dopo una breve e sobria cerimonia. Kimberly Hamilton non fu mai ritrovata. Anne e Tom si buttarono a capofitto in una terapia di coppia. Anne iniziò a prendere lezioni di golf. Tom si comprò libri di giardinaggio. Insieme piantarono un milione di azalee. Io non ebbi più contatti con Tawny McGee. La ragazza si impegnò per settimane nella terapia di recupero e alla fine tornò a casa, a Maniwaki. Il suo sarebbe stato un lungo cammino verso la normalità, ma i medici erano ottimisti. La fotografia di Anique Pomerleau fece il giro del Canada e superò anche il confine. La CUM e la SQ ricevettero decine di segnalazioni. Anique Pomerleau fu avvistata a Sherbrooke. Ad Albany. A Tampa. A Thunder Bay. La caccia continua. Per Anique Pomerleau. Per Kimberly Hamilton. Per tutte le ragazze perdute. Dall'archivio della dottoressa Kathy Reichs Per ragioni legali ed etiche non posso parlare dei casi reali che possono aver ispirato Morte di lunedì; tuttavia posso condividere con i lettori alcune vicende che hanno contribuito alla trama. In quei giorni il clima era dolce e soleggiato, a Montréal, gli ultimi scorci d'estate prima dei nove lunghi mesi invernali. Quel venerdì 14 settembre sembrava ideale per un'escursione in montagna, per una partita a tennis o per una pedalata lungo il Lachine Canal. Invece, una telefonata mi aveva costretta a tornare in Istituto. Quando arrivai in ufficio, trovai la Demande d'Expertise en Anthropologie sulla scrivania, e le ossa sul piano di lavoro. Lessi subito il fascicolo che accompagnava il caso e studiai le informazioni. Numero LML. Numero dell'obitorio. Numero del rapporto di polizia.
Detective incaricato. Coroner. Natura dei campioni: frammenti di resti scheletrici. Perizia richiesta: profilo biologico, causa di morte, presunta data del decesso. Guardai le tre buste marroni chiuse con nastro adesivo rosso. Al lavoro. Stando al riassunto dei fatti conosciuti, tutto inizia con un gabinetto intasato in una pizzeria. Non avendo una ventosa, il proprietario deve chiamare un idraulico, il quale mentre armeggia con i tubi, scopre dietro il lavandino una botola. Incuriosito, il coraggioso plombier si fa il segno della croce, solleva la botola, e dopo aver dato un'occhiata nel buio, scende nel seminterrato. Una volta sceso, illumina con la pila un lungo osso semisepolto sotto la terra battuta. L'uomo risale, avvisa il proprietario e, insieme a lui, raggiunge la biblioteca di zona. Una copia de L'Anatomie pour les Artistes conferma che si tratta di un femore umano. A questo punto la coppia chiama la polizia. La polizia ispeziona il seminterrato e trova una bottiglia, una moneta, e diverse altre ossa, che vengono mandate dal coroner. Questi informa il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale di Montréal. Al patologo basta un'occhiata per decidere di guastarmi la splendida giornata di sole. La classificazione e le analisi delle ossa mi occupano per diverse ore, al termine delle quali sul mio tavolo operatorio ho tre individui: uno giovane tra i diciotto e i ventiquattro anni, uno di mezza età e uno anziano affetto da artrite in fase avanzata. L'individuo più giovane presentava traumi provocati da un oggetto affilato su cranio, mandibola, osso sacro, femore e tibia. Chiamo gli investigatori, i quali mi dicono che la bottiglia è recente, mentre la moneta è antica e risale alla fine del Diciannovesimo secolo, ma il legame tra moneta e scheletri non può essere confermato. Chiedo loro se possono tornare nel seminterrato perché mi servivano altre ossa per i miei esami. Dopo una settimana ricevo una prima brutta notizia. Gli investigatori mi informano che sotto la pizzeria o nei dintorni non c'è mai stato nessun cimitero. Dopodiché aggiungono che un inquilino che abitava nell'edificio una quarantina di anni prima aveva sospetti legami con la malavita. Ancora una volta richiedo di poter riesaminare il luogo del ritrovamento e propongo di accompagnare un squadra di investigatori nel seminterrato. Trascorre un'altra settimana. Poi una seconda. Non capivo la ragione di
quelle lungaggini. Quando finalmente decido di chiedere conto del ritardo, mi rispondono con una parola. Topi! Compromesso. Se avessi potuto dimostrare che quelle morti risalivano alla seconda metà del secolo, avrebbero scavato tutto il seminterrato, e al diavolo i roditori. A quel punto, concentro le mie analisi sulla data presunta del decesso. Tutte le ossa e i frammenti sono secchi e privi di odore o di tessuti molli. C'è solo un esame in grado di garantire qualche risultato. Dopo aver spiegato al mio superiore l'importanza della datazione al carbonio 14 nella determinazione della data presunta di un decesso in caso di materiale organico recente, il Bureau du Coroner autorizza la spesa per il pagamento del test. Spedisco due campioni di tessuto osseo a Beta Analytic Inc., un laboratorio di Miami, in Florida, specializzato nella datazione al carbonio 14. I risultati arrivano una settimana dopo. Il test non è risolutivo, ma una cosa è certa: le vittime della pizzeria erano morte prima del 1955. Nessun bis per il Rattus rattus. Entrano in scena gli archeologi. Anche se quel caso è ormai chiuso, mi capita ancora di pensare a quelle ossa. E mi intristisce il pensiero dei tanti cadaveri dimenticati in qualche anonima cantina, mentre i vivi continuano indifferenti la loro vita al piano superiore. Pepsi e pizza ai peperoni, grazie. Chissà che cosa avrebbero da dire... FINE