GIORGIO SCERBANENCO
MILANO CALIBRO NOVE
GARZANTI gli elefanti
Indice 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22
Milan by calibro 9 Basta col cianuro Preludio per un massacro estivo In pineta si uccide meglio Spara che ti passa Stazione Centrale ammazzare subito Minorenne da bruciare Conoscerei scopo matrimonio Una signorina senza rivoltella Non si vive di solo poker Piccolo Hôtel per sadici Quando una donna piace forte Bravi ragazzi bang bang Strangolare ma non troppo Ubbidire o morire Vietato essere felici A Porta Venezia con paura Come è fatto un mostro? La giustizia quasi arriva ad Arzavò II nodo Luisa La vendetta è il miglior perdono Ricordati Cuore Infranto
1 Milan by calibro 9
«Sono americani», pensò il conducente dell'autopubblica numero 237, fermo al rosso del semaforo dietro il Duomo, ammesso che sotto quel diluvio di acqua e quello sporcume di aria si potesse distinguere che quello era il Duomo di Milano. «La ragazza però è italiana,» pensò ancora, perché il rosso del semaforo gli permetteva di pensare, e comunque non era una constatazione molto profonda perché i due uomini che aveva raccattato all'aeroporto parlavano soltanto in inglese, e la ragazza che era con loro parlava anche lei inglese ma con accento più di Ferrara che di Oxford, e lui, il conducente dell'autopubblica numero 237, aveva sentito nell'inglese della ragazza la cantata natia e aveva riconosciuto così gente della sua stirpe perché lui pure era di Ferrara e avrebbe voluto do mandare alla ragazza se era davvero di Ferrara, ci scommetteva un cinquecento d'argento, ma non si potevano fare domande ai passeggeri. “E poi sono due pesi massimi,» pensò, nello stesso istante che venne il verde e insieme scattò, di fianco al Duomo, e anche questa non era una profonda constatazione: i due ci stavano appena nella seicento, stavano con la loro testa rapata, da marines, un po' curva per non sbatterla contro il tetto della vettura e sorridevano gentili a tutto, con enormi denti da alligatori, sorridevano alla ragazza, sorridevano al Duomo sotto le raffiche di pioggia, sorridevano ai portici della Rinascente e ai manichini di ragazze dai capelli verde argento che indossavano i soprabitini terra di Siena di primavera, nelle vetrine fiorite di ramo di pesco, perché era primavera anche se pioveva, e avevano in tasca, ciascuno, così sorridenti, una St eik calibro 9, con proiettili dirompenti, il che vuoi dire che non importa dove il proiettile arrivi, basta che arrivi, anche al polso, e voi saltate in aria come vi avessero acceso una bomba sotto la sedia, e sette ore prima erano a New York e ricevevano in consegna le due Steik, e poi all'aeroporto avevano trovato la brunetta ferrarese che li guidava adesso all'Hotel Duomo. "“"The best hotel in the city,» “aveva detto ai due la ragazza, in impermeabile rosa fosforescente, così, forse per farsi notare, il migliore hotel della città, e i due sorridevano e assentivano, tutti e due rapati, tutti e due con quel giacchettone di pelle cenerina con su uno dei risvolti, un grosso bollo rosso, quasi un fiore all'occhiello, tanto, anche loro, forse, per farsi nota re, come se infatti avessero paura di non essere notati. Scesero, o meglio sbarcarono come i marines a «Omaha beach nel Dday”, con le loro flosce borse di pelle scamosciata, sorrisero al portiere
dell'albergo che arrivò col grande ombrello grigio a ripar arli dalla pioggia e che pensò subito: «Sono americani”, perché anche un lattante, vedendoli, avrebbe pensato che erano americani, e infatti lo erano, e Leo aveva insistito a New York: “Cari cuccioloni, l'americano che hanno in mente in Italia è un tipo come voi, e per questo vi ho scelto, e vi vestirò proprio da americani, non devono aver dubbi che non siate americani, chiunque, anche i gatti di Milano devono vedere che siete di qui, o meglio texani, fate finta di bere molto, sorridete sempre come foste sempre un po' sbronzi, ma non mettete i piedi sulla tavola, in Italia non lo sopportano, e non masticate gomma, per gli italiani la gomma la masticano gli americani volgari, voi siete due signori, non proprio dei professori, ma, soprattutto,» aveva spiegat o bene Leo, «sparate bene a vista, all'americana, da gangster, e del resto lo siete, appena avrete riconosciuto questo brutto grugno”, e aveva svolto la fotografia arrotolata formato quotidiano, ingrandita al punto da poter contare, volendo, i pori neri dei peli della barba. Era, sì, un brutto grugno, con qualche cosa di misto, mostruosamente, tra il gallo e il cane bastardo: aveva del gallo la struttura ossea della faccia, un grande naso aquilino che sembrava un battagliero becco, ma gli occhi rotondi avevano una luce vile, servile, strisciante, da cane bastardo. “Si chiama Giordano, non so altro, ma appena lo trovate e siete sicuri che è lui, sparate, perché è molto svelto anche lui, e non scherza neppure lui, sparate e distruggetelo in qualunque luogo vi troviate, anche in mezzo a una piazza piena di folla, non me ne importa se la polizia Italiana vi prenderà, in poco tempo vi tiro fuori io, state tranquilli, e ricordatevi che questa è una Steik calibro 9 con proiettili dirompenti: serve solo per ammazzare, non per ferire.” I due entrarono nell'albergo mentre i valletti prendevano subito le loro bellissime sacche pensando: “È roba americana”, e il segretario che li aveva visti entrare, era impossibile non vederli, il più piccolo doveva essere alto uno e novanta, disse al collega che era vicino a lui: «Sono i due americani del volo 32 da New York, le stanze sono la 114 e la 116.» L'anglo-ferrarese arrivò davanti alla segreteria, disse in italo-ferrarese: “Ho prenotato due stanze comunicanti, per i signori Dawer e Skeinerberg.” «Sì, signorina, sono la 114 e la 116”, si rivolse, in inglese, ai due: “Prego, i valletti vi accompagneranno. Spero che le stanze siano di vostro gradimento.” I due sorrisero coi loro grandi denti da alligatori e seguirono i valletti e il dietro piuttosto mobile dell'anglo-ferrarese. «Fate capire che vi piacciono le donne, quello è un ruffiano che procura le ragazze nei locali notturni. Cercate sempre donne, affamati, e troverete lui. Si chiama Giordano.» Non erano proprio affamati, ma avevano una certa propensione per le donne e non avrebbero faticato molto a manifestarla pubblicamente.
Le due stanze comunicanti avevano tutte e due il letto matrimoniale, ma la ragazza si tolse l'impermeabile rosa fosforescente senza mostrare molta preoccupazione per i problemi che ne nascevano, dal punto di vista della morale, aprì la sua valigeria e ne tolse l'astuccio dei saponi e del dentifricio. I ragazzi erano nella stanza vicina, mentre lei stava per entrare in bagno, la chiamarono. “Kekka”, per loro erano tutte cappa, non era il nostro familiare Checca. “Sì?” disse Kekka. Li raggiunse nella loro stanza, stavano davanti alla finestra, che avevano aperto, e così si udiva la pioggia scrosciante, turbinosa, che dal mattino allagava Milano. “Che cos'è quello?” indicò fuori della finestra, lui, Frank Dawer. “È la statua della Madonna, posta in cima alla guglia più alta del Duomo di Milano. I milanesi la chiamano la Madonnina.» «È sempre illuminata?» domandò lui, David Skeinerberg. «Sì, tutta la notte,” disse Kekka. «Molto bene, molto, molto bene, chi sa come sarebbe piaciuta a mia madre,” disse Frank. Guardarono un poco, tutti e tre, attraverso il niagara di pioggia, la dorata, luminosa statua sacra, poi, lui, David, chiuse la finestra, e intanto disse: “Ecco, ora facciamo una doccia, Kekka, poi tu ordini del whisky, hanno il J&B?» “Qui hanno più marche di whisky che al Karangoo della tua piccola New York,xdisse lei con orgoglio ferrarese e ambrosiano insieme. I ragazzi risero, piano, non rumorosamente, risero da americani signori, come Leo aveva loro insegnato. “Molto bene, molto, molto bene,” disse Frank, “fai portare il whisky perché prima di pranzo dobbiamo parlarti un poco.” E poi disse ancora: “Come si dice in italiano honey, a una donna?» “Si dice in molti modi, ma il più semplice è < tesoro >.» “Tesuro,” disse Frank. “No, tesoro,” disse lei. “Ah, capisco: tesaro, disse Frank. “Ma no, bestione, tesoro, come in hope!” “Sì, ho capito: tesoooro.” “Ma perché lo vuoi sapere, poi?” disse Kekka. “Per dirlo a te, prima di tutto, tesaro, cioè no, tesoooro, poi per dirlo alle ragazze per la strada.”La guardavano ghignando, la videro voltarsi nervosa: «Spiritosi”, e andarsene, allora cominciarono a spogliarsi, buttando gli abiti sul vasto letto sontuoso e, arrivati agli slip e alla pancera, si fermarono ed andarono insieme in bagno. “Comincia tu la doccia,” disse Frank, era il più alto, intorno ai due metri. David si tolse gli slip poi, con soddisfazione, affondò la mano nella tasca
della pancera e tirò fuori la Steik calibro 9. «Cominciava a darmi un po' fastidio,” disse. La posò delicato sul tavolino di marmo verde, si sfilò la pancera, ed entrò sotto l'ombrellino della doccia. “Io intanto mi faccio la barba,” disse Frank, si tolse anche lui gli slip e anche lui, con soddisfazione, levò la Steik dalla tasca segreta della pancera. “Sembra un bazooka,” disse. David aprì la doccia al massimo, fredda, e cominciò a ballonzolare sotto il getto mentre Frank prese dalla sua sacca il rasoio e il tubetto di crema rapida, si spalmò il mento e le guance di crema, bagnò il rasoio con l'acqua bollente e con precise falcate cominciò a radersi. Da sotto la doccia venne la voce spumeggiante di David: «Frank, sai quanto danno in Italia per un omicidio?» “Niente pena di morte,” disse Frank, “sono morbidi, qui. Per il genere di omicidio che abbiamo in mente noi, credo il carcere a vita, ma Leo ci tira fuori, non facciamo neppure un anno.” “Leo è imbattibile,” spumeggiò David da sotto la doccia. Sì, Leo era imbattibile, pensò Frank davanti allo specchio, radendosi, ma bisognava fare esattamente quello che voleva e ricordarsi bene le sue parole: “Senti, Frank, senti, David, guarda bene questa fotografia, questo è l'uomo che ci ha distrutto la base di Milano. Noi avevamo una mezza dozzina di amici, aggregati agli amici di Roma, erano la nostra squadra italiana, ci trovavano le ragazze e ce le inviavano. Questo brutto grugno della foto li ha venduti tutti e sei alla polizia, uno per volta, piano piano, quando non abbiamo avuto più dubbi che si trattava di spiate, era troppo tardi. Un amico è accorso a Milano dalla Francia per scoprire lo spione ma ha fatto in tempo a spedirmi solo la fotografia e a dirmi che si chiamava Giordano, poi non ne abbiamo saputo più nulla. Sarà stato denunziato anche lui, o ucciso. Guardate bene questa fotografia: finché quest'uomo gira per Milano o Roma, non potremo più lavorare in Italia. Non deve più girare: fatelo scoppiare con le Steik.” Aveva appena finito di radersi che dette il cambio a David, che aveva finito la doccia, si buttò sotto il getto lui, mentre David cominciava a mettersi la crema sul viso per farsi la barba, e istantaneamente vivificato dall'acqua fredda pensò ancora che Leo era davvero imbattibile, pensate alla pancera portacalibro 9. Una pancera non è il posto ideale per tenere una rivoltella, perché se no, ogni volta che dovete impugnarla per sparare vi dovete prima togliere i calzoni, però è il posto ideale per nasconderla durante il volo da New York a Milano: a meno che non vi portino nello spogliatoio, non ve la trovano più, a nessuna dogana. “Chiudete almeno la porta del bagno, bestioni,” disse Kekka, “mi sembra di essere una del circo che porta in giro due elefanti.”
“Cosa volevi?” educatamente, signorilmente, disse David. «Scusaci, cara.” Ghignò. «Volevo dirvi che è arrivato il whisky, e come lo volete». «Nudo,» disse Frank, uscendo dalla doccia. David rise. «Nudo come noi.” Kekka aprì di colpo la porta del bagno ed entrò. “Cosa sono queste cose?” disse indicando le Steik sul tavolino di marmo verde. «Non sono cose che ti riguardino,” disse Frank, frizionandosi le spalle con la lozione, non sorrideva, tanto meno la voce sorrideva, poi si frizionò il petto, “e non toccarle,” disse buio, vedendo che lei stendeva la mano. Kekka ritirò la mano. “Hai ragione, non tocchiamo.” Frank e David la guardarono uscire dal bagno, con simpatia. Leo era imbattibile anche in questo: aveva trovato in Italia il contatto giusto, quella ragazza: si capiva che aveva le due qualità necessarie, era decisa e seria, si sente subito il buffone. E rivestendosi pensò che Leo era imbattibile anche nei minimi particolari: quella tasca dei calzoni, tagliata molto più obliqua del normale e con due striscioline dì cuoio dentro in modo che vi infilate la Steik che vi va a finire con la canna nell'inguine, non sarà molto comodo, ma l'arma, anche così grossa, è perfettamente nascosta, non crea nessun rigonfio e la potete estrarre come foste un cow-boy di film, istantaneamente. Usciti dal bagno frizionati dalle aspre lozioni, vivificati, sedettero intorno al basso tavolino su cui era la bottiglia di J&B, la coppa di cristallo piena di ghiaccio, e davanti era seduta Kekka e bevendo la guardavano, la confortante sensazione all'inguine della Steik che premeva e che as-sicurava il dominio. E per un po' la guardarono senza parlare e bevendo, poi Frank disse: “Ci hanno detto, a New York, che ti chiami Frances Gattoni.” “Non Frances Gattoni, ma Francesca Gattoni. In italiano Frances si dice Francesca, e il diminutivo è Checca,” disse Kekka. I ragazzi sembrarono gradire molto quella lezione di lingua italiana. “Molto bene,” disse Frank, “ti chiami Francesca Gattoni e hai ventinove anni.” “Non ventinove,” disse Kekka, “sono trentacinque. È una bugia che ho detto ai vostri amici di New York. Mi dispiace.” “Non ti preoccupare, Kekka,” disse Frank, “non ce ne importa niente degli anni, del resto ne dimostri venticinque soltanto.” “Grazie, sei molto gentile,” disse Kekka. “Ci hanno detto che lavori in un istituto di bellezza,” disse David. “Non è esattamente un istituto di bellezza,” disse Kekka. “Voi capite cosa è, e io sono una delle massaggiatrici, diciamo così. Ma sono sola e non so fare altro.”
I ragazzi la guardarono con simpatia. Frank disse: “Ci hanno detto che prima facevi l'entraîneuse e che conosci bene <Milan by night>.” “Non l'entraîneuse,” disse Kekka, doveva avere la mania di contraddizione, “facevo la signorina per male, come adesso, ma i locali notturni li conosco bene, tutti.” Simpatica, molto simpatica, pensò Frank, gli piaceva la gente che usava le parole giuste. “Ci hanno detto che hai già avuto cinquecento dollari per aiutarci, e te ne daremo noi altri mille alla fine del lavoro.» “Sì, grazie,” disse Kekka. Bevette ancora una sorsata di acqua del ghiaccio disciolta nel suo bicchiere; «che lavoro è?” Frank disse a David: “Vai a prendere la fotografia.” Disse a Kekka: “Noi siamo venuti qui a Milano per parlare con una certa persona di cui conosciamo soltanto il volto attraverso la fotografia, e il nome.” “Milano è grande,” disse Kekka, “sarà un po' difficile trovare questa persona.” “Sappiamo qualche altra piccola cosa,” disse Frank, “che è uno sfruttatore di donne e che vive nell'ambiente dei locali notturni e in tutti i caffè e i bar dove c'è un giro di donne.” “Conosco qualcuno di questi signori,» disse Kekka, agitando i cubetti di ghiaccio perché si sciogliessero più in fretta. Questa è la fotografia,” disse David rientrando dalla stanza, estraendola dal robusto cilindro di cartone e svolgendola davanti a lei, come una tela rara di antico pittore. “Si chiama Giordano.” Kekka guardò il grifagno e bastardo volto della fotografia. “Ce ne sono tanti,” disse, “questo non lo conosco, non credo che sia difficile trovarlo. Volete cominciare subito, questa sera stessa?” “Subito, Kekka,” si alzarono tutti e due, quasi militarmente, e pimpanti. “Va bene, allora noleggio l'auto.” “Brava, vogliamo la macchina più vistosa e più grande che esista in questo piccolo borgo,” disse David. Lei andò al telefono, parlò con la segretaria e dopo qualche minuto disse: “Hanno un'Impala color argento, Vi va bene?” Loro assentirono. Kekka depose il ricevitore, andò verso di loro e per un istante li fissò in silenzio. “Che cosa avete da dire a questo Giordano, se lo troviamo?” Frank levò il pacchetto delle sigarette dal tascone della giacca, e se ne accese una. “Kekka, tu sei una brava ragazza, e dovresti essere così brava da capire che meno domande si fanno e meglio è.” “Siete venuti a parlargli con quelle due rivoltelle, l'ho capito benissimo,” disse Kekka, e andò a infilarsi l'impermeabile. “Non me ne importa niente di stare con due ammazza-ammazza come voi.
Io sono una donna finita.» Aprì seccamente la porta: “ Andiamo, bestioni.” Sorrise, dolentemente. L'Impala arrivò quasi subito, sotto la pioggia favolosa sembrava ancora più fantascientifica, così argentea, schiacciata, aveva più del disco volante che dell'auto. Kekka disse: “È una macchina che adoperano solo per gli sposalizi, qui, guardate se ci sono dei fiori d’arancio.» Non c’erano, ma c’erano due tendine bianche ai sedili posteriori. “Questi sono chicchi di riso,” disse David sedendo dietro. “Allora siamo sposi,” disse Frank che si era messo al volante e accanto a lui c'era Kekka. “Vai piano “stai attento a quello che ti dico io, guidare a Milano non è facile come a New York,” disse Kekka. “Vai diritto, poi volta a destra.” Sotto quella pioggia anche piazza del Duomo, a quell'ora, era quasi deserta. “Volta ancora a destra», disse Kekka. “Avanti, piano, dai la precedenza al tram, ecco, questa è piazza della Scala, gira a destra e poi subito a sinistra, ecco, questo è il monumento a Leonardo da Vinci, mai sentito parlare, vero?, e quella è la Scala, il Teatro alla Scala.” “II Metropolitan di Milano,” disse David. Erano anche spiritosi. “Stai sulla destra per girare subito a destra,” disse Kekka, «ecco, così, questa è via Manzoni, la via di classe della città, dai la precedenza al tram, cerca di impararlo, qui ci sono i tram, bestione, e questa a destra è via Montenapoleone, ma tu vai diritto, via Montenapoleone è ancora più di classe di via Manzoni, ci sono gioiellerie e pelliccerie per milioni di dollari, c'è un fruttivendolo dove puoi trovare le ciliege a dicembre e le castagne a giugno, a circa cinquanta dollari il chilo.” Seduto dietro, tutto solo, David disse: “ Come
nella Quinta, c'era la tempesta di neve, due anni fa, non si poteva mettere il naso fuori dalla porta e lui aveva i peperoni gialli, appena colti, grassi come porcellini, anche loro cinquanta dollari al chilo.” Kekka disse: “Tu però vai diritto, non voltare in via Montenapoleone, e fermati lì,” parlava a Frank sotto il grandinare della pioggia, “dove vedi quelle luci più forti, fermati: è la galleria Manzoni, no, non è la galleria che pensi tu, quella di piazza Duomo è un’altra, fermati qui, ecco un poco più avanti, sali sul marciapiedi, con le ruote di destra, come le altre macchine davanti a te, ecco qui, bravo. Prima di scendere aspetta che ti spiego, questo è il primo posto dove vi porto perché è una specie di concentrato. In questa galleria ci sono molte cose: c'è un piccolo bar dove beviamo l'aperitivo, poi c'è ristorante molto fine che si chiama Harry's Bar e dove andremo a cena, poi c'è il cinema e il teatro Manzoni, noi andremo al cinema, vedete, danno La Bibbia, non è uno spettacolo adatto per voi, ma non so che cosa farci. E
infine c'è il locale notturno, si chiama Maxim, danno una specie di spettacolo, adesso andiamo a vedere le fotografie esposte fuori dall'entrata, devono essere le Sister Berlino. L'uomo che cercate può girare da queste parti.” “Come prima esplorazione mi sembra molto bene,” disse Frank. “Avanti”, e fecero tutto il giro che lei aveva preparato: qualche whisky al piccolo bar, un altro paio all'Harry's prima di pranzare. I due ammazza-ammazza mangiarono esattamente come a New York, due hamburger con l'uovo sopra, patate fritte e un pompelmo con ravanelli. Invano il maìtre offrì spaghetti e maccheroni, o le cozze alla napoletana, loro erano abitudinari e stavano agli hamburger. Poi andarono a vedere La Bibbia e nel buio del cinema, garbatamente, si spostarono la Steik che, da seduti, dava più fastidio che in piedi. Naturalmente nell'intervallo guardarono uno per uno, ma garbatamente, tutti gli uomini in sala, David fece perfino il giro del cinema e andò nelle toilette: non si sa mai. “Sparate appena siete sicuri che è lui, non dovete aver paura di fare scandalo, sparate e fuggite, se vi riesce di andare in Svizzera, meglio, là vi ho già detto da che amici dovete andare, se no pazienza, vi tiro fuori lo stesso, anche se vi mandassero all'inferno in consegna al diavolo. Ma fate chiasso, tutti devono sapere che siete venuti dall'America a far fuori uno sporco ladrone di spia, i giornali devono parlare almeno per una settimana, anche qui,in modo che tutti questi sorchi ladroni laggiù in europa sappiano che fine faranno se non staranno sull’attenti. Spara subito e tutto un caricatore, non voglio un ferito: voglio un massacro.” Naturalmente, al cinema l'uomo dal naso aquilino chiamato Giordano non c'era, sarebbe stata troppa fortuna incontrarlo così, subito, e allora andarono da Maxim, scesero la scaletta nella luce ombrata, si ritrovarono nella sala dove, così vistosamente americani, furono accolti come Mac Arthur al ritorno negli Stati Uniti dopo la vittoria sul Giappone, però l'uomo dal naso aquilino non c'era, in compenso verso le due arrivò una bruna beat, completamente vestita da uomo, un Galles dalle righe un po' vistose, ma con le scarpe d'oro dal tacco alto che si avvicinò al loro tavolo e disse a Kekka: “Se avessi saputo l'inglese te ne avrei soffiato almeno uno di questi buoi.” “Che cosa ha detto?” domandò Frank a Kekka. “Le rincresce di non sapere l'inglese, dice che se lo avesse saputo avrebbe sedotto almeno uno di voi,” disse Kekka. L'espressione di Frank s'indurì. “Domandale se conosce Giordano.” “II mio amico vorrebbe sapere se conosci un certo Giordano che dovrebbe frequentare questi ambienti,” disse Kekka alla ragazza, sul sottofondo della musichetta e degli strilletti di una negra. “Se è quello col naso a becco, cerco di starci alla larga, ma purtroppo lo conosco,” disse la bruna beat. “Che cosa ha detto?” domandò Frank.
“Ha detto che se è quello col naso a becco, lo conosce.» “Molto, molto bene, Kekka, sei stata brava,” ma lo disse duramente. “Adesso domandale dove possiamo trovarlo.” “Vogliono sapere dove possono trovarlo,” disse Kekka alla ragazza, si fa per dire, perché era pericolosamente vicina ai trentacinque. La bruna beat alzò le spalle. «Di solito non si sa mai dove sono, sporcaccioni come quelli, ma se proprio ti preme sei fortunata: adesso è a Roma, ma domani sera deve venire qui a portare due nuove ballerine che è andato a prelevare laggiù. Dopo le undici, domani sera, puoi stare sicura che te lo vedi arrivare spingendo qui dentro le due ballerine. Io non ci terrei a vederlo, ma ciascuno ha i suoi gusti.” “Che cosa ha detto?” domandò Frank. Quando si trattava di lavoro la voce era proprio piuttosto dura, come lo sguardo diveniva ostile. “Ha detto,” Kekka s'interruppe per bere un sorso di ghiaccio disciolto nel bicchiere, beveva solo quello, “ha detto che lei non lo frequenta molto perché è un mascalzone, e che è molto tempo “che non lo vede, e non saprebbe dirti dove puoi trovarlo. Dice che è uno che gira così, in questi ambienti”, e appena ebbe mentito si sentì agghiacciare, e non era l'acqua ghiacciata che beveva, ma la coscienza della fine che avrebbe fatto se fosse stata scoperta, ed era molto probabile che la scoprissero, e il gelo proveniva dall'immagine di quelle rivoltelle che loro tenevano nella tasca e che avrebbero usato senza esitare un istante. Frank e David guardarono tutte e due le donne, con occhi senza sorriso, ostili. Poi Frank disse: “Mi dispiace. Domandale allora quale è il cognome di quest'uomo, e se sa dove abita, o se conosce almeno qualche sua amica o amico che ci possano dare informazioni su quest'uomo. Dille che se mi da un'informazione utile per trovarlo, le do cinquecento dollari.” Quegli occhi senza sorriso la terrorizzavano, ebbe perfino voglia di fuggire, ma si controllò e si rivolse alla ragazza beat. «Senti, io è la prima volta che ti vedo, ma fammi un favore, intanto che ti parlo, ogni tanto scuoti il capo e di' <non lo so, non lo so>, e qualche altra parola.” “Cos'è questa commedia?” disse la bruna finta beat. «Per favore, scuoti il capo e fai come ti ho detto, ci stanno guardando, non capiscono un chicco di italiano, ma possono capire dal tono della voce. Aiutami per favore. La bruna, senza sapere ancora niente, sentì il pericolo, forse quei due uomini che ora non sorridevano più raggelavano anche lei. Scosse il capo più volte. “Non lo so,” disse, “no, no, no”, con la boccuccia arrotondata, perché .anche i due capissero che stava dicendo di no. E poi aggiunse: “Domani vado a giocare alle corse a San Siro”, tanto per dire qualche altra cosa. “Ecco, così va bene, adesso parlo ancora io, poi tu mi dici di no,” disse
Kekka. “Senti, io non conosco neppure questo Giordano, e non me ne importa niente di lui, ma non sono un'assassina, questi due sono venuti apposta dall'America per accoppare questo Giordano, io sono costretta ad aiutarli, se no ammazzano me, ma non voglio partecipare a un assassinio.” “Non lo so, non lo so, no,” la ragazza scuoteva il capo, con molta naturalezza, la paura che cominciava ad arrivarle allo stomaco. “Se vinco a San Siro mi compro, mi compro, sai cosa mi compro, una roulette, faccio venire la gente a casa mia a giocare.” “Grazie, cara, sei brava,” disse Kekka, “se capiscono che li imbroglio mi sparano subito, hanno in tasca due rivoltelle grosse come questa bottiglia di whisky, e le usano. Anche se questo Giordano è un farabutto, non voglio che sia ammazzato col mio aiuto. Cerca di vederlo, cerca di avvertirlo di quello che ti ho detto e di dirgli che si tenga nascosto, e poi scompari, più lontana stai da questa gente, meglio è.” “Non lo so, no, no, no, non lo so proprio, poi non la prendo la roulette, a parte il fatto che non vinco di certo...” “Ecco, grazie, basta,” disse Kekka. Si rivolse a Frank. “Ha detto che di questi tipi non si sa mai molto, lei, l'estate scorsa l'ha visto un paio di volte qui e una volta in un altro locale, lui le aveva proposto un altro lavoro, con una roulette in un piccolo appartamento, ma era una cosa che a lei non piaceva, aveva detto di no e non si sono rivisti più da allora.” “Sì, l'avevo immaginato,” disse Frank, “continuava a dire di no.” Era cupo, come David. “Dalle l'equivalente di dieci dollari e buttala fuori.” “Mi hanno detto di darti l'equivalente di dieci dollari e che puoi andartene,” disse Kekka alla ragazza. “Ti do diecimila, recita bene la parte, cara, perché se si accorgono di qualche cosa...» La bruna beat prese il foglio da dieci, non aveva bisogno di raccomandazioni aveva una paura che le dava la nausea come quando era stata incinta di quella povera bambina che adesso era in un kinderheim in Svizzera a trentotto franchi al giorno, che non è poi molto poco, ma chi è stupido e sbaglia, paga, radunò tutte le sue forze per non vomitare e per recitare la parte: fece una carezza sul capo a David, sorrise procace, e disse le uniche parole in inglese che sapeva: “Thank you, I love you” , a Frank. E si volse per andare. La voce di Frank la fermò. “Senti, tesoro, aspetta un momento che ti offriamo un passaggio.” Non che fosse un grande italiano, era un newyorkese, con delle parole italiane anziché inglesi, ma era italiano, e comprensibile. Allora Kekka, Francesca Gattoni, capì che era morta. Aveva tanta paura di morire, e per quello non era mai riuscita a suicidarsi, perché aveva tanto orrore della sua vita, ma voler morire ed essere capaci di uccidersi sono due cose diverse; un paio di volte aveva comprato dei sonniferi, ma poi era
stata incapace di prenderli, una volta aveva perfino pensato di noleggiare un'auto e andare a sfracellarsi contro un muro. Per quanto la sua vita fosse tutta un sottile e incredibile elaborato di errori, per quanto il feroce mestiere che era costretta a fare le desse schifo di se stessa, per quanto la solitudine disperata di tutta la sua vita, a parte i pochi uomini che avevano solo approfittato di lei, l’avesse consumata dentro, come una raspa consuma un delicato legno, pure il terrore della morte era sempre più forte, come adesso. Ma adesso, osservando Frank che si era alzato e che sorridendo largamente coi suoi denti da alligatore teneva per un braccio la ragazza bruna vestita da uomo, sapeva che sarebbe morta, anche se aveva tanta paura. Finalmente sarebbe morta. “Non gridare e fai tutto quello che ti dico io,” disse Frank alla ragazza, pianissimo. “E non mostrare di aver paura, se vuoi vivere.” Fece risedere la ragazza al tavolo. “Io credo che tu voglia vivere, al minimo tentativo, sei morta.” Alzò la voce e disse in inglese a David che non capiva l'italiano: “Sono due sporche bestie e hanno tentato di imbrogliarci. Ma abbiamo trovato il nostro amico.” Poi disse a Kekka: “Non puoi pensare che mandino qui a Milano due cretini che non sanno una parola di italiano. Almeno uno dei due deve sapere l'italiano, e quello sono io. Mi dispiace, Kekka, avevo molta fiducia in te, mi hai deluso.” Con lei parlava in inglese. Poi tornò a parlare in italiano alla finta beat. “Adesso venite tutte e due con noi in albergo, e parliamo un poco. Se volete morire, sapete cosa dovete fare.” Non volevano morire, lei, Francesca Gattoni, per terrore della morte, anche se aveva orrore della vita, e l'altra, la povera goffa beat, perché non aveva pensato mai a morire, le piaceva bere, fare l'amore, mangiare e poi ogni tanto andare a trovare la bambina a Silvaplana e farla giocare sulla neve. Perciò fecero esattamente tutto quello che dissero i due e non gridarono, non tentarono di fuggire, e dieci minuti dopo si trovarono nelle due stanze comunicanti all'Hotel Duomo. “Le pastiglie,” disse Frank a David, “devi averle, tu soffri d'insonnia.” David sorrise e dalla sacca andò a prendere il piatto astuccio. “Ecco,” disse Frank alle due donne, le aveva fatte sedere sul letto, «tu che sai l’inglese, Kekka, non dovete pensare che vogliamo avvelenarvi: se proprio occorre noi preferiamo sparare. Voglio soltanto che facciate un buon sonno. Ecco: prendetene tre per una, occorre un quarto d'ora o poco più perché facciano effetto. In questo quarto d'ora facciamo in tempo a fare due chiacchiere, vi devo spiegare alcune cose. Poi vi preparate per la notte e farete una bella nanna. Kekka, traduci alla tua amica, mi affatico un poco a parlare in italiano.” Lei tradusse rapida, le labbra secche dal terrore alla vista della mano di lui
sull'impugnatura della Steik calibro 9, un poco estratta dalla tasca, come nei film western. “Su, prendete le pastigliette,” disse David gentile, intervenendo con un piattino sul quale erano sei compresse, tre per ciascuna, e con un bicchiere. Kekka le prese per prima, la beat subito dopo, docilmente. “Ecco,” aveva l'abitudine di cominciare i suoi discorsi con «ecco”, Frank, e parlava pacato, per niente minaccioso, «adesso vi ripeto che potrete sopravvivere soltanto se fate quello che dico io. Tenete bene in mente questo. Dicono che sia difficile ammazzare le donne perché le donne strillano. Sì, è vero, le donne strillano, ma io le ammazzo lo stesso. Con me strillano molto poco. Per favore, Kekka, traduci alla tua amica.” Kekka tradusse, gli occhi fissi sulla mano di lui sull'impugnatura della Steik, sarebbe stato così facile morire, e lei ne aveva tanto desiderio, bastava sputargli in faccia e lui avrebbe sparato, ma no, no, non ne era capace lei, di voler morire, e finito di tradurre le venne perfino da ridere perché vide la beat che fece subito a Frank vistosi segni di assenso e intanto diceva perfino: “Yes, yes”, che avrebbe obbedito, tutto, tutto, pur di vivere. “Ecco, ora che siamo d'accordo su questo,” disse Frank, “vi spiego quello che succede. Voi adesso dormite fino a verso le undici di domani, poi fate una bella colazione, poi vi rido ancora due pastigliette e dormite ancora fino verso le undici di sera. Allora fate il vostro bagno, mangiate poi qualche panino qui in camera e verso l’una torniamo da Maxime a cercare quel nostro amico. Questa ragazzina vestita da uomo ha detto che lo troviamo di sicuro, che torna da Roma con due ballerine. Bene, lo troviamo,” estrasse di colpo la rivoltella, “sistemiamo i nostri affari con lui e poi,” David ascoltava sorridendo Frank che parlava così calmo e così nitidamente, «poi naturalmente cercheremo di fuggire e voi servirete per coprire la nostra ritirata, vi stringeremo sul nostro cuore e al primo che vuole impedirci di fuggire voi partite, con questa,” e si mise la Steik nella tasca-fondina. “Credo di essere stato chiaro. Traduci alla tua amica, traduci bene e giusto, sai che capisco un poco l'italiano. Non fare errori di traduzione. Avete una probabilità su mille di sopravvivere: quella di non commettere errori.” Kekka tradusse. Senza errori. Esattamente tutto accadde come aveva detto Frank, e lo dissero anche i giornali, e verso l'una della sera dopo due alti americani rapati quasi a zero, vestiti tutti e due, collegialmente, con un giacchettone cinerino con un bollo rosso al risvolto, scesero nei morbidi, penombrati, musicali e canori sotterranei dell'elegante locale notturno Maxim, in galleria Manzoni, accompagnati da due giovani signore che non avevano un aspetto molto vivace, come avessero dormito troppo, e appena in fondo alla scala incontrarono un uomo molto sfortunato, si chiamava Giordano e aveva il naso
aquilino, che voleva salire. Non ebbero bisogno di cercarlo troppo i due americani: se lo trovarono lì. Frank Dawer, e David Skeinerberg non gli domandarono neppure se era proprio lui, Giordano: era la copia esatta della fotografia, e gli scaricarono addosso due colpi per ciascuno, perché Leo non voleva feriti, voleva un massacro pubblicitario a livello internazionale, e quello col naso aquilino si ruppe come un uovo, bloccando la scala coi suoi resti, cosa che ritardò molto la caccia degli assassini perché nessuno osava scavalcare i gradini con lo sfasciume di quello che era stato un uomo, per risalire la strada e dare l’allarme, e i due, invece un attimo dopo erano fuori, tenendo elegantemente per il braccio le due giovani signore, ma fermamente, ebbero tutto il tempo per salire sull'Impala e mettere in moto, perché le detonazioni dal sotterraneo di Uxim non si erano udite. “Dicci la strada per Ponte Chiasso, andiamo in Svizzera,” disse Frank che guidava. “Fate le brave, avete visto che cosa è una Steik.” Sì, avevano visto, e avevano ancora più terribilmente paura di morire. Vicino a Como uno dei due, doveva essere stato David, ma lei e la beat nella paura e nel buio non videro bene, le colpì in testa col calcio della calibro 9. Il giorno dopo, sul tardi, Francesca Gattoni, detta Kekka, si risvegliò all'ospedale di Como, mentre i due ammazza-ammazza erano già all'aeroporto di Zurigo insieme con un compare e di lì a sei ore sarebbero stati a New York. Perché i piani di Leo erano imbattibili. “Mi sentite, signorina? Cercate di rispondermi, se mi sentite rispondete, se potete parlare, rispondete.” Capì che era un poliziotto per il “voi”. “Se mi sentite, ditemi chi vi ha colpito così, che cosa vi ha successo,» disse proprio così: «che cosa vi ha successo”. E nello stesso tempo, lei, Kekka, capì una cosa: era viva, viva, disgraziatamente viva, ancora viva, chi sa per quanto tempo infame, bestioni, bestioni, pensò odiandoli, perché non mi avete uccisa?
2 Basta col cianuro
Milano, viale Lombardia: c'era un posto dove si mangiava la pizza e altre cose molto gustose, lui aveva parcheggiato la Citroen proprio di fronte al locale, e dopo la corsa che aveva fatto da Genova si era mangiato la pizza e anche diverse delle altre cose gustose. Era piccolo e un poco grasso, ma il suo sarto gli disegnava abiti talmente studiati e ben tagliati che sembrava quasi snello e l'ingegnere, a Genova, lo aveva soprannominato Giorgio lo Smilzo, e quando la ragazza arrivò davanti al suo tavolo, in piedi, con quel pacco di libri sotto braccio, mentre lui stava finendo un piatto di nervetti, avidamente, tirando su con la forchetta anche i lunghi riccioli di cipolla cruda, alzò lo sguardo e finì di masticare rapidamente. “Posso sedermi?” disse la ragazza. “Si accomodi, prego,” le rispose. La guardò sedersi, con la maglietta bianca che le aderiva ancora di più nell'atto di curvarsi e le lunghe trecce alla bambinella, fermate ciascuna da un nastrino rosso come la gonna, che le frusciavano sul tavolo, e le belle mani lunghe che deponevano sul tavolo, vicino alla treccia destra, il pacco dei libri legati da un elastico, proprio come fanno le studentesse di liceo. Non che lui fosse così ingenuo da credere che quella fosse davvero una studentessa. Quando un uomo, a pochi metri da dove si trovava con quella ragazza, ha parcheggiato una Citroen e nel baule della Citroen c'è una valigia con dentro una ventina di chili di cianuro, liquido, cristallino e solido, trasportati dal Tigullio fino al centro della Valle Padana, quest'uomo non può essere uno sciocco da pensare che le studentesse vadano in giro con i libri a mezzanotte, per le pizzerie. «Le piacciono i nervetti? Glieli consiglio, un piatto straordinario,” disse alla studentessa che fingeva di leggere la carta, e guardandole le belle labbra pronunciate, disse ancora: «Ne mangio un altro piatto anch'io, mi tiene compagnia?” Lei sembrò attirata eppure impaurita. “Mi piacciono tanto, ma con tutte quelle cipolle.” Lui trascurò la sua obiezione, aveva capito che la ragazza aveva una fame verde e disse al cameriere che passava in quel momento: “Due nervetti, speciali.” “Speciali,” disse il cameriere. “Intanto, io le farei preparare anche una pizza coi funghi, che ne dice?” le parlava fissandole il lobo di un orecchio e, sempre dando una occhiata allo
specchio per rassicurarsi che nessuno tentasse di aprire il baule della sua Citroen, riempì la ragazza di nervetti, di pizza con funghi, di profiterol, di Verdicchio, e infine di un mezzo bicchiere di grappa con la ruta. “Sono veneta,” disse la ragazza mentre, alzatisi dal tavolo, andavano verso la Citroen nuovissima. “Mi chiamo Gianna.” L'auto si mosse ma subito rallentò, perché in fondo al vialone c'era un grosso camion con rimorchio che stava svoltando: è pericoloso avere degli incidenti d'auto quando si hanno nel baule una ventina di chili di cianuro. “Che libretti ti porti in giro, studentessa?» le domandò. Lei si mise a ridere. “Greco,” disse, “la grammatica, il vocabolario e le versioni.” “Perché ridi?” disse lui. “Perché tu non ci credi che io studio il greco.” “Certo che non ci credo.” “Invece io lo studio,” lei rise, gorgogliante. “Non per me, per mio fratello.” “E a tuo fratello cosa gli serve il greco?” “Lui fa il liceo, non gli va di studiare, mia madre invece vuole che prenda la laurea, allora io l'aiuto.” “E tuo padre?” “Mio padre non c'è, da molti anni, è andato con un'altra donna.” Rise, sempre gorgogliante, e così era proprio una femina ridens. “Tu non credi a niente di quello che ti dico, non ci credi che studio il greco per aiutare mio fratello, anzi, non credi neppure che abbia un fratello, invece io studio il greco, sai cosa vuoi dire ? Vuol dire amo, e stai a sentire tutte le varianti, < Agàpe > vuol dire amore, e vuol dire affettuoso, che gli piace fare l'amore, e che uno è forte, coraggioso, e ha tanta forza per fare l'amore.” “Non ti credevo,” disse lui sincero, “adesso ti credo. Sei straordinaria.” “Se mi offri un'altra grappa ti faccio tutta la lista dei vocaboli che hanno i radicali <Étero>, da <Eteropous> che vuoi dire zoppo a < Eteroplanés > che significa vagabondare e sai perché le squillo, nell'antica Grecia, si chiamavano < Etère >? Perché viene dalla parola greca <Etaìra>, che significa socio, amico, consigliere, o uno che vive insieme un po' come un amico. E così le amiche, le cortigiane di allora erano chiamate < Etère >.” Gli appoggiò una mano sul ginocchio. “Io sono un'< etèra >, facile facile,” sorrideva dolce, provocante e cinica. Se lui fosse stato intelligente avrebbe cominciato a dubitare di qualche cosa. Una ragazzola che si prende con una pizza e un po' di grappa e che nello stesso tempo sa il greco, dovrebbe mettere in sospetto un uomo di esperienza. Ma lui non si mise in sospetto: non fu colpa del fascino prepotente che emanava da lei, né del lauto cenino fatto che richiamava tutto il sangue allo stomaco,
anemizzando il cervello e paralizzando l'ideazione razionale. Era semplicemente colpa della sua presunzione di maschio. Come uomo non poteva ammettere che una ragazzina potesse fargliela; e questa è una forma di stupidità di molti uomini, anche intelligenti, ma non c'è nessuna medicina per guarirla. «Ti prendo addirittura una bottiglia di grappa con la ruta, ma ce la beviamo a casa, basta che non mi dici più niente di greco.” Lei gorgogliò: “Quale casa?” carezzandogli il ginocchio. “Facciamo la mia, penso che nella tua ci siano troppi familiari che studiano anche a quest'ora.” Lei scoppiò a ridere. “Sei proprio simpatico, sei spiritoso, andiamo a casa tua.” Egli fermò due minuti davanti all'ultimo bar aperto, avevano della grappa semplice, non con la ruta, ma lui prese lo stesso, tanto la professoressa di greco non l’avrebbe rifiutata, poi risalì in auto con la bottiglia e la mise sulle ginocchia della ragazza. “Non c'è la ruta, ma è grappa friulana autentica.” Prima di mettere in moto la strapazzò un poco per sentire il suo riso gorgogliante. “Dove abiti, amore mio?” disse lei. “In via Vincenzo Monti,” lui disse. Avevano appena oltrepassato il castello Sforzesco, e si erano appena addentrati nel Parco che lei gli mise le braccia al collo e gli parlò soffiando all'orecchio: «Fermati un momento qui,” soffiò ardente. Era uno stretto viale, male illuminato, forse un millesimo di sospetto attraversò la sua mente, ma le mani di lei sul collo e sul viso, la sua voce soffiante e bruciante, spensero quel sospetto ed egli fermò di colpo la macchina e l'abbracciò. Nello stesso tempo qualche cosa esplose in lui, alla nuca, perse ogni sensibilità, anche quella delle labbra di lei che aveva appena raggiunte, e la testa gli cadde come mozzata sul volante con tale forza che gli uscì subito sangue dal naso. La ragazza staccò il portachiavi dalla messa in marcia. C'era anche la chiave del baule, scese, le occorse un po' di tempo per aprire il baule perché non trovava la chiave, ma alla fine ci riuscì, dentro vide subito la valigia e la prese subito come se la conoscesse, fosse una vecchia amicizia. Era pesante e pericolosa, e lei la maneggiò con molta attenzione, dovendo sapere che era pericolosa, lasciò anche il baule aperto, per non perdere tempo a richiuderlo, doveva far presto, e stava per avviarsi a piedi nelle profonde oscurità del vialetto quando udì quella voce: “Rimetti la valigia a posto e chiudi il baule”, e vide chiaramente, anche se erano in un punto in penombra perché il lampione era lontano, la canna della rivoltella. Il suo primo impulso, femminile, fu quello di fuggire, anche senza la valigia, e il secondo fu quello di gridare, ma doveva essere abbastanza
intelligente e rimise subito la valigia dentro il baule dell'auto. “Non sparare,” disse, guardando il viso insanguinato di lui. “Chiudi il baule e riportami le chiavi.” Era sceso dalla macchina ancora pieno di vertigini per il duro colpo preso alla nuca, il naso che colava sangue per avere sbattuto contro il volante, ma ritornato in sé, piccolo, grasso ma forte. Lei chiuse obbediente il baule e gli andò incontro con in mano le chiavi. «Non sparare,” gli ripeté. “Sali,” lui rispose. Lui, quando l'ebbe seduta vicina, le portiere chiuse, si pulì il naso dal sangue e senza mettere in moto la macchina, la rivoltella puntata contro il collo di lei, le disse: “Adesso parliamo”, col naso chiuso dal sangue coagulato. “Rispondi bene alle mie domande, altrimenti sparo.” “Dimmi,” disse lei che era una persona intelligente e voleva vivere. “Che cosa c'è nella valigia che volevi rubarmi?” Lei disse subito: “Cianuro.” Piccolo, grassoccio, rintontito ancora da un colpo alla nuca dato forse con una chiave inglese, deluso un'ultima volta dalle donne, anche da quelle con le treccine e coi libri di greco sotto il braccio, lui sorrise. La gente diceva cianuro e basta, invece vi sono diverse forme di cianuro, al plurale, alcune solide e liquescenti, altre cristalline, altre liquide. Nella valigia lui ne aveva di tutti i tipi, cominciava con sei bottiglie di acido cianidrico, detto anche volgarmente acido prussico, e si trattava di sei bottiglie termos con ghiaccio secco dentro che manteneva la temperatura poco più di 5 gradi sopra zero, perché l'acido cianidrico bolle a 26, allora diventa gassoso e se uno respira quel gas è peggio che una scarica elettrica ad alta tensione. Nella valigia c'erano anche dei pani, morbidi e umidicci per la loro liquescenza, di cianuro di sodio, avvolti in tre fogli di carta piombata perché una goccia di quella roba lì sulla pelle nuda fa un buco attraverso tutto il corpo. Infine la valigia conteneva una ventina di flaconcini, chiusi anch'essi in scatole di carta piombo, e contenenti i cristalli di cianuro di potassio. Quindi la ragazza aveva detto la verità, la valigia conteneva cianuro, come si dice popolarmente. “E come facevi a sapere che la valigia contiene cianuro?” domandò, spingendo un poco di più la canna della rivoltella nel collo della ragazza. “Dall'ingegnere,” rispose Gianna. Doveva essere vero, pensò lui, perché una ragazza intelligente come quella non dice bugie con una rivoltella sul pomo di Adamo, o di Eva. Ma l'ingegnere era quello che a Genova gli consegnava il cianuro da portare a Milano, era il capo, era il padrone di quel giro, perché gli aveva teso quel trabocchetto? Oscuramente lo intuiva, ma voleva esserne sicuro. “E perché l'ingegnere ti ha detto di rubarmi la valigia?” Rispondeva subito e rispose subito anche questa volta:
“Mi ha detto che tu sei bravo e fidato, ma che ti piacciono troppo le donne e una volta o l'altra rovini il lavoro per qualche donna, così mi ha mandato da te, se riuscivo a rubarti la valigia, voleva dire che non potevano più fare conto su di te e ti avrebbero buttato via. Siccome, invece, non ci sono riuscita, allora capiscono che non è vero che ti lasci imbrogliare dalle donne.” Era esatto, lui pensò, perfettamente esatto. Si mise la rivoltella in tasca e disse, con dolcezza: “Adesso vieni a casa mia.” Mise in moto, morbidamente, perché è sempre meglio non scuotere troppo le bottiglie di acido cianidrico. Arrivò in via Vincenzo Monti pochi minuti dopo, lasciò la Citroen sulla strada, prese la valigia, richiuse il baule. «Cammina avanti a un metro da me,” disse alla ragazza, che non aveva dimenticato di prendere i suoi libri di greco, “appena sbagli una mossa sei finita, ricordati che sparo davvero.” Lei non sbagliò mosse e arrivarono nel piccolo appartamento, senza essere visti da nessuno perché erano quasi le due. “Siediti e bevi,” le mise in terra, davanti al divano, la bottiglia di grappa. Sedette nella poltrona davanti al divano, teneva la rivoltella nella tasca destra della giacca, col calcio in fuori, ed era una grossa visibile impugnatura. “Ti ho detto di bere, anche se non c'è bicchiere.” II pallore della ragazza gli piaceva, era il pallore verde della paura, ed era bene che la ragazza avesse paura, che si rendesse conto che stava per morire. Lei allora ubbidì, e dopo avere aperto faticosamente la bottiglia, anche perché le mani le tremavano, bevette due sorsi di grappa, a canna. Col capo, egli approvò, poi prese il telefono che era sul tavolino, formò il prefisso per Genova, poi il numero, e alla voce che subito gli rispose, disse: “Sono Giorgio, dammi l'ingegnere.» “Dove sei?” “A Milano.” “L'ingegnere dorme.” “Sveglialo, perché è grave”, e intanto che parlava al telefono sorvegliava sempre la ragazza e le sue treccine, ormai senza più presa su di lui. Dovette attendere molto, poi sentì la voce raspante di sonno dell'ingegnere: “Che vuoi?” “Succede un fatto curioso,” disse lui, “una ragazza, appena sono arrivato qui a Milano, ha tentato di rubarmi la valigia, l'ho bloccata, e lei mi ha detto che l'hai mandata tu a rubarmi la valigia, che volevi fare una prova perché hai paura che mi piacciono troppo le donne e mi lascio imbrogliare da loro. Se la prova riusciva, se lei rubava la valigia, tu mi licenziavi.” “Vuoi provare a ripetere? Non ho capito molto, sai, mi sono appena svegliato, e la storia è un po' complicata,” disse l'ingegnere con cortesia molto insolita in lui.
E lui ripeté, e dopo aver ripetuto sentì un silenzio che non gli piacque per niente, uno sgradevole silenzio, e tanto lungo che alla fine disse: “Pronto?” «Sì, pronto,” disse l'ingegnere, adesso la voce era estremamente fredda. “E ascolta bene: io non ho mandato nessuno a fare pagliacciate per rubarti la valigia. Se non avessi fiducia in te, ti toglierei il lavoro e ti butterei fuori dai piedi. Semplicemente così. Ci sei cascato come un rimbambito, quella ragazza ti ha rigirato come un vecchio macinino. Hai un solo modo per salvarti: falle dire la verità, scopri chi è che la manda e appena lo hai saputo telefona ancora. Sbrigati perché non mi piace avere una squilletto informata del nostro lavoro.” Lui sentì che la comunicazione era stata tolta, avrebbe voluto dire qualche cosa, ma non c'era niente da fare, l'ingegnere aveva detto che la ragazza lo aveva preso in giro e che si sbrigasse. Prese la rivoltella e la tirò fuori, con la sinistra prese la bottiglia di grappa e bevve anche lui a canna. “Hai sentito?” chiese alla ragazza. “No, ma ho capito,” disse la ragazza, era piuttosto ubriaca, in quei pochi minuti aveva continuato a bere. Ma era calma, livida ma calma. “Ho capito che l'ingegnere ti ha detto che non è vero che mi ha mandata lui a rubarti la valigia.” Rise, gorgogliando. “Cosa volevi che ti dicesse? Che sì, era vero, mi aveva mandato lui? Ma da dove scendi, dal presepe o dalla Val Brembana? Vuoi che l'ingegnere ti confessi che l'hai pescato con le mani nel sacco mentre tentava di farti un saltafosso?” Questo era molto logico, lui pensò, e la ragazza nonostante la grappa e l'ubriachezza, ragionava molto bene. “Quindi, tu insisti nel dire che ti ha mandata lui,” disse pacato, “ma dammi per favore qualche prova che può essere così.” “Prove? Te ne do quante ne vuoi,” disse lei spavalda, e prima di cominciare bevette ancora della grappa. “Sai dove vai tu domattina? Prendi l'autostrada fino a Brescia, e poi quella della Serenissima e arrivi a Trieste. A Trieste ti imbarchi su un piroscafo che batte bandiera albanese, arrivi in Albania, sbarchi a Valona, consegni la valigia a degli amici che ti aspettano e che ti danno in cambio un po' di manate sulle spalle, poi te ne ritorni per la stessa strada. Non so cosa fanno gli albanesi con tutto quel cianuro, forse dei gas, in caso di guerra, forse lo spediscono in Cina per qualche esperimento che riguarda le bombe H, questo non lo so, ma ti ho fatto vedere che so molte cose, perché io sono molto vicino all'ingegnere.” “Vicino in che senso?” “Nel senso che immagini tu,” lei gorgogliò. Egli riflette un poco. La ragazza davvero parlava come un libro stampato, e sapeva diverse cose, ed era vero il viaggio a Trieste, vero il viaggio in Albania fino a Valona, e vero le manate sulle spalle degli amici ai quali
consegnava la così delicata valigia. Ma vi erano molti ma. “Forse dici la verità,” le disse pacato, ma sempre in mano la rivoltella, “ma quello che mi hai detto non prova niente, cioè non prova che l'ingegnere ti abbia mandato qui a rubare la valigia. Tu potresti essere della polizia, e sapere tutte queste stesse cose. O potresti essere di qualche banda avversaria, o di qualcuno, che senza essere una banda, vuole fregarci il cianuro.» Lei rise piano, e amara. “Allora ha davvero ragione l'ingegnere: sei proprio rimbambito, per le donne o per altro, non so.” Alzò la voce, disperata: “Ma se fossi della polizia a quest'ora saresti già al Fatebenefratelli, in questura, con tre giovani arzilli che ti avrebbero fatto sputare ogni nome, oltre i denti. E se fossi di una banda rivale saresti già morto: una banda rivale non manda una squillo come me in faccende grosse di questo genere. Ma per lo sgambetto è buona anche una squillo, e l'ingegnere mi ha mandato da te appunto per provare di che pasta sei fatto.» Egli restò silenzioso e immobile, e intanto lei continuava a bere, finché lui non le tolse la bottiglia, in silenzio. Poi si mise la rivoltella in tasca, mentre continuava a pensare, e continuando a pensare si alzò dalla sua poltrona e sedette sul divano vicino a lei, mettendole una mano collo delicatamente, teneramente e lei disse subito: «Oh, sì, caro”, e lui sentì le sue labbra sulle sue e smise di pensare. “Svegliati, cocca.” “Ho sonno, Giorgio, ho tanto sonno.” La scrollò forte. “Sono le tre e mezzo, cocca, non posso tenerti qui, ti riaccompagno a casa.” “Oh, Giorgio,” lei si riassettò le vesti, teneva gli occhi mezzo aperti. Gli si attaccò al collo e lo baciò ancora. Che barba lunga che hai.” “Su andiamo.” “Sì, Giorgio, quello che vuoi tu.” Non dimenticò i suoi libri di greco, con le treccine ondeggianti gli stette vicino in ascensore, si tenne al suo braccio per la strada fino a dove era parcheggiata la Citroen, salì in auto. “Dove abiti?” disse lui. “In corso Garibaldi 48,” lei disse, sbadigliando. Non c'era che da attraversare il Parco, pensò lui. E lo attraversò, ma a un certo punto la macchina cominciò a sbandare e lui, frenando lentamente, fermò. “Scendi un momento, devo avere una gomma a terra, guarda quale è.» Lei si era quasi addormentata, ma capì lo stesso, e docile aprì la portiera e discese. Lui la vide girare intorno all'auto per andare a vedere le gomme posteriori, e intanto levò la rivoltella dalla tasca. Non aveva scelta. Lei poteva essere una della polizia o di qualche gruppo concorrente, e in questo caso doveva ucciderla. Oppure poteva essere
davvero mandata dall'ingegnere e allora doveva ucciderla lo stesso per dimostrare a quell'ingegnere che lui non si lasciava turlupinare dalle donne. Se non l'avesse uccisa, l'ingegnere avrebbe ucciso lui perché “debole con le donne”. In certi lavori non si scherza. Il Parco alle quattro passate del mattino è un posto veramente discreto, non vi sono neppure più le passeggiatrici, né i loro amici. Il colpo della rivoltella, per forte che fu, passò assolutamente inosservato, presa in pieno viso lei schizzò all'indietro come avesse sentito una scossa elettrica e cadde morta, sempre col suo pacchetto di libri in mano, morta fulminata, mentre lui era già lontano, in fondo al buio vialetto. Fece un lungo giro, poi tornò in via Vincenzo Monti, risalì nel suo appartamento, e notò subito il terribile odore di grappa che l'invadeva. Ma cercò di non pensare, sedette nella poltrona e chiamò subito Genova al telefono. “Dammi l'ingegnere.” “Dorme.” “Lo so, ma lo svegli.” Poi attese finché non sentì la nota voce, e allora disse subito: “Domattina leggerai sui giornali com'è andata a finire la storia con quella ragazza di poco fa.” E dal lungo silenzio che venne poi, capì che l'ingegnere aveva perfettamente compreso che l'aveva uccisa. Finalmente l'ingegnere parlò: “Ma sai che sei straordinario? Non avrei scommesso una cicca che tu saresti stato capace di farlo. Te l'ho mandata tra i piedi, ma pensavo: quello si fa rigirare in mezz'ora. Invece guarda, hai fatto tutto fino all'ultimo, allora sei davvero duro.” “Vuoi dire che me l'hai mandata tu?” disse lui, tutto vuoto dentro, e secco, arido come un deserto, «Sai» l'ingegnere sbadigliò, “un po' volevo davvero vedere se sapevi resistere a una ragazza come quella, e perché lei cominciava a scocciare, sapeva troppe cose, anche senza fare ricatti si dava delle arie, era pericolosa, capisci? Bisognava risolvere la questione, io non ci credevo che tu saresti stato capace, invece hai fatto le cose per bene e il mio trucchetto ha funzionato.» Sì, pensò lui, il trucchetto aveva funzionato: lo avevano indotto a uccidere una povera ragazza che non c'entrava niente. “Pronto?” disse l'ingegnere che non sentiva risposta. Lui non rispose, anche se teneva il ricevitore all'orecchio. Pensava alla studentessa di greco, era vero, le donne gli piacevano, non gli piaceva ammazzarle, gli piaceva stringerle, baciarle, e non farle esplodere con una rivoltella. “Pronto, pronto?” ripeté l'ingegnere. «Sì, pronto,” disse lui. “Volevo dirti che allora fai il solito viaggio,” disse l’ingegnere.
“Sì, certo,” rispose. Depose il ricevitore e si guardò intorno. Non c'era nessuna traccia di lei, non il profumo, perché l'odore della grappa sovrastava tutto, non qualche sua cosa perché lei li era portata via tutto, neppure un capello, perché lui lo cercò senza trovarlo, sul divano, forse perché lei, così giovane non ne perdeva, o forse perché lui non riusciva a Vederlo. Passò le mani sui cuscini e sulla spalliera del divano, come cercando non solo la forma del suo corpo ma ancora il calore di lei: e non c'era più nulla. Sì, era vero, era debole con le donne, però all'ingegnere aveva dimostrato che era un forte, ora l'ingegnere non avrebbe avuto più dubbi su di lui, si sarebbe fidato ciecamente, gli avrebbe dato tanto lavoro e tanti soldi. Si lavò la faccia col ghiaccio a cubetti del frigorifero per riemergere dalla torbida amarezza in cui stava annegando. Prese la valigia, uscì, da basso mise la valigia nel baule, salì al volante e partì. Era sempre buio, perché era già autunno, il sole sarebbe sorto dopo le sei. Al caffè all'inizio dell'autostrada bevette una Coca-Cola ghiacciata, poi si mise in corsia e cominciò a spingere l'acceleratore. Ma aveva fatto solo pochi chilometri che vide la paletta fosforescente della polizia stradale, agitata nervosamente. Rallentò e si fermò perché non c'era altro da fare e perché aveva distinto anche, perfettamente, due carabinieri col mitra imbracciato. “Patente e libretto,” disse uno dei militi mentre il carabiniere col mitra gli stava vicino. Dette patente e libretto. Il milite li osservò bene, e non glieli restituì. Invece gli domandò: “Ha dei bagagli sulla macchina?” e con la lampada a pila illuminava l'interno della Citroen. Non era il caso di dire di no, quei militi sembravano molto diffidenti. “Sì, ho una valigia.” “Dov'è la valigia?” “Nel baule.” “Vuole per favore aprire il baule?” “Subito.” Scese e mentre stava aprendo il baule, il milite parlò ancora. “Che cosa contiene questa valigia?” “Effetti personali,” mentì senza nessuna speranza. Infatti il milite disse quello che lui si attendeva che dicesse: «Vuole aprire la valigia, per favore?” Illuminato spietatamente dai fari delle altre macchine che aspettavano di essere controllate, egli aprì la valigia e il milite guardò. “Questi non sono effetti personali,” disse, “sono barattoli”, allungò la mano per frugare in quelli che lui chiamava barattoli. “No, per favore,” disse lui, “non toccate niente, ragazzi, questo è
cianuro, sono più di venti chili di cianuro, se rompete qualche cosa crepiamo tutti come mosche. Portate questa valigia, ma con molta delicatezza, al laboratorio dell'università, là sanno come trattare questa Due Carabinieri lo presero subito in mezzo, tenendolo forte per un braccio. “Sì, vi racconterò tutto, ma state attenti a quella roba, ragazzi,” disse lui. Era felice, felice che fosse finita. così. Basta col cianuro, basta con le porcherie di ammazzare, una donna mezz'ora dopo averla baciata, basta vivere in mezzo a farabutti come l'ingegnere. Era contento che fosse finita così. Tanto contento da ricordarsi di avene una rivoltella in tasca. “Sentite, non mi avete neppure perquisito, ho una Beretta Brigadier in tasca, state attenti, un'altra volta. “ E cominciò a mormorare “Treccina, treccina, treccina.”
3 Preludio per un massacro estivo
II professor Pietro Saravelli venne ucciso quell'estate, al mare, nella sua villetta sulle dolci colline di Riccione. Era sceso dopo pranzo nel box, per tirar fuori la macchina e fare un giro in centro con la moglie e la figlia di quindici anni; le due donne, non vedendolo tornare, né avendo alcun segno da lui, erano scese anche loro nel box e lo avevano trovato, diciamo, morto. I periti medici stabilirono che era stato massacrato probabilmente con una sbarra di ferro, la testa era stata sfondata, spiaccicata, il torace, come dire? era stato frantumato: se fosse andato sotto un camion non sarebbe stato ridotto peggio. Il professor Pietro Saravelli aveva cinquantanove anni, era proprietario e primario della piccola ma famosa Casa di cura del Sole, nelle vicinanze di Pavullo nel Frignano, provincia di Modena. Era un valente psichiatra, specializzato nella rieducazione dei subnormali. Anche il signor Donatello Rossi, di ventiquattro anni, venne ucciso al mare, quell'estate. Si trovava a Cervia, con una studentessa francese che passava le vacanze, con lui, nella stessa camera d'albergo; la ragazza si chiamava Marlène Tegel, perché era di origine tedesca, ed era andata dal parrucchiere, perché la sera dovevano andare a ballare al “Mare e Pineta” di Milano Marittima, mentre il suo cavaliere, Donatello Rossi, le disse che andava a fare una partita a calcetto al Baby Bar dove l'avrebbe aspettata. Finito dal parrucchiere, la studentessa francogermanica Marlène Tegel andò al Baby Bar e non trovò il suo cavaliere. Domandò di lui ai baristi che lo conoscevano benissimo e le dissero che non lo avevano neppure visto. Lo cercò in ogni parte, tutta la notte, per vari motivi non tutti nobilissimi, il più importante era che se ne le andato con un'altra, meno giovane, ma che gli dava soldi. Lui infatti, come lei raccontò alla polizia, chiedeva spesso il suo aiuto finanziario, dicendo che le vacanze a Cervia erano care, e all'alba, sfinita, angosciata, e gelosa, pensò di vendicarsi rivolgendosi appunto alla polizia. Ma anche la polizia per un paio di giorni non riuscì a trovarlo, del resto non lo cercò molto: queste straniere gelose che pretendono che la polizia ritrovi il loro latin lover sono proprio delle belle tipe. Fu un barboncino grigio, che la sua spiritosa padroncina aveva battezzato Scusi, che ritrovò il signor Donatello Rossi, il terzo giorno, in una densa pineta vicino a Milano Marittima. Il barboncino Scusi, portato a passeggio dalla sua bionda padrona, d'un tratto s'impuntò e cominciò a raspare nella sabbia terriccio della pineta, mugolando, finché dalla sabbia terriccio non venne fuori una mano d'uomo. La padrona del barboncino non svenne, solo
soffrì molto di .stomaco finché non incontrò il primo passante al quale spiegò quello che aveva veduto. La polizia stabilì due cose: che il seppellito nella pineta era il signor Donatello Rossi, infatti la studentessa Marlène lo riconobbe; e che era stato seppellito ancora vivo, dopo averlo stordito con un colpo in testa. Il ventiquattrenne Donatello Rossi, oltre ad essere un ragazzo molto piacevole per le donne, era anche un ottimo lavoratore e, pur così giovane, era capo infermiere nella Casa di cura del Sole. La polizia notò subito questo legame tra l'assassinio del primario della clinica e dell'infermiere capo della stessa clinica, ma non vi erano tracce, di nessun genere, da seguire. Era il buio assoluto. Il dottor Pier Paolo Maselli, neppure una settimana dopo, verso fine giugno, venne ucciso in un parcheggio sull'autostrada della Serenissima, dopo Vicenza. Egli, primo assistente della Casa di cura del Sole a Pavullo nel Frignano, era un giovane neurologo, un po' discusso dai colleghi perché aveva il vizio del gioco; sposato, e con bambini, era sempre in grande bisogno di denaro, d fatti quella sera egli andava in macchina a Venezia, a giocare. Doveva essersi fermato un momento al parcheggio, per riposare un poco, preso dal sonno. I periti stabilirono che doveva essere stato stordito con un colpo in testa, e che poi avevano dato fuoco alla macchina, così che era stato bruciato vivo. Questo aveva una certa somiglianza di stile con l'assassinio dell'infermiere Donatello Rossi, stordito e poi seppellito vivo nella pineta di Milano Marittima. Ai primi di luglio fu ucciso il dottor Marino Erede, secondo assistente della Casa di cura del Sole. Fu il primo a essere ucciso in casa sua, a Modena, e fu l'unico caso che fornì una pallida traccia per comprendere che cosa stava avvenendo. La portinaia infatti disse che due uomini, molto alti, e molto grossi, non grassi, precisò, avevano chiesto del dottor Erede ed erano saliti nel suo appartamento. Erano ridiscesi quasi subito, e al mattino dopo era stato ritrovato il dottor Marino Erede annegato nella vasca da bagno, vestito completamente, aveva perfino gli occhiali. Anche lui presentava ecchimosi al capo, e questo voleva dire che era stato messo fuori di conoscenza, ma immerso nella vasca da vivo. Anche il dottor Sergio Burose venne ucciso in casa sua, a Bologna, in via del Fratello, verso metà luglio, il ventoso, freddino, tempestoso luglio dell'estate 1966. Due uomini, molto alti e grossi, non grassi, precisò la portinaia, erano saliti in casa del dottor Burose ed erano poi ridiscesi quasi subito. Ci volle qualche giorno per stabilire in che modo fosse stato ucciso e anche per essere sicuri che si trattasse proprio di lui, talmente il viso era irriconoscibile; poi, da diversi particolari, tra cui la bocca dell'ucciso piena di carta di giornale bruciacchiata e che il morto era stato trovato in cucina, uno
dei periti scrisse nella sua relazione che riteneva che il dottor Sergio Burose, la bocca ostruita dalla carta di giornale perché non gridasse (fosse stato messo col viso contro uno dei fornelli ), si dice acceso, e lì tenuto fino alla morte. Burose era l'analista della Casa di cura del Sole, faceva analisi di ogni genere, aiutato da un'infermiera, da quelle del sangue a quelle della pipì e dell'espettorato. Aveva una bellissima moglie che lavorava come indossatrice e raccontava ai colleghi della clinica e agli amici che era l'uomo più cornuto d'Italia e probabilmente d’Europa, ma che non poteva farci nulla. Aveva 49 anni e leggeva molti libri di fantascienza. In casa sua trovarono però anche un'incredibile quantità di riviste semipornografiche, cioè quelle tollerate dalla censura le cui pagine brulicavano di foto di donne vestite di nulla. Sua moglie disse in questura che non era normale; spiegò che gli piacevano le donne, perché non equivocassero, ma in modo non normale, e lei, essendo sua moglie, ne sapeva qualche cosa. Verso la fine di luglio fu assassinato Lorenzo Firinghelli custode della Casa di cura del Sole, e proprio lì, a Pavullo nel Frignano, nella clinica. Dopo l'assassinio del proprietario della clinica, professor Saravelli, la moglie, unica erede, aveva fatto chiudere la clinica, rimandando i vari degenti o alle loro case o ad altri istituti di cura. Il custode Lorenzo Firinghelli e sua moglie erano però rimasti per sorveglianza dello stabile, una rosea palazzina tra i dolci colli sulla strada che conduce all'Abetone. La moglie del custode Firinghelli, una grassa e combattiva milanese, dichiarò alla polizia che quella sera di fine luglio suonarono al cancello della Casa di cura del Sole, lei andò al cancello, le chiavi in mano, ma appena arrivò, nell'ombra della calda notte, oltre le sbarre una mano l'afferrò al collo e lei non poté neppure gridare. Quando rinvenne, vide che il cancello era aperto, dovevano averle strappato le chiavi di mano, e ritornando barcollante in casa aveva visto lo scempio che era stato fatto di suo marito e svenne di nuovo. I medici stabilirono che il custode Firinghelli era stato più che percosso, sminuzzato, in tutte le ossa, con una statuetta di cemento che decorava l'ingresso della palazzina. La statuetta, appena appoggiata sui gradini d'entrata e che era stata usata per colpire il custode Firinghelli, rappresentava una donna coi capelli divisi in due bande e con una lunga gonna medievale, e pesava esattamente trentun chili e seicento grammi, come era scritto nel rapporto. Dato tale peso il custode doveva essere morto al primo colpo, per sua fortuna, ammesso, però, che il primo colpo fosse stato inferto al capo, ma se avevano cominciato a stroncarlo dalle gambe, la sua morte doveva essere stata molto lunga e difficoltosa. Naturalmente aveva la solita ingoiata di carta di giornale in bocca. Era l'estate freddina e un po' esagitata del 1966, sulle autostrade gremite per la fuga verso le vacanze le auto si spiaccicavano una contro l'altra,
s'incendiavano, saltavano fuori di strada, volavano al disopra del guardrail e intere famiglie, padre, madre e un paio di bambini, morivano malamente. Era il momento in cui le città si svuotavano e le donne si spogliavano, sottolineando quel poco che coprivano con stoffe luminescenti; forse anche questo contribuiva al gran lavoro delle case squillo, dato lo stato di agitazione in cui le scarse vestimenta delle donne, tenevano il sensibile maschio italiano. E fu in una di queste mattine dei primi di agosto in cui il dottor Villi della Questura di Bologna si era rimesso il pullover perché non faceva caldo per niente, che quattro agenti in divisa gli portarono davanti alla scrivania i due uomini grandi e grossi, non grassi, dovevano essere oltre il metro e novanta. Erano padre e figlio, e non si somigliavano quasi in nulla, se non nella statura. Il padre aveva cinquant’anni, ma aveva solo pochi capelli grigi e sembrava giovane come il figlio. In due lunghi e rabbiosi mesi di indagini il dottor Villi aveva trovato gli assassini delle sei persone della Casa di cura del Sole. E adesso i due erano lì. «Ma questo è stato un massacro,» disse il dottor Villi «Perché avete fatto una cosa simile?” Voleva conoscere il preludio di questo massacro e lo conobbe. Loro glielo dissero, tranquilli: tranquilli come possono esserlo due romagnoli di Lugo, con voce che a volte ringhiava sordamente, a volte esplodeva sprezzante. Erano due incensurati, onesti artigiani, avevano a Lugo una piccola fabbrica di armi antiche, producevano imitazioni di rivoltelle e archibugi dei secoli passati, avevano gusto e possedevano. una buona cultura in fatto di armi antiche, il padre anche disegnatore, era lui che disegnava i modelli delle pistole del Seicento, copiate dai libri specializzati in armeria d'arte, per farne poi i calchi e gli stampi. Eppure avevano compiuto un massacro. «Perché?” ripeté il dottor Villi a voce più alta. “Perché?» I sei uomini della clinica erano stati uccisi con brutalità e con scientifica crudeltà. C'era la vendetta, in quel modo bestiale di ucciderli, e questa vendetta era stata la traccia che aveva permesso ai suoi agenti di scoprire gli autori del massacro. «Perché?” Perché? Il vecchio Aureliano Arazzi, ma sembrava così giovane, quasi come suo figlio, cercò di spiegare perché. “Sedete,” disse il dottor Villi ai due, “e ricordate che lo stenografo trascrive ogni parola.» Sedettero, sulle due sedie davanti alla scrivania che sembrarono d'improvviso piccolissime sotto di loro. Sedettero vicino, i Quattro A, come erano chiamati a Lugo, perché il padre era Aureliano Arazzi, e il figlio Antonio Arazzi, e il padre cercò di spiegare il perché. «Ogni mese noi andavamo alla Casa di cura a trovare Annetta, a Pavullo,” disse.
