STEPHEN L. CARTER L'IMPERATORE DI OCEAN PARK (The Emperor Of Ocean Park, 2002) Per mamma, che amava i gialli, e per papà...
59 downloads
878 Views
2MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
STEPHEN L. CARTER L'IMPERATORE DI OCEAN PARK (The Emperor Of Ocean Park, 2002) Per mamma, che amava i gialli, e per papà, che non è in questo: vi amo entrambi, sempre Deuxfous gagnent toujours, mais troisfous, non! (Traduzione approssimativa: "Due matti vincono sempre, ma tre matti mai!".) SIEGBERT TARRASCH (Nota: il pezzo degli scacchi che gli americani chiamano bishop, l'alfiere, in Francia viene chiamato fou.) Prologo LA CASA DI MARTHA'S VINEYARD Quando mio padre alla fine morì, lasciò l'abbonamento dei Redskins a mio fratello, la casa in Shepard Street a mia sorella e la casa di Martha's Vineyard a me. L'abbonamento alla squadra di football era, naturalmente, il pezzo più pregiato dell'eredità, ma d'altra parte Addison era sempre stato il prediletto e il più gran tifoso, l'unico di noi figli prossimo a condividere la passione ossessiva di mio padre, nonché l'unico di noi che gli rivolgesse ancora la parola al momento dell'ultima stesura del testamento. Addison è una perla, se vogliamo prescindere dalle sue blaterazioni religiose, mentre Mariah e io ci siamo allontanati nel corso degli anni, da quando io sono passato al nemico, come lei ama dire, ed è per questo che mio padre ci ha lasciato due case a più di seicento chilometri di distanza l'una dall'altra. Ero lieto di possedere la casa di Martha's Vineyard, un edificio vittoriano piccolo e ben tenuto che si trova a Ocean Park, nella cittadina di Oak Bluffs, con un portico ornato di decorazioni gotiche in legno e con una deliziosa vista mattutina sul palco della banda circondato da un vasto mare di erba verde e liscia, delineato sullo sfondo di un mare ancora più vasto di lucente acqua azzurra. I miei genitori amavano raccontare di aver comprato quella casa per una miseria negli anni Sessanta, quando Martha's Vineyard e la colonia di borghesia nera che vi passa le estati era ancora elegan-
te e discreta. Negli ultimi tempi, secondo la ripetuta opinione di mio padre, Martha's Vineyard era caduta: era affollata, chiassosa e soprattutto vi facevano entrare chiunque, con il che intendeva riferirsi ai neri meno benestanti di noi. Venivano costruite troppe case, gemeva, molte delle quali rovinavano le strade e i boschi nei pressi delle spiagge migliori. Erano perfino sorti condomini, specialmente nei dintorni di Edgartown, cosa che mio padre non riusciva a capire visto che la parte meridionale dell'isola era quella che lui aveva sempre chiamato la "terra dei Kennedy", la zona in cui si riunivano i ricchi vacanzieri bianchi e i loro viziati figli, e uno degli articoli di fede di mio padre asseriva che i bianchi consentivano ai membri della nazione più scura, come lui la chiamava, di affollarsi e brulicare al fine di riservare a se stessi gli spazi aperti. Eppure, malgrado tutto, la casa di Martha's Vineyard è una piccola meraviglia. L'amavo da bambino e l'amo ancora di più ora. Ogni stanza, ogni buia scala di legno, ogni finestra sussurra la sua parte segreta di ricordi. Da piccolo mi ruppi una caviglia e un polso cadendo dal tetto fuori dalla camera da letto dei miei genitori; adesso, a più di trent'anni di distanza, non ricordo perché avessi pensato che sarebbe stato divertente arrampicarmi là sopra. Due estati dopo, circa una settimana prima del mio decimo compleanno, mentre vagavo per la casa nel buio della notte alla ricerca di un sorso d'acqua, uno strano miagolio mi fece accucciare sul ballatoio, da dove sbirciai di sotto attraverso la balaustra scorgendo il primo, stimolante barlume del mistero ancestrale del mondo adulto. Vidi mio fratello Addison, di quattro anni più vecchio di me, aggrovigliato a nostra cugina Sally, una bellezza quindicenne dai capelli scuri, sul consunto divano rosso borgogna di fronte al televisore. Nessuno dei due era completamente vestito, anche se non riuscivo a capire di preciso quali fossero gli indumenti mancanti. Il mio istinto mi diceva di fuggire. Invece, prigioniero di una letargia stranamente eccitante, li guardai rotolarsi, le braccia e le gambe intrecciate in pose apparentemente disordinate; se la stava facendo, dicevamo in quei giorni più semplici, una frase pregna di intenzionale ambiguità, forse come protezione contro il fardello della precisione. La mia adolescenza, monotona e troppo lunga come la mia età adulta, non portò nessuna avventura simile, men che meno a Martha's Vineyard; il momento saliente, credo, si verificò verso la fine dell'ultimo soggiorno estivo della nostra famiglia al completo, quando avevo circa tredici anni, e Mariah, quindicenne alquanto grassoccia, infuriata con me per una battuta sul suo peso, prese una scatola di fiammiferi, rubò una figurina del gioca-
tore di baseball Willie Mays che custodivo gelosamente e si arrampicò sulla pericolosa scala rientrante della soffitta, otto malfermi listelli di legno per la maggior parte allentati. Quando la raggiunsi, mia sorella stava bruciando la figurina davanti ai miei occhi mentre io piangevo impotente, crollando in ginocchio nella terribile calura pomeridiana del polveroso solaio dal tetto basso. Entrambi eravamo già prigionieri di quell'animosità che ci avrebbe caratterizzato per tutta la vita. Quella stessa estate, mia sorella Abigail, a quei tempi ancora chiamata "la piccola" pur avendo poco più di un anno meno di me, finì sul giornale locale, la "Vineyard Gazette", per aver vinto qualcosa come otto diversi premi alla fiera della contea durante un'umida sera di agosto lanciando freccette contro palloncini e palle da baseball contro bottiglie di latte, rafforzando la sua posizione di unica potenziale atleta di famiglia; nessuno di noialtri osava cimentarsi, poiché i nostri genitori avevano sempre predicato la superiorità del cervello sui muscoli. Quattro estati dopo, la risata da maschiaccio di Abby non si fece più udire a Ocean Park né altrove; la sua gioia di vivere, e la nostra di averla fra noi, era svanita in un confuso istante di asfalto scivoloso di pioggia e nell'inesperto tentativo di un adolescente di evitare un'auto sportiva che aveva perso il controllo, un modello di lusso visto da diversi testimoni ma mai descritto con precisione e di conseguenza mai rintracciato; anche perché l'automobilista che quella primavera del primo anno della presidenza Carter uccise la mia sorellina pochi isolati a nord della cattedrale di Washington era fuggito dalla scena dell'incidente molto prima dell'arrivo della polizia. Il fatto che Abby aveva preso soltanto il foglio rosa e non la patente non venne mai reso pubblicamente noto; e da parte della polizia e della stampa non si fece cenno alla marijuana trovata nella sua auto, a causa della posizione di mio padre, delle sue conoscenze e del fatto che a quei tempi rovinare la reputazione dei grandi non era ancora diventato lo sport nazionale. E così Abby poté morire nel modo innocente in cui noi fingevamo che avesse vissuto. Addison stava per finire l'università e Mariah avrebbe dovuto cominciare il suo secondo anno, lasciandomi nel disagevole ruolo di quello che mia madre insisteva a definire il suo unico bambino. E per tutta quell'estate a Oak Bluffs, mentre mio padre, a labbra serrate, andava e veniva dal tribunale federale di Washington e mia madre vagava senza meta da una stanza all'altra del pianterreno, io mi costrinsi a cercare ricordi di Abby per tutta la casa: sotto una pila di libri sul carrello di metallo nero del televisore, Life, il suo gioco preferito; in fondo all'armadietto di vetro so-
pra il lavandino, una tazza di ceramica bianca con la scritta NERO È BELLO, acquistata per irritare mio padre; e, nascosto in un angolo della soffocante soffitta, un panda di peluche chiamato George, in onore del martire nero George Jackson, che era stato vinto alla fiera e i cui arti avevano cominciato a perdere una disgustosa sostanza rosa. Ricordi, devo confessare nella mia pericolosa mezz'età, che con il passare del tempo si sono fatti sempre più vaghi. Ah, la casa di Martha's Vineyard! Addison vi ha festeggiato due matrimoni, uno dei quali è andato più o meno a buon fine, e io ho sfondato il vetro piombato della porta d'ingresso a due battenti, anche in questo caso due volte, una delle quali più o meno intenzionalmente. Ogni estate della mia giovinezza ci trasferivamo lì, perché era questo che si faceva con una casa estiva. Ogni inverno mio padre si lamentava dei costi di manutenzione e minacciava di venderla, perché è questo che si fa quando la felicità è un investimento discutibile. E quando il cancro che l'ha perseguitata per sei anni l'ha finalmente avuta vinta, mia madre vi è morta, nella camera da letto più piccola, con la vista migliore sul Nantucket Sound, perché è questo che si fa quando si può scegliere la propria fine. Mio padre è morto alla sua scrivania. E sulle prime, soltanto mia sorella e qualche esaltato, di quelli che telefonano ai programmi notturni delle radio, hanno creduto che fosse stato assassinato. Parte prima VARIANTE DI NOWOTNY Variante di Nowotny - Nella composizione di problemi scacchistici, variante in cui due pezzi neri si ostacolano a vicenda nella difesa di caselle importanti. 1 ULTIME NOTIZIE PER TELEFONO «È il giorno più felice della mia vita» esulta la donna con cui sono sposato da quasi nove anni in quello che fra breve diventerà uno dei giorni più tristi della mia. «Lo sento» rispondo in tono ferito. «Dài, Misha, non fare il bambino. Non lo sto confrontando con il matrimonio.» Una pausa. «O con la nascita di un figlio» aggiunge a mo' di po-
stilla. «Lo so, capisco.» Un'altra esitazione. Odio i silenzi al telefono, ma d'altra parte odio anche il telefono, insieme a molte altre cose. In sottofondo sento una risata maschile. Malgrado sulla costa orientale siano quasi le undici, a San Francisco non sono nemmeno le otto del mattino. Ma non c'è alcun bisogno di essere sospettosi: mia moglie potrebbe chiamare da un ristorante, da un centro commerciale o da una sala conferenze. Oppure no. «Credevo che saresti stato felice per me» dice infine Kimmer. «Sono felice per te» le assicuro, troppo tardi. «È solo...» «Oh, Misha, andiamo.» Adesso è spazientita. «Non sono tuo padre, d'accordo? So in cosa mi sto cacciando. Non mi succederà ciò che è accaduto a lui. E quello che è successo a te non accadrà a nostro figlio. Va bene, tesoro?» "A me non è successo nulla" sto quasi per mentire, ma mi trattengo, in parte perché mi piace il raro, sopraffino sapore di quel "tesoro". Con Kimmer una volta tanto così felice, non voglio creare problemi. Di sicuro non voglio dirle che la gioia che provo per il suo successo è sminuita dalla preoccupazione per la reazione di mio padre. «Mi preoccupo per te, tutto qui» dico in tono sommesso. «So badare a me stessa» mi assicura Kimmer, un'affermazione così profondamente vera da fare spavento. Mi meraviglia la capacità di mia moglie di nascondere le buone notizie, quantomeno a me. In qualche momento nella giornata di ieri è venuta a sapere che gli anni di sottili pressioni e studiati contributi politici hanno finalmente dato i loro frutti, facendola diventare uno dei finalisti per un seggio presso la corte d'appello federale. Cerco di non chiedermi con quanti abbia condiviso la sua gioia prima di decidersi a chiamare casa. «Mi manchi» le dico. «Sei tanto caro, ma sfortunatamente pare che dovrò restare qui fino a domani.» «Credevo che rientrassi stasera.» «Lo credevo anch'io, ma... insomma, non posso.» «Capisco.» «Oh, Misha, non lo faccio apposta. È il mio lavoro. Non posso farci niente.» Per qualche istante, entrambi riflettiamo. «Tornerò il più presto possibile, lo sai.»
«Lo so, cara, lo so.» Sono in piedi dietro la mia scrivania, guardo il cortile e gli studenti sdraiati sull'erba, con i volti immersi nelle loro raccolte di casi o impegnati a giocare a pallavolo e ad allungare l'estate del New England, godendosi gli ultimi raggi del sole di ottobre. Il mio ufficio è grande e luminoso ma un po' disordinato, che è anche la condizione generale della mia vita. «Lo so» ripeto per la terza volta, poiché il nostro matrimonio è allo stadio in cui gli argomenti di conversazione sembrano essersi esauriti. Dopo un adeguato periodo di silenzio, Kimmer riprende a parlare di cose pratiche. «Indovina un po'? Fra non molto l'Fbi comincerà a interpellare i miei amici. E mio marito. "Spero che non gli riveli tutti i miei peccati" ho risposto quando Ruthie me l'ha detto.» Una risatina, circospetta e al tempo stesso sicura. Mia moglie sa di poter contare su di me. E, sapendolo, diviene improvvisamente umile. «Mi rendo conto che stanno prendendo in considerazione anche altri» aggiunge «e alcuni di loro hanno curricula eccezionali. Ma secondo Ruthie ho ottime possibilità.» Ruthie sarebbe Ruth Silverman, nostra compagna di corso durante la specializzazione, amica occasionale di Kimmer e ora consulente legale aggiunto della Casa Bianca. «Le avrai se faranno una valutazione di merito» dico lealmente. «Non sembri affatto convinto che possa farcela.» «Sono convinto che dovresti farcela.» Ed è vero. Mia moglie è il secondo avvocato più brillante che conosca. È socia dello studio più importante di Elm Harbor, che lei considera un paese e io una cittadina di discrete dimensioni. Soltanto altre due donne sono arrivate così in alto, e nessun altro che non sia bianco. «Certo, l'intera faccenda potrebbe essere truccata» ammette. «Spero di no. Vorrei che tu ottenessi ciò che vuoi. E che meriti.» Esito, poi mi tuffo. «Ti amo, Kimmer. Ti amerò sempre.» Mia moglie, riluttante a ricambiare il sentimento, imbocca un'altra strada. «Ci saranno quattro o cinque finalisti. Ruthie dice che alcuni di loro sono docenti di giurisprudenza. Dice che due o tre sono tuoi colleghi.» Questo mi fa sorridere, ma non di piacere. Ruthie è troppo circospetta per aver fatto qualche nome, ma sia io che Kimmer sappiamo perfettamente che due o tre colleghi significa Marc Hadley, considerato da alcuni il membro più brillante della facoltà malgrado abbia pubblicato un solo libro in un quarto di secolo di insegnamento e l'abbia fatto quasi vent'anni or sono. Un tempo con Marc eravamo abbastanza amici, e io non sono in confidenza con molta gente, specialmente all'università; ma quattro mesi fa la morte inaspettata del giudice Julius Krantz ha guastato quel poco di amici-
zia che ci legava, alimentando la concorrenza dietro le quinte che ci ha condotti a questo punto. «È difficile credere che il presidente scelga un altro professore» dichiaro tanto per dire qualcosa. Marc fa pressioni per diventare giudice da più tempo di mia moglie, e ha aiutato Ruthie, una delle sue ex studentesse preferite, a ottenere la sua attuale posizione. «I giudici migliori sono quelli che hanno esercitato la professione legale per qualche tempo.» Mia moglie parla come se stesse citando una regola ufficiale. «Sono abbastanza d'accordo con te.» «Speriamo che sia d'accordo il presidente.» «Giusto.» Stendo un braccio scricchiolante. Il mio corpo duole proprio nei punti giusti per impedirmi di stare seduto tranquillo. Questa mattina, dopo colazione, ho lasciato Bentley al suo costosissimo asilo e ho incontrato Rob Saltpeter, un altro collega, ma non proprio un amico, per la nostra occasionale partitella di basket; non nella palestra dell'università, dove avremmo potuto fare una figuraccia di fronte agli studenti, ma all'YMCA, dove tutti gli altri giocatori erano come minimo sulla quarantina come noi. «Ruthie dice che decideranno entro le prossime sei-otto settimane» aggiunge mia moglie, rafforzando in me il segreto sospetto che stia festeggiando troppo presto. Kimmer pronuncia il nome di Ruthie con affetto notevole, per una che soltanto due settimane fa, in privato, scherniva la sua vecchia amica chiamandola "Piccola Miss Scegligiudici". «Giusto in tempo per Natale.» «Be', cara, la trovo una grande notizia. Magari quando torni a casa potremmo...» «Oh, Misha, tesoro, devo scappare. Jerry mi sta chiamando. Scusami. Ci sentiamo più tardi.» «Va bene. Ti amo» ripeto. Ma sto dichiarando il mio affetto al vuoto. "Jerry mi sta chiamando." In riunione? Al telefono? A letto? Mi torturo con ardite illazioni finché giunge l'ora della mia lezione delle undici, al che raccolgo i libri e mi affretto verso l'aula. Sono, come forse avrete capito, un docente di giurisprudenza. Ho quasi quarant'anni e un tempo, nelle nebbie della storia, sono stato un avvocato. Oggi mi guadagno da vivere scrivendo articoli troppo eruditi e oscuri perché abbiano qualsivoglia influenza e, alcune mattine alla settimana, cercando di inculcare qualche nozione sul fatto illecito (sessione autunnale) e sul diritto amministrativo
(sessione primaverile) nelle menti di studenti troppo intelligenti per accontentarsi di voti decenti, ma anche troppo egocentrici per sprecare le loro preziose energie sui tediosi dettagli che fanno guadagnare il massimo dei voti. La maggior parte dei nostri studenti desidera ottenere le ottime credenziali che garantiamo e non certo la cultura che possiamo offrire; e mentre di generazione in generazione ci vedono sempre più come una scuola di mera formazione professionale, il collegamento fra il desiderio della laurea e il desiderio di comprendere il diritto si attenua sempre più. Questi non sono forse i pensieri più lieti per un professore di giurisprudenza, ma la maggior parte di noi arriva prima o poi ad averli, e oggi sembra essere la mia giornata. Sbrigo in fretta la lezione sul fatto illecito - cosa c'è di nuovo da dire sull'argomento dei contratti assicurativi a scarico di responsabilità? - e sparo diverse battute, nessuna delle quali originale, con cui faccio ridere i miei cinquantatré studenti per gran parte dell'ora. Alle dodici e mezzo mi allontano a passi pesanti per pranzare con due colleghi, Ethan Brinkley, che è abbastanza giovane per essere ancora eccitato dalla sua posizione di docente di ruolo, e Theo Mountain, che ha insegnato diritto costituzionale tanto a mio padre quanto a me e che, grazie alla legge contro le discriminazioni di età sul lavoro e a un'inossidabile forma fisica, potrebbe benissimo arrivare a insegnare ai miei nipoti. Seduto insieme a loro in un séparé del Post (soltanto i non iniziati lo chiamano Post's), una tetra gastronomia a due isolati dalla facoltà, ascolto Ethan raccontare una storia su qualcosa di divertente che Tish Kirschbaum ha detto lo scorso fine settimana a una festa a casa di Peter Van Dyke, e rimango colpito, come spesso accade, dalla sensazione che all'interno dell'istituto esista una cerchia sociale bianca la quale mi vortica intorno a una velocità tale che riesco a scorgerla soltanto di sfuggita. Prima che Ethan ne facesse cenno non avevo idea che lo scorso fine settimana ci fosse stata una festa a casa di Peter Van Dyke, e di sicuro non mi è stata offerta alcuna possibilità di declinare l'invito. Peter abita a due isolati da me, ma mi sovrasta di alcuni chilometri nella gerarchia della facoltà. Ethan, in teoria, si trova parecchio più in basso. Ma il colore della pelle, anche nel più progressista dei campus, ordisce una gerarchia tutta sua. Ethan continua a parlare. Theo, la sua folta barba bianca chiazzata di senape, ride divertito; facendo del mio meglio per partecipare mi chiedo se sia il caso di raccontare loro di Kimmer, per il semplice gusto di vedere la pomposità abbandonare i loro volti bianchi e soddisfatti per uno splendido
istante. Ma poi mi viene in mente che se diffondessi la notizia e in seguito Marc sconfiggesse Kimmer nella corsa alla nomina - come sospetto che farà malgrado non se lo meriti - l'arroganza tornerebbe a travolgerli in modo ancora più plateale. Oltretutto, Marc Hadley probabilmente lo sa già. Ruthie non ha voluto rivelare a Kimmer il nome di Marc, ma scommetto che a Marc ha detto quello di Kimmer. Così almeno penso mentre percorro da solo Town Street verso la facoltà. Il pranzo è terminato. Theo, abbastanza anziano da avere una nipote al college mentre gran parte di noi ha ancora i figli alle elementari, è andato a una riunione; Ethan, un esperto sia di terrorismo sia di diritto bellico, si allena in palestra nell'eventualità di una telefonata della MSNBC o della CNN. Io, non avendo nulla di speciale da fare, rientro in ufficio. Gli studenti mi passano accanto in una moltitudine di colori e di stili, avanzando con quel passo stranamente insolente che ostentano i giovani d'oggi, il capo chino, le spalle ingobbite, i gomiti stretti ai fianchi, i piedi che si staccano a malapena da terra, riuscendo comunque a esprimere un senso di energia sul punto di essere liberata. Marc probabilmente lo sa già. Non riesco a sfuggire al pensiero. Supero la gloria granitica della corte delle scienze, in cui oggi l'università sembra riversare ogni fondo disponibile. Oltrepasso un gruppo di mendicanti, tutti membri della nazione più scura, a ognuno dei quali do un dollaro: l'obolo del senso di colpa, lo chiama Kimmer. Mi chiedo quanti siano fra loro i truffatori, ma questo è quello che mio padre chiamava un "pensiero indegno": "Voi siete migliori di simili idee" predicava ai suoi figli con rara veemenza, ordinandoci di fare la guardia alle nostre menti. Marc probabilmente lo sa, mi ripeto per l'ennesima volta incespicando sull'ampia scalinata dell'edificio principale della facoltà di giurisprudenza. Sono pronto a scommettere che Ruthie Silverman gli ha detto tutto. Theo è stato professore anche di Ruthie, e mia moglie e io eravamo suoi compagni di classe; ma è Marc Hadley colui al quale lei, come molti dei nostri studenti, riserva la sua più pura devozione. «È questo il problema con gli studenti» borbotto sottovoce varcando la soglia, poiché parlare da solo, cosa che mia moglie sostiene sia segno di follia, è una mia antica abitudine. «Non smettono mai di essere grati.» Ciò nonostante, la prudenza ha il sopravvento. Decido di tenere per me le novità su Kimmer. Sono molte le cose che tengo per me. Il mio mondo, anche se occasionalmente doloroso, è solitamente tranquillo, ed è così che mi piace. Il fatto che possa essere improvvisamente travolto dalla violenza
e dal terrore è, in questo soleggiato pomeriggio autunnale, qualcosa che va al di là della mia immaginazione. Nell'atrio incontro uno dei miei studenti preferiti, Crysta Smallwood, che ha una vera passione per i dati. È una donna grassoccia dai capelli scuri e dalle considerevoli qualità intellettuali che, prima del corso di specializzazione, si è laureata in francese a Pomona senza avere mai avuto a che fare con i numeri. Dal suo arrivo a Elm Harbor, la scoperta della statistica l'ha fatta impazzire di piacere. La scorsa sessione autunnale ha frequentato il mio corso sull'illecito, e da allora ha trascorso gran parte del tempo sui suoi due amori gemelli: il nostro gruppo di assistenza legale, dove aiuta le ragazze madri a evitare lo sfratto, e la sua collezione di statistiche, con cui spera di dimostrare che la razza bianca è destinata all'autodistruzione, prospettiva che la riempie di gioia. «Ehi, professor Garland» mi chiama con la sua migliore cadenza strascicata della costa occidentale. «Buon pomeriggio, signorina Smallwood» rispondo in tono formale, poiché la dura esperienza mi ha insegnato a non concedere troppa familiarità agli studenti. Procedo verso le scale. «Indovini un po'?» mi incalza lei tagliandomi la via di fuga, incurante del fatto che potrei avere una destinazione. È una delle ultime a portare i capelli in una cortissima acconciatura afro. Sono abbastanza anziano da ricordare quando erano poche le donne della sua età che si pettinavano in un altro modo, ma il nazionalismo è diventato più una moda che un'ideologia. I suoi occhi sono un po' troppo distanziati, e quando ti guarda le danno un'espressione un po' inquietante. È molto svelta per una donna della sua mole, e di conseguenza non è facile da evitare. «Ho ricontrollato quei numeri. Sulle donne bianche.» «Capisco.» In trappola, alzo gli occhi al soffitto decorato con elaborate figure in stucco: simboli religiosi, ghirlande di foglie di tasso, allusioni alla giustizia, tutte ricoperte da così tante mani di colore che stanno perdendo i loro netti contorni. «Sì, e indovini un po'? La loro percentuale di fertilità è così bassa che verso il 2050 non ci saranno più neonati bianchi.» «Ah, ne è sicura?» Perché Crysta, malgrado sia brillante, è anche completamente matta. In qualità di insegnante ho scoperto che il suo entusiasmo la rende imprecisa, facendole spesso citare dati con grande sicurezza prima di concedersi il tempo di capirli.
«Forse il 2075?» propone, suggerendo con il suo tono amichevole che si può anche trattare. «Mi sembra un'ipotesi un po' traballante, signorina Smallwood.» «È per via dell'aborto.» Riprendo a camminare, ma Crysta tiene facilmente il passo. «Il fatto che stanno uccidendo i loro piccoli. È questa la ragione principale.» «Penso proprio che dovrebbe trovare un altro argomento per la sua tesina» rispondo, aggirandola con una finta per raggiungere l'ampia scalinata di marmo che conduce agli uffici della facoltà. «Non è soltanto l'aborto...» La sua voce percorre la tromba delle scale dietro di me, portando uno dei miei colleghi, il piccolo e nervoso Joe Janowski, a sbirciare dalla balaustra con i suoi occhiali spessi per vedere chi sta gridando. «Sono anche i matrimoni misti, perché le donne bianche...» A questo punto supero la porta a due battenti del corridoio, e le ipotesi di Crysta diventano misericordiosamente inafferrabili. Un tempo ero come lei, rammento scivolando nel mio ufficio. Altrettanto sicuro di essere nel giusto su argomenti di cui non sapevo nulla. Ed è per questo, probabilmente, che ho trovato lavoro, poiché quando ero intellettualmente più giovane ero anche intellettualmente più audace. In più, ero figlio di mio padre, visto che la sua influenza sul campus era impallidita di poco dopo il trauma delle udienze per la nomina. Ancora oggi, ben più di un decennio dopo la caduta del Giudice, gli studenti mi bloccano per farsi confermare che sono davvero figlio di quel padre, e i colleghi vogliono che spieghi loro cosa si provava a starsene lì seduto giorno dopo giorno, ascoltando stoicamente mentre il Senato procedeva con metodo alla sua distruzione. <Era come osservare qualcuno in zugzwang» rispondo sempre io, ma loro non sono esperti di scacchi e così non capiscono. Anche se, essendo professori, fingono il contrario. Alla ricerca di una distrazione, sfoglio la mia corrispondenza. Un memorandum dell'ufficio del rettore sulle tariffe del parcheggio. Un invito a una conferenza sulla riforma delle leggi sull'illecito in California che si terrà fra tre mesi, ma soltanto se mi pago il viaggio. Una cartolina da qualcuno nell'Idaho, il mio avversario in un torneo di scacchi per corrispondenza, il quale ha individuato l'unica mossa che speravo gli sfuggisse. Una nota di Ben Montoya, il vicepreside di facoltà, che mi ricorda la conferenza di stasera tenuta da un importante avvocato. Una lettera moderatamente minacciosa da parte della biblioteca universitaria riguardo a un libro che ho evi-
dentemente smarrito. Dal mezzo della catasta sfilo la nuova "Harvard Law Review", scorro l'indice e mi affretto a posarla dopo aver adocchiato l'ennesimo dotto articolo che spiega le ragioni per cui il mio famigerato genitore è un traditore della sua razza, perché è questo il livello a cui è stata ridotta la nazione più scura: incapaci di influenzare il corso di un singolo evento nell'America bianca, sprechiamo il nostro prezioso tempo e le nostre energie intellettuali sparlando l'uno dell'altro, come se il modo migliore di aiutare la causa del progresso razziale fosse maltrattare gli altri neri. Bene, per oggi il mio lavoro è finito. Squilla il telefono. Lo fisso, pensando - non per la prima volta - a quanto sia sgradevole, invadente, incivile, prepotente, a quanto interrompa e invada lo spazio della mente. Mi chiedo per quale ragione Alexander Graham Bell sia considerato un eroe. La sua invenzione ha distrutto il regno del privato. L'aggeggio non ha una coscienza. Suona quando stiamo dormendo, facendo la doccia, giocando, discutendo, leggendo, facendo l'amore. O quando abbiamo semplicemente una disperata voglia di essere lasciati in pace. Considero l'ipotesi di non rispondere. Ho sofferto già abbastanza. E non solo perché la mia vivace consorte ha riagganciato con tanta fretta. Questo è stato uno di quei particolari giovedì in cui il telefono non vuole smettere di richiamare rabbiosamente l'attenzione: il direttore deluso di una rivista di studi giuridici che pretendeva la consegna di un mio articolo già in ritardo, uno studente in difficoltà che chiedeva un appuntamento, l'American Express che voleva notizie sui versamenti dell'ultimo mese, tutti hanno avuto il loro turno. La preside della facoltà, Lynda Wyatt - o Dean Lynda, come le piace farsi chiamare da tutti, studenti, professori o ex alunni che siano - ha telefonato appena prima di pranzo per assegnarmi a un'altra delle commissioni ad hoc che insiste a creare. "Te lo chiedo soltanto perché ti voglio bene" ha cantilenato nel suo tono materno, ripetendo quello che dice a tutti coloro che non le piacciono. Il telefono continua a squillare. Aspetto che scatti la segreteria, ma questa, come gran parte dell'attrezzatura tecnologica a buon mercato dell'università, funziona al meglio quando non c'è bisogno di lei. Decido di ignorare gli squilli, ma poi ricordo che la mia conversazione con Kimmer è finita male e che forse mi sta richiamando per fare la pace. O per continuare il litigio. Facendomi forza per affrontare entrambe le alternative, afferro la cornetta sperando di udire la voce possibilmente pentita di mia moglie, ma è sol-
tanto il grande Mallory Corcoran, socio e ultimo amico rimasto a mio padre, nonché faccendiere di buona fama a Washington, che mi chiama per dirmi che il Giudice se n'è andato. 2 UNA VISITA SULLA COSTA Arrivo a Washington nel pomeriggio di venerdì, il giorno dopo la morte di mio padre, lascio i bagagli a casa di Miles e Vera Madison, i diffidenti e rispettabili genitori di mia moglie, e raggiungo la casa di Shepard Street per scoprire che Mariah, in quel suo modo ordinato, ha già fatto quasi tutto quello che bisogna fare. (Senza dircelo, sappiamo entrambi che la famiglia non può contare sul volubile Addison, il quale non ci ha ancora comunicato i suoi programmi.) Molti anni or sono, Mariah era una bambina grassottella e ribelle, con un terribile complesso di inferiorità nei riguardi della sorella più piccola e dalla pelle più chiara, poiché l'ossessivo interesse per la pigmentazione è ancora oggi la disgrazia della nostra razza, soprattutto in famiglie come la mia. Crescendo, Mariah è diventata una bellezza solenne, quasi regale, ciò nonostante ignorata dagli uomini della Gold Coast (come chiamiamo il nostro sottile lembo altoborghese della nazione più scura). Forse ora è un po' in carne, ma a sentire l'acida Kimmer, avvocato di professione e guru dilettante del fitness, ciò è comprensibile quando si mettono al mondo cinque figli. (Kimmer ne ha messo al mondo uno, un incidente di percorso quasi pianificato che abbiamo chiamato Bentley, il cognome da nubile della sua nonna materna.) La Mariah adulta è anche favolosamente bene organizzata, l'unica fra i figli del Giudice ad aver mutuato questa caratteristica da lui, e non crede nel riposo. Ma pochi istanti dopo il mio ingresso nella vasta e orrida casa in Shepard Street nella quale entrambi abbiamo trascorso la nostra adolescenza, Mariah mi scarica addosso tutto il lavoro. Lo fa, penso, non spinta dal dolore o dalla cattiveria, e nemmeno dalla stanchezza, ma per lo stesso tratto distintivo che l'ha indotta a lasciare il giornalismo per dedicarsi alla carriera di mamma, una particolare, forzata deferenza nei riguardi dell'uomo ereditata da nostra madre, la quale chiedeva alle sue due figlie non tanto di recitare un ruolo, quanto di ostentare un atteggiamento: c'erano imprese che non erano adatte al loro sesso. È un aspetto di mia sorella che Kimmer detesta, accusandola, in un caso esplicitamente, di aver sprecato l'intelligenza che le aveva fatto ottenere l'ammissione alla Phi Beta Kappa al suo primo anno a Stanford.
Kimmer lanciò questa affermazione durante una festa natalizia tenutasi due anni fa in questa stessa casa, alla quale ci eravamo stupidamente presentati. Mariah, sorridendo, le rispose con calma che i suoi figli meritavano i migliori anni della sua vita: Kimmer, che alla nascita di Bentley aveva a malapena rallentato la sua avanzata professionale, lo prese come un attacco personale e glielo disse, dando a me e a mia sorella un'altra ragione, se ce n'era bisogno, per non rivolgerci la parola. Intendiamoci, sotto molti aspetti io amo e rispetto mia sorella. Quando eravamo più giovani, Mariah era considerata di comune accordo la più capace, intellettualmente, dei quattro figli dei miei genitori, e quella votata nel modo più zelante e commovente all'impossibile impresa di guadagnare la loro approvazione. I suoi successi al liceo e al college riscaldavano il cuore di mio padre. Per riscaldare quello di mia madre, Mariah si è sposata una volta sola e felicemente - dopo che un precedente fidanzato, che si sarebbe rivelato un disastro, era fuggito con la sua migliore amica -, e ha prodotto nipoti con una regolarità e un entusiasmo che ha deliziato i miei genitori. Il marito è bianco e noioso, un banchiere d'affari di dieci anni più vecchio di lei conosciuto, secondo i suoi racconti ai familiari, in un appuntamento al buio, anche se la dolce Kimmer continua a sostenere che poteva trattarsi soltanto del risultato di un'inserzione sul giornale. E, se devo dire la verità, Mariah ha sempre preferito gli uomini bianchi, fin dai tempi in cui frequentava il liceo Sidwell Friends, quando sotto lo sguardo da falco del nostro cupo genitore cominciava a conoscere l'altro sesso. In Shepard Street, Mariah accoglie i visitatori nell'ingresso, formale e sobria in completo blu scuro e filo di perle, da perfetta signora, come avrebbe detto mia madre. Da qualche punto della casa proviene un esempio dei terribili gusti di mio padre in fatto di musica classica: Puccini con un libretto in inglese. L'atrio è piccolo, scuro e stipato di mobili in legno male assortiti. Sulla destra si affaccia la sala da pranzo, e sul retro un corridoio che conduce in salotto e in cucina. Accanto alla porta della sala da pranzo si erge un'ampia ma ordinaria scalinata, e lungo il corridoio al primo piano c'è un ballatoio in cui ero solito accovacciarmi per spiare le cene e le partite di poker dei miei genitori, e dove Addison mi aveva costretto a nascondermi nel tentativo riuscito di dimostrarmi che Babbo Natale non esisteva. Oltre il ballatoio c'è lo studio cavernoso in cui è morto mio padre. Con mia sorpresa vedo due o tre persone, appoggiate sulla balaustra come se appartenesse a loro. In realtà, nella casa c'è più gente di quanta mi aspettassi. L'intero pianterreno sembra invaso dagli abiti scuri, una fetta di America
nera più ampia di quella che la maggior parte degli americani bianchi crede esista al di fuori del mondo dello sport e dello spettacolo, e mi chiedo quanti fra gli ospiti siano più lieti della morte di mio padre di quanto attestino i loro volti. Quando entro dall'ingresso principale mia sorella non mi accoglie con un abbraccio ma con baci distaccati, prima su una guancia e poi sull'altra. «Sono così lieta che tu sia qui» mormora, come se lo stesse dicendo a uno dei soci o dei compagni di poker di mio padre. Poi, stringendomi le spalle in quello che continua a non essere un vero e proprio abbraccio, guarda dietro di me con occhi stanchi ma brillanti e maliziosi: «Dov'è Kimberly?». (Mariah si rifiuta di chiamarla Kimmer, nome che puzza, mi ha spiegato una volta, di finto preppy, malgrado mia moglie abbia frequentato la raffinata Scuola di Miss Porter e sia quindi una preppy abilitata.) «Sta arrivando da San Francisco» dico. «Era lì da qualche giorno per lavoro.» Bentley, aggiungo con troppa fretta, è dai nostri vicini: ieri sono andato a prenderlo in anticipo all'asilo e questa mattina l'ho lasciato di nuovo per mettermi in viaggio, dando per scontato che oggi sarei stato troppo occupato per passare molto tempo con lui. Kimmer lo riprenderà stasera, e arriveranno domani in treno. Spiegando tutti questi dettagli logistici, mi rendo conto che sto parlando troppo e provo una sensazione di vuoto abissale che spero il mio volto non tradisca, poiché mia moglie mi manca in modi che non sono ancora pronto a rivelare alla mia famiglia. Ma non mi sarei dovuto preoccupare di celare le mie emozioni, visto che Mariah ne ha già a sufficienza di sue e non fa alcuno sforzo per nascondere il dolore o la confusione. Ha già scordato di avermi chiesto notizie di mia moglie. «Non capisco» dice con un filo di voce scuotendo la testa e affondandomi le dita nelle braccia. A dire il vero, sono certo che Mariah capisca alla perfezione. Soltanto un anno fa il Giudice era in ospedale per porre rimedio alle imprecisioni del bypass di due anni prima, un fatto che mia sorella conosce bene quanto me; la morte di nostro padre, anche se non esattamente prevista, è tutt'altro che inaspettata. «Poteva succedere in qualsiasi momento» mormoro. «Vorrei che non fosse successo proprio adesso.» A un'affermazione del genere c'è poco da rispondere se non citando la volontà di Dio, cosa che nella nostra famiglia non fa mai nessuno. Annuisco e le do qualche colpetto sulla mano, ma la cosa sembra offenderla e così mi fermo. Lei chiude gli occhi stanchi, riprendendo il controllo, poi li riapre ed è di nuovo una Garland. Sospira e fa scattare il capo all'indietro
come se avesse ancora i capelli lunghi che da ragazza lottava per tenere in ordine, poi dice senza troppi complimenti: «Mi dispiace che non ci sia posto per voi, ho messo i miei ragazzi nel seminterrato e metà dei cugini nella soffitta». Scrolla le spalle come per dire che non ha avuto scelta, ma in queste sistemazioni avverto le sue vere intenzioni: sta silenziosamente affermando il suo dominio e sfidandomi a metterlo in discussione. Non lo faccio. «D'accordo» rispondo senza mai abbandonare il sorriso che sembra sempre confonderla. Ma, con mia sorpresa, il volto di mia sorella non rivela alcuna espressione di trionfo. Questa vittoria pare averla resa più triste che mai, e per una volta non sa bene cosa dire. Non riesco a rammentare un'occasione in cui abbia visto Mariah meno sicura di sé; d'altra parte era quella che voleva più bene al Giudice, anche se certe volte non lo sopportava. «Ehi, piccola» dico dolcemente, usando l'appellativo con cui ci chiamavamo quando eravamo adolescenti e sperimentavamo modi di piacerci. «Coraggio, andrà tutto bene.» Mariah annuisce incerta. Non una delle parole che mi sono uscite di bocca l'ha rassicurata; ma, visto che non si fida di me, ciò è ben poco sorprendente. Si mordicchia il labbro inferiore, gesto che non farebbe mai di fronte a uno dei suoi figli. Poi si solleva in punta di piedi e parla in un bisbiglio acuto, solleticandomi l'orecchio con il suo respiro: «Ti devo dire una cosa, Tal. È importante. C'è qualcosa... qualcosa di strano». Mentre inclino il capo perplesso, Mariah fa scorrere lo sguardo da una parte all'altra dell'ingresso, quasi temesse di essere udita. Seguo il suo sguardo, e come i suoi i miei occhi passano in rassegna oscuri e lontani parenti e amici dei bei tempi andati, inclusi alcuni che la mia famiglia non ha più rivisto dal mortificante scontro per la nomina di mio padre, e finalmente si posano sull'energica figura del marito di mia sorella, Howard Denton, dall'aria prospera, salubre e perfettamente a suo agio malgrado la sua bianchezza. Howard ha il culto del sollevamento pesi; malgrado sia sulla cinquantina, le sue ampie spalle sembrano aleggiare sopra la vita sottile. Adora Mariah, ma adora anche il denaro. Pur scoccando l'occasionale occhiata reverenziale in direzione di mia sorella, Howard è più che altro impegnato in un'animata conversazione con un drappello di giovani di entrambi i sessi che non riconosco. A giudicare dalla loro svelta energia e dai completi Brooks Brothers, nonché dal fatto che uno di loro sta rifilando un biglietto da visita a Howard, direi che si sta concludendo qualche affare, malgrado il luogo e il
momento. Succedeva lo stesso a mio padre, anche dopo la caduta: entrava in una stanza e all'improvviso tutti volevano qualcosa da lui. Proiettava un'aura, inviando il messaggio subliminale che lui era un individuo attorno al quale e attraverso il quale le cose succedevano; una persona che sarebbe stato un vantaggio conoscere. Ed ecco che l'energico Howard, fra tutti i candidati disponibili, Howard dai radi capelli castani, dai completi di sartoria e dall'imponibile a sette cifre - forse, ormai, sono diventate otto - è in grado di esercitare il medesimo potere. E così ora tocca a me sentirmi offeso, più per conto della razza che per quello della famiglia: la vista mi si copre improvvisamente di chiazze rosse brillanti, fenomeno che accade quando il mio collegamento con la nazione più scura e la sua oppressione viene stimolato con maggiore energia. Il locale attorno a me scompare. Attraverso la cortina rossa continuo a vedere, seppure vagamente, questi ambiziosi giovani di colore nei loro ambiziosi completi, ragazzi non molto più vecchi dei miei studenti, che rivaleggiano per guadagnarsi il favore di mio cognato soltanto perché è amministratore delegato della Goldman Sachs, e all'improvviso capisco la passione con cui molti nazionalisti neri degli anni Sessanta si opponevano ai programmi contro le discriminazioni razziali, sostenendo che avrebbero defraudato la comunità dei migliori fra i suoi potenziali leader, inviandoli nei college più prestigiosi e trasformandoli in... be', in giovani burocrati aziendali con abiti di Brooks Brothers, alla disperata ricerca del favore dei potenti capitalisti bianchi. I nostri leader, affermavano, verranno convinti con l'inganno a ricercare un nuovo obiettivo. I prestigiosi titoli di studio e l'ancora più prestigioso denaro per i pochi eletti soppianteranno la giustizia per le masse. I nazionalisti avevano ragione. Io sono fra i pochi. Mia moglie è fra i pochi. Mia sorella è fra i pochi. I miei studenti sono fra i pochi. Questi giovani che allungano a mio cognato i loro biglietti da visita sono fra i pochi. E il mondo è di un rosso acceso e rabbioso. Le mie gambe sono di pietra. Il mio volto è di pietra. Resto immobile, lasciandomi sommergere dal rosso, sguazzandoci dentro nel modo in cui un uomo che ha rischiato di morire di sete sguazza sotto la doccia, assorbendolo da ogni poro, sentendo gonfiarsi le cellule stesse del mio corpo e avvertendo nell'aria una corrente quasi elettrica, un portento, il segno di una tempesta imminente, rivivendo e oltraggiando in questo istante immobile e furente ogni bianco che mi sono ingraziato perché mi aiutasse ad avanzare... «Lascia perdere, piccolo» dice la mia coscienza; in realtà a parlare è Ma-
riah, la sua voce sorprendentemente paziente, la sua mano sul mio braccio. «È fatto così.» Abbasso gli occhi e vedo che le mie dita si sono serrate in un pugno. So che è trascorso pochissimo tempo: un secondo, forse due. Il tempo non passa mai quando la cortina rossa mi copre la vista, e spesso ho la sensazione di poter estendere la mia volontà e fermare quegli attimi in eterno, restando chiuso per sempre fra quell'istante e il successivo, vivendo in un mondo di gloriosa rabbia rossa. È una sensazione che provo anche adesso. Poi alzo lo sguardo e vedo al di là del rosso il dolore - no, il bisogno - negli occhi castano scuro di mia sorella. Di cosa ha bisogno che Howard non le sta dando? Non per la prima volta, mi chiedo cosa (a parte il denaro) ci veda in lui. L'opinione di mia moglie è che Mariah stesse scappando da qualcosa quando ha scelto il suo compagno. Tutti noi fratelli stavamo scappando, il più velocemente possibile, dallo stesso qualcosa o qualcuno, ma né io né Addison abbiamo sposato uno così insipido come Howard. D'altro canto, quello di mia sorella è un matrimonio felice. Mariah mormora il mio nome, mi sfiora il volto ed è, per un momento, mia sorella e non la mia avversaria. Il rosso è scomparso, la stanza è tornata quella di sempre. Per poco non l'abbraccio, cosa che credo di non fare da dieci anni, e arrivo perfino a credere che lei me lo concederebbe, ma il momento passa. «Possiamo parlare più tardi» dice lei, e mi allontana con fare gentile ma deciso. «Va' a salutare Sally» aggiunge voltandosi ad accogliere gli altri invitati. «È in cucina che piange.» Annuisco in silenzio, ancora non del tutto sicuro della ragione di questi sbalzi di umore, cercando di ricordare quando è stata l'ultima volta che questa malattia mi ha preso. Mentre svolto nello squallido corridoio, Mariah sta già dicendo a qualcun altro quanto è lieta che sia venuto, elargendogli un bacio per guancia. Saluto Howard di passaggio, ma lui è troppo occupato a fare incetta di biglietti da visita per andare al di là di una smorfia e di un cenno della mano. Un rapido bagliore rosso gli danza attorno al capo e scompare. Mi giro. Gli innumerevoli cugini, come li chiamava mio padre, sembrano stipare ogni metro quadrato del pianterreno: innumerevoli per la semplice ragione che il Giudice non si è mai veramente preso il disturbo di distinguerli. A presiedere sui cugini, come sempre, c'è l'eterna Alma, o zia Alma, come i nostri genitori insistevano che noi la chiamassimo malgrado lei stessa, in segreto, abbracciandoci in grandi effluvi di profumo, ci ordinasse di chiamarla "solo Alma". Cosa che noi interpretavamo spesso alla lettera, anche se mai in sua presenza: "Mamma, è già arrivata
Solo Alma?". O addirittura: "Mamma! Papà! C'è Solo Alma al telefono!". Solo Alma, che di mio padre è la seconda cugina, la prozia o qualcosa del genere, ammette di avere circa ottantun anni ma probabilmente sono di più; è risecchita come un ramo d'albero, chiassosa, divertente e salace, non sta mai ferma e si muove con grazia seguendo i ritmi jazzati che hanno sostenuto la nazione più scura fin dai suoi forzati inizi. Da bambino la cercavo a tutti gli incontri di famiglia per il modo in cui tirava fuori monete da cinque e da dieci centesimi da imprevedibili tasche e ci costringeva ad accettarle; ora la cerco perché da quando mia madre è morta è diventata la forza gravitazionale della nostra famiglia, attirandoci a sé come se fosse in grado di incurvare lo spazio. «Talcott!» grida Alma quando mi vede, appoggiandosi al suo bastone dagli intagli intricati e aprendosi in un sorriso civettuolo. «Vieni subito qui!» La bacio con dolcezza, e lei mi concede un rapido abbraccio. Posso sentire le sue fragili ossa che si muovono, e mi meraviglio che i venti della vecchiaia non siano riusciti a portarsela via. Il suo alito odora di sigarette. Fuma le Kool fin dai tempi di un leggendario gesto di protesta, quando andava al liceo a Filadelfia, quasi settant'anni or sono. È stata sposata per più di cinquant'anni con un pastore che era una potenza nel mondo politico della Pennsylvania e il cui elogio funebre è stato pronunciato dal vicepresidente degli Stati Uniti. «È un piacere vederti, Alma.» «È proprio questo il problema! Tutto quello che i begli uomini vogliono fare con me è vedere!» Ridacchia e mi dà una robusta pacca sulla spalla. Malgrado la sua corporatura esile, Alma ha messo al mondo sei figli, tutti ancora vivi, cinque dei quali sono laureati, quattro sono ancora al primo matrimonio, tre lavorano per la città di Filadelfia, due sono dottori e uno è gay: c'è una sorta di principio numerico al lavoro. Tutti insieme, i figli di Alma, uniti ai loro nonni e bisnonni, formano il sottogruppo più nutrito degli innumerevoli cugini. Alma vive in un angusto appartamento in uno dei quartieri meno desiderabili di Filadelfia, ma passa tanto di quel tempo a visitare i suoi discendenti che è in viaggio più di quanto non stia a casa. «Probabilmente saresti troppo per me, Alma.» Le do un'altra rapida stretta e mi preparo a proseguire. Lei mi afferra per i bicipiti e mi blocca. I suoi occhi sono coperti a metà da dense cateratte, ma il suo sguardo è acuto e vispo. «Lo sai che tuo padre ti voleva molto bene, vero, Talcott?»
«Sì» dico, anche se con il Giudice l'amore era più una supposizione che una consapevolezza. «Aveva programmi, per te.» «Programmi?» «Per il bene della famiglia. Ora sei il capofamiglia, Talcott.» «Pensavo fosse Addison.» Freddamente. Sono offeso e non sono sicuro del perché. Alma scuote la piccola testa. «No, no, no. Non Addison. Tu. È quello che voleva tuo padre.» Increspo le labbra cercando di capire se dice sul serio. Sono lusingato e al tempo stesso preoccupato. L'idea di essere il capo della famiglia Garland, qualsiasi cosa possa significare, ha una strana attrattiva, senza dubbio espressione di un antico gene maschile del dominio. «Va bene, Alma.» Mi abbraccia più forte, rifiutandosi di lasciarsi addolcire. «Talcott, aveva dei programmi per te. Voleva fossi tu quello che...» Sbatte le palpebre e torna a scostarsi. «Be', lasciamo perdere. Te lo farà sapere lui.» «Chi me lo farà sapere?» Sceglie di rispondere a una domanda diversa. «Hai la possibilità di mettere a posto ogni cosa, Talcott. Puoi sistemare tutto.» «Sistemare che?» «La famiglia.» Scuoto il capo. «Alma, non so di cosa parli.» «E invece sì, Talcott. Ricordi quanto ci divertivamo a Oak Bluffs? Voi ragazzi, tua madre e tuo padre, io, lo zio Derek, ai tempi in cui Abigail era ancora fra noi» conclude, sorprendendomi con un piccolo singhiozzo. Le prendo la mano. «Non credo che gli esseri umani possano sistemare cose simili.» «Giusto. Ma tuo padre ti farà sapere cosa fare quando sarà il momento.» «Mio padre? Parli del Giudice?» «Hai forse un altro padre?» Questa è l'altra cosa che tutti dicono di Alma: che non c'è più del tutto con la testa. Riuscendo finalmente a districarmi, mi ricordo che dovrei cercare Sally. Quelle matte delle Garland, sto pensando: siamo noi maschi a far sorgere le loro nevrosi oppure è una semplice coincidenza? Mi faccio strada tra la folla. Mi chiedo perché tutta questa gente sia qui proprio adesso, come mai non abbia atteso la veglia funebre. Forse Mariah non l'ha prevista. Un paio
di sconosciuti mi porgono la mano. Qualcuno sussurra che il Giudice non ha sofferto e che dovremmo essere grati per questo, e io vorrei girarmi e chiedere: "Tu c'eri?". Invece annuisco e proseguo, come avrebbe fatto mio padre. Qualcun altro, un'altra faccia bianca, borbotta che la fiaccola è passata di mano e che adesso dipende tutto dai figli, ma non definisce questo "tutto". Appena fuori dalla cucina aggrotto la fronte alla calorosa stretta di mano di un anziano pastore battista, membro importante del consiglio di una delle più vecchie organizzazioni per i diritti civili, un uomo che, ne sono alquanto sicuro, si è espresso contro la nomina di mio padre alla corte suprema. E adesso ha il coraggio di fingere di condividere il nostro dolore. La stretta di mano sembra interminabile, le sue vecchie dita continuano a muoversi sulla mia pelle finché mi rendo conto che sta cercando di impartirmi il saluto segreto di qualche fratellanza, ignaro, forse, che il rifiuto delle proposte di simili gruppi è stato uno dei miei primi atti di ribellione contro il modo di vita dei miei genitori; la vita, penso spesso, da cui Kimmer, la mia compagna di ribellione, mi ha salvato. Né considero un piacere illuminarlo. Voglio semplicemente sfuggire alla sua insincera untuosità, e avverto il velo rosso che sta per ridiscendere. Lui rifiuta di lasciare la presa. Mi sta dicendo quanto in passato lui e mio padre fossero vicini. Quanto sia dispiaciuto per come sono andate le cose. Sto per rispondergli con una frase decisamente poco cristiana quando, d'un tratto, passa un uragano che per poco non ci travolge entrambi; i cinque Denton, dai quattro ai dodici anni, sono disordinatamente e precipitosamente diretti verso la distruzione di qualche altra zona della casa. Sono Malcolm, Marshall, i gemelli Martin e Martina e il piccolo Marcus. Mariah, lo so, è tuttora alla disperata ricerca di un nome per il vistoso sesto Denton, che dovrebbe nascere tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo, ma non sa come fare per onorare tanto la nostra storia quanto il suo schema. Questa sua ultima gravidanza è in ogni caso uno scandalo, se non altro entro le quattro mura di casa mia. Un anno fa, a quarantadue anni, Mariah confidò alla mia sbalordita consorte di voler fare un altro figlio, cosa che Kimmer, in privato, denunciò come uno spreco e un'indulgenza irresponsabile: poiché Kimmer, come mio padre, nutre più stima per coloro che meno differiscono da lei. La mia è una vecchia famiglia, il che, fra la gente del nostro colore, si riferisce a una posizione legale più che sociale. I nostri antenati erano liberi e si guadagnavano da vivere quando la maggioranza dei membri della società più scura era ancora in catene. Non tutti erano liberi, naturalmente,
ma soltanto alcuni, e la famiglia non si sofferma sugli altri: abbiamo sepolto quel frammento di memoria storica con la stessa efficacia con cui il resto dell'America ha sepolto il crimine principale. E da buoni americani, non soltanto perdoniamo il crimine della schiavitù, ma ne celebriamo i responsabili. Mio fratello maggiore porta il nome di un particolare antenato, Waldo Addison, spesso visto come il nostro patriarca, uno schiavo liberato che a sua volta possedeva schiavi finché venne costretto, intorno al 1830, a fuggire verso nord dopo che la ribellione di Nat Turner aveva spinto il Commonwealth of Virginia a riconsiderare la posizione dei negri liberati. Fece una breve sosta a Washington, dove visse nei bassifondi infestati di zanzare conosciuti come George Town, un'altra ancora più breve in Pennsylvania e finalmente giunse a Buffalo, dove compì la transizione da agricoltore a barcaiolo. Che ne fu dei sei schiavi di Waldo, la storia di famiglia non lo rivela. Sappiamo tuttavia qualcosa di lui stesso: nonno Waldo, come mio padre amava chiamarlo, si fece coinvolgere dal movimento abolizionista. Nonno Waldo conosceva Frederick Douglass, diceva sempre mio padre, anche se riesce difficile immaginare che fossero amici o che avessero molto in comune a parte il fatto che erano stati entrambi schiavi. A mio padre piaceva fare congetture sul possibile ruolo di nonno Waldo nella costruzione della ferrovia sotterranea; il suo lavoro sui laghi e nei canali la rendeva una cosa logica, sosteneva con lo sguardo scintillante di speranza. A mano a mano che mio padre invecchiava, la supposizione si trasformò in fatto, e spesso, nel fresco della sera, ci trovavamo seduti nella veranda della casa di Martha's Vineyard a sorseggiare limonata e a scacciare le zanzare mentre lui raccontava le improbabili gesta di Waldo come se vi avesse assistito di persona: i rischi che aveva corso, gli intrighi che aveva ordito, i riconoscimenti che meritava. Ma non c'è mai stata alcuna prova. I pochi elementi certi in nostro possesso suggeriscono che nonno Waldo fosse un ubriacone, un ladro e una canaglia egoista. Anche i suoi quattro figli, per quanto ne sappiamo, erano dei furfanti, e la sua graziosa figlia Abigail ne sposò un altro, ma fu quel buono a nulla del marito, un lavoratore tessile del Connecticut, a dare il nome alla nostra famiglia. L'unico figlio di Abigail fu un predicatore, il cui primogenito era un professore universitario, mentre il secondogenito era mio padre, che è stato molte cose fra cui, nel suo momento migliore, un giudice federale, il confidente di due presidenti e quasi un giudice della corte suprema, e nel suo momento peggiore il bersaglio (Mariah, incline al melodramma, dice "la vittima") non incriminato ma pubblicamente umiliato di indagini da parte di ogni
singolo giornale e network del paese, per non parlare di due gran giurì e tre commissioni della Camera. E adesso è morto. La morte è una prova importante per famiglie vecchie e oserei dire altezzose come la nostra: reprimere le nostre angosce ci viene naturale come guidare automobili tedesche, andare in vacanza a Oak Bluffs e fare soldi. Mio padre non avrebbe voluto lacrime. Predicava sempre di lasciare il passato nel passato: tracciare una linea, lo definiva. Tracci una linea e metti te stesso da una parte e il passato dall'altra. Mio padre formulava molti di questi epigrammi; se era dell'umore giusto, li recitava nel suo tono ponderoso come se si aspettasse che noi prendessimo appunti. Con il tempo, io e i miei fratelli imparammo a non rivolgerci a lui quando avevamo qualche problema, visto che tutto ciò che ottenevamo era uno sguardo severo e la voce grave con cui ci elargiva una lezione sulla vita, o sulla legge, o sull'amore... specialmente sull'amore, poiché lui e nostra madre vivevano uno dei matrimoni più gloriosi, e di conseguenza lui si vedeva come uno dei più grandi esperti. "Nessuno può resistere sempre alle tentazioni" mi avvertì un giorno il Giudice, pensando erroneamente che stessi covando un'avventura con la sorella della mia futura moglie. "Il trucco, Talcott, sta nell'evitarle." Non era un'intuizione particolarmente profonda né originale, naturalmente, ma mio padre, con quel suo solenne atteggiamento da giudice, poteva prendere le osservazioni più banali e ovvie e farle sembrare frutto di saggezza secolare. Talcott, dovrei spiegarlo, è il mio nome di battesimo, non Misha. I miei genitori lo scelsero in onore del padre di mia madre, da cui di conseguenza si aspettavano di ricevere un regalo in denaro, che puntualmente ottennero; ma io lo odio fin da quando cominciai a subire gli sberleffi dei miei compagni di classe, un periodo molto lungo. Malgrado i miei genitori avessero vietato l'uso di diminutivi, amici e parenti accorciarono pietosamente il mio nome in Tal. Ma le persone a me più vicine mi chiamano Misha, che, come avrete correttamente indovinato, è la versione anglicizzata di un nome russo, il diminutivo di Mikhail, il quale è stato, di tanto in tanto, uno dei miei altri soprannomi. Io non sono russo. Non parlo russo. E i miei genitori non mi hanno dato un nome russo, poiché, a parte qualche convinto comunista negli anni Trenta e Quaranta, quali altri genitori neri l'hanno mai fatto? Ma ho le mie ragioni per preferire Misha, anche se mio padre lo odiava. O forse proprio perché lui lo odiava. Poiché mio padre, come molti padri, aveva su di noi anche questo effet-
to: io e i miei fratelli siamo stati in parte formati dalla nostra ribellione al suo dominio autocratico. E come molti ribelli, spesso non vediamo fino a che punto siamo giunti a somigliare a ciò che pretendevamo di detestare. Ho bisogno di una pausa. Per far piacere a Mariah, passo qualche minuto in cucina con la lacrimosa Sally, cresciuta dall'unico fratello di mio padre, il povero zio Derek, che il Giudice aborriva per le sue idee politiche. È una cugina acquisita, non consanguinea: è la figlia della seconda moglie di Derek, Thera, e del suo primo marito, ma Sally considera Derek suo padre. Sally è diventata una donna grassoccia e sola, con due occhi tristi da cerbiatta e capelli dalle acconciature folli; mentre la consolo non vedo alcuna traccia dell'audace, aggressiva adolescente che molto tempo addietro era l'amante segreta di Addison. Adesso lavora al Campidoglio in qualche sconosciuta sottocommissione, impiego che ha ottenuto grazie alla declinante influenza di mio padre dopo aver perso tutti gli altri. Sally, che ha avuto i suoi problemi, concentra sempre la conversazione, dopo pochi minuti dal suo inizio, sul pessimo trattamento ricevuto da tutti coloro che ha conosciuto nella sua vita. Indossa vestiti dalle incredibili fantasie floreali, sempre troppo attillati, e anche se non beve più come un tempo Kimmer racconta di averla vista estrarre manciate di pillole dalla borsa di tela che si porta dietro ovunque vada. Ce l'ha anche adesso. Dandole qualche colpetto affettuoso sull'ampia schiena, cerco di calcolare quanto abbia ingerito basandomi sul modo in cui strascica le parole. Ricordo che un tempo era affettuosa, vivace e divertente. Accetto un bacio rumoroso un po' troppo vicino alle labbra e finalmente riesco a fuggire nell'atrio. Sento la risata sibilante di Alma, ma non mi volto. Noto un'altra volta Howard sempre impegnato a fare affari e il nembo rosso che continua a lampeggiare dal suo collo. Ho bisogno di scappare, ma se uscissi di casa Mariah si infurierebbe, e non sono mai stato molto bravo a sopportare l'ira femminile. Anelo al semplice, rinfrescante piacere degli scacchi, magari di una partita online con il portatile che ho lasciato dai Madison. Ma, per il momento, dovrò accontentarmi della semplice solitudine. Penetro nella piccola stanza che un tempo era lo studio di mio padre e che in seguito è stata trasformata in una biblioteca, con bassi scaffali di ciliegio lungo due muri e sotto la finestra una minuscola scrivania antica con un telefono a due linee. Anche i pannelli alle pareti sono di ciliegio, decorati non da fotografie di trionfi personali (quelle sono al piano di sopra) ma
da una manciata di piccoli, raffinati disegni di artisti sconosciuti, da un acquerello originale di Larry Johnson - non il suo migliore - e da un minuscolo ma delizioso schizzo di Miró, recente regalo di qualche conservatore miliardario al Giudice. Per un avido istante mi chiedo quale dei figli otterrà il Miró, ma immagino resti insieme alla casa. «E i ricchi si arricchiscono» sussurro in tono ben poco caritatevole. Chiudo la porta e mi siedo alla scrivania. Sugli scaffali dietro la poltrona girevole di pelle rossa ci sono decine di album, alcuni pregiati, altri dozzinali, tutti traboccanti di fotografie, poiché mia madre era una meticolosa cronista della vita di famiglia. Ne prendo uno a caso e scopro una serie di foto di Addison appena nato. Un secondo album è dedicato a Abby. La pagina sulla quale si apre la ritrae attorno ai dieci anni, vestita con l'uniforme della Little League, il berretto sollevato spensieratamente sul capo, una mazza da baseball posata sulla spalla: ricordo che i miei genitori avevano dovuto minacciare un'azione legale, perché le venisse concesso di giocare. I vecchi tempi. Mio padre, qualsiasi cosa stesse facendo, non si lasciava sfuggire nemmeno una partita. Il Giudice parlava di quell'epoca con tenerezza: "Com'era prima" diceva nei rari momenti di nostalgia, intendendo dire prima che Abby morisse. Tuttavia aveva tracciato la sua linea, aveva messo il passato nel passato ed era andato avanti. Continuo a sfogliare gli album. Il terzo è pieno di fotografie delle feste per il diploma - il mio, quello di Mariah e quello di Addison, per ogni livello della nostra istruzione - e di immagini di Mariah e Addison che ricevono vari premi. Specialmente Addison. Nessuna del sottoscritto, ma io non ho mai vinto nulla. Con un sorriso forzato, continuo a sfogliare. Gran parte dell'album è vuota. Spazio per le foto dei nipotini, forse. Lo rimetto a posto. Il successivo ha la rilegatura più pregiata, una morbida pelle tinta di blu scuro, ed è pieno di ritagli di giornale il cui argomento sembra essere... Oh, no. Richiudo subito l'album, abbasso le palpebre e vedo mio padre che si precipita fuori di casa una tarda sera di primavera, ordinando a mia madre: "Sta' calma, Claire, sta' calma, abbiamo altri tre figli a cui pensare, ti chiamo dall'ospedale!". E più tardi mia madre che risponde con mano tremante al telefono appeso alla parete della cucina, geme in preda all'orrore materno e si abbandona contro il banco prima di diventare risoluta e distante, cosa che entrambi i miei genitori erano in grado di fare in un battibaleno. Fui l'unico testimone di quell'esibizione. Mariah e Addison erano al college e Abby era fuori; a quindici anni, Abby sembrava essere sempre
fuori, e litigava di continuo con i nostri genitori. Mia madre mi fece vestire e mi condusse da un vicino, anche se, ormai prossimo ai diciassette anni, ero perfettamente in grado di stare a casa da solo. Mi lasciò con una serie di baci rapidi e disperati, scomparendo al volante dell'auto per un impegno misterioso ma evidentemente tragico. Era mezzanotte passata quando mio padre venne a prendermi, mi fece sedere nel salotto della casa di Shepard Street e mi disse con voce tremante, alquanto diversa dal suo consueto tono da annunciatore della radio, che Abby era morta. Dal giorno del funerale a quello della sua morte, mio padre non ha quasi più nominato Abby. Ma ha tenuto un album. Un album decisamente strano. Riapro gli occhi e riprendo a sfogliare. E noto subito che c'è qualcosa che non va. Soltanto i primi ritagli riguardano Abby. L'articolo sulla sua morte. Il necrologio ufficiale. Un richiamo della settimana successiva in cui i lettori venivano informati che la polizia non aveva alcun indizio. Un altro articolo due mesi dopo che ripeteva la stessa triste notizia. Ricordo che a quei tempi mio padre era arrabbiato. Lo era costantemente. E aveva cominciato a bere. Da solo, come fanno gli alcolizzati cronici, chiuso in questa stessa stanza. Forse guardando questo stesso album. Volto pagina. Il successivo ritaglio, con la data di qualche mese dopo, riguarda la morte di un bambino investito da un pirata della strada nel Maryland. Rabbrividisco. La pagina successiva riporta un altro ritaglio: riguarda il giovane allievo di un seminario, anch'esso vittima di un pirata della strada. Giro una pagina dopo l'altra. Il loro contenuto mi raggela. Articoli di giornale su individui innocenti uccisi da pirati della strada in tutti gli Stati Uniti. Due, quasi tre anni di incidenti. Un'anziana donna che esce dal supermercato di una cittadina. Un agente di polizia che dirige il traffico di una metropoli. Una studentessa universitaria ricca e dalle conoscenze politiche importanti la cui decappottabile viene stritolata da un trattore con rimorchio. Un giornalista investito da una station-wagon mentre cambia una gomma sul ciglio di una strada piena di traffico. L'allenatore di una squadra liceale di football maciullato da un taxi. Una povera madre di sei figli, uno scrittore famoso, un impiegato di banca, un cardiochirurgo, uno scassinatore ricercato, una baby sitter adolescente diretta al lavoro, il figlio di un importante uomo politico: una mescolanza di tragedie americane. Alcuni dei ritagli hanno il timbro a inchiostro delle varie agenzie che un tempo, prima delle ricerche online, ti inviavano gli articoli da tutto il paese
su un argomento a tua scelta; molti non sono che minuscoli paragrafi tratti dal "Post" e dal vecchio "Star", e alcuni, pochissimi, riportano asterischi blu ormai sbiaditi e, scritte ai margini, date solitamente successive a quelle della pubblicazione degli articoli. Sfogliando l'album a ritroso capisco che gli asterischi segnano gli incidenti in cui il pirata della strada responsabile è stato preso. E alcuni degli articoli sugli arresti rivelano altre note brevi e rabbiose tracciate nell'illeggibile grafia di mio padre: "Spero che gli diano la sedia elettrica", o "Ti conviene procurarti un buon avvocato, amico mio", o "Se non altro i genitori di qualcuno hanno ottenuto giustizia". Vado rapidamente all'ultima pagina dell'album. La collezione termina alla fine degli anni Settanta, più o meno quando il Giudice smise di bere. Ciò ha una sua logica. Ma tutto il resto no. Questo non è l'album dei ritagli nostalgici di un genitore che sente la mancanza di una figlia; è il prodotto di una mente ossessionata. Mi sembra una cosa diabolica nel tradizionale senso cristiano, una cosa del diavolo. Lo sento come avvolto in un'aura di corruzione mentale, come se l'album fosse infestato dallo spirito del folle che l'ha messo insieme... o dallo spirito che lo possedeva in quel momento. Mi affretto a rimetterlo a posto, temendo che in qualche modo possa contagiarmi con la sua follia. Strano che si trovi su questo scaffale, mescolato ai ricordi più lieti. Una demenza di questo genere, anche se temporanea, è precisamente ciò che pochi figli vorrebbero scoprire sui loro genitori... e ciò che pochi genitori vorrebbero che i figli scoprissero. I Garland hanno molti piccoli segreti, e questo è uno: quando Abby morì, mio padre perse la testa, e poi guarì. Torno a chiudere gli occhi e sprofondo nella poltrona. Era guarito. È questo l'importante. Era guarito. L'uomo che seppelliremo la prossima settimana non è l'uomo che una sera dopo l'altra si è seduto in questa orrenda stanzetta, bevendo fino a perdere i sensi, sfogliando le pagine di questo folle album di ritagli, terrorizzando la sua famiglia non con la rabbia o la violenza ma con il terribile silenzio dell'emotività negata. Era guarito. Eppure, quel fanatico della riservatezza che era mio padre aveva conservato quest'album, la testimonianza della sua breve follia, in un luogo in cui qualsiasi visitatore avrebbe potuto trovarlo per caso. Sono pronto a credere che nel suo periodo di delirio il Giudice abbia messo insieme l'album, ma conservarlo per tutti questi anni mi sembra imprudente, estraneo al suo carattere. Tutte le altre prove sono state eliminate anni or sono. In casa, per esempio, non ci sono liquori. Eppure l'album è sopravvissuto, in piena vi-
sta sullo scaffale. Fortunatamente per la reputazione di mio padre, nessuno l'ha trovato mentre la commissione giudiziaria del Senato teneva le udienze per la sua... La porta dello studio si apre di scatto. Sally si staglia sulla soglia nel suo vestito grigio irragionevolmente stretto, sollevando e riabbassando il petto voluminoso mentre un sorriso incantato, eppure in qualche modo smarrito, brilla sotto le lacrime. Sembra leggermente confusa, quasi sorpresa di avermi trovato al primo tentativo. Ha telefonato Addison, annuncia finalmente. Gli occhi le brillano estatici, esprimendo la sua gioia. È in viaggio, aggiunge felice, ignara della possibilità che altri siano meno eccitati di lei. Arriverà non più tardi di domani. Sbatto le palpebre, sforzandomi di rimettere a fuoco la vista. Sally sembra un personaggio beckettiano. Mi alzo annuendo, coprendo la libreria con il mio corpo, assurdamente preoccupato che Sally possa adocchiare il folle album del Giudice. Addison sta arrivando, ripete lei. Trasformata dalla notizia, ha guadagnato un'improvvisa attrattiva. Presto sarà qui, mi assicura. Molto presto. A giudicare dal suo tono di delirante adorazione, parrebbe annunciare l'arrivo imminente del Messia. Anche se la maggior parte delle numerose donne di mio fratello lo descriverebbe probabilmente come l'esatto opposto. 3 LA CUCINA BIANCA La notizia della morte del Giudice ci è giunta molte volte negli anni precedenti il verificarsi dell'evento. Non che fosse malato; di regola era così vigoroso che si tendeva a scordare la sua salute vacillante, ed è per questo che in un primo tempo è stato così difficile credere all'attacco di cuore che l'ha stroncato. Il fatto è, semplicemente, che mio padre conduceva una vita che generava dicerie. La gente non amava mio padre, e lui restituiva il favore. Le voci sulla sua morte venivano diffuse con la preghiera che fossero vere. Per i suoi nemici - erano legioni, cosa di cui lui si gloriava - mio padre era un flagello, e le voci di un rimedio suscitano sempre le speranze di chi soffre, o di coloro che li amano. In questo caso, alcune delle vittime delle persecuzioni di mio padre non erano persone ma cause, che in America possono sempre contare sull'amore di milioni di persone, al contrario degli individui, che ogni giorno muoiono privi d'amore. Non c'era uno dei nemici di mio padre che non lo odiasse, e non c'era uno che non diffondes-
se quelle voci. I sedicenti amici chiamavano, sussurrando il loro dispiacere. Avevano saputo, dicevano, dell'attacco di cuore subito da mio padre mentre promuoveva il suo ultimo libro a Boston. O dell'ictus mentre registrava un'intervista televisiva a Cincinnati. Tranne che non c'era niente di vero, e mio padre era vivo e vegeto a San Antonio, dove sarebbe intervenuto al convegno di qualche comitato politico conservatore: "i Destri", li chiama Kimmer. Ma, oh, le gioiose voci sulla sua presunta morte! Mia madre le odiava, non per la sofferenza ma per l'umiliazione, sosteneva: esistevano dei principi, dopo tutto. Un giorno, appena prima che nascesse mio figlio Bentley, mi trovavo in coda al supermercato e rimasi a bocca aperta nel leggere sulla prima pagina di uno dei tabloid più immaginifici, appena sotto l'articolo della settimana su Whitney Houston (Racconta i suoi problemi di cuore) e appena sopra l'ultimo sistema per dimagrire senza diete o ginnastica (Un miracolo di cui i dottori non vi parlano), l'allegra notiziola che la mafia aveva commissionato l'omicidio di mio padre per la sua collaborazione con la procura federale. Ma quando lessi tutte le centocinquanta parole del pezzo, dopo che Kimmer mi aveva costretto a tornare al supermercato ad acquistare il giornale, notai un'evidente carenza di dettagli sull'oggetto della collaborazione fra mio padre e la procura e su cosa avrebbe potuto sapere di così pericoloso sulla mafia. Chiamai la signora Rose, la paziente segretaria del Giudice, e riuscii finalmente a raggiungerlo telefonicamente a Seattle. Approfittò dell'occasione per mettermi ancora una volta in guardia sull'insidiosità dei suoi nemici. "Faranno qualsiasi cosa, Talcott, qualsiasi cosa per distruggermi" annunciò nel tono oracolare che tendeva ad assumere quando parlava di coloro a cui non piaceva. Lo ripeté per la terza volta, nel caso il mio udito non funzionasse: "Qualsiasi cosa". Compresa, notai qualche anno fa sfogliando le pessimistiche pagine di "The Nation", l'accusa di paranoia. O era megalomania? Comunque sia, mio padre era sicuro che ce l'avessero con lui, e mia sorella era sicura che avesse ragione. Tre anni fa, quando il Giudice non si presentò al battesimo di Bentley per paura che la stampa lo aspettasse al varco, Mariah lo difese facendo notare che si era perso la metà dei battesimi dei suoi figli - impresa tutt'altro che difficile, considerato il loro numero - ma a quel punto io e lei ci rivolgevamo a malapena la parola. Una volta la falsa notizia sulla scomparsa di mio padre apparve su un giornale vero e proprio; non sui tabloid da supermercato ma sul "Washington Post", che lo diede per morto un mattino invernale in un incidente ae-
reo nei cieli della Virginia insieme a un'altra dozzina di vittime, segnalando la sua supposta presenza a bordo in modo mordace ma al tempo stesso cauto: Si teme per la morte di un discusso giudice in un disastro aereo, recitava il titolo. L'ironia era evidente anche al più distratto frequentatore dell'attualità, poiché quello che la gente temeva non era mio padre morto bensì mio padre vivo; e ciò grazie alla piega sventurata che aveva preso la sua carriera, anch'essa, amava dire il Giudice, colpa del "Post" e "di quelli dello stesso stampo". Infangatori di sinistra, li chiamava nei suoi ben remunerati discorsi ai Destri, i quali erano felici di udire questo rabbioso, istruito avvocato di colore incolpare i media per le sue dimissioni dal seggio federale dopo la fallita nomina alla corte suprema, presso la quale, come i suoi seguaci conservatori amavano rammentare ai critici progressisti, negli anni Sessanta lui stesso aveva discusso e vinto due importanti casi per la fine della segregazione. Oh, quanto poteva confonderti! Ed era proprio questa la ragione per cui Mariah era sicura che vi fossero stati sorrisi di sollievo lungo l'asse Cambridge-Washington (da chi avesse sentito quella trita espressione non lo saprò mai, anche se sospetto che provenisse da Addison, che con lei ha sempre avuto un buon rapporto), quando le prime edizioni del "Post" uscirono con la notizia del disastro e un paio delle stazioni radio più imprudenti la riprese. Per un glorioso istante sembrò che il flagello fosse finito. Ma il mio astuto padre non era a bordo. Malgrado il suo nome figurasse sull'elenco dei passeggeri e lui avesse effettuato il check-in, aveva prudentemente scelto quell'occasione per discutere in interurbana con mia madre, che a quel tempo stava laboriosamente spegnendosi nella casa di Martha's Vineyard, sul costo di alcune riparazioni alle grondaie, e la discussione si era protratta a sufficienza per fargli perdere il volo. La linea aerea aveva la lista sbagliata, poiché tutto era successo ai tempi in cui una cosa simile era ancora possibile. "Ecco fino a che punto mi amava" ci disse il Giudice nel corso di uno sproloquio da ubriaco la sera del funerale di Claire Garland. E pianse, una debolezza che non aveva mai mostrato, anche se Addison sosteneva di averlo visto bere un goccio nel brutto periodo seguito alla morte di Abby; e Mariah mi diede uno schiaffo quando, il giorno dopo, le feci notare che nei sei anni della malattia della mamma nostro padre era stato in viaggio tanto quanto al suo capezzale. "E allora?" domandò mia sorella mentre brancolavo alla ricerca di una risposta adeguata al palmo di una mano stampato sulla guancia, domanda alla quale, riflettendoci, capii di non essere pronto a rispondere. E forse meritavo quel rimprovero, perché il Giudice, malgrado la sua
freddezza nei riguardi di gran parte del mondo, compresi di solito i suoi figli, era sempre stato dolce e affettuoso nei confronti di nostra madre. Perfino quando faceva l'avvocato, prima di passare al servizio del governo, abbandonava di continuo le riunioni con i clienti per rispondere alle chiamate della sua Claire. In seguito, quando entrò a far parte della commissione di vigilanza sulla Borsa, e ancora più tardi, quando divenne giudice, capitava che abbandonasse le parti in causa per chiacchierare con sua moglie, la quale sembrava considerare dovuto un simile trattamento. Lui le sorrideva con una gioia spontanea che rivelava al mondo quanto fosse felice che Claire Morrow avesse detto di sì; quantomeno fino alla morte di Abby, dopo la quale per un certo periodo non sorrise più molto. Ma una volta ripristinata una sembianza di stabilità familiare, i miei genitori presero l'abitudine di passeggiare ogni sera in Shepard Street tenendosi per mano. Certo, mio padre era sempre in viaggio. Al momento della sua morte gli piaceva definirsi uno dei numerosi avvocati di Washington, il che significava che quando voleva chiamarmi lo faceva fare alla signora Rose, essendo il suo tempo troppo prezioso, e quando rispondevo inseriva invariabilmente il vivavoce, forse per tenere le mani libere per qualche altra attività. La signora Rose mi disse un giorno di non prendermela: il Giudice inseriva il vivavoce con chiunque, come se fosse stato appena inventato. Ed era vero che tutto quello che faceva era nuovo, per lui. Sulla carta era consulente dello studio legale Corcoran & Klein; consulente era un termine artificioso che comprendeva una moltitudine di imbarazzanti posizioni, dal socio in pensione che non esercita più al burocrate disoccupato che cerca di portare un numero di clienti sufficienti a entrare in società, all'intraprendente collaboratore alla ricerca di un luogo rispettabile in cui aprire un'attività. Nel caso di mio padre, lo studio offriva una patina di signorilità e un punto di raccolta dei suoi messaggi, ma poco di più. Il Giudice riceveva pochi clienti. Non esercitava la professione forense. Scriveva libri, faceva giri di conferenze per il paese e, quando aveva bisogno di un po' di riposo, appariva su "Nightline", "Crossfire" e "Imus" a intrattenere le perfide armate della sinistra. Era davvero il perfetto ospite da talk show: era disposto a dire più o meno tutto su quasi tutti, e usava con chiunque discutesse con lui i termini più eruditi ed enigmatici. (I responsabili delle trasmissioni passavano dei bruttissimi momenti quando usava termini come "ilota" o "leguleio", e una volta venne escluso da una trasmissione radio per aver descritto la sterzata a destra di un particolare candidato repubblicano durante le pri-
marie come "il mutar pelle di un serpente".) Oh, sì, la gente lo odiava, e lui si crogiolava nella loro ostilità. Mariah, naturalmente, dava a tutto ciò più importanza del sottoscritto. Ho sempre pensato che l'estrema sinistra e l'estrema destra abbiano bisogno l'una dell'altra, poiché se una scomparisse l'altra perderebbe la sua ragione di esistere; è una convinzione che in me si rinnova di anno in anno, a mano a mano che ognuna delle due parti diventa più veemente nella sua ricerca di qualcuno da odiare. Ho perfino espresso a Kimmer - non lo direi a nessun altro - il dubbio che mio padre fabbricasse una buona metà delle sue idee politiche allo scopo di mantenere il proprio volto in televisione, i propri nemici alle calcagna e le proprie tariffe di oratore intorno al mezzo milione di dollari l'anno. Però Mariah, che è laureata in filosofia e ha un passato da giornalista agguerrita, vede l'opposizione come qualcosa di reale; il Giudice e i suoi nemici, secondo lei, mettevano in scena i grandi dibattiti ideologici della nostra era. Era stato lo scontro culturale, insisteva, ad averlo abbattuto. Io la trovavo un'affermazione alquanto sciocca, e giunsi a credere, dopo anni di letture, che i seminatori di scandali che l'avevano allontanato dal seggio potessero avere ragione; feci anche l'errore di dirlo a Mariah, in una conversazione telefonica che avemmo poco dopo la pubblicazione del bestseller che Bob Woodward aveva scritto sul caso. Il libro, le dissi, era alquanto convincente: il Giudice non era una vittima ma uno spergiuro. Inorridita da quell'inaspettata frattura nei ranghi familiari, seppure in privato, Mariah bestemmiò in mia presenza, e sono abbastanza sicuro che era la prima volta che lo faceva nel corso della nostra vita. Le chiesi se avesse letto il libro e lei rispose che non aveva tempo per simile spazzatura, sebbene spazzatura non fosse il termine da lei scelto. Aveva chiamato, dovete capire, perché voleva che l'intera famiglia - e cioè i tre figli - scrivesse una lettera al "Times" per protestare contro la recensione favorevole al libro di Woodward. Aveva ancora amici al giornale che avrebbero fatto sì che la lettera venisse pubblicata, disse. Io declinai e le spiegai il perché. Lei mi rispose che dovevo farlo, che era mio dovere. Borbottai qualcosa sul fatto di non svegliare il can che dorme. Lei mi rinfacciò di non fare mai niente di quello che mi chiedeva, riportando alla superficie un episodio risalente agli anni del college, che io stesso avevo dimenticato, in cui mi aveva pregato di uscire con una sua amica. Disse che almeno una volta avrei dovuto venirle incontro, che non aveva mai fatto niente per meritare il trattamento che le riservavo. Pensai alla figurina di Willie Mays, ma decisi
di non parlarne. Invece, leggermente irritato, temo di averla chiamata immatura - no, per la verità, il termine che usai è bambina viziata - e Mariah, dopo una tetra pausa, replicò con quella che io interpretai come un'aggressione immotivata a mia moglie, che cominciò in questo modo: "A proposito di cagne che dormono, come sta la tua?". Mia sorella è in grado di rispondere per le rime a chiunque, e a me di sicuro, avendo fatto pratica durante una lunga e appassionata militanza in un'esclusiva e alquanto rissosa associazione di studentesse nere. Quando ribattei stizzito che parlare di Kimmer in quel modo era inappropriato - e va bene, mi espressi in termini un po' più forti di questi - Mariah mi domandò irosamente se sollevassi le stesse obiezioni su ciò che mia moglie diceva sicuramente di lei. Mentre mi dibattevo alla ricerca di una risposta, aggiunse che il sangue non è acqua, che la lettera era una cosa che dovevo alla famiglia. E quando cercai di darmi arie da grande pedagogo, suggerendo che il mio più grande dovere fosse nei confronti della verità, mi chiese perché in quel caso non pubblicassi un'inserzione pubblicitaria sul giornale: Mio padre è colpevole e mia moglie è infedele. I nostri rapporti sono sempre stati pessimi. Per questo, quando Mariah mi trae in disparte nel cupo atrio di Shepard Street invaso dai parenti e mi bisbiglia che più tardi mi deve parlare in privato, immagino che voglia discutere i restanti dettagli del funerale, poiché cos'altro possono dirsi due eterni nemici? Ma mi sbaglio: quello che mia sorella vuole dirmi è il nome dell'uomo che ha ucciso nostro padre. Quando Mariah me lo dice, rido. Lo confesso, anche se mi sento in colpa. È terribile da parte mia, ma lo faccio comunque. Forse è la stanchezza. Siamo riusciti a trovare il tempo di parlare soltanto dopo la mezzanotte, quando finalmente ci siamo seduti al tavolo della cucina bevendo una cioccolata calda, io ancora in cravatta, mia sorella, appena uscita dalla doccia, avvolta in una vaporosa vestaglia azzurra. Howard, i bambini e qualche sottogruppo degli innumerevoli cugini stanno dormendo, stipati in angoli diversi della grande, vecchia casa. La cucina, che mio padre ha fatto rimodernare di recente, è di un bianco scintillante; i ripiani, gli utensili, le pareti, le tende, il tavolo, tutto è dello stesso bianco radioso. Di sera, con tutte le luci accese, i riflessi mi fanno male agli occhi, dando un'aria di follia a ciò che è già surreale. «Di cosa stai ridendo?» domanda Mariah scostandosi dal tavolo. «Che ti prende?» «Pensi che Jack Ziegler abbia ucciso papà?» farfuglio, ancora incapace
di afferrare bene il concetto. «Lo zio Jack? E perché mai?» «Lo sai il perché! E non chiamarlo zio Jack!» Scuoto la testa cercando di essere gentile e sperando nell'arrivo di Addison, poiché Addison è molto più paziente con Mariah di quanto io potrò mai esserlo. Un attimo fa, prima di pronunciare quel nome, mia sorella era tesa, forse addirittura spaventata. Adesso è furiosa. Si potrebbe dire, immagino, che se non altro ho migliorato il suo stato d'animo. «No, non lo so il perché. Non so nemmeno cosa ti fa pensare che qualcuno l'abbia ucciso. Ha avuto un attacco di cuore, ricordi?» «Per quale ragione dovrebbe aver avuto un infarto proprio adesso?» «È così che arrivano. All'improvviso.» La mia impazienza mi sta rendendo crudele, e cerco di costringermi a calmarmi. Mia sorella non è una stupida, e spesso percepisce cose che ad altri sfuggono. A metà degli anni Ottanta, Mariah fu l'oggetto di un breve articolo su "Ebony" quando, inviata ventiseienne del "New York Times", si guadagnò la candidatura al premio pulitzer per una serie di reportage sui bambini che si nutrivano presso le mense per i poveri. Ma poco dopo, quando il giornale si mise a indagare seriamente su mio padre, lei lasciò il suo lavoro. Malgrado l'avesse definito un gesto di protesta, la verità è che abbandonò del tutto il mondo del lavoro e, insieme al suo recentissimo marito, si trasferì in una vecchia, deliziosa casa coloniale di Darien - la prima di tre, ciascuna più grande della precedente - promettendo di dedicare tutto il suo tempo ai figli e rendendosi in questo modo cara a nostra madre, che fino al momento della sua morte rimase convinta che una donna debba restare a casa. Darien non è molto distante da Elm Harbor, ma di questi tempi io e Mariah ci vediamo, se ci va bene, solo due volte all'anno. Non è che non ci vogliamo bene, credo, quanto che non ci siamo simpatici. Decido, forse per la centesima volta, di comportarmi meglio con mia sorella. «Fra l'altro» aggiungo in tono sommesso «non era esattamente giovane.» «A settant'anni non si è vecchi. Non più.» «In ogni caso, ha avuto un attacco di cuore. È quello che ha detto l'ospedale.» «Oh, Tal» sospira lei agitando una mano con un gesto annoiato «c'è una tale quantità di farmaci che possono procurare un infarto. Un tempo lavoravo alla cronaca nera, non ricordi? È il mio campo. Ed è molto difficile individuare quei farmaci in un'autopsia. Davvero, sei proprio un ingenuo.» Decido di lasciar correre, soprattutto perché Kimmer dice di continuo la stessa cosa, ma per ragioni diverse. Le offro un ramoscello d'ulivo: «D'ac-
cordo, d'accordo. Ma perché lo zio Jack l'avrebbe ucciso?». «Per chiudergli la bocca» risponde lei in tono grave; poi si ferma e fa un respiro così improvviso che mi guardo rapidamente alle spalle per controllare che Jack Ziegler, lo spauracchio di famiglia, non ci stia spiando dalla finestra. Vedo soltanto la collezione di fermacarte in cristallo di mia madre, provenienti da tutto il mondo e allineati sul davanzale come uova luccicanti dai gusci trasparenti, e nel vetro il mio riflesso che si prende gioco di me: un esausto, floscio Talcott Garland, che con i suoi occhiali di corno fuori moda, i capelli corti e la cravatta storta più che un docente di legge sembra un bambino impaziente che non vede l'ora di farla finita. Torno a voltarmi verso mia sorella. Come Mallory Corcoran, il nostro "zio Mal", l'uomo che chiamiamo zio Jack non è un consanguineo né un parente acquisito. Il titolo onorario era stato conferito quando questi amici bianchi di mio padre erano diventati padrini: lo zio Mal di Mariah, lo zio Jack di Abby; ma a differenza dello zio Mal, Jack Ziegler ha avuto più a che fare con la rovina di mio padre che con la sua redenzione. «Chiudergli la bocca su cosa?» domando piano, poiché Mariah ha sempre sostenuto che mio padre non sapesse nulla delle attività più discutibili dello zio Jack, e che le insinuazioni che i due avessero in ballo qualche affare non fosse altro che un complotto bianco-progressista contro un brillante e pertanto pericoloso conservatore nero. Forse è per questo che Mariah si ferma: vede la trappola a cui conducono i suoi stessi ragionamenti. «Non lo so» mormora, abbassando gli occhi e stringendo la tazza con fiera protezione materna. Potrebbe essere un buon momento per lasciar perdere le fantasie di mia sorella, ma arrivato a questo punto decido che è mio dovere aiutarla a capire quanto sia delirante la sua ipotesi. «E allora cosa ti fa pensare che lo zio Jack sia responsabile?» «È dai tempi delle udienze che aspetta il momento giusto. Lo sai, Tal. Non dirmi che non te ne sei accorto.» Faccio una domanda da avvocato. «E perché questo sarebbe stato il momento giusto?» «Non lo so, Tal. Ma so di avere ragione.» Di nuovo: «Abbiamo qualche prova?». Mariah scuote il capo. «Non ancora. Ma tu potresti aiutarmi, Tal. Sei un avvocato, e io sono... ero una giornalista. Potremmo, insomma, indagare insieme. Cercare delle prove.» Aggrotto leggermente la fronte. Mariah è sempre stata tanto spontanea
quanto ossessiva, e distoglierla dal suo ultimo impulso non sarà facile. «Be', prima di tutto avremmo bisogno di un motivo.» «Jack Ziegler è un assassino. Che te ne pare, come motivo?» «Anche supponendo che sia vero...» «Non è una supposizione.» I suoi occhi si riaccendono d'ira. «Come puoi difendere un uomo simile?» «Non sto difendendo nessuno.» Non voglio attaccare briga, e così rispondo alla sua sfida con un'altra: «Allora, hai in mente un piano? Vuoi chiamare lo zio Mal?». Mariah è in trappola, e lo sa. Non vuole una vera e propria indagine, e sa bene quanto me che non cambierebbe nulla, che l'attacco di cuore continuerebbe a essere un attacco di cuore e che lei farebbe la figura dell'idiota. Non può chiamare Mallory Corcoran, uno dei legali più potenti della città, e pretendere che scuota il mondo intero per suo conto basandosi sulla pura e semplice illazione. Si rifiuta di guardarmi in faccia, fissando il suo cipiglio sul bianchissimo frigorifero SubZero, già decorato, grazie a qualche strana alchimia domestica, con gli inevitabili disegni di cani, alberi e navi tracciati rozzamente a pastello dai suoi figli più piccoli: il genere di bric-àbrac sentimentale che il Giudice non avrebbe mai tollerato. «Non lo so» borbotta Mariah, le rughe della stanchezza evidenti sul suo volto ostinato. «Be', se...» «Non so cosa fare.» Scuote lentamente la testa, fissando il tavolo bianco fra noi. E questa minuscola crepa nell'armatura emotiva di Mariah mi offre una visione limpida e triste della vita che conduce ogni giorno mentre Howard si allontana al galoppo verso terre lontane ad abbattere draghi finanziari per i clienti, e i profitti, della Goldman Sachs. I disegni sul frigorifero sono il frutto dei disperati sforzi fatti ieri da mia sorella per tenere buoni i suoi figli mentre lei si dedicava, praticamente da sola, al faticoso compito di organizzare il funerale del padre al quale per quattro decenni ha inutilmente cercato di riuscire gradita. «Sono così stanca» dichiara in una rara ammissione di debolezza. Distolgo gli occhi un istante per non farle vedere quanto mi hanno commosso queste tre semplici parole, rifiutandomi addirittura di ammettere una comunanza fra noi. La verità è che Mariah, Addison e io sembriamo sempre esausti. Lo scandalo che ha distrutto la carriera di nostro padre gli ha dato in qualche modo l'energia per costruirsene un'altra, ma ha debilitato la famiglia. Noi figli non ci siamo mai del tutto ripresi.
«Hai lavorato sodo.» «Non trattarmi con condiscendenza, Tal.» Il suo tono è piatto, ma i suoi occhi fiammeggiano un'altra volta, e capisco che si è offesa per una sfumatura che non c'era nemmeno. «Tu non mi prendi sul serio.» «E invece sì, ma...» «Devi prendermi sul serio!» Mia sorella sta sperimentando la sua migliore occhiataccia. La stanchezza è scomparsa. La confusione è scomparsa. Ricordo di aver letto all'università che gli psicologi sociali credono che la rabbia sia funzionale, che incrementi la sicurezza e la creatività. Per la creatività non saprei, ma Mariah, arrabbiata con me come al solito, è all'improvviso più sicura che mai. «Va bene» mi scuso «va bene, mi dispiace.» Mia sorella aspetta senza rispondere. Vuole che sia io a fare una mossa, dicendo qualcosa che dimostri il mio prendere sul serio la sua folle idea. E così formulo una domanda seria: «Cosa posso fare per aiutarti?». Senza specificare per cosa di preciso le sto offrendo il mio appoggio. Mariah scuote il capo, fa per dire qualcosa ma poi scrolla le spalle. Con mia sorpresa, alcune lacrime cominciano a percorrerle lentamente le guance. «Ehi» dico. Faccio quasi per allungare la mano verso il suo volto, ma poi ricordo la scena nell'atrio e resto fermo. «Ehi, piccola, va tutto bene. Davvero.» «No che non va bene» singhiozza Mariah formando un pugno con la sua mano delicata e colpendo il tavolo con considerevole forza. «Non credo... non credo che andrà mai più bene.» «Manca anche a me» dico, il che è molto probabilmente una menzogna, ma è anche, spero, la cosa giusta da dire. Piangendo ormai a dirotto, Mariah nasconde il volto fra le mani mentre continua a scuotere la testa. E io non oso ancora toccarla. «Va tutto bene» ripeto. Mia sorella alza il capo. Nel suo disperato dolore è diventata di una bellezza davvero ammaliante, come se la sofferenza l'avesse liberata dalle preoccupazioni mortali. «Jack Ziegler è un mostro» dice in tono secco. Questo se non altro è vero, anche se fosse realmente accaduta soltanto una frazione delle malignità che i giornali dicono di lui. Ma è anche vero che è stato processato e scagionato almeno tre volte, di cui una dall'accusa di omicidio, e che per quanto ne sappia continua a vivere ad Aspen, Colorado, è favolosamente
ricco e gode di tutta la protezione delle autorità internazionali che la Costituzione degli Stati Uniti gli può garantire. «Mariah» dico, ancora dolcemente «credo che nessuno della famiglia veda lo zio Jack da più di dieci anni. Da quando... be', lo sai.» «Non è vero» risponde lei in tono piatto. «Papà l'ha visto la settimana scorsa. Hanno cenato insieme.» Per un attimo non riesco a trovare nulla da ribattere. Mi ritrovo a chiedermi come faccia Mariah a sapere chi ha visto il Giudice e quando. Sono quasi sul punto di rendermi ridicolo con questa domanda quando lei mi salva: «Me l'ha detto lui. Ci ho parlato. Con papà. Mi ha chiamato due giorni... due giorni prima di...». Non termina la frase e distoglie lo sguardo, perché non è abitudine della nostra famiglia condividere le sofferenze più profonde, nemmeno fra noi. Si copre gli occhi. Prendo in considerazione l'idea di aggirare il tavolo, accovacciarmi accanto a mia sorella, abbracciarla e offrirle tutto il conforto fisico di cui sono capace, magari dicendole che il Giudice ha telefonato anche a me ma che, da buon Garland, io ero troppo occupato per richiamarlo. Mi immagino la scena, la sua reazione, la sua gioia, le sue nuove lacrime: "Tal, Tal, oh, è così bello essere di nuovo amici!". Ma io non sono fatto in questo modo, e Mariah ancora meno, e così resto seduto immobile, mantenendo la mia espressione impassibile e chiedendomi se i giornalisti siano al corrente dell'incontro, cosa che sarebbe un puro e semplice disastro. Posso vedere i titoli: Giudice in disgrazia incontra imputato di omicidio pochi giorni prima di morire. Per poco non rabbrividisco. I teorici del complotto, per i quali nessuna morte deriva mai da cause naturali, sono già al lavoro, ospitati dai talk show radiofonici più fantasiosi per spiegare le ragioni per cui l'attacco di cuore che ha ucciso mio padre è necessariamente una menzogna. Ho sempre prestato scarsa attenzione alle loro buffonate, ma adesso, immaginando cosa potrebbero dire alcuni se sapessero dell'incontro fra il Giudice e lo zio Jack, comincio a comprendere lo strano corso della paranoia di mia sorella. E, a questo punto, Mariah peggiora le cose. «Non è tutto» prosegue nello stesso tono piatto, lo sguardo fisso su qualcosa al di là della stanza. «Ieri sera ho parlato con lui. Con lo zio Jack.» «Ieri sera? Ha chiamato? Qui?» Dovrei sentirmi fiero di me stesso per essere stato in grado di fare tre domande idiote laddove molti sarebbero riusciti a formularne una sola. «Sì. E mi ha fatto accapponare la pelle.» Adesso tocca a me essere rimesso al mio posto. Ancora una volta cerco
qualcosa da dire, finendo per accontentarmi di un'ovvietà. «E cosa voleva?» «Mi ha fatto le sue condoglianze. Ma più che altro voleva parlare di te.» «Di me? In che senso?» Mariah esita, e sembra lottare contro il suo stesso istinto. «Ha detto che eri l'unico di cui papà si fidasse» si decide a spiegare. «L'unico che poteva sapere qualcosa delle disposizioni di papà in caso di morte. È questo che continuava a ripetere. Che lui doveva conoscere le disposizioni.» Le lacrime hanno ripreso a scorrere. «Gli ho detto che il funerale si terrà martedì, gli ho detto dove, ma lui... ha risposto che non erano quelle le disposizioni che intendeva. Ha insistito che doveva conoscere le altre disposizioni. E che tu probabilmente avresti saputo. Continuava a ripeterlo. Tal, cosa voleva dire?» «Non ne ho idea» ammetto. «Se voleva parlare con me, perché non mi ha chiamato?» «Non lo so.» «Questa storia è strana.» Ricordo le parole di Solo Alma: "Aveva programmi per te, Talcott. È questo che tuo padre voleva". Stava parlando della stessa cosa? «Troppo strana.» Qualcosa nel mio tono provoca la reazione di mia sorella, come spesso accade. «Sei sicuro di non averne idea, Tal? Di cosa vuole Jack Ziegler?» «E come potrei?» «Non lo so come potresti. È quello che mi sto chiedendo.» Mentre Mariah esprime la sua sfiducia con lo sguardo, sento sorgere fra noi l'ombra del nostro eterno contrasto: la sua sensazione che io non sia mai pronto a sostenerla e la mia che lei sia troppo esigente. Ma non crederà certo che io sia coinvolto con... con un individuo come Jack Ziegler. «Mariah, te lo ripeto, non ho la più pallida idea di cosa si tratti. Non so nemmeno quando è stata l'ultima volta che ho sentito... Jack Ziegler.» Lei agita una mano accantonando l'argomento, ma non mi dà una risposta esplicita. Non sta dicendo che si fida di me, mi sta semplicemente segnalando la disponibilità a una tregua. «Dunque, tutto quello che voleva sapere erano queste... disposizioni?» «Più o meno. Ah, ha anche detto che probabilmente ci saremmo visti al funerale.» «Accidenti» borbotto in un terribile tentativo di fare del sarcasmo, chiedendomi se esista un modo per tenerlo lontano. «Non aspettiamo altro che quel momento.»
«Mi fa paura» dice Mariah. Sembra aver accantonato le congetture sullo zio Jack, anche se di certo non le ha dimenticate. Poi mi stringe le dita fra le sue. Abbasso gli occhi sorpreso: ci siamo già tenuti per mano, ma non ricordo quando. «Fa paura anche a me» dico. Ed è, ne sono alquanto sicuro, la frase più sincera che io abbia pronunciato in tutto il giorno. 4 IL SEDUTTORE L'occasionale speranza del Giudice era quella di morire prima di Richard Nixon, che in quel caso, ragionava, sarebbe stato obbligato a partecipare al suo funerale e forse addirittura a pronunciare qualche parola. Si può dire che il presidente Nixon avesse contribuito a creare mio padre, scoprendolo quando era uno sconosciuto giudice di prima istanza dalle posizioni moderatamente conservatrici, invitandolo spesso alla Casa Bianca e finalmente nominandolo membro della corte d'appello degli Stati Uniti, dove poco più di un decennio più tardi Ronald Reagan l'avrebbe scoperto una seconda volta e per poco non sarebbe riuscito a ottenere quella che i giornali del tempo avrebbero definito una "doppietta multirazziale" presso la corte suprema: andando contro la sua combattuta immagine di salvatore dei maschi bianchi del paese, avrebbe nominato il Giudice raddoppiando in un colpo solo il numero di membri di colore e diventando così il primo presidente a nominare due membri che non fossero maschi di razza bianca. Il tentativo reaganiano di passare alla storia fallì, e mio padre, che come molti individui di successo non è mai riuscito a separare l'ambizione dai principi, si rifiutò di perdonargli il peccato di aver rinunciato alla sua nomina. Ma il suo atteggiamento nei confronti di Nixon era diverso. Il Giudice ricambiava l'apprezzamento di Nixon, continuando a sostenere, venticinque anni dopo le uniche dimissioni presidenziali nella storia degli Stati Uniti, che era stato un complotto dei vendicativi progressisti e non la venalità di Nixon stesso ad allontanarlo dalla Casa Bianca. Nella caduta di Nixon il Giudice vedeva notevoli analogie con la sua, e amava farle notare alle attente platee delle sue conferenze: due conservatori illuminati e ragionevoli, uno bianco e uno nero, ognuno dei quali era stato rovinato dalle spietate forze della sinistra nell'istante in cui stava per passare alla storia. O qualcosa del genere. Ho sentito questo particolare comizio soltanto in due occasioni, e ogni volta mi ha fatto rivoltare lo stomaco, non per ragioni poli-
tiche né per la sua palese distorsione della storia, ma per quel raccapricciante sguazzare nell'autocommiserazione che non era degno di un Garland. Ahimè, mio padre non è riuscito a realizzare il suo sogno. Fu lui a partecipare al funerale di Nixon, non il contrario. Volò in California nella speranza, fondata su cosa non riesco a immaginarlo, che gli venisse chiesto di tenere un elogio funebre del suo mentore. Se avete seguito la funzione alla televisione, sapete che ciò non accadde. Il volto di mio padre non era nemmeno visibile. Aveva trovato posto all'incirca in quindicesima fila, smarrito in un drappello di ex vicesottosegretari di dipartimenti governativi che non esistevano più, alcuni dei quali giudicati e condannati. Stizzito per l'ennesima delusione, si affrettò a tornare a casa chiedendosi senza dubbio chi, fra i personaggi di spicco, avrebbe partecipato al suo funerale. Chi, in effetti? Rifletto sul morboso interrogativo di mio padre mentre, stringendo con forza la mano della mia bellissima moglie, seguo il feretro lungo la navata della chiesa della Trinità e San Michele, una mostruosità di granito appena sotto il Chevy Chase Circle dove, nove anni fa questo dicembre, Kimmer e io ci sposammo nel generale stupore delle nostre famiglie e degli amici. La maggior parte di loro, aggiungerei, è ancora più sbalordita dal fatto che siamo ancora sposati, poiché la nostra tumultuosa unione è stata contrassegnata da molte false partenze. Chi, in effetti? Noi figli seguiamo il feretro. Addison, che pochi minuti fa, nel suo discorso, ha messo in mostra la stessa religiosità zuccherosa della sua trasmissione radiofonica, è fiancheggiato, nel disprezzo dell'etichetta, dalla sua compagna del momento. Mariah è davanti a me, suo marito Howard l'affianca con aria adorante e un sottogruppo dei suoi figli la segue mentre gli altri sono a casa con la ragazza alla pari oppure stanno vagando per la chiesa, arrampicandosi in luoghi in cui non dovrebbero. D'un tratto, rammentandomi che Mariah e la sua progenie sono parenti, ordino alle mie riflessioni di abbandonare il loro sentiero inaspettatamente maligno, poiché, come credo di aver già detto, il Giudice ha sempre consigliato ai suoi figli di evitare pensieri indegni. Chi, in effetti? mi chiedo sopprimendo un colpo di tosse provocato dalla soffocante nuvola di incenso che fa ancora parte del rito tradizionale della Chiesa episcopale, anche se quasi tutti hanno dimenticato il perché. Chi, in effetti? La risposta, immagino, sarebbe stata una delusione per un individuo attento ai nomi come mio padre. Perché qui non c'è nessuno di coloro che il Giudice avrebbe considerato importanti. Nessuno dei grandi pro-
gressisti che lo amavano da giovane. Nessuno dei grandi conservatori che lo amavano da vecchio. Soltanto lacerti della famiglia, qualche amico di lunga data, alcuni dei suoi soci e una manciata di nervosi giornalisti, la maggior parte troppo giovane per sapere come mai mio padre fosse così famigerato, ma alcuni dei quali se ne ricordano e sono venuti a controllare di persona che il mostro se ne sia andato per davvero. C'è Mallory Corcoran, naturalmente, alla guida di una piccola falange di avvocati dello studio, e c'è anche la silenziosa assistente del Giudice, la signora Rose, che è rimasta con lui dai tempi in cui faceva il magistrato. La Gold Coast ha ovviamente inviato un suo contingente, più che altro uomini dalla pelle giallastra della generazione di mio padre, vestiti con eleganza e intenti a controllare con ansia i loro Rolex, probabilmente per sincerarsi che il funerale si concluda prima dell'inizio delle loro partite di golf. C'è un pugno di giudici che hanno lavorato con mio padre, fra cui, con mia sorpresa, uno che è arrivato fino alla corte suprema, anche se si è seduto in fondo come se temesse di essere visto. Una dozzina circa di vecchi cancellieri è disseminata per la chiesa con espressioni più imbarazzate che tristi; ma provo comunque riconoscenza per la loro fedeltà. Scorgo i miei amici Dana Worth e Eddie Dozier, che sono stati sposati ai tempi in cui Dana credeva che gli uomini le piacessero, compostamente seduti a tre file l'uno dall'altra come si addice a chi ha divorziato in malo modo. Il volto di Eddie è scolpito da linee severe e decise, ma Dana, solitamente forte, sembra un po' piagnucolosa. Da quando il loro matrimonio è fallito ci siamo allontanati. Eddie e Dana si conobbero lavorando come cancellieri per mio padre nei primi anni Ottanta, e furono la prima - e sospetto anche l'ultima coppia di professori della facoltà di legge. Dana, minuta e bianca, e Eddie, grosso e nero, sono sempre stati una strana coppia, fuori moda e insolenti nelle loro posizioni politiche di destra, e nessuno dei due ha mai imparato fino in fondo la sottile arte accademica di dire qualcosa di diverso da quello che si pensa. Da solo in un angolo in fondo alla chiesa, noto con sorpresa, siede l'unico cancelliere che ero sicuro non sarebbe venuto: Greg Haramoto, il giovane scrupoloso ma timido la cui testimonianza apertamente riluttante dieci anni fa contribuì, quanto tutti gli altri interessi di parte, ad affondare la nomina di mio padre alla corte suprema. Greg era un testimone a sorpresa una sorpresa per il Giudice, quantomeno - e durante le sue appassionanti quattro ore davanti alle telecamere ripeté con insistenza di non avere alcuna voglia di essere lì. Ciò nonostante, inchiodò mio padre al muro. Seduto
con evidente disagio nella sala udienze, sbattendo spesso le palpebre dietro le sue spesse lenti, Greg disse ai senatori che Jack Ziegler telefonava così spesso al giudice fuori dall'orario di ufficio che lui era giunto a riconoscerne l'inconfondibile voce. Disse che Jack Ziegler e mio padre pranzavano insieme. Che una volta, a tarda sera, Jack Ziegler si era addirittura presentato al palazzo di giustizia. Che il Giudice gli aveva fatto giurare di non dire nulla. Raccontò molte cose, e mio padre ne negò alcune in modo poco convincente rammentandone altre di malavoglia. I registri del palazzo di giustizia, nei quali le guardie segnano i nomi di tutti coloro che entrano ed escono, furono di grande aiuto per rinfrescargli la memoria. Dopo le udienze, Greg divenne un nomade della professione legale. Si dimise dalla commissione federale sulle comunicazioni, ma nonostante la sua brillante carriera accademica a Berkeley nessuno studio legale lo voleva, poiché tutti si chiedevano se un uomo disposto a crocifiggere il suo stesso capo in diretta televisiva avrebbe protetto le confidenze dei clienti più discutibili. Nessuna grande azienda l'avrebbe mai assunto, poiché la maggior parte dei loro direttori generali erano dalla parte di mio padre; e nessuna facoltà di giurisprudenza avrebbe potuto accoglierlo, poiché era troppo distrutto per impegnarsi a fondo nella ricerca. Cercò di lavorare come difensore d'ufficio, seppellendo il proprio dolore sotto le sofferenze ben più significative di coloro a cui la vita al livello più infimo aveva succhiato ogni traccia di moralità, ma il suo lavoro mancava di passione, i suoi clienti ne soffrivano e il suo capo lo invitò a provare con qualcos'altro. Greg Haramoto, che un tempo si immaginava una vita all'apice della professione, faceva improvvisamente fatica a trovare un impiego. L'ultima volta che l'avevo sentito nominare lavorava presso la società di importexport di famiglia a Los Angeles: un crollo meritato, secondo Mariah. Eppure eccolo qui, con il suo sguardo fervente lucido di lacrime, a piangere insieme a noi dicendo addio all'uomo che ha contribuito a rovinare. Nella sua testimonianza, Greg ripeté di continuo che la sua ammirazione per mio padre non era mai scemata. D'altra parte, risulta spesso sorprendentemente facile distruggere le cose che amiamo. I miei occhi continuano a perlustrare la chiesa. Individuo un altro collega della facoltà, l'esigente Lemaster Carlyle, nato alle Barbados, che fa parte del corpo insegnante da soli due anni più di me, ma che gode di una reputazione molto più elevata. Lem è un ometto forte e compatto, i cui magnifici abiti di sartoria nascondono un corpo ben sviluppato e il cui eloquio fiorito e idiomatico nasconde una mente ben sviluppata. Non è un
mio grande amico e non conosceva affatto il Giudice, dunque immagino sia venuto per solidarietà, poiché Lem considera la razza come un tessuto connettivo assolutamente mistico, ma al tempo stesso vede la cosa in un modo profondamente personale. Durante la battaglia sulla nomina di mio padre, malgrado le sue convinte idee progressiste, Lem prese pubblicamente le difese del Giudice: "Due neri alla corte suprema sono meglio di uno" era il suo discutibile slogan. Malgrado Lem non sia un uomo facile, per questa sua convinzione l'ho amato ancora prima di conoscerlo. Dana, Lemaster e io siamo gli unici rappresentanti della facoltà di giurisprudenza che mio padre amava tanto. (Dopo il divorzio, Eddie se l'è squagliata nel Texas.) Dean Lynda è stata abbastanza premurosa da inviare un'enorme corona, e perfino gli studenti, con mio grande stupore, hanno mandato dei fiori, due omaggi perfettamente segregati, uno da parte degli studenti neri e uno da parte dei bianchi. Ma i fiori non sono persone, e anche contando gli amici del poker, i giornalisti, i semplici cacciatori di sensazioni forti, le componenti sparse della famiglia di Kimmer e quelli che restano degli innumerevoli cugini (l'età e la geografia hanno alquanto assottigliato le loro schiere, ma ci sono, intenti a spettegolare in fondo alla chiesa), credo siano presenti meno di duecento persone in una chiesa costruita per accoglierne il triplo. E Jack Ziegler, qualunque cosa volesse veramente sapere sulle "disposizioni" non è fra loro. In famiglia non ci piace parlare di Jack Ziegler. Non più. Era il compagno di stanza di mio padre al college ed è stato il padrino di Abby, ma nei suoi ultimi dieci anni di vita il Giudice non sopportava che si pronunciasse il nome del suo vecchio amico. In effetti, la convinzione che si è diffusa tra i conservatori è che mio padre abbia perduto la nomina alla corte suprema perché aveva scelto di onorare la loro lunga amicizia; o, più precisamente, perché aveva pranzato con Jack Ziegler. Due volte. Fu questo il succo della testimonianza di Greg Haramoto: il fatto che mio padre e un suo vecchio amico si fossero visti a pranzo e che in seguito il vecchio amico avesse fatto un giro al palazzo di giustizia. Ebbene, si parlarono qualche volta per telefono: ma in ciò non c'è nulla di male! Di certo questo è il modo in cui il caso viene esposto dai partigiani del Giudice, Mariah in testa, poiché nel 1986 la sua candidatura alla corte suprema stava andando a gonfie vele, con l'ala progressista dei democratici del Senato troppo intimiditi dal colore della sua pelle e dalle sue qualifiche per protestare in modo serio, fino al giorno in cui venne fuori la storia dei pranzi. E i trascorsi del suo commen-
sale. La stampa si tuffò immediatamente nel gorgo di una delle sue estasi da condanna. Jack Ziegler, ex dipendente della Cia caduto in disgrazia, era riuscito in qualche modo a diventare una nota a margine di metà degli scandali politici della seconda metà del ventesimo secolo; questa, almeno, era la diffusa impressione. Aveva testimoniato su alcune questioni secondarie ma alquanto imbarazzanti al cospetto della commissione sul Watergate di Sam Ervin, il suo nome era venuto fuori in termini poco lusinghieri in un'appendice del rapporto Church sulle malefatte della Cia e in un paio di libri è stato ipotizzato un suo lontano coinvolgimento nel pasticcio IranContra, anche se a quei tempi Jack aveva già lasciato l'agenzia da un bel pezzo. Sembra che perfino la commissione Warren abbia ascoltato la sua deposizione a porte chiuse, poiché ai tempi in cui era un agente sul campo Jack aveva inoltrato un rapporto da Città del Messico sulle curiose attività di un certo Lee Harvey Oswald. Ma Jack Ziegler era rimasto più che altro nell'ombra fino al giorno in cui il disastro della nomina di mio padre alla corte suprema l'aveva reso famoso. Ciò nonostante, anche se i giornalisti avvoltoi che indagarono sui suoi rapporti con il Giudice riuscirono a far emergere qualche affermazione compromettente, nulla venne mai provato al di fuori dei pranzi, quantomeno ai danni di mio padre: questa era la posizione di mia sorella. E la posizione dei Destri, e degli editoriali del "Wall Street Journal". E, per un certo periodo, anche la mia. (Addison, non vedendo alcun modo di spillare qualche dollaro dal contrattempo, teneva ben nascoste le sue carte.) Ma il flusso quotidiano di rinnovate insinuazioni si dimostrò insostenibile. Qualche giorno dopo la comparsa di Greg Haramoto saltarono fuori i registri del tribunale, e i più ferventi sostenitori di mio padre al Senato cominciarono a correre ai ripari. Qualche amico lo incitò a combattere, ma il Giudice, uomo di squadra sino alla fine, chiese coraggiosamente alla Casa Bianca di ritirare la sua candidatura. Con suo grande sgomento, il presidente Reagan non fece alcun tentativo di dissuaderlo. E così il seggio, per ottenere il quale mio padre aveva brigato per metà della sua esistenza, venne assegnato a un semisconosciuto giudice federale, un ex docente di legge di nome Antonin Scalia che, nel sollievo generale, venne eletto all'unanimità. "Nino Scalia sta facendo un ottimo lavoro" intonava allegramente il Giudice nei suoi discorsi ai Destri, affermazione che, come molte delle sue, mi ha sempre fatto trasalire, soprattutto perché ogni volta che la pronunciava - e la pronunciava spesso - io ero costretto a sopportare le frecciate dei miei colleghi progressisti, Theo Mountain in testa, i quali,
nell'impossibilità di prendersela con il Giudice, decidevano di punzecchiare il figlio al posto suo. Ma tutto questo venne più tardi. Al momento della sua caduta, mio padre era giunto così in alto, grazie alla sua mente brillante e alla convenienza delle sue posizioni politiche, che la disgrazia sembrava impossibile. "Non ha fatto niente!" protestava Mariah nel corso delle conversazioni telefoniche serali che in quel momento di crisi segnalavano una breve tregua nella nostra guerra in corso. "Il punto non è quello che ha fatto" rispondevo paziente, cercando di illustrare al suo orecchio profano e partigiano il dovere di un giudice di evitare anche soltanto l'apparenza di scorrettezza ma credendoci soltanto a metà, visti i personaggi che sono riusciti a restare aggrappati ai loro seggi federali nonché alla corte suprema. "Il punto è che ha nascosto ciò che ha fatto." "È ridicolo!" ribatteva lei, a quei tempi ancora incapace di abbracciare verbalmente le forme di rifiuto più volgari così caratteristiche della sempre più dozzinale conversazione del nostro paese. "Lo volevano far fuori, e tu lo sai." Come se avere dei nemici fosse una difesa contro qualsiasi accusa di illecito. O come se il fatto che al momento di quelli che la stampa chiamava i "pranzi segreti" Jack Ziegler stesse per subire un processo per una stupefacente quantità di reati fosse una stupidaggine; o come se il fatto che mio padre e lo zio Jack fossero apparentemente ancora in contatto quando il suo vecchio compagno di stanza era diventato un fuggiasco non fosse pertinente. Dopo tutto, lo zio Jack era stato poi scagionato da quasi tutte le accuse, e se era un fuggiasco lo era soltanto per sottrarsi alla giustizia della sinistra che lo odiava per il modo forse eccessivamente entusiastico in cui aveva portato avanti la Guerra fredda: così parlò l'editoriale del "Journal". E se le voci nell'ambiente legale accennavano a giurie subornate, a testimoni pagati o intimiditi, all'opportuna scomparsa di prove decisive, be', le voci girano sempre. Kimmer, esausta dopo aver preso il volo notturno da San Francisco, caricato nostro figlio e aver proseguito fin qui in treno, sonnecchia sulla mia spalla a bordo della limousine mentre ci dirigiamo verso il cimitero di Northeast Washington, pochi isolati a nord della Catholic University. Bentley si rannicchia nervoso di fianco a sua madre. Il suo completino grigio pende mollemente dalla minuta corporatura, perché la frugale Kimmer crede sia giusto comprare i vestiti dei bambini due o tre taglie più grandi. Osservo il
profilo di mia moglie. Con il suo semplice vestito nero, senza altri ornamenti tranne due delicati orecchini d'oro e un filo di perle, è una visione straordinaria. Mia moglie è alta e molto attraente, con un volto lungo e assorto, un mento ben delineato e aggressivo, seducenti occhi castani, un naso largo e pronunciato che attira baci e due labbra morbide e avvolgenti che io adoro. Perfino i suoi occhiali dalla montatura in acciaio sembrano sexy: se li mette e se li toglie di continuo, mordicchiandone le stanghette e roteandoli mentre parla al telefono, gesti che io trovo incantevoli. Ho sempre adorato guardarla, fin dal giorno in cui ci siamo conosciuti. Per sua stessa definizione è di ossatura robusta, con ampie spalle e fianchi larghi che finalmente, dopo anni di fluttuazioni a volte estreme, si sono attestati su una rotondità che lei trova accettabile. La sua carnagione è leggermente più chiara della mia, e riflette il suo alto lignaggio giamaicano. Porta i corti capelli scuri in una provocatoria acconciatura afro, quasi a contraddire le severe aspettative del suo clan (dove i capelli hanno sempre la permanente e sono spesso tinti), e la combinazione fra il suo pigro sorriso e il suo carattere impetuoso suggerisce un animo appassionato. In lei c'è voluttuosità, ma anche imperturbabilità. Si comporta con una sensuale dignità che ti attrae e allo stesso tempo stabilisce dei limiti severi. Disorienta il mondo ed è oppressa da un furioso desiderio di giustizia. Il suo intelletto è vivace e aperto a molti interessi. Con lei non si scherza: non lo fanno gli avvocati suoi avversari, non lo fanno gli amici, che colleziona con inquietante facilità, e di certo non lo faccio io. Negli ultimi tempi, per esempio, non sto rinfacciando a mia moglie i suoi frequenti viaggi a San Francisco, dove apparentemente sta esercitando quella che gli avvocati chiamano due diligence, controllando i rendiconti finanziari di un'azienda di software che il cliente più importante del suo studio legale - una finanziaria locale chiamata EHP, già Elm Harbor Partners - intende acquistare. Se mi sentisse mi sparerebbe, ma Kimmer va dove l'EHP le dice di andare, e se l'EHP la vuole in California, ebbene, California eccomi qui. È la solidità del rapporto che le ha fatto guadagnare la rapida partecipazione aziendale che lei finge di disprezzare, poiché la finanziaria chiese espressamente di lei fin quasi dal giorno del suo arrivo allo studio. E l'EHP è sulla carta il cliente di Gerald Nathanson, uno dei soci più influenti dello studio, un uomo sposatissimo con cui la mia sposatissima moglie ha una relazione, o forse no. Forse le telefonate furtive e le lunghe, ingiustificate assenze dal suo ufficio sono mere coincidenze. E forse mio padre sta per saltar fuori dalla bara
e mettersi a ballare. In questo momento, mentre la mia gelosia riprende vigore, Kimmer intreccia inaspettatamente le sue dita alle mie, dove negli ultimi tempi hanno trascorso poco tempo. La guardo sorpreso e noto l'accenno di un sorriso sul suo viso, ma lei non si volta nella mia direzione. Bentley si è addormentato, e la mano libera di Kimmer gli carezza distrattamente i capelli neri e ricci. Bentley sospira. Hanno qualcosa di speciale, loro due, un misterioso collegamento genetico madre-figlio che mi esclude e mi escluderà sempre. In questo mondo strano e disgregato, spesso gli uomini amano le loro mogli con la stessa intensità, o con la medesima mancanza di essa, con cui vogliono bene ai loro figli; ma per le donne la biologia sembra superare la scelta personale: possono amare i loro mariti, ma i figli vengono prima. Se il piatto della bilancia pendesse dall'altra parte, dubito che la razza umana potrebbe sopravvivere. A dire il vero, sospetto che una delle ragioni per cui sono rimasto fedele a Kimmer, qualsiasi cosa abbia fatto, è la consapevolezza che se ci separassimo mi porterebbe via Bentley. Anche se passo molto più tempo di lei con nostro figlio, Kimmer non potrebbe sopportare l'idea di lasciarlo. Le lancio un'altra occhiata di sottecchi, poi guardo Addison, spudoratamente avvinghiato alla sua ragazza bianca sul sedile di fronte, e mi chiedo, come mi è già successo spesso, se le mutue passioni nei loro diversissimi caratteri abbiano mai provocato mutue scintille. Addison è più basso di me di un paio di centimetri e ha le spalle più ampie, ma è tutto muscoli e niente grasso; malgrado non sia un vero atleta, si è sempre mantenuto in forma. Il suo volto è più amichevole e più attraente del mio, le sue sopracciglia meno invadenti, gli occhi meglio collocati, l'atteggiamento più calmo e aperto. Addison ha brio, stile e grazia, qualità che io non possiedo. Da bambini, Addison era affascinante e divertente mentre io ero un semplice sgobbone, e avevo sempre la sensazione, alle feste, in vacanza, in chiesa, che i miei genitori presentassero più volentieri mio fratello ai loro amici che me. A scuola seguivo Addison a distanza di quattro anni e ottenevo voti migliori, ma gli insegnanti restavano sempre convinti che fosse lui a possedere il cervello più brillante. Se portavo a casa un "dieci" mio padre mi rivolgeva un cenno del capo, ma quando Addison arrivava con un "sette" si guadagnava una pacca sulla spalla. Leggevo di continuo la parabola del figliol prodigo, e ne uscivo regolarmente esasperato. Ne discutevo con un gran numero di insegnanti di catechismo. Quando arrivammo alla pecorella smarrita, dissi ai miei insegnanti di essere
convinto che molti si sarebbero tenuti le altre novantanove invece di andare alla ricerca di quella smarrita. La risposta fu un'occhiataccia. L'età adulta non cambiò nulla. Il fatto che io restassi sposato con la stessa, difficile donna veniva accettato da mio padre come qualcosa di scontato, ma ogni volta che Addison ne presentava una nuova, e ancora più remissiva della precedente, il Giudice sorrideva e gli cingeva le spalle con un braccio: "Allora, figliolo, finalmente pronto a mettere la testa a posto?". Qualsiasi risposta di mio fratello pareva soddisfarlo. E mio padre è sempre sembrato meno colpito dalla mia cattedra in una delle migliori facoltà di legge del paese che dalla misteriosa capacità di Addison di trovare un filone d'oro ovunque scavi. Oggi, il mio fratello maggiore è diventato un tipo comune nella nazione più scura: intelligente, ambizioso, istruito, totalmente consacrato al romanticismo di un movimento per i diritti civili ormai a pezzi, intento a vivere ai margini di ciò che ne rimane. L'unità razziale è scomparsa già da tempo, così come l'impegno della nazione nel suo complesso per il rispetto dei principi fondamentali del movimento, sempre che tale impegno sia mai esistito. Decine di organizzazioni rivendicano l'autorità di Wilkins, di King e di Hamer, insieme a un esercito di accademici, a un paio di commentatori televisivi e a ogni nuovo gruppo di vittime dell'oppressione, nessuno dei quali riesce a resistere alla tentazione di far notare le sorprendenti similitudini fra il suo impegno e la lotta per la liberazione dei neri. Da parte sua, Addison ha battuto il circuito come il professionista di tennis che un tempo mio padre sperava che diventasse: dopo la University of Pennsylvania, un impiego presso un ente per lo sviluppo delle comunità a Filadelfia, seguito da una posizione di medio livello nello staff di un membro del Congresso, da qualche anno a Baltimora presso gli uffici nazionali della National Association for the Advancement of Coloured People, la NAACP, da una posizione di riguardo nel comitato nazionale del partito democratico, da una cattedra presso la Fondazione Ford, da posizioni chiave di consulenza in tre campagne politiche nazionali, da un semestre al college di Amherst, da un periodo presso l'ACLU, da un paio d'anni al dipartimento dell'Istruzione sotto la presidenza di Clinton, da un'altra cattedra alla Fondazione Ford, da un semestre a Berkeley, da un anno in Italia, da sei mesi in Sud Africa e da un anno ad Atlanta, tutte e tre le ultime trasferte finanziate da un Guggenheim per il grande libro sul movimento che non ha ancora terminato. Nei momenti di debolezza, mio fratello nomina a bassa voce il premio MacArthur, che sicuramente non otter-
rà mai, e così, costretto a guadagnarsi da vivere, si è trasformato in un uomo del nuovo secolo, conducendo una trasmissione radio di dialogo con il pubblico che va in onda cinque sere alla settimana da Chicago, intimidendo allegramente i suoi ospiti mentre proclama al mondo - o quantomeno al proprio pubblico - le sue opinioni di progressista ortodosso su qualsiasi cosa, dalla pena di morte ai gay nell'esercito, ripetendo almeno due volte per sera, e ancora oggi, che George W. Bush non è mai stato veramente eletto presidente, insaporendo i suoi commenti con montagne di citazioni bibliche, alcune delle quali molto accurate, e con presunti preziosismi da Mahavira, Chuang-tzu e altri saggi che è improbabile i suoi ascoltatori conoscano. Suppongo che la sua religiosità possa essere definita new age, nel senso che vi mescola ciò che trova utile e scarta ciò che non gradisce. Vive in una piccola, vecchia ma elegante casa di Lincoln Park, a volte solo, altre volte con una delle sue numerose compagne, quasi tutte bianche, in attesa della prossima grande occasione da aggiungere al suo curriculum. Messo alle strette, ammette di essere stato sposato una o due volte, ma invariabilmente afferma di essere giunto a nutrire dei dubbi sull'istituzione stessa e di essere pertanto lieto che i suoi tentativi non siano durati. Ah, dolce matrimonio! I miei genitori l'hanno sempre descritto come l'istituzione di base su cui si fonda la civiltà. Mia sorella e io, con tutte le nostre debolezze, abbiamo cercato di comportarci come se ci credessimo. Ma Addison, malgrado i segni esteriori di fervore religioso, agisce altrimenti. La sua prima moglie era un'insegnante di scuola pubblica di Filadelfia, una donna dolce e tranquilla della nazione più scura di nome Patsy. Patsy e mio fratello cominciarono subito a litigare su quando cominciare ad avere dei figli. Addison, come molti altri uomini non ancora pronti a lasciarsi vincolare dal matrimonio a cui si era già vincolato, aveva una sola, coerente risposta: più avanti. Patsy lo lasciò dopo tre anni. Ne conseguì un disastro. Per un certo periodo vi fu una donna alla settimana, o almeno così sembrava; fra cui un orrendo giorno del Ringraziamento, due anni dopo la caduta di mio padre, nel quale Addison si presentò in Shepard Street con una tizia truccatissima che sembrava avere quindici anni ed era vestita come una battona. (Aveva ventidue anni, scoprimmo presto con sollievo grazie alle abili domande di mia madre, ed era una specie di stellina delle soap opera; Sally, in ritardo come al solito, la riconobbe all'istante e si abbandonò a un parossismo di gelosa soggezione.) Addison e Cali - era questo l'improbabile nome della sua compagna - si trattennero a cena il tempo sufficiente a comportarsi da cafoni, dopodiché se ne andarono di fretta addu-
cendo come scusa il lungo viaggio in macchina per New York, ma in realtà, come mi confessò mio fratello nel vialetto, per visitare altri amici nel Maryland, due sceneggiatori maschi che avevano costruito una magnifica casa sul mare nei pressi di Queenstown. Questo era Addison, almeno fino a poco tempo fa. Gli piaceva farsi vedere con attrici, modelle, cantanti, vuoti e insignificanti oggetti sessuali, ma non sempre. Per un po' mise su casa con una dinamitarda ex detenuta e mezza matta di nome Selina Sandoval, favorevole a qualsiasi manifestazione di protesta tranne quelle contro l'aborto. Selina teneva armi da fuoco in ogni angolo dell'appartamento e vedeva Addison come un fascista rieducabile, più o meno come Addison vede me. Dal canto suo, Addison descriveva il proprio interesse nei confronti di Selina come "ricerca per un romanzo", il quale, come molte delle sue idee, non è ancora cominciato. Quando Selina andò definitivamente fuori di testa e tornò in galera, al suo fianco si succedettero un'assistente di volo, un'agente commerciale, una tennista di non eccelsa fama, una cameriera del suo negozio di gastronomia preferito, una stella del Dance Theater of Harlem e un'agente di polizia, che era il modo di scherzare di mio fratello. Alla fine si decise a impalmare una seconda moglie, Virginia Shelby, studentessa del corso di specializzazione della University of Chicago, antropologa, donna dal sorriso amichevole e dallo spaventoso intelletto, qualcuno che finalmente mio padre e mia madre consideravano degno, un'unione che pensavamo l'avrebbe calmato. Tutti amavano Ginnie, tutti tranne Addison, che si è rapidamente stancato delle sue insistenze su... fare dei figli, che altro? L'ha lasciata un anno e mezzo fa per un'assistente di produzione ventiquattrenne della sua trasmissione radio. Malgrado sia stata definita una separazione di prova, nessuno si aspetta sul serio che Addison e Ginnie riprendano il loro ménage coniugale, ed è per questo che nessuno si stupisce quando lui si presenta al funerale con una perfetta sconosciuta, una donna bianca magra e spudoratamente appiccicosa di nome Beth Olin, una poetessa minore, o forse una commediografa, durante questa breve visita non c'è tempo per scoprire i dettagli, e in seguito non la rivedremo più. 5 UN INCONTRO AL CIMITERO In piedi accanto alla tomba, rabbrividendo per il freddo, Kimmer mi tiene stretta la mano mentre padre Bishop celebra il rito della sepoltura. Fre-
eman Bishop, che a volte sembra sia il pastore della chiesa della Trinità e San Michele fin da prima del diluvio universale, appartiene alla tradizione episcopale dei preti eruditi, e possiede la profonda conoscenza della teologia e della storia ecclesiastica che un tempo ci si aspettava da tutto il clero anglicano. Mio padre, tuttavia, ha sempre parlato male di lui. La ragione era politica. La Chiesa episcopale è stata di recente lacerata da tempestosi conflitti su temi che vanno dall'ordinazione dei gay e delle lesbiche all'autorità della Bibbia. Padre Bishop, secondo l'opinione del Giudice, era dalla parte sbagliata in ogni battaglia. "Non capiscono" gemeva mio padre riferendosi a coloro con cui era in disaccordo "che la Chiesa è dispensatrice e custode della conoscenza morale, non la sua origine! Credono di poter cambiare ciò che vogliono a seconda della moda del momento!" Che avesse o meno ragione, il Giudice era sempre energico nelle sue proteste, e sembrava più a suo agio nel rimpianto del mondo scomparso che nell'affrontare quello che gli veniva incontro di gran carriera. Dal canto suo Freeman Bishop, per quanto complesse siano le sue opinioni politiche, è un uomo di profonda fede, e notevolmente portato per la predica. Mette su un gran bello spettacolo, diceva il Giudice, ed è vero: con il cranio scuro gradevolmente calvo, gli spessi occhiali da vista e una voce grave e risonante che sembra sorgere come un uragano da un punto a sud della costa atlantica - in realtà viene da Englewood, New Jersey -, padre Bishop potrebbe facilmente passare per uno dei grandi predicatori della tradizione afroamericana... a patto che non si presti troppa attenzione a ciò che dice. Malgrado tutto il disprezzo che il Giudice provava per lui, i due erano, se non amici, quantomeno in discreti rapporti. Di recente, la cerchia sempre più ristretta di intimi di mio padre distribuita lungo la Gold Coast aveva perfino ammesso padre Bishop alla sua istituzione più sacra, la partita di poker del venerdì sera. E così, nonostante un paio di noti pastori conservatori abbiano chiamato per offrire il loro contributo, non c'è mai stato alcun dubbio su chi avrebbe officiato il funerale. Ho sempre amato i cimiteri, specialmente quelli vecchi: il loro pago senso del passato e il loro collegamento con il presente, la quiete quasi soprannaturale, la severa rassicurazione che la ruota della storia gira incontrastata. Per molti di noi i cimiteri emanano un fascino mistico, il che spiega tanto la presa che il mito dei vampiri ha sulla nostra immaginazione quanto il fatto che la profanazione delle tombe, ovunque accada, sarà sempre il servizio di apertura del telegiornale locale. Ma io amo i cimiteri soprattutto in quanto luoghi di scoperta. A volte, visitando per la prima volta
una città straniera, individuo il più vecchio cimitero e ci vado, imparando la storia locale grazie ai rapporti di famiglia. A volte passeggio per ore in cerca del sepolcro di un grande del passato. Circa un anno prima della nascita di Bentley, Kimmer e io dovemmo recarci in Europa per lavoro - io mi trovavo all'Aja per una conferenza sui modi in cui le leggi sull'illecito della Comunità europea avrebbero dovuto compensare i danni morali e materiali, Kimmer era a Londra per fare Dio solo sa cosa per l'EHP - e ci ritagliammo un giorno e mezzo di tempo per visitare Parigi, dove nessuno dei due era mai stato. Kimmer voleva vedere il Louvre, la Rive Gauche e la cattedrale di Notre-Dame, ma io avevo altri programmi, e insistetti che andassimo in taxi sotto un tremendo diluvio fino al cupo cimitero di Montparnasse per visitare la tomba di Alexander Alekhine, il furioso antisemita alcolizzato che negli anni Trenta fu campione del mondo di scacchi e forse il giocatore più brillante che sia mai esistito. Prova ulteriore, se mia moglie ne aveva bisogno, che io stesso sono moderatamente folle. E adesso un altro cimitero. La breve cerimonia trascorre in un attimo. Mi ritrovo incapace di concentrarmi, guardandomi intorno alla ricerca del bulldozer che coprirà la bara dopo che l'ultimo dei convenuti si sarà allontanato, ma è troppo ben nascosto. Osservo brevemente la lustra lapide di marmo su cui è già inciso il nome di mia madre, e quella piccola dedicata a Abby situata accanto. Il lotto di famiglia che mio padre ha acquistato anni fa si trova in cima a una collinetta; lui ha sempre detto di averlo preso per il panorama. Da quassù possiamo vedere gran parte del cimitero. È vasto e alberato, e le lapidi si diramano in file diritte su colline ondulate. Perfino nel sole deciso dell'autunno ci sono ombre ovunque. Alcune delle ombre in secondo piano sembrano muoversi; giornalisti, forse. Un'illusione ottica? La mia fervida immaginazione? Se non sto attento, mi farò contagiare dalla paranoia di mia sorella. Torno a concentrarmi sulla tomba. È la terza sepoltura a cui assisto sulla tranquilla collinetta, e ogni volta la famiglia si assottiglia. Prima abbiamo seppellito Abby, poi mia madre. E adesso il Giudice. Assassinato, mi ripeto scoccando un'occhiata di traverso a mia sorella che ha pianto per tutta la cerimonia. Una brezza fredda fa cadere a terra qualche foglia: di anno in anno gli alberi sembrano perderle un po' prima, ma io le sto guardando con gli occhi dell'età. Mariah sostiene che il Giudice è stato assassinato. Stiamo seppellendo nostro padre accanto a Abby, e Mariah pensa che il padrino di Abby l'abbia ucciso.
Possibile. Impossibile. Vero. Falso Dati insufficienti, decido, innervosito dalla preoccupazione. Kimmer mi stringe la mano. Mariah sta ancora singhiozzando; Howard, dritto e forte, sostiene sua moglie come se temesse di vederla fluttuare via. Sembrano essersi portati dietro soltanto una parte della prole, ma mi manca la forza di tenere il conto. In piedi appena dietro i piccoli Denton, Addison sembra annoiato, o forse vorrebbe dire qualcosa anche lui. La sua compagna, o qualunque cosa sia la donna di questa settimana, si è allontanata con gesto irriverente, evidentemente assorta nello studio delle altre lapidi. Accanto a Addison, Mallory Corcoran, pallido e massiccio, controlla l'ora senza darsi la pena di nascondere la propria impazienza. Ma padre Bishop ha concluso. Riflettendo il sole con il cranio scuro e pelato, si sistema gli occhiali sul naso e pronuncia le parole finali dell'ultima preghiera: «O Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, ti preghiamo di porre la tua passione, la tua croce e la tua morte fra il tuo giudizio e le nostre anime, adesso e nell'ora della nostra morte. Concedi misericordia e grazia ai viventi, perdono e riposo ai defunti, alla tua Chiesa pace e armonia, e a noi peccatori vita e gloria eterna; tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, unico Dio, ora e sempre». Tutti recitiamo l'amen. La funzione è terminata. La gente si muove, ma io mi trattengo per un istante, intimorito dal potere spaventoso della preghiera: "fra il tuo giudizio e le nostre anime". Mio padre, se tutto ciò in cui ho cercato di credere è vero, ora conosce il giudizio di Dio sulla sua anima. Mi chiedo quale sia questo giudizio, cosa si provi a lasciarsi dietro l'esistenza mortale e sapere che non ci sono più seconde occasioni, e forse trovare il perdono. Per l'ateo il cimitero è un luogo di morte, assurdo e di cattivo gusto, in ultima analisi insensato; per il credente è un luogo di domande spaventose e risposte terribili. Guardo la bara in equilibrio sulle guide, circondata dall'erba artificiale, pronta a scivolare sottoterra non appena ce ne saremo andati. "Concedi perdono e riposo ai defunti." Kimmer mi serra le dita fra le sue per riportarmi nel mondo secolare delle strette di mano del dopo funerale. Hanno inizio i commiati. Amici, cugini e soci d'affari tornano a farsi sotto. Un nero che sembra avere cent'anni mi cinge fra le braccia magrissime, sussurrando di essere lo zio di qualcuno il cui nome non mi dice nulla. Una donna alta e appariscente con il volto coperto da un velo, un altro membro della nazione più scura, prende il suo posto spiegandomi di essere la sorella di una zia che non ho mai sen-
tito nominare. Vorrei conoscere la mia famiglia allargata, ma non ce la farò. Continuando ad abbracciare parenti sconosciuti scorgo Dana Worth, che agita tristemente la mano e scompare. Subisco l'abbraccio vigoroso di Un piangente Eddie Dozier, l'ex marito di Dana, che poi si volta per abbracciare Kimmer, la quale dapprima si ritrae ma poi si arrende. Saluto e ringrazio lo zio Mal e sua moglie Edie; i Madison, che come al solito dicono tutte le cose giuste; la cugina Sally e il suo compagno di vecchia data Bud, un ex pugile di nessuna fama i cui pugni gelosi a volte scambiano per un avversario chiunque si soffermi troppo a guardarla. Perdo il conto di coloro a cui sto stringendo la mano e comincio a confondere i nomi, errore che mio padre non avrebbe mai commesso. "Capofamiglia", mi rammento. Kimmer mi cinge inaspettatamente la vita con un braccio e mi stringe a sé, rivolgendomi perfino un sorriso per attirarmi fuori dalla mia fantasticheria. Mi rendo conto che sta cercando di confortarmi, non per istinto muliebre, lo so, bensì per scelta. Con l'altra mano stringe quella di Bentley. Nostro figlio sembra piccolo e smarrito nel suo lungo soprabito nero acquistato ieri da Nordstrom. Sta anche cominciando a sbadigliare. «È ora di andare, tesoro» dice Kimmer, ma non a me. Ci incamminiamo verso le auto, gruppi di persone non più unite nella commemorazione di una vita; siamo di nuovo individui, con lavori, famiglie, gioie e dolori tutti nostri, e mio padre, per molti dei convenuti, appartiene già al passato. Mariah continua a piagnucolare, ma sembra la sola. Un telefono cellulare ronza, e una dozzina di mani, fra cui quella di mia moglie, si infilano a controllare in tasche e borsette. Il fortunato vincitore è Howard, che resta brevemente in ascolto e poi si lancia in una disputa sommessa sulla giusta valutazione delle obbligazioni convertibili, continuando a blaterare allegramente mentre si fa posto sulla limousine. Ancora qualche stretta di mano, qualche abbraccio e bacio, e siamo di nuovo soli. Noto che Addison è ancora in cima alla collinetta. È ingobbito, le mani infilate in tasca malgrado il tepore del pomeriggio, lo sguardo sconsolato perso nelle ombre. A cosa sta pensando? A Beth? A Ginnie? Al libro sul movimento per i diritti civili che non ha ancora terminato? Agli ospiti della prossima settimana? Dico a Kimmer che torno subito, lascio di malavoglia la sua mano e mi dirigo verso mio fratello. Mi piacerebbe dire che la vista di Addison nella sua solitudine ha toccato una sorgente di immedesimazione, o addirittura di amore, ma sarebbe una menzogna; è più verosimile che tema che mio fratello stia godendo di un'epifania, comunicando con qualche grande forza, scoprendo una verità mistica che a me sta
sfuggendo. Come quando sapeva che Babbo Natale era una truffa e io ne ero all'oscuro. Potrà sembrare di cattivo gusto, ma è la vecchia gelosia, il "perché Addison?", a riportarmi al suo fianco. «Ehi, Misha» mormora lui quando arrivo in cima alla collina, tanto tenace nell'usare il mio soprannome quanto Mariah lo è nell'evitarlo. Non mi guarda, ma riesce comunque a tendere la mano e a posarmela sulla spalla. Mi rendo conto di averlo interrotto mentre pregava. E che nel suo elogio funebre non ha mai nominato Dio. «Tutto bene?» domando, mentre cerco di capire che cosa sta guardando. Tutto ciò che vedo sono alberi e lapidi. «Credo di sì. Non lo so. Stavo solo riflettendo.» «Su cosa?» «Oh, lo sai. Sulle parole del guru Arjan circa le torture della morte.» Ma certo. Era quello che avrei detto anch'io. Passa un istante. Per lungo tempo ho ammirato e invidiato mio fratello, e nel corso degli anni ci siamo divertiti molto, ma in questo momento abbiamo ben poco da dirci. «È bellissimo, quassù» dice Addison. «Immagino che ci arriverò anch'io, un giorno o l'altro. E anche tu.» Impiego qualche secondo a capire che sta parlando della morte. No, non ne sta parlando: se ne sta preoccupando. Il mio fratello maggiore, che non ha mai avuto paura di niente e che per tutta la vita si è lasciato condurre dal proprio fascino e dalla propria grazia, è improvvisamente turbato dalla morte. Faceva davvero tanto affidamento su nostro padre? mi chiedo. O forse sono io a essere anormale, io che guardo la bara di mio padre che viene calata sottoterra senza provare alcuna preoccupazione circa la mia mortalità. In un caso o nell'altro, mio fratello cerca conforto. Evidentemente, Beth Olin non è il tipo di persona che lo offre. Ma non lo sono nemmeno io. «Vieni» sussurro prendendolo per il gomito. «Dobbiamo andare.» Si libera dalla mia stretta e indica qualcosa. «Sai, Misha, ogni volta che guardo la tomba di Abby continuo a sperare di trovarli.» «Trovare chi?» «Quelli che erano sull'auto che l'ha uccisa.» Nella voce di mio fratello sento tutta la rabbia amara di mio padre. Lo fisso per un istante, perplesso. «Addison...» «Va bene» risponde. «Avviati, ti raggiungo fra un minuto. Vai.» Aspetto qualche altro secondo, ma Addison non cede, e così alla fine mi
giro e ripercorro il sentiero che conduce alle auto. Avvicinandomi vedo che Kimmer sta parlando al cellulare, volgendomi la schiena e prendendo scomodamente appunti su un foglio di carta che ha appiattito sulla limousine. Howard e Mariah se ne sono già andati, ma qualche devoto si è trattenuto. Fra questi c'è lo zio Mal, che avrebbe già dovuto tornare in ufficio da tempo. Il suo affetto per noi mi riempie di calore finché mi rendo conto che anche lui è al telefono. Gli usi del mondo aziendale mi fanno scuotere il capo. Forse lui e Kimmer si stanno parlando via satellite. «Talcott!» Mi giro nell'udire il mio nome credendo sulle prime che sia Addison, ma mio fratello si sta avvicinando sul sentiero e anche lui, udendo la voce, sta allungando il collo in direzione di una collina vicina. «Talcott, aspetta!» Ma è lontana, più un'eco che una voce. Mi volto verso il fondo del cimitero, dove gli alberi spogli proiettano ombre sempre più lunghe nella luce del tardo pomeriggio. Si sta formando una foschia bassa e il panorama ha perduto una parte del suo nitido chiarore. Sulle prime scorgo soltanto ombre nella direzione da cui proviene la voce. Poi due delle ombre si staccano dal resto come fantasmi e si trasformano in due uomini, entrambi bianchi, che avanzano a grandi passi verso di me. Riconosco uno di loro, e il cielo autunnale si fa grigio. «Ciao, Talcott» mi saluta Jack Ziegler. «Grazie di avermi aspettato.» La prima cosa che noto è che è malato. Lo zio Jack non è mai stato un uomo particolarmente corpulento, ma ha sempre avuto un aspetto minaccioso. Non so quante persone abbia ucciso, anche se spesso temo che superino le cifre ipotizzate dalla stampa. Non lo vedo da ben più di un decennio, e non ne ho sentito la mancanza. Ma quanto è cambiato! È diventato fragile, e l'abito di pregiata lana grigia e la sciarpa blu gli pendono dalla corporatura emaciata. Il volto squadrato e dai lineamenti forti che ricordavo dalla mia infanzia, quando veniva a farci visita a Martha's Vineyard munito di costosi regali, di magnifici indovinelli e di terribili barzellette, sta implodendo su se stesso; i capelli argentei, ancora ragionevolmente folti, giacciono aggrovigliati sul cranio; le labbra rosa pallido tremano quando non parla, e a volte anche quando parla. Si avvicina accompagnato da un uomo più alto, più grosso e molto più giovane, che lo sorregge in silenzio quando inciampa. Un amico, penso, tranne che i Jack Ziegler del mondo non hanno amici. Una guardia del corpo, allora. Oppure, viste le condi-
zioni fisiche dello zio Jack, un infermiere. «Guarda un po' chi c'è» freme Addison. «Lascia fare a me» insisto con la mia consueta idiozia. Mi costringo a non fare congetture su quello che Mariah ha ipotizzato venerdì sera in cucina. «È tutto tuo.» Prima che Jack Ziegler ci raggiunga prego Kimmer di aspettarmi alla macchina con Bentley, e una volta tanto lei fa quello che le chiedo senza discutere, poiché nessun futuro giudice può farsi vedere mentre chiacchiera con un uomo simile. Lo zio Mal muove un passo avanti quasi a proteggermi come usa con i suoi clienti reduci dal gran giurì, ma io gli faccio cenno di trattenersi e lo rassicuro. Poi mi volto e mi affretto su per la collina. Mariah naturalmente se n'è andata, ed è meglio così, poiché l'apparizione dello zio Jack avrebbe potuto farle perdere il controllo. Soltanto Addison si trattiene nei paraggi, a una distanza sufficiente per essere discreto ma abbastanza vicino da intervenire se... se cosa? «Ciao, zio Jack» dico mentre io e il padrino di Abby arriviamo simultaneamente sulla tomba. Poi aspetto. Lui non tende la mano, e io non gli porgo la mia. La sua guardia del corpo, o qualunque cosa sia, si piazza di lato e un po' discosto, occhieggiando con apprensione mio fratello. (Io sono evidentemente troppo poco minaccioso per giustificare la sua vigilanza.) «Le mie condoglianze, Talcott» mormora Jack Ziegler in quel suo curioso accento che sa vagamente di Europa orientale, di Brooklyn e di Harvard, e che mio padre aveva sempre sostenuto fosse falso, creato ad arte come la cadenza strascicata dell'East Texas di Eddie Dozier. Mentre parla, lo zio Jack tiene gli occhi bassi, in direzione della tomba. «Sono così addolorato per la morte di tuo padre.» «Ti ringrazio. Temo di non averti visto in chiesa...» «Detesto i funerali.» Un'affermazione pratica, come se stessimo discutendo del tempo, di sport o di una fuga da uno Stato all'altro per evitare un processo. «La celebrazione della morte non mi interessa. Ho visto morire troppi uomini di valore.» "Alcuni per mano tua" sto pensando, e mi chiedo se le altre voci, menzionate di rado, siano vere, se sto parlando con un uomo che ha ucciso sua moglie. Le paure di Mariah tornano ad assalirmi. La cronologia illustrata da mia sorella possiede una sua logica folle, e sottolineo l'aggettivo: mio padre ha visto Jack Ziegler, ha telefonato a Mariah ed è morto qualche
giorno dopo, quindi Jack Ziegler ha chiamato Mariah e adesso è qui. Ieri sera, a letto, ho finalmente messo al corrente Kimmer di ciò che pensa Mariah. Mia moglie, la testa posata sulla mia spalla, si è messa a ridere e ha commentato che a lei sembra più che altro il comportamento di due vecchi amici che si vedono regolarmente. Non avendo ancora alcuna base per decidere, dico soltanto: «Grazie di essere venuto. Ora, se mi vuoi scusare...». «Aspetta» dice Jack Ziegler, e per la prima volta i suoi occhi si puntano sui miei. Faccio un mezzo passo indietro, poiché da vicino la sua faccia è orripilante. La pelle pallida e sottile è devastata da malattie sconosciute che mi sembrano una punizione appropriata per la vita che ha scelto di condurre. Ma sono gli occhi a catturare la mia attenzione. Sono braci roventi e vive, e bruciano con un'oscura, allegra follia che dovrebbe essere inflitta a tutti gli assassini prima di morire. «Zio Jack, mi d-dispiace» riesco a pronunciare. Ho davvero balbettato? «Devo... devo andare...» «Talcott, ho fatto migliaia di chilometri per vederti. Sono sicuro che potrai concedermi cinque dei tuoi preziosi minuti.» La sua voce rivela un sibilo orrendo, e mi viene in mente che in questo momento sto forse respirando ciò che l'ha ridotto così. Ma non arretro. «Ho saputo che mi stavi cercando» dico alla fine. «Sì.» Ora sembra entusiasta come un bambino; per poco non sorride, ma poi ci ripensa. «Sì, è così, ti stavo cercando.» «Sapevi dove trovarmi.» I miei genitori mi hanno insegnato l'educazione, ma vedere lo zio Jack in questa situazione, dopo tutti questi anni, mi scatena l'impulso irresistibile di fare il villano. «Avresti potuto chiamarmi a casa.» «Non sarebbe stato... non è stato possibile. Loro sanno, capisci, l'avrebbero considerato, e ho pensato... ho pensato che forse...» La sua voce si spegne, gli occhi scuri divengono improvvisamente confusi, e mi rendo conto che lo zio Jack ha paura di qualcosa. Spero che sia lo spettro della prigione o della sua morte ovviamente imminente a spaventarlo, perché qualsiasi altra cosa in grado di terrorizzare Jack Ziegler è... insomma, qualcosa in cui non vorrei certo incappare. «E va bene. Mi hai trovato.» Forse sono troppo brusco, ma ora non ho più tanta paura di lui; d'altro canto, non sono nemmeno troppo lieto di passare del tempo in sua compagnia. Voglio sfuggire a questo spaventapasseri malato e rifugiarmi nel relativo tepore della mia famiglia. «Tuo padre era un uomo di prim'ordine» dice lo zio Jack «e un ottimo
amico. Insieme abbiamo fatto molte cose. Più per divertimento che altro.» «Capisco.» «I giornali, lo sai, hanno scritto dei nostri rapporti d'affari. Ma non ci sono mai stati. Erano fesserie. Montature.» «Lo so» mento a beneficio dello zio Jack, ma lui non è interessato alle mie opinioni. «Quel suo cancelliere... spergiurare a quel modo.» Fa un verso come se sputasse, ma non sputa veramente. «Canaglia.» Scuote la testa con finta incredulità. «I giornali, ovviamente, l'hanno osannato. Bastardi sinistrorsi. Perché odiavano tuo padre.» Non avendo scambiato una parola con Jack Ziegler da ben prima delle udienze per la nomina di mio padre, non ho mai udito le sue opinioni sull'accaduto. Visto il tenore dei suoi commenti, dubito che sia interessato alle mie. Resto zitto. «Ho sentito che l'idiota non è mai più stato in grado di trovare lavoro» prosegue lo zio Jack senza un briciolo di ironia, e capisco chi ha manovrato almeno in parte dietro le quinte. «Non mi sorprende.» «Ha fatto quello che ha creduto giusto fare.» «Ha mentito nel tentativo di distruggere un grand'uomo, e ha meritato la propria fine.» Non posso sopportare ancora a lungo tutto questo. Mentre Jack Ziegler prosegue nelle sue invettive, le folli congetture di Mariah non sembrano più così folli. «Zio Jack...» «Era un grand'uomo, tuo padre» mi interrompe Jack Ziegler. «Un grandissimo uomo, un ottimo amico. Ma adesso che è morto, be'...» Non finisce la frase, alza una mano con il palmo rivolto verso l'alto e la inclina prima da una parte e poi dall'altra. «Adesso mi piacerebbe aiutarti.» «Aiutarmi?» «Esatto, Talcott. Te e la tua famiglia, naturalmente» aggiunge piano, strofinandosi le tempie. La pelle è così flaccida che sembra muoversi sotto le dita. Me la immagino mentre si stacca lasciando soltanto un teschio triste. Lancio un'occhiata alle auto. Kimmer è spazientita, così come lo zio Mal. Torno a guardare il padrino della mia sorellina. Il suo aiuto è l'ultima cosa che desidero. «Ti ringrazio, ma è tutto sotto controllo.» «Ma mi chiamerai? Se avrai bisogno di qualcosa, ti farai sentire? Soprattutto nel caso... si verificasse un'emergenza?»
