Jack Vance
L'Ultimo Castello The Last Castle © 1994 Il Fantastico Economico Classico - N° 20 - 28 maggio 1994
Capitolo...
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Jack Vance
L'Ultimo Castello The Last Castle © 1994 Il Fantastico Economico Classico - N° 20 - 28 maggio 1994
Capitolo 1. 1. Verso la fine di un tempestoso pomeriggio estivo, con il sole uscito finalmente dalla cortina di nuvoloni neri, il Castello di Janeil era stato preso, e i suoi abitanti sterminati. Quasi fino all'ultimo le fazioni all'interno dei Clan del castello avevano dibattuto su come andare incontro degnamente al Destino. I Nobili e i Dignitari più importanti avevano scelto di ignorare completamente quelle circostanze poco decorose, e si erano dedicati alle loro normali attività con il medesimo puntiglio del solito. Alcuni Cadetti, disperati fino al punto di arrivare all'isterismo, avevano preso le armi e si erano preparati a resistere all'assalto finale. Altri ancora, forse un quarto della popolazione totale del castello, avevano aspettato passivamente, pronti — quasi con felicità — a espiare i peccati della razza umana. Alla fine la morte era giunta allo stesso modo per tutti, e tutti avevano tratto dalla propria fine la massima soddisfazione che quel processo essenzialmente privo di grazia poteva offrire loro. I più orgogliosi erano rimasti seduti a sfogliare le pagine dei loro bei libri, a discutere le qualità di un'essenza vecchia di un secolo, o a vezzeggiare la loro Phane preferita, ed erano morti senza degnare del minimo interesse quel fatto. Le teste calde si erano lanciate sul pendio fangoso che, contro ogni logica razionale, si trovava sui parapetti di Janail. Gran parte di loro era stata travolta dai detriti che cadevano giù, ma qualcuno era riuscito a raggiungere la cresta e a colpire con il moschetto, con l'ascia o col pugnale finché non era stato colpito a sua volta, schiacciato dai carri motori, ucciso a colpi di accetta o pugnalato. I pentiti avevano atteso nella posizione classica dell'espiazione, in ginocchio, con la testa china, ed erano morti o così avevano creduto — in un processo in cui i Mek erano i simboli e il peccato umano la realtà. Jack Vance
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Alla fine erano morti tutti: i Cavalieri, le Dame, le Phane nei padiglioni, i Contadini nelle stalle. Tra tutti coloro che avevano abitato il Castello di Janeil, solo gli Uccelli erano sopravvissuti: creature sgraziate, goffe e rauche, dimentiche dell'orgoglio e della fede, più preoccupate della salvezza della loro pelle che di quella della dignità del castello. Mentre i Mek sciamavano giù dai parapetti, gli Uccelli lasciarono i loro ripari e, gracidando degli insulti, si involarono a Est verso Hagedorn, che ormai era l'ultimo castello della Terra.
2. Quattro mesi prima, i Mek erano comparsi nel parco davanti a Janeil, reduci del massacro dell'Isola del Mare. Chi era salito sulle torrette e sulle balconate, chi era a passeggio per la Promenade del Tramonto, chi si trovava sui bastioni e sui parapetti, i Cavalieri e le Dame di Janeil, circa duecento in tutto, avevano osservato dall'alto i guerrieri bronzei. Il loro stato d'animo era difficile da definire: divertita indifferenza, insolente disprezzo, un sostrato di dubbio e di presagi. Tre reazioni che erano il frutto di tre circostanze fondamentali: la loro cultura squisita, la sicurezza data loro dalle mura di Janeil, e il fatto che non riuscivano a immaginare nulla che potesse cambiare tali circostanze. I Mek di Janeil erano partiti già da tempo per unirsi alla rivolta, ed erano rimasti soltanto le Phane, i Contadini e gli Uccelli con i quali organizzare una fattispecie di forza punitiva. Al momento non sembrava che ce ne fosse bisogno, perché Janeil era reputato inespugnabile. Le mura, alte duecento piedi, erano fatte di roccia fusa ingabbiata in reti realizzate con una lega d'acciaio azzurro-argento. Le cellule solari fornivano l'energia a tutto il castello e, in caso di emergenza, era possibile sintetizzare il cibo dal diossido di carbonio e dal vapore acqueo, nonché lo sciroppo per le Phane, per i Contadini e per gli Uccelli. Ma nessuno prevedeva una simile eventualità. Janeil era autosufficiente e sicuro, sebbene potesse sorgere qualche inconveniente quando le macchine si rompevano e non c'erano i Mek che le riparassero. La situazione, in tal caso, era seccante, ma mai disperata. Durante il giorno, i Nobili che ne avevano avuto voglia avevano preso le pistole a energia e i fucili sportivi, e avevano ucciso il maggior numero di Jack Vance
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Mek che la gittata massima delle loro armi consentiva. Dopo il tramonto, i Mek avevano preso i carri e le motrici terrestri, cominciando a erigere una barriera intorno a Janeil. La gente del castello li guardava senza capire, finché la barriera raggiunse l'altezza di ottocento piedi e la terra cominciò a cadere giù dalle mura. Allora il piano dei Mek divenne evidente, e l'indifferenza cedette il posto a uno sgradevole presentimento. Tutti i Nobili di Janeil erano eruditi in almeno una scienza: c'erano di sicuro dei matematici, mentre altri avevano compiuto uno studio profondo delle scienze fisiche. Alcuni di questi, con un gruppetto di Contadini per compiere la fatica fisica vera e propria, cercarono di rimettere in funzione il cannone a energia. Sfortunatamente, il cannone non era stato conservato in buon ordine: diversi pezzi erano rimasti danneggiati o corrosi. Presumibilmente, tali componenti potevano essere sostituiti con altri presso i negozi dei Mek, che si trovavano al secondo sotto-livello, ma nessuno del gruppo conosceva il sistema di nomenclatura e di immagazzinaggio dei Mek. Warrick Madency Arban1 [1 Arban, della Famiglia Madency, del Clan dei Warrick.] propose che un drappello di Contadini cercasse in magazzino, tuttavia, a causa delle limitate capacità mentali dei Contadini, non fu possibile fare niente, e l'intero piano di rimettere in funzione il cannone a energia si risolse in un niente di fatto. I Nobili di Janeil guardavano affascinati la terra che si ammucchiava sempre più alta intorno a loro in un monticello circolare simile a un cratere. L'estate volgeva al termine, e un giorno di pioggia la terra e i detriti arrivarono oltre i parapetti, e cominciarono a cadere giù nei cortili e nelle piazze. Janeil sarebbe stato ben presto sepolto e soffocato. Fu allora che un gruppo di giovani Cadetti impulsivi, con più impeto che dignità, prese le armi e si lanciò alla carica giù per il pendio. I Mek gettarono loro addosso terra e sassi, ma un pugno di Cadetti riuscì a raggiungere la sommità della barriera, dove combatté con una sorta di furore eroico. Quindici minuti dopo infuriava la battaglia, e la terra si inzuppò di pioggia e di sangue. Per un breve attimo di gloria i cadetti si crearono un varco nella barriera, decisi a non farsi atterrare dai detriti. Ma i Mek si ricompattarono e partirono all'attacco. Rimasero in piedi dieci uomini, poi Jack Vance
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sei, poi quattro, poi uno, poi nessuno. I Mek marciarono sul pendio, arrivarono brulicando sui bastioni e, con cupa veemenza, uccisero tutti coloro che si trovavano all'interno. Janeil, da settecento anni dimora di galanti Cavalieri e graziose Dame, era ridotto a una carcassa inanimata.
3. Il Mek, esposto come un esemplare raro nella vetrina di un museo, era una creatura somigliante ai nativi, nella loro versione originaria, di un pianeta di Etamin. La sua ruvida pelle color bronzo luccicava metallicamente come se fosse stata lucidata con dell'olio o della cera; gli aculei che uscivano tra il cuoio capelluto e il collo splendevano come l'oro e, in realtà, erano ricoperti da una pellicola conduttrice di cromo ramato. I suoi organi sensoriali erano raggruppati all'altezza delle orecchie umane; il suo volto — poteva essere uno shock incontrare all'improvviso un Mek mentre si percorrevano i corridoi inferiori — era un groviglio di muscoli, non dissimile nell'aspetto da un cervello umano scoperto. La bocca, una fessura verticale alla base della «faccia», era un organo obsoleto per via della sacca dello sciroppo che era stata introdotta sotto la pelle delle spalle; gli organi della digestione, usati originariamente per trarre nutrimento dalle foglie marce e dai celenterati, si erano atrofizzati. Il Mek solitamente non portava indumenti, a eccezione, a volte, di un grembiule da lavoro o di una cintura per gli attrezzi, e sotto la luce del sole la sua pelle bronzea brillava piacevolmente. Questo era il Mek da solo, una creatura fondamentalmente produttiva come l'uomo; forse anche di più per via del suo superbo cervello, che funzionava anche come una radio trasmittente. Invece, quando lavoravano in massa, sembravano meno ammirevoli, meno competenti: sembravano degli ibridi tra i subumani e le blatte. Alcuni dotti, particolarmente il D.R. Jardine di Morninglight e Salonson di Tuang, consideravano il Mek mite e flemmatico, ma il saggio Claghorn del Castello di Hagedorn, era di diverso parere. Le emozioni dei Mek, sosteneva Claghorn, erano diverse dalle emozioni umane, e solo vagamente comprensibili all'uomo. Dopo un'attenta ricerca, Claghorn aveva isolato più di una dozzina di emozioni Mek. Jack Vance
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Malgrado tale ricerca, la rivolta dei Mek costituì una assoluta sorpresa perfino per Claghorn, D.R. Jardine e Salonson. Perché? si chiedevano tutti. Come mai un gruppo sottomesso da tanto tempo aveva elaborato un piano tanto rovinoso? L'ipotesi più plausibile era anche la più semplice: il Mek doveva essersi stancato di vivere in servitù, e odiava i Terrestri che lo avevano allontanato dal suo ambiente naturale. Chi si opponeva a tale teoria sosteneva che questa presupponeva emozioni e comportamenti umani da parte di un organismo non umano, e che il Mek aveva ben motivo di provare gratitudine verso i Nobili che lo avevano liberato dalle condizioni in cui era costretto a vivere su Etamin Nove. A questa osservazione, il primo gruppo obiettava: «Chi è che adesso gli attribuisce atteggiamenti umani?». E la risposta degli oppositori era spesso: «Dal momento che nessuno lo sa per certo, è assurdo qualsiasi comportamento ponga in essere».
Capitolo 2. 1. I Clan di Hagedorn, i loro colori e le singole Famiglie: CLAN Xanten
COLORI giallo; nero forte
Beaudry Overwhele
azzurro scuro; bianco acceso grigio; verde; rosso
Aure
marrone; nero
Isseth
porpora; rosso scuro
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FAMIGLIE Haude, Quay, Idelsea, Esledune, Salonson, Roseth Onwane, Zadig, Prine, Fer, Sesune Claghorn, Abreu, Woss, Hinken, Zumbeld Zadhause, Fotergil, Manine, Baudune, Godalming, Lesmanic Mazeth, Floy, LuderHepman, Uegus, Kerrithew, Bethune 1994 - L'Ultimo Castello
Il primo Signore del castello, eletto a vita, viene chiamato «Hagedorn». Il Capo del Clan, scelto tra gli Anziani della Famiglia, prende il nome da quello del proprio Clan, perciò: «Xanten», «Beaudry», «Overwhele», «Aure», «Isseth», sono al tempo stesso i nomi del Clan e degli Anziani. Gli altri Cavalieri e le Dame portano prima il nome del Clan, poi quello della Famiglia, e infine quello proprio. Perciò: Aure Zadhause Ludwick, abbreviato in A.Z. Ludwick, e Beaudry Fer Dariane, abbreviato in B.F. Dariane. Il Castello di Hagedorn sorgeva sulla sommità di una rocca di diorite nera che guardava su un'ampia vallata a Sud. Più grande e più maestoso di Janeil, Hagedorn era protetto da una cerchia di mura lunga un miglio e alta trecento piedi. I parapetti si ergevano a ben novecento piedi dalla valle, e le torri, le torrette e i posti di osservazione erano ancora più alti. La roccia scendeva a picco sulla valle da due lati, quello Est e quello Ovest; le fiancate Nord e Sud, invece, leggermente meno ripide, erano terrazzate, e vi venivano piantate coltivazioni di viti, carciofi, pere e melograni. Un viale che saliva dalla valle girava intorno alla rocca e, passando sotto una porta, arrivava fino alla piazza centrale. Di fronte c'era la grande Rotonda, ai cui lati sorgevano le alte Case delle ventotto Famiglie. Il nucleo originario del castello, costruito immediatamente dopo il ritorno degli uomini sulla Terra, sorgeva sul sito adesso occupato dalla Piazza. Il decimo Hagedorn, radunando un'enorme forza di Mek e di Contadini, aveva fatto costruire le nuove mura, dopodiché aveva fatto demolire l'antico castello. I ventotto Palazzi risalivano a quel periodo, vale a dire cinquecento anni prima. Sotto la piazza c'erano tre livelli di servizio: alla base le stalle e i garage, poi i negozi dei Mek e i loro quartieri, e infine i vari magazzini, depositi e negozi speciali, come il forno, la mescita di birra, il lapidario, l'arsenale e via dicendo. L'attuale Hagedorn, il ventiseiesimo in linea dinastica, era un Claghorn degli Overwhele. La sua elezione aveva suscitato una totale sorpresa perché O.C. Charle, prima di assumere la carica, era stato un Nobile di scarsa presenza. Jack Vance
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Il suo modo di vestire, il suo gusto e la sua erudizione erano del tutto normali, e non si era mai distinto, per nessun pensiero originale e significativo. Le sue proporzioni fisiche erano giuste, la faccia quadrata e ossuta, il naso corto e dritto, la fronte benevola e gli occhi grigi e piccoli. L'espressione del suo viso, normalmente lievemente distratta — i suoi detrattori usavano la parola «assente» — con un semplice abbassamento delle palpebre, e una contrazione verso il basso delle ispide sopracciglia bionde, diventava improvvisamente ostinata e arcigna, un fatto di cui O.C. Charle, o Hagedorn, era inconsapevole. La carica, pur conferendo poca o nessuna autorità formale, esercitava una notevole influenza, e lo stile del Nobile che diventava Hagedorn influenzava tutti. Per questo motivo la scelta dell'Hagedorn era una cosa assai importante, soggetta a una miriade di considerazioni, e il candidato che falliva faceva discutere con imbarazzante candore di qualche sua vecchia scorrettezza o mancanza di tatto. Anche se il candidato poteva non mostrare dell'aperto risentimento, le amicizie venivano inevitabilmente rotte, i rancori aumentavano, e le reputazioni venivano rovinate. L'elezione di O.C. Charle rappresentava un compromesso tra le due fazioni degli Overwheles, il Clan sul quale era caduto il privilegio della scelta. I Nobili rispetto ai quali O.C. Charle rappresentava un compromesso erano entrambi altamente stimati, ma si distinguevano per un atteggiamento radicalmente diverso verso la vita. Il primo era l'ingegnoso Garr della Famiglia Zumbeld: incarnava i tradizionali valori del Castello di Hagedorn: esperto conoscitore di essenze, vestiva con gusto indiscusso, mai una piega o una grinza nel caratteristico costume degli Overwhele. Univa indifferenza e sensibilità a dignità; la sua conversazione era intessuta di brillanti riferimenti e giri di parole; la sua arguzia, quando veniva stimolata, sapeva essere assolutamente mordace. Sapeva citare le più importanti opere letterarie; suonava abilmente il liuto a nove corde, e perciò veniva continuamente richiesto alla Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato. La sua erudizione in fatto di antiquariato non aveva eguali, e conosceva la località di tutte le città più importanti della Vecchia Terra, e poteva parlare per ore della storia dei tempi antichi. La sua perizia militare era ineguagliata ad Hagedorn, e soltanto D.K. Magdah del Castello di Delora, e forse Brusham di Tuang, erano in grado di Jack Vance
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competere con lui. Difetti? Debolezze? Ne aveva pochi: un'eccessiva puntigliosità che poteva diventare irascibilità, e un'incrollabile ostinazione che rasentava la crudeltà. Nessuno poteva giudicare O.Z. Garr scialbo o indeciso, e il suo coraggio era indiscutibile. Due anni prima, una banda di Nomadi si era avventurata nella Valle di Lucerne, massacrando i Contadini, rubando il bestiame e spingendosi fino al punto di tirare una freccia nel petto di un Cadetto Isseth. O.Z. Garr aveva subito radunato un gruppo punitivo di Mek, li aveva caricati su una decina di carri, ed era partito in cerca dei Nomadi, raggiungendoli finalmente vicino al fiume Drene, presso le rovine della Cattedrale di Worster. I Nomadi avevano opposto una resistenza e una perizia inaspettate, rifiutandosi di tagliare la corda e fuggire. Durante il combattimento, O.Z. aveva dato prova di un contegno esemplare, dirigendo l'attacco seduto sul proprio carro e facendosi proteggere dalle frecce da due Mek armati di scudo. La lotta si era risolta con la disfatta dei Nomadi; questi avevano lasciato sul campo ventisette cadaveri avvolti nei mantelli neri, mentre soltanto venti Mek avevano perso la vita. L'avversario di O.Z. Garr era Claghorn, il maggiore della Famiglia Claghorn. Così come avveniva con O.Z. Garr, le squisite differenziazioni della società di Hagedorn si applicavano a Claghorn con la stessa facilità con cui nuota un pesce. Aveva la medesima cultura di O.Z. Garr, sebbene non fosse versatile come lui; il suo campo di studio principale, infatti, erano i Mek, la loro fisiologia, i loro usi linguistici e il loro sistema sociale. La conversazione di Claghorn era più profonda, ma meno divertente e tagliente di quella di O.Z. Garr; di rado ricorreva ai topoi e ai riferimenti insoliti che caratterizzavano la dialettica di Garr, preferendo uno stile disadorno. Claghorn non aveva Phane; le quattro Ricercatezze di Gossamer possedute da O.Z. Garr erano delle autentiche meraviglie e, alla Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato, le offerte di Garr venivano di rado superate. La differenza principale tra i due uomini era rappresentata dalla loro concezione filosofica. O.Z. Garr, un Tradizionalista, tipico esempio della sua società, accettava i suoi dogmi senza riserve. Non provava alcun senso di colpa, né aveva dubbi, e non aveva alcun desiderio di modificare le Jack Vance
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condizioni sociali che consentivano a più di duecento tra Dame e Cavalieri di vivere nel lusso. Claghorn, pur non essendo un Espiazionista, era risaputo che provava una certa insoddisfazione per il generale tenore di vita del Castello di Hagedorn, e le sue argomentazioni erano così convincenti, che molte persone si rifiutavano di ascoltarlo, sostenendo che sentire quei discorsi le infastidiva. Ma in profondità fermentava un indefinibile malessere, e Claghorn aveva molti sostenitori influenti. Quando giunse il momento della votazione, né O.Z. Garr né Claghorn riuscirono a ottenere un appoggio sufficiente. La carica, alla fine, venne conferita a un Nobile che neanche nelle più ottimistiche previsioni se l'era aspettato: un uomo pieno di decoro e di dignità, ma dotato di poca profondità: non era insolente, ma non mostrava alcuna vivacità; era affabile, ma poco propenso a far arrivare una disputa a una conclusione spiacevole. O.C. Charle, era il nuovo Hagedorn. Sei mesi dopo, durante le ore buie che precedevano l'alba, i Mek di Hagedorn evacuarono i propri quartieri e partirono, portando con sé i carri, gli attrezzi, le armi e l'equipaggiamento elettrico. L'azione doveva essere stata progettata da molto tempo, perché i Mek degli altri otto castelli se ne andarono nello stesso momento e allo stesso modo. La prima reazione al Castello di Hagedorn — come altrove — fu l'incredulità, poi la rabbia impotente, e alla fine — quando le conseguenze del gesto furono valutate appieno — un senso di premonizione e di calamità. Il nuovo Hagedorn, i Capi dei Clan e altri notabili nominati da Hagedorn, si riunirono in Camera di Consiglio per valutare la situazione. Si sedettero intorno a un grosso tavolo coperto di velluto rosso: Hagedorn a capotavola, Xanten e Isseth alla sua sinistra, Overwhele, Aure e Beaudry alla sua destra, e poi tutti gli altri, incluso O.Z. Garr, I.K. Linus, A.G. Bernal, un matematico di grande bravura, e B.F. Wyas, un antiquario della medesima sagacia che aveva identificato i siti originari di molte antiche città, come Palmira, Lubecca, Eridu, Zanesville, Burton-on-Trent e Massilia. Completavano il Consiglio alcuni Anziani delle Famiglie: Marune e Baudane di Aure, Quay, Roseth e Idelsea di Xanten, Uegus di Isseth, Claghorn di Overwhele. Rimasero tutti seduti in silenzio per una decina di minuti, preparando le proprie menti e compiendo silenziosamente quell'atto di adattamento fisico Jack Vance
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chiamato intrazione. Alla fine Hagedorn prese la parola. «Il castello si è improvvisamente svuotato dei suoi Mek. Inutile dire che si tratta di una situazione scomoda che bisogna risolvere il più in fretta possibile. Su questo punto, ne sono certo, ci troviamo tutti d'accordo!» Si guardò intorno. Tutti i presenti girarono le loro tavolette d'avorio scolpito per indicare il proprio assenso... tutti tranne Clagehorn, il quale, tuttavia, non la capovolse nemmeno in segno di dissenso. Isseth, un Nobile fiero dai capelli bianchi, veramente bello malgrado i suoi settant'anni, parlò con voce cupa. «Non vedo perché tentennare o ritardare. Quello che dobbiamo fare è chiaro. Come sappiamo, i Contadini sono un ben scarso materiale con cui costituire una forza armata. Ciononostante, dobbiamo radunarli, fornirli di sandali, camicie e armi, onde non abbiamo a dovercene vergognare, e procurare loro un bravo condottiero: O.Z. Garr o Xanten. Gli Uccelli possono localizzare i fuggitivi, dopodiché noi li inseguiremo, ordineremo ai Contadini di dare loro qualche bella legnata, e poi li ricondurremo a casa in tutta tranquillità.» Xanten, un Nobile di trentacinque anni — straordinariamente giovane per essere un Capo Clan — notoriamente impulsivo, scosse la testa. «L'idea è allettante ma poco pratica. I Contadini non riuscirebbero mai a sopraffare i Mek, per quanto possiamo addestrarli», disse. Era un'asserzione molto precisa. I Contadini, dei piccoli esseri antropomorfi originari di Spica Dieci, non erano tanto timidi, quanto incapaci di compiere un'azione malvagia. Un profondo silenzio regnò sul tavolo. Alla fine parlò O.Z. Garr. «Quei cani hanno rubato i nostri carri, altrimenti sarei tentato di andare a riacciuffare quei ribaldi per riportarli a casa a suon di frustate.»2 [2 Questa traduzione, soltanto approssimativa, non riesce a rendere l'asprezza del linguaggio. Diverse parole non hanno un corrispettivo odierno. "Skirling" denota una fuga disordinata e caotica in tutte le direzioni, accompagnata da un sussulto, un movimento rapido o brusco. "Volith" significa girare oziosamente intorno all'argomento, la cui implicazione è che la persona che lo fa è di una tale potenza da sminuire ogni difficoltà facendola apparire una deprecabile sciocchezza. I "Raudlebog" sono le creature semi-intelligenti di Etamin Quattro, le quali vennero portate sulla Terra, imparando in un primo tempo a fare i giardinieri, e successivamente i Jack Vance
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muratori, e poi furono rispedite a casa in disgrazia per via di certe abitudini ripugnanti che non vollero abbandonare. L'affermazione di O.Z. Garr, perciò avrebbe approssimativamente il seguente significato: «Se avessi a disposizione i carri, cavalcherei pigramente con un frustino per rimandare quei raudlebog a casa loro».] «Una cosa che mi lascia perplesso», disse Hagedorn, «è lo sciroppo. Ovviamente ne hanno portato via quanto potevano. Ma quando sarà finito? Moriranno di fame? Per loro è impossibile tornare all'alimentazione originaria. Che cos'era? Fango di palude? Ehi Claghorn: sei tu l'esperto in questo campo. I Mek possono tornare a nutrirsi di fango?» «No», disse Claghorn. «Gli organi degli adulti si sono atrofizzati. Forse potrebbe sopravvivere un cucciolo, se venisse abituato a farlo fin dall'inizio.» «Proprio come avevo pensato.» Hagedorn, così dicendo, lanciò uno sguardo accigliato ai propri pugni per dissimulare la sua totale mancanza di proposte costruttive. Apparve sulla porta un Nobile in abito azzurro scuro: i colori dei Beaudry. Si fermò, alzò il braccio destro e poi si inchinò, in modo da sfiorare il pavimento con le dita. Hagedorn si alzò in piedi. «Vieni avanti, B.F. Robarth; quali notizie ci porti?» Questo infatti era il significato della genuflessione del nuovo venuto. «Ci è arrivato un messaggio da Halcyon. I Mek hanno attaccato; hanno dato fuoco al castello e stanno uccidendo tutti. La radio ha smesso di funzionare un minuto fa.» Si girarono tutti, e qualcuno saltò in piedi. «Uccidendo?», ripeté Claghorn. «Sono certo che oramai Halcyon non esiste più.» Claghorn si rimise seduto, fissando il vuoto. Gli altri cominciarono a discutere la notizia pieni di orrore. Hagedorn richiamò all'ordine il Consiglio. «Ci troviamo, chiaramente, in una situazione di estremo pericolo... la più pericolosa, forse, di tutta la nostra storia. Sarò sincero: non sono in grado di suggerirvi nessuna mossa valida per contrattaccare.» Overwhele volle sapere: «E gli altri castelli? Sono al sicuro?». Hagedorn si rivolse a B.F. Robarth. Jack Vance
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«Pensi di riuscire a stabilire un contatto radio generale con tutti gli altri castelli per sapere in che condizioni si trovano?» Xanten disse: «Gli altri castelli sono vulnerabili come Halcyon. Soprattutto l'Isola del Mare e Delora, e anche Maraval». Claghorn si scosse dai suoi pensieri. «I Cavalieri e le Dame di questi castelli, secondo me, dovrebbero valutare la possibilità di rifugiarsi a Janeil, oppure qui, finché la rivolta non sarà stata domata.» Gli altri lo guardarono con sorpresa e stupore. O.Z. Garr, con la più serica delle voci, gli domandò: «Vorresti che i Nobili di questi castelli fuggissero di fronte alla tracotanza di quelle creature inferiori?». «Proprio così, se desiderano salvarsi», rispose Claghorn educatamente. Per essere un Nobile di mezza età, Claghorn aveva un fisico forte e robusto; i capelli grigio-neri, i magnifici occhi verdi e il contegno, lasciavano pensare a una grande forza interna tenuta sotto un severo controllo. «La fuga, per definizione, implica una certa perdita di dignità», proseguì. «Se O.Z. Garr ci può suggerire una maniera più elegante di darsela a gambe, sarò ben felice di conoscerla, e anche tutti gli altri dovrebbero prestargli ascolto perché, nei prossimi giorni, questa abilità potrebbe essere la salvezza per tutti.» Hagedorn intervenne prima che O.Z. Garr potesse rispondere. «Non divaghiamo. Confesso che non riesco a prevedere come finirà. I Mek si sono dimostrati degli assassini: come faremo a farli tornare al nostro servizio? Se però non ci riusciremo... la nostra situazione sarà ben difficile finché non avremo trovato e addestrato un nuovo gruppo di tecnici per non dire di peggio. Dobbiamo rifletterci sopra attentamente.» «Le navi spaziali!», esclamò Xanten. «Dobbiamo occuparcene subito!» «Cos'è questa novità?», domandò Beaudry, un Nobile dalla faccia squadrata. «Che significa che dobbiamo "occuparcene"?» «Dobbiamo proteggerle da eventuali danneggiamenti! Che altro? Sono il nostro unico collegamento con i nostri Mondi Natali. I Mek che provvedono al loro mantenimento probabilmente non avranno lasciato gli hangar, in quanto, se hanno in mente di sterminarci, cercheranno di impedirci di arrivare alle navi spaziali.» Jack Vance