“Chi è Annetta?” disse il dottor Villi. «Mia figlia,” disse Aureliano Arazzi. “Mia sorella,” disse Antonio Arazzi. Così erano andati anche quel mese di maggio, con la loro vetusta Alfa, erano saliti, padre e figlio, verso le dolci colline di Pavullo nel Frignano, da Lugo, che è come dire attraversare tutta la Romagna, e maggio è il preludio dell'estate, ma invece quel maggio non aveva niente di quasi estate, pioveva, e alle prime rampatelle dell'Appennino trovarono nebbia, insieme con molto freddo. E anche la Casa di cura del Sole era nella nebbia e dallo stradone non si vedeva neppure il paesino di Pavullo. “Casa di cura del Sole” era una denominazione insincera e fumettistica che non dava alcuna idea degli ospiti che vi albergavano. Anche la seconda denominazione, tenuta però nascosta al pubblico e usata solo negli atti ufficiali, di “istituto per la rieducazione dei subnormali” era molto approssimativa. Il vero termine esatto sarebbe stato Piccolo Manicomio di Lusso. Il maggior numero di pazienti erano persone completamente impazzite e irrecuperabili, per la droga, alcool o malattie veneree. Poi vi erano un paio di ragazzi focomelici, senza braccia, senza gambe e altre aberrazioni trofiche della focomelia. Vi era anche una che cantava sempre brani d'opera, era una vecchia insegnante di canto, e, nonostante tutti i sedativi, la clinica risuonava di: “Oh che gelida manina”, oppure: “Libiam nei lieti calici che la bellezza infiora”. In concreto la Casa di cura ospitava tutte persone che per la loro follia o per la loro deformità avrebbero dovuto essere rinchiuse in istituti specializzati, se povere, ma che, avendo invece parenti ricchi, venivano tenute a bada in una confortevole villa da medici e infermieri che alleviavano appunto quei parenti dal peso e dall'angoscia di doversele tenere in casa, o dal doverle affidare a istituti pubblici procurando loro l'etichetta ufficiale del pazzo o del mostro di natura. La retta era piuttosto alta, ma valeva la pena, fin dall'ingresso si vedeva il tono della clinica: da quella siepe a semicerchio intorno alla palazzina, fiorita sempre dei fiori di stagione, e nell'interno la moquette co-lor turchese, o i marmi rosa e azzurrini, o le appliques in legno dorato, o i due ascensori imbottiti in raso turchese trapunto (alcuni pazienti amavano particolarmente sbattere la testa contro le pareti), o i televisori incassati nelle reti di ogni stanza, protetti da un grosso vetro infrangibile manovrabili soltanto dall'esterno della stanza dalle infermiere, e tanti, tanti altri particolari, come le iniziali amate sulle lenzuola, le federe, gli asciugamani del paziente, anche se si trattava di un minorato mentale che stava accucciato tutto il giorno in un angolo della stanza al quale bisognava mettere i pannolini e le mutandine di plastica come a un bambino. Questa Casa di cura del Sole ospitava anche Annetta Arazzi. Da quattro generazioni tutti i figli della famiglia Arazzi prendevano dei nomi di
battesimo che cominciavano per A, sono svaghi innocenti, scherzosi e intelligenti che si prendono a volte i romagnoli. “Siamo i primi,” dicevano spocchiosamente ma ironicamente gli Arazzi, a Lugo, “perché siamo la prima lettera dell'alfabeto, A, in tutta la nostra famiglia, da generazioni, e anche nell'insegna del nostro negozio, », e poi per farsi perdonare la vanteria offrivano Albana a damigiane. Quando Annetta Arazzi nacque, sua madre morì, era una bambina troppo grossa per una piccola donna come lei, e la bambina continuò a crescere con rapidità anormale, quella leggera forma di gigantismo che era nel padre, in lei si era scatenata ed era divenuta quello che viene tecnicamente indicato come megatrofismo. E questo era già abbastanza, ma c'era ancora di più: molto prima dei due anni di età della bambina, il pediatra stabilì che non solo era sordomuta, ma anche incapace di evoluzione mentale. Quasi tutti gli specialisti ai quali il padre, Aureliano Arazzi si rivolse ripeterono la stessa cosa, esclusi alcuni che per pietà o nel tentativo di speculare fecero delle vaghe promesse di miglioramento. Fino a quando la bambina ebbe tredici anni, Aureliano Arazzi la tenne con sé, in casa, e tentò tutte le cure, ma inutilmente. La bambina cresceva molto bella, sana, ma oltre a non dire una parola, non comprendeva molto di più di un piccolo di due anni, anzi assai meno. E cresceva, sì, ma spaventosamente, a tredici anni era alta due metri e quattro centimetri. E allora il padre fu costretto a cercare un luogo dove gliela tenessero: l'angoscia, per la presenza in casa di una così sfortunata figlia, consumava lui e il suo primogenito Antonio. Non riuscivano quasi più a lavorare, vivevano le loro giornate cercando professori, clinici specializzati, in Italia e all'estero, che potessero fare il miracolo. Annetta (non avevano mai smesso il diminutivo, neppure quando oltrepassò i due metri) continuava a crescere, e ciò che era spaventoso era che tanto più il fisico cresceva, tanto più la psiche regrediva. A tredici anni cominciò a far fatica a mangiare con le posate, e una delle tre infermiere che si davano il turno presso la ragazza disse ad Aureliana Arazzi che ormai si faceva più presto a imboccarla, come a due anni, piuttosto che insistere nell'inutile tentativo di farla mangiare da sola con le posate. Le uniche cose che capiva Annetta Arazzi erano la televisione, non che capisse ciò che avveniva sul video, ma le immagini in movimento la affascinavano, e poi i pezzi degli scacchi, grandi, rossi e neri, di legno lucido, perché in Romagna, soprattutto in città come Lugo, si ha ancora il piacere intelligente di quel gioco, e Annetta una volta aveva visto il padre e il fratello che giocavano a scacchi, era ancora piccola, doveva avere sei o sette anni, e aveva teso le braccia per avere i pezzi, e loro avevano smesso di giocare e glieli avevano dati e da allora lei li teneva con sé ogni ora e ogni minuto del giorno e della notte, in una piccola scatola, e a furia di tenerli in mano e di carezzarli aveva fatto
andar via quasi tutta la vernice rossa e nera dei pezzi, specialmente dei cavalli, che erano quelli che le piacevano di più e che erano divenuti, in tanti anni, quasi bianchi. E ciò che era forse più spaventoso di tutto era la bellezza di Annetta, perché pur nel suo gigantismo era perfettamente proporzionata, e gli occhi grandissimi non avevano luce d'intelligenza, è vero», ma il loro colore verde, unica cosa ereditata dalla madre, la loro grandezza, le davano un profondo fascino femminile. E i suoi movimenti pigri, il suo pigro camminare, perché le forze non la reggevano a sostenere un così gigantesco fisico, accentuavano questo senso di molle femminilità. Poi, ovviamente, per quel pauroso squilibrio organico causato dal gigantismo, Annetta era fragilissima di salute, il minimo cambiamento di temperatura le procurava raffreddori o bronchiti, lo stomaco riceveva sempre meno cibo, il cuore riusciva a sopportare sempre di meno l'anormale carico di lavoro che doveva svolgere. Occorrevano medici e cure continue che in casa era sempre più difficile avere. Non c'era scelta, per quanto avessero giurato di non separarsi mai da Annetta, i Quattro A dovettero cedere e un giorno portarono la loro figlia e sorella alla Casa di cura Sole. Fu il loro più amaro giorno. “E allora?” chiese Villi, dopo molto che i due tacevano. Allora, Aureliano e Antonio Arazzi, il padre e il fratello di Annetta, erano tornati a Lugo e si erano messi di nuovo a lavorare. Arazzi senior ebbe ancora il tempo di disegnare le sue antiche pistole portoghesi, e Arazzi Junior potè fare un viaggio a Londra con la sua ragazza, piccola come un grande vaso di fiori, ma aspra e violenta come un bergamotto acerbo, per cercare dei libri sull'armeria inglese del Settecento. Vivevano meglio, liberati da quell'incubo, ma masticavano rimorso, lacrime e amarezza, e andavano ogni mese a Pavullo, alla clinica. Annetta era sempre la stessa, escluso che continuava a crescere. A quindici anni, al secondo anno di clinica, era alta due metri e 9 centimetri, e tutto il corpo si era ingrandito di conseguenza. Ora poteva muoversi pochissimo, perché il cuore reagiva male a ogni sforzo, ma lei sembrava star bene, davanti alla televisione e coi suoi pezzi di scacchi in mano, ormai quasi tutti imbianchiti dalle sue carezze. L'infermiera diceva che dormiva molto, sempre di più, e che il primario diceva che era meglio così. Poteva essere: da quando era in clinica aveva un viso molto più disteso, e mangiava avida le piccole paste che il miglior pasticciere di Bologna preparava per lei, senza uovo, senza liquore, senza creme pesanti. “E allora?” disse il dottor Villi. Ogni tanto il padre, Aureliano Arazzi, s'impuntava, taceva, e bisognava spingerlo, come un mulo. “E allora anche ai primi di maggio sono andato alla clinica con mio
figlio a trovare la mia bambina,” disse Aureliano Arazzi. I Quattro A erano entrati nella tepida, ancora riscaldata stanza della clinica, dalle cui due finestre quel singolare maggio, invece che sole, mostrava pesanti banchi di nebbia. Sul largo divano, davanti al televisore spento, stava Annetta, dormiva ma in modo innaturale, e padre e fratello videro subito che stava male, il viso era come caduto, scomposto come una maionese sfatta, gli occhi erano immersi in una pozza, violacea, era come invecchiata di venti anni, di trenta. “Ma sta male, cosa è successo?” disse Aureliano Arazzi, fissando le grandi mani di sua figlia che stringevano due pezzi di scacchi: due cavalli. «Deve chiederlo al primario,» disse l'infermiera, seccamente. Troppo seccamente. “Dorme sempre così?” disse Antonio Arazzi, il fratello. «Bisogna chiederlo al medico del reparto,» disse l'infermiera. Era una vecchia, magra donna, resa un poco meno vecchia dalla giovanile uniforme blu chiaro e dal civettuolo berrettino bianco inamidato. E anche questo lo disse molto seccamente. E ai romagnoli non piacciono le risposte secche, sono gente che ama la franchezza, ma anche la cortesia, e fu questo il primo sospetto che ebbe Aureliano Arazzi, e allora si avvicinò all'infermiera, in quella nebbiosa anche se così elegante stanza, in quella nebbiosa mattinata di maggio e le disse: «Certo, adesso andremo a parlare col primario e col medico del reparto, però lei è l'infermiera di questo reparto e mi dice subito che cos'ha mia figlia, perché lei lo sa come lo sanno i medici.» Si guardarono fissamente, e la vecchia resistè coraggiosamente, poi, imprevedibilmente si mise a piangere, a viso scoperto, poi ringhiò più che dire: “Non m'importa, mi butteranno fuori, mi denunzieranno per calunnia, ma glielo devo dire che sono dei maiali, maiali, maiali, e approfittano di questa creatura sono stata zitta fino adesso, ma ora non ne posso più.” Antonio Arazzi stava vicino a sua sorella, e la guardava dormire un malsano assopimento, più che un sonno, sul largo divano davanti alla finestra piena di nebbia, ma appena udì quelle parole schizzò via dal divano e si lanciò quasi addosso all'infermiera che arretrò spaventata. “Chi ha approfittato?” ringhiò anche lui a un centimetro dal viso dell'infermiera, non solo tremante, lui, ma già sudato. Anche questa volta l'infermiera fissò coraggiosamente e solo dopo molto rispose, ma la sua risposta fu come un'esplosione, per loro: “Tutti gli uomini di questa clinica, dal primario al portiere. Sfido che sta male, povera bambina.” I due alti e grossi signori di Lugo, nobili artigiani di armeria antica, s'irrigidirono in tutta la loro altezza e grossezza, davanti alla piccola infermiera. Il giovane colava sudore dal viso e sembrava stesse per vomitare,
suo padre invece non sudava, non tremava, andò a chiudere la porta a chiave, dètte una pietosa occhiata alla figlia disfatta e gigantesca che dormiva sul divano, tornò davanti all'infermiera e disse con irritata calma, con il tu, e con uno stretto romagnolo avendo sentito che anche quella era romagnola e che lo avrebbe compreso meglio così: “Cosa vuol dire gli uomini della clinica? E perché mi dici solo adesso queste cose? E perché non me le hai dette prima? Parla bene, donnetta, se no ti strangolo”, e alzò solo una mano, che era già più che sufficiente, da sola, per stringere il suo collo e quello di chiunque altro fino alla soffocazione, e mostrando nello sguardo la decisione di farlo. E lei parlò, non tanto per la minaccia di essere strangolata ma, essi capirono, più per il disgusto di ciò a cui aveva dovuto assistere. Disse il nome dei sei uomini della clinica, dal primario, il professor Pietro Saravelli, al primo assistente dottor Maselli, al secondo assistente dottor Erede, all'analista dottor Sergio Burose, al capo infermiere Donatello Rossi, fino al custode Lorenzo Firinghelli. «E quando è cominciato?» domandò freddamente Aureliano Arazzi, rigido in piedi come una grossa statua, e quella sua rigidezza era imitata da suo figlio che smise di sudare in viso, di vibrare, e sembravano tutti e due, così alti, grossi, come due di quelle enormi gigantesche statue misteriose dell'isola di Pasqua. “Credo dalla notte di Capodanno. Un medico rimane sempre di servizio in ogni giorno dell'anno. Quella notte il primario stabilì di servizio l'analista Sergio Burose.” Era quello sposato a un'indossatrice e lui si dichiarava l'uomo più cornuto d'Italia, mentre la moglie diceva in giro che lui era un anormale con le donne. E la vecchia infermiera spiegò i particolari: che aveva visto uscire il dottor Burose dalla stanza di Annetta verso l'una del mattino, forse aveva voluto festeggiare il nuovo anno. Dal modo come era stata rivestita alla meglio, dal disordine del letto, dallo stato di agitazione della povera ragazza sordomuta aveva capito oltre ogni possibilità di dubbio quello che era accaduto. La mano di Antonio Arazzi, il junior, altrettanto grande quanto quella del padre afferrò il collo dell'infermiera e strinse. L'infermiera chiuse gli occhi, le narici le si dilatarono, la bocca si dischiuse. “Perché non ce l'hai detto subito?” “Lasciala stare, Antonio,” gli disse suo padre, e il figlio obbedì, subito: per stima, per fiducia in suo padre, non certo per paura, e tolse la mano dal collo di lei. «Oh, lasciatemi stare,” l'infermiera si era messa a piangere, “cosa potevo fare? Ho sessantatré anni, perché qui tutte le infermiere sono vecchie come me, la moglie del primario non vuole infermiere giovani, se mi licenziano non trovo più lavoro da nessuna parte, vado all'ospizio dei vecchi,
E poi, che prove avevo? Loro sono i dottori, entrano qui e fanno quello che vogliono, mi mandano via di qui e mi dicono: , e si chiudono qui con questa poveretta, e io non posso fare niente. Poi questi maiali di uomini si parlano tra di loro, la notizia arriva anche al capo infermiere, Donatello Rossi, e perfino al portiere, a Lorenzo Firinghelli, mi entrano qui di notte, nelle poche ore che le infermiere di turno dormono. Che posso fare io? Me ne accorgo al mattino quando vengo da questa poverina e capisco da tante cose che c'è stato un uomo, cioè una bestia. Ma cosa posso fare? Che prove ho? Vado dal primario che è anche lui una bestia e glielo dico? Che ridere! Vado in polizia? E come faccio a dimostrare questo scempio? Vado a finire in galera per calunnia. O lo dico a voi? Ecco, ora ve l'ho detto. E cosa ho guadagnalo? Che a momenti mi strozzate. Ma ve lo dico lo stesso: ora basta, non posso più resistere a vedere quello che succede senza dire niente. Ora ve l'ho detto, e quello che vi ho detto lo ripeterò a tutti, alla polizia, agli avvocati, ai giudici, quando vorrete, sempre.” Così essi capirono che la donna era sincera, e Aureliano Arazzi tornò a parlarle in italiano e con il lei, rispettosamente, e le disse: “Grazie. E se avremo bisogno di lei la chiameremo, e vedremo di non farle perdere il posto. E se caso mai lo perdesse cercheremo di aiutarla.” Si volse, al figlio. “Ora portiamo via Annetta, a casa, subito, e se incontriamo uno degli uomini di questa clinica mentre la portiamo via, tu non muovere un dito, se no ti spacco.” «Sì, papà,” disse Antonio Arazzi. “Non muovere un dito e ubbidisci, se no ti spacco.” “Sì, papà.” Incontrarono il primario che domandò, nel breve corridoio a pianterreno, con la moquette turchese, perché portavano via, così d'improvviso, la loro Annetta, e non gli risposero, soltanto il giovane Antonio non potè trattenersi e oltrepassato il primario, sputò sulla moquette. Il padre lo sorvegliava; gli disse: “Ti ho detto che se ti muovi ti spacco.» “Scusa, papà.” Bisognava ora sollevare Annetta dal lettino a rotelle per metterla nell'Alfa. Il capo infermiere Donatello Rossi, ventiquattrenne, accorse. “Vi aiuto io.” Antonio Arazzi era abituato a ubbidire a suo padre, ma vi sono dei limiti, e il viso odioso del giovane maiale travestito da infermiere che aveva abusato della sua minorata sorella lo spinse all'insubordinazione: un pugno netto buttò a terra quella melma di individuo. Aureliano Arazzi non disse nulla, aiutato dal figlio caricò in macchina la dormiente gigantessa e mentre l'Alfa partiva disse serenamente al figlio che era al volante: “Non devi sprecare i pugni: li ammazzeremo tutti. Uno per
uno.” “E allora?” disse il dottor Villi: erano due minuti che Aureliano Arazzi non parlava. “Allora, signor brigadiere,” disse Aureliano Arazzi, “prima di ammazzarli abbiamo voluto controllare, abbiamo fatto venire a Lugo un professore di Bologna che ha visitato, in casa, la mia bambina.” II professore, uno dei più illustri ginecologi d'Italia, aveva dichiarato, attraverso un lungo certificato, che Annetta Arazzi, di anni quindici, risultava essere stata oggetto di ripetute violenze. “Era evidente,” certificava il professore, “che queste ripetute violenze, in un complesso organico del tutto anormale, avevano provocato squilibri gravemente nocivi.” Annetta Arazzi, secondo il referto del professore, non avrebbe potuto vivere più di qualche mese. Infatti morì a metà luglio, ma intanto Aureliano Arazzi e suo figlio Antonio si erano trasformati in assassini. Era ita tenuta prima una seduta in casa, c'era anche la ragazza del giovane Antonio, si chiamava Iride, era bruna, piccola e violenta, e nel suo duro, violento romagnolo, perché era della parte bassa di Lugo, e amava non solo il suo ragazzo, Antonio, ma anche la sorella di lui che, insieme con le infermiere, molte volte aveva curato e trastullato come una sua sfortunata sorella, e in quel violento romagnolo, disse: “Se non li ammazzate tutti quanti, uno dopo l'altro, non siete degli uomini, ma dei... Ad essi non piacque, essendo romagnoli, di essere insultati da una ragazzola, e la mandarono via, ma fecero esattamente quello che lei aveva urlato, non certo per seguire il suo consiglio, quanto perché era ciò che avevano già fermamente radicato in cuore. Si trasformarono in assassini, usando tutta la loro tenacia e minuziosità artigiana, invece che nel produrre le decorate pistole spagnolesche o gli archibugi di Alemagna, nell'uccidere i sei assassini della loro figlia e sorella, nell'ucciderli facendoli soffrire il più possibile, nel massacrarli, nell'inseguirli, annientarli. Avevano messo tutto quanto avevano, non solo tutto il loro denaro, il loro lavoro, il loro avvenire, perché sapevano che alla fine sarebbero stati scoperti, ma soprattutto la loro intelligenza e abilità artigiana, in questo massacro. “Ma perché non avete denunziato tutto alla polizia?” disse il dottor Villi, ed ebbe una risposta cattiva che avrebbe potuto immaginare. Vide Aureliano Arazzi alzarsi in tutta la sua gigantesca statura, subito imitato dal figlio, e lo sentì dire: «Perché vi sono dei casi in cui la giustizia non basta,” disse solennemente il vecchio, “e occorre la vendetta.” “Basta, portateli via,” disse il dottor Villi. Era nauseato. Di tutto. I quattro agenti in uniforme circondarono Aureliano e Antonio Arazzi, ma sulla porta il vecchio, che pure era così giovane, Aureliano Arazzi, disse: “E
se qualcuno dovesse inventare qualche cosa per far risuscitare gli uomini, e quei sei lì risuscitassero, li riammazzeremmo di nuovo, uno per uno, e peggio ancora di come li abbiamo ammazzati questa volta.” “Fuori,” urlò il dottor Villi. Con l'odio non si parla.
4 In pineta si uccide meglio
L'alba era rosa, rosa come lo smoking dei due giovani, rosa come la minigonna della ragazza che aveva in capo una monumentale parrucca nera. Camminavano tutti e tre per la strada vuota, lentamente, perché era molto tempo che camminavano. Uno dei due giovani, il più smilzo, teneva a tracolla una chitarra elettrica, ma senza l'attacco. Anche gli uomini avevano lunghi, lunghi capelli neri, ma non si trattava di parrucche. Avevano incontrato solo un operaio in bicicletta che andava in senso contrario al loro, verso Grosseto. “Ah capelloni,” aveva detto, ma con simpatia, poi era passato un camion, ma molto prima, quando era buio, e loro si erano appiattiti addosso alla rete che recingeva la pineta. “Dove andiamo?” disse la ragazza, si chiamava Louise, era la cantante e suonatrice di armonica di quel loro complessino che, per prendere in giro altri più famosi e grandi complessi, avevano battezzato “Le Roselline” e fino alle tre di quella notte suonavano in un noto locale notturno di Grosseto, quando erano arrivati i carabinieri. “Non lo so, so soltanto che li abbiamo seminati,” disse Eduard, il più grosso, era la seconda ed ultima chitarra del terzetto, ma la chitarra l'aveva perduta nella fretta di scappare. «Loro credono che siamo scappati verso Livorno perché abbiamo lasciato la macchina sulla strada per Livorno. Invece siamo proprio dalla parte opposta.” “Senti,” disse il ragazzo con la chitarra, Prospero, ma erano tutti nomi d'arte, “a parte che sono due ore che camminiamo, adesso che è giorno, con questi abituzzi rosa siamo più riconoscibili di tre gatti in un paese di cani.” «Dobbiamo cercare di cambiare abiti, certo, ci sto pensando.» “Bene, però è meglio che ti sbrighi a pensare, fra poco qui ci sarà un sacco di traffico,” disse Prospero. Continuarono a camminare, faceva ancora freddo, all'alba. Louise in quel costumino poco più che balneare sternutì un paio di volte, poi disse: “Meno male che ho la parrucca che mi tiene calda la testa, se no, oltre che andare in galera, mi prendo anche la polmonite.” “Sei proprio sicura di andare in galera?” disse Eduard. «Si può anche evitare.” “Ma ha ragione lei,” disse Prospero, “è questione di ore.» Eduard non rispose, camminavano in fila indiana, per essere meno vistosi, seguendo la rete che recingeva la profonda e sterminata pineta di Tombolo, il sole stava sorgendo, di dorata luce di metallo fuso, e dava riflessi
luminescenti ai loro smoking di raso rosa e accendendo perfino il nero inferno della parrucca di Louise, e facendo brillare, come sotto un riflettore, la chitarra di Prospero, come se fosse stata colpita da un riflettore. Solo poco dopo la rete finì, e riprendeva due metri più in là. In questo spiazzo senza rete, cominciava un sentiero che voltava subito a destra. L'ingresso al sentiero era sbarrato da una semplice asse di legno fermata con un chiavistello. A un lato di questa specie di entrata vi era un grande cartello sostenuto da un palo di ferro e scritto in tre lingue, italiano, tedesco, inglese: «L'ingresso nella pineta è riservato solo alla Polizia Forestale e ai Vigili del Fuoco. È assolutamente proibito entrare per il camping e anche per una semplice passeggiata. I trasgressori, oltre che di una grossa multa, sono passibili anche di arresto.” Come se non bastassero tutti i minacciosi avvertimenti, in fondo al cartello, ancora più in grande, c'era il consiglio che invitava alla prudenza: «Attenzione: pericolo grave di smarrirsi nella pineta. Attenzione: vipere.” Infine da un lato c'era una scritta in caratteri piccoli che si rivolgeva al senso civico della gente: “Chi notasse qualcuno che entra in pineta è pregato di telefonare alla Polizia Forestale, Grosseto”, seguiva il numero telefonico. «Qui è il posto giusto per noi,” disse Eduard, “non deve essere molto affollato.” “Ma io ho paura delle vipere,” disse Louise. “Allora, se preferisci la galera non devi far altro che continuare per questa strada. Prima o poi ci finisci dentro di sicuro.” Si capì che preferiva le vipere. Passò sotto la sbarra di legno che ostruiva molto approssimativamente l'ingresso, mentre i due uomini la scavalcavano. “Svelti, sta arrivando un camion,” disse Eduard buttandosi subito a destra nella macchia del sottobosco. Fecero appena in tempo: un camion carico di paracadutisti che tornavano a Livorno in caserma, cantando, fischiando e urlandosi tra di loro, passò, un secondo dopo che loro erano svaniti nel mare verde della pineta. L'ufficiale aveva alle spalle due appuntati. Sul tavolo davanti al quale lui stava in piedi, c'era il telefono e oltre il tavolo, nel piccolo ufficio della Tenenza, c'era una mezza dozzina di giornalisti, che abbaiavano, ma con rispetto, le loro domande. “Ci scusi, tenente Trusso, e i nomi di questi tre?” Chiese un giornalista. “Non ve li ho già detti?” disse il tenente Trusso che aveva molta simpatia per la stampa. “La donna si chiama Louise, e i due uomini si chiamano Prospero il più piccolo, e Eduard quello grosso.” “Tenente Trusso, questi sono i nomi del complesso ,
non può dirci i veri nomi?” «Subito,» disse il tenente Trusso, si rivolse a uno degli appuntati che aveva alle spalle. “Leggi i nomi ad alta voce.” L'appuntato prese la cartella dal tavolo, ne levò i due primi foglietti e cominciò a scandire, come leggesse un catalogo dei grandi magazzini: “Alberto Caramaffa, di Palombara Sabina, di anni 28.” “Questo è Eduard,” lo interruppe il tenente Trusso, rivolto ai giornalisti, poi fece cenno all'appuntato di proseguire. L'appuntato lesse ancora: “Vittorio Gandroni, di Roma, di anni venticinque.” “Questo è Prospero,” disse il tenente Trusso. «Ulla Dorn, di Amburgo, di anni ventidue,» lesse l'appuntato. “Questa è Louise,” spiegò il tenente Trusso, “è tedesca, ma è vissuta quasi sempre a Roma, e credo che parli meglio il romanesco del tedesco. I suoi genitori sono brava gente, hanno un ufficio importazione esportazione ad Amburgo, e per questo, fin da quando Ulla era bambina, la portavano in Italia per il loro giro d'affari. Ma quando la ragazza ha avuto sedici anni, l'hanno disconosciuta e buttata fuori di casa. È stata un paio di anni in un istituto correzionale in Germania, dove ha tentato di uccidere una compagna che non voleva fuggire con lei dal riformatorio. Qui in Italia, per furto, prostituzione, favoreggiamento, spaccio di droga, ubriachezza molesta e altre piccole cose, ha fatto un anno e mezzo di carcere ed è stata rispedita al suo paese. Per due anni non ne abbiamo sapunto più nulla, poi lei è rientrata in Italia coi suoi due amici romani, clandestinamente, si sono presentati come capelloni, chitarroni, basettoni, ma intanto studiavano un'altra cosa. Facevano per girare liberamente, senza dare sospetti, ma avevano in mente altro.” “Che cosa altro, tenente Trusso?” chiese il più anziano dei giornalisti. “Una spaccata, come quella che fecero due anni fa a Roma, e ammazzarono un carabiniere che passava per caso e che intervenne,” disse il tenente Trusso. “Da quel momento i due scomparvero e noi non sapevamo assolutamente nulla di loro. Adesso sono ritornati con la ragazza e facendo girano l'Italia alla ricerca della gioielleria più adatta, più ricca. In Germania la ragazza ha procurato loro il ricettatore. Avrebbero lavorato comodi se non fossero stati scoperti.” «Come sono stati scoperti?» chiese il giovane corrispondente di un giornale di Firenze. “Abbiamo degli informatori volontari,» disse il tenente Trusso. «Cosa vuoi dire ?» disse un altro giornalista. Paziente, il tenente Trusso spiegò al pettegolo. «Vi sono degli informatori regolarmente compensati che collaborano con noi, e vi sono degli informatori, per esempio telefonici, che ci danno tutte le informazioni su un certo caso del
quale noi sappiamo poco o nulla, senza chiedere compensi. Per amor dell'arte. L'altra notte, ci è appunto arrivata questa telefonata di un volontario: <Se vi interessa prendere i due che fecero quella famosa spaccata due anni fa a una gioielleria di Roma, non dovete far altro che andare subito alla 'Giraffa', a Grosseto, dove stanno suonando, insieme con una donna. Sono un complesso che si fa chiamare 'Le Roselline', ma sono venuti in Italia per fare un'altra grossa spaccata, la donna ha procurato loro, in Germania, il ricettatore e tutti i documenti falsi. I loro nomi sono questi e questi, > e ci ha dato i nomi.” La voce del tenente Trusso, da lieve divenne dura, aspra. “Siamo andati lì, alla , erano proprio loro, perché appena siamo entrati hanno cominciato a sparare, hanno ferito gravemente uno del pubblico e hanno ucciso un nostro appuntato. Con quello di due anni fa, sono due dei nostri uomini che perdiamo per colpa di questi delinquenti.” “Ma chi può essere questo misterioso informatore che vi ha telefonato?” “Non lo sappiamo, e non ce ne importa. Ci ha dato delle informazioni esatte, e questo è tutto. Che lo abbia fatto per vendetta o per altro, sono affari suoi. Ora siamo in grado di prendere gli assassini,” rispose il tenente Trusso. “In che direzione state eseguendo le ricerche, e come?» “Verso Livorno, hanno abbandonato la macchina proprio al principio dello stradone per Livorno. Comunque tutte le vie nel triangolo Livorno-Grosseto-Siena sono già bloccate fino dalle quattro di ieri notte.” “Tenente Trusso, un'ultima domanda, per favore,” disse il giornalista avendo visto che il tenente guardava l'orologio, «questa gente è armata?” “II nostro informatore volontario ci ha detto al telefono che sono armati come vietcong a passeggio per Saigon. Sotto lo smoking rosa hanno una pericolosa rivoltella a canna lunga e un coltello. La donna ha solo il coltello e l'informatore ha detto che è molto brava a maneggiarlo.” “Grazie, tenente Trusso. Appena sa qualche cosa di nuovo, la prego, ci richiami,” disse il giornalista anziano. “Sapete che vi chiamerò.” Sorrise in segno di saluto, volse poi rigidamente le spalle accompagnato dai suoi appuntati con le cartelle, mentre i giornalisti uscivano. Eduard, in testa, apriva la strada a Prospero e a Louise, nel sottobosco della pineta. La pineta di Tombolo di Grosseto non è naturalmente il Mato Grosso, ma si capisce che nel suo piccolo ha un grande desiderio di esserlo. Non ha l'estensione smisurata del Mato Grosso, non ha il clima caldo umido, non ha indios che si mangiano gli esploratori ma, pur con queste manchevolezze, è un
modellino in scala ridotta del Mato Grosso. Se non camminate per i sentieri, dove essi non volevano camminare per non incontrare qualche guardia forestale, sentirete bisogno, come nel Mato Grosso, di un'accetta per aprirvi la strada nel sottobosco in cui affondavano gli alti, fitti pini. Le calze rosa di Louise, dopo dieci minuti di questo cammino, erano ridotte una stracceria e, sotto, le gambe e là sanguinavano. I calzoni rosa dei due uomini erano strappati, anche le loro mani erano qua e là punte, graffiate, segnate di sangue. Poi incontrarono uno stagno. Non era uno stagno, era una radura, semplicemente, le lunghe piogge di anni e anni, trattandosi di un avvallamento, l'avevano riempita d'acqua, ormai divenuta putrida. La radura era larga un duecento metri, davanti a loro e, ai lati, doveva essere mezzo chilometro. L'acqua buia perché il sole penetrava in quei recessi solo quando era molto alto, le ombre dei pini si riflettevano buiamente nella buia acqua melmosa, qua e là nugoli di moscerini o di simili irritanti bestie si levavano in volo, come un soffio di fumo di pipa, e l'odore verde dell'acqua putrida, oltre a prendere al naso e alla gola, sembrava arrivare, come un disgustoso rombo, persino alle orecchie. «Attraversiamo,» disse Eduard, cioè Alberto Caralaffa di Palombara Sabina, e senza timore o schifo immerse le belle scarpette rosa nell'acqua dello stagno. «Ma non si può camminare intorno allo stagno?” disse Prospero. «Perdiamo un'ora per fare duecento metri,» disse Eduard, “io invece voglio essere al centro di questa pineta al più presto, nel punto dove prima di trovarci possono passare delle giornate.” Agitò il braccio. “Forza,” disse ai due che lo seguivano. Louise, tenendosi con una mano in testa la parrucca nera disse: “Io in quel cesso lì non metto i piedi.” «Allora resta lì,» disse Eduard. Lui e Prospero cominciarono a diguazzare nella ventina di centimetri di acqua verdastra e densa, e Louise, con due rughe di vomito agli angoli delle labbra, si tolse la parruccona e la tenne in mano perché non voleva che le cadesse in acqua, e con le sue delicate scarpine da cantante quasi scalza s'immerse anche lei in quella lutulenza. Fu proprio a metà del guado che Prospero urtò contro qualche cosa che gli fece male a un piede, si curvò per vedere che cos'era e nel torbidume dell'acqua distinse che era la pentolina di metallo che i soldati americani tenevano in testa. Lo tirò su e disse a Eduard: “E da dove viene questa roba?” Eduard si volse e guardò l'elmetto. “Alla fine della guerra in questa pineta e in quella di Livorno si sono nascosti centinaia di soldati americani disertori, in prevalenza negri, e vi sono vissuti diversi mesi senza che riuscissero mai a prenderli, con tutta la Military Police che li braccava.” “Hai intenzione di rimanere qui qualche mese?” disse Prospero.
“Non lo so. Dipende,” disse Eduard. Alla fine del guado Louise vomitò finalmente, ma si rimise subito, si sistemò di nuovo la parrucca in testa e seguì i due uomini. Camminarono ancora quasi un'ora, facendosi strada in quella piccola giungla, mangiando ogni tanto qualche tela di ragno, scacciando qualche ronzante, minaccioso grosso insetto nero che calava verso di loro avidamente. Si fermavano ogni tanto per fumare una sigaretta, ma questo non bastava a riposarli. Camminavano dalle tre, e adesso erano le otto, anche Eduard camminava con meno scatto, e poi d'un tratto si fermò di colpo. Fece segno di fare silenzio. “Cos'è, questo, l'uccellino del segnale orario?” disse Louise. Neppure lontano, anzi abbastanza vicino, si udì la voce dell'annunciatrice: “Sono le ore otto.” Pausa, poi la voce dell'annunciatore. “Giornale radio. Secondo i più noti esperti di politica, dopo i recenti avvenimenti in Grecia, tutta la situazione internazionale attraversa una fase delicata...” Eduard quasi si curvò in due e riprese a camminare verso la voce della radio facendo segno agli altri di seguirlo, stando curvi come lui. Andarono avanti neppure una decina di metri poi, attraverso il fogliame degli arbusti, lo sfasciume di foglie secche o marce, le tele di ragno, videro. Era una grande radura, perfettamente asciutta. Da un lato, nella calda ombra verde del primo mattino, c'era una tenda di ridotte proporzioni, e fuori della tenda, seduti in c'erano una ragazza brunetta, in due pezzi, e un uomo che doveva averne qualcuno più di quaranta, coi capelli rapati, in calzoncini corti, e a torso nudo. Aveva in un berretto da Afrika Korps, ma anche senza questo era indubitabile, anche a distanza, che si trattava di un tedesco, e allora Prospero si sbottonò la camicia vicino alla vita e levò la piccola ma temibile rivoltella a canna lunga. Anche Eduard fece come lui. Intanto il giornale radio era finito e la leggiadra, sinuosa voce dell'annunciatrice disse:”Trasmettiamo ora programma di musica degli anni '40”, e dopo aver detto una sequela di nomi, una voce che veniva dai millenni cominciò a cantare con penosa comicità il preludio in cui si narrava che due fidanzati giocavano una partita briscola ma la fidanzata barava e aveva nascosto una carta, poi si arrivava al ritornello e l'uomo esplodeva ilare eppure ancora più penoso: “Marta Marta tira fuori quella carta se la carta non mi dai sono guai, sono guai.» Accovacciati in quella piccola giungla i tre guardavano e ascoltavano. Attraverso il fogliame vedevano i due che bevevano qualche cosa da un termos e pescavano ogni tanto con del pane nero in un barattolo di roba in scatola, li vedevano ridere, e nonostante la musica udivano anche qualche loro parola: in tedesco. “Ma è proibito entrare qui, questi come mai ci sono entrati lo stesso,” bisbigliò Louise.
“Perché un tedesco per passare una notte in pineta rischia anche la fucilazione, tu dovresti saperlo,” disse Eduard. “Su, saltiamo in piedi, fuori.” Comparvero nella radura, uscendo dal sottobosco, d'improvviso, con le rivoltelle in pugno davanti ai due che non ebbero neppure i riflessi per fare oh, e che li guardarono, e videro la ragazza dalla grossa parrucca nera in testa e dalle calze rosa a brindelli, e i due uomini dallo smoking rosa, ormai di un rosa approssimativo, uno aveva anche una chitarra rosa a tracolla. “Restate seduti, non tentate niente e noi non vi faremo niente,» disse Eduard in tedesco, ad Amburgo aveva avuto tempo di impararlo abbastanza bene. “Tedesco?” disse il grosso, massiccio uomo, dai capelli rasati col rasoio. “Sì,” disse Eduard. “State fermi.” Sempre con la rivoltella puntata contro i due, disse a Prospero: “Guarda nell'interno della tenda che cosa hanno nelle sacche: dobbiamo prendere i loro abiti,” si rivolse a Louise. “Prendi il portafoglio all'uomo, anche se sono venuti qui in pineta a piedi hanno l'aria di due bene in soldi.” Louise tolse dal dito della ragazza l'anellino con brillante, dal polso l'orologino, e poi si rivolse all'uomo, massiccio, il volto quadrato e grasso da campione di lotta libera, seduto come un Budda, gli infilò la mano nella tasca posteriore dei calzoni, tirò fuori il portafoglio, se lo mise, cioè tentò di metterselo nella scollatura, ma nello stesso istante morì: una manata del grosso in piena gola le fece emettere un immediato sbocco di sangue, senza neppure un gemito, e si afflosciò da un lato col portafoglio metà nella scollatura metà fuori. Eduard sparò subito e lo colpì, evidentemente in un punto non vitale perché il grosso si alzò, scattando agile come un gatto, e gli piombò addosso, buttandolo a terra e facendogli scricchiolare le cestole fino al limite di rottura. Con uno, due, tre colpi, uno dopo l'altro, Prospero, uscito dalla tenda, riuscì a irrigidire l'uomo, ma nello stesso tempo la ragazza brunetta, urlando come una scimmia squartata, si alzò e si mise a correre verso il sottobosco. Un altro colpo di Prospero la fermò. Eduard si liberò dal peso dell'uomo e si rialzò, ansando, dolente in tutto il corpo. Guardò i tre distesi nella radura, si asciugò con la mano un po' di sangue dal naso, andò verso il corpo di Louise, le prese il polso in un'ingenua illusione che fosse ancora viva, le sollevò una palpebra poi le tolse dalla mano il portafoglio sporco di sangue che si stava coagulando rapidamente, guardò nell'interno: vi erano quasi centocinquantamila lire italiane: non si era sbagliato, conosceva i tedeschi, ormai: «Nascondi questi tre il più lontano possibile da qui, in mezzo ai cespugli. Io intanto mi cambio.” Prospero rimise la rivoltella dentro la camicia, sotto la giacca rosa dello smoking, guardò i tre morti, non era un lavoro che gli piaceva, ma bisognava
farlo. Cominciò con Louise, la prese in braccio, ma a faccia in giù per non vederla in viso, specialmente il collo e la mascella, come sfracellate dalla mazzata di un gigante. S'inoltrò nel sottobosco, avanzò più che potè, poi la depose a terra, ansante. Stava per tornare alla tenda, quando si ricordò di una cosa. Si curvò sul corpo di Louise, le strappò l'abito dalla scollatura, e alla cintura di lei vide ciò che cercava: il lungo coltello che lei portava quasi sempre. Lo sfilò dalle| due asole in cui era infilato. Un coltello in più non era mai male. Tornò nella radura e vide Eduard nudo che stava scegliendo da una grossa sacca gli indumenti da mettersi. Si guardarono, senza dirsi nulla, nonostante il sole fosse alto lì era ancora ombra, ma c'era un'ombra luminosa, come pervasa di piccole, fiammelle. Allora prese in braccio la tedeschina, ma che imbecilli sono stati a non ubbidire a due pistole puntate. Se fosse stata buona nessuno l'avrebbe toccata, e quando tornò dall'aver buttato nelle voragini verdi della pineta quella mortale spoglia, trovò che Eduard era già vestito da tedesco: calzoncini kaki, piedi nudi, e piccola cinepresa attaccata alla cintura. Stonava molto il lungo casco di capelloni castani. “Per questo ti aiuto io,” disse Eduard. Prese per i piedi il grosso uomo, Prospero lo prese per le ascelle e nonostante fossero in due e robusti, fecero piuttosto fatica a nasconderlo, come dire?, a buttarlo in quel precipizio, vegetale. Ritornati nella radura si accesero una sigaretta e si guardarono: uno vestito da tedesco, ma coi capelli lunghi quasi fino alle spalle, l'altro ancora in quello smoking rosa ridotto ormai una stracceria. “Adesso, cambiati. Cerca nelle sacche, non sarà proprio roba su misura, ma arrangiati, forse i calzoncini della ragazza, perché tu hai il sedere stretto, ti vanno meglio di quelli di lui, che sono larghi anche a me,” disse Eduard a Prospero. “Poi ci tagliamo i capelli. Lui aveva tutto, le forbici, la macchinetta e il rasoio. Dobbiamo raderci a zero.” Anche Prospero si vestì da tedesco, i calzoncini della ragazza erano un po' troppo corti, ma si sa che i tedeschi non hanno molto pudore. Poi mangiarono: in quelle enormi bisacce vi era tutto sotto forma di salame, würsteln, parieser, ländiger, salamini abruzzesi, più scatole di carne, di tonno, vasetti di peperoni, di cipolle e tante altre scatole di frutta conservata. Anche da bere ve ne era molto, quattro grosse borracce di acqua, una decina di bottigliette di birra, e una piatta ma grande bottiglia di grappa friulana. Poi c'erano alcune scatole di burro, e una bella quantità di pane nero, chiuso nel suo involucro impermeabile, con la scritta Bauern-schnittel. “Questi volevano rimanere qui qualche trimestre,” disse Prospero, mangiando a morsoni un ländiger e gustandone l'affumicato sapore. “Io no,” disse Eduard. “Appena ci siamo tagliati i capelli ce ne
andiamo.” Non erano neppure le nove, l'operazione più lunga fu quella del taglio dei capelli, nessuno dei due sapeva niente di quel mestiere, con le forbici si portarono via più capelli che poterono, poi tentarono di raparsi con la macchinetta, ma occorrono settimane d'esercizio per saper maneggiare bene quell'aggeggio, e riuscirono solo a strapparsi un po' di capelli. Non erano molto belli, così mal rapati, ma non erano più capelloni e poterono mettersi in testa i berretti Afrika Korps, assumendo un'aria abbastanza credibile. E quando ebbero finito l'ombra verde della pineta d'improvviso s'incendiò di granuli di sole, erano le undici passate, dall'alto il sole pioveva in ogni più oscuro recesso della pineta, la prima farfalla, bianca, passò vicino a loro, per un attimo tutti e due la seguirono con sguardo. “Qualcuno può aver sentito i colpi di rivoltella, anche se siamo quasi al centro della pineta,” disse Eduard, “c'è sempre qualche guardia forestale che gira qui dentro. Dobbiamo raccogliere tutto nelle bisacce e andare, e dobbiamo prendere anche la tenda.” «Anche la tenda? E come si fa a portare una tenda in spaIla?» disse Prospero. «Il paletto centrale è a cannocchiale, una volta rientrato tutto è lungo poco più di mezzo metro. La tenda si piega come un paracadute. Ci mettiamo tutto in spalla e così possiamo camminare per i sentieri, anche se incontriamo le guardie forestali siamo due tedeschi che sono entrati abusivamente nella pineta, paghiamo la multa ed è finita.” «Ci chiederanno i documenti.” «Probabile. Diciamo che li abbiamo lasciati in albergo, Grosseto. Pagando la multa forse ci credono. Se no, questa» si toccò la tasca destra dei calzoncini kaki, gonfia dell'arma. “E dove andiamo?” Eduard guardò in terra. Rifletteva. «Presto o tardi smetteranno di cercarci per la strada verso Livorno e capiranno che ci siamo nascosti in questa pineta. Gli ci vorrà un giorno o due, ma quando loro verranno a cercarci qui, noi saremo in un altro posto.» “Dove?” “A Grosseto.» “Tu sei matto. Lì c'è un'armata di carabinieri che ci aspetta.” “Aspetta due uomini e una donna, non due uomini soltanto. Li aspetta, ma non lì a Grosseto, perché noi siamo due crucchi che attraversano Grosseto, non i tre che hanno in mente. Avanti, cominciamo.” Smontarono la tenda, la ripiegarono, stivarono le enormi sacche e le chiusero. “E la chitarra?” disse Prospero.
“Bisogna sotterrarla, se la trovano qui, vicino a quei morti, è come avessimo messo la firma, e portarcela dietro non è possibile,” disse Eduard. Con due bastoni scavarono, in mezzo ai cespugli, malinconicamente, una fonda buca, vi deposero la chitarra rosa, la ricoprirono di terra, tornarono nella radura, si misero in spalla le due monumentali sacche. Prospero barcollò sotto il peso, doveva essere oltre i trenta chili. «Ma quelli erano scemi a girare con tutta questa roba addosso.” «Usi e costumi. Ogni razza ha i suoi,” disse Eduard. «Andiamo.” Con quel peso, e a piedi nudi, non era molto bello camminare sul sentiero cosparso di aghi di pino secchi e pungenti, di rametti di pino aguzzi, ma andarono lo stesso, perché era sempre meglio che camminare, come prima, nel sottobosco. Dopo quasi mezz'ora che arrancavano nei sempre più caldi ricami di sole — doveva essere l'una del pomeriggio — il piccolo sentiero sboccò in un sentiero molto più grande, dove si vedevano anche le impronte di gomme d'auto, probabilmente jeep della polizia forestale. Al tronco di un pino era attaccato un cartello di latta a forma di freccia, la punta della freccia era a sinistra e dentro il cartello era scritta una sigla: «N24-R», assolutamente misteriosa. Presero la direzione della freccia perché era probabile che indicasse, in mezzo alla giungla, la via d'uscita per le jeep e le guardie forestali. Camminarono ancora mezz'ora, fermandosi ogni tanto per bere e per accendersi una sigaretta, i piedi martoriati, le spalle già segnate al rosso sangue dalle bretelle delle sacche, quando udirono abbaiare il cane. Istintivamente Prospero mise la mano nella tasca dei calzoncini dove teneva infilata la rivoltella. «Stai calmo e vieni avanti insieme con me,” disse Eduard. “Siamo due tedeschi entrati abusivamente in pineta niente altro.” E alla svolta, mentre continuarono a camminare, videro comparire la guardia forestale che teneva al guinzaglio, a stento, una specie di drago lupo, più che cane lupo, gli mancavano solo le fiamme dalla bocca e un paio di gambe in più. «Se succede qualche cosa, tu pensa all'uomo, io penso cane,” disse Eduard. “Ma cerchiamo che non succeda niente.” Erano a una ventina di metri dalla guardia forestale, si vicinarono sorridendo, Eduard alzò il braccio in segno di saluto e il drago ringhiò cavernosamente. «Basta,” disse la guardia, e il cane, con un ultimo ringoiato ringhio, si tacque. La guardia si fermò a due metri loro, tenendo il cane con tutte le sue
forze. «Non sapete che non si può entrare in pineta? Non avete letto i cartelli?» poi davanti al loro silenzio, sorridente ma sempre silenzio, fece un'altra domanda: “Capite l'italiano?” «Sì, poco, signore,” disse Eduard, dopo due anni ad Amburgo sapeva fare anche il tedesco che parla un po' l'italiano con l'accento del crucco. “Non avete letto il cartello che è proibito entrare nella pineta?” «Sì, noi letto.” “E allora perché siete entrati? Potete essere anche arrestati.” «Preco scusa, pineta molto bella, noi facciamo solo passeggiata, ma lei signore ha ragione e noi adesso pacare multa. Preco, quanto?” e levò il portafoglio dalla tasca posteriore dei calzoncini. “I vostri documenti,” disse duramente la guardia forestale. Aveva a tracolla un bel fucile semiautomatico e alla vita una fondina con dentro qualche cosa che era probabilmente una Beretta Jaguar. “Noi lasciati nostri documenti in albergo, a Grosseto.” “Come? Siete venuti a piedi fin qui da Grosseto?” “Sì, signore.” La guardia riflette un poco poi disse, irrevocabilmente: «Allora venite con me al comando.” Non c'era altro da fare. Eduard guardò Prospero. Prospero in un centesimo di secondo tirò fuori la rivoltella e sparò due colpi in piena faccia alla guardia, e nello stesso centesimo di secondo, col coltello puntato, Eduard si buttò addosso al cane: se non sbagliava colpo glielo avrebbe ficcato in gola. Il peso della sacca gli fece sbagliare colpo, il drago con le fauci aperte gli balzò addosso, lo fece cadere e lo azzannò alla gola. Per quanto Prospero sparasse veloce e fulminasse il cane con due colpi, ormai Eduard non poteva fare più nulla per lui, e lui senza Eduard non era più nulla. Stette un poco in piedi, nel pulviscolo di sole che pioveva ora nella pineta come una nevicata d'oro, a guardare il macello: il cane morto con le zanne ancora affondate nella gola di Eduard, e Eduard con le mani inutilmente protese sulla testa del cane per spingerlo indietro, e la guardia forestale con la faccia irriconoscibile, rotolato due metri più in là per la spinta dei proiettili che lo avevano preso in pieno viso. Non si accorgeva più neppure del peso della sacca. Poi bevette acqua da una delle due fiaschette che portava a tracolla, si accese una sigaretta e continuò a pensare che senza Eduard non era più nulla; lui era bravo, ma se c'era Eduard. Se non c'era, era soltanto un coniglio. Non sono un coniglio, pensò allora, di colpo, nel silenzio solare della pineta, e guardava intanto gli scarponcini della guardia forestale, aveva l'idea
che potessero andargli bene. Non era un coniglio e voleva vivere. Sfilò le scarpe alla guardia forestale» erano tutte e due un po' grandine per una smilza seconda chitarra come lui nel complesso “Le Roselline”, ma andavano bene, ed era sempre meglio che andare a piedi nudi, sarebbe stato troppo notato. Levò alla guardia forestale anche la rivoltella, proprio una Beretta Jaguar: quella cosa lì gli dette un po’ di speranza. Si riaccomodò bene sulle spalle la sacca e riprese a camminare. Seguì le tracce delle gomme delle jeep, le mani nelle tasche dei calzoncini, nella destra la Beretta Jaguar, nella sinistra la rivoltellina, però infallibile per la canna così lunga, e non erano neppure le due quando il largo sentiero sboccò sullo stradone asfaltato che conduceva a Grosseto. C'era la solita ridicola asse di legno che pretendeva di sbarrare il passo, il solito cartellone trilingue che minacciava multe, galera e vipere a chi entrava nella pineta. Prima di uscire dalla pineta egli osservò bene, ma a quell'ora passavano pochissime macchine, faceva già troppo caldo e dopo un paio di minuti, saltò fuori, sullo stradone ardente di sole, e cominciò a camminare verso Grosseto — Eduard voleva andare a Grosseto, e se lui aveva pensato Grosseto, voleva dire che Grosseto era giusto-— col passo lungo del bavarese calato in Italia per bersela tutta a piedi. Passava ogni tanto qualche macchina, qualche motorista, qualche camion, sotto il berretto da Afrika Korps, sotto la pesante soma che portava, il viso e tutto il torace nudo si rigavano di sudore. Dopo un po' che camminava, ubriaco di stanchezza, i freni di un'auto stridettero di fianco a lui. Si volse di scatto. Dal finestrino di un'utilitaria una ragazza brunetta gli disse in tedesco, un tedesco parlato da un italiano: “La posso portare più avanti, signore?» Era gentile, giovanissima, assolutamente bambina. “Molte grazie, signorina,” lui disse, “ma io credo di darle troppo disturbo.” Con la mano si asciugò il sudore dal viso. “Prego, signore, salga, per me è un piacere,” disse la brunetta. “Mia madre è tedesca, io ho imparato il tedesco da mia madre.” Lui salì, scaricando la sacca sul sedile posteriore e accendendosi una sigaretta. “Lei di dov'è?” “Di Amburgo,” continuò lui a rispondere in tedesco. «Adesso torno a casa.” “Ma, tutto a piedi?” lei disse. Lui sorrise. «Oh, no, ho voluto fare a piedi solo l'Italia centrale, da Siena a Roma, poi naturalmente prendo il treno.” Molto caldo nella piccola auto. Molta solitudine, perché le macchine che passavano erano poche. “Siete straordinari, voi tedeschi, mezza Italia a piedi con un quintale in spalla,” lei disse ammirata.
Lui finiva di fumare la sigaretta e guardava davanti a sé lo stradone mentre lei guidava, e vide subito, a nemmeno trecento metri, il posto di blocco dei carabinieri e della polizia stradale. “Scendi,” disse brusco in italiano alla ragazza, mettendo lui il proprio piede sul freno e bloccando la macchinetta che quasi sbandò. Aveva anche tirato fuori la grossa calibro. “Scendi e scappa, scendi e nasconditi, se no ci rimetti la pelle!” le urlò. Le urla, la rivoltella, la spinta convinsero la ragazza, che, senza capire, si buttò fuori dall'auto e corse impazzita attraverso la strada. Lui si mise, al volante, e ripartì come un proiettile, puntando direttamente verso le due auto del blocco stradale, verso i carabinieri e verso i militi della polizia stradale, perché Eduard glielo diceva: “Fai paura, più paura fai e più probabilità hai di farcela.” Puntò diretto verso quel blocco, come un kamikaze, e a distanza giusta cominciò a sparare col suo cannoncino. Vide carabinieri e militi della stradale che schizzavano via a destra e a sinistra verso quel siluro umano che arrivava, verso quei proiettili che fischiavano come merli impazziti e tre metri prima di arrivare addosso al blocco, sterzò a destra, aveva superato il blocco e corse via. Morì così, al volante dell'utilitaria, fulminato alle spalle dalla raffica di mitra di un carabiniere, l'utilitaria che fece tre o quattro salti e poi si rovesciò. Ma non era stato un coniglio. In pineta avrebbe forse potuto far meglio.
5 Spara che ti passa
“Ricominciamo da capo. Come si chiama?” “Giuditta Maltzer.” “È tedesca?” “Sì, è una berlinese.” “Quanti anni ha?” “Ventidue. Questa è la copia del suo permesso di soggiorno.» “Si, l'ho vista, poi la studio meglio. Quando viene in Italia?” “Due volte all'anno, col Circo Rhein, da novembre a fine gennaio, e da giugno a fine agosto.” “Non ho mai sentito nominare questo circo.” “Non è un gran che, anzi, ma vive. Lei forse è il miglior numero, credo proprio che sia il miglior numero.” “Cosa fa?” “Ecco, io l'ho vista, per me è straordinaria: il pubblico continua a battere le mani e a gridare il suo nome.” “Che cosa faceva?” “Lei entrava in pista su un bel cavallo bianco spruzzato di nero e cominciava a fare i soliti giri, salutando gli spettatori.» “E poi?” “E poi, ecco, era vestita da cosacco, col casco di pelliccia, gli stivaletti e tutto il resto. Faceva un po' di giri, sorridendo.» “Sì, l'hai già detto. Vai avanti.” «Poi entravano sei ragazze in due pezzi, non erano mica male e poi erano quasi nude con quei due straccetti.» “Sì, lo so che ti piacciono le donne, ma vai avanti.» “Queste sei ragazze non è che entrassero proprio in mezzo alla pista: si fermavano sull'imboccatura dell'ingresso che dava sulla pista e ognuna aveva in mano una piccola lampada accesa di diverso colore. Sei ragazze, sei colori: una lampada rossa, una gialla, una arancio, una bianca, una verde, una celeste. E lei intanto, sul cavallo, girava e sorrideva agli spettatori.» «Per favore, l'hai già detto.” “Sì, va bene, ma volevo dirti che sorrideva agli spettatori agitando un fucile Garand.” “Proprio un Garand, non ti sbagli?” «Non mi sbaglio, perché è proprio quello che si è portata via. Lo sai quanto
pesa un Garand?” “No.” «Pesa oltre quattro chili e mezzo, anzi, mi sono fatto dare tutti i dati da un carabiniere, così li puoi scrivere, leggi: calibro 7,62, è lungo 110 centimetri, il proiettile ordinario pesa grammi 9,9, quello perforante 10 grammi e 8.” “Sì, va bene, ma leggerò tutta questa roba dopo, adesso vai avanti.” “Lei girava in giro sul cavallo bianco spruzzato di nero, e agitava il Garand con la mano sinistra. Cerca di capire di che tipo di donna si tratta se tiene come niente fosse un fucile di quasi cinque chili con la mano sinistra e cavalcando.” “E perché con la sinistra?” «Perché è mancina.” «E cosa ci faceva col Garand?” «Ah, questo era proprio straordinario. Guarda, io sono sudato due volte a vederla, quando ancora non era successo niente. A me il circo non piace, né tutte quelle acrobazie, però lei mi è piaciuta.” “Sì, ho capito, mi hai dato anche la fotografia: è bionda e ha dei fianchi così. Ma io voglio sapere cosa faceva.» “Sta' a sentire, te lo spiego subito: le sei ragazze rimanevano ferme sull'imboccatura della pista e cominciavano ad agitare le lampadine accese e colorate intorno alla loro testa. Hai capito cosa vuoi dire ?» “Vuoi dire che facevano roteare le lampade intorno al loro capo: non hai usato il verbo giusto.” “Va bene, facevano roteare le lampade intorno alla loro testa e allora lei dava un colpo di sperone al cavallo, uno sperone grosso così, proprio da cosacco, il cavallo nitriva di dolore e si metteva a girare per la pista al galoppo, e allora lei impazziva.” “Che cosa vuoi dire
una lampadina. Preco, zignore e zignori, cridate il nooome del colooore.” “E il pubblico rispondeva?” “Al principio c'era confusione, dieci gridavano verde, venti gridavano giallo, poi però nasceva, misteriosamente, un accordo fra le centinaia di persone presenti e tutti si mettevano a scandire: ver de, ver de, o gial lo, gial lo, e allora lei si rimetteva a urlare.” “E cosa urlava?” “Urlava: < Grazie, zignore e zignori, voi avete scelto il colooore giallo e io sparerò sulla lampadina gialla: spero che la canzooone sia di vostro cradimento. >“ “Cosa c'entra la canzone? Cantava anche?” “No, lei no. Ma le lampade che le ragazze facevano girare intorno alla loro testa erano collegate a una specie di giradischi che trasmetteva immediatamente la canzone dagli altoparlanti. Su un grande tabellone luminoso erano scritti gli accoppiamenti, mettiamo, col giallo c'era la canzone Little man cantata da Milva, col verde c'era qualche altra cosa del genere, e così via.” “Ho capito: lei, stando in piedi sul cavallo sparava al giallo; colpendo la lampadina, spegnendola, un contatto automatico metteva in azione il giradischi. Sì, è carino.” “No, signore: non si può dire soltanto < carino > di una cosa simile. Tu non hai visto. Lei non stava solo in piedi sul cavallo con un fucile da cinque chili in mano, lei gli si buttava sotto la pancia, al cavallo, intorno al collo, speronandolo di continuo per farlo galoppare e nitrire e intanto con la sinistra sparava col Garand verso le lampadine che le ragazze tenevano in mano. Era invasata: saltava a terra dal cavallo in corsa, gli risaltava addosso attaccandosi alla coda e, diciamo, alle terga, sparava attraverso le gambe del cavallo verso le lampadine, sparava tenendo le gambe intrecciate al collo del cavallo, a testa in giù, rasentando i terreno della pista, sparava e spegneva, con un solo colpo, la lampadina prescelta dal pubblico, ho detto un solo colpo, e allora, subito, il giradischi si metteva in moto e trasmetteva la canzone mentre lei attorcigliandosi intorno al cavallo, camminandogli sulla schiena, attaccandoglisi al collo faceva un po' di giri di pista, senza lasciare mai il Garand, finché il pubblico non cominciava a scandire il nome di un altro colore: ce le ste, ce le ste. Allora lei sparava ancora, al colore scelto dal pubblico, con un colpo solo lo centrava, spegneva la lampadina celeste e il giradischi attaccava l'altra canzone, e così via fino alla sesta lampadina, un centro dopo l'altro. Cerca di capire che cosa ti sto dicendo.” “Non sono molto intelligente, ma credo di capire.” “No, non hai capito i termini tecnici della questione.” “Che cosa vuoi dire?”
«Cerca di capire, ti ho detto. Lei sparava saltando e giostrando su un cavallo al galoppo. In termini di scuola militare si dice: sparare da una piattaforma mobile.” “Ma l'ho capito.” “Hai capito anche che sparava a testa in giù o tra le gambe del cavallo che galoppava? E con una mano sola perché con l'altra doveva tenersi al cavallo?” “Penso di averlo capito.” “E hai capito che sparava a delle lampadine che le sei ragazze in due pezzi muovevano di continuo intorno alla testa?” “Sì, l'ho capito e penso che le ragazze dovessero avere parecchia paura.” “Forse un poco di paura sì, ma non correvano nessun pericolo: il Garand era caricato con speciali pallottole di gomma molle, sufficienti per rompere una lampadina, ma assolutamente innocue. Quello che tu devi capire è un'altra cosa.” “Quanto sei noioso. Cos'è che devo capire, allora?” “Che lei sparava da una piattaforma mobile a un bersaglio mobile e su sei tiri faceva sei centri, a delle lampadine a distanza minima di dieci metri. Vuoi che andiamo al Poligono di tiro e ci facciamo dare le statistiche di quanti, almeno qui in Europa, sono capaci di fare altrettanto?” “Io me ne stropiccio del Poligono di tiro, voglio sapere dove vuoi andare a finire.” “Ma è chiaro: prima di arrestare questa donna ci sarà una lista di morti lunga come una pagina dell'elenco telefonico. Con una mira simile neppure i cani-poliziotto riescono ad andarle vicino. Ne ha già ammazzati due, dico di cani-poliziotto, perché loro non fanno in tempo a sentire l'odore, che lei ha già sparato e centrato. Ha steso un milite della polizia stradale, ha fatto andare fuori strada un'auto dei carabinieri che la inseguiva sparando alle gomme, e due militi sono morti nel ribaltamento. E non parlo dei tre fratelli Brioschi ai .quali, un colpo dopo l'altro, come fossero lampadine, ha sparato quella sera.” «Sì, ho capito, va bene, ma ricominciamo da capo e dimmi tutto su quella sera.” «Ma è stato scritto su tutti i giornali.” «Io non leggo i giornali. Io li scrivo. Voglio sapere da te che hai veduto e seguito tutto, o quasi tutto. Voglio sapere dai testimoni.” “Quella sera lei era nella sua roulotte.” “Bene, avanti.” “Giuditta non dorme in albergo o in carrozzone con gli altri del circo. Lei ha una sua vecchia, grossa Alfa Romeo di quarta mano, con dietro una grossa, vecchia roulotte. E quella sera, dopo lo spettacolo, era nella sua roulotte e
stava aprendo una scatola di sardine per mangiare qualche cosa prima di andare a dormire.” “Era sola?” «Sì. Non ha amici. Fa il suo lavoro, poi si chiude nella roulotte, oppure fa delle passeggiate, ma i colleghi li saluta soltanto.” “Ma avrà un fidanzato, un amico, dalla fotografia è piuttosto bella, una ragazza così ha sempre qualcuno.” “No, non aveva nessuno, né fidanzato, né amico.” “E, scusa, come fai a saperlo con tanta sicurezza?” “Perché non è stata mai vista con nessun uomo e perché i colleghi sapevano che c'era una ragione per ciò: non le piacevano gli uomini.” “Che cosa vuoi dire? Spiegati chiaramente.” “Voglio dire quello che hai capito. Pare che abbia un'amica in Austria, ne sappiamo soltanto il nome, non il cognome, Gertrude. Pare a Linz, sul Danubio. È l'unica persona che Giuditta frequenta, da molti anni, per il resto vive completamente isolata, saluta e sorride ai suoi compagni di lavoro, ma niente di più.” “Un tipo piuttosto insolito.” “Una donna che maneggia un Garand come lei è per forza insolita.” “Allora quella sera stava aprendo una scatola di sardine nella sua roulotte.” “Sì, signore: lei stava aprendo la scatola di sardine, quando i tre fratelli Brioschi, forzando facilmente, con una gomitata e uno strappo, la fragile portiera della roulotte, entrarono e le dissero buonasera.” “Chi sono questi fratelli Brioschi?” “Direi < chi erano >.” “Va bene, chi erano?” “Erano tre gemelli della cittadina. Gorgonzola è piccola, tre giovanotti perfettamente uguali più delle Kessler, piccolotti ma robusti, si notano subito, anche una straniera li nota, il circo Rhein era già da dodici giorni a Gorgonzola e Giuditta Maltzer aveva l'abitudine di andare a bere un cappuccino nel caffè sulla piazza e i tre fratelli Brioschi erano sempre lì fuori che facevano gli stupidi appena lei entrava, con parole di cui lei, sapendo abbastanza l'italiano, comprendeva benissimo il significato scurrile.” “E lei?” “Lei cambiò caffè. Ma loro l'andarono a cercare nel nuovo caffè, le fecero la posta vicino al circo e le dissero chiaramente le loro intenzioni.” “Chi sa come rispondeva dato che appartiene all'altra scuola. È come dire a un gatto se vuoi fare il subacqueo.” “Rispondeva cortesemente, capiva di piacere agli uomini e, anche se si trattava di una simpatia che lei non ricambiava, pure gentilmente li pregò di lasciarla stare, perché aveva il fidanzato a Berlino.”
“E loro?” “Uno dei fratelli Brioschi le disse: < Senti, cosacca, tu sei anche una...>, e sensibilmente pronunciò il nome del placido ruminante che rima con cosacca, < altro che fidanzato a Berlino, e, se ci stai con tutti, devi essere gentile con noi, siamo i più belli del paese>.” “E lei cosa fece?” “Niente, si allontanò senza badare alle parolacce che le dicevano. Era straniera, aveva bisogno del permesso di soggiorno per lavorare, sapeva che se avesse reagito sarebbe sempre stato antipatico e dannoso per lei, donna» «Allora è una che riflette, di buon senso.” «Anche le tigri riflettono e hanno buon senso, ma è meglio non irritarle.” “È vero. Allora, stava aprendo la scatola di sardine, quando irruppero i tre gemelli Brioschi. E poi?” «Lei li guardò e non ci voleva molto per capire che cosa erano venuti a fare. Anche per una donna che appartiene alla scuola giusta, la violenza di tre uomini volgari e odiosi fa disgusto e paura. Se una, poi, come Giuditta Maltzer, è iscritta invece alla scuola opposta, allora la cosa diviene intollerabile.” “Posso capirlo. Ma lei cosa fece?” “Tirò la scatola di sardine, aperta a metà, sulla faccia di uno dei tre gemelli, con la sinistra, e anche così a mano libera, senza fucile, aveva una mira implacabile e beccò un Brioschi in pieni occhi riempiendogli gli occhi di sardine, intanto con la destra aveva preso da sotto la cuccetta che le serviva per dormire uno degli stivali che usava in pista per speronare il cavallo e mirò al viso di un altro Brioschi, ma con la destra, sfortunatamente, non era abile, mancò il colpo e il terzo Brioschi le mise il suo fazzoletto sporco in bocca. E poi: si sa. Ma la riempirono anche di botte e, avendo trovato un barattolo di vernice antiruggine, le verniciarono tutto il corpo di quel rosso arancio, a rischio di farla morire se lei, con le poche forze rimaste, non si fosse subito ripulita alla meglio appena se ne furono andati.” “Come fai a sapere tutti questi particolari?” “Perché lei, al mattino dopo, ha raccontato tutto al direttore del circo.” “Ma doveva andare in polizia, non dal direttore del circo.» “No, lei al direttore ha detto che era inutile andare in polizia. Che non voleva. Voleva semplicemente tornare a casa, a Berlino. Dopo quello che le era successo per molto tempo non avrebbe potuto più lavorare.” “È comprensibile. E qui siamo al punto giusto, vero?” “Esatto. Lei è salita sulla sua vecchia Alfa con la roulotte dietro, vicino a sé aveva il Garand carico, e questa volta non di palline di gomma, ma di autentici 7,62, e sotto il sedile aveva dieci scatole contenenti ciascuna cinquanta proiettili 7,62. Ha da sparare per un mese intero oltre quindici colpi al giorno,
e per lei sono sufficienti perché ogni colpo, per lei, è un centro.” “Ma dove ha preso tutti questi caricatori?” “La polizia dice a Berlino Est.” “Ma che se ne fa?” “Per arrotondare lo stipendio. Lei, col circo, gira per tutta Europa, anche quella orientale, e nei circhi c'è chi contrabbanda macchine fotografiche, calze, magari droga, lei con la scusa del suo Garand contrabbandava caricatori, c'è sempre della gente che vuole sparare. Ah, mi ero dimenticato di dirti una cosa.” “Che cosa?” “Che nel suo esercizio al circo lei sparava con una mano sola: appoggiava il calcio del Garand al fianco o al petto e sparava. Con l'altra mano si teneva al cavallo o gettava il berretto di pelo in aria. Cerca di capire.” “Ma ho capito, perché me l'hai già detto.” “Te lo ridico. Sosteneva il rinculo del Garand con una mano sola e in modo tale da fare sempre centro. Se tu pensi che ci sono degli uomini che imbracciano il Garand con tutte e due le mani, piazzando il calcio contro la spalla, eppure qualche volta tremano al potente rinculo dell'arma e così non colpiscono niente.” “Bene. Vuoi dire che solo una tedesca può fare una cosa simile?” “Sì, solo una tedesca.” “E allora, lei, si è fermata davanti al caffè in piazza con la sua Alfa e la sua roulotte.” “No, non si è fermata, tu non hai capito: lei, ancora prima di arrivare in piazza, ha cominciato a suonare disperatamente il clacson, che son venuti fuori tutti dalle case, dai negozi, tutti si sono affacciati alle finestre, Gorgonzola è una piccola città curiosa e così dal caffè in piazza, quello dove i primi tempi lei andava a bere il cappuccino — ai tedeschi piace il cappuccino con tanta schiuma e sopra il cioccolato in polvere — vennero fuori tutti i clienti, e in prima fila i tre fratelli Brioschi, e allora Giuditta Maltzer, ancora con qualche traccia di rosso antiruggine sul viso, spinse l'acceleratore, con la mano destra tenne il volante, passò davanti al caffè come una Ferrari che si sta lanciando, con la roulotte che minacciava di rovesciarsi, mise fuori il Garand dal finestrino con la sinistra e come fosse sul suo cavallo bianco spruzzato di nero e gridasse: , sparò un colpo dopo l'altro e uno dopo l'altro spense, come fossero le lampadine colorate tenute al circo dalle ragazze in due pezzi, spense i tre gemelli Brioschi, colpendoli tutti e tre, irrimediabilmente, quasi al centro del viso, soltanto loro.” “E li ha uccisi.”
“Più morti di così è difficile.” “Ma come ha fatto a scappare?” “Gorgonzola è una città tranquilla. Lei, guidando sempre più velocemente, ha cominciato a sparare in alto per spaventare la gente. Le strade si sono vuotate. Un vigile coraggioso è saltato su un'auto che stava passando e ha detto al guidatore di inseguire la roulotte e anche quello, volonteroso e coraggioso, si è messo a correre dietro la roulotte, ma a un certo punto la roulotte si è fermata, di colpo, Giuditta Maltzer si sporge col suo fucile dall'Alfa, spara al guidatore e al vigile e riparte.” “Ammazzati? Tutti e due?” “Tutti e due. Sono cinque morti in una decina di secondi. La tigre si era scatenata, lo ha detto anche il medico che l'ha curata.» “Che medico?” “Scomparsa dalla zona di Gorgonzola, lei dopo un poco aveva lasciato l'Alfa con la roulotte in una stradina di campagna dove è stata ritrovata solo questa mattina, aveva rubato una macchina alla periferia di Lodi e da lì era arrivata a Crema; qui aveva cercato un medico, era salita in casa sua col fucile avvolto in un piccolo < plaid> e rimasta sola con lui si era fatta medicare, aveva una forte emorragia, diciamo così, intima, gli aveva raccontalo tutto e gli aveva detto che se l'avesse denunciata prima delle ventiquattro ore sarebbe tornata per ucciderlo.” “E cosa disse il dottore?” “Disse che l'avevano macellata e che con quell'emorragia non avrebbe resistito neppure mezza giornata. Poi disse che doveva essere divenuta completamente pazza in seguito a quello che le era successo. Il medico, paternamente, la consigliò di costituirsi alla polizia e lei assentì. < Prima devo andare in Austria a salutare una mia amica, > disse però. consigliò il dottore. Ma lei mostrò il Garand: < Con questo arrivo dove voglio, > disse al medico.” «Ma il medico telefonò alla polizia, non attese le ventiquattro ore, vero?” “Sì. Telefonò subito, non attese le ventiquattro ore, come gli aveva detto lei e questo è stato male.” “Ma scusa, perché è stato male?” Allora lo stanco, grassoccio, vecchiotto e flaccido giornalista che da quarantotto ore, minuto per minuto, seguiva la “story” della tedesca, uno di quei giornalisti che non scrivono quasi mai, ma che raccolgono notizie, voci, rubano fotografie, stanno appostati per mezze giornate davanti a una casa, o fanno la corte a una cameriera quarantenne che sa di saponetta profumata alla viola — pensate, alla viola — per sapere qualche particolare sui padroni, lo stanco giornalista si alzò. Aveva la voce bassa e amara. «Perché ai pazzi si dice sempre di sì, e Giuditta Maltzer è impazzita. Forse
davvero la cosacca sarebbe riuscita a raggiungere l'Austria, meglio per noi, avrebbe ammazzato un po' di persone lì. Invece le ha ammazzate qui da noi. Appena il medico ha avvisato la polizia, squadroni interi di carabinieri e agenti con branchi di cani-poliziotto si sono scatenati all'inseguimento. E il risultato quale è stato? Due carabinieri uccisi, due poliziotti in fin di vita, tre passanti all'ospedale conciati malamente, e perfino due cani lupi centrati in pieno muso, a cento metri di distanza. Con una donna così, impazzita, e con in mano un'arma di quel genere che sa manovrare in quel modo, il coraggio e l'abilità dei nostri carabinieri e della nostra polizia otterranno alla lunga il risultato di prenderla, ma vi saranno troppi morti in mezzo, e si potevano evitare tutti semplicemente lasciandola andare in Austria dove voleva” “Ma adesso dov'è?” «È oltre il fiume Oglio, in una piccola cascina vicino Orzinuovi, nel triangolo Crema, Cremona, Brescia. Tiene quattro ostaggi, i contadini della cascina, marito, moglie, e due figlie, sembra mongoloidi, insomma subnormali. La cascina è circondata da oltre cento carabinieri, coi cani, le radio, e i fari, ma non possono muoversi, e se si avvicinano troppo ci lasciano la pelle e lei ammazza gli ostaggi. A proposito: questo è un fonogramma per me di un quarto d'ora fa da parte di Guicciardino che è laggiù, a Cascina Brondana, si chiama così, insieme con la polizia: Giuditta Maltzer ha mandato fuori un ostaggio, il contadino capofamiglia, e da lui ha fatto sapere alla polizia che se non la lasciano libera entro due ore permettendole di uscire dalla cascina e andare in Austria, lei stermina i quattro e poi quelli che incontrerà e finché avrà proiettili e le sarà permesso sparare. L'ostaggio ha riferito, e poi è tornato nella cascina. Se non fosse tornato, lei gli avrebbe ucciso una delle due figlie. I carabinieri volevano dare al contadino la rivoltella perché lui sparasse alla pazza al ritorno nella cascina ma il contadino saggiamente ha risposto: <Se non le facciamo niente, lei sta buona e io ho moglie e figlie e non le faccio niente. > Adesso hai un grosso servizio a puntate da scrivere per il tuo settimanale, come quello del pazzo di Tavazzano che voleva sterminare un centinaio di bambini. Va' e scrivi.» Rise flaccidamente ed amaramente, col suo flaccido viso. “Intanto lei spara.” Giuditta Maltzer sparò un colpo. Aveva visto l'elmetto del carabiniere rilucere sotto il sole, a una distanza che non le piaceva, troppo corta. Non c'era nessun pericolo, ma ogni tanto lei sparava perché le stessero a distanza e del resto sapeva che quell'elmetto era solo un trucco per farle sprecare proiettili. Avevano voglia: ne aveva ancora quasi quattrocento. Il problema non era quello: seduta su quella larga sedia, imbottita, vicino al muro d'angolo che dominava le due finestre d'angolo e quell'altra in fondo allo stanzone cucina, sentiva l'emorragia che la sfiniva sempre più. Aveva chiesto dell'ovatta alla padrona della cascina, ma la donna non ne aveva, le aveva dato
dei panni bianchissimi, era una brava donna, senza paura del suo Garand. Aveva visto tutto quel sangue e si era spaventata. “Signora, ma lei deve andare da un medico, oh, povera signora, anche se l'arresteranno è meglio che morire.” II problema era importante, ma col vino lei si sentiva un po' meglio, aveva un fiasco in terra vicino alla sedia e ogni tanto lo portava alla bocca, così, senza bicchiere, ed era il buon vino rosso italiano delle campagne italiane, era già quasi alla fine del fiasco, e aveva il Garand tra le gambe, e aveva sentito dagli italiani che il vino rosso fa sangue, e lei aveva tanto bisogno di sangue. Dal suo angolo dominava tutto lo stanzone, che non era la cucina campagnola di una volta: alle pareti c'erano tanti armadietti scomponibili, in fondo c'era un divano rivestito di plastica fiorita e vicino il mobiletto della televisione. Le due bambine, effettivamente mongoloidi, dai grandi occhi in fuori, che guardavano la televisione. C'era la rubrica per ragazzi Chissà chi lo sa? e Febo Conti aveva chiesto ai ragazzi e alle ragazzine delle due squadre scolastiche in gara, di scrivere, in tre minuti di tempo, il nome del maggior numero di città, italiane e straniere, che cominciavano per L. Le due bambine non capivano niente forse anche per la perfetta dizione italiana del presentatore, non capiva niente neppure il padre, il robusto contadino, che stava sempre vicino alle bambine, da quando era comparsa lei, “Zignore, stai buono, se no sparo a Bambine, e stai buona anche tu, zignora”, e non capiva niente la madre delle bambine, in piedi davanti al tavolo, che stava stirando, col modernissimo ferro da stiro elettrico, come fosse tranquilla, tanto serena, ed era il contrario. Ma lei, sì, che capiva, anche se era straniera, però fa venne in mente il nome di una sola città il cui nome cominciava per L: Linz, dove viveva Gertrude. Perché non la lasciavano andare in Austria, a Linz? Voleva solo quello, poi si sarebbe costituita. Bevette un altro po' di vino, poi di scatto, con la sinistra, impugnò il Garand, appoggiò il calcio sulla coscia sinistra, puntandolo contro quella cosa nera che, dalla finestra, vedeva avanzare sull'erba bassa, alta, allo scoperto e dopo un momento capì che era un prete, poi capì che sembrava ancora più alto di quanto fosse perché teneva alzate le mani. Poi capì che le mandavano un parlamentare: aveva detto «entro due ore voglio una risposta” e prima che fosse scaduto il tempo, quasi un'ora prima, ecco il parlamentare che arrivava. Bene. E poi vide, man mano che si avvicinava, che il prete aveva i capelli biondissimi e abbastanza lunghi, poi, ancora prima che il prete si fermasse a qualche metro davanti al Garand, capì che era tedesco. “Gentilissima signorina Giuditta Maltzer,” disse il prete, sempre tenendo le braccia alzate, i capelli scomposti dal tepido ma vivace vento di quella giornata di giugno, in corretto tedesco, ma con un forte accento berlinese. “Io appartengo alla Chiesa cattolica tedesca di Milano, ho letto i giornali,
ho avuto molta, molta compassione di lei e voglio parlare con lei. Io sono berlinese come lei, la prego, mi lasci entrare e parlare.” Lei guardò il giovane prete negli occhi così grigi. “Ha qualche cosa da dirmi da parte dei carabinieri?” «No,” il prete scosse il capo. “Io sono venuto qui da Milano, di mia iniziativa. Il comandante dei carabinieri mi ha dato il permesso di venire a parlare con lei, a mio rischio e pericolo. Ma ho una proposta da farle.” Lo guardò ancora, aveva l'aria di un prete che fa il prete sul serio, che ci crede. “Adesso la faccio entrare, padre, ma se è un trucco della polizia, o se lei ha qualunque arma, anche bombe di cloroformio, arrivo sempre prima io a sparare.” “Lo so, gentile signorina Giuditta Maltzer.” Lei guardò ancora il prete, poi si rivolse al contadino in fondo allo stanzone: “Preco, apra la porta al padre.” II biondo prete entrò con le mani alzate. “Abbassi pure le mani.” “Grazie, gentile signorina Giuditta Maltzer”, i tedeschi sono molto formalisti, come è noto. “Lei, zignora,” disse Giuditta alla contadina, “vada in fondo, con le sue bambine.” Dal suo angolo, così, poteva dominare i quattro vicino alla televisione e il prete. “II mio nome è Peter Sutter, so che lei è cattolica e quando ho letto i giornali ho pensato che era una cattolica e berlinese come me, e che avevo il dovere di aiutarla, così...” “Padre, ora basta. Voglio sapere soltanto che cosa le hanno detto i carabinieri.” “Signorina Maltzer,” il prete era davvero parecchio alto, lei doveva tenere il fucile alto per mirare in parti vitali, “le ho già detto che la polizia non mi ha detto nulla, so soltanto una cosa: che non la lasceranno uscire da qui. Ma come può sperare che tutta la polizia italiana ceda alle sue pretese? Finiranno per prenderla e spero senza che lei faccia in tempo a uccidere i quattro ostaggi.” “Allora la risposta dei carabinieri è no?” “Io non sono un carabiniere, sono un prete, ma è ovvio che la risposta è no,» adesso il prete parlava secco e con un'inflessione berlinese sempre più pronunciata. «Cosa vuole, che s'inchinino e le dicano: vada pure liberamente, dopo che lei ha ammazzato una diecina di persone?» Non le faceva discorsi di natura religiosa, a una donna con un Garand bisogna fare discorsi pratici. Lei pensò: pur nel suo oscuro mondo di disperazione, di furore e di follia, il meccanismo riflessivo tedesco funzionava ancora. “Padre, lei ha detto prima che aveva una proposta da farmi,” disse dopo aver riflettuto. Prese il fiasco, ma era vuoto. «Zignora,” disse, “mi dia ancora vino”, il vino faceva sangue, dicevano in Italia.
La contadina si alzò dal divano e da un armadietto tirò fuori un fiasco di vino, lo aprì e lo mise in terra vicino a lei, poi tornò accanto alle sue bambine, sul divano. Sentiva i due parlare in tedesco, non capiva una parola, ma intuiva che il prete era venuto a convincere la donna col fucile. “Sì, gentile signorina Maltzer,” disse il prete. “La mia proposta è questa: lasci andare questi poveretti liberi e tenga me come ostaggio. Quattro ostaggi sono troppi da tenere, uno solo è meglio, e la polizia non sparerà mai addosso a lei temendo di colpire me, un prete. Dietro di me lei potrà uscire di qui, io la riparerò, chi sa, forse lei riuscirà ad attraversare l'accerchiamento, a far perdere le sue tracce...” Mentre lui parlava, lei aveva bevuto diverse sorsate dal fiasco del vino. Posò il fiasco in terra. “Forse ha ragione,» disse. «Dica a quella gente che è libera: escano e vadano dai carabinieri.” Stette a guardare i quattro che, con molta esitazione, guidati dal prete, uscivano dalla cascina, li osservò dalla finestra che correvano ancora increduli verso il cordone formato dai carabinieri, a oltre duecento metri di distanza. Poi guardò il prete che rientrava. “La ringrazio, signorina Maltzer,” il giovane prete aveva gli occhi lucidi di lacrime e la voce era rauca di pianto. Quattro vite salvate. “Fuori anche lei,” disse Giuditta al prete. «Ma io sono suo ostaggio,” disse lui, era un testone berlinese, “le ho promesso di fare il suo ostaggio e voglio farlo». “Non ho bisogno di ostaggi.” Non aveva più bisogno di niente: stava morendo e lo sapeva. “Fuori, prima che faccia centro!”, e fece partire un colpo ma, calcolatamente, a qualche centimetro dal braccio del prete che, per quanto coraggioso, sobbalzò. “Esca, padre Peter Sutter.” Forse era vero che il vino rosso italiano faceva sangue, ma doveva essere arrivato troppo in ritardo. Era fradicia di sangue. Guardò dalla finestra il prete attraversare anche lui il prato così verde, ma lentamente, volgendosi ogni tanto verso la cascina. Poi bevette ancora e quando il prete fu scomparso cominciò a sparare, al nulla, e per tutta la casa, fuori dalle finestre, quando aveva finito un caricatore beveva un po' di vino dal fiasco, ne metteva un altro: sparare le distendeva i nervi. Un giornale mise il titolo: “È morta sparando.”
6 Stazione Centrale ammazzare subito
Era mercoledì pomeriggio; erano quasi le quattro di quel torrido pomeriggio di metà maggio, già più caldo che estate, e lui prese la rivoltella dalla borsa di pelle che teneva sotto il cuscino, se la mise nella tasca dei calzoni, così, semplicemente, uscì dalla stanza numero quattordici dell’alberghetto vicino a piazzale Duca d'Aosta e, calmo, possente, con quel corpo possente, sotto l'afa e il polline che volava nell'aria rendendola ancora più irrespirabile, raggiunse la Stazione Centrale. La Stazione Centrale di Milano è un pianeta a sé, è come una riserva di pellerossa nel mezzo della città. A lui piaceva. Ci veniva ogni settimana, da oltre due mesi, saliva sulla scala mobile e arrivava alla galleria di testa. Comprava un paio di giornali e di riviste, poi andava in fondo, al bar, guardando ogni tanto l'orologio: l'appuntamento era alle quattro e quaranta, col treno proveniente da Ginevra. Anche quel mercoledì fece così, montò sulla scala mobile e appena arrivato nella galleria di testa andò all'edicola, prese un quotidiano del pomeriggio e, calmo, possente, leggendo delle ultime complicazioni in Grecia e dell'ultimo sorpasso non riuscito con sette, 7, morti, entrò nel bar in fondo alla galleria e ordinò un gingerino, perché sul lavoro, in servizio, era un analcoolico. «Non ghiacciato,» spiegò, perché non gli piacevano le bevande ghiacciate. Si guardò intorno. Anche se fuori c'era il sole rovente del pieno meriggio, lì, in quel bar, c'era sempre aria notturna, tutte le luci erano accese, lì dentro poteva essere qualunque ora, mezzanotte, mezzogiorno, l'alba, il tramonto, c'era sempre lo stesso clima di locale notturno: affollato il banco dei panini e dei tosti, affollato il banco del bar con gente assetata e frettolosa che si precipitava lì a bere. Occupati tutti i tavoli, da gente che aspettava: aspettava molte cose, chi un treno, chi un amico, chi un mediatore per concludere un affare, chi una ragazza che lavorava per lui nei vicini alberghetti. Vi erano anche dei poliziotti. Lui. Domenico Barone, ne riconobbe facilmente due, uno all'esterno del bar che voleva avere l'aria di un innocuo e innocente emigrato dal Sud, ma che era tradito dal rigonfio a destra, sotto la giacchina attillata, rigonfio dovuto a una Beretta d'ordinanza. L'altro era nell'interno del bar e parlava con una vecchia signora che gli aveva chiesto dove poteva trovare un alloggio economico, per una notte. Doveva avere settant'anni, la vecchietta, il poliziotto la guidò fuori del bar e la portò fino all'ufficio informazioni. Li vide scomparire nella folla.
