NELSON DeMILLE MORTE A PLUM ISLAND (Plum Island, 1997) A Larry Kirshbaum, amico, editor, e compagno nel gioco d'azzardo ...
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NELSON DeMILLE MORTE A PLUM ISLAND (Plum Island, 1997) A Larry Kirshbaum, amico, editor, e compagno nel gioco d'azzardo Ringraziamenti Sono grato alle seguenti persone per avere diviso con me le loro cognizioni speciali. Eventuali errori od omissioni nella storia sono solo e unicamente miei. Inoltre, mi sono permesso qua e là qualche piccola licenza letteraria, ma ho cercato di rimanere per la maggior parte fedele alle informazioni e ai consigli fornitimi da questi signori e signore. Grazie, in primo luogo, al Tenente John Kennedy, dell'ufficio Investigativo del Dipartimento di Polizia della Contea di Nassau, per avere lavorato quasi quanto me a questo romanzo. John Kennedy è un poliziotto integerrimo, un onesto avvocato, un marinaio esperto, un buon marito per Carol, un buon amico per i DeMille e un severo critico letterario. Grazie, grazie infinite per il tuo tempo e la tua perizia. Vorrei nuovamente ringraziare Dan Starer della Research for Writers, NYC, per il suo diligente lavoro. Vorrei inoltre ringraziare Bob e Linda Scalia di Southold per il loro aiuto in fatto di notizie e usanze locali. La mia riconoscenza a Martin Bowe e a Laura Flanagan della biblioteca pubblica di Garden City per l'eccellente aiuto nelle ricerche. Molti ringraziamenti a Howard Polskin della CNN, e a Janet Alshouse, Cindi Younker e Mike DelGiudice di News 12 Long Island, per avermi messo a disposizione il loro servizio televisivo su Plum Island. Grazie ancora a Bob Whiting, della Banfi Vinificatori, per avere diviso con me la sua competenza e la sua passione per il vino. I miei ringraziamenti al dottor Alfonso Torres, direttore del Centro Malattie degli Animali di Plum Island, per il suo tempo e la sua pazienza, e la mia ammirazione per l'importante e altruistico lavoro svolto da lui e dal suo personale. Tanta gratitudine alla mia assistente Dianne Francis, per centinaia di ore di arduo e impegnato lavoro.
I miei penultimi ringraziamenti al mio agente e amico Nick Ellison, e alle sue collaboratrici Christina Harcar e Faye Bender. Impossibile, per un autore, essere meglio rappresentati o avere migliori colleghi. Infine, ultimo ma non meno importante, ancora un grazie a Ginny DeMille: questo è il suo settimo libro ma lei cura l'editing sempre con amore ed entusiasmo. Nota dell'autore In merito al Centro Malattie degli Animali del ministero dell'Agricoltura degli Stati Uniti con sede a Plum Island, mi sono permesso qualche piccola licenza letteraria riguardo all'isola e al lavoro che vi viene svolto. Tre possono mantenere un segreto, se due di loro sono morti. Benjamin Franklin, Poor Richard's Almanac (1735) 1 Attraverso il binocolo, potevo vedere quel bel cabinato di circa dodici metri ancorato a qualche centinaio di metri dalla costa. A bordo c'erano due coppie sulla trentina che se la spassavano, prendendo il sole, ingurgitando beveraggi e via dicendo. Le donne indossavano tanga e niente reggiseno, e uno degli uomini, che se ne stava ritto a prua, d'un tratto si fece scivolar giù i calzoncini, rimanendo per un attimo nudo come un verme, poi si tuffò nella baia e prese a nuotare intorno alla barca. Gran paese, il nostro. Posai il binocolo e aprii una lattina di Budweiser. Si era a fine estate, e non intendo fine agosto, ma già settembre, prima dell'equinozio autunnale. Il weekend della Festa del Lavoro era ormai passato, e l'estate indiana, qualunque cosa sia, era alle porte. Io, John Corey per servirvi, piedipiatti di professione in convalescenza, me ne stavo in veranda sul retro della casa di mio zio, sprofondato in una poltrona di vimini e con la mente attraversata da pensieri oziosi. Riflettevo tra me che il problema del non far niente è il non sapere quando non ne potrai più. La veranda è di quelle antiquate che si estendono su ben tre lati di una casa colonica vittoriana del 1890, tutta assicelle di copertura e ornamenti vistosi, torrette, timpani, per gli interi nove metri. Da dove sedevo, potevo
guardare a sud attraverso un verde prato in pendio fino alla Great Peconic Bay. Il sole era basso sull'orizzonte a ovest, dov'era logico che fosse alle 6 e 45 del pomeriggio. Sono un ragazzo di città, io, ma stavo realmente familiarizzando con l'essenza della campagna, il cielo e tutto il resto, e qualche settimana prima avevo finalmente trovato l'Orsa Maggiore. Indosso avevo una semplice maglietta bianca e jeans sfrangiati che mi andavano bene prima che perdessi troppo peso. Tenevo i piedi nudi appoggiati sulla ringhiera, e tra l'alluce destro e il sinistro era incorniciato il cabinato di cui sopra. Verso quell'ora puoi cominciare a udire i grilli, le cavallette e chissà cos'altro, ma non sono un fanatico dei rumori della natura per cui, sul tavolinetto accanto a me, un mangianastri portatile faceva udire la colonna sonora de Il grande freddo. Avevo la Bud nella sinistra, il binocolo in grembo e, sul pavimento a portata della mano destra, la mia pistola di quando sono fuori servizio, un revolver Smith&Wesson calibro 38 con canna di cinque centimetri che mi stava giusta giusta dentro il borsello. Scherzo, naturalmente. Durante i due secondi di silenzio tra When a Man Loves a Woman e Dancing in the Street, potei udire o avvertire sulle vecchie tavole scricchiolanti che qualcuno stava camminando lungo la veranda. Dato che vivo solo e non aspettavo nessuno, presi la calibro 38 nella destra e me la posai in grembo. Tanto perché non pensiate che sono un cittadino paranoico, sarà bene precisare che non ero convalescente dagli orecchioni, bensì da tre ferite d'arma da fuoco, due 9 mm e una calibro 44 Magnum, non che la dimensione dei fori abbia importanza. Come per le proprietà immobiliari, quello che conta nei fori da proiettile è la posizione, la posizione e ancora la posizione. Va da sé che quei fori erano nelle posizioni giuste, perché ero in convalescenza e non in via di decomposizione. Guardai verso destra dove la veranda girava attorno al lato ovest della casa. Apparve un uomo dall'angolo, poi si fermò a quattro o cinque metri da me, scrutando le lunghe ombre proiettate dal sole al tramonto. Anzi, l'uomo stesso proiettava una lunga ombra che terminava oltre me, così che sembrò non mi vedesse. Ma con il sole alle sue spalle era difficile anche per me vederlo in faccia o intuirne le intenzioni. «Serve aiuto?» dissi. Girò la testa verso di me. «Oh... ehi, John. Non ti avevo visto.» «Siediti, Capo.» Infilai il revolver nella cintura dei calzoni, sotto la maglietta, poi abbassai il volume di Dancing in the Street. Sylvester Maxwell, detto Max, che da queste parti è la legge, avanzò
calmo calmo verso di me e calò il sedere sulla ringhiera, così da starmi di fronte. Indossava un blazer blu, camicia bianca sbottonata, calzoni di tela marrone chiaro, scarpe da barca e niente calzini. Non sapevo dire se fosse in servizio oppure no. «C'è qualche analcolico lì in fresco.» «Grazie.» Si chinò e pescò una Budweiser dal ghiaccio. A Max piace chiamare analcolico la birra. Sorseggiò per un poco, contemplando un punto dello spazio a mezzo metro dal suo naso. Tornai a dirigere la mia attenzione verso la baia e ad ascoltare Too Many Fish in the Sea dei Marvelettes. Era lunedì, così i gitanti di fine settimana se n'erano andati, grazie a Dio, e come dicevo era passata anche la Festa del Lavoro, quando la maggior parte degli affitti estivi scadeva, e si poteva avvertire il ritorno della solitudine. Max è un ragazzo del posto e non usa venire subito al dunque, perciò aspetti che sia pronto a farlo. Alla fine mi domandò: «È tua questa casa?» «No, di mio zio. Lui vuole che la comperi.» «Non comperare niente. La mia filosofia è, se vola, galleggia o scopa, prendi in affitto.» «Grazie.» «Hai intenzione di rimanere qui per un po'?» «Fino a che il vento smette di fischiarmi attraverso il petto.» Sorrise, ma poi tornò a immergersi nella contemplazione. Max è un pezzo d'uomo, suppergiù dell'età mia, vale a dire verso la metà della quarantina, capelli biondi ondulati, bel colorito e occhi azzurri. Pare che le donne lo trovino bello, il che torna comodo al Capo Maxwell, che è scapolo ed etero. «E così, come ti senti?» s'informò. «Non c'è male.» «Un po' di esercizio mentale ti andrebbe?» Non risposi. Conosco Max da dieci anni ma, dato che non vivo da queste parti, lo vedo solo di tanto in tanto. Dovrei spiegare a questo punto che sono un investigatore della Omicidi di New York City, già in servizio nella zona di Manhattan Nord fino a che non ero stato colpito. Questo accadeva il dodici aprile. Erano almeno due decenni che un investigatore della Omicidi non veniva gravemente ferito a New York, perciò la cosa aveva fatto notizia. Quelli dell'Ufficio Relazioni Pubbliche del Dipartimento di Polizia di New York l'avevano tenuta ben viva perché c'era di nuovo in vista il rinnovo del contratto, e trattandosi di me che ero così bello, aitante e via dicendo, l'avevano sfruttata un po', la stampa aveva dato una mano e via di
questo passo. In tutto questo, i due che mi avevano colpito erano e sono tuttora latitanti. Così, avevo passato un mese al Columbia Presbiterian, poi alcune settimane nel mio appartamento di Manhattan, e infine zio Harry aveva suggerito che la sua casa per l'estate era il posto adatto per un eroe. Perché no? Vi ero arrivato alla fine di maggio, subito dopo il Memorial Day. «Conoscevi, penso, Tom e Judy Gordon», disse Max. Lo guardai. I nostri sguardi si incontrarono. Compresi. «Tutti e due?» domandai. Assentì. «Tutti e due.» Dopo un momento di rispettoso silenzio, aggiunse: «Ci terrei che tu dessi un'occhiata alla scena». «Perché?» «Perché no? Come favore personale. Prima che chiunque altro se ne prenda un pezzo. Sono a corto di investigatori della Omicidi.» In realtà, il Dipartimento di Polizia della città di Southold non ha una squadra omicidi, e di solito va bene così, dato che sono ben pochi a venire fatti fuori da queste parti. Quando proprio succede, la polizia della Contea di Suffolk provvede col distaccare qualcuno della Omicidi perché prenda in mano la situazione, e Max si fa da parte. A Max questo non piace. Qualche ragguaglio, ora, sulla località: questa è la North Fork di Long Island, Stato di New York, municipalità di Southold, fondata, stando a una targa sulla strada principale, nel 1640 e rotti da alcune persone di New Haven, Connecticut, le quali, per quello che se ne sa, erano in fuga dai soldati del re d'Inghilterra. La South Fork di Long Island, che resta sull'altro lato della Peconic Bay, è la mondana Hamptons: scrittori, artisti, attori, pubblicitari e altri omologhi assortiti. Qui, sulla North Fork, la popolazione è formata per lo più da agricoltori, pescatori e simili. E forse da un assassino. A ogni modo, la casa di zio Harry si trova in particolare nel piccolo villaggio di Mattituck, che è a circa centocinquanta chilometri dalla 102a Strada Ovest dove due gentiluomini dall'aspetto ispanico avevano scaricato quattordici o quindici colpi contro il sinceramente vostro, mandandone a segno tre su un bersaglio mobile distante da sei a nove metri. Non un'esibizione tale da impressionare, ma non è mia intenzione criticare, né lamentarmi. La municipalità di Southold, in ogni caso, comprende la maggior parte della North Fork, e conta otto frazioni, chiamiamole così, e un villaggio, Greenport, nonché una forza di polizia di una quarantina di agenti di cui
Sylvester Maxwell è il capo, e questo è tutto. «Non ci perdi niente a dare un'occhiata», disse Max. «Sì che ci perdo. Metti che mi notifichino un ordine di comparizione per testimoniare, qui, in qualche momento per me inopportuno? Non vengo pagato, io, per questo.» «In realtà, ho telefonato all'ufficio amministrativo della contea e ho ottenuto il benestare ufficiale per ingaggiarti come consulente. Cento dollari il giorno.» «Ehi! Sembra proprio il genere d'incarico per cui fare i salti mortali.» Max si concesse un sorriso. «Via, ci paghi il gas e il telefono. Non stai facendo un bel niente, al momento.» «Sto cercando di far chiudere un buco nel mio polmone destro.» «Non dovrai certo affaticarti.» «Come fai a dirlo?» «È la tua occasione di essere un buon cittadino di Southold.» «Sono di New York, io. Non sono tenuto a essere un buon cittadino.» «Di', li conoscevi bene i Gordon? Erano tuoi amici?» «In un certo senso.» «Sì? Be', eccola, la tua motivazione. Coraggio, John. Alzati e andiamo. Ti sarò in debito di un favore. Fissa tu il prezzo.» In verità, mi annoiavo, e i Gordon erano care persone... Mi alzai e posai la birra. «Accetterò l'incarico a un dollaro la settimana, tanto per agire in veste ufficiale.» «Bravo. Non te ne pentirai.» «Certo che me ne pentirò.» Spensi Jeremiah Was a Bullfrog e domandai a Max: «C'è molto sangue?» «Un po'. Ferite alla testa.» «Pensi che mi servano le ciabattine?» «Be'... parte dei cervelli e dei crani è schizzata in giro...» «Okay.» Infilai i piedi nelle ciabattine di gomma, poi Mark e io ci avviammo tutt'intorno alla veranda fino al viale circolare davanti alla casa. Presi posto nella sua auto della polizia senza contrassegni, una Jeep Cherokee bianca con una radio piuttosto malandata. Ci mettemmo in moto giù per il lungo viale, che per un centinaio d'anni circa era stato disseminato di valve di ostriche e di mitili perché zio Harry e chiunque altro prima di lui ve le gettavano mischiate alla cenere e alle scorie della caldaia per tenere giù il fango e la polvere. A ogni modo, questa un tempo era quella che viene definita una fattoria sulla baia, e sulla
baia lo è tuttora, ma la gran parte del terreno agricolo è stata venduta. Il paesaggio si presenta alquanto incolto, e la flora è quasi tutta di un genere di piante che quasi non vengono più usate, tipo forsizia, salici e siepi di ligustro. La casa in sé è dipinta di un color panna con tetto e rifiniture verdi. Ha un suo fascino, in realtà, e forse la comprerò se i medici della polizia diranno che sono da mettere a riposo. Dovrei esercitarmi a tossire sangue. Riguardo alla mia invalidità, ho buone probabilità di andarmene in pensione con tre quarti dello stipendio esenti da tasse. È l'equivalente, nella polizia di New York, dell'andare ad Atlantic City, inciampare in uno strappo nel tappeto del Trump's Castle e, in piena vista di un legale esperto in casi di responsabilità civile, battere la testa contro una slot machine. Jackpot! «Mi hai sentito?» «Come?» «Ho detto, li ha trovati un vicino, alle cinque e tre quarti...» «Sono ufficialmente ingaggiato, ora?» «Certo. Uccisi tutti e due con un solo colpo alla testa, e il vicino li ha trovati distesi sul pavimento della veranda...» «Max, tutto questo lo vedrò da me. Dimmi del vicino, invece.» «Giusto. Si chiama Edgar Murphy, è un vecchio signore. Ha sentito la barca dei Gordon rientrare verso le 5 e 30 del pomeriggio. Circa un quarto d'ora dopo, va da loro e li trova assassinati. Mai udito uno sparo.» «Apparecchio acustico?» «No. Gliel'ho domandato. Anche la moglie ci sente benissimo, a quel che dice Edgar. Perciò, forse c'era il silenziatore. O forse sono più sordi di quello che pensano.» «Ma la barca l'hanno sentita. Edgar è sicuro dell'ora?» «Abbastanza. Ci ha chiamati alle 5 e 51, quindi suppergiù ci siamo.» «Eh, sì.» Guardai il mio orologio. Erano ormai le 7 e 10. Max doveva avere avuto la brillante idea di venire a ingaggiare me subito dopo essersi recato sul luogo del fattaccio. Ne conclusi che quelli della Omicidi della Contea di Suffolk dovessero trovarsi là, ora. Probabilmente erano partiti da Yaphank, una piccola località, sede della polizia della contea, che si trova a circa un'ora di macchina da dove abitavano i Gordon. Max continuava a parlare di questo e di quello, e io cercavo di rimettere in moto la mente, ma erano passati quasi cinque mesi da quando avevo dovuto occuparmi di cose del genere. Ero tentato di scattare, «Attieniti ai fatti, Max!» ma lo lasciavo portare avanti il suo monotono ronzio. Inoltre, Je-
remiah Was a Bullfrog non faceva che risuonarmi nella mente, ed è davvero irritante, come sapete, non riuscire a togliersi dalla testa un motivetto. Quello, in particolare. Guardavo fuori dal finestrino aperto. Stavamo percorrendo la strada principale est-ovest, detta per comodità la Main Road, verso un posto chiamato Nassau Point dove abitano... o meglio, abitavano i Gordon. La North Fork è un po' come Cape Cod, una lingua di terra spazzata dal vento circondata su tre lati dall'acqua e carica di storia. La popolazione stabile è piuttosto esigua, suppergiù ventimila persone, ma in compenso abbondano quelli che vi passano l'estate o il weekend, e le nuove enoteche hanno attratto gitanti giornalieri. Mettete su un'enoteca e vedrete arrivare diecimila bellimbusti degustatori di vino dal più vicino centro urbano. Potete scommetterci. A ogni modo, svoltammo a sud verso Nassau Point, una penisoletta a forma di mannaia lunga tre chilometri che si spinge entro la Great Peconic Bay. Dal mio pontile a quello dei Gordon saranno all'incirca quattro miglia. Nassau Point è stato un luogo di villeggiatura fin dagli anni Venti, e le case vanno da semplici bungalow a proprietà sontuose. Albert Einstein passava l'estate qui, e fu da qui che nel 1934 scrisse a Roosevelt la sua famosa «Lettera da Nassau Point» per esortare il presidente a fare andare avanti la bomba atomica. Il resto, come dicono, è storia. Cosa interessante, Nassau Point ospita ancora un certo numero di scienziati; alcuni lavorano al Laboratorio Nazionale di Brookhaven, qualcosa di nucleare e di segreto una cinquantina di chilometri a ovest di qui, mentre altri lavorano su Plum Island, un centro di ricerche biologiche talmente top secret e a tal punto pericolose da dover essere condotte su un'isola. Plum Island è circa due miglia al largo dell'estremità di Orient Point, che è l'ultimo tratto di terra della North Fork: prossima fermata, l'Europa. Non secondario a tutto questo, Tom e Judy Gordon erano biologi che lavoravano su Plum Island, e potete scommettere che Sylvester Maxwell e John Corey stavano pensando entrambi a questo. «Hai chiamato i Federali?» domandai a Max. Scosse la testa. «Perché no?» «L'omicidio non è un reato federale.» «Tu sai di che cosa sto parlando, Max.» Il Capo Maxwell non rispose.
2 Ci avvicinammo alla casa dei Gordon annidata su un piccolo prato sulla costa occidentale della punta. Era una casa stile ranch degli anni Sessanta che era stata poi rimodernata negli anni Novanta. I Gordon, provenienti da qualche parte del Midwest, e incerti sulla via che avrebbero preso le loro carriere, l'avevano presa in affitto con l'opzione per acquistarla, come una volta mi avevano accennato. Penso che se lavorassi con le sostanze con cui lavoravano loro, nemmeno io farei progetti a lungo termine. Diavolo, non comprerei nemmeno frutta acerba. Rivolsi l'attenzione alla scena al di là dei finestrini della Jeep. Su quel gradevole prato ombroso, piccoli capannelli di vicini e di ragazzi in bicicletta sostavano tutt'intorno, sotto le lunghe ombre violacee, parlando e guardando la casa dei Gordon. Tre auto della polizia di Southold erano parcheggiate di fronte alla casa, e così altre due senza contrassegni. Un furgone della scientifica bloccava il viale di accesso. È buona norma non addentrarsi con l'auto o parcheggiare sulla scena di un crimine per evitare di distruggere indizi, ed ero incoraggiato nel vedere che la piccola forza di polizia rurale di Max fin lì ci arrivava. Sempre sulla strada c'erano due furgoni della televisione uno di una stazione locale di Long Island, l'altro della NBG. Notai, inoltre, alcuni individui, evidentemente reporter, che cercavano di far parlare i vicini, piantando microfoni davanti a chiunque aprisse la bocca. Non era ancora il solito circo dei media, ma lo sarebbe stato appena il resto degli squali dell'informazione avesse avuto sentore del caso di Plum Island. Nastro giallo, tipico da scena del crimine, era avvolto da albero ad albero, per isolare la casa e il terreno circostante. Max si fermò dietro il furgone della scientifica e scendemmo. Lampeggiarono alcune telecamere, poi un gruppo di potenti riflettori-video si accese, ed ecco che venivamo registrati per il telegiornale delle undici. Mi auguravo che la commissione per il riconoscimento dell'invalidità non fosse davanti allo schermo, per non parlare dei pistoleri che avevano tentato di far secco moi, e che ora avrebbero scoperto dove mi trovavo. Fermo nel viale d'accesso c'era un agente in uniforme con un taccuino l'addetto a prendere nota di chi arrivava sulla scena del crimine - e Max gli diede nome, titolo e così via del sottoscritto, così ero ufficialmente regi-
strato, ora, soggetto a mandati di comparizione da parte del Procuratore Distrettuale e di potenziali avvocati della difesa. Era esattamente quello che io non volevo, ma quando il destino aveva bussato mi aveva trovato in casa. Percorremmo il viale a ghiaia e attraverso un piccolo arco passammo nel terreno sul retro, pavimentato per la maggior parte da un tavolato di cedro, a più livelli poiché dalla casa scendeva digradando giù alla baia e terminava nel lungo pontile dove era ormeggiata la barca dei Gordon. Era una serata davvero splendida, e avrei voluto che Tom e Judy fossero vivi per vederla. Osservai il solito contingente di esperti della scientifica, più tre agenti della città di Southold in uniforme e una donna vestita, in modo troppo formale, di un abito a giacca marrone chiaro, camicetta bianca e scarpe a tacco basso. Lì per lì pensai potesse trattarsi di una persona di famiglia, convocata per riconoscere i cadaveri e via dicendo, ma poi vidi che aveva con sé blocchetto e penna, e ostentava un modo di fare alquanto formale. Distesi sul bel tavolato di cedro grigio argenteo, supini l'uno accanto all'altro, c'erano Tom e Judy, i piedi verso la casa e la testa verso la baia, braccia e gambe di traverso come marionette. Un fotografo della polizia stava scattando fotografie dei cadaveri, e il flash illuminava il tavolato e creava uno strano gioco di luci sui due corpi, facendoli apparire per un microsecondo qualcosa di macabro, come ne La notte dei morti viventi. Fissavo i due cadaveri. Tom e Judy Gordon erano verso la metà della trentina, entrambi in ottima forma, perfino nella morte una coppia particolarmente bella, al punto che venivano a volte scambiati per celebrità quando cenavano fuori, nei locali più alla moda. Entrambi indossavano jeans, scarpe da tennis e maglietta. Quella di Tom era nera con il logo di una ditta di forniture nautiche sul davanti, e quella di Judy era più chic, di un verde oliva con una piccola vela gialla sul seno a sinistra. Max, sospettavo, non ne vedeva molti di morti ammazzati nel giro di un anno, ma probabilmente vedeva un numero sufficiente di morti naturali, suicidi, vittime di incidenti e così via, per cui non avrebbe sudato freddo. Appariva scuro in volto, preoccupato, pensoso e professionale, ma lanciava continue occhiate ai due corpi come se non potesse credere che fossero persone assassinate, quelle distese là sul bel tavolato. Il sottoscritto, d'altro canto, lavorando come fa in una metropoli che conta circa 1500 omicidi l'anno, non è estraneo alla morte, come si suol dire.
Non vedo tutti e 1500 i cadaveri, ma ne vedo abbastanza da non rimanere più sorpreso, impressionato, scioccato o rattristato. Tuttavia, quando si tratta di qualcuno che conoscevi e che ti era simpatico, la cosa è diversa. M'incamminai attraverso il tavolato e mi fermai accanto a Tom Gordon. Tom aveva un foro di proiettile all'attaccatura del naso. Judy lo aveva nella tempia sinistra. Supponendo che a sparare fosse stato uno solo, allora Tom, essendo un tipo ben piantato, era stato probabilmente ucciso per primo, con un unico colpo alla testa; poi Judy, nel girarsi incredula verso il marito, aveva ricevuto il secondo proiettile proprio nella tempia. I due proiettili erano probabilmente passati attraverso i loro crani ed erano finiti nella baia. Sfortuna nera per la balistica. Non sono mai stato sulla scena di un omicidio che non avesse un odore: incredibilmente nauseabondo, se le vittime erano morte già da qualche tempo. Se c'era sangue, potevo sempre sentirne l'odore, e se una cavità del corpo era stata penetrata, c'era in genere un particolare tanfo di visceri. È qualcosa che vorrei non dover sentire mai più; l'ultima volta che ho sentito l'odore del sangue, si trattava del mio. A ogni modo, il fatto che lì le uccisioni fossero avvenute all'aperto migliorava la situazione. Mi guardai attorno e non potei scorgere alcun punto nei pressi dove chi aveva sparato potesse nascondersi. Le porte a vetri scorrevoli della casa erano aperte e forse l'assassino si trovava là dentro, ma la distanza dai cadaveri era di almeno sei metri, e non sono molti quelli che possono mandare a segno un buon colpo alla testa da quella distanza con una pistola. Io ne ero la prova vivente. Da sei metri si spara prima al corpo, poi ci si avvicina e si completa l'opera con un colpo alla testa. Perciò le possibilità erano due: chi sparava stava usando un fucile, non una pistola, oppure, era in grado di avvicinarsi ai due senza destare in loro alcun allarme. Qualcuno dall'aspetto normale, senza niente di minaccioso, forse perfino qualcuno che conoscevano. I Gordon erano scesi dalla barca, si erano avviati su per il tavolato, a un certo punto avevano scorto quella persona e avevano continuato a camminare verso di lui, o di lei. La persona aveva puntato una pistola da non più di un metro e mezzo di distanza e li aveva centrati entrambi. Guardai al di là delle vittime e vidi minuscole bandierine colorate piantate qua e là nelle tavole di cedro. «Rosso sta per sangue?» Max assentì. «Bianco per cranio, grigio per...» «Capito.» Meno male che calzavo le ciabattine.
«I fori d'uscita sono grandi», mi informò Max, «come se l'intera parte posteriore dei crani fosse spappolata. E, come puoi vedere, sono grandi anche quelli di entrata. Direi senz'altro una calibro 45. Ancora non abbiamo trovato i due proiettili. Finiti probabilmente nella baia.» Non risposi. Max accennò alle porte scorrevoli e mi informò: «La vetrata d'ingresso è stata forzata e la casa rovistata da cima a fondo. Di oggetti grandi non ne manca nessuno: televisore, computer, stereo, quella roba lì c'è tutta. Ma potrebbero mancare gioielli e altre piccole cose». Contemplai per un momento quell'ipotesi. I Gordon, come la maggior parte dei cervelloni a stipendio governativo, gioielli, oggetti d'arte e altre cose del genere non ne possedevano molte. Un drogato avrebbe agguantato qualche costoso apparecchio elettronico e se la sarebbe squagliata. «Ecco come la vedo io», disse Max. «Un ladro, uomo, donna o anche più d'uno. Stavano facendo il comodo loro quando attraverso la porta a vetri hanno visto arrivare i Gordon; allora sono usciti, hanno sparato e se la sono data a gambe.» Mi guardò. «Giusto?» «Se lo dici tu.» «Lo dico, sì.» «Capito.» Suonava meglio di SACCHEGGIATA CASA DI SCIENZIATI ADDETTI CENTRO BATTERIOLOGICO TOP SECRET e anche di SCIENZIATI TROVATI ASSASSINATI. Max mi venne più vicino e sottovoce domandò: «Tu che cosa pensi, John?» «Parlavi di cento dollari l'ora?» «Andiamo, non tenermi sulla corda. Si dà il caso che abbiamo per le mani un duplice omicidio di portata mondiale.» «Ma tu hai appena detto che potrebbe trattarsi semplicemente di qualcosa tipo coniugi-rincasano-e-vengono-fatti-fuori», replicai. «Già, ma si scopre che i coniugi sono... quello che sono.» Mi fissò e disse: «Fammi una ricostruzione». «D'accordo. Capisci anche tu che chi ha sparato non l'ha fatto da quella porta scorrevole. Era fermo proprio di fronte a loro. La porta che tu hai trovato aperta era chiusa, allora, e i Gordon non hanno visto niente di insolito nell'avvicinarsi alla casa. L'assassino era probabilmente seduto su una di queste sdraio, e poteva essere arrivato con una barca, visto che non intendeva certo parcheggiare l'auto davanti alla casa dove chiunque poteva vederla. O magari un'auto lo ha lasciato qui fuori. In un caso e nell'altro, o
i Gordon lo conoscevano oppure non sono rimasti turbati dalla sua presenza nel loro giardino dietro casa; magari si tratta di una donna, amabile e gentile d'aspetto, e i Gordon avanzano verso di lei e lei verso di loro. Potrebbero avere scambiato perfino qualche parola ma, subito dopo, chi ha sparato ha estratto una pistola e li ha fatti fuori.» Il Capo Maxwell assentiva. «Se chi li ha uccisi cercava qualcosa dentro casa, non si trattava né di gioielli né di contanti, ma di documenti. Sai... roba scientifica. Non ha ucciso i Gordon perché lo avevano sorpreso; li ha uccisi perché li voleva morti. Li stava aspettando. Tu questo lo sai.» Fece cenno di sì. «E non basta, Max», continuai. «Ne ho visti un sacco di furti improvvisati e incasinati in cui il padrone di casa ci lascia la pelle e il ladro resta a mani vuote. Quando poi c'è di mezzo la droga, non c'è niente che abbia senso.» Il Capo Maxwell si lisciava il mento e intanto contemplava da un lato un drogato con pistola, dall'altro un assassino a sangue freddo, e qualsiasi altra cosa potesse trovarsi nel mezzo. Mentre lui faceva questo, io mi inginocchiai vicino alle vittime, più vicino a Judy. Lei aveva gli occhi aperti, proprio spalancati, e sembrava sorpresa. Anche quelli di Tom erano aperti, ma l'espressione era più placida di quella della moglie. Le mosche avevano trovato il sangue intorno alle ferite, e fui tentato di scacciarle, ma non aveva importanza. Esaminai i cadaveri più da vicino senza toccare niente che potesse attirarmi i fulmini di quelli della scientifica. Osservai capelli, unghie, pelle, indumenti, scarpe e così via. Quand'ebbi finito, accarezzai la guancia di Judy e mi rialzai. «Da quanto tempo li conoscevi?» mi domandò Max. «Da giugno.» «Sei già stato in questa casa?» «Sì. Devi farmi ancora una domanda.» «Be'... devo domandarti... Dov'eri, oggi, verso le 5 e 30?» «Con la tua ragazza.» Sorrise, ma non era divertito. «Tu fino a che punto li conoscevi?» domandai a Max. Esitò un istante, poi rispose: «Solo dal lato sociale. La mia ragazza mi trascina ad assaggi di vini e altre stronzate del genere». «Ah, sì? E come sapevi che io li conoscevo?»
«Avevano accennato all'avere fatto amicizia con un poliziotto di New York che era qui in convalescenza. Dissi che ti conoscevo.» «Com'è piccolo il mondo», osservai. Non fece commenti. Mi guardai attorno nel giardino sul retro. A est c'era la casa, a sud l'alta e folta barriera di una siepe, e al di là della siepe la proprietà di Edgar Murphy, il vicino che aveva trovato i cadaveri. Verso nord, un'aperta zona paludosa si estendeva per alcune centinaia di metri fino alla prossima casa, che era a malapena visibile. Verso ovest, il tavolato scendeva in tre terrazze alla baia, dove il pontile si prolungava per una trentina di metri fin dove l'acqua era più profonda. Al termine del pontile c'era la barca dei Gordon, uno snello motoscafo da corsa bianco in fiberglass: un Formula trequalcosa, lungo circa nove metri. Si chiamava Spirocheta, che come quasi tutti sanno è un virus malefico che provoca la sifilide. I Gordon avevano il senso dell'umorismo. «Edgar Murphy», disse Max, «mi ha spiegato che i Gordon si servivano talvolta della loro barca per andare e tornare da Plum Island. Prendevano il traghetto quando il tempo era cattivo e d'inverno.» Assentii. Lo sapevo. «Voglio telefonare a Plum Island», continuò, «per vedere se posso scoprire a che ora sono venuti via. Il mare è calmo, la marea si sta alzando e il vento viene da levante, perciò potevano coprire nel tempo più breve il tratto fra Plum e qui.» «Non sono un marinaio.» «Be', io sì. Potrebbero averci impiegato appena un'ora per arrivare qui da Plum, mentre di solito ci vuole un'ora e mezzo, o anche due. I Murphy hanno sentito arrivare la barca dei Gordon verso le 5 e 30, perciò ora vedo se possiamo stabilire a che ora hanno lasciato Plum, e così sapremo con maggiore certezza se era la barca dei Gordon quella che i Murphy hanno sentito arrivare alle 5 e 30.» «Giusto.» Contemplavo tutto intorno a me il cosiddetto «ponte». C'era la solita veranda e l'arredo da giardino: tavolo, sedie, bar all'aperto, ombrelloni e così via. Piccoli cespugli e piante crescevano attraverso le fessure del tavolato, ma in effetti non esisteva un posto dove qualcuno potesse nascondersi, lì all'esterno, per tendere un agguato a due persone. «A che cosa stai pensando?» mi domandò Max. «Be', sto pensando al grande ponte all'americana. Ampio, in legno che non richiede manutenzione, a più livelli, panoramico e così via. Non come
la mia angusta e antiquata veranda che ha sempre bisogno di una mano di vernice. Se comperassi la casa di mio zio, potrei costruire un ponte come questo fin giù alla baia. Ma poi non avrei più un prato altrettanto grande.» Max lasciò passare alcuni secondi, poi domandò: «A questo, stai pensando?» «Sì. Tu, a che cosa stai pensando?» «Sto pensando a un duplice omicidio.» «Bene. Dimmi cos'altro hai scoperto, qui.» «D'accordo. Ho toccato i motori...» Accennò col pollice verso il motoscafo. «Quando sono arrivato erano ancora caldi, come i cadaveri.» Assentii. Il sole era sul punto di immergersi nella baia, stava diventando notevolmente più buio e più fresco, e io cominciavo ad avere freddo in maglietta e calzoncini, sans biancheria. Settembre è davvero un mese meraviglioso su e giù per la costa atlantica, dalle Outer Banks fino a Terranova. Le giornate sono miti, di notte si dorme che è un piacere; è estate senza l'umidità e la calura, autunno senza il freddo e la pioggia. Gli uccelli dell'estate non sono ancora partiti, e i primi migratori dal nord stanno facendo una sosta nel loro volo verso il sud. Suppongo che, se lascerò Manhattan e verrò a rintanarmi qui, finirò per lasciarmi conquistare dalla natura, dall'andare in barca, a pesca e da tutto il resto. Max stava dicendo: «E c'è un altro particolare: hanno solo dato volta alla cima intorno ai pali». «Bene, c'è un importante spiraglio nel caso. Cosa cavolo è la cima?» «La fune. La fune della barca non è ormeggiata alle bitte del pontile. È solo temporaneamente legata a quei grossi pali che sporgono dall'acqua. Ne deduco che intendessero uscire di nuovo in barca, di lì a poco.» «Buona osservazione.» «Esatto. Perciò, nessuna idea?» «No.» «Nessuna osservazione tua?» «Penso che tu mi abbia battuto sul tempo, Capo.» «Teorie, pensieri, intuizioni? Niente?» «Niente.» Il Capo Maxwell sembrò sul punto di dire qualcos'altro, come «sei licenziato», invece disse: «devo fare una telefonata», e si allontanò verso la casa. Gettai un'occhiata verso le vittime. La donna con l'abito a giacca marro-
ne stava ora tracciando il contorno di Judy con il gesso. È buona norma di polizia a New York City che il funzionario incaricato delle indagini tracci i contorni, e immaginavo che qui fosse la stessa cosa. Il concetto è che l'investigatore destinato a seguire il caso fino alla conclusione e a collaborare con il procuratore distrettuale debba conoscere e lavorare all'intero caso fin dove è possibile. Ne dedussi, di conseguenza, che la signora in marrone era un'investigatrice della Omicidi e che fosse lei il funzionario incaricato di indagare sul caso. Ne dedussi, inoltre, che avrei finito per avere a che fare con lei, qualora avessi deciso di aiutare Max. La scena di un omicidio è uno dei luoghi più interessanti al mondo, se sapete che cosa state cercando e osservando. Prendiamo, per esempio, persone come Tom e Judy: loro guardano bacilli al microscopio e possono dire i nomi di quei bacilli, quello che stanno facendo al momento, quello che sono capaci di fare alla persona che li osserva, e così via. Ma se li guardassi io, quei bacilli, tutto quello che vedrei sarebbero cosini che si agitano. Non ho l'occhio o la mente addestrati per i bacilli, io. In compenso, quando osservo un cadavere e la scena che lo circonda, vedo cose che la maggior parte della gente non vede. Max aveva toccato i motori e i due corpi e aveva notato che erano caldi, aveva notato com'era legata la barca e registrato una decina di altri piccoli particolari che il cittadino medio non noterebbe. Ma Max non è un vero detective, e stava operando a un livello di second'ordine, mentre per risolvere un omicidio come quello bisognava operare a un livello molto più alto. Lui questo lo sapeva, ed ecco perché aveva chiamato me. Si dava il caso che conoscessi le vittime e, per l'investigatore addetto al caso, questo è un grande vantaggio. Sapevo, per esempio, che a bordo i Gordon indossavano in genere calzoncini, maglietta e scarpe da barca, nella traversata verso Plum Island, e che sul lavoro si infilavano gli indumenti da laboratorio o si paludavano contro i rischi inerenti le ricerche o altro del genere. Inoltre, Tom non sembrava più Tom, in maglietta nera, e Judy, per quello che ricordo, era più portata alle tinte pastello. La mia ipotesi era che fossero vestiti così per mimetizzarsi, e che le scarpe da corsa servissero per la velocità. Già, ma stavo forse inventandomi degli indizi, cosa che bisogna guardarsi bene dal fare. Sì, ma c'era terra rossa sulle suole delle loro scarpe da corsa. Da dove veniva? Non dal laboratorio, probabilmente non dalla passerella del traghetto per Plum Island, non dalla loro barca e non dal pontile o dal ponte della casa. Sembrava proprio che fossero stati altrove, quel giorno, e che si
fossero vestiti di proposito in modo insolito, e indubbiamente la giornata si era conclusa in modo diverso. C'era sotto qualcos'altro, lì, e non avevo alcuna idea di che cosa fosse, ma qualcos'altro era, decisamente. Tuttavia, era sempre possibile che si fossero soltanto imbattuti in un ladro. La cosa, voglio dire, poteva non avere niente a che fare con il loro lavoro. Restava il fatto che Max era nervoso al riguardo, e suscettibile, cosa che aveva contagiato anche me, mi si perdoni l'involontaria battuta. E prima di mezzanotte il posto sarebbe stato invaso dall'FBI, da quelli dei Servizi Segreti della Difesa e dalla CIA. A meno che Max non riuscisse, nel frattempo, a catturare un ladro tossicomane. «Scusi.» Mi girai verso la voce. Era la signora in marrone. «Prego.» «Scusi, è autorizzato a trovarsi qui, lei?» «Sono qui con quegli altri.» «È un agente di polizia?» Evidentemente la mia T-shirt e i calzoncini non proiettavano un'immagine autorevole. «Sono con il Capo Maxwell.» «Questo l'avevo visto. Ha dato le sue generalità?» «Perché non va a controllare?» Mi girai e mi avviai per scendere al livello inferiore del ponte, evitando le bandierine colorate. Mi diressi verso il pontile, e lei mi seguì. «Sono il detective Penrose, appartengo alla Omicidi della Contea di Suffolk, e sono incaricata di condurre quest'indagine.» «Congratulazioni.» «E a meno che lei non sia qui in veste ufficiale...» «Dovrà parlare con il Capo.» Scesi sul pontile e mi avviai verso il punto dov'era legata l'imbarcazione dei Gordon. La brezza era tesa, là in fondo al lungo pontile, e il sole era tramontato. Non vedevo barche a vela sulla baia, ora, ma alcune imbarcazioni a motore passavano ancora, con delle luci accese. Un tre quarti di luna si era levato a sudest, e stendeva una scia argentea attraverso l'acqua. C'era l'alta marea e il motoscafo era quasi a livello del pontile. Con un salto balzai a bordo. «Che cosa sta facendo? Non può far questo.» Era una gran bella donna, naturalmente; se fosse stata una racchiona, mi sarei mostrato molto più gentile. Era vestita, come ho già detto, in modo piuttosto severo, ma sotto l'abito di taglio maschile la figura era una sinfonia di curve, una melodia di carne che voleva prorompere libera. Dava
quasi l'impressione di una che stesse contrabbandando palloni. Tanto per riempire il resto del modulo: età, sul principio della trentina; capelli, lunghezza media, color rame; occhi, verdazzurri; pelle chiara, non molto abbronzata per quella stagione dell'anno, trucco leggero; labbra imbronciate; nessun segno o cicatrice visibile; niente orecchini; niente smalto sulle unghie; espressione del volto, incavolata. «Mi sta a sentire?» Aveva anche una bella voce, nonostante il tono del momento. Sospettavo che a causa della bella faccia, del corpo splendido e della voce morbida, il detective Penrose avesse difficoltà a venire preso sul serio, e di conseguenza eccedeva nel ricorrere a una mise mascolina. «Mi sta a sentire?» «Io la sto a sentire. E lei sta a sentire me? Le ho detto di parlare con il Capo.» «Sono io che decido, qui. Nei casi di omicidio, la polizia della contea...» «D'accordo, andremo insieme a parlare col Capo. Un momento solo.» Diedi una rapida occhiata attorno, sul motoscafo, ma ormai era buio e non potevo vedere molto. Tentai di trovare una torcia. Al detective Penrose dissi: «Dovrebbe mettere un agente di guardia, qui, per tutta la notte». «Grazie di mettermi a parte dei suoi pensieri. Venga via da quella barca, per favore.» «Ce l'ha una lampadina tascabile?» «Scenda da quella barca. Subito.» «D'accordo.» Montai sul parapetto, e con mia sorpresa lei tese la mano, che io presi. Aveva la pelle fresca. Mi tirò sul pontile e al tempo stesso, rapida come il baleno, ficcò la destra sotto la mia maglietta e mi sfilò il revolver dalla cintura dei calzoni. WOW. Indietreggiò di un passo, con l'arma puntata. «Resti li dov'è.» «Sì, signora.» «Chi è lei?» «Detective John Corey, Dipartimento di Polizia di New York, squadra omicidi, signora.» «Che cosa ci fa, qui?» «Quello che fa lei.» «No. È affidato a me questo caso. Non a lei.» «Sì, signora.» «Ha qualche veste ufficiale, qui?» «Sissignora. Sono stato assunto come consulente.»
«Consulente? In un caso di omicidio? Non ho mai sentito una cosa simile.» «Nemmeno io.» «Assunto da chi?» «Dalla cittadinanza.» «Che idiozia.» «Infatti.» Sembrava indecisa su cosa fare a quel punto, così per essere d'aiuto suggerii: «Vuole spogliarmi e perquisirmi?» Mi sembrò di vedere aleggiare un sorriso sulle sue labbra, nel chiaro lunare. Il mio cuore ardeva per lei, o forse era il foro nel polmone che si faceva sentire. «Come ha detto di chiamarsi?» mi domandò. «John Corey.» Frugò nella memoria. «Oh... lei è quello...» «In persona. Il fortunato.» Parve addolcirsi, poi impresse una rotazione alla mia calibro 38 e me la porse, col calcio verso di me. Si girò e si allontanò. La seguii lungo il pontile, su per i tre livelli del tavolato e fino alla casa dove le luci esterne illuminavano l'area intorno alle porte a vetri e le falene volavano intorno alle lampade. Max stava parlando con qualcuno della scientifica. Poi si girò verso me e il detective Penrose e domandò: «Vi siete già conosciuti, voi due?» Rispose il detective Penrose. «Perché quest'uomo è coinvolto nel caso?» «Perché io voglio che sia coinvolto», replicò il Capo Maxwell. «Non sta a lei decidere, Capo.» «E nemmeno a lei.» Continuarono a rilanciarsi la palla dall'uno all'altro e a me il collo cominciava a stancarsi, così dissi: «Ha ragione lei, Max. Io mi levo di torno. Procurami un passaggio fino a casa». Voltai le spalle e mi avviai verso il cancello, poi con fare lievemente teatrale, da vecchia volpe, mi girai verso Maxwell e la Penrose e dissi: «A proposito, qualcuno ha preso la cassa di alluminio a poppa della barca?» «Quale cassa di alluminio?» domandò Max. «I Gordon avevano una capace cassa di alluminio che usavano per metterci cose varie, e qualche volta se ne servivano come ghiacciaia per tenerci la birra e le esche.» «Dov'è finita?» «È quello che domando a te.»
«La cercherò.» «Buona idea.» Tornai a voltarmi e, oltrepassato il cancello, uscii sul prato antistante, allontanandomi dalle auto in sosta della polizia. Ai vicini, via via che per la piccola comunità era corsa voce del doppio omicidio, si era unita gente spinta da curiosità morbosa. Alcuni flash esplosero nella mia direzione, poi i riflettori della tivù si accesero, illuminando me e la facciata della casa. Telecamere si avvicinarono, cronisti richiamarono la mia attenzione. Tutto come ai vecchi tempi. Tossii, coprendomi la bocca con la mano, casomai la commissione per l'invalidità fosse davanti al video, per non parlare della mia ex moglie. Dal retro della casa un agente in divisa mi raggiunse, insieme prendemmo posto in un'auto con i contrassegni della polizia di Southold e ci allontanammo di là. Lui disse di chiamarsi Bob Johnson, poi domandò: «Che cosa ne pensa, detective?» «Sono stati assassinati.» «Sì, questo è certo.» Esitò, poi s'informò: «Ehi, pensa che la faccenda abbia a che fare con Plum Island o no?» «No.» «Stia a sentire: ne ho visti di furti, e quello non era un furto. Doveva sembrare un furto, ma era una perquisizione: capito? Stavano cercando qualcosa.» «Non ho guardato dentro casa.» «Germi.» Mi scoccò un'occhiata. «Germi per la guerra batteriologica. Ecco quello che penso io. Dico bene?» Non diedi alcuna risposta. «Ecco che fine ha fatto la ghiacciaia», continuò Johnson. «Ho sentito che lei ne parlava.» Di nuovo, non diedi risposta. «C'erano fiale o qualcosa, dentro. Giusto? Voglio dire, Cristo, poteva esserci roba a sufficienza, là, da spazzar via Long Island... New York City.» Probabilmente il pianeta, Bob, a seconda di che specie di germe si trattasse e di quanto era possibile far crescere la roba originale. Mi chinai verso l'agente Johnson e gli afferrai il braccio, per ottenere tutta la sua attenzione. Dissi: «Non si faccia uscire una fottuta parola di questo con nessuno. Ha capito?» Assentì. Continuammo a viaggiare in silenzio fino a casa mia.
3 Tutti hanno bisogno di un luogo di ritrovo abituale, o almeno per i maschi è così. Quando sono in città, frequento il National Arts Club e sorseggio sherry con persone raffinate e di cultura. Una delle molte cose che la mia ex moglie stentava a credere. Quando mi trovo qui, bazzico un locale chiamato l'Olde Towne Taverne, anche se di solito evito i luoghi con tutte quelle «e» mute. Secondo me il governo dovrebbe assegnare un migliaio di «e» mute al New England e a Long Island e, una volta che fossero state usate tutte, nessuno potrebbe averne più. A ogni modo, l'Olde Towne Taverne è nel centro di Mattituck, che è lungo circa un isolato e ha un suo fascino. All'OTT si sta bene, l'ambiente è vecchiotto e marinaresco, nonostante il fatto che è una taverna di città, distante più di un chilometro dall'acqua. Il legno è molto scuro, il pavimento è di quercia, e quello che mi piace soprattutto sono le lanterne di vetro ambrato che diffondono un chiarore morbido e rasserenante nell'intero locale. Così mi trovavo là nell'OTT, erano quasi le dieci di sera, e la folla del lunedì sera stava guardando «la» partita: Dallas contro New York al Meadowlands. La mia mente saltellava tra la partita, il doppio omicidio, la mia cena e la cameriera con un sedere tipo Pista Nordica. Ero vestito con maggiore ricercatezza che in precedenza, avendo indossato un insieme da sera di Levi's marroni, polo azzurra di Ralph Lauren, Sperry Top-Siders autentiche, e calzini Hanes in puro cotone. Sembravo una reclame ambulante. Occupavo uno sgabello a uno di quegli alti tavoli vicino al bar, da dove potevo vedere bene la tivù, e avevo davanti a me il mio pasto preferito: cheeseburger, patatine fritte, bucce di patata fritte, nachos, e una Budweiser; un buon equilibrio di cose gialle e marroni. Il detective Penrose del Dipartimento di Polizia della contea mi piombò per così dire addosso da dietro, e prima che me ne rendessi conto si era seduta sullo sgabello di fronte, una birra in mano e la testa che mi nascondeva lo schermo. Osservò la mia cena e la vidi inarcare le sopracciglia. Riportò l'attenzione su di me e disse: «Max pensava che forse l'avrei trovata qui». «Gradisce un po' di patatine fritte?» «No, grazie.» Esitò, poi aggiunse: «Ho come l'impressione che poco fa siamo partiti con il piede sbagliato».
«Sciocchezze. Non faccio caso al vedermi puntare contro la mia stessa pistola.» «Senta, ho parlato con Max, e ho riflettuto... se la città vuole lei come consulente, per me sta bene, e se per caso volesse comunicarmi qualsiasi cosa che le sembri utile, mi telefoni pure.» Mi porse il suo biglietto, e lessi: «Detective Elizabeth Penrose». Più sotto diceva, «Omicidi», poi l'indirizzo del suo ufficio, fax, telefono e così via. Sulla sinistra c'era il sigillo della Contea di Suffolk con le parole «Liberi e Indipendenti» attorno a un toro dall'aspetto minaccioso. «Non direi che le somigli molto», commentai. Mi fissò, la mascella le si indurì e le narici le si dilatarono, mentre faceva un profondo respiro. Mantenne la calma, il che è ammirevole. So di poter essere irritante. Mi protesi attraverso il tavolo fino a che i nostri nasi si ritrovarono a venti centimetri di distanza. Odorava di buono, un misto di sapone e di ragazza sana. «Senta, Elizabeth, lasci perdere le chiacchiere. Lei sa che conoscevo i Gordon, che sono stato a casa loro e che uscivo con loro in barca, e forse ho conosciuto i loro amici e i loro colleghi, e magari si sono aperti un poco con me riguardo al loro lavoro dato che sono un piedipiatti, e magari so più cose di lei e di Max messi insieme, e magari ha anche ragione su questo punto. Perciò, si è resa conto d'avermi fatto incazzare, e Max si è incazzato con lei, e lei è venuta qui a scusarsi, e a darmi il permesso di telefonarle e di dirle quello che so. Ehi! Che occasione fantastica per me. Sì, ma se io non le telefono entro un giorno o due, lei mi convocherà nel suo ufficio per un interrogatorio formale. Perciò, non fingiamo che io sia un consulente, il suo socio, il suo compagno o un informatore volontario. Mi dica solo dove e quando vuole che le rilasci una dichiarazione.» Mi ritrassi e riportai l'attenzione sulle patate. Il detective Penrose rimase un poco in silenzio, poi disse: «Domani mattina, nel mio ufficio», batté sul biglietto, «alle nove. Puntuale, s'intende.» Si alzò, posò la birra e se ne andò. Il New York era sulla linea delle 30 yard al terzo down, e quell'idiota di un quarterback opta per un passaggio lungo contro vento, maledizione, così la palla rimane sospesa là come il ciccione della Goodyear, e i tre ricevitori del New York più tre difensori del Dallas sono tutti là sotto ad agitare le braccia, saltellando attorno come se stessero invocando la pioggia o qualcosa del genere. «Scusi.»
«Si sieda.» Lei sedette, ma troppo tardi, e io persi l'intercettazione. La folla allo stadio e nell'OTT stava dando i numeri, quelli al bar stavano urlando «Intercettazione fallosa!» benché non ci fossero fazzoletti gialli là sul campo, e l'intercettatore del Dallas stesse riportando la palla al centrocampo. Seguii il replay al rallentatore. Nessun intervento falloso. A volte vorrei poter ripetere parti della mia vita così, al rallentatore. Come il mio matrimonio, che era stato tutta una serie di mosse sbagliate. «Torno sulla scena del crimine, ora», disse lei. «Un tale del ministero dell'Agricoltura mi raggiungerà là verso le undici. È in arrivo da Manhattan. Le farebbe piacere essere presente?» «Non ha un socio al quale rifilare le scocciature?» «È in ferie. Andiamo, detective, ricominciamo da capo.» Mi porgeva la mano. «L'ultima volta che ho preso la sua mano», le rammentai, «ci ho rimesso la pistola e la mia mascolinità.» Sorrise. «Andiamo, me la stringa.» Scambiai una stretta di mano con lei. La sua pelle era calda. Il mio cuore era in fiamme. O forse i nachos stavano provocando un riflusso. Difficile dirlo, dopo i quaranta. Trattenni per un attimo la sua mano e fissai il suo volto perfetto. I nostri sguardi si incontrarono e lo stesso pensiero ingordo attraversò entrambe le nostre menti. Lei ruppe per prima il contatto visivo. Qualcuno deve farlo o diventa qualcosa di depravato. La succosa cameriera si avvicinò, e io ordinai due birre. «La vuole ancora quella porzione di chili?» s'informò. «Più che mai.» Lei tolse alcuni piatti dal tavolo e andò a prendere le birre e il chili. Amo questo paese. Il detective Penrose commentò: «Deve avere uno stomaco di ghisa». «In realtà, l'intero stomaco mi è stato tolto dopo che m'avevano sparato. Ho l'esofago attaccato all'intestino.» «Intende dire che ha la bocca collegata direttamente con l'ano?» Inarcai le sopracciglia. «Chiedo scusa», disse lei, «era una volgare cattiveria. Vogliamo ricominciare ancora una volta?» «Non servirebbe a niente. Si giri e segua la partita.» Si girò in là, e guardammo la partita, bevendo birra. Nell'intervallo, con
la situazione in pareggio, lei guardò l'orologio e disse: «Devo andare a parlare con quel tale del ministero dell'Agricoltura». Se questa faccenda del ministero dell'Agricoltura vi lascia perplessi, vi dirò che Plum Island è ufficialmente un'installazione di quel ministero, e si occupa di malattie degli animali, come il carbonchio e cose del genere. Ma corre voce che si occupi anche d'altro. Di ben altro. «Non faccia aspettare il ministero dell'Agricoltura», dissi. «Vuole venire anche lei?» Contemplai quell'invito. Se l'avessi accompagnata, mi sarei infognato anche di più in quella storia, quale che fosse. Considerando il lato positivo della vicenda, dirò che mi piace risolvere casi di omicidio e mi piacevano i Gordon. Nei dieci anni in cui ho lavorato nella omicidi, ho messo ventisei assassini dietro le sbarre, ed è probabile che gli ultimi due si avvantaggino della nuova legge sulla pena di morte, che ora aggiunge tutta una nuova dimensione ai casi di omicidio. D'altro canto, stavolta si trattava di qualcosa di diverso, e io mi trovavo fuori del mio elemento. Inoltre, uno del ministero dell'Agricoltura, come la maggior parte dei burocrati governativi, non si farebbe sorprendere a lavorare a quell'ora neanche morto, perciò quel tale era probabilmente della CIA o dell'FBI o dei Servizi Segreti, o chissà. Non aveva importanza, e altri ne sarebbero venuti quella notte stessa o l'indomani. No, non avevo bisogno di quel caso a un dollaro la settimana o a mille dollari l'ora o a qualunque prezzo. «Detective? Pronto?» La guardai. Come si fa a dire di no a una che è il massimo? «La raggiungerò là.» «Bene. Che cosa le devo per le birre?» «Offro io.» «Grazie. A più tardi.» Si avviò verso la porta e, con la partita sospesa per l'intervallo, i cinquanta o più maschi nell'OTT si accorsero finalmente che nel locale c'era una fuoriclasse. Si udirono alcuni fischi e inviti a non allontanarsi. Seguii parte di quello che trasmettevano durante l'intervallo, desiderando che davvero mi avessero tolto lo stomaco, perché ora stava pompandomi acido nelle ulcere. Arrivò il chili, e a stento riuscii a finirlo. Mandai giù due Zantac, poi un Maalox, anche se lo specialista mi aveva detto di non mischiarli. In verità, la mia salute, un tempo ottima, era diminuita parecchio dopo l'incidente del 12 aprile. Le mie abitudini nel mangiare, nel bere e nel
dormire non erano mai state buone, e il divorzio e il lavoro avevano richiesto il loro tributo. Cominciavo a sentirmi ultraquarantenne, a rendermi conto di non essere immortale. A volte, nel sonno, mi rivedo disteso nel rigagnolo, immerso nel mio stesso sangue, sopra un tombino, a pensare: «Sono nel gorgo dello scarico, sto per sparire giù per lo scarico». Per contro, ricominciavo a notare cose come la cameriera dal culetto a Pista Nordica e, quando Elizabeth Penrose era entrata nel bar, il mio pupazzetto di carne si era fatto attento e si era stiracchiato. Ero in via di guarigione, sì, e di certo ero messo meglio io dei Gordon. Pensai per un momento a Tom e a Judy. Tom, con tanto di laurea, non disdegnava di sacrificare qualche cellula cerebrale alla birra e al vino, e di cucinare una buona bistecca alla griglia. Era un ragazzo con i piedi per terra dell'Indiana o dell'Illinois, o di qualche altro posto fuori mano dove hanno tutti una pronuncia un po' nasale. Tendeva a minimizzare riguardo al suo lavoro e scherzava sui rischi, come una settimana prima, quando un uragano era parso dirigersi verso di noi e lui aveva detto: «Se investe Plum, puoi chiamarlo uragano Carbonchio, e noi possiamo andare a farci fottere». Ah, ah, ah. Judy, anche lei con tanto di laurea come il marito, era del Midwest, semplice, gentile, vivace, divertente e bella. John Corey, come tutti i maschi che la conoscevano, ne era innamorato. Sembrava che Judy e Tom si fossero ambientati bene in questa provincia marittima, nei due anni trascorsi da quando erano arrivati. Se la godevano ad andare in motoscafo ed erano perfino entrati a far parte della Peconic Historical Society. Per giunta, erano affascinati dalle cantine locali tanto da diventare degli intenditori del vino di Long Island. Avevano addirittura fatto amicizia con alcuni produttori, compreso Fredric Tobin, che dava sontuose soirées nel suo castello, a una delle quali avevo preso parte anch'io come ospite dei Gordon. Come coppia, i Gordon sembravano felici, innamorati, amici, amanti e tutto quello che oggi si usa dire in proposito, e in effetti non avevo mai notato che mancasse qualcosa tra loro. Ma questo non significa che fossero perfetti come individui, o come coppia. Frugavo nella memoria in cerca di un'eventuale pecca fatale, il genere di cose per cui talvolta qualcuno viene assassinato. Droga? Da escludere. Infedeltà? Possibile, ma non probabile. Denaro? Non avevano molto da rubare. E quindi si tornava di nuovo al loro lavoro. Riflettei su questo. Si sarebbe detto, da come si presentavano le cose,
che i Gordon stessero vendendo superbacilli, che qualcosa fosse andato storto e fossero stati sterminati. Lungo quella stessa linea, rammentai che Tom una volta mi aveva confidato che il suo vero timore, a parte il contrarre una malattia, era che un giorno lui e Judy potessero venire rapiti a bordo del loro stesso motoscafo, che un sommergibile iraniano o chissà potesse emergere dal mare e portarseli via, così che di loro nessuno avrebbe avuto più notizia. Mi era parsa una possibilità alquanto campata in aria, ma ricordo d'avere pensato che i Gordon dovevano avere un sacco di roba nella testa che altri potevano volere. Perciò, era forse accaduto che l'intenzione nata come rapimento fosse poi degenerata in massacro. Mi soffermai su quel pensiero. Se i due omicidi erano in rapporto con il lavoro, i Gordon erano vittime innocenti, o erano invece traditori che vendevano morte in cambio d'oro? Erano stati uccisi da una potenza straniera o invece eliminati da qualcuno più vicino a casa? Ci rimuginavo sopra per quanto mi era possibile nell'OTT, tra il rumore, le insulsaggini che riempivano l'intervallo, la birra nel mio cervello e l'acido nel mio stomaco. Mandai giù un'altra birra e un altro Maalox. Lo specialista non aveva mai detto perché non dovevo mischiarli. Tentai di pensare all'impensabile, all'aitante, sereno Tom e alla bella, gioiosa Judy che vendevano germi, a cisterne d'acqua inquinate da bacilli, o magari a irroratori di colture in volo sopra New York o Washington, a milioni di malati, di morenti, di morti... Non potevo immaginare che i Gordon facessero una cosa simile. D'altra parte, ciascuno ha un prezzo. Ricordavo d'essermi domandato come potessero permettersi l'affitto di quella casa sul mare e l'acquisto di un costoso motoscafo. Ora forse sapevo come e anche perché avessero bisogno di un'imbarcazione veloce e di una casa con un approdo privato. Il tutto aveva un senso, eppure l'istinto mi diceva di non credere a quel che sembrava ovvio. Diedi una generosa mancia a Miss Pista Nordica e ritornai sulla scena del crimine. 4 Erano le undici passate mentre guidavo lungo il sentiero che conduceva alla casa dei Gordon. La notte era rischiarata da una bella luna quasi piena, e una gradevole brezza portava l'odore del mare attraverso i finestrini aperti della mia nuova Jeep Grand Cherokee Limited verde muschio, un con-
tentino da 40.000 dollari che il quasi defunto John Corey aveva pensato di dovere a se stesso. Mi fermai a una cinquantina di metri dalla casa, lasciai il veicolo in folle e ascoltai ancora qualche minuto della New York Giants-Dallas Cowboys, poi spensi il motore. Una voce disse: «Hai i fari accesi». «Taci, per favore», replicai. E spensi i fari. Di scelte se ne possono fare tante, nella vita, ma quella che non bisognerebbe mai fare è di essere la «Voce che avverte e consiglia». Aprii la portiera. «La chiave è nell'accensione. Non hai messo il freno a mano.» Era una voce femminile e, giuro su Dio, suonava come quella della mia ex moglie. «Grazie, cara.» Sfilai le chiavi, scesi e sbattei la portiera. Sulla stradina, veicoli e folla erano scemati considerevolmente, e ne dedussi che i cadaveri erano stati rimossi, essendo un fatto della vita che l'arrivo del furgone dell'obitorio soddisfa in genere la maggior parte degli spettatori e segnala la fine del primo atto. Inoltre, tutti ci tenevano a vedersi nel telegiornale delle undici. Era aumentata la presenza della forza pubblica, dalla mia visita precedente: un'unità mobile della polizia della Contea di Suffolk era parcheggiata davanti alla casa, vicino al furgone della scientifica. Questo nuovo automezzo era il posto di comando che poteva ospitare investigatori, radio, fax, cellulari, attrezzature video e tutti gli altri aggeggi ad alta tecnologia che costituiscono l'arsenale dell'incessante battaglia contro il crimine in genere. Notai un elicottero in alto, e riuscii a vedere al chiarore lunare che apparteneva a una delle reti tivù. Benché non potessi udire la voce dello speaker, stava probabilmente dicendo qualcosa come: «La tragedia ha colpito quest'esclusiva comunità di Long Island al principio della serata». Poi qualche ragguaglio riguardo a Plum Island e così via. Mi feci strada attraverso i pochi che si erano attardati, evitando chiunque avesse l'aria di essere della stampa. Scavalcai il nastro giallo, e immediatamente attrassi l'attenzione di un agente di Southold. Gli mostrai il distintivo e ottenni un poco scattante saluto. L'agente addetto a prendere nota di ogni cosa sulla scena del crimine mi si avvicinò con il foglio delle presenze, e di nuovo gli diedi nome, qualifica e così via, come lui richiedeva. È la prassi, questa, e viene osservata per tutta la durata di un'indagine, a cominciare dal primo agente che arriva sulla scena del crimine fino a che l'ultimo funzionario si allontana e la scena viene restituita al legittimo proprietario. In ogni caso, mi avevano in lista
già due volte, per cui rimanevo sempre più agganciato. Domandai all'addetto: «Ha annotato un tale del ministero dell'Agricoltura?» Mi rispose senza nemmeno consultare il foglio. «No.» «Ma c'è un tale del ministero dell'Agricoltura qui. Esatto?» «Dovrà domandarlo al Capo Maxwell.» «Sto domandando a lei perché non l'ha annotato tra le presenze.» «Dovrà domandarlo al Capo Maxwell.» «Lo farò.» In realtà, conoscevo già la risposta. Non per niente li chiamano spettri, quei tipi lì. Feci il giro per portarmi nel giardino sul retro e sul tavolato. Nei punti dov'erano caduti i Gordon c'erano adesso due contorni tracciati col gesso, che apparivano davvero spettrali nel chiaro lunare. Un gran foglio di plastica trasparente copriva gli schizzi dietro di loro, dove la loro essenza mortale si era dileguata. Come già ho detto, ero contento che la sparatoria fosse avvenuta all'aperto, e non vi fosse alcun odore di morte. Detesto tornare sul luogo di un omicidio avvenuto al chiuso e sentire che quell'odore è ancora là. Come si spiega che non posso togliermi quel tanfo dalla mente? Dalle narici? Dalla gola? Perché? Due agenti in uniforme di Southold sedevano al tavolo rotondo della veranda, bevendo da fumanti tazze di polistirolo. Riconobbi in uno di essi l'agente Johnson, la cui gentilezza nell'accompagnarmi a casa avevo ricambiato col trattarlo alquanto duramente. È un mondo infame, sapete, e io sono uno di quelli che lo rendono tale. L'agente Johnson mi rivolse un'occhiata ostile. In fondo al pondle, potevo scorgere la sagoma di un altro agente in divisa, e mi fece piacere che qualcuno avesse accettato il mio consiglio di mettere un uomo di guardia all'imbarcazione. Non c'era nessun altro, là fuori, così entrai in casa dalla porta a zanzariera scorrevole che immetteva in un vasto soggiorno e annessa sala da pranzo. C'ero già stato, naturalmente, e mi ricordai che Judy mi aveva spiegato come gran parte del mobilio fosse inclusa nel prezzo dell'affitto. Svedese di Taiwan, lo definiva lei. C'era ancora qualcuno della scientifica ad armeggiare là dentro, e mi rivolsi a una graziosa, potenziale esperta di impronte. «Il Capo Maxwell?» Accennò col pollice dietro di sé e disse: «In cucina. Non tocchi niente, nel passare».
«Stia tranquilla.» Veleggiai attraverso il tappeto berbero e approdai nella cucina, dove sembrava che fosse in atto una conferenza. Presenti erano Max, a rappresentare la cittadinanza sovrana di Southold, Elizabeth Penrose, a rappresentare la libera e indipendente Contea di Suffolk, un signore vestito di scuro che non aveva bisogno di un cartello che dicesse FBI, e un altro signore, vestito in modo più casual, con una giacca di tela e jeans, camicia rosso-sangue e scarpe sportive, una sorta di parodia di come un burocrate del ministero dell'Agricoltura potrebbe agghindarsi se mai dovesse lasciare l'ufficio per visitare una fattoria. Erano tutti in piedi, come se stessero dando l'impressione di essere tesi nello sforzo di pensare. C'era una scatola di cartone piena di tazze di polistirolo, e tutti e quattro ne avevano una in mano. Davvero interessante e significativo, mi sembrò, che il gruppo non fosse radunato nel posto di comando mobile, ma fuori mano, diremo così, in cucina. Max, tra parentesi, si era messo in ghingheri per i Federali e/o la stampa e sfoggiava una cravatta, una stupida cravatta decorata a bandierine nautiche. Elizabeth indossava ancora il suo completo marrone, ma si era tolta la giacca, rivelando così una calibro 38 inguainata nella fondina e un paio di sventole inguainate a loro volta. Un piccolo televisore in bianco e nero, sul bancone, era sintonizzato su un canale a caso, con il volume abbassato. Il servizio trasmesso riguardava una visita presidenziale in qualche strano luogo dove tutti erano bassi di statura. Max disse ai due nuovi arrivati: «Questo è il detective John Corey della Omicidi», e lì si fermò, senza precisare che la mia giurisdizione cominciava e finiva a circa centocinquanta chilometri di distanza. Poi indicò a me l'abito scuro e aggiunse: «John, questo è George Foster, dell'FBI...» Poi guardò Mister Bluejeans e terminò: «...e questo è Ted Nash, del ministero dell'Agricoltura». Seguì uno scambio di strette di mano. Informai la Penrose: «I New York Giants hanno segnato nel primo minuto della ripresa». Lei non rispose. Max accennò alla scatola di tazze e domandò: «Caffè?» «No, grazie.» Miss Penrose, che era la più vicina al televisore, captò qualcosa di interessante e alzò il volume. Ci concentrammo tutti sullo schermo. Una cronista era ferma davanti alla casa dei Gordon. Perdemmo la sua introduzione e cogliemmo: «Le vittime del doppio omicidio sono state i-
dentificate come biologi che lavoravano presso il laboratorio di ricerche sulle malattie animali di Plum Island, un'istituzione top secret a poche miglia da qui». Una ripresa dall'alto mostrava ora Plum Island da circa seicento metri. Era pieno giorno, perciò doveva trattarsi di materiale di repertorio. Dall'alto, l'isola si presentava quasi esattamente come una costata di maiale, e a voler fare dello spirito sulla peste suina... A ogni modo, Plum misura quattro chilometri e mezzo nel punto più largo, e circa un chilometro e mezzo in quello più stretto. La cronista, con voce fuori campo, stava dicendo: «Ed ecco Plum Island come appariva l'estate scorsa quando questa stazione trasmise un servizio su voci persistenti che l'isola fosse sede di ricerche per la guerra batteriologica». A parte le frasi fatte, la cronista aveva ragione riguardo alle voci. Mi tornò in mente una vignetta che avevo visto una volta sul «Wall Street Journal». Un consigliere scolastico stava dicendo a una coppia di genitori: «Vostro figlio è malvagio, meschino, disonesto e ama spargere voci. Suggerisco una carriera nel giornalismo». Giusto. E le voci potevano condurre al panico. Riflettei tra me che quel caso andava risolto alla svelta. La cronista, nuovamente ripresa davanti alla casa dei Gordon, a questo punto ci informò: «Nessuno ha ancora detto se l'uccisione dei Gordon sia in rapporto con il lavoro che svolgevano a Plum Island, ma la polizia sta indagando». La linea venne restituita allo studio. La Penrose abbassò il volume e si rivolse a Foster. «L'FBI vuole essere messo pubblicamente in rapporto con il caso?» «Per adesso no.» Poi Foster aggiunse: «La gente pensa subito che il problema sia grave, altrimenti». Nash spiegò: «Il ministero dell'Agricoltura non ha alcun interesse ufficiale in questo caso, dato che non c'è alcun rapporto tra il lavoro dei Gordon e la loro morte. Il ministero non rilascerà dichiarazioni di alcun genere, salvo espressioni di condoglianza per la scomparsa di due seri e stimati dipendenti». Amen. Feci notare al signor Nash: «A proposito, ha dimenticato di far registrare il suo nome». Mi fissò, un po' sorpreso e molto seccato. «Io... la ringrazio d'avermelo ricordato.» «Prego. Ma le pare.» Dopo qualche istante di scambi da pubbliche relazioni, Max disse ai si-
gnori Foster e Nash: «Il detective Corey conosceva i Gordon». Mister FBI si mostrò subito interessato e mi domandò: «Fino a che punto li conosceva?» Non è buona tattica cominciare a rispondere alle domande: gli altri si fanno l'idea che tu sia un tipo disposto a collaborare, e io non lo sono. Non risposi. Rispose Max per me. «Il detective Corey li conosceva da tre mesi appena, su un piano puramente sociale. Io e John, anche se a tratti ci siamo persi di vista, ci conosciamo da una decina d'anni.» Foster assentì. Era evidente che aveva altre domande da porre, e mentre lui esitava nel farle, il detective Penrose disse: «Il detective Corey scriverà un rapporto completo su quello che sapeva dei Gordon, rapporto di cui darò copia a tutte le agenzie interessate». Quella era una novità per me. Addossato a un mobile della cucina, il signor Nash mi guardava. Ci fissammo a vicenda, i due maschi dominanti della stanza, se volete. Senza una parola decidemmo di non piacerci affatto, e che uno di noi era di troppo. L'aria, intendo dire, era così satura di testosterone che le pareti cominciavano a impregnarsene. Spostai l'attenzione su Max e la Penrose e domandai: «Abbiamo stabilito che si tratta di qualcosa di più di un omicidio? Per questo è presente il governo federale?» Nessuno rispose. «O stiamo solo facendo l'ipotesi», continuai, «che sia qualcosa di più? Mi sono perso un pezzo di discussione?» Rispose alla fine freddamente il signor Ted Nash: «Stiamo solo procedendo con cautela, detective. Non abbiamo alcuna prova concreta che ci sia un nesso tra i due omicidi e questioni di... be', per dirla con franchezza, questioni di sicurezza nazionale». «Non mi ero mai reso conto», osservai, «che il ministero dell'Agricoltura avesse a che fare con la sicurezza nazionale. Avete, che so io, delle vacche segrete?» Il signor Nash mi elargì un bel sorriso alla vaffanculo e replicò: «Abbiamo lupi travestiti da agnelli». «Touché.» Stronzo. Il signor Foster s'intromise prima.che la cosa degenerasse e spiegò: «Siamo qui come misura precauzionale, detective. Saremmo davvero negligenti se non controllassimo. Tutti noi ci auguriamo che sia soltanto un
crimine senza alcun legame con Plum Island». Contemplai per qualche istante George Foster. Era sulla trentina, il classico agente FBI, occhi vispi e aspetto inappuntabile, abito scuro, camicia bianca, cravatta spenta, solide scarpe nere e alone di gloria. Spostai l'attenzione su Ted Nash che, come ho già detto, vestiva in ruvida tela; era di un'età più vicina alla mia, abbronzato, capelli ricci pepe-esale, occhi grigioazzurri, corporatura imponente, e nell'insieme quello che le signore avrebbero definito un bel pezzo d'uomo, che è una delle ragioni per le quali mi dava sui nervi. Sì, dico: di quanti marcantoni c'è bisogno, in una stanza? Sarei stato forse più gentile con lui se non avesse lanciato sguardi a Elizabeth Penrose, che li raccoglieva e li rilanciava. Non dico che stessero guardandosi con lascivia e stessero sbavando; erano soltanto rapide occhiate dirette ed espressioni neutre, ma bisognava essere ciechi per non capire quello che stava passando per le loro menti. Ma dico, l'intero dannato pianeta stava per beccarsi il carbonchio, o perire o Dio sa che, e quei due si comportavano come cani in calore, covandosi a vicenda con gli occhi quando avevamo una faccenda così seria per le mani. Davvero disgustoso. Max interruppe i miei pensieri, dicendomi: «John, ancora non abbiamo trovato i due proiettili fuoriusciti dalle loro teste, ma c'è da presumere che siano finiti nella baia, e domattina presto dragheremo e perlustreremo il fondo». Poi aggiunse: «Bossoli non se ne sono trovati». Assentii. Una pistola automatica li avrebbe espulsi, mentre un revolver no. Se l'arma era un'automatica, allora l'assassino aveva sangue freddo al punto da chinarsi a raccoglierli. Per il momento, in sostanza non avevamo niente. Due spari alla testa, niente proiettili, niente bossoli, nessun rumore avvertito nella casa accanto. Contemplai di nuovo l'amico Nash. Aveva l'aria preoccupata, ed ero felice di vedere che tra un pensiero e l'altro di farsi la Penrose, stava meditando su come salvare il pianeta. Anzi, tutti lì in cucina avevano l'aria di pensare a qualcosa, probabilmente germi, e magari stavano domandandosi se l'indomani si sarebbero svegliati coperti di macchie rosse o qualcosa del genere. Ted Nash tuffò la mano nella scatola di cartone e domandò al detective Penrose: «Un altro caffè, Beth?» Beth? Come cavolo... Lei sorrise. «No, grazie.» Il mio stomaco si era acquietato, così andai al frigorifero per prendere
una birra. Gli scaffali erano quasi vuoti e domandai a Max: «Avete tolto qualcosa da qui?» «Quelli della scientifica hanno portato via tutto quello che non era sigillato.» «Qualcuno vuole una birra?» Nessuno rispose, così presi una Coors Light, l'aprii e mandai giù un sorso. Notai otto occhi su di me, come se tutti stessero aspettando che accadesse qualcosa. La gente perde la testa quando pensa di trovarsi in un ambiente infetto. Provai l'impulso pazzesco di serrarmi la gola, cadere a terra e fingere d'avere le convulsioni. Ma non ero con i miei compagni della Manhattan North, bulli e pupe che avrebbero riso di uno scherzo del genere, così lasciai perdere l'occasione di portare un po' di comico sollievo in quell'atmosfera truce. «Prego, continua», dissi a Max. «Abbiamo esaminato l'intera casa senza trovare niente di insolito o di significativo, salvo che metà dei cassetti erano intatti, alcuni armadi non avevano neppure l'aria d'essere stati frugati, i libri non erano stati tirati giù dagli scaffali. Un lavoro proprio da dilettanti, per fingere che si trattasse di un furto.» «Ugualmente potrebbe trattarsi di un drogato, fatto e con le idee confuse», dissi. «O magari», aggiunsi, «l'assassino è stato interrotto, o ancora, stava cercando una data cosa e l'ha trovata.» «Può darsi», convenne Max. Tutti si mostravano pensosi, un buon modo per mascherare la mancanza di indizi. La cosa che colpiva di quel duplice omicidio, riflettevo, era pur sempre la sparatoria all'aperto, il bang bang là sul tavolato esterno senza tanti preamboli. Non c'era niente che il killer volesse o di cui avesse bisogno dai Gordon, a parte che fossero morti. Perciò, sì, o aveva già preso quello che gli serviva all'interno della casa, oppure i Gordon stavano trasportando quello che lui voleva, in piena vista: per esempio, la ghiacciaia. Ed eravamo di nuovo alla ghiacciaia scomparsa. E il killer conosceva i Gordon e loro lo conoscevano. Di questo ero convinto. Ciao Tom, ciao Judy. Bang. Bang. Loro due cadono, la ghiacciaia cade... no, dentro ci sono fiale di virus mortali. Ciao Tom, ciao Judy. Mettete giù quella cassa. Bang. Bang. Loro due cadono. I proiettili volano attraverso i loro crani e finiscono nella baia. Inoltre, lui doveva avere un silenziatore. Nessun professionista farebbe partire due colpi rumorosi all'aperto. Ed era probabilmente un'automatica,
perché il silenziatore non si adatta bene a un revolver. «I Murphy hanno un cane?» domandai a Max. «No.» «Okay... Avete trovato denaro, portafogli o altro sulle vittime?» «Sì. Avevano entrambi un portafoglio, ed erano identici; ciascuno aveva il tesserino d'identificazione di Plum Island, la patente di guida, carte di credito e così via. Tom aveva trentasette dollari in contanti, Judy ne aveva quattordici.» Poi Max aggiunse: «E ciascuno aveva la fotografia dell'altro». Sono le piccole cose, a volte, che ti colpiscono, che rendono la cosa personale. Allora devi ricordare a te stesso la Regola Numero Uno: non lasciarti coinvolgere dal lato emotivo... non ha importanza, Corey, se è un bambino che viene ucciso, o una simpatica vecchietta, o la bella Judy che una volta ti ha fatto l'occhiolino, e Tom che voleva farti amare i vini che lui amava e che ti cuoceva la bistecca come la volevi tu. Per un piedipiatti della Omicidi, non ha importanza chi sia la vittima, importa solo chi è l'assassino. «Avrai già capito, immagino», disse Max, «che non abbiamo trovato quella cassa d'alluminio. Sei sicuro che c'era?» Assentii. Foster mi fornì la sua ponderata opinione: «Pensiamo che i Gordon stessero trasportandola, e il killer o i killer volessero quello che c'era dentro, e dentro c'era quel-che-sappiamo». Poi aggiunse: «Penso che i Gordon stessero vendendo la sostanza e che la trattativa sia finita male». Mi guardai attorno, in quella riunione di consiglio in cucina. Non è facile leggere le facce di persone il cui mestiere è di leggere le facce altrui. Tuttavia, avevo la sensazione che la dichiarazione di George Foster rappresentasse l'opinione generale. Così, se quei quattro avevano ragione, questo avrebbe presupposto due cose: primo, i Gordon erano veramente stupidi, per non avere considerato che chiunque potesse volere virus e batteri sufficienti a uccidere un numero spaventoso di persone non avrebbe esitato a uccidere anche loro e, secondo, che i Gordon fossero totalmente indifferenti alle conseguenze del loro vendere morte in cambio di denaro. Quello che sapevo per certo su Tom e Judy era che non erano né stupidi, né senza cuore. Facendo l'ipotesi che non fosse stupido nemmeno l'assassino, mi domandavo se sapesse o potesse dire se quanto c'era nella cassa era ciò che voleva. Come avrebbe fatto a saperlo? Ciao Tom, ciao Judy. Avete lì i vi-
rus? Bang. Bang. Sì? No? Tentai differenti scenari con e senza la ghiacciaia, con e senza la persona o le persone che i Gordon dovevano conoscere, e così via. Inoltre, in che modo quella o quelle persone erano arrivate a casa dei Gordon? In barca? In auto? «Veicoli sconosciuti?» domandai a Max. E lui: «Nessuno di quelli che abbiamo interrogato ha visto veicoli sconosciuti. Le due auto dei Gordon sono entrambe nel loro garage». Poi aggiunse: «Domani quelli della scientifica le porteranno in laboratorio insieme con la barca». Miss Penrose si rivolse per la prima volta direttamente a me e disse: «È possibile che l'assassino, o gli assassini, siano arrivati in barca. Questa è la mia teoria». «È anche possibile, Elizabeth», le risposi, «che l'assassino o gli assassini siano arrivati con una delle auto dei Gordon che qualcuno di loro potrebbe essersi fatto prestare. Penso proprio che si conoscessero.» Mi fissò, poi disse un po' sbrigativa: «Penso che fosse una barca, detective Corey». «Forse l'assassino è venuto a piedi, o in bicicletta, o in motocicletta», continuai io. «O forse a nuoto, o magari qualcuno gli ha dato un passaggio. Forse si è servito di un windsurf o di un parapendio. Forse gli assassini sono Edgar Murphy e sua moglie.» Mi rivolse un'occhiata dura, e capii che era incavolata. Conosco quegli sguardi. Sono stato sposato. Max interruppe la nostra discussione dicendo: «E c'è qualcosa di interessante, John: secondo il personale addetto alla sicurezza su Plum, i Gordon hanno timbrato il cartellino d'uscita a mezzogiorno, sono saliti in barca e si sono diretti al largo». Si poté udire, nel silenzio, il ronzio del frigorifero. Foster si rivolse a tutti noi: «Una possibilità che viene alla mente è che i Gordon avessero nascosto quello che stavano vendendo in qualche grotta o insenatura di Plum, e che si siano diretti là con il motoscafo per riprendere la merce. O forse, sono semplicemente usciti dal laboratorio con quella ghiacciaia, l'hanno caricata a bordo e sono partiti. In un caso o nell'altro, subito dopo avrebbero incontrato i loro clienti là nella baia e trasferito la cassa col ghiaccio e le fiale là in mare, così che, una volta tornati qui, la cassa non l'avevano, ma avevano il denaro. Qui si sono imbattuti nell'assassino, il quale, dopo averli uccisi, si è ripreso il denaro». Ci concentrammo tutti su quel nuovo scenario. Veniva naturalmente da
domandarsi, se davvero il trasferimento era avvenuto in mare, perché non era avvenuta in mare anche l'uccisione? Quando quelli della Omicidi parlano di delitto perfetto, parlano di un crimine avvenuto in alto mare: assenza o quasi di indizi per la scientifica, in genere nessun rumore, niente testimoni, e il più delle volte niente cadaveri. E se la cosa è fatta a regola d'arte, si presenta come un incidente. È logico ritenere che dei professionisti appena impadronitisi di un germe letale non vadano ad attirare l'attenzione sul fatto uccidendo due cervelloni di Plum Island sul tavolato dietro la loro casa. Tuttavia, in teoria doveva sembrare che i Gordon avessero sorpreso un rapinatore. Ma chiunque avesse inscenato questo non era stato molto convincente. L'intera faccenda aveva un che di dilettantesco, o forse era opera di stranieri che non vedevano abbastanza film polizieschi americani alla tivù. O va a sapere. E che dire di quelle cinque ore e mezzo tra il momento in cui i Gordon avevano lasciato Plum Island, a mezzogiorno, e quello in cui i Murphy ne avevano sentito attraccare il motoscafo, alle 5 e 30? Dov'erano stati? «Per il momento è tutto quello che abbiamo, John», disse Max. «Domani avremo i rapporti della scientifica, e ci sono persone con le quali dovremo parlare, sempre domani. Puoi suggerirci qualcuno che dovremmo vedere? Amici dei Gordon?» «Non so di chi fossero amici i Gordon e, per quanto ne so io, nemici non ne avevano.» Mi rivolsi a Nash: «Nel frattempo, voglio parlare con quelli di Plum Island». «Non è escluso», replicò Nash, «che le sia possibile parlare con qualcuno di quelli che lavorano a Plum Island.» E dichiarò: «Ma nell'interesse della sicurezza nazionale, devo essere presente a tutti i colloqui». Gli risposi nel mio miglior tono indisponente newyorkese: «Questa è un'indagine che riguarda un omicidio, ricorda? Non dica queste stronzate a me». Si diffuse un certo gelo, per la cucina. Vedete, io lavoro di quando in quando con gente dell'FBI e della Narcotici, e sono tipi in gamba: sono agenti. In compenso, la razza di spioni tipo Nash, è una vera piaga. Quel bel tomo non diceva neppure se faceva parte della CIA, dei Servizi Segreti, del Controspionaggio, o di qualche altra misteriosa agenzia. Quello che sapevo con certezza era che non faceva parte del ministero dell'Agricoltura. Max, che immagino si sentisse l'anfitrione a quel raduno di individualisti, disse: «Da parte mia non ho niente in contrario a che Ted Nash sia presente a qualsiasi colloquio o interrogatorio». Guardò la Penrose.
La mia amica Beth mi lanciò una breve occhiata e disse a Nash-occhiolascivo: «Non ho niente in contrario neanch'io». George Foster precisò: «A qualsiasi riunione, colloquio, interrogatorio o seduta di lavoro Ted sarà presente, prenderà parte anche l'FBI». Volevano farmi esplodere a tutti i costi, e mi domandavo se Max mi avrebbe tappato la bocca. Il conciliante George Foster continuò: «L'area di cui mi interesso io è il terrorismo interno, quella di Ted Nash è lo spionaggio internazionale». Guardò me, Max e la Penrose e disse: «Voi state indagando su un caso di omicidio in base alla legge dello Stato di New York. Se ci asterremo tutti dall'attraversare l'uno la strada dell'altro, andrà tutto benissimo. Io non giocherò all'investigatore della squadra omicidi se voi non giocherete ai difensori del mondo libero. Giusto? Logico? Fattibile? Penso proprio di sì». Guardai Nash e senza mezzi termini gli domandai: «Per chi lavora lei?» «Non sono autorizzato a dirlo, per il momento.» Poi aggiunse: «Non per il ministero dell'Agricoltura». «E io che c'ero cascato», dissi, con sarcasmo. «Siete in gamba, voialtri.» «Detective Corey», suggerì la Penrose, «possiamo uscire un momento a scambiare una parola?» La ignorai e continuai a insistere con Nash. Volevo avere partita vinta, e sapevo come riuscirci. «Vorremmo andare a Plum Island stasera stessa», gli dissi. Si mostrò sorpreso. «Stasera? Non ci sono traghetti governativi...» «Non ci serve il traghetto. Prenderemo la barca della polizia di Max.» «È fuori questione», dichiarò Nash. «Perché?» «L'isola è off limits», disse lui. «Questa è un'indagine su due omicidi», gli rammentai. «Non avevamo appena convenuto che il Capo Maxwell, il detective Penrose e io stiamo indagando su un caso di omicidio?» «Non su Plum Island, questo poi no.» «E invece sì.» Mi piacciono questi scontri. Mi piacciono un mondo. Speravo che la Penrose stesse vedendo che specie di idiota era quello. Nash disse: «Non c'è nessuno su Plum a quest'ora». «Ci sono quelli della sicurezza», replicai io, «e voglio parlare con loro. Ora.» «In mattinata, e non sull'isola.» «Adesso, e sull'isola, altrimenti tiro giù dal letto un giudice e mi faccio
dare un mandato di perquisizione.» Nash mi fissò e obiettò: «È poco probabile che un giudice locale voglia rilasciare un mandato di perquisizione per una proprietà del governo degli Stati Uniti. Lei dovrebbe mettere di mezzo un viceprocuratore dello Stato o un giudice federale. Immagino che lo sappia, se davvero è un investigatore della Omicidi, e forse dovrebbe anche sapere che né un procuratore dello Stato né un giudice federale sarebbero entusiasti di emettere un mandato del genere se ci fosse di mezzo la sicurezza nazionale». Poi soggiunse: «Perciò non dica spacconate». «E se invece fosse una minaccia?» Finalmente, Max cominciò ad averne abbastanza di Nash, le cui vestì di agnello stavano scivolando via. «Plum Island sarà anche territorio federale, ma fa parte del comune di Southold, della Contea di Suffolk e dello Stato di New York. Voglio che ci procuri un'autorizzazione ad andare all'isola domani, o ci faremo rilasciare un mandato dal tribunale.» Il caro Nash tentò a questo punto il tono conciliante. «Non c'è proprio alcun bisogno di andare all'isola, Capo.» Il detective Penrose si ritrovò dalla mia parte, naturalmente, e disse al suo nuovo amico: «Dobbiamo insistere, Ted». Ted? Ohilà, avevo realmente perso qualcosa in quella stupida ora di ritardo. Ted e Beth si fissarono a vicenda, anime tormentate, divise tra la rivalità e la libidine. Alla fine il signor Ted Nash, dell'Agenzia di Sicurezza del Cavolo o quello che era, disse: «Bene... vedrò di fare una telefonata». «Domani in mattinata», dissi io. «Non più tardi.» George Foster non si lasciò sfuggire l'occasione di una botterella sul naso del signor Nash e concluse: «Penso siamo tutti d'accordo di andare là domani mattina, Ted». Il signor Nash annuì. A questo punto aveva smesso di sbattere le ciglia all'indirizzo di Beth e stava concentrando la sua passione su di me. Mi guardò e disse: «Se a un certo punto, detective Corey, si stabilirà che è stato commesso un crimine federale, probabilmente non avremo più bisogno dei suoi servigi». Avevo costretto il piccolo Teddy a un comportamento meschino, e sapevo quando conveniva lasciar perdere. Ero reduce da uno scontro verbale, avevo steso il viscido Ted e reclamato l'amore di Lady Penrose. Sono un fenomeno. Cominciavo davvero a sentirmi meglio, a ritrovare il mio sgradevole io di un tempo. Inoltre, quei tipi lì hanno bisogno di un po' di fuoco
sotto il sedere. La rivalità è un bene. La competizione è americana. Ci pensate, se Dallas e New York fossero pappa e ciccia? Gli altri quattro personaggi stavano adesso parlando del più e del meno, rovistando nella scatola di cartone e armeggiando con il caffè, nel tentativo di ricreare la cordialità e l'equilibrio che avevano stabilito prima che comparisse Corey. Mi procurai un'altra birra dal frigorifero, poi apostrofai il signor Nash in tono professionale. Gli domandai: «Con che specie di germi si trastullano su Plum? Mi spiego, perché qualcuno, una qualsiasi potenza straniera, dovrebbe volere bacilli che provocano malattie alla bocca e agli zoccoli, o il morbo della Mucca Pazza? Mi dica, signor Nash, di che cosa sono tenuto a preoccuparmi, affinché quando non potrò prender sonno, stanotte, io possa dargli un nome». Per un bel pezzo Nash non rispose, poi si schiarì la gola e disse: «Immagino dobbiate sapere quanto è alta la posta in palio, qui...» Guardò me, Max e la Penrose, e aggiunse: «Che abbiate, o non abbiate, superato il vaglio del Controspionaggio, siete funzionari giurati di polizia, perciò...» Amabilmente, lo rassicurai: «Niente di quanto dirà uscirà da questa stanza». A meno che non mi comodi di spifferarlo a qualcun altro. Nash e Foster si guardarono e Foster assentì. Nash si rivolse a noi: «Tutti sapete, o avrete letto, che gli Stati Uniti non sono più impegnati nelle ricerche o nello sviluppo della guerra batteriologica. Abbiamo firmato un trattato in tal senso». «Ecco perché amo questo paese, signor Nash. Niente bombe infettive, da noi.» «Esatto. Tuttavia... esistono malattie che rappresentano la transizione tra il legittimo studio biologico e le potenziali armi biologiche. Una di queste è l'antrace. Come sapete», guardò Max, la Penrose e me, «è sempre corsa voce che Plum Island non sia soltanto un'istituzione per la ricerca sulle malattie degli animali, ma qualcos'altro.» Nessuno reagì. «In realtà», continuò, «non è un centro di ricerche per la guerra batteriologica. Non esiste niente del genere negli Stati Uniti. Tuttavia, non sarei del tutto sincero se non dicessi che a volte specialisti di guerra batteriologica visitano l'isola per essere messi al corrente e per leggere rapporti su alcuni di questi esperimenti. In altre parole, esiste una zona di scambio tra malattia umana e animale, tra guerra batteriologica offensiva e guerra batteriologica difensiva.» Una comoda zona di scambio, pensai.
Il signor Nash sorseggiò il suo caffè, rifletté, poi riprese: «La febbre africana dei suini, per esempio, è stata associata con l'HIV. Studiamo la febbre africana dei suini, su Plum, e i mezzi d'informazione si inventano qualche scemenza su... qualsiasi cosa. Lo stesso per la febbre di Rift Valley, il virus Hanta, e altri retrovirus, e per i filovirus come l'Ebola Zaire e l'Ebola Marburg...» Nella cucina regnava un gran silenzio, come se ognuno sapesse che quello era l'argomento più spaventoso dell'universo. Intendo dire, quando si trattava di armi nucleari, o la gente era fatalista oppure non credeva che sarebbe accaduto davvero. Con la guerra batteriologica o il terrorismo batteriologico, la cosa era immaginabile. E se la malattia giusta sfuggiva di mano, allora addio mondo, e non addio in un rapido lampo incandescente, ma in modo lento, via via che quella si diffondeva dai malati ai sani e i morti giacevano a decomporsi là dov'erano caduti: un film di second'ordine in arrivo da un momento all'altro nel tuo vicinato. Nash continuava, con quella sorta di tono di voce mezzo riluttante, mezzo guardate-che-cosa-so-io-che-voi-non-sapete. «Perciò... queste malattie possono infettare gli animali e lo fanno, e di conseguenza il loro legittimo studio cadrebbe sotto la giurisdizione del ministero dell'Agricoltura... Il dipartimento sta cercando di trovare una cura per questi morbi, per proteggere il bestiame americano e, per estensione, proteggere il pubblico americano, perché sebbene vi sia in genere una barriera della specie riguardo alla possibilità che malattie animali infettino gli esseri umani, stiamo scoprendo che alcune di queste malattie possono oltrepassare la barriera... In Inghilterra, per esempio, con il caso recente del morbo della Mucca Pazza, esistono in realtà alcune prove che siano rimaste infettate persone da quella malattia...» Forse la mia ex moglie aveva ragione sulla carne. Tentai di figurarmi una vita di hamburger di soia, di chili senza carne e di hot dog ripieni di alghe. Meglio morire, piuttosto. Tutt'a un tratto provai un empito d'amore e di calore per il ministero dell'Agricoltura. Mi resi conto, anche, che quanto il signor Nash ci stava offrendo erano bugie di Stato: storie di malattie animali che attraversavano le barriere tra le specie e via discorrendo. In effetti, se le voci dicevano il vero, Plum Island era anche un posto dove le malattie infettive umane venivano studiate specificamente e di proposito come parte di un programma di guerra batteriologica che ufficialmente non esisteva più. D'altro canto, magari erano soltanto voci, e magari, anche, quello che facevano su Plum Island era
difensivo e non offensivo. Mi colpì che la linea che divideva queste due possibilità fosse molto, molto sottile. I germi sono germi. Non distinguono le mucche dai maiali e dalle persone. Non riconoscono la ricerca difensiva dalla ricerca offensiva, come non riconoscono i vaccini preventivi dalle bombe fatte scoppiare in aria. Diavolo, non sanno nemmeno se sono buoni o cattivi. E se avessi continuato ad ascoltare le balle di Nash, avrei cominciato a credere che a Plum Island stessero sviluppando nuove e interessanti colture di yogurt. Il signor Nash fissava dentro la sua tazza di polistirolo come se stesse rendendosi conto che il caffè e l'acqua potevano essere stati già infettati dal morbo della Mucca Pazza. «Il problema, naturalmente», continuò, «è che queste colture di batteri e di virus possono essere... Insomma, se qualcuno mette le mani su questi microrganismi, e sa come farli propagare dai campioni, allora, be', finirebbero per riprodursi in un numero spaventoso, e se in qualche modo s'infiltrassero tra la popolazione... ecco che si sarebbe alle prese con un potenziale problema di salute pubblica.» «Nel senso», domandai, «di un'epidemia da fine del mondo, con i morti che si ammucchiano per la strada?» «Sì, quel genere di problema di salute pubblica.» Silenzio. «Perciò», riprese Nash in tono grave, «mentre siamo tutti ansiosi di scoprire l'identità dell'assassino o degli assassini dei signori Gordon, siamo più ansiosi di scoprire se i Gordon abbiano portato via qualcosa dall'isola e l'abbiano trasferito a persona o persone non autorizzate.» «Nessuno parlò per un lungo intervallo, poi Beth domandò: «È possibile... può qualcuno sull'isola stabilire se manca davvero qualcosa dai laboratori?» Ted Nash guardò Beth Penrose come un professore guarda lo studente preferito che abbia fatto una domanda intelligente. In realtà, non era una domanda così intelligente... ma qualsiasi cosa pur di sfilare quelle mutandine, vero, Ted? Mister Io-so-tutto si rivolse con calma alla sua nuova protetta: «Come probabilmente avrà sospettato, Beth, potrebbe non essere possibile scoprire se qualcosa manca. Il problema è che i microrganismi possono essere propagati segretamente in qualche parte del laboratorio di Plum Island o in altri luoghi dell'isola, poi portati via dall'isola, e nessuno verrebbe a saperlo. Non è come per gli agenti chimici o nucleari, dove di ogni grammo viene tenuto conto. I batteri e i virus amano riprodursi.»
Spaventoso, se ci si pensa bene... i microrganismi sono tecnologia da strapazzo a paragone della fissione nucleare o della fabbricazione del gas nervino. È roba da laboratorio casalingo, poco costosa da produrre, e replica se stessa in... che cosa si usava nei biolaboratori? Brodo di manzo? Niente più hamburger al formaggio, per me. Orgogliosa della sua ultima domanda, Miss Penrose si rivolse a Mister Io-so-tutto: «Possiamo ritenere che gli organismi studiati su Plum Island siano particolarmente letali? Intendo dire, che vengano geneticamente modificati affinché siano più letali di quanto lo sono allo stato naturale?» A Nash la domanda non piacque. «No», rispose, poi aggiunse: «Be', il laboratorio di Plum Island ha capacità di ingegneria genetica, ma quello che fanno è prendere i virus e alterarli geneticamente affinché non possano causare malattie, bensì stimolare il sistema immunitario perché produca anticorpi, nell'eventualità che il virus vero e proprio possa infettare l'organismo. Questo è una sorta di vaccino, ottenuto non indebolendo il microrganismo infettivo e iniettandolo, il che potrebbe essere pericoloso, ma modificandolo geneticamente. Per rispondere in breve alla sua domanda, l'ingegneria genetica che si pratica su Plum Island ha il solo scopo di indebolire un virus o un batterio, non di aumentarne il potere patogeno.» «No, naturalmente», mi intromisi. «Anche se questo è possibile, con l'ingegneria genetica.» «Possibile. Ma non su Plum Island.» Mi passò per la mente che Nash stesse geneticamente alterando le informazioni: prendendo il germe della verità, se preferite, e indebolendolo affinché ricevessimo una dose attenuata di cattive notizie. E bravo, lui. Ne avevo abbastanza di balle scientifiche, e rivolsi la mia domanda successiva a George Foster: «Voialtri state facendo qualcosa per vedere di imbottigliare la faccenda? Aeroporti, autostrade e via dicendo?» «Abbiamo messo tutti all'erta per... non si sa bene che. Tutti gli aeroporti, i porti marittimi e le stazioni ferroviarie vengono sorvegliati dai nostri agenti, dalla polizia locale e dalle Dogane. La Guardia costiera ha ordine di fermare e perquisire i natanti, e perfino la DEA collabora con i suoi aerei e le sue imbarcazioni. Il problema è che i criminali devono avere avuto almeno tre ore di vantaggio perché, in tutta franchezza, non siamo stati avvertiti in modo tempestivo...» Foster guardò il Capo Maxwell, il quale era adesso a braccia conserte e stava facendo una smorfia. Una parola, qui, su Sylvester Maxwell. È un poliziotto onesto, forse non la mente più luminosa in quella stanza, ma neppure uno stupido. A volte
può essere testardo, sebbene pare che questo sia caratteristico di tutta North Fork e non del Capo Maxwell in particolare. Trovandosi a capo di una piccola forza di polizia rurale che deve lavorare con la ben più nutrita forza di polizia della contea e, occasionalmente, con la polizia di stato, ha imparato quando proteggere il suo territorio e quando battere in ritirata. Altro punto da chiarire: le realtà geografiche di una giurisdizione marittima nell'era del traffico di droga hanno messo Max in stretto contatto con la DEA e con la Guardia costiera. La DEA parte sempre dal principio che i gendarmi locali possano essere immischiati nel traffico di stupefacenti; i locali, come Max, sono certi che la DEA vi sia immischiata. La Guardia costiera e l'FBI sono considerati candidi, ma sospettano della DEA e della polizia locale. Gli uomini delle dogane sono per la maggior parte a posto, ma deve pur esserci qualche cattivo soggetto che accetta dollari per far finta di non vedere. In breve, gli stupefacenti sono la cosa peggiore che sia capitata a qualsiasi organizzazione americana preposta alla tutela della legge dai tempi del Proibizionismo. E questo mi portò dal pensare a Max al pensare alla droga, e al motoscafo dei Gordon con i suoi potenti motori. I fatti sembravano smentire che i Gordon vendessero peste da fine-del-mondo per ricavarne denaro, ma forse, nel caso del traffico di droga, non smentivano un bel niente. O forse ero sulle tracce di qualcosa. Forse avrei diviso quella scoperta con tutti non appena l'avessi elaborata nella mia mente o forse me ne sarei guardato bene. George Foster lanciò qualche altra frecciatina al Capo Maxwell per la sua scarsa prontezza nel mettersi in contatto con l'FBI, facendo in modo che tutti ne prendessero nota. Frasi come: «Oh, Max, se soltanto ti fossi rivolto a me fin dal primo momento. Ora, tutto è perduto, ed è colpa tua». «Io ho chiamato la Omicidi della contea nemmeno dieci minuti dopo avere saputo dei due omicidi», gli fece notare Max. «A quel punto la cosa non dipendeva più da me. Ho il sedere coperto, io.» Miss Penrose sentì otto occhi sul suo, di sedere, e precisò: «Io non avevo idea che le vittime fossero biologi di Plum Island». In tono gentile ma fermo, Max replicò: «L'ho riferito al tizio che ha risposto al telefono, Beth. Sergente... qualcosa. Controlla la registrazione». «Lo farò», assicurò il detective Penrose, e aggiunse: «Forse hai ragione tu, Max, ma non stiamo a perderci in questo, ora». E a Foster: «Atteniamoci alla soluzione del crimine». «Buon consiglio», rispose Foster. Si guardò attorno e diede il suo con-
tributo: «Un'altra possibilità è che chiunque abbia preso quella roba non stia cercando di portarla fuori dal paese. Potrebbero avere installato un laboratorio locale, un genere di attività poco appariscente che non attirasse l'attenzione, che non richiedesse materiali insoliti o sostanze chimiche che potrebbero essere rintracciate. Tra le possibilità più agghiaccianti c'è che i microrganismi, quali che essi siano, si possono coltivare, introdurre e diffondere tra la popolazione in svariati modi. Alcuni di questi germi possono essere facilmente propagati attraverso le condutture d'acqua, altri possono essere sparsi dall'alto, altri ancora diffusi da persone e animali. Non sono un esperto, ma poco fa ho fatto qualche telefonata a Washington, e mi risulta che il potenziale di infezione e contagio è altissimo». Poi soggiunse: «Un documentario televisivo, una volta, suggerì che un barattolo del caffè pieno di carbonchio, vaporizzato nell'aria da un singolo terrorista che si aggirasse intorno a Manhattan su una semplice imbarcazione, ucciderebbe come minimo duecentomila persone». Nella stanza regnò di nuovo il silenzio. Foster, che evidentemente godeva di quell'attenzione, continuò: «Potrebbe andare anche peggio. È difficile fare una valutazione. Il carbonchio è batterico. Con i virus, potrebbe andar peggio». «Sbaglio», dissi, «o non stiamo parlando del possibile furto di un singolo tipo di virus o di batterio?» «Se uno ha intenzione di rubare il carbonchio», rispose George Foster, «tanto vale che s'impossessi anche dell'Ebola e di qualsiasi cosa su cui riesce a mettere le mani. Questo comporterebbe una minaccia molteplice, il genere di minaccia che non sarebbe mai possibile riscontrare in natura, e che sarebbe impossibile contenere o controllare.» Il pendolo, di là in soggiorno, batté dodici rintocchi, e Ted Nash, dotato del senso del dramma e deciso a fare colpo su di noi con la sua cultura, indubbiamente di altissimo livello, così citò il Bardo: «Questa è proprio l'ora delle streghe, in cui sbadigliano i cimiteri e l'inferno stesso alita contagio, a questo mondo». Su quella nota gaia, dichiarai: «Vado fuori a prendere una boccata d'aria». 5 Non uscii direttamente all'esterno a prendere aria, ma mi portai verso l'ala ovest della casa, dove Tom e Judy avevano sistemato il loro studio in
quella che un tempo era una stanza da letto. Un tizio sedeva al computer dove era stata mia intenzione istallarmi. Mi presentai al signorino, il quale si presentò a sua volta, come detective Mike Resnick, specialista di informatica giudiziaria presso il Dipartimento di Polizia della Contea. La stampante lavorava a pieno ritmo, e pile di carta si accumulavano su tutto il piano della scrivania. Domandai a Mike: «Ha già trovato l'assassino?» «Certo. Ora sto giocando a Tetris.» Mike era proprio un simpaticone. «Che cos'abbiamo finora?» gli domandai. «Oh... soprattutto... aspetti, questo cos'è? No, niente... che cosa... cosa?» «Abbiamo finora.» Adoro parlare con teste di cavolo al computer. «Abbiamo finora.» «Oh... soprattutto lettere... lettere personali ad amici e parenti, qualche lettera d'affari... qualche... questo cos'è? No, niente...» «Qualcosa che accenni a Plum Island?» «No.» «Qualcosa che sembri interessante o sospetto?» «No.» «Lavori scientifici...» «No. Smetterò quello che sto facendo e informerò la Omicidi nell'attimo stesso in cui penserò d'avere qualcosa.» Mike sembrava alquanto irritabile, come se fosse seduto lì da ore e fosse passata quella in cui era solito andare a letto. «C'è niente di natura finanziaria?» gli domandai. «Investimenti, assegni, bilancio familiare...?» Distolse gli occhi dallo schermo. «Sì. È la prima cosa che ho scaricato. Riempivano i loro assegni al computer. C'è la stampata di tutti i loro libretti d'assegni degli ultimi venticinque mesi, da quando cioè hanno aperto il conto.» Indicò una pila di carta vicino alla stampante. Presi quei fogli e dissi: «Le spiace se do una scorsa a questi?» «No, ma non si allontani troppo. Devo allegare anche quelli al mio rapporto.» «Li porto solo in soggiorno, dove c'è più luce.» «Sì...» Stava baloccandosi di nuovo con il computer, che trovava più interessante di me. Lasciai la stanza. Nel soggiorno, la potenziale esperta di impronte stava ancora spargendo
polvere e rilevando. Mi scoccò un'occhiata e domandò: «Ha toccato qualcosa?» «No, no.» Mi avviai verso gli scaffali dei libri ai due lati del caminetto. A sinistra c'era la narrativa, quasi tutto in edizione economica, un simpatico miscuglio di fuffa e piccoli tesori. A destra c'era la saggistica, diciamo così, che andava da testi di biologia alle solite chiacchiere sul mantenersi in forma e in salute. C'era anche un intero scaffale di libri di pubblicazione locale su Long Island: flora, fauna, storia e così via. Sullo scaffale in basso c'era una fila di libri sulle barche a vela, mappe nautiche e cose del genere. Come ho già detto, per essere entrambi del Midwest, dove non ci sono sbocchi sul mare, i Gordon si erano veramente appassionati alla navigazione. D'altro canto, ero uscito in mare con loro alcune volte, e perfino io potevo dire che come marinai non valevano un granché. Inoltre, non pescavano, non andavano né a molluschi né a granchi, non nuotavano neppure. Amavano solo aumentare la velocità, di tanto in tanto. Il che mi riportava al pensiero che quella fosse una faccenda di droga. Con quell'idea in mente, posai le stampate del computer e, servendomi del fazzoletto, presi dallo scaffale un librone di carte nautiche e lo appoggiai sulla mensola del caminetto. Con il dito avvolto nel fazzoletto, presi a voltarne le pagine. Cercavo frequenze radio, numeri di telefoni cellulari, o qualsiasi altra cosa che un corriere della droga potrebbe annotare tra le sue mappe. Ogni pagina di quelle mappe nautiche mostrava un'area di circa quattro miglia marine per quattro. La terra che appariva sulle mappe era fondamentalmente informe, fatta eccezione per i punti di riferimento che potevano essere visti dall'acqua. Per i mari, in compenso, erano indicati banchi di scogli, rocce, profondità, fari, rottami affondati, boe, e ogni sorta di aiuti e di rischi per la navigazione. Scorrevo una pagina dopo l'altra alla ricerca delle «X», immagino, cose come luoghi di raduno, coordinate, o nomi come Juan, Pedro o altro, ma le mappe sembravano intonse a parte una linea gialla tracciata con l'evidenziatore che collegava il pontile dei Gordon con quello di Plum Island. Quella era la rotta che seguivano per andare al lavoro, passando tra la sponda meridionale della North Fork e Shelter Island e tenendosi nella parte profonda e sicura del canale. Come indizio, non valeva proprio niente. Notai che su Plum Island, stampate in rosso, c'erano le parole: «Accesso
regolamentato - Proprietà del Governo degli Stati Uniti - Chiuso al pubblico». Stavo quasi per richiudere il librone quando scorsi qualcosa che rimaneva quasi nascosto dal mio fazzoletto: verso il fondo della pagina, nelle acque a sud di Plum Island, era scritto a matita: «44106818». Seguiva a questo un punto di domanda, simile a quello che era appena esploso dalla mia mente, come nei fumetti: 44106818? Fate conto che fossero due punti di domanda e un punto d'esclamazione. Cos'era, una griglia di coordinate standard di otto cifre? Una frequenza radio? Droga? Germi? Cosa? C'è un punto, in un'indagine su un omicidio, in cui si comincia ad accumulare tanti di quegli indizi da non sapere che cosa farsene. Gli indizi sono come gli ingredienti di una ricetta senza le istruzioni: se li metti insieme nel modo giusto, otterrai un pranzo. Se non sai come servirtene, rimarrai in cucina un bel pezzo, confuso e affamato. A ogni modo, sempre reggendolo con il fazzoletto, portai il librone alla potenziale esperta di impronte. «Potrebbe fare, per me, un lavoro davvero scrupoloso su questo libro?» le domandai con un bel sorriso. Mi diede un'occhiata severa, poi prese il libro nelle mani guantate e lo esaminò. «La carta delle mappe è difficoltosa... ma la copertina è bella lucida... Farò quello che posso.» Poi aggiunse: «Nitrato d'argento o ninhydrin. È un lavoro che va fatto in laboratorio». «Grazie, donna professionalmente competente.» Si aprì a un sorriso e domandò: «Chi ha il maggior numero di impronte digitali? L'FBI, la CIA o il SEP?» «Che cos'è il SEP? Vediamo, Servizio di E...» «No, no. Sedere di Elizabeth Penrose.» Rise. «È una battuta che circola per la sede centrale. Non l'aveva ancora sentita?» «Non mi pare.» Mi tese la mano. «Sono Sally Hines.» «E io John Corey.» Strinsi la sua mano guantata e commentai: «Amo sentire il latex contro la mia pelle nuda. E lei?» «No comment.» Tacque qualche istante, poi domandò: «È lei quello della polizia di New York che collabora con la Omicidi della contea su questa faccenda?» «Esatto.» «Dimentichi quella battuta sulla Penrose.» «Stia certa.» Poi domandai: «Che cosa troviamo qui, Sally?»
«Be', la casa era stata pulita di recente così abbiamo superfici belle fresche. Non ho studiato attentamente le impronte, ma vedo già che appartengono quasi tutte alle stesse due serie, probabilmente sono di lui e di lei. Ce n'è qualche altra di tanto in tanto ma, se vuole la mia opinione, detective, l'assassino portava i guanti. Non era certo un drogato pronto a lasciarne cinque ben nitide sull'armadietto dei liquori.» Assentii, poi raccomandai: «Faccia il miglior lavoro che può su quel libro». «Faccio solo lavori perfetti, io. E lei?» Pescò un sacchetto di plastica nel suo armamentario e vi fece scivolare dentro il librone. «Mi serve una serie di impronte di eliminazione anche da lei.» «Più tardi veda se ne trova sul sedere di Elizabeth Penrose.» Rise e ordinò: «Intanto metta le mani su quel tavolino da tè». Feci come mi chiedeva e m'informai: «Ha preso le impronte a quei due che sono col Capo Maxwell?» «Mi è stato detto che a questo avremmo provveduto in seguito.» «Già. Senta, Sally, un sacco di gente, qui, come quei due di là in cucina, cercherà di impressionarla con la loro identità da grossi papaveri. Lei faccia rapporto soltanto alla Omicidi della Contea, preferibilmente soltanto alla Penrose.» «Ricevuto.» Si guardò attorno, poi domandò: «Ehi, cosa mi dice dei germi?» «Questo non ha niente a che fare con i germi. Combinazione, le vittime lavoravano a Plum Island, ma è soltanto una coincidenza.» «Sì, certo.» Recuperai la pila di stampate e mi diressi alla porta scorrevole. «Non mi va come viene gestita questa scena del crimine», mi gridò dietro Sally. Io non risposi. Mi avviai giù alla baia, dove una bella panchina guardava verso l'acqua. Gettai i fogli trafugati sulla panca e rimasi là in piedi a fissare il mare. C'era brezza sufficiente a tenere moscerini e zanzare occupati a danzare nell'aria e lontani da me. Piccole increspature solcavano la baia e facevano dondolare la barca dei Gordon giù al pontile. Qualche nuvola veleggiava oltre la luna grande e vivida, e l'aria sapeva più di terra che di mare ora che il venticello si era spostato e soffiava da nord. Chissà quando e come, per osmosi, suppongo, avevo cominciato a captare intorno a me le forze elementari della terra e del mare. Aggiungetevi tut-
te le vacanze estive di due settimane che ho passato qui da ragazzino più i weekend autunnali, e non è poi molto sorprendente che qualcosa si sia infiltrato nel mio cervello urbano. Ci sono momenti in cui ho voglia di andarmene dalla città, e penso a un luogo come questo. Forse dovrei provare, d'inverno, a passare qualche mese nella grande casa tutta spifferi di zio Harry e vedere se divento un alcolizzato o un eremita. Diavolo, se qui nei dintorni continua a venire accoppata gente, il Consiglio Comunale di Southold mi nominerà consulente della Omicidi a tempo pieno, a cento dollari al giorno più tutti i molluschi che riesco a mangiare. Mi sentivo insolitamente combattuto riguardo al ritorno al dovere. Ero pronto a tentare qualcos'altro, ma volevo che fosse una decisione mia, e non dei dottori; inoltre, se i cerusici avessero detto che ero finito, non avrei potuto ritrovare i due hombres che m'avevano sforacchiato. Quella era una faccenda seria lasciata a metà. Non ho sangue italiano, io, ma il mio compagno, Dominic Fanelli, è siciliano, e ho imparato da lui l'intera storia e il protocollo della vendetta. Tre volte mi ha fatto rivedere Il padrino. Credo d'avere afferrato. I due gentiluomini ispanici dovevano smettere di vivere. Dominic li stava cercando. Io ero in attesa che mi facesse un fischio, non appena ci fosse riuscito. A proposito della mia mortalità, cominciavo a sentirmi un po' affaticato, e mi misi a sedere sulla panchina. Non ero più il superman che solevo sentirmi prima della sparatoria. Mi appoggiai allo schienale e per un poco contemplai la notte. Su un piccolo tratto erboso a sinistra del pontile dei Gordon c'era un'alta e bianca asta di bandiera, con una traversa, chiamata varea di pennone, da cui partivano due corde o sagole chiamate drizze. Noterete che ho imparato qualcosa del gergo nautico. A ogni modo, i Gordon avevano trovato tutta una collezione di bandiere e fiamme in un armadietto del garage, e qualche volta appendevano bandiere di segnalazione alle drizze, così per spasso: tipo quella «Prepararsi a essere abbordati» oppure «Il capitano è a terra». Avevo notato, in precedenza, che i Gordon avevano issato in cima all'albero maestro la «Jolly Roger», e m'era sembrata una vera ironia che l'ultima bandiera fatta da loro sventolare fosse quella col teschio e le ossa incrociate. Notavo, inoltre, che su ciascuna drizza c'era una bandiera di segnalazione. A stento riuscivo a distinguerle nel buio, ma non aveva importanza perché ero privo di indizi riguardo ai segnali nautici.
Beth Penrose venne a sedersi sull'altra estremità della panchina. Si era rimessa la giacca, il che era deludente, e teneva le braccia incrociate intorno a sé, come se avesse freddo. Le donne hanno sempre freddo. Non disse niente, ma gettò in là le scarpe, strofinò i piedi sull'erba e agitò gli alluci. Portano anche scarpe scomode. Dopo qualche minuto di socievole silenzio - o forse di gelida immobilità - provai a rompere il ghiaccio e dissi: «Forse ha ragione lei. Potrebbe essere venuto in barca». «È armato?» «No.» «Bene. Sto per farle saltare quel c... cavolo di cervello.» «Via, Beth...» «Detective Penrose per lei, saccentone.» «Mi faccia capire.» «Perché è stato cosi odioso con Ted Nash?» «Quale sarebbe dei due?» «Lo sa benissimo chi è dei due. Che problema c'è?» «È una cosa da uomini.» «Ha fatto una pessima figura, tutti pensano che sia un idiota arrogante e un incompetente del tutto inutile. E ha perso la mia stima.» «Allora immagino che fare del sesso sia fuori questione.» «Sesso? Non voglio nemmeno respirare la stessa aria che respira lei.» «Così mi ferisce, Beth.» «E non mi chiami Beth.» «Ted Nash la chiamava...» «Senta, Corey, ho ottenuto questo caso perché ho supplicato il capo della Omicidi di affidarmelo. È il mio primo vero caso di omicidio. Finora, non mi sono occupata che di sciocchezze: drogati che si aggredivano tra loro, mamme e papà che risolvevano le crisi domestiche con i coltelli di cucina, stronzate del genere. E poco anche di quelle. C'è un tasso di omicidi bassissimo, da queste parti.» «Sentirlo mi addolora.» «Eh, già. Lei fa questo continuamente, e quindi è sazio, cinico e saccente in proposito.» «Be', non vorrei...» «Se è qui per farmi fare la figura dell'incapace, vada a farsi fottere.» Si alzò. Mi alzai anch'io. «Aspetti. Sono qui per dare una mano.»
«Allora la dia.» «D'accordo. Mi stia a sentire. Prima di tutto, un consiglio. Non parli troppo con Foster e con il suo amico Ted.» «Questo lo so, e la pianti di chiamarlo "il mio amico Ted".» «Senta... Posso chiamarla Beth?» «No.» «Senta, detective Penrose, se pensa che io sia attratto da lei e teme, com'è probabile, che possa farle delle avance... il che potrebbe metterla in imbarazzo...» Lei girò la faccia e finse di contemplare la baia. «...non è facile a dirsi», continuai io, «ma... bene... non deve preoccuparsi che... che io...» Tornò a girarsi e mi guardò. Mi coprii in parte la faccia con la destra e mi grattai la fronte. Continuai come meglio mi fu possibile. «Vede... uno dei proiettili che mi colpirono... Dio, come glielo dico...? Insomma, mi colpì in un punto particolare, mi spiego? Ora lo sa. Perciò possiamo essere un po' come... amici, soci... fratello e sorella... o forse intendo dire sorella e sorella...» Le lanciai uno sguardo e vidi che fissava di nuovo il mare. Alla fine, parlò. «Mi pareva avesse detto d'essere stato colpito allo stomaco.» «Sì, anche.» «Max diceva che lei aveva una brutta ferita a un polmone.» «Anche.» «Nessun danno al cervello?» «Può darsi.» «E ora vuol farmi credere d'essere stato evirato da un'ennesima pallottola.» «Non è un fatto sul quale un uomo mentirebbe.» «Se la fornace è spenta, perché c'è ancora fuoco nei suoi occhi?» «È solo un ricordo, Beth... Posso chiamarla Beth? Un buon ricordo di un tempo in cui potevo fare il salto con l'asta al di sopra della mia automobile.» Si coprì la faccia con la mano, e non mi era possibile capire se stesse piangendo o ridendo. «La prego», raccomandai, «non lo dica a nessuno.» Riprese finalmente il controllo di sé e replicò: «Cercherò di evitare che finisca sui giornali».
«Grazie.» Lasciai passare qualche secondo, poi domandai: «Abita da queste parti?» «No, sto nella parte occidentale della contea.» «È un bel viaggio. Torna a casa in macchina, o alloggia da queste parti?» «Alloggiamo tutti al Soundview Inn di Greenport.» «"Tutti" chi sarebbero?» «Io, George, Ted, certi tali della DEA, altri che erano stari qui in precedenza... gente del ministero dell'Agricoltura. Si suppone che lavoriamo tutti giorno e notte, ventiquattr'ore su ventiquattro, sette giorni la settimana. Fa buona impressione sulla stampa e sul pubblico... casomai dovesse uscire la gatta dal sacco. Sa, nell'eventualità che si diffonda l'allarme riguardo ai germi...» «Intende dire panico di massa riguardo a una pestilenza.» «Quello che è.» «Ehi, ho un bel posticino qui, io, e lei è la benvenuta, se vuole approfittarne.» «Grazie lo stesso.» «È un'imponente dimora vittoriana sul mare.» «Non ha importanza.» «Starebbe più comoda. Gliel'ho detto, sono innocuo. Diamine, i colleghi dei Dipartimento di Polizia di New York dicono che ho il permesso di usare la toilette delle signore, alla centrale.» «La pianti.» «Parlando seriamente, Beth. Ho qui una stampata del computer: due anni di notizie finanziarie. Possiamo lavorarci su insieme, stanotte.» «Chi l'ha autorizzato a prenderla?» «Lei. Dico bene?» Esitò, poi assentì e disse: «Voglio che torni in mano mia per domani mattina». «D'accordo. Ci lavorerò tutta la notte. Mi dia una mano.» Parve rimuginarci su, poi disse: «Mi dia il suo indirizzo e il numero di telefono». Presi a frugarmi in tasca in cerca di una penna e di un pezzo di carta, ma lei aveva già estratto il suo piccolo notes. «Dica.» Le diedi le informazioni, direzioni comprese. «Le darò un colpo di telefono, nel caso possa venire.» «D'accordo.» Mi riadagiai contro la spalliera, e lei fece lo stesso, all'estremità opposta,
la stampata del computer fra noi. Restammo un poco in silenzio, per fare mente locale, immagino. Infine, Beth commentò: «Spero lei sia molto più in gamba di come si presenta o parla». «Lasci che la metta così: la cosa più intelligente che il Capo Maxwell ha fatto nella sua carriera è stata di chiedere il mio intervento per questo caso.» «E anche modesto.» «Non c'è ragione d'essere modesto. Sono uno dei migliori. Anzi, la CBS sta preparando uno show intitolato I dossier Corey.» «Dice davvero?» «Posso farle avere una parte.» «Grazie. Se posso ripagarla del favore, sono certa che me lo farà sapere.» «Vederla ne I dossier Corey mi ripagherà a sufficienza.» «Non c'è dubbio. Senta... Posso chiamarla John?» «La prego, sì.» «John, che cosa sta succedendo, qui? In questo caso, voglio dire. Lei sa qualcosa che sta tenendo per sé.» «Qual è il suo stato attuale?» «Prego?» «Fidanzata, divorziata, separata, impegnata?» «Divorziata. Che cosa sa o sospetta riguardo a questo caso che non ha rivelato?» «Nessun boyfriend?» «Nessun boyfriend, niente figli, undici ammiratori di cui cinque sposati, tre fanatici, due passabili, e un idiota.» «Faccio domande troppo personali?» «Sì.» «Se avessi un partner maschio e le facessi a lui, la cosa sarebbe perfettamente normale e lecita.» «Be'... non siamo partner, noi.» «Lei la vuole cruda e la vuole cotta. Tipico.» «Senta... bene, mi dica di sé, allora. In due parole.» «Okay. Divorziato, niente figli, decine di ammiratrici, ma nessuna speciale.» Poi aggiunsi: «E niente malattie veneree». «E niente parti veneree.» «Giusto.»
«D'accordo, John, e riguardo a questo caso?» Mi sistemai più comodo e replicai: «Ebbene, Beth, riguardo a questo caso c'è che l'ovvio sta conducendo all'improbabile, e tutti cercano di fare in modo che l'improbabile si adatti all'ovvio. Ma non è così che funziona, partner.» Lei assentì, poi disse: «Sta suggerendo che questo potrebbe non avere niente a che fare con quello con cui riteniamo che abbia a che fare». «Comincio a pensare che ci sia sotto qualcos'altro, qui.» «Perché lo pensa?» «Be'... sembra che qualche indizio non collimi.» «Forse collimerà tra qualche giorno, quando saranno arrivati i rapporti della scientifica e tutti saranno stati interrogati.» Mi alzai e dissi: «Andiamo giù al pontile». Lei si rimise le scarpe e ci incamminammo. «A qualche centinaio di metri lungo la spiaggia da qui», dissi, «Albert Einstein lottò con la questione morale della bomba atomica e decise per il sì. I buoni non avevano scelta perché i cattivi avevano già deciso per il sì senza darsi alcun pensiero della questione morale.» E aggiunsi: «Conoscevo i Gordon». Rifletté un istante, poi replicò: «Sta dicendo di non credere che i Gordon fossero capaci - moralmente capaci - di vendere microrganismi mortali». «Non ci credo, no. Proprio come gli scienziati atomici, rispettavano il potere del genio nella bottiglia. Non so che cosa facessero di preciso a Plum Island, e probabilmente non lo sapremo mai, ma li conoscevo abbastanza bene, penso, per affermare che il genio nella bottiglia non lo avrebbero venduto.» Lei non rispose. «Una volta, ricordo», continuai, «Tom mi disse che Judy stava vivendo una cattiva giornata perché un vitellino al quale si era affezionata era stato infettato di proposito con qualcosa e stava morendo. Quello non è il genere di persone che vogliono veder morire bambini in seguito a una spaventosa epidemia. Quando interrogherà i loro colleghi di Plum Island, lo scoprirà da sé.» «La gente a volte ha un... lato oscuro.» «Non ho mai notato un accenno di qualcosa, nella personalità dei Gordon, tale da suggerire che potessero trafficare in germi letali.» «Certe volte le persone razionalizzano il loro comportamento. Che mi dice degli americani che rivelavano segreti sull'atomica ai russi? Tutti dicevano d'averlo fatto per pura convinzione, affinché il potere non fosse da
una sola parte.» Le lanciai un'occhiata e vidi che mi stava guardando, mentre camminavamo. Scoprivo con gioia che Beth Penrose era capace di qualche profondo ragionamento, e sapevo che faceva piacere anche a lei scoprire che non ero idiota, come in un primo momento mi aveva creduto. «Riguardo agli scienziati atomici», dissi, «era un'epoca diversa e un diverso segreto. Intendo dire: a parte tutto, perché i Gordon avrebbero venduto batteri e virus in grado di uccidere loro e le loro famiglie fino nell'Indiana o chissà dove, e spazzar via chiunque altro nel mezzo?» Beth Penrose ci pensò su un momento, poi replicò: «Forse sono stati pagati dieci milioni di dollari, e il denaro è in Svizzera, e loro hanno un castello su una montagna ben provvisto di champagne e scatolame, e hanno invitato amici e parenti ad andarli a trovare. Non lo so, John. Perché la gente fa cose assurde? Razionalizzano, si autoconvincono a farle. Ce l'hanno con qualcosa o con qualcuno. Dieci milioni di dollari. Duecento milioni. Duecento dollari. Tutti hanno un prezzo». Arrivammo in fondo al pontile dove un agente della polizia di Southold in uniforme era seduto su una sdraio. «Faccia una pausa», gli disse il detective Penrose. L'uomo si alzò e si avviò verso la casa. L'acqua increspata sciabordava contro lo scafo della barca dei Gordon, facendola oscillare e urtare i parabordi fissati ai pali. C'era bassa marea, e notai che l'imbarcazione era adesso legata a pulegge per permettere alla cima di avere gioco. Il motoscafo si era abbassato di più di un metro, rispetto al livello del pontile. Notavo, ora, che la scritta sullo scafo diceva «Formula 303», che, a sentire Tom, significava che era lungo trenta piedi e tre pollici, vale a dire poco più di nove metri. «Tra i libri dei Gordon», dissi a Beth, «ne ho trovato uno di mappe mappe nautiche - con un numero di otto cifre scritto a matita su una delle pagine. Ho chiesto a Sally Hines di fare un rilievo di impronte superlativo, sul libro, e poi di fare rapporto a lei. Dovrebbe prendere il libro e tenerlo da qualche parte, al sicuro. Sarebbe il caso che lo esaminassimo insieme. Potrebbero esserci altri segni, sopra.» Mi fissò per alcuni secondi, poi domandò: «Bene, e di che cosa pensa che possa trattarsi?» «Be'... dimezzando il livello di moralità, passiamo dal vendere peste in cambio di denaro al vendere droga.» «Droga?»
«Già. Moralmente ambigua in alcune menti, bei soldoni nella mente di chiunque. Come le suona, eh? Droga.» Fissò la potente imbarcazione e assentì. «Forse», ammise, «ci siamo fatti prendere dal panico a causa del nesso con Plum Island.» «È possibile.» «Dovremmo parlarne a Max e agli altri.» «No, invece.» «Perché no?» «Perché si tratta di una semplice supposizione. Lasciamo che portino avanti la teoria della peste. Se quella è la teoria giusta, meglio tenerla coperta.» «D'accordo, ma non è una ragione per non confidarsi con Mike e con gli altri.» «Si fidi di me.» «No. Mi convinca.» «Io stesso non sono convinto. Abbiamo due notevoli possibilità: germi per denaro o droga per denaro. Vediamo se Max, Foster e Nash arrivano a qualche conclusione per conto loro, e se ci mettono a parte di quello che pensano.» «E va bene... per questa volta farò a modo suo.» Indicai il motoscafo. «Quanto pensa che possa costare?» Accennò una stretta di spalle. «Non saprei con certezza... certo è piuttosto costoso... calcoli sui tremila al piede, perciò questo, nuovo, dovrebbe valere sui 100.000 dollari.» «E l'affitto di questa casa? Sui duemila?» «All'incirca, direi, più le spese. Ma tutto questo lo accerteremo.» «E che mi dice dell'andare e tornare in motoscafo? È un percorso di due ore all'andata e due al ritorno, più un piccolo patrimonio in benzina. Giusto?» «Giusto.» «Ci vogliono forse trenta minuti per andare in macchina da qui al traghetto governativo, a Orient Point. Il traghetto quanto impiega per la traversata? Una ventina di minuti, a spese dello Zio Sam. Totale, circa un'ora da porta-a-porta, rispetto alle quasi due ore col motoscafo. Eppure, i Gordon prendevano la loro barca da qui a Plum Island, e so che c'erano giorni in cui al ritorno non potevano usarla, perché il tempo si era guastato durante la giornata. Dovevano tornare con il traghetto e poi farsi dare uno strappo in macchina da qualcuno. La cosa per me non aveva senso, ma ammetto
di non averci mai pensato molto. Avrei dovuto farlo. Ora, forse, un senso ce l'ha.» Saltai sul motoscafo e atterrai di peso sul ponte. Le tesi le braccia e lei saltò, afferrandosi alle mie mani nel farlo. Come, non so, ma finimmo lunghi distesi sul ponte, io supino e Beth Penrose sopra di me. Rimanemmo così forse un secondo di più del necessario, poi ci rialzammo. Scambiammo un sorriso impacciato, come fanno due estranei di sesso opposto quando si ritrovano a scontrarsi senza volerlo con tette e quant'altro. «Tutto bene?» mi domandò lei. «Sì, sì...» In realtà, il mio povero polmone ne aveva sofferto, e intuii che lei se n'era accorta. Ritrovai il fiato e mi diressi verso la parte posteriore, a poppa, come dicono, dove il Formula 303 aveva una panca. Indicai a Beth il ponte vicino a quel sedile e la informai: «La cassa d'alluminio stava sempre qui. Era grande, lunga circa un metro e venti, larga novanta centimetri e alta altri novanta, all'incirca. Molto capace, all'interno, con isolamento in alluminio. A volte, quando sedevo sulla panca, vi appoggiavo i piedi sopra e sorseggiavo birra». «E allora?» «Allora, dopo il lavoro, in determinati giorni, i Gordon lasciano Plum all'ora fissata e si dirigono a tutta velocità verso il mare aperto. Là, in pieno Atlantico, s'incontrano con una nave, forse un mercantile sudamericano, o forse un idrovolante, o quel che si vuole. Prendono a bordo un centinaio di chili di polvere colombiana e ripartono velocemente verso terra. Se vengono avvistati dalla DEA o dalla Guardia costiera, hanno l'aspetto dei coniugi Innocentini al largo per una bella corsa. Se anche vengono fermati, mostrano il tesserino di Plum Island e tutto finisce a strette di mano e sorrisi. In realtà, probabilmente potrebbero sfuggire a qualsiasi lancia, là in mare. Occorrerebbe un aereo per dare la caccia a questo bestione. E poi, siamo sinceri, quante barche vengono fermate e perquisite? Ci sono migliaia di natanti da diporto e di pescherecci, al largo. A meno che non abbiano avuto una segnalazione seria, o che qualcuno non si comporti in modo strano, la Guardia costiera, la Dogana o chi per esse non abbordano e non perquisiscono. Ho torto?» «In genere, no. La Dogana ha piena autorità di farlo e a volte lo fa.» Poi, lei aggiunse: «Vedrò se c'è qualche rapporto presso la DEA, la Guardia costiera o la Dogana riguardo allo Spirocheta.» «Bene.» Riflettei un momento, poi dissi: «Allora, una volta presa a bor-
do la roba, i Gordon approdano in qualche posticino predisposto o si incontrano con una barca più piccola, e trasferiscono la ghiacciaia ai distributori farmaceutici locali, che danno loro un'altra ghiacciaia in cambio, con un malloppo di dollari dentro. Poi il distributore fa il trasporto fino a Manhattan, ed ecco completata un'altra importazione esente da dazio. Succede ogni giorno. La domanda è: i Gordon vi prendevano parte e, se sì, è per questo che sono stati uccisi? Io me lo auguro. Perché l'altra ipotesi mi fa paura, e non sono uno che si spaventa facilmente». Ci meditò su a lungo, guardandosi intorno sul motoscafo. «Potrebbe spiegare tutto. Ma potrebbe anche essere un pio desiderio.» Non risposi. «Se riusciamo a stabilire che si trattava di stupefacenti», continuò lei, «potremo tirare il fiato. Fino a quel momento, dovremo attenerci all'idea che fossero proprio germi, perché se è così e noi non siamo più che padroni della situazione, corriamo il rischio di ritrovarci tutti all'altro mondo.» 6 Erano passate le due di notte, e stavo diventando strabico a forza di leggere stampate del computer dei Gordon. Avevo un bricco di caffè in caldo nella vecchia e vasta cucina di zio Harry, ed ero seduto al tavolo rotondo presso la finestra che guardava a est per ricevere il sole del mattino. Zio Harry e zia June avevano il buon senso di non ospitare mai in casa l'intero clan dei Corey, ma di tanto in tanto invitavano me, o mio fratello Jim, o mia sorella Lynne, a soggiornare nella stanza degli ospiti mentre il resto della famiglia alloggiava in qualche orrida casetta per turisti degli anni Cinquanta. Mi rivedo, bambino, seduto a quel tavolo con i miei cuginetti Harry Jr. e Barbara, a ingurgitare latte e biscotti, ansioso di correre fuori a giocare. L'estate era magica. Non avevo, credo, un pensiero al mondo. Ora, a qualche decennio di distanza, stesso tavolo, di pensieri ne avevo anche troppi. Riportai l'attenzione sulle registrazioni dei libretti di assegni. Gli stipendi dei Gordon venivano depositati direttamente sul loro conto, e il cumulo delle loro entrate, una volta saccheggiate dai Federali e dallo Stato di New York, ammontava a circa novantamila dollari. Non male, ma nemmeno così invidiabile per due laureati che svolgevano lavoro d'ingegno con sostanze rischiose. Tom avrebbe guadagnato di più giocando a baseball in una
squadra di serie B, e Judy avrebbe potuto lavorare in qualche bar del mio vecchio distretto e prendere più o meno lo stesso. È uno strano paese, questo. A ogni modo, non mi ci volle molto per vedere che i Gordon vivevano al limite delle loro possibilità. La vita è cara sulla costa orientale, come indubbiamente avevano scoperto. Sborsavano soldi per due auto, la barca, l'affitto della casa, assicurazioni assortite sulle medesime, servizi pubblici, cinque carte di credito, fatture per il carburante, quasi tutte per il motoscafo, e normali spese per la vita quotidiana. Inoltre, c'era un imponente pagamento di 10.000 dollari per il Formula 303, nell'aprile dell'anno precedente. In più, i Gordon davano contributi a un certo numero di meritevoli opere di beneficenza, facendomi sentire in colpa. Appartenevano a un circolo letterario e musicale, usavano spesso la carta di credito, mandavano assegni a nipoti e nipotine, ed erano membri della Peconic Historical Society. Ancora non sembrava che stessero per affogare nei debiti, ma erano lì lì. Se dal traffico di stupefacenti ricavavano una bella entrata supplementare, erano abbastanza furbi da mettere da parte il contante e scialacquare il resto come ogni gagliardo americano che non ha paura del fisco. La domanda, perciò, s'imponeva: dov'era il malloppo? Non sono un revisore di conti, ma di queste analisi finanziarie ne ho fatte abbastanza per individuare cose che valeva la pena controllare. Ce n'era una soltanto negli ultimi venticinque mesi di registrazioni bancarie dei Gordon, e bella grossa: un assegno di 25.000 dollari intestato a certa Margaret Wiley. L'assegno era stato «certificato» per una spesa di dieci dollari, e i fondi per coprirlo erano stati trasferiti elettronicamente dal conto corrente dei Gordon. In effetti, rappresentava quasi tutti i loro risparmi. L'assegno portava la data del 7 marzo di quest'anno, e non c'erano annotazioni riguardanti lo scopo per il quale era stato versato. Chi era, dunque, Margaret Wiley? Perché i Gordon le avevano dato un assegno «certificato» per quel po' po' di somma? Lo avremmo presto scoperto. Sorseggiai altro caffè e, battendo la matita sul tavolo a tempo con l'orologio sulla parete opposta, meditai sul tutto. Andai all'armadietto di cucina accanto al telefono e, in mezzo ai ricettari, trovai l'elenco telefonico locale. Guardai sotto la «W» e trovai una Margaret Wiley che abitava in Lighthouse Road nel piccolo villaggio di Southold. In effetti sapevo dov'era, trattandosi della strada che, come il nome suggeriva, portava al faro: per l'esattezza, al faro di Horton Point.