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«Saresti forse disposto a recarti agli hangar con un gruppo di Contadini e assumerne il controllo?», chiese O.Z. Garr in tono leggermente sprezzante. Tra lui e Xanten esisteva una vecchia rivalità e un reciproco disprezzo. «Potrebbe essere la nostra unica speranza», disse Xanten. «Tuttavia... come si fa a combattere con dei semplici Contadini? Sarà meglio che corra agli hangar a fare un giro di perlustrazione. Nel frattempo tu e tutti quelli che hanno esperienza militare, potreste occuparvi del reclutamento e dell'addestramento dei Contadini.» «Riguardo a questo», dichiarò O.Z. Garr, «attendo la decisione del Consiglio. Se la tua si rivelerà una buona proposta, naturalmente metterò a completa disposizione tutte le mie capacità. Se invece le tue si esprimono meglio spiando le mosse dei Mek, spero che sarai disposto a fare altrettanto.» I due Nobili si fissarono negli occhi. Un anno prima la loro inimicizia era quasi sfociata in un duello. Xanten, un tipo alto, snello e nervoso, aveva il dono naturale di un grande gusto, ma al tempo stesso aveva un carattere troppo semplice per arrivare all'eleganza assoluta. I Tradizionalisti lo consideravano uno sthross, un termine questo che stava a indicare una personalità rovinata da una mollezza quasi impercettibile e dalla mancanza di puntiglio: di sicuro non era la scelta migliore come Capo Clan. La risposta di O.Z. Garr fu blanda e cortese. «Sarò felice di assumermi questo compito. Giacché la rapidità d'esecuzione ne è la chiave, accetterò il rischio di venire accusato di avventatezza e partirò immediatamente. Spero di tornare a fare rapporto domani.» Quindi si alzò, fece un cerimonioso inchino a Hagedorn, rivolse un altro saluto collettivo al Consiglio e se ne andò. Si diresse alla Casa degli Esledune, dove possedeva un appartamento situato al tredicesimo livello, consistente in quattro camere arredate in stile Quinta Dinastia, lo stile che si era affermato all'epoca della storia dei Pianeti Natali di Altair da dove la razza umana aveva fatto ritorno sulla Terra. La sua attuale consorte, Araminta, una Dama della Famiglia Onwane, era fuori per faccende personali, il che non gli dispiacque affatto. Dopo averlo assillato con le sue domande, infatti, Araminta non avrebbe creduto alla sua semplice spiegazione, preferendo sospettare che l'avessero Jack Vance
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assegnato a un posto di campagna. A dire la verità, aveva cominciato a stufarsi di Araminta, e aveva motivo di credere che la pensasse così anche lei... o forse il suo rango le aveva fornito meno opportunità di partecipare alla vita di società così come aveva creduto. Non avevano avuto figli: ad Araminta era stata assegnata la figlia che aveva avuto da una relazione precedente. Un secondo figlio, quindi, doveva essere assegnato a Xanten, impedendogli così di mettere al mondo un altro bambino3. [3 La popolazione di hagedorn era fissa; ad ogni Nobile e Dama veniva consentito un solo figlio. Se eventualmente nasceva un secondo, il genitore doveva trovare qualcuno che non aveva ancora procreato al quale affidarlo, oppure doveva disporne in altro modo. La procedura consueta era quella di affidarlo agli Espiazionisti.]. Xanten si tolse gli abiti gialli che aveva indossato per partecipare alla riunione del Consiglio e, aiutato da un giovane Contadino, si infilò un paio di pantaloni da caccia di colore giallo scuro col bordo nero, una giacca nera, e stivali neri. Si mise poi un cappello di morbida pelle nera e si infilò al braccio una borsa che riempì di armi: un coltello a molla e un fucile a energia. Dopo aver lasciato l'appartamento, chiamò l'ascensore e scese all'armeria del primo livello, dove normalmente avrebbe trovato un Mek pronto ad assisterlo. Ma, con suo sommo disgusto, Xanten si trovò costretto ad andare dietro al banco e a cercare da solo tra gli scaffali. I Mek avevano portato via quasi tutti i fucili sportivi, i caricatori e le pistole a energia pesante: un particolare inquietante, rifletté Xanten. Alla fine trovo un frustino d'acciaio, dei proiettili per la sua pistola, un lanciagranate e un potente binocolo. Tornato all'ascensore, salì fino all'ultimo livello, riflettendo su quanto sarebbe stata faticosa la salita se il macchinario si fosse rotto senza neanche un Mek a ripararlo. Pensò a quanto si sarebbero infuriati i rigidi Tradizionalisti come Beaudry e ridacchiò: li aspettavano giorni ricchi di sorprese! Quando fu arrivato all'ultimo livello, si portò ai parapetti e cercò la sala delle trasmissioni radio. Di solito tre tecnici Mek collegati all'apparecchiatura mediante dei fili agganciati ai loro aculei trascrivevano i messaggi non appena arrivavano; adesso c'era B.F. Robarth in piedi davanti all'apparecchiatura, impegnato a girare le manopole senza sapere bene che cosa fare, con la bocca serrata dalla rabbia e dal disgusto che quel Jack Vance
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lavoro gli ispirava. «Ci sono novità?», chiese Xanten. B.F. Robarth gli rispose con una smorfia. «Quelli che stanno dall'altra parte di questo dannato groviglio di fili sembra ne sappiano quanto me. Di tanto in tanto sento delle voci. Credo che i Mek stiano attaccando il Castello di Delora.» Claghorn era entrato nella sala dietro a Xanten. «Ho sentito bene? Abbiamo perso il Castello di Delora?» «Non ancora, Claghorn. Ma ci siamo quasi. Le mura di Delora sono poco più resistenti della carta velina.» «Che situazione irritante!», si lamentò Xanten. «Come possono delle creature senzienti fare tanto male? Dopo tutti questi secoli, quanto sappiamo poco, in realtà, su di loro!» Mentre parlava si accorse di aver fatto un'osservazione senza tatto, dal momento che Claghorn aveva dedicato tanto tempo allo studio dei Mek. «Il fatto di per sé non è sorprendente», tagliò corto Claghorn. «È successo centinaia di volte nella storia umana.» Leggermente colpito dal fatto che Claghorn prendesse spunto dalla storia umana in riferimento a un caso che vedeva coinvolti degli esseri inferiori, Xanten gli chiese: «Non ti eri mai accorto di questo aspetto malvagio nella natura del Mek?». «No. Mai. Davvero!» Claghorn sembrava un po' troppo sensibile, pensò Xanten. Era comprensibile, dopotutto. La tesi fondamentale di Claghorn, da lui esposta durante la scelta dell'Hagedorn, non era affatto semplice, e Xanten non l'aveva capita, né approvava del tutto quelli che immaginava fossero i suoi fini; ma era chiaro che la rivolta dei Mek aveva tolto a Claghorn il terreno sotto i piedi. Il tutto probabilmente con una certa soddisfazione di O.Z. Garr, che doveva ritenere finalmente vendicate le sue dottrine di Tradizionalista. Claghorn disse seccamente: «La vita che stavamo conducendo non poteva durare in eterno. È un miracolo che sia durata tanto». «Forse è vero», disse Xanten in tono conciliante. «Comunque, non ha importanza. Tutto cambia. Chi lo sa? Forse i Contadini stanno pensando di avvelenarci il cibo... Ma ora devo andare.» Jack Vance
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Fece quindi un inchino a Claghorn, il quale gli rispose con un rigido cenno del mento, e a B.F. Robarth, poi uscì dalla sala. Salì la scala a chiocciola che conduceva nel posto dove gli Uccelli vivevano, in un disordine incredibile, litigando, giocando a dadi e a una specie di gioco degli scacchi che aveva regole incomprensibili per qualunque Nobile avesse cercato di capirle. Il Castello di Hagedorn aveva un centinaio di Uccelli, accuditi da una squadra di pazienti Contadini che gli Uccelli consideravano con disprezzo. Gli Uccelli erano creature garrule, dal pigmento rosso, giallo o azzurro, con dei lunghi colli, teste retrattili e curiose, e un'innata irriverenza che nessuna disciplina o tutela poteva domare. Mentre spiavano Xanten, scoppiarono in un coro gracchiante e beffardo: «Qualcuno vuole un passaggio! Si tratta di una creatura pesante!». «Perché i due-piedi sacri non si fanno crescere le ali?» «Amico mio, non fidarti mai di un Uccello! Ti porteremo fino in cielo e poi ti scaglieremo giù!» «Silenzio!», ordinò Xanten. «Mi servono sei Uccelli veloci e silenziosi per una missione importante. C'è qualcuno tra di voi capace di svolgere questo compito?» «Se c'è qualcuno capace, chiede lui!» «Un ros ros! Quando non voliamo da una settimana!» «Silenzio? Te lo diamo noi il silenzio, giallo e nero!» «Avanti, allora. Tu. E tu. Poi quello con quell'occhio furbo. E anche quello laggiù. E tu con le spalle abbassate. Per finire con quello dal fiocco verde. Nel cesto, su!» Gli Uccelli prescelti, brontolando beffardi, permisero ai Contadini di riempire le loro sacche dello sciroppo, quindi volarono verso il sedile di vimini dove li aspettava Xanten. «Allo spazioscalo di Vincenne», disse loro il Nobile. «Volate in alto e in silenzio. I nemici non sono lontani. Dobbiamo scoprire se sono stati arrecati danni alle navi spaziali.» «Allo scalo, allora!» Ogni Uccello afferrò una cima di corda legata a una cornice aerea; la sedia venne issata con una strattonata fatta apposta per far battere i denti di Xanten, e poi i volatili si alzarono, ridendo, accusandosi reciprocamente di non sostenere la propria parte di carico, ma adattandosi finalmente al compito sbattendo trentasei paia di ali coordinatamente. Con sollievo di Xanten, smisero di ridere, e in silenzio si diressero a Sud, alla velocità di circa sessanta miglia all'ora. Il pomeriggio volgeva già al tramonto. L'antico paesaggio, teatro di Jack Vance
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migliaia di arrivi e partenze, di trionfi così come di disastri, era coperto da lunghe ombre nere. Guardando giù, Xanten rifletté che, malgrado la razza umana fosse nata lì, e nonostante i suoi antenati più prossimi ne avessero mantenuto il possesso per settecento anni, la Terra sembrava ancora un mondo alieno. La ragione, ovviamente, non era né misteriosa né paradossale. Dopo la Guerra delle Sei Stelle, la Terra era rimasta incolta e disabitata per trecento anni, fatta eccezione per un pugno di disperati che erano riusciti a sopravvivere al cataclisma finendo per ridursi in una banda di Nomadi semi barbari. Poi, settecento anni prima, alcuni ricchi Signori di Altair, spinti da ragioni di dissenso politico, ma anche per capriccio, avevano deciso di tornare sulla Terra. Era questa l'origine delle nove roccaforti, della nobiltà che vi risiedeva e delle squadre di andromorfi specializzati... Xanten volava su un'area dove un archeologo aveva diretto certi scavi, scoprendo una piazza lastricata con pietre bianche, un obelisco rotto, una statua caduta... Quella vista, per una sorta di associazione, evocò nella mente di Xanten una visione stupefacente, semplice eppure così grande, da farlo guardare intorno, in ogni direzione, con nuovo interesse. La vista era quella della Terra ripopolata dagli uomini, del suolo coltivato, mentre i Nomadi erano stati ricacciati nel deserto. Per il momento era un'immagine inverosimile, e Xanten, mentre osservava i tenui contorni della Vecchia Terra allontanarsi sotto di lui, rifletté sulla rivolta dei Mek, che aveva cambiato la sua vita con brutale repentinità. Claghorn aveva sempre sostenuto che nessuna condizione umana può durare per sempre, con il corollario che, tanto più è complicata, maggiore è la sua predisposizione al cambiamento. In tal caso i settecento anni al Castello di Hagedorn — per quanto la vita che vi si svolgeva potesse essere artificiosa, stravagante e intricata — diventavano di per sé un fatto stupefacente. Claghorn aveva spinto anche oltre la propria tesi. Dal momento che il cambiamento era inevitabile, arguiva che la Nobiltà dovesse attutire l'impatto anticipando e controllando il cambiamento... una dottrina che era stata osteggiata con grande fervore. I Tradizionalisti etichettavano tutte le idee di Claghorn come sbagliate o, peggio ancora, in malafede, e citavano la stabilità del castello a riprova della sua vitalità. Xanten prima aveva assunto una posizione, e poi un'altra, Jack Vance
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senza sentirsi emotivamente coinvolto da nessuna delle due. Semmai, il Tradizionalismo di O.Z. Garr lo aveva fatto avvicinare alle idee di Claghorn, che adesso gli eventi sembravano vendicare. Il cambiamento infatti era arrivato, con un impatto violento e brutale. Gli Uccelli stavano virando a Est per evitare i Monti Ballarat, a occidente dei quali si trovavano le rovine di una grande città, che nessun archeologo era ancora riuscito a identificare con certezza. In basso si apriva la Valle di Lucerne, un tempo una fertile terra da coltivazione. Se si guardava con molta attenzione, a volte era possibile scorgere i confini delle varie tenute. In fondo, erano visibili gli hangar delle navi spaziali, dove i tecnici Mek provvedevano alla manutenzione di quattro navi di proprietà di Hagedorn, Janeil, Tuang, Morninglight e Maraval, nonostante il fatto che, per varie ragioni, non fossero mai usate. Il sole stava tramontando. Una luce arancione luccicava sulle mura metalliche. Xanten diede delle istruzioni agli Uccelli: «Scendete effettuando dei larghi giri. Allineatevi dietro quella fila d'alberi, ma volate bassi, in modo che nessuno vi veda». Gli Uccelli curvarono le loro ali rigide, allungando verso il terreno sei colli sgraziati. Xanten era pronto all'impatto; gli Uccelli, a quanto pareva, non erano mai capaci di atterrare con leggerezza quando portavano un Nobile. Se invece nutrivano per il loro carico un interesse personale, l'atterraggio non avrebbe mosso di un millimetro nemmeno la peluria del tarassaco. Xanten si tenne sapientemente in equilibrio, anziché rotolare per terra con sommo gaudio degli Uccelli. «Prendete tutti lo sciroppo», disse loro. «Riposatevi: non fate rumore e non mettetevi a litigare. Se entro domani al tramonto non sarò di ritorno, tornate al Castello di Hagedorn e dite a tutti che Xanten è stato ucciso.» «Non temere!», gridarono gli Uccelli. «Aspetteremo per sempre!» «A ogni modo, fino a domani al tramonto!» «Se il pericolo ti minaccia, se ti trovi alle strette... Un ros ros ros! Chiama gli Uccelli.» «Un ros! Diventiamo feroci quando ci stuzzicano!» «Vorrei che fosse vero», disse Xanten. «Gli Uccelli sono dei veri codardi, lo sanno tutti. Però apprezzo lo stesso i vostri sentimenti. Ricordate le mie istruzioni e, soprattutto, state zitti! Non vorrei essere sorpreso e ucciso a causa dei vostri strepiti.» Jack Vance
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Gli Uccelli risposero con dei suoni indignati. «È un'ingiustizia! Noi siamo silenziosi come la rugiada!» «Bene.» Xanten si avviò in fretta, prima che gli ammannissero qualche nuovo consiglio o assicurazione. Mentre passava per la foresta, giunse a un prato aperto sul cui bordo, forse a un centinaio di metri di distanza, si vedeva la parte posteriore del primo hangar. Si fermò a riflettere: c'erano diversi fattori da valutare. Primo: i tecnici Mek, con la struttura metallica che li schermava dal contatto radio, potevano essere ancora all'oscuro della rivolta. Poco probabile, decise, considerata l'attenta preparazione del piano. Secondo: i Mek, in continuo collegamento tra loro, agivano come un organismo collettivo. L'aggregazione funzionava meglio delle singole parti, e l'individuo non era portato a prendere iniziative personali. Ne derivava che la sorveglianza doveva essere estrema. Terzo: se si aspettavano l'arrivo di nascosto di qualcuno, avrebbero sorvegliato anche più strettamente la strada che lui si riproponeva di percorrere. Alla fine Xanten decise di aspettare nell'ombra altri dieci minuti, finché il sole, tramontando in tutto il suo splendore sopra di lui, avesse accecato chiunque si trovasse di guardia. I dieci minuti passarono. Gli hangar, infuocati dalla luce che andava scemando, torreggiavano con la loro alta e massiccia struttura, perfettamente silenziosi. Nel prato che lo separava da quei complessi, una brezza fresca agitava e arruffava l'erba lunga e dorata... Xanten respirò profondamente, prese la sacca, controllò le armi e andò avanti. Non gli venne in mente di strisciare nell'erba. Raggiunse il retro dell'hangar più vicino senza essere scoperto. Appoggiando l'orecchio alla parete di metallo, non sentì nessun rumore sospetto. Si portò fino all'angolo e guardò sul lato: nessun segno di vita. Xanten alzò le spalle: benissimo, allora... alla porta. Avanzò rasente il muro, con il sole che proiettava una lunga ombra nera davanti a lui. Arrivò a una porta che conduceva all'ufficio amministrativo dell'hangar. Dal momento che la trepidazione era inutile, Xanten scostò la porta ed entrò. Gli uffici erano deserti. Le scrivanie, dove secoli prima sedevano i subalterni a calcolare le fatture e le bolle di accompagno, erano spoglie e Jack Vance
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senza polvere. I computer e i banchi informazione, la vernice nera, il vetro, gli interruttori bianchi e rossi, erano lustri come se fossero stati installati il giorno prima. Xanten attraversò la sala e raggiunse il pannello di vetro dal quale si vedeva il pavimento dell'hangar, nascosto dall'ombra della nave. Non si vedevano Mek. Sul pavimento dell'hangar, tuttavia, disposti in pile e file ordinate, c'erano i componenti del meccanismo di controllo della nave. I pannelli di servizio si aprivano vuoti dentro lo scafo mostrando da dove erano stati staccati i pezzi. Xanten lasciò l'ufficio e mise piede nell'hangar. La nave spaziale era stata messa fuori uso. Xanten guardò i componenti messi in bella fila. Alcuni tecnici dei diversi castelli conoscevano la teoria del trasferimento spazio-temporale. S.X. Rosenbox di Maraval aveva perfino derivato una serie di equazioni che, se tradotte nella macchina, eliminavano il problema del fastidioso effetto Hamus. Ma non c'era neanche un Nobile, pur incurante del proprio onore al punto di mettere le mani su un attrezzo, che sapesse come rimettere a posto e ricollegare i meccanismi ammucchiati sul pavimento dell'hangar. L'opera nefanda era stata compiuta... ma quando? Impossibile dirlo. Xanten tornò nell'ufficio, uscì al tramonto, e si avviò all'hangar successivo. Di nuovo nessuna traccia dei Mek; di nuovo la nave privata dei comandi. Xanten si diresse al terzo hangar, dove la situazione era identica. Al quarto hangar, udì deboli rumori di attività. Entrando dentro l'ufficio e, guardando dalla parete di vetro dentro l'hangar, scoprì dei Mek al lavoro con la loro tipica indolenza, avvolti da un silenzio quasi inquietante. Xanten, già irritato per essere stato costretto ad avanzare di nascosto nella foresta, divenne livido di collera nel veder distruggere con tanta freddezza una sua proprietà. Si precipitò dentro l'hangar e, battendosi la coscia per richiamare l'attenzione, gridò in tono aspro: «Rimettete i componenti al loro posto! Come osate, esseri spregevoli, fare una cosa simile?». I Mek si girarono lentamente e studiarono con le loro lenti nere bordate di perline che avevano ai lati della testa. «Cosa?», urlò Xanten. «Non volete farlo?» Afferrò allora il suo frustino d'acciaio, che era più un simbolo di potere che uno strumento di punizione, e lo schioccò per terra. «Obbedite! Questa ridicola rivolta è giunta alla fine!» Jack Vance
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I Mek esitavano ancora, e la situazione era in precario equilibrio. Nessuno diceva nulla, anche se si stavano passando dei messaggi per stabilire un accordo. Xanten non poteva permetterlo: venne avanti con il frustino in mano, e colpì i Mek nell'unico punto in cui percepivano il dolore: la faccia filamentosa. «Ai vostri posti!», ruggì. «Siete davvero una bella squadra di manutenzione! Somigliate più a una squadra di demolizione!» I Mek emisero il loro tipico soffio che poteva anche non significare nulla. Arretrarono e, in quel momento, Xanten notò uno di loro in particolare all'imbocco del corridoio d'accesso alle cabine della nave, un Mek grosso come non ne aveva mai visti, e in un certo senso diverso dagli altri. Questo Mek gli stava puntando una pistola a pallottole alla testa. Brandendo con noncuranza il frustino, Xanten allontanò un Mek che gli era saltato addosso con un coltello e, senza preoccuparsi di mirare, colpì e uccise il Mek davanti al corridoio della nave nel momento stesso in cui una pallottola gli fischiava sopra la testa. Gli altri Mek erano comunque decisi lo stesso ad attaccare. Gli furono addosso tutti insieme. Appoggiato sprezzantemente allo scafo della nave spaziale, Xanten li colpiva mentre arrivavano, una volta abbassando la testa per evitare un oggetto di metallo, un'altra allungando la mano per afferrare un coltello e lanciarlo contro chi l'aveva tirato. I Mek indietreggiarono, e Xanten intuì che si erano accordati su una nuova tattica : o per prendere le armi, o forse per chiuderlo dentro l'hangar. In ogni caso, lì dentro non c'era più niente da fare. Cominciò a far schioccare la frusta, e si aprì un varco verso l'ufficio. Tra una pioggia di attrezzi e sbarre di metallo che si abbattevano sul vetro dietro di lui, attraversò zigzagando l'ufficio e uscì nella notte. Stava sorgendo la luna piena, un grosso globo giallo che emanava nebulosa luce color zafferano, simile a quella di una lampada antica. Gli occhi dei Mek non vedevano molto bene al buio, e Xanten attese vicino alla porta. In quell'attimo i Mek cominciarono a riversarsi fuori, e lui li colpiva al collo non appena arrivavano. Poi i Mek tornarono dentro l'hangar. Agitando il coltello, Xanten ripercorse la strada dalla quale era venuto, senza guardarsi né a destra né a sinistra. Dopo un po' si fermò. La notte era giovane. C'era una cosa che gli ronzava nel cervello: l'immagine del Mek che gli aveva sparato con la pistola. Era più grosso, con la pelle probabilmente più scura degli altri, ma il particolare più significativo era Jack Vance
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quel suo mostrare un certo contegno, quasi dell'autorità... sebbene questa parola, applicata ai Mek, suonasse inadatta. D'altra parte, qualcuno doveva pur aver progettato la rivolta, o almeno aver avuto l'idea. Poteva valere la pena accertarsi della sua identità, anche se l'informazione che gli interessava l'aveva già ottenuta. Xanten tornò quindi sui suoi passi e attraversò l'area d'atterraggio, dirigendosi alle baracche e agli hangar. Doveva stare attento un'altra volta. Che tempi! Un Nobile costretto ad appiattirsi nell'ombra per timore dei Mek! Camminò furtivamente a ridosso dei garage, dove sonnecchiava pigramente una mezza dozzina di carri4. [4 I carri, come i Mek - in origine creature di palude di Etamin 9 - erano grosse lastre rettangolari di muscoli, imbracate in una cornice rettangolare e protette dal sole, dagli insetti e dai roditori, da una pelle sintetica. Le sacche dello sciroppo comunicavano con il loro apparato digestivo, e avevano dei fili collegati ai nodi motori del rudimentale cervello. I muscoli erano fissati alle leve oscillanti che azionavano i rotori e le ruote motrici. 1 carri, economici, duraturi e docili, venivano impiegati principalmente per i trasporti pesanti, per i movimenti di terra, per il dissodamento ed altri lavori faticosi.]. Xanten li osservò attentamente. Erano tutti simili: un'intelaiatura di metallo a quattro ruote, con una pala scavatrice sul davanti. Lì vicino doveva esserci il deposito dello sciroppo. Xanten trovò proprio in quel momento un silo che ne ospitava diversi contenitori. Ne caricò una decina su un carro, i rimanenti li squarciò con il coltello, e lo sciroppo fiottò sul terreno. I Mek ne avevano un altro tipo; il loro sciroppo doveva essere custodito in un posto diverso, probabilmente dentro le baracche. Xanten salì su un carro, girò la chiave del risveglio, spinse il bottone della partenza, e tirò una leva che metteva le ruote in movimento all'indietro. Il carro sobbalzò mentre si muoveva. Xanten lo fermò e lo fece girare in modo da metterlo davanti alle baracche. Fece lo stesso con altri tre, quindi li mise in moto tutti, in rapida successione. I carri andarono avanti tagliando con le pale i muri di metallo delle baracche, e il tetto si incurvò, poi proseguirono, schiacciando tutto quello che si trovava all'interno. Xanten annuì, molto soddisfatto, e tornò al carro che aveva riservato per sé. Montò sul sedile e attese, ma neanche un Mek spuntò fuori dalle baracche. A quanto pareva dovevano essere deserte, e tutta la squadra era impegnata negli hangar. Comunque, c'erano buone speranze che i depositi Jack Vance
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di sciroppo fossero andati distrutti, e che molti sarebbero morti di fame. Dagli hangar arrivò un Mek solitario, evidentemente attirato dai rumori, Xanten si abbassò sul sedile, e poi, quando il Mek l'ebbe superato, gli passò la frusta intorno al collo, facendolo cadere a terra. Xanten, saltato giù dal carro, afferrò la sua pistola. Ma ecco arrivare un altro Mek gigantesco, e Xanten si accorse che non aveva la sacca dello sciroppo, perché si trattava di un Mek allo stato originario. Incredibile! Come poteva essere sopravvissuta, quella creatura? Improvvisamente si delineavano dei nuovi interrogativi. Trovandosi sopra la testa della creatura, Xanten staccò i lunghi aculei ad antenna che fuoriuscivano dal cuoio capelluto del Mek. Adesso era isolato dagli altri, solo, con le sue uniche risorse: una situazione che avrebbe ridotto anche il Mek più coraggioso in uno stato d'apatia. «Avanti!», gli ordinò Xanten. «Dietro al carro!» Quindi schioccò la frusta per dare più efficacia all'ordine. Il Mek sulle prime parve propenso a ribellarsi, ma poi, dopo una o due frustate, obbedì. Xanten salì allora sul sedile e mise in moto il carro, dirigendolo a Nord. Gli Uccelli, forse, non sarebbero riusciti a trasportare tutti e due e, a ogni modo, avrebbero gracchiato e si sarebbero lamentati talmente forte da risultare quasi credibili. Potevano esserci come potevano non esserci all'ora prefissata dell'indomani al tramonto; molto probabilmente avrebbero passato la notte su un albero, svegliandosi di pessimo umore e tornando immediatamente al Castello di Hagedorn. Il carro arrancò tutta la notte, con Xanten sul sedile e il suo prigioniero raggomitolato di dietro.