Bene. La folla andava bene. Più folla c'era, e meglio era. Bevendo il gingerino continuò a leggere il giornale e a guardare l'orologio. Alle quattro e quaranta lesse che un vecchio di ottantanove anni si era suicidato buttandosi dal quinto piano. «Ma bastava che aspettasse ancora un poco,» pensò lui, Domenico Barone, «e si evitava la fatica di scavalcare il balcone.» Erano tutti troppo impazienti. Alle quattro e quarantacinque vide rientrare, solo, il poliziotto che aveva accompagnato la vecchietta all'ufficio informazioni. Alle quattro e quarantasei lesse, ma svagatamente, che era ripreso lo sciopero dei becchini. Alle quattro e quarantanove guardò per un istante una ragazza in calzoni e giacca arancione, con una valigia turchese e con tutti i rilievi anatomici perfettamente e visibilmente a posto. Alle quattro e cinquantuno seguì, di scorcio, il poliziotto che attraversava la sala, dando rapide, professionali occhiate a tutti, anche a lui, ma a lui i poliziotti non facevano paura. Erano bravi ragazzi, e per principio non sparavano mai per primi, al massimo davano qualche schiaffone se vi arrestavano ma, poveretti, ne devono arrestare tanti e non riescono mai ad arrestarli tutti, e quelli che sono fuori sono sempre i peggiori. Il poliziotto gli passò davanti come svestendolo con lo sguardo, corpo e anima, poi se ne andò oltre. All'apparenza, lui aveva un'aria abbastanza buona. Anche gli occhiali (di semplice vetro, perché ci vedeva benissimo) gli davano l'aspetto di un grosso impiegato un caporeparto di una grande industria. E alle quattro e cinquantasette arrivò l'amico, il treno da Ginevra quella volta era in ritardo, col suo innocente valigino squadrato di metallo, il suo corpo magrolino un po' curvo, il viso ossuto lucido di sudore. Lo vide andare alla cassa, mentre fingeva di leggere il giornale e, come tutte le altre volte, andare poi al banco, ordinare un caffè, depositare la valigetta squadrata in terra, e tutto senza mai guardarsi intorno, bravissimo, come se non si conoscessero, mai visti, mai sentito parlare l'uno dell'altro. Invece l'aveva ben visto. L'amico bevette il caffè in fretta, e intanto che lo beveva lui gli si avvicinò, e appena gli fu vicino, però, l'amico scappò via e lasciò la valigetta in terra. Lui la prese, come fosse sua, e in mezzo a tutta quella folla neppure il poliziotto poteva sapere o capire qualche cosa, mentre l'amico che gliel'aveva volutamente lasciata era già scomparso a nascondersi sul treno che parte poco dopo le cinque del pomeriggio per Ginevra. E con la valigetta in mano lui uscì dal bar. Questo si chiama, in gergo tecnico, “passaggio a rischio calcolato”. Infatti, questo passaggio di merce, diciamo illegale, è piuttosto rischioso. Dopo una volta, due, tre, un buon poliziotto che vi segue può accorgersi della manovra, e allora è finita. Per questo, in romanesco, viene definito «lo sbrigamose», perché più l'operazione di passaggio della valigetta, o del pacco,
viene eseguita rapidamente, e più il rischio è minore. Era dunque un rischio, ma anche questa volta era andata bene, e lui, Domenico Barone, con la valigetta, rientrò in albergo, nel suo alberghetto di terza ma pulita categoria, senza donnacce e senza giovanottelli troppo furbi. Era un alberghetto di vecchi, una specie di “baggina” o di ospizio per valetudinari. E chiuso in camera aprì subito la valigetta. Non era facile. Non vi erano chiavi. Era una chiusura a molla, a pressione, ma bisognava sapere dove era la molla da premere. Lui lo sapeva, premette, e la valigetta si aprì. Questa volta erano dollari. La settimana prima erano state sterline, la settimana prima ancora, franchi svizzeri. Adesso erano biglietti da cento dollari, per uno spessore di sei centimetri e per un'area di 24 cm per 28. C'erano, lì dentro, non meno di cinquanta milioni di lire italiane, in dollari. Del resto lo sapeva che il minimo dei trasporti era su e giù quella cifra, ma nonostante fossero mesi che svolgeva quel lavoro non ci si era ancora abituato. Una valigetta grande come un grosso libro di enciclopedia, con dentro tutti quei milioni in valuta straniera, gli faceva sempre impressione. Anzi, voleva essere sincero con se stesso, ogni volta gli veniva la voglia di andarsene via lui, personalmente, con la valigia e con la bionda, invece di «passarla” al padrone di quei soldi. Ma erano pensieri che cercava di evitare, di non pensare, perché quelli che facevano girare tutti quei soldi non erano cretini. Sapeva con precisione che, se provava a prendersi solo uno di quei biglietti da cento dollari, entro due giorni si sarebbe ritrovato sul tavolo di marmo dell'obitorio, col biglietto ancora da spendere. Richiuse invece la valigetta, uscì dalla camera portandola con sé, si toccò con piacere la rivoltella che aveva nella tasca destra dei calzoni, perché lui non era un mancino, e scese nel salone, dove c'era una cabina telefonica. Il salone era ingombro di vecchi, la cui età, sommata, raggiungeva l'età dalla fondazione di Roma ai giorni nostri, che stavano seguendo alla televisione, giovanilmente e sportivamente, una partita di calcio, in attesa però di uno dei film della famosa e antica serie del mulo parlante. Nella cabina non arrivava nessun rumore. Lui mise dentro un gettone, formò il numero, attese che l'apparecchio gli trasmettesse un solo segnale, cioè che al numero che aveva chiamato si udisse un solo squillo, poi tolse subito la comunicazione. Dopo un momento l'apparecchio fece clet clet e sputò il gettone. Lo prese e lo rimise dentro l'apposita fessura. Formò lo stesso numero, e attese: questa volta due segnali. Un attimo dopo il secondo segnale tolse di nuovo la comunicazione. Attese un istante e l'apparecchio col suo clet clet sputò un'altra volta il gettone. E lui un'altra volta lo rimise nella fenditura, formò una terza volta lo stesso numero e attese un segnale soltanto, poi
riattaccò subito, attese che il gettone ricadesse, se lo rimise in tasca e uscì dalla cabina grondante sudore per il chiuso, e anche per la tensione. Ma era fatta. Questa era la «comunicazione in muto», perché c'erano anche quelle in parlato. Si mette il gettone, si fa dare uno squillo solo e poi si riattacca. Se avesse dato solo questo squillo, soltanto uno, e non avesse più chiamato, questo voleva dire: «L'amico non è arrivato.” Se, dopo aver chiamato con un solo squillo avesse richiamato con due squilli, e poi basta, senza telefonare più, questo voleva dire: “L'amico è arrivato ma non ha portato la roba.” E se, come aveva fatto, avesse fatto tre chiamate, una con uno squillo, una con due e una con uno, voleva dire: “L'amico è arrivato, ha portato la roba, l'ho presa e controllata, vieni a prenderla.” Perché con questi passaggi a rischio calcolato bisogna stare attenti, una volta o l'altra c'è il poliziotto che vi segue, e meno ci si conosce, tra passatori, meno si parla, meglio è. Inoltre, quelle telefonate mute erano economiche, da quasi tre mesi usava sempre lo stesso gettone. Al numero a cui telefonava c'era un furbastro che doveva stare tutto il giorno all'apparecchio a sentire gli squilli. Uscì anche dall'albergo in via Vitruvio, quasi vicino a piazza Lima. Imboccò coraggiosamente, anche se sudando nell'affocato pomeriggio milanese, corso Buenos Aires, diretto verso il centro. Pensava che nessuno poteva immaginare quanto pesasse una valigia con una cinquantina di milioni di lire in dollari. Ma bisognava portarla con noncuranza e, nel caso fosse stato seguito da un poliziotto, sparare. E lui era pronto. Nello stesso tempo bisognava essere svelti e stare sempre in mezzo alla folla, nelle vie più affollate, nei negozi più gremiti: un povero poliziotto che segue uno alla Rinascente, per esempio un giorno di sabato, è meglio che vada a casa a dormire, perché si perde quello che deve seguire in quattro minuti. Così lui andava, se non proprio alla Rinascente, al Supermercato di viale Regina Giovanna, dove si può, abbastanza bene, confondere le idee ai rappresentanti della legge, della giustizia e della morale. E, col suo passo, placido ma possente, vi arrivò molto presto. C'era sempre tanto sole, fuori, e tanta luce fluorescente dentro, e tanta gente, quasi tutte donne, molte con bambini, ma anche giovanotti e vecchiardi che facevano la spesa per conto della mamma o della moglie o della nuora. Prese un carrello, mise la valigetta in basso, con noncuranza, in fondo erano solo un po' di milioni, non era il tesoro della Banca d'Italia, e cominciò dal corridoio delle verdure e dei salumi. Prese due ananas per Olimpia, poi due reticelle piene di belle arance, di notte lui e Olimpia bevevano spremute a gogò, lei si alzava e spremeva tutto lo spremibile che aveva in casa, ananas, arance, limoni, cedri, ci buttava dentro ghiaccio e acqua minerale, bevevano e si riaddormentavano come somari.
Poi, più avanti, però, prese anche delle bolognette, quelle piccole mortadelle di Bologna, perché Olimpia non viveva mica solo di spremute, e prese anche delle salamelle di Modena e, mentre stava per prendere una brancata di salsicciotti di Parma, distinse subito che l'amico era arrivato, era il furbastro grassottino e giocondo che veniva a ritirare la roba. Dopo l'avvistamento, lasciarono tutti e due il proprio carrello nel corridoio verdure e salumi e si allontanarono di poco più di un metro, lui con la valigetta in mano, fingendo di scegliere nello scaffale dello scatolame. Lui scelse due grossi barattoli di asparagi in scatola: sapeva tutto quello che piaceva a Olimpia, poi depositò la valigetta nel carrello dell'amico che stava fingendo di scegliere dei fagioli toscani cannellini, ma che intanto lo seguiva con la coda dell'occhio, e dopo essersi così liberato di quella valigia lui depositò i barattoloni di asparagi nel suo carrello, si allontanò, rapido ma placido, dal suo amico che si portava via la valigetta, andò alla cassa, pagò e uscì col suo paccone di spesa, sudando un po' meno, ora che si era liberato del tesoro e che aveva davanti a sé una settimana per fare all'amore con Olimpia perché a lei, con quell'aria fragile di biondina appena uscita dal collegio, non piacevano mica solo le spremute, le bolognette o le salamelle di Modena, ma i tipi come lui, che pesavano il doppio di lei. Se ne andò col suo paccone, sempre a piedi, in via Nino Bixio, in quel bel palazzone nuovo vicino a via Pisacane. La portinaia gli sorrise gentile, sapeva che non era il marito della signorina Olimpia Ressi, perché le signorine sono signorine, appunto, perché non hanno marito, ma diecimila lire al mese di mancia fanno sorridere anche le sedie di marmo. Entrò nell'ascensore, salì al quinto piano, aprì la porta dell'appartamentino, tre stanze con un solo servizio, e andò subito in cucina a depositare il paccone. Erano soltanto le sei e tre quarti, c'era sempre il sole, era una grande e bella primavera, e Olimpia non sarebbe arrivata prima delle sette e mezzo, di ritorno dall'ufficio dove lavorava come infermiera, segretaria, e che si chiamava con un terribile nome: Istituto audiometrico per lo studio, il controllo e la correzione delle ipoacusie. Praticamente vendevano apparecchietti alla gente debole di udito, ma come intestazione si davano delle arie. Fece in tempo a fare un bagno, a radersi, a farsi un cognac allungato con limone spremuto, e quando lei suonò il campanello la lasciò appena entrare e richiudere la porta, poi la schiacciò contro la porta chiusa, alto molto più di lei, largo molto più di lei, lei fu come se scomparisse. «Ancora una settimana, e poi ho finito,» le disse. Le impedì di rispondere, soffocandola con un bacio, poi disse ancora: «Mercoledì venturo c'è il passaggio dell'ultima valigia. Quando l'amico mi porta la valigia da Ginevra e io al Supermercato la consegno all'altro amico, quest'altro amico, al
Supermercato, mi da la busta. Sono cinque milioni, Olimpia.» Le impedì qualunque risposta, soffocandola ancora. Era sabato sera. Aveva in mente di portare Olimpia prima al cinema, a vedere La notte dei generali, perché a lei piacevano i film forti. Scese dalla sua stanza nell'alberghetto dei millenari, e il ragazzetto che era dietro il così detto bureau gli tese una lettera. “È per lei.” Per strada, mentre andava al caffè dove aveva l'appuntamento con Olimpia, aprì la busta. C'era dentro una cartolina con una veduta di Genova, corso Italia, vicino a Boccadasse. Sulla cartolina erano scritte quattro parole in una frase che non aveva alcun senso. Le quattro parole erano: «Statista centellino ammanierato subappalto.” Si fermò, un po' per rileggere meglio, un po' per sorridere di quell'incongrua frase, e un po' per rabbrividire di paura, perché quando arrivava uno di quei messaggi c'era solo da tremare dal terrore. Poi tornò subito in albergo, nella sua stanza. Dalla valigia prese uno di quei vecchi vocabolari rilegati in tela rossa, editi dai Fratelli Treves subito dopo il 1900: era il codice. Con la cartolina davanti, un foglietto di carta e un pennarello a punta sottile cominciò a decifrare la prima parola. La prima parola delle quattro del messaggio era “statista”. Allora cercò nel vocabolario la parola “statista”, poi, cominciando da questa parola, scese di parola in parola lungo la colonnina dei vocaboli e al dodicesimo vocabolo si fermò. Il vocabolo era: “stazione”. Ripeté il lavoro con la parola “centellino”. Scese di parola in parola per dodici vocaboli, e al dodicesimo si fermò. Il dodicesimo vocabolo era: “centrale”. Fece la stessa operazione con «ammanierato», e al dodicesimo vocabolo trovò «ammazzare», e con «subappalto», e al dodicesimo trovò “subito”. Quindi, il testo decifrato del messaggio era: «Stazione Centrale ammazzare subito.” A lui questi messaggi in codice (ne aveva ricevuti altri due, prima) lo avevano sempre un po' divertito perché sentiva che un buon decifratore dei servizi segreti in una mezza giornata avrebbe intuito il meccanismo della criptografia che era abbastanza trasparente. Infatti, l'inizio delle parole da decifrare era uguale per tutte e quattro le parole del messaggio decifrato. «Statista» cominciava come «stazione», «centellino» cominciava come «centrale», «ammanierato» come «ammazzare» e «subappalto» come «subito». Ma nella sua ingenuità bisognava riconoscere anche una certa furberia del sistema, soprattutto nel fatto che il vocabolario-codice era di oltre sessanta anni prima. Anche il più abile criptologo sarebbe stato in gravi difficoltà nell'individuare un «codice» così vecchio e insolito. A parte questo, lui, Domenico Barone, rilesse una dozzina di volte “Stazione Centrale ammazzare subito”, e capì perfettamente di che cosa si trattava e che cosa gli
chiedevano. Quando lo ebbe imparato a memoria, probabilmente per sempre, andò in bagno, stracciò la busta, la cartolina, il suo foglietto con la decifrazione e gettò tutto nel water. Si toccò la rivoltella nella tasca destra dei calzoni, ma senza gioia come le altre volte. Maledizione, perché si era messo con quella gente: per cinque milioni di lire italiane. E per cinque milioni uno si gioca tutta la vita, si rovina per sempre e neanche può goderseli. Quella notte, dopo aver portato Olimpia a vedere La notte dei generali, dove Peter O' Toole squartava le donne, e a mangiare la pizza da Di Gennaro, a letto cercò di far capire a Olimpia che cosa gli stava succedendo. Olimpia era una ragazza intelligente, non viveva solo di spremute, di mortadella e pizze e di possenti uomini. Sapeva anche pensare: lui se ne era accorto parecchie volte, anche meglio di lui. “Si tratta di contrabbando di valuta, tu lo sai,” cominciò a spiegarle, tenendosela quasi metà addosso, perché è vero che era inquieto, ma il corpo di Olimpia era una di quelle cose che attenuano parecchio, moltissimo, l'inquietudine. «Ma non di pochi milioni ogni tanto. Qui è tutto organizzato come la lavorazione a catena delle auto alla Fiat. Qui, io sono uno dei tanti che fanno i passaggi, chi sa quanti ce ne sono, in ogni città, e chi sa quanti passaggi fanno questi soldi, io credo che facciano quasi il giro del mondo. A ogni quotazione di borsa partono decine e decine di milioni, da una parte all'altra dell'Europa, alla fine ci sono movimenti di centinaia di miliardi.” Si sedette sul letto e cominciò a bersi un bicchiere di succo di ananas. «E sono organizzati molto meglio del servizio di spionaggio inglese o americano. Sanno tutto di tutti i loro uomini e siamo tutti sorvegliati gli uni dagli altri. Per esempio, l'amico che mi porta i soldi alla Stazione Centrale sorveglia me, ma anch'io devo sorvegliare lui. Il mese scorso mi hanno fatto una comunicazione telefonica in parlato. Sai che cosa mi hanno detto? Ecco: E io gliel'ho detto, e infatti lui si è subito tagliato i capelli, da allora.” “Ma con quel messaggio, che cosa vogliono da te?” lei disse. “II messaggio dice: <Stazione Centrale ammazzare subito>, e vuoi dire che mercoledì, quando arriva l'amico da Ginevra coi soldi, devo stenderlo, e questo è un lavoro che non mi piace. Io, se sono attaccato, sparo, ma non sparo a freddo a uno che non mi ha fatto niente, perché a me quel magrolino col naso a becco sul viso tutto ossa non mi ha fatto niente.” “Ma perché lo vogliono ammazzare?” “Questo è facile da capire. Lui deve aver combinato qualche porcheria, forse ha preso dei soldi, forse fa il doppiogioco con la polizia che aspetta ad arrestare che ci siano i pesci grossi e loro hanno detto: < ammazzalo >.” “Loro, chi?”
“E chi lo sa?” disse lui prendendo da terra la caraffa con la spremuta di ananas e dandoci dentro lunghe sorsate. “Io ne conosco tre, e solo di vista, e visti sempre al buio. Col primo eravamo a mezzanotte su una panchina in piazzale Napoli, figurati che illuminazione. Mi ha offerto il lavoro e mi ha chiesto se accettavo. Io non ho riflettuto neppure un secondo, mi dava un milione subito, e altri cinque a metà maggio, alla fine del lavoro. Quando sento la parola milione dico sempre di sì. E lui allora mi spiegò tutto quello che dovevo fare, tutti i sistemi di comunicazione che dovevo usare con loro, da quelle telefoniche in muto a quelle in parlato, alle cartoline col codice, poi mi dette il milione, biglietto su biglietto, e mi disse: A me questa frase fece impressione, capii che con quella gente non si poteva scherzare, e infatti non ho mai scherzato, ho fatto sempre tutto quello che volevano loro. Per forza: non c'era molto da scegliere.” “E gli altri due?” “Sono gli amici che vengono da Ginevra coi pacchi di soldi. Da Ginevra viene sempre quello col naso a becco. Qui a Milano consegno la valigia a un giovanotto grassino, giocondo. Non so di loro niente, né il nome, né dove abitano. Se la polizia mi arresta, io, anche volendo, non saprei dire niente, perché non so quasi niente. Io so solo un numero di telefono, anche se dico il numero alla polizia, quei poliziotti non trovano nulla: non stanno mica lì al telefono a farsi prendere.” Lei, Olimpia, saltò fuori dal letto, con quella sua sciolta e tutta aperta vestaglietta rosa, prese in terra la bottiglia di aranciata e si mise a bere a canna, poi disse: “Che succede se non lo ammazzi?” “Prima di tutto,” disse lui, sollevandosi a sedere sul letto, tutto il possente, velloso torace scoperto, “io devo telefonare per dare la conferma, e che eseguirò quello che mi hanno detto di fare. Se non do la conferma, loro mi mandano un paio di amici e domani nel pomeriggio, se fossimo sposati, tu saresti fulmineamente vedova.” “Sono così esagerati?” lei disse, posando in terra la bottiglia con la spremuta di arancia, “ammazzano così, come nei film?” “Peggio. Tu non capisci il lato concreto della questione. Ad ogni < passaggio si tratta di decine di milioni di lire. Solo io, in tre mesi, ne ho fatti una dozzina di questi passaggi, ma io sono l'ultima spazzatura dell'organizzazione, l'ultimo venuto, qui ci sono centinaia di persone, e tra queste devono esserci banchieri dal nome grosso come una casa, industriali che annegano nei miliardi. Quando c'è di mezzo tutto questo denaro, questo fiume di milioni, la vita di un uomo vale meno di quella di una mosca.»
Lei tornò a letto vicino a lui. “A me però sembrano un po' stupidi. Ti obbligano ad ammazzare uno alla Stazione Centrale, con tutti i poliziotti che ci sono lì, vieni preso subito, e quando sei preso, qualche cosa alla polizia finisci per dirla, ed è peggio per loro.” Lui scosse il capo, parlò con la sigaretta tra le labbra. “Non hai ancora capito. Certo che loro non vogliono che io sia preso dalla polizia. Quando telefono la conferma, loro mi dicono anche come devo fare.” Olimpia riflette, per parecchi secondi. Poi disse: “Allora dai subito la conferma e senti che cosa ti dicono.” “Adesso?” Lei saltò ancora fuori dal letto, gli tese la mano: “Vieni », lo trascinò fuori dal letto, lui con gli slippini da playboy, e lo portò in anticamera dove era il telefono. Faceva caldo, il pavimento freddo sotto i piedi nudi dette loro piacere. Egli formò il numero. Lasciò passare solo uno squillo, poi tolse la comunicazione. Riformò il numero, lasciò passare solo due squilli e chiuse. Fece il numero la terza volta, e dopo uno squillo, chiuse ancora. Poi la quarta volta formò il numero e stette ad attendere, senza staccare più la comunicazione. Quello era il procedimento per una comunicazione “in parlato” . Dopo pochi squilli udì la voce d'uomo che conosceva all'altro capo del filo: «Pronto.” Lui, tirandosi su gli slip che tendevano a scivolare e guardando Olimpia, disse: “Ricevuto, confermo.” La voce disse: “Allora ascolta.” Lui ascoltò. Non fu una spiegazione lunga: meno di un minuto. Poi lui riattaccò. “Che cosa ti hanno detto?” domandò lei. Egli sedette in slip sulla panca dell'anticamera, stette a capo basso guardando le venature del marmo giallino del pavimento. “Mercoledì, prima di andare alla Stazione Centrale, devo trovarmi in via Aporti, di fianco alla stazione, e un tale mi consegnerà una scatoletta.” Respirò forte. “Una scatoletta grande come un libro.” “E cosa c'è nella scatoletta?” lei chiese. “Qualche cosa di peggio di una bomba al plastico,” disse lui. “Cioè una piccola mina antiuomo. Appena si apre la scatola, scoppia, e l'uomo resta polverizzato, se trovano qualche dito è già molto.” Anche lei respirò forte. “E tu che cosa devi fare? > “Dopo aver preso la scatola, vado come tutti i mercoledì alla Stazione Centrale, arriva il magrolino che mi passa la valigia coi soldi, e io gli passo la scatola.” “Ma quello forse potrebbe insospettirsi che tu gli consegni una scatola così, se ha commesso qualche cosa sarà in sospetto.» “No, già altre volte gli ho passato delle scatole simili. Loro hanno studiato
bene la cosa. E nelle scatole che gli ho passato le altre volte c'erano dei brillanti. Anche i brillanti sono un buon investimento, passando una frontiera.” “E poi cosa succede?” lei, sempre piuttosto rosea, era a poco a poco illividita in viso: non pallida, ma livida. “Succede che lui prende la scatola e corre al treno che lo riporta a Ginevra e che sta per partire, perché gli orari sono stati calcolati al dieci minuti. Sale sul suo vagone e appena il treno si muove va nella toeletta e vi si chiude dentro. Lui crede che nella scatola vi siano dei brillanti e deve levarli dalla scatola per nasconderli. E sai dove li nasconde? C'è da ridere, cosa vanno a pensare,” rise, ma amaro e disperato, “li nasconde in una scatola di supposte di glicerina. Scava le supposte di glicerina e ci mette dentro due o tre brillanti, o anche uno solo, secondo la grandezza. È difficile che alla dogana pensino di controllare anche le supposte. Una volta o l'altra lo faranno, ma finora è andata bene. Allora lui si chiude, nella toeletta per fare questo lavoro di nascondere i brillanti, ma appena apre la scatola esplode tutto. Penso che potrebbe deragliare anche il treno, se ha già preso una buona velocità.” Rimasero seduti sulla panca, più d'un minuto, anzi, quasi due minuti, poi lui disse ancora: “E sai cos'è il diabolico di questo piano, adesso che ci penso? È che la polizia penserà a un attentato per l'Alto Adige. La mina antiuomo è uno strumento di guerra, è difficile collegarlo a un contrabbando di valuta o di preziosi.” Ancora un minuto di silenzio, come per commemorare un eroe morto sul campo di battaglia. Poi lei disse: “Non puoi evitare di fare questo lavoro?” “No,” lui disse. “Perché?” “Perché sarei morto.” “Non possiamo fuggire, nasconderci per un po' di tempo? Ho qualche cosa da parte, sono stufa di lavorare in quell'ufficio di sordi, a Bologna ho due zii grandi e grossi più di te che ci ospiterebbero e ci difenderebbero,” lei cominciava ad avere la voce tremante. “Ricordati quello che mi hanno detto al principio,” rispose lui. “, e a me questa frase non piace.” “E a me non piacciono gli assassini”, e lei, Olimpia, si mise a piangere, a denti chiusi, soffocatamente. “E a me non piace di essere morto,” lui disse. “Allora farai quello che ti hanno detto?” “Non ho scelta. O lo faccio,” spiegò lui, calmo, pur nella sua disperazione, “o è meglio che mi sparo subito, qui, adesso, almeno mi ammazzo da me, senza aspettare nell'angoscia che mi ammazzino loro.” “Oh, no, no, no,” lei gli si buttò addosso stringendolo alle massicce spalle.
“Non devi morire.” Guardò il calendario. Era mercoledì. L'ultimo mercoledì, poi aveva finito quel lavoro. Erano ancora le tre e mezzo passate: uscì dalla sua stanza e scese nel salone dell'albergo, dove quattro o cinque millenari stavano conversando di preistorici avvenimenti, e dove vi era anche la cabina telefonica. Mise il gettone e formò il numero di lei, Olimpia. “Ciao,” le disse appena udì il suo “pronto?”. “Esco adesso, non aver paura, tu vai con la macchina in viale Regina Giovanna, dall'altra parte della strada, davanti al Supermercato. Arrivo poco dopo le cinque. Stai tranquilla.» “Non sono tranquilla.” “Non piangere, e stai tranquilla. Questo è l'ultimo passaggio che faccio: mi danno gli altri cinque milioni, e ho finito. Non mi metterò mai più in un giro simile. Stai tranquilla, Olimpia, bambina mia.” Udì solo il suo pianto. «Ciao, riattacco, sta' tranquilla, alle cinque al Supermercato.” Riattaccò, uscì, salutò la padrona dell'alberghetto che era dietro il bureau, dall'alto, forse, dei suoi duecento anni, uscì e a piedi, gli piaceva camminare, anche se faceva caldo, anche se tremava di paura, percorse via Vitruvio fino a via Ferrante Aporti, dove c'era il palazzo delle Poste e lì vide subito il grassottino e giocondo che già conosceva e che era vicino al cestino dei rifiuti attaccato a un palo della luce e che subito buttò nell'argenteo cestino dei rifiuti qualche cosa e poi si allontanò. Subito lui si avvicinò al cestino e tirò fuori il qualche cosa mentre il grassottino, a distanza di qualche metro, dopo averlo osservato, se ne andava. Il qualche cosa era un pacchetto squadrato come una piccola scatola di cioccolatini, quelle che si prendono quando si va a pranzo da amici per farne loro omaggio. Nell'interno vi era invece la mina antiuomo. In tempo di guerra quelle mine erano larghe come una grossa pizza alla napoletana, ma il progresso le ha nanizzate, si portano in giro come pacchetti qualunque. E lui la portò in giro alla vicina stazione. Salì la scala mobile, comprò un paio di riviste di grande formato per mimetizzare meglio la scatola, e andò nel bar. Non erano ancora le quattro. Troppo in anticipo. Dovette attendere, girando da una parte all'altra della galleria di testa, bevendo ogni tanto un gingerino, fino alle cinque meno dieci, quando nel bar comparve il magrolino dal naso adunco con la sua valigetta. C'erano i soliti due poliziotti, ma non era questo che lo preoccupava, e s'avvicinò subito al magrolino che aveva deposto la valigetta in terra: lo toccò come casualmente urtandolo a un braccio e gli passò il pacchettino, che quello prese subito. Poi si chinò, raccolse la valigetta del magrolino e se ne andò subito via. Anche il magrolino, col suo pacchetto in mano, bevette in fretta il suo caffè, poi corse al suo treno, il direttissimo Milano-Ginevra, che stava per partire. Salì in un vagone semivuoto e attese,
sempre col pacchetto sulle ginocchia. Appena il treno, una decina di minuti dopo, si mosse, andò nella toeletta, si chiuse dentro, strappò l'elegante nastrino che legava il pacchetto, poi cominciò a svolgere la carta, erano pacchettini che conosceva bene, pieni di piccoli ma autentici brillanti, e arrivato a svolgere tutta la carta, lui e metà del vagone esplosero. Tutto il treno vibrò, solo per un miracolo il vagone non uscì dalle rotaie, ma una studentessa milanese che andava a passare le vacanze da un'amica svizzera, e che attendeva sulla piattaforma davanti alla toeletta, esplose anche lei. Intanto lui, Domenico Barone, con la valigetta, era già uscito dalla Stazione Centrale, aveva attraversato la piazza, aveva imboccato via Vitruvio, ed era arrivato davanti al suo albergherò. Salì in camera sua e sedette sul letto, con la valigetta sulle ginocchia, ansando. Si sentiva molto stanco. Molto, ma ormai era finita. Basta, basta, non si sarebbe mai più messo in storie come quelle. Adesso doveva fare solo altre quattro cose. 1. Controllare se la valigetta conteneva il denaro; 2. telefonare in muto all'amico per avvertirlo che tutto andava bene e che era pronto al passaggio; 3. andare al Supermercato in viale Regina Giovanna e passare la valigia all'amico che sarebbe venuto a prenderla; 4. uscire dal Supermercato coi cinque milioni che l'amico gli avrebbe consegnato, attraversare il viale, saltare dentro la macchina di Olimpia che lo aspettava, e andar via con lei. Per qualche settimana la notte avrebbe sognato il magrolino che saltava in aria appena apriva il pacchetto, ma poi gli sarebbe passata. Cominciò a eseguire l'operazione 1: la valigetta era la solita, senza serratura, ma con una molla a scatto: bastava premerla, e la valigia si apriva. Cosa c'era dentro, questa volta? Dollari, marchi tedeschi, sterline? Trovò facilmente la molla, ormai era pratico, premette la molla, e tutto saltò in aria, lui, la stanza con le pareti, porte e finestre esplosero, se la villetta a tre piani che costituiva l'albergo-ricovero di tanti vecchi fosse stata colpita da una bomba in un bombardamento aereo, l'effetto non sarebbe stato molto maggiore. Una mina antiuomo non ha nulla da invidiare a una bomba d'aereo. “Mi scusi, dottore,” disse il brigadiere Mazzarelli, un romano, sforzandosi di parlare, di fronte al suo più alto superiore, senza far sentire l'accento romano, “anch'io al principio ho creduto che si trattasse di attentati per l'Alto Adige. Una mina che esplode in una toeletta del direttissimo per Ginevra, un'altra che distrugge mezza villetta in via Vitruvio a Milano e ammazza tre persone, non potevano essere che attentati. I giornali hanno parlato, appunto, solo di attentati politici. Ma la verità è molto diversa.” “Sì, è vero,” disse il vicequestore, “ho letto il rapporto. Si tratta di contrabbando di valuta e di preziosi. Ma come siete riusciti a scoprirlo?” “Vede dottore, lei ha letto il rapporto, quindi capisce. Tanto all'uomo che veniva da Ginevra con la valigia piena di soldi da far passare, guardi la foto, è
un magrolino con un nasone ossuto, quanto a quello grosso, guardi la foto, che al bar della stazione ritirava la valigia, era stato mandato lo stesso messaggio: <Stazione Centrale ammazzare subito. > Questi stupidi non sanno che, in organizzazioni così potenti, a un certo punto i capi hanno bisogno di liberarsi di gente o insicura, o debole, o che sa troppe cose. Così quello di Milano ha ricevuto l'ordine di uccidere quello che veniva da Ginevra e gli ha consegnato il pacchetto con la mina. E quello che veniva da Ginevra ha ricevuto l'ordine di uccidere quello di Milano e gli ha consegnato una valigetta con la mina dentro. Se ne liberano facendoli ammazzare tra di loro. È stata una donna che ci ha messi sulla traccia giusta: Olimpia, l'amica del grosso di Milano. Ci ha dato indicazioni che li abbiamo presi quasi tutti.” “Bravi,” disse il vicequestore, alzandosi.
7 Minorenne da bruciare
“Scusi, signora, la mamma ha dimenticato lo zucchero,» disse il ragazzo. Il ragazzo era entrato dal retro, la porta del retro dava sul cortile, non aveva dovuto far altro che scendere le scale di casa e arrivato in cortile spingere la seconda porta a sinistra. Era entrato dal retro perché erano le sette e mezzo passate e la piccola drogheria era già chiusa. “Quanto zucchero vuoi?” disse la vecchia signora, o per lo meno sembrava molto più vecchia di quanto fosse, e aveva uno sguardo, ecco, ancora così giovane e dolce, anche se l'occhio navigava in un mare di rughine. E guardò il ragazzo con dolcezza, gli piaceva quel viso fiero, già così maschio, eppure con un tono ancora infantile. “Due etti, signora,” disse il ragazzo. Si chiamava Luca Baioli, quando era nato era di moda il nome Luca: mezzo quartiere, tra via Plinio, via Eustachi, via Maiocchi, si chiamava Luca, perfino qualche ragazza si chiamava Luchina. Il ragazzo aveva una mano in tasca, la destra, e nella tasca teneva già impugnato il lungo coltello da cucina. Era stato una mezza giornata ad affilarlo sulla cinghia dei pantaloni, e a fargli il taglio ancora più aguzzo, e aveva smesso solo quando era riuscito a tagliare un foglio di carta, meglio che con la lametta della barba. “Come sta la tua sorellina?” disse la signora, era in quella casa da vent'anni, conosceva tutti gli inquilini che erano tutti suoi clienti, li riforniva anche di domenica, quando avevano dimenticato qualche cosa, s'interessava a loro, così, umanamente, amichevolmente, Luca era come se l'avesse visto nascere, aveva visto sua madre venire in negozio con la pancia sempre più grossa a fare la spesa. “Due etti di zucchero,” non aveva mai preso lo zucchero a più di due etti per volta, “un sapone da bucato, ma quello giallo, non quello chiaro,” non usava mai detersivi, la madre di Luca, lavava ancora all'antica, con l'asse di legno, il sapone di Marsiglia e la spazzola. E una volta, quando l'aveva vista con la pancia proprio tanto grossa, le aveva detto: “Certo avete già pensato al nome da dare al bambino,” e lei aveva risposto felice: “Se è un maschio, gli mettiamo nome Luca.” “E se è femmina?” “Allora gli mettiamo il nome della nonna, Evelina. Ma deve essere un maschio, se no mio marito si arrabbia.” Era stato un maschio, un bel maschio, dal viso forte e bello, e dopo quindici anni eccolo ancora qui, che veniva ogni tanto, sempre in ritardo, perché sua madre se ne accorgeva solo all'ultimo momento di essere rimasta
senza zucchero, a chiedere i due soliti etti di zucchero, entrando dal retrobottega. Lo guardò con simpatia, uscendo dalla cassa dove stava facendo i conti, e gli fece una carezza sul capo, benché lui fosse alto più di lei, anche se aveva solo quindici anni, poi andò dietro il banco, mise un foglio di carta blu sulla bilancia, prese la paletta e aprì il cassetto dove teneva lo zucchero, infilò la paletta nel candido, sabbioso mare di zucchero, e nello stesso tempo morì sgozzata, per la coltellata che da sotto la nuca le aveva attraversato il collo. Senza il minimo gemito, nel silenzio più assoluto, la donna cadde col capo nel grande cassetto di zucchero, arrossandolo col suo sangue, e rimase così, macabramente curva e in piedi. Luca rimise in tasca il coltello, corse alla cassa. Era giovedì. Da troppi anni veniva lì, fin da quando era bambino piccolo, e da troppi mesi studiava il colpo per non sapere che il giovedì la signora faceva il secondo conto della settimana per fare il secondo versamento settimanale in banca. In altre parole, quella sera, in cassa doveva esservi l'incasso, almeno, di tre giorni: martedì, mercoledì, giovedì. Non c'era. Guardò dappertutto, masticando bestemmie tra di sé, ma trovò solo novemila lire. Brutta strega, doveva aver già portato i soldi su in casa, forse ancora prima di chiudere il negozio. Ma era contento di averla ammazzata, così imparava a fare la furba. Prese le novemila lire e le poche monete, e corse via per uscire dal retrobottega, ma dovette fermarsi di colpo, la porta del retrobottega si era aperta ed era entrato un ragazzo in bluejeans, con una vistosa camicia arancio, ma non doveva avere neppure dieci anni. “Ciao, Luca!” disse ansante e felice il ragazzo, era il figlio della signora, della padrona della drogheria, che giaceva di là, il viso sepolto nello zucchero colorato dal suo sangue. “Ciao, Birillo,” disse Luca; più che sorridere, mostrava soltanto tutti i denti, quasi una turrita chiostra da animale felino. Da più piccoli avevano giocato insieme, lui che ave-va cinque anni più di lui, faceva il grandone e lo chiamava Birillo. Adesso pensò che Birillo sarebbe entrato nel negozio, avrebbe visto la madre morta e si sarebbe messo a urlare e così tutti avrebbero saputo che la donna l'aveva ammazzata lui. Non dovevano saperlo. La lunga lama penetrò nella gola del ragazzo soprannominato Birillo che si afflosciò a terra. Luca corse via. Richiuse bene la porta del retrobottega, salì lentamente le scale fino al quarto piano, ma arrivato al secondo si guardò in giro, non c'era nessuno, allora tirò su lo sportellino del condotto della spazzatura e vi buttò dentro il coltello: sarebbe caduto direttamente dentro il bidone, coperto subito da chili e chili di rifiuti. Al mattino il bidone sarebbe stato prelevato dal camion dei netturbini, insieme a decine e decine di altri
bidoni, rovesciato nel grosso contenitore del camion e mai nessuno al mondo avrebbe potuto sapere da dove veniva quel coltello. “Guarda a che ora torni a casa,” gli disse sua madre. “Ma sono stato dal tabaccaio a fare la schedina per papa”, e le tese la schedina. Naturalmente aveva fatto la schedina prima di andare nella drogheria della signora. Andò in bagno, controllò centimetro per centimetro i calzoni, la camiciola blu scura alla militare, e anche le scarpe. Scoprì solo tre macchioline di sangue e le pulì con l'alcool, coscienziosamente. Quando ebbe finito sentì che aveva fame e quando uscì dal bagno domandò alla madre: “Che cosa hai preparato, mamma?” “Pasta e fagioli.” Era proprio la minestra che gli piaceva. Il signor Alessandro Baioli, suo padre, era maniaco del totocalcio e ogni giorno comprava un quotidiano del pomeriggio, che aveva una rubrica apposita sui calcoli del totocalcio. Ovviamente sul giornale vi erano anche altre notizie, quelle sul Vietnam, e del presidente del Consiglio che pronunziava un discorso “equidistante” e anche di cronaca. Senza mostrare molto interesse egli sfogliava quel quotidiano e scorreva i titoli di cronaca: «L'orrendo massacro di via Maiocchi. Madre e figlio di dieci anni barbaramente sgozzati da un rapinatore che ha vuotato la cassa.” Questa storia della cassa vuotata lo faceva imbestialire: aveva trovato solo nove sporche mille lire. E il giorno dopo il quotidiano, era sabato, insieme col pronosticoschedina di un noto calciatore, riportava: “II povero bambino accoltellato è in fin di vita, i medici disperano di salvarlo.” Lo aveva mancato, pensò lui scorrendo il titolo, per la fretta, la paura di essere scoperto. La domenica i quotidiani del pomeriggio non escono e papà non ne comperava altri, così Luca cercò di ascoltare la radio, ma alla radio non trasmisero niente o forse lui non fu capace di seguire il programma all'ora giusta, ma al lunedì papà arrivò con quel giornale del pomeriggio che aveva un titolo di una parola sola su tutta la pagina: “Parlerà!”, e sotto: “II piccolo Michele Orgina, barbaramente accoltellato da un rapinatore rimasto sconosciuto, è fuori pericolo. I medici hanno compiuto il miracolo e assicurano che fra pochi giorni il piccolo potrà parlare e dare qualche indicazione sull'assassino che ha ucciso sua madre e tentato di uccidere lui. Due brigadieri e un magistrato sono pronti in ogni momento ad accogliere la sua deposizione.” Luca Baioli voltò con indifferenza la pagina del giornale e lesse che due alpinisti tedeschi erano inchiodati sul Cervino da tre giorni e tre notti, e che la notte faceva trenta gradi sotto zero. Ma che stupidi. “Sempre otto, più di otto non sono mai riuscito,» diceva suo padre,
ricontrollando per la terza volta la schedina. “Sono tutti soldi buttati via,” diceva sua madre, “dopo fai fatica a pigliare la penicillina per Simonetta.” Allora suo padre si era messo a urlare, come faceva sempre: «Voglio vedere domani se vinco centocinquanta milioni, se parli ancora così! Ma vai a dormire sul davanzale della finestra, che ti conviene.” Come tante altre volte il giovane Luca Baioli pensò che suo padre e sua madre erano dei cretini e che è una bella disgrazia per uno avere dei genitori cretini. Litigavano sempre allo stesso modo, dicevano sempre le stesse stupidaggini. Poveri disgraziati, o povero disgraziato lui che era il figlio: perché non era nato figlio di Onassis, o del presidente della Coca-Cola? Intanto sfogliava ancora il giornale e ritornò in prima pagina a vedersi, una specie di allucinazione, quel gigantesco “Parlerà!” E capì che aveva perduto. Se Michelino guariva, allora parlava, e se parlava avrebbe detto, gli pareva di sentirlo: “È stato Luca, Luca Baioli, quel ragazzo del quarto piano.” Aveva perduto, ma non era uno che si rassegnasse a perdere così, alla buona. Doveva fuggire, questo era evidente, ma non voleva fuggire da stupido. Appena Michelino avesse parlato, polizia e carabinieri sarebbero scattati come lupi rabbiosi. Pensò tutta la notte e prima di addormentarsi aveva trovato. Al mattino suo padre uscì come al solito alle sette e mezzo. Sua madre, anche lei come al solito, alle nove venne a svegliarlo: “Vado a fare la spesa, Luca, dai un'occhiata a Simonetta.” “Sì, mamma.” Si alzò. Era solo in casa, si vestì in un minuto, senza lavarsi, e aprì subito l'armadio: in fondo a destra, sotto una coperta, era nascosta la cassetta salvadanaio della Cassa di Risparmio; aveva sempre disdegnato di forzarla perché per le due o tremila che conteneva non valeva la pena di tanto lavoro. Purtroppo quel giorno aveva bisogno anche del mille lire e in pochi minuti aprì l'ingenua serratura e invece che monete da cento lire si vide cadere tra le mani biglietti da mille, da cinquemila e da diecimila. Li contò incredulo, erano centotrentamila lire, li ricontò, ed erano sempre centotrentamila. Come mai sua madre avesse potuto mettere da parte una somma simile, attraverso quali sacrifici, rinunzie, acrobazie e forse umiliazioni, vi fosse riuscita a lui non interessava sapere. Erano centotrentamila, e adesso lui aveva la sicurezza che non lo avrebbero più preso. Aveva pensato molto durante la notte, perché era uno che pensava, e andò nella stanza da letto dei genitori dove vi era anche il lettino della sua sorellina, Simonetta, che aveva cinque anni. “Vieni, Simonetta, andiamo a fare un bel viaggio,” le disse. “Ma io ho la febbre, non posso uscire,” disse la bambina, ma lo guardava piena di speranza che lui la contraddicesse, e lui la contraddisse. “Non sei malata, il dottore ha detto che puoi uscire, vedrai che puoi
uscire.” La vestì, la sentì rabbrividire per la febbre, ma non aveva alcuna importanza, era importante andarsene in fretta, prima che sua madre tornasse. E quando l'ebbe vestita le disse: «Adesso stai qui un momento.” Andò in cucina, aprì il forno della cucina a gas e levò lo spiedo del girarrosto: era un ferro di quasi trenta centimetri di lunghezza con una punta a lama per infilzare i polli da arrostire. Era unto e lo pulì con uno straccio, poi se lo infilò nella tasca destra dei calzoni, con la punta a lama sfondò la tasca, il ferro scivolò fino in fondo, ma rimase trattenuto da quella specie di impugnatura, come fosse un pugnale, che serviva per incassarlo nel girarrosto. Aveva quasi finito, quel ferro che gli ciondolava sulla gamba, quelle centotrentamila lire, gli davano sicurezza. Mancava solo il biglietto. Trovò un foglio di carta, trovò il vecchio pennarello che scriveva ancora abbastanza bene, e scrisse: “Vado via con Simonetta. Attenzione.” Attenzione voleva dire che stessero attenti. Tornò nella stanza da letto. “Vieni, Simonetta.” La piccola rabbrividiva e sudava per la febbre, ma era felice di andare col suo grande fratello. Il giovane criminale Luca Baioli portò la sorellina alla stazione Centrale, aveva pensato molto, quella notte, e aveva pensato a tutto. Alla stazione Centrale guardò l'orario dei treni in partenza e vide che stava per partire un treno per Ancona, era un lento diretto e arrivò ad Ancona nel tardo pomeriggio, alla bambina era passata la febbre, ma tossiva fastidiosamente. Anche alla stazione di Ancona, Luca Baioli guardò l'orario e vide che il primo treno in partenza andava a Taranto: benissimo, più a sud si va e meglio è, magari a Milano fanno tante storie per un delitto mentre a Tarante non ne sanno nulla. Inoltre lui, e lo aveva pensato la notte prima, non sarebbe mai uscito da una stazione, avrebbe continuato a prendere un treno dopo l'altro, i carabinieri non possono fare blocchi ai treni, e lui poi aveva l'ostaggio: provassero a toccarlo, se volevano salvare Simonetta era meglio che non lo toccassero. Arrivò a Taranto il giorno dopo, guardò l'orario dei treni, il primo treno in partenza andava a Reggio Calabria, Luca fece i biglietti e trasbordò subito sul treno per Reggio Calabria, prima comprò due cestini col pollo e gli spaghetti, e un po' di giornali. Sul treno per Reggio Calabria, cominciò a mangiare, anche Simonetta mangiava, le era passata la febbre, era felice, mangiava gli spaghetti con la forchetta di cartone metallizzato. «Luca dove andiamo?” “Andiamo al mare,” disse Luca. Finito di mangiare e scolato il mezzo fiaschetto di Orvieto, mentre il treno si muoveva lentamente verso sud-ovest, verso le coste della Calabria, Luca aprì uno dei giornali, e si guardò compiaciuto. Si guardò perché quel giornale
era un quotidiano del Nord e pubblicava la sua foto, gigantesca, su quattro colonne, era quella della tessera di socio del Touring Club Italiano, fatta l'anno prima, e sopra il titolo, sempre gigantesco: “Questo è l'assassino”, e poi i sottotitoli: “II piccolo Michele Orgina ha parlato: l'assassino di sua madre è un ragazzo di poco più di quindici anni, si chiama Luca Baioli e abita nello stesso stabile dove si trova la drogheria della povera signora Orgina.” Un altro titolo molto in grande diceva: “L'assassino è fuggito con un ostaggio: la propria sorellina di cinque anni malata e febbricitante.” C'era anche il solito punto esclamativo, e lui ne fu orgoglioso. Ma fu ancora più orgoglioso di un altro sottotitolo: “Carabinieri e polizia avvisano i cittadini che anche dovessero riconoscere e trovarsi di fronte l'assassino e la sua piccola sorella, di non tentare nulla per immobilizzarlo, ma di avvisare invece la polizia. L'assassino è assolutamente deciso a t\itto e non esiterebbe a uccidere la bambina. Se riconoscete l'assassino avvisate la polizia, ma non intervenite.” Anche un'altra cosa gli fece molto piacere, era proprio il numero 1 della cronaca, lui: “Questa sera alla televisione la madre dello sciagurato ragazzo parlerà a suo figlio per convincerlo a costituirsi e a riportare a casa la piccola Simonetta. La bambina è affetta da bronchite cronica e si teme per la sua vita.” Andava anche in televisione, peccato che non potesse vedersi, perché non aveva nessuna voglia di scendere dai treni, che erano la sua roccaforte, e farsi beccare in qualche caffè a vedere la televisione. Ripiegò i giornali, dette da bere l'aranciata alla sorellina, la fece distendere sul sedile. “Fai la nanna.” Erano soli nello scompartimento, il treno era quasi vuoto, si accese una sigaretta e mentre se l'accendeva vide passare per il corridoio, contro le luci intensamente rosse di quel tramonto, che il treno attraversava, come un toro attraversa un panno rosso, un piccolo uomo calvo, ma molto diritto, la sua totale calvizie fu quello che lo colpì di più. L'uomo si fermò e guardò dentro lo scompartimento, lo fissò nettamente e fissò nettamente la bambina che accucciata sul sedile cominciava ad addormentarsi cullata dal rollio del treno. L'uomo completamente calvo si chiamava Amedeo Gasperoni, era milanese e poco prima, a Taranto, aveva letto il Corriere della Sera con la fotografia su quattro colonne dell'assassino, e quella più piccola della sorellina. Aveva letto l'avviso della polizia: “Carabinieri e polizia avvisano i cittadini che anche dovessero riconoscere e trovarsi di fronte l'assassino e la sua piccola sorella, di non tentare nulla per immobilizzarlo, ma di avvisare invece la polizia. L'assassino è assolutamente deciso a tutto e non esiterebbe a uccidere la bambina.” Aveva letto tutto insomma, e sapeva tutto, e aveva riconosciuto, nel ragazzo seduto nello scompartimento, con vicino la bambina, l'assassino della povera signora Orgina che aveva la drogheria in via Maiocchi, non poteva assolutamente essere in dubbio perché la foto
pubblicata dal giornale e presa da una tessera del Touring Club, era per caso totalmente uguale al soggetto vivente, cosa rara nelle foto per tessera. Il signor Amedeo Gasperoni continuò per qualche passo a camminare per il corridoio traballante per il trun trun del treno in corsa, poi si fermò, preso dalla solita forma di tachicardia che lo prendeva alla minima emozione. Certe volte, quando faceva qualche piccola malattia, anche solo un'influenza, aveva paura di morire e il cuore allora gli batteva così forte e il dottore gli dava i sedativi, ma il cuore continuava a battere veloce e disordinato, e allora il dottore gli diceva: “Lei è capace di trasformare un raffreddore in una paralisi cardiaca.” Ma non poteva farci nulla, era fatto così, troppo sensibile, emozionabile. Amedeo Gasperoni, di Milano, era rappresentante in corsetterie, ma il suo lavoro non era così allegro come i profani potevano immaginare, aveva a che fare con vecchie merciaie o con acidi capufficio acquisti che gli dicevano acidamente: «Le coppe di questi reggiseno sono antiquate, la sua ditta non ha ancora capito che le ragazze di oggi non portano più queste scodellone.” II che purtroppo era vero. Ma anche se così emozionabile e rappresentante di una vetusta azienda fuori moda, era pur sempre un milanese. L'assassino era lì, con la bambina, lo aveva visto e riconosciuto al di là di ogni dubbio. Sì, ricordava che la polizia avvisava i cittadini di non tentare di immobilizzare l'assassino che era deciso a uccidere, ma il pensiero di quella bambina in balia del fratello assassino che se ne serviva da scudo, lo rivoltava. Col cuore che d'improvviso, appena presa la decisione, gli si fermò, come non esistesse più, come lo avesse perso, tornò indietro, entrò nello scompartimento dove Luca Baioli stava assopendosi, perché erano due notti che non dormiva mai veramente, e disse, perfino con un sorriso: “È libero?” e indicò un posto d'angolo. Luca Baioli non era uno stupido, nonostante il sorriso del rappresentante in corsetterie Amedeo Gasperoni, l'espressione sotterraneamente sconvolta dell'uomo lo mise in sospetto. “No,» disse brusco, “ci sono i miei genitori.” II calvo, completamente calvo, non potè sopportare, non tanto la risposta, quanto la vista della bambina addormentata, e con un impulso cieco, decise della sua vita e dall'alto in basso sferrò un terribile pugno sul viso dell'assassino: vide, letteralmente vide, il sangue sprizzare da quel viso, mentre la piccola si svegliava e si metteva a urlare, ma non vide che il ragazzo, benché stordito, tirava fuori dai calzoni il suo spiedo. Lo colpì ancora sul viso con tutte le sue forze, e ancora, ancora, finché non lo vide crollare a terra, sentiva un po' di bruciore alla coscia, ma non ci fece caso, prese la bambina urlante tra le braccia e uscì per il corridoio, gridando: “È l'assassino di Milano, prendetelo, ho salvato la bambina, prendetelo, prendetelo!» I viaggiatori si affollarono nel corridoio, qualcuno tirò il segnale
d'allarme, due coraggiosi entrarono nello scompartimento dell'assassino e lo trovarono che stava alzandosi col viso sfigurato, ma anche in quello stato dovettero lottare parecchio per immobilizzarlo, e ci riuscirono a stento, ringhiava come un lupo affamato: “Levatevi, vi distruggo”, e mordeva, proprio come un lupo, anzi azzannava. Il signor Amedeo Gasperoni fu avvertito solo dopo, da un viaggiatore, che aveva qualche cosa infissa nella coscia, era infatti lo spiedo che l'assassino gli aveva puntato contro appena colpito dai primi pugni. Lui non se ne era accorto. Venne medicato, poi mandato in clinica a Milano, ed ebbe dalla sua ditta tre mesi di licenza pagati, tutti i giornali pubblicarono la sua fotografia, era l'uomo che aveva arrestato l'assassino e salvato l'innocente bambina. La TV, in clinica, gli fece un «pezzo» e lui si vide sul televisore, dal letto della clinica, mentre parlava ai cronisti della TV, e il cuore gli batteva da spezzarsi. Poi uscì dalla clinica e tornò a viaggiare. Era un uomo solo, scapolo, alle donne non piacciono i calvi. Aveva pochi amici, anche perché non stava mai fermo in un posto, e un solo vizio, la pesca. Di solito andava a pescare, quelle poche volte che aveva tempo, con un vecchio amico, Remolo, il benzinaro romano di viale Regina Giovanna che viveva di pesca anche lui, in senso del tutto sentimentale e romantico. Accadeva raramente che potessero andare insieme a pescare, ma una volta ogni due o tre mesi accadeva. E quel mattino alle sette accadde. Erano già lì, sulla riva del Ticino, nella nebbia, con le loro lunghe canne, a pescare. Amedeo Gasperoni aveva vicino la radiolina, non poteva stare senza, era la sua migliore amica, anche quando trasmetteva Ieri al Parlamento come in quel momento. “I giornali dicono che non gli potranno dare più di dodici anni,” disse Romolo, tenendo morbida la lenza e guardando l'acqua sulla quale la nebbia fumava come da una pentola. Intendeva dire che Luca Baioli, al processo, non avrebbe potuto essere condannato a più di dodici anni. «Sì, ho letto anch'io,» disse Amedeo Gasperoni, molleggiando la lenza, e fissando a oriente, dove il cielo rosseggiava attraverso la nebbia. «È minorenne, non possono dargli di più. Un minorenne non è responsabile come un adulto.» “Minorenne mia zia,” disse Remolo che era facilmente eccitabile, “ha sgozzato una donna, ha quasi sgozzato il figlio di questa donna, si è preso come ostaggio per scappare la propria sorella di cinque anni, malata, ha infilzato te con uno spiedo, e sei stato fortunato, perché se ti piglia più su ti fa karakiri, e dicono che è minorenne. Un assassino non lo si giudica dalla sua età, ma da quello che fa.» «Non si può ragionare in questo modo,” disse pacato Amedeo Gasperoni, “ci sono delle leggi e bisogna rispettarle. La legge dice che un minorenne non è responsabile come un adulto, e io penso che sia giusto, ma scusa, Romoletto,
se un bambino di sei anni trova un mitra e si mette a sparare e ammazza magari venti persone, tu cosa fai, lo mandi all'ergastolo?” Remolo Marsetti, gerente del distributore di benzina di viale Regina Giovanna, strinse le labbra per non dire brutte parole, poi, più calmo che potè, disse: “Non fare paragoni stupidi. Qui non si tratta di un bambino di sei anni che trova un mitra e si mette a sparare. Qui si tratta di un criminale fatto e finito, che abbia quindici anni o sessanta non ha nessuna importanza. Quando si sgozza una donna per novemila lire...” “Lui non lo sapeva che c'erano solo novemila lire,” disse Amedeo Gasperoni, “credeva che ci fosse l'incasso dì mezza settimana.” “Ah, perché se ci fossero stati due milioni in cassa, tu lo avresti giustificato?” disse Remolo.' Il rappresentante in corsetterie non si dette per vinto: “Non è questo. Tu volevi insinuare che il ragazzo avrebbe ucciso ugualmente anche sapendo che avrebbe trovato solo novemila lire, e questo non è vero.” “Io voglio insinuare solo una cosa, che se gli danno solo dodici anni, fra dodici anni quello esce, ha solo ventisette anni e si rimette a fare il delinquente tranquillo.» Per molto Amedeo Gasperoni non rispose, sembrava che qualche cosa stesse per abboccare e molleggiò ancora di più la lenza. Poi disse, sempre pacato: “Tu non credi che un ragazzo di quindici anni possa essere rieducato? Eppure dal riformatorio, anche se escono molti ancora delinquenti, ne escono moltissimi che sono diventati degli uomini onesti, utili per la società.” “Questo te lo raccontano a te, ma a me no. Se gli danno solo dodici anni, fanno lo sbaglio più grosso che si possa fare.” “Perché tu che cosa gli daresti?” “Io niente,” disse Remolo. “Io ti dico solo questo: che se dovesse venire a fare il pieno al mio distributore, io lo innaffio di benzina e gli do fuoco.” Aveva parlato con tono così serio che Amedeo Gasperoni sussultò. “Tu lo dici davvero?” “No. Non solo lo dico davvero, ma lo faccio davvero, se dovesse capitare l'occasione,” girò il viso stravolto dallo sdegno verso di lui. “Ma è un ragazzo, ha poco più di quindici anni!” disse Amedeo Gasperoni. “Un ragazzo che appena libero, sai che cosa farà? Verrà ad ammazzarti, perché sei stato tu che l'hai fatto arrestare. E probabilmente ci riuscirà. Voi andate avanti col codice e loro vanno avanti coi coltelli, con gli spiedi, con le rivoltelle e con la minore età,” Remolo alzò il pugno, tenendo la lenza solo con la sinistra. Disse rauco, sdegnato: “Sono minorenni da bruciare: oltre un certo limite è l'unica soluzione.” Amedeo Gasperoni scrollò il capo. Sapeva che Romolo era un romanaccio
esaltato, ma non credeva fino a quel punto. Luca Baioli venne condannato esattamente a dodici anni, come previsto. Per motivi giuridici, troppo difficili per approfondirli, i dodici anni, in seguito, divennero otto. Scontati gli otto anni Luca Baioli venne passato a una Casa di Lavoro, dove rimase solo due anni data la sua buona condotta, e dato che aveva trovato lavoro come commesso in una cartoleria di via Eustachi, anche la sorveglianza venne abbandonata ed egli, a ventisette anni, si trovò libero, totalmente libero e senza più alcun sospetto, perché per dodici anni aveva dato prova della sua buona volontà di rifarsi una vita. Non che in questi dodici anni Luca Baioli avesse pensato notte e giorno al modo di ammazzare l'uomo che su quel treno che andava a Reggio Calabria lo aveva preso a pugni e lo aveva fatto arrestare, ma vi aveva pensato spesso, più spesso di quanto i suoi sorveglianti, educatori e magistrati che scrivevano nei loro rapporti che lui aveva “buona condotta”, potessero pensare. Il ricordo di quei pugni, che oltre tutto gli avevano schiacciato il naso irreparabilmente, non gli piaceva, poi non gli piaceva che uno stupido calvo come quello lì l'avesse avuta vinta su di lui. Ma anche quando fu assolutamente libero, lasciò passare ancora un anno, poi una mattina, con una grossa chiave inglese nella tasca dei calzoni, del peso di circa un chilo, salì direttamente in casa del rappresentante in corsetterie Amedeo Gasperoni, al terzo piano suonò il campanello, si era informato e sapeva che lui era in casa. Infatti Amedeo Gasperoni era in casa, piuttosto invecchiato, ora non riusciva più a fare lunghi viaggi coi suoi reggiseni e le sue guaine, si limitava alla sola Lombardia, e aprì la porta: dopo tredici anni non lo avrebbe neppure riconosciuto il ragazzo assassino, del resto non ebbe il tempo né di riconoscerlo né di non riconoscerlo, quasi un chilo di chiave inglese selvaggiamente gli piombò sulla testa, cioè piombò sulla testa di colui che aveva creduto che i ragazzi, i minori, potessero essere rieducati, e fu quasi come quando si rompe un uovo da fare all'ostrica: Luca Baioli lo guardò cadere all'indietro, oltre ogni dubbio fulminato, richiuse la porta, discese calmo le scale, e salì in macchina, perché aveva una macchina, una modesta 1100. Sapeva che avrebbero cercato subito di lui, ma non aveva paura. Aveva deciso di andare a sud, e con un po' di fortuna, prima che stabilissero blocchi, ci sarebbe riuscito. Laggiù, al Sud, avrebbero avuto così da remare, prima di prenderlo. In quei tredici anni, Remolo Marsetti, come benzinaro, aveva fatto carriera, da semplice gerente, meno ancora, conduttore di un distributore in viale Regina Giovanna a Milano, era divenuto proprietario di quattro «fontane» di. benzina a San Marco Argentano, a una trentina di chilometri da Cosenza, una strada importante, battuta da turisti e da un forte traffico locale. Ogni lira che incassava era sua, non doveva dare la percentuale a nessun padrone, escluso il
fìsco, che pesava un po', ma lui aveva già trovato una via per alleggerirlo. Quattro giorni prima aveva letto sul giornale che il suo amico Amedeo Gasperoni, che era anche un bravissimo pescatore, era stato trovato col cranio sfondato in casa sua, e perfino la polizia diceva che il probabile assassino poteva essere Luca Baioli. Prima gli era venuto da piangere, a leggere quella roba, poi aveva pensato: «Amede', te l'avevo detto io, altro che redenzione, quello appena esce de galera te ammazza.» Ed era stato così. Quattro giorni dopo, ed era una bellissima mattina di primavera, una 1100 blu scuro si fermò davanti al suo distributore. Era presto, neppure le sette, la strada era deserta. L'uomo che si sporse fuori dalla 1100 disse: “Pieno, super.” Ci sono facce che si riconoscono sempre, anche se passano cent'anni, la faccia di Luca Baioli, anche se più adulta, era la stessa faccia di tredici anni prima, della foto pubblicata su tutti i giornali, e così Remolo Marsetti riconobbe l'assassino del suo amico che veniva nel Sud a nascondersi. “Subito, signore,” disse. Si accese una sigaretta, staccò la pompa dal gancio, si diresse verso l'auto, come per riempire il serbatoio, invece puntò la pompa contro l'ex-minorenne Luca Baioli, lo innaffiò tutto di benzina a ottanta ottani, e quindi buttò la sigaretta accesa dentro l'auto, tirandosi subito indietro. La 1100 divampò come se fosse fatta di paglia, con dentro l'uomo, come fosse di paglia anche lui. Una macchina che passava si fermò di colpo, slittando per la frenata, un capitano d'artiglieria che la guidava saltò fuori. «Cos'è successo?” “Ah, è terribile,” disse Remolo Marsetti, «ho fatto per mettere la pompa nel serbatoio e si è incendiato tutto, mamma mia, che spavento.” La 1100 fiammeggiava sempre e dentro, al volante, c'era un coso nero, accartocciato. “Bisogna avvisare la polizia,” disse il capitano. «Ah, certo, telefono subito,» disse Remolo. Non era più minorenne, ma l'aveva bruciato lo stesso. Se avesse potuto bruciarlo prima, quando era minorenne, il suo amico Amedeo Gasperoni sarebbe stato ancora vivo.
8 Conoscerei scopo matrimonio
«Conoscerei scopo matrimonio signorina non oltre venticinque anni piacente affettuosa pratica lavori domestici e amante della casa anche nullatenente purché veramente onesta pregasi inviare foto scrivere: architetto Gian Martino Prosadei Fermo posta Milano.” L'avviso compariva una volta alla settimana su quotidiani e riviste diverse. Redatto in quel modo attirava molte risposte: si trattava di sposare un architetto che metteva il suo nome e cognome sull'annunzio matrimoniale, il che indicava serietà. Poi, questo architetto, insisteva molto che la donna fosse amante della casa e pratica di lavori domestici, evidentemente gli piaceva mangiare bene e avere i vestiti curati, mentre per quello che riguardava la bellezza fisica accennava appena che fosse «piacente», e una donna di non più di venticinque anni è quasi sempre piacente. Dopo tre mesi, erano arrivate all'architetto Gian Martino Prosadei, fermo posta Milano, centinaia di lettere. Ogni lettera conteneva anche una fotografia. Fra le tante che risposero all'annunzio matrimoniale vi fu Arabella Maurizis. Il padre di lei, ormai molto vecchio, era stato professore di fisica e matematica, la madre era insegnante di matematica ancora adesso e lei, Arabella, aveva il diploma magistrale, ma ancora nessuna scuola in cui insegnare. In pratica erano solo il modesto stipendio della madre e la irrisoria pensione del padre che sostenevano tutto. Gli anni per Arabella passavano troppo in fretta, era già vicina ai venticinque e non si era ancora sposata. Suo padre le ghignava in faccia e ghignava in faccia alla moglie: “Ecco che cosa ci serve avere una figlia onesta, ce la dobbiamo sorbire ancora una quarantina d'anni; se fosse stata una..., almeno sarebbe già scappata con qualche capellone.» Questa amara e sciocca facezia, ripetuta più e più volte, rendeva la vita di Arabella Maurizis piuttosto agra e per questo, quando lesse l'avviso “Conoscerei scopo matrimonio”, rispose subito, unendo una diapositiva a colori in costume da bagno. La lettera arrivò un mercoledì a uno degli sportelli fermo posta, quello delle lettere da L a R. Lo stesso mercoledì mattina un signore alto, dai capelli grigi, senza cappello, ma con dei vistosi guanti da guida, lievemente profumato di un'asprigna, virile lavanda, si recò allo sportello fermo posta LR, mostrò il passaporto intestato all'architetto Gian Martino Prosadei, lo mostrò aperto, nelle pagine con la fotografìa, ma l'impiegato, sorridendo, non lo guardò neppure e gli consegnò subito una dozzina di lettere, tutte indirizzate a lui, architetto Gian Martino Prosadei; e una delle lettere era
quella di Arabella Maurizis. «Grazie,» disse il maturo ma giovanile signore e con le lettere in mano uscì dalla posta centrale, fece un giro abbastanza lungo per andare sulla sua Mercedes automatic color prugna scuro parcheggiata davanti alla Borsa e guidò fino a una palazzina a tre piani vicino a piazza Carlo Erba, con un giardino al quale era stato sottratto molto verde perché potesse servire da parcheggio. E parcheggiò infatti l'automatic nel giardinetto, ed entrò nella palazzina, a pianterreno. Un giovanotto gli aprì la porta, era piccolo, biondo, un'aria muscolosa; i due si guardarono appena, l'architetto Prosadei entrò nel suo ufficio, si tolse i guanti, si accese una sigaretta, aveva dei leggeri, sottili baffetti grigi, sedette alla scrivania e cominciò a leggere le lettere, anzi, prima di leggere guardava la fotografia, poi, guardato e letto, o buttava nel cestino, o teneva davanti a sé lettera e foto. E gli rimasero davanti, della dozzina di lettere, quattro foglietti e quattro foto. Allora si alzò, con le quattro foto e i quattro foglietti in mano, e passò nella stanza vicina. Non era una stanza, era un salone, vi erano alcuni tavoli da disegno, ai quali lavoravano dei giovani in camice bianco che lo salutarono con un rispettoso cenno del capo al quale egli rispose con un sorriso. “Buonasera, fra poco vengo a darvi un'occhiata.” “Grazie, professore,» rispose ironico un giovane. Il professore, con le letterine in mano, uscì dal salone e si trovò sul pianerottolo. Salì al terzo piano, tutta la palazzina era sua, eredità del padre, architetto anche lui, che l'aveva costruita nello stile castelletto medievale che allora piaceva tanto alla buona borghesia, e un altro giovanotto venne ad aprirgli, non lo salutò rispettosamente, non gli disse nulla, aveva delle lunghe basette brune e degli occhi lucidi come quelli delle bajadere. Insieme con lui attraversò varie stanzette e nella quarta c'erano tre giovani che stavano giocando a poker, coi biglietti da mille, cinque e dieci sul tavolo come nelle scene dei film. «II fondografo,» disse il professore al giovane bajadero, «ragazzi, venite a vedere questa qui, ha mandato una fotografia a colori, e questa mattina ce ne sono altre tre, dobbiamo parlarne.» Lo disse in tono lavorativo, laborioso. Entrarono tutti nel salone accanto, c'erano tavoli da disegno anche lì e su un altro cavalletto c'era il fondografo. Il professore vi introdusse la diapositiva a colori, il giovane dalle basette innestò la spina, poi mise in azione la lampada e la modesta foto a colori formato 6x6 venne proiettata sulla bianca parete in fondo al salone nel formato 2 metri per 1 e 40. “È un po' anziana,” disse uno dei giovanotti che prima giocava a poker. “Vuoi dire che è più facile. Andrebbe bene per Marcello, che è il meno ignorante di voi.” Marcello, biondo platino, disse: «Sono troppo giovane per questa vecchiarda, si metterebbe in sospetto.”
“Sì, è vero,” disse il professore, “ma le dico come al solito che sei mio figlio, che ti sei sposato a diciotto anni e che tua moglie poi è fuggita con un altro e tu aspetti il divorzio.” Arabella ricevette, il lunedì, una lettera dall'architetto Gian Martino Prosadei. “Gentilissima signorina, ho ricevuto la sua risposta al mio annunzio e le confesso che tra le tante lettere ricevute la sua è stata quella che mi ha colpito di più; perciò le rispondo nella vivissima speranza di poter avere presto un colloquio con lei. Io ho cinquantun anni, e sono vedovo. A voce, nel caso di un incontro, le darò ogni altro particolare su di me. Io potrei essere venerdì pomeriggio davanti al portone di casa, guido una Mercedes color prugna scuro, e se non riceverò una sua comunicazione in contrario, sarò appunto venerdì alle tre davanti a casa sua. Le ritorno la bellissima fotografia che ha avuto la gentilezza di inviarmi e mi auguro vivamente di poterla presto conoscere. I miei devoti saluti. Gian Martino Prosadei.” Seguiva un poscritto: «Sarei molto lieto se lei si facesse accompagnare dalla mamma, o dal papà, o da un parente stretto.» Quel venerdì alle tre Arabella Maurizis e sua madre uscirono dal portone di casa loro e proprio davanti, sulla strada, c'era una lunga Mercedes color prugna scuro, di una linea che sembrava ancora più elegante nella modestia del quartiere e di quel palazzo in particolare. E sulla Mercedes c'erano due uomini, quello al volante era anziano, aveva i capelli molto grigi, dei baffetti bianchi e dei morbidi vistosi guanti da guida di cinghiale giallo. Accanto a lui era seduto un giovane biondissimo, quasi platino, piccolo, magrino ma dall'aria molto risoluta e virile. Le due donne si avvicinarono all'auto, senza esitare. Allora il giovane biondo scese, dall'altra parte scese subito anche il signore anziano che disse: «Sono l'architetto Gian Martino Prosadei,” e chinò il capo. “Sono la mamma di Arabella,” disse la signora Maurizis. L'architetto Prosadei curvò ancora di più il capo per baciarle la mano. “Veramente onorato.” Strinse la mano di Arabella, la fissò negli occhi, le disse: “Sono felice. Molto, molto felice di conoscerla.» Le lasciò la mano, sembrò per un momento imbarazzato, poi disse: “Permettetemi di presentarvi mio figlio Marcello.” II biondino accennò un inchino, baciò la mano della signora Maurizis e strinse quella di Arabella. L'architetto Prosadei disse: «Ho voluto portare anche lui, perché la situazione fosse subito chiara fin dal principio.” Si rimise gli aristocratici guanti da guida. “Ho pensato, per poter parlare un poco, di andare a prendere il té all'Alemagna in via Manzoni, se vi fosse gradito.” Arabella guardava il ragazzo biondo, con molta discrezione, ma lo
guardava, se non altro perché non era un uomo che una ragazza potesse fare a meno di guardare. E il ragazzo si passò una mano sui capelli quasi platino, folti, cadenti sul collo, sulle orecchie e disse: “Papà, io devo andare qui vicino, da Luca, per il progetto di quella villetta, è inutile che mi accompagni in macchina.” “Hai ragione,” disse l'architetto Prosadei, “vai pure.” Nella raccolta e opulenta sala dell'Alemagna di via Manzoni, l'architetto fece il suo discorso, quasi la sua prolusione, appena le signore ebbero bevuto il té. “Io penso che questa sia una situazione in cui si debba essere assolutamente sinceri. Se non ci parliamo proprio col cuore in mano, come dicono a Milano, con franchezza completa, ci inganniamo e perdiamo tempo tutti...” Parlava più rivolgendosi alla madre che a lei. “Io ho il doppio dell'età di sua figlia, signora, sono vedovo da undici anni e ho esitato molto prima di pensare a risposarmi, e per una ragione sola: prima di risposarmi volevo che mio figlio fosse adulto e quindi fosse libero di accettare o no una matrigna. Comunque, questo della mia età e di avere un figlio, è un punto negativo, e io devo confessarlo sinceramente. “ L'architetto abbassò lo sguardo sulla teiera, poi lo rialzò. “Un altro punto negativo è mio figlio,” disse malinconico. “Nonostante tutte le attenzioni che ho avuto per lui non sono riuscito a impedirgli di commettere un errore davvero grave: si è sposato a diciotto anni con una ragazzina, di pochi scrupoli e quando si è accorto dell'errore, era troppo tardi. Sono riuscito a ottenere per lui la separazione legale, ma quella giovane è senza scrupoli e ci tormenta continuamente con esose richieste di denaro, oppure viene a farci delle scenate per il puro gusto di farci del male. Questa è la verità, e io dovevo dirla. Per il resto non credo ci sia più nulla di negativo: sto molto bene in salute e i certificati medici potranno dimostrarvelo, e penso di poter avere ancora la gioia di essere padre. Finanziariamente la mia posizione è piuttosto buona, sono un architetto abbastanza quotato, e del resto avrete tempo di prendere tutte le informazioni che vorrete.» Adesso si rivolse soltanto a lei, Arabella: “Lei avrà capito che, nonostante le moltissime lettere ricevute, io ho già fatto la mia scelta, cioè sarò felice se lei vorrà acconsentire a sposarmi.” Non che le due donne, Arabella Maurizis e sua madre, parlassero molto, quella volta, ma quando tornarono a casa la madre di Arabella disse: “È un uomo ancora giovane, ha soldi, è una persona come si deve, se perdi questa occasione poi ti arrangi.” Arabella accennò di sì, che non avrebbe perso l'occasione. Una mattina due poliziotti che avevano visto con sospetto apparire per tre mesi quell'annuncio fermarono cortesemente l'architetto Gian Martino Prosadei alla posta centrale, lo invitarono in questura e gli chiesero il perché di quella insistenza. L'architetto Prosadei rispose faceto:
«Perché finora rispondono al mio annunzio tutte le donne più brutte della Valle Padana. Io sono un po' anziano e non posso avere molte pretese, però non ho nessuna intenzione di sposarmi uno scorfano, e finché non avrò trovato una bella ragazzina non smetterò di pubblicare l'annunzio.» I poliziotti sembrarono soddisfatti, indagarono un poco sulla sua vita privata, scoprirono che disegnava case e arredava appartamenti per diverse danarose famiglie dell'alta Italia, aiutato da tre giovani assistenti che erano effettivamente studenti, anche se con troppi bollini, iscritti alla facoltà di architettura, e non ci pensarono più. Degli altri poliziotti, invece, sei mesi dopo, fermarono Arabella Maurizis in una casa di appuntamento e la interrogarono per una mezz'ora. Aveva il passaporto in perfetta regola, ma il poliziotto, leggendo che era di professione insegnante, scosse il capo: «Lei è insegnante?» “Sì, ho il diploma magistrale.” “I suoi genitori che cosa fanno?” “Mio padre è pensionato, professore di fisica e matematica. Mia madre è professoressa di matematica e insegna tuttora.” “E allora per quale ragione si trovava in quella casa?” “Per la ragione che lei immagina. E lei non può farmi niente, io sono libera di stare con gli uomini che voglio, la legge Merlin non punisce una donna per questo.” II poliziotto disse paziente: «No, la legge Merlin non può punire lei, ma deve punire i suoi sfruttatori.” “Non ho sfruttatori. La proprietaria della casa mi chiedeva solo una percentuale, come nelle agenzie per domestiche.” “Se lei ci dice il nome dell'uomo o degli uomini che l'hanno buttata su questa strada, potrà liberarsene e tornare una donna normale.” “Le ho detto che non c'è nessun uomo.” Stava ferma in viso, come un viso di legno. Il poliziotto fece una diversione. «I suoi genitori sono informati della sua attività?” Lei alzò le spalle e disse: “Le pare che siano cose da dire a dei vecchi genitori?” Allora il poliziotto batté forte una mano sulla scrivania e fece sussultare anche il poliziotto di guardia alla porta. E cambiò tono. “Va bene, non hai uomini, ma ti do ancora cinque minuti per riflettere. Fumati una sigaretta, tornerò quando l'avrai finita», le buttò davanti il pacchetto delle Nazionali Esportazione, «e se mi dirai il nome degli uomini che ti sfruttano è meglio per te.” Lei prese una sigaretta dal pacchetto, chiese un fiammifero al milite di guardia alla porta e se la fece accendere, e cominciò a fumarla lentamente.
Erano due ore che non fumava. Prima che la finisse il giovane poliziotto rientrò. “Allora?» E lei disse: “Allora che cosa?” col suo viso di legno. Il poliziotto assentì col capo. “Poveretta,” disse, “mi fai pena.” Gli faceva davvero pena che difendesse in quel modo i suoi sfruttatori, i suoi carnefici. «Adesso subirai la visita medica, poi sarai diffidata, e se ti ripeschiamo in qualche casa del genere, peggio per te.» Si volse al milite di guardia. “Portala via.” Arabella Maurizis ebbe a che fare una seconda volta con la polizia, non molto tempo dopo, neppure dieci giorni dopo. Un metronotte di servizio in viale Montenero la trovò verso l'una del mattino rantolante sotto uno dei grandi alberi del viale. Al pronto soccorso scoprirono che aveva tre pallottole nel torace, trasportata all'ospedale il chirurgo gliele levò tutte e tre, ma le sue condizioni rimasero molto gravi. Naturalmente arrivarono anche due poliziotti e attesero che i medici dessero il permesso per interrogare l'ammalata. “Chi ti ha sparato?” le chiese uno bisbigliando all'orecchio. Lei aprì le labbra, la voce le uscì meno affaticata di quello che si poteva pensare. «Un ragazzo.” II viso di lei era tumefatto, cosparso di gonfiori violacei per le selvagge percosse prese. “Come si chiama questo ragazzo?” Lei disse il nome. “Marcello Vartassi.” “Dove abita? Dove possiamo trovarlo?” “Abita con l'architetto.” “Che architetto?” “L'architetto Gian Martino Prosadei. II poliziotto che interrogava non capiva bene che cosa c'entrasse un architetto in quella storia, ma scrisse lo stesso il nome. “E dove possiamo trovarlo?” Lei, col braccio steso, nudo, in cui entrava nella vena il lungo ago della siringa per la fleboclisi, disse distintamente l'indirizzo dell'architetto, il gentiluomo. “Ma perché il ragazzo ti ha sparato?” disse il poliziotto. “Perché voleva che lavorassi lì per la strada, in viale Montenero.” “E tu non volevi?” “No, non volevo,” lei cominciò ad ansare. “Ma lui mi ha picchiata e mi ha detto che se non passeggiavo lì, in quel pezzo di viale Montenero, mi avrebbe distesa.” E infatti l'aveva distesa, tre pallottole nel torace, pensò il poliziotto. “Era molto che conoscevi questo ragazzo?» le domandò.
“Quasi sei mesi.” «Se sei stanca lascia stare, torniamo domani,” disse il poliziotto. Lei scosse il capo. “Sono tanto stanca, ma devo parlare, devo dire tutto.» L'infermiera disse: “Io vado a chiamare il medico, voi me la fate morire.” “Mi lasci parlare, infermiera, mi lasci dire tutto.” “Peggio per lei,” disse l'infermiera. “Se ha un collasso, non è colpa mia.” I due poliziotti rimasero incerti, guardarono oltre i vetri il buio piovoso di quella Milano fine novembre, la peggiore edizione dell'anno, davvero, della grande metropoli. Poi quello che interrogava disse: “Tu sei un'insegnante, provieni da ottima famiglia, come hai fatto a conoscere una teppa simile come quel ragazzo che ti ha sparato?” Lei disse subito: “Per un annunzio matrimoniale. Ho quasi ventisei anni, volevo sposarmi, avevo paura di restare zitella, leggevo sempre gli annunzi matrimoniali, un giorno lessi quello, era dell'architetto, Gian Martino Prosadei, < Conoscerei scopo matrimonio >, sembrava tanto serio, così ho scritto e ci siamo visti.” “Riposati, parla pure quando ti senti, noi ti aspettiamo, abbiamo tempo,” disse gentile il poliziotto. Lei scosse il capo, era lei che non aveva tempo, pensò. Disse: “Era un uomo di più di cinquant'anni, molto fine, nessuno avrebbe sospettato di lui. Mi fece conoscere anche un ragazzo biondo di una ventina d'anni, mi ha detto che era suo figlio, ma non era vero; mi ha detto che era un ragazzo rovinato perché si era sposato a diciotto anni con una cattiva donna, che aveva dovuto lasciare e chiedere la separazione legale. Ci siamo rivisti altre volte, l'architetto mi stava facendo fare i documenti per il matrimonio dalla sua segretaria, mi ha portato un paio di volte nella sua palazzina vicino a piazza. Carlo Erba, dove ha lo studio, con gli assistenti che lo aiutano. È tutto vero, lui fa veramente l'architetto, gli assistenti sono veri assistenti, ma al piano di sopra c'è dell'altra roba, nessuno può sospettare, anche la polizia che è stata lì non ha trovato niente di irregolare. Invece...” “Invece?” «Ecco, l'architetto metteva quell'annunzio matrimoniale, rispondevano molte perché sembrava così serio, per un po' lui le illudeva, poi entravano in scena dei bei giovanotti che le facevano ammattire, forse anche con qualche droga, e quando le avevano compromesse e rovinate le terrorizzavano con le minacce e le mandavano in giro per le case di appuntamento, o per la strada, con quelle più docili facevano anche dei filmetti spinti ma io non ho mai voluto fare quei film né andare in strada.» “Senti, adesso abbiamo quasi finito,” disse il poliziotto, «ma te lo devo ripetere, come mai tu, una persona istruita, di buona famiglia, ti sei lasciata prendere da certa gente?” II poliziotto esitò un momento: “Hanno drogato
anche te?” Lei sorrise, e scosse lievissimamente il capo. “No, con me non hanno avuto neppure bisogno della droga. È stato Marcello, io credevo davvero che fosse il figlio dell'architetto, facevo la fidanzata di suo padre, ma intanto mi sono innamorata di lui, ed era tutto preparato da loro due. In poche settimane mi ha instupidita e corrotta, c'erano dei momenti in cui, quando tornavo da una di quelle case, non mi sembrava più neppure di essere io, non mi riconoscevo...” “Adesso basta,” disse l'infermiera, “fa troppa fatica a respirare.” “No, infermiera,” disse lei. Ansava davvero, ma parlò ancora: “Per la strada no, non ci vado per la strada, in quelle case sì, anche se avevo disgusto, ma per la strada no, non avrei detto mai niente alla polizia se lui non avesse voluto portarmi per la strada...” “Ma perché lui non ha continuato a mandarti nelle case di appuntamento, perché ha voluto portarti in strada?” disse il poliziotto, osservando le labbra di lei divenire sempre più violacee. “Perché... perché... perché una decina di giorni fa sono stata sorpresa dalla polizia in una di quelle case, e la polizia mi ha interrogata, ma io non ho detto niente, proprio niente, volevano sapere il nome degli uomini che mi proteggevano e io invece niente. Ma quando sono tornata da lui, Marcello non mi ha creduto, mi ha detto: < Tu hai parlato, hai fatto il mio nome e quello dell'architetto, fra poco ci vengono ad arrestare tutti, ma io ti ammazzo... >“ Appena scesa dall'auto, lei era corsa via gridando e lui, Marcello, uomo di parola, l'aveva riempita di pallottole. Lei sorrise, pensava a quel giorno in cui aveva letto l'avviso «Conoscerei scopo matrimonio», ogni tanto pensava a quell'avviso, e ogni volta che vi pensava sorrideva, di sé, della vita, di ogni cosa, anche adesso sorrideva, pur sentendo che stava per morire. “Infermiera, sta male, chiami il dottore,” disse il poliziotto. “Ci siete riusciti, vero?” disse acida l'infermiera, e chiamò il medico. I due poliziotti attesero in corridoio che il medico uscisse dalla stanza della maestra Arabella Maurizis.”Come sta?” disse uno dei poliziotti. “II cuore ha resistito,” disse il dottore. “Fra un paio di mesi sarà guarita e potrà andare a farsi sparare da qualche altro...”