Avevo una gran voglia di chiamare la Wiley, ma forse non avrebbe gradito una telefonata alle due del mattino. Meglio aspettare che facesse giorno. Ma la pazienza non è una delle mie virtù. Anzi, per quanto ne so, di virtù non ne posseggo. Inoltre, avevo la sensazione che l'FBI e la CIA non stessero affatto dormendo a quell'ora e che, su quel caso, stessero portandosi in vantaggio su di me. Ultima cosa, ma non meno importante, quello non era un normale caso di omicidio; perfino mentre io esitavo a svegliare Margaret Wiley, poteva darsi che una pestilenza capace di distruggere una civiltà stesse dilagando per tutta la nazione. Detesto che accadano cose del genere. Formai il numero. Il telefono squillò e s'inserì una segreteria. Riagganciai e tornai a formarlo. Alla fine, la padrona di casa si svegliò e disse: «Pronto». «Scusi, cerco Margaret Wiley.» «Sono io. Chi parla?» domandò la voce sonnolenta e anziana. «Sono il detective Corey, signora. Della polizia.» Lasciai che, per un paio di secondi, immaginasse il peggio. Questo di solito sveglia. «Polizia? Che cos'è successo?» «Signora Wiley, lei ha sentito la notizia di quegli omicidi a Nassau Point?» «Oh... sì. Che cosa orribile...» «Conosceva i Gordon?» Si schiarì la voce e rispose: «No... be', li ho visti una sola volta. Gli ho venduto un pezzo di terra». «In marzo?» «Sì.» «Per 25.000 dollari?» «Sì... ma cos'ha a che fare questo con...?» «Dov'è quel terreno, signora?» «Oh... è un bel pezzo di scogliera che si affaccia sullo Stretto.» «Capisco. Volevano costruirvi una casa?» «No. Non possono costruire, là. Ho venduto i diritti di valorizzazione alla contea.» «Vale a dire?» «Vale a dire... è un piano per la conservazione. Uno vende il diritto di valorizzazione, ma rimane proprietario del terreno. La terra deve rimanere com'è, salvo che per motivi agricoli.» «Capisco. Quindi i Gordon non potevano costruire una casa su quella
scogliera?» «Per carità, no. Se fosse terreno edificabile, varrebbe più di 100.000 dollari. Sono stata pagata dalla contea proprio perché non sia reso edificabile. È un patto restrittivo che equivale a una servitù fondiaria. Un buon piano, direi.» «Ma può vendere il terreno?» «Sì, e l'ho fatto. Per 25.000 dollari.» E aggiunse: «I Gordon sapevano che non poteva essere valorizzato». «Potevano ricomprare i diritti di valorizzazione dalla contea?» «No. Li ho venduti in perpetuo. È questo lo scopo del piano.» «Bene...» Credevo di capire, ora, quello che i Gordon avevano fatto: avevano acquistato un bel pezzo di terra con vista sullo Stretto che, proprio perché non era edificabile, si vendeva a meno del prezzo di mercato. Ma potevano coltivarlo, e mi rendevo conto che il fascino esercitato su Tom dalla viticoltura locale lo aveva condotto all'hobby definitivo: i Vigneti Gordon. A quanto sembrava, dunque, non vi era alcun nesso tra l'acquisto e la loro tragica fine. «Scusi tanto se l'ho svegliata, signora Wiley», dissi. «Grazie del suo aiuto.» «Prego. Spero che troverete chi è stato.» «Lo troveremo di certo.» Riagganciai, mi allontanai dall'apparecchio, poi tornai sui miei passi e rifeci il numero. Lei rispose e io dissi: «Chiedo scusa, ancora una domanda. Quel terreno è adatto per una vigna?» «Dio buono, no. È proprio sullo Stretto, troppo esposto, e poi troppo piccolo. È un ripido lotto di un solo acro che scende per una quindicina di metri alla spiaggia. Bellissimo, questo sì, ma non vi crescerebbe mai niente, salvo boscaglia.» «Capisco... avevano accennato al perché lo volevano?» «Sì... dicevano di volere una collina tutta loro a picco sull'acqua. Un posto dove sedersi a contemplare il mare. Erano una bella coppia. Che cosa orribile.» «Sì, signora. La ringrazio.» Riagganciai. Così, volevano un posto dove sedersi a contemplare il mare. Per 25.000 dollari avrebbero potuto pagarsi la tariffa di parcheggio all'Orient Beach State Park almeno cinquemila volte, contemplare tutto il mare che volevano ogni giorno per otto anni e avere ancora il denaro necessario per birra e panini. Non mi tornavano i conti. Ci rimuginai su un po'. Rimugina, rimugina... be', forse sì, mi tornavano. Erano una coppia romantica. Ma venticinquemila dollari? Era quasi tutto
ciò che possedevano. E se il governo li avesse trasferiti altrove, come si sarebbero disfatti di un acro di terra inutilizzabile sia come terreno edificabile, sia come terreno agricolo? Chi altri sarebbe stato tanto pazzo da sborsare 25.000 dollari per una proprietà gravata in quel modo? Così, forse c'entrava per davvero il narcotraffico marittimo. La cosa, allora, avrebbe avuto un senso. Conveniva dare un'occhiata a quel terreno. Mi domandavo se qualcuno avesse già trovato l'atto di proprietà fra le carte dei Gordon. Mi domandavo, anche, se i Gordon avessero una cassetta di sicurezza e che cosa c'era dentro. È dura, quando ti poni domande alle due del mattino, la caffeina ti tiene con i nervi a fior di pelle e nessuno vuole parlare con te. Tornai a riempirmi la tazza. Le finestre al di sopra del lavello erano aperte, e potevo sentire le creature della notte cantare la loro settembrina canzone, le ultime locuste e raganelle, un gufo che emetteva il suo verso nelle vicinanze, e qualche uccello notturno gorgheggiante nella densa bruma che arrivava dalla Great Peconic Bay. L'autunno, qui, è temperato dalle grandi masse d'acqua che conservano il loro calore estivo fino a novembre. Straordinario per l'uva. Buono per il canottaggio fino al Giorno del Ringraziamento. C'era l'occasionale uragano in agosto, settembre o ottobre, e talvolta il vento di nordest durante l'inverno. Ma il clima era fondamentalmente mite, le cale e le insenature numerose, le nebbie e le brume frequenti: un posto ideale per contrabbandieri, pirati e, ultimamente, trafficanti di droga. Il telefono fissato alla parete squillò e, per un irrazionale istante, pensai che potesse essere Margaret Wiley. Poi mi ricordai che Max doveva chiamarmi per darmi ragguagli sulla spedizione a Plum Island. Afferrai il ricevitore e dissi: «Casa della pizza». Dopo un secondo d'incertezza, Beth Penrose disse: «Pronto...» «Pronto.» «L'ho svegliata?» «Non si preoccupi. Tanto dovevo alzarmi per rispondere al telefono.» «Vecchia, come battuta. Max mi ha pregata di chiamarla. Andremo con il traghetto delle otto.» «Non ce n'è uno più di buon'ora?» «Sì, ma...» «Perché vogliamo che la squadra-di-occultamento arrivi all'isola prima di noi?» A questo non rispose ma disse: «Saremo accompagnati dal direttore del-
la sicurezza dell'isola, un certo Paul Stevens». «Chi andrà con il traghetto precedente?» «Non lo so... Senta, John, se intendono occultare qualcosa, non è che noi possiamo far molto. Hanno avuto alcuni problemi in passato, e quanto a occultare sono abilissimi. Vedrà soltanto quello che vogliono farle vedere, sentirà soltanto quello che vogliono farle ascoltare, e parlerà solo con quelli con cui intendono farla parlare. Non dia un'importanza eccessiva a questa visita.» «Chi ci andrà?» «Lei, io, Max, George Foster e Ted Nash.» Poi domandò: «Sa dov'è il traghetto?» «Lo troverò. Che cosa sta facendo, ora?» «Sto parlando con lei.» «Faccia una corsa fin qui. Sto guardando certi campioni di carta da parati. Mi serve il suo parere.» «È tardi.» Suonava quasi come un sì, il che mi sorprese. Provai a insistere. «Può dormire qui. Al traghetto ci andremo insieme, con la macchina.» «Sarebbe carino.» «Tanto vale decidersi, allora.» «Ci penserò. Ehi, ha trovato qualcosa in quelle stampate?» «Venga e le mostrerò quanto impegno so metterci.» «La pianti.» «Vengo a prenderla io.» «È tardi. Sono stanca. Sono già in... pronta per andare a letto.» «Bene. Possiamo giocare al dottore.» La sentii fare un lungo, paziente respiro, poi dire: «Avrei proprio creduto che vi fosse qualche indizio nelle loro registrazioni finanziarie. Forse non ha cercato abbastanza. O forse non sa quello che sta facendo». «Probabile.» «Mi pareva fossimo rimasti d'accordo», disse lei, «di scambiarci le informazioni.» «Sì, tra noi due. Non con il mondo intero.» «Come...? Ah... capisco.» Sapevamo entrambi che, quando si lavora con i Federali, quelli ti mettono sotto controllo il telefono cinque minuti dopo che sono avvenute le presentazioni. Non si prendevano nemmeno il disturbo di chiedere l'autorizzazione del tribunale, quando ascoltavano di nascosto le conversazioni dei
colleghi. Ero pentito d'avere fatto quella telefonata a Margaret Wiley. «Dov'è Ted?» domandai a Beth. «Che cosa ne so?» «Tenga la porta sprangata. Corrisponde alla descrizione di uno stupratore-assassino al quale sto dando la caccia.» «Ci dia un taglio, John.» E riagganciò. Sbadigliai. Se da un lato ero deluso che il detective Penrose non volesse venire a trovarmi, ero anche un tantino sollevato. Penso proprio che quelle infermiere mettessero qualche diavoleria nella marmellata dei pazienti. O forse avevo bisogno di più carne rossa nella mia dieta. Misi da parte il bricco del caffè, spensi la luce e lasciai la cucina. Mi feci strada nel buio attraverso la grande casa solitaria, oltre il vestibolo di lucida quercia, su per la scala scricchiolante e giù per il lungo corridoio fino alla camera dall'alto soffitto dove avevo dormito da ragazzo. Mentre mi svestivo, riflettevo su quella giornata, e cercavo di decidere se davvero ci tenevo a prendere il traghetto delle otto. Tra le ragioni del sì, Max mi era simpatico, e mi aveva chiesto un favore. Due, mi piacevano i Gordon e volevo fare io un favore a loro, ripagarli in un certo senso della buona compagnia, del vino e delle bistecche in un periodo in cui non mi sentivo in piena forma. Tre, non mi piaceva Ted Nash e provavo il desiderio infantile di fargliela in barba il più possibile. Quattro, mi piaceva Beth Penrose e provavo il desiderio da adulto di... lasciamo perdere. E poi c'ero io, e io mi annoiavo... No, non era quella la ragione. Stavo cercando di dimostrare che in me la stoffa c'era ancora. Fin qui, tutto bene. Da ultimo, ma certo non in ordine di importanza, c'era il problemino della pestilenza, la morte nera, la morte rossa, la sfaccettata minaccia o cos'altro era; la possibilità che quello fosse l'ultimo autunno che chiunque di noi sulla terra avrebbe visto. Per tutte quelle ragioni, sapevo che alle otto sarei stato sul traghetto per Plum Island, non a letto con le coperte tirate fin sopra la testa, come quando ero bambino e c'era qualcosa che non volevo affrontare... Me ne stetti, nudo, davanti all'ampia finestra, a guardare la nebbia venir su dalla baia, fantasma bianco nel chiaro di luna che strisciava e avanzava attraverso il prato buio in direzione della casa. Ricordo che da bambino mi metteva una paura infernale. Ancora lo fa. Sentivo, mio malgrado, d'avere la pelle d'oca. Portai inconsapevolmente la destra al petto, dove le dita trovarono il foro d'entrata del primo proiettile, poi la lasciai scivolare verso l'addome dove il
secondo, o forse il terzo proiettile aveva perforato, lacerandola, la mia muscolatura un tempo ben salda, mi aveva attraversato l'intestino, scheggiato il bacino, per poi uscire esplodendo dal retroterra. L'altra pallottola mi aveva attraversato il polpaccio sinistro senza fare molto danno. Il chirurgo diceva che ero stato fortunato, e aveva ragione. Avevo scommesso con il mio compagno, Dom Fanelli, per vedere a chi sarebbe toccato entrare nel bar per comperare caffè e panini, e lui aveva perso. Gli era costato quattro dollari. La fortuna era stata dalla mia. Là in mezzo alla baia risuonò un corno da nebbia, e mi domandai chi si trovasse al largo con quella nebbia e a quell'ora. Venni via dalla finestra e controllai per vedere se avevo puntato la sveglia, poi mi assicurai che ci fosse un colpo in canna nella «45» automatica che tengo sul tavolino da notte. Crollai sul letto e, come Beth Penrose, Sylvester Maxwell, Ted Nash, George Foster, e molti altri quella notte, rimasi a fissare il soffitto e a pensare agli omicidi, alla morte, a Plum Island e ai virus. Con l'occhio della mente vedevo l'immagine della «Jolly Roger», la bandiera dei pirati, sventolare nel cielo notturno, il teschio bianco e sogghignante. Mi venne da pensare che le sole persone a riposare in pace quella notte fossero Tom e Judy Gordon. 7 Alle sei ero in piedi, feci la doccia e indossai calzoni corti, maglietta e mocassini: l'abbigliamento adatto per un rapido cambio con una tuta isolante anti-biorischio o come diavolo la chiamano. Affrontai l'eterna routine amletica riguardo alla mia arma: portarla o non portarla, questo è il problema. Alla fine, decisi di portarla. Non sai mai cosa può riservarti la giornata. Quello poteva essere il giorno adatto per dare una bella lezione a Ted Nash. Alle 6 e 45 stavo viaggiando verso est lungo Main Road, attraverso il cuore della zona vinicola. Riflettevo tra me, mentre guidavo, che non è facile cercare di ricavare di che vivere dalla terra o dal mare, come facevano molti di quelli del posto. Ma i vigneti si erano rivelati una risorsa insperata. Anzi, alla mia sinistra, mentre attraversavo l'abitato di Peconic, c'erano le vigne e la cantina di maggior successo. I Vigneti Tobin, di proprietà di Fredric Tobin, che avevo incontrato una volta, brevemente, e che era amico dei Gordon. Presi
mentalmente nota di andare a far visita a quel signore per vedere se poteva fare un po' di luce sul caso in questione. Il sole era al di sopra degli alberi, davanti a me verso destra, e il termometro del mio cruscotto segnava 16 gradi centigradi, che per me non significavano niente. Non so come, avevo mandato in tilt il computer, ed ero sul sistema metrico decimale. Mi sembrava che a sedici gradi dovesse far freddo, ma sapevo che non era così. A ogni modo, il sole stava disperdendo la nebbia dal suolo e la sua luce inondava il mio strapagato veicolo sportivo. La strada curvava dolcemente, e i vigneti erano più pittoreschi dei campi di patate che ricordavo da trent'anni prima. Di quando in quando un frutteto o un campo di granoturco impedivano che quelle vigne diventassero monotone. Grandi uccelli si libravano sulle correnti ascensionali d'aria calda mattutina, uccelletti cantavano e trillavano nei campi e tra gli alberi. Tutto al mondo sembrava perfetto, quel mattino, salvo che Tom e Judy erano nell'obitorio della contea, ed era quanto mai possibile che vi fosse un morbo nell'aria, fluttuante a sua volta sulle correnti termiche, trasportato dalla brezza dell'oceano attraverso i campi e i vigneti e poi nel sangue di esseri umani e animali. E tuttavia, ogni cosa sembrava normale, quel mattino, me stesso compreso. Sintonizzai la radio su una stazione di notiziari da New York City e per un poco ascoltai le solite chiacchiere, in attesa che qualcuno dicesse qualcosa riguardo alla misteriosa esplosione di un'epidemia. Ma era troppo presto per questo. Passai sull'unica stazione locale e imbroccai il giornale radio delle sette. L'annunciatore stava dicendo: «Abbiamo parlato per telefono con il Capo Maxwell, stamattina, ed ecco che cosa ci ha detto». Un Max dal tono scontroso risuonò dalle casse dell'autoradio: «Riguardo alla morte dei due residenti di Nassau Point, Tom e Judy Gordon, per noi si tratta di un duplice omicidio a scopo di furto e rapina. Questo non ha niente a che fare con il lavoro che le vittime svolgevano a Plum Island, e vogliamo mettere fine a simili speculazioni. Esortiamo tutti i residenti a stare con gli occhi aperti riguardo alla presenza di estranei e di riferire qualsiasi cosa sospetta alla polizia locale. Non è il caso di diventare paranoici, ma c'è qualcuno che si aggira là fuori armato e che ha commesso due omicidi, furto con scasso e rapina. Perciò dovete prendere alcune precauzioni. Stiamo lavorando di comune accordo con la polizia della contea, e pensiamo di avere alcuni indizi. È tutto quello che ho da dire per il momento. Ci risentiamo più tardi, Don».
«Grazie, Capo», disse Don. Ecco quello che mi piace di questo posto: tutto è quanto mai concreto e alla buona. Spensi la radio. Quello che il Capo Maxwell aveva dimenticato di dire era d'essere diretto a Plum Island, il luogo che non aveva niente a che fare con il duplice omicidio. Aveva anche dimenticato di nominare l'FBI e la CIA. Ammiro un uomo che sa come e quando tenere il pubblico all'oscuro. E se Max invece avesse detto: «Ci sono cinquanta probabilità su cento che i Gordon vendessero virus letali a terroristi che potrebbero anche tramare la distruzione della vita in tutto il Nordamerica?» Questo avrebbe provocato un piccolo terremoto all'apertura della Borsa, per non parlare del fuggi fuggi verso gli aeroporti e dell'improvviso, irrefrenabile desiderio di una vacanza in Sudamerica. Finora, a ogni modo, la mattinata era serena. Alla mia destra vedevo ora un grande campo di zucche, e mi tornavano in mente i weekend autunnali quando, da bambino, correvo come un matto attraverso quei campi per trovare la zucca più grande, più rotonda, più vistosa e più perfetta di tutte. Ricordo che ogni anno nascevano divergenze sulla scelta tra me e il mio fratellino Jimmy, ma si concludevano ben presto con una scazzottata in cui puntualmente avevo la meglio dato che ero molto più grosso di lui. Il piccolo aveva fegato, se non altro. Il villaggio dopo Peconic è Southold, che è anche il nome dell'intero distretto. È più o meno qui che i vigneti terminano, la terra si restringe tra lo Stretto e la baia, e tutto si presenta un po' più selvaggio e spazzato dal vento. I binari della ferrovia di Long Island, che partono dalla Penn Station di Manhattan, correvano per un poco alla mia sinistra paralleli alla strada, poi binari e strada s'incrociavano e tornavano a divergere. Non c'era molto traffico a quell'ora, salvo alcuni veicoli agricoli. Pensai perciò che, se alcuni miei compagni di viaggio per Plum Island erano per strada, forse prima o poi li avrei visti. Entrai nel villaggio di Greenport, principale metropoli della North Fork, con una popolazione, stando al cartello, di 2100 anime. A paragone, l'isola di Manhattan, dove lavoravo, vivevo e avevo rischiato di morire, è più piccola della North Fork e ha due milioni di persone ammucchiate l'una sull'altra. La forza di polizia per cui lavoro è composta di trentamila persone fra uomini e donne, il che la rende più grande dell'intera popolazione del distretto di Southold. Max, come dicevo, ha circa quaranta agenti, se includete me e lui. Il villaggio di Greenport aveva un tempo una sua forza di polizia di una mezza dozzina di agenti, ma erano riusciti a farsi odiare da-
gli abitanti, che ne votarono lo scioglimento. Non credo che possa accadere a New York, ma non sarebbe una cattiva idea. A volte penso che dovrei convincere Max a ingaggiarmi: sapete, famoso pistolero arriva in città dalla capitale, e lo sceriffo locale gli appunta un distintivo sul petto e dice: «Ci serve un uomo della vostra esperienza, addestramento e provato record di arresti», o qualcosa del genere. Voglio dire, sarei un pesce grosso in un piccolo stagno, no? Le donne mi scoccherebbero occhiate e lascerebbero cadere il fazzoletto sul marciapiede, giusto? Per tornare alla realtà, ero affamato. Non esistono in pratica catene di fast food quaggiù, il che fa parte del fascino del luogo, ma è anche una bella rottura. Ci sono, tuttavia, alcuni negozi di generi vari, e fermatomi a uno di quelli alla periferia di Greenport mi procurai caffè e un sandwich chiuso nella plastica, con carne e formaggio di misteriosa provenienza. Giuro che potete mangiare anche l'involucro di polistirolo e non accorgervi della differenza. Agguantai un settimanale gratuito e feci colazione al posto di guida. Il giornale, guarda caso, aveva un articolo su Plum Island. Non è insolito, questo, dato che quelli del luogo pare si interessino molto a quest'isola del mistero ammantata di bruma e via discorrendo. Nel corso degli anni, avevo raccolto la maggior parte delle mie informazioni su Plum da fonti locali. Di tanto in tanto, l'isola faceva notizia su scala nazionale, ma non era esagerato ritenere che nove americani su dieci non l'avessero mai sentita nominare. Il che poteva cambiare da un momento all'altro. L'articolo che ora stavo leggendo aveva a che fare con il morbo di Lyme, un'altra ossessione degli abitanti della Long Island orientale e del vicino Connecticut. Quella malattia, diffusa dalle zecche dei cervi, aveva assunto proporzioni da epidemia. Conoscevo persone affette da Lyme; sebbene raramente letale, poteva rovinarti uno o due anni di vita. A ogni modo, quelli del posto erano convinti che il malanno venisse da Plum Island e fosse un esperimento di guerra batteriologica sfuggito di mano per errore o chissà. Non esagererei se dicessi che a quelli del luogo sarebbe piaciuto vedere Plum Island inabissarsi. Si formò in me un'immagine - simile alla scena di Frankenstein - di agricoltori e pescatori locali armati di forconi e di raffi, le donne brandendo torce, che calavano sull'isola, urlando: «All'inferno i vostri esperimenti scientifici contro natura! Dio ci salvi! Indagine del Congresso!» O qualcosa del genere. Posai il giornale e riaccesi il motore. Convenientemente rifocillato, mi rimisi in viaggio, sempre attento ad avvistare i miei nuovi colleghi. Il borgo successivo era East Marion, sebbene pare non vi sia un'altra
Marion là intorno: c'è, ma in Inghilterra credo, come per un sacco di altre località «East» di Long Island. Southold era un tempo Southwold, dal nome della città inglese da cui provenivano in gran parte i primi colonizzatori, ma la «w» se l'erano persa nell'Atlantico probabilmente. Zia June, che era socia della Peconic Historical Society, usava riempire la mia testolina di tutte queste idiozie, e suppongo che in parte fossero interessanti e che qualcuna rimanesse in mente, ma forse rimaneva in mente in modo un po' distorto. La terra si restringeva ora fino alla larghezza di un viadotto, e c'era acqua su entrambi i lati della strada: lo Stretto di Long Island alla mia sinistra e Orient Harbor alla mia destra. Acqua e cielo pullulavano di anatre, oche del Canada, aironi dal niveo candore e gabbiani, ed ecco perché ho il tettuccio apribile ma non sempre me ne servo. Quegli uccelli, ve lo dico io, mangiano prugne o qualcosa di analogo, poi piombano giù come bombardieri e sanno quando hai il tettuccio aperto. La terra tornò ad allargarsi, attraversai il superpittoresco vecchio villaggio di Orient e, dieci minuti dopo, ero in vista di Orient Point. Oltrepassai l'entrata dell'Orient Beach State Park e cominciai a rallentare. Più avanti, sulla destra, vedevo un pennone da cui la bandiera a stelle e strisce sventolava a mezz'asta. Ne dedussi che la posizione della bandiera avesse a che fare con i Gordon, e di conseguenza il pennone si trovava su proprietà federale, senza dubbio la stazione del traghetto per Plum Island. Potete rendervi conto di come funziona la mente di un grande investigatore, perfino alle sette e qualcosa del mattino e dopo poche ore di sonno. Mi portai sul lato della strada, di fronte a un porticciolo e ristorante, e fermai la macchina. Presi il binocolo dal vano portaoggetti e lo puntai su un grande cartello bianco e nero vicino all'asta della bandiera, una trentina di metri più in là lungo la strada. Il cartello diceva: «Centro Malattie Animali di Plum Island». Non diceva «Benvenuti» e non diceva neppure «Traghetto», ma l'acqua era proprio là, e ne dedussi che era in effetti la stazione marittima. I borghesi ritengono, gli investigatori deducono. Inoltre, per essere sincero, nel corso degli anni avevo oltrepassato quel luogo almeno una decina di volte nel dirigermi al traghetto per New London, che era proprio al di là di quello per Plum Island. Pur senza essermici mai soffermato molto col pensiero, c'era curiosità in me riguardo alla misteriosa Plum Island. Non amo i misteri, ecco perché voglio risolverli. Non mi va, che ci siano cose che non
so. A ogni modo, a destra del pennone e del cartello c'era un edificio di mattoni a un solo piano, con tutta l'aria di un centro amministrativo e di una reception. Dietro e al di là dell'edificio, una vasta area di parcheggio asfaltata che si estendeva fino all'acqua. Il parcheggio era circondato da un'alta rete metallica sormontata da una lamina. Dove il parcheggio terminava presso la baia, c'erano diversi vasti magazzini e capannoni collegati a grandi moli. Alcuni camion erano parcheggiati vicini alle banchine di carico. Ritenni -pardon, ne dedussi - che lì caricassero a bordo gli animali destinati a un viaggio di sola andata a Plum Island. Il parcheggio si estendeva lungo la baia per un centinaio di metri e all'estremità più lontana, attraverso una leggera nebbia, potevo scorgere una trentina di veicoli in sosta vicino agli scali dei traghetti. Persone non se ne vedevano. Posai il binocolo e consultai l'orologio digitale del cruscotto, che faceva le 7 e 29, mentre la temperatura era adesso di 17 gradi. Dovevo assolutamente liberarmi del sistema metrico decimale. Capirete, quel dannato computer mostrava strambe parole francesi, come «kilomètres», «litre», e ogni sorta di altre cose in francese. Non mi azzardavo neppure ad accendere il riscaldamento. Ero in anticipo di mezz'ora per il traghetto in partenza per Plum Island, ma in tempo per quello in arrivo, proprio secondo le mie intenzioni. Come diceva zio Harry quando mi strappava dal letto all'alba: «L'uccello mattiniero trova il verme, Johnny». Al che io rispondevo con una battuta: «Il verme mattiniero finisce mangiato». Ero un bel tipo, sì. Dalla nebbiolina sbucò una nave traghetto bianca e azzurra che prese a scivolare verso lo scalo. Puntai di nuovo il binocolo. Sulla prua c'era un emblema governativo non ben chiaro, probabilmente del ministero dell'Agricoltura, e il nome della nave: Plum Runner. Un nome che alludeva alla velocità ma che, con il suo doppio senso - nave contrabbandiera - rivelava un lieve senso dell'umorismo da parte di qualcuno. Dovevo portarmi più vicino, così ingranai la marcia e mi diressi verso il pennone, il cartello e l'edificio di mattoni. Sulla destra dell'edificio, i cancelli del parcheggio erano aperti, e intorno non si vedevano guardie, così li varcai e mi diressi verso i magazzini. Parcheggiai vicino ad alcuni camion e ad alcuni container, sperando che il mio automezzo non si notasse, là in mezzo. Ero a soli cinquanta metri dai due scali, ora, e attraverso il binoco-
lo osservai il traghetto fare manovra ed entrare di poppa nel più vicino dei due. Il Plum Runner si presentava piuttosto nuovo e lucente, lungo una ventina di metri e con un ponte di coperta sul quale vedevo dei sedili. La poppa urtò il molo, il capitano spense le macchine e un marinaio saltò a terra e assicurò le cime alle bitte. Notai che non c'era nessuno, sulla banchina. Mentre osservavo attraverso il binocolo, un gruppo di uomini uscì dalla cabina dei passeggeri e si portò sul ponte a poppa, per poi sbarcare direttamente nell'area di parcheggio. Ne contai dieci, tutti vestiti con una specie di uniforme azzurra, e se non erano la banda del ministero dell'Agricoltura mandata ad accogliermi, allora erano le guardie di sicurezza notturne che avevano ricevuto il cambio da quelle che avevano preso il ferry delle sette per Plum. Tutt'e dieci le guardie portavano cinturoni, sebbene non vi vedessi nessuna fondina attaccata. Il prossimo a scendere dal traghetto fu un pezzo d'uomo in blazer blu e cravatta, che chiacchierava con le guardie come se le conoscesse, tanto che intuii potesse trattarsi di Paul Stevens, il capo della sicurezza. Scesero poi quattro individui in abiti eleganti, e mi venne fatto di pensare che questo era un poco insolito. Voglio dire, dubito che quei quattro figurini avessero passato la notte sull'isola, perciò c'era da credere che fossero andati là con il traghetto delle sette. Ma questo avrebbe permesso loro di trattenersi soltanto pochi minuti. Di conseguenza, dovevano esserci andati prima, o con una corsa speciale del traghetto, oppure con un motoscafo o un elicottero. E, ultimi ma solo in ordine di tempo a sbarcare dalla nave, indossando indumenti casual, furono i signori George Foster e Ted Nash, cosa che non mi sorprese del tutto. Be', si sa: a letto coi polli, in piedi col gallo, e l'uomo diventa subdolo e fello. Quei figli di buona donna... me l'ero aspettato che mi giocassero un tiro del genere. Mentre io osservavo, Nash, Foster e i quattro figurini conversavano animatamente fra loro, e l'uomo dal blazer blu si teneva rispettosamente in disparte. Potevo capire dal linguaggio del corpo che Ted Nash era il Capo. Gli altri quattro individui erano venuti probabilmente da Washington, e come sapere chi diavolo li aveva mandati? Era tutto molto difficile da dipanare, tra l'FBI, la CIA, il ministero dell'Agricoltura e, senza dubbio, il ministero della Difesa, e chi ancora aveva da dire la sua. Per quanto mi riguardava, erano tutti federali che, a loro volta, pensavano a me - ammesso che lo facessero - come a una fastidiosa emorroide.
A ogni buon conto, posai il binocolo e presi il settimanale e il contenitore del caffè vuoto per l'eventualità di dover giocare a nascondere-la-faccia. Così, lì c'erano tutti quei cervelloni che m'avevano fatto lo scherzetto di alzarsi con l'allodola, e manco si preoccupavano di guardarsi attorno per vedere se erano sotto sorveglianza. Mostravano un disprezzo totale per i piedipiatti di second'ordine, cosa che mi faceva incavolare. L'uomo in blazer blu si rivolse alle dieci guardie, le congedò, e quelle si allontanarono verso le rispettive auto, vi salirono, e partirono, passandomi accanto. Poi Mister Blazer Blu se ne tornò a poppa e scomparve all'interno del traghetto. Infine i quattro figurini presero congedo da Nash e Foster, salirono in una Chevy Caprice nera e avanzarono verso di me. La Caprice arrivata alla mia altezza rallentò, quasi si fermò, poi proseguì, uscendo dai cancelli dai quali io ero entrato. A questo punto, vidi che Nash e Foster avevano notato il mio automezzo, così ingranai la marcia e mossi verso il traghetto come se fossi appena arrivato. Parcheggiai lontano dalla banchina, poi, sorseggiando dal contenitore vuoto, lessi del ritorno del pesce serra, ignorando i signori Nash e Foster, che sostavano presso il traghetto. Verso le otto meno dieci, una vecchia station wagon venne a fermarsi accanto a me, e ne scese Max che indossava jeans, giacca a vento e berretto da pescatore calato ben bene sugli occhi. Abbassai il finestrino e domandai: «È un travestimento, o ti sei vestito al buio?» Aggrottò la fronte. «Secondo Nash e Foster era meglio che non mi facessi vedere ad andare a Plum.» «Ti ho sentito alla radio, stamattina.» «Come ti sono sembrato?» «Niente affatto convincente. Barche, aerei e auto non hanno fatto che partire da Long Island per tutta la mattina. L'intera costa orientale è in preda al panico.» «Vaff...!» «D'accordo.» Spensi il motore e aspettai che la mia Jeep mi dicesse qualcosa, ma forse non avevo combinato pasticci, stavolta. Sfilai la chiave dal cruscotto, e una voce femminile disse: «Votre fenêtre est ouverte». Ora, perché una bella macchina americana dovrebbe dire una cosa del genere? Be', perché quando avevo tentato di far tacere quella stupida voce, ero riuscito non so come a farla parlare francese: quelle auto vengono esportate nel Quebec, il che spiegava anche il sistema metrico decimale. «Votre
fenêtre est ouverte.» «Mangez merde», replicai nel mio miglior francese scolastico, e scesi dall'auto. «Hai qualcuno là dentro?» mi domandò Max. «No.» «Qualcuno stava parlando...» «Non badarci.» Stavo per dire a Max che avevo visto Nash e Foster scendere dal traghetto in arrivo da Plum, ma dato che lui non aveva pensato a portar lì il suo sedere di buon'ora, era chiaro che non meritava di sapere quello che sapevo io. Cominciavano ad arrivare auto e gli esperti pendolari di Plum Island si presentavano sulla banchina qualche frazione di secondo prima che la sirena del traghetto si facesse sentire. Ted Nash gridò a Max e a me: «Ehi, tutti a bordo!» Mi guardai attorno in cerca di Beth Penrose, facendo intanto piccoli commenti misogeni sulle donne sempre in ritardo. «Eccola», disse Max. E in effetti era là e stava allontanandosi da una Ford nera, probabilmente la sua auto della polizia senza contrassegni, che era stata parcheggiata prim'ancora che arrivassi io. Possibile che vi fossero persone al mondo in gamba quanto me? Era da escludere. Gliel'avevo suggerita io, penso, l'idea di arrivare di buon'ora. Max e io c'incamminammo attraverso il parcheggio nebbioso verso la banchina, mentre la sirena del traghetto tornava a farsi sentire. Il detective Penrose si era unito ai signori Nash e Foster, e stavano chiacchierando vicino al traghetto mentre noi ci avvicinavamo. Nash rialzò lo sguardo e fece un gesto impaziente perché ci affrettassimo. Ho ucciso per molto meno. Come Max e io arrivammo sulla banchina, Nash, senza nemmeno un «buongiorno», guardò i miei calzoncini e disse: «Non ha un po' freddo, John?» Che Dio ti fulmini, Ted. Aveva il tono di voce condiscendente che i superiori adottano con gli inferiori, e bisognava immediatamente rimetterlo in riga. Replicai, riferendomi ai suoi stupidi calzoni da golf color rosa: «Quelli si portano con i mutandoni di flanella?» George Foster rise, e Nash diventò del colore dei suoi calzoni. Max finse di non avere udito lo scambio e Beth levò gli occhi al cielo. Foster disse, tardivamente: «Buongiorno. Pronti per imbarcarci?»
Tutti e cinque ci girammo verso il traghetto e, avanzando incontro a noi attraverso il ponte di poppa, c'era il signore dal blazer blu. «Buongiorno», augurò. «Sono Paul Stevens, capo della sicurezza di Plum Island.» La voce suonava come generata da un computer. Mister Calzoni Rosa disse: «E io sono Ted Nash, del ministero dell'Agricoltura». Che cumulo di palle. Non soltanto quei tre buffoni erano appena arrivati insieme da Plum Island, ma Nash stava ancora rifilandoci il concime dell'agricoltura. Stevens aveva in mano un portablocco a molla, e aveva anche l'aria di quelli con portablocco e fischietto: capelli biondi cortissimi, gelidi occhi azzurri, Mister Tutto Zelo, ex atleta, pronto a organizzare un evento sportivo o ad assegnare persone a carri merci, a seconda di quello che occorreva. Beth, tra parentesi, indossava le stesse cose del giorno prima, e ne dedussi che non aveva affatto previsto di dover passare la notte qui quando le era arrivato lo «squittio», come diciamo in gergo noi, il che potrebbe essere appropriato in questo caso... Insomma: trattandosi di un centro malattie animali, peste suina, isola a forma di braciola di maiale... Stevens, con un'occhiata al suo blocco, disse a Max: «E lei è George Foster?» «No, io sono il Capo Maxwell.» «Giusto», approvò Stevens. «Benvenuto.» Mi rivolsi a Stevens. «Io sono Beth Penrose.» E lui: «No, lei è John Corey». «Giusto. Posso salire a bordo, ora?» «No, signore. Non prima che sia stato completato il check in.» Guardò Beth e disse: «Buongiorno, detective Penrose», poi George Foster e disse: «Buongiorno... signor Foster dell'FBI, esatto?» «Esatto.» «Benvenuti a bordo. Mi seguano, prego.» Ci imbarcammo sul Plum Runner e, tempo un minuto, avevamo levato gli ormeggi ed eravamo in viaggio verso Plum Island o, come a volte la chiamavano i giornali scandalistici, l'Isola del Mistero, o in modo meno responsabile, l'Isola della Peste. Seguimmo il signor Stevens in una vasta e accogliente cabina tutta pannelli di legno dove una trentina fra uomini e donne sedevano su poltrone imbottite tipo aereo, chiacchierando, leggendo o sonnecchiando. Sembrava
che vi fosse posto a sedere per almeno un centinaio di persone, e intuii che la corsa successiva avrebbe trasportato la maggioranza di quelli che lavoravano a Plum. Non ci sedemmo con i passeggeri ma seguimmo Stevens giù per una rampa di scalini e in una stanzetta che serviva in apparenza da sala nautica o da quadrato ufficiali. Nel centro c'era un tavolo rotondo e una caraffa di caffè. Stevens offrì posto a sedere e caffè, ma nessuno voleva né l'uno né l'altro. Mancava l'aria, lì sotto coperta, e il rumore delle macchine riempiva l'ambiente. Stevens tolse alcune scartoffie dal suo portablocco e diede a ciascuno di noi un singolo foglio con una copia carbone attaccata. «Questo», disse, «è un atto di rinuncia che siete tenuti a firmare prima di sbarcare su Plum Island. So che siete tutti funzionari di polizia, ma le regole sono regole.» Poi aggiunse: «Leggete, per favore, e firmate». Guardai il modulo che portava l'intestazione «Dichiarazione giurata del visitatore». Era uno di quei rari scartafacci governativi che venivano scritti in un linguaggio semplice. In sostanza, acconsentivo a rimanere col gruppo e a tenerci per mano, e a essere costantemente accompagnato da un impiegato dell'isola. Acconsentivo anche ad attenermi a tutte le norme di sicurezza, promettevo inoltre che avrei evitato di avere contatti con animali, dopo avere lasciato l'isola, per sette giorni almeno, e mi impegnavo a non avere a che fare con bovini, pecore, capre, maiali, cavalli, e così via, né a visitare una fattoria, un giardino zoologico, un circo e nemmeno un parco: in più a stare alla larga da stalle, recinti, laboratori per animali, conservifici, zoo, allevamenti e mostre di animali, quali per esempio le fiere. Però! Questo limitava realmente la mia vita sociale per i prossimi sette giorni. L'ultimo paragrafo era interessante e diceva: Nel caso di un'emergenza, il direttore del Centro o funzionario di sicurezza potrà trattenere il visitatore su Plum Island durante l'adempimento delle necessarie misure precauzionali di sicurezza biologica. Indumenti personali e altri oggetti potranno essere temporaneamente trattenuti sull'isola per essere decontaminati e indumenti sostitutivi forniti affinché il visitatore possa lasciare l'isola una volta completata una doccia di decontaminazione. Gli effetti personali trattenuti saranno restituiti nel più breve tempo possibile.
E per aumentare il godimento della mia visita, acconsentivo a qualsiasi quarantena e detenzione necessaria. Mi rivolsi a Stevens: «Ho idea che questo non sia il traghetto per il Connecticut». «No, signore, non lo è.» L'efficiente signor Stevens distribuì alcune penne governative, noi posammo i moduli sul tavolo e, ancora in piedi, vi scarabocchiammo alla meglio le nostre firme. Stevens raccolse i moduli, lasciando a noi le copie carbone come souvenir. Stevens distribuì poi dei pass azzurrini con relativa pinzetta, che noi rispettosamente ci attaccammo agli abiti. «Qualcuno di voi è armato?» ci domandò. «Ritengo che lo siamo tutti», replicai io, «ma lei farebbe cosa saggia a non chiedere le nostre pistole.» Stevens mi fissò e ribatté: «È esattamente quello che sto per fare. Le armi da fuoco sono assolutamente proibite sull'isola». Poi aggiunse: «Ho qui una cassetta di sicurezza dove le vostre pistole saranno al sicuro». «La mia pistola è al sicuro dov'è ora», dichiarai. Max aggiunse: «Plum Island è sotto la giurisdizione della città di Southold. Io rappresento la legge su Plum Island». Stevens rifletté per un lungo istante, poi disse: «Immagino che la proibizione non si applichi alle forze di polizia». «Può esserne sicuro», disse Beth. Stevens, visto vanificato il suo giochetto di potere, accettò la sconfitta con grazia e sorrise. Ma era il genere di sorriso che, nei film, il perfido nemico ostenta prima di dire: «Lei ha vinto questo scontro, signore, ma ci rivedremo, gliel'assicuro». Battere di tacchi, dietrofront, uscita a passi concitati. Ma il signor Stevens era costretto a stare con noi, per il momento, e disse invece: «Perché non saliamo in coperta?» Seguimmo il nostro ospite su per gli scalini, attraverso la cabina e all'esterno, verso un'altra rampa che portava a un bel ponte sopra la cabina. Non c'era nessun altro, lassù. Stevens indicò un gruppo di sedili. Il traghetto stava facendo circa quindici miglia l'ora, che credo siano circa duecento nodi. Forse qualcosina meno. Tirava un po' di vento, là sopra, ma c'era anche più silenzio, lontano dalle macchine. La nebbia stava dissolvendosi e d'improvviso ci ritrovammo in pieno sole. Potevo vedere nell'interno del ponte di comando chiuso da vetri, dove il
capitano stava al volante, pardon timone, parlando con il suo secondo. Dalla poppa sottostante sventolava una bandiera americana, che sbatteva nel vento. Sedevo rivolto verso prua, con Beth alla mia destra, Max alla mia sinistra, Stevens di fronte a me, e Nash e Foster ai suoi lati. Stevens osservò: «I biologi che lavorano in biocontenimento viaggiano sempre quassù, a meno che il tempo non sia proprio pessimo. Capirete, non vedono il sole per otto o dieci ore». Poi aggiunse: «Ho chiesto che potessimo avere una certa privacy, questa mattina». Alla mia sinistra, vedevo il faro di Orient Point, che non è una delle antiquate torri di pietra costruite su un promontorio, ma una moderna struttura d'acciaio costruita sulle rocce. Lo chiamano «La Caffettiera» perché si suppone che le somigli, ma a me non sembra. Sapete, i marinai scambiano le vacche marine per sirene, le focene per serpenti di mare, le nuvole per vascelli fantasma, e così via. Se passi abbastanza tempo sul mare, un po' matto lo diventi, penso io. Guardai Stevens e i nostri sguardi si incontrarono. Quell'uomo aveva davvero una di quelle rare, indimenticabili facce di cera. Intendo dire, niente si muoveva salvo la bocca, e gli occhi ri trapanavano addirittura. Poi Stevens si rivolse ai suoi ospiti, e disse: «Bene, lasciatemi cominciare col dire che conoscevo Tom e Judy Gordon. Erano ben considerati da tutti, a Plum: personale, biologi, addetti agli animali, tecnici di laboratorio, addetti alla manutenzione, quelli della sicurezza... Trattavano tutti i loro colleghi con cortesia e rispetto». La sua bocca accennò una sorta di strano sorriso. «Ne sentiremo proprio la mancanza.» Mi nacque d'improvviso il sospetto che quell'uomo potesse essere un assassino governativo. Sì. E se fosse stato il governo a far eliminare Tom e Judy? Cristo, solo ora mi veniva in mente che forse i Gordon avevano saputo o visto qualcosa, o che stessero per denunciare qualcosa... Come avrebbe detto il mio compagno, Dom Fanelli: «Mamma mia!» Era una possibilità completamente nuova, quella. Guardai Paul Stevens e tentai di leggere qualcosa in quegli occhi di ghiaccio, ma aveva l'autocontrollo di un attore, come aveva dimostrato sulla passerella. Stevens intanto continuava: «Non appena ho saputo della loro morte, ieri sera, ho telefonato al mio sergente della sicurezza per vedere di stabilire se mancava qualcosa dai laboratori: non che sospetterei i Gordon di una cosa del genere, ma il modo in cui l'uccisione mi era stata riferita... be', abbiamo procedure operative standard, qui».
Guardai Beth e i nostri sguardi si incontrarono. Non avevo avuto modo di dirle una parola, quel mattino, così le feci l'occhiolino. Evidentemente non poteva fidarsi delle sue emozioni, e subito distolse lo sguardo. Stevens continuò: «Mi sono fatto portare a Plum stamattina presto da una delle mie barche di pattuglia, e ho condotto un'indagine preliminare. Per quanto posso determinare fino a questo momento, non manca niente da nessuno dei microrganismi o dei campioni immagazzinati di tessuti, sangue, o altro materiale organico o biologico». Quella dichiarazione era un autoincensamento così palesemente idiota che nessuno si prese neppure il disturbo di riderne. Ma Max mi lanciò un'occhiata e scosse la testa. I signori Nash e Foster, tuttavia, assentivano come se stessero bevendosi le panzane di Stevens. Così incoraggiato, il signor Paul Stevens, consapevole di trovarsi tra dipendenti governativi suoi colleghi e amici, continuò a snocciolare la serie di bugie ufficiali. Potete ben figurarvi quante palle devo ascoltare nella mia vita professionale: sospetti, testimoni, informatori, e perfino la mia stessa gente, tipo alti funzionari, subalterni incompetenti e così via. Palle di grosso e piccolo calibro, le prime una rozza e aggressiva distorsione della verità, le altre un campionario di bugie più miti e passive. Ed è sempre così nel lavoro di polizia. Palle di grosso e piccolo calibro. Nessuno ti dice mai tutta la verità. Specialmente se stai tentando di mandarli sulla sedia elettrica, o cos'altro si usa al giorno d'oggi. Ascoltavo intanto il signor Paul Stevens, che spiegava perché nessuno potesse portar via un singolo virus o batterio dall'isola, nemmeno un caso di prurito anale, se dovevamo credere a Pinocchio Stevens. Mi afferrai l'orecchio destro e lo piegai, che è il modo in cui mi isolo dagli idioti. Con la voce di Stevens ora attutita, mi misi a contemplare la bellezza della mattinata. Il traghetto per New London stava tornando, e ci oltrepassò al largo a sinistra, e si dice così, mentre guai a dire a destra, si dice a dritta. Il miglio e mezzo d'acqua tra Orient Point e Plum Island viene chiamato canale di Plum, altro termine nautico. Ci sono un sacco di termini nautici, qui, e a volte mi fanno venire il mal di testa. Dico io, che bisogno c'è di chiamare cima una fune? A ogni modo, so che il Canale è un posto dove le correnti diventano pericolose perché vi si scontrano, diremo così, lo Stretto di Long Island e l'Atlantico aperto. Ero con i Gordon una volta, sul loro motoscafo, quando proprio lì ci trovammo in una situazione in cui il vento, la marea e le correnti si avventavano tutti contro l'imbarcazione. Proprio non ci terrei a pas-
sare un'altra giornata come quella sul mare, non so se mi capite. Ma quel giorno tutto andava bene, il Canale era calmo e l'imbarcazione era grande. Si ballava un pochino, ma ho idea che questo non si possa evitare sull'acqua, che è fondamentalmente liquida e non ti dà lo stesso affidamento che ti dà l'asfalto. Bene, la vista era bella da lì e, mentre l'amico Stevens continuava a blaterare, io osservavo volteggiare un falco pescatore. Sono uccelli strani, quelli, intendo dire completamente pazzi. Lo guardavo volare in circolo, in cerca della colazione, ed ecco che l'avvistò, e si lanciò nel suo folle tuffo da kamikaze, urlando come se le palle gli andassero a fuoco, poi toccò l'acqua, spari, infine schizzò fuori e verso l'alto come se avesse un razzo su per il sedere. Tra i suoi artigli c'era un argenteo pesce che fino a un istante prima stava nuotando tranquillamente, laggiù, mangiucchiando altri pesciolini e, whoosh, si ritrovava in volo, sul punto di scivolare giù per il gargarozzo di quell'uccellaccio. Voglio dire, magari il povero pesce ha una moglie, dei figli, esce per fare un po' di colazione e, prima che possa batter ciglio, è lui la colazione di qualcuno. La sopravvivenza dei più forti e via discorrendo. Orribile. In tutti i sensi. Eravamo a circa un quarto di miglio da Plum Island quando un rumore strano ma familiare attirò la nostra attenzione. Poi, lo vedemmo: un grande elicottero bianco con i contrassegni rossi della Guardia costiera ci oltrepassò a dritta. Procedeva basso e lento, e dall'interno si spenzolava un uomo, assicurato con cinghie o chissà. L'uomo indossava un'uniforme, un casco con radio, e imbracciava un fucile. Paul Stevens commentò: «È la pattuglia dei cervi». Poi spiegò: «Come misura puramente precauzionale, sorvegliamo che qualche cervo non possa andare a nuoto a Plum Island o tornarne». Nessuno parlò. Il signor Stevens ritenne di dover ampliare il concetto. «I cervi sono nuotatori incredibilmente forti, ed è risaputo che sono andati a Plum da Orient Point e perfino da Gardiners Island, e da Shelter Island, che dista ben sette miglia. Così li scoraggiamo dall'insediarsi o perfino dal visitare Plum Island.» «A meno», feci notare, «che non firmino il modulo.» Il signor Stevens sorrise di nuovo. Gli ero simpatico. Anche i Gordon gli erano simpatici, e guardate che fine avevano fatto. «Perché scoraggiate i cervi dal nuotare fino all'isola?» gli domandò Beth.
«Be'... abbiamo quella che viene chiamata la politica del "Mai lasciar l'isola". Vale a dire, qualsiasi cosa arrivi sull'isola può non venirne mai via a meno che non sia stata decontaminata. Questo comprende noi, quando più tardi ne verremo via. Oggetti grandi che non possono essere decontaminati, come auto, camion, attrezzature di laboratorio, macerie di costruzioni, spazzatura e così via, non lasciano mai l'isola.» Di nuovo, nessuno fiatò. Stevens, rendendosi conto d'avere spaventato i turisti, precisò: «Con questo non voglio insinuare che l'isola sia contaminata». «Quasi c'ero cascato», confessai. «Be', dovrei spiegare... ci sono cinque livelli di biorischio, sull'isola, o per meglio dire, cinque zone. Il Livello Uno o Zona Uno è l'aria dell'ambiente, vale a dire tutti i luoghi all'esterno dei laboratori di biocontenimento, che è sicura. La Zona Due comprende l'area delle docce tra gli spogliatoi e i laboratori e anche alcuni luoghi di lavoro a basso contagio. Quella la vedrete in seguito. Il Livello Tre è formato dai laboratori di biocontenimento dove si lavora con le malattie infettive. Il Livello Quattro resta più all'interno dell'edificio e include i recinti dove vengono tenuti gli animali malati, e dove inoltre si trovano gli inceneritori e le sale di dissezione.» Guardò ciascuno di noi per vedere se aveva la nostra attenzione, cosa che indubbiamente aveva, e continuò: «Recentemente, abbiamo aggiunto una capacità di Livello Cinque, che sarebbe il livello di massimo biocontenimento. Non ci sono molte attrezzature di Livello Cinque, al mondo. L'abbiamo aggiunta perché alcuni degli organismi che ricevevamo da luoghi come l'Africa e la giungla amazzonica erano più virulenti di quanto si sospettava». Tornò a guardare ciascuno di noi e disse, quasi sottovoce: «In altre parole, ricevevamo campioni di sangue e di tessuti infettati da Ebola». «Penso che ora possiamo tornare indietro», dissi. Tutti sorrisero e cercarono di ridere. Ah, ah. Non era divertente. Paul Stevens continuò. «Il nuovo laboratorio è dotato di un'attrezzatura che risponde alle più attuali norme di isolamento, ma c'era un'epoca in cui avevamo soltanto la vecchia struttura postbellica, e quella, purtroppo, non era altrettanto sicura. Così, a quel tempo, avevamo adottato la politica del "Mai lasciare l'isola" come precauzione contro il diffondersi dell'infezione sul continente. Ufficialmente, quella politica è ancora in vigore, ma alquanto rilassata. Tuttavia, non amiamo che cose e persone viaggino troppo liberamente fra l'isola e la terraferma senza venire decontaminate. Questo,
naturalmente, comprende i cervi.» «Ma perché?» tornò a domandare Beth. «Perché? Perché potrebbero contrarre qualcosa sull'isola.» «Per esempio?» domandai io. «Una brutta abitudine?» Paul Stevens sorrise e replicò: «O magari un brutto raffreddore». «Li uccidete i cervi?» domandò Beth. «Sì.» Nessuno parlò per un lungo istante, poi io domandai: «E gli uccelli, allora?» Stevens assentì e rispose: «Gli uccelli potrebbero costituire un problema». Posi la domanda che seguiva di conseguenza. «E le zanzare?» «Oh, sì, le zanzare potrebbero rappresentare un problema. Ma tenete presente che tutti gli animali da laboratorio sono tenuti al chiuso, e tutti gli esperimenti vengono condotti in laboratori di biocontenimento a pressione inferiore a quella atmosferica. Non può sfuggire niente.» «Come lo sa?» domandò Max. «Perché lei è ancora vivo», rispose Paul Stevens. Su quella nota ottimistica, mentre Sylvester Maxwell contemplava l'essere paragonato a un canarino in una miniera di carbone, Stevens raccomandò: «Una volta sbarcati, restate per favore sempre con me». Ehi, Paul, o restiamo con te o io non sbarco. 8 Mentre ci avvicinavamo all'isola, il Plum Runner rallentò. Mi alzai, mi diressi a sinistra e mi appoggiai al parapetto. Alla mia sinistra, apparve il vecchio faro in pietra di Plum Island, e lo riconobbi perché era uno dei soggetti preferiti dai cattivi acquarellisti dei dintorni. Alla destra del faro, quasi giù a riva, c'era un grande cartello delle dimensioni di un tabellone che diceva: «ATTENZIONE! ATTRAVERSAMENTO DI CAVI! VIETATA LA PESCA A STRASCICO! VIETATO IL DRAGAGGIO!» Così, se i terroristi erano interessati a interrompere l'energia elettrica e le comunicazioni con Plum Island, le autorità avevano dato loro un piccolo suggerimento. D'altro canto, per essere giusti, c'era da credere che Plum avesse i propri generatori di emergenza nonché telefoni cellulari e radio. A ogni modo, il Plum Runner scivolò attraverso lo stretto canale e in una piccola insenatura che sembrava artificiale, come se fosse stata posta in es-
sere non dall'Onnipotente, bensì dal Corpo Genieri dell'Esercito, che amava dare gli ultimi ritocchi alla Creazione. Non c'erano molti edifici attorno all'insenatura, soltanto alcune strutture in lamiera tipo magazzini, rimasti probabilmente dal tempo dei militari. Beth venne a mettersi accanto a me e disse sottovoce: «Prima che lei arrivasse al traghetto, ho visto...» «Ero là. Ho visto. Grazie.» Il traghetto fece manovra ed entrò di poppa nello scalo. I miei colleglli erano tutti al parapetto, ora, e Stevens disse: «Aspettiamo che sbarchino gli impiegati». «È un porto artificiale, questo?» gli domandai. «Sì», mi rispose. «Lo costruì l'Esercito quando qui vennero installate le batterie d'artiglieria prima della Guerra Ispanoamericana.» «Converrebbe eliminarlo, forse, quel cartello sull'attraversamento dei cavi.» «Non abbiamo altra scelta», replicò. «Dobbiamo lasciare che le imbarcazioni sappiano. Del resto, c'è sulle carte nautiche.» «Ma potrebbe dire "Rifornimento idrico". Non occorre far sapere proprio tutto.» «È vero.» Mi lanciò un'occhiata e stava per dire qualcosa, ma non lo fece. Forse voleva offrirmi un impiego. Gli ultimi dipendenti sbarcarono, e noi scendemmo le scale e lasciammo il traghetto attraverso l'apertura nel parapetto di poppa. Ed ecco che eravamo sulla misteriosa isola di Plum. Era ventilato, soleggiato e fresco, là sulla banchina. Anatre si dondolavano lungo la costa, ed ero lieto di vedere che non avevano zanne, lampeggianti occhi rossi o altro. Come dicevo, l'isola è a forma di braciola di maiale - di maialino, forse e l'insenatura è l'estremità grassoccia della braciola, come se qualcuno avesse dato un piccolo morso alla carne, per insistere nello stupido paragone. C'era soltanto una barca ormeggiata alla banchina, un cabinato di circa nove metri con un riflettore e un motore entrobordo. Il nome di quell'imbarcazione era Prune, la prugna. Qualcuno si era divertito a dare i nomi al traghetto e a quella barca, e non pensavo fosse stato Paul Stevens, la cui idea di umorismo nautico era probabilmente osservare navi ospedale venire silurate da sottomarini tedeschi. Notai un cartello di legno sbiadito dalle intemperie che diceva: «Centro Malattie Animali di Plum Island». Al di là del cartello c'era un pennone, e
vidi che anche là la bandiera americana era a mezz'asta. «Rimanete qui, per favore», disse Stevens, e si allontanò a grandi passi, per poi fermarsi a parlare con un uomo in tuta da lancio arancione. C'era un che di inquietante in quel luogo: gente in tuta da lancio arancione, uniformi azzurre, autobus bianchi, e quel continuo «rimanete qui» e «restate tutti insieme». Voglio dire, ero lì su quell'isola vietata al pubblico, con quella specie di SS, un elicottero armato che ci girava sopra la testa, guardie armate dappertutto e la netta sensazione d'essere capitato non si sa come in un film di James Bond, salvo che quello era un luogo reale. Mi rivolsi a Max. «Quando incontriamo il dottor No?» Max rise, e perfino Beth e i signori Nash e Foster sorrisero. «Ora che ci penso», domandò Beth a Max, «come mai non avevi mai incontrato Paul Stevens?» «Ogni volta che c'era una riunione congiunta di forze di polizia e agenzie governative, invitavamo per cortesia anche il direttore della sicurezza di Plum Island. Nessuno di loro si è mai fatto vivo. Una volta ho parlato con Stevens per telefono, ma non lo avevo mai visto fino a questa mattina.» «A proposito, detective Corey», disse Ted Nash rivolto a me, «ho scoperto che lei non è un investigatore della Contea di Suffolk.» «Non ho mai detto d'esserlo.» «Oh, andiamo. Lei e il Capo Maxwell avevate indotto me e George a crederlo.» «Il detective Corey», disse Max, «è stato assunto dalla città di Southold come consulente per questo caso.» «Davvero?» domandò Nash. Mi guardò e disse: «Lei è un investigatore della Omicidi di New York City, rimasto ferito il dodici aprile mentre era in servizio. Al momento è in permesso per convalescenza». «Chi glielo ha chiesto?» Foster, l'eterno paciere, interloquì. «Per noi va benissimo, John. Vogliamo solo stabilire le credenziali e le giurisdizioni.» Beth si rivolse ai signori Nash e Foster. «Allora, questa è la mia giurisdizione, il caso è mio, e per me non è affatto un problema che John Corey sia qui.» «Bene», disse Foster. Nash non lo assecondò, inducendomi a credere che per lui fosse un problema, il che andava altrettanto bene. Beth guardò Ted Nash e domandò: «Ora che sappiamo per chi lavora
John Corey, lei per chi lavora?» Nash lasciò trascorrere una pausa, poi disse: «Per la CIA». «Grazie.» Lei guardò Foster e Nash e li informò: «Se mai uno di voi visitasse di nuovo la scena del crimine senza registrarsi, avvertirò il procuratore distrettuale. Seguirete tutte le procedure, proprio come deve fare il resto di noi, capito?» Assentirono. Naturalmente non intendevano farlo. Paul Stevens ritornò e disse: «Il direttore non è disponibile, al momento. Dal Capo Maxwell ho saputo che ci terreste a vedere parte dell'isola, perciò possiamo portarvi a fare un giro. Se volete seguirmi...» «Aspetti», dissi, indicando il Prune. «È vostra quella?» «Sì. È una barca di pattuglia.» «Non sta pattugliando.» «Ne abbiamo un'altra fuori, al momento.» «È qui che i Gordon ormeggiavano il loro motoscafo?» «Sì. Bene, se vogliono seguirmi...» «Avete veicoli di pattuglia in giro per l'isola?» Era evidente che non gli piaceva essere interrogato, ma rispose: «Sì, abbiamo veicoli di pattuglia in giro per l'isola». Mi fissò e domandò con impazienza: «Altre domande, detective Corey?» «Sì. È normale che un dipendente usi la propria barca per venire al lavoro?» Lasciò passare un secondo o due, poi replicò: «Quando la politica del "Mai lasciare l'isola" veniva applicata rigorosamente, era proibito. Ora abbiamo allentato un po' le regole, così abbiamo talvolta dipendenti che vengono con la loro barca al lavoro. Specie d'estate». «Aveva autorizzato lei i Gordon a servirsi del loro motoscafo?» «I Gordon», rispose, «appartenevano al personale di grado più elevato ed erano biologi coscienziosi. Finché praticavano buone tecniche di decontaminazione e osservavano i regolamenti e le procedure igieniche e di sicurezza, non avevo niente in contrario a che si servissero del loro motoscafo.» «Capisco. Le è mai venuto in mente», volli sapere, «che i Gordon potessero usare la loro barca per portar fuori di contrabbando dall'isola organismi letali?» Rifletté per un secondo o due, poi rispose in modo indiretto: «Questo è un luogo di lavoro, non una prigione. Il mio scopo principale, qui, è tenere alla larga persone non autorizzate. Ci fidiamo del nostro personale ma, tan-
to per essere più sicuri, tutti i nostri dipendenti sono passati attraverso controlli eseguiti dall'FBI». Il signor Stevens guardò l'orologio. «Dobbiamo attenerci al programma fissato. Mi seguano.» Seguimmo il nervosissimo signor Stevens fino a un minibus bianco e vi salimmo. Il conducente portava la stessa divisa azzurra delle guardie di sicurezza e, in effetti, notai che aveva tanto di fondina e pistola. Sedetti dietro l'autista e battei sul sedile accanto al mio per invitarvi Beth, ma dovette sfuggirle il mio gesto perché si limitò a occupare il sedile doppio dall'altro lato del corridoio. Max si mise dietro di me e i signori Nash e Foster in posti separati più in fondo. Stevens rimase in piedi e disse: «Prima di visitare le attrezzature principali, vi porteremo a fare un giro dell'isola affinché possiate farvi un'idea del posto e meglio valutare la difficoltà di rendere inaccessibile un'isola grande come questa, con una quindicina di chilometri di spiaggia e niente recinzioni.» Poi soggiunse: «Non c'è mai stata una violazione della sicurezza nella storia dell'isola». «Che specie di armi sono», domandai a Stevens, «quelle che vedo nelle fondine delle vostre guardie?» «Le pistole», rispose, «sono Colt 45 automatiche in dotazione all'Esercito.» Si guardò attorno, poi domandò: «Ho detto qualcosa di interessante?» Max lo informò. «Pensiamo che l'arma del delitto fosse una calibro 45.» «Vorrei fare un inventario di tutte le vostre armi», disse Beth, «e sottoporre ciascuna a un test balistico.» Paul Stevens reagì con ben poco entusiasmo. «Quante pistole calibro 45 avete, qui?» domandò Beth. «Venti», disse lui. «Ne ha una con sé, lei?» s'informò Max. Stevens si batté sulla giacca e assentì. «Porta sempre la stessa?» domandò Beth. «No.» Poi precisò: «Ne prendo una dall'Armeria ogni giorno della settimana». Guardò Beth e osservò: «Ho l'impressione che questo sia un interrogatorio». «No», replicò Beth, «le vengono solo rivolte domande come teste amichevole. Se venisse davvero interrogato, se ne accorgerebbe.» Nash, dietro di noi, disse: «Forse dovremmo lasciare che il signor Stevens segua il suo ordine del giorno. Avremo tempo di interrogarle in seguito, le persone». «Proceda pure», disse Beth.
Il signor Stevens, ancora in piedi, disse: «Bene. Prima che ci mettiamo in moto, vi terrò il discorsetto che riservo agli scienziati in visita, ai dignitari e alla stampa». Diede un'occhiata al suo stupido portablocco, poi attaccò meccanicamente: «Plum Island comprende 840 acri in massima parte di foresta e per il resto a pascolo, e una piazza d'armi che vedremo in seguito. L'isola è nominata nei giornali di bordo dei primi marinai inglesi e olandesi. Gli olandesi la chiamarono così dal prugno che cresce lungo la riva: Pruym Eyland in olandese antico, se a qualcuno interessa. L'isola apparteneva alla tribù degli indiani Montauk, e venne acquistata da un tale di nome Samuel Wyllys nel 1654 dal Capo Wyandanch. Wyllys e altri colonizzatori dopo di lui usavano l'isola per pascolare pecore e bovini, una vera ironia se si considera lo scopo al quale viene usata ora». Sbadigliai. «A ogni modo», continuò Stevens, «non c'erano colonizzatori residenti su quest'isola. Perciò, vi domanderete, come potevano pascolare il bestiame su un'isola che era disabitata? Secondo i documenti dell'epoca, il Canale tra Orient e Plum era così poco profondo, nel Seicento e nel Settecento, che il bestiame poteva attraversarlo con la bassa marea. Un uragano verso la fine del Settecento lo rese più profondo e questo mise fine all'utilità dell'isola come pascolo. Tuttavia, dall'inizio della presenza inglese, l'isola venne visitata da una successione di pirati e corsari che trovavano quanto mai comodo il suo isolamento.» Sentivo che stavo per essere assalito da un improvviso attacco di panico. Ero intrappolato in quel piccolo autobus con quel monotono, monocromatico idiota che stava cominciando dalla Genesi, eravamo sì e no al 1700, suppergiù, con tre secoli da far passare, quel dannato autobus non si era neppure messo in moto e io non potevo andarmene a meno di non aprirmi la strada sparando. Che cosa avevo fatto per meritarmelo? Zia June stava guardandomi dal cielo e ridendosela a più non posso. Mi pareva di sentirla. «Allora, Johnny, se sai ripetermi quello che ho detto ieri sugli indiani Montauk, ti comprerò un bel cono di gelato. «No, no, no! Basta!» Stevens continuò: «Durante la Rivoluzione, i patrioti americani del Connecticut usavano l'isola per effettuare incursioni contro le roccaforti dei lealisti di Southold. Poi, George Washington, che aveva visitato la North Fork...» Mi misi le mani sulle orecchie, ma potevo ancora udire un fioco ronzio. Alla fine, alzai la mano e gli domandai: «È membro della Peconic Historical Society, lei?»
«No, ma mi hanno aiutato loro a compilare questa breve storia.» «Non c'è, che so, un opuscolo o qualcosa che possiamo leggere in seguito, così lei può risparmiare tutto questo per i politici?» «Io trovo che è affascinante», disse Beth Penrose. I signori Nash e Foster l'assecondarono a mormorii. Max rise e disse: «Sei stato messo in minoranza, John». Stevens mi sorrise di nuovo. Perché pensai che volesse estrarre la sua calibro 45 e vuotarmi addosso il caricatore? «Mi sopporti, detective», disse. «Tanto, dobbiamo ammazzare un poco il tempo.» Continuò, ma notai che affrettava un po' le parole: «Così, alla vigilia della Guerra Ispanoamericana, il governo acquistò 130 acri dell'isola per le difese costiere, e venne creato Fort Terry, ormai abbandonato. Poi vedremo anche quello». Lanciai un'occhiata a Beth e vidi che stava fissando intenta Paul Stevens, apparentemente assorta nella narrazione. Mentre osservavo Beth Penrose fissare Paul Stevens, lei si girò verso di me, e i nostri sguardi s'incontrarono. Parve imbarazzata che l'avessi sorpresa a guardarmi, accennò un sorriso e tornò a fissare Stevens. Il mio cuore perse un battito. Mi ero innamorato. Di nuovo. Il signor Stevens stava continuando: «Dovrei far notare che ci sono più di trecento anni di manufatti storici qui sull'isola e che, se non fosse che l'accesso è limitato, vi sarebbe un buon numero di archeologi a scavare in siti che sono per la maggior parte intatti. Al momento stiamo trattando con la Peconic Historical Society per vedere se possiamo accordarci in qualche modo riguardo a uno scavo sperimentale. Anzi», aggiunse, «i Gordon erano iscritti alla Peconic Historical Society, e facevano da tramite fra il ministero dell'Agricoltura, l'associazione storica e alcuni archeologi dell'Università di Stato di Stony Brook. I Gordon e io avevamo identificato alcuni buoni siri di cui eravamo certi che non potessero interferire con l'incolumità e la sicurezza né comprometterle». All'improvviso, il mio interesse si destò. A volte in un'indagine viene a galla una parola, o una frase, o un nome, e poi ecco che riaffiora, e diventa qualcosa su cui riflettere. Così era per la Peconic Historical Society. Mi spiego, mia zia ne faceva parte, e si vedono dappertutto volantini o bollettini di quei signori, che organizzano cocktail party, raccolte di fondi, conferenze e cose del genere, e tutto è molto normale. Poi i Gordon, che non distinguono Plymouth Rock da uno scotch on the rocks, entrano a farne parte, e ora Oberführer Stevens vi faceva cenno nella sua tiritera. Interessante.
Il signor Stevens continuava a sproloquiare. «Nel 1929, negli Stati Uniti vi fu una spaventosa epidemia di afta epizootica, e il ministero dell'Agricoltura aprì la sua prima stazione sull'isola. Comincia così la storia moderna dell'isola rispetto alla sua attuale missione. Qualche domanda?» Avevo alcune domande sui Gordon che curiosavano attorno all'isola, lontano dal laboratorio, dove erano tenuti a svolgere il loro lavoro. Erano persone intelligenti, conclusi. Il motoscafo, poi la Peconic Historical Society, infine il pretesto degli scavi archeologici in modo da poter perlustrare l'isola. Era possibile che non ci fosse relazione fra queste cose, che fosse tutta una coincidenza. Ma io non credo nelle coincidenze. Non credo accada spesso che biologi sottopagati del Midwest si facciano coinvolgere dall'hobby di un costoso motoscafo, dall'archeologia e dalle associazioni storiche. Quelle non erano cose compatibili con le risorse, le personalità, i temperamenti o i passati interessi di Tom e Judy Gordon. Sfortunatamente, le domande che avevo per il signor Stevens non si potevano porre senza rivelare più di quanto era probabile che ottenessi. Stevens continuava a parlare del ministero dell'Agricoltura e io potevo tranquillamente isolarmi e improvvisare un po' per conto mio. Mi rendevo conto che prima di accennare all'interesse archeologico dei Gordon, aveva detto qualcos'altro che aveva avuto una risonanza nel mio cervello. Mi spiego, pensate a un'onda sonar che si muova attraverso l'acqua: l'onda urta in qualcosa e rimanda un «ping» agli auricolari. Ping. Qualcosa che Stevens aveva detto era risonato, ma in quel momento, reso assente com'ero dalla noia, m'era sfuggito. Ora avrei voluto tornare indietro, ma non potevo ricordare che cosa avesse causato il ping. Stevens annunciò: «Bene, ora gireremo un poco per l'isola». L'autista si scosse e ingranò la marcia del minibus. La strada, notai, era ben pavimentata, ma non c'era traccia di altri veicoli, né di altre persone. Girammo attorno all'area dell'enorme edificio principale, e Stevens ci indicò il serbatoio piezometrico, l'impianto di decontaminazione delle acque di scolo, la centrale elettrica, le officine meccaniche e la centrale termoelettrica a vapore. Il posto sembrava autonomo e autosufficiente, e mi faceva nuovamente pensare al covo di un cattivo bondiano in cui un pazzo contemplasse la distruzione del pianeta. Tutto considerato, si trattava di un complesso imponente, e ancora non avevamo visto l'interno del principale edificio di ricerca. Di tanto in tanto passavamo accanto a un fabbricato che Stevens si asteneva dall'identificare, e se qualcuno di noi faceva domande in proposito,
rispondeva: «Magazzino vernici» o «Magazzino mangimi», e poteva darsi che lo fossero, ma l'individuo non ispirava credibilità. Anzi, avevo la netta sensazione che se la godesse con quella balla della segretezza e che lo eccitasse tirare un poco le nostre catene. Quasi tutti gli edifici, salvo il nuovo principale centro di ricerca, erano antiche strutture militari, per la maggior parte di mattoni rossi o di cemento armato, e nella grande maggioranza erano deserti. Nel complesso, quella era stata un tempo una vera e propria installazione militare, parte di una serie di fortezze che proteggevano New York City contro una marina nemica che non si era mai presentata. Arrivammo a un agglomerato di edifici in calcestruzzo con l'erba che cresceva attraverso il cemento della pavimentazione. Stevens disse: «L'edificio più grande viene chiamato 257, dalla vecchia designazione dell'Esercito. Era il laboratorio principale fino ad alcuni anni fa. Dopo esserci trasferiti, lo decontaminammo con gas venefici, poi lo sigillammo per sempre, nell'eventualità che qualcosa, là dentro, fosse ancora vivo». Nessuno parlò per qualche secondo, poi Max domandò: «Non è qui che ci fu una perdita del biocontenimento, una volta?» «È stato prima che ci fossi io», disse Stevens. Guardò me e sorrise del suo sorriso di cera. «Se desidera dare un'occhiata all'interno, detective Corey, posso procurarle la chiave.» Ricambiai il sorriso e domandai: «Posso entrarci da solo?» «È il solo modo in cui può entrare nel 257, quello. Nessuno entrerà là dentro con lei.» Nash e Foster ridacchiarono. Ragazzi, non mi ero divertito tanto da quando ero scivolato su qualcosa di viscido ed ero atterrato sopra un cadavere che era li da una decina di giorni. «Ehi, Paul», dissi, «ci vado, se ci va lei.» «Non ci tengo particolarmente a morire», replicò Stevens. Come il minibus arrivò più vicino all'edificio 257, vidi che qualcuno aveva dipinto in nero sul cemento un grande teschio con ossa incrociate, e mi colpì che quella testa di morto avesse in realtà due significati: oltre alla Jolly Roger, la bandiera pirata che i Gordon avevano sventolato dal loro pennone, era anche il simbolo per indicare veleno o contaminazione. Fissavo il teschio nero e le ossa contro il muro bianco e, quando distolsi lo sguardo, l'immagine era ancora davanti a me per cui, nel guardare Stevens, la testa di morto si sovrappose alla sua faccia, e teschio e Stevens sogghignavano entrambi. Mi fregai gli occhi fino a che l'illusione ottica svanì.
Gesù, se non fosse stato pieno giorno, con altri intorno a me, mi sarei sentito accapponare la pelle. «Nel 1946», continuò Stevens, «il Congresso autorizzò la spesa per costruire un nuovo centro per la ricerca. La legge stabilisce che certe malattie infettive non possano essere studiate sulla madreterra degli Stati Uniti. Legge necessaria, al tempo in cui il biocontenimento non era ancora perfezionato. Così, Plum Island, che era già tutta di proprietà del governo e condivisa, oltretutto, dal ministero dell'Agricoltura e dall'Esercito, era il luogo naturale per lo studio delle malattie esotiche degli animali.» «Sta dicendo», domandai, «che qui si studiano solo malattie degli animali?» «Esatto.» «Signor Stevens, se i Gordon avessero rubato virus dell'afta epizootica e se le mandrie di bestiame degli Stati Uniti, del Canada e del Messico venissero d'improvviso spazzate via, la scoperta ci lascerebbe sconvolti, ma non è questa la ragione per cui noi tutti siamo qui. Sono presenti malattie nel laboratorio di Plum Island - malattie crossing over - che possono infettare gli essere umani?» Mi fissò e replicò: «Dovrà farla al direttore, il dottor Zollner, quella domanda». «La sto facendo a lei.» Stevens rifletté un momento, poi rispose: «Dirò questo: data la coincidenza che, per un periodo, il ministero dell'Agricoltura aveva diviso quest'isola con l'esercito, c'erano un sacco di speculazioni e di voci che insinuano che questo era un centro di ricerca per la guerra batteriologica. Immagino che tutti voi lo sappiate, questo». Max interloquì e disse: «C'è abbondanza di indizi che i Corpi Chimici dell'Esercito stessero sviluppando malattie, qui, al culmine della Guerra Fredda, per spazzar via l'intera popolazione animale dell'Unione Sovietica. E perfino io so che il carbonchio e altre malattie degli animali possono essere usate come armi batteriologiche contro una popolazione umana. Questo lo sa anche lei». Paul Stevens si schiarì la voce, poi spiegò: «Non intendevo sottintendere che non venisse fatta alcuna ricerca di guerra batteriologica, qui. Indubbiamente era così all'inizio degli anni Cinquanta. Ma entro il 1954, la missione di guerra batteriologica offensiva era stata cambiata in missione difensiva. Vale a dire, l'Esercito stava studiando soltanto per impedire che la nostra industria del bestiame venisse infettata di proposito dalla parte av-
versa». Poi aggiunse: «Non risponderò ad altre domande di quella natura... ma dirò che i russi mandarono qui una squadra di esperti di guerra batteriologica, alcuni anni fa, e non trovarono niente che potesse causare motivi di ansia». Ho sempre pensato che i tour organizzati agli impianti nucleari fossero un po' come se un sospetto di omicidio mi conducesse in un giro guidato della sua casa. No, detective, non c'è niente di interessante in quello sgabuzzino. Su, lasci che le mostri la mia veranda. Il minibus svoltò in una stretta strada a ghiaia, e il signor Stevens continuò nel suo discorso prescritto, fino a concludere: «Così, dalla metà degli anni Cinquanta, Plum Island è indubbiamente il più avanzato centro di ricerche del mondo per lo studio, la cura e la prevenzione delle malattie degli animali». Guardò me e disse: «Allora, non è stato poi tanto male, vero, detective Corey?» «Sono sopravvissuto a cose peggiori.» «Bene. Ora ci lasceremo alle spalle la storia e ammireremo un po' l'isola. Proprio davanti a noi c'è il vecchio faro, commissionato in origine da George Washington. Quello attuale è stato costruito verso il 1850, suppergiù. Il faro non è più in uso ed è un punto di riferimento storico.» Guardai dal finestrino la struttura di pietra che sorgeva in un campo erboso. Il faro assomigliava più che altro a una casa a due piani con una torre che si levava dal tetto. «Lo usate a scopo di sicurezza?» Lui mi fissò e disse: «Sempre al lavoro, vero? Bene, a volte, quando il tempo è troppo proibitivo per barche o elicotteri, metto qualcuno lassù con un telescopio o qualcosa per la visione notturna. Il faro è allora il nostro solo mezzo di sorveglianza a 360 gradi». Tornò a fissarmi e domandò: «C'è altro che vuole sapere sul faro?» «No, è tutto per ora.» L'automezzo svoltò su un'altra stradina di ghiaia. Stavamo ora dirigendoci a est lungo la costa nord di Plum Island, con il mare alla nostra sinistra e alberi nodosi sulla destra. Notai che la spiaggia era una piacevole striscia di sabbia e rocce, praticamente vergine, e fatta eccezione per il minibus e la strada, potevi immaginare d'essere un olandese o un inglese del milleseicento e rotti che metteva piede per la prima volta su quel litorale, passeggiava lungo la spiaggia e cercava di escogitare come buttar fuori gli indiani dall'isola. Ping. Ping. Ecco che risonava di nuovo. Ma cos'era? A volte, se non cerchi di forzarlo, ti torna da sé.
Stevens stava sproloquiando di ecologia e del tenere l'isola il più primitiva e selvaggia possibile, e mentre lui continuava su quel tasto, l'elicottero volava sopra di noi, cercando cervi da abbattere. La strada seguiva generalmente la linea costiera, e non c'era molto da vedere, ma ero impressionato dalla solitudine del luogo, dall'idea che non un'anima vivesse lì e che ben difficilmente avresti incontrato qualcuno sulla spiaggia o lungo le strade, che evidentemente non portavano da nessuna parte e non avevano alcuno scopo, salvo quella che andava dal traghetto al laboratorio principale. Come se m'avesse letto nel pensiero, Stevens disse: «Queste strade vennero costruite tutte dall'Esercito per collegare Fort Terry con le batterie costiere. Le pattuglie dei cervi le usano ma, per il resto, sono deserte». E aggiunse: «Dato che abbiamo sistemato l'intero centro ricerche in un unico edificio, la maggior parte dell'isola è deserta». Mi venne il dubbio, naturalmente, che le pattuglie contro i cervi e quelle della sicurezza fossero una sola cosa. Gli elicotteri e le barche avevano sicuramente il compito di avvistare qualche cervo che nuotava, ma dovevano avvistare anche terroristi e altri loschi figuri. Avevo l'inquietante sensazione che quel luogo non fosse così impenetrabile. Ma non era affar mio, e non era per questo che mi trovavo lì. Finora, l'isola si era rivelata meno spettrale di quanto mi sarei aspettato. In realtà, che cosa mi aspettassi non lo sapevo neanch'io ma, come un sacco d'altri posti sempre preceduti da una sinistra reputazione, quello non sembrava tanto male, una volta visto. Sulle mappe o sulle carte nautiche, l'isola non mostra quasi mai delle caratteristiche: niente strade, nessun accenno a Fort Terry, niente salvo le parole: «Plum Island - Ricerche sulle malattie degli animali - Governo degli Stati Uniti - Zona vietata». E l'isola è di solito colorata di giallo: il colore della messa in guardia. Non molto invitante, nemmeno su una mappa. E se la vedi dall'acqua, come mi era capitato diverse volte con i Gordon, ti appare ammantata di nebbia, anche se mi domando quanto di questo sia reale e quanto sia una costruzione della mente. Se poi ti spingi a figurarti il luogo come potresti pensare che si presenti, ottieni un'immagine alla Poe di una Thule quanto mai tenebrosa, un cupo paesaggio di mucche e pecore morte, che si gonfiano e marciscono sui campi, di avvoltoi che si cibano di carogne, per poi morire essi stessi a causa della carne infetta. Ecco che cosa pensi, se per caso ci pensi. Finora, però, il luogo appariva gradevole e soleggiato. Il pericolo lì, il vero orrore,
era imbottigliato nelle aree di biocontenimento, nelle Zone Tre e Quattro, e nel massimo Tempio della Distruzione, la Zona Cinque. Vetrini e provette pullulanti delle più pericolose ed esotiche forme di vita evolutesi sul pianeta. Se fossi uno scienziato, nel guardare quella roba mi farei forse domande su Dio: non sulla Sua esistenza, ma sul Suo intento. A ogni modo, quella era più o meno la massima profondità di pensiero di cui ero capace senza farmi venire mal di testa. Beth domandò a Paul Stevens: «Come sanno, quelli delle barche, che non devono approdare qui?» «C'è un avvertimento su tutte le mappe e le carte», rispose lui. «Per giunta, ci sono cartelli lungo tutte le spiagge. In più, provvedono le pattuglie a occuparsi di imbarcazioni ancorate o tirate in secco.» «Che cosa fate ai trasgressori?» domandò Beth. «Li avvertiamo di non ritentare di avvicinarsi o di sbarcare sull'isola. I recidivi vengono trattenuti e consegnati al Capo Maxwell.» Stevens guardò Max. «Giusto?» «Giusto. Ce ne capitano uno o due l'anno.» Paul Stevens tentò una battuta scherzosa. «Soltanto ai cervi si spara a vista.» Poi tornò serio e spiegò: «Non è una violazione pericolosa della sicurezza o del biocontenimento, se qualcuno si avventura sull'isola. Come ho già detto, non intendo dare l'impressione che l'isola sia contaminata. Questo pulmino non è un veicolo di biocontenimento, per esempio. Ma a causa della vicinanza delle aree di biocontenimento, preferiamo tenere sgombera l'isola da persone non autorizzate e da tutti gli animali». Non potei fare a meno di farglielo notare. «Da quanto posso vedere, signor Stevens, un'imbarcata di terroristi perfino semicompetenti potrebbe atterrare sull'isola, una sera, spazzar via la vostra manciata di guardie, e agguantare ogni sorta di cose spaventose dai laboratori, oppure far saltare il tutto, liberando germi mortali nell'ambiente. Anzi, quando la baia gela, non hanno neppure bisogno di una barca: siete collegati con la terra ferma.» «Posso soltanto dirle che c'è più sicurezza qui di quanto non salti all'occhio.» «Me lo auguro.» «Ci conti.» Mi fissò e disse: «Perché non fa la prova, una sera?» Amo le sfide e replicai: «Scommetto con lei cento dollari che posso entrare nel suo ufficio, rubare dalla parete il suo diploma di maturità o l'equi-
valente, e averlo appeso nel mio ufficio il mattino dopo». Il signor Stevens continuava a fissarmi, la spenta faccia di cera immobile. Da brivido. «Lasci», dissi, «che le rivolga la domanda alla quale tutti noi, qui, vogliamo risposta: Tom e Judy Gordon potrebbero avere portato fuori di nascosto dall'isola dei microrganismi? Ci dica la verità.» «Teoricamente», rispose Paul Stevens, «è possibile.» Sul minibus nessuno parlò, ma notai che l'autista si girava a lanciare occhiate di stupore. «Ma perché l'avrebbero fatto?» domandò Stevens. «Per denaro», risposi. «Proprio non sembravano i tipi», disse Stevens. «Amavano gli animali. Perché mai avrebbero voluto cancellarli dal mondo?» «Forse volevano cancellare la gente dal mondo, affinché gli animali potessero avere una vita più felice.» «Ridicolo», sentenziò Stevens. «I Gordon non prendevano niente da qui che potesse far male a esseri viventi. Ci scommetto il mio impiego su questo.» «L'ha già fatto. E anche la vita.» Notavo che Ted Nash e George Foster se ne stavano quasi sempre zitti, e sapevo che erano stati già ragguagliati in precedenza e che, probabilmente, temevano di farselo scappare di bocca. Stevens riportò l'attenzione verso l'esterno, e disse: «Stiamo avvicinandoci a Fort Terry. Possiamo scendere e guardarci attorno». Il pulmino si fermò e scendemmo tutti. 9 La mattinata era bella, e il sole era più caldo lì nel mezzo dell'isola. Paul Stevens ci fece fare un giro intorno al forte. Fort Terry non aveva mura, e in effetti assomigliava a una città abbandonata. Era inaspettatamente pittoresco con la sua prigione di mattoni, una vecchia sala mensa, una caserma di mattoni a due piani dal percorso irregolare e con portico, la casa del comandante, alcuni altri edifici dei primi del secolo, e una bianca cappella rivestita di assicelle su una collina. Stevens indicò un altro edificio di mattoni e disse: «Quello è il solo che venga ancora usato; la caserma dei pompieri». «È a una bella distanza dal laboratorio», commentò Max.
«Sì», replicò Stevens, «ma il nuovo laboratorio è praticamente a prova di fuoco e ha un proprio sistema interno antincendio. Quelle autopompe», aggiunse, «vengono usate soprattutto quando va a fuoco la boscaglia o qualche edificio senza biocontenimento.» Max, che per tutta la vita si era trovato sopravvento o sottovento rispetto all'isola, gli fece osservare: «Ma un incendio o un uragano potrebbero distruggere i generatori di corrente che filtrano le aree di biocontenimento. Dico bene?» «Tutto è possibile.» Poi Stevens aggiunse: «C'è gente che vive in prossimità di reattori nucleari. Questo è il mondo moderno, pieno di orrori inimmaginabili: incubi chimici, batteriologici e nucleari in attesa di pulire la lavagna per la prossima specie che si evolverà». Guardai Paul Stevens con nuovo interesse. Mi passò per la mente che fosse pazzo. Di fronte alla caserma c'era un campo di erba falciata che si estendeva verso il mare per un lungo tratto. Stormi di oche del Canada vi si aggiravano tronfie, schiamazzando, starnazzando o quel che diavolo fanno quando non cacano. Stevens spiegò: «Quella era la piazza d'armi. Teniamo falciata l'erba così che gli aerei possano vedere le lettere di cemento conficcate nel terreno. Le lettere dicono: "Plum Island: zona militare". Non vogliamo che atterri qui qualche aereo da turismo». Tentò una battuta scherzosa: «La scritta tiene lontani anche terroristi aviotrasportati». Passeggiammo un poco là intorno e Stevens continuò: «Prima che costruissimo la struttura principale, molti degli uffici amministrativi erano ospitati qui a Fort Terry. Ora quasi tutto - laboratori, sicurezza, magazzini, amministrazione e animali - è sotto lo stesso tetto, il che è ottimo dal punto di vista della sicurezza». Si rivolse a me: «Perciò, quand'anche la sicurezza esterna venisse violata, l'edificio principale è praticamente impenetrabile». «Mi sta proprio tentando», commentai. Di nuovo il signor Stevens sorrise. Mi piaceva vederlo sorridermi. «Per sua informazione», disse, «ho un diploma rilasciato da un college dello Stato del Michigan, ed è appeso alla parete proprio dietro la mia scrivania, ma lei non lo vedrà mai.» Ricambiai il sorriso. Dio, quanto mi piace fare incazzare la gente che mi irrita. Mi piaceva Max, mi piaceva George Foster, amavo Beth, ma non mi piacevano Ted Nash e Paul Stevens. Avere simpatia per tre persone su cinque era già un successo per me: quattro su sei, se contavo anche me stesso. A ogni modo, sto diventando sempre più intollerante verso bugiar-
di, imbecilli, spacconi e fanatici del potere. Ero più tollerante, credo, prima che mi sparassero. Devo domandare a Dom Fanelli. L'antica piazza d'armi terminava bruscamente in un ripido strapiombo fino a una rocciosa spiaggia sottostante, e ci ritrovammo fermi là sul ciglio che affacciava sul mare. La vista da lassù toglieva il respiro, ma metteva ancor più in risalto la solitudine del luogo, la sensazione ultraterrena e da fine del mondo associata con le isole in generale e con quella in particolare. Quello doveva essere stato un dislocamento davvero isolato, un avamposto dove c'era da morire di noia, con ben poco altro da fare che guardare il mare. Probabilmente, quelli dell'artiglieria avrebbero salutato con gioia l'avvistamento di una flotta nemica. «Su questa spiaggia», disse Stevens, «vengono ogni anno le foche, a fine autunno.» «Sparate anche a loro?» domandai. «No, naturalmente. Purché se ne rimangano sulla spiaggia.» Mentre ci allontanavamo da lì, Stevens indicò alla nostra attenzione un grosso masso all'estremità della piazza d'armi. Collocata dentro una fenditura del masso c'era una palla di cannone arrugginita: «Quella risale al tempo della Rivoluzione: è inglese o americana. È una delle cose che hanno dissotterrato i Gordon». «Dove l'hanno trovata?» «Proprio qui intorno, penso. Hanno scavato molto attorno alla spiaggia delle foche e a questa piazza d'armi.» «Davvero?» «Sembrava che avessero il bernoccolo per sapere dove scavare. Avevano dissotterrato abbastanza palle di moschetto da armare un reggimento.» «Dice sul serio?» Continui a parlare, signor Stevens. «Usavano uno di quei metal detector.» «Buona idea.» «È un hobby interessante.» «Ah, indubbiamente. Mia zia era un'appassionata di scavi. Non sapevo che i Gordon se ne occupassero. Non ho mai visto niente di scoperto da loro.» «Be', dovevano lasciare tutto qui.» «A causa della contaminazione?» «No, perché è terreno federale.» Era interessante, e Nash e Foster avevano cominciato ad ascoltare, cosa che io non volevo, così cambiai discorso col dire a Stevens: «Mi sembra
che l'autista stia cercando di attirare la sua attenzione». Stevens guardò verso il pulmino, ma l'autista stava semplicemente fissando uno stormo di oche. Stevens consultò l'orologio e disse: «Be', vediamo il resto dell'isola, poi abbiamo appuntamento con il dottor Zollner». Risalimmo sul minibus e partimmo, dirigendoci a est incontro al sole sempre più alto, e in direzione della lingua di terra che era l'osso curvo della braciola di maiale. La spiaggia era stupenda, circa tre chilometri di sabbia immacolata e intatta bagnata dalle acque azzurre dello Stretto di Long Island. Nessuno parlava in presenza di un così maestoso spettacolo della natura. Nemmeno io. Stevens, sempre in piedi, di tanto in tanto mi lanciava un'occhiata, e io gli sorridevo. Lui ricambiava il sorriso. Non era un genere di sorriso realmente amabile. Finalmente, alla stretta estremità dell'isola, il bus si fermò e Stevens disse: «Più in là di così non è possibile andare con il pulmino. Ora camminiamo.» Scendemmo tutti dal minibus e ci ritrovammo nel mezzo di stupefacenti vecchie rovine. Da qualunque parte guardassi, vedevo massicce fortificazioni di cemento ricoperte di rampicanti e boscaglia: fortini, bunker, postazioni, depositi di munizioni, tunnel, strade di cemento e mattoni, e mura enormi di un metro di spessore con porte di ferro arrugginite. Stevens disse: «Uno di questi passaggi sotterranei porta a un laboratorio segreto dove scienziati nazisti catturati stanno ancora lavorando a sviluppare il definitivo, indistruttibile virus che spazzerà via la popolazione mondiale». Lasciò per un paio di secondi che quelle parole penetrassero, poi continuò: «In un altro laboratorio sotterraneo sono conservati i resti di quattro extraterrestri recuperati dai rottami dell'UFO precipitato a Roswell, nel New Mexico». Di nuovo, seguì il silenzio. Alla fine, io chiesi: «Possiamo vedere prima gli scienziati nazisti?» Tutti risero... o quasi. Il signor Stevens ebbe uno dei suoi avvincenti sorrisi e disse: «Questi sono due degli assurdi miti associati con Plum Island». Poi spiegò: «La gente riferisce d'avere visto aerei dall'aspetto strano atterrare dopo la mezzanotte sulla piazza d'armi o decollarne. Afferma che l'AIDS ha avuto origine qui e anche il morbo di Lyme». Si guardò attorno e continuò: «Immagino che queste antiche fortificazioni con tutti i corridoi e i passaggi sotter-
ranei possano accendere qualche fantasia fertile. Siete liberi di guardarvi attorno. Andate pure dove volete. Se trovate gli alieni, fatemelo sapere». Sorrise di nuovo. Aveva un sorriso davvero inquietante, e pensai che magari lo era lui, un alieno. «Ma naturalmente», aggiunse, «dobbiamo rimanere tutti insieme. Ho bisogno di avere tutti sott'occhio, continuamente.» Questo non si accordava del tutto con «Andate pure dove volete», ma non era neppure un contrordine. Così John, Max, Beth, Ted e George ritornarono all'adolescenza e si divertirono ad arrampicarsi sulle rovine, su per scalinate, al di là di parapetti e così via, con il signor Stevens sempre a qualche passo da loro. A un certo punto ci incamminammo per una lunga strada di mattoni che scendeva fino a un paio di porte d'acciaio. Le porte erano accostate, e ci portammo tutti all'interno. Era buio, freddo, umido, e probabilmente brulicava d'insetti. Stevens ci seguì e disse: «Da qui si va in un grande deposito munizioni». La voce echeggiava nel buio e nel vuoto. «C'era una ferrovia a scartamento ridotto, sull'isola, che trasportava munizioni e polvere da sparo dal porto a queste aree di magazzinaggio sotterranee. Un sistema molto sofisticato e complesso ma, come potete vedere, del tutto abbandonato. Non avviene niente di segreto, qui. Se avessi una torcia elettrica», soggiunse, «potremmo addentrarci oltre, e vedreste che nessuno vive, lavora, gioca o è sepolto qui dentro.» «Allora dove sono i nazisti e gli alieni?» m'informai. «Li ho trasferiti al faro», replicò il signor Stevens. «Ma può capirla», gli domandai, «la nostra preoccupazione che i Gordon potessero avere installato un laboratorio clandestino in un posto come questo?» «Come ho detto», replicò, «non sospetto i Gordon di niente. Ma poiché questa possibilità è stata sollevata, farò perquisire dai miei uomini questo complesso da cima a fondo. Inoltre, ci sono circa novanta edifici abbandonati dai militari sparsi per l'isola. Ne avremo di perquisizioni da fare.» «Mandi il suo autista a prendere un buon numero di torce elettriche», dissi. «Vorrei dare un'occhiata intorno.» Cadde il silenzio, nel buio, poi Stevens disse: «Dopo che avrete visto il dottor Zollner, possiamo tornare qui ed esplorare le stanze e i corridoi sotterranei, se lo desidera». Uscimmo alla luce del sole e Stevens disse: «Seguitemi». Lo seguimmo e sbucammo su una strada stretta che portava verso la punta orientale di Plum Island: il termine dell'osso curvo. Mentre procedevamo, Stevens ci
informò: «Se vi guardate attorno, potete vedere altre postazioni. Un tempo usavamo queste mura circolari come recinti per gli animali, ma ora gli animali vengono tenuti al chiuso». «Sembra una crudeltà», commentò Beth. «È più sicuro», replicò Stevens. Arrivammo, infine, sull'estrema punta orientale dell'isola, una scogliera che si elevava per una decina di metri al di sopra di una spiaggia disseminata di rocce. L'erosione aveva disintegrato un bunker di cemento, che ora giaceva in pezzi giù per la scogliera ed era in parte precipitato in acqua. La vista era magnifica, con la costa del Connecticut appena visibile a sinistra e, proprio di fronte, una macchiolina di terra chiamata Great Gull Island, distante un paio di miglia. Stevens diresse la nostra attenzione verso sud e disse: «Vedete quel mucchio di rocce, là? Quell'isolotto veniva usato per esercitazioni d'artiglieria e bombardamento. Chi va in barca sa che deve starne alla larga perché l'area è piena di proiettili e bombe inesplose. Oltre quello c'è la costa settentrionale di Gardiners Island, che, come il Capo Maxwell sa, è proprietà privata del clan Gardiner ed è off limits per il pubblico. Al di là di Great Gull Island c'è Fishers Island, che, come Plum Island, nel 1600 era frequentata dai pirati. Così, da nord a sud abbiamo l'Isola dei Pirati, l'Isola della Peste, l'Isola dei Pericoli e l'Isola Privata». Sorrise della propria arguzia; era, come si conveniva, un mezzo sorriso. Improvvisamente, vedemmo una delle imbarcazioni di pattuglia aggirare il promontorio. I tre dell'equipaggio ci videro, e uno degli uomini puntò il binocolo. Nel riconoscere Paul Stevens, immagino, l'uomo inviò un saluto con la mano e Stevens lo ricambiò. Nell'osservare dalla scogliera la spiaggia sottostante, notai che la sabbia, lì, aveva strisce orizzontali di rosso, come una torta a strati bianca con farciture di lamponi. Una voce chiamava alle nostre spalle, e vidi l'autista avanzare lungo la strada. «Restate qui», ci disse Stevens, e gli andò incontro. L'autista gli porse un cellulare. Questa è la parte dove la guida scompare, e vediamo il minibus partire, lasciando Bond solo con la ragazza, ma poi uomini-rana escono dall'acqua con i mitra e aprono il fuoco, e l'elicottero... «Detective Corey?» Guardai Beth. «Sì?» «Che cosa ne pensa, fin qui?» Notai che Max, Nash e Foster stavano arrampicandosi al di sopra e at-
torno alle postazioni e che, uomini macho quali erano, stavano discutendo di tiri d'artiglieria, calibri e simili argomenti mascolini. Ero solo con Beth. «Penso che lei è splendida.» «Che cosa pensa di Paul Stevens?» «È un pazzo.» «Che impressione ha di quello che abbiamo visto e sentito finora?» «Viaggio organizzato. Ma, di tanto in tanto, ho appreso qualcosa.» Lei assentì, poi domandò: «E di tutta la faccenda archeologica? Ne sapeva qualcosa, lei?» «No. Sapevo della Peconic Historical Society, ma non degli scavi archeologici qui. Se è per questo, i Gordon non avevano mai accennato al fatto d'avere acquistato un acro di terreno del tutto inutile da cui si dominava lo Stretto.» «Quale terreno inutile sullo Stretto?» «Dopo glielo spiegherò», dissi. «C'è tutta una serie di piccoli fatti, capisce, e tutti sembrerebbero indicare un traffico di droga, ma forse no. C'è sotto qualcos'altro, qui... Le succede mai di sentire un ping nella testa?» «Ultimamente no. A lei sì?» «Sì, suona come quello di un sonar.» «Suona come invalidità al settantacinque per cento.» «No, no, è un'onda sonar. L'onda va, urta qualcosa, e torna indietro. Ping!» «La prossima volta che lo sente, alzi la mano.» «D'accordo. Pensare che dovrei riposare, e lei non ha fatto che sconvolgermi da quando l'ho incontrata.» «Lo stesso vale per me.» Cambiò argomento e disse: «Sa, qui la sicurezza non è come pensavo che fosse, considerato quello che c'è sull'isola. Se qui ci fosse un impianto nucleare, ne vedrebbe molta di più». «Sì. La sicurezza esterna fa schifo, ma forse quella interna nel laboratorio è migliore. E può darsi che, come afferma Stevens, ci sia più di quello che l'occhio vede. Fondamentalmente, però, ho la sensazione che Tom e Judy se ne sarebbero potuti andare di qui con qualsiasi cosa volessero. Spero solo che non volessero niente.» «Bene, io penso che più tardi, oggi stesso o magari domani, finiremo per scoprire che avevano rubato qualcosa, e ci verrà anche detto cos'era.» «Che cosa intende dire?» «Poi glielo spiegherò.» «Me lo dica stasera a cena.»
«Ho idea che a questo mi dovrò rassegnare.» «Non sarà poi tanto male.» «Ho un sesto senso per le compagnie che sarebbe meglio evitare.» «Sono un buon compagno, io. Non ho mai puntato una pistola contro una mia invitata.» «La cavalleria non è morta.» Mi voltò le spalle e si allontanò. Andò a fermarsi sull'orlo della scogliera e rimase a contemplare l'acqua. Lo Stretto era a sinistra e l'Atlantico a destra e, come per il Canale sull'altro lato dell'isola, lì il vento e le correnti si mescolavano. I gabbiani sembravano rimanere sospesi a mezz'aria e le onde entravano in collisione, facendo ribollire il mare di spuma. Lei era bella, ritta là nel vento, tra l'azzurro del cielo, le nuvole bianche, i gabbiani, il mare, il sole e tutto l'insieme. Me la figuravo nuda in quella stessa posa. Il signor Stevens ritornò dalla sua telefonata e disse: «Ora possiamo risalire sul pulmino». Ci incamminammo tutti lungo la strada che rasentava la scogliera. Pochi minuti, ed eravamo di nuovo nell'area delle fortificazioni d'artiglieria in rovina. Notai che una delle ripide alture su cui le fortificazioni erano costruite si era sgretolata di recente, esponendo strati di terra fresca. Lo strato superiore era composto organico, com'era logico aspettarsi, sotto il quale c'era sabbia bianca, e anche questo era normale. Ma lo strato successivo era una striatura rossastra di qualcosa che sembrava ruggine, poi altra sabbia, poi un'altra linea di rosso ruggine, proprio come sulla spiaggia. «Ehi», dissi a Stevens, «natura chiama. Torno subito.» «Non si perda», mi rispose, e il tono non era del tutto scherzoso. Girai attorno alla base dell'altura, raccolsi un pezzo di legno e cominciai a scalfire la superficie verticale del pendio erboso. Nero terriccio ed erba caddero, e potevo ora vedere gli strati di bianco e di rosso. Presi una manciata di terra rossastra e vidi che in realtà era argilla mescolata con sabbia e forse con dell'ossido di ferro. Assomigliava molto alla sostanza sotto e sopra le scarpe da corsa di Tom e Judy. Interessante. Mi misi in tasca una manciata di quel terriccio e mi voltai, solo per vedere Stevens che, fermo là, mi osservava. «Mi pareva d'avere accennato», disse, «alla politica del "Mai lasciare l'isola".» «Penso di sì.» «Che cosa si è messo in tasca?»
«Il mio pisello.» Rimanemmo a fissarci a vicenda, e alla fine lui disse: «Su quest'isola, detective Corey, io sono la legge. Non lei, non il detective Penrose, nemmeno il Capo Maxwell, e non i due signori che sono con voi». Mi fissava sempre con quegli occhi di ghiaccio. «Posso vedere che cosa ha messo in tasca?» «Posso mostrarglielo, ma poi dovrò ucciderla.» Sorrisi. Rifletté un istante, passando in rassegna le sue opzioni, poi arrivò alla decisione corretta e disse: «Il pulmino sta partendo». Gli passai accanto e lui si mise in fila dietro di me. Quasi mi aspettavo una catena intorno al collo, una botta sulla testa, un brivido nella spina dorsale... ma Paul Stevens era più raffinato di così. Più tardi, probabilmente, mi avrebbe offerto una tazza di caffè, corretto con carbonchio. Salimmo sul minibus e partimmo. Avevamo ripreso tutti il nostro posto di prima, e Stevens rimaneva in piedi. Il bus si diresse a ovest, verso l'area del traghetto e del laboratorio principale. Un camioncino con due uomini in uniforme azzurra armati di fucili ci passò accanto, andando nella direzione opposta. Tutto sommato, avevo appreso più di quanto avessi pensato di poter apprendere, visto più di quanto mi fossi aspettato, e udito abbastanza da diventare sempre più curioso. Ero convinto che la risposta al perché Tom e Judy Gordon fossero stati uccisi si trovava su quell'isola. E, come ho già detto, una volta saputo perché, in ultima analisi avrei saputo da chi. George Foster, che fino a quel momento era rimasto quasi sempre in silenzio, si rivolse a Stevens: «È proprio sicuro che i Gordon siano andati via con la loro barca, ieri a mezzogiorno?» «Sicurissimo. Secondo il registro, in mattinata avevano lavorato nella sezione di biocontenimento, firmato l'ora di uscita, fatto la doccia, e preso poi un minibus come questo che li ha portati fino alla banchina. Sono stati visti da due dei miei uomini prendere posto nel loro motoscafo, lo Spirocheta, e dirigersi verso il Canale di Plum.» «Qualcuno, dall'elicottero o dall'imbarcazione di pattuglia, li ha più visti una volta che erano là nel Canale?» Stevens scosse la testa. «No. Ho domandato.» Beth s'informò. «C'è un punto lungo questa costa dove si possa nascondere un'imbarcazione?» «Assolutamente no. Non ci sono insenature profonde o bracci di mare su Plum. È una spiaggia diritta, salvo quell'unica insenatura artificiale dove
attracca il traghetto.» «Se dalla barca di pattuglia», domandai io, «avessero visto quella dei Gordon ancorata in qualche punto nei pressi dell'isola, i suoi uomini li avrebbero fatti allontanare?» «No. Anzi, qualche volta i Gordon si ancoravano per pescare o nuotare al largo della costa di Plum. Le pattuglie li conoscevano bene.» Non sapevo che i Gordon fossero così accaniti pescatori. «Sono mai stati visti dai vostri uomini ancorati vicino alla spiaggia dopo il tramonto... a notte fatta?» Stevens rifletté un momento, poi replicò: «Una volta soltanto di cui venni informato. Due dei miei uomini di pattuglia», raccontò, «accennarono al fatto che la barca dei Gordon era ancorata vicino alla spiaggia meridionale una sera di luglio, verso mezzanotte. I miei uomini, avendo notato che l'imbarcazione era deserta, illuminarono la spiaggia con i loro riflettori. I Gordon erano là...» Si schiarì la gola in modo da far capire che cosa stessero facendo i Gordon su quella spiaggia. Poi aggiunse: «La barca di pattuglia li lasciò in pace». Ci pensai su per qualche istante. Tom e Judy mi erano parsi il genere di coppia che avrebbe fatto l'amore ovunque, perciò il farlo di notte su una spiaggia deserta non aveva niente di insolito. Farlo su una spiaggia di Plum Island, tuttavia, faceva sì che inarcassi la fronte e mi ponessi qualche domanda. Stranamente, avevo avuto una volta una sorta di sogno a occhi aperti sul fare l'amore con Judy su una spiaggia investita dalle onde. Forse più di una volta. Quando venivo colto da quel pensiero, mi schiaffeggiavo da me. Vergogna, vergogna, porcellone, porcellone. Il pulmino oltrepassò la banchina del traghetto, poi svoltò verso nord, fermandosi in un viale d'accesso di forma ovale davanti all'impianto principale per le ricerche. La curva facciata del nuovo edificio a due piani stile art déco era fatta di una sorta di blocco rosa e marrone. Un grande cartello che si levava sul prato diceva «Ministero dell'Agricoltura», e c'era un altro pennone con la bandiera a mezz'asta. Scendemmo tutti dal minibus e Paul Stevens disse: «Spero vi siate goduti il vostro giro di Plum Island e che abbiate riportato una buona impressione riguardo ai nostri sistemi di sicurezza». «Quale sicurezza?» domandai. Il signor Stevens mi fissò duramente e disse: «Chiunque lavori qui si rende ben conto del potenziale di disastro. Siamo tutti consapevoli del pro-
blema, e tutti dediti a risolverlo e ad attenerci ai massimi livelli di salvaguardia che esistono in questo campo. Ma la sa una cosa? Capita di finire nella merda». Tanta volgarità e insolenza da parte di Mister Tutto-d'un-pezzo sorprese alquanto i presenti. «Giusto», dissi. «Ma è capitato ieri?» «Lo sapremo presto.» Guardò l'orologio e concluse: «Bene, ora possiamo entrare. Mi seguano». 10 L'atrio semicircolare del laboratorio di ricerche di Plum Island era alto due piani con un ammezzato che correva tutt'intorno alla scalinata centrale. Era uno spazio luminoso e arioso, piacevole e accogliente. Gli animali condannati entravano probabilmente dal retro. Sulla parete a sinistra c'erano le solite foto della catena-di-comando governativa: il Presidente, il ministro dell'Agricoltura e il dottor Karl Zollner; piuttosto corta, come catena, per un'agenzia governativa, e induceva a credere che il dottor Zollner fosse magari a un passo o due dalla Sala Ovale. A ogni modo, c'era un banco della reception, e dovemmo firmare e scambiare i nostri pass azzurrini a molla con altri bianchi con una catena di plastica che ci appendemmo al collo. Un buon procedimento di sicurezza, pensai: l'isola era divisa tra quell'edificio e tutto il resto. E all'interno di quell'edificio c'erano le Zone. Non dovevo sottovalutare il signor Stevens. Una giovane donna attraente con una gonna che le arrivava al ginocchio aveva sceso la scalinata prima che avessi modo di dare una sbirciatina alle sue cosce, e si presentò come Donna Alba, assistente del dottor Zollner. Ci sorrise e disse: «Il dottor Zollner sarà con voi tra breve. Nel frattempo, vi farò un po' da guida». Paul Stevens si rivolse a noi: «Approfitto dell'occasione per sentire quelli del mio ufficio e vedere se ci sono ulteriori sviluppi». Poi aggiunse: «Donna avrà buona cura di voi». Guardò me e disse: «La prego, rimanga per tutto il tempo con Miss Alba». «E se per caso dovessi andare alla toilette?» «L'ha già fatto.» Si avviò su per la scala, fermandosi dal dottor Zollner, ne sono certo, per fare rapporto sui cinque intrusi. Guardai Donna Alba. Sui venticinque, bruna, bella di faccia e di figura, gonna blu, camicetta bianca e scarpe da corsa. Suppongo che, tenendo presente di dover fare quotidianamente la spola col traghetto e la possibilità di
doversi spostare in qualche altro punto dell'isola, i tacchi alti mancassero di praticità. Anzi, mi dissi, se qualcuno ambiva a una pendolarità di tutto riposo e a una normale giornata d'ufficio, Plum Island proprio non faceva al caso suo. Donna, a ogni modo, era abbastanza attraente perché ricordassi che era stata sul traghetto delle otto con noi, quel mattino, ragion per cui non aveva ancora fatto la conoscenza dei signori Nash e Foster, e di conseguenza non doveva far parte di tentativi di insabbiamento. Ci pregò, in ogni caso, di presentarci a uno a uno, cosa che facemmo, senza usare titoli sconvolgenti quali «detective della Omicidi», «FBI» o «CIA». Lei strinse la mano a tutti e riservò a Nash un sorriso speciale. Le donne, che pessime giudici di caratteri. Poi esordì: «Benvenuti al Centro Malattie degli Animali di Plum Island. Sono certa che Paul vi abbia già messi al corrente e vi abbia offerto una breve storia dell'isola e un bel giro». Cercava di mantenersi sorridente, ma vedevo che il sorriso era forzato. Ci disse: «Sono molto... è terribile quello che è accaduto. Avevo tanta simpatia per i Gordon. Piacevano a tutti». Si guardò attorno, come fanno le persone nei dipartimenti di polizia, e disse ancora: «Sono tenuta a non discutere o a far commenti su niente di tutto questo. Ma penso di poter esprimere il mio stato d'animo». Beth mi lanciò un'occhiata e, avendo visto, penso, un possibile punto debole nell'armatura di Plum Island, spiegò a Donna: «John e Max erano buoni amici di Tom e Judy». Fissai Donna Alba negli occhi e assicurai: «Apprezziamo tutto l'aiuto e la collaborazione che abbiamo avuto dal personale, qui». Il che, fino a quel momento, consisteva nella visita guidata delle rovine e delle aree deserte offertaci dal signor Stevens, ma era importante che Donna credesse di poter parlare liberamente; non li e subito, s'intende, ma quando saremmo andati a trovarla a casa. «Vi mostro qualcosa del posto», disse lei. «Seguitemi.» Facemmo una passeggiatina intorno all'atrio, e Donna ci indicò svariate cose sulle pareti, che includevano ingrandimenti di articoli di giornale e storie dell'orrore da ogni parte del mondo sul Morbo della Mucca Pazza, su qualcosa chiamato peste bovina e peste suina, e su altre orribili malattie. C'erano mappe che indicavano epidemie di questo e di quello, diagrammi, grafici e fotografie di bovini con labbra piagate e saliva che colava dalla
bocca, e di maiali martoriati da orrende piaghe. Quello non era da confondere con l'atrio di una «casa della bistecca». Donna attirò poi la nostra attenzione verso le porte sul fondo dell'atrio. Erano dipinte di un particolare giallo allarmistico, il colore di Plum Island su una mappa, e spiccavano contro le tinte dell'atrio, quasi tutte sfumature di grigio. Su quella di sinistra una targa diceva «Spogliatoio femminile», su quella di destra «Spogliatoio maschile». Entrambe avvertivano: «Soltanto personale autorizzato». «Quelle porte», disse Donna, «immettono nelle aree di biocontenimento. Quest'atrio insieme con gli uffici amministrativi è in realtà un edificio separato da quello di biocontenimento, anche se può sembrare che si tratti di un'unica struttura. Ma, in realtà, a collegare quest'area con il biocontenimento sono quei due spogliatoi.» «Ci sono altre vie per entrare o uscire dalle aree di biocontenimento?» s'informò Max. «Si può entrare dall'ingresso di servizio, da dove vengono portati dentro gli animali, i mangimi, le provviste e tutto il resto, ma non si può uscire da quella parte. Chiunque o qualsiasi cosa esca di qui, deve passare attraverso l'area di decontaminazione, che comprende le docce.» «Come vengono eliminati», era Foster a informarsi, «i prodotti della dissezione e i vari rifiuti?» «Attraverso l'inceneritore o le apposite fognature che conducono all'acqua e all'impianto di decontaminazione dei rifiuti», rispose Donna. E aggiunse: «Ed è tutto: queste due porte di entrata, una porta di servizio sul retro, fognature e inceneritori e, sul tetto, speciali filtri per l'aria che possono intrappolare perfino i più piccoli virus. Questo è veramente un edificio a perfetta tenuta». Ciascuno di noi stava elaborando i propri pensieri sui Gordon, sul portar fuori sostanze di nascosto dai laboratori. «Gli spogliatoi», continuò Donna, «sono ancora Zona Uno, come questo atrio. Ma una volta oltrepassad gli spogliatoi, si va nella Zona Due, e bisogna indossare camici bianchi da laboratorio. Prima di uscire dalle Zone Due, Tre e Quattro, bisogna fare la doccia. La doccia è un'area della Zona Due.» «La doccia è mista?» m'informai. Lei rise. «No, naturalmente.» Poi proseguì: «Mi risulta che siete stati tutti autorizzati a entrare nelle Zone Due, Tre e Quattro, se lo desiderate». Ted Nash sfoderò il suo stupido sorriso e domandò: «Ci accompagnerà
lei?» La ragazza scosse la testa. «Non vengo pagata per questo.» Nemmeno io, a un dollaro la settimana. «Perché non siamo autorizzati per la Zona Cinque?» domandai a Donna. Mi guardò, alquanto sorpresa. «La Cinque? Perché mai dovreste desiderare di andarci?» «Non so. Perché c'è.» Lei scrollò la testa. «Ci saranno al massimo dieci persone autorizzate a entrare nella Zona Cinque. Bisogna indossare una specie di tuta spaziale...» «I Gordon erano autorizzati a entrare nella Cinque?» Lei assentì. «Che cosa succede nella Zona Cinque?» «Dovrebbe farla al dottor Zollner questa domanda.» Guardò l'orologio e disse: «Seguitemi». «Restate uniti», aggiunsi io. Ci avviammo su per la scalinata, io trascinandomi in coda perché la gamba ferita cominciava ad appesantirsi e anche perché volevo osservare meglio quelle di Donna e relativo sedere. Lo so che sono un porco: potrei perfino contrarre la peste suina. Così, demmo inizio a un tour delle due ali che fiancheggiavano l'atrio a due piani. Tutto era tinteggiato nello stesso grigio tortora o grigio scuro, che immagino abbia sostituito il vomitevole verde dei vecchi edifici federali. Sulle pareti dei corridoi c'erano foto di direttori di laboratori, scienziati e ricercatori del passato. Notai che quasi tutte le porte dei lunghi corridoi erano chiuse e che tutte erano numerate, ma nessuna recava il nome di una persona o di una funzione, salvo i gabinetti. Ottima sicurezza, pensai, e di nuovo rimasi colpito dalla mente paranoica di Paul Stevens. Entrammo nella biblioteca dei ricercatori, dove alcuni tipi di teste d'uovo stavano meditando lungo gli scaffali o leggendo ai tavoli. «Questa», disse Donna, «è una delle più belle biblioteche del suo genere al mondo.» Non potevo immaginare un gran numero di biblioteche sulle malattie degli animali nell'universo, ma dissi a Donna: «Però!» Lei andò a prendere da un lungo tavolo una manciata di pieghevoli, comunicati stampa e altro materiale di propaganda e ce li offrì. I pieghevoli avevano titoli come «Colera del maiale», «Peste suina africana», «Morbo africano degli equini», e qualcosa chiamato «Morbo della pelle bitorzolu-
ta», che, a giudicare dalle paurose foto dell'opuscolo, penso dovesse avere una delle tante ragazze che avevo avuto in passato. Non vedevo l'ora di arrivare a casa per leggere quella roba, e dissi anzi a Donna: «Può darmi altri due dépliant sulla peste bovina, per favore?» «Altri due...? Certo...» Andò a procurarmeli. Era davvero gentile. Poi offrì a ciascuno di noi una copia della rivista mensile intitolata «Ricerche agronomiche», la cui copertina metteva in evidenza una storia piccante intitolata «Feromone sessuale per ingannare il verme del mirtillo palustre». Mi rivolsi a Donna: «Potrei avere qualcosa per ricoprirla?» «Ma... oh, sta scherzando. Vero?» «Cerchi di non prenderlo troppo sul serio», le consigliò George Foster. Au contraire, signor Foster: dovrebbe prendermi molto sul serio. Ma se confonde il mio sciocco senso dell'umorismo con negligenza o disattenzione, tanto di guadagnato. Così, continuammo quel tour da quattro soldi, Parte Seconda. Visitammo l'auditorium, poi arrivammo alla mensa del secondo piano, un bell'ambiente moderno e lindo con grandi finestre da cui si potevano vedere il faro, il Canale e Orient Point. Donna ci offrì un caffè, e tutti noi prendemmo posto a un tavolo rotondo nell'area pranzo quasi deserta. Chiacchierammo un momento, poi Donna disse: «I ricercatori in biocontenimento trasmettono per fax alla cucina i loro ordini per il pranzo. Non vale la pena docciarsi per uscire: così diciamo noi, docciarsi per uscire. Qualcuno consegna tutte le ordinazioni nella Zona Due, poi chi ha avuto l'incarico deve farla, la doccia. I biologi si impegnano al massimo, lavorano in biocontenimento da otto a dieci ore al giorno. Non so proprio come facciano.» «Ordinano hamburger?» le domandai. «Prego?» «I biologi. Si fanno portare manzo, prosciutto, agnello e cose del genere, dalla cucina?» «Penso di sì... Io esco con uno dei ricercatori. Mangia volentieri carne ai ferri, lui.» «E fa dissezioni su bovini malati e putrefatti?» «Sì. Ci si fa l'abitudine, penso.» Assentii. Anche i Gordon eseguivano dissezioni, eppure mangiavano bistecche. Strano. Voglio dire, io proprio non riesco ad abituarmi al lezzo dei cadaveri. A ogni modo, forse con gli animali è diverso. Diversa la specie e via dicendo.
Sapevo che quello poteva essere l'ultimo momento in cui sarei stato in grado di allontanarmi dal gregge, così lanciai un'occhiata a Max e mi alzai, annunciando: «Toilette». «Là», disse Donna, indicando un'apertura nella parete. «La prego, non si allontani dalla mensa.» Posai una mano sulla spalla di Beth e premetti, per farle capire di rimanere con i federali. «Stia attenta che Stevens non torni», le mormorai, «e mi metta del carbonchio nel caffè.» Mi diressi verso l'apertura oltre la quale erano collocate le due toilette. Max mi raggiunse, e ci fermammo nel breve corridoio cieco. È più probabile che ci siano microfoni in una toilette che in un corridoio. «Loro possono dichiarare d'avere collaborato in pieno», dissi, «d'averci mostrato l'intera isola e tutto l'impianto, qui, salvo la Zona Cinque. In realtà, ci vorrebbero alcuni giorni per visitare l'intero edificio, scantinati compresi, e almeno una settimana per interrogare il personale.» Max assentiva. «Dobbiamo partire dal principio che tutti, qui, siano ansiosi quanto noi di scoprire se manca qualcosa, e che cosa», osservò. «Fidiamoci di loro, in quanto a questo.» «Se anche scoprono, o sanno già, che cosa rubavano i Gordon, non hanno intenzione di dirlo a noi», replicai. «Lo diranno a Foster e a Nash.» «E con ciò? Noi stiamo indagando su un duplice omicidio.» «Quando so che cosa e perché, sono vicino al chi», dissi. «In casi normali: nei casi che investono la sicurezza nazionale e via dicendo, sei già fortunato se ti dicono qualcosa. Non c'è niente su quest'isola per noi. Loro controllano l'isola, il luogo di lavoro delle vittime. Noi controlliamo la scena del delitto e la casa delle vittime. Forse possiamo scambiare qualche informazione sottobanco con Foster e Nash, ma non credo che a loro importi chi ha ucciso i Gordon. Vogliono solo assicurarsi che i Gordon non abbiano ucciso il resto della nazione. Capisci?» «Sì, Max, lo so. Ma il mio istinto di poliziotto mi dice...» «Ehi, che mi dici se prendiamo l'assassino, e poi non possiamo processarlo perché non ci sono dodici persone vive, in tutto lo Stato di New York, per mettere insieme una giuria?» «Piantala col melodramma.» Riflettei un istante, poi dissi: «Tutto questo potrebbe non avere niente a che fare con i germi. Pensa alla droga». Assentì. «Ci ho pensato. L'idea non mi dispiace.» «Già. Infatti. Che cosa te ne pare di Stevens?» Max guardò al di sopra della mia spalla e io, voltandomi, vidi una guar-
dia in uniforme azzurra avanzare nel corridoio. «Signori», disse, «cercano qualcosa? Posso essere d'aiuto?» Max declinò l'offerta e ce ne tornammo al tavolo. Quando mandano qualcuno a interrompere una conversazione privata, significa che non sono in grado di origliare. Dopo qualche altro minuto di caffè e di chiacchiere, Miss Alba guardò di nuovo l'orologio e annunciò: «Possiamo vedere il resto dell'ala, ora, e poi andare nell'ufficio del dottor Zollner». «Questo», le rammentai con garbo, «l'ha già detto mezz'ora fa.» «È occupatissimo, questa mattina», rispose lei. «Il telefono non ha mai smesso di squillare. Washington, gente da tutto il paese.» Sembrava stupita e incredula. «Non credo a quello che dicono sui Gordon. Nemmeno per un istante. No e no.» Lasciammo tutti la mensa e per un poco vagammo per grigi corridoi. Alla fine, mentre visitavamo la stanza dei computer, sentii d'averne abbastanza e dissi a Donna: «Vorrei vedere il laboratorio dove lavoravano i Gordon». «Quello è in biocontenimento. Probabilmente lo vedrete in seguito.» «D'accordo. Che mi dice dell'ufficio di Tom e Judy, qui nell'area amministrativa?» Esitò, poi disse: «Può chiederlo al dottor Zollner. A me non ha detto di accompagnarvi nell'ufficio dei Gordon». Non volevo guastare i rapporti con Donna, così guardai Max in un modo che i poliziotti capiscono: Max, ora tu sei il cattivo. Max si rivolse a Miss Alba: «Come Capo di polizia della città di Southold, di cui quest'isola è una parte, richiedo che ora lei ci porti nell'ufficio di Tom e Judy di cui sto indagando gli omicidi.» Non male, Max, nonostante sintassi e grammatica traballanti. La povera Donna Alba aveva l'aria di chi è sul punto di svenire. Beth la rassicurò. «Non si preoccupi. Faccia quello che chiede il Capo Maxwell.» Ora era la volta dei signori Foster e Nash, e sapevo già quello che stavano per dire. George Foster rivelò d'essere la testa di cavolo designata. «Considerata la natura del lavoro dei Gordon», disse, «e la probabilità che il loro ufficio contenga carte o documenti...» «Collegati alla sicurezza nazionale», interloquii, servizievole, «e così via, blablabla.» Teddy Boy ritenne di dover dire la sua e sentenziò: «I Gordon avevano
superato il vaglio del controspionaggio, e di conseguenza le loro carte sono classificate segrete». «Balle.» «Scusi, detective Corey... sto parlando.» Mi fissò con uno sguardo realmente malevolo, poi continuò: «Tuttavia, nell'interesse dell'armonia, e per evitare dispute giurisdizionali, farò una telefonata, che confido ci darà accesso all'ufficio dei Gordon». Guardò me, Max e Beth e domandò: «D'accordo?» Loro due assentirono. Naturalmente l'ufficio dei Gordon era già stato completamente perquisito e ripulito la sera prima o quel mattino presto. Come aveva detto Beth, avremmo visto soltanto quello che volevano farci vedere. Ma diedi credito a George e Ted d'avere pensato di inscenare una forte protesta in proposito, come se nell'ufficio dei Gordon dovessimo trovare qualcosa di veramente interessante. Donna parve sollevata e disse a Nash: «Io chiamerò il dottor Zollner». Si attaccò a un telefono e premette il tasto dell'interfono. Ted Nash estrasse un telefonino, si portò a una certa distanza, voltandoci le spalle, e parlò, o fece finta di parlare, con gli dèi della Sicurezza Nazionale nella Grande Capitale dell'Impero Confuso. Terminata la commedia, ritornò verso di noi mortali nel momento stesso in cui Donna finiva di parlare con Zollner. Donna assentì a dare via libera, e Nash assentì a sua volta. «Mi seguano, prego», disse Donna. La seguimmo nel corridoio e ci dirigemmo verso l'ala est dell'edificio, al di là della scalinata da cui eravamo saliti. Arrivammo alla Stanza 265, e Donna aprì la porta con un passe-partout. L'ufficio aveva due scrivanie, ciascuna con il proprio computer, un modem, scaffali, e un lungo tavolo da lavoro coperto di libri e di fogli. Nessuna attrezzatura da laboratorio né altro di quella natura: soltanto materiale d'ufficio, compreso un fax. Curiosammo per un poco attorno alle scrivanie dei Gordon, aprendo cassetti, esaminando carte ma, come ho detto, l'ufficio era già stato ripulito in precedenza. In ogni caso, chi è coinvolto in una cospirazione non ne fa cenno su un'agenda né lascia in giro promemoria incriminanti. Tuttavia, non sai mai quello che potresti trovare. Presi visione del loro schedario, notando che conoscevano gente d'ogni parte del mondo, in gran parte degli ambienti scientifici, sembrava. Guardai sotto «Gordon» e trovai
una scheda con la parentela di Tom: i genitori e altri nomi di persone che dovevano essere la sorella, il fratello e altri della famiglia. Tutti nell'Indiana. Il cognome da ragazza di Judy non lo conoscevo. Cercai «Corey, John» e trovai il mio nome, sebbene non ricordo che m'avessero mai chiamato dall'isola. Cercai «Maxwell, Sylvester» e trovai i suoi numeri di telefono dell'ufficio e di casa. Cercai «Wiley, Margaret», ma non c'era, e non me ne sorpresi. Poi cercai «Murphy» i vicini di casa dei Gordon, ed erano là, Edgar e Agnes, il che aveva un senso. Trovai «Tobin, Fredric» e mi ricordai la volta che ero andato ai suoi vigneti, con i Gordon, per un assaggio di vini. Cercai e trovai il numero della Peconic Historical Society, e quello di casa del suo presidente, certa Emma Whitestone. Cercai sotto «D» per Droga, Corriere Pedro, e sotto «C» per Cartello Colombiano, ma non ebbi fortuna. Provai «T» per Terroristi e «A» per Terroristi Arabi, ma mi ritrovai a mani vuote. Non vedevo «Stevens» o «Zollner», ma immaginai che dovesse esserci un elenco separato di ogni dipendente sull'isola, e mi ripromisi di procurarmene una copia. Nash stava trastullandosi con il computer di Tom e Foster con quello di Judy. Probabilmente, era la sola cosa che non avevano avuto tempo di controllare a fondo, quel mattino. Notai che nell'ufficio non c'era praticamente alcuna traccia di cose personali: non una fotografia, non un quadretto, nemmeno un oggetto da scrivania che non fosse dato in dotazione dal governo. Domandai spiegazioni a Donna, e lei rispose: «Non ci sono norme contro gli oggetti personali, nelle aree della Zona Uno. Ma tutti tendono a non portare sul traghetto cose da mettere in ufficio, salvo forse cosmetici, medicine, e roba del genere. Non lo so il perché. In realtà, possiamo richiedere qualsiasi cosa vogliamo, entro limiti ragionevoli. Siamo un tantino viziati sotto questo aspetto». «I miei soldi delle tasse all'opera.» Sorrise. «Bisogna bene che ci tengano di buon umore su quest'isola assurda.» Mi avviai verso un grande tabellone dove Beth e Max stavano leggendo i pochi foglietti appuntati al sughero. Lontano dalla portata dei federali, dissi: «Questo posto è già stato ripulito ben bene». «Da chi?» domandò Max. «Stamattina», spiegò Beth, «John e io abbiamo visto i nostri due amici scendere dal traghetto di Plum Island. Sono già stati qui, si sono già visti con Stevens, hanno già visitato quest'ufficio.»
Max parve sorpreso, poi seccato. «Maledizione», imprecò, «ma... è contro la legge.» «Lascerei perdere, se fossi in te», dissi io. «Ma ora capisci perché non sono dell'umore migliore.» «Non avevo notato la differenza, ma ora sono io, a incavolarmi.» Donna, nella sua voce più conciliante, interruppe la nostra discussione. «Siamo un po' in ritardo sull'orario, ora. Qui potreste magari tornare più tardi.» «Quello che vorrei da lei», spiegò Beth, «è far mettere il lucchetto a questa stanza. Intendo mandare qui persone delle forze di polizia della contea, perché guardino a fondo.» «Devo dedurne», disse Nash, «che quel guardare a fondo significa che intende prendere elementi in custodia.» «Sì, può dedurlo.» Si intromise Foster. «È stata infranta una legge federale, ritengo, e intendo prendere dalla proprietà federale qualsiasi prova mi serva, Beth. Ma metterò il tutto a disposizione della polizia della Contea di Suffolk.» «No, George», disse Beth, «prenderò in custodia io questo intero ufficio e lo metterò a sua disposizione.» Donna, sentendo profilarsi una discussione, si affrettò a dire: «Vediamo intanto l'ufficio di controllo. Poi andremo dal dottor Zollner». Uscimmo nel corridoio e la seguimmo fino a una porta con il numero «237». Compose un numero in codice su una tastiera e aprì la porta, rivelando una vasta stanza senza finestre. «Questo è l'ufficio di controllo», disse, «il centro di comando e di comunicazione di tutta Plum Island.» Entrammo, e mi guardai attorno. Pannelli di controllo correvano lungo tutte le pareti, e un giovane che sedeva dandoci le spalle stava parlando al telefono. Donna disse: «Quello è Kenneth Gibbs, l'assistente di Paul Stevens. È lui di turno al controllo, oggi». Kenneth Gibbs si girò sulla sedia e ci inviò un cenno con la mano. Continuai a guardarmi attorno. Sui tavoli c'erano tre diversi tipi di ricetrasmittenti, un terminale, un televisore, due fax, telefoni, cellulari, una telescrivente e alcuni altri aggeggi elettronici. Due telecamere fissate al soffitto passavano in rassegna la stanza. Alle pareti c'erano ogni sorta di mappe, frequenze radio, promemoria, un elenco dei turni di servizio e così via. Quello era il centro operativo di Paul Stevens: comando, controllo e comunicazione, noto come CCC o C-Tre.
Ma non vedevo una porta che desse nell'ufficio privato di Stevens. «Da qui», spiegò Donna, «siamo in diretto contatto con Washington e con altri istituti di ricerca sparsi in tutti gli Stati Uniti, Canada, Messico e nel resto del mondo. Siamo anche in contatto con il Centro di Controllo delle Malattie di Atlanta. Inoltre, abbiamo una linea diretta con il nostro dipartimento dei vigili del fuoco e con altri posti chiave dell'isola, nonché con il Servizio Meteorologico Nazionale e con molte altre agenzie e organizzazioni di supporto a Plum Island.» «Come quelle militari?» domandai. «Sì. In particolare la Guardia costiera.» Gibbs mise giù il ricevitore e si unì a noi. Facemmo le presentazioni. Era un tipo alto, un po' sopra la trentina, occhi azzurri e corti capelli biondi come il suo capo, calzoni e camicia ben stirati e cravatta blu. Un blazer blu era appeso alla spalliera di una sedia. Gibbs, l'avrei giurato, era un prodotto di laboratorio, clonato dal piffero di Stevens o chissà. «Posso rispondere a tutte le domande che vogliate farmi riguardo a questo ufficio», disse. Beth si rivolse a Donna. «Le dispiacerebbe lasciarci per qualche minuto con il signor Gibbs?» Lei guardò Gibbs, che assentì. Donna uscì nel corridoio. Max, essendo l'unico vicino di Plum Island del nostro gruppo, aveva una sua agenda, e domandò a Gibbs: «Come vi regolate quando c'è in arrivo una grecalata di quelle tremende o un uragano?» «Durante le ore di lavoro», rispose Gibbs, «evacuiamo l'isola.» «Tutti?» «Qualcuno deve per forza rimanere per badare alla bottega. Io rimarrei, per esempio. Così il signor Stevens, alcuni uomini della sicurezza, un paio di addetti alla manutenzione per assicurarsi che i generatori e i filtri dell'aria continuino a funzionare, e magari un paio di biologi per controllare i virus. Ho idea che il dottor Zollner vorrebbe affondare con la sua nave.» Rise. Forse dipendeva da me, ma non riuscivo a vedere il lato comico di morbi letali dispersi dal vento un po' dappertutto. «Durante le ore non di lavoro», continuò Gibbs, «quando qui non resta quasi più nessuno, dovremmo richiamare le persone chiave sull'isola. Poi, dovremmo mandare i nostri traghetti e l'altra imbarcazione nei bacini di revisione di New London, dove sarebbero al sicuro. A loro volta i mezzi
subacquei si porterebbero in pieno oceano e in profondità, dove sarebbero al sicuro. Sappiamo quello che facciamo, qui», aggiunse. «Siamo preparati ad affrontare le emergenze.» «Se mai ci fosse una perdita nel biocontenimento», disse Max, «sareste tanto gentili da avvertirmi?» «Lei sarebbe quasi il primo a saperlo», assicurò Gibbs al capo Maxwell. «Questo lo so», ribatté Max. «Ma ci terrei a saperlo per telefono o per radio... non per avere tossito sangue o che so io.» Gibbs sembrava alquanto infastidito. «Il mio manuale mi dice chi devo chiamare e in quale ordine. Lei è tra i primi.» «Ho chiesto che venga installata qui una sirena che possa essere udita dalla terraferma.» «Se noi l'avvertiamo, può farla suonare lei, se vuole, una sirena per la popolazione.» Poi Gibbs aggiunse: «Non prevedo alcuna perdita nel biocontenimento, perciò la questione è accademica». «No, la questione è che questo posto mi fa una paura tremenda, e non mi sento affatto più tranquillo ora che l'ho visto.» «Non ha di che preoccuparsi.» Ero lieto di sentirlo, questo. «E se ci fossero degli intrusi armati sull'isola?» domandai. Gibbs mi guardò. «Intende dire dei terroristi?» «Già, intendo dire dei terroristi. O peggio, impiegati postali scontenti.» Non sembrò divertito e replicò: «Bene, se i nostri uomini della sicurezza non potessero affrontarli, chiameremmo la Guardia costiera. Proprio da qui». Accennò col pollice a una radio. «E se questa stanza venisse messa fuori uso per prima?» «C'è un secondo CCC nell'edificio.» «Nel sotterraneo?» «Può darsi. Credevo foste qui per indagare su un duplice omicidio.» Mi piace quando un poliziotto privato fa lo strafottente con me. «Esatto», dissi. «Dov'era lei ieri sera alle 5 e 30?» «Io?» «Lei.» «Oh... mi lasci pensare...» «Dov'è la sua calibro 45 automatica?» «Mmm... in quel cassetto là.» «È stata usata di recente?» «No... be', a volte vado a esercitarmi al...»