Scrollo le spalle. «Va bene.» «Con tua moglie, per esempio» insiste lui. «Ho saputo che diventerà giudice. Lo trovo magnifico. Mi dicono che l'abbia sempre desiderato.» «Non è ancora sicuro» rispondo automaticamente, sorpreso che il segreto abbia raggiunto le Montagne Rocciose e sicuro di non volere che Jack Ziegler abbia minimamente a che fare con la nomina di mia moglie. Ha già rovinato una carriera giudiziaria di troppo. «Non è l'unica candidata.» «Lo so.» Lo sguardo bruciante è tornato a farsi allegro. «Mi dicono che un tuo collega è convinto che il seggio sia suo. Alcuni lo definirebbero il corridore di testa.» Sono sorpreso ancora una volta dall'ampiezza delle sue conoscenze; scelgo di non pensare a come faccia a sapere ciò che sa. Sono lieto che Kimmer non sia a portata d'orecchio. «Suppongo di sì. Ascolta, devo...» «Stammi a sentire, Talcott. Mi stai a sentire?» Si è avvicinato di nuovo. «Non credo che abbia capacità di resistenza, quel tuo collega. Mi è giunta voce che nel suo armadio è appeso uno scheletro alquanto grosso. E sappiamo tutti cosa significa, no?» Tossisce con violenza. «Prima o poi è destinato a rotolare fuori.» «Che genere di scheletro?» domando, la mia cautela travolta da un'improvvisa impazienza. «Fossi in te non me ne preoccuperei. Non ne parlerei con la tua deliziosa mogliettina. Aspetterei soltanto che la ruota giri.» Sono sconcertato, ma non esattamente scontento. Se esistono davvero informazioni in grado di cancellare le possibilità di Marc Hadley, non vedo l'ora che - come ha detto lo zio Jack? - rotolino fuori dall'armadio. Anche se Marc e io siamo stati amici, non riesco a sopprimere una crescente eccitazione. Forse l'ossessione dell'America circa l'uso dello scandalo come arma per eliminare i candidati alle cariche giudiziarie è assurda, ma è di mia moglie che stiamo parlando. Eppure, cosa può sapere Jack Ziegler di Marc Hadley che tutti gli altri ignorano? «Grazie, zio Jack» dico in tono incerto. «Sempre lieto di rendermi utile a uno dei figli di Oliver.» La sua voce ha assunto un tono curiosamente formale. Mi sento rabbrividire un'altra volta. Lo scheletro è forse qualcosa che lui stesso ha creato? È una manovra criminale per aiutare mia moglie a ottenere il seggio che brama? Devo aggiungere qualcosa, e non è facile decidere cosa.
«Ehm, zio Jack, io... ti sono grato per aver pensato di aiutarci, ma...» Le sue sopracciglia si inarcano lentamente. Per il resto, la sua espressione non cambia. Sa cosa sto cercando di dire, ma non ha alcuna intenzione di facilitarmi il compito. «Insomma, è solo... Penso che Kimmer... Kimberly... voglia che la selezione proceda e vinca il candidato migliore. Sulla base del merito. Non vorrebbe nessuna... interferenza.» E d'un tratto, mentre sto pronunciando queste difficili parole, sono sicuro che ciò che gli sto dicendo è vero. Mia moglie, donna intelligente e ambiziosa, non vuole essere in debito con nessuno e per nessun motivo. Quando eravamo studenti, era diventata celebre per la sua esplicita opposizione ai programmi contro le discriminazioni razziali, che vedeva soltanto come un altro tentativo dei progressisti bianchi di far sì che i neri fossero in debito con loro. Forse aveva ragione. Lo zio Jack ha la risposta pronta: «Ah, Talcott, Talcott, ti prego, non temere. Non ti sto promettendo di... interferire». Fa una risatina sommessa, poi tossisce. «Sto solo predicendo quello che accadrà. Ho alcune informazioni. Non le userò, né tu avrai bisogno di farlo. Il tuo collega, il rivale di tua moglie, ha molti, moltissimi nemici. Uno di loro aprirà sicuramente l'anta e farà rotolare fuori lo scheletro. Il servizio che ti sto rendendo è semplicemente quello di fartelo sapere. Niente di più.» Annuisco. Fronteggiare Jack Ziegler mi ha prosciugato le energie. «E adesso tocca a te» aggiunge lui. «Forse tu, Talcott, potrai essermi d'aiuto.» Chiudo per un momento gli occhi. Che cosa mi aspettavo? Non ha fatto tutta questa strada per dirmi che la candidatura di Marc Hadley fallirà, né per rendere omaggio a mio padre. È venuto perché vuole qualcosa. «Talcott, ascoltami bene. Ti devo rivolgere una domanda.» «Fa' pure.» All'improvviso voglio liberarmi di lui. Voglio riferire a Kimmer le sue strane notizie, anche se mi ha pregato di non farlo. Voglio che lei mi baci per la felicità, pazza di gioia per essere apparentemente sul punto di ottenere ciò che vuole. «Te la faranno anche altri. Alcuni avranno buoni motivi, altri no» spiega nel suo accento misterioso. «Non tutti saranno chi dicono di essere, e non tutti avranno buone intenzioni nei tuoi confronti.» Avevo scordato la strana, impenetrabile certezza dello zio Jack che il mondo intero stia complottando, ma a quanto pare non è cambiato molto dai tempi in cui si presentava alla casa di Martha's Vineyard con doni pro-
venienti da porti stranieri e lamentele sulle macchinazioni dei Kennedy, la cui indecisione, sosteneva, ci era costata Cuba. Nessuno di noi ragazzi sapeva di cosa stesse parlando, ma adoravamo la passione che metteva nei suoi racconti. «D'accordo» dico. «E così ti devo chiedere quello che ti chiederanno anche loro» continua lui facendo scintillare i suoi occhi da folle. «E va bene, spara» sospiro. Accanto alla limousine, Kimmer controlla l'ora e alza una mano per farmi fretta. Forse ha in programma un'altra riunione telefonica. Forse anche lei ha paura di Jack Ziegler, che non ha mai veramente conosciuto. Forse devo farla finita. «Ma mi restano davvero pochi...» «Le disposizioni, Talcott» mi interrompe Jack con quel suo sussurro sibilante. «Devo sapere tutto delle disposizioni.» «Le disposizioni» ripeto stupidamente, conscio del fatto che mia sorella non è così matta come speravo e che mio fratello, avvertendo che sta succedendo qualcosa ma non sapendo bene cosa, ha fatto un mezzo passo verso di noi come un protettore o un padre prudente, che molto spesso sono la stessa cosa. «Sì, le disposizioni.» La rovente, giuliva follia dipinta nei lineamenti dello zio Jack mi brucia il volto. «Che disposizioni ha dato tuo padre, in caso di morte?» «Non so bene di cosa...» «Io credo che tu sappia precisamente cosa intendo.» Una traccia di acciaio: questo, per la prima volta, è il Jack Ziegler di cui tutti parlavano nel 1986. «No, non lo so. Mariah mi ha detto che le avevi telefonato chiedendole la stessa cosa. E devo ripeterti quello che ho detto a lei. Non ho la più pallida idea di cosa tu intenda.» Lo zio Jack scuote spazientito la testa. «Andiamo, Talcott, non siamo più bambini. Ti conosco da quando sei nato. Sono il padrino di tua sorella, che riposi in pace.» Un gesto verso la tomba. «Ero amico di tuo padre. Io credo che tu sappia cosa ti sto chiedendo, che cosa significa e perché te lo sto chiedendo. Devo conoscere le sue disposizioni.» «Non sono ancora sicuro di capire. Mi dispiace.» «Le disposizioni di tuo padre, Talcott.» È esasperato. «Andiamo. Le disposizioni che ha preparato insieme a te nell'eventualità di una sua... prematura scomparsa.»
Non commetto l'errore di Mariah: sono certo che non sta parlando delle disposizioni sul funerale, anche perché il funerale si è appena concluso. E poi capisco ciò che non ho capito venerdì sera quando Mariah mi ha messo alle corde. Lo zio Jack sta parlando del testamento. Della distribuzione dei possedimenti di mio padre. Il che è strano, poiché sebbene mio padre fosse tutt'altro che povero, Jack Ziegler è alquanto ricco; o almeno così dicono i giornali. «Vuoi dire le disposizioni finanziarie» dico piano, con la sicurezza di un avvocato che ha capito tutto. «Be', non abbiamo ancora effettuato la lettura ufficiale del...» «Non è quello che intendo, e tu lo sai» sibila lui, spruzzandomi con la sua saliva da vecchio. «Non fare il furbo con me.» «Non sto facendo il furbo» ribatto, ostentando la mia irritazione. «Capisco che tuo padre ti abbia fatto giurare di mantenere il segreto. È stato saggio da parte sua. Ma ti renderai certo conto che il voto non comprende anche me.» Allargo le braccia. «Zio Jack, ascolta, mi dispiace. Non credo di poterti aiutare. Il fatto è che non ci sono disposizioni che...» Con un movimento quasi più rapido di quanto riesca a percepire, la sua mano scheletrica scatta in avanti e mi afferra il polso. Mi azzittisco. Posso sentire la febbre della sua malattia, qualunque essa sia, che scorre sotto la pelle sottile, ma la sua forza è sorprendente. Le unghie mi scavano un solco nel braccio. «Quali sono le disposizioni?» vuole sapere. Mentre resto lì a bocca aperta, il polso ancora intrappolato fra le dita sottili dello zio Jack, Addison fa un preoccupato passo avanti, imitato dalla guardia del corpo, e io percepisco, più che vedere, il modo in cui entrambi si soppesano a vicenda; nell'aria aleggia all'improvviso qualcosa di maschio e di primordiale, un mutuo fiutarsi come quello di due bestie feroci che si apprestano a darsi battaglia, e scorgo le prime lievi tracce di rosso che cominciano a coprire l'erba calpestata. «Per favore, toglimi la mano di dosso» dico con calma, ma la mano si è già staccata e lo zio Jack la sta guardando come se l'avesse tradito. «Mi dispiace, Talcott» mormora, rivolto a quanto sembra più alla mano che a me, e con un tono in qualche modo più ammonitore che contrito. «Ti chiedo quello che ti chiedo perché devo farlo. È per il tuo bene. Ti prego di capirlo. Non ho niente da guadagnare se non la vostra protezione, di voi tutti, che ho sempre promesso a vostro padre. Mi ha chiesto di salvaguar-
dare i suoi figli se gli fosse successo qualcosa. Io ho accettato, e sono un uomo di parola» aggiunge quasi con tristezza. Infila la mano colpevole in tasca. I suoi occhi da folle si levano lentamente fino a incontrare i miei. Addison, in disparte, si rilassa. La guardia del corpo resta sul chi vive. «Zio Jack, io... lo apprezzo molto, ma ormai siamo adulti...» «Anche gli adulti possono aver bisogno di protezione.» Lo zio Jack tossisce piano, coprendosi la bocca con il pugno. «Talcott, non c'è molto tempo. Voglio bene a te, a tuo fratello e a tua sorella come se foste figli miei. E adesso ti sto chiedendo aiuto. Ti prego, Talcott, per il bene della famiglia che entrambi amiamo, dimmi tutto sulle disposizioni.» Mi concedo un istante di riflessione. So di non poter sbagliare. «Zio Jack, ascolta. Ti sono grato che tu sia venuto. Sono sicuro che l'intera famiglia lo apprezza. E so che avrebbe significato molto per mio padre. Ti prego di credermi, se potessi ti aiuterei. Ma io... proprio non so di cosa parli.» Mi accorgo che mi sto impappinando. «Se mi dicessi quali disposizioni intendi...» «Lo sai benissimo.» Il suo tono è duro, con un accenno del fuoco che ho visto un minuto prima, sufficiente a rammentarmi che sto parlando con un uomo pericoloso. Il pomeriggio si sta rabbuiando e la mia testa sta cominciando a pulsare. «Apprezzi che io sia qui? Magnifico. Ora io apprezzerei le informazioni.» «Non ho nessuna informazione!» Perdo finalmente la pazienza, poiché non esiste aura rossa più marcata di quella provocata dalla condiscendenza. «Te l'ho detto, non ho la minima idea di cosa intendi!» Il tono della mia voce è così alto che alcune teste si girano fra coloro che non se ne sono ancora andati dopo il funerale, e la guardia del corpo sembra pronta ad afferrare lo zio Jack e fuggire. Con la coda dell'occhio noto che la paziente Kimmer si sta avvicinando a grandi passi. Mi viene in mente che sarebbe meglio concludere la conversazione prima del suo arrivo. «Scusami se ho alzato la voce» dico. «Ma non ti posso aiutare.» Un lungo silenzio mentre gli strani occhi danzanti perlustrano i miei. Poi Jack Ziegler scuote il capo e increspa le labbra sottili. «Ho fatto la mia domanda» sussurra, forse rivolto a se stesso. «Ho comunicato il mio avvertimento. Ho fatto ciò che ero venuto a fare.» «Zio Jack...» «Talcott, devo andare.» Il suo sguardo incandescente si fissa brevemente su Addison, in piedi a tre metri di distanza, il quale aggrotta la fronte e si gira verso di noi quasi si fosse reso conto di essere osservato. Jack Ziegler
mi si avvicina, temendo forse di essere udito. Poi la mano ossuta scatta di nuovo, sorprendendomi ancora una volta con la sua velocità, e io faccio un altro passo indietro. Ma la mano regge soltanto un biglietto da visita. «Fa' attenzione agli altri di cui ti ho accennato. E quando decidi che ti va di parlare delle... delle disposizioni... devi chiamarmi. Verrò ovunque mi dirai di venire, in qualsiasi momento. E farò tutto il possibile per aiutarvi.» Fa una pausa, aggrottando la fronte. «Non sono solito fare simili promesse, Talcott.» All'improvviso, comprendo. Si aspetta che lo ringrazi. È una cosa che odio. «Capisco» è tutto ciò che riesco a dire. Gli strappo il biglietto da visita dalle dita. «Lo spero» dice lui tristemente «perché non vorrei che vi succedesse qualcosa.» D'un tratto sorride, inclinando la testa verso mia moglie in piena avanzata. «A te o ai tuoi cari.» Non riesco a credere a ciò che ho appena udito, e il rosso diventa improvvisamente netto e acceso. La mia risposta è quasi un rantolo: «Stai forse... era una minaccia?». «Ma no, Talcott, certo che no.» Jack Ziegler sta ancora sorridendo, tranne che la sua espressione è più un'orrida smorfia che un segno di allegria. «Ti sto mettendo in guardia sui pensieri degli altri. Per me, una promessa è una promessa. Ho promesso di proteggervi, e lo farò.» «Zio Jack, non so davvero cosa...» «Basta» mi interrompe in tono secco. «Devi fare ciò che devi fare. Non permettere a nessuno di dissuaderti.» Per un lungo istante, i folli occhi scuri scavano nei miei facendomi girare la testa, come se una parte della sua pazzia stesse coprendo il mezzo metro che ci divide e mi stesse penetrando nel cervello attraverso il nervo ottico. Poi, all'improvviso, Jack Ziegler mi rivolge la schiena. «Andiamo, signor Henderson» dice in tono brusco alla guardia del corpo, che ci scocca un'ultima occhiata sospettosa prima di girarsi e sorreggere il suo padrone. Si allontanano lungo il sentiero ombreggiato tra le file di lapidi, svoltano un angolo e poco dopo scompaiono nelle zone di buio più fitto come fantasmi il cui tempo nel mondo dei vivi è scaduto e che devono tornare sottoterra. Ancora stordito, avverto la mano tranquillizzante di Addison sulla spalla. «Sei stato bravo» mormora, sapendo forse che ne dubito. «È pazzo.» «Già.» Mi picchietto il biglietto da visita sui denti. «Già.» «Stai bene?»
«Certo.» Mio fratello mi dà un'occhiata, poi si stringe nelle spalle. «Ci vediamo a casa» promette, e si allontana alla ricerca della sua strana piccola poetessa o quello che è. Faccio un passo verso la tomba, incapace di credere che mio padre, bara o non bara, abbia potuto starsene tranquillo durante il mio colloquio con lo zio Jack. Il suo silenzio è forse la miglior prova che è davvero morto. «Che cosa voleva?» domanda Kimmer, giunta ormai al mio fianco. «Vorrei proprio saperlo» rispondo. Soppeso l'idea di riferirle ciò che Jack Ziegler mi ha detto di Marc Hadley, ma decido di aspettare; meglio che sia piacevolmente sorpresa piuttosto che crudelmente delusa. Kimmer aggrotta la fronte, poi mi bacia sulla guancia, mi riprende per mano e mi conduce giù per la collina. Ma a bordo della limousine diretta in Shepard Street, stringendo la mano fredda di mia moglie, le parole di Jack Ziegler mi attraversano la mente come un mantra: gli altri. "Fa' attenzione agli altri di cui ti ho accennato... Non sono solito fare simili promesse..." E il resto: "Perché non vorrei che vi succedesse qualcosa. A te o ai tuoi cari". 6 IL PROBLEMISTA Malgrado non sia più casa nostra, Washington è la città che fa per Kimmer. Con il Congresso, la Casa Bianca, un mucchio di agenzie federali, un numero infinito di giudici e più avvocati pro capite di qualsiasi altro posto sulla faccia del pianeta, è un luogo per coloro a cui piace fare accordi, e fare accordi è la specialità di mia moglie. La sua prima impresa all'arrivo in città è stata quella di organizzare un campo base, completo di computer portatile e fax, nella camera degli ospiti in casa dei suoi genitori, situata in Sixteenth Street nei pressi del Carter Barron Theatre, circa ottocento metri a nord di Shepard Street. Ha trascorso il lunedì, il giorno prima del funerale, a prendere appuntamenti per mercoledì, il giorno dopo; una riunione per conto di un cliente presso la commissione federale sul commercio, il resto in appoggio alla sua candidatura per la corte d'appello. E così stamattina esce di buon'ora dall'abitazione dei suoi genitori, diretta a una colazione con un'altra vecchia amica: "la rete delle nuove ragazze", proclama, malgrado alcuni componenti siano uomini. Questa amica in particolare è
un'inviata del "Post", una donna appropriatamente chiamata Battle, un'amica dei tempi di Mount Holyoke che pare avere conoscenze importanti. Kimmer ha sempre coltivato i rapporti con la stampa, e viene spesso citata sulle pagine del "Clarion", il nostro quotidiano locale, e di tanto in tanto sul "Times". Io ho un atteggiamento diverso nei confronti dei giornalisti, atteggiamento che negli ultimi giorni ho assunto di frequente. Quando qualcuno mi chiama la mia risposta è sempre "no comment", qualunque sia l'argomento. Se insiste, non faccio che riagganciare. Non parlo più con la stampa dai tempi in cui ha fatto a pezzi mio padre durante le udienze. Mai più. Ho uno studente di nome Lionel Eldridge, un'ex stella del basket che, dopo essersi spaccato un ginocchio, spera di diventare avvocato. Kimmer e io conosciamo discretamente bene lui e sua moglie; l'estate scorsa Lionel ha lavorato presso lo studio di Kimmer, impiego che io stesso gli ho fatto ottenere in un momento in cui gli altri studi legali, contrariati dai suoi voti e desiderosi di dimostrare che non si facevano mettere in soggezione dalla sua fama, lo respingevano. Molti giornalisti scrivono ancora articoli sul "giovane signor Eldridge", come lo chiama Theo Mountain, credo per scherzo, visto che Lionel potrà anche avere mezzo secolo meno di Theo, ma è più vecchio di quasi un decennio rispetto agli altri studenti del secondo anno. In ogni caso, i media adorano ancora il signor Eldridge, e amano narrare le sue gesta. Un giorno, una giornalista è stata abbastanza avventata da interpellarmi. Stava preparando un ritratto di "Sweet Nellie", com'era chiamato da giocatore, e voleva scrivere del suo desiderio di vincere questa nuova sfida. Aveva parlato con Lionel, che mi aveva indicato come il suo professore preferito. Ne sono rimasto lusingato, suppongo, anche se non faccio questo lavoro per piacere al prossimo. Ma ciò nonostante non avevo niente da dire. La giornalista mi ha chiesto il perché, e visto che mi aveva preso in un momento di debolezza gliel'ho spiegato. "Ma quello che sto scrivendo è un pezzo simpatico" ha protestato lei. "Scrivo di sport, per l'amor del cielo, non di politica." Come se la distinzione potesse rassicurarmi. "Odio gli sport" le ho mentito "e non sono una persona simpatica" che è la verità. Anche se mia moglie insiste a dire il contrario. Ma Kimmer pensa che la sua amica giornalista possa aiutarla, e forse ha ragione, poiché mia moglie sa riconoscere chi può essere in grado di darle una spinta verso il suo obiettivo. Più tardi incontrerà il senatore democratico del nostro Stato, un laureato della facoltà di legge, per portarlo dalla sua parte o, come minimo, trasformarlo in un semplice spettatore: per questo
incontro io stesso mi sono umilmente rivolto a Theo Mountain, il professore preferito del senatore. Pranzerà con Ruthie Silverman, che malgrado l'abbia avvertita che tutto ciò che riguarda la nomina è confidenziale ha accettato ugualmente di incontrarla, poiché chiunque conosca Kimmer finisce con il fare ciò che lei vuole. Dopo pranzo, mia moglie andrà a trovare il capo dei lobbisti della NAACP, appuntamento procuratole da suo padre, il Colonnello, anche lui in possesso di conoscenze importanti. Poi, nel tardo pomeriggio, Kimmer e io uniremo le nostre forze, poiché il grande Mallory Corcoran in persona ci ha inseriti nella sua agenda alle quattro; lo visiteremo insieme, nella speranza che lo zio Mal accetti di esercitare a favore di Kimmer una parte della sua considerevole influenza. Washington, come ho detto, è la città che fa per Kimmer. Ma non è per me, e non lo sarà mai; è troppo doloroso chiudere gli occhi e ricordare le lunghe, cupe ore delle udienze in cui mio padre sedeva al cospetto della commissione giudiziaria del Senato, sulle prime sicuro di sé, quindi incredulo, poi furioso e infine torvo e sconfitto. Ricordo i giorni in cui mia madre sedeva dietro di lui, e quelli in cui c'ero io. Ricordo come, dopo l'esplosione dello scandalo, Mariah fosse troppo sconvolta per assistere, e come Addison, sebbene spesso convocato, non si fosse mai presentato, con gran tormento di mio padre. Ricordo come il suo dolore mi irritasse, quando io ero così leale e ignorato e Addison, come sempre, così irresponsabile e amato: il vero e proprio figliol prodigo. Ricordo i riflettori televisivi dopo che le udienze vennero trasferite in un'aula più ampia, e tutti che sudavano. Non avevo idea che i riflettori producessero un tale calore. Il personale del Senato asciugava le fronti dei membri della commissione, mio padre si asciugava la propria. Ricordo il suo ostinato rifiuto di qualsiasi imbeccata da parte dello zio Mal, della Casa Bianca, di chiunque fosse in grado di aiutarlo. Ricordo di aver alzato lo sguardo sui senatori pensando a quanto sembrassero distanti, in alto e potenti ma notando anche che molte delle loro pompose domande erano scritte su cartoncini, e che alcuni andavano in confusione non appena la conversazione si allontanava troppo dalle loro istruzioni. Ricordo il panno che ricopriva i tavoli: soltanto toccandolo mi resi conto che era semplicemente fissato, una sorta di effetto speciale per le telecamere. In realtà, erano tavoli di legno grezzo. Ricordo le folle di giornalisti nei corridoi e agli ingressi, che gridavano per attirare l'attenzione come bambini dell'asilo. Ma più di ogni altra cosa, come tutti, ricordo le domande monotone, ripetitive e in definitiva necessarie: "Quando è stata l'ultima volta che ha visto Jack Ziegler? Ha incontrato Jack Zie-
gler nel marzo dello scorso anno? Qual è stato l'argomento della conversazione? Al momento era a conoscenza del suo stato d'accusa?". E così via. E le monotone, ripetitive risposte di mio padre, sempre meno convincenti a mano a mano che le pronunciava: "Non lo so, senatore. No, senatore. Non ricordo, senatore. No, senatore, non ne avevo idea". E poi l'inizio della fine, annunciata sempre dagli amici che corrono ai ripari e dal tipico segnale rivolto al candidato ormai in disgrazia e di solito pronunciato dal presidente: "Giudice, so che lei è un uomo corretto. Nutro un profondo rispetto per le sue qualità e vorrei davvero credere che sia stato sincero con questa commissione, ma francamente...". Candidatura ritirata su richiesta del candidato. Candidato e familiari umiliati. Il gran giurì si riunisce. Dissolvenza in nero. Oppure, come avrei detto ai tempi del college, durante la mia fase più apertamente nazionalista, dissolvenza in bianco. Ancora oggi il ricordo mi fa rabbrividire. Ma non c'è modo di sfuggirvi, quantomeno qui a Washington. Ieri sera, Kimmer e io abbiamo guardato il telegiornale delle undici insieme ai suoi genitori. Quando la conduttrice è giunta al funerale di Oliver Garland, all'incirca la terza notizia, all'improvviso sullo schermo non c'erano immagini del presente ma dell'umiliazione passata: mio padre seduto al cospetto della commissione giudiziaria, la sua bocca in silenzioso movimento mentre l'inviata continuava a parlare. Stacco su Jack Ziegler ammanettato in seguito a uno dei suoi molti arresti: un bel tocco, anche se di parte. Stacco sul Giudice intento a pronunciare un fiero discorso davanti a uno dei gruppi di Destri mentre la giornalista ciarla sul prosieguo della carriera. Stacco sul volto dolente di Greg Haramoto, intervistato davanti alla chiesa subito dopo il funerale, il quale esprime il suo dolore per la scomparsa di un "grand'uomo" e porge le sue condoglianze alla famiglia, malgrado non abbia fatto alcuno sforzo per farlo di persona, o al telefono, o magari con un biglietto. Greg è l'unico partecipante al funerale i cui commenti vengono riportati dal telegiornale; ma forse è l'unico che i giornalisti hanno reputato degno di essere intervistato. Allo stesso modo in cui nel 1986, di fronte alla commissione giudiziaria, fu l'unico testimone di peso. Anche dopo tutti questi anni, sapere che la commissione poteva essere nel giusto non fa nulla per alleviare il dolore per la caduta in disgrazia di mio padre. Gli sconosciuti mi si avvicinano alle conferenze: "Lei non è il
figlio di Oliver Garland?". Borbotto qualche banalità attraverso dense cortine di rosso e mi allontano il più rapidamente possibile. Per questo è meglio che non accompagni Kimmer nel suo giro di visite a Washington; la mia sofferenza le sarebbe di ostacolo, e alla fine potrebbe addirittura danneggiarla. Inoltre, Bentley e io abbiamo altri programmi per la giornata. Fra poco andremo a Shepard Street, dove ci uniremo a Mariah e alla sua ciurma e proseguiremo per una mattinata di pattinaggio in una pista dei sobborghi. Miles Madison, la cui vita professionale consiste ormai in conversazioni occasionali con gli amministratori delle sue numerose proprietà, è andato al campo da golf malgrado la pioggia. «Se non possono giocare a golf» sospira Vera Madison «giocheranno a carte e berranno tutto il giorno.» Mia suocera, che mi chiede sempre di darle del tu, possiede la bellezza e la statura di Kimmer ma è molto più magra; la corporatura di mia moglie proviene dal Colonnello, che da quando è in pensione si è fatto più burroso e nelle giornate di buona mi permette di chiamarlo signor Madison. Vera si è offerta di tenere Bentley se ho bisogno di parlare con mia sorella, ma io declino. Finché non capisco cosa intendeva dire lo zio Jack, mi tengo ben stretto mio figlio. Probabilmente non è nulla, ma non si sa mai. Non l'ho ancora detto a Kimmer, non sapendo come potrebbe reagire, ma quando questa mattina le ho raccomandato di fare attenzione mi ha guardato fisso - a Kimmer sfugge ben poco - mi ha dato un lieve bacio sulle labbra e ha risposto: "Oh, lo farò, Misha, lo farò". Quando Kimmer è uscita nella fredda pioggerella del mattino, stavo sorridendo. Sorrideva anche lei, probabilmente pregustando la sua giornata. Kimmer è andata in città con la Cadillac blu notte di sua madre, e io prendo l'auto a noleggio - una prosaica Taurus bianca - per il tragitto di cinque minuti da Sixteenth Street a Shepard. Il nostro viaggio ci conduce nel cuore della Gold Coast, un delizioso angolo della Washington nordoccidentale in cui verso la metà del ventesimo secolo centinaia di avvocati, medici, uomini d'affari e professori della nazione più scura hanno creato un'idilliaca comunità protetta per le loro famiglie nel bel mezzo della segregazione razziale. I terreni sono in genere piuttosto ampi, i prati perfettamente curati, le case spaziose e ben arredate; nei sobborghi bianchi verrebbero valutate il doppio o il triplo di ciò che valgono in città. D'altro canto, forse, l'elegante enclave nera della Gold Coast sta superando la discriminazione razziale: Jay Rockefeller, per esempio, ora vive in una vasta proprietà che si estende da dietro Shepard Street fino al Rock Creek Park. E forse per una sorta di equilibrio estetico, molti dei professionisti neri di
successo che un tempo avrebbero preso casa da queste parti si stanno inserendo nei sobborghi. Fermandomi a un semaforo rosso sbircio mio figlio nello specchietto retrovisore. Bentley è un bel bambino. Ha ereditato da me i folti capelli neri, il mento appuntito e la pelle color cioccolato, e da sua madre ha preso i grandi occhi castani, le straordinarie sopracciglia e le labbra carnose. È anche un bambino tranquillo e molto serio, tendente alla timidezza quando si trova in compagnia e all'introspezione quando è solo. Nostro figlio ha cominciato tardi a parlare: così tardi che abbiamo consultato alcuni pediatri e addirittura un neurologo infantile, amico di una cugina di Kimmer. Tutti ci hanno rassicurato sul fatto che, malgrado gran parte dei bambini cominci a pronunciare qualche parola a circa un anno e mezzo di vita, e alcuni ancora prima, il fatto che uno di loro cominci a parlare più tardi non è né strano né un segno di incombenti lacune mentali. Aspettate, ci hanno detto tutti. E Bentley ci ha fatto aspettare. Adesso, sei mesi dopo il suo terzo compleanno, ha cominciato a farfugliare in quel curioso miscuglio di inglese e di misterioso codice prelinguistico che molti bambini scoprono poco dopo il primo anno. Sta parlando anche adesso, rimproverando severamente il suo nuovo cagnolino di peluche arancione. È un regalo di Addison, che non si lascia mai sfuggire l'occasione di guadagnare un nuovo seguace. «E no e cane no dice no che mamma rosso oh-oh cane cattivo okay vai casa ora no no osa cane cattivo tu osa...» Interrompo la sfilza di meravigliose insensatezze: «Tutto bene, amico?». Mio figlio si zittisce e mi guarda circospetto, stringendo nelle manine grassocce il cagnolino ancora senza nome come se ne temesse la scomparsa. «Osa cane» sussurra. «Giusto.» «Osa tu!» grida felice, poiché aggiunge quasi ogni giorno nuove frasi e parole al suo eloquio. Mi chiedo da quale programma televisivo abbia imparato questa battuta. «Osa no!» «Okay, amico. Ti voglio bene.» «Bene tu. Osa tu.» «Osa anche tu» rispondo, ma la frase lo disorienta, e la sua risata si spegne in un silenzio turbato. Scuoto la testa. A volte è Bentley a turbare noi, soprattutto Kimmer. Sua madre lo vizia terribilmente; è incapace di sopportare la sua infelicità anche per un solo istante, poiché si è sempre sentita in colpa per quello che
non va in nostro figlio, sempre che ci sia qualcosa che non va. Il suo primo mattino fuori dal ventre materno si era trasformato rapidamente da entusiasmante a terrificante. Affrontando il travaglio in una delle coloratissime sale parto dello scintillante reparto maternità dell'ospedale universitario, spingendo quando le veniva ordinato di spingere, trattenendosi a richiesta, lavorando sulla respirazione, facendo ogni cosa alla perfezione come suo solito, mia moglie cominciò all'improvviso a perdere molto sangue, malgrado la testa del piccolo avesse a malapena cominciato a spuntare. Osservai sbalordito le lenzuola bianche e il camice verde tingersi di un rosso acceso e viscoso. L'allegra, incoraggiante ostetrica che vigilava sul parto perse all'improvviso la sua allegria e smise di incoraggiare. Dalla mia posizione di appoggio su uno sgabello di legno domandai se andasse tutto bene. L'ostetrica esitò, quindi mi rivolse un sorriso tremante e disse che le donne incinte possono permettersi di perdere molto sangue perché la quantità nei loro corpi raddoppia. Ma sussurrò anche qualcosa a un'altra infermiera, che s'allontanò in fretta dalla sala. L'emorragia non cessò, un mare rosso rame, mentre l'ostetrica cercava di far uscire la testa del neonato. Le sue mani guantate scivolarono, e dalle sue labbra venne un'imprecazione. Kimmer avvertì che le cose non stavano andando nel verso giusto, abbassò gli occhi, vide il sangue e lanciò un grido di terrore, cosa che non le avevo mai sentito fare e che da allora non ho più udito. Né ho più visto una simile quantità di sangue. La testolina del nostro bambino ne era sommersa. Il monitor cominciò a emettere una serie di raglianti, disperate obiezioni. Una dottoressa che non avevo mai visto prima si materializzò e sostituì l'ostetrica. Diede una rapida occhiata e latrò una raffica di ordini; senza ulteriori spiegazioni venni sospinto fuori dalla sala parto da due infermiere, mentre una falange di camici azzurri convergeva sul letto, e venni lasciato solo in una sala d'aspetto fredda e moderna a contemplare la possibilità di perdere moglie e figlio in quello che avrebbe dovuto essere il giorno più lieto della mia vita. Kimmer, ci venne rivelato in seguito, aveva sofferto di abruptio placentae, il distacco prematuro del rivestimento interno dell'utero, simile a una mestruazione ma spesso fatale al termine della gravidanza; più precisamente, aveva subito un danno al miometrio che avrebbe potuto rivelarsi letale, facendola morire dissanguata o asfissiando il neonato. Ancora oggi mia moglie crede che tale condizione sia stata provocata dal fatto che aveva continuato a bere durante la gravidanza, respingendo le insinuazioni che le sue abitudini personali avrebbero potuto fare del male al piccolo (o al fe-
to, come lei chiamava il figlio che le cresceva dentro). Se i suoi timori sono corretti, allora sono colpevole anch'io, non perché sia un bevitore - non lo sono - ma perché con Kimmer non sono mai stato forte. Dopo che per tre volte lei aveva rabbiosamente ignorato le mie suppliche nervose, avevo rinunciato a cercare di fermarla. Le prime ore di vita di nostro figlio furono strazianti: c'era la possibilità, ci dissero impassibili i dottori, che lo perdessimo. E la stessa Kimmer aveva bisogno di cure per l'emorragia. Passati un paio di giorni, quando fu chiaro che tutto si sarebbe risolto, mia moglie e io ci inginocchiammo a pregare; l'ultima volta che l'abbiamo fatto fuori da una chiesa, ringraziando un Dio che solitamente abbiamo ignorato. Bentley, credo, è stata la risposta di Dio. Eppure la nascita di nostro figlio corrisponde anche all'inizio della china discendente del nostro matrimonio. Oggi, io e mia moglie condividiamo un rapporto precario. Ci sono cose che lei non vuole sapere e cose che non vuole che io sappia. Se si trova fuori città, per esempio, è lei a chiamarmi e non il contrario. Soltanto in casi di emergenza oso violare la regola. Quando Mallory Corcoran mi ha telefonato giovedì pomeriggio per dirmi che mio padre era morto, ho controllato la segreteria telefonica di casa per vedere se mia moglie aveva chiamato. Non l'aveva fatto. L'ho subito cercata nel suo albergo di San Francisco. Era fuori. L'ho chiamata sul cellulare. Era spento. Sono andato a prendere Bentley all'asilo nido, gli ho spiegato solennemente cos'era accaduto al nonno, sono tornato a casa e ho riprovato a chiamare. Kimmer era ancora fuori. Ho continuato a telefonare per ore, fino alla mezzanotte della costa occidentale - le tre del mattino a Elm Harbor - ma Kimmer era sempre fuori. Finalmente, in un barlume di atroce ispirazione, ho richiamato l'albergo e ho chiesto di parlare con Gerald Nathanson. Jerry era nella sua stanza. Era nervoso. Il lavoro proseguiva, mi ha detto. Non sapeva dove fosse mia moglie, ma era sicuro che stava bene. Mi ha promesso che mi avrebbe fatto richiamare se l'avesse incontrata. Kimmer mi ha chiamato dieci minuti più tardi. Non le ho mai chiesto da dove. In Shepard Street la porta viene aperta dalla cugina Sally, che questa mattina non è andata al lavoro per starsene seduta nella cucina di mio padre a torturare mia sorella con opinabili racconti sulle nostre infanzie. Sally mi stringe in un abbraccio forte e soffocante, che è più o meno il modo in cui saluta quasi tutti, Addison in particolare. In casa stanno suonando un brano di smooth jazz: Grover Washington, mi sembra.
Bentley strilla non appena vede Martin e Martina, che come al solito si tengono per mano. Nel giro di pochi minuti, mio figlio si è unito al complicato gioco dei membri più giovani della tribù di mia sorella, i quali marciano per casa in una dignitosa fila indiana capitanata da Marcus, il più giovane, toccando un solo mobile in ciascuna stanza, passando alla successiva e infine rifacendo il percorso al contrario. Trovo Mariah e Solo Alma sedute sulle sedie a dondolo di vimini nella veranda posteriore. Alma, una Kool che le pende sbarazzina dalle labbra, sorride in quella che potrebbe essere un'espressione di gioia, e Mariah mi permette di baciarla sulla guancia. Alma sembra giunta alla fine di una delle sue storielle piccanti, nonché allo stremo delle forze: deve andare, dice, spiegandomi che una delle sue nipoti passerà a prenderla a minuti per riaccompagnarla a Filadelfia. Alzandosi si produce in uno dei suoi trucchetti preferiti, spegnendo la sigaretta fra le dita e poi infilandosi il mozzicone nella tasca del cardigan. Indico la sedia vuota con un cenno del capo e Sally, decifrando il mio segnale, prende il posto di Solo Alma. A quel punto accompagno Alma in casa. Giunti nell'atrio, mentre lei cerca il suo cappotto, le chiedo con noncuranza cosa intendeva qualche giorno prima dicendo che loro mi avrebbero messo al corrente dei programmi che mio padre aveva per me. I vecchi e saggi occhi di Alma si muovono sul volto scuro, ma evitano di guardarmi direttamente. «Non mi riguarda» mormora dopo un istante. Non so di cosa stia parlando, e glielo dico. «Non c'è nessun loro» spiega mentre l'aiuto a indossare il soprabito. «Solo tu e la tua famiglia.» «Alma...» «Il tuo compito è prenderti cura della famiglia.» Il suono di un clacson annuncia l'arrivo di sua nipote, la quale, come molti degli innumerevoli cugini, è troppo giovane per prendere in considerazione la possibilità che bisognerebbe sforzarsi di mostrare un po' di tatto, anche il giorno dopo un funerale. «Devo andare» mi informa Alma. «Alma, aspetta un attimo. Aspetta.» Si sta allontanando, ma la sua voce fluttua sopra la sua spalla. «Se tuo padre aveva in mente qualcosa, te lo farà sapere presto.» «Ma come può...» Siamo giunti sulla soglia di casa. L'enorme valigia di Alma giace sul pavimento dell'atrio. Una Dodge Durango marrone è ferma nel vialetto, e la nipote maleducata è una chiazza confusa dietro il parabrezza. Alma mi prende la mano, e questa volta mi guarda negli occhi. «Tuo padre era più furbo di tutti loro, Talcott. Per questo avevano paura
di lui.» Si tratta di un altro passo della mitologia di famiglia: il fatto che il Giudice si sia visto negare il seggio della corte suprema da intelletti inferiori gelosi e al tempo stesso razzisti. «Aspetta e vedrai.» «Vedrò cosa?» «Quanta paura avevano di tuo padre. Quando arriveranno. Ma non ti devi preoccupare.» «Quando arriverà chi?» «Potrebbero anche non venire. Tuo padre credeva che sarebbero arrivati. Ma potrebbero avere paura.» «Non ti seguo...» «Come Jack. Jack Ziegler. Anche lui aveva paura di tuo padre.» Impiego un momento per elaborare l'informazione. Dai meandri della casa provengono gli strilli gioiosi dei bambini. «Alma, io...» «Devo andare, Talcott.» Alma ha recuperato la Kool dalla tasca e sembra volerla riaccendere. «Ho appena svuotato la vescica e voglio arrivare a Filadelfia prima di doverlo rifare.» «Alma, aspetta. Per favore. Aspetta un secondo.» «Che c'è, Talcott?» domanda nel tono irritato di un genitore stanco ma indulgente. «Cosa mi stavi dicendo di Jack Ziegler?» «È solo un vecchio, Talcott. Non lasciarti spaventare. A tuo padre non faceva paura, e non dovrebbe farla neanche a te.» Suggerisco di andare a fare due passi, ma mia sorella declina l'offerta. Mariah è sola, stanca e irritabile; comprensibile, forse, visto che la sua unica compagnia adulta di questa mattina consiste nell'egocentrica e confusa Alma e in Sally, attendibile soltanto a intermittenza. Persuado mia sorella a rientrare in casa. Ci sediamo insieme in cucina. Il trucco di Mariah non rivela la sua consueta precisione; i capelli sono avvolti nei bigodini e la casa che erediterà formalmente non appena il testamento sarà omologato è già malridotta, con tracce dei suoi piccoli abitanti - dalle minuscole scarpe ai soldatini della Playmobil - sparpagliate ovunque. Howard se n'è andato, rientrando in volo a New York per porre rimedio a un affare che stava andando a rotoli e lasciando me e Sally seduti nella bianchissima cucina ad ascoltare la requisitoria di Mariah contro Addison, colpevole di non aver difeso il Giudice in modo sufficientemente vigoroso nel suo discorso al funerale. In effetti, il breve riferimento di mio fratello alle udienze mi ha
confuso, forse perché stava cercando di accontentare troppi schieramenti: "Alcuni degli attacchi a mio padre erano ingiusti. Alcuni erano alquanto malvagi. Ma altri erano riguardosi. Rispettosi. C'erano cose su cui le persone ragionevoli potevano non essere d'accordo. Nel nostro amore per il Padre, non dobbiamo mai scordarlo. E di certo il cristiano che è in me non mi permette di condannare coloro che si sono schierati dalla parte opposta, perché anche loro stavano facendo ciò che reputavano giusto". «Sa essere un vero bastardo» mi informa mia sorella agitando un dito. «Tutto quello a cui pensa Addison è Addison.» Il suo tono sembra suggerire che questa sia una novità. Le labbra compatte di Sally si contraggono in un'espressione a metà fra il sorriso e la smorfia: adora mio fratello, ma sa anche che è un egoista... quello-che-ha-detto-Mariah. La madre di Sally, Thera, evita il ramo della famiglia di mio padre, arrivando perfino a saltare il funerale, e sospetto che ciò che accadde fra Addison e sua figlia sia una delle ragioni. Da parte sua Addison, insieme alla grande poetessa bianca Beth Olin, è ripartito poco dopo la cerimonia diretto a Fort Lauderdale per una conferenza. "Amore fra le onde radio" ha sbuffato Kimmer quando ha saputo che Beth l'avrebbe seguito. «Che liberazione» sbuffa ora Mariah, che somiglia a mia moglie più di quanto sarebbe mai disposta ad ammettere. Eppure Addison ha anche un altro lato, il lato per cui lo ammiro. Ieri pomeriggio, prima di partire con Beth, mio fratello mi ha preso in disparte e mi ha condotto nella biblioteca della casa di Shepard Street, la stessa stanza in cui avevo trovato l'album diabolico. Alcuni parenti hanno mormorato in tono condiscendente che i due fratelli stavano andando a pianificare il futuro della famiglia. Quando la porta si è richiusa dietro di noi, ancora una volta mi sono piazzato di fronte allo scaffale per evitare che Addison vedesse l'inquietante volume. Ma lui non stava guardando. Mi ha sorpreso con un abbraccio forte e appassionato, poi ha lasciato la presa e mi ha rivolto il suo sorriso attraente. Ha detto che aveva udito frammenti della mia conversazione con Jack Ziegler e che me l'ero cavata in modo ammirevole: una delle frasi preferite del Giudice. Siamo scoppiati entrambi a ridere. Addison mi ha chiesto cosa pensavo di fare riguardo a quello che voleva lo zio Jack, qualunque cosa fosse, e prima che potessi rispondere ha aggiunto che avrebbe fatto tutto ciò che poteva per aiutarmi. Dovevo solo chiamarlo. Il mio cuore ha preso a tambureggiare di amore fraterno. Per gran parte della mia giovinezza, e perfino ai primi tempi della maturità, Addison era stato protettore, aiutante, esempio. Esultava quando avevo
successo e mi consolava quando fallivo. Addison il forte, Addison il saggio, Addison il benvoluto, i cui consigli nei momenti critici della mia esistenza erano stati ben più utili di quelli del Giudice. Mi era stato accanto per le cose banali, come la sconfitta nelle elezioni alla carica di caporedattore della rivista di legge, e per quelle importanti, come quando il lavoro mi aveva impedito di andare a visitare mia madre in fin di vita, e lei era morta mentre ero impegnato a scrivere un articolo sulle azioni legali per illeciti ai danni della collettività. E quando mi aveva incitato, andando contro i desideri della famiglia, a sposare Kimmer; decisione che, malgrado qualche occasionale difficoltà, credo non rimpiangerò mai. Ieri, tuttavia, guardando quei suoi occhi tristi e affettuosi, non sono riuscito a trovare nulla per cui avessi bisogno di aiuto. Gli ho detto la verità: che non avevo idea di cosa stesse chiedendo lo zio Jack, e che pertanto non avevo in programma di farci nulla. Addison ha cambiato rapidamente binario, come ogni politico che si rispetti, e ha osservato che sarebbe stata la cosa migliore da fare: Jack Ziegler è matto come un cavallo. Dopo tre tazze di caffè, Mariah annuncia finalmente che è ora di andare. Ma l'intenzione, come spesso accade, è più semplice dell'atto in sé. Ieri sera la gigantesca famiglia di mia sorella ha subito l'aggiunta dell'au pair del momento, una deliziosa matrona dei Balcani di cui non riesco mai a capire bene il nome. Malgrado il suo aiuto e quello di Sally, vestire cinque bambini per andare a pattinare richiede una quantità di tempo sbalorditiva. E Mariah stessa si deve preparare. Mentre aspetto, giro per casa insieme a Bentley, che, giunto nel lungo studio di mio padre, si guarda intorno sgranando gli occhi per la meraviglia. Mi rendo conto che è un anno che mio figlio non entra in questo locale. Mio padre amava la sua privacy, e questa era la sua stanza più privata. Prendo in braccio Bentley e indico le fotografie autografate che tappezzano il muro opposto alle finestre, pronunciando con cura quei grandi nomi per mio figlio, anche se lui non li ricorderà mai: John Kennedy, Lyndon Johnson, Roy Wilkins, Martin Luther King, A. Philip Randolph; poi passo in corridoio e, sul lato opposto, mi imbatto in una netta sterzata politica: Richard Nixon, Ronald Reagan, George Bush padre e figlio, Dan Quayle, Bob Dole, John McCain, Pat Robertson. Bentley ride, si acciglia e ride di nuovo, indicando alcune delle foto e ignorandone altre, ma nelle sue risposte non riesco a individuare alcun criterio ideologico. Al momento della sua morte, mio padre aveva a sua disposizione un uf-
ficio d'angolo formale e appropriatamente prestigioso di fronte a quello dello zio Mal, al decimo piano di un edificio di vetro all'incrocio fra la Seventeenth e la Eye, poco distante dalla Casa Bianca alla quale, malgrado ciò che era successo, veniva ancora occasionalmente invitato, quantomeno durante le amministrazioni repubblicane. A Washington, i palazzi per uffici del centro sono molto più bassi che in altre grandi città. Il decimo piano è considerato alquanto lussuoso, e negli ultimi, tormentati anni della sua vita il lusso era diventato lo stile di mio padre. Sembrava deciso a guadagnare in un colpo solo tutto il denaro che gli era stato negato durante i suoi due decenni da giudice. Anche se viveva in modo così frugale che nessuno può sapere come lo spendesse. Il Giudice usava di rado il suo ufficio d'angolo in centro. Preferiva lavorare a casa, seduto da solo nello studio cavernoso che aveva costruito dopo la morte di mia madre. A questo scopo si era limitato ad abbattere le pareti che dividevano le tre camere da letto disposte in fila lungo il ballatoio in cima alla scalinata curva che partiva dall'atrio. Ciò significava che quando uno di noi figli si tratteneva per la notte era costretto a dormire in un divano letto nell'umida sala giochi nel seminterrato o nella cadente e probabilmente illegale stanza per la cameriera che un precedente proprietario era riuscito a creare in fondo alla soffitta. Ragione per cui Kimmer e io avevamo preso l'abitudine di stare dai suoi ogni volta che venivamo a Washington. Il Giudice non sembrava farvi caso. Non era il genere di nonno che stravedeva per i figli dei suoi figli. Detestava rinunciare, seppure temporaneamente, all'accesso a qualsiasi angolo di casa sua. Si seccava se la mattina scendevamo tardi dalla stanza della cameriera, e subito dopo saliva a ispezionarla. Zittiva Bentley quando la sua risata si faceva troppo sonora. Non so come facesse a sopportare Mariah e la sua numerosa prole, poiché dopo la morte di nostra madre era giunto ad apprezzare il potere rassicuratore del silenzio. Detto in parole semplici, mio padre preferiva essere lasciato in pace. A differenza di molti di noi, probabilmente non gli sarebbe dispiaciuto morire solo, e a quanto sembra è precisamente ciò che ha fatto. Rivolgo un'occhiata alla grande ma malandata scrivania in fondo allo studio, un'antichità, l'avrebbe probabilmente definita lui. È un vecchio mobile circondato su entrambi i lati da una sovrabbondanza di cassetti per tutti gli usi. Il legno è scuro e bucherellato e avrebbe un disperato bisogno di essere lucidato, ma immagino che mio padre, nella sua fanatica riservatezza, non abbia mai fatto salire nessuno quassù, e che pertanto non esistesse nessuno per cui lucidarlo. Fra l'altro, il piano della scrivania è in condizio-
ni perfette, e le penne, il sottomano, il telefono e le fotografie - soltanto di Claire, nessuna dei figli - sono disposti con realistica precisione a suggerire che lo studio viene usato, certo, ma da un individuo dotato di una straordinaria autodisciplina, cioè l'immagine che mio padre aveva di se stesso. E, come con tutte le altre componenti di una buona indole, comportarsi da disciplinati non è molto diverso dall'esserlo veramente. È qui che mio padre è morto, scompostamente sdraiato sulla scrivania e trovato in quella posizione un'ora dopo dalla donna di servizio (donna a cui finiremo per versare una discreta somma perché si tenga alla larga dagli avidi tabloid: i tirapiedi di Mallory Corcoran formuleranno l'inoppugnabile contratto, Howard Denton fornirà il denaro). Nessun biglietto nelle mani di mio padre, nessun dito puntato verso un indizio e nessuna prova che si sia trattato di omicidio. Mi chiedo cosa gli sia passato per la mente negli istanti finali, quale paura del giudizio o dell'oblio, quale rabbia nei confronti del lavoro di una vita lasciato incompiuto. Mariah immagina un assassino che lo sovrasta con una siringa in mano, ma la polizia non ha trovato alcun segno di lotta e la sua decisione di dimostrare che il Giudice è stato assassinato mi sembra in questo momento nulla più di un meccanismo per sottrarsi a un'angoscia che preferirebbe non provare. Oppure non riesco a penetrare una realtà più profonda che finora soltanto mia sorella percepisce? Guardo la scrivania e vedo mio padre, un uomo corpulento, che si stringe le mani al petto con un'espressione di sofferta incredulità, un uomo arrabbiato, dal cuore malato che sta morendo senza che alcun membro della sua famiglia gli sia accanto o sia stato avvertito. La donna di servizio ha chiamato il 911 e poi lo studio legale, come il Giudice le aveva detto di fare in un'eventualità simile, e malgrado Mariah abbia fatto lavare il tappeto distinguo ancora le vaghe impronte delle scarpe sporche dei paramedici. Sul lato della stanza opposto a quello della scrivania, situato davanti a una delle tre finestre che si affacciano sul giardino, c'è un tavolino basso di legno della Drueke sul quale mio padre era solito comporre i suoi problemi scacchistici. Sul tavolino c'è una scacchiera di marmo formata da quadrati grigi e neri di più di sette centimetri di lato. Avvicinandomi alla finestra, accarezzo la scatola indiana intagliata che contiene i preziosi pezzi del Giudice; il coperchio chiuso con cura comunica un senso di abbandono, forse perfino di lutto. Chiamatelo antropomorfismo, chiamatelo romanticismo: mi dipingo gli scacchi che piangono la scomparsa del loro padrone, il tocco delle cui dita non sentiranno mai più. Anch'io un tempo giocavo seriamente; avevo imparato le mosse da mio padre, che amava il gioco ma
sfidava di rado un avversario in carne e ossa, appartenendo a una fratellanza diversa e più esclusiva, quella dei problemisti. I problemisti cercano di trovare modi nuovi e insoliti per usare il minor numero possibile di pezzi sfidando gli appassionati a capire come il bianco può muovere e dare scacco matto al nero in due mosse, e così via. I problemi non sono mai stati di mio gusto, e ho sempre preferito giocare una partita vera, contro un avversario in carne e ossa; ma il Giudice sosteneva che l'unico vero artista degli scacchi fosse il compositore. Alcuni dei suoi problemi sono stati addirittura pubblicati da periodici minori, e una volta, agli inizi dell'era reaganiana, da quella che ai tempi si chiamava "Chess Life and Review" ed era la rivista di scacchi più importante del paese; una pagina incorniciata che ancora oggi è appesa nel corridoio al primo piano della casa di Oak Bluffs. Apro la scatola e ammiro i pezzi alti più di sette centimetri inseriti nelle due suddivisioni imbottite di feltro; ognuno è magnificamente colorato e intagliato nell'ebano o nel bosso, realizzato in modo tradizionale ma con un numero sufficiente di dettagli e volute da renderlo speciale. Accenno a un sorriso, rammentando come un tempo entravamo nello studio al pianterreno - prima che il Giudice abbattesse le pareti per creare questo - e lo trovavamo chino sul tavolo, un taccuino al suo fianco, intento a studiare le sue composizioni. Lo rilassava, sosteneva; anche se a volte somigliava a un'ossessione, era meglio dell'alcol. D'un tratto aggrotto la fronte. Avverto qualcosa di strano nelle serie di pezzi sistemati nella scatola, ma non riesco a capire di che si tratta. Mi volto verso Bentley, che ha preso un volume di C.S. Lewis dalla libreria di mio padre e si è seduto sulla sua sedia inclinabile. Il Giudice usava citare Lewis di continuo. Suo nipote ha selezionato una pagina a caso e sta facendo scorrere le sue tozze dita lungo le righe di testo, muovendo le labbra come se fosse in grado di leggere. E forse può farlo, forse ci sorprenderà tutti come ha già fatto spesso. Chiudo la scatola e la rimetto sul tavolino. Vado alla scrivania e mi siedo sulla poltroncina girevole di vecchia, rugosa pelle color sangue di bue. Sulla credenza alle spalle della scrivania c'è un computer, completo di stampante-scanner-fax, nient'altro che il meglio, nel senso del più costoso, per l'Onorevole Oliver C. Garland, come ancora recitava gran parte della corrispondenza al momento della sua morte. Come sempre, il computer è protetto da un'aderente fodera di plastica verde - una fodera! - poiché malgrado Addison, che adora i computer, sostenesse che il Giudice doveva possedere la tecnologia più aggiornata e spesso gliela procurasse lui stesso,
mio padre non lo usava quasi mai, preferendo scrivere i suoi discorsi, i suoi saggi, le sue rabbiose lettere al direttore e perfino i suoi libri su blocchi di carta gialla che la signora Rose si occupava poi di trascrivere. Due blocchi campeggiano sulla scrivania; a uno mancano le prime pagine, ma entrambi sono puliti. Nessun indizio neanche qui. Apro un cassetto a caso e trovo alcune bozze di lavoro e un pugno di documentazioni finanziarie. Mentre frugo in un altro cassetto, che sembra contenere lettere, vengo sorpreso da alcuni colpi alle mie spalle. Bentley è strisciato nello spazio per le gambe sul lato opposto della scrivania e bussa sul legno ridacchiando. Capisco che devo rispondere come se stessero bussando alla porta. «Chi è là?» dico a gran voce reggendo in mano la corrispondenza reciprocamente lusinghiera fra il Giudice e un columnist abbastanza di destra da essere probabilmente tenuto a distanza dalla stessa Heritage Foundation. «Toc-toc» dice mio figlio con una risata, stando al gioco. «Chi è là?» ripeto. «Bemmy. Bemmy là.» Bentley si proietta fuori dal suo nascondiglio, srotolandosi con quella sorprendente velocità che i bambini di tre anni sembrano in grado di chiamare a raccolta in un istante, allungandosi a gambe incrociate sul vasto tappeto orientale e poi balzando in piedi come un paracadutista dopo un lancio perfetto. «Bemmy là! Osa tu!» Aggiro la scrivania per abbracciare mio figlio, ma lui si libera allegramente di me e schizza via verso un piccolo salottino che mio padre ha creato sotto la più ampia delle tre finestre sul lato più lungo della stanza. Dai suoi genitori, o quantomeno da suo padre, Bentley ha ereditato una certa imprudente goffaggine. E così non rimango del tutto sorpreso quando, voltandosi per vedere se sto giocando, mio figlio va a sbattere contro il tavolino degli scacchi del Giudice. La scacchiera di marmo si solleva e poi ricade sul piano di vetro del tavolo. Non si rompe nulla, ma l'elegante scatola si rovescia su un lato e i pezzi fatti a mano picchiettano come pioggia contro la finestra e il muro precipitando a terra. Bentley cade all'indietro, atterrando sul suo posteriore imbottito con un grugnito di sorpresa. «Bemmy male» annuncia sbigottito. Non versa alcuna lacrima, forse perché già possiede, alla tenera età di tre anni, la sobrietà garlandiana nel manifestare le proprie emozioni. «Bemmy bua.» «Non ti sei fatto niente» lo rassicuro, accovacciandomi per un abbraccio
che lui non sembra volere. «Va tutto bene, amore.» «Bemmy bua» mi rammenta. «Bemmy bene. Bemmy niente.» «Giusto, non hai niente.» Bentley si rimette in piedi e si allontana a passi incerti verso la scrivania di mio padre. Mi chino a raccogliere i pezzi caduti, non rimettendoli nella scatola ma sistemandoli nella posizione da cui potrebbero cominciare una partita. Noto con irritazione che ne mancano due, uno bianco e uno nero. Percorro il tappeto con lo sguardo ma non li vedo. Pezzi di queste dimensioni non passano facilmente inosservati. Sbircio sotto le sedie sui due lati del tavolino: ancora niente. Dal corridoio proviene il cicaleccio malizioso di due o tre dei figli di mia sorella appena usciti dalla doccia e, mentre Bentley si precipita verso di loro, nella mia mente si accende una scintilla di rabbia irragionevole. Come mai ci sono soltanto quattordici pezzi invece di sedici? La risposta è ovvia e mi fa infuriare. I pedoni mancanti sono la prova che i figli di Mariah si sono divertiti anche qui dentro. Mia sorella, come sempre, non pone alcun limite alla libertà dei suoi marmocchi viziati. Certo, questa casa sarà presto sua, ma potrebbe anche aspettare più di una settimana prima di lasciare che i suoi figli trasformino la stanza in cui è morto il Giudice in un parco giochi o in un porcile. Eppure, avendo anch'io un figlio irrequieto, riesco a capire perché questa stanza cavernosa potrebbe avere i requisiti necessari per diventare un seducente flagello. Sfortunatamente, una scacchiera da collezione come quella che mio padre usava per comporre i suoi problemi vale molto meno se non è completa. Immagino che i pedoni mancanti verranno ritrovati e mi sorprendo a chiedermi se Mariah, sul punto di ereditare la casa e tutto ciò che contiene, si lascerebbe convincere a lasciarmi gli scacchi. Potrei perfino riportarli a Martha's Vineyard, dove ai bei tempi mio padre lavorava ai suoi problemi seduto la sera in veranda, sorseggiando limonata, chino sulla scacchiera... Al pianterreno suona il campanello e io rabbrividisco, improvvisamente sicuro che qualcuno sia venuto a riferirci un'altra brutta notizia. Ho già quasi varcato la porta dello studio quando dall'atrio proviene la voce robusta di Sally: «Tal, ci sono due signori per te». Una pausa. «Sono dell'Fbi.» 7 LA PATTINATRICE
«Siete veloci, voialtri» dico ai due agenti mentre prendiamo posto in salotto. Ho offerto loro da bere, ma hanno declinato. Sono più teso di quanto vorrei, ma la ragione è che non sono ancora del tutto pronto a parlare con loro; non so bene come rispondere ad alcune delle domande che sono sicuro mi rivolgeranno su mia moglie. Mariah, vestita con pantaloni scuri e calze rosso acceso, è in piedi nell'atrio e ci guarda circospetta. Sally, che indossa uno dei suoi innumerevoli vestiti troppo stretti, sbircia da dietro l'angolo sgranando gli occhi agitati. «Facciamo solo il nostro lavoro» replica quello alto, un nero di nome Foreman. Mi chiedo se mi abbia deliberatamente frainteso. «Quello che voglio dire» spiego «è che abbiamo seppellito mio padre proprio ieri. Mia moglie mi aveva avvertito che sareste venuti, ma credevo che si potesse aspettare.» I due agenti si scambiano un'occhiata. McDermott, il più piccolo, ha una rabbiosa faccia bianca, capelli biondo rossiccio e una grossa, sgradevole voglia sul dorso della mano. Sembra vecchio, per questo lavoro, ma io diffido degli stereotipi. L'altro, il più alto, è un tipo tranquillo e porta gli occhiali. Le sue mani sono sempre in movimento, le mani di un prestigiatore. I due agenti sono scomodamente seduti sul divano color crema, quasi temessero di rovinarlo. Entrambi indossano abiti ben più dozzinali di quelli che avrebbero mai acquistato coloro che venerdì affollavano l'atrio. Sono seduto di fronte a loro su una scricchiolante sedia a dondolo. Da qualche angolo della casa provengono strilli di gioia, e capisco che cinque Denton e un Garland si sono abbandonati a un altro attacco di furia distruttiva. «Noi non lo crediamo» mi informa McDermott sfidandomi con lo sguardo. «Be', lo trovo fuori luogo. Voglio dire, naturalmente sarò lieto di aiutarvi come potrò. Ma di sicuro non era necessario farlo proprio oggi.» C'è uno strano momento di silenzio. Ho come la sensazione che i due siano a conoscenza di segreti che stanno valutando se rivelare o no. Mi rammento che siamo in America. «Che cosa le ha detto sua moglie, di preciso?» domanda finalmente McDermott. «Niente di particolare» li rassicuro. «Mi ha avvertito che sareste venuti a interrogarmi come conseguenza della sua... be', della sua possibile nomina.» «Che noi saremmo venuti?» Foreman sembra divertito. «Be', che qualcuno dell'Fbi sarebbe...»
«Quale nomina?» mi interrompe sgarbatamente McDermott. Prima che possa rispondergli, Sally sorprende tutti facendo un passo avanti e uscendosene con una domanda: «Ci conosciamo, agente McDermott?». Lui resta zitto per un attimo, quasi stesse ripassando con la memoria fotografica una lunga e brillante carriera di controlli sui precedenti dei cittadini. «Che io ricordi no, signora Stillman» risponde alla fine. Prendo nota della sua accuratezza con una fitta di sgomento: sa chi della famiglia ha preso quale cognome e chi no. Se perfino una mezzamanica come McDermott è stato così accurato, Kimmer ha poche probabilità di riuscire a nascondere ciò che più desidera celare. Mia moglie starà rimpiangendo i vecchi tempi, quando Washington non badava all'adulterio. C'era una volta. Mi costringo a rilassarmi. Se non altro non abbiamo mai assunto un immigrato clandestino, mia moglie non ha mai commesso molestie sessuali e non abbiamo avuto più problemi con il fisco di qualsiasi altra famiglia con due redditi. «Ne è sicuro?» insiste Sally. «Sì, signora» risponde brusco l'agente, scoccando un'occhiata di traverso al suo collega. Foreman annuisce, si alza e si avvicina a Sally. Mariah, inorridita, la sta già tirando per un braccio. I tre cominciano a sussurrare fra loro, ma è evidente che Foreman sta spiegando con tutta la gentilezza possibile che desidererebbero essere lasciati soli con me. «Grazie» dice Foreman mentre Sally attraversa l'atrio come una furia, per metà trascinando Mariah e per metà facendosi trascinare. L'agente non ottiene risposta. «Dunque» dice McDermott abbassando gli occhi sul suo taccuino. Ha già dimenticato mia cugina. Per un attimo mi chiedo come mai Sally abbia deciso di farsi avanti. «Già» dico senza alcuna ragione. Mi abbandono sulla sedia, confuso. Qualcosa si sta facendo strada al margine dei miei pensieri, qualcosa che ha a che fare con la reazione di Sally, ma non riesco a capire di che cosa si tratti. «Già» ripeto perdendo il filo del discorso. «Ci stava dicendo della nomina di sua moglie» suggerisce Foreman scoccando un'occhiata perplessa al suo collega. «Oh, sì, è vero.» Mi riprendo. «So che la nomina non è ancora ufficiale. Ma il controllo viene prima, giusto?»
«Controllo?» domanda McDermott. «Riguardo alla sua nomina» spiego scoccando una rapida occhiata in direzione dell'atrio e chiedendomi se l'idiozia è mia oppure loro. «Cioè, la sua possibile nomina.» I due agenti si scambiano un'altra occhiata. Ora è il turno di Foreman. «Signor Garland, non siamo qui per sua moglie.» «Prego?» «Avremmo dovuto mettere subito le cose in chiaro.» Accavalla le lunghe gambe. «Siamo al corrente della situazione di sua moglie, naturalmente, ma temo non sia questa la ragione della nostra visita. Mi creda, non ci saremmo intromessi nel vostro lutto per un semplice controllo.» «D'accordo. Ma allora perché siete qui?» Nel momento stesso in cui formulo la domanda so cosa sta per arrivare, e il mio cuore sembra rallentare i suoi battiti. Di nuovo McDermott: «Ieri pomeriggio, al cimitero, ha parlato con un certo Jack Ziegler?». Mi piace: "un certo Jack Ziegler". Si comunica il sospetto, ma senza sbilanciarsi troppo. «Be', sì...» «Dobbiamo sapere di cosa avete parlato. Per questo siamo qui.» Così, senza peli sulla lingua. Ha fatto le sue richieste e ora ha terminato. «Perché?» «Non possiamo dirglielo» risponde McDermott, frettolosamente e in tono sgarbato. «Se potessimo, lo faremmo» aggiunge Foreman con la stessa fretta, che gli procura un'occhiataccia del collega. «Quello che posso dirle è che riguarda un'indagine su un reato ancora in corso, e le assicuro che né lei né alcun membro della sua famiglia è oggetto di tale indagine.» Essendo figlio di mio padre, in un istante di follia sono tentato di correggere l'uso improprio dell'espressione "ancora in corso". L'attimo dopo sono tentato di ripetergli esattamente quello che mi ha detto lo zio Jack. Ma alla fine il senso della disciplina ha la meglio; uno degli aspetti terribili degli avvocati è che per loro la precisione è come una seconda natura. Inoltre, diffido già di questi due. «Come fate a sapere che ho parlato con Jack Ziegler?» chiedo. «Non possiamo dirglielo» risponde McDermott come un disco rotto, con fretta eccessiva. «Mi piacerebbe pensare che il mio governo non spii i funerali.»
«Facciamo ciò che dobbiamo fare» cinguetta McDermott. «Non spiamo affatto.» Foreman s'intromette come un bullo al ballo del liceo. «In un'indagine su un reato, come lei saprà in quanto avvocato, esistono certe esigenze. La metodologia è spesso complessa, ma le assicuro che procediamo sempre rispettando le regole.» Sta dicendo esattamente la stessa cosa di McDermott, solo usando più parole. Probabilmente è un avvocato anche lui. Sto esaurendo le idee. Domando: «È Jack Ziegler l'oggetto dell'indagine? No, lasci perdere» aggiungo prima che McDermott possa ripetere la sua battuta. «Abbiamo bisogno del suo aiuto» dice Foreman. «Ne abbiamo un gran bisogno.» Uso uno degli strumenti più efficaci di mio padre quando era in vena di prediche: li faccio aspettare. Ripenso al mio incontro con lo zio Jack e cerco di capire cosa sto proteggendo. Forse, mi dico, dovrei riferire l'accaduto parola per parola. Sto quasi per farlo. Ma poi McDermott rovina tutto con la sua impazienza. «Possiamo costringerla a parlare, sa.» Foreman emette quasi un gemito. La mia mente torna a farsi lucida. Negli ultimi giorni, a intermittenza, ho provato rabbia, e ieri paura. Ora ne ho abbastanza. «Prego?» «Lei deve dirci quello che sa. È obbligato per legge.» «Non sia ridicolo» scatto, e il mio sguardo fora l'improvvisa cortina di rosso penetrando l'inaspettato risentimento dell'agente McDermott. «La legge non dice questo, e lei lo sa. Non potete costringere nessuno a collaborare. Forse, e ripeto forse, potete punirmi se non vi racconto la verità, ma non potete farmi dire quello che volete, per quanto abbiate bisogno di saperlo, a meno che non convochiate un gran giurì e riusciate a ottenere un mandato di comparizione. Ora, è questo che volete?» «Potremmo farlo» risponde McDermott. Non capisco la sua rabbia, e men che meno la sua tattica. «Non vogliamo, ma potremmo.» Non ho finito. «Sono i procuratori federali a convocare i gran giurì, non gli agenti dell'Fbi. E mi sembra di ricordare che esista una regola ben precisa che vi vieta di formulare minacce.» «Non la stiamo minacciando» prova a intervenire Foreman, ma McDermott non ha intenzione di fermarsi. «Non abbiamo tempo per i giochetti» ringhia. La sua voce ha assunto un
vago accento, probabilmente del Sud. «Jack Ziegler è un essere spregevole. È un assassino. Vende armi, droga e non so cos'altro. Ma so che nessuno è stato in grado di incastrarlo. Ebbene, stavolta ce la faremo. Siamo a tanto così, professore.» Alza la mano tenendo pollice e indice a un paio di centimetri l'uno dall'altro, poi si sporge verso di me. «Ora, sua moglie è in lizza per diventare giudice. Magnifico, spero che ci riesca. Ma non farà una gran bella impressione, non trova?, quando verrà fuori che suo marito si è rifiutato di collaborare alle indagini su un fetente come il buon vecchio zio Jack Ziegler. Allora, ha intenzione di aiutarci o no?» Rivolgo un'occhiata incredula a Foreman, ma il suo volto è professionalmente inespressivo. Traboccante di rabbiosa indignazione, sto per latrare una risposta - Dio solo sa che cosa sto per dire - quando la voce robusta di Sally giunge dall'atrio: «Me ne vado, Tal. Devo correre in ufficio. Ci sentiamo più tardi, immagino». A giudicare dal suo tono, è ancora offesa per essere stata esclusa. Ma vuole parlarmi subito. Balzo in piedi e mi assento per un momento, prendendo tempo per riflettere. E, se posso, per calmarmi. Accompagno Sally alla porta. Lei si ferma sulla soglia, si gira verso di me e mi chiede se ho capito qual è il nome di battesimo dell'agente McDermott. Confesso che non mi sembra l'abbia detto, quindi le chiedo perché lo vuole sapere. «Ho la sensazione di averlo già visto» dice la cugina Sally, reggendo il mio sguardo con i suoi audaci occhi castani. Eccetto che sull'argomento Addison, Sally non possiede una grande immaginazione; pertanto, se dice di averlo già conosciuto, devo prenderla sul serio. «Dove?» «Non lo so, Tal. Hai visto la sua mano?» «La voglia?» «Sì, e il labbro.» Ci rifletto per qualche istante, poi annuisco. Sul labbro superiore di McDermott c'è una piccola macchia chiara, una specie di cicatrice, che risalta molto di più quando si infuria. «Ho già visto quella voglia» aggiunge mia cugina che, grazie a un pessimo matrimonio, del passato ha qualche cicatrice tutta sua. «Dove?» «Io... non ne sono sicura.» «Al Campidoglio? In ufficio?» Scuote il capo. «Molto tempo fa.» Prima che riesca a rispondere, Sally dà una scrollata di spalle, sorride e mi dice di lasciar perdere, è più che probabile che si sia sbagliata.
Aspetto un attimo, poi le chiedo se è tutto a posto. «Sì, sto bene» risponde lei, e nei suoi occhi si fa strada un'espressione triste e pensosa. Mi stringe la mano, e quando lascia la presa svanisce anche la mia rabbia, all'improvviso, come se me ne avesse liberato lei. «Grazie dell'aiuto» sorrido. Sally ricambia il mio sorriso, poi si volta e si allontana verso la sua auto reggendo una delle enormi sacche che a Kimmer ricordano sempre quelle delle mendicanti. Rientro in salotto molto più calmo di quanto fossi pochi minuti prima. McDermott e Foreman sono in piedi, vigili e impazienti, ma anche sicuri di sé. E perché non dovrebbero esserlo? Hanno interpretato alla perfezione il repertorio dello sbirro buono e di quello cattivo, e sanno entrambi che ho perso. Lo so anch'io. Non ho idea se Sally abbia davvero già visto McDermott, ma nel corso degli anni ho imparato molto su come minimizzare i danni; una delle cose che il Giudice ci ha inculcato è il vecchio adagio sulla necessità di risparmiarsi per un altro giorno di battaglia. Guardo gli agenti con fermezza e dico: «Mi dispiace se vi sono sembrato restio a collaborare. Non era mia intenzione. Bene, cosa volete sapere di preciso?». Mia sorella e io riusciamo a muoverci più tardi del previsto, ma alla fine arriviamo all'affollata pista di pattinaggio, che si trova sul lato opposto della strada rispetto a uno degli innumerevoli centri commerciali della periferia di Washington. Marcus ha il raffreddore ed è rimasto a casa con l'au pair, e così siamo in sette e riusciamo a stringerci nella Lincoln Navigator che Mariah ha appena acquistato, un mostro lussuoso mascherato da utilitaria sportiva. Pattinano tutti tranne me. I figli di Mariah, che apparentemente lo fanno spesso, sono piuttosto bravi, e Bentley, che non l'ha mai fatto prima, ce la mette tutta, poiché la sua vena introspettiva non può nulla contro la spacconeria infantile. Mia sorella se ne occupa personalmente e promette di stargli sempre accanto. Lei prende le promesse più seriamente di chiunque abbia mai conosciuto, e così non ho dubbi sul fatto che Bentley sia al sicuro. Bentley stesso, tuttavia, deve nutrirne qualcuno; appena prima di entrare in pista si volta verso di me, ricoperto a tal punto da imbottiture e caschetto che lo si scorge a malapena, e sussurra: «Osa tu?». Sorridendo, scuoto la testa e gli assicuro che la zia Mariah si prenderà cura di lui. Bentley mi ricambia con un sorriso incerto, poi entra in pista reggendosi con entrambe le mani a mia sorella. I piccoli Denton si sono già allontanati da tempo, volteggiando al ritmo di una canzone di Céline Dion,
di Mariah Carey o di qualche altra diva da colonna sonora. Mi appoggio alle grosse assi di legno che formano i bordi della pista e osservo. Non sto pattinando perché non voglio fare una figuraccia, ma anche perché voglio riflettere. Voglio riflettere per sincerarmi di non essere nei pasticci. Voglio sincerarmi di non essere nei pasticci perché non ho detto tutto a Foreman e McDermott. Non ho esattamente mentito, ma non ho rivelato l'intera conversazione con lo zio Jack. Ho detto loro che ci ha fatto le sue condoglianze. Ho detto che sembrava malato. Ho parlato delle sue ripetute richieste di essere messo al corrente delle disposizioni. Ho riferito la sua preoccupazione che altri, malintenzionati nei nostri confronti, ci avrebbero fatto le stesse domande. Ma non ho accennato alla sua promessa di proteggere me e la mia famiglia, temendo che potesse essere fraintesa. E non ho riferito ciò che mi ha detto su Marc Hadley. La cosa strana è stata che dopo il mio racconto (che hanno interrotto soltanto qua e là, per chiarimenti minori) i due agenti dell'Fbi avevano una sola domanda, formulata con garbata enfasi da Foreman: "Bene, signor Garland, e quali sono le disposizioni di suo padre?". Quando ho ripetuto quello che avevo già detto allo zio Jack, che non avevo la minima idea di quali disposizioni intendesse, Foreman mi ha guidato come un vero avvocato attraverso una serie di possibilità: c'erano delle disposizioni finanziarie particolari? Delle indicazioni sulle esequie? Mio padre aveva lasciato istruzioni speciali su cosa avremmo dovuto fare dopo la sua scomparsa? Indicazioni su come accedere a una cassetta di sicurezza, per esempio? O una busta che doveva restare sigillata fino a dopo la sua morte? Rammentavo conversazioni o comunicazioni nell'ultimo anno in cui mio padre aveva usato la parola disposizioni? (Quest'ultima domanda mi avrebbe fatto ridere, se i loro volti e la velata minaccia di McDermott sulla nomina di Kimmer non fossero stati così seri.) Ho risposto a ogni domanda con una versione diversa della stessa trita espressione di Washington: "Non lo so", "Che io sappia no", "Non ricordo", riecheggiando mio padre al cospetto della commissione giudiziaria e rammentandomi ancora una volta quanto odio questa città. Quando è stato chiaro che questa era la mia unica risposta possibile, McDermott è sembrato sul punto di perdere nuovamente le staffe. Ma una volta tanto Foreman l'ha preceduto. Mi ha detto che ero stato molto gentile e che sapevano quanto difficile fosse il momento e che mi erano grati per la collaborazione. Mi ha detto che si sarebbe personalmente assicurato che questa storia non avesse riflessi negativi sulla nomina di mia moglie. Un altro giro di
parole da avvocato garbatamente privo di significato. E mi ha detto che sarebbero usciti da soli, cosa che ho permesso loro di fare. Pochi minuti dopo che se n'erano andati mi sono ritrovato a rimpiangere di non aver detto tutto ciò che sapevo, e soltanto a quel punto mi sono reso conto che non mi avevano lasciato i biglietti da visita per richiamarli nel caso mi fosse tornato in mente qualcos'altro. Mi è sembrato strano, poiché i molti agenti dell'Fbi che incontro regolarmente quando i miei ex studenti devono affrontare i controlli prima di ottenere un impiego governativo lasciano sempre i loro biglietti da visita. Mi sono tormentato su questa dimenticanza, chiedendomi come mai fossero tanto sicuri di aver saputo tutto ciò che avevano bisogno di sapere, domandandomi se avessi fornito loro senza rendermene conto l'anello mancante dell'indagine. Poi ho lasciato perdere, poiché un'impaziente Mariah, battendo il piede sul pavimento dell'atrio, mi ha fatto notare che dovevamo uscire se volevamo pattinare e tornare in tempo per il mio appuntamento con Mallory Corcoran. Durante il tragitto verso la pista di pattinaggio è rimasta in silenzio per qualche minuto, quindi mi ha chiesto se pensavo che Sally conoscesse veramente McDermott. Le ho risposto qualcosa di vago sul fatto che non avevo modo di saperlo. Mariah ha detto che non crede che Sally sia il tipo da inventarsi cose simili. Si dà il caso che sia d'accordo con lei, ma mi sono limitato ad annuire per assecondarla. Adesso, ho pensato, mi dirà che è stata l'Fbi a uccidere il Giudice. Oppure una cricca di progressisti con voglie rosso fragola sulle mani. Ma Mariah non ha detto nulla, limitandosi a rimuginare per il resto del tragitto, e io le ho chiesto telepaticamente scusa per i miei pensieri indegni. Ora, guardando mio figlio che diventa sempre più sicuro di sé sotto la tutela di mia sorella, sono sorpreso dalla pazienza e dalla sua meticolosità materna. L'ha persuaso a lasciare la presa sulla sua mano. Sorrido. Mariah sa essere madre, ci investe molto tempo e attenzione. Vorrei conoscere altrettanto bene l'arte di essere padre. Sentendo un improvviso impeto d'amore verso mia sorella cerco di scacciare dalla mente le sue assurde teorie, soppesando invece una questione molto più incalzante: come rimettermi alla pari con il lavoro per cui vengo pagato. Devo programmare lezioni di recupero per il corso sull'illecito e per il mio seminario, di cui sto saltando un'intera settimana, e trovare il tempo per terminare l'articolo sulle cause per illecito ai danni della collettività, cosa che avevo in programma per questo fine settimana. Forse, se avessi... All'improvviso, una donna della nazione più scura straordinariamente
muscolosa viene a sbattere contro le assi e afferra il bordo del muretto con due mani guantate regalandomi un sorriso radioso. Indossa pantaloni elasticizzati neri e pattini rossi, e si muove con la grazia disinvolta dell'atleta naturale. «Ehi, bellezza, come mai non pattini?» mi grida come se ci conoscessimo da anni. La sua pelle è di un magnifico marrone, il suo volto è comune ma gradevolmente tondeggiante, la sua bocca è piena di enormi denti, la sua testa è sfortunatamente sovrastata da una folta chioma di ricci orrendamente stirati. Due cerchietti d'oro, uno grosso e l'altro piccolo, pendono da ciascun orecchio. È alta quasi un metro e ottanta, e più vecchia di quanto pensassi in un primo tempo: forse sui trentacinque anni. «Ci sei?» chiede, continuando a sorridere, quando sulle prime non rispondo. «Pronto?» Mi rendo conto con una certa sorpresa che sta flirtando con me, attività nella quale di recente non ho accumulato grandi esperienze. I suoi occhi brillano di segreta malizia, e il suo sorriso a trentadue denti è contagioso. Mi trovo a ricambiarlo, ma ho la gola secca e faccio una certa fatica a dire: «Temo di non essere un grande pattinatore». «E allora?» ride lei muovendo i piedi avanti e indietro con i pugni piantati sui fianchi muscolosi. «Ti insegno io, se vuoi.» Allunga una mano verso di me, il palmo rivolto verso l'alto e le dita aperte, e inclina la testa di lato come per stirare il collo. «Coraggio, bellezza, si vede che hai bisogno di divertirti un po'.» Inaspettatamente eccitato dalla sua aggressività e, lo confesso, già divertito, sto per rispondere con una frase altrettanto civettuola quando lei abbassa lo sguardo esperto sulla mia mano, osserva la fede, smarrisce il sorriso e dice: «Oh, be', chiedo scusa». Allarga le lunghe braccia e si allontana a marcia indietro. Con un ultimo, piccante saluto se ne va volteggiando e scompare tra la folla sulla pista. Con mia sorpresa, vengo squarciato da un senso di perdita così intenso che per un attimo mi dimentico di Bentley, che naturalmente sceglie proprio questo istante per scontrarsi con un altro pattinatore. Lascia la pista piangendo, il labbro insanguinato. Mariah si profonde in scuse, anche lei in lacrime. Un paio dei suoi figli viziati ridono della goffaggine di Bentley, gli altri frignano alla vista del sangue. Abbraccio il mio bambino e gli applico una borsa del ghiaccio fornita gentilmente dalla direzione, ma lui scuote la testa e vuole la mamma. Non gli ero vicino al momento dell'incidente e non avrei potuto fare nulla per prevenirlo, ma Bentley sembra pensare che io sia comunque colpevole. Molto probabilmente ha ragione, poiché la pattinatrice volteggerà nei
miei sogni per settimane. 8 ALTRE NOTIZIE AL TELEFONO Alle quattro meno venti scendo da un taxi di fronte all'edificio in cui soltanto una settimana fa mio padre aveva il suo ufficio. Ho sostituito i jeans con lo stesso completo grigio scuro che indossavo al funerale, l'unico abito che mi sono portato qui a Washington e uno dei due che possiedo. Sono in anticipo, e così mi metto a guardare le vetrine. Visito una gioielleria nell'atrio dello stabile e una libreria antiquaria all'angolo, lieto di trovarmi in una città talmente abituata alla sua borghesia di colore da non destare sospetti in nessuno dei due negozi. Nella gioielleria resisto alla tentazione di comprare un piccolo ma rovinoso regalo per Kimmer: ha un debole per i diamanti, e vedo un paio di orecchini che so le piacerebbe molto. Nella libreria d'angolo parlo al proprietario di un libretto che sto cercando, il resoconto dell'erroneo arresto di Bobby Fischer per rapina a una banca, da lui stesso scritto e pubblicato con il melodrammatico titolo di I was tortured in the Pasadena Jailhouse! Gli lascio il mio biglietto da visita, e lui promette di informarsi. Quando faccio ritorno nell'atrio Kimmer è già arrivata, e indica il suo orologio fulminandomi con lo sguardo. Mancano ancora tre minuti alle quattro, ma non si può correre il rischio di far aspettare Mallory Corcoran. Il grande Mallory Corcoran non aspetta. Ma fa eccezione per me e Kimmer. Non solo aspetta, ma ci riceve con tutta la considerevole amabilità a cui riesce a fare appello. Viene di persona in sala d'aspetto, senza giacca ma con una camicia azzurra impeccabile, una cravatta gialla a righe diagonali e un paio di bretelle gialle tese sul ventre abbondante. Bacia Kimmer sulla guancia, mi stringe formalmente la mano e ci conduce nel suo enorme ufficio d'angolo, che come gran parte degli uffici in città gode soprattutto di una vista sugli edifici di fronte, ma che, se guardi dalla parte giusta, ti offre uno scorcio del monumento a Washington. Sulla sua scrivania campeggiano alte pile di memorie e note. È una delle poche scrivanie in tutti gli studi legali della città a non avere un computer in vista. Lo zio Mal ci conduce a un divano di pelle fronteggiato da due poltrone Eames, in una delle quali si siede. Mi meraviglio che riesca a reggerlo, ma Mallory Corcoran, come molti avvocati di successo, sembra possedere il segreto di adattare il proprio peso alla situazione. Una delle sue tre segretarie prende le nostre ordinazioni: tè per lo zio Mal e per
Kimmer, ginger ale per me. Un vassoio di piccoli panini si materializza. Parliamo del funerale, del tempo, della stampa e dell'ultimo scandalo al Campidoglio. Lui ci informa che una squadra di assistenti legali ha raccolto tutte le cose di mio padre e che lo studio le invierà dove vorremo; mi chiede se voglio dare un'ultima occhiata all'ufficio di Oliver ma io declino l'offerta, anche e soprattutto perché mia moglie non sta più nella pelle. Poi veniamo al dunque. Lo zio Mal comincia invitando una socia anziana dello studio, una donna nervosa che ci presenta come Cassie Meadows, a partecipare all'incontro e prendere appunti. Kimmer si sente a disagio di fronte a una sconosciuta, ma lo zio Mal ci dice di trattare Meadows (la chiama così) come se fosse un mobile. Non è una cosa molto carina da sentire, e Meadows, una magrissima cittadina della nazione più pallida, arrossisce violentemente, ma capisco le intenzioni dello zio Mal: con tutti gli indiziati che popolano Washington di questi tempi, e con tutti gli atti d'accusa che si basano su vaghe contraddizioni e confusi ricordi di conversazioni, il grande Mallory Corcoran vuole un testimone amico nella stanza. «Meadows è un demonio di avvocato» ci dice come se stessimo per comparire in tribunale «e al Campidoglio conosce tutti coloro che vale la pena di conoscere.» «Un tempo lavoravo per il senatore Hatch» spiega lei. «Ed è stata cancelliere della corte suprema, e prima del suo corso alla Columbia!» si entusiasma lo zio Mal, adottando il solito trucco di Washington di usare il potere del curriculum per allontanare qualsiasi interrogativo sulla fiducia. Se è così brillante, sta dicendo, non hai diritto di chiedere perché partecipa all'incontro. Poi aggiunge la vera ragione: «Kimberly, su questo argomento Meadows lavorerà a stretto contatto con me. Tutto ciò che saprò io lo saprà anche lei». Nel senso che Mallory Corcoran, al di là di questo incontro, sarà probabilmente troppo occupato per aiutare mia moglie, che verrà quindi rifilata a una socia. Kimmer si arrende. Malgrado lo zio Mal non sia il genere d'uomo che si lascia facilmente vincolare, l'incontro ha successo. Capisce perché siamo qui e parla quasi sempre lui. Domanda a Kimmer come sono andati gli altri colloqui, ma ne ascolta a malapena le risposte. Kimmer non ha avuto tempo di raccontarmi granché, ma arguisco che finora non ha ottenuto le reazioni desiderate. Il senatore, che le ha concesso soltanto un quarto d'ora (con due assistenti a dargli l'imbeccata), è decisamente schierato con Marc Hadley e ha conti-
nuato a ripeterle che in futuro ci saranno altre possibilità; Ruthie Silverman è stata abile ed evasiva; il lobbista dell'organizzazione per i diritti civili le ha promesso che ci avrebbe provato, ma l'ha avvertita che difficilmente l'amministrazione lo avrebbe ascoltato. Mallory Corcoran accantona tutto ciò con un gesto della mano. L'importante è chi conosce chi. E io sto all'erta, dice, poiché lo zio Mal adora le frasi fatte e le fa rotolare grandiosamente dalla punta della lingua per far sapere ai suoi ascoltatori che lui sa che loro sanno che è tutta una recita. Mi chiedo se ci parlerà dello scheletro nell'armadio che mi ha promesso il sardonico Jack Ziegler. Ma lo zio Mal dice invece che Marc Hadley sta tirando fuori le unghie, sta facendo pressing, ce la sta mettendo tutta - le metafore si susseguono alla tipica maniera di Washington - e che molti dei miei colleghi della facoltà lo stanno aiutando. «Probabilmente per sbarazzarsi di lui» mormora Kimmer. Penso che potrebbe essere vero, ma vedo che è turbata. Se ne accorge anche lo zio Mal. Fa un gran sorriso e scuote il capo. Kimmer non si deve preoccupare, dice. Meadows può parlare con molta gente al Campidoglio, spiega, e la sua socia anoressica annuisce per far vedere che sa di aver ricevuto un ordine. Il resto, aggiunge lo zio Mal, andrà a posto da solo. È vero, Marc e i suoi amici hanno qualche conoscenza, ma - si percuote il petto - Mallory Corcoran conosce probabilmente qualche persona in più di Marc Hadley, il che è esattamente quello che Kimmer voleva sentire. Farà qualche telefonata, ci promette lo zio Mal, ciò significa che parlerà con il presidente e, cosa ancora più importante, con il consulente legale della Casa Bianca, il capo di Ruthie, che formulerà la raccomandazione finale e che si dà il caso sia un ex socio dello studio. Lo zio Mal non offre di fare pressioni per la nomina di Kimmer, ma dice che indagherà per tentare di scoprire cosa sta succedendo, che spesso è la medesima cosa; poiché, nel labirinto di specchi delle nomine federali, a volte la cosa più importante è avere la persona giusta che fa le domande giuste. Tutto questo, asserisce, dobbiamo considerarlo un suo regalo motivato dal rispetto che provava per mio padre, e ciò, naturalmente, significa che si aspetta di essere ripagato da noi senza esitazione nel caso ce lo chieda. Kimmer sorride raggiante - non è certo una giocatrice di poker, la mia brillante consorte - ma io so che lo zio Mal non è un tipo così facile. Quando ci ha messo sufficientemente in soggezione con la sua munificenza, si aggiusta i polsini e quindi, riuscendo chissà come a guardarci entrambi negli occhi allo stesso tempo, giunge le mani e ci rivolge quella che nella Washington contemporanea è l'unica domanda che conti davvero:
«C'è qualcosa nel tuo passato, Kimberly, o nel tuo, Talcott, qualsiasi cosa, che se diventasse di dominio pubblico potrebbe mettere in imbarazzo il presidente o voi stessi?». O me? È il terzo fattore della serie, inespresso ma chiaramente sottinteso. Mettetemi in imbarazzo e non potrete mai più contare sullo studio. «No, niente» risponde Kimmer con una rapidità tale che entrambi la guardiamo sbalorditi. «Ne sei assolutamente sicura?» domanda il grande Mallory Corcoran. «Assolutamente.» Kimmer si toglie gli occhiali e mi regala il suo sorriso più radioso, che trasforma gran parte degli uomini in servili sicofanti e che invariabilmente mi distrugge, nelle rare occasioni in cui si prende il disturbo di provarci. Ma è sprecato. Lo zio Mal ha resistito ai sorrisi dei maggiori esperti mondiali. Guarda mia moglie inarcando un sopracciglio e poi si volta verso di me. Kimmer mi prende per mano e mi scocca un'occhiata. Mi sembra una mossa poco saggia: crede forse che lui se la lasci sfuggire? «Talcott?» domanda lo zio Mal. «Be'» comincio. Kimmer mi stringe disperatamente la mano. Non vorrò certo parlare, di fronte allo zio Mal e a questa perfetta sconosciuta... no di certo... «Misha» mormora lanciando un'occhiata a Meadows, la quale, esplicitamente annoiata, sta fissando nel vuoto. Sul suo blocco avrà scritto a malapena un paio di frasi. Ma mia moglie non ha bisogno di preoccuparsi, poiché non sto pensando alla sua infedeltà. «Be', c'è una cosa che mi preoccupa» ammetto. Poi riferisco la visita dell'Fbi di questa mattina. Mentre espongo i dettagli, sento Kimmer farsi distante, irritata... e preoccupata. Mi lascia la mano. Lo zio Mal mi interrompe. «Hanno veramente detto che se non avessi parlato di Jack Ziegler avresti potuto danneggiare tua moglie?» «Sì.» «Quei bastardi» commenta, ma in tono soave, abbandonandosi all'indietro e scuotendo la testa. Poi solleva la cornetta di uno dei quattro telefoni sparsi per l'ufficio e preme un tasto con un dito che somiglia a un salsicciotto. «Grace, chiamami il ministro della Giustizia. Se lui non è disponibile, il suo vice. È importante.» Riaggancia. «Andremo a fondo di questa storia, altroché.» Si rivolge a Meadows. «Procurami una copia del regolamento dell'Fbi sugli interrogatori ai testimoni.»
«Ora?» chiede lei, riscossa da qualche privata fantasticheria. «No, la settimana prossima. Certo, adesso. Forza.» Meadows si affretta a uscire dall'ufficio senza mollare la presa sul suo blocco per gli appunti. Capisco subito, e immagino l'abbia capito anche lei, che lo zio Mal non vuole che assista a quello che sta per succedere. Ciò che non capisco è perché. Né Mallory Corcoran ha intenzione di illuminarci. Quello che fa, invece, è divagare. «Oh, Tal, a proposito, ieri sera accendo la televisione e indovina chi ti vedo? Tuo fratello.» E parte a descrivere la partecipazione di Addison a "The News Hour", durante la quale ha inveito contro una recente proposta legislativa repubblicana. Kimmer si fa piccola, temendo che le posizioni politiche di mio fratello la possano danneggiare, e lo zio Mal, accorgendosi del suo disagio, cambia rotta e racconta una storiella dei tempi in cui mio padre faceva il giudice, un aneddoto molto divertente su un litigante confuso al quale io presto scarsa attenzione non solo perché l'ho già sentito diverse volte, ma anche perché ripenso al biglietto da visita che gli agenti dell'Fbi non mi hanno dato. D'un tratto so perché lo zio Mal ha allontanato Meadows. Ha capito che qualsiasi cosa il dipartimento di Giustizia abbia da dirgli sarà terribile, e non avrà a che fare con Kimmer e le sue ambizioni giudiziarie. Dopo le scoraggianti congetture di Mariah, la cosa mi spaventa in anticipo. Il telefono emette un ronzio. Lo zio Mal si interrompe a metà frase e risponde. «Sì? Chi? Va bene.» Copre il ricevitore con una mano. «È il viceministro.» Poi lo perdiamo di nuovo: «Mort, come diavolo te la passi?... Ho sentito che l'anno prossimo Frank andrà a Harvard. È magnifico... Quando comincerai a guadagnarti da vivere onestamente?... Be', sai che qui per te c'è sempre posto... Cosa? Los Angeles? Oh, andiamo, il nostro smog è migliore del loro. Mmh-mmh... Oh, lo so, lo so... Ma lasciami dire perché ti ho chiamato. Sono qui seduto nel mio ufficio con due infuriatissimi cittadini della nostra magnifica repubblica. Uno dei due risponde al nome di Talcott Garland, l'altra è conosciuta come Kimberly Madison... Sì, quella Kimberly Madison. No, so che non hai niente a che fare con le nomine dei giudici, ma non è per questo che ti ho chiamato... Mmh-mmh». Rimette la mano sulla cornetta e ci dice: «Ma non esistono segreti, in questa città?». Di nuovo al telefono: «Be', ascolta. Sembra che questa mattina due agenti dell'Fbi non troppo educati abbiano fatto visita al signor Garland... No, niente del genere. Un'indagine su un reato. L'oggetto dell'indagine sembra essere un certo Jack Ziegler, il cui nome immagino ti sia noto... Come?... No, no, io non rappresento più il signor Ziegler, lo sai che se
ne occupa Brendan Sullivan dello studio Williams & Connolly... No, Morton, nemmeno quello... No, il mio cliente è Talcott Garland... Mmh-mmh... Morton, ascolta. Le cose stanno così. In primo luogo, come immagino saprai, il mio cliente ha seppellito suo padre soltanto ieri. Direi che il tempismo lascia un po' a desiderare. In secondo luogo, uno dei due agenti l'ha minacciato». Scuoto energicamente la testa, ma lo zio Mal, una volta partito, è inesorabile. «Già, proprio così... No, nessun danno fisico. Ha detto che se il signor Garland non gli avesse immediatamente rivelato ciò che voleva sapere, le possibilità della signora Madison di ottenere la nomina avrebbero subito un danno... Sì, lo so che non dovrebbero farlo, è proprio per questo che ti ho telefonato... Sì... No, non... Sì, e le scuse del tuo capo sarebbero ancora meglio. Sì... sì, lo farò... Un'ora esatta, però. D'accordo.» Riaggancia senza salutare, gesto che nella nostra era incivile è diventato uno status symbol: meno ti preoccupi di non offendere il prossimo, più devi essere potente. «Zio Mal» comincio, ma lui mi travolge. «Bene. Le cose stanno così. A quanto pare, quei due agenti hanno infranto un bel po' di regole. Morton Pearlman parlerà con il suo capo e poi vedremo il da farsi.» «Non era necessario» dice Kimmer in tono nervoso. «Kimberly, Kimberly, cara, non ti preoccupare.» Lo zio Mal si spinge fino a darle una serie di colpetti sulla mano. «Non ne subirai le conseguenze, te lo prometto. È così che si gioca in questa città. Da' retta a un veterano. Devi fargli capire che non possono fare caz... be', che non possono fare i furbi con te, e devi farglielo capire in fretta. Perciò, sentite cosa vi propongo.» Si è alzato, e così ci alziamo anche noi. Fuori è sceso un crepuscolo argentato. «Perché voi due piccioncini non vi godete una cenetta romantica? Chiamatemi più tardi, diciamo fra un'ora. Dirò a Grace di passarmi la telefonata. Se a quel punto non avrò una risposta, sarò al dipartimento di Giustizia a farla pagare a qualcuno.» Durante questo splendido discorso, è riuscito in qualche modo a condurci alla porta. Vedo Meadows che si avvicina lungo il corridoio reggendo in mano un colorato volume del Codice di regolamento federale. «Grazie, signor Corcoran» dice Kimmer. «Puoi chiamarmi Mal» replica lui per la decima volta. «Grazie, zio Mal» aggiungo io. Questa volta ottengo l'abbraccio. E un sussurro furtivo all'orecchio: «Questa faccenda puzza, Tal. Puzza tremendamente». Mi volto sorpreso,
pensando per chissà quale ragione che stia parlando di me, non a me. Ma nei suoi occhi saggi ed esperti di iniziato vedo soltanto un avvertimento. «Stai molto, molto attento» aggiunge. «C'è qualcosa che non va.» Mia sorella e la ragazza au pair stanno badando a Bentley. Mariah ha detto che sarebbe potuto restare da lei fino a quando avremmo avuto bisogno di trattenerci fuori, e così la preoccupata Kimmer e io, piccioncini o no, camminiamo fino a K Street ed entriamo in una delle molte steakhouse della città. La capitale del nostro paese non è certo nota per la qualità dei suoi ristoranti, ma gli chef sembrano sapere come si prepara una bistecca. Sono le cinque appena passate, e riusciamo a ottenere un tavolo tranquillo senza attendere. Kimmer, che è rimasta silenziosa per quasi tutti i quattro isolati che abbiamo percorso, si butta sulla sedia, ordina un Alexander prima ancora che il cameriere riesca a pronunciare una parola e mi concede un'occhiata di disapprovazione. Faccio per prenderle la mano, ma lei la ritrae. «Che c'è?» chiedo deluso. «Niente» scatta lei. Si volta verso l'estremità opposta della sala, quindi torna a guardarmi. «Credevo che fossi dalla mia parte. Credevo che mi amassi. Ma tu te ne vieni fuori con queste stronzate sull'Fbi. Insomma, perché diavolo ne hai parlato?» Kimmer sa che le volgarità mi danno fastidio, ed è per questo che le usa quando è infuriata; non penso che si rivolga in questo modo a nessun altro. «Ero convinto che lo zio Mal potesse aiutarci» le spiego. «E ci sta aiutando.» «Aiutando! Prende il telefono, striglia un idiota qualsiasi che lavora per il dipartimento della Giustizia e poi dice che sono stata io a farglielo fare. E questo dovrebbe aiutarmi?» Si abbandona sulla sedia, si toglie gli occhiali e chiude gli occhi per un istante. Mi guardo intorno nervosamente, ma nessuno degli altri commensali sembra aver notato il suo sfogo. Kimmer si ravviva di nuovo. «Credevo fosse un pezzo grosso. Non ha un minimo di buonsenso!» La verità è che la reazione dello zio Mal ha lasciato perplesso anche me. E altrettanto la sua decisione di allontanare Meadows. Ma non so bene come esprimere entrambi i concetti a mia moglie. Lo sa il cielo come nessuno nella mia famiglia si sia mai espresso in modo diretto. «Kimmer, non credi che la cosa migliore sia parlarne chiaramente...» «Parlare chiaramente di cosa?»
«Di quello che sta succedendo.» «Non sta succedendo niente.» «Come fai a dirlo, dopo che Jack Ziegler...» «Tuo padre non vuole proprio lasciarci in pace, non è vero?» «Ma cosa dici?» Sembra quasi sull'orlo delle lacrime. «I tuoi genitori non volevano nemmeno che mi sposassi! Me l'hai detto tu stesso.» Sono sbalordito. È un pezzo che mia moglie non tira fuori questa storia, ma a quanto pare non se l'è scordata. Il fatto che i suoceri si siano opposti al matrimonio non dev'essere facile da dimenticare. «Tesoro, sono passati anni, e poi non erano esattamente contrari...» «Sostenevano che sarebbe stato uno scandalo. Me l'hai detto tu.» E infatti avevano ragione. Lo è stato. Ma non è questo il momento per ricordarle con quanta gioia avessimo sconvolto la Washington nera. «D'accordo, ma devi capire il senso in cui lo intendevano...» «Tuo padre è sottoterra, ma continua a crearci dei problemi.» «Kimmer!» Sospira, poi alza le mani in segno di tregua. «Okay, okay, mi dispiace. Non intendevo questo. Non è giusto.» Si sporge sul tavolo e sorseggia il suo drink, chiude gli occhi per un istante e poi mi prende la mano. Malgrado mi stia infuriando anch'io, la lascio fare. Il suo tocco mi tranquillizza; l'ha sempre fatto, anche quando la ragione della mia tensione era che lei fosse la moglie di un altro. «Ma Misha, considera la faccenda dal mio punto di vista. Tu hai quello che desideri. Volevi un matrimonio, un figlio e una cattedra in una buona facoltà di legge. E indovina un po'? Hai tutte e tre le cose.» Kimmer comincia a massaggiarmi le dita una alla volta, sapendo che mi piace. «Ma io? Io sono ambiziosa, va bene, è il mio peccato. È dai tempi in cui studiavamo insieme che sai che volevo diventare giudice, giusto? Be', adesso ne ho la possibilità. Un tempo pensavo che... Be', quello che è successo a tuo padre l'ha reso impossibile. E forse questa... forse questa è una delle ragioni per cui non sono stata una buona moglie per te.» Abbassa brevemente gli occhi, un gesto di timidezza così estraneo al suo carattere che sono sicuro sia finto. Quando Kimmer e io ci sposammo, mio padre non era più nemmeno un giudice. Avvertendo che non mi sono bevuto la sua spiegazione, Kimmer se ne allontana in punta di piedi. «E me ne dispiace. Davvero. Voglio essere migliore per te, Misha. Sul serio. Ci sto provando.» Mi sta carezzando la mano, come se Jerry Nathanson, forse
l'avvocato più importante di Elm Harbor, nemmeno esistesse. «Ma poi, Misha, poi lui muore. So che stai soffrendo e mi dispiace, davvero. Ma i giornali hanno ripreso a parlare di lui. Di tuo padre. Ne parlano tutti. E io penso: va bene, forse riesco comunque a parare il colpo. Vado a trovare il senatore come una brava bambina, e lui se ne sta lì seduto con questo... con questo sorrisetto sprezzante, e io mi dico: perché mi sono presa il disturbo di venire? Perché capisci, il gioco è già deciso in partenza. È deciso che Marc vinca, voglio dire. E poi Ruthie che non si sbottona. E Jack Ziegler che compare al cimitero, e adesso l'Fbi. Che volevano, quei due? Insomma, questa storia di tuo padre... alla fine rovinerà tutto.» Le guance di Kimmer sono rigate di lacrime. Sono anni che non si apre con me in questo modo; cosa abbia detto ad altri non voglio saperlo. La sua sofferenza è sincera, e scioglie le mie riserve. Anche se eravamo compagni di corso, mia moglie ha tre anni meno di me - lei aveva guadagnato un anno, io avevo perso ventiquattro mesi a studiare filosofia e semiotica prima di laurearmi in legge - e ci sono momenti in cui questi tre anni sembrano trenta. «Kimmer, amore, non ne avevo idea» sussurro. Ed è vero. Ci sono lati nascosti di mia moglie che spesso ho paura di scandagliare, e i miei timori hanno contribuito tanto quanto la sua condotta a inacidire gli aspetti più dolci del nostro matrimonio. Le stringo le mani. Lei ricambia la stretta. Le sue lacrime riflettono la luce della candela, e il suo volto diventa ancora più piacevole. «Ma non verrà rovinato un bel niente. Il Giudice era mio padre, non il tuo. E tu non sei il Giudice. Non c'è niente... voglio dire, non hai scandali alle spalle. E di certo non possono rinfacciarti le colpe di tuo suocero.» Kimmer è avvilita. «Invece sì» risponde in modo improvvisamente infantile. «Possono farlo. E lo faranno.» Tira su con il naso. «Lo fanno.» «Non lo faranno» insisto, anche se temo che abbia ragione lei. «E sai che io sono dalla tua parte.» «Lo so» dice lei tristemente, come se nessun altro potesse essere tanto stupido. «E lo zio Mal...» «Oh, Misha, apri gli occhi. Lo zio Mal non potrà fare un bel niente, a meno che questa faccenda non venga dimenticata. Lo capisci? Deve essere dimenticata.» «Che cosa?» «Questa storia di tuo padre. Qualsiasi cosa sia, Misha. Non lo so. L'Fbi,
Jack Ziegler, tutto quanto. Deve essere dimenticata, e presto, oppure la gente dirà: "No, lei no, neanche per sogno, è sposata con il figlio di tu-saichi". Non possiamo tenerle dietro, Misha. Né io, né te, né lo zio Mal. Nessuno. Dobbiamo lasciar perdere, o io non avrò alcuna possibilità.» I suoi misteriosi, tormentati occhi castani scavano nei miei. «Hai capito, Misha? Deve morire qui.» «Capisco.» Il suo fervore, ancora una volta, ha la meglio sulla mia cautela. Kimmer ha sempre avuto un talento speciale per strapparmi una promessa prima che io capisca cosa sto dicendo. «Devi lasciar perdere.» «Ti ho sentito.» «Me lo prometti?» Sembra pensare che io abbia qualche scelta. Io non ne sono sicuro. Perché l'amore è un dono che elargiamo quando preferiremmo non farlo. «Te lo prometto, cara.» Kimmer si abbandona sulla sedia come se tutto questo pregare l'avesse esaurita. «Grazie, tesoro. Grazie infinite.» «Prego.» Sorrido. «Ti amo.» «Oh, Misha» sussurra lei scuotendo il capo. Il cameriere ci porta una bottiglia di vino che Kimmer deve aver ordinato non so quando. Io non bevo, visti i precedenti di mio padre, ma i Madison considerano il prudente consumo di costose bevande alcoliche una delle gioie del palato. Kimmer beve qualche sorso di vino e mi sorride, poi torna a rilassarsi sulla sedia e si guarda intorno. All'improvviso balza in piedi. Conosco il repertorio. Ha adocchiato qualcuno. Kimmer adora fare il giro dei tavoli: non per niente ha presieduto il suo corso di laurea a Mount Holyoke e l'ordine degli avvocati della nostra zona, e non per niente presto potrebbe diventare un giudice federale. La osservo attraversare il locale e salutare una coppia di origini asiatiche che sta cenando nel lato opposto della sala. Si danno la mano e si fanno una risata, poi Kimmer è di ritorno. Lui fa l'editorialista al "Post", mi spiega. L'ha conosciuto oggi, quando è andata a trovare la sua amica del college. La moglie, continua, è produttrice di uno dei talk show televisivi della domenica mattina. «Non si sa mai.» Si stringe nelle spalle, poi mi riprende la mano e giocherella con le mie dita al lume di candela fino all'arrivo delle pietanze. Di solito sarei disposto a lasciarla fare per l'intera serata, ma il mio cervello si rifiuta di collaborare. Mentre comincio a tagliare la mia costosissima bistecca vengo assalito da un pensiero provocato dalla visita di mia moglie a un altro tavolo.
«Cara?» «Mmh?» «Ricordi l'ultima volta che abbiamo visto mio padre? Che l'abbiamo visto insieme?» Kimmer annuisce. «L'anno scorso. Era venuto in città per la riunione degli ex alunni o qualcosa del genere.» Non ammetterà mai che avrebbe potuto aver voglia di vedere Bentley, o me, un po' meno lei. «All'incirca in questo periodo.» «E tu dicesti che sembrava... preoccupato.» «Sì, me ne ricordo. Eravamo seduti a cena al club della facoltà, mi pare. Tu gli facevi una domanda e lui non rispondeva, continuando a fissare nel vuoto. Gliela rifacevi, e a quel punto sbottava: "Non c'è bisogno di urlare".» Il suo sguardo si addolcisce. «Oh, Misha, mi dispiace. Non è un gran bel ricordo, vero?» Scelgo di non proseguire per quella strada. «Da allora l'ho rivisto. Una volta.» Ero a Washington per lavoro e abbiamo cenato insieme. Anche in quell'occasione era distratto. «Mi chiedevo... ti era sembrato... quando hai detto che l'avevi visto "preoccupato", intendevi...» «Teso, Misha. Stressato.» Mi riprende la mano. «Tutto qui.» Scuoto la testa, chiedendomi come mai l'immagine dell'ultima visita del Giudice a Elm Harbor mi sia tornata in mente con tanta prontezza. Forse la raccapricciante insistenza di Mariah sul fatto che non sia morto per cause naturali sta cominciando a condizionarmi. Il discorso scivola su altri argomenti: pettegolezzi sulla facoltà, chiacchiere sullo studio, trattative sui rispettivi periodi di vacanza. Kimmer mi racconta cosa sta combinando sua sorella Lindy, e io riciclo vecchie storie su Addison. Le racconto quanto si è divertito Bentley il suo primo giorno sui pattini ma non le dico della donna che ha flirtato con me né della mia tentazione di ricambiarla. Kimmer, forse riconoscendo qualcosa nei miei occhi prima che li distolga con fare colpevole, mi prende in giro sulla cotta che tutti credevano avessi preso per Lindy, la più solida e fidata delle sorelle Madison, quella che i miei genitori speravano ardentemente che sposassi. Proseguiamo a canzonarci a vicenda come facevamo ai vecchi tempi, ai bei tempi, quelli del corteggiamento, e quando arriva il dolce, Kimmer, che è stata attenta, mi dice che è passata un'ora. È tornata a farsi seria. Sospiro, ma chiamo diligentemente il cameriere chiedendogli dove sono i telefoni; lui mi porge un apparecchio con gesto plateale, collegandolo a una presa sotto il tavolo. Strizzo l'occhio a mia moglie.
«Potevi usare il mio cellulare» dice lei in tono tetro. «Lo so, ma ho sempre desiderato fare come al cinema.» Il suo sorriso è teso; mi rendo conto di quanto sia preoccupata. Le do qualche colpetto sulla mano e compongo il numero. Grace risponde e, come promesso, mi passa subito lo zio Mal. «Talcott» tuona il grande Mallory Corcoran. «Sono felice che tu abbia chiamato. Stavo per diffondere un avviso a tutte le unità. Ascolta, il problema è serio. In primo luogo, al momento il dipartimento di Giustizia non sta indagando su Jack Ziegler. Vorrebbero avere qualche elemento contro di lui, perché lo sai, il sogno di ogni procuratore è mettere al fresco un bianco potente...» Abbaia queste parole senza la minima ironia. «Ma al momento non possiedono un bel niente. Hanno altre gatte da pelare.» «Capisco» rispondo, malgrado non sia vero. Kimmer mi legge in volto e sembra spaventata. «Ma non è questo il problema. Morton Pearlman ha parlato con il ministro della Giustizia, il quale ha parlato con il direttore del Bureau, il quale ha parlato con i suoi. E questo è ciò che mi ha riferito il ministro della Giustizia in persona. L'Fbi non sapeva che ieri al cimitero hai parlato con Jack Ziegler, Talcott. Non c'era alcuna sorveglianza. E nessuno dell'Fbi è venuto a farti visita questa mattina. Perché avrebbero dovuto? Nessun agente dell'Fbi ti ha interrogato riguardo a Jack Ziegler. E i controlli sui precedenti di Kimberly non sono ancora cominciati.» «Stai scherzando.» «Mi piacerebbe. Ora, sei sicuro che abbiano detto di essere del Bureau?» «Sicurissimo.» «Hai visto le loro credenziali?» «Naturalmente.» Ma ripensandoci, mi rendo conto di aver dato soltanto un'occhiata distratta ai loro portafogli: chi esamina le foto, i numeri e tutti gli altri dettagli? «Lo immaginavo.» Lo zio Mal esita, come se non sapesse bene come mettermi al corrente di una sgradevole verità. «Talcott, ascolta. Qualcuno si è presentato da te fingendo di essere del Bureau. Si dà il caso che sia un reato grave. Il che significa che loro devono indagare. Come gesto di cortesia hanno rimandato il tutto a domani. Ma domattina due agenti dell'Fbi, due di quelli veri, ti vogliono interrogare. Qui allo studio alle undici. Io non sarò presente, vado qualche giorno alle Hawaii con Edie, ma ci saranno Meadows e un altro paio dei miei. A titolo gratuito» aggiunge, un considerevole sollievo ma anche una sorta di insulto. Avverte la mia angoscia.
«Mi dispiace di scaricarti tutto addosso in questo modo, Talcott. Davvero. Ma quando la cosa sarà risolta, farò quelle telefonate per Kimberly. Te lo prometto.» "Quando la cosa sarà risolta" sto pensando mentre riaggancio. Nel senso che non muoverà un dito per aiutare Kimmer finché non avrà capito da che parte soffia il vento. «Che succede, tesoro?» domanda lei stringendomi la mano come se potessi salvarla dall'affogare. «Misha, che c'è?» Guardo mia moglie, la mia bellissima, brillante, infedele, disperatamente e infelicemente ambiziosa consorte. La madre del nostro bambino. L'unica donna che mai amerò. Vorrei sistemare ogni cosa, ma non posso. «Non morirà qui» le dico. 9 UN DISSAPORE PEDAGOGICO Il martedì successivo, dodici giorni dopo la morte di mio padre, faccio ritorno alla mia tetra aula, che sembra spesso popolata da ideologi della Phi Beta Kappa poco istruiti ma profondamente appassionati. Gente di sinistra che crede nella lotta di classe, ma quasi sicuramente non ha mai aperto Das Kapital e di certo non ha mai letto Werner Sombart; intransigenti capitalisti che accettano l'infallibilità della mano invisibile, ma non hanno mai studiato Adam Smith; femministe di terza generazione convinte che i ruoli sessuali siano una trappola, ma che non hanno mai letto Betty Friedan; darwinisti sociali che propongono di lasciare che i poveri nuotino oppure affondino, ma non hanno mai sentito parlare di Herbert Spencer o del saggio di William Sumner The Challange of Facts; separatisti neri che borbottano cupe accuse al razzismo istituzionale, ma non conoscono l'opera di Carmichael e Hamilton, gli inventori dell'espressione. Tutti nostri studenti, tutti disperatamente giovani e intelligenti, e di conseguenza disperatamente sicuri di essere gli unici depositari della ragione, e quasi tutti, quali che siano le cause da loro abbracciate, destinati a essere risucchiati da enormi studi legali specializzati in diritto societario, gigantesche fabbriche del profitto dove fattureranno cifre astronomiche ai loro clienti, arrivando presto a guadagnare il doppio dei loro migliori insegnanti alla metà dei loro anni, sacrificando ogni cosa sull'altare della carriera, avanzando inesorabili mentre l'ideologia e la famiglia crollano di pari passo attorno a loro. E finalmente, una decina d'anni dopo, ormai cinici e amareggiati,
raggiunti i loro bramati obiettivi - la partecipazione societaria, la cattedra, il seggio di giudice, qualunque sia il vascello su cui hanno sognato di veleggiare - sposteranno lo sguardo sulle acque agitate e deserte per rendersi conto che sono arrivati ma non hanno niente, assolutamente niente, e si chiederanno cosa fare con il resto delle loro miserabili esistenze. Ma forse sto misurando le loro prospettive in base alle mie. La mia famiglia e io siamo tornati a Elm Harbor lo scorso giovedì, dopo il mio breve colloquio con i veri agenti del Federal Bureau of Investigation alla Corcoran & Klein, nel quale sono stato affiancato da una Cassie Meadows sorprendentemente matura e competente. Kimmer si è rimessa subito al lavoro, tornando all'istante ai suoi folli ritmi e orari, e ha già fatto un altro viaggio a San Francisco per la ricchezza e la gloria dell'EHP. La vera Fbi non è riuscita a rintracciare i due uomini che si sono presentati in Shepard Street, ma mia moglie si è convinta che fossero due giornalisti in cerca di scandali. Non si cura di convincere anche me. Mariah, nel frattempo, ha una nuova teoria. L'assassino del Giudice non è più Jack Ziegler, ma una parte in causa che rinfaccia a mio padre di aver respinto un suo appello. Mia sorella non si lascia scoraggiare dal fatto che il Giudice non esercitasse da più di un decennio. "Probabilmente una grande azienda" ha insistito ieri sera al telefono nel corso della sua terza telefonata in cinque giorni. "Non hai idea di quanto siano amorali. O di quanto a lungo possano nutrire un rancore." Mi sono chiesto cosa avrebbe da dire in merito Howard, ma mi sono prudentemente morsicato la lingua. Mariah ha aggiunto che una sua amica aveva accettato di fare una ricerca in rete sui possibili sicari. Ma quando ho espresso qualche cauto dubbio, mi ha rimproverato ancora una volta per non appoggiarla mai nei momenti critici. "Le sorelle sono fatte così" ha osservato Rob Saltpeter, il lungo e sottile "futurista costituzionale" che gioca con me a pallacanestro, quando ieri mattina gli ho raccontato una parte della storia mentre eravamo seduti nello spogliatoio della palestra in cui due poliziotti fuori servizio ci avevano appena dato una batosta. I suoi occhi, come sempre, erano sereni. "Ma non devi dimenticare che lei sarebbe al tuo fianco in caso di difficoltà." "Cosa te lo fa dire?" Rob ha sorriso. Alto più di un metro e novanta, mi sovrasta di una decina di centimetri, ma io peso probabilmente una ventina di chili più di lui. Pur non essendo ancora grasso, sono decisamente sovrappeso; e lui è terribilmente magro. Nessuno dei due è un gran bello spettacolo in mutande. "È una sensazione."
"Non la conosci nemmeno." "Ho due sorelle" ha obiettato Rob, il cui mirabile calore umano è temperato da una zelante certezza che tutte le famiglie siano, o dovrebbero essere, come la sua. "Non come Mariah." "Non importa com'è fatta. Il tuo dovere di aiutarla non cambia. Non deriva dal suo comportamento, o da quello che pensi di lei. Deriva dal fatto che sei suo fratello." "Pensavo che le relazioni basate sulla condizione giuridica le avessimo abolite un secolo fa" scherzo con una tipica, sciocca battuta da avvocato. In una relazione basata sulla condizione giuridica, gli obblighi delle due parti sono determinati da ciò che sono (marito-moglie, genitore-figlio, padrone-servo e così via) e non da un contratto. "L'uomo le ha abolite, ma Dio no." Non c'è molto da obiettare a un'affermazione del genere, e immagino di essere d'accordo. Rob è, secondo la sua stessa descrizione, un ebreo osservante, e parla della propria fede più di qualsiasi altro professore io conosca. Lo fa perfino in classe, suscitando l'ostile imbarazzo di molti studenti. Forse è questa sua inclinazione oracolare che ci impedisce di diventare più intimi. O forse è il semplice fatto che io non sono un tipo amichevole. Gli ho chiesto consiglio per nascondere un'imprevista ondata di sofferenza. "Non si può che andare avanti" ha concluso con una scrollata di spalle, che è la sua risposta per quasi ogni cosa. E va bene, vado avanti. Male. Ed è per questo che oggi, il giorno del mio rientro in classe, mi ritrovo a perseguitare un giovane sventurato il cui peccato è stato informarci che tutti i casi che io invito i miei studenti ad approfondire sono irrilevanti, poiché sono sempre i ricchi a vincere. Ora, è vero che ogni autunno c'è un povero sciocco che enuncia questa stessa, labile teoria, ed è altrettanto vero che non pochi professori hanno guadagnato una cattedra presso ottime facoltà di giurisprudenza somministrandone versioni raffinate e imbottite di paroloni, ma io non sono in vena di chiacchiere. Rivolgo un'occhiataccia all'arrogante studentello e per un orribile istante vedo il futuro, o forse soltanto il nemico: giovane, bianco, sicuro di sé, sciocco, magro, imbronciato, crivellato di piercing, ingioiellato, vestito grunge, capelli color barba di granturco raccolti in una coda di cavallo, il tipo del cinico conformista che crede di essere un iconoclasta. Qualche generazione fa avrebbe indossato a rovescio la sua felpa con la scritta del college, tanto per provare a tutti
quanto poco gliene importasse. Ai tempi in cui io andavo al college sarebbe stato il primo a salire sulle barricate, e si sarebbe assicurato che tutti lo vedessero. Così com'è sicuro che tutti lo stanno osservando in questo momento. Tiene il gomito sullo schienale della sedia, il pugno dell'altra mano sotto il mento, e nella sua postura leggo insolenza, sfida, forse perfino il razzismo poco sottile dello studente bianco sedicente progressista che non può credere che il suo professore di colore possa saperne più di lui. Di qualsiasi cosa. Una leggera brina rossa danza attorno al suo volto come un alone. Potrei farlo a pezzi, mi sorprendo a pensare. Mi ammonisco di essere garbato. «Molto interessante, signor Knowland» sorrido avvicinandomi al suo banco lungo il passaggio centrale. Incrocio le braccia sul petto. «Ora, che rapporto ha la sua interessantissima tesi con il caso in questione?» Ancora appoggiato all'indietro, lui si stringe nelle spalle incrociando a malapena il mio sguardo. Mi risponde che la domanda non è pertinente. Non sono le regole giuridiche che contano, spiega al soffitto, ma il fatto che i lavoratori non possono aspettarsi alcuna giustizia dai tribunali capitalisti. È la struttura della società, non il contenuto delle regole, a portare all'oppressione. Potrebbe anche avere in parte ragione, ma niente di tutto questo ha la benché minima rilevanza, e la sua terminologia è antica come una parrucca incipriata. Adotto un vecchio trucco pedagogico, avvicinandomi per occupare il suo campo visivo e costringerlo a rammentare chi di noi due è in una posizione di comando. Gli chiedo se ricorda che il caso in questione non riguarda un dipendente che ha fatto causa al suo datore di lavoro bensì un automobilista che ne ha citato un altro in giudizio. Il signor Knowland, tutto storto sulla sua sedia, risponde con calma che dettagli simili sono quisquilie, una perdita di tempo. Continua a evitare di guardarmi. La sua postura ostenta mancanza di rispetto, e tutti se ne rendono conto. L'aula sprofonda nel silenzio; svaniscono perfino i soliti rumori delle pagine che vengono girate, delle dita che picchiettano sulle tastiere dei computer portatili e delle sedie che raschiano sul pavimento. Il rosso si fa più intenso. Ricordo di averlo dovuto rimproverare tre settimane fa per aver giocherellato con il suo palmare durante una lezione. Sono stato cauto, convocandolo soltanto al termine dell'ora. Ma lui ha reagito con rabbia, appartenendo alla generazione convinta che non esistano regole a parte quelle che stabilisce l'individuo stesso. Ora, attraverso la nebbia cremisi, il mio studente comincia a rassomigliare all'agente McDermott mentre mi mentiva spudoratamente nel salotto di Shepard Street... e all'improvviso è
troppo tardi per fermarmi. Sorridendo con la stessa insolenza del signor Knowland, gli domando se per dimostrare la veridicità o la falsità della sua teoria abbia intrapreso uno studio sui casi di illecito e li abbia classificati secondo i redditi delle partì in causa. Con un'occhiataccia, lui ammette di non averlo fatto. Gli chiedo se sia a conoscenza di un simile studio effettuato da altri. Lui dà una scrollata di spalle. «Lo interpreto come un no» dico lanciandomi all'attacco. In piedi di fronte al suo banco, lo informo che in effetti esiste un numero sostanzioso di studi sugli effetti della ricchezza sui casi di illecito. Gli chiedo se ne abbia letto qualcuno. Le antiquate luci al neon ronzano e sibilano ambigue mentre attendiamo la risposta del signor Knowland. Lui percorre con lo sguardo i volti impietositi dei suoi compagni di corso, alza gli occhi sui ritratti dei celebri laureati bianchi che tappezzano le pareti e finalmente mi guarda. «No» dice con voce ben più debole di prima. Annuisco come se l'avessi sempre saputo. E poi oltrepasso la linea. Come qualsiasi docente di giurisprudenza appena competente dovrebbe sapere, questo è il momento in cui dovrei riportare abilmente la discussione sul caso, magari prendendomi leggermente gioco del signor Knowland chiedendo a un altro studente di aiutarlo a uscire dal pasticcio in cui si è cacciato. Invece gli rivolgo la schiena, mi allontano di due passi, mi volto di nuovo, lo addito e gli chiedo se gli capita spesso di offrire opinioni non basate sui fatti. Lui sgrana gli occhi, frustrato e ferito come un bambino. Non dice nulla, apre la bocca e la richiude sentendosi in trappola: nessuna risposta lo può aiutare. Distoglie ancora lo sguardo mentre i suoi compagni di classe cercano di decidere se ridere o meno. (Alcuni lo fanno, altri no.) La testa mi pulsa invasa dal rosso. «È questo che le hanno insegnato a... Princeton, giusto?» chiedo. A questo punto, gli studenti sono troppo scandalizzati per ridere. Non apprezzano l'arrogante Avery Knowland, ma ora apprezzano ancor meno l'arrogante professor Talcott Garland. Nell'improvviso e teso silenzio che cala sull'aula, mi rendo conto troppo tardi che io, docente di ruolo presso una delle migliori facoltà di legge del paese, sto umiliando uno studente ventiduenne che soltanto cinque anni fa frequentava il liceo: l'equivalente universitario di un bullo di quinta elementare che maltratta un bambino dell'asilo. Non importa che Avery Knowland sia arrogante, o ignorante, e nemmeno che sia un razzista. Il mio compito è istruirlo, non metterlo in imbarazzo. Non sto facendo il mio lavoro. I miei demoni mi hanno inseguito fino in classe. Il risentimento si attenua. E cerco di riparare al danno. Certo, aggiungo
passeggiando nella parte anteriore dell'aula come un signorotto di campagna, dagli avvocati si pretende a volte di sostenere ciò che non sono in grado di provare. Ma - e qui ruoto sui tacchi e agito ancora il dito in direzione del signor Knowland - quando offrono queste argomentazioni non dimostrate e non dimostrabili, lo devono fare con una certa verve. E se viene chiesto loro di provare determinate affermazioni con i fatti, devono essere talmente sicuri di sé da potersi lanciare nella polka del tribunale, che spiego ripetendone le semplici istruzioni: schivare, schivare, schivare, stare sempre in punta di piedi e mai e poi mai lasciarsi trasportare dalla musica. Risatine sollevate e nervose da parte degli studenti. Eccetto che da un truce signor Knowland. Riesco a concludere la lezione e perfino a chiamare a raccolta un minimo di dignità, ma non appena scoccano le dodici mi rifugio nel mio ufficio, furente per aver permesso che i miei demoni mi spingessero a mettere in imbarazzo uno studente. L'incidente rafforzerà la mia reputazione nell'istituto - non è una bella persona, si dicono l'un l'altro gli studenti, e Dana Worth, la principale conoscitrice di pettegolezzi studenteschi, me lo riferisce allegramente - e forse la reputazione corrisponde alla realtà. Il mio ufficio è al primo piano dell'edificio principale, chiamato "Oldie" da gran parte dei membri della facoltà e da tutti gli studenti, non perché sia vecchio, sebbene lo sia, ma perché è stato costruito grazie a una sovvenzione della famiglia Oldham. Merrit Oldham, che era cresciuto nell'agio suo nonno aveva inventato un tipo di percussore durante la Guerra civile e, secondo la leggenda, era morto quando il prototipo difettoso di una nuova versione gli aveva fatto esplodere una pistola in faccia -, si era laureato in legge agli inizi del secolo e aveva proseguito verso le glorie di Wall Street come fondatore dello studio legale Grace, Grand, Oldham & Fair. Quando ero studente, lo studio Grace, Grand era il più importante di New York, ma negli anni Ottanta era crollato in seguito allo scandalo Drexel Burnham. Due dei soci più in vista erano finiti in prigione, altri tre erano stati costretti a dare le dimissioni e il resto aveva cominciato a litigare attorno alle spoglie. Alla fine, lo studio si divise in due tronconi. Uno andò a fondo nel giro di pochi anni; l'altro, che aveva conservato il nome Oldham, galleggia ancora, ma a malapena, e i nostri studenti, che memorizzano le graduatorie di prestigio degli studi legali di Manhattan prima ancora di imparare i rudimenti delle leggi sull'illecito, farebbero la fame piuttosto che andarci a
lavorare. Lo studio legale sarà anche finito, ma il nostro edificio si chiama ancora Oldie, ufficialmente Veronica Oldham Law Center. Merrit, che adorava quella santa di sua madre, non si sposò mai, non ebbe figli e viene considerato uno dei loro dagli studenti gay dell'istituto; probabilmente a ragione, se anche solo una frazione delle storie che Theo Mountain racconta corrisponde al vero. Il Law Center si erge su una collina erbosa alla fine di Town Street, e domina la cittadina. Comprende due palazzi quadrati a nord e a sud di Eastern Avenue, collegati da un ponte pedonale. Il palazzo meridionale, dal quale si gode una vista del campus principale, è l'Oldie, un edificio vagamente gotico con tre piani di uffici sul lato orientale e sei piani di biblioteca a occidente, collegati da una serie di aule lungo il lato sud e da un alto muro di pietra a nord. Tutto ciò circonda un delizioso cortile lastricato che è probabilmente la maggiore attrazione estetica della scuola. Il palazzo settentrionale del Center, aggiunto vent'anni or sono nell'area occupata da una vecchia chiesa cattolica devastata da un incendio e acquistata da un preside lungimirante, comprende un grande dormitorio alquanto spartano che ospita quasi la metà dei nostri studenti e un edificio di mattoni basso e sgradevole (un tempo la scuola parrocchiale) riempito dagli uffici di tutte le organizzazioni studentesche tranne la più prestigiosa, la rivista di legge. La sistemazione provoca una punta di gelosia, ma non abbiamo scelta: i nostri ex alunni, come gli ex alunni di ogni altro istituto, vedono il cambiamento come il nemico della memoria, e non ci permetterebbero mai di allontanare la rivista di legge dal suo tradizionale alveare di stanze al primo piano dell'ala della facoltà. Per raggiungere il mio ufficio bisogna salire la scalinata centrale di marmo, girare a sinistra al primo piano, arrancare sino alla fine del cupo corridoio dal pavimento di linoleum scrostato, girare un'altra volta a sinistra e contare quattro porte sul lato sinistro. Appena prima del mio ufficio c'è un ampio locale che ospita quattro segretarie della facoltà, ma non la mia, la quale siede, grazie a un esempio affascinante di logica accademica, al secondo piano in un altro angolo dell'edificio. Al di là del mio ufficio c'è la tana di Amy Hefferman, l'eterna "Principessa della Procedura", amatissima dagli studenti, che ogni anno accenna alla pensione, ma poi fa marcia indietro quando gli alunni dell'ultimo anno la nominano speaker della cerimonia di laurea; direttamente di fronte c'è il giovane Ethan Brinkley, che ha l'abitudine di venirti a trovare senza preavviso per elargire improbabili racconti dei suoi tre anni come consulente aggiunto della commissione del
Senato sui servizi segreti; accanto a lui, in una stanza poco più ampia della cabina armadio di Kimmer, siede l'ancora più giovane Matthew Goffe, che tiene un corso sulle grandi imprese, uno sulle transazioni garantite e un altro sulle alternative possibili alla norma di legge. Matt è uno dei pochi membri della nostra facoltà privo di cattedra e, a meno che non metta fine alla sua sconcertante abitudine di firmare ogni singola petizione studentesca e di partecipare a ogni singolo boicottaggio, è probabile che rimarrà tale. Accanto a lui, nell'angolo nordoccidentale dell'edificio, c'è l'ampia aula occupata da Stuart Land, l'ex preside e probabilmente l'intelletto più rispettato della facoltà, che insegna un po' di tutto, dispone di due segretarie e il cui speciale interesse è la reputazione dell'istituto. Stuart, dicono le voci di corridoio, non si è mai ripreso dal colpo di mano che ha portato al suo esonero e alla nomina di Dean Lynda, una rivoluzione più politica che amministrativa, poiché l'esplicito conservatorismo di Stuart causava continui contrasti con Theo Mountain, Marc Hadley, Tish Kirschbaum e molte altre autorità dell'istituto. O così si mormora. Ma questo è il costume locale: lungo i nostri numerosi e tortuosi corridoi si ascoltano i racconti più disparati: alcuni eroici, alcuni abominevoli, alcuni veri, alcuni falsi, alcuni divertenti e alcuni tragici, e tutti si combinano a formare l'entità mistica e indefinibile che chiamiamo "la scuola". Non esattamente l'edificio, la facoltà, gli studenti né gli ex alunni: più di tutte queste cose ma anche meno, un paradosso, un ordine, un mistero, un mostro, una gioia assoluta. I corridoi dell'Oldie sono caldi e familiari. Mi piacciono. Il più delle volte. Oggi, tuttavia, quando supero l'ultimo angolo per raggiungere il mio ufficio dopo la sventurata lezione, incontro un'agitata Dana Worth intenta a bussare con fare imperioso alla mia porta, quasi fosse irritata dal fatto che io non sia presente. Scuote la maniglia, spinge, tira. Si scherma gli occhi con una mano e sbircia attraverso il vetro smerigliato, anche se l'ufficio è chiaramente al buio. La guardo dapprima divertito e poi preoccupato, poiché non vedo Dana così agitata dal giorno in cui mi ha detto che avrebbe lasciato il mio amico Eddie... e poi mi ha spiegato il perché. Dana, che tiene corsi sui contratti e sulle opere dell'ingegno, è una delle nostre stelle, malgrado la piccola statura porti invariabilmente qualche sventurata matricola a credere di poterle mettere i piedi in testa. Dana pro-
viene da una vecchia famiglia della Virginia che un tempo possedeva molto denaro (leggi schiavi), ma che lo ha perso in quelli che lei chiama scherzando "i recenti inconvenienti". Conduce una vita allegra, e in qualche maniera affascinante, in un mondo incentrato su se stessa. ("Tua sorella è morta in un incidente stradale? Sai, alla University of Virginia uscivo con un uomo che poi è morto in un incidente d'auto. Era un McMichael, uno dei McMichael della contea di Rappahannock." Quando le ricordavo che mio padre conosceva di persona il vecchio McMichael, Dana proseguiva imperterrita: "Ma non nel modo in cui io conoscevo suo figlio, scommetto".) Dana, di tre anni più vecchia di me, è sopravvissuta e ha addirittura superato il piccolo scandalo creato dal modo in cui è finito il suo matrimonio. Eddie, la cui esistenza all'università si svolgeva in gran parte all'ombra della moglie, ci ha lasciati l'anno scorso per tornare nel natio Texas, dove, sostiene, ciò che gli è accaduto a Elm Harbor non sarebbe stato permesso. (Ma non dice chi avrebbe dovuto impedirlo.) La sua partenza ha ridotto del venticinque per cento la componente nera della facoltà. Dana l'ha lasciato per una donna chiamata Alison Frye, una newyorkese nervosa e bene in carne tutta capelli rosso carota e rabbia bruciante nei confronti del mondo. Alison è una romanziera di scarso successo e gestisce un sito Internet pieno di frivoli ma eruditi commenti sul sociale, più che altro con un'impostazione "new economy". La sua corte a Dana fu un evento più o meno pubblico, quantomeno nell'ambiente informatico. Tre anni fa, quando la loro relazione era ancora segreta, Alison scrisse sul suo sito una composizione intitolata "Cara Dana Worth", una sorta di lettera d'amore, che venne scaricata e inviata via e-mail in tutto il mondo e, cosa ancora più importante, in tutto il campus. Dana ama dire che Alison l'ha mortificata al punto da farla innamorare. Molti di noi hanno adottato il titolo del brano come soprannome ironico, malgrado suo marito, comprensibilmente, non ne capisse lo spirito. Quando Dana e Eddie erano sposati, Kimmer e io li frequentavamo spesso, poiché Eddie e io giocavamo insieme da bambini. I genitori di Eddie sono vecchi amici di famiglia, e lui potrebbe addirittura essere un lontano cugino da parte di mia madre, anche se non siamo mai riusciti a ricostruire di preciso i collegamenti. La fine del matrimonio Dozier-Worth, avvenuta due anni fa, ha guastato i miei rapporti con entrambi. Eddie è diventato un estraneo, e le sue posizioni politiche si sono spinte ancora più a destra. Dana, da parte sua, mi piace molto, ma io e lei abbiamo gravi divergenze su un numero infinito di
argomenti, primo fra tutti il modo in cui ha trattato Eddie. "Misha, per favore, devi cercare di considerare la cosa dal mio punto di vista" mi pregò nel corso di quell'ultima, dolorosa discussione prima di lasciarlo. "No, non devo" ribattei infuriato, incapace di generosità. Forse temevo di scorgere, nella disintegrazione del loro matrimonio, una prefigurazione della fine del mio. Oggi Dana e io cerchiamo di essere amici, ma per citare Casey Stengel, a volte non funziona mai. Mentre osservo la "Cara Dana", ricordo le sue lacrime al funerale di mio padre. Ammirava il Giudice, il suo ex principale, e forse lo amava anche un po', malgrado lui non si fosse mai riconciliato con il movimento per i diritti dei gay D'altra parte non lo ha fatto nemmeno Dana, la quale insiste, in quel suo modo pedante, di essere più interessata alla propria libertà che ai propri diritti. Dana è contraria alle norme che regolano l'assegnazione degli affitti o le assunzioni, poiché è una libertaria radicale dalla testa ai piedi, sempre freschi di pedicure. Tranne sulle questioni dell'aborto. Dopo il funerale del Giudice, Dana si è unita alla processione al volante della sua lussuosa Lexus color oro completa di adesivo dall'equivoco messaggio; "Un'altra lesbica per la vita", recita lo slogan, cosa che tende a confondere la gente. E Dana ama confondere la gente. «Dana» dico piano mentre lei continua a battere alla porta. «Dana!» Si volta verso di me, portandosi la piccola mano alla gola nel tipico gesto contrito di generazioni di signore del Sud. I suoi corti capelli neri brillano alla luce fioca del corridoio. Ma il suo volto mi spaventa. La Cara Dana Worth è sempre pallida, ma oggi il suo biancore è insolitamente... be', insolitamente bianco. «Oh, Misha» geme scuotendo il capo. «Misha, mi dispiace tanto.» «Scommetto che ci sono altre brutte notizie» dico lentamente, le mie parole frenate dal blocco di ghiaccio che mi si è formato intorno al cuore. «Non lo sai?» Dana è sorpresa. Per un attimo sembra incerta su cosa fare, il che non succede quasi mai. La Cara Dana è sufficientemente coraggiosa da passare gran parte delle sue domeniche mattina in una piccola chiesa metodista e tradizionalista a una trentina di chilometri reali e a un migliaio di chilometri culturali dal campus. "Ne ho bisogno" risponde ai pochi colleghi che osano chiederle spiegazioni. «Che cosa non so?» domando con una punta di panico tutto mio. «Oh, Misha» ripete Dana in un sussurro. Poi si ricompone. Mi afferra per un braccio mentre apro la porta, ed entriamo insieme nel mio ufficio.
Indica il piccolo, elegante lettore CD sullo scaffale che sovrasta il mio computer. Kimmer me l'ha comprato in uno dei suoi viaggi. Mia moglie detesta spendere, e così ogni volta che mi fa un regalo costoso lo considero come una sorta di trofeo per il secondo posto, la sua versione dell'obolo del senso di colpa. «Ha una radio, quell'affare?» chiede Dana. «Sì. Ma non la uso molto.» «Accendila.» «Come?» «Ascolta il giornale radio.» «Perché non mi dici...» Gli occhi grigi di Dana sono turbati e tristi. Una delle sue grandi debolezze è sempre stata l'incapacità di affrontare il dolore degli altri. Il che significa che qualsiasi notizia voglia comunicarmi, mi farà soffrire. «Ti prego. Accendi.» Reprimo una risposta su quanto detesti questi giochetti perché capisco che è sinceramente sconvolta. Mi avvicino allo stereo, ancora sintonizzato sulla stazione locale della National Public Radio, la quale, quando l'accendo, sta trasmettendo dell'insipida musica classica: la Fanfara per l'uomo comune di Copland, credo. Mi sposto sulla stazione dedicata alle notizie, che a Elm Harbor si riceve con la stessa chiarezza che a New York. Il conduttore si sta abbandonando a una retorica ipocrita e dolente sull'ultimo episodio di violenza razzista, un predicatore nero torturato a morte. Mi sento ribollire nel profondo: notizie di questo genere sono un colpo alle mie componenti più sensibili. Provo sempre il desiderio di comprare un paio di pistole, prendere i miei cari e rifugiarmi in collina. E questa volta un prete! Ascolto le dichiarazioni, le voci dello sdegno nazionale: Jesse Jackson, Kweisi Mfume, il presidente degli Stati Uniti. Due bambini hanno scoperto il corpo oggi stesso, fra l'erba alta dietro le altalene di un campo giochi. Mi volto verso Dana. «È questo che volevi farmi sentire?» Lei annuisce appollaiandosi sull'angolo della mia scrivania. «Ascolta» dice con un filo di voce. Mi acciglio. Non capisco, ma continuo ad ascoltare. La vittima è stata trovata con le braccia e le gambe cosparse di bruciature di sigaretta e alcune unghie strappate. È stata torturata, spiega lo speaker. La morte sembra causata da un colpo di pistola alla testa, e probabilmente è stata una benedizione. Chiudo gli occhi. Una vicenda orribile, è vero, ma per quale ragione Dana pensa... Aspetta.
Il corpo è stato trovato in una cittadina nelle vicinanze di Washington. Aumento il volume. Una spaventosa debolezza mi parte dalla punta dei piedi e comincia a risalire lentamente fino a provocarmi le vertigini. L'aria diventa pesante e oppressiva, lo stomaco mi si contrae in un conato e i mobili del mio ufficio cominciano a tingersi di un rosso spaventoso e asfissiante. "Fa' attenzione agli altri... Non vorrei che vi succedesse qualcosa." Il prete assassinato è Freeman Bishop. 10 UNA TRAGICA COINCIDENZA «Non ha nulla a che fare con vostro padre» dice il sergente B.T. Ames, picchiettando con le dita su una gonfia cartella sul tavolo di metallo. «Non vedo come possa esserne tanto sicura» ribatte Mariah, seduta accanto a me su una delle dure sedie di legno nello stanzino accanto alla sala agenti. Una singola finestra all'altezza delle spalle lascia entrare talmente poca luce che la giornata sembra grigia; mi riesce difficile ricordare il luminoso splendore autunnale che mi sono lasciato dietro soltanto venti minuti fa entrando nell'edificio. È giovedì mattina, nove giorni dopo il funerale del Giudice, e io e Mariah siamo spaventati... malgrado entrambi i nostri coniugi pensino che siamo un po' sciocchi. Io credo che potrebbero avere ragione, ma Mariah mi ha pregato di accompagnarla. Ci siamo incontrati all'aeroporto LaGuardia poche ore fa e abbiamo preso il volo per Washington. Mariah, che può permettersi di spendere di più, ha noleggiato un'auto con la quale abbiamo proseguito per i sobborghi del Maryland, diretti a questo incontro. «Il mio lavoro è essere sicura» dice impassibile la detective. «Ne hanno ucciso uno» spiega Mariah al sopracciglio inarcato della detective «e poi hanno ucciso anche l'altro.» Il sergente Ames sorride, ma riesco a vedere la stanchezza. Per ottenere questo colloquio con un'occupatissima detective della contea di Montgomery, Mallory Corcoran ha dovuto fare diverse telefonate dalle Hawaii, incalzato da Meadows che a sua volta era tormentata da me. Il sergente, appoggiandosi all'austera scrivania di metallo, ha messo in chiaro di avere un bel po' di lavoro da sbrigare e di poterci concedere solo pochi minuti. Accettiamo tutto il tempo che può darci. «Ho controllato i referti su vostro padre» riprende il sergente Ames agi-
tando un fascio di fax. «È morto per un attacco di cuore.» Solleva una mano per anticipare qualsiasi protesta. «So che ne dubitate, e avete tutto il diritto di farlo. Io credo che i referti siano corretti, ma non è sotto la mia giurisdizione. Il reverendo Freeman Bishop, invece, è nella mia giurisdizione. E lui è stato assassinato. Forse è stato ucciso qui, oppure altrove e poi semplicemente scaricato in questa zona. Comunque sia, Freeman Bishop è un mio caso. Oliver Garland no. E quello che vi sto dicendo è che i due casi non hanno niente in comune.» Rivolgo un'occhiata a mia sorella, ma lei sta fissando il pavimento. Il suo completo giacca e pantaloni di marca è nero, come le scarpe e il foulard, e la scelta mi sembra un po' melodrammatica. Ma Mariah è fatta così. Se non altro sembra rilassata. Io mi sento rigido e scomodo nella giacca di tweed meno frusta delle tre che possiedo, di colore vagamente marrone. In ogni caso, sembra che sia giunto il mio turno di parlare. Mi spalmo sul volto quello che spero sia un sorriso amabile. «Capisco il suo punto di vista, sergente, ma lei deve comprendere il nostro. Padre Bishop era un vecchio amico di famiglia. Soltanto una settimana fa ha officiato il funerale di nostro padre. Può capire che siamo rimasti un po'... scossi.» Il sergente Ames libera un grosso sbuffo d'aria. Poi si alza e aggira il tavolo per guardare fuori dalla finestrella, bloccando quel poco di luce che questa lascia entrare. È un membro della nazione più pallida, una donna robusta ma aggraziata con una mascella squadrata e rabbiosa e capelli ricci castani. Il suo corpo ben piantato sembra composto più di muscoli che di grasso. La giacca scura e i pantaloni color crema sono spiegazzati come lo sono sempre gli indumenti di un poliziotto. Un distintivo penzola dal taschino della camicia. Il suo volto florido è afflitto da anni di intemperie o di pessima dieta, oppure da entrambi. Potrebbe avere trent'anni. Ma potrebbe anche averne cinquanta. «Signor Garland, signora Denton, siamo tutti scossi. È stato un brutale omicidio.» Ci sta ancora facendo la paternale dalla finestra, rivolgendoci la schiena. «Uccidere un uomo in questo modo, scaricarne il corpo in un parco pubblico.» Scuote la testa, ma la sentenza non cambia. «Non mi va che succedano cose simili nella mia cittadina. Ci sono cresciuta, ci ho messo su famiglia. Mi piace. E una delle ragioni per cui mi piace è che non abbiamo di questi problemi.» Problemi razziali, intende dire. O forse sta semplicemente parlando dei neri: la cittadina, in fondo, è quasi completamente abitata da bianchi.