9 Una signorina senza rivoltella
In questo momento mi trovo a Rimini, all'Hotel Grand Park, sto guardando il mare, è di colore grigio, ma c'è un po' di sole che lo fa scintillare, quasi come fa la luna di notte. Sono appunto sulla terrazza che da sul mare, fa un poco freddo, ho indosso un pesante pullover giallo, di quelli che si mettono in montagna, sto bevendo una sambuca nera, anche se sono soltanto le nove del mattino, ma l'alcool è l'unica vera soddisfazione che ho. Sono l'ultima cliente dell'Hotel Grand Park, la direzione mi ha avvisata che dopodomani chiudono, non c'è più nessuno sulla spiaggia a fare il bagno, escluse poche persone vestite pesantemente come me, che passeggiano, qualcuna con una piccola radio in mano, non ci sono ombrelloni, stanno smontando le cabine, un bagnino, lo vedo da qui, sta lavando le sdraio con l'innaffiatore, sento perfino il fruscio dell'acqua che esce dall'innaffiatore, è l'estate che finisce, mi dispiace, mi da tanta malinconia, io sono molto sentimentale, ma non lo faccio vedere, si capisce. Sono le quattro e mezzo del ventinove settembre, come in quella canzone, e sto aspettando l'ora di andare al porto, da Savoriello, non precisamente al porto, ma vicino, per il solito lavoro, manca quasi mezz'ora, e quando sono così che aspetto, insomma questi momenti vuoti, mi vengono in mente sempre tutte le cose della mia vita, e della vita in generale, io, per esempio, avrei dovuto fare il mestiere di mia madre, ma sono brutta, alta, secca come una carruba, posso truccarmi e vestirmi in qualunque modo, «Ma sempre bruttona sei,» mi dice Savoriello. Poi, naturalmente, mia madre voleva farmi fare la scienziata, studiare, credeva che coi soldi che guadagnava passeggiando la notte io potessi diventare chi sa chi, ma io dopo la quarta elementare mi sono stufata e da allora leggo solo il quotidiano per sapere se hanno arrestato qualcuno dei miei amici, e qualche romanzo a fumetti, che sono tanto belli. Così ho fatto diversi lavori, quelli che potevo fare io così bruttona, facevo il palo nelle bische clandestine, o nelle case di appuntamento, facevo il fattorino con le bustine di droga o le fialette di eroina, ma erano lavori da poco, finché una sera, Savoriello, a un pranzo, c'era lui, mia madre, i due capisquadra di Savoriello e succhiavano ostriche una dopo l'altra, là, sul tetto del Palace Hotel, a Milano, e ne mangiai anch'io undici, e il giorno dopo mi sembrava che lo stomaco mi stesse per scoppiare, ma a tavola mi piacquero molto e a tavola Savoriello a un certo punto disse a mia madre, guardando me: «E che lavoro fa adesso questa carruba?” “Cosette,” disse mia madre, “non vuole studiare.”
«Perché non vuoi studiare?” mi disse Savoriello. Avevo già il temperamento di mia madre e gli dissi: «Perché sono stupida.” Perché mia madre è una mordona quando parla. Lui rise, gli ero simpatica, anche se così brutta e disse: «Allora sono stupido anch'io a non aver pensato prima a te.” “Cosa dovevi pensare di lei?” disse mia madre, che è molto sospettosa. “Stai a sentire, Chicca,” disse Savoriello a mia madre, a bassa voce, strappando dal gambulo della conchiglia forse la quattordicesima ostrica e interrompendosi per inglutirla. «Pensavo alle armi. Nessuno può pensare che una gentile ragazzina come la tua piccola, guidi un'auto con tre o quattro valigie cariche di calibro 7, calibro 9, mitra, e qualche volta anche di bombe al napalm. Siamo stati stupidi a non pensarlo prima, la polizia stradale non può immaginare che una brutta zitella come questa ha dei mitra o delle calibro 9 nelle sue valigie bianche e rosa. Comunque vale la pena di provare.” Provammo. Avevo allora ventidue anni, adesso ne ho ventiquattro. Provammo ed è sempre andata bene in questi due anni, la polizia mi ha fermato tre volte in tutto, ma nessun poliziotto ha mai voluto guardare nelle mie valigie bianche e rosa che sembrano contenere solo mutandine di pizzo, invece che mitra e rivoltelle. Davano un'occhiata ai miei documenti, si commuovevano per la mia bruttezza e mi mandavano via. Bisognava rifornire gli amici di Milano di armi, e ci siamo riusciti, adesso credo che abbiamo più armi noi, che tutte le squadre antigangster della polizia. Se si dovesse fare una guerra dichiarata la vinceremmo noi. Ma questa è la parte che m'importa meno della mia vita, la cosa che m'importa di più nella mia vita è Mariolino, lo chiamano Mariolino o'Guappo, ma era guappo una volta, dopo quell'incidente di macchina in cui perse un braccio e tutti e due gli occhi, non può essere certo più un guappo, e io lo so che lui mi vuole bene davvero, non perché lo mantengo, non perché è cieco e non sa che io sono brutta, perché lui mi conosceva da prima che perdesse gli occhi, ma perché sente che nella sua disgrazia l'unica che veramente lo comprende sono io, perché gli altri amici, senza voler parlare male di nessuno, fanno come dice il proverbio siciliano: “Zoppo è il somaro, e lascialo morire». Mancano ancora cinque minuti all'appuntamento al porto con Savoriello, è proprio la fine dell'estate, c'è solo un bambino sull'altalena vicino al mare che, tenuto da sua madre, si dondola piano piano perché ha paura, e assolutamente nessun altro, esclusa io, su questa terrazza dell'Hotel Grand Park, nella luce grigia, quasi lunare, di un sole che è scomparso e ho ancora cinque minuti da pensare all'unica cosa che mi piace nella vita, a Mariolino, e pensare che la prima volta che lo vidi e mi piacque assai assai, avevo dodici anni e un minuto dopo lo odiai; perché lui era in compagnia di una bruna grossa grossa, e di mia
madre, e disse a mia madre: “Non capisco come una bella donna come te ha fatto uno scorfano come questo.» Quella volta anche mia madre si offese, lo odiò e gli disse: «Brutta robaccia che non sei altro.” E io per anni e anni l'ho odiato e amato. Lo odiavo da morire ogni volta che lo vedevo insieme con le sue bellone, ogni volta che lui mi diceva: «Contessina, ma voi state diventando sempre più brutta,» oppure: “Contessina, ma quella faccia storta la fate apposta per far paura, o è proprio vostra?” e in quei momenti lo odiavo che lo avrei ucciso, ma la sera, o in tutti i momenti che ero sola, avevo in mente il suo viso, i suoi occhi celesti, il suo corpo snello dai fianchi strettissimi e dalle spalle larghe e lo amavo disperatamente e disperatamente sapevo che mai avrei avuto la felicità di essere amata da lui. Chi poteva amare una come me? Poi Mariolino o'Guappo ebbe quell'incidente d'auto per sfuggire alla polizia, lo tirarono fuori dall'auto in fiamme più morto che vivo, lo salvarono, gli amici lo tennero per un po' in una clinica, poi, siccome non era più utile a niente, così senza un braccio e cieco, “somaro zoppo lascialo morire”, lo mollarono, finì che mia madre per pena se lo prese in casa, se no la polizia lo internava in qualche ospizio, e lui diceva che se lo internavano, si ammazzava, e così anche lui si innamorò di me, anche se sapeva benissimo quanto ero brutta, ma adesso, quando mi stringeva col suo unico braccio, e sembrava fissarmi con le sue orbite vuote, mi chiedeva perdono. “Contessina, perdono, perdono, perdono di tutto quello che ti dicevo, contessina, sei bella dentro, sei tutta bella nel cuore,” e mi chiedeva ancora perdono e mi baciava le mani, «contessina, contessina,” e questa è l'unica grande gioia della mia vita, la mia vera felicità, perché sono davvero una donna felice. Adesso, guardando il bambino che sulla spiaggia scende dall'altalena, sono però un poco in ansia e non vedo l'ora di andare a Milano, perché Mariolino quindici giorni fa, è stato portato in polizia e interrogato per quel siciliano trovato morto al Parco Ravizza con una scarica di Bren, noi non c'entriamo in quella storia, Savoriello ha un altro reparto, però si tratta della storia dì un collega, e tutti noi sappiamo benissimo chi è quello del Bren e chi è quello che lo ha mandato a lavorare al Parco Ravizza. Mariolino è tornato a casa dalla questura tranquillo, ha detto che i poliziotti non sono molto furbi e si è messo a bere il suo bottiglione di Verdicchio, ma io non sono per niente tranquilla, è meglio non avere niente a che fare con la polizia, mai, e non è vero che i poliziotti non siano furbi, a me non piacciono i poliziotti, però lo so che sono intelligenti. Ma adesso è scaduto il tempo, come dicono alla televisione, devo andare al porto da Savoriello. Lascio la terrazza con quell'ultimo, strano sole lunare sul mare e scendo in giardino; appena mi vedono, due fresconcelli in divisa si buttano addosso alla mia modesta Flaminia, mi accompagnano al parcheggio,
me la aprono, s'inchinano, io tiro fuori il mille e loro s'inchinano, mi richiudono la portiera, mi salutano ancora come fossi la regina Elisabetta e con le mance che gli ho dato sono certa che pensano che sono una sua parente. Ci vogliono due minuti di auto, da qui alla piazzetta vicino al porto canale, sono una donna precisa e arrivo nella piazzetta che Savoriello e i suoi due amici stanno arrivando con le loro quattro valigie di pelle scamosciata, due rosa e due bianche che fanno molto frivolezza. Io non scendo di macchina, tutto è studiato e predisposto così. Savoriello salta dentro vicino a me. “Ciao,” mi dice, e “Ciao,” gli dico io, mentre i due amici caricano due valigie nel baule della Flaminia, e le altre due sul portabagagli, legandole accuratamente, ormai sono tante volte che faccio questo lavoro che non ci bado più. «Tieni la rivoltella,” dice Savoriello e mi appoggia sul sedile una specie di cannoncino, le conosco perché ne ho trasportate, oleate, distribuite a decine, agli amici: è una Balder C.M. calibro 9, una specie di piccolo mitra. «Ti ho detto sempre che non porto armi,” gli dico. “Stai a sentire, fata,” mi dice Savoriello e mi fa una carezza sulla guancia e mi tira un poco i capelli che porto lunghi, con la frangetta sulla fronte, perché meno mi si vede il viso e meglio è, “queste valigie scoppiano, sono tutti mitra, tu non puoi farti prendere con questa roba, se no siamo finiti tutti.» “In due anni che faccio questo lavoro non mi sono fatta prendere,” gli dico. “Oggi è diverso,” dice Savoriello, “ci sono blocchi stradali da tutte le parti, specialmente intorno a Milano. Questa roba deve arrivare a Milano, e se intorno a Milano c'è un blocco, tu non devi farti fermare, a nessun costo. Con questa,” e indicò la Balder, “sistemi anche uno squadrone di polizia stradale.” “Non ne ho bisogno,” gli dico. “Non serve sparare. Se c'è il blocco scappo via.” «Senti, racchiona, quelli hanno le moto che vanno a duecento all'ora e ti prendono subito. Io ti ordino di sparare, la roba che hai nelle valigie non deve cadere nelle mani della polizia, anche a costo di fare un cimitero.” Quando Savoriello dice: «Ti ordino,» non c'è nessuno, da Canicattì a Cortina d'Ampezzo che osi dire di no, così anch'io dico: “Sì.” II sole è sceso giù in fondo alla viuzza, vedo il portocanale e il mare, l'ultimo mare, poi cominciano i lunghi mesi di fango a Milano. “Infilala nel reggicalze,” mi dice Savoriello, “è il sistema migliore per sparare stando seduta al volante, me l'ha detto una marocchina.” A Savoriello nessuno può dire di no, ripeto, non si può neppure contrattare, non gli potevo neppure dire: «Metto la rivoltella nel reggiseno invece che nel reggicalze, ti fa niente?” Bisognava metterla nel reggicalze e nel reggicalze io la metto, davanti a lui, perché lui controlli che è stato ubbidito.
“Brava,” dice lui, “vedrai come è comoda.” Ah, una Balder è anche troppo comoda, penso io in questo tramonto così nuvoloso, eppure così luminoso. «Ciao, bellona,» mi dice, controllando che i due amici abbiano sistemato le valigie come si deve, e infatti le hanno sistemate, e allora lui scende di macchina. “Ciao,” gli dico, avvio lentamente la Flaminia, con le due valigie sul tetto dell'auto, una rosa e una bianca, e altre due, una rosa e una bianca, di pelle scamosciata, cariche di piccoli mitra, nel baule, che non so poi perché gliene servano tanti, ma sono affari loro, e con la Balder infilata nel reggicalze, esco da Rimini e prendo il vialone che porta all'autostrada, però alla prima curva un po' solitaria, e in questa fine stagione è facile trovarla, mi fermo. A me le armi non piacciono e, naturalmente, per ironia della vita, sono costretta a lavorare con le armi, le armi uccidono, e le armi che odio di più sono le rivoltelle, si ammazza troppo facilmente, stanno sotto la giacca dell'uomo, nella borsetta della donna o nel reggicalze, come nel mio caso, perciò appena fermata scendo dalla Flaminia, attraverso la banchina non transitabile, come è ovvio, scendo nel prato e mi nascondo dietro un bell'alberone, mi alzo la sottana, mi levo la rivoltella dal reggicalze, levo dal rullo tutti i proiettili calibro 9, con la canna della Balder scavo una piccola buca, ci seppellisco dentro la rivoltella e i proiettili e poi torno sullo stradone e salto sulla Flaminia. Io a Savoriello ho detto di sì, perché nessuno gli può dire di no, ma la rivoltella io non la porto e in macchina non la potevo tenere perché se mi fanno una perquisizione la trovano subito, e se la tengo nel reggicalze, finisco per sparare al poliziotto che mi ferma e non voglio andare dieci anni in galera per la bella faccia di Savoriello. Il viaggio da Rimini a Milano non è un gran bel divertimento, specialmente se uno l'ha fatto tante volte, e specialmente se una è una gatta solitaria come me, poi sull'autostrada, di notte, è quasi lugubre, ma io ho bisogno di soldi, ancora un anno di questo lavoro e posso portare il mio Mariolino in una villa sulla Costa Azzurra e apro anche una boutique, e soldi Savoriello, se dico sempre di sì, me ne da quanti ne voglio, con la protezione delle bische clandestine e dei night ne fa a secchiate. Comunque, presto o tardi, si arriva anche a Milano, nonostante il blocco dei carabinieri un po' prima di Lodi, e quando lo vedo mi spavento un poco e mi preparo a schizzare via a centosessanta, ma il carabiniere col mitra a tracolla e la paletta luminescente in mano mi fa segno di andar via, non vuole neppure guardarmi i documenti, stanno facendo pulizia generale, secondo loro, e cercano macchine equivoche, non una da donna come la mia con su due valigie da donna, e con una donna al volante, perché in fondo sono sempre una donna. Così sono a Milano. Ho pensato a Mariolino quasi per tutto il viaggio,
adesso, fra pochi minuti, avrò qualche cosa di più che il pensarlo: lo avrò davanti e lui mi stringerà col suo unico braccio, ma è così forte che mi fa male, e io ho tanta voglia di questo, che mi faccia male. Sono arrivata: via Turati, apro il cancello perché è molto tardi, ma il custode è ancora alzato e arriva in tempo ad aprirmi la porta del box e a metterci lui la macchina. Il mio compitino è finito, devo solo fare il solito discorsetto al custode, e mentre glielo faccio gli metto il mille in mano: “Per favore, domattina viene il solito ragazzo del garage a portare via la macchina per lavarla.” “Sì, signorina,” lui dice. “Gli apra il box e gli faccia portare via l'auto.” “Sì, signorina,” lui dice, come al solito, “con le valigie?” “Sì, con le valigie, perché riparto subito appena mi hanno lavato la macchina,” dico. E con questo sono a posto: domattina verrà un amico travestito da meccanico e porterà via l'auto con la scusa di portarla in garage, le valigie verranno svuotate e rimesse, vuote, al loro posto, e la macchina ritornerà al box lavatissima e scintillante, e io starò col mio Mariolino fino alla nuova ordinazione. Ancor prima di entrare in ascensore allungo un'occhiata al custode che chiude la porta del box, poi in cabina mi rilasso, perché la tensione è sempre forte in questi viaggi, l'ascensione è lunga perché devo andare sul tetto, dove abbiamo una mansarda, io, Mariolino e mia madre, di notte e di giorno si vede uno spettacolo meraviglioso, io lo descrivo a Mariolino: «Vedi, Mariolino, lì c'è piazza Cavour con tutte le luci, e lì ci sono i giardini pubblici, scuri,» io non avrei mai voluto descrivere queste cose a uno che non vede, ma è stato lui a chiedermelo: «Dimmi bene che cosa si vede, deve essere molto bello.” Ecco, sono arrivata, mia madre avvertita col citofono dal custode, è già sulla porta. È verde. È il colore di faccia che ha quando Savoriello minaccia di picchiarla. Il colore della paura. “Che cosa è successo?” domando, entro e richiudo la porta. A mia madre viene la voce isterica, per la rabbia e per la paura: “Ma non sai ancora niente?” “E che devo sapere?” dico io, e nello stesso istante ho un brivido, perché quando torno a casa da questi viaggetti, Mariolino, appena sente il citofono corre in anticamera a sentire se sono io che arrivo, e invece adesso non c'è, e la casa mi da l'idea di essere vuota, che non ci sia altro che mia madre. E allora comincio a sentirmi scoppiare il respiro, dico tossendo, ansando: “Dov'è Mariolino?” Allora lei non mi risponde, mi guarda soltanto. “Dov'è Mariolino?” dico ancora. Mia madre ha paura di me, lo sa che sono peggio di lei e mi risponde subito:
“Sono venuti a prenderlo.” “Ancora la polizia?” dico io in un'ultima speranza, se l'ha preso la polizia non è niente. Mia madre diventa ancora più verde. “No,” dice, dice che non è la polizia che è venuta a prenderlo, quindi sono stati gli amici, gli amici di Savoriello. “Perché sono venuti a prenderlo?” dico. “Perché lui, quando è stato fermato dalla polizia,” dice mia madre, sedendo sulla cassapanca stile Liberty che è nell'ingresso, “ha raccontato varie cose degli amici, i giornali già parlano di Savoriello, la polizia si è scatenata, sta facendo piazza pulita, è meglio che ce ne andiamo anche noi.” «Non me ne importa della polizia, voglio sapere dov'è Mariolino,» dico a bassa voce, ma ho già i brividi, io sono tubercolosa, le emozioni, me lo ha spiegato il medico, mi fanno anche venire la febbre, e ho le labbra e la lingua secca dal terrore per quello che mia madre sta per dirmi. E me lo dice: “Lo hanno ammazzato, questa mattina, me lo ha telefonato Carpuccio.” Hanno ammazzato Mariolino, penso. È il sistema: chi parla muore. Hanno fatto sempre così. Ho tanto freddo, forse fra poco batterò i denti, sento che la febbre sta crescendo rapidamente. Hanno ammazzato il mio povero Mariolino perché in polizia aveva parlato, ma che poteva fare un povero cieco con un braccio solo davanti a tre o quattro poliziotti che se lo palleggiavano con migliaia di domande una dopo l'altra? E loro me l'hanno ammazzato, non hanno avuto nessuna pietà, non ne hanno mai. Chi parla muore. “Va bene,” dico. Vado nella mia camera da letto, mia madre mi viene dietro, affannata. “Non fare sciocchezze, non far morire anche me,” ansima. «Stai tranquilla,» le dico, e ho un lungo brivido. Apro l'armadio, tiro fuori dal lungo sacco di plastica la morbida pelliccia di visone, me la metto, apro la finestra che da sul terrazzo-giardino, ho un altro brivido ancora più forte, la lingua mi sembra di carta vetrata tanto è secca. “No, no, no,” dice mia madre, “non buttarti giù,” e mi tiene per un braccio. Allora le abbozzo un sorriso, rabbrividendo di febbre, forse avrò trentanove, e le dico: “Non mi sarei messa il visone, se volessi buttarmi giù.” Lei si mette a piangere convulsa e allora le dico: “Vai a dormire e lasciami in pace.” “Sì,” lei dice ubbidiente. È disperata anche lei, per me, anche lei voleva molto bene a Mariolino. Esco sul terrazzo e comincio a battere i denti anche se mi chiudo tutta nel visone. Vado sulla poltrona a dondolo dove mi siedo di solito con Mariolino, il suo posto è alla mia destra, vicino al suo unico braccio, così può abbracciarmi, tirarmi i capelli, farmi il solletico per farmi ridere, mentre mi
dice: «Spiegami che cosa si vede.” E io gli dico: “Che buffo, in piazza Cavour c'è un autobus che ha un guasto e ha bloccato il traffico.” “Appunto, sentivo i clacson e pensavo che c'era un ingorgo,” dice lui. “E poi?” “Qui, nella piazzetta della Montecatini hanno riacceso la fontana e illuminato lo zampillo,” descrivo io. «Ma sai che ho sentito l'elefante che barriva?» mi dice Mariolino, e io mi dondolo sulla poltrona a dondolo nella tiepida, umida notte milanese, chiusa nella pelliccia di visone, batto i denti, devo avere proprio trentanove di febbre, ma rispondo, parlando quasi ad alta voce, come se lui fosse proprio vicino a me: “E io l'altra notte ho sentito il leone, fortuna che ero a letto vicino a te, se no chi sa che paura,” perché per me Mariolino non può morire, sarà sempre come se fosse vivo. Poi mi viene caldo, d'improvviso, questo è segno che la febbre è aumentata e il gelo si trasforma in bruciore, devo essere forse vicino ai quaranta, mi levo la pelliccia di visone, cerco di inumidirmi le labbra, ma sono tutta secca come sabbia sotto il sole di luglio. Ma posso ancora pensare e penso una cosa sola: che Mariolino io lo vendico. La prima cosa che faccio, ardente di febbre, con le gambe che mi tengono appena, è di rientrare in camera e di telefonare in questura, la segreteria telefonica gentilmente mi da il numero, io lo formo e alla voce del centralinista rispondo: «Senti, poliziotto, dammi qualche brigadiere o vicebrigadiere: devo fare una spiata sulla banda Savoriello e su quella di Carpuccio, nome, cognome, indirizzo e se vuoi ti mando anche le foto.” “Non fare scherzi, perché noi non siamo mica fessi,” dice quella voce in siciliano. “Fra un'ora avrete arrestato tutti i Savoriello e i suoi amici, ma sbrigati poliziotto, perché se no posso cambiare idea.” “Stai in linea, ti mando subito il dottor Arracco.” Sto in linea e quasi subito arriva un'altra voce, più vecchia, e napoletana, invece che siciliana. “Pronto,” dice. “Pronto,” dico, “prendi lo stenografo, il registratore, il coso che vuoi, ma stai attento perché la storia sarà lunga e non te la dico due volte.” “Parla,” dice il dottor Arracco, o quello che è. E io allora comincio a parlare. Sono anni che lavoro per Savoriello, ero una bambina e lui che era con mia madre mi dava una busta da portare a un signore vicino all'edicola interna di via Montenapoleone, un signore alto e magrissimo e dentro la busta, l'ho saputo dopo, c'erano cento biglietti da diecimila e quello in cambio mi dava una bustina di leccalecca. E parlo, e a questo dottor Arracco o Assacco o quello che è, perché non ho capito bene,
con tanta febbre non si capisce bene, dico tutto perché so tutto, proprio tutto, nome, indirizzo, quello che hanno fatto, dove li possono trovare, come devono fare a prenderli, anche se uno, il capo, è a Rimini, l'altro a Genova, e gli altri sono sparsi da Palermo a Marsiglia. “Perché non vieni qui?” mi dice il dottor Arracco, “noi ti proteggiamo, perché dopo questa spiata cercheranno di farti fuori.” È anche gentile, questo dottor Arracco. “Non ho bisogno di protezioni,” dico, e chiudo la comunicazione. Con questa telefonata ho sistemato l'uomo che ha fatto ammazzare Mariolino, e tutta la sua banda: dopo la telefonata, questa notte in tutta Italia scatta l'operazione Savoriello. Guardo l'orologio, domattina all'alba, l'ottanta per cento e più degli amici di Savoriello e lui stesso, saranno dentro con robuste manette. Con questa telefonata l'ho rovinato. Ma non mi basta: devo anche umiliarlo. Formo un altro numero di telefono, oggi si fa tutto per telefono. Sento una dolce voce di ragazza del Sud, quella dolce voce, della più bella ragazza di tutta la Sicilia, perché Savoriello si tratta bene, e la sua amica fissa deve essere una miss Universo o niente: “Pronto?” “Ciao, Giulietta,” dico, sto bruciando di febbre, il ricevitore del telefono mi scotta in mano dopo un po' che lo tengo. “Papà mi ha dato un regalino per te, posso portartelo?” perché questa fanciulletta chiama “papà” il suo Savoriello, suo per modo di dire, perché lui ha più donne di quante foglie abbia una margherita. “Oh, cara,” lei dice, perché sa che i regali di papà sono sempre molto sostanziosi, “vieni pure subito, ho tanta voglia di vederti.” Ah, che ridere, aveva voglia di vedere me, non il regalo di «papà”. “Vengo subito, ciao.” “Ti aspetto al portone,” dice Giulietta. Mi rimetto allora la pelliccia anche se brucio di febbre, mia madre dice: “Dove vai, non fare pazzie.” “Stai tranquilla, mamma, non faccio niente.” Scendo a pianterreno, vado al box dove è la Flaminia, scarico le valigie, piene di mitra, benché siano molto pesanti, a me le armi non piacciono, né rivoltelle, né niente che fa pum, non ce n'è bisogno, sono gli uomini che le hanno inventate, e gli uomini non sono un gran che. Apro una valigia, una bianca, la vuoto dei mitra e vi metto dentro un bidoncino di benzina che si trova sempre nel box nel caso che mi accorgessi di essere senza benzina proprio mentre sto per uscire dal box, carico la valigia in auto, poi prendo anche la chiave inglese dallo sportello del cruscotto e me la metto nella trousse d'oro che ho portato con me, perché con la pelliccia di visone ci vuole la trousse d'oro. E parto. Non è un viaggio lungo, Giulietta sta in una vecchia casa di Foro Bonaparte, un appartamento sterminato che Savoriello le ha arredato in
rococò, così che uno, lì dentro, gli sembra di essere dentro una scena di film. Arrivo in pochi minuti, lei è sul portone che aspetta. Scendo dall'auto, lei mi viene incontro e mi abbraccia, ci baciamo sulle guance. “Vieni, vieni,” dice Giulietta. Tiro fuori la valigia bianca con dentro il bidoncino di benzina. “Questo è il regalo del tuo ammiratore.» Ridiamo insieme, insieme entriamo nell'androne, insieme nell'ascensore, io porto la valigia, lei si guarda nello specchio dell'ascensore, è tanto bella, c'è l'abisso, tra lei eme, io sono la bruttezza e lei la bellezza, ma non è per questo che l'ammazzo, è per umiliare Savoriello, perché impari, e soprattutto per vendicare Mariolino. “Cosa c'è nella valigia, tu lo sai?” mi dice in ascensore Giulietta dopo essersi guardata ancora nello specchio. Schiaccio il bottone dell'ascensore e le sorrido. “Sì, lo so, ma non te lo dico,” e mentre l'ascensore si mette in moto lei si curva impaziente per aprire la valigia e vedere che cosa c'è, e intanto che la sta aprendo io prendo la chiave inglese che ho nella borsetta. “Cos'è, uno scherzo?” lei dice, bellissima, appena aperta la valigia vede il bidoncino. “No, non è uno scherzo,” le dico. L'ascensore si è fermato, la porticina si è aperta. Il colpo della chiave inglese glielo do in piena fronte, tra occhio e occhio e lei non fa neppure eh, e si affloscia, delle macchioline di sangue tra occhio e occhio. Ho avuto il tempo di pensare a tante cose, sulla terrazza della mia mansarda, e ho pensato anche le cose che sto facendo. Le strappo subito di mano le chiavi del portone, poi sturo il bidoncino e la infradicio di benzina, sono otto litri, lei è accartocciata sul pavimento della cabina dell'ascensore, e sta rinvenendo sotto quella doccia a 80 ottani. Io sono fuori della cabina e la osservo mentre mi accendo una sigaretta, la vedo aprire gli occhi, alzare un braccio, faticosamente, i suoi bellissimi capelli neri fradici di benzina che le si incollano sul viso, e nello stesso istante getto la sigaretta accesa dentro la cabina dell'ascensore, e scappo un po' indietro, ma ho il tempo di vederla accartocciarsi, proprio come la carta quando si brucia, in un tentativo di urlo che non viene fuori, e dico, con dolcezza: “Guardala, Mariolino,” come se lui fosse accanto a me, perché per me Mariolino non morirà mai. “Guardala, è la femmina dell'uomo che ti ha fatto ammazzare.” Mi sembra che lui mi sorrida, coi suoi occhi vuoti, certo avrei potuto ucciderla con le rivoltelle, i mitra, le bombe al napalm, ma a me le armi non piacciono. “Guardala, Mariolino, come brucia bene,” poi scappo, ho la chiave del portone, lo apro, salto sulla Flaminia. Ho rovinato e umiliato il grande Savoriello, ho vendicato Mariolino.
L'indomani leggo sul giornale due notizie, la prima che la polizia ha fatto una brillante operazione, la banda di gangster di Savoriello è stata presa quasi al completo, compreso Carpuccio, e sono sfuggiti solo piccoli pesci. L'altra è quella, data a tutta pagina, della donna trovata bruciata, carbonizzata, nella cabina di un ascensore di una delle più eleganti case di Foro Bonaparte. Sorrido, e ho anche un brivido, perché anche la febbre continua. Ormai, senza Mariolino, forse l'avrò sempre. Certo scopriranno presto chi è stato a bruciare la ragazza nell'ascensore, ma che me ne importa?, non ho più niente, ora che non ho Mariolino.
10 Non si vive di solo poker
Non occorre saper giocare a poker per capire quello che mi è successo, e mi è successo qualche cosa di grave. Però devo spiegare una cosa, non mi piace il poker, lo faccio perché è un lavoro, come se andassi in ufficio. E anche un'altra cosa: sono passati i tempi in cui le bische clandestine erano negli appartamenti signorili, e quelli che avevano la passione del gioco andavano lì una volta, due, dieci, finché a un certo punto perdevano troppo, sospettavano di essere derubati e facevano la spiata alla polizia: “Andate nel tale appartamento, nella via tale, e troverete qualche cosa di interessante”, e trovavano infatti una decina di fresconcelli, dai quaranta ai sessanta anni, che si lasciavano ripulire ai giochi più svariati. Era un sistema troppo pericoloso, io e il mio amico Ettore nel nostro piccolo ne abbiamo ideato un altro, quello dell'albergo. Ettore mi trova quelli che hanno voglia di giocare un bel poker, due o tre persone piene di soldi, e Ettore me ne trova sempre, e io le invito nella sala da pranzo di un grande albergo: ho giocato nei migliori alberghi di Milano, Genova, Bologna, Firenze, perfino Venezia, perché anche se a Venezia c'è il Casinò, è differente giocare un poker come quello che giochiamo noi. Dopo la cena offerta da me, e nella quale ho avuto modo di studiare i miei amici appassionati di poker, li invito su nella mia camera-appartamento a bere qualche cosa e a fare quattro chiacchiere. Andiamo di sopra, accompagnati anche da una ragazza, Mirella, che chiamiamo la ragioniera, perché è lei che fa i conti, e sono difficili da fare. Nell'appartamento che da su qualche bellissima piazza milanese, o su qualche viuzza fiorentina, stretta ma storica, il cameriere porta una carrellata di liquori, di champagne, e quando è andato via, ci sediamo sulle belle sedie imbottite, intorno a un bel tavolo in stile, rotondo o quadrato, e ci mettiamo a bere, serviti da Mirella che poi discretamente scompare. Ettore a un certo punto dice ai due amici pieni di soldi che ha pescato nei caffè o nei locali notturni: “Adesso basta con le conversazioni mondane, facciamoci la partitina.” Io faccio un po' lo snob e un po' il moderatore e dico: «Sapete, se non avete voglia, scoliamoci ancora un po' di roba e poi andiamo a dormire.” “Come non ne ho voglia?” dice uno dei due, il più ingenuo. “Sono venuto apposta per questo.” “E io ho portato due mazzi di carte nuove,” dice il più anziano, che è diffidente, ma è stato Ettore stesso a consigliargli di comprare lui le carte, così
non avrebbe avuto dubbi. “Oh, per me sono contentissimo, a me piace il poker,” dico, e spiego le regole: “Giochiamo a poker liscio, non a telesina.” “Ma sì, lo so,” dice il giovane, innervosito. “II rilancio è libero,” continuo io fingendo di non aver sentito e fissando l'anziano. “Assolutamente libero, finché uno ha soldi può rilanciare per tutti i soldi che ha, ma non può rilanciare una lira più di quello che ha, insomma non si fa credito.” “Ah, lo immaginavo,” dice ironico l'anziano, era divenuto euforico, ma sempre diffidente, dopo il buon pranzo e dopo i liquori, e da una manata a Mirella, sui piacevoli fianchi di Mirella. “Quando ho finito la partita, devo dirle due parole,” le dice. “Volentieri, signore,” lei dice. Tutti sorridiamo e io continuo: «Come vi avrà spiegato il mio amico, noi non usiamo fiches: usiamo soldini veri, soltanto col valore cambiato: il cinque lire, vale cinquemila lire, il dieci lire vale diecimila lire, il venti, ventimila, il cinquanta, cinquantamila, il cento, centomila, e il cinquecento d'argento, mezzo milione.” «Sì, sì, lo sappiamo,” dice il giovane nervoso. «Scusate se sono noioso,” dico io, “ma a poker bisogna essere chiari. Adesso, dunque, potete richiedere le fiches a questa bella ragazza che fa da segretaria, cassiera e ragioniera. Vieni Mirella, con la tua borsa.” II giovane è impaziente di giocare e io ne ho un pò1 pena, tira fuori dalla tasca un po' di biglietti di vario taglio, perfino da mille, ma il totale è mezzo milione netto. Si capisce che se lo perde rimane senza neppure la lira del tram. Mirella si prende il mezzo milione che mette nell'ampia borsa e glielo cambia in monetine. Così tradotto il mezzo milione diventa: 8 monetine da cinque lire, 6 monetine da dieci lire, 5 monetine da venti, 4 monetine da cinquanta, e 1 da cento. Non c'è molto da giocare, dato che la puntata più piccola è di cinquemila lire. Siccome Ettore e io siamo psicologi, Ettore fa finta anche lui di essere poveretto e tira fuori anche lui solo mezzo milione, lo da a Mirella che glielo cambia nelle solite monetine, poi Mirella si avvicina all'anziano, fiancheggiando, ma quello ormai non pensa che al gioco, sta riflettendo, e da vecchio orso astuto tenta il colpo: ”Di liquido non ne ho molto, non credo più di trecentoquattrocentomila, ma potreste accettare un assegno.” “Dottore,” dico io, “io da lei accetterei anche un biglietto di notes con su uno sgorbio qualunque, ma lei lo sa come è il poker.» “Sì, lo so,” dice freddo l'anziano, comprendendo di non aver a che fare con dei bambini. «Per il momento prendo solo trecentomila lire, tutto quello che ho,» dice facendo un sorrisino.
“Come me, anch'io non ho più di trecentomila,” dico. Mi faccio dare da Mirella le monetine e lei ha invece nella borsa un milione e seicentomila: i bei biglietti. Poi continuo: “Per quanto lo sappiate, devo dirlo ancora: usiamo le monetine invece delle fiches, perché nel caso, quasi assolutamente improbabile, di una sorpresa della polizia, non trovano qui che quattro tranquille persone che giocano a bridge, ho detto bridge, non poker, con delle puntate ridicole.” “Io direi che si potrebbe cominciare,” dice nervoso il giovane. “Anch'io,” dice Ettore, “su, Mirella, dacci qualche cosa da bere.” E la partita comincia. Noi non siamo bari, né Ettore, né io, e del resto al poker non c'è bisogno di barare, è tutto un baramento: il bluff, il rilancio al buio, scartare due carte quando si dovrebbe scartarle tutte e cinque. Noi sappiamo giocare a poker e siamo uniti: semplicemente questo, non c'è bisogno di barare. E abbiamo una tattica nostra. Noi aggrediamo subito i nostri avversari, non è che al principio li lasciamo vincere per ingolosirli, e poi li peliamo. Queste sono cose che vanno bene per il gioco delle tre tavolette, non per il poker. A poker bisogna far tremare gli avversari, bisogna spaventarli al punto che battano i denti, così loro cominciano a giocare in difesa, e giocare in difesa non va bene neppure nel gioco del calcio, figuriamoci se va bene a poker, un giocatore di poker in difesa è come un cane a cuccia che aspetta un calcio. E noi glielo diamo. Comincia il giovane nervoso che mette quattro monetine da cinque lire, cioè ventimila sul tavolo e dice sommesso ma spavaldo: “Venti per giocare.” “Quattro volte,” dico, metto un cento lire e ritiro quattro cinque lire. “Altre quattro,” dice Ettore, questo significa che deve mettere nel piatto centosessantamila lire, e non abbiamo ancora cominciato. Infatti mette un cento lire, un cinquanta lire e un dieci lire. L'anziano, grassoccio, sta a capo basso, le carte coperte sul tavolo, le ha viste, appena gliele hanno date e poi le ha posate lì. Riflette, non è uno stupido, sente odore di botte da orbi e dice: “Passo.” Il giovane nervoso comincia ad avere una piccola smorfia alle labbra, sente odore di legnate anche lui, ma è troppo stupido per ritirarsi e in silenzio mette le centoquarantamila lire in monetine sul tavolo, molto in silenzio, e l'anziano comincia a distribuire le carte.. “Servito,” dice il giovane. Non ci credo che sia servito, o fa uno stupido bluff, o ai massimo ha un tris e ci vuoi far credere che ha una scala o un full. Ma vai a fare la nanna, penso. “Una carta,” chiedo al mazziere. Fingo di spillarla piano piano, ma c'è poco da spillare, qualunque carta mi venisse combino al massimo una coppia. Ma questo è il bello: fate questo ragionamento, io non ho niente, il vecchio che è passato non ha niente, il giovane deve aver poco, quindi quello che deve avere di più deve essere Ettore.
“Cip,” dice il giovane buttando il cinque lire nel piatto, mostrando così che sta morendo di paura verde, ma vuoi farsi credere un furbo. Butto anch'io il cinque lire nel piatto accettando il cip, ma Ettore mi blocca: “Duecentomila per giocare,” dice, e non «duecento”, perché il fresconcello non abbia dubbi che si tratta di duecento biglietti da mille, non di monete da cento. Il tic all'angolo della bocca scompare, ma il viso così ferreo, senza più quel tic, fa ancora più impressione. Per quanto ingenuo il coso capisce che, se accetta di vedere, ci può rimettere anche le duecento e dopo gli rimane ben poco per giocare. Allora mette le carte sul tavolo, coperte, si accende una sigaretta, dice: “Passo,” anche la voce sembra sudata, in un minuto e mezzo ha perso centosessantamila lire, quasi mille lire al minuto secondo: una bella velocità. Così abbiamo creato in tutti e due i nostri amici il regno del terrore, da quel momento in poi quello si mette a giocare a catenaccio, vuoi dire che perde dalle cinque alle trentamila lire per mano, in meno di un'oretta lo abbiamo sgonfiato. II vecchio è un po' più duro, ogni tanto da una zampata, ma siamo noi che gliela lasciamo dare, perché saremmo stupidi a vincere sempre: ogni tanto sono io che faccio la vittima, e ogni tanto è Ettore, quella sera sono io» e rimango con poco più di centomila, poi perdo anche quelle e mi alzo col viso scuro. «Salute a voi, vado a parlare con la nostra Mirella, ho anch'io due parole da dirle,” e vado a fumare una sigaretta insieme con Mirella. Rimangono in tre a giocare, e il poker in tre, più che un gioco, è come prendersi a calci in faccia. Guardo l'orologio: sono appena le undici passate, sono sicuro che Ettore sistemerà i nostri due amici entro l'una, perché noi non giochiamo mica come nei film per due o tre giorni di seguito, noi alle due, al massimo alle tre, vogliamo andare a dormire. Sbaglio di cinque minuti: all'una meno cinque Ettore entra nella camera dove sto fumando e chiacchierando con Mirella e il risultato è questo: il giovane ha perso quattrocentocinquantamila lire, l'anziano duecentomila, io tutto, in apparenza, e Ettore ha vinto il resto. Non è stata una grande serata, ma insomma ci accontentiamo, gli amici se ne vanno, abbastanza contenti di non essere stati ridotti a nudo, e al mattino dopo ce ne andiamo anche noi in un'altra città, in un altro albergo. Ettore va in giro a cercare le persone adatte, conosce tutta Italia, le trova sempre, certe volte Ettore e io facciamo finta di non conoscerci, di incontrarci per la prima volta al bar e ci diamo del lei e la sera si fa un'altra partita come questa, una volta abbiamo fatto perfino sei milioni, la media è sul paio di milioni, però una sera abbiamo incassato solo centoventimila lire e ci siamo messi a ridere, perché non pagavamo neppure il conto dell'albergo e le spese. La nostra non è una bisca, è una «partitina», non guadagneremo miliardi,
ma ce la passiamo bene, ma soprattutto siamo al sicuro: sono tre anni che facciamo questo giochetto, e tutto è andato sempre bene, perfino con una vecchia che abbiamo pelata anche dei braccialetti e dell'orologio d'oro, e che si era messa a gridare che andava in polizia e ci denunciava; le abbiamo detto che ci andasse pure, tanto sapevamo che non ci sarebbe andata perché se no il marito chi sa le botte che le dava. Una sera, però... Uno dei due amici che Ettore aveva pescato quella sera aveva un'aria effeminata piuttosto forte. A me non piace questa gente, ma cambiò da Mirella quattro milioni in monetine e quel mucchio fece una certa impressione anche a me. L'altro amico, pure, non scherzava, e si fece cambiare due milioni. Tra me ed Ettore avevamo in tutto quasi due milioni e li cambiammo anche noi, ma Mirella dovette scendere e andare dal tabaccaio vicino a farsi dare delle monetine perché le sue le aveva finite. Quando gli amici che invitiamo a fare una partitina hanno molti soldi, come nel caso di quella sera, noi che ne abbiamo di meno, ci divertiamo ancora di più. Infatti facciamo così: coi nostri pochi soldi noi non c'impegniamo: al massimo mettiamo ogni tanto cinquantamila lire, per non destare sospetti, così i due danarosi si scannano tra di loro. Dalli e dalli uno dei due che aveva per esempio due milioni scende a meno di uno, allora io ed Ettore saltiamo addosso a questo impoverito e lo mettiamo a nudo, come una spogliarellista. Dopo, così riforniti di soldi, diamo addosso a quell'altro, e alla fine sgonfiamo anche quello, mai di tutto, ma abbastanza. “Cominciamo,” disse Ettore, faceva il giocatore impaziente, di solito, io invece ero di solito il placido, ma un po' tonto. Cominciamo: erano le undici e mezzo e avevo ancora sullo stomaco la scivolosa trota dell'albergo, chi sa dove l'avevano pescata, alla fontana dei giardini pubblici, forse. All'una e mezzo avevamo eliminato l'amico dell'effeminato che andò a guardare le stelle dalla finestra: aveva perso due milioni netti, uno e mezzo era venuto a me e mezzo solo a Ettore, ma Ettore aveva quasi un altro milione dell'effeminato e quindi adesso le posizioni economiche di noi tre erano più equilibrate: avevamo quasi tre milioni per ciascuno. Saltammo allora addosso al signorino, lui giocava abbastanza bene, a parte il fatto di quella “r” , quando diceva “Tre volte”, “Quattro volte” che mi dava poi il nervoso. Come ho detto, il poker in tre è peggio di una lotta tra bisonti, ci si danno sberle che rompono la faccia, ne presi una anch'io che non me l'aspettavo e dovetti dare al signorino settecentomila lire in monetine. Giocava bene, l'ho detto, ma noi giocavamo meglio di lui. Alle tre meno dieci, non avevamo mai fatto così tardi e Mirella russava nella stanza vicina, il delicato signorino era rimasto con sole duecentomila
lire. Era materialmente impossibile che potesse rifarsi con una somma così piccola, e lui si alzò, un po' pallidino, ma sorridendo falso come fanno quei tipi. “Grazie del repulisti,” disse con la erre del “repulisti” che mi rotolò nella testa per qualche secondo. D'improvviso il signorino cambiò faccia, la faccia gli si indurì, tirò fuori dalla tasca della giacca un tesserino e parlò senza la “r”: “Polizia, siete in arresto tutti e quattro, mettetevi col viso al muro e fate i bravi: fuori della porta ho tre colleghi, e tutte le uscite sono sorvegliate.” Al momento sentii molto freddo, molta paura, poi fissando il tesserino che mi mostrava vidi che lo teneva molto chiuso in mano, è vero che i poliziotti non fanno vedere molto bene le loro tessere, ma quello esagerava, ebbi la sensazione che “non” volesse farlo vedere. “Per favore, brigadiere, mi faccia vedere meglio la tessera,” dissi mellifluo. “Vi faccio vedere questa, se non filate subito col viso al muro come vi ho detto,” si capiva che non era un signorino, ma aveva recitato la sua parte perfettamente. Di fronte a una rivoltella è difficile fare pacate conversazioni, ma guardai la rivoltella e non mi piacque, non che io conosca esattamente che rivoltella hanno in dotazione i poliziotti, ma quella non mi sembrò una rivoltella da poliziotto. “Sì,” dissi, e feci l'atto di muovermi, per mettermi col viso al muro, e anche Ettore, che fa tutto quello che faccio io, fece Tatto di voltarsi, ma solo l'accenno, e allora il coso, soddisfatto, si volse un attimo verso Mirella: “Dammi la borsa, e mettiti anche tu al muro,” le disse. Voler togliere a una giovane e pratica donna come Mirella una borsa contenente oltre otto milioni è una pretesa un po' forte. Anche Mirella lo guardò, e guardò la rivoltella che quello teneva in mano, e la di lui espressione, che non era più quella del signorino con la “r” fasulla, ma quella poco consolante di un vero farabutto, e fece una cosa. No, non gli saltò addosso, non sparò, perché non aveva armi, né avrebbe saputo usarle, non gli dette forbiciate in gola perché non aveva forbici. Fece la cosa più semplice e più utile del mondo: era vicina all'interruttore del lampadario che illuminava il tavolo da gioco e lo schiacciò. Non venne il buio completo perché dalla vicina stanza da letto filtrava la luce di un paralume, ma per un attimo fu come se fosse completo, e in quell'attimo io saltai addosso al poliziotto. Sapevo che potevo prendermi una palla in corpo e sapevo che nella migliore delle ipotesi, anche se non mi avesse colpito, lo sparo avrebbe fatto accorrere i suoi colleghi che erano dietro la porta, ma in quei momenti non si fanno conti, volevo soltanto non farmi prendere come uno stupido e gli strinsi il collo disperatamente, mentre anche
Ettore mi dava una mano, cercando di disarmarlo. Quando sentii che non si muoveva più dissi a Mirella: “Accendi,” lei accese e io pensai come mai quello non aveva subito sparato, appena era venuto buio, e finii di alzarmi, ansando. “Ma è morto,” disse Ettore. Lo vidi subito anch'io, dal viso, lo avrebbe capito chiunque, anche chi non avesse mai visto un morto. Era morto e aveva la rivoltella ancora in mano, Ettore non era riuscito a levargliela, neppure un istante prima che quello morisse, ma lui non aveva sparato. Mi curvai a prendere la rivoltella e la osservai: non ebbi neppure la voglia di sorridere, era una rivoltella giocattolo, piatta, una vaga imitazione di una Browning. Comunque l'aprii, e nel caricatore, come prevedibile, non c'erano neppure i proiettilini che fanno pum. Ci guardammo tutti e tre come stupidi. “Ma da dove viene, questo qui?” disse Ettore. E io pensai: da dove veniva? “Ma che voleva,” disse Mirella, che è romana, “aveva quattro milioni, perché è venuto a cercare rogna da noi?” Un megalomane, pensai. “È venuto qui per vincere, aveva più soldi di noi e sapeva giocare bene a poker. O vinceva, o se perdeva aveva pensato di farsi passare per poliziotto e portarci via tutto.” Ma sono una persona curiosa, volevo sapere da dove veniva davvero. Gli frugai nelle tasche della giacca e trovai subito il tesserino rossiccio che ci aveva mostrato dicendo: «Polizia”. Era un bel tesserino, c'era la fotografia del defunto, nome, cognome, paternità, stato civile, era scapolo, ed era rilasciato dalÌ'ANFI, Associazione Nazionale Filodrammatica Italiana. Adesso capivo, era un attore, per, questo aveva potuto fare tanto bene la parte del signorino disgustoso e poi quella del poliziotto duro. Oltre che guitto, doveva essere anche giocatore fino al midollo, forse i quattro milioni che aveva doveva averli fregati a qualcuno, ed era venuto a giocarseli proprio da noi. “Ma tu dove l'hai pescato?” domandai a Ettore. “Giro un po' anche per i bar di seconda tacca. Questo l'ho trovato in quel bar in piazza. Cesare Beccarla, chi sa perché mi ha fatto pensare che era uno che giocava, e l'ho abbordato, ho cominciato a parlargli dell'Inter...” Sì, sì, bene, Ettore era bravo, cominciava a parlare di calcio, dal calcio si passava all'ippica, alle scommesse a San Siro, e finiva sempre col dire: “Però meglio del poker non c'è niente.” Sì, sì, ma d'un tratto sussultai. “E l'altro dove è andato?” gridai. Intendevo il quarto giocatore, quello piccolino che Ettore aveva pescato da un'altra parte, aveva detto di essere medico e mi aveva avvertito che dovevo essere un po' malato di cuore e che sarebbe stato meglio che mi facessi visitare, e che poi le emozioni del poker non mi si addicevano.
“No, non è scappato,” disse Mirella, “si è sentito male appena ho spento la luce e si è nascosto in camera da letto.» Entrai in camera, era seduto sul letto e mi guardò smorto. «Lo avete ammazzato?” mi disse. Accennai di sì. “Sono rovinato,” cominciò a torcersi dal mal di stomaco e dalla disperazione, “vent'anni di professione, ho anche una clinica, e mi ritrovano qui in mezzo a degli assassini.” “Stai zitto, imbecille.» Io non sono un assassino, facevo l'idraulico, figurarsi, prima che m'insegnassero il vizio del gioco. Tornai nella saletta e mi feci dare da bere, bevemmo tutti e tre, seduti sulle seggioline imbottite e avevamo in mezzo, in terra, l'attore, il falso signorino e falso poliziotto, che non era molto bello da vedere, ma in mezzo a noi, invisibile, c'era qualche cosa di assai più angoscioso: il problema di come salvarsi. Andarsene via, così alla buona, era impossibile. Per avere una stanza in un albergo bisogna dare i propri documenti e io e Mirella, come sempre, li avevamo dati anche in quell'albergo, Ettore no, perché lui veniva dopo coi due amici a giocare e faceva la parte del mio ospite di passaggio. Appena avessero scoperto il cadavere nella stanza, me o Mirella ci avrebbero presi subito, perché noi abbiamo documenti regolari, non sappiamo neppure da che parte voltarci se li volessimo falsi. “Che facciamo?” dice Ettore. “Ci sto pensando,” dico, con voce sicura, ma quello che mi angoscia di più è che loro sono tranquilli perché hanno fiducia in me. Loro sono sicuri che io li tiro fuori da questa trappola. Ma io non sono tanto sicuro come loro. Che cosa posso fare? Un fatto è certo: bisogna nascondere il cadavere, se lo trovano in questa stanza, riescono a ricostruire chi è, e a prenderci. Ma un altro fatto è certo: che devono trovare il cadavere il più tardi possibile, quando per l'albergo saranno passati tanti clienti da non ricordarsi più di noi. Se lo trovano domattina riescono a stabilire qualche legame con noi, ma se lo trovano fra una settimana, dopo che molti altri clienti sono passati per l'albergo, sarà impossibile. Quindi il problema è: nasconderlo, ma almeno per una settimana. Meglio se di più. È un problema insolubile. Mi alzo e vado in bagno: sto bruciando, apro il rubinetto dell'acqua fredda e metto il viso sotto il getto, chi sa perché, ogni volta che mi lavo, mi ricordo di quando facevo l'idraulico, non ero felice neppure allora, non lo sono neppure adesso, ma pazienza. E poi d'un tratto, mentre mi asciugo il viso, mi manca il respiro: forse ho trovato. Torno in salotto: “Fammi vedere la tua borsa,” dico a Mirella. L'apro, è gonfia di milioni ma non li guardo neppure, cerco in fondo alla grossa sacca un'altra cosa e la trovo. È l'astuccio manicure, prendo la grossa lima per le
unghie, quella d'acciaio, si capisce, prendo per precauzione anche lo scalzapellicole, che è abbastanza robusto, e anche la pinzetta a scatto. “Voi state qui, torno subito.” Come idraulico ho lavorato per degli alberghi, quindi so molte cose sul funzionamento delle tubature dell'acqua, degli scarichi. Immaginate il numero di lavabi e di bagni che vi sono in un albergo di un centinaio di camere, con tutti i problemi che ne nascono. Gli ingorghi dei lavabi o dei bagni nelle stanze singole si rimediano subito, nella stessa stanza, ma a volte, anche se raramente, capitano anche degli ingorghi di tutto il piano, oppure una tubatura centrale si è intasata, e bisogna rimediare subito. Per questo, a ogni piano, c'è quella che gli idraulici chiamano “cassetta” . La cassetta è un buco nel muro, lungo due metri, profondo mezzo e alto pure mezzo, dove passano tutte le tubature riguardanti i servizi del piano, e permettono all'operaio di riparare i guasti anche più gravi. Uscii dalla stanza e andai a colpo sicuro perché dalla posizione del bagno nella mia camera avevo già intuito dove era la cassetta. Nel corridoio non c'era nessuno, a quell'ora, le luci erano quelle notturne, andai fino in fondo, voltai a destra, in una piccola rientranza dove c'era l'ascensore di servizio e, come previsto, la “cassetta” era lì. La cassetta è coperta da una lastra di ferro a tenuta stagna, per evitare che nel corridoio si diffondano cattivi odori, avvitata con una mezza dozzina di viti, o anche più. M'inginocchiai e cominciai a svitare le viti, nel silenzio assoluto. Non fu facile. Queste cassette vengono aperte solo in casi eccezionali, tre o quattro volte all'anno, o per una revisione, quindi le viti resistono, ci misi più di quello che pensavo, quasi venti minuti, ma ci riuscii. Misi da parte accuratamente le otto viti, staccai la lastra di ferro bordata all'interno di gomma, lasciai tutto lì e tornai subito nella mia camera. “Ci hai fatto venire la bava verde, dove sei stato tutto questo tempo?” disse Ettore. Avevano tutti e due il viso stravolto davvero. Mi misi un dito sulla bocca, andai nella camera, il medico, sempre seduto sul letto, fumava una sigaretta e mi guardò verde di paura anche lui. “Senta, dottore,” dissi, e gli andai vicino, “forse i suoi venti anni di professione sono in salvo. Io la lascio andar via, lei esce subito da questo albergo e va a casa, o dove vuole. Ma non dica niente a nessuno di quello che visto, del morto, di essere stato qui. Non lo dica, perché se no, è vero che io vado in galera, ma lei ci viene con me, perché rivelo subito alla polizia che lei era qui con noi e che anzi mi ha aiutato ad ammazzare il nostro compagno di gioco.” “E perché dovrei andarlo a dire?» lui disse riprendendo colore alla speranza di andarsene. “Non si sa mai,” dissi, “mi dia un suo documento, e fili.”
“Perché un documento?” disse. “Così, per dimostrare alla polizia che lei era qui, con noi, se volesse denunciarci.” Non gli andava, ma mi dette il tesserino dell'Ordine dei Medici. “ Via, “lo accompagnai alla porta. Mi ero liberato di un terzo incomodo, ed ero sicuro che non avrebbe parlato, non ne avrebbe avuto alcuna convenienza. Tornai in salotto, guardai Mirella ed Ettore, cominciavano a perdere sicurezza anche loro, poi la presenza di quell'uomo dal viso violaceo in terra non era allietante. “Forse siamo salvi,” dissi, “ho trovato un modo di nasconderlo che lo scopriranno sì e no fra un paio di mesi, o più. No, ve lo spiego domattina, adesso non possiamo perdere tempo,” mi accesi una sigaretta per farmi coraggio a quello che dovevo fare. “Io devo portare quest'uomo in fondo al corridoio, a destra, dove ci sono gli ascensori di servizio. E subito, voi adesso uscite sul corridoio, a quest'ora dovrebbe essere libero, ma se c'è qualcuno mettete dentro una mano e io aspetto. Appena sono uscito e mi avete visto arrivare in fondo al corridoio, andate subito per i fatti vostri. Ci vediamo domattina alle nove al bar di Nicola. Me ne andrei volentieri anch'io, finito il lavoro, ma è meglio che rimanga qui, sarebbe pericoloso chiedere il conto a quest'ora.” “Ma che lavoro è?” disse Ettore. «Andate, andate,» schiacciai la sigaretta nel posacenere stracolmo, afferrai il poveretto in terra alle ascelle, lo strinsi con un braccio solo e lo trascinai verso la porta, senza sollevarlo. Non era per niente pesante. “Guardate se il corridoio è libero.” Mirella ed Ettore uscirono per primi, io restai un istante dietro la porta, dall'altra parte della porta mi venne il soffio della calda voce di Mirella: “Non c'è nessuno.” «Ricordatevi,» dissi un attimo prima di uscire, «appena io sono in fondo al corridoio, correte via, potrebbero scoprirmi mentre lavoro, e voi è meglio che siate lontani.” Schizzo fuori per quanto me lo permette il fardello, lo trascino senza fare rumore sulla morbida moquette del corridoio, quasi correndo, credo che in quattro secondi sono al riparo nella rientranza davanti agli ascensori di servizio. Non che sia un lavoro lungo. Teoricamente no, il cunicolo con quel groviglio di tubi è abbastanza largo per permettere all'idraulico di raggiungere tutte le tubazioni, ma per quanto largo sia, non è fatto per ospitare un uomo. Ero già sudato fradicio, ma questo era appena il principio. Adesso dovevo rimettere il pannello stagno, e quelle viti maledette mi avrebbero fatto sudare ancora di più, e dovevo rimetterle bene, a tenuta stagna come erano prima, se no dopo qualche giorno cominciavano a filtrare degli odori, ed era finita.
Riuscii a metterne tre quando, alle mie spalle, sentii lo scatto di uno degli ascensori di servizio. Mi morsi la lingua, per non gridare. Forse il cameriere che arrivava non era stato chiamato proprio al mio piano, ma non potevo rischiare: il pannello era mezzo su e mezzo giù, lo avrebbe visto, se io fuggivo in camera mia e lo lasciavo lì. Con tutta la mia forza mi puntai contro la portina di ferro dell'ascensore: il cameriere avrebbe tentato di uscire e non riuscendovi avrebbe pensato a un guasto e sarebbe ridisceso. Avevo le vertigini, sentivo l'ascensore arrivare lentamente, ecco era lì, al mio piano, spinsi contro la portina con ancora più forza, poi quasi svenivo: l'ascensore continuava la sua corsa, andava a un altro piano. Ripresi il lavoro delle viti, alla quinta vite cominciarono a sanguinarmi le mani perché una lima per le unghie non è lo strumento adatto per questi lavori. E la lima mi si spezzò due volte, ma io lavorai coi monconi e arrivai dopo trentacinque minuti all'ottava e ultima vite, perfettamente avvitate tutte. Qua e là il pannello della cassetta era macchiato dal sangue che mi usciva dalle dita, ma con un po' di saliva e un fazzoletto pulii tutto perfettamente. Era fatta. Se andava bene, stava lì mesi e mesi, ma era sufficiente anche un paio di settimane. Tornai nella mia camera, chiusi la porta, mi sedetti, mi versai da bere, accesi una sigaretta e continuai a bere e a fumare per un quarto d'ora. Poi feci un bagno, e cominciai a metter in ordine la camera e il salotto, in modo da non lasciare tracce, svuotai il posacenere, lasciando però alcuni mozziconi, ricontrollai due o tre volte di non lasciar tracce, poi mi distesi sul letto, vestito, non pensavo neppure a dormire. Furono molto lunghe le ore fino al mattino, ma finirono. Alle otto chiesi la prima colazione, quando me la portarono mi misi in bagno a radermi, così il cameriere sentì il ronzio del rasoio elettrico e io dissi dalla porta aperta: “Grazie.» Finito di radermi, per telefono chiesi il conto, intanto che me lo preparavano, sbriciolai un panino sul tavolo e sul vassoio, buttai latte, caffè, marmellata, burro nel water, non mi andava niente, ma dovevo dare l'impressione di un normale cliente di buon appetito. Volevo solo una grappa. Scesi con la mia valigetta, pagai il conto, e intanto mi feci chiamare un tassi. Col tassi mi feci portare ai giardini. Vicino ai giardini c'era un altro posteggio, presi un altro tassi e mi feci portare al bar di Nicola. Erano le nove e un quarto ed ero in salvo. “Una grappa doppia,” dissi al magro e piccolo Nicola. Eravamo solo io e lui, nel grande bar dove fino a mezzogiorno non viene quasi nessuno, ed era una solare mattina di primavera. Aspettai fino alle undici, ero un po' intontito, ma capivo lo stesso, anche se avevo bevuto due grappe doppie, tré caffè e un pernod per pulirmi la bocca. “Non è possibile,” pensai, ma andai a telefonare a casa di Mirella, mi rispose la madre: “No, Mirella non l'ho vista, non era con te? È successo
qualche cosa?” “No, stia tranquilla.” Riattaccai e telefonai a Ettore. Mi rispose sua sorella: “No, stanotte non l'ho visto.” Riattaccai. “Non era possibile,” pensai, continuai a pensarlo fino alle sei di sera, quando capii che era la verità: se ne erano andati, coi soldi, ero rimasto senza una lira e senza la ragazza, io a Mirella volevo bene. Li avevo salvati, e loro mi avevano ringraziato così. “Grazie, Mirella,” pensai, “grazie, Ettore,” non avevo né rabbia, né odio, volevo bene a tutti e due, perché non si vive di solo poker, e mi piaceva stare con loro. “Nicola, buttami nella pattumiera,” dissi. Mi addormentai quasi in piedi, trascinato da Nicola nel retro, dove aveva un divano, e sentivo Nicola che mi diceva: “Ma perché piangi?” ma ero troppo ubriaco per rispondere.
11 Piccolo Hotel per sadici
Guardò dalla finestra. La finestra dava su uno degli smisurati viali della circonvallazione milanese. Era piccolo, ma corpulento e con tanti capelli, tutti grigi, qua e là con strisce nettamente bianche, un viso quadrato, pallido, pallidissimo. Vide il vialone alberato lucido di pioggia, le piccole lune rosse, gialle, verdi dei quattro semafori. Vide una ragazza con un impermeabile celeste attraversare la strada, sembrava volergli venire incontro, sembrava guardare lui, fissò le labbra della ragazza molto in rilievo, di un rosso corallo quasi fluorescente e smise di fissarle solo quando la ragazza scomparve dietro un colossale autotreno di una società di trasporti e dopo non la vide più. Allora guardò la stanza. Carina. Era stato tutto curato da una donna, lo sapeva dai prospetti pubblicitari, la moquette verde pisello, le pareti bianco crema decorate da qualche applique rosso granata, al soffitto una plafoniera ovoidale molto allungata, che in quel crepuscolo piovigginoso scintillava morbida eppure vivissima luce come una galassia in una notte d'estate. Guardò il letto dal copriletto rosso granata, era un largo, comodo letto, per una persona sola, e aveva di fianco due comodini panciuti di una divertente imitazione del barocco e su uno dei comodini vi era il telefono, mai visto un telefono così schiacciato, per ingombrare meno, color crema come le pareti, e sull'altro comodino vi era un altro schiacciato apparecchio, doveva essere la radio. Era curioso, e premette uno dei due bottoni della cassettina. «... dopo la conferenza stampa, Primo Carnera è risalito in auto, diretto a Sequals, appariva molto stanco e la sua magrezza è impressionante...” Schiacciò l'altro bottone e udì una ragazza che cantava con una voce delicata, aerea, eppure potentemente femminile. «Deve essere Ornella Vanoni,” pensò, seduto sul letto, e anche se non se ne intendeva aveva indovinato, perché alla fine della canzone una gradevole voce di donna giovane disse: «La direzione di questo Piccolo Hôtel è lieta di aver offerto al vostro ascolto la canzone Universo in sol, cantata da Ornella Vanoni.” Pausa. “Prima di proseguire nell'esecuzione del nostro programma musicale, la direzione del Piccolo Hôtel si permette di ricordare la lista di questa sera: Assiette di caviale e salmone Doppio ristretto di manzo con crostini Pollo alla cosacca con tartufi Formaggio, frutta e gelati caserecci, preparati dai nostri specialisti. Riprendiamo la trasmissione delle musiche richieste. Sottoponiamo al vostro ascolto una canzone di Celentano.” Se l'ascoltò tutta, seduto sul letto, religiosamente, la canzone, come fosse la Nona di Beethoven, e solo quando fu finito schiacciò il bottone. Che servizio,
c'era la radio con tutti i programmi nazionali e poi c'era la radio interna, dell'albergo, che trasmetteva un programma suo proprio. Si alzò e guardò finalmente la valigia. Era una lunga cosa piatta, non più spessa di una dozzina di centimetri, ma lunga oltre un metro e larga almeno mezzo metro. La sollevò da terra, era pesante, esattamente ventisette chili, l'aveva pesata più volte sulle stadere delle macellerie. La depose sul letto e l'aprì. Ogni volta che l'apriva gli veniva da ridere, perché non si può non ridere a vedere tutti quei coltelli, il più piccolo era lungo una ventina di centimetri, ma ce ne erano due enormi, dalla lama larga cinque dita e lunga sessanta centimetri. Poi c'erano le asce, da quella piccolina col manico lungo una ventina di centimetri, a quella dal manico lungo un metro che sembrava un'arma medievale. E c'erano ferri che sembravano chirurgici: un lungo scalpello lungo mezzo metro dalla punta arcuata formata da due lame, e poi il martelletto a punta da una parte e a lama dall'altra, e vari tipi di spiedone. Poi c'era una cosa incongrua con quegli arnesi: una piccola rivoltella per signora nascosta sotto i coltellacci a lama e a sega, e le asce. Era un cosino da ridere, l'aveva presa di nascosto a sua sorella che viveva sola in una villa isolata sul lago Maggiore e perciò si era armata, ma se uno se la metteva in bocca come un grissino e premeva il grilletto, sparava il suo bravo calibro 6 e non avrebbe riso assolutamente più, mai. E lui prese la rivoltella, se la mise nella tasca dei calzoni, chiuse la tagliente valigia, ghignando, e la nascose sotto il letto. Ghignava perché aveva fatto una bella carriera: da direttore di tutte le zone dell'Italia centrosettentrionale, e non solo per le lame di macelleria, ma anche per le spade, i fioretti, le sciabole con l'impianto elettrico per i tornei di scherma, era divenuto semplice ispettore delle stesse zone, così aveva galoppato di treno in treno da Torino a Trieste a Firenze, a ispezionare, e almeno era senza il valigione, aveva solo una busta di pelle piena di carte e moduli. Poi il capitombolo: per non licenziarlo dopo quasi venti anni di lavoro, gli avevano offerto la Lombardia, piazzista per macellai, e questo voleva dire il valigione. Aveva accettato, a cinquantacinque anni, solo, senza una lira da parte, non aveva scelta. Doveva ancora ringraziarli che non lo avessero buttato fuori a calci. Un direttore superzonale, uno dei più alti funzionar! dell'azienda, come lui, che si fa pescare con una ragazzina quattordicenne addetta alle pulizie degli uffici. Le donne, sempre le donne. Quella volta che era andato a finire sui giornali del pomeriggio per colpa di quella professionista che si era messa a urlare disperata, per un piccolo morso che lui le aveva dato al lobo dell'orecchio, lei aveva detto che lui le aveva addirittura portato via il lobo, e non era vero, ma i giornalisti lo scrissero, e dopo questo scandalo erano stati anche troppo
buoni a tenerlo ancora, sia pure col valigione. Ma adesso basta, pensò. Basta anche con le donne. L'unica ragione per cui non si era ammazzato molto tempo prima erano ancora le donne. Erano l'unica cosa nella vita che gli dispiaceva lasciare; il pensiero di non sentire più, mai più, sotto le mani la forma del corpo femminile gli dava un senso di orribile. Morire voleva forse dire solo questo: non sentire più una donna. Si alzò e andò in bagno, versò nelle mani un po' di lavanda, che passò sui folti capelli. Adesso basta. Non voleva scendere più in basso del valigione, ma se fosse rimasto vivo sarebbe sceso ancora più in basso: la miseria, sua sorella che gli avrebbe allungato ogni tanto qualche mille lire, per pietà, e lui che le avrebbe spese con qualche infima passeggiatrice. Oh, no, basta, basta. Ritornò nella stanza e in quel momento suonò il telefono. Staccò il ricevitore: “Sì?” “Dottor Coralli, ma è mezz'ora che l'aspetto al bar.” “Mi scusi, ragioniere, scendo subito.” Era soltanto un tizio conosciuto all'albergo quel pomeriggio, un cordialone alto quasi due metri, che trattava tutti come fossero suoi amici da vent'anni. “Ho trovato anche la ragazzina, dottore, non molto più di venti,» disse la voce al telefono abbassandosi con tono di complicità. “Non si vive di solo lavoro, vero?” “Eh, no,” disse lui. “Scendo subito.” Tornò in bagno, si versò ancora della lavanda nel palmo delle mani, si passò ancora le mani sui capelli e sul collo, così, pensando alla “ragazzina”. Era arrivato al punto che gli facevano effetto, e lo turbavano, le semplici parole, come «ragazzina”. Poi uscì dalla stanza e scese le strette scale rivestite di moquette rosa, che lo portarono nel salone. Il Piccolo Hôtel era davvero piccolo, aveva tutto il servizio e il lusso di un albergo di primissima categoria, ma in formato minimo. Era aperto solo da un paio di mesi, nella zona più alberata della circonvallazione, e il suo prospetto pubblicitario diceva che la palazzina a due piani aveva sedici camere con bagno, una sala di ritrovo, un piccolo nightclub nel sotterraneo, oltre la sala da pranzo. Il Piccolo Hôtel era gestito da una signora, la contessa Alarami, che invece di aprire la solita boutique o sartoria aveva saggiamente messo in piedi quell'albergo, discreto, signorile ma senza eccessi, originale in molti particolari, ma sempre con molto stile. Appena entrato nella sala lui vide subito, nell'angolo dove era il bar, la ragazzina vicino al cordialone alto due metri. Era molto alta anche lei, e a lui piacevano le alte. Aveva lunghe gambe, come sempre lui aveva desiderato. Dal fianco al ginocchio era per l'occhio un vertiginoso cammino, e nonostante la magrezza dava subito una sensazione di piena femminilità. Non doveva essere tanto ragazzina, aveva, certo, diversi anni più dei venti, ma si era messa da ragazzina con due treccioline lunghe
lunghe strette strette che le cadevano sul petto, arrivavano quasi fino alla vita, e la gonna nera a pieghe, e il maglioncino rosa tutto aderente sul seno, e soprattutto quei grandi occhiali rotondi, i più grandi e più rotondi occhiali in circolazione, dalla lente chiara che si capiva che lei portava per scena, non perché vedesse poco. «Finalmente, dottor Coralli,” disse il cordialone. “Permette, signorina, che le presenti il dottor Coralli. Ed ecco un gioiello: Adri Castello, fa l'indossatrice, dovrebbe aver visto il manifesto con le sue gambe, per la pubblicità di quelle calze.” «Oh, senta, sempre le gambe,” disse la ragazzina Adri. «Stavo però per spiegare al dottor Coralli che lei studia anche letteratura all'università. È vero?” “Sono al terzo anno,” disse lei. “E io sono Giovanni Namara. Piacere. No, non sono il ministro Mc Namara,” il gigante rideva da solo, aveva gli occhi davvero troppo piccoli per un viso tanto largo e non grasso, ma muscoloso. “Beviamo.” Bevvero, tre brutali cocktail ordinati da Giovanni Namara, al suono della radio privata del Piccolo Hôtel, canzoni e musiche richieste, anche la ragazzina Adri disse al barista che voleva sentire una canzone, Angelita, e pochi minuti dopo l'altoparlante sulla parete del bar trasmise la voce dei Marcellos Ferial che cantavano la triste storia di Angelita. E ogni due o tre canzoni la morbida voce riprendeva a parlare dall'altoparlante: “Vi diamo i programmi alla TV di questa sera,” seguiva l'elenco delle trasmissioni. “Questi sono i film di prima visione che la direzione vi suggerisce: Cinema Manzoni: Assalto al treno Glasgow-Londra, Cinema Capitol...” Alla fine del terzo bestiale cocktail, lui, dottor Coralli, strinse il braccio nudo della ragazzina, meno magro e più morbidamente carnoso di quanto s'immaginasse. «Andiamo a mangiare? Se no, tra la fame e le sue trecce che ballano qui, casco per terra.” «Io casco per terra solo per la fame,” disse lei, facendo ballare volutamente le treccioline da bambinella sul seno. “Mi tenga bene per il braccio perché sono sbronza. Sì, così forte.” “Ehi, dottore, io l'ho trovata e lei me la porta via,» disse Giovanni Namara. Trotterellarono in sala da pranzo e mangiarono, avidi. Era una saletta piuttosto piccola, ma erano riusciti a farci stare una dozzina di tavoli e una trentina di poltroncine, su ogni tavolo vi erano delle candele rosse accese. Solo il maître indossava lo smoking, i giovani camerieri erano invece in camicia bianca con cravatta a farfalla rossa, come la moquette del pavimento, grossi gemelli rossi ai polsi raddoppiati, e un grosso grembiulone bianco alla francese che li rivestiva tutti dalla vita alle scarpe, come una gonna. La
ragazza, dei vini era in tailleur rosso, sempre come la moquette, coi calzoni aderenti alla cowboy, le scarpe col tacco alto e il piccolo sperone d'oro. E d'oro era il grappolo d'uva ricamato sulla manica sinistra della giacca. Lui, Antonio Coralli, guardò anche lei, il rigonfio della giacca, davanti, e l'aderenza del calzone ai fianchi. Due o tre volte fece la sua apparizione la contessa Alarami, in abito lungo fino ai piedi, un abito nero con delle piccole fiamme qua e là, rosso arancio. Si fermò anche al loro tavolo, sorrise a lui: «Spero che si trovi bene in questo piccolo ostello.” «Molto bene,” lui rispose. “Alle undici apriamo il nightclub,” disse la contessa, « c'è un'orchestra giovane: sarete ospiti molto graditi.” E Giovanni Namara disse: «Ma noi siamo nonnini, alle undici ci addormentiamo.” “Allora non ho mai visto nonnini più giovani e pericolosi di voi.” “Pericolosi?” disse Giovanni Namara. La contessa assentì, sorridendo. “Buona sera, signori, grazie della vostra visita.” Quando se ne fu andata, lui disse: “Sì, andiamo al nightclub, così la bambina ballerà un po'.” “Con qualche altro, però, noi non siamo in condizioni di ballare. Non sono mai stato tanto ubriaco in vita mia,” disse Giovanni Namara. «E io sono ubriaca più di voi due messi insieme: tra il caviale, il salmone, i tartufi del pollo e questo fiasco di Frascati.» «Andiamo a sentire la musica,” disse lui. “Sono le dieci,” disse Giovanni Namara, “prima di andare al nightclub abbiamo tempo, allora, di raccontarci la nostra vita. Comincia tu, bambina bella.” “Lo sa che non mi piace il tu. Si può essere amici senza bisogno di darsi del tu. La prego.” “Mi scusi, me ne ero dimenticato, ma ci racconti la sua vita.» “Impossibile. È vietato dalla censura.” Giovanni Namara fece portare un altro fiasco. “Allora a lei, dottor Coralli. È il più bel gioco di società che conosca.” Bevette, anzi ingollò un bicchierone di Frascati. «La propria vita in cento parole. Proviamo.” Lui, Coralli, baciò d'improvviso la mano della ragazzina Adri, e così sentì che era partito, totalmente partito, e l'unica cosa che voleva era quella ragazzina. “La mia vita non interessa nessuno, vendo coltelli ai macellai, ho su in camera una valigia lunga così, piena di coltelli, lame lunghe mezzo metro, asce per rompere le ossa dorsali al mezzo bue, spiedoni taglienti per disossarli...”
«No? Davvero?” Giovanni Namara gli mise la pesante mano sul braccio, con un interesse appassionato, sproporzionato all'argomento. “Lei viaggia in coltellerie per macelleria? Allora è della Schreicher o della Fratelli Toncara.” “Della Fratelli Toncara, ma lei come fa a saperlo?” “Vede, mio padre era macellaio, io ho cominciato ad aiutarlo in macelleria che non avevo neppure dieci anni, il lavoro mi piaceva e mio padre era felice. Poi mia madre si mise di mezzo, disse che il macellaio era un brutto lavoro, che se lui, papa, mi portava in macelleria ancora una volta sola lei si buttava dalla finestra, e siccome mamma era un po' matta bisognò accontentarla. Lei ci teneva che io studiassi, voleva che diventassi avvocato, che ridere, io avvocato. Alla fine si è rassegnata e me la sono cavata col diploma di ragioniere. Mio padre ha dovuto vendere la macelleria, invece se io imparavo il mestiere con lui adesso potevo avere il mio negozio. Sapesse che dispiacere ho a fare il ragioniere ambulante, quando avrei potuto stare dietro il bancone mio, della macelleria mia. Guardi se ho il tipo del ragioniere, ma lo si vede da un chilometro che sono un macellaio, grosso e brutto come mio padre. E vorrei proprio vederli questi coltelli, dottore, per me, sa, è come rivedere mio padre, quando ero ragazzino, e lui m'insegnava tutte le parti del manzo e del vitello, e anche quelle dell'agnello...» “Ma certo che le farò vedere i miei coltelli,” disse lui, quasi commosso. “Dottore, davvero, me li fa vedere?” “Sicuro, quando saliamo su.” La ragazzina aveva fumato tranquilla fino a quel momento, poi disse: «Sentite, vecchietti, non ho nessuna voglia di ascoltare i vostri discorsi, né di andare al nightclub. Me ne vado in camera mia, è la numero 14, una bella stanza d'angolo, ordino qualche cosa da mangiare e da bere e fra una mezz'oretta voi, discretamente, venite su a trovarmi. Discretamente: io sono una ragazza per bene, non fatevi vedere quando entrate nella mia camera.” “Questa è una grossa idea,” disse Giovanni Namara. “Fra mezz'ora siamo su da lei, signorina,” sottolineò il “lei» e il «signorina”. “Bravi. Vi piacciono le ostriche?” lei disse. “Parecchio,” disse Giovanni Namara. La guardarono uscire: sì, era assai meno magra di quanto sembrava di figura. “Chi è?” disse lui. L'altro, il figlio del macellaio, alzò una spalla. «Una fotomodella di sopra, e una squillo di sotto.” “Ma ha detto che studiava lettere all'università.” “Può darsi. Non sono mica evirati, all'università.” La contessa Alarami passò ancora e domandò se volevano un cocktail
all'uovo. Le dissero di sì. Ormai dicevano a tutto di sì. Lui, Antonio Coralli, si mise a parlare di donne. Se fosse stato scultore non avrebbe reso più plasticamente l'idea di una figura femminile. Parlò di quelle che più gli erano rimaste impresse. Le prime, di quando era ancora un ragazzo e venivano loro a provocarlo, e poi, con un salto di una ventina di anni, le più recenti, Lucia, era tanto bionda, e quella manicure di Cremona, un seno così piccolo eppure così vistoso, e la giovane moglie di quello del botteghino del lotto, così piccola e morbida. D'un tratto s'interruppe: “Ma quando arriva questo cocktail con l'uovo?” “L'abbiamo già bevuto, dottor Coralli, non se ne è accorto? Ne vuole un altro?” “Certo che sì;” disse lui. Riprese la galleria delle donne che aveva conosciuto, e l'altro ascoltava avido, con gli occhi che gli divenivano sempre più piccoli, infossati nei muscoli orbitali. Poi s'interruppe ancora, scosse il capo. «Le donne sono una malattia, una brutta malattia.” “Allora io sono malato da morire,” ghignò Giovanni Namara. Erano rimasti soli nella sala da pranzo, la maggior parte degli altri ospiti dell'albergo erano andati nella saletta della TV, altri a dormire, altri in giro per la città. «E questa ragazzina con le trecce va molto bene. Le piacciono le trecce?” disse lui. Il figlio del macellaio aveva risposte rapide. “È l'unico tipo di corda con la quale mi farei impiccare.” Era un uomo intelligente, pensò lui. Guardò l'orologio. «Senta, non sarebbe ora di andare su dalla nostra amica?” “Io direi che sarebbe ora.” Si alzarono virilmente. Erano vecchi lupi abituati a bere, a divorare, a lottare, non erano un po' di aperitivi e di vino che potevano metterli fuori combattimento. Senza vacillare, con passo fermo, sicuro, uscirono dalla sala e nell'atrio salirono sull'ascensore, si fermarono al secondo piano, s'incamminarono per il breve corridoio, caldamente illuminato da piccole appliques rosse che davano una vivida sensazione intima di casa, e si fermarono in fondo davanti alla porta col numero 14 in cifre rosse. Nel corridoio non c'era nessuno. Bussarono. Discretamente. La porta si aprì. Lei li fece entrare. Era in vestaglia, con sotto niente, ma sarebbe stato meglio che se la fosse levata del tutto, la vestaglia, perché così aperta come la teneva non andava proprio bene. O anche troppo bene, secondo i punti di vista. “Credevo che non veniste più,” disse lei, fingendo di chiudersi la vestaglia. “Cos'è,” disse il figlio del macellaio, “non ha fiducia nel suo fascino, o non ha fiducia in noi?” «In voi. Credevo che foste andati a dormire.” Era provocante.