«Quando è stata l'ultima volta che ha visto i Gordon?» «Mi faccia pensare...» «Li conosceva bene?» «Bene bene, no.» «È mai andato a bere qualcosa con loro?» «No.» «A colazione? A cena?» «No. Ho detto...» «Ha mai avuto occasione di parlare con loro in veste ufficiale?» «No... Be'...» «Ebbene?» «Alcune volte, a proposito della loro barca. A loro piaceva usare le spiagge di Plum Island. A volte venivano qui col motoscafo la domenica o nei giorni di vacanza, e si ancoravano al largo di una delle spiaggette deserte sul lato sud dell'isola, poi venivano a terra a nuoto, trascinandosi dietro un canotto di gomma. Sul canotto avevano l'occorrente per un picnic. Non abbiamo riserve su questo. Anzi, un tempo organizzavamo noi un picnic, il Quattro Luglio, per tutti gli impiegati e le loro famiglie. Era il solo momento in cui permettevamo ai non dipendenti di venire sull'isola, ma dovemmo smettere a causa delle responsabilità inerenti...» Cercai di figurarmela una scampagnata così, una sorta di biocontenimento fatto con i teli da spiaggia. «I Gordon non portavano mai nessuno con loro», continuò Gibbs, «il che sarebbe stato contro le regole. Ma la loro barca rappresentava un problema.» «Un problema di che genere?» «Be', prima di tutto, durante la giornata, attirava altre barche da diporto. I proprietari pensavano di poter sbarcare a loro volta e usare l'isola. Con il buio, poi, presentava un rischio per la navigazione delle nostre imbarcazioni di pattuglia. Così parlai loro di entrambi i problemi e tentammo di risolverli.» «In che modo tentaste di risolverli?» «La soluzione più facile sarebbe stata che attraccassero nella nostra insenatura e prendessero uno dei nostri veicoli per portarsi nei punti più lontani dell'isola. Il signor Stevens non aveva niente in contrario, anche se andava un po' contro le norme sull'uso dei veicoli ufficiali. Era sempre meglio di quello che stavano facendo loro. Ma non volevano saperne di attraccare nell'insenatura e usare un veicolo. Volevano fare a modo loro: an-
dare in motoscafo fino a una delle spiagge, trascinarsi dietro il canotto e nuotare. Molto più divertente, dicevano. Più spontaneo e avventuroso.» «Chi dirige quest'isola? Stevens, Zollner o i Gordon?» «Qui dobbiamo coccolarli i biologi, altrimenti se la prendono. La battuta che circola tra i non scienziati è che se ti metti a discutere o fai arrabbiare uno di loro, ti ritrovi misteriosamente a star male per tre giorni a causa di un virus.» Tutti si fecero una risatina in proposito. Kenneth Gibbs continuò: «A ogni modo riuscimmo a convincerli a tenere accese le luci di navigazione, e io mi assicurai che gli elicotteri e le imbarcazioni della Guardia costiera conoscessero il loro motoscafo. Ci facemmo anche promettere di ancorarsi soltanto dove, sulla spiaggia, avevamo uno dei nostri grandi cartelli con la scritta "Vietato sbarcare". Di solito, questo serve a tenere i più paurosi alla larga». «Che cosa facevano i Gordon sull'isola?» Gibbs accennò una stretta di spalle. «Dei picnic, penso. Escursioni, anche.» Poi spiegò: «Avevano a disposizione quasi novecento acri deserti, nei giorni di vacanza e dopo l'orario di lavoro». «Se non sbaglio si dilettavano anche di archeologia.» «Ah, giusto. Giravano molto attorno alle rovine. Raccoglievano cose per un museo di Plum Island.» «Un museo?» «Be', solo una mostra. L'intenzione era di collocarla nell'atrio, penso. Il materiale è tutto immagazzinato nei sotterranei.» «Che genere di materiale?» «Quasi tutte palle di moschetto e teste di frecce. Un campanaccio... un bottone d'ottone di un'uniforme dell'Esercito Continentale, altri oggetti più o meno dell'epoca della Guerra Ispanoamericana... una bottiglia di whisky... Cianfrusaglie, più che altro. È tutto catalogato e immagazzinato da basso. Potete vederlo, se volete.» «Dopo, semmai», disse Beth. Poi domandò: «Mi risulta che i Gordon stessero organizzando uno scavo ufficiale. Ne sa niente, lei?» «Sì. Proprio non ci va l'idea che una manica di gente della Stony Brook o della Peconic Historical Society si metta a scavare per tutta l'isola. Ma loro stavano cercando di studiare la cosa con il ministero dell'Agricoltura e con quello degli Interni. È quest'ultimo», spiegò, «a dire l'ultima parola sui manufatti e tutto il resto.» «Le è mai venuto in mente», domandai a Gibbs, «che i Gordon potessero
covare qualcosa? Come portar fuori roba dall'edificio principale e nasconderla in qualche spiaggetta durante un cosiddetto scavo archeologico, per poi venire a riprenderla in seguito, con la loro barca?» Kenneth Gibbs non rispose. «Le è mai venuto in mente», lo sollecitai, «che i picnic e tutte quelle balle archeologiche fossero una copertura per qualcos'altro?» «Io... forse riflettendoci ora... ehi, se la prendono tutti con me, come se avessi dovuto sospettare qualcosa. Tutti dimenticano che quei due erano preziosi. Potevano fare quel diavolo che volevano, salvo spingere la faccia di Zollner dentro un mucchio di sterco. Non è proprio il caso di farmi il processo.» E concluse: «Io facevo il mio lavoro». Lo faceva davvero, probabilmente. E, tra parentesi, io sentivo di nuovo quel ping. Beth stava parlando con Gibbs. «Lei, o qualcuno dei suoi», stava dicendo, «l'aveva vista la barca dei Gordon dopo che aveva lasciato l'insenatura, ieri a mezzogiorno?» «No. Ho domandato.» «In altre parole, non può essere certo che la loro barca non fosse ancorata al largo dell'isola, ieri pomeriggio?» «No, non posso esserne certo.» «Quanto spesso le vostre barche fanno il giro dell'isola?» s'informò Max. «Normalmente usiamo una sola delle due barche. Il suo percorso copre dalle otto alle nove miglia intorno all'isola perciò, a una media di dodici nodi l'ora, per compiere un giro completo ci vogliono dai quaranta ai sessanta minuti, a meno che gli uomini non fermino qualcuno per qualche motivo.» «Perciò», disse Beth, «se un'imbarcazione fosse ancorata a un mezzo miglio, suppergiù, da Plum Island, e se una o più persone, a bordo, stessero di vedetta con un binocolo, vedrebbero la vostra barca di pattuglia: la Prune, giusto?» «La Prune e la Plum Pudding.» «Già. Quelle persone vedrebbero una delle due barche di pattuglia e, se fossero al corrente della routine, saprebbero d'avere da quaranta a sessanta minuti per avvicinarsi a terra, gettare l'ancora, portarsi fino a riva con un canotto, fare quello che devono fare, e ritornarsene alla loro barca senza essere visti da nessuno.» Gibbs si schiarì la gola e obiettò: «Possibile, ma lei dimentica la pattuglia sull'elicottero e i veicoli di ronda che costeggiano la spiaggia. Il pas-
saggio dell'elicottero e dei veicoli avviene del tutto a caso». Beth annuì, poi osservò: «Abbiamo appena fatto un giro dell'isola e, in quelle quasi due ore, ho visto l'elicottero della Guardia costiera una sola volta, un veicolo - un camioncino - una sola volta, e la vostra barca di pattuglia una sola volta». «Ripeto, avviene del tutto casualmente. Ci starebbe a correre il rischio?» «Forse sì», disse Beth. «Dipende da quello che c'è da guadagnare.» Gibbs ci informò: «Ci sono anche imbarcazioni della Guardia costiera che fanno passaggi di tanto in tanto e, se volete che sia proprio completamente candido, abbiamo congegni elettronici che fanno la maggior parte del lavoro». «E dove sono i monitor?» domandai a Gibbs, accennando intorno a me nell'ufficio. «Nel sotterraneo.» «Che cosa avete? Telecamere? Sensori di movimento? Sensori di rumori?» «Non sono autorizzato a dirlo.» «D'accordo», concluse Beth. «Ci scriva il suo nome, indirizzo e numero di telefono. Le verrà chiesto di venire alla polizia per un interrogatorio.» Gibbs sembrava seccato, ma anche sollevato d'essere, per il momento, fuori dai guai. Da parte mia, avevo il fiero sospetto che Gibbs, Foster e Nash si fossero già conosciuti quel mattino di buon'ora. Andai a dare un'occhiata a una grande mappa sulla parete vicina alle radio. Raffigurava la parte orientale di Long Island, lo Stretto, e il Connecticut meridionale. Sulla mappa c'era una serie di cerchi concentrici, con al centro New London, Connecticut. Sembrava una di quelle sulla distruzione dovuta a un'atomica, che ti dicono fino a che punto ti ritroverai fregato in relazione alla tua distanza dal punto zero. Su quella, vedevo che Plum Island era all'interno dell'ultimo cerchio, il che poteva essere un bene o un male, a seconda di quello cui la mappa si riferiva. La mappa non lo spiegava, così lo domandai a Gibbs. «Questa cos'è?» Guardò verso il punto che stavo indicando. «Oh, c'è un reattore nucleare a New London. Quei cerchi rappresentano le varie zone di pericolo in caso di esplosione o di fuoriuscita di radiazioni.» Meditai sull'ironia della cosa: un reattore nucleare a New London presentava un pericolo per Plum Island, che a sua volta rappresentava un pericolo per tutta New London, a seconda del vento. «Pensa che quelli del reattore», domandai a Gibbs, «abbiano una mappa che mostra loro il perico-
lo di una falla nel biocontenimento a Plum Island?» Perfino l'austero signor Gibbs dovette sorridere, a questo, sebbene il suo fosse un sorriso strano. Probabilmente Gibbs e Stevens si esercitavano a sorridersi così a vicenda. «In effetti», mi rispose, «quelli del reattore nucleare hanno una mappa così. A volte», aggiunse, «mi domando che cosa accadrebbe se un terremoto provocasse al tempo stesso una falla nel biocontenimento e una nel reattore. La radioattività ucciderebbe i germi?» Tornò a sorridere - in modo strano, molto strano - poi rifletté filosoficamente: «Il mondo moderno è pieno di inimmaginabili orrori». Suonava come il mantra di Plum Island. «Se fossi in lei», suggerii, servizievole, «aspetterei un buon vento da sud e libererei il carbonchio. Far fuori loro prima che facciano fuori voi.» «Già. Buona idea.» «Dov'è l'ufficio del signor Stevens?» gli domandai. «Stanza 250.» «Grazie.» Il telefono interno ronzò e una voce maschile uscì dall'altoparlante, per dire: «Il dottor Zollner riceverà i suoi ospiti, ora». Ringraziammo tutti il signor Gibbs per il suo tempo, lui ci ringraziò della visita, il che fece di tutti noi altrettanti bugiardi. Beth gli ricordò che lo avrebbe rivisto nel suo ufficio. Ritrovammo Donna nel corridoio e, strada facendo, commentai rivolto a lei: «Su queste porte non ci sono né nomi né titoli». «Sicurezza», rispose lei, concisa. «Qual è l'ufficio di Paul Stevens?» «Stanza 225», replicò, dimostrando ancora una volta che la miglior sicurezza è assicurata da una bugia. Ci condusse fino al termine di un corridoio e aprì la porta numero 200. 11 «Accomodatevi, prego», disse Donna. «June, la segretaria del dottor Zollner, sarà qui tra un istante». Ci sedemmo, e Donna rimase in piedi, in attesa di June. Dopo circa un minuto, una donna di mezz'età dall'espressione tesa uscì da una porta laterale. «June», disse Donna, «questi sono gli ospiti del dottor Zollner.» June si limitò a un cenno rivolto a tutti e sedette alla sua scrivania senza
una parola. Donna ci augurò buona giornata e se ne andò. Notai che non venivamo lasciati soli neppure per un istante. Sono un sostenitore della sicurezza, io, salvo quando riguarda me. A ogni modo, sentivo già la mancanza di Donna. Era davvero gradevole. Ci sono tante donne gradevoli al mondo, ma tra il mio recente divorzio e l'ancor più recente ricovero e convalescenza, ero rimasto un po' tagliato fuori. Contemplai Beth Penrose. Lei guardò me, quasi sorrise, poi distolse lo sguardo. Subito dopo contemplai George Foster. Sembrava sempre il ritratto della compostezza. Presumevo che dietro quello sguardo vacuo ci fosse un bel cervello. Me lo auguravo. Sylvester Maxwell tamburellava impaziente con le dita sul bracciolo della poltrona. Penso che in generale fosse soddisfatto d'avermi ingaggiato, ma che stesse forse domandandosi come poter tenere a freno un consulente indipendente a un dollaro la settimana il quale non faceva che indisporre tutti. La sala d'aspetto era dello stesso grigio tortora, con rifiniture grigio scuro e moquette grigia, di tutto il resto della struttura. C'era da ammalarsi di deprivazione sensoriale, in un posto così. Riguardo alla Stanza 250, quel che sapevo con certezza è che là non c'erano né Paul Stevens né il suo diploma. C'erano probabilmente venti cani idrofobi, pronti a mangiarsi i miei cajones. Sulla Stanza 225, certezze non ne avevo... Niente, su quell'isola, era proprio quello che sembrava, e nessuno era completamente sincero. «Mia zia», dissi alla segretaria, «si chiamava June.» Sollevò lo sguardo dal tavolo e mi fissò. «È un bel nome», continuai. «Mi fa pensare, chissà perché, alla tarda primavera e all'inizio dell'estate. Al solstizio d'estate, sa?» June continuava a fissarmi, stringendo sempre più le palpebre. Brrr. «Chiami il dottor Zollner al citofono», ripresi, «e gli dica che ha dieci secondi per riceverci, o ci procureremo un mandato d'arresto per avere ostacolato la giustizia. Nove secondi.» Lei schiacciò un tasto del citofono e disse: «Dottor Zollner, venga qui per favore. Subito». «Cinque secondi.» La porta sulla destra si aprì e apparve un omone barbuto e bovino in ca-
micia bianca e cravatta blu. «Sì?» disse. «Qual è il problema?» June puntò il dito verso di me. «Lui», disse. Il bovino mi guardò. «Sì?» Mi alzai. Si alzarono tutti. Riconoscevo il dottor Zollner dalle foto della catena-di-comando nell'atrio, e dissi: «Abbiamo attraversato il mare, facendo molte miglia, dottore, e superato molti ostacoli per trovarla, e lei ci ripaga col tenerci qui a far flanella». «Prego?» June s'intromise. «Devo chiamare la sicurezza, dottore?» «No, no.» Zollner guardò i suoi ospiti e disse: «Bene, accomodatevi, accomodatevi». Ci accomodammo. L'ufficio d'angolo del dottor Zollner era vasto, ma mobili, pareti e moquette erano identici a quelli di tutti gli altri. C'era un'imponente mostra di cose in cornice sulla parete dietro la sua scrivania. Sulle altre, tutta una serie di assurdi quadri astratti, come se ne vedono nei migliori musei. Ancora in piedi, ci presentammo, usando stavolta i nostri titoli e descrizioni di incarichi. Mi sembrò - e anche stavolta era solo una mia impressione - che Zollner avesse già conosciuto Nash e Foster. Gli stringemmo tutti la mano, e lui ci sorrideva, cordialissimo. «Benvenuti», disse. «Il signor Stevens e la signorina Alba vi sono stati d'aiuto, spero.» Aveva un leggero accento, che, insieme al nome, confermava le sue origini probabilmente tedesche. Come ho detto, era grosso - grasso, in realtà e aveva i capelli bianchi, una barba bianca alla Van Dyke e spesse lenti. Assomigliava, se volete sapere la verità, a Burl Ives. Ci invitò a sederci: «Seggano, seggano», e noi sedemmo, sedemmo. Esordì poi col dire: «Sono ancora sotto shock per questa tragedia. Stanotte non ho chiuso occhio». «Dottore, chi l'ha chiamata, ieri sera, per darle la notizia?» s'informò Beth. «Il signor Stevens. Ha detto d'essere stato informato dalla polizia. I Gordon», continuò Zollner, «erano scienziati brillanti e tenuti in grande considerazione dai loro colleghi. Spero», aggiunse, «che possiate risolvere questo caso molto rapidamente.» «Lo speriamo anche noi», replicò Beth. «Inoltre, mi dovete scusare se vi ho fatto aspettare tanto, ma sono stato al telefono tutta la mattina.»
«Immagino, dottore», disse Nash, «che l'abbiano consigliata di non rilasciare interviste». Zollner assentì. «Sì, sì, naturalmente. No, non ho dato informazioni a nessuno, ho solo letto la dichiarazione già preparata. Quella che mi è arrivata da Washington.» «Può leggercela?» chiese Foster. «Sì, certo, certo.» Zollner frugò sulla sua scrivania, trovò un foglio, si aggiustò gli occhiali, lesse: «"Il ministro dell'Agricoltura si duole per la tragica fine dei dottori Thomas e Judith Gordon, dipendenti di questo Ministero. Non intende impegnarsi in speculazioni concernenti le circostanze della loro morte. Domande riguardanti le indagini dovranno essere dirette alla polizia locale, che può meglio rispondere a tali interrogativi."» Il dottor Zollner terminò di leggere quello che non assommava a un bel niente. «Per favore», gli disse Max, «lo mandi per fax alla polizia di Southold, così possiamo leggerlo alla stampa dopo avere sostituito l'FBI alla polizia locale.» «L'FBI non è coinvolta in questo caso, Capo.» «Giusto. Dimenticavo. E neppure la CIA.» Max guardò Beth. «E la polizia della contea? Siete coinvolti, voialtri?» «Coinvolti e responsabili», rispose Beth. Poi, rivolgendosi a Zollner: «Può specificarci quali fossero le mansioni dei Gordon?» «Sì... Avevano a che fare soprattutto con... ricerche genetiche. Alterazioni genetiche dei virus per renderli incapaci di provocare malattie, ma in grado di stimolare il sistema immunitario.» «Un vaccino?» domandò Beth «Un nuovo tipo di vaccino, sì. Molto più sicuro dell'uso di un virus indebolito.» «E, nel loro lavoro, avevano accesso a tutti i tipi di virus e di batteri?» «Sì, certo. Di virus, per la maggior parte.» Beth continuò, passando a domande più tradizionali in un'indagine per omicidio, riguardanti amici, nemici, debiti, minacce, rapporti con i collaboratori, conversazioni rammentate con le due vittime, come era parso che le vittime si comportassero nell'ultima settimana o giù di lì, e così di seguito. Ottimo materiale per un'indagine, ma probabilmente non del tutto rilevante. Eppure, il tutto andava domandato, e poi domandato di nuovo, più e più volte, a tutti quelli che conoscevano i Gordon, e infine ridomandato a quelli già interrogati per vedere se vi fosse qualche incongruenza nelle loro
dichiarazioni. Quello che a noi serviva in quel caso, se si partiva dal furto di germi letali, era un bel colpo di fortuna, il «via libera», qualcosa per aggirare le strettoie procedurali prima che finisse il mondo. Guardavo i quadri astratti alle pareti e mi rendevo conto che quelle non erano stampe, ma fotografie a colori... qualcosa mi diceva che quelle erano malattie: batteri e altri organismi che infettavano il sangue, le cellule e tutto il resto, fotografate con un microscopio. Orrore. Eppure, in realtà, non erano poi così orridi. Zollner notò il mio sguardo intento e interruppe la sua risposta a qualche domanda, dicendo: «Perfino gli organismi che provocano malattie possono essere belli». «Verissimo», convenni. «Ho un vestito con quel disegno. Quella specie di vermini verdi e rossi, là.» «Sì? Quello è un filovirus; l'Ebola, in realtà. Colorato, s'intende. Quei cosini possono ucciderla in quarantott'ore. Non esiste cura.» «E sono in questo edificio?» «Forse.» «Ai poliziotti non piace quella parola, dottore. Sì o no?» «Sì. Ma conservati con tutte le precauzioni. Congelati e sotto chiave.» Poi aggiunse: «E qui lavoriamo solo l'Ebola delle scimmie, non con quello degli esseri umani». «E avete fatto un inventario dei vostri germi?» «Sì. Ma per essere onesti, in nessun modo potremmo tenere conto di ciascun esemplare. E allora nasce il problema che qualcuno possa propagare determinati organismi in luoghi non autorizzati. Sì, sì, so dove volete arrivare. Voi credete che i Gordon abbiano sottratto alcuni organismi esotici e letali e li abbiano forse venduti... be', diciamo a una potenza straniera. Ma vi assicuro, non l'avrebbero mai fatto.» «Perché no?» «Perché è troppo orribile a contemplarsi.» «Questo è molto rassicurante», commentai. «Ehi, ora possiamo tornarcene a casa.» Non avvezzo al mio humor, suppongo, il dottor Zollner mi fissava. Assomigliava davvero a Burl Ives, e stavo quasi per chiedergli una foto e un autografo. Alla fine, si protese verso di me attraverso la scrivania e disse col suo leggero accento: «Detective Corey, se lei avesse la chiave per aprire i cancelli dell'inferno, lo farebbe? Se lo facesse, dovrebbe essere un corridore
molto molto veloce». Riflettei un istante, poi replicai: «Se aprire i cancelli dell'inferno è così impensabile, perché avete bisogno di tenere tutto sotto chiave?» Assentì e rispose: «Per proteggerci dai pazzi, suppongo». E soggiunse: «Naturalmente, i Gordon non erano pazzi». Nessuno replicò. Dalla sera prima, avevamo già valutato tutto questo almeno una decina di volte, a voce e mentalmente. Alla fine, il dottor Zollner parlò: «Ho un'altra teoria di cui vi metterò al corrente e che sono convinto si rivelerà vera entro stasera stessa. Eccovela, la mia teoria, la mia convinzione. I Gordon, che erano persone meravigliose ma tremendamente spensierate in fatto di denaro, hanno rubato uno dei nuovi vaccini ai quali stavano lavorando. Sono convinto che fossero molto più avanti nelle ricerche su un vaccino di quanto ci avessero indotti a credere. Sfortunatamente, questo talvolta accade, negli ambienti scientifici. Potrebbero avere avuto appunti separati e perfino gel per il sequenziamento del DNA separato: sono piastre trasparenti dove mutazioni ottenute mediante tecniche di ingegneria genetica, che sono inserite in virus patogeni, si manifestano come... qualcosa di simile a un codice a barre», spiegò. Nessuno diceva una parola, e lui continuò: «Mettiamo, perciò, che i Gordon avessero scoperto un nuovo vaccino meraviglioso per un terribile virus patogeno - animale, o umano, o entrambe le cose - e tenuta segreta la scoperta, e messo assieme nel corso dei mesi tutti i loro appunti, le piastre genetiche e il vaccino stesso in qualche area nascosta del laboratorio, o in un edificio deserto dell'isola. Il loro scopo, naturalmente, sarebbe stato di vendere il tutto a una ditta farmaceutica, magari straniera. Forse, intendevano dare le dimissioni da qui, accettare un impiego presso una ditta privata e fingere di farla là, la scoperta. Dopo di che, avrebbero ricevuto un ingente premio ammontante a milioni di dollari. E le royalty potrebbero essere di decine di milioni di dollari, a seconda dell'importanza del vaccino». Nessuno parlava. Lanciai un'occhiata a Beth. Lei questo lo aveva praticamente predetto mentre eravamo là sulla scogliera. «La cosa ha un senso, vero? Chi lavora con la vita e la morte preferisce vendere vita. Non foss'altro perché è più sicura e anche più redditizia. La morte costa poco. Potrei uccidervi con una zaffatina di carbonchio. La vita è più difficile da proteggere e preservare. Insomma, se la morte dei Gordon fosse in qualche modo connessa con il loro lavoro qui, lo sarebbe per le ragioni che ho detto. Perché pensare a virus e batteri patogeni? Perché la
vostra mente si orienta in quel senso? Come diciamo noi, se il nostro unico attrezzo è un martello, ecco che ogni problema si presenta come un chiodo. Sì? Be', ma non vi biasimo. Si pensa sempre al peggio, e fa parte del vostro mestiere.» Di nuovo, nessuno parlò. Il dottor Zollner fissò a turno ciascuno di noi e continuò: «Se i Gordon facevano questo, era disonesto oltre che illegale. E chiunque fosse il loro agente - l'intermediario - era a sua volta disonesto e avido, e si direbbe anche un omicida». Sembrava che il buon dottor Zollner ci avesse riflettuto a fondo. «Questa non sarebbe la prima volta», proseguì, «che persone di scienza al servizio del governo hanno cospirato per rubare la loro stessa scoperta e diventare milionarie. È molto frustrante, per individui di genio, vedere altri ricavare milioni dal loro lavoro. E le poste in palio sono altissime. Se questo vaccino, per esempio, potesse essere usato per un'epidemia di portata mondiale, come l'AIDS, allora staremmo parlando di centinaia di milioni di dollari. Perfino di miliardi, per gli scopritori.» Ci guardammo tutti l'un l'altro. Miliardi. «Quindi, pensateci su. I Gordon volevano diventare ricchi ma, soprattutto, penso, volevano diventare famosi. Volevano essere riconosciuti, volevano che il vaccino portasse il loro nome, come il vaccino Salk. Qui non sarebbe mai accaduto. Quello che facciamo qui viene tenuto sotto silenzio, salvo all'interno della comunità scientifica. I Gordon erano alquanto singolari, per essere dei biologi. Erano giovani, volevano beni materiali. Volevano il Sogno Americano, ed erano certi d'esserselo guadagnato. Ed era vero, sapete. Erano brillanti, sovraccarichi di lavoro e sottopagati. Così avranno pensato di trovare un rimedio. Mi domando solo che cosa avessero scoperto, e mi preoccupa il pensiero di non riuscire a recuperarlo. Mi domando, anche, chi li abbia uccisi, anche se sono certo di sapere perché. E allora, che cosa ne pensate? Sì? No?» Ted Nash fu il primo a parlare: «Penso che sia così, dottore. Penso che abbia ragione lei». George Foster annuì: «L'idea nostra era giusta, ma sbagliavamo germe. Un vaccino. Ma certo». Anche Max annuiva, e disse: «È tutto perfettamente logico. Ed è un bel sollievo. Sì». Poi parlò Beth. «Dovrò ugualmente trovare l'assassino, io. Ma penso che possiamo smetterla di cercare terroristi e cominciare a orientarci verso un
altro tipo di persona, o persone.» Io intanto guardavo il dottor Zollner, e anche lui ora fissava me. Le sue lenti erano spesse, ma si poteva intravedere il luccichio dei suoi occhi azzurri. Forse, non Burl Ives. Forse, il Colonnello Sanders. Ecco, sì, davvero appropriato. Il capo del più grande laboratorio del mondo di ricerche sulle malattie degli animali assomigliava al Colonnello Sanders. «Detective Corey», disse rivolto a me, «forse lei è di parere contrario?» «Oh, no, sono d'accordo con la maggioranza, in questo. Conoscevo i Gordon, e a quanto pare li conosceva anche lei, dottore. Ha ragione al cento per cento.» Guardai i miei colleghi e dissi: «Non so come abbiamo fatto a non pensarci. Non morte. Vita. Non malattia, ma cura». «Un vaccino», precisò il dottor Zollner. «Prevenzione, non cura. C'è maggior guadagno nei vaccini. Se è un vaccino per l'influenza, mettiamo, ecco che in un anno, nella sola America, ne vengono distribuite un centinaio di milioni di dosi. I Gordon stavano facendo un lavoro quanto mai brillante con i vaccini virali.» «Giusto. Un vaccino.» Guardai Zollner. «E lei dice che il tutto l'avrebbero progettato già da qualche tempo?» «Oh, sì. Non appena resisi conto d'essere sulla buona strada, avrebbero cominciato a falsificare appunti, risultati di test e, al tempo stesso, a tenere appunti autentici e così via. È l'equivalente scientifico della doppia contabilità.» «E nessuno si sarebbe accorto di quanto stava accadendo? Non ci sono riscontri o controlli?» «Be', ci sono, naturalmente. Ma i Gordon erano l'uno il compagno ricercatore dell'altro, ed erano di grado molto elevato. Inoltre, l'area di loro competenza - l'ingegneria genetica virale - è alquanto specialistica e sfugge, quindi al controllo dei colleghi. E per finire, se c'è una volontà, e c'è il QI di un genio all'opera, un modo si trova sempre.» Assentivo. «Incredibile. E come la portavano fuori quella roba? Voglio dire, quanto è grande una piastra di... come si chiamano?» «Piastre di gel.» «Ah, sì. Quanto è grande?» «Oh... larga forse un mezzo metro, e lunga sui settanta, settantacinque centimetri.» «Come si porta fuori, quella, dal biocontenimento?» «Non saprei.» «E gli appunti?»
«Per fax. Poi le farò vedere.» «E il vaccino vero e proprio?» «Quella sarebbe la cosa più facile. Per via anale e vaginale.» «Non voglio sembrarle volgare, dottore, ma non penso che potessero infilarsi una piastra di quelle dimensioni su per il sedere senza attirare un po' d'attenzione.» Il dottor Zollner si schiarì la gola e replicò: «Non occorrono materialmente le piastre di gel, se si può fotocopiarle o fotografarle con una di quelle macchinette che si usano per lo spionaggio.» «Incredibile.» Stavo pensando al fax nell'ufficio dei Gordon. «Sì. Bene, andiamo a vedere se possiamo ricostruire cos'è successo e come è successo.» Si alzò. «Se qualcuno non desidera addentrarsi nell'area di biocontenimento, può aspettare nell'atrio o in sala mensa.» Si guardò attorno, ma nessuno diceva niente. Sorrise, più Burl Ives che Colonnello Sanders, direi. «Bene, tutti molto coraggiosi, allora. Prego, seguitemi.» Ci alzammo tutti e io aggiunsi: «Rimanete uniti». Il dottor Zollner mi sorrise e disse: «Quando sarà in biocontenimento, amico mio, vorrà spontaneamente rimanermi vicino quanto più è possibile». Si affacciò alla mia mente il pensiero che avrei dovuto andare ai Caraibi, in convalescenza. 12 Ritornammo nell'atrio e ci fermammo davanti alle due porte gialle. Il dottor Zollner si rivolse a Beth: «Donna l'aspetta nello spogliatoio. Segua le sue istruzioni, per favore, e ci ritroveremo sulla porta posteriore dello spogliatoio delle signore». La guardò sparire oltre la porta gialla, poi disse a noi: «Signori, con me, prego». Seguimmo il buon dottore nello spogliatoio maschile, che si rivelò un ambiente orribile color arancione ma, per il resto, tipico di tutti gli spogliatoi. Un inserviente ci fornì lucchetti aperti senza chiavi e candidi camici da laboratorio di bucato. Entro buste di politene c'era della biancheria di carta, calzini e ciabattine di tela. Zollner ci indicò una fila di armadietti vuoti e disse: «Per favore toglietevi tutto, biancheria e gioielli compresi». Così, ci spogliammo fino a rimanere in costume adamitico, e non vedevo l'ora di dire a Beth che Ted Nash aveva con sé una calibro 38 con canna
di sette centimetri e che la canna della sua pistola era più lunga del suo pistolino. George Foster osservò, a proposito della mia ferita sul petto: «Vicina al cuore». «Non ho cuore, io.» Zollner indossò il suo smisurato camice bianco, ed ecco che ora assomigliava di più al Colonnello Sanders. Feci scattare il mio lucchetto nella serratura, poi mi assestai la biancheria di carta. Il dottor Zollner ci squadrò ben bene. «Tutti pronti? Allora seguitemi, prego.» «Un momento», disse Max. «Non ci mettiamo mascherine o respiratori o qualcosa?» «Per la Zona Due no, signor Maxwell. Forse per la Zona Quattro, se vorrete andare tanto in là. Venite, venite. Seguite me.» Ci portammo in fondo allo spogliatoio, e Zollner aprì una porta rossa con il poco invitante simbolo del biorischio e, sotto il simbolo, le parole «Zona Due». Potevo udire un risucchio d'aria e il dottor Zollner che spiegava: «È la pressione d'aria negativa quella che sentite. C'è pressione minore all'interno rispetto all'esterno, per cui nessun agente patogeno può sfuggire accidentalmente». «Ho il terrore che possa succedere.» «Inoltre, i particolari filtri sul tetto depurano tutta l'aria che esce da qui.» Max appariva testardamente scettico, come se non volesse che alcuna buona notizia interferisse con la sua inveterata convinzione che Plum Island fosse l'equivalente in fatto di biorischio di Three Mile Island e Cernobyl messi insieme. Uscimmo in un corridoio tutto in cemento, e Zollner si guardò attorno e domandò: «Dov'è Miss Penrose?» «Dottore, è sposato lei?» gli risposi. «Sì. Oh... ma certo, potrebbe impiegare più tempo a cambiarsi.» «Nessun "potrebbe", in proposito.» Infine, dalla porta con la scritta «Donne», apparve Lady Penrose, paludata nell'ampio camice e con le ciabattine di tela. Pensai che anche così era sexy, nonostante il candore. Udì anche lei il risucchio, e Zollner le spiegò la differenza di pressione, poi diede a tutti alcune istruzioni sullo stare attenti a non andare a urtare contro carrelli o scaffali di fiale, o bottiglie piene di germi letali o di so-
stanze chimiche, e così via. «Bene», concluse, «vi prego di seguirmi, e io vi mostrerò che cosa succede qui dentro, così potrete dire ad amici e colleghi che non stiamo fabbricando bombe al carbonchio.» Rise, poi aggiunse in tono più serio: «La Zona Cinque è off limits perché occorrono vaccinazioni speciali e anche un addestramento per indossare tute anti-biorischio, respiratori e così via. Anche il sotterraneo è off limits». «Perché è off limits il sotterraneo?» domandai. «Perché è là che nascondiamo gli alieni morti e i biologi nazisti.» Rise di nuovo. Amo fare da spalla a un grasso scienziato con un accento da dottor Stranamore. Dico davvero. Cosa più pertinente, capivo che Stevens aveva effettivamente parlato con Zollner. Quanto mi sarebbe piaciuto essere stato una mosca tsetse su quella parete. Foster tentò di fare dell'umorismo. «Credevo che gli alieni e i nazisti fossero nei bunker sottoterra.» «No, gli alieni morti sono nel faro», disse Zollner. «I nazisti li abbiamo trasferiti fuori dei bunker quando si sono lamentati della presenza di vampiri.» Risero tutti: ah, ah, ah. Umorismo in biocontenimento. Dovrei scriverlo a «Selezione». Mentre procedevamo, il dottor Zollner spiegò: «Questa è una zona sicura, a basso rischio e a basso contagio: ci teniamo soprattutto laboratori di ingegneria genetica, alcuni uffici, microscopi elettronici». Percorrevamo corridoi di cemento senza finestre e, ogni tanto, Zollner apriva una porta di ferro verniciata di giallo per salutare qualcuno all'interno di un ufficio o laboratorio e informarsi di come andava il lavoro. C'era ogni genere di strane stanze senza finestre, compreso un posto che sembrava proprio una cantina, salvo che le bottiglie sugli scaffali invece di vino contenevano colture di cellule vive, a sentire Zollner. Lui ci teneva tutto un commentario mentre percorrevamo quei corridoi di un grigio da nave da guerra. «Stanno emergendo nuovi virus che colpiscono animali o uomini o gli uni e gli altri. Esseri umani e animali delle specie superiori non hanno reazioni immunologiche a molte di queste malattie mortali. I farmaci antivirali di cui disponiamo non sono molto efficaci, e così la chiave per evitare una futura catastrofe di portata mondiale sta nei vaccini antivirali, e la chiave dei nuovi vaccini è l'ingegneria genetica.» «Quale catastrofe?» domandò Max.
Il dottor Zollner continuò a camminare e a parlare con grande disinvoltura, mi sembrò, considerato l'argomento. «Be', riguardo alle malattie animali, un'epidemia di afta epizootica, per esempio, potrebbe spazzar via gran parte del bestiame di questa nazione e distruggere i mezzi di sussistenza di milioni di persone. Il costo degli altri cibi verrebbe probabilmente quadruplicato. Il virus dell'afta epizootica è forse il più contagioso e più virulento in natura, ed ecco perché ha sempre affascinato quelli della guerra batteriologica. Una buona giornata, per i signori della guerra batteriologica, sarà quella in cui i loro biologi potranno modificare geneticamente il virus dell'afta epizootica affinché infetti gli esseri umani. Ma quel che è peggio, penso, è che alcuni di quei virus mutano spontaneamente e divengono pericolosi per gli uomini.» Nessuno aveva commenti o domande, in proposito. Sbirciammo entro altri laboratori, e Zollner aveva sempre qualche parola incoraggiante da rivolgere alle pallide teste d'uovo in camice bianco al lavoro in ambienti che mi rendevano nervoso al solo guardarli. Diceva frasi come: «Cos'abbiamo imparato di bello, oggi? Abbiamo scoperto qualcosa di nuovo?» E così via. Sembrava che fosse molto ben visto, o almeno tollerato dai suoi biologi. Mentre svoltavamo nell'ennesimo corridoio di una serie apparentemente senza fine, Zollner continuava la sua conferenza. «Nel 1983, per esempio, scoppiò un'epidemia mortale e quanto mai contagiosa a Lancaster, Pennsylvania. Ci furono diciassette milioni di morti. Polli, intendo dire. Pollame. Però capite dove voglio arrivare? L'ultima, tremenda epidemia di influenza mortale per gli umani scoppiò nel 1918. Nel mondo vi furono circa venti milioni di morti, tra cui cinquecentomila nei soli Stati Uniti. Basato sulla nostra popolazione attuale, il numero equivalente di morti sarebbe all'incirca un milione e mezzo di persone. Potete immaginarla una cosa del genere, oggi? E il virus del 1918 non era particolarmente virulento, e i viaggi, si sa, erano più lenti e meno frequenti. Oggi, le autostrade e i viaggi in aereo possono diffondere nel mondo un virus infettivo in pochi giorni. Quello che c'è di buono nei virus più letali, come l'Ebola, è che uccidono così rapidamente che a stento hanno il tempo di lasciare un villaggio africano prima che tutti gli abitanti siano morti.» «C'è un traghetto dell'una?» domandai. Il dottor Zollner rise. «Si sente alquanto nervoso, sì? Qui non ha niente da temere. Usiamo molta cautela. Siamo molto rispettosi dei piccoli germi, in questo edificio.» «Suona come la frottola "il mio cane non morde".»
Zollner mi ignorò e continuò: «È la missione del ministero dell'Agricoltura degli Stati Uniti impedire che malattie di animali stranieri approdino su queste sponde. Siamo l'equivalente, per gli animali, del Centro per il Controllo delle Malattie di Atlanta. Come potete immaginare, lavoriamo a stretto contatto con Atlanta a causa delle cosiddette malattie di scambio: da animali a umani e viceversa. Abbiamo un enorme complesso, a Newburgh, New York, dove tutti gli animali che arrivano in questo paese devono rimanere in quarantena per un periodo di tempo. Sapete, è come un'arca di Noè di animali che arrivano ogni giorno: cavalli di razze straniere, animali da circo, bestiame da allevamento, animali esotici commerciali quali gli struzzi e i lama, bestiole esotiche come i porcellini vietnamiti, e ogni sorta di uccelli dalla giungla... Due milioni e mezzo di animali ogni anno». Ci guardò e aggiunse: «Newburgh è stata soprannominata "la Ellis Island del regno animale". Plum Island è Alcatraz. Nessun animale che ci arrivi da Newburgh o da altri luoghi esce di qui vivo. Devo dirvelo, tutti questi animali che vengono importati nel nostro paese per ricreazione o per divertimento ci hanno procurato un immenso lavoro e molta ansia. È solo questione di tempo». E finì: «Potete spostare il discorso dal regno animale alla popolazione umana». Io potevo di certo. Rimase qualche istante in silenzio, poi disse: «Un tempo i cannoni di Plum Island proteggevano le coste di questo paese, e ora quest'impianto fa la stessa cosa». Piuttosto poetico per uno scienziato, pensai, poi rammentai d'avere letto quella stessa frase su uno dei comunicati stampa che mi aveva fornito Donna. A Zollner piaceva parlare, e il mio mestiere è ascoltare, così si andava che era una bellezza. Entrammo in una stanza che Zollner definì un laboratorio di cristallografia ai raggi-X, e non intendevo certo contraddirlo. Una donna era china su un microscopio, e Zollner ce la presentò come dottoressa Chen, collega e buona amica di Tom e Judy. La dottoressa Chen era sulla trentina, e anche piuttosto attraente, pensai, con una lunga chioma nera, trattenuta da una specie di reticella, adatta per lavorare china sul microscopio di giorno, immagino; ma chissà poi la notte, quando quei capelli venivano giù. Comportati bene, Corey. È una scienziata, questa, ed è molto più in gamba di te. La dottoressa Chen ci salutò, e sembrava piuttosto seria, mi sembrò, ma
probabilmente era sconvolta e triste per la morte dei suoi amici. Ancora una volta, Beth fece in modo di rendere ben chiaro che io ero un amico dei Gordon, e a quel livello, se non altro mi guadagnavo il mio dollaro la settimana. Mi spiego: alle persone non piace che un gruppo di poliziotti le bombardi di domande, ma se uno degli sbirri è amico a sua volta della vittime, ecco che c'è un po' di margine. A ogni modo, convenimmo tutti che la fine dei Gordon fosse una tragedia, e parlammo bene dei due morti. L'argomento si spostò sul lavoro della dottoressa Chen. Lei ci spiegò, in termini per profani così che più o meno la compresi: «Sono in grado, ai raggi-X, di sottoporre a esame radiografico i cristalli dei virus così da poter fare una mappa della loro struttura molecolare. Una volta fatto questo, ecco che possiamo tentare di alterare il virus per renderlo incapace di provocare malattie ma, se iniettiamo in un animale il virus così alterato, l'animale può produrre anticorpi che si spera possano aggredire la naturale versione patogena del virus». «Ed è a questo che lavoravano i Gordon?» domandò Beth. «Sì.» «A che cosa stavano lavorando specificamente? A quale virus?» La dottoressa Chen lanciò un'occhiata a Zollner. Mi preoccupa che i testimoni si comportino così. È come quando il lanciatore, fate conto, riceve dall'allenatore il segnale di eseguire il tiro in un certo modo. Il dottor Zollner doveva avere segnalato un tiro diretto perché la dottoressa Chen rispose in modo esplicito: «L'Ebola». Nessuno fiatò, poi Zollner precisò: «L'Ebola delle scimmie, s'intende». E aggiunse: «Ve l'avrei detto anche prima, ma pensavo voleste farvelo spiegare in modo più completo da uno dei colleghi dei Gordon». E accennò alla dottoressa Chen. La Chen continuò: «I Gordon stavano cercando di alterare geneticamente il virus Ebola delle scimmie affinché non fosse più patogeno ma producesse una reazione immunitaria nell'animale. Esistono molte varietà del virus Ebola, e non sappiamo ancora con certezza quali possano attraversare la barriera tra le specie». «Intende dire», domandò Max, «infettare le persone?» «Sì, infettare gli esseri umani. Ma questo è un primo passo importante verso un vaccino per l'Ebola dell'uomo.» «La maggior parte del nostro lavoro, qui», interloquì il dottor Zollner, «è stato fatto tradizionalmente con quelli che potremmo definire animali da
fattoria: animali che producono alimenti e pellami. Tuttavia, nel corso degli anni, alcune agenzie governative hanno sottoscritto altri tipi di ricerca.» «I militari, per esempio, per fare ricerche sulla guerra batteriologica?» domandai io. Il dottor Zollner non diede una risposta diretta ma disse: «L'isola è un ambiente unico, isolato, però vicino ai maggiori centri di trasporto e di comunicazione, e inoltre alle migliori università della nazione, nonché a un preparatissimo pool di scienziati. Senza contare le nostre attrezzature, tecnicamente all'avanguardia. Perciò, a parte i militari, lavoriamo per altre agenzie, qui e all'estero, ogni qualvolta si presenta qualcosa di molto insolito o di potenzialmente... pericoloso per l'umanità. Come nel caso dell'Ebola». «In altre parole», dissi, «in certo senso qui affittate le stanze?» «È un impianto grandissimo», rispose lui. «I Gordon», domandai, «lavoravano per il ministero dell'Agricoltura?» «Non sono autorizzato a dirlo.» «Da dove provenivano i loro stipendi?» «Tutti gli stipendi provengono dal ministero dell'Agricoltura.» «Ma non tutti i biologi che ricevono lo stipendio dal ministero dell'Agricoltura sono dipendenti di quel ministero. È esatto?» «Non intendo impegnarmi in un duello semantico con lei, signor Corey.» Guardò la dottoressa Chen. «Continui, prego.» «Ci sono tali e tanti compiti e passi separati in questo genere di lavoro che nessuno può vedere il quadro completo salvo il supervisore del progetto. Quello era Tom. Judy era vice supervisore del progetto. Per di più, essi stessi erano entrambi eccellenti ricercatori. Ripensandoci, posso vedere quello che stavano facendo, che era poi chiedere test su procedimenti che erano un po' come delle false piste, e talvolta dire a qualcuno di noi addetti al progetto d'essere arrivati in un vicolo cieco. Controllavano loro, attentamente, i veri e propri test clinici sulle scimmie, e quelli che maneggiavano gli animali non erano bene informati. Tom e Judy erano i soli a essere in possesso di tutte le informazioni.» La Chen rifletté un momento, poi disse: «Non credo che fossero partiti dall'intento di ingannare... penso che quando si resero conto di quanto fossero vicini a un vaccino utilizzabile per l'Ebola delle scimmie, videro la possibilità di trasferire la tecnologia a un laboratorio privato dove il prossimo passo logico sarebbe stato un vaccino per l'uomo. Forse erano convinti che quella fosse la cosa migliore nell'interesse dell'umanità. Forse
pensavano di poter sviluppare quel vaccino in modo più rapido ed efficace, fuori di questo posto che - come quasi tutte le agenzie governative - è soggetto alla burocrazia e alla lentezza». «Atteniamoci alla teoria del movente del profitto, dottoressa Chen», disse Max. «L'interesse dell'umanità non regge, per me.» Lei abbozzò una stretta di spalle. Beth accennò al microscopio. «Posso dare un'occhiata?» «Quelli sono Ebola morti, naturalmente», spiegò la dottoressa Chen. «L'Ebola vivo è soltanto nella Zona Cinque. Ma posso mostrarle senza pericolo dei virus Ebola vivi su videotape.» Si girò verso un monitor e mise in funzione il videoregistratore. Lo schermo si illuminò fino a mostrare quattro cristalli quasi trasparenti, colorati di rosa e tridimensionali, che mi richiamavano alla mente un prisma. Se erano vivi, stavano facendo il morto. «Come dicevo», spiegò la dottoressa Chen, «ricavo la mappa della struttura molecolare, così quelli di ingegneria genetica possono tagliare e collegare questo o quel pezzo, poi il virus viene propagato e iniettato in una scimmia. Tre possono essere le reazioni della scimmia: contrae l'Ebola e muore, non contrae l'Ebola ma non produce anticorpi, oppure non contrae l'Ebola e produce gli anticorpi al virus. E quella è la reazione che cerchiamo. Significa infatti che abbiamo un vaccino. Ma non necessariamente un vaccino sicuro o efficace. La scimmia può sviluppare l'Ebola in seguito o, più comunemente, quando in seguito iniettiamo alla scimmia il virus naturale dell'Ebola, gli anticorpi non sono efficaci nel vincere la malattia. La reazione immunitaria è troppo debole. Oppure, non protegge contro tutte le varietà di virus. È un lavoro molto frustrante. I virus sono molto semplici, dal lato molecolare e genetico, ma rappresentano una sfida superiore a quella dei batteri in quanto mutano facilmente, sono difficili da capire e duri da distruggere. In effetti, il problema è: quei cristalli sono veramente vivi nel senso in cui noi intendiamo la vita? Guardateli. Sembrano schegge di ghiaccio.» In realtà stavamo tutti fissando i cristalli sullo schermo. Sembravano frammenti caduti da un lampadario di Boemia. Era difficile credere che quegli individui lì e i loro cugini e fratelli avessero causato tante sofferenze e tante morti agli uomini, per non parlare degli animali. C'era qualcosa di agghiacciante in un organismo che sembrava morto ma ritornava in vita quando invadeva cellule viventi, e si riproduceva così rapidamente da poter uccidere un pezzo d'uomo sanissimo in quarantott'ore. Ma che cosa
passava per la mente di Dio? La dottoressa Chen spense il monitor. Beth le fece domande sul comportamento dei Gordon il giorno innanzi, e lei disse che erano parsi alquanto tesi. Judy si lamentava di un gran mal di testa, e avevano deciso di andarsene a casa. Nessuno di noi si sorprese, nel sentirlo. Mi rivolsi direttamente alla Chen. «Pensa che abbiano portato via qualcosa da qui, ieri?» Rifletté un momento, poi rispose: «Non lo so. Come posso dirlo?» «Quanto è difficile portar fuori qualcosa di nascosto da qui?» le domandò Beth. «Lei come farebbe?» «Be'... potrei prendere qualsiasi provetta da qui, o anche da un altro laboratorio, andare nella toilette e inserire la provetta o la fiala in uno degli orifizi del mio corpo. Nessuno noterebbe la scomparsa di una singola fiala, specie se non fosse stata registrata e identificata. Poi andrei nella stanza della doccia, getterei i miei mdumenti da laboratorio in un cesto, farei la doccia e andrei al mio armadietto. A questo punto potrei rimuovere la fiala e metterla nella borsetta. Mi vestirei, uscirei passando dall'atrio, salirei sull'autobus che porta al traghetto e me ne tornerei a casa. Nessuno ti osserva mentre fai la doccia. Non ci sono telecamere. Lo vedrà lei stessa, nell'andarsene da qui.» «E se fosse qualcosa di più grande», dissi io. «Troppo grande per... be', troppo grande.» «Qualsiasi cosa che si possa nascondere sotto il camice da laboratorio può farcela fino alla doccia. È là che bisogna essere molto abili. Per esempio, se portassi una piastra di gel nella doccia, potrei nasconderla nel mio asciugamano.» «Potrebbe anche nasconderla nel cesto con i suoi panni da laboratorio», disse Beth. «No, non si può mai tornare indietro. Quei panni sono contaminati. Anzi, una volta usato l'asciugamano, deve andare anche quello in un cesto separato. È lì che qualcuno che stesse guardando vedrebbe, se cercaste di portar fuori qualcosa. Se però uno va a docciarsi a un'ora strana, ha buone probabilità di ritrovarsi solo.» Cercai di figurarmi la scena di Judy e Tom che portavano fuori Dio sa cosa da quell'edificio nel pomeriggio precedente, quando nelle docce non c'era nessuno. «Se si presume che qualsiasi cosa, qui dentro, abbia un certo grado di contaminazione, perché mai vorrebbe inserire una fiala, o altro
nel... dentro di sé?» «Si ricorre per prima cosa a una basilare forma di decontaminazione, naturalmente. Lavarsi le mani con il sapone speciale in una delle toilette, usare un preservativo per rivestire la fiala o la provetta, usare guanti sterili o un foglio di lattice per oggetti più grandi. Bisogna essere prudenti, non paranoici.» «Quanto alle informazioni su computer», continuò la dottoressa Chen, «possono essere trasferite elettronicamente dal biocontenimento agli uffici dell'area amministrativa, perciò non è necessario rubare dischetti o nastri. E per quel che riguarda appunti scritti a mano o a macchina, grafici, mappe e così via, è procedura standard faxare il tutto fuori di qui e nei rispettivi uffici. Fax ce ne sono dappertutto, come potete vedere, e ciascun ufficio all'esterno del biocontenimento ha un fax individuale. È il solo modo in cui si possano far uscire appunti di qui. Anni addietro, bisognava scriverli su carta speciale, immergerli in un liquido decontaminante, lasciarli asciugare, poi recuperarli il giorno dopo. Ora, con il fax, trovi i tuoi appunti ad aspettarti quando fai ritorno nel tuo ufficio.» Stupefacente, pensai. A quelli che avevano inventato il fax non era mai passato per la testa, scommetto. Posso figurarmi lo spot alla tivù: «Appunti di laboratorio coperti di germi? Inviateli per fax al vostro ufficio. Voi dovete fare la doccia, ma loro no». O qualcosa del genere. Beth guardò la dottoressa Chen e le sparò una domanda diretta: «Pensa che i Gordon abbiano portato fuori di qui qualcosa di pericoloso per gli esseri viventi?» «Oh, no. No, no. Qualsiasi cosa abbiano preso - ammesso che abbiano preso qualcosa - non era patogeno. Qualsiasi cosa fosse, era terapeutico, utile, a scopo di antidoto, comunque vogliamo definirlo. Era qualcosa di buono. Ci scommetterei la vita su questo.» «Stiamo scommettendoci tutti la vita», disse Beth. Lasciammo la dottoressa Chen e la stanza dei raggi-X e continuammo il nostro giro. Cammin facendo, il dottor Zollner commentò: «Così, come ho già detto, e come la dottoressa Chen sembra convenire, se i Gordon hanno rubato qualcosa, era un vaccino virale geneticamente alterato. Molto probabilmente un vaccino per l'Ebola, dato che su questo verteva soprattutto il loro lavoro». Sembravano convenire tutti, in proposito. La mia impressione personale era che la dottoressa Chen fosse stata un po' troppo preparata e perfetta, e
che non conoscesse così bene i Gordon quanto lei e Zollner asserivano. Il dottor Zollner riprese il suo commentario mentre percorrevamo quei corridoi labirintici. «Tra le malattie virali che studiamo», disse, «ci sono alcune febbri emorragiche e la reovirosi ovina. Studiamo anche una varietà di polmoniti, di malattie da rickettsia, quali l'idropericardite dei ruminanti, e un'ampia gamma di morbi batterici e anche di malattie da parassiti.» «Dottore, io rimediai un voto mediocre in biologia e solo perché avevo copiato. Non riesco proprio a seguirla. Ma lasci che le domandi questo: dovete produrne un sacco di questa roba per poterla studiare. Giusto?» «Sì, ma posso assicurarle che non siamo in grado di produrre un qualsiasi organismo in quantità sufficienti per i bisogni di una guerra batteriologica, se è a questo che vuole arrivare.» «Voglio arrivare a un qualsiasi atto di terrorismo», dissi. «Producete germi a sufficienza per questo?» Accennò una stretta di spalle. «Forse.» «Di nuovo quella parola, dottore.» «Be', sì, sufficienti per un atto terroristico». «È vero», domandai, «che un barattolo da caffè di carbonchio, spruzzato nell'aria intorno all'isola di Manhattan, potrebbe uccidere duecentomila persone?» Rifletté un momento, poi rispose: «Potrebbe darsi. Chi può dirlo? Dipende dal vento. È estate? È ora di pranzo?» «È l'ora di punta di domani sera, più o meno.» «D'accordo... duecentomila. Trecentomila. Un milione. Non ha importanza perché nessuno lo sa e nessuno ha un barattolo da caffè pieno di carbonchio. Di questo, posso darle assicurazione. L'inventario era assolutamente specifico, in proposito.» «Ah, bene. Ma non altrettanto specifico su altre cose?» «Come ho già detto, se qualcosa manca, è un vaccino antivirale. A questo i Gordon stavano lavorando. Vedrà. Domani vi sveglierete tutti vivi. E anche dopodomani e il giorno dopo ancora. Ma di qui a sei o sette mesi, qualche società farmaceutica, o qualche governo straniero, annuncerà un vaccino per l'Ebola, e l'Organizzazione Mondiale della Sanità ne acquisterà duecento milioni di dosi solo per cominciare, e quando avrete scoperto chi sta diventando più ricco grazie a quel vaccino, scoprirete l'assassino dei Gordon.» Nessuno replicò per qualche secondo, poi Max disse: «Lei è assunto, dottore».
Tutti sorrisero e accennarono risatine. Anzi, tutti noi volevamo crederci, ci credevamo, e il nostro sollievo era tale che quasi ci sentivamo sollevare da terra, come storditi da quelle buone notizie, euforici al pensiero che non ci saremmo svegliati con una idropericardite terminale o altro, e in verità nessuno stava più concentrandosi sul caso quanto aveva fatto in precedenza. A parte me. A ogni modo, Zollner continuò a mostrarci ogni sorta di stanze e a parlare di diagnosi e di produzione di reagenti, di ricerche di anticorpi monoclonali, di ingegneria genetica, di virus generati da acari, di produzione di vaccini e così via. C'era da inorridire. Bisogna essere tipi strani per dedicarsi a un lavoro simile, pensavo, e i Gordon, che consideravo persone normali, dai loro pari dovevano essere stati considerati alquanto singolari al confronto... che era proprio come Zollner li aveva descritti. Accennai a questo con Zollner, e lui replicò: «Sì, i miei biologi sono piuttosto introversi... come la maggior parte degli scienziati. Conosce la differenza tra un biologo introverso e un biologo estroverso?» «No.» «Un biologo introverso si guarda le scarpe, quando parla con lei.» Zollner rise di cuore della battuta, e risi un poco anch'io, benché non mi piaccia quando qualcuno mi ruba la scena. Ma eravamo nel suo laboratorio. A ogni modo, vedemmo i vari posti in cui si era lavorato al progetto dei Gordon, e visitammo anche il piccolo laboratorio personale dei Gordon. Zollner ci spiegò: «Come direttori del progetto, i Gordon si limitavano più che altro a sovrintendere, ma portavano avanti anche del lavoro tutto loro, qui». «Nessun altro lavorava in questo laboratorio?» domandò Beth. «Be', c'erano gli assistenti. Ma questo laboratorio era il regno privato dei dottori Gordon. Potete star certi che ho passato un'ora qui dentro, stamattina, cercando qualcosa che potesse mettermi in sospetto, ma non avrebbero certo lasciato in giro cose che potessero incriminarli.» Assentii. In effetti, riflettevo, qualche indizio incriminante in precedenza ci sarà anche stato, ma se era ieri il momento culminante del loro lavoro segreto e del furto finale, ieri mattina o il giorno innanzi si saranno affrettati a far sparire ogni traccia. Ma questo presupponeva che credessi a tutta la storia del vaccino per l'Ebola, invece io non ne ero affatto sicuro. Beth si rivolse a Zollner: «Non è permesso introdursi nel luogo di lavoro delle vittime di un omicidio per guardarsi attorno, rimuovere oggetti o toc-
care qualsiasi cosa». Zollner si strinse nelle spalle, difendendosi com'era logico, date le circostanze. «Io questo come potevo saperlo? Sa qual è il mio mestiere?» «Voglio solo che lo sappia.» «Per la prossima volta? D'accordo, la prossima volta che verranno assassinati due dei miei biologi più importanti, mi guarderò bene dall'entrare nel loro laboratorio.» Beth Penrose era abbastanza intelligente per lasciar correre, e non replicò. Era evidente che Miss Tienti-alle-regole non stava affrontando molto bene le circostanze davvero uniche di quel caso. Ma dovevo riconoscere che si sforzava di farlo. Se avesse fatto parte dell'equipaggio del Titanic, avrebbe voluto che tutti firmassero l'avvenuta consegna del salvagente. Ci guardammo un po' attorno nel laboratorio, ma non c'erano quaderni di appunti, né provette con l'etichetta «Eureka», né messaggi in codice sulla lavagna, né cadaveri nello sgabuzzino dei materiali di scorta e, in conclusione, niente che un profano potesse capire. Se qualcosa di interessante o di incriminante c'era stato, era scomparso, con i complimenti dei Gordon, o di Zollner, o perfino di Nash e Foster nel caso si fossero avventurati fin li nella loro precedente visita mattutina. Così, cercai mentre ero là di comunicare con gli spiriti che, chissà, forse occupavano ancora quella stanza: Judy, Tom... datemi un indizio, un segno. Chiusi gli occhi e aspettai. Fanelli dice che i morti gli parlano. Identificano i loro assassini, ma parlano sempre in polacco o in spagnolo e a volte perfino in greco, e quindi lui non riesce a capirli. Lo dice per prendermi in giro, credo. È anche più matto di me. Sfortunatamente, il laboratorio dei Gordon non dava risultati, e noi riprendemmo il giro. Parlammo con una decina di biologi che lavoravano con o per i Gordon. Era evidente che: (a) tutti amavano Tom e Judy; (b) Tom e Judy erano brillanti; (c) Tom e Judy non avrebbero fatto male a una mosca se non per fare avanzare la causa della scienza al servizio dell'uomo e dell'animale; (d) i Gordon, sebbene amati e rispettati, erano diversi; (e) i Gordon, benché scrupolosi e onesti nei loro rapporti personali, avrebbero probabilmente fregato il governo e rubato un vaccino che valeva tanto oro quanto pesava, come si espresse qualcuno. L'impressione mia era che stessero recitando tutti dallo stesso copione. Continuammo la nostra passeggiata e salimmo una scala che portava al secondo piano. La mia gamba malconcia si muoveva a fatica, e il polmone
sforacchiato sibilava al punto che pensavo tutti dovessero sentirlo. «Non credevo», dissi a Max, «che sarebbe stato così faticoso.» Mi guardò e si sforzò di sorridermi. «In certi momenti», mi confidò sottovoce, «soffro di claustrofobia.» «Anch'io.» In verità, non era la claustrofobia a tormentarlo. Come molti uomini di coraggio e d'azione, me compreso, Max mal tollerava un pericolo contro il quale non potesse estrarre la pistola. Il dottor Zollner ora ci parlava di programmi di addestramento che lì venivano condotti, di scienziati ospiti, di laureati e di veterinari che venivano da tutte le parti del mondo per insegnare e per imparare. Ci parlava anche di programmi cooperativi all'estero di quell'istituzione, in luoghi come Israele, Kenya, Messico, Canada e Inghilterra. «Anzi», disse, «i Gordon andarono in Inghilterra circa un anno fa. Al laboratorio Pirbright, a sud di Londra. È il nostro laboratorio gemello, laggiù.» «Vengono visitatori dai Corpi Chimici dell'Esercito?» domandai al dottor Zollner. Lui allora mi guardò e commentò: «Qualunque cosa io dica, lei ci trova qualcosa su cui indagare. Sono lieto che mi stia a sentire». «Vorrei sentire la risposta alla mia domanda.» «La risposta è che non sono affari suoi, signor Corey.» «Si sbaglia, dottore. Se sospettiamo che i Gordon rubassero organismi che possono essere usati per una guerra batteriologica, e che per questo siano stati assassinati, allora dobbiamo sapere se questi organismi esistono, qui. In altre parole, ci sono specialisti di guerra batteriologica in questo edificio? Lavorano qui? Sperimentano qui?» Il dottor Zollner guardò i signori Foster e Nash, poi disse: «Non sarei del tutto sincero se dicessi che qui non viene nessuno dei Corpi Chimici dell'Esercito. Sono quanto mai interessati ai vaccini e agli antidoti per i rischi batteriologici... Il governo degli Stati Uniti non studia, promuove o produce agenti di guerra batteriologica offensiva. Ma sarebbe suicidio nazionale non studiare misure difensive. Perciò, quando un giorno quel cattivone con il barattolo di carbonchio pagaierà con la sua canoa attorno all'isola di Manhattan, forse saremo pronti a proteggere la popolazione». Poi aggiunse: «Ha la mia parola che i Gordon non avevano a che fare con nessuno di provenienza militare, non lavoravano in quell'area e, in effetti, non avevano accesso a niente di così letale». «A parte l'Ebola.» «Ascolta davvero, lei. Magari il mio personale prestasse altrettanta at-
tenzione. Ma perché preoccuparsi dell'Ebola come arma? Abbiamo il carbonchio. Cercare di migliorare il carbonchio è come cercare di migliorare la polvere da sparo. Il carbonchio è facile da propagare, facile da maneggiare, si diffonde bellamente nell'aria, uccide abbastanza lentamente perché la popolazione infettata possa propagarlo, e storpia altrettante vittime quante ne uccide, provocando un crollo nel sistema sanitario del nemico. Ma, ufficialmente, non abbiamo bombe o proiettili d'artiglieria al carbonchio. La conclusione è che se i Gordon stavano cercando di mettere a punto un'arma batteriologica da vendere a una potenza straniera, mai più avrebbero perso tempo con l'Ebola. Erano troppo intelligenti per farlo. Perciò, si liberi pure di quel sospetto.» «Mi sento già meglio. A proposito, quando andarono i Gordon in Inghilterra?» «Vediamo... Nel maggio dell'anno scorso. Ricordo che li invidiai perché andavano in Inghilterra in maggio.» Poi mi domandò: «Perché vuole saperlo?» «Dottore, gli scienziati sanno sempre perché fanno delle domande?» «Sempre, no.» «Presumo che il governo pagò tutte le spese per il viaggio in Inghilterra dei Gordon.» «S'intende. Era tutto lavoro.» Rifletté un istante, poi disse: «In realtà, si trattennero una settimana a Londra a spese loro. Sì, me lo ricordo». Assentii. Quello che io non ricordavo era una somma insolitamente grossa pagata con carta di credito nel maggio o nel giugno dell'anno precedente. Non in un albergo di Londra, a meno che non avessero tagliato la corda senza saldare il conto. Né ricordavo alcun ingente prelievo di denaro. Un particolare sul quale riflettere. Il problema, nel porre domande realmente importanti in presenza di Nash e Foster, era che udivano anche le risposte. E se anche non sapevano da dove nascessero quelle domande, erano abbastanza intelligenti per capire - contrariamente a quanto avevo indicato a Zollner - che la maggior parte di quelle domande aveva uno scopo preciso. Stavamo percorrendo un corridoio lunghissimo, e nessuno stava parlando, quando il dottor Zollner disse: «Sentito?» Si arrestò bruscamente e si portò una mano all'orecchio. «Sentito?» Restammo tutti immobili, in ascolto. Alla fine, Foster domandò: «Cosa?» «Un brontolio. Sì, un brontolio. È...»
Nash s'inginocchiò e posò il palmo delle mani sul pavimento. «Un terremoto?» «No», disse Zollner, «è il mio stomaco. Ho fame.» Rise e vi batté sopra. «Stai buono», disse nel suo accento tedesco, che faceva suonare l'invito anche più comico. Sorrisero tutti tranne Nash, che si rialzò a fatica e si diede una spolverata alle mani. Zollner andò a una porta verniciata di un rosso vivo, sulla quale erano appiccicati sei simboli standard, come segue: Biorischio, Radioattività, Rifiuti chimici, Alto voltaggio, Veleno e, per finire, Rifiuti umani non trattati. Aprì la porta e annunciò: «Sala pranzo». Nella spoglia e bianca stanza di cemento senza finestre c'erano una decina di tavoli deserti, un lavandino, un frigorifero, un forno a microonde, tabelloni coperti di avvisi e messaggi, una fontanella d'acqua fresca e una macchina del caffè, ma nessuna macchina distributrice, dato che nessuno voleva entrare lì per rifornirle. Sopra un bancone c'era un fax, il menu della giornata, e carta e matita. «Offro io», disse Zollner. Scrisse per sé un'abbondante ordinazione che comprendeva, vidi, il piatto forte del giorno, che era il manzo. Non volevo neppure pensare alla provenienza di quel manzo. Per la prima volta da quando avevo lasciato l'ospedale, ordinai della gelatina di frutta e, per la prima volta in vita mia, saltai i piatti di carne. Nessun altro mostrava d'avere molto appetito, e tutti ordinarono insalate. Il dottor Zollner mandò le ordinazioni per fax e disse: «Qui l'ora di colazione non comincia prima dell'una, ma si affretteranno a servirci perché la richiesta viene da me». Poi suggerì che ci lavassimo le mani, cosa che tutti facemmo al lavandino, con certo strano sapone liquido scuro che sapeva di iodio. Ci procurammo tutti del caffè e prendemmo posto. Alcune altre persone entrarono, si servirono di caffè, presero cose dal frigorifero o trasmisero ordinazioni per fax. Guardai l'orologio per vedere l'ora e vidi il mio polso nudo. «Se avesse portato qui dentro il suo orologio», mi spiegò Zollner, «avrei dovuto decontaminarlo e tenerlo in quarantena dieci giorni.» «Il mio orologio non sopravviverebbe a una decontaminazione.» Lanciai uno sguardo all'orologio sulla parete. Mancavano cinque minuti all'una. Conversammo per qualche minuto del più e del meno. La porta si aprì ed entrò un uomo in camice bianco, spingendo un carrello di acciaio inossidabile che si presentava come qualsiasi altro carrello, salvo che era coperto da un foglio di polistirolo.
Il dottor Zollner tirò via l'involucro e lo gettò, poi - da perfetto padrone di casa - diede a ciascuno di noi quanto avevamo ordinato e congedò l'uomo col carrello. «Quel tizio deve fare la doccia, ora?» domandò Max. «Oh, sì. Il carrello viene messo prima in una stanza di decontaminazione e in seguito ritirato.» «È possibile», domandai, «usare quel carrello per portare qualcosa di grande fuori di qui?» Il dottor Zollner stava disponendo davanti a sé l'abbondante pasto con la perizia di un vero mangione. Rialzò lo sguardo dalle sue fatiche d'amore e disse: «Ora che mi ci fa pensare, sì. Quel carrello è la sola cosa che viaggi regolarmente tra l'amministrazione e il biocontenimento. Ma se qualcuno se ne servisse per portar fuori qualcosa di nascosto, dovrebbe avere altre due persone dalla sua. L'uomo che lo spinge dentro e fuori, e quello che lo lava e lo riporta in cucina. Lei è davvero in gamba, signor Corey». «Ragiono come un criminale.» Lui rise e attaccò il suo spezzatino di manzo. Che schifo. Contemplavo il dottor Zollner mentre mangiucchiavo di malavoglia la mia gelatina. Mi era simpatico. Era divertente, cordiale, ospitale e molto abile. Mentiva spudoratamente, s'intende, ma altri lo avevano costretto a farlo. Probabilmente quei due buffoni seduti dall'altro lato del tavolo, per cominciare, e Dio sapeva chi altri, da Washington, aveva istruito il dottor Z al telefono, per tutta la mattina, mentre noi vagavamo tra le rovine e avevamo in omaggio dépliant sulla peste bovina e simili piacevolezze. A sua volta il dottor Z aveva imbeccato la dottoressa Chen, il cui lavoro sembrava solo vagamente in relazione con quello dei Gordon. E ce l'aveva presentata come una buona amica dei Gordon, ma non lo era: prima di quel giorno, non l'avevo mai sentita nominare. E poi c'erano gli altri biologi con i quali avevamo parlato brevemente, prima che Zollner ci trascinasse via: quelli, anche, avevano imparato la stessa lezioncina della Chen. Ce n'era, di fumo, e ce n'erano di specchi, in quel luogo, e sono certo che c'erano sempre stati. «Non credo», dissi rivolto a Zollner, «a questa storia del vaccino per l'Ebola. So che cosa nasconde e che cosa vuole coprire.» Il dottor Zollner si fermò nel bel mezzo della masticazione, che per lui era un lavoro d'impegno. Mi fissò. «Gli alieni di Roswell, vero, dottore? I Gordon stavano per scoprire la verità sugli alieni di Roswell.» La stanza era davvero silenziosa, e perfino alcuni degli altri biologi lan-
ciavano sguardi verso di noi. Alla fine, sorrisi e dissi: «Ecco cos'è questa gelatina verdognola: cervello di alieni. Sto mangiando la prova». Tutti sorrisero e ridacchiarono divertiti. Zollner rise così forte che per poco non soffocò. Ragazzi, se sono divertente. Zollner e io potremmo fare un gran numero; Corey e Zollner. Potrebbe essere anche meglio di I dossier Corey. Tornammo tutti alle rispettive portate e al fare conversazione. Lanciavo occhiate ai miei compagni. George Foster era parso lievemente in preda al panico quando avevo detto di non credere al vaccino per l'Ebola, ma adesso era tranquillo e mangiava germogli d'erba medica. Ted Nash era parso non tanto in preda al panico quanto a furore omicida. Insomma, qualsiasi cosa stesse succedendo lì, non era né il luogo né il momento di dare del bugiardo a qualcuno. Incontrai lo sguardo di Beth, e come al solito non potei capire se l'avessi divertita o irritata. La via per arrivare al cuore di una donna passa da una risata. Le donne amano chi le fa ridere. Penso. Guardai Max, che sembrava meno fobico in quella stanza quasi normale. Aveva l'aria di godersi la sua insalata ai tre legumi, la cosa meno indicata da mettere sul menu in un ambiente chiuso. Continuammo a mangiare di malavoglia, poi la conversazione tornò al vaccino possibilmente sottratto. Il dottor Z disse: «Qualcuno, prima, si è espresso dicendo che questo vaccino varrebbe tanto oro quanto pesa, il che mi ha richiamato alla mente qualcosa: alcuni dei vaccini che i Gordon stavano testando avevano una sfumatura dorata, e ricordo che i Gordon una volta si riferirono ai vaccini definendoli oro liquido. Lo trovai strano, forse perché qui non parliamo mai in termini di denaro o di profitto». «No, ed è logico», dissi. «Siete un'agenzia governativa. Non è denaro vostro, e non dovete mai mostrare un profitto». Il dottor Zollner sorrise. «Lo stesso vale per il suo mestiere, caro signore.» «Lo stesso, certo. In ogni caso, ora siamo convinti che i Gordon tornarono in sé e, non più soddisfatti di lavorare nell'interesse della scienza per stipendi governativi, scoprirono il capitalismo e si proposero l'oro come obiettivo.» «Esatto.» Poi Zollner aggiunse: «Ha parlato con i loro colleghi, ha visto quello che facevano qui, e ora può trarne soltanto una conclusione. Perché è ancora scettico?» «Non sono scettico», mentii. Lo ero, naturalmente: sono un newyorkese e un poliziotto. Ma non volevo turbare il dottor Zollner, il signor Foster o
il signor Nash, così dissi: «Sto solo cercando di assicurarmi che i fatti collimino. Da come la vedo io, o la fine dei Gordon non ha niente a che fare con il loro lavoro qui, e tutti noi stiamo seguendo una falsa pista... oppure, se è in rapporto con il loro lavoro, allora è molto probabile che avesse a che fare con un vaccino virale che vale milioni di dollari. Oro liquido. E sembrerebbe che i Gordon siano stati traditi, o magari che tentassero di tradire il loro socio, e siano stati assassinati... Ping. Oh, Dio, ecco che lo risentivo. Cosa...? Era là. Non potevo vederlo però potevo udirne l'eco e potevo avvertirne la presenza, ma che cos'era? «Signor Corey?» «Eh?» I vividi occhi azzurri del dottor Zollner mi scrutavano attraverso gli occhialini dalla montatura d'acciaio. «Ha qualcosa per la mente?» «No. Be', sì. Se io ho dovuto togliermi l'orologio, perché lei può tenere gli occhiali?» «È la sola eccezione, questa. C'è un bagno per gli occhiali all'uscita da qui. Questo la porta a qualche altro geniale pensiero o teoria?» «Piastre di gel camuffate da occhiali.» Scosse la testa. «Idiozia. Io penso che le piastre di gel venissero portate fuori con il carrello del pranzo.» «Giusto.» Il Dottor Z guardò l'orologio sulla parete e disse: «Vogliamo continuare?» Ci alzammo tutti e deponemmo la nostra carta e la plastica in un contenitore di rifiuti foderato di un sacco di polistirolo rosso. Usciti nel corridoio, il dottor Zollner disse: «Entreremo ora nella Zona Tre. C'è un maggiore rischio di contagio nella Zona Tre, naturalmente, perciò se qualcuno non desidera andarci, lo farò riaccompagnare fino alla stanza delle docce». Ciascuno sembrava ansioso di penetrare più a fondo nelle viscere dell'inferno. Be', sto forse esagerando la reazione. Poco dopo, oltrepassammo una porta rossa con l'indicazione «Zona Tre». Lì, spiegò Zollner, i ricercatori lavoravano con patogeni vivi - parassiti, virus, batteri, funghi e altri mostriciattoli - e ci mostrò un laboratorio in cui una donna sedeva su uno sgabello davanti a una sorta di apertura nella parete. Aveva una mascherina e le mani erano protette da guanti di lattice. Davanti alla sua faccia c'era uno scudo di plastica, un po' come quelli contro gli starnuti in uso nelle tavole fredde, ma lei non stava preparando dell'insalata russa. Zollner spie-
gò: «C'è un aspiratore nell'apertura dove sono i germi patogeni, così il rischio che qualcosa finisca nella stanza è minore». «Perché lei ha la maschera», domandò Max, «e noi no?» «Già, perché?» feci eco. «Lei è molto più vicina ai germi patogeni. Se volete avvicinarvi di più per dare un'occhiata, vi procuro una maschera.» «Passo», dissi io. «Passo», convennero tutti. Il dottor Zollner si portò più vicino alla donna e scambiò con lei alcune parole inafferrabili. Si girò, tornò verso di noi e riferì: «Sta lavorando al virus della reovirosi ovina, quello che rende bluastra la lingua». Ci pensò su un momento, poi mormorò: «Forse mi sono avvicinato troppo». Cacciò fuori la lingua, che era in effetti di un blu violaceo, e cercò di guardarsela, fissando lungo il naso. «Dio mio... o è la torta di mirtilli che ho mangiato a colazione?» Rise. Ridemmo tutti. In verità, quell'umorismo macabro stava stancando perfino me, e sì che sono molto tollerante verso lo spirito di patata. Lasciammo tutti la stanza. Quella parte dell'edificio sembrava meno popolata della Zona Due, e le persone che vedevo sembravano un po' meno vispe. Zollner osservò: «Non c'è molto da vedere qui ma, se dico questo, allora il signor Corey insisterà per visitare fino all'ultimo angolino del luogo». «Oh, dottor Zollner», protestai, «le ho forse dato motivo di dire queste cose di me?» «Sì.» «Bene, allora vediamo fino all'ultimo angolino del luogo.» Passammo la mezz'ora successiva a guardare un po' dappertutto e, in verità, gran parte della Zona Tre presentava sempre le stesse cose: una stanza dopo l'altra con uomini e donne che scrutavano attraverso microscopi, preparando vetrini di muco, sangue e tessuti di animali vivi e morti, e così via. Alcune di quelle persone avevano addirittura la colazione con sé, e mangiavano intanto che armeggiavano con quelle sostanze disgustose. Parlammo con un'altra decina, più o meno, di biologi ambosessi che conoscevano Tom e Judy o avevano lavorato con loro, e benché stessimo facendoci un quadro sempre più chiaro e completo del loro lavoro, non scoprivamo niente di nuovo su come la pensassero. Eppure lo ritenevo ugualmente un utile esercizio: mi piace fissarmi nella mente l'ambiente in cui si muovevano le vittime, e di solito in seguito mi
balena qualcosa di interessante cui dare seguito. A volte, capita che da due chiacchiere fatte con amici, parenti e colleghi vengano a galla una parola o due che possono condurre alla soluzione. A volte. Zollner spiegò: «La maggior parte di questi virus e batteri non può attraversare la barriera tra le specie. Potreste bere una provetta piena di virus dell'afta epizootica e farvi venire al massimo un po' di disturbo allo stomaco, anche se per morire, a una mucca, basterebbe una quantità pari alla capocchia di uno spillo». «Perché?» «Perché? Perché la composizione genetica di un virus dev'essere in grado di... be', di combinarsi con la cellula per infettarla. Le cellule umane non si combinano con il virus dell'afta epizootica.» «Eppure», disse Beth, «pare risulti che il Morbo della Mucca Pazza possa infettare l'uomo.» «Tutto è possibile. Ecco perché usiamo molta prudenza.» E Zollner aggiunse: «I germi mordono». In realtà, i germi nauseano. Entrammo in un'altra stanza vividamente illuminata, e Zollner disse: «Qui lavoriamo con i parassiti. Il peggiore è il verme a vite. Abbiamo trovato un modo brillante di controllare questo morbo. Abbiamo scoperto che il maschio e la femmina si accoppiano una sola volta nella vita, così sterilizziamo milioni di maschi con i raggi gamma e poi li spargiamo dall'aereo sopra il Centro America. Quando il maschio si accoppia con la femmina, non avviene la riproduzione. Ottimo, vero?» Non potei trattenermi dal domandare: «Ma la femmina è appagata?» «Evidentemente, sì», replicò Zollner. «Non si riaccoppia mai.» «C'è un altro modo di considerare la cosa», suggerì Beth. Zollner rise. «Già. C'è un punto di vista femminile, in effetti.» Conclusa la facezia, facemmo a turno a guardare larve di vermi a vite attraverso il microscopio. Disgustoso. E proseguimmo, entro laboratori, entro stanze dove microbi e parassiti orribili venivano allevati e immagazzinati, ed entro ogni sorta di luoghi strani di cui comprendevo solo vagamente gli scopi e le funzioni. Tenevo presente che i miei amici, Tom e Judy, ogni giorno percorrevano quei corridoi ed entravano in molte di quelle stanze. E tuttavia, sembrava che non fossero né depressi né ansiosi, in proposito. Almeno, non al punto che io me ne accorgessi. Finalmente, il dottor Z disse: «E questo è tutto per la Zona Tre. Ora, an-
cora una volta devo domandarvi se intendete andare oltre. La Zona Quattro è la più contaminata di tutte, anche più, in effetti, della Zona Cinque. Nella Cinque, si è sempre in tuta da biorischio e respiratore, e tutto viene spesso decontaminato. Anzi, c'è perfino una doccia separata per la Zona Cinque. Ma la Zona Quattro è dove vedrete i recinti per gli animali, quelli malati e moribondi, nonché l'inceneritore e le stanze della necroscopia, se ci tenete. Perciò, anche se lì dobbiamo solo occuparci clinicamente di animali malati, potrebbero esserci altri agenti patogeni nelle condizioni ambientali». Poi precisò: «Il che significa germi nell'aria». «Avremo la maschera?» domandò Max. «Se lo desiderate.» Zollner si guardò attorno e concluse: «Sta bene. Seguitemi». Ci avvicinammo a un'altra porta rossa, questa contrassegnata «Zona Quattro», con il simbolo del biorischio. Un buontempone aveva appiccicato sulla porta una decalcomania particolarmente macabra del teschio con le ossa incrociate: il teschio aveva una crepa, e dalla crepa strisciava fuori un serpente che andava a insinuarsi poi in uno degli occhi. Inoltre, un ragno stava arrampicandosi fuori dalla bocca sogghignante. Il dottor Zollner disse: «Credo sia Tom il responsabile di quell'orribile cosa. I Gordon davano sempre una nota scherzosa». «Infatti.» Fino a che erano morti. Il nostro ospite aprì la porta e ci ritrovammo in una specie di anticamera. C'era un carrello metallico, nella stanzetta, sul quale c'erano una scatola di guanti di lattice e un'altra di mascherine di carta. «Per chiunque li desideri», disse il dottor Z. Era un po' come dire che paracadute e salvagenti erano a richiesta. Insomma, o ti servono quelle maledette cose oppure no. Zollner chiarì il concetto. «Non è obbligatorio. Tanto, dopo andremo a docciarci ben bene, come diciamo noi. Personalmente non metto mai né guanti né maschera. Troppo ingombranti. Ma forse voi vi sentirete più a vostro agio.» Avevo la netta sensazione che stesse sfidandoci, come chi dice: «Prendo sempre la scorciatoia attraverso il cimitero, ma se voi preferite fare tutto il giro, per me va bene. Fifoni». Evidentemente nessuno voleva passare per pusillanime praticando una buona profilassi, che è poi la ragione per cui i germi non ci beccano, alla fine; così ci mettemmo in cammino, attraversando una seconda porta rossa, e ci ritrovammo nello stesso genere di grigi corridoi del resto delle zone di
biocontenimento. La differenza, lì, era che le porte erano più larghe, e ciascuna aveva una specie di maniglione. «Queste sono porte a tenuta d'aria», spiegò Zollner. Notai, anche, che ogni porta aveva un finestrino, e che sulla parete, accanto a ciascuna, era appesa una tabella. Il dottor Zollner ci portò verso la porta più vicina e disse: «Tutte queste stanze sono recinti e tutte hanno finestrini da cui si guarda. Quello che vedete può lasciarvi sconvolti o farvi tornar su la colazione. Perciò nessuno è tenuto a guardare». Esaminò la tabella appesa sulla parete di cemento e disse: «Febbre equina africana». Scrutò attraverso la finestrella e aggiunse: «Questo qui non è male. Soltanto un po' inquieto. Date un'occhiata». A turno, guardammo il bel cavallo nero nella stanza chiusa, simile a una prigione. In effetti, sembrava in forma, salvo che a tratti ansimava come se avesse difficoltà a respirare. «Tutti gli animali qui dentro», spiegò Zollner, «sono stati sottoposti a prova di immunità con un virus o un batterio.» «Sottoposti a prova d'immunità?» ripetei. «Equivale a infettati?» «Sì, noi diciamo così.» «Poi che cosa succede? Diventano un po' meno sani, poi entrano in un involontario stato di assenza di respirazione?» «Esatto. Si ammalano e muoiono. Qualche volta, tuttavia, li sacrifichiamo prima che la malattia abbia fatto tutto il suo corso.» Poi soggiunse: «Chiunque lavora qui, penso, ama gli animali, e proprio per questa ragione si dedica a questo tipo di lavoro. Nessuno, in questa istituzione, vuole vederli soffrire, ma se mai lei vedesse milioni di capi di bestiame infettati dall'afta epizootica, capirebbe perché il sacrificio di alcune decine, qui, è necessario». Riappese la tabella e disse: «Venite». Era come un'enorme conigliera, quell'insieme di stanze tristi, e andammo di recinto in recinto dove una varietà di animali era in uno stato più o meno preagonico. In un recinto, la mucca ci vide e mosse malferma verso la porta, per guardare noi che la guardavamo. «Questa sta malissimo», disse il dottor Zollner. «Afta epizootica avanzata: vedete come cammina? E guardate quelle piaghe sulla bocca. Non può nemmeno mangiare a questo stadio, per il dolore. La saliva sembra una corda, tanto è spessa. È una malattia orribile, questa, nonché una vecchia nemica. Se ne trovano resoconti in scritti antichissimi. Come dicevo, è anche una malattia tremendamente contagiosa. Una volta un'epidemia scoppiata in Francia venne diffusa in Inghilterra dal vento attraverso la Manica. È uno dei virus più piccoli sco-
perti finora, e pare sia in grado di rimanere inattivo per lunghi periodi di tempo.» Rimase un istante silenzioso, poi soggiunse: «Un giorno o l'altro, qualcosa del genere potrebbe mutare e cominciare a infettare ospiti umani». A quel punto, penso, eravamo tutti sottoposti mentalmente e fisicamente a prova immunitaria, come si sarebbe espresso il dottor Z. In altre parole, avevamo la mente annebbiata e trascinavamo il passo. Peggio ancora, avevamo lo spirito a terra e, se avessi avuto un'anima, sarebbe stata turbata. Alla fine dissi al dottor Zollner: «Non so gli altri, ma io ho visto abbastanza». Mi assecondarono tutti. A me, però, passò per la mente un ultimo, stupido pensiero, e dissi: «Possiamo vedere con che cosa lavoravano i Gordon? Intendo dire, l'Ebola delle scimmie?» Lui scosse la testa. «Quella è Zona Cinque.» Ci pensò su un istante, poi disse: «Ma posso mostrarvi un maiale affetto da febbre suina africana che, come l'Ebola, è una febbre emorragica. Molto simile». Fece strada verso un altro corridoio e si fermò a una porta col numero 1130. Esaminò la tabella sulla parete e disse: «Questo è nella fase finale... lo stadio emorragico... prima di domattina se ne sarà andato... se dovesse andarsene prima, sarà messo in un refrigeratore, poi anatomizzato domani mattina come prima cosa, e infine incenerito. Questo è un morbo davvero spaventoso che ha quasi spazzato via la popolazione suina in alcune parti dell'Africa. Non esiste alcuna cura o vaccino. Come dico, è parente stretto dell'Ebola». Fissò me e indicò la finestrella. «Guardi.» Mi avvicinai alla finestra e guardai nell'interno. Il pavimento della stanza era dipinto di rosso, il che mi sorprese dapprima, ma poi compresi. Quasi nel centro della stanza c'era un grosso maiale, disteso a terra, quasi immobile, e potevo vedere sangue attorno alla bocca, al grugno e perfino alle orecchie. Nonostante il pavimento rosso, notavo una luccicante pozza di sangue vicino ai quarti posteriori. Dietro di me, Zollner stava dicendo: «Lo vede sanguinare, sì? La febbre emorragica è terribile. Gli organi si trasformano in poltiglia. Può rendersi conto, ora, del perché l'Ebola è così temuto». Notai un grosso scarico di metallo nel centro del pavimento, e il sangue scorreva in quello scarico, e non potevo farci niente ma ero di nuovo nel rigagnolo della 102a Strada Ovest, e la mia vita stava perdendosi dentro quel maledetto tombino e io potevo vederla, e sapevo come si sentiva quel
maiale nel guardare il suo stesso sangue sgorgare da lui, nell'avvertire il suono di quello scorrere nelle orecchie e il martellare nel petto via via che la pressione sanguigna diminuiva e il cuore tentava di compensarla battendo sempre più in fretta, finché sapevi che si sarebbe fermato. La voce di Zollner mi arrivava da molto lontano. «Signor Corey? Signor Corey? Può farsi in là, ora. Lasci che gli altri diano un'occhiata. Signor Corey?» 13 «Non vogliamo che virus o batteri ottengano un passaggio in autostop fino alla terraferma», disse il dottor Zollner, senza che ve ne fosse bisogno. Ci spogliammo, mettemmo i camici e le pianelle in un cesto e la biancheria di carta in un contenitore per i rifiuti. Non ero del tutto a fuoco, mi limitavo a compiere gesti che vedevo fare agli altri. Seguimmo tutti il dottor Zollner nella stanza delle docce - io, Max, Nash e Foster - e ce ne stemmo sotto i getti a lavarci i capelli con uno shampoo speciale, a sfregarci le unghie con spazzolino e disinfettante. Facemmo gargarismi con non so che specie di orrido collutorio, sciacquando a lungo e sputando. Io continuavo a insaponarmi e a lavarmi fino a che Zollner disse: «Basta, ora. Finirà per prendersi una polmonite e lasciarci la pelle». Rise. Mi asciugai con il telo di spugna fornitomi, lo gettai in un cesto, poi mi incamminai, nudo, verso il mio armadietto, libero da germi e arcidisinfettato, almeno all'esterno. A parte gli uomini con i quali ero entrato, non c'era in giro nessuno, nemmeno l'inserviente. Vedevo benissimo come una persona potesse eventualmente portar fuori dal laboratorio anche cose grandi e nasconderle lì nello spogliatoio. Ma non penso che questo fosse avvenuto, perciò poco importa che fosse possibile oppure no. Zollner era scomparso e tornò con le chiavi degli armadietti, che distribuì. Aprii il mio e cominciai a rivestirmi. Qualche premurosissimo individuo, quasi sicuramente il signor Stevens, era stato tanto gentile da lavare e stirare i miei calzoncini, e nel farlo aveva inavvertitamente lavato via dalla tasca l'argilla rossa. Oh, be', ci avevi provato, Corey. Esaminai la mia calibro 38 e sembrava in ordine, ma non sai mai quando
a un burlone viene in mente di limare il percussore, otturare la canna o tirar fuori la polvere dalle pallottole. Presi mentalmente nota di fare, a casa, un accurato controllo di arma e munizioni. Max, il cui armadietto era accanto al mio, mi mormorò: «È stata un'esperienza». Assentii e domandai: «Ora ti senti meglio all'idea di vivere sottovento rispetto a Plum?» «Oh, sì, mi sento meravigliosamente di schifo.» «Sono rimasto impressionato dal biocontenimento», dissi. «Dallo stato dell'arte.» «Già. Ma io sto pensando a un uragano o a un attacco terroristico.» «Il signor Stevens proteggerà Plum Island da un attacco terroristico.» «Ah, sì. E da un uragano?» «Stessa esercitazione che per un attacco nucleare: chinati, metti la testa tra le gambe e datti un bacio d'addio sul sedere.» «Giusto.» Mi guardò e domandò: «Di', stai bene?» «Certo.» «Mi eri sembrato un po' stordito, poco fa.» «Stanchezza. Il polmone mi sibila.» «Mi sento responsabile per averti trascinato in quest'avventura.» «Non vedo perché.» Sorrise e disse: «Se agganci Miss Tuttaquanta dovrai tu un favore a me». «Non ho proprio idea di che cosa stai dicendo.» Infilai i piedi nelle scarpe e mi alzai. «Devi avere una reazione allergica al sapone», dissi a Max. «Hai la faccia tutta chiazze.» «Cosa?» Si mise le mani sulle guance e corse verso lo specchio più vicino. Continuò a guardarsi, sporgendosi meglio al di sopra del lavandino. «Ma di che diavolo stai parlando? La mia pelle sta benissimo.» «Sarà la luce qui dentro.» «Piantala con le stronzate, Corey. Non è un argomento divertente, questo.» «Giusto.» Andai verso la porta dello spogliatoio, dove il dottor Z era in attesa. «Nonostante le mie cattive maniere», gli dissi, «sono davvero colpito da tutta la sua operazione, e la ringrazio del suo tempo.» «Ho goduto la sua compagnia, signor Corey. Mi spiace solo d'averla conosciuta in così tristi circostanze.» George Foster si unì a noi e disse a Zollner: «Intendo fare un rapporto favorevole riguardo alle sue misure di biocontenimento».
«Grazie.» «Ma penso che la sicurezza lungo il perimetro potrebbe essere migliore, e raccomanderò che venga condotto uno studio in tal senso.» Zollner assentì. «Fortunatamente», continuò Foster, «parrebbe che i Gordon non abbiano rubato alcuna sostanza pericolosa e, se qualcosa hanno rubato, si trattava di un vaccino sperimentale.» Zollner annuì di nuovo. Foster concluse: «Raccomanderei un distaccamento permanente di Marine a Fort Terry». Ero ansioso di uscire dallo spogliatoio arancione e tornare alla luce del sole, così mossi verso la porta e tutti mi seguirono. Fuori, nel lustrore del vasto atrio, il dottor Z cercò con gli occhi Beth, ma senza trovarla. A ogni modo, ci avviammo tutti al banco della reception dove scambiammo i nostri pass su catenina di plastica bianca con gli originali azzurri a molletta. Domandai a Zollner: «C'è un negozio dove possiamo comperare souvenir e magliette?» Zollner rise. «No, ma lo suggerirò a Washington. Nel frattempo, dovrebbe pregare di non avere raccolto qualche souvenir d'altro genere.» «Grazie, dottore.» Il dottor Zollner guardò il suo orologio e disse: «Fate in tempo per il traghetto delle 3 e 45, se volete, oppure potete tornare nel mio ufficio, se avete altro di cui discutere». Io avrei voluto tornare alle batterie di artiglieria ed esplorare i corridoi sotterranei, ma pensai che, se l'avessi proposto, mi sarei trovato ad affrontare un ammutinamento. Inoltre, per essere sincero, non me la sentivo di fare un altro giro intorno all'isola. «Aspettiamo il capo», dissi a Zollner. «Non prendiamo decisioni importanti senza di lei.» Il dottor Z assentì e sorrise. Avevo l'impressione che Zollner non sembrasse particolarmente preoccupato riguardo a tutto l'insieme: della possibilità che si mettessero in dubbio la sua sicurezza o le sue misure di biocontenimento, e nemmeno della possibilità che i suoi due biologi più brillanti avessero rubato qualcosa di buono e di prezioso, o qualcosa di malvagio e di letale. Mi passò per la mente che Zollner non fosse preoccupato perché se anche aveva in qualche modo commesso un errore o potesse essere ritenuto responsabile dell'erro-
re commesso da qualcun altro, era già fuori dai guai: già era venuto a patti con il governo; stava cooperando in un occultamento in cambio di poterla far franca su quel problema. C'era anche la possibilità, sia pure remota, che il dottor Z avesse ucciso i Gordon o sapesse chi li aveva uccisi. Per quanto mi riguardava, chiunque avesse avuto contatti stretti con i Gordon era un sospetto. Beth uscì dallo spogliatoio delle signore e si unì a noi presso il banco della reception. Notai che non si era rifatta completamente il trucco, e che le guance le splendevano per la recente strigliata. Fece il cambio dei pass, e il dottor Zollner le riferì le sue offerte e le nostre opzioni. Beth ci guardò e disse: «Io ho visto abbastanza, a meno che non vogliate visitare i bunker sotterranei o qualcosa». Scuotemmo tutti la testa. Lei disse a Zollner: «Ci riserviamo il diritto di rivisitare l'isola in qualsiasi momento, fino a che il caso non sarà chiuso». «Per quanto mi riguarda, siete i benvenuti in qualsiasi momento», rispose lui. E aggiunse: «Ma la decisione non dipende da me». Un clacson suonò all'esterno, e guardai attraverso le porte a vetri. Un autobus bianco era fermo là fuori, e alcuni impiegati stavano salendovi. «Perdonate se non vi accompagno al traghetto», disse il dottor Z. Strinse la mano a tutti noi e ci diede un cordialissimo addio da cui non traspariva alcun senso di liberazione. Un vero signore. Uscimmo nel sole, e io ingurgitai litri e litri d'aria fresca prima di salire sull'autobus. Il conducente era un altro uomo della sicurezza, e intuii che era anche la nostra scorta. C'erano soltanto sei impiegati sull'autobus, e non riconobbi nessuno di quelli che avevamo visto durante il nostro giro. Il bus fece il tragitto di cinque minuti fino alla banchina e si fermò. Scendemmo tutti e ci avviammo verso il traghetto bianco e azzurro, il Plum Runner. Entrammo nella cabina grande, la sirena suonò e levammo gli ormeggi. Noi cinque rimanemmo in piedi, scambiando qualche parola. Uno dell'equipaggio, un tipo riarso dalle intemperie, si avvicinò e ritirò i nostri pass. «E allora», disse, «vi è piaciuta l'isola del dottor Moreau?» Quel riferimento letterario mi colse di sorpresa, venendo da un vecchio lupo di mare. Chiacchierammo un momento con lui e venimmo a sapere che si chiamava Pete. Ci disse anche d'essere addolorato per i Gordon.
Poi si scusò e sali la scala che portava in coperta e in cabina di comando. Lo seguii e, prima che aprisse la porta della cabina di comando, dissi: «Ha un minuto?» «Certo.» «Li conosceva, i Gordon?» «Certo che li conoscevo. Abbiamo navigato insieme su questo battello per due anni, anche se non tutti i giorni.» «Mi hanno detto che usavano la loro barca per fare la spola.» «A volte sì. Un bel Formula 303 nuovo. Due potenti motori. Veloce come il vento.» Tempo di parlare senza mezzi termini. «Qualche probabilità che stessero trasportando droga, con quell'affare?» «Droga? Ma no, che diamine! Non erano in grado di trovare un'isola, figuriamoci una nave contrabbandiera.» «Lei come lo sa?» «Parlavamo di barche, ogni tanto. Non valevano un soldo come navigatori. Non avevano neppure un sistema di navigazione, a bordo, lo sa?» «Giusto.» Ora che lui vi accennava, non avevo mai visto un dispositivo di navigazione satellitare, a bordo. Ma se eri un corriere della droga, ti occorreva un dispositivo di navigazione satellitare. «Forse la prendevano in giro», dissi a Pete. «Forse erano i migliori navigatori da Magellano in poi.» «Chi?» «Perché pensa che non sapessero navigare?» «Ho tentato di farli entrare in una squadra di scafi da corsa. E lo sa? A loro la cosa non interessava.» Pete era un po' tardo. «Forse facevano finta di non saper navigare. Sa, perché nessuno capisse che loro trasportavano droga.» «Dice?» Si grattò la testa. «Sarà. Ma io non credo. A loro non piaceva trovarsi in mare aperto. Se erano nella loro barca e vedevano il traghetto, si portavano dal lato di sottovento e rimanevano con noi per tutta la traversata. Non gli andava di perdere di vista la terra. E questo la fa pensare ai corrieri della droga?» «Direi di no. Ma allora, Pete, secondo lei, chi li ha uccisi e perché?» Con fare teatrale, mi scoccò una rapida occhiata, poi disse: «Mi venga un colpo se lo so». «Ma sa d'averci pensato, Pete. Chi e perché? Qual è stato il suo primo pensiero? Che cosa dice la gente?»
Tergiversò un poco, poi replicò: «Be', credo d'avere pensato che avessero rubato qualcosa dal laboratorio. Sa? Qualcosa come per spazzar via il mondo. E che volessero venderlo agli stranieri o qualcosa. Capisce? E l'affare era andato male, ed erano stati fatti fuori.» «E adesso non lo pensa più?» «Be', ho sentito qualcosa di diverso.» «E cioè?» «E cioè che avevano rubato un vaccino che valeva milioni di dollari.» Mi guardò. «È così?» «Sì, è così.» «Volevano diventare ricchi alla svelta e invece alla svelta sono morti.» «Il salario del peccato è la morte.» «Già.» Pete si scusò ed entrò nella timoniera. È interessante, pensai, che Pete, e probabilmente chiunque altro, compreso il sinceramente vostro, avessero avuto la stessa reazione iniziale alla morte dei Gordon. Poi, ripensandoci, io ero arrivato al traffico di droga. Ora prendevamo in considerazione il vaccino. Ma a volte la prima reazione istintiva è quella giusta. In ogni caso, quello che tutt'e tre le teorie avevano in comune era il denaro. Dal ponte di coperta, guardavo la verde sponda di Plum Island rimpicciolire in lontananza. Il sole era ancora alto a occidente, lo sentivo gradevole sulla pelle. Stavo godendomi la traversata, l'odore del mare, perfino il movimento della nave. Mi sfiorò l'inquietante pensiero di potermi sentire uno del luogo. Quanto prima avrei sgusciato cozze, qualsiasi cosa questo volesse dire. Beth Penrose salì sul ponte e stette per un poco a contemplare la scia della nave, poi si girò e si appoggiò con i gomiti al parapetto, volgendo la faccia al sole. «L'aveva predetto», dissi, «quello che Zollner stava per dire.» Assentì. «Ha un senso, si accorda con i fatti, e risolve il problema, per noi, di credere i Gordon capaci di rubare organismi mortali, e anche il problema di crederli dei trafficanti di droga. I Gordon», aggiunse, «rubavano qualcosa di buono. Qualcosa di redditizio. Il denaro. È il denaro il movente. L'oro che seduce i santi, come diceva Shakespeare.» «Credo d'averne avuto abbastanza di Shakespeare per quest'anno.» Rimuginai un istante e dissi: «Non so perché non ci avevo proprio pensato... Sì, dico, eravamo talmente ottenebrati da pestilenze e cose del genere, da non pensare affatto agli antidoti: vaccini, antibiotici, antivirali e via discor-
rendo. Questo i biologi stanno studiando su Plum, e questo è ciò che hanno rubato i Gordon. Santo cielo, sto diventando idiota». Lei sorrise, poi disse: «Bene, per dirle la verità, avevo cominciato a pensare ai vaccini fin da ieri sera: poi, quando Stevens ha accennato al vaccino per l'afta epizootica, ho capito dove saremmo arrivati da lì». «Giusto. Ora tutti possono riposare tranquilli. Niente panico, niente isterismi, nessuna emergenza nazionale. Gesù, pensavo che saremmo stati tutti morti prima di Ognissanti.» Ci fissammo, e Beth disse: «È tutta una frottola, naturalmente». «Già. Ma è un'ottima frottola. Una panzana che toglie le castagne dal fuoco per Plum Island e per i Federali in generale. Nel frattempo, l'FBI e la CIA possono lavorare tranquillamente al caso senza di noi e senza l'attenzione dei media. Lei, Max e io siamo stati appena esclusi dalla parte del caso che riguarda Plum Island.» «Giusto. Anche se abbiamo ancora un duplice omicidio da risolvere. Tutto da soli.» «Precisamente», dissi a Beth, «e penso che sentirò la mancanza di Ted Nash.» Sorrise, poi mi guardò con espressione seria e osservò: «Non mi metterei contro un uomo come quello». «S'impicchi.» «Eh sì, lei è un duro.» «Ehi, mi sono beccato dieci pallottole e ho finito di bere il caffè prima di avviarmi a piedi all'ospedale.» «Erano tre, ha passato un mese in ospedale, e ancora non si è completamente rimesso.» «Ha parlato con Max. Che cara.» Non reagì. Raramente abboccava all'amo, notai. Dovevo ricordarmene. «Che cosa pensa di Stevens?» mi domandò. «L'uomo giusto al posto giusto.» «Mente?» «Ma certo.» «E Zollner?» «Mi è piaciuto.» «Mente, lui?» «Non per sua natura, come fa Stevens. È stato indotto, però. Gli hanno dato l'imbeccata.» Assentì, poi domandò: «Le è parso spaventato?»
«No.» «Perché no?» «Non ha motivo di spaventarsi. È tutto sotto controllo. Stevens e Zollner hanno fatto i loro patti con il governo.» Annuì, d'accordo. «È anche la mia impressione. La copertura è stata concepita, scritta e diretta ieri sera tardi e stamattina presto. Le luci sono rimaste accese tutta notte a Washington e a Plum Island. Stamattina, noi abbiamo visto la commedia.» «Bravissima.» Poi aggiunsi: «Glielo dicevo di non fidarsi di quei due buffoni». Assentì di nuovo, poi disse: «Non mi sono mai trovata in una situazione in cui non potessi fidarmi di quelli con cui lavoravo». «Io sì. È una vera sfida: attento a quel che dici, parati il culo, fatti spuntare gli occhi dietro la nuca, sta' in campana e ascolta le cose che non vengono dette.» Mi lanciò un'occhiata e domandò: «Si sentiva bene, là?» «Benissimo.» «Dovrebbe riposare un po'.» Ignorai il consiglio. «Nash ce l'ha piccolo piccolo.» «Grazie d'avermi messo a parte della notizia.» «Be', volevo lo sapesse perché ho visto che s'interessava a lui, e non volevo che sprecasse il suo tempo con uno che ha un mignolino tra le gambe.» «Molto premuroso da parte sua. Perché non s'impiccia degli affari suoi?» «Okay.» Il mare si era fatto un po' più mosso nel mezzo del Canale, e mi appoggiai al parapetto per reggermi. Guardavo Beth, che ora aveva gli occhi chiusi, e con la testa gettata all'indietro coglieva gli ultimi raggi di sole. Avrò accennato, forse, che aveva una faccia da Cupido, innocente e sensuale al tempo stesso. Sul principio della trentina, come ho già detto, e sposata una volta, come aveva detto lei. Mi domandavo se il suo ex fosse un piedipiatti, o se non tollerasse che lo fosse lei, o quale fosse stato il problema. Le persone della sua età hanno un certo bagaglio; quelle dell'età mia hanno interi magazzini di bauli. Con gli occhi ancora chiusi, Beth mi domandò: «Che cosa farebbe, se la mandassero in pensione per invalidità?» «Non lo so.» Ci pensai su, poi risposi: «M'ingaggerebbe Max».
«Non credo che potrà svolgere lavoro di polizia se le accordano i tre quarti dello stipendio. Lei sì?» «Temo di no. Non lo so che cosa potrei fare. Manhattan è cara. È là che vivo io. Penso che dovrei trasferirmi. Quaggiù, magari.» «E qui che cosa farebbe?» «Coltiverei vino.» «Uva. Si coltiva l'uva e poi si fa il vino.» «Giusto.» Apri gli occhi verdazzurri e mi guardò. I nostri sguardi si incontrarono, si frugarono, si penetrarono e via così. Poi lei i suoi li richiuse. Nessuno di noi parlò per alcuni istanti, infine lei riaprì gli occhi e volle sapere: «Perché non crediamo che i Gordon abbiano rubato un vaccino miracoloso allo scopo di ricavarne una fortuna?» «Perché questo lascia ancora troppe domande senza risposta. Prima, e quel motoscafo così potente? Non serve una barca da centomila dollari per prelevare in una sola volta del vaccino prezioso. Dico bene?» «Forse sapevano che prima o poi avrebbero rubato il vaccino, e quindi sapevano di potersi permettere un motoscafo del genere, e ci si sono divertiti. Quando l'avevano comperato?» «Nell'aprile dell'anno scorso. Proprio all'inizio della stagione della nautica da diporto. Diecimila subito, e il resto stavano pagandolo a rate.» «D'accordo, per quale altra ragione non crediamo alla versione degli eventi data da Plum Island?» «Be', perché mai gli acquirenti di quel vaccino avrebbero dovuto ammazzare due persone? Tanto più che l'assassino o gli assassini non potevano sapere con certezza che cosa i Gordon stessero trasportando in quella ghiacciaia.» «Quanto ai due omicidi», disse lei, «sappiamo benissimo che viene ammazzata gente per ragioni insignificanti. Quanto alla merce nella ghiacciaia... mettiamo che i Gordon avessero dei complici sull'isola che avevano caricato il vaccino sulla loro barca? Il complice su Plum chiama la persona o le persone che sono in attesa dei Gordon e avverte che la merce è per la strada. Pensi a un complice su Plum Island. Pensi a Stevens. O a Zollner. O alla dottoressa Chen. O a Kenneth Gibbs. O a chiunque sull'isola.» «Va bene... metteremo il tutto nella sacca degli indizi.» «Altre ragioni?» «Be', non sono un esperto di geopolitica, ma l'Ebola è abbastanza raro, e le probabilità che l'Organizzazione Mondiale della Sanità o i governi afri-
cani interessati ordinino quella roba in quantità mi sembrano un po' remote. In Africa la gente muore di ogni sorta di malattie prevenibili, come la malaria e la tubercolosi, e nessuno sta acquistando duecento milioni di dosi di qualcosa per evitarlo.» «Vero... ma noi non conosciamo i retroscena del commercio di farmaci terapeutici legittimi, se vengano rubati, copiati, se ci sia un mercato nero o cos'altro.» «D'accordo, ma conviene con me che il furto di quel vaccino da parte dei Gordon non suona plausibile?» «No», replicò lei. «È plausibile. Sento semplicemente che è una bugia.» «Esatto. Una bugia plausibile.» «Un'enorme bugia.» «Enorme», confermai. «Cambia il caso.» «Eccome! Cos'altro?» «Be'», dissi, «quel volume di carte nautiche. Non c'è molto, là, ma mi piacerebbe sapere a che cosa corrisponde quel 44106818.» «Certo. E quanto all'archeologia su Plum?» «Ha ragione. È stata una completa sorpresa, per me, e solleva ogni sorta di interrogativi.» «Perché Paul Stevens ce ne ha parlato?» «Perché è di dominio pubblico, e prima o poi ne avremmo sentito parlare.» «Giusto. Qual è il significato della ricerca archeologica?» «Non ne ho idea.» E aggiunsi: «Ma non ha niente a che fare con la scienza dell'archeologia. Era una copertura per qualcosa, una scusa per spingersi nelle zone remote dell'isola.» «Oppure», disse lei, «potrebbe non avere alcun significato.» «Può darsi. E allora abbiamo l'argilla rossa che ho visto nelle scarpe da corsa dei Gordon e che ho visto su Plum. Lungo il percorso dal laboratorio principale fino al parcheggio, all'autobus e infine alla banchina, non c'è un posto dove si possa raccogliere del terriccio rosso nelle suole.» Assentì, poi disse: «Immagino che abbia preso un po' di quella terra rossa quando è andato a orinare». Sorrisi. «Per la verità, sì. Ma quando mi sono rivestito, nello spogliatoio, qualcuno era stato tanto gentile da lavare e stirare i miei short.» «Vorrei che avessero fatto lo stesso per me», fu la sua battuta di rimando. Sorridemmo entrambi.
«Richiederò dei campioni di terriccio», disse lei. «Possono decontaminarli, se proprio insistono nella politica del "Mai lasciare l'isola".» Poi aggiunse: «Lei tende a usare l'approccio diretto, vedo, come impossessarsi delle stampate finanziarie, rubare suolo governativo o chissà cos'altro avrà fatto. Dovrebbe imparare a seguire protocolli e procedure, detective Corey. Tanto più che questa non è la sua giurisdizione, e nemmeno il suo caso. Finirà per mettersi nei guai, e io non intendo rischiare il collo per lei». «Sì, invece. E tra parentesi, in genere io la so lunga in fatto di norme su indizi, diritti dei sospetti, struttura di comando e tutte quelle balle lì, quando si tratta soltanto di normali omicidi. Questo poteva essere - potrebbe ancora essere - la peste-che-mette-fine-a-tutte-le-pesti. Così ho preso qualche scorciatoia. Quello che conta è il tempo, è la dottrina della ricerca accanita e così via. Se salvo il pianeta, sono un eroe.» «Lei si atterrà alle regole e seguirà le procedure. Non faccia niente per compromettere un'eventuale incriminazione o verdetto di colpevolezza.» «Ehi, non abbiamo neppure mezzo sospetto, e lei è già in tribunale.» «È così che lavoro io.» «Credo d'avere fatto tutto quanto potevo, qui», protestai. «Mi dimetto dalla mia posizione di consulente della polizia cittadina.» «La smetta di fare lo scontroso.» Esitò, poi disse: «Io ci terrei che lei restasse. Potrei davvero riuscire a imparare qualcosa da lei». Era chiaro che ci piacevamo, nonostante qualche scontro e qualche incomprensione, alcune differenze d'opinione, temperamenti dissimili, differenze di età e di precedenti, e probabilmente di gruppo sanguigno, di gusti in fatto di musica e Dio sa cos'altro. A pensarci bene, in effetti, non avevamo una sola cosa in comune a parte il mestiere, e non ci trovavamo d'accordo nemmeno su quello. Eppure, l'amavo. Be', va bene, la bramavo. Ma era una bramosia significativa. Ero profondamente coinvolto da quella bramosia. Tornammo a fissarci, e tornammo a sorridere. Tutto questo era sciocco. Era pazzesco. Mi sentivo come un idiota. Lei era così squisitamente bella... mi piaceva la sua voce, il suo sorriso, mi piacevano i suoi capelli ramati sotto il sole, i suoi movimenti, le sue mani... e odorava di nuovo di sapone, dopo la doccia. Amo quell'odore. Associo il sapone con il sesso. È una lunga storia, quella. Infine, lei domandò: «Quale terreno inutile?» «Eh...? Ah, sì, i Gordon.» Spiegai l'annotazione sul libretto degli assegni
e riferii la mia conversazione con Margaret Wiley. «Non sono un ragazzo di campagna», conclusi, «ma non credo che gente senza soldi spenda venticinque sacchi per avere i propri alberi da abbracciare.» «È strano», convenne lei. «Ma la terra è qualcosa di legato alle emozioni. Mio padre», continuò, «era uno degli ultimi agricoltori nell'ovest della Contea di Suffolk, circondato da lotti di ville e villette. Amava la sua terra, ma la zona era completamente cambiata: i boschi, i corsi d'acqua e le altre fattorie non esistevano più, così vendette. Ma dopo non fu mai più quello di prima, nemmeno con un milione di dollari in banca.» Rimase un poco in silenzio, poi disse: «Suppongo che dovremmo andare a parlare con Margaret Wiley, dare un'occhiata a quel terreno, anche se penso che non significhi molto per questo caso». «Secondo me, il fatto che i Gordon non mi abbiano mai detto di possedere un pezzo di terra è significativo. Lo stesso dicasi per gli scavi archeologici. Le cose che non hanno un senso necessitano di una spiegazione.» «Grazie, detective Corey.» «Non intendo dare lezioni, ma tengo un corso al John Jay, e qualche volta mi scappano una o due frasi del genere.» Mi contemplò per qualche istante, poi disse: «Non so mai se vuol prendermi in giro oppure no». In effetti, volevo prenderla, sia pure in tutt'altro senso, ma misi da parte quel pensiero e dissi invece: «Insegno davvero al John Jay». Parlo del John Jay College di Criminologia di Manhattan, una delle migliori scuole del genere della nazione, e immagino che un John Corey professore presentasse per lei un problema di credibilità. «Che cosa insegna?» mi domandò. «Be', certo non le norme sugli indizi, i diritti dei sospetti, o cose simili.» «No, certo.» «Insegno come si conduce un'indagine nei casi di omicidio. Scena del crimine e altro del genere. Il venerdì sera. È la serata clou quanto a soluzione di misteri. Sarà la benvenuta se vorrà assistervi, qualora dovessi tornarci. In gennaio, forse.» «Potrei anche farlo.» «Venga un po' in anticipo. La classe è sempre affollatissima. Sono molto divertente.» «Di questo sono certa.» E io ero certo che Miss Beth Penrose stesse finalmente prendendo in considerazione l'idea. L'idea.
Il traghetto stava rallentando nell'avvicinarsi al molo. «Ha già parlato con i Murphy?» domandai a Beth. «No. L'ha fatto Max. Io li ho in lista per oggi.» «Bene. Verrò con lei.» «Credevo volesse dimettersi.» «Domani.» Estrasse il notes dalla borsetta e prese a esaminarne le pagine. «Ho bisogno da lei la stampata del computer che ha preso in prestito.» «Ce l'ho a casa.» «Bene...» Scorse una pagina e continuò: «Telefonerò per le impronte e in laboratorio. Inoltre ho chiesto al procuratore distrettuale un mandato per le registrazioni telefoniche dei Gordon degli ultimi due anni». «Giusto. Si faccia dare anche un elenco dei detentori di pistola con porto d'arma della città di Southold.» «Pensa che l'arma del delitto possa essere registrata qui?» «Può anche darsi.» «Perché lo pensa?» «Così. Nel frattempo, che continuino a dragare e a immergersi per cercare i proiettili.» «Lo sdamo facendo, ma con poca speranza.» «Un'altra cosa, se raccoglie le armi su Plum Island, si assicuri che a fare gli esami balistici sia la contea, non l'FBI.» «Lo so.» Elencò una serie di cose che andavano fatte, e mi rendevo conto che aveva una mente lucida e ordinata. Era, inoltre, intuitiva e indagatrice. Le mancava soltanto l'esperienza, pensavo, per essere un buon detective. Per essere un grande detective doveva imparare a rilassarsi, a indurre la gente a parlare liberamente e troppo. Invece era un po' troppo risoluta, e la maggior parte dei testimoni, per non parlare dei colleghi, avrebbe tenuto alta la guardia. «Si rilassi.» Sollevò lo sguardo dal notes. «Come, prego?» «Si rilassi.» Rimase un istante silenziosa, poi disse: «Sono un po' in ansia per questo caso». «Lo sono tutti. Si rilassi.» «Proverò.» Sorrise. «So fare le imitazioni. Posso fare lei. Vuol vedere?» «No.» Assunse una posa tutta dinoccolata e dondolante, ficcò una mano in ta-
sca, si grattò il petto con l'altra, poi parlò con una voce da basso e l'accento di New York City. «Ehi, dico, cosa diavolo c'è sotto questo caso? Lo sa, lei? E quella specie di burino, quel Nash... be'? Quello non distingue una chicca da una checca. Quello ha l'intelligenza di un orango, lo sa? Quello...» «Grazie», la interruppi, freddamente. Lei rise davvero, poi disse a me: «Si rilassi». «Non parlo con un accento newyorkese così pronunciato.» «Be', suona così, qui da noi.» Ero alquanto seccato, ma anche divertito, in fondo. Credo. Nessuno di noi due parlò per qualche minuto, poi io commentai: «Sto pensando che il caso non ha più un così grande rilievo, e questo è un bene». Lei assentì. «Poche persone con cui trattare», continuai. «Niente Federali, niente politici, niente media e, per lei, non le assegneranno più aiuto di quanto gliene serve.» Poi conclusi. «Quando lo risolverà, sarà un'eroina.» Mi fissò per un lungo istante, poi domandò: «Crede che lo risolveremo?» «Ma certo.» «E se non ci riusciamo?» «La cosa non mi riguarda. Lei, d'altra parte, avrà un problema di carriera.» «Grazie.» Il traghetto urtò i parabordi di gomma e quelli dell'equipaggio lanciarono due cime. Beth, quasi pensando a voce alta, disse: «Così... in aggiunta alla possibilità di germi letali e di droga, ora abbiamo la possibilità dei farmaci, e non dimentichi che Max ha detto ai media che si trattava di un duplice omicidio di due che, rincasando, sono capitati sulla scena di un banalissimo furto. E la sa una cosa? Può ancora darsi che sia andata così». La guardai e dissi: «E qui ce n'è un'altra per lei...e per lei soltanto. Consideri che Tom e Judy sapessero qualcosa che non erano tenuti a sapere o avessero visto su Plum Island qualcosa che non avrebbero dovuto vedere. Consideri che qualcuno come il signor Stevens o il suo amico signor Nash li abbia fatti fuori. Consideri questo». Rimase silenziosa un bel pezzo, poi disse: «Suona come un pessimo film». E aggiunse: «Ma ci penserò».
Max ci chiamò dal ponte inferiore. «Tutti a terra.» Beth mosse verso gli scalini, poi mi domandò: «Qual è il numero del suo cellulare?» Glielo diedi e lei disse: «Nel parcheggio ci divideremo, e io la chiamerò tra venti minuti». Ci unimmo a Max, Nash e Foster sul ponte di poppa, e tutti ci accingemmo a scendere insieme ai sei impiegati di Plum Island. C'erano soltanto tre persone sulla banchina per il ritorno a Plum, e fui di nuovo colpito dal pensiero di quanto era isolata l'isola. Nel parcheggio, il Capo Sylvester Maxwell del Dipartimento di Polizia di Southold disse a tutti: «Sono soddisfatto perché la parte più preoccupante di questo caso è stata chiarita. Ho altri doveri, perciò lascio che sia il detective Penrose a occuparsi dei due omicidi». Il signor Ted Nash della CIA disse: «Anch'io sono soddisfatto, e poiché sembra che non ci sia stata alcuna violazione della sicurezza nazionale né alcun aspetto internazionale per questa situazione, raccomanderò che la mia agenzia e io veniamo liberati di questo caso». Il signor George Foster dell'FBI disse: «Pare sia stato rubato qualcosa di proprietà del governo, perciò l'FBI continuerà a occuparsi del caso. Farò ritorno a Washington oggi stesso per riferire. Del caso si occuperà l'ufficio locale dell'FBI, e qualcuno si metterà in contatto con lei, Capo». Guardava Beth. «O con lei o con il suo superiore.» Elizabeth Penrose, detective del Dipartimento di Polizia della Contea di Suffolk, replicò: «Bene, pare proprio che sia io. Grazie a tutti voi dell'aiuto». Eravamo ormai pronti per separarci, ma Ted e io dovevamo scambiarci qualche ultima cordiale frecciatina. Cominciò lui, dicendomi: «Spero sinceramente che ci incontreremo di nuovo, detective Corey». «Oh, ne sono certo, Ted. La prossima volta provi a impersonare una donna. Dovrebbe esserle più facile di un tizio dell'Agricoltura.» Mi fissò e ribatté: «A proposito, dimenticavo di dirle che conosco il suo capo, il Tenente Investigativo Wolfe». «Il mondo è piccolo. È anche lui un figlio di buona donna. Ma metta una buona parola per me, vuole?» «Stia tranquillo, gli riferirò che gli manda i suoi saluti e che sembra più che in forma per tornare in servizio.» Foster ci interruppe come al solito, dicendo: «Sono state ventiquattr'ore intense e interessanti. Penso che questa unità operativa possa essere fiera
dei suoi risultati, e non ho alcun dubbio che la polizia locale porterà questo caso a una conclusione soddisfacente». «Per riassumere», dissi io, «lunga giornata, ottimo lavoro, buona fortuna.» Tutti scambiavano strette di mano, ora, perfino io, benché non sapessi se fossi escluso dall'incarico, o se avessi mai avuto un incarico da cui venire escluso. A ogni modo, gli addii furono brevi, nessuno si mostrò untuoso o promise di scrivere o di rivedersi, non ci furono baci né abbracci. Nel giro di un minuto, Max, Beth, Nash e Foster erano saliti nelle rispettive auto, e io mi ritrovavo solo nel parcheggio in atteggiamento meditabondo. Curioso. La sera prima tutti pensavano che fosse arrivato l'Apocalisse, che il Cavaliere Pallido avesse dato inizio alla sua terribile cavalcata. E ora, a nessuno importava un corno di due ladri di vaccini che giacevano all'obitorio. Giusto? Mi mossi lentamente verso la mia auto. Chi era a parte della copertura? Ted Nash e i suoi, ovviamente, e George Foster, dato che c'era stato anche lui sul traghetto precedente insieme a Nash e ai quattro figurini che si erano dileguati con la Caprice nera. Paul Stevens probabilmente ne era a parte, e anche il dottor Zollner. Ero certo che determinate agenzie del governo federale avessero messo insieme una copertura, ed era abbastanza buona per i media, la nazione e il mondo. Ma non lo era abbastanza per il detective John Corey ed Elizabeth Penrose. Nossignore, non lo era. Mi domandavo se Max l'avesse bevuta. In genere la gente vuole credere alle buone notizie, e Max era a tal punto paranoico riguardo ai germi che sarebbe stato davvero felice di poter credere che Plum Island diffondesse antibiotici e vaccini nell'aria. Più tardi avrei dovuto parlare con Max. Forse. L'altra domanda era: se stavano nascondendo qualcosa, che cosa stavano nascondendo? Mi venne il sospetto che forse non lo sapessero bene nemmeno loro. Teoria Uno: avevano bisogno di trasformare il caso da qualcosa di orrido e agghiacciante in un furto banale, e dovevano farlo in fretta per attenuare l'allarme. Ora potevano cominciare a veder di capire di che cosa esattamente si trattava. Forse Nash e Foster erano all'oscuro quanto me sul perché fossero stati assassinati i Gordon. Teoria Due: sapevano perché e chi aveva assassinato i Gordon, e magari erano stati gli stessi Nash e Foster. In realtà non avevo alcuna idea di chi fossero quei due pagliacci. Con tutto quel materiale da cospirazione in mente, mi ricordai quello che
Beth aveva detto riguardo a Nash... Non mi metterei contro un uomo come quello. Mi arrestai a una ventina di metri dalla mia jeep e mi guardai attorno. C'erano almeno un centinaio di veicoli di dipendenti di Plum Island, ora, nel parcheggio del traghetto, ma intorno non si vedeva nessuno, così mi appostai dietro un furgone e tirai fuori il mio telecomando. Uno degli accessori che avevo ottenuto in cambio dei miei quarantamila dollari era il comando a distanza. Schiacciai il segnale dell'accensione, due lunghi e uno breve, e aspettai che l'auto esplodesse. L'esplosione non ci fu. Il motore si era acceso. Lo lasciai girare un po', poi mi avviai verso l'auto e vi salii. Mi domandavo se non stessi eccedendo in cautela. La risposta, penso, nel caso il mio veicolo fosse esploso, è no. La prudenza non è mai troppa, dico io. Finché non avessi scoperto l'assassino, o gli assassini, il mio secondo nome era paranoia. 14 Viaggiavo verso ovest lungo la Main Road, tra il ronzio lieve del motore, la radio sintonizzata su qualcosa di riposante, le scene rurali che scorrevano via, il cielo azzurro, i gabbiani, il meglio che il terzo pianeta a partire dal sole abbia da offrire. Il telefono dell'auto suonò e risposi: «Uomo-che-non-deve-chiedere-mai. Posso fare qualcosa per lei?» «Sì, raggiungermi davanti alla casa dei Murphy.» «Penso di no», replicai. «No? Perché?» «Penso d'essere stato licenziato. Altrimenti, mi dimetto.» «È stato assunto a settimana. Deve finirla, la settimana.» «Chi lo dice?» «Dai Murphy.» Lei riattaccò. Detesto le donne autoritarie. Ciò nonostante, guidai per venti minuti fino alla casa dei Murphy e scorsi il detective Penrose in sosta là davanti, nella sua Ford LTD nera senza contrassegni. Parcheggiai la mia Jeep qualche casa più in là, spensi il motore e scesi. A destra della casa dei Murphy, la scena del crimine era ancora isolata con nastro, e c'era un agente della polizia di Southold di guardia all'esterno. Il furgone della sede mobile della contea era ancora sul prato. Beth era al cellulare quando mi avvicinai, e subito dopo posò il microfo-
no e scese. «Ho appena finito un lungo rapporto al mio capo. Pare che la spiegazione del vaccino per l'Ebola renda felici tutti.» «Gli ha spiegato che pensa si tratti di un cumulo di bugie?» «No... lasciamo da parte quel pensiero, per ora. Pensiamo a risolvere un duplice omicidio.» Ci avvicinammo al portone dei Murphy e suonammo il campanello. La casa era stile ranch anni Sessanta, in condizioni originali, come dicono, piuttosto brutta ma tenuta discretamente. Una donna sulla settantina venne ad aprire, e ci presentammo. Fissò i miei short, probabilmente commentando tra sé quanto apparissero e odorassero appena lavati e stirati. Sorrise a Beth e ci fece entrare. Poi sparì verso il fondo della casa e chiamò: «Ed! C'è di nuovo la polizia!» Tornò in soggiorno e indicò un divano a due posti. Mi ritrovai guancia a guancia con Beth. «Posso offrirvi qualcosa?» ci domandò la signora Agnes Murphy. «Grazie, no, signora», risposi. «Sono in servizio.» Anche Beth rifiutò. La signora prese posto su una sedia a dondolo di fronte a noi. Mi guardai intorno. Lo stile dell'arredo era quello, classico, che io chiamo Vecchiume Antico: mobilio scuro, muffoso, poltrone e sofà imbottiti, una marea di orribili gingilli, souvenir di un cattivo gusto pauroso, foto di nipotini e così via. Le pareti erano di un verde gessoso, e la moquette era... be', ma a chi importa? La signora Murphy era vestita di un completo pantalone rosa, di un tessuto sintetico che sarebbe durato tremila anni. «Le piacevano i Gordon?» le domandai. La domanda la prese alla sprovvista, com'era nelle mie intenzioni. Raccolse le idee e replicò: «Non li conoscevamo molto bene, ma erano persone tranquille». «Perché pensa che siano stati assassinati?» «Be'... come posso saperlo?» Ci guardammo per qualche istante, poi lei aggiunse: «Può darsi che abbia qualcosa a che fare con il loro lavoro». Edgar Murphy entrò pulendosi le mani con uno straccio. Era stato in garage, spiegò, a trafficare con il tagliaerba elettrico. Sembrava vicino agli ottanta e se, come Beth Penrose, mi fossi già mentalmente preparato a un futuro processo, non avrei scommesso che Edgar ce l'avrebbe fatta a venire a deporre. Indossava una tuta verde e scarpe da lavoro e appariva diafano quanto la
moglie. A ogni modo, mi alzai e scambiammo una stretta di mano. Tornai a sedermi, e lui prese posto su una sedia con lo schienale reclinabile, che reclinava al punto da ritrovarsi a fissare il soffitto. Cercavo di incontrare il suo sguardo, ma era difficile, date le rispettive posizioni. Ora ricordo perché non vado mai a trovare i miei. «Ho già parlato con il Capo Maxwell», disse Edgar Murphy. «Sì, signor Murphy», replicò Beth. «Ma io faccio parte della Omicidi.» «E lui, di cosa fa parte?» «Io sono con il Capo Maxwell», risposi. «No, non è vero. Conosco fino all'ultimo agente in forza, io.» Quello minacciava di diventare un triplice omicidio. Levai lo sguardo al soffitto, più o meno verso il punto che stavano fissando i suoi occhi, e parlai, un po' come orientandomi verso un satellite e facendo rimbalzar giù il segnale alla stazione ricevente. «Sono un consulente», dissi. «Senta, signor Murphy...» La signora Murphy interruppe. «Ed, non puoi tirarti su? È molto scortese sedere in quel modo.» «Scortese un corno. È casa mia. Può sentirmi benissimo. Può sentirmi, vero?» «Sissignore.» Beth fece una sorta di riassunto dei fatti, ma sbagliò di proposito nel riferire particolari e orari, e il signor Murphy la corresse, dimostrando d'avere buona memoria a breve termine. Anche la signora Murphy faceva qualche messa a punto degli eventi del giorno precedente. Sembravano testimoni attendibili, e mi vergognavo di me stesso per essermi mostrato impaziente con il più anziano: soprattutto mi pentivo d'avere desiderato di strangolare Edgar là sul suo schienale reclinabile. A ogni modo, mentre Beth e io parlavamo con Edgar e con Agnes, era evidente che c'era ben poco da scoprire riguardo ai nudi fatti: i Murphy erano entrambi in veranda, alle 5 e 30 del pomeriggio, avendo finito di mangiare: da bravi vecchietti, cenavano molto presto, verso le quattro. A ogni modo, stavano guardando la tivù quando avevano udito il motoscafo dei Gordon: riconoscevano i potenti motori, e la signora Murphy espresse la propria opinione: «Mamma mia, che fracasso. Cosa se ne fanno, certi, di motori fracassoni come quelli?» Rompono le scatole ai vicini, signora Murphy. A tutti e due domandai: «L'avete proprio visto, il motoscafo?» «No», rispose lei. «Non ci siamo preoccupati di guardare.»
«Ma potevate vederlo, dalla veranda?» «Il mare possiamo vederlo, sì. Ma stavamo guardando la tivù.» «Meglio che guardare una stupida baia.» «John», disse Beth. Lo ammetto, sono uomo di molti pregiudizi, e mi odio per ciascuno di essi, ma sono un prodotto della mia età, del mio sesso, della mia era, della mia cultura. Sorrisi alla signora Murphy. «Avete una bella casa.» «Grazie.» Per un poco Beth mi sostituì nell'interrogatorio. Si rivolse a entrambi i signori Murphy. «E siete sicuri di non avere udito nessun rumore che potesse essere uno sparo?» «Niente», rispose Edgar Murphy. «Il mio udito è piuttosto buono. Ho sentito Agnes che mi chiamava, no?» «A volte», disse Beth, «gli spari non suonano come pensiamo che debbano suonare. Alla televisione, sapete, risuonano in un certo modo, ma nella vita reale possono far pensare a volte a petardi, o a uno schiocco di frusta, o al ritorno di fiamma di un'auto. Non avete udito alcun suono dopo che i motori si erano fermati?» «Niente.» Era il mio turno. «Okay. Avete udito i motori fermarsi. Stavate ancora guardando la televisione?» «Siii. Ma non la teniamo alta. Ci sediamo molto vicini.» «Con le spalle alle vetrate?» «Siii.» «Okay, avete guardato la televisione per altri dieci minuti. Che cosa l'ha fatta alzare, signor Murphy?» «Era uno degli show di Agnes. Un talk show maledettamente stupido. Il Montel Williams.» «Così lei si è diretto verso la casa accanto per fare due chiacchiere con Tom?» «Mi serviva in prestito una prolunga.» Edgar spiegò che era passato attraverso un'apertura nella siepe, era montato sul tavolato di legno dei Gordon e, Dio buono!, là c'erano Tom e Judy, morti e stramorti. «Quanto era lontano dai cadaveri?» domandò Beth. «Nemmeno sei metri.» «Ne è certo?» «Siii. Ero sul bordo del tavolato, e loro erano come di fronte alla porta a vetri scorrevole. Ne distavano cinque o sei metri.»
«D'accordo. Come sapeva che erano i Gordon?» «Non lo sapevo, al principio. Sono rimasto a fissarli, come impietrito, poi l'ho capito.» «Come sapeva che erano morti?» «Non ne ero proprio sicuro, al primo momento. Però potevo vedere il... be', quello che sembrava come un terzo occhio, sulla fronte di lui. Sa? Non si muovevano di un centimetro. E avevano gli occhi aperti, ma non respiravano, non si lagnavano. Niente.» Beth assentiva. «Allora che cosa ha fatto?» «Sono scappato come il vento.» Toccava a me. Domandai a Edgar: «Quanto tempo pensa di essere rimasto là a guardare?» «Oh, non lo so.» «Mezz'ora?» «Ma nooo! Forse quindici secondi.» Cinque era più probabile, sospettavo. Un paio di volte accompagnai Edgar attraverso quei pochi secondi, cercando di fargli ricordare se in quel momento avesse visto o udito qualcosa di insolito, qualcosa che aveva dimenticato di dire, ma inutilmente. Gli domandai perfino se ricordava d'avere sentito odore di polvere da sparo, ma era come parlare al muro: nel suo primo rapporto al Capo Maxwell c'era tutto, e basta. La signora Murphy confermò. Mi domandavo che cosa sarebbe successo se Edgar fosse passato attraverso quella siepe una decina di minuti prima. Probabilmente, ora non sarebbe stato seduto lì. E mi domandavo se quel pensiero gli avesse sfiorato la mente. «Come pensa che l'assassino si sia allontanato», gli domandai, «se non ha udito né visto un'auto o una barca?» «Be', ci ho pensato a questo.» «E allora?» «Be', qua intorno c'è un sacco di gente che cammina, va in bicicletta, fa jogging e così via. Sa? Penso che nessuno farebbe caso a qualcuno che stesse facendo una cosa del genere.» «Giusto.» Ma forse veder fare jogging con una ghiacciaia sulla testa avrebbe attirato l'attenzione. C'erano buone probabilità che l'assassino si trovasse nelle immediate vicinanze, quando Edgar si era imbattuto nei due cadaveri. Abbandonai i tempi e la scena del crimine e attaccai con un'altra serie di domande. Mi rivolsi alla signora Murphy. «Avevano spesso compagnia, i
Gordon?» «Piuttosto spesso, sì. Un sacco di volte cucinavano all'aperto. Avevano sempre amici per casa.» Beth domandò a Edgar: «Uscivano in barca la sera tardi?» «A volte. Difficile non sentirli, quei motori. A volte tornavano molto tardi.» «Molto tardi quanto?» «Oh, le due, le tre di notte. Pesca notturna, immagino.» Si può pescare da un Formula 303, come avevo fatto alcune volte con i Gordon, ma certo non è una barca da pesca, come era chiaro che anche Edgar sapeva. Ma Edgar apparteneva alla vecchia scuola, ed era convinto che non si dovesse mai parlare male dei morti... salvo sotto pressione. Continuammo a girare intorno all'argomento, informandoci sulle abitudini dei Gordon, sulla presenza di auto sconosciute e così via. Non avevo mai lavorato con Beth Penrose, naturalmente, ma eravamo sulla stessa lunghezza d'onda, formavamo un buon duo. Dopo qualche minuto, la signora Murphy osservò: «Erano una gran bella coppia». Colsi l'imbeccata e domandai: «Pensa che lui avesse un'amica?» «Oh... non intendevo...» «Lei aveva uno spasimante?» «Be'...» «Quando lui non era in casa, c'era un signore che andava a trovarla. Esatto?» «Be', non sto dicendo che fosse un innamorato o altro.» «Ce ne parli.» E ce ne parlò, ma non era affatto una storia piccante. Una volta, in giugno, mentre Tom era al lavoro e Judy era a casa, un bell'uomo ben vestito e con la barba era arrivato con un'auto bianca sportiva di marca indeterminata e se n'era andato un'ora più tardi. Interessante, ma non indizio di una relazione torrida che potesse condurre a un crimine passionale. Poi, alcune settimane prima, un sabato in cui Tom era fuori in barca, un uomo si era fermato sul viale con una «Jeep verde», era andato dietro la casa dove la signora Gordon stava prendendo il sole in un ridotto bikini, si era tolto la camicia, e per un poco aveva preso il sole accanto a lei. «Non mi sembra giusto», disse la signora Murphy, «quando il marito non è in casa. Sì, dico, lei era mezza nuda, e quel tizio si sfila la camicia e si stende proprio accanto a lei, e per un po' se ne stanno lì a chiacchierare, poi lui si alza e se ne va
prima che il marito torni. Ora, di che cosa poteva trattarsi?» «Di una cosa innocentissima», replicai io. «Mi ero fermato per vedere Tom a proposito di qualcosa.» La signora Murphy mi guardava, e potevo sentirmi addosso anche gli occhi di Beth. Alla signora spiegai: «Io ero amico dei Gordon». «Oh...» Edgar Murphy ridacchiò, rivolto al soffitto. «Mia moglie», mi informò, «ha una fantasia oscena.» «Anch'io.» Poi domandai alla signora Murphy: «Vi scambiavate visite con i Gordon?» «Li invitammo qui a cena, una volta, quando si erano appena trasferiti qui, un paio d'anni fa. Loro ci invitarono per un barbecue subito dopo. Non ci siamo mai più trovati, da quella volta.» Potevo immaginare perché. «Conosceva di nome qualcuno dei loro amici?» domandai alla signora Murphy. «No. Immagino che fosse quasi tutta gente di Plum Island. Sono una strana manica di individui, se vuole la mia opinione.» E così via. Chiacchieravano volentieri. La signora Murphy si dondolava, il marito giocherellava con la leva della sedia reclinabile, cambiando di continuo l'inclinazione. Durante una delle posizioni perfettamente piatte, mi domandò: «Che cosa hanno fatto? Rubato un bel po' di germi per spazzar via il mondo?» «No, hanno rubato un vaccino che valeva un mucchio di soldi. Volevano essere ricchi.» «Ah, sì? Erano solo in affitto, in quella casa. Lo sapeva?» «Sì.» «Pagavano fior di soldoni. Troppi.» «Lei come lo sa?» «Conosco il proprietario. Un giovane di nome Sanders. È un costruttore. Il posto lo aveva comperato dagli Hoffmann, che sono amici nostri. Sanders l'aveva pagato troppo, poi lo ha sistemato e l'ha affittato ai Gordon. E loro pagavano troppo d'affitto.» «Lasci che le parli con franchezza, signor Murphy», disse Beth. «C'è chi pensa che i Gordon fossero coinvolti nel traffico di droga. Lei cosa ne dice?» Lui replicò senza un attimo di esitazione. «Può darsi. Erano fuori in barca alle ore più strane. Non mi meraviglierebbe.» «A parte me e l'uomo barbuto con l'auto sportiva», domandai, «avete
mai visto tipi sospetti bazzicare intorno alla casa?» «Be'... per dire la verità, non posso affermare d'averne visti.» «Signora Murphy?» «No, non direi. Erano quasi tutte persone rispettabili. Bevevano un po' troppo... il bidone del vetro da riciclare era pieno di bottiglie di vino... a volte diventavano un po' chiassosi dopo che avevano bevuto, ma la musica era sempre gradevole: non quella roba assurda che si sente al giorno d'oggi.» «Avevate una chiave della loro casa?» Vidi la signora Murphy scoccare un'occhiata al marito, che stava fissando il soffitto. Seguì un attimo di silenzio, poi Murphy disse: «Sì, avevamo la chiave. Tenevamo d'occhio la casa per loro, perché noi di solito ci siamo». «E allora?» «Be'... una settimana fa, circa, vediamo là il furgone di un fabbro e, appena lui se ne va, be', faccio un salto fin là per provare la mia chiave, e non funzionava più. Mi aspettavo che Tom mi desse una chiave nuova, ma non l'ho mai avuta. Lui ce l'ha la chiave di casa mia. Capito? Così, telefono a Gil Sanders e domando a lui, perché il proprietario dovrebbe sempre averla, la chiave, ma lui non ne sa niente. Non sono affari miei, ma se i Gordon volevano che gliela sorvegliassi, la casa, la chiave era logico che l'avessi.» Poi aggiunse: «Ora mi domando se non stessero nascondendo qualcosa, là». «Finiremo per nominarla delegato onorario, signor Murphy. Ehi, non ripeta niente di quanto è stato detto qui a nessuno, salvo il Capo Maxwell. Se si presenta qualcuno a nome dell'FBI, o della polizia della Contea di Suffolk, o della polizia di Stato di New York o altro del genere, c'è il rischio che mentano. Telefonate subito al Capo Maxwell o al detective Penrose. D'accordo?» «D'accordo.» Beth domandò a Murphy: «Possiede una barca, lei?» «Non più. Troppo lavoro e poi costa.» «Qualcuno veniva in barca a trovare i Gordon?» «Di tanto in tanto vedevo una barca ormeggiata al loro pontile.» «Sapeva a chi appartenevano quelle imbarcazioni?» «No. Ma una volta si trattava di un motoscafo uguale al loro. Da corsa. Però non era il loro. Il nome era diverso.» «Lei era abbastanza vicino per vederlo?» domandai io.
«A volte guardo col binocolo.» «Che nome c'era sulla barca?» «Non ricordo. Però non era la loro.» «Vide qualcuno a bordo?» domandò Beth. «No. Mi capitò solo di notare quel motoscafo, ma senza vedere nessuno scenderne o salirvi.» «Quando è stato?» «Vediamo... in giugno, penso... all'inizio della stagione.» «I Gordon erano a casa?» «Non lo so. Io guardavo per vedere chi usciva dalla casa, ma in qualche modo dovevano essermi sfuggiti perché, a un certo punto, sentii il motore e la barca stava già prendendo il largo.» «Vede bene da lontano, lei?» «Non molto, salvo che col binocolo.» «E lei, signora Murphy?» «Stessa cosa.» Convinto che casa Gordon fosse soggetta a maggiore sorveglianza col binocolo di quanto i Murphy volessero ammettere, domandai: «Se vi mostriamo delle foto, potreste dirmi se quelle persone le avete già viste sulla proprietà dei Gordon?» «Può darsi.» Assentii. I vicini ficcanaso possono essere buoni testimoni ma, a volte, come telecamere di sorveglianza da quattro soldi, testimoniano anche troppo di quel che è irrilevante, confuso, noioso e poco comprensibile. Prolungammo di un'altra mezz'ora l'interrogatorio, ma la resa andava via via diminuendo. Il signor Murphy aveva compiuto quasi l'impossibile addormentandosi durante un colloquio con la polizia. Il suo ronfare cominciava a darmi sui nervi. Mi alzai e mi stiracchiai. Anche Beth si alzò e diede il suo biglietto alla signora Murphy. «Grazie del tempo che ci ha dedicato. Mi chiami, se a uno di voi due viene in mente qualcos'altro.» «Va bene.» «Si ricordi», disse Beth, «io sono il detective assegnato a questo caso. Questo è il mio socio. Il Capo Maxwell ci assiste nelle indagini. Non dovete parlare con nessun altro di questo caso.» L'altra assentiva, ma io non sapevo se i Murphy potessero tenere testa a qualcuno come Ted Nash dell'FBI.