«Lo capisco...» comincio, ma il sergente B.T. Ames (non conosciamo il suo nome di battesimo, soltanto le iniziali) alza la mano. Sulle prime penso che abbia qualcosa da dire, ma poi mi rendo conto che ha udito un colpo alla porta che a me è sfuggito, poiché va ad aprirla. Un agente in uniforme, anch'esso bianco, ci occhieggia con sospetto, poi bisbiglia qualcosa al sergente e le porge un altro fax per la sua collezione. Quando la porta si richiude, il sergente Ames fa ritorno alla finestra. «Hanno trovato la sua auto» annuncia. «Dove?» chiede Mariah precedendomi. «Nella zona sudoccidentale di Washington. Non lontano dal museo della Marina.» «Che cosa ci faceva laggiù?» insiste Mariah. Siamo entrambi delusi. Tutto ciò che finora ci ha detto il sergente è quello che hanno riportato i giornali: la sera in cui è morto, padre Bishop aveva in programma un'assemblea parrocchiale per le sette. Aveva chiamato per avvertire che avrebbe fatto un po' tardi perché doveva far visita a un parrocchiano in difficoltà. Era partito da casa sua alle sei e mezzo circa, e i suoi vicini giurano che fosse solo. Non è mai arrivato in chiesa. La detective si gira verso di noi ma appoggia la schiena al muro incrociando le braccia sul petto. «Temo di dover tornare al lavoro» dice. «A meno che non abbiate qualche informazione che possa aiutarci a trovare l'assassino di padre Bishop.» Ho trascorso l'infanzia a essere scaricato in modo sommario, di solito dal Giudice, e da adulto non sono mai stato in grado di sopportarlo. Così protesto, e, come spesso accade, senza riflettere. «Gliel'abbiamo detto, noi crediamo che ci sia un collegamento...» Il sergente Ames fa un passo verso di me, il suo volto severo e poco disponibile. Sembra più corpulenta di prima, o forse sono io a essermi rimpicciolito. All'improvviso ricordo che, comunque sia, è una poliziotta. E che non nutre alcun interesse per le nostre teorie o per la nostra intromissione. «Signor Garland, ha qualche prova di un collegamento fra l'omicidio di Freeman Bishop e la morte di suo padre?» «Be', dipende da cosa si intende per prova...» «Qualcuno le ha detto che questo delitto è collegato alla morte di suo padre?» «No, ma...» «Sa chi ha ucciso Freeman Bishop?»
«Certo che no!» Sono offeso ma anche leggermente spaventato, visti gli ambigui rapporti dei maschi di colore con i dipartimenti di polizia del paese. Mi rammento che questo stanzino viene usato per interrogare i sospetti. La mobilia comincia a emettere un vago bagliore rosso. Mariah mi posa la mano sul braccio per calmarmi. E io capisco: siamo qui, dopo tutto, e il sergente ha il suo lavoro da svolgere. «Qualcuno le ha detto chi ha ucciso Freeman Bishop?» insiste la detective. «No.» Ricordo troppo tardi ciò che si diceva ai clienti in procinto di deporre: restate sul semplice, rispondete sì o no, e non offrite mai spontaneamente informazioni, non importa quanto desideriate spiegarvi. E restate calmi. «Qualcuno le ha detto di sapere chi ha ucciso Freeman Bishop?» «No.» «Qualcuno le ha detto che qualcun altro sapeva chi ha ucciso Freeman Bishop?» «No.» «Allora, non credo che lei abbia informazioni per me.» «Be', io...» «Un attimo.» Detto con delicatezza. Il sergente Ames ha preso il comando della situazione con notevole facilità. I miei intimoriti studenti non mi riconoscerebbero, ma sono sicuro che Avery Knowland si divertirebbe un mondo. Mariah e io attendiamo come ci è stato ordinato di fare. Con mio grande sgomento, il sergente Ames apre la sua cartella. Ne estrae un foglio di carta gialla a righe e legge alcuni appunti scritti a mano, perlustrandosi l'interno della bocca con la lingua mentre si concentra. Afferra una penna a sfera dal tavolo e fa un paio di segni sul margine. Per la prima volta mi rendo conto che non mi sta interrogando al semplice scopo di far scena. Se ne accorge anche Mariah, e le sue dita mi stringono il braccio. Il sergente Ames sa qualcosa, o pensa di sapere qualcosa, che la porta a rivolgermi queste domande. E le rivolge solo a me, non a mia sorella. Quando riprende a parlare, lo fa guardando i suoi appunti. «È a conoscenza di minacce subite da Freeman Bishop?» «No.» «Sa se qualcuno nutriva una profonda avversione verso Freeman Bishop?»
«No.» Di nuovo, non riesco a impedirmi di proseguire. «Non era il genere d'uomo che suscitava... emozioni forti.» «Quindi, nessun nemico, che lei sappia?» «No.» «Aveva parlato di recente con Freeman Bishop?» «Non dopo il funerale.» «Prima dell'omicidio, ma dopo il funerale, ha parlato con qualcuno di Freeman Bishop?» Esito. Dove vuole arrivare? Che cosa crede sia accaduto? Ma in un interrogatorio, un'esitazione è come un drappo rosso agitato di fronte a un toro. Il sergente Ames alza il suo sguardo intenso dalla cartella e lo posa su di me. Non ripete la domanda. Attende, terrificante nella sua pazienza. Quasi si aspettasse che io confessi. Una conversazione? Qualcosa di più? Crede forse che io... di sicuro non penserà che... Non essere ridicolo. «Non che ricordi» rispondo finalmente. Lei mi fissa per un altro istante, facendomi sapere che la mia titubanza non le è sfuggita, poi torna ad abbassare gli occhi sui suoi appunti. «Di recente, aveva notato qualche stranezza nel comportamento di Freeman Bishop?» «Non lo conoscevo così bene.» Mi scocca un'occhiata. «Credevo che l'avesse visto la settimana scorsa, al funerale di suo padre.» «Be', sì...» «E ha notato qualcosa di strano?» «No. Niente.» «Sembrava lo stesso di sempre?» «Immagino di sì.» A questo punto le sue domande mi suscitano perplessità, non timore. «Qualcuno, negli ultimi tempi, le ha accennato a qualche stranezza nel comportamento di Freeman Bishop?» «No.» «Qualcuno le ha detto qualcosa che potrebbe avere a che fare con questo omicidio?» «Io...» «Non abbia fretta. Ci pensi bene. Torni indietro di un paio di settimane, se deve. Di qualche mese.» «La risposta è sempre no, sergente. No!»
«Ha detto di credere che esista un collegamento fra la morte di suo padre e l'omicidio di Freeman Bishop.» «Io... sì, ce lo siamo chiesti.» «Suo padre parlava mai di Freeman Bishop?» La domanda mi disorienta di nuovo. «Be', sì. Certo, lo faceva spesso.» «Di recente?» D'un tratto, la sua voce diventa gentile. «Diciamo nei sei mesi precedenti la sua morte?» «No. Non che ricordi.» «E nell'ultimo anno?» «Forse. Non ricordo.» «È stato per desiderio di suo padre che Freeman Bishop ha officiato il suo funerale?» Io e Mariah ci scambiamo un'occhiata. C'è sotto qualcosa. «Non credo che abbia mai parlato del suo funerale» rispondo non appena è chiaro che Mariah non aprirà bocca. «Almeno, non con me.» Il sergente Ames torna ancora una volta a dedicare la sua attenzione alla cartella. Mi chiedo che cosa vi stia leggendo. Mi chiedo che cosa abbia fatto quando ha saputo che saremmo venuti da lei, a chi si sia rivolta per raccogliere informazioni e quali abbia trovato. Mi chiedo da dove provengano le sue domande. Sono profondamente tentato di violare le regole a cui si attiene qualsiasi avvocato e chiederglielo esplicitamente. Invece le chiedo qualcos'altro. «Avete qualche indizio?» «Signor Garland, deve capire come funzionano queste cose. Di solito è la polizia a fare le domande.» Mi sta provocando: non c'è nulla che mi irriti di più che essere trattato con condiscendenza. «Ascolti, sergente, mi dispiace. Ma questo è l'uomo che ha appena officiato il funerale di mio padre. Che nove anni fa ha celebrato il mio matrimonio. Forse può capire la ragione del mio turbamento.» «Capisco la ragione» risponde il sergente Ames in tono severo, disturbandosi a malapena ad alzare gli occhi dai suoi appunti. «Ma ho anche un omicidio su cui indagare, e visto che lei ha usato le sue conoscenze per fare irruzione qui dentro in una giornata di lavoro, mi aspetto che faccia il possibile per collaborare. Proprio perché Freeman Bishop ha officiato il funerale di suo padre. Proprio perché ha celebrato il suo matrimonio.» Mariah cerca di stemperare la tensione. «Come possiamo aiutarla, sergente Ames?»
«Ha sentito le domande che ho fatto a suo fratello?» «Sì, signora.» Qualcosa si delinea sul viso del sergente: perché non mi è venuto in mente di chiamarla "signora"? Perché lei è bianca e io sono nero? La maleducazione è forse l'eredità dell'oppressione? La civiltà precipita sempre più in basso, e tutto ciò che noi americani sembriamo in grado di fare è rinfacciarcene la colpa a vicenda. «Ha qualche risposta diversa da darmi?» «No, signora.» «Ne è sicura?» «Sì, signora.» Mia sorella non ha mai avuto un tono più contrito in tutta la sua vita. La tattica sembra sortire qualche effetto. «Voglio che diate un'occhiata a queste foto» dice la detective in tono più indulgente. Fa scivolare dalla cartella due stampe in bianco e nero su carta lucida. «Sono... le meno orribili.» Mariah abbassa lo sguardo per un istante e poi lo distoglie; ma io non voglio perdere la faccia di fronte alla formidabile B.T. Ames, e così mi costringo a fissare le immagini forzando la mia mente ribelle a vagliare attentamente ciò che vede. Guardare quelle fotografie significa rendersi immediatamente conto che chiunque abbia torturato padre Bishop l'ha fatto almeno in parte per il gusto di farlo. Un'immagine è il primo piano di una mano. Se non fosse per la grande quantità di sangue, a prima vista non si noterebbe che tre unghie sono state strappate. La seconda foto sembra mostrare la parte più carnosa della coscia di padre Bishop. Piccole bruciature tondeggianti, come di oggetti impressi a fuoco sulla pelle. Increspature di dolore, simili a crateri lunari. Li conto: cinque, no, sei; e si tratta di una piccola sezione del suo corpo. Cerco di immaginare che genere di persona possa fare una cosa del genere a un'altra. E continuare a farla, poiché una tale tortura ha richiesto del tempo. E dove potrebbe farla, per assicurarsi che nessuno senta le grida. Dubito che un bavaglio sulla bocca sia stato sufficiente. «È diverso, quando lo si vede, non è vero?» domanda la detective. «Sa... Ha...» Sto balbettando. Non può essere questo che intendeva Jack Ziegler. Non può essere. Ricomincio da capo. «Ha idea del perché qualcuno dovrebbe aver fatto una cosa simile?» Il sergente Ames risponde al mio interrogativo con una domanda. «Lei ce l'ha?» «Che cosa?»
«Ha idea del perché qualcuno dovrebbe aver fatto una cosa simile?» «Certo che no!» Le mie proteste non la interessano. «Ha ragione di credere che padre Bishop fosse in possesso di qualche informazione preziosa?» «Non so cosa intende...» «Be', è stato torturato.» Indica le fotografie con un gesto apparentemente esasperato. «Di solito significa che qualcuno era a caccia di informazioni.» «A meno che le torture non siano un modo per trarci in inganno» interviene Mariah in tono sommesso. Il sergente Ames si volta verso di lei, lo sguardo acceso da una cauta rivalutazione, non del caso ma di mia sorella. «Oppure l'opera di uno psicopatico» aggiungo in modo poco saggio, non volendo rimanere escluso se la detective è pronta a elargire il suo rispetto. «Come no» risponde lei, le sue parole rese ancora più caustiche dal tono piatto in cui vengono pronunciate. «Se viene fuori che qualcuno gli ha strappato il fegato e se l'è mangiato con un piatto di fave, la chiamo.» Vado su tutte le furie per l'umiliazione, ma prima che riesca a pensare a una replica adatta la detective si è lanciata in un discorso. «Vi state chiedendo per quale ragione vi faccia queste domande. Lasciate che provi a spiegarvi cosa sta succedendo. Immagino abbiate letto quello che hanno scritto i giornali. Sapete che padre Bishop, riposi in pace, è morto per un colpo di pistola alla testa. Bene, la ferita è alla base del cranio e ha una lieve angolazione verso l'alto. Nessun dilettante gli avrebbe sparato un colpo simile. Il dilettante prende esempio dal cinema e spara alla tempia o magari alla gola delle sue vittime. Ma se vuoi essere sicuro, colpisci la base del cranio. Sapete anche che padre Bishop aveva bruciature di sigarette su entrambe le braccia, su una gamba e su un lato del collo. Sapete che gli sono state strappate tre unghie. Gli sono state fatte altre cose. Non c'è bisogno che conosciate i dettagli. Ma l'hanno torturato. Crudelmente torturato. Come fanno per esempio gli spacciatori di droga quando vogliono qualcosa.» Sentendo descrivere l'accaduto in modo così crudo, e per di più da una poliziotta, quasi mi rimpicciolisco per la paura, perché tutto ciò a cui riesco a pensare è la mia famiglia. Ma la detective ha scelto con cura le parole. Mariah ne afferra il senso prima di me: gli studenti modello tendono a capire le cose in fretta. La sua testa si rialza. «Credevo fosse stato un delitto a sfondo razziale.» «Be', capisco la ragione. I giornali dicono che è stato un delitto a sfondo razziale, la televisione dice che è stato un delitto a sfondo razziale, la NA-
ACP dice che è stato un delitto a sfondo razziale, il governatore di questo bellissimo Stato dice che è stato un delitto a sfondo razziale e mi è stato riferito che perfino il presidente della nostra magnifica Nazione ha suggerito che potrebbe essere un delitto a sfondo razziale. E così sostengono i due pullman di dimostranti che arriveranno questo fine settimana per ricordarci come gli abitanti della mia città trattino terribilmente male la gente di colore, tralasciando che non esiste alcuna ragione di credere che l'omicidio sia stato commesso qui. Ma sapete una cosa? I crimini a sfondo razziale, e perfino gli omicidi, tendono a essere commessi da dilettanti. Questo invece no.» Ci studia nuovamente in volto. «Ora, non avete mai sentito dire che si tratta di un delitto a sfondo razziale da me o da qualcun altro della polizia, giusto?» Mariah, l'ex giornalista, insiste: «Allora, è stato o non è stato un delitto a sfondo razziale?». Il sergente Ames fissa mia sorella con uno sguardo torvo, come se avesse riconosciuto troppo tardi la specie che ha ammesso nel santuario. I suoi occhi sono neri e inespressivi come ossidiana, e sfidano chiunque a mentire in sua presenza. È evidente che non le piace essere interrogata. Ma quando risponde, il suo tono di voce è quasi meccanico. «Signora Denton, non siamo certi di che genere di delitto si tratti, tranne che è stato terribile e che la persona che l'ha commesso è a piede libero. Quando troveremo il colpevole sapremo con che delitto abbiamo a che fare.» «Non c'era una lettera?» domando. «Evidentemente leggiamo gli stessi giornali, signor Garland. In uno c'era scritto di una lettera appuntata alla camicia di padre Bishop, e un altro ha pubblicato la notizia esclusiva che il foglio era opera di un gruppo per la supremazia della razza bianca che intende rivendicare l'assassinio.» «I giornali...» mormora Mariah con la traccia di un sorriso sulle labbra. Nel commento della detective non ha letto lo stesso disprezzo che ho percepito io. «Non lo confermo» annuisce il sergente ricambiando il sorriso. Ora che ciascuna delle due conosce le priorità dell'altra, si sentono a proprio agio: prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che il mondo sarebbe migliore se fosse governato dalle donne. «Non lo conferma» spiega Mariah, probabilmente a mio beneficio «perché se c'era una lettera e lei non ne rivela il contenuto la può usare per distinguere fra i mitomani che chiamano sempre dopo un delitto simile e co-
loro che potrebbero effettivamente aiutare a risolverlo.» «È una delle ragioni, sì.» Sposto lo sguardo dall'una all'altra. C'è in atto qualcosa di più, un livello di comprensione che loro hanno già superato mentre io sto ancora lottando per salire il primo gradino. È come osservare una partita a scacchi fra due campioni, tutte le sottili manovre che hanno poco senso per una mente non addestrata finché, in una folata improvvisa, uno di loro è sconfitto. «L'altra ragione» suggerisce Mariah nel medesimo tono sommesso «è che la lettera potrebbe essere un falso.» «Io non l'ho detto» interviene immediatamente la detective. Il suo sorriso svanisce, come se si fosse tardivamente rammentata che in questo stanzino i sorrisi sono proibiti. Sento risalire la tensione, e poi, d'un tratto, capisco dove sono dirette. «Sergente Ames» dice mia sorella in tono formale «noi ci troviamo qui perché abbiamo delle famiglie e siamo preoccupati per loro.» Si carezza l'ampio ventre per sottolineare il concetto: intende dire che siamo preoccupati per i nostri figli. «Se lei riesce a convincerci che non esiste relazione fra ciò che è successo a padre Bishop e ciò che è accaduto - che potrebbe essere accaduto - a nostro padre, ce ne andremo e non la disturberemo più. Noi non parliamo a vanvera con i giornali. Un tempo facevo la giornalista, e sono sempre stata molto brava a tenere la bocca chiusa. Non ho mai tradito una fonte. Mio fratello, come lei sa, è avvocato, e sa mantenere un segreto. So che è infastidita dal fatto che abbiamo sfruttato le nostre conoscenze per presentarci qui. Mi dispiace. Ma l'abbiamo fatto per il bene delle nostre famiglie. E nulla di ciò che ci dirà uscirà da questa stanza. Le prometto anche questo. E se possiamo fare qualcosa per lei...» Lascia il resto inespresso. Oh, quanto è brava mia sorella! Che giornalista doveva essere! Senza dire una parola che possa essere usata contro di lei, Mariah è riuscita a minacciare indirettamente di trasformarsi in un flagello se non ottiene ciò che vuole. Cosa ancora più importante, ha anche evocato lo spettro della teorica influenza della nostra famiglia, la quale, naturalmente, ammonta in toto alla generosità di Mallory Corcoran. Il sergente Ames recepisce il messaggio. Ed è troppo esperta per infuriarsi. Dà invece un piccolo morso all'esca. «La famiglia di padre Bishop» dice «non è molto disponibile. Sembrano pensare... be', la questione razziale sta dando loro qualche problema.» «Ci parlerò io» replica immediatamente Mariah come se controllasse la Gold Coast, cosa che un tempo nostra madre sperava. «Ero nella Jack &
Jill insieme a Warner Bishop.» La detective annuisce come se sapesse tutto sulle organizzazioni sociali dei figli della borghesia afroamericana. «Warner Bishop sembra pensare che da queste parti siamo tutti cafoni razzisti» dice. «Gli parlerò» promette Mariah. Il sergente Ames mi scocca una breve occhiata, ma si rivolge a mia sorella. «Non le mostrerò la lettera» dichiara. «Non posso farlo. Mi dispiace. Ma posso dirle, nella riservatezza di questa stanza, che non avete nulla da temere per i vostri cari. Non c'è veramente alcun collegamento fra questo delitto e vostro padre. Ma per il resto ha ragione. C'era una lettera, e pensiamo che sia un falso. Nel senso che non crediamo sia stata opera di un gruppo di razzisti bianchi.» Si ferma con l'intenzione di lasciare a noi la mossa successiva. Sto per porle un'altra domanda, ma Mariah alza la mano e mi anticipa. «È una storia di droga, non è vero?» Il sergente Ames la guarda, poi guarda me, infine torna a voltarsi verso mia sorella. C'è del vero rispetto nella sua espressione. «Sì» risponde finalmente. «Sì, crediamo ci sia dietro la droga. Ma anche questo deve restare fra noi. Non potrete neanche dirlo alla famiglia di padre Bishop, non ancora.» Una pausa per lasciarci digerire il concetto; anche i detective sanno formulare minacce. «Ma siamo abbastanza certi che voi, vostro padre e le vostre famiglie non siete coinvolti. Dobbiamo aspettare un giorno o due per gli esami tossicologici, ma so già da altri indizi quello che ci diranno: che padre Bishop era un discreto consumatore di droga.» Si interrompe. Non arrivo a spalancare la bocca, ma sono alquanto sicuro che il tempo si fermi, che il mio cuore cessi di battere per qualche secondo e che molti altri luoghi comuni si verifichino tutti insieme. Dunque, non era la mera incompetenza a far sì che i sermoni di padre Bishop divagassero fino all'insensatezza. Sono sbalordito, imbarazzato dalla profondità del mio sollievo. Mariah, invece, si attiene ai fatti. «Ma questo come spiega ciò che gli è accaduto?» Il sergente Ames sospira. Sperava di cavarsela più a buon mercato, a quanto pare, ma ora dovrà rivelarci il resto. Mi sto ancora chiedendo, tuttavia, quale fosse lo scopo del mio interrogatorio. Era pura e semplice intimidazione? «È una cosa che non rendiamo nota» spiega «per paura di qualche imita-
tore. Ma nella zona di Washington, e includo anche le periferie, ci imbattiamo ogni anno in una dozzina di casi simili. Molti non arrivano sui giornali o in televisione perché le vittime sono persone meno in vista. Le torture subite da padre Bishop sono orribili, ma sono più comuni di quanto pensiate. In particolare, vengono usate spesso dagli spacciatori per costringere i clienti in ritardo con i pagamenti a rivelare dove tengono il denaro. Li torturano fino a ottenere l'informazione e poi li uccidono con un colpo alla nuca. A volte la tortura diventa gratuita, inflitta per puro sadismo. E siamo abbastanza sicuri che sia il nostro caso. Perfino un uomo molto tenace avrebbe avuto grosse difficoltà a sopportare anche solo una minima parte di ciò che gli hanno fatto, e da quello che ho sentito dire Freeman Bishop non era particolarmente tenace. Se volevano informazioni, credo che le abbiano ottenute in fretta. Il resto gliel'hanno fatto provandoci gusto.» Una pausa per lasciar penetrare il concetto. La temperatura nello stanzino cala di diversi gradi. «Ma il fatto principale rimane lo stesso: Freeman Bishop, ne siamo quasi sicuri, è stato ucciso perché faceva uso di droghe che non poteva pagare.» «Quasi sicuri?» domando tanto per dire qualcosa. Il sergente mi fulmina con lo sguardo. Preferirebbe che chiudessi la bocca, mi dicono i suoi occhi, per poter fingere che io non ci sia. È Mariah quella di cui si fida. Per il sergente B.T. Ames, io faccio semplicemente parte dell'arredo. Mi rendo conto della mia gaffe un istante dopo, ma Mariah se ne accorge prima di me. È già in piedi, mi sta facendo alzare e sta ringraziando la detective per la sua disponibilità con una stretta di mano come dopo aver concluso un affare. Il sergente Ames ci aggira e apre la porta perché il resto della squadra la possa udire mentre ci congeda. «Signor Garland, signora Denton, mi dispiace molto per vostro padre. Davvero. Ma ho un omicidio per le mani e un sacco da fare. Pertanto, se volete scusarmi, devo rimettermi al lavoro.» Andiamo insieme in Shepard Street, dove Mariah ha in programma di passare la notte. Io rientrerò a casa con il volo della sera, ma tornerò a Washington la settimana prossima per il funerale dell'uomo che la settimana scorsa ha officiato quello del Giudice. La casa è stranamente silenziosa dopo la confusione di una settimana fa; risuona come la casa di un morto. I nostri passi riecheggiano come spari sul parquet dell'ingresso. Mariah si fa piccola, spiegandomi di aver mandato in tintoria tutte le passatoie orientali
del Giudice. Solleva in alto il palmo della mano accennando a un gesto di scusa, poi accende il lettore CD, ma questa volta sulla sua scelta musicale e non su quella di mio padre: Reasons, la versione lunga degli Earth, Wind and Fire, che rimane, secondo il superficiale giudizio di mia sorella, la migliore canzone pop che sia mai stata incisa. Il Giudice sarebbe inorridito. Mi rammento che ora questa è casa di mia sorella, che sono un ospite, che può fare quello che vuole. Dopo che Mariah ha fatto una puntata in bagno, ci ritroviamo ancora una volta nel chiarore assurdo della cucina, seduti al tavolo a sorseggiare cioccolata calda in un silenzio confortevole, amici come prima ma non proprio. Mi allento il nodo della cravatta. Mariah si libera delle scarpe scalciandole via. «Vorrei che non restassi qui da sola» le dico. «Ma come, Tal» ride mia sorella «non credevo che ti importasse.» Molti fratelli lo riconoscerebbero come il momento giusto per dire: lo sai che ti voglio bene; ma molti fratelli non sono cresciuti nella mia famiglia. «Mi preoccupo per te, tutto qui.» Mariah inclina la testa da una parte e arriccia il naso. «Non ti devi preoccupare, Tal, sono una ragazza cresciuta. Credo che nessuno penetrerà in casa e mi brucerà con le sigarette.» Visto che è proprio ciò che temo, non dico niente. «Oltretutto» aggiunge lei «non sarò sola.» «No?» La notizia mi sorprende. «No. Domani Szusza porterà i bambini.» Immagino che stia parlando dell'ultima au pair dal nome impronunciabile. «O meglio, alcuni dei bambini» si corregge Mariah, che forse ha qualche problema a tenere il conto. «E stasera ci sarà Sally, per cui non c'è bisogno di preoccuparsi.» «Sally?» Non sapevo che mia sorella e nostra cugina fossero così amiche. «È stata meravigliosa, Tal. Davvero. Verrà subito dopo il lavoro. Cominceremo a controllare le carte di papà.» Mariah alza bruscamente gli occhi su di me, come se avessi mosso un'obiezione al suo programma. «Tal, ascolta, qualcuno lo deve pur fare. Dobbiamo sapere cosa c'è. Per molte ragioni. Ci sono un sacco di documenti e cose di cui potremmo aver bisogno. Sulle case e sul resto. E chissà, forse... forse possiamo trovare qualche indizio.» «Indizio su cosa?» Gli occhi castano scuro di Mariah si induriscono. «Andiamo, Tal, sai di
cosa parlo. Sei stato tu a essere aggredito da Jack Ziegler la settimana scorsa al cimitero. Lui crede che ci sia qualcosa da qualche parte, una specie di... insomma, non ne ho idea.» Chiude gli occhi per un istante, poi li riapre. «Voglio scoprire cosa sta cercando, e voglio trovarlo prima di lui.» Ci rifletto. Le disposizioni. Ebbene, potrebbe avere ragione lei. Il Giudice potrebbe aver lasciato un foglio di carta, un diario, qualcosa che ci aiuti a capire come mai lo zio Jack è tanto preoccupato. E cosa volevano i finti agenti dell'Fbi. E forse anche il sergente B.T. Ames. Le disposizioni. Potrebbe venir fuori un indizio. Ne dubito, ma Mariah, l'ex giornalista, potrebbe avere ragione. «Be', buona fortuna» è tutto quello che mi viene da dire. «Grazie. Ho la sensazione che troveremo qualcosa.» Sorseggia la sua cioccolata e fa una smorfia: troppo fredda. «Potreste anche divertirvi.» Mariah scrolla le spalle, riuscendo in qualche modo a esprimere la sua determinazione. «Non lo faccio per divertimento» dice rivolta alla sua tazza, tornando inconsapevolmente a carezzarsi il ventre. Mi sorprendo a chiedermi che cosa stia facendo mia moglie in questo momento. «Hai più sentito Addison dal giorno del funerale?» Sto facendo conversazione. «No. Nemmeno una parola.» Mariah fa una risatina ironica. «Sempre il solito Addison.» «Non è così male.» «Oh, è fantastico. Riesci a credere a quello che ha detto di papà nell'elogio funebre? Che forse c'era ragione di pensare che avesse fatto qualcosa di sbagliato?» «Non ha detto esattamente questo» mormora Misha il pacificatore, ruolo che ho chissà come assunto mentre cercavo di sopravvivere nella turbolenta situazione domestica della mia adolescenza e che non sono mai riuscito ad abbandonare. «A me è sembrato così. E scommetto che è stato lo stesso per quasi tutti i presenti.» «Be', forse è stato un po'... ambiguo.» «Era un funerale, Tal.» Il suo sguardo è inespressivo. «Non si fanno queste cose a un funerale.» «Oh, capisco cosa vuoi dire.» Il che non significa che sono d'accordo, sfumatura che mia sorella percepisce all'istante. «Non vuoi mai prendere posizione, vero? Ti piace resta-
re neutrale.» «Mariah, andiamo» rispondo punto sul vivo; ma non offro alcuna argomentazione, anche e soprattutto perché non ne ho. Lasciamo che il silenzio ci avvolga per qualche istante, rifugiandoci nei nostri pensieri. Io sto sommando le ore di lavoro che mi aspettano a casa, segretamente infuriato per aver permesso a Mariah di spaventarmi al punto da convincermi a fare questa trasferta. Tutto ciò che ha detto la detective era sensato, e nessuna delle teorie di mia sorella è lontanamente plausibile. Controllo l'ora di sottecchi, sperando che Mariah non mi veda, porto la tazza alle labbra e la riabbasso rapidamente. La mia cioccolata è cattiva quanto la sua. «Tu le credi?» domanda Mariah come se fosse in contatto con i miei pensieri. «Al sergente Ames, dico. Per quanto riguarda padre Bishop.» «Vuoi sapere se penso che ci abbia mentito?» «Voglio sapere se pensi che abbia ragione. Ti prego, Tal, non giocare con le parole. Non sono una delle tue studentesse.» Devo fare attenzione a come rispondo, non voglio che mia sorella ridiventi una nemica. «Ho capito» dico lentamente. «Penso che se lei non ha ragione, significa che è stato torturato per qualcosa... per qualcosa che aveva a che fare con il Giudice. Ma è assurdo.» «Perché?» Il suo tono è brusco; ancora una volta devo stare attento a scegliere le parole giuste. «Be', supponiamo... supponiamo che ci siano alcune informazioni che il Giudice si è portato nella tomba, e che qualcuno desidera. Non credo che sia vero, intendiamoci, è soltanto un'ipotesi.» Mariah fa un piccolo cenno con il capo. Proseguo deciso. «Anche se fosse vero, anche se queste informazioni esistessero... be', dubito che il Giudice avrebbe confidato qualcosa di così importante a Freeman Bishop. Non voglio parlar male dei morti, ma...» «Nessuno che conosceva papà penserebbe che possa aver detto qualcosa a padre Bishop.» «E nessuno che conosceva Freeman Bishop penserebbe che il Giudice possa avergli detto qualcosa.» Mia sorella torna a carezzarsi il ventre, proteggendo il suo piccolo. «Dunque, non è stato... torturato perché aveva informazioni su papà?» «Non credo. Se pensassi il contrario, prenderei la mia famiglia e fuggirei in collina.» «Sempre che la tua famiglia accettasse di venire.» Quando si parla di
Kimmer, Mariah non può evitare di essere maligna. Decido di ignorare la battuta. «Il punto è, sorellina, che il motivo per cui credo che il sergente Ames abbia ragione è che non riesco a pensare ad alcun motivo per cui qualcuno possa avergli fatto... quelle cose.» Ho promesso di proteggervi, e lo farò. Posso ripetermi questo mantra, ma la reiterazione non lo fa sembrare vero. Non completamente. Ciò che sembra vero è che là fuori c'è qualcuno - gli "altri" dello zio Jack - che sta giocando una lunga partita, aspettando che io faccia... qualunque cosa sia, quella che tutti si aspettano che io faccia. Non avverto una sensazione di pericolo, ma nemmeno di pace. Mariah annuisce. «Neanch'io» dice. Si passa una mano sugli occhi. «Era proprio un bel tipo, quella detective. Una donna di polso.» «Be', sei riuscita a farle ammettere che la lettera di rivendicazione è molto probabilmente un falso...» «Oh, Tal, piantala.» Il tono di voce di Mariah si è fatto inaspettatamente duro. Sono incappato nel suo settore di competenza. «Non le ho fatto fare un bel niente. I poliziotti non ammettono mai niente che non vogliano ammettere. Ci ha detto quello che voleva dirci, tutto qui.» «È proprio questo che intendo.» Mi sto accalorando. «Voleva che sentissimo tutte quelle storie sulla droga. Perché? Scommetto che ce le ha riferite soltanto perché non crede che manterremo il segreto. Vuole che spargiamo la voce.» «Non ti facevo così cinico.» Mariah scuote la testa come se lei non lo fosse mai stata. Cambia posizione sulla sedia e mi punta addosso un dito. «A me la detective Ames è piaciuta.» «Ma hai creduto a quella storia degli spacciatori?» «Be', l'auto di padre Bishop è stata ritrovata vicino al museo della Marina.» «A Southwest Washington ci saranno centocinquantamila abitanti che non fanno uso e che non vendono droghe» predico. «Piantala» ripete Mariah. «Lo sanno tutti che padre Bishop sniffa cocaina. Lo faceva, quantomeno. Lo si sa da anni.» «Tutti chi?» «Sei così ingenuo, Tal. Perché sei sempre l'ultimo a scoprire le cose?» Ride. Se non altro, sembriamo di nuovo in rapporti relativamente buoni. «Davvero non lo sapevi?» Scuoto la testa. «È una vecchia storia. Laurel St Jacques l'ha sorpreso a sniffare tre o
quattro anni fa, in sagrestia. Ricordi Laurel, vero? Quella che ha sposato André Conway. So che ti ricordi di André.» Un sorriso diabolico, a rammentarmi che sono il secondo marito di Kimberly Madison. André è stato il primo. «Mi ricordo di André» rispondo piano. Ricordo anche, ma non lo dico, la rabbia irrazionale che provai nei suoi confronti quando fu lui a vincere la prima ripresa della nostra battaglia per Kimberly Madison, compreso un momento, nel suo appartamento, in cui per poco non facemmo a botte. Lui a quei tempi era assistente di produzione di una stazione televisiva e si chiamava Artis. Il nuovo nome era venuto quando aveva deciso di dedicarsi ai documentari. «Ricordo perfino che ha sposato Laurel.» «Ricordi anche che hanno divorziato?» «Mi sembra di averlo sentito.» Spero che Mariah non stia insinuando nulla su André e mia moglie. I miei pensieri mi conducono spontaneamente verso la solita paura ossessiva: André si trova a Los Angeles, e Kimmer è spesso a San Francisco, e lui potrebbe andarla a trovare... Oh, smettila! «Ho sentito dire che c'era di mezzo un'altra donna» dice Mariah, manifestando inaspettatamente la sua antica vena di crudeltà. «Di solito è così.» Mariah mi scocca un'occhiata, forse per capire se la sto scaricando con quella che chiama la mia "furbizia da Ivy League", come se lei non la possedesse. Ma io mantengo un'espressione impassibile. «Comunque» riprende finalmente «Laurel ha sorpreso padre Bishop a sniffare. E naturalmente l'ha detto a tutti. È un miracolo che non sia stato licenziato in tronco. Credo che a quei tempi papà facesse parte del consiglio d'amministrazione della parrocchia, perché in caso contrario padre Bishop sarebbe stato cacciato. Ma hanno deciso di tenerlo. Immagino provassero compassione per lui. Sai come siamo fatti noi episcopaliani, Tal. Adoriamo provare compassione per il prossimo. Non siamo felici finché non ci capita l'occasione di ignorare i peccati di qualcuno per far vedere quanto siamo tolleranti» aggiunge mia sorella, che si è convertita al cattolicesimo per sposare Howard e, come ama dire Kimmer, da allora ha seguito i precetti della Chiesa sul controllo delle nascite. «Non sapevo niente.» «È stato un discreto scandalo, Tal.» Agita la mano per sottolineare il concetto, scrolla il capo come faceva quando aveva i capelli lisci e lunghi e prosegue con entusiasmo, lieta di potermi mettere al corrente di un pette-
golezzo che a quanto sembra mi era sfuggito. «A dire il vero, a causa sua molta gente ha abbandonato la parrocchia. I Clifton se ne sono andati. Oh, quant'erano arrabbiati! E Bruce e Harriet Yearwood. E Mary Raboteau. No, aspetta, lei è andata in pensione e si è trasferita in Florida, o qualcosa di simile. Intendevo la signora Lavelle, è lei l'altra che se n'è andata. E immagineresti che Gigi Walker avrebbe fatto lo stesso, moralista com'è, ma suppongo avesse le sue ragioni per restare.» Una strana risatina. Mia sorella adora formulare giudizi, anche quando nessun altro nella stanza sa cosa sta giudicando. «Non ci credo che non ne sapevi niente, Tal.» «No, la cosa mi è sfuggita.» «Papà pensava che padre Bishop avrebbe dovuto dare le dimissioni, capisci, e risparmiare noie a tutti quanti. Ma lui si è presentato davanti alla congregazione e ha fatto uno di quei sermoni del genere con-me-Dio-nonha-ancora-terminato, e la cosa è più o meno finita lì. Ah, a proposito.» Mia sorella balza in piedi. «Ho promesso al sergente Ames che avrei chiamato Warner Bishop. Poveretto, non ha più nessuno.» Scompare nell'atrio. Un istante dopo la sento salire le scale verso lo studio, alla ricerca della rubrica del Giudice. Sono sbalordito. Avevo dato per scontato che mia sorella non facesse sul serio quando aveva promesso di rassicurare la famiglia di padre Bishop, ma mi ero scordato di quanto seriamente prenda queste cose. Quando eravamo piccoli, andava a lamentarsi dai nostri genitori ogni volta che io (o più spesso Addison) ci rimangiavamo la parola. In casa Garland, non rispettare una promessa era suppergiù un reato da corte marziale. Nostra madre ci puniva, di solito confinandoci in camera per un paio d'ore, ma nostro padre faceva di peggio: ci convocava nello studiolo al pianterreno che usava a quei tempi e ci elargiva una delle sue strazianti prediche, lasciando che l'onda della sua glaciale e spassionata disapprovazione ci travolgesse mentre noi ce ne stavamo schierati di fronte alla scrivania. "Le promesse sono i mattoni della vita, Talcott, e la fiducia è la malta. Nella vita non costruiamo niente se non facciamo promesse, e se le facciamo e poi non le manteniamo distruggiamo ciò che hanno costruito gli altri." O qualcosa del genere. Cercò di esprimere lo stesso concetto alla commissione giudiziaria del Senato, spiegando i suoi rapporti con Jack Ziegler: "L'amicizia è una promessa di futura lealtà, qualunque cosa accada. Le promesse sono i mattoni della vita... Non abbandonerò mai un amico, e mi aspetto che i miei amici non abbandonino me." "Un nobile sentimento, Giudice, ma resta il fatto che questo suo amico in particolare era sotto accusa per..."
"Con tutto il rispetto, senatore, non è una questione di nobiltà. La questione è quale mondo si vuole costruire. Sempre che lo si voglia costruire." Molti amici lo abbandonarono, naturalmente, non appena reputarono più probabile che il Giudice finisse in prigione piuttosto che alla corte suprema. Mi avvicino al lavandino e lavo le tazze. Quando l'acqua smette di scendere, sento la voce di Mariah che proviene dalla tromba delle scale. Mariah, che quando vuole sa essere affettuosa e vivace, sarà probabilmente di grande conforto a Warner Bishop, lo sfortunato figlio di Freeman Bishop, dirigente pubblicitario a New York, con cui mia sorella ha passato del tempo nella Jack & Jill e in tutte le altre organizzazioni giovanili del nostro ambiente. Il semplice, robusto, impacciato Warner, che da ragazzo voleva disperatamente uscire con Mariah ma che non era mai riuscito a destare il suo interesse. A sentire Addison, Warner non ha mai smesso di amarla a distanza. Oh, il nostro piccolo mondo chiuso! «Spacciatori» borbotto. Forse sì, forse no. Chiunque sia stato, non ho neanche bisogno di chiudere gli occhi per vedere le immagini di quello che hanno fatto a padre Bishop. Alla sua mano, alla sua coscia, ed è facile immaginare anche ad altre parti del corpo che la detective ha scelto, forse per gentilezza, di non rivelarci. Freeman Bishop, drogato, ha fatto una fine da drogato. Com'è che soltanto io sembravo esserne all'oscuro? Forse Mariah ha ragione. O forse è matta. O forse lo sono io. Forse dovrei farle un'offerta di riconciliazione. Asciugandomi le mani con uno strofinaccio a orrendi disegni rossi e neri tentenno per un istante, chiedendomi se sia giunto il momento di usare il biglietto da visita che Jack Ziegler mi ha dato al cimitero. Ma non lo è: dopo un omicidio, l'ultima cosa di cui ho bisogno è chiedere aiuto a un mostro. Ma poi capisco esattamente cosa posso dare. Me l'ha fatto venire in mente il ricordo delle prediche di mio padre. La ricerca di un indizio nascosto da parte di Mariah non darà alcun frutto, ma non voglio che lei mi consideri un nemico. Più che un indizio, ciò che le offrirò è un ricordo dell'uomo che era nostro padre, un ricordo che potrebbe addirittura convincere mia sorella a lasciar perdere la ricerca. Mi alzo e percorro il corridoio buio fino alla claustrofobica biblioteca al pianterreno con i suoi armadietti di ciliegio. Dopo una rapida, bramosa occhiata al Miró mi siedo alla scrivania e mi avvicino con la sedia allo scaffale sul quale mio padre teneva i suoi album di ritagli. Cerco per qualche minuto prima di arren-
dermi perplesso. L'ha spostato Mariah, penso. O qualcun altro dell'infinita parata che è passata da casa dopo il funerale: i figli di Mariah, Howard Denton, Solo Alma, l'impronunciabile au pair, la signora Rose, Sally, Addison, la sua piccola ragazza bianca, lo zio Mal, Dana Worth, Eddie Dozier, la donna delle pulizie, uno degli innumerevoli cugini... qualcuno. L'album blu con i ritagli sui pirati della strada è scomparso. 11 UNA MODESTA PROPOSTA «Tua moglie e Marc Hadley sono in lizza per lo stesso seggio» mi informa Stuart Land non appena mi accomodo nel suo ampio ufficio dietro l'angolo rispetto al mio. «Penso di esserne al corrente» ribatto, sferrando un colpo d'incontro ma restando rispettoso. «In Europa, naturalmente, una situazione simile sarebbe impossibile.» «Quale situazione?» «Loro hanno una magistratura in cui si fa carriera. Considerano alquanto indecoroso il sistema americano, nel quale... dei dilettanti possono venire eletti in una corte d'appello.» «Be', dobbiamo sorbirci il nostro sistema.» Malgrado sia abbastanza sicuro che mia moglie abbia appena ricevuto un insulto, mi costringo a sorridere; non voglio attaccare briga con Stuart Land, il grande anglofilo. Ho già abbastanza nemici a palazzo. «Finora ha funzionato benino. Non più di uno scandalo per decennio.» Stuart accoglie la mia frivolezza inarcando un sopracciglio. Poi scrolla le spalle, quasi a dire che rispondere a simili sciocchezze è indegno di lui. «Hai avuto notizie su chi potrebbe essere in vantaggio?» Sta insinuando che le mie fonti sono migliori delle sue, il che è improbabile. Con i repubblicani alla Casa Bianca, Stuart avrebbe probabilmente potuto scegliere il lavoro che voleva a Washington. Stuart Land, il predecessore di Lynda Wyatt alla carica di preside della facoltà, nonché l'uomo che mi ha convinto a tornare alla mia alma mater per insegnarvi, è uno dei membri più conservatori della nostra facoltà. Nei quattro anni che sono seguiti alla sua caduta, non ha mostrato traccia di animosità nei confronti di Lynda, di Marc Hadley, di Ben Montoya, di Tish Kirschbaum o dei diversi altri professori che hanno complottato per spodestarlo. Continua ad attraversare il paese in
lungo e in largo alla ricerca di denaro per l'istituto, e i nostri ex alunni, specialmente i più anziani e i più facoltosi, continuano ad amarlo e ad aprire portafogli e libretti degli assegni quando lui li va a trovare. In verità molti lo chiamano ancora "il Preside", forse perché un tempo sembrava in grado di conservare il posto fino alla morte, e se Lynda è invidiosa del loro affetto lo nasconde bene. È impossibile entrare in confidenza con Stuart, anche se i docenti più conservatori lo frequentano e Lemaster Carlyle, che sembra andare d'accordo con chiunque, è un suo amico. Per quanto mi riguarda, confesso che Stuart non mi è mai piaciuto fino in fondo. Ma l'ho sempre ammirato, anche e soprattutto perché fu l'unico membro della facoltà a testimoniare a favore della nomina di mio padre alla corte suprema. La sua integrità è inoltre fuori questione, ed è per questo che sono rimasto sorpreso e leggermente turbato quando, qualche giorno dopo il mio rientro da Washington, mi ha telefonato proponendomi di passare da lui. Visto che erano le nove del mattino e non avevo niente di meglio da fare che starmene seduto nel mio ufficio ad autocompatirmi, ho accettato. Stuart Land è un ometto pignolo il cui abbigliamento a base di gessati, panciotti e risvolti larghi potrebbe essere definito da teppista ripulito, se non fosse per il fatto che porta i capelli a spazzola e ha superato i sessant'anni. Il suo volto è bianco e tondo, totalmente privo di emozioni, i suoi occhi grigio pallido brillano di fiera intelligenza e gli occhiali a mezzaluna perennemente appollaiati sul naso gli danno più l'aspetto del censore che quello del professore. La sua bocca compassata è sempre pronta a pronunciare una parola di secca, arguta disapprovazione. Di primo acchito non piace a nessuno, ma in seguito emerge un certo carisma, e sono pochi i nostri studenti, anche quelli di sinistra, che riescono a lasciare la scuola senza partecipare di quel calore affettuoso che ognuno prova per lui. Questa mattina, tuttavia, Stuart non è né caloroso né affettuoso. Non emana alcun carisma. Mi ha chiamato con l'intenzione di dimostrare qualcosa, e nel tipico stile Land sceglie di arrivarci attraverso una serie di assalti gentili, indiretti ma molto pungenti, lo stesso stile che usa in aula e con il quale sono stato infilzato più di una volta ai tempi in cui mi insegnava tutto sui contratti. «No, Stuart» rispondo rispettosamente alla sua domanda. Metà della mia attenzione è ancora concentrata su Washington, dove Mariah, non riuscendo a trovare Warner Bishop, gli ha lasciato un messaggio. E non l'ho ancora messa al corrente dell'album scomparso. «Non abbiamo notizie.»
«E neppure Marc. Ho saputo che l'ha presa male.» «Mi dispiace.» E in parte è vero. «Marc non è una cattiva persona, Talcott. Devi solo conoscerlo.» «Non ho niente contro Marc. Mi piace.» Stuart si acciglia come se sospettasse che abbia mentito. Tamburella con le dita sul tavolo. «Certo, non è stato lo studioso che speravamo quando l'abbiamo preso con noi. Quel suo blocco creativo. Ma è un ottimo collega, Talcott. Un magnifico insegnante. Una mente brillante. E sai, quando ti abbiamo assunto Marc è stato uno dei tuoi più accesi sostenitori.» «Io... non ne avevo idea» dico sinceramente. A differenza di certe facoltà di legge, la nostra fa della franchezza un tabù, e rivelare a qualcuno chi ha votato per o contro di lui è considerato un atto fra l'immorale e lo scandaloso. Ciò nonostante avevo sentito dire che Theo Mountain fosse stato il mio maggior sostenitore, e durante i miei primi anni di insegnamento lui e io eravamo alquanto intimi. Non è mai stato esattamente il mio mentore non ne ho mai avuto uno - ma fino al giorno in cui la decisa avanzata di mio padre verso la destra ha trasformato Theo in un critico cavilloso, io e lui abbiamo passato molto tempo insieme. Fu Stuart Land, allora preside, a convincermi a lasciare la professione forense, venire a Elm Harbor e provare a insegnare. Lo fece nel momento giusto: Kimmer e io eravamo nel bel mezzo di una delle nostre numerose crisi. Il fatto che nove mesi dopo lei mi avesse seguito in questa città, e per di più che mi avesse sposato, sorprese me quasi quanto i nostri amici e le nostre famiglie. E mi sono sempre chiesto - anche se entrambe la parti in causa lo negano - se Stuart non avesse in qualche modo persuaso mia moglie che fare l'avvocato a Elm Harbor non fosse poi una scelta così provinciale. «Marc è un brav'uomo» ripete Stuart. «Così come tua moglie è una brava donna.» «Sì» mormoro, segretamente offeso per il raffronto mentre attendo pazientemente il resto. Stuart mi ha chiesto di passare da lui per una ragione ben precisa, e so che sta per rivelarmela. Ma al momento non ho la forza di preoccuparmi per ciò che prova Marc Hadley, anche se a suo tempo ha appoggiato la mia nomina. L'omicidio di padre Bishop a così breve distanza dalla morte del Giudice ha più o meno prosciugato la mia riserva di solidarietà. Due sere di discussioni con Kimmer, sempre convinta che non ci sia nulla da temere, hanno esaurito il resto delle mie emozioni. Comunque sia, l'osservazione che ho fatto a Stuart resta valida: provo simpatia per Marc Hadley, che invece non risulta particolarmente simpatico al resto del corpo
docente. Marc, che insegna giurisprudenza da diciotto anni, è un uomo abbastanza piacevole. Suo figlio Miguel è uno dei migliori amichetti di Bentley all'asilo, e così socializziamo con Marc e con la sua seconda moglie Dahlia come fanno tutti i genitori: nel parcheggio della scuola, alle feste di compleanno, durante le gite alla stazione dei vigili del fuoco dietro l'angolo. Non siamo esattamente amici intimi, Marc e io, ma un tempo andavamo d'accordo. E malgrado la Cara Dana lo consideri "sovrastimato" - un famoso "worthismo" - a mio modo di vedere Marc è tanto brillante quanto vuole la leggenda; bastano un minuto o due in sua presenza per percepire quel fantastico cervello intento a generare grandi idee. Ma se il suo intelletto è leggenda, lo è altrettanto l'incapacità di produrre una qualsiasi dottrina. La sua reputazione accademica si basa ancora su un unico testo, pubblicato agli inizi della carriera. Da allora non ha firmato quasi più nulla. Sembra aver letto ogni singolo libro che sia mai stato scritto, su qualsiasi argomento, e ha una citazione per ogni occasione, ma soffre di uno dei più tenaci blocchi creativi che si conoscano, un vero mostro della sua specie, e il mondo pullula di riviste di legge ancora in attesa di articoli che lui ha promesso dieci anni fa. Per un incredibile istante mi sorprendo a simpatizzare con Marc, il quale ha probabilmente bisogno di ottenere il seggio per provare che la sua carriera non è stata un fallimento. Ma poi mi libero del pensiero e sono di nuovo pronto a combattere per mia moglie. «Due brave persone» ripeto, tanto per dimostrare che non ho perso il filo. Stuart annuisce, poi si rilassa sulla sedia giungendo le lunghe dita a campanile e segnalando che sta per pronunciare un piccolo sermone. Ammiro Stuart, ma detesto i suoi sermoni. «Non mi piace che i membri della nostra facoltà competano fra loro» dice con tristezza, in un tono che fa capire che la sua è un'opinione che conta. «Non è un bene per la collegialità. Non è un bene per l'istituto.» Indica la parete di finestre, attraverso la quale si scorgono le guglie, le torri e l'enorme, massiccia biblioteca, la gloria gotica del campus. «Noi siamo prima di tutto una facoltà. È questo che significa far parte di un'università. Siamo studiosi, e quelli fra noi che hanno una cattedra, quelli che vengono chiamati "funzionari permanenti", dovrebbero essere i capofila dei rispettivi campi. Non politici, Talcott, ma funzionari. Studiosi. Ognuno di noi ha la stessa identica responsabilità: quella di dedicarsi a una disciplina e di insegnare agli studenti ciò che ha scoperto. Qualunque cosa ti distragga da questo compito è un'offesa alla nostra comune impresa. Lo capisci, vero?» Oscillo fra lo stupore e la rabbia. Stuart non vorrà certo schierarsi dalla
parte di un uomo che ha orchestrato la sua stessa capitolazione. Non avevo mai creduto che Kimmer avesse molti sostenitori in facoltà, ma davo per scontato che uno di questi fosse Stuart Land. «Lo capisci?» ripete lui. Non aspetta di vedere se ho capito. Riprende la sua orazione, alzando un dito ammonitore. «Sai, Talcott, durante i miei molti anni in questa facoltà sono stato interpellato da diverse amministrazioni che mi chiedevano se fossi interessato a una nomina da parte del presidente. Giudice, procuratore generale aggiunto, direttore di un'agenzia.» Sorride cullato dal ricordo. «Una volta, in occasione di uno scandalo, la squadra di Reagan mi chiese se volessi dare una ripulita a un dipartimento del governo. Ma ogni volta, Talcott, ho declinato l'offerta. Ogni singola volta. Vedi, l'esperienza mi ha insegnato che quando un professore si lascia prendere dal pallino della politica smette invariabilmente di essere uno studioso efficace. Non studia più il mondo, non insegna più quello che scopre. È in lizza per una carica, e questo condiziona tutto ciò che fa, dagli argomenti su cui sceglie di scrivere a quelli che è disposto a sviluppare in classe. Si preoccupa di non lasciare tracce compromettenti, e se ne ha passa il tempo a cancellarle. Come puoi immaginare, quando due membri della stessa facoltà vengono presi dalla passione politica nello stesso momento, e si ritrovano a competere per lo stesso posto, gli effetti deleteri aumentano... oh si quadruplicano.» Non posso permettere che la cosa vada avanti. «Stuart, ascolta. Capisco quello che stai dicendo, ma mia moglie non è un membro della facoltà.» «No, Talcott, hai ragione, non lo è.» Annuisce come se l'avesse sempre saputo e io, più lento di comprendonio, ci fossi appena arrivato. «Non formalmente.» «Nemmeno in modo informale.» «Be', tua moglie potrà anche non essere dell'istituto, ma fa parte della famiglia. La famiglia della facoltà di legge.» Per poco non scoppio a ridere. Nel suo mondo ideale, Kimmer preferirebbe non vederla neppure, la facoltà di legge, figuriamoci pensare di farne parte. «Andiamo, Stuart. Qualunque sia la posizione di Kimmer, il fatto che sia in lizza per quel seggio non può condizionare il suo lavoro in facoltà se non ha un lavoro in facoltà.» Mi rifiuto di seguire le generalizzazioni di Stuart, a sentire le quali l'intera facoltà sembrerebbe maschile. I suoi occhi inflessibili reggono il mio sguardo. «Ma non è tutto qui, Talcott. Il fatto che, come la metti tu, tua moglie sia in lizza potrebbe avere un effetto su di te.»
«Su di me?» «Oh, sì, Talcott, certamente. Perché mai ti riesce tanto difficile crederlo? Il fatto che tua moglie voglia diventare giudice, e che tu non voglia danneggiarla... perché mai una situazione simile non potrebbe portare a un eccesso di cautela da parte tua?» «Un eccesso di...» «Sei stato forse del tuo solito umore, di recente?» Sorride per alleviare il colpo. «Il Talcott Garland che tutti noi conosciamo e amiamo? Non credo proprio.» Adesso basta. «Stuart, andiamo. È appena morto mio padre. E poi il prete che ha celebrato il funerale...» «È stato assassinato. Sì, lo so. E mi dispiace terribilmente.» Si china in avanti, giungendo le piccole mani sulla scrivania. «Ma Talcott, stammi a sentire. Negli ultimi tempi sei distratto. Un po' disorganizzato.» Poi, con mia sorpresa, una scrollata di spalle. «Ma questo non c'entra...» «Non c'entra? Hai appena finito di dire che la competizione sta condizionando il mio lavoro!» «Forse stavo parlando a voce alta della facoltà. Forse non sono affari miei. Stavo solo facendo congetture. La verità è che non stavo pensando al tuo lavoro. Stavo pensando a Marc.» «A Marc?» domando, ancora in preda a una rabbia feroce malgrado sia profondamente confuso. Un attimo fa Stuart pensava che fossi distratto e disorganizzato. Adesso non sono affari suoi. «Marc non sta svolgendo bene il suo lavoro. Temo che non regga la competizione.» «E allora perché stai parlando con me e non con Marc?» Stuart non dice nulla, limitandosi a fissarmi senza battere ciglio. Provo un lieve disorientamento, uno strano déjà vu, anche se non riesco a capire cosa sto rivivendo. Ci riprovo. «È stato Marc a dirti di farlo? Ti ha chiesto di parlare con me? Perché se l'ha fatto...» «Nessuno mi ha chiesto di fare niente, Talcott. La mia unica preoccupazione è questa scuola.» Come se ne fosse ancora il preside. «E so che anche tu, come me, vuoi soltanto il bene di questo istituto.» «Non starai suggerendo... Non penserai...» Mi fermo, ingoio l'ondata di rabbia rossa e ci riprovo. «Voglio dire, se mi stai suggerendo di chiedere a mia moglie di ritirarsi, di rinunciare alla possibilità di diventare giudice federale, per il bene della scuola o per il bene di Marc Hadley... be', Stuart, mi dispiace, ma ciò non accadrà.»
«È possibile, Talcott, che in questo caso il bene della scuola e quello di Marc Hadley siano identici.» «Che cosa intendi... Oh!» Mi sono ricordato di dire che Stuart Land è tortuoso? Avrei dovuto capirlo prima. Naturale che voglia aiutare Marc a ottenere la sua preziosa nomina. Probabilmente Marc non sarebbe riuscito ad arrivare tra i finalisti senza il suo aiuto, poiché Stuart potrebbe essere l'unico membro della facoltà di cui il governo si fidi quando si tratta di corroborare ciò che Marc ha ripetutamente asserito, e cioè di essere progressista dal punto di vista politico ma reazionario da quello giuridico. E perché Stuart dovrebbe sostenere le ambizioni del maggior responsabile della sua stessa caduta? Perché se Marc diventasse un giudice, Stuart riuscirebbe finalmente a sbarazzarsene; e Dean Lynda, la sua rivale, perderebbe la pietra angolare su cui si basa il suo potere all'interno della facoltà. Stuart ha una veneranda arguzia da mettere sul piatto: «Forse l'abbandono di questo istituto da parte di Marc Hadley e la sua nomina alla corte federale potrebbero migliorare entrambe le istituzioni». Ancora una volta scelgo con cura le parole. «Capisco il tuo punto di vista, Stuart, davvero. Ma Kimmer merita quel seggio più di Marc. E io non le suggerirò di ritirarsi.» Stuart annuisce lentamente. Riesce perfino a trovare un sorriso chissà dove. «Molto bene. Ci dovevo provare. Ero alquanto sicuro che la tua risposta sarebbe stata questa. E la rispetto. Ma capisci, Talcott, in questo edificio ci sono persone che non lo faranno.» «Prego?» «Hai molti amici in questa facoltà, Talcott, ma hai anche... be', ci sono alcuni che non stravedono per te. Sono sicuro che non è una sorpresa.» La cortina di rosso mi cala finalmente sugli occhi. «Che cosa mi stai dicendo, Stuart? Parla chiaramente.» «Non mi sorprenderebbe, Talcott, se certe... pressioni... venissero esercitate su di te per convincere tua moglie a ritirarsi e lasciare che Marc ottenga quel seggio. È un fatto assolutamente deplorevole, ma resta un fatto. Preferirei che la scuola fosse diversa, che conservassimo la nostra collegialità, ma quando la smania della politica colpisce uno dei nostri ci comportiamo più come scolaretti permanenti che come funzionari permanenti.» Si aspetta che sorrida alla sua battuta, ma non lo faccio. «Temo, Talcott, che alcuni di questi scolaretti possano provare a... persuaderti.» «Non ci posso credere. Non ci posso credere.» «Io non avrò niente a che fare con tutto ciò, è naturale, e sarò lieto di u-
sare la mia influenza per proteggerti. Ma devi renderti conto, Talcott, che anch'io ho dei nemici in facoltà. La mia influenza potrebbe risultare minore di quanto mi piaccia pensare.» Sospira, come a suggerire che la facoltà sarebbe un posto migliore se lui fosse ancora al comando. E forse lo sarebbe davvero. Di Stuart Land si può dire tutto ciò che si vuole, ma le sue uniche ambizioni hanno sempre riguardato la scuola. «Capisco.» Stuart esita, e io mi rendo conto che non ha ancora concluso. «D'altro canto, Talcott, se sei deciso a proseguire su questa strada, penso di poterti essere utile a Washington.» «Ah.» «Credo di avere un minimo di influenza, da quelle parti, e in quel caso sarei lieto di dare una mano a tua moglie.» Il che, ora lo capisco, ci porta allo scopo di questo incontro. Stanco delle sottili manovre di Stuart, provo a essere esplicito: «E in cambio del tuo aiuto, cosa vuoi che faccia?». Stuart aggrotta la fronte e rimette le dita a campanile. Mi preparo per un altro discorso, ma lui invece si alza. «Non tutto è un quid pro quo, Talcott. Non fare il cinico. Quando eri più giovane e non avevi la cattedra, eri più ottimista. Credo che il ritorno di quell'individuo pieno di entusiasmo sarebbe un'ottima cosa, sia per te che per la scuola.» Afferra il volume di scritti vari di Holmes che stava leggendo quando sono entrato, un segno di congedo. Ma prima che sia riuscito a lasciarlo mi offre una revisione della sua risposta. «Certo, è probabile che tu abbia la possibilità di restituire il favore alla scuola. Se si presenterà l'occasione, suppongo che l'afferrerai.» «Io... non sono sicuro di cosa intendi, Stuart.» «Lo sarai quando verrà il momento.» In corridoio provo un brivido improvviso. Ora capisco chi mi ha ricordato Stuart durante la sua predica: Jack Ziegler, mentre al cimitero mi prometteva di proteggere la mia famiglia e in cambio mi chiedeva di rivelargli tutto ciò che avrei scoperto sulle disposizioni. Mi chiedo con apprensione se Stuart stia facendo la stessa cosa. 12 UNA CONSEGNA SPECIALE Elm Harbor venne fondata nel 1682, attorno a una stazione commerciale alla foce dello State River. Originariamente si chiamava Harbor-on-the-
Hill, per le esigue dimensioni delle pianure lungo le rive e il modo improvviso in cui il terreno si inclina subito dopo il porto, nonché per l'influenza del sermone sulla città splendente sulla collina che John Winthrop aveva tenuto mezzo secolo prima. I padri fondatori della cittadina erano tetri congregazionalisti che erano scesi lungo la costa alla ricerca della libertà di religione e che subito avevano adottato leggi che la sopprimevano per tutti gli altri. Fra le altre cose avevano bandito la bestemmia, il cattolicesimo, l'esposizione in pubblico delle caviglie, l'idolatria, l'usura, la disobbedienza al proprio padre e le attività commerciali al sabato. Anche se l'idea di venerare un'immagine li avrebbe fatti inorridire, disposero la loro città a forma di croce, costruendola attorno a due lunghi viali, una strada da est a ovest ai tempi conosciuta come East-West Road e ora chiamata Eastern Avenue, e una da nord a sud il cui nome originale, North Road, è stato cambiato prima in King's Road e infine in King Avenue. L'università aprì i suoi battenti trent'anni dopo, essenzialmente una scuola di specializzazione per tetri congregazionalisti che volevano studiare insieme alla loro Bibbia - retorica, greco e latino, matematica e astronomia. Il campus originario era formato da due edifici di legno nel lungo ovale dove King Avenue compie un ampio arco per seguire la curva dello State River; quella preziosa proprietà sull'acqua appartiene ora alla facoltà di medicina. Nel corso dei successivi tre secoli il campus si è esteso come un cancro nell'area a ovest di King Avenue, invadendo un isolato, metastatizzandosi in un altro, demolendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino o convertendolo a vantaggio dell'università. Sono stati abbattuti negozi, alberghi di infimo ordine, case di assicelle di legno, fabbriche, scuole, chiese, ville, magazzini, bordelli, taverne, concerie e parecchi quartieri di appartamenti. Al loro posto sono sorti laboratori, biblioteche, aule, uffici, dormitori, edifici amministrativi... e spazi aperti. Moltissimi spazi aperti. L'università ama descriversi come la prima creatrice di aree verdi di Elm Harbor, anche se nessun abitante della città osa mettere piede nei magnifici parchi della scuola. L'università ha costruito musei, un acquario e il più importante centro della regione per le arti dello spettacolo. Il suo ospedale è uno dei migliori al mondo. L'università investe nella comunità, fornendo capitale per costruire nuove abitazioni e avviare piccole imprese. Non esiste istituzione della zona che crei più posti di lavoro. O almeno così dicono i nostri comunicati stampa. L'università acquista anche strade intere, chiudendole al traffico e costruendovi enormi parcheggi riservati alle auto degli studenti e del perso-
nale delle facoltà, e con il suo corpo privato di sicurezza dotato del potere di arresto crea un'isola di relativa tranquillità, circondata da un muro quasi visibile che impedisce l'accesso ai cittadini. Elm Harbor, da parte sua, è un luogo demograficamente complesso. Circa il trenta per cento dei residenti è di colore, un altro venti per cento è ispanico e il resto è formato da bianchi, ma con una tale varietà! Abbiamo americani di origine greca, italiana, irlandese, tedesca e russa. I residenti che il censimento etichetta arbitrariamente come ispanici sono soprattutto di ascendenza portoricana, ma molti altri provengono da famiglie dell'America Centrale, così come parecchi dei nostri residenti neri, il resto dei quali si divide equamente fra ex abitanti delle Indie Occidentali e coloro le cui radici più lontane affondano nel Sud del mondo. La città è incorreggibilmente divisa lungo queste numerose linee, come ogni tre anni scopriamo in occasione delle elezioni amministrative in cui il consiglio comunale emerge come un arcobaleno perennemente agitato da contrasti e in cui spesso cinque o sei gruppi etnici diversi schierano candidati sindaci alle primarie del partito democratico. (Il partito repubblicano della zona è una barzelletta.) Soltanto due cose uniscono i variegati residenti di Elm Harbor: l'odio per l'università e il sogno che i loro figli arrivino un giorno a frequentarla. A Kimmer non piace vivere qui, e l'università, malgrado sia un suo cliente occasionale, è una delle ragioni. E il mio punto di vista? Io non tifo per nessuna città, ed Elm Harbor, pur con i suoi numerosi problemi, non mi sembra peggiore delle altre. Quello che ho imparato nel corso degli anni dai miei colleghi - specialmente dal grande conservatore Stuart Land e dal grande progressista Theo Mountain - è che noi membri della comunità universitaria abbiamo la speciale responsabilità di migliorare quella che Theo ama chiamare la metropoli. Lo so, il concetto di responsabilità oggi è passato di moda, soprattutto l'idea di un obbligo nei riguardi di coloro che Eleanor Roosevelt definiva meno fortunati di noi, ma il Giudice ha educato i suoi figli al suo rispetto e nessuno di noi è in grado di sfuggirvi del tutto. Il Giudice pensava che il suo conservatorismo sociale richiedesse un servizio: se il ruolo dello Stato doveva essere limitato, quello dei volontari doveva essere importante. E così Mariah organizza feste per i bambini senzatetto, Addison fa da precettore ai liceali delle zone povere... e io servo da mangiare. La mensa gratuita in cui a volte presto la mia opera di volontario serve
pranzi caldi a donne con i loro bambini alle dodici e mezzo di ogni giorno feriale nel seminterrato di una chiesa congregazionalista un isolato a est del campus, ed è il luogo perfetto per scordarsi dei misteri e della morte, poiché le difficoltà in cui si trovano le sue frequentatrici sono molto più profonde delle mie. Ne ho sentito il richiamo mentre me ne stavo seduto nel mio ufficio, intento a prepararmi per la lezione dopo la sconcertante conversazione con Stuart Land. Mentre cercavo di illustrare ai miei studenti le complessità del concorso di colpa mi sono reso conto che stavo facendo un pessimo lavoro, e potevo avvertire le occhiatacce di Avery Knowland ogni volta che gli volgevo la schiena. Al termine della lezione, ho scaricato i libri in ufficio e mi sono precipitato fuori dall'edificio. La mensa gratuita, mi sono detto, è il posto che fa per me in questo momento. Servizio, mi ripeto mentre scendo la scala che conduce nel seminterrato della chiesa. Siamo tutti chiamati a prestare servizio. Non solo donando denaro, ama predicare Theo Mountain, o lottando per cambiare la legge, poiché Theo considera la legge una causa persa. Prestando servizio agli individui in carne e ossa, che soffrono, piangono e ci sfidano. La direttrice della mensa, una vedova teutonica sulla settantina che insiste a farsi chiamare Dee Dee, mi accoglie immusonita quando faccio irruzione qualche minuto prima dell'apertura. Puntando il bastone sul pavimento di vinile mi segue in cucina, dove il resto dello staff sta facendo a fette numerose pizze preparate il giorno prima e ormai asciutte come il deserto. «La preparazione è a mezzogiorno» mi rimprovera nel suo tono di voce elegante mentre io mi infilo un paio di guanti di gomma. «Tutti devono arrivare entro le dodici e un quarto.» «Avevo lezione, Dee Dee. Mi dispiace.» «Lezione.» «Sì.» Cerco di pensare a come il mio affascinante fratello si comporterebbe con Dee Dee. Male, scommetto. Dee Dee, il cui vero nome ho udito spesso e non riesco mai a ricordare, è una donna piccola con una frangia biondo chiaro pettinata con cura e ampie, solide spalle. Indossa camicie di taglio maschile con fantasie floreali, calze fino al ginocchio e scarpe comode. Il suo volto lungo e cereo sembra scolpito nella pietra, e i suoi occhi di un azzurro incredibilmente luminoso fanno spesso credere ai non iniziati che lei ci veda. Ma Dee Dee è cieca. È anche convinta che le nostre ospiti (come le chiama lei) debbano essere trattate con rispetto. Alla mensa abbiamo tovaglie di cotone dai colori vi-
vaci, che lei lava personalmente due volte alla settimana, vasi di fiori sui tavoli e la rigida regola che tutto il cibo va servito da vassoi e non da pentole appena sollevate dalla fiamma o da padelle appena uscite dal forno. Dee Dee insiste sul fatto che le nostre ospiti dicano "per favore" e "grazie" e che il resto di noi risponda "prego". I volontari maleducati ricevono un avvertimento, dopo il quale non sono più benaccetti. Dee Dee non ha alcuna autorità per cacciare le ospiti che sono state sgarbate con i volontari, ma il suo sguardo cieco, di una sconcertante schiettezza, tiene in riga tutte tranne le più schizofreniche. Per sua stessa gioiosa ammissione, è molto severa. La sua cecità non diminuisce l'abilità di capire immediatamente, quasi attraverso una forma di telepatia, chi dei suoi volontari non sta misurando accuratamente le porzioni di lasagne o chi delle sue ospiti sta cercando di infilarsi una mela o due in più sotto il maglione. O chi è in ritardo. Dee Dee si pianta le grosse mani sui fianchi minuti e sposta il peso all'indietro, le labbra sottili piegate all'ingiù mentre mi rimbrotta: «Stai dicendo che le tue lezioni sono più importanti che sfamare queste sventurate?». Poi sorride e mi dà un colpetto sulla spalla con sorprendente precisione, facendomi capire che sta più o meno scherzando. Più o meno. Ma oggi il suo spirito è il benvenuto. Prendo posto dietro al banco delle insalate. Alcuni degli altri volontari mi salutano. "Professore", mi chiamano, come se fosse uno scherzo fra iniziati, malgrado avessi lo stesso soprannome al liceo. "Ehi, professore!" gridano volontari e ospiti. "Come vanno le cose, prof?" Vengo alla mensa per un milione di ragioni. Una di esse, quella più evidente, è il servizio, il semplice dovere cristiano di fare qualcosa per il prossimo. Un'altra, sempre, è il bisogno di avere qualcosa che mi ricordi la varietà della razza umana in generale e della nazione più scura in particolare: poiché la gamma degli studenti e degli insegnanti che rappresentano l'America nera all'università tende a essere compresa fra Oak Bluffs e Sag Harbor. E forse oggi sono venuto in parte a fare penitenza per l'intimidazione del povero Avery Knowland, che non è certo responsabile della propria insolenza. Ma anche questa è una spiegazione troppo debole. Potrebbe semplicemente essere uno di quei martedì in cui la compagnia di questa allegra brigata è preferibile a quella dei miei colleghi, non per colpa dei miei colleghi ma mia. Ci sono giorni in cui le ore passate in ufficio sono come quelle trascorse con il Giudice, e il fatto che mio padre sia morto e sepolto è irrilevante. All'Ol-
die sono circondato da gente che ricorda con affetto mio padre quand'era studente: Amy Hefferman, la sua compagna di classe; Theo Mountain, il suo insegnante; Stuart Land, che era due anni dietro di lui; e qualche altro. Malgrado lo scandalo che gli ha rovinato la carriera, il ritratto di mio padre, come quelli di tutti gli ex alunni dell'istituto che sono giunti alla carica di giudice, è appeso alla parete della vasta sala lettura della biblioteca di legge, una delle ragioni per cui vi passo poco tempo. A volte mi sento soffocato dal ruolo che mi si chiede di svolgere: "Oliver Garland era veramente suo padre? Che cosa si provava?". Quasi mi trovassi al campus soprattutto come un articolo da esporre. Non avrei mai dovuto lasciarmi convincere dal Giudice a studiare legge dove l'aveva già studiata lui; non riesco a immaginare cosa mi sia preso quando ho deciso che questo era il luogo giusto in cui insegnare. Forse è stato il fatto che non avevo altre offerte interessanti. O che mio padre mi ha detto di farlo. Sotto molti aspetti ero un figlio obbediente. Il mio unico gesto di ribellione è stato il matrimonio con Kimberly Madison, con cui mi ero specializzato in legge, quando la mia famiglia avrebbe preferito sua sorella Lindy, con cui ero andato al college. Kimmer, naturalmente, sa bene come la pensavano i miei genitori, come mi ha ricordato due settimane or sono nel ristorante di K Street; ci sono momenti in cui questa consapevolezza la fa infuriare, e altri in cui mi dice di rimpiangere che io non abbia fatto quello che ci si aspettava da me. Il problema è che non ho mai amato Lindy, checché ne pensasse la Gold Coast. E Lindy non ha mai mostrato il benché minimo interesse nei miei riguardi. Se l'avesse fatto, suppongo che avrei sposato lei come desideravano i miei genitori, e la mia vita sarebbe diversa, non migliore, soltanto diversa. Non avrei Bentley, per esempio, e ciò sarebbe infinitamente peggio. D'altra parte, certe cose sarebbero uguali: il Giudice sarebbe comunque morto di infarto, tutti continuerebbero a chiedermi quali sono state le sue disposizioni, Freeman Bishop sarebbe stato comunque assassinato e Mariah sarebbe imbottita di folli teorie. E io sarei comunque emotivamente esausto. Ieri mattina Kimmer e io abbiamo avuto una discussione, non su quello che sta o non sta combinando con Jerry ma sul denaro. Facciamo lo stesso litigio ogni autunno, perché questa stagione sembra essere il momento in cui ci rendiamo conto che il piano economico che abbiamo attentamente studiato a gennaio è diventato una brutta barzelletta: da questo punto di vista abbiamo lo stesso successo, o insuccesso, del governo federale. In piedi
sulla soglia della cabina armadio mentre Kimmer, vestita soltanto con reggiseno e minisottoveste, sceglieva il completo da lavoro del giorno, ho suggerito di tagliare qualche spesa. Quali? ha chiesto lei senza voltarsi. Con una certa cautela ho indicato le considerevoli uscite per i suoi indumenti e i suoi gioielli. Esasperata, mi ha spiegato di essere un'esperta di diritto societario e di doversi vestire di conseguenza. E così io ho menzionato le soffocanti rate del leasing per la sua Bmw M5 bianca, al volante della quale sfreccia per la città mentre io arranco con la mia scontata ma affidabile Camry. Ma anche l'auto, a sentire lei, è più o meno un requisito professionale. Ho proposto di considerare l'idea di trasferirci in una casa più piccola. Kimmer, infilandosi la gonna, ha risposto che anche la nostra residenza è una componente della sua figura professionale. Mentre scuotevo la testa sconfitto, mi ha guardato da sopra la spalla e ha scoccato il mio sorriso preferito. Poi ha alzato la posta, rammentandomi in tono tagliente che ormai la casa di Oak Bluffs appartiene a noi, e che potremmo venderla e sistemare in un colpo solo tutti i nostri problemi finanziari. Io ho risposto poco saggiamente a tono, asserendo che la casa di Martha's Vineyard è necessaria a me, e che venderla significherebbe ricusare il mio retaggio. E come accade ogni anno, la discussione si è conclusa con un nulla di fatto. Ieri Rob Saltpeter mi ha rimproverato mentre pranzavamo insieme a Theo Mountain in un ristorante chiamato Cadaver's, un'ex impresa di pompe funebri ristrutturata a due isolati dal campus, un locale abbastanza costoso con camerieri pagati per essere strani. Rob ha avanzato l'ipotesi che io sia rientrato troppo presto, che abbia bisogno di tempo per lasciare che la ferita si rimargini. Mi ha suggerito di dare un'occhiata al Libro di Giobbe. Theo Mountain, uno che non le manda a dire, ha decretato che non si tratta di semplice stanchezza e che non ho bisogno di "leggere un mucchio di versetti biblici". Ha detto che potrebbe essere depressione. E probabilmente ha ragione. Sono depresso. E quasi mi piace. La depressione è seducente: ti spaventa e ti attira, tentandoti con la sua promessa di dolce oblio e poi travolgendoti con un potere quasi sessuale, strisciando al di là delle tue difese, dissolvendo la tua volontà, invadendo la tua anima stanca in modo così completo che diventa difficile ricordare di aver mai vissuto senza di essa... o immaginare di poter riprendere a vivere in quel modo. Con scaltrezza satanica, la depressione ti persuade che la sua invasione non è che una tua idea, che l'hai sempre voluta. Annebbia la parte del cervello preposta al ragionamento, che distingue fra il bene e il male. Ti cattura con i suoi piaceri avvolgenti, colpevoli, detestabili, e la cosa peg-
giore è che diventa familiare. D'un tratto ti ritrovi schiavo di ciò che ti terrorizza. Il tuo lavoro frana, le tue amicizie franano, il tuo matrimonio frana, ma tu te ne accorgi a malapena: essere depressi significa essere fortemente attratti dal disastro. «E allora liberatene» dico rivolto alla sala, spaventando un'altra volontaria impegnata a sistemare biscotti vecchi di una settimana sul banco accanto al mio. Replico con un sorriso di scuse alla sua perplessità e torno a dedicarmi al mio lavoro. "Forse sei depresso" ha detto Theo, che si sussurra non abbia mai saltato un giorno di lezione in cinquant'anni. Nell'insolito intrico familiare della vecchia Elm Harbor, Theo e Dee Dee sono lontani parenti, e fu lo stesso Theo a suggerire, in un momento particolarmente difficile del mio matrimonio, che lavorassi come volontario alla mensa per sollevarmi il morale. "Su di me ha funzionato" proclamò Theo, che aveva seppellito la moglie ai tempi in cui io ero ancora uno studente. Servendo l'insalata sui piattini di carta, drizzo la schiena; e per un po', prestando servizio riesco a dimenticare. Dee Dee ci guida in una breve preghiera, dopodiché apriamo i battenti. Mette su della musica: un lettore CD portatile con due grosse casse gracchianti. Sulle prime Dee Dee ha cercato di promuovere la musica classica (i suoi gusti non vanno al di là delle tre B), ma ha finito per cedere alle pressioni dei tempi e dei luoghi e ora diffonde smooth jazz e di tanto in tanto qualcosa di più "estremo". La nostra è una clientela "estrema". Quasi tutte le donne sono nere. Poche di loro continuano a preoccuparsi del proprio aspetto. La maggior parte arriva con i capelli arruffati e attorcigliati, con maglioni e jeans sporchi. Le loro unghie spezzate e malamente dipinte sono sudicie. Alcune hanno i denti ancora bianchi, ma quasi tutte sono passate già da tempo dal giallo al marrone. Diverse hanno problemi di droga. Qualcuna è sieropositiva. Si trascinano in fila come spiriti dimenticati diretti allo Stige. Non sono né entusiaste né riluttanti, né fataliste né indignate. Sono, per la maggior parte, prive di qualsiasi emozione. Non sorridono, non piangono, non ridono, non si lamentano. Si limitano a essere presenti. Al college, noi sedicenti rivoluzionari fingevamo di credere che gli oppressi si sarebbero un giorno sollevati come una potente armata per sgominare i capitalisti, abbattere il sistema e creare una società veramente giusta. Ebbene, qui si riuniscono un paio di dozzine delle persone più oppresse d'America, in coda per ottenere il loro cibo, e la passione più profonda che sono capaci di evocare si esaurisce in brevi ma accalorate di-
scussioni su chi ha ottenuto la porzione più abbondante. Metà di loro potrebbe essere morta nel giro di un paio d'anni. Se non fosse per la bellezza speranzosa e innocente dei loro figli, che ricambiano ancora un sorriso con un sorriso, probabilmente non ce la farei a venire. Poche delle donne vogliono l'insalata, anche se una di loro mi fa una proposta alquanto esplicita passando dal mio banco. «Niente insalata, ma mmh-mmh, un pezzo di te lo prenderei volentieri.» Avrei voglia di piangere. Ecco quello che hanno creato i conservatori con i tagli alle spese assistenziali e l'indifferenza alle terribili condizioni di quelli che non sono come loro, dicono i miei colleghi all'università. Ecco quello che hanno creato i progressisti con l'incoraggiamento al vittimismo e all'indifferenza verso i valori tradizionali del duro lavoro e della famiglia, soleva dire mio padre al suo pubblico plaudente. Nei momenti di amarezza intrattengo il pensiero che entrambe le parti sembrino molto più interessate ad avere la meglio nella discussione che ad alleviare la sofferenza di queste donne. Servizio. Theo Mountain ha ragione. Non esiste altra risposta. «Talcott?» Mi volto senza riporre le posate di legno crepato con cui servo l'insalata. «Sì, Dee Dee?» «Talcott, c'è qualcuno all'ingresso che chiede di te.» «Il signore non può entrare?» «È una lei, e non vuole.» Un sorrisetto beffardo danza agli angoli delle labbra di Dee Dee, facendo comparire due fossette che un tempo devono essere state uno spettacolo. «Un minuto.» Torno in cucina a cercare qualcuno che mi sostituisca al mio banco di scarso successo. Mi tolgo il grembiule e getto i guanti nella pattumiera. Dopo essermi rimesso la giacca, seguo Dee Dee che sale con rumore di tacchi le scale che conducono all'ingresso, dove Romeo, l'unico altro volontario maschio, è di guardia alla porta. La carnagione di Romeo è scura come un tronco d'albero in una notte senza luna. È un uomo di età indefinibile, ed enorme. Una piccola parte della sua mole è formata dall'adipe, ma il resto no. Le sue mani carnose sono sempre in movimento; la causa è una malattia nervosa, ma l'effetto è minaccioso. Non so da dove venga Romeo, e non conosco nemmeno il suo vero nome. Un tempo era sulla strada, come si esprime lui - nel senso che spacciava - ma è riuscito a trovare Gesù senza l'inconveniente di passare prima dalla prigione. Il suo vol-
to rotondo e ben rasato ha un'aria sbattuta. È molto più gentile di quanto appaia, ma è sul suo aspetto che la Chiesa fa affidamento per allontanare chiunque pensi di infrangere la regola che limita il servizio alle donne e ai loro bambini. «Se n'è andata, signorina Dee Dee» borbotta strofinandosi con foga le mani immense. «Ha detto che non poteva aspettare.» «Che aspetto aveva?» «Ragazza bianca» dice Romeo mentre Dee Dee ci ascolta con attenzione. «Pulita» aggiunge. Non come le donne qui dentro, intende dire. «Una donna bianca» ripeto, chiedendomi chi sia e correggendo la definizione con un riflesso provocato dalla vita in un campus politicamente circospetto. «No, no» obietta lui «una ragazza bianca.» Ma la sua enfasi mi dà scarse informazioni: secondo la tipologia di Romeo, prima di diventare una donna bisogna raggiungere l'età di Dee Dee. Socchiude gli occhi alla ricerca dell'aggettivo giusto. «Dolce» dice infine. "Dolce" è una delle molte parole che Romeo usa al posto di attraente. Una studentessa, sto pensando, ma non riesco a capire come abbia fatto a rintracciarmi qui, o come mai, dopo avermi trovato, non abbia aspettato che salissi. «L'avevi mai vista prima, Romeo?» Dee Dee formula la domanda a cui avrei dovuto pensare io stesso. «No, signorina Dee Dee. Ah, già!» Una luce improvvisa gli si accende negli occhi. Una delle enormi mani oscilla verso l'alto reggendo una busta bianca. «Ha detto che l'avevano pagata per dare questa al prof.» Intende dire me. «Che cos'è?» domanda Dee Dee rivolta a me. «Non lo so» ammetto. «Una busta.» La prendo da Romeo e ne esamino il lato anteriore. Scritti correttamente a macchina ci sono il mio nome e l'indirizzo della facoltà di legge. Non c'è francobollo né il mittente. La sollevo, la palpo. All'interno c'è qualcosa di piccolo e duro, come un rossetto. Aggrotto la fronte. Tutte le università del paese raccomandano ai docenti di non aprire le lettere prive di mittente, ma io sono sempre stato curioso. A parte questo, bisogna pur morire di qualcosa. «Ti ha detto chi l'ha pagata?» domando, più che altro per prendere tempo. «No.» Il mio cipiglio si accentua. Qualcuno ha pagato qualcun altro perché mi
consegnasse una busta alla mensa gratuita. Ma come faceva a sapere che sarei stato qui? Fino a un'ora fa non lo sapevo neanch'io. L'ho detto a qualcuno? Non credo. Non ho incontrato nessuno uscendo dalla facoltà, a parte un paio di studenti. Qualcuno mi ha seguito? Scuoto la testa. Se Romeo non sa nemmeno chi sia la ragazza che l'ha consegnata, di sicuro non riuscirò mai a capire chi l'abbia mandata. Se la persona che l'ha portata è una studentessa, ebbene, al campus ce ne sono soltanto tremila, e altre cinquemila all'università statale a pochi chilometri di distanza. «Mmh» mormoro con fare intelligente. Dee Dee fa spallucce e torna da basso: ha un pranzo da organizzare. E così Romeo è la mia unica compagnia mentre apro la busta - strappandola lungo il lato e non dalla linguetta, perché non c'è bisogno di correre rischi inutili - e me ne rovescio il contenuto sulla mano. Ne esce un cilindro di carta lungo circa sette centimetri. Nessuna lettera, nulla di scritto, soltanto questo minuscolo involto. È assicurato da un'approssimativa spirale di nastro adesivo: qualcuno si è dato una gran pena per proteggerne il contenuto. «Lo apra, prof» dice Romeo come un bambino la mattina di Natale. Stacco il nastro con tutta la delicatezza di cui sono capace, scarto il rotolo e trovo il pedone bianco mancante degli scacchi artigianali di mio padre. 13 UN VOLTO FAMILIARE La cosa strana è che non ho nessuno a cui dirlo. Camminando verso la facoltà mentre il primo pomeriggio novembrino si fa grigio e pungente, sono colpito da quanto... da quanto priva di amici sia l'esistenza che sono riuscito a crearmi. Passo davanti ai caffè, ai centri per fotocopie e ai negozietti di indumenti alla moda che sembrano circondare ogni campus d'America. Supero frotte di studenti che, malgrado le rispettive, proclamate diversità, sembrano sempre più uguali fra loro, e che pensano sempre più allo stesso modo, poiché la gamma universitaria di opinioni accettabili su quasi tutti gli argomenti si restringe in modo deprimente di anno in anno. Oltrepasso i traboccanti parcheggi che rappresentano la risposta passivoaggressiva dell'università al problema del traffico al campus: rendiamo drammaticamente scomodo il posteggio, ha decretato qualche burocrate senza volto, e la maggioranza degli studenti e degli impiegati lascerà l'auto a casa. Il mare infinito di automobili ai bordi di Town Street e Eastern A-
venue anche quando l'orario dei parchimetri è scaduto è la palese confutazione dell'idea, ma l'amministrazione di un'università è come un transatlantico: non vira rapidamente né con facilità, anche quando c'è del ghiaccio a prua. E, ora che ci penso, nemmeno io. Per ben due volte mi tolgo il pedone di tasca e lo esamino con attenzione, quasi potesse mutare forma da un momento all'altro. Suppongo che dovrei avvertire l'Fbi o Cassie Meadows, sporgere denuncia, ma provo una strana riluttanza. Non mi sento minacciato in alcun modo. Non è un avvertimento. È un messaggio. Vorrei avere il tempo di decifrarne il significato. Con chi mi posso confidare? Non con Addison, che si è rifugiato nella sua tana ed è irraggiungibile. Non con Mariah, che diventa sempre più delirante circa la morte del Giudice, e che trasformerebbe il pedone nel simbolo di un proiettile o di una fiala di veleno. «Nessuno a cui dirlo» mormoro al vuoto. Attraverso il gelido campus a testa bassa, le mani affondate nelle tasche del mio logoro Burberry. Mentre raggiungo la corte originale, come viene chiamata, dove si erge l'edificio più antico dell'università, proseguo a passare in rassegna le mie magre alternative. Potrei parlarne con Kimmer, forse, quando sarà di ritorno da San Francisco dove sta ancora esercitando la sua due diligence insieme a Gerald Nathanson, ma lei mi ha chiesto di lasciar perdere. O forse potrei parlarne con la Cara Dana, che la trasformerebbe in una burla, o Rob Saltpeter, che... Qualcuno mi sta seguendo. Sulle prime non ne sono sicuro. L'uomo con la giacca a vento verde e il volto di un'allarmante familiarità compare mentre sto passando sotto una delle quattro arcate di pietra che delimitano la corte originale. Mi fermo a salutare una docente di scienze politiche la cui figlia va all'asilo con Bentley. Lei dice qualcosa sulla costruzione del nuovo museo d'arte all'angolo, entrambi ci voltiamo a guardare ed eccolo lì, a qualche decina di metri di distanza, ai margini di un gruppo di studenti. Non fa alcuno sforzo per nascondersi, ma mi restituisce lo sguardo in modo diretto e vigile. Malgrado la distanza, ho la deprimente certezza di sapere chi è: McDermott, nome di battesimo ignoto, l'uomo che soltanto due settimane or sono ha finto di essere un agente dell'Fbi nel salotto dell'abitazione di mio padre in Shepard Street. In un primo momento, tuttavia, cerco di persuadermi di essermi sbagliato, poiché quando lo faccio notare alla mia amica lui è già scomparso, di-
leguandosi con la stessa velocità del mio stipendio mensile. Sono i nervi, mi dico dopo che la docente di scienze politiche si è allontanata, ma quando raggiungo lo squallido calcestruzzo della corte delle scienze lo rivedo. Stavolta mi è di fronte, placidamente seduto sulla scalinata dell'istituto di biologia e con la giacca a vento posata di traverso sul grembo, intento a leggere il giornale del campus. La voglia color fragola sulla mano riluce quando volta pagina. E va bene, per il momento me l'ha fatta in barba. Ottimo trucco, lo ammetto, ma io conosco il campus e lui no. Non sono sicuro di quale sia l'istinto che mi sta guidando, ma pensando probabilmente a Freeman Bishop decido di evitarlo. Prenderò una scorciatoia per la facoltà e chiamerò Cassie Meadows, o forse direttamente l'Fbi. Giro di scatto nel vialetto fra l'istituto di biologia e il centro informatico che collega la corte delle scienze alla sede amministrativa, mi infilo tra due studenti e varco l'ingresso laterale del centro informatico, agitando il mio tesserino di identificazione di fronte a una guardia foruncolosa che alza a malapena gli occhi dal suo "People". Ai tempi in cui studiavo, la sede di scienze informatiche era un magazzino in rovina all'inquieto confine tra l'università e la zona povera della città, prima che un'amministrazione più illuminata (leggi: imprenditoriale) raggranellasse qualche decina di milioni di dollari per questa nuova struttura. Mi guardo alle spalle: nessuna traccia di McDermott. Ma mi ha già ingannato una volta. Mi precipito lungo un falso corridoio creato da tramezzi a mezza altezza che separano batterie di terminali fino a raggiungere le scale antincendio. Salgo a perdifiato fino al secondo piano ed emergo negli uffici della facoltà. I professori che incontro sono tutti maschi, tutti bianchi e tutti calvi o con i capelli lunghi fino alle spalle, non sembrano esserci vie di mezzo. Scoccano occhiate scettiche al mio passaggio: scienze informatiche è il corso di laurea meno frequentato dalla nazione più scura che l'università possa offrire (con la possibile eccezione di letteratura slava) e nessuno di loro immagina per un istante che il mio posto sia qui. Svolto un angolo e raggiungo il ponte pedonale di vetro e acciaio che attraversa Lowe Street (gli studenti la chiamano Low Road) fino al dipartimento di fisica, dove prendo l'ascensore per il pianterreno e riemergo sulla scalinata. McDermott, come avevo previsto, è scomparso. Mi sistemo l'impermeabile, mi tiro su i pantaloni e mi chino in avanti per un istante, traendo profondi, grati respiri di fresca aria autunnale. I muscoli attorno alle mie costole trasmettono una regolare lamentela. Le mie cosce non stanno meglio di loro. La camicia è zuppa di sudore. È difficile crede-
re che a scuola corressi gli ottocento metri; li correvo male ma li correvo, assurdamente motivato dal bisogno di competere con la mia atletica sorellina. Quello che Kimmer continua a ripetermi è vero: devo rimettermi in forma, e una partitella di basket con Rob Saltpeter una o due volte al mese non è sufficiente. Eppure, malgrado non riesca a immaginare che cosa ci faccia McDermott nel campus, mentre trotterello giù per la scalinata riesco a sorridere per la mia piccola vittoria. Ma in realtà non ho vinto un bel niente, poiché non appena lascio la corte delle scienze e mi affretto lungo Eastern Avenue in direzione della facoltà, dove intendo avvertire se non altro la polizia del campus, McDermott mi si affianca. Non era affatto la mia immaginazione. «Ho saputo che mi stava cercando» dice, e sotto il suo tono piatto posso udire l'orgoglio di un uomo sulla sessantina che ha tenuto tranquillamente testa a una preda di vent'anni più giovane di lui. «A dire il vero, no» mormoro, sfruttando le mie gambe più lunghe per staccarlo. «È l'Fbi, quella vera, che la sta cercando. Per metterla al fresco.» «Sì, lo so. Suppongo che dovrò fare qualcosa in proposito.» E la cosa che mi spaventa tanto da farmi fermare è la serietà del suo tono, a suggerire che crede veramente di poter fare qualcosa. Mi volto e lo fronteggio. «Ascolti, signor McDermott o come diavolo si chiama. Non voglio parlare con lei. E giusto perché lo sappia, quando sarò rientrato nel mio ufficio chiamerò la polizia del campus e dirò che lei è un individuo pericoloso. Poi chiamerò l'Fbi e riferirò loro che mi ha pedinato.» Annuisce con fare misurato. «D'accordo» replica come se mi stesse dando il permesso. «Lo può fare. Ma in realtà io non la sto pedinando. Sono soltanto venuto a riferirle un messaggio.» «Non mi interessa.» Faccio per voltargli le spalle. Lui mi posa una mano sul braccio. Me ne libero, ma è riuscito a catturare un'altra volta la mia attenzione. «Professor Garland, mi ascolti...» «No, è lei che deve ascoltare me.» Mi avvicino. Sono più alto di lui di quasi dieci centimetri, ma non sembra affatto intimorito. «È stato lei a mandarmi quel pedone, non è vero? L'ha rubato a casa di mio padre e me l'ha mandato. Voglio sapere perché.» «Pedone?»
«Mi ha mandato il pedone, e adesso mi segue per vedere che cosa ne faccio.» Ma nel momento stesso in cui pronuncio le parole, l'idea mi sembra improbabile. Perché avrebbe dovuto pensare che io volessi uno degli scacchi di mio padre, o che sapessi cosa farne? Sono quasi persuaso che non sia andata così. Dopo tutto, se fosse stato lui a rubare il pedone e poi a farmelo consegnare alla mensa, perché avrebbe attirato l'attenzione su di sé mostrandosi al campus? Sembra più una paranoia in stile Mariah... tranne che il pedone è veramente nella mia tasca e McDermott è qui in carne e ossa. «Non so di cosa parla.» Sembra sincero, ma d'altra parte sembrava altrettanto sincero quando mi ha fatto credere di essere dell'Fbi. «So che non c'è niente che possa fare per convincerla a fidarsi di me, ma voglio che capisca che non sono un suo nemico.» «Oh, certo, chiunque entri in casa mentendo il giorno dopo il funerale di mio padre è il mio nuovo migliore amico.» Chiude brevemente gli occhi, fa un lungo respiro e torna a rivolgermi quell'occhiata stranamente piatta. «Professor Garland, ammetto di non essere sveglio come lei, e sono sicuro che potrebbe passare l'intera giornata a mortificarmi. Molto bene. Nessuno la costringe a provare simpatia per me, ma il fatto è che siamo dalla stessa parte. Vogliamo entrambi la stessa cosa.» «Bene. Perché quello che voglio io è che lei mi lasci in pace.» Di solito non sono così sciocco, né così sbrigativo, ma avendo ormai superato la paura di quest'uomo ho perso un po' il controllo. Immagino sia quello che si prova da ubriachi. McDermott alza un dito e lo agita con fare ammonitore. «Come ho già detto, lei è un tipo sveglio. Ma non c'è alcun bisogno di essere ostile. Abbiamo un interesse comune.» Drizzo di nuovo il pelo. Non mi è mai piaciuto essere definito sveglio, specialmente da cittadini della nazione più pallida. Non ha mai lo stesso significato di intelligente o brillante, e sottintende invece una bassa furbizia animale. Forse il semiotico che è in me esagera nel dare per scontato che le conversazioni siano sempre impregnate di razzismo; ma in molti casi è così. «Non sono ostile» ribatto. «Lei non mi piace, tutto qui.» McDermott scrolla le spalle, quasi volesse farmi capire che è sopravvissuto all'antipatia di uomini migliori di me. «Non sono venuto fin qui per discutere» annuncia. La sua parlata è più fluida che in Shepard Street, ma
l'accento è ancora difficile da individuare. Del Sud, forse, con una sfumatura di... qualcosa. «Sono venuto a dirle che sono dispiaciuto per il suo coinvolgimento in questa storia. Non ho mai conosciuto suo padre, ma lo ammiravo molto. Mi dispiace di essere venuto a casa sua con il mio collega e di averla ingannata a così breve distanza dal funerale. Ma è stato... necessario.» Stiamo bloccando il marciapiede sgretolato. Gli studenti ci scorrono accanto su entrambi i lati, sciogliendo i loro gruppi e riformandoli dopo aver aggirato l'ostacolo. «Necessario per cosa?» McDermott gonfia le guance, quindi espira lentamente. Ha le mani infilate nelle tasche della giacca a vento, e sembra più fragile di qualche minuto fa; mi viene in mente che potrebbe essere più anziano di quanto credessi. Il che rende ancora più imbarazzante il fatto che mi abbia raggiunto con tanta facilità. «Sono un investigatore privato» dice finalmente. «Ritrovo cose per conto della gente. È così che mi guadagno da vivere. La gente perde certe cose, e mi paga per ritrovarle.» «Che genere di cose?» lo interrompo sventatamente. «Cose tipo... cose.» Muove il braccio con un gesto ampio, come se volesse racchiudere il campus nel suo universo professionale. «Gioielli, per esempio. Persone scomparse. Documenti, magari. È quello che stavo facendo a casa sua.» Annuisce, appassionandosi alla spiegazione. «Stavo cercando dei documenti.» «Documenti?» McDermott lancia un'occhiata alla sede della facoltà in fondo al viale, quindi torna a guardarmi. «Sì. Vede, professore, suo padre è... era un avvocato. Uno dei suoi clienti gli aveva affidato alcuni documenti. Molto, molto delicati. Suo padre gli aveva promesso che sarebbero stati al sicuro, che se gli fosse accaduto qualcosa avrebbe fatto in modo che venissero restituiti. Aveva detto così: di aver dato disposizioni in proposito. Ma poi è morto. Mi dispiace. Ma è morto e i documenti non sono stati restituiti. E così il cliente mi ha assunto perché li trovassi. Tutto qui.» «Ma per quale ragione il cliente non poteva semplicemente chiamare lo studio e chiederli a loro?» «Non ne ho idea.» Attendo, ma questa sembra la sua intera spiegazione. La risposta sembra soddisfarlo. «Il suo cliente sa che lei ha infranto la legge cercando di trovare i docu-
menti?» «Il mio cliente non fa domande sui miei metodi. E io non sto ammettendo di aver infranto la legge.» «Si tratta di documenti preziosi?» «Soltanto per il cliente.» «Che cosa sono? Che cosa contengono?» «Non sono autorizzato a dirlo.» «Chi è questo cliente?» «Non posso dirle nemmeno questo.» «Lavora per Jack Ziegler, non è vero?» Finalmente, una traccia di emozione penetra nella sua voce. «Non tutto quello che le ho detto a Washington era falso. Jack Ziegler è un essere spregevole. E io non lavoro per certa gente.» E la cosa più strana è che mentre pronuncia queste parole capto, come per telepatia, il vago sentore delle parole "non più". «D'accordo, ma perché si è rivolto a me? Stava cercando dei documenti che un cliente aveva affidato a mio padre. Perché non ha parlato con mio fratello o mia sorella? Perché è venuto da me?» «Me l'ha suggerito il cliente» risponde McDermott in tono pacato. «Il suo cliente le ha detto di chiederlo a me? Ma perché dovrebbe aver pensato che io ne sapessi qualcosa?» «Non ne ho la minima idea, professore. Ma ho dovuto provarci.» Scuoto la testa. «E perché mi ha mentito? Perché non mi ha detto semplicemente cosa stava cercando e il motivo?» «Forse è stato uno sbaglio» concede l'uomo il cui nome non è sicuramente McDermott. Non sembra affatto a disagio. Mi rivolge perfino un sorrisetto storto che prima non ha mai mostrato, e io rivedo la cicatrice rosa all'angolo della bocca, simile a una ferita di coltello. «Ancora una volta, sono dolente di averla disturbata in un momento così delicato. Ma le prometto una cosa: lei e la sua famiglia siete perfettamente al sicuro. E non mi rivedrete mai più.» C'è qualcosa che non quadra nel suo tono, sembra quasi sottintendere un doppio significato. Perché mi sta rassicurando, se io non gliel'ho chiesto? «Siamo al sicuro da cosa?» Ancora una volta riflette a lungo sulla domanda, come se cercasse di capire fin dove spingersi. Si rifugia nel vago: «Da qualsiasi cosa possa accadere». La frase non mi piace per niente. «E cioè? Non può essere più preciso?»
I suoi occhi chiari e stanchi fissano un punto in lontananza. Poi tornano un'altra volta sul mio volto. «Lasci che le dica una cosa, professore. Vogliamo parlare di pedoni? Io e lei siamo piccoli uomini. In questo preciso momento i grandi uomini stanno lottando, e noi siamo i loro pedoni. Che ci piaccia o no non conta un bel niente. Io sono stato manipolato. Lei è stato manipolato.» «Mi sta facendo preoccupare» confesso. «Sto cercando di fare l'opposto. Sto cercando di rassicurarla. Suppongo quindi di doverle chiedere di nuovo scusa.» Torna a scoccarmi quel sorrisetto storto. «Mi dispiace, davvero. Non sono suo nemico. Anzi, io e lei abbiamo un interesse comune...» «Non è vero.» La rabbia mi ha fatto finalmente superare il timore iniziale. Ricordo il mio copione. «Noi non abbiamo niente in comune. Non ho alcuna ragione per fidarmi di lei. Non ne ho nemmeno per parlarle. Dunque, se permette...» «Va bene, va bene.» Alza entrambe le mani in gesto di resa. «Ma ho comunque un lavoro da fare. Devo trovare quei documenti.» «Non se li trovo prima io» scatto in modo insensato. Non-McDermott sgrana gli occhi per la soddisfazione, come se avesse finalmente provocato la reazione che desiderava. «Spero che li trovi, professore. Davvero.» Un breve cenno di assenso del capo. «Se me lo concede, vorrei farle una domanda.» E mi rendo subito conto, com'è sua intenzione che accada, che l'intera visita aveva lo scopo di pormi questa domanda, qualunque essa sia. «Non mi interessa.» «Riguarda la sua amica Angela.» Esito un istante, ripassando il mio breve elenco di conoscenze. «Così su due piedi, non credo di avere un'amica di nome Angela.» Sto ancora aspettando la domanda, pensando che questa ne sia soltanto la premessa; ma poi capisco che l'interrogativo su Angela era la domanda. «La ringrazio» dice Non-McDermott. «Ora devo andare. Non la disturberò più.» «Aspetti un attimo. Aspetti.» Gli poso una mano sul braccio e colgo l'improvviso allarme nei suoi occhi. Come Dana Worth, non gradisce che lo si tocchi. «Sì?» Ostenta un tono paziente, ma nel suo sguardo l'irritazione è evidente. Svolto il suo compito, il finto federale ha fretta di scaricarmi. Ebbene, sono irritato anch'io. Mi inganna a casa di mio padre, compare
nel bel mezzo del campus per chiedermi di una misteriosa Angela, e io non so ancora niente di lui. «Senta. Ho risposto alla sua domanda. Se è così dispiaciuto, forse può rispondere alla mia.» «Quale?» «Qual è il suo vero nome?» L'uomo con la giacca a vento verde, l'uomo il cui lavoro è trovare cose smarrite, l'uomo la cui età non gli impedisce di tenermi testa inarca le sottili sopracciglia per la sorpresa. «A dire la verità» risponde dopo un'altra pausa ad effetto «non credo di averne uno.» Mi agita ancora quel suo dito davanti al viso, quindi si volta, si tuffa in mezzo a una folla di studenti e scompare. Quando arrivo nel mio ufficio sto tremando. Non sono mai stato un macho, ma non mi spavento facilmente: noi maschi Garland siamo noti, o forse disprezzati, per la nostra freddezza. Ma McDermott mi ha messo paura. La ragione, lo so, ha più a che fare con ciò che è accaduto a Freeman Bishop che con il mistero che lo circonda o con la sua abilità a sbucare fuori quando uno meno se lo aspetta. Il sergente Ames ha la certezza che l'omicidio non sia collegato in alcun modo alla mia famiglia, ma... Ma McDermott è stato qui. La paura che mi si propaga nel profondo, mentre sto seduto alla scrivania torcendomi le mani e cercando di decidere con quale telefonata iniziare, non è il terrore fisico di ciò che potrebbe succedermi. Sono preoccupato per mia moglie e mio figlio. Che McDermott abbia tentato in tutti i modi di assicurarmi che la mia famiglia è al sicuro non ha fatto che accrescere la mia ansia. Per il momento ho allontanato il fatidico pedone dai miei pensieri. Ho una famiglia da proteggere. Decido di andare a prendere Bentley in anticipo e chiamo l'asilo per chiedere di prepararlo. In nessuna circostanza, aggiungo, dovranno permettere che si allontani con qualcuno che non sia io o mia moglie. Le maestre, com'era prevedibile, si offendono per questo mio promemoria delle loro stesse regole, più attente al loro amor proprio che all'ansietà di un genitore. Comunque, una telefonata è fatta. La successiva è indirizzata a uno degli agenti dell'Fbi che mi hanno interrogato il giorno successivo alla visita di McDermott in Shepard Street e che mi hanno detto di avvertirli se avessi avuto altre notizie, un uomo cor-
pulento e gioviale di nome Nunzio. Lascio un messaggio sulla segreteria telefonica del suo ufficio, poi chiamo il cercapersone e il cellulare, i cui numeri mi ha scritto a penna sul biglietto da visita. Il cellulare squilla senza risposta, e il cercapersone registra il mio numero. Rifletti. Prendo in considerazione e poi scarto l'idea di avvertire la polizia del campus: che cosa potrei chiedere loro di fare, di preciso? L'opzione più sensata è chiamare lo zio Mal, ma sono restio a farlo. Nell'ultima settimana gli ho parlato due volte per chiedere aggiornamenti sul caso Bishop e ho avuto la netta sensazione che abbia cominciato a tollerarmi più che ascoltarmi: dopo tutto ha un vero e proprio lavoro da svolgere, e dare costantemente corda alle poco plausibili paure del figlio del suo socio scomparso ha cominciato probabilmente a forzare i limiti della sua generosità. La seconda volta che l'ho chiamato ha sottilmente suggerito che per simili "questioni di routine" mi mettessi in contatto con Meadows. Al momento aveva poco tempo, ha proseguito, e si sarebbe occupato soltanto delle questioni che riguardavano la possibile nomina di mia moglie. Forse è meglio così. Sono stufo di chiedergli favori: uno dei concetti che mio padre ci ha inculcato con più insistenza è che avremmo dovuto evitare l'errore dei molti membri della nazione più scura che passano la vita a chiedere umilmente aiuto ai bianchi potenti. Ma non ho alternative. Ho appena sollevato la cornetta per chiamare la Corcoran & Klein quando Dorothy Dubček, la mia materna segretaria, mi avverte che c'è l'agente Nunzio al telefono. «Ho appena parlato con una sua amica» esordisce lui nel suo tono burbero, senza preoccuparsi di chiedere la ragione della mia chiamata. «Bonnie Ames.» Impiego un momento a capire di chi sta parlando. Non sono mai stato bravo con i nomi. Kimmer dice che sono semplicemente poco disponibile; la Cara Dana sostiene sia un fatto genetico e lo chiama il mio "orientamento sociale"; e Rob Saltpeter dice che ricordare i nomi non è così importante se onoriamo Dio in tutti coloro che conosciamo. La risposta di Rob è la mia preferita, ma Kimmer è quella che mi conosce meglio. «Bonnie Ames?» ripeto stupidamente. «Certo, il sergente Ames. L'ha conosciuta.» «Oh! Sicuro.» Una pausa in cui ciascuno di noi aspetta che l'altro si fac-
cia avanti. Sono io a cedere per primo. «E di cosa... stavate parlando?» Nunzio scivola nel gergo da poliziotto: «Mi stava informando che hanno fermato un sospetto». «Cosa?» «Per l'omicidio di Freeman Bishop.» «Oh! E chi sarebbe?» «Uno spacciatore.» «Sta scherzando?» Un rasserenante sollievo mi scorre nelle vene al pensiero che non è stato McDermott a commettere il delitto; ma un istante dopo viene rimpiazzato da una violenta ondata di vergogna. Ciò non toglie, però, che non sia stato McDermott. «Il Bureau non ci permette di scherzare.» «Molto spiritoso.» «Vuole che lei la chiami. Le vuole rivelare i dettagli di persona.» Mi dà il numero della Ames, che possiedo già. «Perché mi aveva cercato?» Il brusco cambio di argomento mi blocca per un istante. All'improvviso l'urgenza della mia telefonata originaria sembra meno pressante, ma non per l'agente Nunzio. Non appena gli dico di aver visto McDermott mi rivolge una rapida sfilza di domande che comprende di tutto, dal colore delle scarpe del finto agente alla direzione in cui si è allontanato. Le mie risposte non lo soddisfano. Mi chiede se credo davvero che McDermott sia venuto fino a Elm Harbor soltanto per domandarmi se ho un'amica di nome Angela. Gli rispondo che l'impressione è proprio questa. Mi chiede se riesco a pensare a una ragione qualsiasi per cui McDermott possa credere che io abbia un'amica di nome Angela, e io gli rispondo che non ci riesco. Mi chiede di chiamarlo nel caso mi venga in mente, e io gli prometto che lo farò. «Potrebbe essere importante» mi avverte. «Questo l'avevo capito.» «Non voglio che si preoccupi, professor Garland» aggiunge in tono imprevedibilmente espansivo. «Se McDermott è veramente un investigatore privato, lo troveremo, e troveremo anche il suo cliente. Quelli come lui sono dei rompiscatole, ma sono sicuro che McDermott sia innocuo.» «Come fa a saperlo?» domando, il mio tono reso pungente dalla preoccupazione di prima. Non mi rassicura il fatto che McDermott abbia detto più o meno la stessa cosa: "Lei e la sua famiglia siete perfettamente al sicuro... da qualsiasi cosa possa accadere". Ho la sensazione che tutti coloro che mi circondano sappiano qualcosa di fondamentale che a me è stato na-
scosto. Ma il fatto che l'assassino di Freeman Bishop sia stato arrestato mi fa sentire più sicuro... sicuro per i miei cari. Almeno in parte. «Se non l'avete ancora trovato, come fate a sapere che è innocuo?» «Perché di tipi come lui ne incontriamo di continuo. Mentono per ottenere informazioni, pedinano la gente, svicolano qua e là. Ma è tutto quello che fanno.» Un'esitazione. «A meno che, naturalmente, lei non abbia qualche prova che dimostri il contrario. Riguardo a McDermott, voglio dire.» «No.» «Mi ha raccontato tutto?» «Sì.» Come è già successo con il sergente Ames, ho la sensazione che mi si stia interrogando, anche se non ho idea del motivo. «Bene, allora glielo ripeto» taglia corto lui. «Non ha nulla di cui preoccuparsi. Può andare avanti a fare... insomma, quello che sta facendo.» «Agente Nunzio...» «Può chiamarmi Fred.» «Fred. Fred, ascolti. Lei è a Washington, ma io sono qui. E McDermott è qui. Mentirei se non ammettessi che...» «È preoccupato.» «Sì.» «La capisco. Ma le mie risorse sono un po' limitate. E poi, non è che questo McDermott l'abbia minacciata...» «No, è soltanto venuto a trovarmi fingendo di essere un agente dell'Fbi.» Posso quasi sentirlo mentre riflette, non solo in termini logistici, ma anche politici: chi deve cosa a chi e per quale ragione. «Facciamo così. Non credo che debba preoccuparsi, veramente, e voglio sottolinearlo. Ma se la cosa le dà sollievo, farò un paio di telefonate. Là non abbiamo molti agenti, ma vedrò cosa posso fare. Potrei chiedere alla polizia di fare qualche passaggio in più davanti a casa sua finché non avremo trovato McDermott.» So che mi sta rabbonendo, e so anche che ci sono poche ragioni per preoccuparsi, ma gli sono comunque grato. «Lo apprezzerei molto.» «Il piacere è mio, professore.» Una pausa. «Oh, e spero che sua moglie ce la faccia.» Soltanto dopo che abbiamo riagganciato mi accorgo di non avergli detto niente del pedone. Ma forse non ne ho mai avuto l'intenzione. Mi resta Bonnie Ames. Ora che ha guadagnato un nome di battesimo, il sergente mi intimidisce
un po' meno. Ciò nonostante, quando la rintraccio è così brusca che mi meraviglio sia stata lei a chiedermi di chiamarla. O avverte ancora le pressioni dello zio Mal, oppure sta nutrendo il bisogno di gongolare su quanto i nostri sospetti fossero errati. Gli arresti per le "fatali torture" (come i giornalisti le hanno definite) inflitte a padre Freeman Bishop sono stati effettuati nelle prime ore di questa mattina, mi informa: niente Ku Klux Klan, nessuno skinhead, niente neonazisti né finti agenti dell'Fbi, ma soltanto uno spacciatore di crack di Landover, nel Maryland, un pesce piccolo - un signor nessuno, lo definisce il sergente - un ventiduenne di nome Sharik Deveaux, conosciuto nel giro come Conan, e un membro della sua banda. Mentre ascolto il suo racconto scorro il servizio sul sito Internet di "USA Today". Il sergente Ames prova un piacere speciale nell'informarmi che Conan è un nero, cosa che avevo già immaginato. «Dunque, nessun possibile movente razziale.» Come se fossi stato io e non i media ad avanzare l'ipotesi. Il signor Deveaux, prosegue la detective, ha ammesso di aver venduto regolarmente i preziosi cristalli a padre Bishop. Naturalmente, nega di aver commesso l'omicidio. Ma l'altro membro della gang - definizione del sergente - dice di aver aiutato Conan a sbarazzarsi del corpo dopo il fattaccio, e qualcun altro ha sentito Conan vantarsene. «E non è nuovo a questo genere di cose» aggiunge la detective senza approfondire. Per un rapido istante m'immagino il fatto mentre accade: Freeman Bishop, legato e imbavagliato, o trattenuto in qualche modo mentre i due bruciano, lacerano e pugnalano il suo corpo, che si dimena inutilmente; il suo disperato dolore è lo scopo stesso dell'esercizio spirituale, e la sua fede viene finalmente messa alla prova sull'orrenda ruota di tortura di un oblio che si avvicina rapidamente: "fra il Tuo giudizio e le nostre anime". In quell'istante in cui la fine è inesorabile, tutti noi, credenti e agnostici, santi e peccatori, scopriamo ciò in cui crediamo veramente, ciò che davvero sappiamo, ciò che siamo. Che cosa diventerei io in quel momento, con la mia fede malferma e intermittente? Meglio reprimere certi pensieri. «Reggerà in tribunale?» domando timidamente. Il sergente Ames è più divertita che infastidita. Le prove sono schiaccianti, mi assicura, ma non si arriverà mai a quello. Prima o poi, dice, Deveaux si lascerà convincere dal suo avvocato a dichiararsi colpevole per evitare la pena di morte. «Nel Maryland si giustiziano gli assassini?» «Non così spesso. Ma il signor Deveaux è stato abbastanza stupido da uccidere padre Bishop in Virginia. È venuto qui soltanto per scaricare il
corpo.» «Per quale ragione?» «Dovrebbe chiederlo a lui. E non si faccia venire in mente di provarci.» «Che pena potrebbe subire? Dichiarandosi colpevole, intendo.» «Il meglio che può sperare è l'ergastolo senza rilascio sulla parola. E se volesse essere processato in Virginia, per una cosa del genere probabilmente gli darebbero l'iniezione letale.» La sua ferma fiducia mi raggela. «E siete sicuri che sia stato lui? Sicurissimi?» «No, qua cerchiamo di arrestare la gente a casaccio. Specialmente nei casi di omicidio. Soltanto dopo pensiamo a mettere insieme le prove. Non è quello che insegnano nell'Ivy League?» «Non intendevo mancarle di rispetto...» «È stato lui, signor Garland. È stato lui.» «Grazie per...» «Devo scappare. Saluti sua sorella da parte mia.» Chiamo Mariah per condividere con lei il mio sollievo sul fatto che l'omicidio di Freeman Bishop non abbia a che fare con il Giudice, ma la governante (da non confondere né con l'au pair né con la cuoca) mi informa che mia sorella è a Washington. La cerco sul cellulare e le lascio un messaggio. Provo in Shepard Street, ma non risponde nessuno. Forse è meglio così: probabilmente mi direbbe che l'arresto è truccato, che fa parte del complotto. Provo a chiamare Addison a Chicago e, con mia sorpresa, lo trovo nella sua casa di Lincoln Park. Più che rallegrarlo, la notizia lo rattrista. Sussurra qualcosa che non afferro del tutto circa il dio indù Varuna, ci infila una citazione da Eusebio di Cesarea e mi raccomanda di non provare piacere per la sofferenza del prossimo, neanche di coloro che peccano. Quando arriva finalmente il mio turno di parlare gli assicuro che non sto provando alcun piacere, ma Addison mi risponde che al momento non ha tempo perché deve prendere un aereo, il che è probabilmente una bugia. Sospetto, basandomi soltanto sulle esperienze passate, che ci sia una donna nel suo letto. Forse Beth Olin, anche se per mio fratello due settimane con la stessa compagna sarebbero un periodo molto lungo. «Dovremmo vederci» mormora con tale solennità che arrivo quasi a credere sia sincero. «Fatti sentire la prossima volta che sei nel Midwest.» «Non mi richiami mai.» Il lamentoso fratello minore. «Sarà la mia gente che smarrisce i messaggi. Mi dispiace, Misha.» La mia gente. Se solo Kimmer potesse sentirlo.
«A dire il vero, ci sono due o tre cose di cui vorrei parlarti» insisto. «Giusto, giusto. Ascolta, fratello mio, vado un po' di fretta. Ti richiamo.» D'un tratto Addison non è più in linea, forse la sua gente è arrivata per accompagnarlo all'aeroporto. Non ho occasione di dirgli che quasi tutti i messaggi li lascio a casa sua. 14 SVARIATE LIBERTÀ DI PAROLA Martedì dopo pranzo incontro i membri del mio seminario sulle norme legali delle strutture istituzionali. Gli argomenti del seminario vanno dalle normative sulla Borsa al diritto canonico, alle regole che governano le elezioni dei consigli studenteschi, e vengono affrontati dal punto di vista semiotico, cercando sempre di capire non cosa vogliano dire le regole ma cosa significhino, e quale sia la relazione fra quel segno e lo scopo dell'istituzione. Il corso attira alcuni fra i migliori studenti della facoltà, e probabilmente mi diverte più di tutti gli altri. Questo pomeriggio offre un delizioso scontro fra due dei miei beniamini, la brillante anche se leggermente confusa Crysta Smallwood, che sta ancora cercando di capire quando la razza della nazione più pallida si estinguerà, e l'altrettanto dotato Victor Mendez, il padre del quale, un rifugiato politico cubano, è un pezzo grosso del partito repubblicano, cosa che probabilmente lo situa a sinistra dello stesso Victor. Io faccio l'arbitro mentre Victor e Crysta si sfidano da un lato all'altro del tavolo cercando di stabilire se le molestie sessuali rappresentino una mancanza delle istituzioni o dell'individuo. Quando finalmente sospendo l'incontro al termine della lezione, assegno la vittoria ai punti a Crysta. Lei fa un gran sorriso, e gli altri studenti, una dozzina in tutto, ridono e le danno gran pacche sulle spalle. Ricordo loro che la settimana prossima non ci vedremo perché sarò a Washington per una conferenza e li avverto di consegnare la prima stesura delle loro tesine di fine sessione alla mia segretaria prima che io rientri. Con studenti di questo calibro, non si leva un lamento. Oh, ci sono giorni in cui adoro insegnare! Sgambetto allegramente su per le scale fino all'ufficio di Dorothy Dubček, dove raccolgo messaggi e fax, poi ridiscendo fino al mio angolo di facoltà. Davanti al mio ufficio strombazzo un allegro saluto all'anziana Amy Hefferman, la mia vicina all'Oldie, che ha studiato legge con mio pa-
dre. Amy sbatte le palpebre stanche e mi dice che Dean Lynda mi sta cercando, e io annuisco come se la notizia mi avesse colpito. Una volta al sicuro nel mio ufficio, getto ogni cosa sulla scrivania e controllo la segreteria telefonica. Nulla di importante. Un giornalista con una domanda, miracolosamente sull'illecito e non sul Giudice. L'American Express... sono di nuovo in ritardo. E una delle assistenti di Linda Wyatt: la preside, come mi ha accennato Amy, vuole parlarmi, presumibilmente della competizione fra Kimmer e Marc Hadley. No, grazie. Chiamo invece l'asilo nido per sincerarmi che Bentley stia bene, e l'irritazione della direttrice esplode attraverso la cornetta. La sua reazione mi fa sorridere: finché lei è arrabbiata, mio figlio è al sicuro. Il mio buonumore mi sorprende. Avrei tutte le ragioni per essere depresso. È passata una settimana dal mio incontro con Non-McDermott, una settimana dalla consegna del pedone alla mensa gratuita, una settimana dall'arresto di Sharik Deveaux. Cinque giorni fa Kimmer è tornata da San Francisco e mi ha amorevolmente tranquillizzato. Sto inseguendo delle ombre, ha mormorato baciandomi con dolcezza. Devo guardare le cose con raziocinio, ha detto cucinandomi una buona cena. Se il pedone è veramente un messaggio e non uno scherzo di cattivo gusto, prima o poi il mittente mi dirà cosa significa, ha sussurrato con la testa sulla mia spalla mentre guardavamo un vecchio film alla televisione. Perché avere paura? mi ha chiesto dolcemente mentre giacevamo al buio in camera da letto, sorprendentemente a nostro agio l'uno accanto all'altra. L'assassino è in prigione, e McDermott, che ha fatto una semplice comparsata, è stato definito innocuo dal Federal Bureau of Investigation. Giorno dopo giorno, Kimmer ha ripetuto le stesse argomentazioni. È stata tanto confortante quanto convincente. Dallo spavento sono passato alla preoccupazione, e quindi al semplice scrupolo. Sto cercando di raggiungere la serenità. Sto cercando di non sospettare che la vera ragione per cui mia moglie vuole che mi tranquillizzi è la sua nomina alla corte federale. Non c'è niente che riesca ad abbattermi. Il tempo è diventato bello: la temperatura è sui dieci gradi e siamo nel bel mezzo di un autunno nel New England. Il mio umore è migliorato insieme al clima. Oggi, per la prima volta dalla morte del Giudice, mi sento veramente un docente di legge. Mi sto godendo le lezioni; e lo stesso, a quanto pare, stanno facendo i miei studenti. (Eccetto Avery Knowland, la cui frequentazione del mio corso sul fatto illecito è diventata saltuaria e poco attiva. Dovrò fare qualcosa.) Mi torna in mente che sono stato io a scegliere questa professione più di
quanto sia stata lei a scegliere me, e che l'ho svolta con discreto successo. Arrivo addirittura a canticchiare un brano di Ellington mentre passo in rassegna i messaggi scritti e scopro che una delle persone che preferisco al mondo, John Brown, mi ha cercato. John, un compagno di classe del college che ora insegna ingegneria alla Ohio State, è l'uomo più fidato che conosca. Lo richiamo all'istante, sperando di sentirgli illustrare i dettagli di una visita che lui, sua moglie e i suoi figli ci faranno fra qualche settimana. Ci scambiamo qualche facezia, lui mi dice quanto tutti abbiano voglia di venire e infine mi rivela la ragione della sua telefonata: ieri si è presentato da loro un agente dell'Fbi per svolgere un controllo su mia moglie in vista di una "possibile, importante nomina federale". John vuole sapere cosa c'è sotto e perché lui e sua moglie Janice debbano essere gli ultimi a esserne informati. L'unico problema è che Mallory Corcoran mi ha assicurato che i controlli sui precedenti di Kimmer non sono ancora cominciati. La giornata, finora così tranquilla e allegra, ricomincia a farsi cupa. «John, ascolta. È importante. Ti prego, dimmi che l'agente che ti ha interrogato non si chiama McDermott.» Il mio vecchio amico ride. «Non ti preoccupare, Misha. Non era un Mac. Sono abbastanza sicuro che abbia detto di chiamarsi Foreman.» Cerco di non allarmarlo. Mi informo su qualche altro dettaglio, reprimendo la sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco. Non posso mentire a John. Gli dico che l'uomo chiamato Foreman non è dell'Fbi, che è un investigatore privato e che fingendosi un federale sta infrangendo la legge. Gli dico che la vera Fbi vorrà probabilmente parlare con lui, perché Foreman è ricercato. Mi aspetto che John rabbrividisca, ma lui invece mi chiede se sono nei pasticci. Gli rispondo che ne dubito. Prometto di spiegargli quello che posso quando lui e sua moglie verranno a trovarci. Quando alla fine riagganciamo mi porto le mani al volto, sentendo il peso della depressione gravarmi addosso. Resto lì seduto scuotendo la testa, chiedendomi come possa essere stato tanto stupido da credere che fosse tutto finito. Ed è qui che Mariah mi rintraccia, ancora seduto alla scrivania, per riferirmi le affascinanti novità sul modo in cui il Giudice è stato assassinato. «Frammenti di proiettile» ripeto per essere sicuro di aver sentito bene. «Proprio così, Tal.» «Nel cranio del Giudice.» «Esatto.»
«Frammenti che l'autopsia chissà come non ha evidenziato.» Sto cliccando freneticamente con il mouse, alla ricerca del sito Internet che Mariah mi sta descrivendo al telefono con tanto trasporto. È l'ultima cosa di cui ho bisogno. Ci sono all'incirca un migliaio di cose che preferirei fare in questo momento, ma, come ama dire Rob Saltpeter, gli obblighi verso i familiari sono a fondo perduto. «Di proposito, Tal.» Mariah è improvvisamente spazientita. «Non per caso. Non volevano che lo sapessimo. Non volevano che nessuno lo sapesse.» «E questi loro sarebbero?...» «Non lo so. Per questo abbiamo bisogno di aiuto.» «Ma allora come mai non c'erano tracce di sangue, in casa?» Sono fiero di me per aver formulato una domanda ragionevolmente intelligente. Se non altro, la discussione con Mariah mi ha distratto dal pensiero che McDermott e Foreman siano ancora a piede libero. «Le hanno cancellate.» Naturalmente. «Oppure hanno spostato il corpo» suggerisco in tono faceto, ma Mariah mi prende sul serio. «Esatto! Ci sono parecchie possibilità.» L'università adora investire nelle sue divisioni scientifiche, ma la tecnologia da strapazzo della facoltà di legge comprende computer antiquati, e lo scaricamento delle presunte fotografie dell'autopsia di mio padre si sta protraendo in eterno. Devo fare in fretta, poiché è quasi ora di andare a prendere Bentley all'asilo. L'ho detto a Mariah, e lei ha risposto che mi avrebbe fatto perdere soltanto un minuto. Ancora in attesa che il computer faccia il suo lavoro, mi alzo e mi stiro. Sono due settimane che ascolto le teorie sempre più folli della mia sorella maggiore. Malgrado un referto medico inequivocabile, Mariah continua a insistere che i personaggi importanti che volevano sbarazzarsi del Giudice fossero così numerosi che dev'essere stato per forza un loro complotto a eliminarlo. Si è documentata sui farmaci che possono provocare attacchi di cuore. Per qualche giorno è stato il cloruro di potassio: il medico legale ha tralasciato di cercare i fori di siringa. Poi è stata la volta dell'acido prussico: il medico legale non ha praticato il test della saturazione dell'ossigeno. Quando risulta che si è sbagliata, mia sorella tira fuori qualcos'altro. E, se messa alle strette, quasi sempre ammette che la sua fonte è un sito Internet. Mi rammento una cosa che Addison, titolare di diversi siti, ama dire della rete: "Un terzo di vendi-
ta al dettaglio, un terzo di pornografia e un terzo di menzogne, tutte le basi della nostra natura in un colpo solo". «Di che genere di aiuto credi che abbiamo bisogno?» le chiedo. «C'è molta gente disposta a dare una mano» proclama Mariah con gioia, anche se in modo enigmatico. «Moltissima gente.» Faccio una smorfia, chiedendomi cosa le passi per la mente mentre se ne sta seduta dalla mattina alla sera con tutti quei bambini nel suo palazzo di Darien, come lo chiama Kimmer. Mariah ha probabilmente ricevuto le mie stesse bizzarre telefonate, una varietà di organizzazioni di estrema destra impegnate a dimostrare l'esistenza di un complotto ogni volta che subiscono una sconfitta, e di sicuro quando uno dei loro elementi più preziosi scompare in modo tanto prosaico. I veri uomini vengono assassinati. Gli attacchi di cuore sono roba da inetti. «Cosa vorrebbero fare di preciso, piccola?» «Be', come prima cosa pubblicheranno annunci sul giornale reclamando un'indagine.» «Magnifico. E quando hanno intenzione di rendere pubblica la loro brillante idea?» Sperando che lo zio Mal o qualche altro assennato conoscente di mio padre a Washintgon possa prevenire il tutto. «Non assumere quel tono, Tal. Aspetta di vedere le foto.» Una pausa. «Non le hai ancora guardate?» «Fra un minuto.» Faccio ritorno alla mia sedia. «Quando verrà dato l'annuncio, Mariah?» «Presto» mormora lei, non più sicura di parlare con un alleato. «Mariah, ascolta... Okay, aspetta.» Lo scaricamento delle immagini è finalmente terminato. Sono quattro fotografie alquanto cruente, e non vedo alcuna ragione di credere che siano autentiche. Tre su quattro non mostrano il volto del cadavere, ma la corporatura non sembra quella del Giudice. E nemmeno il colore della pelle, in tutti e tre i casi troppo scuro. L'unica che sicuramente ritrae mio padre è così sgranata che non è nemmeno chiaro perché faccia parte del gruppo, o quale macchinazione dovrebbe provare. Aggrotto la fronte e mi chino verso lo schermo, spingendomi gli occhiali sul naso con un dito. Una delle immagini che non rivelano il volto mostra effettivamente i puntini neri a causa dei quali Mariah mi ha telefonato. Potrebbero essere frammenti di proiettile, suppongo, se sapessi che aspetto hanno i frammenti di proiettile. Ma, aspetta... «Mariah.» «Mmh?»
«Mariah, penso... non potrebbe essere soltanto la lente sporca?» «Lo vedi? È la stessa cosa che ha detto il medico legale.» Mi ripeto che Mariah è la mia sorella maggiore e che le voglio bene. «Mariah, piccola, dimmi che non hai interpellato il medico legale.» «Oh, no, Tal, certo che no.» «Brava.» «Non ho dovuto chiederglielo. La sua dichiarazione è sul giornale di oggi.» Oh, fantastico. Sul giornale. Il Giudice si starà rivoltando nella tomba. Mi chiedo se Kimmer l'abbia saputo. «Be', se il medico legale dice che è polvere...» «Non puoi credere a lei.» «Perché no?» «Per prima cosa, è una democratica.» Il problema è che Mariah non sta scherzando. E così, scoccando un'occhiata al mio orologio, dico quello che sono certo voglia sentirmi dire. «Chiamerò lo zio Mal e gli chiederò di occuparsene.» Senza rivelarle che il grande Mallory Corcoran non risponde quasi più alle mie telefonate, il che significa che verrò scaricato a Cassie Meadows. O che anche Meadows si è stancata di me, e probabilmente non dedicherà più di una telefonata all'argomento. Sto sperando che la questione non meriti altro. Con mia sorpresa, Meadows non è soltanto disponibile, ma ha anche buone notizie: l'Fbi ha rintracciato il misterioso McDermott. Si tratta effettivamente di un investigatore privato che opera nel South Carolina. Ha importunato diversi conoscenti di mio padre, specialmente nell'area di Washington, chiedendo di una certa Angela. È ben noto allo sceriffo della sua città, che lo considera ostinato e forse un po' subdolo, ma di certo non pericoloso. Ha perfino un vero nome, ma il Bureau non ha voluto rivelarlo. «Perché no?» Meadows esita; vorrebbe essere influente come Mallory Corcoran ed è perciò restia ad ammettere di essere esclusa da alcune cerchie. «Hanno detto che non era necessario che lo sapessimo» confessa alla fine. «Hanno spiegato il motivo?» Un'altra pausa. «Non gliel'ho chiesto, a dire la verità. Forse avrei dovuto insistere...» «Non importa.» Le riassumo a grandi linee la telefonata con John
Brown. «Le hanno detto niente di Foreman?» «Foreman lavora per McDermott. Anche lui è una specie di investigatore privato, e sì, signor Garland, è ugualmente considerato innocuo.» Mi concedo un respiro di sollievo. «Nient'altro?» «Solo che entrambi hanno lasciato la giurisdizione. E gli Stati Uniti. A quanto pare hanno saputo che l'Fbi era sulle loro tracce e si sono rifugiati in Canada.» «In Canada? Ma cosa aveva contro di loro l'Fbi da costringerli a fuggire in Canada?» «È tutto quello che mi hanno detto.» Confuso ma sollevato, mi torna in mente la ragione della mia telefonata. Racconto a Meadows di Mariah e dei frammenti di proiettile. Meadows ride. «Cosa c'è da ridere?» Controllo l'ora, penso a mio figlio che sta aspettando. «Lo aggiungerò al dossier.» «Quale dossier?» «Il signor Corcoran mi ha fatto aprire un incartamento per queste cose. Abbiamo ogni lettera, ogni messaggio in rete, ogni opuscolo di destra, ogni folle teoria dei conducenti di talk show riguardo a suo padre. È una cartella voluminosa, signor Garland.» Un'altra risatina. «Contiene già un bel po' di cosiddette fotografie dell'autopsia.» «E la parte divertente quale sarebbe?» «Oh, be', ho un'intera sezione dedicata alle e-mail di sua sorella.» Meadows abbassa la voce. «Non le ho nemmeno mostrate al signor Corcoran.» «Ha... sentito Mariah?» «Due volte alla settimana, ci crede?» Un'altra risata, ma questa è priva di umorismo. «Penserà che essendo la figlioccia del signor Corcoran...» Non conclude la frase, quindi si fa più seria: «Qualcuno la deve fermare, signor Garland. I miei amici al Campidoglio dicono che se sua sorella non la smette, sua moglie non ce la farà mai». 15 DUE INCONTRI Bentley! Casa! Due delle mie parole preferite! Arrivo all'asilo di mio figlio con venti minuti di ritardo a causa della telefonata con mia sorella e sopporto le occhiate impassibili delle maestre -
tutte bianche - il cui torvo silenzio mi fa capire che sono pronte a chiamare i servizi sociali per denunciare i Garland-Madison come ritardatari abituali, e di conseguenza come genitori non idonei. Mi conforta, tuttavia, vedere che anche Miguel Hadley è ancora qui, e che i suoi genitori sono quindi non meno incompetenti di quelli di Bentley. Miguel è un bambino grassottello e incredibilmente intelligente, ma non è mai stato esuberante. Oggi appare particolarmente solenne. Saluta Bentley con un abbraccio. La scuola incoraggia gli abbracci fra i bambini sulla base di un inespresso obiettivo ideologico: far sì che non diventino il genere di individui che lanciano bombe su civili innocenti, forse. Ma non so bene perché le maestre si prendano il disturbo. È molto più probabile che i figli dei professori universitari diventino il genere di individui che se ne stanno seduti alla Casa Bianca e ordinano agli altri di lanciare le bombe, fra un abbraccio e l'altro ai loro elettori. Me ne sto in disparte ad aspettare che i due bambini si stacchino dal loro abbraccio (l'istituto raccomanda a noi genitori di non separarli mai con la forza) e guardo fuori dalla finestra verso il parcheggio, sperando di riuscire, grazie a questo trucco, a evitare di parlare con le maestre. Sono disperatamente benintenzionate, alla maniera dei progressisti bianchi della loro classe, ma essendo convinte di aver trasceso il razzismo (che affligge soltanto i conservatori) rimangono beatamente ignare del modo in cui il loro sprezzante elitarismo viene percepito da quei pochi genitori di colore che possono permettersi questa scuola. Né vale la pena di illuminarle: le loro scuse disperatamente sincere non farebbero che peggiorare le cose, facendo credere, come tendono a fare sempre le scuse dei progressisti, che i membri della nazione più scura hanno personalità così deboli che non esiste peccato più grave dell'insultarli. I progressisti bianchi, naturalmente, si credono di tempra più forte. Per questo sostengono così spesso regole che puniscono i commenti sgradevoli fatti dai bianchi nei riguardi dei neri, ma sono pronti a perdonare i commenti sgradevoli fatti dai neri nei riguardi dei bianchi. Scuoto il capo, lottando contro la rabbiosa direzione delle mie riflessioni. C'è qualcosa, in questa diatriba, che rappresenta ciò che penso veramente? Gratto il contorno sbiadito di un fiore adesivo sull'angolo della finestra, chiedendomi perché queste maestre, con i loro fanatici sorrisi di benvenuto rivolti a ogni singola faccia di colore, da me tirino fuori il peggio. E perché io condanni soltanto i progressisti. Gli atteggiamenti razzisti dei conservatori non sono affatto migliori. Queste maestre, pur con tutta
l'arroganza della loro solidarietà, non sono quelle che scribacchiano KKK con la vernice sugli armadietti dei liceali di colore o che inviano denaro all'Associazione Nazionale per l'Avanzamento della Gente Bianca. Qual è la fonte del mio astio? È possibile che io stia semplicemente ricordando, sia pur in modo vago, un furioso articolo o discorso del Giudice? Strano come stia diventando difficile capire la differenza, come se da morto mio padre avesse più diritti sulla mia mente di quanti ne abbia mai avuti in vita. Mi chiedo se riuscirò mai a sfuggirgli. Mentre rimugino in un angolo, in attesa che le maestre decidano che Bentley ha imparato la sua lezione quotidiana contro la guerra e il machismo e a favore dell'abbraccio, noto una monovolume Mercedes nera di forma trapezoidale sfrecciare sobbalzando sulle buche del malconcio piazzale. Dahlia Hadley, la madre di Miguel, è arrivata con la sua consueta, sventata precipitazione. Fa irruzione nella scuola, un minuscolo, sottile vortice di sorrisi ed energia, e le maestre, innervosite dalla mia presenza, riprendono a sorridere. Poiché tutti adorano Dahlia, è una sorta di regola. «Talcott» sussurra lei non appena ha finito di salutare il figlio con un cenno della mano «sono così felice di vederti. Stavo pensando di telefonarti. Hai un minuto?» «Ma certo» rispondo, sicuro che stia per succedere qualcosa di sgradevole. Dahlia prende la mia grossa mano nella sua e mi attira in un altro angolo della lunga stanza, in cui blocchetti di legno giacciono sparsi sul pavimento in un disordine che si spaccia per creatività infantile. «Riguarda il nostro comune interesse» dice guardandosi intorno. I suoi jeans indaco e il suo maglioncino in tinta sono leggermente vistosi, ma Dahlia è fatta così. «Sai di cosa parlo, Talcott?» Naturale che lo so, ma sono ancora libero di fingere il contrario, poiché l'"Elm Harbor Clarion", che non è un fenomeno di efficienza quando si tratta di rivelare notizie che non abbiano a che fare con la corruzione in municipio (che la nostra ottima città possiede in abbondanza), deve ancora pubblicare l'articolo d'obbligo sui finalisti per la nomina alla corte d'appello. Ma decido di non fare giochetti. «Be'... penso di sì.» Dahlia esita, poi mi guarda negli occhi e torna a sorridere. Ha poco più di trent'anni, ed è una boliviana tutto pepe con i capelli colorati all'henné che nemmeno Kimmer, malgrado ce la metta tutta, può fare a meno di trovare simpatica. Marc e Dahlia si sono conosciuti, come Dahlia fa notare
ogni volta che qualcuno la ascolta, dopo che il primo matrimonio di lui era andato in crisi. (Ma prima che lui lasciasse sua moglie, puntualizza Kimmer crudelmente.) La prima moglie di Marc era Margaret Story, una storica di grande prestigio un anno più vecchia di lui, che gli ha dato due figli: Heather, la più giovane, che ora frequenta la facoltà di legge, e Rick, il maggiore, un poeta i cui scritti figurano spesso sul "New Yorker", che vive in California. Margaret era corpulenta, silenziosa e distante, addirittura ostile, laddove Dahlia è magra, chiassosa, socievole e adora provocare. Ma non è un semplice trofeo da esibire. Malgrado non sia titolare di cattedra (cosa che, in un'università, la rende un cittadino di seconda classe), ha un dottorato in chimica del Massachusetts Institute of Technology e, finanziata da varie borse di studio aziendali, lavora in un angolo oscuro della corte delle scienze sperimentando improbabili cure per malattie sconosciute e uccidendo appassionatamente centinaia di cavie. Le minacce più gravi per i poveri, a sentire Dahlia, che è stata una di loro, non sono né politiche né militari né economiche, bensì biologiche: il progresso scientifico e la natura diffondono microbi sempre nuovi nell'ecosistema, e di solito sono i poveri a morirne per primi e più rapidamente. Dahlia crede che la giustizia si trovi in fondo a una provetta. Una volta un gruppo di animalisti invase il suo laboratorio, liberando i roditori contagiati e diffondendo pericolosi germi. Gran parte dello staff si diede alla fuga, ma Dahlia non cedette e tacciò i contestatori di razzismo, accusa che in un primo momento li confuse e poi determinò la loro sconfitta. Nel tentativo di ribattere, il leader del gruppo non fece che peggiorare le cose, tracciando una maldestra analogia fra le cavie e la situazione degli abitanti dei barrios. Evidentemente credeva che Dahlia, la cui carnagione è rossa come l'argilla del deserto, fosse di origini messicane. Lei lo corresse rabbiosamente in due lingue. La polizia del campus arrivò mentre il leader dei contestatori si stava sforzando di esprimere la propria solidarietà con il popolo oppresso della Bolivia, dove, sfortunatamente per lui, si dà il caso che viga la democrazia. In seguito, Dahlia testimoniò al processo. Parlò degli esperimenti che i manifestanti avevano danneggiato, della gente che avrebbe potuto morire: una testimonianza che in circostanze ordinarie non sarebbe stata ammissibile, ma il pubblico ministero fece conto che la dottoressa Hadley stesse semplicemente descrivendo i danni al laboratorio e il giudice stette al gioco. Dahlia si attirò molte lettere minatorie da parte di gente che ama gli animali più degli esseri umani, ma ottenne un sostanziale aumento della borsa di studio concessa dall'azienda farmaceutica che è tra i finanziatori
della sua ricerca. Dahlia è una donna saggia. «Non è un momento facile, per noi» dice ora, e io mi ritrovo a chiedermi, e scioccamente, se mi abbia preso in disparte per parlare di un altro argomento, se Ruthie abbia mantenuto confidenziale ciò che è confidenziale e non abbia rivelato a Marc che il suo principale avversario per la nomina che tanto desidera è mia moglie, oppure, in caso contrario, se Marc non l'abbia detto a sua moglie. Ma è Dahlia stessa a rispondere alla mia silenziosa domanda, dicendo in tono quasi noncurante: «Sai, Tal, l'Fbi ha cominciato a importunare tutti i nostri amici. Immagino che sarà lo stesso per voi». «Oh, sì, certo» borbotto; sono sorpreso, e a questo punto sono costretto a chiedermi come mai nessun nostro amico ci abbia chiamato per metterci al corrente, con l'eccezione della telefonata di John Brown su Foreman, che ovviamente non conta. Forse l'Fbi non ha fatto loro visita. Di sicuro nessun agente - nessun vero agente - è passato a parlare con Kimmer. E Marc, l'hanno interrogato? In caso affermativo, la battaglia si è presumibilmente già conclusa... e con essa, probabilmente, anche il mio matrimonio. «Marc è molto teso» sussurra Dahlia. «Kimberly come sta?» «Mmh? Oh, bene, bene.» Miguel chiama sua madre in spagnolo. Dahlia si gira parzialmente verso di lui e risponde: «En un minuto, querido», ma non lascia la presa sulla mia mano. Rivolge un'occhiata alle maestre, che distolgono lo sguardo di proposito. Poi mi tira ancora più in disparte. A quanto pare, non vuole farsi sentire. Le maestre si stanno probabilmente chiedendo a che genere di têteà-tête stiano assistendo. Molti considerano Dahlia una donna alquanto attraente, ma io trovo le sue fattezze troppo morbide e indefinite, e le sue ambizioni troppo ostentate, per parlare di vera bellezza. «È così difficile sapere qualcosa» aggiunge imbronciata. «Avete avuto qualche notizia?» E all'improvviso capisco, e ne sono sbalordito. Marc non sa niente più di ciò che sappiamo noi. Il maldestro interrogatorio di Dahlia non è altro che un tentativo di sondare il terreno nell'interesse di suo marito. Non è affatto finita! Il mio sollievo è così profondo che avrei voglia di ridere. Ma controllo i miei istinti e, come sempre, l'espressione del mio volto. «Nemmeno una parola, Dahlia.» Nelle ultime settimane ho avuto scarsi contatti con Marc: niente più di qualche occasionale e teso saluto quando ci incrociamo in corridoio. Decido di svolgere anch'io una piccola indagi-
ne. «Immagino non ci resti che aspettare.» Dahlia non sembra avermi udito. Solleva un'altra volta gli occhi su di me. Non sta più sorridendo. «Conosci Ruth Silverman?» Non Ruthie, osservo. «Sì, la conosco.» Dahlia chiude gli occhi per un istante. Il gesto possiede un'innocenza infantile. Nel parcheggio, due padri sono nel bel mezzo di un'accesa discussione sui meriti sportivi dei Jets e dei Giants. Vorrei far parte del loro universo, non di quello di Dahlia. «Era una studentessa di Marc. È stato lui a procurarle un lavoro. Ma è una tale ingrata. Non vuole dirci niente.» Scuote il capo. Dall'estremità opposta della stanza, le maestre irrequiete scoccano occhiate furtive a noi e spazientite all'orologio. Molto probabilmente si stanno meravigliando di quella che interpretano come la nostra familiarità, desiderose di tornare a casa per spettegolarne con i coniugi, gli amanti e gli amici, poiché Elm Harbor, malgrado tutta la sua raffinatezza da Ivy League, è soltanto una piccola città. "Non indovineresti mai chi ho visto insieme a scuola!" Mi rendo conto di badare troppo alle apparenze, ma i miei precedenti con Kimmer mi hanno lasciato questo fardello. «Marc continua a ripetermi che lei ha il dovere di non dire niente, ma io sono stata educata a credere che a un favore si risponda con un favore.» Dahlia mi ha lasciato la mano. Sta digrignando i denti perfetti e serrando i pugni. Noto che si è mordicchiata a tal punto le unghie che la carne è di un rosa acceso. «Marc ha ragione, Dahlia. Ruthie... Ruth non può parlare del suo lavoro.» «È successo tutto così all'improvviso» spiega lei, e immagino intenda dire che Ruthie ha cominciato rivelando informazioni a Marc, ma per qualche ragione ha smesso di farlo. Le parole successive di Dahlia confermano il mio sospetto. «Tre settimane fa, Marc era il candidato più probabile. Così sosteneva Ruth Silverman. Poi ci ha detto che il presidente stava valutando altri nomi, nell'interesse della diversità.» Sottolineando il termine in modo da far capire quanto poco dovrebbe contare quando c'è in ballo qualcosa di serio. L'anno scorso ho sconvolto gli studenti del mio seminario sulla legge e i movimenti sociali con la seguente affermazione: qualsiasi bianco che creda davvero nella battaglia contro le discriminazioni razziali dovrebbe essere disposto a promettere solennemente, nel caso suo figlio fosse ammesso a Harvard o a Princeton, di scrivere subito alla scuola dicendo: "Mio figlio non si iscriverà. Vi prego di riservare il suo posto al
membro di una minoranza". La costernazione dei miei studenti mi ha confermato che sono pochi i bianchi, anche fra i più progressisti, fautori della lotta contro la discriminazione quando costa loro qualcosa. La sostengono soltanto perché così possono dire a se stessi che si stanno impegnando per la giustizia razziale facendo finta che non costi nulla. Ma non è colpa loro: chi crede nel valore del sacrificio, ormai? "Diversità" sto pensando ora. Normalmente un termine così privo di contenuto che ognuno può sottoscriverlo senza dover essere d'accordo con nulla, ma in questo caso, indubbiamente, un codice per indicare Kimberly Madison. Cosa che Marc deve aver capito, e ovviamente anche Dahlia. Le possibilità di mia moglie sono maggiori di quanto credessi, maggiori di quanto lei stessa sperasse... se riusciamo a tenere nascosto tutto il resto. L'immagine di Jerry Nathanson mi attraversa la mente, e io reprimo un'ondata di rabbia nei confronti di mia moglie, più per aver corso un simile rischio con una posta di questo genere che per aver infranto il suo voto. «Sono sicuro che il presidente sceglierà la persona che secondo lui sarà il giudice migliore» dico, anche se nessun presidente ha mai scelto i giudici con questo criterio. «Non lo so» risponde Dahlia, ma naturalmente lei pensa che Marc sarebbe il giudice migliore. Poco importa che non abbia mai esercitato la professione forense in vita sua. «A dire la verità, Tal, Marc non è... non è più lui.» «Mi dispiace, Dahlia.» «Non è da lui mancare alla festa di suo figlio» prosegue. A un certo punto, non so bene quando, è passata dall'interrogatorio alla confessione. Nota la mia confusione. «Ricordi domenica scorsa? Il compleanno di Miguel?» Me ne ricordo. Ho dovuto portare Bentley alla festa poiché Kimmer, che aveva promesso a suo figlio di essere presente, era dovuta partire per San Francisco domenica mattina. E ricordo anche che Marc era assente. Dahlia l'ha giustificato: doveva partecipare a una conferenza a Miami, ha detto, qualcosa su Cardozo. Già allora mi è sembrato che non ne fosse particolarmente felice. «Mi dispiace.» Tanto per dire qualcosa. Dahlia fissa la moquette marrone consunta. I suoi occhi scuri brillano di lacrime. «Di solito Marc è così affettuoso, con me e con Miguelito. Ma adesso la tensione...» Scuote di nuovo la testa. «È diventato irascibile. E non mi parla.» Non so cosa abbia spinto Dahlia ad aprire questa finestra sulla vita pri-
vata della famiglia Hadley, ma non è un fardello che ho voglia di reggere. Continuo a rifugiarmi nelle banalità: «È un periodaccio per tutti». Dahlia mi ascolta a malapena. «Voi siete fortunati, Talcott. Kimberly è giovane. Se non va bene stavolta, ci sarà un'altra occasione. Ma nella vita di Marc c'è così tanto che non è andato come lui sperava. Tutti gli scritti che non è... riuscito a completare. Ho paura di quello che gli succederà se questa nomina andrà a qualcun altro. Temo per lui.» Perciò il gioco è questo. Visto che Marc si getterà dalla finestra se non l'otterrà, e che Kimmer avrà un'altra possibilità, potresti dire a tua moglie di ritirarsi? Una mossa davvero disperata! Mi torna in mente la lamentela di Stuart Land sul fatto che Marc non si sta dedicando al proprio lavoro perché è troppo turbato... e la sua affermazione sul fatto che avrebbe potuto aiutare Kimmer a Washington. Forse l'ha fatto. «Non è facile per nessuno. Sono sicuro che finirà come deve finire.» Un po' arido, suppongo, ma perché Dahlia Hadley dovrebbe pensare che tocchi proprio a me il compito di rassicurarla? Lei rifiuta di arrendersi. «Non capisci, Talcott. Non sto parlando di semplice tensione. Marc è preoccupato. Sì, è il termine giusto: preoccupato. E non vuole dirmi cosa gli passa per la testa. Abbiamo sempre condiviso tutto, fin dal primo giorno, e adesso mi nasconde qualcosa. E questo lo sta... devastando.» Scuote il capo, agitando la mano in direzione di suo figlio che disegna insieme a Bentley. «Sta distruggendo la mia famiglia, Talcott.» Non so bene come rispondere ma voglio dire la cosa giusta, e la sensazione che non tocchi a me confortarla è stata ormai messa in fuga dalla rivelazione improvvisa del suo dolore. Forse Dahlia non mi sta manipolando, ed è davvero preoccupata per suo marito. Forse c'è qualcosa di cui preoccuparsi. «Mi dispiace, Dahlia» dico alla fine dandole un colpetto sulla spalla. «Veramente.» Mi afferra per la giacca e per un istante di terrore china la testa in avanti come se volesse posarmela sul petto. Poi si irrigidisce, più per l'imbarazzo che per la rabbia: ha lasciato che la conversazione le sfuggisse di mano e si preoccupa in ritardo di quello che potrebbero pensare le sbalordite maestre. «Oh, Talcott, dispiace anche a me.» Nuovamente diritta, senza più tenermi per mano, si asciuga il naso con un fazzoletto. Il suo volto è rigato di lacrime che non ho visto nascere. «Non è giusto scaricare la cosa su di te. Prendi tuo figlio, torna a casa e abbraccialo. Diventa tutto più bello.»