Capitolo 3. 1. I Nobili del castello, malgrado tutta la loro sicumera, non uscivano mai in campagna di notte, per una ragione che alcuni irridevano definendola una paura superstiziosa. Altri citavano viaggiatori sorpresi dal buio nei pressi di rovine in sfacelo, e le visioni che questi avevano avuto, la musica misteriosa che avevano udito, o il piagnucolio di ombre notturne, o i lontani corni di cacciatori fantasma. Altri avevano visto delle luci verdi e color lavanda, e fantasmi che correvano per la foresta. E l'Abbazia di Jack Vance
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Hode, oramai un cumulo di macerie, era famigerata per la Palude Bianca e per i rintocchi di campana che vi si udivano. Si sapeva di centinaia di casi del genere, e anche se gli increduli scrollavano le spalle, non si avventuravano mai senza una buona ragione nella campagna di notte. Comunque se gli spettri infestavano davvero i luoghi più tragici e tristi, allora il paesaggio della Vecchia Terra doveva contenere un numero incalcolabile di spiriti e fantasmi, specialmente la regione in cui stava passando Xanten, dove ogni roccia, ogni prato, ogni valle e ogni anfratto recava tracce di vita umana. La luna era alta nel cielo; il carro arrancava verso Nord lungo una strada antica, le cui lastre spezzate di calcestruzzo risplendevano pallide nel chiarore notturno. Xanten vide due volte lampeggiare delle luci arancioni ai lati della strada, e una volta, in piedi nell'ombra di un cipresso, gli parve di scorgere un'ombra alta e silenziosa che lo guardava passare senza dire una parola. Il Mek prigioniero stava ordendo piani contro di lui, e Xanten lo sapeva. Senza i suoi aculei doveva sentirsi debole e sconcertato, ma Xanten si disse che era meglio non addormentarsi. La strada passava per una città nella quale erano rimaste ancora in piedi alcune costruzioni. Neppure i Nomadi si rifugiavano in quelle antiche città, temendo i vapori miasmatici, o forse le emanazioni di dolore. La luna raggiunse lo zenith. Il paesaggio si modulava in un centinaio di tonalità di grigio, d'argento e di nero. Guardandosi intorno, Xanten pensò che, nonostante tutti i piaceri offerti dalla vita civile, c'era ancora qualcosa da dire sulla grandezza e la semplicità della Terra dei Nomadi. Il Mek fece un movimento brusco: Xanten si limitò a girare la testa. Poi sferzò l'aria con la frusta e quello tornò tranquillo. Per tutta la notte il carro rotolò sulla vecchia strada, con la luna che calava a Ovest. L'orizzonte orientale riluceva verde e giallo-limone, e in quell'attimo, mentre spariva la pallida luna, il sole si alzò sulla linea lontana delle montagne. E allora, sulla destra, Xanten vide una striscia di fumo. Fermò il carro. Montato sopra il sedile, allungò il collo, e vide un accampamento nomade a circa un quarto di miglio di distanza. Riusciva a distinguere una quarantina di tende di varie dimensioni e una decina di carri devastati. Sull'alta tenda dell'hetman gli parve di riconoscere un ideogramma nero. Se era così, quella era la tribù che poco tempo prima Jack Vance
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aveva sconfinato nei territori di Hagedorn, e che era stata respinta da O.Z. Garr. Xanten si rimise a sedere sul sedile, si ricompose, quindi fece partire il carro e lo guidò in direzione dell'accampamento. Un centinaio di uomini avvolti in mantelli neri, alti e magri come fusi, seguirono attentamente il suo arrivo. Una decina di loro corse avanti e, dopo aver impugnato armi e frecce, glieli puntarono al petto. Xanten rivolse loro un'occhiata incuriosita e sprezzante, poi condusse il carro fino alla tenda dell'hetman, e qui si fermò. Si alzò. «Hetman», chiamò. «Sei sveglio?» L'hetman aprì i teli della tenda, si affacciò e, dopo un po', venne fuori. Come tutti gli altri, portava un vestito nero che gli avviluppava il corpo e la testa. Da un'apertura quadrata si intravedeva la faccia: occhi azzurri e stretti, un naso dalla lunghezza grottesca, un mento lungo e appuntito. Xanten gli fece un breve cenno del capo. «Guarda qui!», disse piegando il pollice in direzione del Mek che si trovava in fondo al carro. L'hetman batté gli occhi, studiò il Mek per un decimo di secondo, quindi tornò a osservare Xanten. «La sua razza si è rivoltata contro la Nobiltà», disse Xanten. «A dire il vero, massacrano tutti gli uomini della Terra. Per questo noi del Castello di Hagedorn proponiamo ai Nomadi di venire al nostro castello. Vi daremo cibo, abiti e armi, vi insegneremo la disciplina e le arti della vera guerra, e vi forniremo la guida più esperta che abbiamo. Poi distruggeremo i Mek, e li elimineremo completamente dalla Terra. Dopo la campagna vi insegneremo le abilità tecniche, e voi potrete fare delle utili e interessanti carriere al servizio dei castelli.» L'hetman per un po' non rispose, poi la sua faccia raggrinzita fece una smorfia feroce. Parlò con una voce che Xanten trovò sorprendentemente ben modulata. «Così le vostre bestie si sono finalmente ribellate! È un peccato che vi abbiano sopportato così a lungo! Be', per noi non fa differenza. Siete entrambi gente estranea, e prima o poi le vostre ossa sbiancheranno insieme.» Xanten finse di non capire. «Se ho ben capito, tu sostieni che di fronte a un attacco alieno tutti gli uomini devono combattere uniti; e che poi, dopo la vittoria, devono cooperare a mutuo vantaggio. Dico bene?» Il perfido sorriso dell'hetman non scomparve. Jack Vance
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«Voi non siete uomini. Solo noi, nati dal suolo e dall'acqua della Terra, siamo uomini. Vi auguriamo di vincere questo vostro massacro reciproco.» «Bene, allora», disse Xanten. «Dunque ti avevo capito. Qualunque appello alla tua lealtà è inutile: questo è perfettamente chiaro. Che mi dici dell'interesse personale, allora? I Mek, non riuscendo a vincere la Nobiltà dei castelli, si avventeranno sui Nomadi, e li uccideranno come fossero formiche.» «Se ci attaccheranno, gli faremo la guerra», disse l'hetman. «Altrimenti li lasceremo fare come vogliono.» Xanten guardò il cielo con l'aria di chi riflette. «Potremmo essere disposti, anche ora, ad accettare un contingente di Nomadi al servizio del Castello di Hagedorn, e questo per addestrare un manipolo dal quale potrà venir fuori un gruppo più sostanzioso, più versatile.» Da un punto del campo, un altro Nomade, in tono offensivo e strafottente, gridò: «E ci cucirete una sacca sulla schiena dove potrete versare il vostro sciroppo?». Xanten replicò in tono pacato: «Lo sciroppo è altamente nutritivo, e soddisfa tutte le necessità del corpo». «E allora perché non lo consumate anche voi?» Xanten disdegnò di rispondere. Parlò l'hetman: «Se desiderate rifornirci di armi, noi le accetteremo, e le useremo contro chiunque ci minacci. Ma non aspettatevi che difendiamo voi. Se temete per le vostre vite, abbandonate i castelli e fatevi Nomadi». «Temere per le nostre vite?», esclamò Xanten. «Che sciocchezza! Giammai! Il Castello di Hagedorn è inespugnabile, esattamente come Janeil e gran parte degli altri castelli.» L'hetman scosse la testa. «Potremmo prenderci Hagedorn in qualunque momento volessimo, e uccidere nel sonno tutti i vostri damerini.» «Che cosa?», gridò Xanten, offeso. «Parli sul serio?» «Certo. In una notte buia potremmo mandare lassù un uomo con un grande aquilone e farlo calare sui merli. Una volta atterrato, ci lancerebbe una corda, attaccherebbe le scale e il castello sarebbe in nostre mani in un quarto d'ora.» Xanten sollevò il mento. Jack Vance
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«Ingegnoso, ma difficilmente realizzabile. Gli Uccelli individuerebbero subito il vostro aquilone. Oppure il vento potrebbe cadere in un momento critico... Ma ci stiamo allontanando dal problema. I Mek non hanno aquiloni. Hanno in mente di fare una dimostrazione contro Janeil e Hagedorn, ma poi, spinti dalla frustrazione, si daranno alla caccia dei Nomadi.» L'hetman fece un passo indietro. «E allora? Abbiamo già fatto fronte ad attacchi simili da parte degli uomini di Hagedorn. Sono tutti dei codardi. A parità di condizioni, con le stesse armi, vi faremmo mangiare la polvere da quei cani che siete.» Xanten sollevò le sopracciglia in segno di disprezzo. «Temo tu stia dimenticando con chi stai parlando. Hai davanti un Capo Clan del Castello di Hagedorn. Soltanto la stanchezza e la noia mi trattengono dal punirti con questa frusta.» «Bah», disse l'hetman. Fece un cenno col dito a uno dei suoi arcieri. «Infilza questo arrogante signorino.» L'arciere preparò la freccia, ma Xanten, che si aspettava una reazione del genere, fece fuoco con la pistola a energia, distruggendo la freccia, l'arco e anche le mani dell'arciere. Quindi disse: «Vedo che devo insegnarvi il rispetto verso chi vi è superiore. Dunque volete la frusta, in fin dei conti». Afferrando l'hetman per il collo, arrotolò la frusta tre volte intorno alle sue spalle strette. «Questo basterà. Non posso abbassarmi a combatterti, ma almeno posso esigere un minimo di rispetto.» Sceso dal carro, afferrò l'hetman e lo scaraventò sul fondo, vicino al Mek. Quindi, fatta una conversione, lasciò l'accampamento senza degnarsi di voltarsi minimamente indietro, sapendo di essere protetto dalle frecce dallo schienale del sedile. L'hetman riuscì a rimettersi in piedi e tirò fuori il pugnale. Xanten girò leggermente la testa. «Stai attento! Guarda che ti lego al carro e ti faccio correre nella polvere.» L'hetman esitò, biascicò qualcosa a denti stretti, poi si fermò. Guardò la lama, la girò e la ripose con un grugnito. «Dove mi porti?» Xanten fermò il carro. «Fin qui. Desideravo semplicemente lasciare il tuo accampamento con Jack Vance
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dignità, senza dover schivare una pioggia di frecce. Ora puoi anche scendere. Presumo che rifiuti ancora di mettere i tuoi uomini al servizio del Castello di Hagedorn?» L'hetman digrignò i denti come prima. «Quando i Mek avranno distrutto i castelli, noi distruggeremo i Mek, e la Terra sarà ripulita dalle creature delle stelle.» «Siete una massa di selvaggi intrattabili. Benissimo! Scendi e tornatene al tuo campo. La prossima volta riflettici su bene, prima di essere maleducato con un Capo Clan del Castello di Hagedorn.» «Bah», borbottò l'hetman e, saltato giù dal carro, si rimise in marcia verso l'accampamento.
2. Verso mezzogiorno Xanten arrivò alla Valle Lontana, ai bordi delle terre di Hagedorn. Nei pressi sorgeva un villaggio di Espiazionisti, gente scontenta e nevrastenica, secondo l'opinione della Nobiltà del castello, ma di sicuro un po' strana. Alcuni di loro avevano goduto di un'invidiabile posizione; altri erano sapienti di riconosciuto valore; ma certi non avevano né dignità né reputazione, e seguivano le filosofie più estremiste e più bizzarre. Tutti quanti svolgevano mansioni diverse da quelle cui erano relegati i Contadini, e sembrava che provassero un gusto perverso — stando ai parametri del castello — in tutto ciò che fosse sudiciume, povertà e degradazione. Come ci si poteva aspettare, le loro credenze erano disomogenee. Alcuni potevano essere definiti «non conformisti» o «disassociazionisti»; altri «espiazionisti passivi», e un ultimo gruppo, una minoranza, seguiva un programma dinamico. I rapporti tra il castello e il villaggio erano molto sporadici. Ogni tanto gli Espiazionisti barattavano frutta o legno verniciato con utensili, chiodi e medicine; altre volte la Nobiltà organizzava una festa per vederli ballare e danzare. Xanten aveva visitato il villaggio in diverse occasioni, ed era rimasto colpito dal fascino spontaneo e dall'informalità della gente. Adesso, mentre ci passava vicino, prese un viottolo laterale che si snodava in mezzo ad alti Jack Vance
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cespugli di more e finiva in un piccolo pascolo dove brucavano l'erba capre e mucche. Fermò il carro all'ombra e vide che la sacca dello sciroppo era piena. Guardò il suo prigioniero. «E tu? Se hai bisogno dello sciroppo, versatelo. Ma no, non hai la sacca. Di cosa ti nutrì, allora? Di fango? Pessimo cibo! Temo che qui nessuno abbia i tuoi gusti. Comunque fai come vuoi; ingerisci lo sciroppo o mastica l'erba, se ti va, però non ti allontanare troppo dal carro, perché ti seguirò con lo sguardo.» Il Mek, che stava rannicchiato in un angolo, non dette alcun segno di aver capito, né si mosse per approfittare dell'offerta di Xanten. Xanten si avvicinò a un abbeveratoio e, tenendo le mani a coppa sotto un cannello dal quale sgorgava l'acqua, si inumidì la faccia, quindi bevve qualche sorso. Voltandosi, scoprì che erano arrivati alcuni abitanti del villaggio. Uno di questi lo conosceva bene: era un uomo che avrebbe potuto diventare Godalming, o perfino Aure, se non fosse stato infettato dall'Espiazionismo. Xanten lo salutò cortesemente. «A.G. Philidor: sono io, Xanten.» «Xanten, ma certo! Qui però non sono più A.G. Philidor. Chiamami semplicemente Philidor.» Xanten si inchinò. «Ti faccio le mie scuse; dimenticavo il rigore della vostra informalità.» «Risparmiami la tua arguzia», rispose Philidor. «Perché ci porti un Mek tosato? Ci chiedi di adottarlo, forse?» Quest'ultima allusione si riferiva alla pratica in uso tra la Nobiltà di portare al villaggio i bambini in eccesso. «E adesso chi è che vanta la propria arguzia? Ma non hai saputo le notizie?» «Quaggiù le notizie sono le ultime ad arrivare. I Nomadi sono più informati di noi.» «Preparati a restare sorpreso. I Mek si sono rivoltati contro i castelli. Halcyon e Delora sono stati demoliti, e i loro abitanti uccisi; forse ne avranno distrutti anche degli altri, nel frattempo.» Philidor scosse la testa. «Non sono sorpreso.» «Ma non sei preoccupato?» Philidor rifletté. Jack Vance
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«Fino a un certo punto. I nostri progetti, che non sono mai stati molto realizzabili, adesso diventano quasi impossibili.» «Secondo me», disse Xanten, «vi trovate di fronte a un pericolo grave e immediato. I Mek di sicuro cercheranno di cancellare ogni vestigia della razza umana. Non la scamperete.» Philidor alzò le spalle. «Probabilmente questo pericolo esiste... Terremo un Consiglio per decidere che cosa fare.» «Io posso farvi una proposta che potreste trovare allettante», disse Xanten. «La nostra prima preoccupazione, naturalmente, è quella di soffocare la rivolta. C'è almeno una dozzina di comunità espiazioniste con una popolazione di due o trecento persone, e forse più. Propongo di reclutare e addestrare un corpo militare altamente disciplinato, rifornito dall'armeria del Castello di Hagedorn e guidato dai più abili comandanti militari di Hagedorn.» Philidor lo fissò incredulo. «E ti aspetti che noi, degli Espiazionisti, accetteremo di diventare vostri soldati?» «Perché no?», domandò Xanten candidamente. «La vostra vita è in pericolo quanto la nostra.» «Non si muore due volte.» Xanten rimase esterrefatto. «Cosa? Chi sta parlando è davvero un antico Nobile di Hagedorn? È così che reagisce un uomo pieno di orgoglio e di coraggio di fronte al pericolo? È questa la lezione della storia? Certamente no! Non c'è bisogno che te la spieghi io; la conosci quanto me.» Philidor annuì. «Io so che la storia dell'uomo non è fatta di trionfi, di bravura, e di vittorie. È un mosaico di trilioni di pezzi, il resoconto del compromesso di ogni uomo con la propria coscienza. Questa è la storia vera della nostra razza.» Xanten fece un gesto di diniego. «A.G. Philidor, tu semplifichi le cose in maniera deplorevole. Mi ritieni ottuso? Esistono molti tipi di storia, e tutti interagiscono. Tu metti in risalto il problema morale, ma il fondamento ultimo della moralità è la sopravvivenza. Quello che favorisce la sopravvivenza è positivo, mentre ciò che causa morte è male e negazione.» Jack Vance
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«Ben detto!», dichiarò Philidor. «Ma consentimi di enunciarti una parabola. Può una nazione di un milione di esseri distruggere una creatura che altrimenti infetterà tutti con un morbo mortale? Sì, diresti tu. E ancora: dieci bestie affamate ti danno la caccia per mangiarti: saresti capace di ucciderle per salvare la tua vita? Sì, diresti ancora, anche se così distruggeresti più di quello che salveresti. E ancora: un uomo abita in una capanna in una valle solitaria. Centinaia di navi spaziali scendono dal cielo e cercano di distruggerlo. Lo riterresti legittimato a distruggere quelle navi per difendersi, anche se è uno solo e gli altri sono centinaia? Forse dirai di sì. E allora, se un mondo intero, se una intera razza di creature si scaglia contro quel solo uomo? Potrà lui ucciderla? E se gli attaccanti fossero degli esseri umani come lui? E se egli fosse stato la creatura del primo esempio, quella che altrimenti avrebbe infettato il mondo con il suo morbo? Vedi, non esiste un metro di valutazione assoluto. Tu l'hai cercato, ma non l'hai trovato. Per cui, al rischio di peccare nuovamente contro la Sopravvivenza, noi... io, almeno — posso parlare solo per me — ho scelto una morale che se non altro mi rende sereno. Io non uccido nulla: io non distruggo.» «Bah!», disse Xanten con palese disprezzo. «Se un plotone di Mek entrasse in questa valle e cominciasse a uccidere i tuoi figli, tu non li difenderesti?» Philidor strinse le labbra e girò la testa. Parlò in sua vece un secondo uomo. «Philidor ha definito la moralità. Ma chi si comporta sempre secondo la morale? Philidor, proprio come me, o come te, in un caso simile potrebbe venir meno alla sua etica.» Philidor disse: «Guardati intorno: c'è qualcuno che riconosci?». Xanten osservò il gruppo. Lì vicino c'era una ragazza di straordinaria bellezza, che indossava una camicia bianca e tra i capelli neri che le cadevano sulle spalle, aveva intrecciato un fiore rosso. Xanten annuì. «Riconosco la fanciulla che O.Z. Garr desiderava facesse parte del suo entourage al castello.» «Esatto», disse Philidor. «Ricordi la circostanza?» «Benissimo!», disse Xanten. «Ci fu un'energica levata di scudi da parte del Consiglio dei Notabili... il motivo era che costituiva un'infrazione alle nostre leggi sul controllo della popolazione. O.Z. Garr voleva scavalcare la Jack Vance
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Legge. "Posseggo delle Phane", aveva detto. "A volte ne ho sei, a volte addirittura otto, ma nessuno ha niente da ridire. Chiamerò quindi questa ragazza Phane, e la terrò insieme alle altre." Io e gli altri protestammo, e quasi si arrivò a un duello. O.Z. Garr venne obbligato a rinunciare alla ragazza. Lei venne affidata alla mia custodia, e io la portai nella Valle Lontana.» Philidor fece un cenno d'assenso. «È tutto esatto. Be'... noi tentammo di dissuadere Garr, ma lui rifiutò di farsi dissuadere, e minacciò di sguinzagliarci addosso i suoi trenta Mek da caccia. Allora ci facemmo da parte. Siamo nel solco della moralità? Siamo forti oppure questo è indice di debolezza?» «A volte è meglio», disse Xanten, «ignorare le regole della morale. Anche se O.Z. Garr è un Nobile e voi siete soltanto Espiazionisti... Lo stesso nel caso dei Mek. Stanno distruggendo i castelli e tutti gli uomini della Terra. Se morale significa accettazione passiva, allora la morale dev'essere messa da parte!» Philidor fece una risata amara. «Ma che bella situazione! I Mek sono trasportati qui — come i Contadini, gli Uccelli e le Phane — e vengono trasformati geneticamente, e schiavizzati per il piacere degli umani. Anzi, è proprio da questo che deriva la colpa che dobbiamo espiare, e tu pretendi che noi scendiamo a un compromesso!» «È un errore pensare troppo al passato», disse Xanten. «Comunque, se desiderate continuare a rimuginare, vi suggerisco di combattere i Mek adesso, oppure, in caso disperato, di venirvi a rifugiare al castello.» «Non io», disse Philidor. «Forse altri, potranno decidere di farlo.» «Aspetterai che ti ammazzino?» «No. Forse altri, e non dubito che ce ne siano, si rifugeranno sulle montagne.» Xanten risalì sul carro. «Se cambi idea, vieni al Castello di Hagedorn.» E se ne andò. La strada proseguiva lungo la valle, si inerpicava su una collina e attraversava un monte. Lontano, profilato contro il cielo, si vedeva il Castello di Hagedorn.
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Capitolo 4. 1. Xanten fece rapporto al Consiglio. «Le navi spaziali sono fuori uso. I Mek le hanno rese inoperative. Qualunque tentativo di chiedere aiuto ai Pianeti Natali è inutile.» «Queste sono brutte notizie», disse Hagedorn con una smorfia. «Va bene, adesso continua pure.» Xanten proseguì. «Mentre tornavo con un carro, ho incontrato una tribù di Nomadi. Ho chiamato l'hetman e gli ho spiegato i vantaggi di mettersi al servizio del Castello di Hagedorn. I Nomadi, temo, mancano sia di grazia che di docilità. L'hetman mi ha dato una risposta così beffarda che me ne sono andato disgustato. Giunto alla Valle Lontana ho visitato il villaggio degli Espiazionisti, e ho fatto loro una proposta uguale, ma con scarso successo. Sono idealisti tanto quanto i Nomadi sono zotici. Entrambi preferiscono fuggire. Gli Espiazionisti parlano di rifugiarsi sulle montagne. I Nomadi, presumibilmente, si ritireranno nelle steppe.» Beaudry rise con disprezzo. «A cosa potrà servirgli la fuga? Forse guadagneranno qualche anno, ma alla fine i Mek li troveranno tutti, conoscendo la loro metodicità.» «Nel frattempo, però», dichiarò O.Z. Garr, indispettito, «avremmo potuto organizzarli in corpi di combattimento efficienti, a beneficio comune. E va bene, lasciamoli pure morire; noi siamo al sicuro.» «Al sicuro, sì», disse Hagedorn con un tono cupo. «Ma che succederà quando verrà meno l'energia? Quando gli ascensori si fermeranno? Quando si interromperà il ricambio d'aria facendoci morire congelati oppure soffocati? Che succederà, allora?» O.Z. Garr scosse la testa accigliato. «Dovremo ricorrere a espedienti poco dignitosi, con la maggior grazia possibile. Ma i macchinari del castello sono solidi, e presumo che si verificheranno pochi deterioramenti prima di cinque o dieci anni. Per allora potrebbe essere successa qualunque cosa.» Claghorn, che era rimasto appoggiato indolentemente alla sedia, alla fine parlò. «Mi sembra fondamentalmente un programma passivo. Come la Jack Vance
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defezione dei Nomadi e degli Espiazionisti, mi pare poco adeguato alle immediate circostanze.» O.Z. Garr parlò, sforzandosi di essere gentile. «Claghorn sa benissimo che non sono secondo a nessuno in fatto di franchezza, nonché di ottimismo e di chiarezza: in breve, l'esatto contrario della passività. Ma rifiuto di ingigantire un inconveniente così sciocco dedicandogli molta attenzione. Come si può definire tale atteggiamento passività? Il degno e onorato Capo dei Claghorn ha forse qualche proposta da fare per conservare più efficacemente il nostro rango, le nostre abitudini e il rispetto per noi stessi?» Claghorn annuì lentamente, facendo un lieve sorrisetto che O.Z. Garr trovò detestabilmente compiacente. «Esiste un sistema semplice ed efficace per sconfiggere i Mek.» «Ma bene, dunque!», esclamò Hagedorn. «Perché indugi? Faccelo conoscere!» Claghorn passò lo sguardo intorno al tavolo coperto di velluto rosso, e osservò le facce di tutti i presenti: il distaccato Xanten; Beaudry, con la faccia rigida e spigolosa serrata nella sua solita espressione sgradevole come una smorfia; il vecchio Isseth, bello, dritto e vitale come il più focoso dei Cadetti; Hagedorn, preoccupato, cupo, dalla perplessità anche troppo evidente; l'elegante Garr; Overwhele, che pensava con angoscia agli inconvenienti del futuro; Aure, che giocava con la sua tavoletta d'avorio, annoiato o sconfitto; infine gli altri, che mostravano dubbi, strani presentimenti, oscuri risentimenti, impazienza e, nel caso di Flory, un sorriso tranquillo — o meglio, come Isseth l'aveva definito successivamente, una smorfia da imbecille — che voleva indicare il suo totale distacco da quella faccenda così fastidiosa. Claghorn osservò attentamente tutte quelle facce, e scosse la testa. «Non voglio esporre il mio piano in questo momento, poiché temo che sia impraticabile. Devo sottolineare, tuttavia, che il Castello di Hagedorn non potrà più essere come prima, neppure se dovessimo sopravvivere all'attacco dei Mek.» «Bah!», esclamò Beaudry. «Ci perdiamo in dignità rendendoci perdipiù ridicoli soltanto a nominare quelle bestie!» Xanten si irrigidì. «Un argomento sgradevole, ma ricorda! Halcyon è stato distrutto, e anche Delora: e chi sa quanti altri! Non infiliamo la testa nella sabbia! I Jack Vance
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Mek non spariranno semplicemente ignorandoli.» «A ogni modo», disse O.Z. Garr, «Janeil è sicuro, e noi siamo al sicuro. Gli altri, a meno che non siano già stati ammazzati, farebbero bene a farci visita durante questa emergenza, se possono dare una giustificazione al fatto umiliante di essere scappati. Personalmente credo che i Mek verranno presto a sottomettersi, ansiosi di tornare ai loro posti.» Hagedorn scosse la testa mestamente. «A questo trovo difficile credere. Benissimo, allora, ci aggiorniamo.»