Domandai alla signora Murphy: «Le dispiace se facciamo un giro per la sua proprietà?» «No, prego.» Ci congedammo da lei, e io dissi: «Mi spiace se ho annoiato il signor Murphy». «È l'ora del suo pisolino.» «Lo vedo.» Ci accompagnò fino alla porta e confessò: «Sono terrorizzata». «Non è il caso», disse Beth. «La polizia sorveglia il vicinato.» «Potremmo venire assassinati nel sonno.» «Pensiamo sia stato qualcuno che conosceva i Gordon», replicò Beth. «Chissà, un rancore. Voi non avete motivo di preoccuparvi.» «E se tornassero?» Ricominciavo a irritarmi. «Perché mai l'assassino dovrebbe tornare?» domandai, in tono alquanto brusco. «Tornano sempre sulla scena del crimine.» «Non tornano mai sulla scena del crimine.» «Lo fanno, se vogliono uccidere i testimoni.» «Lei, o suo marito, avete assistito al fatto?» «No.» «Allora non vedo perché preoccuparsi», conclusi. «L'assassino potrebbe pensare che abbiamo assistito.» Lanciai un'occhiata a Beth. Lei disse: «Manderò una macchina di pattuglia a tenere d'occhio la situazione. Se lei è nervosa, o se sente qualcosa, chiami il 911». Poi aggiunse: «Stia tranquilla, signora». Agnes Murphy assentì. Aprii la porta e uscii nel sole. A Beth dissi: «In verità, non ha tutti i torti». «Lo so. Prenderò delle precauzioni.» Beth e io ci portammo nel giardino di fianco alla casa e trovammo l'apertura nella siepe. Da li si vedeva il retro della casa dei Gordon e il tavolato e, oltrepassata l'apertura e guardando a sinistra, si poteva guardare fin giù all'acqua. Nella baia c'era un'imbarcazione bianca e azzurra, e Beth disse: «Appartiene alla vigilanza della baia. Abbiamo quattro sub all'opera per cercare due piccoli proiettili tra la fanghiglia e le alghe. Con pochissima speranza». Dal crimine non erano ancora trascorse ventiquattr'ore, e la scena era i-
solata almeno fino al mattino dopo, perciò non entrammo nella proprietà dei Gordon, perché farlo avrebbe significato tornare a registrarsi, e io stavo tentando semmai di ritirarmi e lavarmene le mani. Ma proseguimmo lungo la siepe dal lato dei Murphy, in direzione della baia. La siepe diveniva nana in vicinanza dell'acqua salata e a un certo punto, a una decina di metri dalla riva, potevo guardare al di sopra di essa. Continuammo a camminare fino a dove la baia lambiva la proprietà dei Murphy. A sinistra c'era il loro vecchio attracco galleggiante, a destra quello fisso dei Gordon. Lo Spirocheta non c'era più. «La Capitaneria di porto», mi spiegò Beth, «se l'è portato al suo attracco. Quelli del laboratorio ci lavoreranno là.» Poi mi domandò: «Che cosa ne pensa dei Murphy?» «Penso che sono stati loro.» «A far che?» «A uccidere i Gordon. Non direttamente. Ma hanno intercettato Tom e Judy là fuori, li hanno frastornati per mezz'ora sulle offerte speciali del supermarket, i Gordon hanno estratto le loro pistole e si sono sparati un colpo.» «Possibile», concesse Beth, «ma che fine hanno fatto le pistole?» «Edgar ne ha ricavato sostegni per la carta igienica.» Rise. «Lei è proprio impossibile. Crescerà, una buona volta.» «No. Non voglio.» Nessuno di noi parlò per alcuni secondi. Fermi là, contemplavamo la baia. L'acqua, come il fuoco, affascina. Alla fine, Beth domandò: «Aveva una relazione con Judy Gordon, lei?» «In tal caso, l'avrei detto immediatamente a lei e a Max.» «L'avrebbe detto a Max. Non a me.» «D'accordo. Non avevo nessuna relazione con Judy Gordon.» «Ma ne era attratto.» «Sì, come tutti. Era bella.» Mi ricordai di aggiungere: «È molto intelligente», come se davvero m'importasse un corno di questo. Be', a volte sì, ma in genere dimentico di elencare il cervello tra gli attributi. Poi conclusi: «Visto che siamo in presenza di due persone giovani, sessualmente attraenti, forse dovremmo prendere in considerazione anche il lato sessuale». Annuì. «Ci penseremo.» Da dove ci trovavamo, potevo vedere l'asta della bandiera nel giardino dei Gordon. La Jolly Roger sventolava ancora dall'albero di maestra, e dalla traversa, chiedo scusa, dalla varea di pennone, le due bandiere di segna-
lazione pendevano tutt'ora. «Può copiarle, quelle bandiere?» chiesi a Beth. «Certo.» Si armò di blocco e penna e fece uno schizzo delle due bandiere. «Pensa che sia rilevante? Un segnale?» «Perché no? Sono bandiere di segnalazione.» «Secondo me sono soltanto decorative. Ma lo appureremo.» «Esatto. E ora torniamo sulla scena del crimine.» Attraversammo la linea di confine tra le due proprietà e ci avviammo verso il pontile dei Gordon. «Okay», dissi, «io sono Tom, lei è Judy. Abbiamo lasciato Plum Island a mezzogiorno e ora sono le 5 e 30. Siamo a casa. Io spengo i motori, lei salta giù dalla barca per prima e lega la corda. Io isso la ghiacciaia sul pontile. Giusto?» «Giusto.» «Salgo anch'io sul pontile, solleviamo la ghiacciaia per le maniglie e ci incamminiamo.» Simulammo in un certo senso il tutto, camminando affiancati. «Guardiamo verso la casa», dissi io. «Se ci fosse qualcuno su uno dei tre livelli del tavolato, lo vedremmo. Giusto?» «Giusto», convenne lei. «Diciamo che qualcuno c'è, ma lo conosciamo, lui, lei o loro, e continuiamo a camminare.» «D'accordo. Ma sarebbe logico che quella persona venisse verso il pontile per darci una mano. Normale cortesia. A ogni modo, noi stiamo ancora camminando.» Continuammo, affiancati, su per il secondo livello. Beth disse: «A un certo punto, se la porta di vetro scorrevole fosse aperta, ce ne accorgeremmo. Notandolo, ci preoccuperemmo, e potremmo fermarci o tornare indietro. La porta non doveva essere aperta». «A meno che non sapessimo già che qualcuno ci avrebbe aspettati dentro casa.» «Giusto. Ma allora doveva essere qualcuno con la nuova chiave.» Continuammo verso la casa fino alla terrazza più alta e ci fermammo ad alcuni passi dalle due sagome tracciate col gesso, Beth di fronte a quella di Judy, io di fronte a quella di Tom. «I Gordon», dissi, «hanno pochi passi ancora da muovere, un minuto o meno da vivere. Che cosa vedono?» Beth fissò le due sagome, poi guardò verso la casa di fronte a noi, verso la porta di vetro, verso le immediate aree a destra e a sinistra. Alla fine disse: «Stanno ancora dirigendosi verso la casa, che dista un sei metri. Niente indica che stessero cercando di fuggire. Sono ancora l'uno accanto all'altro, intorno non c'è possibilità di nascondersi, a parte la casa, e nessuno può
centrare due colpi alla testa da quella distanza. Dovevano conoscerlo, l'assassino, oppure non erano allarmati dalla sua presenza.» «Giusto. Sto pensando che il killer era forse allungato su una sdraio, fingendo di dormire, ed ecco perché non si sarebbe alzato per andare incontro ai Gordon giù al pontile. I Gordon lo conoscevano, e magari Tom gli avrà gridato: "Ehi, Joe, alzati e vieni a darci una mano con questa cassa di vaccino per l'Ebola". O di carbonchio. O di denaro. Così, il tizio si alza, sbadiglia, muove qualche passo verso di loro da una di queste sdraio, si porta a distanza ravvicinata, estrae una pistola, e fa un buco nella testa a tutti e due. Giusto?» «Possibile», replicò lei. Aggirò i due contorni e si fermò dove doveva essersi fermato l'assassino, a meno di un metro e mezzo dai piedi delle due sagome. Mi portai nel punto dove si era fermato Tom. Beth sollevò la destra e si resse il polso con la sinistra. Puntò l'indice verso la mia faccia e disse: «Bang». «Non stavano trasportando la cassa quando sono stati colpiti», osservai. «Sarebbe sfuggita dalla mano di Tom quando è stato colpito. Tom e Judy l'avevano già posata, quella cassa.» «Io non giurerei che stessero trasportando una cassa. Quella è la sua teoria, non la mia.» «Allora dov'è la cassa che era sempre nella loro barca?» «Chi lo sa? Da qualche parte. Guardi quelle due sagome, John. I due giacevano così vicini che mi domando come potessero trasportare tra loro una cassa lunga più di un metro.» Tornai a osservare i due contorni. Lei non aveva tutti i torti, ma dissi: «Potrebbero averla posata qualche metro più in là, poi essersi avvicinati al loro assassino, che poteva essere disteso su una sdraio, o fermo qui, o essere appena uscito da quella porta scorrevole». «Può darsi. In ogni caso, penso che i Gordon conoscessero l'assassino o gli assassini.» «Sono d'accordo.» Poi dissi: «Secondo me non è stato il caso a mettere l'assassino lì e i Gordon là. Per l'assassino sarebbe stato più facile sparare ai due dentro casa, piuttosto che qui fuori. Ma lo ha scelto lui questo posto: ha voluto sparare proprio da qui». «Perché?» «La sola ragione che posso trovare è che avesse una pistola registrata, e non volesse un esame balistico dei proiettili se, in seguito, fosse diventato un sospetto.»
Assentì e guardò verso la baia. «Dentro casa», continuai, «sarebbero andati a conficcarsi da qualche parte, e forse non sarebbe stato in grado di recuperarli. Così, opta per due colpi alla testa a distanza ravvicinata con una pistola di grosso calibro, e con niente tra i fori di uscita e la profondità della baia.» Tornò ad assentire. «Sembra proprio così, vero?» Poi: «Questo cambia il profilo del killer. Non è un drogato, o un assassino con un'arma non registrata. È qualcuno che non sa come procurarsi una pistola non rintracciabile: è un onesto cittadino con una pistola registrata. È questo che sta suggerendo?» «Collima con quanto vedo qui», risposi. «Per questo vuole i nomi delle persone del luogo in possesso di armi registrate?» «Esatto. Di grosso calibro, registrate in quanto l'opposto di un'arma illegale o che scotta, e probabilmente una pistola automatica e non un revolver, perché è quasi impossibile applicare a un revolver un silenziatore. Partiamo da questa teoria.» «Come fa un onesto cittadino con un'automatica registrata», obiettò Beth, «a procurarsi un silenziatore illegale?» «Ottima domanda.» Meditai sul nuovo profilo che mi si era presentato e dissi: «Come sempre in questo caso, c'è sempre un incongruenza che manda a pallino una buona teoria». «Esatto. E poi», aggiunse, «ci sono quelle venti automatiche calibro 45 su Plum Island.» «Ci sono, già.» Ne discutemmo un po', cercando di mettere insieme la cosa, fingendo che fossero le cinque e mezzo di ieri invece che le cinque e mezzo di oggi. Attraverso la porta a vetri, potei scorgere un agente in divisa della polizia di Southold, ma lui non ci vide e si allontanò. Dopo circa cinque minuti di elucubrazioni, dissi a Beth Penrose: «Da bambino, venivo sempre qui da Manhattan con la mia americanissima famiglia: papà, mamma, fratello Jim e sorella Lynne. Di solito affittavamo lo stesso cottage vicino alla grande casa vittoriana di zio Harry, e passavamo due settimane a farci divorare dalle zanzare. Ci grattavamo come pazzi, ci ficcavamo gli ami da pesca nelle dita, ci scottavamo per il sole, ma evidentemente ce la godevamo un mondo, perché ogni anno non vedevamo l'ora di tornarci. I Corey e la loro sadomasochistica vacanza». Lei sorrise.
«Un anno», continuai, «dovevo averne circa dieci, io, trovai una palla di moschetto, e la mia mente si infiammò. Si rende conto? Qualcuno l'aveva sparata cento o forse duecento anni prima. Poi la moglie di Harry, mia zia June - che Dio l'abbia in gloria - mi portò in un posto vicino alla località di Cutchogue che, a sentir lei, un tempo era stato un villaggio degli indiani Corchaug, e mi mostrò come cercare punte di frecce, buche per cucinare, aghi d'osso e via dicendo. Incredibile.» Beth taceva, ma mi guardava come se fosse tutto molto interessante. «Ricordo», proseguii, «che la notte non potevo dormire, pensando a palle di moschetto e a punte di frecce, a colonizzatori e indiani, a soldati inglesi e a soldati americani. Prima che quelle due settimane magiche terminassero, avevo deciso che da grande avrei fatto l'archeologo. Non andò così, ma penso fu una delle ragioni per cui diventai un detective.» Le spiegai del viale d'ingresso di zio Harry e come un tempo usassero tizzoni e gusci di molluschi per tener giù la polvere e il fango. «Perciò, di qui a un migliaio d'anni», dissi, «un archeologo, scavando, trova quelle scorie e quei gusci, e subito ne deduce che si trattava di una lunga buca per cucinare. In realtà, avrà trovato un viale d'ingresso, ma farà in modo che quel che secondo lui è una buca per cucinare si adatti alla sua teoria. Mi segue?» «Certo.» «Bene. Allora, ecco il mio discorso alla mia classe. Vuole sentirlo?» «Coraggio.» «Okay, ragazzi: quello che vedete sulla scena di un omicidio è pietrificato nel tempo, non è più una dinamica viva e in movimento. Potete creare diverse storie su questa natura morta, ma saranno soltanto teorie. Un detective, come un archeologo, può mettere insieme fatti concreti e concrete prove scientifiche, e trarne ugualmente conclusioni sbagliate. Aggiungete a questo alcune bugie e tracce false, nonché gente che cerca di rendersi utile ma commette errori. Più altra gente che vi dirà quello che volete sentire perché concorda con le vostre teorie e altra ancora con intenzioni recondite, e infine l'assassino stesso, che potrebbe avere seminato indizi falsi. In mezzo a tutto questo cumulo di contraddizioni, inconsistenze e bugie, c'è la verità. A questo punto», dissi a Beth, «se ho calcolato bene i tempi, suona la campana e io concludo: "Signore e signori, è vostro compito arrivare alla verità".» «Bravo», disse lei. «Grazie.»
«E allora, chi ha ucciso i Gordon?» domandò. «Mi venga un colpo se lo so», replicai. 15 Ci fermammo sulla stradina ancora illuminata dal sole, vicino all'auto nera di Beth Penrose. Erano quasi le sei. «Le andrebbe un aperitivo?» domandai. «È in grado di trovare la casa di Margaret Wiley?» replicò. «Può darsi. La Wiley sta servendo aperitivi?» «Glielo domanderemo. Salti su.» Salii. Lei avviò il potente motore e partimmo, verso nord attraverso Nassau Point, al di là della soprelevata e sulla terra ferma della North Fork. «Da che parte?» domandò lei. «A destra, credo.» Prese la svolta, facendo stridere le gomme. «Rallenti», dissi. Rallentò. Era piacevole con i finestrini aperti, il sole al tramonto, l'aria limpida e così via. C'eravamo allontanati dall'area della baia, ora, e viaggiavamo tra le fattorie e i vigneti. «Quand'ero bambino», dissi, «c'erano due tipi di fattorie: quelle di patate, che appartenevano più che altro a famiglie polacche e tedesche arrivate qui verso la svolta del secolo, e quelle di frutta e verdura che appartenevano in genere ai colonizzatori originali. Ci sono fattorie, qui, che sono della stessa famiglia da trecentocinquant'anni. Difficile a comprendersi.» Lei rimase un poco silenziosa, poi disse: «La mia famiglia ha posseduto la stessa fattoria per un centinaio d'anni». «Davvero? E suo padre l'ha venduta?» «Per forza. All'epoca in cui sono nata io, la fattoria sorgeva nel bel mezzo dei sobborghi. Eravamo considerati gente strana», aggiunse. «A scuola ridevano di me, perché ero la figlia di un agricoltore.» Sorrise e concluse: «Ma papà rise per ultimo. Un milione di dollari gli fruttò il terreno. Bei soldi, allora». «Bei soldi anche ora. Ha ereditato?» «Non ancora. Ma sto sperperando un fondo fiduciario.» «Vuole sposarmi?» domandai. «No, ma le permetterò di guidare la mia BMW.» «Rallenti e svolti a sinistra, là.»
Svoltò e ci dirigemmo di nuovo a nord. Mi lanciò un'occhiata e disse: «Mi risulta che lei era sposato». «Divorziato.» «Firmato, sigillato e consegnato?» «Penso di sì.» In verità, non ricordavo d'avere ricevuto le carte della mia liberazione definitiva. «Ricordo una storia alla televisione quando lei venne ferito... una bella moglie in visita all'ospedale con il sindaco, il capo della polizia... se ne ricorda?» «In realtà no. Ne ho sentito parlare.» Poi dissi: «Ora a destra e poi subito a sinistra». Ci ritrovammo sulla Lighthouse Road, e dissi ancora: «Vada adagio, ora, così leggeremo i numeri». La stradina, che conduceva al faro di Horton Point circa un chilometro e mezzo più avanti, aveva piccole case su entrambi i lati, circondate da vigneti. Arrivammo a un bel cottage di mattoni la cui cassetta delle lettere diceva «Wiley». Beth fermò la macchina sul margine erboso. «Credo sia qui.» «Probabile. L'elenco telefonico era pieno di Wiley, tra parentesi. Probabilmente saranno qui dalle origini.» Scendemmo e percorremmo un sentiero di pietra fino alla porta d'entrata. Non c'era campanello e bussammo. Aspettammo. C'era un'auto parcheggiata sotto una grande quercia di fianco alla casa, così ci portammo lungo il lato e poi sul retro. Una donna magra sulla settantina in un abito estivo a fiori stava lavoricchiando in un orto. «Signora Wiley?» chiamai. Rialzò la testa dai suoi ortaggi, poi venne verso di noi. Ci incontrammo su un tratto a prato tra la casa e l'orto. «Sono il detective John Corey», dissi. «Le ho telefonato ieri notte. Questa è la mia partner, detective Beth Penrose.» Fissava i miei short, tanto che pensai d'avere la patta aperta o chissà. Beth le mostrò il suo distintivo, e la signora parve soddisfatta di Beth, ma ancora incerta sul conto mio. Sorrisi a Margaret Wiley. Aveva limpidi occhi grigi, capelli grigi e una faccia che definirei interessante, dalla pelle quasi perlacea; una faccia che mi faceva pensare a un vecchio dipinto: non a un particolare quadro, o stile, o artista, solo a un vecchio dipinto. Lei mi guardò e disse: «Ha telefonato molto tardi».
«Non potevo dormire. Quel duplice omicidio mi teneva sveglio, signora Wiley. Le chiedo scusa.» «Non è il caso, mi creda. Che cosa posso fare per voi?» «Be'», dissi, «ci interessa quel pezzo di terra che lei ha venduto ai Gordon.» «Credo d'averle detto tutto quello che so.» «Sì, signora. Probabilmente è così. Solo qualche altra domanda.» «Sediamoci.» Ci condusse verso alcune sedie Adirondack verniciate di verde raggruppate sotto un salice piangente. Prendemmo posto. Le Adirondack, molto in uso quando io ero bambino, erano tornate di gran moda, e ora le si vedevano dappertutto. Quelle particolari sedie nel giardino della signora Wiley, sospettavo, non si erano mai allontanate di là prima che si imponesse un loro ritorno in auge. La casa, il giardino, la signora nel lungo abito di cotone, il salice, il rugginoso dondolo, e il vecchio copertone d'auto appeso per una fune alla quercia, tutto questo aveva un aspetto anni Quaranta o Cinquanta, come una vecchia fotografia che fosse stata colorata. Davvero il tempo si muoveva più lentamente, lì. C'era il detto che a Manhattan il presente fosse così forte da oscurare il passato. Lì, invece, il passato era così forte da oscurare il presente. Avvertivo l'odore del mare, lo Stretto di Long Island distante nemmeno mezzo chilometro, e mi sembrava di cogliere a tratti quello dei grappoli caduti a terra nel vicino vigneto. Quello era un ambiente unico fatto di mare, podere e vigneto, una combinazione insolita presente soltanto in alcuni punti lungo la costa orientale. «Bello, il posto che ha qui», dissi alla signora Wiley. «Grazie.» Margaret Wiley era la mia terza persona anziana della giornata, ed ero deciso a far meglio con lei di quanto avessi fatto con Edgar e Agnes. In effetti, Margaret Wiley non avrebbe accettato spiritosaggini; potevo intuirlo. Era la tipica donna all'antica, siamo-seri, veniamo-al-sodo, e badi-a-comeparla. Sono bravo nell'interrogare perché so individuare personalità e tipi, e adeguare di conseguenza il mio approccio. Il che non significa che io sia simpatico, sensibile o capace di immedesimarmi. Sono un porco maschio sciovinista arrogante, egocentrico e presuntuoso. Ma ascolto e dico quello che va detto. Fa parte del mestiere. Alla signora Wiley domandai: «Lo manda avanti da sola questo posto?» «Quasi. Ho un figlio e due figlie, tutti sposati e che vivono nei dintorni. Quattro nipoti. Mio marito, Thad, è morto sei anni fa.»
Beth mormorò qualche parola di circostanza. Poi, tolto questo di mezzo, domandò: «Sono suoi questi vigneti?» «È mia una parte di questa terra. L'affitto ai viticoltori. Normale affitto agricolo per una stagione. I viticoltori hanno bisogno di vent'anni, dicono. Io non so niente sulle viti.» Fissò Beth. «Questo risponde alla sua domanda?» «Sì, signora. Mi dica, perché ha venduto un acro ai Gordon?» «Cos'ha a che fare, questo, con la loro fine?» «Non lo sappiamo», replicò Beth, «se prima non scopriamo qualcosa di più sulla transazione.» «Era la semplice vendita di un terreno.» Mi rivolsi alla signora. «Per essere franco, trovo strano che i Gordon spendessero tanto denaro per un terreno che non poteva essere sfruttato.» «Penso d'averle detto, detective, che volevano una veduta dello Stretto.» «Sì, signora. Accennarono a qualche altro uso che potessero voler fare di quel terreno? Pesca, per esempio, nautica, campeggio?» «Campeggio. Accennarono al piantarvi una tenda. E pesca. Volevano fare surf di notte di fronte alla loro spiaggia. E dissero anche qualcosa a proposito del voler comperare un telescopio. Volevano studiare astronomia. Avevano visitato il Custer Institute. C'è mai stato?» «No, signora.» «È un piccolo osservatorio a Southold. I Gordon avevano preso interesse all'astronomia.» Questa era nuova per me. Si direbbe che chi per tutto il giorno ha osservato germi attraverso un microscopio non voglia accostare l'occhio a un'altra lente la sera. Ma non si può mai dire. «E quanto alla nautica?» domandai. «Non si può mettere in mare un'imbarcazione da li, salvo forse una canoa. Il terreno è su un'alta rupe, ed è impossibile trasportare qualcosa lassù, e poi giù alla spiaggia, salvo come dicevo una canoa.» «Ma una barca può approdare sulla spiaggia?» «Forse con l'alta marea, ma ci sono scogli pericolosi lungo tutto il tratto. Probabilmente ci si potrebbe ancorare, e poi nuotare, o anche camminare fino a riva con la bassa marea.» Assentii, poi domandai: «Accennarono a qualche interesse agricolo per quel terreno?» «No. Non serve a molto. Non gliel'avevo detto?» «Non ricordo.»
«Be', l'ho fatto.» Poi spiegò: «Qualsiasi cosa cresca su quella rupe ha bisogno di molto tempo per assuefarsi al vento e alla salsedine. Al massimo», aggiunse, «si potrebbe tentare con radici commestibili, sul lato verso terra». «Già.» Cambiai argomento e domandai: «Che impressione le fecero i Gordon?» Mi fissò, rifletté un momento, poi rispose: «Una bella coppia. Molto gradevole». «Felice?» «Sembrava di sì.» «Erano entusiasti del loro acquisto?» «Direi di sì.» «Furono loro a proporle di vendere quel terreno?» «Sì. Si erano un po' informati, in precedenza: io ne avevo sentito parlare molto prima che venissero da me. Quando me lo chiesero, dissi che non intendevo venderlo.» «Come mai?» «Bisognerebbe conservarla, la terra, e lasciarla alla propria famiglia. Ho ereditato alcuni lotti da mia madre. Il pezzo di terra che interessava ai Gordon veniva invece dal lato di mio marito.» Parve riflettere un momento, poi aggiunse: «Thad mi aveva fatto promettere di non vendere niente. Voleva che andasse ai nostri figli. Ma quello era un acro soltanto. Non avevo bisogno di quel denaro, naturalmente, ma sembrava che i Gordon avessero messo il cuore su quella rupe...» Lanciò un'occhiata a me e a Beth, e disse: «Ne ho parlato ai miei figli, e loro erano del parere che il padre avrebbe approvato». Mi sorprendeva sempre che vedove e figli, i quali erano del tutto privi di indizi su che cosa regalare al vecchio per Natale o per la festa del papà, sapessero esattamente che cosa il defunto capofamiglia avrebbe voluto dopo che aveva tirato le cuoia. «I Gordon», continuò la signora Wiley, «sapevano che il terreno non poteva essere sfruttato.» «Me l'aveva detto, sì.» Poi feci una domanda esplicita: «E proprio per quella ragione, non sembra anche a lei che venticinquemila dollari fossero al di sopra del prezzo di mercato?» Si protese in avanti dalla profonda sedia Adirondack e m'informò: «Ho dato loro anche un diritto di passaggio attraverso la mia terra». Poi aggiunse: «Vediamo quanto varrà quel terreno quando verrà rivenduto».
«Signora Wiley, non la sto accusando per avere fatto un buon affare per se stessa. Mi domando invece perché i Gordon ci tenessero tanto ad avere quella terra o che bisogno ne avessero.» «Io le ho detto quello che loro hanno detto a me. È tutto quello che so.» «La vista dev'essere tale da togliere il respiro, per venticinque bigliettoni.» «Lo è.» «Prima lei diceva che affitta i suoi terreni agricoli.» «Sì. I miei figli non si interessano di agricoltura o di vigneti.» «Per caso ne aveva parlato con i Gordon? Del fatto che quei terreni li affittava, voglio dire.» «Penso di sì.» «E loro non le domandarono se potevano affittarla, una parte di quelle rupi?» Vi rifletté un momento, poi disse: «Ora che mi ci fa pensare, no». Lanciai un'occhiata a Beth. Era chiaro che questo non aveva senso. Due dipendenti governativi che potevano venire trasferiti da un momento all'altro affittavano una casa sulla baia meridionale, poi acquistavano un acro sulla riva nord per venticinquemila dollari per avere un'altra veduta del mare. «Se le avessero offerto di prendere in affitto un acro di quel terreno panoramico», domandai alla signora Wiley, «avrebbe detto di sì?» Assentì. «Quasi l'avrei preferito.» «Quanto avrebbe chiesto d'affitto l'anno?» «Oh... non saprei... non è un terreno sfruttabile... penso che mille dollari l'anno sarebbe stato un prezzo onesto.» E precisò: «La vista è davvero splendida». «Sarebbe così gentile da mostrarcelo, quel pezzo di terra?» dissi. «Posso indicarvi come arrivarci. O potete consultare la carta topografica nell'Ufficio catastale della Contea.» «Le saremmo davvero grati», interloquì Beth, «se volesse venire con noi.» La signora Wiley guardò l'orologio, poi Beth. «Va bene.» Si alzò. «Torno subito.» Entrò in casa dalla porta a rete sul retro. «Dura, la nonnetta.» «È lei che fa affiorare il lato peggiore della gente.» «Sono stato gentilissimo, stavolta.» «E me lo chiama essere gentile?»
«Gentile, sì.» «Poveri noi.» Cambiai discorso e osservai: «I Gordon ci tenevano a possederla, la proprietà». Assentì. «Perché?» «Non lo so... Me lo dica lei.» «Ci pensi.» «D'accordo...» La signora Wiley uscì dalla porta sul retro, che non chiuse a chiave. Aveva con sé la borsetta e le chiavi dell'auto. Si avviò verso la sua macchina, una Dodge grigia di cinque anni prima. Se Thad fosse stato in vita, avrebbe approvato. Beth e io risalimmo in macchina e seguimmo la signora Wiley. Svoltammo a destra sulla Middle Road, una strada a quattro corsie che correva da est a ovest, parallela alla vecchia Main Road dell'era coloniale. La Middle Road passava attraverso il cuore della zona agricola e dei vigneti, con ampie vedute in tutte le direzioni. Il sole sul parabrezza era gradevole, l'aria sapeva di mosto, al volante c'era una bambola dai capelli color rame, e se non fosse perché stavo investigando sull'omicidio di due amici, mi sarei messo a fischiettare. Alla mia sinistra, un paio di chilometri più in là verso nord, potevo vedere dove il terreno piatto e coltivabile saliva improvvisamente come una muraglia, così ripido da non poter essere dissodato, e il pendio era coperto di alberi e cespugli. Quella, in effetti, era la rupe il cui versante settentrionale scendeva in mare ma, da lì, l'acqua non potevi vederla, e l'improvviso rilievo si presentava come una catena di basse colline. La signora Wiley teneva un'andatura sostenuta, e sfrecciavamo oltre trattori e furgoni. Un cartello stradale ci informò che eravamo nel villaggio di Peconic. C'era un buon numero di vigneti su entrambi i lati della strada, tutti identificati da cartelli di legno con logo dorati e laccati, raffinatissimi, che promettevano vini costosi. «Vodka di patate», dissi a Beth. «Ecco quel che fa per me. Mi servono soltanto una ventina di acri e un distillatore. Corey e Krumpinski, ottima vodka di patate, naturale e aromatica. Convincerò Martha Stewart a scrivere libri di cucina e a suggerire come accompagnare la vodka: cozze, capesante, ostriche. Tutto molto raffinato. Cosa ne pensa?»
«Chi è Krumpinski?» «Non lo so. Un tale. Vodka polacca. Stanley Krumpinski. È una creazione del marketing. Siede nella sua veranda e dice cose ispirate sulla vodka. Ha novantacinque anni. Il suo gemello, Stephen, era un bevitore di vino e a trentacinque è morto. Sì? No?» «Mi ci lasci riflettere. Nel frattempo, l'acro dal costo altissimo sembra ancora più strano quando si pensi che i Gordon avrebbero potuto avere quello stesso acro in affitto per un migliaio di dollari l'anno. È rilevante questo per il duplice omicidio, oppure no?» «Può darsi. D'altra parte, poteva essere nient'altro che mancanza di buon senso da parte dei Gordon, o magari addirittura un raggiro. I Gordon potevano avere escogitato un modo di appropriarsi dei diritti di valorizzazione. Di conseguenza, eccoli proprietari per venticinquemila dollari di un acro sul mare che, come terreno da costruzione, ne vale almeno centomila. Guadagno netto.» Lei assentiva. «Parlerò con il segretario del Consiglio di Contea riguardo ai relativi prezzi di vendita.» Mi scoccò un'occhiata mentre guidava e disse: «Lei si è formato un'altra teoria, ovviamente». «Ovviamente no. Forse.» Rimase un poco silenziosa, poi disse: «Avevano bisogno d'essere padroni del terreno. Giusto? Perché? Valorizzazione? Servitù di passaggio? Qualche progetto di un grande parco statale in vista? Petrolio, metano, carbone, diamanti, rubini... Cosa?» «Non ci sono minerali su Long Island, né metalli preziosi, né gemme. Soltanto sabbia, argilla e roccia. Perfino io lo so, questo.» «D'accordo... eppure lei ha fiutato qualcosa.» «Non è niente di specifico. Ho questa, come chiamarla? Questa sensazione... di sapere che cosa è rilevante e che cosa non lo è, un po' come in quei test sulle associazioni di immagini. Sa? Le mostrano quattro foto: un uccello, un'ape, un orso e una tazza di gabinetto. Quale non fa parte della serie?» «L'orso.» «L'orso? Perché l'orso?» «Non vola.» «Non vola nemmeno la tazza», le feci notare. «Allora l'orso e la tazza non ne fanno parte.» «Lei non... A ogni modo, posso intuire che cosa fa parte della sequenza e che cosa no.»
«È come per quei ping?» «In un certo senso.» Le luci dei fari della signora Wiley si accesero, e lei svoltò dalla strada su una viuzza di campagna. Beth, che non prestava attenzione, per poco non mancò la svolta e la imboccò su due ruote dietro Margaret. Ora andavamo a nord, verso le rupi, lungo la stradina che correva tra un campo di patate a sinistra e un vigneto sulla destra. Procedevamo a scossoni a circa cinquanta l'ora, tra una gran quantità di polvere, tanto che potevo sentirla materialmente sulla lingua. Tirai su il finestrino dalla parte mia e dissi a Beth di fare lo stesso. Poi la signora Wiley svoltò su un sentiero ancora più stretto e tutto solchi che correva parallelo alla rupe, distante ormai solo una cinquantina di metri. Dopo avere percorso un altro breve tratto, frenò nel bel mezzo del sentiero, e Beth si fermò dietro di lei. La signora Wiley scese e noi la imitammo. Eravamo coperti di polvere e così era la macchina, dentro e fuori. Ci avvicinammo alla signora, che ora se ne stava proprio alla base della rupe. «Non piove da due settimane», disse. «A chi ha le viti piace che vada così, in questo periodo dell'anno. Dicono che rende l'uva più dolce, meno acquosa. Pronta per la vendemmia.» Stavo spazzando via polvere dalla mia maglietta e dalle sopracciglia e, francamente, non me ne importava un corno. «Neanche le patate hanno bisogno d'acqua in questo periodo dell'anno», continuò la signora Wiley. «Ma gli ortaggi e gli alberi da frutto avrebbero bisogno di una buona bagnata.» Non me ne importava niente, proprio niente, ma non sapevo come farlo capire senza mostrarmi scortese. Commentai: «Ci sarà chi sta pregando per la pioggia, e chi sta pregando per il sole. Così è la vita». Lei mi guardò e disse: «Non è di queste parti, vero?» «No, signora. Ma mio zio ha una proprietà, qui. Harry Bonner. Fratello di mia madre. Una fattoria sulla baia giù a Mattituck.» «Ah, sì. Sua moglie, June, venne a mancare più o meno contemporaneamente al mio Thad.» «Più o meno, sì.» Non mi lasciava del tutto sorpreso che Margaret Wiley conoscesse zio Harry: mi spiego, la popolazione stabile, quaggiù, come già ho detto è di circa ventimila anime, ossia cinquemila persone meno di quante ne lavorano nell'Empire State Building. Non dico che le venticinquemila persone che lavorano nell'Empire State Building si conoscano tut-
te, ma... a ogni modo, Margaret e, suppongo, il defunto Thad Wiley conoscevano Harry e la defunta June Bonner. Mi passò per la mente il pensiero bizzarro che se avessi messo insieme Margaret e quel matto di Harry, si sarebbero sposati, lei sarebbe morta, Harry sarebbe morto, e mi avrebbero lasciato migliaia di acri di proprietà terriera a North Fork. Prima avrei dovuto far fuori i miei cugini, s'intende. Il tutto suonava un po' troppo shakespeariano. Avevo la netta sensazione d'essere rimasto troppo a lungo quaggiù, nel diciassettesimo secolo. «John? La signor Wiley sta parlando con lei.» «Oh, chiedo scusa. Sono stato gravemente ferito, e ho ancora qualche residuo vuoto di coscienza.» «Ha un aspetto orribile», mi informò la signora Wiley. «Grazie.» «Stavo dicendo, come sta suo zio?» «Benissimo. È tornato in città. Guadagna un sacco di soldi a Wall Street. Si sente molto solo, però, da quando è morta zia June.» «Me lo saluti tanto.» «Non mancherò.» «Sua zia era una donna squisita.» Lo disse con l'inflessione di chi pensa «Come le sarà capitato un simile buzzurro di nipote?» «June», continuò Margaret, «era una buona archeologa e storica dilettante.» «Già. La Peconic Historical Society. Fa parte anche lei di quell'associazione?» «Sì. Ecco come conobbi June. Suo zio non aveva interesse per quelle cose, però finanziò alcuni scavi. Riportammo alla luce le fondamenta di una fattoria che risaliva al 1681. Dovrebbe vedere il nostro museo, se ancora non l'ha fatto.» «In verità, pensavo proprio di andarci oggi, ma poi è sorto quest'altro problema.» «Dopo la Festa del Lavoro è aperto soltanto il fine settimana. Ma io ho una chiave.» «Semmai le telefono.» Levai lo sguardo alla rupe che sorgeva dal terreno piatto e domandai: «È questa la terra dei Gordon?» «Sì. Vede quel paletto là? Quello è l'angolo a sudovest. Un centinaio di metri più in giù lungo questo sentiero c'è l'angolo a sudest. La terra comincia qui e sale fino alla cima della rupe, poi continua dal lato opposto e termina al livello di piena.»
«Davvero? Non mi sembra molto accurato.» «Lo è quanto basta, per usanza e per legge. Al livello di piena. La spiaggia appartiene a tutti.» «Ecco perché amo questo paese.» «Ah, sì?» «Nel modo più assoluto.» «Io sono una Figlia della Rivoluzione americana.» «Lo avevo immaginato.» «La mia famiglia, i Willis, è vissuta qui in questo distretto fin dal 1653.» «Mamma mia.» «Arrivarono nel Massachusetts con il Fortune, salpato subito dopo il Mayflower. Poi vennero qui a Long Island.» «Incredibile. Per poco non è stata una discendente di quelli del Mayflower.» «Sono una discendente di quelli del Fortune», replicò lei. Si guardò attorno e io seguii il suo sguardo. A sud di noi si stendevano il campo di patate verso destra e il vigneto verso sinistra. «È difficile», continuò, «immaginare quel che poteva essere la vita nel milleseicento. A migliaia di miglia dall'Inghilterra, boschi dove ora ci sono quei campi disboscati a forza di ascia e di buoi, clima sconosciuto, suolo sconosciuto, pochi animali domestici, difficoltà di procurarsi indumenti, attrezzi, sementi, polvere da sparo e palle da moschetto, e indiani ostili tutt'intorno.» «Peggio che a Central Park dopo la mezzanotte in agosto.» Margaret Wiley mi ignorò e disse: «È molto difficile per gente come noi - per la mia gente, intendo dire - separarsi sia pure da un acro di terra». «Certo.» Ma per venticinque sacchi, possiamo parlarne. «Una volta ho trovato una palla di moschetto», dissi. Mi guardò come se fossi stato un deficiente. Diresse la sua attenzione verso Beth e chiacchierò ancora un po', infine disse: «Bene, non occorre che vi accompagni fin su in cima. C'è un sentiero proprio lì. Salire non è difficile, ma state attenti sul lato verso mare. Scende ripido e non ci sono molti appigli». Poi aggiunse: «Questa scogliera è in realtà la morena terminale dell'ultima era dei ghiacci. Il ghiacciaio terminava proprio qui». In realtà, ora il ghiacciaio mi stava proprio davanti. «Grazie del suo tempo e della sua pazienza, signora Wiley», dissi. Fece per incamminarsi, poi guardò Beth e domandò: «Avete un'idea di chi possa essere stato?» «No, signora.»
«C'è qualche riferimento al loro lavoro?» «In un certo senso. Ma niente a che fare con la guerra batteriologica o altro di pericoloso.» Margaret Wiley non sembrava convinta. Se ne tornò alla sua auto, mise in moto e partì in una nuvola di polvere. «Mangiati la mia polvere, Margaret», le gridai dietro. «Vecchia...» «John!» Tornai a scuotermi di dosso la polvere. «Sa perché le Figlie della Rivoluzione americana non fanno sesso di gruppo?» «No, ma sto per scoprirlo.» «Infatti. Le Figlie della Rivoluzione americana non fanno sesso di gruppo perché non vogliono dover scrivere tutti quei biglietti di ringraziamento.» «Vengono da una riserva inesauribile, queste freddure?» «Lo sa benissimo.» Guardammo entrambi verso la cima della rupe. «Vediamolo», dissi, «questo panorama da venticinquemila dollari.» Trovammo il sentiero, e io salii per primo. Si snodava attraverso alcuni folti cespugli, un sacco di querce nane e alcuni alberi più grandi che sembravano aceri, ma potevano anche essere banani, per quel che ne sapevo io. Beth, con la sua gonna di tela cachi e le scarpe da città, non si trovava certo a suo agio. La tiravo su io, nei punti più ripidi. Si era rialzata la gonna, o le era salita da sola, e mi godevo la vista di un paio di gambe perfette. C'erano soltanto una quindicina di metri per arrivare in cima, l'equivalente di cinque piani a piedi, che un tempo ero in grado di fare con energia ancora sufficiente a sfondare una porta con un calcio, mettere a terra un ricercato, schiaffargli le manette e trascinarlo giù in strada e dentro un'auto della polizia. Un tempo, già. Ma eravamo al presente, e mi sentivo a pezzi. Macchie nere mi danzavano davanti agli occhi e mi toccò fermarmi e inginocchiarmi. «Si sente male?» domandò Beth. «No, no... Un momento solo...» Feci un certo numero di respiri e poi continuai. Arrivammo in cima alla rupe. La boscaglia, lì, era molto più striminzita a causa del vento e della salsedine. Contemplavamo da lassù lo Stretto di Long Island, e il panorama era davvero incredibile. Sebbene il pendio sud della rupe misurasse soltanto una quindicina di metri dalla base alla cresta, il pendio nord che scendeva alla spiaggia era di una trentina almeno. Era
molto ripido, come la signora Wiley ci aveva avvertiti, e quando scrutavamo al di là dell'orlo potevamo vedere canaletti, colate di fango e pietraie che scendevano fino a una bella e lunga spiaggia che si stendeva per chilometri verso est e verso ovest. Lo Stretto era calmo e si vedevano alcune barche a vela e a motore. Una grossa nave da carico si dirigeva a ovest, verso New York o uno dei porti del Connecticut. A una decina di miglia di distanza, potevamo distinguere la costa del Connecticut. La rupe si stendeva verso ovest per più di un chilometro e spariva poi in una punta di terra che si protendeva nello Stretto. Verso est, correva con la spiaggia per diversi chilometri e terminava a Horton Point, riconoscibile grazie al faro. Dietro di noi, nella direzione da cui eravamo saliti, c'erano i piatti terreni agricoli e, da lassù, potevamo vedere la multicolore trapunta di patate, viti, frutteti e granturco. Case rivestite di assicelle, caratteristiche di altri tempi e granai bianchi, non rossi, punteggiavano i campi verdi. «Che veduta!» esclamai. «Stupenda», convenne Beth. Poi domandò: «Vale venticinquemila dollari?» «Questo è il problema.» La guardai: «Cosa ne pensa?» «In teoria, no. Ma da quassù, sì.» «Molto ben espresso.» Scorsi un masso tra l'erba alta e mi sedetti, rimanendo a fissare il mare. Ritta al mio fianco, anche Beth fissava il mare. Eravamo entrambi sudati, sudici, impolverati, a corto di fiato e stanchi. «Tempo di concedersi un aperitivo», dissi. «Prendiamo la via del ritorno.» «Un momento solo. Mettiamoci nei panni di Tom e Judy. Mi dica che cosa volevano qui, che cosa cercavano.» «D'accordo...» Salii sul masso e mi guardai attorno. Il sole stava calando, e in lontananza verso est il cielo era purpureo. All'ovest era roseo e in alto ancora azzurro. Gabbiani volteggiavano, bianche creste correvano attraverso lo Stretto, uccelli cinguettavano tra gli alberi, una brezza soffiava da nordest, e c'era odore d'autunno, oltre che di salmastro. «Abbiamo passato la giornata a Plum Island», dissi a Beth. «Abbiamo passato ore in biocontenimento, indossando panni da laboratorio e circondati da virus. Abbiamo fatto la doccia, siamo corsi allo Spirocheta o al traghetto, abbiamo attraversato il Canale, siamo saliti sulla nostra auto e siamo venuti qui. E qui tutto è ampio, terso e tonificante. C'è vita, qui... Abbiamo portato una
bottiglia di vino e una coperta. Beviamo il vino, facciamo l'amore, ci stendiamo sulla coperta e guardiamo spuntare le stelle. Forse scenderemo alla spiaggia per nuotare o fare surfing sotto lo stellato e la luna. Siamo a milioni di chilometri dal laboratorio. Poi torneremo a casa, pronti per un'altra giornata in biocontenimento.» Per un po' Beth rimase in silenzio, poi, senza rispondere, si portò all'orlo della rupe, infine si girò e andò fino all'unico albero di una certa consistenza là sulla cresta, una quercia nodosa, alta circa tre metri. Si chinò, poi si raddrizzò, reggendo in mano un rotolo di corda. «Guardi questa.» Le andai vicino e osservai quello che aveva trovato. La corda, di nylon verde e spessa quasi un paio di centimetri, circa ogni metro era annodata in modo da offrire una specie di maniglia. Un'estremità era legata alla base dell'albero. «Probabilmente», disse Beth, «ce n'è abbastanza da poter arrivare alla spiaggia.» Assentii. «E sicuramente renderebbe più facile arrampicarsi su e giù.» «Sì.» S'inginocchiò e guardò giù per il pendio. Io feci lo stesso. Potevamo vedere dove l'erba recava la traccia di salite e discese lungo la rupe. Certo, il percorso era ripido, ma non troppo difficile per chiunque fosse stato appena in forma, anche senza la corda. Mi sporsi di più oltre l'orlo e notai che, dove l'erba era erosa, nel terreno si notavano quelle striature rosse di argilla e ferro. Notai qualcos'altro: circa tre metri più giù, c'era una specie di mensola o di cornicione. Anche Beth lo notò, e disse: «Io vado a dare un'occhiata». Diede uno strattone alla corda e, assicuratasi che era bene attaccata al tronco dell'albero, e l'albero ben radicato al suolo, afferrò la corda con tutt'e due le mani e prese a indietreggiare giù per quei tre metri fino al cornicione, mollando la corda via via che scendeva. «Venga giù», mi gridò. «È interessante.» «Eccomi.» Mi avviai giù per il pendio, reggendomi con una mano alla corda, e mi fermai sul cornicione accanto a Beth. «Guardi», disse lei. La sporgenza era lunga circa tre metri e profonda un metro nel punto più largo. Nel centro c'era una specie di caverna, ma si vedeva benissimo che non era naturale. Anzi, si notavano i segni di una zappa. Beth e io ci accovacciammo e scrutammo dentro l'apertura. Era piccola, meno di un metro di diametro e profonda poco più di un metro. Non c'era niente nell'interno dello scavo. Non potevo immaginare a che cosa servisse, ma provai a rifletterci su. «Lì dentro si potrebbe sistemare un cesto da picnic e del vino
in fresco.» «Si potrebbe perfino infilarci le gambe, restando col corpo su questa sporgenza, e mettersi a dormire», aggiunse Beth. «O fare sesso.» «Perché me l'aspettavo che l'avrebbe detto?» «Be', perché è vero.» Mi rialzai. «Forse intendevano farla ancora più grande.» «A che scopo?» «Non lo so.» Mi girai verso lo Stretto e mi calai giù fino a mettermi seduto, le gambe penzolanti al di là del cornicione. «Così è bello. Si metta a sedere.» «Comincio a sentire freddo.» «Aspetti, posso darle la mia maglietta.» «No, puzza.» «Non è un fiorellino neanche lei.» «Sono stanca, mi sento sporca, mi si è lacerato il collant, e devo andare in bagno.» «Però qui è romantico.» «Può darsi. Ma non ora.» Si alzò, afferrò la corda e risalì verso la cresta. Aspettai che fosse arrivata in cima, poi la seguii. Beth riarrotolò la corda e la rimise alla base dell'albero così come l'aveva trovata. Si voltò e ci ritrovammo faccia a faccia, a meno di trenta centimetri di distanza. Fu un momento di imbarazzo che ci lasciò immobili per tre secondi esatti, poi io allungai una mano e le sfiorai i capelli, la guancia. Mi accostai per il grande bacio, fiducioso che stessimo per unire le labbra, ma lei indietreggiò di un passo e pronunciò la parola magica alla quale tutti gli uomini americani moderni sono stati addestrati col metodo del dottor Pavlov a reagire. «No.» All'istante balzai indietro di un paio di metri e serrai le mani dietro la schiena. Il mio legnetto andò giù come un albero morto, e io esclamai: «Ho scambiato le sue bonarie canzonature per un invito sessuale. Mi perdoni». In realtà, non andò esattamente così. Lei disse «no», ma io esitai, un'espressione di abietta delusione sulla faccia, e lei aggiunse «non ora», che andava bene, poi «forse in seguito», che era meglio, infine «mi piaci», che era ottimo. Io dissi: «Quando vorrai tu», cosa che intendevo sinceramente, purché non volesse lasciar passare più di settantadue ore, che è un po' il mio limi-
te. In realtà, ho aspettato anche più a lungo. Non dicemmo altro in proposito, ma ci avviammo giù dal lato verso terra della rupe e risalimmo nella sua auto. Lei avviò il motore, ingranò la marcia, poi rimise in folle, si protese a sfiorarmi la guancia con un bacio, infine ingranò di nuovo la marcia e partimmo, sollevando polvere. Circa un paio di chilometri dopo, eravamo sulla Middle Road. Lei aveva un buon senso di orientamento e si diresse verso Nassau Point senza il mio aiuto. Vide una stazione di servizio aperta, e usammo entrambi le rispettive ritirate per darci una rinfrescata, come dicono. Non ricordavo d'essermi mai sentito così sudicio. Sono un tipo piuttosto inappuntabile, in servizio, un dandy di Manhattan in abiti su misura. Mi pareva d'essere tornato ragazzino, quel Johnny che s'insudiciava ben bene, frugando nei luoghi di sepoltura degli indiani. Sempre nella stazione di servizio, comperai qualche snack di quelli più indigesti: manzo essiccato, cracker al burro d'arachidi e orsetti gommosi. Una volta in macchina, ne offrii a Beth, che rifiutò. «Se mastichi questa roba tutta assieme», dissi, «il sapore è quello di un piatto Thai chiamato Sandang Phon. L'ho scoperto per caso.» «Lo spero bene.» Viaggiammo in silenzio per alcuni minuti. Il miscuglio di manzo essiccato, cracker al burro d'arachidi e caramelle gommose a forma di orsetto in realtà aveva un sapore orribile, ma ero affamato, e volevo togliermi la polvere dalla gola. «Che cosa ne pensi?» domandai a Beth. «Della rupe, voglio dire.» Ci rifletté un momento, poi rispose: «Penso che i Gordon mi sarebbero piaciuti». «Ne sono certo.» «Sei triste?» «Sì... insomma, non che fossimo amici per la pelle... li conoscevo solo da pochi mesi, ma erano care persone, piene di vita e di allegria. Troppo giovani perché la loro vita finisse in quel modo.» Lei assentì. Percorremmo la sopraelevata e arrivammo a Nassau Point. Cominciava a far buio. Lei mormorò: «Il pensiero mi dice che quel pezzo di terra è proprio quello che sembra. Un rifugio romantico, un posto da poter chiamare tutto
loro. Erano del Midwest, venivano probabilmente dalla terra, e si ritrovavano qui come inquilini in un luogo dove la terra significa molto, proprio come nei luoghi da dove provenivano loro... Giusto?» «Giusto.» «E tuttavia...» «Già. E tuttavia... E tuttavia, avrebbero potuto risparmiare circa ventimila dollari se l'avessero affittata per cinque anni.» E aggiunsi: «Dovevano possederla, la terra. Pensaci». «Ci sto pensando.» Eravamo ormai alla casa dov'erano vissuti i Gordon, e Beth andò a fermarsi dietro la mia Jeep. «È stata una lunga giornata», disse. «Vieni con me a casa mia. Seguimi.» «No. Stasera me ne torno a casa.» «Perché?» «Non c'è più motivo di rimanere qui ventiquattr'ore al giorno, e la contea non mi rimborserebbe il motel.» «Fermati da me, prima. Devo darti le stampate del computer.» «Possono aspettare fino a domani.» Poi disse: «Ho bisogno di andare in ufficio domani mattina. Perché non ci vediamo nel pomeriggio, verso le cinque?» «Da me.» «D'accordo. Da te, alle cinque. Avrò avuto delle informazioni, nel frattempo.» «Anch'io.» «Preferirei che non facessi niente, se prima non ci vediamo.» «Va bene.» «Chiarisci bene la tua posizione con il Capo Maxwell.» «Lo farò.» «Riposati», disse lei. «Anche tu.» «Scendi dalla mia macchina.» Sorrise. «Vattene a casa. Davvero.» «Stai tranquilla. Ci vado davvero.» Scesi dall'auto. Lei eseguì una svolta a U, inviò un saluto con la mano e si allontanò. Salii nella mia Jeep, ben deciso a non toccare niente che la facesse parlare in francese. Cintura allacciata, portiere bloccate, freno a mano tolto, avviai il motore e la macchina non emise neppure un bip. Mentre guidavo per tornare alla mia casa colonica, o casa vittoriana, o quello che è, mi resi conto di non essermi ricordato di usare il telecomando
per avviare il veicolo. Bah, che differenza faceva? Le nuove bombe per auto esplodono cinque minuti dopo, più o meno. Tra l'altro, nessuno stava cercando di uccidermi. Be', qualcuno aveva tentato di uccidermi, ma questo aveva a che fare con qualcos'altro. Era possibile che m'avessero scelto a caso oppure, se faceva parte di un piano, chi sparava mi aveva considerato ormai fuori combattimento, e qualunque cosa avessi fatto perché si incazzassero era stata vendicata senza bisogno che fossi proprio morto. È così che opera la Mafia: se sopravvivi, di solito ti lasciano in pace. Però quei signori che m'avevano scaricato addosso le loro armi avevano un'aria decisamente ispanica. E quegli hombres non sempre considerano chiuso il conto finché non t'hanno spedito al Creatore. Ma non era quella la mia preoccupazione, al momento. Ero ben più preoccupato di quanto stava avvenendo qui intorno, qualunque cosa fosse. Intendo dire, mi trovavo qui, in una parte quanto mai placida del pianeta, a cercare di risanarmi nel corpo e nello spirito, e proprio sotto la superficie si nascondevano ogni sorta di fatti inquietanti. Continuavo a pensare a quel maiale che sanguinava dalle orecchie, dal naso e dalla bocca... Mi rendevo conto che su quell'isoletta c'era gente che aveva scoperto cose capaci di sterminare quasi fino all'ultimo essere vivente sul pianeta. Il lato comodo a proposito della guerra batteriologica era sempre stato la facilità con cui la si nega e la non rintracciabilità delle sue origini. L'intera cultura della ricerca batteriologica e dello sviluppo delle armi è sempre stata permeata di bugie, inganno e diniego. Svoltai nel viale della casa di zio Harry. I miei pneumatici facevano scricchiolare conchiglie. La casa era buia e, quando spensi i fari, il mondo intero piombò nell'oscurità. Come fanno quelli dei centri rurali a vivere nel buio? Ficcai la maglietta dentro i calzoni così da liberare il calcio della mia calibro 38. Non sapevo nemmeno se la mia arma fosse stata manomessa: chiunque poteva manomettere i calzoncini di un individuo avrebbe sicuramente manomesso anche il suo revolver. Avrei dovuto controllare prima. A ogni modo, chiavi nella sinistra, aprii la porta d'entrata, la destra pronta a portarsi sulla pistola. Pistola che avrei dovuto tenere nella destra, ma gli uomini, perfino quando sono completamente soli, devono fare mostra d'avere le palle. Chi mai mi vedeva, intendo dire. Be', mi vedevo io. Le palle ce le hai, Corey. Sei un vero uomo. Il vero uomo ebbe d'improvviso l'urgenza di far pipì, cosa che feci, nel bagno al di là della cucina. Senza accendere nemmeno una luce, controllai la segreteria telefonica
nello studio e vidi che c'erano dieci messaggi; moltissimi, per uno che non ne aveva ricevuti per tutta la settimana precedente. Sul presupposto che nessuno di quei messaggi sarebbe stato particolarmente piacevole o premiante, mi versai un bel brandy abbondante dalla caraffa di cristallo di zio Harry nel bicchiere di cristallo di zio Harry. Mi sistemai nella poltrona reclinabile di zio Harry e sorseggiai, incerto tra il tasto dei messaggi, il mio letto o un altro brandy. Un altro brandy vinse alcune altre volte, e rinviai il venire alle prese con l'orrore elettronico della segreteria telefonica finché non mi fossi sentito lievemente alticcio. Finalmente, schiacciai il tasto dei messaggi. «Hai dieci messaggi», disse la voce, confermando il numero sul contatore. Il primo risaliva alle sette del mattino ed era di zio Harry, che mi aveva visto in tivù la sera prima ma non aveva voluto chiamare così tardi, benché non si fosse fatto scrupolo di chiamare così presto. Ringraziando il cielo, alle sette ero già in viaggio per Plum Island. C'erano quattro messaggi analoghi: uno dai miei genitori, in Florida, che non m'avevano visto ma avevano saputo che ero apparso in tivù; uno da una donna di nome Cobi che vedevo di tanto in tanto, e che per qualche motivo avrebbe tenuto a chiamarsi Cobi Corey; e poi una chiamata da ciascuno dei miei fratelli, Jim e Lynne, che erano bravi nel tenersi in contatto. Probabilmente ve ne sarebbero state altre, in seguito alla mia breve apparizione televisiva, ma erano in pochi ad avere il mio numero, e non tutti mi avrebbero riconosciuto dato che avevo perso molto peso e avevo un aspetto orribile. Non c'era una telefonata della mia ex moglie che, benché non mi ami più, ci tiene a farmi sapere che le piaccio come persona, il che è strano perché non sono poi così simpatico. Amabile, sì; simpatico, no. Poi c'era il mio compagno, Dom Fanelli, che mi aveva chiamato alle nove del mattino per dire: «Ehi tu, mandrillo, ho visto il tuo muso al telegiornale del mattino. Cosa diavolo mi combini, là? Hai due Pedros che ti cercano per farti fuori, e tu mi compari in televisione, così ora tutti sanno che sei lì all'est? Perché non affiggi il tuo manifesto nell'ufficio postale colombiano? Gesù, John, sto cercando di trovare quei due prima che loro ritrovino te. A ogni modo, altre buone notizie: il capo si sta domandando cosa cavolo ci fai sulla scena di un crimine. Che cosa succede laggiù? Chi ha fatto fuori quei due? Ti serve aiuto? Fammi uno squillo. Tieni il pisello nel guscio. Ciao».
Sorrisi. Caro vecchio Dom. Uno sul quale potevi contare. Me lo ricordo ancora ritto sopra di me che giacevo sanguinante nella strada. Aveva una ciambella mangiata a metà in una mano e la pistola nell'altra. Aveva dato un altro morso alla ciambella e m'aveva detto: «Li prenderò, John. Lo giuro su Dio, li prenderò quei bastardi che t'hanno accoppato». Ricordo d'averlo informato che non ero morto, e lui disse che lo sapeva, ma probabilmente lo sarei stato. Aveva le lacrime agli occhi, cosa che mi faceva sentire a pezzi, e stava cercando di parlarmi intanto che masticava la ciambella, e io non riuscivo a capirlo, dopo di che era cominciato un martellare nelle mie orecchie ed ero svenuto. A ogni modo, la chiamata successiva era del «New York Times», e mi domandavo come sapessero chi ero e dove stavo. Poi la voce disse: «Come nuovo abbonato, il giornale le verrà consegnato a domicilio ogni mattina, comprese le domeniche, a soli $ 3.60 settimanali per tredici settimane. Ci chiami, per favore, all'1-800-631-2500, e cominceremo il servizio immediatamente». «Lo ricevo già in ufficio. Sentiamo la prossima.» Dalla segreteria arrivò la voce di Max che diceva: «John, per la cronaca, non sei più alle dipendenze del Dipartimento di Polizia della città di Southold. Grazie del tuo aiuto. Ti devo un dollaro, ma preferirei offrirti da bere, invece. Chiamami». «Fottiti, Max.» La telefonata successiva era del signor Ted Nash, superagente della CIA. «Voglio solo ricordarle che uno o più assassini si aggirano liberi, e lei potrebbe essere un bersaglio. È stato molto piacevole lavorare con lei, e so che ci incontreremo ancora. Si riguardi.» «Va' a farti fottere, Ted.» Ma dico, se hai intenzione di minacciarmi, abbi almeno il coraggio di farti avanti e dirlo, anche se viene registrato. C'era ancora un messaggio sulla segreteria, ma schiacciai il tasto dello stop prima di ascoltarlo, poi feci il numero del Soundview e chiesi di Ted Nash. L'impiegato, un giovane, disse che non c'era nessuno registrato con quel nome. «E come George Foster?» domandai. «No, signore.» «Beth Penrose?» «Ha appena disdetto la camera.» Gli descrissi Nash e Foster, e lui disse: «Sì, ci sono due signori, qui, che rispondono a quella descrizione». «Sono ancora lì?»
«Sì.» «Dica al più grosso, quello con i capelli neri ricci, che il signor Corey ha avuto il suo messaggio e che lui dovrebbe tenere conto dei suoi stessi avvertimenti. Capito?» «Sì, signore.» «Gli dica anche da parte mia che dovrebbe andare a farsi fottere.» «Sì, signore.» Riagganciai e sbadigliai. Mi sentivo di merda. Mi ero fatto forse tre ore di sonno, nelle ultime quarantott'ore. Sbadigliai di nuovo. Premetti il tasto dei messaggi, e si udì quello finale. La voce di Beth disse: «Ciao, ti sto chiamando dall'auto... Volevo solo ringraziarti per il tuo aiuto, oggi. Non so se l'ho fatto... A ogni modo, m'ha fatto piacere conoscerti, e se per qualche ragione non riusciamo a vederci domani - potrei non farcela, ho un sacco di lavoro d'ufficio e di rapporti da stendere - be', ti telefonerò, semmai. Grazie ancora». La macchina disse: «Fine dei messaggi». Riascoltai l'ultimo. Era arrivato meno di dieci minuti dopo che l'avevo lasciata, e la sua voce suonava distintamente formale e distante. In effetti, era un licenziamento. Mi assalì il pensiero totalmente paranoico che Beth e Nash fossero diventati amanti e stessero in quel momento, nella camera di lui, facendo sesso in modo selvaggio e appassionato. Controllati, Corey. Colui che gli dèi vogliono distruggere, lo fanno prima arrapare. Sì, dico, cos'altro poteva andare storto? Passo la giornata in biocontenimento, e sono probabilmente infettato di peste bubbonica, mi sono probabilmente messo nei guai per quel che riguarda il mio lavoro, Pedro e Juan sanno dove mi trovo, Max, il mio amico, mi licenzia, poi un tale della CIA minaccia la mia vita senza un perché... be', poteva forse trattarsi di un perché immaginato, e per finire il mio grande amore se la squaglia, e io me la figuro con le gambe avvinghiate intorno a quel burino d'un marcantonio. In più, Tom e Judy, che mi erano amici, sono morti. E sono soltanto le nove di sera. L'idea di un monastero mi si affacciò improvvisa alla mente. O meglio ancora, di un mese nei Caraibi, a intingere il biscotto di isola in isola. Oppure, potevo rimanere qui e fare il duro. Rivincita, autoaffermazione, vittoria, e gloria. Ecco a che cosa mirava John Corey. Per di più, avevo qualcosa che nessun altro aveva: un'idea ancora mezzo imbastita di come stessero realmente le cose. Nell'oscurità e nel silenzio della stanza, per la prima volta in tutta la
giornata ero in grado di pensare senza venire interrotto. La mia mente aveva in serbo tutta una caterva di cose, e ora cominciavo a metterle insieme. Mentre fissavo il buio al di là della finestra, quei lievi ping dentro la mia testa mettevano puntini bianchi su uno schermo nero, e l'immagine cominciava a prendere forma. Ero lungi dal vedere il quadro completo per non parlare poi dei singoli particolari, ma potevo fare una buona supposizione sulla dimensione, la forma e la direzione di quella faccenda. Avevo bisogno di alcuni altri punti di luce, cinque o sei piccoli ping, e poi avrei avuto la risposta al perché Tom e Judy Gordon erano stati assassinati. 16 Il sole del mattino entrava a fiotti dalle finestre della mia camera al piano di sopra, e io ero felice di essere vivo; felice di scoprire che l'insanguinato maiale morto sul cuscino accanto a me era stato un brutto sogno. Tendevo l'orecchio al cinguettio degli uccelli tanto per assicurarmi di non essere l'unica creatura vivente sulla terra. Un gabbiano emetteva strida in qualche punto al di sopra della baia. Oche del Canada starnazzavano sul mio prato. Un cane abbaiava in distanza. Fin lì, tutto bene. Mi alzai, feci la doccia, la barba e così via, e in cucina mi preparai una tazza di caffè scongelato e scaldato nel microonde. Avevo passato la serata a pensare o, come diciamo noi del mestiere, impegnato in ragionamenti deduttivi. Avevo anche richiamato zio Harry, genitori, fratelli e Dom Fanelli, ma non il «New York Times» o Max. Avevo detto a tutti che la persona in televisione non ero io, e di non avere visto il telegiornale in questione; d'avere passato la sera nell'Olde Towne Taverne a guardare la partita - quello che avrei dovuto fare - e d'avere dei testimoni. Se l'erano bevuta tutti. Mi auguravo che se la bevesse anche il mio superiore, il già menzionato Tenente Wolfe. Inoltre, avevo detto a zio Harry che Margaret Wiley spasimava per lui, ma non m'era parso interessato. «Il mio birillo e io», mi aveva informato, «insieme siamo nati, insieme siamo cresciuti, insieme abbiamo avuto un sacco di donne e insieme siamo invecchiati, ma lui è morto prima di me.» Che cosa deprimente. A ogni modo, telefonai a Dom Fanelli, ma era già uscito, e lasciai un messaggio a sua moglie, Mary, con la quale ero sempre andato d'accordo fino a che non mi ero sposato, ma Mary e la mia ex non si piacevano affatto. Né il mio divorzio né il fatto che m'avessero sparato aveva reso di nuovo buoni amici Mary e me. È strano. Il rapporto con le
mogli dei propri partner, intendo dire. A ogni modo, dissi a Mary: «Spiega a Dom che non ero io in televisione. Un sacco di gente ha fatto lo stesso errore». «Okay.» «Se muoio, è stata la CIA a farmi fuori. Diglielo.» «Okay.» «A Plum Island potrebbero esserci persone che a loro volta stanno cercando di uccidermi. Digli anche questo.» «Okay.» «Digli, se muoio, di parlare con Sylvester Maxwell, il capo della polizia di qui.» «Okay.» «Come stanno i bambini?» «Okay.» «Devo scappare. Il polmone mi si sta afflosciando.» Riagganciai. Bene, se non altro l'avevo reso pubblico, e se i Federali m'avevano messo il telefono sotto controllo, buon per loro se mi avessero sentito dire al prossimo di temere che la CIA stesse cercando di eliminarmi. Naturalmente, non lo pensavo davvero. A Ted Nash, personalmente, sarebbe piaciuto farmi la festa, ma non credo l'Agenzia approverebbe che si accoppi un tale solo perché è un fessacchiotto che fa del sarcasmo. Di vero c'era, però, che se quella storia aveva a che fare con Plum Island per qualche verso significativo, allora non mi sarei sorpreso se fosse saltato fuori qualche altro cadavere. La sera prima, mentre facevo le mie telefonate, avevo controllato con torcia elettrica e lente d'ingrandimento la mia arma e le munizioni. Sembrava tutto a posto. La paranoia è quasi divertente se non ti divora troppo tempo e non ti porta fuori strada. Metti d'avere una giornata di routine, puoi fingere che qualcuno stia cercando di ucciderti, o di fregarti in qualche altro modo, dopo di che puoi fare dei giochetti, come accendere il motore col telecomando, immaginare che il telefono sia sotto controllo o che qualcuno t'abbia manomesso la pistola. Certi pazzoidi si creano amici immaginari che dicono loro di uccidere la gente. Altri pazzoidi si creano nemici immaginari che stanno cercando di ucciderli. Quest'ultima follia, penso, è meno grave e un po' più utile. A ogni modo, avevo speso il resto della serata a esaminare di nuovo la situazione finanziaria dei Gordon. Avevo guardato con più attenzione il maggio e il giugno dell'anno pre-
cedente per vedere come i Gordon avessero finanziato la loro settimana di vacanza in Inghilterra seguita al viaggio di lavoro. Avevo notato che, in giugno, la Visa era leggermente più nutrita del solito e così l'American Express. Un piccolo dosso lungo un percorso solitamente liscio. Anche la bolletta telefonica del giugno scorso era di un centinaio di dollari più alta del solito, indicando forse attività interurbana in maggio. Inoltre, dovevo presumere che avessero portato con sé contanti o traveler checks, e tuttavia non c'erano prelievi di contante insoliti. Era la prima indicazione che i Gordon disponessero di qualche altra fonte di denaro. Spesso chi ha entrate illegali acquista traveler checks per migliaia di dollari, se ne va all'estero e sperpera il tutto, spassandosela. O poteva darsi che i Gordon sapessero come cavarsela in Inghilterra con venti dollari al giorno. Comunque stessero le cose, a giudicare dalle stampate, sembrava che fossero fondamentalmente in regola, come diciamo noi. Qualsiasi cosa stessero combinando, la nascondevano bene, oppure non comportava grosse spese o grossi depositi. Almeno non su quel conto. I Gordon, avevo rammentato a me stesso, erano molto intelligenti. Ed erano scienziati e, come tali, prudenti, pazienti e meticolosi. Erano adesso le otto del mattino di mercoledì, e io ero alla mia seconda tazza di caffè pessimo e stavo cercando in frigorifero qualcosa da mangiare. Lattuga e senape? No. Burro e carote? Poteva andare. In piedi presso la finestra di cucina con la mia carota e il barattolino del burro, rimuginavo, meditavo, fantasticavo, masticavo e così via. Aspettavo che il telefono squillasse, che Beth confermasse l'appuntamento delle cinque, ma la cucina era silenziosa, a parte il ticchettio dell'orologio. Vestivo in modo più ricercato quel mattino, calzoni di tela nocciola e camicia oxford a righe. Un blazer blu era appeso sulla spalliera di una sedia. La mia calibro 38 l'avevo alla caviglia, e il mio distintivo - per quello che valeva da queste parti - nella tasca interna della giacca. E, ottimista come sono, avevo anche un preservativo nel portafoglio. Ero pronto per la battaglia o per l'avventura romantica, o quant'altro riservasse la giornata. Carota in mano, mi avviai giù per il prato in pendio fino alla baia. Una leggera bruma era sospesa al di sopra dell'acqua. Proseguii fino al termine del pontile di mio zio, che aveva un gran bisogno di riparazioni, bene attento a dove mettevo i piedi. Mi tornava in mente la volta in cui i Gordon avevano attraccato lì: doveva essere stato verso metà giugno, solo una settimana o poco più dopo il nostro primo incontro, avvenuto nel bar del ristorante «da Claudio», a Greenport.
Nell'occasione del loro attracco lì da zio Harry, io mi trovavo nella mia consueta posizione da convalescente nella veranda sul retro, a bere birra da convalescente, e stavo perlustrando la baia con il binocolo quando li avevo scorti. Là in quel bar, una settimana prima, mi avevano chiesto di descrivere la mia casa dall'acqua e, in effetti, l'avevano trovata. Ricordavo d'essermi avviato giù al pontile per salutarli, e mi avevano convinto a fare un giro con loro. Mi avevano condotto lungo la serie di baie che si susseguono tra la North e la South Fork di Long Island: Great Peconic Bay e Litde Peconic Bay, Noyack Bay e Southold Bay, poi al largo nella Gardiner Bay e infine a Orient Point. A un certo punto, Tom aveva dato tutto gas ai motori, e avevo pensato che stessimo per decollare. Sì, dico, il motoscafo aveva la prua verso l'alto e stava infrangendo la barriera del suono. Quella, a ogni modo, era stata anche la volta in cui i Gordon mi avevano mostrato Plum Island. «Là è dove lavoriamo», aveva detto Tom. «Un giorno», aveva aggiunto Judy, «vedremo di farti ottenere un pass per visitarla. È molto interessante.» Lo era, in effetti. Quello stesso giorno eravamo stati presi nel vento e nelle correnti del Budello e avevo temuto di vomitare le mie, di budella, in quel tratto di mare, tanto che mi ero domandato se da questo prendesse il suo nome. Ricordavo che avevamo passato l'intera giornata sull'acqua ed eravamo tornati lì esausti, scottati dal sole, disidratati e affamati. Tom era andato a procurare delle pizze, mentre Judy e io ci scolavamo birre nella veranda sul retro e guardavamo il tramonto. Non credo d'essere un tipo particolarmente gradevole, ma i Gordon si facevano in quattro per essermi amici, e non capivo perché. Da principio, non avevo bisogno di compagnia, né la desideravo. Ma Tom era in gamba e divertente, e Judy era bella. E piena di spirito. A volte le cose sembrano prive di senso intanto che accadono, ma dopo un periodo di tempo, o un incidente o che so io, il significato di quanto è stato detto o fatto diventa chiaro. Vero? Forse i Gordon sapevano d'essere in pericolo, o potevano esserlo. Avevano già fatto la conoscenza del Capo Maxwell, e volevano far sapere a una o più persone d'essere in rapporti stretti col Capo. Inoltre, passavano parecchio tempo con il sinceramente vostro, e poteva essere un modo, penso, di dimostrare a qualcuno che Tom e Judy erano pappa e ciccia con la polizia. Forse, se ai Gordon fosse accaduto qualcosa, Max o io ci saremmo
visti consegnare una lettera, ma io non stavo con il fiato sospeso. Inoltre, a proposito di cose che assumevano un senso a posteriori, in quella particolare serata di giugno, prima che Tom fosse di ritorno con le pizze, Judy, che aveva versato tre birre dentro uno stomaco vuoto, mi aveva domandato, riguardo alla casa dello zio: «Quanto vale un posto come questo?» «Direi sui quattrocentomila dollari, di più forse. Perché?» «Curiosità. Pensa di venderlo, tuo zio?» «L'ha offerto a me per un prezzo di favore, ma mi servirebbe un'ipoteca di duecento anni.» E la discussione era terminata lì, ma quando ti domandano quanto può costare una casa, una barca o un'auto, e poi vogliono sapere se è in vendita, o si tratta di ficcanaso oppure è gente che vuol comprare. I Gordon non erano dei ficcanaso. Ora, naturalmente, penso che si aspettassero di diventare molto ricchi in breve tempo. Ma se la fonte di quelle ricchezze di nuovo acquisto era una transazione illegale, difficilmente i Gordon potevano sventolare bigliettoni e mettersi ad acquistare ville sul mare da quattrocentomila dollari. Di conseguenza, o i tanto attesi dollari erano legittimi, o dovevano avere l'apparenza d'esserlo. Un vaccino? Poteva darsi. E poi qualcosa era andato storto, e quei brillantissimi cervelli erano finiti spappolati sul tavolato di cedro, come se qualcuno avesse lasciato cadere un pacchetto di carne tritata vicino alla graticola del barbecue. Ricordavo che più tardi, in quella serata di giugno, avevo osservato con Tom che pensavo avessimo corso un pericolo là nel Budello. Dalla birra Tom era passato al vino, e la sua mente era quasi in stato di grazia. Aveva una vena filosofica, per essere uno che si occupava di cose concrete, e mi aveva risposto: «Una barca in porto è una barca sicura. Ma non è per questo che sono fatte le barche». In effetti no, metaforicamente parlando. Mi veniva fatto di pensare che chi traffica con il virus dell'Ebola e con altre sostanze letali dev'essere per natura un ardimentoso. Loro due avevano vinto così a lungo al gioco del biorischio da cominciare a pensare d'essere dei privilegiati. Avevano deciso di estendere la loro attività a un altro gioco pericoloso, che fosse però più redditizio. Tuttavia, erano fuori del loro elemento, come il sommozzatore che si dà all'alpinismo o viceversa; coraggio e fiato da vendere, ma non un'idea di come si debba fare. Bene, torniamo a quel mercoledì mattina di settembre, verso le nove, ormai. Tom e Judy Gordon, che erano stati con me lì sul pontile di zio
Harry, sono morti, e ora la patata bollente l'ho io, tanto per usare un'altra metafora. Mi voltai e tornai verso casa, rinvigorito dall'aria del mattino e dalla carota, motivato dai buoni ricordi di due care persone, la mente limpida, le delusioni e le preoccupazioni del giorno innanzi messi nella loro giusta prospettiva. Ero riposato e pronto a dar battaglia. A sferrare calci. Avevo ancora un puntolino in apparenza a sé stante che aveva bisogno d'essere collocato sullo schermo del sonar: il signor Fredric Tobin, produttore di vini. Prima però, pensando che potesse avere chiamato qualcuno mentre io riflettevo in riva al mare, controllai la segreteria, ma non c'erano messaggi. «Puttana d'una Beth.» Via, via, John. Più irritato che addolorato, uscii di casa. Indossavo blazer di Mr. Ralph Lauren, camicia oxford di Mr. Tommy Hilfiger, calzoni di Mr. Eddie Bauer, boxer di Mr. Perry Ellis, dopobarba di Mr. Karl Lagerfeld e revolver dei Messrs. Smith e Wesson. Avviai l'auto con il telecomando e vi salii. «Bonjour, Jeep.» Mi portai verso la Main Road e mi diressi a est, incontro al sole. La Main Road è per gran parte rurale, ma diventa il corso principale di molti dei villaggi. Tra un centro e l'altro ci sono fienili e case coloniche, vivai, bancarelle di prodotti agricoli, alcuni buoni e semplici ristoranti, qualche negozio di antichità, e alcune deliziose chiese rivestite di assicelle nello stile del New England. Una cosa che è cambiata da quando io ero un ragazzino, tuttavia, è che ora Main Road vanta almeno una ventina e più di cantine. Indipendentemente da dove sono i vigneti, la maggior parte dei vinificatori ha istituito una sede centrale su Main Road per prendere al laccio i turisti. Ci sono visite alle cantine e assaggi gratuiti, cui segue obbligatoriamente una sosta nel negozio di souvenir dove il turista si sente in dovere di acquistare il locale nettare insieme con calendari a soggetto vinicolo, libri di cucina, cavatappi, sottobicchieri e non so cos'altro. Gli edifici di queste cantine sono per la maggior parte cascine e granai riadattati, ma alcuni sono grandi e nuovi complessi che uniscono le vere e proprie attrezzature per fare il vino con il negozio di vini e souvenir, un ristorante, una vigna e così via. Main Road non è esattamente la Rue de Soleil, e la North Fork non è la Côte du Rhône, ma l'atmosfera nel suo complesso è piacevole, una sorta di via di mezzo tra Cape Cod e la Napa Val-
ley. I vini stessi non sono male, mi dicono. Alcuni sono ottimi, mi dicono. Alcuni, mi dicono, hanno vinto competizioni nazionali e internazionali. Quanto a moi, prenderò una Bud. Nel villaggio chiamato Peconic, andai a fermarmi in un grande parcheggio a ghiaia contrassegnato da un cartello di legno che diceva «Vigneti Fredric Tobin». Il cartello era laccato di nero, e le lettere erano intagliate nel legno e dipinte in oro. Alcune bizzarre striature variopinte s'intersecavano sul nero della lacca, e avrei pensato si trattasse di vandalismo, sennonché avevo visto le medesime rigacce sulle etichette dei vini Tobin nei negozi di liquori e anche su quelle stesse etichette mentre sedevo sul tavolato dietro la casa di Tom e Judy. Riguardo a quelle striature di vernice sul cartello di Tobin, conclusi che quella era arte. Sta diventando sempre più arduo distinguere tra arte e vandalismo. Scesi dal mio costoso veicolo utilitario e sportivo e notai che ce n'erano almeno altri dieci uguali al mio. Lì era dove si riproducevano, forse. O erano quelli i veicoli preferiti da cowboy urbani e suburbani la cui definizione di fuoristrada significava un parcheggio? Ma sto divagando. Mi avviai verso il complesso Tobin. L'odore di mosto toglieva quasi il respiro, e intorno vedevo volare un milione di api; a una buona metà, piaceva il mio dopobarba Lagerfeld. Come descriverò le Cantine Tobin? Bene, se un castello francese fosse rivestito di assicelle di cedro americano, assomiglierebbe a questo posto. Era evidente che il signor Tobin aveva speso un patrimonio per il suo sogno. C'ero già stato, e quindi lo conoscevo. Prim'ancora di entrare, sapevo che il complesso era formato da una vasta reception per i visitatori, a sinistra della quale c'era il grande negozio di vini e souvenir. A destra c'era l'ala delle cantine vere e proprie, un vasto edificio a due piani zeppo di tini di rame, pigiatrici, e tutta quella roba lì. Avevo fatto un tour guidato, una volta, e ascoltato tutto il blablabla. Mai nel corso degli umani eventi sono state concepite tante chiacchiere attorno a qualcosa di tanto piccolo quanto un acino d'uva. Sì, dico, una prugna è più grande. Giusto? C'è chi fa il vino di prugne. Giusto? Perché tante storie per un acino d'uva? A ogni modo, al di sopra di tutto questo si innalza una larga torre centrale, una sorta di maschio del castello, alto una quindicina di metri, da cui sventola una grande bandiera. Non parlo della bandiera degli Stati Uniti.
Parlo di una bandiera nera con sopra il logo di Tobin. A qualcuno piace vedere propagato il suo nome. Tutto quel rivestimento di cedro è macchiato di bianco, così da distante fa quasi pensare a uno di quei castelli di calcare che si vedono negli opuscoli turistici. Freddie ne aveva messi di soldoni in quell'insieme, inducendomi a domandarmi quanto denaro rendesse esattamente il pigiare uva. Per continuare a illustrare a parole lo Château Tobin: più in là, a sinistra, un piccolo ristorante che donne e recensori definivano invariabilmente un amore. Io lo definivo lezioso e soffocante. Ma non ha importanza, non era sul mio elenco di locali dove andare se l'Olde Towne Taverne fosse stato chiuso dall'Ufficio d'igiene. Il ristorante aveva una terrazza coperta dove persone che vestivano firmato Eddie, Tommy, Ralph, Liz, Carole e Perry potevano starsene a contar balle sul vino, che, tra parentesi, è succo d'uva con alcol. A ogni modo, dietro quell'amore di ristorante e annessa a questo, un'altra sala più grande, un bel locale dove festeggiare matrimoni, battesimi o bar mitzvah, stando all'opuscolo firmato da Fredric Tobin, proprietario. Ero stato in quella sala per una delle soirée di degustazione di Tobin, in luglio. L'occasione era la celebrazione di qualche nuova produzione, con il che penso intendesse vino pronto da vendere e da tracannare. Ero ospite dei Gordon, come forse ho già detto, ed erano presenti circa duecento persone, la crema della società della North Fork: banchieri, avvocati, dottori, giudici, politici, alcuni venuti da Manhattan che avevano lì la residenza estiva, mercanti e agenti immobiliari di successo, e così via. Mischiati alla crema locale c'erano alcuni artisti, scultori e scrittori i quali, per diverse e svariate ragioni, non allietavano la scena degli Hamptons, sull'altro lato della baia. Probabilmente, molti di loro non avevano sufficiente successo finanziario per consentirselo, benché, s'intende, avrebbero affermato d'essere artisticamente più onesti dei loro colleghi degli Hamptons. Uff. Anche Max era stato invitato, tra l'altro, ma non aveva potuto venire. A sentire Tom e Judy, loro due erano le sole persone di Plum Island presenti. «Padrone e padroni di casa evitano la gente di Plum Island come la peste», aveva detto Tom. C'eravamo fatti entrambi una bella risata. Dio, mi mancava Tom. E anche Judy, così gaia. Ricordavo che in quell'occasione di assaggio del succo dell'uva, Tom m'aveva presentato al nostro anfitrione, Fredric Tobin, uomo di classe e scapolo il quale, a prima vista, aveva l'aria d'essere uno che calzava scarpe comode, se capite quello che intendo dire. Tobin indossava un frivolo
completo violaceo, camicia di seta bianca e cravatta su cui spiccavano vini e grappoli d'uva. Vomitevole. Tobin era compito, ma un po' scostante verso moi, il che mi irrita sempre quando mi trovo in mezzo a gente manierata. Sì, dico, un investigatore della Omicidi è in un certo senso al di sopra delle divisioni sociali, e in genere ai padroni di casa fa piacere avere intorno un detective che racconti qualcosa. A chi non piace l'omicidio? Ma Fredric mi aveva liquidato prima che potessi esporgli la mia teoria sul vino. Avevo accennato con Tom e Judy che Monsieur non aveva avuto nemmeno la cortesia di farmi un'avance, ma loro mi avevano informato che Freddie (come nessuno osava chiamarlo in sua presenza) era in realtà un ardente eterosessuale. C'erano persone, a sentire Judy, che interpretavano lo charme e i modi raffinati di Fredric come un segno che fosse gay o bisex. Questo a me non era mai successo. Dai Gordon avevo saputo che il soave e affascinante signor Tobin aveva studiato viticoltura in Francia ed era in possesso di non so che diploma in succo d'uva. Tom mi aveva indicato una giovane donna che era la convivente del momento di Tobin. Un vero e proprio schianto: sui venticinque, alta, bionda, occhi azzurri, e fatta come se fosse uscita da uno stampo per la gelatina. Oh, Freddie, nato con la camicia. Come ho potuto prendere un simile abbaglio? Così, quello era stato il mio solo incontro con il Signore delle Api. Capivo benissimo perché Tom e Judy avessero cercato di avvicinare quel tizio: prima di tutto, i Gordon amavano il vino e quello di Tobin era dei migliori. Ma, a parte questo, c'era un'intera matrice di rapporti sociali legata alla produzione del vino, come quel party, come cene private, come concerti all'aperto nei vigneti, splendidi picnic sulla spiaggia, e via dicendo. Sembrava che ai Gordon piacesse fare incetta di tutto questo, il che mi sorprendeva, e benché non lo adulassero né si mostrassero servili verso Fredric Tobin, di certo avevano ben poco in comune con lui dal lato sociale, finanziario, professionale o altro. In conclusione, mi sembrava poco in carattere che Tom e Judy avessero a che fare con un tipo come Fredric. Quanto a quel nome, c'è anche il caso di chi si sbarazza di una «e» quando chiunque altro intorno a lui sta cercando di appiccicare «e» alle cose. Per dirla in breve, Fredric l'Uva mi faceva l'effetto di un pallone gonfiato, e mi sorrideva l'idea di sgonfiarglielo un poco, quel pallone. Oltretutto, aveva la barba, e forse un'auto sportiva bianca.
Ero adesso nel negozio di souvenir, a curiosare un po' attorno in cerca di qualcosa di carino per il mio perduto amore, qualcosa come un cavatappi con una scritta spiritosa e allusiva. In mancanza di quello, trovai una bella piastrella di ceramica dipinta a mano, e il dipinto era un falco pescatore appollaiato in cima a un palo. È un uccello dall'aspetto molto strano, ma la piastrella mi piaceva perché non aveva un motivo che si riferisse al vino. Mentre la cassiera me la incartava, le domandai: «C'è il signor Tobin?» La giovane e attraente fanciulla mi lanciò un'occhiata e rispose: «Non ne sono sicura». «M'è parso di vedere la sua macchina, un'auto bianca sportiva. Giusto?» «Può darsi che ci sia, allora. Fa dieci dollari e novantasette, con la tassa.» Pagai i dieci-e-novantasette con tassa e ritirai il resto e il pacchetto. «Ha già fatto il tour del vino?» mi domandò lei. «No, ma una volta ho visto fare la birra.» Estrassi il mio distintivo dalla tasca interna e glielo mostrai. «Dipartimento di Polizia, signorina. Quello che adesso lei dovrebbe fare è premere quel tasto del suo telefono che la mette in contatto con l'ufficio del signor Tobin e fare in modo che lui venga qui subito subito. D'accordo?» Assentì e fece come le veniva detto. Nel microfono disse: «Marilyn, c'è qui uno della polizia che vuole vedere il signor Tobin». «Subito subito.» «Senza indugio», tradusse lei. «Okay... sì, glielo dirò.» Posò il ricevitore e mi assicurò: «Verrà subito giù». «Il su dov'è?» Indicò una porta chiusa nella parete opposta e disse: «Quella porta agli appartamenti della torre: gli uffici». «Bene. Grazie.» Andai alla porta, l'aprii e mi ritrovai in una vasta, rotonda area comune a pannelli, una specie di atrio, che era la base della torre. Una porta conduceva alle stanze di fermentazione, da un'altra si ritornava nella reception da dove ero entrato. Un'altra ancora, a vetri, dava verso l'esterno, sul retro delle cantine. C'era anche una scalinata che portava di sopra e, a destra di quella, un ascensore. La porta dell'ascensore si aprì e ne uscì a grandi passi il signor Tobin, sì e no degnandomi di uno sguardo nella sua fretta di arrivare nel negozio dei souvenir. Notai che l'espressione del suo viso era preoccupata. «Signor Tobin?» dissi. Si girò verso di me. «Sì?»
«Detective Courtney.» Qualche volta storpio di proposito il mio stesso nome. «Oh... Sì, che cosa posso fare per lei?» «Mi serve solo un po' del suo tempo, signore.» «Di che si tratta?» «Sono un investigatore della Omicidi.» «Oh... I Gordon.» «Sì, signore.» Evidentemente non ricordava la mia faccia, che è la stessa che avevo in luglio quando lo avevo conosciuto. D'accordo, il mio nome era cambiato leggermente ma, in ogni caso, non era mia intenzione fargli memoria. Riguardo al mio stato, giurisdizione, e tutte quelle stronzate tecniche, semplicemente non avevo ascoltato il messaggio di Max sulla segreteria. «Mi risulta», dissi al proprietario, «che lei era un amico delle vittime.» «Be'... avevamo rapporti di conoscenza.» «Capisco.» Riguardo a Fredric Tobin, era vestito, mi spiace ammetterlo, più o meno come me: un certo numero di etichette di stilisti e le docksider ai piedi. Non aveva cravatte con l'uva, ma sfoggiava uno sciocco sbuffo lilla nel taschino del blazer blu. Il signor Tobin era un uomo sulla cinquantina, forse meno, di statura un po' inferiore alla media, il che poteva spiegare il suo complesso di Napoleone. Era di corporatura media, aveva una folta testa di corti capelli castani, non tutti suoi, e una barba ben regolata. I denti, nemmeno quelli tutti suoi, erano di un bianco perlaceo, e la pelle era abbronzata. Nel complesso, era un individuo curatissimo, parlava bene e aveva un buon portamento. Tuttavia, non c'era cosmetico o aspetto curato che potesse cambiare i suoi occhietti neri e lucenti, che si muovevano in continuazione, come se sgusciassero liberi nelle orbite. Tobin usava un dopobarba che sapeva di pino e che, sospettavo, non attirava le api. Mi domandò: «Devo dedurne che vuole interrogarmi?» «Solo qualche domanda di routine.» Non ci sono domande di routine in un indagine per omicidio, tra parentesi. «Mi spiace, non... Voglio dire, non ho assolutamente alcuna conoscenza di quello che potrebb'essere capitato ai Gordon.» «Be', sono stati assassinati.» «Lo so... Intendevo dire...» «Mi serve solo per ricostruire un po' l'ambiente.»
«Forse dovrei telefonare al mio avvocato.» Al che, inarcai le sopracciglia. «È suo diritto», dissi. E aggiunsi: «Possiamo far questo giù alla stazione di polizia, con il suo avvocato presente. Oppure possiamo farlo qui, in circa dieci minuti». Sembrò rimuginarci su. «Non so... Non sono abituato a...» Parlai nel mio tono più accattivante. «Senta, signor Tobin, lei non è un sospetto. Sto solo intervistando gli amici dei Gordon. Sa... per inquadrare un po' la situazione.» «Capisco. Be'... se pensa che possa esserle d'aiuto, sarò ben lieto di rispondere alle domande che vorrà farmi.» «Ora ci siamo.» Volevo allontanare quel tizio da un telefono, così dissi: «Ehi, non ho mai passeggiato attraverso una vigna. Possiamo farlo?» «Ma certo. In effetti, è quello che stavo per fare, quando è arrivato lei.» Lo seguii all'aperto, nel sole, al di là della porta a vetri. Due furgoni col pianale ribaltabile erano parcheggiati nei pressi, carichi d'uva. «Due giorni fa abbiamo cominciato la vendemmia», mi informò Tobin. «Lunedì.» «Sì.» «Una giornata importante per lei.» «Una giornata di grande soddisfazione.» «Sarà rimasto qui tutto il giorno, immagino.» «Fin dalle prime ore del mattino.» Assentii. «Una buona vendemmia?» «Ottima, finora, grazie.» Ci incamminammo attraverso il prato sul retro fino ad addentrarci nella più vicina delle vigne, tra due filari d'uva non ancora raccolta. C'era davvero un buon odore lì, e le api non mi avevano ancora localizzato, grazie al cielo. Tobin indicò il mio sacchettino con il suo logo e s'informò: «Che cos'ha comperato?» «Una piastrella dipinta per la mia ragazza.» «Quale?» «Beth.» «No, dico, quale piastrella dipinta?» «Ah. Quella col falco pescatore.» «Si cominciano a rivedere.» «Le piastrelle dipinte?» «No, i falchi pescatori. Senta, detective...»
«Sono strani. Ho letto che si accoppiano per la vita. Be', dico, non credo che siano cattolici. Perché si accoppiano per la vita?» «Detective...» «Ma poi ho letto anche un'altra versione. La femmina si accoppierà per la vita se il maschio torna allo stesso nido. Sa quelli del Wwf piantano quei grossi pali con su delle piattaforme, e si fanno il nido lassù. I falchi, non quelli del Wwf.» «Detective...» «La conclusione qual è, che la femmina non è veramente monogama. È affezionata al nido, lei. Torna allo stesso nido ogni anno, e scopa col primo maschio che si presenta. Un po' come le signore di Southampton nelle loro case estive. Sa? Non rinuncerebbero mai alla casa degli Hamptons. Intendo dire, okay, il loro lui potrebb'essere morto, o avere tagliato la corda, e non farsi vedere mai più. Ma qualche volta ha semplicemente perso il treno. Sa? Nel frattempo, madama si fa l'uomo della piscina. Ma a ogni modo, per tornare ai falchi...» «Scusi, detective... com'è il suo nome?» «Mi chiami pure John.» Mi lanciò un'occhiata, e vedevo bene che stava cercando di farsi un'idea, ma proprio non ci riusciva. In ogni caso, dopo la mia piccola scena alla Tenente Colombo, aveva deciso che fossi un cretinotto, ed era un po' più rilassato. Disse: «Sono rimasto scioccato nel sentire la notizia». Poi aggiunse: «Una vera tragedia. Così giovani e così pieni di vita». Non reagii. «Sa niente su quando ci saranno i funerali?» «No, signore, niente. Penso che i Gordon siano ancora all'obitorio, a disposizione del medico legale. Per ora sono, come dire, tutti in pezzi, e in seguito verranno rimessi assieme. Come le tessere di un puzzle, salvo che il medico legale lascia fuori gli organi interni. Tanto, chi potrebbe accorgersi che mancano?» Il signor Tobin non fece commenti. Camminammo per un poco in silenzio attraverso i vigneti. A volte, se non fai domande, la persona che stai interrogando si innervosisce e comincia a chiacchierare per riempire il silenzio. Dopo circa un minuto, Tobin disse: «Sembravano così due care persone». Assentii. Lasciò passare alcuni secondi, poi aggiunse: «Non potevano avere un nemico al mondo. Ma ci sono avvenimenti strani a Plum Island. In realtà,
quello che è successo farebbe pensare a un furto. È quel che ho sentito per radio. Il Capo Maxwell parlava di un furto. Ma parte dei media sta cercando un nesso con Plum Island. Dovrei telefonare al Capo Maxwell. Siamo amici, lui e io. Conoscenti. Lui conosceva i Gordon». «Davvero? Pare che qui tutti conoscano tutti.» «Sembra di sì. È la situazione geografica. Siamo circondati su tre lati dall'acqua. È quasi come una piccola isola. Dai e dai, tutti i sentieri si incrociano. Ecco perché questo fatto è così inquietante. Potrebb'essere uno di noi.» «Intende dire l'assassino o allude alle vittime?» «Be', l'uno e le altre», rispose Tobin. «L'assassino potrebbe essere uno di noi, e le vittime potrebbero essere state... Pensa che l'assassino colpirà ancora?» «Oh, spero di no. Ho già abbastanza da fare.» Continuammo a camminare lungo quei filari di viti davvero lunghissimi, ma il signor Tobin aveva smesso di ciarlare, così gli domandai: «Li conosceva bene i Gordon?» «Avevamo rapporti sociali. Erano innamorati del fascino e dell'avventura insiti nella vinificazione.» «Davvero?» «Ha interesse lei per il vino, detective?» «No, personalmente propendo per la birra. Qualche volta bevo vodka. Ehi, mi dà un parere?» Gli propinai la vera vodka di patate Krumpinsky, aromatica e naturale. «Cosa ne pensa? Un'industria sorella, dico bene? Ci sono patate dappertutto, qui. Tutta quest'estremità di Long Island potrebbe nuotare nell'alcol. C'è chi pensa a gelatina d'uva e purea di patate. Noi a vino e vodka. Che gliene pare?» «Concetto interessante.» Staccò un grappolino d'uva bianca dalla vite e si strizzò un acino in bocca. «Ottima. Ferma, dolce, ma non troppo dolce. Abbiamo avuto sole e pioggia ideali, quest'anno. Sarà una vendemmia d'annata.» «Fantastico. Quando ha visto i Gordon per l'ultima volta?» «Circa una settimana fa. Ecco, assaggi questi.» Mi mise alcuni acini in mano. Ne misi uno in bocca, masticai e sputai la buccia. «Niente male.» «La buccia è stata irrorata. Dovrebbe strizzarsi in bocca la polpa. Tenga.» Mi porse una metà del suo grappolo. Continuammo a passeggiare come vecchi amici, strizzandoci polpa d'uva in bocca: ma non l'uno nella
bocca dell'altro. Non eravamo ancora così intimi. Il signor Tobin continuò a parlare del tempo, di vini e via discorrendo. «Abbiamo le stesse moderate precipitazioni annuali di Bordeaux», m'informò. «Sul serio?» «Ma i nostri rossi non sono densi quanto quelli delle produzioni classificate Bordeaux. Hanno un tessuto diverso.» «Eh, già.» «A Bordeaux, lasciano macerare la buccia nel vino nuovo per un bel pezzo, dopo la fermentazione. Poi invecchiano il vino nella botte per due o tre anni. Per noi questo non va. Tra le nostre uve e le loro c'è di mezzo un oceano. Sono della stessa specie, ma hanno sviluppato un loro carattere. Proprio come noi.» «Giusta osservazione.» «Dobbiamo anche maneggiare il vino con maggiore dolcezza quando lo sistemiamo su una rastrelliera di quanto facciano a Bordeaux. Ho fatto alcuni errori, io, nei primi anni.» «Chi non ne fa?» «Qui, per esempio, proteggere il frutto è più importante che preoccuparsi di un eventuale sapore di tannino. Non abbiamo il tannino che hanno a Bordeaux, noi.» «Ecco perché sono orgoglioso d'essere americano.» «Quando si fa il vino, non bisogna essere troppo dogmatici o troppo teorici. Quello che va bene bisogna scoprirlo.» «Proprio come nel mio mestiere.» «Ma possiamo imparare dai vecchi maestri. A Bordeaux, ho imparato l'importanza della disposizione delle foglie.» «È il posto dove impararlo, quello.» Non era una barba quanto una lezione di storia, ma poco ci mancava. Ciò nonostante, lo lasciavo chiacchierare. Soffocai uno sbadiglio. «A questa latitudine settentrionale, la disposizione delle foglie lascia catturare la luce del sole. È un problema che non hanno nel sud della Francia, o in Italia o in California. Ma qui nella North Fork, come a Bordeaux, bisogna creare un equilibrio tra la copertura di foglie e il sole sui grappoli.» Continuava, continuava. Eppure, mi sorprendevo a trovarlo quasi simpatico, nonostante la mia prima impressione. Non dico che saremmo mai diventati grandi amici, ma Fredric Tobin era un uomo di un certo fascino, anche se un po' troppo fervido. Si capiva che amava quello che faceva; sembrava quanto mai a suo
agio fra le viri. Cominciavo a capire perché ai Gordon potesse piacere. «La North Fork», mi spiegò, «è un microclima. Diverso dalle zone circostanti. Lo sa che abbiamo più sole noi che quelli degli Hamptons al di là della baia?» «Lei scherza. E i ricconi, là, lo sanno?» «Più sole», continuò lui, «che nel Connecticut, al di là dello Stretto?» «Non me lo dica. E come mai?» «Ha a che fare con le masse d'acqua e i venti prevalenti intorno a noi. Abbiamo un clima marittimo, mentre il Connecticut ha un clima continentale. D'inverno, là, ci sono parecchi gradi di meno, cosa che danneggerebbe le viti.» «È evidente.» «Inoltre, qui non diventa mai troppo torrido, altro fatto che può danneggiare le viti. Le masse d'acqua tutt'intorno hanno un influsso moderatore sul clima.» «Più caldo, più soleggiato, i falchi pescatori che tornano. Ma che meraviglia.» «E il suolo è tutto speciale. Questo è suolo glaciale ricchissimo, con le giuste sostanze nutrienti, ed è drenato dallo strato di sabbia sottostante.» «Ragazzi, sa cosa le dico? Quand'ero ragazzino, se qualcuno m'avesse detto: "Ehi, John, qui un giorno sarà tutto un vigneto", gli avrei riso in faccia e gli avrei tirato un calcio nelle palle.» «Tutto questo la interessa?» «Moltissimo.» Neanche un po'. Svoltammo lungo un altro filare dove una vendemmiatrice meccanica stava pestando le viti senza pietà, e i grappoli venivano risucchiati dentro quel mostro. Gesù mio. Ma chi le inventa, queste cose? Da lì ci inoltrammo lungo un altro filare dove un paio di giovani donzelle nubili in calzoncini corti e maglietta con logo Tobin stavano invece vendemmiando a mano. Cesti di grappoli erano allineati lungo il filare. Il Signore delle Viti si fermò a parlare e a scherzare con loro. Giocava in casa, quel giorno, e le ragazze reagivano bene. Lui probabilmente era abbastanza vecchio per essere loro padre, ma quelle prestavano attenzione al denaro, realtà pura e semplice. Dovetti far uso di tutto il mio fascino e la mia arguzia per staccarlo da quei calzoncini, ma conosco ricconi che dicono cose assai meno abili e amabili a giovani signore, cose come: «Voliamo a Parigi col Concorde questo weekend». Funziona sempre. Dopo un paio di minuti, ci allontanammo dalle graziose vendemmiatrici
e Tobin mi disse: «Non ho sentito le notizie stamattina, ma una delle mie impiegate mi ha detto d'avere sentito per radio che i Gordon potrebbero avere rubato un nuovo vaccino miracoloso nell'intento di venderlo. A quanto pare sono stati traditi e assassinati. È vero?» «Sembra che sia andata proprio così.» «Non c'è pericolo di una... una peste, o di qualche epidemia...» «Nel modo più assoluto.» «Bene. C'era un sacco di gente preoccupata, l'altra sera.» «Non ce n'è motivo. Dov'era lei lunedì sera?» «Io? Oh, a cena con amici. Nel mio stesso ristorante, proprio qui, anzi.» «A che ora?» «Verso le otto. Non avevamo ancora udito la notizia.» «E in precedenza dov'era? Verso le 5 e 30, per esempio.» «Ero a casa.» «Solo?» «Ho una governante e un'amica.» «Ah, bene. Si ricorderanno dov'era verso le 5 e 30?» «Ma certo. Ero a casa.» Poi aggiunse: «Era il giorno del primo raccolto. Ero arrivato qui verso l'alba. Verso le quattro del pomeriggio non ne potevo più e sono andato a casa per fare un sonnellino. Poi sono tornato qui per cenare. Una piccola festicciola per l'inizio della vendemmia. Non si sa mai quando sarà il momento iniziale, così è tutto molto improvvisato. Tra una settimana o due, avremo il gran pranzo, invece». «Che bella vita.» Poi domandai: «Chi c'era a cena?» «La mia ragazza, l'amministratore della tenuta, alcuni amici...» Mi guardò e disse: «Questo sembra un interrogatorio». Per forza. Lo era. Ma non volevo che il signor Tobin si agitasse e chiamasse il suo legale, o Max. «Sono solo domande standard, signor Tobin. Sto cercando di farmi un quadro di dove fosse ciascuno la sera di lunedì, di quali rapporti aveva ciascuno con i defunti. Cose del genere. Quando abbiamo un sospetto, ecco che alcuni degli amici e dei collaboratori dei Gordon possono anche diventare dei testimoni. Capisce? Non sappiamo niente fino a che non sappiamo.» «Capisco.» Lo lasciai rasserenare un po', e ricominciammo a parlare dell'uva. L'individuo era tranquillo ma, come tutti, non proprio a suo agio in presenza della polizia. «Quando e dove ha visto i Gordon la settimana scorsa?» «Oh... mi lasci pensare... A cena a casa mia. Avevo invitato alcune per-
sone.» «Qual era il motivo della sua attrazione verso i Gordon?» «Che cosa intende, scusi?» «Solo quello che ho detto.» «Credo d'avere indicato che semmai era l'inverso, detective», replicò. «Perché allora li avrebbe invitati a casa sua?» «Be'... in verità, raccontavano alcune storie affascinanti su Plum Island, cosa che ai miei ospiti piaceva.» E aggiunse: «I Gordon se la guadagnavano, la loro cena». «Ah, sì?» Raramente, con me, parlavano del loro lavoro. «Inoltre», disse lui, «erano una coppia eccezionalmente attraente. Lei li...? Immagino che, quando li ha visti lei... ma la signora era una bellezza rara.» «In effetti, sì. Lei se la faceva?» «Prego?» «Aveva rapporti sessuali con la signora Gordon?» «Santo cielo, no.» «Ci aveva provato?» «Ma no, no.» «Ci aveva almeno pensato?» Rifletté sull'averci riflettuto, poi disse: «Qualche volta. Ma non do la caccia alle mogli, io. Il mio piatto è già abbastanza colmo». «Ah, sì?» Immagino che lo champagne faccia miracoli per chi è padrone del vigneto, del castello, delle vasche di fermentazione e dell'impianto di imbottigliamento. Chissà se i padroni di microfabbriche di birra vengono saziati quanto i vinificatori? Dovrò studiarci su. A ogni modo, domandai a Tobin: «È mai stato a casa dei Gordon?» «No. Non so nemmeno dove abitassero.» «Allora dove mandava i suoi inviti?» «Be'... a questo pensa il mio addetto alle pubbliche relazioni. Ma ora che mi ci fa pensare, ricordo che abitano... che abitavano a Nassau Point.» «Sissignore. C'era su tutti i giornali. Residenti di Nassau Point trovati assassinati.» «Sì. E ricordo il loro accenno al fatto che avevano una casa sul mare.» «Precisamente. Facevano spesso la spola tra casa loro e Plum Island. È probabile che l'abbiano detto almeno una decina di volte a quelle cene, insieme agli aneddoti su Plum Island.» «Sì, è così.»
Ricordo che il signor Tobin aveva perline di sudore all'attaccatura della sua chioma ondulata. Dovevo tenere presente che anche le persone più innocenti sudano mentre subiscono un modificato e civilizzato terzo grado. Un tempo, intendo dire, si parlava dei vecchi metodi per cavare informazioni alla gente: sapete, luci accecanti, interrogatori nonstop, il terzo grado, qualsiasi cosa questo voglia dire. Oggi, siamo gentilissimi, a volte, ma per quanto gentili si sia, a certe persone - innocenti e colpevoli allo stesso modo - proprio non va d'essere interrogate. Stava facendo davvero più caldo, così mi tolsi il blazer blu e me lo gettai su una spalla. La S&W ce l'avevo alla caviglia, per cui il signor T non era allarmato. Le api mi avevano trovato e domandai: «Pungono?» «Se le disturba, sì.» «Non le sto disturbando. Mi piacciono le api.» «Veramente sono vespe. Deve usare un dopobarba che a loro piace.» «Lagerfeld.» «È uno dei loro preferiti.» Poi aggiunse: «Le ignori». «Certo. I Gordon erano invitati a cena, lunedì sera?» «No. Normalmente non li avrei invitati a una piccola riunione improvvisata... Quella di lunedì riguardava soprattutto amici intimi e persone con rapporti di lavoro.» «Capisco.» «Perché quella domanda?» «Oh, solo per l'ironia della sorte. Sa, se fossero stati invitati, magari sarebbero tornati a casa prima, si sarebbero cambiati... chissà, sarebbero forse mancati al loro appuntamento con la morte.» «Nessuno», replicò, «manca al suo appuntamento con la morte.» «Già. Penso che abbia ragione.» Ci trovavamo ora lungo un filare di viti dai grappoli violacei. «Perché», domandai a Tobin, «i grappoli viola danno il vino rosso?» «Perché...? Be'... forse sarebbe più giusto chiamarlo vino viola.» «Infatti.» «In realtà», disse Tobin, «questo viene chiamato pinot noir. Noir vuol dire nero.» «So un po' di francese. Quelle uve vengono chiamate nere, sono viola e il vino lo chiamano rosso. Vede perché la gente si confonde?» «In realtà non è così complicato.» «Sì che lo è. La birra è facile. C'è la lager e la pilsner. Giusto? Poi c'è la
chiara e la scura, quella ancora più scura e c'è la bock, ma quelle lasciamole perdere. Fondamentalmente abbiamo la lager e la pilsner, leggere o normali. Vai in un bar, e vedi da te che cosa puoi bere alla spina, perché leggi l'etichetta. Ma prova a chiedere: "Che cos'avete in bottiglia?" Quando hanno finito di elencarti tutto, tu dici: "Birra". Fine della storia.» Il signor Tobin sorrideva. «Molto divertente. In realtà, piace anche a me una buona birra gelata, in una giornata calda.» Si protese verso di me con fare da cospiratore: «Ma non lo dica a nessuno». «Il suo segreto è al sicuro. Ehi, ma qui si va avanti all'infinito. Quanti acri ha, qui?» «Qui ne ho duecento. Altri duecento li ho sparsi un po' ovunque.» «Mamma mia. È enorme. L'affitta la terra?» «In parte.» «Ne affitta anche da Margaret Wiley?» Non rispose immediatamente, e se fossimo stati seduti di fronte avrei visto la sua espressione nell'attimo in cui dissi «Margaret Wiley». Ma l'esitazione era già abbastanza interessante. Alla fine, replicò: «Penso proprio di sì. Sì, l'affittiamo. Una cinquantina di acri. Perché vuole saperlo?» «So che la Wiley affitta terreni ai vinificatori. È una vecchia amica dei miei zii. Il mondo è piccolo.» Cambiai argomento e domandai: «Così, lei ha la maggior parte dell'uva di qui?» «I Vigneti Tobin sono i più grandi della North Fork, se è questo che intende dire.» «Come c'è riuscito?» «Lavoro duro, una buona conoscenza della viticoltura, perseveranza, e un prodotto superiore.» Poi aggiunse: «E la buona fortuna. Quello che ci fa paura, qui, sono gli uragani. Da fine agosto ai primi di ottobre. Un anno la vendemmia era molto in ritardo. Verso metà ottobre. Arrivarono non meno di sei uragani dai Caraibi. Ma ognuno di essi prese poi un'altra direzione. Bacco vegliava su di noi». E precisò: «È il dio del vino». «È anche un grande compositore.» «Quello è Bach.» «Ah, già.» «A proposito, abbiamo concerti, qui, e a volte opere liriche. Posso metterla sul nostro elenco di indirizzi, se le fa piacere.» Stavamo facendo ritorno verso il grande complesso architettonico. «Sarebbe meraviglioso», dissi. «Vino, musica, buona compagnia. Le manderò
il mio biglietto da visita. Al momento ne sono sprovvisto.» Mentre ci avvicinavamo alle cantine, mi guardai attorno e dissi: «Non vedo la sua casa». «In effetti io non vivo qui. Ho, sì, un appartamento in cima a quella torre, ma la mia casa è più a sud.» «Sul mare?» «Sì.» «Va in barca?» «Un po'.» «A motore o a vela?» «A motore.» «E i Gordon erano suoi ospiti anche a casa?» «Sì. Ogni tanto.» «Arrivavano in barca, immagino.» «Mi pare di sì, una o due volte.» «E lei non andava mai a trovarli con la sua barca?» «No.» Stavo per domandargli se possedeva un Formula 303 bianco, ma non sempre è una buona idea fare domande su cose che puoi scoprire in un altro modo. Le domande tendono a fare irrigidire le persone, a spaventarle. Fredric Tobin, come dicevo, non era un sospetto di omicidio, ma avevo l'impressione che nascondesse qualcosa. Mi cedette il passo attraverso la porta da cui eravamo usciti. «Se posso esserle ulteriormente d'aiuto», disse, «me lo faccia sapere.» «D'accordo... ehi, ho un appuntamento stasera, e ci terrei a comprare una bottiglia di vino.» «Provi il nostro Merlot del '95, è incomparabile. Ma è un po' costoso.» «Perché non me lo mostra? Ho ancora qualche cosetta da domandare.» Esitò un istante, poi mi fece strada verso il negozio, cui era annessa una spaziosa sala di degustazione. Era una gran bella sala, con un bar di quercia lungo una decina di metri e cinque o sei séparé da un lato, cassette di vini e rastrelliere di bottiglie dappertutto, finestre dai vetri colorati, pavimento a quadrelli e via dicendo. Una decina di amanti del vino vagavano per la sala, facendo commenti sulle etichette e sorseggiando assaggi gratuiti al bar e facendo discorsi stupidi con i giovani, maschi e femmine, che versavano e si sforzavano di sorridere. Tobin salutò una delle mescitrici, di nome Sara, una giovane attraente sui venticinque anni. Presumevo che Fredric scegliesse personalmente l'ar-
redo, e aveva un buon occhio per l'aspetto grazioso e per bene. «Sara», disse il boss, «versi al signor...» «John.» «Versi a John un po' di Merlot del '95.» E lei eseguì, con mano ferma e in un piccolo bicchiere. Feci roteare un po' il liquido per dimostrare che me ne intendevo. Fiutai e dissi: «Ottimo bouquet». Lo tenni contro luce. «Gran bel colore. Rubino.» «E belle lacrime.» «Dove?» «Nel modo di aderire al bicchiere.» «Giusto.» Sorseggiai un poco. Intendiamoci, è buono. È un gusto che si acquista. In effetti non è niente male con una bistecca. «Fruttato e morbido», sentenziai. Tobin assentì con entusiasmo. «Sì. E immediato.» «Molto immediato.» Immediato? «Un po' più corposo e più robusto di un Napa Merlot.» «In realtà, è un po' più leggero.» «È quello che intendevo dire.» Avrei dovuto smettere finché ero in vantaggio. «Buono.» Posai il bicchiere. «Gli versi il Cabernet del '95», disse Tobin a Sara. «Va bene questo.» «Voglio che veda la differenza.» Lei versò. Io sorseggiai e dissi: «Buono. Meno immediato». Chiacchierammo un po', poi Tobin insistette perché assaggiassi un bianco. «Questo è il mio uvaggio di Chardonnay e altri bianchi», disse, «che non rivelerò. Ha un bel colore e lo chiamiamo Oro dell'Autunno.» Assaggiai il vino. «Morbido, ma non troppo immediato.» Lui non replicò. «Ha mai pensato», dissi, «di chiamare uno dei suoi vini l'Uva dell'Ira?» «Ne discuterò con i miei addetti al marketing.» «Belle etichette», commentai. Il signor Tobin mi informò: «Tutti i miei rossi hanno etichette con un esempio dell'arte di Pollock, e sui miei bianchi c'è de Kooning.» «Ah, sì?» «Sa, Jackson Pollock e Willem de Kooning. Entrambi vivevano a Long Island e vi hanno creato alcune delle loro opere migliori.»
«Ah, i pittori. Già. Pollock è quello degli schizzi.» Tobin non rispose, ma guardò l'orologio, evidentemente stanco della mia compagnia. Mi guardai attorno e scorsi un séparé libero, lontano dai mescitori e dai clienti. «Siediamoci un momento là», dissi. Tobin mi seguì a malincuore e sedette di fronte a me. Sorseggiai il Cabernet e dissi: «Solo qualche altra domanda di routine. Da quanto tempo conosceva i Gordon?» «Oh... da circa un anno e mezzo.» «Discutevano mai del loro lavoro con lei?» «No.» «Ha detto che amavano raccontare storie su Plum Island.» «Ah, sì. Ma in senso generale. Non rivelavano certo segreti di Stato.» Sorrise. «Ah, bene. Sapeva che erano archeologi dilettanti?» «Io... sì, lo sapevo.» «Sapeva che appartenevano alla Peconic Historical Society?» «Sì. Anzi, è così che ci siamo conosciuti.» «Pare che tutti, qui, appartengano a quell'associazione.» «I soci sono circa cinquecento. Non direi tutti.» «Ma tutti quelli con i quali ho a che fare io, pare ne facciano parte. È forse una facciata per qualcos'altro? Come un covo di streghe o qualcosa?» «No, che io sappia. Potrebb'essere divertente, però.» Sorridemmo entrambi. Sembrò rimuginare su qualcosa; me ne accorgo subito quando uno rimugina, e non interrompo mai chi lo fa. Alla fine, disse: «In effetti, la Peconic darà una festa sabato sera. La ospito io sul mio prato. L'ultima festa all'aperto della stagione, tempo permettendo. Perché non viene anche lei, insieme a un'amica?» Immagino che avesse posto per altri due, ora che i Gordon non potevano intervenire. «Grazie», replicai, «farò il possibile.» In realtà, non sarei mancato di certo. «Forse ci sarà anche il Capo Maxwell. Ha lui tutti i particolari.» «Magnifico. Posso portare qualcosa? Del vino?» Sorrise, compito. «Porti soltanto se stesso.» «E un'amica», gli rammentai. «E un'amica, certo.» «Ha mai sentito qualcosa», gli domandai, «qualche... pettegolezzo sui Gordon?» «Nel senso?»
«Be', sessuale, per esempio.» «Non una parola.» «Problemi finanziari?» «Non saprei.» E girammo intorno all'argomento per un'altra decina di minuti. A volte cogli una persona a mentire, a volte no. Qualsiasi bugia, non importa quanto piccola, è significativa. Non coglievo realmente Tobin a contraddirsi, ma ero quasi certo che conoscesse i Gordon più intimamente di quanto volesse far sapere. Di per sé, questo non era significativo. «Saprebbe nominarmi», gli domandai, «qualcuno degli amici dei Gordon?» Rifletté un momento, poi rispose: «Bene, come dicevo, uno è il suo collega, il Capo Maxwell». Menzionò alcune altre persone di cui non riconoscevo i nomi. «In realtà», disse, «non conoscevo bene i loro amici o i loro colleghi. Come dicevo... be', lasci che mi esprima in modo esplicito: erano un po' dei tirapiedi. Ma erano attraenti, parlavano bene, e avevano professioni interessanti. Erano entrambi laureati. Diciamo che ciascuno di noi ricavava qualcosa dall'intesa... A me piace circondarmi di persone belle e interessanti. Sì.» 17 Mi diressi a ovest lungo Main Road, cercando di leggere il libretto di istruzioni del veicolo intanto che guidavo. Premetti alcuni tasti sul cruscotto e, voilà, tutti gli indicatori passarono dal sistema metrico a quello americano al cento per cento. È il massimo divertimento che si possa avere al volante di un'auto. Sentendomi ora tecnologicamente arricchito, volli accedere alla mia segreteria telefonica con il cellulare. «Dimmi tu», mormorai, «se quei pellegrini potessero vederci usare simili aggeggi lungo i loro antichi villaggi e fattorie...» La segreteria disse: «Hai tre messaggi». Uno doveva essere di Beth. Ascoltai, e il primo era di Max, per reiterare che non ero più incaricato del caso e chiedermi di richiamarlo, cosa che non avevo alcuna intenzione di fare. Il secondo era di Dom Fanelli. Diceva: «Ciao, J.C. Ho avuto il tuo messaggio. Se ti serve aiuto laggiù, devi solo fare un fischio. Nel frattempo, sto mettendo insieme alcuni indizi su quelli che ti hanno usato come bersaglio, perciò non vorrei piantar lì tutto a meno che tu non abbia davvero bisogno di me. Perché tanta gente vuole far
fuori il mio buon amico? Ehi, ho parlato con Wolfe personalmente, e non la beve che non eri tu alla televisione. Dice d'essere informato del contrario. Vuole che tu risponda a qualche domanda. Il mio consiglio è di ascoltare le chiamate. È tutto per ora. Amico bello, occhio all'uccello.» «Grazie.» L'ultimo messaggio non era di Beth ma, per l'appunto, del mio superiore, Tenente Investigativo Andrew Wolfe. Non diceva molto, salvo: «Vorrei che mi richiamassi il più presto possibile». Minaccioso. Mi domandavo se Nash e Wolfe si conoscessero davvero. L'essenziale, però, era che indubbiamente Nash aveva detto a Wolfe che, in effetti, si era trattato di John Corey alla televisione, e John Corey stava lavorando a un caso di omicidio quando si sarebbe dovuto trovare in permesso per convalescenza. Erano tutte dichiarazioni vere, e supponevo che Andrew Wolfe, volesse una spiegazione da me. Sapevo di poterla dare su com'ero stato coinvolto nel caso, ma il difficile sarebbe stato spiegare al Tenente Andrew Wolfe, perché era un figlio di buona donna. Tutto considerato, sarebbe stato meglio non richiamare. Forse avrei dovuto parlare con il mio avvocato. Non c'è buon'azione che resti impunita. Insomma, sto cercando di essere un buon cittadino, e l'uomo che mi ha convinto a far questo, il mio amico Max, mi spreme il cervello, mi tira in un dannato match con i Federali, poi si riprende il distintivo. In verità, non mi ha mai dato un distintivo. E Beth non ha telefonato. Continuavo a rammentare a me stesso d'essere un eroe, benché non sia certo di quanto sia eroico farsi sparare. Quand'ero bambino, i soli eroi erano quelli che sparavano ai cattivi. Ora chi prende una malattia, o è tenuto in ostaggio, o si becca qualche pallottola è un eroe. Ma se avessi potuto sfruttare la faccenda dell'eroe per tirar fuori il sedere dall'acqua bollente, di sicuro l'avrei fatto. Il problema era che gli eroi creati dai media hanno una durata di tre mesi al massimo. A me avevano sparato a metà aprile. Forse conveniva telefonare all'avvocato. Ero nel villaggio di Cutchogue ora, mi avvicinavo al centro, che rischi di oltrepassare senza accorgertene se non presti attenzione. Cutchogue è caratteristico, lindo e prospero come la maggior parte di questi villaggi, in parte grazie alla produzione vinicola, penso. C'erano lunghi striscioni tesi attraverso Main Street per annunciare un'intera serie di eventi, come l'Annual East End Seaport Maritime Festival e un concerto al faro di Horton in cui si producevano gli Isotope Stompers. Non fatemi domande. Bene, l'estate era ufficialmente finita, ma la stagione autunnale riservava
ancora molto ai residenti e al piccolo numero di turisti. Sospettavo sempre che a novembre vi fosse un grande party solo per quelli del luogo, intitolato: «Festa d'addio della North Fork ai turisti e che il Diavolo se li porti». Stavo insomma guidando molto lentamente, cercando la sede della Peconic Historical Society che, ricordavo, era più o meno lì intorno a Main Road. Sul lato meridionale della strada c'era il Cutchogue Vìllage Green che, stando al cartello, vantava la casa più antica dello Stato di New York, 1649 circa. Sembrava promettente, e guidai lungo un sentierino che tagliava a metà il green, il grande tappeto d'erba. C'era, al di là del green, un certo numero di antichi edifici in pietra e rivestiti di assicelle, che per fortuna non avevano gogne, sgabelli d'immersione, o altre esibizioni pubbliche della giustizia di stile coloniale. Finalmente, a breve distanza dal green del villaggio, vidi una grande casa bianca, una vera e propria dimora patrizia con alte colonne bianche sul davanti. Sul prato, un cartello di legno stile Chippendale annunciava: «Pecomc Historical Society». Più sotto diceva «Museo», poi il gift shop, o negozio di souvenir, diventava «Gift Shoppe». Due «p» e una «e». Appeso a due corte catene c'era un altro cartello che dava i giorni e le ore in cui il museo e il Gift Shoppe erano aperti. Dopo il primo di settembre, le ore erano limitate a weekend e giornate festive. C'era un numero di telefono sul cartello, e chiamai. Mi rispose la segreteria telefonica, una voce di donna che suonava come se fosse stata registrata nel 1640 e si dilungava su orari, eventi e così via. Mai disposto a farmi scoraggiare dai programmi altrui, scesi dall'auto, salii i gradini del grande porticato, e bussai con il battente d'ottone. Diedi una buona bussata, ma sembrava che non ci fosse nessuno, né c'erano macchine nel piccolo parcheggio laterale. Risalii sul mio mezzo e feci il numero della mia nuova amica, Margaret Wiley. Rispose e dissi: «Buongiorno, signora Wiley. Parla il detective Corey». «Sì.» «Lei ieri accennava al visitare il museo della Peconic Historical Society, e io ci stavo appunto pensando. Crede che sarebbe possibile andarci oggi e magari parlare con qualcuno dei funzionari... com'era il nome della presidente? Witherspoon?» «Whitestone. Emma Whitestone.» «Ah, sì. Sarà possibile oggi?» «Non saprei...»
«Non potrei telefonare a Emma Whitestone...» «La chiamerò io. Può darsi che acconsenta a riceverla lì al museo.» «Benissimo. Apprezzo molto...» «Dove posso raggiungerla?» «Facciamo cosi. La richiamerò io tra dieci minuti o un quarto d'ora. Sono in macchina, e devo fermarmi a comperare un regalo per mia madre. È il suo compleanno. Ehi, immagino che avrete un gift shop nel museo.» «L'abbiamo.» «Magnifico. A proposito, ho parlato con zio Harry e gli ho dato i suoi saluti.» «Grazie.» «Anche lui la saluta tanto, e ha detto che avrebbe piacere di venirla a trovare quando verrà qui.» Non accennai al pisello morto di zio Harry. «Lo rivedrò volentieri.» «Fantastico. Okay, sarei davvero grato se la signora Whitestone o qualche altro dirigente dell'associazione potesse ricevermi in mattinata.» «Farò quello che posso. Può darsi che debba farlo io stessa.» «Non voglio che si disturbi. E grazie per l'aiuto di ieri.» «Prego.» Per poco trascuravo di dirlo. «Tra un quarto d'ora. La richiamo.» «La sua amica è con lei?» «La mia collega?» «Sì, quella di ieri.» «Mi raggiungerà tra poco.» «È una donna deliziosa. È stato un piacere parlare con lei.» «Stiamo per sposarci.» «Che idea infelice.» Riagganciò. Oh, be'. Ingranai la marcia, ed ecco di nuovo la voce femminile, che mi diceva: «Togli il freno a mano», cosa che feci. Armeggiai un poco con il computer, cercando di cancellare quei consigli, aspettando di sentirmi dire: «Perché vuoi eliminarmi? Non ti piaccio? Sto solo cercando di aiutarti». Metti che le portiere si bloccassero e il pedale del gas andasse giù a tavoletta? Gettai il libretto delle istruzioni nel vano del cruscotto. Mi diressi a sud, svoltando su Skunk Lane, nome delizioso, poi al di là della sopraelevata per fare ritorno a Nassau Point. Passai davanti alla casa dei Gordon e notai la jeep bianca di Max fuori della scena del crimine. Andai a fermarmi nel viale d'accesso dei Murphy, così da non essere visto dalla casa dei Gordon.
Mi portai direttamente sul retro della casa dei Murphy e li vidi entrambi nella stanza della televisione, un'estensione tutta a vetri dell'edificio originale. La tele era accesa, e io bussai sulla porta a rete. Edgar Murphy si alzò, mi vide e venne ad aprire. «Di nuovo qui?» «Sì. Le rubo solo un minuto del suo tempo.» Mi fece segno di entrare. La signora Murphy si alzò e mi rivolse un tiepido saluto. La tele rimase accesa. Per una frazione di secondo mi ritrovai nella casa dei miei genitori, in Florida: stessa stanza, stesso programma, stesse persone, in sostanza. A ogni modo, dissi loro: «Descrivetemi l'auto bianca sportiva che avete visto qui accanto in giugno». Ci si provarono entrambi, ma le loro capacità descrittive erano limitate. Alla fine, mi cercai in tasca una penna, afferrai un giornale e li pregai di tracciare la sagoma dell'auto, ma dissero di non esserne capaci. Tracciai io il profilo di una Porsche. Non sarebbe permesso pilotare un teste in questo modo, ma che diavolo! Annuirono entrambi. Il signor Murphy disse: «Siii, ci siamo. Una linea grassoccia. Come una vasca da bagno capovolta». La signora Murphy fu d'accordo. Estrassi di tasca il dépliant dei Vigneti Tobin e lo piegai in modo da mostrare soltanto una piccola fotografia in bianco e nero di Fredric Tobin, il proprietario. Non lasciai che vedessero l'intero opuscolo perché avrebbero detto a tutti che, secondo la polizia, Tobin aveva assassinato i Gordon. I Murphy studiarono la foto. Ripeto, questo si chiama davvero influenzare il teste, mostrandogli una sola foto senza mescolarla con altre, ma non avevo né tempo né pazienza per rispettare la procedura. Non dissi, a ogni modo: «È questo l'uomo che avete visto nell'auto sportiva?» Fu in compenso la signora Murphy a dire: «Questo è l'uomo che vidi in quell'auto sportiva». Murphy fu d'accordo. «È un sospetto?» mi domandò. «No, no. Bene, scusate se vi ho disturbato di nuovo.» Poi m'informai: «Qualcuno ha cercato di farvi domande su questo caso?» «Nessuno.» «Ricordatevelo, non dovete parlare con nessuno salvo che col Capo Maxwell, con me e con il detective Porrose.» «Dov'è?» domandò subito Murphy. «La Penrose? A casa. Soffre di nausee, al mattino.» «È incinta?» domandò Agnes. «Di circa un mese», replicai. «Okay...» «Non aveva la fede», osservò Agnes.
«Sa come sono queste ragazze d'oggi.» Scossi con tristezza la testa, poi conclusi: «Okay, grazie ancora». Me la svignai in fretta, risalii sulla mia Jeep e partii. A quanto sembrava, Fredric Tobin era stato dai Gordon almeno in una occasione. Tuttavia, sembrava che non ricordasse la visita fatta in giugno. Ma forse non era lui. Forse era un altro signore con barba in una Porsche bianca. Forse, avrei dovuto scoprire perché il signor Tobin mentiva. Provai di nuovo a sentire la segreteria, e c'erano due nuove chiamate. La prima era di Max, che diceva: «John, parla il Capo Maxwell. Forse non sono stato chiaro riguardo alla tua posizione. Non lavori più per la città. Okay? Ho avuto una telefonata dai legali di Fredric Tobin, e non sono molto soddisfatti. Capito? Non so esattamente di che cosa abbiate discusso tu e il signor Tobin, ma quello è l'ultimo colloquio ufficiale che dovrai avere con lui. Chiamami». Interessante. Io cerco solo di dare una mano, e quelli del luogo pensano solo a sbarazzarsi di me. La seconda chiamata era della mia ex, il cui nome è Robin Paine, il che le si addice, e che vedi caso è anche lei un legale. Diceva: «Ciao, John, parla Robin. Voglio ricordarti che il nostro anno di separazione termina il primo di ottobre, data dalla quale saremo legalmente divorziati. Riceverai copia del decreto per posta. Non hai niente da fare o da firmare. È automatico». Qui dava alla voce un tono più gaio. «Bene, non potrai più commettere adulterio dopo il primo ottobre, a meno che non ti risposi. Ma non risposarti prima d'avere ricevuto il decreto, o sarà bigamia. Ti ho visto alla tele. Sembra un caso affascinante. Stammi bene.» Certo! Robin, tra parentesi, un tempo era un viceprocuratore di Manhattan, ed ecco come l'avevo conosciuta. Eravamo dalla stessa parte. Lei però era passata dall'altra, accettando un ben rimunerato incarico presso un noto penalista al quale piaceva il suo stile in aula. Forse gli piaceva qualcosa di più dello stile ma, a parte questo, nel nostro matrimonio si era instaurato un conflitto di interessi. Io cercavo di mettere la malavita in galera e la donna con cui dormivo cercava di rimetterla in affari. L'ultima goccia era stata quando lei aveva assunto la difesa di un trafficante di droga ad alto livello il quale, a parte i suoi problemi americani, era ricercato in Colombia per avere ucciso un giudice. Insomma, signora mia, d'accordo che qualcuno deve pure assumerla e che il denaro fa gola, ma mi sentivo sfidato dal lato matrimoniale. Così le avevo detto: «O me o il tuo impiego», al
che lei aveva risposto: «Forse dovresti cambiarlo tu, l'impiego», e intendeva dire: il suo studio legale aveva bisogno di un investigatore privato e lei voleva che quel posto lo accettassi io. Mi figuravo nei panni di segugio per lei e per quel pagliaccio del suo principale. Magari a servire loro il caffè, tra un incarico e l'altro. Bene, bene. Divorzio, prego. A parte questi piccoli conflitti di camera, un tempo ci eravamo amati davvero. A ogni modo, il primo di ottobre, lei diventava ufficialmente ex, e io perdevo ogni occasione d'essere un adultero o un bigamo. La vita è proprio ingiusta, a volte. Al di là della sopraelevata e lungo Main Road, diretto nuovamente verso il villaggio di Cutchogue, chiamai Margaret Wiley. Disse: «Ho trovato Emma nel suo negozio di fiori, ed è già in viaggio verso la sede della Peconic Historical Society». «Davvero gentile, da parte della signora, dedicarmi il suo tempo.» «Le ho detto che riguardava l'uccisione dei Gordon.» «Be', non sono certo che sia così, signora Wiley. Ero soltanto curioso di...» «Può discuterne con lei. La sta aspettando.» «Grazie.» Riagganciò, credo, prima che lo facessi io. A ogni modo, ritornai alla sede dell'associazione e parcheggiai nel piccolo lotto accanto a un furgone con la scritta «Whitestone - Fiorista». Andai verso il portone, dove c'era un post-it giallo vicino al battente che diceva: «Signor Corey, entri, prego». Così, eseguii. La casa, come ho detto, era grande, della metà dell'Ottocento circa, ed era la tipica residenza di un ricco mercante o di un capitano di lungo corso. L'atrio era vasto, e a sinistra c'era un grande salotto, a destra la sala da pranzo. Dappertutto c'erano cose antiche, naturalmente, in gran parte cianfrusaglie, se volete la mia opinione, ma probabilmente valevano un occhio. In casa non vedevo e non sentivo nessuno, così presi a vagare di stanza in stanza. Non era un vero e proprio museo nel senso di mostra di oggetti; era solo una casa dell'epoca tutta arredata. In giro non vedevo niente di sinistro, nessun quadro di chiese in fiamme alle pareti, niente candele nere, né pentagrammi o gatti neri ricamati, e in cucina non c'era il calderone delle streghe. Non sapevo bene neanch'io perché ero lì, eppure qualcosa mi ci aveva attirato. D'altro canto, forse ero in preda a un sovraccarico geriatrico, e il pensiero di parlare con un'altra settuagenaria era più di quanto potessi af-
frontare. Avrei dovuto aprire la bottiglia di vino Tobin e scolarmela in parte, prima dell'incontro con la signora Whitestone. Intanto, avevo trovato il gift shop - il Gift Shoppe - che un tempo doveva essere una cucina estiva, penso, e vi entrai. Le luci erano spente, ma dalle finestre entrava quella del sole. I souvenir percorrevano l'intera gamma, dai libri di pubblicazione locale al locale artigianato, oggetti indiani, ricami a piccolo punto, erbe disseccate, fiori secchi, tè di erbe, profumi floreali, candele (nessuna nera), acquerelli, altre piastrelle dipinte, pacchetti di sementi e così via. Cosa se ne fa la gente di tutto quel ciarpame? Presi in mano un pezzo di tavolato di granaio annerito dalle intemperie sul quale qualcuno aveva dipinto un antico veliero. Mentre studiavo il dipinto, sentii che qualcuno stava osservandomi. Mi voltai verso l'entrata del negozio e ferma là c'era una bella donna sulla trentina, che mi fissava. «Cerco Emma Whitestone», dissi. «Lei dev'essere John Corey.» «Infatti. Sa se c'è?» «Sono io Emma Whitestone.» La giornata volgeva al meglio. «Oh», dissi. «Mi aspettavo una persona più anziana.» «Io mi aspettavo una persona più giovane.» «Oh.» «Margaret mi aveva parlato di un giovanotto. Ma lei è più vicino alla mezz'età, credo.» «Be'...» Venne verso di me e mi porse la mano. «Sono la presidente della Peconic Historical Society. Cosa posso fare per lei?» «Ecco... non lo so.» «Nemmeno io.» Okay, ve la descrivo: alta - solo due o tre centimetri più bassa di me magra ma ben fatta, capelli castani lunghi fino alle spalle lavati ma non stirati, trucco leggero, niente smalto sulle unghie, niente gioielli, niente anelli matrimoniali o di fidanzamento. E non aveva molto addosso, tra l'altro: solo un abitino estivo di cotone beige lungo fino al ginocchio, tenuto su da due minuscole spalline. Sotto quel succinto indumento c'era ben poco in fatto di biancheria. Di certo niente reggiseno, ma intravedevo i contorni di un paio di mutandine bikini. Inoltre, era a piedi nudi. Se mi figuravo la signora Whitestone nell'atto di vestirsi, quel mattino, si era infilata le mu-
tandine e il vestito, si era data appena un tocco di rossetto, una veloce pettinata ai capelli, e questo era tutto. Poteva sicuramente uscire da quell'insieme in quattro secondi. Meno, con il mio aiuto. «Signor Corey? Sta pensando a come potrei esserle utile?» «Sì, sì. Solo un secondo.» Non era eccessivamente in carne, ma era disegnata per la velocità e forse per la durata. Aveva begli occhi grigi e la faccia, a parte l'essere graziosa, era a prima vista innocente. Mi ricordava fotografie di figlie dei fiori che avevo visto negli anni Sessanta, ma forse il pensiero era dettato dal fatto che era una fiorista. A un secondo sguardo, notavi una tranquilla sensualità nei suoi lineamenti. Davvero. Dovrei accennare anche al fatto che aveva una bella abbronzatura uniforme, e questo dava alla sua pelle un color caffellatte. Insomma, una donna bella e sensuale. Emma Whitestone. «Ha a che fare con i Gordon?» «Sì.» Posai il pezzo di legno dipinto e domandai: «Li conosceva?» «Sì. Eravamo in termini di cordialità, se non amici.» Poi aggiunse: «È stato orribile». «Sì.» «Ha qualche... indizio?» «No.» «Ho sentito per radio che potrebbero avere rubato un vaccino.» «Così sembra.» Rifletté un momento, poi disse a me: «Lei li conosceva». «Esatto. Come lo sa?» «Avevano fatto il suo nome alcune volte.» «Ah, sì? Con simpatia, mi auguro.» «Con molta simpatia.» E soggiunse: «Judy aveva proprio un debole per lei». «Davvero?» «Non lo sapeva?» «Forse.» Volevo cambiare quell'argomento, così dissi: «Lei ha, per caso, un elenco dei soci?» «Certo. L'ufficio è di sopra. Stavo sbrigando un po' di lavoro quando è arrivato lei. Mi segua.» La seguii. Usava un'essenza alla lavanda. Mentre procedevamo attraverso le stanze, dissi: «Bella casa». Si voltò a lanciarmi un'occhiata e rispose: «Dopo le farò fare un tour personale».
«Fantastico. Peccato non avere con me la macchina fotografica.» Salimmo l'ampia scalinata ricurva, io leggermente più indietro di lei. Le mutandine erano davvero ridottissime. Inoltre, aveva bei piedi, se la cosa può interessare. Al piano superiore, mi condusse in una stanza che descrisse come il salotto di sopra. Mi invitò a sedere in una poltrona dall'alto schienale vicino al caminetto, cosa che feci. «Posso offrirle una tazza di tè alle erbe?» «Ne ho bevuto già diverse tazze, grazie.» Sedette su un dondolo di legno di fronte a me e accavallò le gambe lunghissime. «Che cosa esattamente le serve, signor Corey?» «John. La prego, mi chiami John.» «John. La prego, mi chiami Emma.» «Bene, Emma», cominciai, «vorrei prima di tutto farle alcune domande sulla Peconic Historical Society. Di che si tratta?» «Di storia. La North Fork ha un certo numero di associazioni storiche locali, quasi tutte con sede in edifici storici. Questa è la più grande di tutte e si chiama Peconic, dal nome indiano di questa regione. Abbiamo circa cinquecento soci. Alcuni sono persone in vista, altri sono semplici agricoltori. Ci dedichiamo a preservare, registrare e trasmettere il nostro retaggio.» «E a scoprire dell'altro su quel retaggio.» «Sì.» «Attraverso l'archeologia.» «Sì. E la ricerca. Abbiamo alcuni interessanti archivi, qui.» «Potrei vederli, in seguito?» «In seguito potrà vedere tutto quello che vuole.» Sorrise. Oh, cuore mio. Cos'era, una presa in giro, o faceva sul serio? Le sorrisi. Mi sorrise di nuovo. Torniamo a noi. «I Gordon erano membri attivi?» le domandai. «Sì». «Quando si erano iscritti?» «Circa un anno e mezzo fa. Si erano trasferiti qui da Washington. Erano del Midwest, ma avevano lavorato per il governo a Washington. Immagino che lei questo lo sappia». «Discutevano mai del loro lavoro, con lei?» «Direi di no.» «È mai stata a casa loro?»
«Una volta.» «Aveva rapporti sociali con loro?» «Di tanto in tanto. La Peconic Historical Society fa molta attività sociale. È una delle ragioni per le quali si erano iscritti.» Le domandai, con certa malizia: «Tom era sessualmente attratto da lei?» Invece di mostrarsi offesa o scandalizzata, replicò: «Probabile». «Ma lei non ha avuto rapporti sessuali con lui?» «No. Non me l'ha mai chiesto.» Mi schiarii la gola. «Capisco...» «Senta, signor Corey... John. Spreca il suo tempo e il mio con questo genere di domande. Non so chi abbia assassinato i Gordon o perché, ma non aveva niente a che fare con me o con un triangolo sessuale che mi riguardasse.» «Non ho detto che avesse a che fare. Sto solo esplorando eventuali fatti sessuali come parte di un'indagine più vasta.» «Bene, non dormivo con lui. Penso che fosse fedele. Era fedele anche lei, per quanto ne so. È difficile avere una relazione, qui, senza che tutti lo sappiano.» «Forse così la vede lei.» Mi contemplò un momento, poi mi domandò: «Aveva forse rapporti con Judy?» «Non li avevo, no, signora Whitestone. Questa non è una soap opera. È un'indagine su un duplice omicidio, e le domande le faccio io.» «Non sia così permaloso.» Feci un profondo respiro e dissi: «Le chiedo scusa». «Io voglio che lei trovi l'assassino. Faccia le sue domande.» «Bene. Okay... lasci che le domandi questo... quale è stato il suo primo pensiero nel sentire che li avevano assassinati?» «Non lo so. Credo d'avere pensato che avesse a che fare con il loro lavoro.» «Bene. Ora che cosa pensa?» «Non ho un'opinione.» «Mi riesce difficile crederlo.» «Ne riparleremo.» «D'accordo.» Ancora non sapevo bene dove volessi arrivare con quel colloquio, o che cosa stessi cercando in particolare. Ma avevo un'immagine nella mente, una sorta di mappa, e sopra c'erano Plum Island, Nassau Point, le rupi dominanti lo Stretto di Long Island, i Vigneti Tobin e la Pe-
conic Historical Society. Se collegavo quei punti con una linea, ottenevo una forma geometrica a cinque lati senza alcun significato. Se però quei punti venivano collegati in modo metafisico, forse la forma un senso l'aveva. Mi spiego: qual era l'elemento comune di quei cinque punti? Forse non esisteva; ma in un certo senso sembravano collegarsi, sembravano condividere qualcosa. Cosa? Pensavo a quel qualcosa che aveva fatto ping nella mia testa su Plum Island. La storia. L'archeologia. Quello, era. Ma quello cosa? Domandai alla signora Whitestone: «Conosce qualcuno di quelli che lavorano su Plum Island?» Ci pensò un momento, poi replicò: «In realtà, no. Ci lavorano alcuni dei miei clienti. A parte Tom e Judy, non conosco nessuno degli scienziati, e nessuno di loro fa parte dell'associazione». Poi aggiunse: «Sono un gruppo piuttosto chiuso. Se ne stanno per conto loro». «Sa qualcosa degli scavi proposti su Plum Island?» «Soltanto che Tom Gordon aveva promesso all'associazione un'occasione di scavare sull'isola.» «Non s'interessa di archeologia, lei?» «Poco. Preferisco il lavoro d'archivio. Ho un diploma in archivistica della Columbia University.» «Davvero? Io insegno alla John Jay», che in effetti è una cinquantina di isolati a sud della Columbia. Finalmente avevamo qualcosa in comune. «Che cosa insegna?» «Criminologia e ceramica.» Sorrise. Agitò gli alluci. Accavallò nell'altro senso le gambe. Beige. Le mutandine erano beige come il vestito. Ero al punto di dover quasi accavallare le mie, di gambe, per paura che la signora Whitestone notasse che Sir John stava svegliandosi dal suo pisolino. Amico bello, occhio all'uccello. «Archivistica», dissi. «Affascinante.» «Può esserlo. Ho lavorato per un poco alla Stony Brook, poi ho trovato un impiego qui nella biblioteca pubblica di Cutchogue. Fondata nel 1841, e pagano ancora lo stesso stipendio. Io sono cresciuta qui, ma è duro guadagnarsi da vivere quaggiù, a meno di non avere un'attività commerciale. Posseggo un negozio di fiori.» «Sì, ho visto il furgone.» «Ah, già. Lei è un detective.» Poi domandò: «Che cosa ci fa da queste parti?»