“Dipende da lei fornirci l'occasione di dimostrarle che non abbiamo molto sonno,” disse lui, cominciava a diventare spiritoso come Giovanni Namara. “Prima le ostriche,” disse la ragazzina. C'erano due dozzine di ostriche su un vassoio d'argento, stavano aperte su uno strato di ghiaccio tritato; in un piatto di cristallo erano disposti a elicoide una gran quantità di quartini di limone, e in un angolo del carrello vi erano due piccole pepiere d'argento, vicino a due bottiglie di vino bianco coquillage immerse nel secchiello d'argento. La ragazzina Adri, aggiustandosi ogni tanto la vestaglia, cominciò a preparare le ostriche, molto pepe, molto limone, una a lui, una a Giovanni, una a Giovanni e una a lui, una a lui e una a Giovanni. “E lei non ne mangia, signorina?” disse lui, ingollò la settima ostrica e il quarto bicchiere di coquillage. “Le ultime quattro ostriche sono per me. Mi piace buttarle giù una dopo l'altra,” lei disse. Con voce sempre più bassa, Giovanni disse ancora la sua spiritosaggine: “Questa è una ragazza per pionieri. Dovremmo vestirci da cowboy.” Piccole risate, le due bottiglie e le ostriche erano già finite, la ragazzina aveva aperto la radio interna del Piccolo Hôtel. “E ora vi trasmettiamo trenta minuti di musica da ballo, è una registrazione della James Last Band, la direzione del Piccolo Hôtel si augura che la trasmissione sia di vostro gradimento.” E intanto che la radio suonava sommessa, lei tirò fuori da sotto il carrello la bottiglia di whisky e i bicchieroni e, dopo aver quasi riempito i bicchieroni di whisky e di ghiaccio e averli messi davanti ai due uomini, si abbandonò sulla poltrona vicino al termosifone bollente e cominciò a disfarsi le treccioline. Lui poi disse a Giovanni: «Adesso dobbiamo fare a testa e croce. Chi fa croce va a fare un giretto e l'altro rimane qui a discorrere con la signorina.” “Giusto,” disse Giovanni, guardava anche lui la ragazzina che si scioglieva le trecce, con occhi che ormai non si vedevano più, due semplici fessure, sembrava quasi un asiatico. Levò una moneta dalla tasca dei calzoni, la buttò in aria in modo da farla cadere sul piano del carrello. La moneta cadde dentro le valve vuote di un'ostrica. “Testa. Adesso prova tu.” Lui prese la moneta da cento lire, la buttò in aria e la fece ricadere sul palmo. “Croce,” disse, “va bene, vuoi dire che andrò a fare un giretto.” Guardò la ragazzina che continuava a sciogliersi le trecce. “Oh, Antonio, ma ti sei dimenticato,” disse Giovanni, sembrava volesse piangere, “non mi hai fatto vedere i coltelli, sapessi cosa significano per me, mi ricordano mio padre, io ho voluto tanto bene a mio padre, tu non puoi sapere che bene gli ho voluto.” “Ma non fare così, Giovanni, ti porto subito la valigia coi coltelli,” gli
rispose lui commosso, corse fuori, sapeva di essere ubriaco, sapeva di essere commosso solo per l'ubriachezza, ma sapere non basta: l'alcool è più forte di qualsiasi autocontrollo. Arrivò nella sua camera, anch'essa al secondo piano, tirò fuori da sotto il letto la valigiona piatta, uscì di nuovo nel corridoio: non c'era nessuno, corse verso la camera 14, ed entrò di colpo. “Ecco, Giovanni, guarda,” disse mettendo la valigia sul letto e aprendola, “non piangere, guarda che meraviglia, solo la coltelleria Schreicher può fare un po' meglio.” II gigantesco Giovanni Namara si alzò senza vacillare, tornato improvvisamente lucido, guardò il contenuto della valigia, con occhi che gli si dilatavano secondo per secondo: «Mamma, c'è anche lo scalpello a lama e a sega, » levò un lungo punteruolo, scavato dentro per la prima metà in due temibili lame ricurve, e nella seconda metà tutto seghettato. «Io ero troppo piccolo e mio padre non riusciva a farmi capire come funzionava questo coso. Allora un giorno ha preso una coscia di agnello e mi ha fatto vedere. Non immagini che bellezza, Antonio, questo coso con le due lame entrò nella coscia dell'agnello e staccò le fasce muscolari dall'osso, e nello stesso tempo la parte seghettata dello strumento segava l'osso.” Alzò lo sguardo un momento verso la ragazzina: lei aveva finito il lungo lavoro di sciogliersi le trecce e i capelli, tutta roba sua, non si trattava di parrucca o toupet. Poi lo riabbassò sulla valigia. «E questo, guarda, Antonio,” aveva preso il coltellaccio più grosso, circa quaranta centimetri di lama, per la larghezza di sette, otto centimetri, «con questo si scuoia anche un rinoceronte, come fosse fatto di carta velina.” Agitò in aria il coltellaccio e lui lo guardò, sentendo che stava precipitando in un abisso. Un abisso, un abisso, precipitava. “Che bello,” disse, e afferrò anche lui un altro coltellaccio e lo agitò come faceva Antonio. «Che bello.» Continuava a precipitare. La ragazzina, tutti i capelli sciolti sul petto, nervosa, e anche annoiata, disse: “Sentite, se non avete bisogno di me, andate a fare i giochetti coi coltelli nelle vostre stanze, così io dormo.” “Oh, cara,” disse Giovanni, “ma noi abbiamo tanto bisogno di te.” Le si avvicinò, la mano lunga sul fianco, col coltello. “Metti via il coltello,” disse lei, in un improvviso sussulto di terrore, in un improvviso presentimento di orrore. “Perché?” Giovanni Namara le mise una mano sulla bocca e un ginocchio contro l'inguine, schiacciandola contro il muro. “No, no, Giovanni, non fare così,” disse lui, ma troppo debolmente, avvicinandosi con l'altro coltello. “No, no, non devi fare così,” ma sempre più debolmente. Si sentiva soltanto il fric fric del tergivetro, il fruscio della pioggia, e il dolce ronzio del motore. Era l'una dopo mezzogiorno ma sembrava notte,
veniva sempre più buio, per una specie di ciclone, e Giovanni aveva dovuto accendere le mezze luci. Ah, si sentiva anche quella specie di scricchiolio del giornale, della carta stampata di un quotidiano, quello che Antonio stava leggendo. “Due mostri fanno orribile scempio di una ragazza,” era il titolo, gigantesco, su tutta la pagina. “In una stanza del Piccolo Hôtel, elegante albergo di lusso sulla circonvallazione, sono stati ritrovati i resti di una ragazza di ventisei anni, orrendamente sezionata. Il perito dell'obitorio ha dichiarato che solo dei pazzi criminali possono aver compiuto un simile orrore. La polizia ha già individuato i colpevoli: si tratta di Antonio Coralli, di anni 55, piazzista in coltelleria e attrezzi vari per macelleria, e di Giovanni Namara, di anni 49, il cui padre aveva una grande macelleria a Porta Romana.” II tergivetro faceva sempre fric fric e le ruote sulla strada allagata davano il loro dolce fruscio, insieme con lo scricchiolio del giornale che lui leggeva. «La cattura dei due criminali è imminente. Essi hanno lasciato il Piccolo Hôtel all'alba di ieri e sono fuggiti a bordo di una Taunus nera. Anche se avessero cambiato macchina, non hanno alcuna possibilità di scampo. Queste sono le loro fotografie, prese in questura dai loro passaporti.” Erano anche molto rassomiglianti, pensò lui, ripiegando il giornale e buttandolo sui sedili dietro. Di solito le foto dei passaporti e dei documenti sono così dissimili dal soggetto: quelle, invece, sembravano ricalchi fatti sulle loro facce. “Siamo vicini a Roma,” disse Giovanni che guidava. “Se non ci sono posti di blocco e riusciamo a entrare, dopo in quel calderone non ci trova più nessuno, ho un amico a Trastevere, sai, Trastevere è come la casbah, la polizia ha perfino paura a entrarci.” Va bene, pensò lui, dottor Antonio Coralli e Mostro: quello voleva sognare e sognasse pure. «Finirai sempre a Porto Azzurro. Per te, tutte le strade conducono all'ergastolo.” “E perché?” disse irritato il figlio del macellaio, Giovanni Namara. “Dove pensi di fuggire? Con le foto sui giornali, con la descrizione di questa Taunus nera. Ma se non ci hanno ancora preso è perché la gente è cieca e la polizia ha troppo da fare.” «E tu, professore, allora, dove pensi di fuggire?» si arrabbiava sempre di più, il figlio del macellaio. “Io vado in un posto dove nessuno mi potrà mai prendere.” Sorrise. “Allora io vengo con te,” lo disse senza convinzione, intuendo oscuramente, pur nella sua rozzezza, che si trattava di un posto che non gli sarebbe piaciuto.
“Se vuoi, sei libero di fare come me,” disse lui, levando la piccola rivoltella dalla tasca dei calzoni, e mostrandogliela. “Ci sono sei proiettili. A me ne basta uno, gli altri sono per te.” Sorrise. “Stai sicuro che così non ti prendono più.” II fruscio delle gomme sulla strada, il fric del tergivetro, e la rivoltellina in mano che lo avrebbe aiutato a non soffrire più. Non si può vivere avendo schifo di se stessi, o commettendo ogni tanto nefandezze ed orrori, spinto da una bestia che era in lui, una bestia folle e sanguinaria. Basta, basta, con tutto questo orrore. Ora sentiva che non aveva paura di uccidersi, per uccidere quella bestia che aveva in sé. “Puoi tenerti quella roba, io non mi ammazzerò mai,” disse Giovanni. “Bravo,” disse lui. «All'ergastolo di Porto Azzurro non starai poi tanto male. Ti danno da mangiare pulito, ti fanno fare le passeggiate, impari a giocare a dama e a scacchi. Siccome sei ragioniere ti metteranno negli uffici, non starai male. Verso i settanta, settantacinque anni potrai forse uscire, e qualche rivista di attualità comprerà le tue memorie e tu racconterai, a mille lire a riga, che cosa hai fatto alla ragazzina con le trecce,” smise per un conato di vomito. “Fermati, io scendo, tu vai per la tua strada.” “Non dirmi che ti ammazzi davvero,” disse Giovanni, fermando bruscamente nel buio del primo pomeriggio. “No, non te lo dico,” ghignò scendendo dalla Taunus, sotto la pioggia fluida e continua che lo inzuppò tutto come un biscotto nel caffelatte. Non glielo diceva. Lo faceva. Agitò il braccio con violenza perché Giovanni partisse e quando vide l'auto che scattava in avanti si mise la rivoltellina in bocca e tirò subito il grilletto per uccidere se stesso e la bestia che aveva dentro, e nel millesimo di secondo prima di morire pensò: «Finalmente”.
12 Quando una donna piace forte
Sono impiegato alla Banca Nazionale Vicentina, filiale di Milano, in via Turati 40. Il mio stipendio è di centocinquantaquattromila lire, ma la sera tengo anche i registri di qualche negoziante del quartiere dove abito, per esempio il salumiere, il droghiere, e anche il fruttivendolo, quando ero con mia moglie questo serviva perché mi pagavano in natura, mia moglie non doveva neppure andare a fare la spesa, le mandavano la roba a casa, e così il mio stipendio bastava per stare abbastanza bene. Quella sera del dodici aprile io avevo mangiato come al solito alla cremeria, quella di via Vittor Pisani, sotto i portici, si mangia bene, si spende poco, e poi non danno alcolici, perché a me piacerebbe bere, solo che non lo sopporto, e con mezzo bicchiere di vino do subito i numeri. Andavo in quella cremeria da quando mia moglie mi ha lasciato. Questo mi dispiace raccontarlo. Mi dispiace molto, ma devo dirlo lo stesso. Mia moglie ha ventidue anni, io ne ho quarantadue, sono venti esatti di più. Io lo so perché l'ho sposata, perché mi piaceva, niente mi è mai piaciuto nella vita come lei, neppure, quando ero bambino, le castagne arrosto. Lei non so perché mi abbia sposato, così giovane, carina, tanto che quasi non poteva girare da sola per le strade. Ci sarà stata qualche ragione che non so, però ha sposato me, e io per due anni sono stato felice, molto, molto felice, veramente molto felice. Forse lei non era felice come me, anzi è certo, gli ultimi tempi mi trattava proprio male, appena la notte le andavo vicino, perché era davvero carina tanto, mi rifiutava come fossi stato uno scarafaggio. E poi, se ne è addirittura andata. Un giovedì sono tornato dalla banca, suono il campanello di casa, e non apre nessuno. Risuono, e nessuno apre ancora. Allora apro io con la chiave, nessuno è in casa, e dall'armadio con gli sportelli spalancati e la giacchetta di visone che non ho ancora finito di pagare che manca, e mancano due valigie, e mancano tutti i soldi che c'erano nella cassetta di sicurezza che tenevo in un cassetto del comò, si capisce che lei se ne è andata. Del resto era da mesi che sentivo che lei doveva avere qualcuno. Ma io che potevo farci? E fu da quella sera che andai a mangiare in cremeria, e quella prima sera non mangiai molto, solo l'uovo, poi mi dimenticai che era un locale analcolico e chiesi un cognac, ma il cameriere mi disse, appunto, che non c'era, e poi tornai a casa, chiusi gli sportelli dell'armadio, che lei aveva lasciato aperti, chiusi la cassetta di sicurezza, lasciata aperta anch'essa, andai in cucina, presi il fiasco del vino e, come nelle storielle umoristiche, mi misi a bere per dimenticare. Cercavo di pensare dove e con chi potesse essere andata. Mia
moglie è una scema. È carina molto, un uomo appena la vede si sente spumeggiare. Ma è scema, il primo che le dice chicchirichì, lei fa coccodè, chiunque sia. Da solo, però, non avrei potuto sapere niente, sapevo che era scappata, ovviamente con qualcuno, ma basta. Ma proprio due sere dopo mentre a casa, solo, finivo un bicchierone di vino ed ero, così, completamente ubriaco, telefonò Sebastiano. È un mio amico, anzi, il mio amico, era un vecchio impiegato nella mia stessa banca, poi è stato licenziato, e adesso vive piuttosto male, vedovo, i soldi sempre contati. “Stefano,” dice al telefono. “Sì, caro,” dico io riconoscendo la sua voce. “Come va?” Lo dissi allegramente, ubriaco con quel bicchierone di vino. “Sempre piuttosto male,” lui disse, “ma per te mi pare che vada peggio.” Ero ubriaco e dissi: “Che allegria.” “Sai dove è tua moglie?” perché Sebastiano è anche molto spiritoso. Cominciai a capire che lui sapeva ciò che io non sapevo. «Parla subito, per favore,” gli dissi. “È col più sporco farabutto che una donna al mondo abbia mai partorito, sono mesi e mesi che ti ha rovinato tua moglie e adesso è riuscito a convincerla ad andare con lui. » Mi disse nome e cognome del personaggio, mi disse anche l'indirizzo e, forse era ubriaco anche lui, mi disse: “Lo sanno tutti, naturalmente, escluso te, e nessuno ha avuto mai il coraggio di dirtelo. Io invece te lo dico. E ti do anche un consiglio, fai un'offerta per grazia ricevuta alla prima chiesa più vicina: perdere una moglie come quella è meglio che vincere cento milioni alla lotteria. Non si può sposare una donna che ha il fuoco addosso e che al primo uomo che la guarda comincia a spogliarsi.” Ero già ubriaco e mi misi a piangere. Sebastiano è un vero amico, e mi disse: “Scusami, non volevo farti soffrire, ma qualcuno doveva dirti la verità.” E poi mi disse: “Dimentica e basta.” Non gli risposi nulla, posai il ricevitore sulla forcella e andai a letto, ma mi misi dalla parte di lei, per sentire il forte, aspro profumo che lei usava. E lo sentii. Era ancora rimasto sul cuscino: a sentirlo, smisi di piangere. Era aprile. Non avrei mai creduto che i mesi passassero così in fretta. Quando venne luglio e la banca mi dette le ferie, ero abituato in quell'epoca ad andare a Viareggio con lei, ma adesso lei non c'era e allora sono restato a Milano, e non c'era neppure Sebastiano, e io continuavo ad andare al cinema ogni sera, e volevo seguire il consiglio di Sebastiano, di ringraziare la provvidenza di aver perduto una moglie così, e di dimenticare, ma non era facile, le donne che trovavo erano tutte professioniste col tesserino del sindacato, e le altre non mi guardavano perché ho un'aria piuttosto vecchia e
di povero. Ma c'era una cosa non normale: che a me piaceva mia moglie. Lo so che è una donna che può piacere a tutti gli uomini, ma a me piaceva di più, più, più, più. Non si può dimenticare una cosa che piace così forte. Però il tempo passava lo stesso. Tutta l'estate, l'inverno. A Capodanno, Sebastiano che era vedovo e io che ero, come lui mi definiva, il più stupido uomo d'Europa e dintorni, andammo a un veglione. Sebastiano all'alba rimorchiò due ragazze in casa sua e mi disse: “Cerca di dimenticare tua moglie, ma davvero, se no ti rompo la faccia.” Cercai: le due ragazze erano molto graziose, e anche fini, non avevano l'aria di quelle raccattate per strada, però non riuscii a dimenticare lei, Valeria, cioè mia moglie. Dopo il Capodanno, finì rapidamente gennaio, finì rapidamente anche febbraio, e poi marzo. Cominciò aprile. Sebastiano è un amico piuttosto insolito, sta settimane, e anche un mese, senza dirmi niente, poi mi telefona, o viene d'improvviso a casa, mi racconta tutta la tristezza della sua vita di vedovo vecchio e sta con me una giornata intera. E allora quella sera, dopo quasi un mese che non ci vedevamo, venne nella cremeria dove stavo mangiando, in quel momento, gli gnocchi, sedette di fianco a me, non disse neppure ciao, non mi guardò neppure, sembrava che non mi conoscesse e che si fosse seduto accanto a me per mancanza di un altro tavolo libero, ordinò al cameriere una spremuta d'arancia, doppia, e continuò a stare zitto e a guardare davanti a sé. «Che allegria,» dissi. Da un anno ero divenuto spiritoso anch'io. Non mi rispose, non disse nulla, beveva un sorso d'aranciata ogni tanto e guardava sempre davanti a sé. Feci in tempo a finire gli gnocchi, poi le due uova al burro, a bermi tutta la mezza bottiglia di minerale, e lui non disse una parola. Era aprile, erano i primi giorni della Fiera di Milano, il locale era pieno come un filobus nelle ore di punta, appena uno finiva di mangiare bisognava scattare e uscire perché c'erano i fieraioli vegetariani che aspettavano in piedi il vostro tavolo. “Se hai da dirmi qualche cosa è meglio che me la dici fuori di qui,” già dissi pagando il conto al cameriere. Non mi rispose e non mi guardò. Mi alzai appena ebbi il resto e lui mi seguì, sempre senza parlare. Attraversai via Vittor Pisani e andai dal tabaccaio che c'è all'angolo con via San Gregorio e lui mi stava a fianco, in silenzio. Entrammo, era pieno, con la Fiera, a Milano, tutto è pieno, anche la sala d'aspetto del dentista. Comprai un sigaro venezuelano, il Gruderango, è corto come una sigaretta, ma grosso più di un dito, sembra leggero intanto che mandate giù il fumo, poi vi sentite le tempie che battono, vi sentite forte, felice di essere nato, contento di tutto, cioè sbronzo morto. Praticamente è una
droga, ma la vendono come sigaro. “Se ti chiedo se vuoi un cognac, mi rispondi o no?” gli dissi. Non mi rispose, non mi guardò, fu come se non mi avesse udito, la vecchia, devastata faccia di donnaiolo restò di pietra. Io ordinai due cognac e li bevemmo al banco, in piedi, senza guardarci, senza parlare. Poi uscimmo, nonostante fosse primavera e fosse l'Italia il paese del sole, faceva un freddo bestia. E un po' rabbrividendo strinsi a un braccio Sebastiano, ci conosciamo da quasi vent'anni, ma la frase esatta è che ci vogliamo bene da quasi vent'anni, due fratelli gemelli non sono simili e legati come noi. Gli dissi: “Sebastiano, parla, o se no, mi arrabbio.” Sentivo che lui aveva da dirmi qualche cosa, qualche cosa di grave, non era mai stato così sconvolto. E finalmente egli parlò. “Andiamo a casa tua.” Io abito in via Fabio Filzi, vicino al ristorante cinese, in un appartamento di tre stanze, mi chiamo Stefano Donato, lavoro alla Banca Nazionale Vicentina, filiale di Milano, ho quarantadue anni e mia moglie, Valeria, diceva che quello non era un appartamento, ma un cessino stretto. A me piaceva, appunto perché era piccolo e adeguato alle mie possibilità economiche; certo, anch'io avrei preferito un castello, con un parco intorno e la RR con l'autista in divisa grigio scura, chi non lo preferirebbe?, e Sebastiano, appena entrato in casa, che conosce come fosse la sua casa, o anche meglio, andò all'armadietto che c'è nella microscopica cucina, lo aprì e reperì subito la bottiglia di centerbe: ne tengo sempre una in casa, mia mamma fin da ragazzo mi diceva che, quando si sta un po' male, basta il centerbe. Sempre senza guardarmi lui portò la bottiglia di centerbe e un bicchiere in quella che i costruttori della casa definivano una sala di soggiorno e che mia moglie, Valeria, chiamava la piccola pattumiera, sedette su una delle sedie imbottite e riempì, intero, il bicchiere di centerbe. “Guarda che ti confondi con l'acqua minerale, quello invece è liquore a 55 gradi,” gli dissi. Non mi rispose, cominciò a bere, un sorso, ancora un sorso. Allora gli dissi: “Sebastiano, che cosa ti è successo?” Un altro sorso, poi ancora un sorso. Poi finalmente parlò: «Vorrei farti una domanda. Anzi, qualche domanda.» “Sì, Sebastiano.” Dal suo bicchiere bevetti anch'io un sorso di centerbe. “Vorrei domandarti,” cominciò incisivo e cattivo come era nel suo carattere, “se hai dimenticato tua moglie e se ti sei cercato un'altra.” “No,” dissi. Non l'avevo dimenticata e non me ne ero cercata un'altra. “Perché?” disse Sebastiano. “Perché non mi piace nessun'altra donna,” gli dissi. Lui ricominciò a bere centerbe e restò in silenzio. Dopo un po' gli dissi: “Perché mi hai fatto questa domanda?”
Sentivo che era accaduto qualche cosa. Lui posò il bicchiere del centerbe e mi fissò, duramente, cattivamente. “Va bene,” disse, “allora comincerò dalla Bibbia. Forse avrai sentito anche tu quella frase: .” Feci col capo di sì, che mi pareva di averla sentita. “Bene,” lui disse, “lo sai che io prendo i discorsi molto dalla lontana, così, anche se la Bibbia dice che non bisogna desiderare la donna d'altri, io ho molto desiderato la donna di un altro, del mio grande e unico amico: sto parlando di te, Stefano, e di tua moglie.” Non risposi nulla, soltanto gli tolsi il bicchiere del centerbe, perché non bevesse più. “Tu capisci, e mi capisci, Stefano,” egli disse, rassegnandosi a non bere, “non c'è nessun uomo al mondo che non possa desiderare una donna come tua moglie. Basta vederla e a un uomo viene la febbre, e quindi l'ho desiderata anch'io: non perché sono un amico traditore, ma perché sono un uomo. Capisci?” Sebastiano era sempre eccessivo, o non diceva una parola, o era prolisso come un'enciclopedia in ventiquattro volumi. Ancora col capo gli feci di sì, che capivo. E lui disse ancora: “Soltanto che, finché è stata con te, mi sarei sparato piuttosto che sfiorarle un dito.” Si fermò. Poi quasi esplose: “Mi credi, vero? o credi che sono il solito sudicio amico che ti porta via la tua donna?” Io non capivo, sentivo che c'era qualche cosa d'importante, ma non riuscivo a immaginare che cosa potesse essere, ma dissi: “Non gridare così, per favore.” “No, e invece grido!” Sebastiano alzò ancora di più la voce, “perché tu pensi: ecco l'amico che sembra tanto fidato e che invece vuole andare a dormire con mia moglie. Ma non è così. La desideravo, ma non ci sarei mai andato, perché sono tuo amico, anzi, sono tuo fratello, anzi sono tuo padre. Invece ci sono andato, questa sera, un paio di ore fa, prima di venire a cercarti in cremeria.” Mi guardò fìsso negli occhi: “Costa quindicimila lire.” Io devo ringraziare papa, che era un uomo al quale piaceva molto leggere, e aveva tanti libri che ho letto anch'io e così ho capito qualche cosa, anche se non molto, e ho capito che in certi momenti bisogna stare fermi, controllarsi, fermi con la cintura, come quando un aereo sta atterrando, e allora dissi, semplicemente: “Che cosa vuoi dire che costa quindicimila lire?” Ma avevo già quasi capito. “Vuoi dire che questa sera, ma non vorrei dirtelo, è l'ultima cosa che avrei voluto dirti,” disse lui, tentò di prendersi il bicchiere col liquore, ma
glielo impedii. “Va bene, non bevo, volevo solo dirti che stasera, prima di pranzo, sono uscito con l'auto e sono andato in giro per la grande Milano, ho cinquantanove anni e sono vedovo da undici anni, e ogni tanto esco così, con l'auto, non ho più la forza di risposarmi, mi capisci?” “Sì, capisco,” e cominciavo a capire anche troppo, ma volevo che non fosse vero che quello che capivo fosse vero. “Ormai sono molto pratico,” disse Sebastiano, tese ancora la mano e allora mi commossi e gli permisi di prendere il bicchiere di centerbe, che s'ingozzasse pure come voleva. “È verso le otto che, per un vecchio solo come me, c'è in giro il meglio. Dopo mezzanotte ci sono in giro tutte, ma a quell'ora si trovano quelle che uno può portare anche in un buon ristorante. Fa più fino, vero?” Con molta tenerezza, ma anche severamente, gli dissi: “Sei ubriaco. Non parlare tanto. Spiegati subito e tutto.” “Non si può,” disse Sebastiano, “ma se proprio vuoi una cosa sbrigativa, eccola qui: sono stato con tua moglie, circa due ore fa.” “Questo me l'hai già detto.” “Volevo spiegarti come.” “Credo di averlo già capito, ma sbrigati.” Lo lasciai bere e lui disse, dopo aver bevuto: “Sono andato in auto in via Vincenzo Monti, sai, vicino al Parco.» Sì, sapevo: ogni città ha le sue zone rosa, giardini e parchi sono i punti più nevralgici. “Ho fermato l'auto in via Mario Pagano, vicino a una ragazza bruna vestita con un soprabitino arancio cortissimo e ho abbassato il vetro del finestrino e lei ha messo dentro la testa e così io, lo sai che ci vedo poco, ho visto solo allora che era tua moglie.” Io non dissi nulla. “Così io, appena visto che era tua moglie, feci l'atto di rimettere in moto l'auto.” “Sì,” dissi io. “Vai avanti.” “Sì, vado avanti,” disse Sebastiano. “Lei mi ha detto: Ha detto proprio così, <e allora dài>.” Non dissi niente, ascoltavo soltanto. E allora lui, Sebastiano, mi disse: “Questa sera sono venuto a cercarti solo per dirti questa cosa, cioè che non sono tuo amico, perché uno che va con la moglie del suo amico non è un amico, è una zozzeria, e io sono stato con tua moglie, questa sera, non avrei mai voluto, anche se mi mangiavo le dita dalla voglia, ma era lì, con la testa dentro il finestrino dell'auto, e mi
carezzava all'orecchio, e allora l'ho fatta salire e siamo andati a...” “Questi sono particolari senza importanza,” dissi io. Sebastiano prese il bicchiere, ma era vuoto: “E sai che cosa mi ha detto dopo, quando l'ho riportata in via Mario Pagano, che è la sua zona?” Non potevo saperlo. “Mi ha detto: < Raccontalo a Stefano, ai mariti piace sapere certe cose. > Ma io,” si coprì il viso con le mani, “sono venuto a dirtelo solo perché tu mi sputi in faccia.” Ho letto in un libro di psicanalisi che le persone che sanno controllarsi meglio sono i malati di nervi. Quindi devo essere malato di nervi, perché non feci un gesto, non dissi una parola, finché non vidi Sebastiano che si asciugava gli occhi con le dita. Allora gli dissi: “Calmati.» Quasi un minuto di silenzio. Poi dissi: “Quando uomo sposa una...,” pronunciai il termine esatto, “ci vanno insieme tutti: amici, conoscenti, coinquilini e dirimpettai.” Sebastiano si alzò, anzi, schizzò su dalla sedia imbottita: “Io non volevo andarci, ma me la trovo in via Mario Pagano, sotto gli alberi del Parco, come al supermercato, una pollastra incartata con lo scontrino del prezzo, il peso. Ma io vado ad ammazzarlo, e subito.” Mi alzai anch'io, lo tenni fermo alle braccia, lo scossi un poco, gli dissi: “Stai buono. Sei ubriaco.” “Sì, sono ubriaco, ma sono tuo amico e vado ad ammazzarlo, perché tu non sei capace, io invece lo ammazzo.” “Sei ubriaco, calmati e siediti. Chi è che vuoi andare ad ammazzare?” dissi con calma, perché i nevrastenici sono calmi. “Quello che vuoi ammazzare anche tu,” disse Sebastiano. “L'uomo che ti ha portato via tua moglie, e che poi te l'ha buttata in via Mario Pagano, a quindicimila per prestazione. Sai come si chiama questo?” Non capivo. Dissi: “Come si chiama?” “Si chiama mettere in pista: la cavallina che viene messa in pista, diciamo in via Mario Pagano. E allora io vado ad ammazzarlo, e subito.” Riuscii a calmarlo, ma con molta fatica, riuscii a metterlo seduto sul piccolo divano, lo scrollai, perché il centerbe doveva avergli fatto male, e non solo quello, e perché capisse bene quello che gli stavo dicendo: “Si tratta di affari miei, di mia moglie. Vai a dormire e basta.” “Io vado ad ammazzarlo.” “Tu stai qui, e buono, se no te le do,” gli dissi. Lo capivo: era innamorato di mia moglie come lo ero io, hanno voglia a scrivere di non desiderare la donna d'altri. E l'uomo che aveva finito per portare sui marciapiedi di via Mario Pagano la donna che io amavo, mia moglie, e che amava anche lui, Sebastiano, qualunque difetto, vizio e debolezza avesse questa donna, era un
uomo da uccidere. Del resto era dall'anno prima, dall'aprile dell'anno prima, dal primo giorno che me l'aveva portata via, che volevo ucciderlo. Nome, cognome e indirizzo me li aveva detti Sebastiano, ma io ero andato anche a spiarlo, lo avevo visto insieme con mia moglie uscire da casa sua e salire su quelle buffe macchine sportive a forma di pantofola e che costano vari milioni. Questo uomo si chiama Guglielmo Lovinati, ha ventinove anni, ha studiato legge due o tre anni, poi ha lasciato lì, avendo trovato una sistemazione più comoda: quella di farsi mantenere dalle donne. Mi ero informato. Un bancario come me ha molte possibilità di informazioni riservate. Questo uomo conosceva varie, anche se mature signore della seteria, della cotoneria e perfino delle fibre artificiali dell'alta Italia, e aveva un conto corrente alla Banca Commerciale rifornito quasi tutto da assegni firmati da altolocate signore lombardo-piemontesivenete. Evidentemente, con mia moglie, questo uomo aveva voluto iniziare una nuova attività. Mia moglie è il tipo adatto per questa attività. Se c'era qualcuno al mondo che potesse saperlo, ero io. Però, quell'uomo ve l'aveva spinta e la voglia di ucciderlo che avevo da un anno adesso salì come un'improvvisa alta marea, mi arrivò allo stomaco come un senso insopportabile di fame, volevo ucciderlo come uno che non mangia da quattro giorni vuole un piatto di maccheroni. “Adesso ti do un paio di pastigliette di sonnifero e poi ti porto a casa,” dissi a Sebastiano. “No, io vado ad ammazzarlo, tu ne sei incapace, tu sei inoffensivo. Io no, io l'ammazzo davvero. E male,” disse Sebastiano. “Piantala, ti prego: ho anch'io un sistema nervoso.” Riuscii alla fine a convincerlo. Prese le due pastigliette di Luminal che gli detti e si lasciò portare a casa, lo accompagnai fino nel suo appartamento, lo misi materialmente a letto, ogni tanto, per il centerbe e per il Luminal, completamente partito, diceva: «Vado ad ammazzarlo, te lo ammazzo io, Stefano, tu non sei capace, e poi non devi rovinarti, sei giovane, te l'ammazzo io.” “Piantala.” “Te l'ammazzo io.” “Basta.” Rimasi finché non si addormentò, fulminato dal sonnifero e da quello che aveva bevuto. Prima di uscire controllai se il gas era chiuso, controllai anche i rubinetti del bagno e della cucina, poi uscii, richiudendo la porta, ma non a chiave, se no lui non avrebbe potuto uscire, lasciai la chiave all'interno, scesi, mi misi al volante della 1300 e andai in via Mario Pagano. Poteva darsi che ci fosse ancora.
C'era, così come me l'aveva descritta Sebastiano: una ragazza bruna, con un soprabitino color arancio cortissimo, in quel freddo orrendo e innaturale di mezzo aprile. Anche se ero dalla parte opposta della strada, dico di via Mario Pagano, io vedo benissimo, e la riconobbi, non si poteva non vederla. L'arancio quasi luminescente di quel soprabito, sullo sfondo verde buio dei viali che conducevano al Parco. Rallentai, perché quando a un uomo piace una donna in modo così forte, può essere capace di qualunque abiezione — le quindicimila lire le avevo — ed era un anno che stavo male per lei, e appena rallentai lei alzò il braccio, arancione nella manica arancione del soprabito, e cominciò ad attraversare la strada, completamente deserta. Rallentai e lei corse verso di me, ma qualche cosa allora dentro di me esplose nel rivederla, lì, così. Schiacciai l'acceleratore e la piantai lì. A casa bevetti due bicchieri di acqua dal rubinetto in cucina, poi mi buttai sul letto vestito, con le scarpe e con l'impermeabile, a faccia in giù, sul cuscino di lei, dalla sua parte, che anche se non aveva più alcun odore di lei, era però sempre di lei, e pensai al modo di uccidere quell'uomo. Mia moglie è la donna meno onesta del mondo, io lo so, ma io volevo lo stesso uccidere quell'uomo. Pensai tutta la notte a come ucciderlo. Dormivo una mezz'ora, poi mi svegliavo di colpo. In banca, avrei potuto prendere la rivoltella del guardiano addetto alle cassette di sicurezza, nel sotterraneo. Ma non era facile. All'alba mi alzai, andai nel cucinino, nel cassetto guardai i coltelli, erano bei lunghi coltelli, ma non tagliavano niente. Poi, non avrei avuto il coraggio di uccidere con un coltello. Allora girai per il cessino, come diceva lei, del nostro appartamento, angolo per angolo, e che a me piaceva tanto, angolo per angolo, sempre pensando a come ucciderlo, finché non vidi in un angolo del bagno, di fianco al lavabo, quel bidoncino di benzina. Era vuoto, lo avevo messo lì io, qualche settimana prima, per ricordarmi di restituirlo al distributore di benzina, poi naturalmente non me ne ero mai ricordato. Lo presi, lo guardai e pensai. Poi mi spogliai, intanto che riempivo la vasca di acqua calda, feci il bagno, poi mi rasai, uso sempre il sapone e il rasoio con la lametta, cambiai abito e al bar presi un caffè molto ristretto, poi andai in banca, a lavorare. Nel pomeriggio, quando uscii dalla banca, tornai subito a casa, presi il bidoncino di benzina e andai dal distributore di benzina vicino alla stazione che me l'aveva prestato e gli dissi se poteva riempirmelo ancora e lui mi disse: «Come, è rimasto ancora per strada senza benzina?” “Eh, sì,” dissi. “Si vede che l'indicatore della riserva non le funziona bene.» “Ah, quel rottame: non c'è più niente che funzioni.” M'importava solo la benzina, quella benzina carica d'ottani, la super super che s'incendia quasi da sola. Andai a casa, io abito in via Fabio Filzi, vicino al
ristorante cinese, e cominciai a preparare una bottiglia anticarro. Ai miei tempi, quando ero con la brigata in Val d'Ossola, le chiamavamo anche bombe Molotov. Sì, a diciannove anni, ma non li avevo ancora tutti, sono stato partigiano, ma per poco tempo, perché poi mi ammalai subito, dalla paura, credo dalla paura, ma un carrista m'insegnò a fare le bombe Molotov, lo facevamo per esercitazione, perché c'era un piano per scendere a valle e affrontare i carri armati tedeschi. Il nome vero che davamo a questa cosa, oltre che bottiglia Molotov, almeno noi, lì, in Val d'Ossola, era: “Beviti questa”. Non vedevamo l’ora, almeno a quell'epoca, di provarle, di tirarle contro qualche panzer, urlando: “Beviti questa”. Preparai la bottiglia proprio con cura, non è semplice come sembra. Verso le sette avevo finito, mi distesi sul letto, misi la sveglia alle undici, e mi addormentai morto, ma alle undici, al primo squillo, mi alzai e andai a bere un grosso bicchiere d'acqua dal rubinetto in cucina, avvolsi in un giornale la bottiglia, era una comune bottiglia di acqua minerale, uscii di casa, guidai verso la casa di questo uomo. Vi ero stato diverse volte, in un anno, per vedere mia moglie che ne usciva. Quando una cosa piace tanto, tanto, tanto, uno commette qualunque abiezione: solo per vederla, quindi, più volte avevo commesso l'abiezione di andare ad aspettare vicino a quella casa, per vederne uscire lei, mia moglie, con l'uomo che me l'aveva portata via, per vedere il viso di lei, i suoi lunghi capelli neri. Così ho fatto anche quella sera, venti aprile, ho fermato la mia 1300 un po' lontano dalla casa di quest'uomo che si chiama Guglielmo Lovinati, ha ventinove anni e ha un'auto a forma di pantofola che costa molti milioni, di colore verdone scurissimo e, con la bottiglia in braccio, mi sono messo ad aspettare sotto gli alberi di piazzale Baracca. Con quella bottiglia in braccio la gente poteva solo credere che andavo a una festina con amici. Conosco le abitudini di quest'uomo: per un anno mi sono informato, minuto per minuto. Sono pipistrelli che escono verso mezzanotte, vanno nei locali notturni a fare i belloni e adocchiare nuove ragazze per il loro mestiere. Prima di mezzanotte quest'uomo, Guglielmo Lovinati, di ventinove anni, di professione sfruttatore di donne, sarebbe uscito di casa. E infatti uscì, prima di mezzanotte. Uscì nel suo impermeabile grigio scuro, salì sulla sua macchina verdone scurissimo, e accese il motore. Gli stavo dietro. Lui non poteva sospettare, ero un signore con una bottiglia di vino in mano. Attraversai di corsa la strada, appena sentii che mise in marcia e così il motore era caldo, specialmente una sport da papponi come quella che si arroventa subito, feci come mi aveva insegnato il carrista in Val d'Ossola, per settimane e settimane, e scagliai la bottiglia Molotov contro l'auto. È esplosa, l'auto con dentro quell'uomo, come un carro armato colpito in
pieno. Perché quando non si è dei criminali, degli assassini, non si può uccidere direttamente, bisogna uccidere a distanza, e dopo aver pensato, tutta quella notte, al modo in cui sarei stato capace di ucciderlo, vedendo il bidoncino della benzina, mi ero ricordato della Val d'Ossola e del carrista che mi aveva insegnato a uccidere, così, indirettamente. Sono io l'assassino, l'auto è arsa come un camino di palazzo medievale, con dentro quell'uomo, e io l'ho ucciso volontariamente e coscientemente. “Due assassini sono troppi per un morto solo,” disse il giovane funzionario di polizia, giovane ma importante, “me ne basta uno.” “Sì, dottore,” disse il brigadiere. “Ma prima è venuto il marito di quella ragazza e ha detto che era lui che aveva buttato la bottiglia anticarro contro l'auto di quell'uomo, perché quell'uomo, il morto, gli aveva portato via la moglie e, non solo, poi gliel'aveva prostituita. Allora noi lo arrestiamo.” “Sì, conosco la storia, ma vada avanti.” “Scusi, dottore, ma due giorni dopo viene da noi un uomo un po' anziano, si chiama Sebastiano Biancoli, dice che la bottiglia anticarro l'ha buttata lui, era innamorato della moglie del suo amico e voleva uccidere l'uomo che l'aveva rovinata, e allora abbiamo arrestato anche lui.” “Benissimo, ma la bomba era una sola. Una bomba può essere tirata da un uomo solo, non da due insieme. O mi spiego male?” disse gelidamente il giovane funzionario. “No, dottore, scusi dottore,” disse il brigadiere. “È evidente che uno dei due cerca di proteggere l'altro. Sono vecchi amici, colleghi, per una decina d'anni e più hanno lavorato insieme nella stessa banca. Poi c'è la moglie del bancario.” “E la moglie cosa dice?” disse il giovane, autorevole funzionario. “Si tratta di Valeria Donato, moglie di Stefano Donato,» disse il brigadiere leggendo uno dei foglietti che aveva davanti a sé, “ha dichiarato che suo marito non è capace di uccidere nessuno, neppure una zanzara, e che l'idea che suo marito butti una bomba contro un'auto la fa ridere. Ha dichiarato anche che l'uomo che ha buttato la bottiglia anticarro è Sebastiano Biancoli, lei pensa che suo marito voglia difendere l'amico Sebastiano, dice che suo marito è un vigliacco e un...,” disse l'espressione popolare che indicava un non vigoroso, “dice che per uccidere bisogna essere uomini forti, e che lui non lo è.” “Sì,” disse, pochissimo cordiale, il giovane funzionario, “qui, però, ci sono sempre due assassini. Il marito e l'amico del marito. Tutti e due dicono: sono stato io. Lei ha arrestato tutti, il marito, l'amico del marito, la moglie, ma noi alla magistratura dobbiamo proporre un imputato, non degli indovinelli. Occorrono delle prove, delle testimonianze, dei documenti. Lei li ha, o no?” II piccolo brigadiere, il viso grigio, olivastro, abbassò il capo. “Sto
cercandoli, adesso telefono.” Umilmente chiese: “Posso telefonare, dottore?” Con un gesto della mano il giovane, importante funzionario accennò di sì, II vecchio brigadiere formò un numero al telefono, attese, pensando. Potevano essere stati tutti e due: il marito, l'amico del marito. Erano innamorati tutti e due di quella donna, si poteva chiamare anche così, pur essendo forse un termine improprio. Tutti e due avevano motivo di odio contro il bruciato vivo nella sua macchina. “Pronto?” disse, un po' sudaticcio. “Peppino, il bottone di chi è?” Ascoltò la risposta, disse, divenendo olivastro: “È sicuro?” “L'abbiamo provato alla sua giacca,” gli rispose la voce nel ricevitore, “con la scientifica, corrisponde perfino la fibra del filo, stiamo facendo le lastre fotografiche.” “Sbrigati, vengo subito,” disse il brigadiere, riappese il ricevitore. Un po' di colore roseo gli venne nel volto olivastro. “Mi scusi, dottore, ma adesso so chi è l'assassino. Due assassini sono troppi, lei ha ragione. Adesso ne abbiamo uno solo.” “Chi è?” disse il funzionario, meno gelidamente. “La scientifica ha trovato un bottone vicino alla macchina incendiata,” spiegò quasi scolasticamente il brigadiere. “Un bottone bruciacchiato dalle fiamme quindi pertinente al momento del delitto: un bottone di giacca da uomo. Perché abbiamo raccolto tutto, fotografato tutto. Quel bottone era bruciacchiato, cotto dal calore. Poteva essere di chiunque, anche di un passante occasionale, dell'anno prima, ma anche dell'assassino: quando si tira una bottiglia anticarro, bisogna tirarla con una certa violenza, con gesto violento, e allora da una giacca, in quel tirare, può saltar via un bottone.” “Sì, ma si spieghi più in fretta,” il giovane funzionario guardò l'orologio al polso. “Non possono essere stati tutti e due, non si va a tirare una bottiglia piena di benzina in due. Tutti e due dicono: sono stato io.” Alzò una spalla. “Lei deve dirmi se sa chi è, o se non lo sa.” II brigadiere, benché umile, disse con fierezza: “Ora lo so. Il bottone che è saltato via mentre l'assassino tirava la bomba anticarro appartiene proprio alla giacca dell'assassino. La scientifica ha i documenti: combaciano i colori del bottone con gli altri bottoni della giacca e perfino il filo col quale erano cuciti.” “E chi è?” disse il giovane funzionario. “È il marito di quella donna, Stefano Donato. Durante la guerra gli hanno insegnato a fare le bombe anticarro, e lui lo aveva imparato bene,” disse il brigadiere scuotendo il capo. “II suo amico Sebastiano Biancoli è accorso per salvarlo, sono amici da tanti anni, ma ormai non ci sono più dubbi.” II giovane funzionario disse: “Credo che questa prova basti per la magistratura,” e pensò: “Che strano.” Aveva ammazzato proprio quello che
non era capace di ammazzare una zanzara. Secondo sua moglie.
13 Bravi ragazzi bang bang
“Quale distributore?” disse il commissario. “Quello dei bastioni di Porta Venezia,” disse la ragazza. “Quando?” “Domani verso le quattro del pomeriggio.” “In quanti sono?” “Due giovani e una ragazza.” “Sono armati?” La ragazza sorrise, gli occhi vicini al pianto. “Hanno una rivoltella di quelle da cowboy, anzi due, non sparano neppure acqua.” “Come fa a sapere tutte queste cose?” “Sono la fidanzata di uno dei due.” “E perché viene a raccontarci che stanno per fare una rapina?» “Perché voglio che non la facciano, che non si rovinino, specialmente lui.” II commissario non ebbe bisogno di spiegazioni per capire chi era lui. “Mi dica i nomi di questa gente.” “Mario Parrà.” “È il suo fidanzato?” “No.” “Dove abita?” “Abitiamo tutti in fondo a Porta Vigentina, oltre il ponte, è lì che c'è il laboratorio di orologeria.” “Che c'entra il laboratorio di orologeria?” “È lì che lavoravano i due ragazzi.” “Adesso non ci lavorano più?” “No.” “Perché?» La ragazza con le dita si asciugò le lacrime, ebbe un solo, lieve, gentile singhiozzo. “Sa, agli uomini i soldi non bastano mai, erano pagati bene, perché sono operai specialisti in orologeria, Mario è specializzato in tutti gli orologi a tempo, ma sono giovani, spendevano molto, allora portavano fuori dalla fabbrica dei pezzi che poi rivendevano. Una volta li hanno scoperti e li hanno buttati fuori, e da allora non hanno trovato più lavoro, sa, signor commissario, le ditte chiedono referenze, vengono a sapere che hanno rubato, ed è finita, ma sono bravi ragazzi, io lo so, sono bravi ragazzi, sono bravi ragazzi, sono bravi ragazzi,” si copriva il viso con le mani e continuava a
dire che erano bravi ragazzi. “Può essere, ma rubavano nell'azienda dove lavoravano, e vogliono fare una rapina a un distributore di benzina. E poi sono dei deficienti. Che incasso sperano di trovare a un distributore alle quattro del pomeriggio? Cinquantamila? Ammettiamo per assurdo anche cento. E per centomila lire rischiano le pallottole di qualche poliziotto o una decina d'anni di galera?” La ragazza scosse il capo. “No, è di più, è l'incasso di tutta la settimana.” “Ah, sì, e perché?” “II giovanotto del distributore ogni sera porta a casa l'incasso e lo tiene in casa. Al mercoledì suo padre mette tutti i soldi della settimana in una borsa e verso le quattro passa da suo figlio, al distributore, a ritirare le ultime trenta, quaranta, cinquantamila, e porta tutto in banca, che è proprio davanti, al di là dei bastioni, nel viale della circonvallazione.” Forse bravi ragazzi, ma furbetti. “E come fanno a sapere questo particolare?” “Non lo so, signor commissario. Sono disoccupati da due anni, al principio hanno cercato lavoro, e continuano a cercarlo ancora adesso, il mio fidanzato ha perfino fatto domanda per lavorare nella nettezza urbana, ma non gli hanno ancora risposto, l'amico del mio fidanzato è andato a lavare le automobili in un'autorimessa, poi il proprietario ha preso la lavatrice meccanica e lo hanno mandato via. Se trovassero lavoro, sono buoni ragazzi, sono buoni ragazzi.» Va bene, va bene, pensò il commissario. “Continuiamo coi nomi. Mi dia nome, cognome, indirizzo, e mi dica tutto quello che sa di loro.” Lei disse tutto, e l'agente scriveva alla macchina per scrivere, lentamente, così che lei ebbe tempo di asciugarsi bene gli occhi e di riprendere forza per non piangere più. “Mario Farra ha la stessa età del mio fidanzato, sono amici da bambini, da quando andavano alle elementari e hanno fatto insieme le scuole industriali e la specializzazione in meccanica orologi. Poi c'è Giovanna Etruschi, è la ragazza di Mario, è romana, è venuta da Roma qualche anno fa, con la madre, sono venute ad abitare dalle nostre parti per risparmiare, sa, noi siamo quasi al Vigentino, l'affitto è sopportabile, il padre di Giovanna è rimasto a Roma, con un'altra donna, sono arrivate quasi senza una lira, i primi tempi, una sera, lei mi disse che se continuava così sapeva lei in quale viale andare per far soldi, e anche sua madre lo sapeva, perché anche la madre è ancora giovane, e allora io le ho consigliate di comprare a credito una macchina per maglieria, le danno facilmente, anche senza caparra, e se il lavoro va, si può tirare avanti. Hanno fatto così, e guadagnano qualche cosa, ma che fatica, e sono sempre lì, del resto come noi, col soldo contato, e lei non riesce a sposare Mario, e così sono tutti e due nervosi che non immagina.”
“Adesso, signorina, mi dica del suo fidanzato.” Dovette attendere che finisse di asciugarsi gli occhi con le dita, perché aveva ripreso a piangere. “È un bravo ragazzo.” “II nome, signorina,” disse il commissario paziente. “Fiorello Morandi, se potesse lavorare non avrebbe mai pensato una cosa simile.” Sì, va bene, perché allora i disoccupati hanno il diritto di fare rapine. “Ha genitori?” “II padre e la madre. Il padre va a lavorare tutte le mattine alle latterie di Locate Triulzi, è vecchio e non gliela fa più, va in bicicletta fino a Locate, e ha sessant’anni, ma è l'unico che porta a casa qualche lira.” “Quanti anni ha il suo fidanzato?” “Ventiquattro, come Mario, andavano a scuola insieme.” L'aveva già detto. Il commissario guardò l'agente, che scriveva lento a macchina. “E lei?” domandò alla ragazza. “Io?” il viso era tutto piccole chiazze rosse per il piangere, era divenuta anche brutta, per tante lacrime e tanta angoscia, pur avendo un volto che, anche se milanesemente popolaresco, aveva una sua profonda gentilezza. “Sì, lei,” disse il commissario. “Ha un documento di riconoscimento?” “Sì. La mamma mi ha detto di portarlo.” “La mamma?” “Sì, è stata mia mamma che mi ha consigliato di venire qui. Mi ha detto che se proprio volevo fare qualche cosa per Fiorello era di venire qui, e io ho pensato due giorni e poi ho pensato che, anche se sembrava una brutta cosa fare la spia, il solo mezzo per salvarlo era di venire qui. E lei mi ha detto di portare la carta d'identità.” La levò dalla borsettina di finta pelle verniciata e gliela dette. Teresa Beraschi, anni ventitré, nata a Milano, professione operaia, il commissario dettò i dati essenziali all'agente, e trattenne la carta d'identità, la posò sulla scrivania e sopra vi mise una lunga lista di bronzo che gli serviva da righello e anche per darla sulla faccia a qualche delinquente. “Lei, com'è stata coinvolta in questa storia?” le domandò, accendendosi finalmente una sigaretta, e cercando di non guardare il pietoso viso chiazzato della ragazza. “Avrei dovuto starci anch'io, ma io appena ho sentito la storia ho detto di no, e lui ha continuato a dire, insieme con Mario e Giovanna, che non c'era nessun pericolo e che non si poteva più vivere così, che volevano fare una decina di giorni da signori, se no diventavano matti. < Andiamo a Viareggio, > dicevano tutti e tre, < andiamo a Roma, > diceva Giovanna. Io ho detto di no, sempre di no, che erano matti, ho detto a lui che non lo volevo più se
faceva una cosa così e lui ha detto: e mi ha lasciato, l'ho incontrato due volte e ho cercato di convincerlo ancora, ma lui ha detto di no e mi ha anche trattata male. Allora mia mamma...” Sì, va bene, sua mamma le aveva detto di rivolgersi alla polizia. “Allora mi spieghi quello che le hanno detto per fare il colpo.” “Prima, hanno detto, rubano un'auto, poi alle tre vanno sui bastioni di Porta Venezia e parcheggiano lì, davanti ai giardini, e vicino al distributore. Poi aspettano che arrivi il padre del gestore del distributore. Hanno detto che prima delle tre il vecchio non arriva perché dopo mangiato dorme. Quando arriva, loro escono dal posteggio e vanno davanti al distributore, come per fare benzina, e d'improvviso strappano la borsa al vecchio e scappano.” Bel piano da deficienti, pensò il commissario, alle quattro del pomeriggio sui bastioni di Porta Venezia, con quattro file di auto costrette ad andare a passo d'uomo, anche fossero riusciti a prendere la borsa, al semaforo con corso Venezia sarebbero stati bloccati inevitabilmente. “Chi è che ha avuto l'idea di questo lavoro?” Nessuna risposta. “Signorina, lei sa chi è che ha organizzato la cosa?” Nessuna risposta, e allora il commissario capì: era stato «lui», il genio del quartetto, il fidanzato di quel povero, piagnucoloso essere. “È stato Fiorello Morandi.” Lei assentì, asciugandosi gli occhi con due dita, non aveva portato il fazzoletto. “Adesso che cosa gli farete?” domandò. «Cominciamo ad andare subito a prenderli, li portiamo qui e li interroghiamo un po'. Se non hanno legami con veri delinquenti,” se erano dei bravi ragazzi, come diceva lei, “se siamo sicuri che si tratta di una stupida pensata, allora, siccome non hanno commesso ancora niente, li rilasciamo.” Voleva darle un po' di speranza. E infatti i lucidi occhi di lei si aprirono alla speranza. «Non sono delinquenti, non vanno mai con la teppa, non si sono mai mischiati.” Sì, però rubavano il mestiere alla teppa. “Se è così se la cavano,” bastavano un po' di agenti che andassero subito a cercare questi tre esaltati, ed era fatta. Ma nessuno conosce il futuro, neppure la polizia. Gli agenti andarono quella sera stessa in casa di Mario Farra, specialista in orologi a tempo, un tempo, ma non c'era. La madre non sapeva dove poteva essere andato, né quando sarebbe tornato. L'agente le disse che sarebbe restato lì ad aspettarlo, dentro casa, si scusò del disturbo, ma erano gli ordini: il commissario Fulvio non si fidava dei bravi ragazzi. Altri agenti andarono in casa di Fiorello Morandi, ma anche lui era uscito,
la madre disse spaventata che non sapeva dove fosse andato, ma che il suo ragazzo non aveva niente a che fare con la polizia, che le dicessero, sedette respirando forte, il cuore che le si sconvolgeva dentro il petto, che le dicessero che cosa aveva fatto suo figlio. “Stia calma, signora, è solo per interrogarlo.” “Non ha fatto niente, non può aver fatto niente, è buono così, come il pane,” la vecchia grassa donna cardiopatica stese tutte e due le grasse mani come mostrasse del pane. Infine andarono a cercare Giovanna Etruschi. Non c'era neanche lei. La madre sì, ed era una giovane madre romana, alta, un grosso ma piacevole, sensuale naso, che alzò le spalle al poliziotto. “È uscita,” stava lavando i piatti e aveva smesso solo per aprire la porta agli agenti, poi aveva subito ripreso. “Sa dov'è andata?” “A me non lo dice.” Figuriamoci se a una ragazza di ventiquattro anni una madre ha il coraggio di domandare dove va. “Signora, sarebbe meglio per sua figlia che potessimo trovarla,” disse l'agente, era un ragazzo intelligente e voleva fare bene il suo lavoro. La romana smise di lavare i piatti, tirò fuori dalla spuma i guanti rosa di plastica. “Che c'è, che è successo, che ha fatto?” disse con pesante accento romanesco, le mani nei guanti rosa gocciolanti lungo i fianchi, il viso ancora così giovane, eppure già così sciupato dalla lotta ineguale contro la miseria. “Che volete da lei? A me lo dovete di’, io so' la madre.” “Vogliamo solo parlarle,” disse l'agente, “e più presto è, e meglio è. Ci dica soltanto dove possiamo trovarla, dove pensa che vada di solito.” “Gliel'ho detto: a me non lo dice,” e la donna scrutava l'agente per capire di quale gravità potesse essere quella ricerca, “esce e va, magari lo dice alla portiera, dove va, che fa, ieri mi ha parlato che andava a una festa e stasera ho visto che si metteva un po' meglio, può darsi che sia andata alla festa, ma che festa è, e dove, io non lo so. Che è successo? Che volete da lei? Per favore, me lo dica.” La tranquillizzarono e rimasero di guardia. Non avevano trovato nessuno dei tre, né Mario, né Fiorello, né Giovanna, e non avevano nessuna traccia per cercarli. Potevano soltanto restare lì ad attenderli, anche tutta la notte, finché fossero arrivati. Il commissario Fulvio, naturalmente, mandò anche un paio di agenti da quelli del distributore di benzina sui bastioni, per avvisarli della storia, per dirgli di tenersi i soldi in casa, anche sotto il materasso, se volevano, di non andare in giro con la borsa dei soldi per nessun motivo e al resto avrebbero pensato loro, i poliziotti. C'era qualche cosa di cui il commissario Fulvio diffidava moltissimo: i bravi ragazzi.
La romanina, come la chiamavano, cioè Giovanna Etruschi, era ad una festa, e c'era anche il suo ragazzo, Mario, e c'era anche Fiorello. Erano neppure a duemila metri dalla loro casa, dove gli agenti li aspettavano, oltre le ultime case di via Ripamonti, in una specie di baracca travestita da villetta disseminata fra gli umidi, nebbiosi, ma fertili terreni della Vigentina. Se la polizia lo avesse saputo, in un minuto sarebbe arrivata lì e li avrebbe presi. Ma non lo sapeva. È come quando fate la schedina, se sapete prima come è la colonna giusta vincete: ma non lo sapete. Erano le tre del mattino e la romanina ballava in quella che era la sala grande della baracca-villetta con un ragazzotto dai capelli lunghi lunghi sul collo, ma che non cantava e non suonava, portava i capelli così semplicemente perché non andava dal parrucchiere. Nella sala, abbastanza grande, non c'era molta gente, dopo mezzanotte i giovani se ne erano andati, erano rimasti dei genitori, pieni di sonno, ma con gli occhi a punta per sorvegliare le figlie, o dei fratelli sfortunatamente incaricati di sorvegliare la sorella, e una mezza dozzina di persone che non avevano altro posto dove andare, né sonno. La romanina ballava, ancora sprizzante furore di vivere, anche a quell'ora, anche in quel mediocre ambiente, felice anche se lo stomaco per la troppa birra e per i troppi krapfen non funzionava proprio bene. E Fiorello seduto su una poltroncina la guardava, ma più che vedere lei vedeva un vago ondeggiare di capelli neri di donna, i capelli di Teresa, quella volta che l'aveva portata a Locate, quando aveva bevuto gli venivano delle immagini così vive, l'erba era così calda, non avrebbe mai creduto che l'erba potesse scottare, e i capelli neri di lei gli ondeggiavano tutti sul viso, quasi li sentiva anche adesso, gli dispiaceva tanto averla persa, ma lui non voleva essere fermato da una donna. Invece Mario Farra, specialista in orologi a tempo, non aveva bevuto, non ballava, aveva solo caldo, ed era uscito dalla sala, in fondo si poteva chiamarla anche così, era andato in cucina per prendere del ghiaccio dal frigorifero e farsi un bicchierone di acqua ghiacciata. Quando se lo fu preparato e si volse per tornare in sala vide che vicino alla finestra aperta, da cui entrava la nebbia, era seduto uno che conosceva, un ragazzo piuttosto magro e abbastanza biondo, che si chiamava Ricco, spiritosa deformazione di Federico, dato che era un ladro, e che fumava a capo basso, respirando avido nicotina dalla sigaretta e nebbia dall'aria che veniva dalla finestra. “Ciao, Mario.” “Ciao, Ricco,” disse Mario, bevette, gli si avvicinò. “Stai male?” “No. Sto solo pensando che sono un cretino.” Ricco si alzò, indolenzito, ma non era ubriaco, non aveva bevuto, pareva solo infelice. “Solo questa sera ho commesso due sbagli grossi come un bidone. Primo, sono venuto a questa festa, chiamiamola festa: è la figlia di un vigile notturno che si è fidanzata,
figurati a me che importa della figlia del vigile notturno che si fidanza, ma sai, dover stare a casa tutte le sere dopo le nove perché sei sorvegliato dalla polizia, per qualche mese resisti, poi viene la sera che esci anche se sai che ti arrestano appena fuori dal portone. E così ho fatto io stasera, è venuto un amico a dirmi che andava a una festina, di un vigile notturno che aveva fidanzato la figlia, e siccome è ladro lui e ladro io, gli piaceva l'idea di andare a ballare in casa di un vigile notturno. Solo che lui ha finito la sorveglianza, mentre io no. Per venire poi a fare che, qui? E tutta brava gente, padri, madri, ragazze, che prima di lasciarsi mettere una mano addosso ci vuole la carta da bollo da quattrocento lire. Che cretino, che cretino. Se la polizia è stata a casa e non mi ha trovato, mi piglio un altro anno di casa di lavoro, e per venire qui.” “Non te la prendere così,” disse Mario, e bevette un altro po' d'acqua. “Forse non ti ha cercato.” “Ma questo è niente. L'altro errore è che mi sono portato addosso la rivoltella,” continuò invece Ricco, rabbioso contro se stesso, sempre più rabbioso, “e perché, lo sai perché, tu? Perché invece io non so niente? Quando sono uscito di casa, non so perché, ho tirato fuori la rivoltella da dietro lo specchio del bagno dove la tengo nascosta e me la sono messa in tasca. Perché? Perché sono cretino.” Abbassò la voce, tirò fuori una modesta, comune ma temibile Beretta, guardò verso la porta. Quasi piangeva, mentre parlava: “Mario, fammi un favore, tienimi la rivoltella fino a domani. Domani quando hai tempo me la riporti. Tu non sei un pregiudicato come me, e non sei sorvegliato, anche se te la trovano addosso senza porto d'armi non è niente, ma se pescano me con questa ho finito, e sono stufo, stufo, di vivere sempre in galera.” Tendeva la rivoltella in modo che lui, Mario, la prese e se la mise subito in tasca, anche perché se passava qualcuno e dalla porta della cucina li vedeva giocherellare con quella roba, al minimo poteva pensare male. “Domani me la riporti, però.” “Certo.” “Stai attento che la sicura non funziona. Appena la tocchi, parte.” Uscirono dalla cucina insieme. “Vai a casa,” gli disse Mario. “A quest'ora non c'è più polizia.” Nel salone Mario sedette vicino a Fiorello, che stava quasi dormendo. “Che facciamo?” disse. Fiorello si levò dagli occhi e dal viso gli immaginari capelli neri di Teresa (Teresa Beraschi, anni ventitré, nata a Milano, professione operaia, ecco, era pantalonaia, delle grandi aziende e anche molte sartorie eleganti le mandavano i pantaloni da completare), si tolse dalla pelle quel secco profumato calore di erba calda, e dalle mani il senso plastico del corpo di lei,
quel giorno, a Locate, e disse quasi a occhi chiusi: “Restiamo qui finché non ci buttano fuori.” “Sì, bene,” a Mario piaceva il modo di parlare deciso di Fiorello. “Ad ogni modo, per le sei e mezzo dobbiamo essere in centro e aver trovato una macchina,” disse Fiorello. Trovato era una metafora per rubato. “Dopo quell'ora è più difficile prendere la macchina buona.” Era giustissimo, pensò Mario. “Poi andiamo a casa a dormire,” disse. “Mario, cerca di pensare prima di parlare,” disse Fiorello, aprendo un poco di più gli occhi. “Vuoi che ci facciamo vedere a casa nostra con l'auto? Siamo i barboni fissi del Vigentino, viviamo di carità e di scrocco, ci chiamano per pulire i vetri o i pavimenti, e noi poi arriviamo lì con l'auto, magari una Mercedes. Anche mia nonna, se l'avessi, capirebbe che l'abbiamo rubata. Noi non ci facciamo più vedere, a casa. Dopo aver fatto il lavoro, vedremo.” “Sì, Fiorello,” disse Mario. “Ma cosa facciamo fino alle tre del pomeriggio?” “Giriamo,” disse Fiorello guardando ballare le poche coppie. Dalle finestre aperte perché la gente non soffocasse dal caldo dei caloriferi, adesso entrava, però, oltre a folate di nebbia così umida che sembravano stracci bagnati sul viso sudato, anche il freddo. “Giriamo e un po' ci fermiamo, ci fermiamo e un po' giriamo, con una macchina rubata non va bene né stare troppo tempo fermi in un posto, né girare troppo: bisogna dosare.” Parlava come se si trattasse di un orologio: bisognava dosare l'energia del rotismo. “Dormiamo a turno, uno guida, e gli altri dormono, e non ci si ferma a nessun caffè o bar, meno gente ci vede, meglio è. Alle tre e un quarto di domani siamo davanti al distributore, sui bastioni.” Alle quindici e un quarto dell'indomani, attraversavano piazza della Repubblica e imboccavano i bastioni di Porta Venezia, su una Giulietta grigio chiaro quasi nuova che scalpitava come un cavallo: era stato un colpo fortunato, e tutto si era svolto come aveva programmato Fiorello. Andava bene anche la nebbia, non che non ci si vedesse, ma a dieci metri non si poteva più distinguere bene un viso dall'altro, tutte le immagini, volti, auto, vestiti, cominciavano a essere distinte con pochissima sicurezza. La Giulietta passò lenta, insieme al fiume di macchine che andava verso Porta Venezia, diviso in quattro file, come aveva predetto il commissario Fulvio, ma loro non sapevano nulla di questa predizione, passò lenta davanti al distributore, e neppure dieci metri dopo un altro colpo di fortuna: lo spazio per posteggiare, un vuoto miracoloso in mezzo a quell'implacabile fila di macchine che posteggiava davanti ai cancelli dei giardini pubblici. «Adesso stiamo quieti qui e guardiamo,” disse Fiorello, stava di dietro con
la romanina che, nonostante la tensione, continuava ad aver sonno. Era un luogo ideale per guardare senza essere notati: sorvegliavano di scorcio il distributore, vedevano il giovanotto in tuta bianca che usciva dal suo chiosco quando una macchina si fermava per fare benzina, avrebbero potuto vedere, sia pure confuso nella nebbia, l'arrivo del vecchio con la borsa, nello stesso tempo però, loro, nell'interno della macchina, con quella nebbia, non potevano essere veduti. Mario, che era al volante, spense il motore. “Non sono neppure le tre e venti,” disse, soddisfatto della puntualità, mise la mano nella tasca sinistra della giacca, era mancino, per prendere il pacchetto delle sigarette e sentì tra le dita, oltre il pacchetto delle sigarette, il freddino della Beretta. Se ne ricordò d'improvviso, si ricordò d'improvviso che Ricco gli aveva detto che la sicura non funzionava, di stare attento. Gli si seccarono le labbra dalla paura, quella magari sparava da sola. Poi, lentamente, fumando, la paura gli passò, anzi pensò che adesso forse ci sarebbero riusciti, in ogni modo. Ammirava Fiorello, ma una rapina con una pistola di plastica non lo convinceva, anche se era una rapina prudente. La Beretta non era di plastica. “Ecco il vecchio che è arrivato,” disse Fiorello. “Sbrigati, andiamo a fare benzina.” Erano le tre e quarantadue, aspettavano da solo venti minuti. Si vedeva, nella nebbia, un vecchio che era appena entrato nel chiosco del distributore tenendo una grossa borsa di pelle nera. Era uno dei più giovani e fegatosi agenti del commissario Fulvio, truccato da una di un istituto di bellezza del centro, come se dovesse recitare alla televisione, ma loro non lo sapevano, e la Giulietta, a marcia indietro, schizzò via dal posteggio e andò a mettersi davanti al distributore. Fiorello scese. Mario era al volante, col motore acceso, la romanina aveva accavallato le gambe perché aveva una paura tale che non credeva di potersi contenere. “Super?” domandò il distributore. Una Giulietta così voleva solo super. Due agenti, da dietro il chiosco, seguivano la scena. A venti metri, mimetizzata dietro un camion, c'era un'Alfa della Questura, senza lampeggiante, e quattro poliziotti in borghese, armati, occhieggiavano. Il commissario Fulvio avrebbe voluto aver fiducia nei bravi ragazzi, ma aveva avuto tante amare esperienze. “Super?” ripeté il giovanotto in tuta bianca, così, formalmente, staccando la pompa dalla colonnina della super. «Faccia spegnere il motore.” Fiorello guardò avido nell'interno del chiosco il vecchio che stava frugando nella grossa borsa nera. Non c'era un passante, solo macchine, non esistono più passanti. Levò dalla tasca dei calzoni la rivoltella, la rivoltella da cowboy: “Buttati per terra.
Quello si buttò per terra, ubbidiente, sapeva che era difeso da una mezza dozzina di agenti, gli avevano detto che forse quei ragazzi erano armati soltanto di rivoltelle da bambini che non facevano neppure clic, ma gli avevano detto anche di essere prudente perché non si sa mai. “Dai la borsa,” con la rivoltella di Toni Dooley di cartapesta, Fiorello saltò dentro il chiosco e afferrò la borsa del vecchio. Il poliziotto lo prese per il braccio. “Smettila, buffone, siamo della polizia, stai tranquillo che ti conviene.” Allora Fiorello capì, e prima di capire era ancora un uomo civile, forse sbagliato, diseducato, ma civile. Appena ebbe capito, però, sprofondò nella preistoria, divenne l'uomo di Neanderthal inseguito dal tirannosauro alto come due piani di case: ciecamente colpì il poliziotto con una ginocchiata ed ebbe la sfortuna di prenderlo in pieno, lacerandogli il peritoneo, e il giovane agente travestito da vecchio si afflosciò e morì in tre minuti per emorragia interna. “Apri la portiera, cretina,” urlò Mario alla romanìna, «fallo salire.” Fiorello si buttò dentro l'auto, e Mario stava per mettere in moto quando uno dei due agenti di guardia accorse con la rivoltella puntata. Dietro di lui stava accorrendo l'altro, e da dietro il camion a venti metri di distanza l'Alfa con gli agenti in borghese uscì dal suo nascondiglio e manovrò per avvicinarsi al chiosco. Nel fiume di macchine che transitava sui bastioni, qualcuno intuì che stava accadendo qualche cosa e tentava di rallentare la marcia per vedere, ma era impossibile, le auto dietro lo sospingevano con nervosi strombettii. “Sì,” disse Mario, finse di ubbidire, si mosse come volesse scendere, mise la mano sinistra, intanto, nella tasca sinistra della giacca, e tirò fuori la Beretta, era mancino, durante il servizio militare al poligono di tiro aveva battuto il suo sergente, mirò al viso e il viso del poliziotto saltò. Il poliziotto che era di dietro allora sparò contro di lui, ma non ebbe fortuna, mancò il colpo e Mario colpì anche lui al viso, mentre schizzava via con la Giulietta. “Dove hai preso quella rivoltella, maledetto?” urlò Fiorello da dietro. “Hai ammazzato due poliziotti, disgraziato.” Mario non poteva rispondere. L'Alfa della polizia lo aveva raggiunto, superato, e adesso lo bloccava piegando a destra; un milite da uno dei finestrini puntava il mitra, ma lui bloccò l'auto e fu più pronto: al poligono aveva fatto 118, i mancini sono terribili e la domenica seguente il colonnello gli aveva detto «Ehi, Sparafucile”, se lo ricordava ancora, “Ehi, Sparafucile”, proprio dal colonnello, fu più pronto perché sporse la sinistra dal finestrino e mirò al viso del milite col mitra, lo prese in fronte dove lo voleva prendere, e lo fece scoppiare in un solo grumo, e nello stesso tempo con la destra
manovrava il volante e le marce e con venti centimetri di marcia indietro riuscì a disincagliarsi dall'Alfa che gli bloccava la strada, fece una curva a U e schizzò via. “Dove hai preso quella rivoltella, disgraziato,” urlò ancora Fiorello, “fermati, dove credi di andare?” Dove credevano di andare? Non volevano più andare in nessun posto, esplodevano soltanto, come gatti selvatici inseguiti si arrampicavano ovunque, tentando di ruggire come tigri, soffiando più di paura, anzi soltanto di paura verso i loro inseguitori. La romanina, al limite del collasso, tutta sudata fredda, disse: “Ci sparano.” Gli agenti dall'Alfa spararono alle gomme della Giulietta grigio chiaro. Il traffico sui bastioni, per i colpi, aveva subito un cambiamento imprevisto: quelli che si trovavano all'altezza della sparatoria acceleravano paurosamente e vi furono diversi tamponamenti; quelli che invece, provenienti da piazza della Repubblica, erano ancora distanti dalla zona di guerra si bloccavano e tentavano di invertire la direzione, cosa impossibile. “Ci sparano, Mario, fermati, dai retta,” urlava colando sudore freddo da tutte le parti la romanina, “non combini niente...” e fu la sua ultima frase nella vita, una fiamma la vestì come un abito rosso, vestì tutta l'auto, e coloro che erano dentro, il serbatoio si era incendiato con tutti quei colpi, divenne un tizzone d'inferno e precipitò fiammeggiante per la scarpata erbosa e giardinesca, che scende su viale Vittorio Veneto, rotolò due volte e sbattè, ringhiando fuoco, contro un grosso albero che la fermò, ma che cominciò a prendere fuoco. Tutto era durato 38 secondi, scrisse un cronista la sera stessa, nell'ultima edizione. La televisione, nel giornale della notte, trasmise la notizia finendo con la domanda drammatica: “Vengono da Marsiglia i banditi del distributore?” “Signorina, lei mi deve dire la verità, lei mi deve dire le compagnie che frequentavano questi ragazzi,” disse il commissario. “Questi ragazzi hanno ammazzato quattro dei miei uomini, lo sa cosa vuoi dire quattro uomini morti, signorina? Lo sa? Lei mi ha detto che erano armati di rivoltelle di plastica, invece hanno sparato e ucciso. Dove hanno preso le armi? Chi li ha diretti? Signorina, chi li ha guidati? Questo non è un colpo da dilettanti. Mi dica tutto quello che sa su di loro, le compagnie che frequentavano, sono morti quattro uomini, lei non può tacere!” Il commissario battè un pugno sul tavolo. L'ausiliaria di polizia, dottoressa Milazzo, teneva un braccio intorno alle spalle di Teresa Beraschi, pantalonaia di ventitré anni. “Dottore,” disse al commissario, “non è in grado di rispondere,” cercava di tenere su anche il viso della ragazza, cadente, gonfio di sofferenza. “Sì, va bene,” disse il commissario Fulvio alzandosi di scatto. “La tenga in infermeria, ma appena si rimette mi avvisi.» Guardò i capelli scuri della
ragazza, la pantalonaia milanese del Vigentino, che teneva il capo ciondolante sostenuto dal braccio dell'ausiliaria. “Ma cosa continua a dire? È mezz'ora che fa quel verso e non capisco che cos'è.” “Bisogna portarla in infermeria, dottore,” disse l'ausiliaria, “è un'ora che continua a dire...” “Che cosa continua a dire?” “Continua a ripetere: era un bravo ragazzo.” Sì, era un bravo ragazzo, Fiorello, e anche Mario, relativamente bravi, di assoluto non c'è niente, ma chi lo avrebbe creduto? Chi avrebbe mai creduto che erano due cretini che volevano passare una quindicina di giorni di vacanza con le loro ragazze assalendo un benzinaro? Due cretini dell'estrema periferia milanese del Vigentino che volevano solo fare i signori per un po' di giorni. Un giornale della sera di Roma parlò perfino di “Cosa Nostra», erratamente e stupidamente era stata messa in moto anche l'Interpol; ma solo lei sapeva chi erano quei due, solo la pantalonaia, lei. “Era un bravo ragazzo,” continuava a ripetere, quella voce gonfia, quel viso gonfio, diceva “era” perché gliel'avevano fatto vedere bruciato, per il riconoscimento: aveva riconosciuto il suo orologio, l'orologio del suo Fiorello, specialista in orologi calendari, quelli che segnano il mese, i giorni della settimana, la luna. “Era un bravo ragazzo,” la testa le ciondolava sotto quella valanga di dolore. “Era un bravo ragazzo.” “Vieni, Teresa, andiamo a riposare,” diceva l'ausiliaria, la dottoressa Milazzo, cercando di sostenerle il capo che ciondolava così stranamente, come in un pupazzo guasto. “Erano bravi ragazzi, tutti quanti.” “Vieni, Teresa,” doveva quasi trascinarla, un agente l'aiutò a sostenerla. “Era un bravo ragazzo,” alzò il viso tumefatto dal dolore come se l'avessero preso a pugni per un giorno intero. Li guardò, la dottoressa Milazzo e l'agente che la sostenevano. “Io volevo salvarlo,” disse. Il capo le ricadde, come rotto. “Era un bravo ragazzo.”
14 Strangolare ma non troppo
Era una passeggiatrice, ma ci vedeva poco. È vero che una sua amica, non che fossero tanto amiche, era insomma una collega, portava gli occhiali, ma quella lo faceva per motivi professionali, per attirare di più, aveva ventitré anni ma si travestiva da studentessa liceale sedicenne, con le treccine, gli occhiali e un paio di libri sotto braccio, tra cui un vocabolarietto italiano-tedesco perché c'erano sempre tanti tedeschi in giro per il Parco, nel tentativo di far credere, anche alle tre del mattino, che stava studiando le coniugazioni forti e deboli dei verbi tedeschi. Ma una di ventitré anni può permettersi il lusso di portare gli occhiali, anche se ci vede benissimo, lei invece ne aveva quarantatré cioè venti di più, e se si metteva gli occhiali sembrava la nonna Cascherella. Però da vicino ci vedeva benissimo e in quel vialetto dietro il palazzo della Triennale, prima aveva distinto, alla brava, la macchia bianca della Giulietta, poi si era avvicinata alla macchia bianca, aveva messo quasi la testa dentro il finestrino e aveva visto quella bella ragazza bionda che l'aveva fissata sorridendo da canzonatura, e poi aveva udito quella voce sommessa eppure così aspra di uomo: “Ma vattene via, racchiona.” Lei certo aveva risposto con varie parolacce e se ne era andata, ma pensava che se ci avesse visto meglio non le succedevano questi inconvenienti, aveva provato con le lenti a contatto, ma l'occhio non le resisteva. Poi, allontanandosi, alzò una spalla: tanto, per quello che c'era da vedere, in questo sudicio mondo. Nell'interno della Giulietta bianca il dottor Mario Alovio disse, sempre con quella sua voce sommessa ma un poco aspra: “Ti ho già detto l'ultima volta che non ti avrei dato più una lira.» “Dammi ancora centomila lire e ti lascio in pace.” Era proprio una ragazzina, lo si sentiva anche dalla voce, non aveva neppure quindici anni. “Anche l'ultima volta hai detto la stessa cosa, e adesso sei tornata alla carica.” Non era tardi, erano passate da poco le dieci, in quella calda sera d'estate il Parco di Milano, stranamente, quasi come un bosco, alitava verdi ondate di profumo di piante e perfino dal parabrezza dell'auto si riusciva a distinguere, oltre i rami di alti alberi, qualche stella, limpidissima nonostante la calura. “No, questa volta è vero,” lei disse con la sua voce infantile. “Se mi dai i soldi non mi faccio vedere più.” “E se non te li do?” disse il dottor Mario Alovio. Lei rispose pronta, come una bambina che recita una poesia: “Allora
vado in polizia e racconto tutto, che sono venuta da te, all'ambulatorio, per le endovenose, e che dopo io aspettavo un bambino, ma tu hai detto che non era niente e me lo hai fatto perdere. Lo racconto anche ai giornalisti.” II dottor Mario Alovio, ascoltando, guardava le limpide stelle oltre il parabrezza. Chi insegnava a quella sporca ragazzina a ricattare così? Evidentemente il solito approfittatore. Continuò a guardare le stelle, e a pensare. Era un gioco che non avrebbe avuto mai fine, più lui avesse pagato, più avrebbe dovuto pagare, e quando non avesse avuto più un soldo, la ragazzina l'avrebbe denunziato. “Allora me li dai i soldi,” disse lei, quasi querula, come i bambini che insistono per le caramelle. Quasi automaticamente, mentre dentro di lui montava un freddo furore incontrollabile, disse: “Sì, certo.” Un attimo dopo le sue mani strinsero la ragazza al collo. Erano robuste mani di medico che sapevano dove, come e quanto premere. Durò pochi secondi. Poi il dottore si rilassò. Quello non era il momento di sbagliare. Non accese una sigaretta, il fumo è un falso tranquillante, stette semplicemente tutto appoggiato allo schienale cercando di non guardare la ragazzina che aveva accanto, ormai fuggita in altra dimensione, ma di cui poteva vedere i sandali d'oro e un po' delle corte, tozze gambe. E come mai, si domandava, svagato, era andato a invischiarsi con una volgarissima serva come quella. Misteri dell'anima, se il termine non era improprio, puerile. E quando fu rilassato capì che la strada giusta era di buttar fuori la ragazza in un posto adatto e avviò la macchina. Girò piano per i vialetti più bui, finché ne trovò uno anche solitario, oltreché buio. Guardò bene che non ci fossero coppie nascoste, attese ancora un minuto poi aprì lo sportello e, senza scendere, spinse fuori la ragazza, che cadde sul morbido dell'erba del prato. Richiuse subito la portiera, senza colpo brusco, mise in moto dolcemente, si allontanò quieto e cercò subito il vialone principale, quello che conduceva a Foro Bonaparte. Intanto pensava, millimetro per millimetro, a tutti i passi che doveva fare. Il cinema poteva essere una soluzione. “Dove si trovava lei ieri sera?” “Sono andato al cinema.” “Quale cinema?” “Al cinema Eden, devo avere ancora il biglietto in qualche tasca.” Guardò l'orologio sul cruscotto: le dieci e venticinque passate, forse faceva ancora in tempo. Arrivò in largo Cairoli, davanti al cinema, e fu fortunato perché c'era un branco di gente che stava dando l'assalto alla cassa, così lui prese il biglietto confondendosi con loro, in modo che la cassiera non poteva ricordarsi di lui, arrivato così in ritardo: doveva far credere di essere entrato al cinema alle otto e mezzo, all'inizio del penultimo spettacolo.