«Fallo anche tu, Dahlia. E non ti preoccupare.» «Nemmeno tu. E grazie.» Tira su con il naso. «Sei un uomo gentile.» Detto come se non ne conoscesse molti. Attraverso la stanza con passo pesante verso mio figlio. Le maestre si scostano per farmi strada: la mia conversazione furtiva con Dahlia mi ha trasformato in una celebrità. Sistemando un insonnolito Bentley su un seggiolino per il quale è probabilmente troppo cresciuto, do una rapida occhiata alla scuola che sto cominciando a odiare. Miguel e sua madre sono sulla soglia, mano nella mano. Dahlia, evidentemente tornata in sé, sta chiacchierando con una delle maestre, facendola ridere. Miguel saluta con un cenno altezzoso della mano, figlio di suo padre. Mentre serpeggio fra le buche, riuscendo a far cozzare il telaio della Camry non più di tre o quattro volte, penso con meraviglia alle vicissitudini della fortuna. Se McDermott è veramente andato in Canada, e se Conan Deveaux ha veramente ucciso Freeman Bishop, significa che Kimmer ha ragione: è ora che la smetta di preoccuparmi. Si tratta soltanto di convincere mia sorella a lasciar perdere le sue folli teorie sul complotto. Se Addison mi aiuta, forse posso farcela. Lo scheletro, mi ripeto esultante mentre il nitido ricordo del volto malato di Jack Ziegler riemerge dal profondo. Marc è preoccupato per lo scheletro. Cinque minuti più tardi imbocco il vialetto della nostra casa vittoriana di dodici locali nel cuore del ghetto dell'università. Come Kimmer mi rammenta spesso, siamo circondati su tutti i lati dalla facoltà di legge. La Cara Dana Worth vive a due isolati di distanza in Hobby Road, dietro l'angolo abita Tish Kirschbaum, la femminista, e Peter Van Dyke, il fascista - sono definizioni di Kimmer, non mie - sta proprio di fronte a noi. Il cortile posteriore di Theo Mountain confina con quello di Peter. Altri quattro membri della facoltà vivono entro un raggio di tre isolati. Un tempo le ville di Hobby Hill erano terribilmente costose, accessibili soltanto ai professori più anziani e a quelli fra loro che provenivano da famiglie facoltose. Ma il mercato immobiliare di Elm Harbor è in ribasso da quasi quindici anni, e professori più giovani degli istituti finanziariamente più avvantaggiati legge, medicina ed economia e commercio - hanno acquistato le enormi magioni un tempo riservate agli specialisti di Meng-tzu, di Shakespeare e della curvatura dello spazio. Ciò nonostante... casa! Il numero 41 di Hobby Road è una costruzione
imponente, eretta alla fine del diciannovesimo secolo, con locali ampi, soffitti alti e graziosi rivestimenti in legno. Una casa in cui ricevere ospiti, anche se noi non invitiamo mai nessuno. Una casa da riempire con branchi vocianti di bambini, anche se noi non ne avremo mai più di uno. Ovunque ci sono pavimenti che cedono, pannelli incrinati e tubature che gemono, ma sono i nostri pavimenti, pannelli e tubature. Siamo soltanto la terza famiglia di colore a vivere nella zona della città chiamata Hobby Hill, sedici caseggiati di eleganza, e le altre due hanno abbandonato l'impresa prima del nostro arrivo. Non so quanti proprietari abbia avuto casa nostra, ma è sopravvissuta a tutti e ha addirittura prosperato. Qualcuno ha trasformato il seminterrato in una sala giochi, qualcuno ha ristrutturato la cucina, qualcuno ha aggiunto un angusto garage in cui Kimmer, malgrado la supplichi di proteggere la più costosa delle nostre auto, si rifiuta di far entrare la Bmw nel timore che l'ingresso troppo stretto ne graffi la vernice di un bianco accecante, qualcuno ha rinnovato i quattro bagni padronali e i due per gli ospiti, compreso quello per la donna di servizio nella soffitta, se soltanto avessimo una donna di servizio e potessimo permetterci di riscaldare la soffitta; eppure, mi piace pensare che la casa sia cambiata poco dai tempi della sua costruzione. Otto anni dopo che l'abbiamo acquistata sono ancora stuzzicato all'idea di varcarne la soglia, poiché so che il primo proprietario era l'antico rettore dell'università, un pignolo studioso di latino e greco di nome Phineas Nimm, morto negli anni della Prima guerra mondiale. Poco più di cent'anni fa, rispondendo all'indagine di uno sconosciuto professore dell'Atlanta University di nome W.E.B. DuBois, il preside Nimm scriveva senza mezzi termini che uno studente di colore, qualunque fossero i suoi risultati accademici, non sarebbe stato il benvenuto. Scoprii una copia della lettera ai tempi in cui studiavo e fui quasi tentato di rubarla. Dopo tutti questi anni, l'ironia di possedere l'abitazione di Nimm mi riempie ancora di amara soddisfazione. Mentre la luce del giorno si stempera, Bentley e io giochiamo a palla in giardino per una mezz'ora, guardati con approvazione da Don e Nina Felsenfeld, i nostri anziani vicini di casa, che come ogni sera a quest'ora sono seduti dietro la zanzariera della loro veranda a sorseggiare limonata. Ai suoi tempi Don era uno dei maggiori esperti del paese di fisica delle particelle elementari, e Nina rimane ancora un'esperta nell'arte di accogliere gli estranei, la tradizione ebraica dell'hesed: meno di un'ora dopo l'arrivo del camion dei traslochi, otto anni fa, era davanti alla nostra porta con un vassoio di panini al formaggio e alla marmellata. Nel corso degli anni, Nina
Felsenfeld ci ha portato altri vassoi, fra cui uno tre settimane fa, dopo la morte di mio padre, essendo lei cresciuta nel tipo di famiglia in cui quando qualcuno muore i vicini portano qualcosa da mangiare. Don e Nina credono che non esista nulla di più importante della famiglia, e Don, che spesso trascorre un'amichevole serata massacrandomi agli scacchi, ama dire che nessuno è mai morto rimpiangendo di non aver trascorso più ore al lavoro e meno con i suoi figli. Kimmer trova che siano due invadenti ficcanaso. Ed evidentemente stanno per esserlo di nuovo, poiché non appena ritengo che mio figlio sia troppo stanco per continuare a giocare e faccio per rientrare, Don si alza e apre la porta della sua veranda. Mi chiama con un cenno da sopra la siepe alta e folta che separa le nostre proprietà. Annuisco, prendo Bentley per mano e mi dirigo verso il davanti della casa, l'unico modo per aggirare l'estensione della siepe. Don e io ci incontriamo sul prato davanti a casa sua, e per un momento lui giocherella con la pipa. «Come sta il piccoletto?» domanda poi riferendosi a Bentley. «Bentley sta benissimo» rispondo. «Bissimo! Bemmy bissimo!» cinguetta il mio meraviglioso bambino tendendo la mano libera verso quella di Don. «Osa tu!» «Sì» dice Don con ogni apparenza di serietà, inghiottendo le minuscole dita nelle sue. «Sì, sei proprio un piccolo bissimo.» Bentley ride e abbraccia la gamba ossuta di Don. Don Felsenfeld è un uomo alto e di una magrezza imbarazzante, sgraziato e distaccato, figlio di un agricoltore ebreo del Vermont. Si dice che nel suo fulgore conoscesse le particelle subatomiche meglio di chiunque altro sul pianeta, e uno dei luoghi comuni preferiti del campus è che avrebbe dovuto vincere il Nobel due volte. Saltuariamente socialista e ateo a tempo pieno, ha scritto un libro di successo il cui titolo si prende gioco della famosa frase di Einstein: La scienza dello scetticismo: come l'universo gioca a dadi con Dio. Ora è prossimo agli ottant'anni, indossa ogni giorno pantaloni cachi e lo stesso cardigan blu e passa gran parte del suo tempo a praticare il giardinaggio, a fumare la pipa o a fare entrambe le cose insieme. «Sono stati giorni duri, per te» dice. Nessun sorriso, poche parole: potrà anche essere ebreo, ma Don Felsenfeld è anche un puro esempio di abitante del New England. «Suppongo di sì.» «Nina vi sta cucinando qualcosa.» «È molto gentile.»
«Sì.» Per un istante restiamo entrambi uniti nel silenzioso apprezzamento di sua moglie. Poi Don riprende a giocherellare con la pipa, come fa dopo aver scatenato un attacco devastante sulla scacchiera, e io capisco che siamo finalmente giunti al dunque. «Talcott, ascolta.» Lo faccio. Lo sto facendo. «C'è qualche problema?» «Non lo so. Non credo.» Deglutisco a fatica, pensando che McDermott sia andato in giro a fare domande. Oppure Foreman. Oppure la vera Fbi. «Perché me lo chiedi?» Don non mi guarda. Continua a tirare boccate dalla sua pipa e sembra molto interessato a un passero corona bianca che saltella sul marciapiede, rimasto chissà come dietro quando i grandi stormi sono migrati a sud. «È un bell'autunno, non trovi?» chiede lentamente. Sconcertato, annuisco. Sta pensando all'uccello? «Il tempo è stato buono, non troppo freddo. Gradevole.» «Sì, si sta bene.» «Uno dei più temperati da quando siete qui, in effetti.» «Suppongo di sì.» «Il tipo di clima in cui di sera la gente tiene le finestre aperte per far entrare un po' d'aria.» «Ehm, già.» Nel corso degli anni, Don e io abbiamo affrontato nei dettagli ogni genere di argomento, dalla politica dell'università circa la proprietà dei brevetti da parte dei membri della facoltà ai pregi relativi di John Updike e John Irving, dai rapporti fra le aliquote delle imposte sulle plusvalenze e la formazione di capitale all'ipotetico confronto fra Bobby Fisher e l'ultima messe di campioni di scacchi, fino alla disputa sul Libro di Isaia, che i cristiani credono prefiguri la nascita e il ministero di Cristo e che potrebbe profetizzare l'arrivo di uno o di due nascituri. Ma non abbiamo mai intrattenuto una conversazione approfondita sul tempo... il che mi fa credere che sia in arrivo qualcosa di importante. «Sai, Talcott, i matrimoni perfetti non esistono.» «Non ho mai creduto che esistessero.» «Con questo clima, di sera le vostre finestre sono aperte. E anche le nostre.» Sento sorgere un'improvvisa consapevolezza. Lo osservo con attenzione, ma il suo sguardo cortese è sempre fisso su un punto alle mie spalle. So cosa sta per arrivare, e so che è stata Nina a dirgli di intervenire poiché Don, come il Giudice, non parlerebbe mai spontaneamente di un'emozione, né ammetterebbe di provarne.
«Don, ascolta...» Nel suo modo gentile ma deciso il vecchio fisico mi travolge a parole esattamente come fa quando giochiamo a scacchi. «Le voci arrivano lontano, Talcott. L'altra sera non abbiamo potuto fare a meno di sentire. Tu e tua moglie, voglio dire. Avete avuto un bello scontro.» Tre sere fa, ricordo: sabato. L'unica nota stonata di una settimana altrimenti amorevole. Kimmer ha annunciato che il mattino dopo sarebbe partita per San Francisco, e io le ho chiesto stupidamente che ne era stato della sua promessa di accompagnare Bentley alla festa di compleanno di Miguel Hadley, in modo che io potessi andare al campus dopo la messa e ascoltare la fine della conferenza di Rob Saltpeter sulle conseguenze dell'intelligenza artificiale sul diritto costituzionale. Kimmer mi ha risposto che non aveva scelta, che era un impegno di lavoro. Le ho detto che anche il mio era lavoro. Ha ribattuto che si trattava di due cose diverse: lei aveva preso un impegno. Le ho chiesto con chi. Ha domandato cosa intendevo dire. Ho risposto che lo sapeva. Ha domandato cosa volevo dire con quello. Ho detto che non avevo voglia di parlarne. Ha replicato che ero stato io il primo a tirare fuori l'argomento. Posso capire che Don e Nina ci abbiano sentiti. Di sicuro avevamo alzato la voce. Quantomeno Kimmer. «Mi dispiace di avervi disturbato.» «Non ci pensare, Talcott.» Don mi posa una mano sulla spalla, da uomo a uomo, come faceva mio padre. Bentley, avvertendo la serietà della conversazione, si è allontanato. È chino sul prato dei Felsenfeld, intento a esaminare le aiuole curatissime, ormai quasi del tutto ricoperte da protezioni per l'inverno imminente. Ho cercato di insegnargli a non strappare i germogli, ma Don e Nina non sembrano farci caso. «Volevo solo dirti che sono qui, se hai bisogno. A volte parlare di certe cose è il passo più importante. Nina e io, be', nel corso degli anni abbiamo avuto un problemino o due. Ma li abbiamo superati, e voi supererete i vostri se vi lascerete aiutare dagli amici.» Per un istante sono troppo umiliato per aprire bocca: dopo tutto esistono degli standard, soleva predicare mia madre, e nessuno dovrebbe farsi l'idea che stai vivendo al di sotto. Per quanto concerne l'idea di risolvere le cose parlandone, mio padre si è sempre preso gioco del concetto di terapia, che sosteneva non essere altro che un modo di viziare i deboli di spirito. "Tracci una linea, Talcott. Metti il passato da una parte, il futuro dall'altra e decidi da quale parte vuoi stare. E poi rispetti la tua decisione." Nella mia famiglia, i problemi erano segreti; nessuno di noi è stato addestrato a come
reagire se un estraneo scopre che ne abbiamo uno. Eppure riesco in qualche modo a chiamare a raccolta il brio sufficiente a rispondere con una battuta: «Oh, grazie, Don, ma sabato sera non è successo niente. Dovresti sentire Kimmer quando si arrabbia». Gli farei anche l'occhiolino, ma non ho mai imparato. Don sorride e mi guarda come faceva il Giudice quando scherzavo sui voti, sulla cattedra, sulla politica o su qualsiasi altra cosa mio padre considerava importante e di cui io preferivo non parlare. Gli occhi intensi e intelligenti di Don esprimono il giudizio impietoso di un uomo che ha passato i suoi sette decenni abbondanti di vita a dare sempre le risposte giuste. Adoro Nina ma non amo Don, probabilmente perché mi ricorda troppo il Giudice. Il fatto che mio padre fosse un tory, in mancanza di una definizione migliore, e che Don sia l'esatto opposto non muta l'effettiva somiglianza fra i loro caratteri, in particolar modo il lugubre autocompiacimento che manda a quel paese tutti coloro che sono abbastanza stupidi da avere opinioni politiche sbagliate. «Se cambi idea sono qui» mi dice Don. È un'altra cosa che diceva il Giudice. Tranne che io non cambiavo mai idea, e lui non c'era mai. 16 I TRE MATTI Prendiamo formalmente possesso della casa di Martha's Vineyard a metà della settimana successiva al giorno del Ringraziamento, risalendo fino al Massachusetts con l'elegante Bmw di Kimmer, scendendo lungo il Cape River fino a Woods Hole e prendendo il traghetto. Il traghetto, diceva mio padre, è la doppia benedizione dell'isola: innanzi tutto perché la traversata è così gradevole e riposante che arrivi a Martha's Vineyard dell'umore giusto per rilassarti, e poi perché la Steamship Authority, la società che gestisce i traghetti, ha il monopolio del servizio e usa un numero ristretto di navi, limitando di conseguenza anche il numero di automobili, e quindi di persone, che giungono sull'isola specialmente durante la stagione estiva. Ogni volta che uno di noi figli, di solito Addison, sussurrava che questa gioia puzzava di elitarismo, il Giudice replicava allegramente con uno dei suoi bon mot preferiti, probabilmente di sua stessa invenzione: "Far parte dell'élite è la ricompensa per aver lavorato sodo e vissuto in modo giusto". (Insinuando, naturalmente, che se non fai parte dell'élite significa che non hai lavorato sodo oppure non hai vissuto in modo giusto.)
Ho sempre amato la traversata, e il viaggio di oggi non è diverso. Mentre il Cape si allontana dietro di noi posso sentire le mie paure e le mie confusioni scomparire insieme alla sua sagoma, diminuire di importanza mentre Martha's Vineyard si staglia sempre più grande oltre il mascone di dritta, prima un lontano bagliore grigioverde, poi una visione da sogno di alberi e spiagge, ora abbastanza vicina da poter distinguere le singole case, tutte fra il grigio e il marrone, scolorite dalle intemperie e bellissime. Ne trangugio l'immagine come un alcolizzato che ricominci a bere mentre il traghetto fende a velocità regolare le onde e poche decine d'auto attendono di riversarsi sull'isola in una perniciosa ondata di gioia. (Durante l'alta stagione ce ne sarebbero un centinaio, se non di più.) Bentley e io siamo affacciati alla battagliola, e mio figlio grida ai gabbiani che si librano nell'aria salmastra dell'autunno e sembrano immobili mentre regolano la loro velocità su quella del traghetto nella speranza di rimpinzarsi di ciò che noi umani spreconi gettiamo. Un sole freddo e lontano riversa la sua indifferenza sull'acqua. Mio figlio tende le mani grassocce oltre la ringhiera di protezione e io, invece di impedirglielo, gli aggancio la cintura con un dito prudente e cerco di convincermi che ha tre anni compiuti, con il quarto compleanno che si sta avvicinando velocemente, che non è più un neonato ma l'ultimo figlio a cui farò da padre, oltre che il primo. Kimmer non vuole più sentir parlare di gravidanze: l'ha messo in chiaro in modo glaciale, malgrado siano così tante le cose nel nostro matrimonio che restano ardentemente confuse. In parte ha paura, lo so, dopo che con Bentley l'abbiamo scampata bella; ma la paura non spiega tutto. Un altro figlio rappresenterebbe il rinnovo di un impegno nei riguardi di un matrimonio sul quale Kimmer rimane indecisa. Al mio desiderio di una famiglia più numerosa risponde correttamente che sarebbe lei, non io, a portare il piccolo in grembo, tranne che Kimmer lo chiama sempre feto, e si sforza di farlo fare anche a tutti gli altri. Mia moglie, che non prende mai posizioni politiche, è in grado di fiutare un complotto antiabortista prima ancora che venga ordito. Lo scorso marzo la Cara Dana Worth, che adora i bambini ma non ne partorirà mai uno suo, ha regalato a Bentley un libro di favole del Dr Seuss, uno dei suoi preferiti, ci ha confessato, di quando era bambina. Kimmer l'ha ringraziata, ha sfogliato inorridita il volume e l'ha messo via senza nemmeno prendersi il disturbo di leggerlo a nostro figlio. E ha proibito di farlo anche a me. "Un opuscolo antiabortista" ha sbuffato, e quando le ho chiesto di cosa stava parlando ha fatto un sorriso sdegnoso e ha citato la frase ricorrente del libro: "Una persona è una persona, per quanto picco-
la sia". "Di cos'altro potrebbe parlare?" ha domandato. Ora è il mio turno di sorridere. Qualunque cosa mi aspetti nel resto del mondo, i miei soggiorni a Martha's Vineyard mi fanno rinascere. E sono deciso a far sì che questo sia pacifico. La settimana scorsa ho avuto uno scontro con Mariah, il peggiore di sempre. Convinto da Meadows, sono andato a Darien e ho portato mia sorella fuori a pranzo. Ho cercato di suggerirle, il più delicatamente possibile, che forse avrebbe potuto attenuare la sua continua invenzione di nuove cospirazioni. Le ho detto della possibile nomina di Kimmer, le ho spiegato che la sua condotta la stava danneggiando ma non le ho rivelato la mia fonte. Lei ha ribattuto che l'intera faccenda - offrire a mia moglie la nomina e poi minacciare di ritirarla se Mariah avesse insistito a farsi sentire - era in se stessa un complotto, un modo di tapparci la bocca. Le ho risposto che mi sembrava inverosimile, abbiamo litigato e all'improvviso siamo tornati ai terribili giorni del libro di Bob Woodward. Ma questa volta è peggio, perché il Giudice non è qui a riavvicinarci con la sua forza di volontà. E così soffro. Incapace di concentrarmi durante le lezioni, ho chiesto qualche settimana di vacanza, e Dean Lynda è stata ben lieta di accontentarmi, perché non mi può soffrire e perché sa che in questo modo le sarò debitore. Stuart Land ha accettato di sostituirmi per il corso sul fatto illecito e ha già chiamato tre volte, afflitto dalla disorganizzazione del mio programma e del mio ufficio, offrendosi di sistemare entrambi. Ho educatamente declinato l'offerta perché non voglio che si vada a curiosare negli anfratti più oscuri della mia vita. Questo stesso mese ho partecipato al funerale di Freeman Bishop, il mio secondo alla chiesa della Trinità e San Michele nel giro di due settimane. La cerimonia è stata officiata da un prete membro della nazione più pallida, e ha attirato pochi fedeli. Ho notato un volto o due che ricordavo di aver visto al funerale del Giudice, e mi sono inutilmente sforzato di richiamare i loro nomi alla mia mente torturata. Mariah non si è presentata. Ma il sergente Ames c'era, forse immaginando di trovarvi qualche altro malvivente. Ho scambiato qualche parola con lei prima che uscisse da una porta laterale, e ho appreso soltanto che Conan stava ancora cercando di patteggiare con l'accusa, cosa che già sapevo per averla letta sul sito del "Washington Post". Poi, la settimana scorsa, c'è stato il nostro solito, teso giorno del Ringraziamento con i genitori di Kimmer, i quali aspettano ancora con ansia che io domi la loro incorreggibile figlia; evidentemente non si rendono conto
che Kimmer è alquanto indomabile. Vera e il Colonnello mi lanciavano occhiatacce attraverso il tavolo mentre Kimmer e sua sorella Lindy, che non ha figli, spettegolavano e Bentley faceva confusione. Se mia moglie non diventerà giudice, sospetto che i miei suoceri scaricheranno la colpa su di me. Ho atteso con ansia crescente questo viaggio. Il traghetto, finalmente! Ora, rivolgendo il viso alla brezza marina mentre la nave lotta contro le onde portandomi rapidamente verso l'isola che amo, riesco a sorridere dell'eccentricità di Kimmer, e perfino a Kimmer stessa, rannicchiata accanto al bar e intenta a condurre una conversazione di vitale importanza al cellulare. Forse il colloquio riguarda il suo lavoro, forse la candidatura, forse qualcosa di più intimo. Una volta tanto mi rifiuto di preoccuparmene. Da quando l'ho messa al corrente delle trepidazioni di casa Hadley, Kimmer è diventata amorosa e cordiale, quasi per compensare altri comportamenti, una totale metamorfosi a cui ho già avuto modo di assistere e che, a differenza di quella di Gregor Samsa, può invertire il suo corso in un attimo; ma sono deciso a godermela finché dura. E così eccoci finalmente a bordo del traghetto, il giorno tanto atteso. Kimmer ha rubato quarantott'ore alle vertenze per gli interessi dei suoi clienti (nonché alla cura dei suoi interessi) per varcare insieme a me la soglia della casa che ora ci appartiene, e di questo piccolo furto le sono grato. Avrebbe potuto costringermi a venirci soltanto con Bentley, o addirittura da solo. Il fatto che l'abbia evitato lo prendo come prova di un armistizio ancora valido. Avvicinandomi allo splendore di Martha's Vineyard mi ritrovo a credere, contro ogni indicazione oggettiva, nella felicità possibile. Perfino con mia moglie. È per questo, immagino, che la fedeltà in un matrimonio triste può essere descritta come un atto di fede: fede nelle infinite possibilità dell'esistenza, che è un altro modo, sono sicuro che insisterebbe Rob Saltpeter, di descrivere la munificenza divina. E così sorrido appoggiato alla battagliola, il dito infilato sotto la cintura di mio figlio che si sporge verso gli spruzzi, grida ai gabbiani e ride, ride; e mentre guardo gli altri passeggeri in coperta, sicuro che ognuno provi la mia stessa gioia mentre sfrecciamo verso la nostra isola, il mio cuore scoppia d'amore: amore per mio figlio, amore per mia moglie, amore per l'idea stessa di famiglia, amore per... E all'improvviso lei è qui. Qui in coperta, alta e muscolosa, in jeans e giubbotto da aviatore, a
nemmeno venti passi di distanza... la donna della pista di pattinaggio. Non è possibile, è una coincidenza troppo grande, devo essermi sbagliato, la mia torva libido mi sta giocando uno scherzo... eppure so che è lei. La pattinatrice. La donna che un lungo mese fa ha civettato con me finché non ha adocchiato la mia fede. La donna che ha monopolizzato i miei sogni per le due settimane successive. È verso prua, leggermente in disparte dal resto dei passeggeri, e tiene il viso rivolto al vento; posso scorgere soltanto una parte del suo profilo, ma la mascella liscia e larga e la massa impossibile di ricci non possono appartenere a nessun altro. Porta a tracolla una vistosa sacca viola e tiene in mano un libro con la copertina rigida, dal titolo in una lingua straniera che il mio occhio crede di riconoscere come francese. Un'edizione di Molière, forse. Studentessa o insegnante? mi chiedo, sospettando che la risposta sia nessuna delle due, poiché il volume sembra più un oggetto di scena. La sua presenza mi elettrizza. Mi sgomenta. Resto accanto alla battagliola, continuando a fissare l'improbabile apparizione, troppo timido per... «Potrei uccidere, pur di avere un corpo come il suo» dice Kimmer. Sono così turbato che non mi ero accorto dell'arrivo di mia moglie, ma la maliziosa ammirazione nel tono della sua voce mi ferisce come non mai. D'altro canto, sono colpevole. «È bellissima, vero?» «Chi?» arrischio, facendo attenzione a non voltarmi troppo in fretta per timore che mia moglie concluda che sto guardando ciò che lei pensa stia guardando. Mantengo ancora la presa sulla cintura di Bentley, che continua a sporgersi dalla battagliola ipnotizzato dalla scia. La donna sembra quasi scolpita nella roccia. «La regina Nzinga» risponde la mia dotta Kimmer, a cui piace condire la propria conversazione con l'occasionale non sequitur afrocentrico. Indica con una mano, mi stringe il braccio con l'altra. Il cellulare è scomparso. «Quella da cui a quanto pare non riesci a togliere gli occhi di dosso.» Kimmer ride mentre ruoto lentamente verso di lei, poi abbaia a bassa voce come un cane. «Giù, Fido» dice in tono poco gentile. Dunque la nostra non è una pace. «Kimmer, io...» «Ehi, sta guardando da questa parte. Misha, sta guardando. Sta guardando te. Voltati e salutala.» Mi afferra per le spalle e cerca di farmi girare, ma io oppongo resistenza. «Kimmer, andiamo.» «Sbrigati, tesoro, ti farai sfuggire l'occasione.» Mi sta stuzzicando, ma
sta anche battendo il suo antico chiodo: che dovrei avere avventure che bilancino le sue; che dovrei innamorarmi di un'altra e andarmene, risparmiandole la necessità di continuare a farmi del male; che la mia costanza al cospetto dei suoi amoreggiamenti non è segno di virtù cristiana ma di inettitudine secolare. Ne abbiamo discusso così tante volte che Kimmer ha bisogno di evocare una semplice traccia dell'antica diatriba per far sì che il tormento torni a sommergermi il cuore. «Piantala» sibilo, lasciando che il mio tono assuma una sfumatura tagliente. «Coraggio, Misha!» ride mia moglie, ignorando ciò che provo. «Vai a salutarla, sbrigati!» Poi smette di spingere. Le sue mani abbandonano le mie spalle. «Troppo tardi» mormora con finta tristezza. «Se n'è andata.» Non posso fare a meno di girarmi. La pattinatrice è scomparsa. Al suo posto ci sono due grassocce ragazze bianche che si infilano in bocca due dolcetti al burro di arachidi e gettano gli involucri in mare. I gabbiani si librano nelle vicinanze, protestando contro l'inquinamento o sperando in un boccone. La pattinatrice è svanita silenziosamente come si era materializzata; se Kimmer non mi avesse confermato ciò che avevano visto i miei occhi, avrei potuto concludere che non ci fosse mai stata. «Credevo fosse qualcuno che conoscevo» dico ben sapendo quanto sia zoppicante come scusa. «O qualcuno che ti piacerebbe conoscere» suggerisce lei. Mi coglie il sospetto che, malgrado tutte le prove contrarie dei nostri ultimi anni insieme, Kimmer sia gelosa. «Sono fatto per una donna sola» le ricordo, cercando di mantenermi sul frivolo. «Già, ma quale?» Mi volto ancora nella sua direzione. Le piace provocarmi in questo modo, e malgrado io cerchi di non perdere la calma, ci riesce spesso. Come adesso: «Kimmer, ti ho già detto che non apprezzo le battute su... sulla mia fedeltà». «Oh, tesoro, stavo solo scherzando.» Un bacetto giocoso sul naso. «Ma non è un problema se decidi di volere un'altra...» «Non voglio un'altra...» «Qualche minuto fa non sembrava.» «Kimmer, io amo te. Solo te.» Mia moglie scuote la testa e fa un sorriso triste. «Be', allora o sei pazzo o sei stupido...»
«Questo è assolutamente fuori luogo» la interrompo nel più infelice tono alla Garland. «... o magari un masochista a cui piace avere una donna che lo tratta come...» Queste assurdità potrebbero andare avanti all'infinito, se non fosse per il salvataggio di Bentley. Dopo aver trascorso una ventina di minuti buoni a guardare l'acqua che scorre, ha finalmente capito cosa sta succedendo. Afferrando la mano di sua madre e la mia, ruota su se stesso fino ad appoggiare la schiena sulla battagliola. Quando è sicuro di aver catturato la nostra attenzione, ci sorride e proclama con gioia: «Sono su barca». La combattività ci abbandona entrambi, e per un istante siamo uniti nel puro, intenso amore di due genitori verso il figlio. Poi il momento passa, e torniamo a essere in competizione. E Kimmer, come al solito, mi batte. «Sì, tesoro, sei proprio su una barca» mormora prendendo in braccio un orgoglioso e agitatissimo Bentley. «Sì, piccolo, sei su una barca, bravo; adesso andiamo dentro a scaldarci, e mamma ti prende una Coca.» «Cioccoata cadda, mamma, cioccoata cadda!» «Cioccolata calda! Ottima idea, piccolo, ottima idea!» Senza dire un'altra parola, mia moglie, il probabile giudice, porta nostro figlio sottocoperta. La guardo allontanarsi, leggendo messaggi discutibili nell'ondeggiare delle sue anche e nella fermezza della schiena. Come spesso accade in questi momenti di frustrazione coniugale, qualcosa di primitivo e sgradevole si contorce dentro di me. Una terribile ondata di calore rosso mi sale alla testa, una sorta di indigestione del cervello; come sempre, una camminata vivace ma paziente mi aiuta a sottomettere i miei demoni. Compio due giri completi del ponte e uno della cabina passeggeri prima di sentirmi sufficientemente calmo per unirmi alla mia famiglia nel posto di ristoro; durante l'intero percorso non vedo traccia della pattinatrice. La cosa mi disturba, non solo perché ne sento già la mancanza, ma anche perché sono convinto che la sua presenza a bordo non sia accidentale. È qui per la stessa ragione per cui si trovava alla pista di pattinaggio: perché è stata mandata. E non da Dio. Ocean Park è un'ampia ma irregolare distesa d'erba che fronteggia Seaview Avenue, la strada piena di traffico che si attraversa per raggiungere le malferme scale di legno che conducono alla spiaggia in lenta erosione chiamata ufficiosamente "il Calamaio", nelle cui acque calme hanno
sguazzato generazioni di appartenenti alla nazione più scura. La casa in cui ho trascorso le estati della mia giovinezza si trova sul versante opposto, dove le linde abitazioni vittoriane sono piccole, vicine fra loro ed estremamente costose. A un'estremità del parco, sulla destra guardando l'oceano dalla nostra veranda anteriore, una serie di ville, tutte molto più grandi della nostra e dominate da torrette dai colori sgargianti ed elaborate banderuole, domina l'orizzonte. All'altra estremità, sulla sinistra, appena fuori dal nostro campo visivo, c'è il pontile della Steamship Authority, dove alcuni traghetti attraccano durante l'estate. Fuori stagione attraccano tutti qualche chilometro più in su, a Vineyard Haven. Leggermente più vicine ci sono una deliziosa chiesetta episcopale rovinata dalle intemperie, le cui porte d'estate sono aperte sul mare e quindi su ogni temporale domenicale, e la stazione di polizia della cittadina, che si affaccia su una minuscola piazza in cui campeggia una vecchia statua di bronzo con un'iscrizione che commemora, per qualche arcana logica yankee, i caduti confederati della Guerra civile. La statua fa la guardia alla parte superiore di Lake Avenue, la via stretta e affollata che scende fino alla giostra dei Flying Horses, che è tutto ciò che interessa a Bentley. Come molte delle case di Oak Bluffs, la residenza estiva dei miei genitori ha un nome che orna un cartello di legno sbiadito appeso a uno dei pali della veranda anteriore. La nostra, sfortunatamente, è chiamata VINERD HOWSE, espressione scelta in modo alquanto casuale da mia sorella Abby quand'era piccola. La scrisse una domenica pomeriggio di pioggia su un disegno della casa realizzato in cucina con i pastelli della scatola Crayola 64, e la settimana successiva il mio gelido padre ci prese tutti di sorpresa presentandosi con il cartello. Dopo la morte di Abby, la famiglia non ha più avuto il cuore di cambiare quel nome. Quando scendiamo dalla Bmw bianca in questa limpida giornata autunnale, tuttavia, la prima cosa che dice la mia cara Kimmer è che è giunta l'ora di sbarazzarcene. Mentre estrae un sonnecchiante Bentley dal suo sedile le chiedo che cosa intende: del cartello o del nome? «L'uno o l'altro» mi risponde dandomi ancora la schiena. «O tutti e due.» Il Giudice aveva proposto di cambiare il nome in "I Tre Matti", uno dei suoi molti, oscuri giochi di parole scacchistici, ma mia madre aveva puntato i piedi; e mio padre, da che ne ho memoria, non ha mai agito contro la sua volontà. Addison sostiene che fu Claire Garland a decidere che fosse giunta l'ora di porre fine alla battaglia per la nomina, laddove il Giudice era pronto a resistere a oltranza. Mariah sussurra che fu Claire a proporre
che desse le dimissioni dopo l'umiliazione delle udienze, in modo da poter parlare apertamente al pubblico e riscattare il proprio nome. E tutti noi sappiamo che è stato dopo la morte di Claire che i discorsi di mio padre sono diventati quelle diatribe feroci e crudeli che molti di sicuro ricordano. Non è una sorpresa, dunque, che alla morte di mia madre, mio padre abbia onorato la sua memoria - e quella di Abby - mantenendo il nome Vinerd Howse. Ma ora che Vinerd Howse è mia, o meglio nostra, mia moglie ha altre idee. Mi trattengo per un lungo istante nello stretto giardino anteriore, facendo ciondolare la chiave dalle dita, ricordando le meravigliose estati della mia infanzia, quando amici e familiari vorticavano costantemente dentro e fuori dalla doppia porta d'ingresso con i suoi piccoli pannelli di vetro, alcuni rosa, alcuni azzurri, altri trasparenti, fissati da elaborate cornici di piombo; ricordando le molte visite tristi e solitarie a questa casa durante gli interminabili mesi in cui mia madre aspettava di morire, spesso da sola, nella camera da letto al pianterreno; e ricordando anche quanto è diventato facile evitare di tornarci una volta che il Giudice ha cominciato a precipitare nella megalomania. Mentre Kimmer si occupa di Bentley, scopro che mi riesce difficile rammentare di preciso perché la notizia che il Giudice mi aveva lasciato questo guscio stipato e infelice mi abbia riempito di tanta gioia. Con entrambi i miei genitori morti, anche la casa dovrebbe di diritto essere morta, silenziosa e neutrale; invece sembra quasi viva, diabolicamente senziente, intenta a riflettere in tono malevolo sulle sventure di famiglia mentre attende i nuovi proprietari. All'improvviso sono paralizzato da un terrore primordiale, la consapevolezza chiara e assolutamente persuasiva, il cui brivido mi attraversa provenendo da una fonte innaturale, che tutto stia per andare in rovina: temo che le gambe non mi reggano fino alla veranda, o che le mani non ce la faranno a far ruotare la chiave, o che questa si spezzerà nella serratura. Per un terribile istante vorrei respingere questa spaventosa eredità e tutti i suoi fantasmi, prendere i miei cari e tornare sulla terraferma. Come al solito, è la concreta Kimmer a riportarmi alla ragione. «Potresti sbrigarti ad aprire?» domanda con dolcezza. «Mi dispiace, ma devo assolutamente pisciare.» «Non c'è bisogno di essere volgari.» «Sì che c'è, se è l'unico modo per farti muovere.» In un certo senso ha ragione, mi sto comportando come uno sciocco. Le sorrido e lei quasi mi ricambia prima di bloccarsi. Sollevo la pesante valigia con la mano sinistra e mi faccio rimbalzare la chiave sulla destra. Poi salgo baldanzosamente i gra-
dini, incurante dei demoni che volteggiano nella penombra dei ricordi. Faccio un respiro, li accantono come un esperto esorcista e infilo la chiave nella serratura. Soltanto quando comincia a ruotare mi accorgo che uno dei minuscoli pannelli colorati non c'è più; non è infranto, è semplicemente sparito, cosicché attraverso lo stretto spazio delimitato dalla piombatura posso sbirciare nel buio della casa. Aggrotto la fronte spalancando la porta e, immobilizzandomi sulla soglia della casa che amo da trent'anni, mi rendo conto che gli spiriti maligni non si sono affatto ritirati. Cerco di deglutire, ma a quanto pare non ho saliva in gola. Le mie membra si rifiutano di farmi compiere un passo avanti. Attraverso la lenta discesa di una cortina del rosso più profondo e rabbioso vedo la mia bella moglie oltrepassarmi sussurrando: «Scusami, ma devo proprio andare» e la sento trasferire la mano di Bentley nella mia. Kimmer ha fatto tre passi all'interno della casa prima di fermarsi e restare perfettamente immobile. «Oh, no» bisbiglia. «Oh, Misha, no.» La casa è un disastro. I mobili sono rovesciati, i libri seminati sui pavimenti, le antine degli armadietti sfondate, i tappeti ridotti a brandelli. I documenti di mio padre sono ovunque, e lo spiffero proveniente dalla porta aperta ne increspa i lembi. Do un'occhiata in cucina. Alcuni dei piatti sono ridotti in cocci sul pavimento, ma il disordine è meno terribile e la maggior parte del servizio è accatastata sul banco. Mentre Kimmer aspetta in salotto con Bentley, mi costringo a salire al primo piano. Scopro che le quattro camere da letto sono state a malapena sfiorate. Come se non valesse la pena disturbarsi, sto pensando mentre mi fermo davanti alla finestra della suite padronale con il telefono in mano e parlo con il centralino della polizia. Mentre spiego l'accaduto abbasso lo sguardo sulla Bmw, parcheggiata in sosta vietata lungo lo steccato che protegge il lato meridionale di Ocean Avenue. Le portiere sono ancora aperte, i bagagli non sono stati ancora scaricati. C'è qualcosa che non quadra. Non hanno messo a soqquadro il primo piano. Il pensiero continua a vorticarmi nella mente. Hanno lasciato stare il primo piano. Come se saccheggiare il pianterreno fosse stato sufficiente. Come se... come se... Come se avessero trovato ciò che cercavano. Ormai più perplesso che spaventato, ridiscendo nella sala al pianterreno per unirmi a mia moglie e a mio figlio, che si abbracciano sgranando gli occhi. La polizia, accorsa nel giro di pochi minuti dal caratteristico quartier generale a un isolato di distanza, dichiara che i danni sono opera di vandali
locali, adolescenti che sfortunatamente trascorrono gran parte dell'inverno distruggendo le ville dei vacanzieri estivi. Non tutti gli adolescenti di Martha's Vineyard sono vandali, ma ce n'è un numero appena sufficiente a creare fastidi. I gentilissimi agenti ci chiedono scusa a nome dell'isola e ci assicurano che faranno del loro meglio, ma ci avvertono anche di non aspettarci una cattura dei responsabili: i casi di vandalismo sono quasi impossibili da risolvere. Vandali. Kimmer accetta la spiegazione con entusiasmo, e sono alquanto sicuro che lo stesso farà la compagnia di assicurazioni. Nonché, cosa ancora più importante, la Casa Bianca. Kimmer promette di dare del filo da torcere all'azienda produttrice del sistema di allarme, e io non ho alcun dubbio che manterrà la parola. Vandali, conveniamo mia moglie e io un paio d'ore dopo durante una cena a base di pizza e root beer in un ristorante nei paraggi, dopo che l'uomo che si occupa della casa fuori stagione è passato a controllare i danni. «Farò qualche telefonata» ci ha detto quando ha finito il sopralluogo esprimendo la sua disapprovazione. Vandali. Ma certo che sono stati dei vandali. Vandali che distruggono un piano di una casa e ignorano l'altro. Vandali che non rubano né l'impianto stereo né il televisore. Vandali che sanno come eludere il modernissimo sistema d'allarme di quel paranoico di mio padre. Vandali che sono in contatto diretto con lo spirito dei morti. Poiché non informo né mia moglie né la polizia della lettera che ho trovato al primo piano mentre aspettavo. È sigillata in una normale busta bianca e lasciata sulla toletta della camera padronale, il mio titolo e nome completo battuto a macchina all'esterno, lo sconcertante messaggio scritto all'interno con la calligrafia indecifrabile e aguzza che ricordo fin dall'infanzia, quando gonfi d'orgoglio lasciavamo le copie delle nostre ricerche scolastiche sulla scrivania del Giudice e aspettavamo che lui ce le restituisse dopo un giorno o due con i suoi commenti scritti in rosso ai margini a dimostrare quanto erano stati idioti i nostri insegnanti a darci dieci. La lettera sulla toletta è di mio padre. 17 L'ANELLO DI OTTONE Molti anni or sono, quando da bambino visitai per la prima volta la cittadina di Oak Bluffs, rimasi incantato dal maestoso edificio di legno ai
piedi di Circuit Avenue che ospita i Flying Horses, che essendo in attività fin dal lontano 1876 si presenta come la giostra più vecchia d'America. L'idea era quella di trasformare l'equitazione in un gioco. Montavi in groppa al tuo cavallo e a ogni giro ti sporgevi verso un braccio fisso di legno che distribuiva minuscoli anelli. Al tuo passaggio afferravi l'anello all'estremità del braccio, e un altro scattava al suo posto. Quasi tutti gli anelli erano di acciaio, ma l'ultimo che restava sul braccio era di ottone. Il fortunato cavaliere che afferrava l'anello di ottone vinceva una corsa gratuita. Nel corso di quella prima, delirante estate restavo per ore sulla giostra, spendendo l'una dopo l'altra le mie monete da venticinque centesimi e rinunciando perfino alla spiaggia per dedicare le mie giornate a imparare i trucchi degli altri bambini (compreso il modo in cui afferrare due o talvolta tre anelli insieme con le mie dita tozze e scure), pagando corsa dopo corsa e cercando, quasi sempre invano, di prendere l'anello di ottone e vincere il giro omaggio. Da piccolo immaginavo che i Flying Horses fossero l'unica giostra al mondo ad aver avuto la meravigliosa idea di premiare il fortunato cavaliere che riusciva a catturare l'anello di ottone. Crescendo scoprii che non era così, che in realtà l'idea era alquanto diffusa, per non dire banale. A livello intellettuale, mi sono ormai da tempo riconciliato con questa scoperta. Ma sul piano emotivo continuo a sentire che l'anello di ottone dei Flying Horses di Oak Bluffs è l'unico che conta veramente. Forse la ragione è che la nostra residenza estiva di Ocean Park si trova a pochi passi dalla giostra. Sono cresciuto con i Flying Horses dietro l'angolo, e con la libertà di andarci quando volevo; e avendone imparata la lezione, è da allora che cerco di afferrare quell'anello di ottone. Ovviamente, i Flying Horses di oggigiorno non sono quelli della mia infanzia. La musica d'organetto, per esempio, ora proviene dai CD, e la folla spintona e dà di gomito al punto che non è più possibile immaginare di cavalcare per una giornata intera. Un paio dei destrieri di legno hanno perso le code di vero crine di cavallo. D'altra parte c'è molto, a Martha's Vineyard, che sembra reclamare una mano di vernice, un colpo di spazzola, il passaggio di una scopa. L'isola non è più ben tenuta né amichevole com'era un tempo. E tutto accade così all'improvviso. Sbatti le palpebre una volta e una strada sterrata in cui giocavi a rincorrersi è asfaltata e invasa dal traffico. Le batti due volte e sul terreno abbandonato in cui giocavi a palla sorge una casa gigantesca. Le batti un'altra volta e le vaste spiagge di sogno della tua giovinezza hanno ceduto metà o più della loro sabbia al ma-
re. Le batti una quarta volta e la farmacia in cui tua madre comprava il Coricidin quando eri malato è diventata una boutique. Il Giudice dava la colpa dei cambiamenti allo sviluppo demografico: la "nuova gente" era il termine con cui indicava chiunque avesse scoperto l'isola dopo di noi. Io, tuttavia, cerco di evitare simili generalizzazioni, anche e soprattutto per non somigliare troppo a mio padre. E così mi guardo intorno e cerco di dirmi che dopo tutto è cambiato poco. E se sulle strade sembrano svolazzare più involucri di caramelle di quanti ne ricordi, mi piace pensare che ciò sia dovuto al fatto che la nuova gente non ha ancora imparato come si fa ad amare un'isola, e non alla sua indifferenza. Normalmente, il terzo pomeriggio di un soggiorno a Martha's Vineyard sarei ai Flying Horses con mio figlio. Ma i nostri soggiorni si svolgono di solito in estate. Ora siamo in autunno, e la giostra è chiusa. Fortunatamente, però, l'isola offre altre distrazioni. Ieri, mentre una squadra di addetti alle pulizie formata di gran fretta cercava di restituire un certo ordine a Vinerd Howse, noi tre abbiamo risalito l'isola fino all'estremità occidentale e abbiamo trascorso un meraviglioso pomeriggio camminando lungo le antiche, bellissime scogliere di Gay Head nell'aria fredda di novembre, facendo un picnic, con addosso i nostri piumini, sulla spiaggia di ciottoli del villaggio di pescatori di Menemsha e percorrendo in macchina le strade alberate dietro Chilmark, nei pressi dei vasti terreni un tempo appartenuti a Jacqueline Onassis, fingendo di non voler avvistare i ricchi e famosi. Abbiamo cenato in un ristorante elegante di Edgartown, dove Bentley ha incantato le cameriere con le sue smorfie. Non sono sicuro di quanti demoni abbiamo esorcizzato, ma non ho visto alcun segno della pattinatrice, che potrebbe davvero essere un fantasma, e Kimmer non ha mai accennato alla sua nomina e ha parlato al cellulare soltanto due volte. E questa mattina mi ha baciato con un certo trasporto quando Bentley e io l'abbiamo accompagnata all'aeroporto per farla salire a bordo di uno dei piccoli turboelica che collegano l'isola al continente. Bentley e io restiamo perché... be', perché ci serve. Kimmer deve lavorare, a me resta circa una settimana di vacanza e Bentley ha bisogno di un po' di riposo e divertimento. E c'è anche un'altra ragione. A Oak Bluffs, a differenza che a Elm Harbor, non cederò nemmeno per un momento alla tentazione di perdere di vista il mio prezioso bambino. In questo momento mio figlio e io ci stiamo preparando per andare al campo giochi; o, per essere più precisi, Bentley è pronto e mi sta aspettando.
Io sono meno pronto. Sono seduto al tavolo della nostra cucina appena ripulita (piena di piatti e bicchieri di plastica provenienti da uno dei due supermercati dell'isola) con la lettera di mio padre appoggiata davanti a me, e sto cercando di spingere i suoi segreti a rivelarsi. Nella stanza accanto, Bentley sta guardando Disney Channel; ogni tanto cammina goffamente fino alla soglia della cucina e grida: «Papà, campogiò desso. Detto campogiò!» nel tono lamentoso e indignato che fa soffrire i genitori indaffarati. Io rispondo con il consueto: «Sì, okay, un minuto solo, tesoro» che ogni genitore usa con uguale imbarazzo. La notte scorsa, mentre i miei familiari dormivano sonni agitati, Kimmer raggomitolata protettivamente attorno a nostro figlio, ho vagato per casa dall'ingresso alle parti più basse della soffitta alla ricerca di qualcosa, non so cosa. Ho bisogno di sapere cosa sta succedendo. Ho bisogno di un indizio. Sfortunatamente l'indizio più ovvio, la lettera di mio padre, rimane indecifrabile. Figlio mio, sono così tante le cose che vorrei condividere con te. Ahimè, al momento attuale non posso. Ho chiesto a un buon amico di consegnarti questa lettera nell'eventualità che mi succeda qualcosa; se la stai leggendo, bisogna concludere che qualcosa sia successo. Ti chiedo scusa per la complessità di un simile sistema di contatto, ma ci sono altri che vorrebbero sapere quello che deve restare fra noi. Ebbene, sappi questo: il ragazzo di Angela, malgrado il deteriorarsi delle sue condizioni, è in possesso di ciò che voglio che tu sappia. Non siete in pericolo, né tu né la tua famiglia, ma hai poco tempo. È improbabile che tu sia il solo a cercare le disposizioni che soltanto il ragazzo di Angela può rivelare. E potresti non essere l'unico a sapere chi è il ragazzo di Angela. Excelsior, figlio mio! Excelsior! Si comincia! Cordiali saluti, tuo padre La grafia è inconfondibile, come lo è la prosa fiorita, ricercata, presuntuosa e perfino la formalità della firma. Un'ondata inaspettata di rabbia nei confronti di mio padre minaccia all'improvviso di sommergermi. "Se vuoi
dirmi qualcosa, dimmela!" mi scaglio contro di lui nella mia mente torturata, un tono che non avrei mai adottato nella vita vera. "Ma non fare questi giochetti!" Al cimitero, Jack Ziegler pretendeva di essere messo al corrente delle disposizioni. Ora, se non altro, so per certo che mio padre ne ha lasciata davvero qualcuna. Ma non so di che si tratti, e questa allusione, questo indizio, questa lettera post mortem di quel paranoico di mio padre, qualsiasi cosa voglia essere, non mi offre alcun aiuto. "Excelsior? Il ragazzo di Angela, malgrado il deteriorarsi delle sue condizioni?" Che cosa significa tutto ciò? Un punto è chiaro: la missione di Non-McDermott a Elm Harbor non aveva lo scopo di scusarsi né di rassicurarmi, bensì, come sospettavo, di controllare se conoscessi Angela oppure no, il che significa che lui, e presumibilmente Foreman, sono a conoscenza del contenuto di questa lettera. Mi domando se la missiva sia stata il motivo della messa a soqquadro del pianterreno, anche se non riesco bene a capire perché dovrebbero essere penetrati in casa, aver trovato la lettera e poi averla lasciata al suo posto. Né capisco, se è per questo, come abbia fatto la lettera ad arrivare qui. È probabile che non sia stato McDermott, sempre che sia mai passato di qui, a lasciarla. Il Giudice ha scritto di aver chiesto a un buon amico di consegnarla nell'eventualità che gli succedesse qualcosa. Ma quale buon amico sarebbe penetrato illegalmente a Vinerd Howse per lasciare una lettera? Perché non spedirmela a casa o consegnarmela in ufficio? Perché non portarla alla... ... alla mensa gratuita? Può esserci un collegamento fra il pedone e la lettera? È stato mio padre a organizzare anche quella consegna? Cerco di ricordare se gli abbia mai detto che lavoro come volontario alla mensa, ma la mia mente mi offre ogni possibile risposta: sì, gliel'ho detto; no, non gliel'ho detto; sì, gliene ho accennato; no, l'ho tenuto segreto. Scuoto il capo in preda a una rabbia rosso acceso. Se avesse voluto farmi avere il pedone, non me l'avrebbe forse consegnato con la lettera? Non che importi qualcosa, visto che il messaggio di mio padre non è di alcuna utilità. Ho una memoria pessima per i nomi, ma sufficiente per essere sicuro di non conoscere un'Angela, né tantomeno sapere chi possa mai essere il suo amante. «Campogiò desso desso desso!» grida Bentley. «Osa tu!»
«Un minuto!» urlo di rimando, continuando a interrogarmi sulla lettera. Come posso trovare il ragazzo di Angela, le condizioni del quale si stanno deteriorando? Significa che l'uomo con cui dovrei parlare è malato? Che forse sta morendo? È per questo che ho "poco tempo"? So chi sono gli "altri che vorrebbero sapere", avendone conosciuti un paio, ma non capisco come mai il Giudice si sia dato tanta pena per assicurarmi che i miei cari non corrono pericoli, la quarta rassicurazione dello stesso tipo che ho ricevuto nell'ultimo mese: prima da Jack Ziegler, poi da McDermott, dall'agente Nunzio e adesso dal mio compianto padre. Scuoto la testa. Cerco di pensare alle Angele famose: Lansbury? Bassett? Non conosco a sufficienza le loro vite per sapere se hanno dei mariti, figuriamoci degli amanti, e in ogni caso mio padre non aveva poi una gran pratica di Hollywood. Ho già fatto controllare dalla mia segretaria l'elenco degli studenti alla facoltà di legge: tre Angele, una nera e due bianche, che non hanno mai frequentato il mio corso e che non ho alcuna ragione di pensare mio padre conoscesse. Forse c'è un modo per fare un elenco di tutte le Angele che potrebbe aver incontrato, ma non senza coinvolgere una figura ufficiale, lo zio Mal, per esempio; o qualcuno che conosce molti degli amici del Giudice, Mariah, per esempio, e non riesco a pensare di metterli al corrente della cosa. Non ancora. "Poco tempo." Quasi sorrido. L'espressione non rivela nulla del ragazzo di Angela, ma molto del Giudice. Nei suoi discorsi usava spesso queste parole, cercando di chiarire ai suoi amici Destri perché avessero bisogno delle... be', delle diversità razziali. L'americano medio, amava spiegare ai suoi ascoltatori entusiasti, è socialmente conservatore. L'americano medio di colore, aggiungeva, lo è ancora di più. Considerate i dati su una questione qualsiasi, tuonava. Le preghiere a scuola? I neri d'America le sostengono più dei bianchi. L'aborto? I neri d'America sono più contrari dei bianchi. Le sovvenzioni scolastiche? I neri d'America le appoggiano con più forza dei bianchi. I diritti dei gay? I neri d'America sono più scettici dei bianchi. Un'ondata di applausi percorreva il suo pubblico prevalentemente bianco. E, a quel punto, il Giudice lo travolgeva con il gran finale: i conservatori sono gli ultimi a potersi permettere di essere razzisti. Perché il futuro del conservatorismo è l'America nera! Il pubblico impazziva. Non vi ho mai assistito di persona, ma ho avuto modo di vederlo spesso sulla C-SPAN. E
qualunque fosse il gruppo di Destri a cui si era rivolto, questo marciava a reclutare membri di colore, poiché c'era poco tempo... e spesso la missione di reclutamento si rivelava un fiasco disastroso. Perché c'erano dei piccoli dettagli che il Giudice tralasciava. Come il fatto che erano sempre stati i conservatori a opporsi a quasi tutte le proposte di legge sui diritti civili. Come il fatto che molti dei ricconi che lo pagavano per i suoi costosi interventi non l'avrebbero mai accettato nei loro club. Come il fatto che era stato il grande eroe conservatore Ronald Reagan a dare il via alla sua campagna elettorale parlando di diritti a Filadelfia, nel Mississippi, un luogo che per la nazione più scura ha una risonanza alquanto funesta, e che, da presidente, aveva appoggiato la concessione di esenzioni fiscali alle molte scuole segregazioniste del Sud. Il Giudice aveva sicuramente ragione a insistere che i neri d'America avrebbero dovuto smettere di fidarsi dei progressisti bianchi, sempre più disposti a dirci di cosa abbiamo bisogno che a chiederci cosa vogliamo, ma non è mai riuscito a trovare una ragione del tutto convincente per cui avremmo dovuto cominciare a fidarci dei conservatori bianchi. Mio padre si fidava di loro, tuttavia, e loro ricambiavano la sua fiducia. Mi sposto in sala da pranzo, dove il lungo tavolo di legno potrebbe comodamente accogliere quattordici persone, e durante la mia infanzia è successo spesso. Sul lato più lungo della stanza c'è un malandato camino di mattoni che, per quanto posso ricordare, è sempre stato inutilizzabile. Sopra il focolare è appeso un ingrandimento della copertina di "Newsweek" che mio padre teneva in gran conto: il numero uscito la settimana dopo l'annuncio della sua candidatura. L'ora dei conservatori, recita lo strillo, e in corpo più piccolo: Una direzione nuova alla Corte? Ebbene sì, si potrebbe rispondere; sì, la corte aveva preso una direzione nuova, ma mio padre non era destinato a diventarne uno dei condottieri. Osservo la fotografia. Il Giudice appare spavaldo, attraente, intelligente, pronto a tutto. Sembra vivo. In quei giorni, per qualche ragione, la stampa l'aveva preso in simpatia; ma non dovresti mai innamorarti dei ritagli di giornale che ti riguardano, perché la natura della bestia è che gli stessi giornalisti pronti a esaltarti dal lunedì al venerdì si divertono a distruggerti nel fine settimana. E, all'improvviso, invece della fama ottieni l'infamia; invece di una vita consacrata al servizio pubblico, una vita di amarezza privata; e trasformi la tua casa nel museo di ciò che avrebbe potuto essere. Mi torna di nuovo in mente la frase nostalgica di mio padre: "com'era prima". Il vizio della mia famiglia di vivere nel passato mi sembra patologico, addirittura pericoloso. Se ogni
grandezza risiede nel passato, il futuro che senso ha? Non si può tornare indietro, e il Giudice più di chiunque altro avrebbe dovuto mostrare il buonsenso di non trasformare la sua casa di vacanza, il suo rifugio, il suo luogo di riposo in un sacrario di sogni infranti. Kimmer, lo so, sta aspettando il momento adatto per dirmi che è ora di rimuovere questo e altri emblemi di autocompiacimento seminati per casa, seppellendoli nella soffitta insieme alla mia vecchia collezione di figurine del baseball e agli animali di pezza di Abby... «Campogiò desso!» annuncia Bentley dalla soglia della cucina pestando il piedino sul pavimento. Alzo gli occhi su di lui, già pronto ad arrabbiarmi, ma invece sorrido. Si è infilato il piumino blu scuro e ha perfino calzato le scarpe da ginnastica sui piedi sbagliati. Si trascina dietro la mia giacca a vento. Quanto lo amo, questo bambino! «Okay, tesoro.» Piego la lettera di mio padre, la infilo nella busta e me la faccio scivolare in tasca. «Campogiò desso.» Bentley comincia a saltellare. «Campogiò! Osa tu! Oio bene!» «Ti oio bene anch'io.» Lo abbraccio e mi inginocchio per sistemargli le scarpe, e naturalmente il telefono comincia a squillare proprio adesso. Non rispondere, mi dice Bentley con i suoi occhi castani fervidi e severi, non sapendo ancora pronunciare le parole. Ti prego, papà, non rispondere. E sulle prime soppeso l'idea di non farlo. Dopo tutto, mi dico, sarà probabilmente Cassie Meadows che chiama da Washington, o Mariah da Darien, o Non-McDermott dal Canada. D'altro canto potrebbe anche essere Kimmer con una buona notizia, o Kimmer con una brutta notizia, o Kimmer che vuole dirmi che mi ama, o Kimmer che vuole dirmi che non mi ama. Potrebbe essere Kimmer. «Un momento solo» dico a mio figlio, il quale mi guarda con il tipo di disperata delusione che in futuro uno psichiatra riporterà di sicuro in superficie. «Forse è la mamma.» Ma non lo è. «Talcott? Sono Lynda Wyatt.» La preside. Magnifico. «Ciao, Lynda, come stai?» Il mio entusiasmo si sta rapidamente afflosciando, e so che la mia voce tradisce la delusione. «Io sto bene, Talcott. Ma tu come stai?» «Bene, Lynda, grazie.» «Spero che ti stia divertendo, a Martha's Vineyard. Adoro quel posto in autunno, ma Dio solo sa quando Norm e io avremo la possibilità di goderci
casa nostra.» Tanto per rammentarmi che lei e suo marito possiedono un'enorme villa moderna sul laghetto di West Tisbury, la cittadina nella parte alta dell'isola dove molti artisti e scrittori trascorrono le loro estati. A dire il vero conosco la villa soltanto grazie ai racconti dei miei colleghi della facoltà, poiché in tutti gli anni in cui Lynda Wyatt e io abbiamo passato le nostre estati sull'isola lei ha invitato la mia famiglia esattamente mai. (Io ho ricambiato altrettanto spesso, dunque forse la colpa è mia.) «Ci stiamo divertendo» concedo, rivolgendo un sorriso disperato a mio figlio. Bentley mi guarda in cagnesco, trotterella in un angolo della cucina e si siede per terra. «Bene, fantastico. Spero che ti stia godendo un po' di riposo.» «Un po'» ripeto. «Allora, che succede?» Le sto facendo fretta, sono probabilmente sgarbato, ma concludo di avere molte giustificazioni. «Be', Talcott, a dire il vero ti ho chiamato per due ragioni. Prima di tutto, ma non vi darei una grande importanza...» naturalmente intende dire che trova la cosa importantissima «prima di tutto, ho ricevuto una strana telefonata da uno dei nostri ex alunni che fa parte del consiglio di amministrazione dell'università. Cameron Knowland. Di sicuro conosci Cameron.» «No.» «Be', è un grande amico di questa scuola, Tal, un grande amico. In realtà, Cameron e sua moglie hanno appena promesso tre milioni di dollari per la nuova biblioteca. Comunque sia, lui mi ha detto che suo figlio ha ricevuto una bella lavata di capo durante il tuo corso. Che tu ti sei preso gioco di lui o qualcosa di simile.» Sto già fumando di rabbia. «Immagino che tu gli abbia risposto di non intromettersi.» Il tono di voce di Lynda Wyatt è amabile. «Quello che gli ho detto, Tal, è che la cosa è stata probabilmente esagerata, che tutti gli studenti del primo anno si lamentano. Gli ho detto che non sei il tipo che maltratta gli studenti durante le lezioni.» «Capisco.» Stringo le dita sulla cornetta, ma mi sento vacillare. Sono inorridito dalla scarsa convinzione con cui un docente è stato difeso dalla preside della facoltà. La rabbia cresce, e la cucina si fa sempre più rossa. Bentley mi guarda con attenzione, reggendo un immaginario ricevitore con la mano accanto all'orecchio. La sua bocca forma sporadiche parole. «Penso che sarebbe un bene» aggiunge Dean Lynda in tono misurato «se tu facessi una telefonata a Cameron. Tanto per rassicurarlo.» «Rassicurarlo su cosa?»
«Oh, Tal, sai come sono fatti questi ex alunni.» Mi offre il suo lato amabile. «Hanno bisogno di essere rabboniti di continuo. Non ho intenzione di interferire con il modo in cui conduci i tuoi corsi.» Lasciando intendere che sta cercando di fare proprio questo. «Sto solo dicendo che Cameron Knowland è preoccupato. Come padre. Pensa a cosa proveresti tu venendo a sapere che una delle maestre dell'asilo ha aggredito Bentley.» Rosso, rosso, rosso. «Io non ho aggredito Avery Knowland...» «E allora dillo a suo padre, Tal. Non ti chiedo altro. Tranquillizzalo. Da padre a padre. Per il bene della scuola.» Per i tre milioni di dollari, intende dire. Sembra dare per scontato che me ne importi qualcosa. Nel mio stato attuale, non avrei nulla da obiettare se la biblioteca sprofondasse sottoterra. Gerald Nathanson la frequenta spesso: è più silenziosa del suo ufficio, sostiene, e riesce a lavorarci meglio. Un'altra delle ragioni per cui la evito è proprio la possibilità di incontrarlo. «Ci penserò» borbotto, senza sapere bene cosa farò la prossima volta che vedrò il muso insolente del giovane Avery Knowland. «Ti ringrazio, Tal» dice la mia preside, rendendosi immediatamente conto che non potrebbe ottenere di più. «La scuola apprezza tutto quello che fai per noi.» Per noi, quasi fossi un estraneo. Come in effetti sono. «E Cameron è una persona gentile, Tal. Non si sa mai quando potresti aver bisogno di un amico.» «Ti ho detto che ci penserò.» Lascio scivolare una punta di gelo nel mio tono. Sto rammentando ciò che mi ha detto Stuart Land sulle pressioni, e mi chiedo se questa telefonata ne sia una componente. Il che mi porta a essere ancora più brusco: «Hai detto che volevi dirmi due cose». «Sì.» Una pausa. «Bene.» Altra pausa. Immagino che Lynda si stia preparando a un commento sulla competizione fra Marc e Kimmer sulla falsariga del tentativo di Stuart. Con la differenza che è poco probabile che Lynda Wyatt sia disposta a fare marcia indietro. Ho ragione... ma Lynda è molto più sottile di me. «Tal, ho ricevuto la telefonata di un altro ex alunno. Morton Pearlman. Conosci Mort?» «L'ho sentito nominare.» «Si è laureato quattro o cinque anni prima di te. Adesso lavora al dipartimento della Giustizia. Ha chiamato per... voleva sapere... se stai bene.» «Se sto bene? Che significa?» Dean Lynda ha un'altra esitazione, e mi viene in mente che forse sta
provando a essere gentile, come un medico che cerca le parole con cui spiegare ciò che hanno rivelato gli esami. «Ha detto che sei stato... insomma, che negli ultimi tempi l'Fbi e varie altre agenzie hanno ricevuto numerose telefonate a nome tuo. Gran parte delle quali, mi sembra di capire, per tuo ordine. Telefonate riguardanti... oh, argomenti che hanno a che fare con tuo padre. Interrogativi sull'autopsia, su quel prete che è stato ucciso dallo spacciatore e diverse altre cose.» Nel silenzio che segue arrivo quasi a sbottare che è stata mia sorella, non io, a pretendere che venissero fatte quelle telefonate, e che a volte le ha fatte di persona. Ma sono abbastanza avvocato da attendere il resto. «Capisco» mi limito a dire. «Davvero? Io non ci capisco niente.» Il tono di voce di Lynda si sta facendo più duro. «Ora, noi due ci conosciamo da molto tempo, Tal, e sono sicura che tu abbia un'ottima ragione per fare quasi tutto ciò che fai.» Prendo nota con sgomento di quel "quasi". «Ma ho avuto la sensazione che Mort stesse cercando gentilmente di chiedere se per caso non avessi bisogno di un po' di riposo.» «Aspetta un attimo. Aspetta. Il viceministro della Giustizia degli Stati Uniti crede che io sia ammattito? È questo che mi stai dicendo?» «Calmati, Tal, okay? Sono soltanto il messaggero. Non so cosa stai combinando, e non voglio saperlo. Ti sto soltanto ripetendo quello che mi ha chiesto Mort. E probabilmente non dovrei, visto che a sentire lui era confidenziale.» Schiudo il pugno, mi costringo a parlare lentamente e con chiarezza. Al momento non sono preoccupato per Kimmer e per la sua nomina. Può aspettare. Temo che l'Fbi intenda smettere di prendere sul serio le mie ansietà. «Lynda, è importante. Che cosa gli hai detto?» «Scusa?» «Che cosa hai detto a Morton Pearlman, quando ha insinuato che ho bisogno di riposo?» «Gli ho detto che ero sicura che stessi bene. Sapevo che eri un po' sconvolto e ti eri preso qualche settimana di vacanza.» «Dimmi che non è vero.» «Invece sì. Cosa ti aspettavi che gli dicessi? Non volevo metterti nei pasticci, ma... insomma... Tal, sono preoccupata per te.» «Preoccupata per me? E per quale ragione?» «Credo che forse... Tal, ascolta. Se vuoi prenderti un altro paio di settimane di riposo, sono sicura che non sarebbe un problema.»
Per un attimo non riesco a pensare a una replica. Le implicazioni delle sue trame hanno la meglio su di me. In altre parole, se Morton Pearlman può essere persuaso del fatto che il marito di Kimberly Madison è un mattoide, Kimmer non riuscirà mai a ottenere la nomina alla corte d'appello. Lo scopo di Dean Lynda è evidentemente appiccicarmi quell'etichetta, e in tal modo aiutare Marc a raggiungere l'obiettivo della sua vita. E malgrado sia colpito dall'eleganza con cui sta cercando di farlo, sono anche infuriato dall'uso che sta facendo delle complicazioni legate alla morte di mio padre, e dal fatto che la sua stima nei miei riguardi sia talmente bassa da farle credere di potermi ingannare. Be', Stuart aveva cercato di mettermi in guardia. «No, Lynda, ma grazie lo stesso. Sarò di ritorno la settimana prossima, come previsto.» «Tal, davvero, non c'è fretta. Dovresti prenderti tutto il riposo di cui hai bisogno.» Vorrei essere più astuto. Vorrei essere più abile, come Kimmer: così potrei trovare le parole giuste per disinnescare la situazione. Ma non sono né astuto né abile. Sono soltanto infuriato, e sono uno di quegli strani individui che a volte, in preda alla rabbia, si lasciano sfuggire la verità. «Lynda, ascolta. Apprezzo la tua telefonata. Capisco perché non vuoi che rientri subito, ma sarò di ritorno la prossima settimana.» Il suo tono di voce si fa improvvisamente gelido. «Talcott, tengo in gran conto la tua amicizia, ma non gradisco il tuo tono e le tue insinuazioni. Sto cercando di aiutarti in una situazione difficile...» «Lynda» comincio con l'intenzione di mettere in chiaro che non siamo né siamo mai stati amici, ma poi mi freno, massaggiandomi le tempie e chiudendo gli occhi, perché il mondo è diventato di un rosso acceso e sto probabilmente gridando, e mio figlio, che mi guarda allarmato dalla soglia della cucina, sta indietreggiando. Gli sorrido a fatica e gli mando un bacio, poi riprendo a parlare in quello che spero sia un tono più ragionevole. «Lynda, ti ringrazio. Veramente. Ti sono grato del pensiero. Ma è ora che rientri a Elm Harbor...» «I tuoi studenti apprezzano molto Stuart Land» mi interrompe lei crudelmente. Mi costringo a replicare con garbo. «Ragione di più per tornare. Potrebbero dimenticarsi di me.» «Oh, be', questo non lo vorremmo mai, giusto?» Lynda è furiosa, e mi lascia di sasso. Sono io quello che dovrebbe essere arrabbiato. Non dico
niente; malgrado tutti gli anni di convivenza con la volubile Kimberly Madison, o forse proprio a causa loro, mi manca la fiducia in me stesso necessaria per affrontare la rabbia femminile. «In ogni caso» conclude la mia preside «non vediamo l'ora di riaverti fra noi.» «Grazie» mento. «Mi dispiace, tesoro» sto dicendo a Bentley mentre aspettiamo i nostri cheeseburger seduti nel séparé. «Campogiò» geme mio figlio. «'Diamo campogiò.» «È troppo tardi, piccolo» mormoro arruffandogli i capelli. Lui si ritrae. «Vedi? Fuori è buio.» «Tu detto campogiò! Osa tu!» «Lo so, lo so. Mi dispiace tanto. Papà ha avuto da fare.» «Papà detto campogiò.» Il suo tono è comprensibilmente accusatorio, poiché ho commesso uno di quei peccati paterni che i bambini, nell'innocenza della loro integrità infantile, trovano quasi impossibile perdonare: non ho mantenuto la mia promessa. Non siamo riusciti ad andare al campo giochi. Perché dopo la mia discussione con Dean Lynda, quando avrei dovuto prendere in braccio mio figlio e precipitarmi fuori dalla porta, anche soltanto per rammentare a me stesso quali sono le cose che contano davvero, ho fatto lo sbaglio di controllare la segreteria telefonica del mio ufficio. Ho trovato due affannati messaggi dell'avvocatessa di uno studio newyorkese che mi ha recentemente scelto come consulente per aiutare un'avida grande impresa ad approntare una contromossa alle nuove norme federali sullo smaltimento dei rifiuti tossici. Non mi sono schierato esattamente dalla parte dei buoni, ma noi docenti di legge bisognosi di arrotondare lo stipendio prendiamo quello che possiamo. La settimana scorsa avevo inviato una bozza del documento, e ora, a sentire il messaggio, uno dei soci dello studio aveva qualche domanda da farmi. Ho deciso di concedermi qualche minuto per richiamare, dimenticandomi che gli avvocati, e in particolare quelli che lavorano nei grandi studi legali, preferiscono le conversazioni telefoniche a qualsiasi altra attività. La lista di domande era lunga una decina di chilometri, e alcune erano davvero difficili. Sono rimasto al telefono un'ora e mezzo (due ore di tempo fatturabile sia per l'avvocatessa che per me. Le sue tariffe sono più alte, ma io non ho spese generali), assediando il mio povero bambino con offerte di biscotti e frutta per tenerlo tranquillo, guardando la luce spegnersi nel cielo novembrino e promettendo a me stesso ogni cinque mi-
nuti che avrei finito entro i cinque successivi. Raccontandomi menzogne. Quando ho informato Bentley che era troppo tardi par passare dal campo giochi, si è letteralmente afflosciato a terra in lacrime. Niente di teatrale o truffaldino, niente di falso. Si è soltanto portato una mano al volto ed è crollato, come la speranza che moriva. I miei tentativi di consolarlo si sono rivelati inutili. E così ho adottato l'altro triste, pernicioso trucco del genitore contemporaneo: l'ho corrotto. Ci siamo infagottati nei nostri piumini e abbiamo percorso a piedi i due isolati che separano Vinerd Howse da Circuit Avenue, il cuore commerciale di Oak Bluffs, qualche centinaio di metri di ristoranti, boutique e negozi che offrono i ninnoli che si trovano in qualsiasi località di soggiorno. D'estate ci saremmo potuti fermare alla gelateria Mad Martha's per due frappé alla vaniglia o due coni alla fragola, ma il locale è chiuso per l'inverno. Abbiamo invece proseguito fino al negozio di dolciumi Murdick's - il secondo luogo preferito di mio figlio in tutta l'isola, che segue a ruota gli incomparabili Flying Horses - per comprare la specialità della casa, il dolce caramellato al mirtillo. Poi abbiamo risalito lentamente la strada. Al Corner Store ho acquistato il quotidiano locale, la "Vineyard Gazette", e ci siamo fermati a cena da Linda Jean's, un locale semplice e tranquillo, dall'arredamento notevolmente poco costoso, che un tempo era il luogo di ristoro preferito da mio padre. D'estate passava quasi ogni giorno per un panino caldo all'aragosta, ma soltanto fuori dagli orari di punta, mai quando il ristorante era affollato, poiché dopo la sua caduta il Giudice temeva sempre di essere riconosciuto. Alcuni anni fa, per il decimo anniversario dell'umiliazione di mio padre, "Time" pubblicò un articolo sulla sua vita dopo l'abbandono della carica di giudice federale. La doppia pagina rivisitava i suoi libri rabbiosi, citava alcuni dei suoi comizi e, nell'interesse dell'equilibrio giornalistico, dava ad alcuni dei suoi antichi nemici l'opportunità di prenderlo nuovamente di mira. Il nome di Jack Ziegler veniva fatto in tre occasioni, quello di Addison in due, il mio una volta sola, quello di Mariah mai, al contrario di quello di suo marito, cosa che parve seccarla. Un articolo di spalla riassumeva la vita successiva alle udienze di Greg Haramoto, che, come mio padre, aveva rifiutato di farsi intervistare. Ma la tesi principale del servizio era che mio padre, malgrado la frenetica attività che caratterizzava le sue giornate, fosse più solo di quanto perfino molti dei suoi amici immaginassero. La rivista faceva notare che il Giudice passava sempre più tempo "nella sua resi-
denza estiva di Oak Bluffs", quasi sempre per conto suo, e nonostante facesse sembrare la casa molto più sontuosa di quello che era ("un cottage in riva al mare con cinque camere da letto"), e ne riportasse il nome in modo errato ("chiamata da amici e familiari semplicemente la 'Vineyard House'"), ritraeva con precisione il suo tenore di vita. L'articolo era intitolato, con vaga, deprimente ironia, L'imperatore di Ocean Park. Io rimasi sbigottito, Mariah si infuriò. Addison, naturalmente, si rese irreperibile. Mio padre, dal canto suo, minimizzò, o quantomeno finse di farlo: "I media" mi disse in Shepard Street "sono nelle mani dei progressisti. Dei progressisti bianchi. È chiaro che mi vogliano distruggere, perché li conosco per quello che sono in realtà. Vedi, Talcott, i progressisti bianchi disapprovano i neri che non riescono a controllare. Per loro, la mia stessa esistenza è un affronto". E tornò a immergersi nelle pagine rassicuranti della sua "National Review". Per quanto riguarda la paura di mio padre di essere riconosciuto, devo ammettere che non era un problema da poco. In seguito al fallimento della sua nomina, il Giudice veniva di tanto in tanto avvicinato da sconosciuti negli aeroporti, negli alberghi o addirittura per strada. Alcuni ci tenevano a dirgli che erano sempre stati dalla sua parte, altri l'esatto opposto, e io credo che lui li disprezzasse allo stesso modo; poiché mio padre, i cui guadagni negli ultimi anni provenivano soprattutto dalle apparizioni pubbliche, è sempre stato un uomo riservato. Non incoraggiava nessuno a prendere parte alla sua vita. Qualche anno fa, quando il Giudice passò un fine settimana a Elm Harbor, un solitario dimostrante lo adocchiò e trascorse quasi due giorni a pattugliare il marciapiede davanti a casa nostra con un cartello sgrammaticato che proclamava al mondo: IL GIUDICE GARLEN DOVREBE ESERE IN GALERA. Cercai di convincerlo con le buone a lasciarci in pace. Tentai perfino di corromperlo. Ma lui rifiutò di andarsene. La polizia ci disse che non poteva intervenire finché il dimostrante si fosse tenuto al di fuori della nostra proprietà e non avesse impedito l'accesso, e mio padre rimase in piedi davanti alla finestra del mio studio, fissando quell'uomo con odio e borbottando che se la nostra fosse stata una clinica abortista sarebbe già stato arrestato. Non certo una corretta enunciazione della legge, ma una corretta enunciazione del suo desiderio di essere lasciato in santa pace. Il che aiuta a spiegare perché a Oak Bluffs consumasse i suoi pasti fuori casa soltanto nelle ore non di punta. Il ristorante Linda Jean's è da tempo uno dei luoghi di ritrovo preferiti dei cacciatori di celebrità, specialmente d'estate: Spike Lee si ferma spesso a colazione, Bill
Clinton si presentava per il brunch la domenica dopo la messa, e ai vecchi tempi c'era sempre la possibilità che Jackie O passasse davanti alla finestra mangiando un cono gelato. Un giorno mia moglie ha visto Ellen Holly, la pionieristica attrice di colore che è apparsa per molti anni nella soap opera "Una vita da vivere", e nel tipico stile Kimmer Madison si è avvicinata al suo tavolo per presentarsi e fare due chiacchiere. Ma la cosa più bella del Linda Jean's è che rimane aperto tutto l'anno, a differenza della maggior parte dei ristoranti alla moda dell'isola. «Ehi, amico» dico al mio bellissimo bambino. Lui mi squadra a disagio. Sbocconcella il suo dolce al mirtillo e sembra soddisfatto, anche se non ancora pronto a perdonare. Il cagnolino che gli ha regalato mio fratello è seduto accanto a lui con un tovagliolo elegantemente infilato sotto il nastro che porta al collo. Ho sempre amato mio figlio così tanto, mi chiedo, provando al tempo stesso un'infelicità così assoluta e penetrante? «Detto» sussurra Bentley. I suoi grandi occhi marrone sono assonnati. Non solo ho mancato alla mia promessa, ma ho anche dimenticato il suo riposino e lo sto facendo cenare troppo tardi. Sono sicuro che al mondo esistano dei bravi padri; se potessi conoscerne uno, forse potrebbe insegnarmi a fare la cosa giusta. «Mi dispiace» ricomincio, meravigliandomi di quanto siano diventati vili i genitori in questo nostro strano nuovo secolo. Non ricordo che i miei mi abbiamo mai chiesto scusa per non avermi portato dove mi aspettavo di andare. Kimmer e io sembriamo farlo di continuo. E lo stesso vale per la maggior parte dei nostri amici. «Mi dispiace, tesoro.» «Osa mamma» risponde lui, forse una speranza, forse una preferenza, forse una minaccia. «Mamma bacio. Osa tu!» Mi si torce il cuore e brucio in volto, poiché mio figlio ha imparato a usare le poche parole che conosce per trafiggere i suoi genitori afflitti dal senso di colpa, ma l'arrivo dei cheeseburger e delle limonate mi risparmia l'incombenza di rispondergli. Bentley vi si dedica con entusiasmo, dimentico di quello che stava cercando di dire, e io, spinto dal mio considerevole sollievo, do un morso troppo grande al mio panino e comincio immediatamente a tossire. Bentley scoppia a ridere. Guardando il suo volto sorridente e sporco di ketchup mi ritrovo a rimpiangere che Kimmer non sia qui a vedere suo figlio, a ridere insieme a noi; la Kimmer di un tempo, la Kimmer amorevole e dolce, la Kimmer spiritosa, la Kimmer divertente, la Kimmer che ancora oggi, di tanto in tanto, fa capolino. E se il fatto che mia moglie diventi il giudice Madison potrà facilitare la ricomparsa di
quella Kimmer, allora è mio dovere fare tutto il possibile per aiutarla a raggiungere il suo scopo. Ragione di più per non lasciare che siano Marc e Lynda ad averla vinta. Dovere. Che parola antiquata. Eppure so che devo fare il mio dovere, non solo nei confronti di mia moglie ma anche di mio figlio. E di quel concetto sempre più arcano noto con il nome di famiglia. Amo la mia famiglia. L'amore è un'attività, non un sentimento. Non è stato uno dei grandi teologi a dirlo? O forse è stato il Giudice, che non smetteva mai di insistere sul fatto che alla base dell'etica civile ci fosse il dovere e non la scelta. Non ricordo chi abbia coniato la frase, ma sto cominciando a capirne il significato. Il vero amore non è il disperato desiderio di possedere l'oggetto delle proprie brame; il vero amore è la disciplina generosa che esigiamo da noi stessi per il bene dell'altra persona quando preferiremmo essere egoisti; questo, almeno, è il modo in cui ho insegnato a me stesso ad amare mia moglie. Strizzo di nuovo l'occhiolino a Bentley, e lui ricambia il mio sorriso masticando attentamente una patatina fritta. Spiego la "Vineyard Gazette" e per poco non rischio di soffocare un'altra volta: Investigatore privato annega a Menemsha Beach, strilla il titolo. Per la polizia si tratta di una morte "sospetta", informa la riga appena sotto. A fissarmi dal lato destro della pagina c'è una confusa fotografia dell'uomo che il giornale identifica come un certo Colin Scott; ma io lo conoscevo come agente speciale McDermott. Parte seconda RADDOPPIAMENTO TURTON Raddoppiamento Turton - Nella composizione di problemi scacchistici, un tema in cui un pezzo bianco arretra consentendo a un secondo pezzo bianco di superarlo in modo che entrambi possano attaccare insieme il re nero sulla stessa linea. 18 ALTRE NOTIZIE PER TELEFONO «Sa, era veramente del South Carolina» dice Cassie Meadows. «E Scott era il suo vero nome.»
«Ah, adesso sono disposti a farci sapere come si chiamava? Carino, da parte loro.» «Non so perché non ce l'abbiano voluto dire prima.» «Be', adesso che è morto non hanno scelta, non le pare? Voglio dire, laggiù il suo nome era su tutti i giornali.» È lunedì; sono passati quattro giorni da quando ho aperto la "Gazette" e ho visto la fotografia di Colin Scott, e tre da quando sono saltato sul primo traghetto del mattino e sono corso a casa da un'agitatissima Kimmer. Siamo rimasti tutti e tre sul vialetto ad abbracciarci così a lungo che ho creduto che mia moglie volesse una spiegazione approfondita; ma mi sbagliavo. Era semplicemente felice che i suoi cari fossero tornati. Il resto avrebbe dovuto aspettare. «Ho l'impressione che l'Fbi non si stia rendendo particolarmente utile in questa faccenda» dico a Meadows in tono amaro. «Il signor Corcoran pensa che il Bureau stia facendo il possibile.» «Capisco» borbotto, anche se non è vero. Sono in piedi nel mio studio e guardo fuori dalla finestra, come amo fare, augurandomi che il cielo di questo fine novembre si rischiari a sufficienza da riversare qualche raggio di sole su Hobby Road. Inspiro, espiro, mi sforzo di non incolpare nessuno. Non ancora. «Visto che sono così attivi, hanno capito che cosa ci faceva Scott su quella barca?» «Oh, stava tenendo d'occhio lei, non c'è dubbio. A quanto sembra, erano settimane che la seguiva.» «Magnifico.» Meadows ride, ma con gentilezza. «Non credo che debba più preoccuparsi di lui, signor Garland. Non so se mi spiego.» Emetto un piccolo verso di assenso. «Il Bureau non pensa che gli amici di Scott abbiano a che fare con la sua morte» riprende lei in tono colloquiale. L'intera faccenda sembra divertirla. «Erano soltanto dei compagni di pesca di Charleston. Uno di loro... mi faccia controllare i miei appunti... sì, gestisce una stazione di servizio. Sembra che il signor Scott abbia raccontato loro una storiella sulla pesca fuori stagione nel New England, dicendo di sapere dove noleggiare una barca. In ogni caso, sono andati con lui sull'isola. Hanno detto alla polizia che Scott aveva bevuto, e quando è caduto in mare e non sono riusciti a trovarlo si sono lasciati prendere dal panico. E così hanno riportato la barca e sono fuggiti.» «Ma poi sono tornati.» «Più tardi, quando erano un po' meno ubriachi. Ma credo che l'abbiano
fatto soltanto dopo aver letto la notizia sul giornale.» «Nessuno dei due corrisponde alla descrizione di... dell'agente Foreman?» «Temo di no.» Meadows arriva addirittura a ridere. «Erano entrambi bianchi.» «Ah.» Mi ripeto un adagio dei tempi in cui esercitavo la professione forense: ci sono occasioni in cui la storia che sembra troppo bella per essere vera è proprio quella vera. Meadows continua a vomitare fatti. «In ogni caso, il Bureau ha perquisito l'ufficio di Scott a Charleston. E indovini un po'? Hanno trovato la sua agenda e alcuni fascicoli, e sembra proprio che le abbia detto la verità. Qualcuno l'aveva incaricato di recuperare dei documenti che sembra suo padre avesse con sé al momento della morte. Sfortunatamente, l'agenda non dice chi sia questo qualcuno né in cosa consistano questi documenti.» «Molto conveniente» mormoro, sentendomi all'improvviso solo. Bentley è tornato all'asilo, Kimmer è ripartita per San Francisco con Jerry Nathanson e io devo ancora azzardarmi a tornare in classe. Ma per favorire la possibile nomina di mia moglie sarei tentato di accettare l'offerta interessata di Dean Lynda e aspettare qualche altra settimana. Ovviamente, se Kimmer non fosse candidata a quella poltrona l'offerta non sarebbe mai stata formulata. «Cioè?» «Se non si è fidato a mettere per iscritto il nome del suo cliente...» «Ah, capisco.» Il tono è entusiasta. «Sta pensando a Jack Ziegler, suppongo.» «Esatto.» «Signor Garland, non deve preoccuparsi del signor Ziegler. Il signor Corcoran ha previsto che lei avrebbe sospettato un coinvolgimento del signor Ziegler nel... nell'incarico del signor Scott. Devo riferirle che il signor Corcoran ha parlato con il signor Ziegler, che il signor Ziegler ha negato di aver assoldato il signor Scott, e che il signor Corcoran è propenso a credergli.» Arrivo quasi a sorridere del modo in cui Meadows sta inciampando sul bisogno di chiamare tutti "signor", ma lo zio Mal dirige uno studio legale molto all'antica. Mi chiedo per quanto sarà ancora in grado di insistere su queste piccole formalità, e se la nuova stirpe di avvocati - quelli che non indossano la cravatta perché non lo fanno nemmeno i loro clienti "punto com" - sopporterà lo stile Corcoran & Klein. «Mi ha anche detto di informarla che ha difeso il signor Ziegler nel suo processo per spergiuro
dell'83, e che di solito riesce a capire se sta mentendo oppure no.» «Come fa a sapere che riesce a capirlo?» «Prego?» «Lasci stare. Senta, potrei parlare con il signor Corcoran?» «È a Bruxelles. Ma di qualsiasi cosa abbia bisogno, può chiedere a me.» Non so se lo zio Mal mi stia evitando di proposito, rifilandomi a Meadows per sbarazzarsi di me, o se sono soltanto il solito ipersensibile. «Ma ho anche delle buone notizie» riprende all'improvviso Meadows, più allegra che mai. «Non mi dispiacerebbero.» «Il signor Corcoran ha detto che sono cominciati i controlli su sua moglie. Nei prossimi giorni il Bureau manderà un paio di agenti a interrogarla. E a parlare con lei.» «È fuori città.» Faccio il difficile per il puro gusto di farlo. In realtà, dovrei essere felice per Kimmer. «Oh, penso proprio che il Bureau sarà in grado di rintracciarla.» Meadows sembra attendere che io dica qualcosa - "grazie", forse - ma io sono in uno dei miei umori rosso acceso e sto avendo qualche problema con le buone maniere. «In ogni caso, il signor Corcoran voleva che lo sapesse» conclude delusa. Malgrado i miei sforzi per limitarla, la buona educazione dei Garland ha infine la meglio: «Splendida notizia, signorina Meadows. La ringrazio». O forse sto facendo il gentile soltanto perché mi è venuto in mente che ho ancora bisogno di lei. «Non è opera mia. E la prego, mi chiami Cassie.» «D'accordo, Cassie.» «Lei è di sicuro un cliente interessante» aggiunge Meadows, e capisco che si sta preparando a un frettoloso saluto per tornare ai lavori seri. «È stata un'esperienza.» «Un momento.» «Sì?» Mi concedo un istante per scegliere le parole giuste. «Cassie, senta, mi stavo chiedendo una cosa.» «Come mai non mi sorprende?» So che sta cercando di restare affabile, ma il suo sarcasmo è comunque pungente. Odio fare la figura del questuante. «Perché è brava in quello che fa» mormoro per rabbonirla. Non serve a nulla. «Che cosa vuole sapere, Misha?» In tono molto prati-
co. Non ha alcuna ragione di prendermi troppo sul serio, poiché ci sono molte cose che non ho ancora rivelato. Non ho detto tutto a tutti. Non a Kimmer, non a Meadows, non allo zio Mal. Meadows non sa nulla dell'"amante di Angela", per non parlare della strana ripetizione della parola "Excelsior". Il problema è che devo parlarne con qualcuno. «Be'... sa che Colin Scott ha detto di essere alla ricerca di certi documenti che un cliente aveva affidato al... a mio padre?» «Certamente.» Ho l'impressione che Cassie Meadows sia concentrata su qualcos'altro, senza dubbio sulla pratica di un cliente pagante. «E ricorda di avermi detto che l'Fbi crede che sia vero?» «Mmh-mmh.» «Avete mai scoperto chi è?» «Prego?» «Avete mai scoperto chi è il cliente che gli aveva affidato i documenti?» «Ah. Be'...» Ho la sensazione di aver toccato un tasto delicato. «Misha, le posso assicurare che lo studio sta esaminando con attenzione il proprio archivio.» Mi chiedo se sia lei ad aver avuto l'incarico. Un'impresa così noiosa e ingrata per un avvocato in carriera spiegherebbe la sua irritazione. «Il procedimento è stato quasi completato. Non abbiamo trovato alcuna indicazione su chi possa aver affidato dei documenti a suo padre. Ma deve capire che era un uomo estremamente occupato, e in generale con i clienti dello studio non aveva... il tipo di rapporto che li avrebbe portati ad affidare a lui e soltanto a lui documenti delicati.» Il suo disagio è contagioso, anche attraverso la linea telefonica. Recepisco il messaggio, quello che in parte mi aspettavo: per quanto ne sappia la Corcoran & Klein, il Giudice non aveva alcun cliente. E in modo subitaneo e triste mi torna in mente il momento in cui, al funerale, Mallory Corcoran ha preso la parola. In piedi di fronte alla rada congregazione, la voce spezzata e lacrimosa, non ha fatto che parlare della "grandezza" del Giudice, ripetendo la parola fino al punto in cui ho cominciato a chiedermi se non stesse insinuando che tale grandezza si fosse estinta tempo addietro; forse perché il crescente furore delle posizioni politiche di mio padre era diventato motivo di sempre maggiore imbarazzo per uno studio legale che un tempo aveva creduto che il suo nome avrebbe aumentato il prestigio di un'intestazione già nobilitata da ex senatori e membri del governo. Nessun cliente, mi ripeto. Il Giudice non aveva clienti. Mi segno un piccolo appunto mentale, un nodo nel fazzoletto della mia memoria, poi prendo un'altra decisione.
«Lo studio ha per caso un cliente nel cui nome figura la parola "Excelsior"?» domando a Cassie Meadows. «Perché me lo chiede?» «Diciamo che è un'intuizione.» «Resti in linea.» Sento il ticchettio di una tastiera, il cliccare di un mouse e poi il tipico plonk! che Windows produce (a meno che non si sappia come cambiarlo) quando non ha trovato ciò che cerchi. «Niente.» Meadows esita, clicca di nuovo, batte qualche tasto, attende. Un altro plonk! «Nemmeno nell'archivio confidenziale.» «Be', era solo un'intuizione.» «Ma certo. Il nome le è venuto in mente così.» «No, no, è qualcosa... qualcosa che qualcuno ha detto riguardo a mio padre.» Non sono mai bravo a mentire, men che meno quando non ho tempo per riflettere. «D'accordo, se lo dice lei.» Fantastico. Laddove temevo di generare irritazione, ora ho creato scetticismo se non sfiducia. Ciò nonostante, come il Giudice amava ripetere, non si può che andare avanti. «Ho un ultimo favore da chiederle.» «È una frase che ho già sentito.» «Stavolta dico sul serio.» «E va bene, Misha.» A un certo punto, nel corso degli ultimi minuti, Meadows ha cominciato a usare il mio soprannome, ma senza chiedermene il permesso. Forse "professor Garland" è un po' troppo cerimonioso, ma perfino Mallory Corcoran, che mi conosce da una vita, mi chiama Talcott. Non l'ho corretta, poiché le norme della conversazione contemporanea non forniscono strumenti per chiedere a un interlocutore di essere più formale e non meno. «Un ultimo favore.» Fa una breve risata acuta. «Allora, stavolta a chi chiedo informazioni? Alla Casa Bianca? Alla Cia?» «Nessuna informazione. Alla fine della settimana sarò a Washington per una conferenza sugli emendamenti alle leggi sull'illecito. Vorrei fare un salto in studio e dare un'occhiata all'ufficio di mio padre.» «È inutile, Misha. Non so cosa sta cercando, ma la stanza è completamente vuota. Non ci sono nemmeno i mobili. Credo che uno dei soci si stia preparando a trasferirvisi.» «Mi bastano due minuti. Ma se crede che sia un problema, posso chiamare lo zio Mal.» Uso il nomignolo per rammentarle che ho un certo a-
scendente sul suo principale. «No» risponde senza esitare Meadows. «Sono sicura che vada bene. Mi chiami il mattino del giorno in cui vuole passare.» Le dico che lo farò. Poi, avvertendo che sta cominciando a preoccuparsi, le assicuro che ho finito di chiederle favori. È probabilmente una menzogna, e Meadows deve esserne consapevole. Se soltanto i cadaveri che cominciano ad accumularsi non venissero spiegati in modo così rapido e conveniente, potrei anche lasciarla in pace. O forse no. Dopo tutto, c'è ancora l'oscura lettera del Giudice da decifrare, ma non ne ho ancora accennato né a Meadows né allo zio Mal. «Cercherò di fare il bravo» le prometto. Meadows ride. Dopo aver riagganciato resto seduto in preda all'irresolutezza, chiedendomi quanto io voglia veramente sapere. Ma dopo quello che è accaduto a Martha's Vineyard l'unica risposta sensata è: il più possibile. E così chiamo il mio compagno di basket Rob Saltpeter e gli chiedo un appuntamento per il prossimo fine settimana a Washington. I suoi contatti, in questo caso, sono migliori dei miei. «Ma certo, Misha» risponde Rob. «Qualsiasi cosa ti possa aiutare.» Ma nella sua voce, come di recente in quelle della maggior parte dei miei amici, avverto una sfumatura che non avevo mai incontrato prima. Il dubbio. Sta calando un grigio crepuscolo autunnale, e sono in piedi davanti alla finestra della cucina a osservare mio figlio che gioca. Poco fa mi è finalmente venuto in mente di provare a mettermi in contatto con Solo Alma, la quale aveva previsto, nel suo modo confuso, che qualcuno si sarebbe fatto vivo con me. Ma nessuno sembra sapere come rintracciarla. Perfino Mariah, che mantiene i contatti con tutti, ha soltanto un indirizzo e non un numero di telefono. Per un attimo mi chiedo se quella matta di nostra zia possieda un telefono. Alla fine provo a chiamare uno dei suoi figli, il quale mi informa che fino a marzo sua madre sverna sulle isole. Si rifiuta sgarbatamente di darmi il suo numero di telefono, ma accetta di riferirle che le vorrei parlare. Sempre che la senta, è ovvio; mi comunica giulivo che potrebbe anche non succedere. Scuoto il capo al cospetto dell'inciviltà del mondo, nonostante anch'io abbia dimostrato di saper essere incivile. Ai vecchi tempi, se trovavo la rubrica telefonica di mia moglie aperta sul tavolino nell'ingresso, mi capitava di sfogliarla senza preoccuparmi di avere il suo permesso, fermandomi qua
e là a chiedermi se un nome sottolineato fosse quello di una conoscenza collegata alla sua carriera... o qualcos'altro. Arrivavo addirittura a trascriverne qualcuno. Ma di recente Kimmer si è "tecnologicizzata", abbandonando la sua rubrica per un organizer e così, intenzionalmente o meno, ha reso il suo elenco di numeri telefonici inaccessibile a suo marito, che è irrimediabilmente analogico. (A volte mia moglie mi accusa, ma con dolcezza, di possedere una "moralità analogica".) Kimmer, che lo ammetta o no, è una stella di considerevole grandezza del suo studio e della comunità forense nella nostra cittadina. Lavora molto più di me, ma porta a casa anche i due terzi dei guadagni globali della famiglia, il che le fornisce un intrinseco vantaggio in ogni occasione in cui le faccio notare che le sue spese esorbitanti - soprattutto indumenti, gioielli e automobile, ma anche lussuosi regali per i suoi parenti - intaccano le nostre già malconce finanze. Kimmer sembra convinta che non dovrei lamentarmi finché il denaro continua ad affluire. Adora il suo lavoro, ma le nostre conversazioni in merito vanno di rado al di là di "stasera devo restare in ufficio fino a tardi" o "devo passare agli atti un documento". Mi addolora pensare a quanto poco sappia della vita lavorativa di Kimmer, e a quanto il suo entusiasmo per come si guadagna da vivere sia diventato una barriera in più fra noi. Forse questo è uno dei motivi per cui sospetto di Jerry Nathanson, tra gli avvocati più importanti della città e generalmente considerato una persona ineccepibile: quando mia moglie parla del suo lavoro insieme a lui, gli occhi le brillano e il respiro le diventa più rapido. Mi chiedo se dimostri la stessa emozione quando parla di me in ufficio. Bentley, rincorrendo un piccione, incespica nella radice di un albero. Resto immobile, combattendo l'impulso di precipitarmi a consolarlo, e lui si rialza ridendo. Sorrido anch'io. In settembre, malgrado le accanite obiezioni di Kimmer, ho cominciato a permettergli di avventurarsi da solo nel giardino sul retro. Bentley ha reagito con gioia. Sua madre, che non ha ancora superato il dolore di averlo quasi perso la notte della sua nascita, mi fa notare che potrebbe cadere e farsi male, ma io ho sempre creduto che sia giusto permettere ai bambini di esplorare; un'altra severa lezione del Giudice, il quale predicava che qualche frattura e qualche livido sono un piccolo prezzo da pagare in cambio di un senso di meraviglia e indipendenza. Una delle frasi strappa-applauso preferite di mio padre era che scopo dello Stato non è quello di creare una società priva di rischi. Il suo pubblico aziendale lo adorava perché suggeriva meno controlli sui loro prodotti. Il suo pubblico religioso lo adorava perché suggeriva la fragilità delle nostre
vite terrene. Il suo pubblico universitario lo adorava perché suggeriva considerevole libertà di condotta. Nessuno di loro si rendeva conto, immagino, di quanto fosse catartico per mio padre credere in ciò che stava dicendo. E tutto, come il suo stesso, duro conservatorismo risaliva alla morte di Abby. Prima che Abby venisse uccisa, mio padre godeva già il favore dei conservatori, ma soltanto perché era, come qualcuno disse facendolo infuriare, "un nero ragionevole", il genere di uomo di colore con cui saresti stato disposto a trattare. Negli anni Sessanta, il Giudice non era l'uomo cupo, confuso, deprimente che senza dubbio avrete visto durante le incresciose udienze per la nomina. Perfino dopo la morte di Abby, ho spesso pensato, la sua carriera avrebbe potuto evitare di prendere la bizzarra direzione che ha preso se soltanto avesse provato la soddisfazione di vedere l'assassino - è sempre stata questa la sua definizione del pirata della strada, e secondo i suoi principi era equa - arrestato e punito. Ma la polizia non ha mai trovato un sospetto. Grazie alla posizione del Giudice, i miei genitori venivano tenuti regolarmente al corrente da un inquirente di grado superiore: qualche indizio, diceva loro mese dopo mese, ma nulla di concreto. La legge era stata l'ancora della fede di mio padre, come lo era stata per moltissimi avvocati del movimento per i diritti civili negli anni Cinquanta e Sessanta, e l'incapacità dell'imponente meccanismo della giustizia americana di trovare l'auto sportiva che aveva ucciso una ragazzina dapprima lo sconcertò e poi lo fece andare in bestia. Cominciò a tormentare i giornalisti, a sminuire l'operato della polizia e, su consiglio di amici, assunse un investigatore privato, uno di quelli costosi di Potomac, i cui presunti indizi vennero ignorati dagli inquirenti. Furioso, mio padre affrontò i suoi amici alla Casa Bianca, i suoi amici al Campidoglio e perfino i suoi amici al palazzo distrettuale, il trasandato edificio marrone che a quei tempi ospitava ciò che c'era dell'amministrazione cittadina, e in risposta ottenne soltanto pietose condoglianze. Offrì ricompense sempre più alte, ma tutte le telefonate che ricevette erano di mitomani. A sentire Addison, il Giudice arrivò addirittura a consultare un paio di sensitivi, "ma non quelli giusti", aggiunge mio fratello, il re dei talk show radiofonici, che senza dubbio avrebbe potuto procurargli nominativi migliori. A mano a mano che le sue idee evaporavano e la sua rabbia montava, mio padre passava sempre più tempo chiuso nel suo studio in Shepard Street. (Ciò accadeva prima che abbattesse i muri del primo piano.) Io accostavo preoccupato l'orecchio alla porta chiusa, e poco dopo mi si affiancava anche Mariah, tornata da Stanford per le vacanze estive. Nessuno dei
due sapeva se avremmo dovuto fare qualcosa. Lo sentivamo borbottare fra sé, forse piangere, certamente bere. Passava ore nel cuore della notte al telefono con i pochi amici che gli restavano, che avevano cominciato a non farsi trovare. Mangiava poco. Rimase indietro con il suo lavoro di giudice. Smise di giocare a poker con i suoi compari. Mia madre resistette alla maniera suggerita dalla sua classe: dando feste, spesso da sola, e rappresentando la famiglia a una quantità di funzioni, sempre da sola; ma noi figli eravamo terrorizzati. Quando giunse il momento della nostra annuale trasferta a Oak Bluffs, Mariah, che aveva un impiego estivo a Washington, rimase a casa, lasciandomi solo a sopportare quella che credevo sinceramente fosse la follia di mio padre. Temevo fosse contagiosa, o magari ereditaria. Mia madre mi offriva continui, tristi abbracci e disperate rassicurazioni, ma nessuna spiegazione. Giunse settembre: Mariah fece ritorno a Stanford e io cominciai il mio ultimo anno di liceo. La casa in Shepard Street divenne un unico, vasto silenzio. La famiglia stava precipitando in un gorgo, e nessuno ne parlava. Smisi di invitare a casa mia i compagni di scuola. Ero troppo imbarazzato. Certe sere me ne tenevo lontano io stesso. Con mio dispiacere, i miei genitori se ne accorgevano a malapena. Passò un anno, un anno e mezzo. Me ne andai anch'io al college. Ora mio padre e mia madre potevano consolarsi soltanto a vicenda, e il loro matrimonio - così mi disse in seguito mio fratello - giunse più vicino che mai al punto di rottura. Io trascorrevo le mie vacanze lontano da Washington. Non avevo la sensazione che sentissero la mia mancanza. E poi, all'improvviso, il mare di malinconia in cui il Giudice stava affogando si prosciugò. Non ho mai veramente capito il perché. Tutto ciò che sapevo era che la forza di volontà che ci aveva predicato nel corso delle nostre infanzie si era riaffermata: il Giudice tracciò una linea, come spiegò in seguito Addison, e mise Abby e il mistero della sua morte sul lato contrassegnato dalla parola "passato". Uscì ruggendo dal suo studio come un animale appena liberato dalla gabbia, nuovamente conscio della vita e delle sue possibilità. Cominciò a ridere e scherzare. Tornò a dedicarsi al suo antico obiettivo di essere il funzionario più veloce della corte d'appello. Abbandonò il suo nuovo, spaventoso vizio di bere e riprese quello vecchio e tedioso di interferire nelle vite dei suoi figli. Sembrava di nuovo se stesso, e non ammetteva che la sua momentanea debolezza fosse mai esistita. E così, quando il suo vecchio amico Oz McMichael, lo stizzoso moderato che sedeva al Senato da una vita, perse il figlio per mano di un pirata della strada e osò proporre a mio padre di unir-
si al suo gruppo di sostegno per i genitori delle vittime di simili incidenti, il Giudice rifiutò bruscamente e - ancora a sentire Addison - non gli rivolse mai più la parola. Un gruppo di sostegno, sto pensando mentre osservo il mio bambino pensieroso e ormai assonnato. Forse, ora che Scott se n'è andato, dovrei vincere il pregiudizio della mia famiglia nei riguardi della terapia. La scorsa estate ci ho provato, confidando le mie pene coniugali a un pastore; non al mio, cosa troppo rischiosa, ma a un uomo gentile di nome Morris Young conosciuto tramite il mio lavoro di volontario. E Morris Young mi ha aiutato. In parte. Forse, penso ora, forse se promettessi di smetterla di correre dietro agli innumerevoli misteri che mio padre si è lasciato dietro, Kimmer e io potremmo affrontare insieme la terapia di coppia e far funzionare questo matrimonio. Sarebbe più facile, naturalmente, se il presidente scegliesse lei per la corte d'appello, ma la prospettiva, lo ammetto con tristezza, sembra impallidire davanti a ogni mitomane che diffonda in rete una teoria abbastanza folle sulla morte del Giudice da mantenere vivo l'interesse. Mariah chiama mentre Bentley è nella vasca da bagno. Mi sto occupando delle abluzioni serali di nostro figlio perché Kimmer, che di solito si nutre delle cure che gli riserva, è fuori città. Non che mi dispiaccia stare con lui. Oh, no! Da quando sono rientrato da Martha's Vineyard sopporto a malapena l'idea di non averlo davanti agli occhi, malgrado la vita e il lavoro lo rendano necessario. Ciò nonostante, potrei stare ad ascoltare per ore i suoi "osa tu", anche se il mio cuore si contorce per il desiderio frustrato di regalargli un'infanzia normale... qualunque cosa passi per normale ai giorni nostri. Due genitori che si amano potrebbe sembrare un inizio interessante ed essenziale, ma la mera idea che la famiglia tradizionale possa essere effettivamente un bene per il bambino offende così tanti schieramenti che non c'è più quasi nessuno disposto a suggerirla. Il che è un'ulteriore indicazione, come George Orwell sapeva, del fatto che nel giro di una generazione o due nessuno lo penserà più. Quello che sopravvive è soltanto ciò che siamo in grado di comunicare. Le cognizioni morali, che restano segrete, alla fine cessano di essere cognizioni. Malgrado possano ancora essere morali. Quando squilla il telefono, Bentley sta compiendo un delicato esperimento: stiva sulla sua barchetta di plastica rossa il maggior numero possibile di soldatini della Playmobil e aspetta di vedere se affonda. A volte
succede, altre volte resta a galla. A volte riesce ad accatastare quindici soldatini e la barchetta continua tranquillamente a galleggiare, altre volte meno di dodici la fanno andare a fondo. Bentley aggrotta la fronte, cercando di capire il principio. Non lo individuo nemmeno io, e la cosa mi fa piacere: per quanto gli scienziati siano in grado di spiegarci dell'universo, alcuni eventi rimangono caotici, addirittura casuali. Il galleggiamento o il naufragio della barchetta rossa di Bentley sembra essere uno di questi. Viviamo gran parte delle nostre esistenze nel caos. La storia umana può essere vista come una ricerca infinita di un ordine superiore: tutto, dal linguaggio alla religione, dalla legge alla scienza, cerca di imporre una struttura a una vita caotica. Gli esistenzialisti, a volte descritti a torto come scettici sull'esistenza di un ordine fondante, riconoscevano i rischi e la follia insiti nell'ossessione di volerlo creare. Hitler ci ha mostrato il rischio, come prima di lui un gran numero di tiranni populisti. Io insegno ai miei studenti che a volte anche la legge rivela lo stesso rischio, quando cerchiamo di regolare un fenomeno - il comportamento umano - che nemmeno capiamo. Non sto mettendo in discussione la legge, aggiungo mentre loro prendono freneticamente appunti, ma il presupposto "panglossiano" che siamo in grado di esercitarla in modo efficace. La tenebra in cui viviamo ci condanna a farlo male. È per questo che, facendo un bilancio della mia vita, in questo momento preferisco fare il bagno a mio figlio che terminare uno qualsiasi degli inutili lavori accatastati nel mio piccolo studio al pianterreno. Sulla scrivania c'è la versione riveduta e corretta del tardivo articolo sulle cause per illecito ai danni della collettività che sto pubblicando sull'altezzosa rivista di legge della facoltà. A volte vorrei avere il coraggio dei miei colleghi Lem Carlyle e Rob Saltpeter, due delle nostre stelle di prima grandezza, i quali tre anni fa hanno annunciato con una lettera all'"American Lawyer" che non avrebbero più scritto per le riviste studentesche di legge perché erano stufi di avere a che fare con ragazzini usciti dal college da due o tre anni e convinti di conoscere la giurisprudenza - per non parlare dell'arte della scrittura - meglio dei loro professori. Poiché quasi tutte le riviste di legge del paese sono curate dagli studenti, in pratica significa che, se vogliono essere presi sul serio come studiosi, Lem e Rob devono scrivere libri, impresa che nessuno dei due sembra avere alcun problema a svolgere. Ma molti di noi continuano ad arrancare in trincea, riempiendo le pagine delle riviste di facoltà con idee che, per parafrasare ciò che qualcuno scrisse sul grande teorico degli scacchi del diciottesimo secolo François-André Phili-
dor, passano con vertiginosa rapidità dall'essere troppo in anticipo sui tempi per farsi prendere sul serio, all'essere troppo datate per contare qualcosa. Sì, ci sono giorni in cui amo insegnare legge; ma ci sono anche giorni in cui lo odio. Bentley alza di scatto la testa allo squillo del telefono, sapendo che di solito è presagio di un abbandono. Mi porto il cordless in bagno tutte le volte che lui è nella vasca, abitudine presa da Kimmer, che non vuole farsi sfuggire la possibile telefonata di un cliente e che riesce ad asciugare Bentley e a vestirlo per la notte reggendo il ricevitore con la spalla, parlando e riuscendo a fatturare un'ora o due mentre svolge i suoi compiti di madre. Cerco un compromesso, afferrando l'apparecchio con una mano e con l'altra impilando soldatini della Playmobil sulla barchetta rossa. «Ti ho svegliato?» comincia Mariah, mantenendo la sua idea di scherzo fin dai primi tempi del mio matrimonio con Kimmer, quando chiamare dopo l'ora di cena era sempre un rischio: c'erano ottime possibilità che fossimo già a letto, anche se mai addormentati. «No, no, sono qui con Bentley. Sta facendo il bagno.» «Digli che gli voglio bene.» «La zia Mariah dice che ti vuole bene.» Mio figlio mi ignora, accantonando la barca, tuffando la faccia sott'acqua e soffiando bollicine in superficie. «Dice che ti vuole bene anche lui.» «Allora, come state?» «Oh, benissimo, benissimo» mi entusiasmo, ben sapendo che Mariah non ha telefonato per due chiacchiere. Abbiamo fatto pace dopo il litigio di qualche settimana fa, ma io pago il tributo ascoltandola ogni volta che vuole parlare. Vado al lavandino con il portatile e riempio d'acqua un bicchiere di carta. La conversazione potrebbe protrarsi a lungo. «Tal, sono a Washington, e ho trovato qualcosa che forse potrebbe interessarti.» «Come mai non ne sono sorpreso?» Facciamo una risata, piccola e innaturale come i forzati isterismi che coprono il dolore. All'inizio del settimo mese di gravidanza, nelle cinque settimane da quando abbiamo seppellito il Giudice, mia sorella ha fatto la spola tre volte fra Washington e Darien. Dopo anni di imbronciato silenzio nei miei riguardi, ora mi telefona ogni tre o quattro giorni, probabilmente perché non c'è nessun altro disposto ad ascoltare le teorie che lei rivede così in fretta che ogni tanto sembrano cambiare identità nel bel mezzo di una
frase. Suo marito è troppo preso, il nostro fratello maggiore è troppo difficile da rintracciare e i suoi amici... ebbene, sospetto che i suoi amici non si facciano trovare. Da parte mia le telefonate non mi danno fastidio, finché sono limitate a me; se posso mantenere le sue congetture entro confini ragionevoli, o trattenerla dal formularle ad alta voce, posso aiutare sia Kimmer che mia sorella. Fra l'altro, Mariah potrebbe anche avere ragione: dopo tutto, Colin Scott non era fuggito in Canada; ci aveva seguiti a Martha's Vineyard e lì è morto. O forse mi sto soltanto affiancando a mia sorella nella sua corsa a perdifiato verso i più lontani confini della fantasia. La telefonata di stasera è tipica. Mariah è di nuovo in Shepard Street, e a quanto pare è stata sveglia fino a notte fonda per setacciare i documenti nella soffitta. È la sua ossessione fin dalla sera in cui ha cominciato la ricerca con Sally, a seguito del nostro incontro con il sergente Ames. Se ne sta seduta per ore, circondata da montagne di contratti, lettere, ricevute di assegni, stesure di saggi e discorsi, menu, ritagli di giornale che si stanno lacerando lungo le vecchissime pieghe, diagrammi di posizioni scacchistiche, appunti per i libri del Giudice, ricette, premi ed encomi non incorniciati, fatture dell'uomo incaricato di sigillare ogni inverno le finestre di Vinerd Howse, messaggi di condoglianze, programmi di spettacoli di Broadway ormai dimenticati, atti legali, stesure di antichi pareri risalenti a quando mio padre era giudice, istruzioni stampate di un gioco scomparso da tempo e chiamato Totopoli, blocchi di fogli gialli ancora intatti, fotografie di nostra madre, edizioni rilegate di Anthony Trollope, note di vari assistenti, mappe antiquate di Martha's Vineyard, ricevute di carte di credito, diari tascabili e un profluvio di giornali e riviste: arretrati del "Washington Post", del "Wall Street Journal" e della "National Review", una manciata di prime pagine ingiallite della "Vineyard Gazette" e perfino, sorprendentemente, due o tre malconce copie di "Soldier of Fortune". E in mezzo a tutto ciò, cupa sentinella che fa la guardia alle rovine, siede mia sorella. Esaminando pazientemente i reperti l'uno dopo l'altro. Cercando un tracciato. Un indizio. Una risposta. Sperando di trovare qualcosa che la polizia si è lasciata sfuggire. E anche i tirapiedi di Mallory Corcoran, che tre giorni dopo il funerale hanno trascorso un pomeriggio nella casa alla ricerca di qualsiasi documento confidenziale che appartenesse allo studio. Mariah crede di poter essere più accurata di tutti loro. Immagino che il vero giornalismo investigativo sia simile a questo: il setacciare i dettagli che porta a nuovi dettagli che conducono al torbido, la scoperta di un tracciato
nel torbido e infine l'illustrazione di tale tracciato per i lettori. Ho rivisto di recente la bassa soffitta di Shepard Street, le sue ombre desolate e polverose. Ci sono passato quando Kimmer, Bentley e io ci trovavamo a Washington per la penosa festa del Ringraziamento. Per raggiungere quella che il Giudice chiamava la piccionaia bisogna salire una stretta scala dietro il bagno, ma Mariah lo fa regolarmente, e non c'è angolo che abbia tralasciato nelle sue ricerche. Mi sono fermato all'ingresso, chino in avanti, lasciando scorrere lo sguardo sui fogli impilati, sparpagliati, mescolati; alcuni tenuti al loro posto da fermacarte di cristallo presi in prestito dalla collezione di nostra madre al pianterreno, altri sospinti contro l'unica finestra a timpano, altri ancora collegati da spilli e filo colorato: rosso o verde a seconda dei casi. Non è giusto definire un caos la sua creazione. Mariah mi ha spiegato il sistema, o ha cercato di farlo, nel corso delle nostre telefonate notturne, e mi ha descritto il quadernetto nero in cui ha abbozzato le sue teorie e stabilito i suoi collegamenti. "Il mio libro mastro" l'ha chiamato una volta. "Dopo la mia famiglia, la cosa più preziosa che possiedo." Guardando la confusione che Mariah trova ordinata, mi sono preoccupato. Di certo l'appartamento di Arthur Bremer doveva aver avuto lo stesso aspetto della soffitta. E quello di John Hinckley. E quello di Squeaky Fromme. Ho parlato un po' con Howard, il quale mi dice che sta cominciando a essere in pensiero per sua moglie, che non la vede mai, che lei passa quasi ogni fine settimana a Washington. Spesso si porta dietro i bambini, a volte caricandoli tutti e cinque più l'au pair del momento - le licenzia in fretta - sulla Navigator e lanciandosi sulla New Jersey Turnpike. Marshall e Malcolm sono abbastanza grandi da poter dare una mano con la cernita, e Marcus, che presto dovrà abdicare alla sua carica di figlio minore, riposa nella vecchia camera da letto di mia sorella al primo piano sotto gli occhi dell'au pair che di rado parla inglese, quantomeno con me. Di solito, quando Mariah mi telefona dopo una giornata in soffitta, litighiamo. La conversazione comincia sempre allo stesso modo. Lei bisbiglia le sue scoperte in tono triste, sempre cose che preferirei non sapere: un'antica lettera d'amore inviata al Giudice da una donna il cui nome nessuno dei due sembra riconoscere, un premio della sua associazione studentesca per la vittoria in una gara a chi beveva di più, un appunto sulla sua agenda per l'incontro con un senatore le cui posizioni politiche le danno la nausea. Mia sorella tiene in gran conto queste cose. Crede di ricostruire nostro padre, di poter imparare dal suo simulacro una profonda verità che lui ci ha nascosto. Crede che la sua ombra continui a vivere fra i relitti della sua vita
scritta, e che finalmente parlerà. Io cerco di spiegarle che si tratta di semplici pezzi di carta, che dovremmo gettarli via, ma mi sto rivolgendo a una donna la cui casa da cinque milioni di dollari è decorata quasi interamente da fotografie dei suoi poco attraenti bambini e il cui sentimentalismo, come ha osservato una volta Kimmer, la porterebbe a conservare i pannolini sporchi dei figli se soltanto trovasse un modo igienico per farlo. Suggerisco dolcemente alla mia ostinata sorella che non capivamo nostro padre quand'era vivo e non lo capiremo certo meglio ora che è morto, ma Mariah è la sola tra i figli di Claire e Oliver Garland a non aver mai ammesso che esistano cose che vanno al di là del suo comprendonio, il che è senza dubbio il motivo per cui era l'unica di noi a prendere i massimi voti al college. Cerco di dirle che di sicuro non arriveremo a conoscere il Giudice attraverso le sue carte, ma Mariah resta nel profondo una giornalista con un master in storia, e le mie parole sono una sfida alla sua fede. E così, incapace di sopportare un'altra lettura di una richiesta di deroga edilizia per l'installazione di una fossa settica non conforme al regolamento per Vinerd Howse, finisco sempre per dirle che anch'io ho i miei problemi, e lei ribatte che il sangue non è acqua, una delle frasi preferite di nostra madre che Mariah ripete spesso, malgrado da bambina sostenesse di detestarla. Mia sorella e io ci parliamo di più che in passato, ma, tregua o non tregua, i nostri rapporti sono tesi come sempre. Di conseguenza, quando mi annuncia di aver trovato qualcosa di cui dovremmo parlare, mi preparo al peggio, nel senso dell'inutile, del noioso, del banale. O dello spaventoso: ulteriori accenni ai frammenti di proiettile, che negli ultimi tempi non ha più tirato fuori. O del probabile: ha saputo della morte di McDermott/Scott e vuole spiegarmi come si inserisca nel complotto. Per questo ciò che fuoriesce dalle sue labbra mi prende alla sprovvista. «Tal, sapevi che papà aveva una pistola?» «Una pistola?» «Sì. L'ho trovata ieri sera in camera da letto, in fondo a un cassetto. Stavo cercando dei documenti, e invece c'era questa pistola. Era chiusa in una scatola insieme a... be', a dei proiettili. Ma non è per questo che ti ho chiamato.» Esita, presumibilmente per aumentare l'effetto drammatico, ma non ce n'è bisogno: ha tutta la mia attenzione. «Tal, oggi pomeriggio l'ho fatta esaminare da qualcuno. Da un esperto. Ha sparato, Tal. Di recente.» 19
DUE RACCONTI «Il distretto di Columbia ha probabilmente le leggi sul possesso di armi più severe del paese» mi assicura Lemaster Carlyle. «È praticamente impossibile ottenerlo.» Una pausa. «D'altra parte, la Virginia è appena oltre il fiume, ed è uno dei luoghi al mondo in cui è più facile acquistare legalmente una pistola. La gente le compra lì e se le porta dovunque.» «Ah» è il mio ponderato contributo. «Così, se un mio parente che viveva a Washington fosse morto lasciandosi dietro una pistola...» con la caratteristica cadenza delle Barbados mi sta facendo ingoiare il trasparente periodo ipotetico «concluderei che l'ha acquistata in Virginia e che ha semplicemente ignorato le leggi del distretto. Lo fanno in molti.» Annuisco. Il panino con il pollo alla griglia che ho lasciato a metà, la specialità del Post, è diventato freddo e gommoso. Lemaster è un ex pubblico ministero ed è un esperto di queste cose, ma le sue informazioni combaciano con le mie intuizioni. Ancora una volta, mio padre sembra aver vissuto ai confini della legge. Preferirei scoprire meno di questi dolorosi bocconcini, ma a quanto sembra non riesco a smettere di cercarli. «Devi consegnare la pistola, naturalmente.» «Come?» «La pistola. È tuttora priva di licenza. Nessuno la può possedere legalmente. Dev'essere consegnata.» «Oh.» Lemaster Carlyle è un uomo di sufficiente integrità da farmi sospettare che questo sarebbe stato il suo consiglio anche se non avesse trascorso tre anni come viceprocuratore generale prima di dedicarsi al mondo accademico. Lo guardo spilluzzicare la sua insalata di gamberi. Sembra che non mangi mai molto, e che non ingrassi mai. I suoi abiti gli stanno sempre a pennello. È un uomo minuto con una mente enorme, di pochi anni più vecchio di me, un laureato di Harvard che prima di unirsi alle nostre file è stato studente di teologia. Il suo volto liscio e magro, al tempo stesso allegro e saggio, è di un magnifico nero purpureo, tipico delle Indie Occidentali. La sua perfetta moglie Julia è altrettanto minuta, scura e graziosa. Vivono in uno dei sobborghi più eleganti con i loro tre perfetti figli. Lemaster mi sovrasta di chilometri nella gerarchia non scritta della scuola, e in facoltà è adorato da tutti, e da gran parte degli ex alunni, poiché è anche un politico quasi perfetto. Malgrado si definisca progressista, alle ultime elezioni ha votato repubblicano adducendo come ragione l'opposizione dei
democratici alle sovvenzioni scolastiche, che lui vede come l'unica speranza per i bambini delle zone povere. È stato il fondatore, e per quanto ne sappia l'unico membro, di una dimenticata organizzazione denominata Progressisti per Bush. I suoi incisivi, ragionatissimi contributi costellano le pagine del "New York Times" e del "Washington Post". Appare spesso in televisione. Si dice anche che sia insoddisfatto. Molti dei nostri colleghi lo stanno pregando di attendere pazientemente di succedere a Lynda Wyatt diventando il nostro primo preside di colore, ma le voci di corridoio dicono che Lem si sia stancato della vita accademica, come di quasi tutto ciò che ha conquistato, e che presto ci lascerà per lavorare a tempo pieno in uno dei network televisivi. Al funerale del Giudice la gente gli ha riservato grandi attenzioni. Spesso vorrei provare più simpatia per Lemaster e invidiarlo di meno. «E se la persona che trova la pistola non la consegnasse?» insisto. Lem sorseggia la sua acqua - nessuno può dire di averlo mai visto bere altro - e scuote la testa. I suoi occhietti mi sorridono da sopra i baffi sottili. «Trovarla non è un crimine. Il crimine è possederla.» Dunque, consiglierò a mia sorella di consegnarla. Il caso è chiuso. Tranne che Lemaster Carlyle lo riapre. «Questo tuo parente, Talcott, tu sai perché credeva di aver bisogno di una pistola?» «No.» «Molti le comprano per proteggersi, anche quelli che lo fanno in modo illegale. Ma alcune, naturalmente, vengono acquistate a scopi criminali.» «Okay.» Si asciuga le labbra con il tovagliolo, poi lo ripiega accuratamente prima di posarlo accanto al piatto. Non avrà mangiato più di quattro bocconi. «Se fosse un mio parente, non mi interesserebbe sapere dove ha comprato la pistola, o cosa potrebbe succedermi se la tenessi. Mi interesserebbe scoprire perché l'ha comprata.» Di ritorno nell'Oldie, e diretto verso la scalinata centrale, per un insulso momento fingo di volermi scordare l'intera faccenda. Ma non sono più io a inseguire la verità; è la verità che sembra inseguire me. Per quale ragione mio padre aveva voluto una pistola? Per proteggersi o per commettere un crimine, ha suggerito Lemaster Carlyle. Nessuna delle due è una buona notizia. In cosa era implicato mio padre? Ripenso a Jack Ziegler al cimitero. Ripenso a McDermott/Scott, giudicato innocuo dallo sceriffo della sua città ma ciò nonostante morto in circostanze sospette. Le spalle mi si incur-
vano. La nomina di Kimmer sembra lontana chilometri. Provo l'impulso improvviso di andare a trovare Theo Mountain, poiché ho bisogno che qualcuno mi faccia animo, ma devo evitare di trasformare il mio antico mentore nella mia eterna stampella. Incrocio un gruppo di studenti: Crysta Smallwood che discute in toni accesi con alcune donne di colore, come si autodefiniscono oggi. Qualche parola aleggia al di là del loro gruppo: "interstizi dialettici", "posizione di estraneità" e "l'altro ricostruito". Rimpiango i tempi in cui gli studenti parlavano delle norme di procedura civile o delle norme sulla prescrizione, i tempi in cui le facoltà di legge più importanti del paese credevano che il loro scopo fosse quello di insegnare il diritto. Avvicinandomi al mio ufficio vedo Arnold Rosen, uno dei grandi, irriducibili progressisti della facoltà, dirigersi verso di me sulla sua sedia a rotelle elettrica. Mi rivolge il suo sorriso sottile, di superiorità, e io ricambio di malavoglia, poiché non ci vogliamo un gran bene. Ammiro la mente di Arnie e la determinazione con cui resta fedele ai suoi principi, ma non sono sicuro che in me ci sia qualcosa che lui ammiri, considerato soprattutto che sono il figlio del grande eroe conservatore. Arnie è arrivato da Harvard una decina di anni fa, un colpo da maestro di Stuart Land, e si dice sia l'unico rivale di Lem Carlyle per la carica di preside quando Dean Lynda se ne andrà. Fa rallentare la sedia con un colpetto del dito su una levetta. Quando li solleva su di me, i suoi occhi chiari sono distanti e critici. «Buon pomeriggio, Talcott.» «Ciao, Arnie.» Reggo la chiave in mano, sperando di segnalare che al momento non ho molta voglia di parlare. «Non credo di aver avuto modo di dirti quanto mi dispiaccia per tuo padre.» «Grazie» mormoro, troppo stanco per farmi infastidire dalla sua ipocrisia. Arnie insegna deontologia forense e svariate materie inerenti al diritto commerciale, inoltre è un prodigio di studioso, ma risparmia il suo vero entusiasmo per le tre grandi cause della sinistra contemporanea: l'aborto, i diritti dei gay e una rigida separazione fra Stato e Chiesa. Qualche mese fa, la mia ex allieva Shirley Branch, l'unica donna di colore che la scuola abbia mai assunto, ha presentato una tesina al pranzo bisettimanale della facoltà in cui sosteneva che la forma di separazione che oggi noi intellettuali diamo per scontata è troppo rigida, e che la sua applicazione, per esempio, avrebbe danneggiato il movimento per i diritti civili. Arnie si è detto in di-
saccordo, suggerendo che l'idea di Shirley ci avrebbe riportato ai giorni dell'America vista come nazione cristiana. Hanno discusso in toni alquanto accesi, finché Rob Saltpeter, il moderatore, ha placato gli animi con un'osservazione ironica: il problema dell'America non è essere una nazione cristiana, ma che fin troppo spesso non lo è. Anche Rob, come Lem, ha stile. «Sai, Talcott» mormora Arnie sorridendomi «l'altro giorno uno dei nostri colleghi è venuto a parlarmi di te.» «Di me? E che cosa ha detto?» «Be', è curioso. Credeva che tu avessi violato una regola etica. Ma l'ho messo in riga, ti assicuro.» Mi sento vacillare sulle gambe. «Quale regola? Di cosa stai parlando?» «Stai svolgendo una consulenza per una grande azienda, giusto? Riguardo allo smaltimento dei rifiuti tossici?» «Sì... e allora?» «Be', il nostro collega si chiedeva se fosse giusto che tu continuassi a scrivere sull'argomento mentre venivi pagato per difendere una posizione particolare.» «Cosa?!» «Sono sicuro che hai capito il problema. Gli studiosi di diritto dovrebbero essere obiettivi. È il nostro mito, e noi ci restiamo aggrappati. Dobbiamo farlo, altrimenti saremmo nel settore sbagliato. Per questo la facoltà non vede di buon occhio il fatto che i docenti svolgano troppe consulenze.» «Lo capisco, ma...» Arnie fa compiere un piccolo semicerchio alla sua sedia e agita la mano per minimizzare. «Non ti preoccupare, Talcott. È un equivoco alquanto diffuso. Non ci sono regole che lo vietino, non ci sono norme etiche sugli studi in materia legale, e a parte questo...» «E a parte questo, non lascerei mai che una parcella condizionasse le mie dottrine!» «È quello che ho detto anch'io.» Arnie annuisce. «Ma il nostro collega sembrava alquanto sicuro. Ho l'impressione che la faccenda non finirà qui.» Emetto un verso sommesso. Incredulità, forse, oppure semplice rabbia. È un altro esempio delle pressioni di cui ha parlato Stuart? «Arnie, ascolta. Chi è stato? Chi ha tirato fuori questa storia?» Lui agita di nuovo la mano. «Ah, Talcott, vorrei potertelo dire, ma non
posso.» «Non puoi? E perché?» «Segreto professionale.» Ancora sorridendo, si allontana lungo il corridoio. 20 LE AULE DELLA GIUSTIZIA «Misha, che piacere vederti.» Un abbraccio, poiché siamo entrambi uomini. Oggi i giudici di sesso maschile hanno paura di abbracciare i loro cancellieri di sesso femminile, o così diceva mio padre. Ma alcuni dei fatti che citava erano inventati. «Accomodati, accomodati.» Wallace Warrenton Wainwright si scosta facendomi cenno di entrare nel suo ufficio privato. Il grassoccio messo di colore che mi ha accompagnato dall'ufficio del cancelliere è scomparso. Quando la porta dell'anticamera si chiude, rimango solo con Wallace Wainwright. È un uomo alto, almeno un metro e novanta, con spalle più massicce che muscolose, radi capelli fra il castano e il bianco e un volto amichevole che tradisce un pallido, studiato ascetismo. Sembra troppo lieto di essere così intelligente. Il suo aspetto è più quello di un frate che di un giudice - un frate francescano, senza dubbio - e se ti capitasse di sedere al suo fianco su un aereo non diresti mai di essere al cospetto di un giudice aggiunto della corte suprema degli Stati Uniti. Ma è così che Wallace Wainwright passerà alla storia. Al di là di questo ufficio spazioso i computer ronzano, le stampanti sibilano, i cancellieri corrono avanti e indietro, i telefoni suonano sommessi: il rumore della giustizia mentre viene applicata, come senza dubbio il Giudice descriverebbe il tutto. E forse, di tanto in tanto, la corte ha fatto davvero giustizia, ma decisamente meno spesso di quanto molti sembrino credere, poiché per gran parte della sua storia si è adeguata al cambiamento e non ne è stata una fautrice. Noi docenti di legge amiamo dire e scrivere che in passato non era così, come se i giudici della corte suprema avessero di recente abbandonato il loro ruolo tradizionale di protettori dei deboli contro i forti. Ma diciamo e scriviamo assurdità. Come qualsiasi altra istituzione sociale, la corte suprema è stata principalmente l'alleata degli integrati, asserzione che non dovrebbe rappresentare una sorpresa, poiché soltanto gli integrati diventano i presidenti che nominano i giudici, i senatori che li confermano... o i candidati fra cui i giudici vengono prescelti. I progressisti citano i casi "Brown contro il dipar-
timento dell'Istruzione" e "Roe contro Wade" come se avessero individuato il ruolo appropriato della corte suprema nel governo del paese, laddove tutto ciò che hanno identificato è un'epoca particolare della storia durante la quale i giudici hanno cercato di cambiare l'America invece di mantenerla com'era. Quell'epoca si è conclusa e la corte suprema ha smesso presto di essere un motore di evoluzione sociale, cosa che probabilmente avrebbe reso molto felici gli artefici della Costituzione. Dopo tutto, anche Carmichael e Hamilton erano integrati. Il giudice Wainwright - il signor giudice Wainwright, avrebbero detto nella vecchia, gloriosa tradizione sessista - è profondamente integrato, poiché conosce tutti. Tutti quelli che contano a Washington, intendo dire. Non c'è da stupirsi che sia stato l'unico fra i giudici della corte suprema a presentarsi al funerale di mio padre. Partecipa a ogni matrimonio, perché non anche alle sepolture? Percorrendo con lo sguardo il sontuoso tappeto blu e l'ancor più sontuosa scrivania di legno, i miei occhi si posano sulla sua parete dell'amor proprio, un assemblaggio di fotografie che lo ritraggono con personalità che vanno da Michail Gorbaciov a Bob Dylan, al papa. C'è una foto di un severo Wainwright nell'uniforme da parata della Marina, e un'altra cornice contiene le sue decorazioni. C'è un ritratto di Wainwright che sorride con una nidiata di neonati in grembo: nipotini, suppongo. Le restanti pareti sono tappezzate dalle solide mensole di legno che reggono le centinaia di volumi color crema che formano l'archivio ufficiale delle decisioni della corte suprema, anche se in quest'era digitale nessun avvocato sotto i trent'anni li apre più, poiché tutto ciò che si trova sui libri lo si trova anche online (o così, sfortunatamente, credono i giovani legali). Scuoto la testa, cercando invano di immaginare mio padre in questo magnifico ufficio se le cose fossero andate in modo diverso. Mi travolge un'ondata di fatalismo, la sensazione che nulla avrebbe potuto mutare l'inevitabile conclusione. Nulla. Con il suo acuto occhio politico, Wallace Wainwright si accorge del mio disagio, mi posa una mano sul gomito e mi conduce a un divano blu. Si appollaia su una rigida sedia di legno situata in diagonale rispetto al divano. Dietro la sua spalla, dalla finestra si vede il Campidoglio, la sua massiccia cupola opaca nella grigia pioviggine che è un elemento così prevedibile della Washington dicembrina. Malgrado il tempo, mi sto godendo la deliziosa indipendenza di chi marina la scuola. In questo umido pomeriggio sto saltando la conferenza sugli emendamenti alle leggi sull'illecito che
sta pagando le spese della mia trasferta; non sono abbastanza illustre perché venga avvertita la mia mancanza. Ma ora che mi ritrovo seduto nell'ufficio privato di Wainwright grazie all'appuntamento preso da Rob Saltpeter, che anni or sono è stato suo cancelliere, cerco di capire da dove cominciare. Sono emozionato come uno studente del primo anno costretto contro la sua volontà a esporre un caso. Wallace Wainwright aspetta. E aspetta. Può permettersi di aspettare, o di non aspettare, quanto vuole. Ha ben presente chi è. Siede alla sommità del suo mondo e non c'è più nessuno su cui deve far colpo. Il suo completo è informe e color marrone sbiadito, più il genere d'abito che si trova nei negozi dell'usato di Southeast Washington che quello che ci si aspetterebbe di vedere addosso a un giudice della corte suprema. La sua cravatta, vecchia e sottile, è storta. La sua camicia azzurra è stirata male. Malgrado il nome altisonante, Wallace Wainwright non possiede, come diceva il Giudice in preda a un certo stupore, alcun particolare retaggio. I Wainwright, ancora a sentire mio padre, erano dei poveracci del Tennessee. Wallace, il terzo di cinque fratelli, studiò alla University of Tennessee grazie a menzogne, lusinghe e prestiti vari; frequentò la facoltà di legge di Vanderbilt grazie a una borsa di studio e nei suoi primi anni di lavoro continuò a inviare a casa metà del suo stipendio, a volte di più se qualcuno della sua vasta famiglia aveva bisogno di un intervento chirurgico o della caparra per l'acquisto dell'auto. Eppure, adesso vive in una piccola ma costosa villetta a schiera di Georgetown, possiede un'enorme casa di campagna per i fine settimana, più di dieci ettari in cui la figlia può andare a cavallo, nei pressi della cittadina di Washington, a volte chiamata "Piccola Washington", nel bel mezzo dei territori di caccia della Virginia. Mio padre soleva scuotere il capo, sbalordito dal fatto che il suo ex collega avesse contratto un ottimo matrimonio. Il giudice aggiunto Wallace Warrenton Wainwright, il gigante intellettuale. L'uomo del popolo. Il beniamino dell'accademia legale. L'ultimo dei grandi giudici progressisti. E quanto di più simile a un amico mio padre avesse avuto ai tempi in cui erano colleghi presso la corte d'appello del distretto di Columbia, che è la vera ragione per cui sono venuto. Nonostante le loro nette divergenze ideologiche, i due erano uniti dalla convinzione che le loro menti fossero superiori a quelle degli altri giudici della corte d'appello, condiscendenza che
non di rado veniva espressa dalle loro opinioni dissenzienti. Mi viene in mente che una corte è un po' come una facoltà di legge, quantomeno una come la mia. Ci sono dei livelli, se non altro nelle menti di coloro che credono di far parte del più alto. I giudici Garland e Wainwright erano convinti di occupare un livello tutto loro, con profondo risentimento, ho saputo da Eddie Dozier, del resto della corte d'appello. Malgrado mio padre avesse forse una decina d'anni più di Wainwright, si frequentavano anche fuori dal tribunale, giocando a golf, a poker e andando a pescare, prima che lo scandalo distruggesse la carriera del Giudice. Wainwright cercò di mantenere i contatti anche in seguito, ma alla fine, così mi ha detto Addison, mio padre non resistette alla tensione. Lui era bloccato, o stava addirittura precipitando, mentre il suo vecchio amico Wallace continuava ad avanzare. Quando i democratici riconquistarono la Casa Bianca, tutti sapevano che Wainwright avrebbe occupato il primo posto libero alla corte suprema. E avevano ragione. Restiamo in silenzio un istante di più mentre io mi sforzo di procedere. Ma la depressione che ha caratterizzato l'ultimo paio di mesi è tornata a impossessarsi di me, rallentando i miei ragionamenti e accrescendo i miei dubbi e le mie paure. Questa mattina sono passato dallo studio Corcoran & Klein, dove Meadows, come promesso, ha lasciato che dessi un'occhiata all'ufficio d'angolo di mio padre appena dopo quello dello zio Mal. La signora Rose, da sempre l'assistente del Giudice, è andata ormai in pensione e si è trasferita a Phoenix. Il locale era davvero vuoto: dopo la posa della nuova moquette, la tinteggiatura alle pareti e le tende alle finestre non ci sarebbe più stato nemmeno il fantasma del Giudice. Ma l'ispezione era solo una finta. In realtà ero passato per offrire un caffè a Cassie Meadows, per poter godere di tutta la sua attenzione e osservare la sua reazione spontanea quando le avessi chiesto se mio padre aveva lasciato una lettera del tipo "nel caso mi succedesse qualcosa". Meadows non ha battuto ciglio. Ci ha riflettuto, picchiettando un lungo dito sulle labbra quasi invisibili. «Se anche l'avesse fatto, io non ne sarei al corrente. Quel genere di cosa sarebbe più di competenza del signor Corcoran.» La reazione che mi aspettavo. E conoscevo la risposta alla mia domanda successiva ancora prima di porla: no, il signor Corcoran non è in ufficio. È in Europa per qualche settimana.
«È stato gentile, a ricevermi» comincio, sentendomi imbarazzato e puerile al cospetto di questo promemoria fisico e umano di tutto ciò che il mio ambizioso padre ha cercato di ottenere... e che non è riuscito a conquistare. «Sciocchezze» sbuffa Wallace Wainwright lanciando un'occhiata di sottecchi al suo orologio - un Timex per l'uomo del popolo - prima di sistemarsi sulla scomoda sedia accavallando le gambe ossute e giungendo le mani sul ginocchio che comincia subito ad agitare su e giù. «Mi dispiace solo che non abbiamo avuto modo di farlo prima.» «È passato molto tempo» concordo. «Come sta la tua graziosa moglie?» domanda il giudice, anche se sono sicuro che non abbia mai visto Kimmer in vita sua. È famoso per avere un sorriso storto e gentile, e lo esibisce adesso. Sul suo significato sono stati scritti dotti articoli. «Suppongo che ormai tu abbia un paio di figli. Oppure è sempre uno solo?» «Soltanto Bentley. Ha tre anni.» «Bellissima età» dice, riempiendo il tempo con queste divagazioni. Non so se stia cercando di mettermi a mio agio oppure di dissuadermi. «Ricordo quando le mie avevano tre anni. Non tutte insieme» specifica in modo pedante. «Ma me le ricordo tutte.» «Ha tre figlie, ricordo bene?» «Quattro» mi corregge con gentilezza, mettendo fine al mio sforzo di dimostrare che anch'io sono un essere sociale. «Tutte femmine» rimugina. «Un'intrigante gamma di età.» Sta ancora aspettando. Non si può che andare avanti. «Signor giudice, le volevo parlare di mio padre, se non le dispiace.» Inarca le sopracciglia con garbata curiosità e riprende ad aspettare. «Degli ultimi due anni che ha trascorso alla corte d'appello. Prima... be', prima di quello che è successo.» «Ma certo, Misha, ma certo.» Seducente come sempre. Anni fa, come omaggio alla sua amicizia con mio padre, invitai Wainwright a chiamarmi con il mio soprannome, e lui non ha mai smesso. «Erano anni difficili. Non riesco a immaginare cosa deve essere stato per te, e ne sono così addolorato.» «Grazie, signor giudice. So quanto significava la sua amicizia per il... per mio padre.» Il giudice Wainwright sorride di nuovo. «Oh, un uomo speciale. Era molto importante, per me. Un gigante, un gigante assoluto. Il più grande
artista della giustizia che abbia avuto il privilegio di conoscere. Immagino si possa dire che sia stato il mio mentore alla corte. Sì. Quello che è accaduto... ebbene, non altera minimamente la mia ammirazione per lui.» Una pausa, ora che ha concluso il suo discorso. «Sì. Bene. Cosa vorresti sapere?» Ci siamo. «Be', stavo pensando... non alla fase successiva, ma a quella precedente. Quando venne proposto il suo nome. Cosa succedeva in quei giorni. E cosa c'era, o non c'era, in ballo con Jack Ziegler.» «Sai, è interessante. Interessante. Nessuno mi ha mai chiesto nulla del genere, nemmeno quando il Congresso stava svolgendo le sue indagini.» Le studiate ripetizioni e le pause sono affettazioni che gli danno il tempo di pensare. «Qualche giornalista, immagino, che è riuscito chissà come a ottenere il mio numero di casa. Giornalisti. Con loro non ho parlato, ovviamente.» Come molti giudici, Wallace Wainwright considera i giornalisti allo stesso modo in cui il corpo umano vede probabilmente il batterio intestinale Escherichia coli: sa di averne bisogno perché tutto funzioni, ma spera comunque che qualcuno lo faccia fuori. «C'è stato un gran silenzio su tuo padre, Misha. Un gran silenzio. Sì. Voglio dire, su com'era in quei giorni il palazzo di giustizia. E forse è meglio così.» Esito. Mi sta tenendo a distanza o mi sta attirando? Non lo so. Non riesco a decifrare i segnali. E così seguo il mio ordine del giorno. «È proprio questo che vorrei sapere. Com'era il palazzo di giustizia. Com'era mio padre a quei tempi.» «Com'era.» Ripetendo la mia frase e la propria, il giudice riaccavalla le lunghe gambe e si abbandona sullo schienale della sedia. Non sta guardando me bensì il soffitto, dove forse sta decifrando le onde e le correnti dei ricordi. «Bene. Sì. Non devi dimenticare che quando accadde tutto questo tuo padre era candidato alla corte suprema.» «Questo lo so.» Avverte la mia impazienza e rettifica con calma. «Be', lo sai e non lo sai. Devi avere la percezione di cosa sia un tribunale quando uno dei suoi giudici è destinato alla carica più alta... o quando tutti pensano che vi sia destinato. Ci sono passato diverse volte. Diverse volte. Ci sono passato con Bob Fork. Con Oliver Garland. Con Doug Ginsburg.» Un sorriso storto. «Certo, quando faccio un elenco simile suppongo si possa dire che le quotazioni del distretto di Columbia non siano un granché.» Ricambio il sorriso. «Ma anche se nessuno di quei candidati... ha avuto la meglio... ciò nono-
stante, al momento dell'annuncio l'atmosfera era... speciale.» «In che senso?» lo imbecco. «Be'» dice ancora il giudice «insomma, sulle prime, quando Reagan annunciò che avrebbe designato tuo padre, nessuno rimase davvero sorpreso, ma in tribunale si diffuse comunque quest'aria di... di eccitazione. Tuo padre era sempre stato una figura di rilievo, ma quando la notizia circolò, divenne... Quando percorreva il corridoio, quando entrava in aula, ovunque andasse, era... be', mozzava il fiato. Mozzava il fiato. E lo intendo in senso letterale. Era come se fosse incandescente, come se bruciasse l'ossigeno nell'aria. Non so quale sia la parola giusta per descriverlo. Magia, forse. Non che la gente lo adulasse. No. A pensarci bene, era l'esatto opposto. Si ritraevano tutti, diventavano... diciamo diffidenti, come se fosse stato elevato a una condizione superiore e noi mortali non fossimo più degni. Non più degni. Non un re, ma... un principe ereditario. Ecco l'analogia giusta. Emanava questo... questo bagliore. Incandescente» ripete. Annuisco, sperando che arrivi al dunque. I pareri giudiziari di Wainwright rivelano la stessa dispersività, pieni come sono di deboli allusioni e metafore forzate. I docenti di legge premiano la sua confusione letteraria dicendo che la sua scrittura ha stile. Ma forse è la mia propensione al grigiore a rendermi invidioso. «Ebbene, tuo padre gestiva la cosa nel modo migliore. Noi potevamo provare diffidenza, gli altri giudici e specialmente i cancellieri, ma tuo padre era amichevole come sempre.» Un altro sorriso, tenue, nostalgico, e mi chiedo se per caso non mi stia prendendo in giro, poiché il Giudice era molte cose, alcune delle quali ammirevoli, ma di certo non amichevole. «Sai, ora che ci penso suppongo che tuo padre avesse avuto molto tempo per prepararsi, per pensare a come comportarsi se il fulmine l'avesse colpito. Ricorderai che non fu esattamente una sorpresa. Tuo padre era uno dei finalisti, era su tutti i giornali e la gente parlava di lui già nell'80, subito dopo le elezioni. Sì. Subito dopo le elezioni. A dire il vero, quando Reagan venne eletto, uno di quei reazionari - perdonami, senza offesa nei confronti di tuo padre -, un esponente di quei centri di ricerca conservatori dichiarò ai giornali che tuo padre era il possibile successore del giudice Marshall. Disse qualcosa di offensivo, tipo: "Spero che Thurgood stia tenendo caldo il seggio di Oliver". O qualcosa di simile.» Avevo dimenticato l'atmosfera di quel periodo, ma il racconto del giudice Wainwright me la fa tornare in mente in modo travolgente. Ricordo perfino, per la prima volta da anni, la dichiarazione che ha appena citato. Ne
ero rimasto indignato, come quasi tutti coloro che conoscevo, compreso mio padre. Indignato dal modo in cui si presumeva, per esempio, che alla corte suprema potesse esserci soltanto un giudice nero alla volta. E che l'intervistato desse del tu tanto a mio padre quanto al grande Thurgood Marshall. E poi la scelta razzista - non c'è altro modo per descriverla - di chiamare entrambi i giuristi con i loro nomi di battesimo. Non riesco a rammentare frasi simili, sulla falsariga di "spero che Lewis stia tenendo caldo il seggio di Bob", con un giudice e un candidato bianchi. Per uno strano, fulgido istante sacrificale, mio padre soppesò l'idea di ritirare il proprio nome da quelli sotto esame per la corte suprema, ma poi la vistosa ambizione ebbe ancora una volta la meglio. «Me ne ricordo» mi limito a dire. «Fu una dichiarazione terribile, Misha, terribile, e tuo padre era furioso. Ma questa corte... sono decenni che intorno alle nomine regna un'atmosfera circense. Se non peggio. È un fenomeno che risale quantomeno a Brandeis. Forse addirittura a Salmon Chase, o a Roger Taney. Conosci le bufere che hanno causato le loro nomine! Ma sto divagando, e so che ti sto annoiando. Ma non era dell'atmosfera che regnava al palazzo di giustizia, che volevi sapere. Volevi sapere di tuo padre in quel periodo, giusto?» «Sì. Tutto quello che sente di potermi dire.» «Mmh.» Wainwright ha rivelato un nuovo tic nervoso. Si sta tormentando i radi capelli con una mano mentre tamburella con le dita dell'altra sul bracciolo della sedia. Fare entrambe le cose allo stesso tempo rivela in realtà una notevole coordinazione, come quella del giocoliere che nello stesso tempo danza su una palla. «Come ti ho detto, Misha, tuo padre era... incandescente. Ma non sempre. Anche prima che esplodesse lo scandalo, c'erano momenti in cui lo sorprendevo con la guardia abbassata e mi sembrava... suppongo che la parola giusta sia teso. Preoccupato per qualcosa. Sì. Ci incontravamo nell'ascensore dei giudici e, vedendolo in ansia, gli chiedevo se ci fosse qualcosa che non andava. Gli ricordavo che avrebbe dovuto camminare a un metro da terra. Sì. E lui scrollava le spalle borbottando che in quelle udienze poteva venir fuori di tutto. "Guarda Fortas" disse una sera mentre scendevamo in garage. "Ha preso del denaro da una fondazione in modo del tutto legale e l'hanno distrutto."» Wainwright storce la bocca in segno di compassato disgusto. «Non che il problema di Fortas fosse la legalità, naturalmente. Aveva preso il denaro da... be', da un losco personaggio.» A questo punto, drizza la schiena. «Credo di vedere la somiglianza.»