2. Il sistema di comunicazione radio fu il primo degli impianti elettrici del castello a rompersi. La rottura avvenne così repentinamente che alcuni teorici, tra i quali I.K Harde e Uegus, postularono un sabotaggio dei Mek prima della loro partenza. Altri osservarono che il sistema non era mai stato completamente indipendente, che i Mek stessi erano continuamente costretti ad aggiustare i circuiti, e che la rottura era semplicemente una conseguenza di una progettazione errata. I.K. Harde e Uegus esaminarono l'apparecchiatura, ma la causa della rottura non era facilmente individuabile. Dopo mezz'ora di consultazioni, furono d'accordo che qualsiasi tentativo di riparare il sistema avrebbe richiesto una completa revisione del progetto, con la conseguente costruzione di apparati di calibratura e di prova e la fabbricazione di un tipo completamente diverso di componenti. «È assolutamente impossibile», affermò Uegus quando fece rapporto al Consiglio. «Perfino il sistema più semplice richiederebbe diversi tecnici esperti. Non disponiamo neanche di un solo tecnico, perciò dobbiamo attendere la disponibilità di una forza lavoro addestrata e disponibile.» «Col senno di poi», dichiarò Isseth, il Capo Clan più anziano, «è chiaro che siamo stati imprevidenti sotto diversi punti di vista. Anche se gli uomini dei Pianeti Natali sono dei Plebei, persone più avvedute di noi avrebbero mantenuto un contatto interplanetario con loro!» «Non è stata la mancanza di previdenza il fattore deterrente», asserì Claghorn. «Le comunicazioni sono state scoraggiate semplicemente perché i primi Signori non desideravano che la Terra venisse invasa dai nuovi ricchi dei Pianeti Natali. Molto semplice.» Jack Vance
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Isseth mugugnò preparandosi a replicare, ma Hagedorn si affrettò a dire: «Sfortunatamente, come ci ha detto Xanten, le navi spaziali sono inutilizzabili, e anche se alcuni di noi hanno una profonda conoscenza teorica, chi potrebbe fare il lavoro fisico? Anche se gli hangar e le navi spaziali fossero in nostro controllo.» O.Z. Garr dichiarò: «Datemi sei plotoni di Contadini e sei carri equipaggiati con cannoni ad alta energia, e riprenderò gli hangar. Questo non presenta nessuna difficoltà». Beaudry disse: «Be', almeno è un inizio. Io mi occuperò dell'addestramento dei Contadini e, anche se non so nulla in fatto di cannoni, contate su di me per qualunque consiglio possa darvi». Hagedorn passò lo sguardo sul gruppo, aggrottò la fronte, poi sollevò il mento. «Ci sono alcune difficoltà nella realizzazione di questo programma. Prima di tutto, disponiamo soltanto di un carro, quello che ha riportato Xanten. Secondo, avete controllato i nostri cannoni a energia? Si occupavano i Mek del loro mantenimento, ma è possibile, anzi, probabile, che abbiano manomesso anche quelli. O.Z. Garr, tu che sei un valido teorico militare, cosa puoi dirci in proposito?» «Non ho disposto nessuna ispezione», disse O.Z. Garr. «Oggi la Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato ci terrà impegnati fino all'Ora dell'Apprezzamento del Tramonto5. [5 Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato; Ora dell'Apprezzamento del Tramonto. Il senso letterale del primo termine era ancora abbastanza giusto; quello del secondo era andato perduto, e l'espressione era un mero formalismo, stante a significare l'ora del tardo pomeriggio in cui si scambiavano visite e si assaggiavano vini, liquori ed essenze. In breve, un momento di rilassamento e di tranquilla conversazione prima della prassi più formale della cena.].» Guardò l'orologio. «Forse è ora di aggiornarci, almeno fino a quando non vi potrò dare informazioni precise riguardo ai cannoni.» Hagedorn annuì pensosamente. «Si sta facendo davvero tardi. Vedremo le tue Phane quest'oggi?» «Soltanto due», rispose O.Z. Garr. «La Lazule e l'Undicesimo Mistero. Non riesco a trovare nulla di adatto ai Piaceri del Gossamer, nemmeno la mia piccola Blue Fay, e la Gloriana ha ancora bisogno di addestramento. Jack Vance
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Oggi le Variflors di B.Z. Maxelwane dovrebbero richiamare l'attenzione di tutti.» «Sì», disse Hagedorn. «Ho sentito già altri commenti in tal senso. Va bene, allora, ci aggiorniamo a domani. Ah, Claghorn, hai qualcosa da dire?» «Veramente sì», rispose Claghorn, in tono cortese. «Abbiamo tutti poco tempo a disposizione. Sarà meglio sfruttarlo al massimo. Dubito seriamente dell'efficacia della milizia contadina. Mandare i Contadini contro i Mek è come mandare dei conigli contro i lupi. Quello che ci servirebbe, in realtà, sarebbero delle pantere.» «Ah, certo», disse Hagedorn, vago. «Certo...» «E dove possiamo trovare, dunque, queste pantere?» Claghorn girò lo sguardo tutto intorno al tavolo. «Nessuno ha un suggerimento da dare? Che peccato! Bene, allora: se non compariranno le pantere, presumo che dovremo accontentarci dei conigli. Diamoci quindi da fare immediatamente per trasformare i conigli in pantere. Propongo di rimandare tutte le feste e tutti gli spettacoli finché il nostro futuro non sarà più chiaro.» Hagedorn sollevò le sopracciglia, aprì la bocca per parlare ma poi la richiuse. Scrutò intensamente Claghorn per assicurarsi che parlava sul serio, poi guardò dubbioso gli astanti. Beaudry scoppiò in una risata alquanto sfrontata. «Sembra che l'erudito Claghorn stia dando una bella dimostrazione di paura.» O.Z. Garr intervenne: «Con tutta la dignità possibile, non possiamo certo permettere che l'impertinenza dei nostri servi susciti un simile allarme. Provo imbarazzo perfino a parlare di questo argomento». «Io non provo alcun imbarazzo», disse Claghorn, con quell'espressione di compiacimento che irritava tanto O.Z. Garr. «Non vedo perché dovrei esserlo. Le nostre vite sono minacciate. E a quel punto un po' di imbarazzo diventa un fatto di nessuna importanza.» O.Z. Garr si alzò in piedi e rivolse un brusco saluto in direzione di Claghorn calcolato in modo da essere un chiaro affronto. Claghorn, alzandosi a sua volta, gli fece un saluto del tutto simile, talmente serio e complicato da rendere ridicolo l'insulto di Garr. Xanten, che detestava O.Z. Garr, rise a gola spiegata. O.Z. Garr ebbe un attimo di esitazione, poi, comprendendo che in quelle Jack Vance
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circostanze trascinare oltre la cosa sarebbe stato negativo, si allontanò a grandi passi dalla sala.
3. La Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato, una sfilata annuale di Phane abbigliate in abiti sontuosi, si teneva nella Grande Rotonda a Nord della piazza centrale. Quasi la metà dei Cavalieri, ma meno di un quarto delle Dame, possedeva delle Phane. Erano queste creature native delle grotte della luna di Albireo Sette, molto docili, festose e affettuose, le quali, dopo diverse centinaia di anni di incroci, erano diventate delle silfidi dalla bellezza prorompente. Avvolte da una garza delicata prodotta dai pori che avevano dietro le orecchie, e che scendeva lungo le braccia e dietro la schiena, erano le più inoffensive delle creature, sempre preoccupate di piacere e candidamente frivole. Gran parte dei Cavalieri le trattava con affetto, ma ogni tanto si sentiva parlare di qualche Dama che aveva immerso una Phane particolarmente detestata nella tintura d'ammoniaca, che le macchiava la pelle e distruggeva la sua garza per sempre. Un Nobile infatuato di una Phane suscitava ilarità. La Phane, sebbene venisse allevata con tale cura da sembrare una delicata fanciulla, se usata sessualmente si sciupava e dimagriva, e la sua garza si scoloriva e, anche se tutti lo sapevano, diversi gentiluomini avevano fatto un cattivo uso delle loro Phane. A questo riguardo, almeno, le donne dei castelli potevano dimostrare la propria superiorità, e di fatto lo facevano rendendosi così stravagantemente provocanti che le Phane, a paragone, sembravano gli spiriti più fragili e più ingenui della natura. Il loro arco di vita durava circa trent'anni e, durante gli ultimi dieci, dopo aver perso tutta la loro avvenenza, si avvolgevano in un mantello di garza grigia e svolgevano lavori umili nei boudoirs, nelle cucine, nelle dispense, nelle infermerie e negli spogliatoi. La Mostra dei Tabarri dell'Antiquariato era più un'occasione per vedere le Phane che i tabarri, anche se questi, fatti con la garza delle Phane, erano già di per sé assai belli. I proprietari delle Phane sedevano in galleria, tremando emozionati di orgoglio e di speranza, esultando quando una di loro faceva una particolare Jack Vance
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figura, e nascondendosi nell'ombra quando i movimenti di rito non venivano fatti con grazia ed eleganza. Durante le varie esibizioni, un Nobile appartenente a un Clan differente da quello del proprietario della Phane, suonava della musica austera con il liuto, visto che al proprietario non era consentito suonare durante l'esibizione della sua Phane. La Mostra non veniva considerata ufficialmente una gara, e non era permesso fare acclamazioni formali, ma tutti gli spettatori decidevano chi era la più affascinante e aggraziata delle Phane, e la reputazione del suo proprietario veniva in tal modo accresciuta. La Mostra attuale era in ritardo di circa mezz'ora a causa della defezione dei Mek, che aveva reso necessaria un po' di improvvisazione. Ma i Nobili del Castello di Hagedorn non erano dell'umore adatto per fare delle critiche, e non badavano agli errori occasionali di una decina di giovani Contadini maschi che si sforzavano di svolgere dei compiti per loro del tutto nuovi. Le Phane erano affascinanti come sempre; si dimenavano, chinandosi e ondeggiando agli accordi del liuto, sbattendo le dita come se ricevessero gocce di pioggia, abbassandosi all'improvviso e poi balzando in alto dritte come fusi, e facendo alla fine l'inchino prima di scendere dal podio. A metà programma un goffo Contadino si portò nella Rotonda, e mormorò concitatamente qualcosa al Cadetto che era andato subito a domandargli cosa voleva. Il Cadetto, dopo averlo ascoltato, si diresse immediatamente verso il palco nero lucido di Hagedorn. Hagedorn ascoltò, annuì, disse alcune parole, poi si rimise con calma a sedere, come se il messaggio fosse irrilevante, e la Nobiltà presente si tranquillizzò. Lo spettacolo proseguì. La coppia di O.Z. Garr fece una bella prova, ma tutti pensavano che Lirlin, una giovane Phane di proprietà di Ysseth Floy Gazuneth, che partecipava per la prima volta a una mostra formale, avesse fatto la rappresentazione più accattivante. Le Phane fecero l'ultima comparsa, muovendosi tutte insieme sull'aria di un minuetto semi improvvisato, quindi rivolsero al pubblico un saluto, in parte allegro e in parte dispiaciuto, e lasciarono la Rotonda. I Cavalieri e le Dame sarebbero rimasti ancora un po' nei loro separé a sorseggiare le essenze, a discutere sullo spettacolo, e a concludere affari. Hagedorn aveva la fronte corrucciata e si torceva le mani. All'improvviso si alzò in piedi, e la Rotonda si fece istantaneamente silenziosa. «Sono dispiaciuto di dover introdurre una nota poco felice in Jack Vance
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un'occasione tanto piacevole», disse Hagedorn. «Purtroppo mi sono appena arrivate delle notizie, ed è giusto che tutti le sappiano. Il Castello di Janeil è stato attaccato. I Mek sono in gran quantità, e hanno centinaia di carri. Hanno circondato il castello con una barriera che impedisce a Janeil di usare con efficacia i cannoni. Il castello non corre pericolo immediato, ed è difficile individuare che cosa i Mek sperano di ottenere, dal momento che le mura sono alte ben duecento piedi. Le notizie, tuttavia, non sono allegre, e significano che dobbiamo aspettarci anche noi un attacco simile... anche se è ancora più difficile capire come possano i Mek mettere in difficoltà noi. La nostra acqua proviene da pozzi profondi. Abbiamo enormi riserve di cibo. La nostra energia ci viene dal sole. Se necessario, potremmo condensare l'acqua e sintetizzare cibo dall'aria... o almeno così ci ha assicurato il nostro grande biochimico, X.B. Ladisname. Comunque, le notizie sono queste. Interpretatele come preferite. Domani si riunirà il Consiglio dei Notabili.»
Capitolo 5. 1. «Bene, dunque», disse Hagedorn al Consiglio, «per una volta tanto facciamo a meno dei convenevoli. O.Z. Garr: che ci dici dei nostri cannoni?» O.Z. Garr, che indossava la magnifica uniforme verde e grigia dei Dragoni di Overwhele, posò attentamente il suo elmo sul tavolo perché il pennacchio restasse dritto. «Su dodici cannoni, quattro sembrano funzionare correttamente. Quattro sono stati sabotati tagliando loro i fili dell'energia. Quattro sono stati sabotati con sistemi non identificabili. Mi sono messo al comando di un manipolo di Contadini che mostrano di avere un minimo di capacità tecnica, e li ho istruiti nei minimi particolari. Questo è il massimo delle informazioni che posso darvi.» «Notizie abbastanza buone», disse Hagedorn. «E che mi dici della milizia di Contadini armati?» «Il progetto è in via di attuazione. A.F. Mull e I.A. Berzelius in questo momento stanno ispezionando i Contadini per scegliere quali reclutare per Jack Vance
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l'addestramento. Purtroppo, però, non posso fare previsioni ottimistiche riguardo all'efficacia militare di corpi simili, anche se addestrati e guidati da uomini come A.F. Mull, I.A. Berzelium e io stesso. I Contadini sono una razza mansueta, inoffensiva, del tutto adatti a estirpare l'erbaccia, ma senza stomaco per combattere.» Hagedorn guardò il Consiglio. «Altri suggerimenti?» Parlò Beautry, in tono aspro e adirato. «Se quelle bestie ci avessero lasciato almeno i nostri carri a energia, avremmo potuto caricare a bordo i cannoni... I Contadini, ad ogni modo, andranno bene lo stesso. Poi potremmo avanzare su Janeil e far fuoco su quei cani alle spalle.» «Questi Mek sembrano dei diavoli!», dichiarò Aure. «Che cosa avranno mai in mente? Perché, dopo tutti questi secoli, sono improvvisamente impazziti?» «Ci poniamo tutti le stesse domande», disse Hagedorn. «Xanten, tu sei tornato con un prigioniero: hai provato a interrogarlo?» «No», disse Xanten. «A dire la verità, non ci avevo proprio Pensato.» «Perché non proviamo a interrogarlo? Forse ci potrà fornire qualche indizio.» Xanten annuì. «Ci posso provare. Onestamente, però, non mi aspetto nulla.» «Claghorn, tu sei l'esperto sui Mek», disse Beaudry. «Avresti ritenuto quelle creature capaci di ordire un simile piano? Cosa sperano di ottenere? I nostri castelli?» «Di sicuro sono in grado di fare piani precisi e meticolosi», disse Claghorn. «La loro brutalità, però, mi sorprende. Non ho mai saputo che desiderassero i nostri beni materiali, e non mostrano nessuna tendenza ad avere quelli che noi consideriamo i corollari della civiltà, come ad esempio una sensibilità raffinata. Ho spesso pensato — non intendo attribuire a questo puro concetto il valore di una teoria — che la struttura logica del cervello sia più importante di quello che crediamo. I nostri cervelli sono notevoli in quanto mancano completamente di una struttura razionale. Se si pensa al modo casuale in cui i nostri pensieri vengono formati, registrati, indicizzati e memorizzati, anche il più piccolo atto razionale diventa un miracolo. Forse siamo incapaci di razionalità; forse il pensiero è soltanto una serie di Jack Vance
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impulsi generati da un'emozione, controllati da un'altra e ratificati da una terza. In contrasto, il cervello del Mek è una meraviglia di quello che appare come un'attenta opera di ingegneria. È vagamente cubico, ed è formato da cellule microscopiche collegate da fibrille organiche, ognuna una molecola monofilamentosa dotata di minima resistenza elettrica. All'interno di ogni cellula, ci sono una pellicola di anidride silicica, un fluido dalla conduttività e dalle proprietà dielettriche variabili, e una cuspide di una complessa miscela di ossidi metallici. Il cervello è in grado di conservare grosse quantità di informazioni in modo ordinato. Non ne va persa nemmeno una, a meno che non sia dimenticata di proposito, una capacità questa che il Mek ha. Il cervello funziona anche da ricetrasmettitore radio, forse anche da radiotrasmettitore e galvanometro direzionale, sebbene quest'ultima rimanga un'ipotesi. Il punto in cui il cervello Mek è inferiore, è nella sua mancanza di colore emotivo. Un Mek è esattamente uguale a un altro, senza alcuna differenza nella personalità a noi percettibile. Questa, chiaramente, è una conseguenza del loro sistema di comunicazione: è impensabile che si sviluppi una personalità unica in tali condizioni. Ci hanno servito con efficienza e — così pensiamo — con lealtà, perché non provavano nessun sentimento rispetto alla loro condizione, né orgoglio, né risentimento, né vergogna. Niente di niente. Non ci amavano e non ci odiavano, e non lo fanno neanche adesso. Ci riesce difficile immaginare questa mancanza di emozioni, quando ciascuno di noi prova tanti sentimenti per qualunque cosa. Noi viviamo in un viluppo di emozioni, loro ne sono privi come un cubetto di ghiaccio. Sono stati nutriti, alloggiati e trattati in un modo che hanno trovato soddisfacente. Perché si sono rivoltati? Ci ho riflettuto a lungo, ma l'unica ragione che riesco a trovare è talmente assurda e insensata che mi rifiuto di prenderla in considerazione. Se, alla fine, è questa la spiegazione corretta...» Abbassò la voce. «Allora?», domandò O.Z. Garr in tono deciso. «Dunque?» «Be'... non ha importanza, visto che intendono distruggere la razza umana. La mia teoria non cambia niente.» Hagedorn si rivolse a Xanten. «Queste informazioni dovrebbero esserti utili nell'interrogatorio.» Jack Vance
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«Stavo per chiedere l'assistenza di Claghorn, se è disposto a venire», disse Xanten. «Come vuoi», disse Claghorn, «anche se quello che potremmo sapere, secondo me, è irrilevante. La nostra unica preoccupazione dovrebbe essere escogitare un sistema per respingerli e salvare le nostre vite.» «E... a parte la forza da "pantere" che hai menzionato nell'ultimo incontro... non ti viene in mente nessun'arma ingegnosa?», gli domandò Hagedorn ansiosamente. «Un sistema per inviare una risonanza magnetica ai loro cervelli o qualcosa di simile?» «Non è realizzabile», disse Claghorn. «Certi organi all'interno dei loro cervelli funzionano come interruttori di sovraccarico. Per quanto è vero che durante questo periodo potrebbero non essere più in grado di comunicare.» Dopo un attimo di riflessione aggiunse pensosamente: «Chi sa? A.G. Bernal e Uegus sono dei teorici con una conoscenza profonda dei progetti di questo genere. Forse riuscirebbero a costruire un congegno simile, o forse parecchi addirittura.» Hagedorn annuì perplesso, e guardò Uegus. «È possibile?» Uegus aggrottò la fronte. «Costruire? Di sicuro sono in grado di progettare un apparecchio simile... ma dove vado a prendere i componenti? Sono tutti sparpagliati per i magazzini, e certi funzionano mentre certi no. Per ottenere qualcosa di utile devo degradarmi al livello di un apprendista, di un Mek.» Si infiammò di sdegno e indurì la voce. «Trovo difficile credere che mi stiate obbligando a sottolineare esplicitamente questo fatto. Pensate che io e le mie capacità meritiamo un lavoro tanto umiliante?» Hagedorn si affrettò a rassicurarlo. «Certo che no! Io, ad esempio, non penserei mai di offendere la tua dignità.» «Mai!», fu d'accordo Claghorn. «Ciononostante, considerata la situazione d'emergenza in cui ci troviamo, ci vedremo tutti costretti dagli eventi ad accettare dei compromessi, a meno che non decidiamo di imporceli da soli.» «Benissimo!», disse Uegus, con un freddo sorrisetto a fior di labbra. «Tu verrai con me al magazzino. Io ti indicherò i componenti da prendere e da assemblare, e tu farai il lavoro. Che ne dici?» «Dico di sì, e con gioia, e se potrà essere di una qualche utilità. Tuttavia, Jack Vance
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sarà difficile che riesca a fare il lavoro di una decina di teorici di specializzazioni diverse. C'è qualcun altro che si offre, oltre a me?» Non rispose nessuno. Il silenzio era assoluto, come se tutti stessero trattenendo il fiato. Hagedorn fece per parlare, ma Claghorn lo interruppe. «Perdonami, Hagedorn, ma adesso, finalmente, siamo arrivati a un principio fondamentale, e va chiarito subito.» Hagedorn si guardò intorno, disperato. «C'è qualcuno che vuole fare delle osservazioni al riguardo?» «Claghorn deve fare come la sua natura gli comanda», dichiarò O.Z. Garr con la più serica delle voci. «Non posso dirgli cosa fare. Quanto a me, non degraderò mai il mio status di Nobile di Hagedorn. È per me un credo naturale, come l'aria che respiro; se dovesse essere compromesso, diventerei la farsa di un Nobile, una caricatura grottesca di me stesso. Questo è il Castello di Hagedorn, e noi rappresentiamo il culmine della civiltà umana. Qualunque compromesso, perciò, significa degradazione; qualunque diminuzione del nostro modo di vivere diventa disonore. Ho sentito usare la parola "emergenza". Che cosa deplorevole! Definire una fuga da topi come quella che hanno fatto i Mek con la parola "emergenza" non è degno — a mio parere — di un Nobile di Hagedorn!» Lungo tutto il tavolo corse un mormorio di approvazione. Claghorn si appoggiò alla sedia con il petto sul mento, apparentemente rilassato. I suoi occhi celesti si posarono su ciascuna faccia, poi tornarono a fissarsi su O.Z. Garr con distacco e interesse. «Ovviamente le tue parole sono dirette a me», disse, «e io ho capito benissimo la loro malizia. Ma questa è una faccenda secondaria.» Allontanò lo sguardo da O.Z. Garr e lo posò sul massiccio candeliere tempestato di diamanti e smeraldi. «La cosa più importante è che l'intero Consiglio, nonostante i miei più energici tentativi di persuasione, sembra condividere il tuo punto di vista. Io non so più che cosa dirvi, e adesso lascerò il Castello di Hagedorn. Trovo l'atmosfera soffocante. Mi auguro che sopravviviate all'attacco dei Mek, anche se ne dubito. Sono una razza intelligente e risoluta, che non si fa fuorviare dai preconcetti, e noi la sottovalutiamo da troppo tempo.» Claghorn si alzò in piedi e ripose la tavoletta d'avorio. «Addio a tutti», salutò. Hagedorn balzò in piedi e lo trattenne per un braccio, implorandolo. Jack Vance
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«Non andartene via perché ti sei adirato, Claghorn! Ripensaci! Abbiamo bisogno della tua saggezza, della tua esperienza!» «Di questo ne sono certo», disse Claghorn. Ma soprattutto, dovete riflettere sul consiglio che vi ho dato prima. Fino ad allora, non abbiamo nulla che ci leghi, e ogni altra discussione sarebbe inutile e stancante.» Fece quindi un breve saluto generale e lasciò la sala. Hagedorn tornò lentamente al proprio posto. Gli altri mostravano dei segni di nervosismo: tossirono, guardarono il candeliere, fissarono le loro tavolette d'avorio. O.Z. Garr mormorò qualcosa a B.G. Wyas, che gli sedeva vicino, e annuì solennemente in risposta. Hagedorn parlò con voce mesta: «Sentiremo la mancanza di Claghorn, e delle sue... penetranti opinioni eterodosse... Abbiamo risolto poco. Uegus, forse vorrai pensare al proiettore di cui si discuteva. Xanten, tu dovevi interrogare il Mek prigioniero. O.Z. Garr, tu andrai a controllare come procede la riparazione dei cannoni ad energia... A parte queste piccole questioni, mi sembra che non sia stato predisposto nessun piano per difenderci o per aiutare Janeil». Parlò Manine: «E gli altri castelli? Esistono ancora? Non abbiamo avuto più notizie. Propongo di mandare gli Uccelli in tutti i castelli per sapere in che condizioni si trovano». Hagedorn annuì. «Sì, mi sembra una mossa saggia. Forse vuoi pensarci tu, Manine?» «Certamente!» «Bene. Per il momento ci aggiorniamo.»
2. Gli Uccelli inviati da Marune di Aure tornarono uno a uno. Le notizie che riportavano erano molto simili: «L'Isola del Mare è deserta. Le colonne di marmo sono crollate sulla spiaggia. La Cupola di Perla è caduta. I cadaveri galleggiano nel Giardino Acquatico». «Maraval odora di morte. Nobili, Contadini, Phane... sono tutti morti. Ahimè! Perfino gli Uccelli se ne sono andati!» «Delora: un ros ros ros! Che scena tetra! Non c'è segno di vita!» «Alume è deserto. La grande porta di legno è stata fatta a pezzi. La Jack Vance
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Fiamma Verde è spenta.» «Non è rimasto più niente a Halcyon. I Contadini sono stati gettati in un pozzo.» «A Tuang, c'è silenzio.» «A Morninglight, morte.»