«Sono in convalescenza.» «Ah, è vero. Ora ricordo. Ma ha un bell'aspetto.» L'aveva anche lei, ma non è permesso fare la corte a una teste, così non ne parlai. Aveva una bella voce morbida, di gola, che trovavo sexy. «Conosce Fredric Tobin?» le domandai. «Chi non lo conosce?» «Appartiene alla Peconic Historical Society.» «È il nostro massimo benefattore. Offre vino e denaro.» «S'intende di vini, lei?» «No. E lei?» «Sì. Riconosco la differenza tra un Merlot e una Budweiser. A occhi bendati.» Sorrise. «Scommetto», dissi, «che un sacco di gente vorrebbe essersi messa nel vino anni fa. Nell'affare, intendo.» «Non lo so. È interessante, ma non così redditizio.» «Per Fredric Tobin lo è», feci notare. «Fredric vive molto al di sopra dei suoi mezzi.» Mi feci attento. «Perché dice questo?» «Perché è così.» «Lo conosce bene? Personalmente?» «Lei lo conosce personalmente?» domandò a me. In verità non mi piace che mi si interroghi, ma procedevo su uno strato di ghiaccio molto sottile. Come sono caduti in basso i potenti. «Ero a una delle sue serate di degustazione. Questo luglio. C'era, lei?» «C'ero.» «Io ero con i Gordon.» «Infatti. Credo d'averla vista.» «Io no, non l'ho vista. Me ne sarei ricordato.» Sorrise. Tornai a domandare: «Fino a che punto lo conosce bene?» «In realtà, abbiamo avuto rapporti.» «In che senso?» «Nel senso che eravamo amanti, signor Corey.» Sentirlo mi lasciava deluso. Ciò nonostante, mi attenni ai fatti. «Quando, questo?» «È cominciato... be', un paio d'anni fa, ed è durato... È rilevante, la cosa?»
«Può rifiutarsi di rispondere a qualsiasi domanda.»; «Questo lo so.»; «Che cos'è successo al vostro rapporto?» le domandai. «Niente. Fredric fa semplicemente collezione di donne. Era durato circa nove mesi: non un record per nessuno dei due, ma neanche male. Visitammo Bordeaux, la Loira, Parigi. Weekend a Manhattan. È stato bello, in complesso. Lui è molto generoso.» Ci rimuginai su. Cominciavo a provare un certo interesse per Emma Whitestone, ed ero un po' seccato che Fredric mi avesse preceduto alla scatola dei biscotti. «Sto per farle una domanda personale, e lei non è tenuta a rispondere. D'accordo?» «D'accordo.» «Siete ancora...? Quello che voglio dire è...» «Fredric e io siamo ancora amici. Lui ha una convivente, ora. Sondra Wells. Fasulla da capo a piedi, nome compreso.» «Già. Tobin vive al di sopra dei propri mezzi, mi diceva.» «Sì. Deve un piccolo patrimonio alle banche e agli investitori privati. Spende troppo. La cosa triste è che ha molto successo, e probabilmente potrebbe vivere benissimo dei suoi guadagni se non fosse per Foxwoods.» «Foxwoods?» «Sì. Sa, la casa da gioco indiana. Nel Connecticut.» «Ah, sì. Gioca?» «Se gioca! Ci andai con lui, una volta. Perse quasi cinquemila dollari in un weekend. Blackjack e roulette.» «Mioddio. Spero che avesse un biglietto di ritorno per il traghetto.» Foxwoods. A Orient Point si prende il traghetto con macchina al seguito a bordo fino a New London, oppure la linea diretta traghetto più autobus per Foxwood, si fa baldoria, e si è di ritorno a Orient Point la domenica sera. Un piacevole diversivo dalla settimana lavorativa della North Fork e, se non eri schiavo del gioco, ti divertivi, perdevi o guadagnavi qualche centinaio di dollari, cenavi, ti godevi uno spettacolo, dormivi in una bella stanza. Un buon weekend per una coppia. Molti di quelli del luogo, tuttavia, disapprovavano qualcosa che sapeva di peccato. Ad alcune mogli non piaceva che il consorte dissipasse il denaro della spesa. Ma, come ogni altra cosa, era una questione di misura. Così, Fredric Tobin, posato ed elegantissimo viticoltore, uomo apparentemente equilibrato, era un giocatore d'azzardo. Ma, a pensarci bene, c'era gioco d'azzardo più rischioso dell'annuale vendemmia? La verità era che la
produzione vinicola era ancora sperimentale, lì, e finora era andato tutto bene. Niente parassiti, niente malattie, né periodi di gelo o di calura. Un giorno o l'altro, però, l'uragano Annabella o Zeke avrebbe soffiato un miliardo di chicchi nello Stretto di Long Island, trasformandolo nel più grande tino mai visto. E poi c'erano Tom e Judy, che giocavano d'azzardo con piccoli germi patogeni. Avevano provato a puntare su qualcos'altro e avevano perduto. Fredric puntava sulla vendemmia e vinceva, poi provava con le carte e la roulette e perdeva a sua volta. Domandai alla signora Whitestone: «Sa se i Gordon andassero mai con Tobin a Foxwoods?» «Non credo. Non saprei, però. È passato quasi un anno da quando Fredric e io ci siamo lasciati.» «Certo. Ma siete ancora amici. Parlate ancora.» «Siamo amici, sì. A lui non piace che le sue ex amanti gli portino rancore. Vuole tenersele amiche tutte. La cosa è interessante, alle feste. Lui ama essere in una stanza con decine di donne con cui ha fatto sesso.» A chi non piace? «E pensa che ci fosse qualcosa tra il signor Tobin e la signora Gordon?» «Di sicuro non lo so, ma non credo. Lui non corre dietro alle mogli.» «Galante, eh?» «No, no, fifone. Mariti e fidanzati lo terrorizzano. Deve avere avuto una brutta esperienza, in passato.» Fece una risatina, nel suo modo un po' gutturale. «In ogni caso», soggiunse, «preferiva avere Tom Gordon come amico che Judy Gordon come amante.» «E come mai?» «Non lo so. Non ho mai capito l'attaccamento di Fredric per Tom Gordon.» «Pensavo fosse proprio il contrario.» «Lo pensavano in molti, questo. Ma era Fredric ad andare in cerca di Tom.» «Perché?» «Non lo so. Da principio, pensavo che fosse un modo per arrivare a Judy, ma poi venni a sapere che Fredric non se le fa, le mogli. Poi, immaginai che avesse a che fare con le attrattive dei Gordon e con il loro lavoro. Fredric è un collezionista di persone. Si vede come il personaggio sociale chiave della North Fork. Non è il più ricco, ma le cantine gli danno un certo prestigio. Capisce?»
Assentii. A volte scavi per giorni e settimane e non trovi niente. A volte trovi l'oro. Ma qualche volta è oro matto. Voglio dire, tutto questo era affascinante, ma era rilevante per un duplice omicidio? Inoltre, non era per caso un'esagerazione? Una piccola vendetta da parte della signora Whitestone? Non sarebbe stata la prima ex amante che mi mandava a fiutare lungo la pista sbagliata allo scopo di rendere la vita difficile all'altra parte in causa. Così le domandai di punto in bianco: «Pensa che Fredric Tobin possa avere ucciso i Gordon?» Mi guardò come se fossi impazzito, poi disse: «Fredric? Non è capace di violenza di alcun genere». «Che cosa ne sa?» Lei sorrise e replicò: «Sa il cielo se gli davo ragioni sufficienti di mollarmi uno schiaffo». E aggiunse: «Non era nella sua indole. Aveva un perfetto controllo del suo temperamento e dei suoi stati d'animo. E perché mai avrebbe dovuto uccidere Tom e Judy Gordon?» «Non lo so. Non so nemmeno peché siano stati uccisi. Lei sì?» Per qualche istante non rispose, poi disse: «Per droga, forse». «Perché pensa questo?» «Be'... Fredric era preoccupato per loro. Si facevano di coca.» «Glielo ha detto lui?» «Sì.» Interessante. Tanto più che Fredric con me non ne aveva parlato, e che non c'era un granello di verità. So come si presenta e come agisce chi fa uso di cocaina, e i Gordon non erano cocainomani. Perché allora Tobin doveva accollare loro una simile nomea? «Quando glielo ha detto?» le domandai. «Non molto tempo fa. Qualche mese al massimo. Disse che erano andati da lui per sapere se voleva procurarsi un po' di roba buona. La smerciavano per pagarsi l'abitudine.» «Lei ci crede?» Accennò una stretta di spalle. «È possibile.» «Okay... per tornare al rapporto di Tobin con i Gordon. Secondo lei, era lui a cercarli e a coltivare la relazione.» «Sembrava proprio così. Nei nove mesi in cui sono stata con lui, non so quante volte li avrà chiamati al telefono, e raramente dava un party senza invitarli.» Ci pensai su. Questo non collimava certo con quanto Tobin aveva detto a me. A lei domandai: «Qual era, dunque, l'attrazione che Tobin provava
per i Gordon?» «Non lo so. Ma so che dava a tutti l'impressione che le cose stessero esattamente al contrario. Lo strano è che i Gordon sembravano dargli corda, come se si sentissero onorati d'essere in compagnia di Fredric. Eppure, le poche volte in cui eravamo solo noi quattro, si vedeva benissimo che si consideravano suoi pari. Capisce?» «Sì. Ma perché quella commedia, allora?» Tornò a stringersi nelle spalle. «Chi lo sa?» Mi fissò per un momento, poi disse: «Era quasi come se i Gordon stessero ricattando Fredric. Come se lo avessero in pugno, in qualche modo. In pubblico, lui era il gran personaggio. In privato, Tom e Judy lo trattavano con molta familiarità». Ricatto. Lasciai filtrare il concetto per un buon mezzo minuto. «Le mie sono solo congetture», disse Emma Whitestone. «Ipotesi. Non lo dico per spirito vendicativo o altro. Ho passato un buon periodo con Fredric, e mi piaceva, ma non ne ho sofferto quando lui ha troncato la relazione.» «Bene.» La fissai, e i nostri sguardi si incontrarono. «Ha parlato con Fredric dopo l'omicidio?» «Sì. Ieri mattina. Mi ha chiamato lui.» «Che cos'ha detto?» «Niente di più di quello che dicono gli altri. Le solite frasi.» Ci addentrammo un po' nei particolari di quella conversazione telefonica e, in effetti, sembrava standard e pro forma. «Le ha telefonato, oggi?» «No.» «Sono stato da lui, stamattina.» «Davvero? Perché?» «Non lo so.» «Non sa nemmeno perché è qui, mi sembra.» «Infatti.» Non volevo spiegare d'essere privo di potenziali testimoni dopo Plum Island e i Murphy, di essere escluso dall'incarico e di dover quindi intervistare persone che la polizia della contea non pensasse di interrogare. Non stavo esattamente raschiando il fondo del barile, bensì operando in un certo senso ai margini della folla. «Conosce qualcuno degli amici dei Gordon?» «Non frequentavo in realtà gli stessi ambienti, salvo quando eravamo con Fredric. E in tal caso erano amici suoi.» «Il Capo Maxwell non era un amico loro?»
«Penso di sì. Altro rapporto che non sono mai riuscita a spiegarmi proprio come non potevo spiegarmi quello dei Gordon con Fredric.» «Pare che non mi sia facile trovare amici dei Gordon.» «Da quello che posso intuire, i loro amici sono tutta gente di Plum Island. Non è così insolito. Gliel'ho detto: sono un gruppo piuttosto chiuso.» Poi aggiunse: «Le andrebbe meglio se li cercasse là invece che qui». «È probabile.» «Che impressione le ha fatto Fredric?» mi domandò. «Un uomo delizioso. Mi sono goduto la sua compagnia.» Il che era vero. Ma ora sapevo che s'era fatto la signora Whitestone, ed ero ancora più convinto che non esisteva giustizia sessuale al mondo. «Ha gli occhi piccoli e vividi.» «E sfuggenti, anche.» «È vero.» Poi le dissi: «Potrei chiederle un favore?» «Sentiamo.» «Potrebbe non dirgli della nostra conversazione?» «Non gli riferirò i particolari. Ma che abbiamo parlato glielo dirò.» Poi aggiunse: «Non mento, io. Ma so tenere le cose per me». «È tutto quello che chiedo.» A Manhattan, non ci sono tutte le relazioni incrociate che esistono qui. Dovevo tenerlo presente, venirci a patti e regolare di conseguenza il mio stile. Ma sono sveglio, e posso farlo. A quel proposito, domandai a Emma Whitestone: «Immagino che conosca il Capo Maxwell». «Chi non lo conosce?» «È mai uscita con lui?» «No. Ma lui me l'ha chiesto.» «Non le piacciono i piedipiatti?» Rise. Tornò ad agitare gli alluci e accavallò di nuovo le gambe. Povero me. Girammo intorno ai vari argomenti per un altro quarto d'ora o press'a poco, ed Emma Whitestone offriva un sacco di pettegolezzi, molta capacità di penetrazione negli individui, sebbene poco di quello che diceva sembrasse in relazione con il caso. Il problema era che ancora non sapevo che cosa ci facessi, lì, però mi piaceva starci. Sebbene, dovrei aggiungere, mi comportassi da gentiluomo. Corteggiare un agente femmina è permesso perché, da pari a pari, lei può dirti di andare a quel paese. Con le borghesi, però, specie con quelle che potrebbero ritrovarsi davanti al procuratore distrettuale, bisogna andarci piano, onde evitare di compromettere se stessi o
la testimone. Ciò nonostante ero interessato. No, non sono una banderuola. Spasimavo sempre per Beth. «Posso usare il suo telefono?» domandai alla signora Whitestone. «Prego. È di là.» Andai nella stanza attigua, ed era come passare dal diciannovesimo secolo nel ventesimo. Quello era il vero ufficio dell'associazione storica, completo di mobili d'ufficio moderni, schedari, fotocopiatrice e via dicendo. Usai un telefono su una delle scrivanie e chiamai la mia segreteria. C'era un solo messaggio. Una voce maschile disse: «Detective Corey, parla il detective Collins della polizia della Contea di Suffolk. Il detective Penrose mi ha chiesto di chiamarla. È in riunione e ne avrà per molto. Dice che non può vederla questo pomeriggio, e che la chiamerà stasera o domani». Fine del messaggio. Sotto una delle scrivanie c'era un paio di sandali di cuoio, molto probabilmente di Emma Whitestone. Ritornai da lei, ma non mi sedetti. Emma Whitestone mi guardò e domandò: «Qualcosa non va?» «No, no. Dov'eravamo?» «Non so.» Guardai l'orologio, poi le domandai: «Possiamo finire il discorso mentre facciamo colazione?» «Certo.» Si alzò. «Prima le farò fare un giro della casa.» E mi fece strada, stanza dopo stanza. La maggior parte di quelle di sopra era usata per uffici, magazzinaggio, reperti e archivi, ma c'erano un paio di stanze da letto dall'arredo molto antico. Una, a sentire Emma, era della metà del Settecento, e l'altra della stessa epoca della casa, ossia metà Ottocento. «La casa», mi spiegò, «è stata costruita da un capitano di lungo corso che aveva fatto la sua fortuna nel Sudamerica.» «Cocaina?» «No, sciocco. Pietre semipreziose del Brasile. Il Capitano Samuel Farnsworth.» Provai a saggiare il letto bitorzoluto. «Se lo fa qui, un sonnellino?» Sorrise. «A volte. È un materasso di piume.» «Piume di falco pescatore?» «Può darsi. Un tempo ce n'erano dappertutto.» «Stanno tornando in forze, pare.» «Tutto sta tornando in forze. Quei maledetti cervi si sono divorati i miei rododendri.» Mi condusse fuori della stanza e disse: «Voleva vedere gli archivi».
«Sì.» Mi mostrò quella che probabilmente era un tempo una camera di notevoli dimensioni, e che adesso era riempita da schedari, mensole e da un lungo tavolo di quercia. «Abbiamo libri e documenti originali, qui», mi spiegò, «che risalgono alla metà del Seicento. Atti, lettere, testamenti, decisioni legali, sermoni, ordinanze militari, manifesti e registri di bordo. Alcuni sono davvero affascinanti.» «Come è finita in un campo del genere?» «Be', immagino abbia qualcosa a che fare con l'essere cresciuta qui. La mia stessa famiglia risale ai primi coloni.» «Non sarà imparentata con Margaret Wiley, spero.» Sorrise. «Abbiamo legami di famiglia. Non le è piaciuta Margaret?» «Non faccio commenti.» «Il lavoro d'archivio», continuò, «dev'essere un po' come il lavoro d'indagine. Sa: misteri, domande cui rispondere, cose che hanno bisogno d'essere scoperte. Non crede?» «Sì, sì, ora che mi ci fa pensare.» Poi aggiunsi: «Per dirle la verità, da ragazzino volevo fare l'archeologo. Avevo trovato una palla di moschetto, più o meno da queste parti. Non ricordo dove. Ora che sono vecchio e infermo», conclusi, «forse dovrei dedicarmi al lavoro d'archivio». «Oh, non è poi così vecchio. E potrebbe piacerle. Posso insegnarle io a leggere questa roba.» «Non è in inglese?» «Sì, salvo che l'inglese del Seicento e del Settecento può essere difficile. L'ortografia è atroce e la grafia è a volte ardua da decifrare. Ecco, guardi qui.» Mi offrì una cartella per fogli che stava sul tavolo. Dentro c'erano buste di polistirolo e nelle buste antiche pergamene. Fece passare alcune buste e disse: «Legga questo». Mi chinai sul volume e guardai la scrittura sbiadita. Lessi: «Cara Marma, non credere alle voci su me e la signora Farnsworth. Sono leale e fedele. E tu? Il tuo affezionato marito, George». Lei rideva. «Non dice affatto così.» «Così sembra.» «Dia qua, leggo io.» Tirò il raccoglitore verso di sé e disse: «Questa è una lettera di un certo Philip Shelley al governatore reale, Lord Bellomont, datata 3 agosto 1698». Lesse la lettera, che a me era parsa indecifrabile. Era zeppa di espressioni come «my lords» e «vostro umile servo». Il tizio si lamentava di un'ingiustizia riguardante una controversia sulla sua terra.
Sì, insomma, quella gente aveva attraversato l'oceano per trasferirsi su un nuovo continente e si ritrovava con le stesse grane che aveva a Southwold con la «w». «Sono davvero impressionato», dissi alla signora Whitestone. «È una cosa da niente. Bastano pochi mesi e si impara. L'ho insegnata a Fredric in un paio di mesi, e sì che ha una scarsissima capacità di concentrazione.» «Ma pensa!» «Il linguaggio non è così difficile come la scrittura e l'ortografia.» «Già.» Poi le domandai: «Può darmi la lista dei soci?» «Certo.» Andammo nell'ufficio, e lei mi diede un elenco in brossura dell'associazione, poi si infilò i sandali. «Come l'ha avuto questo incarico?» domandai. Alzò le spalle. «Non lo so neanch'io... È solo una scocciatura. Si è trattato di un'altra delle stupide idee da arrampicatore sociale di Fredric. Io ero l'archivista, qui, cosa che facevo volentieri. Poi lui ha proposto me come presidente, e Fredric quello che vuole lo ottiene. In più, sono sempre l'archivista. Fiorista, presidente e archivista della Peconic Historical Society.» «Ha appetito?» «Come no! Mi lasci solo chiamare il negozio.» Telefonò, e io girellai un poco per l'ufficio. La sentii dire, sottovoce: «Potrei non essere di ritorno, questo pomeriggio». No, signora Whitestone, potrebbe non esserlo se avrò qualcosa da dire in proposito. Riagganciò e scendemmo. Lei disse: «Abbiamo piccoli party e ricevimenti, qui. È piacevole, a Natale». «A proposito: andrà alla serata del signor Tobin, sabato?» «Può darsi. Lei ci andrà?» «Pensavo di andarci. Per senso del dovere.» «Perché non lo arresta davanti a tutti», suggerì lei, «e non lo porta via in manette?» «Sarebbe divertente, solo non penso che abbia fatto qualcosa di male.» «Io sono certa che qualcosa di male l'ha fatto.» Mi fece strada fino alla porta d'entrata, e uscimmo all'esterno. Faceva un po' più caldo, ora. Lei chiuse a chiave e tirò via l'adesivo giallo. «Guiderò io», dissi. Avviai il mio veicolo con il telecomando. «Comodo, quell'aggeggio lì», disse lei. «Ottimo per far detonare bombe d'auto da lontano», assicurai.
Lei rise. Io non scherzavo affatto. Prendemmo posto nel mio automezzo sportivo, e ingranai la retromarcia, lasciando di proposito la portiera accostata. La voce femminile disse: «La portiera dal lato del conducente è aperta». «Questo è un optional sciocco», sentenziò Emma. «Lo so. Ha la stessa voce della mia ex moglie. Sto cercando di eliminarla. La voce, non la mia ex moglie». Emma giocherellò con i tasti del computer, domandandomi intanto: «Da quanto tempo è divorziato?» «In effetti, sarà ufficiale solo dal primo di ottobre. Nel frattempo, sto cercando di evitare l'adulterio e la bigamia.» «Dovrebbe esserle facile.» Non sapevo bene come prenderla, quella risposta. Mi portai fuori dall'area di parcheggio e dissi: «Che cosa le piace? Scelga lei». «Perché non rimaniamo in atmosfera e andiamo in una locanda storica? Che ne direbbe della General Wayne Inn. La conosce?» «Penso di sì. Non è il locale dove andava John Wayne?» «Ma no, sciocco. Anthony Wayne il Pazzo. Aveva dormito lì.» «Era stato questo a farlo impazzire? Il materasso tutto gnocchi?» «No... non l'affascina la storia?» «Sono del tutto privo di indizi.» «Anthony Wayne il Pazzo era un generale della Guerra d'Indipendenza. Era a capo dei Green Mountain Boys.» «Giusto. Il loro famoso pezzo era "Il mio cuore è in fiamme e tu mi stai seduta sul tubo".» Emma Whitestone rimase un poco silenziosa, domandandosi, ne sono certo, se avesse preso la decisione giusta. Alla fine, disse: «È sul Great Hog Neck. La dirigerò io». «Okay.» E via andammo verso un posto chiamato General Wayne Inn, sito in un luogo chiamato Great Hog Neck. Sì, dico, potevo inserirmi in quello scenario? Sentivo la mancanza di Manhattan? Difficile dirlo. Se avessi avuto bei soldoni, potevo bazzicarli entrambi. Ma non ho bei soldoni. Il che mi richiamò alla mente Fredric Tobin, il quale, a quanto pare, neppure lui aveva bei soldoni, e mentre io lo invidiavo, figurandomelo in cima al mondo - uva, bambole, dollari - venivo a scoprire che era al verde. Peggio, pieno di debiti. Per un uomo come Fredric Tobin, perdere tutto sarebbe equivalso a perdere la vita. Tanto valeva per lui essere già morto. Ma non lo era. Tom e Judy sì, erano morti. C'era un nesso? Poteva darsi. La
cosa stava facendosi interessante. Ma il mio tempo stava per scadere. Potevo giocare al piedipiatti per altre quarantott'ore al massimo, prima di venire bloccato dal Dipartimento di Polizia di Southold, dal Dipartimento di Polizia di New York, e dal Dipartimento di Polizia della Contea di Suffolk. Mentre io ruminavo, la signora Whitestone stava dandomi indicazioni. Alla fine, mi domandò: «Ci dicono la verità riguardo al vaccino?» «Penso. Sì.» «Tutto questo non avrà a che fare con la guerra batteriologica?» «No.» «O la droga?» «Non che io possa stabilirlo.» «Con una rapina?» «Sembra così, ma secondo me ha a che fare con un vaccino rubato.» Chi dice che non so fare il gioco di squadra? Posso divulgare balle ufficiali bene come chiunque altro. «Lei ha un'altra teoria?» domandai alla signora Whitestone. «No, non ce l'ho. Ho soltanto la sensazione che siano stati uccisi per qualche motivo che ancora non comprendiamo.» Ed era esattamente quello che pensavo io. In gamba, la signora. «È mai stata sposata?» le domandai. «Sì. Mi ero sposata giovanissima, al second'anno di università. È durato sette anni.» Poi aggiunse: «E da sette sono divorziata. Faccia un po' il conto». «Ha venticinque anni.» «Come ha fatto a ottenere venticinque?» «Ne ha quarantadue?» Rispose: «Svolti a destra, qui. La destra è verso di me». «Grazie.» Era un percorso piacevole, e ben presto ci ritrovammo su Great Hog Neck, che è poi un'ennesima penisola protesa sulla baia, alquanto a nordest di Nassau Point, talvolta chiamata Little Hog Neck. Ho notato che da queste parti ci sono tre fonti principali per i nomi delle località: indigeni americani, coloni inglesi e agenti immobiliari. Questi ultimi hanno mappe con bei nomi che inventano per sostituire nomi orribili come Great Hog Neck. Oltrepassammo un piccolo osservatorio, il Custer Institute, che la signora Wiley aveva nominato, e venni messo al corrente su quello e sull'Ame-
rican Indian Museum proprio di fronte all'osservatorio. «I Gordon», domandai a Emma, «s'interessavano di astronomia?» «No, che io sapessi.» «Sapeva che avevano comprato un acro di terra dalla signora Wiley?» «Sì.» Esitò, poi disse: «Non era certo un buon affare». «Perché volevano quel terreno?» «Non lo so... Per me, proprio non aveva senso.» «Fredric sapeva che i Gordon avevano comperato quella terra?» «Sì.» Poi portò il discorso sui dintorni immediati e disse: «Quella è la casa Whitestone originale. Del 1685». «Ancora della famiglia?» «No, ma ho intenzione di ricomperarla.» Poi aggiunse: «Fredric avrebbe dovuto aiutarmi, ma... Ecco come mi resi conto che non era così ricco come sembrava». Non feci commenti. Come Nassau Point, Hog Neck era in gran parte cottage e qualche casa più nuova di villeggiatura, in genere rivestita di assicelle grige per assomigliare a quelle d'epoca. C'erano alcuni campi che a sentire Emma erano stati terra da pascolo comune fin dai tempi coloniali, e qui e là c'erano boschi. «Sono cordiali gli indiani?» domandai. «Non ci sono indiani.» «Spariti tutti?» «Spariti tutti.» «Salvo quelli che nel Connecticut hanno aperto il complesso più grande di case da gioco da qui a Las Vegas.» «Io ho sangue in parte indigeno», disse lei. «Davvero?» «Davvero. Un sacco di famiglie ce l'hanno, ma preferiscono non farlo sapere. Certi vengono addirittura da me a chiedermi di far sparire parenti dagli archivi.» «Incredibile.» Sapevo che c'era qualcosa di politicamente corretto da dire ma, ogni volta che cercavo di dirlo, sbagliavo. Cambia di settimana in settimana, intendo dire. Andai sul sicuro con: «Razzisti». «Razziali, se non necessariamente razzisti. A ogni modo, a me non importa che si sappia, se ho sangue indiano. La mia bisnonna materna era una Corchaug.» «Be', lei ha un gran bel colore.» «Grazie.»
Stavamo avvicinandoci al grande edificio di assicelle bianche che sorgeva su alcuni acri di terreno alberato. In effetti ricordavo d'averlo visto un paio di volte, da bambino. Ho nella mente questi ricordi d'infanzia di luoghi, scene estive di nature morte, un po' come diapositive viste attraverso un mirino. «Penso», dissi alla signora Whitestone, «d'avere mangiato qui con i miei quand'ero un bimbetto.» «Possibilissimo. Il posto ha duecento anni. Lei quanti ne ha?» Ignorai la domanda e m'informai: «Si mangia bene?» «Dipende.» Poi aggiunse: «L'ambiente è bello, e lontano dalle vie più battute. Nessuno ci vedrà e nessuno farà pettegolezzi». «Ben pensato.» Imboccai il viale d'ingresso a ghiaia, parcheggiai, e aprii di un spiraglio la mia portiera mentre il motore era ancora acceso. Un campanellino tintinnò e lo schema del mio automezzo mostrò una portiera socchiusa. «Ehi», dissi, «ha eliminato la voce.» «Non vogliamo che la voce della sua ex moglie la irriti.» Scendemmo dal veicolo e ci avviammo a piedi verso la locanda. Lei mi prese il braccio, cosa che mi sorprese. «Quando smonta di servizio?» domandò. «Ora.» 18 La colazione fu piuttosto piacevole. Il locale era quasi deserto ed era stato restaurato di recente. Così, se lasciavi galoppare la fantasia, era il 1784 e Anthony Wayne il Pazzo si aggirava a passi pesanti là intorno, ordinando un grog, che non so cosa sia. La cucina era fondamentalmente americana, il che fa appello ai miei gusti carnivori, e la signora Emma Whitestone si rivelava una ragazza fondamentalmente americana, senza niente di artefatto, cosa che faceva ugualmente appello ai miei gusti carnivori. Non discutemmo di omicidi, o di Lord Tobin, o d'altro di spiacevole. Lei la conosceva davvero la storia, e io ero affascinato da quello che stava dicendo. Be', forse esagero, ma la storia raccontata dalla voce un po' gutturale di Emma Whitestone non era più così difficile da accettare. Mi raccontò del reverendo Youngs, che nel 1640 aveva condotto lì il suo gregge dal Connecticut, e mi domandai a voce alta se avessero preso il traghetto per New London, cosa che mi procurò un'occhiataccia. Accennò al Capitano Kidd e ad altri pirati meno noti che avevano navigato in quelle
acque trecento anni prima, poi mi parlò degli Horton la cui fama era tenuta viva dal faro, uno dei quali aveva costruito quella stessa locanda. E poi fu la volta di un Generale della Guerra d'Indipendenza, Francis Marion, la Volpe delle paludi, dal quale, diceva lei, prendeva nome East Marion, benché io obiettassi che c'era probabilmente una città chiamata Marion in Inghilterra. Ma lei era sicura del fatto suo. Mi parlò degli Underhill, dei Turhill, e un po' dei Whitestone, autentici pellegrini del Mayflower, e di persone con nomi di battesimo come Abijah, Chauncey, Ichabod e Barnabas, per non parlare di Joshua, Samuel e Isaac, che non erano neppure ebrei. E così via. Ping! Mentre Paul Stevens mi aveva annoiato a morte con la sua voce generata da un computer, Emma Whitestone mi aveva stregato con i suoi toni per così dire aspirati, per non parlare dei suoi occhi grigioverde. A ogni modo, il risultato finale era il medesimo: avevo udito qualcosa che provocava una reazione ritardata nel mio cervello solitamente sveglio. Ping! Ascoltavo, sperando che lo dicesse di nuovo, qualsiasi cosa fosse, e cercavo di ricordare cos'era e perché pensavo che significasse qualcosa. Ma inutilmente. Stavolta, però, sapevo d'averlo sulla punta del cervello, e sapevo che ben presto ne sarei venuto a capo. Ping! Dissi a lei: «Avverto la presenza di Anthony Wayne il Pazzo, qui». «Davvero? Me ne parli.» «Ecco, è seduto a quel tavolo presso la finestra, e non ha fatto che scoccarle occhiate. A me rivolge sguardi feroci. Sta borbottando tra sé: "Cos'ha costui, poffare, che non haggìo?"» Sorrideva. «Lei è matto.» «Che mai non haggìo ordunque?» «Le insegnerò l'inglese del diciottesimo secolo, se la smette di fare il pagliaccio.» «Grazie a voi, signora.» Bene, senza che ce ne rendessimo conto, si erano fatte le tre, e il cameriere cominciava a stare sulle spine. Detesto interrompere l'energia e lo slancio di una caccia alle mutandine: detectus interruptus. È un fatto che le prime settantadue ore sono le più critiche. Ma un disgraziato deve rispondere a certi richiami biologici, e i miei campanelli stavano suonando. «Se ha tempo», dissi, «possiamo fare un giro con la mia barca.» «Ha una barca?» In realtà, non l'avevo, perciò poteva essere stato un errore tattico. Ma avevo una proprietà in riva al mare e un pontile, perciò potevo dire che la
barca era affondata. «Soggiorno a casa di mio zio», dissi. «Una tenuta sulla baia agricola.» «Una tenuta agricola sulla baia.» «Giusto. Andiamo.» Lasciammo la Generale Wayne Inn e ci dirigemmo verso casa mia, che è una ventina di minuti a ovest di Hog Neck. Mentre procedevamo verso ovest lungo Main Road, lei mi informò: «Questa un tempo si chiamava King's Highway. Le cambiarono nome dopo la Guerra d'Indipendenza». «Ottima idea.» «Lo strano è che la mia alma mater, la Columbia University, si chiamava King's College, e cambiarono anche quello dopo la Rivoluzione.» «Le dirò, se avremo un'altra rivoluzione, ci sono un sacco di nomi che mi piacerebbe cambiare.» «Per esempio?» «Be', prima di tutto, 72a Strada Ovest, dove sta il mio condominio. Preferirei chiamarlo Cherry Lane. È molto più carino. Poi c'è la gatta della mia ex moglie, Palladineve: vorrei cambiarle il nome in Gattamorta.» Continuai con alcuni altri cambiamenti, in caso di rivoluzione. Mi interruppe, in un certo senso, domandando: «Le piace, qui?» «Penso di sì. Voglio dire, è bello, ma non so se mi ci adeguo.» «Ci sono un sacco di persone eccentriche, qui», mi informò. «Non sono eccentrico. Sono matto.» «Ce n'è tanti anche di quelli.» Poi aggiunse: «Questo non è un angolo sperduto e rurale. Conosco agricoltori con tanto di laurea, conosco astronomi del Custer Institute, e ci sono produttori di vini che hanno studiato in Francia, e scienziati di Plum Island e dei laboratori Brookhaven, nonché accademici della Stony Brook University, artisti, poeti, scrittori e...» «Archivisti.» «Sì. Mi arrabbio quando la gente di città pensa che siamo dei provinciali.» «Questo io non lo penso di certo.» «Sono vissuta a Manhattan per nove anni. Non ne potevo più della città. Sentivo la mancanza di casa.» «Avvertivo una certa sofisticazione cittadina, in lei, unita a un fascino agreste. Lei è nel posto giusto.» «Grazie.» Avevo superato, penso, uno dei test più importanti lungo la via del mate-
rasso. Stavamo guidando tra fattorie e vigneti, ora, e lei disse: «L'autunno è lungo e sonnolento, qui. Gli alberi sono ancora carichi di frutti e molti ortaggi ancora non sono stati raccolti. Nel New England intorno al Giorno del Ringraziamento a volte nevica e noi stiamo ancora mietendo». Poi mi domandò: «Parlo a vanvera?» «No, tutt'altro. Sta dipingendo con le parole un bellissimo quadro.» «Grazie.» Ero adesso sul primo pianerottolo della scalinata che conduceva in camera. Fondamentalmente, mantenevamo entrambi tutto lieve e vago, come fanno quelli che in realtà sono un po' nervosi perché sanno che potrebbero essere diretti verso le lenzuola. A ogni modo, imboccammo il lungo viale della grande casa vittoriana, ed Emma disse: «Una grande farfalla». «Dove?» «La casa. È così che chiamiamo le vecchie case vittoriane.» «Ah. Giusto. A proposito, mia zia faceva parte della Peconic Historical Society. Era June Bonner.» «Suona familiare.» «Conosceva Margaret Wiley. In effetti», aggiunsi, «mia zia era nata qui, ecco perché aveva convinto zio Harry a prendere questa casa per l'estate.» «Com'era il nome da ragazza?» «Non lo so con certezza: forse Witherspoonhamtonshire.» «Sta scherzando sul mio nome?» «No, signora.» «Si faccia dire il nome da ragazza di sua zia.» «Senz'altro.» Mi fermai davanti alla farfalla. «Se è un'antica famiglia, posso cercarlo», disse lei. «Abbiamo un mare di informazioni sulle antiche famiglie.» «Sì? Molti scheletri negli armadi?» «A volte.» «Forse quelli della famiglia di zia June erano ladri di cavalli e prostitute.» «Può darsi. Sapesse quanti ce ne sono nel mio albero genealogico.» Risi. «Potrebbe darsi che la famiglia di sua zia e la mia fossero imparentate. Lei e io potremmo essere parenti acquisiti.»
«Possibile.» Ero in cima alle scale, ormai, la porta della stanza da letto era a meno di tre metri. In realtà, ero ancora nella Jeep. «Ci siamo», dissi, e scesi. Scese anche lei, e guardò la casa. «E questa è di sua zia?» disse. «Era. È morta. Mio zio Harry vuole che la comperi.» «È troppo grande per una sola persona». «Posso tagliarla a metà.» Okay, dentro casa, giro del piano terreno, controllo della segreteria nello studiolo - niente messaggi - poi in cucina per due birre e fuori in veranda e in due poltroncine di vimini. «Mi piace guardare il mare» disse lei. «Questo è un buon posto per farlo. Sono rimasto a sedere qui per alcuni mesi.» «Quando deve tornare al lavoro?» «Ancora non lo so. Mi hanno fissato la visita di controllo per giovedì prossimo.» «Come si è trovato coinvolto in questo caso?» «Il Capo Maxwell.» «Non vedo la sua barca», disse lei. Guardai verso il pontile traballante. «Oh, dev'essere affondata.» «Affondata?» «Ah, ora ricordo. È in cantiere per certe riparazioni.» «Che barca ha?» «Un... sette metri... un Boston Whaler...?» «Fa vela, lei?» «Intende dire, se vado in barca a vela?» «In barca a vela, sì.» «No. A motore. Lei fa vela?» «Un po'.» E così di seguito. Mi ero tolto la giacca e le scarpe e mi ero arrotolato le maniche. Lei si era liberata dei sandali, ed entrambi avevamo appoggiato i piedi nudi sulla ringhiera. Il suo succinto vestito beige era scivolato a nord delle ginocchia. Presi il binocolo, e facemmo a turno a contemplare la baia, le barche, i terreni paludosi - si chiamavano acquitrini quand'ero bambino io - il cielo e tutto il resto. Ero alla quinta birra, e lei si era tenuta al passo con me. Mi piace una donna che sa darci dentro allegramente. Era un tantino accesa ormai, ma la testa e la voce erano ancora limpide.
Aveva il binocolo in una mano e una Budweiser nell'altra. «Questo», disse, «è uno dei principali punti di raduno della rotta migratoria lungo la costiera atlantica, una sorta di stazione di sosta per gli uccelli migratori.» Scrutò attraverso il binocolo il cielo in lontananza e continuò: «Posso vedere nugoli di oche del Canada, lunghi stormi di smerghi e una fila ondulata di morette codone. Si fermano tutti fino a novembre, poi continuano verso sud. Il falco pescatore va a svernare in Sudamerica». «Bene.» Abbandonò il binocolo in grembo e rimase a fissare verso il mare. «Nelle giornate di tempesta», disse, «quando il vento soffia forte da nordest, il cielo diventa di un grigio argenteo e gli uccelli si comportano in modo strano. C'è una sensazione di arcano isolamento, una bellezza sinistra che dev'essere avvertita e udita oltre che vista.» Rimanemmo un poco silenziosi, poi io dissi: «Vuol vedere il resto della casa?» «Certo.» La mia prima tappa lungo il giro del piano di sopra fu la mia stanza da letto, e non andammo più in là di così. Le occorsero in pratica tre secondi per uscire dai suoi indumenti. Aveva una splendida abbronzatura da capo a piedi, un corpo sodo, ogni cosa esattamente dove doveva essere, ed esattamente come me l'ero figurata. Stavo ancora sbottonandomi la camicia e lei era già nuda. Mi osservò spogliarmi e fissò la fondina e il revolver che avevo alla caviglia. Molte donne, lo so per esperienza, non sopportano che un uomo sia armato, così dissi: «Questa devo portarla per legge», il che era vero a New York, ma non necessariamente qui. «Fredric gira sempre armato», mi rispose. Interessante. A ogni modo, ormai ero nudo, e lei mi si avvicinò e mi toccò il petto. «Cos'è, una bruciatura?» «No, un foro di proiettile.» Mi girai. «Vedi? Quello è il foro d'uscita.» «Mio Dio.» «È solo una brutta ferita. Ecco, guarda questa». Le mostrai la cicatrice d'entrata al basso ventre, poi mi girai di nuovo e le mostrai quella d'uscita sulla natica. La ferita di striscio sul polpaccio sinistro era meno interessante. «Hai rischiato di venire ucciso.» Accennai un'alzata di spalle. Sciocchezze, madame.
A ogni modo, ero contento che la donna delle pulizie avesse cambiato le lenzuola, contento d'avere dei preservativi nel tavolino da notte, e contento che Lui rispondesse bene a Emma Whitestone. Annullai la suoneria del telefono. Mi inginocchiai accanto al letto per dire le preghiere, ed Emma vi si infilò e avvolse poi le sue lunghe, lunghe gambe intorno al mio collo. Bene, senza entrare nei particolari, ci intendemmo a meraviglia e alla fine ci addormentammo, stretti l'uno nelle braccia dell'altro. Lei sapeva di buono e non russava. Quando mi svegliai, la luce sbiadiva al di là della finestra, ed Emma dormiva su un fianco, quasi arrotolata su se stessa. Avevo la sensazione di dovermi dedicare a qualcosa di più costruttivo del fare sesso pomeridiano. Ma cosa? In effetti ero come zavorrato, e a meno che Max e Beth non dividessero con me cose come il laboratorio di medicina legale, le autopsie e altro, dovevo procedere senza alcuno dei vantaggi tecnologici moderni della scienza di polizia. Mi servivano registrazioni telefoniche, rapporti sulle impronte digitali, mi serviva altro materiale su Plum Island, e dovevo avere accesso alla scena del crimine. Ma pensavo che non avrei ottenuto niente di tutto questo. Perciò, dovevo ricadere su lavoro di gambe, telefonate, colloqui con persone che potevano sapere qualcosa. Ero deciso a tenere duro, non importa a chi non piaceva l'idea. Contemplai Emma nella luce morente. Una donna bella di natura. E intelligente. Lei aprì gli occhi e mi sorrise. «Vedevo che stavi guardandomi.» «Sei piacevolissima da guardare.» «Hai un'amica, qui?» «No. Ma c'è qualcuno a Manhattan.» «Non m'importa di Manhattan.» «E tu?» le domandai. «Sono tra un impegno e l'altro.» «Bene.» Poi domandai: «Che ne diresti di cenare?» «Più tardi, magari. Posso preparare io qualcosa.» «Ho lattuga, senape, burro, birra e biscotti.» Si tirò su, si stirò e sbadigliò. «Mi serve una nuotata.» Rotolò fuori dal letto e si infilò il vestito. «Andiamo a nuotare.» «D'accordo.» Mi alzai e mi rimisi la camicia.
Scendemmo e, passando dallo studiolo da cui si usciva nella veranda, attraversammo il prato e arrivammo alla baia. Lei si guardò attorno. «È privato, qui?» «Sì, in complesso.» Si sfilò il vestito e lo gettò ai piedi del pontile. Feci lo stesso con la mia camicia. Lei avanzò con precauzione attraverso la spiaggia sassosa, poi si tuffò. La imitai. L'acqua era fredda dapprima, e mi tolse il respiro. Nuotammo oltre il pontile e verso la baia buia. Emma era una buona ed energica nuotatrice. Io sentivo la spalla destra irrigidirsi, e il polmone cominciava a sibilare. Avevo creduto d'essermi irrobustito, ma quello sforzo era troppo per me. Nuotai di nuovo verso il pontile e mi aggrappai alla vecchia scaletta di legno. Emma mi fu subito accanto per domandarmi: «Come va?» «Bene, bene.» Ci tenemmo a galla lì vicino al pontile. «Mi piace nuotare nuda», disse lei. «Non devi preoccuparti che qualcosa morda il tuo verme, tu.» «Vai a pesca?» «Ogni tanto.» «Puoi prendere passere nere anche pescando da questo pontile.» «Posso prenderle anche al supermarket.» «Se esci in barca di poche centinaia di metri, puoi prendere pagri, che sono buoni.» «E una costata dove posso prenderla?» «Non ti fa bene la carne di manzo.» «Tu hai mangiato un hamburger a colazione.» «Lo so. Ma non fa bene ugualmente.» E aggiunse: «E neppure fare sesso con gli sconosciuti». «Io sono un amante del rischio, Emma.» «Credo d'esserlo anch'io. Non ti conosco nemmeno.» «Per questo ti piaccio.» Si fece una risatina. In verità, quasi tutte le donne considerano i poliziotti sicuri. Se una donna incontra un poliziotto in un bar, voglio dire, è presumibile che non si tratti di un maniaco omicida, è probabile che sia sano come un corallo e qualche dollaro nel portafoglio ce l'ha di sicuro. Le donne non chiedono molto, al giorno d'oggi. Continuammo un poco a scherzare, baciandoci e tenendoci abbracciati, il
che è bellissimo, nudi, mezzo immersi e mantenendoci a galla. Mi piace l'acqua salata. Mi fa sentire pulito e leggero. Le misi una mano su quel sederino incredibile e l'altra sul seno, e continuammo a baciarci e a tenerci a galla. Da un pezzo non provavo qualcosa di così divertente. Lei mise una mano sul sedere mio e l'altra sul mio periscopio, che immediatamente si alzò. «Possiamo farlo in acqua?» domandai. «È possibile. Certo, bisogna essere in forma, riempire d'aria i polmoni per mantenersi a galla e, al tempo stesso... sai... farlo.» «Niente problemi. Il mio congegno di galleggiamento è abbastanza grande per tenerci a galla tutti e due.» Rise. Consumammo in effetti quell'acquatica impresa, spaventando probabilmente un sacco di pesci durante il procedimento. Il mio polmone stava veramente meglio. Dopo, rimanemmo entrambi distesi sul dorso e ci lasciammo galleggiare. «Guarda», commentai, «il mio timone è fuori dall'acqua.» Lei gettò un'occhiata verso di me e disse: «L'avevo preso per un albero maestro». Bene, basta frecciatine nautiche. Sollevai un poco la testa e guardai Emma fluttuare lontano dalla spiaggia con il riflusso della marea. Il suo seno faceva veramente pensare a due isolette vulcaniche nel chiaro lunare. «Guarda in su, John», disse lei. «Ci sono le stelle cadenti.» Guardai il cielo verso sud e le vidi anch'io. «Esprimi un desiderio», disse lei. «Okay, desidero...» «Non dirlo, altrimenti non si avvera.» «Si è già avverato, Emma. Io e te.» Be', è o non è una risposta romantica? E già avevamo fatto sesso: due volte. Quando la passione è spenta, quello che resta è insofferenza o amore. Penso che fosse amore. Lei non disse niente per alcuni secondi, poi: «È molto bello, quello che hai detto». «E dicevo sul serio.» Continuammo a galleggiare. Dopo un minuto o due, lei disse: «Guarda là in cielo, a est. Riesci a vedere la costellazione di Andromeda?» «No, senza gli occhiali.» «Proprio là. Guarda.» Tentò di collegare per me un certo numero di stelle, ma se lassù c'era qualcosa chiamato Andromeda, io non lo vedevo. Per compiacenza, dissi: «Ah, sì, l'ho vista. Porta i tacchi alti».
Emma diresse il mio sguardo ancora più a oriente, dicendo: «E là c'è Pegaso. Sai, il cavallo alato delle Muse». «Lo so. Speravo che vincesse nella quinta corsa a Belmont, sabato scorso. È arrivato quarto.» Emma aveva imparato a ignorarmi e continuò: «Pegaso era nato dalla spuma del mare e dal sangue della Medusa uccisa». «Questo sul programma delle corse non c'era.» «Vuoi farlo ancora, l'amore?» «Sì.» «Allora smettila di dire scemenze». «Consideralo fatto.» Ed ero sincero. E così, che notte! In alto una luna vivida e quasi piena, una brezza lieve, l'odore del mare e del salmastro, stelle che ammiccavano nel cielo violaceo, una bella donna, i nostri corpi che galleggiavano, sollevandosi e ricadendo sulle onde lente e ritmiche. Impossibile avere più di così. Tutto considerato, era certo molto meglio della mia esperienza alquanto spiacevole d'essere stato in punto di morte. Il che mi portò a pensare a Tom e a Judy. Fissai il cielo e mandai loro un pensiero affettuoso, una sorta di saluto e di addio, e la promessa che avrei fatto tutto il possibile per trovare il loro assassino. E li pregai di darmi per favore un suggerimento. Sarà dipeso, immagino, dalla sensazione di rilassamento totale, di appagamento sessuale, o forse dall'avere guardato le costellazioni, collegando i punti di luce: qualsiasi cosa fosse, ora li avevo: l'intero quadro, i ping, i punti, le linee, tutto si compose con una sorta di impeto, e il mio cervello correva così veloce che stentavo a tenermi al passo con i miei stessi pensieri. Urlai: «Ecco cos'è!» ed espirai tanta aria che finii sott'acqua. Ritornai a galla farfugliando, ed Emma era là accanto a me, preoccupata. «Stai male?» «Sto a meraviglia!» «Sei...?» «Gli alberi di Capitan Kidd!» «Cos'hanno?» L'afferrai per le braccia, e insieme ci tenemmo a galla. «Che cosa mi hai detto sugli alberi di Capitan Kidd?» «Ti ho detto che c'è una leggenda su Capitan Kidd, che avrebbe sepolto parte del suo tesoro sotto uno degli alberi nei pressi di Mattituck Inlet. Li chiamano gli Alberi di Capitan Kidd.»
«Stiamo parlando di Capitan Kidd il pirata, vero?» «Sì. William Kidd.» «Dove sono questi alberi?» «Proprio a nord di qui. Dove il braccio di mare sbocca nello Stretto. Perché vuoi...?» «Come c'entra Capitan Kidd? Cos'ha a che fare lui con questo posto?» «Non lo sai?» «No. Ecco perché te lo domando.» «Credevo lo sapessero tutti che...» «Io no, non lo so. Dimmelo.» «Bene, si suppone che il suo tesoro sia sepolto da qualche parte qui attorno.» «Dove?» «Dove? Se lo sapessi, sarei ricca.» Sorrise. «E non lo direi a te.» Gesù. C'era da impazzire. Tutto concordava... ma forse io ero totalmente in errore... No, maledizione, concordava. Tutto, concordava. Tutti quei pezzi sconnessi, tali da dare l'impressione che la Teoria del Caos regnasse sovrana, ora andavano a posto e diventavano la Teoria Unificata, che spiegava ogni cosa. «Certo...» «Ma stai bene? Sembri pallido o cianotico.» «Sto bene. Ho bisogno di bere qualcosa.» «Sì, anch'io. Il vento sta diventando gelido.» Nuotammo fino a riva, agguantammo i nostri indumenti e, nudi, riattraversammo di corsa il prato fino a casa. Procurai due pesanti accappatoi, poi recuperai la bottiglia di brandy dello zio e due bicchieri. Ci sedemmo in veranda, a bere e a contemplare le luci al di là della baia. Una vela scivolava sull'acqua, spettrale nel chiaro di luna, e lievi cirri bianchi si rincorrevano attraverso il cielo stellato. Che notte. Che notte. «Ci sto arrivando», dissi a Tom e Judy. «Ci sono vicino.» Emma mi lanciò un'occhiata e mi tese il bicchiere. Le versai altro brandy e dissi: «Parlami di Capitan Kidd». «Che cosa vorresti sapere?» domandò. «Tutto.» «Perché?» «Perché...? Sono affascinato dai pirati.» Mi studiò per qualche istante, poi domandò: «Da quando?» «Da quando ero bambino.» «Ha per caso a che fare con i due omicidi?»
Guardai Emma. Nonostante la nostra recente intimità, sì e no la conoscevo, e non sapevo se potessi fidarmi che tenesse le cose per sé. Mi rendevo anche conto d'essermi mostrato eccessivamente eccitato riguardo a Capitan Kidd. Cercando di mantenermi calmo, domandai: «In che modo Capitan Kidd potrebbe essere in relazione con l'uccisione dei Gordon?» Alzò le spalle. «Non lo so. Lo sto domandando a te.» «Sono fuori servizio, ora», dissi. «Sono soltanto curioso riguardo ai pirati e a cose del genere.» «Sono fuori servizio anch'io. Niente storia fino a domani.» «Okay. Ti fermi qui stanotte?» «Può darsi. Fammici pensare.» «Certo.» Misi della musica da ballo sul mio mangianastri, e danzammo lì nella veranda, in accappatoio e a piedi nudi, sorseggiando brandy e contemplando la baia e le stelle. Era una di quelle sere incantate, come dicono, una di quelle notti magiche che sono spesso preludio a qualcosa di non altrettanto felice. 19 La signora Emma Whitestone aveva deciso di passare la notte da me. Si alzò presto, trovò il collutorio, e gargarizzò tanto forte da svegliarmi. Fece la doccia, usò il mio asciugacapelli, si pettinò con le dita, trovò in borsetta un rossetto e del trucco per gli occhi, che si diede mentre se ne stava in piedi, nuda, davanti allo specchio del mio cassettone. Intanto che si infilava le mutandine inserì i piedi nei sandali, poi si fece scivolare addosso il vestito. Quattro secondi. Era una donna che non richiedeva né molta manutenzione né un gran bagaglio di accessori per passare una notte fuori casa. Mai mi succede che una donna sia pronta prima di me, e mi toccò fare la doccia a rotta di collo. Infilai i miei jeans più stretti, una camiciola bianca da tennis e le mie docksider. La calibro 38 la lasciai chiusa a chiave in un cassetto. Su consiglio della signora Whitestone, andammo in macchina fino al Cutchogue Diner, un'autentica icona del 1930. Il locale era zeppo di agricoltori, fattorini, mercanti locali, qualche turista, e forse un'altra coppia che stava cercando di conoscersi meglio durante la prima colazione, dopo avere fatto sesso.
Prendemmo posto a un piccolo séparé, e commentai: «La gente non spettegolerà nel vederti con lo stesso vestito che indossavi ieri?» «Hanno smesso di spettegolare sul conto mio già da qualche anno.» «E per quel che riguarda la mia reputazione?» «La tua reputazione, John, non può che guadagnarci per il fatto che ti vedono con me.» Eravamo un tantino caustici, quel mattino. Emma ordinò un'abbondante colazione di salsiccia, uova, frittelle e pane tostato, commentando che non aveva cenato la sera prima. «Te la sei bevuta, la cena», le rammentai. «Io mi ero offerto di andare a prendere una pizza.» «La pizza non ti fa bene.» «Quello che hai appena ordinato non fa bene a te.» «Salterò il pasto di mezzogiorno. Per cena che si fa?» «Appunto. Stavo per fare la stessa domanda». «Bene. Passa a prendermi alle sei al negozio.» «D'accordo.» Mi guardai attorno e scorsi due agenti in divisa di Southold, ma nessuna traccia di Max. Arrivarono le ordinazioni e mangiammo. Che bello quando sono gli altri a cucinare. «Perché eri tanto interessato a Capitan Kidd?» domandò Emma. «Chi? Ah... i pirati. Be', l'argomento è affascinante, no? Lui era proprio qui sulla North Fork. Comincia a tornarmi in mente, ora. Dai tempi in cui ero bambino.» Lei mi fissava. «Eri tutto eccitato, ieri sera.» Dopo l'agitazione iniziale della sera prima, che deploravo, avevo cercato di mostrarmi più calmo, come ho detto. Ma la signora Whitestone era ancora incuriosita dalla mia curiosità. «Se trovassi quel tesoro», le dissi, «lo dividerei con te.» «Questo è molto bello.» Nel tono più indifferente possibile, buttai là: «Mi piacerebbe tornare alla sede dell'associazione storica, oggi. Che ne dici di questo pomeriggio?» «Per fare che?» «Ho bisogno di comperare qualcosa per mia madre nel negozio di souvenir.» «Se ti iscrivi all'associazione, ti farò uno sconto.» «Bene. Non potrei passare a prenderti, diciamo, alle quattro?» Accennò una stretta di spalle. «Va bene.»
La contemplai attraverso il tavolino. Il sole le cadeva sulla faccia. A volte, il mattino dopo - e mi dispiace davvero doverlo dire - ma a volte ti domandi a che diavolo stavi pensando la sera prima, o peggio, ti domandi se ce l'avevi a morte con il tuo pistolino. Quel mattino, invece, la sensazione era bella. Mi piaceva Emma Whitestone. Mi piaceva il modo in cui stava facendo sparire due uova fritte, quattro salsicce, un mucchio di frittelle, toast imburrato, succo, e tè con panna. Lei lanciò un'occhiata all'orologio dietro il banco, e mi resi conto che non aveva neppure l'orologio. Quella donna era davvero uno spirito libero, e al tempo stesso era presidente e archivista della Peconic Historical Society. Un gran bel contrasto, pensavo. Un sacco di gente le sorrideva e la salutava, e vedevo bene che tutti l'avevano in simpatia. È sempre un buon segno. Se suona come se stessi innamorandomi per la seconda volta in quella settimana, potrebbe anche essere vero. Mi facevo domande sul modo di giudicare gli uomini di Emma Whitestone, in particolare Fredric Tobin e forse anche me. Forse non era molto portata a giudicarli, gli uomini, o le persone in generale. Forse gli uomini le piacevano tutti. Certo Fredric e io non potevamo essere più diversi di così. Ad attrarla in Fredric Tobin, probabilmente, era stato il rigonfio nella tasca posteriore dei calzoni mentre, nel caso mio, era stato di certo quello sul davanti dei calzoni. Sia come sia, chiacchierammo un poco, e io ero deciso a non toccare l'argomento dei pirati o di Capitan Kidd fino a quel pomeriggio. Alla fine, però, la mia curiosità ebbe la meglio. Un'idea peregrina mi passò per la mente e, chiesta in prestito una matita alla cameriera, scrissi 44106818 su un tovagliolo di carta. Lo girai verso Emma e dissi: «Se mi giocassi questi numeri, vincerei?» Sorrise tra un boccone di pane tostato e l'altro. «Jackpot», disse. «Dove hai trovato questi numeri?» «Li ho letti da qualche parte. Che cosa vogliono dire?» Si guardò attorno e abbassò la voce. «Bene, mentre Capitan Kidd veniva tenuto in carcere a Boston con l'accusa di pirateria, riuscì a far pervenire un biglietto a sua moglie Sarah, e in fondo al biglietto c'erano quei numeri.» «E con ciò?» «Con ciò sono trecento anni che tutti cercano di venirne a capo.» «Secondo te che significato hanno?» «La risposta più ovvia è che questi numeri si riferiscano al suo tesoro
sepolto.» «Non pensi che fosse il numero sui suoi slip mandati in lavanderia?» «Ricominciamo con le scemenze?» «Volevo solo scherzare. Capito? Scherzare.» Levò gli occhi al cielo. In verità, era un po' presto per fare dello spirito. Poi disse: «Non voglio discuterne qui. L'ultima ondata di Kidd-mania colpì questi posti negli anni Quaranta, e non voglio essere accusata di scatenare un'altra caccia al tesoro di massa». «D'accordo.» «Hai figli, tu?» mi domandò. «È probabile.» «Sii serio.» «No, non ho figli. E tu?» «Non ne ho. Ma mi piacerebbe.» E così via. Dopo un po' ritornai all'argomento dei numeri e, in un bisbiglio, le domandai: «Potrebbero essere coordinate di una mappa?» Era evidente che non voleva discuterne, ma replicò: «È la cosa più ovvia. Coordinate espresse in otto cifre. Minuti primi e secondi. Quelle coordinate corrispondono realmente a qualche punto attorno a Deer Isle, nel Maine». Si protese attraverso il tavolino e continuò: «I movimenti di Kidd, quando fece vela verso l'area di New York nel 1699, sono piuttosto ben documentati, giorno per giorno, da testimoni attendibili, per cui una tappa a Deer Isle per seppellire tesori era ben poco probabile». E aggiunse: «Tuttavia, c'è un'altra leggenda che riguarda Deer Isle. A quel che si suppone, John Jacob Astor trovò effettivamente il tesoro di Kidd o di qualche altro pirata su quell'isola, e da lì avrebbe avuto origine il patrimonio di Astor». Sorseggiò il suo tè e riprese: «Ci sono decine di libri, commedie, ballate, voci, leggende e miti intorno al tesoro sepolto di Capitan Kidd. Per il novantanove per cento sono appunto questo: miti». «D'accordo, ma quei numeri che Kidd scrisse alla moglie non sono un indizio concreto di qualcosa?» «Sì, qualcosa vogliono dire. Ma quand'anche fossero coordinate geografiche, la navigazione a quei tempi era troppo primitiva per individuare un punto del terreno con una certa precisione. Specie quanto alla longitudine. Coordinate di otto cifre di minuti primi e secondi possono sbagliare di centinaia di metri, usando i metodi disponibili nel 1699. Perfino oggi, con un sistema di navigazione satellitare, l'errore può andare da tre a sei metri. Se provi a cercare un tesoro, e sei fuori centro di sei metri, ne puoi scavare di
buche. Penso che l'ipotesi delle linee coordinate sia stata scartata in favore di altre.» «Per esempio?» Trasse un respiro esasperato, si guardò attorno e disse: «Be', ecco...» Prese matita e tovagliolo, diede a ciascun numero la lettera corrispondente dell'alfabeto e il risultato fu DDAOFHAH. «Penso che le ultime tre lettere siano la chiave», disse. «H-A-H?» «Esatto. Hah, hah, hah. Capito?» «Hah, hah.» Studiai le lettere, da sinistra a destra e viceversa. Poi capovolsi il foglio e dissi: «Kidd era dislessico?» Rise. «È tutto inutile, John. Per trecento anni cervelli migliori del tuo e del mio hanno cercato di decifrare quei numeri. Per quello che se ne sa, sono privi di significato. Uno scherzo. Hah, hah, hah.» «Ma perché?... Insomma, Kidd era in galera, accusato di un reato che comportava l'impiccagione.» «Be', d'accordo, non sono privi di significato e non si tratta di uno scherzo. Ma avevano un senso soltanto per Kidd e per sua moglie. Lei aveva potuto andare a trovarlo in cella alcune volte. Avevano parlato. Erano devoti l'uno all'altro. Lui potrebbe averle dato mezzo indizio verbalmente, e un altro indizio in una lettera che da allora è andata perduta.» La cosa era interessante. Come il genere di lavoro che faccio io, solo che quell'indizio risaliva a trecento anni prima. «Altre teorie?» le domandai. «Be', quella prevalente è che quei numeri rappresentino passi, che è poi il metodo tradizionale dei pirati per registrare la collocazione dei loro tesori nascosti.» «Passi?» «Sì.» «Passi da dove?» «È quello che la signora Kidd sapeva e tu no.» «Oh.» Guardai i numeri. «Sono un sacco di passi, questi.» «Anche lì, bisogna conoscere il codice personale. Potrebbe significare», guardò il tovagliolo, «quarantaquattro passi in una direzione di dieci gradi, e sessantotto passi in una direzione di diciotto gradi. O viceversa. Oppure, da leggersi all'incontrarlo. Chi può saperlo? Non ha importanza, se non conosci il punto di partenza.» «Pensi che il tesoro sia sepolto sotto una di quelle querce? Gli Alberi di Capitan Kidd?»
«Non lo so.» E aggiunse: «O il tesoro è stato trovato e la persona che l'ha trovato non l'ha fatto sapere al resto del mondo, o un tesoro non è mai esistito, oppure è ancora sepolto e rimarrà sepolto per sempre». «Tu che cosa pensi?» «Penso che dovrei andare ad aprire il mio negozio.» Accartocciò il tovagliolo e me lo ficcò nel taschino della camicia. Pagai il conto e uscimmo. Il ristorante era a cinque minuti dalla Peconic Historical Society dove Emma aveva lasciato il furgone. Andai a fermarmi nel parcheggio, e lei mi diede un rapido bacetto sulla guancia, come fossimo più che semplici amanti. «Ci vediamo alle quattro», disse. «Fiorista Whitestone, Main Road, Mattituck.» Scese, montò sul suo furgone, diede un colpetto di clacson, mi fece ciao con la mano e partì. Rimasi un poco seduto sulla Jeep, ad ascoltare le notizie locali. Mi sarei rimesso in strada, ma non sapevo dove andare. In verità, avevo esaurito la maggior parte dei miei appigli, e non avevo un ufficio dove poter tornare a sfogliare scartoffie. Non avrei ricevuto telefonate da testimoni, esperti di laboratorio e altri. Pochissime persone sapevano perfino dove mandarmi una soffiata anonima. In breve, mi sentivo come un investigatore privato, pur non avendo nemmeno la licenza per esserlo. Tutto considerato, a ogni modo, avevo fatto alcune sconcertanti scoperte da quando avevo conosciuto Emma Whitestone. Se avevo qualche dubbio sul perché i Gordon fossero stati assassinati, quel numero, 44106818, trovato tra le loro carte nautiche, avrebbe dovuto metterlo a tacere. D'altro canto, se anche era vero che Tom e Judy erano a caccia di un tesoro - e lo erano, non avevo alcun dubbio, basandomi su tutti gli indizi non ne seguiva di necessità che a causarne l'uccisione fosse stata la caccia al tesoro. Qual era il nesso dimostrabile tra i loro scavi archeologici su Plum Island e i proiettili attraverso le loro teste sul tavolato dietro casa? Chiamai la segreteria telefonica. Due messaggi: uno da Max, per chiedermi dove spedirmi il mio assegno da un dollaro, e un'altra dal mio capo, Tenente Wolfe, che ancora una volta mi esortava a chiamare con urgenza il suo ufficio, facendomi capire che ero nella merda e ci affondavo sempre più. Ingranai la marcia e mi misi in moto. A volte il solo fatto di guidare ti aiuta. Alla radio, l'annunciatore stava dicendo: «Un aggiornamento sul duplice omicidio dei due biologi di Plum Island a Nassau Point. La polizia di Southold e quella della Contea di Suffolk hanno rilasciato una comune dichia-
razione». Lo speaker la lesse, parola per parola. Dio, se in città avessimo potuto indurre i grossi papaveri della rete a leggere i nostri comunicati stampa senza commento, saremmo stati in paradiso quanto a pubbliche relazioni. La comune dichiarazione era un pallone stratosferico senza nessuno nella navicella salvo due cadaveri. Ribadiva come movente il furto di un vaccino per l'Ebola. Una dichiarazione separata dell'FBI diceva che ancora non si sapeva se gli assassini fossero stranieri o di casa nostra, ma si stavano seguendo alcune tracce interessanti. L'Organizzazione Mondiale della Sanità esprimeva rammarico per il furto di quel «vitale e importante vaccino» di cui c'era disperato bisogno in molti paesi del Terzo Mondo. E così via. La cosa che soprattutto mi mandava in bestia era che la versione ufficiale di quanto era accaduto avesse l'effetto di marchiare Tom e Judy come ladri cinici e senza cuore: prima rubavano tempo e risorse al loro datore di lavoro, poi, ottenuto in segreto un vaccino, ne rubavano la formula e presumibilmente alcuni campioni, che intendevano vendere per un enorme profitto. Nel frattempo, in Africa le persone stavano morendo a migliaia di quell'orribile male. Potevo figurarmi Nash, Foster, i quattro figurini che avevo visto scendere dal traghetto più una manica di tipi schiacciabottoni del Pentagono e della Casa Bianca, surriscaldare le linee telefoniche tra Plum Island e Washington. Non appena si era appreso che i Gordon si occupavano di vaccini geneticamente alterati, ecco che a quei cervelloni si era presentata la storia di facciata ideale. Per essere giusti, certo, volevano evitare il panico riguardo a un'eventuale pestilenza, ma ero pronto a scommettere la mia potenziale pensione di invalidità che non uno, a Washington, nell'architettare la storiella che li marchiava come ladri, si fosse preoccupato dei Gordon o delle loro famiglie. Il lato ironico, se di ironia si poteva parlare, era che Foster, Nash e il governo erano indubbiamente convinti che i Gordon avessero rubato uno o più germi da guerra batteriologica. L'intera banda di Washington, dal presidente in giù lungo la catena di comando, stava ancora dormendo con la tuta di contenimento sopra il pigiama. Bene. Brutti stronzi. A Cutchogue mi fermai per comperare un contenitore di caffè e un po' di giornali: il «New York Times», il «Post», il «Daily News», e il «Newsday» di Long IsJand. In tutt'e quattro i giornali, l'uccisione dei Gordon era stata relegata a poche righe nelle pagine interne. Perfino il «Newsday» non dedicava molta attenzione al fattaccio locale. Un sacco di gente, a Wa-
shington, era di certo felicissima che la storia stesse sbiadendo. E lo ero anch'io. Questo mi dava più mano libera di quanta ne dava a loro. E mentre Foster, Nash e soci cercavano agenti segreti e terroristi, io avrei seguito il mio istinto e i miei sentimenti riguardo a Tom e Judy Gordon. Ero felice e non troppo sorpreso di scoprire che quanto avevo pensato fin dal principio era vero: non si trattava di guerra batteriologica, né di narcotraffico, né di qualcos'altro di illegale. Be', di illegale sì, ma non troppo. A ogni modo, ancora non sapevo chi li avesse assassinati. Cosa altrettanto importante, sapevo che non erano criminali, e intendevo restituire a entrambi la loro reputazione. Finii il caffè, gettai i giornali sul sedile posteriore e mi rimisi in strada. Andai fino al Soundview, un motel sul mare degli anni Cinquanta. Entrai nell'ufficio e chiesi dei signori Foster e Nash. Il giovane al banco disse che i signori da me descritti avevano già lasciato le loro stanze. Guidai ancora un po': esito a dire senza meta ma, se non sai dove stai andando e perché, o sei un impiegato statale o sei senza meta. Comunque sia, decisi di arrivare fino a Orient Point. Era un'altra bella giornata, un po' più fresca e ventosa ma piacevole. Feci tappa alla stazione dei traghetti per Plum Island. Volevo controllare le auto nel parcheggio, vedere se c'era dell'attività insolita e magari se mi capitasse di imbattermi in qualcuno di interessante. Quando svoltai verso il parcheggio e mi avvicinai al cancello, una guardia di sicurezza di Plum Island si portò sul mio percorso e alzò una mano. Da quel cuore tenero che sono, non la travolsi. Si avvicinò al finestrino e domandò: «Posso esserle d'aiuto, signore?» Mostrai il mio distintivo e dissi: «Collaboro con l'FBI al caso Gordon». Studiò attentamente distintivo e tessera, e intanto io ne osservavo l'espressione. Ero sulla sua breve lista di sabotatori, spie e pervertiti, evidentemente, e non riusciva a prendere la cosa con sufficiente distacco. Mi fissò per qualche istante, si schiarì la gola e disse: «Se accosta qui, signore, vado a prenderle un pass». «Okay.» Mi spostai da un lato. Non mi ero aspettato un uomo della sicurezza al cancello, ed era stato un errore. Lui entrò nell'edificio di mattoni e io continuai, addentrandomi nel parcheggio. Ho problemi con l'autorità. La prima cosa che notai fu che c'erano due veicoli militari parcheggiati presso l'imbarco del traghetto. Potevo vedere due uomini in uniforme in ciascun veicolo e, nell'avvicinarmi, potei identificare loro e i loro mezzi
come appartenenti al Corpo dei Marine. Non avevo visto un solo automezzo militare su Plum Island il martedì mattina, ma il mondo era cambiato da allora. Scorsi anche una Caprice nera che poteva essere quella vista il martedì mattina con i quattro elegantoni a bordo. Presi nota del numero di targa. Poi, girando attorno al centinaio, suppergiù, di auto parcheggiate, vidi una Ford bianca con targa d'agenzia di noleggio, ed ero quasi certo potesse trattarsi della macchina che guidavano Foster e Nash. Grande attività a Plum Island quel giorno. Nessuno dei due traghetti era all'attracco o all'orizzonte e, a parte i Marine in attesa di caricare i loro mezzi su quello in arrivo, intorno non si vedeva nessuno. Salvo che, quando guardai nello specchietto laterale, vidi quattro - contatele, quattro - guardie di sicurezza in uniforme azzurra che correvano verso di me, urlando e facendomi cenni. Ovviamente avevo frainteso la guardia al cancello. Oh, povero me. Guidai il mio automezzo verso le quattro guardie. Potevo udirle ora urlare: «Alt! Alt!» Fortunatamente, non stavano portando la mano alla pistola. Volevo che il resoconto per i signori Foster e Nash fosse divertente, così guidai in circolo attorno alle quattro guardie, facendo loro segno di indietreggiare e gridando a mia volta: «Alt! Alt!» Eseguii un paio di otto, poi, prima che qualcuno chiudesse il cancello o si mettesse a sparare all'impazzata, filai verso l'uscita. Svoltai a tutta velocità su Main Road e, con l'acceleratore a tavoletta, ripardi verso ovest. Nessuno fece fuoco. Ecco perché amo questo paese. Tempo due minuti ed ero sulla stretta striscia di terra che collega Orient con East Marion. Avevo lo Stretto alla mia destra, la baia alla mia sinistra, e un sacco di uccelli nel mezzo. Il percorso dei migratori lungo la costiera atlantica. Ogni giorno si impara qualcosa di nuovo. D'improvviso, un grosso gabbiano bianco piombò verso di me dall'alto. Era un volo bellamente calcolato ed eseguito, una lunga picchiata ripida, seguita da un leggero raddrizzarsi che si concluse in un'altra discesa un po' meno ripida, poi dal rimettersi in assetto orizzontale e dal risalire; infine, con perfetto tempismo, il gabbiano mollò il suo carico, che si spiaccicò violaceo e verdognolo attraverso il mio parabrezza. Era una giornata fatta così. Misi in funzione i tergicristalli, ma il serbatoio del lavaggio era vuoto, e ora quella roba era spalmata attraverso tutto il mio campo visivo. Che schi-
fo! Mi fermai. «Maledizione.» Sempre ricco di risorse, presi la mia costosa bottiglia di Merlot Tobin dal sedile posteriore e tirai fuori il mio fidato coltello dell'Esercito svizzero, con cavatappi, dallo sportellino del cruscotto. Aprii il vino e versai parte del Merlot sopra il parabrezza, mentre i tergicristalli andavano da un lato e dall'altro. Un po' del vino lo bevvi. Non male. Ne versai altro sul parabrezza, poi bevvi ancora un po'. Un tale in un'auto di passaggio suonò un colpo di clacson e mi inviò un saluto. Per fortuna, la bomba era fatta più o meno di quel che era fatto il vino, e il parabrezza era ragionevolmente pulito, salvo un velo violaceo. Finii la bottiglia e la scaraventai sul sedile posteriore. Di nuovo in viaggio, pensai a Emma Whitestone. Sono il genere di individuo che sempre manda fiori il giorno dopo. Tuttavia, mandare fiori a una fiorista poteva essere ridondante. Per quello che ne sapevo, la mia ordinazione «Interflora» sarebbe passata attraverso il suo negozio. Avrebbe confezionato lei il bouquet e lo avrebbe offerto a se stessa. Basta scemenze, avrebbe detto Emma. Mi serviva un dono per lei. Neppure una bottiglia di vino Tobin sarebbe stata appropriata. Sì, insomma, dopo che erano stati amanti e via dicendo. Per di più, lei aveva accesso a tutto l'artigianato locale e l'altra paccottiglia dei negozi di regali di cui poteva avere bisogno. Povero me, stavolta non sapevo proprio come fare. Non amo comprare gioielli o indumenti per le donne, ma forse non mi restava altra scelta. Tornato sulla Main Road, mi fermai a una stazione di servizio e feci benzina. Riempii anche il serbatoio dei tergicristalli, lavai il parabrezza e investii in una mappa locale. Colsi inoltre l'occasione per fare una panoramica della strada e vedere se qualcuno fosse parcheggiato nei pressi, per tenermi d'occhio. Non sembrava che fossi seguito, e mi accorgo subito se qualcuno mi pedina, a parte l'incidente nella 102a Strada Ovest. Non pensavo di correre alcun pericolo. Per un attimo fui tentato di tornare a casa per prendere la mia pistola, poi decisi di lasciar perdere. Armato ora con nient'altro che una mappa e la mia intelligenza superiore, mi diressi a nord, verso le rupi. Con qualche difficoltà, trovai alla fine la giusta strada che conduceva alla rupe giusta. Parcheggiai, scesi e mi inerpicai fino in cima. Stavolta, frugai tra la vegetazione e l'erba. Trovai il masso sul quale mi ero seduto e notai che era abbastanza grande per essere usato come punto di riferimento se intendevi seppellire qualcosa. Mi spinsi fino all'orlo della rupe. Era evidente che, nel corso di trecento
anni, di erosione doveva essercene stata tanta, per cui qualcosa sepolto sul lato nord della rupe - quello verso lo Stretto - poteva benissimo essere rimasto esposto ai venti e all'acqua, e magari essere ruzzolato fin giù alla spiaggia. Stavo meditandoci su, ora. Scesi dalla rupe e risalii sulla mia Jeep. Servendomi della mia nuova mappa, mi diressi verso il lato ovest dell'insenatura di Mattituck. Ed ecco là: no, non gli Alberi di Capitan Kidd, ma un cartello che diceva «Tenute di Capitan Kidd». Qualche addetto alla lottizzazione aveva avuto evidentemente sogni di marketing. Entrai con l'auto nelle Tenute di Capitan Kidd, una piccola collezione di ranch del 1960 e case stile Cape Cod. Un ragazzino passava in bicicletta, e mi fermai per domandargli: «Sai dove sono gli Alberi di Capitan Kidd?» Il ragazzo, sui dodici anni, non rispose. «Dovrebb'esserci un posto vicino all'insenatura», dissi, «dove c'è un gruppo di piante chiamate Alberi di Capitan Kidd.» Mi studiò, osservò la mia fuoristrada, e immagino dovetti sembrargli un tipo Indiana Jones, perché mi domandò: «Hai intenzione di cercare il tesoro?» «Oh... no. Voglio solo fare una foto degli alberi.» «Lui ha seppellito la cassa del tesoro sotto uno di quegli alberi.» Sembrava che, a parte me, tutti sapessero tutto. Ecco quel che succede a non prestare attenzione. «Gli alberi dove sono?» gli domandai. «Una volta con i miei amici abbiamo scavato una grossa buca, prima che venissero gli sbirri a mandarci via. Gli alberi sono in un parco, e lì non si può scavare.» «Io voglio solo scattare qualche foto.» «Se vuoi scavare, ti faccio io da palo.» «D'accordo. Fammi strada.» Seguii il ragazzino in bicicletta verso un sentiero tutto curve che scendeva fino allo Stretto e terminava in una specie di giardinetto dove sedevano alcune giovani madri con i rispettivi pargoli nei passeggini. A destra c'era il braccio di mare di Mattituck e lungo quello un porticciolo. Parcheggiai da un lato e scesi. Non vedevo alcuna grande quercia, soltanto un campo di cespugli e alberelli rachitici sull'altro lato del sentiero. Il campo era delimitato a nord dalla spiaggia e a est dal braccio di mare. Dall'altra parte, verso ovest, potevo vedere una rupe che digradava fino all'acqua. A sud, da dove provenivo io, c'era un'altura dove sorgevano le Tenute di Capitan Kidd. «Dove hai la zappa?» mi domandò il ragazzino.
«Voglio solo scattare fotografie.» «Dov'è la macchina fotografica?» «Come ti chiami?» «Billy. E tu?» «Johnny. È il posto giusto, questo?» «Certo.» «Dove sono gli Alberi di Capitan Kidd?» «Là. Nel parco.» Indicava il grande campo. A quel che sembrava era un terreno incolto, più una riserva naturale che quel che la mia mente di Manhattan concepiva come parco. Sì, però non vedevo querce torreggianti. «Non vedo gli alberi», gli dissi. «Là.» Mi indicava piante nane, ciliegi selvatici e altri alberi assortiti, nessuno più alto di cinque o sei metri. «Vedi quello grande laggiù?» disse. «È là che noi abbiamo scavato. Vogliamo tornarci, col buio.» «Buona idea. Andiamo a dare un'occhiata.» Billy lasciò cadere la bicicletta sull'erba, poi il mio nuovo socio e io ci incamminammo attraverso il campo. L'erba era alta, ma i cespugli erano ben distanziati e si procedeva facilmente. Billy, evidentemente, non era stato attento durante le lezioni di storia naturale, o avrebbe saputo che quei pochi alberi non avevano tre o quattro secoli. In effetti, non mi ero aspettato davvero di vedere querce alte trenta metri con teschi e ossa incrociate intagliate nella corteccia. «Ce l'hai una zappa in macchina?» domandò Billy. «No. Sto solo facendo un sopralluogo, per adesso. Domani torneremo con i bulldozer.» «Ah, sì? Se trovi il tesoro devi dividerlo.» Nel mio miglior accento da pirata, replicai: «Se trovo il tesoro, ragazzo mio, taglierò la gola a tutti quelli che chiederanno la loro parte». Billy si afferrò la gola con tutt'e due le mani ed emise dei gorgoglii. Continuai a camminare, tirando calci al suolo sabbioso, finché trovai finalmente quello che cercavo: un enorme ceppo d'albero mezzo marcito, coperto di terra e di vegetazione. «Hai mai visto altri ceppi come questo?» domandai a Billy. «Oh, sì. Ce ne sono dappertutto.» Mi guardai attorno, figurandomi querce antichissime che un tempo, in epoca coloniale, sorgevano su quel piatto pezzo di terra accanto a quel grande braccio di mare dello Stretto. Quello era un porto naturale per navi
e uomini, e immaginavo un trealberi avanzare nello Stretto e ancorarsi al largo. Alcuni uomini portarsi con una barca nel braccio di mare e approdare dove il mio veicolo era parcheggiato sul sentiero. Ormeggiano la barca a un albero e guadano fino a terra. Trasportano qualcosa - un baule - proprio come Tom e Judy portavano a riva una cassa di alluminio. Gli uomini di mare - William Kidd e alcuni altri - si addentrano nella foresta di querce, scelgono un albero, scavano una buca. Vi seppelliscono il tesoro, poi segnano in qualche modo l'albero, intendendo tornare un giorno o l'altro. Naturalmente, non torneranno mai. Ecco perché ci sono tante leggende sui tesori nascosti. «Quello è l'albero dove abbiamo scavato io e Jerry», disse Billy. «Vuoi vedere?» «Certo.» Ci dirigemmo verso un ciliegio selvatico nodoso e piegato dal vento, alto sì e no cinque metri. Billy indicò un punto alla base dell'albero dove una buca poco profonda era riempita in parte di sabbia. «Lì», disse. «Perché non dall'altra parte dell'albero? Perché non a un paio di metri dal tronco?» «Non lo so... abbiamo provato lì. Ehi, ce l'hai una mappa? Una mappa del tesoro?» «Ce l'ho. Ma se te la mostro, dovrò farti camminare lungo la tavola.» «Aaahhh!» Fece un'imitazione passabile dell'andare fino al termine del trampolino per l'eternità. Mi avviai per ritornare alla macchina, Billy Buddy al mio fianco. «Come mai non sei a scuola, oggi?» gli domandai. «Oggi è Rosh Hashanah». «Sei ebreo?» «No, ma il mio amico Danny sì.» «E Danny dov'è?» «È andato a scuola, lui.» Il ragazzino aveva il potenziale di un avvocato. Tornammo al mio veicolo, e nel portafoglio trovai un biglietto da cinque dollari. «Okay, Billy, grazie dell'aiuto.» Prese la banconota ed esclamò: «Ehi, grazie! Ti serve altro aiuto?» «No. Devo tornare alla Casa Bianca per fare rapporto.» «Alla Casa Bianca?» Tirai su da terra la sua bicicletta e gliela porsi. Salii sulla Jeep e accesi il motore. A lui dissi: «Quell'albero dove avete scavato non è abbastanza
vecchio per essere stato là al tempo di Capitan Kidd». «Dici?» «Capitan Kidd è vissuto trecento anni fa.» «Urrrca.» «Sai tutti quei vecchi ceppi marciti nel terreno? Quelli erano alberi grandissimi quando Capitan Kidd scese a terra qui. Prova a scavare intorno a uno di quelli.» «Ehi, grazie!» «Se trovi il tesoro, tornerò a reclamare la mia parte.» «Okay. Ma il mio amico Jerry potrebbe cercare di tagliarti la gola. Io no, perché ci hai detto dov'è il tesoro.» «Jerry potrebbe tagliare la gola a te.» «Aaaarrgggh!» E partii. Prossima fermata, un regalo per Emma. Lungo la strada, sistemai altre tessere del mio puzzle mentale. In effetti, di tesori sepolti potevano essercene più d'uno, ma quello che i Gordon stavano cercando, e potevano anche avere trovato, era sepolto su Plum Island. Di questo ero ragionevolmente certo. E Plum Island era terra del governo, e qualsiasi cosa rinvenuta là apparteneva al governo, per l'esattezza, al ministero dell'Interno. Così, la semplice soluzione per sottrarre a Cesare il tesoro trovato nel terreno di Cesare è di trasferire quel tesoro su terreno tuo. Se lo affitti, tuttavia, hai un problema. Così, voilà, non c'è che acquistare un acro di terra in riva al mare da Margaret Wiley. Alcuni interrogativi restavano, tuttavia. Tanto per cominciare, come sapevano i Gordon che sepolto su Plum Island c'era probabilmente un vero tesoro? Risposta: l'avevano scoperto grazie al loro interesse e alla loro iscrizione alla Peconic Historical Society. Oppure, qualcun altro aveva intuito già da tempo che c'era un tesoro su Plum Island e quella persona, o persone, non aveva accesso a Plum Island, così aveva stretto amicizia - lui, lei, o essi - con i Gordon, i quali, come personale d'alto livello, avevano un accesso quasi illimitato all'isola. Alla fine, la scoperta era stata confidata ai Gordon, e così si era ordita una trama, si era fatto un patto, firmato col sangue alla luce di una tremolante candela o chissà. Tom e Judy erano onesti cittadini, ma non erano santi. Ripensai a una frase detta da Beth, «l'oro capace di sedurre i santi», e mi resi conto di quanto fosse appropriata.
I Gordon intendevano ovviamente riseppellire il tesoro sulla loro terra, poi scoprirlo, annunciarlo al mondo intero e pagare le loro brave tasse a Zio Sam e allo Stato di New York. Forse, il loro socio la pensava diversamente. Ecco com'era. Il partner non era soddisfatto del suo cinquanta per cento del bottino sul quale presumibilmente andavano sborsate fior di tasse. Questo mi portò a domandarmi quanto il tesoro potesse valere. Abbastanza, evidentemente, per far commettere un duplice omicidio. Una teoria, come insegno nel mio corso, deve collimare con tutti i fatti. Se non è così, i fatti vanno riesaminati. Se i fatti sono corretti, allora è la teoria che non funziona, e non c'è che cambiarla. In quel particolare caso, la maggior parte dei primi fatti indicava un'ipotesi sbagliata. A parte quella, avevo finalmente una teoria che i fisici avrebbero definito unificata: i cosiddetti scavi archeologici su Plum Island, il motoscafo di gran prezzo, la costosa casa d'affitto sul mare, lo Spirocheta ancorato al largo di Plum Island, l'iscrizione alla Peconic Historical Society, l'acro di terra apparentemente inutile sullo Stretto e, forse, il viaggio in Inghilterra. Aggiungiamo a questo il capriccioso inalberare da parte dei Gordon della Jolly Roger, la ghiacciaia scomparsa, e il numero di otto cifre sulla loro carta nautica, ed ecco una teoria unificata piuttosto concreta che legava insieme tutti questi elementi in apparenza sconnessi. Oppure - e questo era il grande oppure - io avevo perso troppo sangue dal cervello, ed ero totalmente in errore, del tutto in contrasto con la realtà, mentalmente inadatto per il lavoro di investigatore, e già fortunato se m'avessero concesso di fare l'agente di ronda a Staten Island. Qualcos'altro, anche, era possibile. Voglio dire, prendiamo Foster e Nash, due individui ragionevolmente in gamba con tutte le risorse del mondo su cui contare, eppure erano del tutto in contrasto con la realtà e rincorrevano indizi sbagliati. Avevano buone menti, e tuttavia erano limitati dalla loro ridotta visione del mondo: intrigo internazionale, guerra batteriologica, terrorismo internazionale e via di questo passo. Loro due probabilmente non avevano neppure sentito parlare di Capitan Kidd. Bene. A ogni modo, nonostante la mia teoria unificata, c'erano ancora cose che non sapevo e altre che non capivo. Una cosa che non sapevo era chi avesse ucciso Tom e Judy Gordon. A volte catturi l'assassino prim'ancora d'avere tutti i fatti o prima di capire quello che devi fare: in quei casi, l'assassino sarà talvolta tanto gentile da spiegarti che cosa ti è sfuggito, che cosa hai frainteso, qual era il suo movente e così via. Quando ottengo una confes-
sione, voglio qualcosa di più di un'ammissione di colpa: voglio una lezione sulla mente criminale. Serve per la volta successiva, e c'è sempre una volta successiva. Uno dei punti della mia mappa mentale erano i Vigneti Tobin. Perfino ora, dopo essermi erudito sulla faccenda Kidd ed essere arrivato alla mia teoria unificata, non riuscivo a immaginare come il rapporto tra Fredric Tobin e i Gordon s'inserisse nel quadro d'insieme. Bene, forse potevo riuscirci... Mi diressi verso i Vigneti Tobin. 20 La Porsche bianca che apparteneva al proprietario era nell'area di parcheggio. Parcheggiai a mia volta, scesi dalla Jeep, e mi diressi verso le cantine. Il piano terreno della torre centrale collegava diverse ali, ed entrai nella torre attraverso la reception dei visitatori. La scala e l'ascensore avevano ciascuno un cartello con la scritta «Riservato al personale». Anzi, l'ascensore da cui era uscito il signor Tobin aveva addirittura la chiave, così presi la scala, che in ogni caso preferivo. La scala era in realtà un'uscita antincendio in acciaio e cemento costruita all'interno della torre rivestita d'assicelle di cedro, a ciascun piano c'era una porta d'acciaio e su ciascuna porta c'era un cartello: «Primo piano, Contabilità, Ufficio Personale, Pubblicità»; «Secondo Piano, Vendite, Marketing, Spedizioni»; e così via. Al terzo piano il cartello diceva «Uffici Dirigenti». Continuai fino al quarto dove c'era un'altra porta d'acciaio, questa senza alcuna scritta. Tentai la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Notai una telecamera di sorveglianza e un citofono. Tornai al piano di sotto, dove la porta di accesso agli uffici della direzione si apriva su una reception. C'era un banco circolare nel centro, ma al banco non c'era nessuno. Dall'area della reception, quattro porte aperte immettevano in uffici fatti, potevo vedere, a fetta di torta, evidentemente in funzione della pianta circolare del piano. Ciascun ufficio aveva un bel finestrone nella torre. Una quinta porta era chiusa. Non vedevo nessuno a nessuna delle scrivanie degli uffici aperti, e poiché era ormai la 1 e 30, immaginai che fossero tutti a colazione. Avanzai nell'area della reception e mi guardai attorno. L'arredo sembrava di vera pelle, color vino, naturalmente, e alle pareti c'erano riproduzioni di de Kooning e Pollock... oppure ai figli e ai nipotini del personale era
stato permesso di appendere i loro scarabocchi. Una telecamera di sorveglianza puntava su me, e le inviai un saluto. La porta chiusa si aprì e apparve una donna sulla trentina, dall'aria efficiente. «Posso esserle utile?» «Dica per favore al signor Tobin che il signor Corey è qui e desidera vederlo.» «Ha un appuntamento?» «Ho un appuntamento permanente.» «Il signor Tobin sta per andare a colazione. Anzi, è già in ritardo.» «Allora ce l'accompagnerò io. Gli dica che sono qui, per favore.» Detesto mostrare il distintivo nell'ufficio di qualcuno, a meno che non sia là per aiutarlo o per mettergli le manette. E nelle situazioni intermedie che l'individuo a volte si incavola se gli spaventi il personale con il distintivo e ti imponi con le maniere forti. «Gli dica che è importante», raccomandai alla giovane donna. Lei si girò verso la porta chiusa, bussò, entrò, e se la richiuse alle spalle. Aspettai un minuto intero, che per me è un record di pazienza, poi entrai. Tobin e la giovane, entrambi in piedi, erano in conversazione presso la scrivania di lui. Tobin si lisciava la barba corta e riccia, apparendo alquanto mefistofelico. Indossava un blazer color vinaccia, calzoni neri e una camicia oxford rosa. Si girò verso di me, ma non ricambiò il mio sorrisone cordiale. «Scusi se m'intrometto così, signor Tobin», dissi, «ma ho una certa premura, e sapevo che m'avrebbe perdonato.» Congedò la giovane e rimase in piedi. Era un vero signore, e non lasciò minimamente trasparire la sua rabbia. «Questo è un piacere inaspettato», disse. L'espressione mi piacque. «Anche per me», replicai. «Non pensavo che l'avrei rivista fino al suo ricevimento, poi ecco che, all'improvviso, mi è stato fatto il suo nome.» «In che senso le è stato fatto?» Quando mi sono fatto la tua ex. In realtà, gli diedi una risposta più educata e spiegai: «Stavo appunto parlando con qualcuno del caso, sa, di Tom e Judy, del loro amore per il vino e di come erano contenti di conoscerla. A ogni modo, questa persona ha accennato al fatto che a sua volta conosceva lei e conosceva Tom e Judy. Ecco com'è venuto fuori il suo nome». Non volle abboccare all'amo e replicò: «E per questo lei è qui?» «Be', no.» Non elaborai. Lasciai depositare la cosa. Lui era ancora in
piedi, la finestra alle spalle. Girai attorno alla scrivania e andai a guardar fuori. «Che bella vista.» «La migliore di North Fork, a meno di non abitare in un faro.» «Davvero.» La finestra del signor Tobin guardava a nord, al di là dei suoi acri di vigneti. All'interno di quelli, alcune fattorie e frutteti creavano una sorta di effetto patchwork molto piacevole. In lontananza, il terreno saliva fino alle rupi glaciali e, da quell'altezza, potevo vedere addirittura lo Stretto al di là. «Ha un binocolo?» dissi. Esitò, poi andò a un armadietto e tornò con un binocolo. «Grazie.» Misi a fuoco lo Stretto e commentai: «Si vede addirittura la costa del Connecticut». «Sì.» Allungai il collo verso sinistra e misi a fuoco la rupe che pensavo potesse essere quella di Tom e Judy. «Ho appena saputo», dissi a Tobin, «che i Gordon avevano comperato un acro di terra laggiù. Lo sapeva, lei?» «No.» Non è quello che mi ha detto Emma, Fredric. «Avrebbero fatto meglio a ricorrere al suo senso degli affari. Hanno speso venticinque sacchi per un lotto che non poteva essere sfruttato.» «Se i diritti di sfruttamento erano stati venduti alla contea, avrebbero dovuto saperlo.» Posai il binocolo e dissi: «Non ho detto che i diritti di sfruttamento erano stati venduti alla contea. Ho detto che non potevano sfruttare il loro lotto. Poteva dipendere dal piano regolatore, dalla mancanza di acqua potabile, di elettricità o che so io. Perché ha pensato che i diritti di sfruttamento erano stati venduti alla Contea?» «In effetti», replicò, «l'avrò forse sentito dire.» «Ah. Allora sapeva che avevano comperato un pezzo di terra.» «Credo che qualcuno me ne avesse accennato. Non sapevo dove fosse quel terreno. Solo che era privo dei diritti di sfruttamento.» «Già.» Mi girai di nuovo verso la finestra e tornai a puntare il binocolo di Tobin verso le rupi. A ovest, le alture degradavano fino a dove si inseriva il braccio di mare di Mattituck, e potevo vedere l'area nota come Alberi di Capitan Kidd e Tenute di Capitan Kidd. All'estrema destra, l'est, potevo vedere perfettamente fino a Greenport e distinguere anche Orient Point e Plum Island. «È anche meglio della terrazza dell'Empire State Building», commentai. «Non così alto ma...» «Cosa posso fare per lei, signor Corey?»
Ignorai la domanda e continuai: «Sa, lei è proprio in cima al mondo. Sì, dico, guardi qua. Quattrocento acri di eccellente proprietà terriera, una casa sul mare, un ristorante, una Porsche, e chissà cos'altro. E se ne sta qui in questa torre di quattro piani: che cosa c'è di sopra, a proposito?» «Il mio appartamento.» «Ma no! Mi dica, le signore apprezzano tutto questo o che?» A questo non rispose e disse: «Ieri, dopo che c'eravamo visti, ho parlato con il mio avvocato». «Ah, sì?» «E mi ha consigliato di non parlare con la polizia senza la presenza di un legale.» «È suo diritto. Glielo avevo detto.» «A ulteriori indagini da parte del mio legale è risultato che lei non è più alle dipendenze del Capo Maxwell come consulente per questo caso, e che, anzi, già non era più alle dipendenze della città quando ha parlato con me.» «Be', via, questo è un punto discutibile.» «Discutibile o no, lei qui non ha più alcuna veste ufficiale.» «Giusto. E siccome non sono più la polizia, lei può parlare con me. Mi pare chiaro.» Fredric Tobin ignorò la cosa e continuò: «Il mio legale aveva promesso di collaborare con la polizia, finché non ha scoperto che il Capo Maxwell non vuole la sua collaborazione o la mia, non ne ha bisogno. Il Capo Maxwell è seccato che lei sia venuto a interrogarmi. Ha messo in imbarazzo me e lui». Poi Tobin aggiunse: «Sono un sostenitore generoso dei politici chiave, qui, e sono stato prodigo del mio tempo e del mio denaro nel rimodernare edifici storici, far mettere lapidi commemorative, dare contributi all'ospedale e ad altre meritevoli istituzioni benefiche, compresa l'Associazione Filantropica della Polizia. Sono stato chiaro?» «Oh, chiarissimo. Da almeno dieci frasi fa. Ero venuto solo per sentire se potevo invitarla a colazione.» «Ho già un invito, grazie.» «Bene, sarà per un'altra volta.» Diede un'occhiata all'orologio e annunciò: «Devo proprio scappare». «Certo. Scendo con lei.» Fece un profondo respiro e annuì. Lasciammo l'ufficio e passammo in zona reception. Lui si rivolse all'impiegata. «Il signor Corey e io abbiamo concluso il nostro affare, e non sarà necessario che lui ritorni.»
Però, quando si dice la cortesia. Costui poteva mettertelo in quel posto, e tu lì per lì manco lo sentivi. Il signor T inserì la sua chiave per chiamare l'ascensore, che arrivò rapidissimo. Vi entrammo e, nello scendere, per rompere l'imbarazzato silenzio, dissi: «Sa quel Merlot che avevo comperato? Bene, mi ha fatto comodo. È davvero stupido, forse comico, ma non credo che sembrerà comico a lei: ho dovuto usarlo per ripulire merda di uccelli dal mio parabrezza». «Cosa?» L'ascensore si aprì e uscimmo nella zona comune. «Un gabbiano grande e grosso si è buttato in picchiata verso il mio parabrezza», spiegai. Lui tornò a guardare l'orologio. «La metà che ho bevuto», conclusi, «era ottima. Non troppo immediato.» «È un terribile spreco di vino d'annata», protestò. «Sapevo già che l'avrebbe detto.» Oltrepassò la porta che immetteva nell'area della reception. Mi avviai all'uscita con lui. Fuori, nell'area di parcheggio, dissi: «A proposito, la signora che mi ha fatto il suo nome... ricorda?» «Sì.» «Diceva d'essere sua amica. Ma un sacco di gente si vanta d'essere sua amica, come i Gordon, mentre sono solo conoscenti che vogliono crogiolarsi nella sua luce riflessa.» Non rispose. È difficile prendere all'amo uno che si atteggia a Signore del Maniero. Il signor Tobin non intendeva perdere la calma. «A ogni modo», continuai, «diceva d'essere sua amica. La conosce Emma Whitestone?» Avrà arrestato per un attimo il passo, ma continuò a camminare e si fermò alla sua macchina. «Sì», disse, «eravamo insieme circa un anno fa». «E siete rimasti amici?» «Perché no?» «Tutte le mie ex vorrebbero assassinarmi.» «Non so immaginare perché.» Risi a quell'uscita. Era strano, ma provavo ancora una certa simpatia per quell'uomo, benché sospettassi che avesse assassinato i miei amici. Non fraintendetemi: se davvero era stato lui, avrei fatto del mio meglio per vederlo beccarsi la sedia elettrica, o qualsiasi altra cosa questo Stato decida di usare per liquidare un omicida condannato a morte. Per il momento, se era cortese lui, lo sarei stato anch'io.
L'altra cosa ugualmente bizzarra è che, dall'ultima volta che avevamo parlato, era saltato fuori che avevamo qualcosa in comune. Sì, insomma, eravamo stati entrambi dove pochi erano stati prima di noi... be', forse non così pochi. Avevo quasi voglia di dargli una manata sulla schiena e dire: «Ehi, Freddie, è stato bello per te come per me?» o qualcosa del genere. Ma tra gentiluomini questo non si fa. «Signor Corey», stava dicendo Fredric Tobin, «lei pensa, lo intuisco, che io sappia sui Gordon più di quanto le ho detto. Le assicuro che non è così. Tuttavia, se la polizia della città o della contea desidera avere una mia dichiarazione, sarò felice di accontentarla. Nel frattempo, lei è il benvenuto qui come cliente, ed è il benvenuto a casa mia come invitato. Non lo è nel mio ufficio, e nemmeno se è per interrogarmi ulteriormente.» «Mi sembra più che giusto.» «Buona giornata.» «Buon pranzo a lei.» Salì sulla sua Porsche e partì. Gettai ancora un'occhiata alla torre Tobin da cui sventolava la nera bandiera di Tobin. Se l'amico Tobin aveva qualche prova materiale da nascondere, questa poteva trovarsi nella sua casa sul mare o forse nel suo appartamento al piano superiore di quella torre. Ovviamente, una perquisizione con il consenso di Tobin era da escludere, e nessun giudice sarebbe stato disposto a emettere un mandato, perciò sembrava che dovessi rilasciare un mandato di perquisizione notturna a me stesso. Risalito sulla Jeep e di nuovo per strada, chiamai la mia segreteria e vi trovai due messaggi. Il primo era da parte dell'Unità di Controllo delle Assenze del Dipartimento di Polizia di New York. Una non identificata strega arrogante mi informava che la mia visita medica era stata spostata al martedì successivo e mi chiedeva di dare conferma del messaggio. Quando i capi non riescono a trovarti, chiedono all'ufficio del personale, o all'ufficio paghe o alla divisione servizi sanitari di chiamarti riguardo a qualcosa cui devi rispondere. Odio i pretesti subdoli. L'altro messaggio era da parte della mia ex socia, Beth Penrose. Diceva: «Ciao, John. Spiacente di non averti chiamato prima, ma qui stiamo impazzendo. A ogni modo, so che non sei più incaricato ufficialmente del caso, ma ci sono alcune cose che mi piacerebbe discutere con te. Non potrei venire da te domani pomeriggio? Chiamami, o ti chiamerò io, e vedremo di combinare il posto e l'ora. Stammi bene». Ah. Il tono era cordiale, ma non così cordiale come l'ultima volta in cui
avevamo parlato di presenza. Per non parlare del bacio sulla guancia. Immagino non sia una buona idea essere troppo espansivi su una segreteria telefonica. Motivo più calzante, l'eventuale pressione sviluppatasi durante quegli intensi due giorni si sarebbe automaticamente allentata una volta che lei fosse tornata a casa e al proprio mondo. Succede. Ora voleva discutere alcune cose con me, vale a dire voleva sapere se avessi scoperto qualcosa e, semmai, cosa. Per Beth Penrose, ero diventato uno dei tanti testimoni. Bah, forse ero cinico. O forse dovevo escludere dalla mente Beth Penrose per fare posto a Emma Whitestone. Non sono mai stato capace di tenere in equilibrio relazioni multiple. È peggio del portare avanti contemporaneamente una decina di casi di omicidio, e molto più pericoloso. In ogni caso, mi serviva un regalo per Emma, e scorsi un negozio d'antiquariato lungo Main Road. Perfetto. Mi fermai là davanti e scesi. Il lato meraviglioso dell'America è che ci sono più oggetti antichi in circolazione di quanti ne erano stati fatti in origine. Mi guardai un poco attorno nella bottega che sapeva di muffa e la proprietaria, una simpatica vecchietta, mi domandò se poteva essermi d'aiuto. «Mi serve un regalo per una giovane donna.» «Sua moglie? Sua figlia?» Una che non conosco bene ma con cui ho fatto l'amore. «Un'amica.» «Ah.» Mi mostrò alcuni oggetti, ma in fatto di anticaglie sono del tutto ignorante. Poi mi venne un'idea brillante e domandai: «Lei fa parte della Peconic Historical Society?» «No, ma appartengo alla Southold Historical Society.» Dio buono, ma quante ce n'erano di quelle associazioni! «Conosce per caso Emma Whitestone?» «Certo che la conosco. Una signora tanto gentile.» «Precisamente. Sto cercando qualcosa per lei.» «Che bello. Di che occasione si tratta?» Solito segno di affetto e di ringraziamento postcoitale. «Mi ha aiutato a fare delle ricerche in archivio.» «Oh, è bravissima in questo. E che cosa cercava di bello?» «Be'... sembrerà sciocco, ma fin da bambino sono stato affascinato dai pirati.» Fece udire una specie di risatina. O forse un cachinno. «Il famoso Capitan Kidd era un visitatore dei nostri lidi.» «Davvero?»
«Molti pirati passarono di qui prima della Rivoluzione. Depredavano i francesi e gli spagnoli nei Caraibi, poi venivano al nord per spendere i loro mal acquistati guadagni, o a raddobbare le loro navi. Alcuni si stabilivano da queste parti.» Sorrise e disse: «Con tutto quell'oro e quelle gemme, non tardavano a divenire cittadini eminenti». E aggiunse: «Più di un patrimonio originale, da queste parti, si basava sul saccheggio dei pirati». Mi piaceva il modo antiquato in cui quella donna si esprimeva. «Più di un patrimonio del giorno d'oggi», commentai, «ha dietro di sé la pirateria delle aziende.» «Be', quanto a questo non saprei, ma so che questi corrieri della droga, oggi, sono un po' come i pirati di una volta.» Poi aggiunse: «Quando io ero ragazza, avevamo i contrabbandieri del rum. Siamo gente rispettosa delle leggi, qui, ma ci troviamo lungo le rotte marittime». «Per non parlare della rotta migratoria della costiera atlantica.» «Quella è per gli uccelli.» «Ah, già.» Dopo qualche altra chiacchiera, mi presentai come John, e lei si presentò come signora Simmons. «La Southold Historical Society», le domandai, «ha delle informazioni sui pirad?» «Ne abbiamo, sì, ma non molte. Negli archivi ci sono alcuni documenti originali, delle lettere. E c'è perfino il manifesto di una taglia, nel nostro piccolo museo.» «Avreste per caso una mappa del tesoro autentica, da poter fotocopiare?» Sorrise. «Conosce Fredric Tobin?» le domandai. «Be', chi non lo conosce? Ricco come un Creso.» Chi? «Appartiene anche lui alla Southold Historical Society?» domandai. «Tobin, non Creso.» «No, ma il signor Tobin è un sostenitore molto generoso.» «Visita i vostri archivi?» «Mi risulta di sì. Sebbene non più da circa un anno.» Assentii. Dovevo continuamente rammentare a me stesso che non ero a Manhattan, che quella era una comunità di circa ventimila persone, e mentre non era vero alla lettera che tutti conoscessero tutti, era vero che ognuno conosceva qualcuno che conosceva qualcun altro. Per un detective, era come procedere immerso fino al ginocchio in una miniera di notizie. A ogni modo, almeno una delle mie ricerche era conclusa, e domandai
alla signora Simmons: «Potrebbe raccomandarmi qualcosa per la signora Whitestone?» «Quanto vorrebbe spendere?» «Niente è troppo bello per la signora Whitestone. Cinquanta dollari.» «Oh... be'...» «Cento.» Sorrise e mi mostrò un vaso da notte di porcellana dal manico a brocca, decorato di rose dipinte. «Emma ne fa collezione», disse. «Di vasi da notte?» «Sì. Se ne serve come coprivasi. Ne ha tutta una serie.» «È sicura?» «Certo. Questo lo tenevo da parte per mostrarglielo. È tardo vittoriano. Fatto in Inghilterra.» «Okay... Lo prendo.» «In effetti costa un po' più di cento dollari.» «Un po' quanto?» «Duecento.» «È mai stato usato?» «Immagino di sì.» «Posso pagare con la Visa?» «Ma certo.» «Può incartarmelo?» «Lo metterò in un bel sacchetto da regalo.» «Può mettergli un nastro sul manico?» «Se le fa piacere.» Completato l'acquisto, lasciai il negozio di antiquariato con il glorificato pitale dentro un bel sacchetto rosa e verde. Bene, ripardi, diretto alla biblioteca pubblica di Cutchogue, che era stata fondata nel 1841 e pagava gli stessi stipendi di allora. La biblioteca era al margine del green, grande edificio ricoperto di assicelle con una guglia che gli dava l'aspetto d'essere stato un tempo una chiesa. Parcheggiai ed entrai. C'era una vecchia befana dall'aria arcigna alla scrivania dell'entrata che mi scrutò al di sopra di un paio di mezze lenti. Le sorrisi e passai oltre con disinvoltura. C'era un grande stendardo appeso dove cominciava la zona degli scaffali che diceva: «Trova tesori nascosti: Leggi libri». Eccellente consiglio. Trovai il catalogo delle schede che, grazie a Dio, non era computerizzato, e dieci minuti dopo sedevo a un tavolo di lettura con un testo di consul-
tazione davanti intitolato Il Libro del Tesoro Nascosto. Lessi di un certo John Shelby di Thackham, Inghilterra, il quale nel 1672 era stato sbalzato dal suo cavallo in un boschetto dove aveva trovato un vaso di ferro contenente più di cinquecento monete d'oro. Secondo le leggi inglesi sul ritrovamento di tesori, qualsiasi proprietà nascosta o perduta apparteneva alla Corona. Shelby, però, si era rifiutato di consegnare l'oro ai funzionari del re, ed era stato arrestato, processato per tradimento e decapitato. Probabilmente quella era una delle storie preferite dal fisco. Lessi riguardo alle leggi sul ritrovamento di tesori del governo degli Stati Uniti e dei diversi stati. In sostanza, tutte dicevano: «Chi trova tiene, chi perde piange». C'era, tuttavia, qualcosa chiamato «Legge per la preservazione delle antichità americane», ed era abbastanza chiaro che qualsiasi cosa trovata su terreno federale cadeva sotto la giurisdizione del ministero dell'Agricoltura, della Difesa o dell'Interno, a seconda del terreno in questione. Per di più, ti serviva un permesso per scavare su terreno federale e tutto quel che trovavi apparteneva allo Zio Sam. Ma che affare con i fiocchi, era. Se, tuttavia, trovavi denaro, valori o qualsiasi altro genere di tesoro su terreno di tua proprietà, era praticamente tuo, purché tu potessi dimostrare che il proprietario originale era morto, gli eredi sconosciuti, e che la proprietà non era stata rubata. E quand'anche fosse stata rubata, potevi reclamarla sempre che i legittimi proprietari fossero morti o introvabili, o nemici del paese all'epoca in cui il denaro, i valori o il tesoro erano stati ottenuti. L'esempio offerto era il tesoro di un pirata, saccheggio e altre cose di quel genere. Fin lì, tutto bene. E per rendere una piacevole situazione anche più piacevole, il fisco, per un incredibile calo di ingordigia, richiedeva che tu pagassi la tassa soltanto sulla parte che vendevi o che ogni anno trasformavi diversamente in contanti, sempre che tu non fossi un cercatore di tesori di professione. Perciò, se eri un biologo, per esempio, e possedevi un pezzo di terra, e ci trovavi un tesoro sepolto per puro caso, o come risultato del tuo hobby archeologico, e poteva valere, diciamo, dai dieci ai venti milioni di dollari, allora non pagavi un centesimo di tasse fino a che non ne vendevi una parte. Che trattamento ideale. Mi faceva quasi venire voglia di darmi alla caccia al tesoro come hobby. Ripensandoci, era quello che stavo facendo. Il libro diceva inoltre che se il tesoro ha valore storico o è associato alla cultura popolare - e qui, udite udite, dava come esempio specifico il tesoro perduto di Capitan Kidd - ecco che il suo valore sarebbe grandemente au-
mentato, e così via. Lessi ancora per un po', documentandomi sulle leggi riguardanti il ritrovamento di un tesoro e su alcuni interessanti esempi della casistica. Un caso in particolare attirò la mia attenzione: intorno al 1950, a Londra, un tale stava facendo passare alcuni antichi documenti nella Sezione Ammiragliato del pubblico archivio di stato. Trovò una lettera sbiadita scritta nel 1750 da un famoso pirata di nome Charles Wilson, indirizzata al fratello. La lettera era stata originariamente trovata su una nave pirata catturata dalla marina inglese. Diceva: «Fratello mio, ci sono tre calette site un centinaio di passi a nord del secondo braccio di mare al di sopra di Chincoteague Island, Virginia, che è all'estremità rivolta a sud della penisola. Alla testa della terza caletta verso nord c'è una rupe affacciata sull'Oceano Atlantico con sopra tre cedri, ciascuno distante circa un metro e mezzo dagli altri. In mezzo agli alberi ho seppellito dieci forzieri, lingotti d'oro, d'argento, diamanti e gemme per la somma di 200.000 sterline d'oro. Va' in segreto su quell'altura alberata e porta via il tesoro». Il fratello di Charles Wilson, ovviamente, non aveva mai ricevuto la lettera, dato che era finita in mano alla marina inglese. Così, chi aveva trovato il tesoro? La marina inglese? O forse era stato l'uomo che duecento anni dopo aveva trovato la lettera nell'archivio di stato. L'autore del Libro del tesoro nascosto non dava la fine della storia. Particolare importante, c'era un posto chiamato Sezione Ammiragliato nel pubblico archivio di Stato di Londra, e Dio solo sapeva che cosa potevi trovarci se avevi il tempo, la pazienza, una lente d'ingrandimento, una certa conoscenza dell'inglese antico, un po' di avidità, ottimismo e senso dell'avventura. Adesso ero certo di spiegarmi la settimana passata a Londra dai Gordon l'anno prima. Dovevo ritenere che i Gordon avessero letto quello che ora stavo leggendo e conosciuto le leggi sul ritrovamento di un tesoro. Al di là di questo, già il buon senso aveva detto loro che qualsiasi cosa avessero trovato su Plum Island apparteneva al governo - niente divisione fifty-fifty o altro - e che qualsiasi cosa avessero asserito d'avere trovato sulla loro proprietà in affitto apparteneva al proprietario, non agli inquilini. Non occorreva una laurea in legge per arrivare a questo. Probabilmente era passato per la mente di Tom e Judy che una facile soluzione ai problemi dell'appartenenza era quella di tenere la bocca chiusa se avessero trovato qualcosa su Plum Island. Ma forse si erano resi conto, nei loro ragionamenti, che la migliore linea d'azione - la più redditizia, alla
lunga - era semplicemente alterare il luogo della scoperta, annunciare il ritrovamento, godersi tutta la pubblicità, pagare tasse soltanto su quanto avrebbero venduto anno per anno, e passare alla storia come la bella e giovane coppia di biologi che aveva trovato il tesoro perduto di Capitan Kidd ed era diventata schifosamente ricca. Era quello che qualsiasi persona logica e intelligente avrebbe fatto. Era quello che avrei fatto io. Ma c'erano alcuni problemi. Il primo era che dovevano portar via da Plum Island qualsiasi cosa avessero trovato su Plum Island. Il secondo era di riseppellire il tesoro in modo tale che la riscoperta non solo potesse sembrare plausibile, ma potesse reggere a un esame scientifico. La soluzione erano quelle rupi erose. Il tutto aveva un senso, per me. Lo aveva avuto anche per loro ma, nel corso della loro azione, Tom e Judy avevano fatto o detto qualcosa che era costata loro la vita. Fredric Tobin aveva mentito con me su alcuni fatti, e riguardo ai suoi rapporti con i Gordon, il che sembrava dare adito a differenti interpretazioni. In più, Tobin era al verde o sulla via d'esserlo. Per un detective della Omicidi, questo equivaleva a una luce rossa intermittente e a un campanello d'allarme. Non soltanto Tobin aveva circuito i Gordon, ma aveva sedotto - o almeno conquistato - Emma Whitestone, storica e archivista. Sembrava che tutti i conti tornassero. Ed era stato probabilmente Tobin a finanziare la settimana passata dai Gordon in Inghilterra per fare ricerche e magari vedere di individuare con esattezza il luogo. Fredric Tobin era il mio sospetto principale, ma non per questo dimenticavo Paul Stevens o chiunque altro su Plum Island. Per quello che ne sapevo, quello era un complotto più vasto di quanto avessi in un primo momento pensato, e potevano esservi coinvolti Stevens, Zollner e altri sull'isola, più Tobin, più... be', Emma Whitestone. 21 Trovai abbastanza facilmente il negozio di fiori Whitestone; c'ero passato davanti decine di volte, negli ultimi tre mesi. Parcheggiai nei pressi, diedi una controllata ai capelli nello specchio retrovisore, scesi ed entrai nel negozio. Era un posto molto gradevole, pieno di... be', di fiori. C'era un buon odore. Un giovanotto dietro il banco domandò: «In che cosa posso servirla?»
«Ho appuntamento con Emma Whitestone.» «Lei è John?» «In persona.» «Aveva da fare alcune commissioni... Aspetti.» Chiamò, girandosi verso il retro: «Janet, c'è qui John per Emma». Dal retro uscì Janet, una donna oltre la quarantina, e anche un'altra più giovane, sui venticinque, che Janet mi presentò come Ann. Janet disse a me: «Emma chiedeva se può raggiungerla alla sede dell'associazione storica». «Sì, certo.» «Ha detto», continuò Janet, «che non aveva modo di mettersi in contatto con lei.» «Bene, non ci sono difficoltà. Posso trovare la sede abbastanza facilmente.» «Emma potrebbe tardare un po'», precisò Ann. «Aveva delle consegne e qualche commissione da sbrigare.» «Niente paura. L'aspetterò là. Aspetterò tutta la notte, se necessario.» Avevo bisogno di tre persone per essere messo al corrente? Ero in mostra, ovviamente. Il giovanotto mi porse un biglietto della ditta e disse: «Telefoni qui se c'è qualche problema». «Sì, stia tranquillo. E grazie a tutti dell'aiuto.» Andai verso la porta, poi mi voltai e dissi: «Emma ha un gran bel negozio, qui». Tutti sorrisero. Uscii. Con questo mi ero assicurato di certo la promozione. Di nuovo sulla Jeep e in viaggio verso Cutchogue Green. Ce l'avevo un po' con me stesso per avere soltanto pensato che Emma Whitestone fosse in combutta con Tobin e chissà chi, ancora. Che diamine, aveva l'intero personale del suo negozio schierato per esaminare il suo nuovo amico. D'altra parte, quando finisci a letto con una donna che hai appena conosciuto, ti viene da domandarti se è il tuo fascino o il suo programma. D'altronde, ero stato io a cercare lei, non viceversa. Dove avevo pescato il suo nome? Da Margaret Wiley? No, l'avevo trovato in precedenza sull'agenda dei Gordon a Plum Island. Sembrava che quella gente fosse tutta collegata. Forse Margaret era della partita. Forse l'intera popolazione adulta della North Fork lo era e io ero l'unico escluso. Insomma, sembrava uno di quegli agghiaccianti film dell'orrore in cui l'intero villaggio è formato di streghe e di stregoni, poi arriva l'ignaro turista e, di lì a poco, se lo divorano.
Svoltai nel piccolo parcheggio dell'associazione storica. Non c'erano furgoni di fioristi, ma c'era una Ford di dieci anni prima. Lasciai il vaso da notte sul sedile posteriore, pensando che forse il momento non fosse appropriato per offrirlo. Magari dopo cena. A ogni modo, mi avvicinai al portone d'ingresso e trovai un altro foglietto adesivo che diceva semplicemente: «Entra». Entrai. Una volta nell'ampio atrio, chiamai forte: «Emma!» Nessuna risposta. M'incamminai attraverso le stanze di quella vasta casa e tornai a chiamare «Emma!» Niente. Sembrava inconcepibile che lei avesse aperto il portone e poi lasciato la casa, con tutte quelle antichità in giro. Ai piedi delle scale chiamai di nuovo, ma non ebbi risposta. Mi venne il dubbio che potesse essere in bagno, nel qual caso non avrei dovuto metterle fretta. Se avesse aspettato, si sarebbe potuta servire del suo regalo. A ogni modo, cominciai a salire le scale, che scricchiolavano. Non sto dicendo che mi sarebbe piaciuto avere con me la pistola, ma mi sarebbe piaciuto avere con me la pistola. Così, arrivai in cima alle scale e tesi l'orecchio. Nessun suono, salvo quelli che si odono in una vecchia casa cigolante. Decisi di andare nel salotto di sopra, che era verso la metà del lungo corridoio. Arrivai alla porta che immetteva nel salotto. Era chiusa, e la spalancai. I maledetti cardini cigolavano da far paura. Mamma mia. Avanzai nella stanza, e da dietro il battente semi-spalancato si levò un urlo. Mi girai di scatto, ed Emma mi si scagliò contro con una spada e me la ficcò nel ventre. «Prendi questo, pirata dal cuore nero», gridò. Il cuore mi batteva all'impazzata e la vescica per poco non allentò i freni. Sorrisi. «Divertente.» «Ti ho fatto paura, sì o no?» In testa aveva un cappello blu a tricorno e in mano un coltellaccio di morbida plastica. «Mi hai sorpreso, diciamo.» «Altro che sorpreso, sembravi.» Ero riuscito a calmarmi e notai che quel giorno lei indossava calzoni marrone chiaro, camicetta celeste e sandali. «La spada e il tricorno li ho presi nel gift shop. C'è un intero settore di giocattoli per bambini.» Andò fino a una poltrona vicino al caminetto e mi mostrò un cappello nero da pirata con sopra teschio e ossa bianche, una sciabola di plastica, una benda per l'occhio e qualcosa che sembrava una pergamena. Mi diede il cappello e la benda e insistette perché me li met-
tessi mentre lei mi infilava la sciabola nella cintura. Mi mostrò la pergamena ingiallita su cui c'era una mappa che diceva «Mappa del pirata». C'era la solita isola con la palma, una bussola, un faccione grasso che soffiava vento dall'ovest, una rotta marittima punteggiata, e un tre alberi più un serpente marino: tutti i tradizionali elementi, compresa la grande X nera che indicava il forziere dell'oro. «Questa è una delle cose che si vendono meglio per bambini di tutte le età», disse Emma, e aggiunse: «La gente è affascinata dal tesoro del pirata». «Davvero?» «Tu no?» «È interessante.» Poi domandai: «Fredric s'interessava al tesoro del pirata?» «Può darsi.» «Non dicevi d'avergli insegnato a leggere l'inglese antico?» «Sì, ma non so che cosa in particolare fosse interessato a leggere.» Ci fissammo per qualche istante, poi lei mi domandò: «Che succede, John?» «Non lo so bene neanch'io.» «Perché vuoi sapere di Fredric?» «Sono geloso.» A questo non rispose, ma domandò: «Perché hai voluto che ci vedessimo qui?» «Be'... posso fidarmi che lo terrai per te?» «Terrò per me cosa?» «I pirati.» «Cos'hanno i pirati?» Tra il dire a un teste che cosa vuoi e perché lo vuoi, c'è da pensarci un po'. Cambiai discorso e dissi: «Ho conosciuto i tuoi dipendenti. Janet, Ann e...» «Warren.» «Warren. Ho superato l'esame.» Sorrise e mi prese per mano. «Vieni a guardarti nello specchio.» Mi condusse nel corridoio, poi nella stanza da letto settecentesca. Mi guardai in uno specchio a parete con il cappello da pirata, la benda sull'occhio e la sciabola. «Sembro un cretino.» «Eh, sì.» «Grazie.» Lei disse: «L'hai mai fatto su un letto di piume?»
«No, mai.» «Devi tenere il cappello e la benda.» «È una fantasia mia o tua?» Rise, poi, prima che me ne rendessi conto, stava spogliandosi dei suoi panni, che lasciò sul pavimento. Tenne in testa il tricorno e, trattenendolo con una mano, si lasciò cadere sul letto, sopra la trapunta che, probabilmente, era un prezioso pezzo d'antiquariato e mai prima di quel momento aveva avuto a che fare con il sesso. Stetti al gioco, tenendomi cappello e benda mentre mi svestivo. Come ho già detto, lei era alta con le gambe lunghe, e i letti a quei tempi erano corti, così la sua testa e il cappello erano contro la testiera e i piedi toccavano la sponda. L'effetto era buffo e risi. «Cos'hai da ridere?» «Rido di te. Sei più grande del letto.» «Vediamo quanto sei grande tu.» In ogni caso, se non l'avete mai fatto su un materasso di piume, non avete perso molto. Ora capisco perché, in quei ritratti antichi alle pareti, non c'è mai uno che sorrida. 22 Più tardi, nella stanza dell'archivio e senza costumi, sedevamo entrambi al tavolo di quercia. Emma aveva una tazza di tè alle erbe che mandava odore di linimento per massaggi. Aveva messo insieme del materiale: documenti originali rivestiti di plastica, alcuni vecchi libri e alcune riproduzioni di lettere e documenti storici. Leggeva attentamente le sue carte mentre sorseggiava il suo tè. Io ero del tipico umore postcoitale del maschio, e pensavo che avrei dovuto dormire o andarmene. Ma non potevo permettermi né una cosa né l'altra; avevo lavoro da fare. «Che cosa ti interessa, esattamente?» mi domandò Emma. «Mi interessano i tesori dei pirati. Ce ne sono qua intorno?» «Certo. Quasi ovunque si scava, si trovano monete d'oro e d'argento, diamanti e perle. Gli agricoltori dicono che rende difficile arare.» «Posso immaginarlo. Ma parliamo seriamente.» Detesto che gli altri facciano i saccenti. «C'è un certo numero di leggende e di verità sui pirati, in riferimento a questa zona», disse lei. «Ti va di ascoltare le più famose? La storia di Ca-
pitan Kidd?» «Sì, certo. Intendiamoci, non dall'anno uno, soltanto che rapporto c'è tra Capitan Kidd, questa zona e il tesoro nascosto.» «D'accordo... prima di tutto, Capitan Kidd era uno scozzese, ma viveva a Manhattan con la moglie Sarah e con i loro due figli. Anzi, abitava proprio in Wall Street.» «È ancora piena di pirati.» «Kidd non era proprio un pirata. Era, in effetti, un capitano di nave corsara, ingaggiato da Lord Bellomont, che era allora governatore del Massachusetts, dello Stato di New York e del New Hampshire.» Emma sorseggiò il suo tè. «Così, con un incarico reale, il Capitano William Kidd salpò nel 1696 dal porto di New York per andare alla ricerca di pirati e impadronirsi del loro bottino. Bellomont investì gran parte del suo stesso denaro per comperare e armare la nave di Kidd, l'Adventure Galley. Anche in Inghilterra c'erano ricchi e potenti finanziatori di quell'impresa, tra cui quattro lord inglesi e lo stesso re Guglielmo.» «Vedo guai all'orizzonte. Mai entrare in una "joint venture" con il governo.» «Amen.» Ascoltai mentre lei mi riferiva tutta la favola a memoria. Mi domandavo se Tobin conoscesse quella storia e, se sì, l'aveva saputa prima o dopo avere incontrato Emma Whitestone? E perché mai qualcuno poteva seriamente pensare che un tesoro di trecento anni prima potesse essere ancora sepolto e/o trovato? Il tesoro di Kidd, come avevo scoperto parlando con Billy a Mattituck Inlet, era un sogno, una storiella per bambini. Naturalmente, il tesoro poteva anche essere esistito, ma era circondato da tanti di quei miti e di quelle leggende, come aveva detto Emma nel Cutchogue Diner, ed erano tali e tanti gli indizi e le mappe false, che nel corso degli ultimi tre secoli aveva perso qualsiasi significato. Poi mi ricordai di quel tale che aveva trovato la lettera di Charles Wilson nell'ufficio del pubblico archivio di stato... perciò poteva darsi che Tobin e i Gordon fossero inciampati in qualche autentica prova concreta. «Così», continuò Emma, «dopo una serie di disavventure nei Caraibi, Kidd fece vela verso l'Oceano Indiano alla ricerca di pirati. Là, depredò due navi di proprietà del Gran Mogol dell'India. A bordo c'erano ricchezze favolose, valutate a quei tempi sulle duecentomila sterline. Oggi, sarebbero qualcosa come venti milioni di dollari.» «Niente male per una giornata di lavoro.»
«No. Disgraziatamente, però, Kidd aveva commesso un errore. Il Mogol era un alleato del re, e se ne lamentò con il governo inglese. Kidd si difese dicendo che le navi del Mogol avevano lasciapassare francesi, e Francia e Inghilterra erano in guerra, all'epoca. Perciò, se anche le navi del Mogol non erano navi pirata, sotto il profilo tecnico erano navi nemiche. Sfortunatamente per Kidd, il governo inglese manteneva buoni rapporti con il Mogol attraverso la Compagnia delle Indie Orientali, che faceva grandi affari con il Mogol. Così Kidd era nei guai, e la sola cosa che poteva tirarlo fuori da quei guai era il bottino del valore di duecentomila sterline.» «Il denaro comanda.» «È sempre stato così.» A proposito di denaro, mi tornò di nuovo in mente Fredric Tobin. Mentre non ero proprio geloso della passata relazione di Emma con lui, pensavo che mi sarebbe tanto piaciuto poterlo mettere a friggere sulla sedia elettrica. Andiamo, andiamo, John. Emma continuò: «Così, William Kidd fece di nuovo vela per il Nuovo Mondo. Si fermò nei Caraibi, dove seppe d'essere lui stesso un ricercato, accusato di pirateria. Uomo previdente, lasciò circa un terzo del suo bottino nelle Indie Occidentali, presso una persona di cui poteva fidarsi. Molti del suo equipaggio non volevano saperne di quel problema, così presero la loro parte e rimasero nei Caraibi. Kidd allora comperò una nave più piccola, uno sloop chiamato San Antonio, e fece vela verso New York, per rispondere alle accuse. Lungo il viaggio, molti dei suoi uomini vollero essere lasciati a terra con la loro parte, cosa che avvenne, nel Delaware e nel New Jersey. Ma Kidd aveva ancora a bordo tesori per una cifra fantastica, che oggi varrebbe forse dai dieci ai quindici milioni di dollari». «Come sai che aveva ancora tanta parte del tesoro a bordo?» domandai. «Be', con certezza non lo sa nessuno. Sono ipotesi basate in parte sulla protesta del Mogol presso il governo britannico, che potrebb'essere stata gonfiata.» «Frottole da Mogol.» «Può darsi. Sai, a parte quello che può valere il tesoro grammo per grammo, considera che alcuni di quei gioielli devono essere pezzi da museo. Considera, inoltre, che se tu prendessi una singola moneta d'oro di quell'epoca, metti del valore di mille dollari, e la presentassi in un astuccio con tanto di autentica che faceva parte del tesoro di Capitan Kidd, potresti ricavarne probabilmente il doppio o il triplo.» «Vedo che hai studiato anche marketing alla Columbia.»
Sorrise, poi continuò a lungo a fissarmi. «Tutto questo riguarda l'uccisione dei Gordon, vero?» domandò. I nostri sguardi si incontrarono. «Continua, ti prego», dissi. Rimase un momento in silenzio, poi riprese: «D'accordo... sappiamo dai documenti e dall'archivio di stato che Kidd imboccò poi lo Stretto di Long Island dall'estremità orientale, e che approdò a Oyster Bay, dove prese contatto con un certo James Emmot, il quale era un avvocato famoso come difensore di pirati». «Ehi, la mia ex moglie lavora per quello studio. Hanno ancora la stessa attività.» Ignorò l'interruzione e continuò: «A un certo punto, Kidd si mise in contatto con la moglie a Manhattan, che lo raggiunse a bordo della San Antonio. Sappiamo che a quel momento tutto il tesoro era ancora a bordo.» «Vuoi dire che l'avvocato non se l'era ancora preso?» «In effetti, Emmot ebbe un compenso generoso da Kidd perché lo difendesse dall'accusa di pirateria.» Osservavo Emma Whitestone mentre parlava. Alla luce della lampada della stanza dell'archivio, con tante carte ammucchiate davanti, appariva e suonava quasi professorale. Mi ricordava alcune delle docenti che conoscevo alla John Jay: sicure di sé, dotte, calme e competenti di fronte alla classe, il che in un certo senso me le faceva apparire sexy e sensuali. Forse mi è rimasta questa tendenza per le insegnanti da quando ero alle medie, in particolare per la signorina Myerson, sulla quale faccio tuttora sogni proibiti. In ogni caso, Emma continuò: «Emmot andò a Boston per conto di Kidd e si incontrò con Lord Bellomont. Gli consegnò una lettera da parte di Kidd, e diede inoltre a Bellomont i due lasciapassare francesi che erano sulle due navi del Gran Mogol, a dimostrazione che il Mogol faceva il doppio gioco con gli inglesi e i francesi, e di conseguenza le navi erano state facile bersaglio per Kidd». «Questo come poteva saperlo, Kidd, quando attaccò quelle navi?» «Giusta domanda. Non venne mai fuori al processo.» «E stai dicendo che l'avvocato di Kidd quei lasciapassare, un'importante prova della difesa, li aveva consegnati a Bellomont?» «Sì, e Bellomont, per ragioni politiche, voleva che Kidd venisse impiccato.» «Da licenziare, quell'avvocato li. Bisogna sempre dare le fotocopie e tenere gli originali.»
Lei sorrise. «Già. Gli originali non vennero mai prodotti al processo di Kidd che si tenne a Londra e, senza quei lasciapassare francesi, Kidd venne condannato e giustiziato.» Poi aggiunse: «Quei lasciapassare vennero trovati al British Museum nel 1910». «Un po' tardi per la difesa.» «Questo è certo. William Kidd era stato incastrato, in sostanza.» «Poveraccio. Ma che ne fu del tesoro a bordo della San Antonio?» «Qui sta il problema. Ora ti dirò quello che accadde dopo che Emmot era stato da Lord Bellomont a Boston e, dato che sei un investigatore, mi dirai tu che cosa ne fu del tesoro.» «Okay, ti ascolto.» «Emmot, non un gran bravo avvocato a quanto pare, ricavò da Lord Bellomont l'impressione che Kidd sarebbe stato trattato con lealtà se si fosse consegnato lì a Boston. Anzi, Bellomont scrisse a Kidd una lettera che diede a Emmot perché gliela portasse. La lettera, tra le altre cose, diceva...» Lesse da una riproduzione che aveva davanti: «"ne ho discusso con i consiglieri di sua Maestà, ed essi sono dell'opinione che se siete in buona fede come dite, potete senza pericolo venire quivi onde essere equipaggiato e rifornito per andare a prendere l'altra vostra nave, e io non nutro dubbio alcuno di ottenere per voi il perdono del Re."» «Suona come una balla sovrana, a me.» Emma assentì e continuò dalla lettera di Lord Bellomont a Kidd: «"Vi assicuro sulla mia parola e sul mio onore che eseguirò onestamente quello che ora ho promesso, e in tal senso dichiaro in anticipo che quali che siano i tesori che quivi porterete, non ne toccherò la minima parte, ma saranno affidati a quelle persone degne di fede che il Consiglio vorrà indicare fino a che riceverò ordini dall'Inghilterra su come se ne debba disporre."» Emma sollevò lo sguardo su di me e mi domandò: «Questo t'avrebbe portato a Boston, per rispondere a un'accusa che prevedeva l'impiccagione?» «Me, no di certo. Sono di New York, io. Sento puzza di imbroglio da un chilometro di distanza.» «Anche William Kidd. Era di New York e scozzese. Ma che cosa doveva fare a questo punto? Era uomo di certa sostanza a Manhattan, aveva sua moglie e i suoi due figli a bordo dello sloop, e sentiva d'essere innocente. Quel che più conta, aveva il denaro: un terzo laggiù nei Caraibi e il resto a bordo della San Antonio. Intendeva servirsi del suo tesoro e negoziare per avere salva la vita.»
Assentii. Davvero interessante, pensavo, quanto poco fossero cambiate le cose in trecento anni. Ecco una situazione in cui il governo ingaggia un tizio per fargli fare il lavoro sporco, quello in parte lo fa ma per errore crea un problema politico per il governo, così gli altri cercano non solo di riavere indietro il loro denaro, ma anche la parte che gli tocca, dopo di che lo incastrano e alla fine lo impiccano. Ma in qualche punto di tutta l'azione, la maggior parte dei dindi scivola via dalle loro mani. Emma continuò: «Nel frattempo, Kidd continuava a tenere in movimento la sua nave, veleggiando avanti e indietro attraverso lo Stretto, da Oyster Bay a Gardiners Island e spingendosi addirittura fino a Block Island. Fu durante quel periodo che la nave a quanto pare si alleggerì». «Lui non faceva che liberarsi del bottino.» «Sembra proprio che sia andata così, ed ecco come sono nate tutte le leggende sul tesoro sepolto. Abbiamo un uomo con a bordo oro e gioielli per un valore di dieci o quindici milioni di dollari, il quale sa di poter essere catturato in mare da un momento all'altro. Ha una piccola nave con soli quattro cannoni. È veloce, ma non può tenere testa a una nave da guerra. Perciò, tu cos'avresti fatto?» «Penso che avrei tagliato velocemente la corda.» «Non ha quasi più uomini di equipaggio, ed è a corto di provviste. E a bordo ci sono sua moglie e i suoi figli.» «Ma il denaro ce l'ha. Prendi quello e scappa.» «Be', non è quello che fece Kidd. Lui sceglie di consegnarsi. Ma non è stupido, per cui decide di nascondere il bottino: tieni presente, quella è la parte con cui Bellomont, i quattro lord e il re intendono risarcirsi del loro investimento. Quel tesoro diventa ora l'assicurazione sulla vita di Kidd.» Assentii. «E così lui lo seppellì.» «Esatto. Nel 1699, la popolazione era scarsissima al di fuori di Manhattan e Boston, così Kidd aveva migliaia di posti dove poter approdare e seppellire tranquillamente tesori.» «Come gli Alberi di Capitan Kidd.» «Sì. E più a est, ci sono le Cornici di Capitan Kidd, che sono probabilmente una parte delle rupi, dato che non ci sono vere e proprie cornici o scogliere su Long Island.» Mi feci attento. «Vuoi dire, c'è una parte delle rupi chiamata Cornici di Capitan Kidd? Dove?» «In qualche punto tra Mattituck Inlet e Orient Point. Nessuno lo sa con certezza. Fa solo parte dell'intero mito.»