Sono sbigottito. «Non starà dicendo... mio padre non...» «Se aveva preso dei soldi? Oh, no, no, niente del genere. Scusami, Misha, non volevo darti quell'impressione.» Wainwright arriva addirittura a ridere. «Tuo padre che prende dei soldi. Questa sì che è bella. So che girava qualche voce malevola in merito, ma io lo conoscevo meglio di chiunque altro, avevo affrontato con lui centinaia di casi nel corso degli anni. L'avrei saputo. Tutti l'avremmo saputo. Neanche per sogno. Che sciocchezza. Sto soltanto cercando di spiegarti che tuo padre era nervoso, che temeva venisse fuori qualcosa, un fatto del tutto innocente che sarebbe stato trasformato in qualcosa di completamente diverso.» «Lei aveva la minima idea, al momento, di cosa potesse essere quel qualcosa?» «No, no. E come avrei potuto? Tuo padre era... com'è quella frase? Ah, sì, un uomo di trasparente rettitudine. Un curriculum impeccabile, un bellissimo matrimonio, dei bravi figli. Una carriera esemplare. Nessuno avrebbe potuto pensare che uno scandalo potesse essere collegato a una persona simile. Tuo padre era un grand'uomo, Misha, qualsiasi cosa sia accaduta. Non devi dimenticarti della sua grandezza.» Sta cercando di tranquillizzarmi, lo so, ma la sua sicurezza è sconcertante. Al funerale anche Mallory Corcoran ha citato la grandezza di mio padre, e io ho avuto la sensazione che stesse parlando del passato. Adesso mi chiedo se Wallace Wainwright non stia dicendo la stessa cosa. Per un difficile momento, il suo compiacimento mi infastidisce. Mi infastidisce, lo so fin troppo bene, perché Wainwright è bianco e intoccabile. Anche il Giudice era così compiaciuto? Lo sarebbe stato se la sua nomina fosse stata confermata? Sì, suppongo che lo fosse, e sì, suppongo che lo sarebbe stato, tranne che si sarebbe comportato anche peggio. Ma sarebbe stato diverso. E non perché è - era - mio padre. Dopo tutti questi secoli di sofferenza, c'è ancora un abisso, una voragine, un baratro enorme fra il compiacimento di un bianco di successo e il compiacimento di un nero di successo. Immagino che i bianchi trovino il primo molto più facile da sopportare. Ma non i neri. Quantomeno, non questo nero. Ciò nonostante, devo andare avanti. Non sono qui per giudicare Wallace Wainwright. Sono qui per raccogliere informazioni. Sono qui per le disposizioni. Perché c'è poco tempo. Perché devo sapere. «Giudice Wainwright, se per lei non è un problema vorrei chiederle cosa accadde... dopo che esplose lo scandalo.»
«Ma certo.» Si posa le mani su un ginocchio con fare da scolaro attento. Ma la sua generosità sembra forzata, come se stessi riaprendo una ferita. E forse è proprio quello che sto facendo. «Ricorda i registri di sicurezza che vennero presentati alle udienze? Quelli su cui erano segnate le visite di Jack Ziegler?» Annuisce lentamente. «Vorrei non ricordarli. Fu un triste momento.» Se è stato triste per lei, arrivo quasi a dire, pensi cosa è stato per noi. Fino alla comparsa dei registri, immagino, avevo più o meno creduto a mio padre, che negava sotto giuramento le visite di Jack Ziegler. Ero pronto ad accettare il fatto che Greg Haramoto fosse, per qualche turba mentale o per pura e semplice perversione, uno spergiuro. E perfino dopo che i democratici avevano fatto saltar fuori i registri, quando ormai mia madre si rifiutava di parlare dell'argomento, Mariah e io stavamo alzati fino a tardi a discutere sull'ipotesi (ventilata da mia sorella) che i registri fossero stati falsificati. Ma a Wallace Wainwright posso dire ben poco di tutto questo. «Sì, lo è stato. Un momento tristissimo. Ma mi permetta di farle una domanda. Crede che mio padre avesse mentito negando di aver ricevuto Jack Ziegler al palazzo di giustizia?» Wainwright è ormai palesemente nervoso; ci siamo addentrati in un territorio da cui preferirebbe tenersi alla larga, e mi rendo conto troppo tardi di quanto mi assomigli, poiché anch'io odio comunicare una brutta notizia di persona. Nell'attesa, noto con sorpresa una fotografia che prima mi era sfuggita: Wainwright e mio padre in piedi su una piccola imbarcazione, intenti a mostrare la pesca del giorno. Il fatto che abbia tenuto appesa la fotografia nel suo ufficio alla corte suprema mi commuove. Mi rendo conto con gratitudine che il suo affetto per mio padre non è finto; che Wallace Wainwright non ha mai tagliato i ponti con lui come hanno fatto altri amici; e che è venuto al funerale perché stavamo seppellendo un uomo che ammirava. Di sua spontanea volontà non parlerà mai male di mio padre. E così, ancora prima che apra bocca, mi sono fatto una vaga idea di ciò che sta per dire. «Misha, cerca di capire, tuo padre era in una posizione difficile. Una posizione difficile. Sì. Ovviamente non dava una grande importanza alle visite di Ziegler. Perdonami. È stata la prima volta che ho visto Oliver sopraffatto. Non riusciva a credere che la si considerasse una cosa così importante. Per lui, per tuo padre, quelle visite erano semplici gesti di amicizia, occasioni per dare conforto al suo compagno di studi che si era cacciato nei pasticci. Ricordi cosa diceva tuo padre dell'amicizia? Aveva
qualcosa a che fare con i mattoni.» Ho le parole pronte: «"L'amicizia è una promessa di futura lealtà, qualsiasi cosa accada. Le promesse sono i mattoni della vita, e la fiducia è la malta"». «Esatto. I mattoni e la malta.» Di nuovo quel suo sorriso storto, che gli dona l'espressione serafica adorata dai suoi seguaci. «Dunque, capisci. Per tuo padre era tutto così terribilmente ingiusto. In televisione, al cospetto del paese, sotto i riflettori dei media le visite sembravano qualcosa di sinistro. Ma per tuo padre erano innocenti prove di amicizia. Innocenti. Sì. Credo che avesse semplicemente deciso che non c'era modo di spiegarle... nessuno che suonasse sensato in quell'aula. E così negò tutto. Tu sei un semiotico. Sai cosa sto cercando di dire. Sì. Tuo padre non intendeva affermare che non ci fosse stato alcun incontro. Stava negando l'esistenza degli incontri come venivano costruiti dai suoi critici, non come li vedeva lui stesso. Se la domanda fosse stata: "Ha incontrato Jack Ziegler spinto da uno spirito di lealtà e di amicizia e l'ha incitato a non abbattersi in un momento così difficile?", o qualcosa di simile, credo che forse Oliver avrebbe dato una risposta più accettabile.» Nota qualcosa nel mio volto. «Perdonami, Misha, so che questa non è esattamente la risposta che volevi.» «Voglio soltanto capire. Lei mi sta dicendo che mio padre ha mentito. Il nocciolo della sua risposta è questo, vero? Che ha mentito sotto giuramento?» Wainwright sospira. «Sì, Misha. Mi dispiace. Credo proprio che tuo padre abbia mentito.» «Dunque, Jack Ziegler era stato veramente al palazzo di giustizia... e a più riprese.» «Tre volte, credo.» Greg Haramoto era al corrente soltanto di una visita. I registri del tribunale avevano rivelato le altre. «Mi sembra di sì. Tre incontri, tutti dopo gli orari d'ufficio.» «Sì. Dopo gli orari d'ufficio.» Ora tocca a me scorgere qualcosa nel suo volto. Abbassa per un attimo gli occhi. Non ho idea di cosa lo possa turbare. Ma poi capisco. «Lei sapeva» dico in tono sommesso e stupito. «Prego?» «Oh, no. Lei sapeva. Li aveva... li aveva visti in corridoio, o qualcosa del genere. Forse era passato dall'ufficio di mio padre a fine giornata e vi aveva trovato Jack Ziegler. Ma in un modo o nell'altro... in un modo o nell'altro lo sapeva, non è vero? Sapeva che mio padre aveva incontrato
Jack Ziegler.» Sposta lo sguardo verso la finestra più lontana, come se la vista della biblioteca del Congresso in fondo alla collina potesse farlo uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato. «Quello che sto per dirti è confidenziale. Non stai scrivendo un libro di memorie, un articolo per l'"Atlantic" o cose simili, vero?» «Confidenziale» rispondo. Accetterei quasi tutto pur di farlo parlare. «Se mi citi, negherò.» «Me ne rendo conto.» Wallace Wainwright sospira. «Sì, Misha, lo sapevo.» Parla rivolto al muro. «Li vidi insieme, come hai detto tu. Ma non in corridoio. Nell'ascensore. Nell'ascensore riservato ai giudici. Una sera tardi. Saranno state, mah, le dieci. Forse più tardi. Non feci attenzione all'ora, perché al momento non vi diedi una grande importanza. Comunque, ricorderai che il mio ufficio e quello di tuo padre erano sullo stesso piano. Avevo chiamato l'ascensore, e quando arrivò c'erano dentro tuo padre e un uomo che sulle prime non riconobbi. Sembravano entrambi sorpresi di vedermi. Ripensandoci, immagino che tuo padre credesse che tutti gli altri giudici avessero lasciato l'edificio, e che usare l'ascensore riservato fosse un buon modo per far entrare il signor Ziegler riducendo al minimo le possibilità di essere visti. Non lo so. In ogni caso, come ho detto, rimasero alquanto sorpresi nell'incontrarmi. Alquanto sorpresi. Ma Oliver non si lasciava mai prendere alla sprovvista. Fece le presentazioni. Descrisse l'uomo che era con lui come il suo vecchio compagno di stanza al college, credo, e sulle prime io non feci caso al nome.» «Sulle prime?» «Forse quella sera ero un po' ottenebrato. Me ne resi conto un paio di giorni dopo. Quell'uomo nell'ascensore non era un semplice Jack Ziegler... era quel Jack Ziegler. Un uomo accusato di omicidio, di estorsione e non so cos'altro. Nel palazzo di giustizia insieme a un giudice federale. Il che mi mise come minimo a disagio. E indeciso sul da farsi. Molto indeciso. Forse avrei dovuto parlarne subito con tuo padre. Forse avrei dovuto esporre il problema al giudice capo. In quell'occasione non mi comportai in modo ammirevole. Non ne parlai con nessuno. Suppongo di aver pensato che tuo padre avesse le sue ragioni. Dopo tutto lo rispettavo, lo consideravo un uomo di profonda integrità. E continuo a farlo.» «Anche se ha mentito sotto giuramento.» «Quello fu un terribile, terribile errore, Misha. A essere sincero, lo con-
siderai un gesto disonorevole. Mentire sotto giuramento! Prima ti ho detto che lo capivo, ma non voglio che tu pensi che io lo approvassi. Nemmeno per sogno. Tuo padre fece bene a ritirarsi. Fu un gesto nobile. O lo sarebbe stato, se solo avesse dimostrato... be', del pentimento. Pentimento. Sì. Tuo padre... lo so, Misha, che questo è difficile per te. Ma il fatto è che non è mai sembrato ammettere di aver fatto qualcosa di sbagliato, come ricevere in tribunale un uomo in procinto di essere processato per omicidio o mentire sotto giuramento. Sfortunatamente, come molti altri candidati sconfitti, tutto quello a cui tuo padre riusciva a pensare era il movente di chi aveva smascherato le visite. Ma devo chiederti scusa un'altra volta. Sei venuto a cercare conforto e io ti ho fatto un discorso, un discorso doloroso.» «No, va bene. So che mio padre ha mentito.» Una pausa. «Ma c'è una cosa che non capisco. Se lei era al corrente delle visite di Jack Ziegler fin da quando si erano verificate, perché non ne parlò con nessuno ai tempi delle udienze?» È talmente rapido a rispondere che di certo aveva previsto la domanda. «Nessuno me lo chiese. L'Fbi non venne mai a interrogare gli altri giudici, lo sai.» «Avrebbe potuto offrire volontariamente l'informazione. Avrebbe risparmiato molte pene a Greg Haramoto.» «Oh, Misha, ti prego! Un giudice che fa la spia ai danni di un collega. È impensabile. Sono cose che non si fanno. E non sono nello spirito della Costituzione. Il potere legislativo dipende dall'idoneità dei candidati alle cariche giudiziarie. Non sarebbe stato giusto se io, un membro della terza sezione, avessi cercato di influenzare in qualsiasi modo una nomina.» Wallace Wainwright mi piace, forse perché piaceva a mio padre, ma sono sbalordito dalla fiducia che nutre sia in se stesso che nelle proprie opinioni, il sottinteso delle quali è spesso che se una legge non gli piace dev'essere incostituzionale. «Lo apprezzo» dico dopo un istante, niente affatto sicuro che sia vero. Mi chiedo se Wainwright non si sia tenuto alla larga dai guai di mio padre proprio per proteggere se stesso. Non so se è impensabile che un giudice faccia la spia ai danni di un collega, ma di sicuro non aiuterebbe nessuno dei due ad arrivare alla corte suprema. «C'è però un'altra cosa che ho bisogno di capire.» «Ma certo» dice Wainwright sforzandosi di tenere a bada la propria impazienza. «Quando mio padre... vedeva Jack Ziegler, lo faceva di sera.»
«Sì. Sul tardi, come ho detto.» «Non era insolito, vero, che mio padre si trattenesse in tribunale fino a tardi?» «Insolito?» Sorride. «No, Misha, niente affatto. Lavoravo molto anch'io, ma non come Oliver. Non ti devi scordare che genere d'uomo era. Che genere di giudice. Per quanto riguarda i dettagli era... hai presente il vecchio modo di dire?, un vero demonio. Ricordo una controversia verbale, un appello per una condanna penale, in cui il legale dell'accusato fece lo sbaglio di giocare sulla vanità di tuo padre, citando un parere contrario che aveva sottoscritto ai primi tempi in cui era giudice. "Avvocato" gli chiese tuo padre "sa quante volte questo problema è stato sottoposto a questa corte da quando ho scritto quelle parole?" Il poveraccio non lo sapeva. "Diciassette volte" disse tuo padre. "E sa quante volte la corte ha respinto questo approccio? Diciassette volte. E sa quanti di quei pareri sono stati sottoscritti da me?" Oh, quel povero avvocato! Fece ciò che qualsiasi studente del primo anno impara subito a non fare: tirò a indovinare. "Diciassette, vostro onore?" Cadde in trappola, capisci? "Nessuno" rispose tuo padre. "Rimango fedele al punto di vista da lei citato." L'intera aula scoppiò a ridere, ma non l'avvocato né tuo padre. Lui non stava scherzando, gli stava impartendo una lezione. E non riuscì a resistere alla tentazione di aggiungere una battuta finale. "Le mie opinioni non contano, avvocato. In una corte d'appello federale dovrebbe citare la legge della giurisdizione, non i punti di vista dei singoli giudici. Forse ricorda di averlo studiato all'università."» Chiudo gli occhi per un istante. Posso facilmente immaginarmi il Giudice mentre usa la propria arguzia in modo così crudele, poiché lo faceva di continuo. Wainwright non ha finito. «Vedi, Misha, il più delle volte la propensione di tuo padre per i dettagli non faceva del male a nessuno. Per esempio, ogni volta che si presentava un caso che coinvolgeva, che so, una norma dell'ente per la protezione ambientale, lui insisteva a leggere di persona tutti i precedenti invece di lasciarlo fare ai cancellieri come facevamo quasi tutti. E stiamo parlando di materiale che poteva arrivare a più di ventimila pagine. "Se riesco a leggere Trollope" diceva "ce la posso fare." O mettiamo ci fosse un caso in cui una delle parti contendenti era palesemente una società di comodo, registrata alle isole Cayman o nelle Antille Olandesi. Tuo padre pretendeva che la società presentasse una lista, firmata e sigillata, naturalmente, dei suoi veri proprietari, e non soltanto delle scatole cinesi dietro cui si na-
scondevano. O se si trattava di un gruppo di interesse pubblico, chiedeva un elenco dei donatori.» Malgrado la mia missione, sono affascinato. «Poteva farlo?» «Be', non da solo. C'era bisogno di un'ingiunzione da parte della commissione che esaminava il caso. E visto che la commissione era formata da tre giudici, almeno due dovevano acconsentire alla richiesta. Ma c'era sempre l'unanimità, quantomeno nei casi che ricordo. Una questione di cortesia fra magistrati, suppongo.» «E le aziende presentavano le documentazioni?» «Cos'altro potevano fare, appellarsi alla corte suprema? Anche se questa avesse prestato attenzione alla richiesta di sospensione, ipotesi molto improbabile, e addirittura se l'avesse concessa, ipotesi ancora meno probabile, che risultato avrebbe raggiunto l'azienda appellandosi? Te lo dico io. Avrebbe irritato almeno un giudice, e forse due o tre. Anche se la sospensione fosse stata concessa, e l'azienda non avesse dovuto presentare la documentazione, si sarebbe comunque ritrovata di fronte alla stessa commissione. E chi ha voglia di fronteggiare tre giudici che hai appena fatto infuriare appellandoti contro quella che a loro sembrava un'innocua disposizione?» Wainwright si concede una lieve risatina nostalgica. «Ah, se era divertente, tuo padre! E un giudice così sottile. Così sottile.» Ma so cosa sta pensando veramente, come me: "Che spreco. Che spreco". Guardando il suo volto triste, per un attimo sono tentato di chiedergli se abbia mai sentito mio padre pronunciare la parola "Excelsior", o parlare di una certa Angela, la quale potrebbe avere un amante. Mi chiedo se sapesse che mio padre possedeva una pistola. O il motivo per cui l'aveva voluta. Ma non riesco a formulare queste domande, forse perché mi farebbero sentire troppo come... come il giornalista senza nome di Quarto potere alla ricerca di "Rosebud". E così passo direttamente alla domanda che è l'unica vera ragione della mia visita. «Giudice Wainwright...» Noto che, nonostante la lunga amicizia tra le nostre famiglie, non mi ha invitato a chiamarlo in altro modo. «Questa... non è una domanda facile.» Fa un gesto magnanimo, e io continuo. «Qualche minuto fa ha fatto un commento sul... sul denaro...» «Lascia che ti preceda, Misha. Ti stai chiedendo la stessa cosa che la stampa ha continuato a chiedersi per un paio d'anni dopo le udienze, se fra tuo padre e Jack Ziegler ci fosse qualcosa che andava oltre l'amicizia, giusto? La stessa cosa che volevano sapere tutte quelle commissioni del Congresso. Mi stai chiedendo se penso che tuo padre facesse favori al suo vec-
chio compagno di stanza. Mi stai chiedendo, al di là dei soldi, se fosse un giudice corrotto.» Ora che le parole sono state pronunciate, sembrano meno spaventose. Posso affrontare la risposta. «Sì, signore. È esattamente quello che vorrei sapere.» Il giudice Wainwright aggrotta la fronte e tamburella con le dita sulla scrivania. Più che abbassare lo sguardo lancia un'occhiata verso la parete destra, la parete dell'amor proprio, da dove la foto che lo ritrae insieme al Giudice durante una partita di pesca continua a sorprendermi, poiché un animale politico come Wallace Wainwright dovrebbe averla staccata già da tempo. Poi mi ricordo di come avesse offerto al Giudice un aiuto quando le udienze avevano preso una piega dolorosa, e di come fosse stato pronto a testimoniare di persona sulla sua onestà, senza badare ai danni che avrebbe arrecato alla propria carriera. Mio padre, pur grato, respinse la sua offerta. Ma al ricordo, il mio affetto per Wallace Wainwright torna a farsi intenso. Il giudice sta ancora riflettendo. Lascio che il momento passi. Finalmente la sua testa quasi calva torna a voltarsi verso di me e un sorriso gli contrae gli angoli delle labbra. «No, Misha. La risposta è no. Tutti quegli investigatori, tutte quelle commissioni, tutti quei giornalisti non hanno trovato niente. Non devi dimenticarlo. Non hanno trovato niente. Non una singola cosa. La ragione è che non c'era niente da trovare. Tuo padre era un uomo di enorme integrità, Misha, come ti ho detto. Non devi perdere di vista questa verità, qualsiasi cosa abbia fatto.» Mi rendo conto che si sta riferendo alle sue opinioni politiche, alla sua tarda carriera di oratore, e non allo scandalo. «Ti prego di non pensare neanche per un istante che tuo padre stesse facendo qualcosa che andava contro l'etica giudiziaria. Ti prego di non credere che fosse corrotto. Cancella quel pensiero. Tuo padre non avrebbe venduto il suo voto su un caso più di quanto...» esita cercando la similitudine giusta, poi fa un sorriso malizioso per dirmi che l'ha trovata «be', più di quanto l'avrei fatto io» conclude con un sorrisetto modesto, rendendosi forse conto di aver rispettato alla perfezione la sua immagine di moderato egocentrismo. Ho quasi finito. Mi resta da chiarire un ultimo dubbio. «Ma se mio padre era un uomo così integro e così intelligente...» Esito, chiedendomi se Wainwright abbia detto esplicitamente che mio padre era intelligente. Non riesco a ricordarlo, e quando gli intellettuali bianchi parlano di quelli neri non è una questione di scarsa importanza. «Se era così
onesto e brillante, perché ha ricevuto Jack Ziegler al palazzo di giustizia? Avrebbe potuto vederlo da qualsiasi altra parte. A casa, su un campo di golf, in un parcheggio. Perché correre il rischio?» Lo sguardo di Wainwright si fa sfocato e distante, e il sorrisetto triste ricompare. Quando finalmente si pronuncia, sulle prime penso che stia rispondendo a una domanda diversa da quella che gli ho fatto, ma poi mi rendo conto che ha bisogno di tracciare il preambolo. «Sai, Misha, con tuo padre non ho mai tirato in ballo la questione di Jack Ziegler. È stato lui a farlo. Uscimmo a cena, saranno stati sei, sette, forse otto mesi dopo... le sue dimissioni dalla corte. Sì. A quel punto non era ancora il... il rabbioso polemista che sarebbe presto diventato. Era sempre disperato. Confuso, credo. Sì. Confuso. Non riusciva ancora a capire come avesse fatto la situazione a rovesciarsi così in fretta. E mi chiese - l'unica volta in cui mi abbia mai chiesto un consiglio! - cosa avrei fatto io se fossi stato al suo posto. Riguardo a Jack Ziegler. Gli risposi che non sapevo come mi sarei comportato. Suppongo che stessi cercando di essere diplomatico. Ma poi capii di averlo frainteso. "No, no" disse lui. "Non parlo delle udienze. Parlo di prima. Se fosse stato tuo amico, l'avresti abbandonato?" Capii che stava parlando delle visite di Ziegler al palazzo di giustizia. E mi feci la stessa domanda che ti sei posto tu. Gli dissi che se avessi capito di dover vedere un amico nei guai, e se quell'amico fosse stato circondato anche soltanto da un vago sentore di scandalo, l'avrei incontrato in un luogo riservato. Tuo padre annuì. Sembrava molto triste. Ma questo fu ciò che mi disse, Misha: "Non ho avuto scelta". Qualcosa del genere. Gli chiesi cosa intendeva, perché avesse dovuto ricevere Jack Ziegler nel suo ufficio privato, ma lui si limitò a scuotere la testa e cambiò argomento.» Un'esitazione prima di rivelarmi l'ultima verità. «Quella sera tuo padre non era in sé, Misha. Probabilmente non sapeva cosa stava dicendo.» Wainwright si interrompe all'improvviso. Mi chiedo se fosse sul punto di rivelarmi che mio padre aveva ripreso a bere. Giunge le mani davanti alla bocca, poi le stacca e mi scocca un sorriso triste. «Ricorda la sua grandezza, Misha. È quello che cerco di fare io.» D'un tratto, senza alcuna spiegazione, sono furioso. Con il Giudice per la sua lettera ermetica, con lo zio Mal perché non si fa trovare, con il defunto Colin Scott per avermi perseguitato, con Lynda Wyatt, Marc Hadley, Cameron Knowland e con tutti coloro che mi hanno condotto qui. Ma al momento sono soprattutto furioso con Wallace Warrenton Wainwright. «Voglio ricordare mio padre per quello che era» dico con calma. Ma non
aggiungo: prima devo soltanto scoprire chi era. Dieci minuti dopo esco dalla porta principale dell'edificio, scendendo la ripida scalinata di marmo e oltrepassando gruppi di turisti infreddoliti che attendono di sbirciare all'interno del tempio del nostro oracolo nazionale. Sì, il giudice aggiunto Wallace Wainwright è un egocentrico, ma è proprio su quell'ego che sto facendo affidamento. Se Wainwright è disposto a mettere mio padre al suo stesso, elevato livello, significa che crede a ciò che dice. Conclusione: il Giudice non aveva venduto il proprio voto a Jack Ziegler e ai suoi amici. E allora che cosa stava facendo? So cosa stava cercando di dirmi Wainwright alla fine, malgrado non sia riuscito a formulare le parole: crede che il Giudice avesse ricevuto lo zio Jack nel suo ufficio privato perché voleva che qualcuno li vedesse. In breve, perché voleva essere sorpreso insieme a lui. Ma se ha ragione, la domanda è: sorpreso a fare cosa? 21 UN VIAGGIO INTORNO AL DUPONT CIRCLE La conferenza sull'illecito si tiene al Washington Hilton Hotel and Towers in Connecticut Avenue, pochi isolati a nord del Dupont Circle. Dopo l'incontro con il giudice Wainwright non torno subito in albergo; sono alla disperata ricerca di distrazioni. Mi faccio lasciare da un taxi in Eye Street per tornare nella libreria che ho visitato l'ultima volta che mi trovavo in città; il proprietario non solo si ricorda di me, ma mi assicura di essere sulle tracce del libro di Fischer che gli ho chiesto. Chiacchieriamo di qualche altro argomento, quindi proseguo per qualche isolato fino a L Street e faccio un salto da Brooks Brothers alla vana ricerca della cravatta giusta da indossare con una giacca di seta gialla che Kimmer mi ha comprato durante il suo ultimo viaggio a San Francisco: un altro trofeo per il secondo posto da aggiungere alla mia collezione. Acquisto due paia di calze, poi fermo un taxi e rientro in albergo per seguire le tavole rotonde del pomeriggio. Mentre il tassista svolta alla fine dell'isolato e si dirige a nord sulla Twentieth Street, mi abbandono sul sedile e cerco di rilassarmi. Malgrado la tensione riesco addirittura ad assopirmi, cosa necessaria in questi giorni di ansietà in cui devo riposare quando posso. Poi il taxi svolta a destra su New Hampshire Avenue, e a un tratto il
conducente dice: «Non fatti miei, signore, ma lei sa che auto dietro ci segue?». Completamente sveglio, mi giro sul sedile. «Quale auto?» «Piccola macchina verde. Là. Vista?» La vedo. Si tiene a due o tre auto di distanza, ed è una di quelle berline americane fatte con lo stampino. «Come fa a sapere che ci sta seguendo?» «Dopo che la carico, faccio giro isolato per prendere direzione giusta.» Per rimpinguare la tariffa, vuol dire; a Washington, dove non esistono tassametri, tutto ciò che conta è quante zone il taxi attraversa, e i conducenti scelgono spesso una strada piuttosto che un'altra per attraversare i confini fra le zone. «Anche auto verde fa giro di isolato. Io svolto a destra, lei svolta a destra. Poi un'altra volta. Nel mio paese vedo spesso auto fare questo. Auto di polizia segreta.» Splendido. Rifletto velocemente. Non so bene chi possa essere il pedinatore ora che Scott è morto, ma essendo di nuovo a Washington non riesco a scacciare del tutto dalla mente le fotografie di quello che è stato fatto a Freeman Bishop. Conan o non Conan, arresto o non arresto, sento un brivido freddo. Ragiona! Entro una trentina di secondi, il mio taxi si immetterà nella snervante confusione del Dupont Circle, che soltanto i forestieri più stolti e gli automobilisti più esperti di Washington osano affrontare; poiché sul Dupont Circle devi cambiare corsia in modo rapido ed efficiente, a seconda di quale delle innumerevoli trasversali hai intenzione di imboccare, percorrendo nel contempo un rondò in senso antiorario, evitando automobilisti confusi quanto te e pedoni che si lanciano da un'isola di cemento all'altra. Sto ancora guardando l'auto verde alle nostre spalle. L'autista è una chiazza grigia dietro il parabrezza; sembra esserci anche un passeggero, ma è difficile dirlo. Probabilmente il mio tassista si sbaglia. Ma forse ha ragione. Forse qualcuno vuole vedere dove sono diretto. È poco plausibile, lo so, ma l'auto verde esiste davvero. E, chiunque vi sia a bordo, scopro che la cosa non mi piace affatto. «Quando arriva sul Dupont Circle, prenda la corsia per Massachusetts Avenue.» «In quale direzione?»
«Sud, o est, qualunque sia quella che porta al Campidoglio.» «Lei detto Washington Hilton, in Connecticut Avenue.» Siamo fermi all'ultimo semaforo prima del Circle. La berlina verde è ora ad appena due auto di distanza. Il sedile di destra è occupato da qualcuno. «Qual è la tariffa fino all'Hilton?» Il mio tassista formula una cifra. Controllo nel mio magro portafoglio, ne estraggo un biglietto da venti dollari e con una smorfia lo faccio cadere oltre lo schienale. Lui capisce immediatamente che può tenersi il resto. «Svolti per Massachusetts Avenue, poi prenda la prima a destra dietro quell'edificio grigio. Quello sull'angolo.» Lo indico. Lo conosco bene, avendovi lavorato in uno studio legale ai tempi in cui Kimmer e io avevamo una relazione alle spalle del suo primo marito, pretendendo di tenerla segreta quando in realtà lo sapevano tutti. Il tassista non dice nulla. Si sta senza dubbio chiedendo per quale ragione stia cercando di sfuggire all'auto verde. A dire il vero, me lo sto chiedendo anch'io. Ma preparo comunque un piano, caso mai venisse fuori che non sto delirando. «Tenga il resto» gli comunico. Nessuna risposta. «Quando arriva in Massachusetts Avenue, vada il più veloce possibile» proseguo. «Poi svolti sulla Eighteenth, senza rallentare.» Gli occhi circospetti del tassista incrociano i miei nello specchietto. Questa faccenda non gli piace. Le auto che seguono altre auto per lui significano polizia. Nel suo paese, qualunque esso sia, quelli della polizia sono i cattivi. E qui in America?... «Senta» riprendo pescando un altro biglietto da venti dalla mia esigua riserva di contanti. «Non sono un criminale, e gli uomini a bordo di quella macchina non sono della polizia.» Il tassista alza le spalle. Non fa promesse che sarebbe poi costretto a mantenere. Però non mi dice di riprendermi i soldi. Il semaforo scatta sul verde e il taxi parte così all'improvviso che stasera mi ritroverò probabilmente al pronto soccorso a farmi curare il colpo di frusta. Mi abbasso e guardo indietro. Mentre il tassista serpeggia nel traffico, l'auto verde ci segue. Mi giro. L'autista non ha imboccato la corsia di Massachusetts Avenue! Ha deciso di non collaborare! Sto cercando di offrirgli un ulteriore incentivo quando, senza alcun preavviso, il taxi scavalca il marciapiede e salta nella corsia giusta, infilandosi in mezzo ad altri automobilisti che strombazzano spaventati. Un gruppo di pedoni corre al riparo. Mentre l'auto verde resta indietro, mi chiedo di sfuggita come si guadagnasse da vivere il mio tassista e cosa l'abbia costretto a fuggire in Ame-
rica con una conoscenza così approfondita di come la polizia del suo paese svolge l'attività di sorveglianza. E di come sfuggirle. Probabilmente, è meglio non saperlo. Attraversiamo al volo il complicato incrocio e svoltiamo decisi in Massachusetts Avenue. L'auto verde è ferma al semaforo, e nella corsia sbagliata. La portiera destra si apre di scatto nell'istante in cui giriamo l'angolo dell'edificio grigio. «Rallenti un attimo» dico al tassista non appena l'auto verde è fuori dal mio raggio visivo. So che ci raggiungerà a momenti, e il passeggero, che può farsi strada fra le auto ferme, ancora prima. Ho pochi secondi di tempo. Allungo un'altra banconota al tassista, dieci dollari: non ho più biglietti da venti. Lui sta scuotendo la testa, ma rallenta. Apro la portiera e rannicchiandomi scendo dall'auto ancora in movimento. «Adesso vada!» grido sbattendo la portiera. Non ho bisogno di ripeterglielo. Mentre il taxi supera l'angolo successivo con uno stridore di gomme, mi sto già tuffando nello stretto vicolo che separa il retro dei miei ex uffici da una vecchia casa a schiera sede di un istituto privato. Il vicolo termina con l'ingresso di servizio dell'edificio. Videocamere in condizioni dubbie sorvegliano la scena. Mi acquatto dietro uno squallido cassonetto dell'immondizia nel preciso istante in cui il mio inseguitore supera di corsa il vicolo. Sgrano gli occhi, reprimendo un tremore improvviso agli arti. Attendo, poiché l'istinto mi dice che non è finita. Controllo il mio orologio. Passano tre minuti. Quattro. Il vicolo puzza di vecchi rifiuti e orina recente. Per la prima volta mi rendo conto di avere compagnia: un senzatetto, i suoi possedimenti accatastati intorno a lui in sacchetti di cellofan, è profondamente addormentato accanto all'area di carico dell'edificio. Continuo a osservare la strada. Finalmente vedo passare l'auto verde: avanza piano, con l'autista invisibile probabilmente concentrato sulle siepi, sugli androni... e sui vicoli. Mi chiedo come mai non stiano rincorrendo il taxi. Devono avermi visto scendere. Mi ritraggo ancora di più nella penombra. L'auto verde è scomparsa. Continuo ad aspettare. Un movimento sopra il cassonetto attira la mia attenzione, ma è soltanto un malridotto gatto nero che rosicchia qualcosa di disgustoso. Non sono un tipo superstizioso. O almeno non credo di esserlo. Aspetto. Il senzatetto russa, un borbottio rauco che mi ricorda i tempi in cui il Giudice si chiudeva a chiave nel suo studio. Trascorrono
dieci minuti. Di più. Come volevasi dimostrare, il passeggero dell'auto verde passa un'altra volta davanti al vicolo, avendo evidentemente compiuto il giro dell'isolato. L'auto riappare. La portiera si apre. I due sembrano discutere. Il passeggero indica la strada, più o meno nella direzione del mio nascondiglio, poi si stringe nelle spalle e sale in macchina. L'auto verde riparte, ma io attendo. Resto accovacciato nel vicolo per quasi mezz'ora prima di scivolarne fuori e immettermi nel flusso pedonale. Poi torno sui miei passi e infilo la mia ultima banconota da dieci dollari nella tasca del senzatetto. Un altro obolo al senso di colpa. Di ritorno sul marciapiede, attraverso Massachusetts Avenue e gironzolo per il Dupont Circle, fermandomi ai tavolini di pietra per gli scacchi, fingendo di seguire le partite ma in realtà allungando il collo alla ricerca dell'auto verde e del suo furtivo passeggero. Passo da un tavolino all'altro, guardando di sfuggita le posizioni sulle scacchiere. I giocatori formano un vero e proprio arcobaleno, un miscuglio di età, razze, lingue. Pochi di loro sembrano davvero bravi, ma d'altra parte non sto prestando molta attenzione alle loro partite. Un vecchio matto insulta una donna più giovane che l'ha appena battuto. La donna, che non sembra più sana delle mie clienti della mensa gratuita, porta una reticella sui capelli e un paio di occhiali con una stanghetta tenuta insieme da un cerotto. Punta un dito tremante contro il suo avversario sconfitto. Lui lo allontana con una manata, scoprendo i denti macchiati. I curiosi parteggiano per entrambi i contendenti. Le altre partite perdono spettatori. La folla che circonda il tavolino di pietra comincia a vociare. Avvocati con telefoni cellulari infilati nella cintura lottano con magri fattorini in bicicletta per guadagnare un punto di vista migliore, sperando in una rissa. Mi tuffo in mezzo alla folla, cercando di sbirciare contemporaneamente in ogni direzione. Non riesco a ricordare che i miei sensi siano mai stati così all'erta, così ricettivi. Sono esaltato. Il colore dei rami di ogni albero è così netto e chiaro che ne posso quasi respirare le sfumature. Mi sento come se fossi in grado di esaminare il volto di ciascuno delle centinaia di pedoni che attraversano il parco ogni minuto. Passa un'altra mezz'ora. Nessun segno dell'auto verde né del suo passeggero. Tre quarti d'ora. Alla fine mi allontano in direzione nord, verso l'Hilton. Ma poi cambio idea. Prima voglio fare un'altra tappa, poiché ho una nuova domanda da porre e so dove porla. Cerco una banca, trovo uno sportello automatico e prelevo altri cento dollari dal nostro esiguo conto. In qualche modo riuscirò a spiegarlo a Kimmer. Faccio una breve telefonata
da un apparecchio pubblico. Poi fermo un altro taxi e do le indicazioni al conducente. Oltrepassiamo l'Hilton e svoltiamo verso est in Columbia Road, attraversando il quartiere di Adams-Morgan, la zona chiassosa, caratteristica, etnicamente variegata in cui dopo la specializzazione universitaria avevo vissuto diversi anni in un minuscolo appartamento senza ascensore con i miei libri, i miei scacchi e un materasso spoglio sul pavimento, nutrendomi quasi esclusivamente di succo di mela e polpette giamaicane comprate in un negozio in fondo all'isolato, finché, esortato da Kimmer, mi ero trasferito nel ben più costoso appartamento di un orrendo edificio moderno molto più in su lungo Connecticut Avenue. Seduto sul sedile posteriore del mio quarto taxi della giornata scuoto la testa con fare dolente, poiché quando cominciò a lamentarsi del modo in cui vivevo Kimmer era ancora sposata con André Conway. Il taxi passa davanti alla mia vecchia abitazione e il sentimentalismo mi intenerisce. Arriviamo in Sixteenth Street, dove svoltiamo a nord verso il cuore della Gold Coast. Lungo il tragitto resto pronto a captare qualsiasi segno dell'auto verde o del passeggero che mi ha cercato a piedi. Un passeggero molto familiare. Il passeggero dei miei sogni. La pattinatrice. 22 CONVERSAZIONE CON UN COLONNELLO Vera e il Colonnello sono rimasti sorpresi di sentirmi, anche e soprattutto perché, malgrado dieci anni di insistenze, passo a trovarli molto di rado quando capito a Washington per lavoro. La loro modesta abitazione in Sixteenth Street è nel cuore della Gold Coast; la casa del Giudice, ora di Mariah, è più grande e si trova ai confini con la nazione più pallida, come la sua carriera pubblica. I miei suoceri mi accolgono affettuosamente, confinando i cani in giardino poiché sanno che sono allergico, cosa di cui il padre di Kimmer mi fa una colpa essendo convinto che riveli una fondamentale assenza di tempra. Dal numero di abbracci che ci scambiamo arrivo quasi a credere che siano davvero lieti di vedermi. Ma poi mi torna in mente il glaciale pranzo del Ringraziamento di due settimane fa, e mi rammento che l'umore dei Madison tende a oscillare, spesso senza preavviso. Vera e il Colonnello mi conducono nel salottino sul retro della casa, una veranda riattata, il cui arre-
damento è una soffocante accozzaglia di souvenir di porti sparsi per il mondo, fotografie ed encomi dei tempi in cui il Colonnello era un condottiero di uomini, come ama descriversi. Vera serve formaggio e cracker chiedendoci che cosa vogliamo bere. Il Colonnello guarda accigliato il vassoio e la rimanda in cucina a prendere una ciotola di noccioline. Gli scaffali reggono una serie di fotografie di Kimmer e di sua sorella Lindy - nome vero Marilyn - dall'infanzia a oggi; fin dai primi anni dell'adolescenza si può distinguere una traccia di focosa sfida nel modo in cui la più carnosa Kimmer guarda l'obiettivo, laddove la sottile Lindy è fin da subito più distante, meno generosa. I Madison, come il resto del nostro ambiente, sono sempre rimasti sconcertati dalla mia evidente predilezione per Kimmer. I suoi genitori ricordano di certo che uscivo con entrambe le loro figlie, anche se non allo stesso tempo. Quello che non capiscono è che soltanto Kimmer ricambiava. Vera torna con le noccioline e le bevande. Ci sediamo circondati dalle cianfrusaglie e dal chintz, i Madison nervosi quanto me, fingendo di divertirci un mondo, di avere una quotidiana consuetudine a situazioni simili. Il Colonnello beve scotch liscio. Un sigaro brucia in un posacenere rubato su una nave, poiché i Madison sembrano andare in crociera ogni cinque minuti. Vera sorseggia vino bianco. Io resto fedele al mio solito ginger ale. Non so mai come cominciare una conversazione con i miei suoceri, i cui sguardi scettici e i cui modi queruli spesso mi fanno pensare che forse mi incolpino di aver rovinato il matrimonio fra Kimmer e André Conway. Forse credono che, se non fosse stato per il nefasto e astuto Talcott Garland, la loro figlia sarebbe stata una moglie fedele e loro avrebbero avuto un genero che realizza film ed è sempre in televisione invece di uno che insegna giurisprudenza ed è sempre nel suo ufficio. Mi rivolgono una domanda o due su Kimmer, giusto per rispettare l'etichetta, ma l'argomento è scomodo e lo abbandoniamo subito. Il Colonnello si informa sulla situazione di Elm Harbor, poiché ha sentito dire che gli speculatori stanno investendo nei quartieri depressi e si sta chiedendo se non sia il caso di farsi coinvolgere; a sentir lui, Miles Madison possiede case sfitte nella metà delle città dell'East Coast, in attesa che il mercato immobiliare decolli. In alcuni luoghi è successo. Kimmer si dà sempre un gran da fare per spiegare che, non avendo inquilini nelle zone depresse in cui acquista i suoi immobili, suo padre non è un profittatore. Esaurito l'argomento del mercato immobiliare di Elm Harbor, Vera, l'ospite perfetta, fa qualche educata domanda sulla facoltà; naturalmente ha
visto spesso Lemaster Carlyle in televisione, e mi chiede com'è. La cosa mi irrita un po', ma le rispondo con altrettanta cortesia. Poi i miei suoceri si fanno affettuosi e mi domandano di Bentley, poiché Lindy, in gioventù la prediletta della Gold Coast, ha un solo matrimonio sbagliato alle spalle e deve ancora dar loro un nipotino. Adesso è soltanto un'altra quarantenne di colore non sposata che attende di essere colpita dal fulmine, un percorso fin troppo diffuso nella nazione più scura a mano a mano che i matrimoni misti, la violenza, il carcere, la droga e le malattie contribuiscono a decimare le schiere di maschi idonei. E finalmente si arriva al dunque, e Vera capisce con chi ho intenzione di affrontarlo. «Vi lascio soli» mormora ritirandosi. Si rimette sempre alla volontà di suo marito, anche se sotto altri aspetti è uguale a sua figlia: non è certo una mammoletta e ha scarse doti di modestia. «Bene, Talcott» dice il Colonnello in tono espansivo agitando il sigaro cubano con la mano robusta. Me ne ha offerto uno, ma io ho declinato. A differenza di André non fumo, non bevo e non dico parolacce, di conseguenza il Colonnello mi considera meno maschio. Il suo cranio liscio e calvo brilla. «Cosa posso fare per te?» Esito un istante, tornando con il pensiero alla mia fuga di un'ora prima attorno al Dupont Circle. Per un istante mi chiedo stupidamente se la pattinatrice non sia in agguato fra i cespugli fuori dalla finestra, magari reggendo un microfono direzionale in grado di decifrare le voci dalle vibrazioni dei vetri. Mi costringo a concentrarmi sull'interno della stanza, di reggere lo sguardo di sfida del Colonnello. «Mio padre aveva una pistola» gli dico chiaro e tondo. Le sue pupille si dilatano leggermente, i gesti elaborati della mano con cui regge il sigaro si fanno ancora più enfatici, ma non noto altre reazioni. E così proseguo. «Ho controllato... e ho saputo che in Virginia si possono comprare con una certa facilità.» «È vero. Io stesso ne ho acquistate alcune.» «Be', il fatto è proprio questo. Non credo che lui l'abbia fatto.» «Non ci credi.» «Non riesco a immaginare mio padre che attraversa di soppiatto il Memorial Bridge nel mezzo della notte con un'arma da fuoco illegale nascosta nel bagagliaio. Non... non sarebbe stato da lui.» La traccia di un sorriso sgualcisce il suo volto carnoso. Finisce il suo drink, si guarda intorno per chiedere a sua moglie di versagliene un altro, poi si ricorda che è uscita dalla stanza e va al bar a prepararselo da solo.
Agita la bottiglia di ginger ale nella mia direzione, ma io scuoto il capo. «Probabilmente hai ragione» mormora tornando alla sua poltrona. «Non è tanto il fatto che non avrebbe detenuto illegalmente una pistola, quanto che non avrebbe corso il rischio di farsi scoprire.» «Mmh.» «D'altro canto, giù in cantina lei ha una notevole collezione di armi da fuoco.» «Non è male» conviene il mio ospite, che ha spesso e invano cercato di suscitare in me un interesse per il suo hobby. «Be', ecco cosa stavo pensando. Se mio padre avesse voluto una pistola, immagino che avrebbe potuto chiederla in prestito a lei.» Il sorriso si allarga. «Lo immagino anch'io.» Esalo finalmente un respiro. «Perciò, quello che mi interesserebbe sapere è... quando di preciso le ha chiesto in prestito una pistola, e per che cosa ha detto di averne bisogno.» Il Colonnello si muove a disagio sulla sua poltrona. Tira una boccata dal sigaro e soffia qualche anello di fumo, ma non verso di me. «Direi che è stato... oh, un anno fa. Forse un po' di più. Diciamo ottobre dell'anno scorso, perché eravamo appena tornati da... da...» volta leggermente la testa e chiama: «Vera! Dove siamo andati lo scorso ottobre?». «A Santa Lucia!» risponde lei dalla stanza accanto, gridando per coprire il suono del televisore. Con il passare degli anni, l'accento giamaicano di Vera è diventato appena percettibile; quello del Colonnello è quasi impossibile da riconoscere. «No, non questo ottobre. L'anno scorso.» «Nel sud Pacifico!» «Grazie, tesoro.» Il Colonnello fa un sorriso imbarazzato. «Le mie cellule cerebrali non sono più quelle di un tempo. Sì, eravamo appena rientrati dal sud Pacifico. Mi sembra che vi avessimo invitati...» «No.» «No? Forse era Marilyn. Ma avrei potuto giurare che avessimo chiamato Kimberly. Non eri in ferie o qualcosa di simile? Credevamo che avessi un po' di tempo libero.» Capisce nello stesso istante in cui anch'io capisco: hanno invitato Kimmer, e lei ha declinato l'offerta senza prendersi il disturbo di parlarmene. Forse ha addirittura mentito ai suoi genitori, dicendo che ero stato io a rifiutare. Restare imprigionata per due settimane su una nave con padre, madre e marito corrisponderebbe alla sua immagine dell'inferno in terra. Il Colonnello si affretta a dissimulare il passo falso.
«Be', quando Oliver si è presentato eravamo rientrati da quattro, cinque giorni. È venuto di sera, si è seduto dove sei seduto tu e ha chiesto di parlare da solo con me. Non era uno che faceva tanti giri di parole...» Mi guarda in faccia, come a insinuare che io lo sono. «E così è venuto subito al dunque.» «Che cosa le ha detto di preciso?» «Che alla sua età cominciava a temere per la propria sicurezza, e se potevo aiutarlo.» «La propria sicurezza?» Il Colonnello annuisce soffiando altri cerchi di fumo. Il mio tono è brusco come ai tempi ormai andati in cui facevo l'avvocato, ma è una cosa che non dimentichi mai, come andare in bicicletta. Il padre di Kimmer non sembra infastidito dall'interrogatorio. Si sta divertendo. I suoi occhietti brillano. «È stata l'impressione che mi ha fatto. Era come...» All'improvviso ruota sulla poltrona, e la luce sceglie un'angolazione diversa per riflettersi dal suo cranio calvo. «Vera! Ehi, Vera!» La moglie compare nella stanza, le mani giunte in grembo. Probabilmente ci stava ascoltando dal tinello. «Sì, tesoro?» «Questo dannato sigaro è una schifezza. Fa' la brava, vai giù a prendermene un altro.» «Ma certo, caro.» Vera si dirige immediatamente verso le scale che conducono in cantina, e questo mi ricorda per la millesima volta a cosa Kimmer si sia ribellata. Ma so anche che il sigaro non ha alcun problema, che il Colonnello ha soltanto allontanato sua moglie. «Che tesoro» mormora guardandola allontanarsi. «Sei un tesoro!» grida, ma lei è troppo lontana per udirlo, e questo è proprio ciò che lui stava aspettando. Si sporge verso di me e si fa improvvisamente serio. «Talcott, ascolta, non so di preciso cosa diavolo stesse succedendo. Non avevo mai visto tuo padre spaventato, e lo conosco - scusami, lo conoscevo - da vent'anni. Ma era bianco come un lenzuolo, se mi concedi l'espressione. Non ha voluto dirmi perché voleva la pistola, ma soltanto che la voleva subito.» «E lei gliel'ha data? Senza fare domande?» «Di domande ne ho fatte molte, solo che non ho ottenuto risposte.» Una risata sguaiata. Non è la prima volta che si trova in una situazione simile. Poi torna a farsi serio. «Talcott, ascolta, l'avevo visto prima di partire per la crociera e stava bene. Poi lo rivedo al ritorno ed è... diavolo, terrorizza-
to, capisci?» Cerco di figurarmi il Giudice terrorizzato. Non ci riesco. Miles Madison sta ancora parlando, il suo tono di voce basso e sicuro. «Dunque, qualsiasi cosa sia stata a mettergli paura è successa mentre noi eravamo via. Sto parlando di un anno, prima che morisse, e ti dico che era davvero atterrito. Se scopri cos'è stato, capirai perché volesse una pistola.» Solleva di scatto la testa, straordinariamente all'erta come doveva essere ai tempi della fanteria. «Vera! Grazie del sigaro, tesoro!» «Quello che hai mi sembra perfetto» fa notare lei vuotando il posacenere in un cestino per la carta decorato con una mappa dei Caraibi. Il Colonnello le scocca un sorriso imbarazzato. «Dannati sigari d'importazione. Nessun controllo di qualità.» Torna a guardarmi e mi strizza l'occhio. «Talcott e io stavamo giusto stabilendo la posta per una partita a biliardo.» Ma a biliardo il Colonnello è imbattibile, perché imbroglia. Vera e il Colonnello finiscono per invitarmi a cena. Me ne vorrei andare, ma rifiutare la loro ospitalità sarebbe scortese. Quando arrivo all'Hilton sono trascorse all'incirca quattro ore. Sono quasi le otto, e sulle strade di Washington è calato un buio preinvernale. Ho perso la giornata conclusiva della conferenza, ma sono sicuro che nessuno ha sentito la mia mancanza. L'atrio è affollato di cittadini della nazione più scura, per la maggior parte in abito da sera: gli uomini con smoking neri e fasce di seta dai colori accesi, le donne con scintillanti vestiti di varie lunghezze. Salgono e scendono per le scale mobili, come in posa per macchine fotografiche virtuali. La bella gente! Nessuno sembra pesare un grammo in più del necessario. Ogni singola scarpa di vernice è perfettamente lucida. Ogni capello è rigorosamente al suo posto. Ogni naso è levato verso l'alto. L'ambiente dei miei genitori. E dei Madison. Mi chiedo quale sia l'evento a cui sono intervenuti. Con il mio ordinario completo grigio, sudato dopo la breve corsa e la lunga camminata, mi sento fuori posto, come se fossi situato a un livello molto inferiore rispetto al paradiso abitato da questa folla radiosa. A giudicare dalle occhiate scettiche che mi lanciano, alcuni dei ricconi assembrati nell'atrio intrattengono lo stesso pensiero: quest'uomo scarmigliato che si aggira di soppiatto con il suo abito grigio non è, come soleva dire mia madre ai vecchi tempi, il nostro genere di nero. Anche se gli assurdi criteri americani di valutazione razziale definirebbero neri tutti questi elegantoni, molti di loro sono di co-
lori così pallidi che supererebbero la prova del sacchetto di carta che faceva comprensibilmente infuriare Mariah quando non la superava, anche se pare non sia più in uso: "Se la tua pelle è più scura di questo sacchetto di carta, non puoi far parte della nostra associazione studentesca". Oh, se siamo perversi! Un sentimento che credevo sepolto mi travolge di sorpresa sorgendo da una fonte putrida, un'ondata di odio freddo e brutale nei confronti dello stile di vita dei miei genitori, della loro piccola cerchia esclusiva e dei loro giudizi affrettati e solitamente crudeli su chiunque non ne facesse parte. E anche per me stesso, per tutte le volte in cui ho risposto alle loro domande sprezzanti su quale scuola avesse frequentato un mio amico, su quali fossero i genitori di un altro, e a volte su quali studi questi avessero fatto. Addison, crescendo, cominciò a rispondere per le rime a nostra madre e nostro padre, ma io e Mariah non lo facemmo mai; e forse lui ha conservato un'indipendenza di spirito che mia sorella e io abbiamo perso. Per un istante l'atrio turbina di rosso, e mi ritrovo a chiedermi, come facevo ai tempi del college, chi sia il vero nemico, poiché quelli fra noi che si consideravano l'avanguardia radicale nella battaglia per un futuro migliore avevano l'abitudine di starsene alzati fino a notte fonda a maledire la borghesia nera. Edward Franklin Frazier aveva ragione: vedo mio padre con la sua distaccata ironia nei riguardi degli "altri neri", vedo mia madre con le sue associazioni studentesche elitarie e i suoi circoli sociali come repliche più scure della società bianca che, nella loro disperata ricerca di prestigio, giungevano in definitiva a imitare perfino gli atteggiamenti razzisti del mondo esterno. Sono così tramortito dalle visioni che mi pulsano rabbiosamente nella mente che per un attimo non riesco a muovermi, a parlare, non riesco a fare nulla che non sia osservare questa "bella gente" che mi vortica intorno. Ma poi la parte di me che ascoltava avidamente i giudizi talvolta pomposi del Giudice si riafferma. Questi sono pensieri indegni, mi ripeto; sono un diversivo, e non del tutto giusto. E, a parte questo, ho preoccupazioni più immediate. Così riesco a tenere a bada le visioni. Per ora. Attraverso lentamente l'atrio tirando in dentro la pancia e con un occhio agli ascensori, ma mi sorprendo anche a perlustrare lo sciame gioioso di individui, in modo quasi automatico, alla ricerca della pattinatrice o, eventualmente, del collega del fu Colin Scott, lo scomparso Foreman. Mi chiedo come mai la pattinatrice mi stesse seguendo. Mi chiedo perché mi abbia cercato con tanto accanimento, e perché io abbia deciso di fuggire. Ho
provato la forte tentazione di saltar fuori dal mio nascondiglio e affrontarla, poiché ero incapace, e lo sono tuttora, di credere che avesse cattive intenzioni. Forse mi sto facendo delle illusioni. Continuo a vedere il suo volto, non in preda alla rabbia concentrata dell'inseguimento fallito di questo pomeriggio, bensì illuminato dal sorriso aperto e civettuolo del nostro primo incontro. Scuoto il capo. Tentare di capirci qualcosa è come inseguire un'ombra. Come cercare di capire perché il Giudice fosse talmente spaventato da procurarsi una pistola. Più in là, nei pressi del negozio di souvenir, vedo due professori del simposio, membri della nazione più pallida, che osservano smarriti e apprensivi il conclave scuro racchiusi nei loro indumenti di tweed e flanella. Mi rivolgono cenni di saluto come se fossero lieti di scorgere finalmente un volto amico in un atrio che all'improvviso assomiglia a una sfilata di moda, e io sorrido ma decido di non unirmi a loro per la consueta mano serale di pettegolezzi post-conferenza, gesto che in qualche modo mi darebbe l'impressione di fare un torto alla mia gente. Decido invece di salire in camera e aspettare il sonno giocando a scacchi con il mio portatile, che è il modo in cui trascorro gran parte delle mie serate quando sono lontano da casa e molte anche quando non lo sono. Serpeggio fra la gioiosa moltitudine cercando di non urtare nessuno e riuscendoci in parte, rivolgendo di tanto in tanto un cenno di saluto a un volto familiare. Ho quasi raggiunto gli ascensori quando una gradevole forma tondeggiante, avvolta in un vestito viola scandalosamente stretto, si stacca da un'allegra cerchia di amici e mi si avvicina con passo deciso. «Tal! Non avevo idea che fossi in città!» Incredulo, osservo Sarah Catherine Stillman, nata Garland, materializzarsi davanti a me. «Sally?» riesco a dire. «Cosa ci fai qui?» «Cosa ci faccio qui?» La cugina Sally ride, mi carezza la guancia e mi prende una mano fra le sue. I suoi palmi sono sudaticci. Il suo sguardo è leggermente alterato dalla sostanza di cui sta abusando in questa settimana, qualunque essa sia. Ora porta i capelli in lunghe trecce decorate di perline, alcune nere, altre marrone chiaro, quasi tutte false. «Io sono qui per la raccolta di fondi. La vera questione, dolcezza, è cosa ci fai tu da queste parti. E dove diavolo è finito il tuo smoking?» aggiunge picchiettandomi un dito sulla giacca con finta disapprovazione. «Be', non sono qui per la raccolta di fondi, ma per la conferenza sull'ille-
cito.» Sto balbettando, ma non sembro in grado di fermarmi. «Siamo solo un gruppo di docenti di legge. Ieri ho presentato una relazione.» Agito la mano in direzione della scalinata che scende verso la sala conferenze. Sono sicuro che Sally non abbia la minima idea di cosa sto dicendo. Sally mi guarda con attenzione. I suoi occhi liquidi brillano. «Stai bene, Talcott? Non hai una bella cera.» «Sto bene. Sally, ascolta, mi ha fatto piacere incontrarti, ma devo proprio andare.» Attendo per quella che mi sembra un'eternità ma che probabilmente non sono più di due secondi, poi lei risponde ignorando il mio spiccio tentativo di fuga e comunicandomi il suo messaggio: «Sono così contenta di averti incontrato. Stavo pensando di telefonarti». Si solleva in punta di piedi non è un'impresa facile, con tacchi così alti - e mi bisbiglia all'orecchio: «Tal, ascolta, ti devo dire dove avevo già visto l'agente McDermott». Dopo gli eventi delle ultime ore, ci metto un po' a ricordare che McDermott era il nome usato dal fu Colin Scott, e che il giorno in cui l'ho conosciuto Sally mi aveva confidato che credeva di conoscerlo. All'improvviso sono stanco di teorie. Mio padre è morto ma mi sta lasciando messaggi, mia moglie sta facendo chissà cosa e io vengo pedinato da una donna misteriosa che si trovava a Martha's Vineyard quando Scott/McDermott è annegato. La mente umana, specialmente quando è sotto pressione, può assimilare una quantità limitata di informazioni. E io ho superato la mia capienza. «Lo apprezzo molto, Sally, ma temo che questo non sia né il luogo né il momento...» Lei mi interrompe, solleticandomi il volto con il suo alito fradicio di vino. «L'avevo visto nella casa di Shepard Street. Anni fa.» Una pausa. «Lui conosceva tuo padre.» 23 UN'IMMAGINE DUPLICE «Era estate» comincia Sally sorseggiando una birra in bottiglia del minibar. Avrei preferito offrirle dell'acqua naturale, o magari del caffè, ma resistere alle donne tenaci non è mai stato il mio forte. «Un anno o due dopo la morte di Abby. Mariah era al college. Forse anche tu, non ricordo. Ma so dove l'ho visto. Di questo sono sicura.»
Aspetto che mia cugina mi racconti la sua storia. È distesa su uno dei due letti matrimoniali della mia camera d'albergo. Io sono seduto alla minuscola scrivania, la sedia girata verso di lei. Abbiamo ordinato la cena in camera, perché Sally mi ha confessato di non avere mangiato niente tutto il giorno. Preferirei non essere qui - Sally ha una certa reputazione, dopo tutto - ma è bastato darle un'occhiata giù nell'atrio per capire che non era in condizione di sedersi in un luogo pubblico. Ciò nonostante, ho accampato una varietà di scuse per evitare questo colloquio. Sally le respinge l'una dopo l'altra. Un mucchio di lavoro mi aspettava? "Oh, non ci vorrà molto." I suoi figli? "Oh, sono da mia madre per un paio di giorni." E il gelosissimo Bud? "Oh, non si fa più vedere come un tempo." E così siamo saliti in camera, dove la mia corpulenta, appariscente cugina, l'orlo del cui vestito viola è troppo corto di diversi centimetri, si è tolta immediatamente le scarpe scalciandole via e ha preteso qualcosa da bere. Se voglio ascoltare il suo racconto, questo è l'unico modo. «Ero a casa vostra» riprende. «In Shepard Street. Era sera. Immagino stessi dormendo. Finché... finché non sono stata svegliata da due voci che discutevano.» «Io dov'ero?» «A Martha's Vineyard, credo. Con tua madre. Forse c'era anche Mariah. Ma non tuo padre. E non Addison. È per questo che ero a casa vostra. Ero... ero lì con Addison.» Sally è una donna dalla carnagione molto scura, ma riesce comunque ad arrossire. Coricata sul letto, si volta dall'altra parte, come se fingere di essere sola le facilitasse il racconto. E si lancia immediatamente in una digressione, nella quale il cattivo è Misha: «So che quello che facevo con Addison è sbagliato, Tal, non c'è bisogno che tu me lo dica. È finita, d'accordo? È finita da un'eternità. So che non hai mai approvato. Hai sempre fatto in modo che me ne accorgessi. Oh, non hai mai detto una parola, ma in famiglia sei sempre stato, insomma, un po' come tuo padre; hai tutte queste regole, e quando qualcuno non le rispetta non è che ti arrabbi, ma lanci questa occhiata di disapprovazione. Come se tutti ti fossero moralmente inferiori. Odio quell'occhiata. La odiano tutti, Tal. Tuo fratello, tua sorella, tutti». Sto quasi per replicare, ma poi mi ripeto che Sally è probabilmente imbottita di farmaci e che di sicuro non è in sé: consapevolezza che non serve a ridurre il bruciore provocato dalle sue parole. «Anche mio padre non sopportava quell'occhiata» aggiunge lei. «Tuo zio Derek, voglio dire.» Come se potessi avere dei dubbi su chi sia, o fosse, suo padre. «Odiava quando lo zio Oliver lo guardava in quel modo, e lo
zio Oliver lo guardava molto spesso in quel modo. Perché, lo sai, detestava le opinioni politiche di mio padre. Pensava che fosse un comunista.» Azzardo la mia seconda interruzione: «Sally, tuo padre era un comunista». «Lo so, lo so, ma lui lo faceva sembrare così sporco.» Fa un sorriso stridente, e all'improvviso comincia a piangere. Qualunque sia il farmaco che sta prendendo, sembra provocare dei notevoli sbalzi di umore. O forse non c'è alcun farmaco, e Sally è semplicemente infelice. Sia come sia, decido di lasciarla piangere. Non ci sono parole di conforto che possa offrirle, in realtà, e abbracciarla mentre è sdraiata sul letto è fuori questione. «Vedi, Tal» riprende dopo un paio di minuti «tu sei convinto che il mondo sia governato da semplici norme morali. Pensi che esistano soltanto due generi di persone: quelle che rispettano le regole e quelle che le infrangono. Credi di essere tanto diverso dallo zio Oliver, ma sei proprio come lui. In senso buono, certo, ma anche in alcuni dei suoi aspetti peggiori. Guardi dall'alto in basso quelli che reputi moralmente inferiori. Persone come tuo fratello. Come me.» Ora ricordo perché io e Kimmer non frequentiamo Sally: prima di cominciare qualcosa che somigli a una normale conversazione, devi sopportare dieci minuti di abusi verbali. E così stringo i denti e resto zitto, ripetendomi che è una donna che non sta bene. Fra l'altro, probabilmente, quello che dice di me è giusto. «Insomma, è per questo che non te ne ho parlato prima. Di McDermott, voglio dire. Ho come fatto finta di essermene dimenticata, ma non era vero. Ho riconosciuto McDermott nello stesso istante in cui l'ho visto. Forse potevo dire qualcosa, ma sapevo che avrei dovuto spiegarti cosa ci facevo a casa vostra quella sera e non volevo vedere la tua occhiata di disapprovazione.» Si volta verso di me il tempo sufficiente a fulminarmi con lo sguardo, e io rifletto sui modi in cui la convinzione che esistano il bene e il male può interferire con la comunicazione umana. «Capisci, Tal, è per questo che dovevamo sempre nasconderci, perché con gente come te e lo zio Oliver...» Si interrompe. È scossa da un tremito. Un altro singhiozzo? No, un ricordo, qualcosa che preferisce tenere a distanza. «È acqua passata» mormoro cercando di farle cambiare direzione. Se Sally si aspetta che le chieda scusa resterà delusa, perché non posso fingere che ciò che lei e Addison facevano non fosse niente di male. Sally sa cosa sto pensando. «Perfino Mariah è meglio di te, Tal. Lo sai?
Ogni volta che viene a Washington mi telefona. Ci divertiamo un mondo...» «Mi ha detto che la stai aiutando a controllare le carte del Giudice.» Sally ridacchia. «È questo che ti ha detto? Be', sì, a volte facciamo anche quello, ma non è ciò che intendevo. Volevo dire che ci divertiamo. Parliamo. Lei mi ascolta, Tal. Andiamo nei locali. Sai, a tua sorella piace scatenarsi, ogni tanto. Non è come te. E non mi giudica di continuo come fai tu. Per questo non ti ho detto niente, Talcott. Per come sei fatto. E perché la cosa riguarda anche Addison. Voglio dire, io e Addison. Sei esattamente come tuo padre» ripete. Sto assorbendo le notizie, incantato sull'immagine di mia sorella in un locale - il tipo di locale che piace a Sally - intenta a scatenarsi. Guardando Mariah non penseresti mai che possa essere il tipo a cui piace far festa; il suo stile è più quello dell'unico membro di colore dello yacht club. Mia cugina, d'altro canto, è già da sola una festa abbondante. «Non hai mai capito quello che c'era con Addison» continua in tono eccitato e rabbioso, colmo di promesse spezzate. «Non hai mai capito quello che ci legava. D'accordo, era sbagliato. Ma era speciale» aggiunge come se l'avessi contestata. «Eravamo amanti, Tal. Non era solo sesso, era amore. Allora, sono stata abbastanza volgare per i tuoi gusti?» Si regge su un gomito, gli occhi fiammeggianti di animosità. Altro che sbalzi d'umore: sta dicendo tutto quello che le passa per la mente. «Non ti sto giudicando, Sally» mento con fare guardingo, mantenendo un tono il più possibile neutrale. «Voglio solo sapere cosa ricordi di McDermott.» «Mi stai giudicando.» «Sono solo felice che sia finita» le assicuro. Ma mi meraviglio di come un mondo civilizzato possa trasformare l'assenza di giudizi in virtù, possa insegnarla ai bambini, possa predicarla dai pulpiti. «La sai una cosa, Tal? Sei un impostore. Misha. Mikhail. Un impostore.» Una risata più aspra. «È stato mio padre a darti quel soprannome, nel caso te ne sia scordato, e tu continui a trattare sua figlia come un rifiuto.» Mia cugina torna ad abbandonarsi sul letto, e le sue treccine le circondano il capo come un'aureola d'ebano. La filippica sembra finita. Il cameriere del servizio in camera sceglie saggiamente questo momento per arrivare. Vedendo che Sally non fa alcuno sforzo per alzarsi, firmo il conto in corridoio bloccando la visuale del cameriere e porto da solo il carrello in camera. Mangiamo in silenzio per qualche minuto: zuppa di funghi e club san-
dwich per me, cocktail di gamberi e filetto per Sally. Avendo condiviso un ricco pasto con i miei suoceri soltanto un'ora fa non dovrei consumarne un altro così ravvicinato, ma tendo a viziare il mio io con eccessiva facilità, il che forse spiega il girovita in espansione. In poche parole, mangio troppo; e quando sono nervoso o sotto pressione la mia forza di volontà diventa ancora più debole. Sfortunatamente sono come Mark Twain, il quale disse che in certe occasioni mangiava di più che in altre, ma mai di meno. Sally e io siamo seduti l'uno di fronte all'altra sui due letti con il tavolo fra di noi. Lei mangia veloce e senza garbo, soddisfacendo semplicemente un fabbisogno corporale. Il cibo sembra ravvivarla, o magari il farmaco, se esiste, ha esaurito il suo effetto; qualunque sia la ragione, quando riapre bocca è tornata a essere la civetta di sempre. «Mi dispiace di aver ordinato il piatto più costoso del menu, Tal, ma gli uomini non mi offrono più così spesso la cena, e così mi sono detta: al diavolo, sfruttiamo l'occasione.» «Figurati.» «Certo, a volte un uomo si aspetta qualcosa in cambio.» «Tutto quello che mi aspetto è che tu mi parli di McDermott» dico rivolgendole la mia espressione più lapidaria. «Sicuro di non volere altro?» Il suo tono è vezzoso, come se l'intimità di una cena segreta con un uomo nella sua camera d'albergo le avesse dato il permesso di trasgredire. «Molti uomini si fanno delle idee.» «Io non sono molti uomini.» «Andiamo, Tal, ma non ti diverti proprio mai?» «Solo il martedì e ogni due domeniche.» Questo, se non altro, provoca un sorriso sincero. «D'accordo, Tal» conviene Sally. «Amici.» «D'accordo.» «Senti, mi dispiace di averti detto quelle cose.» Anche se non appare molto dispiaciuta. Piega le solide gambe sotto di sé. «Sembra che stasera non possa farne a meno. Suppongo sia il mio difetto, dire sempre quello che penso. Quantomeno quando sono insieme a un uomo.» «Non è necessariamente un difetto.» Non mi piace, tuttavia, il suo uso della parola "insieme". «Be', no, se l'uomo con cui mi trovo gradisce quello che sto pensando.» Esita soppesando una battuta. «E se non gli piace? Che vada al diavolo.» Ride di nuovo, un suono lieve e trillante: nelle sue parole non c'è odio. Sally non disprezza gli uomini, anche se loro non l'hanno trattata bene. Ne
è divertita. Noi la rallegriamo. Mi viene in mente che Sally, quando non è in preda alla malinconia, potrebbe essere molto simpatica. Comincio a capire come mai Addison, e molti altri insieme a lui, trovassero attraente la mia carnosa cugina. L'anno scorso al museo dell'università ho visitato una mostra di alcuni di quei disegni che erano molto in voga all'inizio del ventesimo secolo, quelli che sembrano cani sorridenti ma quando li rovesci si trasformano in gatti rabbiosi, o che da una bella donna si mutano in un sultano triste e così via. "Immagine duplice", era intitolata la mostra. Sally è come una di quelle figure: sulle prime sembra balzana, sovrappeso, disperata, imbottita di farmaci, patetica, ma se la guardi da un altro punto di vista diventa audace, brillante, sexy e spiritosamente caustica. In questo momento la sto guardando da questo secondo punto di vista, il che significa che devo affrettarmi a imporre un minimo di disciplina alla nostra conversazione. «A proposito di McDermott...» «Sissignore!» Sally scatta in un ironico saluto militare. «Al suo servizio, signore!» Poi mi racconta la storia. Abbiamo finito il dessert: una macedonia per me, un tiramisù per Sally. Ho riportato in corridoio il carrello del servizio in camera. Sally è semidistesa sul letto con il peso caricato su un gomito e un piede che sfiora la moquette. Io sono di nuovo seduto alla scrivania, le mani giunte in grembo, aspettando che cominci. «Ero nella casa di Shepard Street, come ti dicevo. Non so se te ne ricordi, ma a quei tempi i miei abitavano a Southeast Washington. Mio padre lavorava in quella piccola biblioteca privata. Ricordi?» Certo che ricordo: "Lei sapeva, giudice Garland, che la biblioteca in cui lavorava suo fratello fungeva notoriamente da copertura per un'organizzazione comunista?". E inevitabilmente: "No, senatore, non lo sapevo. Mio fratello e io non avevamo molti contatti". Poi si andava sul patetico: "Dev'essere stato motivo di sofferenza, giudice". E mio padre nel suo tono più freddo ma anche disarmante: "Amavo mio fratello, senatore, ma le nostre divergenze erano alquanto profonde. Il comunismo è una cosa terribile, almeno quanto il razzismo. Forse anche peggio, sotto certi aspetti. Non potevo essere parte del suo mondo, né lui del mio. Credo di non essere stato il miglior fratello al mondo, e se gli ho fatto del male me ne dispiace. Forse ognuno dei due pensava che l'altro fosse pericoloso, suppongo. Ma
ammetto di non pensarci molto". Vanificando qualsiasi altra domanda su questa falsariga. «Me ne ricordo» dico piano. «Be', a quei tempi prendevo l'autobus - era l'S4? - fino a casa vostra. Per vedere Addison, se era di passaggio a Washington. Non ci andavo mai quando c'erano i tuoi, né quando c'eravate tu e Mariah. Ci andavo soltanto per stare sola con Addison.» Un sorrisetto imbarazzato. «La verità è che non lo dicevo nemmeno ai miei. Papà non era meglio dello zio Oliver, con quell'occhiata di disapprovazione. Forse tutti i maschi della vostra famiglia hanno quel cipiglio. O meglio, tutti tranne Addison.» Soppeso l'idea di suggerire che disapprovassimo perché c'era qualcosa da disapprovare, che una relazione sessuale fra cugini di primo grado è un incesto. Ma probabilmente Sally mi rammenterebbe che lei e Addison non sono consanguinei. O forse citerebbe Eleanor e Franklin Delano Roosevelt, e io risponderei che loro in realtà erano cugini di secondo grado, contrariamente a quanto si crede, il che significa che i loro legami di famiglia erano decisamente distanti, che il loro antenato comune risaliva a qualcosa come cinque generazioni prima; e Sally mi accuserebbe di fare il superiore; e a quel punto la conversazione precipiterebbe. Oltretutto, ha già ammesso che quello che facevano era sbagliato. «Se potessi limitarti a McDermott...» dico. «Sei così maledettamente risoluto...» Ride e torna a sdraiarsi sul letto, questa volta tenendo sollevate le grosse ginocchia. «Il fatto è, Tal, che devi capire che non sarei mai entrata in quella casa se avessi saputo che c'era anche tuo padre. Dovevo vedere Addison, e dovevamo essere soli. Tuo padre avrebbe dovuto essere via.» Chiude gli occhi e aggrotta la fronte. «Ma non a Martha's Vineyard. Credo... credo che avrebbe dovuto essere a una riunione di giudici.» «Probabilmente la conferenza giudiziaria» mormoro. «Mmh?» «La conferenza giudiziaria. Il gruppo dei giudici federali. Si tiene durante l'estate. Probabilmente era lì.» Sally scuote la testa. «Forse avrebbe dovuto esserci, forse aveva detto alla zia Claire che sarebbe stato lì, ma in realtà era a Washington.» Mi mordo la lingua. Se Sally sta dicendo la verità, significa che ha smascherato una menzogna del Giudice a mia madre, evento che fino a questo istante avrei giurato non si fosse mai verificato. «Comunque, io non sapevo che tuo padre era in casa. Dovevo vedere
Addison. Avevamo appena finito il college, eravamo entrambi in città per l'estate. Addison mi aveva chiamato per dirmi che tutti erano via per qualche giorno, e che avremmo potuto... stare un po' insieme, se volevo. Be', io lo volevo.» Mentre annuisco senza fare commenti, scorgo qualcosa dietro le parole di Sally: era Addison a farsi avanti. Mio fratello aveva un anno in meno di sua cugina, ma fin dall'inizio, già a Martha's Vineyard, era stato lui il seduttore e non il contrario, come vorrebbe il folclore di famiglia; e una parte di lei lo odia per questo. «Comunque» sta dicendo Sally «dissi ai miei che uscivo con delle amiche o qualcosa del genere, li avvertii di non aspettarmi in piedi e poi presi, vediamo, dev'essere stato il 30, o il 32, e poi l'S4...» Vuole farmi capire quanto si impegnasse per vedere il suo amore. «Insomma, arrivai in Shepard Street, proseguii fino alla casa e Addison era lì...» Esita per verificare se reagisco. Quando vede che non lo faccio, riprende il racconto. «Bene, dopo un po' mi addormentai. Non so che ore fossero. So che quando le voci mi svegliarono era buio. Non stavano gridando. Bisbigliavano, ma erano alterate. Stavano discutendo, e forse cercavano di non farsi sentire, ma io le udii comunque. Mi resi conto che c'era qualcun altro in casa, e la cosa mi spaventò. Mi girai per svegliare Addison, ma lui non c'era. E così pensai fosse Addison che discuteva con qualcuno. Immaginavo fosse lo zio Oliver, il che significava probabilmente che eravamo stati scoperti, che eravamo nei guai. E così mi vestii. Pensavo di uscire di soppiatto dalla porta di servizio. Sono uscita da un sacco di porte di servizio nella mia vita, giusto?» Un'altra delle sue risate tristi. È inutile replicare: è chiaramente una domanda retorica, e sappiamo entrambi qual è la risposta. «La camera da letto di Addison era al secondo piano» riprende girandosi su un fianco e fronteggiandomi, ma senza aprire gli occhi. «Alla fine di quel lungo corridoio. La vecchia camera della servitù, credo. Hai presente: soffitto basso, timpani, l'intero repertorio alla Nathaniel Hawthorne.» A dire il vero so benissimo che aspetto ha la casa, essendoci cresciuto; ma adesso che Sally ha cominciato il suo racconto non ho intenzione di interromperla. «La discussione si stava svolgendo giù nell'atrio, due piani più in basso, ma io la sentivo. Forse grazie alle condutture o qualcosa del genere.» Ora è il mio turno di sorridere al ricordo. La casa di Shepard Street ha vecchie grate per il riscaldamento, schermi metallici a coprire quelli che
essenzialmente sono buchi nei muri collegati da condotti, probabili eredità dei tempi in cui era riscaldata da un'unica stufa. Avevamo anche dei caloriferi, ma erano stati aggiunti dopo la costruzione della casa, e i condotti non erano mai stati tolti. I miei genitori non si erano mai accorti che dal pianterreno, e specialmente dall'atrio, i suoni risalivano fino su, dove dormivamo io e Addison. Forse c'era uno sbocco comune: non sono mai riuscito a capire come funzionasse il vecchio sistema. In ogni caso, mio fratello e io riuscivamo sempre ad ascoltare ciò che succedeva da basso. «Comunque» riprende Sally «mi vestii e andai giù. Prima di lasciare la casa volevo sapere perché stavano litigando. Scesi dalle scale sul retro, quelle della servitù.» Ridiamo entrambi, anche se non c'è nulla di divertente. Controllo l'ora sulla sveglia digitale appoggiata sul comodino. Sono quasi le dieci. «E così andai al primo piano e uscii sul corridoio. Ricordi che c'è quel lungo pianerottolo che gira intorno all'atrio, come si chiama?» «Il ballatoio.» «Giusto. E il ballatoio ha questa... credo che il termine giusto sia balaustra, e le colonnine di legno, come si chiamano, pioli? Sostegni? In ogni caso, le colonnine che reggono la balaustra sono molto larghe. Abbastanza da potercisi nascondere dietro.» «Specialmente per un bambino.» Sorrido per un istante, ricordando come da piccoli io, Addison, Mariah e Abby adorassimo giocare a nascondino e come io andassi sempre a nascondermi sul ballatoio. Una delle cose che scoprii in fretta fu che quando le luci erano accese nell'atrio e spente in corridoio, se la persona a cui toccava cercare si trovava nell'atrio non poteva vedermi. «Be'» osserva Sally in tono caustico «io non sono mai stata uno stecchino, ma potevo comunque nascondermi. O quantomeno lo feci quella sera.» Cambia posizione, il ricordo sta cominciando a turbarla. O forse il suo senso morale si è ridestato all'improvviso. Ma non smette di parlare. «L'unica luce accesa era quella dello studio di tuo padre. È la parte che ricordo meglio. L'atrio era immerso nel buio, come se lo zio Oliver stesse... come se stesse facendo qualcosa che aveva bisogno del buio. So che sembra una follia, Tal, ma l'impressione era questa. E le voci che sentivo provenivano dallo studio. Non riuscivo a capire cosa diceva tuo padre, forse perché stava cercando di non alzare la voce, ma l'altro uomo stava gridando: "Non sono queste le regole del gioco", o qualcosa del genere.» «Disse proprio "gioco"?»
«È quello che ti ho appena detto.» Fa il broncio, risultando meno graziosa di quanto probabilmente pensi, poi prosegue. «Comunque, l'altro uomo, quello che stava gridando, uscì in corridoio e puntò il dito contro tuo padre, agitandolo come se fosse infuriato. Fu così che vidi la voglia, quando la sua mano passò dal buio alla luce. Era McDermott, o come diavolo si chiami. Si chiamasse.» Dunque, Sally sa che è morto. Il che significa che probabilmente lo sa anche Mariah. Il che significa che lo sanno tutti. Forse è per questo che Sally ha deciso di porre fine al suo silenzio. «Si chiamava Colin Scott» dico. «Bene, Colin Scott. Lo stesso uomo che era nel salotto di Shepard Street la settimana dopo la morte di tuo padre. Vent'anni fa era lì nell'atrio, e parlava con lui. E stava dicendo una cosa tipo: "Ci sono delle regole, per queste cose". Qualcosa del genere. E poi ho sentito la voce dello zio Oliver. Hai presente, il suo tono da predica: "Non esistono regole quando c'è di mezzo ...".A quel punto, ha detto una parola che non ho capito bene. Ha come abbassato la voce nel pronunciarla. Non perché temesse che qualcuno lo stesse ascoltando. Era una specie di sibilo. Ma mi è sembrato di sentire la parola "piglia". "Non esistono regole quando c'è di mezzo chi piglia."» «Stavano discutendo di soldi?» «Non lo so. Potrei anche non aver capito bene. Ma sembrava proprio così. E l'altro uomo scuoteva la testa, come a negare. Poi lo zio Oliver è entrato nel riquadro di luce, e la sua faccia, la sua espressione era folle, spaventosa. Ho creduto che avesse bevuto.» «È possibile, suppongo.» Al momento non riesco a immaginare che motivo avessero McDermott/Scott e mio padre per discutere di soldi. «Beveva molto, dopo la morte di Abby.» «Lo so, Tal. Mi ricordo. Mi dispiace.» «Non importa. È passato molto tempo.» Mi chiedo come abbiamo iniziato questa digressione. «Anche la mia famiglia ha avuto dei problemi.» Mi limito ad annuire. I Garland non parlano mai della loro giovinezza, né di tutto ciò che è impossibile cambiare. Ma Sally non si lascia scoraggiare. «Nessuno ha l'infanzia che vorrebbe, sai? Non siamo noi a scegliere i nostri genitori. Una volta che te ne sei reso conto, sei quasi in porto.» Un commento new age, privo di alcun significato decifrabile.
«Voglio solo sentire il tuo racconto, Sally. Voglio solo sapere cosa è successo fra mio padre e... e l'uomo con cui stava discutendo.» Sally mi rivolge una lunga occhiata, provocatoria e sconcertante. Non voglio avere questa donna nei miei pensieri. Non voglio averla nemmeno nella mia stanza. Ma devo sapere il resto. «Be', hanno cominciato a fissarsi come se stessero per darsele. Poi lo zio Oliver ha detto, quasi gridando: "Sono stufo di rispettare le regole". L'altro ha scosso la testa senza rispondere. Credo volesse che lo zio Oliver abbassasse la voce. Poi ha detto qualcosa tipo: "Non è così che si fa". E tuo padre, con un filo di voce e in tono gelido, ha risposto: "Per Jack lo faresti".» «Intendendo Jack Ziegler.» «Credo di sì. Non ne sono sicura. Non ha pronunciato il nome per intero, ma penso che intendesse lui.» Mi passo una mano sul volto. Qualche istante fa la camera era troppo piccola. Ora le pareti sembrano allontanarsi, o forse sono io che mi sto rimpicciolendo. Mi sento smarrito e in preda alle vertigini: tutto questo è un po' troppo, e lo sto assorbendo troppo in fretta. Mi riprendo, e formulo una domanda da avvocato per prendere tempo. «Sei sicura che fosse lo stesso uomo? Lo stesso che è venuto a casa nostra il giorno dopo il funerale?» Con mio sollievo, lo scetticismo della domanda non provoca alcuna esplosione. «Ne sono sicura, Tal.» Sally si rilassa di nuovo, cambiando posizione sul letto. Mi accorgo che ha quasi finito. Ma, da brava testimone, elenca le sue ragioni. «Ricordo la sua voce. Era così fredda e rabbiosa. Ricordo la voglia sulla mano quando agitava il dito contro lo zio Oliver. Ricordo la cicatrice sul labbro. E ricordo anche qualcos'altro. Ero scomoda, in ginocchio sul ballatoio, e così ho cambiato posizione, e una delle assi ha scricchiolato. E quell'uomo, McDermott, ha girato la testa di scatto e ha fissato il punto esatto in cui ero nascosta. I suoi occhi erano come... non so, come quelli di un animale da preda. Ero sicura che mi avrebbe visto. Ero terrorizzata, Tal.» Sbadiglia, poi rabbrividisce. «Era lo stesso uomo, Tal. Lo giurerei su una pila di Bibbie.» Incasso la notizia con calma, calcolando le possibilità che sia tutto uno sbaglio, un'illusione, un ricordo confuso. O una pura e semplice menzogna. «"Non esistono regole quando c'è di mezzo chi piglia"? È questo che ha detto?» «Esatto» conferma Sally. La sua sicurezza di aver sentito bene cresce con il passare dei secondi. È un fenomeno che spesso gli avvocati riscon-
trano nei testimoni. A volte significa che il loro racconto corrisponde al vero, altre volte che si sono abituati a una versione fabbricata al momento. Sally fa un altro sbadiglio. Capisco che sta perdendo lucidità. «E poi cos'è successo?» «Mmh? Come?» «Dopo la discussione che hai sentito.» «Ah. Be', è finita più o meno lì. McDermott, Scott o comunque si chiamasse ha smesso di guardare la balaustra, si è voltato verso tuo padre e si è portato un dito alle labbra. Hanno bisbigliato per qualche altro minuto, poi hanno annuito e si sono dati la mano. Non... non sembravano più infuriati. Lo zio Oliver l'ha accompagnato alla porta, io sono scesa dalle scale di servizio e immagino che tuo padre sia rientrato nel suo studio.» Un altro sbadiglio. Resto seduto in silenzio per un paio di minuti. Sally si è coperta gli occhi con l'avambraccio. Non ho alcuna ragione di credere che si sia inventata tutto. Sally non è una bugiarda; come ha asserito, dice tutto quello che le passa per la mente. Perciò, Scott conosceva mio padre, lo conosceva da più di vent'anni, era venuto a fargli visita a casa nostra una sera d'estate in cui il Giudice aveva mentito a mia madre dicendole che sarebbe andato alla conferenza giudiziaria e aveva discusso con lui di soldi, di regole e di quello che avrebbe fatto per Jack Ziegler. Sento montare l'irritazione, non verso mio padre ma verso Sally, per avermelo nascosto. Per non avermelo detto prima, temendo la mia disapprovazione. La guardo, e l'irritazione si dissolve. Ha avuto una vita dura, Sally, eppure riesce sempre a trovare l'energia per un sorriso. Come sta facendo adesso, con gli occhi chiusi ma conscia, ne sono sicuro, del mio scrutinio. Non mi piace la direzione che stanno prendendo i miei sentimenti nei suoi confronti. Mi tornano in mente le parole del Giudice: "Nessuno può resistere sempre alle tentazioni. Il trucco sta nell'evitarle". Evitarle. Giusto. Devo trovare un modo di far uscire Sally di qui. Il suo abito è spiegazzato, i capelli costosamente intrecciati un disastro. Sarà un bello spettacolo, quando scenderà nell'atrio. Mi sorprendo a sperare che chiunque la veda pensi che provenga dalla camera di qualcun altro. E d'un tratto mi rendo conto che al suo racconto manca un pezzo. «E Addison dov'era?» domando. Nessuna risposta. Alzo la voce: «Sally?». «Mmh?» «Addison, Sally. Dov'era mio fratello mentre succedeva tutto questo?»
«Addison?» Sally ridacchia. «Be', stammi a sentire.» Si gira sul fianco opposto, rivolgendomi la schiena. Parla lentamente. Il farmaco? L'alcol? La stanchezza? Tutti insieme, suppongo. «Stammi a sentire» ripete. «Hai presente come le scale di servizio arrivano nel piccolo corridoio dietro la cucina? Be', quando sono arrivata al pianterreno la cucina era buia, ma io avevo paura di accendere la luce perché non volevo che lo zio Oliver mi vedesse. Avevo intenzione di uscire dal vestibolo, hai presente? Be', ho fatto due passi e hp sbattuto lo stinco contro uno sgabello. Immagino di aver fatto rumore, perché subito dopo mi ritrovo una mano sulla bocca. Cerco di gridare, cerco di morderla, cerco di scalciare, sono spaventata a morte, e naturalmente è quel maledetto di tuo fratello.» Si ferma un istante, scuote il capo. «Addison» borbotta. «Addison, Addison, Addison.» Il suo mantra. «Addison.» Non aggiunge nulla. «Sally? Cos'ha fatto Addison? Cos'è successo in cucina?» «Mmh? Cucina?» «A casa di mio padre. Quando Addison ti ha tappato la bocca con la mano.» «Ah. Ah, sì. Mi ha detto di stare zitta, e io gli ho chiesto se era rimasto tutto il tempo in cucina, e lui mi ha domandato quale tempo, e io gli ho detto tutto il tempo in cui tuo padre stava discutendo con quel bianco, e lui ha detto quale bianco, e io ho detto il tizio che stava parlando con lo zio Oliver, e lui ha detto che non sapeva di cosa stavo parlando, e io ho cercato di discutere ma lui ha detto che dovevamo andarcene subito. Così siamo usciti dalla porta di servizio e la cosa è finita lì.» Ho la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa. «Sally, ascolta. Svegliati. Sally, gli hai creduto? Hai creduto a Addison? Sul fatto che non aveva sentito niente?» Un'altra risatina. «Credere a Addison? Mi prendi per il culo? Quel negro non ha mai detto la verità in tutta la sua vita.» A mano a mano che la stanchezza si impadronisce di lei, la parlata di Sally si fa sempre meno raffinata. «Direbbe qualsiasi cosa pur di... di ottenere quello che vuole. Di farsi ascoltare.» Ridacchia. «Sally. Sally, ascoltami, per favore. È importante, okay? Credi che Addison avesse sentito la discussione?» «Ma certo.» Un latrato ironico. Sally possiede un notevole repertorio di risate. «Sei sicura?» «Certo che sono sicura.» Un altro sbadiglio, più lungo degli altri. Le re-
stano pochissime energie. «Me l'ha detto quando l'ho chiamato per dirgli quello... per dirgli che lo stesso uomo era a casa vostra il giorno dopo il funerale.» Cosa? «E quando è stato?» «Oh, non so.» Assonnata. «Una settimana dopo, forse due.» Naturalmente. Addison aveva sentito. E non aveva mai detto niente. Come al solito, non aveva scoperto le sue carte. La mia famiglia! Tutto quello che sappiamo fare è mantenere dei segreti. Addison aveva udito la discussione fra mio padre e Colin Scott avvenuta vent'anni fa in Shepard Street; sapeva che Scott era lo stesso uomo che fingeva di essere l'agente speciale McDermott poiché Sally, la sua ex amante, gliel'ha detto una settimana circa dopo il funerale. E non me ne ha mai parlato. Scommetto che non ne ha accennato nemmeno a Mariah, che avrebbe aggiunto l'informazione alla sua teoria del complotto e me l'avrebbe immediatamente riferita. «Sally?» Sta russando. Sospiro e mi metto comodo sulla sedia. Esausto, mi assopisco all'istante e faccio un terrificante sogno di perdizione. Riapro gli occhi di scatto. Un istante di disorientamento, poi la realtà torna a sommergermi. Sto sempre cercando di inseguire un'ombra, mia cugina è ancora addormentata sul letto e sono le undici passate. «Sally, ehi, svegliati. Te ne devi andare. Sally!» Continua a russare. Un respiro pesante, alcolico. Il tipo di respiro che di notte sentivo provenire dallo studio del Giudice ai tempi terribili successivi alla morte di Abby; forse lo stesso tipo che Addison udì al suo rientro dopo aver portato a casa Sally la sera in cui Colin Scott aveva litigato con mio padre. O forse si limitò ad accompagnarla alla fermata dell'S4. Mio fratello, il re dei talk show notturni. Oh, Sally ha capito tutto di lui. Farebbe qualsiasi cosa, direbbe qualsiasi cosa. «Sally? Sally, svegliati. Dai!» Mi alzo e mi avvicino al letto. Addormentata con la bocca leggermente aperta, i piccoli pugni stretti sotto la gola, Sally Stillman ha un aspetto vulnerabile; adesso è facile scorgere la graziosa adolescente che era ai tempi in cui la spiavo mentre folleggiava con Addison a Vinerd Howse. Le poso una mano sulla spalla nuda, e le mie dita si trattengono qualche istante più del necessario. La sua pelle è calda e pericolosamente viva.
«Forza, Sally, coraggio.» Borbotta qualcosa e si raggomitola per sottrarsi al mio tocco. Dubito di poterla svegliare a patto di non scuoterla, cosa che non voglio fare. Gli eventi delle ultime settimane mi hanno reso emotivamente instabile, e ciò che ora desidero di più è accoccolarmi accanto all'ampio corpo di Sally, prenderla fra le braccia e perdermi nel suo tepore. Sono così stanco. Di così tante cose. Di tormentarmi sui complotti, di fuggire al cospetto dei fantasmi, di litigare con mia moglie. Così stanco. E così solo. Decido di non mandare via Sally. Anche se riuscissi a svegliarla, non posso certo spedirla a casa in queste condizioni. Il che significa che dovrà restare nella mia camera d'albergo a smaltire la sbronza. Per il suo bene. Tentazioni. Il trucco è evitarle. «Non è così facile, papà» mormoro sedendomi con delicatezza sul bordo del letto su cui mia cugina continua a dormire, ignara delle mie pene. Mi ripeto che sono un uomo sposato, ma la camera sembra terribilmente angusta, il letto terribilmente grande. Ho la gola secca. Le mie dita, senza che io ordini loro di farlo, si allungano di nuovo verso la spalla tornita e invitante di Sally. Poi ricadono. Evitarle. Vado a prendere un'altra coperta nell'armadio e copro la sagoma sonnacchiosa di Sally. Mi tolgo la cravatta e le scarpe e torno sulla sedia della scrivania per fare la veglia. Che pasticcio. 24 LA DIAGNOSI Percorrendo Seventh Street verso la Howard University si scopre una cittadina universitaria di notevole complessità, sepolta nel cuore di Washington. È lunga soltanto un paio di isolati ed è pertanto facile che passi inosservata, ma c'è. Offre fast food al posto dei negozi di gastronomia, cucine del Sud al posto delle pizzerie, ma vi si trovano anche le solite quantità di uffici, appartamenti e negozi di fotocopie. Certo, questa particolare cittadina universitaria comprende anche un certo numero di finestre sigillate da assi di legno, terreni sfitti e invasi dalle erbacce e magazzini circon-
dati dal filo spinato. Ma se si guarda al di là dei costosi opuscoli diffusi dalla mia università, anche Elm Harbor possiede molte delle stesse caratteristiche negative; e se noi le nascondiamo meglio, è soltanto perché abbiamo più denaro con cui procurarci le mimetizzazioni. È nello stretto budello di Seventh Street che mi reco l'ultimo giorno della conferenza, per pranzare, come mi ha stuzzicato Kimmer quando gliel'ho detto, con un'altra donna. La donna in questione è Lanie Cross, ufficialmente la dottoressa Melanie Cross, ginecologa, ma che si è sempre fatta chiamare Lanie dai figli dei Garland, con profondo dispiacere dei miei genitori. Lei e il suo compianto marito, Leander Cross, un importante chirurgo della nazione più scura, nella mia infanzia erano forse gli anfitrioni di spicco della cerchia mondana della Gold Coast, una cerchia che i miei genitori frequentavano spesso poiché era quello che si faceva a quei tempi: cena elegante a casa di qualcuno il venerdì, brunch a base di champagne a casa di qualcun altro la domenica, con tanto di organizzatori di banchetti, cuochi, perfino maggiordomi provvisori sempre a disposizione mentre la crema della Washington nera si accaniva nella folle imitazione delle idiozie dei bianchi. Eppure, in realtà non era poi così folle. Ai vecchi tempi, soleva dire mia madre, in America c'era soltanto un centinaio di persone di colore che contavano, e queste si conoscevano tutte. Un'affermazione un po' snobistica, ma anche intrigante. La bella società, così inspiegabilmente sprecona e pretenziosa per i suoi critici, rinvigoriva e rafforzava coloro che animavano la scena, dando loro la spinta per affrontare un altro giorno, un'altra settimana, un altro mese, un altro anno sprecando i loro prodigiosi talenti in un paese impreparato a premiarli per le loro qualità. Da bambino adoravo scendere al pianterreno la domenica mattina successiva a una festa data dai miei genitori. Vagavo per le stanze ancora in disordine annusando i bicchieri, toccando i segnaposti, cercando graffi recenti sull'enorme, lucido tavolo di palissandro in sala da pranzo. A volte, mentre i nostri genitori smaltivano dormendo le loro gozzoviglie, noi figli giocavamo seduti a tavola, levando i calici in brindisi che trovavamo spiritosi, cercando con quelle ingenue improvvisazioni di capire in cosa consistesse quello che facevano gli adulti quando stavano alzati fino alle ore piccole, cosa li spingesse a ridere a crepapelle e a chiamarsi allegramente per nome mentre noi ce ne stavamo accovacciati nella tromba delle scale ad ascoltare e cercare di imparare. Sono passati più di trent'anni da quei tempi, e ancora mi chiedo quale fosse il segreto; poiché il tacito sortilegio dell'integrazione è ciò che ha fatto scomparire lo spirito di quelle lunghe
serate felici. Certo, i divertimenti ci sono ancora, e perfino le feste, ma qualcosa del loro carattere è andato perduto, il loro ruolo di sostegno alle comunità si è fatto meno deciso, forse perché le comunità stesse stanno cominciando a scomparire. Kimmer e io viviamo in un quartiere abitato interamente da bianchi, e pochi degli amici della mia adolescenza abitano ancora nei pressi della Gold Coast, a meno che non si tenga conto dei sobborghi più ricchi di Washington. Lanie Cross è un collegamento con quell'era lontana. In un certo senso vive fra i due mondi, il passato e il presente. Forse è a causa della sua età. Suo marito apparteneva alla generazione di mio padre, ma Lanie era più giovane di una quindicina d'anni - nessuno dice che si sposarono quando Lanie studiava ancora alla Howard -, il che significa che oggi ha poco meno di sessant'anni. È una donna alta e attraente, sottile in ogni parte del corpo, dalle gambe alle guance, e con una carnagione che conserva la sua liscia e scura bellezza malgrado stiano cominciando ad apparirle delle grinze sul volto. I suoi occhi grigi brillano giocosi di energia e intelligenza. Quando ero piccolo, tutti i maschi erano invaghiti di lei. Come tutte le sue giornate lavorative anche questa è piena, e quando trovo il suo studio in uno di quei tipici edifici bianchi, tozzi e bassi, la sua severa ma educata receptionist, una donna di una certa età originaria delle Indie Occidentali, mi ordina di attendere. Mi siedo su una panca di legno in mezzo alle pazienti, donne la cui età varia dalla prima adolescenza a una maturità che supera di gran lunga la mia. Sono tutte della nazione più scura. A giudicare dal modo in cui si vestono, molte sembrano appartenere al ceto medio, poiché Lanie Cross conserva una parte della sua vecchia clientela. Ma alcune tradiscono i segni esteriori della povertà, e un paio sembrano soltanto un gradino o due sopra le frequentatrici della mensa gratuita. Si dice che Lanie le curi tutte allo stesso modo, e il mio affetto per lei è tale che mi piacerebbe credere che fosse vero. Lanie è rimasta sorpresa di sentirmi quando le ho telefonato la settimana scorsa, come lo sarebbe stato chiunque di fronte alle improvvise dichiarazioni di amicizia di un individuo con cui non ha scambiato una parola negli ultimi cinque anni, con l'eccezione dell'abbraccio di rito al funerale. L'ho chiamata a casa dopo aver ottenuto il suo numero riservato dalla socievole Mariah, e ho sentito un bambino che piangeva in sottofondo. Lanie mi ha detto che sua figlia e suo genero erano passati a trovarla, e io ho cercato invano di rammentare quanti figli avesse. (Il numero esatto è tre, tutti adottati: Lanie e suo marito non potevano averne.) Quando le ho spiegato
che volevo parlare di mio padre, Lanie si è fatta ancora più guardinga. Alla fine ha acconsentito a pranzare con me, e la ragione credo sia perché è tanto curiosa di sapere quello che ho da dirle quanto io lo sono di sapere quello che può rivelarmi lei. Il suo defunto marito, oltre a essere stato per molti anni un compagno di golf e di poker di mio padre, era stato anche uno dei suoi due veri confidenti - l'altra era mia madre - durante i tempi difficili seguiti alle rivelazioni di Greg Haramoto. Addison mi disse un giorno che i coniugi Cross erano straordinariamente vicini. Spero che sia vero. Sono arrivato in taxi allo studio di Lanie, e così per raggiungere l'Adams-Morgan, il mio vecchio quartiere, prendiamo la sua robusta Volvo, che lei guidava già ai tempi della nomina di mio padre. Ha scelto un ristorante cubano che adora e in cui non va da tempo. È elegante come sempre, con un completo giacca e pantaloni blu scuro che la snellisce e un cappotto di vigogna lungo fino alle caviglie che le sarà costato quanto il mio stipendio mensile. Dev'essere di ritorno in studio alle due, mi dice, quindi dovremo fare in fretta. Durante il coscienzioso tragitto attraverso la città - avevo scordato che Lanie guida con la cautela suggerita dai suoi gusti in materia di automobili - ci scambiamo le prevedibili cordialità di due conoscenti che in realtà non si parlano da mezzo decennio e che non sono mai stati particolarmente in confidenza. Faccio anche attenzione all'eventuale presenza di una berlina verde tanto ordinaria da farsi notare, ma ci sono in giro troppe automobili ordinarie. Lanie, ignara della mia vigilanza, dice di aver visto i miei suoceri a una cena il mese prima e che gli sono sembrati così in forma da poter vivere in eterno; poi capisce come potrei interpretare la sua affermazione e dissimula la gaffe raccontandomi dei suoi figli: il maggiore sta facendo carriera nell'Aeronautica, trascinandosi dietro per il mondo la moglie e i tre figli; quella di mezzo è da poco diventata docente di storia alla Howard, è divorziata e sta crescendo un figlio da sola; e la più giovane fa la casalinga a New Rochelle, allevando tre figli mentre il marito, che "fa qualcosa con le obbligazioni degli enti locali", va ogni giorno in ufficio a Manhattan. Lanie è fiera della sua prole e felice di avere sette nipoti, e io ricordo con disagio come alcuni di noi si prendessero gioco dei giovani Cross per la cieca devozione che manifestavano verso i loro genitori, e considerassero il quinto comandamento come una semplice collezione di sciocchezze appese alla parete dell'aula di catechismo. Ma suppongo che se fossi stato adottato da due genitori amorevoli e generosi come i Cross, anch'io avrei
dato loro la precedenza rispetto a qualsiasi altra cosa. Giunti alla fine degli antipasti, è Lanie a dirottare finalmente la conversazione sullo scopo dell'incontro. «Allora, hai detto che volevi parlare di tuo padre.» «Sì, del suo rapporto con tuo marito.» «Rapporto?» Reggendo il bicchiere d'acqua con la mano sottile, Lanie sembra divertita. Arrossisco leggermente. «Intendo dire, vorrei sapere tutto ciò che sei disposta a rivelarmi su quello che tuo marito ti diceva di mio padre.» «Quello che Leander mi diceva di tuo padre?» «Sì.» «Tutto?» I suoi occhi rivelano un guizzo divertito. Mi ero dimenticato di questa caratteristica di Melanie, il suo modo malizioso di comunicare con gli uomini ripetendo loro in forma interrogativa tutto ciò che le dicono. Pensavo che l'avesse superato, ma potrebbe essere una sorta di istinto, più guardingo che civettuolo. Le piace cogliere gli uomini impreparati in modo da poter essere sempre in guardia. «No, non tutto. Ma ripensando a... be', a quando mio padre ottenne la nomina per la corte suprema ed ebbe tutti quei problemi. Il Giudice non chiedeva consiglio a molta gente, ma so che lo faceva con il dottor Cross. Tutto ciò che puoi dirmi su cosa ti confidò tuo marito... è questo che vorrei sapere.» Lanie si scosta la corta frangetta dalla fronte, poi mangia un paio di bocconi del suo bistec empanizado con fare pensieroso. Mi rilasso sulla sedia e bevo un sorso di Diet Pepsi, aspettando che si decida. Non so perché tutti quelli con cui parlo sembrano molto poco comunicativi. Forse sto agitando il coltello in una piaga comune. «Non c'è molto da dire» si pronuncia finalmente Lanie. Fa un sorriso nervoso, mostrando i denti perfettamente incapsulati. «Leander mi parlava di tuo padre meno di quanto tutti sembrano credere. Molto meno.» Registro la strana parola "tutti" annuendo in segno di incoraggiamento. «Qualsiasi cosa puoi ricordare.» «Non erano tempi facili» mi avverte. «Lo capisco, ma... insomma, ci sono cose che devo sapere.» «Cose che devi sapere?» «Quando la sua nomina... quando le cose precipitarono, lui non ne parlò con molta gente. Ma so che lo fece con il dottor Cross. Con tuo marito. Voglio solo sapere che cosa si dissero. E quale fosse... suppongo che tu lo
definiresti lo stato d'animo di mio padre.» Lanie si sta ancora schermendo. Forse suo marito le ha ordinato di non parlare. «Per quale ragione è così importante per te, Talcott? Ha a che fare con la nomina di Kimmer?» Ahi! Rammento le parole di Mallory Corcoran: "Ma non esistono segreti, in questa città?". Be', non esattamente, come scoprì mio padre. Scelgo con cura le parole. «No, ha a che fare con altre cose che stanno accadendo.» «L'investigatore privato, vuoi dire? Quello che è annegato?» Ancora ahi! «Ehm, sì. Forse. Non ne sono sicuro.» «Ha cercato di interrogarmi, sai. Ha parlato con qualcuno dei vecchi amici. Ma non credo che gli abbiano rivelato un granché.» Riguardo a cosa? Vorrei chiederglielo, ma Lanie non si ferma e io non voglio interromperla. «Non che avessero molto da dire. Stava cercando dei documenti o qualcosa di simile. Non conosco i dettagli, perché mi sono rifiutata di parlargli. Che impudenza!» Aggrotta la fronte e scuote il capo. «Da quello che ho saputo, era peggio di un poliziotto. Disturbava gli anziani a casa loro, li minacciava. Grace Funderburke ha dovuto aizzargli contro il suo cane, mi hanno raccontato. Carl Little lo ha minacciato di tirare fuori la doppietta, anche se probabilmente non la usava da un quarto di secolo. E pare che abbia tormentato Gigi Walker a tal punto che quando se n'è andato la poverina era in lacrime.» «Per quale ragione li tormentava?» domando affascinato. Lanie sembra irritata. «Te l'ho detto, Talcott, non lo so. L'Fbi li ha interrogati tutti. Immagino avesse infranto qualche legge. Ma da quello che so è come ti ho detto: stava cercando delle carte. Documenti che tuo padre avrebbe dovuto lasciare alla sua morte. Tutto qui.» Scrolla le spalle, in modo deciso, per chiudere l'argomento. «Io non gli ho parlato» mi rammenta. Mi concedo un istante, riempiendomi la bocca di riso e fagioli. Se Lanie non ha accettato di parlare con Colin Scott, chi sono i "tutti" che pensavano che suo marito si fosse confidato con lei? Intendeva soltanto i suoi amici della Sixteenth Street? O c'è un livello a cui non sono addentro? Ma mi sento sicuro di una cosa: sono venuto a trovare la persona giusta. «Lanie, parliamo di mio padre, non dell'investigatore.» «Se vuoi.» «Ho bisogno di sapere cosa ti ha detto tuo marito. Per favore. Tutto ciò che ricordi.» «Non mi hai spiegato il perché, Talcott.»
È vero, non l'ho fatto. Mi rendo conto che quello che dico dovrà essere convincente. Se Melanie Cross non ha parlato di queste cose in più di quindici anni, non ho ragione di credere che sia pronta a confessare tutto soltanto perché gliel'ho chiesto io. «Perché forse mio padre voleva che tu me lo dicessi» rispondo. Ho attirato la sua attenzione. I suoi occhi saggi brillano, e le sopracciglia sottili si inarcano con fare interrogativo e dubbioso. «Mi ha lasciato una lettera» le spiego. Lanie Cross non mi chiede cosa contiene la lettera. Si limita ad annuire, forse per la rassegnazione. «Tal, sentire queste cose potrebbe non essere facile.» «Lo so, ma credo di doverlo fare.» «Di volerlo fare, intendi.» «Non credo che questa storia c'entri più niente con quello che voglio.» Lanie non è soddisfatta. «Tal, capisci, il mio Leander era un chirurgo, non uno psicologo. Ma... e va bene. Vuoi sapere cosa accadde dopo le udienze? D'accordo, te lo dirò.» E così fa, senza tanti fronzoli. «Leander mi disse che tuo padre aveva avuto un esaurimento.» «Un esaurimento? Che cosa significa un esaurimento?» «Lo sai cosa significa. Un esaurimento nervoso. Lui... Quando le storie su Jack Ziegler cominciarono a diffondersi, Oliver prese a telefonare a Leander nel mezzo della notte; quella prima settimana l'avrà fatto due o tre volte. Il telefono squillava alle due del mattino, Leander rispondeva e io restavo lì sdraiata a guardarlo; sussurrava qualche parola, poi impallidiva e io capivo che stava cercando di dire la cosa giusta, di consolarlo, ma dopo un po' non riusciva più ad andare avanti. Poi mi diceva che era Oliver, e che stava piangendo al telefono. Mi dispiace, ma è questo che diceva. Che tuo padre piangeva e continuava a ripetere frasi tipo: "Come ha potuto farmi questo?". Intendeva il cancelliere, quello che aveva testimoniato contro di lui. Oppure: "Ho fatto tutto quello che dovevo fare, ho svolto bene il mio lavoro, come ha potuto mettermi in questa posizione? Che ne è stato della fedeltà?". E così via. Leander temeva per lui. Per le cose che diceva sul suo cancelliere, e anche... be', gli sembrava che fosse ubriaco.» «Ubriaco! Ma... ma aveva smesso di bere quando... anni prima.» Lanie scuote il capo. I suoi occhi grigi sono solenni e comprensivi, come devono essere quando rivela a una paziente che ha un cancro alle ovaie. «Immagino che avesse ripreso. O almeno è quello che pensava il mio Le-
ander. E...» «Aspetta. Aspetta un secondo. Se avesse ripreso a bere, l'avrei saputo.» «Per quale ragione?» «Be', prima di tutto, quando successe il disastro io rientrai da Elm Harbor. E mio padre non mi disse niente. Non sono nemmeno sicuro che mi volesse fra i piedi.» Sento un improvviso grumo caldo in fondo alla gola. Non ho mai voluto ripensare a quei giorni, non mi sarei mai aspettato di doverlo fare. «Lui... lui non mi disse niente» ripeto cercando di riprendere il filo. «E nemmeno mia madre. Suppongo non fossero... non fossero due persone che parlavano molto di... quello che provavano. Dei problemi che avevano. E così quando successe, quando la sua nomina venne ritirata, noi... noi figli... non riuscimmo a farli parlare. Ma bere... il fatto che stesse bevendo...» Non termino la frase. Gli occhi velati di lacrime mi bruciano. Ricordo le poco sottili allusioni di Wallace Wainwright durante il nostro incontro di ieri: non era in sé, non sapeva quello che diceva. Forse io ero l'unico a non aver capito che mio padre, spinto dal dolore e dall'umiliazione, era tornato a rifugiarsi nella bottiglia. Melanie Cross è abbastanza esperta da sapere che certe volte non devi cercare di consolare i tuoi pazienti, e non dice nulla. Attende. Per un terribile istante rivivo il crollo improvviso dalla gioia all'orrore, da una casa messa a soqquadro dalle telefonate, dagli amici e dai telegrammi per un Giudice che stava per diventare membro della corte suprema alla solitaria, coraggiosa, disperata veglia funebre che seguì a mano a mano che gli amici scomparivano e il telefono taceva - con l'eccezione degli implacabili media - quando fu chiaro che a essere rovinata non era soltanto la candidatura ma anche la carriera stessa di mio padre. A quei tempi stavo affrontando il mio terzo e conclusivo anno di specializzazione; avevo saltato le lezioni per le prime, gloriose giornate delle udienze, e poco più di due settimane dopo mi trovavo di nuovo in fondo all'aula mentre la testimonianza di Greg Haramoto e un'onda sismica di prove a carico travolgevano le dichiarazioni di innocenza di mio padre. Dopo quel primo, meraviglioso mattino mi trattenni in Shepard Street mentre sostenitori e arrampicatori sociali entravano e uscivano dalla porta e i miei genitori, nel loro atteggiamento più regale, accettavano l'adulazione come se fosse loro dovuta. Ma quando la diga cedette, quando avrei voluto aiutarli, divenne chiaro che nessuno dei miei genitori sapeva che farsene di me. «Non passavo molto tempo a casa» aggiungo alla fine. «Stavo ancora studiando.»
«Me ne ricordo» dice Lanie con un sorriso di affettuosa rimembranza e maliziosa complicità. «Tu e Kimmer avevate appena cominciato a uscire insieme, vero?» Esito, poiché Lanie, forse involontariamente, mi ha teso una piccola trappola verbale. Nel 1986, ai tempi della nomina di mio padre, Kimmer e io eravamo compagni di corso ma niente di più, ognuno dei due - teoricamente, quantomeno - impegnato con qualcun altro. In realtà ci trovavamo nella fase "oh-no-aspettiamo-di-vedere-come-si-mette-con-..." intenti a rinfocolare quella che era stata una relazione alquanto passionale; come molti giovani di quell'era - o di questa, in effetti - eravamo infatuati dell'idea, pericolosamente antitetica alla vita civile, che obbedire ai nostri istinti non fosse soltanto un diritto ma anche una responsabilità. In un modo o nell'altro, questa tendenza è sempre stata il motivo conduttore della nostra attrazione reciproca: per tre volte, o forse di più (dipende da come le si conta), ci siamo ritrovati l'uno nelle braccia dell'altra mentre almeno uno dei due apparteneva a qualcun altro. Impreparato a confessare a Lanie ciò che sanno tutti, decido come spesso mi accade che la risposta migliore sia una divagazione. «Potresti avere ragione. Sul fatto che mio padre bevesse, voglio dire. In quei giorni non vivevo a casa. Se mio padre beveva di notte... be', avrei potuto esserne all'oscuro.» «Mi dispiace, Tal.» «No, va bene. È... credibile.» «Sai, Tal, mio marito cercò... la prima volta, dopo che Abby... cercò di trovare qualcuno che aiutasse tuo padre. Ma Oliver continuava a rifiutare. E poi, naturalmente, smise da solo.» Lanie tamburella con le dita sul tavolo. «Leander diceva che tuo padre sembrava sempre offendersi ogni volta che lui gli suggeriva la terapia.» «Non mi stupisce.» Sospiro, il cuore appesantito dai ricordi. «Considerava la terapia come la risorsa finale dei deboli di spirito.» «L'alcolismo è una malattia...» attacca automaticamente il dottore che è in lei. Ridendo, alzo le mani in un gesto di resa. «Non mi devi convincere. Lo so che è una malattia, e so anche che rivela una tendenza genetica, due delle ragioni per cui non tocco quella roba.» Poi torno a rattristarmi. «E se è davvero una malattia e mio padre non si è mai curato... be', posso capire che abbia ricominciato.» Mi sta passando l'appetito, e giocherello con il cibo nel piatto. Non sono venuto per sapere queste cose. Tutto ciò che ho
fatto è stato riaprire le ferite mai rimarginate di quei giorni debilitanti. Ciò nonostante, insisto. «È tutto qui il racconto di tuo marito? Il bere? Le... telefonate deliranti?» «Be', no. No, c'era dell'altro.» Lanie schiocca la lingua con fare assorto. Sta per lasciar cadere un altro velo, e si sta palesemente chiedendo se dovrebbe. «Gli scacchi, per esempio.» «Gli scacchi? Quali scacchi?» Lanie riflette corrugando la fronte ampia. Si scosta un'altra volta i capelli, si porta alle labbra una forchettata di insalata. Aspetto che finisca di sorseggiare l'acqua. «Certe sere, Leander passava a trovare tuo padre, sia durante quel periodo che... che dopo. Non sempre lo avvertiva...» «Perché voleva controllare se beveva» suggerisco. «In parte suppongo di sì. Ma non dimenticare, Tal, che appartenevano a un'altra generazione. Presentarsi senza preavviso a casa di qualcuno era ciò che facevano gli amici. Non era come oggigiorno, in cui nessuna casa è in ordine o pronta a ricevere estranei, in cui si avverte prima perché la si possa sistemare. Le case, la vita delle persone erano più... oh, più aperte, in un certo senso. Non che la gente non avesse segreti, ma capisci, c'era sempre la sensazione che... che i tuoi amici potessero vederti per quello che eri in realtà. Sai cosa intendo.» «Sì.» Faccio un lieve sorriso, sperando che Lanie si sbrighi: è l'una e un quarto, e so che ha una paziente alle due. O forse sono i miei ricordi segreti di questo stesso quartiere a generare l'inaspettato impulso di accelerare i tempi. A pochi isolati di distanza, su Columbia Road, c'è l'appartamento in cui abitavo alla fine degli anni Ottanta e in cui Kimmer, malgrado fosse sposata con André, trascorreva talvolta la notte. Probabilmente abbiamo consumato qualche pasto furtivo anche in questo ristorante. «Comunque, Leander passava da voi e di solito trovava tuo padre nel suo piccolo studio - sai di quale parlo - davanti alla scacchiera, quella di cui andava così fiero e di cui mostrava i pezzi a tutti, intento a giocare da solo.» Lanie fa una smorfia. «No, non esattamente. Fammi pensare. Non so molto degli scacchi, perciò mi riesce difficile ricordare con precisione. No, non giocava. Cercava... risolveva rompicapi scacchistici.» «Problemi.» «Mmh?» «Problemi scacchistici. A mio padre piaceva... Si dice comporre. Gli piaceva comporre problemi scacchistici. Immagino che lo si potrebbe definire il suo hobby.»
«Esatto!» Il suo volto si illumina. «Ricordo che Leander mi disse di credere che fosse un'ottima terapia, che poteva essere molto rilassante per tuo padre, tranne che...» «Tranne cosa?» Sto esaurendo la pazienza oltre che il tempo a disposizione, e vorrei che parlasse chiaro. Lanie mi guarda dritto negli occhi. Ha avvertito il mio stato d'animo ed è pronta a rivelarmi la nuda verità. «Leander temeva che quella di Oliver fosse diventata una fissazione. Che fosse ossessionato dai problemi scacchistici. Non giocava nemmeno più a golf, era sempre chino sulla sua scacchiera. Aveva quasi smesso anche con il poker. Sto parlando dei mesi successivi al... al problema della nomina. E così Leander andava a trovarlo in Shepard Street. Tua madre lo faceva entrare, e lui raggiungeva lo studio sul retro. Il migliore amico di Oliver, e Oliver non si alzava. A volte non sollevava nemmeno lo sguardo dalla scacchiera. Continuava a ripetere che perfino gli scacchi erano truccati, che il bianco muoveva sempre per primo, che solitamente vinceva, che il nero poteva soltanto reagire a ciò che faceva il bianco, e che anche se faceva una partita perfetta, per nutrire una qualsiasi speranza di vittoria doveva comunque aspettare che il bianco commettesse un errore... e così via.» Si acciglia rammentando un'altra cosa. «Ma... credo di ricordare che Leander disse che era proprio questa la ragione per cui a Oliver piaceva... come si dice? Comporre. Gli piaceva comporre problemi perché ce n'era un tipo speciale in cui il nero muoveva per primo...» «Si chiama aiutomatto» dico, anche se questo non è mai stato il lato degli scacchi che mi affascina. Ma qualcosa nella mia memoria sta tornando a galla. «Il nero muove per primo, e nero e bianco collaborano per dare scacco matto al re nero.» Lanie inarca un sopracciglio sottile per mostrarmi cosa pensa di tutto ciò. «Sì, è possibile. Ma Talcott, il fatto è che tuo padre continuava a ripetere che sarebbe stata la sua redenzione, che non era riuscito a vincere in un campo ma avrebbe vinto in un altro. E... non ricordo molto bene, ma Leander mi disse che stava lavorando a un problema scacchistico speciale, qualcosa che non era mai stato fatto prima, e che pensava di poterlo risolvere... o comporre, immagino... e che avrebbe riparato a quello che era successo con la sua nomina alla corte suprema. Qualcosa circa un re? Doppio... qualcosa. Non ricordo come si chiamava. Gli scacchi non sono il mio forte. Ma Leander ripeteva che tuo padre sembrava così... accanito, così ossessionato che per un certo periodo non pareva dedicarsi ad altro.
Perfino nel suo lavoro stava cominciando a perdere colpi, così diceva Leander. E tutto per... per comporre il suo problema scacchistico. Ed è per questo che mio marito temeva che Oliver avesse... una sorta di esaurimento. O almeno così diceva.» Controlla l'ora, e io capisco che il tempo è scaduto. Tornati in Columbia Road, la cara vecchia Lanie torna a essere la dottoressa Melanie Cross, e all'improvviso è anche ansiosa di sbarazzarsi di me. Vorrei chiederle se abbia mai sentito che mio padre stava cercando di procurarsi una pistola, o se sappia cosa potrebbe averlo spaventato un anno prima di morire, ma non riesco a trovare un modo di formulare la domanda che non suoni assurdo. L'accompagno alla sua Volvo. Non torno con lei fino alla Howard poiché il mio albergo si trova in fondo alla collina, a dieci minuti di cammino. Le sto tenendo aperta la portiera, e lei mi dice quanto sarebbe bello far incontrare Bentley e i suoi nipotini, che è un vero peccato che non ci si veda più spesso, e io annuisco nei momenti giusti quando finalmente il pensiero che stava cercando di farsi strada nella mia mente prorompe all'improvviso. «Lanie?» «Sì?» Per metà a bordo della Volvo e per metà fuori, Lanie alza gli occhi sorpresa e appena irritata. Con la testa è già rientrata nel suo studio, e si è liberata di una conversazione dolorosa per lei quasi quanto lo è stata per me. «Lanie, un'ultima cosa. Il problema scacchistico a cui stava lavorando mio padre, quello che credeva avrebbe potuto cambiare tutto se soltanto fosse riuscito a risolvere...» «Sì?» «Puoi provare a ricordare come si chiamava? Hai detto... doppio qualcosa?» «Non sono molto preparata sugli scacchi, Tal.» Sorride per celare la sua impazienza. «Lo so, lo so, scusami. Ma non riesci a ricordare niente che potrebbe aver detto tuo marito? Per favore. So che hai fretta, ma è importante.» Torna ad aggrottare la fronte con espressione distante. Poi scuote la testa. «Mi dispiace, Tal, è passato troppo tempo. Non mi viene. So che Leander ha fatto un nome, diceva che tuo padre continuava a chiamarlo per nome, il problema scacchistico, intendo. Ma mi dispiace, proprio non me lo ricordo. Dovrei saperlo, Leander ne parlava così spesso. Vediamo. Forse "doppia eccellenza"? O "tripla eccezione"? Qualcosa di simile.» Mi guarda
un'altra volta, la tipica dottoressa che va di fretta. «Grazie per il pranzo, Tal, ma ora devo proprio scappare.» «Lo so» mormoro, improvvisamente sconfortato. Ora ricordo ogni cosa. Il problema che il Giudice sperava di comporre. Quello di cui mi parlava ogni tanto quando ero molto più giovane, malgrado le sue spiegazioni mi annoiassero a morte. In questo momento rimpiango di non ricordare di più. «Grazie per averci provato. E grazie per la disponibilità.» «Il piacere è mio.» Lanie Cross si illumina in volto mentre si mette al volante dell'auto in un vortice di braccia e gambe sottili. Chiudo la portiera con forza, e lei abbassa il finestrino. «Ah, mi è venuta in mente un'altra cosa. Leander mi disse che tuo padre continuava a ripetere di essere stufo che il bianco vincesse sempre. Che avrebbe fatto sì che vincesse il nero.» «Alludeva al problema scacchistico? Che avrebbe vinto il nero?» «Credo di sì. Mi dispiace, non ricordo altro.» Mi scocca un sorriso frettoloso. «Allora, Tal, organizziamo una riunione di famiglia, magari l'estate prossima a Martha's Vineyard.» «Sarebbe carino» dico piano, ma la mia mente è altrove. Mentre osservo la Volvo scomparire nel brulichio del traffico sto pensando a mio padre, folle di paura e di rabbia dopo il fallimento della sua nomina, seduto da solo una notte dopo l'altra nel suo minuscolo studio, indifferente alle offerte di aiuto dei suoi più vecchi e cari amici, attaccato alla bottiglia, incurante del fatto che il resto del suo mondo sta crollando intorno a lui, intento a sistemare ogni cosa con la composizione di uno speciale problema scacchistico denominato "doppio Excelsior". 25 UNA RICHIESTA RAGIONEVOLE «Vorrei chiederti un favore» mormora il reverendo dottor Morris Young. «Ma certo» rispondo piano, poiché il dottor Young trasuda una pace che tranquillizza coloro che lo circondano e un potere che sembra portare tutti a dirgli di sì. «Spero di non imbarazzarti.» «Dipende dal favore.» Morris Young sorride. Quando è allegro, il suo volto butterato e arancione bruciato sembra dolcemente arrotondato, e diffonde calore su tutti coloro che gli sono vicini. Quando è adirato, lo stesso volto è tutto linee severe, angoli retti e giudizi inappellabili. I suoi capelli sono radi e grigi; i
suoi occhi arrossati non sono più penetranti, nemmeno con l'aiuto degli spessi occhiali; le sue labbra sporgono in modo insolente, malgrado lui sia tanto umile quanto è possibile esserlo. Pur essendo corpulento, in pubblico indossa solo abiti di lana scura con il panciotto, camicie bianche e cravatte scure, richiamo a una generazione precedente di predicatori. Ha poco più di settant'anni, ma possiede tutta l'energia evangelizzatrice dell'era della cristianità "gagliarda". È il pastore della Chiesa Battista del Tempio, probabilmente l'istituzione più potente del malconcio avamposto di Elm Harbor della nazione più scura, il che lo rende, a detta di molti, il nero più influente della città. È anche, con la possibile eccezione del mio collega Rob Saltpeter, l'uomo più squisito che io abbia il privilegio di conoscere. È per questo che l'estate scorsa, depresso per lo stato del mio matrimonio, ho scelto lui come mio consigliere. Ed è per questo che ho deciso di aver di nuovo bisogno di parlare con lui. Lo scorso fine settimana, al mio ritorno da Washington, mi sono ritrovato ad affrontare un uragano. "Non ti basta sbavare dietro a mia sorella, adesso devi passare la notte con quella grassa puttanella di tua cugina!" Evidentemente qualcuno mi aveva visto salire in camera con Sally e l'aveva detto a qualcun altro, il quale l'aveva detto a qualcun altro, e nel giro di mezza giornata la voce era giunta a Elm Harbor. E come qualsiasi altro uomo sposato d'America che si è trovato in questa situazione, io ho alzato le mani in segno di pace e ho insistito: "Non è successo niente, tesoro, te lo giuro", che nel mio caso è la verità. Kimmer non si è lasciata placare. "E allora? Tutti pensano che sia successo, Misha, ed è quasi la stessa cosa!" Sono rimasto ferito nel rendermi conto che mia moglie era meno interessata a ciò che avevo fatto che a quello che la gente crede abbia fatto; che mia moglie, dopo avermi da tempo liberato dalla prigione ottundente delle aspettative dei miei genitori, mi ha rinchiuso nell'angusta segreta delle sue. Le ho risparmiato la triste conclusione della mia notte con Sally. E così ho omesso vigliaccamente di raccontare come sia rimasto sveglio per metà della notte sulla scomoda sedia di legno, lottando contro l'impulso di coricarmi sull'altro letto nel timore che Sally si svegliasse e fraintendesse la situazione. Non ho detto a mia moglie di essermi svegliato di soprassalto il mattino seguente nella medesima posizione, con la sensazione di aver trascorso la notte con il corpo prigioniero di uno strumento di tortura medievale, con la bocca legata e ovattata, il cuore che mi martellava nel petto e la vaga lussuria della sera prima ridotta ormai a un ricordo lontano e a ma-
lapena avvertibile. Mia cugina dormiva ancora, il respiro regolare, e alla luce inclemente del giorno era tornata a essere la torpida, grassa Sally Stillman. Non ho avuto alcun problema a scuoterla per svegliarla. Non era più spiritosa, carina o audace: i suoi occhi erano gonfi e rossi, era arruffata, in preda al panico e preoccupata di essere in ritardo per il lavoro e di essere scoperta da Bud, il quale è evidentemente più presente nella sua vita di quanto lei ammetta. Non vedeva l'ora di uscire da quella stanza. Il suo soprabito, sfortunatamente, era nel guardaroba al pianterreno. Per coprire il suo vestito spiegazzato le ho prestato il mio malconcio Burberry, che ha promesso di rispedirmi con la Federal Express. Ha passato qualche minuto in bagno a sistemarsi la faccia, parole sue, e poi se n'è andata. Resta da vedere se si sia portata dietro la mia reputazione. Eppure la mia vita prosegue. Avanti e sempre più in alto, si potrebbe dire vista l'enfasi posta da mio padre sulla parola "Excelsior". Questa mattina all'Oldie ho subito un breve e rispettoso interrogatorio da parte di due pacifici agenti dell'Fbi, questa volta riguardo a mia moglie. Kimmer, che è già stata interpellata due volte, è eccitata. Pensa che i pronostici possano essere favorevoli a patto che, come si esprime lei, restiamo sulla stessa pagina. Durante la colazione mi ha fatto provare e riprovare quello che avrei dovuto dire e quello che avrei dovuto omettere. Non vuole altri accenni alle disposizioni sui documenti ufficiali. Io ero troppo sfinito per discutere, e a parte tutto desidero sinceramente che ottenga ciò che le sta a cuore. E così ho rispettato il copione. «Ci conosciamo da tanto tempo, Talcott» dice il dottor Young sporgendosi e giungendo le mani sull'immacolata scrivania. Il suo ufficio nel seminterrato della chiesa è stipato e mal ventilato, e la conduttura del riscaldamento è rumorosa. Io sto sudando, il dottor Young no. La sua cravatta è perfettamente annodata, la sua camicia è fresca e pulita malgrado sia tardo pomeriggio. «Quanti anni sono?» «Da quando i suoi ragazzi mi hanno fatto fare la figura dello stupido.» Una risatina. «Non sono stati loro a farti fare la figura dello stupido, Talcott. Un uomo può farlo soltanto da sé. Ti hanno solo trattato come trattano qualsiasi altro estraneo. E puoi star certo» aggiunge alzando una mano carnosa per prevenire la mia interruzione «che gli ho fatto passare un brutto quarto d'ora. Tu sai che cosa insegniamo nel programma. Insegniamo a capire che ogni essere umano, bianco o nero, marrone o giallo, ricco o povero, poliziotto o spacciatore, che ci aiuti o ci faccia del male, ogni persona che conosciamo è fatta a immagine e somiglianza di Dio, e pertan-
to è nostro compito cercare quell'immagine in ogni nuovo incontro.» «Credo di averlo già sentito, dottor Young.» Tocca a me sorridere. «Lo so, sono un po' un disco rotto. Ma hai visto anche tu come sono i ragazzi.» «L'ho visto» rispondo, e in questo momento preferirei parlare dei ragazzi del suo programma "Fede Vita Mestieri" che di qualsiasi altra cosa, anche se prima o poi dovremo parlare... be', del mio matrimonio. Sto cercando di essere calmo e paziente, mentre Kimmer continua a fare pressioni con una scintilla di disperata preoccupazione negli occhi. E il dottor Young, nel suo modo gioviale ed evangelico, mi sta aiutando. Così come mi aiuta il suo discorso sui ragazzi. «Abbiamo fatto qualche progresso» mormora il pastore, e sulle prime non sono sicuro se si riferisca a me o ai ragazzi. Si sporge un'altra volta verso di me, e i suoi occhi castani sono vividi. «Capisci, Talcott, tutto ciò che questi giovani hanno imparato dal mondo è la sfiducia. Sai quanti di loro hanno conosciuto il proprio padre? Più o meno uno su dieci. Sai quanti hanno fratelli o amici che spacciano? Più o meno nove su dieci. Metà di loro ha subito un arresto. Alcuni sono stati in prigione. Nessuno ha conservato un vero impiego per più di pochi mesi. Non sanno cosa sia un lavoro. Quando il principale dice loro cosa fare, credono che li stia insultando. Pensano che i clienti siano una scocciatura. Non hanno avuto alcuna educazione. Le scuole li hanno traditi. Le madri sono intrappolate dal sussidio di disoccupazione, ma cos'altro dovrebbero fare? E così i ragazzi reagiscono. Odiano i bianchi, e li temono. I neri di successo» aggiunge puntandomi un dito grassoccio contro il petto «odiano anche loro ma non ne hanno paura. Odiano il mondo intero, Talcott, per averli abbandonati, per aver abbandonato le loro madri e le madri delle loro madri. Come fanno a vedere Dio nel prossimo? Non lo vedono nemmeno in loro stessi.» «Credo che questo me l'abbia già detto.» Morris Young annuisce soddisfatto. Il suo volto torna a rilassarsi nella solita espressione di tranquilla serenità. Lo conosco da circa sei anni, da quando mi invitò a parlare ad alcuni dei giovani di colore del suo programma per ragazzi a rischio. Preparai una lezione di mezz'ora su alcuni eroi del movimento per i diritti civili. Fu un disastro. I più piccoli si addormentarono; i preadolescenti cominciarono a bisbigliare fra loro; i più grandi, carichi d'oro e di spocchia, ostentarono la loro noia. Nessuno sembrava lontanamente interessato a qualsiasi cosa andasse al di là delle loro esperienze immediate. Al misericordioso scadere del tempo, il dottor
Young scosse il capo e disse: "Benvenuto nel mondo reale". Qualche mese dopo convinsi il mio collega Lemaster Carlyle, l'ex pubblico ministero, a parlare agli stessi ragazzi del sistema penale. In piedi in fondo all'aula, lo osservai chiamarli in causa su qualsiasi argomento, dal modo in cui la giuria li avrebbe guardati ("Ti giudicheranno colpevole nel giro di un paio di minuti, se entrerai in un'aula di tribunale come sei entrato in questa") a come evitare di farsi sparare da un poliziotto ("Limitarsi a dire 'Sissignore' e 'Nossignore' e tenere le mani bene in vista è molto meglio che dirgli di levarsi dai piedi, anche se ve li sta pestando"). Non definirei l'esibizione di Lem affascinante, ma i ragazzi lo presero in simpatia come non avevano fatto con me. Da quel giorno, io parlo ai ragazzi almeno due volte all'anno, e Lem Carlyle, la stella dei telegiornali della sera, è tornato soltanto un'altra volta. Eppure è di lui che si ricordano. Sì, va bene, sono geloso. Ora, seduto nel seminterrato della chiesa, scambio altri convenevoli con il dottor Young e aspetto che arrivi al punto. Mi ha rivolto le appropriate parole di consolazione per la scomparsa di mio padre e la morte di Freeman Bishop, che sapeva essere il nostro sacerdote di famiglia allo stesso modo in cui sembra sapere tutto su qualsiasi afroamericano in città. Mi ha chiesto come stanno mia moglie e mio figlio, e io ho chiesto notizie di sua moglie e delle sue tre figlie, la maggiore delle quali frequenta il primo anno di legge all'università statale. Ho sempre ammirato il dottor Young per non avermi chiesto aiuto per far ammettere sua figlia alla nostra facoltà e per il modo educato ma deciso in cui ha declinato l'offerta che gli ho fatto spontaneamente. "Il Signore ha donato un talento a Patricia, e lei arriverà fin dove la porteranno il suo talento e il suo rendimento, Dio sia lodato" si è limitato a dire. E noi l'abbiamo respinta. «Allora» mormora il buon reverendo «suppongo che dovremmo tornare al litigio con tua moglie.» «La prego.» «Ammetti, vero, di aver commesso una sciocchezza?» «Sì.» «Una donna nella tua camera d'albergo» mormora. «Mi rendo conto che è stato uno sbaglio. Non avevo le idee molto chiare.» Annuisce. «Sai, Talcott, conosco un uomo, un buon cristiano, un pastore e un vecchio amico, che non resta mai solo con alcuna donna che non sia
sua moglie. Nemmeno per un istante. Se è in viaggio, insiste che sia un uomo ad andarlo a prendere all'aeroporto. Se deve parlare con una parrocchiana, con lui c'è sempre sua moglie o una diaconessa. Sempre. In questo modo non sorge mai nemmeno la traccia di uno scandalo.» Mi sforzo di non sorridere. «Non credo che funzionerebbe nel mio mondo. La gente la chiamerebbe discriminazione sessuale.» «Uno strano mondo.» Il dottor Young sembra sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi decide di non insistere. «Ma, come dicevo, è facile capire la rabbia di tua moglie, non credi? L'hai ferita, Talcott, hai danneggiato la sua reputazione...» All'improvviso non riesco a controllarmi. «La sua reputazione! È lei l'adultera, non io! Non ha il diritto di infuriarsi solo perché... solo perché la gente pensa che io abbia combinato qualcosa!» «Talcott, Talcott. La rabbia non è un diritto. È un'emozione. Proviene dalla nostra paura o dalla nostra sofferenza, e noi creature spezzate ne possediamo in abbondanza. I peccati di tua moglie, le sue debolezze, non ti danno alcun diritto di imporle altro dolore. Sei suo marito.» Giunge le mani e si ingobbisce sulla scrivania, io lo imito avvicinandomi. «Ti ho chiesto numerosi favori per i ragazzi, e tu sei sempre stato più che generoso.» Faccio una smorfia. Uno dei favori è stato accompagnarli in spiaggia insieme ad altri tre o quattro adulti, evento che ha confermato la mia assoluta mancanza di ascendente su di loro. Un altro è stato convincere il mio celebre studente Lionel Eldridge, l'ex stella del basket nota come Sweet Nellie, a parlare ai ragazzi la scorsa primavera. Lo sto ancora pagando, poiché Lionel, avendomi accontentato, sembra pensare di non dover terminare la prova scritta sul seminario... della scorsa primavera. «La ringrazio, dottor Young, era il minimo che potessi fare.» «Stai accumulando tesori in paradiso, Dio sia lodato. Sei un brav'uomo, e il Signore ha del lavoro importante per te.» Annuisco senza rispondere. Anche se ogni cristiano credente capisce che è Dio a guidare i nostri passi, sono sempre meno quelli che insistono sull'argomento. Un Dio impegnato attivamente in questo mondo ci mette a disagio. Tendiamo a preferire un Dio distante e malleabile, pronto a piegarsi di fronte a ogni nuova idea umana. Un Dio con una sua precisa volontà fa troppa paura, e fra l'altro potrebbe intralciare i nostri piaceri o i nostri desideri immediati. O almeno così ha scritto mio padre, non so bene dove. «Ma il favore che sto per chiederti... ebbene, è un favore che voglio che
tu faccia a te stesso.» Il dottor Young torna ad abbandonarsi sulla sedia cigolante. «Vedi, Talcott, quando ti sei rivolto a me perché ti aiutassi hai detto di credere che tua moglie avesse una relazione. Volevi che Kimberly venisse insieme a te, lei si è rifiutata e alla fine ti sei presentato da solo. Ricordi? Ciò nonostante, Dio sia lodato, voi due siete ancora sposati e tu, Talcott, ti sei impegnato a restare al fianco di tua moglie finché morte non vi separi, come insegnano le Sacre Scritture.» «Sì.» «O a meno che non sia lei a lasciare te.» Deglutisco. «Sì.» «Siete una sola carne, Talcott, tu e tua moglie. È questo il matrimonio cristiano.» «Lo so.» «Allora, forse, è giunto il momento di trovare il coraggio di perdonarla.» «Perdonarla per...» «Per le sue trasgressioni nei tuoi riguardi, Talcott. Reali o immaginarie.» È un colpo inaspettato. E lui lo spara sorridendo. «Che cosa... quando dice immaginarie, sta insinuando che io...» Giunge le mani grassocce in grembo e fa ruotare la sedia prima da una parte, poi dall'altra. «Quest'estate ti sei rivolto a me dicendo che tua moglie aveva una relazione con un collega. Ma, per quanto ne sappia, non hai alcuna vera prova.» «Non ho prove che potrebbero reggere in tribunale, ma... be', un marito certe cose le capisce...» «Talcott, ascoltami. Mi hai detto che di frequente lavora fino a tardi e che spesso non la trovi in ufficio quando la chiami, a volte per ore. Va spesso fuori città con il suo capo, e quando sono in viaggio sembra svolgere molte riunioni insieme a lui. Perché dovrebbe essere impossibile, Talcott, che tua moglie sia semplicemente una gran lavoratrice, appassionata della sua professione e tenuta in gran conto dal suo principale? Se fosse un uomo a lavorare così tanto nello stesso studio, e a fare le stesse cose, concluderesti che ha una relazione con il principale?» Odio essere messo all'angolo in questo modo, ma il dottor Young è un esperto. «Dimentica quelle telefonate furtive...» «No, Talcott, non le ho dimenticate. State cenando o siete a letto, squilla il telefono, tua moglie risponde e dice: "Mi dispiace, Jerry, ora non posso parlare". E quando le chiedi spiegazioni, lei replica: "Oh, non volevo che ci interrompesse".»