Capitolo 6. 1. Tre giorni dopo, Xanten costrinse sei Uccelli a portarlo in volo, e li guidò prima su un largo spiazzo intorno al castello, e poi a Sud, alla volta della Valle Lontana. Gli Uccelli fecero le loro solite proteste, ma poi si posarono sul ponte di volo con grossi balzi sgraziati che rischiarono di far cadere Xanten per terra. Preso finalmente il volo, si sollevarono a spirale. Il Castello di Hagedorn divenne una complicata miniatura, con ogni Palazzo contrassegnato dal suo blocco di torrette e nidi d'aquila, la bizzarra forma del tetto, il suo lungo pennone. Gli Uccelli compirono il giro che era stato loro richiesto, sorvolando le rocce e i pinnacoli della Cordigliera Nord, quindi, fendendo l'aria, si innalzarono in direzione della Valle Lontana. Xanten e gli Uccelli volarono sugli ameni domini di Hagedorn: su frutteti, campi, vigneti, villaggi di Contadini. Attraversarono il Lago di Maude con i suoi ponti e padiglioni, le terre verdi dove pascolavano le mucche e le pecore di Hagedorn, e arrivarono infine nella Valle Lontana, al confine delle terre di Hagedorn. Xanten indicò dove desiderava essere posato; gli Uccelli, che avrebbero preferito un punto più vicino al villaggio, dove avrebbero potuto osservare tutto quello che vi avveniva, gracchiarono e strepitarono in segno di protesta, e poggiarono Xanten così rudemente che questi, se non fosse stato attento, sarebbe capitombolato a testa in giù. Xanten atterrò con poca eleganza, però rimase in piedi. «Aspettatemi qui!», ordinò. «Non andatevene in giro, e cercate di non fare scherzi con le cinghie di sospensione. Quando torno, desidero vedere sei Uccelli tranquilli, in formazione ordinata, e le cinghie di sospensione ben tese e non ingarbugliate. Niente bisticci, mi raccomando! E niente Jack Vance
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strilli per attirare l'attenzione. Voglio che sia tutto come vi ho ordinato!» Gli Uccelli fecero il broncio, batterono le zampe, piegarono il collo e borbottarono dei commenti offensivi contro Xanten a bassa voce. Xanten, lanciando loro un ultimo sguardo d'ammonimento, prese il viottolo che conduceva al villaggio. Le viti erano cariche di more mature, e diverse ragazze del villaggio stavano riempiendo i cestini. Tra queste c'era la ragazza che O.Z. Garr aveva preteso per suo uso personale. Mentre passava, Xanten si fermò e le fece un cortese saluto. «Ci siamo già conosciuti, se ricordo bene.» La ragazza gli rivolse un sorriso triste e malizioso al tempo stesso. «La memoria non ti inganna. Ci siamo conosciuti a Hagedorn, dove ero stata condotta come prigioniera. E dopo, quando mi hai portata qui, al calar del sole, anche se non potevo vedere la tua faccia.» Gli tese il cestino. «Hai fame? Vuoi mangiare?» Xanten prese qualche mora. Durante la conversazione apprese che la ragazza si chiamava Glys Meadowseet e che non conosceva i propri genitori, anche se presumibilmente erano due Nobili del Castello di Hagedorn che avevano superato il numero di figli loro permesso. Xanten la osservò anche più attentamente di prima, ma non riuscì a scorgere alcuna somiglianza con le Famiglie di Hagedorn. «Potresti venire dal Castello di Delora. Se riesco a scorgere nel tuo viso una qualche rassomiglianza, allora è quella dei Cosanza di Delora... una Famiglia nota per la bellezza delle sue donne.» «Tu non sei sposato?», domandò lei ingenuamente. «No», disse Xanten, ed era vero, perché aveva sciolto la relazione con Araminta appena il giorno prima. «E tu?» Lei scosse la testa. «Altrimenti non starei qui a raccogliere more; è un lavoro riservato alle fanciulle... Perché sei venuto nella Valle Lontana!» «Per due ragioni. La prima era vedere te», le disse Xanten con sua sorpresa. Ma era vero, si rese conto con sempre maggior sorpresa. «Non ti ho mai parlato come volevo, e mi sono sempre chiesto se sei allegra e affascinante quanto sei bella.» La ragazza alzò le spalle e Xanten non capì bene se il complimento ricevuto le avesse fatto piacere o no. «Comunque non importa. Sono venuto anche per parlare con Claghorn.» Jack Vance
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«È laggiù», disse lei in tono incolore, perfino freddo, e gli indicò un'abitazione. «Vive in quella fattoria.» Riprese quindi a raccogliere le more. Xanten le fece un inchino e si avviò dove la ragazza gli aveva indicato. Claghorn, che indossava un paio di pantaloni aperti alle ginocchia, di un tessuto fatto a mano, stava tagliando con un'ascia la legna per il fuoco. Quando vide Xanten interruppe il lavoro, posò l'ascia e si asciugò la fronte. «Ah, Xanten: sono contento di vederti. Come va al Castello?» «Come prima. Ci sarebbe poco da raccontare, anche se fossi venuto a portarti delle notizie.» «Davvero? Davvero?» Claghorn si appoggiò al manico dell'ascia, scrutando Xanten con i suoi occhi azzurri. «Alla nostra ultima riunione», proseguì Xanten, «dissi che avrei interrogato il Mek prigioniero. Dopo averlo fatto, mi è dispiaciuto che tu non fossi lì ad assistermi, perché forse avresti potuto risolvere l'ambiguità di certe risposte.» «Parla pure», disse Claghorn. «Forse posso chiarirtele adesso.» «Dopo la riunione del Consiglio, sono sceso immediatamente nel magazzino dove era stato rinchiuso il Mek. Gli mancava da mangiare, così gli ho dato dello sciroppo e un mestolo d'acqua, che lui ha bevuto con parsimonia, poi ha manifestato il desiderio di molluschi tritati. Ho chiamato la cucina e ho chiesto questo cibo, e il Mek ne ha ingerite diverse pinte. Come ho detto, era uno strano Mek, alto come me e senza la sacca dello sciroppo. L'ho portato in un'altra stanza, un magazzino di mobili, e gli ho ordinato di sedersi. L'ho guardato e lui ha guardato me. Le antenne che gli avevo spezzato stavano ricrescendo: probabilmente, adesso, poteva almeno ricevere dagli altri Mek. Sembrava una bestia superiore: non mostrava né ossequiosità né rispetto, e rispondeva alle mie domande senza esitazione. Prima gli ho domandato: "I Nobili dei castelli sono stupiti della rivolta dei Mek. Pensavamo che foste contenti di come vivevate. Sbagliavamo?". "Evidentemente." Sono sicuro che è questo che mi ha risposto, anche se non avevo mai immaginato che un Mek potesse essere capace di fare dell'ironia. "Bene, allora", gli ho detto. "In che modo?" "Mi sembra ovvio", ha detto lui. "Non desideravamo più lavorare per voi. Volevamo condurre la nostra vita secondo le nostre usanze Jack Vance
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tradizionali." Questa risposta mi ha sorpreso. Non sapevo che i Mek avessero delle usanze, e men che mai tradizionali.» Claghorn annuì. «Io sono rimasto analogamente sorpreso dalla vastità della mentalità Mek.» «Ho rimproverato il Mek. "Perché uccidere? Perché distruggere le nostre vite per migliorare le vostre?" Non appena gli ho rivolto questa domanda mi sono reso conto di averla formulata male. Anche il Mek, credo, l'ha capito. Comunque mi ha segnalato qualcosa molto rapidamente che ritengo fosse: "Sapevamo che bisognava agire con decisione. Lo rendeva necessario il vostro protocollo. Avremmo potuto tornare su Etamin Nove, ma preferiamo questo mondo, e faremo nostra la Terra, con i nostri grandi scali d'alaggio, le nostre vasche e le nostre rampe per prendere il sole". Il discorso era abbastanza chiaro, tuttavia ho avuto la sensazione che ci fosse qualcos'altro dietro. Gli ho detto: "È comprensibile. Ma perché uccidere, perché distruggere? Avresti potuto trasferirti in un'altra regione. Noi non avremmo potuto darvi fastidio". "Impossibile, per via del vostro modo di pensare. Un mondo è troppo piccolo per due razze in competizione. Voi volevate rimandarci su Etamin Nove." "Ridicolo!", ho detto io. "È pura fantasia, una completa assurdità. Mi prendi per uno stupido?" "No", ha insistito la creatura. "Due Notabili del Castello di Hagedorn erano in gara per la carica più alta. Uno di loro ci ha assicurato che, se veniva eletto, sarebbe stato questo lo scopo della sua vita." "È un equivoco grottesco", gli ho detto. "Un uomo solo, un pazzo, non può parlare per tutti gli altri!" "No? Un Mek parla per tutti i Mek. Noi pensiamo con una mente sola. Voi uomini non siete fatti così?" "Ognuno di noi pensa per se stesso. Il folle che vi ha detto questa assurdità è un uomo malvagio. Noi non abbiamo la minima intenzione di rimandarvi su Etamin Nove. Vi ritirerete da Janeil, vi trasferirete in una terra lontana e ci lascerete in pace?" "No", mi ha detto. "Le cose sono andate troppo oltre. Noi non distruggeremo tutti gli uomini. La verità dell'affermazione è chiara: un mondo è troppo piccolo per due razze." Jack Vance
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"Sfortunatamente, allora, devo ucciderti", gli ho detto. "Atti simili non mi piacciono, ma tu, avendone l'opportunità, uccideresti più Nobili che potresti." A queste parole la creatura mi è saltata addosso, e io l'ho uccisa senza pormi tutti i problemi che mi sarei posto se fosse rimasta li seduta a guardarmi. Adesso sai tutto. Sembrerebbe che siate stati tu o O.Z. Garr a scatenare il cataclisma. O.Z. Garr? Improbabile, anzi impossibile. Quindi sei stato tu, Claghorn! Hai tu questo peso sulla coscienza!» Claghorn abbassò gli occhi sull'ascia. «Peso, sì. Colpa, no. Ingenuità, sì; bassezza, no.» Xanten indietreggiò. «Claghorn, la tua freddezza mi sconvolge! Prima, quando persone piene di rancore come O.Z. Garr ti davano del pazzo...» «Pace, Xanten!», esclamò Claghorn. «Questo insolito alterco sta andando troppo in là. In cosa ho sbagliato? La mia colpa è che ho osato troppo. Il fallimento è tragico, ma un volto tisico dinanzi alla coppa del futuro è anche peggio. Volevo diventare Hagedorn, e avrei mandato gli schiavi a casa. Ho fallito, e gli schiavi si sono rivoltati. Perciò non dire altro. Sono stufo dell'argomento. Non puoi immaginare quanto mi infastidiscono i tuoi occhi sporgenti e la tua schiena concava.» «Sarai anche stufo», esclamò Xanten. «Tu denigri i miei occhi, la mia schiena... ma quelle centinaia di morti?» «Per quanto ancora avrebbero vissuto, in ogni caso? La vita costa poco, come il pesce del mare. Ti suggerisco di lasciar perdere i tuoi rimproveri e di dedicare tutte le energie alla tua salvezza. Lo capisci che un modo esiste? Mi guardi senza capire. Ti assicuro che quello che ti sto dicendo è vero, ma da me non saprai mai qual è questo modo.» «Claghorn», disse Xanten, «sono venuto in volo fin qui per staccarti quella testa arrogante dal corpo...» Claghorn, senza più starlo a sentire, aveva ripreso a spaccare la legna. «Claghorn!», gridò Xanten. «Aspettami!» «Xanten, vai a gridare da qualche altra parte, se vuoi. Fai le tue rimostranze ai tuoi Uccelli.» Xanten girò sui tacchi e si diresse sul sentiero dal quale era venuto. Le ragazze che raccoglievano more lo guardarono interrogativamente e si fecero da parte. Glys Meadowseet non si vedeva. Con nuova furia Xanten Jack Vance
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andò avanti. Subito dopo si fermò. Sul tronco di un albero caduto, a qualche centinaio di metri dagli Uccelli, era seduta Glys Meadowseet, intenta a esaminare un filo d'erba come se fosse una meraviglia del passato. Gli Uccelli, fatto davvero stupefacente, gli avevano veramente obbedito, e lo stavano aspettando in fila ordinata. Xanten alzò la faccia al cielo e prese a calci una zolla d'erba. Inalò un profondo respiro e si avvicinò a Glys Meadowseet. Notò che si era infilata un fiore tra i lunghi capelli sciolti. Dopo qualche secondo la ragazza alzò gli occhi e lo guardò. «Perché sei così arrabbiato?», gli chiese. Xanten si dette uno schiaffo sulla coscia, poi si mise a sedere accanto a lei. «Arrabbiato? No. Ma sono fuori di me dalla frustrazione. Claghorn ha la testa dura come una pietra. Sa come salvare il Castello di Hagedorn ma non vuole rivelare il suo segreto.» Glys Meadowseet rise... una risata divertita e spontanea come Xanten non aveva mai udito al Castello di Hagedorn. «Un segreto? Quale segreto?» «Dev'esserci un segreto», disse Xanten. «E lui non vuole dirmelo.» «Ascolta. Se temi che gli Uccelli possano sentirti, te lo sussurrerò.» Gli disse qualche parola nell'orecchio. Forse il suo dolce alito sconvolse la mente di Xanten, ma l'essenza esplicita della rivelazione non arrivò alla sua coscienza. Rise amareggiato. «Questo non è un segreto. È solamente quello che gli Sciiti definivano nella preistoria un luogo comune. Che disonore per la Nobiltà! Balliamo forse con i Contadini? Serviamo forse agli Uccelli le essenze e discutiamo con loro della lucentezza delle nostre Phane?» «"Disonore", dici?» La ragazza si alzò in piedi. «Allora per te è anche un disonore parlare con me, stare qui seduto in mia compagnia e farmi proposte ridicole...» «Io non ti ho fatto nessuna proposta!», protestò Xanten. «Me ne sto qui seduto con il massimo del decoro...» «Troppo decoro, troppo onore!» Con un impeto di passione che sbalordì Xanten, Glys Meadowseet si strappò il fiore dai capelli e lo gettò in terra. «Ecco, allora!» «No», disse Xanten, improvvisamente umile. Si chinò, raccolse il fiore, lo baciò e glielo rimise nei capelli. «Non sono poi così onorevole. Farò del Jack Vance
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mio meglio.» Le posò le braccia sulle spalle, ma la ragazza lo allontanò. «Dimmi», gli chiese con una severità da donna adulta, «possiedi forse qualcuna di quelle strane donne-insetto?» «Io? Delle Phane? No, non possiedo nessuna Phane.» A questa risposta Glys Meadowseet si rilassò e permise a Xanten di abbracciarla, mentre gli Uccelli gracchiavano, ridevano sguaiatamente e facevano rumori volgari sbattendo le ali.
Capitolo 7. 1. L'estate finì. Il 30 giugno, Janeil e Hagedorn celebrarono la Festa dei Fiori, anche se il muro che circondava Janeil stava diventando sempre più alto. Poco tempo dopo, Xanten fece atterrare di notte nel Castello di Janeil sei Uccelli scelti, e propose al Consiglio di far evacuare la popolazione a bordo degli Uccelli... il più in fretta possibile, per tutti quelli che volevano partire. Gli uomini del Consiglio lo ascoltarono con espressioni impassibili, poi, senza fare commenti, passarono a discutere di altre faccende. Xanten fece ritorno al Castello di Hagedorn. Usando la massima cautela, e parlando solo ai compagni più fidati, preparò una lista di trenta o quaranta Cadetti e Cavalieri che erano disposti a seguirlo, anche se, inevitabilmente, non poté tenere segreta la tesi dottrinale del suo programma. La prima reazione dei Tradizionalisti furono le prese in giro e l'accusa di vigliaccheria. Dietro insistenze di Xanten, i suoi focosi alleati non lanciarono né accettarono sfide. La sera del 9 settembre il Castello di Janeil cadde. La notizia venne portata a Hagedorn dagli Uccelli eccitati, i quali raccontarono centinaia di volte la fosca vicenda, con voci sempre più isteriche. Hagedorn, smagrito e stanco, convocò subito un Consiglio, e rese note le tristi circostanze. «Dunque, siamo ormai rimasti l'ultimo castello! I Mek non possono farci alcun male; possono erigere muri intorno al castello anche per vent'anni riuscendo solo a frustrarsi. Qui siamo al sicuro: eppure è strano sapere che Jack Vance
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qui al Castello di Hagedorn vive l'ultima Nobiltà della razza umana!» Xanten intervenne, parlando con voce tremante e sinceramente convinto. «Vent'anni... cinquanta... che differenza fa per i Mek? Una volta che ci avranno circondati, una volta che si saranno schierati, saremo intrappolati. Lo capite che ora abbiamo l'ultima opportunità per fuggire da quella grande gabbia che il Castello di Hagedorn diventerà tra poco?» «"Fuggire", Xanten? Che parola! Che vergogna!», strepitò O.Z. Garr. «Prendi con te la tua banda di disgraziati, e scappate! Scappate nella tundra, o nella steppa, o nelle paludi! Andatevene dove volete, vigliacchi, ma fate il favore di smetterla di creare questi continui allarmi!» «Garr, mi sento più convinto da quando sono diventato un "vigliacco". La sopravvivenza è una morale giusta. L'ho sentito dire dalla bocca di un famoso saggio.» «Bah! E sarebbe?» «A.G. Philidor, se vuoi sapere i particolari.» O.Z. Garr si batté una mano sulla fronte. «Ti riferisci a Philidor, l'Espiazionista? Appartiene alla frangia più estremista, un Espiazionista che vuole espiare per tutti! Xanten, ragiona, per favore.» «Avremo ancora molti anni di vita», disse Xanten a voce bassa, «se ce ne andremo dal castello.» «Ma il castello è la nostra vita!», dichiarò Hagedorn. «Dimmi, Xanten, che cosa saremmo senza il castello? Animali selvatici? Nomadi?» «Saremmo vivi...» O.Z. Garr fece una smorfia di disgusto e voltò il capo, mettendosi a osservare un arazzo. Hagedorn scosse la testa, dubbioso e perplesso. Beaudry sollevò le mani in alto. «Xanten, hai il potere di farci innervosire tutti quanti. Vieni qui e ci metti una fretta terribile... ma perché mai? Nel castello siamo al sicuro come tra le braccia di nostra madre. Che cosa ci guadagniamo a mettere da parte tutto — onore, dignità, comodità offerte dalla civiltà — soltanto per svignarcela in qualche bosco?» «Janeil era sicuro», disse Xanten. «E dov'è oggi? È ridotto a un cumulo di morti e di rovine. Quello che guadagniamo a svignarcela è la certezza della sopravvivenza. E io ho in mente qualcosa di più del semplice svignarcela.» Jack Vance
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«Posso citarti centinaia di circostanze in cui la morte è preferibile alla vita!», gridò Isseth. «Devo morire disonorato e in disgrazia? Perché non devo passare i miei ultimi anni con dignità?» Entrò in sala B.F. Robarth. «Signori del Consiglio, i Mek si avvicinano al Castello di Hagedorn.» Hagedorn si guardò ansiosamente intorno. «Abbiamo raggiunto un accordo? Che cosa dobbiamo fare?» Xanten sollevò le mani. «Ognuno faccia quello che crede meglio. Io sono stanco di discutere. Hagedorn, vuoi aggiornare il Consiglio in modo da potercene tornare ai nostri problemi e io possa pensare a fuggire?» «Il Consiglio è aggiornato», dichiarò Hagedorn, e allora andarono tutti a guardare dai bastioni. Lungo il viale interno del castello stava arrivando una folla di Contadini giunti dalla campagna circostante con armi e bagagli. In fondo alla valle, dove c'era la Foresta di Bartholomew, si vedeva una massa di carri a energia e di carne amorfa color marrone dorato: erano i Mek. Aure indicò a Ovest. «Guardate: risalgono la Conca Lunga! Si girò poi per guardare a Est. «E guardate laggiù a Bambridge: degli altri Mek!» All'unisono, si voltarono tutti a guardare in direzione della Cordigliera Nord. O.Z. Garr indicò una linea silenziosa di sagome dorate. «Sono lì che aspettano, i vermi! Ci hanno circondati! Bene: allora, facciamoli aspettare!» Si voltò quindi bruscamente, scese con l'ascensore giù in piazza e attraversò velocemente la strada dirigendosi alla Casa degli Zambeld, dove trascorse il resto del pomeriggio con la sua Gloriana, dalla quale si aspettava grandi cose.
2. Il giorno dopo i Mek predisposero accuratamente l'assedio. Intorno al Castello di Hagedorn divenne visibile l'attività di un grosso numero di Mek, intento a costruire baracche, ripari e depositi. All'interno del cerchio, poco al di fuori della portata di tiro dei cannoni a energia, i carri alzavano cumuli di terra. Jack Vance
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Durante la notte tali cumuli proseguirono verso il castello, e lo stesso accadde la notte seguente. Alla fine il loro obbiettivo apparve chiaro: creare uno schermo protettivo sopra i cunicoli e le gallerie che portavano alla rocca sulla quale sorgeva il Castello di Hagedorn. Il giorno seguente diversi cumuli avevano raggiunto la base della roccia. Allora, in fondo, cominciò ad apparire una serie di carri carichi di detriti. Questi arrivarono allo scoperto, rovesciarono i loro carichi, ed entrarono nuovamente nelle gallerie. Erano state edificate otto gallerie sopra il livello del terreno. Da ognuna rotolavano incessanti cumuli di terra e di pietre strappati alla roccia sui cui posava il Castello di Hagedorn. Alla fine i Nobili che affollavano i parapetti compresero il significato di quel lavoro. «Non intendono affatto seppellirci qui dentro», disse Hagedorn. «Vogliono semplicemente toglierci la terra da sotto i piedi!» Il sesto giorno d'assedio, una grossa fetta laterale della collina tremò e crollò, e un alto pinnacolo di roccia che arrivava quasi alla base delle mura del castello si schiantò al suolo. «Se seguiterà così», mormorò Beaudry, «ci rimarrà anche meno tempo di Janeil.» «Avanti, allora!», esclamò O.Z. Garr, improvvisamente attivo. «Cerchiamo di far funzionare i nostri cannoni a energia. Apriremo col fuoco i loro miserabili tunnel, e allora cosa potranno fare quei ribaldi?» Si portò quindi alla piazzola più vicina, e urlò ai Contadini dabbasso di togliere le coperture ai cannoni. Xanten, che in quel momento si trovava lì vicino, disse: «Permettimi di aiutarti». Scoperchiò l'incerata, poi aggiunse: «Adesso spara pure, se vuoi». O.Z. Garr lo fissò senza comprendere, quindi fece un balzo avanti e girò il grosso proiettore in modo da puntarlo contro un rilievo del terreno. Premette il pulsante: l'aria crepitò davanti alla bocca della canna, quindi s'increspò e brillò di scintille rosse. Il punto scelto come bersaglio eruttò fumo, divenne nero e poi rosso scuro, e alla fine rimase solo un cratere incandescente. Ma la terra sottostante, che era spessa una ventina di piedi, faceva da isolante, sicché la buca infuocata diventò color bianco incandescente, ma non si allargò. Il cannone a energia ebbe una vibrazione improvvisa provocata da un corto circuito nel materiale isolante, e tacque. O.Z. Garr esaminò il Jack Vance
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meccanismo con rabbia e delusione; poi, con un gesto di disprezzo, voltò le spalle. I cannoni, evidentemente, avevano un'efficacia limitata. Due ore dopo, sul fianco Est della rocca, crollò un'altra grossa fetta di terreno e, poco prima del tramonto, una massa simile si staccò dalla facciata Ovest, dove il muro del castello si alzava in una linea quasi ininterrotta sulla roccia sottostante. A mezzanotte Xanten e i suoi seguaci, con le loro consorti e i loro bambini, abbandonarono il Castello di Hagedorn. Sei squadre di Uccelli decollarono dal ponte di lancio dirigendosi verso un pendio nei pressi della Valle Lontana, e molto prima dell'alba avevano trasportato tutto il gruppo. Non ci fu nessuno a dire loro addio.
3. Una settimana più tardi si staccò un'altra sezione di roccia, a Est, portando via un bel pezzo di sostegno. Alla bocca dei tunnel le pile di detriti erano diventate alte in misura allarmante. La parte Sud della rocca, quella terrazzata, era la meno danneggiata, poiché i danni più spettacolari erano stati fatti a Est e a Ovest. Ma, all'improvviso, un mese dopo il primo assalto, si staccò anche una grossa sezione del terrazzamento, lasciando un crepaccio irregolare che interruppe il viale e buttò giù tutte le statue degli antichi notabili poste a intervalli regolari lungo la balaustrata del viale. Hagedorn convocò il Consiglio. «Le circostanze», disse, nel debole tentativo di risultare scherzoso, «non sono migliorate. Sono state superate le nostre previsioni più pessimistiche: è una situazione pericolosa. Confesso che non mi aggrada la prospettiva di morire tra i miei averi ridotti in pezzi.» Aure fece un gesto di disperazione. «Tremo anch'io a un pensiero simile! La morte... che importa? Tutti dobbiamo morire! Ma quando penso ai miei preziosi beni mi sento male. I miei libri calpestati! I miei fragili vasi fatti a pezzi! I miei tabarri strappati! I miei tappeti sotterrati! Le mie Phane strangolate! I miei candelieri di famiglia buttati da parte! È questo il mio incubo!» «I tuoi averi non sono meno preziosi di quelli degli altri», tagliò corto Beaudry. «Tuttavia, non hanno vita propria; quando noi ce ne saremo Jack Vance
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andati, a chi importerà quello che avverrà di loro?» Marune sgranò gli occhi. «Un anno fa ho conservato diciotto dozzine di fiasche di prima essenza; dodici dozzine di Pioggia Verde; tre di Bamthazar e tre di Faidor. Pensate a quale tragedia!» «Se solo l'avessimo saputo!», si lamentò Aure. «Avrei... avrei...» La sua voce si spense. O.Z. Garr batté un piede per terra spazientito. «Cerchiamo di evitare di lamentarci! Avevamo una scelta, ricordate? Xanten ci ha scongiurati di fuggire; adesso lui e i suoi se ne stanno tra le montagne su a Nord, con gli Espiazionisti, a strisciare nell'ombra e a cercare cibo. Noi abbiamo scelto di restare, nel bene e nel male, e sfortunatamente si è verificato il peggio. Dobbiamo accettare questo fatto da veri Nobili.» A queste parole il Consiglio dette un malinconico assenso. Hagedorn tirò fuori una fiasca di Rhadamanth di inestimabile valore e lo versò con una generosità che solo poco tempo prima sarebbe stata inconcepibile. «Dal momento che non abbiamo futuro... al nostro glorioso passato!» Quella notte ci furono disturbi ovunque nel cerchio dei Mek assedianti: fiamme in quattro punti diversi, deboli rumori di grida. Il giorno dopo sembrò che la loro attività avesse leggermente rallentato. Durante il pomeriggio, tuttavia, crollò una grossa fetta di roccia a Est. Un attimo dopo, come per un volere terribile, l'alto muro a Est si spaccò in due e cadde al suolo, lasciando il retro di sei case esposte al cielo aperto. Un'ora dopo il tramonto, una squadra di Uccelli si posò sul ponte di decollo. Dal sedile balzò giù Xanten. Discese la scala circolare fino ai bastioni, quindi arrivò nella piazza vicino al palazzo di Hagedorn. Hagedorn, chiamato da un parente, scese giù e fissò Xanten sbalordito. «Che cosa fai qui? Pensavamo che ormai fossi al sicuro a Nord con gli Espiazionisti!» «Gli Espiazionisti sono al sicuro a Nord», disse Xanten. «Si sono uniti a noi. Stiamo combattendo.» Hagedorn rimase a bocca aperta. «Combattendo? I Nobili stanno combattendo con i Mek?» «Con il massimo del vigore possibile.» Hagedorn scosse la testa esterrefatto. «Anche gli Espiazionisti? Credevo che avessero in mente di fuggire a Nord.» Jack Vance
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«Alcuni l'hanno fatto, compreso A.G. Philidor. Esistono diverse fazioni tra gli Espiazionisti, come da noi. Alcuni si trovano ormai a dieci miglia di distanza. E lo stesso per i Nomadi: alcuni hanno preso i loro carri e sono scappati, il resto sta uccidendo i Mek con fervore fanatico. Stanotte avrete visto il nostro operato: abbiamo incendiato quattro depositi, distrutto le cisterne dello sciroppo, ucciso un centinaio di Mek, ed eliminato una dozzina di carri. Abbiamo avuto delle perdite, che ovviamente incidono molto dal momento che noi siamo pochi e i Mek sono tanti. È per questo che sono qui. Ci servono altri uomini. Venite a combattere al nostro fianco!» Hagedorn si voltò e indicò la grande piazza centrale. «Chiamerò tutti perché escano dalle Case. Parlerò a tutti loro.»