«Che però in parte è vero. Giusto?» «Sì, ed è quello che lo rende interessante.» Annuii. Uno di quei miti - le Cornici di Capitan Kidd - aveva appunto sollecitato i Gordon ad acquistare l'acro sulle rupi da Margaret Wiley. Che astuzia. «Non c'è dubbio», aggiunse Emma, «che Kidd scaricò parti di tesoro in diversi punti, o qui sulla North Fork, o su Block Island, o su Fisher Island. È là che la maggior parte dei resoconti colloca il tesoro nascosto.» «Nessun altro luogo?» «Un altro, che sappiamo essere vero. Gardiners Island.» «Gardiners?» «Sì. Questa è storia documentata. Nel giugno del 1699, mentre veleggiava attorno cercando di venire a patti con Lord Bellomont, Kidd si ancorò al largo di Gardiners Island per rifornirsi di provviste. L'isola veniva allora chiamata sulle mappe Isola di Wight, ma era, ed è tuttora, di proprietà della famiglia Gardiner.» «Quelli che oggi possiedono l'isola sono i Gardiner, vuoi dire, ed è la stessa famiglia che ne era proprietaria nel 1699?» «Sì. L'isola è stata dei discendenti della stessa famiglia da quando, nel 1639, venne data loro da re Carlo I. Nel 1699, Lord Gardiner, il terzo Lord del Casato, viveva là con la sua famiglia. La storia di Capitan Kidd», aggiunse Emma, «è molto legata a quella della famiglia Gardiner. Anzi, su Gardiners Island c'è Kidd Valley e c'è un monumento di pietra che segna il punto dove John Gardiner seppellì per lui parte del tesoro di Kidd. L'intera isola è proprietà privata, ma l'attuale proprietario te la farà visitare, se vuoi.» Esitò, poi disse: «Fredric e io siamo stati ospiti di quel signore». Non feci commenti in proposito ma dissi: «Allora c'era davvero un tesoro sepolto». «Sì. William Kidd arrivò con la sua San Antonio, e John Gardiner andò con una barchetta a vedere chi si fosse ancorato al largo della sua isola. Secondo tutti i resoconti fu un incontro cordiale, e i due scambiarono doni. Vi fu almeno un secondo incontro fra loro, e in quell'occasione Kidd diede a Gardiner buona parte del bottino e gli chiese di seppellirla.» «Spero», dissi, «che Kidd si sia fatto dare una ricevuta.» «Meglio ancora. Le ultime parole di Kidd a John Gardiner furono: "Se torno a prenderlo ed è scomparso, taglierò la testa a voi o ai vostri figli".» «Meglio di una ricevuta firmata.» Emma sorseggiò il suo tè, poi mi guardò e disse: «Naturalmente, Kidd
non ritornò mai. Aveva ricevuto un'altra bella lettera da Bellomont e perciò era pronto ad andare a Boston e ad affrontare le accuse. Sbarcò là il primo di luglio. Gli venne concesso per una settimana di rimanere libero, certo per vedere con chi aveva rapporti, poi venne arrestato per ordine di Bellomont e messo in catene. La sua nave e il suo alloggio di Boston vennero perquisiti, e si rinvennero lingotti d'oro, argento e alcuni gioielli e diamanti. Un tesoro abbondante, certo, ma non quanto si riteneva che Kidd avesse in possesso, e neanche lontanamente sufficiente a coprire il costo della spedizione». «Che fine ha fatto il tesoro su Gardiners Island?» domandai. «Be', in qualche modo - e qui le storie differiscono - venne alle orecchie di Bellomont, che mandò a John Gardiner una bella lettera per corriere speciale...» Tirò a sé una riproduzione e lesse: «"Signor Gardiner, ho chiuso Capitan Kidd e alcuni dei suoi uomini nella segreta di questa città. È stato interrogato da me e dal Consiglio e ha confessato tra le altre cose d'avere lasciato a voi un involto d'oro chiuso in una cassa e alcuni altri oltre quello, e il tutto io vi richiedo in nome di Sua Maestà di rendere immediatamente quivi a me affinché possa metterli al sicuro per l'uso di Sua Maestà, e io ricompenserò il vostro disturbo per essere venuto. Firmato, Bellomont."» Emma mi porse la lettera, e vi gettai un'occhiata. Potevo realmente leggerne parte. Incredibile, pensai, che una cosa del genere si sia conservata per tre secoli. Mi passò per la mente che forse qualche altro documento antico di trecento anni riguardante la collocazione di altre parti del tesoro di Kidd aveva condotto all'uccisione di due biologi del ventesimo secolo. «Spero che John Gardiner», dissi a Emma, «abbia mandato una lettera a Bellomont, dicendo "Quale Kidd? Quale oro?"» Lei sorrise. «No, John. Gardiner non intendeva certo contrariare il governatore e il re. Andò personalmente a Boston a consegnare il tesoro.» «Scommetto che ne avrà tenuto una parte per sé.» Emma spinse verso di me un pezzo di carta e disse: «Quella è una fotostatica dell'inventario originale del tesoro consegnato da John Gardiner a Lord Bellomont. L'originale è nel pubblico archivio di stato di Londra». Guardai la fotostatica dell'originale, che era lacerato in alcuni punti e per me del tutto indecifrabile. La spinsi a mia volta verso Emma. «Puoi veramente leggerla?» «Posso, sì.» Tenne la fotostatica sotto la lampada e lesse: «"Ricevuto il 17 luglio da John Gardiner: un sacchetto di polvere d'oro, un sacchetto di
monete d'oro e d'argento, un involto di polvere d'oro, un sacchetto con tre anelli d'argento e svariate pietre preziose, un sacchetto di pietre grezze, un involto di pietra di cristallo, due anelli di cornalina, due piccole agate, due ametiste tutto nello stesso sacchetto, un sacchetto di bottoni d'argento, uno di argento a pezzi, due sacchi di barre d'oro e due di barre d'argento. L'insieme dell'oro su menzionato è centoundici e undici once, peso troy. L'argento è duemilatrecentocinquantatré once, i gioielli e il peso delle pietre preziose sono diciassette once..."» Emma sollevò lo sguardo dall'inventario e disse: «Questo è un tesoro di una certa consistenza, ma se credi all'affermazione fatta dal Mogol al governo inglese, allora c'erano venti volte più oro e gioielli di quanti ne erano stati ritrovati fino a quel momento su Gardiners Island o catturati sulla San Antonio e nell'alloggio di Kidd a Boston». Mi sorrise e domandò: «Forza, detective, dov'è il resto del saccheggio, bottino e preda?» Ricambiai il sorriso. «Okay... un terzo è ancora nei Caraibi.» «Sì. Quel tesoro, che è ben documentato, è scomparso e ha dato origine a cento leggende nei Caraibi pari alle cento leggende di qui.» «Bene... inoltre, quelli dell'equipaggio si presero la loro parte via via che abbandonavano la nave.» «Sì, ma l'insieme della parte dell'equipaggio non sarebbe stata più del dieci per cento del tesoro totale. La quota è quella.» «Più le cure mediche e dentistiche.» «Dov'è il resto del tesoro?» «Be', possiamo supporre che John Gardiner qualcosina se lo tenne.» «Possiamo supporlo.» «L'avvocato, Emmot, ebbe la sua parte, è certo.» Lei assentì. «Quanto ne rimane?» Emma alzò le spalle. «Chi lo sa? Le stime vanno da cinque a dieci milioni di dollari di valore attuale, di cui non c'è rendiconto. Ma, come dicevo, il tesoro, se trovato in loco, forzieri marciti e via dicendo, varrebbe il doppio o il triplo del suo valore intrinseco se fosse messo all'asta da Sotheby's. La sola mappa del tesoro», aggiunse poi, «se esistesse e fosse di pugno di Kidd, all'asta potrebbe valere centinaia di migliaia di dollari.» «Voi quanto prendete per le mappe del gift shop?» «Quattro dollari.» «Non sono autentiche?» Sorrise e finì il suo tè.
«Partiamo dall'ipotesi», dissi, «che Kidd seppellì il tesoro in uno o in più luoghi come assicurazione, come mezzo di contrattazione per comprarsi la libertà e salvarsi dalla forca.» «Quest'ipotesi esiste da sempre. Se parte del tesoro la seppellì a Gardiners Island, probabilmente fece la stessa cosa altrove per la stessa ragione.» E aggiunse: «Gli Alberi di Capitan Kidd e le Cornici di Capitan Kidd». «Sono andato», dissi, «a vedere gli Alberi di Capitan Kidd.» «Ah, sì?» «Credo d'averlo trovato, il posto, ma sono stati tagliati tutti.» «Sì, c'erano in piedi ancora alcune grandi querce verso la svolta del secolo. Ora sono sparite tutte. La gente», spiegò Emma, «usava scavare attorno ai ceppi.» «Si può vederne ancora qualcuno, di quei ceppi.» «In epoca coloniale», mi informò Emma, «scavare per il tesoro del pirata divenne un'ossessione nazionale tale che Ben Franklin scriveva articoli di giornale contro. Non più in là degli anni intorno al 1930, la gente stava ancora scavando, qui.» Poi soggiunse: «La mania è quasi completamente scomparsa, ma fa parte della cultura locale, ecco perché non volevo che qualcuno, nel Cutchogue Diner, ci sentisse parlare di tesori nascosti. Metà della dannata popolazione si sarebbe messa a scavare, a quest'ora». E rise. «Incredibile. Insomma, il tesoro sepolto da Kidd doveva essere la sua assicurazione sulla vita. Perché non lo salvò dalla forca?» «Per un insieme di incomprensioni, mala sorte, spirito di vendetta. Per cominciare, nessuno a Boston o a Londra credeva che Kidd potesse recuperare la parte di bottino nei Caraibi, e probabilmente avevano ragione. Quella era scomparsa da tempo. Inoltre, c'erano la protesta del Mogol e il problema politico. Lo stesso Kidd, poi, stava facendo il furbo. Temporeggiava perché voleva il perdono pieno del re in cambio della consegna dei beni saccheggiati. Ma il re e gli altri erano probabilmente del parere che per proteggere la Compagnia delle Indie Orientali dovevano restituire il bottino al Mogol e quindi non avevano alcun interesse a perdonare Kidd in cambio delle indicazioni sul tesoro. Preferivano impiccare Kidd, cosa che fecero.» «Kidd disse niente sul tesoro nascosto al suo processo?» «Niente. Ci sono trascrizioni del processo, ed è chiaro che Kidd si rendeva conto che l'avrebbero impiccato qualsiasi cosa avesse fatto o detto. Lo accettò, penso, e decise come ultimo atto di disprezzo di portarsi qual-
siasi segreto potesse avere nella tomba.» «Oppure, lo disse alla moglie.» «Questa è sicuramente una possibilità. Lei possedeva del denaro suo, ma pare abbia vissuto molto bene dopo la morte del marito.» «Lo fanno tutte.» «Niente commenti sessisti, per piacere. Dimmi cosa ne è stato del tesoro.» «Non ho informazioni sufficienti», replicai. «Gli indizi sono antichi. Però, partirei dal presupposto che vi fosse ancora parte di quel tesoro sepolta in qualche luogo.» «Pensi che Kidd abbia detto alla moglie dov'era il tutto?» Riflettei un poco su questo, poi risposi: «Kidd sapeva che anche sua moglie poteva essere arrestata e costretta a parlare. Perciò... penso che da principio non gliel'abbia detto, ma quando ormai era in ceppi a Boston e sul punto di venire spedito a Londra, probabilmente le avrà dato alcuni indizi. Come quel numero di otto cifre». Emma assentiva. «Lo si è sempre pensato che Sarah Kidd riuscì a recuperare parte del tesoro. Ma non credo che Kidd le avrebbe detto dov'era il tutto, perché se fosse stata arrestata e costretta a parlare, ecco che per Kidd anche la più lieve speranza di scambiare il bottino nascosto con la propria vita sarebbe andata perduta.» Poi aggiunse: «Penso proprio che l'indicazione del punto dov'era sepolta parte del tesoro l'abbia portata con sé nella tomba». «Lo torturarono, Kidd?» domandai. «No», rispose lei, «e la gente si è sempre domandata come mai. A quei tempi, torturavano per ragioni ben più insignificanti. Molta parte della storia di Kidd non ha mai avuto un senso.» «Se ci fossi stato io all'epoca, avrei cavato un senso da tutto.» «Se ci fossi stato tu all'epoca, ti avrebbero impiccato come sobillatore.» «Non dire cattiverie, Emma.» Elaborai tutte quelle informazioni e per un po' mi ci trastullai. Pensai di nuovo alla lettera particolareggiata di Charles Wilson al fratello, e domandai a Emma: «Pensi che Kidd potesse ricordare a memoria la posizione esatta di tutti i luoghi dove aveva sepolto il suo tesoro? È possibile, questo?» «Probabilmente no», mi rispose. «Bellomont la cercò, la prova di un tesoro nascosto, e recuperò alcune carte dall'alloggio di Kidd a Boston e dalla San Antonio, ma non c'erano mappe o indicazioni di tesori sepolti tra
quelle carte... o, se c'erano, Bellomont le tenne per sé. Non ti ho detto che Bellomont mori prima che Kidd venisse impiccato a Londra, perciò se aveva lui qualcuna delle mappe del tesoro di Kidd, potrebbero essere scomparse alla sua morte. Perciò vedi, John, ci sono un sacco di piccoli indizi, allusioni e incoerenze. Per secoli quelli che avevano interesse a questa storia hanno giocato agli investigatori storici.» Mi sorrise e domandò: «E allora, sei riuscito a venirne a capo?» «Non ancora. Ho bisogno ancora qualche minuto.» «Riflettici pure quanto vuoi. Nel frattempo, io ho bisogno di bere qualcosa. Andiamo.» «Aspetta. Ho ancora qualche domanda da farti.» «Forza. Sentiamo.» «Allora... io sono Capitan Kidd e ho navigato attorno allo Stretto di Long Island per... quanto tempo?» «Alcune settimane.» «Bene. Sono stato a Oyster Bay dove sono entrato in contatto con un legale, e mia moglie e i miei figli sono venuti a bordo da Manhattan. Sono stato a Gardiners Island... ho chiesto a Gardiner di seppellire per me parte del tesoro. So dove l'ha sepolto?» «No, ed ecco perché non era necessaria una mappa. Kidd disse semplicemente a Gardiner di fare in modo che il tesoro fosse disponibile al suo ritorno, o gli avrebbe tagliato la testa.» Assentii. «Questo è meglio di una mappa. Kidd non aveva bisogno nemmeno di scavare la buca.» «Infatti.» «Pensi che Kidd abbia fatto la stessa cosa in altre località?» «E chi può dirlo? Il metodo più comune era di andare a terra con alcuni uomini e seppellire il tesoro in segreto, poi fare una mappa del luogo.» «Ma così hai dei testimoni che sanno dove il tesoro è sepolto.» «Il metodo tradizionale per assicurare la segretezza», replicò lei, «era di uccidere l'uomo che aveva scavato la buca e gettarcelo dentro. Poi il capitano e il suo fido secondo riempivano la buca. Si credeva che il fantasma del marinaio assassinato aleggiasse intorno al tesoro. In effetti, sono stati trovati scheletri sepolti insieme ai forzieri.» «Prova presuntiva di omicidio», dissi. «Come già ho accennato», continuò lei, «a questo punto l'equipaggio di Kidd doveva essersi ridotto a sei o sette uomini. Se si fidava almeno di uno perché tenesse d'occhio la nave, l'equipaggio e la sua famiglia, poteva fa-
cilmente remare fino a una baia o lungo un braccio di mare e seppellire un forziere da sé. Non occorre una laurea in ingegneria per scavare una buca nella sabbia. In genere i vecchi film mostrano un gruppo numeroso che va a terra ma, a seconda delle dimensioni del forziere, una o due persone bastavano.» Annuii. «Molta della nostra percezione della storia è influenzata dall'inaccuratezza dei film.» «Probabilmente è così», ammise Emma. «Ma una cosa nei film è piuttosto accurata: ogni caccia al tesoro parte dalla scoperta di una mappa da lungo tempo perduta. Noi le vendiamo per quattro dollari, giù in negozio, ma nel corso dei secoli sono state vendute per migliaia di dollari a gente credulona.» Ci meditai su, pensando che proprio una di quelle mappe - una autentica - poteva essere venuta chissà come in possesso di Tom e Judy, e/o di Fredric Tobin. «Avevi accennato», dissi a Emma, «che un tempo Gardiners Island si chiamava Isola di Wight.» «Sì.» «Ci sono altre isole qua intorno che un tempo avevano un altro nome?» «Certo. Tutte le isole inizialmente avevano nomi indiani, ovviamente. Poi alcune presero nomi olandesi o inglesi, e perfino quelli cambiarono nel corso degli anni. Era un vero problema quello dei nomi di luoghi geografici nel Nuovo Mondo. Alcuni capitani inglesi avevano soltanto mappe olandesi, e alcune mappe, per esempio, portavano il nome sbagliato; il modo in cui erano scritti era atroce, e alcune mappe avevano addirittura dei vuoti, oppure davano di proposito indicazioni ingannevoli.» Assentii, poi dissi: «Prendiamo per esempio Robins Island, oppure, che so, Plum Island. Come si chiamavano al tempo di Kidd?» «Robins Island, non saprei, ma il nome di Plum Island era lo stesso, salvo che si scriveva P-1-u-m-b-e. Questo veniva dal precedente nome olandese di Plum Island, che si scriveva P-r-u-m-e-y-1-a-n-d. Potrebb'esserci stato un nome ancora precedente, e uno come William Kidd, che per anni non era più andato per mare prima di accettare quell'incarico da Bellomont, potrebbe avere avuto o acquistato carte di navigazione già vecchie di decenni. Non era affatto insolito, questo.» Poi Emma continuò: «La mappa del tesoro di un pirata, che sarebbe stata disegnata in base a una carta, poteva in partenza avere delle inesattezze. E non dimenticare che non sono molte le mappe del tesoro autentiche esistenti al giorno d'oggi, per cui è difficile trarre conclusioni sulla generale accuratezza delle mappe dei teso-
ri sepolti. Dipendeva dal pirata stesso. Alcuni erano veramente stupidi». Sorrisi. Lei continuò: «Se il pirata sceglieva di non disegnare una mappa e bisogna quindi basarsi sulle sue istruzioni scritte, le probabilità di trovare un tesoro si fanno ancora più scarse. Supponi, per esempio, d'avere trovato una pergamena che diceva: "Su Pruym Eyland, ho sepolto il mio tesoro: da Eagle Rock fare trenta passi fino alle querce gemelle, di là, quaranta passi verso sud" e così via. Se già non riuscivi a immaginare dove fosse Pruym Eyland, il problema era grave. Se le ricerche ti dicevano che Pruym Eyland era un tempo il nome di Plum Island, poi dovevi cercare la roccia che tutti all'epoca conoscevano come Eagle Rock. E dimenticarti delle querce. Capisci?» «Capisco, sì.» Dopo un po', Emma riprese: «Gli archivisti sono un po' anche dei detective. Posso azzardare un'ipotesi?» «Certo.» Rifletté un momento, poi disse: «Bene... i Gordon avevano trovato alcune informazioni sul tesoro di Capitan Kidd, o magari di qualche altro pirata, e poi qualcuno scoprì la cosa, ed ecco perché i Gordon sono stati assassinati». Mi guardò: «È così?» «Qualcosa del genere», ammisi. «Sto lavorando sui particolari.» «I Gordon avevano veramente recuperato il tesoro?» «Non ne sono sicuro.» Non insistette per sapere altro. «Come avrebbero fatto i Gordon a imbattersi in quelle informazioni?» domandai. «Non vedo incartamenti, qui, con scritto "Mappe del tesoro di pirati". Giusto?» «Giusto. Qui le sole mappe del tesoro di pirati sono nel gift shop. Ci sono, tuttavia, qui e in altri musei e associazioni storiche, documenti che ancora non sono stati letti o, se letti, non ne è stato compreso il significato. Capisci?» «Sì.» «Vedi, John», continuò, «chi fruga in archivi come quello di stato a Londra, o del British Museum, trova cose nuove che ad altri sono sfuggite o che non hanno compreso. Perciò, sì, potrebbero esserci informazioni qui o in altre collezioni o in case private.» «In case private?» «Sì. Almeno una volta l'anno ci viene donato qualcosa che era saltato
fuori in una vecchia casa. Come un testamento o un antico atto. La mia ipotesi - ma questa è soltanto un'ipotesi - è che persone come i Gordon, che non erano archivisti o storici di professione, siano semplicemente inciampate in qualcosa di talmente ovvio che perfino loro potevano capire che cosa fosse.» «Come una mappa?» «Sì, come una mappa che mostri in modo ben chiaro un luogo geografico riconoscibile, e dia punti di riferimento, direzioni, passi, rotte, e tutto quello che serve. Se in possesso di qualcosa del genere, potevano benissimo andare sul posto e scavare.» Rifletté un momento, poi riprese: «I Gordon avevano fatto un sacco di scavi archeologici su Plum Island... forse, stavano veramente cercando un tesoro». «Senza "forse".» Mi guardò a lungo, poi disse: «Da quello che sento, avevano scavato buche su tutta l'isola. Non sembra da questo che sapessero cosa o dove...» «Gli scavi archeologici erano una copertura. Davano loro la possibilità di aggirarsi per parti remote dell'isola armati di vanghe. Non mi sorprenderebbe, inoltre, se anche il lavoro d'archivio fosse stato a sua volta una copertura.» «Perché?» «Non avrebbero avuto il permesso di tenersi qualcosa che avessero trovato su Plum Island. È terra del governo. Dovevano perciò creare una leggenda tutta loro. La leggenda di come Tom e Judy Gordon avessero visto qualcosa negli archivi - qui o a Londra - che nominava gli Alberi di Capitan Kidd o le Cornici di Capitan Kidd e che li aveva indotti, avrebbero affermato in seguito, a pensare di cercarlo, quel tesoro.» Poi soggiunsi: «In realtà, sapevano già che il tesoro era su Plum Island». «Incredibile.» «Sì, ma il problema va affrontato andando a ritroso. Parti da una mappa autentica o da indicazioni scritte che indichino l'esatta posizione di un tesoro su Plum Island. Mettiamo che tu fossi in possesso di queste informazioni. Che cosa faresti tu, Emma Whitestone?» Non ci pensò a lungo prima di rispondere. «Non farei altro che dare quelle informazioni al governo. Parliamo di un importante documento storico, e il tesoro, se c'è, è storicamente importante. Se è situato su Plum Island, allora dev'essere ritrovato su Plum Island. Fare altrimenti non è soltanto disonesto, è anche mistificazione storica.» «La storia è piena di bugie, inganni e mistificazioni. Ecco come il tesoro
è finito là fin dal primo momento. Perché non ricorrere a un'altra mistificazione? Chi trova qualcosa se lo tiene. Giusto?» «No. Se il tesoro è sul terreno di qualcuno - sia pure del governo - allora è di sua proprietà. Se io scoprissi il luogo dove si trova, mi accontenterei di una ricompensa.» Sorrisi. Lei mi fissò. «Tu cosa faresti?» «Be'... nello spirito di Capitan Kidd, cercherei di venire a patti. Non mi limiterei a indicare il punto dove si trova alla persona la cui terra è rappresentata sulla mappa. Troverei giusto dare il segreto in cambio di una parte. Perfino lo Zio Sam verrebbe a patti.» Ci pensò su e disse: «Penso di si». Poi aggiunse: «Solo, non è così che hanno agito i Gordon». «No. I Gordon avevano un socio, o forse più d'uno, il quale era sicuramente più ladro di quanto lo fossero loro. E probabilmente assassino, anche. In realtà, non sappiamo che cosa stessero combinando i Gordon, o quali intenzioni avessero, perché sono finiti assassinati. Possiamo presumere che siano partiti da concrete informazioni sul luogo in cui si trovava un tesoro su Plum Island, e tutto quello che li vediamo fare in seguito non è che un deliberato e abile stratagemma - la Peconic Historical Society, gli scavi archeologici, il lavoro d'archivio, perfino la settimana nell'ufficio dell'archivio di stato a Londra - tutto in preparazione del trasporto e della risepoltura del tesoro dalla terra dello Zio Sam a quella dei Gordon.» Emma assentiva. «Ed ecco perché avevano comperato quel terreno da Margaret Wiley: un posto dove riseppellire il tesoro... le Cornici di Capitan Kidd.» «Precisamente. Tutto questo ha senso, per te, o io sono matto?» «Matto lo sei, ma un senso ce l'ha.» Ignorai la battuta e continuai: «Se in palio ci sono dieci o venti milioni di dollari, le cose le fai bene. Vai con calma, copri le tue tracce prim'ancora che qualcuno si accorga che stai lasciando delle tracce, anticipi eventuali problemi con storici, archeologi e governo. Non sarai solo ricco, sarai anche famoso, e verrai a trovarti alla ribalta, nel bene o nel male. Sei giovane, bello, intelligente e danaroso. E complicazioni non ne vuoi». Lei rimase un poco in silenzio, poi osservò: «Ma qualcosa è andato storto». «Per forza: sono morti.» Per alcuni momenti nessuno di noi due parlò. Ora avevo un sacco di ri-
sposte, e avevo tuttora un sacco di domande. Alcune forse non avrebbero mai avuto risposta, dato che, come William Kidd, Tom e Judy si erano portati i loro segreti nella tomba. Alla fine, Emma domandò: «Chi pensi che li abbia uccisi?» «Probabilmente il loro socio, o dei soci.» «Lo so... ma chi?» «Ancora non lo so. Hai qualche sospetto in mente?» Scosse la testa, ma penso che un sospetto lo avesse. Avevo confidato una quantità di informazioni a Emma Whitestone, che in realtà non conoscevo. Ma ho istintivo il senso di chi fidarmi, io. Nell'eventualità che avessi sbagliato a giudicarla, che lei facesse parte del complotto, non aveva molta importanza perché erano tutte cose che lei già sapeva. E se fosse andata a dirle a Fredric Tobin o a qualcun altro che potesse venirmi in mente, tanto meglio. Fredric Tobin viveva molto in alto nella sua torre, e ce ne sarebbe voluto di fumo perché gli arrivasse lassù. E se fosse stato coinvolto qualcun altro di cui io non sapevo niente, il fumo avrebbe potuto raggiungere anche lui, o lei. Viene un momento, in un'indagine, in cui lasci che il velo si squarci. Specialmente quando il tempo comincia a mancare. Meditai sulla mia prossima domanda, poi decisi di giocare il tutto per tutto. «Mi risulta che alcune persone della Peconic Historical Society sono andate a Plum Island per un rilievo topografico dei possibili scavi.» Lei assentì. «Una di quelle persone era Fredric Tobin?» Esitò visibilmente, il che penso dipendesse da un'antica abitudine alla lealtà. Alla fine, disse: «Sì. È stato all'isola, una volta». «Con i Gordon come guide?» «Sì.» Mi guardò e domandò: «Pensi che... voglio dire...?» «Posso fare congetture sul movente e sul metodo», risposi, «ma non ne faccio mai a voce alta sui sospetti.» Poi aggiunsi: «È importante che tu tenga tutto questo per te». Assentì. La guardavo. Dava l'impressione d'essere proprio quella che sembrava: una donna intelligente, onesta e piacevolmente pazzerella. Mi piaceva. Le presi la mano, che le strinsi in un breve gioco amoroso. «Grazie del tuo tempo e della tua competenza», dissi. «È stato divertente.» Assentii. La mia mente tornò a William Kidd. «E così», dissi, «lo impic-
carono?» «Lo impiccarono. Lo tennero in catene in Inghilterra per più di un anno prima di processarlo all'Old Bailey. Non gli venne concesso né un difensore, né dei testimoni, né alcuna prova. Venne giudicato colpevole e impiccato sul luogo dell'esecuzione, lungo il Tamigi. Il suo cadavere venne ricoperto di catrame e appeso in catene come monito per i marinai che passavano. Per mesi i corvi si cibarono delle sue carni marcite.» Mi alzai. «Andiamo, su», dissi. «Andiamo a bere qualcosa.» 23 Sentivo il bisogno di un pasto sostanzioso, così suggerii di cenare al ristorante «da Claudio» ed Emma fu d'accordo. Il ristorante si trova a Greenport, che come ho già detto ha una popolazione di circa duemila anime, meno del numero di persone che abitano nel mio condominio. Ci dirigemmo a est, lungo Main Road. Erano circa le sette di sera quando entrammo in paese, e cominciava a far buio. Greenport in sé non è caratteristica o antica come i villaggi più piccoli; era, ed è tuttora, un porto e un centro di pesca commerciale. Era stato alquanto nobilitato in anni recenti con boutique, ristoranti alla moda e così via, ma «da Claudio» è rimasto suppergiù uguale a com'era quando io ero bambino. All'epoca c'erano ben pochi locali dove cenare sulla North Fork; c'era «da Claudio», proprio sulla baia al termine di Main Street, vicino al molo, dov'era sempre stato fin dal secolo scorso. Parcheggiai e ci avviammo a piedi sul lungo molo. Un grande trealberi era ormeggiato in permanenza al molo, e c'era un bar nei pressi, gente che passeggiava, e alcune barche a motore all'attracco i cui passeggeri erano probabilmente al «da Claudio». Era un'altra bella serata, e feci un commento su quel tempo splendido. Emma disse: «C'è una depressione tropicale che si sta formando nei Caraibi». «Potrebbe servire del Prozac?» «È un baby uragano.» «Ah, ecco.» Come dire un baby leone. Gli uragani erano piacevoli da osservare dal condominio di Manhattan. Non erano piacevoli affatto su quella lingua di terra meno di quindici metri sopra il livello del mare. Ricordavo un uragano, in agosto, al tempo in cui ero ragazzino. All'inizio era
stato divertente, poi mi aveva fatto una gran paura. Così, passeggiammo, chiacchierando. C'è uno stato di eccitazione nelle prime fasi di un rapporto - diciamo nei primi tre giorni - dopo di che, a volte ci si rende conto di non essere fatti per intendersi. In genere è qualcosa che l'altra persona dice, come: «Spero tu sia amante dei gatti». Ma con Emma Whitestone, fino a quel momento, andava tutto bene, e anche lei sembrava godere della mia compagnia. Anzi, lo disse: «Mi piace stare con te», «Perché?» «Be', non sei come gli altri uomini che ho conosciuto: loro non vogliono altro che sentire di me, parlare di me, discutere di arte, di politica e di filosofia e avere la mia opinione su tutto. Tu sei diverso. Tu vuoi solo sesso.» Risi. Mi prese il braccio e proseguimmo fino in fondo al molo, dove ci fermammo a osservare le barche. «Stavo pensando...» disse lei, «se Tom e Judy fossero vissuti, e avessero annunciato d'avere trovato quel favoloso tesoro - il tesoro di un pirata, il tesoro di Kidd - ecco che quelli dei media sarebbero stati dappertutto, come quando i Gordon sono stati assassinati. Avrebbero invaso Southold, intervistando la gente per la strada, filmando Main Street e così via.» «L'avrebbero fatto di certo.» «È una vera ironia, perciò, che siano venuti per riferire sull'uccisione dei Gordon invece che sulla loro fortuna.» Assentii. «Osservazione interessante.» «Mi domando se i giornalisti sarebbero venuti alla Peconic Historical Society per la storia del tesoro.» «È probabile.» «Sai, come ti dicevo prima, c'erano vere e proprie frenesie di caccia al tesoro. Non più in là degli anni Trenta - durante la depressione - e fino alla fine degli anni Cinquanta. La Kiddmania investiva tutta questa zona, scatenata di solito da qualche stupida voce, o da qualche piccolo ritrovamento di monete su una spiaggia. La gente piombava qui da tutte le parti e cominciava a scavare nella sabbia, sulle rupi, nei boschi... cosa che da molti anni non si è più verificata... Forse i tempi sono cambiati.» E a me domandò: «Giocavi ai pirati, tu, quand'eri bambino?» «Pensavo proprio a questo... ora ricordo d'avere sentito parlare di pirati, qui, da piccolo. Ma non troppo...» Poi aggiunsi: «Mia zia era un po' più sofisticata. Si interessava agli indiani, prima che gli indiani venissero di mo-
da». «I miei avevano interesse per i primi coloni e per la Rivoluzione. Ricordo, sì, discorsi di pirati... ho un fratello maggiore, e lui qualche volta giocava ai pirati con i suoi compagni. Immagino fosse un gioco da maschi. Come guardie e ladri, cowboy e pellerossa.» «Già. Oggi giocano ai narcotrafficanti. C'era però quel ragazzino, su alle Tenute di Capitan Kidd.» Raccontai a Emma la storia di Billy il cercatore di tesori. «Si va a cicli», commentò lei. «Forse i pirati stanno tornando in voga. Hai mai letto», mi domandò, «L'isola del tesoro di Robert Louis Stevenson?» «Come no! E quel racconto di Poe, anche, dove c'era un assurdo indizio con un disegno di una capretta... hai capito quale dico?» «Ho capito, sì. E hai letto Wolfèrt Webber, di Washington Irving?» «No, mai sentito nominare.» «Una storia di pirati fantastica», mi informò lei. Sorrise e domandò: «Ha mai visto qualcuno di quei vecchi film pieni di spacconate degli anni Trenta e Quaranta?» «Ne andavo matto.» «Sai», disse lei, «sono poche le parole tanto affascinanti e romantiche quanto pirata, tesoro nascosto, galeone... cos'altro?» «Bucaniere. Mi piace, quella.» «E Tortuga?» «Bella, bellissima.» E così, fermi là sul molo vicino al vecchio e maestoso trealberi, e mentre il sole tramontava, ci divertimmo con quel gioco sciocco, trovando parole e frasi come filibustiere, dobloni, coltellaccio, benda sull'occhio, gamba di legno, camminare sulla tavola, isole deserte, bottino, saccheggio, razzia, Jolly Roger, mappa del tesoro, forziere, X che segna il posto e - raschiando il fondo del baule di rum - espressioni come «Caspiterina» e «All'arrembaggio, miei prodi». Ridemmo tanto entrambi, e io dissi: «Mi piaci proprio». «Certo che ti piaccio.» Ripercorremmo il molo verso il ristorante «da Claudio», tenendoci letteralmente per mano, cosa che non avevo più fatto da tanto tempo. Il locale era affollato, per essere giorno feriale, e ci sedemmo al bar a bere qualcosa in attesa che si liberasse un tavolo. Come dicevo, è un vecchio locale, costruito nel 1830, e si vanta d'essere
il più antico ristorante d'America mandato avanti ininterrottamente dalla stessa famiglia fin dal 1870. La mia, di famiglia, aveva avuto difficoltà a dividere ogni mattina cucina e bagno; non riuscivo a immaginare che si potesse farlo per centotrent'anni. A ogni modo, stando a quanto m'aveva detto un barista, l'edificio era stato una locanda quando Greenport era un porto di registro per baleniere, e il bar dove Emma e io sedevamo era stato trasportato lì da Manhattan con una chiatta, nell'ottocentottanta e rotti. Il bancone, le mensole dietro, è tutto mogano, vetro inciso all'acquaforte e marmo italiano, ed è vagamente straniero ed esotico, senza niente di quell'aspetto d'epoca coloniale così comune da queste parti. In quel bar posso immaginare di ritrovarmi a Manhattan, specie quando dall'attiguo ristorante arrivano gli aromi della cucina italiana. A volte mi mancano Manhattan o luoghi come Little Italy, dove al momento era in pieno svolgimento la Festa di San Gennaro, per esempio. Se fossi stato a New York, Dom Fanelli e io quella stessa sera saremmo stati in Mulberry Street, a rimpinzarci di cibo a ogni chiosco all'aperto e a terminare la serata in qualche caffè. Era evidente che dovevo prendere una decisione, riguardo al mio futuro. Emma chiese del vino bianco e il barista le disse: «Abbiamo sei bianchi locali diversi. Qualche preferenza?» «Sì... Pindar», rispose lei. Brava la mia ragazza. Leale e sincera. Non beveva vino del suo ex amante in presenza del suo nuovo innamorato. Vi dirò, più vecchio diventi, più bagaglio hai da trasportare, e meno sei in grado di sollevarlo. Ordinai una Budweiser e facemmo tintinnare i bicchieri. «Grazie ancora di tutto», dissi. «Quale lezione di storia ti è piaciuta di più?» «Quella sul letto di piume.» «Anche a me.» E così di seguito. Alle pareti c'erano ricordi a non finire, foto in bianco e nero degli antenati della famiglia, vecchie fotografie di regate del passato, scene della Greenport di un tempo, e così via. Mi piacciono i vecchi ristoranti: sono un po' come musei viventi dove puoi ordinare una birra. Proprio lì, in giugno, avevo incontrato per la prima volta i Gordon, ed era una delle ragioni per cui avevo desiderato cenare lì, a parte il mio stomaco che reclamava sugo di pomodoro. A volte è bene tornare material-
mente a una particolare scena, quando vuoi rivivere col pensiero qualcosa che vi è accaduto. Mi ritrovai a ricordare i miei genitori, mio fratello e mia sorella seduti a quei tavoli, a discutere delle attività della giornata e a progettare quelle del giorno dopo. Per anni non ci avevo pensato. Ma lasciai perdere i miei ricordi d'infanzia, più adatti per il lettino di uno psichiatra, e ritornai con la mente al giugno di quell'anno. Ero venuto lì al bar perché era uno dei pochi locali che conoscevo. Ricordo che mi sentivo ancora un po' malfermo, ma non c'è niente come un bar e una birra per tirar su un ragazzo. Avevo ordinato il mio solito cocktail, una Bud, e immediatamente avevo notato una donna molto attraente, qualche sgabello più in là. Si cominciavano a vedere i primi turisti, era una serata qualunque, pioveva, e nel locale non c'era molta gente. Avevo fatto in modo di incontrare lo sguardo di lei. Mi era sembrato di vederla sorridere e mi ero mosso all'attacco. «Salve», avevo detto. «Salve», aveva risposto lei. «Mi chiamo John Corey.» «Judy Gordon.» «È sola?» «Sì, a parte mio marito, che è andato un momento alla toilette.» «Oh...» Avevo notato allora che portava la fede. Perché non mi ricordo mai di guardare se ce l'hanno? Be', se anche è sposata, però è sola... ma sto divagando. «Vado a cercarglielo», avevo detto. Aveva sorriso, dicendo: «Non scappi». Me n'ero già innamorato, ma con galanteria avevo risposto: «Ci vediamo», e stavo per tornarmene al mio sgabello di prima quando era apparso Tom e Judy aveva fatto le presentazioni. Stavo per ritirarmi in buon ordine, ma Tom aveva detto: «Prenda un'altra birra». Avevo notato che entrambi parlavano con accento un po' diverso, e immaginavo che fossero turisti o qualcosa del genere. Non avevano affatto il fare brusco di New York, al quale ero abituato. Come dice la barzelletta, un tale del Midwest si avvicina a un newyorkese per la strada e dice: «Scusi, signore, può dirmi come posso arrivare all'Empire State Building, o devo andare addirittura a farmi fottere?» A ogni modo, non avrei voluto fermarmi a bere con loro, sentendomi a disagio, penso, per avere tentato di abbordare la moglie di lui, eccetera, ma
per qualche ragione che non arriverò mai del tutto a spiegarmi, avevo deciso di accettare e restare. Bene, posso essere piuttosto taciturno, ma quelle erano persone talmente aperte che, di lì a poco, li avevo messi al corrente della mia recente disavventura, e tutti e due si erano ricordati d'avere visto tutta la storia alla televisione. Ero una celebrità per loro. Avevano accennato di lavorare entrambi a Plum Island, il che mi era parso interessante, e d'essere venuti direttamente lì dal lavoro con la loro barca, cosa per me altrettanto interessante. Tom mi aveva invitato a vederla, la barca, ma avevo rimandato, non essendo così interessato alla nautica. Era saltato fuori che avevo una casa sul mare, ed era stato allora che Tom m'aveva domandato dov'era e di descriverla vista dall'acqua, così da poter venire a vederla. Gliel'avevo descritta e, con mia sorpresa, una settimana dopo lui e Judy erano venuti a trovarmi davvero. A ogni modo, tra noi si era creata molta cordialità lì al bar e, un'ora dopo, avevamo addirittura cenato insieme. Questo era accaduto circa tre mesi prima, un tempo non molto lungo, eppure sentivo di conoscerli molto bene. Scoprivo, però, che c'erano cose che ignoravo sul loro conto. Emma disse: «Pronto? John?» «Scusami. Stavo pensando al mio primo incontro con i Gordon. Proprio qui in questo bar.» «Davvero?» Poi mi domandò: «Sei molto sconvolto riguardo a...» «Non mi rendevo conto di quanto stessi bene in loro compagnia.» E aggiunsi: «Sto prendendo la cosa in modo un po' più personale di quanto avrei pensato». Annuì. Chiacchierammo del più e del meno. Mi passò per la mente che se fosse stata in combutta con l'assassino, o in qualche modo a parte del complotto, avrebbe cercato di sondarmi un po'. Ma sembrava che volesse evitare del tutto l'argomento, cosa che per me andava benissimo. Il nostro tavolo era pronto, e passammo in quella specie di patio recintato che guarda verso la baia. Cominciava a fare decisamente più freddo, e mi spiaceva che l'estate stesse per morire. Avevo assaggiato la mia stessa mortalità letteralmente assaggiata, quando il sangue mi era sgorgato dalla bocca - e immagino che le giornate più corte e il vento gelido mi ricordassero il fatto che anche la mia estate era finita, che il piccolo Johnny, che tanto si era incantato per una palla di moschetto, fosse finalmente diventato adulto mentre giaceva nel canaletto di scolo della 102a Strada Ovest, con ben tre palle di moschetto in corpo.
L'America è una terra di seconde e terze occasioni, un posto di resurrezioni multiple, così che, date le sufficienti riprese, soltanto un perfetto idiota non riesce, alla fine, a rimettersi in carreggiata. «Sembri distratto», osservò Emma. «Sto cercando di decidere se voglio cominciare con il fritto di calamari oppure no.» «Il fritto non ti fa bene.» «Ti manca mai la città?» le domandai. «Ogni tanto. Mi manca l'anonimato. Qui, tutti sanno con chi vai a letto.» «Penso di sì, se fai sfilare tutti i tuoi boyfriend davanti ai tuoi dipendenti.» «E a te manca, la città?» volle sapere lei. «Non lo so... non lo so fino a che non ci torno.» Poi chiesi permesso un istante, dicendo: «Vado a fare la popò». Andai invece alla macchina e presi il vaso da notte, che portai con me dentro il suo bel sacchetto. Glielo misi davanti, e lei domandò: «È per me?» «Sì.» «Oh, John, non dovevi... Devo aprirlo subito?» «Prego.» Infilò la mano nel sacchetto e ne trasse il vaso, completamente avvolto in carta velina rosa. «Cos'è...?» Fui colto da un improvviso attacco di panico. E se la vecchia befana del negozio di antichità si fosse sbagliata? Se avesse confuso Emma Whitestone con un'altra persona? «Aspetta», dissi, «forse non dovresti aprirlo...» Altri clienti guardavano, ora, curiosi, indiscreti, sorridenti. Emma tolse la carta velina, rivelando il bianco vaso da notte decorato di rose. Lo sollevò, tenendolo per il manico. Si levò, dalla folla, un'esclamazione soffocata, o almeno l'impressione fu quella. Qualcuno rise. Emma disse: «Oh, John! E bellissimo. Come facevi a sapere?» «Sono un detective.» Eh, eh. Ammirò il vaso da notte, rigirandolo, guardando il marchio del vasaio e così via. Il cameriere passò e disse: «Ci sono le toilette nel retro, se preferisce». Bene, ci facemmo tutti una bella risata, Emma disse che ci avrebbe piantato delle roselline, io commentai che questo avrebbe decisamente scoraggiato la gente dal sedercisi sopra, e così via. Esaurito infine l'argomento vaso, ordinammo la cena.
Consumammo un pasto piacevole, chiacchierando e contemplando la baia. Lei mi domandò se volevo che passasse di nuovo la notte da me, cosa che volevo. Aprì la borsa e mostrò uno spazzolino da denti e un paio di mutandine. «Ero preparata», disse. In quella, il cameriere facente funzioni di comico che passava di lì, domandò: «Posso servirvi dell'altro caffè, o avete proprio fretta di tornare a casa?» Lungo il tragitto di ritorno verso la mia tana di Mattituck, mi assalì di nuovo la strana sensazione che niente di tutto questo sarebbe finito bene, né quel caso, né quella storia tra me ed Emma, né il rapporto con Beth, di qualunque natura fosse, e neppure la mia carriera. La sentivo, in me, come l'arcano silenzio e la luminosità del cielo di un uragano in arrivo, poco prima che questo si abbatta. 24 Il mattino dopo mentre mi vestivo il campanello squillò, e immaginai che Emma, già scesa, avrebbe risposto. Finii di vestirmi: calzoni nocciola, camicia oxford a righe, blazer blu e docksider, senza calzini: la tenuta standard delle province marittime. A Manhattan, la gente che non portava calzini faceva in genere lavori umili; qui era molto chic. Scesi di lì a una decina di minuti e trovai Emma Whitestone al tavolo di cucina che beveva caffè con Beth Penrose. Oh, oh. Era uno di quei momenti che richiedono savoir faire, e dissi a Beth: «Buongiorno, detective Penrose». «Buongiorno», rispose lei. A Emma spiegai: «Questa è la mia collega, Beth Penrose. Vi sarete già presentate, immagino». «Direi di sì», replicò Emma. «Stiamo prendendo un caffè.» A Beth dissi ancora, esplicito: «Credevo che ci saremmo visti più tardi». «Ho dovuto cambiare i miei piani», replicò lei. «Ieri sera ti avevo lasciato un messaggio sulla segreteria.» «Non ho controllato.» Emma si alzò. «Devo andare al lavoro.» «Oh... ti accompagno io», dissi. Si alzò anche Beth, dicendomi: «Anch'io devo andare. Mi sono fermata solo per ritirare quelle stampate finanziarie. Se me le dai, le porto via».
Emma si rivolse a tutti e due. «Restate comodi. Dovete avere del lavoro da sbrigare.» Andò verso la porta. «Telefono a Warren per farmi dare un passaggio. Abita qui vicino. Sarò di là nello studio.» Non cercò di incontrare il mio sguardo, nel lasciare la cucina. «È presidente della Peconic Historical Society», dissi a Beth. «Davvero? Piuttosto giovane per la carica.» Mi versai una tazza di caffè. «Pensavo di metterti al corrente, per cortesia», disse lei. «Non mi devi nessuna cortesia.» «Be', sei stato molto utile.» «Grazie.» Rimanevamo entrambi in piedi, io sorseggiando caffè, lei radunando tazza, cucchiaino e tovagliolo, come se si preparasse ad andarsene. Notai una cartella accanto alla sua sedia. «Accomodati», dissi. «Dovrei andare.» «Beviamo ancora un po' di caffè insieme.» «Okay.» Si riempì di nuovo la tazza e sedette di fronte a me. «Sei molto elegante, stamattina.» «Sto cercando di cambiare la mia immagine. Nessuno mi prendeva sul serio.» Lei indossava un altro abito a giacca, blu scuro, questo, con una camicetta bianca. Aveva un aspetto delizioso quel mattino, fresca e con gli occhi splendenti. «Anche tu sei una meraviglia», dissi. «Grazie. Mi piace vestire bene.» «Giusto.» Un po' severa, ma era solo una mia opinione. Non sapevo dire che cosa pensasse della mia ospite, ammesso che ne pensasse qualcosa. A parte il lieve trasporto emotivo che avevo provato per Beth, ricordavo a me stesso che lei mi aveva scaricato dal lato professionale. Adesso era tornata. Non ero ben certo di doverle dire che avevo fatto progressi significativi in sua assenza; che, in effetti, ero convinto d'avere scoperto il movente dei due omicidi, e che Fredric Tobin andava messo sotto controllo. Ma perché poi mi sarei dovuto esporre così? Potevo anche avere torto. In realtà, dopo averci dormito sopra, ero meno sicuro che fosse Fredric Tobin il vero assassino di Tom e Judy Gordon. Poteva darsi benissimo che sapesse più di quanto ammetteva, ma sembrava più probabile che a premere il grilletto fosse stato qualcun altro: qualcuno come Paul Stevens. Decisi di vedere che cosa aveva lei che potesse servirmi, e che cosa voleva lei che potessi avere io. Prometteva d'essere un match d'allenamento. Primo Round: «Max», dissi, «ha messo termine alla mia carriera presso la
città di Southold.» «Lo so.» «Perciò, penso, non dovrei avere accesso a informazioni di polizia.» «Parli sul serio? O sei solo offeso?» «Un po' dell'uno e un po' dell'altro.» Giocherellò un poco con il cucchiaino, poi disse: «Io rispetto davvero le tue opinioni e il tuo intuito». «Grazie.» Si guardò attorno nella cucina. «Che bella casa, questa!» «Una grande farfalla.» «È di tuo zio?» «Sì. Fa parte di Wall Street, lui. Se ne fa di denaro, là. Io sono nominato nel suo testamento. Lui è un fumatore accanito.» «Be', è bello che tu sia in grado di avere un posto dove passare la convalescenza.» «Sarei dovuto andare ai Caraibi.» Sorrise. «Non ti saresti divertito tanto. Come ti senti, a proposito?» «Oh, non c'è male. Vado bene finché non cerco di fare sforzi.» «Non devi fare sforzi.» «Non ne faccio.» «E allora, che hai fatto di bello in questi pochi giorni? Hai seguito qualche tua intuizione?» «Un po'. Ma, come dicevo, mi sono visto piantare in asso da Max, e il mio capo mi ha visto in televisione la sera del fattaccio. E non basta, credo che il tuo amico, signor Nash, abbia messo una cattiva parola per me con i miei superiori. Molto meschino.» «L'avevi trattato molto male, John. Lo credo che sia un po' irritato con di te.» «Sarà. Probabilmente vuole mettere fine al mio ciclo vitale.» «Be', questo poi non lo direi.» Io sì. «Quel che più conta, forse dovrò dare alcune spiegazioni ai grossi papaveri di Police Plaza.» «Questo è grave. Fammi sapere se posso esserti d'aiuto.» «Grazie. Me la caverò. È male per l'immagine del Dipartimento strapazzare un poliziotto dopo che è stato ferito.» «Che cosa vorresti, riguardo al tuo lavoro: dentro o fuori?» «Dentro.» «Sei sicuro?»
«Sì. Voglio tornarci. Sono pronto.» «Bene. Si vede che sei pronto.» «Grazie. E così», le domandai, «chi ha ucciso Tom e Judy Gordon?» Si sforzò di sorridere. «Credevo che me l'avresti detto tu, ormai.» «Non si ottiene molto per un dollaro la settimana. O era mensile, il compenso?» Giocherellò ancora un poco con il cucchiaino, poi mi guardò e disse: «Al principio, quando ti ho conosciuto, non mi piacevi. Sai perché?» «Fammici pensare... arrogante, saccente, troppo bello.» Con mia sorpresa, annuì. «Più o meno. Ora mi rendo conto che c'è dell'altro in te.» «No, non c'è.» «Sì che c'è.» «Forse sto cercando di mettermi in contatto con il bambino che è in me.» «Oh, questo lo fai benissimo. Dovresti cercare di metterti in contatto con il tuo lato adulto represso.» «Non è il modo, questo, di parlare a un eroe ferito.» «Nel complesso», continuò lei, «penso tu sia leale verso i tuoi amici e sinceramente impegnato nel tuo mestiere.» «Grazie. Ma torniamo al caso. Tu vuoi che ti metta al corrente di quello che ho fatto.» Assentì. «Sempre che tu abbia fatto qualcosa.» Poi, con una punta di sarcasmo: «Sembra che tu sia stato tutto preso da altre cose». «In rapporto con il caso. Lei è presidente della...» Emma si affacciò dalla porta. «Bene, mi sembra di sentire un clacson all'esterno. Piacere d'averla conosciuta, Beth. Ci sentiamo più tardi, John.» Se ne andò e sentii la porta di ingresso aprirsi e richiudersi. «È simpatica», disse Beth. Poi aggiunse: «Viaggia leggera». Non feci commenti. «Le hai quelle stampate finanziarie da darmi?» domandò lei. «Sì.» Mi alzai. «Nello studio. Torno subito.» Andai in anticamera, ma invece di dirigermi verso lo studiolo, andai alla porta d'ingresso. Emma sedeva su una poltroncina di vimini, in attesa. L'auto di Beth, la Ford nera, era sullo spiazzo. «M'era sembrato di sentire un clacson», disse Emma. «Aspetterò qui.» «Mi spiace non poterti accompagnare al lavoro», dissi. «Niente paura. Warren abita qui vicino. È per la strada.»
«Bene. Ti rivedo più tardi?» «Il venerdì sera esco con le ragazze.» «E cosa fanno le ragazze?» «Lo stesso che fanno i ragazzi.» «Dove vanno le ragazze?» «Di solito, agli Hamptons. Cerchiamo tutte mariti e amanti ricchi.» «Nello stesso tempo?» «Quello che capita per primo. Si vede un po'.» «Va bene. Passerò dal negozio più tardi. Dov'è il tuo vaso?» «In camera.» «Te lo porto io dopo.» Un'auto si era fermata sul lungo viale, ed Emma si alzò. «La tua collega sembrava sorpresa di vedermi», disse. «Be', si aspettava, immagino, che andassi io ad aprire.» «Sembrava più che sorpresa. Era un po'... contrariata. Giù di corda. Infelice.» Accennai una stretta di spalle. «Dicevi di non vederti con nessun'altra, qui.» «Infatti. Lei l'ho vista per la prima volta lunedì.» «Me, mi hai vista mercoledì.» «Sì, ma...» «Ascolta, John, non m'importa, ma...» «Lei è soltanto...» «C'è Warren. Devo andare.» Cominciò a scendere gli scalini, poi tornò su, mi baciò sulla guancia e si affrettò verso la macchina. Inviai un cenno di saluto a Warren. Oh, be'. Rientrai e andai nello studio, dove premetti il tasto della segreteria. Il primo messaggio, delle sette della sera prima, era di Beth, che diceva: «Ho appuntamento alle dieci con Max, domani mattina. Vorrei fermarmi da te stradafacendo: verso le 8 e 30, suppergiù. Se c'è qualche problema, stasera chiamami». Mi dava il suo numero di casa, poi: «Oppure chiamami in mattinata, o chiama la mia macchina». Mi dava il telefono dell'auto, poi concludeva: «Porterò le ciambelle se tu fai il caffè». Molto cordiale il tono di voce. Avrebbe proprio dovuto telefonarmi dalla macchina, quel mattino. Ma okay. La mia esperienza nel corso degli anni è sempre stata che, se perdi un messaggio, di solito succede qualcosa di interessante. Il messaggio seguente era di Dom Fanelli, alle otto di sera. Diceva: «E-
hi, ci sei? Rispondi, se ci sei. Be', okay... Ascolta, oggi ho avuto la visita di due della Task Force antiterroristica. Un tizio dell'FBI di nome Whittaker, Whitebread, o qualcosa di simile, tutto stilé e tirato a pomice, e il suo omologo piedipiatti, uno che abbiamo incontrato diverse volte, un compaesano. Sai chi dico. A ogni modo, volevano sapere se ti eri fatto sentire. Vogliono vederti martedì quando vieni per il controllo medico, e devo accompagnarti da loro. Secondo me l'FBI non crede al proprio comunicato stampa riguardo al vaccino per l'Ebola. Sento puzza di copertura. Ehi, stiamo per prenderci tutti la sifilide e vederci cascar via il pistolino? Tra parentesi, domani sera andiamo là tutti per San Gennaro. Tira su il sedere e raggiungici. Il bar è il Taormina, alle sei. Kenny, Tom, Frank e io. Qualche pollastra, magari. Ci daremo alla pappatoria. Bellissimo. Vieni, dai, se il tuo peperone si sente solo. Ciao». Interessante. Parlo della Task Force antiterroristica. Non sembrava certo che si fossero tanto preoccupati perché una cura miracolosa per l'Ebola poteva finire in mano al mercato nero. Washington, ovviamente, era tuttora in preda al panico. Avrei dovuto dire loro di non preoccuparsi: è il tesoro del pirata, gente. Sapete, Capitan Kidd, dobloni, pezzo da otto, quel diavolo che è. Ma meglio lasciare che li cercassero, i terroristi. Chissà, potevano anche trovarne uno. È sempre un buon esercizio di addestramento. La Festa di San Gennaro. Avevo già l'acquolina al pensiero del fritto di calamari e del calzone. Qui, certe volte, mi pareva d'essere in esilio. Altre volte mi ci crogiolavo: natura, quiete, niente traffico, falchi pescatori... Potevo farcela a trovarmi al Taormina per le sei, anche se non volevo volare così vicino alla fiamma. Mi serviva altro tempo, e avevo fino a martedì prima che riuscissero ad avermi tra le grinfie, i medici, poi Wolfe, poi quelli della Task Force. Mi domandavo se Whittaker-Whitebread e George Foster fossero in comunicazione. O erano la stessa persona? In ogni caso, recuperai la pila di stampate finanziarie. Sempre sulla scrivania c'era il pacchetto preso ai Vigneti Tobin che conteneva la piastrella con il falco pescatore dipinto. Lo presi in mano, poi pensai «no», poi pensai «sì», poi «no» di nuovo, infine «magari in seguito». Lo posai e tornai di là in cucina. 25 Beth Penrose aveva preso delle carte dalla sua borsa e le aveva sparse sul tavolo, e ora notavo anche un vassoio di ciambelle. Le diedi la pila di
stampate, che lei mise da parte. «Scusa se ti ho fatta aspettare», dissi. «Ho dovuto ascoltare i miei messaggi. Ho trovato anche il tuo.» «Avrei dovuto chiamarti dalla macchina», replicò lei. «Non ha importanza. Tu hai un invito permanente.» Indicai le carte sul tavolo e domandai: «Cos'hai di bello, li?» «Alcuni appunti. Rapporti. Vuoi sentire?» «Certo.» Versai caffè per tutti e due e sedetti. «Avevi scoperto qualcos'altro in quelle stampate?» domandò Beth. «Solo qualche aumento su telefono, Visa e American Express, dopo il loro viaggio in Inghilterra.» «Pensi che il viaggio in Inghilterra fosse qualcosa di diverso da lavoro e vacanza?» «Potrebbe darsi.» «Pensi che si fossero incontrati con un agente straniero?» «Non credo che sapremo mai quello che combinarono in Inghilterra.» Ero quasi certo, naturalmente, che avessero passato la settimana immersi fra carte vecchie di trecento anni, assicurandosi di firmare all'entrata e all'uscita dell'archivio di stato e/o del British Museum, stabilendo così la loro buona fede come cercatori di tesori. Già, ma non ero ancora disposto a dividere quel pensiero con lei. Beth prese un breve appunto sul suo taccuino. Forse qualche futuro archivista potrebbe trovare interesse nel taccuino di una detective della Omicidi di fine ventesimo secolo. Un tempo ne tenevo uno anch'io, ma non riesco a decifrare la mia stessa scrittura, perciò mi è praticamente inutile. «Bene», disse Beth, «lasciami cominciare dal principio. Primo, non abbiamo più recuperato i due proiettili finiti nella baia. È un'impresa quasi disperata, e hanno finito per lasciar perdere.» «Saggia decisione.» «Bene, poi: impronte. Quasi ogni impronta nella casa è dei Gordon. Abbiamo rintracciato la domestica, che proprio quel giorno aveva fatto le pulizie. Abbiamo trovato anche le sue, di impronte.» «E le impronte su quel volume di mappe nautiche?» «Soltanto quelle dei Gordon e le tue.» Poi aggiunse: «Ho esaminato ogni pagina di quel libro con la lente d'ingrandimento e la lampada a radiazione ultravioletta, cercando segni, fori di spillo, scritte segrete... Niente». «Pensavo proprio che potesse produrre qualcosa.» «Niente da fare.» Diede un'occhiata ai suoi appunti e continuò: «L'autopsia mostra quello che c'era da aspettarsi. Morte in entrambi i casi so-
pravvenuta in seguito a massivo trauma cerebrale provocato da un'evidente ferita da arma da fuoco alla testa, essendo ambedue i proiettili entrati dal lobo frontale, e così via... Trovata polvere da sparo, indicante distanza ravvicinata, per cui possiamo probabilmente escludere un fucile. Il medico legale non vuole pronunciarsi, ma dice che l'arma del delitto ha sparato probabilmente da due a tre metri e che il calibro dei proiettili era piuttosto grosso; forse un quarantaquattro o un quarantacinque». Assentii. «Quello che già supponevamo.» «Certo. Il resto dell'autopsia...» Altra occhiata al rapporto. «...Tossicologia: niente droghe, legali o illegali. Contenuto dello stomaco, quasi inesistente, forse una leggera prima colazione al mattino presto. Niente segni su nessuno dei cadaveri, niente infezioni, nessuna malattia discernibile...» Beth continuò così ancora per qualche istante, poi rialzò lo sguardo dal rapporto e disse: «La deceduta era incinta di circa un mese». Assentii. Che modo simpatico di celebrare l'improvvisa fama e ricchezza. Per più di un minuto, nessuno di noi due parlò. C'è qualcosa nel protocollo di un'autopsia che ti mette di cattivo umore. Uno dei compiti più sgradevoli che un detective della Omicidi deve affrontare è l'essere presente all'autopsia. Questo ha a che fare con le esigenze della catena-di-indizi, e dal lato legale ha una sua logica, ma a me non va di vedere squartare cadaveri, estrarne organi, pesarli e così via. Sapevo che Beth era stata presente durante le autopsie dei Gordon, e mi domandavo se avrei sopportato di vedere tirar fuori organi e cervello da persone che conoscevo. Beth fece passare alcune carte e disse: «La terra rossa trovata nelle loro scarpe da corsa è soprattutto argilla, ferro e sabbia. Ce n'è molta così qui attorno, e non vale nemmeno la pena cercare di farla corrispondere a un luogo specifico». Assentii e domandai: «Dalle loro mani si poteva desumere che avessero fatto qualcosa di manuale?» «In effetti, sì. Tom aveva una vescica sul palmo della destra. Tutti e due avevano maneggiato terriccio, che era rimasto nella pelle e sotto le unghie nonostante i tentativi di lavarlo via con l'acqua di mare. Anche gli abiti mostravano macchie di quello stesso terriccio.» Tornai ad assentire. «Che cosa pensi che stessero facendo?» domandò Beth. «Scavando.» «Per quale ragione?»
«Un tesoro nascosto.» Lo prese come un altro esempio del mio atteggiamento saccente, come sapevo che avrebbe fatto. Citò alcuni altri punti del rapporto del medico legale, ma non udii niente di significativo. «La perquisizione da cima a fondo della casa», continuò Beth, «non ha rivelato niente di interessante. Non inserivano molto sul computer, salvo voci fiscali e finanziarie.» «Qual è la differenza», le domandai, «tra una donna e un computer?» «Dimmela.» «Un computer accetterà anche un floppy.» Chiuse gli occhi per qualche secondo, si massaggiò le tempie, fece un profondo respiro, poi continuò: «Avevano uno schedario, e c'è della corrispondenza, roba legale, personale e così via. Stiamo leggendola e analizzando il tutto. Potrebbe essere interessante ma, finora, niente». «Se c'era qualcosa di rilevante o di incriminante, è probabile che sia stato rubato.» Assentì e continuò: «I Gordon possedevano indumenti costosi, anche le cose di tutti i giorni, niente pornografia, niente oggetti da sex shop, una cantina con diciassette bottiglie, quattro album di fotografie - in qualcuna ci sei anche tu - niente nastri per registrazione, un'agenda che stiamo paragonando con quella che avevano in ufficio, niente di insolito nell'armadietto dei medicinali, niente in alcuna delle tasche dei loro abiti estivi o di quelli invernali messi via, niente chiavi che non appartenessero a qualcosa, e una che semmai mancava: quella dei Murphy, se dobbiamo credere a quello che ha detto Murphy sull'avere dato la chiave di casa sua ai Gordon...» Voltò una pagina e continuò a leggere. È il genere di cose, quello, che ha tutta la mia attenzione, benché, per il momento, non vi fosse niente di fuori dell'ordinario. «A proposito», continuò lei, «abbiamo trovato l'atto di vendita del terreno Wiley. Tutto in regola. Inoltre, non riusciamo a trovare alcuna traccia di una cassetta di sicurezza, o di conti su altre banche. Abbiamo trovato due polizze d'assicurazione sulla vita per un ammontare di 250.000 dollari, in cui ciascuno nomina l'altro come beneficiario, con genitori e fratelli come beneficiari secondari. C'è anche un testamento, semplicissimo, e di nuovo si nominano l'un l'altro, poi i genitori, i fratelli e così via.» «Un buon lavoro particolareggiato», commentai. «Già. Bene... niente di interessante alle pareti... fotografie di famiglia, riproduzioni d'arte, diplomi.»
«E un legale?» «Sulla parete?» «No, Beth: un avvocato. Chi è il loro legale?» Mi sorrise e osservò: «Non ti va che gli altri facciano dello spirito con te, vero? Ma tu...» «Continua, per favore. Un legale.» Alzò le spalle e disse: «Sì, abbiamo trovato il nome di un avvocato di Bloomington, nell'Indiana, e ci siamo messi in contatto. Ho parlato per telefono anche con i genitori di tutti e due... Quella è la parte del lavoro che non mi piace». «Neanche a me.» «Li ho dissuasi dal venire qui. Ho spiegato che, appena terminata l'opera del medico legale, avremmo spedito i resti a qualsiasi agenzia funebre di loro scelta. Ho lasciato che fosse Max a spiegare che potremmo avere bisogno di trattenere un sacco di effetti personali fino a quando, si spera, chiuderemo il caso, si andrà al processo, eccetera.» Poi soggiunse: «È tutto così tremendo quando c'è un omicidio... la morte è già triste in sé. Un omicidio è... be', è duro per tutti». «Lo so.» Tirò un altro foglio verso di sé e disse: «Ho fatto inchieste sullo Spirocheta presso la DEA, la Guardia costiera e perfino la Dogana. Interessante che la conoscessero tutti, quella barca: prestano attenzione a questi Formula. A ogni modo, a detta di tutti, i Gordon erano in regola. Lo Spirocheta non era mai stato visto in pieno Atlantico, che qualcuno ricordi, e non c'era mai stato alcun sospetto che il motoscafo fosse stato coinvolto in contrabbando, trasporto di droga, o altra attività illegale». «Okay», approvai. Non era del tutto vero, ma non valeva la pena parlarne in quel momento. «Per tua informazione», continuò Beth, «il Formula 303 SR-1 ha un pescaggio di ottanta centimetri, che gli consente di navigare in acque poco profonde. Trasporta più di trecento litri di carburante e ha due motori Mer Cruiser da 7,4 litri e 454 cavalli. Può arrivare a una velocità di centotrentacinque chilometri l'ora.» Alzò gli occhi dal rapporto e spiegò: «Questa è un'imbarcazione di lusso, molto più di quanto i Gordon potessero permettersi di comperare e mantenere, e più di quanto servisse loro per fare la spola: un po' come comperare una Ferrari per andare e tornare dalla stazione». «Ti sei data da fare, vedo.»
«Sì, certo. Tu cosa credevi che stessi facendo?» Ignorai la domanda e dissi: «Penso che possiamo escludere il trasporto di droga e tutto il resto. Quanto all'avere acquistato un motoscafo di quella potenza, può darsi che i Gordon non ne avessero bisogno per il trantran quotidiano, ma che volessero poterne usufruire, in caso...» «In caso di che?» «In caso fossero stati inseguiti.» «Chi doveva inseguirli? E perché?» «Non lo so.» Presi una ciambellina alla cannella e l'addentai. «Buona. L'hai fatta tu?» «Sì. Ho fatto anche quelle farcite di crema, quelle con la marmellata e i bignè.» «Sono molto colpito, ma sull'involucro c'è scritto Pasticceria Nicole.» «Sei un vero detective.» «Sì, madame. Cos'altro hai, lì?» Spostò alcune carte e disse: «Ho fatto chiedere dal procuratore distrettuale i tabulati delle telefonate dei Gordon degli ultimi due anni.» Mi feci attento. «Sì?» «Be', come c'era da aspettarsi, un sacco di telefonate a casa - genitori, amici, parenti e via dicendo - nell'Indiana per Tom, nell'Illinois per Judy. Un mare di telefonate a Plum Island, a gente dei vari servizi, a ristoranti, e così di seguito. Qualche telefonata alla Peconic Historical Society, a Margaret Wiley, due a casa Maxwell, una a Paul Stevens al suo indrizzo nel Connecticut e dieci a te nel corso delle ultime dodici settimane.» «Dovrebbe essere giusto, più o meno.» «Ma è giusto. Poi, circa due o tre telefonate il mese ai Vigneti Tobin a Peconic nonché a Fredric Tobin a Southold e a Fredric Tobin a Peconic.» «Quel signore», spiegai, «ha una casa sul mare a Southold e un appartamento presso le sue cantine, che sono a Peconic.» Mi guardò. «Come le sai, tutte queste cose?» «Perché Emma - la presidente della Peconic Historical Society, quella che è appena andata via - è intima amica di Tobin. Tra l'altro, sono stato invitato a un party, domani sera, nella casa sul mare di Sua Signoria. Penso che dovresti andarci.» «Perché?» «È una buona occasione per chiacchierare con gente del posto. Max probabilmente ci andrà.» Assentì. «D'accordo.»
«I particolari dovresti farteli dare da Max. Io in realtà non ho avuto un invito formale.» «Va bene.» «Torniamo alle telefonate.» Riportò l'attenzione sulla sua pila di stampate del computer e proseguì: «Nel maggio dell'anno scorso ci sono state quattro chiamate da Londra fatte mettere in conto sulla loro carta di credito telefonica... una ciascuno per l'Indiana e per l'Illinois, una al centralino di Plum Island, e una di quarantadue minuti a Fredric Tobin a Southold». «Interessante.» «Come c'entra questo Fredric Tobin?» «Non lo so con certezza.» «Dimmi la parte di cui sei sicuro.» «Stavi dandomi un rapporto, credo, e non voglio interromperti.» «No, è il tuo turno, John.» «Io così non ci sto, Beth. Tu finisci, proprio come se stessi mettendo al corrente una stanza piena di pezzi grossi. Poi io ti dirò tutto quello che ho scoperto.» Rifletté un momento, non volendo evidentemente farsi imbrogliare da John Corey. Poi domandò: «Tu hai qualcosa?» «Ce l'ho, credimi. Continua.» «D'accordo... dov'ero?» «Le telefonate.» «Sì. Ce n'è per venticinque mesi, qui, pressappoco un migliaio di chiamate, e le sto facendo analizzare tutte al computer. Un fatto interessante l'ho scoperto: quando i Gordon arrivarono qui nell'agosto di due anni fa, affittarono una casa a Orient, vicino al traghetto, poi si trasferirono nella casa di Nassau Point appena quattro mesi dopo.» «Era sul mare la casa di Orient?» domandai. «No.» «Ecco la spiegazione. Tempo quattro mesi dal loro arrivo qui, e avevano deciso d'avere bisogno di una casa sul mare, di un pontile e di una barca. Perché?» «È quello che stiamo cercando di spiegarci», obiettò Beth. «Giusto.» Io già c'ero arrivato. Aveva a che fare con l'avere in qualche modo scoperto che qualcosa, su Plum Island, andava cercato, trovato e riportato alla luce. Così, già nell'autunno di due anni prima, l'intera parte del piano - procurarsi una casa in riva all'acqua, poi una barca - era già siste-
mata. «Procedi», dissi a Beth. «D'accordo... Plum Island. Vogliono fare i furbi, là, e ho dovuto ricorrere alle maniere forti.» «Brava.» «Ho fatto caricare sul traghetto l'intero contenuto dell'ufficio dei Gordon, preso poi in consegna da un camion della polizia e trasportato fino al laboratorio della Contea di Suffolk.» «I contribuenti della contea saranno felici di saperlo.» «Inoltre, ho fatto rilevare le impronte e passare con l'aspirapolvere l'ufficio e l'ho fatto chiudere con un lucchetto.» «Misericordia. Sei pignola, tu.» «Questo è un duplice omicidio, John. Come vi regolate per un duplice omicidio in città?» «Chiamiamo l'Ufficio d'Igiene. Va' avanti, per favore.» Fece un profondo respiro. «Sì... ho anche ottenuto l'elenco di tutti quelli che lavorano a Plum Island, e abbiamo cinque investigatori assegnati al lavoro di interrogarli.» «Bene.» Assentii. «Donna Alba vorrei intervistarla personalmente.» «Non ne dubito. Se la trovi, faccelo sapere.» «Scomparsa?» «È in vacanza. Ecco che cosa intendo quando dico che fanno i furbi.» «Certo. Stanno ancora mascherando la verità. Non possono farci niente. È nel loro burocratico midollo. E dove sono i tuoi amici, Nash e Foster?» «Non sono amici miei, e non lo so. Qua intorno, ma non visibili. Hanno lasciato il Soundview.» «Lo so. Forza, va' avanti.» «Ho ottenuto un ordine dal tribunale per sequestrare tutte le armi governative su Plum Island, comprese le 45 automatiche, alcuni revolver, una decina di M-16 e due carabine della Seconda guerra mondiale.» «Accidenti! Avevano intenzione di invaderci?» Alzò le spalle. «Tutta roba dell'Esercito, residuati, penso. A ogni modo, hanno ululato al pensiero di mollare tutto l'arsenale.; Sto facendo esaminare ciascuna arma dalla balistica, e avremo un ; rapporto su ciascuna, in caso dovessimo trovare un proiettile.» «Ottima mossa.» Poi domandai: «E quando riarmerai Plum Island?» «Lunedì o martedì, probabilmente.» «Ho notato una certa attività dei Corpi dei Marine, al traghetto», dissi. «Immagino che, dopo che tu hai disarmato le forze di sicurezza del povero
Stevens, avranno sentito il bisogno di protezione.» «Non è un problema mio.» «Tra parentesi, sono certo che non ti hanno consegnato l'intero arsenale.» «Se hanno fatto questo, chiederò un mandato d'arresto per Stevens.» Nessun giudice avrebbe emesso quel mandato, ma non aveva importanza, così dissi: «Continua, per favore». «Okay, sempre riguardo a Plum Island. Ho fatto una visita di sorpresa alla dottoressa Chen, che sta a Stony Brook. Ho avuto la netta impressione che avesse avuto l'imbeccata prima che la incontrassimo nel suo laboratorio, perché quando le ho parlato in casa sua non era più in grado di improvvisare. L'ho indotta», spiegò Beth, «a dire che sì, forse, magari, possibilmente, i Gordon avevano rubato un virus o un batterio pericoloso.» Assentii. Era un ottimo lavoro di polizia, quello, secondo i canoni e di prim'ordine. In parte era rilevante, in parte no. Per quello che ne sapevo, c'erano solo tre persone che avrebbero usato le parole «tesoro del pirata» riguardo a quel caso: io, Emma e l'assassino. «Ho interrogato di nuovo Kenneth Gibbs, anche lui a casa sua. Abita a Yaphank, non lontano dal mio ufficio. Ha un fare un po' sprezzante ma, a parte questo, non credo che sappia più di quanto ci ha detto. Paul Stevens», aggiunse poi, «è un altro discorso...» «Non c'è dubbio. Gli hai parlato?» «Ho tentato... ma finora è riuscito a schivarmi. Penso che sappia qualcosa, John. Come capo della sicurezza di Plum Island, non c'è molto che possa sfuggire a quell'individuo.» «Probabilmente no.» Mi fissò e domandò: «Pensi che sia un sospetto?» «Mi rende sospettoso, perciò lo è.» Rifletté un momento, poi disse: «Non sarà molto scientifico quello che dico, ma ha tutta l'aria di un killer». «Questo è certo. Ho un'intera lezione intitolata "Persone che hanno l'aspetto e si comportano da killer".» Non sapeva se stessi prendendola in giro oppure no, cosa che, in effetti, non stavo facendo. «A ogni modo», disse, «sto cercando di fare un controllo sul suo passato, ma quelli che avrebbero la maggior parte delle informazioni - l'FBI - fanno ostruzionismo.» «In realtà, hanno già fatto quello che chiedi che facciano, ma non intendono comunicarlo anche a te.»
Assentì e scattò inaspettatamente: «Un caso maledettamente complicato». «E quello che ti ho sempre detto. Dove abita Stevens?» domandai. «Nel Connecticut. A New London. C'è un traghetto governativo da New London a Plum.» «Dammi l'indirizzo e il numero di telefono.» Cercò tra i suoi appunti e stava già per scrivermelo, ma dissi: «Ho una memoria fotografica. Ti basta dirmelo». Mi guardò, di nuovo con un'espressione di leggera incredulità. Perché nessuno mi prende mai sul serio? In ogni caso, mi disse indirizzo e numero di telefono di Paul Stevens, che conservai in un angolino recondito del mio cervello. Poi mi alzai e dissi: «Andiamo a fare due passi». 26 Uscimmo dal retro e scendemmo fino al vecchio pontile. «Davvero bello, qui», disse lei. «Sto cominciando ad apprezzarlo.» Raccattai una pietra piatta e la feci volare sull'acqua. La sfiorò tre volte, prima di affondare. Beth trovò un sasso adatto, piegò il braccio all'indietro, e lanciò, mettendo l'intera persona nel gesto. Il sasso toccò l'acqua quattro volte, prima di affondare. «Ehi, che braccio», dissi. «Lancio, io. Squadra di softball della Omicidi.» Prese un altro sasso e lo tirò a uno dei pali al termine del pontile. Lo mancò di qualche centimetro e riprovò. La osservai lanciare sassi ai pali. Quello che mi aveva acceso, in lei, continuava ad accendermi. Era il suo aspetto, di certo... ma anche il suo riserbo. Mi piacciono quando sono così, penso. In ogni caso, ero quasi certo che trovare Emma in casa l'avesse indisposta e messa in imbarazzo. Cosa più importante, quella sua reazione l'aveva sorpresa, e chissà, forse era competizione. «Mi è mancata la tua compagnia», dissi. «L'assenza accresce il desiderio nel cuore.» Tra un lancio e l'altro mi scoccò un'occhiata e disse: «Allora finirai per amarmi alla follia perché questa è forse l'ultima volta che mi vedrai». «Non dimenticare il party di domani sera.» Ignorò la risposta e disse invece: «Se sospettassi di una persona tra tutte quelle di cui abbiamo parlato, sarebbe Paul Stevens». «Perché?»
Mirò di nuovo al palo e questa volta lo colpì. «L'ho chiamato al telefono ieri a Plum Island, e hanno detto che era fuori. Ho insistito e hanno detto che era a casa ammalato. Ho chiamato casa sua, ma non ha risposto nessuno.» Poi concluse: «Un altro di Plum Island che scompare». Ci incamminammo lungo la spiaggia sassosa. Neanch'io ero soddisfatto del comportamento di Stevens, che era, sì, un possibile sospetto di omicidio. Come ho detto, potevo benissimo sbagliarmi su Fredric Tobin, o poteva darsi che Tobin fosse in combutta con Stevens, oppure poteva non essere né una cosa né l'altra. Avevo creduto che una volta trovato il movente, avrei avuto l'assassino. Ma era saltato fuori che il movente era il denaro e, quando il movente è il denaro, i sospetti sono tutti e nessuno. Ci muovevamo in direzione est lungo la spiaggia, oltre le case dei miei vicini. La marea saliva e l'acqua già lambiva le pietre. Beth sprofondava le mani nelle tasche della giacca, e camminava a testa bassa, come riflettendo intensamente. Di tanto in tanto, allungava un calcio a un sasso o a una conchiglia. Vide una piccola stella marina arenata sulla spiaggia, si chinò, la raccolse e la rigettò in acqua. Camminammo in silenzio ancora per qualche tempo, poi lei disse: «Riguardo al dottor Zollner, abbiamo avuto un'amabile chiacchierata per telefono». «Perché non lo convochi?» «Lo farei, ma è a Washington. È già stato convocato dall'FBI, dal ministero dell'Agricoltura e da altri, per rilasciare una dichiarazione. Poi, gli hanno fissato un programma di viaggi: Sudamerica, Inghilterra, un sacco d'altri posti che necessitano della sua perizia.» Infine concluse: «Lo tengono fuori della mia portata». «Chiedi un mandato di comparizione.» Non rispose. «Hai avuto interferenze da Washington?» domandai. «Personalmente, no. Ma quelli per cui lavoro ne hanno... Sai com'è quando telefoni e non ti richiamano, le cose che chiedi impiegano un'eternità ad arrivare, gli appuntamenti vengono rimandati.» «Ho lavorato a un caso così, una volta. Politici e burocrati», l'avvisai, «ti tengono in ballo fino a che non capiscono se puoi aiutarli o danneggiarli.» «Ma di che cosa hanno paura, in effetti, e che cosa stanno nascondendo?» «I politici hanno paura di tutto quello che non capiscono, e non capisco-
no niente. Tu continua a lavorare al caso.» Assentì. «Hai fatto un ottimo lavoro.» «Grazie.» Ci voltammo e prendemmo a tornare verso casa. Beth, riflettevo, prendeva gusto alle scartoffie, al particolare, ai piccoli mattoni che via via costruivano il caso. C'erano detective convinti che un caso si potesse risolvere lavorando con gli elementi conosciuti della medicina legale, della balistica e così via. Qualche volta era vero. In quel caso, però, le risposte cominciavano ad arrivare dall'esterno, e dovevi essere là per afferrarle. «Il laboratorio», disse Beth, «ha fatto un lavoro completo sulle due auto dei Gordon e sulla loro barca. Le impronte erano tutte loro salvo, sul motoscafo, le tue, le mie e quelle di Max. Tra l'altro, sul ponte del motoscafo hanno trovato qualcosa di strano.» «Sì?» «Due cose. Prima di tutto, del terriccio, quello di cui sappiamo. Ma hanno trovato anche delle piccole, piccolissime schegge di legno marcito. Non di legname trasportato dalla corrente. Non c'era salmastro nel legno. Era legname sepolto, che aveva ancora tracce di terra.» Mi guardò. «Nessuna idea?» «Fammici pensare.» «D'accordo.» «Mi sono anche messa in contatto con lo sceriffo della contea», continuò, «un certo Will Parker, riguardo ai porto d'arma che ha rilasciato nella città di Southold.» «Giusto.» «Ho controllato anche presso l'ufficio della contea che rilascia licenze per le pistole, e ho una stampata di computer da cui si ricava che lo sceriffo e la contea hanno rilasciato 1224 permessi per la pistola ai residenti di Southold.» «Così, su circa ventimila residenti, abbiamo circa milleduecento possessori di pistole regolarmente registrate. È un gran numero, un sacco di gente da ascoltare, ma non un compito impossibile.» «Be'», mi informò Beth, «purtroppo, fino a che l'argomento era la peste non c'era compito che fosse impossibile. Ora, però, non stiamo più impegnando tutte le risorse della polizia per risolvere il caso.» «I Gordon sono importanti per me. La loro uccisione è importante.» «Questo lo so. Anche per me. Ti sto solo illustrando la realtà.»
«Perché non faccio una telefonata al tuo capo così posso illustrarla a lui, la realtà?» «Lascia perdere, John. Me ne occuperò io.» «D'accordo.» In verità, mentre il procuratore distrettuale della Contea stava abbassando la fiamma sotto quel caso, i Federali si dedicavano segretamente con tutte le loro forze a cercare il tipo sbagliato di assassino. Ma era un problema che non mi riguardava. «C'è il signor Tobin sull'elenco delle licenze?» domandai. «Sì. Ho dato una scorsa all'elenco e ho annotato alcuni nomi che conoscevo. Uno era Tobin.» «Chi altri?» «Be', Max. Lui ha una calibro 45 non in dotazione.» «Eccolo il tuo assassino», dissi, in tono mezzo scherzoso. «Tobin invece cos'ha?» domandai. Mi lanciò un'occhiata, poi: «Due pistole: una Browning 9mm e una Colt 45 automatica». «Mio Dio. Ha paura dei ladri d'uva?» «Immagino che porti con sé del contante o qualcosa. Non ti servono molte ragioni per ottenere il permesso per la pistola in questo distretto amministrativo, se sei amico dello sceriffo o del capo della polizia.» «Interessante.» Le armi occultabili erano regolate attentamente nello Stato di New York, ma c'erano luoghi dove ottenere il permesso era un po' più facile. In ogni caso, l'avere due pistole non faceva di Fredric Tobin un killer, ma era indice di un certo tipo di personalità. Freddie, pensavo, rientra nel tipo dai modi miti che, come suggeriva Emma, non era un violento dal lato fisico o verbale, ma che avrebbe cacciato una pallottola in testa a qualcuno se si fosse sentito anche minimamente minacciato. Mentre ci avvicinavamo al mio tratto di spiaggia, Beth si fermò e si girò verso l'acqua. Rimase così, a contemplare la baia: una posa classica, pensai, come in un dipinto a olio intitolato Donna che guarda il mare. Mi domandai se Beth Penrose fosse tipo da fare il bagno senza costume, e decisi che no, non lo era. «Perché Fredric Tobin ti interessa?» domandò lei. «Te l'ho detto... be', risulta che era più intimo dei Gordon di quanto mi fossi mai reso conto.» «E con questo?» «Non lo so. Continua, ti prego.» Mi scoccò un'altra occhiata, poi voltò le spalle alla baia e riprese a cam-
minare. «Bene», disse. «Abbiamo anche esaminato la zona paludosa a nord della casa dei Gordon, e trovato un punto dove sarebbe stato possibile trascinare una barca tra i giunchi.» «Davvero? Ottimo lavoro.» «Grazie. È possibilissimo che qualcuno sia arrivato da quella parte con un'imbarcazione a fondo piatto. Lunedì l'alta marea era alle 7 e 02 di sera, perciò verso le 5 e 30 stava già alzandosi, e c'erano quasi sessanta centimetri d'acqua nel terreno paludoso accanto alla casa dei Gordon. Con una pertica e una barca a fondo piatto potevi spingerti attraverso il canneto, e nessuno ti avrebbe visto.» «Bravissima. Perché non ci ho pensato anch'io?» «Perché perdi il tuo tempo a pensare battute idiote.» «Quelle non le penso, per la verità.» «Non sto dicendo con certezza che una barca sia passata in quel canneto», continuò, «anche se sì direbbe di sì. Ci sono giunchi spezzati di recente.» Poi aggiunse: «Il fango non mostra tracce di compressione, ma abbiamo avuto otto maree dal momento dei due omicidi, e possono avere cancellato qualsiasi segno nella fanghiglia». Tentennavo il capo. «Ragazzi, qui non è come alla Omicidi di Manhattan. Giunchi, paludi, fanghiglia, baie con i proiettili sul fondo. Qui tutto mi ricorda il Sergente Preston dello Yukon.» «Vedi che cosa intendo dire? Fai sempre dello spirito fuori posto.» «Scusami...» «Okay. Ho parlato con Max al telefono, e lui è molto seccato con te per avere messo sotto torchio Fredric Tobin.» «Al diavolo Max.» «Ho dovuto appianare le cose per te, con Max.» «Ti ringrazio.» «Hai saputo qualcosa da Fredric Tobin?» mi domandò. «Come no! Estensione delle foglie. Macerazione delle bucce con il succo nei tini. Cos'altro...?» «Dovrei parlargli?» Riflettei un momento, poi replicai: «Dovresti, sì». «Non mi dai qualche lume sul perché dovrei farlo?» «Lo farò. Ma non subito. Dovresti, questo sì, dimenticare droghe, germi, vaccini e qualsiasi cosa abbia a che fare con il lavoro dei Gordon.» Rimase per un bel pezzo in silenzio, mentre continuavamo a camminare. Alla fine, domandò: «Ne sei sicuro?»
«Senza scherzi.» «Allora qual è il motivo? Dimmelo.» «Voglio mettere un po' alla prova la tua fantasia.» Mi fissò in modo alquanto strano, poi domandò: «Amore? Sesso? Gelosia?» «Acqua, acqua.» «Il terreno della Wiley?» «Fuochino.» Parve immergersi nelle sue riflessioni. Eravamo di nuovo sulla proprietà di mio zio, ora, e ci fermammo vicino al pontile. Venimmo a trovarci l'uno di fronte all'altro, quasi, e tutti e due con le mani nelle tasche della giacca. Stavo cercando di capire quello che provavo per lei alla luce di Emma, e Beth stava cercando di immaginare chi avesse ucciso i Gordon. Mi passò per la mente che forse, una volta risolto il caso, tutti noi avremmo dovuto cercare di capire bene quello che provavamo, e per chi lo provavamo. «Prendi un sasso e vedi di fare il tuo tiro migliore», disse Beth. «Cos'è, una gara?» «Certo.» «Il premio qual è?» «Non preoccuparti. Tanto, non vinci.» «Be', non sei un po' troppo sicura di te stessa?» Trovai una pietra davvero ideale, rotonda, piatta sotto e concava nella parte superiore: un profilo alare perfetto. Mi concentrai come fosse stato il lancio finale di una partita di campionato. La pietra toccò l'acqua, slittò oltre, toccò, slittò, toccò, slittò, toccò, slittò, e affondò. Però! «Quattro», dissi, in caso lei non stesse contando. Aveva già trovato il suo sasso: rotondo, un po' più grande del mio, e concavo su entrambi i lati. Quella è un'altra teoria. Si tolse la giacca e me la porse. Sollevò il sasso nella mano come se stesse considerando di servirsene per farmi volar via la testa, poi, probabilmente elettrizzata dall'immagine mentale della mia testa che rimbalzava sull'acqua, lanciò. La pietra toccò e slittò quattro volte e sarebbe affondata, ma incontrò una minuscola ondina e tornò ancora una volta in aria prima di sparire. Beth si pulì le mani e si fece ridare la giacca. «Molto brava», dissi. «Hai perso», ribatté lei. Si rimise la giacca e disse: «Dimmi quello che sai».
«Sei un detective talmente in gamba, tu. Ti darò solo degli indizi, tu potrai ricamarci su. Bene, ascolta: la casa in affitto sul mare con il motoscafo, l'acro di terreno della Wiley, la Peconic Historical Society, la storia di Plum Island e delle isole circostanti, la settimana passata in Inghilterra... cos'altro... i numeri 44106818... cos'altro?» «Paul Stevens?» «È possibile.» «Fredric Tobin?» «È possibile.» «Lui come c'entra? Sospetto? Testimone?» «Be', il signor Tobin e le sue cantine potrebbero essere al fallimento. O così ho sentito dire. Perciò lui è un uomo disperato. E gli uomini disperati fanno cose disperate.» «Controllerò la sua situazione finanziaria», disse subito Beth. «Nel frattempo, grazie per questi grandi indizi.» «È tutto lì, bambina mia. Cerca un comune denominatore, un filo che passi attraverso tutta la sequenza.» Non le piaceva quel gioco. «Devo andare», disse. «A Max dirò che hai risolto il caso, e che farebbe bene a telefonarti.» Si avviò attraverso il prato per rientrare in casa. La seguii. In cucina, cominciò a raccogliere le sue carte. «A proposito», domandai, «che cosa significano quelle due bandiere di segnalazione?» Senza smettere di riempire la cartella, rispose: «Le bandiere sono le lettere B e V. Nell'alfabeto fonetico, corrispondono a Bravo e Victor». «E l'altro significato? Quello in parole?» «La bandiera Bravo significa anche carico pericoloso. La Victor vuol dire richiesta assistenza.» «Cosi, le due bandiere significherebbero carico pericoloso, richiesta assistenza.» «Sì, il che avrebbe un senso se i Gordon stavano trasportando microrganismi pericolosi. O anche droga. Poteva trattarsi di un segnale per il loro partner. Ma tu dici che il caso non ha niente a che fare con germi o con stupefacenti.» «Questo è quanto dico io.» «Secondo un tale nel mio ufficio, che è un marinaio», mi informò, «un sacco di gente a terra inalbera pennoni soltanto come decorazione o così per scherzo. Sull'acqua non potresti farlo ma, a terra, nessuno li prende sul
serio.» «Questo è vero. Ed è quello che i Gordon facevano spesso.» Ma stavolta... carico pericoloso, richiesta assistenza... «Parti dal presupposto che fosse un segnale a qualcuno», dissi. «È fantastico, come segnale. Niente telefono, niente cellulare, soltanto un'antiquata bandiera di segnalazione. Concordato in precedenza, probabilmente. I Gordon stavano dicendo: "Abbiamo la merce a bordo, venite ad aiutarci a scaricarla".» «Quale merce?» «Ah. Quello è il problema.» Mi fissò e disse: «Se hai informazioni o prove che stai tenendo per te - e suppongo sia così - allora potresti avere un problema legale, detective». «Via, via. Niente minacce.» «John, sto indagando su un duplice omicidio. Erano tuoi amici, e questo non è un gioco...» «Calma. Non mi serve una conferenza. Ero seduto nella veranda di casa mia a badare agli affari miei, quando Max è venuto a pregarmi col cappello in mano. La sera dopo alla stessa ora, mi ritrovo piantato in asso nel parcheggio deserto del traghetto dopo una giornata passata in biocontenimento. E ora...» «Calmati tu! Io ti ho trattato benissimo...» «Oh, andiamo. Non ti sei più fatta viva per due giorni...» «Stavo lavorando, io. Tu che cosa stavi facendo?» E avanti così. Dopo un paio di minuti di battibecco, dissi: «Tregua. Tutto questo non è affatto produttivo». Ritrovò a sua volta il controllo di sé e disse: «Scusa». «Va bene, e scusa anche tu.» E così facemmo la pace, senza baciarci. «Non sto facendoti pressioni per quello che sai», disse lei, «ma mi avevi lasciato capire che, dopo averti detto quello che sapevo, tu avresti fatto lo stesso.» «E lo farò. Ma non questa mattina.» «Perché no?» «Parla con Max, prima. Sarebbe molto meglio se lo mettessi al corrente in base ai tuoi appunti e non alle mie teorie.» Rifletté su questo e assentì. «D'accordo. Quando posso sentirle, le tue teorie?» «Mi serve solo un altro po' di tempo. Tu, intanto, pensa a quegli elementi che ti ho dato e vedi se puoi arrivare lì dove sono arrivato io.»
Non rispose. «Quello che ti prometto», aggiunsi, «è che se riesco a mettere insieme il tutto, te lo consegnerò su un piatto d'argento.» «Molto generoso da parte tua. Che cosa vorresti in cambio?» «Niente. Tu hai bisogno di consolidare la tua carriera. Io sono già al culmine della mia.» «In realtà tu sei nei guai e risolvendo questo caso non ne verrai fuori: ci finirai dentro ancora di più.» «Quel che sarà, sarà.» Guardò l'orologio e disse: «Devo trovarmi con Max». «Ti accompagno alla macchina.» Ci portammo all'esterno, e lei salì sulla sua auto. «Ci vediamo domani sera al party di Tobin, se non prima», disse. «Giusto. Tu sarai la ragazza di Max.» Le sorrisi. «Grazie d'esserti fermata da me.» Guidò intorno allo spiazzo ma, invece di imboccare il viale, completò a tutta velocità il giro, frenò bruscamente davanti al portone e disse, quasi senza fiato: «John! Hai detto che i Gordon scavavano per trovare un tesoro nascosto. Come importante ritrovamento archeologico - su Plum Island, terra di proprietà del governo degli Stati Uniti - dovevano portarlo via dall'isola e seppellirlo in terreno loro: la proprietà Wiley. Giusto?» Sorrisi e levai in alto il pollice, approvando, poi mi voltai e rientrai in casa. Il telefono stava squillando e risposi. Era lei, dall'auto. «Che cos'avevano trovato?» domandò. «Al telefono non è prudente.» «John, quando posso vederti? Dove?» Sembrava elettrizzata, ed era logico. «Mi metterò in contatto io», dissi. «Promesso?» «Certo. Nel frattempo, faresti cosa saggia a tenere tutto per te.» «Capisco.» «Ciao...» «Sì?» «Grazie.» Riagganciai. «Non c'è di che.» Uscii sul retro dalla porta di cucina e andai fino all'estremità del pontile. Ho scoperto che quello è un buon posto per pensare.
Una nebbia mattutina gravava sull'acqua, e vedevo una barchetta a remi avanzare via via attraverso il grigio vapore. Un cabinato stava per tagliarle la strada, e l'uomo della barca raccolse qualcosa, poi udii un forte suono di corno, un corno da nebbia, e rammentai d'avere visto quei barattoli da aerosol che emettevano un suono del genere, una specie di versione alla buona di un corno da nebbia elettrico o di una campana d'ottone. Era un suono abbastanza comune sull'acqua, tanto che quasi non l'avvertivi più, neppure sentendolo in una limpida giornata di sole, probabilmente, perché ricordavo che anche le grandi imbarcazioni se ne servivano per segnalare che una lancia venisse a prendere l'equipaggio, una volta ormeggiate al largo. E se lo sentivi risuonare da vicino, potevi non udire il rumore di due spari in rapida successione. Un silenziatore alla buona. Molto ben trovato, in realtà. Tutto stava andando a posto, in effetti, perfino i piccoli particolari. Ero convinto di avere il movente dell'assassino: il tesoro di Capitan Kidd. Però, non riuscivo a collegare del tutto Tobin, Stevens o chiunque altro con i due omicidi. Anzi, nei miei momenti più paranoici, pensavo che anche Max ed Emma potessero esserne a parte. Dato il genere di ambiente, la cospirazione poteva realmente abbracciare un vasto campo. Ma chi aveva materialmente premuto il grilletto? Cercavo di figurarmi Max, Emma, Tobin e Stevens, e magari anche Zollner, tutti sul tavolato della casa dei Gordon... O forse qualcun altro, qualcuno che non conoscevo nemmeno o al quale non avevo pensato. Bisogna essere molto cauti e maledettamente sicuri prima di dare dell'assassino a qualcuno. Quello che inoltre mi occorreva - non perché importasse un corno a me, ma a tutti gli altri sì - era trovare il tesoro. Il piccolo Johnny va in cerca del tesoro. Ma deve battere in astuzia qualche malvagio pirata, trovare il tesoro e consegnarlo al governo. Un pensiero davvero deprimente. Mi domandavo se alcuni milioni di dollari in oro e gemme mi avrebbero reso più felice. L'oro che seduce i santi. Prima di immergermi troppo a fondo in quella riflessione, pensai a tutte le persone che erano morte a causa di quell'oro: presumibilmente, quelli che lo avevano a bordo quando Kidd aveva assalito la loro nave, poi qualcuno degli uomini di Kidd, poi lo stesso Kidd quando lo avevano impiccato, poi chissà quanti uomini e donne erano morti o erano andati in rovina nel corso degli ultimi tre secoli per cercare il favoloso tesoro di Capitan Kidd. Poi, infine, Tom e Judy Gordon. E avevo l'inquietante premonizione che la catena di morte non si sarebbe arrestata li.
27 Verso mezzogiorno mi fermai al negozio di fiori di Emma e consegnai il vaso da notte. Non avevo fatto la prima colazione così invitai Emma a pranzo, ma disse che aveva da fare. Il venerdì, in fiorilandia, è giorno di gran lavoro: ricevimenti, cene e così via. In più, c'erano tre funerali, che per loro natura sono eventi fuori programma. Inoltre, lei aveva un'ordinazione permanente dalle Cantine Tobin per fornire fiori ogni fine settimana al ristorante e all'atrio. Senza contare, poi, la grande soirée da Fredric della sera dopo. «Li paga i conti?» domandai. «No. Ecco perché l'ho preso di petto. Contanti o carta di credito. Niente assegni. E gli ho tagliato la fornitura per casa sua.» Lo disse in modo da far pensare che le sarebbe piaciuto tagliargli ben altro. «Vuoi che ti porti un sandwich?» domandai. «No, grazie. Devo proprio tornare al lavoro.» «A domani, allora.» Venni via e feci quattro passi lungo Main Street. In un certo senso la natura del nostro breve rapporto era cambiata. Lei era decisamente freddina. Le donne hanno un loro modo di raggelarti e, se cerchi di scongelarle, non fanno che abbassare di più la temperatura. È un gioco nel quale bisogna essere in due e, visto che le carte sono già smazzate, io scelgo sempre di non giocare. Mi procurai un sandwich e una birra, risalii sulla Jeep e guidai fino all'acro di Tom e Judy là sulla rupe. Sedetti sul masso e consumai il mio pasto. Le Cornici di Capitan Kidd. Incredibile. E non avevo alcun dubbio che i numeri 44106818, che erano storia nota, fossero fatti per corrispondere al punto eroso sulla faccia di quella rupe in cui sarebbe stato trovato il tesoro: quarantaquattro passi o quarantaquattro gradi, dieci passi o dieci gradi, o chissà. Potevi giocare con i numeri e il loro significato e procedere a ritroso fino a un punto di tua stessa scelta. «Bell'affare, voi due. Quanto mai non vi siete confidati con me. Sareste ancora vivi.» Un uccello cinguettò da qualche parte, come in risposta. In piedi sul masso, scrutai con il binocolo verso sud, passando in rassegna le fattorie e i vigneti fino a scorgere la torre di Tobin il Terribile che si levava al di sopra della piatta pianura glaciale, la cosa più alta, laggiù; il sostituto del pene di Lord Freddie. A voce alta dissi: «Stronzo». Decisi che volevo allontanarmi da tutto: dal telefono, da casa, da Beth,
Max, Emma, l'FBI, la CIA, i miei capi, e perfino dai miei amici in città. Mentre scrutavo il Connecticut al di là dello Stretto, mi venne l'idea di andare al Casino di Foxwoods. Scesi dalla rupe, risalii sulla Jeep e guidai fino al traghetto di Orient. Fu una traversata calma, in una bella giornata sullo Stretto, e un'ora e venti minuti dopo la mia Jeep e io eravamo a New London, nel Connecticut. Guidai fino a Foxwoods, l'estesa casa da gioco e albergo nel bel mezzo del nulla - in realtà sul territorio della tribù dei Mashantucket Pequot - una sorta di luogo alla Qui-siamo-pari-fottuto-uomo-bianco. Fissai una camera, comprai qualche articolo da bagno, andai nella mia stanza, tolsi l'involucro allo spazzolino da denti, poi scesi nell'immensa casa da gioco per vedere che cosa mi riservava la sorte. Fui molto fortunato a blackjack, finii in pari alle slot machine, persi qualcosa ai dadi, e ci rimisi qualcos'altro alla roulette. Per le otto di sera, ero in rosso di soli duemila dollari. Ma quanto mi stavo divertendo. Cercavo di mettermi nei panni eleganti di Freddie Tobin: pupa al mio braccio, sotto di diecimila circa a weekend, cantine che pompano svanziche, ma non abbastanza in fretta. Tutto quello che forma il mio mondo sta per crollare al suolo. Tuttavia, tengo duro e divento perfino più spericolato nel giocare d'azzardo e nello spendere perché sto per beccarmi il jackpot. Non questo jackpot di Foxwoods; quello che è rimasto sepolto per trecento anni, e io so dov'è, e la vicinanza è allettante: posso probabilmente vedere dov'è sepolto quando oltrepasso Plum Island con la mia barca. Ma non posso impadronirmene senza l'aiuto di Tom e Judy Gordon, con i quali mi sono confidato e che ho reclutato perché siano miei soci. E io, Fredric Tobin, ho scelto bene. Di tutti gli scienziati, il personale e gli altri lavoratori di Plum Island che abbia mai incontrato, Tom e Judy sono i soli che voglio reclutare: sono giovani, intelligenti, stabili, hanno una certa classe e, soprattutto, hanno dimostrato d'avere il gusto della bella vita. Presumevo che Tobin avesse reclutato i Gordon non molto dopo il loro arrivo qui, come dimostrava il fatto che entro quattro mesi si erano trasferiti dalla loro casa nell'interno vicino al traghetto a quella attuale sul mare. Era stato un suggerimento di Tobin, e anche la barca. Ovviamente, Tobin era già attivamente alla ricerca di un suo contatto su Plum Island e aveva probabilmente scartato un certo numero di candidati. Per quello che ne sapevo, aveva già avuto un partner su Plum Island, qualcosa era andato di traverso, e ora quella persona era morta. Più d'una, forse. Dovevo controllare per vedere se qualche dipendente dell'isola avesse
fatto una fine prematura, due o tre anni prima. Mi rendevo conto di dar prova di un inaccettabile pregiudizio verso Fredric Tobin, e di volere realmente che fosse lui l'assassino. Non Emma, né Max, né Zollner, e nemmeno Stevens. Fredric Tobin, sì. Per quanto cercassi di collocare altri nella parte dell'assassino, nella mia mente tutto tornava sempre a lui. Beth, senza dirlo esplicitamente, sospettava di Stevens, ed essendo uguali tutti gli altri elementi, era più probabile lui che Tobin. I miei ragionamenti su Tobin erano troppo condizionati dai miei sentimenti per Emma. Proprio non riuscivo a togliermi dalla mente l'immagine di quei due che scopavano. Da almeno un decennio, dico, non provavo qualcosa del genere. Non volevo condannare ingiustamente Freddie, decisi però di procedere in base al presupposto che fosse stato lui, e vedere se potevo montare un caso in piena regola. Riguardo a Paul Stevens, poteva darsi benissimo che fosse coinvolto, ma se Tobin avesse reclutato Stevens, che bisogno avrebbe avuto dei Gordon? E se Stevens non era coinvolto nel piano, poteva darsi che ne avesse avuto sentore? Era come un avvoltoio, in attesa di piombare dall'alto e prendere la sua parte dopo che il lungo, duro lavoro di ricerca era stato fatto da altri? Oppure agiva da solo, senza Tobin e senza nessun altro? Potevo sicuramente montare un caso contro Stevens, che conosceva bene Plum Island e aveva l'opportunità, le armi, la vicinanza quotidiana con le vittime e, soprattutto, la personalità per ordire una congiura e uccidere poi i soci. Forse, con un po' di fortuna, avrei messo Stevens e Tobin sulla sedia elettrica. E c'era infine la possibilità di qualcun altro... Pensavo a tutto quello che era accaduto prima che Tom e Judy si ritrovassero con un foro nella testa. Potevo vedere Tom, Judy e Tobin vivere troppo bene, spendendo troppo, alternativamente fiduciosi e in affanno riguardo al successo della loro impresa. Erano stati meticolosi nel gettare le basi della cosiddetta scoperta del tesoro. Fatto interessante, avevano deciso di non collocarla sulla proprietà in riva all'acqua di Tobin. Avevano deciso invece di attenersi a una leggenda locale, le Cornici di Capitan Kidd. Naturalmente, in seguito avrebbero detto al mondo che la loro ricerca li aveva condotti a quel particolare punto, e avrebbero confessato d'avere raggirato la povera Margaret Wiley, la quale si sarebbe presa a calci per avere venduto il terreno e sarebbe rimasta con la convinzione che Thad l'avesse punita. I Gordon avrebbero regalato un gioiello alla signora Wiley, come premio di consolazione.
Spesso, in un'indagine su un omicidio, cerco la spiegazione più semplice, e la spiegazione più semplice era semplice davvero: l'ingordigia. Freddie non aveva mai imparato a condividere e, quand'anche avesse voluto farlo, mi domandavo se il tesoro fosse abbastanza grande da coprire i suoi debiti e salvare i suoi vigneti. Sicuramente la sua parte sarebbe stata non più del cinquanta per cento, e quella del governo, di stato e federale, più o meno lo stesso. Se anche il valore del tesoro fosse stato di dieci milioni, Freddie poteva dirsi fortunato nell'arrivare a due e mezzo. Certo non sufficienti per uno spendaccione come Lord Tobin. E se poi c'era un altro socio - uno vivo, com'era Paul Stevens - allora era chiaro che i Gordon dovevano sparire. Ma avevo ancora domande senza risposta: fatta l'ipotesi che i Gordon avessero scoperto il tesoro su Plum Island, lo avevano tutto con sé il giorno in cui avevano incontrato la loro fine nel giardino dietro casa? C'era il tesoro, in quella ghiacciaia? E dov'era l'originale forziere del tesoro, che doveva essere riseppellito e trovato in un modo che soddisfacesse un archeologo ficcanaso o un agente del fisco? Mentre rimuginavo su queste cose, non prestavo attenzione alla ruota della roulette. La roulette va bene per chi ha altre cose per la mente, poiché non è un gioco dove occorra pensare; come per le slot machine, è pura fortuna. Ma con quelle puoi regolare il ritmo delle tue perdite, e passare la serata in uno stato sbalordito e catatonico davanti a quei banditi con un braccio solo e perdere poco di più dei soldi della spesa. Con la roulette, però, a un tavolo da dieci dollari, con un croupier veloce e veloci scommettitori, puoi dissanguarti alla svelta. Venni via da quel tavolo, presi un altro anticipo di contanti sulla mia carta di credito, e andai in cerca di una cordiale partita a poker. Ah, le cose che faccio per il mio mestiere. Me la cavai bene al tavolo del poker e, verso mezzanotte, ero di nuovo sotto di duemila e rotti. In più, stavo morendo dalla fame. Mi procurai una birra e un panino da una delle addette e giocai a poker fino alla una, ancora sotto di duemila abbondanti. Battei in ritirata verso uno dei bar e passai allo scotch. Seguii una replica del telegiornale, in cui non venivano affatto menzionati i Gordon. Ripassai mentalmente in rassegna l'intero caso, dal momento in cui Max era comparso nella mia veranda a quello presente. E, già che c'ero, ripensai alla mia vita amorosa, al mio impiego e a tutto il resto, cosa che mi portò ad affrontare la questione di dove stessi andando.
Ed ecco qua, verso le due del mattino, ero più povero di duemila dollari, solo ma non solitario, leggermente alticcio, ritenuto fisicamente inabile per tre quarti, e magari mentalmente inabile al cento per cento, e avrei potuto benissimo mettermi a piangere su me stesso. Invece, tornai al tavolo della roulette. Ero sfortunato in amore, quindi dovevo essere fortunato al gioco. Alle tre, sotto di un altro migliaio di dollari, andai a letto. Mi svegliai il sabato mattina con quella strana sensazione di dove-mitrovo? Qualche volta la donna accanto a me mi aiuta a uscirne, ma non c'era nessuna donna accanto a me. Poco dopo, la mente mi si sgombrò, ricordai dov'ero e ricordai d'essere stato scotennato dai Mashantucket Pequot: o forse, dovrei dire finanziariamente sfidato dai miei fratelli americani indigeni. Feci la doccia, mi vestii, presi con me lo spazzolino da denti, e feci la prima colazione nella casa da gioco. Fuori, era un'altra bella giornata di fine estate, quasi autunno. Forse era quella l'estate indiana. Salii sulla mia Jeep e mi diressi a sud, verso New London. Alla periferia settentrionale della città, mi fermai a una stazione di servizio e chiesi indicazioni. Un quarto d'ora dopo, ero in Ridgefield Road, una sorta di strada periferica di linde case stile New England che sorgevano su terreni di discreta dimensione. L'area era semirurale; per me era difficile immaginare se per viverci occorressero bei dollari oppure no. Le case erano di media misura, le automobili di prezzo medio, per cui doveva essere medio l'intero vicinato. Mi fermai al numero diciassette, una tipica casa bianca ricoperta di assicelle nello stile di Cape Cod, sita a una trentina di metri dalla strada. Le case più vicine erano a una certa distanza. Scesi dall'auto, risalii a piedi il viale d'ingresso e suonai il campanello. Mentre aspettavo, mi guardai attorno. Non c'erano macchine sul viale. Inoltre, non c'era traccia di cose di ragazzini, così conclusi che il signor Stevens era scapolo, oppure sposato senza figli, o sposato con figli adulti, o che i figli se li era mangiati. Che ve ne pare come ragionamento deduttivo? Notai, anche, che il posto era troppo ordinato. Sembrava, voglio dire, che ci vivesse qualcuno dalla mentalità maniaca, fascista. Nessuno rispose alla mia bussata, così mi avvicinai all'annesso garage e sbirciai dentro dalla finestrella laterale. Niente auto. Mi portai allora sul re-
tro, dove un prato si stendeva per una cinquantina di metri fino a un bosco. C'era un bel patio di ardesia, grill, mobili da giardino e così via. Mi avvicinai alla porta di servizio e, attraverso le finestre, scrutai dentro una linda cucina rustica. Contemplai seriamente un veloce lavoretto di effrazione, per una perquisizione accurata delle stanze e già che c'ero per rubargli il diploma così per spasso, ma come diedi una rapida occhiata alla casa notai che tutte le finestre erano collegate con il sistema d'allarme. Inoltre, sotto il cornicione del tetto alla mia destra c'era una telecamera che faceva una panoramica di centottanta gradi. Un osso duro, l'amico. Tornai nella strada, rimontai sulla Jeep e formai il numero di telefono di Stevens. Una voce registrata rispose, offrendomi diverse opzioni che avevano a che fare con il suo numero del fax e della posta elettronica di casa, del suo cercapersone, della sua casella postale, del suo telefono, del fax e della posta elettronica d'ufficio, e infine la possibilità di lasciare un messaggio dopo due segnali. Non avevo avuto tante opzioni da quando mi ero fermato davanti a un distributore di preservativi. Premetti il tre sul mio apparecchio, ottenni il numero del cercapersone di Stevens, lo formai, poi formai il numero di telefono dell'auto e riagganciai. Un minuto dopo, il mio apparecchio squillò e risposi: «Acquedotto municipale di New London». «Sì, parla Paul Stevens. Mi ha cercato lei.» «Sì, signore. C'è una grossa perdita d'acqua davanti a casa sua in Ridgefield Road. Vorremmo inserire una pompa nel suo scantinato per evitare che si allaghi.» «Okay... sono in macchina, ora... posso essere lì tra una ventina di minuti.» «Va benissimo.» Riagganciai e aspettai. Circa cinque minuti dopo - non venti - una Ford Escort grigia andò a fermarsi nel viale d'accesso, e ne scese Paul Stevens, in calzoni neri e giacca a vento nocciola. Scesi a mia volta dalla Jeep, e ci incontrammo sul suo prato antistante. Mi salutò con calore, dicendo: «Cosa cazzo ci fa lei qui?» «Ero da queste parti e ho pensato di fare una capatina.» «Si levi immediatamente dalle palle.» Santo cielo. Non mi ero aspettato una così gelida accoglienza. «Proprio non mi va che mi si parli in quel tono.» «Stronzo... mi ha rotto le palle per tutta quella fottuta mattina...»
«Ehi, amico...» «A farsi fottere, Corey. Fuori dai piedi, via.» In verità, era uno Stevens diverso da quello di Plum Island, che per lo meno si era mostrato civile, se non cordiale. Naturalmente, era stato costretto a mostrarsi civile, allora. Ora, la tigre era nella sua tana e non c'erano i guardiani là intorno. «Via, si calmi, Paul...» «È sordo? Ho detto, fuori dalle scatole. E tra parentesi, stupido d'uno stronzo, c'è acqua di pozzo, qui. E adesso fuori!» «Okay. Ma devo avvertire la mia collega.» Accennai verso la casa. «Beth Penrose. È sul retro.» «Se ne torni in macchina, lei. La avverto io.» Si voltò e prese ad allontanarsi, poi girò la testa per dire: «Dovrei farvi arrestare tutti e due per violazione di proprietà. Vi è andata bene che non sono sceso dall'auto sparando». Mi accinsi a tornare verso la mia Jeep. Guardai dietro di me in tempo per vederlo voltare l'angolo del suo garage. Di gran corsa riattraversai il prato, il viale e lo raggiunsi mentre girava intorno all'estremità più lontana della casa e svoltava verso il giardino sul retro. Mi udì, si girò di scatto e fece per estrarre la pistola, ma troppo tardi. Lo centrai sul mento col pugno e lui emise una specie di umpf e fece un piccolo balzo all'indietro, con braccia e gambe di traverso. Una scena quasi comica. M'inginocchiai accanto al povero Paul e lo frugai, trovando la sua piccola special del sabato pomeriggio - una Beretta 6,5 mm - dentro la tasca interna della giacca a vento. Tolsi il caricatore e lo vuotai, mettendomi le pallottole in tasca. Mi assicurai che fosse scarica, rimisi a posto il caricatore e gliela restituii. Guardai nel suo portafoglio: un po' di contanti, carte di credito, patente di guida, tessera di riconoscimento di Plum Island e un porto d'armi del Connecticut che elencava la Beretta, una 45 Colt e una 357 Magnum. Non c'erano fotografie, niente numeri di telefono, niente biglietti da visita, niente chiavi, preservativi, biglietti della lotteria né altro di qualche particolare interesse, salvo il fatto che possedeva due pistole di grosso calibro di cui forse non avremmo mai saputo niente se io non lo avessi steso con un pugno e non avessi frugato nel suo portafoglio. A ogni modo, rimisi a posto il portafoglio, mi rialzai e aspettai pazientemente che balzasse su e chiedesse scusa per il suo comportamento. Ma rimaneva là, rotolando la sua stupida testa da un lato e dall'altro ed emet-
tendo suoni inarticolati. Non c'era sangue su di lui, ma una chiazza rossa cominciava a formarsi dove l'avevo colpito. In seguito, sarebbe diventata blu, e poi di un bel viola. In ogni caso, andai verso il tubo arrotolato di un idrante, aprii il rubinetto e aspersi il signor Stevens. Gli fece bene, pare, perché si rialzò barcollando, farfugliando e così via. «Ha trovato la mia collega?» gli domandai. Sembrava alquanto confuso, mi ricordava me stesso quando mi ero svegliato, quel mattino, con i postumi di una mezza sbronza. Potevo capirlo. Davvero. «Acqua del pozzo», dissi. «Eh, già. Non ci avrei mai pensato. Ehi, Paul, chi ha ucciso Tom e Judy?» «Vai a farti fottere.» Gli diedi un'altra spruzzata, e lui si copri la faccia. Lasciai cadere l'idrante e mi avvicinai di più a lui. «Chi ha ucciso i miei amici?» Stava asciugandosi la faccia con un lembo della giacca a vento, poi parve ricordare qualcosa, la sua destra sparì dentro la giacca e ne uscì con la pistola. «Bastardo! Mani sulla testa», ordinò. «Okay.» Misi le mani sulla testa e questo parve farlo sentire un po' meglio. Stava massaggiandosi la mandibola, ora, e si capiva che gli doleva parecchio. Sembrava che si rendesse conto per gradi d'essere stato giocato, steso con un pugno e bagnato con l'idrante. Aveva l'aria di chi stia arrabbiandosi, caricandosi via via. «Togliti la giacca.» Me la tolsi, rivelando la mia 38 nella fondina all'ascella. «Molla quella giacca, slacciati lentamente la fondina e lasciala cadere.» Feci come diceva. «Porti qualcos'altro?» «No, signore.» «Tira su le gambe dei pantaloni.» Tirai su le gambe dei pantaloni, mostrando di non avere fondine alla caviglia. «Girati», ordinò, «e tira su la camicia.» Mi girai, tirai su la camicia, mostrandogli di non avere una fondina dietro le reni. «Voltati.» Mi voltai e lo fissai.
«Mani sopra la testa.» Misi le mani sopra la testa. «Allontanati dalla tua pistola.» Mossi un passo in avanti. «Inginocchiati.» Mi inginocchiai. «Bastardo di merda. Chi cazzo credi d'essere, venire qui in quel modo e violare la mia proprietà e i miei diritti civili?» Era molto ma molto incavolato e usava un linguaggio quanto mai scurrile. È quasi assiomatico in questo mestiere che i colpevoli proclamino la loro innocenza e che gli innocenti vadano completamente in bestia e facciano ogni sorta di minacce legali. Ahimè, il signor Stevens sembrava rientrare nella categoria degli innocenti. Lo lasciai sfogare ben bene. Finalmente, riuscii a infilare una parola e gli domandai: «Be', ce l'ha almeno un'idea di chi potrebbe essere stato?» «Se l'avessi, non lo direi a te, lurido figlio di puttana.» «Qualche idea del perché sono stati uccisi?» «Ehi, non farmi domande, stronzo. Chiudi quella bocca della malora.» «Significa che non posso contare sulla sua collaborazione?» «Taci!» Rifletté un momento, poi disse: «Dovrei spararti per violazione di proprietà, bastardo d'un idiota. Ma la pagherai per avermi colpito. Dovrei farti spogliare e seppellirti nei boschi». Stava autocaricandosi di nuovo, diventava creativo sui modi di vendicarsi e così via. Cominciavo ad avvertire dei crampi, in ginocchio, e mi rialzai. «Giù», sbraitò Stevens. «In ginocchio.» Gli andai più vicino, lui puntò la Beretta proprio al mio pisellino e premette il grilletto. Trasalii, pur sapendo che l'arma era scarica. Si rese conto d'avere fatto qualcosa di pessimo, cercando di spararmi via le palle con una pistola scarica. Continuava a fissare la Beretta. Usai un gancio sinistro stavolta, non volendo infierire di nuovo sulla mandibola destra. Speravo che l'avrebbe apprezzato, una volta tornato in sé. A ogni modo, finì lungo disteso sull'erba. Sapevo che al risveglio si sarebbe sentito malissimo, maledettamente stupido, imbarazzato e via dicendo, e quasi provai pena per lui. Be', forse no. In ogni caso, non avrebbe certo fornito spontaneamente informazioni dopo il secondo KO, e non pensavo di poterlo persuadere a parlare con le lusinghe o con l'inganno. Torturarlo era assolutamente da escludere, anche
se la tentazione c'era. Raccolsi pistola, fondina e giacca, poi, da quel burlone che ero, annodai tra loro le stringhe delle scarpe del signor Stevens. Me ne tornai alla mia Jeep, vi salii e partii, sperando di mettere un po' di distanza tra me e quella casa prima che Stevens si riavesse e chiamasse la polizia. Mentre guidavo, riflettevo su Paul Stevens. Quell'uomo rasentava i limiti della follia. Già, ma era un assassino? Sembrava di no, eppure c'era qualcosa in lui... sapeva qualcosa. Di questo ero convinto. E qualsiasi cosa sapesse, la teneva per sé, il che voleva dire che proteggeva qualcuno, oppure che lo ricattava, o magari che stava cercando di cavare qualche dollaro da tutta la faccenda. In tutti i casi, era ormai un testimone ostile, a dir poco. Così, invece di prendere il traghetto a New London per tornare a Long Island - cosa che poteva farmi incappare in una delle pattuglie di un bollettino diramato a tutti i posti di polizia e costringermi a un braccio di ferro con le forze del Connecticut - mi diressi a ovest attraverso alcune scenografiche strade secondarie, cantando sull'accompagnamento di una stazione che trasmetteva motivetti in cui - Ooowk... lahoma! - il vento spazza la pianura e cose del genere. Nel frattempo, la destra mi faceva male e la sinistra stava irrigidendosi. Anzi, le nocche della destra erano un po' gonfie. «Sto invecchiando.» Flettevo entrambe le mani. Ahi! Il mio cellulare suonava. Non risposi. Varcai il confine con lo Stato di New York, dove avevo migliori probabilità di cavarmela con la polizia nel caso mi stessero dando la caccia. Superai l'uscita del Throg Neck Bridge dove la maggior parte della gente avrebbe fatto la traversata per Long Island, mentre io continuai e attraversai al Whitestone Bridge, il che poteva essere più appropriato. «Il ponte Emma Whitestone», canterellavo. «Sono innamorato, sono innamorato, sono innamorato di una ragazza meravigliosa!» Mi piacciono i motivetti un po' melensi. Superato il ponte, mi diressi a est lungo la superstrada turistica, diretto di nuovo verso la North Fork di Long Island. Era un percorso molto tortuoso perché avevo dovuto evitare il traghetto, ma non potevo giudicare in che modo avrebbe reagito Paul Stevens dopo essere stato messo due volte KO nel suo stesso giardino. Per non parlare dell'essere caduto a faccia in giù quando aveva tentato di muovere un passo con le stringhe legate. La mia ipotesi, però, era che non avesse chiamato la polizia. E se non in-
tendeva denunciare una violazione di proprietà e un'aggressione, allora la cosa era molto suggestiva. Paul concedeva quel round, sapendo che ve ne sarebbe stato un altro. Il problema era che avrebbe scelto lui il momento e il luogo, cercando di cogliermi di sorpresa. Per le sette di sera, ero di nuovo sulla North Fork, avendo guidato per più di quattrocento chilometri. Non volevo tornare a casa, così mi fermai all'Olde Towne Taverne per bere un paio di birre. Domandai al barista, un tale di nome Aidan, che conoscevo: «Ha mai avuto a che fare con Fredric Tobin?» «Ho fatto il barista a un party a casa sua, una volta», mi rispose. «Ma avrò scambiato sì e no cinque parole con lui.» «Che cosa si dice sul suo conto?» Aidan alzò le spalle. «Non saprei... ne sento di tutti i colori.» «Per esempio?» «Be', chi dice che è un gay, chi dice che è un donnaiolo. Qualcuno asserisce che è in rovina e che deve soldi a tutti. C'è chi dice che è un tirchio, c'è chi dice che ha le mani bucate. Sa? Prendi un tipo come quello, arriva qui, mette in piedi quel po' po' d'affare partendo dal niente, per forza i pareri che si sentono sono diversi. Avrà pestato i calli a qualcuno ma sarà stato buono verso qualcun altro, immagino. È pappa e ciccia con i politici e con la polizia. Sa?» «Sì, certo», dissi. «Dove sta?» «Oh, ha un bel posto già a Southold vicino a Founders Landing. Sa dov'è?» «No.» Aidan mi diede le indicazioni e disse: «Non può non vederlo. È un posto grande, grandissimo». «Bene. Ehi, qualcuno mi ha detto che c'è il tesoro di un pirata sepolto qui attorno.» Aidan rise. «Sì. Mio padre diceva che, quand'era ragazzino lui, c'erano buche scavate da tutte le parti. Se qualcuno ha trovato qualcosa, mica ce lo racconta.» «Giusto. Perché dividerlo con lo Zio Sam?» «Scherziamo!» «Ha sentito niente di nuovo su quel duplice omicidio di Nassau Point?» «Niente», disse lui. «Personalmente, penso che quei due avevano rubato qualcosa di pericoloso, mentre il governo e la polizia raccontano un sacco di frottole riguardo a un vaccino. D'altronde, che cosa dovrebbero dire? Sta
per finire il mondo? No. Dicono: "State tranquilli; non può farvi male". Balle». «Certo.» Pensai che la CIA, l'FBI e il governo in generale dovrebbero sempre provare le loro balle sui baristi, i barbieri e i conducenti di taxi, prima di cercare di rifilarle al resto della nazione. Io, di solito, provo a far rimbalzare le cose sui baristi o sul mio barbiere, quando mi serve un controllo sulla realtà, e funziona. «Tutte balle, ripeto.» Aidan sbatté lo straccio sul banco e concluse: «Ho torto?» «No, no.» Poi lasciai l'OTT, rimontai in sella, e guidai fino a un posto chiamato Founders Landing. 28 Stava calando l'oscurità quando arrivai a Founders Landing, ma in fondo alla strada potevo vedere un parco in riva all'acqua. Vedevo anche un monumento in pietra con la scritta: «Founders Landing: 1640». Ne dedussi che li fosse sbarcato per la prima volta il gruppo proveniente dal Connecticut. Se prima avessero fatto tappa a Foxwoods, probabilmente ci sarebbero arrivati in mutande. A est del parco c'era una casa grande, grandissima, più grande di quella di zio Harry e più coloniale che vittoriana. Era circondata da una bella cancellata in ferro battuto, e potevo vedere auto parcheggiate davanti alla casa e qualcuna sul prato laterale. Potevo anche udire musica arrivare dal retro della proprietà. Parcheggiai sulla strada e mi avviai verso il cancello in ferro battuto che era aperto. Non ero sicuro della mia tenuta, ma scorsi una coppia poco più avanti, e lui era vestito quasi come me: blazer blu, niente cravatta, niente calzini. Trovai la via del prato posteriore, che era molto ampio e digradava fino alla baia. C'erano tende a righe, file di lampioncini colorati appesi da albero ad albero, torce che ardevano, candele sui tavoli protetti da ombrelloni, fiori forniti da Whitestone, un'orchestrina di sei elementi che suonava musica da Big Band, alcuni bar e un lungo tavolo da buffet; il colmo dello chic di una località della costa orientale, il meglio che l'antica civiltà aveva da offrire... e il tempo bello collaborava. Fredric Tobin, nato davvero con la camicia. Notai, anche, un grande striscione bianco e azzurro teso tra due enormi
querce. La scritta diceva: «Festa annuale della Peconic Historical Society». Una graziosa giovane donna in costume d'epoca mi si avvicinò e disse: «Buonasera». «Finora, almeno.» «Venga a scegliersi un cappello.» «Prego?» «Deve portare un cappello per poter bere qualcosa.» «Allora voglio sei cappelli.» Rise, mi prese sottobraccio, e mi guidò fino a un lungo tavolo sul quale c'erano una ventina di cappelli assurdi: tricorni di vari colori, alcuni con penne, altri con piume, altri ancora con galloni dorati come copricapi di marina dell'epoca, e qualche cappello nero con il teschio e le ossa incrociate in bianco. «Prenderò il cappello da pirata», dissi. Ne scelse uno dal tavolo e me lo mise in testa. «Ha un aspetto pericoloso.» «Se sapesse!» Pescò dentro uno scatolone un coltellaccio di plastica, più o meno come quello che mi aveva messo Emma, e me lo infilò nella cintura. «Ecco fatto», disse. Lasciai la giovane signora affinché potesse accogliere un gruppo che era appena arrivato, e avanzai ulteriormente sul prato in lieve pendio, incappellato e armato. L'orchestrina stava suonando Moonlight Serenade. Mi guardai attorno e vidi che non c'erano ancora molte persone, una cinquantina circa, tutte incappellate, e sospettai che il grosso della folla sarebbe arrivato a buio fatto, di lì a una mezz'ora. Non vedevo, infatti, Max, Beth, Emma o altri di mia conoscenza. Individuai, in compenso, il bar più vicino e chiesi una birra. Il barista, vestito in costume da pirata, disse: «Spiacente, signore, soltanto vino e bibite analcoliche». «Come? È un oltraggio. Mi serve una birra. Ho il cappello, no?» «Sì, signore, ma birra non ce n'è. Posso suggerirle un bianco frizzante? Ha le bollicine, e lei può far finta.» «Posso suggerirle di procurarmi una birra, di qui a quando torno?» Mi aggirai nei dintorni, senza birra, e passai in rassegna la situazione. Potevo vedere il parco, da lì, il punto dove i primi coloni erano approdati, una sorta di Plymouth Rock locale, immagino, ma praticamente sconosciuta al di fuori di quella zona. Insomma, chi sapeva che il Fortune seguiva il Mayflower? A chi interessa il secondo e terzo posto? Questa è l'America.
Osservavo gli ospiti del signor Tobin sparpagliarsi sul suo grande prato, in piedi, passeggiando, sedendosi ai bianchi tavoli rotondi, ciascuno sfoggiando un cappello con una piuma, bicchiere in mano, chiacchierando. Erano un gruppo contegnoso, o così sembrava in quei primi momenti: niente rum e sesso sulla spiaggia, o bagno senza costume, o pallavolo nudi o altro del genere. Solo rapporti sociali. Vidi che il signor Tobin aveva un lungo pontile, al termine del quale c'era una rimessa per barche di discrete dimensioni. Inoltre, diverse imbarcazioni erano ormeggiate al lungo pontile, e immaginai che appartenessero a ospiti. Se quel party si fosse tenuto una settimana prima, ci sarebbe stato anche lo Spirocheta. A ogni modo, curioso come sono, percorsi l'intera lunghezza del pontile fino alla rimessa delle barche. Proprio davanti all'apertura della rimessa c'era un grosso cabinato, sui dieci metri. Si chiamava Oro dell'autunno e immaginai che fosse di Tobin, chiamato così da un nuovo vino o dal tesoro non ancora scoperto. In ogni caso, Tobin amava i suoi giocattoli. Entrai nella rimessa. Era buio, ma penetrava luce sufficiente da entrambe le estremità per vedere due barche, una da ciascun lato del pontile. Quella a destra era un piccolo Whaler a fondo piatto del tipo che è possibile portare in acque basse o in palude. L'altra, dal lato sinistro del pontile, era un motoscafo, anzi, un Formula 303 dello stesso modello di quello dei Gordon. Per una frazione di secondo, ebbi l'allucinante sensazione che i Gordon fossero tornati dall'aldilà per mandare all'aria la festa e spaventare a morte Freddie. Ma non era lo Spirocheta: quel 303 aveva nome Sondra, presumibilmente dall'amica di Freddie del momento. Immagino che sia più facile cambiare nome a una barca che togliersi un tatuaggio dal braccio. In ogni caso, né il cabinato né il motoscafo m'interessavano, ma il Boston Whaler a fondo piatto sì. Mi calai dentro la barchetta. Aveva un motore fuoribordo e anche gli scalmi dei remi. C'erano due remi posati sul pontile. Ancor più interessante, c'era una pertica lunga un po' meno di due metri, di quelle che venivano usate per muovere una barca attraverso giuncheti e canneti dove non si potevano usare né motore né remi. Inoltre, il fondo del motoscafo era un po' fangoso. A poppa c'era una cassetta di plastica piena di cose varie, tra le quali un corno da nebbia ad aria compressa. «Cerca qualcosa?» Mi girai e vidi Fredric Tobin fermo là sul pontile, bicchiere di vino in mano, cappello a tricorno viola piuttosto complicato e con una gran piuma. Mi fissava, lisciandosi la corta barba. Mefistofelico, in effetti.
«Stavo ammirando la sua barca», dissi. «Quella? La gente in genere nota il motoscafo o il Chris-Craft», rispose, indicando il cabinato proprio all'esterno della rimessa. «Credevo che quello fosse l'Oro dell'autunno», dissi. «Chris-Craft è la marca.» Mi si rivolgeva con un lieve tono di irritazione nella voce alquanto stridula che proprio non mi piaceva. «Be'», dissi, «questa barchetta qui è più nell'ambito dei miei mezzi.» Gli sorridevo con fare disarmante. Faccio così prima di dare la botta che l'altro non si aspetta. «Quando ho visto il Formula 303, ho pensato che i Gordon fossero tornati dal regno dei morti.» La cosa non gli piacque affatto. «Ma poi ho visto che non era lo Spirocheta», aggiunsi. «Si chiama Sondra, che è appropriato. Sa... anguillaceo ed eccitante.» Mi piace sfottere chi si crede un padreterno. Gelido, il signor Tobin disse: «La festa è sul prato, signor Corey». «L'avevo notato.» Ritornai sul pontile e commentai: «Gran bel posto, quello che ha qui». «Grazie.» In aggiunta all'audace cappello, Mister T indossava calzoni bianchi, blazer blu a doppio petto e un vistosissimo ascot rosso. Mamma mia. «Mi piace il suo cappello», dissi. «Lasci che la presenti a qualcuno dei miei ospiti», rispose. «Sarebbe splendido.» E ci avviammo, fuori della rimessa e lungo il pontile. «Quanto dista il pontile dei Gordon da qui?» domandai. «Non ne ho idea.» «Faccia un'ipotesi.» «Una decina di chilometri.» «Di più», dissi. «Bisogna girare attorno a Great Hog Neck. Ho controllato sulla mappa dell'auto. Quindici, almeno.» «Dove vuole arrivare?» «Da nessuna parte. Dicevo così, per fare conversazione.» Eravamo tornati sul prato, ora, e Tobin mi rammentò: «Non interrogherà nessuno dei miei ospiti sulla fine dei Gordon. Ho parlato con il Capo Maxwell, è stato d'accordo con me, e ha reiterato che lei qui non ha alcuna veste ufficiale». «Ha la mia parola che non disturberò nessuno dei suoi ospiti con domande di polizia sull'uccisione dei Gordon.»
«Su niente che abbia a che fare in qualche modo con i Gordon.» «Prometto. Ma mi serve una birra.» Il signor Tobin si guardò attorno, vide una giovane con un vassoio di bicchieri di vino e le disse: «Vada per favore in casa e porti una birra a questo signore. La metta in un bicchiere da vino». «Sì, signore.» E lei subito andò. Ragazzi, che bella cosa essere ricchi e dire agli altri: «Voglio questo e voglio quello». A me Tobin disse: «Lei non è una persona da cappello». Poi si scusò e mi piantò là da solo. Non osavo muovermi, nel timore che la cameriera con la birra non mi trovasse. Era proprio buio, ora, e le luci colorate della festa ammiccavano, le torce splendevano, le candele mandavano un tenue chiarore. Una deliziosa brezza di terra spingeva i moscerini verso il mare. L'orchestra stava suonando Polvere di stelle. Quello che suonava la tromba era fantastico. La vita è bella. Ero contento di non essere morto. Osservavo Fredric gestire la festa, persona per persona, coppia per coppia, gruppo per gruppo, ridendo, scherzando, assestando meglio cappelli, e infilando spade di plastica nella cintura di signore che avevano cinture. A differenza del più famoso anfitrione di Long Island, Jay Gatsby, Fredric Tobin non osservava i suoi ospiti da distante. Al contrario, stava nel bel mezzo, comportandosi da padrone di casa perfetto. Quell'uomo aveva nervi d'acciaio, devo riconoscerlo. Era quasi al fallimento, se dovevo credere a Emma Whitestone, ed era un duplice omicida, se dovevo credere ai miei istinti, per non parlare di quello che avevo appena visto nella rimessa delle barche. E doveva sapere che conoscevo entrambi i suoi segreti, eppure non faceva una piega. Era più preoccupato che gli rovinassi la festa che non della possibilità che gli rovinassi la vita. Un essere di ghiaccio, indubbiamente. La ragazza che serviva ritornò con un bicchiere da vino di birra su un vassoio. Presi la birra e commentai: «A me il vino non piace». Sorrise. «Neanche a me. C'è altra birra in frigorifero.» Mi fece l'occhietto e si allontanò. A volte penso d'essere felicemente dotato di sex appeal, carisma e magnetismo animale. In altri momenti, penso che devo avere l'alito pesante e un cattivo odore. Quella sera, mi sentivo in gran forma, al colmo delle mie possibilità; diedi un'inclinazione spavalda al cappello, mi aggiustai la spada e cominciai a lavorarmi il party. Era una folla in gran parte giovane o sul principio della mezza età, con
scarsa presenza di nobili dame e Figlie della Rivoluzione americana. Non vedevo Margaret Wiley, per esempio. Più che altro erano coppie - il mondo è formato in gran parte di coppie - ma c'era qualche elemento spaiato che sembrava in grado di fare conversazione se nessuno dei miei unici e veri amori fosse comparso. Notai una donna in bianco, con una specie di abito di seta, con il richiesto cappello dal quale scendevano lunghi capelli biondi. Riconobbi in lei l'amichetta di Lord Freddie, che i Gordon mi avevano indicato durante la degustazione di vini. Stava attraversando il prato, sola, così feci rotta in modo da intercettarla. «Buonasera», dissi. Sorrise. «Buonasera.» «Sono John Corey.» Il nome ovviamente non aveva alcun significato per lei, che continuò a sorridermi. «E io Sondra Wells. Un'amica di Fredric Tobin.» «Sì, lo so. Ci siamo conosciuti in luglio alle cantine. Una degustazione di vini. Io ero con i Gordon.» Il sorriso si spense e lei disse: «Oh, che cosa terribile». «Eh, sì.» «Una tragedia.» «Proprio. Era molto amica dei Gordon?» «Be'... lo era Freddie. A me piacevano... ma non so se io ero simpatica a loro.» «Sono certo di sì. Parlavano sempre molto bene di lei.» In realtà, non la nominavano neppure. Tornò a sorridere. Parlava bene e si comportava con garbo, come se fosse andata a scuola per imparare come farlo; era tutto poco spontaneo, e potevo immaginare Tobin spedirla da qualche parte dove avrebbe dovuto camminare con un libro sulla testa e recitare Elizabeth Barrett Browning succhiando intanto una matita. Personalmente, non capivo come qualcuno potesse cambiare Emma Whitestone con Sondra Wells. Ma già, la bellezza è nell'occhio di chi guarda e via di seguito. «Le piace andare in barca?» domandai. «No, per niente. Ma sembra che Fredric se la goda un mondo.» «Ho una casa sul mare a ovest di qui. A me piace andare in barca.» «Ah, bene.» «Anzi, sono sicuro d'avere visto il signor Tobin... vediamo, lunedì scorso, verso le cinque, più o meno, sul suo piccolo Whaler. M'era parso di ve-
dere anche lei.» Ci pensò un momento, poi disse: «Oh... lunedì... ho passato a Manhattan l'intera giornata. Fredric ha fatto accompagnare dall'autista me e la governante in città, e ho passato la giornata a fare shopping». Mi accorgevo che il suo cervellino lavorava e che ora le sue labbra erano un po' serrate. «Ha visto Fredric sul motoscafo con... un'altra persona?» mi domandò. «Forse non era lui o, se lo era, sarà stato solo, o con un altro uomo...» Mi diverte mettere qualche pulce nell'orecchio. A parte questo, avevo collocato Sondra e la governante a Manhattan al momento dei due omicidi. Che comodità. «Divide anche lei», domandai, «l'interesse di Fredric per la storia e l'archeologia locali?» «Proprio no», mi rispose. «E sono contenta che anche lui ci abbia rinunciato. Di tanti hobby che un uomo può avere, perché proprio quello?» «Potrebbe avere qualcosa a che fare con l'archivista della Peconic Historical Society.» Mi diede un'occhiata veramente gelida, e di certo m'avrebbe piantato in asso se Fredric in persona non fosse apparso in quel momento per dirle: «Posso rubarti qualche istante? I Fisher vogliono salutarti». Poi guardò me e soggiunse: «Vuole scusarci?» «Certo, a meno che i Fisher non vogliano salutare anche me.» Fredric mi rivolse un sorriso sgradevole, Sondra Wells mi guardò con cipiglio, e via se ne andarono, lasciando quel cafone del loro ospite a contemplare la sua mancanza di tatto. Verso le 8 e 30 scorsi Max e Beth. Anche Max aveva un cappello da pirata, e Beth una specie di ridicola cuffia. Lei indossava calzoni bianchi e un top da barca a righe bianche e blu. Sembrava diversa. Max stava ingozzandosi con un piatto di involtini di maiale, i miei preferiti. Scambiammo saluti, e io gli rubai un involtino dal piatto. «Bella serata», disse Beth. «Grazie per avermi consigliato di venirci.» «Non sai mai quello che puoi imparare, ascoltando.» «Beth», mi disse Max, «mi ha messo al corrente sui progressi della polizia di Suffolk. Ne ha fatto di lavoro in questi ultimi quattro giorni.» Lanciai un'occhiata a Beth per vedere se avesse detto qualcosa a Max della sua visita a casa mia. Beth scosse lievemente la testa. «Grazie ancora del tuo aiuto», disse Max a me. «Figurati. Non esitare a chiamarmi di nuovo.» «Non hai mai ricambiato nessuna delle mie telefonate.»
«No, e non lo farò mai.» «Non credo tu abbia motivo di essere in collera.» «No? Prova a rovesciare la situazione, Max.» E rincarai: «Avrei dovuto cacciarti a calci dalla mia veranda». «Be'... se ti ho causato qualche inconveniente ti chiedo scusa», replicò lui. «Già. Ti ringrazio.» Beth interloquì per dire a Max: «John si è messo nei guai con suoi superiori per averti dato una mano». «Mi spiace», disse ancora Max. «Farò qualche telefonata, se mi dici chi devo chiamare.» «Senza offesa, Max, ma non vogliono ascoltare un capo di polizia di campagna.» In realtà, non ero così in collera con Max e, quand'anche lo fossi stato, è difficile restare in collera con Max. Fondamentalmente, è un buon diavolo, e la sua sola vera colpa è d'essere sempre sul chi vive per il timore che qualcuno gli dia ombra. A volte mi fingo molto arrabbiato, così l'altra persona pensa di dovermi qualcosa. Come un'informazione, per esempio. «Tra parentesi», gli domandai, «ci sono stati altri decessi tra i dipendenti di Plum Island che abbiano attirato la tua attenzione? Due o tre anni fa, diciamo.» Ci pensò un momento, poi disse: «C'è stato un incidente, nell'estate di due anni fa. Annegò un tale... un dottor non ricordo... un veterinario, mi pare». «Annegò in che modo?» «Sto cercando di ricordare... era fuori in barca... sì, faceva pesca notturna o qualcosa, e la moglie, non vedendolo ritornare, ci chiamò. Facemmo uscire la Guardia costiera, e ritrovarono la barca vuota verso la una del mattino. Il giorno dopo, il cadavere venne riportato a riva dalla baia laggiù...» Accennò con la testa verso Shelter Island. «Nessun indizio di qualcosa di losco?» «Be', c'era un bernoccolo sulla testa, e venne fatta l'autopsia, ma sembrava che fosse scivolato nella barca, avesse battuto la testa sul bordo e fosse finito in mare. Succede», aggiunse Max. Poi mi guardò. «Perché vuoi saperlo?» «Io ho promesso a Tobin», replicai, «e anche tu, Max, che non avremmo discusso niente di tutto questo alla sua festa. E ora mi serve una birra», conclusi, e mi allontanai, lasciando Max con un wurstel in mano.