«Esatto.» «Un'interpretazione è che lei e Jerry, o chiunque fosse veramente all'altro capo del filo, abbiano effettivamente una relazione. Ma un'altra è che tua moglie ti stia semplicemente dicendo la verità. Non vuole rovinare i momenti preziosi che passa con te e con vostro figlio facendosi coinvolgere in una lunga conversazione telefonica.» Scuoto il capo, sicuro che non possa essere così semplice, ma all'improvviso sono assalito dai dubbi. «Io... bisognerebbe conoscere Kimmer. Il tipo di persona che è. Totalmente votata al suo lavoro. Non esiterebbe a interrompere la nostra pace domestica per una telefonata di affari.» «Talcott, Talcott.» Il dottor Young sorride con quella sua espressione da vecchio zio. «Forse tua moglie avverte nel vostro matrimonio le stesse tensioni che percepisci tu. Forse si sente parzialmente in colpa per il modo in cui lavora. E sta cercando a suo modo di riparare.» «Non lo so...» «È proprio questo, il punto.» È un affondo da avvocato esperto. «Non lo sai!» Eccitato, si allunga verso di me attraverso la scrivania, impresa non facile per un uomo della sua mole. «Non sai di sicuro se ha in corso una relazione con il suo capo. Non sai di sicuro se ne abbia mai avuta una. Tranne l'unica che conta, naturalmente.» «Quale?» «Poco più di dieci anni fa, Talcott, a Washington. Quando era sposata con André. Parlo della relazione che aveva con te.» Sbatto le palpebre. L'affondo mi ha colpito, com'era sua intenzione che facesse. Dicono che il dottor Young facesse il pugile quand'era nell'esercito, negli anni Cinquanta. Ci credo, poiché possiede la mentalità del pugile, l'abilità di schivare e colpire di rimessa, colpire di rimessa e schivare per poi assestarti un diretto destro. «Io... non vedo cosa c'entri.» «Forse non c'entra. Forse sì. Magari stai solo supponendo che tua moglie faccia a te quello che insieme avete fatto al suo primo marito.» Un altro colpo giunto a segno! Barcollo attaccato alle corde mentre i ricordi mi attraversano la mente a velocità vertiginosa. Kimmer e io uscivamo insieme durante il primo anno della specializzazione in legge, ma quell'estate lei mi lasciò perché trovava che uno dei nostri compagni di classe fosse più interessante. Riprendemmo a frequentarci al terzo anno, ma lei mi lasciò tre mesi prima della laurea, ancora per un altro studente anche se non per lo stesso. A Washington passò due anni uscendo con me
e con altri due uomini, poi ridusse il numero a due finalisti, fra cui io non figuravo. Un anno dopo sposò uno dei due, André Conway, assistente di produzione di una stazione televisiva con il sogno di diventare un importante documentarista. A quel punto, anch'io ero passato ad altro. La mia nuova ragazza, Melody Merriman, giornalista e membro della nazione più scura, si aspettava di sposarmi. E immagino che io mi aspettassi di sposare lei. Poi, poco più di un anno dopo il suo matrimonio, Kimmer intrecciò una torrida relazione extraconiugale... con me. Kimmer lasciò Artis-André, io lasciai Melody e quando qualche mese dopo Stuart Land mi telefonò per chiedermi se fossi interessato a insegnare, decisi di abbandonare un'attività forense che amavo in una città che odiavo. Mio padre ne fu felice, ma io non ho mai capito con certezza se volessi fare veramente il professore: probabilmente mi rifugiai a Elm Harbor tanto per sfuggire ai pettegolezzi della Gold Coast quanto per soddisfare un desiderio accademico. Ma avevo anche la speranza che Kimmer mi seguisse, dimostrando con quel gesto affermativo un impegno sul nostro futuro. Con mia sorpresa, mi seguì. Con mia sorpresa, ci sposammo. Kimmer non ne volle sapere di fare un figlio finché non cominciò a temere che il suo orologio biologico stesse per smettere di ticchettare. Poi Dio ci fece il dono di Bentley. E in quelli che saranno presto nove anni di matrimonio mi sono curato a malapena di quello che Kimmer e io abbiamo... fatto, è questa la parola usata dal dottor Young... di quello che abbiamo fatto ad André Conway. O, se è per questo, a Melody Merriman, cosa che sono sicuro il dottor Young tirerà fuori da un momento all'altro. Proseguo con difficoltà. «Perciò... sta suggerendo che io... sto semplicemente proiettando...» Il dottor Young alza una mano. «Talcott, ascoltami. Ascolta attentamente. Hai chiesto perdono al Signore per il male che tu e tua moglie avete fatto al suo primo marito?» Annuisco, ammettendo la verità. «Sì. Molte volte.» Chiudo gli occhi per un istante. La conduttura del riscaldamento emette un gemito breve e rabbioso. «Ma, a essere sincero, non so... non so se ho perdonato me stesso.» Morris Young è troppo esperto per farsi depistare da una confessione terapeutica. «Ci possiamo lavorare, Talcott. Ma al momento mi interessa di più che tu riesca a perdonare tua moglie.» «Per queste... trasgressioni immaginarie?» Scuote la testa pesante. Il telefono sulla scrivania comincia a squillare,
ma lui lo ignora. «Per quello che ha fatto al suo primo marito.» Apro la bocca, la richiudo, poi ci riprovo. «Crede che ce l'abbia con Kimmer perché... perché ha tradito André con me?» «Non saprei. Ma mi chiedo se tu non l'abbia in qualche modo... congelata in quel momento. L'unica Kimberly che sei in grado di percepire è, per dirla senza mezzi termini, l'adultera.» Il telefono ha smesso di squillare. «Ai tuoi occhi è bloccata in un certo tipo di comportamento. Ma la vita cristiana è una vita di crescita costante. Forse devi darle la possibilità di dimostrarti che è cresciuta.» «Crede che sia cambiata così tanto?» «Tu hai mai tradito tua moglie?» «No! Sa che non l'ho mai fatto.» «Dunque, tu sei cambiato, Talcott. Non capisci? E forse anche tua moglie è capace di cambiare. Può non essere un processo altrettanto veloce. Ma ha la medesima portata.» Sto recependo il messaggio. Lentamente, ma ci sto arrivando. «Crede che... che la guardi dall'alto in basso?» «Penso, Talcott, che a volte la tua fedeltà coniugale sia un muro che vi separa. Forse hai ragione e Kimberly ti ha tradito. Bene, tu come hai risposto? Hai usato la tua stessa virtù per tenerla a distanza. Non dimenticare che i suoi peccati sono soltanto diversi dai tuoi, non necessariamente peggiori. E che hai promesso di amarla nel bene e nel male.» Si ferma per lasciare che il concetto faccia presa. «Ora, cerca di capirmi. Non sto scagionando tua moglie. Potrebbe avere effettivamente una relazione extraconiugale con il signor Nathanson. O con qualcun altro. Ma, Talcott, l'importante al momento è la tua condotta. Se tua moglie si sta allontanando dalla retta via, arriverà il momento giusto per affrontare la questione. Per ora, tuttavia, vorrei chiederti un semplice favore: fino al nostro prossimo incontro, cerca di trattare Kimberly come vorresti essere trattato tu stesso. Tieni presente il principio di reciprocità. Bene. Pensi che tua moglie dovrebbe concederti il beneficio del dubbio. Forse dovresti farle la stessa cortesia. Kimberly è tua moglie, Talcott, non un'indiziata. Il tuo compito non è smascherare le sue menzogne, né provare di essere migliore di lei. Il tuo compito è amarla al meglio delle tue possibilità. Le Scritture ci dicono che il marito comanda la moglie, ma ci avvertono anche che si tratta di un comando di tipo speciale: "Come Cristo comanda la Chiesa". E che tipo di amore è quello di Cristo per la sua Chiesa? Fiducioso. Clemente. Questa è la responsabilità del marito, Talcott, specialmente quando non sa con certezza
se la moglie gli ha fatto torto. Voi due avete fatto torto al suo primo marito, e può essere che con i tuoi sospetti sia tu a fare torto a lei. E così il favore che ti voglio chiedere è che fino al nostro prossimo incontro ti sforzi il più possibile di amare tua moglie in questo modo. In modo fiducioso, clemente. Con spirito di sacrificio. Puoi ripetere queste parole per me, Talcott?» «Fiducioso» ripeto di malavoglia. «Clemente» ripeto scontento. «Con spirito di sacrificio» ripeto rassegnato. Il sorriso del dottor Young è più ampio che mai. «Non temere, Talcott. Il Signore ti darà la forza di fare ciò che devi. Ora preghiamo.» Ed è ciò che facciamo. Dean Lynda mi intercetta mentre mi affretto a salire i gradini dell'Oldie. La sto evitando da quando sono tornato da Martha's Vineyard, anche se ciò ha significato saltare riunioni di facoltà, seminari e conferenze. Non sono sicuro se a spingermi sia l'imbarazzo, la rabbia, la paura o qualche emozione che devo ancora scoprire. Qualunque cosa sia, il suo effetto protettivo si è appena esaurito. «Talcott. Finalmente. Speravo di incontrarti.» Alzo gli occhi su di lei, lei li abbassa su di me. È in compagnia di Ben Montoya, il suo alto e irrequieto factotum che lavora anche per la facoltà di antropologia. Si sussurra che Ben sia stato il genio logistico dietro il colpo di mano che ha spodestato Stuart Land, e si dice rimanga lo strumento di cui Lynda si serve per svolgere i compiti più spietati della sua amministrazione. Restiamo sui gradini mentre la prima neve della stagione ci turbina dolcemente attorno. Gli occhi sospettosi di Ben mi scrutano da sopra il colletto sollevato del suo piumino. «Ciao, Lynda.» Rallento ma non mi fermo. «Ciao, Ben.» «Talcott, aspetta» ordina la mia preside. «È il mio orario di ricevimento.» «Sarà questione di un minuto. Ben, va' pure avanti, ti raggiungo.» Con un'occhiataccia, Ben obbedisce allontanandosi con le mani affondate nelle tasche. Siamo rimasti soli. Dean Lynda, una donna vigorosa i cui capelli brizzolati sono lunghi in spregio alla moda, incrocia le braccia sul petto, schiocca la lingua e scuote la testa. Indossa un soprabito leggero su uno dei suoi antiquati vestiti da nonna. Un basco nero è sistemato alla sbarazzina sul capo. Lynda gradisce
la sua reputazione di eccentrica. «Stiamo per andare dal rettore a parlare del bilancio» spiega. «Capisco. Be', buona fortuna.» Salgo un altro gradino verso l'ingresso, ma la preside mi blocca con un gesto. D'un tratto ho la certezza che mi stia per chiedere se abbia piegato la mia dottrina agli interessi di un cliente. «Talcott, Talcott» mormora soppesandomi con gli intensi occhi azzurri da dietro gli occhiali cerchiati di acciaio. «Cosa devo fare con te?» «Che intendi dire?» «Ho saputo che la settimana scorsa hai cancellato un'altra lezione.» «Ero a Washington, Lynda. Per una conferenza sull'illecito. Gli studenti lo sapevano da settimane.» Per nulla ammansita, Dean Lynda arriccia le labbra sottili in una smorfia di disapprovazione, forse nei confronti del tempo ma più probabilmente nei miei. «Quante lezioni hai saltato, con questa? Ben mi ha detto che sei a quota sette o otto.» «Il caro vecchio Ben.» «È il mio vice, Talcott. Fa soltanto il suo lavoro.» Si spazzola via la neve dal risvolto del soprabito. «Se un membro della mia facoltà non adempie ai propri doveri, devo saperlo.» Il mio vice. La mia facoltà. Non mi ero mai reso conto di quanto mi ricordi Mallory Corcoran. «Lynda, tu... sei stata tu a dirmi di prendermi una vacanza.» «E tu l'hai fatto, giusto?» Un altro schiocco della lingua. «Te lo confesso, Talcott, sto cominciando a preoccuparmi per te.» «Preoccuparti... per me?» Annuisce in silenzio, aspettando che un ridente gruppo di studenti ci passi accanto. Sono tutti bianchi, le star della rivista di legge, i beniamini della facoltà, coloro che otterranno gli incarichi più ambiti e le offerte di tornare a insegnare. «Devi ammetterlo, Talcott, il tuo comportamento è diventato un po' strano.» Mi rendo conto con sgomento che sta proseguendo la nostra conversazione telefonica, cercando prove a favore di Marc Hadley. Riesco a non esplodere, ma soltanto perché ho appena visto il dottor Young. «Non permetterò che tu mi faccia questo, Lynda.» Gli occhi azzurri, pallidi come il mattino, protestano la sua innocenza, così come la mano posata sul cuore. «Non ti sto facendo niente, Talcott. Sono preoccupata per quello che tu stai facendo a te stesso.» Mi dà un colpetto sul braccio. «Fai parte della famiglia, Talcott, lo sai. Desidero soltanto ciò che è meglio per te.»
«Lo vedo.» «Adesso sembri sarcastico. Per quale ragione?» «Perché vuoi trovare da ridire su qualsiasi cosa affermi?» I suoi occhi, improvvisamente duri come diamanti, brillano di un lampo azzurro. Lynda Wyatt è una donna che è meglio non contrariare, e io l'ho fatto due volte. «Quello che hai detto è fuori luogo, Talcott. Sto cercando di essere d'aiuto.» Vorrei trattenermi, ma la tentazione è troppo forte: «Davvero, Lynda? E chi, di preciso, stai cercando di aiutare?». Per la prima volta da quando la conosco, Lynda rimane senza parole. La sua bocca forma una piccola "o" offesa, e un furioso rossore le tinge le guance. Le sue mani si posano sui fianchi. Senza aspettare la sua replica, sorrido e mi sottraggo entrando nell'edificio. Attraversando l'atrio di fretta, sgomento per la mia stessa scortesia e temendo quasi che Lynda Wyatt mi rincorra per informarmi che la mia cattedra è stata revocata, scorgo in un angolo accanto alla tromba delle scale il mio studente Lionel Eldridge, l'ex giocatore di basket, che torreggia appoggiato al muro su un'esponente femminile della nazione più pallida intenta a guardarlo con adorazione. Vedo con sorpresa che la sua ammiratrice è Heather Hadley, la figlia che Marc ha avuto dal suo primo matrimonio, che di solito si accompagna al suo ciondolante ragazzo, Paul. Sbatto le palpebre per sincerarmi di averci visto bene. Non sono mai riuscito a comprendere il magnetismo dell'uomo un tempo conosciuto da milioni di appassionati come Sweet Nellie, malgrado perfino Kimmer, il cui studio l'estate scorsa ho quasi implorato di assumerlo, riconosca che è bellissimo. Gira voce - cioè lo sostiene la Cara Dana - che il giovane signor Eldridge abbia mietuto successi nel corpo studentesco femminile. Ora, vedendo Heather alla sua mercé, mi concedo un istante di malvagia congettura chiedendomi come Marc, nel suo fiducioso progressismo, reagirebbe a una relazione fra la sua adorata e brillante Heather e Sweet Nellie, sposato, accademicamente marginale e molto nero. Li aggiro diretto alle scale. Lionel mi vede e mi scocca il sorriso che, malgrado l'incidente al ginocchio che l'ha costretto a ritirarsi dopo sette partite dalla squadra di stelle della NBA, vale ancora milioni di dollari in investimenti pubblicitari. Non lo ricambio. Non lo saluto. Sweet Nellie potrà anche aver avuto una media di diciannove punti a partita - lo diceva la sua domanda di ammissione, e lo conferma il suo curriculum - ma nell'Oldie è soltanto uno studente che mi deve consegnare un compito.
Sulle scale incrocio Rob Saltpeter e Lemaster Carlyle, diretti alle rispettive lezioni con i libri sottobraccio. Rob, che usa il programma Powerpoint in classe, regge anche il suo portatile. Mi rivolge il suo solito saluto espansivo, ma Lem si limita a un breve sorriso e mi evita con la stessa decisione con cui io ho scansato Lionel. Di solito è così amichevole, addirittura infiorato. Mi fermo a guardarlo per un secondo o due, incalzato da pensieri ansiosi, prima di costringermi a tornare con la mente al problema attuale di Lionel e Heather. Aprendo il mio ufficio mi domando se possa essere questo lo scheletro a cui ha fatto cenno Jack Ziegler e che sta palesemente preoccupando Marc Hadley e, per estensione, sua moglie Dahlia. Girano pettegolezzi su una relazione fra Heather e Lionel? Tutto è possibile, ma come scandalo mi sembra improbabile. Perfino a Washington, dove nella fase delle nomine quasi ogni bersaglio è giustificato, nessuno ha ancora adottato la strategia di portare alla superficie le vite amorose dei figli dei candidati. Eppure... Oh, smettila. Ho troppo da fare per queste idiozie, mi rammento lasciandomi cadere sulla sedia della scrivania. Devo finire di scrivere qualcosa di importante. Se faccio uno sforzo, forse posso addirittura ricordare di che si tratta. Sono ancora occupato ad auto-criticarmi quando Cassie Meadows telefona per aggiornarmi. «Il signor Corcoran valuta le possibilità di sua moglie intorno al cinquanta per cento» dice, il che non mi torna particolarmente utile. La parte successiva sembra causarle qualche problema. «Pensa che potrebbero migliorare se... be', se questa sua ricerca arrivasse alla fine.» Esita, quindi butta fuori il resto: «A dire il vero io stessa sono caduta un po' in disgrazia. Si è arrabbiato per il fatto... non la prenda nel verso sbagliato... il modo in cui si è espresso... ha detto che ho preso troppo sul serio le sue idee. E che... probabilmente non dovrei dirglielo... che questo fa fare una brutta figura allo studio». Mantengo un tono di voce molto controllato. «Per quale ragione il signor Corcoran non mi ha chiamato di persona?» «Non lo so. Forse aveva da fare.» Ma io lo so. Delegando a Meadows il compito di rimproverarmi, lo zio Mal può sempre negare, se necessario, di essere mai stato preoccupato. Allo stesso tempo punisce Cassie costringendola a comunicarmi le brutte notizie. «In ogni caso, ha detto che in giro si comincia a parlare di lei, e... be', che la cosa non sta certo aiutando sua moglie.»
«Capisco.» «Credo voglia strapparle la promessa che la smetterà.» «Ne sono certo.» Meadows libera un sospiro, forse di sollievo: ha riferito il messaggio sgradevole al cliente ed è sopravvissuta. «Allora, che cosa farà?» mi domanda. «Giocherò a scacchi» rispondo. Un paio di studenti si presentano nel mio orario di ricevimento. Fra un incontro e l'altro resto seduto alla scrivania, scacciando la rabbia dall'animo. Quando sono finalmente pronto ad andarmene, il telefono squilla di nuovo e il servizio di identificazione mi rivela che la chiamata proviene da Washington. Provo la tentazione di non rispondere, sicuro che si tratti dello zio Mal, ma poi decido che non fa alcuna differenza. È l'agente speciale Nunzio. «Volevo solo informarla che abbiamo scoperto la provenienza di quella pistola» dice dopo qualche burbera facezia. Informare l'Fbi della scoperta di Mariah è stata una mia idea; per convincerla a farlo ci sono volute un sacco di moine. Dopo la mia conversazione con il padre di Kimmer avrei voluto fermare Nunzio, ma non c'era modo di farlo senza creare problemi, e così ho semplicemente sperato che il Colonnello fosse stato abbastanza accorto da non lasciare tracce quando aveva procurato la pistola al Giudice. «È una Glock, un modello speciale della polizia, e proviene da una partita caduta da un camion nel New Jersey circa quattro anni fa.» «Caduta da un camion?» Nunzio ride. «È gergo da poliziotti, professore. Significa rubata. Tre o quattro delle Glock scomparse sono finite nelle mani di vari malviventi. Suppongo non abbia idea di come una di queste sia arrivata in camera da letto di suo padre. Lo immaginavo» aggiunge senza esitare. Sento il ticchettio di una tastiera. «Impronte digitali. Da quello che siamo riusciti a stabilire, quando suo padre l'ha presa l'arma era pulita. Tre serie di impronte. Di suo padre, di sua sorella che l'ha trovata, e la terza è di un istruttore di un poligono di tiro a segno ad Alexandria. Abbiamo scoperto che suo padre si era iscritto circa un anno prima di morire, e prendeva lezioni. Per un certo periodo è stato molto assiduo, poi ha lasciato un po' perdere e infine ha ripreso in settembre. Ci è andato per l'ultima volta un paio di giorni prima di morire. A quanto sembra, è anche l'ultima volta che la pistola ha sparato.»
«Lo apprezzo molto» gli dico, anche se sono vagamente deluso. Non so bene cosa speravo, ma tutto ciò è troppo prosaico. «Fra l'altro, suo padre non aveva la licenza per il distretto di Columbia, e ciò significa che non avrebbe potuto possedere un'arma da fuoco entro i limiti cittadini. Ma immagino che ormai non abbia importanza.» Non commento, e Nunzio riempie il silenzio con un'altra domanda. «Mi dica, cosa sta combinando con sua sorella? State prendendo sul serio questa storia?» «Quale storia?» «Le ipotesi su quello che è successo a vostro padre.» D'un tratto sono diffidente, anche se intrigato dal fatto che mi abbia accomunato a Mariah. «Voglio soltanto sapere la verità» dico con audacia, anche se un po' scioccamente. «Su mio padre, intendo.» «Già, immagino che ognuno vorrebbe conoscere meglio il proprio padre.» L'agente Nunzio fa una risata gentile. «Io, quantomeno, vorrei aver conosciuto meglio il mio. Be', buona fortuna.» Tutti continuano a dirmi di lasciar perdere, ma il Federal Bureau of Investigation sembra volere che io insista. È un bene, perché non mi fermerò. 26 LA SFIDA DI SAM LOYD L'Elm Harbor Chess Club, il club scacchistico della cittadina, si riunisce il giovedì sera in una libreria antiquaria di proprietà di un vecchio malvagio chiamato Karl. La libreria usa fraudolentemente il nome di Webster & Sons: non è mai esistito alcun Webster, il quale di conseguenza non ha mai avuto figli. Karl ne è sempre stato il proprietario, convinto che gli abitanti del New England sarebbero stati più disposti a comprare libri in un negozio dalla vaga provenienza anglosassone. Il locale si estende tortuosamente al primo piano di un edificio a due piani dalla facciata di mattoni appena oltre il limitare settentrionale del campus, nei pressi di Henley Street, il confine non segnato ma largamente accettato fra la comunità universitaria a larga prevalenza bianca e il contiguo mondo scuro, sconosciuto e per definizione pericoloso. Al pianterreno c'è un ristorante indiano molto frequentato dagli studenti, e nella libreria si curiosa fra i libri o si gioca a scacchi circondati da un aroma di curry dozzinale che fa lacrimare gli occhi. Il secondo piano è occupato da angusti appartamenti, fra cui quello di
Karl. Probabilmente è lui il proprietario dell'intero stabile, ma nessuno lo sa. Il negozio si raggiunge suonando il citofono giusto, aprendo una porta a vetri facendo attenzione all'incrinatura diagonale presente fin dai tempi in cui studiavo, e finalmente salendo una stretta scala che viola di certo ogni regola di sicurezza promulgata dal diciannovesimo secolo a oggi: nessuna ringhiera, alzate irregolari che tendono a staccarsi inaspettatamente, una svolta improvvisa a metà strada e l'unica illuminazione fornita da una nuda lampadina da non più di quaranta watt sul pianerottolo. Non so da dove provenga Karl, ma so che la sua cattiveria di fondo, simile a un cancro, l'ha reso magro e calvo, evidentemente nutrendosi della sua stessa carne, poiché Karl mangia tutto ciò su cui posa il suo sguardo. Il suo volto è uno strano triangolo rovesciato, dotato di pappagorgia malgrado la totale assenza di grasso in qualsiasi altra parte del corpo. Le pupille dei suoi occhi sono incolori e pallide come quelle di un albino. I pochi capelli che gli rimangono sono sistemati a formare due ali bianche e sottili sui lati della testa piatta. Ai tempi in cui ero studente Karl era un terrore, non sulla scacchiera, come amano dire i giocatori, poiché la sua forza era modesta, ma in giro per il club. Se versavi qualche goccia di Coca-Cola sui suoi luridi tavolini di legno, quegli occhi pallidi e senza palpebre diventavano scuri e mostruosi e lui strillava oscenità senza riguardo per i giocatori che cercavano di concentrarsi. Se osavi osservare che un biscotto al burro di arachidi ti sembrava stantio - Karl offriva sempre un rinfresco che di solito ti faceva star male - mormorava: "Capisco" e poi faceva il giro delle stanze con un cestino della carta sottobraccio, gettando via cibarie e bevande... comprese quelle che avevi portato tu. I suoi commenti sulle partite in corso o su quelle appena finite erano sempre punteggiati da un umorismo da caserma orgogliosamente offensivo e salace. Karl era il maestro delle similitudini fra i pezzi e le parti del corpo, e fra le loro posizioni sulla scacchiera e le stesse parti del corpo in funzione. Per quanto riguarda le donne, secondo Karl non avrebbero dovuto giocare a scacchi; quando una studentessa aveva la sventura di capitare al club, Karl esordiva comportandosi in modo gentile e affabile, il ritratto della cortesia da Vecchio Continente. A quel punto le puntava addosso il suo sguardo lussurioso per l'intera serata, ma mai mentre lei guardava. L'occhiata strisciante di Karl è come una creatura viva, una forza divorante della natura; puoi sentire la sua insistenza avida e lasciva anche quando è diretta verso qualcun altro. Delle pochissime donne che passavano dal club quando ero studente, quasi nessuna tornava. Un'adolescente coraggiosa, una rifugiata politica russa che
studiava matematica e il cui fratello minore è ora diventato uno dei migliori giocatori d'America, riuscì a resistere alle volgari e tenaci attenzioni di Karl per otto settimane, finché lui non riuscì ad allontanarla. Ciò nonostante, il club scacchistico era, e continua a essere, l'unico posto dove giocare in città. Quando frequentavo il college facevo fatica a staccarmene, e durante la specializzazione in legge mi facevo un dovere di visitarlo almeno una volta al mese; ma nel corso dei miei dieci anni di insegnamento ci sono passato non più di una o due volte all'anno. Ogni volta, Karl trova il modo di trattarmi con la stessa malvagia, villana bonomia che ricordo così dolorosamente dai tempi in cui studiavo, poiché il suo razzismo, anche se meno radicato del sessismo, è riuscito a sopravvivere al passaggio dell'università dall'integrazione al tribalismo etnico, alla diversità, al multiculturalismo, a qualunque sia il nome che diamo alla sfrenata celebrazione dell'io con cui i campus del nostro paese sembrano decisi ad accogliere il nuovo secolo. Non rimango sorpreso, quindi, quando al mio arrivo appena prima dell'inizio dell'incontro Karl, intento a disporre i salatini del mese scorso, ruota sui tacchi, si tira su i pantaloni troppo larghi e tuona: «Ma guarda un po' chi torna a scurirmi la soglia! Dopo tutto questo tempo! L'hai capita, dottore? Hai scurito la mia soglia!». Lo fisserei fino a fargli distogliere lo sguardo, ma Karl non ha tempo per simili giochetti e si è già girato per continuare ciò che stava facendo. Due adolescenti del luogo, uno dei quali è un'autentica stella nascente, stanno giocando partite lampo - cinque minuti ognuna - in un angolo, punteggiando le loro rapide mosse con il botta e risposta della Lower East Side di Manhattan del 1950, che chissà come è diventato la seconda lingua dei giocatori di scacchi in tutti gli Stati Uniti: «Patzer! Nullità! Boccalone! Non te n'eri accorto, vero? Tac, tac, scacco matto! Avresti dovuto dare un po' d'aria al tuo re!». A dire il vero, pronunciate dai rampolli quattordicenni delle facoltà dell'Ivy League queste parole fanno proprio ridere, e a volte mi unisco al gioco soltanto per stimolare le chiacchiere, ma stasera devo parlare con Karl. E così rispondo con calma: «Sì, Karl, l'ho capita». Lui si gira inarcando un sopracciglio candido, come a voler dire che si aspettava di meglio. «Sì? Bene. Allora, cosa vuoi? Una partita? Sì? Liebman è disponibile, o lo sarà non appena Aidoo finirà di trituragli le palle. Ecco, dottore, prendi un salatino» dice porgendomi la ciotola. "Dottore" è il modo in cui di solito mi chiama; il tono ironico è un altro dei suoi espliciti insulti, ma con me
è inefficace poiché so che è dettato dall'invidia. «No, grazie.» «Non ti fidi dei miei salatini? Forse sono troppo vecchi, per te?» «Vanno benissimo, Karl.» «Allora prendine uno, dottore.» Mi offre di nuovo la ciotola. «Avanti.» «Grazie, no.» «Insisto.» Scuoto il capo. Con Karl, ogni cosa è una sfida. Per lui ogni cosa è una delusione. Dicono che da qualche parte abbia un'ex moglie incattivita, figli e figlie astiosi da qualche altra parte, un paio di nipotini che non vede mai e una cattedra in economia politica che si è lasciato alle spalle trent'anni fa, quando è fuggito dall'Europa orientale, ma Karl genera voci allo stesso modo in cui il sole estivo genera calore: bisogna fare attenzione, coprirsi di scetticismo come di crema solare, se non ci si vuole scottare. «Grazie» ripeto «non ho fame.» Karl mi fissa, e i suoi occhi chiari mi aspettano al varco. Sa che voglio qualcosa; è in grado di fiutare la speranza nel prossimo, e vive allo scopo di reprimerla. Eppure, non si può che andare avanti. «La verità è che ho bisogno della tua competenza.» «La mia competenza» ripete strofinandosi con le dita sottili il mento perfettamente rasato. «Non sapevo di possedere una competenza che potesse essere utile a un professore della tua statura.» Il suo scherno è tenace, ma rifiuto di lasciarmi coinvolgere. Karl non è un gran giocatore di scacchi ma è un brillante problemista, detentore di innumerevoli titoli nazionali e internazionali per aver composto e risolto problemi. È l'unica persona di mia conoscenza che potrebbe avere la risposta alla domanda che mi tormenta. Malgrado tutto, il semplice fatto di trovarmi nel club scacchistico calma i miei nervi spossati: il rumore dei pezzi che vengono calati sulle scacchiere, il ticchettio degli orologi, le grida dei vincitori e le giustificazioni degli sconfitti, la splendida sinfonia di una battaglia mentale titanica, tesa ma in fin dei conti rilassante. Ed è di rilassarmi che ho bisogno, di distanziarmi da... be', dalle stesse preoccupazioni che mi hanno condotto da Karl. Gli chiedo se possiamo sederci, e lui mi conduce in un angolo da dove è ancora in grado di tenere d'occhio l'ingresso e prendersi gioco di chiunque entri. Ci accomodiamo sotto un dozzinale ingrandimento della fotografia sulla copertina del libro di Emanuel Lasker, sul quale campeggia l'autografo malamente contraffatto del grande campione: "A Karl" eccetera, malgrado alla sua morte Karl dovesse essere ancora un bambino. Forse era de-
stinata a qualche altro Karl. Mi chiedo se creda veramente che qualcuno ci possa cascare, o se lo consideri uno scherzo. «Allora, di cosa hai bisogno?» mi domanda in tono rabbioso, sedendosi finalmente al tavolino dopo essere balzato in piedi due volte per mettere a disagio i membri del club che hanno varcato la soglia. Con le dita mi fa cenno di avvicinarmi. «Di quale competenza?» «Riguarda un problema scacchistico» comincio. «Ah! Un problema! Per favore, illustramelo» mi ordina indicando una scacchiera, segretamente felice che stia chiedendo informazioni su un argomento di cui sa più di tutti gli altri. «No, no, non è un problema che non riesco a risolvere. Si tratta... è più un tipo di problema.» «Che tipo di problema?» si informa dolcemente, poiché lo scimmiottamento è il più innocuo dei suoi talenti sprecati. «Ho bisogno di sapere... mi sembra di ricordare che anni fa, quando studiavo, tu avessi tenuto una serie di lezioni sui problemi scacchistici...» «Ai tempi in cui esisteva qualcuno che era interessato ai problemi. Quando gli scacchi erano un'arte, non la maledetta scienza computerizzata che sono diventati oggigiorno. Ai vecchi tempi badavamo più alla bellezza che alla vittoria. Questi bambini» aggiunge muovendo il braccio verso la stanza, dove il ragazzo più giovane è un liceale «non hanno alcuna nozione. Nessuna. Vogliono vincere e basta. È la vostra cultura. L'America rovina gli scacchi, come rovina tutto il resto. Arte? Quale arte? Vincere, tutto quello a cui voi americani pensate è vincere. Vincere e diventare ricchi. Il vostro paese è troppo giovane per avere tanto potere. Troppo immaturo. Eppure, a causa del vostro potere, tutti vi danno retta. Tutti. State insegnando al mondo intero che c'è soltanto una cosa che conta!» Mi viene in mente, ascoltando questa tirata, che Karl e mio padre sarebbero probabilmente andati d'accordo, ma lo devo interrompere o andrà avanti a sproloquiare per il resto della serata. «Sì, Karl, proprio così.» Parola dopo parola, alzo la voce perché mi ascolti. «Voglio parlare degli scacchi in quanto arte.» «Bene! Bene! Finalmente un uomo di cultura!» La sua voce riempie la stanza e alcuni dei giocatori alzano gli occhi irritati, ma nessuno protesta. Un'altra voce racconta che Karl avesse preso uno studente che gli aveva risposto a tono e l'avesse gettato giù per le scale. «Grazie» mormoro, non sapendo se si aspetti una risposta. «Allora, com'è che ti posso aiutare?» domanda lui, arricciando le labbra
in un ghigno sgarbato. «Una di quelle lezioni riguardava un certo tipo di problema chiamato "Excelsior". Te ne ricordi?» «L'Excelsior» scatta lui. «Un aiutomatto. Una sciocchezza. L'invenzione di Sam Loyd. L'aveva creato per scherzo, e adesso lo prendiamo tutti sul serio. Perché non abbiamo memoria.» Scuote i ciuffi di capelli. «Bene. L'Excelsior. Che cosa vuoi sapere?» Esito, cercando di formulare la mia domanda in modo da suscitare il suo interesse e non la sua derisione. L'aiutomatto è una specie insolita di problema scacchistico in cui il nero muove per primo al posto del bianco e le due parti collaborano affinché, dopo un numero determinato di mosse, il nero subisca scacco matto. Sam Loyd, che visse alla fine del diciannovesimo secolo, era un giornalista, inventore di molti giochi e rompicapi ancora noti ai nostri giorni. Era anche uno dei grandi dell'arte del problema scacchistico... e uno degli eroi di mio padre. "Sam Loyd ha fatto la rivoluzione" diceva il Giudice, che di tanto in tanto sognava di fare la stessa cosa ma nel campo del diritto e non degli scacchi. "Ha insegnato a tutti che gli scacchi sono più intelligenti di quanto si creda." «Sapevo che era stato Sam Loyd a inventare l'Excelsior» dico a Karl. «Me ne ricordavo dalla tua affascinante lezione.» Lo blandisco ben bene. «Ma ammetto di non ricordare di preciso in cosa consista. E in particolare» vado finalmente fino in fondo «nel caso di un problema chiamato doppio Excelsior con cavallo...» Karl mi interrompe. È stufo del suono della mia voce, come è stufo del suono di qualsiasi voce che non fuoriesca dalle sue labbra. Preferisce le proprie risposte alle domande degli altri, anche quando nessuno gli ha chiesto niente. Riesce facile credere che sia stato un professore; si troverebbe perfettamente a suo agio alla facoltà di legge. Ora il suo tono si è fatto rapido e secco, come se gli facessi perdere del tempo. «Il doppio Excelsior con cavallo è un famoso problema scacchistico, dottore, ed è una delizia. L'unico problema è che è impossibile. Ascolta.» Si sporge verso di me, puntandomi contro un dito ossuto come se stesse lanciandomi un maleficio. «L'Excelsior ha una serie di regole molto chiare e molto elementari. In un Excelsior, un pedone bianco parte dalla sua casa madre e fa esattamente cinque mosse, spostandosi di due caselle alla prima e di una per ciascuna delle mosse successive finendo sull'ottava casella. E anche se sei senza dubbio arrugginito, dottore, sono sicuro che ricorderai cosa succede quando un pedone arriva sull'ottava casella. Eh?»
«Viene promosso» borbotto irritato come un bambino alla sua prima lezione. «Esatto, esatto, viene promosso, diventa un altro pezzo, di solito una regina, questo lo sanno tutti, ma può diventare anche qualcos'altro, a seconda del desiderio del giocatore. È proprio questo il punto dell'Excelsior: che il pedone possa diventare qualsiasi altro pezzo. Non diventa una regina, ma un'altra cosa. La chiamiamo "promozione a pezzo minore". Hai già sentito il termine?» «Sì.» «Bene. Perché vedi, dottore, il normale Excelsior è un gioco da ragazzi, così facile che se stai risolvendo problemi e vedi le parole "aiutomatto in cinque mosse", la prima cosa che fai è cercare il pedone da muovere per primo. Se l'unico modo per imporre lo scacco matto è far fare cinque mosse a un pedone e poi promuoverlo a pezzo minore... ebbene, a quel punto hai risolto il tuo Excelsior.» «Ho capito.» Ma il suo didatticismo sta cominciando a stancarmi, e mi chiedo se questa non sia un'impresa inutile. «Bene. Perché vedi, dottore, il doppio Excelsior... ah, quella sì che è una sfida riservata al problemista sofisticato.» «Perché?» «Hai dimenticato quello che ti ho detto prima? Che in un aiutomatto è il nero a muovere per primo e che i due avversari collaborano per dare scacco matto al nero? L'Excelsior richiede cinque mosse, e lo stesso il doppio Excelsior. Ma c'è una differenza. Nel doppio Excelsior entrambe le parti devono fare tutte le mosse con un solo pedone, e alla quinta entrambe, prima il nero e poi il bianco, devono promuoverlo allo stesso pezzo. Perciò, se abbiamo un doppio Excelsior con torre, il nero muove per primo, fa le sue cinque mosse e alla quinta mossa il pedone diventa una torre. E il bianco muove per secondo, fa le sue cinque mosse e alla quinta mossa il pedone diventa una torre. E dopo la quinta mossa del bianco, il nero subisce scacco matto, ma non può esserci alcun altro modo di arrivare al matto al di fuori delle cinque mosse e della promozione allo stesso pezzo alla quinta. Mi segui, dottore?» «Ti seguo.» «Bene, un doppio Excelsior con cavallo significa che l'unico modo in cui il bianco può dare scacco matto in cinque mosse è che entrambi i giocatori muovano un singolo pedone cinque volte, promuovendolo a cavallo e dando scacco matto al nero.»
«Ma tu hai detto che è impossibile...» «Giusto.» Ho finalmente sollecitato il suo lato pedagogico, e ora che ha la possibilità di insegnare qualcosa diventa quasi paziente. «Devi capire che gli altri doppi Excelsior sono stati dimostrati. Entrambi i giocatori promuovono un pedone a torre? Fatto. Ad alfiere? Sì. Ma nessuno è riuscito a farlo funzionare con il cavallo. Trenta o quarant'anni fa, un esperto lanciò una sfida e offrì una cifra significativa a chiunque fosse riuscito a risolvere il doppio Excelsior con cavallo. Ma nessuno l'ha mai raccolta. Ci hanno provato in molti, ma nessuno, nemmeno con l'aiuto del computer, ce l'ha fatta. E così molti di noi si sono convinti che sia impossibile.» Aggrotto la fronte cercando di assorbire la notizia. Mio padre stava cercando di risolvere un problema scacchistico che il mondo dei compositori reputa impossibile. Puntava all'immortalità? Non credo: la sua mente era più sottile, a meno che la realtà non fosse semplice come ha suggerito Lanie Cross, che cioè avesse avuto un esaurimento nervoso e stesse sragionando. Ma non ne sono tanto sicuro. Penso che il Giudice avrebbe voluto qualcosa di più. Oh, avrebbe potuto possedere la selvaggia ambizione di comporre il problema che nessuno era mai riuscito a risolvere. Avrebbe potuto sognare di essere quello che c'era riuscito. Ma la ragione per cui aveva inserito la parola Excelsior nella sua lettera... «Karl?» «Sì, dottore?» Il tono canzonatorio è tornato. Karl ha ripreso a rivolgere la propria attenzione alla stanza improvvisamente affollata e alla sua regolare missione di rovinare le esistenze altrui. «C'è qualche problema? La spiegazione era forse troppo complicata? O magari te la sei presa perché è il nero e non il bianco a subire scacco matto?» Ride. «Ma nel problema scacchistico è sempre il nero a subire scacco matto alla fine, no?» Fa per alzarsi senza interrompere la sua risata roca. «Aspetta» dico in tono più secco di quanto intendessi, come se fosse uno studente. Karl sgrana gli occhi. Ben poche cose lo sorprendono, ma il mio tono ci è riuscito. Ora che ho riconquistato la sua attenzione, procedo con calma. È qualcosa che ha appena detto - "è sempre il nero a subire scacco matto" - è stato questo? Nel doppio Excelsior, il nero subisce effettivamente scacco matto, ma... ma Lanie Cross ha detto... aspetta... «Karl, ascolta. Nel doppio Excelsior con cavallo - voglio dire, se tu stessi cercando di comporlo - che pedone useresti?» «Eh?»
«Il pedone che alla fine diventa cavallo. Il cavallo che dà scacco matto. Deve pur cominciare da qualche parte, giusto? Che cos'è, un pedone di torre, un pedone di alfiere o cosa?» «Ah, ho capito. È il pedone di cavallo della regina bianca.» E cioè il pedone che all'inizio del gioco occupa la casa davanti al cavallo, due case a sinistra della regina. «Per quale ragione?» «In teoria non dovrebbe fare alcuna differenza. Potresti usare qualsiasi pedone per risolvere il problema. Ma quando Sam Loyd ha composto l'originale, ha usato il cavallo della regina. E così un compositore serio di un doppio Excelsior renderebbe omaggio all'originale usando lo stesso pedone.» «Il... il pedone di cavallo della regina bianca.» «Naturalmente.» «Ma quello sarebbe il secondo pedone a muovere. E il nero a muovere per primo.» «Hai ragione anche in questo, dottore. Certo, ai vecchi tempi alcuni studiosi composero problemi in cui il bianco muoveva per primo e subiva scacco matto alla fine.» Si stringe le guance fra le dita come se volesse ridurle. «Ma nessun vero artista lo farebbe. Non più. Un compositore deve rispettare le regole. È il nero che deve perdere.» «Ma se qualcuno volesse comporre il problema in modo che sia il nero a vincere...» «Sarebbe stupido. Una perdita di tempo. Priva di qualità artistiche.» «Ma quale pedone muoverebbe per primo?» Karl è incuriosito suo malgrado, e sospira per dimostrare di non esserlo. «Uno qualsiasi, ovviamente. Ma il vero artista userebbe comunque il pedone di cavallo della regina bianca. Solo che sarebbe il pedone nero, muovendo per secondo, a dare scacco matto alla quinta mossa.» Balza di nuovo in piedi con fare sorprendentemente lieve e vivace e saltella verso la stretta libreria nell'angolo. Nessuno può toccare i vecchi libri, molti dei quali sono in tedesco o in russo. Karl sceglie un volume e con mia sorpresa me lo caccia in mano. «Prendi questo.» Annuisce con una punta di entusiasmo. «Contiene molti esempi dell'Excelsior. Tienilo tutto il tempo che vuoi.» Lo sbalorditivo e atipico atto di generosità fa scendere un silenzio solenne sulla dozzina di membri presenti. Mi rendo conto che il libro è inutile. Ho già ottenuto quello che ero venuto a cercare.
«Ti ringrazio, Karl... non è necessario.» «Sciocchezze. Ma dobbiamo proteggere il libro, naturalmente. Prendi.» Mi porge una busta vecchia e lacera. «Puoi infilarcelo per portarlo via.» «Karl, io...» Alza un dito ammonitore. «In tutti i miei anni nella vostra deliziosa cittadina avrò dato in prestito non più di tre o quattro libri. Mi devi un grazie.» E ha ragione. È dominante come sempre, ma sta cercando di essermi d'aiuto. Gli devo effettivamente un grazie. «Ti ringrazio» dico sincero. Ma Karl a questo punto è imbarazzato, forse non sapendo bene quale impulso l'abbia portato a una tale gentilezza. Sospetto che si sia trattato soltanto della gioia di aver trovato qualcuno - in questi tempi barbari, come direbbe lui - che ha mostrato interesse per l'area degli scacchi che lui conosce meglio di tutti, un'area a cui quasi nessuno dedica attenzione. Mi rammento quanto sia vuota la sua vita, e sorrido di gratitudine mentre guardo il suo volto inacidirsi. So che mi allontanerà con un nuovo insulto, e capisco quanto abbia bisogno di farlo. «Ricorda solo quello che ti ho detto, dottore.» La sua risata brutale è tornata. «L'Excelsior si deve concludere con il pezzo bianco che viene promosso e dà scacco matto. Il nero muove per primo in questo tipo di problema, ma è comunque il bianco a dare scacco matto alla fine. Sempre il bianco.» Si zittisce e mi fissa con sospetto, come se non fosse più sicuro che io sia entrato nel suo club con una richiesta legittima. Mi si avvicina, premendo i pugni sul tavolino di fronte a me. «Non possiamo cambiare il mondo sulla scacchiera, vero dottore?» Ridacchiando per essere riuscito ad avere l'ultima parola, si allontana a tormentare qualcun altro. Sono lieto di essermi sbarazzato di lui. Mi trattengo per un'altra mezz'ora, guardando un paio di partite e giocandone un altro paio, quindi, reggendo il libro di Karl protetto dalla sua busta, esco nella sera gelida. "Excelsior" ha scritto mio padre ripetendo due volte la parola. "Si comincia!" Né il benvoluto Addison né la socievole Mariah avevano mostrato grande interesse per gli scacchi quando eravamo ragazzi; soltanto lo studioso Talcott. Il che significa che il Giudice ha voluto che fossi io, e soltanto io, a sapere che si stava riferendo al doppio Excelsior. Sfortunatamente, non so ancora il perché. Karl mi ha spiegato come dovrebbe funzionare l'Excelsior, e Lanie ha detto che mio padre voleva che fosse il nero a vincere. Ma sto ancora inseguendo un'ombra. Sono sicuro che c'è qualcosa che dovrebbe risultarmi ovvio, ma non lo vedo. Non so come l'arcano
problema scacchistico che il Giudice voleva disperatamente essere il primo a risolvere possa avere attinenza con il ragazzo di Angela o con le disposizioni. Forse anche il pedone bianco consegnatomi alla mensa gratuita faceva parte di una composizione, una composizione i cui pezzi vivono, respirano e soffrono. Se è questo il caso, allora mio padre ne è stato di certo il creatore. Era senza dubbio sicuro che io vedessi il collegamento, e l'ultimo, sfuggente indizio sta proprio in quella sua stessa sicurezza. Il che mi porta a una domanda che fino a questo punto non ho preso in considerazione: se io ho il pedone bianco mancante, chi possiede quello nero? Sto ancora riflettendo su questi problemi quando mi rendo conto di essere pedinato. 27 UN INCONTRO DOLOROSO Questa volta sono in due. Da un po' so di essere seguito. Non solo dalla pattinatrice nell'auto verde a Washington, ma anche da altri, e in varie occasioni. Da quanto tempo lo so? Ore. Giorni. Settimane. Non c'è mai nulla di concreto, soltanto indizi, impressioni, un volto intravisto troppo spesso, la stessa auto nello specchietto retrovisore per diversi isolati nel mezzo della notte, un'andatura che si adatta troppo rapidamente alla mia. Quando non ho più potuto dare la colpa alla paranoia, mi sono consolato con le parole di Jack Ziegler al cimitero e del defunto Colin Scott due settimane dopo: che io e la mia famiglia siamo al sicuro, qualsiasi cosa accada. In altri termini, mi sono lasciato rassicurare. Adesso mi chiedo se non sia stato uno sbaglio. Erano quasi le dieci quando sono uscito dal club scacchistico, scendendo le pericolose scale e chiedendomi che cosa avrei detto a Kimmer. Giunto ai confini del campus, i due uomini erano dietro di me. Attraversando la corte immersa nel buio con la busta di Karl sottobraccio, affrettandomi verso la scorciatoia per la facoltà di legge - il vialetto pedonale fra il centro informatico e uno dei dormitori, poi quello fra la sede amministrativa e un altro dormitorio - cerco di capire come mai le due vaghe figure che mi seguono a una certa distanza sembrino molto più minacciose degli osservatori delle scorse settimane, che erano poco più che spettrali sensazioni sullo sfondo. Forse è la fisicità stessa dei nuovi arrivati, il loro passo sicuro e aggressivo che non si sforza di dissimulare il pro-
prio proposito. O non sono capaci di passare inosservati, oppure vogliono farmi sapere che mi stanno seguendo. Entrambe le possibilità mi spaventano. A quest'ora il campus è quasi deserto. Incontro rari studenti, sento della musica attraverso le finestre del dormitorio chiuse per il maltempo. Accelero il passo, diretto verso il primo dei due viali. Più che vederli, avverto che i due uomini alle mie spalle stanno cercando di raggiungermi. Il centro informatico ha una guardia all'ingresso, conseguenza di un increscioso incidente avvenuto tre anni fa: una burla studentesca a base di diversi litri di succo d'arancia; prendo in considerazione l'idea di chiedere aiuto alla guardia, ma cosa potrei dire? Che io, docente di ruolo, credo di essere seguito? Che ho paura? Nessun Garland farebbe mai una cosa simile, men che meno sulla base di prove così scarse. Superando l'edificio ed emergendo sulle strisce pedonali di Montgomery Street mi guardo alle spalle. All'estremità più lontana del vialetto distinguo non più di una sagoma che mi si avvicina. Forse la mia immaginazione è un po' troppo attiva. Sono sull'altro lato della strada, diretto verso il secondo vialetto, quando abbasso gli occhi sul pacchetto che reggo in mano. Sulla vecchia busta malconcia. Sul libro che mi ha dato Karl. Comincio lentamente a capire. La parola chiave è "vecchia". Qualcuno è arrivato a una conclusione sbagliata. Mi guardo indietro. Il mio pedinatore è sul versante opposto della strada, e mi sta guardando. Si è fermato sotto un lampione, e posso vederlo chiaramente. In un primo momento soffro di un'allucinazione, tanto consolante quanto sorprendente, poiché l'uomo assomiglia ad Avery Knowland. Ma in comune hanno in realtà soltanto una trasandata coda di cavallo, e nel cono di luce posso vedere che i capelli del mio inseguitore sono più lustri e più scuri di quelli del mio arrogante studentello. Fra l'altro, l'uomo che mi ha pedinato per mezzo campus è più basso, più muscoloso e ha i fianchi più larghi, e il suo volto rubicondo è colonizzato da un'incolta peluria grigia. I suoi ardenti occhi rossi sono eccitati, come fosse sotto l'effetto di qualche sostanza. Indossa un giubbotto di pelle, e riesco tranquillamente a immaginarmelo in un bar frequentato da motociclisti. All'imbocco del vialetto ho un'esitazione. L'uomo ha cominciato ad attraversare la strada nella mia direzione. Forse è una coincidenza. Forse non gli interesso affatto. D'altra parte, l'uomo che mi ricorda Avery Knowland è arrivato ormai a meno di quindici metri da me, e devo prendere una deci-
sione. Continua ad avvicinarsi, e le sue intenzioni non sembrano onorevoli. L'adrenalina mi è entrata in circolo. Malgrado tutte le mie febbrili fantasie, potrei sbagliarmi. E, anche se avessi ragione, posso ancora superare il vialetto e arrivare alla facoltà prima che il mio pedinatore mi raggiunga, a meno che non sia uno scattista olimpionico. Così, mi lancio nello spazio fra la sede amministrativa e le due strutture gotiche collegate sull'altro lato, la biblioteca e uno dei dormitori. Il vialetto è in realtà il versante di una collinetta erbosa sovrastata dal solenne edificio di vetro della sede amministrativa, alla cui base si erge il complesso della biblioteca e del dormitorio. La biblioteca è come al solito nel bel mezzo di una ristrutturazione, e i ponteggi coprono la fiancata che delimita il vialetto. Rallento un istante scrutando fra i ponteggi e chiedendomi se non vi sia nascosto qualcun altro, ma il buio ai piedi della collina è troppo fitto e non riesco a vedere nulla. Torno a spostare lo sguardo davanti a me e mi blocco. All'inizio c'erano due uomini che mi seguivano, poi ne era rimasto uno solo. Ora è riapparso il suo compagno. È in fondo al vialetto, lungo la direttrice per la facoltà di legge, e si sta avvicinando. Non so come facesse a sapere che avrei imboccato questa direzione, ma allo stesso modo non so come entrambi facessero a sapere che mi trovavo al club scacchistico. Ci sono molti punti in sospeso, ma non è questo il momento per chiarirli. Mi guardo alle spalle. L'uomo dalla barba incolta si sta ancora avvicinando. Do un'occhiata intorno in preda allo sgomento. L'università è così ossessionata dalla sicurezza che i suoi spazi aperti sono assolutamente insicuri. Non posso nascondermi in un dormitorio poiché mi manca la chiave elettronica con cui aprire la porta. Non posso nascondermi in biblioteca poiché l'unico ingresso aperto la sera si trova sul davanti. Non posso nascondermi nella sede amministrativa poiché è chiusa fino al mattino. Forse non avrei dovuto prendere questa scorciatoia, ma la criminalità nel campus è un'esagerazione: lo dicono tutte le pubblicazioni ufficiali dell'università. L'uomo alla fine del vialetto, quello che mi blocca la strada, continua ad avanzare lentamente, stagliandosi come una macchia scura sullo sfondo del traffico di Town Street. Dietro di me, il mio inseguitore accelera il passo. Sa che sono in trappola. Mi ripeto che in teoria dovrei essere immune a qualsiasi pericolo, ma mi
viene in mente che Jack Ziegler possa essere meno influente di quanto tutti credono; o che almeno uno dei molti schieramenti che lottano per impossessarsi del lascito di mio padre possa essere all'oscuro del suo editto o magari sia disposto a sfidarlo. Compio un piccolo giro su me stesso. Un uomo davanti a me, un altro dietro. Alla mia destra la mole della biblioteca coperta dai ponteggi. Alla mia sinistra la sede amministrativa. E poi vedo... ... una luce azzurra... Accanto all'ingresso chiuso della biblioteca, subito dopo i ponteggi, c'è un apparecchio per le chiamate di emergenza. L'università li ha installati un po' ovunque. Basta aprire il pannello frontale e la polizia del campus entra in azione, che si parli nel microfono oppure no. Mi lancio in quella direzione. E sento il suono che mi spaventa più di tutti. «Aspetti, professore!» grida l'uomo alle mie spalle. «Professor Garland, si fermi!» Sanno come mi chiamo. E poi sento qualcosa di peggio: «Non lasciartelo sfuggire!». D'un tratto, entrambi gli uomini stanno correndo verso di me. Raggiungo l'apparecchio e apro il pannello. All'interno vedo un'altra luce azzurra, una piccola tastiera numerica e il microfono. Una scarica elettrostatica erutta dall'altoparlante, probabilmente un centralinista che fa una domanda. Sto per rispondere quando un calcio mi fa finire a gambe all'aria. Crollo pesantemente a terra e sto per rotolare via quando un piede saetta nel buio e arriva dolorosamente a contatto con le mie costole. Emetto un gemito ma riesco a mettermi in ginocchio, cercando di ricordarmi le lezioni di karate dei tempi del college. Un pugno mi colpisce al volto. Barcollo all'indietro e lascio cadere la busta. Lo stesso pugno si abbatte con violenza sulla mia spalla, che si intorpidisce perdendo di sensibilità. Uno degli uomini mi si inginocchia accanto, mi solleva la testa tirandomi per i capelli e sibila: «Cosa c'è in quella busta?». Poi il pugno fende ancora l'oscurità e mi colpisce l'orecchio, che esplode in un dolore che non credevo possibile provare. «Cosa c'è nella busta, professore?» «Un libro» borbotto artigliando la terra nel tentativo di rialzarmi. Un altro pugno, questa volta sull'occhio. La notte si accende di verde. Il mio volto sembra squarciarsi e il dolore è una lama glaciale che mi percorre la guancia. «Tiralo su» ordina la stessa voce sibilante, e l'altro uomo obbedisce e mi
fa alzare. «Sta arrivando la polizia» mormoro. Un'esitazione mentre i due si guardano. Poi il pugno di ferro cala un'altra volta su di me, colpendomi al costato, nello stesso punto del calcio, e il mio intero corpo canta un inno di agonia. Un altro pugno, questa volta nello stomaco. Mi piego in due. Una mano mi afferra per la spalla. Usando una mossa che ricordo vagamente dalle lezioni di autodifesa, mi abbasso, do una spinta verso l'alto e mi libero della stretta. Poi mi volto e mi lancio barcollando giù dalla collina verso la base dei ponteggi. Sento i due uomini dirsi qualcosa, forse litigano su chi dovrà seguirmi nel cantiere. Non mi guardo indietro. Una bassa sbarra di metallo blocca l'ingresso ai ponteggi e un cartello mi avverte di non oltrepassarla. Considerate le alternative, tuttavia, credo di doverlo fare. Al di là della sbarra c'è una scala obliqua alta esattamente un piano. Il ponteggio è pieno di scale come questa che risalgono l'intera facciata dell'edificio, con piattaforme su ogni livello per gli operai. Mi reggo alla sbarra, intontito e in preda alla nausea per le percosse. Deglutendo a fatica, lottando contro le ondate di angoscia, mi guardo indietro. Uno dei due uomini sta venendo verso di me. L'altro è scomparso, cosa che se avessi il tempo di preoccuparmi mi preoccuperebbe. Supero la sbarra con fare maldestro e raggiungo la scala nell'istante in cui il mio inseguitore si mette a correre. Il costato mi duole per i calci e i pugni e mi sento la faccia viscosa e gonfia, ma riesco ad arrivare al primo livello. La testa mi pulsa. Mi affloscio sulla scala che conduce al secondo livello, e le braccia improvvisamente in sciopero si rifiutano di portarmi oltre. Una mano sbuca dal basso e mi afferra la caviglia. Mi tira con violenza, facendomi crollare seduto. La testa dell'uomo emerge, e io scorgo uno scintillio nella sua mano: un tirapugni di metallo, forse, o magari un piccolo coltello. Tutte quelle chiacchiere sul fatto che non correvo alcun rischio, e adesso questo! Chiamando a raccolta le forze che mi restano piego la gamba destra, punto la schiena contro la scala e faccio partire un gran calcio. Colpisco qualcosa di carnoso: la sua faccia? la mano? L'uomo lancia un grido e molla la presa sulla mia caviglia mentre la sua testa scompare di nuovo. Mi costringo ad alzarmi e, vincendo le obiezioni delle mie spalle, riprendo la scalata. Il mio aggressore non sembra seguirmi, ma di recente ho sbagliato fin troppo spesso. Continuo a muovere i piedi spinto soltanto dalla forza di volontà, e raggiungo il secondo livello e poi il terzo. Mi fermo e guardo in basso. Il piano del ponteggio sembra vertiginosamente alto. Mi reggo alla ringhiera
di metallo scuro. Riesco a vedere diversi isolati del campus. Compresa la facoltà di legge. Non scorgo l'uomo che mi stava inseguendo, nemmeno al piano inferiore. Sono quasi privo di forze, ma non voglio correre rischi. Dopo tutto, potrebbe essersi nascosto in qualche modo sulla scala. Mi costringo a salire al livello superiore e mi fermo sul quarto pianerottolo, ansimando e appoggiandomi alla ringhiera. Sento delle voci più marcate e vedo luci lampeggianti alla fine del vialetto. Non riesco a distinguere i dettagli a causa del buio, e i fasci di luce mi sorprendono avanzando lentamente e risalendo verso i ponteggi. Cerco riparo sotto la scala, ma è troppo tardi. I fasci di luce mi catturano. Cerco comunque di arretrare nel buio, tranne che non c'è più buio: l'illuminazione è troppo intensa, quasi accecante, come un riflettore. Dal basso proviene una voce amplificata: «Polizia universitaria. Scenda dalle scale, piano e tenendo le mani bene in vista». Dolorante ma sollevato, seguo esattamente le istruzioni: scendo con cautela, tradito di tanto in tanto dai piedi tremanti e seguito dalla luce a cui se n'è aggiunta un'altra, molto più intensa. Immagino sia arrivata un'auto di pattuglia o, a giudicare dalle voci, più di una. Non riesco a ricordare di essere mai stato tanto felice di vedere la polizia. Deciso a non mostrarmi debole al cospetto dei miei soccorritori supero con un balzo gli ultimi scalini, rischiando di cadere, e poi mi volto verso la luce. Sbatto le palpebre con forza, schermandomi gli occhi, consapevole per la prima volta di quale debba essere il mio aspetto: quello di uno scarmigliato uomo di colore vestito con una giacca a vento scura e intento a scalare la fiancata della biblioteca nel mezzo della sera, palesemente colpevole di qualsiasi crimine esista al mondo. «Va bene, signore» dice una voce grave e bianca da dietro la luce. Il tono in cui l'agente pronuncia la parola "signore", malgrado non sia abbastanza ironico da costituire un chiaro insulto, ci arriva decisamente vicino. «Tenga le mani bene in vista davanti a sé, d'accordo?» «Okay, ma stanno scappando...» «La prego di restare fermo, signore.» Evidentemente il poliziotto non sa che sono un professore, e così decido di illuminarlo. «Agente, devo informarla che insegno...» «Non dica una parola, la prego, signore. Cammini nella mia direzione, lentamente, le mani davanti a sé, i palmi rivolti verso di me.»
Indico l'estremità del vialetto. «Ma insegno alla...» «Fermo con quelle mani!» «Ma non sono stato io a...» «Resti dov'è, signore. Le mani in vista. Bene, così.» Obbedisco, allargando le mani tremanti perché gli agenti possano vederle. Vorrei essere calmo, nella migliore tradizione dei Garland, ma non lo sono. Sono spaventato. Infuriato. Umiliato. La gelida sera di Elm Harbor brucia di rosso. Avverto uno strano cedimento inguinale e, nonostante i numerosi dolori, una sorprendente ondata di forza nelle membra: il mio istinto di sopravvivenza sembra pienamente attivato. Ora riesco a vedere i due agenti, entrambi variazioni sul bianco, mentre mi si avvicinano compiendo ampi semicerchi. Non hanno estratto la pistola, ma tengono la mano posata sul fianco e hanno slacciato la fibbia della fondina; entrambi reggono in alto le lunghe torce elettriche impugnandole all'estremità posteriore per poterle usare come bastoni senza bisogno di alzare ulteriormente il braccio. Si muovono con lentezza, ma non senza decisione. Non riesco a distogliere gli occhi dalle torce. Ho sentito diversi racconti su situazioni come questa, ma non le ho mai vissute in prima persona. Per un attimo vedo profilarsi un secondo pestaggio, questa volta per mano della polizia del campus. Un cocente senso di vergogna mi sale al volto, come se fossi stato sorpreso sul punto di commettere qualcosa di terribile. Mi sento colpevole, di qualsiasi cosa vogliano. Senza muovermi, guardo i due agenti guardarmi. La loro flemma ha uno scopo, decido: stanno cercando di farmi commettere un passo falso, una spiritosaggine o una risata nervosa, ed è una scusa per usare quelle torce. O forse è solo perché svolgono un lavoro duro, pericoloso, e preferiscono non correre rischi. In un caso o nell'altro, non mi sono mai sentito così indifeso, così incapace di determinare il mio destino. Ai piedi di mio padre ho imparato ad amare la forza di volontà. Il Giudice era sempre alquanto spietato con coloro che ne sembravano privi. Ma ora sto affrontando un momento in cui la mia è alquanto irrilevante. Non ho mai sperimentato la crudele barriera razziale del nostro paese in modo tanto vigoroso. Mi chiedo che cosa avrebbe fatto il Giudice. Uno degli agenti mi fa cenno di avvicinarmi. «Faccia un passo avanti. Bravo. Adesso si pieghi in avanti, appoggi le mani contro il muro, così, e allarghi le gambe. Bene.» Obbedisco. Una luce fuoriesce da due finestre del dormitorio all'estremità più lontana del vicolo, e il cancello elettronico si apre: studenti eccitati che escono a seguire con approvazione la pulizia etnica del campus.
«Bene così, signore, bene così» dice lo stesso agente che ha parlato finora. «Ora vediamo che cosa abbiamo.» Il mio tono di voce è freddo. «Avete un docente di ruolo, ecco cosa avete. Sono io che ho dato l'allarme.» Mi fermo ansimando per la rabbia, rimpiangendo di non poter vedere i loro volti dietro i fasci accecanti delle torce. «Sono stato aggredito.» «Può farmi vedere un documento, signore?» domanda lo stesso agente, e stavolta il "signore" suona come se potesse quasi credermi. «Potete vederlo» rispondo con enfasi pedante. In quel momento, mentre ottengo finalmente di estrarre il portafoglio e dimostrare che sono chi dico di essere, gli occhi mi cadono sul punto in cui è avvenuta l'aggressione. Mi rendo conto che dovrò tornare al club scacchistico e subire ancora una volta gli abusi di Karl mentre gli spiego che qualcuno mi ha picchiato nel bel mezzo del campus e mi ha rubato il suo vecchio libro. Le due e mezzo del mattino. Sono seduto nel mio studio affacciato su Hobby Road, una mazza da baseball accanto alla mano destra, e sto cercando di capire che cosa sia successo. Una volta persuasi che avevano sbagliato, i poliziotti mi hanno accompagnato al pronto soccorso dell'ospedale universitario, dove un giovane interno mi ha ricucito il volto e fasciato il costato canticchiando un vecchio motivo di Broadway. Un'ora dopo ho lasciato l'ospedale con Kimmer e Bentley. Già preoccupatissima, mia moglie è rimasta ammutolita, per non dire terrorizzata, nel vedermi in quelle condizioni. È comunque riuscita a dimostrare una certa grazia ed è stata gentile e sollecita per l'intero tragitto verso casa, baciandomi il volto malconcio e assicurandomi che tutto sarebbe andato per il meglio, malgrado io non le avessi chiesto niente. Ma forse è proprio Kimmer ad aver bisogno di rassicurazioni, poiché un marito che viene malmenato e quasi arrestato davanti alla biblioteca dell'università non è il genere di cose che ti aiuta a ottenere una nomina. Non ho ancora rivelato a mia moglie i dettagli dell'aggressione. Le ho detto soltanto che mi hanno rubato il libro sugli scacchi di Karl. Ha già abbastanza preoccupazioni, credo. Immagino che le spiegherò tutto a tempo debito. E Bentley! Il mio bambino allegro e birichino, talmente sconvolto dall'aspetto di suo padre che nel momento in cui l'abbiamo sistemato sul sedile si è raggomitolato su se stesso e si è addormentato. Darei tutto quello che ho per potergli restituire la sua infanzia; le ultime settimane sono state di
sicuro più difficili per lui che per Kimmer e me. In questo momento, scompostamente seduto alla mia scrivania con un occhio sulla strada e uno su Internet, dove più che navigare sto saltabeccando da una chat room all'altra, vorrei tanto sapere che cosa si è lasciato dietro mio padre e chi di preciso vorrebbe saperlo per poter dare loro quello che cercano e cavare da questo pasticcio me e la mia famiglia. Le disposizioni: che cosa sono? L'Excelsior: perché gli scacchi? L'album di ritagli scomparso, il pedone ricomparso, la consegna alla mensa gratuita, troppi misteri per non rimetterci la salute. O la sicurezza. "Lei e la sua famiglia siete perfettamente al sicuro." Ma certo. Andatelo a dire ai due che mi hanno inseguito stasera. Mi piacerebbe incontrarli un'altra volta. Alle mie condizioni. Mi alzo nella piccola stanza, impugno la mazza da baseball come un battitore e la faccio ruotare con grazia, come per colpire una palla veloce, e sul finale del movimento per poco non demolisco il mio computer. A dire il vero, non colpisco un essere umano con rabbia fin dai tempi in cui ero in seconda media e il bullo della scuola, infuriato con me per una battuta che non ricordo, si mise d'impegno per riempirmi di botte. Facendo più attenzione al movimento della mazza, restando in piedi nella penombra, lascio scorrere i ricordi, ricordi di tempi più felici, quando Abby era ancora viva. Il bullo, un rabbioso bianco il cui nome credo fosse Alvin, mirò al mio naso ma mi mancò, spaccandomi invece il labbro. Mulinando le braccia in preda al dolore e alla paura lo colpii alla mascella, cosa che lo sbalordì più che fargli male; poi affondai un diretto destro al centro del suo sbalordimento, e lui andò al tappeto con un grugnito. Indietreggiai, e all'improvviso Alvin era di nuovo in piedi e mi stava placcando, e ci ritrovammo a terra a colpirci con foga e alla cieca come accade in molte risse scolastiche finché non venimmo divisi da un insegnante. Oh, quante me ne disse il Giudice! Non per la rissa, ma per non aver concluso ciò che avevo iniziato. Mi citò il vecchio detto: "Se attacchi il re, lo devi uccidere". Costringere un bullo alla patta, mi avvertì, non è mai sufficiente. Al termine dei miei tre giorni di sospensione tornai a scuola con cautela, chiedendomi se Alvin fosse in agguato da qualche parte. Alvin. Sì. Torno a sedermi alla scrivania, posando la mazza a terra. Forse era proprio quello il motivo della rissa, poiché lui pretendeva che tutti lo chiamassimo Al e io non sono mai stato il tipo che permette agli altri di impormi la loro volontà; agli altri uomini, quantomeno. Per come andarono le cose, non fui costretto a scontrarmi un'altra volta con Alvin. Lui non tornò a scuola, né in quei giorni né mai. Sorrido e allontano la sedia dalla
scrivania, girandola verso la finestra, oltre la quale la strada è silenziosa e deserta. Fu uno dei miei momenti eroici, poiché a scuola si sparse la voce che era stato il pestaggio subito da quello scricciolo di Tal Garland ad allontanare Alvin dalla scuola. Il bullo se n'era andato, e per una settimana circa io divenni addirittura popolare, fenomeno insolito che non si è mai più ripetuto. In realtà ero a malapena riuscito a difendermi, e la verità era più prosaica. Venne fuori che, nel corso della sua vacanza forzata, il povero Al aveva compiuto un atto grossolano che coinvolgeva un'automobile non appartenente alla sua famiglia ed era destinato a una "scuola speciale": l'eufemismo di quei tempi per indicare gli istituti professionali, molti dei quali erano poco più che depositi per gli indesiderati, gli indolenti, gli inquieti, gli... gli... Il telefono sta squillando. Riapro gli occhi di scatto e, automaticamente, faccio per afferrare la mazza da baseball. Fisso incredulo lo strumento che ha interrotto il mio sonnellino, poi mi volto verso l'orologio, il cui rosso quadrante digitale è a malapena leggibile dietro una pila di libri. Le due e cinquantuno. Del mattino. Nessuno mi ha mai chiamato alle due e cinquantuno del mattino per darmi una buona notizia. Il servizio di identificazione della chiamata mi informa che il numero è riservato. Non è un buon segno. Ciò nonostante afferro la cornetta al secondo squillo per evitare che svegli mia moglie. Il cuore mi batte troppo in fretta, la mia stretta sulla mazza da baseball è troppo decisa e il mio sguardo è tornato a posarsi sulla strada, come se gli squilli fossero un segnale per un attacco contro la casa. «Sì?» dico piano, poiché non intendo neanche fingere che ricevere una telefonata a quest'ora mi renda felice. A parte questo, l'adrenalina continua a scorrermi nelle vene, e sono un Po' spaventato... per la mia famiglia. «Professor Garland?» chiede una tranquilla voce maschile. «Sì.» «Il problema è stato risolto» mi assicura in tono voluttuoso, quasi ipnotico. «Mi dispiace per ciò che è accaduto stasera, ma adesso è tutto a posto. Nessuno le darà più fastidio. Lei e la sua famiglia siete al sicuro, come vi era stato promesso.» «Cosa? Ma chi parla?» «E, naturalmente, sarebbe meglio non informare nessuno di questa telefonata.» Non riesco a immaginare a chi potrei osare riferirla. D'altro canto...
«E se il mio telefono fosse sorvegliato?» «Non lo è. Buonanotte, professore. Dorma bene.» Riaggancio la cornetta, la mia mente un miscuglio di confusione, sollievo e una paura nuova e più profonda. "È tutto a posto. Il problema è stato risolto. Nessuno le darà più fastidio." Un mitomane, oppure uno scherzo di cattivo gusto, o forse, forse qualcosa di molto peggio. Forse è la verità. Rabbrividisco mentre salgo le scale, chiedendomi se ho udito davvero quello che credo di aver udito appena prima di riagganciare: lo scatto lieve con cui mia moglie, cercando di non fare rumore, ha calato sulla forcella la cornetta del telefono al primo piano. 28 DUE NOTIZIE «Ho saputo che hai avuto un piccolo problema» dice il grande Mallory Corcoran, che si è finalmente degnato di parlarmi. Questa volta è stato addirittura lui a chiamare me e non il contrario. «Se così si può dire.» Percorrendo il corridoio con il telefono portatile mi passo una mano sul volto pieno di lividi, rivolgendo un sorriso dolente alla mia immagine nello stretto specchio dalla cornice dorata appeso di fronte alla sala da pranzo, un orrido oggetto regalato a Kimmer da una lontana zia in occasione del suo primo matrimonio. Sono le undici passate, ma Bentley sta ancora smaltendo la stanchezza della sera prima. Uno dei grandi vantaggi della vita accademica è che ti puoi prendere una mattinata di vacanza per bazzecole come dedicarti al tuo bambino. «La polizia sta inviando a Meadows una copia del rapporto via fax. C'è qualcosa che posso fare? Come posso aiutarti?» «Non saprei, zio Mal. Sto bene. Sono solo un po' scosso.» «Sicuro?» «Sicuro» mormoro in piedi davanti alla finestra della cucina, guardando la pioggia battente che rischia di sommergere il nostro piccolo ma accogliente giardino sul retro. Due lati sono delimitati da siepi, un terzo da un alto steccato di legno, e il quarto lato è formato dalla nostra casa. Lasciamo che Bentley vi trascorra tutto il tempo che vuole, spesso senza nemmeno sorvegliarlo. «Credo di avere tutto... abbastanza sotto controllo.»
«Hai idea di cosa volessero?» Esito. Ho detto alla polizia che i due uomini mi hanno rubato la busta, ma non che hanno continuato a domandarmi delle disposizioni mentre mi malmenavano. Non ho parlato con nessuno della telefonata che ho ricevuto nel mezzo della notte, e la mia consorte dal sonno leggero non mi ha chiesto niente. Per qualche ragione, credo a quello che mi ha detto la voce al telefono. Sembra... plausibile, forse. «Non lo so, zio Mal» sospiro. Il dolore è tornato e mi indebolisce la voce, ma non è ancora il momento di prendere un altro Advil. «Davvero, non lo so.» «Non hai una bella voce.» «Oh, è solo la mascella.» «Ti hanno rotto la mascella?» Allarme. Incredulità. Ma anche divertimento, il tono di un uomo che le ha viste tutte. «No, no, niente del genere. Fa male, tutto qui.» «Mmh.» Mallory Corcoran dubita palesemente delle mie rassicurazioni. Non lo biasimo, ma le pene più gravi che sto soffrendo non sono fisiche. Questa mattina, malgrado le ossa doloranti, ho preparato la colazione e ho cercato di convincere Kimmer ad ascoltare l'intera storia. Avevo intenzione di dirle tutto, tutto quello che so, tutto quello che ho ipotizzato, tutto quello che mi preoccupa. Magnificamente vestita con un gessato blu scuro da ufficio, mia moglie ha scosso stancamente il capo. "Non voglio sapere, Misha, d'accordo? Mi fido di te, davvero, ma non voglio sapere." Ho protestato, ma lei ha scosso di nuovo la testa. Mi ha posato dolcemente le dita sulle labbra. I suoi occhi, seri, interrogativi e preoccupati hanno retto il mio sguardo. "Ho solo tre domande da farti" ha detto. "Primo, nostro figlio è in pericolo?" Avevo trascorso metà della notte, anche dopo la telefonata, a riflettere sullo stesso interrogativo, perciò avevo la risposta pronta. Le ho detto la verità, e cioè che sono sicuro di no. Lei ha digerito la risposta e poi ha chiesto: "Io sono in pericolo?". Ancora una volta ho risposto no, naturalmente no. Continuando a fissarmi con espressione solenne, Kimmer mi ha rivolto la domanda che voleva farmi fin dall'inizio: "Tu sei in pericolo?". Ci ho riflettuto e poi ho scosso il capo. "Non penso." Lei ha aggrottato la fronte. "Non è come esserne sicuro." Ho scrollato le spalle e le ho detto che, entro certi limiti, lo ero. Kimmer ha annuito, si è fatta abbracciare, mi ha baciato e poi mi ha posato la testa sul petto e mi ha detto di non scordare che ho una famiglia che ha bisogno di me. "Fa' quello che credi di
dover fare, Misha, ma pensa a quello che è successo ieri sera e ricorda gli altri tuoi doveri." Poi è andata al lavoro, lasciandomi con un sorriso inaspettato sul volto. Più tardi nella mattinata sono passati a trovarmi Don e Nina Felsenfeld, portando pasticcio di carne e gentilezza, rischiando di soffocarmi con la loro agitata preoccupazione ma anche riscaldandomi il cuore. Non ho idea di come abbiano saputo cos'è successo ieri sera, ma Elm Harbor, come insiste a dire mia moglie, è una cittadina molto piccola. «Be', se ti viene in mente qualsiasi cosa in cui lo studio ti può essere d'aiuto» sta dicendo lo zio Mal con una forzata bonomia «fatti sentire.» Intende fatti sentire con Meadows. È di nuovo stufo di me, me ne rendo conto. «Lo farò.» Mi costringo a dire. «E grazie della telefonata.» Mallory Corcoran arriva addirittura a ridere. «Talcott, aspetta un attimo. Non riagganciare, non siamo nemmeno arrivati alla ragione di questa telefonata. Ti avrei chiamato lo stesso, anche prima di aver saputo di ieri sera.» «Perché? C'è qualche problema?» Un'altra potente risata tuona lungo i chilometri che ci separano. «No, no, va tutto bene. Ascolta, Talcott, per quanto riguarda la nomina... tua moglie deve avere un ammiratore segreto.» «Un ammiratore segreto?» «Esatto.» «In che senso?» chiedo a disagio. Non penso più all'aggressione di ieri sera, ma all'eventualità che la Casa Bianca abbia scoperto qualcosa sulle possibili attività extraconiugali di mia moglie, le stesse a proposito delle quali ho promesso al dottor Young che le avrei concesso il beneficio del dubbio. Ma poi capisco che lo zio Mal sta insinuando che le probabilità di Kimmer stanno aumentando, non diminuendo. «Le mie fonti mi dicono che gli uomini del presidente stanno smarrendo un po' del loro entusiasmo nei riguardi del professor Hadley. È ancora in corsa, ma sta traballando. I repubblicani l'avevano inquadrato come una sorta di Felix Frankfurter, un progressista dal punto di vista politico ma un conservatore da quello giuridico, che è quello che si può arguire dal poco che ha scritto. Apprezzavano la combinazione, immaginando di poter accontentare i democratici e, contemporaneamente, la loro ala destra. È quello che gli avevano fatto credere, in ogni caso.» «Capisco.»
«E non era neanche una pessima idea. Il presidente ha avuto dei brutti scontri sulle nomine, e credo che ne apprezzerebbe una tranquilla.» «Ne sono sicuro.» Sono entrato nel mio studio, massaggiandomi le costole incrinate. La finestra sul davanti mostra la stessa pioggia incessante di quella sul retro. Hobby Road, come al solito a quest'ora del mattino, è semideserta, poiché i bambini sono a scuola e i genitori al lavoro, al supermercato, a lezione di aerobica o dovunque vadano di questi tempi i genitori. «L'idea era quella» prosegue lo zio Mal. «Ma ho saputo che qualcuno sta inviando loro le trascrizioni di certi discorsi informali che il professor Hadley ha tenuto qua e là, e stanno cominciando a pensare che il loro candidato numero uno sia un cripto-radicale. Potrà anche non pubblicare questo materiale, ma alcune delle sue idee sembrano decisamente balzane.» «Capisco» dico in modo neutro. «Mentre nel caso di Kimmer... be', Talcott, tenuto conto di tuo padre... Diciamo soltanto che il presidente ha un lato destro da accontentare, e che nominare la nuora di Oliver Garland gli darebbe un certo... prestigio. E in più è nera. Una donna di colore. Un triplo vantaggio.» «Caso mai ce ne fossimo dimenticati.» «Sembri turbato, Talcott.» «No, no.» Non c'è modo di spiegare allo zio Mal come i suoi ultimi commenti mi abbiano ferito, e come ferirebbero ancora di più mia moglie se glieli comunicassi, cosa che non farò. Un matrimonio Garland senza segreti sarebbe probabilmente troppo felice, e questo la famiglia non potrebbe mai tollerarlo. «No, ma... hai detto che qualcuno sta inviando le trascrizioni alla Casa Bianca?» «Qualcuno da Elm Harbor, ho sentito.» «Da Elm Harbor?» «Dall'università.» La sua voce si è indurita. «Ah, capisco.» Mantengo un tono neutro. È chiaro che lo zio Mal crede che sia io a diffondere il materiale, e il suo atteggiamento mi testimonia quanto lui consideri di cattivo gusto il fatto che un uomo sfrutti le sue conoscenze a Washington per promuovere la nomina di sua moglie alla corte d'appello. Anche se, riflettendoci per un istante, dovrebbe ricordare che io a Washington non possiedo alcuna conoscenza al di là di quella di cui sto godendo in questo momento. «Il fatto è, Talcott, che infangare qualcuno in questo modo può essere controproducente.»
«Controproducente?» «Voglio dire, chiunque stia facendo arrivare quelle trascrizioni alla Casa Bianca... be', potrebbe danneggiare il professor Hadley al punto da fargli perdere la nomina. Ma, capisci, non c'è alcuna garanzia che sia il candidato dell'informatore a ottenerla. Iniziative simili possono essere dannose. Se A sta infangando B, a volte sia A che B si sporcano a tal punto che vengono eliminati dalla...» «Il concetto mi è chiaro.» «E anche se non fosse controproducente... anche se funzionasse... insomma, resta comunque sbagliato.» "Sbagliato." Ecco una parola destinata probabilmente a estinguersi nel corso del nuovo secolo. «Sono d'accordo.» «Fossi in te, troverei il modo di darci un taglio.» «Zio Mal, non sono io!» sbotto sentendomi esattamente come ieri sera, il nero innocente che appare colpevole agli occhi del potere bianco. «Non ho mai insinuato che lo fossi» intona lui in tono virtuoso. «Glielo puoi dire?» «Dire cosa a chi?» «Dire alla Casa Bianca che non sono io.» «Be', se proprio lo desideri» mormora dubbioso, dando a intendere che non è sicuro che gli crederebbero né che dovrebbero farlo. «Per favore.» «Lo farò» risponde, ma significa che non lo farà. «In ogni caso, aguzza le orecchie.» «Giusto.» «Bene. È per questo che siamo qui. E facci sapere se c'è qualcosa che possiamo fare a livello di studio.» «Certo» gli dico. Stuart, sto pensando mentre riaggancio. Quel pomposo idiota di Stuart Land. 29 UNA SERATA PIACEVOLE «Stai bene, Talcott?» chiede Shirley Branch dandomi un bacio sulla guancia mentre varco la soglia del suo appartamento. Scruta con espressione solidale il livido ancora visibile sotto il mio occhio. Fuori, il vento umido del New England prosegue la sua annuale disputa dicembrina con-
tro coloro che preferirebbero il caldo. «Ho saputo che per poco non ti arrestavano. Dammi il giaccone. E tua moglie dov'è?» Una domanda si sovrappone all'altra, poiché Shirley possiede il tipo di disordinata brillantezza che non riesce a stare al passo con se stessa. Scuoto la testa e le porgo la giacca a vento, rispondendo alla prima domanda per la decima volta negli ultimi due giorni e alla seconda per la centesima volta nell'ultimo anno. No, non ho rischiato l'arresto, le dico: un piccolo malinteso, nient'altro. E Kimmer non è potuta venire alla cena perché la baby sitter ha l'influenza; ed è vero, anche se, nel caso fosse stata bene, Kimmer avrebbe trovato qualche altra scusa. Per mia moglie, una cena con la facoltà di legge equivale alla tortura della ruota, ma senza i benefici dello stretching. Kimmer, che ogni tanto mi sorprende decidendo di apprezzare la mia compagnia, aveva suggerito che restassi a casa, ma quando ho detto che la trovavo un'ottima idea, lei l'ha cambiata, citando le ragioni che ci avevano spinti ad accettare l'invito di Shirley per questo sabato sera: il fatto che Shirley è il primo docente di colore di sesso femminile della facoltà, e che perfino in questa età di contrasti esiste una cosa chiamata solidarietà. Shirley è una mia ex studentessa e assistente, e perfino in questa età di egoismo esiste una cosa chiamata fedeltà. Ma io credo che la vera ragione per cui Kimmer voleva che almeno uno di noi due fosse presente sia la possibilità di spiare Marc Hadley, che è tra gli invitati. Kimmer e Marc non si sono più ritrovati nella stessa stanza da quando sono diventati avversari per il seggio alla corte d'appello, e io e lui ci siamo incrociati di rado in facoltà, anche e soprattutto a causa delle mie prolungate assenze. Credo che Kimmer, che è molto meno intimidita dai miei colleghi di quanto creda, avesse deciso che era giunta l'ora di prendergli le misure. Finché non è venuto fuori che eravamo sprovvisti di baby sitter. A quel punto, mi ha mandato da solo. «Hai visto Cinque?» domanda speranzosa Shirley nel suo dolce accento del Mississippi. Cinque è il formidabile nome del poco formidabile terrier che di tanto in tanto l'accompagna nel suo piccolo ufficio, in violazione a numerose regole dell'università. «È uscito, non so come.» «Temo di no» le rispondo. «Sicuro di star bene, Tal? Non so se conosci tutti. Hai già incontrato il reverendo Young, vero? No? Ah, sì? È il mio pastore. Il tuo occhio è terribile. Sicuro di non aver visto Cinque? Non è esattamente un cane invernale.»
«Sono sicuro che sta bene, Shirley» mormoro, e lei scrolla le spalle cercando di sorridere. Ricambio meglio che posso. Il dolore alle costole è diminuito, ma i punti sulla guancia mi prudono in modo terribile. Stuart Land è via per qualche giorno - niente meno che a Washington - e così non ho potuto rimproverarlo per i suoi tentativi di sabotare Marc Hadley, sempre che sia lui il responsabile. Lo sconosciuto dalla voce voluttuosa non ha richiamato per rassicurarmi, ma non ho più la sensazione di essere seguito. In caso contrario, credo che avrei rinunciato alla serata. Sono fra gli ultimi ad arrivare. Marc e Dahlia Hadley sono già qui, così come Lynda Wyatt e il suo sonnacchioso marito, Norm l'architetto. E il caro, vecchio, scaltro Ben Montoya, il robusto braccio destro di Lynda, la cui moglie, come la mia, sta sostituendo una baby sitter influenzata. Lem Carlyle e sua moglie arriveranno più tardi, dopo il saggio di danza della figlia. Quattro dei membri più potenti della facoltà, più il sottoscritto. Shirley è stata una mia studentessa dieci anni fa, nel primo corso che ho tenuto. Mancano tre anni alla decisione della commissione accademica per la sua cattedra, ma sa già quali sono le buone opinioni che contano. E ha sufficiente esperienza per capire che malgrado ci sforziamo di evitarlo, le valutazioni sulla sua preparazione accademica saranno sempre influenzate, almeno in parte, da quanto i membri della commissione l'apprezzeranno come persona. Tre degli ospiti non hanno alcun diretto collegamento con l'università. Il mio consigliere occasionale, il reverendo dottor Morris Young, è accompagnato dalla consorte Martha, grassa quasi quanto lui e silenziosa; al di fuori dalla chiesa, si intende, poiché la sua voce è la più potente, anche se forse non la migliore, del coro che canta in giro per lo Stato. Il terzo ospite è il inagrissimo Kwame Kennerly, uno sfacciato politicante dai capelli prematuramente radi, dal magnifico pizzetto e dalla reputazione di demagogo, implicato, ma mai in modo dimostrabile, in numerosi scandali e che attualmente, come ama dire Kimmer, funge da assistente speciale del sindaco per l'addomesticamento delle minoranze, malgrado il suo titolo ufficiale sia quello di "vicecapo del personale". È anche, mi rendo conto quando le cinge la vita sottile con il braccio, il compagno di Shirley. E mi viene in mente che Shirley sta solidificando i suoi rapporti non soltanto con i professori più prestigiosi della facoltà di legge, ma anche con due delle figure più influenti della comunità di colore di Elm Harbor. In breve, si sta inserendo; e io, il suo ex professore, sorrido soddisfatto.
Kwame Kennerly, in piedi appena dietro Shirley e con un bicchiere di vino in mano, è alquanto scortese quando lei mi presenta; presumibilmente mi rimprovera di essere figlio di mio padre, atteggiamento che riscontro spesso negli attivisti di sinistra. (Quelli di destra hanno sempre una gran fretta di stringermi la mano, per motivi altrettanto meschini.) Vedo spesso il nome di Kwame citato sul "Clarion", poiché è uno di quegli astri nascenti della politica che hanno il dono dell'ubiquità, ma non l'avevo mai conosciuto. È un uomo alto e muscoloso i cui grandi occhi ammiccanti esprimono dissenso prima ancora che tu abbia aperto bocca. Per questa occasione, forse perché Shirley abita in riva al mare, indossa una giacca blu scuro dai bottoni dorati malgrado sia fuori stagione, il tipo di mancanza su cui mia madre era solita infierire. Quasi per bilanciare la giacca porta un berretto rotondo color arancione. L'orgia di colori - il berretto, la giacca, la pelle scura, la barba d'ebano - produce probabilmente un effetto intimidatorio sui progressisti bianchi presenti alla cena. Se Kwame si sente fuori posto, è deciso a non darlo a vedere. Shirley Branch abita in un enorme complesso che fronteggia la spiaggia stretta e piena d'alghe di Elm Harbor. Il suo appartamento a un piano non è molto ampio: una camera da letto che fa anche da studio, una cucina delle dimensioni di una cabina armadio, un solo bagno e un lungo locale che serve da soggiorno e da sala da pranzo, malgrado il tavolo da dodici occupi metà dello spazio. Per la stessa cifra (così mi ha ripetuto più volte di quante riesca a ricordare) Shirley avrebbe potuto acquistare una villetta a schiera con tre camere da letto sul lato opposto del complesso, ma non avrebbe goduto della meravigliosa vista sul mare. «Non ho bisogno di molto spazio» ama dire «siamo solo io e Cinque.» Cinque, forse dovrei spiegarlo, è il suo terzo cane con lo stesso nome, tradizione che risale ai tempi del college: Shirley ci tiene a far sapere di averlo scelto prima che Steven Spielberg lo rendesse famoso nel film Amistad. Sedersi nell'appartamento di Shirley, far scorrere lo sguardo fuori dalle porte finestre e oltre il balcone fino alla spiaggia, alla liscia distesa di acqua nera a meno di cinquanta metri di distanza, è quasi come lasciarsi trasportare a Oak Bluffs. Quasi. Shirley è una donna sottile dai piedi piatti con un volto lungo, triste e denti sporgenti, quella che quando ero bambino chiamavamo una faccia da cavallo. I suoi occhi sono un po' troppo sinceri, i suoi capelli un po' troppo stirati, i suoi movimenti un po' troppo frenetici: già quando studiava aveva
la tendenza a strafare. Il suo lavoro riguarda soprattutto le questioni razziali, e le sue posizioni sono decisamente, aggressivamente, quasi tangibilmente di sinistra. A sentire Shirley, non esiste problema in America o nel mondo la cui causa non sia il razzismo bianco. Possiede una mente acuta ed energica, adora scrivere ma alle sue dottrine manca a mio parere una certa sottigliezza, un'attenzione alle sfumature, un'approfondita considerazione delle alternative, in una parola è testarda, ragione per cui avevamo quasi deciso di non assumerla. Marc Hadley era il suo più deciso oppositore. Mi chiedo se Shirley lo sappia. Mi addentro nell'area che funge sia da soggiorno che da sala da pranzo divano e divanetto a un'estremità, tavolo di cristallo all'altra - e trovo Marc che tiene già banco, tanto incapace di fare a meno di un pubblico quanto la stampa è incapace di trattenersi da uno scandalo. Shirley si stringe nelle spalle in quello che potrebbe quasi essere un gesto di scusa mentre appende il mio giaccone nello stipato armadio accanto alla porta d'ingresso. Lynda Wyatt sorride allegra al mio ingresso, levando il bicchiere in un saluto ironico: quantomeno prova ad apprezzarmi, questo bisogna concederglielo. Il saluto di Marc è talmente sbrigativo che è in realtà un ripudio: è troppo occupato a predicare, mulinando le braccia fasciate di tweed mentre intrattiene gli invitati con la sua ultima teoria. La socievole Dahlia fa del suo meglio per riparare alla scortesia del marito, abbracciandomi come un fratello perduto e chiedendomi notizie dei miei cari. Il caro vecchio Ben Montoya, ossuto ma ancora forte, mi posa un'energica mano sulla spalla e sussurra di aver saputo che sono stato arrestato. Mi volto e rivolgo un'occhiataccia non a Ben ma a Shirley, la quale risponde con un sorriso nervoso e si stringe nelle spalle come a dire: "Non è colpa mia, io non creo le voci, mi limito a diffonderle". Il mio sguardo giunge finalmente a posarsi su Marc, il rivale di mia moglie, un uomo a cui un tempo mi sentivo abbastanza vicino: Fratello Hadley, come ama chiamarlo la Cara Dana Worth, o il Giovane Marc, come preferisce il malizioso Theo Mountain, poiché Marc possiede il tipo di presenza che ispira le facezie. Odora come sempre del gradevole tabacco al lampone che predilige, poiché la vecchia pipa malconcia è una delle sue molte affettazioni. Non presta attenzione alcuna alla recente legge statale che proibisce il fumo nelle aree comuni degli uffici, avendo già deciso da solo che è incostituzionale; nessuno sembra pronto a contestarlo, e così la pipa lo segue per tutto l'Oldie. Ma vedo che a casa di Shirley non l'ha ac-
cesa. Marc è considerato, a ragione, una delle menti migliori della facoltà, reputazione che sembra giustificare il fatto che non si tagli né si pettini i capelli biondo-grigio che gli ricadono fin sotto le orecchie, che non si rada più di una o due volte alla settimana, che non indossi la cravatta, che non si lucidi le scarpe. Insegna filosofia del diritto, diritto penale e tiene dotti seminari sulle vite dei grandi giudici e sulla morte imminente della legge. Gli studenti ne hanno soggezione. Molti dei suoi colleghi lo ammirano. Ad alcuni di noi è simpatico. Malgrado il suo ego è un uomo gentile, sempre pronto a concedere il proprio tempo e il proprio talento a coloro che sono agli inizi, e sarebbe una notevole stella accademica se non fosse per l'unico difetto a cui ho già accennato: non scrive più. La sua reputazione di studioso si basa non tanto sulla sua unica opera, La mente costituzionale, pubblicata quasi vent'anni or sono, ma soprattutto su un singolo, brillante capitolo del libro, il Capitolo Tre, scritto sempre in questo modo, con le maiuscole, e a volte senza ulteriori specifiche: "Ma il Capitolo Tre di Hadley ha già confutato questa argomentazione" potrebbe asserire un suo dotto sostenitore. Nel famoso Capitolo Tre, Marc offriva quella che viene comunemente considerata la miglior analisi dello stile giuridico di Benjamin Cardozo, e la usava per formulare una critica della teoria costituzionale ancora oggi in auge. Perfino Dana Worth, che disprezza Marc, ammette nei suoi momenti di moderazione che negli ultimi cinquant'anni nessuno studioso del diritto ha scritto un libro - un capitolo - più autorevole del suo. Il trattato di Marc era un feroce attacco a quello che è stato definito l'attivismo del potere giudiziario, scritto da un progressista dichiarato che si definisce però vecchio stile, preferendo quello che chiama il liberalismo democratico delle organizzazioni di base al liberalismo burocratico delle controversie legali e delle legislazioni. Un pensatore raffinato e un ottimo insegnante, il mio ex amico Marc Hadley; ma spero che rimanga un docente di legge. Finalmente mi sintonizzo sul discorso di Marc. Parla come sempre troppo in fretta, ma riesco ad afferrarne il nocciolo. «Capite, se il caso Griswold stabilisce la cosa giusta, se le decisioni sul controllo delle nascite devono essere prese dalle donne e dai loro dottori, allora il matrimonio stesso è obsoleto. E intendo dire costituzionalmente obsoleto. Guardando le scoperte della storia e dell'antropologia, si può vedere che Freud aveva ragione fin dall'inizio. I difensori del matrimonio tradizionale, soprattutto quelli che sostengono che la relazione coniugale è in qualche modo naturale, fanno notare che questa esiste, in una forma o nell'altra, praticamente in
tutte le culture. Ma ciò che cosa prova? Soltanto che ogni cultura ha affrontato la stessa situazione. Il matrimonio si è sviluppato per risolvere il problema di come la società potesse confinare l'istinto umano a riprodursi, che è l'istinto più forte che gli esseri umani possiedono con l'eccezione del bisogno, da parte dei deboli di mente, di inventare esseri sovrannaturali da venerare per vincere la paura della morte.» Fa una risatina per ammorbidire il colpo che crede di aver sferrato, poi riprende. «Vedete, storicamente il matrimonio non riguarda che la riproduzione e l'economia, ovverosia i figli e il denaro. Le coppie sposate generano e allevano la prole. L'unità coniugale guadagna, consuma e acquisisce proprietà. Tutto qui. Il resto del diritto matrimoniale è irrilevante. Ma ormai, con l'evoluzione tecnologica e culturale, la riproduzione non riguarda più soltanto il matrimonio. Le donne non sposate generano figli senza subire sanzioni sociali. Ugualmente, quelle sposate possono astenersi dal farne senza subire sanzioni sociali. È un loro diritto costituzionale. E così, vedete, abbiamo quest'area del diritto che è interamente costruita su un patto sociale che non esiste più. Una volta che viene separato dalla riproduzione, il matrimonio diventa irrazionale. Il diritto matrimoniale, dunque, non ha più alcuna ragionevole relazione con qualsiasi legittima esigenza dello Stato, che è il criterio fondamentale per valutare ogni legge in base alla costituzione. E siamo giunti al punto. Il diritto matrimoniale è incostituzionale.» Si interrompe e percorre con lo sguardo la piccola sala come se aspettasse l'applauso. Nessuno parla. Marc sembra soddisfatto, immaginando forse di averci colpito a tal punto da farci ammutolire. Non posso rendere conto degli altri, ma personalmente resto zitto perché sto pensando di chiedere al mio medico un esame dell'udito: non riesco a credere di aver sentito tutte queste sciocchezze. Marc non le metterebbe mai nero su bianco, ed è proprio qui che il suo blocco lo danneggia: a quanto pare l'ha reso imprudente, poiché il fatto che nulla di ciò che dice venga registrato in modo permanente gli permette se necessario di ritrattarlo, di insistere che la sua argomentazione è stata fraintesa o di sostenere che si trattasse di pura speculazione teorica. Il matrimonio incostituzionale! Mi chiedo se la Casa Bianca sia a conoscenza di questa folle teoria, se sia una delle chiacchiere che Stuart ha fatto arrivare a destinazione, sempre che sia Stuart quello che sta cercando di sabotarlo, visto che devo ancora trovarlo. Mi domando che impressione farebbe sui giornali. (Non parlerei mai con un inviato, ma Marc ha dei nemici. Potrei per esempio informarne Dana Worth, la quale
non si farebbe alcuno scrupolo a mettere al corrente tutti i giornalisti trovati da lei e da Alison sulle loro rispettive agendine digitali.) Marc riprende a parlare. «Non sto dicendo che le istituzioni private, quali per esempio le organizzazioni religiose, non possano continuare a celebrare le loro belle cerimonie e annunciare ai fedeli che questa o quella coppia, di qualsiasi genere essa sia, si è unita in matrimonio al cospetto del loro particolare Dio. Ma si tratta di un semplice esercizio della loro fondamentale libertà religiosa, garantita dal primo emendamento. Il punto è che lo Stato non dovrebbe essere coinvolto a nessun livello, che si tratti di rilasciare licenze per questi cosiddetti matrimoni o di garantire speciali benefici a chi li contrae o di voler decidere al posto di queste istituzioni private se e come i matrimoni debbano finire. Il caso Griswold ci dice che la riproduzione non è un problema dello Stato. Di conseguenza, non lo è nemmeno il matrimonio.» Ben Montoya, il gran progressista, mi fa l'occhiolino con un sorriso perplesso. Ben è l'occasionale avversario di Marc, trovandosi in completo disaccordo con lui su questioni come il caso "Roe contro Wade". (Marc direbbe di essere a favore dell'aborto dal punto di vista personale ma di credere che lo Stato abbia il diritto di dissentire.) Stasera, tuttavia, Ben non sta discutendo con Marc. E nemmeno Lynda Wyatt, malgrado si trovi in piedi accanto a lui. Ai suoi tempi, Lynda ha insegnato sia diritto familiare che diritto costituzionale, e sarebbe in grado di correggere alcuni degli errori di Marc, ma tiene gli occhi abbassati sulla moquette verde mare. Non ho mai capito l'effetto che Marc produce sul prossimo. Kwame Kennerly, che ha speso molte delle sue considerevoli energie per promuovere il matrimonio fra i giovani afroamericani delle zone povere, gran parte dei quali sembra averlo scordato, appare furioso. D'altro canto è pur sempre un nuovo arrivato nella cittadina di Elm Harbor, si sta ancora costruendo una base politica e non è pronto a sfidare un rappresentante dell'odiata e invidiata università, specialmente uno che raccoglie cifre così sostanziose per i candidati democratici. Il dottor Young sembra turbato, ma non intimidito. Scuote ripetutamente la testa, le labbra atteggiate in una smorfia di disapprovazione. Ma non dice una parola. Ho l'impressione che stia prendendo tempo, lasciando che Marc si metta al tappeto da solo. Per quanto mi riguarda, non mi sognerei mai di aprire bocca; e così mi accontento di rimpiangere il fatto che Dana non sia qui a zittire Marc. Soltanto Norm Wyatt ha l'impertinenza di roteare gli occhi con esplicita incredulità, ma lui prova per la facoltà di legge più o meno gli stessi sentimenti di Kimmer.
«Ora, se applichiamo la mia teoria ai matrimoni fra partner dello stesso sesso...» si affretta ad aggiungere Marc, ma Shirley sceglie saggiamente questo istante per annunciare che la cena è pronta. Il pubblico abbandona Marc di buon grado, suscitando la sua apparente perplessità: le sue mani continuano infatti ad agitarsi malgrado quasi tutti gli ospiti si siano già diretti verso il tavolo. Shirley ci indica i rispettivi posti. Prima di accomodarmi mi concedo un istante per far scorrere lo sguardo al di là delle porte finestre e del balcone, verso la spiaggia e i dolci echi dei frangenti, e mi chiedo se anch'io e Kimmer avremmo sacrificato lo spazio in cambio di questa meravigliosa vicinanza. Il mio posto è al centro di uno dei due lunghi lati del tavolo, fra il dottor Young alla mia destra e Dahlia Hadley alla mia sinistra. Di fronte a me è seduta Dean Lynda, fiancheggiata da Kwame Kennerly su un lato e una sedia vuota per Lem Carlyle sull'altro. «È stata la polizia a farle l'occhio nero?» mi chiede Kwame Kennerly senza alcun preambolo, inclinando la testa all'indietro come per vedere meglio. Mi chiedo se questa voce si esaurirà mai. «No.» «E allora chi è stato?» «Qualcun altro» borbotto in tono villano. Stasera sono davvero figlio di mio padre. Kwame non si lascia scoraggiare. «Non è stata la polizia? Sicuro?» «Sono sicuro, Kwame. Ero lì quando è successo.» Con l'ironia non ottengo nulla. «Ho sentito che è stato arrestato.» «Non è vero.» «Non le hanno puntato addosso le pistole?» Sbatte furiosamente le palpebre. «Non mi è stata puntata alcuna pistola.» Kwame Kennedy si accarezza il pizzetto soppesando la mossa successiva. Non si farà dissuadere da una punta di impudenza. Potrò essere il figlio del defunto e odiato Oliver Garland, ma sono anche un uomo di colore che potrebbe essere stato malmenato dalla polizia; inoltre, l'aneddoto è troppo succulento perché lo si possa ignorare. Dean Lynda sta ascoltando in modo tutt'altro che distratto. «Ma ha avuto qualche problema con dei poliziotti, giusto? Con dei poliziotti bianchi?» «È stato tutto un malinteso» sospiro. «Sono stato rapinato, ho dato l'allarme e quando sono arrivati hanno pensato che io fossi il rapinatore e non
il rapinato. Ma quando ho mostrato il mio documento si sono scusati e mi hanno lasciato andare.» «La polizia municipale?» «La polizia del campus.» «Lo sapevo. È tipico.» Non attende la mia risposta. «Un uomo di colore cammina nel bel mezzo del campus, giusto? A due isolati dalla facoltà di legge, dove lei lavora. Se fosse stato bianco, non ci sarebbero stati malintesi.» Non perdo tempo a chiedermi come faccia Kwame a conoscere i dettagli del mio incontro, poiché ottenere i dettagli è il suo mestiere. Perdo però tempo a discutere con lui, malgrado la sua analisi sia assolutamente corretta. «Non stavo camminando, stavo...» Esito e lancio un'occhiata alla mia preside, ma non si può che andare avanti. «Mi stavo arrampicando sui ponteggi della biblioteca. È comprensibile che si siano insospettiti.» «Ma era nel suo campus, giusto?» insiste Kwame, annuendo con la faccia barbuta come se cose simili le vedesse ogni giorno, il che immagino sia vero. «Sì.» «E i rapinatori erano bianchi. Se i poliziotti fossero arrivati mentre lottava con loro, avrebbero comunque pensato che il cattivo fosse lei.» «Sì, avrebbero potuto pensarlo.» «È proprio di questo che sto parlando!» esclama rivolto a Lynda Wyatt, forse riprendendo una precedente discussione. «Lo so, lo so» si affretta a rispondere la mia preside. «È il suo campus, ma è un campus bianco! Capisce, è proprio questo lo scopo principale della polizia in una cittadina come questa: tenerci al nostro posto.» «Mmh» mugola Dean Lynda mangiando in fretta. «L'uomo nero è una specie in via di estinzione, in questo paese.» Kwame lo dice come se stesse citando un'enciclopedia, poi mi indica come il suo reperto numero uno. «Non importa chi siano i suoi padri.» Il purè di patate sta arrivando verso di noi, e Kwame deve interrompersi per servirsi una robusta porzione. Vi aggiunge del sugo versandolo da una piccola zuppiera, poi riprende tranquillamente il discorso. «È aperta la stagione di caccia ai nostri giovani!» «Non sono così giovane» lo interrompo, sforzandomi di introdurre un tono più lieve. «Ma è fortunato a essere vivo. No, dico sul serio. Sappiamo tutti cosa è
capace di fare la polizia.» Riprende ad annuire con vigore e torna a rivolgersi a Dean Lynda. «Capisce cosa intendo?» «Oh, sì. E siamo tutti felici che tu non sia rimasto gravemente ferito, Talcott.» Sorride con tutti i segni di una preoccupazione sincera. Mi rendo conto che stanno entrambi pensando a un fatto accaduto due anni fa nella vicina cittadina di Canner's Point, a maggioranza bianca, più o meno nello stesso periodo in cui Kwame Kennedy arrivava a Elm Harbor. Un adolescente di colore era stato ucciso a colpi di pistola da due poliziotti mentre scendeva con le mani alzate dall'auto rubata con cui aveva sfondato la vetrata di un supermercato dopo un inseguimento durato un quarto d'ora. "Ma quella è stata una cosa diversa" vorrei dire con la voce del Giudice; ma mi mordo la lingua appena in tempo, poiché il Giudice avrebbe avuto quasi completamente torto. «Tutto è bene quel che finisce bene» dico invece a Kwame nella speranza che la smetta. «Dovrebbe lasciare che me ne occupi io.» «No, grazie.» «Potrei chiamare il comandante della polizia, giusto? Si dà il caso che maltrattamenti di questo tipo siano un tema importante in questo momento. Il sindaco è molto preoccupato.» L'ultima cosa di cui ho bisogno: un'indagine ufficiale. Non posso permettermi di diventare una questione. Non soltanto potrebbe tornare a far pendere il piatto della bilancia verso Marc - visto, ve l'avevamo detto che il marito è instabile! - ma, peggio ancora, potrebbe portare allo scoperto molte cose che non sono pronto a rivelare. «Non sarà necessario.» «Credo che il comandante dovrebbe fare un'indagine» insiste testardo Kwame. «No, grazie» ripeto. «Fra l'altro, come le ho detto, era la polizia del campus, non quella municipale.» «Lo so. Ma il comandante è a capo di entrambe. È la legge dello Stato.» Già. E l'università dovrebbe rispettare anche il piano regolatore della città, ma quando non vuole farlo non lo fa. «Voglio solo dimenticare» dico a Kwame, voltandomi deliberatamente verso l'incantevole Dahlia Hadley. Con le sue maldestre lusinghe razziali, Kwame ha buone intenzioni, e quel che è peggio sta cominciando a sembrare sensato. Shirley, all'estremità più lontana del tavolo, avverte la tensione e aggrotta la fronte: ama le discussioni nel corso delle sue cene, a
patto che non scivolino nel personale. Dahlia sembra più serena dell'ultima volta che l'ho vista, forse perché lei e Marc hanno calcolato che il piccolo incidente davanti alla biblioteca può soltanto dare una spinta alla sua nomina. Marc proviene da una famiglia ricca, molto ricca. Pare che una delle sue prozie fosse una mezza Vanderbilt o Rockefeller o qualcosa del genere - le voci differiscono - e un parco statale è stato dedicato al suo defunto zio Edmund, la cui generosità era leggendaria. Marc è abituato a ottenere quello che vuole. «Sono lieta che tu non sia rimasto ferito gravemente» mormora Dahlia nel suo tono di voce sciropposo. «Grazie.» «Devi prenderti cura di te stesso, Talcott. La tua famiglia ha bisogno di te.» «Lo so, lo so.» «Devi difendere un pezzo.» Sgrano gli occhi. C'è un'epifania in ogni fantasia paranoica, un momento in cui la verità divampa improvvisamente attorno a te: sì, il mondo è unito e, sì, sono tutti tuoi avversari. «Che cosa hai detto?» La mia voce è tesa, quasi un rantolo. Dahlia si fa piccola. «Io... ho detto che la devi difendere con ogni mezzo.» Mi rendo conto che sto sudando. Mi copro gli occhi per un istante. «Oh. Okay. Scusami. Probabilmente... ho sentito male.» «Credo proprio di sì.» «Perdonami, Dahlia.» Lei indietreggia di qualche centimetro come se le avessi fatto una proposta indecente. Il suo volto rimane duro e offeso mentre ribatte in tono severo: «Temo che tu debba riposare un po' di più, Talcott». «Mi dispiace. Non era... mia intenzione.» «Sembri stanco. Non dovresti essere così irascibile» aggiunge generosamente Dahlia, poi si gira alla sua sinistra per parlare con Norm Wyatt. Quando alzo gli occhi verso l'estremità più lontana del tavolo, vedo che il mio ex amico Marc Hadley mi guarda in modo truce. Per gran parte della cena quasi tutti coloro che mi circondano sembrano avere interlocutori molto più interessanti di me. Lynda Wyatt, la cui presunzione è di essere in grado di indurre chiunque a fare qualsiasi cosa con la semplice forza del suo fascino, ha un bel daffare con Kwame Kennedy,
e Dahlia Hadley, che non mi ha più rivolto la parola, sta discutendo della salvaguardia dei luoghi storici con Norm, il marito di Lynda. (Lei è favorevole, lui contrario.) Marc Hadley sta istruendo Shirley sugli aspetti più sottili della separazione fra Stato e Chiesa, argomento su cui lei ha scritto un saggio e lui no. Lemaster e Julia Carlyle, magri e vivaci, sono finalmente arrivati dopo il buon esito del saggio di danza della figlia; si fronteggiano sui due lati del tavolo e, come sempre, non hanno occhi che l'uno per l'altra. Ho cercato di rivolgere la parola a Lem, di solito un conversatore brillante, ma le sue risposte sono state poco più che grugniti, come se non sopportasse di parlare con me; e mi chiedo di nuovo se il suo cambiamento sia frutto della mia immaginazione o se il mio credito presso la facoltà sia davvero precipitato così in basso e così in fretta. Ma il dottor Young, che all'inizio della cena ha reso grazie per il cibo senza alcuna pretesa di ecumenismo, ha deciso di farmi una testa così sull'omicidio di Freeman Bishop, di cui non abbiamo parlato nelle nostre sedute terapeutiche. Ha raccontato la storia alquanto lunga di un linciaggio di cui gli aveva parlato il suo bisnonno, avvenuto in Georgia intorno al novecentosei, nel quale un predicatore di colore era stato torturato sulle braccia e sulle gambe con tizzoni ardenti e poi ucciso con un colpo di pistola alla nuca per essersi rifiutato di confessare il suo tentativo di sindacalizzare i lavoratori tessili. «Vedete» dice il dottor Young avanzando come un rullo «Satana non cambia mai. È questa la sua grande debolezza. È qui che il credente è avvantaggiato su di lui, Dio sia lodato. Satana è una creatura abitudinaria. È furbo, ma non è intelligente. Satana è sempre lo stesso, e i suoi sottomessi, le anime perdute, si comportano sempre allo stesso modo. Se Hitler ha sterminato gli ebrei nei campi, potete star certi che qualche altro malvagio condottiero, in tempi immemorabili, ha fatto strage di innocenti soltanto perché erano diversi. E ancora oggi il mondo è pieno di leader che continuano a farlo. Neri, bianchi, gialli, marroni, gente di ogni colore che massacra gente di ogni colore. Perché Satana è sempre lo stesso. Sempre! Satana è stupido. Furbo, capite, ma non intelligente, Dio sia lodato. È il dono di Dio a noi uomini fare in modo che Satana rimanga stupido. Perché è stupido? Perché noi, se facciamo attenzione, possiamo riconoscerlo. Lo riconosciamo dai suoi segni. Perché Satana, lo stupido Satana, ci attacca sempre allo stesso modo. Se i vecchi metodi falliscono non è in grado di trovarne di nuovi, Dio sia lodato. E così attacca qualcun altro. Ci attacca con il desiderio sessuale e altre tentazioni che distraggono il corpo. Ci at-
tacca con l'alcol e la droga e altre tentazioni che confondono la mente. Ci attacca con l'odio razziale e l'amore del denaro e altre tentazioni che distorcono l'anima.» Il dottor Young ha alzato la voce nel recitare il suo sermone, e l'intera tavolata gli sta prestando ascolto; perfino Marc, il quale non sopporta che l'attenzione non sia concentrata su di sé. «Capite, allora, ciò che fa Satana. Attacca il corpo. Attacca la mente. Attacca l'anima. Corpo, mente, anima: sono le uniche parti dell'essere umano che Satana sa come aggredire, Dio sia lodato. Se le proteggiamo da Satana, siamo salvi. Se proteggiamo il nostro corpo, stiamo proteggendo il tempio del Signore, perché siamo fatti a sua immagine e somiglianza. Se proteggiamo la nostra mente, stiamo proteggendo il capanno degli attrezzi del Signore, perché Dio compie la sua volontà in terra attraverso noi mortali. E se proteggiamo il nostro spirito, stiamo proteggendo il magazzino del Signore, perché Dio riempie le nostre anime con il suo potere di aiutarci a svolgere il suo lavoro in terra.» Marc Hadley, autore del celebre Capitolo Tre, non si può più trattenere. Interrompe il sermone. «Morris...» comincia. «Può chiamarmi dottor Young» replica serenamente il dottor Young. «Dottor Young...» A Marc brucia chiamarlo in questo modo: il dottorato di Morris Young sarà sicuramente in teologia, e probabilmente rilasciato da qualche sconosciuto seminario. «Prima di tutto, lasci che le dica che mia moglie e io siamo liberi pensatori. Dal punto di vista religioso, noi siamo scettici» precisa inutilmente. Gran parte della tavolata sta guardando lui, ma io osservo Dahlia, che arriccia la bocca minuta in un'espressione di disgusto prima di rivolgere lo sguardo verso la finestra e il mare. Mi domando se sia arrabbiata con suo marito per essersi intromesso nella discussione o per il suo uso del "noi" senza specificare che lei è una cattolica osservante che porta suo figlio a messa ogni domenica. «Non siamo atei» incalza Marc «poiché non c'è alcuna prova che Dio non esista, ma siamo scettici sulle verità rivendicate da ogni religione, poiché non c'è alcuna prova che Dio esista. O che Satana esista. In secondo luogo...» «Occupiamoci del primo.» Il pastore sorride. «Sa, un grandissimo pensatore di nome Martin Buber ha scritto che gli atei non esistono, poiché l'ateo deve lottare quotidianamente con Dio. Forse è per questo che le Scritture ci dicono: "Lo stupido ha detto in cuor suo che Dio non esiste".» «Non ricordo niente di simile in Buber» dice Marc Hadley, il quale dete-
sta che gli si dica qualcosa che già non sa. «Era in Between Man and Man» interviene tranquillo Lemaster Carlyle, l'ex studente di teologia, prendendo l'intera tavolata di sorpresa. «Un libro meraviglioso. Quelli che hanno letto L'io e il tu e credono di conoscere Buber non ne hanno nemmeno scalfito la superficie.» Una frecciata al povero Marc, una sorta di sport per iniziati. Il dottor Young punta un dito verso Lem. «Ha ragione, professor Carlyle, eppure ha anche torto. La questione importante non è se abbiamo letto Buber oppure no, né quale Buber abbiamo letto. La questione importante è sapere che cosa c'è in gioco. Quando ero a Harvard per il mio dottorato, avevo un professore di filosofia ateo che soleva ripeterci l'essenza della religione: "Non è la vostra mente che Dio vuole" ci diceva "ma la vostra anima". Perché Dio ha creato la mente umana, ma vi accede attraverso il cuore. Il mio professore diceva: "Dio non vuole che leggiate la Bibbia ed esclamiate: 'Che libro meraviglioso!'. Dio vuole che leggiate la Bibbia ed esclamiate: 'Alleluia, io credo!'".» Mi piace vedere Marc che resta a bocca aperta, cosa che non succede spesso, ma la sua bocca è spalancata fin da quando il reverendo ha messo insieme le parole "Harvard" e "dottorato". Morris Young ha qualità nascoste che Marc Hadley, nel suo signorile razzismo progressista, nemmeno immaginava. Nel frattempo, il volto butterato del predicatore si distende in un sorriso nostalgico. «Succedeva negli anni Cinquanta, naturalmente, un periodo in cui ci si aspettava che i filosofi, perfino quelli atei, conoscessero la Bibbia. Dopo tutto, è stato in assoluto il libro più importante nella storia dell'Occidente, Dio sia lodato, e probabilmente nella storia del mondo intero. Ebbene, come si può pretendere di capire o spiegare quel mondo senza capire il libro che l'ha costruito? Ma quando arrivi a conoscere la Bibbia arrivi a conoscere Dio. E così l'ateo che ha veramente cercato di capire il mondo è già più vicino a Dio di molti cristiani, poiché conosce la parola di Dio. Il Signore crea molti percorsi per la sua casa, e nella pienezza dei tempi vi accoglierà anche molti di coloro che credono di non credere; poiché lottando contro Dio sono già a metà strada verso la fede.» «Amen, reverendo» dice Kwame Kennerly. Shirley gli scocca un gran sorriso. È giunto il turno di Dahlia Hadley. «Ma l'ateo non rischia? Potrebbe incontrare Dio, ma potrebbe anche non riuscirci.» Alzo gli occhi appena in tempo per vederla rivolgere un sorriso grazioso a Marc, ma, per chi avesse
voglia di guardare, la rabbia è appena sotto la superficie del suo volto da ragazzina. Il dottor Young la percepisce. Lui percepisce ogni cosa. Annuisce con il suo pesante testone. «Questo è vero, mia cara, questo è vero.» La sua voce risonante ha assunto una cadenza musicale. «Il Signore apre le porte del paradiso anche al peccatore più abietto, ma il peccatore deve pur sempre varcarle. E la mente umana, questa gloriosa creazione, ha la tendenza a erigere ostacoli. Oh, sì. Il Signore tiene le porte aperte e la mente dice: "Quello non è il Signore!", oppure ancora: "Quelle non sono le porte!", oppure: "Preferisco accumulare tesori in terra!". Sono i consigli di Satana, che grazie a Dio è sempre lo stesso, non dimentichi, furbo ma non intelligente. Molti uomini preferiscono ascoltare i consigli di Satana, preferiscono conquistare ciò che il mondo del peccato concede a fatica che accettare ciò che Dio offre liberamente. E sappiamo tutti cosa dice il Vangelo di uomini simili: "Avranno la loro ricompensa".» Marc Hadley vorrebbe interrompere di nuovo, ma Shirley Branch, seduta accanto a lui a capotavola, ha la sfacciataggine di zittirlo posandogli una mano sul braccio. Al suo posto interviene Ben Montoya: «C'è gente che non condivide il suo credo religioso, reverendo» dice in modo brusco ma opportuno. «Ha pensato ai loro diritti?» Il dottor Morris Young gli rivolge un sorriso. «Oh, professor Montoya, questi sono problemi che non mi riguardano. I diritti sono cose umane. Dio è un Dio d'amore. Non ami il prossimo tuo concedendogli un diritto. Concedi un diritto al povero oppure all'uomo di colore e senti di aver fatto il tuo dovere. Forse senti addirittura che lui debba essertene grato. Ma se tanto per cominciare l'avessi amato, la questione dei diritti non sarebbe mai sorta.» Lem Carlyle interviene ancora con delicatezza, cercando un terreno comune com'è giusto che faccia un futuro preside. «Ma il cristianesimo insegna che gli esseri umani sono colpevoli. Che siamo peccatori per natura. E in questo modo giustifica lo stato predestinato da Dio per mantenere l'ordine fra i peccatori. Non è per questo che esistono i diritti nel pensiero cristiano? Perché sappiamo di essere troppo deboli per vivere nell'amore reciproco come Dio vorrebbe?» Il dottor Young annuisce con fare benigno, ma non è d'accordo. «Il problema dei diritti» risponde «è che non appena li ottieni credi di avere qualcosa di valore. Ma tutto ciò che possiede un vero valore proviene dal Si-
gnore. Quando si concede un diritto a un uomo, è troppo facile dimenticare di amarlo.» Lynda Wyatt coglie il senso: «Dunque, la compassione è più importante dei diritti». «I diritti sono una cosa che appartiene all'uomo» conviene il dottor Young. «Amare il prossimo, occuparsi l'uno dell'altro con carità e umiltà è un dono che restituiamo al Signore.» E d'un tratto lo vedo. Il modo per sfuggire alla rete che il mio furbo genitore ha tessuto da morto attorno a me e alla mia famiglia. Tutti cercano i tesori della terra, come ha suggerito Morris Young. I tesori della terra. La terra. Ho un improvviso ricordo, uno sgradevole pomeriggio di molti anni fa trascorso con il Giudice qui al campus. Il pedone bianco. L'Excelsior. La terra. Forse, forse riesco a far quadrare ogni cosa. «Amen, reverendo» ripeto mentre finalmente un barlume di speranza si accende nella mia mente tormentata. Ben Montoya e io usciamo insieme, avanzando lentamente sulla neve ghiacciata in direzione del parcheggio. Ben ha scelto il momento di andarsene con tale tempismo che sono sicuro mi voglia parlare. Ho ragione. Comincia con una finta. «Pensi davvero che lui creda a quelle cose?» «Chi? Quali cose?» «Il reverendo Young. Tutte quelle storie su Satana.» Lo guardo. «Non ho alcun dubbio che il dottor Young ci creda. Ci credo anch'io.» Ben scuote il capo ma non dice nulla. Scende il silenzio mentre i nostri passi scrocchiano sulla neve, e ognuno dei due resta solo con i suoi pensieri: Ben senza dubbio convinto che io abbia perso la trebisonda, e io intento a riconoscere la profonda verità di ciò che ho appena detto. Ma il vero motivo per cui Ben è uscito insieme a me non ha niente a che vedere con la teologia o la metafisica. «Ah, Talcott» mormora in tono zelante dopo qualche secondo di silenzio, e io capisco che siamo arrivati al grande evento. «Mmh?» Non lo guardo. Il passaggio pedonale che conduce al parcheggio dei visitatori prosegue fra due schiere di villette identiche. Dai bordi delle tendine o delle tapparelle abbassate brillano colorite immagini televisive. Sento risate, discussioni, musica. Ma la mia attenzione è concentrata soprattutto sul marciapiede davanti a me, che non è stato ancora liberato
dal ghiaccio formatosi dopo la pioggia del pomeriggio. L'associazione condominiale muore dalla voglia di farsi citare per danni, nel caso qualcuno finisca a gambe all'aria. «Talcott, posso parlarti un minuto?» «Stiamo già parlando, Ben.» Suppongo che Ben mi piacerebbe di più se non fosse lo strumento di Dean Lynda in così tante delle sgradevolezze che un preside è costretto a commettere; o se anch'io fossi uno del giro; o se fossi semplicemente un uomo migliore. Ben fa una breve risata. Deve essere sulla sessantina, con capelli radi alla sommità della testa e alquanto grigi, le borse sotto gli occhi che ti guardano circospetti ma accusatori da dietro gli spessi occhiali. La sua andatura è il balzo determinato di un uomo che ha sempre una grande, irritata premura. Ha una formazione antropologica, e ha svolto ricerche importanti sul modo in cui i contratti e la proprietà vengono gestiti in alcune società delle isole del Pacifico prive della tradizione della promessa. «Talcott... sai, la preside non ne farebbe mai parola, ma...» «Ma?» «Lynda è molto arrabbiata con te, Talcott. È bene che tu lo sappia.» Siamo giunti al parcheggio, da cui la neve è stata spazzata malamente. La mia malconcia Camry si trova in un angolo, ma io e Ben ci siamo fermati e ci stiamo fronteggiando, forse perché abbiamo raggiunto la sua elegante Jaguar XKE, forse per quello che mi ha appena detto. «Arrabbiata per cosa?» Sbatte le palpebre dietro le lenti spesse. «Oh, be', lo sai. Il modo in cui ti stai comportando negli ultimi tempi. E questa storia fra te e Marc...» «Non c'è alcuna storia fra me e Marc.» «Sai di cosa parlo.» «Non ne sono sicuro.» Lo squadro da capo a piedi, la mia collera divampa e lui fa un rapido passo indietro come se si aspettasse un pugno. «Se Lynda mi vuole parlare, sa dove trovarmi.» «Non credo che abbia voglia di parlare con te, Talcott.» Il suo tono è tornato a farsi zelante. Ben è esperto nel guardare il prossimo dall'alto in basso, e non soltanto per la sua altezza. «La preside è troppo educata per rinfacciartelo, ma ho saputo che l'ultima volta che avete parlato tu l'hai maltrattata.» «Maltrattata? Noi... abbiamo semplicemente avuto un dissapore, non l'ho...» Non mi lascia proseguire. «E poi c'è questo episodio con la polizia del
campus. So che non è vero che hai rischiato di farti arrestare, ma la cosa è stata alquanto sgradevole. Dobbiamo pensare all'immagine del campus, Talcott. Non possiamo permettere che un professore getti benzina sul fuoco dei contrasti razziali in città...» «Ben...» «No, no, non sto dicendo che lo stai facendo di proposito. Ma qualcuno probabilmente sfrutterà l'accaduto dal punto di vista politico.» Sta parlando di Kwame Kennedy. «E, insomma, non possiamo permettere che i membri della facoltà incoraggino queste cose, seppure involontariamente. E non è tutto qui, Talcott. Lynda dice anche che stai costando alla scuola tre milioni di dollari.» «Aspetta un attimo!» Sta ricominciando a nevicare, e il vento è aumentato. Le condizioni delle strade diventeranno presto pericolose, e dovremmo tornare entrambi a casa; ma voglio sincerarmi di aver capito bene il messaggio, poiché so che proviene da Lynda e non da Ben. «Mi stai dicendo che Cameron Knowland sta veramente ritirando la sua donazione? Soltanto perché quel marmocchio viziato di suo figlio è arrabbiato con un professore?» Ben mi rivolge le mani aperte in un gesto di resa. È indietreggiato fino alla portiera della sua Jaguar. «Non so cosa stia facendo Cameron. Non sono al corrente di tutto ciò che sa la preside. Voglio soltanto informarti che è arrabbiata con te, e... be', credo che sarebbe una buona idea se tu... ti comportassi al meglio...» «Stai cercando di mettermi in guardia, Ben? Sono veramente nei pasticci o si tratta soltanto di qualche penna arruffata?» Ben ha aperto la portiera della sua auto. Ha riferito il suo messaggio, e sembra non volere che la conversazione prosegua. «Penso solo che dovresti fare attenzione, tutto qui. Che dovresti pensare al bene della scuola.» «Invece di pensare a cosa? Non capisco. Ben, aspetta.» Si è seduto, pronto a richiudere la portiera. «Che cosa stai cercando di dirmi? Riguarda davvero me, oppure ha a che fare con Kimmer e Marc?» Ricordo l'avvertimento di Stuart Land sulle pressioni che sarebbero state esercitate. «Andiamo, Ben, dimmelo.» «Non c'è niente da dire, Talcott.» I suoi occhi ardenti sono fissi sul parabrezza, come se fosse infuriato con me per un peccato che non ho ancora commesso. «Aspetta un attimo. Aspetta. Non capisco cosa mi stai dicendo.» Poso una mano sulla portiera, impedendogli di chiuderla. «Sono nei guai?»
chiedo un'altra volta. «Non lo so, Talcott. Lo sei?» Mentre mi sforzo di trovare una risposta arguta, lui indica la portiera con il mento. «Ti dispiace togliere la mano dalla mia macchina?» «Ben...» «Buonanotte, Talcott. Saluti alla tua famiglia.» E se ne va. In preda alle vertigini, per poco non torno alla cena per affrontare Lynda Wyatt e chiederle qual è il vero messaggio. Ma sarebbe inutile. Lynda negherebbe tutto. È proprio per questo che si avvale di un tirapiedi: può sconfessare qualsiasi cosa lui dica e nello stesso tempo lasciare che il messaggio sia recepito. Ci sono giorni in cui odio questo posto. Attraverso il piazzale innevato a passi rapidi. Vorrei tanto che ci fosse un modo per seminare l'intero branco. Non soltanto Lynda Wyatt, Ben Montoya e gli altri membri della facoltà, ma anche lo zio Mal e il branco di Washington. Vorrei poter prendere i miei cari e rifugiarmi in collina, o quantomeno a Oak Bluffs. Dopo tutto, i residenti fissi sono soltanto poche migliaia. Potremmo trovare il modo di farcela. Potremmo gestire un bed & breakfast. O aprire uno studio legale insieme. Potremmo farlo. Non che Kimmer accetterebbe di andarci. Ancora tremante di rabbia per la discussione con Ben, infilo la chiave nella serratura - la mia piccola, tenace Camry è troppo anziana per avere un sistema di apertura automatica o un allarme - ma mi accorgo che la portiera non è chiusa a chiave. Devo essere stato io a lasciarla così, perché nessuno si prende il disturbo di scassinare la serratura di un'auto e poi abbandonare l'auto al suo posto. E nessuno, fra l'altro, ruberebbe un modello vecchio di dodici anni. Ma quando apro la portiera e la luce nell'abitacolo si accende, mi rendo conto che dopo tutto esistono individui che scassinano la serratura di un'auto senza rubare niente, esattamente come esistono individui che penetrano in una residenza estiva e fanno la medesima cosa. C'è gente che scassina serrature per fare consegne. Sul sedile del conducente campeggia il libro sugli scacchi rubatomi dai miei due aggressori. 30 I SOLITI SOSPETTI
«Ho saputo che hai litigato con Stuart Land» esordisce la Cara Dana Worth, che è la prima a essere informata di quasi tutto ciò che succede all'Oldie, e anche di ciò che non è successo. È appollaiata sul bordo della sua scrivania, i palmi delle mani posati sul piano, le suole delle scarpe premute di piatto contro un lato, il corpo minuto fermo in una posizione diventata talmente "worthiana" che gli studenti ne fanno quasi sempre l'imitazione durante lo spettacolo satirico che mettono in scena prima della laurea. Sono seduto sul divano lungo e compatto che Dana ha scovato da un rigattiere e che ha fatto rivestire. «Non è stato proprio un litigio. È stato più un... libero e sincero scambio di opinioni.» «A che proposito?» «L'ho accusato di aver cercato di sabotare la nomina di Marc. Gli ho detto che stava diventando controproducente, che così facendo avrebbe potuto danneggiare anche Kimmer.» Mi gratto la guancia rammentando l'espressione del suo volto, la sorpresa che avrei quasi potuto giurare fosse genuina. «E lui ha risposto che non stava facendo niente del genere.» «Forse è vero.» «Era appena rientrato da Washington, Dana.» «Misha, tesoro, non essere sciocco. Sono sicuro che non ci è andato per tua moglie. Era lì per tramare qualche misfatto costituzionale con i suoi amici conservatori. Stuart non va mai da nessuna parte se non per se stesso.» «E per la facoltà di legge.» «E per la facoltà di legge» ripete Dana in tono meno convinto. Salta giù dalla scrivania e comincia a percorrere la stanza a grandi passi. Il suo spazioso ufficio si trova al primo piano dell'Oldie, accanto a quello di Theo Mountain, e si dice che i due si scambino pettegolezzi di continuo. Nella stanza di Dana ogni cosa è perfetta, dalla scrivania ossessivamente pulita alla collezione di piante sul davanzale, agli scaffali su cui i libri sono disposti in ordine alfabetico per autore. Mi alzo anch'io e vado alla finestra, da dove osservo i gradini d'ingresso dell'edificio e la facciata di granito del campus principale sul lato opposto della strada. Posso vedere il vialetto in cui sono stato malmenato qualche giorno fa. È lunedì, mancano cinque giorni a Natale. I corsi sono finalmente chiusi e i professori stanno cominciando a disperdersi, ma gli studenti sono costretti a trattenersi ancora qualche giorno per gli esami. Per quanto mi riguarda ho tenuto la testa bas-
sa, titubante sul da farsi. Ho la terribile sensazione che il tempo stia per scadere. «Bene, Dana, mi hai telefonato...» «Sì.» Una pausa. «Volevo assicurarmi che stessi bene.» Annuisco senza voltarmi. Nelle settimane successive all'omicidio di Freeman Bishop, la nostra amicizia è maturata. Non sono sicuro che con la sola Dana avrò mai lo stesso rapporto che io e Kimmer avevamo con Dana e Eddie, ma lei sembra decisa a fare quel che può. Il suo impegno mi commuove. A differenza di altri membri della facoltà, che sembrano considerare il mio comportamento recente più o meno negli stessi termini di Dean Lynda, Dana mi si è avvicinata. Gli emarginati, mi ha detto qualche giorno fa, devono restare uniti. Quando le ho fatto notare che lei non è affatto emarginata, mi ha ricordato di essere la responsabile della sezione locale dell'Alleanza per la Vita di Gay e Lesbiche. "Per una ragione o per l'altra ci odiano tutti" ha concluso con una certa soddisfazione. «Sto bene» la rassicuro. «Belli, quei punti. Ti donano.» «Grazie.» «Ho riflettuto su quello che ti è successo.» «Che cosa mi è successo?» «Il fatto che hai rischiato l'arresto...» Torno finalmente a voltarmi verso la stanza. «Non ho rischiato l'arresto.» «Non so come altro chiamarlo.» «È stato un malinteso, tutto qui.» La grande libertaria sorride. «Ah, giusto, il tipo di malinteso in cui uno rischia di venire ammazzato di botte.» «Nessuno mi ha picchiato» rispondo in tono secco, improvvisamente preoccupato dalle voci che la mia vecchia amica potrebbe diffondere, anche se, come ama dire lei stessa, puoi contare sul fatto che Dana ripeta quello che le hai detto a un numero di persone non superiore a quello a cui tu l'hai detto. «I tuoi inseguitori l'hanno fatto.» «Vero.» «Bene, Misha, è proprio di questo che ti volevo parlare.» Dana non ha smesso di muoversi un attimo, facendo oscillare le braccia come per mantenere l'equilibrio. Mi chiedo se si fermi mai. «Dei due che ti hanno inseguito.»
«Cioè?» «Be', ti hanno rubato il libro sugli scacchi, giusto?» «Ehm, giusto.» Non le ho detto che si è rimaterializzato. Ciò nonostante le ho rivelato più elementi della storia di quanto abbia fatto con chiunque altro, forse perché Dana, a differenza degli altri miei conoscenti, continua a chiedermi di farlo. «E non capisci il perché?» Mi si è affiancata davanti alla finestra e guarda il campus dove gli studenti arrancano goffamente sotto la pioggia gelata. Sta sorridendo. La Cara Dana Worth adora questo lavoro. Mi giro a osservare la scena insieme a lei. Io ho indovinato la risposta: e lei? «Dimmelo tu.» «Perché, Misha caro, credevano fosse quello che cercavano.» «Eh?» «Dio, se siamo lenti di comprendonio! Primo, hai detto che ti stavano seguendo. Secondo, hai detto che ti hanno chiamato per nome.» Dana è magnifica a compilare liste, di solito a braccio. «Terzo, ti hanno chiesto cosa c'era nella busta. E, quarto, ti hanno picchiato e sono fuggiti con il libro.» «Giusto.» «Bene, ma perché proprio quella sera? Fra tutte le sere in cui avrebbero potuto farlo, perché hanno scelto proprio quella?» «Non lo so.» «Perché tu hai fatto o detto qualcosa che li ha portati a concludere che fosse il momento giusto.» Muove la testa da una parte all'altra come un pugile, deliziata dalla sua stessa deduzione. «Dunque, non devi fare altro che capire cos'hai fatto per provocarli.» Ma io so già che cosa ho fatto. Sono andato al club scacchistico. I miei pedinatori dovevano lavorare per qualcuno che, come il defunto Colin Scott, conosceva il contenuto della lettera del Giudice. Qualcuno che aveva capito il significato di Excelsior e sapeva che mio padre era un problemista. Qualcuno che avrebbe potuto dire: "Se fa tanto di avvicinarsi a un luogo che ha a che vedere con gli scacchi, tenete gli occhi bene aperti. E se ne esce con qualcosa, portategliela via a qualunque costo". Qualcuno... qualcuno... «E la promessa di Jack Ziegler che nessuno mi avrebbe fatto del male?» «Qualcuno ne è all'oscuro» osserva Dana. Aggrotto la fronte. Non le ho detto della telefonata delle due e cinquantuno. Non l'ho ancora raccontato a nessuno. Prima o poi dovrò farlo. Non
appena capirò chi nell'edificio mi sta tenendo d'occhio. Per un inquieto istante mi viene in mente che potrebbe essere la stessa Cara Dana. «Un penny per i tuoi pensieri» mormora lei. «Sto compilando la lista dei nemici» rispondo. «Oh, Misha, non dirlo neppure. È una cosa profondamente nixoniana.» «È vero.» Le faccio l'occhiolino. «Nixon era l'eroe di mio padre.» «Nessuno è perfetto. Tranne Lemaster Carlyle.» Dana ridacchia. Non è la prima volta che fa questa battuta, ma io la trovo meno divertente che in passato. «A proposito di Lem» mi sento domandare «non ti è sembrato... un po' strano di recente?» «È sempre strano.» «No, voglio dire... lo trovo... distante.» «È sempre distante.» «Quello che sto dicendo è che è meno amichevole. Come se volesse evitarmi.» «Perbacco, non riesco a capire il perché. Vuole soltanto diventare preside.» Mi arrendo in preda alla frustrazione. Nel suo modo provocatoriamente diretto, Dana mi sta rammentando che in questo momento in facoltà non sono il beniamino di nessuno, eccetto forse il suo. Sentirselo dire è doloroso, ma per quanto riguarda Lem potrebbe essere vero. Poi mi viene in mente un'altra cosa. Dana la pettegola è sicuramente informata su tutto. «A proposito, e so che non sono affari miei, hai sentito qualche voce su... una relazione fra Lionel Eldridge e Heather Hadley?» La Cara Dana sembra sorpresa. Poi un sorriso lento, quasi felino le addolcisce il volto. «No, a quanto pare mi è sfuggita. Ma sarebbe deliziosa! Devo chiedere in giro.» Ci sono molti modi di spargere una voce, mi dico acidamente. Uscendo dall'ufficio di Dana incontro Theophilus Mountain, intento ad aprire la serratura della sua porta con la stessa laboriosa attenzione con cui guida, cammina e insegna, attività che non svolge più particolarmente bene. Regge sottobraccio una vecchia cartella e una raccolta di giurisprudenza, dunque è appena rientrato da una lezione. Lo saluto mentre riesce finalmente ad aprire la porta. L'anziano Theo si volta rigido come un manichino e sorride benigno. «Oh, ciao, Talcott.»
«Ciao, Theo. Hai un minuto?» Si acciglia come se gli avessi rivolto una domanda difficile. «Immagino di sì» concede infine, la mano ancora posata sul pomello della porta. L'ottantaduenne Theo non è più quello che era ai tempi in cui mio padre era studente, o quando lo ero io. Qualche giorno fa mi ha finalmente espresso le sue condoglianze per la scomparsa del Giudice; uno strano ritardo, ma Theo non si è mai fatto condizionare dalle aspettative altrui. È l'unico sopravvissuto dei famosi fratelli Mountain; gli altri due erano Pericles, che aveva insegnato all'UCLA, ed Herodotus, che aveva insegnato alla Columbia. Una volta erano considerati i più grandi studiosi di diritto costituzionale del loro tempo. Perry è morto un paio di decenni or sono, Hero l'anno scorso. Tutti e tre erano fra i più rinomati progressisti del secolo, e Theo mantiene viva la fiamma. Nel suo corso di diritto costituzionale si occupa di pochi casi posteriori al 1981, "quando quel figlio di puttana di Reagan ha preso il potere ed è andato tutto in malora". Ai suoi perplessi studenti insegna non quello che la legge è e nemmeno ciò che dovrebbe essere, ma come lui vorrebbe che fosse rimasta. Qualche anno fa ha scritto a un giudice della corte suprema, che un tempo era stato suo studente, accusandolo di fare "ragionamenti idioti al servizio della sua immorale campagna reazionaria". Poi ha inoltrato la lettera alla stampa, gesto che gli ha procurato una partecipazione fitta di invettive al "Larry King Live". Theo è sempre stato pronto a dire qualsiasi cosa a chiunque. E adesso lo fa con me: «Hai un aspetto terribile. È stata la polizia a conciarti in quel modo?». «Certo che no.» «Ho sentito che ti hanno quasi arrestato.» Mi domando se questa storia mi seguirà per il resto della mia carriera. «No, Theo, non mi hanno quasi arrestato. È stato un malinteso.» «Ah.» Detto in tono dubbioso. «Theo, volevo chiederti una cosa su mio padre.» «A che riguardo?» Esito mentre alcuni studenti ci passano accanto discutendo animatamente di cosa avrebbe detto Hegel di una certa decisione della commissione di vigilanza sulla Borsa. Quando si sono allontanati a sufficienza proseguo. «Tu lo conoscevi ai tempi in cui studiava. E dopo.» Theo annuisce, ancora fermo sulla soglia. «Eravamo buoni amici, prima che perdesse la testa. Perdonami.» «Intendi dire...» «Dopo le udienze.» Agita una mano con vaghezza. «Furono in molti qui
dentro a firmare petizioni contro la sua nomina, Talcott. Be', lo sai anche tu. A quei tempi non c'eri, ma te ne ricordi.» «Ero uno studente, Theo, certo che me ne ricordo.» «Be', ricordati anche che io non firmai.» Si posa la mano sul petto. La sua camicia, come sempre, mostra una pulizia approssimativa. «Non andavamo d'accordo su molte cose, ma eravamo amici. Come ho detto, prima che perdesse la testa.» «Quello che mi chiedevo è se... dopo che vi allontanaste... se non c'era nessuno qui in facoltà di cui mio padre rimase amico. Qualcuno di cui si sarebbe fidato.» Esito. È così tipico della mia famiglia che io debba chiedere a un estraneo chi erano gli amici di mio padre nella facoltà in cui insegno. «Qualcuno a cui possa aver confidato certe cose.» La faccia barbuta di Theo si distende in un sorriso. «Be', Stuart Land è di certo uno stronzo reaganiano.» La sua risposta è campata in aria come sembra? Forse no. «Dunque, stai dicendo che mio padre si fidava di Stuart.» «Non so neanche se tuo padre conoscesse Stuart, ma non mi sorprenderebbe. Tutti quei neoconservatori fanno gruppo. Perdonami.» Rovescia la testa all'indietro e aggrotta la fronte fissando il soffitto. «Chi altri? Immagino conoscesse Lynda Wyatt, per via del suo lavoro con gli ex alunni. E credo che conoscesse piuttosto bene anche Amy Hefferman. Amy era stata sua compagna di classe.» Scuoto il capo. Povera Amy, l'amatissima Principessa della Procedura. Avevo quasi scordato che lei e mio padre avevano studiato insieme per la specializzazione. Nel corso degli anni mio padre non sembrava mai stancarsi di fare battute crudeli alle sue spalle, tutte sul suo intelletto. "La seconda miglior mente di terza categoria della facoltà" diceva dei suoi anni di studio, meravigliato che l'avessero invitata a insegnare. La valutazione espressa dal Giudice sul suo lavoro alla facoltà non era molto diversa, e alle volte sfiorava la misoginia. "Confusi", definiva i suoi scritti, oppure "poco seri". Come accadeva spesso, il Giudice era spaventosamente ingiusto; ma quali che fossero i demoni che lo portavano a ripudiare Amy Hefferman, gli avrebbero anche impedito di affidarle i complessi segreti a cui voleva farmi arrivare. «No, non Amy» dico in tono triste. Theo socchiude gli occhi. Non è più lesto come un tempo, ma non è nemmeno uno stupido. «Non Amy cosa? Che stai tramando, Talcott?» Non sembra disapprovare. Se sto tramando qualcosa, probabilmente vuole essere della partita. Si avvicina, mi soffia addosso il suo alito terribile e sussur-
ra: «Ha a che fare con Stuart? È per caso nei pasticci?». «Ehm, che io sappia no.» «Peccato.» Apre finalmente la sua porta ed entra in ufficio, che malgrado sia lungo e abbia un soffitto alto è talmente pieno di libri e documenti accatastati da trasformare una visita in una sorta di spedizione speleologica. Non mi invita a seguirlo. «Non mi sono più tenuto in contatto con tuo padre, Talcott, da quando...» «Ha perso la testa» concludo per lui. «Ah, dunque l'avevi notato anche tu?» Il suo tono è triste. «Era un brav'uomo, tuo padre. Le sue opinioni politiche non erano il mio genere, ma era un brav'uomo. Fino alla morte di tua sorella. Poi le cose sono precipitate.» «Aspetta un attimo, Theo. Aspetta. Dopo la morte di mia sorella?» «Sì.» «Ma prima hai detto che aveva perso la testa a seguito delle udienze.» Theo sbatte le palpebre. Ha dimenticato ciò che ha detto? È confuso oppure scaltro? «Be', non so di preciso quando è successo, ma resta il fatto che ha perso la testa.» Poi i suoi occhi si riaccendono. «Ma se non è Stuart quello che cerchi, forse dovresti rivolgerti a Lynda.» «Credi davvero che mio padre si sarebbe fidato di Lynda Wyatt?» Nel momento stesso in cui pronuncio queste parole mi viene in mente che Lynda sapeva che sarei andato alla cena di Shirley. Poteva avermi visto dalla finestra del suo ufficio mentre mi dirigevo alla mensa gratuita? Poteva sapere che giovedì scorso avevo intenzione di passare dal club scacchistico? Non riesco a vedere come, ma d'altra parte non riesco a vedere la ragione di molti dati di fatto, per esempio che Kimmer mi abbia sposato. «Ti dirò, più di quanto si sarebbe fidato di me.» Un sorriso spunta dalla sua folta barba bianca, e quando mi chiude la porta in faccia si è trasformato in una sonora risata. Di ritorno nel mio ufficio rispondo a una telefonata di una donna di nome Valerie Bing, che si è laureata in legge due anni dopo Kimmer e me e che adesso lavora in uno studio legale di Washington. Lei e mia moglie sono cresciute a pochi isolati di distanza e sono rimaste amiche oltre che colleghe, affrontando numerosi casi insieme. Valerie mi informa che l'Fbi l'ha interpellata per i controlli su Kimmer. Gli investigatori le hanno sicuramente fatto giurare di mantenere il segreto, ma Valerie, che si nutre di pettegolezzi, mi offre un racconto testuale del colloquio. Nessuna doman-
da sulle "disposizioni", ma le hanno chiesto se avesse mai sentito mia moglie nominare Jack Ziegler, informazione che decido subito di non riferire a Kimmer. Ho appena riagganciato quando il telefono squilla di nuovo, e mi ritrovo a schivare l'offensiva di un rappresentante dell'agenzia che organizzava i cicli di conferenze del Giudice. Sembra che se manterrò alcuni dei suoi impegni con i Destri l'agenzia mi garantirà la metà della sua tariffa. Fisso infuriato il telefono per un istante, poi rispondo che non mi interessa. Il mio interlocutore mi interrompe per informarmi che mio padre riceveva quarantamila dollari a serata, a volte di più. Sono sbalordito. Come molti quarantenni, Kimmer e io viviamo al di sopra dei nostri mezzi, in debito cronico, le carte di credito sempre al limite, i pagamenti sempre in ritardo. Per Howard Denton, il marito banchiere di Mariah, ventimila dollari saranno anche il guadagno di un pomeriggio, ma per me sono tutto il denaro del mondo. Il mio interlocutore continua a parlare. Prospetta l'eventualità di apparizioni televisive, di un contratto editoriale e tutto il resto. Devo soltanto dire quello che avrebbe detto mio padre. "Temo di non essere ancora pronto a prostituirmi" vorrei rispondergli, ma mi accontento di un semplice: «No, grazie». Lui insiste che potrebbe riuscire a farmi ottenere i tre quarti del compenso di mio padre. Ribadisco il mio rifiuto. Ma lui non si arrende. Dice che non dovrei nemmeno parlare per conto di mio padre. Che potrei affrontare l'argomento che desidero ed esprimere le opinioni che voglio. Un paio di suoi clienti, aggiunge, sono molto eccitati all'idea che io partecipi. Tutto ciò che chiedono è una conferenza di fronte a un gruppo ristretto, una cena con alcuni grandi ammiratori di mio padre, qualche ricordo del Giudice e qualche rivelazione sul suo pensiero. Soltanto due o tre date, mormora. Da ventimila a trentamila dollari l'una. Il verme debilitante della tentazione mi sta strisciando nel profondo, caldo ed eccitante, mentre ripenso ai nostri debiti. Poi ricordo ciò che Morris Young ha detto l'altra sera riguardo a Satana, e pongo sgarbatamente fine alla conversazione. «Il mio no significa no» dico al mio interlocutore. Lui risponde che riproverà fra un mese o due. Un'ora dopo, Solo Alma finalmente mi chiama. È ancora sulle isole, qualsiasi cosa significhi. Ho scordato la ragione per cui l'avevo cercata, e così le chiedo se si sta divertendo. Alma si lamenta che gli uomini non rie-
scono a stare al passo con lei. Immagino sia vero. Poi mi torna in mente tutto e le domando: «Alma, ricordi quando eravamo in Shepard Street dopo il funerale?». Attraverso la linea gracchiante, Alma risponde di sì. «Mi hai detto che qualcuno mi avrebbe... dato addosso. Ricordi?» «Me lo disse tuo padre. Disse che la gente dava sempre addosso al capofamiglia dei Garland.» «Ti disse anche chi?» «Certo. I bianchi» replica immediatamente, e la mia teoria va in frantumi. Credevo che il Giudice potesse aver confidato a Solo Alma una parte del suo segreto. Invece, erano altri deliri della sua mente torturata nella quale la colpa di tutto ciò che gli era successo era sempre altrui. «Capisco.» Alma non ha finito. «Così come avevano dato addosso a Derek.» «Suo fratello Derek? Il comunista?» «Conosci qualche altro Derek? Lascia che ti dica una cosa, Talcott. Tuo padre non ha mai apprezzato suo fratello. Ha cominciato soltanto dopo che lui è morto. Non gli era mai piaciuto, nemmeno quando erano ragazzi.» «Lo so, Alma.» Sto cercando di chiudere la conversazione, ma Alma è ormai lanciata. «Il fatto è, Talcott, che tuo padre credeva che Derek si lamentasse troppo dei bianchi. Be', alla fine i bianchi hanno beccato anche tuo padre. Poi anche lui ha cominciato a pensare che forse il fratello non avesse tutti i torti. Diceva spesso che avrebbe voluto che il vecchio Derek fosse ancora vivo per potergli dire quanto gli dispiaceva.» «Mio padre diceva di essere dispiaciuto?» Cerco inutilmente di rammentare un singolo episodio in cui il Giudice abbia chiesto scusa a qualcuno. «Per cosa provava dispiacere?» «Per la loro rottura. Diceva che, dopo, ogni cosa era precipitata.» «In che senso, ogni cosa?» «Buon Dio, Talcott, non lo so. Diceva soltanto che gli dispiaceva. Per quello che avevano fatto i bianchi. Forse sentiva soltanto la mancanza di suo fratello.» Mi viene in mente una domanda. «Alma, quando mio padre parlava della rottura con suo fratello, si riferiva a qualcosa in particolare?» «A quando aveva deciso di diventare giudice, immagino. Aveva dovuto scaricare i pesi morti.» «Derek era un peso morto?»
«Tuo padre sentiva la sua mancanza, Talcott, tutto qui.» Non sto approdando a nulla. Devo riagganciare. Fortunatamente deve andare anche Alma. Accenniamo all'idea di vederci durante l'estate, ma non succederà. È scesa la notte su Hobby Road. Ancora una volta sto vegliando affacciato alla finestra sul davanti. Non so che cosa cerco. Intorno alle undici mi sembra di vedere un uomo che osserva la casa dal buio sul lato opposto della strada; un uomo molto alto che potrebbe essere nero, anche se l'oscurità rende difficile capirlo: Foreman? Forse è un'allucinazione, poiché quando torno a guardare è scomparso. Mezz'ora dopo, un camioncino percorre sobbalzando la strada, e io fantastico su un dettagliato intreccio di sorveglianze, veicoli alternati, legioni di osservatori. Sciocchezze, è ovvio, ma poche sere fa sono stato veramente malmenato, e qualcuno mi ha veramente telefonato per dirmi di non preoccuparmi, che ogni cosa era stata sistemata. E allora smettila di preoccuparti! Ho provato a parlare con Kimmer di ciò che sta succedendo, ma lei insiste a non ascoltare, limitandosi a chiedermi se penso davvero che nessuno di noi tre corra qualche pericolo. Non sembro in grado di fare breccia nel muro che è sorto fra noi. È come se l'aggressione mi avesse trasformato in una prova concreta di ciò che mia moglie, ancora speranzosa di ottenere la nomina alla corte d'appello, preferisce fingere che non sia vero: che sta succedendo qualcosa, e che lasciar perdere, lasciar morire la faccenda, non è più un'alternativa valida. Scuoto la testa. Vado sul sito dell'Internet Chess Club e faccio quattro partite lampo con un danese, perdendone tre. E ho la sensazione - che mi tormenta ormai da settimane - che i miei tentativi di venire a capo della faccenda con il ragionamento equivalgano a inseguire un'ombra: mi do un gran daffare, ma senza alcun risultato. Il sonno diventa all'improvviso un'ipotesi allettante. Mi affretto a salire al primo piano e controllo Bentley. La sua cameretta è decorata soprattutto con immagini disneyane di Ercole, il quale, a quanto pare, era un sorridente ariano biondo con i denti più grossi del mondo. "Erkes" è il nome che nostro figlio ha dato al suo eroe preferito. Sistemo la coperta di Erkes alla luce del lampione stradale, controllo il lumino da notte di Erkes, bacio la fronte tiepida di Bentley e percorro il corridoio per raggiungere mia moglie che dorme nella camera da letto padronale sul re-
tro della casa. Mi spoglio in bagno, ricordando con una fitta di dolore i tempi in cui Kimmer e io ci lasciavamo biglietti, e a volte fiori, sulla toletta: "Svegliami" scrivevamo in tono amorevolmente invitante. Non ricordo quando abbiamo smesso, ma so che Kimmer è andata avanti per settimane a ignorare i miei biglietti prima che mi rendessi conto che lei non me ne stava più scrivendo di suoi. Mi chiedo se mio padre nei suoi ultimi anni abbia avuto qualcuno che gli lasciava un fiore o un biglietto prima di andare a letto, e mi rendo conto di non sapere niente della sua vita sentimentale, sempre che ne abbia avuta una dopo la morte di mia madre. Alma ha insinuato che il Giudice si sentiva solo, e ripensando al passato posso presumere che probabilmente lo era. Di tanto in tanto si presentava a una cena importante o a una prima teatrale con qualche famosa conservatrice sottobraccio, invariabilmente una cittadina della nazione più pallida, ma riusciva sempre a comunicare l'impressione che si trattasse di soluzioni di reciproca utilità, che non vi fosse nulla di romantico o di sessuale. Non sono al corrente dell'esistenza di alcuna compagna: se ne aveva una, la teneva ben nascosta. Decido di non volerlo sapere. I biglietti: ormai Kimmer mi lascia sul guanciale soltanto articoli strappati da riviste popolari che aiutano ad affrontare la morte di una persona cara, poiché crede che io abbia elaborato il lutto in modo insufficiente, o forse sbagliato. Non esistono serie prove scientifiche, in realtà, che il lutto attraversi i famosi cinque stadi, ma un'intera industria di terapeuti guadagna una fortuna sostenendo che è così. "Va' a letto" mi ripeto nel timore di scordarmi perché sono salito. Guardo il giardino dalla finestra del bagno. Sembra tutto tranquillo. Alla fine rientro in camera e mi infilo sotto le coperte. "Mi dispiace tanto" sussurro a mia moglie addormentata, ma soltanto con il pensiero. "Non volevo che andasse a finire così." Resto disteso immobile, recito le preghiere e poi fisso il soffitto nel buio, intuendo più che avvertire la presenza di mia moglie a pochi centimetri di distanza, non osando tendere la mano verso di lei per il conforto che muoio dalla voglia di dare e di ricevere. La mia mente si rifiuta di abbandonarsi al sonno, continuando a essere vittima di tutto il senso di colpa che sono in grado di riversarmi addosso, cioè una discreta quantità. Torno a girarmi verso Kimmer. "Dove sei stata per tre ore, oggi pomeriggio?" le chiedo con il pensiero: visto che non era in ufficio e non rispondeva al cellulare. È già successo. Succederà ancora. "Come siamo arrivati a questo punto, amore?"