4. Gli Uccelli, lamentandosi molto per quell'eccesso di lavoro, lavorarono tutta la notte per trasportare i Nobili che, rinsaviti dalla distruzione imminente del Castello di Hagedorn, adesso erano pronti ad abbandonare ogni scrupolo e combattere per la propria vita. I Tradizionalisti più fieri si rifiutarono di scendere a compromessi — con il proprio onore, ma Xanten li rassicurò con il sorriso sulle labbra: «Restate qui, allora, ad aggirarvi nel castello furtivamente come i ratti. Confortatevi come meglio potete pensando di essere protetti; il futuro non vi riserva altro!». Molti che lo sentirono, se ne andarono via alla svelta indignati. Xanten si rivolse a Hagedorn: «E tu? Vieni con noi o rimani?». Hagedorn trasse un profondo sospiro, quasi un lamento. «Il Castello di Hagedorn è arrivato alla fine. Qualunque cosa succeda, verrò con voi.»
5. La situazione improvvisamente era mutata. I Mek, che si erano disposti ad anello aperto intorno al castello, non avevano calcolato una possibile resistenza dalla parte della campagna o dal Jack Vance
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castello stesso. Avevano eretto le loro baracche e i loro depositi di sciroppo pensando soltanto alla comodità, e non alla difesa; i gruppi d'assalto, perciò, riuscivano ad avvicinarsi, a far danni e a ritirarsi prima di subire perdite serie. I Mek posizionati lungo la Barriera Nord venivano attaccati quasi di continuo e, alla fine, furono costretti ad andarsene dalle numerose perdite avute. Il cerchio intorno al Castello di Hagedorn divenne una cuspide; poi, due giorni dopo, quando furono distrutti altri cinque depositi di sciroppo, i Mek furono costretti a ritirarsi ancora. Abbandonati gli scavi davanti ai due tunnel che portavano sotto la facciata Sud della rocca, costituirono una posizione difensiva più o meno mantenibile, ma adesso, anziché essere gli assedianti, erano gli assediati, anche se dalla roccia uscivano in continuazione carri carichi di detriti. All'interno dell'area così difesa, i Mek concentrarono le loro ultime scorte di sciroppo, gli attrezzi, le armi e le munizioni. L'area circostante gli scavi venne illuminata dopo il crepuscolo e sorvegliata da Mek armati con fucili a pallottole: la loro presenza rendeva impossibile un attacco frontale. I guastatori si tennero per tutto un giorno al riparo nei frutteti circostanti, valutando la nuova situazione, poi venne tentata una nuova tattica. Furono approntati sei carri leggeri carichi di palloncini gonfi d'olio infiammabile, a ognuno dei quali era legata una granata. A ogni carro vennero legati dieci Uccelli, e a mezzanotte furono fatti partire con un uomo alla guida di ciascuno. Volando prima in alto, gli Uccelli si abbassarono poi, protetti dal buio, sulla posizione dei Mek, dove sganciarono le bombe incendiarie. Tutta l'area prese istantaneamente fuoco. Lo sciroppo bruciò, e i carri, svegliati dalle fiamme, rotolarono come impazziti da tutte le parti, schiacciando i Mek e le scorte, collidendo l'uno contro l'altro e aggiungendo nuovo terrore all'incendio. I Mek sopravvissuti si ripararono nei tunnel. Assicurandosi che tutte le luci fossero spente e approfittando della confusione, gli uomini attaccarono i terrapieni. Dopo una breve e accesa battaglia, gli uomini uccisero tutte le sentinelle e conquistarono le posizioni davanti all'ingresso dei tunnel, dove ormai si era raccolto il rimanente dell'esercito Mek. Sembrava che i Mek ribelli fossero stati messi a tacere.
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Capitolo 8. 1. Le fiamme si spensero. I guerrieri umani — trecento uomini provenienti dal castello, duecento Espiazionisti e circa trecento Nomadi — si radunarono davanti all'ingresso del tunnel e, durante la notte, pensarono a come affrontare i Mek imprigionati dentro. All'alba, gli uomini del castello i cui figli e le cui mogli erano rimasti ancora dentro, andarono a liberarli. Con loro tornò anche un gruppetto di Nobili, tra i quali c'erano Beaudry, O.Z. Garr, Isseth e Aure. Questi salutarono i loro antichi pari, Hagedorn, Xanten, Claghorn e gli altri, cortesemente, ma con un certo distacco austero con il quale volevano sottolineare la perdita di prestigio subita da quelli che avevano combattuto contro i Mek come se fossero loro pari. «E adesso cosa succederà?», domandò Beaudry a Hagedorn. «I Mek sono in trappola ma non potete stanarli. È possibile che abbiano delle riserve di sciroppo nei loro carri; potrebbero resistere benissimo per mesi.» O.Z. Garr, valutando la situazione da stratega, si fece avanti con un piano d'attacco. «Andate a prendere i cannoni — o fatelo fare ai vostri subalterni — e montateli sui carri. Quando quei vermi saranno abbastanza deboli, fateli rotolare dentro il tunnel e schiacciateli tutti, a parte un numero congruo di forza lavoro per il castello. Anticamente ne avevamo quattrocento, per cui dovrebbero bastare.» «Aha!», esclamò Xanten. «È con molto piacere che ti informo che questo non succederà mai. Se ci sarà qualche Mek sopravvissuto, riparerà le navi spaziali e ci insegnerà come mantenerle, dopodiché li riporteremo insieme ai Contadini sul loro mondo natale.» «E come credete che riusciremo a vivere?», domandò Garr, gelido. «Avete il generatore dello sciroppo: adattatevi delle sacche e bevete sciroppo.» Garr reclinò la testa e lo fissò con freddezza dall'alto in basso. «Questa è la tua voce, e la tua insolente opinione, ma dobbiamo ancora sentire il parere degli altri. Hagedorn... tu eri un Nobile. È questa anche la tua filosofia? Che la civiltà, cioè, debba morire?» «Non morirà», disse Hagedorn, «se tutti non — sì, anche tu — lavoreremo per salvarla. Non ci saranno più schiavi. Di questo sono Jack Vance
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convinto.» O.Z. Garr si voltò e si mise a camminare sul viale che portava al castello, seguito dai suoi camerati più tradizionalisti. Qualcuno si radunò da una parte e cominciò a parlottare a bassa voce, lanciando ogni tanto un'occhiata a Xanten e a Hagedorn. Dai bastioni del castello giunse un grido improvviso: «I Mek! Stanno occupando il castello! Hanno invaso i corridoi! Ci attaccano! Salvateci!». Gli uomini dabbasso guardarono il castello costernati. Nell'attimo stesso in cui guardavano, le porte del castello si aprirono con violenza. «Com'è possibile?», chiese Hagedorn. «Avrei giurato che si fossero rifugiati tutti nelle gallerie!» «È anche troppo chiaro», disse Xanten amareggiato. «Mentre scavavano il terreno, hanno creato un tunnel che porta ai livelli inferiori!» Hagedorn si lanciò avanti come se volesse attaccare la rocca da solo, poi si fermò. «Dobbiamo ricacciarli. Non è possibile che saccheggino il nostro castello!» «Sfortunatamente», disse Claghorn, «le mura ci sbarrano la strada esattamente come prima la sbarravano ai Mek.» «Possiamo mandare un contingente di uomini aviotrasportati dagli Uccelli! Una volta conquistata la posizione, potremo ricacciarli! Sterminarli!» Claghorn scosse la testa. «Possono aspettare sui bastioni e sulla pista di volo e poi colpire gli Uccelli non appena arrivano. Anche se riuscissimo a entrare nel castello, sarebbe un massacro: uno di noi per uno di loro. E bisogna tener presente che ci superano in numero di tre contro uno.» Hagedorn mugugnò. «Il solo pensiero di vederli spadroneggiare con i miei averi, mettersi i miei vestiti, bere le mie essenze... mi fa star male!» «Ascoltate!», disse Claghorn. Dall'alto venivano grida rauche di uomini e crepitii di cannone. «Qualcuno, almeno, resiste sui bastioni!» Xanten raggiunse un gruppo di Uccelli finalmente spaventati e sottomessi dagli eventi. «Portatemi sopra il castello, fuori tiro delle pallottole, ma da dove possa vedere che cosa fanno i Mek!», ordinò. «Attento, stai attento!», gracchiò un Uccello. «Succedono cose brutte al Jack Vance
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castello.» «Non importa; portatemi su, sopra i bastioni.» Gli Uccelli lo sollevarono, volarono in ampio cerchio intorno alla rocca e sopra al castello, a distanza di sicurezza dalle pallottole dei Mek. Vicino ai cannoni ancora funzionanti c'erano una trentina di persone tra donne e bambini. Tra le Case, la Rotonda e il Palazzo, ovunque non arrivassero i cannoni, le strade brulicavano di Mek. La piazza era gremita di cadaveri: Cavalieri, Dame e bambini... tutti quelli che avevano scelto di restare al Castello di Hagedorn. A uno dei cannoni c'era O.Z. Garr. Vedendo Xanten, lanciò un urlo di collera isterica, caricò il cannone e sparò. Gli Uccelli, starnazzando, cercarono di portarsi di lato, ma la carica ne colpì due. Uccelli, macchina e Xanten caddero giù in un groviglio. Per un miracolo, i quattro ancora vivi riuscirono a ritrovare l'equilibrio a un centinaio di piedi da terra, e con uno sforzo disperato rallentarono la caduta, si rimisero dritti, restarono sospesi qualche secondo, poi si posarono a terra. Xanten cercò di liberarsi dal groviglio, mentre arrivavano degli uomini di corsa. «Sei salvo?», domandò Claghorn. «Salvo, sì. E anche spaventato.» Xanten riprese fiato, quindi andò a sedersi su una roccia. «Che succede lassù?», volle sapere Claghorn. «Sono tutti morti!», disse Xanten. «Tranne un pugno di persone. Garr è impazzito. Mi ha sparato.» «Guardate! I Mek sono sui bastioni!», gridò A.L. Morgan. «Lassù!», urlò qualcun altro. «Degli uomini! Saltano!... No, vengono buttati giù.» Alcuni erano uomini, altri Mek trascinati con loro nella caduta, e precipitavano lentamente incontro alla morte. Poi non cadde più nessuno. Il Castello di Hagedorn era in mano ai Mek. Xanten osservò la sagoma del castello, al tempo stesso così familiare e così estranea. «Non possono sperare di resistere. Non dobbiamo far altro che distruggere le celle solari, e non potranno più sintetizzare lo sciroppo.» «Facciamolo subito», disse Claghorn, «prima che ci pensino, tarmiamo gli Uccelli.» Andò a impartire gli ordini, e quaranta Uccelli, ognuno con due pietre della grandezza di una testa umana, si sollevarono in cielo, sorvolarono in circolo il castello e poi tornarono riferendo che le Jack Vance
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celle solari erano state distrutte. Xanten disse: «Non resta altro che sigillare le entrate dei tunnel per prevenire un'irruzione improvvisa che potrebbe coglierci alla sprovvista... e poi aspettare». «E i Contadini dentro le stalle... e le Phane?», domandò Hagedorn sconsolato. Xanten scosse lentamente la testa. «Chi non era un Espiazionista prima, dovrà diventarlo adesso.» Claghorn mugugnò: «Possono sopravvivere due mesi... non di più». Ma passarono due mesi, poi tre, e poi quattro: una mattina, e grandi porte si aprirono e venne avanti un Mek smunto e ricurvo che segnalò: «Uomini, stiamo morendo di fame. Abbiamo rispettato i vostri tesori. Lasciateci vivere o distruggeremo tutto prima di morire». Claghorn rispose: «Queste sono le nostre condizioni. Vi concediamo salva la vita. Dovete ripulire il castello e portare via i cadaveri. Dovete riparare le navi spaziali e insegnarci come manovrarle. Poi vi riporteremo su Etamin Nove».
2. Cinque anni dopo Xanten e Giys Meadowseet, con i loro due bambini, stavano viaggiando verso Nord, e si erano allontanati da casa loro, che sorgeva vicino al fiume Sande. Trovandosi da quelle parti, decisero di far visita al Castello di Hagedorn, dove adesso vivevano una quarantina di persone, tra le quali Hagedorn. Era invecchiato: così sembrò a Xanten. I suoi capelli erano diventati bianchi: la faccia, un tempo piena e rubiconda, si era assottigliata, assumendo un colorito quasi ceruleo. Xanten non capiva il suo stato d'animo. Stavano all'ombra di un nocciolo, con il castello e la rocca che torreggiavano sopra di loro. «Adesso è diventato un grande museo», disse Hagedorn. «Io sono il Curatore, e questa sarà la carica di tutti gli Hagedorn che verranno dopo di me, perché vi sono dei tesori inestimabili da sorvegliare e conservare. Nel Jack Vance
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castello già si respira un'atmosfera d'antiquariato. Nelle Case aleggiano i fantasmi. Li vedo spesso, specie nelle notti di festa... Ah, quelli sì che erano bei tempi, vero, Xanten?» «Sì, è vero», disse Xanten. Accarezzò le teste dei suoi figli. «Tuttavia non desidero riviverli. Adesso siamo uomini e abbiamo il nostro mondo, a differenza di prima.» Hagedorn assentì con una sorta di rimpianto. Guardò la grossa struttura come se fosse la prima volta che vi posava gli occhi. «Le generazioni future... che cosa penseranno del Castello di Hagedorn? Dei suoi tesori, dei suoi libri, dei suoi tabarri?», chiese. «Verranno a vederlo e si meraviglieranno», disse Xanten. «Quasi come faccio io oggi.» «C'è molto di cui meravigliarsi. Vuoi venire dentro, Xanten? Ci sono ancora delle fiasche di ottima essenza.» «No, ti ringrazio», disse Xanten. «Risveglierei troppi antichi ricordi. Ce ne andremo per la nostra strada, e credo anche subito.» Hagedorn annuì tristemente. «Ti capisco. Io stesso, sovente, mi abbandono ai ricordi dei vecchi tempi. Allora arrivederci, e fate buon viaggio.» «Senz'altro, Hagedorn. Grazie, e arrivederci.»
Ulan Dhor Il principe Kandive dalla barba d'oro disse, con espressione severa, al nipote Ulan Dhor: «Dev'essere chiaro che lo scopo dell'ingrandimento della mia imbarcazione e la nuova conoscenza saranno divisi fra noi». Ulan Dhor, un giovanotto snello, dalla pelle bianca, e dagli occhi ancora più neri dei capelli e delle sopracciglia, sorrise tristemente. «Ma tocca a me andare alle Acque Dimenticate. Sono io che devo battermi contro i demoni del mare.» Kandive si appoggiò ai suoi cuscini, dicendo: «E tocca a me rendere l'avventura possibile. Inoltre, io sono già uno stregone completo; l'incremento della conoscenza aumenterà un po' il mio potere. Tu, che non sei neppure un novizio, acquisterai tale sapere quando andrai tra i maghi di Ascolais. Allora la tua situazione cambierà molto Jack Vance
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rispetto al tuo inerte stato attuale. Visto sotto questo aspetto, il mio guadagno è piccolo, il tuo è grande». Ulan Dhor ghignò: «Questo è abbastanza vero, sebbene io protesti per la parola "inerte". Io conosco la critica di Phandaal del Gelo, e sono riconosciuto come un maestro della spada, classificato tra gli otto Delafasiani come un...». «Bah!», schernì Kandive. «L'insulso comportamento di questa gente pallida, che consuma la propria vita, che parla di assassini, che vive in una stravagante intemperanza, mentre la Terra trascorre le sue ultime ore! Nessuno di voi ha osato allontanarsi più di un miglio da Kaiin.» Ulan Dhor si trattenne, riflettendo che il principe Kandive era noto per non disprezzare i piaceri del vino, dell'amore e della tavola, e che la sua più lontana sortita dal palazzo lo aveva portato su un'imbarcazione sul fiume Scaum. Kandive, calmato dal silenzio di Ulan Dhor, posò davanti a sé una scatola d'avorio. «Allora, se siamo d'accordo, io ti darò la conoscenza che possiedo.» Ulan Dhor annuì: «Siamo d'accordo». Kandive, soddisfatto, proseguì: «La missione che ti affido ti porterà alla perduta città di Ampridatvir». Egli spiò il volto di Ulan Dhor, ma questi mantenne un'espressione impassibile. «Io non l'ho mai vista», continuò Kandive. «Porrina è l'ultima delle città dell'Olek'hnit, situata su un'isola nel nord Melantino.» Egli aprì la scatola. «Ho trovato questo manoscritto in un antico rotolo di carte... il testamento di un poeta, che fuggì da Ampridatvir, dopo la morte di Rogol Domedonfors, il loro ultimo grande condottiero. Egli era un mago potente, citato ben quarantatré volte nella Enciclopedia...» Kandive tirò fuori un vecchio foglio arrotolato e, svoltolo, lesse: «... Ampridatvir ora è perduta. La mia gente ha abbandonato la sua antica dottrina di forza e disciplina, e crede soltanto nella teologia e nella superstizione. Continuo è il discutere: è Pansiu un eccellente principe, e Cazdal un depravato? Oppure: è Cazdal un dio virtuoso, e Pansiu un vero malvagio? Queste discussioni sono dibattute, sostenute col ferro e col fuoco, e ancora questo ricordo mi fa male. Ora io lascio Ampridatvir al declino che Jack Vance
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verrà certamente, e torno alla dolce valle di Mal-Palusas, dove finirà questa mia vita di lucciola. Ho conosciuto tutto ciò che di antico c'era in Ampridatvir, ho visto le torri scintillanti di meravigliose luci, che lanciavano fasci luminosi nella notte, capaci di far impallidire il sole. Allora, Ampridatvir era bellissima... ah, come duole il mio cuore, quando penso all'antica città! Pampini di viti scendevano da migliaia di giardini pensili, l'acqua scorreva azzurra nei tre canali. Vetture di metallo correvano per le strade, scafi di metallo scivolavano nell'aria, fitti come le api attorno a un alveare. Meraviglia delle meraviglie, noi avevamo progettato macchine che sputavano fuoco per vincere l'attrazione terrestre... Ma, anche nella mia vita io vidi la decadenza dello spirito! Un eccesso di miele che disgustava la lingua, un eccesso di vino che intorpidiva il cervello, un eccesso di grasso che toglieva la forza; luce, calore, cibo, acqua erano a portata di tutti gli uomini, e si ottenevano con sforzo minimo. Così la gente di Ampridatvir, che rifuggiva dalla fatica, divenne sempre più flaccida, perversa, e ignorante. Secondo gli ultimi miei ricordi, Rogol Domedonfors governa la città. Egli possedeva la conoscenza di tutte le età, dei segreti del fuoco e della luce, della gravità e dell'antigravità, della numerazione superfisica, della metapsichica. A dispetto della sua sapienza, egli non sapeva governare, era cieco all'intorpidimento dello spirito dei suoi sudditi. Come si accorse di tale debolezza letargica, egli l'attribuì a una mancanza di educazione, e, nei suoi ultimi anni, costruì una tremenda macchina per liberare gli uomini da tutta la fatica, e così permettere pieno agio per la meditazione e la disciplina ascetica. Mentre Rogol Domedonfors completava il suo grande lavoro, la città si perdeva in tumulti violenti... il risultato di un bizzarro isterismo religioso. Le sette rivali di Pansiu e di Cazdal esistevano da molto tempo, ma pochi, tranne i sacerdoti, avevano fino allora prestato attenzione alla disputa; improvvisamente i culti divennero di moda: la popolazione si riuniva a venerare l'una o l'altra delle divinità. I sacerdoti, gelosi rivali già da tempo, si sentirono esaltati dal loro nuovo potere, e spronarono i convertiti a uno zelo fanatico. Sorsero motivi di attrito, la passione crebbe, ci furono tumulti e violenze. Un maledetto giorno, una pietra colpì Rogol Domedonfors, facendolo precipitare da un balcone. Storpiato, consumato, ma rifiutandosi di morire, Rogol Domedonfors Jack Vance
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completò il suo segreto meccanismo: installò sottopassaggi in ogni punto della città, e finalmente si buttò sul suo letto di morte. Diede le direttive per la sua nuova macchina e, quando Ampridatvir si svegliò la mattina seguente, la gente trovò la città senza energia o luce, le industrie che fornivano il cibo ferme, i canali dirottati. Nel terrore, essi si precipitarono da Rogol Domedonfors, che disse: "Io sono stato a lungo cieco di fronte alla vostra decadenza e alle vostre sfrenatezze; ora vi disprezzo. Voi siete stati la mia morte!". "Ma la città muore! La razza perisce!", essi gridavano. "Dovete voi salvare voi stessi", spiegò Rogol Domedonfors. «Voi avete ignorato l'antica saggezza, siete stati troppo indolenti per imparare, avete cercato una compiacenza facile nella religione, piuttosto che affrontare la fatica del mondo. Perciò, ho deciso di sottoporvi a un'amara esperienza, che spero sarà salutare." Chiamò i sacerdoti rivali di Pansiu e di Cazdal, e porse a ognuno una tavoletta di metallo trasparente. "Queste tavolette da sole sono inutili; poste una accanto all'altra, possono rivelare un messaggio. Colui che leggerà il messaggio riavrà la chiave dell'antica conoscenza, e acquisterà il potere che io avevo preparato per me solo. Ora, andate, e io morirò." I sacerdoti, fissandosi con invidia l'un l'altro, si allontanarono, chiamarono i loro seguaci, e cominciò una grande guerra. Il corpo di Rogol Domedonfors non fu mai trovato, e qualcuno dice che il suo scheletro giace ancora in qualche passaggio sotto la città. Le tavolette sono conservate nei templi rivali. Di notte c'è assassinio, di giorno c'è fame nelle strade; molti sono sfuggiti nel continente, e ora li seguo anch'io, abbandonando Ampridatvir, l'ultima patria della mia razza. Costruirò una casetta di legno sulle pendici del monte Liu, e trascorrerò i miei ultimi giorni nella valle di Mel-Palusas». Kandive arrotolò il foglio, e lo rimise nella scatola. «Il tuo compito», spiegò ad Ulan Dhor, «è di andare ad Ampridativr, e riconquistare la magia di Rogol Domedonfors. Ulan Dhor commentò, pensieroso: «È stato tanto tempo fa... migliaia di anni...». «Giusto», convenne Kandive. «Tuttavia nessun'altra storia parla di Rogol Domedonfors, e perciò io credo che la sua saggezza sia ancora da scoprirsi, nell'antica Ampridatvir. Jack Vance
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Da tre settimane Ulan Dhor navigava sul placido oceano. Il sole si alzò brillante, sanguigno, e salì alto nel cielo; l'acqua era calma, appena increspata dalla brezza, e due scie gemelle si allargavano a segnare il cammino di Ulan Dhor. Poi venne il tramonto, l'ultimo triste sguardo del sole sul mondo, poi il crepuscolo color di porpora, e la notte. Le antiche stelle apparvero nel cielo, e la scia dietro Ulan Dhor prese un color bianco livido. Poi, egli osservò l'ondeggiare ritmico della superficie marina, sentendosi molto solo sull'oceano cupo. Da tre settimane Ulan Dhor navigava nel golfo Melantino, a Nord e a Ovest, quando un mattino vide alla destra l'ombra oscura di una costa, e alla sinistra il profilo di un'isola quasi perduta nella nebbia. Vicino alla sua prora, ornata da una testa di capra, un rozzo barcone si muoveva pigro, sotto una vela quadrata di canne intrecciate. Ulan Dhor diresse il corso in modo da avvicinarsi, e vide sul barcone due uomini che pescavano. Essi avevano capelli color giallo-avena, occhi azzurri, che, in quel momento, si spalancavano stupefatti. Ulan Dhor imbrogliò la vela, e si tenne vicino al barcone. I pescatori non si mossero né parlarono. Ulan Dhor disse: «Sembra che non siate abituati a vedere la gente!». Il più vecchio, improvvisamente, cominciò a cantare, con nervosismo, un canto, che Ulan Dhor comprese essere un'invocazione contro i demoni maligni. Ulan Dhor rise. «Perché lanci scongiuri contro di me? Io sono un uomo come voi.» Il più giovane spiegò: «Noi crediamo che tu sia un demone, prima perché non c'è alcuno della nostra razza con i capelli e gli occhi neri come la notte, poi, la Parola di Pansiu nega l'esistenza di altre razze umane. Perciò, tu non puoi essere un uomo, e devi essere un demone». L'uomo più vecchio bisbigliò: «Tieni la lingua a posto, non parlare: potrebbe maledirci». «Avete torto, ve lo assicuro», replicò Ulan Dhor con calma. «Avete voi mai visto un demone?» «Nessuno, tranne i Gauns.» «E io assomiglio ai Gauns?» «Non del tutto», ammise il più vecchio. Il suo compagno indicò la veste Jack Vance
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scarlatta e i calzoni verdi di Ulan Dhor: «Egli è evidentemente un pirata. Nota il colore del suo abito!». Ulan Dhor replicò: «No, non sono né un pirata, né un demone. Sono semplicemente un uomo...». «Non esistono uomini eccetto i Verdi... Così dice Pansiu.» Ulan Dhor gettò indietro il capo, e rise di gusto. «La Terra è, sì, selvaggia e piena di rovine, ma ancora molti uomini vivono in diversi luoghi... Ditemi, la città di Ampridatvir si trova su quell'isola di fronte a noi?» Il giovanotto annuì. «E voi abitate là?» Il giovanotto annuì ancora. Ulan Dhor disse, imbarazzato: «Credevo che Ampridatvir fosse una rovina abbandonata, dimenticata, desolata...». Il giovanotto domandò con aria scaltra: «E che cosa cerchi ad Ampridatvir?». Ulan Dhor pensò: «Parlerò delle tavolette, e osserverò le loro reazioni. Occorre sapere se esse siano conosciute, e, se così è, come siano custodite». «Ho viaggiato per tre settimane sul mare», disse, «per trovare Ampridatvir e indagare sulle leggendarie tavolette.» «Ah!», esclamò il più vecchio. «Le tavolette! Allora, è un pirata. Lo vedo chiaramente: guarda i suoi calzoni verdi. Un pirata per i Verdi...» Ulan Dhor, aspettando ostilità come risultato di tale identificazione, fu sorpreso di trovare un'espressione più amichevole sui volti di quegli uomini, come se ora avessero risolto un penoso paradosso. «Molto bene», pensò. «Se vogliono che io sia così, lasciamoglielo credere.» Il giovanotto volle chiarire del tutto la questione: «È quello, allora, il tuo scopo, uomo bruno? Porti il rosso come un pirata per i Verdi?». Ulan Dhor disse con cautela: «I miei piani non possono essere rivelati». «Ma tu porti il rosso... il colore dei pirati!» «Ecco un modo di pensare veramente notevole», rifletté Ulan Dhor. «È quasi come se una roccia avesse bloccato il corso del loro pensiero e Jack Vance