Nel buio della sala continuò a rilassarsi e intanto osservò ogni particolare: aveva vicino un signore completamente calvo, il film si intitolava Omicidio per appuntamento, in quel momento davano un documentario intitolato “Mio padre”, e quando le luci si accesero, chiese di accendere la sigaretta al signore calvo che aveva vicino, lo guardò fisso negli occhi, gli sorrise per ringraziarlo, e fu sicuro che quello lo avrebbe riconosciuto, avrebbe potuto testimoniare che lui quella sera si trovava al cinema Eden, a vedere un film. Poi venne buio, guardò un pezzo di film, quel tanto per capire di che cosa si trattava e pochi minuti prima delle undici uscì, dopo aver controllato che il biglietto del cinema era nel taschino della giacca, unico luogo dove le serve non guardavano mai e non pulivano mai, sicuro che il biglietto sarebbe rimasto lì fino all'eternità. Aveva parcheggiato la Giulietta lontano dal cinema, tanto la città con quel caldo era semivuota e c'era posto dappertutto. Andò a casa tranquillo, portò l'auto in garage, si fece notare bene dal giovanotto in tuta bianca, e fece quietamente i duecento metri dal garage a casa, aprì il portone, entrò nell'ascensore, salì al quinto piano e aveva appena messo la chiave nella serratura che la porta si aprì, e sua moglie gli sorrise. “Come mai così presto?” disse lei, tutti i bei capelli biondi sciolti, nel tailleur da casa in tessuto dorato, i calzoni dalla gamba aderente aderente. “Ti ho visto arrivare dalla finestra.” “II film era davvero troppo stupido,” disse lui, togliendosi subito la giacca. “Io avevo già fatto tutti i miei calcoli,” lei disse, “tu te ne vai al cinema da solo e io intanto invito il mio amante. Mi hai pescata in pieno.” Anche lui sorrise, la tenne per un braccio ed entrò nella sala con lei: c'era, bivaccante nella poltrona, che nemmeno si alzò, quella faccia di melma di Alessio, e sorrise anche a lui. “Ciao, Mariolino,” disse Alessio, allungando il braccio per stringergli la mano. “Ciao, fetente,” lui disse continuando a sorridere, e sedendo vicino a lui, dopo avergli stretto, con segreto ma violento disgusto, la mano. “Grazie,” disse Alessio, “un amico si riconosce subito da come saluta.” Andarono avanti fino all'una con le spiritosaggini, sua moglie trionfava col suo tailleur e con quei calzoni così aderenti, col seno che rigonfiava la giacca, bevettero tutto il bevibile che c'era nel frigorifero, poi finalmente la faccia di melma di Alessio se ne andò e lui si permise il lusso di fare il geloso, perché così nessuno avrebbe mai pensato che uno che ha ucciso un paio d'ore prima facesse l'Otello. “Cerca di non scherzare troppo,” disse infilandosi i calzoni del pigiama, “perché se no una volta o l'altra vi rompo la faccia a tutti e due. Non mi piace per niente che appena io sono via un paio d'ore, quando torno a casa trovo quel
cretino.” “Oh, senti,” lei disse, “mi ha telefonato che tu eri appena uscito, non potevo dirgli di no, è venuto qui, ha bevuto un bicchiere e ti ha aspettato.” “Grazie molte. Ma sei avvisata,” disse ancora con quella voce sommessa ma aspra, “l'Alessio o il Riccardo li ricevi quando ci sono io. Se no dici che hai il mal di testa.” “Sissignore,” lei disse, cercando ancora di scherzare. Si era tolta il tailleur e tentava, con voluta goffaggine, di infilarsi lentamente, molto lentamente, la lunga vestaglia trasparente. “È inutile che fai la vezzosa,” disse lui aspro, le voltò le spalle come deve fare un marito geloso e irritato e pensò che era stato molto sfortunato con le donne. Come mai aveva sposato una donnaccia simile? Forse perché era donnaccia? E avevano già scoperto, forse, il cadavere della ragazzina? Sì, naturalmente, lo avevano già scoperto. E un medico, un collega, aveva già anche firmato il certificato di morte, e nella borsetta della ragazzina la polizia aveva trovato una lettera a lei indirizzata da un'amica che viveva in Piemonte, così la morta era già stata individuata e al mattino dopo sarebbero cominciate le indagini. Che cominciarono, ma su una strada sbagliata. L'ipotesi che fece la polizia era che la ragazza, costretta alla “vita”, fosse stata uccisa dal suo sfruttatore, anche i giornali parlarono di «minorenne strangolata dall'ignobile individuo che la sfruttava. Imminente l'arresto dell'abbietto sfruttatore”. Anche la passeggiatrice che ci vedeva poco, e che quella sera si trovava al Parco, senza volerlo spinse le indagini in quella direzione, dicendo che lei aveva veduto la morta, l'aveva riconosciuta dalle foto pubblicate dai giornali, nell'interno di una Giulietta bianca, con un uomo che doveva essere il suo sfruttatore. Di Giuliette bianche non ce n'è un'infinità, a Milano, comunque ce ne sono molte, troppe per indagare su tutte. Vennero fermati un paio di giovanotti su Giuliette bianche, ma non c'entravano per niente. La caccia allo sfruttatore che aveva strangolato la ragazza continuò per settimane, e lo sfruttatore, l'unico che sapesse chi aveva ucciso la ragazza, quello che aveva insegnato alla ragazza a ricattare il dottor Mario Alovio, si spaventò. Se lo prendevano, aveva voglia a dire che la ragazza poteva essere stata strangolata solo dal dottor Mario Alovio, nessuno gli avrebbe creduto. Tra un bugliolo come lui, e un immacolato, incensurato laureato in medicina, i giudici avrebbero creduto solo al medico. E allora, così spaventato, lo sfruttatore espatriò, le indagini si infiacchirono, presero forma di una cartella chiusa in un cassetto e di varie schedine e fotografie. Attraverso i giornali il dottor Mario Alovio seguì le indagini. Era difficile che la polizia scoprisse che la ragazzina andava a farsi fare delle endovene di calcio da un certo dottore, e che questo dottore fosse proprio quello che l'aveva strangolata. Infatti non lo
scoprì. Nell'avanzata primavera del 1967, quasi a un anno di distanza, la polizia non era arrivata a lui, per la semplice ragione che non vi era nessuna traccia che conducesse a lui. A ogni modo egli conservava ancora il biglietto del cinema Eden nel taschino di quella giacca. La primavera del 1967, come tutti ricordano, fu molto fredda, in certe sere, e in certe zone, come la Conca Fallada, vi fu perfino un ritorno di nebbia. Ma era sempre primavera, e a lui la primavera aumentava il metabolismo. Non era un uomo normale e, come medico e come persona intelligente, lo sapeva. La sua anormalità si accentuava in quella stagione; la vicinanza della moglie, forse per il semplice fatto che era la moglie, gli dava stanchezza e apatia, di notte tardava ad addormentarsi, anche se tentava di aiutarsi con qualche sedativo, i capelli biondi di una ragazza vista passare per la strada lo tenevano sveglio, poi si addormentava, ma solo per qualche decina di minuti, d'improvviso si svegliava con quella ragazza, o un'altra, tra le braccia, e non dormiva più, Uscì una sera di fine aprile, era tornato a casa alle nove, dopo aver visitato fino a quell'ora un mucchio di bronchitici e di vecchi che non sapeva come facessero a essere ancora vivi. Aveva mangiato rapidamente osservando sua moglie che guardava la televisione, guardandola come una cosa necessaria ma sgradevole, e poi l'aveva salutata. “Vado a fare un giro.” Non la portava mai con sé, se non qualche rara domenica. Era anche timido ma lui, dopo l'esperienza con la ragazzina, si era molto impaurito: le sue pazienti le lasciava stare, anche quando erano loro che tentavano, e se non c'erano quelle non gli restava molto altro, perché non aveva tempo di fare corteggiamenti, con un'ora o due di tempo libero al mese non aveva molto da corteggiare, e l'ultima al mondo che avrebbe corteggiato era certo sua moglie. Perciò quella sera avviò la Flaminia blu scuro direttamente verso il Parco, in fondo sapeva che era un poco la storia dell'assassino che torna sul luogo del delitto, era infatti dall'estate precedente che non tornava al Parco, ma si trattava soprattutto di un luogo molto comodo e discreto e per questo vi si diresse. Nell'aria quasi nebbiosa, fredda, tanto che teneva acceso il riscaldamento, fermò la Flaminia, appena possibile aveva cambiato la Giulietta bianca, accanto a una dai lunghi capelli biondi spioventi sul petto che appena si piegò verso il finestrino si accorse che era una quarantenne. “Così giovane e così solo,” gli disse, senza neppure vederlo bene, perché faceva la passeggiatrice, anche con quel freddo, ma non ci vedeva lo stesso, ci vedeva ancora meno quando faceva freddo, e non poteva mettersi gli occhiali come quella sua amica, non era proprio amica, una collega, che aveva ventitré anni e si faceva passare per minorenne, studentessa di lingue straniere.
Lui aprì la portiera e la lasciò salire, era proprio il tipo di biondo che aveva in mente lui da tanto tempo. “Se vai più avanti e poi volti a destra, c'è un po' più di buio,” lei disse con dolcezza, perché a quarantatré anni una donna impara il tono di voce giusto da usare con gli uomini. E anche la voce era proprio il tipo, il tono di voce che lui desiderava udire da tanto tempo. Erano le dieci e dieci, forse dieci e undici. Alle dieci e trentotto, forse trentanove, la bionda, del tipo di biondo che proprio voleva lui, e con la voce dolce che proprio aveva in mente lui, si mise d'un tratto a gridare, con voce ben differente e per niente dolce: “Sei quello che ha ammazzato la ragazzina l'anno scorso, eri su una Giulietta bianca, ti riconosco dalla voce, brutto assassino, prima le sfrutti le donne, e poi le ammazzi...” Egli non poteva prevedere questo fatto, gli uomini in fondo non possono prevedere nulla, anche se pensano di prevedere tutto o quasi. Ricordò la passeggiatrice che l'estate prima aveva messo la testa nel finestrino aperto della Giulietta e lui che le aveva detto: “Ma vattene via, racchiona”, ma non poteva prevedere di rincontrare proprio quella, e che quella lo riconoscesse e lo accusasse così esplicitamente, e clamorosamente. Non poteva prevedere, ma doveva difendersi, e si difese come poteva: il grido di quella che non ci vedeva si spense di colpo sotto le ferme mani di lui, che sapevano esattamente dove, come e quanto stringere. Questa volta, però, la cosa fu più lunga: la donna si dibatteva, gemeva, e nel buio del vialetto poteva esserci qualcuno che udiva, qualche coppia, e solo per questo, non per crudeltà, le batté rudemente la fronte contro la bottoniera di metallo della radio e, da medico, capì che il colpo era stato giusto, benché sentisse che colava troppo sangue. Comunque lei non avrebbe più parlato. Cercò di rilassarsi, ma non era facile, sentiva che vi era molto sangue, nell'auto, e l'odore del sangue umano, come spiega la psicanalisi, scatena terrori ancestrali, voglia di fuggire, di urlare. Ma era medico, scienziato, e riuscì a controllarsi. Sapeva di dover fare molte cose, e tutte molto lucidamente, non poteva lasciarsi prendere dal panico. Fece la prima delle tante cose, la più difficile e la più pericolosa: allontanarsi dal Parco, non poteva lasciare un altro cadavere al Parco, avrebbero potuto collegare la storia con quella dell'anno prima. Cautamente uscì dal Parco e prese la circonvallazione, girò intorno a quasi mezza Milano, finché trovò in viale Beatrice d'Este l'ombra e la solitudine necessarie per buttare giù quella spoglia. Fuggì subito perché poteva esserci sempre qualcuno che poteva aver intravisto, e pronto a gridare, ma non c'era nessuno: vi sono zone, in una grande città, solitàrie come il più solitario deserto, più abbandonato del più abbandonato luogo del mondo.
Poi tornò a casa, non portò la macchina in garage, il meccanico avrebbe potuto accorgersi del sangue, la parcheggiò, anzi, molto distante da casa sua, staccò un tubicino di gomma dal motore, si fece a piedi quasi un chilometro, aveva qualche macchia di sangue sui calzoni, ma l'abito era scuro, e solo lui sapeva che macchie erano. Prima di entrare in casa, però, si fumò una sigaretta, sentiva bene che le pulsazioni erano accelerate e la sigaretta non fece che accelerargliele di più, però lo distraeva un poco. Voleva sapere se aveva rotto la radio, con quel colpo, se la radio non funzionava più sarebbe stata una complicazione. Il radiotecnico avrebbe voluto sapere come mai l'apparecchio aveva preso quel colpo, e che cosa era successo. Sperò di no. A casa sua moglie era già a letto, leggeva. “Ciao,” disse lei, freddamente affettuosa, sentendolo entrare. “Ciao,” disse lui. Sentì che aveva la voce alterata, ma non poteva farci niente. Andò in cucina e bevette un grosso bicchiere di latte. Continuava a tremare, ma dopo qualche minuto il tremito diminuì. Alla forte luce della lampada sopra l'acquaio vide le macchie scure di sangue non solo sui calzoni, ma anche sulla giacca, per fortuna la camicia bianca, invece, era assolutamente pulita. “Mi si è incantata la macchina in via Washington,” le disse spogliandosi, “ho cercato di vedere che guasto era e mi sono rovinato l'abito con l'olio.” Lei sorrise e spense il paralume dalla sua parte. “Te l'avevo detto che io preferivo la Giulietta, ma tu hai voluto cambiare,” sorrise in un modo strano, o che a lui sembrò strano, anzi, come minaccioso. “Mi piaceva molto anche il colore bianco, di quella Giulietta.” Lui pensò che lei aveva detto quella frase, così, perché si dicono tante cose. Non era questa, davvero, la sua maggiore preoccupazione. In quel momento pensava solo se la polizia aveva già ritrovato il cadavere della passeggiatrice e che tracce poteva avere. La polizia non aveva alcuna traccia che conducesse a lui. Una passeggiatrice vede decine e decine di uomini, uno di questi la strangola, ma come si fa a sapere chi è? Naturalmente venne arrestato subito lo sfruttatore della passeggiatrice miope, poi la polizia scoprì che erano in quattro a sfruttarla, e arrestò gli altri tre, ma rimase lì, senza che le indagini progredissero, con questi quattro baldi giovanotti che continuavano a dire di essere innocenti bambini lattanti. Dopo qualche settimana, un agente della questura scoprì che la passeggiatrice trovata uccisa in viale Beatrice d'Este era la stessa che aveva visto la ragazza bionda morta al Parco, nella Giulietta bianca, ma questo fatto non sembrava costituire alcun legame, che legame poteva esserci, infatti? In una cartella arancione venne messa tutta la “pratica», copia di tutti i documenti della pratica, dai testi alle foto, venne trasmessa a tutte le questure
della Repubblica, e una scritta in tre lingue venne fatta avere anche alla direzione generale dell'Interpol. Tre o quattro abili funzionari della questura di Milano tennero la pratica Sgarbella Caterina, di quarantatré anni, in evidenza. Qualcuno aveva ucciso la miope Caterina Sgarbella, e loro volevano saperlo, ma le settimane passavano e non sapevano nulla, anzi, peggio ancora, erano assai lontani dalla verità, perché non potevano pensare a un ottimo rispettato professionista, come il dottor Mario Alovio. Era quasi estate, ma faceva ancora freddo, tutti a Milano ricordano lo strano principio d'estate del 1967, coi termosifoni accesi ancora a metà maggio e le belle maglie di lana portate fino a metà giugno. Lui, quella sera, avrebbe voluto tenere la finestra chiusa, perché era raffreddato, perché poi era molto sensibile al freddo, ma lei invece aveva i calori e l'aveva spalancata, così che lui tirò su le coperte fino alle orecchie, mentre lei, scopertissima, si distendeva tra le lenzuola col libro in mano, il solito libro, che leggeva forse da mesi, perché forse leggeva sillabando. Però, invece di mettersi a leggere, quella sera disse: “Mario.» Lui disse: “Che cosa vuoi?” Era stanco, aveva sonno e freddo, ed era infelice. “Vorrei parlarti, un po'.” “Allora cerca un altro momento. Adesso voglio dormire,” le disse, sommesso, ma aspro. “No, Mario, il momento lo scelgo io, ed è questo.” Lo disse così quietamente. Per questo lui vinse il freddo, il sonno, l'infelicità, e si voltò verso di lei, accendendo il paralume dalla sua parte. “Ah, sì, e che cosa vuoi dirmi?” II viso di sua moglie non gli piaceva per niente: gli era piaciuto solo per qualche tempo prima di sposarsi, poi gli aveva dato nausea e odio. “Volevo spiegarti qualche cosa,” lei disse, odiosa e nauseante, col libro chiuso tra le mani. “L'anno scorso a luglio, è stata qui una ragazza che ha voluto parlare con me, non aveva neppure quindici anni, si chiamava Alberta Madino, te la ricordi?” Egli si mise a sedere sul letto, non aveva più freddo. Disse semplicemente: “Vai avanti.” Semplicemente e freddissimamente, perché cominciava già a capire che cosa doveva fare. “Grazie,” lei disse, posando il libro sul comodino. “Volevo solo dirti che questa ragazza mi ha detto che veniva nel tuo ambulatorio per fare delle endovene, che poi lei aspettava un bambino da te, ma tu l'hai liberata, tanto sei dottore, e allora lei voleva dei soldi da me, perché se no ti denunziava. Allora io mi sono messa a ridere e le ho detto che ti denunziasse pure, perché non me ne importava niente.” “Non capisco di che cosa stai parlando,” lui disse, “un medico è sempre a contatto con decine di isteriche o pazzoidi.”
“Non ha importanza che tu capisca o no. Hanno importanza i fatti. Questa ragazza, Alberta Madino, è stata strangolata l'anno scorso, al Parco, e una di quelle donne ha dichiarato che l'assassino era su una Giulietta bianca. Ora tu conoscevi quella ragazza, lei avrà ricattato anche te, come ha fatto con me, e tu avevi la Giulietta bianca, che poi hai subito frettolosamente cambiato con una Flaminia blu scuro. Quindi l'assassino sei tu.” “Prendi qualche tranquillante, per la fantasia. Io quella sera ero al cinema Eden, ho visto il film Omicidio per appuntamento, magari ho ancora il biglietto del cinema, perché tanto le serve che trovi tu non puliscono mai niente.;» Ma mentre parlava si accorse di parlare sbagliato. Un innocente non può ricordarsi, a tanti mesi di distanza, che cosa ha fatto, e dove è stato quella data sera. E lei glielo disse. “Come fai a ricordarti con tanta precisione?” disse lei. “Hai preparato un alibi?” Sgusciò fuori dalle lenzuola, in piedi, nella sua trasparente vestaglia, oltre cui si intravedeva la linea del suo corpo di donnaccia, disse ancora: “Avrei anche altre cose da dire alla polizia, per esempio che le macchie sul tuo abito, quando sei tornato a casa qualche settimana fa dicendo che il motore aveva avuto un guasto e che ti eri sporcato di olio, non erano di olio, ma di sangue, è diventata rossa la spugnetta con la quale la cameriera ha tentato di smacchiarle. E siccome io leggo i giornali, ho scoperto che quella sera stessa era stata uccisa, cioè strangolata, una di quelle donne, l'avevano ritrovata in viale Beatrice d'Este, ammetterai che sono coincidenze strane, perché questa passeggiatrice era la stessa che aveva visto la ragazzina bionda sulla Giulietta. Comunque, se io parlo, sarai tu che dovrai spiegare alla polizia come stanno le cose. Può darsi che io sia una pazza isteroide, come tu dici delle tue clienti, e tu un innocente cittadino. Comunque lo vedranno loro.” Anche lui si alzò, sopra il pigiama aveva un maglione, per il freddo di quell'estate, a piedi nudi, un po' rabbrividendo, perché il parquet era gelido, girò intorno al letto, e la raggiunse. Le disse: “E adesso che cosa vorresti?” Voleva proprio sapere fino a quale punto arrivava quell'abiezione di femmina che lui, così stupidamente, aveva sposato. Lei lo fissò impudentemente, indietreggiò un passo, afferrò il paralume che era sul comodino, e lo tenne in mano come un'arma. Disse: “Non credere di farmi paura. Non potrai strangolarmi come hai fatto con le altre. C'è Alessio che lo sa che questa sera, a quest'ora, ti avrei parlato. Telefona fra dieci minuti. Se non rispondo io, avvisa subito la polizia. Non la farai più franca.” Lui si avvicinò, il viso illuminato in pieno dal paralume che lei teneva in mano. Si erano dunque messi d'accordo, quella volgarissima donnaccia di sua moglie, e quella faccia di melma di Alessio, per ricattarlo. Non sentiva più
freddo. “E te lo dico per la seconda volta: che cosa vorresti?” “Soldi,” lei disse precisa, però indietreggiò ancora un poco. “Tutti quelli che hai, e ne hai parecchi, perché sei un fabbricante di angeli, non un medico, e poi mi lasci libera, vado con chi voglio e dove voglio...” “Soltanto?” lui disse, ora sapeva di non avere altra scelta. Lei cercò di colpirlo col paralume, ma non fece in tempo, le mani di lui l'avevano già stretta alla gola, in quel preciso, anatomico modo che lui sapeva, il paralume cadde in terra, ma non si ruppe e neppure si spense, tanto che egli, dopo aver controllato l'avvenuta morte di lei, potè rimetterlo sul comodino, ancora acceso. Poi cercò di rilassarsi, ma capì che questa volta sarebbe stato molto difficile. Tornò in cucina, prese due pastiglie di Dicoren, si vestì frettolosamente, sapeva di sbagliare, ma che cosa poteva fare? Lasciò tutte le luci accese in casa, e mentre usciva sentì il telefono che squillava. Doveva essere Alessio che chiamava: se non avesse ricevuto risposta da lei, avrebbe avvisato la polizia. Ma lei non poteva più rispondere, ormai, a nessuno. Ma quello squillo di telefono lo terrorizzò, fuggì via senza chiudere la porta di casa, non andò in garage a prendere la Flaminia, corse al posteggio dei tassi, si fece portare alla stazione, salì ciecamente su un treno che stava partendo, senza neppure sapere dove andasse, anche se le mani gli tremavano e le pulsazioni erano troppo alte, pensava che forse anche questa volta sarebbe sfuggito. Venne arrestato tre giorni dopo. La sua fotografia era sui giornali, Alessio faccia di melma aveva fatto la denunzia anonima, i cronisti parlavano di lui come del medico strangolatore, il mostro del Parco. “Lei ha esagerato,” gli disse acido un vicebrigadiere dopo l'interrogatorio, “non sapevamo niente delle due prime donne, non lo avremmo saputo mai.” Lui non rispose. Non aveva assolutamente niente da dire.
15 Ubbidire o morire
II suo nome era Matilde Vecchio e forse era stata sempre vecchia, e perciò quel nome le si addiceva, anche quando aveva sedici anni doveva essere stata vecchia, ma i suoi dipendenti del reparto imbustamento e inscatolamento surgelati la chiamavano di preferenza signora Puzza, non perché lei effettivamente puzzasse, per quanto i lunghi anni di lavoro in mezzo alle sogliole da surgelare le avessero dato un odore che nessun lavacro o profumo riusciva a toglierle, ma perché le operaie che sul lungo bancone imbustavano le sogliole surgelate, deponendole poi sullo striscione scorrevole che le portava alla macchina che le chiudeva e vi metteva il timbro dell'azienda, SSS, Stabilimento Surgelati (Divisione Sogliole), quando vedevano il suo arrivo si portavano il pollice e l'indice al naso, come chi sente un cattivo odore e smettevano di parlare, imbustando sempre più alacremente le sogliole. Lei, che era più vicina ai cinquant'anni che ai quarantanove e mezzo, entrava nel reparto e scrutava le operaie, col veleno che i suoi lunghi anni di vita solitaria le creavano intorno come un alone, o meglio una bava. “Tirati su il mascherino,” diceva a una. Come un chirurgo che sta eseguendo una difficile laparatomia, le operaie del reparto sogliole avevano davanti al viso una mascherina di garza plastica appositamente studiata, sembravano un poco delle odalische. “Hai messo due sogliole in una busta, non sai contare?» diceva a un'altra. “Dentro i capelli nella cuffia,” diceva a una terza, “noi vendiamo sogliole, non peli.” L'odio degli operai verso la signora Vecchio era accresciuto dal terrore. Quella che essi chiamavano la signora Puzza non esitava un istante a dare multe di cinquemila lire o a licenziare. Non che avesse poteri assoluti, ma in pratica era come se li avesse. C'era un vecchio signore, molto gentile e sorridente, che ogni tanto passava per il reparto imbustamento sogliole a fianco della signora Vecchio, approvava con aristocratici cenni del capo tutto ciò che la signora Vecchio gli diceva e cercava di uscire al più presto dal reparto, perché, pur essendo direttore generale dell'SSS, Stabilimento surgelati (Divisione Sogliole), non gli piaceva il pesce, in particolar modo le sogliole, così che in realtà l'SSS era in mano alla signora Vecchio. L'odio filtrava, come una maleolente umidità, per tutto lo stabilimento. Tutti odiavano la signora Vecchio, sinceramente, calorosamente, pur continuando a dire: “Sì, signora, subito signora, bene signora, grazie signora”,
perché era lei che decideva le assunzioni e i licenziamenti, approfittando dei pieni poteri che le aveva concesso il direttore generale che non amava il pesce. Le operaie sapevano di poter saltare in due minuti perché avevano imbustato una sogliola dalla parte contraria della busta di plastica. “È una cosa grave,” diceva la signora Puzza. “L'etichetta con le tre S si deve vedere sulla testa della sogliola, non sulla coda, non so come non riuscite a capirlo, lo capirete quando arriverà la rotativa imbustatrice e andrete tutte a lavorare sulla strada, che poi non siete adatte neppure a quello.” Le operaie tacevano, sapevano che nella busta paga erano compresi anche gli insulti della signora. Due anni prima vi era stato uno sciopero, gli operai avevano cioè tentato di scioperare, ma la signora doveva avere relazioni anche coi sindacati perché dopo mezza giornata un dirigente sindacale li aveva consigliati di tornare allo stabilimento, che poi si sarebbe visto, ma che intanto lavorassero. L'ufficio della signora Vecchio era in un angolo del reparto imbustamento, una specie di veranda, ma i vetri, attraverso i quali lei sorvegliava la lunga fila di operaie che pescavano rapidamente sogliole dal nastro scorrevole davanti a esse, non riuscivano a proteggerla dal vividissimo odore di pesce, della quale lei stessa era penetrata, come tutti coloro che lavoravano nello stabilimento. Il suo compito, oltre quello di seviziare le operaie e gli operai, era anche quello, artistico, di ideare le confezioni che contenevano le sogliole, e che dovevano essere cambiate ogni tanto: non si poteva usare per anni la stessa busta, o la stessa scatola, i filetti di sogliola surgelati, per esempio, dovevano avere una confezione prestigiosa che desse subito l'idea che si trattava di merce altamente pregiata. Per questo lavoro la signora Vecchio si valeva di disegnatori e grafici molto qualificati, che le facevano il bozzetto delle buste contenenti le sogliole. La signora Vecchio aveva chiamato come collaboratori grafici i più noti disegnatori e pittori e grafici, ma per l'alto compenso che essi chiedevano aveva finito per capire che era molto meglio rivolgersi a dei giovani dilettanti, che costavano poco e potevano rendere, perché giovani, molto di più di tanti vecchi tromboni. Infatti, proprio la settimana prima, aveva fatto pubblicare un annunzio sui principali quotidiani: “Importante azienda ramo alimentare cerca giovane grafico progettista per illustrazione contenitori sua produzione. Non telefonare, non scrivere, ma venire di presenza.” Perché la signora Vecchio amava guardare in faccia la gente alla quale avrebbe dato lavoro. Raimondo Orfeo non era un grafico, né un progettista, era soltanto un gran pezzo di ragazzo, lo sapeva e si serviva abbondantemente di questa sua qualità
per vivere col minimo possibile di sforzo, ma dopo quattro anni di carcere per tentata rapina e sei mesi per sfruttamento di donne, non avendo più voglia, almeno per un po' di tempo, di tornare in carcere, doveva trovarsi un lavoro per tranquillizzare la polizia che era sempre molto in ansia per lui se lo vedeva in giro disoccupato cominciava a pensar male e voleva subito ospitarlo e nutrirlo nelle locali carceri. E per trovarsi questo lavoro aveva guardato di sfuggita Messaggero Veneto, trovando subito, perché era pubblicato in grande, l'annunzio della signora Vecchio: «Importante azienda ramo alimentare...», eccetera. Ma ciò lo aveva colpito in questo annunzio che non poteva interessarlo dato che non sapeva neppure che cosa volesse dire grafico progettista, e solo lo intuiva oscuramente, era frase vanitosa che la signora Matilde Vecchio aveva i aggiungere in fondo all'annunzio: «La direttrice dell’Ufficio personale, anche per evitare perdite di tempo, prega coloro che non avessero i titoli richiesti, di non presentarsi alla nostra società SSS.» Queste righe stabilivano che lei era la direttrice dell'Ufficio personale e, duplice vanità, lasciava sottintendere che la SSS un poco era sua. Se avesse omesso queste righe, non sarebbe accaduto nulla. Il pezzo di ragazzo Raimondo Orfeo leggendo le righe: «la direttrice...” eccetera, fece un elementare sillogismo: «Direttrice,” pensò, “vuol dire che è un direttore donna.” Poi pensò ancora: “Essendo donna le piacciono i bei ragazzi, specialmente se è un po' anziana, come devono esserlo i dirigenti.” E continuò a svolgere il suo sillogismo: “Io sono un bel ragazzo e quindi le devo piacere.” II fatto che sapesse appena leggere e scrivere e che per di più praticasse rarissimamente l'arte del leggere e dello scrivere, non lo turbava: sapeva che un pezzo di ragazzo è superiore a un paio di volumi delle famose e dotte enciclopedie. Perciò pagò il chinotto che stava bevendo in quella tranquilla cittadina veneta davanti alla laguna e si recò all'indirizzo segnato sull'annuncio del giornale. Vi si recò fischiando sommesso l'ultima canzoncina sentita al jukebox. La signora Matilde Vecchio lo guardò bene quando lui entrò nel suo ufficio. Era parecchio alto, aveva molti capelli nerissimi, ma non da capellone, era abbronzato fortemente, aveva dei calzoni, sì, da western, aderentissimi, sui fianchi strettissimi, mentre il grande maglione arancione appena conteneva le sue larghissime spalle. La signora Vecchio pensò che, più che un ragazzo, era un superlativo di maschio, non aveva assolutamente veduto niente di meglio. Nonostante la sua età, il suo controllo, la sua odiosa alterigia, abbassò lo sguardo perché egli non comprendesse le sensazioni che aveva suscitato in lei. “Si accomodi,” gli disse, anche la voce non aveva l'abituale odiosità. Anche lui la guardò, in quel modo in cui guardava le donne mature, ne
valutò gli anni e non dovevano essere pochi, ne valutò anche il temperamento e stabilì che era una cretina, e quindi il suo lavoro era ancora più facile. Ma la guardò anche in modo che lei sentisse come una calda corrente di simpatia che da lui emanava verso di lei. E si accomodò, “II suo nome, per favore?” disse lei guardandogli le folte basette e poi abbassando lo sguardo. “Raimondo Orfeo.” Naturalmente vi era anche lì, nell'ufficio-verandina, un sensibile odore di pesce e lei, infantilmente, avrebbe voluto invece, forse, essere la direttrice di un roseto e non della Divisione Sogliole di uno stabilimento di surgelati, affacciato su una laguna non precisamente odorosa. Scrisse il nome: Raimondo Orfeo. Poi disse: “Età?» “Ventinove anni.” Lei scrisse, sul foglietto del blocco con la penna a sfera dorata: ventinove anni; poi domandò, guardando di sfuggita i suoi occhi e scoprendo che erano di un caldo, voluttuoso marrone: “Quali posti ha occupato prima come grafico progettista?” Allora egli, Raimondo Orfeo, fatto cor pennello, si distese sulla sedia in una positura, come dire?, confidenziale, allungando le gambe verso la scrivania e appoggiando un braccio sulla spalliera della sedia. Le ventidue operaie che nel salone imbustavano le sogliole seguivano la scena, visibilissima, attraverso i vetri dell'ufficio-verandina. “Brutta sporcacciona,” disse l'operaia più vicina all'ufficio, alla sua vicina, “guarda come se lo fissa.” Nell'interno dell'ufficio, siccome Raimondo Orfeo non rispondeva nulla e anzi guardava dalla finestra le acque scure della laguna, lei ripeté, con una dolcezza imprevedibile in lei: «Quali posti ha occupato prima come grafico progettista?” Egli allungò le gambe e cominciò la litania che aveva accuratamente pensata, fissando il viso rughinoso di lei. «Signora, io le devo chiedere perdono perché le faccio perdere molto tempo. Io non sono né grafico, né progettista, non so neppure che cosa significano queste parole, né che lavoro è...” Si mise composto sulla sedia, d'improvviso, ritirando le gambe, ma fissandola più intensamente. “Io sono soltanto un povero disgraziato, sono orfano da quando avevo dieci anni, sono capitato in cattive compagnie, e così mi sono fatto qualche anno di galera, e allora nessuno mi da lavoro, e se non lavoro, come faccio a vivere? Oltre tutto la polizia, se non lavoro, mi da fastidio, ogni tanto mi mette dentro, e io divento pazzo, io non voglio più fare le stupidaggini che ho fatto prima, quando ero ragazzo, voglio fare il bravo, ma se nessuno mi aiuta, come faccio? Io ho letto il suo annunzio sul giornale e ho pensato: < Adesso tento
ancora>, e sono qui, signora, scusi se l'ho imbrogliata, non per fare il grafico progettista, ma per fare qualunque lavoro, anche il fattorino, il facchino, anche per lavare i piatti, per pulire le scarpe, quello che vuole lei, perché io sono proprio disperato, e questo è l'ultimo tentativo che faccio, e se dopo si legge sui giornali che ho fatto una rapina e ammazzato un cassiere di banca, la colpa non è mia.” La litania l'aveva già recitata una volta, due anni prima, a una rughinosa come quella, finendola col coprirsi il viso con una mano come avesse voglia di piangere, ed era stato un successo da applauso a scena aperta. E anche questa volta si coprì il viso con una mano e stette ad aspettare la risposta. “Non deve parlare così,” disse la signora Vecchio, “forse posso fare qualche cosa per lei. Manca un uomo alla catena surgelante...” Un altro successo, pensò. Il giovane Raimondo Orfeo (bella presenza) venne assunto l'indomani stesso come aiuto alla catena surgelante. Non era un lavoro faticoso, anche se l'odore di pesce era fastidioso, c'era un nastro che trasportava delle apposite cassette di plastica, contenenti le sogliole fresche, quasi sempre appena pescate, e già divise in filetti e sogliole intere. Il nastro deponeva le scatole davanti alla doppia porta delle camere surgelanti. Si trattava di aprire la prima porta scorrevole delle camere surgelanti e controllare la montagna di cassette che entrava nel vano tra la prima e la seconda porta. Poi premendo un bottone si chiudeva la prima porta e premendone un altro si apriva la seconda porta che dava nell'interno delle camere surgelanti dove vi era una temperatura dai quaranta ai cinquanta gradi sotto zero. Il pesce appena pescato veniva in quel modo istantaneamente pietrificato, e le cassette di sogliole, scorrendo su un nastro scorrevole attraverso le varie camere ultrafreezer, arrivavano davanti all'uscita, dove vi erano ancora due porte, automaticamente si ammucchiavano oltre la prima porta, che premendo un bottone si faceva richiudere, dopo di che si apriva la seconda porta e le sogliole surgelate passavano sul nastro scorrevole all'esterno dell'ultrafreezer, salendo sul bancone di imbustamento, davanti alle operaie pronte con le loro buste di plastica. Le sogliole così imbustate correvano poi sempre sul nastro verso i piccoli frigo che le tenevano a una temperatura di circa dieci gradi sotto zero. In pratica era un lavoro che andava bene per Raimondo Orfeo perché non c'era da far altro che schiacciare bottoni, i due dell'entrata delle camere ultrafreezer, e i due dell'uscita. Di nascosto, o fingendo di nascondersi, si poteva fumare quante sigarette si voleva, tanto, con quell'odore di pesce, il tabacco era veramente un profumo. Alla sera poi Raimondo Orfeo usciva, andava nella stanza mobiliata che aveva trovato nel piccolo paese sulla laguna, entrava nel bagnetto dove vi era
una piccola doccia, si buttava sotto la doccia e stava lì parecchio, con un ruvidissimo guantone di crine a portarsi via, con un sapone schiumoso, l'odore di sogliola, poi si asciugava e si rovesciava addosso una mezza bottiglia di lavanda, indossava dei finissimi slip di seta, calzini di seta anch'essi, una canottiera di cotone puro americano, un abito celeste scuro, non blu, di lana secca tropical, la camicia era stata fatta su misura, a Venezia, metteva nelle tasche dei pantaloni, quelle posteriori, le varie decine di biglietti da diecimila che aveva e, attendendo che fosse buio, usciva nella strada e a piedi si dirigeva verso lo stradone che dal piccolo paese portava a Venezia. Sì, è vero, doveva un po' camminare, ma a lui piaceva, da ragazzo aveva fatto anche una gara di marcia ed era arrivato terzo. E a un certo punto, sullo stradone, in uno slargo, accesi solo i fanalini piccoli, c'era la Giulia, lui si guardava intorno e per saltare su aspettava il momento in cui sullo stradone non passasse nessuno. “Ciao, cara,” diceva saltando nell'auto. La signora Vecchio, al volante, diceva: “Ciao, caro.” “È molto che aspetti?” lui domandava cortese. “Oh, no, caro,” e lei gli metteva una mano sul ginocchio, avviando la 'macchina, premendo con le dita. “Sei stanco?” Non era stanco, ma rispondeva: “No, un poco”, sottintendendo che era invece stanchissimo. “Adesso andiamo a fare una bella mangiata a Venezia e ti rimetterai,” diceva la signora Vecchio, con tutte le sue rughine coperte dal pastone di bellezza. Venezia è una città meravigliosa, non solo dal punto di vista artistico, ma per la sua ospitalità e per il suo tono di metropoli settecentesca. Forse è più facile perdersi e nascondersi a Venezia che a Londra, chi poteva andare a pensare che la signora Vecchio cenava al Concordia, in Calle Larga San Marco, una sera, o da Menigo qualche sera dopo, o da Zanni, qualche altra sera dopo, insieme con quel giovanotto che sembrava un indossatore, o un'ala destra o un centravanti di una grande squadra di calcio? A Venezia, poi, conoscendo i posti, si mangia molto bene e il giovane Raimondo Orfeo aveva sempre molto appetito, nessuno dei due mangiava pesce, ovviamente, ma a Venezia fanno anche benissimo le costate alla fiorentina e i tournedò, oppure il pollo flambé, per non dire del fegato alla veneta. Verso l'una del mattino, o anche le due, la Giulia tornava al paesino lagunare, dove era l'SSS, sullo stradone percorso solo da qualche raro autostrasporto, si fermava nello slargo, e lui cavalierescamente la baciava ancora, quasi appassionato e tenero, poi scendeva dall'auto e tornava alla sua camera mobiliata, mentre lei andava nella sua villetta vicino allo stabilimento. Certo, al mattino era duro svegliarsi alle sette, mettersi la tuta e andare allo stabilimento a premere i bottoni della catena surgelante, ma ne valeva la pena:
non era mai stato così bene, gli sembrava di essere un neonato in una calda, comoda incubatrice. Altre volte succedeva diversamente: la catena surgelante era a lavorazione continua, notte e giorno, per questo occorrevano tre uomini che si davano il turno e ogni tre giorni lui faceva il turno di notte, dalle dieci di sera alle sei del mattino, e allora era anche più bello, perché si portava la radiolina e si chiudeva nell'ufficio-verandina della signora Vecchio, sulla poltrona, e si alzava ogni otto minuti per andare a premere il bottone delle doppie porte dell'ultrafreezer. Ogni tanto, una sera su tre o quattro, arrivava là signora Vecchio: arrivava con una bottiglia di Merlot o di whisky e diversi tosti. Nella luce sepolcrale del reparto di notte essi erano forse più al sicuro che a Venezia, e nell'ufficio vi era un lungo divano, egli era costretto ad alzarsi ogni otto minuti per premere i bottoni del superfreezer, ma in otto minuti si possono fare tante cose, inoltre al momento opportuno citofonava alle tre operaie del turno di notte, nel sotterraneo, che gli mandavano su le sogliole nelle cassette di plastica: “Sospendete fino a quando non vi richiamo, il superfreezer funziona male”, e quelle erano ben contente di smettere di maneggiare sogliole da mettere nelle cassette, e mettere le cassette nell'ascensorino che portava alla catena surgelante, e di farsi una sigaretta. Dopo una mezz'ora, e dopo aver dato un ultimo bacio alla signora Vecchio, egli citofonava di nuovo nel sotterraneo: “Avanti ragazze, l'ultrafreezer ha ripreso.” “Sì, bel giovane,” rispose una volta una delle tre operaie, “e la signora Puzza come sta?” Egli riappese il ricevitore, sorridendo, in fondo era anche un gentiluomo, ma sapeva benissimo che, dopo quattro mesi, nonostante tutte le precauzioni che la signora Vecchio aveva preso, la gente aveva cominciato a capire. Uno degli operai che gli dava il cambio alla fine del suo turno alla catena surgelante, gli aveva detto pochi giorni prima: “Salutami la signora Vecchio.” E una ragazza, addetta al controllo delle cassette che contenevano le sogliole, gli aveva sorriso e gli aveva detto: “Ti piacciono le giovanissime, vero?” A parte il fastidio di queste frecciate, Raimondo Orfeo, che era un ragionatore, intuì in tempo il gravissimo pericolo: la signora Vecchio, appena compreso che si sarebbe compromessa troppo, lo avrebbe licenziato. Per quello che riguardava il licenziamento dalla soglioleria, a lui non importava proprio niente, non era certo lo stipendio di addetto alla catena surgelante che gli premeva. Era il resto, tutte le attenzioni, gli omaggi, i regali, anche sonanti, della signora Vecchio. Ma era inevitabile pensò, perché era un ragazzo molto riflessivo, che sentendosi in pericolo per le chiacchiere degli operai e delle operaie, lei lo
buttasse fuori, e conoscendola come la conosceva, sapeva che lo avrebbe fatto inevitabilmente. A lui in fondo non dispiaceva, quattro mesi di sogliole e di signora Vecchio lo avevano francamente stancato, e voleva tornare a Bologna dove aveva un paio di amici e un paio di ragazze assai più divertenti della catena surgelante. Ma non voleva tornarci a mani vuote. Pensò che la signora Vecchio gli avrebbe fatto qualche omaggio finale. Infatti, come aveva pensato, una sera a Venezia, da Zanello, lei gli disse, con aria dolente, eppure ferma, perché anche a lei dispiaceva: “Caro, chiacchierano troppo su di noi, allo stabilimento, è meglio che ci lasciamo.” Lui ghignò. Fece però il viso triste e disse: “Lo so che parlano, volevo dirtelo che parlano.” Era il momento che aspettava. “Mi sono troppo compromessa, un impiegato dell'amministrazione ci ha visto a Venezia, e una delle operaie del turno di notte ha raccontato alle amiche che ci ha visto nel mio ufficio, insieme.” “Mi dispiace tanto, Matilde, la colpa è mia,” lui disse cavalieresco. “No, è mia,” lei disse autoritariamente, “io sembro di marmo, insensibile, crudele, invece sono una pazza, e tu l'hai visto, ho perduto la testa per te, mi sono quasi rovinata per te, se non vai via, la direzione generale di Venezia mi licenzia.” “Io vado via anche subito,” lui disse cavalieresco, in sei anni di galera si imparava la cavalleria. “No, caro, oh, caro, vorrei tenerti con me per sempre, ma non si può,” per la prima volta nella sua vita la signora Vecchio usava un tono di voce che sapeva di tenerezza, di preghiera. «Devi farmi un favore: per smorzare un poco le chiacchiere, devo fingere di licenziarti per scarso rendimento, la settimana ventura, così se ti licenzio per scarso rendimento, qualcuno penserà che forse le chiacchiere non erano vere. Oh, scusami, caro.” “Ma fai pure, cara. Figurati a me cosa importa di essere licenziato per scarso rendimento o per qualunque altro motivo. M'importa di non poterti vedere,” lui disse. Lei non credette al complimento, ma le piacque lo stesso. «Ci vediamo domani sera al turno di notte, poi dovrai andare via, oh, scusami, caro.” “Come vuoi tu,” egli disse, dolcemente, con quella sua grave voce virile. La sera dopo, nel reparto imbustamento e surgelamento, vi erano sempre, erano le due del mattino, le solite luci sepolcrali: i quattro tubi fluorescenti agli angoli del salone, il pannello vicino alla catena surgelante che occhieggiava con le sue luci rosso e blu, e il monotono rumore dello scorrevole che trasportava le cassette di sogliole oltre le doppie porte delle camere di surgelamento, e nessun'altra luce, se non le due giallognole delle lampade di emergenza attaccate all'impianto del gruppo elettrogeno, quando lei arrivò, attraversò il
salone, con in mano la bottiglia di Merlot e si diresse verso il suo ufficioveranda, dopo avergli sorriso, più rughinosa che mai, attraversando il salone. Allora lui andò al citofono che dava nel sotterraneo, dove le operaie mettevano le sogliole nelle cassette. “Smettetela per un po', il superfreezer non va, vi richiamo io.” “Sì, bel giovane,” rispose una delle tre operaie che era venuta a rispondere. Egli premette il bottone che fermava il nastro scorrevole, il ronzio si spense, e andò nell'ufficio a vetri di lei, sedette sul divano, accanto a lei, nella penombra fluorescente, le sorrise, teneramente, senza dirle nulla, poi prese da terra la bottiglia di Merlot e bevette a canna un lungo sorso. “Mi dispiace tanto caro, mi sentirò tanto sola, ma non si può fare diversamente,” lei bisbigliò nella polverosa luminescenza dell'ufficio. “Tieni un ricordo, caro,” e gli tese una piccola scatola. Raimondo Orfeo l'aprì. Conteneva un accendino, non era né d'oro, né d'argento, era un ottimo, robusto Dunhill, ma niente altro. Un po' poco. “Grazie,” lui disse, con voce assai poco tenera. Adesso la commedia era finita, e la signora Vecchio, quella che gli operai e gli impiegati chiamavano signora Puzza, doveva risvegliarsi alla realtà. «. Ma, vedi, cara, tu hai una chiave della tua scrivania, questa qui, davanti a noi. Se tu apri la scrivania, nel secondo cassetto a sinistra, troverai un'altra chiave, come tu sai benissimo, con la quale si può aprire la piccola cassaforte al piano di sopra nell'ufficio amministrativo del dottor Aleffi. Tu, adesso, per favore, mi dai questa chiave e io vado di sopra a prendere i soldi, insieme con te. Poi me ne vado e ti lascio in pace.” Certo la signora Vecchio, nonostante la sua esperienza, la sua diffidenza e la sua malvagità, non si aspettava questo improvviso cambiamento di scena: era stato sempre così a posto e gentile, quel ragazzo, e non trovò subito la risposta, lo guardò, comprese di avere a che fare con un delinquente, un criminale, ed ebbe un attimo di paura, poi riprese tutta la sua durezza e rispose: “Non avrai una lira.” Egli guardò le rughine che le coprivano tutto il visor “Senti, con me bisogna ubbidire. Ubbidire o morire, te lo dico prima. Apri la scrivania e dammi la chiave della cassaforte, se no hai finito.” La signora Vecchio aveva molta paura, ma avendo sempre insultato tutti, nella sua lunga vita, insultò anche lui, pur nella sua paura, non solo per la delusione, ma anche perché nessuno doveva poter dire che lei aveva ceduto. “Te lo dico ancora una volta,” gli disse, o meglio l'insultò con la sua voce aspra, “tu non avrai una lira. Non solo perché la chiave della scrivania l'ho a casa, nella borsetta, non solo perché la scrivania che contiene la chiave della cassaforte è di ferro e neppure se lavori tutta la notte riesci ad aprire il cassetto, ma anche perché mi metto a gridare e tornerai in galera, che è la tua
abitazione regolare.” Purtroppo non potè gridare. Il pugno la fece svenire, di colpo, e mentre lei era svenuta, lui riflette, perché era un riflessivo. Capiva di aver commesso un errore, aveva trovato una donna dura come il cemento armato, e bisognava trovare un mezzo che piegasse il cemento armato. Non poteva più neppure fuggire e lasciarla lì: lei lo avrebbe denunziato per ricatto, percosse, violenza, e si sarebbe fatto almeno altri tre o quattro anni di galera. Doveva piegarla, a ogni costo, e gli parve di aver trovato il mezzo. Appena vide che riapriva gli occhi, rinvenuta, le mise una mano sulla bocca. “Senti, ti accompagno su a casa, prendi la chiave della scrivania dalla borsetta e torniamo qui per aprire la cassaforte, se no sei morta.” Lei agitò il capo facendo segno di no, e lo sguardo era irridente, insultante, quello che aveva per le sue operaie. “Sei morta molto male,” egli disse, sempre tenendole la bocca tappata con la mano. E ancora lei agitò il capo, e lo fissò insultante. “Allora adesso ti faccio vedere,” lui disse. La trascinò per una decina di metri, benché lei non si dibattesse neppure, vicino alle doppie porte dell'ultrafreezer. “Ho bisogno solo di un po' di soldi, non farmi diventare cattivo, se me li dai non succede niente, nessuno sa niente, dicono che è un furto, io vado via e ti lascio in pace, perché non lo vuoi fare?” quasi la pregava, pur nella sua rabbia. “Ma se non lo fai, io ti dico cosa ti faccio: ti mando nelle camere di surgelamento. Stai attenta che lo faccio davvero, perché mi hai fatto arrabbiare.” Anche lei comprese che lo avrebbe fatto davvero, perché lo aveva fatto arrabbiare coi suoi rifiuti, e perché lui era un criminale, ma nessuno al mondo aveva mai piegato la signora Vecchio. Mai. E lui vide che lei scuoteva il capo: no, no, no. Allora lui, paziente, capì che aveva veramente sbagliato, e che non gli rimaneva altra strada: o la faceva ubbidire, o la uccideva. Lei non gli lasciava alternativa. “Stai attenta che faccio sul serio,” le disse. “Andiamo su a prendere la Chiave.” Lei scosse il capo, vivacemente, non poteva parlare per via della mano di lui che le tappava la bocca, e allora lui disse incora paziente: “Stai attenta, non scherzo, ci sono quaranta gradi sotto zero, là dentro, resti secca come un palo di legno”, sperava ancora di spaventarla, di indurla a ubbidire con la minaccia, ma nel vedere il suo sguardo capì Che era finita: se non l'avesse uccisa lei lo avrebbe fatto andare in galera, e se l'avesse uccisa ci sarebbe andato lo stesso, presto o tardi. E allora tanto valeva punirla. Per lo meno tutti gli operai e dipendenti dell'SSS sarebbero stati felici. “E allora vai a prendere una boccata d'aria fresca,” le disse. Premette un bottone e la prima porta dell'ultrafreezer si aprì. Ve la spinse dentro e immediatamente premette un altro bottone che chiudeva la porta: mentre la
prima porta si chiudeva lei urlò: «Neppure una lira!” Urlasse quanto volesse, lui pensò. Schiacciò un altro bottone, la seconda porta che dava nelle camere surgelanti a quaranta, cinquanta gradi sotto zero si aprì e il suo urlo fu immediatamente spento dalla valanga di freddo che la rivestì e la uccise, quasi istantaneamente. Egli attraversò il salone, andò in fondo, dove vi era il suo armadietto, si tolse la tuta, si rivestì, uscì dallo Stabilimento Surgelati Divisione Sogliole, disse al custode del cancello che il superfreezer si era inceppato e andava a cercare il tecnico. Andò invece nella piazza del paese, dove erano parcheggiate delle auto, scassinò un'Alfa, e guidò per un paio d'ore senza fermarsi mai. Mai più, pensava guidando, avrebbe attaccato con donne di quella specie. Troppo pericolose, anche per uno come lui.
16 Vietato essere felici
15 settembre 1963. In seguito ad amnistia, dopo quasi nove anni di carcere, Arrigo Romano, condannato per rapina, esce dal carcere. Non ha ancora trentacinque anni, è alto, bruno, abbronzato. 24 settembre 1963. Grazie all'assistenza dell'opera per gli ex carcerati, l'ex rapinatore Arrigo Romano trova lavoro presso la Breda come aiuto attrezzista, infatti prima della rapina era scassinatore ed era capace di fabbricare da sé qualsiasi strumento, per aprire qualsiasi porta, portiera o sportello. 11 agosto 1964. Arrigo Romano si sposa con la figlia di uno dei vigilanti notturni della Breda, Melina Salvatore. 26 aprile 1965. Con un certo anticipo sulla data naturale, dopo otto mesi di matrimonio la moglie di Arrigo Romano dà alla luce una bambina alla quale il padre da il nome di Romanina. Ha dichiarato agli amici che gli piaceva che sua figlia si chiamasse Romanina Romano. 12febbraio 1966. La moglie di Arrigo Romano dà alla luce una seconda bambina alla quale il padre impone il nome di Maddalena, in omaggio alla madre di lui che si chiamava Maddalena. Nello stesso anno Arrigo Romano viene promosso caposquadra attrezzista del reparto 11 e la direzione del settore modelli lo considera uno dei suoi migliori tecnici. Il funzionario di polizia che stava leggendo questi dati, sui foglietti bianchi sporchi col timbro sbiadito “Questura di Milano squadra controllo ex carcerati”, smise di leggere per accendersi una sigaretta. Era un giovane, ma ferreo e cinico funzionario, i suoi colleghi dicevano che non credeva a nulla, esclusa una cosa, il carcere a vita. Forse per questo, in mezzo a tanti umanisti che credevano alla redenzione e che facevano carriera, lui era rimasto al suo modesto posto, per lo meno, modesto date le sue capacità. Qualcuno un giorno gli aveva detto di leggere almeno Cesare Beccaria, ma lui aveva risposto che non aveva tempo, c'erano troppi assassini da arrestare. E non solo da arrestare, ma da controllare ogni tanto, anche dopo anni che facevano i bravi ragazzi. Non c'è molto tempo per leggere. Il giovane funzionario aveva alla sua destra una minuscola bottoniera, in tutto sei bottoni, il suo ufficio, davvero, non si poteva chiamare la stanza dei bottoni, schiacciò un bottone e si accese una sigaretta, rileggendo un po' quei foglietti bianco sporco: “L'ex rapinatore trova lavoro alla Breda come aiuto attrezzista... La moglie di Arrigo Romano
da alla luce una bambina alla quale il padre da il nome di Romanina...” Era una storia idillica, no? Un ragazzo prende una via sbagliata, fa il ladro, lo scassinatore, poi arriva alla rapina, viene preso e si becca una dozzina di anni. Ne fa solo nove, poi si redime, si mette a lavorare seriamente, si sposa con una brava ragazza, diventa padre di famiglia, ottimo lavoratore... Ma per uno che crede solo al carcere a vita anche per i ladri di polli, era davvero una storia troppo idillica. “Avanti,” disse. Guardò verso la porta e vide entrare. Sordelli, il suo braccio destro. “Vieni qui, Peppino, sto rivedendo le storie dei nove rapinatori che sono stati amnistiati nel settembre del 1963. Cinque sono di nuovo in galera, uno è morto, gli è scoppiato il fegato dal bere, tre sembra che facciano i bravi. Il più bravo di tutti è questo Arrigo Romano, leggi qui. Vorrei che tu lo sorvegliassi un po', prenditi pure un paio di uomini, ma voglio sapere anche quanto spende in sigarette alla settimana.” “Spendo troppo in sigarette, ecco il fatto,” disse Arrigo Romano. Aveva spento il televisore, le bambine erano a dormire e lui stava sul divano accanto a Melina col libro dei conti della spesa in mano. «Sono trecentocinquanta lire al giorno, fanno diecimilacinquecento lire al mese, e non riesco a levarmi questo maledetto vizio.” “Non ti arrabbiare, Righi, faremo economia da qualche altra parte,” disse Melina, attendeva un terzo bambino, e si vedeva. «E poi guadagni bene, non puoi fumare le Alfa come gli altri.” Lui si alzò innervosito. Non gli piacevano le stupidaggini, e trecentocinquanta lire al giorno di sigarette gli sembravano una cosa troppo stupida. Guardò dalla finestra, conosceva bene il panorama. Un piccolo appartamento a Sesto San Giovanni non è certo come una villa a Saint Tropez con la vista sul mare, ma per lui era molto bello lo stesso. Tutto intorno al palazzone c'era un cortile giardino, con giovani alberi e perfino una fontana che la sera veniva illuminata. Non poteva pretendere di più, dopo aver visto per nove anni, attraverso le sbarre della cella, lo squallore del cortile del carcere di Pizzighettone. “Vieni, Melina,” disse, “stiamo un po' sul terrazzo a prendere il fresco.” II terrazzino era piccolo, ma ci stavano due sedie, e un po' di giocattoli delle bambine. Dal quinto piano si vedeva anche tutta la panoramica della Sesto San Giovanni industriale, la palazzina con a fianco il capannone del reparto 11 dove lui lavorava era quasi lì sotto la finestra, tanto che al mattino, alle sette e mezzo quando lui era pronto per andare al lavoro, diceva: “Ciao Melina, scendo», invece di dire esco. Guardò la palazzina e distinse la luce nello sgabuzzino del guardiano, il giovane Borusti stava certo facendo le parole crociate, prima di riprendere il giro e punzonare gli orologi controllo.
Era una. grande primavera anche lì, a Sesto, non si sentiva naturalmente odore di fiori, anzi, eppure l'aria era insolitamente limpida, tanto limpida che si vedeva il cielo carico di stelle vivide, sopra la distesa di capannoni, tozzi fabbricati e ciminiere. “Vuoi un gelato, Melina?” si volse perché lei gli aveva messo una mano sulla spalla, e guardava anche lei la fontana illuminata in cortile, e le luci dei vialoni che conducono a Milano. “Dobbiamo fare economia, Righi.” “Tu spenderai neppure cinquecento lire al mese in gelati,” lui disse, “sono io che rovino la famiglia con le sigarette. Ma guarda che mi metto a fumare le Alfa per davvero.” “No, non voglio, sta male, perché sei il capo, ti vedono fumare quella roba e non hanno più soggezione di te.” «Figurati se oggi si guarda a quelle cose lì. Scendo e ti porto il gelato. Sempre crema e cioccolata?” “Sì, ma se ce l'hanno, vorrei anche un po' di fragola.” In quello stato aveva ogni tanto delle voglie, ma non ne parlava quasi mai con lui. “Ciao, Meluccia.” La baciò, un po' voglioso, e uscì. Appena in corridoio si accese una sigaretta, sul pianerottolo schiacciò uno dei bottoni dei due ascensori. I due ascensori: il fatto che fossero due, gli dava un senso di euforia, come dire?, di vittoria. Era una casa signorile, aveva tutto come nelle case signorili, anche se in tono più modesto, ed era tenuta con molta cura, il custode e sua moglie pulivano dalla mattina alla sera e rimproveravano gli inquilini che creavano disordine e sporco. Era davvero soddisfatto di quella casa. Proprio sotto casa, nel porticato semicircolare che girava intorno a metà della costruzione, c'era quel bel caffè, ancora aperto, con le luci tutte accese. Entrò pensando che si sarebbe bevuto una birra fresca fresca, e, come temeva, vide che Franceschino era lì. Gli andò incontro, ma per niente allegro. Era un po' tardi, il caffè era quasi vuoto. Glielo disse subito: “Ti avevo avvertito l'altra sera di non perdere più tempo.” Franceschino alzò una spalla. “Siediti, dobbiamo parlare.” “E stasera ti dico di non sprecare più neppure il fiato. Ciao.” “Siediti un momento, poi magari non ci vediamo più.” Esitò. Non gli piaceva fare il superbo con un compagno di galera, poi era un vecchio, ogni giorno doveva inventare almeno il mille lire per mangiare qualche cosa, mentre a lui non mancava nulla. Infine sedette, ma disse: “Ti ho detto di no, ed è no, cerca di ricordartelo.” Nella luce fluorescente e abbagliante del locale, il viso magro, legnoso di Franceschino, sembrava una scultura, più che una faccia umana.
“Tu non hai capito bene, si tratta di venticinque milioni per te e di quindici per me, e non c'è nessun rischio.” “Ho capito bene, ma non m'interessa.” Non credeva molto ai colpi perfetti e senza rischio. Franceschino non era uno stupido, ma la gente non si lascia fregare una quantità di milioni, così, senza dire neppure oh. A Pizzighettone lo aveva capito, perché c'erano tutti furbissimi come Franceschino, tutti inventori di colpi straordinari che avrebbero fruttato decine e decine di milioni e che come risultato passavano gli anni lì, a vuotare ogni mattina il bugliolo, a mangiare le patate marce, i fagioli col radicchio e la pasta con dentro gli scarafaggini. “No, non hai capito bene, se no non parleresti così,” disse Franceschino, con la voce piena di rabbia contenuta dei vecchi, bassa e un po' tossicolosa perché l'aria di Pizzighettone non è che faccia molto bene ai polmoni. “In quaranta minuti ti prendi quaranta milioni, ho calcolato anche i tempi. Un milione al minuto, la zia!, non lo guadagna neppure Mina.” Fece cenno al cameriere che passava e ordinò una birra. Poi chiese: “Lo avete il gelato di fragola?” “Sì, ce n'è ancora.” “Allora mi faccia una coppa da portare via: crema, cioccolata e fragola.” Franceschino ghignò. “Tua moglie aspetta il terzo bambino. Le farebbero molto comodo un po' di milioni, potresti comprarle gelati più grossi.” Allora lui si irritò, perché non gli piaceva che gente di galera come Franceschino parlassero di sua moglie. “Senti, con tutti i figli di bella donna che ci sono in giro, perché vieni a rompere i transistor proprio a me? Ne trovi a carrettate di bravi ragazzi che fanno il tuo colpo. A me lasciami in pace.” “Va bene, ti lascio in pace,” disse paziente il vecchio Franceschino, “però non alzarti, voglio spiegarti un po' cosa perdi.” Chi sa perché, lui aveva un certo rispetto dei vecchi, e sorseggiando la birra ascoltò. Al principio ascoltò per educazione, senza dar troppa retta, poi, invece, cominciò a riflettere su ogni frase di Franceschino. “Ammetti che una vecchia vedova ricca tenga in banca i suoi soldi, ma nasconda invece in una cassetta i suoi preziosi, brillanti, oro a mezzi chili, pietre di ogni genere.» Sì, lo ammetteva, ma ancora senza interesse. Bevette un po' di birra e gli vennero in mente le carezze di Melina. Voleva sbrigarsi a tornare di sopra, da lei. “Siccome è un po' toccata, la vecchia vedova non vuole mettere questa cassetta in banca. Sai, è un po' come quei contadini che nascondevano, una volta, i soldi nel materasso. Sai, una volta, perché oggi anche i contadini vanno a cambiali, liquidi non ne usano più.”
E va bene, Franceschino era vecchio e gli piaceva parlare. Aveva ancora un po' di birra e intanto gli preparavano il gelato di fragola per Melina. Parlasse pure: a Pizzighettone parlava sempre di donne, perché era anche un vecchio sporcaccione, e le descriveva così bene, raccontando proprio tutto, che alla fine arrivava il guardiano, per il chiasso che succedeva, e minacciava di buttarlo in cella di rigore. “Allora, Arrigo, tu immagina dove questa vecchia ha nascosto la cassetta,” disse Franceschino, poi scosse ancora quella testa che sembrava una bronzea scultura di Sumero o di Ittita, “no, non lo puoi immaginare, ci vuole solo la torbida mente di una vecchia vedova per inventare certi nascondigli. Te lo dico io dove l'ha nascosta: nella cappella funebre dove è sepolto suo marito, a Musocco.” Qui, lui, Arrigo, cominciò a incuriosirsi. Una cassetta con dentro varie decine di milioni, nascosta al cimitero, stimolava la sua curiosità: la vecchia era matta, ma era anche intelligente. “Basta un uomo solo, non occorrono sparate, come per le banche, e mucchi di pistoleros intorno,” disse Franceschino, quasi rabbioso, “basta andare a Musocco, scavalcare il muretto, di notte, poi vai nella cappella, tiri fuori la cassetta, per te è un gioco, scavalchi il muro un'altra volta e il colpo è fatto. A Musocco non ci sono carabinieri o polizia, né sorveglianti, né niente: ti prendi la cassetta e te ne vai.” Lui cominciò a riflettere su quelle parole. Sapeva che Franceschino non era un facilone, era un farabutto serio, un ladro prudente. “Come fai a sapere questa storia?” gli disse. “Sono il fattorino di fiducia della vedova,” rispose subito Franceschino. “Lei ha quasi settant'anni, ma guida ancora, io sto seduto vicino a lei che guida, e l'aiuto a fare le commissioni, lo sa che sono stato in galera, e mi ha preso proprio per farmi diventare onesto, ma io, ormai, non sono più capace di fare il bravo come te.” Era anche spiritoso, ma a lui era difficile farla, anche con molto spirito. “E tu sai esattamente quale è la cappella funebre, e dove è nascosta la cassetta?” “Per forza. Mi ha portato lei a Musocco per mettere nella cassetta un sacchetto di talleri d'oro, non erano meno di dieci chili, aveva bisogno di aiuto e si fida solo di me.” “E allora, perché non vai tu a Musocco? Questa è una cosa che si può fare tutta da solo, senza dividere la parte con nessuno.» II vecchio Franceschino, d'improvviso, ma lentamente si tirò, quasi fino al ginocchio, un calzone. “Hai presente le vene varicose? Con queste vene, gonfie come il manico di una scopa, io non posso quasi neppure camminare, figurati scavalcare il muro di Musocco. E poi, hai presente che cosa vogliono dire sessantadue anni? Tu ne hai soltanto la metà e non puoi capire, ma non si può correre, non ci si può accucciare per nascondersi, appena si sente un colpo
di pistola viene l'infarto. Se avessi potuto farlo da solo non sarei venuto a chiedere aiuto a uno stupido come te.” Non gli piacque per niente di essere chiamato stupido, ma portò pazienza e rispetto perché quello era vecchio. E disse: “E perché sei venuto a scegliere proprio me? Te l'ho già detto quanti bravi giovani ci sarebbero, disposti ad aiutarti. Perché proprio me?” Franceschino rispose prontamente, e come con soddisfazione: “Perché sei stupido. Conosco anch'io una trentina di ragazzi disposti ad aiutarmi, forse quaranta, forse cinquanta. Ma non sono stupidi. Se gli parlo di un colpo così, loro dicono subito: <Sissignore, sissignore>, vanno a Musocco, si fregano la cassetta e spariscono senza darmi neppure una lira. Io sono un povero vecchio, e che posso fare? Li rincorro? Guarda che vene. Li sparo? Così torno a Pizzighettone. No. no. Mi occorre uno stupido come te.” “Grazie,” disse lui, Arrigo. “Non ti offendere, te lo dico nel senso buono, nel senso che sei un bravo ragazzo. Se tu fai società con me, la mantieni. Se ti prendi la cassetta a Musocco, tu la mia parte me la dai, a me bastano venticinque milioni, un'altra volta ti spiegherò per che cosa, tu non te ne scappi con tutto, tu hai rispetto per un povero vecchio, è vero? E fra tutti quelli che conosco l'unico di cui mi posso fidare sei tu. È per questo che insisto con te. Ma forse tu sei troppo, troppo stupido, e butti via un sacco di milioni per fare il bredaiolo dalla mattina alla sera, senza pensare che alla prima riduzione di personale, sono naturalmente gli ex carcerati e rapinatori a essere buttati fuori. E quando farai il disoccupato, in fila con altri duecento, nel cortile del sindacato, non venirmi a chiedere neppure un grissino, neppure se hai otto bambini, perché non te lo do.” Arrigo si alzò, con molte voglie in corpo, soprattutto quella di dare il tavolino addosso a Franceschino, ma si vinse, andò al banco, ritirò il gelato e mentre pagava sentì alle spalle la presenza del vecchio. Uscirono insieme. Lui non lo guardava neppure, sentiva soltanto l'arrancare dell'uomo dietro di sé, con quelle terribili vene varicose, il portone di casa era vicino e fu sul portone che Franceschino lo raggiunse e gli disse bisbigliando: “Devi pensarci. Io sono qui al caffè quasi tutto il giorno. Quando mi dici di sì, ti dico il numero della cappella funebre; vedrai, è bella, è facile per entrare, il cancelletto fa ridere a un maestro delle serrature come te. Pensaci, Arrigo, voglio solo venticinque milioni, tutto il resto della roba che trovi nella cassetta è tuo, tu non immagini i brillanti che ha quella vecchia...” “E piantala,” disse brusco Arrigo, se lo stava ancora ad ascoltare gli si scioglieva tutto il gelato per Melina. Aprì il cancello di vetro, entrò e chiuse rabbioso. “Hai trovato qualcuna?” disse Melina aprendogli la porta di casa.
“Sì, ma era bruna come te e non mi andava.” Col gelato in mano l'abbracciò, ma lei gli tenne le mani lontane. “C'era la fragola?” gli disse, avida del sapore fresco acidulo della fragola. “Un mucchio, guarda.” Con pazienza attese che lei si mangiasse tutto il gelato, poi andarono nella stanzetta a vedere le due bambine che dormivano nei loro lettini, alla piccola luce notturna le guardarono un poco, dormivano come bestiole, come cuccioli, c'era un odore dolciastro di pelle tenera, infantile e richiusero piano piano la porta, e a lui piacevano tanto le sue bambine e disse a lei, sospingendola verso la loro stanza da letto: “Se divento ricco, ne facciamo a secchiate di bambini.” “Ricordati che non sei ancora ricco, e hai già esagerato.» Fecero tardi. Lui poi spense la luce, e sembrava che lei dovesse addormentarsi subito, ma nel buio, quando lui Stava invece per addormentarsi davvero, Melina disse: “Hai incontrato qualcuno al bar?” Non aveva mai mentito a Melina. Assonnato, disse: «Sì.» “Chi?” “Niente, lascia stare.” Non gli piaceva parlare con lei del suo passato, della galera, dei compagni ladri. “Allora so chi è: è Franceschino,” disse lei. “Come fai a saperlo?” “Non fare il bambino, Righi. Me l'hai portato a mangiare a casa, qui. quattro mesi fa, hai detto che era un tuo vecchio compagno, che faceva la fame, e io ho detto di sì, gli amici sono amici, anche se sono amici di galera, però, poi, proprio una settimana fa, mentre portavo a passeggio le bambine con Krokodil, l'ho rivisto nel bar qui sotto, lui non mi ha neppure salutata, e allora ho capito che aspettava te. Uno non parte da Milano centro per venire a bere una birra qui a Sesto, se non ha uno scopo.” Nel buio la voce di Melina suonava ancora più seria, quasi un poco solenne. Così egli si svegliò del tutto, accese la luce. “Sì, ha uno scopo,” disse. Cercò il pacchetto delle sigarette, trecentocinquanta lire al giorno, che vergogna, se ne accese una e le disse ogni cosa, tutto, perché l'unico essere al mondo al quale non potesse mentire, al quale, anzi, sentisse l'assoluto bisogno di dire tutto, era lei. “E tu che cosa gli hai detto?” la voce di Melina, anche con la luce accesa, era piuttosto dura. “Gli ho detto di andare a dormire, ed è meglio che dormiamo anche noi,” le disse deciso, eppure nonostante tutto il deciso della voce, lei non rimase convinta. Anche al buio, dopo che lui ebbe di nuovo spento la luce, lei cercò di dormire, ma non riusciva, e continuava a pensare, ed erano pensieri tristi.
Era uscito dal reparto 11 quasi alle otto perché vi era stata una specie di ispezione dell'ingegner Rustani, che aveva trovato, naturalmente, tutto fuori posto, tutto fatto male, così era molto scocciato e arrivato al bar sotto casa entrò, l'idea era di bere un bitter gelato, però lo sapeva che c'era dentro Franceschino, quello passava quasi tutta la giornata lì, anche se abitava a Milano. Perciò non fece neppure troppe scene, erano quattro giorni che il cervello gli lavorava da solo. Non c'è cosa più stupida e più facile che rubare in un cimitero, ci sono dei giovanotti che vivono portandosi via le statuine di bronzo o i vasi di rame, se non d'argento, dalle tombe. Lui, un piccolo cabotaggio del genere non l'avrebbe fatto mai, ma una cassetta con una quarantina di milioni è un'altra cosa. “Buonasera,” disse Franceschino. Sedettero a un tavolino riparato. Franceschino non disse nulla, aspettava. Lui bevette mezzo bitter, poi disse: “Dammi il numero della tomba.” “È una bella cappella funebre,” disse Franceschino, «quella l'ha messa come un salotto, ci manca il televisore. Ho qui la pianta, non devi faticare a trovarla, vedrai che la trovi subito.” Gli fece vedere il foglietto, e glielo mise nelle mani. “Te lo studi con comodo. Quando pensi di andare?” “Domani,” rispose subito, senza esitazioni, quando partiva, partiva. “Ascolta un consiglio: non servirti di macchine. Vai a piedi, fai tutto a piedi, non prendere neppure il tram. La gente a piedi non l'insegue nessuno.” “Grazie,” lui disse. Si alzò di scatto perché fuori del caffè, sotto i portici, aveva visto sua moglie, con le due bambine e con Krokodil. Krokodil era il cane-lupo del padre di Melina, vecchio vigilante notturno alla Breda, ed era l'idolo delle due bambine, per questo il nonno, prima di cominciare il suo giro, o al mattino, quando l'aveva finito, portava sempre il cane dalla figlia e dalle nipotine che giocavano e passeggiavano un po' con lui. “Mi sono fermato un momento a bere un bitter,” disse Arrigo andando incontro a Melina, si accucciò davanti alle due piccole. “Ancora alzate a quest'ora!” finse di sgridarle, ma erano così piccole e ancora così malcerte sulle gambe che aveva paura perfino ad alzare la voce. Ma lei, Melina, non si lasciò incantare da quelle tenerezze, con tono alterato, e a voce neppure tanto bassa, così che qualche passante sotto i portici si voltò, gli disse: “E stai ancora parlando con quell'avanzo di galera? Ci vuoi ritornare, dentro, eh, ti brucia?” Tenendo la bambina più piccola per una mano, e Krokodil per il guinzaglio, entrò nel caffè e gridò verso Franceschino ancora seduto al suo tavolo: “Lascia stare mio marito, farabutto, perché se no non so che cosa ti faccio.” Quella sera, per la prima volta da quando la conosceva, lui mentì a sua
moglie. Le disse che stava parlando con Franceschino per sbatterlo fuori, che non lo voleva più vedere, che non aveva assolutamente nessuna idea di mettersi sulla vecchia strada. Ma lei vedeva oltre quelle parole, sentiva i suoi pensieri come un microfono sente una voce. Non gli disse che mentiva. Non gli disse nulla. Era solo disperata e infelice da morire. E lo fu ancora di più quando lui la sera dopo, verso le otto, le telefonò da Milano, che era alla centrale della Breda con l'ingegner Rustani, che avrebbe fatto molto tardi e che non sapeva quando esattamente avrebbe potuto tornare a casa. Non gli disse niente, sapeva ciò che stava avvenendo, aveva visto anche che mancava una valigia, quella più scura e più piccola, perché Arrigo l'aveva portata via? “Va bene,” disse soltanto, “va bene”, e non riuscì a dire altro, perché sapeva che la colpa non era di lui, era di quell'altro, quello sporco farabutto che lo aveva invischiato di nuovo. E con un'ultima speranza, ma sapeva che era illusione, gli disse: «Vieni presto, appena puoi.” Rubare in un cimitero è davvero troppo facile. Aveva preso la piccola valigia scura e l'aveva lasciata, coperta dalle erbacce, sulla parte esterna del muro che circonda gli Champs Elisées milanesi. Aveva scavalcato il muro, aveva individuato la cappella funebre, aveva trovato la cassetta secondo le istruzioni che gli aveva dato Franceschino e alle undici e mezzo, dopo aver di nuovo scavalcato il muro, e con la cassetta chiusa nella valigia, si dirigeva per via Barzaghi verso viale Certosa, sempre a piedi, come gli aveva consigliato Franceschino. Però, anche un furto nel cimitero è difficilissimo se uno è seguito dalla polizia. E infatti lui era seguito dalla polizia. I fari di un'auto si accesero improvvisamente e lo abbagliarono, una voce gli gridò rudemente: “Fermati, Arrigo, sei sotto tiro!” Purtroppo lui non era il tipo che si fermava, anche se era sotto tiro. Con una violenta scartata, e sempre con la valigetta in mano, balzò fuori dal raggio dei fari e si mise a correre. A suo modo fu fortunato, gli spararono addosso, ma non lo presero. Riuscì a perdersi, la polizia fece dei blocchi, ma lui li attraversò, forse senza neppure saperlo, sempre con la valigetta con sé. Quando ebbe un momento di respiro e l'aprì vide che c'era roba anche per molto più di quaranta milioni, se i brillanti non erano di plastica, e i talleri di ottone lucidato. Era l'una e mezzo del mattino. Alle nove del mattino, Franceschino salì in casa di Arrigo. Andava a ritirare la sua parte, il colpo doveva essere fatto e non voleva lasciarsi imbrogliare. “Buongiorno signora, c'è suo marito?” disse, entrando subito, un po' da padrone, perché ormai aveva compromesso l'amico. Lei lo guardò un momento annaspare con quelle sue gambe pesanti di vene
varicose, per la piccola sala. Le bambine erano in cucina col nonno, nella sala c'era solo il canelupo, Krokodil, sdraiato, a fare la guardia alle due bambole delle piccole. Lei lo guardò con odio, peggio che con odio, con furore omicida, era l'uomo che gli aveva rovinato il marito, e glielo urlò: “Mio marito è inseguito dalla polizia per colpa tua, la casa è sorvegliata e non so neppure come hai fatto a venire fin qui senza essere preso dagli agenti...” la voce alta e rauca mise in allarme Krokodil che si alzò, col pelo alto sul collo, lei vide la bestia e nel suo furore, col braccio teso sul grosso ventre, indicò Franceschino e ordinò al cane: “Prendilo!” Krokodil era considerato un cane buono, anche se da guardia, ma un lupo, anche se buono, sa capire le voci alterate degli umani e si scatena quando riceve un comando preciso. Franceschino fece solo pochi passi fuori dalla porta, poi si fermò perché vide salire di 'corsa due poliziotti, richiamati dalle grida, li distingueva benissimo, e intanto che si fermava, preso tra due fuochi, Krokodil gli saltò alla gola. 22 aprile 1967. L'ex rapinatore Arrigo Romano si mette in contatto con un altro dimesso dalle carceri, il vecchio Francesco Avergoni. Dato questo la nostra squadra comincia la sorveglianza. 27 aprile 1967. Continuamente pedinato, Arrigo Romano viene sorpreso in flagrante a commettere un furto nel Cimitero maggiore, ma sfugge alla cattura. 29 aprile 1967. La moglie di Arrigo Romano, in stato di avanzata gravidanza per un terzo bambino, esasperata contro Francesco Avergoni che secondo lei ha spinto suo marito a ritornare alla malavita, scaglia un grosso cane-lupo contro di lui. Francesco Avergoni muore per infarto, più che per le ferite, la moglie di Arrigo Romano è arrestata: dal suo avvocato viene informata che il marito è ricercato per un furto di trenta e più milioni. Dichiara di non saperne nulla. Le bambine sono state affidate a un istituto perché non vi sono parenti in grado di tenerle. 2 maggio 1967. Arrigo Romano viene arrestato a Genova, denunciato da un gioielliere al quale aveva offerto in vendita dei brillanti. II giovane e cinico funzionario della Squadra controllo ex carcerati, rimise tutti questi foglietti nella cartella e restituì la cartella all'agente Sordelli, in piedi davanti alla sua scrivania. «Vanno sempre a finire così, ce ne fosse uno che fosse intelligente, che si rimettesse davvero in carreggiata. Mai. Questo stava bene, guadagnava quasi duecentomila lire al mese, aveva una bella moglie, due belle bambine, poteva essere felice. No, va a rubare nei cimiteri, tenta il colpo grosso. Vogliono proprio essere infelici.” Si alzò, stanco, cominciava a far caldo. “E adesso stanmi dietro a quel Cordovelli di Savona. Anche lui sembra un Calimero pulcino nero che però è diventato tutto bianco col detersivo di dieci anni di galera. Ma c'è poco da fidarsi.”