Provo un'altra posizione, ma il sonno si rifiuta di arrivare e le risposte che bramo restano sfuggenti come sempre. Sto lavorando poco. La mia reputazione si sta sgretolando attorno a me. Sto cominciando a essere conosciuto come il professore di legge mattoide che salta le lezioni, formula accuse folli e si fa picchiare nel bel mezzo del campus. E nessun essere umano, di certo nessuna moglie, che mi conforti nella mia depressione e nella mia pena. Ah, Kimmer, Kimmer! Perché fai... quello che fai? I miei pensieri tornano di nuovo, ansiosamente, all'inizio del nostro matrimonio, quando aprire gli occhi ogni mattina e vedere il volto sorridente di Kimmer era tutto ciò che chiedevo al mondo. Sento come il rombo di un treno, ma è soltanto il sangue che mi pulsa nelle tempie. Apro gli occhi, ma il volto di mia moglie è nascosto. Il letto è all'improvviso troppo vasto, la distanza che mi separa da Kimmer troppo grande. Mi metto su un fianco, poi sull'altro, cambio di nuovo posizione, e mia moglie si gira e mormora qualcosa di incomprensibile. Vorrei poter credere che nel dormiveglia mi abbia detto che mi ama. Vorrei avere il coraggio di allungare la mano verso di lei per chiederle conforto. Vorrei sapere perché ho la sensazione che forze superiori si stiano prendendo gioco di me. "Lei e la sua famiglia siete perfettamente al sicuro." Ma nessuno ha fatto cenno all'umiliazione o alla rovina della mia carriera. Nel mio desiderio per il corpo indisponibile di mia moglie riconosco la disperazione del fuoriuscito che prega di poter tornare contro ogni aspettativa nella sua patria dilaniata dalla guerra, un territorio freddo e ostile da cui è stato escluso. Ma là nel buio percepisco le barricate minacciose che non riesco a vedere. Quando uno dei miei piedi tocca il suo, Kimmer si muove e sposta la gamba, respingendomi anche nel sonno. Per un lungo istante prendo in considerazione l'idea di svegliarla per convincerla a farmi tornare in patria, o forse a implorarla. Invece do le spalle alla terra lussureggiante e sensuale che un tempo mi accoglieva, chiudo gli occhi e spero di non sognare. 31 LA SETTIMANA BROWN «È una storia interessante» dice John Brown. «Non è una storia.» «È comunque interessante.» Prende posizione nel mezzo del vialetto che
porta al garage, lancia la palla verso il canestro e lo manca abbondantemente. Afferro la palla sul rimbalzo, mi porto sul bordo del prato con una finta e salto. Canestro. Punto il dito contro John. Lui ride e lo allontana con una manata. È venerdì pomeriggio, tre giorni dopo Natale, anche se Kimmer a volte insiste per festeggiare anche Kwanzaa. Due sere fa sono caduti otto centimetri di neve, ma il tempo imprevedibile di Elm Harbor ha voltato nuovamente al bello, ed è abbastanza temperato per organizzare questa grigliata. La fanghiglia rimasta dopo la nevicata schizza sotto i piedi. Non è stato esattamente un bianco Natale, ma ci è mancato poco. I Natali della mia infanzia erano feste grandiose e allegre; la casa in Shepard Street veniva decorata da mia madre con ghirlande di fiori freschi, stelle di Natale e vischio, un albero di dimensioni gigantesche splendeva nell'atrio alto due piani e il pianterreno era invaso da parenti e amici chiassosi. Noi bambini sonnecchiavamo durante la messa di mezzanotte alla chiesa della Trinità e San Michele e il mattino seguente ci alzavamo presto e trovavamo l'albero attorniato, come per magia, da una piccola montagna di regali. Pur sapendo che molti dei pacchi dalle allegre confezioni contenevano indumenti e libri, li immaginavamo sempre pieni di meravigliosi giocattoli, e alcuni lo erano. Il Giudice, a quei tempi ancora soltanto papà, si sedeva nella sua poltrona preferita in vestaglia e pantofole, stringendo fra i denti la pipa che allora fumava, assaporando il nostro amore e la nostra gratitudine, accarezzandoci la schiena quando abbracciavamo le sue gambe muscolose. Al 41 di Hobby Road il Natale è sempre stato più posato, con me e Kimmer che ci scambiamo i doverosi regali di fronte al piccolo albero artificiale che la mia pratica moglie insiste a prediligere, facendo notare la perdita di tempo, i problemi e quelli che lei definisce i rischi - "acqua ed elettricità insieme? Neanche per sogno!" -, a quello naturale. Quest'anno, essendo Bentley con i suoi tre anni e nove mesi abbastanza grande da rendersi conto di cosa gli succede intorno (anche se è Babbo Natale e non Gesù Bambino che sembra apprezzare), Kimmer e io ci siamo sforzati di essere un po' più allegri. Incartare insieme i regali di nostro figlio il giorno della vigilia è stato in realtà bellissimo, e più tardi, a letto, mentre ascoltavamo il vento, mia moglie mi ha baciato sulla guancia e ha detto di essere felice che siamo ancora insieme. Le ho risposto che lo sono anch'io, ed è la verità. Nel corso delle ultime due settimane mi sono impegnato a fondo
per mantenere la promessa che ho fatto a Morris Young, offrendo a mia moglie amore e non sospetto, e lei ha reagito con un umore più spensierato e felice. Ho la sensazione, inaspettata ma rassicurante, che abbia rinunciato alla sua relazione, qualunque essa fosse, forse come fioretto per l'anno nuovo o come regalo di Natale a suo marito. Al tempo stesso, senza darlo a vedere, ho continuato a pensare a come sistemare il pasticcio in cui mi ha coinvolto il Giudice. Raccontare a John Brown una parte di quello che sta succedendo, come il mese scorso gli avevo promesso di fare, mi sembra un inizio sensato. «Allora, secondo te che cosa dovrei fare?» gli domando provando un altro tiro. La palla colpisce il cerchio e si abbatte sul suo minivan Town & Country blu scuro. John la prende al volo prima che riesca a rovesciare il mio vecchio ma fidato barbecue, dove le fiamme arancioni guizzano allegre sulla carbonella appena accesa. «Niente. Lascia che ci pensi l'Fbi. Non c'è niente che tu possa fare. Bel tiro.» Laconico come sempre. John non crede nell'utilità di usare due parole quando una è sufficiente, e non adopererà mai tre sillabe quando ne bastano due. Stiamo giocando a basket per poter parlare senza che ci interrompano. John sta cercando di convincermi di dire tutto alle autorità, ma io non mi sono ancora sbilanciato. «Hai bisogno di un esperto, Misha. E loro sono gli esperti.» Annuisco con aria pensierosa. Non sono il genere d'uomo che stringe con facilità amicizia con altri uomini, ma il rapporto con John è stranamente duraturo. Conosco lui e sua moglie Janice fin da quando eravamo tutti e tre al primo anno del college. Janice era la più corteggiata fra le donne di colore del corso, John il più studioso dei maschi. Oggi John è un ingegnere elettronico, cioè quello che ha sempre avuto in mente, e Janice fa la madre a tempo pieno, cioè quello che ha sempre voluto. Ora che lui insegna alla Ohio State vivono a Columbus, e noi li vediamo una o due volte l'anno, di solito alla fine dei corsi e per le feste. Sono persone meravigliose. Piacciono anche a Kimmer: "Anche se li hai coinvolti troppo nel nostro matrimonio", le piace punzecchiarmi. «Non lo so» dico alla fine, l'Amleto di Hobby Road. John inarca le sopracciglia. «Come, non ti fidi dell'Fbi?» Un altro tiro. La palla corre lungo il bordo del canestro, entra dentro, rimbalza a terra e rotola sulla neve fradicia che copre ancora gran parte del prato. «E se l'Fbi fosse coinvolta?» domanda bruscamente Mariah alle nostre spalle, prendendoci di sorpresa. «Come possiamo permettere che se ne oc-
cupi?» Sorrido a disagio. Non so da quanto mia sorella ci stesse ascoltando. Non le ho detto nulla del pedone o della lettera, di cui ho appena finito di parlare con John. Lui mi rivolge un piccolo cenno del capo: terrà la bocca chiusa. Si rivolge a Mariah. «Bisogna pur fidarsi di qualcuno» dice, probabile versione cifrata di un'altra risposta: "Di questo passo, tanto vale che ti trasferisca in uno di quei campi di sopravvivenza nel Montana". John possiede un rispetto per le autorità che io vorrei ancora condividere, ma gli eventi delle ultime settimane hanno messo a dura prova la mia fede in molte istituzioni. Lancio la palla a mia sorella: «Avanti, piccola, fa' un tiro». Lei la riceve con gesto armonioso e me la rilancia con tale forza da mozzarmi il fiato. «No, grazie.» «Un tempo adoravi giocare.» «Un tempo adoravo molte cose.» Rivolgo un'occhiata a John, che ha sviluppato un improvviso interesse per il piccolo adesivo di carta attaccato al palo del canestro e riempito di avvertenze a caratteri microscopici nella vana speranza che il fabbricante possa essere esentato da qualsiasi responsabilità nel caso che qualche ragazzino lo rovesci. John stesso ha protetto l'ospedale da una possibile causa per danni: quando Kimmer e Bentley rischiarono di morire, lui e Janice presero il primo volo. Janice mi lasciò piangere fra le sue braccia, ma fu John a convincermi, in qualità di cristiano e anche di scienziato, che avrei dovuto essere grato ai dottori per aver salvato i miei cari e non arrabbiato perché avevano rischiato di non farcela. «Andiamo, Mariah» dico con dolcezza tendendole la mano. «Non essere giù.» «Non essere giù» ripete lei. «Come se non ci fosse niente per cui essere giù.» Riesco a non gemere. Nel suo umore attuale, mia sorella riuscirebbe a rovinare qualsiasi cosa. John, Janice e i loro figli sono a Elm Harbor per la solita vacanza che passiamo insieme durante la tranquilla settimana che precede il Capodanno, a volte in Ohio, ma di solito qui. Ieri Kimmer e io abbiamo festeggiato, si dice così, il nostro nono anniversario; John e Janice, che si sono sposati sette anni prima, festeggeranno il loro domani. Sono state le date quasi i-
dentiche degli anniversari a dare il via alla tradizione, cinque o sei anni fa. La nostra riunione annuale tende a essere un'occasione di sfrenata allegria, ma questa volta è alquanto solenne: conseguenza non soltanto della morte di mio padre ma anche dell'atmosfera che regna in casa, poiché se è vero che Kimmer ha interrotto le sue scappatelle non per questo dimostra di amare il proprio marito. I Brown credono che tutti i matrimoni possano essere perfetti come il loro e sono spesso a disagio davanti a una confutazione vivente della loro teoria; ma sono dei buoni amici, e si rifiutano di accantonare il sogno che il nostro matrimonio sia riparabile. Mia sorella è un'aggiunta dell'ultimo istante alla "settimana Brown", come ci piace chiamare queste occasioni. Kimmer ha risposto in modo sorprendentemente gentile alla notizia che Mariah si sarebbe unita a noi, ma la sua era la gentilezza che riserviamo ai malati di mente. "Ma certo, Misha, dopo tutto è tua sorella" ha mormorato dandomi una serie di colpetti affettuosi sulla mano. "Capisco, davvero" ha aggiunto con enfasi sufficiente a farmi capire che in realtà non capisce affatto. E non sono sicuro di capire nemmeno io. La verità è che preferirei che Mariah non fosse qui durante la settimana Brown, anche se soltanto per una giornata. (È sola, avendo lasciato la sua cucciolata a Darien con l'au pair. Howard è a Tokyo, mi sembra.) La sua nervosa presenza è destinata a rovinare la confortevole chimica delle nostre due famiglie, i Brown e i Madison-Garland. Avrei preferito vederla in un'altra occasione, da solo, ma lei si rifiuta di rivelarmi le notizie, quali esse siano, per telefono, forse temendo intercettazioni; e oggi è la prima data su cui siamo riusciti ad accordarci. Janice e Kimmer sono in cucina, intente a cucinare, a cospirare e a snobbare Mariah. John e io dividiamo il nostro tempo fra il vialetto del garage e il giardino, gingillandoci con la griglia su cui fra poco cucineremo delle costose bistecche, e in questo istante ascoltando con ogni apparenza di credulità le digressioni di Mariah. Accanto all'alta siepe che separa la nostra proprietà da quella dei Felsenfeld, Bentley gioca allegramente con Faith, la figlia minore di John, di tre anni più grande di lui; stanno facendo qualcosa di ingegnoso e misterioso con la Barbie nigeriana di Faith e con la sua automobile sportiva rosa shocking, alla quale manca una ruota. La sorella di Faith, Constance, ha ormai nove anni ed è pertanto superiore a certi passatempi; l'ultima volta che l'ho vista era seduta al tavolo della cucina e giocava distrattamente a Boggle con il computer portatile di sua madre. Reclama a gran voce la nuova versione di Riven, che a scuola hanno tutti, ma i suoi religiosi genitori gliel'hanno proibita. Luke, il primoge-
nito, ha quindici anni, ed è in qualche angolo della casa immerso nella lettura di Agatha Christie. «A volte l'Fbi è dalla parte sbagliata» insiste Mariah. «Pensate a cosa fece al dottor King.» John e io ci scambiamo un'occhiata. John è un uomo piccolo e dalla scorza dura, cresciuto in un quartiere popolare della capitale dello Stato ed è arrivato a Elm Harbor a furia di borse di studio. La sua carnagione bruna sembra ancora più scura nella luce calante, ma i suoi occhi sono luminosi e vitali. «È una delle cose di cui ti volevo parlare, Tal» aggiunge mia sorella mettendosi fra noi per impedirci di proseguire la partita prima di averla ascoltata. Oggi è venuta non al volante della Navigator ma della Mercedes il maritino ne ha un'altra - e indossa un elegante completo giacca e pantaloni di tweed marrone che potrebbe essere di Anne Klein, probabilmente l'abbigliamento giusto per un aperitivo autunnale a Darien ma non proprio quello che tendiamo a indossare a Elm Harbor per le nostre grigliate. Sono sicuro che in cucina Kimmer sta facendo notare la stessa cosa a Janice. «Dobbiamo decidere cosa fare.» «Riguardo a cosa, piccola?» chiedo in tono gentile. «All'intera faccenda.» John fa un altro tiro e manca il canestro. La palla mi rimbalza fra le mani. La sollevo per tirare, ma Mariah me la strappa di mano e se la mette sottobraccio come una madre che rimprovera suo figlio. Niente più basket, sta dicendo, finché non avremo finito di ascoltarla. «Sally e io abbiamo esaminato le carte di papà, ricordi? Lascia che ti dica quello che abbiamo trovato e vedrai perché dobbiamo fare qualcosa.» Sto per interromperla, ma scorgo l'espressione di John e ci rinuncio. John vuole che Mariah ci dica tutto, e decido di seguire il suo esempio. Come un buon avvocato, sa quando evitare le domande e lasciare che il cliente si sfoghi. «E va bene.» Mariah getta la palla sull'erba incrostata di neve, raggiunge la sua scintillante automobile verde mare e fruga sul sedile anteriore. Ricompare con una lucida valigetta marrone, che posa sul cofano. «Aspetta un attimo» dice impostando la combinazione e aprendola. Una serratura di sicurezza, osservo per metà divertito e per l'altra metà preoccupato. Sposto lo sguardo verso il giardino, in pensiero per la carbonella. Mariah torna con alcune cartelle. Mentre sfoglia gli incartamenti, mi viene in mente il libro mastro
nero in cui prendeva nota delle prove del complotto. La provoco dicendo che il numero delle sue scoperte in soffitta ha superato le dimensioni del quaderno. «No, è che non lo trovo più» risponde lei distratta. «Forse te l'hanno rubato i cattivi.» Mariah mi prende sul serio e indica la valigetta. «Per questo adesso ho una serratura.» Prima ancora che riesca a digerire la sua risposta, mi porge una delle cartelle. «Guarda qui» ordina. Prendo la cartella ed esamino insieme a John l'etichetta dattiloscritta ma ormai sbiadita: RAPPORTO INVESTIGATORE. ABIGAIL. Mi rianimo all'improvviso, ma la cartella è vuota. «Dov'è il rapporto?» domando. «È quello che sto cercando di dirti, Tal. Non c'è. Non ti sembra un po' strano?» «Un po'.» Ma sto pensando che esistono all'incirca due milioni di ragioni per la sua assenza; una delle quali è che l'abbia preso la stessa Mariah, oppure che abbia creato la cartella vuota per corroborare le sue fantasie. D'altro canto l'album di ritagli è effettivamente scomparso, e un pedone è magicamente arrivato dal cuore della Gold Coast a una mensa gratuita di Elm Harbor, e il libro che mi era stato rubato dai due aggressori si è rimaterializzato sul sedile della mia auto. Sono molte le cose possibili. «Ma poi mi è tornato in mente. Quando papà ha ricevuto il rapporto dell'investigatore, l'ha dato alla polizia. Ricordi? Sperando che facesse qualcosa.» Me ne ricordo, e la cosa mi provoca un dolore tutto nuovo. Il Giudice era così soddisfatto di se stesso: aveva ingaggiato un investigatore privato, aveva scoperto nuovi indizi. Ci assicurava che l'investigatore era un valido elemento di Potomac, già a quei tempi una cittadina esclusiva. Un uomo, diceva il Giudice, con ottime referenze e molto caro. Sembrava fiero di pagare così tanto. «Villard» mormoro. «Si chiamava così, giusto? Qualcosa Villard.» «Esatto.» Mariah sorride. «Jonathan Villard.» Scuoto il capo, poiché speravo quasi che mi correggesse dicendomi che l'investigatore privato era in realtà Scott. Quando il Giudice ricevette il rapporto uscì dalla sua depressione e ci disse di essere sicuro che presto l'assassino sarebbe stato punito. Si esprimeva così, l'assassino. Poi si mise comodo ad aspettare. Aspettare. Aspettare. E la disperazione ridiscese su di lui. «La polizia non prese mai in considerazione quegli indizi» dico piano,
più a me stesso che a John o a mia sorella. Sono rimasto indietro, mi sto ancora chiedendo cosa possa essere successo al suo libro mastro. Prima scompare l'album di ritagli, poi il quaderno. Una brezza gelida agita le siepi. «O, se l'ha fatto, non ha mai scoperto niente.» «Giusto» dice Mariah come se si congratulasse con un alunno un po' tardo che finalmente ci è arrivato. «Ma avevano una copia del rapporto. E così ho chiamato lo zio Mal e ho parlato con quella donna, Meadows. Le ho chiesto se poteva procurarmela. Lei ha risposto che ci sarebbe voluto del tempo, perché la polizia sarebbe dovuta andare a cercare negli archivi o qualcosa del genere. Ma poi mi richiama qualche giorno dopo e indovina un po'? Nemmeno la polizia ha una copia del rapporto.» «Sempre più curioso» ammetto. Per quanto contribuisce alla conversazione, John potrebbe anche essere una statua. All'improvviso mi viene in mente una cosa. «Ma scommetto che puoi chiederlo a Villard. Dev'essere da qualche parte.» Mariah sembra quasi divertita. «Immagino che voi avvocati ragioniate tutti allo stesso modo. Meadows ci ha provato, Tal, e indovina un po'? Villard è morto di cancro al colon quindici anni fa.» Le parole mi escono dalle labbra prima ancora che riesca a riflettere: «Ne sei sicura?». «Certo che sono sicura, Tal. Non sono stupida. Meadows si è fatta dare perfino una copia del referto medico. Era veramente malato, ed è veramente morto.» «Ah.» Sono un po' deluso: fino alla notizia del cancro ero ancora pronto a scommettere che Villard fosse un'altra identità di Colin Scott. Poi mi riaccendo in volto: «Ma, anche se è morto, le sue pratiche devono essere da qualche parte...». «Ne sono sicura, ma nessuno sa dove. È proprio questo il punto. Adesso guarda qui» prosegue Mariah come un avvocato che costruisce un castello di prove o un magistrato che si esibisce per la folla. Da un'altra cartella estrae un paio di pagine strappate da un blocco di carta gialla. Riconosco subito la grafia illeggibile di mio padre. Mia sorella maneggia i fogli con cautela, quasi temesse che possano prendere fuoco. «È tutto quello che sono riuscita a trovare sul rapporto» spiega. Do una scorsa alle pagine, che sono state piegate diverse volte. L'inchiostro è vecchio e sbavato. In cima c'è la scritta "Rapporto V", seguita da una colonna di annotazioni apparentemente casuali: "Targa della Virginia?... Ci devono essere danni alla parte anteriore, V ha già controllato i carroz-
zieri... V dice polizia fatto lavoro mediocre su vernice eccetera... Conducente e passeggero non identificati...". Mi fermo, torno indietro, rileggo l'ultima riga. «Passeggero?» domando. Mariah annuisce. «Nell'auto che ha ucciso Abby c'era un'altra persona. Interessante, vero?» «Il Giudice non ne ha mai accennato» dico in tono distratto, rammentando qualcos'altro. «E nemmeno mamma.» Ora Mariah è eccitata. «Gli appunti erano piegati e infilati nelle ultime pagine di uno dei suoi libri sugli scacchi. Chiunque abbia preso il rapporto non lo sapeva.» Sto per chiedere quale libro, pensando che possa rivelare qualche messaggio segreto, ma Mariah sta già calando la carta successiva. «E adesso guarda questa.» Tira fuori una busta dalla valigetta e me la porge. Apro la linguetta ed estraggo un fascio di matrici di assegni. Una rapida occhiata conferma i miei sospetti: appartengono al periodo in cui l'investigatore privato stava indagando sul caso. «Controllali» mi ordina Mariah. «Cosa sto cercando, di preciso?» chiedo, mentre John assiste in un silenzio interessato. «Il nome Villard. Papà diceva che era costoso, giusto?» «Ehm, giusto.» Lo diceva con orgoglio: soltanto il meglio per trovare l'assassino di Abby, lasciava intendere. «Bene. Ora guarda le matrici degli assegni.» Lo faccio, senza sapere bene dove stiamo andando a parare. «Tal, questi sono tutti gli assegni che papà ha fatto nei quattro anni successivi alla morte di Abby. Non ce n'è nemmeno uno intestato a un certo Villard, né a qualcosa che possa ricordare un'agenzia investigativa.» «È stato disattento, non l'ha annotato.» «Le matrici sono tutte compilate, Tal. Sai bene com'era fatto papà. Ogni cosa è perfettamente organizzata. Per sicurezza ho controllato. Non ne manca nemmeno uno.» Ho una preoccupante visione di Mariah china su una calcolatrice in soffitta, intenta a digitare numeri e a controllare ossessivamente i conti del Giudice mentre i suoi figli corrono per casa e Sally fa... be', qualsiasi cosa Sally faccia quando sono insieme. «Allora l'ha pagato in contanti.» Ma questo sembra strano anche a me. «No» risponde Mariah tirando fuori un'altra cartella. Non ha perduto nulla delle sue abilità investigative. «Questo è l'elenco di ogni singolo prelievo di contanti che papà fece in quegli anni, e non ce n'è uno, Tal, nem-
meno uno che possa pagare qualcosa di più della spesa al supermercato.» «I suoi fondi in Borsa...» «Tal, andiamo. Papà a quei tempi non aveva fondi in Borsa. Non aveva abbastanza soldi. Quelli sono arrivati dopo.» Dopo che ha lasciato la magistratura, intende. «E allora che cosa stai dicendo? Che non c'è mai stato un investigatore?» Scuoto il capo, cercando di sfuggire alle nebbie dei ricordi dolorosi. John ci osserva come il testimone di un incidente stradale, inebetito dalla carneficina e incapace di essere d'aiuto. «Che Villard era... frutto dell'immaginazione del Giudice?» «No, Tal. Ascoltami. Villard esisteva veramente, è naturale. Quello che ti sto dicendo è che l'ha pagato qualcun altro. Non capisci? O papà si è fatto prestare il denaro oppure... non lo so. Ma i soldi venivano da qualcun altro. E se scopriamo chi è questo qualcuno, scopriremo anche chi ha ucciso papà.» Non credo a una parola di tutto ciò, ma nemmeno lo rifiuto. Al momento non sono nelle condizioni psicologiche di esprimere un giudizio razionale. «E tu credi che quel qualcuno sia...» Lascio il resto in sospeso, invitando la risposta che entrambi sappiamo sta arrivando. «È Jack Ziegler, Tal... chi altri? Andiamo, dev'essere stato lo zio Jack. Avevo ragione fin dall'inizio. Papà aveva paura di lui. È per questo che aveva la pistola. Ma non gli è servita a nulla. Jack Ziegler l'ha ucciso e ha rubato il rapporto.» E così, come sospettavo, la teoria di Mariah del complotto non è cambiata. Eppure mi sfiora il pensiero che mia sorella possa aver scoperto qualcosa, che se ne renda conto o no. Perché al centro della sua ricostruzione c'è un semplice fatto che mi fa paura. Mi fa paura poiché sono a conoscenza di cose di cui lei è all'oscuro. «Aspetta un attimo. Continuo a non vedere il movente.» In realtà lo vedo, e probabilmente sto sollevando obiezioni soltanto per mandare avanti la conversazione. «Sì che lo vedi! Nel rapporto c'era qualcosa che lui non voleva si sapesse, e così ha dovuto recuperare l'unica copia. Altrimenti, perché avrebbe ucciso papà a casa sua?» «E allora come mai ha lasciato la cartella vuota?» osservo. «Non conosco tutte le risposte! Per questo ho bisogno del tuo aiuto!» Mi viene in mente una cosa. «Quell'appello pubblico a un'indagine di cui mi avevi accennato...»
«Qualcuno li ha convinti a non farlo, Tal. Qualcuno è arrivato fino a loro, non capisci? E Addison è inutile» aggiunge misteriosamente Mariah mentre sono ancora occupato a esultare per il fatto che qualcuno li abbia fatti desistere. «Io e te siamo gli unici a cui importa qualcosa. E io e te dobbiamo provare che cosa è successo veramente.» «Non abbiamo abbastanza informazioni.» «Esatto! Per questo dobbiamo lavorare insieme! Oh, Tal, non capisci?» Mariah si rivolge a John Brown. «Tu capisci, John, so che capisci. Spiegaglielo.» «Be'» comincia John «forse sarebbe meglio se...» Un'interruzione. Le altre due donne, la robusta e chiara Kimmer e la sottile e scura Janice, escono con le bistecche insaporite e pronte per la griglia. Ci sono le pannocchie avvolte nella stagnola e un piccolo piatto di verdure tagliate a fettine che verranno scottate velocemente sul fuoco. E Coca-Cola per entrambi, poiché né io né John beviamo alcol: John per convinzione religiosa, io per semplice paura, visto il precedente paterno. Emettiamo le doverose esclamazioni sul cibo, che in effetti ha un'aria prelibata. Subiamo la rituale presa in giro sul fatto che eravamo talmente occupati a giocare a basket che non abbiamo preparato una brace decente: Kimmer è ancora irritata con me per la presenza di Mariah, ma di fronte ai nostri amici sta al gioco. Ieri sera l'ho finalmente messa al corrente della telefonata dell'agenzia a proposito delle conferenze di mio padre; lei si è infuriata per l'arroganza della proposta, e io l'ho amata ancora di più. "Tu non sei tuo padre, non hanno alcun diritto di fingere che tu lo sia!" Le ho detto che avevo già rifiutato, e lei ha risposto che ho fatto bene. Se mai richiameranno, dirò ancora di no. «Volete che le metta io sulla griglia?» chiede Kimmer posando le mani sui fianchi con finta irritazione. «No, tesoro.» «Allora, forza.» Mi dà una pacca scherzosa sul sedere. Sorpreso, le faccio il solletico. Lei fa un gran sorriso e mi allontana. «Forza!» ripete. «Mariah, potresti darci una mano in cucina!» esclama Janice con grande stupore di mia sorella, che si sente l'ultima ruota del carro. Mariah mi rivolge la sua occhiata tetra. «Riflettici» dice. Poi segue imbronciata Kimmer e Janice che rientrano in casa. «Tua sorella è un bel tipo» mormora John mentre torniamo in giardino. «Eh? Oh, mi dispiace.» Impiego un secondo o due per recuperare il filo del discorso poiché sono ancora leggermente stordito dalla bontà dei rap-
porti con mia moglie, anche se è soltanto una facciata. «Mariah ha... be', dalla morte di nostro padre non è più lei. Volevo ringraziare te e Janice per essere così gentili con lei.» «Janice è gentile con chiunque» risponde John. Come se lui non lo fosse. «È vero.» «Non so come faccia.» Scuote la testa, ma nel suo tono di voce c'è orgoglio: ama molto la moglie, ed è evidente che lei lo ama altrettanto. Cerco di ricordare con esattezza cosa si senta, ma riesco soltanto a stabilire di non aver mai provato niente di simile. «Ma tua sorella potrebbe aver ragione» aggiunge John in tono assorto. «Oh, per favore. Non penserai che l'autopsia sia stata falsificata?» «No, non mi riferisco all'autopsia. E neanche al fatto che vostro padre sia stato assassinato.» Scrolla le spalle. «Intendo dire che potrebbe aver ragione per quanto riguarda l'investigatore. Che sia stato qualcun altro a pagarlo.» «Stai scherzando.» «Credi che abbia lavorato gratis? Mariah ha detto che era costoso.» «Mmh.» La mia solita risposta intelligente. John attende mentre esamino le bistecche e le dispongo l'una dopo l'altra sulla griglia. Indossa un paio di jeans ampi e puliti e una giacca a vento del New York Athletic Club sopra una camicia bianca. Le sue spalle sono notevolmente ampie per un corpo così piccolo, ma un inizio di pancia è la prova che non fa più ginnastica con regolarità. «Aggiungi la sua storia alle tue, Misha.» John si dondola sulla punta dei piedi, tenendo le mani dietro la schiena e lasciando che sia io a darmi da fare. «La combinazione è interessante.» «Mmh» borbotto di nuovo, non volendo che John prenda sul serio Mariah. «Forse è proprio quel rapporto che stavano cercando i due finti agenti dell'Fbi.» Quando non abbocco, John mormora: «Non le hai detto tutto, vero?». «No.» «È tua sorella, Misha. Sono cose che dovresti dirle.» Gli scocco un'occhiata. «Nonostante quello che sta combinando?» John sembra disinteressato. Non sta più guardando né me né le bistecche, ma ha spostato lo sguardo verso gli alberi, oltre la siepe che segna il confine fra la nostra proprietà e quella che appartiene al presidente della First Bank di Elm Harbor. Sto annoiando il mio amico? «John?»
«Oh, scusami. Prosegui, ti ascolto.» «Devi capire una cosa di Mariah. Il problema non è soltanto questo. È sempre, ehm, è sempre stata... eccitabile. Ha sempre avuto la tendenza a trarre conclusioni affrettate. Certo, è più intelligente di me, ma non è sempre ragionevole. Lei è... immagino sia un tipo passionale, capisci?» «Sì.» John è distratto, e continua a fissare la siepe. «Ho questo amico, Eddie Dozier. Ricordi Dana, Dana Worth? Te ne ho parlato, vero? Be', Eddie è il suo ex marito. È nero, ma di estrema destra. Ha a che fare con tutte quelle organizzazioni antigovernative. Comunque, l'altro giorno Dana mi ha detto che Eddie e Mariah si sono parlati, che è stato lui a persuaderla che i risultati dell'autopsia sono stati falsificati. Hai presente quelle macchioline sulle foto? Ho cercato di convincerla a non parlare più con lui, ma lei...» «Misha.» Sottovoce. «... non mi ascolta mai. Non lo so. Devo trovare il modo di farla desistere, di porre fine a questa storia prima che diventi...» «Misha!» «Cosa?» Irritato dal fatto che John, che non interrompe mai nessuno, l'abbia appena fatto. «Misha, c'è qualcuno fra gli alberi. Sulla collina. Non ti voltare.» Da quella che sembra una lunga distanza, sento la mia voce che risponde con calma citando il Vangelo secondo Kimmer: «È solo il mio vicino. Te l'ho detto, lì abita il presidente della banca...». La risata di John è fredda. «Non è lui, a meno che il presidente della banca non sia nero e alto. E questo tizio ha un binocolo. E ci sta guardando.» Una pausa. «Potrebbe essere quel Foreman.» Alla fine non posso evitare di girarmi. «Non vedo nessuno» sussurro. «È scomparso. Mi sa che l'abbiamo spaventato.» John Brown è l'uomo più equilibrato che conosco. Non è soggetto ad allucinazioni. Se dice che c'era qualcuno, significa che c'era qualcuno. Avvertiamo le nostre perplesse consorti che dobbiamo andare a controllare una cosa. Poi lasciamo le bistecche e ci addentriamo nel bosco. Suppongo che dovrei essere preoccupato - l'osservatore, se c'era, doveva essere Foreman - ma se il defunto signor Scott si è rivelato innocuo, quanto pericoloso può essere il suo compare? Inoltre, far parte di una squadra sviluppa notevolmente il coraggio.
«Qui» mormora John indicando il punto in cui crede che si trovasse l'uomo, fra due alberi spogli. Ma sulla neve troviamo soltanto alcune impronte, e nessuno dei due è abbastanza esperto da capire a quando risalgano o dove conducano, visto che si perdono rapidamente fra i rovi. Il mio vecchio amico e io ci guardiamo negli occhi. Lui scuote la testa e scrolla le spalle, e il messaggio è chiaro. Abbiamo sconfinato in una proprietà altrui e non possiamo trattenerci molto. «Che ne dici?» gli chiedo. «Dico che ci è sfuggito.» «Lo credo anch'io.» «Ma se si spaventa così facilmente, Misha, non penso che sia pericoloso.» «Nemmeno io. Ma mi piacerebbe comunque sapere chi è.» Non voglio restare quassù. Un vicino potrebbe vedere due uomini di colore aggirarsi furtivi nel bosco e farsi un'idea sbagliata, e io ho già avuto il mio obbligatorio incontro decennale con la legge. «Non credi che fosse quel Foreman?» Mi volto verso John. «Sei stato tu a vederlo, non io.» John si acciglia. Lo sto deludendo. «Temo che tu non mi stia dicendo tutto, Misha.» «Non so cosa credi che stia tralasciando.» La sua voce resta più mite della mia. «Non puoi fare giochetti con i tuoi amici.» «Non li sto facendo» scatto. John si stringe nelle spalle. Mentre ci apprestiamo a tornare verso la mia proprietà, sentiamo il brontolio di un'auto che si avvia sulla strada contigua, la parallela di Hobby Road. Attraversiamo di corsa il terreno fangoso e arriviamo sul marciapiede in tempo per vedere una Porsche blu cobalto scomparire in lontananza. Ma questa è la zona ricca della città, e potrebbe appartenere a chiunque. Anche se il conducente sembra nero, e noi siamo l'unica famiglia di colore di Hobby Hill. «Credo che dovresti avvertire qualcuno» dice John. «Farò la figura dello stupido» sospiro, pensando all'avvertimento di Meadows sui rischi per la potenziale nomina di mia moglie. Ma so che lunedì farò comunque la telefonata, tanto per andare sul sicuro, e che Cassie Meadows, a Washington, alzerà gli occhi al cielo e aggiungerà un appunto al dossier sui complotti. So anche qualcos'altro, che non condivido con il mio amico mentre
scendiamo giù per la collina innevata e ricoperta di foglie. Nascosta nelle digressioni di Mariah c'era una preziosa, concreta informazione, un fatto nuovo e preoccupante che lei ha tralasciato con troppa leggerezza nella sua ricerca di un epico complotto per porre fine all'esistenza di nostro padre. So chi ha letto il rapporto scomparso. 32 UNA PARTE DELLA RISPOSTA L'acqua gelida e trasparente lambisce le mie scarpe da ginnastica mentre me ne sto seduto sulla sabbia, le braccia intorno alle ginocchia piegate, e osservo lo stretto di Vineyard oltre le nebbie della baia di Menemsha. Il sole pomeridiano, basso nel cielo, accende brillanti triangoli dorati nelle onde davanti a me. Alla mia sinistra c'è una lunga banchina di grosse pietre, luogo prediletto dei vacanzieri estivi appassionati di pesca. Sulla destra il promontorio si allunga nella baia, e una manciata di case, da questa distanza quiete, isolate e spaziose, ne costella la punta. Le intemperie hanno colorato le loro assicelle di legno di quel meraviglioso grigio-marrone tipico del New England. Un gruppo di pescherecci ballonzola lungo la linea dell'orizzonte rientrando in porto con la pesca del giorno, il faticoso lavoro finalmente concluso. E da qualche parte, là fuori, c'è il punto in cui Colin Scott, che io conoscevo come l'agente McDermott, è finito in mare. La domanda è chi l'abbia spinto, poiché non credo più che sia caduto da solo. Se mai l'ho creduto. Dopo che John e io abbiamo inseguito Foreman nel bosco, ho preso la mia decisione. Ho atteso che i Brown partissero e poi, il primo giorno lavorativo dell'anno nuovo, ho impugnato il telefono e mi sono destreggiato fra Cassie Meadows e varie segretarie fino ad arrivare a Mallory Corcoran. Gli ho detto del libro di scacchi che mi era stato rubato e poi restituito. Gli ho detto del pedone consegnato alla mensa gratuita. E gli ho chiesto senza mezzi termini se sapesse qualcosa di questa faccenda. Lui mi ha rivolto una perfetta domanda da avvocato: "Perché 'questa faccenda'? Mi stai dicendo che i fatti di cui mi hai parlato sono collegati?". Non una risposta, ma una semplice domanda. E io ho capito che non potevo più fidarmi di lui. Strano. Mi fido di una voce ignota che mi telefona alle due e cinquantuno del mattino e mi dice che non c'è più alcun pericolo, ma non del socio di mio padre, colui che
quando le cose erano cominciate a precipitare era rimasto seduto dietro di lui nell'aula delle udienze e che in seguito, quando il Giudice aveva lasciato la magistratura, gli aveva dato un lavoro e un sostanzioso stipendio. E allora perché mi trovo di nuovo qui? Di sicuro i miei viaggi stanno abusando delle nostre finanze. Nuovamente preoccupato per i soldi, alla fine non ho detto di no all'uomo dell'agenzia che organizzava le conferenze di mio padre quando, più tenace che mai, ha richiamato molto prima di quanto aveva promesso. Non gli ho nemmeno detto di sì, ma gli ho permesso di riempirmi la testa con l'ingannevole visione di quasi centomila dollari guadagnati in tre giorni di lavoro. Più i voli in prima classe, ha aggiunto lui. Gli ho detto che ci avrei pensato. Mi alzo con uno scricchiolio delle ossa e scendo verso la battigia, anelando al delizioso choc degli spruzzi freddi sul volto. Mi trattengo su questa spiaggia di ciottoli da poco più di un'ora, camminando, sedendomi, pregando, pensando, facendo rimbalzare sassi sull'acqua, ma più che altro riesaminando i fatti nella mia mente. Ho adocchiato un paio di tipi da spiaggia, gente che resta qui tutto l'anno, ma me ne sono tenuto alla larga. Devo riflettere, e farmi coraggio. La verità è che non so di preciso perché mi trovo a Martha's Vineyard. So soltanto che giovedì mi sono svegliato molto presto con la netta convinzione che ci dovevo tornare, anche soltanto per una giornata. Kimmer, già sveglia, era seduta in cucina con indosso soltanto una lunga maglietta, impegnata nella stesura di una memoria. In piedi nel vano ad arco della porta ho osservato i movimenti del suo corpo robusto sotto il cotone. Mi sono concesso dieci o venti secondi di fantasie, poi mi sono avvicinato in silenzio e l'ho baciata sulla nuca. Kimmer ha abbassato gli occhiali sul dorso del naso e ha sorriso, ma non mi ha offerto le labbra. Mi sono seduto accanto a lei, l'ho presa per mano e le ho detto che dovevo partire. Lei non è sembrata rattristata. Non ha fatto i capricci. Non ha nemmeno discusso. Ha semplicemente annuito con fare solenne e mi ha chiesto quando. "Oggi" le ho risposto. "Questo pomeriggio." "Ti perderai la Lamentazione Cittadina" ha commentato in tono compassato, usando la nostra definizione della messa unitaria che si tiene la prima domenica di gennaio e in cui i leader delle comunità di Elm Harbor pregano tutti insieme per una ricomposizione delle divisioni di razza, di sesso, di classe, di orientamento sessuale, di nazionalità, di lingua, di invalidità, di livello di istruzione, di stato coniugale, di quartiere e di qualsiasi altra cosa
sia di moda questa settimana. Di recente gli organizzatori hanno aggiunto l'"affiliazione istituzionale", evidente riferimento all'opinione diffusa che quelli dell'università (e cioè noi) guardino dall'alto in basso tutti gli altri. Kimmer ci va perché sono presenti i notabili della città, fra cui una buona parte dei componenti della facoltà e diversi dei suoi soci allo studio Newhall & Vann; in breve, ci va per mantenere i contatti. Io ci vado perché ci va Kimmer. "Be', sì..." Kimmer mi ha zittito. Si è alzata allargando le braccia, e sulle prime ho pensato con gioia che volesse abbracciarmi. Ma poi ha chiuso gli occhi e ha rivolto i palmi delle mani verso di me, aperti, rovesciando la testa all'indietro e intonando solennemente: "Che Chiunque o Qualunque Cosa abbia determinato la nostra creazione...". Era un'imitazione stranamente precisa dell'invocazione pluralista, ma di certo blasfema, pronunciata l'anno scorso dal nuovo cappellano dell'università, una donna proveniente da un college della West Coast nel quale evidentemente la sua studiata cautela nell'affermare l'esistenza di Dio veniva accolta meglio che da noi. All'improvviso l'espressione seria di mia moglie è svanita cedendo il posto a una risata. Ho riso anch'io, e per un istante spensierato sono tornati i vecchi tempi. Kimmer si è lasciata abbracciare e mi ha addirittura ricambiato, stringendomi forte, baciandomi l'angolo della bocca e dicendo che capiva ciò che mi spingeva a farlo, e che se dovevo andare dovevo andare. Di solito, quando mia moglie mi bacia con le labbra morbidamente aperte vado in estasi, ma stavolta sono andato in collera, poiché Kimmer era dolcemente positiva, come se avesse a che fare con un malato di mente. Crede soltanto nella mia compulsione, non nella mia versione dei fatti. Sono salito a preparare la borsa, lasciando in cucina una Kimmer ancora ridacchiante. Bentley ha annuito con aria grave quando gli ho spiegato che papà sarebbe stato via un giorno o due, e appena prima che uscissi dalla porta mi ha offerto soltanto un consiglio: "Osa tu" ha sussurrato. Ci sto provando, figlio mio. Arriva il momento di muoversi. Percorro l'unica strada sabbiosa che conduce dalla spiaggia al tranquillo villaggio di Menemsha, sbirciando dietro i ristoranti e le pescherie chiusi per la stagione finché arrivo davanti alla Manny's Menemsha Marine, che si rivela un malconcio e minuscolo capanno di legno a qualche decina di passi dal pontile più vicino. Le due
piccole finestre sono sigillate. Il tetto incurvato è di lamiera. Nei paraggi non si vedono cavi telefonici o elettrici. Ma Manny's è il posto dove, secondo la "Gazette", Colin Scott e i suoi due amici hanno noleggiato la barca. Mi chiedo perché l'abbiano scelto. Non ha nulla che lo distingua da un gran numero di altri servizi di noleggio sparpagliati per il porticciolo; e ognuno di loro, compreso Manny's, sembra mostrare un cartello scritto a mano e appeso in bella evidenza sulla porta che annuncia: CHIUSO PER LA STAGIONE. Forse hanno scelto a caso, tranne che non riesco a immaginarmi Colin Scott che agisce in modo casuale. Busso. L'intero edificio trema. Provo a tirare il vecchio lucchetto, poi giro due volte intorno al capanno, prima in senso orario e poi antiorario, sforzandomi di sbirciare al di là dell'unica, lurida finestra. Faccio un passo indietro, mi poso le mani guantate sui fianchi e cerco di capire se ho un piano. Che cosa credevo, che Manny in persona sarebbe stato qui ad accogliermi con un ampio sorriso? "Sì, stavo aspettando che qualcuno mi chiedesse di quella voglia sulla mano!" Ebbene, Manny non c'è. Ma se il noleggio è chiuso per tutta la stagione, come hanno fatto Scott/McDermott e i suoi amici a procurarsi una barca? Giro goffamente in tondo cercando di riflettere sul da farsi, ed è a questo punto che vedo un uomo bianco magro sulla ventina, con un volto che avrebbe bisogno di una bella rasatura, un paio di vecchi pantaloni cachi e un pesante maglione per proteggersi dal freddo di gennaio, che mi osserva dal sentiero di terra battuta fra il capanno e la strada. Regge in spalla uno zainetto. Non so da quanto mi stia guardando, e per un istante provo il terrore dell'arresto illegale che ogni singolo maschio di colore in America cova nel profondo, specialmente quelli che hanno già rischiato di subirlo: mi ha visto mentre toccavo il lucchetto? «Non ci sono» dice l'uomo in tono disponibile, e sorride mostrandomi i denti marci. Il suo accento è più del Maine che di Cape Cod. «Dov'è Manny?» domando. «Andato.» «Quando tornerà?» «Oh, aprile, maggio.» Il giovane fa per allontanarsi. «Aspetti!» gli grido dietro avvicinandomi di corsa. «Aspetti un attimo, la prego.» Lui si volta lentamente a guardarmi. Occhieggia i miei indumenti. Questa volta non sorride. Il suo dolcevita verde scuro sembra di seconda mano.
Le sue scarpe da ginnastica stanno per cedere. Io indosso un giubbotto imbottito con il simbolo Polo sul petto e un paio di jeans firmati. All'improvviso mi sento stranamente fuori posto, sia dal punto di vista fisico che da quello temporale, un capitalista nero in visita alla classe operaia bianca. Ogni cosa è a rovescio, come se la straziante storia razziale del paese avesse subito un capovolgimento. Lo sguardo del giovane è colmo di disprezzo. I suoi capelli incolori sono raccolti all'indietro in un grumo lurido. Lo sporco sotto le unghie rotte sembra permanente, quasi volesse proclamare al mondo che lui lavora per vivere. Il suo esame mi infastidisce. Quello che possiedo me lo sono guadagnato, non ho rubato il pane alla sua tavola; quest'uomo non ha alcun diritto di disapprovarmi, eppure non riesco a trovare nulla da dire in mia difesa. «Cosa c'è?» domanda. «Da quarto se n'è andato Manny?» «Lo fa sempre in questo periodo dell'anno.» Ha risposto a una domanda leggermente diversa, e vuole farmelo sapere. «Ascolti. Mi scusi...» non sono sicuro del perché mi sto scusando, ma mi sembra indicato «questo non è il negozio in cui l'uomo che è annegato in novembre ha noleggiato la barca?» Mi fa aspettare. «Lei è un giornalista?» «No.» «Sbirro?» «No.» Cerco le parole giuste. Il riserbo yankee mi ha sempre fatto ammattire, ma quest'uomo è ridicolo. «Volevo parlare con Manny perché ho letto l'articolo sul giornale e credo... credo che l'annegato fosse qualcuno che conoscevo.» «Potrebbe chiamarlo.» «Sa il suo numero?» domando in tono entusiasta. «Perché dovrei avere il numero del suo amico?» E va bene, sono lo scemo del villaggio. Credevo che parlasse di Manny. Un camioncino passa sulla strada facendo sobbalzare un grosso pezzo di ricambio marittimo sul piano di carico, e il giovane si scosta agilmente dal suo percorso. Ma intravedo un inizio di sorriso sul suo volto abbronzato e mi rendo conto che mi sta prendendo in giro. In parte. «Ascolti, mi dispiace. L'uomo che credo sia annegato... non lo conoscevo così bene. Lui e io, ehm, avevamo avuto qualche contatto. Volevo solo
vedere se era la stessa persona. Sto cercando di capire se c'è modo di parlare con Manny.» Il giovane si gratta il braccio, e poi torna al punto di partenza: «Manny se n'è andato». «Intende dire che ha lasciato l'isola?» «In Florida, mi pare.» «Sa dove, in Florida?» «No.» Per qualche istante ascoltiamo insieme le strida dei gabbiani. «C'è qualcuno nei dintorni che potrebbe saperlo?» «Dovrà chiederlo a loro, credo.» «Sa a chi potrei chiederlo?» «No.» Come estrarre un dente a un pit bull. Senza anestesia. E poi collego il suo riserbo, il suo disprezzo, la sua probabile convinzione che io sia ricco e il fatto che non si è ancora allontanato, e capisco cosa sta aspettando. Ebbene, perché no? Nemmeno io elargisco le mie conoscenze a titolo gratuito. Mentre infilo la mano sotto il giubbotto, prendo il portafoglio ed esamino la modesta cifra che contiene, sento crescere il suo interesse. Ho poco più di cento dollari in contanti. Estraggo tre biglietti da venti, chiedendomi come farò a spiegarlo a Kimmer quando controllerà i conti alla fine del mese: negli ultimi tempi mia moglie è diventata meticolosa con il denaro, nel tentativo di risparmiare per sostituire la sua lussuosa Bmw M5 con un'ancor più lussuosa Mercedes SL600, che sostiene sia più consona alla sua posizione. «Ascolti» dico squadernando le banconote per metterle in evidenza «è una cosa molto importante per me.» «A quanto pare.» Il giovane prende il denaro senza esitare. Non sembra offeso come avevo temuto. «Lei è un avvocato, giusto?» «Una specie.» «Lo immaginavo.» La sua pronuncia non migliora, ma almeno adesso è dalla mia parte. Le banconote sono scomparse, anche se non ho visto la sua mano muoversi verso la tasca. «Quando se n'è andato Manny?» domando. «Tre settimane fa, forse quattro. Subito dopo il putiferio.» «Ed è sicuro che sia andato in Florida?» «Ha detto che andava lì.» Attende. C'è qualcosa che si aspetta che io gli chieda; ha preso il denaro
così in fretta perché conosceva il valore di ciò che vendeva. Guardo il capanno di Manny e gli altri sul lungomare; sono tutti chiusi, e le barche sono tirate in secco e coperte da tele cerate. Qualche gabbiano affonda il becco nella sabbia alla ricerca della colazione. «Va sempre in Florida, in questa stagione?» domando tanto per tenere vivo l'incontro. «Non so. Non credo.» Okay, non era la domanda giusta. «Ha visto chi aveva noleggiato la barca?» «Temo di no.» D'accordo, nemmeno questa. Faccio vagare lo sguardo sul capanno di Manny. Forse mi sto sbagliando. Forse non ha alcuna... Aspetta. ... tutti chiusi... Ci sono. «Ascolti» riprendo «Manny era chiuso anche cinque settimane fa? Quando quell'uomo è annegato?» «Sì.» «Voglio dire, era chiuso quando... be', quando l'uomo che è morto e i suoi amici hanno noleggiato la barca?» «Sì.» Rivedo il lieve sorrisetto. Siamo finalmente arrivati al punto in cui il mio nuovo amico si aspettava che arrivassimo fin dall'istante in cui mi ha visto sbirciare alla finestra di Manny. «E allora cos'è successo? Ha aperto apposta per loro?» «Da quello che ho saputo, gli hanno dato un sacco di soldi. Sono andati in macchina a casa sua - Manny abita da quella parte - che sarà stato mezzogiorno. Gli hanno detto che avevano bisogno di una delle barche e gli hanno promesso una bella cifra per aprire il negozio apposta per loro. E lui l'ha fatto.» «Per quale ragione sono andati a casa sua?» «Perché il negozio era chiuso.» Oh, questi isolani! «No, voglio dire, come facevano a sapere dove abitava?» «Ah. Be', da quello che ho saputo, uno di loro viene qui ogni estate ed è un cliente di Manny.» Questa, finalmente, è una notizia. «Sa quale dei due?» «Da quello che ho saputo era quello alto, quello che somiglia a lei.»
«A me?» «Sì, a lei.» Il sorriso è ampio. «Un nero.» Il tragitto da Menemsha a Oak Bluffs è troppo lungo e noioso perfino in alta stagione, caratterizzato da chilometri di fitti alberi intervallati di tanto in tanto da vialetti sterrati, di solito accompagnati da malconce cassette delle lettere e nuovissimi cartelli con la scritta VIETATO L'ACCESSO. In inverno gli alberi sono considerevolmente meno folti, il panorama più marrone che verde e il viaggio in se stesso diventa ancora più triste e solitario. In questa stagione si possono scorgere molte delle case normalmente nascoste nei boschi, vuote e sigillate, facile bersaglio degli scassinatori o dei vandali, se non fosse per i sofisticati sistemi di allarme che fanno accorrere la piccola ma efficiente forza di polizia dell'isola. Non che il nostro allarme fosse riuscito a proteggere Vinerd Howse dall'invasione del defunto signor Scott. L'allarme di mio padre, mi correggo in silenzio; se non altro in quel momento, visto che l'effrazione si è verificata prima che io e Kimmer prendessimo possesso della casa. Aspetta. L'allarme di mio padre. Faccio un altro piccolo nodo al fazzoletto della memoria, sapendo di essere molto vicino a un indizio importante che non riuscirò mai ad afferrare di proposito, ma sicuro che mi verrà in mente se mi costringerò a pensare ad altro. E così presto attenzione al panorama, anche se non è particolarmente suggestivo. Il cielo è una miseria di grigio. Alberi nudi sfrecciano accanto all'auto come un esercito di scheletri a passo di corsa. E Meadows mi ha fornito un'informazione errata, mentendo lei stessa oppure riferendomi una menzogna. Mi ha detto che i compagni di gita di Scott erano bianchi. Il mio nuovo amico, il quale non ha nulla da guadagnare dall'inventarsi storielle, sostiene che uno di loro fosse nero. Immagini in movimento sullo schermo della mia immaginazione: una misteriosa disputa fra l'uomo il cui nome non era McDermott e l'uomo il cui nome non è presumibilmente Foreman, uno scontro a bordo della barca, il terzo uomo - chiunque esso sia che prende le difese di Foreman e Scott che finisce in mare. E quale oggetto di dissenso potrebbe portare all'omicidio? Le disposizioni, naturalmente. Qualcosa che mio padre possedeva, o che aveva organizzato, ha messo
una tale paura a qualcuno da portarlo, sia esso un uomo, una donna, un gruppo o chissà cosa, a uccidere per... No, no, no, è troppo, sto cominciando a ragionare come Mariah. Inoltre, uno sconosciuto mi ha telefonato nel mezzo della notte per dirmi che la mia famiglia e io siamo al sicuro. Forse il povero Colin Scott non ha ottenuto la stessa garanzia. D'altra parte, mio padre era evidentemente preoccupato per qualcosa. Possedeva una pistola. E aveva un istruttore. Si esercitava al poligono. Scuoto il capo mentre la solitudine invernale di North Road mi incalza. Incontro una manciata di risoluti ciclisti vestiti con maglie dai colori vivaci, poi due vigorose donne a cavallo, perfino un paio di automobili che procedono nella direzione opposta, ma fondamentalmente ho la strada tutta per me. E poi non più. Alle mie spalle si sta avvicinando a gran velocità una sorta di fuoristrada grosso e minaccioso, blu scuro e con i finestrini oscurati. Una Chevy Suburban, noto mentre mi si fa sotto rombando. Potrei averla già vista a Menemsha, o forse no. Mi è arrivata fastidiosamente vicino. Detesto quando un altro veicolo mi tallona, ma in questo tratto di strada è vietato il sorpasso e così non posso farci nulla. Cerco di accelerare, sfiorando i cento chilometri orari sulla strada piena di curve, ma il conducente della Suburban non molla. Provo a rallentare, ma lui fa ragliare il suo clacson irritato e mi lampeggia. «Cosa vuoi che faccia?» borbotto come si fa con gli altri automobilisti malgrado non ci possano udire e proprio per questo inconsciamente sollevati. Decido di accostare e lasciar passare l'idiota. Il problema è che la strada non ha una banchina per la sosta, e così devo aspettare una svolta. Rallento, perché nel caso ci fosse un incrocio non voglio farmelo sfuggire. La Suburban lampeggia di nuovo ma continua a incalzarmi. Per ragioni che non riesco a spiegare, mi sento scivolare dall'irritazione nella paura, anche se sarei molto più spaventato se l'auto alle mie spalle fosse una berlina verde. Forse sto diventando troppo guardingo, una conseguenza del pestaggio che ho subito. Noto un paio di grossi stagni sulla destra della strada e capisco che sono arrivato a West Tisbury, la sede della fiera agricola estiva dell'isola in cui Abby vinse tutti quei premi un milione di anni fa, quando tutti erano ancora vivi. Il pensiero della mia sorellina risveglia in me l'immagine di un vio-
lento incidente, e il desiderio, forse irrazionale, di sbarazzarmi della Suburban. Cerco di rammentare la geografia dell'isola. In questo periodo dell'anno gran parte del traffico è diretto verso sinistra, in direzione di Vineyard Haven. Lo stesso farà la Suburban, mi dico, sempre che non mi stia seguendo. C'è soltanto un modo per scoprirlo. Davanti a me si profila una brusca svolta a destra: la South Road, che potrei percorrere fino all'Edgartown Road, dove una svolta a sinistra mi porterebbe verso l'aeroporto e infine Edgartown... una zona popolosa dell'isola. E ciò che bramo all'improvviso è la gente. Vedo l'incrocio davanti a me. Accelero mettendo la freccia a sinistra, ma all'ultimo istante svolto bruscamente sulla South Road. La coda della Camry sbanda, le ruote anteriori si lamentano, ma poi l'auto si riassesta. Dietro di me, la grossa Suburban replica la mia manovra con sprezzante facilità. Per un istante di follia, nella mia mente danzano visioni del corpo mutilato di Freeman Bishop. E di Colin Scott, scaraventato in mare da una barca. Poi mi rammento che sono a Martha's Vineyard, per l'amor del cielo, dove passo ogni estate da più di trent'anni. Forse il leviatano alle mie spalle è soltanto un automobilista maleducato, e non... be', qualsiasi cosa io tema che sia. Due minuti dopo, con la Suburban ancora dietro, sfreccio davanti al gruppetto di negozi e case che segna il centro di West Tisbury, ma in strada non c'è nessuno. Il sole sta tramontando, gli alberi proiettano ombre lunghe e tristi e la cittadina deserta sembra un set cinematografico. Svolto a sinistra sull'Edgartown Road, e il fuoristrada si tiene a qualche decina di metri di distanza. Gli alberi tornano a farsi vicini su entrambi i lati della strada. Il pomeriggio diviene all'improvviso più buio: forse si sta preparando una tempesta. La Suburban continua a tallonarmi. Non so di preciso quanto manchi all'aeroporto. Cinque chilometri, forse sei. L'aeroporto di Martha's Vineyard è minuscolo, ma lì ci sarà di certo qualcuno, e qualcuno è quello che ci vuole al momento. L'aeroporto, dunque, è il mio nuovo obiettivo. Non ci arriverò mai. Mentre supero un dosso, la Suburban si riavvicina con un rombo fino a portarsi a poche decine di centimetri dal mio paraurti. La strada sprofonda in una gola, nascondendoci entrambi alla vista in tutt'e due le direzioni, ed è a questo punto che l'irritazione mi fa commette-
re un errore. Cercando di provare che non mi lascerò intimidire, nonché per evitare di uscire di strada quando arriverò a fondo valle, rallento ulteriormente fino a far scendere la lancetta del tachimetro sotto i trenta orari. La Suburban mi colpisce da tergo. Non è una botta forte, ma è sufficiente a darmi una sferzata al collo. Quando la mia testa torna a scattare in avanti, i denti mi si chiudono sulla lingua. L'istinto mi fa premere il freno, la Suburban tocca di nuovo la mia auto ma questa volta di sghimbescio, facendomi sbandare e slittare sulle ruote anteriori quasi stesse cercando di farmi uscire di strada e finire fra gli alberi. Riesco a ricordarmi di assecondare con lo sterzo la sbandata ed evito un testacoda, ma prima di riprendere il controllo percorro altri sei o sette metri, raggiungendo il fondo della piccola valle fra il dosso che ho appena superato e il successivo. La Suburban plana giù dietro di me. Ci fermiamo entrambi sulla strada. Mi concedo un istante per sincerarmi che tutte le parti vitali del mio corpo siano in buone condizioni. Sento un sapore di sangue in bocca. Il collo mi pulsa per il dolore. La paura è scomparsa. Sono furioso, la luce del giorno si sta tingendo di rosso, ma mi costringo a controllare la rabbia, a mantenere la mia garlandiana freddezza, frugando nel cassettino del cruscotto e pensando: "Tamponamento, la colpa è sempre dell'automobilista che segue, e meno male, perché i paraurti sfondati sono costosi, specialmente quelli delle auto di marca straniera, e dove diavolo è finita la documentazione dell'assicurazione?". Il conducente del fuoristrada è già sceso, ed è chino a controllare i danni ai paraurti. Apro la portiera, mi dirigo verso di lui raccomandandomi di mantenere la calma e scopro che è una donna. Non alza nemmeno gli occhi, e io mi ritrovo a guardare una donna molto alta con un cappotto di cachemire giallo. Noto per la prima volta che è un membro della nazione più scura, fatto che, per qualche bizzarro scherzo della psicologia razziale, arriva addirittura a rassicurarmi. Il semiotico che è in me prova un fugace interesse per la simbologia del fenomeno, ma lo metto a tacere. «Mi scusi» dico con meno forza di quella che intendevo: non mi è mai stato facile fare il duro con le donne. «Ehi» aggiungo quando vengo ignorato. E all'improvviso vedo la familiare chioma di ricci orrendamente stirati. La conducente della Suburban si raddrizza, si gira lentamente nella mia
direzione e mi scocca un sorriso a trentadue denti mentre io la fisso a bocca aperta. «Ciao, bellezza» dice la pattinatrice. «Dobbiamo smetterla di vederci così.» 33 UN'UTILE CHIACCHIERATA A quanto pare la pattinatrice ha un nome ma non un cognome, poiché Maxine è tutto quello che è disposta a rivelarmi. Ha anche prenotato un tavolo per due in una confortevole locanda che non ho mai sentito nominare in fondo a una delle tortuose stradine laterali di Vineyard Haven. Non riesco a trovare alcuna buona ragione per declinare il suo invito, soprattutto perché non faccio alcuno sforzo. E così Maxine fa strada con la Suburban, che non sembra danneggiata dalla collisione, e io la seguo con la Camry, il cui paraurti posteriore è semidistrutto. Vineyard Haven è il nome comune ma ufficioso della cittadina di Tisbury, oppure è il contrario... più di trenta estati sull'isola e ancora non riesco a ricordarmene. La parola "pittoresco" tende a essere abusata, soprattutto nel descrivere le cittadine costiere del New England, ma i vicoli stretti e accuratamente aggrovigliati di Vineyard Haven, fiancheggiati da minuscole casette di assicelle bianche, negozi e chiese, meritano effettivamente il complimento. Sembra un set cinematografico, tranne che nessun regista oserebbe mai creare un luogo così allegro, così traboccante di energia, tra magnifici alberi frondosi e meravigliose vedute dell'oceano da... be', quasi da ogni punto. Normalmente una gita a Tisbury mi induce al sorriso, tanto questo luogo è spudoratamente perfetto. Ma oggi, mentre trascino il mio paraurti lungo Main Street, sono troppo occupato a domandarmi cosa sta succedendo. Suppongo di essere sul punto di scoprirlo. «Mi dispiace per la tua macchina» mormora Maxine non appena ci sediamo. La sala da pranzo ha soltanto una dozzina di tavoli, affacciati su un tetro sagrato, sui tetti delle case ai piedi della collina e sull'inevitabile mare azzurro al di là. Sono tutti vuoti. «Non quanto dispiace a me.» «Su, bellezza, non esagerare.» Esibisce lo stesso sorriso contagioso che mi ha rivolto alla pista di pattinaggio il giorno successivo al funerale del Giudice. Indossa una tuta mar-
rone e una sciarpa multicolore, abiti disinvolti quanto la sua acconciatura. Mi rendo conto che ora che ha un nome mi piace molto più di prima, anche se mi aspetto di scoprire presto che Maxine, come quasi tutti coloro che ho incontrato dopo la morte di mio padre, possiede tanti nomi quanti gliene occorrono. «Vorrei che la smettessi di chiamarmi così» borbotto, rifiutando di lasciarmi catturare. «E perché? Tu sei bello.» Ma in realtà non lo sono. «Perché sono sposato.» Maxine gonfia le guance con aria divertita ma lascia correre, piccola misericordia di cui le sono grato. Di solito odio uscire con donne che non siano mia moglie, per il sacro terrore che qualcuno possa vederci insieme e giungere alla conclusione sbagliata. Tengo in gran conto la mia reputazione di uomo fedele, e credo nell'idea antiquata che gli adulti abbiano la responsabilità di mantenere i propri impegni, cosa che ho imparato tanto da mia madre quanto dal Giudice. Eppure, standomene qui seduto con la misteriosa Maxine, mi scopro incapace di preoccuparmi che qualcuno ci possa scambiare per una coppietta. Ed è per questo che devo procedere con i piedi di piombo. «Bene, se non posso chiamarti bellezza» sospira lei «come preferiresti che ti chiamassi?» Non desidero alcuna intimità con questa donna. O meglio, ciò che desidero non è pertinente, dato che sono sposato. «Vista la differenza di età, forse dovresti chiamarmi professor Garland, oppure signor Garland.» «Puah.» «Come?» «Ho detto puah, professor Garland.» Ostenta quelle sue fossette. «E poi, non sei molto più vecchio di me.» Sorride. Sono tentato di ricambiare il sorriso. «Perché mi stai seguendo?» chiedo, cercando di restare in carreggiata. «Nel caso cambiassi idea su quella lezione di pattinaggio.» Lei ride, io no. «Dico sul serio, Maxine. Devo sapere cosa sta succedendo.» «Prima o poi lo capirai.» Il suo volto largo e vivace è coperto dal menu. «Ho sentito dire che i tortini di granchio sono i migliori dell'isola» aggiunge mentre il cameriere si avvicina. Ma la metà dei ristoranti del luogo sostiene la stessa cosa. Ciò nonostante li ordiniamo entrambi, così come il riso, l'insalata della
casa e l'acqua minerale che stiamo già sorseggiando. Non so bene chi dei due stia imitando l'altro, ma vorrei che la smettesse. «Maxine» le domando non appena il cameriere si è allontanato «che cosa ci facciamo qui?» «Stiamo pranzando.» «Perché?» «Perché dobbiamo parlare, bellezza. Scusa, scusa, voglio dire, professor Garland. No, Misha. Oppure Talcott. Tal, non è così che ti chiamano? A proposito, non ti ha mai detto nessuno che hai una marea di nomi?» Un'altra risata. Maxine, qualunque sia il numero dei suoi, è una compagnia fin troppo piacevole. Resto all'erta. «E così, hai pensato di investirmi per poter fare due chiacchiere?» Ancora quel suo sorriso spensierato. «Be', ho attirato la tua attenzione, no? Ah, già, prima che me ne dimentichi.» Maxine apre l'ampia borsa marrone, e anche se i miei occhi stanchi potrebbero ingannarmi sono alquanto sicuro di scorgere una pistola in una fondina prima che lei estragga una busta e richiuda la borsa. Ancora sorridendo, getta la busta sul tavolo. È alta quanto una guida telefonica. «Ecco qui.» «Che cosa sarebbe?» Non ho alcun desiderio di toccarla, non ancora. «Be', ti ho sfondato il paraurti, e non posso certo darti gli estremi della mia assicurazione.» Scuotendo il capo per l'irrealtà del momento, prendo la busta e sbircio all'interno. Vedo una mazzetta di biglietti da cento dollari. Sono tanti, e nemmeno nuovi. «Quanti sono?» «Ehm, venticinquemila dollari, credo.» Maxine non riesce a essere indifferente come vorrebbe. «Più o meno. Quasi tutti da cento.» Un altro sorriso da folletto. «So che le riparazioni a un'auto straniera possono essere costose.» Lascio ricadere il denaro sul tavolo. Sta succedendo qualcosa di veramente strano. «Venticinque... mila?» «Perché, non bastano?» «Maxine, potrei venderti tutta la macchina per un decimo di questa cifra.» «Non voglio la tua macchina.» Mi ha volontariamente frainteso. Picchietta con un dito sulla busta. Le sue unghie non dipinte sono tagliate molto corte. «Io ho già una macchina. Prendi i soldi, tesoro.»
Scuoto la testa, lasciando il denaro al suo posto. «Per cosa sono, in realtà?» «Per i danni, bellezza. Prendili.» Maxine inclina la testa su una spalla. «Fra l'altro, non sai mai quando potresti aver bisogno di un po' di liquidi in più.» Qualcuno è ovviamente al corrente dei nostri debiti, e ciò mi infastidisce. «Maxine... di chi è questo denaro?» «È tuo, sciocco.» Oh, se sa come sorridere! Mi sforzo di mantenere il controllo. «Voglio dire, dove l'hai preso?» «Dalla mia borsa» dice indicandola. «E come ci è arrivato?» «Ce l'ho messo io. Pensi forse che mi lasci infilare le mani nella borsa da chiunque?» Esito, ripetendomi ciò che ho imparato negli anni in cui facevo l'avvocato. Nel corso di una deposizione, formulare con cura le domande. A molte dovrebbe essere possibile rispondere con un semplice sì o no. Condurre la testimone verso il punto desiderato attraverso i suoi sì. «Qualcuno ti ha dato questi soldi, giusto?» «Giusto.» «Te li ha dati perché tu li consegnassi a me?» «Forse.» Maxine sta rispondendo in modo scherzoso ma non circospetto; la cosa non mi sorprende, visto che non ho alcun mezzo per costringerla a parlare. «Chi è stato a darti il denaro?» «Preferirei non dirlo.» Ma con un gran sorriso per rendersi affabile. «È stato Jack Ziegler?» «No. Mi dispiace.» Rifletto, osservandola sorseggiare la sua Perrier. «La persona che ti ha dato il denaro ti ha spiegato il suo vero scopo?» «Mmh-mmh.» «E qual è?» «La tua auto.» Maxine indica fuori dalla finestra. «Nel caso le fosse successo qualcosa.» E va bene, lo ammetto, non sono mai stato un grande avvocato. Forse è per questo che sono diventato un docente di legge. «Hai sempre avuto in programma di investirmi?»
«Be', sì. Probabilmente. Certo, avrei potuto farlo in modo più delicato.» Scrolla le spalle, un movimento significativo per una donna alta un metro e ottanta, forse per farmi capire che in lei non c'è alcunché di delicato. «Insomma, sai cosa dicono. Gli incidenti possono far incontrare le persone, giusto?» Inclina la testa sul lato opposto e batte le ciglia. Sta recitando, ma non senza efficacia. «Certo, è così che faccio nuove conoscenze. Tampono le loro auto e poi li porto fuori a pranzo.» «Be', ha funzionato.» D'accordo, sono ancora un uomo sposato, il mistero è ancora troppo fitto e abbiamo già civettato a sufficienza. Mi allungo sul tavolo. «Maxine, sono sciocchezze e tu lo sai. Devo sapere cosa sta succedendo. Devo sapere chi sei. Devo sapere cosa sei.» «Cosa sono?» Le brillano gli occhi. «Tu cosa credi che sia?» «Sei qualcuno che... che continua a sbucare fuori. È come se tu sapessi dove sto andando ancora prima di me.» Mi porto una forchettata di insalata alla bocca, mastico, deglutisco. «Per esempio, mi stavi aspettando alla pista di pattinaggio.» «Forse.» «Be', eri già lì. Vorrei tanto che mi dicessi come facevi a sapere che ci sarei andato.» Mi viene in mente un'idea orribile. «Avete messo delle cimici in casa di mio padre?» Maxine risponde senza fretta. «Forse non ti ho preceduto alla pista. Forse mi sono soltanto infilata i pattini prima di te.» Stacca un piccolo boccone da un grissino. «Pensaci. Da quanto tempo eri arrivato quando mi hai vista? Venti minuti? Mezz'ora? Il tempo sufficiente per venirti dietro, noleggiare un paio di pattini e mescolarmi alla folla.» «Allora mi avevi seguito?» Con mia sorpresa, mi dà quella che interpreto come una risposta sincera. «Certo. Sei alquanto facile da seguire.» Questo mi irrita, per chissà quale ragione. Ma soltanto per poco. «Dovresti saperlo. In novembre mi hai seguito - hai seguito me e la mia famiglia - fino a Martha's Vineyard. E poi a Washington.» «Non troppo bene.» Scoppia a ridere, e questa volta gli angoli delle mie labbra si contraggono. «Ti ho perso di vista sul Dupont Circle. Bella mossa, quella del taxi. Se non riesco a fare di meglio, perderò il lavoro.» Una breccia abbastanza larga perché ci passi un camion. E aperta appositamente, non ho alcun dubbio, perché io mi ci infili.
«Qual è di preciso il tuo lavoro?» L'allegria scompare dal volto di Maxine, ma i suoi occhi sono vigili e appassionati. «Persuaderti» risponde. «Persuadermi di cosa?» Esita, e riesco a capire che il suo gioco era esattamente arrivare a questo punto. «Prima o poi scoprirai quali sono le disposizioni di tuo padre. Quando lo farai, il mio compito è convincerti a darci quello che hai trovato.» «Ma voi chi siete?» «Siamo i buoni, in un certo senso. Voglio dire, non i buonissimi, non siamo dei santi o cose del genere, ma siamo meglio di altra gente.» «Sì, ma chi siete?» «Diciamo che siamo... una parte interessata.» «Una parte interessata? Interessata a cosa?» Risponde a una domanda leggermente diversa. «Qualsiasi cosa farai con le disposizioni, non darle a tuo zio Jack. Nelle sue mani diventerebbero un'arma. Sarebbero pericolose. Nelle nostre scompariranno, e saranno tutti felici e contenti.» Maxine aveva ragione. I tortini di granchio sono deliziosi; lo chef è riuscito a mantenerli friabili e leggeri eliminando quel sapore di pesce che è il segno inconfondibile di una cottura insufficiente. La salsa è saporita ma non aggressiva. Come contorno ci sono lunghi cunei di patate al forno che inducono l'occhio, ma non il palato, a credere che siano fritti. Il cameriere è disponibile e presente quando c'è bisogno di lui senza essere invadente, e non sembra sentire il bisogno di dirci come si chiama. In breve, è un ottimo locale. Ce ne sono molti a Martha's Vineyard, alcuni, come questo, nascosti nelle stradine laterali, lontani da Oak Bluffs e da Edgartown, conosciuti principalmente dai ricchi che possiedono seconde case nelle zone lussuose dell'isola ma invisibili ai turisti e, cosa altrettanto importante, alle guide turistiche. Maxine e io stiamo improbabilmente parlando delle nostre rispettive infanzie. La busta piena di denaro è tornata a scomparire nella sua borsa senza fondo come un gioco di prestigio. Finora Maxine si è rifiutata di aggiungere altro alla sua breve dichiarazione di intenti nei miei confronti, rispondendo ai miei affondi dialettici con un sorriso cordiale e una risata contagiosa. Ciò nonostante, a differenza dei miei sforzi altrettanto inutili di cavare qualche informazione dal defunto signor Scott, quello che provo al momento è soprattutto una sensazione di giocosità, e forse qualcosa di più.
Mi sto divertendo, con questa donna misteriosa, molto più di quanto sarebbe lecito a un uomo sposato, soprattutto tenendo conto del fatto che lei mi ha tamponato per attirare la mia attenzione, che ha cercato di corrompermi, che porta una pistola nella borsa a tracolla e che si trovava sull'isola quando l'altro mio pedinatore, Colin Scott, è finito in mare. «Già al liceo ero più alta di quasi tutti i ragazzi» sta raccontando Maxine «e così non avevo molti corteggiatori. Agli uomini non piacciono le ragazze più alte di loro.» Incoraggia un complimento che scelgo di non elargire, e così prosegue. Rivela di essere figlia di professori universitari che insegnavano in un vecchio college del Sud. Si rifiuta di specificare quale. «E così sono stata lieta di ottenere un incarico che riguardava un accademico.» «Sono un incarico?» «Be', Misha, non sei un intrallazzo.» Usa di nuovo il mio soprannome. Poi mi sorprende chiedendomi da dove viene, e io mi sorprendo a rivelarglielo. Non è una storia di cui parlo spesso, ma ora lo sto facendo. Le racconto come i miei genitori, nella loro saggezza, mi avessero chiamato Talcott, il nome del mio nonno materno. E come io avessi cambiato il mio nome a causa degli scacchi. Mio padre mi insegnò a giocare durante una lontana estate a Martha's Vineyard. Ci provò con tutti noi, sostenendo che avrebbe sviluppato le nostre menti, ma gli altri figli erano meno interessati, probabilmente perché erano già in piena fase di ribellione. Gli scacchi erano una delle poche cose che io e il Giudice avevamo in comune quando ero bambino, e forse anche quando sono cresciuto; poiché non sembravamo mai essere troppo d'accordo su nient'altro. Non ricordo che età avessi di preciso al momento della prima lezione, ma ricordo l'evento che mi fece guadagnare un nuovo nome. Stavo giocando a scacchi con mio fratello sulla scricchiolante veranda di Vinerd Howse quando lo zio Derek, il grande comunista che mio padre giunse praticamente a rinnegare durante le udienze, uscì di casa barcollando in preda all'alcol, riparandosi gli occhi velati con le dita carnose macchiate dal giallo del tabacco. Il Giudice rimproverava Derek per la sua debolezza senza rendersi conto che la stessa propensione all'alcolismo, forse ereditaria, avrebbe preso al laccio anche lui in un momento di depressione. E lo zio Derek, che ormai aveva perso ogni entusiasmo per la creazione di un movimento rivoluzionario fra i lavoratori americani, era terribilmente triste, come potevamo capire dagli sguardi preoccupati di sua moglie Thera. On-
deggiando sulle gambe, mio zio abbassò gli occhi sulla scacchiera. Malgrado la differenza di età, io ero in netto vantaggio su Addison: gli scacchi erano l'unico campo in cui riuscivo di solito ad avere la meglio su di lui. Lo zio Derek ci guardò socchiudendo gli occhi, gonfiò le guance esalando fumi alcolici abbastanza forti da farci girare la testa, fece un sorriso sgradevole e borbottò: "Allora, sei diventato Mikhail Tal". Il mago lettone Mikhail Tal era stato, per il più breve dei momenti storici, campione del mondo di scacchi, e lo zio Derek era stato per quasi tutta la sua esistenza un ammiratore di tutto ciò che era sovietico, e di conseguenza un costante motivo di imbarazzo per mio padre. Ma Addison e io non sapevamo nulla del mondo internazionale degli scacchi, e di certo non avevamo mai sentito parlare del grande Tal. Ci guardammo in preda alla confusione. Avevamo sempre un po' paura dello zio Derek, e mio padre, convinto che fosse pazzo, avrebbe preferito non avere alcun contatto con lui; ma mia madre, che credeva nella famiglia, insisteva. "No" aggiunse mio zio socchiudendo gli occhi alla luce del sole. "No, non Mikhail, solo Misha. È così che i russi chiamano Tal. Sei un ragazzino, dunque il tuo nome sarà Misha." Rise, un verso sgradevole e liquido accompagnato da un gorgoglio nel profondo del petto, poiché era già malato, anche se avrebbe resistito qualche altro anno in condizioni sempre peggiori. Avanzò trascinando i piedi fino al bordo della veranda in preda a un attacco di tosse, il timbro della quale era denso e umido, disgustoso per le mie orecchie infantili, poiché ci vogliono molti anni su questa terra per imparare che ciò che è veramente umano non è mai veramente disgustoso. Avrei lasciato perdere il soprannome, ma Addison, che odiava gli scacchi, ne apprezzò il suono e cominciò a chiamarmi Misha, specialmente quando scoprì quanto mi desse fastidio; e lo stesso fecero i suoi numerosi amici. Imparai ad amare il soprannome per reazione. Giunto al college, era raro che mi riconoscessi in qualsiasi altro appellativo. «Ma molti continuano a chiamarti Tal» dice la pattinatrice quando concludo il racconto. «Riservi il nome Misha per... mmh, per gli amici più intimi.» «Che cosa avete, un dossier su di me?» «Qualcosa del genere.» «In qualità di buoni ma non di buonissimi?» Annuisce, e stavolta rido insieme a lei, con naturalezza, non perché quello che abbiamo detto sia particolarmente divertente ma perché è la situazione stessa a essere assurda.
Il cameriere è tornato. Le ordinazioni del dolce ci tengono occupati: pêches ninon per la signora, gelato alla vaniglia per il signore. Il cameriere annuisce alla richiesta di Maxine, aggrotta la fronte alla mia. Maxine fa un sorriso da cospiratrice, come per dire: "So riconoscere un imbranato, ma tu mi piaci così come sei". Forse il suo sorriso non significa tutto questo, ma io arrossisco comunque. Riprendiamo a parlare. Da salace, l'espressione di Maxine diviene malinconicamente solidale. Mi ha condotto chissà come alla sera della morte di Abby, e io sto rivivendo il terribile istante in cui la mia elegante madre rispose al telefono in cucina con mano tremante, liberò quell'orribile gemito e si afflosciò contro la parete. Le racconto come mi fermai nell'atrio, sbirciando oltre la porta della cucina, osservando mia madre che piangeva, troppo terrorizzato per confortarla, poiché anche Claire Garland, come suo marito, favoriva una certa distanza emozionale. Nella mia vita adulta l'ho confidato soltanto a Kimmer e in modo meno dettagliato a Dana e Eddie, anni fa, quando erano ancora sposati e Kimmer e io eravamo ancora felici. L'ho raccontato a malapena a me stesso. Sono sorpreso, e un po' infastidito, nell'avvertire un groppo in gola e un velo di lacrime sulle guance. Stiamo camminando insieme, una piacevole passeggiata nell'aria fresca di una serata invernale a Martha's Vineyard. Stiamo bighellonando sul lungomare deserto di Oak Bluffs proprio come una coppietta felice, oltrepassando le darsene vuote di fronte al Wesley Hotel, un aggraziato mastodonte vittoriano costruito sulle ceneri di un altro albergo con lo stesso nome che era andato distrutto in un incendio. L'acqua calma di gennaio lambisce delicatamente la diga marittima. Qualche pedone ci incrocia diretto verso la città, ma il porto, come il resto dell'isola nella bassa stagione, ha l'aspetto di un dipinto incompleto. «Non posso rivelarti tutto, Misha» dice Maxine mentre la borsa, completa di pistola, le dondola allegramente dalla spalla. Il suo braccio è infilato sotto il mio. Sono sicuro che se provassi a prenderla per mano mi lascerebbe fare. «Raccontami quello che puoi.» «È più semplice che tu mi dica cosa pensi. Potrei farti capire se sei sulla strada giusta oppure no. E forse a quello che non posso dirti potresti arrivarci da solo.» Rifletto sulla sua proposta mentre camminiamo. Dopo cena, nel parcheggio, ci siamo trattenuti un po' troppo vicini l'uno all'altra, condividen-
do quella strana riluttanza a separarsi che caratterizza i nuovi amanti e coloro che si guadagnano da vivere pedinando il prossimo. È stata Maxine a suggerire che venissimo a Oak Bluffs, anche se non vuole dirmi dove alloggia. E così siamo partiti, la Suburban ancora una volta dietro di me, passando dal porto di Vineyard Haven, superando la collina che separa le due cittadine e scendendo di nuovo fino in centro. Abbiamo parcheggiato sul lungomare, di fronte al Wesley. Non ho alcun dubbio che Maxine sappia perfettamente dove abito, ma non voglio che si avvicini a Vinerd Howse. Chiamatelo pure un eccesso di cautela coniugale. «Allora, bellezza?» mi punzecchia lei. «Si comincia o no?» «Okay.» Faccio un respiro. Con il buio, l'aria si è fatta gelida. «Tanto per cominciare, credo che mio padre fosse coinvolto in... qualcosa in cui non avrebbe dovuto essere coinvolto.» Arrischio un'occhiata a Maxine, ma lei sta fissando il mare. «E che abbia fatto sì che alla sua morte io ricevessi alcune informazioni in merito. O che qualcuno lo pensi.» «Sono d'accordo» dice lei in tono sommesso, e per la prima volta dall'inizio di questa folle ricerca possiedo un dato di fatto. «Penso che Colin Scott stesse cercando queste informazioni. Credo che mi seguisse perché sperava che trovassi... le disposizioni di mio padre.» «Sono d'accordo.» Proseguiamo a camminare verso East Chop, un ampio affioramento roccioso costellato di case più in stile Cape Cod che vittoriano, molte delle quali sono appollaiate sugli alti promontori a picco sul mare e sono considerevolmente più costose delle case più vicine al paese. Kimmer e io ci eravamo innamorati di una magnifica casa in questa zona, tre grandi camere da letto e un giardino posteriore che dava sulla spiaggia, ma non avevamo i due milioni di dollari per comprarla. Forse è meglio così, visto cosa ci è successo in questi anni. «Ci sono altri interessati alle disposizioni» suggerisco. «Sono d'accordo» mormora Maxine, ma quando insisto rifiuta di scendere nei dettagli. Fisso East Chop Drive, che porta al vecchio faro e a quelle che un tempo erano chiamate le Highlands. Ai piedi della scogliera c'è uno stabilimento balneare privato. Nel mezzo del Chop c'è un tennis club privato. East Chop, con tutta la sua fresca bellezza da New England, ha un aspetto più "pallido" rispetto al resto di Oak Bluffs. Non molti dei suoi residenti estivi sembrano sapere che un tempo era il cuore della colonia nera dell'isola.
«Colin Scott conosceva mio padre.» «Sono d'accordo.» «Lavorava per mio padre. Mio padre... l'aveva pagato per fare qualcosa.» Silenzio. Rimango deluso: per l'ultima volta stavo cercando la conferma che Colin Scott e Jonathan Villard fossero la stessa persona, il che spiegherebbe la presenza di Scott nell'atrio di Shepard Street e il suo litigio con mio padre. Ma evidentemente non è così. Esito, quindi cambio linea di condotta. «Voi sapete cosa mi ha lasciato mio padre?» «No.» «Ma in qualche modo conoscete gli... indizi.» «Sì. Ma non siamo sicuri di cosa significhino.» Cerco di pensare a un'altra domanda. Siamo arrivati in un piccolo parco di erba scura. East Chop si erge davanti a noi, il centro di Oak Bluffs è alla nostra destra. Di tanto in tanto un'auto passa su East Chop Drive, che separa il parco dal porto. «Quest'isola è una delizia» dice inaspettatamente Maxine stringendomi con delicatezza il braccio con entrambe le mani e guardando l'acqua che scintilla in lontananza. «Lo penso anch'io.» «Da quant'è che ci vieni, trent'anni? Non riesco a immaginare... voglio dire, noi non eravamo così ricchi.» «Ci siamo sempre venuti soltanto d'estate» spiego, chiedendomi se Maxine si renda conto della differenza. «E ai vecchi tempi non era così costosa.» «Ma la tua era una famiglia ricca.» «Appartenevamo al ceto medio. Ma anche voi. I tuoi genitori erano professori.» «Non sono mai stati pagati troppo. E poi mio padre era quello che definiresti un grosso giocatore d'azzardo. Solo che non era particolarmente bravo.» «Mi dispiace.» «Non devi dispiacerti. Ci voleva bene. Vivevamo in una vecchia, grande casa sul campus con circa cinque cani e dieci gatti. A volte avevamo anche degli uccelli. I nostri genitori adoravano gli animali domestici. E, come ho detto, ci volevano bene.»
«Ci?» Maxine arriccia il naso. «Quattro fratelli e una sorella, ficcanaso. Io sono la più piccola e la più alta.» «Quella che non aveva corteggiatori.» «Be', non avevo una macchina tutta mia, e non potevo tamponare nessuno.» Non è una gran battuta, ma ridiamo entrambi. Una pausa complice nella quale guardiamo insieme il mare. Uno yacht, visione inaspettata in questo periodo dell'anno, sta uscendo dal porto troppo in fretta, ma i proprietari di barche a motore sono fatti così. Sono poche le case in cui brilla una luce. Quasi tutte sono chiuse per la stagione. La tempesta incombente non è mai arrivata, e il cielo della sera è sereno, freddo e perfetto. Il bisogno di stringere Maxine fra le braccia mi si sta insinuando nel profondo fin dal pomeriggio, e d'un tratto diventa fortissimo. Lo dissimulo con una raffica di domande senza senso. «Non hai un accento marcato, per una che viene dal Sud.» «Oh.» Lei annuisce senza voltarsi. «Ho studiato anche in Francia, e credo di aver già detto abbastanza, grazie.» A suggerire la necessità di cambiare argomento. Mi sento come un gigolo incompetente a un cocktail. «Come sei finita a fare questo lavoro?» Maxine mi guarda un'altra volta con la coda dell'occhio. «Quale lavoro?» «Hai capito. Seguire il prossimo.» Scrolla le spalle e mi scocca un'occhiata infastidita, forse perché ho rovinato il momento. A volte i coniugi devono proteggere il matrimonio dai loro stessi istinti più vili. «Ti prego, Misha, non considerarlo un pedinamento. Consideralo un aiuto.» «Un aiuto? E in che modo mi stai aiutando?» Lascia la presa sulla mia giacca e si volta verso di me. «Tanto per cominciare, posso dirti quando c'è qualcun altro che ti segue.» «Qualcun altro? Come Colin Scott, intendi dire?» «Esatto.» Ci rifletto per un istante, poi butto lì l'obiezione più ovvia. «Ma Scott è morto.» «Esatto» conviene Maxine, e poi aggiunge una frase agghiacciante: «Ma non dimenticare che aveva un socio». Torna a scendere il silenzio. Stiamo
tornando verso il Wesley: una decisione inespressa ci ha fatto invertire la rotta in più di un senso. Poi Maxine alza ulteriormente la posta in gioco. «E potrebbero essercene degli altri.» «Altri?» Indica la collina dalla quale proveniamo. «Lo stesso uomo ci è passato davanti in bicicletta due volte mentre eravamo laggiù. Forse è semplicemente salito in cima alla collina e poi è ridisceso. O forse ci stava seguendo. Non c'è modo di saperlo.» Si gira e tende il braccio in direzione di Vineyard Haven. «E parcheggiato a un isolato dal ristorante c'era un minivan Chrysler marrone scuro. In questo momento, un'auto che corrisponde alla stessa descrizione è ferma giù al porto. Non è la stessa, perché la targa è diversa e quella del ristorante aveva un'ammaccatura sul paraurti. Si può cambiare una targa, si possono provocare ammaccature come travestimento, ma è difficile eliminarle così in fretta. Quindi non è la stessa macchina. Ma avrebbe potuto esserlo. Capisci cosa voglio dire? Tu non noterai mai cose simili. Non sei addestrato a farlo. Io sì.» La recita crudelmente dettagliata mi ha stordito. Crede forse di avermi rassicurato? Sposto lo sguardo sul mare, dove lo yacht che ho notato qualche istante prima sta doppiando la punta. È raro trovare barche nel porto di Oak Bluffs nel periodo di chiusura dell'isola, e mi chiedo questa da che parte stia. «Stai dicendo che dovremmo fare squadra?» «Ti sto solo mostrando come posso aiutarti.» «E così mi coprirai le spalle?» Non riesco a ostentare il tono di superiorità che vorrei. «Mi proteggerai dai cattivi?» Maxine non gradisce affatto. Si gira verso di me e mi afferra nuovamente per le spalle con le dita forti. «Misha, stammi a sentire. Molta gente potrebbe essere interessata alle disposizioni lasciate da tuo padre. E non tutti si accontenteranno di tamponarti e portarti fuori a pranzo. Non possono farti del male, ma di sicuro possono metterti paura.» Aspettiamo entrambi che le sue parole facciano presa. «La mia famiglia è in pericolo?» "Giamaica" sto pensando. "Chiama Kimmer, dille di prendere Bentley e andare dai suoi parenti in Giamaica." «No, Misha, no. Credimi, nessuno farà nulla a te o alla tua famiglia. L'ha garantito il signor Ziegler.» «È sufficiente?» «Nel mio mondo, sì.» Lo sapevo, naturalmente, ma prima d'ora non ci avevo mai creduto dav-
vero. Una cosa è leggere sui giornali del potere dello zio Jack, un'altra percepire il suo effetto, un bozzolo protettivo attorno a me e ai miei cari. «Ma, allora, cosa stai cercando di dire?» «Sono le informazioni a essere pericolose, Misha.» La conversazione è tornata al punto di partenza. «Che cadano nelle mani sbagliate: è questo il pericolo.» «Ed è la ragione per cui secondo te dovrei darle a voi, chiunque voi siate, e non a Jack Ziegler.» «Sì.» «Lavori per... per il governo?» Maxine scuote il capo sorridendo. «No, è vero, lavori per i buoni-ma-non-buonissimi.» «Né noi né Jack Ziegler andremo in paradiso. Ma sì, più o meno è così.» «Tranne che tu mi stai pedinando in segreto, mentre lo zio Jack mi protegge.» «Magari ti sta seguendo anche lui. E magari ti sto proteggendo anch'io.» «Non ho notato alcun segno...» «Ricordi come si è comportato al cimitero, Misha? Era il comportamento di una persona disinteressata?» «Al cimitero? Ma tu non eri al cimitero...» «Sì che c'ero.» Maxine sorride, felice di essere ancora in vantaggio. «Ero anche lì, seduta in ultima fila con un gruppo di parenti. Hanno pensato che fossi la cugina di qualcuno.» Il sorriso si oscura leggermente, e all'improvviso avverto la sua stanchezza: è stufa di recitare, stufa di civettare, stufa dell'incarico. «Mi hai perfino abbracciata davanti alla tomba» aggiunge piano. «È stato un bell'abbraccio.» Sono leggermente sorpreso, com'era nelle intenzioni di Maxine. Ma sono anche imperturbabile. «Non mi hai ancora spiegato perché dovrei dare a voi le... informazioni. Sempre che riesca a trovarle.» «Non mi credi sulla parola? Insomma, ti ho offerto i tortini di granchio.» «E mi hai distrutto la macchina.» «Solo il paraurti. E mi sono offerta di ripagarti.» Quando non rispondo, Maxine si ferma e mi afferra un'altra volta per il braccio. Siamo nel parcheggio di un negozietto che vende di tutto, dai cereali per la colazione ai vini pregiati ai sacchetti per la spazzatura. «Ascoltami, Misha. Io non sono il nemico. Devi credermi. Ti ho detto che quelli per cui lavoro non sono dei santi. Non li inviteresti a cena a casa tua. Ma credimi, se metteranno le mani su quello che sa il ragazzo di Angela, qualsiasi cosa sia, lo distruggeranno. Ma se ci arriverà Jack Ziegler,
lo userà. È semplice.» I suoi occhi sembrano brillare nel buio. «Devi tornare e trovare quelle informazioni, Misha. Gli indizi sono tutti lì. È solo che nessun altro li può interpretare. Credo che tuo padre pensasse che tu avresti capito subito chi è il ragazzo di Angela. Tuo padre era un uomo intelligente. Se pensava che tu lo sapessi, vuol dire che lo sai. È solo che non sai di saperlo.» Scuoto il capo per la frustrazione. «Maxine, te lo devo confessare, non ho la minima idea di cosa parlasse mio padre. Credo che abbia commesso un errore.» «Non dirlo! Non dire una cosa simile!» Maxine sembra impaurita, e si guarda intorno quasi temendo che qualcuno ci stia ascoltando. «Tu lo sai. Tuo padre non ha commesso un errore.» Sta quasi gridando mentre mi corregge. Le stacco la mano dal mio polso. «Sono troppo stanco per andare avanti. Credo che... Sto pensando di smettere.» I suoi occhi si spalancano e diventano ancora più preoccupati. «Non puoi fermarti adesso, Misha. Non puoi. Soltanto tu sei in grado di capire le disposizioni. Lo devi fare, Misha. Devi. Per favore.» Per favore? «Capisco.» Mantengo un tono neutrale. Non voglio che Maxine si renda conto che questa improvvisa scivolata nella supplica è più terrificante di qualsiasi altra cosa abbia detto. Ma lei percepisce il mio stato d'animo; glielo leggo nel volto intelligente. E leggo anche che ha deciso di lasciar perdere. «Non credo che ci rivedremo, Misha. O meglio, non credo che tu vedrai me, se svolgerò bene il mio lavoro. Ti osserverò, ma tu non saprai quando. Comportati in modo naturale, e pensa che sono lì per aiutarti.» «Maxine, io...» «Mi dispiace per i soldi» si affretta ad aggiungere. «È stata una mossa maldestra. E offensiva. Non erano per il paraurti. E ne avevo molti altri nella borsa, per ogni evenienza. Ce li ho ancora.» Il suo tono è malinconico. «Per quale evenienza?» «Abbiamo saputo che qualcun altro stava cercando di comprare le disposizioni. Usando la copertura di un compenso per una serie di conferenze, o qualcosa del genere.» Sento un brivido gelido, ma non dico una parola. «Be', avrei dovuto... avrei dovuto corromperti, Misha. Mi dispiace, ma è la verità. Sappiamo che stai attraversando qualche difficoltà economica. E
qualche, ehm, difficoltà domestica. Avrei dovuto corromperti con il denaro o... be', con qualsiasi altro mezzo.» Ora è il suo turno di arrossire, e il mio di provare un'ondata di calore che preferirei tenere a bada. «Corrompermi a quale scopo?» chiedo dopo un istante. Siamo arrivati alle nostre automobili. Maxine estrae le chiavi di tasca e preme un tasto. Le luci di posizione della Suburban lampeggiano, l'antifurto si spegne con un cinguettio e le serrature scattano. Afferro Maxine per un braccio. «Corrompermi a quale scopo, Maxine?» Lei si irrigidisce al mio tocco. All'improvviso è profondamente infelice. Non so se il fatto che tutte le donne che incontro sembrino depresse sia una semplice coincidenza o se la colpa sia mia. «Corrompermi a quale scopo?» domando per la terza volta lasciando ricadere la mano. «Perché dia a voi e non allo zio Jack quello che state cercando, qualsiasi cosa sia?» Maxine ha aperto la portiera e ha posato un piede sul predellino. Mi risponde senza voltarsi. «So che negli ultimi tempi hai avuto delle difficoltà, Misha. So che ti sono successe delle cose che ti hanno spaventato. A questo punto, molti si arrenderebbero. Ci è giunta voce che avresti potuto farlo.» Esita. «Suppongo che il modo migliore di spiegare il mio incarico sia questo: avrei dovuto fare qualsiasi cosa per convincerti a non rinunciare. A continuare la ricerca. Ma non credo che ci sia bisogno di comprarti. Penso che tu sia il tipo che non riesce a mollare. Continuerai a cercarlo perché hai bisogno di farlo.» «A cercare chi?» «Il ragazzo di Angela.» «E poi? Maxine, aspetta. E poi che succede? Se lo trovo e mi dice quello che mio padre voleva che mi dicesse, che cosa devo fare? Supponendo che fra noi ci sia un accordo, come ti comunico le informazioni?» Maxine è ormai seduta al volante del fuoristrada, pronta a chiudermi in faccia la portiera. Ma poi si volta e mi guarda dritto negli occhi. Riesco a distinguere il miscuglio di stanchezza e irritazione, e perfino una punta di tristezza. La giornata non è andata esattamente come aveva previsto. «Prima di tutto, bellezza, devi trovarlo» risponde. «E poi?» «E poi io troverò te. Promesso.» «Aspetta un secondo. Aspetta. Ho esaurito le idee. Non so più dove cercare.»
La pattinatrice scrolla le spalle e gira la chiavetta. Il motore si accende con un ruggito. Maxine torna a guardarmi, e la sua occhiata è schietta e cristallina. «Potresti cominciare da Freeman Bishop.» «Freeman Bishop?» «Credo sia stato uno sbaglio.» «Che vuoi dire? Uno sbaglio? Che genere di sbaglio?» «Del peggior genere, bellezza. Del peggior genere.» Chiude la portiera e ingrana la retromarcia. L'auto si allontana risalendo la collina verso Vineyard Haven. Resto a guardarla finché i fanalini di coda scompaiono oltre la curva. Sono solo. 34 UNA STORIA SI CHIARISCE Il mattino successivo mi sveglio presto, solo a Vinerd Howse, vergognandomi per le ore notturne che ho trascorso a rigirarmi nel letto, incapace di prendere sonno, desiderando una compagnia che non era quella di mia moglie. Indosso la vestaglia ed esco sul piccolo balcone della camera padronale. Le strade sono deserte. Molte delle altre case di Ocean Park sono chiuse per la stagione, ma una o due mostrano segni di vita e un uomo che fa jogging nell'aria frizzante del mattino mi rivolge un cenno allegro. Ricambio il saluto. Sceso in cucina, mi preparo un muffin tostato e mi verso della spremuta: al mio arrivo non ho riempito la dispensa, prevedendo di fermarmi soltanto un giorno o due. Mi porto la colazione nell'angolo della televisione in cui tre decenni fa vidi Addison e Sally attorcigliati. Tempi più semplici. Potresti cominciare con Freeman Bishop... credo sia stato uno sbaglio. Uno sbaglio? Che genere di sbaglio? Uno sbaglio di chi? Mio? Di mio padre? Domande che rivolgo alla pattinatrice, malgrado non sia qui a rispondere. E come può un morto aiutarmi a trovare il ragazzo di Angela? Non riesco a stare seduto. Vago di stanza in stanza, infilando la testa nella camera degli ospiti con la carta da parati rossa e il copriletto e le sedie dello stesso colore; nel bagno che funge anche da lavanderia, il cui dozzinale pavimento di linoleum era già vecchio quando i miei genitori avevano comprato la casa; di nuovo nella piccola cucina, dove mi verso dell'altra spremuta; e alla fine in sala da pranzo, dove l'ingrandimento della coperti-
na di "Newsweek" con la fotografia di mio padre è ancora appeso sopra al caminetto inutilizzabile. L'ora dei conservatori. Com'era un tempo, avrebbe detto il Giudice. Quando la vita sembrava dorata. Ricordo che la nomina di mio padre mise a dura prova l'unità della Gold Coast, e amici di lunga data smisero di rivolgersi la parola schierandosi su versanti opposti. Ma forse i contrasti erano più comuni di quanto sospettassi, nella nostra piccola e felice comunità. Mariah non mi ha forse detto che la congregazione si era spaccata in due quando era venuto fuori che Freeman Bishop faceva uso di cocaina? E se... Aspetta. Cosa ha detto Mariah? A proposito di qualcuno che se ne sarebbe andato se non fosse stato per... per... Mi precipito in cucina e afferro il telefono. Una volta tanto riesco a trovare mia sorella al primo colpo. Respingendo il suo tentativo di riempirmi le orecchie con le ultime novità sul complotto raccolte qua e là su Internet, le pongo la domanda cruciale: «Ascolta, non mi hai detto che c'era qualcuno che avrebbe lasciato la chiesa per quello che aveva combinato padre Bishop, ma che aveva le sue ragioni per non farlo?». «Certo. Gigi Walker. Ricordi Gigi, no? Addison usciva con la sua sorellina. D'accordo, Addison usciva con chiunque, immagino non sia una grande...» «Mariah, ascolta. Che cosa intendevi dicendo che aveva le sue ragioni?» «Oh, Tal, perché sei sempre l'ultimo a sapere le cose? Gigi e padre Bishop hanno avuto una relazione per anni. È successo dopo la morte della moglie di padre Bishop e dopo che il marito di Gigi se n'era andato, dunque non è stato lo scandalo che avrebbe potuto essere. Ma papà diceva comunque che secondo lui un ecclesiastico...» La interrompo di nuovo. «Okay, okay. Ascolta. Gigi è un soprannome, giusto?» «Sì.» «E il suo vero nome è...» So quello che sta per dire mia sorella ancora prima che lei risponda. «Angela. Angela Walker. Perché lo vuoi sapere?» Mariah continua a blaterare, ma io non l'ascolto. Il telefono mi trema nella mano. Ecco perché Colin Scott, a sentire Lanie Cross, ha maltrattato Gigi Walker fino a farla piangere. Sapeva quello che io so adesso, ma ci era arrivato prima.
Ho trovato il ragazzo di Angela. Ma qualcuno l'ha trovato prima di me, ed è per questo che il ragazzo di Angela è morto e non può dirmi nulla. Non riesco a mettermi in contatto con l'agente Nunzio. Il sergente Ames si rifiuta di ascoltare le mie teorie, e non posso certo fargliene una colpa. Se ho le prove concrete che ha arrestato l'uomo sbagliato, mi suggerisce, farei bene a condividerle con lei. In caso contrario, dovrei smettere di importunarla e lasciare che continui il suo lavoro. Il problema è che sono in una pericolosa posizione di mezzo. Seduto nella cucina di Vinerd Howse, mi trovo davanti a un muro. Credo di sapere chi ha torturato e ucciso Freeman Bishop e cosa voleva, ma non posso di certo provarlo. Bonnie Ames, d'altro canto, ha un testimone pronto a sostenere che Conan si è vantato dell'omicidio, una sfilza di precedenti di violenza da parte del sospetto e le prove che Freeman Bishop doveva del denaro a Conan per la droga. Non so come Colin Scott sia riuscito a fabbricare tutte queste prove, ma non ho alcun dubbio che l'abbia fatto. Il povero Freeman Bishop non era compreso nell'ordine di Jack Ziegler di non torcere un capello alla nostra famiglia. E così Scott l'ha torturato per sapere ciò che avrebbe dovuto dirmi e, come il sergente ci ha fatto cupamente notare quando io e Mariah le abbiamo fatto visita, è improbabile che il prete non abbia vuotato il sacco. Ed ecco il problema, mi dico mentre riaggancio e riprendo a vagare per casa. Se padre Bishop ha detto tutto a Colin Scott, che bisogno aveva Scott di seguirmi? Se mi stava seguendo, ovviamente non aveva ancora scoperto dove mio padre aveva nascosto... quello che ha nascosto. Il che significa che Freeman Bishop non gli ha detto niente. Il che significa che Freeman Bishop non sapeva niente. "Credo sia stato uno sbaglio... Del peggior genere." Ora capisco cosa stava dicendo Maxine. Freeman Bishop è stato assassinato perché Colin Scott credeva fosse il ragazzo di Angela. E in effetti lo era. Ma non era il ragazzo di Angela che intendeva mio padre. Ciò nonostante, per quanto mi riguarda è morto a causa del Giudice. 35 LO SCHELETRO «Non indovineresti mai cos'è successo» annuncia una raggiante Dana Worth facendo irruzione nel mio ufficio senza essere invitata.
«Esatto» le rispondo in tono brusco, alzando a malapena gli occhi dalle bozze che sto laboriosamente correggendo con un mozzicone di matita rossa. Da quando sono rientrato da Martha's Vineyard non ho l'energia psicologica per impegnarmi a fondo sul lavoro. È la fine della seconda settimana di gennaio, e le strade di Elm Harbor sono coperte da una neve sporca. Il semestre primaverile comincia ufficialmente lunedì, ma le minuzie della vita accademica non riescono a tener desta la mia attenzione. Gli studenti sono venuti a presentarmi le loro scuse per non aver terminato i lavori assegnati. Non ho perso tempo a rimproverarli. La biblioteca vuole ancora il libro che ho smarrito. Oggi stesso mi ha chiamato Shirley Branch, sempre depressa per la scomparsa del suo cane. Ho cercato di esserle di conforto come dovrebbe fare un buon mentore, anche se ero tentato di dirle - ci sono arrivato vicino - che posso cercare soltanto una cosa per volta. A Martha's Vineyard, Maxine mi ha pregato di proseguire la ricerca delle disposizioni, ma non sono sicuro di riuscirci. Sono troppi i fantasmi che mi tormentano. Ieri sera alle undici e mezzo circa il telefono ci ha svegliati, e Kimmer, che dorme su quel lato del letto, ha sollevato la cornetta, è rimasta all'ascolto per circa tre secondi e poi me l'ha passata senza dire una parola: era di nuovo Mariah, e chiamava per rivelarmi una cosa che mi aveva nascosto. Mentre mia moglie si tirava la coperta sopra la testa, mia sorella mi ha raccontato ciò che si era fatta rivelare a furia di moine dal povero Warner Bishop nel corso di una cenetta romantica a New York. Con le sue rivelazioni, Mariah ha confermato i miei timori. Warner, a quanto sembra, aveva mentito alla polizia. La sera della sua morte, come ha detto il sergente Ames, Freeman Bishop aveva avvertito la sagrestia che sarebbe arrivato in ritardo all'incontro perché doveva fermarsi a confortare un parrocchiano in difficoltà. Ma a suo figlio, che l'aveva chiamato appena prima che uscisse, aveva detto la verità: che sarebbe stato in ritardo perché doveva incontrare un agente dell'Fbi che quel giorno era passato dalla chiesa, aveva fissato un appuntamento per parlare di un misterioso membro della congregazione e gli aveva fatto giurare di mantenere il segreto. Perché Warner l'aveva nascosto alla polizia? "Perché aveva paura" ha detto Mariah. Di chi? "Di chiunque abbia ucciso suo padre." Mia sorella si è infervorata. "Avrei voluto dirtelo prima, Tal, quando sono venuta a casa tua. Ma hai passato tanto di quel tempo a criticarmi che non mi sono fidata. Però, adesso mi fido." Ho cercato di rammentare se fossi stato davvero così crudele. Ma prima di riuscire a capire se Mariah si aspettava che le chiedessi scusa, lei era già pas-
sata ad altro. "Capisci perché non mi fido dell'Fbi?" Anche se sapeva bene quanto me che la vera Fbi non ha nulla a che fare con ciò che è accaduto a Freeman Bishop. «Misha, dài, ascoltami.» La Cara Dana sposta una pila di fogli - poco importa dove io desidero che si trovi - e salta sull'angolo della mia scrivania. I suoi piedi non toccano terra. Assume ancora una volta la sua posa famosa, appiattendo le suole delle scarpe sul fianco del mobile. «È una bella notizia. È importante.» Mi rilasso sulla vecchia sedia e sento lo schiocco familiare dei cuscinetti rotti. In base alla mia esperienza, soltanto gli equilibri politici della facoltà suscitano un entusiasmo simile nella mia amica, e così mi preparo a sopportare un interminabile racconto di trionfo o di tragedia, collegato in qualche modo ai nomi di chi otterrà o non otterrà una cattedra in facoltà, argomento del quale, malgrado non l'abbia detto a Dana, non mi importa più nulla. «Ti ascolto» le dico. Dana mi rivolge il suo sorriso birichino, quello che riserva per provocare i vecchi amici e adescare i nuovi studenti. Indossa un maglione scuro e un paio di pantaloni che andrebbero bene a una dodicenne, ma la piega affilata suggerisce un prodotto che soltanto una dodicenne di Beverly Hills potrebbe permettersi. «A dire il vero riguarda più tua moglie che te.» «Ti sto ancora ascoltando.» Non riesco a immaginare quale aspetto della vita di Kimmer Dana possa trovare così affascinante, ma sono sempre disposto a imparare. «È una bomba, Misha.» «Non ne dubito.» «Non dai molta soddisfazione, lo sai?» «Dana, me lo dici o no?» Per un istante fa il broncio, non abituata a questo nuovo, serioso Misha Garland, ma poi decide come sempre che il pettegolezzo è troppo succulento per non diffonderlo. «Be', non indovineresti mai chi ha passato le ultime due ore nell'ufficio di Dean Lynda.» «Vero.» Torno a rivolgere la mia attenzione alle bozze. «Vero?» «Vero, non lo indovinerei mai. Perché non me lo dici?» Dana fa una smorfia, attende che la noti e poi si lancia. «Ti darò un suggerimento, Misha. Stavano usando entrambe le linee telefoniche - questa
persona e Lynda, voglio dire - e hanno parlato con quasi tutta Washington cercando di assicurare che il famoso Capitolo Tre del suo unico libro non è un plagio.» La mia sedia si inclina in avanti con uno scricchiolio di sorpresa. Per un meraviglioso istante le preoccupazioni su mio padre, sulle sue disposizioni, su Freeman Bishop e sulla pattinatrice svaniscono. «Non vorrai dire...» «Voglio dire. Fratello Hadley.» «Stai scherzando. Stai scherzando.» «Non sto scherzando. Il Capitolo Tre? Quello che cita di continuo? Quello che chiunque cita di continuo? Be', a quanto pare l'ha copiato da un saggio inedito di nientepopodimeno che Perry Mountain.» «Marc ha plagiato il fratello di Theo? Marc? Non ci credo.» Dana è delusa dal mio scetticismo; voleva i miei applausi. «Perché lo trovi così difficile da credere? Pensi che Marc sia un modello di perfezione? Credi che non truffi e rubi come chiunque altro?» «No, è che non riesco a credere che Marc possa aver pensato che le idee di qualcun altro fossero abbastanza brillanti da rivendicarle come sue.» La risposta mi fa guadagnare l'ambito sorriso di approvazione della Cara Dana Worth. «Be', nel caso l'avessi dimenticato, Fratello Hadley ha anche il blocco creativo più micidiale della storia delle civiltà occidentale. Forse rubare le idee a qualcun altro è sempre meglio che non pubblicare, no?» Scuoto il capo. Sta succedendo tutto troppo in fretta. La strada di Kimmer è improvvisamente sgombra... Eccetto... eccetto... «Dana, che cosa avrebbe fatto Marc di preciso?» «È proprio questo il bello, mio caro.» Dana salta giù dalla mia scrivania e comincia a consumare il solito cerchio sul mio tappeto. «Sembra che uno studente stesse esaminando gli archivi dell'UCLA, eliminando vecchi dossier...» «... quando ha trovato alcuni vecchi scritti di Pericles Mountain» racconto a Kimmer al telefono qualche minuto più tardi, dopo averle fatto interrompere una riunione dalla sua segretaria non appena Dana è corsa a diffondere la brutta notizia in corridoio. Avverto la crescente impazienza di mia moglie mentre le ripeto le rivelazioni di Dana. Impazienza, ma anche eccitazione. «Se ne sta lì seduto in un sotterraneo della facoltà di legge
dell'UCLA a sfogliare il materiale come fanno gli studenti quando non hanno voglia di lavorare, e guarda caso ha appena letto il libro di Marc in uno dei suoi corsi. Nota questa stesura e vede che il linguaggio è molto simile, e comincia a chiedersi se non sia una prima versione del libro. Magari potrebbe portarlo al seminario della settimana prossima, sorprendendo tutti con rivelazioni su quello che il grande Marc Hadley pensava di scrivere prima di cambiare idea.» Ridiamo entrambi. Kimmer è talmente lieta della notizia che insieme siamo quasi felici. «Ma quando guarda meglio, si accorge che non è una stesura della Mente costituzionale. È soltanto la versione preliminare di un saggio di Perry Mountain. Sta per gettarlo via, ma le somiglianze di linguaggio gli rimangono impresse. E così non lo butta fra la carta da riciclare, se lo porta a casa e un paio di giorni più tardi lo confronta con il libro: come volevasi dimostrare, sono quasi identici. Il giorno dopo lo dice al suo professore, il professore lo dice a un altro, ed eccoci qui.» «Non ci credo» si meraviglia mia moglie, anche se è evidente il contrario. «Sai cosa significa, Misha? Non ci credo.» «So cosa significa, tesoro.» «Dovrà ritirarsi, giusto? Per forza.» È quasi stordita dalla gioia, una Kimmer che non ho mai visto prima. «Credo che tu abbia ragione. Dovrà ritirarsi. Congratulazioni, vostro onore.» «Oh, tesoro, è meraviglioso.» D'un tratto mi viene in mente che Kimmer provi troppo piacere per la sventura - o meglio, per la sventatezza - del suo rivale, e il pensiero sembra sfiorare anche lei. «Voglio dire, mi dispiace per Marc e tutto il resto, e anche se ottengo il seggio non volevo certo che accadesse in questo modo. È solo...» Avverto che il suo umore comincia a cambiare, non fosse che per la semplice ragione che è lunatica. «Hai parlato con Mallory?» «Ho telefonato solo a te.» «Mi piacerebbe sapere cosa ne pensano a Washington.» «Lo chiamo non appena riagganciamo» le prometto. «Credo che farò qualche telefonata di persona.» Non so bene perché, ma l'eventualità mi sembra più minacciosa che gradevole. «È fantastico» osservo, tanto per tener viva la conversazione. «Però, non capisco.» Kimmer muove un'obiezione perché crede che gli esseri umani siano razionali. «Non capisco come abbia potuto essere tanto stupido. Marc, voglio dire.»
«Tutti commettiamo degli sbagli.» «Questo è bello grosso.» Il suo umore muta a mano a mano che riflette, e le nubi del dubbio prendono forma. Lo sento dal suo tono di voce. «Non ha senso, Misha. Perché Marc avrebbe dovuto copiare? Non temeva di essere scoperto?» «È proprio questa la parte interessante. Sembra che Perry Mountain si fosse ammalato e non avesse mai pubblicato il saggio. La mente costituzionale uscì tre anni dopo la morte di Perry.» Kimmer la scettica non si fa convincere. Il suo buonumore sta cominciando decisamente a svanire. «E nessuno se n'è accorto? Perry non aveva mandato una copia del manoscritto a nessun altro? A Theo, per esempio? Mi sarei immaginata di sentire le sue proteste fin dal giorno di pubblicazione del libro.» Aggrotto la fronte. Non avevo preso in considerazione questa possibilità. Le dico che chiamerò Dana e glielo chiederò. «È Dana la tua fonte?» esplode Kimmer. Credendo di dare a mia moglie la notizia che più desiderava, in realtà sono riuscito a farla infuriare. «Insomma, Misha, lo so che è una tua amica e tutto il resto, ma non è che le sue versioni dei fatti siano sempre accurate.» «Kimmer...» «E poi non sopporta Marc» aggiunge mia moglie, come se lei invece lo facesse. «Potrebbe essere prevenuta.» «D'altra parte, è sempre al corrente di tutto quello che succede in facoltà.» «Mi dispiace, Misha.» Mia moglie è tornata a essere quella di prima, fredda e sospettosa di tutto e di tutti. «È solo che ho la sensazione che mi stiano incastrando.» Cerco di mantenermi sul frivolo. «Significherebbe averla presa molto alla larga, se lo scopo fosse stato soltanto quello di incastrare te.» Un silenzio mentre Kimmer ci riflette. «Forse hai ragione» ammette a malincuore. «Ma devo dirtelo, tesoro, sembra molto strano.» È soltanto dopo aver tristemente riagganciato ed essere tornato alle mie bozze che mi rendo conto che Kimmer potrebbe avere in parte ragione. Sembra proprio una trappola. Ma la vittima non è mia moglie. «Certo che lo sapevo» mi dice Theophilus Mountain, mentre un ampio sorriso compare da una valle inaspettata fra la sua sterminata barba. «Credi
forse che non me ne sarei accorto?» Come succede sempre dopo una discussione con mia moglie mi sento intorpidito, quasi che la mia testa fosse imbottita di lanugine più che di pensieri. Non capisco bene il senso della risposta di Theo. «Sapevi che Marc aveva copiato il Capitolo Tre da... da tuo fratello? L'hai saputo per tutti questi anni? E non hai fatto niente?» Theo sorride spostando il corpo tondeggiante sulla sedia di legno. È felice di assistere alla disfatta di Marc Hadley, uno dei suoi numerosi nemici. Molti di questi Theo li disprezza per le loro posizioni politiche; Stuart Land, per esempio. Ma l'ambizioso Marc Hadley coltiva con cura l'immagine dello studioso non motivato dalla politica; e Theo lo odia per la sua arroganza. Dal giorno in cui, un quarto di secolo fa, è arrivato a Elm Harbor per insegnare diritto costituzionale, Marc Hadley non ha mai mostrato alcuna deferenza davanti a Theophilus Mountain come un tempo usavano i giovani del suo campo... e come nessuno fa più. Oggigiorno si inchinano al cospetto di Marc Hadley. E Theo non gli ha mai perdonato di aver cambiato le regole. «Non ne ho mai visto il beneficio» dice ora. Comincia a passeggiare per il suo enorme ufficio situato in fondo al primo piano, sopra l'ingresso dell'Oldie. Theo Mountain, dicono gli spiritosi, osserva i nuovi membri della facoltà che entrano e i vecchi che vengono portati via; ma lui sembra eterno. Anche l'ufficio che occupa è eterno, una leggenda della facoltà di legge, di un disordine incredibile, invaso da colonne di carte che si ergono fino a metà delle pareti e che coprono quasi ogni superficie. Il mio ufficio è disordinato, è vero, come molti in questo edificio; ma quello di Theo è grandioso, un capolavoro, un monumento a un vero genio della disorganizzazione. L'unico modo per sedersi è spostare parte del ciarpame. Theo non sembra badare a dove metti ciò che sposti o a quale pila fai cadere mentre cerchi di liberare una sedia; non getta via mai nulla, ma non guarda nemmeno ciò che conserva. Si dice che possieda copia di ogni singola comunicazione interna della facoltà a risalire fino agli albori del ventesimo secolo. A volte penso che sia vero. «Non ne ho mai visto il beneficio» ripete avvicinandosi a grandi passi al suo schedario e aprendone i cassetti in modo apparentemente casuale. «Marc era più giovane e ancora più stupido di quanto sia adesso, ed era convinto, come lo siete tutti al vostro arrivo in facoltà, di sapere tutto quello che c'era da sapere. Un giorno pranzammo insieme e parlammo di Cardozo. Venne fuori che non ne sapeva un granché.» Theo ha trovato qualco-
sa che lo affascina in fondo a uno dei cassetti. Si china e vi immerge la testa come un cartone animato, e quasi mi aspetto che la parte superiore del suo corpo venga inghiottita, seguita a ruota dai piedi. «Hai bisogno di una mano?» «Stai scherzando?» È tornato nel regno dei vivi, stringendo fra le dita carnose una voluminosa cartella. La sua risata gli fa vibrare la barba. «Comunque» riprende «gli parlai di questo saggio che aveva scritto mio fratello, nel quale sosteneva che il metodo giudiziario di Cardozo è stato il modello per tutte le sentenze costituzionali più importanti dagli anni Quaranta in poi.» «La teoria di Marc» mormoro. «La teoria di Perry» mi corregge Theo con educato buonumore. «Marc mi chiese di vedere una copia del saggio. Be', mio fratello non era il tipo a cui piaceva far leggere i suoi scritti, tranne che a me e a Hero, naturalmente. Chiederlo a lui non sarebbe servito a nulla. Ma allora Marc mi piaceva, pensavo che fosse un giovane promettente, e così gli prestai la mia copia.» Mi lancia la cartella attraverso la scrivania, e prima ancora di aprirla mi rendo conto di reggere in mano la prova del plagio di Marc Hadley: il manoscritto inedito di Pericles Mountain su Cardozo, la fonte nascosta del terzo capitolo del suo libro, la grande idea grazie alla quale Marc ha vinto ogni singolo premio che l'accademia legale metta in palio. Sfoglio le pagine ingiallite. Vedo note sparse nella grafia di Theo, cancellature, punti interrogativi, inserti, macchie di caffè. «Sei sicuro...» «Che Marc l'abbia copiato? Certo che lo sono. Leggilo, lo vedrai tu stesso.» «E ai tempi lo sapevi? Quando venne pubblicato il libro?» «Sicuro.» Gli rivolgo la domanda di Kimmer: «E perché non hai fatto niente?». «Per esempio?» «Per esempio... smascherarlo in pubblico.» Theo aggrotta la fronte per un istante come se nemmeno lui sapesse il perché. Tranne che lo sa. Riesco a leggerglielo negli occhi guardinghi e calcolatori. Theo ne ha viste di tutte, eppure la vita non sembra annoiarlo mai. Quando torna a sorridere, la sua espressione è così subdola che mi fa paura. «Be', non direi che non ho fatto niente.» «E cosa diresti?» «Direi che l'ho detto a Marc.» «Ma perché dirlo soltanto a lui e non...» comincio. Ma poi mi interrom-
po. Ho capito. Oh, è proprio da Theo! È chiaro che l'ha detto a Marc. L'ha detto a Marc perché così facendo avrebbe fatto penzolare la spada di Damocle del plagio sulla testa del suo giovane e arrogante collega per i due decenni a venire. Non l'ha detto a nessun altro perché voleva che Marc gli fosse riconoscente. E perché, lo capisco solo ora, il mio ex mentore Theo è il genere di individuo mosso da un odio intimo ed egoista, che preferisce tenere per sé la consapevolezza della perfidia altrui piuttosto che condividerla con il mondo. Se tutti si fossero resi conto che Marc Hadley era un bugiardo e un truffatore, il piacere di Theo ne sarebbe stato sminuito e non accresciuto. Inoltre, mantenendo il segreto avrebbe potuto aspettare un momento perfetto come questo per abbattere il castello di carte di Marc Hadley. Sempre che sia coinvolto nell'abbattimento. «Non volevo che Marc avesse dei problemi» dice Theo nel tono virtuoso di chi nella sua vita non ha mai odiato un collega. La memoria di suo fratello, a quanto pare, non contava nulla per lui; tutto quello che gli importava era far soffrire Marc. «Ma volevo capisse che le idee non sono così facili da camuffare. Che sapesse che sapevo. Volevo che non lo rifacesse. E sai anche tu com'è andata, suppongo. Lo sanno tutti.» Sulle prime non capisco. Poi vedo la risposta. «Il blocco creativo.» «Esatto.» Theo sta quasi ridacchiando di gioia. «Immagino di averlo spaventato al punto da impedirgli di scrivere un altro libro.» O di avergli ordinato di non farlo, così da costringerlo a soffrire per anni ascoltando i mormorii altrui sul suo potenziale sprecato. «Perché fare una cosa simile?» mi lascio sfuggire. «Individui come Marc Hadley se lo meritano.» «Ma come poteva pensare di cavarsela a buon mercato?» «Credeva di essere furbo. Circa sei mesi dopo la morte di Perry mi chiese se ricordavo il suo saggio su Cardozo. Io gli risposi che non ne rammentavo nemmeno una parola, che non l'avevo neanche letto.» Gli occhi allegri di Theo tradiscono un luccichio. «Non era vero.» Sono pronto ad andarmene. Ne ho abbastanza di Theo. Sospettavo che fosse incline all'odio, ma non immaginavo che possedesse questa vena di crudeltà. La candidatura del povero Marc alla corte d'appello è rovinata: questa è la vera, concreta notizia nel fiume di reminiscenze. Dana ha colpito nel segno. Nel clima attuale non si può sopravvivere alle insinuazioni di plagio, anche se si dimostrassero false; e non avendo letto il manoscritto di Perry Mountain, mi ammonisco, non ho modo di saperlo con certezza.
L'intera storia potrebbe rivelarsi un'invenzione. O un malinteso. Ma ne dubito. Le rughe di preoccupazione sul volto di Dahlia Hadley quel pomeriggio all'asilo erano troppo scavate; quando confessava che qualcosa stava tormentando suo marito, diceva la pura e semplice verità. Marc non era preoccupato che si scoprisse che sua figlia andava a letto con Lionel Eldridge; era preoccupato per il suo stesso, terribile sbaglio di due decenni prima. Seduto nell'ufficio di Theo Mountain, circondato dalle sue carte, mi sento sempre più in preda alle vertigini. Marc è fuori. Kimmer è dentro. Secondo Ruthie Silverman il presidente vuole qualità e diversità, e mia moglie porterebbe entrambe; a meno che i controlli su di lei non facciano saltar fuori qualcosa, mia moglie diventerà un giudice federale. E forse il nostro matrimonio sopravviverà, malgrado le macchinazioni del mio defunto padre. Restituisco la malconcia cartella a Theo e lo ringrazio. Theo me la strappa di mano e la seppellisce nel suo schedario, anche se non nel cassetto da cui l'aveva estratta. Sulla soglia dell'ufficio, mi viene in mente un'altra cosa. «Theo, non trovi una strana coincidenza che questa storia sia venuta fuori giusto in tempo per eliminare Marc dalla corsa?» «Hai ragione.» Un sorriso di reminiscenza. «Mi fa ripensare a quello che avrebbe detto il giudice Frankfurter quando seppe della morte del giudice capo Vinson appena prima che il caso "Brown contro il dipartimento dell'Istruzione" venisse ridiscusso alla corte suprema: "È il primo segno che abbia mai ricevuto dell'esistenza di un dio".» Theo ridacchia come un matto. Attendo che si plachi, quindi gli pongo l'altra domanda che mi rimbomba in testa: «Non sai per caso come si sia veramente diffusa la notizia? Del... presunto plagio, intendo dire». «Credimi, Talcott, il plagio è genuino.» Sorride per il gioco di parole. «Pensi che sia stato io a vuotare il sacco? Be', ti sbagli. Da quello che ho saputo, è stato uno studente dell'UCLA. Te l'ho detto.» «Ma tu ci credi?» Theo è esasperato. «Tal, andiamo. A volte si ricevono delle vere, genuine buone notizie. Cerca di apprezzare questi momenti. Non accadono spesso.» «Suppongo di no» mormoro stringendogli la mano, poiché Theo appartiene alla generazione che apprezza simili gentilezze. Ma la mia mente non è in questo ufficio, e nemmeno in questo edificio. I miei pensieri sono tornati al cimitero il giorno in cui abbiamo seppellito mio padre, quando un
vecchio malato di nome Jack Ziegler mi ha detto di riferire a Kimmer di non preoccuparsi di Marc Hadley. "Non credo che abbia la capacità di resistenza." Non ha detto così? "Nel suo armadio è appeso uno scheletro alquanto grosso. Prima o poi è destinato a rotolare fuori." Direi. 36 IL RACCONTO DI UN FRATELLO Riesco finalmente a trovare Addison il tranquillo pomeriggio della domenica precedente la ripresa dei corsi. Lo sto chiamando a intervalli irregolari fin dal giorno della visita di Mariah, e ho provato sia a Natale che alla vigilia di Capodanno. Ho lasciato messaggi sulla segreteria di casa e dal suo produttore allo studio radiofonico. Ho provato al suo cellulare. Gli ho inviato e-mail. Non ho ricevuto alcuna risposta. In uno straordinario impeto di ispirazione ho rintracciato Beth Olin, la poetessa, che abita a Jamestown, New York; ma non appena lei ha sentito chi ero e cosa volevo ha riagganciato, risolvendo il dubbio se stessero ancora insieme. Ho pensato perfino di chiamare una delle sue ex mogli, ma la mia audacia ha i suoi limiti. «Sono stato via» mi dice ora Addison mentre me ne sto seduto nel mio studio mangiando un panino al tonno e guardando un turbine di neve invernale che imperversa in strada. Sono previsti dai dieci ai quindici centimetri, ma Kimmer è andata comunque in ufficio. Addison sembra esausto. «Mi dispiace.» «Via dove il cellulare non funziona?» domando irritato. «In Argentina.» «Argentina?» «Non te l'ho mai detto? A vedere dei terreni. Ci sarò stato sette, otto volte negli ultimi due anni. Sto pensando di costruirci una casa.» Per andarci a vivere finché i democratici non torneranno alla Casa Bianca, forse. «E stavo così bene che ho pensato di trattenermi qualche giorno. Poi i giorni sono diventati settimane, e... comunque, adesso sono tornato.» I giorni sono diventati settimane? «Ma cos'hai fatto, hai lasciato la trasmissione?» «La trasmissione sta un po' invecchiando, a dire la verità. Credo sia giunto il momento di rimettermi a scrivere il libro.» Addison dice così a
intervalli di qualche anno, ma significa soltanto che sta per cambiare lavoro. Nessuno che io conosca l'ha mai visto scrivere una riga. «Sarebbe magnifico» dico lealmente. «Che tu scrivessi il libro, voglio dire.» «Già.» «È una storia che dev'essere raccontata.» «Già.» Non è soltanto la stanchezza, mi rendo conto, ad abbattere il tono di voce di mio fratello. C'è anche un senso di rassegnazione. Mi chiedo a cosa si sia rassegnato. «Ehi, fratello, indovina un po'? L'Fbi è venuta a parlare con me. Di tua moglie.» Una risatina sommessa. «Come se sapessi qualcosa di lei.» «Sono normali controlli, Addison. Devono parlare con tutti.» «Lo so. Quello che non so è come mai i controlli su di lei debbano comportare tante domande sui miei soldi.» Ma sono sicuro che Addison ricorda come me la superficialità imbarazzante dei controlli sul Giudice. Si dice che da allora le procedure siano diventate più severe. «Allora, ho visto che hai lasciato un bel po' di messaggi. Dev'essere qualcosa di importante.» Ho avuto molto tempo per riflettere su come affrontare questo momento. Arrivare per gradi alla questione principale partendo da quella più banale. E così metto mio fratello al corrente della visita di Mariah e del rapporto mancante di Jonathan Villard. Gli spiego che non ne è rimasta in giro una copia, nemmeno nell'archivio della polizia, con cui Meadows ha fatto cilecca. Lo informo delle due pagine di appunti del Giudice. Tutto quello che siamo in grado di ricavare dagli appunti, aggiungo, è che a bordo dell'auto che ha ucciso Abby c'erano due persone. «Ah» si limita a commentare Addison. Poi, sorpreso: «Avete fatto grandi progressi», e in questo istante so di avere ragione. Mio fratello ha un'altra esitazione, ma io lo aspetto al varco. Alla fine formula la domanda che sicuramente lo preoccupa di più: «Ma perché mi stai dicendo queste cose?». «Lo sai il perché» rispondo piano. Attendendo la sua risposta, posso udire la televisione in soggiorno, dove Bentley sta guardando un video per bambini regalatogli a Natale dai suoi padrini, John e Janice Brown. Due sere fa, Kimmer e io siamo andati alla festa annuale dell'organizzazione studentesca di Lemaster Carlyle, unendoci a circa duecento membri benestanti della nazione più scura e ballando l'electric slide, il cha-cha slide e una nuova invenzione chiamata dot-com slide fino alle ore piccole. Forse, dopo tutto, abbiamo una parvenza di vita sociale anche noi.
«No, non lo so» dice mio fratello in tono improvvisamente stizzito. «Perché sai dov'è quel rapporto.» «So cosa?» «Sai dove si trova. O cosa conteneva.» «E cosa te lo fa pensare?» Addison sembra più spaventato che irritato. «Non ne so nulla.» «Io credo di sì. Ricordi il giorno del funerale del Giudice? Quand'eri accanto alla tomba e io ti ho raggiunto? Ricordi quello che hai detto? Hai detto che ti stavi chiedendo se avremmo mai trovato quelli che erano a bordo dell'auto che ha ucciso Abby. Hai detto così, "quelli".» «Hai sentito male» risponde dopo un'esitazione. «Non credo. Non è una frase che si possa fraintendere.» Silenzio. «Addison, in tutti questi anni abbiamo sempre parlato di trovare il pirata della strada. Lo ripeteva mamma prima di morire. E papà. E io, Mariah, e anche tu. Ma al cimitero sapevi che a bordo di quell'auto c'erano due persone. Penso che lo sapessi perché avevi letto il rapporto.» «È una congettura un po' debole» dichiara Addison, ma capisco che non sta mettendo tutta l'anima nella discussione che cerca di provocare. «Potrei essermi espresso male. O forse stavo tirando a indovinare. Non puoi dimostrare niente.» «Andiamo, Addison, non fare giochetti con me. Sai che ho ragione. O il Giudice ti ha dato una copia del rapporto, oppure l'hai presa tu dal suo archivio. Ma so che l'hai letto. E vorrei sapere che cosa contiene.» Un'altra pausa, questa volta più lunga. Sento quella che potrebbe essere una voce in sottofondo, poi la risposta sussurrata di Addison. Sembra stia chiedendo a qualcuno di concedergli un minuto. Forse qualcuno che ha portato con sé in Argentina. O forse qualcuno che si è lasciato dietro. Poi mio fratello torna in linea. «Merda» dice. Addison è scontento. Gli sto complicando la vita. Preferirebbe tenere una lezione in un campus, visitare terreni in Sudamerica o addirittura fare la sua trasmissione, anche se sta un po' invecchiando: qualsiasi cosa pur di evitare di passare del tempo emozionalmente dispendioso con un membro della sua famiglia. Tutti noi figli Garland abbiamo passato la nostra vita adulta a fuggire da nostro padre, e Addison è quello che è fuggito più lontano, il che potrebbe essere la ragione per cui era quello a cui il Giudice voleva più bene. Fino a questi ultimi due mesi l'avevo sempre ammirato,
ma il modo in cui mi ha evitato ha messo a dura prova la mia devozione fraterna. «Ascolta, fratello, non ho una copia del rapporto. Non l'ho mai avuta. L'ho letto soltanto una volta.» Un'altra pausa, ma ormai non ha scampo. «Me l'ha mostrato papà.» Faccio un respiro. Addison sembra così nervoso che non sono sicuro se credere a una parola di ciò che dice. «D'accordo. Ma cosa diceva?» «È meglio che tu non sappia altro, Misha.» Il tono di voce di Addison si indurisce. «Davvero.» «Al contrario.» «Sei pazzo. Sei pazzo quanto lui.» Intende probabilmente il Giudice, ma immagino ci siano molti altri candidati. Una settimana e mezzo fa l'agente Nunzio mi ha finalmente richiamato. Senza nominare Maxine, gli ho detto che credevo che padre Bishop fosse stato ucciso per sbaglio. Lui mi ha offerto un freddo ringraziamento e ha promesso con scarso entusiasmo di occuparsene. Poteva anche andare peggio. «Voglio solo sapere la verità» dico con calma a mio fratello. Addison sospira. «Non ti capisco, Tal. Sei un cristiano, giusto? Credo che da qualche parte ci sia scritto che dovresti far sì che la tua vita sia votata al perdono, non alla vendetta.» La sua frase mi disorienta. Credevo che Maxine mi avesse lasciato in alto mare, ma questa sembra stabilire il record delle risposte oracolari. «Non sto cercando alcuna vendetta.» «Questo lo dici tu. Ma forse sono balle.» Addison adora le volgarità, magari perché crede che rendano più autenticamente nera la sua colta parlata garlandiana. A dire il vero suona forzata, come quella di un bambino che si gingilla con un nuovo vocabolario. «Puoi credere di non volerti vendicare, ma forse ti sbagli. Non sai veramente cosa ti spinge ad agire in questo modo. Devi chiedere a Dio di guarire il tuo cuore, fratello.» Ho smesso già da tempo di mangiare il mio panino. Mi sto rovinando l'appetito cercando di dissipare il fumo verbale che Addison sta spargendo attraverso i chilometri che ci separano, e di capire perché lo sta facendo. Mio fratello, nel frattempo, sta citando le Scritture. «"Benedite coloro che vi perseguitano" ci dice Paolo nella Lettera ai Romani. Ricordi? "Non rendete a nessuno male per male." E se leggi la storia di Sansone...» Lo interrompo, cosa che dall'infanzia non ho quasi mai fatto. «Non sto cercando di ripagare il male con il male, Addison. Andiamo, non cerco di
fare niente a nessuno. Sto solo provando a capire cosa succede.» «Questo lo dici tu. Potrebbero esserci delle cose che, se le sapessi, ti farebbero venir voglia di vendicarti.» «Addison, per favore. Non sto cercando di fare del male a nessuno.» Mi è venuto in mente che la vendetta di cui sta parlando mio fratello potrebbe riguardare proprio lui. «Ho soltanto bisogno di sapere cosa diceva quel rapporto.» «Non è vero. Dammi retta. Non hai bisogno di saperlo, ed è meglio che tu non lo sappia. È meglio lasciare il passato al passato, fratello, e pensare al futuro. È meglio amare tua moglie e la tua famiglia e occuparsi dei problemi di casa. È meglio affrontare il mondo con il perdono nel cuore. Ed è decisamente meglio non sapere cosa conteneva quel rapporto.» «Per quale ragione?» «Tentazione. Vuoi essere indotto in tentazione? Perché, credimi, quel rapporto era pieno di tentazioni.» Sono sempre più confuso. Ma sono arrivato a questo punto e non mi arrendo. «Addison, ti prego. Dimmi quantomeno quando papà te l'ha mostrato.» Un'altra pausa mentre gli ingranaggi girano nella sua mente sottile e incline alla manipolazione. «Diciamo un anno fa. Forse poco più. Sì, l'autunno dell'anno scorso.» Ho la sensazione che stia alterando la verità, che la stia mettendo in ombra, spostandola in una direzione più favorevole come fanno spesso i testimoni. Decido di prepararmi a una partita lunga, nascondendo la mia impazienza e lasciando crescere la sua. Ai miei tempi ho interrogato qualche testimone, e conosco l'efficacia di un avvicinamento graduale all'argomento decisivo e di un atteggiamento di finta noia quando ci si arriva. «Sai perché te l'ha mostrato?» «Non esattamente.» «Be', puoi dirmi com'è andata?» Ancora una volta, mio fratello mi fa aspettare. Non capisco cosa lo preoccupi tanto, ma posso percepirne gli effetti attraverso la linea telefonica. «Come ho detto» comincia «è successo circa un anno e mezzo fa. Papà mi ha telefonato. Sarebbe venuto a Chicago per una conferenza, e voleva sapere se potevamo cenare insieme o qualcosa del genere. Certo, ho risposto, come vuoi. Lo sai, non ero d'accordo con le sue posizioni politiche, ma era pur sempre mio padre, giusto? E così abbiamo cenato nel suo albergo. Uno di quei piccoli, appartati alberghetti del centro. Non in sala da pranzo, nella
sua suite. Naturalmente aveva una suite. Enorme. Con due camere da letto, tanto per esagerare, giusto? Ma quei matti di destra a cui parlava lo adoravano. E non badavano a spese. Riceveva dei compensi pazzeschi, lo sapevi? Trenta, quarantamila dollari a botta. A volte anche di più. E perché? Perché quelli potessero tornare al country club e dire agli amici golfisti che c'era un nero che era d'accordo con le loro follie di destra, il che significava che erano vere.» Non ho mai sentito tanta ostilità nella sua voce. O forse non mi sono mai reso veramente conto di quanto Addison odiasse il Giudice. «Così, ceniamo nella sua suite. Dice che non vuole che qualcuno ci senta. Io comincio a scherzare e gli chiedo: "E se ti avessero riempito di cimici la suite?". Ma lui non ride. Prende la cosa molto sul serio. Mi guarda e dice: "Credi che l'abbiano fatto?" o qualcosa del genere. Oh-oh, penso io. Ribatto che stavo scherzando e lui mi spiega che, per sicurezza, ha già cambiato suite. Gli rispondo che è stata una mossa brillante, ma dentro di me sto pensando che forse è un po'... insomma, lo sai. Che forse ha qualche problema. Sicuro che vuoi sapere queste cose?» «Sì.» La mia voce è tesa. «D'accordo. Te la sei voluta. Ci sediamo a tavola, la suite aveva una specie di zona pranzo. Lui ha un paio di cartelle, e penso che forse stiamo per parlare delle finanze di famiglia. Hai presente: "Ecco dove sono i soldi nel caso mi succeda qualcosa". Lui ha quella sua espressione seria dipinta sul volto, quella che usava quando stava per farci una delle sue prediche su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, sulle promesse che vanno mantenute e tutte le stronzate che ci diceva. È tutto agitato, e mi dice: "Figliolo, c'è una cosa importante di cui dobbiamo parlare". E io penso che sì, ci avevo visto giusto. Potrebbe essere un brutto colpo, mi fa lui, e io mi drizzo sulla sedia e annuisco. C'è una parte della mia vita di cui non vi ho mai veramente parlato, dice, e io annuisco di nuovo, e lui aggiunge che si sta rivolgendo a me perché sono il maggiore, e io faccio ancora cenno di sì con la testa.» Mi sento bruciare in volto nell'udire le sue parole - la vecchia, familiare gelosia per i favori affettivi di cui godeva Addison - ma una volta tanto ho la presenza di spirito di restare in silenzio. «Penso che stia per rivelarmi tutto sui soldi, ma invece apre la cartella e ne tira fuori un fascio di fogli, cinque o sei pagine, e mi dice: "Voglio che tu legga questo. Devi sapere". Gli domando di che si tratta. Penso che sia un piano di investimenti o qualcosa del genere. "È il rapporto di Villard"
mi risponde. Allora gli chiedo chi è Villard. Non stavo facendo il cretino, non me ne ricordavo veramente. Ma lui si arrabbia. "Ti ho detto di leggerlo, leggilo e basta" ripete. Hai presente come diventava. "Leggilo e basta." E io l'ho letto.» Addison ammutolisce. Non ha la sensazione di aver interrotto un racconto a metà. Gli ho chiesto come ha fatto a leggere il rapporto, e lui mi ha risposto. «Ti ha spiegato perché voleva che tu lo leggessi?» «Mi ha raccontato una storia. Non so, qualcosa l'aveva spaventato.» «Spaventato?» «Non lo so, va bene? Non sono stato a sentire. Non mi interessava.» «Non ti interessava? Addison, era nostro padre!» «E allora? Ascolta, potrei dirti certe cose che non ti piacerebbe sapere, su nostro padre. Quella faccenda della nomina l'ha quasi distrutto. Tu e Mariah non ve ne siete resi conto, ma non eravate voi quelli che svegliava nel mezzo della notte, ubriaco... Sì, aveva ricominciato a bere. Non lo sapevi, vero?» Lo sapevo, naturalmente, perché me l'ha detto Lanie Cross, ma ora che mio fratello sembra voler parlare non ho intenzione di spezzare il suo flusso narrativo. «Certo, mi svegliava nel cuore della notte piangendo per questo e per quello. Perché ero il maggiore. "Non lo confiderei a nessun altro, figliolo." Diceva così. Come se fosse un grande onore essere svegliato alle due del mattino per sentirmi dire che meritava di morire per i suoi peccati, che un giorno o l'altro qualcuno l'avrebbe ucciso, e non importa chi fosse questo qualcuno. Già, papà era paranoico. Pensava che il mondo intero fosse contro di lui. La verità è che era completamente impazzito. È questo che vuoi sentire, fratellino? È abbastanza esplicito, per te? Ma sì, blaterava di qualcuno che gli aveva fatto visita, che era in pericolo e doveva mostrarmi quelle carte. E io me ne stavo lì seduto in quell'albergo, cercando di capire come avrei potuto aiutarlo leggendo quel rapporto. Non che me ne importasse poi tanto. Ero talmente stufo di lui, talmente stufo di tutte le stronzate che avevo sopportato nel corso degli anni...» Addison si costringe a fermarsi. I maschi Garland riescono a farlo, come se premessero un interruttore. È di sicuro una delle ragioni per cui le nostre donne arrivano sempre a odiarci. «Forse ho fatto male» prosegue in tono più mite. «Il Giudice mi aveva chiesto aiuto e io l'ho respinto. È sbagliato per tutte le religioni che cono-
sco. E parlare di lui come sto facendo in questo momento, anche questo è sbagliato.» Un'altra pausa. Me lo vedo nella sua casa di Chicago con gli occhi chiusi, poiché ora sta sussurrando quella che sembra una preghiera, forse per chiedere perdono, forse per farsi forza, forse per fare scena. «Addison.» I bisbigli continuano. «Addison!» «Non c'è bisogno di gridare, Misha.» L'impertinente fratello maggiore è tornato. L'Addison furente e quasi incapace di esprimersi di due minuti fa è scomparso, un demone è stato scacciato. «C'è questa nuova grande invenzione, il telefono. Puoi parlare con un tono normale e la persona all'altro capo del filo ti sente anche da Chicago.» «Va bene, va bene, scusami. Ma ascolta. Qual era la storia del Giudice? Chi era andato a trovarlo? Hai detto che qualcuno l'aveva spaventato...» «Non credo che dovrei parlare di questo. Insomma, il Giudice mi ha fatto promettere di non dirlo a nessuno.» Rifletto. Sono vicino, così vicino, e Addison non è mai stato troppo bravo a tenere un segreto, tranne quando deve nascondere un'amante a un'altra. Dev'esserci un modo per carpirglielo. Di certo sono deciso a provarci. Nel profondo, in quel luogo che i maschi Garland non rivelano mai, la mia rabbia sta cominciando a fiammeggiare. In parte nei confronti di mio fratello per i suoi giochetti, ma soprattutto nei riguardi di mio padre per aver confidato nel suo primogenito, il poco affidabile attivista, e non nel secondo, l'avvocato. "Se volevi confidare in Addison" vorrei potergli gridare "perché non hai fatto arrivare a lui la pedina e la lettera?" Non che con il Giudice mi sarei mai permesso di gridare. Poi mi ricordo di come Addison, solo fra noi figli, discutesse con nostro padre. Quando a cena il Giudice si lanciava in una delle sue prediche su cosa fare e cosa non fare, Mariah e io restavamo rispettosamente seduti declamando le risposte giuste ("Sissignore, Nossignore, Come dice lei, signore"), mentre Addison, fin dall'adolescenza, lo guardava negli occhi e rispondeva: "Balle, papà". Veniva messo in castigo per una settimana, naturalmente, ma nei suoi begli occhi potevamo vedere l'orgoglio, e perfino in quelli del Giudice. "Mi piace il fegato di quel ragazzo" diceva a nostra madre "anche se ne fa cattivo uso." Ebbene, il suo fegato gli ha fatto fare molta strada. Vediamo quanta. «Allora, che ne è stato del rapporto?» «In che senso, che ne è stato?» In tono combattivo. «L'hai letto? Papà l'ha portato via con sé?» La voce di Addison rallenta all'improvviso. «No, l'ho portato via io. Gli
ho promesso di leggerlo.» Sento il suo respiro irregolare mentre cerca di controllare la rabbia. «E non c'è più, Misha. Non farmi domande. Me ne sono sbarazzato.» «Come? Vuoi dire che l'hai gettato via?» «Non c'è più. Tutto qui.» Gli credo. Qualunque fosse il contenuto del rapporto di Villard, Addison non voleva che qualcuno lo vedesse. E non ha intenzione di rivelarmi il perché. «E va bene, lasciamo perdere il rapporto. Lasciamo perdere la ragione per cui il Giudice era spaventato. Permetti che ti dica l'altro motivo per cui ti stavo cercando.» Probabilmente lieto che io abbia cambiato argomento, Addison non solleva obiezioni. «Ti voglio chiedere una cosa su cui il Giudice non avrebbe mai potuto importi il segreto, perché ne era all'oscuro.» «Spara» risponde in tono indulgente, immaginando che io abbia esaurito le munizioni. E così gli racconto del mio incontro con Sally. Descrivo la notte in cui loro due stavano facendo l'amore in casa ed erano stati interrotti dal furioso litigio fra il Giudice e Colin Scott. «Sì» dice lui quando ho finito. «Sì, Sally mi ha detto che ha parlato con te e che ha vuotato il sacco. Povera ragazza.» «Addison...» «Cerca di capire, Misha: Sally ha passato dei brutti momenti. Hai idea di quante volte sia entrata e uscita dai centri di disintossicazione? A volte colorisce un po' le cose, va bene? Non era proprio come dice lei.» Sta parlando del sesso, non del litigio. «Addison, non c'è problema. Non mi importa di te e Sally, davvero.» È una menzogna, ma non vedo alcuna ragione per ricordargli quanto fosse sbagliato, visto soprattutto che l'ho costretto all'angolo. «Quello che mi interessa è ciò di cui parlavano il Giudice e Colin Scott. Sally ha detto che tu avevi sentito una parte della conversazione. È questo che ho bisogno di sapere. Quello che hai sentito.» Silenzio. «Andiamo, Addison. Hai sentito tutto, scommetto. O quasi.» «Ho sentito quasi tutto» ammette lui alla fine «ma non posso dirti niente, Misha. Davvero, non posso.» «Non puoi? In che senso non puoi? Addison, il Giudice non appartiene a te. Era anche mio padre.» «Sì, ma ci sono cose di un padre che...» Esita, poi ci riprova. «Misha,
ascolta. Ci sono cose di papà che è meglio tu non sappia, credimi. So che pensi di volerle sapere, ma non è così. Voglio dire... ha fatto brutte cose, d'accordo? Le facciamo tutti, ma papà... se te lo dicessi non ci crederesti, e non te lo dirò. In nessun modo.» Un'altra pausa. Sta avvertendo il mio dolore, forse. O la mia confusione. Oppure il mio semplice bisogno. Emette un grugnito. Addison non riesce veramente a sopportare la sofferenza di un altro essere umano: è un elemento del suo carattere che ho sempre amato e invidiato. A volte penso che sia questo aspetto della sua personalità e non il mero desiderio carnale a causarne l'esuberante promiscuità. Non riesce a dire di no. Forse questo spiega le sue frequenti e misteriose fughe dalla famiglia che durano mesi o addirittura anni: per non impazzire, deve trovare il modo di rifiutare ciò che gli altri gli chiedono con i loro bisogni. Approfitto vergognosamente del suo lato debole. «Addison, ti prego, mi devi raccontare. Impazzirò, se non riuscirò a farmi un'idea di cosa sta succedendo. Di cosa accadde quella notte.» Abbasso la voce. «Ascolta, al momento non posso scendere nei dettagli, ma questa storia mi sta rovinando la vita.» «Non scherzare, fratello.» «Sul serio. Ricordi quando lo zio Jack è venuto al cimitero? Da allora... be', non ci crederesti. Ma il mio matrimonio sta andando a rotoli, Addison. Sto diventando matto. Ti prego, dimmi quello che puoi. Devo sapere.» Mio fratello sprofonda in un'altra lunga riflessione. Dovrei terminare un altro articolo, cercare di riguadagnare il rispetto dei miei colleghi, ma sono pronto ad aspettare questa risposta per l'intero pomeriggio. Ma Addison, che Dio lo benedica, sembra percepire la sincerità del mio bisogno, e la compassione funziona là dove le argomentazioni hanno fallito. «Va bene, Misha, va bene. Hai ragione anche tu. Ascolta. Forse posso dirti una cosa, ma poi basta, fratello. Sul serio. È una specie di sacro impegno, il mio.» «Lo so, Addison, lo so. E lo rispetto.» Il silenzio di mio fratello tradisce una punta di sospetto. Perché stupirsene, sto mentendo spudoratamente. Addison continua a farmi aspettare. Malgrado se ne stia seduto a chilometri di distanza nella sua casa di Chicago con il mio equilibrio mentale nelle sue grosse mani, ha un modo speciale di gestire il silenzio. Cerco di essere paziente, di non pronunciare la parola sbagliata, di non aprire bocca, poiché rispetto la fragilità del momento. Sotto il silenzio di mio fratello avverto lo sconcerto e perfino la rabbia. Non voleva dirmi nulla; voleva convincermi ad abbandonare la mia
ricerca. Ha fallito, ed è furioso. Percepisco anche qualcos'altro, qualcosa che ho fiutato vagamente all'inizio della nostra conversazione e che ora posso confermare. Mio fratello ha paura. Vorrei soltanto sapere di cosa. Finalmente si degna di parlare: «Una cosa, Misha, te lo ripeto. Ma ti prego di non farmi altre domande perché non risponderò». Sembra un politico che si rifiuta di parlare della sua vita privata. «Una cosa. Ho capito.» «D'accordo. Ascolta. Sally ha ragione, la sera in cui Colin Scott era in Shepard Street ho sentito tutto. Ogni singola parola.» Libera un lungo sospiro. «Sally ti ha detto di aver sentito dire a papà: "Non esistono regole quando c'è di mezzo chi piglia", giusto?» «Giusto.» «Be', l'ho sentito anch'io. Ed ero molto più vicino.» Un'ultima pausa, forse per cercare una via di fuga, una frase, un'argomentazione, un avvertimento che mi costringa a recedere. Evidentemente non ne trova. «Sally ha capito male come sempre, fratello. La parola che ha usato papà non era piglia. La parola era figlia.» Uno scatto. Il segnale di linea interrotta. Più tardi Morris Young trova il tempo di ricevermi poiché capisce che sono disperato. Ci incontriamo alla sua chiesa alle otto circa, e lui mi ascolta con pazienza. Quando ho finito, non mi offre consigli ma mi racconta una storia. «Nel Vecchio Testamento, nel Genesi, c'è la storia di Noè.» «Il diluvio universale?» Il suo volto butterato si addolcisce. «No, non il diluvio universale. Nella vicenda di Noè c'è molto più del diluvio universale, Talcott.» «Lo so.» Come se fosse vero. «Ne sono sicuro. E sono sicuro che ricordi di quando Noè si ubriacò e si coricò nudo nella sua tenda. Suo figlio Cam, che lo cercava, lo trovò in quelle condizioni e lo disse ai fratelli, Sem e Iafet... ricordi? Sem e Iafet entrarono nella tenda volgendo le spalle per non vedere il corpo nudo del padre e lo coprirono. Quando si svegliò, Noè maledisse Cam. Cam non aveva mostrato rispetto per suo padre. Voleva vederlo nudo. Voleva che i fratelli lo vedessero. Che figlio è mai questo, Talcott? Hai capito la storia? I figli non dovrebbero vedere nudi i loro genitori. Un figlio non dovrebbe conoscere tutti i segreti di suo padre... o tutti i suoi peccati. E, anche se li
conoscesse, non dovrebbe rivelarli. Lo capisci, Talcott?» «Crede che dovrei fermarmi? Che non dovrei cercare di scoprire cosa stava tramando mio padre?» «Non posso dirti cosa fare, Talcott. Ma posso dirti quello che il Signore ti chiede per onorare tuo padre. Posso dirti che i figli alla ricerca delle colpe dei padri sono destinati a trovarle. E posso dirti che la Bibbia ci insegna che quei figli finiscono quasi sempre in rovina.» 37 ALCUNE ANNOTAZIONI STORICHE L'ego più gigantesco della facoltà non appartiene a Dana Worth, a Lemaster Carlyle o ad Arnie Rosen, e nemmeno a Marc Hadley, recente oggetto di umiliazione; no, è proprietà esclusiva di Ethan Brinkley, il mio vicino di ufficio all'Oldie. A sentire la Cara Dana Worth, la spiritosa della facoltà, il Piccolo Ethan si gloria dei suoi risultati in anticipo. In questo modo, dice Dana, evita la tensione di preoccuparsi se li ottiene o meno. Nel corso degli anni, Ethan ha parlato a tutti coloro disposti ad ascoltarlo, nonché a molti di quelli che avrebbero preferito sottrarsi, dei documenti segreti che ha raccolto nel suo ufficio: fotocopie di centinaia di incartamenti e rapporti che chissà come ha scordato di restituire al termine del suo lavoro presso la commissione sui servizi segreti. Il Piccolo Ethan, come lo chiama ironicamente Theo Mountain, ama impreziosire le conversazioni con deliziose chicche provenienti dai dossier: le identità delle amanti di John Kennedy, per esempio, o la marca dell'acqua di colonia di Fidel Castro. A volte è un po' come vivere accanto a un J. Edgar Hoover redivivo. Stuart Land gli ha detto in faccia che dovrebbe stare in prigione, e l'ex magistrato Lem Carlyle ha soppesato l'idea di denunciarlo, ma finora nessuno ha avuto il coraggio di agire, nemmeno quando il Piccolo Ethan, da quel simpatico folletto che riesce a essere, compariva regolarmente in televisione durante le udienze per l'impeachment di Clinton, lanciando veementi appelli per un ritorno dell'integrità nel governo federale. Ethan possiede una notevole ambizione, ma nemmeno una scintilla di ironia o di vergogna. Ed è per questo che, il primo pomeriggio del semestre primaverile, meno di una settimana dopo il crollo delle speranze di Marc per il seggio che ora sembra a portata di mano di Kimmer, e un giorno dopo la mia debilitante conversazione con Addison, mi trovo davanti alla porta del suo ufficio, di fronte al mio nel buio corridoio. Sono teso, in
parte perché Ethan e io non siamo nemmeno lontanamente amici, ma soprattutto perché ciò che ho intenzione di chiedergli è alquanto delicato. No, devo essere sincero: quello che ho intenzione di chiedergli è probabilmente illegale. Non che la mera illegalità possa preoccupare Ethan Brinkley. «Misha!» tuona quando metto piede nel suo ufficio. Il piccoletto balza in piedi da dietro la scrivania per stringermi la mano con consumato calore. Non l'ho mai invitato a usare il mio soprannome, che è riservato a una manciata di amici intimi, ma lui l'ha sentito pronunciare da Dana e l'ha adottato, dando per scontato, come fanno ovunque i venditori e i politici, che la sua scelta di chiamarmi come vuole e non come desidererei io cementi in qualche modo il nostro rapporto. In realtà mi offende, ma come accade spesso lo tengo per me, sicuro che arriverà il momento di una segreta resa dei conti. Un po' di convenevoli mentre Ethan mi fa cenno di accomodarmi su una rigida sedia di legno. Il suo ufficio ha dimensioni piuttosto esigue e le due finestrelle sulla parete più lunga non offrono alcuna vista al di là di quella dell'ala successiva dell'edificio. Ma panorama e metri quadri verranno con il tempo, pensa Ethan, la cui ambizione conosce una certa pazienza e gli permette di guardare le cose in prospettiva. "Arriverà il giorno" mi ha confidato in un attimo di avventatezza ben prima di ottenere la cattedra "in cui sarò una potenza in questo posto." "Ne ha già la tracotanza" ha commentato Dana quando l'ho informata del bon mot. Ethan decifra subito il mio stato d'animo. Si sistema sulla sedia di fronte a me con un'espressione composta e solidale. Un'altra mossa da politico: non si siede dietro la scrivania, forse pensando che conferisca troppa formalità alla situazione. Tutto ciò che Ethan fa ha uno scopo, è pensato per piacere e a molti piace. Alcuni dicono che sia già in lizza per la carica di preside, pronto a scagliarsi contro Arnie Rosen e Lem Carlyle non appena Lynda Wyatt deciderà di ritirarsi. Mi sorprende che pensino che miri così in basso. Ethan è un ometto atletico e intelligente, con capelli castani ribelli e innocenti occhi marrone. Porta scarpe consumate e giacche di tweed abbastanza stazzonate da far capire ai suoi interlocutori che lui è uno di loro, tranne che le sue giacche costano mille dollari l'una. Il suo sguardo non abbandona mai il volto della persona a cui sta parlando, o che sta ascoltando, ma guardando la risolutezza della sua piccola bocca e le profonde ru-
ghe sulla fronte hai la sensazione che sia tutta una finta, che dietro gli occhi ingenui stia calcolando mossa e contromossa, come uno scacchista che pensa alla risposta mentre il tuo orologio ticchetta. «Allora, Misha, cosa posso fare per te?» domanda con uno scintillio nello sguardo, come se non avessi cinque anni di anzianità più di lui. «Ho bisogno di un'informazione che tu potresti avere.» Quasi sorride: la gioia più grande di Ethan è aiutare gli altri, non perché ciò stimoli la sua passione per la carità, ma perché fa sì che gli altri siano in debito con lui. Il Piccolo Ethan sta seminando favori in giro per la facoltà, tenendo corsi supplementari, frequentando ogni gruppo di lavoro, offrendosi di scrivere i rapporti delle commissioni che nessun professore sano di mente oserebbe sfiorare, arrivando perfino a presentarsi agli interminabili ricevimenti in onore dei viceministri della Giustizia di paesi che nessuno ha sentito nominare. «Misha, mi conosci: qualsiasi cosa per un amico.» Annuisco e mi faccio coraggio, poiché sto per spiccare un gran salto, un salto a cui sto pensando da quando sono tornato da Martha's Vineyard e che è stato cementato da ciò che mi ha detto mio fratello. E così, con una silenziosa preghiera, pronuncio il nome: «Colin Scott». Ethan aggrotta la fronte per un istante, non in segno di ripugnanza ma di concentrazione. La memoria è una componente della sua leggenda in rapida espansione. I nostri studenti restano sbalorditi dalla sua capacità di citare lunghi passi senza prendersi la briga di consultare libri o appunti, trucco in cui molti accademici sono in grado di esibirsi, ma che Ethan abbellisce con una certa malizia. E, a dire la verità, ha imparato il gioco di prestigio in modo molto più rapido della maggior parte di noi. «Il nome non mi è nuovo» concede. L'espressione solidale è tornata. «Cosa vuoi sapere di lui?» Agito la mano verso i suoi schedari ordinarissimi e chiusi a chiave. «Tutto quello che hai.» «È morto.» «Questo lo so. Ero a Martha's Vineyard quando è successo.» «Davvero? Ma guarda!» Si alza e si dirige verso lo schedario, ma passandomi accanto mi dà una pacca sulla spalla riuscendo in qualche modo a insinuare che siamo andati in guerra insieme ma che soltanto io ho visto combattere. Il gesto non mi infastidisce, poiché conferma ciò che in parte speravo e a cui in parte odiavo pensare: che nei dossier della commissione sui servizi segreti figura il nome di Colin Scott. Il che spiega, fra le altre
cose, la ragione per cui l'Fbi era così riluttante a rivelarlo a Meadows. «Colin Scott» borbotta Ethan, facendo ruotare la serratura a combinazione di uno dei neri mostri metallici che percorrono la parete più lontana. «Colin Scott. Sei qui, da qualche parte.» Fa mostra di sfogliare con attenzione gli incartamenti, anche se non dubito che sappia esattamente dove trovare le informazioni, grazie alla sua memoria o forse perché di recente ha tirato fuori la cartella per aggiungervi le note sulla morte di Scott. «Che ne dici di questa storia di Marc?» mi domanda da sopra la spalla mentre prende tempo. «Pensi che sia vera?» «Non lo so.» Mantengo un tono di voce neutrale. Avendo parlato con Theo non ho dubbi che Marc abbia fatto ciò di cui è accusato, anche se non si è ancora ufficialmente ritirato dalla corsa. Ma mi interessa vedere da che parte intende schierarsi il gran politico Brinkley. Ethan, che probabilmente non sa nulla della candidatura di mia moglie, è per natura uno che non si sbilancia. Da quando si è unito a noi schiva le controversie come un gatto evita l'acqua. Le proposte su cui ama discutere sono soltanto di due tipi: quelle che passano all'unanimità e quelle che vengono ritirate senza un voto. «È un gran brutto affare» conviene, avendo un bel giorno deciso che l'occasionale frase fatta gli conferisce un'aura di ponderosità. «Suppongo che prima di sbilanciarsi uno voglia vedere le prove, no?» «Suppongo.» «Non bisogna trarre conclusioni affrettate. Molto poco scientifico» ammonisce. «Ecco qui» aggiunge raddrizzandosi con una sottile cartella in mano, e per un istante immagino scioccamente di essere ancora nell'ufficio di Theo mentre lui tira fuori le prove del peccato di Marc Hadley. «Colin Scott?» Ethan annuisce. «Proprio lui.» Torna verso di me, ma stavolta si appollaia sull'angolo della scrivania, che come il resto dell'ufficio è talmente pulita da far sospettare al visitatore occasionale che non ci lavori nessuno. Le fotografie d'obbligo di moglie e figlia piccola sono così perfettamente allineate che Ethan deve aver usato un righello. Le foto autografate di personaggi importanti di Washington sono decisamente più grandi. «Ora, Misha, c'è un piccolo problema» comincia in tono di scusa, e mi rendo conto che sta per arrivare un predicozzo sulla riservatezza, poiché malgrado Ethan Brinkley non possieda alcuna traccia di moralità, ha la capacità del politico di parlare come se ne avesse in abbondanza. «Queste informazioni sono tecnicamente proprietà del governo federale. Se ti mo-
strassi questo pezzo di carta, potremmo finire entrambi in prigione.» Il suo volto affabile si gonfia per l'orgoglio al pensiero di essere in possesso di un documento tanto delicato, malgrado l'abbia rubato. «Capisco.» «Ma posso dirti cosa contiene.» «Va bene.» Non vedo alcuna differenza legale tra le due cose e dubito che la veda pure Ethan, anche se senza dubbio giurerebbe di fronte al gran giurì che era convinto di non violare le regole: "Se non leggo ciò che è scritto sulla pagina, se mi limito a riassumerlo o parafrasarlo, non sto esattamente diffondendo i contenuti del documento, e dunque non sono soggetto ai divieti previsti dalla legge". Pignolerie legali di questo tipo tendono a far infuriare il pubblico, ma sono spesso un ottimo sistema per sfuggire alle responsabilità di aver infranto la legge. I politici ne sono entusiasti, tranne quando a servirsene è un membro dell'opposizione. Noi professori di legge le insegniamo ogni giorno ai nostri studenti come se fossero virtù. «Colin Scott, Colin Scott» ripete assorto Ethan, fingendo di leggere il documento per la prima volta. «Non era un uomo particolarmente piacevole, il nostro Colin.» «Ah, no? In che senso?» Ethan non permette che gli si faccia fretta. Detesta lasciare il centro del palcoscenico, anche solo per un istante, e si esercita di continuo per la grande occasione che gli si presenterà. «Era un uomo dell'Agenzia, ovviamente. Ma questo lo sai.» Non lo sapevo di certo, e nemmeno lo zio Mal, il quale sa tutto, ha reputato giusto informarmi; ma se la notizia fosse una completa sorpresa a questo punto non sarei qui. Ciò nonostante, la conferma è un secondo colpo ai danni di Mallory Corcoran. «Lo è stato per molto tempo» prosegue Ethan. «Mmh. Missioni all'estero... Be', questo immagino di non potertelo dire. Erano i vecchi tempi, quando ancora esisteva quella conosciuta come la "divisione Strategie". Vedo che non ne hai mai sentito parlare. Bell'eufemismo, vero? Adesso la chiamano "Operazioni". Gli agenti che sono là fuori, al di là dell'oceano, a fare cose. Bene, bene.» Continua a esaminare le pagine. «Tutto questo succedeva negli anni Sessanta, Misha. Grosse zone d'ombra, enormi. Non così insolito, con i gentiluomini della divisione Strategie. Non conosco la precisa estensione delle sue attività. Ma era corrotto, e l'Agenzia l'ha scaricato. Dev'essere stato... sì, dopo il caso Church. Scopa nuova scopa bene. Era uno della vecchia guardia. Un uomo pericoloso.» «Perché pericoloso?»