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deviato la corrente in una palude.» Egli disse: «Da dove vengo io, ogni uomo sceglie i colori che vuole». Il vecchio pescatore protestò aggressivo: «Ma tu porti il Verde! Così, evidentemente, hai scelto di fare il pirata per i Verdi!». Ulan Dhor alzò le spalle, sentendo che non poteva convincerli a ragionare. «Se voi lo volete. Chi altri c'è là?» «Nessun altro», replicò il vecchio. «Noi siamo i Verdi di Ampridatvir.» «Allora, un pirata chi può derubare?» Il più giovane si agitò, imbarazzato, e disse a sua volta: «Di solito vuole rubare, in un tempio in rovina, dedicato a Cazdal, le ultime tavolette di Rogol Domedonfors». «In tal caso», assentì Ulan Dhor, «potrei diventare un pirata!» «Per i Verdi!», sottolineò il vecchio, fissandolo intensamente. «D'accordo, è sufficiente», disse l'altro. «Il sole ha superato lo zenith. Faremmo meglio a tornare a casa.» «Sì, sì», disse il vecchio con energia. Il sole sta calando.» Il giovanotto guardò Ulan Dhor e lo incitò: «Se vuoi fare il pirata, è meglio che tu venga con noi». Ulan Dhor gettò una gomena a quelli del barcone, aggiungendo la sua vela a quella di canne intrecciate, e le due imbarcazioni insieme puntarono verso la costa. Era veramente bello andare verso le colline illuminate dal sole, verso quell'isola lussureggiante di foreste! Come essi girarono il capo orientale, Ampridatvir apparve. Una linea di basse costruzioni si affacciava sul porto, e al di là si innalzavano le torri più alte che Ulan Dhor avesse mai immaginato: guglie di metallo si levavano dal centro dell'isola come dardi nella luce del sole. Simili città erano leggende del passato, sogni del tempo in cui la Terra era giovane. Ulan Dhor considerò il barcone, i verdi camiciotti dei pescatori. Egli, arrivando nella città lucente, sarebbe apparso ridicolo? Si voltò a disagio verso l'isola, mordendosi le labbra. Secondo Kandive, Ampridatvir doveva essere una città in rovina, come quella antica sopra Kaiin. Il sole calò sull'acqua, e Ulan Dhor, con un improvviso sussulto, notò che le torri alla base erano sgretolate... secondo la sua aspettativa e Jack Vance
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secondo le previsioni di Kandive, la città appariva in uno stato di abbandono. Stranamente, il fenomeno dava ad Ampridatvir un'impronta di solennità: la dignità di un antico monumento. Il vento si era calmato, e l'avanzare delle due imbarcazioni si era fatto molto lento. I pescatori tradivano l'ansietà parlando sottovoce fra loro, aggiustando la vela per cercare di raccogliere la massima spinta, stringendo gli stragli. Ma, prima che essi scivolassero entro la diga, il tramonto purpureo aveva avvolto la città, e le torri erano diventate enormi, neri monoliti; nella semioscurità essi si prepararono all'approdo, tra le altre imbarcazioni, alcune dipinte di verde, alcune dipinte di grigio. Ulan Dhor balzò sul molo. «Un momento», disse il giovane pescatore, fissando la rossa giacca di Ulan Dhor. «Sarebbe poco prudente vestirsi così anche di notte.» Frugò dentro una cassa, e ne estrasse un camiciotto verde, gualcito e odorante di pesce. «Indossa questo, e mettiti un cappuccio sui capelli neri...» Ulan Dhor, dopo avere obbedito con una smorfia di disgusto, domandò: «Dove posso trovare cibo e un posto per dormire stanotte? Ci sono taverne o alberghi in Ampridatvir?». Il giovanotto propose senza entusiasmo: «Puoi passare la notte nella nostra casa». I pescatori si misero sulle spalle la pesca della giornata, salirono anch'essi sul molo, e guardarono ansiosamente tra le macerie. «Siete proprio conciati male, eh!» osservò Ulan Dhor. «Sì», ammise il giovanotto. «Di notte i Gauns scorrazzano per le strade. «Che cosa sono i Gauns?» «Demoni.» «Vi sono molte specie di demoni», disse con indifferenza Ulan Dhor. «A che specie appartengono questi?» «Hanno l'aspetto di uomini orribili, con grandi lunghe braccia, che afferrano e stritolano...» «Ah!», mormorò Ulan Dhor, accarezzando l'elsa della spada. «Perché permettete loro di circolare?» «Non possiamo far loro del male. Essi sono feroci e forti... ma, fortunatamente, non troppo agili. Con un po' di fortuna, e stando attenti!» Ulan Dhor fissava ora le macerie con un'espressione attenta come quella dei pescatori. Quella gente aveva familiarità con i pericoli del posto; egli Jack Vance
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avrebbe seguito il loro consiglio finché non si fosse reso conto di persona. Oltrepassarono la prima fila di rovine, entrarono in un vicolo oscuro, fiancheggiato da altissime costruzioni, che impedivano il passaggio alla luce. «Che desolazione!», pensò Ulan Dhor. Il posto era coperto dalla patina polverosa della morte. Dov'erano i milioni di attivi cittadini dell'antica Ampridatvir? La loro cenere si era mescolata, nell'oceano, insieme con quella di tutti gli altri esseri che erano vissuti sulla Terra. Ulan Dhor e i due pescatori avanzarono lungo il viale, nane-rottoli che camminavano per una città fantasma, e Ulan Dhor guardava freddamente da ogni lato... Il principe Kandive aveva detto la verità. Ampridatvir dava l'esatta sensazione dell'antichità. Le finestre erano fessure nere, il calcestruzzo era tutto sgretolato. I balconi pendevano a pezzi, le terrazze erano coperte di polvere. Detriti riempivano le strade... blocchi di pietra di colonne cadute, metallo spezzato e contorto. Ma Ampridatvir, ancora, si agitava di una strana vita che non poteva avere fine, perché i costruttori avevano usato materiali senza età, energie eterne. Strisce di un materiale scuro, scintillante, fluttuavano come l'acqua, a ogni lato della strada, lentamente ai bordi, rapidamente nel centro. I pescatori avanzarono su questa striscia, con naturalezza, e Ulan Dhor, cautamente, lì seguì fin sul centro rapido. «Vedo le strade che scorrono come fiumi, in Ampridatvir», disse. «Tu chiami me demone. Io penso, veramente, che sia proprio il contrario.» «Non è magia», disse brevemente il giovanotto. «Sono le strade di Ampridatvir.» A intervalli regolari, lungo la strada, c'erano sottopassaggi, alti circa tre metri, che avevano l'apparenza di rifugi, che portavano sotto la strada. «Che cosa c'è là sotto?», domandò Ulan Dhor. I pescatori alzarono le spalle. «Le porte sono strette: nessun uomo vi è mai passato. La leggenda dice che questa fu l'ultima opera di Rogol Domedonfors.» Ulan Dhor non chiese altro, notando un crescente nervosismo nei pescatori. Contagiato dalla loro apprensione, tenne la mano sull'impugnatura della spada. «Nessuno vive in questa parte di Ampridatvir», disse il vecchio, con voce rauca. «È antica più di quanto si possa pensare, ed è piena di spiriti.» Le strade terminavano in una piazza centrale; le torri erano rimaste Jack Vance
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dietro di loro. La striscia mobile subiva in quel punto un arresto, come l'acqua di un fiume che sbocchi in un lago. Qui brillava la prima luce artificiale che Ulan Dhor avesse mai vista... un globo lucente appeso a un lampione di metallo. A questa luce, Ulan Dhor vide un giovane, avvolto in un mantello grigio, che si affrettava ad attraversare la piazza... Un movimento tra le rovine; i pescatori sussultavano spaventati. Una creatura dal corpo di un colore pallido era uscita, alla luce. Le sue braccia pendevano lunghe e nodose, uno sporco pelo copriva le sue gambe. Grandi occhi lampeggiavano in cima a un cranio bianco a forma di fungo; due zanne sporgevano da una bocca spaventosa. L'essere si slanciò sullo sventurato vestito di grigio, e se lo prese sotto il braccio ; poi, voltandosi, gettò a Ulan Dhor e ai pescatori uno sguardo di malvagio trionfo. Allora, essi videro che la vittima era una donna. Ulan Dhor sguainò la spada. «No! No!», disse il vecchio. «Il Gaun se ne andrà, adesso.» «Ma la donna è stata presa; noi possiamo salvarla.» «Nessuno è stato afferrato dal Gaun», borbottò il vecchio. «Ma sei cieco?», domandò Ulan Dhor. «Non c'è alcuno in Ampridatvir, tranne i Verdi», disse il giovanotto. «Rimani vicino a noi.» Ulan Dhor esitò. Allora, la donna in grigio era uno spirito? Se le cose stavano così, perché i pescatori non lo avevano detto?... Il Gaun, con sadismo insolente, si dirigeva verso un lungo edificio di scure arcate in rovina. Ulan Dhor corse attraverso la bianca piazza dell'antica Ampridatvir. Il mostro si volse per affrontarlo, e sporse un grande braccio assunto, lungo quanto l'altezza di un uomo, e che terminava in un pugno bianco e peloso. Ulan Dhor menò un tremendo fendente con la spada: l'avambraccio del Gaun penzolò attaccato a un filo di pelle, e l'osso apparve scheggiato. Balzando indietro per evitare il fiotto di sangue, Ulan Dhor schivò l'altro braccio che tentava di afferrarlo rapidamente. Egli colpì ancora: un altro grande fendente, e il secondo avambraccio penzolò inerte. Egli si lanciò avanti, puntò l'arma a un occhio di quell'essere, e gliela cacciò con forza nel cranio. Il mostro morì, dopo una serie di selvaggi contorcimenti e di urla. Ulan Dhor, ansante, combattendo la nausea, guardò la donna. Ella stava Jack Vance
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rialzandosi a fatica. Le porse un braccio come appoggio, notando che era giovane e snella, che aveva i capelli biondi che le incorniciavano il volto. Il suo viso era simpatico e grazioso, pensò Ulan Dhor, candido, con gli occhi chiari e innocenti. Ella sembrò non vederlo, e voltò il capo, stringendosi nel suo grigio mantello. Ulan Dhor cominciò a temere che lo spavento le avesse sconvolto il cervello. Le si avvicinò e la fissò in volto. «Stai bene? La bestia ti ha fatto male?» La donna ebbe un moto di sorpresa, quasi come se Ulan Dhor fosse un altro Gauns. Il suo sguardo corse sull'abito verde, rapidamente tornò al volto, ai capelli neri. «Chi sei tu?», mormorò. «Uno straniero», disse Ulan Dhor, «e sono molto meravigliato dalle stranezze di Ampridatvir». Egli si guardò intorno, cercando i pescatori, ma essi erano scomparsi. «Uno straniero?», domandò la donna. «Ma la dottrina di Cazdal ci dice che i Gaun hanno distrutto tutti gli uomini, tranne i Grigi di Ampridatvir.» «Cazdal è incoerente come Pansiu», osservò Ulan Dhor. «Esistono ancora molti uomini, nel mondo.» «Devo crederti», disse la donna. «Tu parli, esisti... tutto questo è chiaro.» Ulan Dhor notò che ella cercava di non posare lo sguardo sul suo camiciotto verde. Questo puzzava di pesce; senza una parola, egli se lo tolse, e lo gettò via. Lo sguardo della donna si posò sulla giacca rossa. «Un pirata...» «No! Oh! no!», esclamò Ulan Dhor. «Io trovo noioso questo continuo parlare di colori. Io sono Ulan Dhor di Kaiin, nipote del principe Kandive dalla barba d'oro, e la mia missione è quella di cercare le tavolette di Rogol Domedonfors.» La ragazza sorrise debolmente. «Così agiscono i pirati, e così si vestono... di rosso. E allora la mano di ogni uomo si rivolge contro di loro, perché quando essi sono in rosso, chi può dire se essi sono Grigi o...» «O che cosa?» Ella parve confusa, come se questo lato della questione non la riguardasse. «Spiriti? Demoni? Esistono strane manifestazioni in Ampridatvir.» «Oltre ogni immaginazione», convenne Ulan Dhor. Egli diede Jack Vance
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un'occhiata nella piazza. «Se vuoi, ti scorterò fino alla tua casa, e forse là ci sarà un angolino dove io possa dormire stanotte.» Ella ripose: «Io ti debbo la vita, e ti aiuterò come posso. Ma non oso portarti nella mia casa». I suoi occhi corsero ancora sulla figura di Ulan Dhor, fino ai calzoni verdi, e poi si volsero altrove. «Ci sarebbero troppe idee confuse e spiegazioni a non finire.» «Hai un marito, allora?», disse Ulan Dhor con circospezione. Ella gli rivolse una rapida occhiata... una strana civetteria nell'ombra dell'antica Ampridatvir: la ragazza dal rozzo abito grigio, col capo piegato di lato, i capelli biondi ricadenti su una spalla... Ulan Dhor elegante, fiero come un'aquila, pienamente padrone di se stesso. «No», ella disse. «Non c'è stato nessuno... così lontano.» Un leggero rumore la disturbò; trasalì, e guardò con paura nella piazza. «Ci possono essere ancora dei Gauns. Posso portarti in un luogo sicuro; poi, domani, parleremo...» Ella lo condusse, attraverso un porticato, in una delle torri, al primo piano. «Tu sarai sicuro qui, fino a domani mattina.» Gli strinse un braccio. «Ti porterò del cibo, se mi aspetterai...» «Ti aspetterò.» Lo sguardo di lei si portò ancora sullo strano abbigliamento di Ulan Dhor, poi, ella promise: «E ti porterò un mantello.» La fanciulla se ne andò, e Ulan Dhor seguì con lo sguardo la sua corsa giù per le scale, e fuori dalla torre... Ella era andata, Ulan Dhor si accomodò sul pavimento. Era una dolce, morbida sostanza elastica, calda al tatto... Una ben strana città, pensò Ulan Dhor, uno strano popolo, che aveva incredibili reazioni. O erano davvero fantasmi? Cadde in un sonno inquieto, e si svegliò, infine, per trovare il pallido rosa dell'alba che filtrava attraverso le arcate del portico. Egli si alzò in piedi, si strofinò il volto, e, dopo un istante di esitazione, scese dal mezzanino al pianterreno della torre, e uscì nella strada. Un ragazzino, vestito di grigio, vide la sua giacca rossa, distolse lo sguardo dai calzoni verdi, e corse, urlando, per la piazza. Ulan Dhor si ritrasse nell'ombra, borbottando. Egli si era aspettato un Jack Vance
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deserto... Avrebbe potuto anche incontrare l'ostilità, ma questo timore fatto di meraviglia ansiosa lo lasciava senza possibilità di azione. Un'ombra apparve sulla soglia... la ragazza. Ella scrutò all'interno. Il suo volto era ansioso; Ulan Dhor comparve, e l'espressione della fanciulla cambiò. «Ti ho portato la colazione. E anche un abito decente.» Mise davanti a lui pane e pesce affumicato, e versò del tè caldo da un recipiente di terracotta. Mentre egli mangiava, la osservava, ed ella osservava lui. C'era una certa tensione nei loro rapporti: ella non si sentiva completamente sicura, ed egli poteva avvertire questa sua incertezza. «Qual è il tuo nome?», ella domandò. «Mi chiamo Ulan Dhor. E tu?» «Elai.» «Elai? È tutto qui?» «Dovrei avere bisogno di altro? Non è sufficiente?» «Oh sì, davvero.» Ella sedette davanti a lui, incrociando le gambe. «Parlami della terra dalla quale sei venuto.» «Ascolais è ora occupata in gran parte da un'immensa foresta, dove pochi osano avventurarsi. Io vivo in Kaiin, una città molto vicina... forse vecchia come Ampridatvir. Tuttavia, noi non abbiamo torri e strade mobili; viviamo in antichi palazzi di marmo e legno, anche i poveri e i servi. In realtà, alcune bellissime costruzioni sono cadute in rovina per mancanza di chi abitandovi ne avesse cura.» «E qual è il tuo colore?», domandò ella, con aria dubbiosa. «Che sciocchezze!», disse Ulan Dhor con impazienza. «Noi portiamo tutti i colori. Nessuno pensa in un modo o in un altro riguardo a ciò. Perché ti preoccupi tanto dei colori? Per esempio, perché tu porti il grigio e non il verde?» Lo sguardo della ragazza tremò, ed evitò quello di lui. Ella si torse le mani nervosamente, poi disse: «Verde? Quello è il colore del demone Pansiu. Nessuno in Ampridatvir porta il verde!» «No, certamente c'è della gente che porta il verde», disse Ulan Dhor. «Io ho incontrato ieri due pescatori, in mare, che portavano il verde, ed essi mi hanno fatto da guida nella città.» Jack Vance
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«Ti sbagli!», disse la fanciulla, sorridendo tristemente. Ulan Dhor si chinò indietro. «Un bambino mi ha visto, stamattina, ed è scappato urlando.» «A causa della tua giacca rossa», spiegò Elai. «Quando un uomo desidera acquistarsi onori, egli indossa un abito rosso, e attraversa la città fino all'antico tempio abbandonato di Pansiu, per cercare la mezza tavoletta perduta di Rogol Domedonfors. Dice la leggenda che, quando i Grigi l'avranno conquistata, il loro potere tornerà forte come una volta.» «Se il tempio è abbandonato», domandò Ulan Dhor, «perché qualcuno non ha preso la tavoletta?» Ella alzò le spalle, e guardò vagamente avanti a sé. «Noi crediamo che sia custodito dagli spiriti... intendo il tempio! A ogni modo, talvolta, un uomo in rosso viene trovato anche nel tempio di Cazdal, mentre cerca di rubare, e, allora, viene ucciso. Un uomo in rosso è, perciò, un nemico di tutti, e ogni mano si volge contro di lui.» Ulan Dhor si alzò in piedi, e rivestì gli indumenti grigi che la ragazza gli aveva portato. «Quali sono i tuoi piani?», domandò ella, alzandosi rapidamente. «Voglio cercare le tavolette di Rogol Domedonfors sia nel tempio di Cazdal che in quello di Pansiu.» «Impossibile!» obiettò ella, scuotendo il capo. «Il tempio di Cazdal è proibito a tutti, tranne che ai venerabili sacerdoti, e il tempio di Pansiu è custodito dagli spiriti.» Ulan Dhor ghignò. «Se tu mi mostrerai dove sono situati i templi...» «Io verrò con te... ma tu devi rimanere vestito di grigio, o andrà a finire male per noi.» Uscirono nella luce del sole. La piazza era animata da gruppi di uomini e donne che si muovevano lentamente. Alcuni indossavano abiti verdi, altri grigi, e Ulan Dhor si accorse che non c'era alcuna intesa fra i due gruppi. I Verdi si fermavano nelle baracche dipinte di verde, dove si vendevano pesce, pellami, frutta, farina, vasellami, cestini. I Grigi compravano in baracche identiche, ma dipinte di grigio. Egli vide due gruppi di bambini: l'uno in cenci grigi, l'altro verdi, che giocavano distanti circa tre metri, volutamente ignari l'uno dell'altro tranne per qualche occhiata fuggevole. Una palla di stracci legati rotolò dai bambini in grigio verso il gruppo di quelli in verde. Un bambino in grigio Jack Vance
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corse, afferrò la palla togliendola di tra i piedi di un bambino in verde, e nessuno dei due mostrò di avere notato l'altro. «Strano», mormorò Ulan Dhor, «proprio strano.» «Che cosa c'è di strano?», domandò Elai. «Non vedo niente di strano...» «Guarda», disse Ulan Dhor, «accanto a quel pilastro... vedi quell'uomo in verde?» «Ma non c'è alcun uomo là.» «C'è un uomo, invece. Guarda ancora.» «Tu stai scherzando!» ella rise. «Oppure... vedi gli spiriti.» Ulan Dhor scosse il capo, deluso. «Voi siete vittime di qualche potente magia!» La ragazza lo condusse a una delle strade mobili. Mentre essi erano portati attraverso la città, Ulan notò una costruzione a forma di barca, di lucente metallo, con quattro ruote e un compartimento sormontato da una cupola trasparente. Egli lo additò. «Cos'è quello?» «È una macchina magica. Quando una certa leva è abbassata, l'incantesimo dei tempi antichi dà una grande velocità. I giovani imprudenti le fanno cavalcare per le strade... Guarda là!» Ed ella indicò qualcosa di simile a uno scafo ribaltato nella vasca di una lunga fontana asciutta. «Quella è un'altra delle antiche meraviglie... un'imbarcazione che ha il potere di volare attraverso l'aria. Ve ne sono molte, sparse in tutta la città, sulle torri, sulle alte terrazze... e talvolta, come questa, precipitate nelle strade.» «E nessuno le fa volare?», domandò Ulan Dhor con curiosità. «Abbiamo tutti paura.» Ulan Dhor pensò a come sarebbe stato bello prendere una di quelle macchine volanti. Poi, saltò giù dalla strada mobile. «Dove stai andando?», domandò Elai, ansiosa, seguendolo. «Voglio esaminare una di queste macchine volanti.» «Sta' attento, Ulan Dhor! Essi hanno detto che sono pericolose...» Ulan Dhor scrutò attraverso la cupola trasparente: vide un sedile con dei cuscini, una serie di piccole leve, contrassegnate da strani caratteri, e un grosso volante montato sopra un sostegno metallico. Egli disse alla ragazza: «Quelle sono, evidentemente, le guide per il meccanismo. Come si può entrare nella macchina?»., Jack Vance
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«Forse questo bottone farà sollevare la cupola», ella disse, dubbiosa, e premette un pulsante. La cupola scivolò indietro, liberando un soffio di aria stagnante. «Ora», esclamò Ulan Dhor, «io voglio fare una prova.» Si sporse nell'interno, e girò una manopola: nulla accadde. «Sta' attento, Ulan Dhor!», sospirò la ragazza. «Guardati dalla magia!» Ulan Dhor girò un'altra manopola: la macchina vibrò. Egli toccò una leva: la «barca» emise un curioso ronzio, e sobbalzò. La cupola cominciò a richiudersi. Ulan Dhor, rapidamente, ritrasse il braccio, ma la cupola tornò veloce al suo posto, trattenendo un lembo del grigio mantello di Ulan Dhor. La macchina ebbe ancora un sussulto, fece un improvviso movimento. E Ulan Dhor fu trascinato, volente o nolente. Elai, urlò, afferrandolo ai fianchi. Con un'imprecazione, Ulan Dhor si lasciò strappare il mantello, e stette a osservare la «barca volante» che, senza controllo, prendeva una curva a tutta velocità e andava a sfasciarsi contro il fianco di una torre. Precipitò con un clangore di metallo e di pietra urtanti fra loro. «La prossima volta», disse Ulan Dhor, «io voglio...» Si accorse che stava accadendo qualcosa. Si voltò. Elai lo stava fissando, la mano sulla bocca, gli occhi sbarrati, come se stesse trattenendo un urlo. Ulan Dhor si guardò attorno: il lento movimento dei Grigi e dei Verdi era svanito. Le strade erano deserte. «Elai», domandò «perché mi guardi in quel modo?» «Il rosso, alla luce del giorno... e il colore di Pansiu sulle tue gambe... È la morte, la nostra morte!» «Vedremo!», disse Ulan Dhor, allegramente, accorgendosi che tutto quel terrore aveva per oggetto il suo abbigliamento ora scoperto con la perdita del mantello. «Non finché porto la spada, e...» Una pietra piombò sul terreno, ai suoi piedi, proveniente da chissà dove. Egli cercò a destra, a sinistra il suo aggressore, con le narici dilatate per la collera. Invano! Le soglie delle porte, le arcate, i portici erano deserti. Un'altra pietra, grossa come il suo pugno, lo colpì tra le scapole. Si voltò, e vide soltanto le facciate in rovina dell'antica Ampridatvir, le vuote strade, la via mobile. Una pietra sibilò a un metro circa dalla testa di Elai, e, nello stesso istante, un'altra colpì una coscia di Ulan Dhor. Egli riconobbe la sconfitta: non poteva respingere delle pietre con la spada. Jack Vance
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«Faremmo meglio a ritirarci...» Così dicendo, evitò un pietrone che gli avrebbe fracassato il cranio. «Indietro, alla strada mobile!», disse la ragazza con voce fioca, affannosa. «Possiamo cercare rifugio attraversando la piazza...» Un'altra pietra cadde pesantemente, e la colpì a una guancia. Ella urlò per il dolore, e cadde in ginocchio. Ulan Dhor ringhiò come una belva, e cercò uomini da uccidere... ma nessun essere vivente era visibile, benché le pietre continuassero a sibilare attorno alla sua testa. Egli rialzò Elai, e corse alla rapida parte centrale della strada mobile. Subito la pioggia di pietre cessò. La ragazza aprì gli occhi, per un attimo, poi li richiuse subito. «Gira tutto!», gridò. «Sono diventata matta. Almeno potessi pensare...» A Ulan Dhor parve di riconoscere la torre dove aveva trascorso la notte. Saltò giù dalla striscia, e si avvicinò al portico. Aveva sbagliato: una superficie di cristallo gli sbarrava l'ingresso nella torre. Mentre egli esitava, il cristallo scivolò di lato, lasciando un varco. Ulan Dhor fissò meravigliato: altra magia delle antiche costruzioni! Era una magia «impersonale» e che non recava danno. Ulan Dhor balzò nell'apertura; il cristallo si richiuse dietro di lui. L'interno era nudo e freddo, sebbene le pareti fossero ricche di metalli colorati e di magnifici smalti. Un affresco decorava tutta una parete... uomini e donne in abiti fluttuanti erano dipinti nell'atto di inchinarsi sui fiori in giardini stranamente scintillanti e pieni di sole, di giocare all'aria aperta, di danzare... Molto bello, pensava Ulan Dhor, ma nessun luogo per potere parare un attacco! I corridoi ai lati risuonavano vuoti; in fondo c'era una piccola camera, dal pavimento di una strana lanuggine, che sembrava irradiare luce. Egli sostò sulla soglia, poi mise piede sul pavimento. Fluttuò, più leggero di una piuma. Elai non pesava più tra le sue braccia. Egli, involontariamente, gridò per la paura e la sorpresa, e cercò di rimettere i piedi sul terreno, ma senza successo. Fluttuò in alto, come una foglia portata dal vento. Già Ulan Dhor si preparava per un atterraggio doloroso, quando la magia si fosse fermata. Ma il pavimento apparve ancor più lontano, mentre egli saliva... «Una magia meravigliosa», pensò Ulan Dhor, «tale da togliere all'uomo la sua stabilità, ma questa forza sarebbe cessata, precipitandoli in una caduta Jack Vance