17 A Porta Venezia con paura
Camminavano piano, con l'aria svagata, come non vedessero niente, per corso Buenos Aires, e invece vedevano tutto e alla svolta con via Boscovich si fermarono, ma con noncuranza. “Hai visto la Cesarina?” disse Walterino. “Sì, l'ho vista,” disse Sandruccio, detto anche Alessandro Magno per la sua attività di protettore di giovanette volonterose. “Ma quella non mi da un soldo.” “Prova lo stesso, aveva tanta simpatia per te,” ribatté Walterino. Sandruccio fece una smorfia negativa, ma si avviò. Walterino, fingendo di guardare da una parte, stette invece a osservare la scena. “Alessandro Magno” se ne tornò indietro senza che la ragazza avesse aperto la borsetta. Piovigginava, quelle rare gocce di una svogliatissima pioggia d'autunno. Sandruccio sorrise. “Ha detto se siamo diventati stupidi a pensare che lei da i soldi a noi due.” “Almeno per farci un panino, un po' di sigarette, è da ieri sera che non mangiamo e non beviamo niente,” disse Walterino. “Gliel'ho detto, ha risposto di andare da quei frati che danno il pane a tutti,” sorrise; Cesarina gli era sempre piaciuta per il mordente. Walterino non rideva, quasi mai. Arrivarono all'altra svolta, e si fermarono ancora. Erano abbastanza eleganti col loro giacchetto di camoscio, i calzoni di velluto color senape e la camicia blu scuro ben chiusa al collo. “Quasi due anni fa io frequentavo una signora, che abitava laggiù, in quel palazzo.” Indicò uno dei nuovi palazzi, oltre gli antichi caselli daziari di Porta Venezia, attaccato a un'entrata d'angolo dei Giardini Pubblici. “Nuotavo nella grana, mi vestiva copiando i modelli dalle riviste americane da un sarto che si beccava quasi trecentomila lire per vestito. Le scarpe me le faceva arrivare da Londra, mi portava in giro per tutta Italia con le sue macchine, ne aveva tre o quattro, quando era triste si metteva a piangere e mi diceva: < Se tu non fossi così giovane, ti sposerei. > Devi vedere che appartamento ha in quel palazzo, all'ultimo piano. Ha un terrazzo che ci coltiva le rose e sì vede tutta Milano, dalla Madonnina a Monza.” “E perché non sei rimasto con lei?” disse Sandruccio. Si rimisero in cammino verso il centro. “Non ce l'avresti fatta neppure tu,” disse Walterino. “Va bene i soldi, va bene mangiare tartufi e aragoste, va bene le auto e i viaggi e tutto il resto, ma ce l'avevo sempre appiccicata addosso. Non potevo fare mai una partita a sputafuoco, non potevo fare mai una serata come dico io, un'ammucchiata,
con tanti ragazzi e ragazze. Così, una volta ero nervoso per questo, mi fece arrabbiare e le detti due o tre botte in testa. Non immagini quello che fece.” “E che fece?” “Telefonò, io non me ne accorsi neppure. E dopo dieci minuti arrivarono su due forzuti, dovevano essere i suoi poliziotti privati, non mi dissero neanche una parola, ma cominciarono a prendermi a schiaffi, uno mi teneva e l'altro batteva, poi l'altro mi teneva e quello di prima batteva. Sono perfino svenuto, ma mi hanno fatto rinvenire, sempre a schiaffi. Poi mi hanno tolto di dosso fino all'ultima lira, l'orologio, i gemelli d'oro e tutte le altre robette d'oro che lei mi aveva dato, compresa la cintura con la fibbia d'oro, mi hanno preso per il colletto, mi hanno accompagnato col montacarichi di servizio e mi hanno scaricato sulla strada dopo avermi detto che se molestavo la signora anche solo con una telefonata sarebbero venuti a darmi una seconda rata.” Arrivati all'angolo con piazza Oberdan, Sandruccio disse: «Oggi neppure le vecchiette sono stupide.” Walterino disse: “Torniamo indietro, qui ormai non c'è più niente da fare.” “E indietro ce n'è ancora meno,” disse Sandruccio. “Senti, io ho un'idea.” “Che roba è?” disse Walterino. “Almeno per mangiare qualche cosa subito, così dopo pensiamo meglio. Dall'altra parte della strada c'è il gastronomo. Io entro, prendo un po' di roba, mi faccio fare il pacco, tu entri appena il pacco è fatto, io te lo passo e tu esci subito, e appena sei scomparso tu, piglio il volo anch'io, da un'altra parte. Ci rivediamo poi da Magnago, che forse ci dà il vino e il pane a credito.” Walterino fece la sua smorfia. “Senti, il ladro di mortadella lo facevo a dodici anni, e non ricomincio adesso. Io piuttosto pensavo a un'auto. Magnago, per le gomme, dieci ce le dà.” “Una macchina, qui, a quest'ora? A te ti fa male l'autunno. Sei in galera ancora prima di aver messo in marcia.” “Qui, bisogna fare qualche cosa, però,” disse Walterino. «Va bene, niente macchina. Andiamo al ristorante.” “Anche questo è uno scherzo che non mi piace, i camerieri non sono stupidi, e neppure i padroni,” disse Sandruccio. Ma andarono, anche se sapevano che non era prudente. Entrarono da Chiavacci, il ristorante con giardino proprio all'angolo con viale Maino, mancavano ancora una ventina di minuti a mezzogiorno, troppo presto per un ristorante così; ma Walterino sapeva come fare. Fermò il primo cameriere che trovò: “Dobbiamo partire all'una per Palermo, avete qualche cosa da darci da mangiare, subito?» II cameriere li accompagnò a un tavolo in giardino. “Si accomodino.” Se ne andò, lasciandoli soli, nell'ombra verde del giardinetto, dove non c'era nessuno.
“Quel maledetto palazzo si vede anche da qui, dietro il pergolato,” disse Walter. “Che palazzo?” II tavolo con la sfilata di antipasti e di insalate faceva girare la testa a Sandruccio. “Quello della vecchia. Sul terrazzo ci sono rose tutto l'anno, ha la serra riscaldata, il giorno di Natale abbiamo colto delle rose rosa, e noi qui stiamo a fregare un piatto di pastasciutta.” Un giovane signore in smoking bianco si avvicinò un attimo dopo al loro tavolo. Non aveva il viso sorridente che dovrebbe avere un maître. “I signori desiderano far colazione?” Li fissava come il raggio di una macchina per radioscopia. “Sì, ma presto, per favore,” disse Walterino, “all'una dobbiamo partire per Palermo.” “Ecco la lista,” disse il maître, togliendo il doppio cartoncino da sotto il braccio. “Però dovete pagare anticipato.” II traffico, a quell'ora, in quell'infernale carosello di auto che era Porta Venezia, stava divenendo assordante, però avevano tutti e due un udito finissimo e avevano capito benissimo. “Non ho mai sentito dire che nei ristoranti si pagasse anticipato,” disse Walterino, ma non fece l'aria molto offesa, sapeva che il giovanotto in smoking non gli avrebbe creduto, anzi, sorrise, come divertito, e non lo era per niente. “In certi casi, sì,” disse il maître. “Sentite, se mi mettete cinquemila di anticipo sulla tovaglia, vi do da mangiare, se no andate, e ringraziate vostra zia se non chiamo la volante.” Si alzarono maledicendolo in silenzio, e avendo imparato che i maìtre di classe conoscono la gente senza soldi e imbrogliona, anche se erano vestiti come si deve e avevano l'aria per benino come loro due. “Vorrei sapere come abbiamo fatto a ridurci così,” disse Walterino. Si erano rifugiati ai Giardini. Sandruccio aveva raccolto qualche mozzicone un po' lungo e ne fumava il paio di boccate che c'erano, perché senza fumare impazziva. E buttando via il mozzicone che gli stava bruciando le labbra, Sandruccio disse: “È perché tu spendi come avessi la macchinetta per farli. E giochi che fai paura.” “È che ho ancora le abitudini che mi ha dato la vecchia del palazzo qui vicino,” alzò il viso verso la moderna costruzione che traspariva attraverso i grossi rami dei vecchi alberi. «Andavamo a giocare a Venezia, e guarda che scarogna: allora che ero gonfio di grana, vincevo.” “È meglio che cambi abitudini, però,” Alle quattro del pomeriggio, girando sempre per i Giardini, pensarono a
uno scippo. Ma uno scippo a piedi è un'impresa da disperati, o da ragazzini senza cervello. Anche a volerlo fare, però, girarono fino a verso le cinque in cerca del soggetto adatto per tutti i Giardini, ma o si trattava di servette senza una lira o di bambinaie che avrebbero strillato troppo, e poi è meglio che non ci siano mai di mezzo bambini. Quando videro una ragazza brunetta, ben vestita, con una bella borsa di vernice un po' stonata a quell'ora, le si misero a fianco, a qualche metro di distanza. Sandruccio, a sinistra, era pronto a gridare: “Signorina, non mi riconosce?” La ragazza si sarebbe voltata verso di lui e allora Walterino dall'altra parte le avrebbe strappato la borsetta. Ma non era il giorno adatto. Come dal nulla, forse da dietro una pianta, spuntò un poliziotto in divisa, era della vicina questura in via Fatebenefratelli, che andò incontro alla ragazza, la sua fidanzata, e la prese sottobraccio. Sandruccio e Walter sudarono freddo: se il poliziotto avesse tardato un attimo a comparire, loro avrebbero tentato lo scippo e quello sarebbe apparso sparando alle grida della fidanzata. “Siamo stati ancora fortunati,” disse Sandruccio. Poi disse ancora: “Non ne posso più, ho fame, siediti su quella panchina, vado in cerca io.” Era un generoso, sapeva che Walter non si sarebbe mai abbassato a quel punto. Lui sì, se non c'era di meglio. Attraversò il viale, adesso roseo di sole al tramonto, e dall'altra parte vide subito una vecchia signora, sola su una panchina. Si fermò davanti a lei. “Scusi, signora, sono due giorni che non mangio, ho fame, mi dia qualche cosa.” La vecchia signora lo guardò con sospetto, quasi con paura, ma lui la fissò con lo sguardo buono, quello che da ragazzo sapeva avere per imbrogliare la nonna, e lei aprì la borsetta, cercò meticolosa, tirò fuori un biglietto da cinquecento e glielo dette. “Non li meritate, siete tutti degli scansafatiche che non volete mai lavorare.” “Non è vero, signora, io non trovo lavoro, grazie signora.” Ripeté la scena altre quattro volte, due a vuoto, e due per cento lire ciascuna, e ritornò da Walterino mostrandogli le settecento lire sul palmo della mano. “Non è molto, ma ci stanno due panini e le sigarette.” Walterino guardò la misera moneta sul palmo della mano di Sandruccio. “Accattonaggio?” “Che altro vuoi che sia?” Mangiando il magro panino in quel baretto al principio di corso Buenos Aires, pensavano sempre alla stessa cosa: fare soldi. Sandruccio aveva finito il panino appena il cameriere gliel'aveva messo in mano, e del resto anche Walter, e parlava piano perché non sentisse qualcuno, il locale era così piccolo.
«Qui a Porta Venezia ormai ci conoscono tutti, non ci fanno cento lire di credito, appena ci vedono mettono le mani sul portafoglio o sulla borsetta perché hanno paura che glieli portiamo via.” “Possiamo cambiare quartiere.” “Certo, andiamo a Porta Romana a fare lo stesso lavoro che facciamo qui, rubare le auto per Magnago, trovare qualcuno che ci compra del bicarbonato per coca, o delle sigarette svedesi come sigarette alla marijuana, o aiutare i magliari a fregare la finanza. Io sono stufo. Ho in mente un'altra cosa, ho ancora in mente quella donna, quella del palazzo, guarda, si vede anche da qui il palazzo, sul terrazzo ci sono le rose, tu devi vedere che roba, stava studiando per farci la piscina, forse dopo quasi due anni ce l'ha fatta.” “Tu sei fissato, con quella donna lì. Cosa speri di combinare dopo tutte le botte che ti hanno dato? Un'altra sventolata?” Walterino abbassò ancora di più la voce, che prese però un tono rabbioso. “No, voglio solo avere tutti i soldi che avevo allora quando ero con lei. Voglio avere quegli abiti, quegli orologi, quegli accendini d'oro che pesavano due etti. Voglio poter guidare quelle macchine che guidavo allora, andare nei posti dove andavo allora.” “E come fai? Ti hanno detto che se ricomparivi ti facevano a pezzi.” “Lo so io come faccio, io conosco le donne. Quando mi ha fatto buttar fuori lei aveva passato già i quarantacinque, adesso ne avrà quasi quarantotto, si sente invecchiare, sente che non ce la fa più a sembrare giovane, e io so che si ricorda di me, lei ne avrà conosciuti diversi di ragazzi, ma io lo so che il meglio sono stato io per lei, me lo diceva sempre. Io ritorno da lei.” Si alzò infiammato da quell'idea. “Io le telefono, sono passati due anni, rancore non ne può più avere per me, si ricorderà invece tutti i bei giorni che le ho fatto passare... Dammi i soldi per un gettone, che le telefono subito.” “Era per questo che giravi sempre qui per Porta Venezia,” disse Sandruccio dandogli le ultime cento lire. “E vieni anche tu, perché ho un'idea,” disse Walterino. «Dove vengo?” disse Sandruccio. “Dalla vecchia. Se riesco a parlare con lei è fatta.” La signora Giara Luca prese la comunicazione semplicemente perché Walter aveva avuto la furberia di non tentare trucchi. Aveva detto chiaramente alla cameriera che aveva risposto al telefono: “Dica alla signora che sono Walter.” II nome Walter era anche troppo familiare alla signora Clarà, rappresentava il massimo della propria degradazione, mai lei era scesa più in basso che con quel ragazzo. E mai, però, aveva sentito la mancanza di un uomo, come di lui. Erano passati due anni e lo aveva ancora sulla pelle, come una scottatura di
sole. Era una donna veramente da pattumiera, se accettava ancora di parlare con quel ragazzo. “Pronto,” disse, versandosi dell'aranciata nel bicchiere, dalla caraffa gelata. Lui le disse che era Walter e lei disse: “E allora?”, poi, mentre lui parlava, bevette l'aranciata, guardando dalle quattro finestre del salone che davano sui grandi alberi dei Giardini, e su corso Buenos Aires, e verso il centro: in fondo poteva vedere anche la Madonnina. Walter le raccontava che non mangiava, che non aveva trovato lavoro, che era insieme con un amico disgraziato come lui, che nessuno li aveva voluti aiutare, che per mangiare un panino avevano dovuto chiedere la carità lì ai Giardini, e lui era disperato, aveva pensato a lei come all'ultima salvezza, se no, non sapeva cosa avrebbe potuto fare. Non chiedeva nulla, solo un po' da mangiare, e una raccomandazione per aver lavoro, lui e il suo amico erano disposti a fare qualunque lavoro, ma che per pietà li aiutasse. La signora darà sorrideva ascoltando. Doveva essere vero che i due spudorati ragazzi erano senza una lira e facevano la fame o quasi, altrimenti Walter non avrebbe avuto il coraggio di telefonare, ma che fossero disposti a fare qualunque lavoro era una barzelletta. Il play boy bonaerense, perché trafficava sempre in corso Buenos Aires, tentava furbescamente di riallacciare con lei, tentava di impietosirla, si fidava del fascino che aveva avuto su di lei, e che sperava di avere ancora. «Pronto? Pronto?” udiva lei nel ricevitore, perché lui non riceveva risposta, e allora lei pensò che doveva decidere. Il ragazzo aveva calcolato giusto: lei voleva almeno rivederlo. «Vieni su col tuo amico,” gli disse, “vedrò cosa posso fare.” E tolse la comunicazione bruscamente, piena di vergogna e umiliata di se stessa. Poi si alzò e andò in corridoio dove vi era il citofono. “Sì, signora,” rispose subito il portinaio. “Per favore, mi mandi su i due autisti.” “Subito, signora.” Ritornò nel salone grande, a guardare dalla finestra, senza vedere nulla, era stata il giorno prima all'istituto di cosmesi e sapeva di essere a posto, del resto lo era sempre, e sempre con qualche anno in più, pensò amaramente, in quel crepuscolo d'autunno. Che cosa significava vergogna e umiliazione con quel ragazzo, quando si è morti? Che cosa significava “onore” e il nome dei Luca, quando non resta più niente di giovinezza e manca forse poco a morire? “Signora.” Lei si volse di scatto. Sulla porta c'erano i suoi due gorilla. Quando una donna è vecchia e pazza e ha tutti quei soldi che aveva lei, può commettere le sue pazzie da vecchia, ma deve almeno farsi difendere da guardie del corpo come quelle, che lei pudicamente chiamava “autisti» di fronte al portinaio.
“Riceverò una visita, fra poco,” disse, ormai senza pudore, “state nella sala vicina senza farvi vedere, ma state attenti, se vi chiamo venite subito.” “Sì, signora.” Erano corpulenti, neppure tanto alti, uno vestito di blu, l'altro di grigio scuro, ma sembravano avere la stessa uniforme. S'infilarono nella saletta vicina, lasciarono la porta socchiusa, e lei andò un momento a guardarsi nello specchio, senza accendere ancora le luci, benché stesse venendo buio, e sperò: qualche volta avvengono dei miracoli, qualche volta un avanzo di riformatorio come Walter diventa un bravo ragazzo, non vuole più fare la vita che faceva prima, si mette davvero a lavorare. Ecco: voleva guardarlo negli occhi per capire se in quei due anni il ragazzo era cambiato. “C'è il signor Walter con un altro signore.” Sulla porta era la cameriera. Lei andò a sedere sul grande divano vicino alla finestra che dava sui Giardini. “Sì, falli passare, e accendi le luci.” La cameriera tornò e lei guardò i due giovani che entravano. Sembravano fratelli, col giacchettino di camoscio uguale e usciti dallo stesso collegio. Guardò Walter, che si era fermato poco dopo la porta insieme col compagno, sperando in quel miracolo, ma vide qualche cosa di disgustoso: vide nei suoi occhi, diretta a lei, una voluta espressione licenziosa, un voluto sguardo di turpe intesa con lei. Non c'era miracolo, non era neppure un vinto, affamato che veniva a chiedere un po' di soldi, era uno sfruttatore che veniva a riprendersi la sua schiava. “Buona sera, signora,” disse Walter, col lei e con aria di timidezza, perché c'era la cameriera, ma continuando a fissarla in quel lubrico modo. “Vai pure,” lei disse alla cameriera. Era combattuta, tra il disgusto e il senso di attrazione che pure provava attraverso la nausea. Poi qualche cosa vinse in lei: non era l'ultima delle donne. Si alzò, andò a un'angoliera, vi erano i liquidi per le piccole spese di casa. Prese diecimila lire, tornò a sedersi sul divano, tenendo ostentatamente il biglietto in mano, ben visibile. “Sedetevi pure,” disse. “Grazie, cara,” disse Walter, facendo segno a Sandruccio di sedere anche lui, e adesso che non c'era la cameriera e si credeva solo arrivava al tu e diceva cara. “Ora devi ascoltarmi bene, tu e il tuo compagno,” lei disse, quasi come leggendo freddamente in un libro, “ti ho fatto salire su solo per darti un ultimo avvertimento: non molestarmi più, né per telefono, né in altro modo. Non m'interessa che tu abbia fame o che sei senza lavoro. Non ho più niente a che fare con te. Non tentare ricatti o cose del genere. Hai già ricevuto una lezione l'altra volta, ne riceveresti un'altra molto peggiore, coi miei avvocati una decina di anni di carcere posso sempre farteli avere se tenti qualche stupidaggine. Prendi questi soldi e vattene,” gettò il biglietto da diecimila sul tavolinetto davanti a lui.
Ecco, se era riuscita a parlare così, non era proprio un'ultima donna. Walter guardò Sandruccìo. Restò in silenzio, poi prese il biglietto da diecimila, era meglio che niente, ma non si alzò. “Va bene, ce ne andiamo, però mi tratti troppo male, io ero venuto qui col mio amico per il lavoro, tu ci puoi trovare un posto quando vuoi...” Dentro di sé ruggiva di rabbia, l'avrebbe stritolata, se avesse potuto, quella vecchia era troppo furba per lui. “Smettila, buffone, sei venuto solo a tentare di rimetterti qui, in questa casa, e se non ti riesce, tenterai di rubacchiare qualche cosa intanto che sei qui, per esempio quella scatola di tartaruga e oro o qualcuno degli orologini di collezione in quella teca lì sopra. Va' via e non rubare niente, è un consiglio che ti do.” Allora Walter si alzò. Essendo idiota, come tutti i furbi, tentò quello che un ragazzo intelligente non avrebbe mai tentato con una donna della classe di Giara Luca. Lo tentò per non perdere l'ultima speranza di tornare lì, in quella casa, piena di grana come un granaio pieno, piena di belle cose, e dolci cose, e buone cose che rendevano la vita un piacere. Tentò, e di scatto abbracciò Giara, la tenne stretta contro di sé, e le chiuse la bocca con la sua, tenendola e insistendo a baciarla benché lei cercasse in ogni modo di liberarsi e la lasciò respirare un attimo solo per soffiarle: “Non ne troverai mai un altro come me.» Quell'immondo abbraccio, quelle immonde parole alla presenza di quell'altro giovane delinquente la svegliarono del tutto da quell'ultimo lembo di debolezza che poteva avere per lui. Volse il viso verso la porta della sala vicina, e gridò: “Tonio!” Non aveva neppure finito quasi di pronunciare quel nome che i gorilla esplosero nella sala. Dalla porta da cui uscirono al punto del salone in cui era la signora vi erano almeno cinque metri: quasi con un sol balzo essi percorsero i primi tre, poi si fermarono di colpo. “Muovetevi ancora un centimetro e vi strangolo la padrona.» Walterino si riparava dietro la donna e la stringeva alla gola col braccio destro. La stretta era già così forte che si udiva il rantolo di lei e gli occhi venivano in fuori in un'espressione carica di terrore. “Forse me le darete lo stesso, ma prima questa torna al mittente.” “Smettila di stringere, disgraziato,” disse uno degli uomini, veniva dalla polizia francese ed era troppo esperto di gente strangolata così per non capire il pericolo che correva quella fragile donna. “Io la lascio respirare un po', ma voi buttatevi per terra a faccia in giù. Vi do tempo tre secondi per farlo.” Sandruccio guardava, come fosse un incubo. Guardava la faccia stravolta di Walterino. Solo ora, lo conosceva da pochi mesi, scopriva che era un vero
delinquente, prima gli era sembrato un bravo ragazzo. Gli venne da piangere nel vedere il brutto pasticcio in cui era caduto. “Lasciala stare! Sei matto! Scappiamo via!” “Giù in terra o questa crepa!” gridò Walterino, stringendo un poco di più la signora Giara alla gola. I due forzuti lo guardarono, guardarono il viso contratto dall'asfissia della loro padrona. Non avevano scelta. Si distesero a terra a faccia in giù, accusandosi mentalmente di non essere stati abbastanza pronti nell'intervenire. “E adesso muoviti tu, Mammolo, guarda se devo avere intorno un fifone come te. Fruga quei due e tiragli fuori la rivoltella.” “Io non faccio niente, ho paura,” gridò Sandruccio, «io me ne vado via.” “Ci sei dentro, cretino, se prendono me sei finito anche tu. Portagli via la rivoltella!” Anche lui non ebbe scelta. C'era dentro, ormai bisognava ballare la manfrina fino all'ultimo. Si curvò, con molta prudenza, sui due uomini e cercò le armi, mentre udiva Walterino che ruggiva: “Voi state buoni, non fate scherzi al mio amico”, e trovò subito le rivoltelle, piccole ma efficaci. “Dalle a me, tu non le sai adoperare,” disse Walterino, si mise una rivoltella in tasca, l'altra la tenne in mano, ne sbloccò la sicura, poi disse all'orecchio della signora Clara: “Siediti sul divano, bevi qualche cosa, ma non cercare di gridare o altri scherzi, perché ti rompo la testa col calcio di questa roba.” Sedette anche lui su una sedia imbottita dalla quale dominava con la rivoltella tutta la sala e disse ai due distesi in terra: “Adesso siete sotto il tiro di questa scacciacani. Noi non abbiamo niente da perdere. Fate solo una mossa e avete finito la carriera.” Senza che la mano le tremasse, lei si versò un poco di aranciata nel bicchiere, a ingoiarla tossì, poi a poco a poco il bruciore le passò, la gola le ritornò quasi normale. “Adesso dobbiamo parlare,” le disse Walterino, non smettendo di sorvegliare i due distesi in terra. “Io so che nella tua stanza da letto c'è una piccola cassaforte a muro, era da lì che prendevi i soldi per darmeli, quando mi volevi bene, e qualche bracciale o collana. Sai dov'è la chiave?” “Sì, certo,” lei disse fredda, altera. Non poteva dare soddisfazione di provar paura. “Dovresti saperlo. Ce l'ha Tonio, devo sempre chiederla quando voglio aprire la cassetta.” Era vero, adesso se ne ricordava. Allora si rivolse a uno dei due distesi in terra. “Signor Tonio, per favore, butta qui quella chiave.” La risposta del gorilla fu secca: “No. Se vuoi vieni a prenderla.” Walterino si irrigidì puntando meglio la rivoltella. Tacque solo pochi secondi, ma fu un silenzio terribile, anche per Sandruccio. “Conto fino a quindici, se quando arrivo a quindici non mi hai tirato la chiave ti sparo nella
testa, ho detto nella testa, e sai che lo faccio.” Cominciò a contare. “Tonio, gli dia la chiave,” disse lei. Si sentiva dalla voce che era disposto a uccidere. Anche Sandruccio lo sentì, raggelato. “No, signora, non può sparare, la rivoltella fa troppo chiasso, se spara vengono qui tutti, anche dagli appartamenti vicini,” disse il gorilla disteso. “...Undici, dodici, tredici...” Prima del quindici il gorilla si rotolò per terra un paio di metri, poi balzò in piedi e saltò addosso a Sandruccio riparandosi dietro di lui. Walterino non vide subito, e sparò, centrò in pieno, come ai bersagli, il suo amico Sandrino in mezzo al petto. La rivoltella aveva fatto davvero un rumore infernale. Intanto anche l'altro gorilla si era alzato ma non poteva far nulla perché era sotto il tiro anche lui. “Non puoi fare più nulla, butta in terra quella roba,” gli disse Tonio. “Stanno già arrivando la cameriera e il domestico.” “Posso sempre ammazzare quella lì,” disse Walterino. “Ma prima tu mi dai la chiave della cassaforte.” “E tienila, tanto non riuscirai mai ad andartene via da questa casa.” Tonio gli tirò la chiave in terra. Era un problema raccoglierla dovendo badare a due forzuti come quelli. Walterino ci pensò un secondo, e lo risolse brillantemente. “Cara,” disse, “raccogli quella chiave.” Lei ubbidì, si chinò e gli tese la chiave. A un certo punto non si può provare che pietà verso esseri simili, una pietà, più che materna, da suora missionaria per i lebbrosi, e quello era davvero un lebbroso. “Voglio aiutarti ancora una volta,” gli disse. “Non fare altre stupidaggini. Nel cassetto di quel mobile dove ho preso prima le diecimila lire ci sono altre quaranta o cinquantamila lire. Prendile e vattene. Forse puoi ancora scappare dalla scala di servizio, lo non posso fare di più, hai ucciso il tuo amico, ma se resti qui, uccidi ancora, ed è peggio.” Questa volta il ragionamento lucido e la voce dolente di lei lo fermarono. Lo capiva anche lui, adesso, che a restare lì era peggio. “Dammi tutti i soldi che hai, anche quelli che hanno loro,” impugnava ferocemente la rivoltella con la sicura aperta. Aveva rinunciato alla cassetta. Si accontentava di poco. Lei prese subito dal cassetto tutto il denaro che c'era, i due uomini le dettero fino all'ultimo biglietto che avevano nel portafoglio. Erano centotrentacinquemila lire in tutto. “Ecco, Walter, forse fai ancora in tempo a fuggire dalla scala di servizio,” per la tensione nervosa cominciò a balbettare. “Se ti prendono di... dirò che non... non... non sei cattivo...” gli tendeva i soldi e lui allungò la sinistra per prenderli, ma teneva la rivoltella così nervosamente che il colpo partì, prese
anche lei al centro del petto, come se avesse mirato per ammazzarla. “Io non volevo, non volevo...” disse isterico fissando i due gorilla che si mossero per raccogliere la loro padrona. “Non volevo... è partito da solo, il colpo... Non volevo,” cominciò a urlare, vedendo che dalla porta centrale del salone entravano il domestico e il cuoco. “State indietro, se no vi ammazzo... Indietro!” Scattò via, in fondo dove c'era la scaletta che conduceva al terrazzo: “Indietro, vi ammazzo! Quando è scarica questa ho un'altra rivoltella.” Fece la prima rampa di scale ancora in vista di quella gente nel salone, poi corse nella seconda e fu sul terrazzo. Le luci erano già accese, dei piccoli riflettori illuminavano le aiuole e, ancora prima di vederle, sentì il profumo delle rose. “Vieni giù, assassino, deficiente,” gli gridò uno dei gorilla, da basso. Sparò un colpo nella scala poi sedette sfinito sul divanetto a dondolo. Adesso era davvero finita. Non poteva scappare da nessuna parte, pensò guardando le luci di corso Buenos Aires, e giù. sotto la scala, sentiva parlare. Allora cominciò ad aver paura, paura e insieme freddo. Paura di tutti gli anni di carcere, paura di tutte le botte che avrebbe preso, paura di tutta la vita finita. Non aveva avuto mai tanta paura come in quel momento. E fu solo per paura che cominciò a sparare uno dopo l'altro, prima i tre colpi rimasti da una rivoltella, poi i sei di quell'altra, scaricandole tutte e due. Da basso Tonio contava, appena sentì che era stato sparato l'ultimo colpo, lui e il suo amico volarono per la scala e furono sulla terrazza. Lo videro scappare e lo udirono gridare: “No, no, non mi dovete picchiare.” “Vieni qui, non ti facciamo niente, ti consegniamo solo alla polizia.” Avevano paura che si buttasse giù. Il terrazzo non era poi molto grande per correre tanto, lo presero subito, accucciato in un angolo dietro una siepe di rose. Si riparava la testa e il viso con le mani. “No, non mi picchiate.” Rantolava quasi dalla paura. “Non mi picchiate.” Non lo picchiarono, ma la cosa più disgustosa in quei tipi è che sono dei vigliacchi marci, pensò Tonio.
18 Come è fatto un mostro?
Una roulotte è una cosa meravigliosa per i bambini, specialmente se si lascia la portierina dischiusa in modo che possano vedere nell'interno, e nell'interno c'era lui, seduto sul lettino divano, che continuava a bere pernod gelato e guardava fuori, dalla portierina dischiusa, ogni tanto, ma sapeva che non potevano esservi bambini in quella strada non asfaltata, quasi la strada nel bosco di Cappuccetto Rosso. Sorseggiò ancora della sua gialla bibita, nel caldo verde di quel pomeriggio di fine agosto, guardò un grande foglio da disegno gettato in terra, in cui aveva tracciato le linee essenziali di una composizione semiformale. Era evidente che si trattava di un ombrellone da spiaggia, con sotto varie persone quasi nude e in fondo il mare, ma vi era quella che un critico d'arte aveva definito: “... la confusione delle strutture, o, per fare un paragone linguistico, Donato Cinati dipinge come uno che facesse un discorso un po' in italiano, un po' in tedesco, un po' in svedese”. E lo stesso critico aveva aggiunto: “... è perciò evidente che nei quadri di Donato Cinati ogni soggetto particolare del quadro viene sentito, e quindi espresso, con una sua particolare struttura. Nel suo quadro Il Salotto, della serie La Casa, è evidente che la struttura del divano giallo a destra è del tutto differente dalla struttura della finestra. Da questa differenza di struttura deriva una visione del mondo che non è né formale, né informale. Chiunque può credere di capire un quadro di Donato Cinati perché anche un inesperto vede che si tratta di un salotto, ma che possa capirlo davvero, questo pensiamo sia riservato solo a coloro che sanno che cosa Donato Cinati voleva esprimere con quel suo semplice < salotto >.” Nella roulotte faceva caldo, anche se era nell'ombra del bosco vicino al mare, lui raccolse il foglio da terra, posando per un momento il bicchiere col pernod, e guardò l'ombrellone, e le persone sotto l'ombrellone da lui stesso disegnate, e scosse il capo. Era un uomo finito, lo sapeva: i vizi distruggono l'uomo, e il suo vizio segreto lo aveva distrutto. Il disegno era incerto, tremulo, come fatto con mano tremante, da vecchio alcolizzato. Nell'antologia dei pittori moderni era scritto, alla lettera C: “Cinati Donato, pittore, nato a Pesaro nel 1909”, ma lui non dimostrava assolutamente i suoi cinquantasette anni: piccolo, tarchiato, sempre abbronzato, i capelli grigi, corti, ma folti, con pochissima stempiatura, lo sguardo sempre un poco rabbioso, aggressivo, le lunghe braccia muscolose, gli davano un'aria da scimmione quadrumane, ma giovane. Ma l'aria, l'aspetto superficiale, non contano nulla, lui lo sapeva. Una volta aveva fatto il calcolo: era vecchio come
un uomo di seicento anni. Vecchio e malato di mente. Aveva pietà e orrore di se stesso. Perché, invece di andare in giro per l'Italia con quella stupida roulotte, solo, non si rinchiudeva in una clinica e confessava ai medici, agli psicanalisti le sue bestiali follie? Sputò sul disegno ed ebbe un piccolo riso acido, pensando che lo avrebbe ugualmente esposto alla prossima mostra e che sarebbe piaciuto lo stesso, anche con lo sputo sopra. Guardò attraverso le tendine rosa dei due finestrini e vide il profilo nebbioso degli alberelli del bosco, nebbioso per un raggio di sole che, cadendo dagli alberi, attraversava quasi orizzontalmente la roulotte e rendeva nebbioso il rosa delle tendine. Alle pareti aveva disegnato col bitume a colore, senza pennello, col dito, quasi tutti personaggi dei “cartoni” da Paperino a Dumbo a Gatto Silvestro. In fondo, vicino alla Mercedes che trainava la roulotte, vi era il pezzo forte: una bambola alta come una bambina vera, vestita alla moda elisabettiana, con la gonna grigia lunga fino a terra, i capelli tutti tirati in su e chiusi in una grande crocchia. L'aveva ordinata lui, direttamente alla fabbrica, specificando anche il tipo di stoffa che voleva per l'abito. C'erano anche dei fiori, lì nella roulotte, fiori freschi faticosamente racimolati lungo tutta la riviera veneta e romagnola, emergevano dal basso vaso largo coi loro colori vividissimi, rosso, lillà, bianco, arancio, giallo, sembravano un'accesa aiuola sorgente dal piccolo tavolino. Peccato che lì vicino vi fosse la volgarissima bottiglia del pernod, stonava davvero. La tolse, ma approfittò dell'occasione per versarsi dell'altro pernod nel bicchiere e poi, mentre deponeva la bottiglia in terra, vicino al divano letto, vide attraverso la portierina aperta il viso di Cappuccetto Rosso. La bambina non doveva avere più di nove anni, siccome era una giornata con molto vento i genitori le avevano messo intorno al capo un fazzoletto rosso, si sentiva il forte fruscio del vento nel bosco proprio davanti al mare, la bambina veniva dal mare dove i suoi genitori erano rimasti distesi sulla sabbia, in un angolo senza vento, e per prima cosa vide la grande bambola, era alta quanto lei, non aveva mai visto, neppure nei negozi di giocattoli, bambole così grandi e così belle, e così stranamente vestite, con quella lunga lunga gonna fino a terra e quel gran nodo di capelli, erano veri, in testa, e poi rimase un momento abbacinata dai vividi colori dei fiori, i colori erano stati messi insieme, con l'abilità di un pittore, non si trattava della solita giapponeseria di disposizione, c'era della maestria psicologica e cromatica in quegli accostamenti. Ma poi Cappuccetto Rosso vide i disegni degli eroi dei cartoni mimati, anche se era grandina le piacevano ancora molto, e specialmente quelli le piacquero, perché anche tratteggiati col dito, vi era la maestria, anche qui, dell'artista che trova subito il tratto essenziale. Braccobaldo la fissava con comica simpatia, il Gatto Silvestre sembrava alzare la zampina verso di
lei. Il vento agitava, alle sue spalle, un lembo del fazzoletto rosso. Il giovane ma stanco funzionario di polizia guardò l'orologio. Aveva già un quarto d'ora di ritardo all'appuntamento con Bettina ed erano quasi due ore in più sull'orario che si trovava in ufficio, ammesso che i poliziotti abbiano un orario. Ed era una meravigliosa serata di fine maggio. Guardò ancora la fotografia della bambina che era nella cartella davanti a lui, una cartella di color arancio pallido. Era passato quasi un anno, un mostro aveva ucciso quella bambina, e la polizia non aveva trovato il colpevole, non aveva trovato nulla. E lui, insieme coi suoi compagni, era la “polizia”, era Sherlock Holmes, era Maigret, era l'ispettore “Arresto tutti io” , tutto da solo. Chiuse la cartella vinto dalla rabbia e dalla tristezza per quella povera bambina. Lui era lì, con quella cartella con qualche fotografia, pochi fogli dattiloscritti, e il mostro era ancora in giro, libero. I giornali per un paio di mesi avevano urlato da tutte le loro colonne, cercando di aiutare la polizia in ogni modo per ritrovare l'abominevole individuo, e quando si erano taciuti perché i giornali non possono parlare sempre dello stesso argomento, per pietoso che sia, la polizia aveva continuato il suo lavoro, per mesi e mesi. Il bosco vicino al mare era stato perlustrato centimetro per centimetro, forse foglia per foglia, lui stesso era andato in quel bosco dove un turista tedesco aveva visto la ragazza con un fazzoletto rosso, aveva guardato gli alberi, la strada non asfaltata, aveva raccolto perfino dei sassolini macchiati di gocce di olio di motore, forse i cervelloni del laboratorio scientifico avrebbero potuto dire di che tipo di olio si trattava, e dal tipo di olio si poteva risalire al tipo di macchina. Aveva anche “fermato” il turista tedesco che aveva visto la bambina col fazzoletto rosso, e lui e tre degli specializzati in interrogatori di terzo, quarto e quinto grado, lo avevano interrogato per quattro giorni di seguito, notte e giorno, per scoprire che il povero crucco era innocente e per ricevere una diffida ufficiale dal consolato germanico, che quasi stava per perdere l'impiego, lui e i suoi colleghi. Era stata formata un'apposita squadra per le ricerche di quell'abiezione sotto forma umana, e lui era uno dei cervelli, o cervellino, di quella squadra, ma non era stato trovato nulla. La pratica “Paola Limani”, era il nome della bambina, era sempre “inevasa”, “aperta”, a un anno di distanza, dopo un anno di ricerche quasi ossessionanti. Il mostro era sempre in giro. Come era fatto? Se lo avesse scoperto e avuto vicino non era sicuro che avrebbe resistito alla voglia di strangolarlo. Adesso le indagini “continuavano”, ma continuavano nel niente, perché non sapevano niente. Il telefono. Prima di prendere il ricevitore guardò l'orologio. Terrore: era in ritardo di mezz'ora all'appuntamento con Bettina. E infatti al telefono sentì la
voce di Bettina. “Cafone che non sei altro. È mezz'ora che aspetto in questa osteria che tu chiami caffè.” “Scusami, vengo subito.” “Non ti voglio più neppure vedere, non voglio più sentire il tuo nome.” Lui l'avrebbe baciata, un poliziotto, in fondo, può baciare un'ausiliaria di polizia. Le disse: “Dovevo rivedere tutte le pratiche aperte, e ho fatto tardi.” “Resta lì con le tue pratiche aperte. Io vado a casa.” “No, Bettina, vengo subito.” Scese subito nel grande caffè lì vicino e la vide al solito tavolino, col solito tailleurino blu scuro che rassomigliava tanto alla divisa che lei portava quando era in servizio, solo che non aveva fregi. “Ciao, cafone,” lei disse. Mangiarono la solita pizzetta riscaldata e un po' rancidina. Dovevano andare al cinema, allo spettacolo delle otto e mezzo, ma ormai erano già le nove. Andavano a vedere, perché lo voleva lei, un film poliziesco, se erano fatti bene a lei piacevano. Finita la pizzetta e la birra, andarono a piedi verso il cinema, che era lì vicino. Si fermavano ogni tanto per guardare le vetrine, ancora illuminate, anche se i negozi erano già chiusi. Lui si fermò al solito negozio di apparecchi radio e televisione ed elettrodomestici, e guardò il solito minitelevisore che gli faceva gola, ma in polizia si guadagna troppo poco per permettersi simili lussi. Lei invece si fermò davanti al negozio di tappeti, le piacevano tanto perché forse, come il minitelevisore di lui, erano irraggiungibili: il più modesto, una volta era entrata a chiedere il prezzo, costava ottocentomila lire. Poi erano quasi arrivati al cinema, quando lui si fermò di colpo. Non davanti a un negozio, davanti a un portone ancora aperto. Sulla destra del portone vi era una vetrinetta illuminata con dentro un cartellone. La scritta del cartellone diceva: “Galleria Montana Mostra personale di Donato Cinati”. Sotto vi era un facsimile di un quadro e il quadro rappresentava una bambina con un fazzoletto rosso sul capo. Non che la bambina fosse ritratta fotograficamente, anzi, eppure i tratti essenziali del viso erano qualche cosa di più che fotografico, qualche cosa di meglio. Nessuna fotografia può rendere una somiglianza come la può rendere un vero pittore. E sotto il facsimile del quadro era scritto: “Cappuccetto Rosso”. “A che cosa pensi?” lei disse, ma forse stava già pensando la stessa cosa anche lei, perché anche lei, per mesi e mesi, aveva partecipato alle ricerche e soprattutto si era arrabbiata come una lupa quando lui si disperava perché non si trovava niente. “Non ne hai nessuna colpa, sei uno stupido a prendertela così, per lo stipendio che ti danno, devi anche ridurti in questo modo!” Lui rispose: “Non penso a niente. Vorrei solo entrare a vedere la mostra.”
Si fissarono, con lo stesso pensiero. “Anch'io voglio vedere la mostra.” Attraversarono l'androne del vecchio palazzo, e il cortile selciato, come occorreva all'epoca delle carrozze a cavalli: in fondo al cortile una scritta luminosa: “Galleria Montana”, e ancora il cartellone con la bambina dal fazzoletto rosso in capo. Nello stanzone che costituiva quella che era definita Galleria Montana, c'era molta luce, ma nessun essere vivente, escludendo un gatto arrotolato su una poltrona. I quadri, senza cornice, non erano appesi alle pareti, ma erano tutti disposti su cavalletti, contro i quali batteva la luce di un piccolo faro. Erano in tutto sette dipinti, e rappresentavano tutti una bambina con un fazzoletto rosso in capo, ripresa da ogni angolo visuale e in ogni espressione. Il più grande dei cavalletti, invece che un dipinto, sosteneva una tabella con attaccate tutte le recensioni della mostra. Una di queste recensioni, messa più in alto perché del giornale più importante, diceva: “Una singolare e ossessiva esposizione di Donato Cinati alla Galleria Montana. Sono sette dipinti, tutti dello stesso soggetto, una bambina con un fazzoletto rosso in capo ripresa dalle angolazioni più varie, dai tratti fisionomici sempre diversi eppure sempre ossessionatamente uguali in quel poliglottismo pittorico che è la nota caratteristica di Donato Cinati.” Un'altra recensione, invece, diceva: “Dobbiamo confessare di essere molto in dubbio sulla < trovata > di dedicare un'intera esposizione a un solo soggetto, per quanto vivida possa essere la bambina dal fazzoletto rosso, ma dobbiamo confessare anche che ogni dipinto ci da un'immagine appassionante e commovente di , specialmente quello in cui la bambina, con gli occhi chiusi, più che addormentata, sembra morta.” Guardarono a uno a uno tutti i dipinti, lessero tutte le recensioni, tornarono a guardare le tele, lessero perfino il cartello “Ingresso libero”, il gatto li guardava con gli occhi socchiusi. Pensavano, e pensavano le stesse cose. Rilessero ancora una volta quella recensione: “... ma dobbiamo confessare anche che ogni dipinto ci da un'immagine appassionante e commovente di , specialmente quello in cui la bambina, con gli occhi chiusi, più che addormentata, sembra morta”. Poi uscirono, non si erano detti una parola, non se la dissero neppure per tutta la strada fino al cinema, solo davanti al cinema si fermarono, capirono che non avevano più nessuna voglia di andare al cinema, di vedere nessun film, e lei disse: “Andiamo a bere qualche cosa.” C'era un caffè molto grande ed elegante proprio di fianco al cinema. Entrarono, sprofondarono nelle inverosimili poltrone, senza parlare, finché lei disse ancora, dopo che il cameriere ebbe portato le due birre, anzi ripeté: “Che cosa pensi?”
Egli non rispose subito, bevette un po' di birra, si accese una sigaretta, si asciugò le labbra col dorso di una mano. Poi disse: “Penso che la ragazzina dipinta in quei ritratti è quella che è stata trovata uccisa l'anno scorso a Marina di Ravenna. E lo pensi anche tu.” Non rispose, sentiva nella voce di lui una furia contenuta che le faceva paura, quando lui era così non gli diceva nulla, e tanto meno lo contraddiceva. “Adesso torno subito in ufficio e mando a prendere questo pittore, questo grande artista,” disse ancora lui con furia. “Mi deve spiegare perché la bambina che lui ha ritratto rassomiglia tanto a quella che è stata trovata seviziata e uccisa vicino a Marina di Ravenna l'anno scorso. E mi deve saper dire, appunto, dove si trovava quel giorno, dalle quattro del pomeriggio in poi, fino all'ora della morte della bambina.” Bevette ancora della birra, disse, ancora rabbioso: “Lo dovrà dire, dovrà confessare. La bambina è quella, anche con tutti i ghirigori pittorici che le ha fatto intorno, ancora oggi ho guardato la fotografia per quasi due ore, nella cartella delle pratiche aperte. Lui ha fatto tutti quei ritratti perché quella gente è pazza, sono mostri malati di mente. E poi il fazzoletto rosso in testa. Solo noi sappiamo di questo particolare, i giornali non ne hanno mai parlato, i genitori ci hanno detto che la bambina, quando si era allontanata, aveva un fazzoletto rosso in capo, che le avevano messo per il vento. Quindi solo lui, l'assassino, può sapere che aveva un fazzoletto rosso in testa.” Guardò lo scontrino e mise sul tavolino i soldi per le due birre. “Torniamo subito in ufficio. Dobbiamo prenderlo subito.” Stava per alzarsi, ma lei restò seduta. “Aspetta un momento, Berto.” Lo fermò addirittura mettendogli una mano sul braccio. “Non metterti nei guai, come l'anno scorso, con quel tedesco che credevi l'assassino della bambina. Non hai perso il posto e fatto una figura, solo perché il questore ti ha in simpatia. Tu hai visto semplicemente un po' di ritratti di una bambina che a te sembra che assomigli alla bambina uccisa l’anno scorso. Sono ritratti dipinti imprecisamente, nessun giudice istruttore accetterebbe la tua tesi che la bambina dei dipinti è la piccola Paola. E poi, un'altra cosa, ammettiamo pure che il pittore sia l'assassino perché avrebbe dovuto tradirsi con un'esposizione di ritratti della sua vittima? Non avrebbe mai fatto una cosa simile.” “Tu non conosci la mente distorta di quella gente.” “Può darsi. Ma non voglio che tu perda il tuo lavoro e che faccia delle stupide figure. Pittori come quelli hanno molte relazioni, molte protezioni, tu non puoi accusare quell'uomo perché ha dipinto una bambina che può rassomigliare a quella uccisa l'anno scorso, e figurati con la pittura di oggi che rassomiglianza può essere. Tu lo fermi, lo interroghi tre o quattro giorni, intanto i giornali, dove lui come artista ha i suoi amici, strepitano contro gli abusi della polizia, una mezza dozzina di avvocati si buttano tutti addosso a te e alla fine vieni buttato fuori dalla questura a spintoni e non trovi più un posto neppure come
lavapiatti, lo non voglio che accada questo.” Disse l'ultima frase molto energicamente. Egli la fissò con ostilità, perché sempre, quando lei lo contraddiceva, la guardava quasi con odio. E solo dopo averla fissata a lungo così, disse: “Va bene. Questo è vero. Quei ritratti non sono una prova. Ma prima tu hai chiesto a me che cosa pensavo, e adesso io lo chiedo a te: che cosa pensi? Quell'uomo è il colpevole o no?” Anche lei lo guardò con odio, un odio molto pieno di amore. “Penso che è lui, sono sicura che è stato lui a seviziare la bambina, ma penso che bisogna provarlo, con una prova irrefutabile, documentata, anche col registratore, col film, in modo che anche il giudice istruttore più pignolo non possa dire niente e che anche la giuria più inesperta non possa avere dubbi.” “Ah, sì? E dove le troviamo queste prove che tu chiami irrefutabili, registrate, filmate, certo a colori e forse tridimensionali?” Era odioso, ma lei lo sopportò lo stesso. Disse: “Pensavo a Martina.” “Tua sorella? Che c'entra tua sorella? È una ragazzina di quattordici anni, che aiuto può darci?” “Può darci la prova assoluta che occorre. È piccola di statura, ben messa e istruita può sembrare una bambina di nove anni, come la povera Paola.” Adesso non si guardarono più, egli guardava in terra, e disse, perché aveva capito il suo piano: “Non ti permetterò mai una cosa simile.” “E io non permetterò mai che un simile mostro rimanga in libertà, a costo di correre un rischio così.” Lo fissò con odio, il solito odio appassionato di quando discutevano. Una roulotte è una cosa meravigliosa per i bambini, specialmente se si lascia lo portierina dischiusa, in modo che i bambini possano vedere dentro. Lui stava dentro la roulotte, quel maggio era veramente troppo caldo e con la scusa della sete beveva anche troppo pernod, in mezz'ora ne aveva bevuti tre, fissando, attraverso le tendine rosa delle due finestrine, il lago di Garda di un turchese spento dal grigio degli ulivi sulla riva. Alla bambola aveva fatto cambiare abito e pettinatura, lo stile elisabettiano lo aveva annoiato. Era tornato molto indietro, all'epoca carolingia, la bambola aveva in capo delle strisce argentee con pietre colorate, e l'abito arrivava ancora a terra ma tutto morbido, drappeggiato. il vaso era sempre pieno di fiori, questi no, sembravano gli stessi dell'anno prima e identici erano gli accostamenti di colore, tutti sul rosso, l'arancio, il giallo. Alle pareti c'era sempre Braccobaldo, Topo Gigio, Gatto Silvestro, aveva aggiunto solo la Tartaruga, perché aveva letto in un libro di psicanalisi che la tartaruga piace molto ai bambini perché per il suo andare lento rammenta la nonna che cammina poco e piano, ma che racconta tante fiabe e alla quale sono tanto affezionati.
Quello che stonava era la bottiglia di pernod, oltretutto non gli era mai piaciuta, esteticamente, l'etichetta del pernod, come pittore la trovava banale, anche se il pernod era buono, così, seccato, nascose meglio sotto il divano lettino la bottiglia. Poi, a lui, non piacevano neppure i laghi, lì, Sirmione, era bellissimo, ma a lui non piaceva, soltanto che in qualche posto doveva fermarsi, non poteva andarsene sempre in giro con la roulotte, senza fermarsi, e un posto equivaleva l'altro, così si fermava, lasciando la portiera aperta, in modo che qualche bambina che passava potesse vedere nell'interno, la bambola, i fiori, gli animali dipinti sulle pareti. C'era anche, quel giorno, nella roulotte, un piccolo cavalletto con su una tela assolutamente intatta, aveva bevuto troppo pernod per essere capace di disegnare o dipingere, a parte il fatto che a lui quel paesaggio catulliano non lo stimolava per niente. Poi, mentre stava bevendo, vide, oltre la portierina aperta, quella che subito, dentro di sé, nominò Piccola Fata Turchina. Era infatti tutta vestita di azzurro forte, un abitino un po' lungo, forse i genitori glielo avevano comprato più largo perché le durasse un paio di anni, ed era meravigliosamente bionda. La guardò, guardò lei che guardava nell'interno, che guardava la bambola, e le disse, posando il bicchiere di pernod: “Ti piace la bambola? Vieni pure a vederla, sali.” Ciò che non sapeva era che la bambina, che era poi una ragazzina di quattordici anni, aveva un microregistratore fissato sotto gli abiti, che avrebbe registrato ogni suono, parola, rumore, nel raggio di due metri. Lui non sapeva neppure di essere stato seguito e cinematografato da tre giorni, e che anche adesso uno dei migliori agenti del reparto cinefoto stava ritraendo la bambina vicino alla roulotte. E non sapeva neanche, lui, che due agenti esperti tiratori erano appostati a pochi metri dalla roulotte, non sperando altro che di poter sparare perché per certi individui la voce di una calibro 9 è l'unica forma di dialogo. Ma soprattutto non sapeva che la bambina, che poi era una ragazza, anche così piccola, era stata “truccata» e istruita, e che era un'esca. “Mi piace tanto la bambola,” disse la “bambina”. «Come è grande,” parlava con la voce di quando era molto più piccola, le avevano fatto molte prove col registratore. “Vieni a vederla, entra, entra pure,” disse lui, nascondendo ancora più sotto il divano la bottiglia del pernod. La bambina salì e, fuori, dietro un albero, l'agente con la cinepresa ritrasse la scena. Un altro agente, nello stesso istante, sdraiato a terra a meno di due metri, tolse la sicura alla sua grossa Beretta. E sempre nello stesso istante, lui, il giovane funzionario di polizia che da un anno aveva avuto tanto insuccesso nella ricerca dell'assassino della piccola Paola, si rotolò per terra, sull'erba umida, finché non arrivò sotto la roulotte, supino, anche lui con la grossa
Beretta e l'orecchio teso: non udiva proprio bene, ma udiva. “Lo vedi quello lì, è un frigorifero a pile, c'è dentro il gelato, ne vuoi un poco?” udì. “Oh, mi piace il gelato...” “Adesso te ne do un bicchiere, vieni qui.” Bettina aveva la divisa di ausiliaria, accucciata dietro un cespuglio guardava verso la roulotte. Erano passati due minuti da quando la sua piccola sorella era entrata nella roulotte. Pensò che non avrebbe resistito più neppure per altri due minuti. Toccò il braccio all'agente che aveva vicino e che imbracciava uno smilzo mitra, per ogni eventualità, e quello, ginocchioni, si avvicinò anche lui alla roulotte, tenendosi lontano dall'angolo visuale delle finestrine. “È buono questo gelato, vero?” “Sì, a me piace tanto il gelato.” “Te ne darò quanto ne vuoi, poi ti darò anche la bambola, ti piace la bambola, vero?” “Oh, è troppo grande, la mamma mi sgrida se la tengo.» “Perché deve sgridarti? Le dici che è un regalo di un signore. Dov'è la tua mamma?” Bisognava sapere se la mamma era abbastanza lontana, che non fosse troppo vicina. Ma la piccola era stata istruita bene e dette la risposta giusta che lo rassicurasse: “La mamma è giù al lago, in barca,” e poi disse ancora: “io sono salita qui su perché mi piace camminare.” Quindi la mamma di Fata Turchina era piuttosto lontana. “Vieni qui, cara, ti faccio vedere questi fiori, guarda, questo è...” II registratore registrava tutto, continuava a registrare, inesorabile. Fuori erano tutti come cani in ferma, pronti a scattare. E quando si udì il grido convenuto della ragazzina, lui, che era sotto la roulotte, sparò contro una gomma, semplicemente per far rumore e spaventare il bruto, nello stesso istante si rotolò fuori e saltò nell'interno della roulotte, afferrando la ragazzina per un braccio e puntando la rivoltella contro il noto pittore Donato Cinati. “Scendi giù,” disse al pittore. “Scendi.” Consegnò la ragazzina a Bettina che era accorsa, il bruto non aveva avuto neppure il tempo di sfiorarla. E disse ancora: “Scendi giù, vieni fuori, sei stato tu che hai ucciso Paola Limani, l'anno scorso.” Lui, l'esteta, forse il creatore dello stile semiformale, non si era mosso dal suo angolo sul divano lettino, e non aveva nessuna intenzione di muoversi. Sotto il materassino di gomma del letto aveva una graziosa rivoltella anche lui. “Non capisco niente di quello che lei dice, e non so neppure chi sia. Un rapinatore, forse?” Gli esteti hanno spirito.
Allora lui gli andò vicino, gli dette uno schiaffo e lo prese per i bordi del pullover. “Alzati, bestia.” “Scusi, non mi tocchi,” disse lui, risentito, ormai sapeva di aver finito tutto, e anzi ne era contento, era davvero finito, “mi alzo da solo,” intanto cercava la sua bella rivoltella sotto il materassino di gomma, e la trovò subito, la impugnò fermamente con la mano sotto il materasso, poi si alzò. Vi erano due poliziotti che lo guardavano, uno era lui, il capo, e l'altro fuori dalla roulotte, aveva perfino il mitra, ma non poterono far niente: il pittore semiformale Donato Cinati si alzò e nello stesso tempo si mise la canna della rivoltella in bocca e premette il grilletto. Aveva sempre pensato che se lo avessero scoperto si sarebbe ucciso. E ci riuscì.
19 La giustizia quasi arriva ad Arzavò
Lavoro da anni nella piccola fabbrica di giocattoli di Arzavò. Dalla finestra dell'ufficio vedo prima quel centinaio di casette del paese, poi il mare. C'è anche Arzavò a Mare, e dalla mia finestra vedo la mole del grande albergo a sei piani che hanno costruito per i turisti, ma ne vengono pochi, per due ragioni, per la strada troppo tortuosa che porta, dal capoluogo, qui ad Arzavò, e per il cattivo carattere degli abitanti. Poi ogni tanto qui si spara, e si trova qualcuno morto nel bosco che bisogna attraversare per prendere lo stradone, ma l'Azienda di soggiorno di Arzavò dichiara che si tratta di mortaretti sparati in segno di festa, anche se i carabinieri insistono nel dire che c'era un morto ammazzato. I carabinieri non capiscono le necessità del turismo. Stavo guardando dalla finestra il tramonto quando suonò il telefono, perché nel mio ufficio c'è anche un telefono, anche se modesto, io sono il più alto dirigente di questa piccola fabbrica dove facciamo le più deliziose piccole bambole d'Europa, con le loro culle, i divanetti, gli abitini, facciamo anche tanti pupazzetti di pezza, giostre piccole ma perfino con la luminaria, dove girano cavallini di legno con su altezzosi cavalieri rivestiti di metallo. Io ero venuto qui ad Arzavò per una causa, perduta in partenza, anni fa, uno dei personaggi più importanti del paese mi offrì la direzione di questa singolare fabbrichetta con trenta operaie, due sorveglianti in gonnella, un caposquadra, e io accettai, la mia carriera come legale mi dava poche speranze, è stato mio padre che mi ha costretto a fare l'avvocato, io non volevo fare niente, e del resto qui ho trovato il mio ideale, non c'è quasi niente da fare, basta che metta la firma sulle bollette che mi presenta il caposquadra, so benissimo che su quelle bollette c'è una ruberia che va dal dieci al quindici per cento, ma se sto zitto e firmo mi prendo un ottimo stipendio, ho a mia disposizione le più graziose fra le trenta operaie, e sono quasi tutte graziose, ma soprattutto non mi succede niente di male e non vengo ritrovato secco nel bosco dai cani dei carabinieri. Perché Arzavò è segnato nella guida dei comuni d'Italia, ma starebbe meglio segnato nella guida dei comuni del Far West, col nome, mettiamo, di Gringo City. Ah, dicevo che suonò il telefono. Sollevai il ricevitore. “Pronto?” Qualche luce si accendeva, nel lento crepuscolo, là, oltre la finestra, sullo sfondo turchese del mare. “L'avvocato Forte?” disse una voce gentile e molto femminile. “Sono io.” “Lei non mi conosce. Mi chiamo Francesca Vitali, sono di Milano, ma
adesso mi trovo in vacanza qui al Grand Hôtel di Arzavò a Mare,” disse la voce. Non occorreva che specificasse che era milanese: in venticinque parole, un normale telegramma, aveva detto tutto di lei: il nome, il luogo di nascita, dove si trovava, ma non occorreva che desse tante spiegazioni, sapevo già tutto di lei, solo che ero stato lontano da lei come dal cobra sibilante. “Avrei bisogno di parlarle, avvocato, di una cosa molto importante per me e molto urgente. Non potrebbe venire qui da me al Grand Hôtel?” Mi guardai le unghie. Le donne mi piacciono, e sapevo che Francesca Vitali era molto bella, anche se l'avevo vista solo da lontano, ma morire non mi piace, neppure per miss Universo. “Scusi, signora, mi può dire di che cosa si tratta?” “È una cosa troppo delicata, non posso per telefono. Comunque ho bisogno di un suo consiglio legale.” “Signora, mi dispiace, io non esercito più da anni.” “Lo so, ma mi hanno detto che è lo stesso un bravo avvocato.” “Hanno voluto scherzare, signora.” “Comunque non avrà dimenticato tutto quello che ha studiato, non le avranno mica fatto il lavaggio del cervello.» “Quasi, signora.” “Non scherzi, avvocato, la prego, venga qui, solo per pochi minuti.” Non so perché, mi è già capitato altre volte in vita mia, come quando al primo anno di università sferrai un pugno in faccia al professore che mi faceva troppe domande: decisi di fare la cosa più pericolosa, scelsi la strada peggiore e mi sentii ronzare le orecchie dall'agitazione. “Va bene, signora, vengo subito.” E andai davvero, perché potevo anche salvarmi, ancora, facendole lo scherzo di non andare, ma conosco le milanesi, perché sono milanese anch'io, non molto genuino, però, e sapevo che se avessi fatto così mi avrebbe perseguitato fino all'eternità. Andai davvero, nel cortile della fabbrichetta c'era la mia Flaminia con Oreste che corse ad aprire la portiera e a dirmi, mentre salivo: “Buona sera signor dottore, buona sera signor dottore,” due volte, perché a Gringo City, prego scusare, Arzavò, si usa così coi potenti, e io ero un potente. Misi in moto e uscii dallo stabilimento. Avevo detto al cav. Romualdo Varitani, nominalmente solo amministratore della fabbrichetta di giocattoli ma in pratica anche padrone di Arzavò, che una Flaminia era troppo larga per le strade strette del paese, e che se mi avesse assegnato una seicento sarebbe stato molto più pratico, ma lui mi aveva spiegato il suo concetto di decoro: “Se lei circola con un'utilitaria, qui i paesani non hanno più stima di lei come direttore della fabbrica, cominciano a pensare che lei è un uomo fallito;
che non sa fare il direttore e che manderà in rovina la fabbrica, e la fabbrica qui preme molto perché ci mangia sopra mezzo paese.” Avrei voluto sapere con che cosa mangiava l'altro mezzo paese, dato che nessuno faceva niente, ma sono ancora vivo per la mia prudenza e non feci domande. “Se invece lei va in giro con la Flaminia, pensano che è un bravo e grande direttore.» Io andavo in giro per strade larghe appena una decina di centimetri poco più dell'auto, ma mi ritenevo ancora fortunato perché c'era l'autista del cav. Romualdo Varitani che se ne andava in giro per le stesse stradette con una Chevrolet. Così, benché le strade di Arzavò fossero tutte asfaltate, ben illuminate, con una segnaletica stradale veramente ben fatta, gli spigoli di queste casupole, alle svolte più importanti, erano tutti smangiati dagli urti, così come i fari e i paraurti e le carrozzerie della mezza dozzina di grosse macchine che circolava per il paese erano sempre rotti o segnati, ma quelle macchine dovevano dimostrare quanto erano bravi e grandi i potenti del paese. Ah, stavo andando da Francesca, prego, dalla signora Francesca Vitali di Milano, e riuscii ad arrivare al Grand Hôtel senza fare neppure una sfrisatura alla Flaminia, la parcheggiai proprio davanti alla porta, perché così nessuno potesse fingere di non avermi visto, quella sera, in quel luogo. Avevo l'abitudine di tagliarmi i ponti alle spalle, se no viene sempre la tentazione di tornare indietro. Entrai subito nel bar dell'albergo, senza domandare di lei a nessuno, anche perché non c'era nessuno in tutto il vasto ciclopico atrio quasi buio, nessuno era al bureau, e se fossi stato un maragià venuto a passare una settimana lì, avrei dovuto gridare: “Ehi, c'è qualcuno?” Ma sapendo tutto di lei, anche che beveva in un modo pasticciato, birra, cognac, whisky, e perfino vodka, sapevo che mi avrebbe aspettato al bar. “Sono l'avvocato Ubaldo Forte,” dissi avvicinandomi al banco del bar, dove lei beveva in piedi, parlando col barista, il decano delle spie di Arzavò a Mare. “Molto piacere.” “La ringrazio molto di essere venuto, avvocato, grazie davvero,” lei disse, con quella voce gentile eppure, così ferma. “Sediamoci a quel tavolo, vuole?” Non volevo molto, ma ormai ero lì e sedetti vicino a lei su una delle poltrone sfondate, davanti a un tavolino dal tappetino segnato da varie macchie. Quattro anni fa il Grand Hôtel di Arzavò a Mare era davvero aristocratico, all'inaugurazione vennero un paio di attrici del cinema, un paio di cantanti e due orchestre jazz, più un signore venuto da Roma, che parlava col naso e che fece un discorso così oscuro e incomprensibile che depresse e rese tristi un po' tutti. Ma in quattro anni erano successi troppi avvenimenti, evidentemente il turismo non riusciva a sfondare pienamente ad Arzavò,
oppure il Grand Hôtel di sei piani era stato un programma troppo ambizioso, dati gli spari che ogni tanto si sentivano intorno al paese, e così adesso, anche per mancanza di personale, oltre che di turisti, il Grand Hôtel si stava segretamente disfacendo. Tutto all'apparenza sembrava elegante, ordinato, ma toccavate una tenda e veniva giù la polvere, i vetri avevano un'aria un po' nebbiosa, e soprattutto la solitudine spaventava i rari turisti. Trovarsi in quattro a essere gli unici clienti di un albergo di un centinaio di stanze spaventava un poco. In quei giorni, oltre alla signora Francesca Vitali di Milano, il Grand Hôtel era abitato da due soli altri turisti, due vecchi coniugi olandesi, la cui età, sommata insieme, costituiva un buon secolo e mezzo. E nessun altro. Infatti lì al bar eravamo solo noi, e la grande spia, il barista. “Signora, mi dica pure,” dissi, appena fummo seduti. Ma sapevo già, pressappoco, che cosa doveva dirmi, a Gringo City si sa tutto. Lei, prima, volle ordinare qualche cosa da bere, poi cominciammo a parlare. “Desideravo vederla per una questione molto delicata,» disse lei. “Va bene,” dissi paziente. “Questa mattina sono stata chiamata dal maresciallo dei carabinieri.” Sapevo anche questo. “Per che cosa?» finsi ingenuamente di ignorare. “Per una cosa veramente spiacevole. Il maresciallo è stato molto gentile, ma in pratica mi ha pregato di andarmene via dal paese.” “E per quale motivo? Non ha i documenti in regola?” “Li ho in regola e li ho tutti, il mio passaporto vale anche per gli Stati Uniti.” “E allora perché?” “Non me lo ha detto chiaramente, ma mi ha fatto capire che non piaccio a molta gente del paese, che sono una donna sola e che qualcuno qui giudica male le donne sole e che per ciò, per evitare pasticci, era meglio che tornassi a Milano.” Bevetti un po' di acqua minerale. “E lei che cosa ha risposto?» “Che non lo trovavo giusto,” lei disse vivacemente, era proprio una calda, bionda, vivace bellezza milanese. “E che nessuno poteva mandarmi via da un posto senza un motivo preciso e legale.” Altro sorso di acqua minerale. “Signora, quindi lei vuol sapere da me se il maresciallo ha il diritto sì o no di mandarla via dal paese?” “Sì, proprio questo.” “Dipende,” dissi. “Come
del monumentale e vuoto albergo, dove eravamo solo noi e pochi domestici, faceva impressione anche a me. “Non c'è niente da dire sulla mia condotta.” Non rilevai l'osservazione e continuai il mio discorso. «Ammettiamo che un nobile personaggio di Arzavò la inviti segretamente nella sua tenuta di caccia, e ammettiamo, ammettiamolo solamente, che lei ci vada.” Lei sorrise, cominciava a capire che io sapevo qualche cosa su di lei, era incuriosita, ma fece la spiritosa. Disse: “Ammettiamolo.” “E ammettiamo che il nobile personaggio, in segno di omaggio e riconoscenza, le dia, diciamo, un anello con brillante.” “È proibito dalla legge?” disse lei scattante. “Dipende. Mi lasci continuare. Ammettiamo che lei conosca anche altri nobili personaggi del paese, che hanno tenute di caccia qui intorno, e che la invitano a cena, e che lei accetta, e che lei accetta anche altri anelli con brillanti, o equivalente finanziario, che quei nobili personaggi vogliono darle in segno di omaggio e di riconoscenza.” Spiegavo le cose pulitamente, no? “Io non do nessuno scandalo, faccio solo gli affari miei. Se la gente vuole regalarmi un milione io non ne ho colpa. La legge non può farmi niente. E il maresciallo non ha il diritto di mandarmi via.” “Stia a sentire, signora, il maresciallo non è il suo nemico. Il maresciallo è, anzi, il suo più grande amico, è come un padre per lei, e le ha dato un consiglio paterno: andarsene via. I suoi veri nemici sono altri.” “E chi sono?” Glielo spiegai. “Questi nobili personaggi, già un po' in età, hanno una moglie, e oltre alla moglie hanno un'amica fissa, e oltre alla moglie e all'amica fissa hanno quasi tutti dei figli adulti. Queste mogli, amiche e figli, tollerano che il loro capofamiglia se ne vada a Roma o a Bologna, o a Milano, e si conceda qualche distrazione, ma non tollerano che il capofamiglia si conceda la distrazione qui, ad Arzavò, umiliando la moglie, e anche l'amica fissa, e provocando la gelosia dei figli che temono che il padre rimbambito spenda troppo e li lasci senza eredità. Lei, invece, da più di due mesi li sta umiliando. Lei si è creata intorno l'odio delle dieci più importanti famiglie di Arzavò. Le hanno dichiarato guerra, ma per il momento si accontentano che se ne vada via di qui.” Le avevo parlato alla milanese, franco, senza sfumature, e senza sfumature, franca, lei mi disse: “A parte il fatto che vorrei sapere come fa lei a sapere tutte queste cose di me, io le dico che rimarrò qui finché ci sarà qualche maturo signore che mi inviterà nella sua tenuta di caccia e vorrà poi dimostrarmi finanziariamente la sua gratitudine, e da lei desidero soltanto che mi dia la sua protezione legale perché il maresciallo non riesca a mandarmi
via dal paese. Niente altro.” Tacemmo. Spiegare alla signora Francesca Vitali, di Milano, tutto il particolare funzionamento dei rapporti sociali ad Arzavò, sarebbe stato troppo lungo e troppo difficile, anche perché anch'io lo conoscevo solo in parte. Però con pazienza, dopo un poco, le dissi: “L'unico consiglio fraterno, oltreché legale, che posso darle, è di andarsene via subito da questo paese. Se vuole, l'aiuto io subito a fare le valigie, ma vada via.” “E perché?” “Perché una donna non può fare la guerra contro un paese. Neppure Napoleone è riuscito ad averla vinta con questa gente, non sarà lei che li cambierà.” “No, ma neppure saranno loro che cambieranno me. Io resto.” Ebbi l'impressione, proprio, che non avesse nessuna paura, eppure avevo cercato di mettergliela. Tentai di rivolgermi allora al suo buon cuore. “Signora, vorrei che lei sapesse una cosa che avrei voluto non dirle. Per venire qui da lei, io ho messo in pericolo tutto il mio lavoro, forse domani, prima di lei, dovrò andarmene via di qui, senza una lira, e ringraziare la fortuna se qualche cacciatore, per sbaglio, s'intende, non prende me invece di una lepre. Vorrei che mi credesse, l'ho fatto per simpatia verso di lei, anche se non la conoscevo sapevo però tutto su di lei, siamo di Milano tutti e due. Mi creda, signora, vada via.” Allora lei scosse il capo, disse senza disprezzo, ma definitivamente: “No, lei non è milanese, i milanesi non sono dei calabraghe come lei. Quanto le debbo per questo suo così detto parere legale?” e prese la borsetta dalla sedia vicina. Io ero arrivato lì solo con una speranza: di convincerla ad andarsene via, pensavo che ci sarei riuscito, non avrei mai immaginato di incontrare una longobarda dura di quel genere. Non sarei mai riuscito a farle capire, e allora feci marcia indietro, rincollai i ponti che avevo tagliato alle mie spalle entrando, e mi preparai alla fuga. Le dissi: “Le auguro che ci ripensi, e che se ne vada.” Mi alzai e me ne andai, salutai amicalmente la grande spia del barista che doveva aver già telefonato ai suoi padroni, e tornai ad Arzavò a Monte senza, neppure questa volta, aver sfrisato minimamente la Flaminia. Infatti, ero appena entrato nella piccola ma lussuosa trattoria “Del Cacciatore”, che il caposquadra della fabbrichetta di bambole mi salutò festosamente dal suo tavolo, facendomi cenno di raggiungerlo. Si chiama Pietro, ed è un delinquente: allo stato puro. Andai al suo tavolo e mi sedetti davanti a lui, di solito mangiavamo insieme, era più che normale. “Ha visto che vuoto?” disse Pietro. “Siamo solo noi, devono essere andati
tutti a Milano, a mangiare.” Le frasi “siamo solo noi” e “a Milano”, dette da un delinquente, mi suonarono un poco sinistre. “Si mangia meglio da noi,” disse Pietro, ancora. “Oh, scusi, dottore, il cavaliere, sa, è una cosa delicata, avrebbebisogno di un favore da lei, mi ha detto che avrebbe molto piacere che glielo facesse.” Il cav. Romualdo Varitani aveva bisogno di un grande favore da me. Allora aveva capito tutto. “Dica, dica pure.» E Pietro disse. Disse chiaro. “Qualcuno ha detto al cavaliere che lei è andato al Grand Hôtel a trovare la sua compaesana. È vero?” “Verissimo. Ne torno in questo momento.” “Bella donna, vero?” “Sì, ma io non sono andato perché è una bella donna, ma perché è lei che mi ha telefonato.” “Ah, sì, è lei che ha telefonato? E cosa voleva?” Gli spiegai che cosa voleva Francesca Vitali, di Milano, da me. “E lei come l'ha consigliata?” disse Pietro, mio subordinato ma in realtà mio segreto superiore, perché le gerarchie, ad Arzavò, sono molto particolari e un direttore generale, come me, può essere sottoposto a un suo subordinato. “Le ho detto di andarsene, e subito. Le ho detto che l'avrei aiutata perfino a preparare la valigia, se se ne andava.” “E lei che cosa ha risposto?” “Ha risposto che se ne andava subito, domani o dopo.” Sperai, con questa bugia, di salvarla. Se avessi detto che lei voleva rimanere a ogni costo, si sarebbero incattiviti. «Stavo per telefonare al cavaliere.” “Non occorre, dottore, glielo farò sapere io. Il cavaliere sarà molto contento, la ringrazierà moltissimo.” Mi aveva creduto, lo sentivo, e così pensai ancora una volta che forse ero riuscito a salvarla, forse lei se ne sarebbe andata. Ma non ero riuscito a niente. L'aggredirono due sere dopo, mentre passeggiava vicino al mare, sicura di sé, senza paura, una milanese vera, non un calabraghe bastardo come me. Il maresciallo venne avvisato all'alba, quando erano già passate troppe ore dalla sua morte. Era nuda e coperta di sangue. Doveva essere stata più di una persona ad averla uccisa. Lo stesso medico giudiziario venuto dal capoluogo non volle neppure vedere troppo, scrisse nella sua perizia che Francesca era morta in seguito a dissanguamento provocato da una ventina di colpi di coltello. Il procuratore dette l'ordine di rimuovere la salma e di eseguire la necroscopia. Poca folla andò a vedere. I carabinieri iniziarono le indagini, dal capoluogo venne anche la polizia scientifica, senza molto entusiasmo, tanto sapevano che non avrebbero trovato
niente. Io non andai a vedere, naturalmente. Ne avevo molta voglia, una voglia rabbiosa, ma non sarebbe servito a nulla, mi sarei solo rovinato. A Gringo City non si scherza, come dimostrava anche la morte di Francesca. E una volta rovinato, non avrei potuto aiutare Francesca. È vero che una morta non ha più tanto bisogno di aiuto, ma io volevo che i suoi assassini pagassero: non avrei mai creduto che arrivassero a tanta atrocità. E cominciai ad aiutarla non andando quel giorno sulla spiaggia a vederla, tanto non avevo bisogno di vedere, perché Pietro, il delinquente mio subordinato e superiore, mi spiegò a tavola tutti i particolari di come l'avevano trovata, per provare se l'appetito mi cedeva, ma io continuai a mangiare vigorosamente. Lui era un furbo arzavoino, ma io, anche se spurio, ero un intelligente milanese. E la sera andai a spasso con una delle mie operaie, delle trenta graziose operaie che costituivano il mio harem, col permesso dei superiori, e lei, nel bosco intorno a Gringo, luogo segreto, per modo di dire, di raduni amorosi, mi disse: “Ma l'hai sentito che hanno ammazzato quella tua compaesana? O non l'hai sentito?” Avevo un po' di voltastomaco, da tutto il giorno, da quando avevo saputo, ma le dissi: “Vedi, a Milano ci sono più di un milione e mezzo di abitanti, se dovessi mettermi a piangere ogni volta che ne muore uno sarei già morto di pianto anch'io,” così lei rise, poi sarebbe andata a riferire le mie parole a Pietro, e lui avrebbe capito che non me ne importava niente di Francesca, se ero andato a ragazze lo stesso giorno che lei era morta. Non facevo così per salvarmi. Facevo così per rimanere un potente di Arzavò, e se fossi rimasto un potente di Arzavò avrei potuto vendicarla meglio. E rimasi un potente, anzi lo divenni ancora di più. Divenni un “sicuro”, un potente di cui ci si può fidare. È un'altra cosa che feci per aiutarla fu, per due o tre settimane, "di non fare niente. In realtà facevo molto. Dormivo pochissimo, pensavo solo come potevo fare a castigare gli autori del massacro. Sapevo anch'io molte cose, come le sapevano tutti in paese: avrei potuto andare dal maresciallo e dirgli il nome del mandante e quello dei probabili assassini, ma la sua risposta sarebbe stata: “Questo lo sapevo anch'io: ma lei ha le prove?” Ero avvocato, e nessuno meglio di me poteva sapere che occorrono delle prove, ma a Gringo City esistono solo dei morti, mai delle prove. Io dovevo trovare le prove, se avessi fatto una denunzia senza prove sarei stato finito io, e Francesca non sarebbe stata vendicata. Ci pensai più di un mese, tutte le notti, e molte ore del giorno, poi mi sembrò di aver trovato la soluzione. “Cavaliere,” dissi una mattina al mio grande capo, «mi manda due o tre
giorni in vacanza a Roma?” “E come no? Le ferie spettano anche ai direttori,” mi disse paternamente, era sempre tanto paterno. “Vada, vada.” A Roma andai a reperire due ragazzacce che avevo difeso quando facevo ancora l'avvocato, due vere teppe, come diciamo a Milano, loro stesse non me ne avevano voluto quando il giudice le condannò, nonostante la mia volonterosa difesa, a un anno e mezzo per borseggio continuato, aggravato, a danno di turisti inglesi e americani. In altre parole si pigliavano il portafoglio, l'orologio, l'anello o gli anelli e perfino la cintura dei pantaloni, se era di coccodrillo, valendosi delle loro grazie, che si facevano quotare a un prezzo altissimo. Benché Roma sia grande, le reperii. Erano insieme con un giovanotto che era il loro amministratore. Una si chiamava Giusella, l'altra Clorinda, ma non credo che fossero i nomi giusti, quando le avevo difese in tribunale mi avevano dato altri nomi, ma non ha importanza. L'amministratore si chiamava Marcellino. Spiegai a tutti e tre la storia, così com'era, di Francesca massacrata, e dissi se volevano aiutarmi. Dissi che avevo un paio di milioni o tre da parte e che glieli davo tutti. Alla parola milione, con l'eco ooone, ooone nelle orecchie, i tre mi dissero subito di sì. “Io cosa devo fare?” disse l'amministratore. Spiegai a tutti e tre cosa dovevano fare. Poi andai a comprare varie cose. Una bella tenda da campeggio per due, con veranda, completa di materassini, seggioline, e perfino cucinina da campo col bidoncino del gas liquido, e insomma tutti gli altri accessori. Poi dall'oculista comprai due paia di occhiali per signora, mi feci consigliare il tipo più inglese possibile, ma senza lenti, con vetro semplice. Poi andai in un negozio di radio e trovai due registratori piccolissimi, non più grandi di un pacchetto di sigarette, ma più piatti, e comprai diversi nastri. Dal fotografo comprai due macchine fotografiche comunissime, di quelle che sanno adoperare anche i bambini, e infine mi recai da un mio amico che lavora al Centro di Farmacologia Romana, e gli chiesi un po' di bustine di Stenoton. Per evitare che mi dicesse che ero matto, prima di chiedergliele gli spiegai chiaro che cosa volevo farne e gli dissi come avevo trovato Francesca sulla spiaggia. Gli dissi se voleva aiutare la giustizia ad Arzavò, e gli dissi che io, benché avvocato, non avevo trovato altro mezzo per far arrivare questa giustizia ad Arzavò, e se lui non voleva farla arrivare, pazienza. Lui prima stette un po' male, alle descrizioni che gli feci del corpo di Francesca sulla spiaggia, poi mi dette le bustine e mi disse: “Se ne vuoi altre, te le do, te le do anche tutte.” “Grazie, mi bastano queste. Non voglio allucinare Arzavò,” e me ne andai
con le bustine. Lo Stenoton è un moderno parente del Pentola, ma ha dei grandi vantaggi sul suo genitore: è un siero della verità che non ha bisogno di essere iniettato per vena, basta versare la bustina in un bicchiere di un liquido qualunque, acqua, vino, liquore, e chi beve quel liquido si mette a parlare, felice di parlare, dice tutto di sé e della sua vita, entra, come dicono i medici, in fase logorroica assoluta. I carabinieri di Arzavò, quando interrogavano qualche arzavoino, si sentivano rispondere: “Ma io non c'ero, io non ho visto niente, non ho sentito niente.” Con lo Stenoton avrebbero invece detto tutto. Forse non era un mezzo legale, ma a Gringo City coi mezzi legali non si conclude molto. Noleggiai anche una vecchia Austin che trovai dopo molte ricerche, e consegnai il tutto a Giusella, a Clorinda e al loro amministratore, Marcellino. Facemmo le prove per un paio di giorni: andavano bene. Così potevo partire. “Ma io che cosa devo fare?” mi ripeté Marcellino, l'amministratore. “Niente, stai qui a Roma e ti spendi il mezzo milione che ti ho dato, aspettando le tue due ragazzine che tornino.» Li salutai tutti e tre e tornai ad Arzavò. Appena arrivato, sia Pietro, il delinquente, sia il cavaliere, mi chiesero se mi ero divertito a Roma. “Ho fatto indigestione di carciofi alla giudìa,” risposi. Per una settimana, seguendo il piano che avevo studiato per più di trenta notti, non successe nulla. Poi, un pomeriggio, arrivarono ad Arzavò due turiste inglesi, belline, ma occhialute, su una vecchia Austin cigolante, carica di bagagli, o meglio sacchi e pacchi, e dopo aver attraversato il paese clamorosamente, in clamorosi due pezzi, le due turiste si inoltrarono nel bosco dove piantarono la loro tenda a regola d'arte. Su un lato della tenda avevo fatto verniciare da Marcellino la scritta “Privacy and love”. Questa forse era una finezza eccessiva, ma qualche arzavoino sapeva l'inglese. Le turiste, nei giorni seguenti, andarono in giro per Arzavò a Monte a fare la spesa, e ad Arzavò a Mare a fare i bagni, parlavano un italiano-inglese terribile, perché Giusella e Clorinda avevano frequentato tanti inglesi e americani da saperli imitare meglio di Noschese. Come era uso ad Arzavò, all'arrivo di donne sole, turiste, i giovani del paese scattarono all'assalto. Ad Arzavò, chiedo scusa, a Gringo City, donna sola vuoi dire donna di tutti. E gli assalti riuscirono, tutti, avevo avvertito Giusella e Clorinda che non dovevano dire di no a nessuno, se no, niente milione, ooone ooone. Mi ubbidirono. Non dissero di no a nessuno. Drogarono, fotografarono, registrarono, intanto che miagolavano magari in inglese: “Oh, my love!” Neppure una settimana dopo ebbi in mano quattro caricatori di pellicola, e sette nastri di registratori completamente registrati. Mi ero preparato nella mia
cameretta a sviluppare le foto e a stamparle. Quando le vidi pensai che la giustizia, finalmente, era arrivata ad Arzavò. C'erano oltre mezza dozzina di killer dei “grandi» del paese, che confessavano tranquillamente, grazie allo Stenoton, che avevano partecipato al massacro della signora Francesca Vitali, di Milano: il registratore diceva limpidissimamente le loro parole: «... quella sporca donnaccia rovinava don Vico, doveva morire...” e questa è la frase più pulita che fosse registrata. M'incontrai con le due ragazze nel luogo stabilito e loro mi dissero: “Abbiamo fatto bene?” “Benissimo.” Avevano fatto così bene che tutta la parte sporca del paese saltava. Andai subito dal maresciallo dei carabinieri, un vecchio e inflessibile galantuomo, che soffriva anche più di me nell'assistere alle nequizie che accadevano a Gringo City senza poter far quasi nulla, e quando ebbe visto le foto e ascoltato le registrazioni, gli dissi: “Adesso le prove ci sono, prove legali e inoppugnabili: forza, maresciallo!” Mi guardò senza sorridere, il suo non era un mestiere che abitui al sorriso. “Posso arrestare mezzo paese, con queste prove. E lo arresterò. Devo chiedere rinforzi al capoluogo, ci vogliono una trentina di uomini, per questa retata.” Ebbe qualche movimento nel viso che poteva rassomigliare a un sorriso. “Grazie, avvocato, è merito suo se facciamo questo repulisti.” Uscii dalla casetta che costituiva l'alloggio dei carabinieri, salii sulla Flaminia, la sfrisai un poco nella strettissima curva, per la fretta di andarmene: qualcuno doveva avermi visto entrare e uscire da lì, e avrebbe riferito, ma ormai non me ne importava molto, la giustizia era arrivata ad Arzavò, e Francesca Vitali, di Milano, sarebbe stata vendicata. La giustizia era arrivata ad Arzavò, ma quasi, non del tutto. Questo è un brano del rapporto del maresciallo Bolanti di Arzavò al comando del capoluogo: «...questa mattina, all'alba, sono state trovate uccise, nel bosco, in località Dumisa, due giovani donne, due turiste, che si preparavano a ripartire con la loro tenda. Alla stessa ora, nella sua abitazione al piano di sopra alla trattoria < Del Cacciatore >, è stato trovato ucciso l'avvocato Ubaldo Forte, direttore della locale fabbrica di bambole. Si ritiene che le tre persone siano state uccise perché ritenute informatrici delle forze dell'ordine, in seguito ai numerosi arresti che abbiamo operato questa notte in paese degli autori e dei mandanti dell'effetto assassinio della turista Vitali Francesca di Milano...” Quasi arrivata, la giustizia.