Beth mi raggiunse e disse: «Sei stato scortese». «Se lo meritava». «Devo lavorare con lui, ricordatelo.» «Allora lavora con lui.» Scorsi la mia cameriera preferita, e lei vide me. Aveva un bicchiere di birra sul vassoio e me lo porse. Beth prese un bicchiere di vino. «Voglio che tu mi dica tutto», propose Beth, «degli scavi archeologici, di Fredric Tobin, di tutto quello che hai scoperto, e tutte le tue conclusioni. In cambio, ti farò avere una veste ufficiale, e potrai contare su tutte le risorse della polizia della contea. Che cosa ne dici?» «Dico, tieniti la tua veste ufficiale, sono già abbastanza nei guai, e ti dirò tutto quello che so domani. Così poi ne sarò fuori.» «John, smettila di fare il difficile.» Non risposi. «Vuoi che faccia una telefonata ufficiale al tuo capo? Come si chiama?» «Ispettore Capo Rompiballe. Non preoccuparti di questo.» L'orchestrina stava suonando Il tempo passa e va, e domandai: «Vuoi ballare?» «No. Possiamo parlare?» «Certo.» «Pensi che l'annegamento di quell'altro dipendente di Plum Island sia in relazione con questo caso?» «Può darsi. Forse non lo sapremo mai. Ma vedo uno schema.» «Quale schema?» «Stai bene con quel cappello.» «Voglio parlare del caso, John.» «Non qui, e non ora.» «Dove e quando?» «Domani.» «Stasera. Avevi detto stasera. Ritornerò a casa tua.» «Be'... non so se posso far questo...» «Senti, John, non sto offrendoti di fare l'amore con te. Voglio soltanto parlarti. Andiamo in un bar, o che so io.» «Be'... non credo che dovremmo andarcene insieme...» «Ah... già. Sei innamorato.» «No... be', forse sì... in ogni caso, questo può aspettare fino a domani. Se io ho ragione, allora il nostro uomo è laggiù, e sta dando una festa. Se fossi in te, da domani lo terrei sotto sorveglianza. Solo, non spaventarlo. D'accordo?»
«D'accordo, ma...» «Ci vediamo domani, ti darò tutti i particolari, dopo di che me ne lavo le mani. Lunedì sarò di ritorno a Manhattan. Ho appuntamenti medici e professionali per tutta la giornata di martedì. D'accordo. Domani. Promesso.» «Va bene.» Toccò il bicchiere con me e bevemmo. Chiacchierammo un po' e, mentre si discorreva, scorsi Emma in lontananza. Stava parlando con un gruppo di persone tra le quali c'era Fredric Tobin, ex amante e sospetto omicida. Non so perché, mi irritava vederli conversare. Insomma, John, diventa un po' più sofisticato. Quando mia moglie faceva lunghi viaggi d'affari con il suo capo Randy Dan, forse che me la prendevo? Non troppo. Beth seguì il mio sguardo e disse: «Sembra molto simpatica». Non risposi. Beth continuò: «Mi è capitato di accennare a lei, con Max». Al che più che mai non risposi. «Era la... ragazza di Fredric Tobin», disse lei. «Tu già lo sai, immagino. Lo dico solo per il caso che non lo sapessi. Insomma, dovresti stare attento a quello che dici, se Tobin è un sospetto. O è per questo che ti sei messo con lei? Per saperne di più su Tobin? John? Mi ascolti?» La guardai e dissi: «Sai, Beth, a volte vorrei che uno di quei proiettili mi avesse evirato davvero. Almeno sarei completamente libero dal controllo delle donne». «La prossima volta che farai sesso», osservò, «non la penserai così.» Mi voltò le spalle e si allontanò. Mi guardai attorno, rendendomi conto che Tom e Judy sarebbero stati lì quella sera. Mi domandavo se avessero avuto in programma di scoprire il tesoro sulla rupe nel corso di quella settimana. Chissà se a quell'ora lo avrebbero già annunciato alla stampa? O se intendessero dare l'annuncio lì, quella sera? In ogni caso, i Gordon quella sera erano tenuti in frigo, il tesoro era nascosto da qualche parte, e il loro probabile assassino era a una quindicina di metri da me e stava chiacchierando con una donna alla quale mi ero molto affezionato. Anzi, notai che Tobin ed Emma erano soli, ora, in un tête-à-tête. Ormai ne avevo abbastanza e mi avviai per girare intorno alla casa, liberandomi lungo il cammino di cappello e, spada. Arrivato a metà del prato antistante, mi sentii chiamare, ma non mi fermai. «JOHN!»
Mi voltai. Emma si affrettava attraverso il prato. «Dove stai andando?» «In qualche posto dove posso avere una birra.» «Vengo con te.» «No, non ho bisogno di compagnia.» «Di compagnia te ne serve tanta, amico mio», mi informò. «È questo il problema. Sei stato solo troppo a lungo.» «Tieni una rubrica per cuori solitari sul settimanale locale?» «Non abboccherò al tuo amo, e non ti lascerò andare via da solo. Dove sei diretto?» «All'Olde Towne Taverne.» «Il mio locale preferito. Hai mai assaggiato i loro nachos?» Mi prese sotto braccio e ci incamminammo. Salii sulla sua vecchia auto e, di lì a una ventina di minuti, eravamo seduti a un tavolo dell'Olde Towne Taverne, birre in mano, nachos e ali di pollo in arrivo. I clienti abituali del sabato sera non avevano l'aria d'essere diretti alla favolosa festa di Freddie, o di ritorno di là. «Ti avevo telefonato, ieri sera», disse Emma. «Ti credevo fuori con le amiche.» «Ti ho telefonato al ritorno. Verso mezzanotte.» «Nessuna fortuna con la caccia?» «No. Stavi dormendo, immagino.» «In verità, ero a Foxwoods. Ci puoi perdere la camicia, là.» «Raccontami.» Chiacchierammo un po', poi le dissi: «Spero tu non abbia detto niente a Fredric delle cose di cui abbiamo discusso». Esitò un mezzo secondo di troppo, poi replicò: «No, no... però gli ho detto... ho detto che tu e io ci vediamo». Sorrise. «È così, vero?» «Non saprei. Hai bisogno di occhiali, tu?» «Sii serio.» «Okay, preferirei seriamente che tu non m'avessi proprio nominato.» Alzò le spalle. «Sono felice, e voglio che tutti lo sappiano. Mi ha fatto gli auguri.» «Un vero gentiluomo.» Sorrideva. «Sei geloso?» «Niente affatto.» Voglio vederlo sulla sedia elettrica. «Penso solo che non dovresti parlare di noi con lui, e meno che mai del tesoro del pirata.» «Stai tranquillo.»
E così ci godemmo una piacevole cenetta e poi andammo a casa sua, un piccolo cottage nella parte residenziale di Cutchogue. Mi mostrò la sua collezione di vasi da notte, che erano dieci, tutti usati per le piante e collocati in un ampio bovindo. Il mio regalo era adesso riempito di terra e conteneva roselline. Emma sparì per qualche istante e ritornò con un pacchetto-dono per me. «L'ho preso al gift shop dell'associazione storica», disse. «Non l'ho rubato, ma ho fatto a me stessa uno sconto del quaranta per cento.» «Ma non dovevi...» «Aprilo, su.» E io lo aprii. Era un libro intitolato La storia del tesoro del pirata. «Leggi la dedica», disse lei. Sollevai la copertina e sul frontespizio lessi: «A John, il mio bucaniere preferito, con amore, Emma». Sorrisi e dissi: «Grazie. È quello che ho sempre desiderato». «Be', non sempre. Ma ho pensato che potessi desiderare di dargli una scorsa.» «Lo farò.» Bene, il cottage era carino, lindo, non c'erano gatti, lei aveva scotch e birra, il materasso era ottimo, le piacevano i Beatles e i Bee Gees, e aveva due cuscini per me. Cos'altro potevo mai desiderare? Be', un po' di panna montata. Aveva anche quella. Il mattino dopo, domenica, andammo per la prima colazione al Cutchogue Diner, poi lei, senza domandarmi niente, guidò fino in chiesa, una bella chiesetta metodista. «Non sono fanatica in proposito», spiegò, «ma a volte mi fa sentire meglio. Non è male per gli affari, tra l'altro.» Così presenziai alla funzione, pronto a tuffarmi sotto il banco se il soffitto fosse crollato. Dopo la chiesa, andammo a riprendere la mia macchina davanti alla magione dell'amico Tobin, ed Emma mi seguì con la sua fino alla mia dimora. Mentre Emma si preparava un tè, telefonai a Beth in ufficio. Non c'era, così lasciai un messaggio a un tale che disse di stare lavorando al caso Gordon. «Le dica che rimarrò fuori tutto il giorno. Cercherò di telefonarle stasera. Altrimenti, dovrebbe venire lei da me domani mattina e le offrirò il caffè.» Chiamai il numero di casa di Beth e trovai la segreteria. Lasciai lo stesso messaggio.
Sentendo d'avere fatto tutto il possibile per mantenere la promessa, andai in cucina e proposi: «Facciamo una gita domenicale». «Mi sembra un'ottima idea.» Guidò la sua auto fino a casa e io la seguii, poi con la mia Jeep andammo fino a Orient Point e prendemmo il traghetto per New London. Passammo la giornata nel Connecticut e a Rhode Island, visitando le ville di Newport, pranzando al Mystic, poi prendendo il traghetto per il ritorno. Sul ponte del traghetto, restammo a contemplare l'acqua e le stelle. Il traghetto passava attraverso il Budello di Plum Island, e sulla destra potevo vedere il faro di Orient Point. Sulla sinistra, il vecchio faro di pietra di Plum Island si profilava scuro e minaccioso contro il cielo notturno. Nel Budello c'era mare mosso, ed Emma commentò: «Quella tempesta si dirige da questa parte. Il mare diventa agitato molto prima che il cattivo tempo arrivi. E il barometro scende. Non lo senti, tu?» «Non sento cosa?» «La pressione che cala. Io sono molto sensibile ai cambiamenti atmosferici.» «È un bene o un male?» «Io penso che sia una buona cosa.» «Allora anch'io.» «Sei sicuro di non sentirlo? Non ti fanno un po' male le ferite?» Concentrai l'attenzione sulle ferite e, in effetti, un pochino mi dolevano. «Grazie», dissi a Emma, «per avermelo fatto notare.» «È bene essere in contatto con il proprio corpo, comprendere il rapporto che c'è tra gli elementi, il tuo fisico e la tua mente.» «Come no!» «Per esempio, io divento un po' pazza durante la luna piena.» «Più pazza», precisai. «Più pazza, sì. E tu?» «Io divento arrapatissimo.» «Davvero? Con la luna piena?» «Luna piena, mezza luna, quarto di luna.» Rise. Lanciai un'occhiata a Plum Island mentre vi passavamo accanto. Potevo intravedere alcune luci del canale e, all'orizzonte, un chiarore dietro gli alberi, dove doveva trovarsi il laboratorio. Per il resto, l'isola era buia come lo era stata trecento anni fa e, se stringevo le palpebre, potevo immaginare lo sloop di William Kidd, il San Antonio, in ricognizione intorno all'isola
una notte di luglio del 1699. Potevo vedere una barca venire calata in mare con Kidd e forse uno o due altri uomini a bordo, e potevo vedere qualcuno nella barca remare verso riva... Emma interruppe i miei pensieri, domandandomi: «A che cosa stai pensando?» «Mi godevo la serata.» «Stavi fissando Plum Island.» «Sì... pensavo a... ai Gordon.» «Stavi pensando a Capitan Kidd.» «Tu devi essere una strega.» «Sono una buona metodista e una strega. Ma solo una volta al mese.» Sorrisi. «E sei sensibile ai fenomeni atmosferici.» «Esatto.» Poi domandò: «Hai intenzione di dirmi qualcosa di più riguardo a questo... a quegli omicidi?» «No, non ce l'ho.» «Va bene. Capisco. Se ti serve qualcosa da me, chiedimela. Farò tutto quello che posso per aiutarti.» «Grazie.» Il traghetto stava avvicinandosi all'attracco, e lei s'informò: «Vuoi fermarti da me, stanotte?» «Be'... ne ho voglia, ma... dovrei proprio tornare a casa.» «Posso fermarmi io da te.» «Ecco... per dirti la verità, oggi avrei dovuto parlare o incontrarmi con il detective Penrose, e dovrei vedere se posso ancora farlo.» «D'accordo.» E lasciammo le cose così. L'accompagnai a casa e dissi: «Ci vediamo domani dopo il lavoro». «Bene. C'è un simpatico ristorante sul mare dove mi piacerebbe portarti.» «Non vedo l'ora.» Ci baciammo sulla sua soglia, poi io risalii sulla Jeep e andai a casa. C'erano sette messaggi per me. Non ero dell'umore in quel momento e andai a letto senza ascoltarli. Li avrei ritrovati là al mattino. Mentre scivolavo nel sonno, cercavo di decidere che cosa fare riguardo a Fredric Tobin. Si crea, a volte, una situazione in cui hai il tuo uomo, e al tempo stesso non l'hai. C'è un momento critico in cui devi decidere se continuare a tampinarlo, affrontarlo, costringerlo a venire allo scoperto, o fingere d'avere perso interesse in lui.
Avrei dovuto anche riflettere sul fatto che quando metti un uomo con le spalle al muro, lui può diventare pericoloso: che il gioco si fa in due, preda e cacciatore, e che la preda ha molto di più da perdere. Ma trascurai di considerare Tobin come un animale pensante, astuto, poiché m'aveva fatto l'impressione di un bellimbusto, proprio come io avevo dato a lui l'impressione d'essere un sempliciotto. Sapevamo entrambi che non era così, ma ciascuno si era lasciato cullare un po' dal comportamento dell'altro. In ogni caso, do la colpa a me stesso per quello che accadde. 29 Lunedì mattina pioveva quando mi svegliai, la prima pioggia che avevamo da settimane, e gli agricoltori erano felici anche se non lo erano i viticoltori. Conoscevo almeno un viticoltore che aveva problemi più importanti di una pioggia insistente. Mentre mi vestivo, ascoltavo la radio e sentivo che un uragano di nome Jasper era al largo delle coste della Virginia, causando condizioni di tempo perturbate che coinvolgevano il nord fino a New York e a Long Island. Ero contento di dover andare a New York, quel giorno. Da un mese non mettevo piede nel mio condominio della 72a Strada, e neppure avevo più ascoltato la segreteria telefonica, un po' perché non ne avevo voglia ma, soprattutto, credo, perché avevo dimenticato il codice di accesso. Verso le nove, più o meno, scesi vestito di jeans firmati e di una polo a prepararmi il caffè. Aspettavo in un certo senso che Beth telefonasse o passasse da me. Il settimanale locale era sul bancone di cucina, ancora intonso dal venerdì, e non mi meravigliai troppo nel vedere il fattaccio dello scorso lunedì in prima pagina. Mi portai il giornale in veranda insieme a una tazza di caffè e lessi la versione del duplice omicidio fornita dal più importante cronista locale. Quel tizio era abbastanza impreciso, abbastanza supponente e con uno stile brutto quanto bastava per scrivere sul «Newsday» o sul «Times». Notai un articolo sui Vigneti Tobin in cui si citava lo stesso Tobin che diceva: «Daremo inizio alla vendemmia da un giorno all'altro, ormai, e questa promette d'essere un'ottima annata, forse la migliore da una decina d'anni in qua, sempre che non cominci a piovere».
Be', Freddie, stava piovendo. Mi domandavo se ai condannati fosse concesso chiedere il vino con il loro ultimo pasto. A ogni modo, gettai da parte il settimanale locale e presi in mano il regalo di Emma, La storia del tesoro del pirata. Lo sfogliai, guardai le figure, vidi una mappa di Long Island, che studiai per alcuni istanti, poi trovai i capitoli su Capitan Kidd e lessi a caso una deposizione di Robert Livingston, Esq., uno dei finanziatori originali di Kidd. La deposizione diceva in parte: Avendo sentito che Capitan Kidd era venuto da queste partì per mettersi a disposizione di Sua Eccellenza il conte di Bellomont, il suddetto Narratore arrivò direttamente da Albany per la via più breve attraverso i boschi per aspettare qui il detto Kidd e restare alzato in attesa di Sua Signoria. E al suo arrivo a Boston, Capitan Kidd lo informò che a bordo del suo shop allora in porto c'erano quaranta balle di merci e dello zucchero, e disse inoltre d'avere circa ottanta libbre di platino. E inoltre il detto Kidd disse d'avere oro per un peso di quaranta libbre nascosto al sicuro in un punto dello Stretto tra qui e New York, senza nominare alcun luogo particolare, che nessuno avrebbe trovato tranne lui. Feci mentalmente alcuni calcoli e mi dissi che quaranta libbre d'oro avrebbero avuto un valore di circa trecentomila dollari, sull'unghia, per così dire, senza contare l'eventuale valore storico o numismatico che, stando a quanto aveva detto Emma, li avrebbe facilmente quadruplicati. Passai l'ora seguente a leggere e, più leggevo, più mi convincevo che quasi ogni narratore di quell'episodio, da Lord Bellomont all'ultimo dei marinai, era un bugiardo. Non c'erano due storie uguali e il valore e la quantità dell'oro, dell'argento e delle gemme non faceva che variare. La sola cosa sulla quale concordavano tutti era che il tesoro era stato portato a riva in svariati punti attorno allo Stretto di Long Island. Non una volta veniva nominata Plum Island, ma quale posto migliore per nascondere qualcosa? Come avevo appreso durante la mia gita a Plum, l'isola all'epoca non aveva un porto, perciò difficilmente sarebbe stata visitata da navi di passaggio in cerca di cibo o di acqua. Apparteneva ai coloni bianchi, e di conseguenza proibita agli indigeni, ma a quanto sembrava era del tutto disabitata. E se Kidd aveva lasciato un prezioso tesoro in custodia a John Gardiner, che per lui era uno sconosciuto, perché non avrebbe percorso le cinque
o sei miglia attraverso la baia per arrivare a Plum Island e seppellirvi altro tesoro? A me sembrava la cosa più sensata. Mi domandavo, però, come ci fosse arrivato Fredric Tobin. Sarebbe stato felice di dircelo alla sua conferenza stampa, quando avrebbe annunciato la scoperta. Avrebbe probabilmente detto: «Duro lavoro, una buona conoscenza della viticoltura, perseveranza e un prodotto superiore. E la buona fortuna». A ogni modo, oziai in veranda per un bel pezzo, leggendo, osservando il cattivo tempo, elaborando mentalmente il caso e aspettando Beth, che pensavo sarebbe dovuta arrivare, ormai. Alla fine, rientrai attraverso le porte finestre che davano nello studio e ascoltai i sette messaggi sulla segreteria. Numero uno da parte di zio Harry, per dirmi che aveva un amico il quale voleva affittare la casa, perciò che mi decidessi a comperarla o a lasciarla libera. Due, Tenente Investigativo Wolfe, che diceva semplicemente: «Mi stai mandando in bestia». Tre, il vecchio messaggio inascoltato di Emma, poco prima della mezzanotte di venerdì e solo per dire ciao; quattro, Max il sabato mattina, per dirmi d'avere avuto una piacevole chiacchierata con Beth e che gli telefonassi. Cinque, Dom Fanelli, che diceva: «Ehi, paisà, ti sei perso un'occasione. Che serata! Vino a fiumi, nel Taormina abbiamo rimorchiato quattro turiste svedesi, due hostess, una modella e un'attrice. Ho fatto comunque una telefonata all'amico Jack Rosen, al "Daily News", e lui farà un pezzo sul tuo ritorno a New York dopo la convalescenza in campagna. L'eroe ferito torna a casa. Bello. Dagli un colpo di telefono lunedì mattina e il pezzo uscirà martedì, così i cagnoni di Police Plaza potranno leggerlo prima di romperti i cajones. Sono o non sono bravo? Chiamami lunedì, andremo a farci un drink e ti racconterò delle svedesi. Ciao». Sorrisi. Quattro svedesi, col cavolo. Il numero sei era Beth la domenica mattina per domandare dove fossi sparito il sabato sera, e quando ci saremmo potuti vedere. E il numero sette era Beth la domenica pomeriggio, in risposta al mio messaggio al suo ufficio, per dire che sarebbe venuta da me il lunedì mattina. Così, quando il campanello squillò, poco prima di mezzogiorno, non mi sorpresi affatto di vedere là Beth. «Accomodati», dissi. Lasciò l'ombrello in veranda ed entrò. Indossava un altro abito a giacca, questo di un color ruggine. Pensai di doverle dire che ero solo, e lo dissi. «Sono solo.» «Lo so», mi rispose.
Ci guardammo per alcuni lunghissimi secondi. Sapevo quello che stava per dire, ma non volevo sentirlo. Lei lo disse, però. «Emma Whitestone è stata trovata in casa sua stamattina da una delle sue commesse, morta, a quanto pare assassinata.» Non dissi niente. Che cosa potevo dire. Restavo là. Beth mi prese per un braccio e mi condusse nel soggiorno, verso il sofà. «Siediti», disse. Sedetti. Lei mi sedette accanto e mi prese la mano. «Non so quello che provi», disse. «O meglio, so che dovevi esserle molto affezionato...» Accennai di sì. Per la seconda volta in vita mia, non ero io a dare cattive notizie. Ero io che sentivo annunciare l'uccisione di qualcuno che mi era caro. Ero come inebetito. Non afferravo del tutto la cosa perché non sembrava reale. Dissi a Beth: «Sono rimasto con lei fin verso le dieci ieri sera». «Ancora non conosciamo l'ora della morte», disse Beth. «È stata trovata nel suo letto... pare uccisa da colpi alla testa con un attizzatoio trovato sul pavimento... non c'erano segni di scasso... la porta sul retro non era chiusa a chiave.» Assentivo. Lui doveva avere una chiave che non aveva mai restituito, e lei non aveva mai pensato a far cambiare la serratura. Lui sapeva che c'era un attizzatoio a portata di mano. «Tutto faceva pensare a un furto», continuò Beth. «Vuotato il portafoglio, scomparsi i contanti, cofanetto dei gioielli vuoto. Cose del genere.» Feci un lungo respiro e non dissi niente. Poi Beth mi informò: «E non basta, anche i Murphy sono morti, tutti e due. Assassinati anche loro, pare». «Mio Dio.» «Un agente della polizia di Southold pattugliava la loro strada circa ogni ora e teneva d'occhio in particolare la casa dei Murphy ma... non ha visto niente.» Poi aggiunse: «Stamattina alle otto, quando è cominciato il nuovo turno, l'agente ha notato che il giornale era sul prato e che alle nove era ancora là. Sapeva che i Murphy si alzavano presto e ritiravano il giornale, così...» Mi domandò: «Vuoi sentire?» «Va' avanti.» «Bene... così li ha chiamati al telefono, poi ha bussato alla porta di strada, infine si è portato sul retro e ha visto che la porta della veranda a vetri era aperta. È entrato e li ha trovati a letto. Morti tutti e due, evidentemente, per ferite alla testa inferte da un piede di porco tutto insanguinato che l'a-
gente ha trovato sul pavimento. La casa», aggiunse Beth, «era stata svaligiata. Tra l'altro, data la presenza della polizia sulla strada, c'è da presumere che l'assassino si sia avvicinato alla casa dal lato della baia.» Continuavo ad assentire. «Come puoi immaginare», disse Beth, «la polizia di Southold è in subbuglio, e tra poco lo sarà l'intera North Fork. Se qui c'era un caso di omicidio l'anno, era già tanto.» Pensai a Max, il quale voleva che tutto fosse sempre tranquillo e pacifico. «La polizia della contea», continuò Beth, «ci manda una task force perché al momento si pensa che ci sia uno psicopatico il quale svaligia le case e uccide gli occupanti. Secondo me», aggiunse, «chi ha ucciso i Gordon potrebbe avere preso dalla loro casa la chiave dei Murphy, ed ecco perché la porta non è stata forzata e quella sul retro era aperta. Il che», terminò, «indicherebbe premeditazione.» Ero d'accordo. Tobin sapeva che prima o poi avrebbe forse dovuto sbarazzarsi dei Murphy ed era stato tanto previdente da impossessarsi della chiave. Quando Beth aveva accennato al fatto che in casa dei Gordon la chiave dei Murphy non era stata trovata, questo avrebbe dovuto metterci in allarme. Un altro esempio di sottovalutazione dell'assassino. Dissi: «Avremmo dovuto prevederlo...» «Lo so», m'interruppe lei. Poi continuò: «Quanto ad Emma Whitestone... be', o ha lasciato la porta aperta, oppure, di nuovo, qualcuno aveva la chiave... qualcuno che lei conosceva». Guardai Beth e vidi che sapevamo entrambi di chi stava parlando. Anzi, lei disse: «Avevo fatto mettere sotto sorveglianza Tobin, domenica mattina, come tu avevi suggerito, ed è stato così per tutta la giornata, ma qualcuno più in alto di me l'ha fatta togliere da mezzanotte alle otto... per motivi di budget... per cui, in pratica nessuno stava sorvegliando Tobin dopo la mezzanotte». Non reagii. «Ho fatto fatica», disse lei, «per indurli ad acconsentire a farlo sorvegliare. Tobin non è affatto un sospetto. E io non avevo niente contro di lui», concluse, un po' caustica, «per giustificare una sorveglianza di ventiquattr'ore su ventiquattro.» Prestavo attenzione, ma la mia mente non faceva che ritornare a immagini di Emma, a casa mia, mentre nuotava nella baia, al party dell'associazione storica, nella sua camera dov'era stata trovata assassinata... e se io
avessi passato la notte là? Come poteva, qualcuno, sapere che era sola...? Mi passò per la mente che Tobin avrebbe assassinato anche me, se m'avesse trovato là, addormentato accanto a lei. «Tra parentesi», disse Beth, «ho conosciuto quel Fredric Tobin alla sua festa, ed è stato amabilissimo. Ma è un po' troppo insinuante... sì, insomma, è come una seconda natura. C'è qualcosa di non tanto simpatico dietro quel sorriso.» Pensai a Fredric Tobin e me lo figurai mentre parlava con Emma sul suo prato, durante la festa. Mentre le parlava, doveva sapere già che aveva intenzione di ucciderla. Mi domandavo, però, se avesse deciso di ucciderla per impedirle di continuare a parlare con me, o se semplicemente voleva dire: «Fottiti, Corey. Fottiti per essere un saccentone, fottiti per avere capito che ho ucciso io i Gordon, fottiti perché ti fotti la mia ex innamorata, e in poche parole fottiti». «Mi sento un po' responsabile per i Murphy», disse Beth. Costrinsi me stesso a pensare ai Murphy. Erano brava gente, servizievole e, sfortunatamente per loro, testimoni di troppo di quanto era accaduto nella casa accanto in quegli ultimi due anni; «Ho mostrato una foto di Tobin ai Murphy, mercoledì», dissi, «e lo hanno identificato come l'uomo con la macchina bianca sportiva... Tobin possiede una Porsche bianca...» Spiegai la mia breve visita a Edgar e Agnes Murphy. Beth annuì. «Capisco.» «L'assassino», dichiarai, «è Fredric Tobin.» Lei non replicò. «Ha ucciso Tom e Judy Gordon», dissi. «Edgar e Agnes Murphy, forse quel veterinario di Plum Island, ed Emma Whitestone. E magari altri», aggiunsi. «Sto prendendo tutto questo in modo molto personale.» Mi alzai e dissi: «Ho bisogno di un po' d'aria». Uscii dal retro e mi fermai nella veranda. La pioggia era più forte ora, pioggia grigia che cadeva da un cielo grigio in un mare grigio. Il vento soffiava dalla baia, dal sud. Emma. Emma. Ero ancora nella fase di shock e di diniego, e mi caricavo via via fino ad arrivare al furore. Più pensavo a Tobin che le fracassava la testa con un attizzatoio, più bramavo di afferrare un attizzatoio e fracassarla a lui. Come molti poliziotti che hanno un incontro personale e da vicino con il crimine, volevo usare il mio potere e la mia conoscenza dei fatti per fare giustizia da me. Ma un poliziotto non può essere un vigilante, e un vigilante non può essere un poliziotto. D'altra parte, c'erano momenti in cui dove-
vi mettere da parte il distintivo e tenere la pistola... 30 Beth mi lasciò solo per un poco, e in quei momenti fui in grado di ritrovare il controllo di me stesso. Infine, uscì a sua volta nella veranda e mi portò una tazza di caffè corretto con qualcosa che sapeva di brandy. Restammo in piedi in silenzio a fissare la baia, Dopo un po', lei mi domandò: «Che cosa c'è alla base di tutto questo, John?» Sapevo di doverle delle informazioni. «L'oro», risposi. «L'oro?» «Sì. Un tesoro nascosto, forse il tesoro di un pirata, magari quello dello stesso Capitan Kidd.» «Capitan Kidd?» «Sì.» «Ed era su Plum Island?» «Sì... per quello che posso intuire. Tobin in qualche modo è venuto a saperlo e, rendendosi conto di non poter avere accesso a uno dei luoghi più inaccessibili del paese, si è messo alla ricerca di un socio che avesse accesso illimitato all'isola.» Lei ci pensò su e, alla fine, disse: «Ma certo... tutto diventa chiaro, ora... l'associazione storica, gli scavi, la casa sul mare, il motoscafo... eravamo tutti così presi dai batteri e poi dalla droga...» «Appunto. Ma una volta scartate completamente quelle possibilità, come ho fatto io perché sapevo che i Gordon non ne erano capaci, ecco che bisognava ripensare l'intera faccenda.» Assentì e osservò: «Come diceva il dottor Zollner, quando l'unico arnese che hai è un martello, ogni problema si presenta come un chiodo». Approvai con un cenno. «Raccontami tutto. Coraggio.» Sapevo che stava cercando di distrarre la mia mente dall'uccisione di Emma, e aveva ragione nel senso che dovevo dedicarmi al caso e fare qualcosa di positivo. «Okay... quel giorno, a Plum Island», dissi, «quegli scavi archeologici mi colpirono perché niente affatto in carattere con Tom e Judy, e loro sapevano che lo avrei pensato, tant'è vero che non me ne avevano mai fatto parola. Sono convinto che stessero già pensando al giorno in cui - una volta scoperto il tesoro sulla loro stessa terra - certe persone si sarebbero forse ricordate del loro scavare su Plum Island e avrebbero
collegato le cose. Perciò, in meno erano a saperlo, tanto meglio.» «Non sarebbe la prima volta», osservò Beth, «che qualcosa di valore viene spostato e improvvisamente scoperto in un luogo più conveniente.» «Quello era il punto cruciale dell'intero piano. La X sulla mappa del pirata andava trasferita dalla terra dello Zio Sam a quella di Tom e Judy.» Lei rifletté un momento e mi domandò: «Pensi che i Gordon sapessero esattamente dov'era sepolto il tesoro su Plum Island? O stavano solo cercando di trovarlo? Non ricordo d'avere visto molti scavi recenti sull'isola.» «Penso che le informazioni di Tom fossero attendibili e credibili, ma forse non molto accurate. Ho imparato alcune cose sulle mappe dei pirati da Emma... e da questo libro...» le indicai il libro sul tavolino. «E, da quel che ho capito, questi tesori erano destinati a rimanere sepolti solo temporaneamente, perciò alcune istruzioni o alcuni punti di riferimento su una mappa si rivelano come alberi da tempo scomparsi, pietre che sono state estratte o sono cadute in mare... cose di questo genere.» «Com'è stato che hai deciso di parlare con Emma?» «Volevo solo fare un controllo presso la Peconic Historical Society. Era mia intenzione dedicarvi un'oretta, e non m'importava affatto con chi avrei parlato... poi, trovai lei e, nel corso della conversazione, scopro che un tempo era stata la ragazza di Tobin.» Beth contemplò per un poco il tutto sempre fissando la baia, poi disse: «Così, subito dopo hai interrogato Fredric Tobin». «No, avevo parlato con lui prima di parlare con Emma.» «Che cosa ti aveva indotto a cercarlo, allora? Quale possibile nesso, secondo te, poteva esserci tra lui e i due omicidi?» «Nessuno, da principio. Stavo facendo del lavoro da investigatore di primo pelo, parlando con amici, con persone non sospette. Avevo conosciuto Tobin alle sue cantine, in luglio, con i Gordon.» Le spiegai com'era andata e aggiunsi: «Non mi era piaciuto molto, allora, e mi domandavo perché ai Gordon piacesse. Dopo avere passato un paio d'ore con lui, mercoledì, avevo deciso che fosse un tipo a posto, personalmente, ma che non stava dandomi le risposte giuste a semplici domande. Capisci?» Fece cenno di sì. «Poi, dopo avere parlato con Emma, ho cominciato a fare la triangolazione di alcuni rapporti.» Tornò ad approvare con un cenno, fissò la pioggia e sembrò che stesse riflettendo. Alla fine disse: «Io ho passato quegli stessi due giorni tra il laboratorio, il medico legale, quelli di Plum Island e via dicendo. Nel frat-
tempo, tu stavi seguendo una traccia completamente diversa». «La più lieve delle tracce, ma non avevo altro da fare.» «Sei ancora in collera per il modo come sei stato trattato?» «Lo ero. Forse era proprio questo a motivarmi. Non ha importanza. L'essenziale è che ora sto offrendo tutto a te. Voglio Fredric Tobin arrestato, condannato e giustiziato.» Mi fissò e disse: «Potrebbe anche non avvenire, e lo sai. A meno che non ci procuriamo qualche autentica prova concreta, quel tizio non sarà condannato affatto. Secondo me il procuratore distrettuale non si proverebbe nemmeno a incriminarlo». Lo sapevo. Sapevo anche che quando il problema era un chiodo, tutto quello che ti serviva era un martello. Io un martello l'avevo. «Be'?» domandò Beth. «Hai niente altro in fatto di indizi?» «In effetti, ho trovato una barchetta a fondo piatto nella rimessa delle barche di Tobin, con una pertica: il genere di imbarcazione che puoi usare per muoverti attraverso le paludi. E anche un corno da nebbia fatto in casa.» Le riferii il mio incontro con Tobin nella rimessa delle barche. Ascoltava, assentiva, e alla fine disse: «Siediti». Mi lasciai cadere sulla mia poltroncina di vimini, e lei prese posto sul dondolo. «Continua a parlare.» Passai l'ora successiva a metterla al corrente, dicendole tutto quello che avevo fatto da quando ci eravamo separati martedì sera, fino a includere il fatto che Sondra Wells, l'amica di Tobin, e la governante erano assenti nel pomeriggio in cui erano stati uccisi i Gordon, eppure Tobin mi aveva indotto a credere che fossero in casa. Beth ascoltava, fissando la pioggia e il mare. Il vento aumentava di intensità e a tratti se ne udiva addirittura l'ululato. Quando terminai, Beth disse: «Così, l'acquisto della proprietà Wiley da parte dei Gordon non era per fare il doppio gioco con Tobin». «No. Tobin disse ai Gordon di comprare quel terreno, che si basava sulla leggenda delle Cornici di Capitan Kidd. C'è anche un posto chiamato Alberi di Capitan Kidd, ma quello ora è un giardino pubblico. Quanto alla cornice o alla rupe, il posto non è così bene indicato nei libri di storia come lo sono gli alberi, perciò Tobin sapeva che qualsiasi rupe della zona sarebbe andata bene. Ma non voleva si sapesse che lui stava acquistando della terra inutile su quelle rupi: questo avrebbe dato origine a ogni sorta di chiacchiere e di illazioni. Così fece comperare la terra dai Gordon con i loro stessi mezzi, che erano limitati, ma loro ebbero fortuna nel trovare quel-
l'acro di terreno della Wiley; o forse Tobin ne conosceva l'esistenza. Il piano, poi, era di aspettare un po' prima di seppellirvi il tesoro, e infine di scoprirlo.» «Incredibile.» «Sì. E dato che è quasi impossibile falsificare l'età di una buca verticale, intendevano ficcare il forziere del tesoro nel fianco di quella rupe - su quel cornicione che abbiamo trovato noi - e poi dire che a farlo tornare alla luce era stata l'erosione. Poi, una volta che l'avessero estratto dalla sabbia e dall'argilla, usando picconi e vanghe, ecco che il sito è praticamente distrutto, il forziere stesso è in schegge, per cui il recupero del forziere rende impossibile a chiunque studiare il luogo dello scavo.» «Incredibile», ripeté lei. «Si trattava di tre persone molto intelligenti, Beth, che non avevano nessuna intenzione di commettere sbagli. Intendevano impadronirsi di un tesoro del valore di dieci o venti milioni di dollari proprio sotto il naso dello Zio Sam, tesoro di cui il governo sarebbe venuto a conoscenza per la prima volta soltanto quando il ritrovamento avrebbe fatto notizia. Ed ecco entrare in scena il fisco, cosa alla quale loro erano preparati.» Le spiegai le leggi sul ritrovamento di tesori, le tasse e tutto il resto. Ci pensò su un poco, poi domandò: «Ma in che modo Tobin avrebbe avanzato pretese sul denaro, una volta che i Gordon avessero annunciato il ritrovamento?» «Prima di tutto, i tre avevano stabilito il fatto d'essere amici da quasi due anni. I Gordon avevano manifestato molto interesse per il vino, che non credo fosse reale, ma era un buon modo perché Tobin e i Gordon si facessero vedere in pubblico come amici.» Spiegai quello che avevo saputo da Emma sulla natura di quel rapporto. «Tuttavia», dissi, «questo non si accordava con quanto Tobin aveva detto a me su quel rapporto. Così, avevo un'altra interessante incongruenza.» «Sì», convenne Beth, «ma essere amici non è un motivo per dividere i milioni di dollari di un tesoro trovato.» «No, in effetti. Così, avevano architettato tutta una storia con cui accompagnare la scoperta. Ecco quello che penso io... in un primo momento, fingere d'avere scoperto un comune interesse per la storia locale, interesse che alla fine aveva portato ad alcune informazioni sul tesoro del pirata. A questo punto, stando a quello che intendevano dichiarare alla stampa, avevano stretto fra loro un patto: darsi alla ricerca e dividere qualsiasi cosa avessero trovato.»
Beth continuava ad annuire. Vedevo che era in gran parte convinta della mia ricostruzione di come erano andate le cose prima del duplice omicidio. «I Gordon e Tobin», aggiunsi, «avrebbero detto d'avere passato ore a meditare negli archivi delle varie associazioni storiche locali, il che è vero, d'avere fatto la stessa cosa in Inghilterra, e così via. Si erano convinti, alla fine, che il tesoro fosse sul terreno di proprietà di Margaret Wiley e, benché provassero un po' di rimorso all'idea di raggirare la signora, acquistandolo, in una caccia al tesoro tutto era permesso. A Margaret, semmai, avrebbero regalato un bel gioiello o qualcosa. Avrebbero inoltre fatto notare d'avere corso un rischio da venticinquemila dollari, poiché non avevano la certezza matematica che il tesoro fosse là.» Mi abbandonai contro lo schienale della poltroncina e rimasi ad ascoltare il vento e la pioggia. Mi sentivo a terra come mai mi ero sentito in vita mia, ed ero sorpreso di quanto mi mancasse Emma Whitestone, che era entrata nella mia vita in modo così immediato e inaspettato, per poi passare in un'altra vita, forse in qualche parte lassù tra le costellazioni. Feci un altro profondo respiro, poi ripresi: «Presumo che i Gordon e Tobin avessero chissà quale documentazione fasulla per avvalorare la loro asserzione d'avere scoperto quella località in qualche archivio. Non so che cosa avessero in mente a questo riguardo: una pergamena contraffatta, o una fotostatica di quello che si riteneva un originale andato poi perduto, oppure si sarebbero limitati a dire "Non è affar vostro come l'abbiamo trovato. Stiamo ancora facendo ricerche perché potrebbero essercene altri". Al governo non importa di come un tesoro viene trovato, importa solo dove è stato trovato e quanto vale». Guardai Beth. «Tutto questo ha senso, per te?» Ci pensò e disse: «Ha senso il modo in cui hai esposto le cose... ma penso ancora che qualcuno farebbe il collegamento con Plum Island». «È possibile. Ma tra avere un sospetto su dove è stato trovato un tesoro e dimostrarlo c'è una bella differenza.» «Sì, ma è un punto debole in un piano altrimenti perfetto.» «Sì, lo è. Perciò lascia che ti esponga un'altra teoria, che ben si adatta a quanto è realmente accaduto: Tobin non aveva nessuna intenzione di fare a metà con i Gordon. Ha indotto i Gordon a credere a tutto quello che ho appena detto, li ha convinti a comperare il terreno, e tutti e tre hanno costruito l'intera storia su come avevano trovato il tesoro e sul perché se lo sarebbero diviso. In realtà, anche Tobin temeva quel collegamento con Plum Island. I Gordon erano la soluzione al suo problema di come individuare il
tesoro sull'isola e portarlo via di là. Poi, ecco che diventavano un inconveniente, un anello debole, un indizio fin troppo ovvio di dove il tesoro in realtà era stato trovato.» Beth si dondolava, in silenzio, poi accennò di sì con la testa e disse: «Tre possono conservare un segreto, se due di loro sono morti». «Precisamente.» «I Gordon erano intelligenti», continuai, «ma anche un po' ingenui, e non si erano mai imbattuti in un essere tanto malvagio e falso quanto Fredric Tobin. Non dovevano avere alcun sospetto, tant'è vero che avevano seguito l'intero copione, comperato il terreno e via dicendo. In realtà, Tobin sapeva dal primo momento che li avrebbe eliminati. Molto probabilmente, intendeva o seppellire il tesoro sulla sua proprietà vicina a Founders Landing, che è a sua volta un'antica località storica, e scoprirlo là... oppure intendeva agire da ricettatore, qui o all'estero, tenendosi così non solo la parte dei Gordon ma anche quella dello Zio Sam.» «Sì. Io propendo per questa possibilità, ora che lo sappiamo capace di uccidere a sangue freddo.» «In ogni caso, è il tuo uomo.» Beth sedeva con il mento nella mano, i piedi agganciati al piolo anteriore del dondolo. Alla fine mi domandò: «Come li avevi conosciuti i Gordon? Voglio dire, come mai gente con un simile programma trovava il tempo di... Mi segui?» Mi sforzai di sorridere. «Sottovaluti il mio fascino. Ma è una buona domanda.» Ci meditai su, e non per la prima volta, poi risposi: «Forse avevano davvero simpatia per me. Forse, però, avevano davvero sentito puzza di bruciato, e volevano un pompiere a portata di mano. Avevano fatto anche la conoscenza di Max, perciò dovresti domandare a lui com'era successo». Assentì, poi tornò a insistere: «Allora, tu come li avevi conosciuti? Avrei dovuto domandartelo quel lunedì, sulla scena del crimine». «Avresti dovuto, già. Li avevo incontrati al bar del ristorante "da Claudio". Lo conosci?» «Chi non lo conosce?» «Avevo cercato di abbordare Judy al bar.» «Un modo davvero propizio per far nascere un'amicizia.» «Già. Comunque sia, mi sembrò un incontro fortunatissimo, e forse lo era. D'altra parte, i Gordon già conoscevano Max, e Max conosceva me, e può darsi sia stato accennato al fatto che il piedipiatti ferito visto in televisione era un amico di Max ed era in convalescenza a Mattituck. Io avevo -
e ho tuttora - due locali dove bazzico: l'Olde Towne Taverne e il "da Claudio". Perciò, è possibile... ma forse no... è difficile dirlo. Quasi non ha importanza, se non come risvolto personale.» Poi aggiunsi: «A volte le cose accadono solo per caso». «È vero. Ma, nel nostro mestiere, dobbiamo sempre cercare il movente e il programma. Quello che resta, può dipendere dal caso.» Mi osservò e domandò: «Come ti senti, John?» «Bene.» «Sul serio, dico.» «Un po' giù. Un tempo così non è d'aiuto.» «Sono stata un po' al telefono con il tuo socio», mi informò. «Dom? Non me l'ha detto. Avrebbe dovuto dirmelo.» «Be', non l'ha fatto.» «Di che cosa gli hai parlato?» «Di te.» «Come, di me?» «I tuoi amici sono preoccupati per te.» «Faranno meglio a preoccuparsi per se stessi, se parlano di me dietro le mie spalle.» «Perché non la pianti con quell'atteggiamento da duro?» «Cambiamo discorso.» «D'accordo.» Si alzò e si avvicinò alla ringhiera per osservare il mare, che stava gonfiandosi e formando creste. «L'uragano è in arrivo», disse. «Potrebbe anche deviare.» Si girò verso di me e domandò: «E così, dov'è il tesoro?» «Questa è davvero un'ottima domanda.» Mi alzai anch'io e guardai verso il mare sempre più grosso. Non c'era neppure una barca in vista, naturalmente, e detriti cominciavano a volare attraverso il prato. Ogni volta che il vento taceva per qualche secondo, potevo udire le onde abbattersi sulla spiaggia sassosa. «E dov'è la nostra prova schiacciante?» domandò Beth. Sempre fissando l'acqua, replicai: «La risposta a tutt'e due queste domande potrebbe trovarsi nella villa, nell'ufficio o nell'appartamento del signor Tobin». Lei ci pensò un poco, poi disse: «Presenterò i fatti così come li so a un viceprocuratore distrettuale e richiederò che la procura si faccia rilasciare un mandato di perquisizione». «Buona idea. Se riesci a ottenere un mandato di perquisizione senza cau-
sa probabile, allora sei molto più in gamba di me.» Poi aggiunsi: «Un giudice sarebbe un po' restio a emettere un mandato di perquisizione nelle abitazioni e nell'ufficio di un cittadino in vista che non ha problemi precedenti con la legge. Lo sai anche tu». Studiai la sua espressione, mentre ci rifletteva. «Ecco cos'ha di così grande l'America. Non ti ritrovi con la polizia o il governo a strisciarti su per il sedere senza un corretto procedimento. Se poi sei ricco, ti tocca un procedimento ancora più corretto che a un Pinco Pallino qualsiasi.» Non rispose a questo, ma domandò: «Che cosa pensi che dovremmo... che dovrei fare?» «Tutto quello che vuoi. Io non mi occupo più del caso.» Le onde stavano trasformandosi in cavalloni ora, fatto insolito per quella parte della baia. Ricordai che Emma aveva detto di osservare il mare quando si avvicinava una tempesta. Beth disse: «So che posso... be', penso di poterlo inchiodare, quell'individuo, se è stato lui». «Bene.» «Tu sei sicuro che è lui?» «Sicuro, sì.» «E Paul Stevens?» «Quello», replicai, «è ancora il jolly nel mazzo. Potrebbe essere il complice di Tobin nell'uccidere, oppure il ricattatore di Tobin, o uno sciacallo in attesa di gettarsi sul tesoro, così come potrebbe essere nient'altro che un tale il quale ha sempre l'aria sospetta o colpevole di qualcosa.» «Dovremmo parlare con lui.» «L'ho fatto.» Inarcò le sopracciglia. «Quando?» Spiegai la mia visita non annunciata a casa di Stevens, nel Connecticut, sorvolando sulla parte in cui l'avevo messo a terra. Conclusi: «Come minimo, è colpevole di averci mentito e d'essere stato in combutta con Nash e Foster». Rimuginò su questo e aggiunse: «Oppure potrebbe essere coinvolto più a fondo. Bene... forse il laboratorio troverà qualcosa sulle due nuove scene del crimine. Questo potrebbe essere risolutivo». «Giusto. Nel frattempo, Tobin saprà quello che succede intorno a lui, ha già in tasca una metà dei politici locali e probabilmente ha amici nella polizia di Southold.» «Terremo fuori Max da tutto questo.»
«Fai quello che devi fare. Solo, non allarmare Tobin perché, se scopre il tuo gioco, qualsiasi prova esista che sia sotto il suo controllo finirà per sparire.» «Come il tesoro?» «Esatto. O l'arma del delitto. In effetti, se avessi ucciso due persone con la mia pistola registrata e tutt'a un tratto mi ritrovassi la polizia in ufficio, la farei sparire nell'Atlantico e dichiarerei che era andata perduta o rubata. Dovresti annunciare», suggerii, «d'avere ritrovato uno dei proiettili. Questo lo spaventerà, se ha ancora la pistola. Poi fallo seguire e vedi se cerca di sbarazzarsi dell'arma, in caso non l'abbia già fatto.» Assentì e mi guardò: «Vorrei che tu lavorassi al caso con me. Ci stai?» La presi per un braccio e la ricondussi in cucina. Staccai il ricevitore del telefono dal gancio e dissi: «Chiama il suo ufficio, e vedi se c'è». Fece il numero del servizio informazione, si fece dare il numero dei Vigneti Tobin e lo formò. «Il signor Tobin, per favore», disse. Aspettò e guardò me. «Che cosa devo dirgli?» domandò. «Digli solo grazie per la sua meravigliosa serata.» Beth parlò nel microfono. «Sì, parla il detective Penrose del Dipartimento di Polizia della Contea di Suffolk. Vorrei parlare con il signor Tobin.» Ascoltò, poi disse: «Gli riferisca solo che avevo chiamato per ringraziarlo della sua bellissima festa». Ascoltò di nuovo, poi domandò: «C'è modo di raggiungerlo?» Mi lanciò un'occhiata, infine disse nel telefono: «Va bene. Sì, è una buona idea». Riagganciò e disse a me: «Non c'è, non lo aspettano e lei non sa dove raggiungerlo. Inoltre, stanno per chiudere le cantine a causa del cattivo tempo». «Okay. Chiamalo a casa.» Prese dalla borsa il suo taccuino, trovò il numero di Tobin che non era sull'elenco e lo compose. A me domandò: «Lo chiamo a casa per ringraziarlo della meravigliosa serata?» «Hai perso il medaglione d'oro di tua nonna, sul suo prato.» «Giusto.» Nel microfono disse: «C'è il signor Tobin?» Ascoltò, poi s'informò: «La signorina Wells, allora?» Ascoltò di nuovo, poi disse: «Grazie. Richiamerò... no, nessun messaggio... no, non deve spaventarsi. Dovrebbe andare in uno dei rifugi appositi... Be', allora chiami la polizia o i vigili del fuoco, e verranno a prenderla. D'accordo? Lo faccia subito». Beth riagganciò. «La governante. Una donna dell'Europa orientale. Non le piacciono gli uragani.» «Non piacciono molto neanche a me. Dov'è Tobin?»
«Assente senza spiegazione. La Wells è andata a Manhattan in attesa che si calmi la tempesta.» Beth mi fissò. «Dove può essere?» «Non lo so. Ma sappiamo dove non è.» «A proposito», disse lei, «dovresti allontanarti da questa casa. Tutti quelli che risiedono vicino al mare sono stati avvertiti di farlo.» «I meteorologi sono allarmisti di professione.» In quella, le luci vacillarono. «Qualche volta hanno ragione», disse Beth. «In giornata, comunque sia, devo tornare a Manhattan. Ho appuntamento, domani, con quelli che decideranno della mia sorte.» «Allora faresti meglio a partire subito. La situazione non migliorerà di certo.» Mentre contemplavo le mie opzioni, il vento fece volar via una sedia dalla veranda e le luci tornarono a tremolare. Ricordai che avrei dovuto chiamare Jack Rosen al «Daily News», ma ero già troppo in ritardo rispetto all'ora di scadenza della sua rubrica. Tra l'altro, non pensavo che l'eroe ferito ce l'avrebbe fatta ad arrivare a casa in giornata o l'indomani. «Andiamo a fare un giro in macchina», dissi a Beth. «Dove?» «Vediamo di trovare Fredric Tobin... così possiamo ringraziarlo per la meravigliosa serata.» 31 La pioggia scrosciava e il vento rumoreggiava come un treno merci. Trovai due poncho gialli nell'armadio dei soprabiti e mi munii della mia 38 che infilai nella fondina all'ascella. L'impresa successiva era di portarsi fuori dal viale, che era coperto di rami e detriti. Avviai la Jeep, ingranai la marcia, passai di corsa sopra i rami caduti. «Possibilità di superare fino a quaranta centimetri, trazione sulle quattro ruote», spiegai a Beth. «Galleggia?» «Forse lo scopriremo.» Guidai attraverso le strette viuzze della mia zona in riva all'acqua di Mattituck, sopra altri rami caduti e oltre coperchi di pattumiere che volavano, poi trovai la strada bloccata da un albero abbattuto. «Da quando ero bambino non mi ero più trovato in campagna durante un uragano.» «Questo non è un uragano, John», mi informò Beth. Montai sopra il prato di qualcuno, per aggirare il grosso albero caduto, e
osservai: «A me sembrerebbe proprio di sì». «Il vento deve raggiungere una velocità di sessantacinque nodi, perché sia un uragano. Per adesso è una tempesta tropicale.» Accese la radio su una stazione che trasmetteva solo notiziari e, come c'era da aspettarsi, la storia più importante era Jasper. L'annunciatore stava dicendo: «...con direzione nord-nordest, con velocità del vento fino a sessanta nodi, che corrisponde a circa centoquindici chilometri l'ora per voi gente di terra. Si sposta a circa venti chilometri l'ora e, se continuerà sulla sua rotta attuale, si abbatterà su qualche punto della costa sud di Long Island verso le otto di questa sera. Sono stati affissi avvisi a piccoli natanti per l'oceano e lo Stretto. A chi dovrebbe mettersi in viaggio si raccomanda di rimanere a casa e...» Spensi la radio. «Allarmisti.» «La mia casa», disse Beth, «è nell'entroterra, se più tardi vuoi fermartici. Da lì, per Manhattan ci sono meno di due ore di macchina o di treno, e potresti partire dopo che il peggio della tempesta sarà passato.» «Grazie.» Viaggiammo per un poco in silenzio, e finalmente arrivammo su Main Road, che era sgombra di detriti ma allagata. Non c'era molto traffico, quasi tutti gli esercizi commerciali lungo il percorso erano chiusi, alcuni addirittura sprangati con assi. Un chiosco deserto di prodotti agricoli era crollato, vidi, e un palo era caduto, trascinando con sé fili del telefono e della luce. «Non credo sia bene per le vigne», dissi. «Non è bene per niente.» Venti minuti dopo, mi fermavo nel parcheggio a ghiaia dei Vigneti Tobin. Non c'erano altre macchine, e un cartello avvertiva: «Chiuso». Guardai in su verso la torre e vidi che nessuna delle finestre era illuminata, benché il cielo fosse quasi nero. Su entrambi i lati del parcheggio c'erano vigneti, e i sostegni delle viti venivano scossi furiosamente. Se la tempesta fosse peggiorata, probabilmente il raccolto sarebbe stato spazzato via. Ripensai alla lezioncina di Tobin sull'influsso moderatore del clima marittimo... vero, senza dubbio, finché non ti ritrovavi sul percorso di un uragano. «Jasper.» «Così l'hanno chiamato.» Beth guardava attorno a sé il parcheggio e i vigneti. «Non credo che lui sia qui. Non c'è neanche una macchina, e il posto è buio. Proviamo a casa sua.» «Facciamo prima una capatina in ufficio.» «John, il posto è chiuso.» «Chiuso è un termine relativo.»
«No, non lo è.» Guidai verso le cantine, poi sterzai tutto a destra, uscendo dal parcheggio e montando su una zona erbosa tra le cantine e il vigneto. Svoltai e mi portai sul retro del grande edificio, dove alcuni camion erano parcheggiati in mezzo a pile di barili vuoti. «Che cosa stai facendo?» domandò Beth. Guidai fino alla porta sul retro alla base della torre. «Vedi se è aperta.» Mi guardò e fece per obiettare qualcosa. «Vedi solo se è aperta. Fai come ti dico.» Scese dalla Jeep e corse fino alla porta, provandone la maniglia. Guardò verso di me e scosse la testa, poi prese a tornare verso la Jeep. Schiacciai l'acceleratore e con la Jeep investii la porta, che si spalancò. Spensi il motore e saltai a terra. Afferrai il braccio di Beth e attraverso la porta aperta entrai di corsa nella torre. «Sei impazzito?» «C'è una bella vista dall'alto.» Per l'ascensore, come avevo notato, ci voleva la chiave, così mi avviai su per le scale. Beth mi afferrò un braccio e disse: «Fermati! Questo si chiama violazione di domicilio, per non parlare di violazioni dei diritti civili...» «Questo è un edificio pubblico.» «Ma è chiuso!» «Ho trovato la porta sfondata.» «John...» «Tornatene alla Jeep. Mi occuperò io di questo.» Ci guardammo, e lo sguardo di lei diceva: «Lo so che sei furente, ma non farlo, questo». Le voltai le spalle e continuai a salire da solo. Su ogni pianerottolo, provavo le porte degli uffici, ma erano tutte chiuse a chiave. Sul pianerottolo del secondo piano, udii dei passi dietro di me ed estrassi la 38. Aspettai addossato alla parete e vidi Beth avanzare dalle scale. Guardava in su verso di me. «Questo è un reato mio», le dissi. «Non mi servono complici.» «La porta era forzata», replicò lei. «Stiamo indagando.» «È quello che dicevo io.» Continuammo a salire insieme. Al terzo piano, gli uffici dei dirigenti, la porta d'accesso era chiusa a chiave. Questo non voleva dire che non ci fosse nessuno - quelle porte da uscita di sicurezza si potevano chiudere dall'esterno, ma si doveva poterle
aprire dall'altro lato. Picchiai sulla porta di ferro e continuai a picchiare. «John», disse Beth, «non credo ci sia nessuno lì...» «Spero di no.» Corsi su al quarto e lei mi seguì. Di nuovo tentai la maniglia, ma anche lì era chiuso a chiave. «È il suo appartamento, questo?» domandò Beth. «Sì.» Sulla parete, in un recesso protetto da un vetro, c'era com'è d'obbligo un'ascia e, accanto, l'estintore. Staccai l'estintore dalla parete, fracassai il vetro e tirai fuori l'ascia. Il fracasso del vetro che andava in frantumi echeggiò su e giù per le scale. Beth mandò quasi un urlo. «Che cosa fai?» La spinsi indietro e vibrai l'ascia contro il pomolo della maniglia, che venne via subito, ma il meccanismo della serratura resisteva. Alcuni altri colpi tagliarono la lamiera tutt'intorno al meccanismo, e un ultimo fece sì che la porta si aprisse. Respirai a fondo, ripetute volte. Provavo una sensazione strana al polmone, come se avessi riaperto qualcosa che aveva impiegato tanto tempo a chiudersi. «John, dammi retta...» «Zitta. Ascolta se senti dei passi.» Estrassi la pistola da sotto il poncho, e lo stesso fece lei. Restammo immobili, mentre io scrutavo al di là della porta che avevo appena aperto. A bloccarmi la visuale entro l'appartamento di Tobin era un paravento di seta giapponese che nascondeva il metallo ai delicati occhi del signor Tobin. L'appartamento era buio e silenzioso. Avevo ancora l'ascia nella sinistra, e attraverso la soglia me ne servii per urtare il paravento di seta, che cadde, rivelando un ampio insieme di soggiorno e sala da pranzo. «Non possiamo entrare», bisbigliò Beth. «Dobbiamo entrare. Qualcuno ha sfondato la porta. Ci sono ladri da qualche parte.» Il rumore che avevamo fatto era stato abbastanza forte da attrarre chiunque fosse stato nell'edificio, ma non sentivo niente. C'era da presumere che la porta sul retro avesse un allarme, ma la tempesta aveva probabilmente fatto partire decine di allarmi da tutta la North Fork ai vari monitor della centrale. In ogni caso, se fosse arrivata la polizia avremmo saputo come cavarcela: anzi, eravamo la polizia. Avanzai nel soggiorno, tenendo l'arma con tutt'e due le mani e descrivendo in un arco da sinistra al centro. Beth faceva lo stesso da destra al
centro. «John», disse poi, «questa non è una buona idea. Calmati. Lo so che sei sconvolto, e non ti do torto, ma non puoi fare questo. Ora ce ne andiamo di qui e...» «Buona.» Poi chiamai: «Signor Tobin? È in casa? Ci sono visite». Nessuna risposta. Continuai ad avanzare nel soggiorno, che era illuminato soltanto dal cielo buio al di là delle grandi finestre ad arco e da luce che filtrava da due grandi lucernari nel soffitto alto quasi quattro metri. Beth lentamente mi seguì. Era un posto bellissimo, come potete immaginare: il soggiorno era un semicerchio con la parete rotonda verso nord. L'altra metà della torre, la parte sud, era divisa in una cucina senza porta, entro la quale potevo guardare, e in una stanza da letto che occupava il quarto a sudovest del cerchio. La porta della camera era aperta, e sbirciai all'interno. Ero ormai convinto che fossimo soli oppure Tobin, se c'era, era nascosto sotto il letto o in un armadio, terrorizzato. Mi guardai attorno nel soggiorno. Nella luce grigia, potevo vedere che l'arredo era moderno, piuttosto leggero e arioso, intonato all'atmosfera di un appartamento del genere. Gli acquerelli, alle pareti, riproducevano scene che riconoscevo: il faro di Plum Island, quello di Horton Point, alcuni paesaggi marini, qualche tipica vecchia casa locale e perfino la General Wayne Inn. «Bel posticino», dissi. «Molto.» «Un tizio può avere fortuna con le donne, quassù.» Nessun commento dalla collega Penrose. Mi avvicinai a una delle finestre che guardavano a nord per osservare la tempesta che infuriava all'esterno. Vedevo che alcuni filari di viti erano a terra e immaginai che i grappoli non ancora raccolti stessero per marcire, ormai, e sarebbero stati portati via dal vento. Beth, attenendosi al mio copione, disse: «Non ci sono ladri, qui. Dovremmo andarcene e riferire d'avere trovato segni di effrazione». «Buona idea. Voglio assicurarmi che il ladro sia fuggito.» Le diedi le chiavi dell'auto. «Vatti a sedere nella Jeep. Ti raggiungo fra un attimo.» Esitò, poi disse: «Sposterò la Jeep nell'area di parcheggio. Aspetterò per un quarto d'ora. Non di più». «D'accordo.» La lasciai ed entrai nella stanza da letto. Era un po' più imbottita e soffice, la stanza dove il dono di Dio per le donne portava bottiglie di champagne. Vicino al letto, in effetti, c'erano un carrellino e un secchio. Mentirei se dicessi che non riuscivo a figurarmi
Emma a letto con Mister Vino. Ma non aveva più importanza, ormai. Lei era morta, e presto lo sarebbe stato anche lui. A sinistra c'era un bagno molto grande, cabina doccia, idromassaggio, tutto l'apparato. Sì, la vita era stata buona con Fredric Tobin, finché non aveva cominciato a spendere più di quanto guadagnava. Quella tempesta, pensai, l'avrebbe messo a terra del tutto, senza una trasfusione d'oro. C'era una scrivania in camera, e frugai dappertutto, ma senza trovare niente di incriminante o di utile. Passai i dieci minuti successivi a fare a pezzi l'appartamento. Tornato in soggiorno, trovai uno sgabuzzino chiuso a chiave e ne sfondai la porta con l'ascia, ma sembrava che contenesse soltanto un servizio d'argento, un po' di biancheria e di cristalleria, un frigorifero per il vino con portiera di vetro, un portasigari e altre necessità della dolce vita, compresa una nutrita collezione di pornocassette. Feci a pezzi anche lo sgabuzzino, frigorifero incluso, e di nuovo non trovai niente. Mi aggirai per il soggiorno con l'ascia in mano, alla ricerca di qualsiasi cosa, e anche sfogando un po' della mia frustrazione col fracassare oggetti con l'ascia. C'era una parete attrezzata, o spazio d'intrattenimento, come lo chiamano, con televisione, videoregistratore, lettore CD e via dicendo, più alcuni scaffali di libri. Fracassai tutto, tirando fuori i libri, scrollandone le pagine e gettandoli da parte. Poi, qualcosa attirò il mio sguardo. In una cornice dorata, suppergiù delle dimensioni di un libro, c'era una vecchia pergamena. La presi e la girai verso la fioca luce che arrivava dalla finestra. Era una mappa sbiadita, disegnata a inchiostro, con una scritta in calce. La portai in cucina e la posai sul bancone vicino a una di quelle lampade di emergenza che, inserita, mandava un debole chiarore. Aprii la cornice e tirai fuori la pergamena, che aveva gli orli laceri. Potevo vedere cos'era, adesso: un tratto di costa e un piccolo braccio di mare. La scritta era davvero ostica, e desiderai che ci fosse li Emma ad aiutarmi. Da principio, pensai che la mappa potesse rappresentare un tratto di costa di Plum Island, ma non c'erano bracci di mare sull'isola, soltanto il porto, che si presentava ben diverso da quello che potevo vedere sulla mappa. Presi allora in considerazione l'idea che lo schizzo potesse raffigurare Mattituck Inlet, dove c'erano gli Alberi di Capitan Kidd, ma sembrava che non ci fosse nessuna somiglianza con il braccio di mare che avevo visto
sulla mia cartina e di persona. C'era una terza possibilità, ed erano le rupi o le cornici ma, di nuovo, non vedevo somiglianza tra quella costa, che era molto diritta, e quella sulla mappa, che era curva e mostrava una profonda e stretta rientranza. Alla fine, conclusi non vi fosse altro significato che quello di una antica mappa che Tobin aveva pensato di incorniciare come decorazione. Giusto? No. Continuai a fissare la pergamena, cercando ora di decifrare le parole scolorite; poi, scorsi le sole due che ero in grado di leggere; erano «Founders Landing». Ora che mi ero orientato, potevo vedere che quella era in realtà la mappa di circa mezzo chilometro di costa che comprendeva Founders Landing, un braccio di mare senza nome, e quella che era oggi la proprietà di Fredric Tobin. La scritta in calce conteneva ovviamente indicazioni, e potevo distinguere dei numeri e la parola «Quercia». Udii un rumore in soggiorno ed estrassi la pistola. «John?» disse Beth. «Sono qui.» Beth avanzò nella cucina. «Pensavo te ne stessi andando», dissi. «È arrivata la polizia di Southold chiamata per telefono da un guardiano. Ho assicurato che era tutto sotto controllo.» «Grazie.» Guardò verso il soggiorno e commentò: «Qui è tutto un rottame». «L'uragano John.» «Ti senti meglio?» «No.» «Che cos'hai lì?» «Una mappa del tesoro. Era in bella vista, in una cornice dorata.» La osservò. «Plum Island?» «No. La mappa di Plum Island o qualsiasi cosa li abbia condotti al tesoro è stata distrutta da un pezzo. Questa è una mappa di Founders Landing e di quella che ora è la proprietà di Tobin.» «E allora?» «Be', sono sicuro che è un falso. Nei miei studi archivistici, ho scoperto che è possibile comperare pergamena intonsa di qualsiasi periodo degli ultimi secoli. Poi, ci sono persone in città pronte a mischiare un po' di nerofumo con olio o cos'altro, e a scrivere tutto quello che vuoi che scrivano.» Assentiva. «Perciò, Tobin si era fatto fare questa mappa indicante che
c'era un tesoro sepolto nella sua proprietà.» «Sì. Se guardi bene, puoi vedere che la scritta sembra dare delle indicazioni. E se guardi ancora meglio... vedi quella X?» Tenne un po' più alta la pergamena e disse: «La vedo». Poi la posò, e concluse: «Non era mai stata sua intenzione lasciare che i Gordon seppellissero il tesoro sulla rupe». «No. La sua intenzione era portarglielo via, il tesoro, ucciderli, e nasconderlo sulla sua proprietà.» «Quindi, ora il tesoro è sepolto nella proprietà di Tobin?» «Andiamo ad accertarcene.» «Un'altra effrazione?» «Peggio. Se lo trovo a casa, prima gli rompo le gambe con quest'ascia, poi lo minaccio di fargli davvero del male se non parla.» E aggiunsi: «Posso lasciarti da qualche parte, prima». «Verrò con te. Hai bisogno di avere vicino qualcuno, e poi devo cercare il medaglione di mia nonna sul prato.» Misi la pergamena al sicuro sotto il poncho e afferrai l'ascia. Nel dirigermi verso le scale, scaraventai una lampada da tavolo attraverso una delle alte finestre ad arco. Una raffica di vento penetrò attraverso il vetro in frantumi, spazzando via alcune riviste da un tavolino. «Sono già sessantacinque nodi?» «Manca poco.» 32 Il tragitto dai Vigneti Tobin a Founders Landing, in genere di una ventina di minuti, prese quasi un'ora a causa della tempesta. Le strade erano disseminate di rami e la pioggia inondava a tal punto il parabrezza che dovevo procedere a passo d'uomo, con i fari accesi, benché fossero soltanto le cinque del pomeriggio. Ogni tanto, una raffica di vento minacciava di mandare fuori strada la Jeep. Beth accese la radio, e il meteorologo stava dicendo che la tempesta non si era ancora tramutata in uragano, ma quasi. Jasper stava ancora viaggiando verso nord a più di venti chilometri l'ora, e il margine della perturbazione era a meno di cento chilometri dalla costa di Long Island, aumentando di intensità e di forza al di sopra dell'Atlantico. «Questi cercano solo di spaventare la gente», commentai. «Mio padre diceva che nel settembre del 1938 l'uragano distrusse total-
mente vaste zone di Long Island.» «Anche mio padre ne parlava. I vecchi tendono a esagerare.» Cambiò discorso e disse: «Se Tobin c'è, intendo occuparmene io». «Bene.» «Dico sul serio, John. Dovrai regolarti a modo mio. Non dobbiamo fare niente che possa compromettere il caso.» «L'abbiamo già fatto. E non preoccuparti di perfezionarlo, il caso.» Non mi rispose. Tentai di chiamare la mia segreteria, ma il telefono continuava a suonare a vuoto. «Da me manca la corrente», dissi. «Probabilmente manca dappertutto, ormai.» «Sarà orribile, ma penso che mi piacciano gli uragani.» «Tempeste tropicali.» «D'accordo. Anche quelle.» Mi passò per la mente che non sarei ritornato a Manhattan quella sera, e di conseguenza sarei mancato ai miei tassativi appuntamenti, ragion per cui ero in un bel casino riguardo al mio impiego. Mi resi conto che poco me ne importava. Pensai di nuovo a Emma, ed ebbi la certezza che, se fosse vissuta, la mia vita sarebbe stata sempre più felice. Nonostante il mio blaterare sul vivere in città o in campagna, in realtà mi ero figurato me stesso lì con Emma Whitestone, a pescare, a nuotare, a collezionare vasi da notte, o quant'altro faceva la gente li. Mi venne da pensare, inoltre, che tutti i miei legami con la North Fork erano ormai perduti: zia June era morta, zio Harry intendeva vendere la casa, Max e io non avremmo mai più ritrovato il rapporto che avevamo avuto un tempo, i Gordon erano morti, e ora anche Emma era scomparsa. Come se non bastasse, le cose non si presentavano molto bene neppure a Manhattan. Lanciai un'occhiata a Beth Penrose. Lei se ne accorse e la ricambiò. I nostri sguardi si incontrarono e lei disse: «Il cielo è bellissimo, una volta passata la tempesta». Assentii. «Grazie.» C'erano molti vecchi alberi nella zona intorno a Founders Landing e, purtroppo, molti dei loro grossi rami ingombravano la strada e i prati. Ci volle un altro quarto d'ora di giri e rigiri per arrivare alla proprietà di Tobin. Il cancello in ferro battuto era chiuso, e Beth disse: «Scendo e vedo se è chiuso a chiave», ma, per risparmiare tempo, lo attraversai, forzandolo con la Jeep. «Perché non cerchi di far scendere un po' il livello dell'adrenalina?» dis-
se Beth. «Sto cercando.» Mentre percorrevamo il lungo viale, vedevo che il prato dove c'era stata la festa non molto tempo prima era adesso cosparso di rami spezzati, bidoni dell'immondizia, mobili da giardino e ogni sorta di rottami. La baia all'estremità del prato era in tumulto, onde altissime si frangevano oltre la spiaggia sassosa e sull'erba stessa. Il pontile di Tobin teneva egregiamente, ma la rimessa delle barche aveva perso un bel numero di tegole. «Che strano», dissi. «Cosa?» «Il Chris-Craft non c'è.» «Be'», disse Beth, «sarà stato tirato in secca da qualche parte. Nessuno uscirebbe in mare con un tempo simile.» «Già.» Non vedevo macchine sul viale e la casa era completamente al buio. Guidai fino al garage, una costruzione a sé stante che sorgeva più indietro e di lato rispetto alla casa. Sterzai a destra e spinsi la Jeep contro la porta del garage, che si frantumò in più parti. Scrutai oltre il parabrezza e vidi la Porsche bianca proprio di fronte a me con un pezzo di porta abbattuta sopra e, sull'altro lato del garage, una Ford Bronco. «Due auto qui dentro», dissi a Beth. «Forse quel bastardo è in casa.» «Lascia che me lo lavori io.» «Ma certo.» Feci rapidamente manovra con la Jeep e guidai verso il retro della casa, attraverso il prato posteriore da cui si accedeva al patio, dove mi fermai in mezzo a mobili da giardino sparsi in giro dal vento. Scesi, prendendo con me l'ascia, e Beth bussò. Aspettammo sotto la tettoia d'ingresso, ma non rispondeva nessuno, così aprii, servendomi dell'ascia. «John», disse Beth, «per amor di Dio, calmati.» Entrammo in cucina. L'elettricità mancava, e tutto era buio e silenzioso. «Occhio a questa porta», ordinai a Beth. Avanzai fino all'atrio centrale e gridai verso l'alto delle scale: «Signor Tobin!» Nessuna risposta. «È in casa, Fredric? Ehi, amico!» Ho intenzione di farti saltar via quella tua testa fottuta. Udii uno scricchiolio sul pavimento sopra di me, e lasciata cadere l'ascia, estrassi la 38 e corsi su per le scale, facendo i gradini a quattro alla volta. Girai attorno al montante e mi diressi verso il punto dove avevo udito lo scricchiolio. «Mani in alto!» urlai. «Polizia! Polizia!» Udii un rumore in una delle camere e vi feci irruzione proprio in tempo
per vedere chiudersi la porta di uno sgabuzzino. La spalancai è una donna urlò. E urlò di nuovo. Era sulla cinquantina, probabilmente la governante. «Dov'è il signor Tobin?» dissi. Lei si coprì la faccia con tutt'e due le mani. «Dov'è il signor Tobin?» Beth era nella stanza, ora. Mi spinse in là e prese la donna per un braccio. «Non abbia paura», disse. «Siamo della polizia.» La fece uscire dalla cabina-armadio e sedere sul letto. Dopo un minuto di parole rassicuranti, apprendemmo che la donna si chiamava Eva, che il suo inglese non era molto buono e che il signor Tobin non era in casa. «Le sue macchine sono in garage», le fece osservare Beth. «Lui venuto a casa, poi andato.» «Andato dove?» domandò Beth. «Lui preso la barca.» «La barca?» «Quando? Quanto tempo fa?» «Non tanto», rispose Eva. «È sicura?» domandò Beth. «Sì. Io guardo lui.» Indicò la finestra. «La barca va là fuori.» «Era solo?» «Sì.» «Mettiti lì alla finestra», dissi a Beth. Lei si alzò e andò alla finestra. «La barca», dissi, «da che parte è andata? Quale parte?» Accennai con le mani. La donna accennò verso sinistra. «Da quella.» Guardai verso la baia. Il Chris-Craft, l'Oro dell'autunno dalla rimessa si era diretto a est, ma non vedevo niente là fuori, a parte le onde. «Perché mai sarà uscito in barca?» mi domandò Beth. «Forse per liberarsi dell'arma del delitto.» «Avrebbe potuto scegliere una giornata migliore, credo.» Beth si rivolse a Eva e domandò: «Quando è andato via? Dieci minuti? Venti?» «Forse dieci. Di più, forse.» «Dove stava andando?» L'altra accennò una stretta di spalle. «Lui detto che stasera tornava. Detto a me di stare qui. Di non avere paura. Ma io ho paura.» «È solo una tempesta tropicale», la informai.
Beth prese Eva per mano e la condusse da basso e in cucina. Le seguii. Beth le disse: «Deve rimanere al piano terreno. Stia lontana dalle finestre. Okay?» Eva annuì. «Cerchi delle candele, dei fiammiferi e una torcia elettrica. Se ha paura scenda in cantina. Okay?» disse ancora a Eva. Eva annuì di nuovo e andò a uno degli armadietti per prendere delle candele. Beth rifletté un momento, poi domandò a me: «Dove sarà dìretto con questo tempo?» «Dovrebbe essere alle cantine, a fare il possibile per proteggere la sua roba. Ma non sta certo andando là in barca.» A Eva domandai: «L'ha visto andare fino alla barca? Mi ha capito?» «Sì. L'ho visto andare alla barca.» «Aveva con sé qualcosa?» mi aiutai con un po' di mimica. «In mano?» «Sì.» «Cosa?» Eva decise di chiudersi nel silenzio. Beth provò a insistere. «Che cosa aveva?» «Arma.» «Arma?» «Sì. Grande. Lunga.» «Fucile?» Beth finse di puntare un fucile. «Sì, fucile.» La donna alzò due dita e disse: «Due». Beth e io ci guardammo. Eva disse: «E anche per scavare». Fu lei, stavolta, a servirsi della mimica, e fece il gesto di scavare. «Scavare.» «Una vanga?» «Sì. Vanga. In garage.» Riflettei un istante e domandai a Eva: «E scatola? Per trasportare? Sacca? Cassetta?» Lei si limitò a una stretta di spalle. «A che cosa stai pensando?» mi domandò Beth. «Be'», dissi, «non credo che sia andato a pescare con due fucili e una vanga.» Poi a Eva: «Chiavi. Dove sono le chiavi?» Ci guidò verso un telefono a parete, accanto al quale c'era un quadro con appese le chiavi. Tobin, da quel maniaco dell'ordine che era, aveva etichette a tutte le chiavi. Vidi che quelle del Chris-Craft mancavano, ma quelle
del Formula 303 erano ancora là. Mentre contemplavo la mia prossima mossa azzardata, Eva disse: «Da basso. In cantina». La guardammo. Indicava una porta dal lato opposto della cucina. «Lui andato da basso. Qualcosa da basso», disse ancora. Beth e io ci scambiammo uno sguardo. Il signor Tobin, era chiaro, non era il Datore di lavoro dell'Anno, ed Eva era felice dell'occasione di dare informazioni su di lui, sebbene potessi leggere la paura nei suoi occhi e sapessi che era qualcosa di più dell'uragano a spaventarla. Non avevo alcun dubbio che Tobin l'avrebbe uccisa se non fosse stato per l'inconveniente di ritrovarsi con un cadavere nella sua proprietà. Mi avvicinai a quella porta e provai la maniglia, ma era chiusa a chiave. Recuperai l'ascia e mi preparai a servirmene. «Aspetta!» disse Beth. «Ci serve una probabile causa per far questo.» Mi rivolsi a Eva. «Abbiamo il suo consenso per perquisire?» «Prego?» «Grazie.» Calai l'ascia contro la maniglia e la fracassai, sfondando da parte a parte il legno. Aprii la porta, rivelando una scala stretta e buia che conduceva nello scantinato. A Beth dissi: «Sei libera di andartene quando vuoi». Miss Ligia-alle-norme parve avere un'illuminazione, la comprensione che, ormai che c'eravamo dentro fino al collo, tanto valeva infrangere qualsiasi legge potesse esserci sfuggita. Si fece dare una torcia elettrica da Eva e me la porse. «Prima tu, eroe. Io ti copro le spalle.» «Bene.» Scesi per primo, la torcia in una mano e l'ascia nell'altra. Beth estrasse la sua 9mm e mi seguì. Era una cantina vecchissima con un paio di metri sì e no di spazio libero. Le fondamenta erano di pietra e così il pavimento. A prima vista, sembrava che non vi fosse molto laggiù: era un ambiente troppo umido per conservarci qualcosa e troppo sudicio e spettrale perfino per una lavanderia. Fondamentalmente, c'era posto solo per una caldaia e per un serbatoio dell'acqua calda. Non riuscivo a immaginare su che cosa Eva stesse cercando di darci un'imbeccata. Poi, il raggio della torcia si posò su una lunga parete di mattoni all'altra estremità della cantina, e ci muovemmo a quella volta. La parete di mattoni e malta era di costruzione più recente delle antiche fondamenta di pietra. Era, in sostanza, un divisorio che tagliava in due la
cantina, salendo fino alle antiche travi di quercia. Proprio nel centro di quella parete c'era una bellissima porta di quercia intagliata. La mia torcia illuminò sulla porta una targa d'ottone che diceva: «Cantina privata di Sua Signoria». Dato che Sua Signoria mancava di senso dell'umorismo, pensai che la targa fosse il dono di un ammiratore, o forse della stessa Emma. «Dobbiamo entrare?» bisbigliò Beth. «Solo se la porta non è chiusa a chiave», replicai. «Norme di perquisizione e sequestro.» Le porsi la torcia e tentai la grossa maniglia di ottone, ma la porta era chiusa a chiave e notai il buco della serratura al di sopra della maniglia. «Non è chiusa a chiave», dissi, «è solo inceppata.» Calai l'ascia contro il buco della serratura e la porta di quercia si spaccò, ma tenne. Assestai diversi altri colpi e la porta alla fine si spalancò. Beth aveva spento la torcia nell'attimo stesso in cui la porta si apriva, e ora eravamo entrambi ritti ai due lati, dorso contro la parete di mattoni e pistole estratte. «Polizia!» gridai. «Venite fuori con le mani alzate!» Nessuna risposta. Gettai l'ascia attraverso l'apertura e la sentii atterrare con un suono metallico, ma nessuno fece fuoco. «Vai tu per prima», dissi a Beth. «A me hanno già sparato, per quest'anno.» «Grazie.» Si abbassò, e disse: «Vado a destra», poi mosse rapida attraverso la soglia e io la seguii. Mi gettai a sinistra e restammo immobili, accovacciati, con le pistole pronte a far fuoco. Non vedevo niente, ma sentivo che la stanza era più fredda e forse più asciutta del resto dello scantinato. «Polizia!» tornai a gridare. «Mani in alto!» Aspettammo ancora mezzo minuto, poi Beth riaccese la torcia elettrica. Il raggio viaggiò attraverso la stanza, illuminando una fila di scaffalature per bottiglie. Lei prese a spostarlo qua e là. C'era un tavolo al centro della stanza con sopra due candelabri e qualche candeliere. C'erano anche scatole di fiammiferi, e accesi una decina di candele, che rischiararono la cantina e il cui chiarore vacillante riverberava dalle bottiglie. C'erano rastrelliere di legno dappertutto, com'era logico aspettarsi in una cantina. C'erano anche cassette e scatole di vino, aperte e ancora chiuse, accatastate qua e là. C'erano sei barili di vino sui rispettivi sostegni, ciascuno munito di spina. Sulle pareti potevo vedere serpentine di refrigera-
zione, protette da plexiglas. Il soffitto sembrava di cedro e il rozzo pavimento di pietra era stato ricoperto di levigata ardesia inserita nel cemento. Commentai rivolto a Beth: «Io le mie due bottiglie di vino le tengo nell'armadietto di cucina». Con la torcia elettrica, Beth esaminò alcune bottiglie ricoperte di polvere di una delle rastrelliere. «Questi sono vini francesi d'annata», disse. «La roba sua», replicai, «la tiene probabilmente in garage.» Lei diresse il raggio verso il punto dove alcune decine di scatole erano accatastate contro la parete. «Questa è roba di produzione sua», disse. «E sui barili ci sono le etichette dei suoi vini.» «Bene.» Frugammo ancora un poco attorno, notando un armadietto che conteneva bicchieri, cavatappi, tovaglioli e così via. Trovammo termometri appesi qua e là, e tutti segnavano circa quindici gradi. Alla fine, dissi: «Cosa stava cercando di dirci Eva?» Beth accennò una stretta di spalle. La guardai, alla luce delle candele. Lei guardò me. «Forse dovremmo dare un'occhiata a quelle cassette e a quelle scatole», disse. «Forse sì.» Cominciammo così a spostare casse di legno e scatole di cartone. Ne aprimmo alcune, ma dentro c'era solo vino. «Che cosa stiamo cercando?» domandò Beth. «Non lo so. Vino, no di certo.» In un angolo c'era una pila di scatole di vino dei Vigneti Tobin, tutte con l'etichetta «Oro dell'autunno». Mi avvicinai e cominciai a scaraventarle in un corridoio tra due rastrelliere di bottiglie. Un rumore di vetro in frantumi riempì l'ambiente, e così l'odore di vino. «Non c'è bisogno di rovinare del buon vino», protestò Beth. «Fai con calma. Passale a me, le scatole.» La ignorai, dicendo: «Levati di mezzo». Scaraventai via l'ultimo strato di scatole e, là nell'angolo, in mezzo ad altre due cassette di vino, c'era qualcosa che vino non era, bensì una ghiacciaia di alluminio. La fissai, alla luce delle candele. Beth mi venne accanto, la torcia accesa puntata sull'oggetto. «Era di quella che parlavi?» domandò. «La cassa di alluminio scomparsa dalla barca dei Gordon?» «Sembra indubbiamente che lo sia. Ma è un oggetto abbastanza comune, a meno che non ci siano sopra le loro impronte, cosa che sicuramente non
ha, per cui non lo sapremo mai con certezza. La mia ipotesi», aggiunsi, «è che sia proprio quella: la cassa di cui tutti erano certi che contenesse ghiaccio secco e carbonchio.» «Potrebbe essere ancora così», disse lei. «Non l'ho ancora bevuta del tutto la storia del tesoro del pirata.» «Bene», dissi, «mi auguro che quelli del laboratorio possano rilevare alcune impronte da quell'alluminio.» Mi girai verso la porta e mi preparai ad andarmene. «Aspetta. Non hai intenzione di... Voglio dire...» «Aprirla? Ma sei matta? E manomettere una prova? Non dovremmo nemmeno trovarci qui. Non abbiamo un mandato di perquisizione...» «Piantala!» «Piantare che?» «Apri quella maledetta cassa... no, l'aprirò io.» Passò a me la torcia e si accoccolò davanti alla cassa che stava tra due scatoloni di vino. «Dammi un fazzoletto o qualcosa.» Le porsi il mio fazzoletto e, con quello in mano, lei aprì il paletto, poi sollevò il coperchio fissato con cardini. Tenevo il raggio della torcia puntato sulla cassa. Suppongo ci aspettassimo di vedere oro e gemme ma, prima che il coperchio venisse sollevato del tutto, quello che vedemmo fissarci dall'interno era un teschio umano. Beth mandò un grido strozzato, si ritrasse bruscamente, e il coperchio cadde, richiudendosi. Lei indietreggiò di qualche passo, cercando di ritrovare il fiato. Indicò la cassa, ma per qualche secondo non riuscì a parlare, poi disse: «Hai visto?» «Sì. C'è qualcuno ma è morto.» «Perché...? Cosa...?» Mi acquattai vicino alla cassa, dicendo: «Fazzoletto». Lei me lo ridiede, e io sollevai il coperchio. Il raggio della torcia frugò nell'interno della capace cassa di alluminio, e vidi che il teschio poggiava sopra altre ossa. Il teschio in sé aveva inserita in ciascuna orbita una moneta di rame, coperta da uno spesso strato di verderame. Beth si acquattò accanto a me, mettendomi una mano sulla spalla per non perdere l'equilibrio o per bisogno di rassicurazione. Aveva ritrovato il controllo di sé e disse: «Fa parte di uno scheletro umano. Un ragazzino». «No. Un adulto piccoletto. La gente era più piccola, allora. Hai mai visto un letto del Seicento? Io ci ho dormito, una volta.» «Mio Dio... Perché c'è uno scheletro... Cos'è quell'altra roba?»
Frugai nella cassa ed estrassi qualcosa di sgradevole al tatto. Lo tenni sotto la luce. «Legno marcito.» Ora potevo vedere che sotto le ossa c'erano altri pezzi di legno marcito e, a un esame più attento, trovai alcune rifiniture d'ottone coperte di verderame, alcuni chiodi di ferro quasi completamente arrugginiti, e un pezzo di tessuto marcito anche quello. Le ossa non erano calcinate e bianche, erano di un marrone rossastro, e vedevo che terriccio e argilla vi aderivano ancora, indicando che non erano state sepolte in un feretro, ma erano rimaste per lungo tempo nel terreno. Frugai ulteriormente dentro la cassa e trovai un lucchetto di ferro arrugginito e quattro monete d'oro, che diedi a Beth. Mi rialzai e mi pulii la mano con il fazzoletto. «Il tesoro di Capitan Kidd.» Lei guardò le quattro monete d'oro che aveva in mano. «Questo?» «Questo ne fa parte. Quello che vedo qui è parte di un forziere di legno, pezzi del coperchio che è stato forzato, direi. Il forziere era avvolto in quel telo marcito, o incerata, che avrebbe dovuto proteggerlo dall'acqua per un anno o due, ma non per tre secoli.» Lei indicò il teschio e domandò: «Chi è quello?» «Immagino sia il guardiano del tesoro. A volte un condannato, o un indigeno, o uno schiavo, o comunque un povero malcapitato veniva ucciso e gettato sopra il forziere. A quei tempi credevano che lo spettro di un assassinato fosse inquieto e avrebbe scacciato chiunque avesse buttato all'aria la sua fossa.» «Tu come lo sai?» «L'ho letto in un libro.» Poi aggiunsi: «E per quelli che non erano superstiziosi, e che potevano avere visto gente seppellire qualcosa o notato terra smossa, se avessero scavato, la prima cosa che avrebbero visto era un cadavere, e forse avrebbero pensato che era soltanto una tomba. Astuto, vero?» «Direi di sì. Avrebbe di certo scoraggiato me dallo scavare ulteriormente.» Restammo entrambi un poco là nella cantina, ciascuno immerso nei propri pensieri. Il contenuto della cassa di alluminio non mandava certo un buon odore, così mi chinai e chiusi il coperchio. A Beth dissi: «Suppongo che tutto questo sarebbe stato mostrato, a tempo e luogo, insieme con l'oro e le gioie». Lei fissò le quattro monete d'oro sul suo palmo e tornò a domandare: «Ma dov'è, il tesoro?»
«Se uno scheletro potesse parlare, sono certo che lui ce lo direbbe.» «Perché ha delle monete negli occhi?» «Qualcosa a che fare con chissà quale superstizione.» Lei mi scoccò un'occhiata e disse: «Be', avevi ragione. Mi congratulo con te per un lavoro d'indagine veramente notevole». «Ti ringrazio», dissi. «Andiamo a respirare un po' d'aria fresca.» 33 Tornammo di sopra e vidi che Eva non era più in cucina. «Potrei avere trovato abbastanza, qui», disse Beth, «per ottenere un mandato di perquisizione.» «No, ti sbagli. Quello che abbiamo trovato qui non è connesso in alcun modo con alcuno degli omicidi salvo attraverso prove indiziarie. E soltanto se credi a quello che è il mio ragionamento. Tre testimoni potenziali sono morti», le ricordai. «D'accordo... ma ho dei resti umani, qui», obiettò Beth. «È un punto di partenza.» «Questo è vero. Vale una telefonata. Ma non dire», aggiunsi, «che le ossa potrebbero essere di trecento anni fa.» Beth andò al telefono a parete. «Non c'è la linea», annunciò. Le porsi le chiavi dell'auto. «Prova con il mio cellulare.» Lei uscì dalla porta sul retro e balzò dentro la Jeep. La vidi formare il numero e parlare con qualcuno. Mi aggirai per il piano terreno della casa. Era arredato con pezzi veramente antichi, in apparenza, ma potevano anche essere buone imitazioni. Lo stile e il periodo erano soprattutto quelli di un rustico inglese della metà dell'Ottocento. In conclusione, Fredric Tobin sapeva come spendere. Si era costruito un intero mondo di ozio, buon gusto e raffinatezza più adatti agli Hamptons che alla North Fork, che si vantava di semplici virtù e gusti americani. Indubbiamente Tobin avrebbe preferito vivere a Bordeaux, o almeno negli Hamptons, porta a porta con Martha Stewart, scambiando ricette con lei per lingue di colibrì farcite; per il momento, però, come la maggior parte della gente, doveva vivere vicino a dove lavorava, a dove il vino gli dava il pane. Nel soggiorno, c'era una bella vetrinetta artistica in legno intagliato e cristallo molato, piena di oggetti con tutta l'aria d'essere senza prezzo. Le diedi una spinta, e rovinò con un fracasso infernale, seguito da una serie di tintinnii. Amo quel suono. I miei antenati dovevano
essere vandali o visigoti, penso. C'era uno studiolo al di là del soggiorno, e frugai nella scrivania di Sua Signoria, ma lui ci teneva ben poco. C'erano alcune fotografie in cornice, una di Sondra Wells, un'altra del suo vero amore: se stesso, ritto sul ponte del suo cabinato. Trovai la sua agenda e cercai i Gordon. Tom e Judy erano elencati, ma erano stati cancellati con una riga. Cercai Whitestone e vidi che anche Emma aveva una riga attraverso il suo nome. Considerato che l'aveva assassinata soltanto quel mattino, e che la notizia ancora non era stata data, questo mostrava una mente molto malata, oltre che ordinata. Il genere di mente che a volte lavora contro chi la possiede. C'era un caminetto nella stanza, e al di sopra della mensola c'erano sostegni per due fucili, ma entrambe le armi mancavano. Eva stava rivelandosi una testimone attendibile. Tornai in cucina e guardai dalla finestra sul retro. La baia era arrabbiata, come avrebbero detto i vecchi lupi di mare, ma ancora non del tutto fuori di sé. Tuttavia, non riuscivo a immaginare che cosa avesse fatto uscire in mare Tobin in una giornata del genere. O meglio, potevo immaginarlo. Dovevo solo rimuginarci un po' sopra. Beth rientrò in casa, il poncho bagnato per la breve corsa dalla Jeep alla porta. Mi restituì le chiavi e disse: «C'è una squadra di tecnici a casa Murphy e un'altra a... sull'altra scena». Poi aggiunse: «Non sono più a capo dell'indagine sui Gordon». «Brutto colpo. Ma non preoccuparti», dissi, «tu il caso l'hai già risolto.» «Tu l'hai risolto.» «Tu devi fare in modo che regga. È un compito che non ti invidio. Tobin può buttartelo a terra, Beth, se non sei più che cauta nel modo di procedere.» «Lo so...» Consultò l'orologio. «Sono le 6 e 40. C'è gente del laboratorio e della Omicidi che sta venendo qui, ma ci metteranno un po', con questa tempesta. Vorranno procurarsi un mandato di perquisizione prima di entrare. Dovremmo essere fuori di qui, al loro arrivo.» «Come spiegherai d'essere stata già all'interno del luogo?» «Eva ci ha fatti entrare... Sentiva d'essere in pericolo. Userò diplomazia in proposito. Non hai niente di cui preoccuparti», aggiunse. «Dirò d'essere scesa nello scantinato per controllare l'elettricità.» Sorrisi. «Stai diventando brava nel pararti il culo. Mi sa che te la fai con gli agenti di pattuglia.»
«Tu mi devi fare in qualche modo da spalla, John. Hai infranto fino all'ultima regola del manuale.» «Sono arrivato sì e no in fondo a pagina uno.» «E più in là di così non andrai.» «Beth, quell'uomo ha ucciso tre persone che mi erano care più una coppia di anziani innocui. Le ultime tre persone non sarebbero morte se mi fossi mosso più in fretta e avessi riflettuto più a fondo.» Mi mise una mano sulla spalla. «Non biasimare te stesso. Era responsabile la polizia della salvezza dei Murphy... Quanto a Emma... be', posso dire che non avrei mai pensato che fosse in pericolo...» «Non voglio discuterne.» «Capisco. Senti, non occorre che tu parli con quelli della contea quando arriveranno. Vattene, tu, con loro me la vedrò io.» «Buona idea.» Le gettai le chiavi della macchina. «Ci vediamo più tardi.» «Dove stai andando senza le chiavi?» «A fare un giro in barca.» Staccai dal quadro le chiavi del Formula 303. «Sei impazzito?» «La giuria sta deliberando in proposito. A più tardi.» Mi diressi verso la porta sul retro. Beth mi trattenne, afferrandomi il braccio. «No, John. Ci rimetterai la pelle là in mare. Tobin prima o poi lo acciufferemo.» «Lo voglio subito, con le mani ancora sporche di sangue.» «No.» Mi serrava il braccio con forza, ora. «Non sai nemmeno dov'è andato.» «C'è un solo posto dove potrebbe dirigersi con la barca in una serata come questa.» «E dove?» «Lo sai, dove: a Plum Island.» «Ma perché?» «Penso che il tesoro sia ancora là.» «Come lo sai, questo?» «È solo una congettura. Ciao.» Prima che potesse nuovamente impedirmelo, scappai via. Attraverso il prato, mi diressi verso la barca. Il vento stava realmente ululando, e un grosso ramo cadde non lontano da me. La luce del giorno era quasi scomparsa, il che era un bene, perché non volevo vedere che aspetto aveva il mare.
Mi avventurai lungo il pontile, tenendomi aggrappato ai pali, spiccando la corsa dall'uno all'altro per non rischiare di volare in acqua. Arrivai finalmente alla rimessa delle barche, che scricchiolava e cigolava. Nella poca luce, vidi che il Formula 303 era ancora là, ma notai che il Boston Whaler era scomparso, e mi domandai se fosse stato portato via dalle ondate, o se Tobin stesse rimorchiandolo dietro il Chris-Craft come barca di salvataggio o come mezzo per arrivare sulla spiaggia di Plum Island. Fissai il Formula che si alzava e ricadeva sulle onde e urtava contro i parabordi del pontile. Esitai un attimo, cercando di ragionare in modo più razionale, dicendo a me stesso che non era necessario uscire in mare con quella tempesta. Tobin era finito, in un modo o nell'altro. Be'... forse no. Forse dovevo finirlo io prima che riuscisse a farsi patrocinare legalmente e fornire di alibi, e a sfogare su di me la sua indignazione perché avevo violato i suoi diritti. I morti non possono fare causa. Continuavo a fissare il Formula e, nella semioscurità, ebbi l'impressione di vedere Tom e Judy a bordo, che mi sorridevano e mi facevano cenno di raggiungerli. Poi, mi balenò alla mente un'immagine di Emma, e la rividi mentre nuotava e mi sorrideva. E infine rividi la faccia di Tobin mentre, durante la sua festa, parlava con lei, sapendo che stava per ucciderla... Al di là delle necessità legali, mi resi conto che il solo modo in cui potevo portare a conclusione il caso per me personalmente era catturare io stesso Fredric Tobin e, dopo averlo catturato, lo... be', a questo avrei pensato in seguito. Quasi senza saperlo, dal pontile ero già saltato nel motoscafo. Ritrovai l'equilibrio sul ponte che beccheggiava e mossi verso il sedile di destra, quello del pilota. Sperimentai il mio primo problema, che era trovare l'accensione. La trovai, finalmente. Cercavo di ricordare quello che avevo visto fare dai Gordon e rammentai che una volta mi avevano consegnato una scheda di plastica intitolata Improvvisamente al comando, e mi avevano detta di leggerla. L'avevo letta e avevo deciso di non volermi trovare improvvisamente al comando. Ma ora c'ero. Desiderai d'avere ancora quella scheda. A ogni modo, ricordavo di dover mettere in folle entrambi i selettori di marcia, inserire la chiave nell'accensione, spostarla su «on» e poi... cosa...? Non succedeva niente. Vidi due pulsanti contrassegnati «avviamento» e premetti quello di destra. Il motore di dritta prese a girare e si accese. Poi premetti l'altro pulsante e si accese quello di sinistra. Sentii che giravano un po' a fatica e spinsi leggermente in avanti entrambe le manette, dando
un po' più di gas. Ricordavo di doverli lasciare scaldare per qualche minuto. Non volevo che si arrestassero in quel mare. Mentre si scaldavano, trovai un coltello nel vano aperto del cruscotto e tagliai lo spring, poi entrambe le cime di ormeggio, e immediatamente il Formula rollò con un'onda e andò a sbattere contro il lato della rimessa, a circa un metro e mezzo dal pontile. Ingranai la marcia avanti e afferrai con forza il doppio comando. La prua era puntata verso la baia, perciò non dovevo fare altro che spingere in avanti la doppia manetta, e sarei uscito nella tempesta. Proprio mentre stavo per farlo, udii qualcosa dietro di me e voltai la testa. Era Beth, che chiamava il mio nome al di sopra del vento, delle ondate e dei motori. «JOHN!» «Che c'è?» «Aspettami! Vengo anch'io!» «Presto, allora!» Ingranai la marcia indietro, afferrai il timone e riuscii a portare la barca più vicino al pontile. «Salta!» Lei saltò e atterrò dietro di me sul ponte che rollava, poi cadde. «Tutto bene?» Si rialzò, poi un'onda fece beccheggiare lo scafo e lei cadde di nuovo, infine tornò ad alzarsi. «Tutto bene, sì!» Si mosse verso il sedile di sinistra e disse: «Andiamo». «Sei sicura?» «Vai!» Spinsi le manette in avanti e dalla rimessa uscimmo sotto la pioggia scrosciante. Un secondo dopo, vidi un'onda enorme avanzare verso di noi da destra, e ci avrebbe investiti lungo la fiancata. Portai tutto a destra il timone, riuscendo a prendere l'onda di prua. La barca la cavalcò, rimase sospesa sulla cresta come se fosse a mezz'aria, poi l'onda si franse dietro di me, lasciando lo scafo letteralmente a mezz'aria. Ricademmo di prua, immergendoci nel mare che tornava a gonfiarsi, poi la prua risalì e la poppa toccò l'acqua. Le eliche fecero presa, ed eravamo in viaggio, ma nella direzione sbagliata. Nel solco tra un'onda e l'altra, riuscii a sterzare di circa 180 gradi e mi diressi a est. Mentre oltrepassavamo la rimessa delle barche, udii un secco schianto e l'intera struttura si piegò verso destra, poi crollò verso il mare che ribolliva. «Gesù!» Beth mi gridò al di sopra del fragore della tempesta: «Sai quello che stai facendo?» «Certo. Una volta ho fatto un corso chiamato "Improvvisamente-al-
comando".» «Sulle imbarcazioni?» «Penso di sì.» La guardai, e lei guardò me. «Grazie d'essere con me», dissi. «Guida», rispose lei. Il Formula procedeva a mezza manetta, ossia come penso si faccia per mantenere il controllo in una tempesta. Sembrava che per una buona metà del tempo viaggiassimo in aria, volando al di sopra dei solchi, poi fendendo in pieno l'ondata in arrivo così che le eliche giravano a vuoto, poi mordevano l'acqua e ci scagliavano in avanti come una tavola da surf dentro il mare che tornava a gonfiarsi. La sola cosa che capivo era di dover mantenere la prua contro le onde in arrivo per impedire che una delle più grandi ci investisse di lato. Probabilmente la barca non sarebbe affondata, ma si sarebbe capovolta. Avevo visto imbarcazioni capovolte nella baia dopo mareggiate assai meno violente di quella. «Sai come navigare?» mi gridò Beth. «Certo. Rosse a destra al rientro.» «Cosa vuol dire?» «Tenere sempre a destra la boa rossa quando si rientra in porto.» «Non stiamo rientrando in porto. Stiamo uscendone.» «Be'... allora attenzione alle boe verdi.» «Io boe non ne vedo», m'informò lei. «Nemmeno io.» Poi dissi: «Mi terrò sempre a destra della doppia riga bianca. Facendo così, è impossibile sbagliare». Non mi rispose. Cercavo di indurre la mia mente ad assumere un'impostazione nautica. Andare in barca non è il mio hobby preferito, ma ero stato ospite di un sacco di imbarcazioni nel corso degli anni, e ritenevo d'avere assorbito alcuni elementi da quando ero un ragazzino. E in giugno, luglio e agosto ero uscito in mare con i Gordon almeno una decina di volte, e Tom chiacchierava a ruota libera, perché gli piaceva dividere con me il suo entusiasmo e la sua competenza nautica. Ricordo che non gli prestavo eccessiva attenzione (essendo più interessato ajudy in bikini), ma ero sicuro che nella mia corteccia cerebrale vi fosse una casellina con l'etichetta «Barche». Dovevo soltanto individuarla. Ero convinto di saperne di più sulle barche di quanto mi rendessi conto. Me lo auguravo, almeno. Eravamo ormai in piena Peconic Bay, e il motoscafo sbatteva con gran forza contro l'acqua: tonfi che ti scuotevano e ti facevano battere i denti,
l'uno dopo l'altro, come di un'auto che stesse procedendo su traversine ferroviarie, e potevo sentire il mio stomaco uscire di sincronia con i movimenti verticali dello scafo; quando la barca si abbassava, il mio stomaco era ancora in aria, e quando la barca veniva scagliata in aria, il mio stomaco tornava giù precipitosamente. O così sembrava. Non vedevo niente attraverso il parabrezza, così mi tenevo in piedi per guardare al di sopra di quello, le natiche puntate contro il sedile dietro di me, la destra sul timone, la sinistra su una maniglia fissata al cruscotto. Inghiottivo tanta di quell'acqua salata da farmi salire la pressione. Inoltre, per il salmastro cominciavano a bruciarmi gli occhi. Lanciai un'occhiata verso Beth e vidi che anche lei se li stava strofinando. Alla mia destra, scorsi a un tratto un'enorme barca a vela coricata su un fianco, la chiglia appena visibile e l'albero e la vela mezzo affondati. «Oh, Dio...» «Hanno bisogno di aiuto?» domandò Beth. «Non vedo nessuno.» Mi portai più vicino, ma non c'era traccia di persone aggrappate all'albero o al sartiame. Trovai sul cruscotto il pulsante della sirena e diedi alcuni segnali, ma ugualmente non notai alcun segno di vita. «Può darsi», dissi a Beth, «che siano andati a terra con un canotto.» Beth non rispose. Proseguimmo. Ricordavo d'essere quello che non amava nemmeno il lieve rollio del traghetto, ed eccomi li a solcare i marosi su un motoscafo aperto di nove metri durante un quasi uragano. Potevo avvertire gli urti nei piedi, come se qualcuno stesse picchiando sulle mie suole con una clava, e i colpi si propagavano su per le gambe alle ginocchia e ai fianchi, che ora cominciavano a dolermi. In altre parole, uno strazio. Mi sentivo prendere dalla nausea a causa del salmastro, del moto, del costante sbattere contro le onde, e anche dell'impossibilità di vedere o separare l'orizzonte dal mare. Aggiungete a questo le mie precarie condizioni fisiche post-trauma... ricordavo che Max m'aveva assicurato che non sarebbe stato faticoso. Se lo avessi avuto lì, ora, lo avrei legato alla prua. Attraverso la pioggia, potevo scorgere alla mia sinistra la costa a un paio di centinaia di metri e più avanti, sulla destra, il confuso profilo di Shelter Island. Sapevo che saremmo stati un po' più al sicuro una volta entrati nel passaggio protetto dal lato sottovento dell'isola, che forse per questo, credo, si chiama Shelter, rifugio. «Su Shelter Island posso lasciarti a terra»,
dissi a Beth. «Tu pensa a guidare questa maledetta barca e smettila di preoccuparti della piccola e fragile Beth.» «Sissignora.» In un tono di voce più amabile, aggiunse: «Sono stata altre volte in acque agitate, John. So quando farsi prendere dal panico». «Bene. Dimmelo, quando.» «Vedremo. Nel frattempo, vado di sotto a cercare qualche salvagente e a vedere se posso trovare qualcosa di più caldo da indossare.» «Buona idea», dissi. «Lavati via anche il sale dagli occhi e vedi se c'è una mappa.» Scomparve giù per il boccaporto tra i due sedili. Il Formula 303 ha una cabina piuttosto grande, per essere un motoscafo, e anche un gabinetto, che da un momento all'altro avrebbe potuto far comodo. È un'imbarcazione confortevole, tiene bene il mare, e mi ero sempre sentito tranquillo quando al timone c'erano Tom o Judy. Tra l'altro, proprio come a John Corey, a Tom e a Judy non piaceva la burrasca, e al primo accenno di creste sulle onde ci affrettavamo a tornare a riva. Eppure, ora ero li ad affrontare una delle mie paure Numero Uno, a fissarla dritto negli occhi, per così dire, e a subirne l'assalto. E per assurdo che possa sembrare, quasi quasi me la godevo: il contatto con la manetta mentre regolavo la velocità, la vibrazione dei motori, il timone in mano. Improvvisamente al comando. Troppo a lungo ero rimasto seduto in veranda. In piedi, tenevo una mano sul timone, l'altra sul bordo del parabrezza per mantenere l'equilibrio. Scrutavo nella pioggia battente, facendo scorrere lo sguardo sul mare infuriato per scorgere una barca, un Chris-Craft per l'esattezza, ma a malapena potevo distinguere l'orizzonte o la riva, figuriamoci poi un'imbarcazione. Beth tornò su e mi porse un giubbotto di salvataggio. «Infilati questo.» Gridava per farsi sentire. «Terrò io il timone.» Restando in piedi, prese lei il comando intanto che io infilavo il giubbotto. Vidi che aveva un binocolo appeso al collo. Aveva anche un paio di jeans sotto un impermeabile giallo e calzava un paio di scarpe da barca oltre ad avere indossato un giubbotto di salvataggio arancione. «Hai indossato i panni di Fredric?» le domandai. «Spero di no. Penso che questi appartengano a Sondra Wells. Mi vanno un po' stretti. Ho spiegato una mappa sul tavolo, se vuoi darle un'occhiata.» «Sai leggerla una mappa, tu?» le domandai.
«Un po'. E tu?» «Non ho problemi. L'azzurro è l'acqua, il marrone è la terra. La guarderò dopo.» «Ho cercato una radio, giù», disse Beth, «ma non l'ho trovata.» «Posso cantare io. Ti piace Oklahoma?» «John... ti prego di non fare l'idiota. Parlo della radio di bordo. Per trasmettere richieste d'aiuto.» «Ah... quella. Be', non c'è neanche qui una radio.» «C'è un dispositivo per ricaricare cellulari, da basso, ma non c'è telefono.» «Certo. La gente in genere usa il telefonino sulle piccole imbarcazioni. Per conto mio preferisco una ricetrasmittente. In ogni caso, stai dicendo in sostanza che siamo completamente isolati.» «Esatto. Non possiamo mandare nemmeno un SOS.» «Be', non potevano neppure quelli del Mayflower. Non preoccuparti.» Mi ignorò e disse: «Ho trovato una pistola di segnalazione». Si batté sulla capace tasca dell'impermeabile. Non pensavo che qualcuno potesse vedere un razzo di segnalazione in una serata del genere, ma dissi: «Bene. Potremmo averne bisogno, in seguito». Ripresi io il timone, e Beth sedette accanto a me sugli scalini del boccaporto. Restammo un poco in silenzio, per riposarci dal dover urlare al di sopra della tempesta. Eravamo entrambi bagnati fradici, con lo stomaco sossopra e spaventati. Tuttavia parte del terrore di navigare in piena tempesta era passato, penso, mentre ci rendevamo conto che non saremmo affondati a ogni nuova ondata. Dopo circa dieci minuti, Beth si alzò e si portò più vicina a me per poter essere udita. «Pensi davvero», domandò, «che lui stia andando a Plum Island?» «Sì.» «Perché?» «Per recuperare il tesoro.» «Con questa tempesta», osservò lei, «non ci saranno in giro né le barche di pattuglia di Stevens né gli elicotteri della Guardia costiera.» «No, infatti. E le strade saranno impraticabili, perciò neanche le pattuglie sui camion potranno circolare.» «È vero...» Poi lei domandò: «Perché Tobin non ha aspettato di avere tutto il tesoro, prima di uccidere i Gordon?»
«Di sicuro non lo so. Forse i Gordon l'hanno sorpreso mentre stava frugando in casa loro. Sono certo che l'intenzione era di recuperarlo tutto, il tesoro, ma qualcosa sarà andato storto.» «Così ora tocca a lui recuperarlo. Saprà dov'è?» «Deve saperlo», risposi, «o non starebbe dirigendosi là. Ho saputo da Emma che Tobin è stato all'isola, una volta, insieme a quelli della Peconic Historical Society. In quell'occasione, avrà fatto in modo che Tom e Judy gli mostrassero l'esatto luogo del tesoro, che, naturalmente, doveva corrispondere a una delle buche archeologiche di Tom. Tobin», aggiunsi, «non era tipo da fidarsi, e scommetto che nemmeno i Gordon lo avevano in grande simpatia o si fidavano di lui. Stavano usandosi a vicenda.» «Finisce sempre così, tra ladri», disse lei. Avrei voluto obiettare che Tom e Judy non erano ladri, e tuttavia lo erano. E una volta varcato il confine, passando da onesti cittadini a cospiratori, in sostanza la loro sorte era stata segnata. Non sono un moralista ma, nel mio mestiere, vedo che accade di continuo. Avevamo la gola in fiamme per lo sforzo di comunicare e per il sale, e tornammo a chiuderci nel silenzio. Stavo avvicinandomi alla strettoia tra la costa meridionale della South Fork e Shelter Island, ma sembrava che all'imbocco il mare si facesse anche più grosso. Un'onda enorme si formò all'improvviso come dal nulla e rimase sospesa per un secondo al di sopra della fiancata sinistra dello scafo. Beth la vide e cacciò un urlo. L'onda si ruppe proprio al di sopra della barca, e l'impressione fu d'essere finiti dentro una cascata. Mi ritrovai steso sul ponte, poi un torrente d'acqua mi trascinò giù per gli scalini, e atterrai sul ponte inferiore, proprio addosso a Beth. Ci rimettemmo entrambi in piedi alla meglio e io mi inerpicai strisciando su per la scaletta. La barca era fuori controllo, e il timone girava all'impazzata. Lo afferrai e lo tenni fermo mentre tornavo a inserirmi sul sedile, appena in tempo per mettere la prua verso un'altra ondata mostruosa. Questa ci portò su per il suo crescente pendio, e vissi l'arcana esperienza di trovarmi a circa tre metri d'altezza mentre entrambe le coste venivano a trovarsi più in basso di me. La cresta dell'onda si ruppe e ci lasciò per un secondo a mezz'aria prima che scivolassimo nel solco successivo. Lottai con il timone e riuscii a puntare di nuovo a est, cercando di entrare nel piccolo stretto, dove la situazione era sicuramente migliore. Cercai Beth, alla mia sinistra, ma sui gradini del boccaporto non c'era.
«Beth!» chiamai a gran voce. Dalla cabina mi gridò: «Sono qui! Vengo!» Arrivò su dai gradini sulle mani e sulle ginocchia, e vidi che la fronte le sanguinava. «Stai bene?» «Sì... sono stata soltanto sbatacchiata un po' intorno. Mi fa male la coda.» Cercava di ridere, ma suonava piuttosto come un singhiozzo. «È pazzesco», disse. «Resta di sotto. Preparati un martini: mescolato, non shakerato.» «Il tuo stupido senso dell'umorismo sembra intonato alla situazione», disse lei. «La cabina comincia a imbarcare acqua, e sento le pompe di sentina in funzione. Puoi trovare una battuta anche per questo?» «Be'... vediamo... non è la pompa di sentina, quella, è il vibratore elettrico di Sondra Wells finito sott'acqua. Che te ne pare?» «Da spararsi. Di', ce la faranno le pompe a tenere testa a tutta l'acqua che stiamo imbarcando?» «Penso di sì. Dipende da quante altre onde si romperanno a bordo.» In effetti, avevo notato che il timone era lento a rispondere, a causa del peso dell'acqua che ora riempiva la sentina e la cabina. Per i dieci minuti che seguirono, nessuno dei due parlò. Tra una raffica e l'altra di pioggia spinta dal vento, per alcuni secondi avevo una visibilità di una cinquantina di metri, ma non vedevo il cabinato di Tobin né nessun'altra imbarcazione, del resto, salvo due piccoli natanti, capovolti e sballottati dalla tempesta come fuscelli. Notavo invece un nuovo fenomeno, o forse dovrei dire un nuovo orrore: qualcosa che i Gordon chiamavano mare di poppa, e che avevo sperimentato con loro quella volta nel Budello. Quello che stava avvenendo era che il mare rincorreva da dietro la barca come per superarla, abbattendosi contro la poppa del motoscafo e frustandolo fino a fargli perdere il controllo in un violento moto da lato a lato, chiamato straorzata. Così adesso, oltre che con il rollio e il beccheggio, dovevo vedermela anche con le straorzate. Le sole due cose che andavano bene erano che stavamo ancora dirigendoci a est e che eravamo ancora a galla, anche se non so perché. Inclinavo la testa all'indietro in modo che la pioggia mi lavasse via un po' il sale dalla faccia e dagli occhi. E poiché mi trovavo a fissare il cielo, dicevo intanto tra me: Sono andato in chiesa domenica mattina, Dio. Mi hai visto? Quella metodista a Cutchogue. Lato sinistro, banco di mezzo. Emma? Diglielo. Ehi, Tom, Judy, coniugi Murphy: sto facendo questo per voi. Potete ringraziarmi di persona di qui a trenta o quarant'anni.
«John?» «Dimmi.» «Che cosa stai guardando là in alto?» «Niente. Mi procuro un po' d'acqua fresca.» «Te la porto su io un po' d'acqua.» «Non ancora. Resta lì ancora un po'. Poi darò il timone a te e mi riposerò un momento.» «Buona idea.» Rimase un poco in silenzio, poi domandò: «Sei... preoccupato?» «No. Ho paura.» «Anch'io.» «Tempo di farsi prendere dal panico?» «Non ancora.» Diedi una scorsa al cruscotto e per la prima volta notai l'indicatore del carburante. Diceva, pieno circa per un ottavo, vale a dire che c'erano ancora una quarantina di litri, il che, considerato il consumo di quegli enormi Mer Cruiser a velocità media e in piena tempesta, voleva dire non avere molto tempo o distanza a disposizione. Mi domandai se ce l'avremmo fatta fino a Plum Island. Restare in secca con un'auto non è la fine del mondo. Restare in secca con un aereo è la fine del mondo. Restare in secca con una barca durante una tempesta è probabilmente la fine del mondo. Rammentai a me stesso di tenerlo d'occhio, quell'indicatore. A Beth domandai: «È già un uragano?» «Non lo so, John, e non me ne frega niente.» «Sono con te.» «Avevo l'impressione», disse lei, «che il mare non ti piacesse.» «Il mare è bellissimo. Solo non mi piace esserci sopra o dentro.» «Ci sono alcuni porticcioli e calette lungo Shelter Island. Vuoi che ci ripariamo?» «Tu lo vuoi?» «Sì, ma no.» «Sono con te», dissi. Finalmente, ci inoltrammo nel tratto di mare tra la North Fork e l'isola. L'imbocco era largo non più di qualche centinaio di metri, e l'isola a sud aveva sufficiente elevazione e massa da bloccare almeno in parte il vento. Erano diminuiti l'ululare e gli spruzzi, per cui era più facile comunicare, e il mare era un pochino più calmo. Beth si tirò su e si sostenne aggrappandosi alla maniglia montata sul cru-
scotto proprio al di sopra del boccaporto. «Che cosa pensi che sia accaduto, quel giorno?» domandò. «Il giorno dei due omicidi?» «Sappiamo», risposi, «che i Gordon lasciarono il porto di Plum Island verso mezzogiorno. Si allontanarono abbastanza dalla costa affinché dalla barca di pattuglia di Plum non potessero identificarli. Aspettarono, guardando con il binocolo, finché non videro la barca passare. Poi, a tutto gas, tornarono verso la spiaggia. Avevano da quaranta a sessanta minuti prima che la barca rifacesse il giro. Questo fatto lo abbiamo stabilito a Plum. Esatto?» «Sì, ma pensavo che stessimo parlando di terroristi, o di persone non autorizzate. Ora stai dicendomi che tu pensavi ai Gordon già allora?» «In un certo senso. Non sapevo perché, o che cosa avessero in mente, ma volevo vedere come avrebbero potuto mettere a segno qualcosa. Un furto. Qualsiasi cosa.» Assentiva. «Continua.» «Okay, ripartono a tutta velocità e riaccostano all'isola. Se un veicolo di pattuglia o un elicottero scorge la loro imbarcazione all'ancora, niente di grave perché ormai tutti sanno chi sono e riconoscono il loro motoscafo. Però, a sentire Stevens, nessuno avvistò la loro barca quel giorno. Esatto?» «Finora sì.» «Bene, è una bella e calma giornata estiva. I Gordon portano il loro battellino di gomma fino alla spiaggia e lo trascinano in mezzo ai cespugli. Sul battellino c'è la cassa di alluminio.» «E le vanghe.» «No, il tesoro l'avevano già riportato alla luce e nascosto dove poterlo poi portar via facilmente. Prima, però, dovevano fare un sacco d'altro lavoro, come ricerche archeologiche e d'archivio, acquistare il terreno della Wiley, e così via.» Beth rifletté un momento, poi domandò: «Pensi che i Gordon tenessero Tobin all'oscuro?» «Non credo, no. I Gordon si sarebbero accontentati di una metà del tesoro, meno una metà di quanto sarebbe andato al governo. Le loro necessità erano ben lontane da quelle di Tobin. Inoltre, loro volevano la pubblicità e il plauso per essere riusciti a trovare il tesoro di Capitan Kidd. Le necessità di Tobin, tuttavia», continuai, «erano diverse, come era diverso il suo programma. Lui non si faceva scrupolo di ucciderei soci, prendendo l'intero tesoro, ricettandone la maggior parte, per poi scoprirne una piccola porzione sulla propria terra e tenere un'asta alla Sotheby's, con tanto di media e di
rappresentante del fisco presenti.» Beth frugò sotto l'impermeabile e tirò fuori le quattro monete d'oro. Me le porse, sul palmo, e io ne presi una e la esaminai, intanto che badavo alla manovra. La moneta era grande suppergiù come un quarto di dollaro americano, ma era pesante: mi ha sempre sorpreso il peso dell'oro. Il metallo era straordinariamente lucido, e sopra potevo scorgere un profilo d'uomo e alcune parole che sembravano spagnolo. «Questa potrebbe essere quello che chiamavano un doblone.» E feci l'atto di restituirgliela. «Tienila come portafortuna», disse lei. «Fortuna? Non mi serve il genere di fortuna che questa ha portato ad altri.» Beth assentì, contemplò per un poco le tre monete che aveva in mano, poi le gettò in mare. Io feci lo stesso. Era un gesto idiota, s'intende, ma ci fece sentire meglio. Potevo capire l'universale superstizione dei marinai sul gettare fuori bordo qualcosa di prezioso - o qualcuno - per placare il mare e farlo smettere di fare quel che diavolo stava facendo, per cui tutti se la facevano addosso dalla paura. Così noi ci sentimmo meglio dopo avere gettato l'oro in mare, e in effetti il vento calò un poco mentre procedevamo lungo la costa di Shelter Island. Perfino le onde erano diminuite di altezza e di frequenza, come se il dono al mare avesse funzionato. Le masse di terra attorno a me apparivano nere, totalmente prive di colore come mucchi di carbone, mentre il mare e il cielo erano di una strana luminescenza grigia. Normalmente a quell'ora, si vedevano le luci lungo la costa, indice di presenza umana, ma evidentemente la corrente era mancata dappertutto e le coste erano scivolate indietro di un paio di secoli. Tutto considerato, il tempaccio era ancora orribile, e sarebbe divenuto di nuovo proibitivo una volta che, superata Shelter, fossimo usciti nella Gardiners Bay. Sapevo d'essere tenuto ad accendere le luci di corsa, ma c'era soltanto un'altra imbarcazione là fuori, e da quella non volevo essere visto. Ero sicuro che a sua volta lui navigasse a luci spente. «Così», riprese Beth, «i Gordon non ebbero il tempo di tornare per un secondo carico prima che la barca di pattuglia di Plum rifacesse il giro.» «Brava», risposi. «C'è un limite a quello che un canotto di gomma può reggere, e loro non volevano lasciare le ossa e il resto incustoditi sul Formula mentre tornavano a riva per un secondo prelievo.»
Beth, che assentiva, concluse: «Così decisero di sbarazzarsi di quello che avevano già preso e di tornare per il grosso del tesoro in un altro momento». «Esatto. Probabilmente quella sera stessa, se l'ormeggio provvisorio del motoscafo era un'indicazione.» Poi continuai: «Per tornare a casa loro dovevano passare davanti alla casa di Tobin a Founders Landing. Non ho alcun dubbio che si fermarono alla rimessa delle barche, forse con l'intenzione di lasciare le ossa, il legno marcito del forziere e le quattro monete una sorta di souvenir del ritrovamento - a casa sua. Quando videro che il Whaler non c'era, pensarono che non ci fosse neanche Tobin, così proseguirono verso casa loro.» «Dove sorpresero Tobin.» «Precisamente. Aveva già saccheggiato la loro casa per simulare un furto, nonché per vedere se i Gordon si fossero già impossessati di parte del tesoro.» «Inoltre, avrà voluto vedere se in casa loro ci fosse qualche indizio incriminante che li collegasse a lui.» «Esattamente. Così i Gordon attraccano al loro pontile, e forse è a questo punto che issano le bandiere per segnalare Carico Pericoloso, Serve Assistenza. La Jolly Roger», aggiunsi, «scommetto che l'avevano issata fin dal mattino, per segnalare a Tobin che, in effetti, quella era proprio la giornata convenuta. Mare calmo, niente pioggia, e tanta sicurezza in se stessi, vibrazioni positive o chissà.» «E mentre i Gordon attraccavano al loro pontile, il Whaler di Tobin era nella vicina palude.» «Già.» Riflettei un momento, poi dissi: «Probabilmente non sapremo mai quello che accadde subito dopo: che cosa venne detto, che cosa Tobin pensò che vi fosse nella ghiacciaia, cosa pensarono i Gordon che Tobin avesse in mente. A un certo punto, tutti e tre compresero che la loro intesa era finita. Tobin capì che non avrebbe mai avuto un'altra occasione di uccidere i suoi soci. Così... alza la pistola, preme sul manico dell'avvisatore acustico e intanto schiaccia il grilletto. Il primo colpo raggiunge Tom in piena fronte a distanza ravvicinata. Judy grida, si gira verso il marito e il secondo colpo la centra alla tempia... Tobin smette di premere l'avvisatore acustico. Apre la cassa di alluminio e vede che dentro non c'è molto oro o gioielli. Immagina che il resto sia a bordo dello Spirocheta, e scende nella barca per cercarlo. Non c'è niente. Si rende conto d'avere ucciso le galline che dovevano fornirgli le uova d'oro. Ma non tutto è perduto. Sa, o è con-
vinto, di poter completare l'opera da sé. Giusto?» Beth assentì, rifletté un momento, poi disse: «Oppure, Tobin ha un altro complice sull'isola». «In effetti», ammisi. E aggiunsi: «Quindi l'avere ucciso i Gordon non è così grave». Continuammo verso est lungo il passaggio, che è lungo circa sei chilometri e largo solo poche centinaia di metri nel punto più stretto. Era decisamente buio, ora: niente luci, niente luna e niente stellato, soltanto un mare color neroinchiostro e un cielo color nerofumo. A stento vedevo le boe di segnalazione e, se non fosse stato per loro, mi sarei sentito completamente perso e disorientato e sarei finito contro gli scogli o sulle secche. Alla nostra sinistra, vedevo ora alcune luci sulla costa, e mi resi conto che stavamo oltrepassando Greenport dove evidentemente c'erano alcuni generatori di corrente di emergenza. «Greenport», dissi a Beth. Assentì. Avevamo fatto entrambi lo stesso pensiero, che era di dirigerci verso quel porto sicuro. Mi figurai noi due in qualche bar, a un tradizionale party di uragano: lume di candela e birra calda. In qualche punto alla nostra destra, benché non potessi vederlo, su Shelter Island c'era Dering Harbor, e sapevo che là c'era uno yacht club dove avrei potuto trovare riparo. Greenport e Dering Harbor erano gli ultimi grandi porti facilmente accessibili prima del mare aperto. Guardai Beth e le rammentai: «Non appena ci saremo lasciati alle spalle Shelter Island, sarà dura». «È già dura», replicò lei. Poi alzò le spalle e disse: «Facciamo un tentativo. Possiamo sempre tornare indietro». Pensai fosse tempo di parlarle del carburante. «Abbiamo il serbatoio quasi vuoto e, una volta in piena Gardiners Bay, arriveremo presto a quel leggendario punto di non ritorno.» Lanciò un'occhiata all'indicatore e disse: «Se è per questo stai tranquillo. Ci capovolgeremo molto prima». «Suona come una delle battute sceme che potrei dire io.» Mi sorrise, il che era inaspettato. Poi scese, e tornò su con un salvavita, vale a dire una bottiglia di birra. «Dio ti benedica», dissi. La barca dava intanto scossoni tali che non mi era possibile accostare alle labbra il collo della bottiglia senza farmi saltar via i denti, così presi a versarmi la birra nella bocca aperta e rivolta verso l'alto, ricevendone una buona metà sulla faccia.
Beth aveva con sé anche una mappa rivestita di plastica, che spiegò sopra il cruscotto, dicendo: «Tra poco, ora, alla nostra sinistra, c'è Cleeves Point, e a destra un po' più in là c'è Hays Beach Point, sulla Shelter. Una volta oltrepassati quei due punti, ci troveremo in questa specie di imbuto tra Montauk Point e Orient Point dove si viene investiti in pieno dal tempo che fa sull'Atlantico.» «Ed è un bene o un male?» «Guarda che non è affatto divertente.» Mandai giù un'altra sorsata di birra, di una marca costosa d'importazione, come c'era da aspettarsi da Fredric Tobin. «In fondo mi piace l'idea di rubargli la barca e di bergli la birra», dissi. «Qual è stato lo spasso maggiore: distruggergli l'appartamento o affondargli la barca?» «La barca non sta affondando.» «Dovresti dare un'occhiata di sotto.» «Non occorre... posso sentirlo nel timone. Siamo ben zavorrati», dissi. «Tutt'a un tratto sei diventato un vero marinaio.» «Imparo presto, io.» «Bravo. Comunque, riposati un attimo, John. Prendo io il timone.» «D'accordo.» Presi la mappa, diedi il timone a Beth e scesi. La piccola cabina era allagata da sette, otto centimetri d'acqua, il che voleva dire che stavamo imbarcandone più di quanta le pompe riuscissero a eliminarne. Come avevo commentato, non mi dispiaceva che un po' d'acqua aggiungesse peso e zavorra per compensare i serbatoi alleggeriti di carburante. Peccato semmai che i motori non bruciassero acqua. Andai nel cessetto e vomitai circa un mezzo litro d'acqua di mare. Mi lavai via il sale dalla faccia e dalle mani, poi tornai nella cabina. Seduto su una delle cuccette, studiai la mappa, sorseggiando birra. Le braccia e le spalle mi dolevano, le gambe e i fianchi mi dolevano e avevo il respiro ansante, benché il mio stomaco stesse meglio. Fissai la mappa per un minuto o due, poi andai al frigobar e trovai un'altra birra, che mi portai sul ponte insieme alla mappa. Beth stava cavandosela bene nella tempesta che, come ho detto, non era così tremenda lì dal lato sottovento di Shelter. Le onde erano alte ma prevedibili, e il vento a livello del mare non era così violento fintanto che l'isola ci riparava. Guardai l'orizzonte e fui in grado di distinguere le due punte di terra che segnavano la fine del passaggio sicuro. «Prendo io il timone, ora», dissi a
Beth. «Tu prendi la mappa.» «Bene.» Ci batté sopra e disse: «Stiamo per affrontare una navigazione rischiosa. Devi tenerti a destra del faro di Long Beach Bar». «D'accordo», replicai. Ci scambiammo i posti. Nello spostarsi da un lato, lei guardò verso poppa e mandò un grido. Pensai che dovesse essere un'ondata mostruosa a provocare una reazione simile e, nel prendere il timone, gettai una rapida occhiata dietro di me. Non potei credere a quello che vidi: un enorme cabinato, un Chris-Craft per essere esatti, l'Oro dell'autunno per essere specifici, era a non più di sei metri dalla nostra coda su una rotta di collisione, e si avvicinava velocemente. 34 Beth sembrava affascinata dallo spettro della grossa imbarcazione che incombeva sopra di noi. In realtà, lasciava sorpreso anche me. Non l'avevo udita, voglio dire, tra il fragore della tempesta e il rombo dei nostri stessi motori. Inoltre, la visibilità era limitata e il Chris-Craft non aveva acceso le luci di corsa. In ogni caso, Fredric Tobin aveva avuto la meglio su di noi e la sola cosa cui riuscivo a pensare era la prua dell'Oro dell'autunno attraverso la poppa del Sondra; un'immagine freudiana, se mai ce n'era una. A ogni modo, sembrava che stessimo per venire affondati. Tobin, rendendosi conto che l'avevamo visto, mise in funzione il megafono e urlò: «Vi rompo il culo!» Be', diceva sul serio. Spinsi in avanti le manette e la distanza tra noi e lui aumentò. Sapeva di non poter superare un Formula 303, neppure con quel mare. Ci salutò di nuovo con un: «A tutti e due! Siete morti! Siete morti!» La voce di Freddie suonava alquanto stridula, ma forse era per effetto della distorsione elettrica. Beth a un certo punto aveva estratto la sua 9mm Glock, ed era accucciata dietro il suo sedile, cercando di stabilizzare la mira sullo schienale. Pensai che stesse per fare fuoco, e invece no. Tornai a guardare il Chris-Craft e notai che Tobin non era sul ponte ma nella cabina, dove sapevo che c'era una seconda serie completa di comandi. Notai, anche, che il parabrezza apribile dal lato del timone era alzato. Cosa ancor più interessante, lo skipper, Capitan Freddie, si sporgeva da
quella apertura, reggendo un fucile con la destra e, immagino, badando al timone con la sinistra. La spalla destra si appoggiava all'intelaiatura della finestra e il fucile era puntato adesso contro di noi. Bene, ecco che eravamo su due imbarcazioni in movimento, nell'oscurità e senza luci, con il vento, il mare grosso e così via, e immaginai che per questo Tobin non avesse ancora aperto il fuoco. Urlai a Beth: «Tiragliene un paio». «Sono tenuta a non sparare», mi gridò di rimando, «finché non lo fa lui.» «Spara, maledizione!» Sparò. Anzi, fece partire tutt'e quindici colpi, e vidi il parabrezza accanto a Tobin andare in frantumi. Notai anche che Tobin non si sporgeva più dalla finestra con il suo fucile. «Brava!» gridai a Beth. Ficcò un altro caricatore da quindici colpi nella pistola e tenne sotto tiro il cabinato. Continuavo a gettare occhiate dietro di me mentre cercavo di controllare il Formula nel mare che via via peggiorava. Tutt'a un tratto, Tobin tornò a sporgersi e vidi il suo fucile lampeggiare. «Giù!» urlai. Il fucile fece fuoco altre tre volte, e udii un colpo penetrare nel cruscotto, poi il mio parabrezza andare in pezzi. Beth stava rispondendo al fuoco, in modo più lento, più fermo di prima. Sapevo che non potevamo competere con la precisione del suo fucile, così diedi tutto gas ai motori e filammo via, irrompendo attraverso la cresta delle onde e allontanandoci dal Chris-Craft. A una ventina di metri, nessuno di noi era visibile all'altro. Udii il suo megafono emettere scariche, poi la vocetta metallica ci arrivò attraverso il mare in tempesta. «All'inferno! Annegherete! Non sopravviverete a questa tempesta! Fottetevi!» Non suonava più come il gentiluomo soave e alla mano che avevo imparato a conoscere e ad avere in antipatia. Questo era un individuo che aveva perso. «Siete morti! Siete morti fottuti tutti e due!» Ero davvero seccato nel sentirmi provocare così da un uomo che aveva appena ucciso la mia amata. «Quel bastardo deve crepare», dissi a Beth. «Non starlo neppure a sentire, John. È finito e lo sa. È disperato.» Lui, disperato? Nemmeno noi eravamo in gran forma. Beth, a ogni modo, mantenne la sua posizione di tiro, rivolta verso poppa, cercando di mantenere ferma la pistola sullo schienale del sedile. «John», disse a me, «torna indietro facendo un giro bello largo, e ci porteremo dietro di lui.»
«Beth, non sono un comandante di marina, io, e questa non è una battaglia navale.» «Non lo voglio dietro di noi!» «Non preoccuparti di questo. Pensa solo a tenerlo d'occhio.» Diedi un'occhiata all'indicatore del gasolio e vidi che l'ago oscillava tra un ottavo e lo zero. «Non abbiamo carburante da sprecare nelle manovre.» «Pensi ancora che sia diretto a Plum Island?» mi domandò. «L'oro è là.» «Ma lui sa che gli stiamo addosso.» «Ed ecco perché insiste nel cercare di ucciderci. O almeno di assistere al momento in cui ci capovolgeremo e annegheremo.» Per un poco non rispose, poi domandò: «Come abbiamo fatto per passargli davanti?» «Andavamo più veloci di lui, suppongo. Legge della fisica.» «Hai un piano?» «Io no. Tu?» «Non è tempo di dirigerci verso un porto sicuro?» «Forse. Ma non possiamo tornare indietro. Non voglio imbattermi di nuovo nel fucile di Freddie.» Beth ritrovò sul ponte la mappa rivestita di plastica e la spiegò sul cruscotto. Indicò, dicendo: «Quello laggiù dev'essere il faro di Long Beach Bar». Guardai più avanti, sulla destra, e vidi una lieve luce ammiccante. «Se ci dirigiamo sulla sinistra del faro», continuò lei, «forse saremo in grado di vedere alcune delle boe di segnalazione che ci condurranno a East Marion o a Orient. Possiamo attraccare da qualche parte e chiamare la Guardia costiera o quelli della sicurezza, a Plum, e metterli al corrente della situazione.» Guardai la mappa, che era illuminata dal lieve chiarore di un'apposita luce sul cruscotto. «Non c'è modo di poter manovrare con questa barca e con questo mare in quei canali così stretti. L'unico posto dove riuscirei a entrare è Greenport o forse Dering, e tra noi e quei porti c'è Freddie.» Stette un momento a riflettere, poi disse: «In altre parole, non siamo più noi a dargli la caccia. È lui che la dà a noi... in mare aperto». «Be'... potresti anche dire che stiamo guidandolo in una trappola.» «Quale trappola?» «Sapevo che me l'avresti chiesto. Fidati di me.» «Perché?»
«Perché no?» Diminuii la velocità e il motoscafo ritrovò un po' l'assetto. «In realtà», dissi a Beth, «non mi dispiace questa situazione. Ora so per certo dov'è Tobin e dove sta andando. Preferirei affrontarlo a terra», aggiunsi. «Lo ritroveremo a Plum Island.» Beth ripiegò la mappa. «D'accordo.» Gettò un'occhiata dietro di sé e commentò: «Ha una barca più adatta della nostra ed è meglio armato». «Appunto.» Mi misi su una rotta che ci avrebbe portati alla destra del faro e nella Gardiners Bay, che a sua volta ci avrebbe messi sulla rotta per Plum Island. «Quanti colpiti restano?» «Ne ho nove in questo caricatore», rispose, «più un altro pieno, da quindici, in tasca.» «Non c'è male.» La guardai e dissi: «Hai sparato bene, prima». «Non direi.» «Gli hai fatto perdere la mira. Potresti anche averlo colpito.» Non rispose. «Ho sentito quell'ultimo colpo quasi sfiorarmi l'orecchio, prima di attraversare il parabrezza. Mamma mia! Proprio come ai vecchi tempi in città.» Poi, nel ripensarci, le domandai: «Tu sei sana e salva?» «Be'...» Subito mi girai verso di lei. «Che cosa c'è?» «Non so bene...» «Beth! Che cosa c'è?» Potei vederla scostare con la sinistra l'impermeabile e poi trasalire. Ora si guardava la mano, ed era coperta di sangue. «Maledizione...» imprecò. Ero letteralmente senza parole. «Strano...» disse. «Non mi ero resa conto d'essere stata colpita... poi ho sentito qualcosa di caldo... Non è grave, però... solo una ferita di striscio.» «Sei... sei sicura...?» «Sì... posso sentire dove mi ha sfiorato...» «Fa' vedere. Vieni qui.» Si portò più vicina al punto dove io stavo al timone, si girò verso poppa e slacciò il giubbotto di salvataggio, poi sollevò l'impermeabile e la camicetta. La cassa toracica, tra il seno e il fianco, era coperta di sangue. Mi protesi e dissi: «Stai ferma». Tastai per trovare la ferita e scoprii con sollievo che era effettivamente di striscio, lungo la costola inferiore. Abbastanza profonda, anche, ma non tanto da scoprire l'osso. Beth emise un gemito mentre le mie dita esploravano la parte lesa. Tolsi la mano e dissi: «Non è grave».