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mortale?» «Prendi!», disse Elai debolmente. «Attaccati a quella sbarra.» Egli si chinò e si afferrò a un corrimano, che li fece scivolare entrambi fino a terra, e, credendosi sicuro, si fermò a un piano dove c'era un appartamento di parecchie stanze. Mucchietti di polvere erano tutto ciò che rimaneva del mobilio. Egli depose Elai su un morbido pavimento, le accarezzò delicatamente la guancia, e le sorrise: «Ti fa male?». Ulan Dhor la guardava con uno strano, nuovo, meraviglioso senso di tenerezza, e provava una specie di languore che infiacchiva ma dava un piacere dolce mai provato finora. Elai disse: «Io non so cosa faremo, adesso. Non ci sarà più una casa per me... così moriremo di fame, perché nessuno ci porterà del cibo». Ulan Dhor rise amaramente, e rispose: «Non ci mancherà mai del cibo, fino a quando il proprietario di una baracca in verde non potrà scorgere un uomo in grigio... Ma ci sono altre cose più importanti... le tavolette di Rogol Domedonfors... ed esse sembrano del tutto inaccessibili». «Tu saresti ucciso», ella disse seriamente. «Gli uomini in rosso devono battersi contro chiunque... come hai constatato oggi. E anche se raggiungessi il tempio di Pansiu, troveresti botole, trappole, punte velenose, e gli spiriti come custodi...» «Spiriti?», interruppe Ulan Dhor. «Sciocchezze! Sono uomini, esattamente, come i Grigi, soltanto che vestono il verde. Il tuo cervello rifiuta di vedere uomini in verde... Ho già udito di tali blocchi mentali.» Ella disse, in tono offeso: «Nessun altro Grigio li vede. Forse sei tu che soffri di allucinazioni». «Forse», convenne Ulan Dhor, con una smorfia. Essi sedettero per un po' nella tranquilla e polverosa torre, poi Ulan Dhor si strinse le ginocchia tra le braccia, e rimase con la fronte corrugata. L'inerzia era il preludio della sconfitta. «Dobbiamo ragionare sul modo di entrare in questo tempio di Pansiu.» «Saremo uccisi», disse semplicemente la fanciulla. «Tu dovresti far pratica di ottimismo», protestò Ulan Dhor, con l'animo già più sollevato. «Dove posso trovare un'altra macchina volante?» Jack Vance
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Ella lo guardò. «Sei certamente un pazzo!» «Dove posso trovarne una?», chiese di nuovo Ulan Dhor, alzandosi in piedi. «Tu hai deciso di morire», disse la fanciulla, scuotendo tristemente il capo. «Tu hai deciso di morire in un modo o nell'altro...» Si alzò anche lei. «Saliremo "l'albero senza peso" per arrivare in cima alla torre.» Senza esitare, ella avanzò nel vuoto, e Ulan Dhor la seguì cautamente. Essi fluttuarono, salendo a un'altezza vertiginosa: le pareti del tubo in cui essi si trovavano convergevano in un punto lontano, in basso. Quando terminò la corsa, i due giovani si posarono sul terreno solido di un'alta terrazza spazzata dal vento. Erano più in alto delle cime delle Montagne Centrali, e le strade di Ampridatvir erano grigi fili lontani, molto al di sotto... il porto era un catino, e il mare si perdeva nella nebbia all'orizzonte. Tre macchine volanti erano sul terrazzo, e il loro metallo era lucente, il vetro trasparente, lo smalto vivido, come se quelle vetture fossero appena scese dal cielo. Essi si avvicinarono. Ulan Dhor schiacciò il pulsante che scopriva l'interno, e la cupola scivolò indietro con un fruscio leggero. L'interno era come quello dell'altra macchina: un lungo sedile con dei cuscini, un volante montato su un tubo, un gran numero di manopole. Il tessuto del sedile era consumato dal tempo, e si polverizzò quando Ulan Dhor lo toccò; l'aria racchiusa nell'interno odorava di vecchio. Egli entrò, ed Elai lo seguì. «Voglio venire con te. La morte di chi precipita è più veloce di quella per fame, ed è meno dolorosa dei sassi...» «Io spero che non cadremo, e spero che non moriremo di fame!» Cautamente Ulan Dhor toccò le manopole, pronto a rimetterle nella posizione primitiva a qualsiasi manifestazione pericolosa. La cupola si richiuse sulle loro teste; i meccanismi millenari si misero in movimento; le camme girarono, gli alberi rientrarono nelle loro sedi. La macchina volante sussultò, e si alzò nel cielo rosso e azzurro. Ulan Dhor afferrò il volante, ansimando, e trovò il mezzo per far girare la «barca», come dirigerla in basso o in alto. Egli era pazzo di felicità. Meraviglioso dominio dell'aria! Era più facile di quanto avesse immaginato. Era più facile che camminare. Provò tutte le manopole, tutti gli interruttori, trovò come aumentare la velocità con una leva e la spinse a fondo: il vento sibilò Jack Vance
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attorno alla macchina volante. Essi volarono lontano sopra il mare, finché l'isola fu una linea azzurra, al confine del mondo... in alto e in basso, sfiorando la cresta delle onde, tuffandosi tra le nubi. Elai sedeva rilassata, calma, soddisfatta. Era cambiata, sembrava molto più vicina a Ulan Dhor che ad Ampridatvir... un sottile legame era stato tagliato. «Andiamo avanti, avanti... per il mondo, al di là delle foreste...» Ulan Dhor la guardò. Ella era molto bella ora, più linda, più fine, più forte delle donne che egli aveva conosciuto in Kaiin. Disse con rammarico: «Allora sì che moriremo di fame, perché nessuno di noi ha il potere di sopravvivere in luoghi deserti... e io sono legato a una missione: quella di cercare le tavolette». Ella sospirò: «Va bene, saremo uccisi. Che cosa importa dopo tutto? La Terra stessa muore...». Venne la sera, ed essi ritornarono ad Ampridatvir. «Ecco», disse Elai, «ecco il tempio di Cazdal, e là c'è il tempo di Pansiu. «Dov'è l'entrata?» «Attraverso quegli archi... e in ogni posto c'è un differente pericolo!» «Ma noi voliamo!», le rammentò Ulan Dhor. Egli fece abbassare la macchina fino a tre metri dal suolo, e scivolò attraverso un'arcata. Guidato da una fioca luce che veniva dall'alto, Ulan Dhor manovrò la macchina volante giù per un oscuro passaggio, attraverso un altro arco: si trovarono nella navata. Il podio dove stava la tavoletta era come la cittadella di una città fortificata. Il primo ostacolo era un largo fossato difeso da una parete di vetro. Poi c'era un altro fossato, pieno di un liquido color zolfo, e al di là, in uno spiazzo, cinque uomini montavano la guardia fiaccamente. Inavvertitamente, Ulan Dhor guidò la macchina nell'ombra, in alto, e piombò direttamente sul podio. «Pronta, ora», mormorò, e fece posare la macchina sul terreno. La tavoletta scintillante era a portata di mano. Egli fece scivolare la calotta; Elai si sporse, e afferrò la tavoletta. Le cinque guardie diedero un grido di angoscia, e si precipitarono in avanti. «Indietro!», urlò Ulan Dhor, roteando la spada. La fanciulla si ritrasse con la tavoletta, e Ulan Dhor richiuse la cupola. Le guardie saltarono sullo scavo, cercando di afferrarsi con le unghie al metallo levigato, e battendolo Jack Vance
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freneticamente con i pugni. La macchina si sollevò in aria: uno per uno essi persero la presa, e caddero al suolo, urlando. Indietro attraverso l'arco, su per la nera galleria, attraverso l'ingresso, e fuori, nel profondo cielo. Dietro di loro una forte sirena di allarme risuonò acutamente. Ulan Dhor esaminò il bottino... un foglio ovale, di una sostanza trasparente, che portava incisa una dozzina di linee senza significato. «Abbiamo vinto!», esclamò Elai, estasiata. «Tu sei il padrone di Ampridatvir!» «Ma rimane metà dell'opera!», ammonì Ulan Dhor. «C'è ancora la tavoletta nel tempio di Cazdal.» «Questa è una pazzia! Hai già...» «Una è inutile, senza l'altra.» Elai smise di protestare soltanto quando essi passarono sotto l'arco del tempio di Cazdal. Come la macchina scivolò attraverso la nera apertura, incappò in una fune che trascinò giù una massa di pietre da un piano inclinato. La prima pietra, colpendo il fianco affusolato della macchina, rimbalzò lontana. Ulan Dhor imprecò: le guardie sarebbero state avvertite dal rumore, e si sarebbero messe sull'avviso. Egli scivolò fino al termine del passaggio, nascosto nell'oscurità. Ora, due guardie, portando delle torce e avanzando con molta cautela, venivano per scoprire che cosa avesse provocato quel rumore. Esse passarono proprio sotto la macchina, e Ulan Dhor si affrettò a scivolare, attraverso l'arcata, nella navata. Come nel tempio di Pansiu, la tavoletta scintillava nel mezzo di una fortezza. Le guardie erano adesso tutte all'erta, e, nervosamente, osservavano le aperture. «Coraggio, ora!», disse Ulan Dhor, e mandò la macchina quasi a sfiorare le pareti e i fossati, e il putrido liquido color zolfo. Piazzandosi poi accanto al podio, fece scivolare la calotta e balzò fuori. Afferrò la tavoletta, mentre le guardie accorrevano, urlando, con le armi in pugno. La prima delle guardie lanciò un giavellotto; Ulan Dhor lo schivò, e gettò la tavoletta nella macchina. Ma essi lo avevano raggiunto. Sarebbe stato trafitto, se avesse cercato di balzare nella macchina. Allora scattò in avanti, afferrò l'asta di un giavellotto, colpì a una spalla un uomo eliminandolo, afferrò l'asta del Jack Vance
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terzo giavellotto e trascinò l'uomo a portata della sua spada; la terza guardia scattò indietro, chiamando aiuto. Ulan Dhor saltò nella macchina volante. Allora, la guardia si lanciò in avanti: Ulan Dhor si volse, e la colpì alla guancia con la punta della spada. Sputando sangue, e contorcendosi istericamente, la guardia cadde a terra. Ulan Dhor abbassò la leva dell'avviamento, la macchina si alzò, dirigendosi verso l'apertura di entrata. Subito dopo, il suono di allarme di una sirena si levò dal tempio di Cazdal, e il suo rumore acuto si espanse per tutta la città. La macchina volante scivolò per il cielo. «Guarda!», disse Elai, afferrando un braccio di Ulan Dhor. Uomini e donne, al chiarore delle torce, affollavano le strade: Verdi e Grigi, terrorizzati dal messaggio delle sirene. «Ulan Dhor!», Elai gridò ansimando. «Ulan Dhor. Io vedo... vedo gli uomini in verde! È possibile... Ci sono sempre stati...» «Il blocco mentale è spezzato», spiegò Ulan Dhor, «e non soltanto per te... anche là sotto, essi si vedono l'un l'altro...» Per la prima volta, da tempi immemorabili, Verdi e Grigi si guardarono, con espressioni stravolte. Ulan Dhor li vide trarsi indietro, con disgusto l'uno dell'altro, e udì il tumulto delle loro grida: «Demone! Demone! Fantasma grigio! Vile demone verde!» Migliaia di ossessi, con le torce in mano, si sfuggivano a vicenda, urlando con odio e timore. Erano tutti matti, pensò Ulan Dhor. Come a un segnale misterioso, la folla cominciò a combattere, e le urla di odio raggelavano il sangue di Ulan Dhor. Elai si voltò singhiozzando: una terribile strage era in atto su uomini, donne, bambini; non importava chi fosse la vittima, se portava il colore della fazione avversa. Un urlìo sempre più forte si levò dai margini della folla. Una dozzina di Gauns comparvero, torreggianti sopra i Verdi e i Grigi. Essi fecero a brani le vittime, e l'odio insano si mescolò alla insana paura. Verdi e Grigi si separarono e fuggirono nelle loro case, e i Gauns scorrazzarono nelle strade solitarie. Ulan Dhor distolse gli occhi da quella scena, e si passò una mano sulla fronte. «Questo, questo dovevo fare? Tale era la mia missione?» «Presto o tardi sarebbe accaduto», disse Elai apaticamente. «A meno che la Terra fosse morta prima...» Jack Vance
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Ulan Dhor afferrò le due tavolette. «E qui è tutto ciò che ho ottenuto... le tavolette di Rogol Domedonfors. Esse mi hanno trascinato per migliaia di leghe attraverso il golfo Melantino. Ora, le ho nelle mani, e sono come pezzi di vetro, senza valore...» La macchina volò alta, e Ampridatvir divenne come una confusione di pallidi cristalli nella luce delle stelle. Nella luminescenza del pannello degli strumenti, Ulan Dhor sovrappose le due tavolette: i segni risaltarono, divennero caratteri... e i caratteri portavano le parole dell'antico mago. «Bambini senza fede... Rogol Domedonfors muore, tuttavia vive per sempre nell'Ampridatvir che ha amato e servito. Quando l'intelligenza e la bontà renderanno l'ordine alla città; o quando il sangue e l'acciaio insegneranno a imbrigliare la follia della credulità e della passione, e tutto, tranne la morte... allora... queste tavolette saranno lette. E io dico a colui che le legge: va' alla torre del Fato, dalla gialla cupola, sali al piano più alto, mostra il rosso all'occhio sinistro di Rogol Domedonfors, il giallo all'occhio destro, e poi l'azzurro a entrambi. Fa' questo, io dico, e acquisterai il potere di Rogol Domedonfors.» Ulan Dhor domandò: «Dov'è la torre del Fato?». Elai rispose, scuotendo il capo: «C'è la torre di Rodeil, la torre Rossa, la torre dello Spirito Urlante, la torre delle Trombe, la torre dell'Uccello, la torre dei Gauns... ma non conosco alcuna torre del Fato». «Quale torre ha una cupola gialla?» «Non lo so.» «Cercheremo domani mattina.» «Sì, domani mattina», Ulan Dhor cominciò, poi si interruppe, accarezzandole i capelli biondi. Quando il vecchio sole rosso si levò, essi tornarono sopra la città, e trovarono la gente di Ampridatvir sveglia, intenta alla strage. Il combattimento e le uccisioni non erano più opera di una follia collettiva. Ora si trattava di qualcosa di più astuto e odioso. Gruppi furtivi di uomini vagavano, sparsi per le strade, oppure irrompevano nelle case, per strangolare donne e bambini. Jack Vance
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Ulan Dhor mormorò accorato: «Presto non ci sarà più alcuno da uccidere in Ampridatvir: ecco il potere di Rogol Domedonfors!». Si rivolse ad Elai. «Hai un padre, una madre, qualcuno per cui temi?» Ella scosse il capo, e dichiarò: «Ho trascorso la mia vita con uno zio freddo e tirannico». In quel mentre, Ulan Dhor si volse di nuovo, e vide una cupola gialla: la torre del Fato! «Là», egli indicò, e vi diresse la macchina volante. Dopo essersi posati sopra un'alta piattaforma, entrarono in polverosi corridoi, trovarono un pozzo-antigravità, e salirono fino in cima alla torre. Scoprirono, qui giunti, una piccola camera, decorata con vividi affreschi. La scena rappresentava una corte dell'antica Ampridatvir: uomini e donne, vestiti di seta colorata, conversavano e banchettavano; nel riquadro centrale, era dipinta una moltitudine di gente che prestava omaggio a un patriarca, dalle guance rugose, dagli occhi brucianti, dalla barba bianca. Era vestito di una tunica rossa e nera, e sedeva su un trono scolpito. «Rogol Domedonfors!», mormorò Elai. Essi provarono la sensazione che la figura dipinta respirasse, e che lo sguardo di quegli occhi penetrasse nel loro cervello. Ulan Dhor disse: «Rosso all'occhio sinistro, giallo al destro, poi azzurro a entrambi. Bene, ci sono piastrelle azzurre nell'atrio, io porto una giacca rossa...». Trovarono piastrelle azzurre e gialle, e Ulan Dhor strappò una striscia dalla sua giacca. Rosso all'occhio sinistro, giallo al destro, azzurro a entrambi... Un «clik», uno scricchiolio, un ronzio come di centinaia di api. La parete si spalancò su una fuga di gradini. Ulan Dhor entrò, seguito da Elai, che ansimava alle sue spalle; salirono i gradini e uscirono nel mare di luce del giorno. Sotto la cupola stessa, nel centro, sopra un piedistallo, stava un cilindro scintillante, dalla punta arrotondata, di vetro nero. Il ronzio divenne acutissimo: il cilindro vibrò, divenne quasi trasparente, si abbassò leggermente. Nel centro era sospesa una massa bianca, polposa... un cervello? Il cilindro era vivo. Esso protendeva pseudopodi che dondolavano nell'aria. Ulan Dhor ed Elai li osservarono, agghiacciati, stretti uno all'altra. Su un peduncolo nero Jack Vance
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si formò un occhio, su un altro una bocca: l'occhio li guardò attentamente, la bocca disse, con gioia: «Grazie al tempo, grazie! Così, finalmente, siete venuti a risvegliare il vecchio Domedonfors dai suoi sogni? Ho sognato a lungo... ma non so per quanto tempo. Quanto? Venti anni? Cinquant'anni? Lasciatemi guardare». L'occhio-tentacolo si sporse verso un tubo sulla parete ripieno per un quarto della sua altezza di polvere grigia. La bocca diede un grido di meraviglia: «L'energia è quasi dissolta! Quanto a lungo ho dormito? Più di cinquemila anni!». L'occhio-tentacolo tornò verso Ulan Dhor ed Elai. «Chi siete voi, allora? Dove sono i miei cattivi sudditi: i seguaci di Pansiu e di Cazdal? Si sono sterminati fra loro, tanto tempo fa?» «No», disse Ulan Dhor, con un'espressione dolorosa. «Stanno ancora combattendo per le strade.» L'occhio-tentacolo si protese rapidamente, e sbirciò, attraverso una finestra, giù, sulla città. La massa gelatinosa centrale si contrasse, emanando una luminescenza arancione. La voce parlò di nuovo, con una durezza terribile. Ulan Dhor sentì un brivido alla nuca, e le unghie di Elai penetrargli nel braccio. «Cinquemila anni! Cinquemila anni!», gridò la voce. «E gli sciagurati lottano ancora. Il tempo non ha insegnato loro alcuna saggezza? Allora, più forti sistemi devono essere usati. Rogol Domedonfors mostrerà loro la saggezza. Attenzione!» Un grande rumore venne dal basso: un insieme di cento, acuti fragori! Ulan Dhor ed Elai corsero alla finestra, e guardarono giù. Uno spettacolo terribile apparve nelle strade. I sottopassaggi che portavano sotto la città si erano spalancati; da ognuno di essi usciva un grande tentacolo, trasparente, come la sostanza delle strade mobili. I tentacoli, ramificandosi in centinaia di «dita», inseguivano la gente di Ampridatvir, che fuggiva impazzita, l'afferrava e strappava via gli abiti grigi e verdi; poi faceva volteggiare nell'aria gli indumenti e li riportava a terra, nella grande piazza centrale. Nella pungente aria del mattino, la popolazione di Ampridatvir rimaneva tutta confusa: uomini, donne, e bambini, nudi, senza che si potessero più distinguere i Verdi dai Grigi. «Rogol Domedonfors ha grandi, lunghe braccia», gridò una voce Jack Vance
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potente, «forti come l'acciaio, e che possono trovare tutto in ogni luogo...» La voce veniva da ogni parte, senza che si capisse da dove. «Io sono Rogol Domedonfors, l'ultimo governatore di Ampridatvir. A questa aberrazione voi siete giunti? Adattarsi a vivere in tuguri e mangiare immondizie? Guardate... in un momento, io riparo alla negligenza di cinquemila anni!» I tentacoli si suddivisero in migliaia di appendici, dure, taglienti, cornee... come bocche che lanciavano fiamme azzurre, e davano tremendi colpi; ogni appendice terminava in un peduncolo con un occhio sulla punta. Si estesero su tutta la città, e, dove c'erano rovine, o, in altro modo, il marchio del tempo, i tentacoli abbatterono, stritolarono, distrussero, bruciarono. Poi sostituirono nuovi materiali ai precedenti, e crearono, al loro passaggio, nuove, scintillanti strutture. Molti tentacoli afferrarono le rovine, poi lanciarono in alto l'immane carico, agendo come una mostruosa catapulta, disperdendolo lontano sul mare. Dove era pittura grigia o verde, un tentacolo faceva sparire il colore, sostituendolo con nuovi, vari pigmenti. In un tempo più breve di un sospiro, una nuova Ampridatvir aveva rimpiazzato le rovine, una scintillante città... maestosa, superba, da sfidare con il suo accecante splendore lo stesso sole. Ulan Dhor ed Elai avevano osservato attoniti. Era vero ciò che adduceva? Esisteva un tale essere, che poteva demolire una città e costruirne una nuova, in un batter d'occhio? Le nere braccia gelatinose si estesero sopra la collina dell'isola, filtrarono nelle caverne, dove i Gauns giacevano intorpiditi dopo la gozzoviglia; li afferrarono, li sollevarono nell'aria, e poi li tennero sospesi sopra gli abitanti... un centinaio di Gauns sopra un centinaio di tentacoli, orribili frutti su uno strano albero. «Guardate!», tuonò la voce potente e selvaggia. «Questi sono coloro che avete temuto; guardate come Rogol Domedonfors li riduce!» I tentacoli guizzarono, e i Gauns furono scagliati, forme ruotanti, in alto, sopra Ampridatvir, per poi precipitare lontano, nel mare. «Quell'essere è pazzo!», sussurrò Ulan Dhor a Elai. «Il lungo sognare lo ha rovinato!» «Osserva la nuova Ampridatvir!», disse la potente voce. «Guardala per la prima e l'ultima volta. Perché, ora, tu morirai! Tu sei un indegno testimone del passato, indegno di venerare il nuovo dio Rogol Domedonfors. Voi due sarete come me, nelle mie attuali condizioni: il Jack Vance
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vostro corpo morto, il cervello vivente.» Ulan Dhor si spaventò a questa terribile prospettiva. Che cosa? Egli vivere così in Ampridatvir, sotto quell'essere folle? Mai! Bisognava agire immediatamente, perché forse mai più in seguito sarebbe stato così vicino al cervello in modo da opporsi al suo malefico potere. Con un rapido movimento, estrasse la spada, e cacciò la punta dell'arma nel cilindro trasparente... trafisse il cervello, infilzandolo sull'asta d'acciaio. Un terribile suono, mai udito sulla Terra, fece tremare l'aria. Uomini e donne impazzirono nella piazza. I tentacoli di Rogol Domedonfors che avviluppavano la città si agitarono e precipitarono in una frenetica agonia, come un insetto torturato che perde le zampe. Le splendenti torri precipitarono, e gli abitanti fuggirono urlando cercando scampo attraverso il cataclisma. Ulan Dhor ed Elai corsero verso la terrazza dove avevano lasciato la macchina volante. Dietro di loro udirono un rantolo... una voce rauca. «Io... non sono... morto... ancora! Se tutto il resto dovrà perire... se tutti i sogni sono spezzati... io ucciderò voi due...» Terrorizzati, Ulan Dhor ed Elai si lasciarono cadere, ruzzolando, nella macchina volante; Ulan Dhor la fece alzare in aria. Con un terribile sforzo, un tentacolo balzò per intercettarla. Ulan Dhor fece fare al velivolo uno scarto, e si tuffò nel cielo. Il tentacolo si lanciò per stritolare la macchina; Ulan Dhor premette con forza la leva della velocità, e l'aria vibrò e cantò dietro lo scafo. Dietro di loro veniva l'ondeggiante, nero braccio del dio morente, cercando di prendere il moscerino volante che gli aveva fatto tanto male. «Forza, forza!», gridò Ulan Dhor, rivolgendosi alla macchina volante. «Va' più in alto!», sussurrò la ragazza. «Più in alto, più veloce!» Ulan Dhor inclinò la punta del veicolo: la macchina poi si impennò risalendo, quindi scartò bruscamente, docile ai comandi. E il braccio si tese nello sforzo di seguirla... un tremendo membro irrigiditosi nel cielo come un nero arcobaleno. Rogol Domedonfors morì. Il braccio si schiantò, in una nuvola di fumo, e lentamente si inabissò nel mare. Ulan Dhor mantenne la macchina a piena velocità finché l'isola scomparve all'orizzonte: allora, rallentò, sospirò, si rilassò. Elai, improvvisamente, si abbatté sulla spalla di Ulan Dhor, e scoppiò in Jack Vance
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lacrime isteriche. «Sta' calma, sta' calma!», egli l'ammonì. «Siamo in salvo. Siamo per sempre al sicuro da quella maledetta città.» Ella si calmò. «Dove andiamo, adesso?» Ulan Dhor diede un'occhiata dubbiosa e calcolatrice alla sua macchina volante. «Non ci sarà alcuna magia per Kandive; tuttavia avrò un bel racconto da fargli, ed egli potrà essere soddisfatto... Egli vorrà sicuramente la macchina volante, ma io troverò, troverò il modo di...» Ella sospirò: «Non possiamo volare a Est, e volare, volare, volare finché troveremo dove sorge il sole, e forse un bel prato dove ci siano alberi da frutto...». Ulan Dhor guardò a Sud, e pensò a Kaiin, con le sue quiete notti, i tramonti infuocati, i giorni con un cielo color vino, l'ampio palazzo in cui egli abitava, la stanza dalla quale il suo sguardo poteva spaziare sulla baia di Sanreale, guardare i vecchi alberi di olivo, le gaie feste nelle strade... Egli disse con tenerezza: «Elai, ti piacerà Kaiin». FINE
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