20 Il nodo Luisa
Non è facile strangolarsi da sole, pensava, da quasi un'ora, seduta nella grande poltrona color terra nell'angolo più buio della stanza. Impiccarsi, sì, ma è una cosa diversa, se una donna s'impicca e quando arrivano la vedono penzolare appesa a una corda, dicono: “Si è ammazzata”, cioè, dicono: si è ammazzata lei da sé, non che l'abbia ammazzata qualcuno. Lei invece voleva che dicessero: “L'hanno ammazzata, poverina.” Guardò, dal suo angolo, la luce polverosa che entrava dalla finestra e che polverosamente, buiamente illuminava. la stanza, con gli squallidi mobili di legno chiaro, troppo chiaro, stupidamente chiaro, ma che le erano piaciuti quando li aveva comprati sicura che Simeone sarebbe divenuto suo marito, e che quella sarebbe stata la sua casa di sposa. Ora quei mobili dimostravano il loro terribile cattivo gusto, con quelle maniglie di plastica che volevano sembrare di cristallo, con quella nauseante specchiera esagonale sul cassettone, e l'alto paralume, a lampione, come piaceva a lui, Simeone, tutto rivestito di ricami azzurrini che un tempo le erano piaciuti, e che adesso la disgustavano, e continuava a guardarsi nello specchio esagonale, il suo povero viso malaticcio e disperato, continuando a pensare come uccidersi da sola, ma in modo che pensassero che fosse stata uccisa, e ascoltava la nebbia, perché si può ascoltare la nebbia, cioè i rumori ovattosi dei tram, delle auto, che passavano lì sotto in via Porpora, in quella Milano di febbraio sepolta nella nebbia, nel gelo. E infine trovò, nello specchio esagonale, così brutto, vide il suo brutto stanco viso di stupida vecchia zitella che sorrideva perché aveva trovato la soluzione del suo orrendo problema. Sì, ora sapeva che cosa doveva fare e Simeone avrebbe pagato. Si tirò su la gonna, sbottonò la calza della gamba destra dal reggicalze, si sfilò la calza dalla gamba, se l'avvolse intorno al collo, strinse un poco, come prova generale. Ottimo, veramente ottimo. Strinse ancora di più e cominciò a sentire il respiro che le mancava, ancora un poco, ancora un poco, occorreva qualche cosa che tenesse tirata la calza, annodata al suo collo, anche quando lei, per mancanza di respiro, asfissia, non avesse avuto più la forza di tenerla tirata e stretta intorno al collo. E aveva trovato. Ottimo, veramente ottimo. Si levò la calza dal collo, se la infilò, l'allacciò al reggicalze e si tirò giù la gonna coprendo la coscia grassoccia e corta. Poi si alzò e andò alla finestra: non vi era da vedere che la nebbia e attraverso la nebbia la luce fosforescente di qualche insegna di negozio, tra cui la sua, l'insegna del negozio di lui,
elettricista, radio, televisori, negozio che lei gli aveva preso, bruciando tutto quello che aveva in banca, messo da parte in anni di lavoro e di austerità in cui risparmiava anche sulla qualità delle patate e andava al cinema una volta ogni tre o quattro mesi; un dono, quel negozio, di cui lui l'aveva ripagata non venendola più a trovare appena aveva capito che il suo, il suo di lei, conto in banca era finito e non c'era più il solito assegno di cento, duecentomila che lei, vergognandosene, gli aveva elargito finché aveva potuto. E non solo questo, ma lui si era presa anche la commessa giovane e grassoccia, e lei non poteva più entrare in quel negozio, che poi era il suo, anche se intestato a lui, senza che quella ragazzaccia la fissasse insolente, scuotendo i lunghi capelli castano scuro, lisci, sul viso largo, zigomoso, mongoloide, e sorridendole in modo insultante come a dire: «Arriva la vecchia”. Appoggiò la fronte al vetro gelido e per un momento le venne voglia di piangere leggendo attraverso la nebbia, sfocata, l'insegna fosforescente di quel negozio: “Radio Televisori Elettrodomestici”, poi ricordò la sensazione della calza intorno al collo, e il pianto le si raggelò subito dentro, le si impietrì, e pensò soltanto, lo pensò in parole precise: “Ti punirò.” Si mise la pelliccetta di tigre, oh, tigre sintetica, controllò se nella borsetta aveva il libretto degli assegni, sì, c'era, con due assegni soltanto, ed erano anche troppi, tanto in banca non aveva più una lira, Simeone aveva asciugato e prosciugato tutto fino all'ultima lira. Uscì. Doveva solo attraversare la strada, era stata così felice quando aveva trovato l'appartamento qui e il negozio dall'altra parte della strada, di fronte, e aveva anche preso la targhetta d'ottone da mettere sulla porta col nome di lui, Ferroni, ed era infatti lì, la targhetta, sulla porta, anche se lui andava a dormire invece a casa della sua commessa, col consenso della madre e del padre della commessa, nella veste di futuro sposo, in quanto aveva sempre vissuto, lui, su questa promessa o professione di sposare, di dare il suo nome, Ferroni, a questa o quella donna, e non ne aveva ancora sposata nessuna. Al momento di attraversare la strada, per andare nel negozio di fronte, lei ebbe un lungo brivido di freddo. E anche di disgusto: per l'ultima volta nella sua vita pensò se non era meglio dimenticare, fuggire, allontanarsi da quella sozzura, rifarsi una vita senza mai più pensare che fosse esistito un'indegnità di uomo come Simeone. E capì che sarebbe stato meglio così, ma capì anche che non avrebbe mai avuto la forza di dimenticare. Poteva solo vendicarsi, e si sarebbe vendicata. E anche sarebbe morta, finalmente. Entrò nel negozio. Lei, la commessa grassoccia, era là, in fondo al negozio, che sistemava un piccolo televisore, e che la guardò con cortesia sprezzante attraverso la lunga frangetta che non solo le copriva la fronte, ma quasi gli occhi, coprendo le sopracciglia, arrivando alle ciglia, un mezzuccio per inciprignire gli uomini, unica cosa che intendeva ed era capace di fare, ma che
faceva però grossolanamente, volgarmente, essendo nata grossolana e volgare. “Buonasera, signorina.” Lei guardò il viso grasso di Simeone, non capiva, ora, come avesse potuto divenire schiava di un uomo grasso, giovane ma grasso, con le basette castano biondo che gli scendevano oltre la linea del lobo delle orecchie, goffo e risibile pupazzone caricaturale di torero di cartapesta al carnevale di Viareggio, guardò verso Simeone che stava alle spalle della commessa appoggiandole, appunto, una mano sulla spalla, vicino al collo, come volesse, anche in un pubblico negozio, esternare il suo incupidimento verso di lei. “Ciao, Simeone,” gli disse. Lui tolse la mano dal collo di colei che continuava a fissarla con sprezzante cortesia. “Ciao,” disse, svogliato, e svogliatamente le andò incontro, ma con l'aria, più che di accoglierla, di volerla sbattere fuori. “Ho bisogno di parlarti,” disse lei a Simeone. “Sì,” disse lui, volse il capo, sfrontatamente, verso la sua ganza, proprio per farle oltraggio, sorridendo quasi lascivo alla ragazza, proprio perché lei, la vecchia, si sentisse umiliata. E lei, infatti, si sentì umiliata da star male, ma resistè, perché ormai sapeva che l'avrebbe punito. Sorrise triste, col suo visino sciupato di milanese lavoratrice e zitella e disse, con umiltà: “Andiamo al bar”, abbassò il capo e inghiottì la sua disperazione nel vedere gli occhi splendenti di irrisione della ragazza, che la compativa, e disse ancora più umile: “Ti prego, è molto importante.” Simeone fece ancora un passo verso di lei. “Sì,” disse. Da sotto la frangetta scimmiesca gli occhi della ragazzaccia ebbero un guizzo di contrarietà, ma forse neppure lei, poveretta, sapeva che se Simeone diceva di sì era perché aveva sentito odore di soldi, e lei, povera, vecchia zitella, era proprio quell'odore che aveva voluto fargli sentire, fissandolo intensamente, come tante altre volte quando stava per firmargli l'assegno. E lui aveva capito il messaggio. “Torno subito,” disse Simeone alla ragazza ( si chiamava Luisa, ed era quel nome che le aveva dato la soluzione di tutto: le vie della vendetta sono infinite, se la ragazza non si fosse chiamata Luisa, lei non avrebbe mai trovato la soluzione del suo orrendo problema.) Simeone andò alla porta e con risibile cavalleria l'aprì e fece passare lei prima, poi uscì con lei, verso il bar, un bar d'angolo, vendeva anche sigarette ed era anche ricevitoria del totocalcio e dell'enalotto, e c'erano anche, sempre, a qualunque ora, donnacce e loro P.R., come li chiamava, dolcemente, Simeone, cioè Public Relations, ed era il bar adatto a uno come Simeone, quasi il suo ufficio, per uno che aveva quella sua professione e lei, vergogna, vergogna, vergogna, che l'aveva veramente amato.
“Metti qualche disco,” disse lei appena furono nel bar, e prontamente gli mise in mano il cento lire, o “la” cento lire, come diceva la domestica che lei aveva a ore, pugliese ed estroversa; perché Simeone non avrebbe mai speso una cento lire per far sentire dei dischi a una donna, neppure una venti lire, niente: lui, le donne dovevano pagarlo, e infatti si faceva pagare. “Ho trovato un prestito sull'appartamento,” gli disse quando lui tornò dal jukebox che cominciò a suonare, attraverso una voce da invertito, che bisognava volersi bene e che se la gente si voleva bene e si baciava in fronte tutti i problemi sarebbero stati risolti, vogliamoci bene, diamoci la mano, baciamoci in fronte, e lei su questo musicale sfondo pacifondaio disse abbassando la voce, guardando intorno tutti i testimoni del suo futuro assassinio, le povere donne da traino di quella lunga catena che è la prostituzione, e i loro P.R. e il barista che la conosceva e che infatti ogni tanto le sorrideva, e il ragazzetto che portò i due negroni, e tutti avrebbero detto, che sì, alle sei e mezzo passate lei era stata al bar col signor Ferroni e aveva bevuto un negroni con lui, e così, a voce bassa, gli disse: “Mi hanno dato cinque milioni.” Abbassò ancora di più la voce, un bisbiglio: “Vieni su, ti faccio l'assegno per il negozio.” E scrisse l'assegno. Voleva dire, come tante altre volte: vieni su, abbracciami, stringimi, fammi pensare che mi vuoi bene, che sono qualche cosa per te. L'accenno al negozio era puramente formale, tanto perché lui non si inalberasse. “Sì,” disse lui. Le basette castano biondo, lunghe oltre il lobo dell'orecchio, ecco che cosa l'aveva resa schiava di lui, questa stupida, spregevole cosa, neppure una tredicenne si sarebbe lasciata travolgere da quella striscia di pelo sulla tempia, ma lei sì, più ingenua e sognante di una tredicenne. Uscirono dal bar. Li videro uscire il barista Giovanni Quarelli, la moglie del proprietario del bar, signora Eloisa Valli, il vecchio signore che stava dietro lo sportellino della ricevitoria del totocalcio e dell'enalotto, più le tre passeggiatrici Mirella (Baroni), Caterina Catti (Moresi) e Leonessa (vezzeggiativo di Eleonora) Giarraotta, di Palermo. Videro tutti, lei e Simeone, che erano stati seduti a quel tavolo, e avevano bevuto due negroni, e videro tutti che lei aveva firmato, e gli aveva dato qualche cosa che non poteva essere che un assegno, e avrebbero potuto testimoniare che intanto il jukebox suonava con la voce sceppa di quell'invertito che basta abbracciarsi e volersi bene e baciarsi in fronte che tutto si accomoda. E fuori del bar, mentre lui nella nebbia si metteva l'imprevisto assegno nel taschino della giacca, furono veduti anche dal tassista Andrea Durante che stava al posteggio proprio vicino al bar, al quale lui, Simeone, ignaro di ciò che lo aspettava, disse: “Ciccio, tieniti pronto che fra un'oretta ho bisogno di te”, e lei comprese ciò che questo significava, cioè che lui, Simeone, di lì a
un'ora avrebbe lasciato lei, e sarebbe tornato in negozio dalla sua amica, con in tasca l'assegno molto gradito, e avrebbe chiuso il negozio, e poi avrebbe preso il tassi per portare la sua amica con la frangetta al ristorante: forse sarebbero andati a Sesto S. Giovanni dall’Ostricaro, a Simeone piaceva molto il pesce. Le ostriche, come gli piacevano le ostriche, quelle francesi che arrivavano in aereo, gliene aveva comprate tante, lei, dal pescivendolo in via Vitruvio, a trecento lire l'una, da imbottirlo, e così diveniva più grasso, e lustro. Ma quelle, quella sera, sarebbero state le ultime ostriche della sua vita. Naturalmente furono visti dalla custode della casa, la signora Giuliana Meroini, che avrebbe potuto dire che, alle diciotto e trenta circa, la signorina Irene Brambilla era entrata diretta al suo appartamento al quinto piano, insieme col signor Simeone Ferroni, che lei conosceva perché le aveva venduto una piccola radio a transistor. E in ascensore incontrarono, così piccola e spaurita, la vecchia maestrina del quarto piano, anche lei avrebbe detto che, verso le diciotto e trenta, aveva visto la signorina Irene Brambilla in compagnia di un giovane un po' grasso, con delle basette molto lunghe, che aveva già visto altre volte in compagnia della signorina Irene. E appena in casa, lei accostò la porta, senza chiuderla, si tolse il pellicciotto di tigre, oh, tigre di plastica, stette a osservarlo un momento mentre lui si accendeva una sigaretta, poi si tolse anche il pullover nero, e poi, sempre fissandolo, ora, però, con qualche cosa per lui oscuro nello sguardo, si tolse il reggiseno e glielo gettò in faccia con dolce provocazione perché lui non sospettasse, perché lui non supponesse, perché lui pensasse che era sempre la solita cretina che l'aveva innaffiato di soldi. Lo fissò da donnaccia, come a lui piaceva, gli disse: “Ciao, Simeone, vieni qui” , lasciò cadere la gonna in terra, intorno alle caviglie. Si rivestì lentamente. Erano le diciannove e trenta, un'ora dopo, e lui aveva lasciato, distrazione pericolosissima, il suo accendino, con le sue iniziali SF, sul tavolino, accanto al bicchiere con ancora un po' di whisky, perché gli piaceva il whisky, e in genere le cose inglesi, ma si rivestì solo del reggiseno e della gonna, lasciò il pullover sul divano, il reggicalze in terra vicino al divano, una calza intorno alla bottiglia di whisky, aveva studiato il particolare perché tutto desse un'idea inequivocabile di piccola orgia, e l'altra calza in mano e adesso, con quella lunga calza in mano, fissava quella quarantina di libri nelle due basse scaffalature che costituivano quella che doveva essere una biblioteca e che raccoglievano romanzi d'amore e romanzi di ogni genere, e un'enciclopedia in due volumi e infine quella mezza dozzina di libri ereditati da suo padre, che era stato marinaio, e che le aveva lasciato un libriccino con le tavole dei logaritmi e le nozioni essenziali di trigonometria, i due vocabolari, con prontuario di frasi comuni, italiano-inglese e italiano-tedesco,
e i due grossi volumi illustrati La terra e il mare, dagli abissi marini del Pacifico alle vette vertiginose dell'Himalaia, e infine, nella collezione / libri del marinaio, ecco il fascicoletto n. 72: Marineria: i nodi. Lo conosceva a memoria: da bambina aveva giocato per anni, con suo padre, a fare i nodi illustrati nelle piccole, lise pagine, quando suo padre era a casa, e allora era il più appassionante papà che una bambina potesse desiderare, che la faceva giocare ore e ore, le faceva delle ali coi giornali vecchi e le diceva: “Vola, sei una rondine,» e lei correva per il corridoio di casa, coi fogli di giornale che le ondeggiavano alle spalle come ali: “Sei una rondine, bambina mia, sei una rondine,” e nel prendere il fascicoletto n. 72, lei si sentì ancora una rondine, come si sentiva allora, soltanto che adesso era una rondine che stava per spiccare il volo verso qualche cosa. E sfogliò, una dopo l'altra, dal principio, le piccole, lise pagine del fascicolo Marineria: i nodi. Naturalmente ricordava il “nodo Luisa”, come ricordava quasi tutti i più importanti nodi descritti nel manuale, il “nodo Carpenter”, il “nodo portoghese”, il “nodo sultano”, invece di lavorare a maglia da piccola aveva giocato con le cordicelle che le portava suo padre, e quando Simeone si era preso in negozio quella ragazza che si chiamava Luisa, a lei era venuto in mente, per prima cosa, il “nodo Luisa” e solo dopo aveva cominciato a pensare a Simeone e alla ragazza con la frangetta, abbracciati. Con la calza in mano, guardò il “nodo Luisa” illustrato nel fascicolo: era un po' complicato, ma lei si sentiva capacissima di eseguirlo. Era somigliante al “nodo Van Haak”, quello con due cappi, ma otteneva lo stesso risultato con un cappio solo. Il meccanismo originale consisteva in questo, che al minimo peso, come un qualunque nodo scorsoio, stringeva, ma che se si tentava di allargare la stretta il nodo stringeva di più e stringeva di più anche se non si cercava di liberarsene, era più che un nodo, era una macchina per strangolare. E così Simeone sarebbe stato punito, e la sua amica anche. La polizia avrebbe detto: questa è stata strangolata, avrebbe cominciato le ricerche e il primo a interrogare sarebbe stato Simeone (c'era anche l'accendino con le sue iniziali, SF), dove si trovava alle ore diciotto e trenta di quel giorno?, gli avrebbero domandato, e poi avrebbero preso anche la ragazza con la frangetta fino sugli occhi, sarebbe venuto fuori l'assegno che lei gli aveva firmato al bar, e tutta la loro storia, e l'assicurazione di dieci milioni che lei aveva fatto a suo favore, la squallida storia di sfruttamento e di sevizie che era appunto la sua storia. Lui poteva prendere anche l'ergastolo, comunque non meno di quindici anni, e la ragazza con la frangetta avrebbe passato almeno dieci anni in qualche carcere femminile della Val Padana o degli Appennini toscoemiliani. L'immagine di Simeone in tenuta da ergastolano, a Porto Azzurro, insieme con Fenaroli, le dette un guizzo di gioia vendicativa di tutte le umiliazioni,
brutture e sozzure subite nel corso di tanti miseri anni di melmosa schiavitù. Lui e la sua vacchetta: finalmente puniti. Rimise il fascicolo n. 72 nella misera scaffalatura con pretesa di biblioteca, aveva visto abbastanza; il “nodo Luisa” si fa cominciando come un punto catenella, solo che dopo bisogna volgere uno dei due capi intorno al primo anello in modo da formare un secondo scorsoio, e così prima lei si avvolse la calza intorno al collo, stando seduta sul divanetto, sotto la luce azzurrognola che veniva dal paralume a lampione che piaceva tanto a lui perché diceva che per fare l'amore va bene la luce azzurra, e cominciò a formare il primo cappio del “nodo Luisa”, ma mentre lo formava capì che non sarebbe mai stata capace di fare quello che per settimane aveva pensato di fare, perché, oh, non che non avesse voglia di morire, lo desiderava tanto, tanto, tanto, era la sola cosa che desiderasse tanto veramente, ma perché era semplicemente una qualunque donna trentasettenne e nubile della grande metropoli chiamata Milano, e non era una delinquente capace di vendetta, e così si sciolse la calza dal collo e intanto cominciò a piangere, gentilmente, come tutta lei era gentile, anche nel fisico, gracile, magrolina alle spalle, solo il seno vistoso, e sussultò, la calza ormai sciolta dal collo tra le mani, e pensando no, no, no, non ti farò nessun male, vai, vai con la tua sgualdrinella, fai quello che vuoi, io andrò lontano da te, forse a Roma, a Roma c'è Andreina che mi trova un lavoro, poi vendo l'appartamento qui a Milano e laggiù a Roma cercherò di non pensare più a te, vai, vai via, con chi vuoi, vai dall'Ostricaro con la tua amica, vai, vai. E mentre pensava queste cose, con la fragile, eppure così temibile calza in mano, sentì suonare il campanello della porta. Automaticamente si mise il pullover e automaticamente tenne la calza in mano, senza rendersene conto, raggiunse l'anticamerina, tappezzata di rose di carta plastica, era stata una notte intera a lavorare a questo perché lui al mattino potesse vedere, e lui quel lontano mattino era arrivato, aveva guardato le grandi rose color rosa intenso, ma non aveva detto nulla, parlava sempre poco, Simeone, e aprì la porta e appena aperta la porta la terz'ultima cosa che vide nella sua vita fu Simeone che entrava e richiudeva la porta. E la penultima che vide nella sua vita fu Simeone che levava dal taschino della giacca l'assegno che lei gli aveva dato un'ora prima e glielo mostrava, il viso di marmo e, con quel viso di marmo, le diceva a bassa voce: “Adesso lo mangi, questo assegno,” e sentì la mano di lui alla nuca che l'afferrava per i capelli, e sentì ancora la sua voce: “tu non devi neppure provarci a farmi passare per cretino, non lo sai che ho un amico in banca e adesso gli ho telefonato e tu non hai neppure una lira in conto corrente, mi hai voluto fare fesso, vero?, ma adesso ti guasto la faccia a furia di schiaffi.” Lei alzò la mano per ripararsi dai colpi, ma lo schiaffo bestiale arrivò
ugualmente e la fece sbattere contro la parete tappezzata di rose rosa. “Mascalzone,” gli disse, con quel sapore di sangue in bocca, “farabutto, pappone”, e intanto cercava di ripararsi il viso dai colpi con le mani, ma i colpi arrivavano ugualmente e lei in una delle mani, senza saperlo, teneva ancora la calza con la quale aveva pensato di strangolarsi, ma i colpi sul viso arrivavano sempre più brutali, anche la calza si macchiò del sangue che le colava dal naso e dalla bocca. “Ricordati che a me nessuno fa il bidone, se no lo accoppo”, e continuava a schiaffeggiarla, con la sinistra e con la destra, con la destra e con la sinistra. E lei continuava a dirgli, proteggendosi il viso come poteva: “Pappone, pappone, pappone”, e allora lui vide la calza di fibra sintetica nelle sue mani, lei che si copriva il viso, con le mani, e anche con quella calza, tra le rigature di sangue che le coprivano il viso. “A me gli assegni a vuoto non li dai, e a me non lo dici pappone, non me l'ha mai detto nessuno.” Le strappò la calza dalle mani, gliel'avvolse intorno al collo, in un irrefrenabile impeto di furore perché lei continuava a dire “pappone, pappone, pappone”, perché nessuno si offende al termine, come uno che lo è veramente. E strinse con tutta la sua forza, perché non poteva più sentire quel termine, e infatti, a un certo punto, non lo sentì più. Non era stato proprio un “nodo Luisa”, ma il risultato fu uguale: dopo la terzultima e penultima cosa, l'ultima cosa che lei vide furono i pugni di lui stretti intorno alle due estremità della calza, che tiravano, e tirando, lei non respirava più, e avrebbe voluto dirgli, in un ultimo slancio d'amore: “No, no, non devi farlo, se lo fai ti rovini, volevo farlo io per punirti, ma non ne sono stata capace, ti prego, ti prego caro, ti prego caro, non uccidermi, non per me, caro, ma perché se mi uccidi sei finito, finito, oh, no, caro, non farlo”, ma i pugni di lui strinsero fino all'ultimo le due estremità della calza con furia bestiale. Il pubblico ministero aveva richiesto l'ergastolo per l'imputato Ferroni Simeone, e dieci anni per la sua complico Luisa Tavessi, la ragazza con la frangetta. Al processo era venuto fuori tutto, anche i lunghi anni di sfruttamento, quella che i giornali del pomeriggio avevano chiamato “l'infelice zitella di via Porpora”, strangolata con una calza di fibra sintetica dopo anni di sevizie morali e materiali, per derubarla degli ultimi soldi e per i milioni dell'assicurazione. La giuria, dopo neppure due ore di consiglio, giudicò che l'imputato Ferroni Simeone era colpevole e quindi lo condannava all'ergastolo. Non esistevano invece sufficienti prove per giudicare complice la Tavessi Luisa che venne assolta con formula dubitativa e liberata l'indomani, il giorno dopo la sentenza. All'uscita dal carcere, la ragazza con la frangetta fino alle ciglia si tenne stretta al braccio dell'avvocato che l'aveva difesa, fissando impudentemente
l'unico fotografo che era venuto per lei, e continuando a pensare perché Simeone aveva ammazzato la zitellona. Che bisogno c'era? “Stia ferma un momento,” disse il fotografo. Lei si fermò, abbarbicata al braccio dell'avvocato, e sorrise all'obiettivo. Perché, perché, continuava a pensare, l'aveva ammazzata, ma non l'avrebbe mai compreso, perché i colpevoli qualche volta si puniscono da loro stessi, anche le vittime, lei, Irene Brambilla, matura nubile lavoratrice milanese, li hanno perdonati.
21 La vendetta è il miglior perdono
Guardò il pendolo, autentico, dì due secoli prima, sullo scuro mobile inglese in fondo al salone. “Vado, Carola.” Si alzò, era piuttosto grasso, non alto, abbastanza calvo, ma si alzò agilmente, quasi con una mossa da ginnasta in palestra. Lei invece non si alzò agilmente dal lungo divano angolare che bordava le due grandi finestre. Anzi, l'aiutò lui ad alzarsi, poi lei si appoggiò anche al suo bastone. Era un poco più alta di lui, e nonostante l'abile trucco del viso, l'abile acconciatura dei capelli, rivelava, più che vecchiaia, sofferenza. Con una mano appoggiata al bastone lei gli stette davanti, elegantissima, quasi solenne nel lungo abito bianco che rendeva ancora più fiammeggiante il rosso dei lunghi capelli non suoi che nascondevano, i capelli, un orecchio tutto tagliato e ritagliato, sembrava con la forbice, l'orecchio destro, e disse con una voce ancora così giovane: “Non andare, Mario, non serve più a nulla, non me ne importa più nulla, serve solo a rovinarti un'altra volta.” “Stai zitta,” disse lui, sorridendole tenero attraverso le palpebre gonfie, perché, quando uno si è beccato diciotto anni tra galera, casa di lavoro e sorveglianza, senza donne, senza whisky, senza niente da sperare, gli si gonfiano altro che le palpebre. “Fermati qui, dove sei,” adesso la guardò duramente, “non corrermi appresso, non metterti a piangere. Ti saluto. Se torno, torno, se non torno, pazienza.» Lei picchiò il bastone sul candido tappeto cinese e la sua voce fu volgare: “Non te ne importa niente di me, vero? Quando ero una ragazzina mi hai portato via di casa e mi hai messo nel tuo sporco ambiente, poi ti ho aspettato quasi vent'anni, e adesso, dopo qualche mese che sei qui, te ne vai... A che ti serve? Non abbiamo bisogno di nessuno, viviamo da ricchi, la polizia ormai ti lascia in pace, perché vai a rischiare tutto per quel luridume, alla tua età, e con quella pancia?” Egli le sorrise, attraverso le gonfie palpebre la guardò. “Perché sono un uomo, un uomo panzone, ma uomo.” Lei si portò la mano libera dal bastone al viso, per lo scoppio improvviso di pianto che la prese. “No, sei un buffone, un grasso buffone rimbambito che va a fare l'eroe carico di rivoltelle per vendicare la sua dama,” cominciò ad alzare la voce rabbiosamente e volgarmente, “ma che dama sono io? Sono un avanzo di squillo, e tu sei un avanzo di galera. Basta con le buffonate, Mario, butta via quelle rivoltelle e resta a casa.» Egli l'ascoltava sorridendole attraverso gli occhi socchiusi, poi senza dirle più nulla si volse e uscì dal salone, sentì il tof tof del suo bastone sull'immenso
tappeto cinese e la immaginò zoppicare penosamente per corrergli appresso: questo gli fece male, ma lui aveva un lavoro da fare e non poteva lasciarsi commuovere. Erano le dieci. Alle dieci e due salì sulla sua auto. Prima di ingranare la marcia, controllò le tre rivoltelle che aveva addosso, le due a tamburo e quella a caricatore, controllò di avere sempre la riserva di proiettili, quella lunga scatola piatta che teneva nella tasca interna della giacca, perché non si fidava di Carola, che frugava da per tutto. Ma ogni cosa era in ordine. Alle dieci e quattro mise in moto, alle dieci e cinquantaquattro arrivava a Como, prendeva la strada che porta a Blevio, oltrepassò Blevio e dopo un poco scese a fari spenti per una stradina che conduceva alla riva del lago. Conosceva benissimo il luogo, vi era stato una decina di volte in perlustrazione, conosceva ogni angolo di quella specie di porticciolo privato che dava sul lago, e dove vi era solo una piccolissima villa ricavata da una vecchia casetta di pescatore. Alle undici e un minuto arrivò alla fine della stradina, ingombrandola tutta con l'auto e spense il motore. Poi scese, e a piedi, la mano nella tasca dei calzoni, con la Beretta in pugno, piano, senza fretta, perlustrò tutta quella specie di minipenisola sulla quale, in punta, era la villa, e solo dopo aver visto che non vi era nessuno osservò la villa. Da una delle finestre veniva un vago chiarore, era il livido lume del televisore. Guardò l'orologio, uno che è stato nella Legione Straniera è abituato alla precisione, e lui da mesi aveva studiato e calcolato i minuti. Scattò, come alle esercitazioni a Bidonville, la Beretta fuori della tasca, e scattò anche se era così grasso, si avvicinò alla villa, salì facendo più rumore del necessario i sei gradini che conducevano all'ingresso, c'era il campanello, ma non lo usò, preferì bussare forte con le nocche delle dita. Non alterò neppure la voce, tanto, dopo diciotto anni, Buchenwald non poteva riconoscere la voce, nessuno ha la voce di diciotto anni prima. “Aprite, sono ferito, aprite, ho avuto un incidente di macchina, per favore, fatemi telefonare...” Vide accendersi la finestra vicino alla porta d'ingresso. Ripeté ancora: “Ho avuto un incidente di macchina, sono ferito, vorrei telefonare, scusate...” Sentì la serratura della porta scattare e appena la porta si aprì si buttò dentro, come uno che si tuffa dal trampolino, perché aveva visto che era Buchenwald, proprio lui, la canna della Beretta entrò per tre centimetri nella pancia dell'altro. “Sei ingrassato anche tu, e stai buono.” Con un calcio richiuse la porta e in quel momento vide svolazzare per la stanza, urlante, qualche cosa di molto biondo, vestito di grigio e disse: “Stai zitta e vieni qui.” Certo fu la voce, ma fu anche il suo viso grasso dagli occhi gonfi che sembravano chiusi completamente, che dominò la ragazza, così lei tacque e
venne docile vicino a lui che calcava sempre nella pancia del suo amico i tre centimetri di Beretta. “C'è qualcun altro in questa casetta?” le domandò. “Dimmi la verità, anche se non ci sei abituata.” “Qui non sta più nessuna gente,” disse la ragazza. La strana frase, e la pronunzia, indicavano chiaramente che era tedesca. “Capisci bene l'italiano?” “Parlo male, ma capisco tutto.” “Allora spegni il televisore e chiudi le persiane,” le disse. “Non provare a fuggire perché sei morta. Kaputt.” Ma doveva essere una ragazza intelligente, che capiva, anche senza bisogno di dirle kaputt nella sua lingua. Spense il televisore, chiuse tutte le persiane di tutte e quattro le stanze, non tentò né di fuggire, né di gridare, tanto nessuno l'avrebbe udita, in quell'eremo, e tornò in sala, da brava tedesca, a prendere nuovi ordini dal nuovo padrone. “Adesso porta da bere, per me e per te,” le disse. “Voglio della birra. Ricordati di fare la brava.” Non era la rivoltella che faceva paura in lui, per la tedeschina era la voce, non aveva avuto mai tanta paura di una voce d'uomo come di quella voce, eppure lui non urlava. “Appoggiati con la faccia al muro, Buchenwald, e non tirare calci come facevano gli arabi in Algeria mentre li perquisivamo, perché tu lo sai come erano castigati quando facevano così.” L'uomo, che lui chiamava Buchenwald, continuava a tacere, era molto più alto di lui e molto più ben disposto, aveva ancora folti capelli bianchi e guardava il niente, con occhi che sembravano bottoni, non occhi. Ubbidì, appoggiò la fronte e le mani al muro, e lui lo perquisì e trovò subito il giocattolino, una delle più piccole Browning che avesse mai visto, non sembrava neppure una cosa seria, ma ammazzava lo stesso e si nascondeva facilmente. “Non ammazzarmi.” L'uomo fu scosso da brividi. “Non ammazzarmi.” Aveva una bella voce anche lui, molto virile, ma faceva ridere, perché mancava di umanità, sembrava recitasse un pezzo d'opera: “Non ammazzarmi, deh, abbi pietà del fratel tuo, non ammazzarmi, no!” Lui disse: “Voltati, schifezza.” L'uomo si voltò, e lui gli sputò in faccia e con la canna della Beretta gli fece un cenno imperioso. “No, non ti asciughi, te lo tieni in faccia, se è una faccia, insieme con quest'altro,” e gli sputò ancora, mirando agli occhi, poi, sempre agitando la canna della rivoltella, gli disse: «Siediti lì, bravo, mettiti comodo, rilassati, perché devo parlarti... no, ti ho detto di non pulirti, il mio sputo è molto più pulito del tuo viso.”
La tedeschina era arrivata con la bottiglia di birra e i bicchieri e guardava il viso del grosso uomo dalla folta capigliatura sotto la vivida luce del lampadario. “Siediti anche tu,” le disse, “bevi la birra e riempi anche il mio bicchiere.” Posò la Beretta sulla tavola e scosse il capo. “Non farti illusioni, anche se non ho la rivoltella in mano, sei morto,” disse al grosso uomo, più grosso di lui. “Lo sai che a diciotto anni ero nella Legione? Rispondi, educatamente.” “Sì, lo so,” rispose la voce virile e teatrale. Istintivamente portò ancora la mano al viso per pulirlo. “No, te li tieni,” e lui agitò semplicemente l'indice, come si fa con un bambino, e non agitando la rivoltella, “insieme con quest'altro, e non cercare di ripararti, perché se no adopero questa,” e indicò la rivoltella. L'altro non cercò di ripararsi e non abbassò neppure il viso: doveva sapere con chi aveva a che fare. “E lo sai che i legionari sono tre volte più svelti dei cowboy, con le rivoltelle? Rispondi bene.” “Sì, lo so.” Lui bevette mezzo bicchiere di birra. Poi disse: “E allora ricordati: qualunque cosa tu abbia in mente per scappare, per chiamare aiuto per salvarti, sei già morto. È meglio che non ci pensi a salvarti, a fuggire. E questo vale anche per te,” disse alla tedeschina, “hai capito bene quello che ho detto?” “Sì, ho capito,” disse la ragazza Lui bevette l'altro mezzo bicchiere di birra, poi fissò Ì bottoni scuri che erano gli occhi di Buchenwald. “Lo so cosa pensi, che io ero legionario trent’anni fa e che adesso sono un grassone. Proviamo. Guarda: metto la rivoltella a giusta distanza tra me e te Vediamo chi la prende prima. Se la prendi prima tu naturalmente tu spari a me, e se la prendo prima io, naturalmente io sparo a te. Vediamo. Sai, in carcere le sigarette sono scarse, allora facevamo questo gioco con le sigarette, mettevamo in mezzo una sigaretta e al segnale si cercava di prenderla. Chi non la prendeva doveva darne due. La prendevo quasi sempre prima io, all'ultimo non volevano più giocare con me.” Spinse la rivoltella esattamente a meta distanza tra lui e quell'uomo. Lo fissò: «Avanti, prova, se sei convinto che io non sono più un legionario” Gli occhi-bottoni dell'uomo fissarono la rivoltella, se il suo poteva essere chiamato un fissare, ma le mani non si mossero, pure qualche cosa agitò il suo viso come l'acqua di uno stagno rabbrividisce a un alito di vento. “Devi essere in condizioni di parità come me,” disse allora lui, “e puoi mettere le mani sulla tavola, come me, non tenerle sulle ginocchia: mettile sulla tavola, avanti.” Lo fissò, attese. Attese, anche la tedeschina, era seduta in
fondo alla tavola e il suo sguardo era un po' incerto, di paura, ma sentiva di dover ubbidire e di dover stare lì molto buona, se voleva vivere. E voleva vivere. Attesero quasi un minuto ma il grosso uomo non si mosse. Allora lui, invece di guardare la rivoltella, si volse alla ragazza: “Hai visto che vigliacco? Non ha neppure il coraggio di tentare”. Tornò a guardare l'oggetto del suo odio inestinguibile. “E tenta, prova, che ci rimetti? Tanto sei morto lo stesso.” Ma l'altro restò immobile, però l'occhio fissava la rivoltella, e il viso, nella sua pietrosità flaccida, continuava a rabbrividire. “Perché morto?” disse la ragazza, “che cosa lui ti ha fatto?» Lui assentì, fissandola attraverso le palpebre gonfie. “Hai ragione: che cosa mi ha fatto? Qualcuno deve saperlo. Qualcuno deve testimoniare. Sarai tu la testimone. Sai cosa vuol dire testimoniare?” “No.” «Non fa niente. Quando sarà il giorno te lo spiegheranno.” In quel momento il grosso uomo, approfittando che lui guardava la tedeschina parlandole, prese la rivoltella con un atto istantaneo, come lo scatto di una fotografia. Cioè, tentò di prenderla, ma la mano di lui fu subito sopra la sua che già stringeva la rivoltella, mentre con la sinistra tirava fuori una delle rivoltelle a tamburo che aveva in tasca. Buchenwald ora cominciò a tremare in viso, lasciò subito la presa della rivoltella. “Non puoi ammazzarmi, io non ti ho fatto niente.” “Hai visto che vigliacco?” ripeté lui alla tedeschina, «aspettava il momento che fossi distratto.” “Non ti ho fatto niente. Ti hanno detto che sono stato io, ma non sono stato io.” “Stai zitto.” Si alzò, mettendosi tutte e due le rivoltelle in tasca, voltandogli tranquillo le spalle, e fece qualche passo per la piccola sala, ingombra di mobili e mobiletti antichi, moquette, vetrinette, tendaggi, e non molti anni prima era la cadente casupola di un bonario pescatore comasco. Sembrava stanco, e lo era. Quando si arriva alla fine di un compito, allora si sente la stanchezza, e lui adesso aveva finito, non gli restava che ucciderlo. “Vedi, cara, diciotto anni fa, esattamente nel maggio del 1949, io organizzai con altri due amici una rapina a una banca. Non fu la più grande rapina del dopoguerra, ma fu la più veloce,” lui disse indicando alla tedeschina di versargli da bere, “trentatré milioni. Lo sai quanti sono 33 milioni?” La tedeschina non poté rispondere. Il telefono aveva squillato. Disse Buchenwald: “È un mio amico che chiama, sta qui vicino, avevo appuntamento con lui.” Al settimo squillo il campanello smise di suonare. Buchenwald disse: “Ora
verrà qui, perché sapeva che lo aspettavo.” “E dagli. Ne ho molto piacere.” Gli versò il bicchiere di birra pieno, non in faccia, ma sulla pancia, e rise a vederlo sobbalzare. “Sarò lieto di essere presentato al tuo amico.” Poi, quasi chiuse del tutto gli occhi: 11 maggio 1949, l'irruzione in quella banca, neppure due minuti, e trentatré milioni. Una “pulita” perfetta, erano in tre, si erano presi undici milioni ciascuno, si erano dispersi ciascuno per una strada diversa, le armi non le aveva neppure prese a Milano, ma da uno di Firenze, la polizia frugava nella teppaglia milanese, ma non avrebbe trovato mai niente. Ma c'era lui, Buchenwald. “Sai, questo coso,” disse alla tedeschina, alla sua testimone, “viveva di ricatti e di spiate. Sai cosa vuoi dire spiate?” Lei assentì, era parola dell'ambiente: spiare, spiate, spione. “ Allora, spiando, aveva saputo di quello che preparavo, e s'informò di tutto, poi stette buono finché non lesse sui giornali che la banca era stata pulita. E allora sai che cosa fece?” “Io non ho fatto nulla, non ho fatto nulla, ti hanno messo contro di me,” disse Buchenwald. “A te poi volevo bene...” Allora lui gli dette uno schiaffone, e subito quello stette zitto e abbassò il capo. “Non ho voglia di ammazzarti prima del tempo, stai zitto, finché sei vivo hai speranza, ma se ti sparo subito è finita.” Scosse il capo, si passò la mano sul cranio quasi del tutto calvo, lucido, sudato. “Ti stavo dicendo che cosa fece: denunciò, ma con l'anonimo, il vecchietto che ci aveva dato i mitra e le rivoltelle. E che cosa accadde? Accadde che ci presero subito tutti e tre, solo in pochi giorni. E naturalmente in polizia ci chiesero dove avevamo messi i soldi presi alla banca. I miei due amici finirono per dirlo, io no. È vero, Buchenwald, che io non ho detto dove avevo messo i miei undici milioni? E lo sai perché ti chiamo Buchenwald? Dillo che lo sai.” “No, no, io non c'entro con quella cosa lì, io no, io no, io no,” adesso Buchenwald sembrava piangere, non sembrava più un baritono. “Perché lo chiami Buchenwald?” disse la tedeschina, con un lieve risentimento nella voce, sono nomi che non piacciono ai tedeschi. “Te lo spiego adesso,” lui disse. Chiuse quasi del tutto i gonfi occhi e rivide i poliziotti che lo interrogavano. Ore e ore, giorni e giorni, e anche botte: e dove hai messo i soldi, dove hai messo i soldi, se non ce lo dici ti mandiamo all'ergastolo, se ce lo dici te la cavi con qualche anno, e dove hai messo i soldi, e dove hai messo i soldi, ma lui, a costo di prendersi delle sorbole in faccia da sentirsi spezzato, diceva che li aveva persi, che fuggendo, appena aveva saputo di essere ricercato, li aveva persi, e i poliziotti divenivano verdi e
gliene davano ancora di più. “E dove nascosti li avevi i soldi?” disse lei, interessata. Alla domanda lui levò ancora la Beretta dalla tasca. “Te lo dirà lui.” Sfrenò la sicura e puntò la rivoltella su una guancia di Buchenwald. “Devi dire dove avevo nascosto i miei undici milioni, tu lo sai. Guarda che la sicurezza è aperta e che sto spingendo il grilletto. Rispondi subito che è meglio: spiega alla signorina dove io avevo nascosto quei soldi.” II viso del vecchio capellone divenne bianco, quasi bianco, un bianco sporco, i bottoni degli occhi gli si chiusero e il capo gli batté di colpo sul tavolo. “Svenuto,” disse lui. “Aspettiamo, rinverrà da solo.” Aspettarono, guardando il grosso corpaccio dell'uomo quasi a metà disteso sul tavolo, ma dopo un poco lei non resistè. “Perché dire lui Buchenwald?” Era stata tanto umiliata da quelle storie di torture dei suoi connazionali, anche se lei era appena nata quando venivano commesse, che ogni volta che ne sentiva parlare voleva o fuggire, o sapere tutto, benché non fosse un angelo disceso dagli empirei, anzi. Con un po' di birra egli cercò di sollevarsi. “Va bene, te lo dirò io, anche se mi fa molto male, ma ho bisogno di una testimone, di una che sappia la verità. Vedi, io i soldi presi alla banca li avevo dati a una mia amica. Allora era una ragazza molto, molto bella. Li avevo dati a lei, che abitava a Roma, perché nessuno, e tanto meno la polizia, sapeva che questa donna era mia amica. Io avevo altre amiche, sai come sono gli uomini, e queste la polizia le interrogò, giorni e giorni, ma loro non sapevano niente. Invece lei, questa mia amica di Roma, sapeva dove erano i soldi, anzi, li aveva lei.” “Come si chiama questa tua amica? A me piace sapere i nomi.” Egli annuì, aveva piacere di quella domanda, aprì un poco di più gli occhi dal piacere, li aprì per il grande piacere di pronunciare quel nome. “Si chiama Carola.” “Ma perché lui lo chiama Buchenwald?” “È giusto,” lui disse. “Siediti, per favore, ragazzina, ti spiego subito tutto, e presto, perché è già tardi.” Glielo spiegò, alla tedeschina, sensibile così tanto al nome Buchenwald. Agitò davanti a lei la rivoltella come il maestro alla lavagna agita il gessetto. “Ricomincio da capo, così capisci meglio. Questo non si chiama Buchenwald, si capisce, si chiama semplicemente Domenico Lascura. È un noto sfruttatore di donne, con un vasto giro, ma è molto abile e la polizia non riesce a bloccarlo. Io, a quell'epoca, facevo molte cose, tranne che lavorare, ogni tanto andavo dentro e non mi piaceva, finché non pensai qualche cosa di più sostanzioso che rubare le auto o le marche da bollo ai tabaccai, o le borsette alle squillo. Così feci quel colpo alla banca coi miei due amici.
Appena presi gli undici milioni della mia parte, chiamai la mia amica da Roma, e Carola venne subito, le detti il denaro, e le dissi dove nasconderlo. Lei ubbidì, e io pochi giorni dopo venni arrestato. La polizia non riuscì a sapere dove io avessi potuto nascondere il denaro, ma questo coso, sì, riuscì a saperlo. Lui sapeva tante cose che la polizia non sa, sapeva che io stavo per combinare il colpo alla banca, sapeva che io avevo un'amica che la polizia non conosceva, e quando io fui in galera, e aveva tutto premeditato, andò da lei, dalla mia amica, da Carola. Si trattava di farle dire dove aveva nascosto i soldi, la mia parte della banca, undici milioni. E glielo fece dire. Ci sono degli stupidi che fanno delle rapine, e ci sono degli altri che si prendono i soldi. Glielo fece dire. Ha adoperato anche, dico anche, un trinciapollo. Tu che sei donna puoi immaginare quante torture si possano fare a una donna, ma non immaginerai mai abbastanza. Ecco perché lo chiamo Buchenwald. Lei non voleva dire a nessun costo dove aveva nascosto gli undici milioni che le avevo dato io, ma oltre un certo punto nessun essere umano può reggere, le ha sezionato perfino un muscolo della gamba destra, deve aver studiato medicina, così che adesso, dopo tanti anni, lei va in giro col bastone, e io mi sono fatto diciotto anni tra galera, casa di lavoro e anni di sorveglianza speciale.” Abbassò il capo perché non voleva essere guardato. “Non solo si è preso i soldi, ma ha martoriato la mia donna e buttato me in un fondo di galera per metà della mia vita. Volevi sapere perché lo chiamo Buchenwald? Ora lo sai.” II grosso uomo cercò di reagire, la voce gli ritornò baritonale. “Non è vero, io non ho fatto niente, ti hanno detto tutte queste cose per metterti contro di me.” “La paura lo ha svanito,” disse lui. “Lo sai cosa vuoi dire svanito?” La tedeschina era divenuta grigia in viso. “Davvero ha fatto lui quelle cose terribili a tua amica?” Egli assentì, le aveva risparmiato molti particolari, tra i quali l'orecchio mutilato. “Davvero?” lei domandò, ingenua e disperata, al vecchio capellone Domenico Lascura chiamato Buchenwald. “Io non ho fatto nulla.” Chiuso nel terrore della fine imminente, egli forse non connetteva più. “Nulla, nulla, nulla, io non c'entro.” “Sei bugiardo!” esclamò lei, appassionatamente, “sei mostro, io lo sento!” Egli le fece cenno di tacere. Era davvero molto stanco. Rimise in tasca la Beretta, e tirò fuori una rivoltella a tamburo, con la canna di quella pistola toccò una mano dell'uomo rintontito dal terrore. “Stai a sentire,” disse a lui, tentando di superare il proprio odio, “per diciotto anni, in galera non ho sognato altro che questo momento, il momento di spararti, il momento di vendicarmi. E adesso è il momento.”
La tedesca si alzò. Non doveva aver mai assistito all'esecuzione di un uomo. Ma si aggrappò al tavolo con le mani. “Non guarda me. Fai senza guarda me.” Egli la ringraziò con lo sguardo, poi tornò a parlare a quegli occhi a forma di bottone, e opachi e duri. “Ma dopo diciotto anni non ho più tanta voglia di ucciderti, sai come si dice? Il perdono è la miglior vendetta.” I bottoni, in quel grassume sadico di faccia, sembrarono illuminarsi un poco, riprendere vita, la parola perdono doveva averli accesi. Allora egli continuò: “Proprio perdonarti non posso, un trinciapollo non si può perdonare, e tutto il resto, ma voglio offrirti una possibilità di vita.” La ragazza tornò a sedersi. Adesso gocciolava di sudore per tutto il viso, benché la notte sul lago non fosse per niente tiepida. “Anzi, due possibilità di vita,” continuò lui, fissando attraverso gli occhi socchiusi e gonfi l'immondo essere che aveva davanti. “Guarda bene: questa è una rivoltella a tamburo, la vedi? Ci facciamo un giochetto come prima, ma non di abilità, di azzardo. Ti apro la pistola, guarda, te la apro e levo cinque proiettili. Ne lascio solo uno.” Si mise i cinque proiettili in tasca. ”Hai già capito, vero? Si tratta di una specie di roulette russa. Vedi, io non sono capace di uccidere così a freddo, neppure uno come te. Per questo ti lascio due probabilità di vita.” Richiuse la pistola a tamburo. “Tirerò il grilletto tre volte: se i tre colpi andranno a vuoto, sarai salvo. Me ne vado via di qui e ti dimentico. Cosa che mi farà bene.” Non gli lasciò il tempo di pensare, gli disse soltanto: “Hai due probabilità su tre di vivere,” e premette il grilletto. Domenico Lascura sembrò saltare sulla sedia, il suo corpo sussultò, poi scivolò flosciamente in terra. Ma non si era udito nessuno sparo, semplicemente il clic del percussore che batteva a vuoto perché non c'era proiettile in canna. Lui s'inginocchiò vicino all'uomo disteso in terra, gli toccò prima il polso, poi gli appoggiò l'orecchio vicino alla bocca, poi si alzò. “No, non è svenuto. È morto. È morto di paura. Era la sola morte che poteva fare un uomo come lui. Anche alla Legione ho visto due prigionieri morire così. La rivoltella faceva clic, a vuoto, e loro morivano lo stesso.” Guardò la ragazza, si sentì tre volte più stanco, più grasso, più infelice che mai. “Lascia stare tutto lì, bicchieri, bottiglie di birra, tutto. Io non gli ho fatto niente. Ho fatto clic con una rivoltella che poteva essere anche a puntine di plastica. Lui è morto da solo, fra un giorno o due lo scopriranno, diranno paralisi cardiaca, si muore tutti per paralisi cardiaca, no? E se vuoi, puoi venire con me. La mia amica, voglio dire Carola, per vivere, così come è ridotta, aiuta le ragazze come te. Non un mestiere che mi piaccia, né piace a lei, ma dobbiamo vivere. Starai sempre meglio che con quel coso lì in terra.»
Rise triste: “Guadagniamo bene.” La ragazza si allontanò dall'uomo in terra, né con digusto, né con paura, peggio ancora: con freddezza. “Ma perché la tua amica, Carola,” le piaceva conoscere i noli delle persone, “non ha denunziato l'uomo che l'ha torturata?” Egli aprì la porta d'ingresso ed entrò una folata di aria umida di lago. “Non sarebbe servito a niente,” le rispose. “Niente serve a niente quando una donna è ridotta così. Soltanto sopravvivere, e lei ha voluto sopravvivere, per aspettare me, per aiutare me. Se lo denunziava, perdeva solo tempo. Gente come noi non perde tempo. Andiamo.” Andò verso il televisore e lo accese, il video si illuminò e si sentì il ronzio. “II proprietario della villa, mentre guardava la televisione dopo aver ricevuto degli amici, ha avuto un colpo.” Uscirono, lui richiuse la porta, la serratura era a scatto. “Lei molto amore per Carola,” disse la tedeschina. Egli non rispose neppure.
22 Ricordati Cuore Infranto
II malinconico novembre del 1944, lei pensò, con quella parruccona alla sciagurata, i capelli che le arrivavano fino all'inguine, vestita di giallo fosforescente, tanto per non dare nell'occhio, su quella macchina scoperta grigio fumo, accanto al più vistoso morettone in maglia bianca della litoranea Pesaro-Ancona, e che aveva solo ventidue anni, quasi quanti erano passati da quel malinconico novembre del 1944, cioè il morettone era appena nato, quando lei, a sedici anni, vagava in fondo al lago di Como, per le montagne vicino al confine con la Svizzera, insieme con “Cuore Infranto” e altri giovanotti malvestiti col freddo che stava arrivando, armati estrosamente, c'era uno con un fucile da caccia, un altro nascondeva tenacemente uno spezzone incendiario, e solo lui, il capo, Cuore Infranto, aveva un vero mitra. Non che si chiamasse Cuore Infranto. Queste due parole, Cuore Infranto, erano le parole codice con i Comandi alleati. Alla radio, la voce di Londra trasmetteva i messaggi speciali ai gruppi di combattenti liberi del Nord Italia. Ogni gruppo aveva le sue parole codice. Tre volte al giorno, le orecchie incollate al vecchio e catarroso apparecchio radio: “E ora, ecco i messaggi speciali: < La mia barba è bionda >, ripeto: < La mia barba è bionda >. E ancora: .” Aspettavano da molto, da troppo tempo, nella casupola diroccata, che la radio trasmettesse il messaggio che riguardava loro: “Cuore Infranto”. Lo attendevano da agosto. L'ufficiale di collegamento americano che era arrivato fin lì, quasi al passo di San Iorio, li aveva assicurati: “A settembre faranno un lancio per voi, soprattutto armi e vestiti invernali.” Sì, soprattutto armi, perché non si può fare la guerra coi fucili da caccia, e vestiti invernali, perché non si può svernare a circa duemila metri in calzoni corti di tela. Ascoltarono ogni giorno la radio, da agosto a novembre, e la radio ogni giorno trasmetteva qualche messaggio. “Cielo senza nuvole. Qualcuno cavalca di notte”, erano belle parole, sembravano titoli di romanzo, di poesie, ma non trasmetteva mai “Cuore Infranto”. E così venne novembre, un novembre malinconico, molto nebbioso, su in montagna, novembre 1944. Il partigiano Cuore Infranto, perché lo chiamavano così dal nome della sua formazione, se poteva dirsi formazione uno sparuto manipolo di ragazzi sfiniti, delusi, affamati di tutto, di caldo, di sonno, di cibo, di donne, Cuore Infranto quel giorno aveva mandato altri cinque ragazzi in Svizzera: tossivano giorno
e notte, non avevano armi e tanto valeva allora che si facessero internare in Svizzera. Tentò di mandare in Svizzera anche lei. “Una donna dà fastidio, qui, poi adesso viene l'inverno, vattene in Svizzera, spieghi, come è vero, che i repubblichini ti hanno ammazzato padre e madre, bruciato la cascina, portate via le bestie e messo i tuoi due fratelli in un vagone per la Germania. Ti tengono subito, sei troppo ragazzina per stare qui con noi,” poi aveva smesso di parlare perché sapeva già che lei non avrebbe mai lasciato la formazione. Anche il capitano Collins aveva tentato, ma vanamente: “Signorina, lei deve andare in Svizzera, qui è troppo pericoloso.” Lei aveva scosso il capo al piccolo capitano, sembrava così piccolo in confronto a Cuore Infranto. Fino a metà novembre ascoltarono la radio, aspettando la frase miracolo: “Cuore Infranto”, ma non venne mai trasmessa. Poi la radio si guastò, Cuore Infranto era anche radiotecnico e capì subito che era finita. Per qualche giorno lui e il capitano Collins tentarono di convincere gli Svizzeri a fornirli di un apparecchio, ma senza successo. “Non c'è più niente da fare,” disse allora il capitano Collins. “In paese non possiamo scendere, è pieno di SS; i lanci, ormai, non li faranno più, è impossibile in inverno fare i lanci in montagne come queste. Meglio che entriamo tutti in Svizzera. In primavera, eventualmente, scapperemo dai campi d'internamento svizzeri e torniamo qui a combattere.” “Sono i miei uomini che devono dichiarare come la pensano,” disse Cuore Infranto. Li aveva radunati tutti e aveva spiegato la situazione. Quasi tutti, anche se umiliati, avevano deciso di andare in Svizzera e farsi internare, non era possibile resistere un inverno sulle montagne, senza mangiare e senza vestiti e dormendo all'aperto. Quasi tutti, ma non tutti. Dieci ragazzi rimasero con Cuore Infranto, e anche lei era rimasta. Erano in dodici, adesso, per un po' i viveri abbondarono, dato che non bisognava più dividerli fra troppe persone, ma venne la neve, cadde a vagonate, i ragazzi pensarono di poter fare come gli esquimesi e si costruirono una specie di casa di neve, ma avevano più freddo lì dentro che fuori. Cuore Infranto avrebbe durato, a costo di morire, ma trovò due ragazzi coi piedi congelati, e un terzo tossiva ventiquattro ore su ventiquattro, e allora dette l'ordine di entrare tutti in Svizzera. Erano già in vista del Passo Iorio, e proprio in quel momento comparve il capitano Dortmund con dodici uomini. Cuore Infranto vide il gruppetto di SS, vestito di bianco sulla neve bianca, prima di tutti: dette l'allarme, poi strinse per il polso lei, Carnina Bella, come la chiamavano i ragazzi, e si rotolò con lei sulla neve, per un dirupo, in fondo al quale furono sepolti dalla neve e anche da un po' di pietrame. Nonostante l'allarme che lui aveva dato, le SS erano arrivate così
d'improvviso che i ragazzi non riuscirono a fuggire, anche se il confine era lì, a cinquanta metri neppure. Due che lo tentarono, del resto, balzarono per un metro, e al secondo metro saltarono in aria frustati da lunghe raffiche di mitra. “II signor capitano Dortmund vi ordina di mettervi in fila,” disse la voce chioccia di un giovanotto del luogo che faceva da interprete e che aveva guidato le SS fin lassù. Dal fondo della buca lui e Carnina Bella non vedevano nulla, ma sentivano benissimo. I ragazzi si erano messi in fila, sulla neve gelata, e sotto la neve che continuava a cadere. Il capitano ringhiò qualche cosa e l'interprete tradusse: “II capitano ordina che il primo della fila si svesta completamente e butti tutti i suoi abiti dietro di sé.” “Schnell! Schnell!” gridava il capitano. Svelto, svelto!! E una SS alzò il mitra contro il ragazzo che esitava, così che il ragazzo smise di esitare, e si spogliò rapidamente, sotto la neve, nel gelo. Non che prima fosse molto coperto, perché era in calzoni corti, ma adesso, completamente nudo, cominciò non solo a tremare, ma a gemere, il corpo bluastro che gli si copriva di bianco, subito, per la fitta neve che scendeva. “II capitano dice che hai molto freddo, e che vuole riscaldarti,” disse l'interprete. “Comincerà dai piedi.” Una SS si avvicinò con le bombole del lanciafiamme sulla schiena e il tubo nelle due mani. Il ragazzo capì, urlò di terrore e tentò di fuggire: la fiamma lo raggiunse che aveva appena tentato di balzare in avanti, cadde a terra, urlando atrocemente, e il capitano fece segno alla SS di spegnere il lanciafiamme, poi ringhiò per un bel po'. L'interprete subito tradusse: «II signor capitano Dortmund dice che non lo ucciderà perché è un bandito e un traditore, e deve morire lentamente, molto lentamente. Adesso il capitano Dortmund darà questa lezione ad altri quattro di voi, gli altri saranno mandati a lavorare in Germania. Adesso il capitano sceglie i quattro banditi traditori da punire. Ecco, tu, e tu, e tu, e tu.” Vi fu ancora un tentativo di fuga, ma la SS col suo lanciafiamme lo bloccò subito. Bruciava i piedi e le gambe ai quattro ragazzi, e li lasciava lì, vivi, nudi, ululanti di dolore. Tutta la montagna urlava disperatamente, con rauche urla bestiali, dovevano certo sentirli anche in Svizzera, e anche a valle, ed era questo che voleva il capitano Dortmund: che neutrali, nemici o tiepidi, imparassero la lezione. E prima di andarsene via, li bruciacchiarono ancora un poco, per ordine del capitano Dortmund, verso l'alto delle gambe, sollevando una nuova paurosa ondata di urla, poi se ne andarono spingendo i cinque ragazzi superstiti con la canna del mitra, verso il paese e il fondo valle dove vi era il comando. “II capitano Dortmund dice di non fuggire perché se no sarete puniti col lanciafiamme,” disse l'interprete con quella sua vocina e queste furono le
ultime parole che loro due udirono di quell'individuo, dal loro nascondiglio sotto molta neve, ormai, ma continuarono a udire, per molto e molto, le urla selvagge di quei ragazzi, e non poterono uscire dal nascondiglio, per soccorrerli, se non quando furono sicuri che le SS fossero abbastanza lontane. Allora saltarono fuori: li trovarono ancora vivi e orrendamente piagati. Li trascinarono verso il confine, alcuni soldati svizzeri, col loro sergente, avendo udito le urla, erano arrivati fino alla pietra confinaria con la jeep e trascurando la neutralità aiutarono Cuore Infranto a trasportare quei poveri ragazzi urlanti sulla jeep, e giù all'ospedale, dove tre arrivarono morti, uno morì il giorno dopo, l'altro guarì ma divenne pazzo. Loro due vennero internati, dagli svizzeri, in due campi separati, ma ancora prima che finisse novembre, poterono vedersi per qualche ora sul lungolago di Lugano. Era un malinconico novembre, lì sul lago, non faceva freddo e c'era ancora tanto verde. Non parlarono dei ragazzi, non parlarono di guerra, non parlarono di politica. Forse non parlarono neppure, se non qualche frase: “Come stai? Come ti trovi al campo? Hai bisogno di qualche cosa?” La luce rosea-celestina del ciclo si rifletteva sulle acque del lago, e al minimo soffio d'aria gli alberi del lungolago perdevano foglie e foglie. Malinconico novembre del 1944. Ma oramai questo era il novembre del 1966 e chi sa perché le era tornato alla memoria quell'altro lontano novembre di ventidue anni prima. Ogni tanto, d'improvviso, anche a distanza di anni, ricordava, risentiva le urla, risentiva la voce dell'interprete, da sotto la neve si sentiva benissimo. Poi per qualche anno tutto spariva: e poi ritornava. Il morettone guardò l'orologio. “Ancora dieci minuti,” disse. Come era bello il paesaggio in quel punto della litoranea, con quella luce di novembre, grigio morbida; a destra il mare che prendeva il tono scuro del centro Adriatico, a sinistra già qualche impennata di monte, ancora coperto di verde intenso, come forse sarebbe rimasto tutto l'inverno. Passavano poche macchine, per la giornata festiva e per il tempo grigio che non aveva invogliato nessuno ad andare in giro in auto. “Dammi una sigaretta,” lei disse. Già, ancora dieci minuti, poi Cuore Infranto sarebbe arrivato lì, insieme ai messaggeri. Ma no, no, non doveva continuare a chiamarlo Cuore Infranto, era il dottor Mario Zusini, tanto nessuno chiede le lauree e così poteva essere dottore anche lui. E lei non era più Carnina Bella, anche perché adesso la sua carnina non era più tanto bella come quando aveva sedici anni e combatteva per la libertà, ma la signora Lara Zusini. E quel morettone era semplicemente il loro autista, l'autista più veloce del mondo, capace di sfuggire anche alla Stradale come aveva già fatto qualche volta, e maneggiava molto bene anche varie armi, dalle rivoltelline alla carabina col telescopio. Aveva solo l'inconveniente che la polizia ce
l'aveva su con lui e lo ricercava sempre. Fra dieci minuti, pensò lei, la signora Lara Zusini, fra dieci minuti avrebbe rivisto il suo vecchio gigante, il suo Cuore Infranto, col passare degli anni era divenuto più coriaceo, aveva perso quella vaga dolcezza da ragazzo di allora, ed era divenuto una possente quercia alla cui ombra lei era riparata da tutto. In quello stesso momento il dottor Mario Zusini, cioè lui, Cuore Infranto, entrava in uno dei più affollati caffè di Senigallia, davanti alla riva del mare, imprecando tra di sé perché era in ritardo di venti minuti, e guardando tra la marea di tavolini del salone-veranda, a quale sedesse il suo uomo. Avanzò tra i tavoli, nel chiasso, nel fumo, nel puzzo di chiuso, finalmente vide il segnale, un guanto chiaro e uno scuro sul tavolo, vicino a una grossa birra. Allora sedette subito a quel tavolo e disse: “È di moda portare un guanto giallo e uno scuro”, senza inflessione interrogativa, come voleva la frase di riconoscimento. Allora l'altro sorrise, tese la mano, disse in un fluido italiano, che però, era evidente, non era la sua lingua: “Molto di moda.” Al principio fu la voce dell'uomo che lo toccò: nonostante il fluido e il suasivo superficiale, sotto c'era qualche cosa di estremamente duro e ringhioso. Gli sembrò di riconoscerla, ma nella vita si sentono tante voci. “Quanto ne ha portata?” gli disse. Non gli piaceva l'uomo, anche se aveva una bella faccia quadrata, abbronzata anche d'inverno e gli occhi chiari. E non gli piaceva che ogni volta gli mandassero un uomo diverso a portare la roba, che era poi cocaina pura. Certo, era una misura precauzionale, lo capiva, ma avere a che fare ogni volta con un tipo diverso gli dava fastidio e sospetto. “La quantità richiesta, cioè tremila grammi,” disse quella voce, in quell'italiano fluido eppure così poco convincente. “E dov'è?” “Mi scusi, ma prima dovrei chiederle io dove sono i soldi.” Non c'era nessun timore di essere uditi, anche dai tavoli vicini, perché il chiasso, nella veranda chiusa, dato che fuori il vento di novembre sollevava alte ondate, era tanto forte che ogni voce si perdeva. “I soldi,” disse lui paziente, perché invecchiando era divenuto paziente, o assai meno nervoso di quando era Cuore Infranto, “li tengo a una trentina di chilometri da qui. Non vado in giro con valigione piene di biglietti.” “Allora adesso posso dirle dov'è la roba,” disse l'uomo dal guanto chiaro e scuro. “La tiene un mio amico qui fuori, ed è molto cattivo,” poi aggiunse sorridendo: “ed è anche armato.” II dottor Mario Zusini annuì col capo, paziente. Le regole della consegna erano quelle. “Allora non ci resta che andare. Ho l'auto sullo stradone.”
“Le spiace se uso la mia, guidata dal mio amico cattivo?” disse l'altro. “No,” lui disse, calmissimo. “Le farò strada io.” Uscirono dal caffè, insieme e non tanto insieme, il vento di novembre, appena fuori della veranda, mandò loro addosso spruzzi di mare. Il dottor Mario guardò il mare, era di un fosco azzurro e le ondate erano alte come un uomo e superavano i sassoni della barriera. “Quello è un tedesco,” pensò, lavorava con gente di ogni razza, dai canadesi ai cinesi, e molti negri, perché in Africa si drogavano senza misericordia e preferivano i prodotti sintetici europei alle loro ingenue pianticelle stupefacenti dell'epoca di Livingstone. Di tedeschi poi ne aveva trattati a secchiate, perché erano loro che fabbricavano la cocaina, la fabbricavano da qualsiasi cosa, lui aveva sentito dire anche dal metano, ma forse era un'esagerazione. Però, appunto per questo, sapeva distinguere un tedesco da uno che non è tedesco, e quello doveva essere proprio tedesco, anche se parlava l'italiano come lo speaker del telegiornale, quello speaker nervoso che parlava un po' in fretta e seccato come pensasse: “Guarda cosa mi tocca leggere per guadagnarmi la vita.” “Questa è la mia macchina,” disse il tedesco quando furono sullo stradone, “e quello al volante è il mio amico.» Era una ridicola seicento multipla color grigio nero, e in piedi vicino all'auto, quasi più grosso della macchina, c'era quello che il tedesco chiamava, con voce piena di sottintesi, il suo amico. Erano arrivati sullo stradone, passavano pochissime macchine, il grande traffico coi camion sarebbe cominciato solo dopo pranzo. “E questa è la mia,” disse lui, il dottor Mario, indicando la bella Fulvia all'altro lato dello stradone, sotto il sole che si scolorava, vicino al tramonto delle quattro del pomeriggio. “Molto bene,” disse il tedesco. “Noi la seguiremo molto da vicino. Se succede qualche cosa, polizia stradale o roba del genere, ciascuno prende la sua strada. D'accordo?” “Certo,” disse lui. Guardava quell'uomo, e soprattutto ascoltava la sua voce, con molto interesse, in quel rosato gelido tramonto di novembre. Era un bell'uomo, non doveva avere molto più di cinquant'anni, aveva le spalle quadrate, come il viso, stava eretto come di cemento, e nello stesso tempo mobilissimo e attento, con quei suoi occhi chiari che vedevano assolutamente tutto. In un certo senso gli piaceva, gli era simpatico: era un uomo, non un cretinetti molliccio. “E la prego, signore,” continuò quello, “di non tentare furberie. So che lei fa da anni questo lavoro e si è sempre comportato bene, ma un momento di follia può sempre venire. Tre chili di roba possono turbare la mente di chiunque, le do il consiglio di non lasciarsi turbare, è meglio per tutti.”
Lui lo guardò fisso, e a voce bassa, freddissima, perché lo prosopopea dell'uomo lo aveva scocciato, gli sparò in faccia: “Salga in macchina e mi segua col suo amico, ma non molto da vicino, ma molto da lontano, almeno trecento metri,” era sottinteso fuori tiro di pistola. “Se mi segue a meno di trecento metri può andarsene per i fatti suoi col suo borsone pieno di borotalco perché io non le do una lira.” Non attese neppure che rispondesse, attraversò lo stradone, nell'ultimo alito di roseo della luce del sole, sullo sfondo del mare ora quasi turchino, salì sulla Fulvia e mise in moto delicatamente, perché era tutto delicato, anche con quella grossa corporatura. Dallo specchietto vide con soddisfazione che la ridicola multipla, ma come si fa ad andare in giro con tre chili di cocaina in una multipla, probabilmente presa a nolo?, stava alla distanza fissata da lui, oltre la parabola di un proiettile di pistola. E guidò verso Fano, ma abbastanza veloce, perché era in ritardo, e sapeva che Carnina Bella stava tanto male quando lui ritardava, e anche abbastanza divertito perché quando stava per farla a qualcuno che proprio non se la voleva far fare, si divertiva molto. Il signor Coso aveva detto di non fare furberie. Ma certo invece, che lui l'avrebbe fatta, la furberia. Erano due anni che si accontentava di fare il passatore: scendeva la cocaina dall'Austria, faceva la strada Romea, lui se ne andava su e giù per il litorale PesaroAncona, prendeva la roba dal portatore, la portava a sua volta a Taranto, la consegnava a un altro e si teneva la sua percentuale. Per mezzo chilo, per un chilo di “roba”, questo era il suo nome, non aveva voluto rischiare. Ma adesso si trattava di tre chili: era semplice, perché tre chili vogliono dire milioni e milioni, vogliono dire che uno per diversi anni non ha da pensare a che cosa mangerà l'indomani, a come farà a pagare le rate dell'auto, e a come farà a convincere il sarto a fargli altri vestiti senza dargli una lira. Certo che voleva fare “la furberia”. Si sarebbe tenuto la roba per sé, senza portarla a Taranto, a quell'altro che l'aspettava. E si sarebbe tenuti per sé anche i soldi che gli avevano dato per pagare la roba. Era un gioco rischioso, ma si trattava di molti milioni. Guardò ancora dallo specchietto. Il signor Coso era sempre a rispettosa distanza e aveva acceso le luci di città, in quell'ora dalla luce così incerta. Bravo, ti farò la furberia, pensò. Poi, mentre stava dietro a un grosso autocarro che non poteva sorpassare, dovendo guidare lentamente, pensò a molte altre cose: che doveva portare rivoltelle dalla canna più corta, perché con la pancia che aveva la canna lunga gli segnava la coscia destra. E poi, che se tutto fosse andato bene, avrebbe potuto convincere Carnina Bella a farsi fare l'operazione di plastica al seno, in America, che le facevano un seno così, ma lei non aveva mai voluto perché si spendeva troppo. E poi che avrebbe dovuto fare un regalo anche al morettone,
al suo fedele pistolero, che alla distanza giusta centrava qualunque bersaglio, fosse stata anche una zanzara. E d'un tratto, senza alcuna ragione, pensò quella terribile cosa; la voce del signor Coso coi tre chili di roba, era la voce del capitano Dortmund, lassù, a Passo Iorio. Era la voce dell'uomo che aveva ordinato di bruciare vivi i suoi ragazzi. Lui, nascosto nel fondo del dirupo con Carnina Bella, non aveva visto nulla, aveva udito solo voci, quella dell'interprete, in italiano, e quella ringhiosa, in tedesco, del capitano Dortmund. Certo la voce del signor Coso non era ringhiosa, e diceva parole in sciolto italiano, evidentemente in tanti anni aveva avuto tempo di studiare la lingua, ma c'era qualche cosa nella struttura di quella voce, nello scheletro della voce, che gli rivelò la verità: quell'uomo era il capitano Dortmund. Finalmente potè sorpassare il grosso camion, e respirò profondo. Lui, da molti anni, non era che un avanzo di galera, anche se aveva salito la scala, dai furti allo sfruttamento di donne, al traffico di stupefacenti, sempre avanzo era. Ma il ricordo di quei ragazzi urlanti nel dolciastro nauseante fumo della propria carne bruciata, era un ricordo invincibile, di quando lui era un uomo e non un farabutto, un ricordo che ogni volta che gli arrivava nei recessi della memoria quasi lo uccideva di rimorso, perché era lui il capo di quei ragazzi, era lui che li aveva convinti a quella battaglia e portati a quella morte. Guardò nello specchietto: anche la multipla aveva sorpassato il camion e nelle ultime ombre della sera precoce d'inverno teneva la distanza segnata da lui. Non aveva nessuna prova che quell'uomo fosse il capitano Dortmund, lui era in fondo a un burroncello, sepolto dalla neve, non aveva visto niente, aveva solo udito delle voci, eppure sapeva, sentiva, lo unghiava dentro la certezza che quella del signor Coso era la voce del capitano Dortmund, l'uomo che aveva dato l'ordine alla SS col lanciafiamme: “II capitano dice che hai molto freddo e che vuole riscaldarti, comincerà dai piedi,” diceva il traduttore. E non aveva bisogno di prove, lo sentiva dentro di sé: aveva alle spalle, nella multipla, il capitano Dortmund, autore della piccola strage di Passo Iorio (Italia), novembre 1944. Rallentò perché aveva visto i fanalini rossi della decappottabile, con Carnina Bella e il morettone, che poi era un morettino, tanto era piccolo, e si fermò a tre metri da loro. Nello stesso tempo, col braccio teso imperiosamente fuori dal finestrino, fece cenno alla multipla di fermarsi, a notevole distanza, e quelli obbedirono subito. Scese dalla Fulvia, andò vicino alla decappottabile, dalla parte dove era lei. “Ciao, sei stata in pensiero?” “E certo. Che cosa ti è successo?” lei disse scaricando nell'asprezza della voce la tensione dei nervi. “Niente, mi sono fermato per strada a guardare delle ragazze.” Non poteva
dirle che aveva incontrato il capitano Dortmund. Lei era già esaurita, mezza distrutta, il cuore che faceva “fu fu fu fu”, invece di battere: se le ricordava quei ragazzi si sarebbe sentita male. “Adesso stai attenta, la macchina con quelli che portano la roba e quella multipla lì vicino alla svolta. 'Tu dammi il valigione, e tu,” disse al ragazzo, “tira fuori la carabina. Stai bene a sentire: sono in due. Uno abbastanza grande, e uno molto grosso. È questo che ha la roba. Io cerco di farlo scendere dalla multipla, e appena è sceso tu spara subito senza pensarci un momento. Al resto penso io.” Da dietro i sedili lei tirò fuori la grossa valigia, era piena di giornali, non di soldi, e disse amara: “È proprio necessario sparare?” Lui disse brusco: “Non ti danno tre chili di roba dicendo ,” prese la valigia e si diresse subito deciso, nel buissimo crepuscolo, verso la multipla, verso i suoi piccoli fari accesi. Ci volle un po', perché trecento metri sono tanti, da fare a piedi. Passavano camion, passavano auto, gettavano sciabolate di luce coi loro fari, ma non c'è nulla di più solitario di uno stradone, anche con tanto traffico, e lì ce n'era poco, si può piangere e morire senza che nessuno se ne accorga, si corre via, cento, centoventi, centoquaranta, per arrivare in tempo, per arrivare prima, per arrivare comunque e specialmente di notte di quello che succede sulla strada, di quello che è sulla strada, si vedono solo le luci delle altre auto. Il dottor Zusini, arrivò a cinque metri dalla multipla e posò la valigia a terra. Dal finestrino della baracchetta si sporse la testa del signor Coso. “Ha portato il denaro?” “È qui,” lui disse paziente, perché era paziente, al capitano Dortmund. “Adesso lei fa scendere il suo amico e gli fa mettere la valigia con la roba, lì, sul bordo della strada. Intanto che lei controlla se io le ho portato il denaro giusto, io controllerò se mi ha portato la roba giusta.” Era la regola di quelle consegne, lui non faceva nulla di anormale e in piedi, vicino alla valigia piena di giornali, illuminato dalla scialba luce dei fanalini della multipla, attese. Avvenne quello che prevedeva: il grassone con la valigia con dentro tremila grammi di cocaina purissima, scese dall'auto, e nello stesso tempo a trecento metri di distanza, dalla decappottabile, il morettone con la sua carabina a telescopio faceva centro in piena tempia destra dell'uomo, che per un attimo rimase ancora in piedi, morto ma in piedi, per puro equilibrio meccanico, poi scivolò fuori dello stradone, nell'erba del fossatello, con la sua valigia. “No, capitano Dortmund, stai fermo lì, dentro la macchina.” Con la lunga e piatta rivoltella lui saltò dentro la multipla, spinse la lunga canna nel fegato del signor Coso, sedendo davanti al volante. “Io non sono il capitano Dortmund, sono il colonnello Dortmund,” disse
quello, con tranquilla sfrontatezza. “Come fa a sapere il mio nome?” “Le domande le faccio io. Voglio sapere se sei davvero il capitano, promosso colonnello Dortmund. Rispondi solo sì o no.” II pugno che gli dette in pieno naso provocò una colata di sangue, e una completa obbedienza. “Sì, sono io.» “Tu hai fatto la guerra in Italia?” “Sì, nel 1944.” “E sei stato sul lago di Como?” “Sì, Gravedona.” “Sorvegliavi con la tua compagnia di SS fino al confine con la Svizzera?” “Sì. Facevo il mio dovere.” “E nel tuo dovere c'era quello di bruciare vivi dei poveri ragazzi?” Lo afferrò per i pochi capelli che il promosso colonnello Dortmund aveva alla nuca. “Ricordati di Passo Iorio, ricordati di quei poveretti che hai fatto bruciare col lanciafiamme, ricordati di Cuore Infranto.” Parlava in fondo senza rabbia, e senza rabbia gli sbatté la faccia contro il parabrezza, che si ruppe, e l'uomo svenne un momento, poi scese di macchina: cominciavano a passare sullo stradone molte macchine, camion, autocisterne, auto, ma lui non se ne curava, tanto non potevano vedere molto. Se uno non è pratico, incendiare una macchina è difficilissimo, potete metterla a bagno nella benzina e magari non vi prende fuoco, ma lui era pratico, l'aveva imparato appunto in guerra. Sollevò, dietro, il coperchio del motore che era in moto, staccò un tubicino e accese il suo accendino. La multipla si vestì subito di fiamme. Stette un attimo a guardare il capitanocolonnello Dortmund che appena avvolto dalle fiamme riprese i sensi e tentò di uscire dalla vettura, ma aveva preso troppi colpi per averne le forze e restò dentro, al caldo — “Avete freddo, ragazzi, adesso vi scalderò subito,” aveva detto nel 1944 — mentre un paio di camion passavano senza fermarsi. Quando si fermò la prima auto per portare soccorso, non solo il capitanocolonnello Dortmund non era più che un tizzone d'inferno, ma Cuore Infranto, il dottor Mario Zusini, era già molto lontano, vicino alla sua signora Lara, e al suo autista che andava a circa centosessanta. Adesso che era fatta, poteva dirglielo, pensò lui, mentre la macchina correva: a cose fatte non ci si spaventa più. “Era il capitano Dortmund, te lo ricordi?”