«Come avevo detto io.» «Ci provo gusto a ficcare le dita dentro una ferita da arma da fuoco. Ti fa male?» «Finora, no. Ora sì.» «Vai di sotto e cerca la cassetta del pronto soccorso.» Lei scese in cabina. Perlustrai l'orizzonte. Perfino nell'oscurità, potevo distinguere i due punti di terra ai due lari che segnavano la fine del tratto di mare relativamente tranquillo. Di lì a un minuto, stavamo uscendo nella Gardiners Bay. Due minuti dopo, il mare si presentava come se qualcuno avesse spostato la manopola su centrifuga e risciacquo. Il vento ululava, le onde si abbattevano, la barca era quasi fuori controllo e io stavo valutando le mie opzioni. Beth si inerpicò su dalla cabina e si aggrappò alla maniglia sul cruscotto. «Va meglio?» le gridai, al di sopra del fragore del vento e delle onde. Accennò di sì, poi urlò: «John! Dobbiamo tornare indietro!» Sapevo che aveva ragione. Il Formula non era fatto per un mare così, e nemmeno io. Poi rammentai le parole che m'aveva detto Tom Gordon nella mia veranda, una sera che sembrava di tanto tempo prima. Una barca in porto è una barca sicura. Ma non è per questo che sono fatte le barche. In verità, non ero più terrorizzato dal mare o dalla possibilità di trovare la morte. Agivo animato dall'odio e da adrenalina pura. Guardai verso Beth e i nostri sguardi si incontrarono. Sembrò che lei mi capisse, ma non voleva condividere quel mio episodio psicotico. «John...» disse, «se noi moriamo, lui la fa franca. Dobbiamo riparare in un porto o in un'insenatura, da qualche parte.» «Non posso... Voglio dire, finiremmo per incagliarci e affondare. Dobbiamo mantenerci al largo.» Non mi rispondeva. «Possiamo andare a terra a Plum. Posso farcela a entrare in quella insenatura. È ben indicata e illuminata. Là dispongono di un loro generatore.» Spiegò di nuovo la mappa e la fissò come se cercasse di trovare una risposta al nostro dilemma. In effetti, come io avevo già concluso, i soli porti possibili, Greenport e Dering, erano dietro di noi, e tra noi e quei porti c'era Tobin. «Ora che siamo in mare aperto», suggerì, «dovrebb'essere possibile fare un giro largo, passargli accanto e tornare a Greenport.» Scossi la testa. «Beth, dobbiamo restare nel canale segnato. Se perdiamo
di vista quelle boe, siamo finiti. Ci troviamo su un strada stretta, c'è un tale con un fucile dietro di noi e l'unica possibilità è di continuare ad andare dritto.» Lei mi fissava e io capivo che non mi credeva del tutto, il che era comprensibile perché non stavo dicendo del tutto la verità. La verità era che volevo uccidere Fredric Tobin. Quando mi dicevo che aveva ucciso Tom e Judy, mi sarei ritenuto soddisfatto di vedere il grande Stato di New York condannarlo a morte. Ora, dopo che aveva assassinato Emma, dovevo ucciderlo con le mie mani. Chiamare la Guardia costiera o la sicurezza di Plum Island non avrebbe pareggiato il conto. Anzi, a proposito di conti da pareggiare, mi domandai dove si trovasse Paul Stevens quella sera. Beth irruppe nei miei pensieri, dicendo: «Cinque persone innocenti sono morte, John, e sono cinque di troppo. Non ti permetterò di buttar via la mia vita o la tua. Si torna indietro. Subito». La guardai e dissi: «Hai intenzione di puntarmi contro quella pistola?» «Se mi costringi.» Continuando a fissarla, dissi ancora: «Beth, io posso cavarmela con questo mare. So come cavarmela. Ne verremo fuori. Fidati di me». Ricambiò il mio sguardo a lungo, poi osservò: «Tobin ha assassinato Emma Whitestone proprio sotto il tuo naso ed è stato un attacco alla tua mascolinità, un insulto alla tua immagine di macho e al tuo ego. Ecco che cosa ti spinge, ora. Ho ragione?» Mentire era inutile, così dissi: «In parte». «Qual è l'altra parte?» «Be'... stavo innamorandomi di lei.» Beth assentì. Rimase un poco come in contemplazione, poi disse: «D'accordo... visto che intendi portarci comunque a morire, tanto vale tu sappia l'intera verità». «Quale intera verità?» «Chiunque abbia ucciso Emma Whitestone... e immagino sia stato Tobin... l'aveva prima violentata.» Non risposi. Dovrei dire che non ero neppure del tutto scioccato. C'è un lato primitivo in tutti gli uomini, compresi i damerini come Fredric Tobin, e questo lato oscuro, quando prende il sopravvento, si sfoga in modo prevedibile e terrificante. Potrei dire d'avere visto tutto: stupro, tortura, rapimento, mutilazione, omicidio, e quant'altro c'è nel codice penale. Ma quella era la prima volta che un delinquente agiva per mandarmi un messaggio personale. E non stavo affrontando la cosa con il mio consueto distacco.
L'aveva violentata. E mentre le faceva questo, stava - o lo pensava - facendolo a me. Nessuno di noi due parlò per un poco e, in effetti, il rumore dei motori, il vento e il mare rendevano difficile qualsiasi discorso, il che mi andava bene. Beth, sul sedile a sinistra, si serrava con forza le braccia al petto mentre la barca beccheggiava, rollava, straorzava e faceva tutto il resto tranne girare su se stessa e affondare. Rimanevo in piedi al timone, tenendomi puntato contro il sedile. Il vento soffiava attraverso il vetro fracassato davanti a me, e il vento mi investiva da tutte le direzioni. Il serbatoio era quasi vuoto, io ero gelato, bagnato fradicio, esausto e molto turbato dall'immagine di Tobin che faceva quello a Emma. Beth sembrava stranamente silenziosa, quasi catatonica, lo sguardo fisso davanti a sé a ogni onda che ci si avventava contro. Alla fine, parve tornare ad animarsi, e si girò a guardare dietro di sé. Senza una parola, si alzò dal suo posto e andò verso poppa. Le lanciai un'occhiata e la vidi tornare a inginocchiarsi, là, mentre estraeva la sua 9mm. Guardai il mare dietro di noi, ma vidi solo le pareti di onde che si riformavano dietro lo scafo. Poi, mentre il motoscafo ne cavalcava una grossissima, potei scorgere il ponte del Chris-Craft di nuovo alle nostre spalle, a una distanza di non più di una ventina di metri che andava rapidamente diminuendo. Presi una decisione e tirai a me le manette, lasciando appena la potenza sufficiente per governare la barca. Beth udì i motori rallentare e mi lanciò un'occhiata, poi annuì, comprendendo. Tornò a girarsi verso il Chris-Craft e cercò di stabilizzare la mira. Dovevamo affrontare il mostro. Tobin non aveva notato l'improvvisa differenza in velocità relativa e, prima che se ne rendesse conto, il Chris-Craft era a meno di sei metri dal Formula e lui non aveva ancora messo il fucile in posizione. Prima che potesse farlo, Beth diresse una ferma gragnola di colpi alla nera figura dietro la finestra del cabinato. Io osservavo tutto questo, dividendo il mio tempo tra il tenere la prua del motoscafo verso le onde e guardare dietro di me per assicurarmi che Beth fosse incolume. Tobin parve sparire dalla cabina, e mi domandavo se fosse stato colpito. Ma poi, all'improvviso, il riflettore montato a prua del Chris-Craft si accese, illuminando il Formula e rivelando Beth inginocchiata a poppa. «Maledizione.» Beth stava inserendo il suo ultimo caricatore nella Glock, e Tobin era adesso riapparso al parabrezza, puntando il fucile con tutt'e due le mani e lasciando il timone.
Estrassi la mia 38, mi girai di scatto, e inchiodai la schiena contro il timone per tenerlo mentre tentavo di rendere ferma la mira. Il fucile di Tobin puntava dritto su Beth da meno di cinque metri di distanza. Per un mezzo secondo, sembrò come se tutto fosse congelato: le due imbarcazioni, Beth, Tobin, io e il mare stesso. La canna del fucile di Tobin, puntata in modo ben chiaro su Beth, d'improvviso si spostò verso di me e vidi il lampo uscirne nel momento stesso in cui il Chris-Craft, senza più una mano sul timone, sbandò a sinistra, e il colpo di Tobin si perse nel mare. Il Chris-Craft era adesso perpendicolare alla poppa del Formula, e potevo vedere Tobin oltre il finestrino laterale della cabina. Anche lui mi vide, e per qualche attimo ci fissammo. Sparai altri tre colpi nella cabina e il finestrino laterale andò in frantumi. Quando guardai di nuovo, lui era scomparso. Notavo, ora, che a rimorchio dietro il Chris-Craft c'era il piccolo Whaler visto da me nella rimessa. Non avevo alcun dubbio, ormai, che Tobin intendesse servirsi del motoscafo per approdare su Plum Island. Il Chris-Craft sobbalzava in balia delle onde, e capivo che non c'era nessuno al timone. Proprio mentre stavo domandandomi se avessi colpito lui, la sua prua si raddrizzò, e il riflettore tornò a illuminarci. Beth sparò alla luce e, al terzo colpo, il riflettore esplose in una pioggia di scintille e di vetri. Tobin non era tipo da arrendersi e diede tutto gas ai motori. La sua prua stava già avvicinandosi alla poppa del Formula. Ci avrebbe speronati, sennonché Beth aveva estratto dalla tasca la pistola di segnalazione e sparò proprio nel parabrezza della cabina. Vi fu una bianca, accecante esplosione di fosforo e il Chris-Craft virò in là mentre Tobin, immaginai, mollava immediatamente il timone e si gettava a terra per ripararsi. Anzi, forse era ustionato, accecato, o morto. Beth stava urlando: «Vai! Vai!» Avevo già dato gas e il motoscafo stava prendendo velocità. Potevo vedere fiamme lambire tutt'attorno il ponte del Chris-Craft. Beth e io ci guardammo, domandandoci entrambi se per caso non avessimo avuto fortuna. Ma mentre guardavamo la barca di Tobin alle nostre spalle, le fiamme parvero languire. Da una distanza di più di dieci metri, si udirono di nuovo le scariche del megafono e di nuovo quel bastardo aveva qualcosa da dire. «Corey! Non mi sfuggirai! E neanche tu, puttana! Vi ucciderò tutti e due! Morirete!»
«Credo che dica sul serio», commentai rivolto a Beth. «Come osa chiamarmi puttana.» «Be'... naturalmente vuole solo provocarti. Non ti conosce, perciò come può sapere che lo sei? Se lo sei, intendo dire.» «So quello che vuoi dire.» «Bene.» «Fila via, John. Sta avvicinandosi di nuovo.» «Già.» Diedi più gas, ma la velocità in più rendeva instabile il motoscafo. Anzi, urtai con tanta forza contro un'ondata in arrivo che la prua si sollevò fino a un'inclinazione così ripida da farmi temere che stessimo per capovolgerci. Potei udire Beth mandare un grido, e pensai che fosse finita in acqua ma, quando la barca tornò giù, lei rotolò attraverso il ponte, sdrucciolando in parte per gli scalini del boccaporto, prima di arrestarsi. Giacque là sulla scaletta, e io le gridai: «Tutto bene?» Si sollevò e, aiutandosi con le mani, strisciò fino sul ponte. «Sì, sì, eccomi...» Rallentai un poco e dissi: «Vai di sotto e prenditi un attimo di respiro». Scosse la testa e tornò a sistemarsi tra il suo sedile e il cruscotto. «Tu sta' attento alle onde e alle boe. Io starò attenta a Tobin.» «D'accordo.» Mi venne il dubbio che forse Beth aveva ragione, e che avrei dovuto tentare di compiere un giro largo e arrivargli alle spalle, piuttosto che averlo dietro, con l'incubo di vedercelo di nuovo addosso. Ma se ci avesse visti, ci saremmo ritrovati a fissare dentro la canna di quel fucile. L'unico vantaggio che avevamo era la velocità ma, come si era visto, con quel tempaccio non potevamo sfruttarlo appieno. «Andiamo meglio così», dissi a Beth. «È stata una buona idea.» Non mi rispose. «Ne hai altri di quei razzi di segnalazione?» «Altri cinque.» «Bene.» «Non direi. Ho perso la spararazzi.» «Vuoi che torniamo indietro e cerchiamo di trovarla?» «Sono stanca delle tue battute.» «Anch'io. Ma è tutto quello che ci resta.» Così, continuammo in silenzio, attraverso la tempesta che stava peggiorando, ammesso che fosse possibile. Alla fine, lei disse: «Ho creduto d'essere già morta». «Non possiamo lasciarlo avvicinare tanto», risposi.
Mi guardò e disse: «Ha lasciato perdere me per mirare a te». «È la storia della mia vita. Ogni volta che qualcuno può sparare un solo colpo, sono io quello che viene scelto.» Lei quasi sorrise, poi sparì sottocoperta. Meno di un minuto dopo, era di ritorno e mi porse un'altra birra. «Ogni volta che vai bene», disse, «avrai una birra.» «Non mi restano più molte risorse. Tu quante birre hai?» «Due.» «Dovrebbero bastare.» Contemplai le mie opzioni e mi resi conto d'averle esaurite quasi tutte. C'erano rimasti due soli porti possibili, ormai: l'approdo del traghetto a Orient Point e l'insenatura a Plum Island. Orient Point stava probabilmente per apparire alla nostra sinistra, ormai, e Plum Island era un paio di miglia più in là. Guardai l'indicatore del carburante. L'ago era sul rosso ma non toccava ancora lo zero. Il mare era adesso infuriato al punto che per lunghi intervalli di tempo non riuscivo neppure a vedere le boe. Mentre riflettevo su questo, mi colpì d'improvviso il pensiero che lui doveva avere il radar: ecco come ci aveva trovati. E doveva avere anche uno scandaglio, che gli rendeva la navigazione più facile anche se avesse perso di vista le boe. In breve, il Sondra non poteva tenere testa all'Oro dell'autunno. «Maledizione.» Ogni tanto, ma con crescente frequenza, un'onda si rompeva al di sopra della prua o dei lati, e potevo sentire il motoscafo farsi sempre più pesante. Ero certo, anzi, che stessimo viaggiando più bassi sull'acqua. Il peso in eccedenza ci rallentava e ci faceva consumare più carburante. Mi rendevo conto che Tobin poteva raggiungerci alla velocità alla quale stavamo andando. Mi rendevo conto, anche, che stavamo perdendo la battaglia contro il mare oltre che lo scontro navale. Lanciai un'occhiata a Beth, lei se ne accorse e i nostri sguardi si incontrarono. «In caso dovessimo capovolgerci o affondare», disse, «voglio dirtelo ora che in realtà tu mi piaci.» Sorrisi e replicai: «Questo lo so». La fissai e dissi: «Mi dispiace. Non avrei mai dovuto...» «Guida e stai zitto.» Tornai a dedicarmi al timone. Il Formula 303 si muoveva così lentamente, ormai, che anche il mare di poppa ci investiva. In breve tempo, ci saremmo ritrovati sommersi, o con il vano motori allagato. Tobin ci sarebbe stato addosso e questa volta non avremmo potuto distanziarlo. Afferrai le
manette e diedi tutto gas. Il motoscafo riprese a muoversi, lentamente dapprima, poi acquistando velocità. Ora imbarcavamo meno acqua da poppa, ma la barca urtava pesantemente contro le onde in arrivo. Così forte, anzi, che era come sbattere ogni pochi secondi contro un muro di mattoni. Temevo che l'imbarcazione avrebbe finito per sfasciarsi, ma lo scafo di fibra di vetro teneva. Mantenere la piena velocità serviva, quanto a conservare il controllo e a evitare di venire sommersi, ma non era certo un bene per l'economia del carburante. D'altronde, non avevo scelta. Nel grande regno degli scambi, avevo scambiato la certezza di affondare subito contro quella di rimanere a secco tra breve. Bell'affare. Ma la mia esperienza con gli indicatori del carburante - fin da quando avevo avuto la mia prima auto - era che indicano a volte più, a volte meno di quanto te ne rimane. Non sapevo come quell'indicatore mentisse, ma l'avrei scoperto ben presto. «Come stiamo a gasolio?» chiese Beth. «Bene.» Cercò di dare un tono più gaio alla voce e domandò: «Vuoi fermarti a un distributore e chiedere indicazioni?» «No. Un vero uomo non chiede indicazioni, e abbiamo gasolio a sufficienza per arrivare a Plum Island.» Sorrise. «Vai sotto, per un po'», le dissi. «E se ci capovolgiamo?» «Pesiamo troppo, ormai, per capovolgerci. Tutt'al più affonderemo, ma te ne accorgerai in tempo. Riposati un momento.» «Va bene.» Scese. Tirai fuori la mappa dal vano del cruscotto e divisi la mia attenzione fra quella e il mare. A sinistra, in distanza, potevo scorgere una luce intermittente, e sapevo che doveva essere il faro di Orient Point. Diedi un'occhiata alla mappa. Se adesso avessi virato verso nord, probabilmente sarei stato in grado di trovare l'approdo del traghetto di Orient Point. Ma c'erano tanti di quegli scogli e secche tra il traghetto e il faro che ci sarebbe voluto un miracolo per superarli. L'altra possibilità era di continuare per un altro paio di miglia e tentare l'insenatura di Plum. Ma questo voleva dire entrare nel canale di Plum, il Budello, che era già abbastanza traditore con maree e venti normali. In una tempesta - o uragano - sarebbe stato... be', una sfida, a dir poco. Beth venne su dal boccaporto, oscillando da parte a parte e in avanti e
indietro. Afferrai la sua mano tesa e la tirai su. Mi fece dono di una tavoletta di cioccolato già liberata dell'involucro. «Grazie», dissi. «Di sotto l'acqua arriva fino alla caviglia. Le pompe di sentina stanno ancora funzionando.» «Bene. La barca sembra un po' più leggera.» «Fantastico. Riposa tu un attimo, ora. Guido io.» «Sto bene. Come va il tuo graffietto?» «Bene. E il tuo cervellino?» «L'ho lasciato a riva.» Mentre mangiavo la tavoletta di cioccolato, spiegai le nostre opzioni. Capì perfettamente, tanto che disse: «Insomma, possiamo fracassarci contro gli scogli a Orient Point oppure annegare nel Budello?» «Esatto.» Battei sull'indicatore del carburante e dichiarai: «Abbiamo ormai oltrepassato da un pezzo il punto dal quale poter tornare a Greenport». «E là abbiamo perso la nostra occasione, secondo me.» «Immagino di sì... Allora? Orient o Plum?» Guardò per un poco la mappa e disse: «Ci sono troppi rischi tra qui e Orient.» Guardò a sinistra e aggiunse: «Non vedo nemmeno boe di canali che conducano a Orient. Non mi meraviglierebbe se il mare le avesse strappate e portate via.» Assentii. «Già...» «E quanto al Budello, dimenticatelo. Solo un transatlantico potrebbe attraversarlo con questo tempo. Se avessimo più carburante», aggiunse, «potremmo rimanere al largo fino a che l'occhio non fosse sopra di noi.» Sollevò lo sguardo dalla carta e dichiarò: «Opzioni non ne abbiamo». Poteva essere vero. Tom e Judy mi avevano detto una volta che l'istinto di navigare verso terra in una tempesta era spesso la decisione sbagliata. La costa era traditrice, era là che le onde, rompendosi, potevano polverizzare o far capovolgere l'imbarcazione oppure scaraventarti contro gli scogli. In effetti era più sicuro aspettare in mare aperto che la tempesta si calmasse, finché ti rimaneva carburante o vela. Ma noi non avevamo neppure quella possibilità perché alle nostre spalle c'era un tale con un fucile e un radar. Non avevamo altra scelta se non di andare avanti e vedere che cosa Dio e la natura avessero in serbo per noi. «Manterremo la rotta e la velocità», dissi. «D'accordo», approvò lei. «Praticamente non possiamo fare altro... Cosa...?»
La guardai e vidi che stava fissando verso poppa. Gettai un'occhiata dietro di me, ma non vedevo niente. «L'ho visto... Credo d'averlo visto.» Beth balzò sul sedile e riuscì per un secondo a conservare l'equilibrio prima di venire scaraventata giù sul ponte. Si rialzò e urlò: «È proprio dietro di noi!» «Maledetto!» Ora sapevo con certezza che quel figlio di puttana aveva il radar. Avevo fatto bene a non tentare di aggirarlo. «Non è che la sfortuna ci perseguiti», dissi a Beth, «è che lui ha il radar. Sapeva dove ci trovavamo fin dal primo momento.» «Non c'è dove scappare, non c'è dove nascondersi.» Tornai a dare tutto gas e riprendemmo velocità. Nessuno dei due parlava mentre il Formula fendeva con violenza le onde. Calcolai che stessimo facendo sui venti nodi, che era circa un terzo di quello che quel motoscafo poteva fare con il mare calmo e senza la sentina e la cabina piene d'acqua di mare. Supponevo che il Chris-Craft potesse fare almeno venti nodi con quel tempo, ed ecco perché Tobin era in grado di raggiungerci. «John, sta accorciando la distanza», disse a un tratto Beth. Guardai dietro di me e scorsi la sagoma vaga della barca di Tobin che veniva sollevata da una grossa onda a una decina di metri da noi. Pochi minuti ancora, e sarebbe stato in grado di tenerci sotto l'accurata mira del suo fucile, mentre la mia 38 e la 9mm di Beth erano in realtà inutili, salvo l'occasionale tiro fortunato. «Quanti colpi ti restano?» mi domandò Beth. «Vediamo... il cilindro ne contiene cinque... quattro li ho sparati... perciò, quanti colpi rimangono al poliziotto nel...» «Questo non è uno scherzo, per la miseria!» «Cerco solo di alleggerire la tensione.» Udii alcune parole poco parlamentari uscire dalla contegnosa bocca di Miss Penrose, che subito dopo mi domandò: «Non puoi cavare un po' più di velocità da questo fottuto coso?» «Forse. Gettando un po' di roba pesante in mare e spaccando quel parabrezza.» Si precipitò di sotto e tornò su con un estintore, che usò per fracassare il vetro del suo parabrezza. Poi, gettò l'estintore fuori bordo. «A questa velocità», dissi, «non imbarchiamo tanta acqua, e di minuto in minuto le pompe alleggeriranno il peso, per cui riprenderemo ancora un po' di velocità. Inoltre», aggiunsi, «stiamo bruciando tutto quel carburante che pesa.» «Non mi serve una lezione di fisica.»
Era furente, il che era molto meglio della silenziosa rassegnazione di cui l'avevo vista preda in precedenza. Fa bene andare in bestia quando l'uomo e la natura cospirano contro di te. Beth fece diversi altri viaggi giù in cabina e ogni volta tornava con qualcosa da gettare in mare, compresa, purtroppo, la birra trovata in frigorifero. Riuscì a trasportare un televisore portatile su per gli scalini e a lanciarlo oltre la fiancata. Gettò in mare anche alcuni vestiti e scarpe, e mi venne da pensare che, se avessimo perso Freddie, lui avrebbe forse visto quei relitti galleggianti e ne avrebbe concluso che fossimo affondati. Stavamo prendendo un po' più di velocità, ma il Chris-Craft accorciava sempre più la distanza e non c'era modo di sfuggire al fatto che, di lì a poco, lui avrebbe ricominciato a puntarci addosso il fucile. «Quanti colpi ti sono rimasti?» domandai a Beth. «Nove.» «Avevi soltanto tre caricatori?» «Soltanto? Tu te ne vai in giro con una stupida cerbottana a cinque colpi e senza un solo proiettile extra addosso, e hai il coraggio...» Si accovacciò improvvisamente dietro il sedile ed estrasse la pistola. «Ho visto il lampo di uno sparo», disse. Guardai dietro di me e, in effetti, c'era Fottuto Freddie nella sua postazione di tiro. Il lampo si ripeté. Spararsi a vicenda da barche sballottate dalla tempesta è facile; difficile è colpire qualcosa, per cui non ero eccessivamente preoccupato, ancora, ma ci sarebbe stato un momento in cui entrambe le imbarcazioni si sarebbero trovate sulla cresta di un'onda e Tobin avrebbe avuto il vantaggio di un sedile più alto e di una canna più lunga. Beth stava saggiamente trattenendo il fuoco. Vidi il faro di Orient Point direttamente alla mia sinistra e molto più vicino di prima. Mi resi conto d'essere stato spinto a nord persino mentre mantenevo la rotta verso est. Mi resi conto, anche, che c'era una sola cosa da fare, e la feci. Misi tutto il timone a sinistra e la barca si diresse verso il Budello. «Che cosa stai facendo?» mi gridò Beth. «Ci dirigiamo verso il Budello.» «John, là annegheremo!» «O così, o Tobin ci fa fuori con il suo fucile, oppure ci sperona e ci affonda e se la ride mentre ci guarda annegare. Se dobbiamo affondare nel Budello, forse lui affonderà con noi.» Non mi rispose.
La tempesta ora veniva da sud e, non appena misi la prua a nord, la barca acquistò velocità. Tempo un minuto, e potevo vedere davanti a me, alla mia destra, il profilo di Plum Island. Di fronte a sinistra c'era invece il faro di Orient Point. Mi diressi verso un punto tra quella luce e la costa dell'isola, puntando dritto nel Budello. Da principio, Tobin ci seguì ma, come il mare peggiorò e il vento che soffiava tra le due masse di terra divenne supersonico, lo perdemmo di vista e immaginai che avesse rinunciato alla caccia. Ero quasi sicuro di sapere che cosa avesse intenzione di fare e dove fosse diretto. Mi auguravo di essere vivo di lì a un quarto d'ora per vedere se avevo ragione. Eravamo nel Budello, ora, proprio nel bel mezzo, tra Orient Point a ovest e Plum Island a est, la Gardiners Bay a sud e lo Stretto di Long Island a nord. Stevens, ricordavo, aveva detto che, qualche centinaio d'anni prima, un uragano aveva scavato in quel punto il fondo del mare, e potevo crederlo. Intendo dire, era come una lavatrice in cui frullasse ogni genere di cose tirate su dal fondo del mare: sabbia, alghe, detriti e rottami di tutti i tipi. Da parte mia non c'era alcuna pretesa di governare l'imbarcazione. Il Formula 303 era adesso uno dei tanti rottami, trasportato dalla corrente. L'imbarcazione ora scarrocciava, in parole povere vuol dire che era in balia di se stessa, e in svariati momenti ci trovavamo a puntare a sud, a est e a ovest, ma la corrente continuava a spingerci a nord verso lo Stretto, che era poi dove io volevo andare. L'idea di cercare di approdare nell'insenatura di Plum Island era quasi risibile ora che vedevo di che orrendo posto si trattava. Beth riuscì a portarsi verso di me e s'incuneò sul mio sedile alle mie spalle. Avvolse braccia e gambe intorno a me, che mi tenevo aggrappato disperatamente al timone. Parlare era quasi impossibile, ma lei affondò la faccia contro il collo e potei sentirla dire: «Ho paura». Paura? Io ero terrorizzato al punto da perdere la testa. Era senza dubbio la peggiore esperienza della mia vita, se non vogliamo contare il percorso lungo la navata e verso l'altare. Il motoscafo veniva sballottato in qua e in là con tale violenza che ero totalmente disorientato. C'erano momenti in cui mi rendevo conto che ci trovavamo letteralmente in aria, e sapevo che la barca - che in acqua aveva dato prova di una buona stabilità - poteva davvero capovolgersi, in quei voli. Penso che soltanto l'acqua nella sentina ci mantenesse a scafo in giù durante i nostri lanci nella stratosfera. Avevo avuto la presenza di spirito di mettere i motori in folle non appe-
na avevo visto che le eliche passavano più tempo in aria che in acqua. La gestione del carburante è una strategia a lungo termine, e io mi trovavo in una situazione a breve termine... ma, ehi, non si può mai dire. Beth mi si aggrappava sempre di più e, se non fosse stato per la nostra imminente morte per annegamento, avrei forse trovato la cosa piacevole. Così, mi auguravo che il contatto fisico potesse darle un po' di conforto. So che a me lo dava. Mi parlò di nuovo nell'orecchio, per dire: «Se finiamo in acqua, tienimi stretta». Assentii. Pensai di nuovo a come Tobin avesse già ucciso cinque persone e stesse per causare la fine di altre due. Non riuscivo a credere che quel piccolo stronzo avesse provocato tante morti e tanta disperazione. La sola spiegazione che avevo era che persone di bassa statura dagli occhi piccoli e luccicanti e dai voraci appetiti fossero spietate e pericolose. Forse avevano davvero un conto in sospeso con il mondo. Capite? Be', forse c'era dell'altro. A ogni modo, venimmo spinti attraverso il Budello come una pallina di carta soffiata attraverso una cerbottana. Sembrerà assurdo, ma penso che fu la ferocia stessa della tempesta a farci superare il Budello sani e salvi, e che probabilmente c'era una marea montante. Intendo dire che l'intera spinta del mare, del vento e del flusso verso nord annullava, in un certo senso, il consueto e perfido turbinio del vento e delle onde nel Budello. Per stiracchiare al massimo un'analogia, era in un certo senso la differenza tra venire investiti dallo sciacquone di un water e il finire in uno scarico. Eravamo nello Stretto di Long Island, ora, e il mare e il vento erano migliorati un poco. Ridiedi gas ai motori e diressi la barca verso est. Beth era ancora dietro di me, mi si stringeva ancora, ma non più così forte. Davanti a noi e alla nostra destra c'era la sagoma buia del vecchio faro di Plum Island. Sapevo che se avessimo potuto portarci dietro quel promontorio, saremmo stati un po' più protetti dal vento e dal mare, proprio come quando avevamo Shelter Island tra noi e la tempesta. Plum Island non era elevata come Shelter, ed era un po' più esposta all'Atlantico aperto, ma una certa protezione doveva offrirla. «Siamo vivi?» disse Beth. «Certo. E tu sei stata molto coraggiosa. Molto calma.» «Ero paralizzata dalla paura.» «Fa lo stesso.» Tolsi una mano dal timone e le strinsi la destra, ancora afferrata al mio stomaco.
Arrivammo, così, sul lato sottovento di Plum Island e oltrepassammo il faro alla nostra destra. Potevo guardare ora dentro la lanterna del faro, e quello che vedevo era un punto verde, che in un certo senso ci seguiva. Vi richiamai l'attenzione di Beth, e lei spiegò: «È un dispositivo per la visione notturna. Alcuni degli uomini di Stevens ci stanno osservando». «Già», dissi. «In pratica è tutta la sicurezza di cui dispongono, in una sera come questa.» Il vento restava in parte bloccato da Plum, e il mare era appena un po' più calmo. Potevamo udire le onde frangersi sulla spiaggia a un centinaio di metri di distanza. Attraverso la pioggia sempre insistente, potevo vedere un chiarore di luci dietro gli alberi, e mi resi conto che era l'illuminazione di sicurezza del laboratorio principale. Questo voleva dire che i generatori stavano ancora funzionando, il che a sua volta voleva dire che filtri dell'aria e altri congegni stavano ancora facendo il loro dovere. Sarebbe stato davvero ingiusto se, sopravvissuti alla tempesta, fossimo approdati su Plum Island per morire di carbonchio. Eh, no! Beth mi lasciò andare e si estrasse dal suo cantuccio tra il mio sedile e il mio sedere. Mi rimase accanto, aggrappata alla maniglia sul cruscotto. «Cosa pensi che sia accaduto a Tobin?» mi domandò. «Penso che abbia continuato attorno all'estremità sud dell'isola. Secondo me, pensa che siamo morti.» «È probabile», replicò Beth. «Lo pensavo anch'io.» «Già. A meno che non sia in contatto radio con qualcuno su Plum Island il quale, dal tizio nel faro, sa che ce l'abbiamo fatta.» Ci rifletté un momento e domandò: «Credi che abbia un complice su Plum?» «Non lo so... ma stiamo per scoprirlo.» «D'accordo... e Tobin dove sta andando, ora?» «C'è un solo posto dove può andare ed è proprio qui, su questo lato dell'isola.» Assentì. «In altre parole, sta arrivando dalla direzione opposta, e ce lo vedremo venire incontro.» «Be', questo cercherò di evitarlo. Ma deve per forza portarsi dal lato sottovento se vuole ancorarsi e poi andare a terra con quel suo motoscafino.» Stette un poco a pensarci, poi domandò: «Noi ce la faremo ad approdare sull'isola?» «Spero di sì.»
«Cercherò di arrivare fino sulla spiaggia.» Tirò fuori di nuovo la carta e disse: «Ci sono scogli e secche lungo quasi tutta la spiaggia». «Bene, cerca un punto dove non ci siano né scogli né secche.» «Proverò.» Continuammo verso est per altri dieci minuti. Guardai l'indicatore e vidi che il serbatoio era ormai vuoto. Sapevo di dover dirigere subito verso la spiaggia perché se fossi rimasto a secco di carburante, saremmo stati alla mercé della tempesta e saremmo stati spinti di nuovo in mare aperto o mandati a sfracellarci contro gli scogli. Ma volevo riuscire almeno a scorgere la barca di Tobin, prima di approdare. Beth disse: «John, siamo praticamente senza gasolio. Farai meglio a puntare verso riva». «Tra un minuto.» «Non ce l'abbiamo un minuto. Ci saranno cento metri da qui alla spiaggia. Vira subito.» «Vedi se puoi scorgere il Chris-Craft davanti a noi.» Aveva ancora il binocolo appeso al collo, e lo alzò per scrutare al di sopra della prua. «No», disse. «Non vedo barche. Vira verso la spiaggia.» «Un altro minuto.» «No. Ora. Abbiamo fatto tutto a modo tuo. Ora facciamo a modo mio.» «D'accordo...» Ma prima che cominciassi a virare verso la spiaggia, il vento improvvisamente cadde e potei vedere un'incredibile muraglia di nubi torreggianti levarsi al di sopra di noi. Cosa ancor più incredibile, in alto vedevo il cielo notturno accerchiato da quelle turbinanti masse di nuvole, come se ci trovassimo al fondo di un pozzo. Poi vidi le stelle, che credevo non avrei rivisto mai più. «L'occhio sta passando sopra di noi», disse Beth. Il vento era molto più calmo, benché non lo fossero le onde. Filtrava la luce dello stellato in quella specie di buca rotonda, e potevamo vedere la spiaggia e il mare. «Vai a terra, John», disse Beth. «Non ti capiterà un'altra occasione del genere.» E aveva ragione. Potevo vedere i frangenti in modo da poterli calcolare, e potevo anche scorgere gli scogli che sporgevano dall'acqua nonché le onde più basse che indicavano secche e barre di sabbia. «Va'!» «Un momento. Voglio proprio vedere dove è approdato quel bastardo.
Non voglio perderlo di vista sull'isola.» «John, è finito il gasolio!» «Ce n'è di gasolio, guarda se vedi il Chris-Craft.» Beth parve rassegnarsi alla mia idiozia e alzò il binocolo per perlustrare l'orizzonte. Dopo quella che sembrò una mezz'ora, ma era in realtà un minuto o due, indicò e gridò: «Là!» Mi passò il binocolo. Guardai nell'oscurità piovosa e, in effetti, stagliata contro l'orizzonte buio, c'era una forma che poteva anche essere il ponte superiore del ChrisCraft... oppure un ammasso di rocce. A mano a mano che ci avvicinavamo un poco, vidi che era proprio il Chris-Craft, ed era relativamente immobile, segno che Tobin aveva almeno due ancore, a prora e a poppa. Ridiedi il binocolo a Beth. «Bene, si va a terra. Tieniti forte. Tieni d'occhio gli scogli e il resto.» Beth si inginocchiò sul sedile e si protese in avanti, aggrappandosi all'intelaiatura senza più vetro del parabrezza. Ogni volta che si muoveva, potevo capire dall'espressione del suo viso che soffriva un poco a causa della ferita. Virai di 90 gradi a dritta, puntando la prua contro la spiaggia ancora distante. Le onde presero a rompersi al di sopra della poppa, e diedi più gas ai motori. Mi serviva ancora un minuto di carburante. La spiaggia si faceva sempre più vicina e più nitida. Le onde che si frangevano sulla sabbia erano mostruose e il loro fragore a mano a mano aumentava. «C'è un banco di sabbia davanti a noi!» mi gridò Beth. Sapevo di non poter virare in tempo, così diedi tutto gas e sfrecciai oltre il banco. La spiaggia era a meno di cinquanta metri ora, e pensavo che realmente ce l'avremmo fatta. Poi il motoscafo urtò qualcosa di molto più duro di un banco di sabbia, si udì il rumore inconfondibile della fibra di vetro che si spaccava e, mezzo secondo dopo, la barca volò fuori dall'acqua e ricadde poi con un tonfo sordo. Guardai Beth e vidi che si teneva ancora aggrappata. L'imbarcazione era molto appesantita ora, e potevo figurarmi l'acqua irrompere dentro lo scafo squarciato. I motori sembravano ansimare perfino a tutto gas. Le onde in arrivo ci sospingevano verso riva ma ora il flutto di fondo tra un'onda e l'altra tendeva a riportarci indietro. Se anche stavamo facendo qualche progresso in avanti, era molto lento. Nel frattempo, lo scafo andava allagandosi sempre più, e in effetti potevo vedere l'acqua sciabordare sullo scalino in fondo al boccaporto.
«Siamo quasi fermi!» mi gridò Beth. «Andiamo a terra a nuoto!» «No! Resta sulla barca. Aspettiamo l'onda adatta.» E aspettammo, osservando la costa avvicinarsi e poi recedere per almeno cinque o sei cicli d'onda. Guardavo dietro di me e osservavo i cavalloni formarsi. Alla fine, ne vidi una davvero enorme gonfiarsi dietro di noi, e mi affrettai a mettere in folle il Formula ormai quasi sommerso. Lo scafo beccheggiò un poco all'indietro e colse l'onda proprio al di sotto della cresta che andava montando. «A terra e reggiti!» gridai a Beth. Beth si gettò sul ponte e si aggrappò alla base del suo sedile. L'onda ci spinse come una tavola da surf su per la sua cresta momentaneamente sospesa, con forza tale che il pesantissimo Formula, riempito da un'altrettanto pesante massa d'acqua, si comportò come un cesto di vimini travolto da un fiume in piena. Avevo previsto un approdo tipo mezzo anfibio, ma sarebbe stato invece come atterrare dopo un lancio. Mentre venivamo proiettati verso la spiaggia, ebbi la presenza di spirito di spegnere i motori, cosicché se fossimo sopravvissuti a quell'atterraggio, il Formula non sarebbe esploso, sempre ammesso che vi fosse ancora un po' di gasolio. Mi preoccupavo anche che le due eliche non rischiassero di decapitarci. «Tieniti forte!» urlai. «Sta' certo!» replicò lei. Lo scafo slittò giù di prua sulla spiaggia inondata dall'onda. Il Formula rotolò su un fianco, e noi due balzammo fuori dalla barca, proprio mentre un'altra ondata si abbatteva fragorosamente. Trovai uno spuntone di roccia e mi ci afferrai con un braccio mentre la mia mano libera trovava il polso di Beth. L'ondata si franse e prese a recedere, e noi ci rialzammo e corremmo come il vento verso la parte più alta del terreno, Beth tenendosi il fianco dov'era stata colpita. Arrivammo a una rupe erosa su per la quale cominciammo a inerpicarci, mentre sabbia bagnata, argilla e ossido di ferro cascavano giù in grossi pezzi. «Benvenuto a Plum Island», disse Beth. «Grazie.» Come Dio volle, arrivammo sulla cima della rupe e ci lasciammo cadere a terra. Per un buon minuto rimanemmo a giacere tra l'erba. Poi io mi tirai su e guardai dall'alto la spiaggia. Il motoscafo si era capovolto, e potevo vedere lo squarcio che si era aperto nel suo candido scafo. Tornò a girarsi, mentre il risucchio dell'onda lo trascinava in mare, poi si capovolse di nuovo e un'altra ondata lo riportò verso riva. Dissi a Beth: «Non vorrei trovarmi in quella barca». «No», replicò lei, «e non voglio nemmeno trovarmi su quest'isola.»
«Dalla padella alla brace», commentai. «Ricominci? Ti dispiacerebbe restartene zitto almeno per cinque minuti?» «No, tutt'altro.» In effetti, gradivo un po' di relativo silenzio dopo ore di vento, pioggia e rombo di motori. Potevo letteralmente sentire il martellare del mio cuore, il pulsare del sangue nelle orecchie e il sibilo del mio povero polmone. Potevo anche udire una vocina nel mio cervello che ripeteva: «Guardati dai piccoletti armati di grandi fucili». 35 Seduti sull'erba, cercavamo in un certo senso di rientrare in noi stessi e di ritrovare il fiato. Ero bagnato, stanco, gelato e con le ossa rotte, e in più il polmone forato mi doleva. Avevo perso le scarpe, e notai che anche Beth era a piedi nudi. Dal lato positivo, eravamo vivi, e io avevo ancora la mia 38 nella fondina all'ascella. Estrassi il revolver e mi assicurai che il colpo che rimaneva fosse pronto per fare fuoco. Beth stava tastandosi le tasche e annunciò: «Bene... la mia ce l'ho». Avevamo ancora addosso gli impermeabili e i giubbotti di salvataggio, ma notai che Beth non aveva più il binocolo appeso al collo. Osservavamo il mare, ora, e lo strano turbinio delle nuvole torreggianti attorno all'occhio del ciclone. Pioveva ancora, ma non era una pioggia forte, insistente. Quando sei fradicio fino all'osso, un po' di pioggia ti lascia indifferente. Mi preoccupava piuttosto l'ipotermia, se fossimo rimasti fermi troppo a lungo. Guardai Beth e domandai: «Come va quel taglio sulla fronte?» «Bene, ormai.» Poi aggiunse: «L'ho bagnato ben bene con l'acqua salata». «Ottimo. E la ferita da proiettile?» «Quella sta benissimo, John.» «E tutti gli altri tuoi tagli e ammaccature?» «A meraviglia, dal primo all'ultimo.» Mi sembrò di avvertire una punta di sarcasmo nella sua voce. Mi alzai e mi sentii molto vacillante. «E tu, stai bene?» mi domandò Beth. «Sì, sì.» Mi chinai, e lei prese la mano che le tendevo e si tirò su. «Bene», dissi, mescolando luoghi comuni, «siamo fuori dalla padella, ma non
fuori pericolo.» In tono serio, mi disse: «Penso che Tom e Judy sarebbero fieri della tua bravura come marinaio». Non risposi. C'era un'altra frase non detta sospesa fra noi, e suonava pressappoco: «Emma sarebbe compiaciuta e lusingata di vedere quello che hai fatto per lei». «Penso», riprese Beth, «che dovremmo tornare nella direzione del Budello e trovare il laboratorio principale.» Non risposi. «Le luci le vedremo di certo», continuò. «Chiameremo in aiuto la sicurezza di Plum Island. Io mi metterò in contatto con il mio ufficio per telefono o per radio.» Di nuovo, non diedi risposta. Lei mi guardò. «John?» «Non sono venuto fin qui per ricorrere a Paul Stevens per aiuto.» «Ma John, non siamo in gran forma, e tra tutti e due abbiamo cinque proiettili e siamo senza scarpe. È tempo di far intervenire la polizia.» «Tu vai pure fino all'edificio principale, se vuoi. Io vado in cerca di Tobin.» Mi voltai e presi a dirigermi a est lungo la rupe, verso il punto dove avevo visto ancorata la barca di Tobin, un mezzo chilometro più in là. Non cercò di fermarmi ma, un minuto dopo, me la ritrovai accanto. Continuammo a camminare in silenzio. Avevamo tenuto addosso i giubbotti di salvataggio, in parte per trovare calore, in parte, immagino, perché non si può mai dire quando ci si ritrova a sguazzare nell'acqua. Gli alberi crescevano fino sulla cima della rupe erosa, e il sottobosco era folto. Senza scarpe, i nostri passi erano esitanti e si procedeva molto lentamente. Il vento era calmo nell'occhio della tempesta, e l'aria letteralmente immobile. Potevo addirittura sentire un cinguettio di uccelli. Sapevo che la pressione era estremamente bassa, lì nell'occhio, e sebbene in genere io non sia sensibile al barometro, mi sentivo irritabile, in un certo senso, forse anche un po' irascibile. In effetti, la verità era che mi sentivo in preda a un furore omicida. Beth mi si rivolse in una sorta di tono smorzato e domandò: «Hai un piano?» «Certo.» «E qual è, John?» «Il piano è di mantenere la calma.»
«Ottimo piano.» «Infatti.» Un po' di chiarore lunare filtrava attraverso le nuvole color fumo, e potevamo vedere fino a tre metri davanti a noi. Nonostante questo, camminare lungo l'orlo della rupe era poco sicuro a causa dell'erosione, così tagliammo verso l'interno e trovammo la strada sterrata che il minibus di Paul Stevens aveva seguito fino all'estremità orientale dell'isola. Lo stretto percorso era intasato di alberi sradicati e di rami caduti, così non dovevamo preoccuparci che una pattuglia motorizzata ci sorprendesse. Ci riposammo sul tronco di un albero abbattuto. Potevo vedere il nostro fiato condensarsi nell'aria umida. Mi tolsi il giubbotto di salvataggio e l'impermeabile, poi la fondina all'ascella e la polo. Riuscii a lacerare la polo a metà, e avvolsi entrambi i pezzi intorno ai piedi di Beth. «Ora mi tolgo le mutande», dissi. «Non sbirciare.» «Non sbircio. Posso guardare apertamente?» Mi sfilai a fatica i jeans stretti e bagnati, poi gli short, che lacerai in due. «Boxer?» commentò Beth. «Ti facevo un tipo da slip.» Per qualche motivo, Madame Penrose sembrava di umore scherzoso. Euforia da superstite, immagino. Mi legai i pezzi di tessuto intorno ai piedi. «Ti offrirei le mie mutandine», disse Beth, «ma erano talmente bagnate quando mi sono cambiata sulla barca, che non mi sono presa neppure la briga di rimettermele. Vuoi la mia camicetta?» «No, grazie. Va bene così.» Mi rimisi i jeans, poi la fondina all'ascella sulla pelle nuda, poi l'impermeabile, infine il giubbotto di salvataggio. Ero talmente gelato, ora, che cominciai a tremare. Controllammo la ferita di Beth, che le faceva ancora un po' male ma, nel complesso, sembrava a posto. Ci rimettemmo in cammino lungo la strada sterrata. Il cielo tornava a farsi buio, e sapevo che l'occhio stava viaggiando verso nord e che ben presto ci saremmo ritrovati nella coda della tempesta, che avrebbe avuto la stessa violenza della parte anteriore. «Qui», bisbigliai a Beth, «è più o meno dove si è ancorato Tobin. D'ora in avanti, prudenza e silenzio.» Assentì e proseguimmo entrambi verso nord, lasciando il sentiero e ritornando nel bosco per riportarci verso l'orlo della rupe. E, in effetti, a una cinquantina di metri dalla riva c'era il Chris-Craft, e potevo vederlo, tra le onde, fare forza contro le due ancore che Tobin aveva gettato a prua e a poppa. Nella poca luce, vedevamo il Boston Whaler sulla spiaggia sotto di noi, per cui sapevamo che Tobin era venuto a terra. Anzi, c'era una cima
che dal motoscafo correva su per la rupe ed era legata a un albero vicinissimo al punto dove noi ci tenevamo acquattati. Rimanemmo immobili, ascoltando e scrutando nel buio. Ero quasi certo che Tobin si fosse avviato verso l'interno dell'isola, e bisbigliai a Beth: «Si è allontanato in cerca del tesoro». Assentì e disse: «Non possiamo rintracciarlo. Quindi aspetteremo qui il suo ritorno. Poi», concluse, «lo arresterò.» «Miss Cuore Tenero.» «Che cosa diavolo significa?» «Significa, madamigella Penrose, che non si arresta una persona che ha tentato per tre volte di ucciderti.» «Non vorrai ammazzarlo a sangue freddo.» «Vuoi scommettere?» «John, per aiutarti ho rischiato la vita su quella barca. Ora me ne devi una tu.» Poi aggiunse: «Sono ancora assegnata a questo caso, sono della polizia, e faremo le cose a modo mio». Non vedevo alcuna ragione di discutere quello che nella mia mente avevo già deciso. Beth suggerì che slegassimo la cima e lasciassimo che le onde si portassero il motoscafo al largo, tagliando così a Tobin ogni possibilità di ritirata. Le feci notare che se Tobin si fosse avvicinato dalla spiaggia sottostante, avrebbe notato la scomparsa del Whaler e si sarebbe allarmato. «Tu aspetta qui e coprimi», le dissi. Afferrai la cima e mi calai per i quattro o cinque metri fino alla barca, sulla sassosa spiaggia sottostante. A poppa, trovai la cassetta di plastica che avevo visto quando era nella rimessa di Tobin. Conteneva un assortimento di cose, ma notai che l'avvisatore acustico non c'era più. Fredric Tobin aveva probabilmente immaginato che io avevo ricostruito le sue azioni e stava facendo sparire piccoli pezzi del puzzle. Non aveva importanza: davanti a una giuria, non ci sarebbe arrivato di certo. A ogni modo, trovai una pinza e sfilai la spina di sicurezza che assicurava l'elica all'albero motore. Nella cassetta trovai alcune spine di scorta e me le misi in tasca. Trovai anche un piccolo coltello per squamare e tagliare il pesce, e me ne impossessai. Cercai una torcia, ma non ce n'erano a bordo della piccola imbarcazione. Sempre servendomi della cima mi tirai su per la rupe, conficcando i piedi avvolti nei pezzi di mutande dentro il suolo sabbioso. Dalla cima, Beth si sporse e mi aiutò per l'ultimo tratto.
«Ho tolto la spina di sicurezza dall'elica», dissi. «Bene», approvò. «L'hai conservata, nel caso ci serva in seguito?» «Sì. L'ho inghiottita. Ti sembro proprio così stupido?» «Non sembri stupido. Fai cose stupide.» «Fa parte della mia strategia.» Diedi a lei le spine e tenni per me il coltello. Beth, con mia sorpresa, disse: «Senti, mi dispiace di avere fatto alcune osservazioni cattive. Sono un po' stanca e tesa». «Non preoccuparti.» «Ho freddo. Possiamo... abbracciarci?» «Hai voglia di coccole?» «Tenerci stretti, voglio dire. Dicono di farlo, per conservare il calore della persona.» «Giusto. L'ho letto anch'io da qualche parte. Forza...» Così, con un certo imbarazzo, ci tenemmo stretti, o abbracciati, con me seduto alla base del grosso tronco d'albero caduto, e Beth in grembo a me, con le braccia strette attorno a me e la faccia premuta contro il mio petto. Stavamo un po' più caldi, in quel modo, anche se in realtà non vi era niente di sensuale, date le circostanze. Era semplice contatto umano, oltre che lavoro di squadra e sopravvivenza. Ne avevamo passate tante insieme, eravamo vicini alla conclusione, ormai, e sentivamo entrambi, credo, che qualcosa era cambiato tra noi in seguito alla morte di Emma. A ogni modo, il tutto faceva molto Robinson Crusoe, o Isola del Tesoro, e ho l'impressione che in un certo senso me la stessi godendo, proprio come se la godono i ragazzi di tutte le età a misurarsi contro l'uomo e la natura. Avevo la netta sensazione, però, che Beth Penrose non condividesse il mio infantile entusiasmo. Le donne tendono a essere un po' più pratiche e meno portate a trovare divertente sguazzare nel fango. Inoltre, penso, dare la caccia e uccidere non è cosa che faccia appello all'animo femminile. E in realtà proprio di questo si trattava: dare la caccia e uccidere. Così, restammo per un poco là stretti stretti, ascoltando il vento e la pioggia, e io guardavo il Chris-Craft rollare e beccheggiare tra le onde, tendendo gli ormeggi, e tenevo d'occhio la spiaggia sottostante, l'orecchio teso a cogliere rumore di passi nel bosco. Alla fine, dopo una decina di minuti, ci liberammo dall'abbraccio e io mi alzai e feci qualche movimento per sciogliere le giunture irrigidite, notando un'altra, inaspettata rigidità nel vecchio albero a gomito. A Beth dissi soltanto: «Mi sento un po' più caldo».
Lei ora sedeva alla base del tronco abbattuto, le braccia avvolte attorno alle ginocchia rialzate. Non mi rispose. «Sto cercando», continuai, «di mettermi nei panni di Tobin.» «Lui ha anche le scarpe, almeno.» «Già. Diciamo che sta dirigendosi nell'interno, verso il punto dov'è nascosto il tesoro. Giusto?» «Perché nell'interno? Perché non lungo la spiaggia?» «In origine il tesoro sarà anche stato trovato lungo la spiaggia, magari su una di queste rupi - chissà che non siano queste le Cornici di Capitan Kidd - ma è molto probabile che i Gordon l'avessero tolto dalla buca dove l'avevano scoperto, perché la buca avrebbe potuto facilmente colmarsi e avrebbero dovuto scavare di nuovo. Giusto?» «È probabile.» «Penso che i Gordon abbiano nascosto il tesoro in un punto all'interno o attorno a Fort Terry, o magari in quel labirinto di fortificazioni d'artiglieria che abbiamo visto quando siamo stati qui.» «È possibile.» «Perciò, presumendo che Tobin sappia dov'è, ora deve toglierlo di là e trasportarlo attraverso i boschi fin qui. Potrebbero volerci due o tre viaggi, a seconda di quanto pesa il bottino. Giusto?» «Può darsi.» «Così, se fossi in lui, andrei a prenderlo, lo trasporterei fin qui, poi lo porterei giù al motoscafo. Non cercherei con questo tempaccio di riportarlo al Chris-Craft, né cercherei di trasferire il tesoro con quelle onde. Giusto?» «Giusto.» «Di conseguenza, lui aspetterà in barca che la tempesta si calmi, ma al tempo stesso saprà di doversi muovere prima dell'alba, prima che l'elicottero e le barche di pattuglia escano in perlustrazione. Giusto?» «Giusto anche questo. E allora?» «Allora, dobbiamo cercare di seguire le sue tracce e saltargli addosso mentre sta recuperando il malloppo. Giusto?» «Giusto... no, niente affatto. Non ti seguo, a questo punto del ragionamento.» «È complicata, però è logica.» «Questa poi è una balla, John. La logica dice di rimanere qui. Tobin tornerà qui in qualsiasi caso, e noi saremo qui ad aspettarlo.» «Tu puoi aspettarlo. Io intendo rintracciarlo, quel figlio di puttana.» «No, non lo farai. È armato meglio di te, e io non intendo darti la mia pi-
stola.» Ci fissammo, e io dissi: «Intendo trovarlo. Voglio che tu rimanga qui, e se per caso arriva mentre io non ci sono...» «Probabilmente vorrà dire che ti ha ammazzato. Resta qui, John. C'è salvezza nel numero.» Poi aggiunse: «Sii razionale». Ignorai la battuta e m'inginocchiai accanto a lei. Le presi la mano e dissi: «Vai giù al motoscafo. In questo modo, potrai vederlo sia che si avvicini lungo la spiaggia, sia che si cali lungo la fune. Mettiti al riparo laggiù tra gli scogli. Quando l'avrai così vicino da poterlo vedere bene nel buio, mandagli un primo colpo allo stomaco, poi avvicinati velocemente e cacciagli una pallottola in testa. D'accordo?» Per qualche secondo non rispose, poi assentì. Sorrise e disse: «Poi intimo: "Alt, polizia!"» «Appunto. Vedo che cominci a imparare.» Estrasse la sua Glock 9mm e me la porse. «A me basta un colpo solo se torna qui. Prendi questa. Ha ancora quattro colpi. Dammi la tua.» Sorrisi a mia volta. «Il sistema metrico mi confonde. Mi terrò la mia sei colpi calibro 38, tutta americana.» «Cinque colpi.» «Giusto. Dovrò tenerlo presente.» «Posso dissuaderti in qualche modo?» «No.» Bene, un bacetto sarebbe stato forse appropriato, ma nessuno dei due era dell'umore, suppongo. Le strinsi la mano, lei ricambiò la stretta, poi mi rialzai, mi voltai e mi incamminai attraverso gli alberi, allontanandomi dalla rupe ventosa e da Beth. Tempo cinque minuti, ed ero di nuovo sulla strada sterrata. Bene, ora sono di nuovo Fredric Tobin. Forse posseggo una bussola ma, che io l'abbia o no, sono abbastanza intelligente per sapere di dover mettere un segno vistoso su uno di questi alberi, che mi indichi dove mi trovo lungo questa strada in rapporto al mio punto d'approdo sulla spiaggia. Mi guardai attorno e, come m'aspettavo, trovai un pezzo di corda bianca legato fra due alberi distanti circa tre metri. Mi dissi che segnava la direzione indicata dalla bussola di Tobin, e pur non avendo io una bussola, e neppure l'Empire State Building a guidarmi, sembrava proprio che Tobin si fosse diretto a sud. Mi feci risolutamente strada attraverso gli alberi, cercando di mantenere quella direzione. In verità, se non avessi avuto fortuna e non avessi trovato niente a indi-
carmi da che parte era andato Tobin, sarei forse tornato indietro, da Beth. Ma avevo la sensazione - oserei quasi dire la certezza - che qualcosa stesse tirandomi e spingendomi verso Fredric Tobin e il tesoro di Capitan Kidd. Avevo nitida la visione di me, Tobin e il tesoro riuniti, e nell'ombra intorno a noi c'erano i morti: Tom e Judy, i Murphy, Emma e lo stesso Kidd. Il terreno saliva e ben presto mi ritrovai sull'orlo di una radura. Sul lato opposto della radura, potevo scorgere due piccoli edifici profilati contro l'orizzonte buio. Mi resi conto d'essere in prossimità dell'abbandonato Fort Terry. Cercai intorno a me un altro contrassegno e trovai un pezzo di fune che pendeva da un albero. Quello era il punto d'uscita dai boschi di Tobin, e sarebbe stato il suo punto d'entrata al ritorno. A quanto sembrava, il sistema di navigazione inerziale nella mia mente funzionava abbastanza bene. Se fossi stato un uccello migratore diretto a sud, ecco che mi sarei trovato proprio in direzione della Florida. Non mi faceva meraviglia che Tobin fosse diretto a Fort Terry. In pratica tutte le strade e i sentieri di Plum convergevano là, e c'erano centinaia di ottimi nascondigli tra gli edifici abbandonati e i vicini bunker dell'artiglieria. Sapevo che, se avessi aspettato lì dov'ero, sarei stato in grado di tendergli un'imboscata al suo ritorno. Ma ero mosso più dall'eccitazione del cacciatore che insegue che non dalla pazienza di chi tende un agguato. Lasciai passare alcuni minuti, cercando di stabilire se qualcuno armato di fucile stesse aspettandomi dall'altro lato della radura. Da un centinaio di film di guerra visti, sapevo che non bisognava attraversare una radura: bisognava aggirarla. Se l'avessi fatto, però, o avrei perso Tobin, o mi sarei perso. Dovevo mantenere la rotta seguita da lui. La pioggia era adesso più pesante e il vento aumentava di intensità. Mi sentivo avvilito. Gettai indietro la testa, aprii la bocca e lasciai che un po' d'acqua fresca mi arrivasse sulla faccia e giù per la gola. Andava già un po' meglio. Avanzai nella radura e continuai in direzione sud, procedendo allo scoperto. Le pezze intorno ai miei piedi erano a brandelli e i piedi mi dolevano e sanguinavano. Continuavo a ripetere a me stesso che ero di scorza più dura io del damerino Tobin, e di non avere bisogno d'altro che di una pallottola e un coltello. Mi avvicinavo ora al termine dello spiazzo e vedevo che solo una sottile fila d'alberi separava la radura dalla vasta distesa di Fort Terry. Non avevo modo di sapere dove lui si fosse diretto, e non vi sarebbero stati altri segni
perché ora i suoi punti di riferimento erano gli edifici. Non potevo fare altro che perseverare. Procedetti a zigzag da un edificio all'altro, cercando qualche traccia di Tobin. Dopo una decina di minuti, mi ritrovai vicino alla sede del vecchio quartier generale. Mi resi conto che lo avevo perso, che da lì poteva essersi diretto ovunque: a sud verso la spiaggia delle foche, o a ovest verso l'edificio principale, oppure in fuori, a est, sul cosiddetto osso della braciola di maiale. Oppure, poteva essere in attesa, da qualche parte, che gli arrivassi più vicino. O ancora, potevo averlo in qualche modo mancato, come avevo fatto in mare, e ora lo avevo alle spalle. Mi auguravo di no. Decisi di controllare il resto degli edifici del forte, e cominciai a muovermi, tenendomi chino, in direzione della cappella. Tutt'a un tratto, senti risuonare un colpo d'arma da fuoco, e mi gettai a terra. Rimasi immobile, mentre risuonava un altro sparo. Erano colpi stranamente ovattati, non seguiti da un secco crac, o da qualcosa che mi fischiasse sopra la testa. Mi resi conto che quei colpi non erano diretti a me. Di gran corsa mi portai verso il lato della cappella e guardai nella direzione da cui m'era parso che i colpi provenissero. Potevo vedere la caserma dei vigili del fuoco, una cinquantina di metri più in là, e mi passò per la mente che i colpi fossero stati sparati all'interno, e che per questo erano così attutiti. Cominciai a muovermi verso la caserma, ma mi gettai di nuovo a terra perché una delle grandi porte basculanti stava cominciando ad aprirsi. Sembrava che andasse su a scatti, come se qualcuno stesse aprendola per mezzo di una carrucola, e mi figurai che anche lì mancasse la corrente. Anzi, alle finestre del piano superiore, vedevo un chiarore guizzante: candela o cherosene. A ogni modo, prima che avessi tempo per decidere sul da farsi, una grossa ambulanza uscì a luci spente dal garage e svoltò sulla strada, dirigendosi a est verso la stretta striscia di terra dove c'erano le batterie d'artiglieria in rovina. L'ambulanza aveva uno chassis molto alto e correva senza difficoltà sopra i detriti che ingombravano la strada. Ben presto, scomparve nel buio. Con tutta la velocità consentita dai miei piedi nudi, corsi verso la caserma, estrassi il revolver e piombai nell'interno attraverso la porta aperta del garage. Nell'interno potevo distinguere tre autopompe. Ero stato per tanto tempo sotto la pioggia che, per una decina di secondi, mi fece un effetto strano trovarmi all'asciutto, ma mi ci abituai prestissimo.
Via via che i miei occhi si assuefacevano all'oscurità, scorsi verso il fondo del garage il palo per la discesa rapida, e attraverso il foro nel soffitto filtrava la luce vacillante della stanza delle cuccette, al piano superiore. A sinistra del palo c'era una larga scala. Corsi alla scala e presi a salire i gradini cigolanti, la pistola tenuta davanti a me. Ma sapevo di non correre alcun pericolo, e sapevo anche quello che avrei trovato. In cima alla scala c'era la stanza delle cuccette, illuminata da lampade al cherosene. Alla luce di quelle lampade, vidi due uomini sdraiati sulle loro cuccette, e non avevo bisogno di avvicinarmi per vedere che erano morti. Questo portava a sette il numero noto delle persone assassinate da Tobin. Decisamente non c'era bisogno di uno stupido processo per sistemare quei conti. Stivali e calze erano posati di fianco a ciascun letto. Sedetti su una panca e infilai un paio di calze pesanti e un paio di stivali di gomma galvanizzata che mi andavano abbastanza bene. C'erano armadietti contro una parete, e lungo un'altra c'erano impermeabili e felpe appese a ganci. Ma avevo già addosso tutti gli indumenti di un morto che potevo desiderare. Non che io sia superstizioso. C'era una cucinetta tipo cambusa in fondo alla stanza e sul banco c'era una scatola di biscotti alla cioccolata. Ne presi uno e lo mangiai. Scesi la scala e uscii sulla strada che correva da ovest a est di fronte alla caserma. Mi diressi a est, lungo la strada pavimentata e in salita percorsa dall'ambulanza. Rami rotti grossi e piccoli erano stati schiacciati dal passaggio del pesante automezzo. La sede stradale era invasa da un torrente d'acqua proveniente dal terreno più alto su entrambi i lati. Le cunette di scolo erano colme e traboccanti mentre cercavo di aprirmi il passo in salita contro la corrente e attraverso la fanghiglia e i rami spezzati. Era decisamente peggio degli allagamenti che si formavano a volte di fronte al mio condominio. La natura è spaventosa. A volte, fa addirittura schifo. In ogni caso, non prestavo molta attenzione a quello che avevo di fronte perché, nel rialzare lo sguardo, vidi l'ambulanza ferma là davanti a me, a non più di quattro o cinque metri. Mi arrestai di colpo, estrassi la pistola, e misi un ginocchio a terra. Attraverso la pioggia, potevo vedere che un grosso albero era caduto e bloccava la strada davanti all'ambulanza. Il veicolo occupava gran parte della strada stretta e dovetti girargli attorno sulla sinistra, immerso fino alle ginocchia nel torrente d'acqua riversato dai canali di scolo. Mi spostai presso la portiera dal lato del conducente e
sbirciai all'interno, ma nella cabina non c'era nessuno. Volevo mettere fuori servizio il veicolo, ma le portiere erano chiuse a chiave e il gancio del cofano si apriva dall'interno. Maledizione. Strisciai sotto l'alto chassis ed estrassi il coltello. Non mi intendo molto di meccanica dell'auto, come Jack lo Squartatore non si intendeva molto di anatomia. Tagliai alcuni tubi che si rivelarono quelli dell'acqua e dei freni idraulici, poi tagliai alcuni fili elettrici per precauzione. Ragionevolmente certo d'avere commesso un motoricidio, strisciai fuori da là sotto e continuai su per quella strada. Ero nel bel mezzo delle fortificazioni d'artiglieria, ora, rovine di mattoni, pietra e cemento massiccio, coperte di tralci e sterpaglia, molto simili nell'aspetto alle rovine maya che avevo visto una volta nella foresta pluviale fuori di Cancún. Anzi, c'ero stato in luna di miele. Quella non era una luna di miele. Neanche l'altra, a pensarci bene. Mi tenevo sulla strada principale, pur vedendo a destra e a sinistra viottoli e rampe e scalini di cemento. Ovviamente Tobin poteva avere preso uno qualsiasi di quei passaggi per addentrarsi nelle fortificazioni. Mi rendevo conto d'averlo probabilmente perduto. Smisi di camminare e mi accovacciai dietro un muro di cemento a ridosso della strada. Stavo per tornare indietro, quando mi sembrò di udire qualcosa in distanza. Rimasi in ascolto, cercando di calmare il mio respiro affannoso, e lo riudii. Era un rumore acuto, lamentoso, che riconobbi alla fine come una sirena. Era molto lontano e a stento avvertibile al di sopra del vento e della pioggia. Arrivava da ovest: un suono lungo, stridulo, seguito da uno squillo breve, poi di nuovo da un suono lungo. Era evidentemente una sirena d'allarme, elettrica, e proveniva probabilmente dall'edificio principale. Da ragazzino, avevo imparato a riconoscere una sirena d'allarme aereo, e quella non lo era. Non era neppure una sirena d'autopompa, o d'ambulanza, o di auto della polizia, oppure un segnale di perdita di radiazioni, che avevo udito una volta in un film di addestramento per la polizia. Così, un po' andando per eliminazione, un po' perché non sono del tutto stupido, compresi - pur non avendo mai udito prima quel segnale - che stavo ascoltando una sirena d'allarme per una perdita di biorischio. «Gesù...» Dalla terraferma corrente elettrica non ne arrivava e il generatore d'emergenza doveva essersi fermato; le pompe non mantenevano più la differenza di pressione e i filtri elettronici dell'aria erano ormai inservibili. «Giuseppe...» Da qualche parte, una potente sirena alimentata a batteria stava diraman-
do la tremenda notizia, e tutti quelli che stavano prestando servizio sull'isola durante l'uragano ora dovevano chiudersi dentro le tute anti-biorischio e aspettare. Io non avevo nessuna tuta anti-biorischio. Accidenti, non avevo neppure la biancheria. «...e Maria. Amen.» Non mi lasciai prendere dal panico perché sapevo esattamente cosa fare. Era proprio come a scuola, quando scendevamo nello scantinato mentre suonavano le sirene dell'allarme anti-aereo e si supponeva che i missili russi stessero filando verso l'aeroporto La Guardia. Bene, forse la situazione non era poi tanto grave. Il vento soffiava con violenza da sud a nord... o no? In realtà, la tempesta viaggiava verso nord, ma il vento soffiava in direzione antioraria, per cui c'era da credere che qualsiasi cosa raccogliesse dal laboratorio principale all'estremità ovest dell'isola venisse trasportato lì sull'orlo orientale dell'isola. «Maledizione.» Accovacciato là sotto la pioggia, ripensavo a tutto l'insieme - a tutti quegli omicidi, a tutto quel dare la caccia attraverso la tempesta, sfuggendo per miracolo alla morte e così via - e dopo tanta mortale follia e sciocca vanità, avidità e inganno, ecco che la Nera Falciatrice si fa avanti e cancella la lavagna. Poof. Come se niente fosse. Sapevo in cuor mio che se i generatori si erano guastati, l'intero laboratorio stava lasciando filtrare tutto quanto c'era all'interno nell'aria esterna. «Lo sapevo! Io lo sapevo che sarebbe accaduto!» Ma perché proprio quel giorno? Perché era accaduto la seconda volta che, in tutta la mia vita, avevo messo piede su quella stupida isola? In ogni caso, quello che avevo deciso di fare era tornare con tutta la velocità possibile alla spiaggia, prendere Beth, salire sul Boston Whaler, montare sul Chris-Craft, e allontanarci in tutta fretta da Plum Island, sperando per il meglio. Se non altro una possibilità l'avremmo avuta, e la Nera Falciatrice si sarebbe occupata di Tobin al posto mio. Poi un altro pensiero mi passò per la mente, ma non era un pensiero piacevole: e se Beth, riconoscendo la sirena d'allarme per quello che era, avesse raggiunto con il Boston Whaler il Chris-Craft e tagliato la corda? Ci rimuginai per un istante, poi decisi che una donna capace di saltare a bordo di una piccola imbarcazione per affrontare la tempesta con me non mi avrebbe abbandonato proprio ora. Però... c'era qualcosa, in una pestilenza, di ben più terrificante di un mare in tempesta. Mentre lungo la strada in pendio mi affrettavo verso l'ambulanza, arrivai ad alcune scoperte e conclusioni: uno, mi ero spinto troppo in là per scappar via proprio ora; due, non volevo scoprire che cosa avesse deciso Beth;
tre, dovevo trovare e uccidere Fredric Tobin; quattro, ero un uomo morto comunque. Vergognandomi improvvisamente di me stesso per essermi perso d'animo, ritornai verso le fortificazioni per andare incontro al mio fato. La sirena continuava a suonare. Mentre ero ormai vicino al punto più alto della strada, i miei occhi colsero un lampo di luce: un raggio, in realtà, che sfiorò per un secondo l'orizzonte alla mia destra e scomparve. Esplorai l'area attorno a quel lato della strada e trovai uno stretto sentiero di mattoni che si addentrava tra la vegetazione. Potevo vedere che qualcuno era passato da lì di recente. Mi feci strada attraverso l'intrico di sterpaglia e di rami caduti, e alla fine sbucai in una specie di cortile infossato, circondato da mura di cemento in cui c'erano porte di ferro che conducevano a locali sotterranei di deposito delle munizioni. In cima alle alture tutt'intorno, potevo vedere le postazioni d'artiglieria. Mi resi conto d'essere stato in cima a quelle piazzole durante la mia recente visita e d'avere guardato giù in quel cortile. Sempre accucciato tra la vegetazione, scrutai attraverso l'aperta distesa di cemento tutto crepe, ma non potevo scorgere alcun movimento né rividi il raggio di luce. Estratto il revolver, avanzai con cautela nel cortile e presi a spostarmi in senso antiorario attorno al perimetro, mantenendo il muro di cemento coperto di licheni alle mie spalle. Arrivai alla prima delle grandi doppieporte metalliche. Era chiusa e vedevo, dai cardini, che si apriva verso l'esterno. Vedevo anche, dalle macerie e dai detriti accumulatisi davanti, che non era stata aperta di recente. Continuai tutt'attorno al perimetro del cortile, pur sapendo d'essere un bersaglio facile se vi fosse stato qualcuno sui parapetti che affacciavano su quello spazio aperto. Arrivai alla seconda porta e trovai la stessa situazione: vecchi battenti di ferro arrugginito che evidentemente non venivano aperti da decenni. Lungo il terzo tratto di muro del cortile, quello a sud, una delle doppie porte era leggermente socchiusa. I detriti erano stati spinti da un lato quando il battente era stato aperto. Scrutai attraverso lo spiraglio, ma non potei vedere né udire niente. Tirai il battente verso di me ancora di qualche centimetro e i cardini mandarono un forte cigolio. Dannazione. Immobile, tesi l'orecchio, ma tutto quello che udivo era il vento, la pioggia e il grido lontano della sirena, per annunciare a tutti che l'inimmaginabile era accaduto.
Feci un profondo respiro e scivolai attraverso l'apertura. Per un buon minuto mi tenni perfettamente immobile, cercando di percepire che specie di posto era quello. Di nuovo, come nella caserma dei pompieri, trovarsi al riparo dalla pioggia era un piacere. Ma ero quasi sicuro che i piaceri finivano lì. Il luogo era umido e sapeva di umidità, proprio come accade dove il sole non penetra mai. Mossi piano piano due lunghi passi verso sinistra e venni a contatto con un muro. Lo tastai e stabilii che era di cemento e che era curvo. Mossi allora quattro passi nella direzione opposta e di nuovo arrivai a un muro curvo di cemento. Ne dedussi di trovarmi in un tunnel come quello che avevamo visto durante la nostra prima gita all'isola: il tunnel che conduceva agli alieni o al laboratorio dei nazisti. Ma non avevo tempo per i nazisti né interesse per gli alieni. Dovevo decidere se era lì che si era diretto Tobin. E, in tal caso, per prendere il tesoro? O perché mi aveva visto e stava conducendomi in quella trappola? In realtà poco m'importava che cosa avesse in mente, purché fosse lì. Non vedevo raggi di luce davanti a me, solo l'oscurità totale del genere che esiste soltanto nei sotterranei. Nessun occhio umano poteva assuefarsi a quell'oscurità, per cui se Tobin era lì, avrebbe dovuto accendere la sua torcia per potermi puntare addosso il fucile. E, se l'avesse fatto, il mio colpo avrebbe viaggiato direttamente lungo il suo raggio di luce. Non vi sarebbe stato alcun secondo sparo in una situazione del genere. L'impermeabile e gli stivali di gomma facevano rumori simili a cigolii, così me li tolsi, insieme al giubbotto di salvataggio. Vestito ora di un'elegante fondina di cuoio all'ascella, di jeans, senza mutande, e di un coltello infilato nella cintura, uomo già morto in calzerotti di lana, cominciai ad avanzare in quell'oscurità assoluta, a passi cauti per evitare macerie o altro. Pensai a topi, pipistrelli, insetti e serpi, ma allontanai immediatamente quei pensieri; i topi e il resto non erano un problema, per me. Il problema era il carbonchio nell'aria alle mie spalle, e uno psicopatico armato di fucile nel buio di fronte a me. Ave Maria... Sono sempre stato molto religioso, in effetti, molto devoto. Solo che non ne parlo né ci penso molto finché le cose vanno bene. Voglio dire, mentre giacevo nel rigagnolo, dissanguandomi a morte, non era che invocassi Dio solo perché ero nei guai. Era piuttosto che il momento e il luogo mi sembravano adatti per pregare, visto che non c'era nient'altro a distrarmi... Madre di Dio...
Il mio piede destro calpestò qualcosa di viscido, e per poco non persi l'equilibrio. Mi abbassai e tastai intorno al piede. Toccai un freddo oggetto di metallo. Provai a muoverlo, ma non veniva via. Vi passai sopra la mano e finalmente indovinai che si trattava di una rotaia incassata nel cemento. Stevens, ricordai, aveva detto che un tempo c'era una ferrovia a scartamento ridotto, sull'isola, che trasportava munizioni dalle navi alle batterie di artiglieria. Ovviamente, quello era un tunnel ferroviario che conduceva a un deposito di munizioni. Continuai, mantenendo il piede in contatto con la rotaia. Dopo alcuni minuti, percepii che la rotaia piegava verso destra, poi avvertii qualcosa di ruvido. Mi inginocchiai e tastai. C'era uno scambio, lì, e la rotaia si divideva, proseguendo verso destra e verso sinistra. Proprio quando pensavo che Tobin e io ci stessimo avvicinando al termine della linea insieme, ecco che il maledetto percorso si biforcava. Restavo inginocchiato, a scrutare in entrambe le direzioni, ma senza riuscire a vedere o a udire niente. Mi passò per la mente che se Tobin avesse pensato d'essere solo, avrebbe acceso la torcia, o almeno si sarebbe mosso in modo pesante e rumoroso. Dato che non potevo né vederlo né sentirlo, arrivai a una delle mie famose deduzioni, e dedussi che sapeva di non essere solo. O forse, era solo troppo avanti, rispetto a me. O magari, non era nemmeno lì... prega per noi peccatori... Udii qualcosa alla mia destra, come se un pezzo di cemento o una pietra fosse caduta a terra. Ascoltai più attentamente e udii come un rumore d'acqua. Mi venne in mente che quella galleria avesse avuto dei crolli in qualche punto, con quella pioggia... adesso, e nell'ora... Mi rialzai e procedetti verso destra, guidato dalla rotaia. Il rumore dell'acqua che cadeva divenne più forte, e l'aria era adesso migliore. Di lì a qualche minuto, ebbi la sensazione che il tunnel fosse terminato e di trovarmi in uno spazio più ampio: il deposito delle munizioni. Anzi, i miei occhi vennero attirati verso l'alto e potei vedere, sopra di me, una piccola zona di cielo buio. Cadeva acqua attraverso quel foro e finiva a terra. Potevo anche distinguere una specie di scaffalatura che saliva fino a quel foro, e mi resi conto che quello era l'ascensore delle munizioni, dove gli obici venivano issati fino alle piazzole d'artiglieria là in alto. Lì, dunque, terminava la linea, e ora sapevo che Tobin era lì, e che stava aspettandomi. ...della nostra morte. Amen. 36
Sembrava che Fredric Tobin non avesse fretta di annunciare la sua presenza, e io aspettavo, ascoltando cadere la pioggia. Dopo un po', quasi pensai d'essere solo, ma potevo sentirla, un'altra presenza nella stanza. Una presenza malvagia. Molto lentamente, portai la sinistra alla vita ed estrassi il coltello. Lui sapeva, naturalmente, che ero io; e io sapevo che era lui e che mi aveva attirato lì perché di quel luogo intendeva fare la mia tomba. Sapeva anche che, se avesse fatto un movimento, o un rumore, o acceso la torcia, avrei fatto fuoco. Capiva che il suo primo colpo nel buio doveva essere il suo tiro migliore perché sarebbe stato anche l'ultimo. Così restavamo entrambi come impietriti, gatto e topo, se volete, cercando ciascuno di stabilire chi fosse il gatto. Quel delinquente aveva nervi d'acciaio, dovevo riconoscerlo. Ero preparato a rimanere là una settimana, se necessario, e anche lui. Ascoltavo la pioggia e il vento all'esterno, ma evitavo di levare lo sguardo all'apertura nel soffitto perché questo avrebbe rovinato quel poco di assuefazione all'oscurità che ero riuscito a sviluppare. Me ne stavo là in quella caverna umida, mentre il freddo mi penetrava attraverso i calzerotti e mi impregnava di sé perché ero a braccia, schiena e petto nudi. Sentivo un colpo di tosse salirmi alla gola, ma lottavo per trattenerlo. Passarono circa cinque minuti, meno forse, di più no. Tobin doveva cominciare a domandarsi se non fossi uscito, retrocedendo silenziosamente. Mi trovavo tra lui, che chissà dov'era esattamente, e l'entrata del tunnel alle mie spalle. Dubitavo che potesse passarmi accanto nel caso che, persosi di coraggio, volesse allontanarsi. Alla fine Tobin, figurativamente parlando, ammiccò: ossia gettò qualcosa come un pezzo di cemento contro una parete lontana, e il rumore echeggiò nel vasto locale delle munizioni. Mi fece trasalire, ma non abbastanza da indurmi a far fuoco. Uno stupido trucco, Freddie. E così restammo entrambi immobili nel buio, e io cercavo di vedere attraverso l'oscurità, cercavo di udire il suo respiro, di captare l'odore della sua paura. Mi sembrava di vedere il luccichio dei suoi occhi, o dell'acciaio, riflesso nel lieve chiarore dell'apertura nel tetto. Proveniva dalla mia sinistra, ma non avevo modo di giudicare la distanza, in quell'oscurità. Mi resi conto che anche il mio coltello poteva riflettere un barlume di luce, così lo spostai verso l'altro lato, lontano dalla lieve fonte di chiarore là in alto.
Tentai di rivedere il luccichio, ma era scomparso. Se l'avessi scorto di nuovo, decisi, mi sarei precipitato in quella direzione e avrei fatto un numero con il coltello: affondo, squarcio, parata, pugnalata e così via fino a venire in contatto con carne e ossa. Aspettai. Più fissavo dove m'era parso di intravedere il luccichio, più i miei occhi cominciavano a farmi strani scherzi. Vedevo danzare strane macchie fosforescenti, che poi prendevano forma e si trasformavano in teschi sbadiglianti. Mamma mia! Quando si dice il potere della suggestione. Era difficile respirare silenziosamente, e se non fosse stato per il suono del vento e dell'acqua là in alto, Tobin mi avrebbe sentito e io avrei sentito lui. Avvertivo l'insorgere di un altro colpo di tosse, ma di nuovo riuscii a trattenerlo. Aspettavamo. Immaginavo sapesse che ero solo. Supponevo sapesse, inoltre, che avevo almeno una pistola. Ero certo che anche lui l'avesse, ma non la 45 con la quale aveva ucciso Tom e Judy. Se avesse avuto con sé un fucile, avrebbe cercato di uccidermi all'aperto, da prudente distanza, quando si era reso conto d'avere John Corey alle calcagna. In ogni caso, lì dentro un fucile non era meglio di una pistola. Quello sul quale non avevo fatto conto era un fucile da caccia. Il fragore della detonazione della doppietta fu assordante in quell'ambiente chiuso, e per poco non schizzai fuori dalla mia stessa pelle. Ma appena mi resi conto di non essere stato colpito, e il mio cervello registrò la direzione dello sparo - circa tre metri alla mia destra - prima che Tobin potesse slanciarsi verso un'altra posizione di tiro, sparai il mio singolo colpo proprio là dove avevo visto il lampo. Mollai la pistola e mi tuffai, squarciando alla cieca l'aria davanti a me, ma non entrai in contatto con qualcosa né inciampai in un corpo steso a terra. Tempo qualche secondo, e il mio coltello raschiò la parete. Mi arrestai, rimanendo immobile. Una voce, a una certa distanza dietro di me, disse: «Scommetto che le era rimasto soltanto un colpo». Mi guardai bene dal rispondere. «Parli», disse la voce. Mi girai lentamente verso la voce di Fredric Tobin. «Credo d'avere sentito la sua pistola finire a terra», disse lui. Mi rendevo conto, ogni volta che parlava, che continuava a spostarsi. Furbo, l'amico. «Posso vederla nella luce dall'apertura in alto», disse.
Notai allora che il mio irrompere verso il punto dove aveva fatto fuoco il fucile da caccia mi aveva portato più vicino a quel debole chiarore. Di nuovo, la voce si spostò, poi disse: «Se muove anche un solo passo, la ucciderò». Non capivo perché non avesse sparato di nuovo, ma immaginai che dovesse avere una sorta di suo programma. Traendo vantaggio da questo, mi scostai dalla parete e replicai: «Crepa, Freddie». Improvvisamente, una luce si accese dietro di me, e mi resi conto che mi era girato attorno, e che ero stato colto dal raggio della sua torcia. «Fermo o sparo. Fermo!» intimò Tobin. Così, rimasi immobile, la schiena verso di lui, la sua torcia su di me, e un'arma invisibile di chissà quale calibro puntata verso il mio sedere. Tenevo il coltello vicinissimo al corpo perché lui non potesse vederlo, ma poi ordinò: «Mani sulla testa». Feci scivolare il coltello sotto la cintura dei calzoni e misi le mani sopra la testa, sempre con il dorso verso di lui. «Voglio che risponda ad alcune domande», disse. «Poi mi lascerà vivere. Giusto?» Rise. «No, signor Corey. Lei morirà. Ma prima risponderà alle mie domande.» «Crepa.» «Non le piace perdere, vero?» «No, quando si tratta della mia vita.» Rise di nuovo. «Neanche a lei piace perdere. Ci ha rimesso tutto a Foxwoods. È un giocatore veramente stupido.» «Zitto!» «Ora mi volto. Voglio vedere i suoi denti finti e il suo parrucchino.» Mentre mi giravo con le mani sopra la testa, contrassi il ventre e feci una risatina così che il manico del coltello scivolò sotto i miei aderentissimi jeans. Non era dove lo volevo io, ma se non altro rimaneva nascosto. Eravamo l'uno di fronte all'altro, ora, a circa tre metri di distanza. Lui dirigeva la luce della torcia sul mio stomaco, non sulla faccia, e potevo scorgere un'automatica nella sua destra, puntata lungo il raggio luminoso. Non vedevo il fucile da caccia. La torcia era una di quelle alogene dal raggio sottile e concentrato che si usano per trasmettere segnali a distanza. La luce non era affatto diffusa, e l'ambiente rimaneva buio come prima, salvo il raggio che mi colpiva.
Tobin me lo proiettò addosso dalla testa ai piedi e commentò: «Ha perso parte dei suoi vestiti, vedo». «Crepa.» Il raggio si soffermò sulla fondina all'ascella. «Dov'è la sua pistola?» «Non lo so. Cerchiamola.» «Zitto!» «Allora non mi faccia domande.» «Non mi irriti, signor Corey, o il prossimo colpo le arriva dritto all'inguine.» Bene, non volevo certo che Guglielmino il Conquistatore si beccasse una pallottola, anche se non vedevo come poter evitare di irritare Tobin. «Dov'è il suo fucile da caccia?» domandai. «Ho alzato il cane e l'ho scagliato attraverso la stanza. Per fortuna ha sparato senza colpirmi. Ma lei ha abboccato all'amo. Lei è stupido.» «Calma... le ci sono voluti dieci minuti fermo là al buio con un dito su per il sedere per pensare a questo. Chi è stupido?» «Comincio a stancarmi del suo sarcasmo.» «Allora spari. Non ha avuto difficoltà a uccidere quei due pompieri nel sonno.» Non diede risposta. «Non sono abbastanza vicino? Quanto era lontano da Tom e Judy? Abbastanza vicino da lasciare bruciature di polvere. O preferirebbe fracassarmi la testa come ha fatto con i Murphy e con Emma?» «Lo preferirà, certo. Forse prima la ferirò, poi le spaccherò la testa con il mio fucile da caccia.» «Coraggio. Provi a ferirmi. Ha un colpo solo, stronzo. Poi le sarò addosso come un falco su un pollo. Provi.» Non ci si provò e non rispose. Ovviamente, aveva qualche problema da risolvere. Alla fine, domandò: «Chi altri sa di me? Di qualcosa di tutto questo?» «Tutti.» «Io dico che mente. Dov'è la sua amica?» «Proprio dietro di lei.» «Se crede di fare il furbo con me, signor Corey, allora morirà molto più presto e soffrendo molto di più.» «E tu arrostirai sulla sedia elettrica. La carne brucerà, il parrucchino prenderà fuoco, le capsule diventeranno rosse, la barba farà fumo e le lenti a contatto ti si fonderanno nelle pupille. E quando sarai morto, andrai al-
l'inferno e ricomincerai ad arrostire.» Il signor Tobin non aveva alcuna risposta a tutto questo. Entrambi restavamo là, io con le mani sopra la testa, lui con la torcia nella sinistra e la pistola nella destra. Ovviamente, il vantaggio era suo. Non potevo vederlo in faccia, ma ne immaginavo l'espressione diabolica e tronfia. Alla fine, Tobin disse: «Aveva immaginato la parte riguardo al tesoro, vero?» «Perché hai ucciso Emma?» «Risponda alla mia domanda.» «Prima rispondi tu alla mia.» Lasciò passare alcuni secondi, poi disse: «Sapeva troppo e parlava troppo. Ma soprattutto, era il mio modo di dimostrare a lei, Corey, quanto ero estremamente dispiaciuto del suo sarcasmo e del suo impicciarsi dei fatti miei». «Sei una piccola merda senza cuore.» «Quasi tutti mi trovano affascinante. Emma, per esempio. E i Gordon. Ora risponda alla mia domanda. Sa del tesoro?» «Sì. Il tesoro di Capitan Kidd. Sepolto qui su Plum Island. Da spostare in un altro luogo per essere scoperto là. Margaret Wiley, la Peconic Historical Society, e così via. Non sei tanto abile quanto credi.» «Nemmeno lei. La sua è più che altro fortuna. Solo che adesso la fortuna l'ha abbandonato.» «Può darsi. Ma io ho ancora tutti i miei capelli e i miei denti veri.» «Mi sta davvero annoiando.» «E sono più alto di te, ed Emma diceva che ce l'ho più grosso del tuo.» Il signor Tobin scelse di non rispondere alle mie frecciate. Era evidente che aveva bisogno di chiacchierare prima di cacciarmi una pallottola in corpo. «Hai avuto un'infanzia infelice?» dissi. «Una madre dominatrice e un padre assente? Gli altri ragazzini ti chiamavano femminuccia e ti prendevano in giro perché eri sempre tu che le prendevi? Parlamene. Voglio condividere il tuo dolore.» Il signor Tobin non parlò per un tempo che sembrò davvero eterno. Potevo vedere che la torcia gli tremava in mano, e anche la pistola. Sono due le teorie, quando qualcuno ti tiene sotto tiro: una è di starsene buono buono e assecondarlo. L'altra è di sfotterlo, insultarlo, fargli perdere la calma in modo che commetta un errore. La prima teoria è ora procedura di polizia standard. La seconda è stata scartata come folle e pericolosa. Io, natural-
mente, preferisco la seconda. «Perché stai tremando?» domandai. Tutt'e due le sue braccia si alzarono, la torcia nella mano sinistra, la pistola nella mano destra, e mi resi conto che stava prendendo la mira. Ohi, ohi! Tornare alla Teoria Numero Uno. Ci fissammo e capii che stava cercando di decidere se doveva premere il grilletto. Dal canto mio cercavo di decidere se dovessi mandare un grido da fare agghiacciare il sangue e saltargli addosso prima che potesse far partire il colpo. Alla fine, lui abbassò la pistola e la torcia. «Non le permetterò di farmi perdere la calma», disse. «Buon per te.» Tornò a domandare: «Dov'è la Penrose?» «È annegata.» «No, non è vero. Dov'è?» «Forse è corsa al laboratorio principale a cercare rinforzi. Forse sei finito, Freddie, forse dovresti consegnarmi quella pistola, amico.» Ci meditò su. E, mentre lui meditava, io aggiunsi: «A proposito, ho trovato la cassa d'alluminio con le ossa e il resto nel tuo scantinato, sotto le cassette di vino. Ho chiamato la polizia». Tobin non replicò. Qualsiasi speranza avesse che i suoi segreti potessero morire con me si era ormai spenta. Mi aspettavo una pallottola da un istante all'altro, ma Fredric Tobin, l'eterno patteggiatore, domandò: «Vuole che facciamo a metà?» Per poco non risi. «A metà? I Gordon credevano di poter fare a metà e guarda che cosa gli hai fatto.» «Hanno avuto quello che meritavano.» «E come mai?» «Avevano una crisi di coscienza. Imperdonabile. Volevano consegnare il tesoro al governo.» «Be', in effetti gli appartiene.» «Non ha importanza a chi appartiene. Importa chi lo trova e può tenerselo.» «La Regola Aurea secondo Fredric Tobin: chi ha l'oro le detta, le regole.» Ridacchiò. A volte lo mandavo in bestia, a volte lo facevo ridere. In assenza di un altro poliziotto, mi toccava recitare la parte del piedipiatti buono e quella del cattivo. C'era di che diventare schizofrenici.
Tobin stava dicendo: «I Gordon vennero da me per domandarmi se sarei stato disposto a intavolare una trattativa con il governo in base alla quale noi avremmo avuto una buona quota del tesoro come premio per averlo trovato, e il resto sarebbe andato in una nuova attrezzatura più aggiornata per il laboratorio, con parte del denaro destinata a servizi ricreativi per Plum Island, un centro sulla terra ferma per la custodia dei bambini dei dipendenti, migliorie ambientali all'isola, nonché un restauro storico e altri degni progetti sempre per Plum. Saremmo stati eroi, filantropi e in regola». Tobin tacque per qualche secondo, poi concluse: «Risposi che la ritenevo un'idea meravigliosa. Naturalmente, a quel punto, erano praticamente già morti». Povero Tom, povera Judy. Erano completamente fuori dalle loro acque quando avevano fatto quell'accordo con Fredric Tobin. «Insomma», dissi, «il Centro Pargoletti Fredric Tobin non ti attirava?» «Neanche un po'.» «Oh, Freddie, a te piace fare il duro. Scommetto che hai il cuore di un ragazzo.» Poi aggiunsi: «Scommetto che lo tieni dentro un vaso sulla mensola del caminetto». Si fece un'altra risatina. Tempo di cambiare il suo umore e tenerlo interessato alla conversazione. «A proposito», dissi, «la tempesta ha distrutto i tuoi vigneti e la tua rimessa delle barche. Io ti ho ridotto a un rottame la cantina e anche l'appartamento nella torre Tobin. Volevo solo che lo sapessi.» «Grazie d'avermi informato. Lei non è molto diplomatico, vero?» «La diplomazia è l'arte di dire simpatiche balle finché non trovi un sasso.» Rise. «Be', lei sassi non ne ha più, Corey, e lo sa.» «Che cosa vuole, Tobin?» «Voglio sapere dov'è il tesoro.» La risposta mi sorprese, e replicai: «Credevo che fosse qui». «Anch'io. Era qui in agosto, quando i Gordon mi portarono a fare un giro archeologico privato dell'isola. Era qui in questo locale, sepolto sotto vecchie casse di munizioni. Ma ora non c'è più.» Poi aggiunse: «C'era un biglietto». «Un biglietto? Come per dire marameo?» «Sì. Una specie di marameo da parte dei Gordon, per dirmi che avevano spostato il tesoro, e che se avessero fatto una fine prematura, il nuovo nascondiglio del tesoro non sarebbe mai stato scoperto.»
«Così, si è fottuto da sé. Bene.» «Non posso credere che non abbiano diviso il segreto con qualcuno di cui si fidavano.» «È possibile.» «Qualcuno come lei, Corey. Così ha capito che non c'entrava per niente la guerra batteriologica? Così ha saputo del tesoro di Capitan Kidd? Così ha saputo che c'ero di mezzo io? Mi risponda, Corey.» «Io, quel che ho scoperto, l'ho capito da me.» «Allora non ha nessuna idea di dove sia ora il tesoro?» «Nemmeno un vago indizio.» «Peccato.» L'automatica tornò di nuovo in posizione di tiro. «Be'», dissi, «forse un piccolo indizio potrei anche averlo.» «Lo pensavo, infatti. Le è arrivata una lettera postuma?» No, magari l'avessero mandata. «Avevano fatto alcune allusioni che non avevano alcun senso per me, ma potrebbero averlo per lei.» «Per esempio?» «Be'... ehi, quanto pensa che valga?» «Che valga per lei? O nel complesso?» «Nel complesso. Io voglio solo il dieci per cento, se l'aiuto a trovarlo.» Mi puntò la torcia sul petto, poi sotto il mento, e stette un momento a contemplarmi. «Sta facendo il furbo con me, signor Corey?» domandò. «Io? No.» Rimase un poco in silenzio, combattuto tra il suo ardente desiderio di spedirmi subito al Creatore e la lieve speranza che potessi realmente sapere qualcosa di quello che era accaduto al tesoro. Si aggrappava alle pagliuzze, e in effetti lo sapeva, ma non poteva accettare il fatto che l'intero schema fosse andato in pezzi, che non solo lui era completamente al verde e distrutto, ma che il tesoro era scomparso, anni di lavoro finiti giù per lo scarico, e infine che aveva ottime probabilità di venire processato per omicidio, condannato e giustiziato. Alla fine, disse: «Era incredibile, davvero. Non soltanto c'erano monete d'oro, ma anche gioielli... gioielli del Gran Mogol dell'India... rubini, zaffiri e perle incastonati in montature squisite... e sacchi e sacchi di altre pietre preziose... Dovevano valere da dieci a venti milioni di dollari... forse più...» Emise una specie di sospiro e disse a me: «Lei, penso, tutto questo lo sa. Penso che i Gordon le confidarono il tutto, oppure che le abbiano lasciato una lettera».
Desideravo davvero che avessero fatto una cosa o l'altra, preferibilmente la prima. Tuttavia, non avevano fatto né questo né quello, anche se forse ne avevano avuto l'intenzione. Ma, come sospettavo, evidentemente i Gordon avevano dato a Tobin l'impressione che John Corey, della polizia di New York, qualcosa sapesse; e questo avrebbe dovuto mantenerli in vita, ma non era servito. Stava tenendo in vita me, al momento, ma non per molto ancora. «Sapeva chi ero io», dissi a Tobin, «quando venni a parlarle al vigneto.» «Certo che lo sapevo. Crede d'essere l'unico essere intelligente al mondo?» «So di essere l'unico essere intelligente in questo stanzone.» «Bene, visto che è così maledettamente in gamba, signor Corey, com'è che se ne sta lì con le mani sopra la testa, e com'è che ho io la pistola?» «Domanda interessante.» «Mi sta facendo perdere tempo. Sa dov'è il tesoro?» «Sì e no.» «Ora basta. Ha cinque secondi per dirmelo. Uno...» Puntò l'arma. «Che differenza fa dov'è il tesoro? Non riuscirà mai a farla franca, né per il tesoro né per gli omicidi.» «La mia barca è attrezzata per portarmi fino in Sudamerica. Due...» «Cerca di guardare in faccia la realtà, Freddie. Se stai figurandoti te stesso su una spiaggia tra ragazze indigene che ti offrono dei manghi, dimenticatelo, amico. Dammi quella pistola, e vedrò di non farti finire sulla sedia elettrica. Giuro che non ci finirai.» Ti ucciderò con le mie mani. «Se sa qualcosa, farebbe meglio a dirmelo. Tre...» «Penso che Stevens qualcosa abbia indovinato. Cosa ne pensi?» «È possibile. Che l'abbia lui, il tesoro? Quattro...» «Freddie, dimenticati di quel fottuto tesoro. Anzi, se vai fuori e ascolti attentamente, sentirai la sirena d'allarme del biorischio. C'è stata una perdita. Dobbiamo farci ricoverare tutti in ospedale nelle prossime ore, o saremo bell'e morti.» «Lei mente.» «No, non mento. Non l'hai sentita la sirena?» Rimase in silenzio per un lungo intervallo, poi disse: «Temo sia proprio finita, in un modo o nell'altro». «Appunto. Facciamo un patto.» «Un patto di che genere?» «Lei mi dà la pistola, usciamo di qui, corriamo alla sua barca, velocissi-
mi, poi fino a un ospedale. Parliamo con il procuratore distrettuale della sua resa volontaria e lei potrà uscire dietro cauzione, poi di qui a un anno si arriverà al processo e ciascuno avrà l'occasione di raccontare le bugie che vuole. Okay?» Tobin restava in silenzio. Naturalmente, la possibilità di uscire dietro cauzione con un'accusa di omicidio plurimo era zero; notate inoltre che non avevo usato parole come arresto, prigione o qualcosa di altrettanto negativo. «Userò tutte le mie forze per lei, se ora si consegna a me volontariamente.» Come no, bello. «Davvero. Parola d'onore.» «Mi viene il dubbio», disse lui, «che lei non sia qui come funzionario di polizia.» Temevo che ci sarebbe arrivato. «Mi viene il dubbio che abbia preso tutto questo in modo molto personale. Che le piacerebbe fare a me quello che ho fatto a Tom, Judy, i Murphy ed Emma...» Naturalmente aveva ragione da vendere, e questo faceva sì che fossi praticamente già morto, così mi tuffai verso sinistra, fuori dal raggio di luce, nell'oscurità più fonda, e rotolai su me stesso sul pavimento. Tobin spostò la torcia e sparò, ma ero molto più lontano, là in terra, di quanto lui avesse calcolato. Anzi, rotolai immediatamente nella direzione opposta mentre lo sparo echeggiava, coprendo il rumore del mio movimento. Estrassi il coltello dai jeans prima che mi affettasse il pendolino. Il sottile raggio oscillava furiosamente per la stanza, e ogni tanto lui faceva fuoco alla cieca e il proiettile rimbalzava dal cemento delle pareti mentre la detonazione echeggiava nel buio. Una volta, il raggio passò proprio sopra di me, ma quando Tobin se ne rese conto e spostò indietro la luce, io ero già altrove. Giocare a nascondersi con una torcia e dei proiettili non è divertente come potrebbe sembrare, ma è molto più facile di quanto si pensi, specie in uno spazio vasto come quello e senza ostruzioni. Tastavo intorno in cerca del fucile da caccia ogni volta che rotolavo via o spiccavo una corsa, ma senza riuscire a trovarlo. Nonostante fossi privo di un'arma da fuoco, ora il vantaggio era mio, e finché quell'idiota teneva la luce accesa e continuava a sparare, io sapevo sempre lui dov'era. Il gelido Freddie, era ormai chiaro, aveva perso. Tuttavia, prima che capisse che doveva spegnere la torcia, partii alla carica proprio verso di lui. Mi sentì arrivare, all'ultimo istante, e spostò si-
multaneamente torcia e pistola verso di me proprio mentre entravamo in collisione. Mandò un suono come di un pallone che scoppia e andò giù come un birillo. Nessun tentativo di lotta. Gli strappai la pistola di mano con molta facilità, poi gli tolsi la torcia. Ginocchia puntate sul suo petto, con una mano gli dirigevo ora il raggio in faccia, con l'altra gli tenevo il coltello alla gola. Tobin aveva difficoltà a respirare ma riuscì a dire: «Va bene... va bene... ha vinto...» «Esatto.» Gli calai il pesante manico del coltello sul ponte del naso, fracassandoglielo. Udii il crac e vidi il sangue schizzargli dalle narici mentre lui urlava. Gli urli si trasformarono in un piagnucolio, mi fissò con occhi dilatati, poi mandò un gemito. «No... per carità... basta...» «No, no, non basta. Non basta.» Il mio secondo colpo con l'impugnatura del coltello gli frantumò i denti finti, poi girai il coltello, tagliai all'attaccatura del suo ciuffo ondulato e gli strappai via il parrucchino. Mandò un altro gemito, ma era quasi in stato di shock e non reagiva del tutto alla mia ferocia. Udivo me stesso urlare nel buio: «Le hai sfondato la testa! L'hai stuprata! Schifoso bastardo!» «No... oh, no...» Sapevo di non essere più razionale, mentre avrei dovuto andarmene da lì. Ma le immagini dei morti erano realmente in agguato là nel buio, e a quel punto, dopo il terrore vissuto sulla barca, la caccia attraverso Plum Island, la perdita di biorischio e il dover schivare proiettili nell'oscurità, John Corey era regredito a qualcosa che era meglio non riportare alla luce. Due volte gli calai con forza il manico del coltello sul cranio, ma senza riuscire a sfondarglielo. Tobin emise un lungo, patetico lamento. «Nooooo...» Avrei voluto davvero alzarmi e fuggire di là prima di commettere qualcosa di irrecuperabilmente errato, ma il nero cuore che si annida in ciascuno di noi si era svegliato in me. Allungai il braccio dietro di me con il tagliente coltello, e tranciai i calzoni di Tobin nella parte inferiore dell'addome, in una profonda incisione laterale che separò la carne e i muscoli e causò la fuoriuscita degli intestini dalla cavità addominale. Tobin urlò, ma poi divenne stranamente silenzioso e rimase immobile, come cercando di capire che cos'era accaduto. Doveva avere sentito il calore del sangue, ma per il resto i suoi sintomi vitali erano in ordine e pro-
babilmente stava ringraziando Dio d'essere vivo. Avrei ben presto messo fine a questo. Di nuovo allungai la destra dietro di me e agguantai una bella manciata di visceri caldi, che tirai fuori e trascinai con me, fino a scagliarli sulla faccia di Tobin. I suoi occhi incontrarono i miei nel raggio della torcia e mi fissò, quasi interrogativo. Ma poiché non aveva alcun punto di riferimento per la sostanza fumante che ora si ritrovava sulla faccia, aveva bisogno di una parola o due da parte mia. Così dissi: «Le tue budella». Urlò, e urlò di nuovo, portandosi le mani alla faccia. Mi alzai, mi pulii le mani sui calzoni, e mi allontanai. Le urla disperate di Tobin echeggiavano nel gelo dello stanzone. 37 Non mi attirava il pensiero della lunga camminata attraverso il buio tunnel. Inoltre, è buona tattica non tornare mai dalla stessa via dalla quale sei venuto; potrebbe esserci qualcuno ad aspettarti. Guardai l'apertura là in alto. Mai un cielo nero e tempestoso mi era sembrato così invitante. Mi portai fino all'alta struttura metallica che saliva da terra al soffitto del deposito munizioni. Era, come già ho detto, l'elevatore per mezzo del quale grosse palle di cannone e polvere da sparo venivano issate fino alle postazioni su in alto, per cui presumevo che fosse costruita a dovere. Salii sulla prima sbarra trasversale e reggeva. Continuai ad arrampicarmi e notai che erano tutte piuttosto arrugginite ma ugualmente solide. La pioggia mi investiva dall'apertura in alto e le urla di Fredric Tobin mi assalivano dal basso. Penseresti che un tizio la smetta di urlare, dopo un po'. Una volta passato l'orrore iniziale, voglio dire, dovrebbe vedere di dominarsi, di ricacciare le budella là dove dovrebbero stare e tacere. In ogni caso, più salivo, più l'aria migliorava. Verso i quattro metri, potevo sentire il vento soffiare attraverso il foro. Sui sei, ero ormai all'apertura e la pioggia battente cadeva quasi orizzontale; la tempesta era ritornata. Vedevo adesso che l'apertura era circondata da una recinzione di filo spinato, evidentemente messa là per impedire agli animali di cadervi dentro, quando le postazioni venivano usate come recinti. «Maledizione.» Ero ritto sull'ultimo piolo della struttura, con metà del corpo all'esterno. Ora il vento e la pioggia coprivano le grida di Tobin.
Contemplavo la recinzione di filo spinato alta più di un metro che mi attorniava. Potevo tentare di scavalcarla oppure tornare giù e uscire attraverso il tunnel. Pensavo a Tobin, là sotto, che urlava come un pazzo con le viscere sparse sul pavimento. E se avesse ripreso il controllo di sé e trovato il suo fucile da caccia o la sua pistola? Così, essendo arrivato fin là, decisi di affrontare quell'ultimo metro abbondante. La sofferenza è più che altro un fatto mentale, così cercai di fare il vuoto nel cervello e mi inerpicai su per la recinzione di filo spinato, arrivai fino in cima, e saltai giù sul pavimento sottostante. Giacqui un poco là a riprendere fiato, massaggiandomi i tagli sulle mani e sui piedi, felice che, all'ospedale, i medici m'avessero fatto l'antitetanica per l'eventualità che i tre proiettili fossero sudici. Poi, ignorando il dolore delle ferite, mi rialzai e mi guardai attorno. Ero in una piazzuola d'artiglieria circolare, di una decina di metri di diametro. La postazione, scavata nel fianco della collina, era circondata da un muro di cemento che mi arrivava alla spalla e che aveva un tempo protetto il grosso cannone che ancora vi troneggiava. Incassato nel cemento c'era un grosso meccanismo trasversale usato un tempo per far ruotare il cannone lungo un arco di 180 gradi. Vedevo sul lato opposto della postazione una rampa di cemento che conduceva a una specie di torre d'osservazione. Per quello che mi pareva di capire, ero sul lato sud dell'osso della braciola, e il pezzo d'artiglieria era appunto puntato a sud, verso il mare. Anzi, potevo udire le onde abbattersi sulla spiaggia vicina. Era evidente che quelle postazioni così affossate fornissero ottimi recinti per animali, il che a sua volta mi rammentava che l'aria era appestata. Non che si possa dimenticare un particolare del genere, ma cercavo istintivamente di ignorarlo, penso. Resta il fatto che, se tendevo l'orecchio, potevo avvertire il lamento della sirena. Potevo anche udire le urla di Tobin: non alla lettera, ma nella mia mente, e sapevo che per qualche tempo avrei continuato a udirle. E così, ero là: Tobin nella mente, la sirena del biorischio nelle orecchie, il vento e l'acqua sulla faccia, intirizzito, tremante, assetato, affamato, coperto di tagli e mezzo nudo, e tuttavia mi sentivo il padrone del mondo. In effetti, emisi addirittura un piccolo urrah e accennai una specie di balletto. Urlavo nel vento: «Vivo! Vivo!» Poi, una voce nella mia testa disse: «Non per molto». Smisi di colpo la mia danza di vittoria. «Come?»
«Non per molto.» In realtà, non era nella mia testa, la voce; arrivava da un punto dietro di me. Mi voltai. Lassù in cima al muro di un metro e mezzo, e intenta a contemplarmi dall'alto, c'era una figura massiccia, paludata in un impermeabile scuro con cappuccio, così che la faccia era a stento visibile, e l'effetto era un po' quello della Grande Mietitrice ritta là nella tempesta, probabilmente sogghignando e così via. Da brivido. «Chi diavolo è, lei?» domandai. La persona - un uomo a giudicare dalle dimensioni e dalla voce - non rispose. Mi sentivo un po' sciocco, credo, per essere stato sorpreso a ballare nella pioggia, emettendo strani schiamazzi. Ma avevo la netta sensazione che al momento quello fosse l'ultimo dei miei problemi. «Ma insomma, chi è?» Di nuovo nessuna risposta. Ma ora vedevo che la persona reggeva qualcosa attraverso il petto. Una normale falce da Grande Mietitrice? Me lo auguravo. Avrei potuto vedermela, con una falce. Ma nessuna fortuna del genere. L'uomo aveva un fucile. Merda. Considerai le mie opzioni. Ero al fondo di una buca circolare profonda un metro e mezzo, e qualcuno armato di fucile stava in cima al muro, vicino alla rampa di uscita. In sostanza, una situazione maledettamente senza via di scampo. Ero profondamente fottuto. L'individuo stava là e mi fissava da una decina di metri di distanza: un tiro facile, con un fucile. Era troppo vicino alla rampa d'uscita per prendere in considerazione quella via di salvezza. La mia unica possibilità stava nel foro dal quale ero appena uscito, ma questo voleva dire una corsa di quattro o cinque metri verso di lui, un tuffo al di sopra della recinzione di filo spinato, e un'immersione alla cieca giù per l'apertura dell'elevatore. Il tutto avrebbe richiesto all'incirca quattro secondi, e in quei quattro secondi l'uomo col fucile poteva mirare e sparare due volte. Ma forse quel tale non voleva farmi del male. Forse era un dipendente della Croce Rossa con del brandy. Giusto. «Allora, amico, che cosa ti porta fuori in una notte come questa?» «Tu.» «Moi?» «Tu, sì. Tu e Fredric Tobin.» Riconoscevo la voce, ora, e dissi: «Be', Paul, stavo appunto per andarmene». «Andarsene», replicò il signor Stevens. «Certo.»
Non mi piacque il modo come lo disse. Ne dedussi che fosse ancora furente con me per averlo messo KO nel giardino dietro casa sua, per non parlare di tutti i maltrattamenti che gli avevo fatto subire. E adesso era lì, con un fucile. La vita è comica, a volte. Disse di nuovo: «Tra poco te ne andrai». «Bene. Stavo solo passando di qua e...» «Dov'è Tobin?» «Proprio dietro di te.» Stevens gettò davvero una rapida occhiata dietro di sé, poi tornò a fissarmi. «Dal faro», disse, «sono state avvistate due imbarcazioni: un ChrisCraft e un motoscafo. Il Chris-Craft è tornato indietro nel Budello, il motoscafo ce l'ha fatta a passare.» «Già, c'ero io sul motoscafo. Tanto per fare una bella corsa. Come sapevi che sul Chris-Craft c'era Tobin?» «Conosco la sua barca. Lo stavo aspettando.» «Perché?» «Lo sai il perché. I miei microfoni e i miei sensori di moto», aggiunse, «captavano almeno due persone a Fort Terry, più un veicolo. Ho controllato ed eccomi qui.» Poi disse: «Qualcuno ha assassinato due vigili del fuoco. Sei stato tu?» «No, non io», dissi. «Ehi, Paul, mi sta venendo il torcicollo a forza di guardare in su e sono gelato. Ora vengo su da quella rampa e ce ne andiamo insieme al laboratorio per un po' di caffè...» Paul Stevens alzò il fucile e me lo puntò contro. «Se t'azzardi a fare una mossa, ti uccido.» «Capito.» «Te lo devo», mi rammentò, «per tutto quello che m'hai fatto.» «Devi cercare di vincere la tua collera in modo costruttivo e...» «Chiudi quella bocca.» «D'accordo.» Sapevo, per istinto, che Paul Stevens era più pericoloso di Fredric Tobin. Tobin era un codardo, benché assassino, e se avesse captato un pericolo se la sarebbe data a gambe. Stevens, ne ero certo, era assassino per natura, il genere d'uomo che t'avrebbe tenuto testa via via. «Sai perché Tobin e io siamo qui?» dissi. Sempre puntandomi contro il fucile, replicò: «Certo, lo so. Il tesoro di Capitan Kidd». «Io posso aiutarti a trovare il tesoro», dissi. «No, non puoi. L'ho io, il tesoro.»
Oh, questa. «Come sei...» «Mi credi stupido? I Gordon pensavano che fossi stupido. Io sapevo esattamente quello che c'era in ballo, con tutti quei ridicoli scavi archeologici. Seguivo ogni loro mossa. Non ero certo su chi fosse il loro socio fino ad agosto, quando Tobin arrivò come rappresentante della Peconic Historical Society.» «Ottimo lavoro d'indagine. Farò in modo che ti assegnino un premio per l'efficienza...» «Chiudi quella bocca fottuta.» «Signorsì. A proposito, non dovresti portare una maschera, qualcosa?» «Perché?» «Perché? Non è l'allarme del biorischio, quello che si sente?» «Sì. È una prova. Ho ordinato una prova. Tutti quelli al momento in servizio sull'isola si trovano in laboratorio con indosso le tute, per un'esercitazione di biocontenimento.» «In altre parole, non stiamo per morire tutti?» «No. Soltanto tu stai per morire.» Temevo che avrebbe risposto così. Lo informai, assumendo un tono ufficiale: «Qualsiasi cosa tu possa avere fatto, non è mai grave quanto commettere un omicidio». «In effetti, non ho commesso neppure un solo crimine, e uccidere te sarà un piacere.» «Uccidere un poliziotto è...» «Tu sei un intruso e, per quello che ne so, un sabotatore, un terrorista e un assassino. Spiacente di non averti riconosciuto.» Misi in tensione i muscoli, pronto a spiccare il balzo verso il filo spinato e l'apertura, sapendo che sarebbe stato un tentativo inutile, ma ugualmente dovevo provare. «Mi hai fatto cadere due denti e mi hai spaccato il labbro», continuò Stevens. «E in più, sai maledettamente troppo.» Poi aggiunse: «Io sono ricco, e tu sei morto. Bye bye, buzzurro». «Crepa tu, stronzo», replicai. Mi slanciai verso l'apertura, guardando non il filo spinato mentre correvo, ma lui. Con l'arma imbracciata, stava prendendomi di mira. Non poteva assolutamente mancarmi. Uno sparo risuonò, ma non uscì alcun lampo dalla canna del suo fucile e nessun dolore lancinante attraversò il mio corpo. Mentre arrivavo alla recinzione e stavo per volteggiare al di sopra del filo spinato e tuffarmi a capofitto nell'apertura, vidi Stevens saltar giù nella postazione, per finirmi.
Per lo meno, questo pensai. Ma, in effetti, stava cadendo in avanti, e atterrò a faccia in giù sul cemento. Andai a sbattere contro il filo spinato e mi arrestai. Rimasi là un momento, impietrito, a osservarlo. Lo vidi contorcersi un poco spasmodicamente, come se fosse stato colpito alla spina dorsale, per cui era in pratica spacciato. Udivo l'inconfondibile gorgoglio dell'agonia. Alla fine, contorsione e gorgoglio cessarono. Guardai in su verso la cima del muro. Beth Penrose stava fissando Paul Stevens, la pistola puntata su di lui. «Come sei arrivata qui?» domandai. «Camminando.» «Voglio dire...» «Venivo a cercare te, ho visto lui e l'ho seguito.» «Fortuna per me.» «Non così per lui.» «Di', "Fermo, polizia!"» «Oh, al diavolo», replicò. «Sono d'accordo.» Poi aggiunsi: «Stava per uccidermi». «Lo so.» «Avresti potuto sparare un po' prima.» «Spero tu non stia criticando la mia prestazione.» «No, bella. Sei un'ottima tiratrice.» «Stai bene?» mi domandò. «Sì. E tu?» «Benissimo. Dov'è Tobin?» «È... non è qui.» Guardò di nuovo verso Stevens e domandò: «Lui come c'entra?» «È solo un avvoltoio.» «Hai trovato il tesoro?» «No, ma l'ha trovato Stevens.» «Sai dov'è?» «Stavo per domandarglielo.» «No, John, lui stava per cacciarti una pallottola in corpo.» «Grazie d'avermi salvato la vita.» «Mi devi un piccolo favore, in cambio.» «Certo. Perciò, eccolo: il caso è chiuso», dissi. «Salvo per il tesoro. E per Tobin. Lui dov'è?» «Oh, qui attorno, da qualche parte.»
«È armato? È pericoloso?» «No», replicai, «manca di viscere.» Ci riparammo dalla tempesta in un bunker di cemento. Ci tenevamo abbracciati per trovare calore, ma a tal punto eravamo intirizziti che nessuno dei due dormi. Parlammo per tutta la notte, strofinandoci braccia e gambe a vicenda per tenere a bada l'ipotermia. Beth insisteva per sapere dov'era Tobin, e le diedi una versione riveduta dello scontro nel deposito delle munizioni, dicendo che l'avevo pugnalato e che era gravemente ferito. «Non dovremmo procurargli delle cure mediche?» domandò. «Certo», replicai. «Per prima cosa domani mattina.» Rimase in silenzio per alcuni secondi, poi disse soltanto: «Bene». Prima dell'alba, ci incamminammo per fare ritorno alla spiaggia. La tempesta era passata e, prima che l'elicottero o le imbarcazioni di pattuglia uscissero, rimettemmo la spina di sicurezza al Boston Whaler e ci portammo fino al Chris-Craft. Tolsi il tappo di autosgottamento alla piccola imbarcazione e lasciai che affondasse. Poi portammo il cabinato di Tobin a Greenport, da dove telefonammo a Max. Ci venne incontro alla banchina e ci scarrozzò fino alla sede di polizia, dove facemmo una doccia e indossammo tute e calzerotti di lana. Un medico del posto ci fece un controllo e consigliò antibiotici e uova con prosciutto, il che suonava bene. Consumammo la colazione nella sala riunioni di Max e facemmo rapporto al Capo. Max era stupefatto, incredulo, irritato, felice, invidioso, sollevato, preoccupato e così via. Continuava a ripetere: «Il tesoro di Capitan Kidd? Ma siete sicuri?» Durante la mia seconda colazione, Max si informò: «Così, soltanto Stevens conosceva il luogo dove si trova il tesoro?» «Penso di sì», risposi. Fissò prima me, poi Beth e domandò: «Non me lo terreste nascosto, vero?» «Ma certo che lo farei», replicai io. «Se sapessimo dove si trovano venti milioni di dollari in oro e gioielli, tu, Max, saresti l'ultimo a esserne informato. Ma la verità è che quella roba è scomparsa di nuovo. Tuttavia», aggiunsi, «sappiamo che esiste e sappiamo che Stevens l'ha avuta per un breve periodo di tempo. Perciò, chissà che con un po' di fortuna i Federali o la polizia non riescano a trovarla.» «Quel tesoro», commentò Beth, «ha causato tante di quelle morti che
penso davvero sia maledetto.» Max alzò le spalle. «Maledetto o no, mi piacerebbe trovarlo. Per ragioni storiche», precisò. «Ah, s'intende.» Max sembrava incapace di assorbire il tutto ed elaborarlo, e continuava a ripetere domande alle quali aveva già avuto risposta. «Se questo rapporto», gli dissi, «si sta trasformando in un interrogatorio, bene, o dovrò chiamare il mio avvocato, oppure dartele di santa ragione.» Max si sforzò di sorridere. «Scusatemi... tutto questo è sconcertante a un punto tale...» «Ringraziaci per avere fatto un buon lavoro», disse Beth. «Vi ringrazio per aver fatto un ottimo lavoro.» Poi a me: «Sono contento d'averti ingaggiato». «Tu mi hai licenziato.» «Davvero? Dimenticalo.» Poi mi domandò: «Ho capito bene, hai detto che Tobin era morto?» «Be', l'ultima volta che l'ho visto non... voglio dire, forse avrei dovuto chiarire meglio che dovresti procurargli qualche cura medica.» Max mi fissò per qualche istante, poi si informò: «Dove esattamente si trova quel deposito sotterraneo?» Gli diedi le indicazioni come meglio mi fu possibile, e subito Max sparì per andare a dare disposizioni. Beth e io ci guardammo attraverso il tavolo, nella sala riunioni di Max. «Diventerai un ottimo detective», le dissi. «Sono un ottimo detective.» «Sì, lo sei. Come posso ricompensarti per avermi salvato la vita?» «Che ne diresti di un migliaio di dollari?» «Tanto vale la mia vita?» «D'accordo, facciamo cinquecento.» «Che ne diresti di una cena stasera?» «John...» Mi guardò e sorrise quasi con malinconia, poi disse: «John... tu mi sei molto caro, ma... È... complicato... troppo... voglio dire, tutte quelle morti... Emma...» Assentii. «Hai ragione.» Il telefono sul tavolo squillò, e risposi io. Ascoltai e dissi: «Bene... glielo dirò». Misi giù il ricevitore e avvertii Beth: «La limousine della Contea è qui per lei, Madame». Si alzò e andò verso la porta, poi si voltò e mi disse: «Telefonami fra un
mese. D'accordo? Lo farai?» «Sì, lo farò.» Ma sapevo che non l'avrei fatto. I nostri sguardi si incontrarono. Le feci l'occhiolino. Lei lo ricambiò. Le gettai un bacio, lei lo gettò a me. Poi Beth Penrose si voltò e lasciò la stanza. Dopo alcuni minuti, ritornò Max e mi disse: «Ho chiamato Plum. Ho parlato con Kenneth Gibbs. Te lo ricordi? L'assistente di Stevens. Quelli della sicurezza hanno già trovato il loro capo. Morto. Gibbs non sembrava molto sconvolto e nemmeno molto curioso». «Mai guardare troppo per il sottile una promozione inaspettata.» «Già. Inoltre, gli ho detto di cercare Tobin nei depositi sotterranei delle munizioni. Giusto?» «Giusto. Non posso ricordare quale. Era buio.» «Certo.» Rifletté un momento, poi disse: «Che pasticcio. E che tonnellata di scartoffie questa storia ci...» Si guardò attorno e domandò: «Dov'è Beth?» «Quelli della polizia della contea sono venuti a prenderla.» «Ah... okay...» Poi mi informò: «Ho appena ricevuto un fax dal tono molto ufficiale, dalla polizia di New York. Mi chiedono di trovarti e di tenerti d'occhio fino al loro arrivo, verso mezzogiorno». «Bene, sono qui.» «Hai intenzione di tagliare la corda?» «No.» «Prometti. O dovrò chiuderti in una stanza con le sbarre.» «Promesso.» «D'accordo.» «Dammi uno strappo fino a casa mia. Mi servono alcune cose.» «Certo.» Si allontanò e un agente in divisa, il mio vecchio amico Bob Johnson, mise dentro la testa e domandò: «Serve un passaggio?» «Sì.» Andai con lui e mi accompagnò fino a casa di zio Harry. Mi cambiai, indossando buoni indumenti che non portavano stampigliato «Proprietà del Dipartimento di Polizia della città di Southold», presi una birra e andai a sedermi in veranda, a contemplare il cielo che tornava terso e la baia che si calmava. Il cielo diventata via via di quell'azzurro quasi incandescente che si ammira dopo che una tempesta ha lavato l'aria e spazzato via tutte le sostanze
inquinanti. Così doveva apparire il cielo fino a un centinaio d'anni fa, prima dei motori diesel, prima di auto, barche, caldaie a petrolio, falciatrici, prodotti chimici, pesticidi e chissà cosa cavolo ancora ci fluttuava attorno. Il prato era un disastro a causa della tempesta, ma la casa era a posto, anche se la corrente mancava ancora e la birra era calda, il che era un peccato, ma in compenso non potevo ascoltare la segreteria telefonica, e quello invece era un bene. Immagino che avrei dovuto aspettare quelli della polizia di New York, come avevo promesso a Max, invece chiamai un taxi, mi feci portare alla stazione di Riverhead e presi un treno per Manhattan. Di nuovo nel mio appartamento della 72a Strada dopo tutti quei mesi, notai trentasei messaggi sulla segreteria telefonica, ossia il massimo che riusciva a contenere. La donna delle pulizie mi aveva accatastato la posta sul tavolo di cucina e c'era qualcosa come cinque chili di scartoffie. Tra le fatture e le cose inutili c'era la sentenza definitiva di divorzio, che attaccai al frigorifero con una calamita. Stavo per rinunciare a esaminare quei mucchi di corrispondenza indesiderata, quando una semplice busta bianca attirò la mia attenzione. Era indirizzata a mano, e l'indirizzo del mittente era quello dei Gordon, benché il timbro fosse dell'Indiana. Aprii la busta e ne estrassi tre fogli di carta rigata, riempiti su entrambi i lati di una grafia nitida e scritti in inchiostro blu. Lessi: Caro John, se stai leggendo questa, significa che siamo morti... perciò, saluti dalla tomba. Posai la lettera, andai al frigorifero e presi una birra. «Saluti dalla terra dei vivi», dissi. Continuai a leggere: Sapevi che il tesoro di Capitan Kidd era sepolto nelle vicinanze? Be', a quest'ora, forse lo sai. Sei un tipo in gamba, tu, e siamo pronti a scommettere che hai già capito molte cose. Altrimenti, eccoti tutta la storia. Presi un sorso di birra e lessi le tre pagine successive, ovvero la cronaca particolareggiata degli eventi che avevano a che fare con il tesoro di Kidd,
Plum Island, e il coinvolgimento dei Gordon con Fredric Tobin. Non c'erano sorprese nella lettera, soltanto alcuni particolari che mi erano sfuggiti. Riguardo a cose sulle quali avevo fatto congetture, come il modo in cui il sito del tesoro su Plum Island era stato scoperto, i Gordon scrivevano: Non molto dopo il nostro arrivo a Long Island, ricevemmo un invito da Fredric Tobin per partecipare a una degustazione di vino. Ci recammo per l'evento alle Cantine Tobin e facemmo la sua conoscenza. Seguirono altri inviti. Così era cominciata la seduzione dei Gordon da parte di Fredric Tobin. A un certo punto, stando alla lettera, Tobin aveva mostrato loro una rozza mappa tracciata su pergamena, ma non aveva detto come ne era venuto in possesso. La mappa era di «Pruym Eyland», completa di rilevamenti alla bussola, passi, punti di riferimento e una vistosa X. Il resto di quella storia lo si poteva prevedere e, ben presto, Tom, Judy e Fredric avevano stretto un patto diabolico. I Gordon dicevano ben chiaro che non si fidavano di Tobin e che probabilmente sarebbe stato lui a provocare la loro morte, anche se sarebbe stata fatta apparire come un incidente, oppure opera di agenti stranieri o chissà. Tom e Judy erano arrivati finalmente a comprendere Fredric Tobin, ma ci avevano messo troppo tempo ed era troppo tardi. Nella loro lettera non si faceva menzione di Paul Stevens, riguardo al quale erano totalmente privi di indizi. Mi passò per la mente che Tom e Judy erano come gli animali con cui lavoravano: innocenti, ottusi e condannati dal primo momento in cui mettevano piede su Plum Island. La lettera terminava con: Ci piaci molto e ci fidiamo molto di te, John, e sappiamo che farai tutto il possibile per vedere che giustizia sia fatta. Con affètto, Tom e Judy. Posai i fogli e rimasi per un pezzo a fissare nel vuoto. Se quella lettera mi fosse arrivata prima, l'ultima settimana della mia vita sarebbe stata ben diversa. Emma sarebbe stata di certo ancora viva, sebbene non l'avrei probabilmente mai conosciuta. Un secolo fa, di tanto in tanto qualcuno arrivava a un crocevia, nella sua vita, e doveva scegliere una direzione. Oggi, noi viviamo all'interno di
microchip con un milione di sentieri che si aprono e si chiudono a ogni nanosecondo. Il peggio è che c'è sempre qualcun altro a schiacciare i bottoni. Dopo circa mezz'ora passata a contemplare il significato della vita, il campanello suonò e andai ad aprire. Erano poliziotti, in particolare alcuni buffoni dell'ufficio Affari Interni che sembravano irritati con me per qualche ragione. Andai con loro al Numero Uno di Police Plaza, a spiegare perché non avevo risposto ad alcuna telefonata ufficiale e perché ero mancato al mio appuntamento, per non parlare del mio secondo lavoro come agente della polizia di Southold. Il mio capo, Tenente Wolfe, era presente, il che era sgradevole, ma c'era anche Dom Fanelli, e fu un piacere rivederci e farci quattro risate. A ogni modo, i capi non la finivano più di elencare tutti i guai in cui mi ero cacciato, così chiamai il mio avvocato e il mio rappresentante dell'Ente Previdenza Detective, e prima di sera eravamo arrivati a un accordo. Questo, è la vita. Il suo significato non ha molto a che fare con il bene e il male, il giusto e l'errato, il dovere, l'onore, la patria o altro. Ha a che fare con l'arrivare a un buon accordo. 38 Una leggera neve cadeva sulla 10a Avenue, e dal sesto piano dove mi trovavo potevo vedere, in basso, i fiocchi turbinare attraverso le luci dei lampioni e dei fari. Quelli del mio corso stavano riempiendo l'aula, ma non mi voltavo a guardare. Era il primo corso del nuovo semestre, e mi aspettavo una trentina di studenti, più o meno, benché non avessi dato un'occhiata all'elenco. Si intitolava Giustizia Penale 709: sottotitolo, Indagini su un Omicidio. Vi sarebbero state quindici lezioni di due ore ciascuna una volta la settimana, il mercoledì, più alcune conferenze. Il corso valeva tre punti. Avremmo esaminato tecniche per impedire manomissioni sulla scena del crimine: identificare, raccogliere e salvaguardare prove, creare rapporti con altri specialisti compresi gli addetti al rilievo di impronte e i medici legali, più le tecniche di interrogatorio. Nelle ultime quattro lezioni, avremmo esaminato alcuni tra i casi di omicidio più noti. Non avremmo esaminato gli omicidi plurimi sulla North Fork di Long Island. L'avrei reso ben chiaro fin dal primo momento. Gli studenti del mio corso andavano di solito da poliziotti con ambizioni
a investigatori in visita qui a New York al soldo di qualcun altro, qualche agente in uniforme della polizia metropolitana o dei sobborghi con l'occhio al distintivo dorato o desiderosi di salire di uno scalino per arrivare alla promozione, nonché, di tanto in tanto, un avvocato della difesa che avrebbe imparato da me come riuscire a fare assolvere quelle canaglie dei suoi clienti grazie a qualche cavillo. Una volta, avevo avuto un tale che non era mai mancato a una lezione, aveva ascoltato ogni parola che io dicevo, aveva superato il corso con un «ottimo», poi era corso ad assassinare l'amico della moglie. Era convinto d'avere commesso il crimine perfetto, ma un teste casuale lo aveva aiutato a occupare una stanza in fondo al corridoio rispetto a Madama La Scossa. Tanto perché vi facciate un'idea. Penso che ugualmente meritasse «ottimo». Sulla lavagna avevo scritto il mio nome e, sotto, quello del corso per i potenziali Sherlock Holmes che avevano bisogno qualcosa di più del nome dell'istruttore e del numero della stanza per essere certi di trovarsi nel posto giusto. Così, parte del mio accordo con il Dipartimento di Polizia di New York era la loro collaborazione riguardo ai miei tre quarti di invalidità, il lasciar cadere tutte le accuse contemplate contro di me, e l'aiuto del dipartimento nell'assicurarmi una cattedra e un contratto di due anni al John Jay College di Giustizia Penale. C'è un solido rapporto fra il Dipartimento di Polizia di New York e il John Jay, e quindi per loro non era un compito troppo difficile da portare a termine. Da parte mia, tutto quello che dovevo fare era andare in pensione e fare dichiarazioni positive in pubblico sul dipartimento e sui miei superiori. Tengo fede al mio impegno, io. Ogni giorno, mentre sono sulla metropolitana, dico in pubblico e a voce alta: «Il Dipartimento di Polizia di New York è grande. Voglio bene al Tenente Wolfe». La campanella d'inizio suonò e io mi scostai dalla finestra per andare alla cattedra. «Buonasera», dissi. «Sono John Corey, ex investigatore della squadra omicidi del Dipartimento di Polizia di New York. Sul vostro tavolo, troverete un profilo generale del corso, un elenco di letture richieste e raccomandate, e alcuni argomenti suggeriti per elaborati e tesi.» Poi aggiunsi: «Tutti voi farete la presentazione delle vostre tesi qui in aula». E che ridurrà notevolmente per me l'onere di dover tenere trenta ore di lezione. Continuai ancora per un po' il mio blablabla sul corso, i voti, l'obbligo di frequenza e così via. Coglievo lo sguardo di alcuni degli studenti delle
prime file, e in effetti rappresentavano l'intera gamma dai diciotto agli ottant'anni, circa metà maschi e metà femmine, bianchi, neri, asiatici, ispanici, un tizio con un turbante, due donne in sari e un prete cattolico in clergyman. Accade soltanto a New York. Quello che avevano in comune, immagino, era l'interesse per la soluzione dei crimini. L'omicidio è affascinante e agghiacciante; è il grande tabù, il solo reato, forse, che ogni cultura in qualsiasi epoca ha condannato come il Crimine Numero Uno contro la società, la tribù, il clan, l'individuo. Vedevo, perciò, tanti occhi attenti e teste che assentivano mentre parlavo, e immagino che tutti noi volessimo trovarci li, il che non sempre accade in un'aula. «Esamineremo anche», dissi, «alcuni modi non scientifici di accostarci a un'indagine, concetti come le sensazioni, l'intuizione, l'istinto. Cercheremo di definire questi...» «Scusi, detective.» Guardai in su e vidi una mano alzata che si agitava nell'ultima fila. Oh, Gesù, e aspetta almeno che abbia finito la mia tiritera, no? La mano era collegata a un corpo, naturalmente, ma la proprietaria di quel corpo era andata a sedersi dietro un pezzo di marcantonio e di conseguenza la mano che si agitava era la sola cosa che riuscissi a vedere. «Sì.» Beth Penrose si alzò e per poco non finii io lungo disteso. «Detective Corey», disse, «tratterà anche argomenti come perquisizione e sequestro legali, diritti dei sospetti riguardanti perquisizioni illegali, e anche come andare d'accordo con il proprio partner, o la propria collega, senza farlo andare in bestia?» La classe rise. Io non ero affatto divertito. Mi schiarii la gola e dissi: «Io... Fate una pausa di cinque minuti, restando in classe. Torno subito». Uscii dall'aula e m'incamminai lungo il corridoio. C'era lezione in tutte le altre aule, e il corridoio era silenzioso. Mi fermai alla fontanella dell'acqua a bere, perché ne sentivo il bisogno. Beth Penrose era ferma a qualche metro da me e mi guardava. Mi raddrizzai e stetti un poco a contemplarla. Indossava blu jeans molto aderenti, scarpe basse e una camicia di flanella a scacchi, con le maniche arrotolate e i primi bottoni slacciati. Un insieme molto più da maschiaccio di quanto mi sarei aspettato. «Come va quella ferita da proiettile?» domandai. «Bene, bene. Non era profonda, anche se ha lasciato una cicatrice.» «Ne parlerai ai tuoi nipoti.» «Certo.»
Restammo a fissarci in silenzio. Alla fine, lei disse: «Non mi hai mai telefonato». «Non l'ho fatto, no.» «Dom Fanelli è stato tanto gentile da tenermi al corrente sul conto tuo.» «Ah, sì? Gli darò un pugno sul naso, la prima volta che lo vedo.» «No, non lo farai. Mi è simpatico. Peccato che sia sposato.» «È quello che dice anche lui. Sei iscritta a questo corso?» «Certo. Quindici lezioni di due ore ciascuna, ogni mercoledì.» «E fai tutto quel viaggio da... dov'è che stai?» «A Huntington. Ci vogliono un po' meno di due ore di macchina o di treno. Le lezioni terminano alle nove, così sono a casa per le undici.» Poi mi domandò: «E tu?» «Io sarò a casa in tempo per il notiziario delle dieci.» «Voglio dire, che cosa fai, oltre a insegnare?» «Faccio già abbastanza così. Tre corsi diurni, uno serale.» «Ti manca il tuo lavoro?» mi domandò. «Credo... sì, mi manca il lavoro, mi mancano quelli con cui lo facevo, il... la sensazione di stare facendo qualcosa... ma decisamente non mi manca la burocrazia o quelle balle lì. Era tempo di passare ad altro. E tu? Sempre piena di entusiasmo?» «Certo. Sono un'eroina. Mi amano. Sono un vanto per le forze di polizia e per il mio sesso.» «Io sono un vanto per il mio sesso.» «Soltanto il tuo sesso lo pensa.» Rise. Era evidente che stava conducendo la conversazione molto meglio di me. Cambiò discorso e disse: «Ho sentito che sei stato alcune volte a Suffolk, a parlare con quelli della Procura Distrettuale». «Sì. Stanno ancora cercando di venire a capo di quello che è accaduto. Da parte mia», aggiunsi, «cerco d'essere utile per quello che posso, considerata la botta in testa, che mi ha provocato un'amnesia selettiva.» «Ho sentito. Per questo hai dimenticato di chiamarmi?» «No. Non l'ho dimenticato.» «Be', allora...» Lasciò perdere e domandò: «Sei più stato a North Fork da quando...?» «No. E probabilmente non ci andrò mai più. E tu?» «Io mi sono innamorata del posto, in un certo senso, e ho comperato un piccolo cottage per i weekend a Cutchogue con un po' di giardino intorno,
circondato da una fattoria. Mi ricorda quella di mio padre, quand'ero bambina.» Stavo per replicare, ma me ne astenni. Non ero ben certo di dove saremmo andati a finire, ma immaginavo che Beth Penrose non stesse facendo la pendolare per tre o quattro ore ogni mercoledì solo per udire le parole di saggezza del maestro, parole che aveva già sentito e in parte respinto in settembre. Evidentemente, era interessata a qualcosa di più di tre punti di corso universitario. Io, d'altro canto, mi stavo abituando a non avere legami. «Dall'agente immobiliare del posto», disse lei, «ho saputo che la casa di tuo zio è stata venduta.» «Già. La cosa in fondo mi ha rattristato, per qualche motivo.» Assentì. «Bene, puoi venire a trovarmi a Cutchogue in qualsiasi weekend.» La fissai e dissi: «Ma prima dovrei telefonarti». «Sono sola», mi rispose. «E tu?» «Che cosa ti ha detto il mio ex compagno?» «Ha detto solo che non avevi nessuno di speciale.» Non replicai. Guardai l'orologio. Lei cambiò di nuovo argomento e mi informò: «Le mie fonti, alla procura distrettuale, dicono che si andrà al processo. Nessun patteggiamento. Vogliono una condanna per omicidio di primo grado con la pena di morte». Assentii. Forse non ne ho fatto cenno, ma l'eviscerato e quasi scotennato Fredric Tobin era sopravvissuto. Non me ne ero molto sorpreso perché sapevo di non avere vibrato una ferita necessariamente mortale. Avevo evitato le sue arterie, evitato di piantargli la lama nel cuore o di tagliargli la gola, come avrei probabilmente dovuto fare. Nel mio subconscio, penso, non avevo potuto commettere un omicidio, sebbene, nel caso fosse morto per lo shock o per avere perso sangue, dati i miei sforzi per ridurlo all'impotenza, non me ne sarei affatto pentito. Stando le cose come stavano, ora se ne stava in cella di isolamento nella prigione della contea, a contemplare una vita dietro le sbarre, o una scarica elettrica al suo sistema nervoso centrale. O magari un'iniezione letale. Desideravo solo che lo stato prendesse una decisione. Sono in favore della vecchia sedia elettrica, per Fredric, e ci terrei a essere uno dei testimoni ufficiali per poter vedere il fumo uscirgli dalle orecchie. Non mi è permesso di fare visita al piccolo stronzo, ma ho fatto in modo
che avesse il mio numero di telefono. Mi chiama ogni due settimane dalla galera. Io gli ricordo che la sua vita di vino, donne, canto, Porsche, belle imbarcazioni e viaggi in Francia è finita per sempre, e che un giorno o l'altro, presto, verrà portato fuori della sua cella all'alba e giustiziato. Lui, a sua volta, dice che riuscirà a cavarsela, e che farò bene a stare attento, quando tornerà libero. Che ego monumentale ha quel figlio di puttana! «John», disse Beth, «sono stata a visitare la tomba di Emma Whitestone.» Non risposi. «L'hanno sepolta in quel bel cimitero in mezzo alle tombe di tutti quegli altri Whitestone. Alcune risalgono a trecento anni fa.» Di nuovo non diedi risposta. «Io l'ho incontrata quell'unica volta», continuò Betfi, «nella tua cucina, ma mi era piaciuta, e ho sentito il bisogno di portarle qualche fiore. Dovresti farlo anche tu.» Assentii. Dovrei anche andare al negozio di fiori per dire una parola ai suoi amici, e avrei dovuto andare al funerale, ma non l'ho fatto. Non potevo. «Max ha chiesto di te.» «Ci credo. Penserà che me ne stia seduto su venti milioni di dollari in oro e gioielli.» «Ed è così?» «Certo. Ecco perché sono qui ad arrotondare la mia pensione di invalidità.» «Come va il polmone?» «Bene.» Notai che alcuni dei miei studenti erano diventati irrequieti e si erano avventurati nel corridoio, per andare alla toilette o per fumare una sigaretta. «Dovrei rientrare», dissi a Beth. «D'accordo.» Ripercorremmo insieme il corridoio, lentamente. «Pensi che troveranno mai il tesoro di Capitan Kidd?» disse lei. «No. Secondo me, quel paranoico di Paul Stevens l'ha nascosto così bene che rimarrà nascosto per altri trecento anni.» «Probabilmente hai ragione. Peccato.» «Forse no. Forse è bene che resti dove diavolo è.» «Sei superstizioso?» «Non lo ero. Adesso non ne sono più tanto sicuro.» Arrivammo alla porta dell'aula.
«Ho scoperto che c'è una piscina in questo edificio. La usi mai?» «Qualche volta.» «Porterò il costume la settimana prossima. D'accordo?» «D'accordo... Beth?» «Si?» «Ecco... ti troverai a disagio?» «No. Ma mi aspetto un "ottimo" alla fine del corso.» Sorrisi. «Farò tutto quello che occorre.» «Io non mi lascio corrompere.» «Vuoi scommettere?» Alcuni studenti, nell'aula, ci osservavano, sorridendo e bisbigliando tra loro. Entrammo, io diretto alla cattedra, Beth al suo banco. Mi rivolsi alla classe. «Abbiamo un altro detective della Omicidi con noi. Il detective Beth Penrose del Dipartimento di Polizia della Contea di Suffolk. Il nome del detective Penrose vi sarà forse familiare dopo un recente e non ancora concluso caso di omicidio nella North Fork di Long Island. Ho lavorato con lei a quel caso», aggiunsi, «e ciascuno di noi ha imparato qualcosa dallo stile e dalle tecniche particolari dell'altro. Inoltre, lei mi ha salvato la vita, così per sdebitarmi, dopo la lezione, la porterò fuori e le offrirò un drink.» Tutti applaudirono. FINE