Ma il folletto Ethan preferisce elargire le sue piccole sorprese una per una e aspettare le reazioni. «Colin Scott non è il suo vero nome, lo sai.» «A dire il vero non lo sapevo, ma non posso dire di esserne sorpreso.» Quando sono con Ethan, sembro scivolare nella stessa pomposa sintassi che è il suo unico modo di comunicare. «È uno dei suoi nomi, naturalmente» riprende Ethan. «Ne ha diversi. Guarda un po'. Mmh. Sì. Vedi, Scott è il nome che gli hanno dato insieme a una nuova identità quando l'hanno espulso dalla Cia. L'hanno sistemato, vediamo, ah sì, gli hanno aperto un'agenzia investigativa in South Carolina. Ma questo lo sapevi. Ma il South Carolina non è stato la sua prima tappa post-Agenzia, e Scott era il suo secondo nuovo nome. Sembra che alcuni vecchi amici, del tipo non amichevole, avessero avuto qualcosa da ridire sul vecchio. Sul vecchio nuovo nome, intendo.» «Stai parlando di nemici.» «Be', sì.» È irritato dalla mia interruzione: si sta divertendo a provocarmi. «Qual era il suo vero nome?» «Oh, Misha, è naturale che se fosse per me te lo direi, ma capisci, la sicurezza nazionale... Spiacente, ma le regole sono regole» si scusa con fare presuntuoso. All'improvviso questo mistero è pieno di gente che potrebbe aiutarmi a capire cosa sta succedendo ma che si rifugia nei principi per giustificare il suo rifiuto. «Che cosa faceva nell'Agenzia?» chiedo tanto per tener viva la conversazione; in realtà, sono quasi a corto di idee. «Circolava.» Ethan sorride nel vedere la mia occhiata vacua. Adora il gergo. «Era nella divisione Strategie, come ti ho detto, ma lavorava anche per Angleton, che ha diretto il controspionaggio fin quando non è stato cacciato. In seguito ha partecipato alle attività paramilitari nel Laos, aveva molti contatti negli Shan... ma non voglio annoiarti con i dettagli. Il punto è che ogni volta che c'era un sentore di comunismo, un focolaio da spegnere, chiamavano il signor Scott. Non era un fanatico, bada bene. Non era iscritto alla John Birch Society o cose simili. Quel genere di individuo tende a darsi alla politica, non allo spionaggio, e a dire la verità i servizi segreti non vogliono gente simile. No, il nostro signor Scott era più il tipico soldato. Un tecnocrate, se vuoi. Totalmente dedito alla missione. Il tipo di agente che seguiva gli ordini, anche se gli ordini erano, come dire, di quelli che non avrebbero mai dovuto vedere la luce del sole. Un uomo pericoloso, come ho detto, proprio per questa ragione. Superato, naturalmente. Un
dinosauro. Reliquia di un'era la cui fine non rimpiangiamo di certo.» Insinuando che non rimpiangiamo nemmeno la morte di Scott, chiunque noi siamo. E insinuando qualcos'altro, qualcosa che temo ma che ho sepolto fin quasi dalla sera in cui lo zio Mal mi ha rivelato che l'agente McDermott era un impostore; un timore che si è di colpo ridestato quando ho sentito il racconto di Sally; un timore che è giunto ferocemente in superficie una volta che Addison mi ha spiegato che piglia era in realtà figlia. «Stai dicendo che era... che uccideva la gente.» «Non posso confermarlo, naturalmente» dice Ethan con sussiego. «Diciamo soltanto che è, o meglio era, un uomo pericoloso.» Ci rifletto. Una minacciosa reliquia, un dinosauro espulso dall'Agenzia, che parla con mio padre nel mezzo della notte. Il Giudice che gli dice che non esistono regole, quando c'è di mezzo una figlia. Una figlia, non chi piglia. Un dinosauro che si ripresenta un quarto di secolo più tardi fingendosi un agente dell'Fbi e cercando affannosamente qualcosa, forse mettendo a soqquadro Vinerd Howse e infine annegando al largo di Menemsha Beach. Mi sta sfuggendo qualcosa, e ho il sospetto che sia qualcosa di ovvio. Poi capisco. «Solo un'altra domanda, Ethan. Di preciso quando è stato cacciato dall'Agenzia, il nostro signor Scott o comunque si chiamasse?» Ethan assume una posa virtuosa. «Oh, non credo affatto che sarebbe appropriato fornirti le date, Misha. La legge è... be', la legge è quello che è.» «Ma è successo dopo le udienze del caso Church, giusto? E le udienze del caso Church si sono svolte quando? Nel '74? Nel '75?» «Più o meno, sì.» Allora Colin Scott era già stato allontanato dall'Agenzia quando Sally e Addison l'avevano sentito discutere con il Giudice. Su una figlia e non su chi piglia. Allontanato dall'Agenzia. Da poco allontanato dall'Agenzia. Amareggiato? Disperato? Disposto a lasciarsi sedurre dai deliri di Jack Ziegler? E dalla possibilità di... «Ethan, un'ultima cosa.» «Quello che vuoi, Misha. Entro i confini della legge, ovviamente.» «Quando la Cia gli ha procurato l'agenzia di investigazioni, dove gliel'ha fatta aprire?» «Maryland. A Potomac, nel Maryland. Al di là del fiume rispetto a Langley, capisci?»
«E che nome ha usato?» «Oh, non credo proprio che...» «Lascia perdere.» Sono in piedi. Non posso resistere un altro secondo in questo posto. «Grazie, Ethan. Mi sei stato di grande aiuto. Se avrai mai bisogno di qualcosa...» «Lo apprezzo molto, Misha, davvero» mormora lui, e l'espressione solidale gli torna sul volto mentre mi offre un'altra di quelle sue strette di mano da politico consumato. Attraverso il corridoio sentendo le gambe molli, apro la porta del mio ufficio, la richiudo sbattendola alle spalle e crollo su una delle traballanti sedie sui lati. Mi manca la forza di raggiungere la scrivania, e così dovrò accontentarmi di piangere qui. Perché ora so quello che avrebbe dovuto essere ovvio, ciò che avrei dovuto capire fin da subito ma che riesco improvvisamente a vedere con orribile, cristallina chiarezza. Colin Scott, conosciuto anche come agente speciale McDermott, aveva in effetti usato il nome di Jonathan Villard. Quando era dovuto scomparire, l'Agenzia aveva fabbricato la storia della sua morte di cancro. Non c'era da stupirsi che la polizia non avesse la copia del rapporto di Villard. Forse il Giudice non gliel'aveva mai fornita. Forse non ne aveva mai avuto l'intenzione. E forse aveva mentito alla sua famiglia sostenendo il contrario. Gli avversari di mio padre avevano sempre avuto ragione. Non meritava un seggio alla corte suprema. Ma non per le ragioni che loro immaginavano: non perché aveva pranzato troppo spesso con Jack Ziegler, né per i loro veri motivi, le sue sgradevoli opinioni politiche. Avevano ragione perché il Giudice conosceva Colin Scott. Avevano ragione perché il Giudice, quando Abby era morta e la polizia aveva fallito, non aveva soltanto assoldato un investigatore. Aveva assoldato un assassino. Parte terza FUGA IMPREPARATA Fuga impreparata - Nella composizione di problemi scacchistici a due mosse, una casella sulla quale il re nero può spostarsi senza subire un immediato scacco matto. L'aspirante risolutore del problema si concentrerà naturalmente su come dare scacco matto su
questa casella, rendendo il problema troppo facile. La fuga impreparata è considerata un difetto di composizione grave e forse fatale. 38 UN INTERLUDIO DOMESTICO Il martedì è il giorno della spazzatura. Trascino i bidoni fino al marciapiede sotto un cielo scuro, poi faccio un po' di jogging su Hobby Road, il massimo che il mio corpo riesca a sopportare: tre isolati verso ovest, che mi fanno avvicinare al campus, quindi tre isolati nella direzione opposta, che mi portano al limitare del quartiere operaio italiano confinante con Hobby Hill, e infine, proprio mentre cominciano a cadere le prime gocce di fredda pioggia invernale, i tre isolati che mi riportano a casa. Dodici isolati in tutto, probabilmente meno di un chilometro e mezzo. Ho dormito male per tutta la settimana dopo il mio colloquio con Ethan Brinkley. So cosa bisogna fare, ma sono riluttante. E non solo perché mia moglie mi sta praticamente implorando di fermarmi. La verità è che temo di scoprire qualcos'altro su mio padre. Ho saputo che il Giudice aveva pagato qualcuno per uccidere, e assoldare un assassino è una pena capitale in gran parte degli Stati Uniti. Il resto non può che ammontare a qualche variazione sul tema. Per qualche secondo provo con tutte le mie forze a odiare mio padre, ma non ne ho la capacità. Quello che faccio, invece, è aumentare l'andatura. I miei muscoli intorpiditi protestano dando fuoco ai tendini, ma io insisto. Con calma, niente di troppo impegnativo, ma continua a muoverti, avanti così, puoi correre per chilometri se soltanto dimentichi di fermarti. Ripasso davanti alla mia casa, calda e accogliente, e la tentazione mi si spalanca davanti, ma decido di proseguire. L'aria è frizzante, ideale per il jogging, con fievoli indizi della lontana primavera in ogni alito di brezza. Corro e penso. Una berlina - non verde e infangata come quella sul Dupont Circle, non una Porsche come quella che John Brown e io abbiamo adocchiato dietro casa - passa veloce su una pozzanghera e mi schizza di acqua sporca. Me ne accorgo a malapena. Sto passando in rassegna i miei colleghi, volto dopo volto, i gentili e gli arroganti, gli intelligenti e gli stupidi, quelli che mi rispettano e quelli che mi disprezzano, cercando inutilmente di capire chi fra loro possa avermi tradito... se si può parlare di tradimento quando l'uni-
co impegno infranto è quello alla comprensione. Perché qualcuno dell'edificio sembra tenermi d'occhio, scoprendo quando sono diretto alla mensa gratuita e al club scacchistico. Chi è il nemico invisibile? Un ambizioso giovane in carriera come Ethan Brinkley? Un membro della vecchia guardia come Theo Mountain o Arnie Rosen? E perché non Marc Hadley, il rivale di mia moglie? Una volta eravamo amici, ma è passato del tempo. Oppure il grande Stuart Land, che pensa di dirigere ancora la facoltà? Dio solo sa quali fantasiosi disegni si celino dietro il suo plastico sorriso. Ma la spia dev'essere per forza un uomo? Dean Lynda sembra avermi preso in profonda antipatia... anche se io le ho facilitato il compito. E dev'essere per forza bianca? Il distante Lem Carlyle, nella migliore tradizione delle Barbados, tiene per sé le sue vere opinioni... e negli ultimi tempi è molto evasivo nei miei confronti. Ma le congetture non risolveranno nulla. Mia moglie ha trascorso l'intero fine settimana a San Francisco: la trattativa, sostiene, sta arrivando al punto cruciale. Io ho trascorso l'intero fine settimana con mio figlio. Non ho svolto alcun lavoro, mi sono semplicemente dedicato al mio bambino. Al suo ritorno, ieri pomeriggio, una stanca Kimmer si è seduta in cucina sorseggiando chardonnay mentre io cercavo di raccontarle gli eventi dell'ultima settimana e mi ha interrotto: "Misha, ti prego, non adesso, ho mal di testa". Sorridendo della battuta con cui ha nascosto la semplice verità: che è stanca di sentirmi parlare di queste cose. Invece di ascoltarmi, ha aggirato il banco e mi ha baciato per zittirmi, poi ha infilato la mano nella borsa e mi ha offerto il mio ultimo trofeo per il secondo posto, un orologio da tavolo al quarzo con la montatura dorata, facendomi capire che la sua ultima trasgressione è stata grave. L'ho ringraziata tristemente e sono uscito di casa, precipitandomi a tenere una lezione serale alla classe di un'ex compagna di studi che insegna a Emory, dove è diventata la più eminente - e forse l'unica - autorità del paese sul Terzo emendamento. Sono tornato a casa tre ore più tardi e ho scoperto che Kimmer, malgrado la stanchezza, mi aveva aspettato sveglia, e abbiamo fatto il disperato, appassionato amore di due innamorati clandestini che potrebbero non vedersi mai più. Più tardi, prima di addormentarsi, mia moglie mi ha detto che le dispiaceva, ma non ha aggiunto per cosa. I miei polmoni segnalano di averne avuto abbastanza. Rallentando l'andatura, svolto in una strada laterale a quattro isolati da casa. Il percorso mi conduce davanti all'esteso campus dell'Hilltop, la più rigida fra le scuole elementari private della città, e mi rammento che più o meno fra un anno
prenderemo appuntamento per il colloquio di Bentley. Per stabilire se meriti l'ammissione all'asilo dell'Hilltop. Un colloquio a quattro anni di età! Proseguo nella corsa, non riuscendo a credere davvero che sottoporremo il nostro bambino a queste idiozie. Un tempo i figli dei docenti universitari venivano ammessi d'ufficio, ma ciò succedeva prima che l'aumento dei costi e delle rette costringesse la scuola ad andare alla ricerca dei figli della classe mercantile della regione. L'anno scorso l'Hilltop ha respinto la più piccola delle tre timide figlie della mia collega Betsy Gucciardini, e per un mese Betsy ha ostentato la sua frustrazione e il suo dolore come veli di lutto, identificando apparentemente la mancata ammissione all'Hilltop con la fine della vita produttiva di sua figlia. Mi chiedo, e non per la prima volta, che cosa sia successo all'America, e poi ricordo che il mio vecchio amico Eddie Dozier, l'ex di Dana, sta per pubblicare un libro in cui invoca la chiusura di tutte le scuole pubbliche e l'abbattimento delle imposte che le finanziano. Il mercato, ci assicura, fornirà al loro posto un'abbondanza di istituti privati. In modo che ogni bambino d'America possa affrontare un colloquio prima ancora dell'asilo. Magnifico. «Concentrati su ciò che conta» sibilo rallentando il passo fino a camminare. Quando entro barcollando in casa sono le sette passate. Kimmer ha preparato uova e pancetta - di solito è compito mio - e arriva perfino a baciarmi teneramente sulle labbra. È così dolce che gli ultimi mesi potrebbero non esserci mai stati. Mi chiede scusa, non per essersi rifiutata di ascoltarmi ieri sera, ma perché questa mattina deve andare in ufficio. Sperava di poter lavorare a casa, ma sono saltate fuori troppe cose. Sorrido, mi stringo nelle spalle e dico a mia moglie che capisco. Non le dico che sono ferito. Non le dico di essere sicuro di averla avvisata che anch'io potevo lavorare a casa e così avremmo passato la giornata insieme. Invece, sorrido. «Cosa ti rende tanto felice?» chiede Kimmer, cingendomi a sorpresa la vita con un braccio. La bacio sulla fronte. Non esiste risposta prudente alla sua domanda, anche se di vere ce ne sono molte. Mi rendo conto di aver finalmente superato il Giudice: sono bravo quanto lui a nascondere i miei sentimenti, ma superiore nel fingere di essere felice quando in realtà sono avvilito. Facendo colazione sfogliamo i nostri due quotidiani, il "New York Times" e l'"Elm Harbor Clarion", ognuno dei due, per ragioni diverse, alla ricerca di articoli su mio padre. Sono immerso nella lettura della pagina
sportiva del "Clarion", intento a rimuginare sugli ultimi infortuni dei giocatori della sfortunata squadra universitaria di basket, quando decido che è giunto il momento di comunicare a mia moglie l'ultima cosa che devo fare. Non mi aspetto che lo apprezzi. Ripiego con cura il giornale e guardo il suo volto delicato, gli intensi occhi castani dietro gli occhiali, i segni della mezza età che ogni mese si fanno sempre più profondi sulle guance. La sua bocca forma un piccolo arco verso l'alto. So che sa che la sto guardando. «Kimmer, tesoro» comincio. Lei fa dardeggiare lo sguardo verso di me, poi torna ad abbassarlo sulla pagina degli editoriali del "Times". «Vuoi sentire un commento divertente sul programma fiscale del presidente?» «No, grazie.» «È spiritoso, sai.» «No, Kimmer. Voglio dire, non adesso. Dobbiamo parlare.» I suoi occhi si muovono nella mia direzione, quindi tornano sul giornale. «È importante? Non può aspettare?» «Sì. E no, credo di no.» Mia moglie, splendida come sempre nella sua vestaglia, alza lo sguardo e mi manda un bacio. «L'hai trovata? La tua regina Nzinga del traghetto?» Sulle prime sono sconcertato, temendo che chissà come abbia scoperto il mio tête-à-tête con Maxine a Martha's Vineyard, ma poi capisco che sta solo scherzando, o magari sperando. «Niente di così interessante.» «Peccato.» «No, non peccato. Io ti amo, Kimmer.» «Sì, ma solo perché sei un masochista.» Lo dice con un sorriso, distogliendomi dal mio proposito, senza l'intenzione di ascoltare ciò che ho da dire. Ma io devo farlo, e non vedendo alcun modo di indorare la pillola decido di essere esplicito. «Kimmer, devo andare a parlare con Jack Ziegler.» Il giornale si richiude con uno scatto secco. Ho guadagnato la sua attenzione. Quando mia moglie risponde, la sua voce è minacciosamente bassa. «No che non devi.» «Invece sì.» «Invece no.» «Mi limiterei a chiamarlo» propongo, fingendo che il nostro disaccordo sia su una questione leggermente diversa «ma lui non parla molto al tele-
fono.» «Teme le intercettazioni, senza dubbio.» «È probabile.» Lo sguardo di Kimmer non vacilla. «Misha, tesoro, io ti amo e mi fido di te, ma nel caso te ne sia dimenticato sono candidata a un seggio presso la corte d'appello degli Stati Uniti. Il fatto che il mio maritino vada a far visita a un certo Jack Ziegler non mi aiuterà di sicuro.» «Non è necessario che lo si sappia» rispondo, ma sto improvvisando. «Credo che lo sapranno in molti, e quasi tutti quelli che lo sapranno lavorano al Federal Bureau of Investigation.» Ci ho pensato, naturalmente. «Prima chiederei il permesso allo zio Mal.» «Oh, bene. Così potrà dirlo a tutta Washington.» «Kimmer, ti prego. Sai cosa sta succedendo. In parte, almeno. Sai quello che mi hai concesso di dirti.» Nell'udire questa frase sgrana gli occhi, ma ormai non posso più fermarmi. «Nelle ultime settimane ho scoperto molte... cose orribili su mio padre. Devo sapere se sono orribili come sembrano, e credo che Jack Ziegler lo sappia.» «Se ci sono di mezzo cose orribili, non c'è dubbio che Jack Ziegler ne sia al corrente.» «È per questo che gli devo parlare. La gente capirà.» «La gente non capirà affatto.» «Devo sapere cosa sta succedendo.» Ma penso a Morris Young e al racconto di Noè e mi chiedo se non mi stia sbagliando. «Non credo che stia succedendo niente, Misha. Niente di quello che pensi, in ogni caso.» «Probabilmente hai ragione, tesoro, ma...» «Se parlerai con lui, ci saranno altri guai. Lo sai che ci saranno.» Visto che non dice da parte di chi, potrebbe essere una minaccia. «Kimmer, ti prego.» Il mio tono è dolce. Temo che mia moglie si metta a gridare come fa ogni tanto, svegliando Bentley. O i vicini. In nessuno dei due casi sarebbe la prima volta. «Ti prego» ripeto ancora con dolcezza, sperando che la risposta di Kimmer sia altrettanto gentile. «Sei tu a ripetere sempre che Jack Ziegler è un mostro.» Il suo tono è basso, ma ha più del sibilo che del compromesso. «Lo so, ma...» «È un assassino, Misha.» «Be', non è mai stato condannato per omicidio.» Mi sta costringendo a parlare come uno degli innumerevoli avvocati dello zio Jack, e la cosa non
mi piace un granché. «Per altri crimini, ma non per omicidio.» «Tranne che ha ucciso sua moglie, giusto?» «Così si diceva.» Cerco di rammentare la risposta che il Giudice diede alla commissione giudiziaria, poiché fu proprio la domanda del senatore Biden, unita all'inutile replica di mio padre, a costargli più di tutte le altre. "Non giudico i miei amici sulla base di dicerie" disse... o qualcosa del genere. E incrociò le braccia sul petto in un gesto che anche il più incompetente degli esperti di pubbliche relazioni avrebbe potuto raccomandargli di non fare mai, per nessuna ragione, sulle reti televisive nazionali. Anche se comprensibilmente infuriato per quella che considerava una linea d'interrogatorio ingiusta, mio padre diede un'impressione di arroganza e altezzosità. Un commentatore scrisse che il giudice Garland era sembrato accantonare come una sciocchezza il fatto che un uomo potesse aver ucciso sua moglie: affermazione ridicola, ma che mio padre aveva provocato perdendo la pazienza di fronte a decine di milioni di spettatori. In quell'orribile istante di diretta televisiva mi resi conto che la battaglia era persa; che per quanto il Giudice avesse potuto schivare i colpi, i suoi avversari l'avevano messo all'angolo; che il colpo del knock-out sarebbe balenato da un momento all'altro davanti ai suoi occhi, appena prima di metterlo al tappeto. E provai una rabbia violenta, non nei confronti del Senato o della stampa, ma nei riguardi di mio padre: come aveva potuto essere tanto stupido? C'erano circa seimila risposte possibili alla ragionevolissima domanda di Biden, e il Giudice aveva scelto la peggiore. Eppure adesso, controinterrogato da Kimmer, mi ritrovo a seguire il suo esempio. «Ma non è mai stato accusato formalmente, tesoro. Non è mai stato arrestato. Per quanto ne so, quello che è successo a sua moglie è stato un incidente.» Quasi testuale, ne sono sicuro: esattamente ciò che il Giudice disse al senatore Biden. Con l'eccezione di quel "tesoro". «È caduta da cavallo e si è spezzata il collo malgrado vent'anni di equitazione alle spalle, ed è stato un incidente?» «Non è un gran bel sistema per uccidere qualcuno» osservo. «La vittima potrebbe farsi soltanto qualche graffio e andare in giro a raccontare chi l'ha spinta.» Kimmer mi scocca un'occhiata. «Stai scherzando, vero?» «No, sul serio. Sto dicendo che non sappiamo di sicuro cos'è accaduto alla moglie di Jack Ziegler, ma che l'omicidio sembra poco probabile. E io dovrei condannarlo sulla base di qualche diceria?» Oh, detesto questa componente di me stesso, davvero, allo stesso modo
in cui odiavo quella del Giudice; ma, a quanto pare, non riesco a fermarmi. «Dicerie!» «Visto che non è mai stato incriminato...» «Oh, Misha, ma ti senti? Fino a che punto arriva il tuo legalismo?» "Sembra di sentir parlare tuo padre" sta dicendo. Ed è vero. «È solo una visita, Kimmer. Un'ora, forse anche mezza.» «È un pazzo, Misha. È un pazzo pericoloso. Non voglio averci nulla a che fare.» Sta alzando la voce, nella quale sta comparendo una netta sfumatura di isterismo. «Kimmer, andiamo. Considera i fatti. Freeman Bishop è morto...» «La polizia dice che è stata una faccenda di droga.» «Colin Scott ha finto di essere un agente dell'Fbi per ottenere informazioni sul Giudice, e adesso è morto anche lui...» «È stato un incidente!» Addio toni dolci. «Un incidente mentre mi stava pedinando. Mentre ci stava pedinando.» «Be', è stato comunque un incidente. Si è ubriacato, è annegato e adesso è morto, va bene? Dunque, lascialo perdere.» «E non credi che dovremmo essere preoccupati?» La cosa sbagliata da dire. Totalmente sbagliata. Me ne rendo conto all'istante. Mi sento come uno scacchista che ha appena mosso il cavallo ma si rende conto con un attimo di ritardo che la sua regina è minacciata. «No, Misha. No, non sono preoccupata. E perché dovrei esserlo? Perché sono sposata con un uomo che è ammattito? La cui sorella si è trasformata in una specie di... di teorica del complotto? Un uomo convinto che la soluzione di tutti i suoi problemi sia volare ad Aspen e far visita a un criminale che ha ammazzato sua moglie e coinvolgere quel criminale nella nostra esistenza? No, Misha, non sono affatto preoccupata. Non c'è niente di cui preoccuparsi.» Cerco di placarla. «Kimmer, per favore. Il Giudice era mio padre.» «E io sono tua moglie! Ricordi?» Si aggrappa agli stipiti della porta come se temesse che la rabbia la possa travolgere. «Sì, ma...» «Sì, ma! Sei tu quello che parla sempre di fedeltà. Be', per una volta dimostrati fedele a me! E non parlo di non guardare le altre donne per poterti sentire superiore a tutti. Superiore a me. Fedele nel senso di fare qualcosa per me. Qualcosa di importante.» «Ho fatto molto, per te» rispondo nel tono più calmo che riesco a mantenere. Mi piace pensare di essere ormai immune alle provocazioni di mia
moglie, ma le sue parole bruciano. «Le cose che fai per me sono le cose che tu vuoi fare, non quelle che voglio io.» Sto cercando di ricordare quanto mi sono sentito vicino a Kimmer ieri sera stringendola fra le braccia, carezzandole la schiena, sentendola chiedermi scusa prima di addormentarsi. Ieri sera. L'anno scorso. Un decennio fa. È tutto svanito nella stessa misura. «Kimmer, se...» «Come se io non avessi mai fatto niente per te!» Mentre gli occhi di mia moglie continuano a fiammeggiare, rimango sbalordito dalla sua passione, ingigantita dallo spazio angusto della cucina. In piedi nella sua vestaglia, con la sua acconciatura afro in disordine, Kimmer rimane la donna più desiderabile che io abbia mai conosciuto, eppure ho la sensazione che se facessi una mossa a lei sgradita mi metterebbe al tappeto. Questa furia sta filtrando fin dal mio ritorno da Martha's Vineyard. Nonostante le rivelazioni su Marc Hadley, Kimmer sembra credere che la possibilità di essere nominata le stia sfuggendo. Non so di preciso perché lo pensi; so solo che me ne fa una colpa. Allo stesso modo in cui mi rinfaccia molte altre cose. Ho sentito la litania un centinaio di volte, un centinaio di racconti diversi sui modi in cui Talcott Garland le ha rovinato la vita. Su come mi abbia sposato per far piacere ai suoi genitori quando c'erano uomini molto più brillanti che mostravano interesse per lei. Su come abbia lasciato la sua eccitante attività presso uno degli studi legali più prestigiosi di Washington e mi abbia seguito in questa cittadina del New England mortalmente noiosa. Su come gran parte dei nostri conoscenti (qui abbiamo pochi amici, osserverebbe Kimmer in tono accusatorio) siano professori universitari che la guardano dall'alto in basso perché non è una di loro. Su come sia diventata socia di uno studio legale poco importante di cui nessuno ha mai sentito parlare. Su come abbia avuto un figlio per far felice suo marito senza pensare in che situazione si stava cacciando e su come a causa sua si trovi imprigionata in un matrimonio che non funziona. Su come la sua vita da allora sia una lenta corsa fra la noia e la follia. Kimmer ha fatto tutte le scelte, ma il colpevole sono sempre io. «Mi dispiace» dico alzando le mani in segno di pace. «Misha, ti prego. Fallo per me. Per il nostro matrimonio. Per nostro figlio. Promettimi che non farai entrare quell'uomo nella nostra vita. Che non andrai da lui. Che non lo chiamerai.»
E in questo istante distinguo qualcos'altro, una versione dello stesso timbro stridente che la voce di Jack Ziegler tradiva al cimitero, inaspettato adesso quanto allora: Kimmer ha paura. Non la paura fisica dell'anima per la sua fuggevole esistenza mortale, e nemmeno il disperato istinto di protezione della madre nei confronti del figlio. No, la paura per la sua carriera. È prossima a quello che ha sempre voluto, e non vuole che lo zio Jack glielo rovini. Come posso biasimarla? Decido che non c'è alcuna ragione per alimentare i suoi timori. Non in questo momento. «E va bene, tesoro. Va bene. Mi terrò alla larga dallo zio Jack. Non farò niente che possa... causare imbarazzo. Ma...» «Non smetterai di cercare. È questo che stavi per dire?» «Devi capire, tesoro.» «Oh, lo capisco, davvero.» Il suo sorriso è di nuovo caloroso. Aggira il banco e mi abbraccia da tergo. In un istante siamo tornati all'intimità di ieri sera. «Ma niente Jack Ziegler.» «Niente Jack Ziegler.» «Grazie, caro.» Mi bacia un'altra volta, sorridendo. Si alza per sparecchiare. Le dico che ci penso io e lei non si oppone. Parliamo come se non esistesse alcun conflitto. Siamo diventati alquanto abili a fingere che fra noi non ci siano problemi. E così parliamo d'altro. Decidiamo che oggi non porteremo Bentley alla sua scuola montessoriana. Per una volta lo lasceremo dormire, visto che io resterò a casa. Kimmer mi ricorda che domani siamo invitati a cena da uno dei suoi soci e mi chiede di confermare la baby sitter, un'adolescente nippo-americana che abita a un isolato di distanza e incanta Bentley suonando il flauto. In cambio io le chiedo se, tornando a casa, può passare dall'ufficio postale per spedire due mosse scacchistiche terminate ieri sera, che devono avere entrambe il timbro postale di oggi. (Ogni giocatore ha tre giorni di tempo per ogni mossa.) Quando abbiamo completato i complessi negoziati di una tipica mattina in una famiglia con due carriere, Kimmer va a vestirsi. Ricompare venti minuti dopo con un completo gessato e una camicetta di seta azzurra. Mi dà un altro bacio, questa volta sulla guancia, e se ne va come sempre alle otto e un quarto precise. Guardo attraverso il bovindo del soggiorno la Bmw immacolata che si allontana lungo Hobby Road, inghiottita quasi subito dalla cortina di pioggia. Metto le mani avanti e mi chino verso il vetro. Woody Allen ha scritto qualcosa di ironico sul fatto di amare la pioggia perché cancella i ricordi,
ma io ricordo ancora la fotografia della mano insanguinata di Freeman Bishop. Ricordo ancora il volto dell'agente speciale McDermott che mi fissava dalle pagine della "Vineyard Gazette". Lo vedo sulla barca con il suo amico Foreman, vedo un litigio e McDermott/Scott che viene gettato in mare. Vedo mio padre che discute con un guardingo Colin Scott un quarto di secolo or sono, cercando di convincerlo a uccidere l'uomo che ha ucciso sua figlia. Eppure, alla luce del nuovo giorno, anche piovoso come questo, le immagini sono molto meno spaventose. Meno spaventose, per esempio, del pensiero che un giorno mia moglie possa allontanarsi lungo Hobby Road e decidere di non fermarsi. Osservando la strada deserta, ricordo dai tempi lontani del college un passo di Tadeusz Różewicz, qualcosa sul fatto che un poeta è qualcuno che cerca di andarsene ma non ne è capace. Questa è mia moglie, Kimmer la poetessa. Solo che adesso si tiene per sé i versi migliori. O li condivide con qualcun altro. 39 VISITATORI INASPETTATI Mallory Corcoran telefona poco dopo le dieci con la notizia che Conan Deveaux ha deciso di dichiararsi colpevole di omicidio di secondo grado. Lui e il suo avvocato hanno esaminato le prove a carico e hanno deciso che erano troppe. Grazie al patteggiamento Conan eviterà l'iniezione letale, ma resterà in prigione per il resto dei suoi giorni. «Ha soltanto diciannove anni» aggiunge aspramente lo zio Mal «significa un bel po' di tempo.» «Dunque, è stato lui» sussurro in tono interrogativo. Sono davanti al banco della cucina, dove stavo sfogliando "Chess Life" e preparando una cioccolata calda per Bentley. Come ho potuto fraintendere in questo modo il suggerimento di Maxine? "Uno sbaglio." Intendeva forse dire qualcos'altro? «Probabilmente.» «Probabilmente? Si è appena offerto di passare cinquant'anni in galera.» Lo zio Mal risponde con una pedanteria da esperto avvocato: «Se la scelta è fra l'ergastolo e la pena capitale, ti aggrappi a tutto». Quindi ridiventa il vecchio amico: «Sul serio, Talcott, sono sicuro che sia stato lui. Ti prego di tranquillizzarti. Da quello che ho sentito, il caso era il sogno di
qualsiasi pubblico ministero. Avevano un testimone, le prove materiali della sua presenza sulla scena del delitto, qualche impronta e le sue vanterie. So che hai pensato che l'avessero incastrato, uno dei complotti di tua sorella o qualcosa di simile, ma le prove sono troppe perché qualcuno possa averle fabbricate». Ancora meravigliato, saluto lo zio Mal e porto due tazze di cioccolata nel salottino, dove Bentley è seduto al suo computer giocattolo e sta affrontando un gioco matematico in cui raccoglie piccole immagini di dolciumi se riesce ad abbattere i numeri che rispondono correttamente alle domande svolazzanti sullo schermo. Tanto per insegnargli i valori dell'ingordigia, dell'avidità e della violenza in un colpo solo, e allo stesso tempo migliorare il suo risultato all'esame di matematica che dovrà affrontare fra una dozzina d'anni. Mentre lo guardo, talmente concentrato da non rendersi conto della vicinanza di suo padre, mi siedo sul divano e poso le tazze sul tavolino. Questa stanza piace a tutti e tre. I mobili sono di pelle, un divano, un divanetto e una poltrona, ai cui piedi è steso un finto tappeto orientale che in realtà proviene da Sears. Scaffali di solido acero incassati e dipinti di bianco fanno da cornice a un malandato caminetto di pietra grezza; un'altra mensola spunta da sotto la finestra che dà sul cortile posteriore. Ci sono libri di politica e libri sul jazz, libri di viaggio, libri sulla storia dei neri e libri che riflettono i nostri gusti eclettici in fatto di narrativa contemporanea: Morrison, Updike, Doctorow, Smiley, Turow. Ci sono libri per bambini. C'è una Bibbia, l'inutile "Nuova versione riveduta", e il rituale della Chiesa anglicana. C'è una raccolta di C.S. Lewis. Ci sono libri sul fai da te e numeri arretrati di "AD". C'è qualche volume sugli scacchi. Non ci sono testi di diritto. Il telefono squilla di nuovo. Bentley alza gli occhi. Indico la cioccolata calda. «Minto, papà, Bemmy beve minto.» Fra un minuto, intende dire. Il telefono ha smesso di suonare. Mi rendo conto di aver sollevato la cornetta ma di non averla accostata all'orecchio, distratto da mio figlio. Lo faccio subito, e sento immediatamente il classico rumore di un cellulare con la batteria quasi scarica. E una voce maschile: «Kimmer? Kimmer? Pronto, sei tu, piccola?». «Non è in casa.» Il mio tono è quanto di più gelido riesca a evocare. «Desidera lasciare un messaggio?» Una lunga esitazione. Poi uno scatto.
Chiudo gli occhi, sentendomi leggermente vacillare mentre il mio abile bambino elimina numeri in modo sempre più rapido. Gli anni passano e la mia sicurezza si sgretola, così come la mia speranza. Quante volte nel corso del nostro matrimonio ho risposto a telefonate come questa: un uomo misterioso che cerca mia moglie e riaggancia quando rispondo io? Probabilmente meno di quante creda, ma più di quanto mi piacerebbe ricordare. Oh, Kimmer, come puoi farlo di nuovo! Sei tu, piccola? Ricaccio indietro un'ondata di disperazione. Concentrati, mi ammonisco. In primo luogo, la cadenza della voce mi dice che era un nero: in altre parole, non era Gerald Nathanson. Una nuova relazione? Due allo stesso tempo? Oppure un mio errore, come ha suggerito il dottor Young? Non c'è modo di saperlo finché mia moglie e io non affronteremo l'argomento in un litigio, come prima o poi accadrà. Mi sposto nel mio studio alla ricerca di una distrazione. La voce era familiare, questa è l'altra cosa. Non riesco a localizzarla, ma so che ci arriverò. Sei tu, piccola? Strano il modo in cui eventi improvvisi e preoccupanti su un matrimonio in fin di vita riescano a scacciare le ansie su torture, assassinii e misteriosi pezzi degli scacchi, ma le priorità sono bizzarre da questo punto di vista. Mi lascio cadere con un tonfo davanti al mio computer. Chi può essere tanto arrogante, mi chiedo, e tanto stupido da pronunciare la parola "piccola" telefonando a una donna sposata che non è nemmeno sicuro di trovare in casa? Scuoto nuovamente il capo, mentre il miscuglio di rabbia e paura e puro, esasperante dolore non lascia spazio ad alcun pensiero razionale. Vorrei gridare, fare una scenata, magari anche rompere qualcosa, ma sono un Garland, e così probabilmente finirò per scrivere. Sto saltabeccando fra i miei documenti, cercando di decidere quale saggio incompleto esumare e sottoporre a un'inutile revisione, quando il mio sguardo viene attirato da un'auto ferma sul lato opposto della strada. La Porsche blu. Il conducente, un'ombra al volante, sta inequivocabilmente tenendo d'occhio casa nostra. Valuto una lista di alternative ma scelgo quella che, nell'umore in cui sono, mi attira di più. Afferro la mazza da baseball che ho nascosto accanto alla scrivania la sera in cui sono stato aggredito. Infilo la testa nel salottino e dico a mio figlio di non muoversi. Lui annuisce mentre le sue dita
picchiettano furiose sul mouse facendogli guadagnare montagne di dolciumi e risolvendo problemi matematici. Non parlerà molto, ma di sicuro sa sommare, sottrarre, puntare e cliccare. Prendo un giubbotto leggero dall'armadio e apro di scatto la porta d'ingresso, brandendo la mazza e battendola sul palmo della mano in modo che l'uomo al volante dell'auto, chiunque sia, non possa evitare di vederla. Non posso fare quello che vorrei, e cioè attraversare la strada e sfasciargli la Porsche, perché non lascerei mai solo mio figlio, nemmeno per un attimo. Ma riesco a farmi capire. Il conducente, un membro della nazione più scura come avevo sospettato, mi fissa per un istante attraverso il finestrino. Vedo un paio di occhiali a specchio su un volto color ebano e poco altro. Poi, con grande calma, senza mostrare alcun segno di panico, ingrana la marcia e si allontana. Levo la mazza al cielo esultando ma mi nego un grido di vittoria. Invece rientro in casa, chiudo la porta, rimetto a posto la mazza e mi chiedo cosa diavolo credessi di fare. La foschia rossa di rabbia mi trascina a volte in strane direzioni, ma raramente mi ha condotto così vicino alla violenza. I pensieri mi si agitano nella mente alterata. L'uomo al volante dell'auto è innocente, abita o lavora in zona e ora andrà in giro a dire che sono pazzo. L'uomo al volante dell'auto è quello che ha telefonato cercando Kimmer, e Kimmer ha una relazione con lui. L'uomo al volante dell'auto è il finto agente Foreman. L'uomo al volante dell'auto è colui che mi ha restituito il libro sugli scacchi rubatomi dai miei aggressori. È tutte queste cose. Non è nessuna di queste cose. «Tu sei malato, Misha» mormoro in piedi nel mio studio. In strada non è rimasto nessuno, eccetto una delle nostre vicine che passeggia spingendo la carrozzina con i suoi due gemelli di tre mesi. «Hai bisogno di aiuto. Di tanto, tanto aiuto.» Immagino che mia moglie ne converrebbe. E così l'uomo della Porsche blu. E per un odioso istante concepisco un pensiero orrendo: l'uomo della Porsche è Lemaster Carlyle. Il perfetto Lemaster Carlyle che mi spia e tradisce sua moglie, che frequenta Kimmer all'insaputa di Julia. Che chiama Kimmer "piccola". Che forse ha lasciato il libro rubato nella mia macchina quando è arrivato in ritardo alla cena di Shirley. Spiegherebbe la sua recente freddezza. Ma la voce al telefono non assomigliava affatto alla sua: nessun accento delle Barbados, per esempio. E poi Lem è piccolo, mentre l'uomo che John Brown ha visto nel bosco era alto. Potrebbero esserci due
uomini di colore che ci girano intorno, ma il "rasoio di Occam", su cui il Giudice amava fare affidamento, ci avverte di non moltiplicare inutilmente le entità. E, comunque, l'intera faccenda è una tipica, stupida idea alla Misha Garland. Resto alla finestra, inveendo contro me stesso come fanno i maniaci depressivi, finché mi ricordo che dovrei bere la cioccolata calda con mio figlio. Mi affretto a rientrare nel salottino e trovo Bentley ancora al lavoro; si è scordato del cacao, si è scordato di suo padre, e grida di gioia azzeccando le risposte giuste e accumulando il suo bottino. Anche la mia infanzia deve aver prodotto simili, scintillanti momenti di gioia, ma io ne ricordo soprattutto le ombre. Suona il campanello. Mi giro in preda all'incertezza, chiedendomi se dovrei riprendere la mazza o far uscire mio figlio dalla porta sul retro, attraversare la siepe e nasconderlo dai Felsenfeld, poiché l'uomo al volante della Porsche potrebbe essere tornato con qualche amico. Ma l'addestramento dei Garland si dimostra troppo efficace perché mi lasci prendere dal panico. Apro semplicemente la porta, come avrei fatto in qualsiasi altra giornata. Davanti alla soglia ci sono due uomini, uno dei quali di mia conoscenza. «Professor Garland, potrebbe concederci un minuto?» chiede l'agente speciale Fred Nunzio del Federal Bureau of Investigation. La sua espressione è tetra. 40 UN'ALTRA SCOPERTA Fred Nunzio mi presenta il suo compagno come Rick Chrebet, un agente della polizia municipale. Formano una strana coppia. Nunzio è un uomo piccolo e grassoccio, vivace e sicuro di sé, con i lisci capelli neri pettinati all'indietro. L'ossuto Chrebet è rado tanto di capelli quanto di emozioni: il suo atteggiamento è così distante che mi sorprendo a voler confessare qualcosa soltanto per guadagnare la sua attenzione per un minuto o due. I suoi denti sono splendenti e regolari, le labbra pallide, la mascella pugnace. Gli occhi chiari sono infossati e guardinghi. In preda a un vertiginoso déjà vu, li conduco in sala, che usiamo soltanto quando riceviamo visite. Sul lato opposto del corridoio Bentley continua allegramente a giocare, ignaro dell'improvvisa preoccupazione di suo padre e indifferente ai visita-
tori. Non è mai interessato agli sconosciuti, avendo forse ereditato da me la tendenza all'introspezione. «Non le porteremo via molto tempo» dice Nunzio, assonnato e quasi contrito. «Non l'avremmo disturbata se non fosse importante.» Borbotto qualche parola in risposta, aspettando che cali la mannaia. È successo qualcosa a Kimmer? Ma in questo caso, che c'entra l'Fbi? Ci sono notizie da Washington? Ma in questo caso, che c'entra la polizia municipale? «Il mio collega voleva parlarle di una cosa» prosegue Nunzio «e io mi sono aggiunto.» L'agente Chrebet nel frattempo ha aperto la sua sottile valigetta sul tavolino e ne sta sfogliando il contenuto. Estrae una fotografia a colori su carta lucida e la fa scivolare verso di me: un corpulento uomo bianco con una gran barba castana fissa l'obiettivo reggendo un cartello con una serie di numeri davanti al petto. Una foto segnaletica. Il ricordo mi fa rabbrividire. «Riconosce l'individuo nella foto?» domanda il poliziotto con la sua voce acuta e inespressiva, formulando l'interrogativo con la precisione di un libretto di istruzioni. «Sì.» Guardo Nunzio, ma mi rivolgo a Chrebet. «Lo sa bene.» Senza perdere un colpo, l'agente fa scivolare verso di me un'altra foto, in bianco e nero, e stavolta mi è sufficiente una rapida occhiata e non attendo la domanda. «Sì, riconosco anche lui. Sono i due uomini che qualche settimana fa mi hanno aggredito nel bel mezzo del campus.» Nunzio fa un leggero sorriso, ma il volto pallido di Chrebet è inespressivo come la pietra. «Ne è assolutamente sicuro?» Torno diligentemente a studiare le foto, nel caso siano cambiate negli ultimi secondi. «Sì, ne sono sicuro. Ho avuto modo di vederli bene.» Le indico. «Significa che li avete trovati? Che sono in arresto?» Il detective risponde alla mia domanda con una domanda. «Aveva mai visto questi uomini prima della sera in cui l'hanno aggredita?» «No. Non li avevo mai visti prima di allora. L'ho già detto alla polizia.» Prima che Chrebet possa rivolgermi un'altra domanda, interviene Nunzio. «Professor Garland, c'è qualcosa di cui vuole mettermi al corrente?» «Prego?» «Qualcosa che ha a che fare con... la ricerca in cui è coinvolto?» Noto il suo attento eufemismo e mi chiedo se stia cercando di nascondere qualcosa a Chrebet o se pensi che lo stia facendo io. «Qualcosa che preferisce discutere in privato?»
«No.» «Ne è sicuro?» «Le ho già accennato alla possibilità che Freeman Bishop...» «Abbiamo indagato» si affretta a rispondere, e ancora una volta ho la sensazione che non voglia che il detective capisca. «La sua fonte si sbagliava. Non c'è nulla di cui preoccuparsi.» Mi rassicura, malgrado io non gliel'abbia chiesto. La mia perplessità cresce di minuto in minuto. Nunzio si tranquillizza. La palla passa di nuovo a Chrebet, che riprende l'interrogatorio come se l'agente federale non avesse mai aperto bocca. «Ha più rivisto questi individui dalla sera dell'aggressione?» La mia destrezza forense aumenta di pari passo con la preoccupazione. «Non che io ricordi.» «Sa se li ha visti qualcun altro?» «No.» Ho aspettato abbastanza, e così riformulo la mia domanda. «Rispondetemi, per favore. Sapete chi sono?» «Pesci piccoli» si intromette Nunzio. «Delinquentelli. Scagnozzi. Non sono nessuno.» «Ma li avete arrestati? Li avete trovati? È per questo che siete qui?» Sto pensando che se riuscissi a scoprire chi li ha pagati, sarei sulla buona strada. «Sapete per chi lavoravano?» Di nuovo Chrebet, in tono pedante: «No, professore, non sappiamo per chi lavoravano. Non sono in arresto. E sì, li abbiamo trovati. O meglio, sono stati trovati». «In che senso? Sono morti?» Il detective è inesorabile come una macchina: «Una squadra di boy scout li ha trovati nel fine settimana durante una gita al parco statale di Henley. Giacevano fra i cespugli, legati e imbavagliati. Vivi, ma per un pelo». «Non vogliono parlare» si intromette Nunzio, forse leggendomi nel pensiero. «In realtà sono terrorizzati. Lo sarei anch'io.» Un sorriso disinvolto e beffardo. «A quanto pare qualcuno gli ha mozzato tutte le dita.» 41 SCONTRO Non ne faccio parola con Kimmer. Non ancora. Giovedì pomeriggio, invece, passo dal dottor Young. Lui mi ascolta con pazienza e interesse, le mani giunte sull'ampio ventre, scuotendo tristemente il testone, poi mi parla di Daniele nella tana dei leoni. Dice che il Signore mi guiderà. Non ha
bisogno di chiedermi come hanno fatto i miei aggressori a perdere le dita. Chrebet mi ha domandato, nel suo stile insistente, se avessi la minima idea di cosa poteva essere successo, ma non si aspettava una risposta e non l'ha ottenuta. Chrebet sa, come lo sa Nunzio, come lo sa il dottor Young e come lo so io, che la mano potente di Jack Ziegler è arrivata fino a Elm Harbor. La voce della telefonata delle due e cinquantuno - una voce di cui non ho ancora parlato ad anima viva - ha mantenuto la promessa. Prima che esca dal suo ufficio, il pastore mi mette in guardia contro il piacere che si prova per la sofferenza del prossimo. Gli assicuro che non sento alcuna gioia per ciò che è accaduto ai miei aggressori. Il dottor Young risponde che non sta parlando di loro. Mentre cerco di capire cosa intende, mi consiglia di fare il possibile per riaggiustare i rapporti con coloro da cui mi sento estraniato. Accetto con una certa apprensione. Quello stesso pomeriggio incontro Dahlia Hadley all'asilo e le dico quanto sono dispiaciuto per lo scandalo che ha travolto Marc, ma lei reagisce in modo glaciale e rifiuta di rivolgermi la parola. Ciò nonostante, il bisogno di fare ammenda cresce fino a diventare compulsivo, forse perché in questo modo ho la sensazione di poter esorcizzare i miei demoni. Sentire il fiato soffocante di Jack Ziegler sul collo può far perdere la testa. Venerdì mattina cerco Stuart Land e gli chiedo scusa per averlo accusato dei tentativi di sabotaggio alla candidatura di Marc, ma lui fa mostra di non essersela presa, visto che è innocente. È abbastanza generoso da dirmi che Marc non si è ancora ritirato dalla corsa. Quando gli chiedo perché, Stuart mi guarda con freddezza e risponde: «Probabilmente pensa che troverai il modo di rovinare tua moglie». Tramortito, striscio fuori dal suo ufficio più determinato che mai a fare il bravo. Dopo pranzo provo finalmente a mettermi in contatto con lo stimabile Cameron Knowland, il cui figlio non ha più aperto bocca in classe dopo la nostra schermaglia; ma quando chiamo la società di investimenti che Cameron dirige a Los Angeles, lui si rifiuta di parlarmi; o meglio, la sua segretaria personale, quando alla fine ci arrivo, mi informa che il signor Knowland non mi ha mai sentito nominare. Rob Saltpeter, nell'udire il mio racconto quando lunedì mattina ci vediamo per giocare a basket, mi dice che quelli di Cameron Knowland sono giochetti, ma questo l'avevo intuito da solo. Giochiamo uno contro uno, e Rob mi batte nettamente due volte di seguito, ma soltanto perché è più alto e più veloce di me, o forse perché i suoi riflessi e la sua coordinazione sono migliori dei miei.
Oggi è venerdì, e il mio umore non vuole smetterla di oscillare. Continuo a fare il bravo, ma il mio autocontrollo è fragile. Una scossa qualsiasi potrebbe spezzarlo in due. Cerco di pregare, ma non riesco a concentrarmi. Me ne sto seduto alla scrivania, incapace di lavorare, infuriato con mio padre, chiedendomi cosa sarebbe successo se quel giorno al cimitero mi fossi rifiutato di parlare con Jack Ziegler. Probabilmente mi sarei comunque ritrovato con la lettera di mio padre, mi starei comunque chiedendo chi è il ragazzo di Angela e i morti sarebbero comunque morti, dunque è inutile rimuginarci... I morti sarebbero comunque morti... Il mio umore migliora. Mi è tornata in mente l'idea che mi era venuta alla cena di Shirley Branch. Alla luce del giorno l'avevo giudicata ridicola, ma a questo punto sono disperato. E l'idea potrebbe rappresentare una via di scampo per me e per la mia famiglia. I morti. Il cimitero. Forse, forse. Non so se funzionerà, ma non vedo nulla di male a prepararmi, nel caso decidessi di provarci. Comincio chiamando Karl alla sua libreria e facendogli una domanda sul doppio Excelsior. Lui è paziente anche se non proprio amichevole, e mi ringrazia per avergli restituito il libro. Appena sentita la sua risposta decido di proseguire nel mio progetto. Ma avrò bisogno di aiuto. Nel pomeriggio, dopo la mia lezione di diritto amministrativo, mi precipito al primo piano alla ricerca di Dana Worth, ma un foglio sulla porta del suo ufficio mi informa che si trova nella sala letture della facoltà. Dana lascia sempre un avviso perché vuole farsi trovare in qualunque momento: parlare con la gente sembra essere la sua attività preferita. Ed è così che commetto un grave errore. Nella mia ansia di parlare con Dana entro nella biblioteca, che di solito evito, e ogni cosa precipita. Molti dei professori se ne stanno seduti nei loro uffici, telefonando al bibliotecario della facoltà quando hanno bisogno di qualche volume o addirittura chiedendo di farlo alle loro segretarie, ma a me piace andare ogni tanto in biblioteca e respirarne l'aria, o meglio mi piaceva, prima che cominciassi a sospettare che Kimmer potesse avere una relazione con Jerry Nathanson. Alle cinque meno dieci uso la mia chiave per aprire la porta dell'ingresso laterale della biblioteca di legge, situata al secondo piano, lontana dalla confusione degli studenti. Entro nel retro della sala periodici, due dozzine di file parallele di scaffali grigio piombo stracolmi di riviste di legge. Esito ad avanzare, cercando una scusa per trattenermi. Se procederò con il mio piano avrò urgente bisogno di aiuto, e Dana è l'unica che po-
trebbe essere abbastanza matta da accettare. Rob Saltpeter è troppo rispettoso delle regole, Lem Carlyle troppo diplomatico. Ho preso in considerazione e scartato l'idea di arruolare uno studente. Sarà Dana o nessun altro. Attraversando a passi incerti la sala periodici sento avvicinarsi alcuni studenti e decido di mascherare il mio proposito; anche se non esiterei mai a entrare da solo nell'ufficio di Dana, il pensiero che mi si osservi mentre la cerco in biblioteca mi mette a disagio. Ma il bisogno è talmente pressante che devo ottenere subito una risposta, se non voglio impazzire. Prendo a caso una vecchia raccolta rilegata della "Columbia Law Review", sfogliandola come se fossi alla ricerca di un antico tesoro. Percorrendo i corridoi, reggendo il pesante volume per darmi un contegno, mi fermo accanto alla vecchia macchina fotocopiatrice e mi faccio forza. Poi abbandono la sala periodici ed entro nella sala lettura principale, rifiutandomi deliberatamente di posare lo sguardo sulla parete dove è ancora appeso il ritratto di mio padre in toga. Se lo si osserva con attenzione, si riesce a distinguere il dozzinale restauro eseguito per coprire le scritte sgradevoli con cui qualcuno aveva deturpato il ritratto ai tempi delle udienze: "Zio Tom" era l'epiteto più carino, con l'aggiunta di vari commenti sul lignaggio del Giudice da parte di un commentatore politico troppo modesto per firmare la sua opera. Io non lo osservo mai con attenzione. Mentre attraverso l'ampia sala qualche studente coraggioso mi saluta, ma gli altri hanno troppo buonsenso per rischiare. Sono in grado di decifrare i volti dei professori, e sanno come regolarsi. Supero un gruppo di ragazzi neri e un drappello di bianchi. Rivolgo un cenno di saluto a Shirley Branch, che è in piedi accanto a una fila di computer e agita le mani con frenetico ardore spiegando qualcosa a Matt Goffe, il suo collega senza cattedra nonché compagno di fede politica. Adocchio Avery Knowland all'estremità opposta della sala, disperatamente chino su una raccolta di giurisprudenza, ma per fortuna la mia strada non va in quella direzione. Mi chiedo quanto sia davvero arrabbiato suo padre. Forse Cameron Knowland e la sua mogliettina da esposizione si riprenderanno i tre milioni di dollari e noi potremo tenerci la nostra biblioteca gloriosamente in rovina. La preside vuole che la facoltà abbia un edificio degno del ventunesimo secolo, ma io credo che le biblioteche dovrebbero restare con i piedi piantati nel diciannovesimo, quando il metodo con cui venivano trasmesse le informazioni era la stabilità della parola stampata e non l'effimero cavo a fibre ottiche. Adoro questo locale. Alcuni dei lunghi tavoli a cui gli studenti sono
seduti hanno più di un secolo di vita. Il soffitto è alto quasi otto metri, ma i lampadari di ottone sono ormai diventati mere decorazioni: l'illuminazione proviene da file di orrende lampade al neon e dalla luce sfaccettata del sole che entra dalle finestre del lucernario sopra gli scaffali di legno intagliato pieni di volumi di legge. Per chi ha la pazienza di prestarvi attenzione, ogni finestra di vetro colorato aggiunge un episodio a una storia che comincia appena sopra l'ingresso principale della biblioteca, percorre le quattro pareti perimetrali e si conclude al punto d'inizio: un crimine violento, un testimone che indica qualcosa a un poliziotto, l'arresto di un sospetto, un processo, una giuria che delibera, una condanna, una pena, un nuovo avvocato, un appello, un rilascio, e alla fine un ritorno alla stessa vita criminale, in un pessimistico ciclo ininterrotto che quando ero studente mi faceva uscire dai gangheri. Sorrido all'impiegato addetto alla consultazione aggirando il suo lungo banco. Lui non ricambia: è al telefono, e se le voci che girano sono vere sta probabilmente piazzando una scommessa. Sull'altro lato del suo banco si trova la sala di lettura della facoltà. Sto per usare la mia chiave per aprire la doppia porta di vetro smerigliato quando questa si spalanca davanti a me e Lemaster Carlyle e Dana Worth compaiono ridendo. La causa è evidentemente un worthismo, poiché Lem ride più di Dana. «Ciao, Tal» mi saluta sottovoce. È elegante come sempre, con una giacca grigia non troppo scura e una cravatta cremisi di Harvard. «Lem.» «Misha, caro» mormora Dana, e io mi riprometto di chiederle di non usare il mio soprannome in pubblico. Anche lei è ben vestita, con un completo scuro. «Dana, hai un minuto?» «Dipende da come voterai per la nomina di Bonnie Ziffren» sorride Dana citando uno dell'infinita serie di candidati raccomandati dalla commissione nomine della facoltà su cui la Cara Dana, per una ragione o per l'altra, ha qualcosa da ridire. «So che Marc la considera una nuova Catherine McKinnon, ma, per come la vedo io, è uno zircone allo stato grezzo.» «Non dovresti parlare in pubblico di potenziali nomine alla facoltà» le ricorda Lem in tono virtuoso. Sta di nuovo evitando il mio sguardo. «Secondo le regole dell'università, le questioni sul personale sono confidenziali.» «Allora andiamo nel mio parlatorio.» Dana indica la sala di lettura. «No, grazie» mormora Lemaster. Gli è venuto in mente che deve scap-
pare: ha una cena con una delegazione dell'American Law Institute. Si può sempre contare sui problemi della facoltà per allontanare Lemaster Carlyle. Agogna la perduta età dell'oro dell'istituto, che ha mancato del tutto ma che ciò nonostante adora, quando i professori andavano d'accordo fra loro, anche se coloro che c'erano, come Theo Mountain e Amy Hefferman, ricordano le cose in modo diverso. Si allontana senza salutare, ancora incapace di guardarmi negli occhi. Che gli prende? È l'amante di Kimmer? È quello che ha consegnato il pedone? Mi massaggio la fronte, di nuovo infuriato, non con Lem ma con il Giudice. La Cara Dana Worth, rendendosi conto dell'improvviso cambiamento del mio umore, mi posa dolcemente una mano sul braccio. Aspetta che Lem si sia allontanato e poi mi chiede a bassa voce che cosa volevo. «È meglio se ne parliamo in privato» rispondo, domandandomi ancora cosa stia succedendo a Lemaster e se abbia qualcosa a che fare con... be', con tutto. «Vieni nel mio parlatorio» ripete ironicamente Dana. Esito, non avendo intenzione di farmi vedere mentre penetro di soppiatto nella sala di lettura con una collega, soprattutto una collega bianca, malgrado lei non sia interessata agli uomini, e la mia esitazione rovina tutto. Dana sta già sorridendo a qualcuno alle mie spalle quando le parole taglienti crepitano dietro di me come proiettili: «Mi sa che dobbiamo parlare, Tal». Mi volto sorpreso e mi ritrovo a fissare il volto rabbioso di Gerald Nathanson. «Ciao, Jerry» dico piano. «Dobbiamo parlare» ripete lui. Jerry Nathanson, probabilmente l'avvocato più importante della città, ha studiato legge con Kimmer e me, e già allora era sposato con la stessa antipatica donna che è ancora sua moglie. È alto poco più di un metro e settanta, leggermente sovrappeso, con un mento carnoso che non riesce a rovinare del tutto i suoi gradevoli lineamenti da ragazzo anni Cinquanta. Le sue fattezze sono regolari e un po' mollicce. Ha capelli scuri e ricci, e sta cominciando a perderli alla sommità della testa. Fa un'ottima figura nel suo abito grigio chiaro e cravatta blu. Le sue braccia sono incrociate sul petto come se stesse aspettando delle scuse. «Non abbiamo niente da dirci» gli rispondo, scordandomi tutte le lezioni che Morris Young ha cercato di impartirmi. In questo momento potrei es-
sere uno dei ragazzi che lui cerca di salvare, intento a fare il macho per il puro gusto di farlo. «Ci vediamo, Misha» dice Dana. Sorride ancora, ma in modo meno convinto. Non vuole essere coinvolta in quello che sta per succedere. «Telefonami.» «Dana, aspetta...» «Lasciala andare» ordina Jerry Nathanson. «Dobbiamo parlare da soli.» Lo squadro ben bene spostando la "Columbia Law Review" sulla mano sinistra, probabilmente per liberare la destra. Poi mi costringo a calmarmi. Scuoto la testa. «No, Jerry, adesso non posso. Ho da fare.» Gli mostro il libro. «Magari un'altra volta.» Quando cerco di aggirarlo, mi afferra per il braccio. «Non provare ad andartene.» La mia rabbia sta per esplodere. «Lasciami il braccio, per favore» sibilo senza voltarmi. Mi accorgo che un paio di studenti si stanno dando di gomito indicandoci, il che significa che fra poco avremo un pubblico. «Voglio soltanto parlare» mormora Jerry, accortosi a sua volta che stiamo attirando l'attenzione. «Non so in che lingua dirtelo, ma non voglio parlare con te.» «Non fare scenate, Talcott.» «Tu stai dicendo a me di non fare scenate?» Gli rivolgo un'occhiataccia, chiedendomi se dovrei invece sferrargli un pugno. Ci dev'essere di sicuro un regolamento per il marito cornuto che incontra il probabile oggetto delle attenzioni di sua moglie. «Calmati, Talcott.» «Non venirmi a dire di calmarmi!» Sto per aggiungere qualcos'altro ma mi trattengo, poiché i suoi lineamenti da stella del cinema anni Cinquanta non mostrano più rabbia bensì confusione. «Devo andare» gli ripeto aggirandolo e dirigendomi deciso verso l'uscita. Posso sentirlo alle mie spalle, e accelero il passo. A questo punto una buona metà degli studenti della facoltà sembra osservarci, insieme a un paio di membri del corpo insegnante. Non mi resta che uscire di qui e preoccuparmi del resto più tardi. Jerry mi raggiunge appena al di là della doppia porta decorata che segna l'ingresso principale della biblioteca. «Ma che ti prende, Talcott? Voglio solo parlarti.» Ne ho abbastanza dell'autocontrollo. Mi giro in preda a una rabbia di un rosso brillante. «Che c'è, Jerry? Che cosa vuoi di preciso?»
«Qui? Dobbiamo parlare qui?» «Perché no? Mi hai inseguito per tutta la facoltà.» Jerry mi si avvicina. «Be', prima di tutto volevo congratularmi in anticipo. Per tua moglie, intendo. Mi ha detto...» si guarda intorno, ma ora che siamo fuori dalla biblioteca i pochi studenti che ci circondano fingono di non ascoltarci «mi ha detto... del professor Hadley.» A letto? Sul divano del tuo ufficio? Malgrado la promessa che ho fatto al dottor Young, ora che mi trovo faccia a faccia con Jerry Nathanson non sono capace di scrollarmi di dosso la rabbia... o forse il tormento. «Il professor Hadley non si è ancora ritirato dalla corsa» scatto. «Ah. Non lo sapevo.» Abbiamo ripreso a camminare, percorrendo il buio corridoio verso il mio ufficio. Nessuno studente ha osato seguirci, ma alcune porte sono aperte e qualcuno potrebbe sentirci. «Be', è così» borbotto. «Sembra che il professor Hadley pensi di poter spiegare tutto, che sia soltanto un grosso malinteso.» «Capisco.» Il tono di voce di Jerry è fioco ed esitante. Cerca di sorridere. Siamo arrivati davanti alla mia porta. «Be', sono sicuro che tua moglie otterrà la nomina.» E d'un tratto mi si riversa tutto fuori. «Mia moglie. Mia moglie. Mia moglie.» Jerry inclina la testa di lato, socchiudendo gli occhi. «Sì, tua moglie.» «Voglio che tu stia alla larga da lei.» «Alla larga da lei? Ma lavoriamo insieme.» «Sai benissimo cosa intendo, Jerry. Non fare il furbo con me.» «So cosa intendi, Talcott... ed è assolutamente ridicolo.» Lo stupore di Jerry è così genuino che sono sicuro stia recitando. «Non so come tu possa credere... insomma, io e Kimberly? Cosa ti fa venire in mente un'idea simile?» «Magari il fatto che è vera.» «Non lo è. Ti prego di non pensarlo.» Si passa le mani sul volto. «Tua moglie... Kimberly... qualche mese fa mi ha detto che tu sembravi sospettare che ci fosse, be', qualcosa fra noi. Ho creduto che scherzasse. Ti prego di credermi, Talcott.» I suoi occhi diventano fervidi, e la sua mano torna a posarsi sul mio braccio. «Si dà il caso, Talcott, che io sia un uomo felicemente sposato. I miei rapporti con tua moglie sono esclusivamente professionali. Sono sempre stati esclusivamente professionali. E saranno sempre esclusivamente professionali.» Aspetta che io recepisca il concetto. «Tua
moglie è il miglior avvocato dello studio, della città e di questa parte dello Stato. Forse io... forse la facciamo lavorare troppo, forse la teniamo troppo lontana da casa, ma Talcott, ti prego di credermi se ti dico che è soltanto il lavoro a tenerla lontana.» «Non so perché dovrei crederti» ribatto con un ghigno, ma ormai mi trovo su un terreno meno solido, e lo sappiamo entrambi. Ho sparato tutte le mie munizioni, ma le polveri erano umide. Forse è su Jack Ziegler, oppure sul Giudice, che dovrei scaricare la mia rabbia. Jerry Nathanson fa un altro passo indietro. Non è più nervoso. È un ottimo avvocato, e sa quando si trova in vantaggio. Quando riprende a parlare, il suo tono di voce è freddo. «Tua moglie mi ha anche detto che ti stavi comportando in un modo che lei ha definito irrazionale. Le ho risposto di non preoccuparsi, ma immagino che avesse ragione come al solito.» «Ti ha detto cosa?» «Che il tuo comportamento sta cominciando a impaurirla.» Questo è troppo. Mi faccio sotto. Riesco a malapena a non afferrarlo per la camicia di sartoria. «Non voglio che tu parli di me con mia moglie.» Mi rendo conto di quanto sia assurda la frase soltanto quando l'ho già pronunciata. «Non voglio che tu parli di niente con mia moglie.» «Ho una notizia per te, Talcott.» Jerry è di nuovo furioso. Mi punta un dito sul petto. «Hai bisogno di assistenza medica. Magari di uno psichiatra.» Ah, quanto sono orribili gli uomini! Allontano il dito con una manata e dico qualcosa di altrettanto utile: «Se non stai alla larga da mia moglie, Jerry, avrai bisogno di assistenza medica anche tu». Il suo volto diviene paonazzo. «Questa è una minaccia, Talcott. Ma ti senti? È proprio quello di cui parlava Kimberly.» «Hai un bel coraggio, Jerry.» «Ah, sì?» Picchietta con il dito sul mio maglione, provocandomi. «E tu cosa avresti intenzione di fare?» «Non esagerare» ringhio. Lui ride. Se non fossimo due intellettuali in una cittadina dell'Ivy League, verremmo sicuramente alle mani. Stando così le cose, ci scambiamo qualche spintone. Probabilmente io spingo con più forza. Pur vedendo che stiamo attirando un nuovo pubblico, non riesco a fare marcia indietro, il mondo è troppo rosso intorno a me. «Sta' alla larga da mia moglie.» «Sei pazzo, Talcott.» Jerry si ricompone a fatica e indietreggia ansimando. «Fatti curare.»
Quando se n'è andato, l'Oldie al completo mi sta fissando. 42 ULTIMATUM «Siamo un po' preoccupati per te» dice Lynda Wyatt senza preamboli. «Lo so.» Sono deciso a mostrarmi pentito. Dean Lynda mi ha chiamato martedì pomeriggio e mi ha chiesto - o meglio, mi ha quasi intimato - di presentarmi nel suo ufficio mercoledì alle tre, e il suo tono mi ha fatto capire che sono in guai seri. «Sei uno della famiglia, Talcott» aggiunge, fissandomi con lo sguardo severo. «E quando un membro della famiglia ha dei problemi, è naturale che noi desideriamo aiutarlo.» Con "noi" intende lei stessa, Stuart Land e Arnie Rosen, i tre membri più influenti della facoltà e, per pura coincidenza, l'attuale preside, l'ex preside e un valido candidato alla posizione per il futuro. La gravità della situazione è segnalata dall'assenza di Ben Montoya, che di solito svolge i lavoretti sporchi. Per questa riunione, Lynda ha voluto solo i pezzi da novanta. Siamo seduti nella zona salotto del suo ufficio. Io occupo una poltrona di legno, Lynda e Stuart siedono sul lussuoso divano sistemato ad angolo retto rispetto a me e la sedia a rotelle di Arnie è subito al mio fianco. Di solito Lynda fa trovare caffè e ciambelle su un tavolino, ma non oggi. È il turno di Stuart. È poco portato alla perifrasi, ed è per questo che era un pessimo preside ed è un ottimo uomo. «Consideriamo le prove, Talcott. Le ragioni per cui siamo preoccupati. Primo, abbiamo le teorie del complotto sempre più folli che stai rincorrendo, malgrado gli avvertimenti di alcuni di noi. Secondo, c'è quel bizzarro incidente con la polizia, di cui non si sentiva certo il bisogno, con le tensioni razziali di questa città. Ma questi sono problemi vecchi, naturalmente, e perciò accantoniamoli un istante. Terzo» prosegue contando sulle dita «non stai rispettando con regolarità il calendario delle lezioni. Quarto...» «Aspetta un attimo» lo interrompo, dimostrando la mia solita assenza di sensibilità per l'arte della conversazione. In quanto avvocato dovrei saperne abbastanza da permettere loro di elencare i capi d'accusa, prendere tempo per riflettere e poi confutarli tutti insieme. Ma ricordo ciò che si dice su coloro che non lo fanno. «Sapete bene che avevo ottime ragioni per saltare quelle lezioni...»
«Mio padre morì un lunedì mattina, ma io tenni le lezioni del pomeriggio, del giorno successivo e di quello dopo ancora» replica Stuart con freddezza. «Inoltre, i tuoi problemi di famiglia giustificherebbero soltanto le lezioni che hai saltato in autunno. Non in questo semestre, che è cominciato già da un mese.» Arnie Rosen mi trattiene posandomi una mano sul polso prima che possa dare una risposta avventata. «Tal, per favore, ascolta prima di rispondere. Nessuno qui vuole farti fuori.» Decido di tenere la lingua a freno. «Quarto» riprende Stuart «abbiamo quella che si potrebbe definire la sfida a spintoni con Gerald Nathanson, laureato di questa facoltà e membro di spicco della comunità. Hai idea di quanti vi abbiano sentiti? E quinto...» «Un momento» mi intrometto scordando la mia risoluzione. Essendoci già passato con una Kimmer furibonda e umiliata, non voglio affrontare di nuovo l'argomento. «Aspetta un momento! Se avete intenzione di affibbiarmi la colpa di quella discussione, sappiate...» Stuart non nutre alcuna propensione alla ritirata: «Questo non ha niente a che vedere con la colpa. Stiamo parlando di ciò che ti sta succedendo, Talcott». Giunge le dita a campanile. «Mesi fa ti ho detto che avevamo bisogno del vecchio, vivace, ottimista Talcott Garland. Ma tu hai ignorato quel mio avvertimento, così come hai ignorato gli altri.» Esita. «E non abbiamo neanche accennato ai tuoi tentativi di sabotare la nomina di Marc Hadley alla corte d'appello.» «Non ho niente a che fare con quella faccenda!» «Quinto» riprende implacabile Stuart «in facoltà gira voce che tu abbia firmato dei lavori influenzati dalle esigenze di un cliente...» «È assolutamente ridicolo!» sbotto, mi ero quasi dimenticato del colloquio che avevo avuto con Arnie un milione di anni fa. «Calmati, Talcott» interviene Lynda in tono inflessibile, e mi viene in mente che Theo Mountain, se fossimo ancora in buoni rapporti come un tempo o se lui fosse un po' più giovane, sarebbe in questa stanza e cercherebbe di proteggermi, poiché una volta era una potenza in facoltà e non avrebbe mai tollerato questa coalizione contro il suo protetto. «Stuart sta semplicemente spiegando come appaiono le cose dal punto di vista della facoltà.» «Gerald Nathanson stava pensando di presentare querela» riprende Stuart «ma io l'ho dissuaso.» «Ne sono lieto» mormoro, in preda alle vertigini.
«Esiste un regolamento dell'istituto» continua Stuart con la sua tipica franchezza. «I membri della facoltà non possono oltraggiare in questo modo i cittadini illustri.» «Io non ho oltraggiato nessuno» protesto disperatamente. «Ha cominciato lui.» «Etica da asilo.» Stuart scuote il capo come se fossi al di là di qualsiasi possibilità di riscatto. «Quello che stiamo dicendo» interviene Arnie Rosen con evidente riluttanza «è che è giunto il momento che l'istituto pensi a proteggersi.» Dietro le piccole lenti rotonde, i suoi occhi sono comprensivi. Non è il genere di progressista che riesce facilmente a criticare un uomo di colore. «Mi state... mi state licenziando?» sbotto, spostando lo sguardo da un impassibile volto bianco all'altro. «No» risponde glaciale Stuart. «Ti stiamo avvertendo.» «E cosa significa, di preciso?» Stuart sta per rispondere, ma Dean Lynda alza una mano. «Stuart, Arnie, volete scusarci un momento?» Arnie aziona immediatamente la sua sedia a rotelle e Stuart balza in piedi con tale prontezza che sono certo l'intera esibizione sia stata orchestrata in anticipo, poiché nessun preside, neppure la spaventosa Lynda Wyatt, potrebbe far scattare Arnie Rosen e Stuart Land se loro non fossero d'accordo. L'istante successivo siamo soli. «Mi sei sempre piaciuto» comincia Dean Lynda. È probabilmente una menzogna, tranne che la sua attribuzione di significato alle parole, nella tipica tradizione dei decani universitari, non corrisponde sempre a quella degli altri. I presidi devono possedere questa caratteristica per poter sopravvivere, poiché devono essere in grado di rivolgersi agli studenti attivisti con la massima compassione e sincerità: Oh, credevi che le mie parole fossero una promessa di intervento? Ho detto soltanto che me ne sarei interessata, ma come preside ho le mani legate. La decisione spetta al rettore. I bravi presidi non si limitano a dire cose simili ogni due o tre giorni: hanno anche l'abilità di far credere agli studenti, e a volte al corpo insegnante, che siano vere. «Grazie, Lynda» rispondo con calma, aspettando che arrivi al dunque. «Non ti stiamo licenziando, Talcott. Non potremmo farlo nemmeno se volessimo. Sei di ruolo, e soltanto il consiglio di amministrazione dell'università ti può licenziare, e solo su basi concrete. Non credo ci siano le condizioni per revocare la tua cattedra. Non per il momento. Ma devi sapere
che c'è qualcuno nel campus, e in questo edificio, che la pensa diversamente. Alcuni membri di questa facoltà mi hanno suggerito di chiedere le tue dimissioni.» Resto seduto immobile. Sono rimasto indietro, bloccato su quel "non per il momento". «Non vorrei che tu dessi loro altri motivi di lamentela. Se d'ora in avanti ti comporterai bene - non guardarmi in quel modo, sai benissimo cosa intendo - se ti darai una regolata, riusciremo a proteggerti. Ma se continuerai a farti coinvolgere in litigi nei corridoi, a cancellare lezioni senza una valida ragione e a correre dietro al tuo complotto, ma soprattutto se avrai qualcosa che assomiglia a un altro infortunio con la polizia... be', in quel caso non so quanto a lungo riuscirò a trattenere i cani. Non sono nemmeno sicura che ci proverei. Sono stata chiara?» «Sì, ma...» «Non voglio sentire la parola ma, Tal. Non voglio sentirti dire che ci penserai. Tutto quello che voglio sentire è la tua promessa, la tua solenne promessa che queste stupidaggini sono finite. Voglio sentirti dire che tornerai a essere il serio studioso e l'insegnante operoso che tutti conoscevamo e amavamo, quantomeno fino allo scorso ottobre. Voglio che nei prossimi cinque anni tu non prenda nemmeno una multa. Ecco cosa voglio.» «Oppure?» Lynda si scosta i ricci grigi dal lungo collo e scrolla le spalle. «Non oseresti farlo» sussurro. «Non oserei fare cosa? Cacciare un professore che formula accuse folli, che conduce una campagna diffamatoria contro un collega, che aggredisce la gente nei corridoi e maltratta gli studenti in classe?» Non so da dove iniziare, e così scelgo l'accusa più sciocca di tutte. «Non ho maltrattato Avery Knowland.» «Dipende da come consideri la cosa. O meglio, dipende da come io la considero. In questo momento immagino starai pensando che non sarebbe così grave se ti chiedessi di andartene, dato che hai una certa reputazione e potresti trovare una posizione altrove. Ma questo dipende molto da ciò che io decido di dire al preside della scuola che stesse pensando di assumerti. Potrei affondarti con una parola, e tu lo sai. Theo non potrebbe proteggerti. E se continui a comportarti in questo modo, dubito che ci proverebbe.» Rifletto ancora una volta sulla mia mancanza di amici. All'improvviso i miei alleati in facoltà sembrano davvero pochi. Chi intercederebbe per me? Lem Carlyle? Non se la cosa danneggiasse la sua impeccabile reputazione. Arnie Rosen? Non con la sua imminente candidatura alla carica di preside. La Cara Dana Worth? Certamente, ma nessuno l'ascolta. Rob Saltpeter,
forse. Ma lui è molto lontano dalla cima della piramide. Mi figuro i coltelli che vengono affilati in questo stesso istante lassù ai piani alti, dove si riuniscono coloro che possiedono influenza e reputazione: Peter Van Dyke, Tish Kirschbaum e, naturalmente, lo stimabile Marc Hadley, che non molto tempo fa era un amico, sarebbero ben lieti del mio allontanamento. «Lynda» dico alla fine «ho bisogno di tempo.» «Questo mi sembra un ma.» «Non per pensare alle tue parole. Quello che hai detto è perfettamente sensato.» Non sono molto bravo a fare l'ossequioso, ma ci devo provare. «Voglio tornare a essere il vecchio Talcott Garland, benvoluto da tutti, come dici tu. Lo voglio davvero. Ho solo bisogno di un po' di tempo per capire cosa sta succedendo.» «E questo mi suona di nuovo come "il complotto".» La voce di Lynda è inclemente. Quando la voce di un preside è inclemente, le pressioni sono immense. Lynda Wyatt sta probabilmente seguendo un copione scritto da altri, e questo suggerisce che parte di ciò che ha detto è vero, che mi ha effettivamente difeso. Il consiglio di amministrazione dell'università potrebbe spingere per il mio licenziamento, e forse lei l'ha convinto a concedermi un'ultima possibilità. In cambio, il consiglio ha dettato condizioni che lei non osa modificare. Ma se ho ragione, se Lynda mi ha difeso, allora forse... «Non sto vedendo alcun complotto, Lynda. Non penso che qualcuno ce l'abbia con me. Ma è un fatto, non una fantasia, che l'uomo che mi ha rivolto certe domande su mio padre è morto. È un fatto, non una fantasia, che qualcuno ha messo a soqquadro la casa di mio padre a Oak Bluffs. È un fatto, non una fantasia, che sono stato picchiato nel bel mezzo del campus da due uomini che mi hanno fatto domande su mio padre. Ed è un fatto...» D'un tratto mi blocco. Lynda mi sta osservando con attenzione. Stavo per menzionare il pedone. Il che avrebbe finito per convincerla che sono completamente ammattito. Lynda sospira. «E va bene, Tal, adesso è il tuo turno di ascoltare. È un fatto, non una fantasia, che sei stato quasi arrestato. No, non dire niente. È un fatto, non una fantasia, che qualcuno della facoltà ha sabotato Marc, e che molta gente crede che sia stato tu. È un fatto, non una fantasia, che l'altro ieri stavi spintonando e insultando Jerry Nathanson nel corridoio dell'istituto. È un fatto, non una fantasia, che molti in questo campus pensano che tu stia cominciando a perdere il controllo. È un fatto, non una fantasia, che io penso...»
«Due settimane» dico all'improvviso. «Prego?» «Dammi due settimane. Per chiudere la faccenda. Se non...» «Non posso permetterti di saltare altre lezioni.» «Terrò le mie lezioni. Non salterò nemmeno un'ora, te lo prometto. Ma devo avere un altro po' di tempo.» «Tempo per cosa?» Inspiro, sforzandomi di mantenere la calma. Cosa dovrei dire? Che chiunque sta cercando di rovinarmi dall'esterno è aiutato da qualcuno all'interno, da qualcuno in questa facoltà? Qualcuno che sa dove sto per andare quasi prima di me, e che è in condizione di calunniarmi, forse per far diminuire ulteriormente la mia credibilità nel caso scoprissi qualcosa? «Tempo, Lynda» ripeto piano. «Nient'altro. Non mancherò una lezione, ma ho bisogno di capire.» Lynda attende in silenzio. «Non danneggerò la facoltà né l'università. Questa scuola è stata generosa con me. E al momento, questa scuola è tutto quello che ho.» Esito. Vorrei dire di più, ma non oso addentrarmi nel doloroso argomento del mio matrimonio in rovina. «Da quando sei preside ti ho chiesto pochi favori, Lynda. Lo sai, è la verità. C'è gente che passa dal tuo ufficio ogni settimana, lamentandosi dello stipendio, degli incarichi nelle commissioni, degli orari delle lezioni o delle dimensioni degli uffici. Io non ho mai fatto niente del genere, giusto?» «È vero, non l'hai mai fatto.» Il fantasma di un sorriso danza sul suo volto. «E adesso ti chiedo questo. Di resistere a quelle pressioni per altre due settimane. E poi, te lo prometto, o farò il bravo oppure... oppure darò le dimissioni e toglierò tutti dall'impaccio.» La mia preside scuote il capo. La sua espressione è triste. «Non sto cercando di sbarazzarmi di te, Tal, davvero. Ti rispetto e ti apprezzo. So che non ci credi, ma è così. Prendi quello che ha detto Stuart riguardo alla mancanza di obiettività delle tue ricerche. Io non l'ho detto. So che non faresti mai una cosa simile, e anche se io pensassi il contrario non c'è modo di provarlo. È una cosa ridicola. Oltretutto» aggiunge con un pallido sorriso «viviamo in un mondo dall'obiettività imperfetta. La ricerca è discussione, giusto? E la discussione è schieramento. Se dovessimo prendere sul serio la denuncia di parzialità, ognuno di noi potrebbe prestare il fianco alla stessa accusa. Ma...» «Ma dovete pensare al bene della scuola» concludo per lei. «Dovrai chiedere scusa a Jerry Nathanson. Questo non puoi evitarlo. E
Cameron Knowland, che Dio lo benedica, sta ancora aspettando una tua telefonata.» Altri dolori. «Chiamerò Jerry. Ho cercato di parlare con Cameron, ma lui si è fatto negare.» «E allora riprovaci» dice Lynda in tono secco. I professori, di norma, non sono soggetti agli ordini del preside, non in una scuola prestigiosa come la nostra. Ma questa non è una situazione normale. «Lo farò. Te lo prometto.» Lynda riesce a esibire un piccolo sorriso. Si alza, e io la imito. Ci stringiamo la mano. Sappiamo entrambi che il colloquio è terminato, e che l'accordo è stato raggiunto. Probabilmente rientra nei limiti che le sono stati concessi dall'università. Ma per sicurezza Lynda ripete le condizioni accompagnandomi alla porta: «Due settimane, Talcott. Non di più». «Due settimane» ripeto. Mentre mi affretto a tornare nel mio ufficio le gambe mi cedono per il sollievo: dopo tutto, avrebbero potuto chiedermi di dare le dimissioni con effetto immediato. Ma quando mi siedo alla scrivania, il fardello della realtà è già tornato a gravarmi sulle spalle. Non so ancora quali siano le disposizioni. Né cosa mio padre intendesse dire con quella misteriosa lettera. Né chi tra i miei colleghi stia cercando di rovinarmi. Non so nemmeno se domani o dopodomani avrò ancora un lavoro... o una moglie, se è per questo. Tutto quello che so è che ho quattordici giorni per scoprirlo. 43 UNA SCELTA È FATTA «Dove sei stato?» domanda Kimmer con un tono che sulle prime non riesco a decifrare. Sono a casa da circa cinque minuti. Non trovando nessuno al pianterreno sono salito di sopra, ho dato il bacio della buonanotte al sonnecchiante Bentley, e mi sono avventurato nella tempesta. «Io... ho avuto un colloquio con Dean Lynda. E poi, be', ti avevo avvertito che forse avrei avuto da fare fino a tardi. Sono in ritardo con la stesura del mio articolo, ricordi?» «Ti ho cercato in ufficio, Misha. Tre volte.» «Forse ero in biblioteca.» Non so per quale ragione sono così guardingo. «Tu non vai mai in biblioteca.» Mia moglie è seduta a letto, la schiena appoggiata a una montagna di cuscini, il lavoro sparso sulle coperte mentre passa da un canale all'altro con il telecomando del televisore. I suoi occhi
sembrano gonfi, come se avesse pianto, ma non mi guarda. «Oppure, quando ci vai, ti metti nei guai» aggiunge. «La verità è che... sono andato a fare una passeggiata.» «Una passeggiata di due ore?» «Avevo molte cose a cui pensare.» «Non ne dubito.» La sua voce tradisce un'esitazione. Che cosa sta succedendo? «Kimmer, stai bene?» «No che non sto bene!» esplode lei, voltandosi finalmente verso di me. «Mio marito, che negli ultimi tempi sta dando fuori di matto, scompare dalla circolazione per due ore. Due ore, Misha! Non ti è passato per la mente che fossi preoccupata?» Attraverso la stanza, mi siedo sul letto accanto a lei e cerco di prenderle la mano, ma lei la ritrae. «No, suppongo di no. Mi dispiace.» «Ti dispiace. Ti dispiace.» «Che cosa vuoi che dica, Kimmer?» «Non dovrei essere io a suggerirti cosa dire.» «Ascolta, tesoro, chiederò scusa a Jerry. Ho esagerato, lo so.» «Non c'è niente fra me e Jerry. Non c'è mai stato niente. Perché non riesci a credermi quando ti dico queste cose?» Perché in passato mi hai mentito. Perché un uomo ha telefonato chiamandoti "piccola", cosa che non ti ho ancora rivelato. Perché io e te abbiamo tradito André, e allo stesso modo tu potresti tradirmi con qualcun altro. Il dottor Young ha ragione, quanto ha ragione! «Ti credo» sussurro. «Oh, Misha.» La voce di Kimmer si incrina. E all'improvviso sgorgano le lacrime. Sono sbalordito. Non vedo mia moglie piangere dalla notte in cui è nato Bentley. Sulle prime non so bene come reagire. La prendo fra le braccia, ma lei si divincola. La stringo di nuovo, traendola a me, e la sua testa mi si posa finalmente sul petto. «Kimmer, che c'è? Che succede?» «Eri... eri con un'altra, Misha? Perché se lo eri, lo posso capire. Sono una tale stronza.» Kimmer gelosa? «No, tesoro, no. Figuriamoci. Te l'ho detto, sono andato a fare una passeggiata.» Ed è la verità, ma non tutta la verità. Nemmeno in questo momento sono pronto a dirle dove sono andato. Non voglio che pensi che sono impazzito. «Misha, Misha» bisbiglia lei, dandomi una serie di lievi pugni sul petto.
«Misha, che cosa ci è successo? Era così bello. Era così bello.» Scuoto il capo. Non so cosa rispondere. «Ti amo» mormoro. Le sto carezzando l'incavo della nuca, come un tempo le piaceva, e il suo dolore sembra placarsi. «Lo sai che nella mia vita ci siete solo tu e Bentley. E ti prego, non biasimarti.» «E perché? Sono una stronza. Ti tratto in modo orribile. Dovresti lasciarmi. Lo faresti, se avessi un minimo di buonsenso.» E giù altre lacrime. Ripenso al mio incontro con Gerald Nathanson, alla sua rabbia che potrebbe aver preceduto la mia. Forse lui e Kimmer hanno messo fine alla loro relazione (sempre che ne abbiano mai avuta una) e lei sta soffrendo. Ma il dolore di mia moglie in questo momento mi sembra troppo profondo; inoltre, quel barlume di competitività maschile che cerco solitamente di nascondere è riluttante ad accettare che Kimmer possa piangere per Jerry quando ha me. «Tesoro, che succede? Dimmelo.» Kimmer scuote il capo. Proseguo a carezzarle il collo. Lei sussurra qualcosa che non capisco. Lo ripete a voce più alta. E per un istante sono affranto quanto lei. «Ha chiamato Ruthie. Dice... dice che il presidente ha scelto un altro.» «Oh, Kimmer, mi dispiace.» «Non c'è problema.» Tira su con il naso, si asciuga il volto con la manica della camicia da notte. «Hai ancora me e Bentley» mormoro. «Non è colpa tua se il presidente non ha scelto il candidato migliore.» «Giusto.» Kimmer cerca di sorridere. «Lo sapevo che non avrei dovuto votare per lui.» Sgrano gli occhi. «Hai votato per lui?» Un ghigno indeciso. «Ti ho detto che avevo fatto testa o croce.» «Credevo che scherzassi.» «Be', non scherzavo.» All'improvviso mi bacia, poi bisbiglia qualcosa di incomprensibile a contatto con le mie labbra. Lo ripete alzando la voce: «Non vuoi sapere chi ha scelto?». «Ehm, ma certo.» A dire il vero non voglio, soprattutto se Marc Hadley è riuscito in qualche modo a recuperare e a salvare la sua candidatura. Ma prima o poi lo verrò a sapere, e tanto vale che sia mia moglie a dirmelo. «Lemaster Carlyle.» «Cosa?!» «Lemaster Carlyle.» Kimmer fa un'aspra risata, poi tossisce, e qualche
altra lacrima zampilla oltre il suo autocontrollo. «Oh, quel serpente. Quel serpente. So che lo consideri una persona eccezionale, ma per me è soltanto una serpe strisciante!» Malgrado il dolore di mia moglie, sono costretto a sorridere per il modo in cui noi tutti ci siamo superati a vicenda in astuzia. Quando Ruthie ha detto a Kimmer che in lizza c'erano due o tre miei colleghi, noi ci siamo fermati a Marc Hadley. Quando Ruthie ha detto a Marc che il presidente era interessato alla diversità, Dahlia e Marc si sono fermati a Kimmer. E nel frattempo c'era Lem Carlyle all'incrocio fra le due indicazioni, un collega e un esponente di una razza diversa, dotato di entrambe le caratteristiche ma inaspettato; il caro vecchio Lem che attendeva pazientemente in disparte che qualcosa andasse storto - un'accusa di plagio, un marito impazzito, qualsiasi cosa - restando in agguato come... be', come una serpe strisciante. Se non altro ora so come mai negli ultimi tempi fosse tanto a disagio nei miei confronti. «Non ci posso credere» sussurro alla fine. «I progressisti per Bush» mi rammenta Kimmer. «Ah, già.» «Forse è meglio così» suggerisce, ma nessuno dei due saprebbe dire il perché. E così, invece, facciamo quella che un tempo era una delle nostre cose preferite. Percorriamo il corridoio cingendoci con le braccia e ci fermiamo sulla soglia della cameretta di Bentley, guardandolo colmi di meraviglia. Recitiamo una piccola preghiera di ringraziamento. Poi torniamo in camera da letto, infiliamo la cassetta di Casablanca nel videoregistratore e Kimmer si rianima un po' recitando le sue battute preferite. Ma quando Ingrid Bergman entra nel bar per implorare Humphrey Bogart di procurarle le lettere di transito è ormai assopita. Spengo il video e Kimmer riapre gli occhi di scatto. «Sicuro che non c'è un'altra donna?» mi domanda. «Perché in questo momento ho bisogno di te, Misha. Ho davvero bisogno di te.» «Ne sono sicuro.» Maxine mi volteggia brevemente nei pensieri, ma la allontano. «Amo soltanto mia moglie» dico sinceramente a entrambe le donne. «E mio figlio.» «E tuo padre.» «Mmh?» Malgrado le palpebre stanche di mia moglie abbiano ricominciato ad abbassarsi, le sue labbra carnose si incurvano in un sorriso. «Tu ami quel vecchio, Misha. È per questo che insisti a cercare.» Amore? Amore per il Giudice? Questo, purtroppo, è un concetto che non
ho mai preso in considerazione. Maxine ha detto che sapeva che non avrei mai potuto smettere di rincorrere le disposizioni. Ora Kimmer sta dicendo la stessa cosa. «Forse» rispondo alla fine. «Mi dispiace. Voglio soltanto sapere cos'è successo.» Mia moglie sembra capire. «No, no, va bene così, tesoro. Va bene così.» I suoi occhi si sono richiusi, e sta cominciando a biascicare le parole. «Lo capisco, Misha, davvero. Ma prometti che tornerai.» «Tornerò da dove?» «Da Aspen» mormora con uno sbadiglio. «Aspen?» «Oh, Misha, andiamo. Non sarò un giudice federale. È finita. Tanto vale che tu vada a parlare con il tuo zio Jack.» Apre un occhio, ammicca e lo richiude. «Porta i miei saluti all'Fbi, d'accordo?» «Ehm, d'accordo.» «Bastardi» borbotta, e subito dopo è addormentata. Resto seduto per qualche tempo a carezzarle la schiena, da un lato sicuro che dopo tutto mi ama, dall'altro chiedendomi chi abbia telefonato chiamandola "piccola". Due settimane. 44 TEMPO DI BURRASCA Ho visitato la piccola e ricchissima comunità di Aspen, Colorado, tre volte nella mia vita, la prima delle quali per una vacanza sciistica con i miei vecchi compagni di college John e Janice Brown precedente alla nascita di Bentley, una disgraziata spedizione durante la quale mi procurai una brutta distorsione alla caviglia il primo giorno, la prima ora della mia prima lezione e trascorsi gli altri quattro giorni da solo nel piccolo appartamento, assediato dai fiocchi di neve più grossi del mondo, con un televisore che funzionava a intermittenza e un caminetto troppo intasato di fuliggine per essere acceso. John e Janice, intanto, sfrecciavano sulle piste, e Kimmer, che sciava ai tempi in cui frequentava Mount Holyoke ma che aveva quasi smesso da quando aveva conosciuto quel noioso del sottoscritto, riprendeva confidenza con l'antica maestria. Quella prima volta, l'accidentata discesa del turboelica mi persuase, fra una preghiera e l'altra, che quattro ore d'auto da Denver attraverso le Montagne Rocciose, pur con i loro valichi, tortuosi e privi di protezioni, fossero un'alternativa meno spaventosa. In quell'occasione arrivai a giurare che non mi sarei più recato ad
Aspen in aereo. E così nelle altre due trasferte, entrambe delle quali per un seminario all'Aspen Institute - una insieme a Kimmer, l'altra da solo - noleggiai un'auto all'aeroporto di Denver. Ma esistono eventi come le bufere di neve che seppelliscono le strade di montagna, e l'unico modo per essere certi che i passi siano aperti è tenersi alla larga dai monti a meno che non sia estate. Dopo quel primo viaggio, John e Janice ci hanno invitato spesso a sciare, o addirittura a usare il loro appartamento in multiproprietà quando loro non possono. Kimmer ci è andata due volte, una volta con i Brown e un'altra, l'anno scorso, apparentemente in solitudine: "Qualche giorno da soli per pensare farà bene a entrambi, Misha caro". Io sono rimasto a casa in entrambe le occasioni, rispettando il giuramento di non tornare mai più ad Aspen in inverno. Ma il Signore, lo sappiamo tutti, ha i suoi sistemi per umiliare gli orgogliosi mortali che fanno giuramenti con troppa leggerezza. E così eccomi qui, in viaggio verso Aspen malgrado sia febbraio, in volo nel bel mezzo di un'altra bufera contravvenendo alle mie stesse regole, mentre il piccolo jet viene schiaffeggiato dal vento tempestoso delle Montagne Rocciose, gli sciatori sbevazzano e gli altri passeggeri sono terrorizzati. L'aereo atterra senza problemi, e quando alla fine si ferma, il cielo pomeridiano ha addirittura cominciato a rasserenarsi. Mi sfiora il pensiero, mentre attraverso a passo rapido la pista in direzione del piccolo ma moderno terminal, che chi vive qui tutto l'anno non sia poi così matto come ho sempre creduto. Le montagne screziate di neve sono magnifiche alla luce del sole invernale, che ne evidenzia i dettagli con nitore cristallino. I sempreverdi che marciano verso le cime sono, se possibile, più emozionanti in febbraio che in agosto, simili a truppe invernali vestite con uniformi alpine verdi e bianche. Anche molti dei miei compagni di viaggio indossano una sorta di uniforme, e i loro piumini dai colori vivaci hanno un aspetto molto serio. Ho il tempo di assaporare la visione soltanto finché non mi volto verso la zona ritiro bagagli e trovo ad aspettarmi la snella guardia del corpo che ricordo dal cimitero e che conosco soltanto come signor Henderson. La temperatura è sotto zero, abbondantemente sotto zero, ma lui indossa soltanto una giacca a vento leggera. Si sforza di esibire un radioso sorriso e mi rivolge perfino qualche parola. «Benvenuto ad Aspen, professore» dice con una voce stranamente familiare, una voce così modulata, così deliziosamente vellutata che riesco a immaginare senza difficoltà il volontario abbandono di chiunque cerchi di sedurre. Eppure, il signor Henderson non
ha nulla di voluttuoso. Al contrario, è alquanto freddo, come di sicuro deve esserlo una buona sentinella, nonché sveglio, energico, felino nella sua grazia compatta, in qualche modo completo. «Grazie di essere venuto» rispondo. Il signor Henderson ricambia con un cenno educato del capo. Non si offre di prendermi la borsa. Muovendosi con passo leggero mi conduce all'auto che naturalmente, trovandoci ad Aspen in pieno inverno, è una Range Rover grigio metallizzato. Mi ricorda di allacciarmi la cintura. Mi dice con la sua voce sinuosa che il signor Ziegler è ansioso di rivedermi. E nel frattempo, scusandosi per il disagio, mi passa sugli indumenti un metal detector e, quando presumo che l'oltraggio sia finito, ripete l'operazione con un piccolo strumento rettangolare dotato di display digitale, forse per controllare che non abbia nascosta addosso una ricetrasmittente. Tengo la lingua a freno: dopo tutto, l'incontro è stato una mia idea. «Ci vorrà mezz'ora per arrivare alla proprietà» mi avverte il signor Henderson mentre usciamo dal parcheggio. Non la casa, rifletto. E nemmeno la tenuta. La proprietà. Un buon termine da Montagne Rocciose. Annuisco. Lasciamo l'aeroporto e imbocchiamo la Route 82, che corre parallela al Roaring Fork River immettendosi nella cittadina di Aspen. Sulle prime il paesaggio è formato da vaste distese bianche, case sparse e l'occasionale stazione di servizio o emporio, sempre con lo sfondo di alcune delle più magnifiche montagne del Nordamerica che incorniciano la valle su tutti i lati. Poi i gruppi di abitazioni si infittiscono, e sugli altipiani in lontananza diventano visibilmente più grandi. Grappoli di villette a schiera annunciano i confini della città. Ancora prima di farvi ingresso si possono vedere, a nord, le vistose ville lungo le creste della Red Mountain, che dominano la città come un promemoria kitsch del baratro che separa il denaro dal buongusto. Poi si entra nella vera e propria Aspen, patria con ogni probabilità degli immobili più cari di tutti gli Stati Uniti. Superiamo la cittadina, quasi troppo ordinata e pittoresca nella sua scintillante cornice di sole e di neve. Come sempre osservo a bocca aperta le piccole e perfette case vittoriane del West End, tinteggiate con un'allegra varietà di colori terrigni, ognuna delle quali viene valutata probabilmente dieci volte quello che lo stesso edificio su un terreno più grande potrebbe valere a Elm Harbor. Gli agenti immobiliari definiscono il mercato di Aspen uno "choc per ricchi", scambiandosi allegre storielle su coppie abbienti che scoppiano in lacrime nel rendersi conto di quanto poco possano permettersi con un
gruzzolo di quattro o cinque milioni di dollari. Si dice che fra i residenti fissi del luogo uno su undici venda immobili, quantomeno part time, e non c'è da stupirsene. Una singola commissione del sei per cento può fare la tua annata. Qui il prezzo medio di una casa supera i due milioni di dollari, forse un quinto del valore delle tenute di medie dimensioni sulla Red Mountain. Lassù, non è raro che i prezzi superino i venti milioni di dollari. Jack Ziegler vive sulla Red Mountain. La Range Rover veleggia nel centro di Aspen, dove ognuno sembra reggere in spalla un paio di sci. I poliziotti indossano jeans e guidano fuoristrada o Saab azzurre. Henderson si destreggia con abilità e sicurezza sulla neve. Le uniche auto americane che vedo sono Jeep, Explorer e Navigator. Superiamo un paio di stazioni di servizio, poi tre o quattro isolati di ristoranti, uffici e negozi. Arrivati in centro facciamo una netta svolta a sinistra, verso nord. (Per qualche ragione, le carte geografiche di Aspen sono riprodotte a rovescio, con la Red Mountain, che si trova a nord, sul lato inferiore e la Aspen Mountain, che si trova a sud, su quello superiore.) Passiamo davanti a uno dei due supermercati della cittadina, attraversiamo un ponticello, svoltiamo ancora a sinistra e all'improvviso ci ritroviamo sull'unica strada a tornanti che risale la Red Mountain. «Immagino che saremo soli» dico. «Per quanto ne sappia.» I duri occhi grigi del signor Henderson non si staccano mai dalla strada. Mi rendo conto che non mi ha fornito la rassicurazione di cui ho bisogno, forse perché non ho fatto la domanda giusta. «Nessun altro sa che sono qui?» «Oh, direi tutti.» «Tutti?» «Il signor Ziegler è un uomo popolare» dice in modo enigmatico, e capisco che non otterrò più informazioni di quelle che già possiedo; ma ciò che so è sufficiente a farmi tendere i nervi. La Range Rover si spinge tutta sulla destra per superare un tornante e poi tutta sulla sinistra per il successivo. Intorno a noi si ergono le vistose follie dei nouveaux riches. Parlare solo delle dimensioni non rende giustizia al fenomeno della Red Mountain. Queste ville sono immense testimonianze di ricchezze sprecate, dotate di un numero di fontane a diversi piani, di campi da tennis coperti, di garage con quattro posti auto, di torrette, di piscine al coperto e di cancelli a prova di terroristi sufficienti a riempire diversi musei, come forse faranno in futuro: il Museo dello Spreco Americano, potrebbero decidere di chiamarlo i nipoti dei nostri nipoti. Ulteriore
conferma, direbbe probabilmente Crysta Smallwood, la mia studentessa preferita, della determinazione con cui la razza bianca si sta autodistruggendo... in questo caso, spendendo fino alla morte. La Range Rover fa un'altra svolta decisa e d'un tratto ci troviamo davanti a un grosso cancello e il signor Henderson sta sussurrando qualcosa in un citofono sul ciglio della strada. Si accende una lucina verde e il cancello si apre. Un'ampia strada risale il pendio. Sulle prime immagino di essere entrato nella tenuta di Jack Ziegler, che non ho mai visto ma che mi sono sempre dipinto vasta e cinta di mura. Ma un istante dopo mi rendo conto di essermi sbagliato. Ci troviamo in un complesso residenziale, un lotto riservato a coloro la cui ricchezza si aggira sulle nove cifre. Le cassette delle lettere sono raccolte tutte insieme all'ingresso, e pochi istanti dopo compaiono i singoli vialetti. Le case non sono più piccole delle altre seminate sulla montagna, ma sono in qualche modo più sobrie, meno vistose, e i loro abitanti tengono più alla riservatezza che allo sfoggio. Superando un ampio angolo passiamo davanti a una Grand Cherokee con lo stemma di una compagnia privata di sicurezza. I due uomini dai volti severi a bordo sembrano più berretti verdi che normali guardie giurate. Abbiamo imboccato una strada senza uscita. Il secondo vialetto sulla destra è quello di Jack Ziegler. Lo zio Jack vive in quella che viene talvolta definita una casa alla rovescia, poiché vi si entra dal piano superiore. Dall'esterno appare poco pretenziosa, piatta e rettangolare con modeste pareti di stucco e un garage che ospita soltanto tre automobili. Veniamo ammessi in casa da un'altra silenziosa guardia del corpo; si chiama Harrison ed è praticamente il gemello di Henderson, non nell'aspetto ma nel comportamento, poiché i loro modi sono simili come i loro nomi. L'atrio dal pavimento di marmo è in realtà una balconata da cui si domina il resto della casa, che è scavata nella Red Mountain. Scendere le scale verso il piano inferiore, dove mi stanno conducendo, significa calarsi lungo il fianco della montagna stessa. Le vetrate che affacciano sulla cittadina a fondovalle e sulla Aspen Mountain al di là sono alte sei metri. Il panorama è di una bellezza quasi inquietante. Di solito non soffro di vertigini, ma scendendo con cautela le scale non riesco ad allontanare la sensazione di essermi avventurato nel vuoto, superando il ciglio di un precipizio. Comincio a barcollare, e una delle guardie del corpo intercambiabili è costretta ad afferrarmi per il braccio. «Hanno tutti la stessa reazione, la prima volta» dice il signor Henderson in tono gentile.
«Quasi tutti» lo corregge il suo collega, che ha l'aria di uno che non ha mai avuto un giramento di testa in vita sua. Harrison è magro, ed è il tipo del receiver di football laddove Henderson sembra più un difensore di seconda linea. A una prima impressione, Henderson potrebbe essere l'intimidatore e Harrison l'assassino silenzioso. Hanno gli stessi occhi spenti e lo stesso sguardo freddo e impersonale. Ma sto lasciando che la mia immaginazione prenda il sopravvento: dopo tutto, lo zio Jack ha cessato la sua attività. Qualunque essa fosse. «Non si lasci ingannare» aggiunge Henderson nel suo tono mellifluo, come se si stesse rivolgendo a un gruppo turistico. «Sotto di noi c'è un bel po' di solida roccia, e il terreno all'esterno è per lo più pianeggiante.» Indica la finestra, probabilmente per mostrarmi un prato, ma non riesco a seguire il suo gesto con lo sguardo senza che mi giri la testa. «Il signor Ziegler la raggiungerà a momenti» borbotta Harrison prima di allontanarsi lungo uno dei due corridoi che partono dall'immenso locale al pianterreno verso le ali della casa. «Forse dovrebbe sedersi» suggerisce Henderson indicando i diversi divani della sala: uno di pelle bianca, un altro rivestito con un tessuto marrone simile al tweed e un terzo con una colorata fantasia floreale, tutti con uno stile ben distinto ma in qualche modo in armonia fra loro. «No, sto bene così» lo rassicuro, aprendo bocca per la prima volta da quando sono entrato in casa, lieto che la mia voce non tremi. «Posso offrirle qualcosa da bere?» «Sto bene così» ripeto. «Ad alta quota è importante mantenersi idratati, soprattutto i primi giorni.» Alzo gli occhi su di lui, chiedendomi se non sia, come avevo sospettato sulle prime il giorno in cui abbiamo seppellito il Giudice, non una guardia del corpo bensì un infermiere. «Niente, la ringrazio.» «Molto bene» dice Henderson allontanandosi lungo un corridoio diverso da quello che ha inghiottito Harrison, e all'improvviso sono solo nell'antro della bestia. Perché Jack Ziegler, sono arrivato a capire, non è soltanto una fonte di informazioni sui tormenti che sta passando la mia famiglia; ne è, in un certo senso, l'artefice. A chi avrebbe potuto rivolgersi mio padre per assoldare un assassino? C'era soltanto una possibilità, ed è questa la ragione per cui sono qui.
Mi aggiro per la sala ammirandone le opere d'arte, fermandomi qua e là, in attesa. Nell'aria aleggia l'odore di qualcosa di piccante, paprika, forse, e mi chiedo se lo zio Jack abbia in mente di invitarmi a pranzo. Non voglio trattenermi molto in questa casa. Non voglio trattenermi molto in questa città. La mia soluzione preferita sarebbe parlare con lo zio Jack e ripartire subito, ma la deprimente magia dei fusi orari e la banale difficoltà di trovare un volo di ritorno l'hanno reso impossibile. Lo zio Jack, per fortuna, non mi ha offerto ospitalità per la notte, e l'esiguo budget di famiglia non potrebbe mai sopportare il costo di un albergo ad Aspen in alta stagione, ammesso che ci fosse stata una stanza libera. E così mi sono messo d'accordo con John e Janice per trascorrere la notte nel loro appartamento in multiproprietà; non è la settimana riservata a loro, ma si sono assicurati che fosse libero e hanno fatto cambio con chi era di turno. A parte mia moglie, nessuno a Elm Harbor sa che sono qui. Spero che continui così. Tecnicamente non è una violazione delle disposizioni di Dean Lynda - è venerdì, dunque non sto saltando alcuna lezione - ma immagino che la mia preside non sarebbe lieta di scoprire che sono venuto a trovare... chi sono venuto a trovare. Essendo un tipo collaborativo, preferisco non aggiungere inutili complicazioni al lavoro di Lynda. E così non ho intenzione di dirglielo. Scocco un'altra occhiata alla vetrata, ma la vista è più disturbante che mai e mi affretto a proseguire il giro del locale. Mi fermo davanti al caminetto, dove la parete è dominata da un enorme ritratto a olio della defunta moglie dello zio Jack, Camilla, colei che Jack avrebbe ucciso o fatto uccidere. Il ritratto è alto almeno due metri. Camilla indossa un morbido abito bianco; i suoi capelli corvini sono raccolti sul capo, il volto pallido è soffuso da una luce ultraterrena, probabilmente nel tentativo di suggerire una natura angelica. Mi ricorda uno di quei ritratti idealizzati del Rinascimento, in cui gli artisti si preoccupavano di far risplendere le mogli dei loro mecenati. Sono pronto a scommettere che sia stato realizzato dopo la morte violenta di Camilla, poiché sembra che l'artista si sia basato su un ingrandimento fotografico rendendo il risultato finale non tanto etereo quanto finto. «Non è certo uno dei suoi lavori migliori, vero?» sospira Jack Ziegler alle mie spalle. Non sono uno che si spaventa facilmente, e non lo faccio nemmeno ora. Non mi volto nemmeno. Mi sporgo in avanti per decifrare la firma dell'ar-
tista, ma è uno scarabocchio illeggibile. «Non è male» mormoro generosamente, ruotando su me stesso per fronteggiare il padrino di Abby e rammentando la frase che mandò in fumo la candidatura del Giudice alla corte suprema. "Non giudico i miei amici sulla base delle dicerie" disse mio padre quando gli domandarono di Camilla; poi incrociò le braccia sul petto, indicando il suo disprezzo per il pubblico. Anche Jack Ziegler tiene le braccia incrociate sul petto. «Non è un vero artista, in ogni caso» aggiunge sminuendo il quadro con un gesto della mano tremante. «Così famoso, così celebrato, eppure dipinge mia moglie per denaro.» Annuisco. Ora che mi ritrovo di fronte lo zio Jack, non so esattamente come procedere. Indossa un accappatoio e un paio di pantofole, il suo volto è ancora più grigio e magro dell'ultima volta, e io mi chiedo se gli restino da vivere più di pochi mesi. Ma i suoi occhi mandano ancora lampi di vitalità: sono folli, allegri e sveglissimi. Jack Ziegler infila il braccio ossuto sotto il mio e mi guida in un lento giro della stanza, pensando che nella mia disperazione, o forse nella mia paura, mi mostrerò affascinato dalle ricchezze che ha ottenuto in modo illecito. Indica una bacheca illuminata che contiene la sua piccola ma notevole collezione di incunaboli, alcuni dei quali figurano senza dubbio sugli elenchi dell'Interpol. Mi mostra un piccolo vassoio di minuscoli manufatti maya che il governo del Belize di certo ignora abbiano lasciato il paese. Mi fa voltare verso il lato della casa da cui sono entrato. La parete sotto la balconata è coperta da un enorme arazzo, tutto linee verticali che attirano e confondono lo sguardo. C'è un motivo nascosto, e l'ostinazione con cui il cervello ha deciso di distinguerlo impedisce di distogliere gli occhi. È un pezzo di grande bellezza. Lo zio Jack mi spiega con sincero orgoglio che si tratta di un genuino Gunta Stölzl, e io annuisco ammirato anche se non ho la più pallida idea di chi sia, o fosse, Gunta Stölzl, e nemmeno di che sesso sia. O fosse. «Bene, Talcott» sibila lo zio Jack quando abbiamo concluso la visita guidata al suo piccolo museo. Siamo di nuovo davanti alla vetrata, e nessuno dei due vuole essere colui che comincia. Mentre ci studiamo a vicenda, dalle casse acustiche nascoste esplodono le note affilate della Finlandia di Sibelius, che mi è sempre sembrata, malgrado le sue pretese, una delle composizioni più deprimenti del repertorio classico. Ma è perfetta per la situazione. Quando non rispondo, lo zio Jack tossisce due volte e procede deciso:
«Bene, ce l'hai fatta e sono contento di vederti, ma il tempo scarseggia. Cosa posso fare per te? Al telefono hai detto che era una questione urgente». Sulle prime riesco a pronunciare soltanto un nervoso «Sì». Vedere Jack Ziegler così da vicino, con le sue guardie del corpo quasi intercambiabili che attendono dietro le quinte, mentre il suo sguardo scintillante, non esattamente folle ma nemmeno del tutto espressione di equilibrio, aspetta impaziente, è molto diverso che starsene seduto su un aereo a pianificare il colloquio. «Hai detto che avevi dei problemi.» «Direi.» «L'hai detto.» Ho un'altra esitazione. Quello che provo non è tanto paura quanto riluttanza a sbilanciarmi; poiché una volta che avrò cominciato una conversazione seria con lo zio Jack, non sono sicuro che potrò liberarmi di lui. «Come forse saprai, sto indagando sul passato di mio padre. Ciò che ho scoperto mi ha... turbato. E ci sono altre cose, cose che sono accadute negli ultimi due mesi, che sono altrettanto preoccupanti.» Jack Ziegler mi fissa in silenzio. È preparato, a quanto sembra, ad aspettare tutto il pomeriggio e la sera. Non si sente minacciato. Non ha paura. Non sembra provare niente, e ciò è una componente del suo potere. Torno a chiedermi se abbia davvero ucciso sua moglie, e in quel caso se abbia provato qualcosa. «C'è qualcuno che mi segue» sbotto sentendomi un idiota, e quando lo zio Jack non cade nella rete gli racconto tutto dal momento in cui ci siamo lasciati al cimitero: la visita dei finti agenti dell'Fbi, il pedone bianco, l'omicidio di Freeman Bishop, l'annegamento di Colin Scott a Menemsha, la misteriosa ricomparsa del libro. Tralascio Maxine, forse perché mantenere almeno un segreto di fronte allo sguardo implacabile di Jack Ziegler è l'unica vittoria che potrei essere in grado di ottenere. Quando è sicuro che abbia finito, lo zio Jack scrolla le spalle. «Non so perché mi stai dicendo queste cose» dice in tono cupo. «Il giorno del funerale di tuo padre ti ho assicurato che non avresti corso alcun pericolo. Ti proteggerò, come ho promesso a Oliver. Tu e la tua famiglia. Io mantengo le mie promesse. Nessuno ti farà del male. Nessuno farà del male ai tuoi cari. È impossibile, assolutamente impossibile. Ci penso io.» Sposta il peso da un piede all'altro, spinto evidentemente dalla sofferenza fisica. «Un pezzo degli scacchi? Un libro scomparso? Uomini che si na-
scondono nei boschi?» Scuote il capo. «Non sono cose preoccupanti, Talcott. Francamente, da te mi aspettavo di meglio.» «Ma gli uomini a cui hanno mozzato le dita...» «Io proteggerò te» sottolinea agitando una mano, e capisco all'istante che non mi è concesso fare un altro passo in quella direzione. Per un attimo straziante conosco la vera paura. «E la tua famiglia. Finché vivrò.» «Capisco.» «Se quegli uomini ti avevano avvicinato, direi che la loro sventura è una prova del fatto che sei al sicuro.» Jack Ziegler lascia che il significato delle sue parole faccia presa. Poi i suoi occhi velati si incollano ai miei. «Speravo che mi portassi notizie delle disposizioni.» Esito. Mi si sta presentando un'opportunità, lo sento, se soltanto riuscissi a far ripartire il mio cervello cigolante. «Non ho notizie precise. Ma credo di essere sulla strada giusta.» Ancora una volta non so che fare. Se vado avanti, non posso che seguire quel sentiero. Ho preso la decisione molto prima di atterrare ad Aspen, ma fra la decisione e l'atto stesso Dio ha messo la volontà; e la volontà è alquanto sensibile al terrore. Il padrino di Abby sta aspettando. «Ma se tu potessi spiegarmi un paio di cose... be', sarebbe tutto più semplice.» Sono irritato con me stesso. Proprio come al cimitero, di fronte allo zio Jack non riesco a parlare. Suppongo di averne motivo: Jack Ziegler è un assassino plurimo, un efficiente intermediario nel traffico di qualsiasi sostanza illegale, un mediatore dai collegamenti così complessi, così perfettamente nascosti con il crimine organizzato che nessuno è mai riuscito a ricostruirli. Ma tutti sanno che ci sono. «Un paio di cose» ripete senza promettere nulla. Noto una striscia di sudore sulla sua fronte. La mano con cui l'asciuga tradisce un lieve tremore, e lo sguardo rivela intermittenti sfocature. Una crisi di nervi? La sua malattia? «Un paio di cose» ripete di nuovo. Annuisco, deglutisco e rivolgo una rapida occhiata alla vetrata, stavolta senza avere la sensazione di precipitare giù dalla montagna, ma non riesco ancora a capire come faccia a reggersi la casa. Torno a guardare Jack Ziegler e capisco, grazie alla pazienza con cui aspetta e al fatto stesso che ha accettato di vedermi, che ha bisogno di informazioni quanto me. E così la mia voce è più calma e sicura quando dico: «Prima di tutto, mi chiedevo se avessi visto mio padre un anno e mez-
zo fa. In ottobre, o giù di lì». I suoi occhi tornano a velarsi, e mi rendo conto che si sta sforzando di ricordare. «No» dice alla fine. «No, non penso. A quei tempi dovevo essere in Messico per le mie cure.» Il suo tono è incerto, non ingannevole. «Perché?» «Me lo stavo chiedendo, tutto qui.» Rendendomi conto che è una risposta ridicola, la riformulo: «Me n'era giunta voce, suppongo». «Ed è per questo che sei venuto fin qui, Talcott? Sei corso dietro a una voce?» «No.» È ora di mettere le carte in tavola. «No, zio Jack, sono venuto a chiederti di Colin Scott.» «E chi sarebbe Colin Scott?» Esito. Colin Scott, secondo quanto mi ha raccontato Ethan Brinkley, aveva molti nomi, e non ho ragione di pensare che Jack Ziegler li conosca tutti. D'altra parte, se come sospetto mi ha tenuto d'occhio in questi ultimi mesi, non può non averlo sentito nominare. «Colin Scott» ripeto. «Un tempo si chiamava Villard. Jonathan Villard. Era un investigatore privato. Mio padre gli affidò l'incarico di scoprire chi c'era a bordo della macchina che aveva ucciso Abby. La tua figlioccia.» Ora tocca a Jack Ziegler esitare. Sta cercando di capire quanto so, quanto sto tirando a indovinare e quanto può nascondere. Non gli piace apparire vulnerabile davanti a me, e la sua disponibilità a mostrarmi questo lato calcolatore suggerisce che voglia il mio aiuto. «E allora?» domanda. «Credo che tu lo conoscessi alla Cia.» «E allora?» «E devi essere stato tu a mettere in contatto mio padre con lui.» «E allora?» Senza nemmeno dirmi se mi sto avvicinando alla verità o meno. La sua voce ha un sibilo umido e malato. Si posa una mano sul petto ed esplode in una crisi di tosse catarrosa, piegandosi in avanti. Lo afferro per un braccio, che sotto l'accappatoio sento ridotto quasi all'osso. Harrison accorre in un istante, mi stacca gentilmente le dita dal braccio dello zio Jack e lo accompagna verso il divano, porgendogli un alto bicchiere pieno d'acqua. Jack Ziegler trangugia l'acqua e la tosse si placa. «La prego, professore, si sieda» ordina Harrison in tono serio. La sua voce è un cinguettio acuto, e lo guardo meglio per sincerarmi che sia davvero il duro che vuole sembrare. Viste le spalle, decido di sì.
Mi accomodo come mi è stato ordinato su una sedia di fronte all'uomo più spaventoso che conosca. Harrison gli offre una pillola, che lo zio Jack allontana con gesto irritato. La mano tesa di Harrison potrebbe essere scolpita nella roccia. Lo zio Jack gli scocca un'occhiataccia ma alla fine cede, inghiottendo la pillola e tracannando l'acqua. Harrison si ritira. Potrebbe essere un infermiere anche lui? Sto correndo con l'immaginazione? Guardo con la coda dell'occhio il famigerato Jack Ziegler, seduto scomposto sul magnifico divano. Sulle sue labbra secche ci sono tracce di saliva, e la sua mano si muove debolmente ma non a tempo di musica. Come facevo ad avere tanta paura di lui? È malato, sta morendo, è terrorizzato. Mi guardo intorno nella sala. Non è un museo, è un mausoleo. Il mio cuore viene travolto da un'ondata improvvisa di pietà per l'uomo rannicchiato davanti a me. Restiamo seduti in silenzio per qualche minuto, o meglio restiamo seduti senza parlare: la Finlandia è stata rimpiazzata da quello che sembra Wagner, anche se non sono in grado di riconoscere il brano. Jack Ziegler si abbandona sul divano e chiude gli occhi. «Ti prego di scusarmi, Talcott» sussurra immobile. «Non mi sono ancora ripreso.» Non dice da cosa. «Capisco.» Esito, ma sono troppo educato per evitare di dire ciò che devo: «Se preferisci, posso tornare un'altra volta». «Sciocchezze.» Un altro colpo di tosse, meno forte dell'accesso di prima ma secco, crepitante e palesemente doloroso. Lo zio Jack riapre gli occhi. «Sei venuto fin qui, hai fatto tutta questa strada, hai delle domande da fare. Me le puoi fare.» Anche se io potrei non rispondere, mi sta dicendo. «Colin Scott» ripeto. Jack Ziegler sbatte le palpebre sugli occhi lucidi, vecchi. Cerco di rammentare tutti i crimini che dovrebbe aver commesso, i collegamenti con la mafia, con i trafficanti d'armi e i signori della droga e tutti coloro le cui esistenze sono basate sulle sofferenze altrui. Ma trovo difficile ricordare la ragione per cui questo vecchio barcollante sembrava così spaventoso fino a un attimo fa. Ripenso ai due uomini a cui sono state mozzate le dita dopo che mi hanno aggredito, ma l'immagine suscita meno orrore di prima. «Cosa vuoi sapere di lui?» dice alla fine lo zio Jack sbattendo rapidamente le palpebre. «Non credo che mio padre l'abbia pagato. Fra le sue carte non sembra esserci traccia degli assegni.» Ancora prima di mettere piede in questa casa avevo deciso di lasciare fuori Mariah. Meglio che il padrino di Abby reputi
necessario uccidere non più di uno dei fratelli della sua figlioccia. «E per cosa tuo padre non l'avrebbe pagato?» «Per il suo lavoro. Per avere rintracciato l'auto sportiva.» Deglutisco, e il mio disagio torna a crescere a mano a mano che il volto di Jack Ziegler si distende; ma il momento adatto alla cautela era prima di sollevare la cornetta per chiamarlo. «Mio padre non l'ha pagato per il suo lavoro.» «E allora?» La risposta rivela una sensazione che prima mancava: la bestia si sta lentamente risvegliando, e Jack Ziegler non sembra più così barcollante. «Immagino che non lavorasse gratis» dico con cautela. «E allora?» La paura strisciante sta tornando, carezzandomi la schiena e le cosce con le sue dita gelide. In qualche modo, lo zio Jack ha alterato la temperatura della conversazione. «Credo... credo che l'abbia pagato tu. Che tu abbia pagato l'investigatore.» «L'avrei pagato io?» Gli occhi neri come il carbone si sono fatti più taglienti, e il mio stomaco è contratto dallo stesso disagio che provavo quando ero bambino a Martha's Vineyard e mio padre mi metteva in mano una torcia e mi ordinava di bruciare un nido di calabroni che Mariah aveva scoperto sotto la grondaia della veranda. Sapevo che se non li avessi uccisi tutti sarei stato punito. Più volte. «È quello che penso.» «Che avrei pagato questo Scott per il lavoro che aveva svolto per tuo padre.» Jack Ziegler pronuncia le parole scandendole lentamente, come se mi stesse offrendo l'opportunità di ritrattare. «Sì.» Malgrado stia stuzzicando i calabroni, la mia voce è calma. «E perché l'avrei fatto?» «Non lo so. Forse perché tu e mio padre eravate vecchi amici. Perché eri il padrino di sua figlia.» Mi costringo a proseguire, ben sapendo che non mi dirà mai qual è la versione giusta. «O forse l'hai aiutato perché... perché volevi che mio padre ti dovesse un favore. Un favore che in seguito avresti potuto chiedergli di restituirti.» Jack Ziegler ripete il finto sputo che ricordo dal giorno del funerale. Le sue lunghe dita carezzano la pelle morente del mento. «Forse non ci sono assegni intestati al defunto signor Scott perché tuo padre non l'ha mai pagato. E forse non l'ha mai pagato perché il signor Scott non ha mai lavorato per lui.»
«Non credo sia così. Penso che mio padre avesse le sue ragioni per non intestargli un assegno. Credo che il signor Scott... be', diciamo che non era il tipo a cui un giudice federale poteva permettersi di essere associato.» «E allora?» «E allora, mio padre doveva evitare anche la semplice apparenza di scorrettezza. Forse già allora stava pensando alla corte suprema.» Vedendo che ciò suscita la stessa occhiata intensa, insisto. «Fra l'altro, non sono nemmeno sicuro che mio padre si potesse permettere di pagarlo. Non con uno stipendio da giudice federale, specialmente a quei tempi.» Jack Ziegler è rilassato. «E cos'altro pensi, Talcott? È molto divertente, davvero.» Esito, ma ormai è troppo tardi per fare marcia indietro. «Penso che Colin Scott abbia presentato un rapporto sull'incidente. Penso che dopo aver scoperto il responsabile abbia consegnato il rapporto a mio padre. Ma non credo che mio padre l'abbia mai portato alla polizia, giusto? Penso che dopo aver letto il rapporto abbia chiesto al signor Scott di fare qualcosa per lui, e che quando Scott ha rifiutato abbia chiesto aiuto a te.» Mi fermo. Le parole successive non vogliono saperne di uscire. Non è che abbia troppa paura per pronunciarle; è che sono meno sicuro di voler sapere la risposta di quanto lo fossi due ore fa. Ma Jack Ziegler non mi concede di evitarlo. «Dici che tuo padre ha chiesto il mio aiuto? E cosa credi che sia successo a quel punto?» Ebbene, è proprio questa la ragione per cui sono volato fin qui. È proprio questo il momento per il quale ho lavorato tanto, attraverso le conversazioni con Wallace Wainwright e Lanie Cross, i ricordi che ho strappato a Sally, a Addison e alla stessa Mariah, attraverso le prove che ho raccolto, con e senza il loro aiuto, fra cui l'album di ritagli scomparso. Se non mi deciderò a dirlo, tutti questi mesi di lavoro andranno sprecati. E così il viaggio ad Aspen. Certo, se lo dicessi c'è la concreta possibilità che non riveda più mia moglie e mio figlio. Ma come spesso accade, il mio è il coraggio dello stupido. «Credo che tu abbia convinto Colin Scott a... a occuparsi della faccenda.» Ecco, alla fine l'ho detto. Jack Ziegler scuote la testa lentamente e con una certa tristezza, ma i suoi occhi sono rivolti alla vista vertiginosa e non verso di me. «Occupar-
sene?» ridacchia, poi tossisce. «Sembri un film di serie B. Occuparsi di cosa?» «Sai cosa intendo, zio Jack.» «So cosa intendi, Talcott, e francamente ne sono offeso.» Il suo tono è basso, quasi carezzevole, e mi raggela. Di nuovo, qualcosa di vagamente minaccioso addensa l'aria che ci separa. «Non sto cercando di...» «Stai accusando tuo padre di un crimine, Talcott. Usi degli sciocchi eufemismi, ma è quello che stai facendo, no? Credi che tuo padre abbia pagato quello Scott per commettere un omicidio.» Con il passare dei secondi, sta diventando sempre meno sincero. «E questo è già abbastanza brutto. Ma adesso mi accusi di averlo aiutato.» "Una volta che hai stuzzicato il nido" mi diceva il Giudice "ti conviene continuare a bruciarlo, perché non riuscirai mai a sfuggire ai calabroni se ne usciranno vivi." «Zio Jack, ascolta, so come ti guadagni da vivere.» «No, non credo proprio.» Arriccia le labbra e alza una mano contorta. Mi punta un dito avvizzito davanti al volto. «Oh, lo so, lo so, tu credi di saperlo. Tutti credono di saperlo. Leggono i giornali, quei libri imbecilli e compagnia bella. Quegli stupidi rapporti delle commissioni. Ma nessuno lo sa veramente. Nessuno.» Si alza a fatica. Una volta tanto ho il buonsenso di non provare ad aiutarlo. «Vieni con me, Talcott. Voglio mostrarti una cosa.» Lo seguo mentre attraversa la sala in pantofole passando davanti all'incredibile vetrata con la vista mozzafiato su Aspen ed entra nella cucina, tutta in acciaio inossidabile, dove una robusta donna slava sta preparando il pranzo. Ora vedo la fonte dell'odore piccante, poiché la donna sta versando una polvere in una pentola. Il mio ospite le ringhia qualcosa in una lingua che non conosco, e lei scompare con un fievole sorriso. La parete posteriore della cucina offre la stessa vista della valle attraverso enormi finestre. Sul lato più lontano il locale dà su una serra, in cui Jack Ziegler mi precede. Una sconcertante varietà di piante profuma l'aria, e mi chiedo come il miscuglio di aromi influisca sul cibo. «Guarda» dice lo zio Jack indicando qualcosa al di là della parete di vetro. «Lo vedi cosa intendo? Tutti.» Ora è il mio turno di essere confuso. «Tutti cosa?» «Tutti credono di sapere. Guarda!» Guardo. Mi calo una maschera di serietà sul volto, sperando che lo zio
Jack scambi il mio disorientamento per concentrazione, poiché non ho la minima idea di cosa stia parlando. Seguo la direzione indicata dal suo dito tremante. Vedo il suo ampio prato, la neve fresca che luccica al sole di montagna, vedo le alte siepi e la strada stretta che sale serpeggiando verso le sempre più vistose ville di produttori cinematografici e imprenditori del software ancora più ricchi del padrino di mia sorella. Un minivan passa rombando: Kimmer li detesta, considerandoli eccessivi, e non ne vuole sapere di comprarne uno. Un furgone della compagnia elettrica è parcheggiato un centinaio di metri a monte, e due tecnici in divisa, un uomo e una donna, stanno trafficando sul traliccio. Un po' più vicino a noi, una donna robusta vestita con un paio di scarponcini neri e una tuta aderente gialla, evidentemente indifferente al freddo, sta portando fuori quello che il mio occhio incolto decide sia un dobermann. Un malconcio pickup con il marchio di una ditta di giardinaggio passa ansimando con alcuni attrezzi per spazzare la neve sul piano di carico. Jack Ziegler è immobile al mio fianco come una statua, il dito premuto contro il vetro. Non so che cosa stia indicando. Quello che so è che non ne posso più delle piante. «Okay» dico con cautela. «Sto guardando.» «Be', li vedi?» La senilità dello zio Jack ha avuto un improvviso ritorno di fiamma, e di nuovo mi chiedo se non sia una finta. «Li vedi che ci osservano?» «Chi?» Mi stringe una spalla. Le sue dita, calde e febbricitanti, mi scavano nei muscoli come artigli. «Là! Il furgone!» «Il furgone? Vuoi dire quello accanto al traliccio?» «Sì, sì, lo vedi?» «Sì, lo vedo.» «Be', allora capisci. Non sai come mi tormentano...» «Chi, la compagnia elettrica?» Lo zio Jack mi guarda con severità, e per un attimo le nubi sembrano dissiparsi. «Non la compagnia elettrica» risponde in tono pacato. «L'Fbi.» Controllo meglio. «È un furgone della compagnia elettrica...» insisto. «È soltanto una copertura. Sono qui per tormentarmi.» Scoppia inaspettatamente a ridere, i suoi occhi si incupiscono e roteano verso l'alto. La follia delirante è tornata. «Quassù salta la corrente almeno due volte al mese. Lo sai perché?» Scuoto la testa. «Perché loro possano mandare i loro furgoni e ascoltare le mie telefonate. Perché il mio sistema di allarme smetta
di funzionare e loro possano mettere le cimici.» «Cimici...» «Casa mia, qui in cucina, è piena di cimici!» Con mia sorpresa, estrae uno scacciamosche da chissà dove e lo cala sul muro. «Beccatevi questo!» ridacchia con una tale soddisfazione che per un attimo penso di averlo frainteso, che stia parlando di veri e propri insetti. «E questo!» grida voltandosi e colpendo il frigorifero e uno dei banchi di granito verde. «Adesso sì che le loro cuffie ronzeranno!» ulula. Getta lo scacciamosche verso un armadio, mi cinge le spalle con un braccio e mi riporta nella stanza grande, come la chiama lui. «Vogliono sapere come mi guadagno da vivere. Mi credono un criminale, santo cielo!» Si ferma davanti all'immacolata scrivania e annota qualcosa su un blocco. «Come te» borbotta. Poi si abbandona a una tosse catarrosa senza preoccuparsi di coprirsi la bocca. In preda all'imbarazzo, batto nella mia tipica ritirata. «Zio Jack, non volevo...» «Ma io ho capito il loro gioco» ridacchia lui senza aspettare che finisca. «E così, quando salta la corrente, sai cosa faccio?» «No.» «Te lo dico io cosa faccio» aggiunge con aria astuta tornando a cingermi con un braccio. «Giro con una torcia elettrica e stermino le loro cimici!» «Capisco» rispondo, chiedendomi se non mi sia imbarcato in un'impresa inutile. «No, non credo che tu capisca» mormora lo zio Jack. Poi leva di scatto il volto verso l'alto e grida: «Harrison!». La smilza guardia del corpo si materializza all'istante. «Sì, signore?» Ci siamo. Stanno per gettarmi giù dalla montagna. Kimmer, ti perdono. Abbi cura del nostro bambino. «Ci sono cimici in questa casa, Harrison?» domanda il padrino di Abby. «Di tanto in tanto, signore.» «E noi sterminiamo le cimici?» «Quando possiamo, signore.» «Grazie, signor Harrison, è tutto.» Lo zio Jack gli porge l'appunto, e il maggiordomo-valletto-infermiere-guardia del corpo si ritira. Riprendo a respirare normalmente. È così che comunicano in una casa in cui ogni singola parola potrebbe essere intercettata: scambiandosi biglietti. Ora capisco cosa voleva dire Henderson parlando della popolarità dello zio Jack, e di come tutti fossero al corrente della mia visita. «Cimici dappertutto» ri-
pete Jack Ziegler scuotendo tristemente il capo. Jack Ziegler sta appassendo. Gli tremano le labbra. L'eccitazione sembra averlo consumato e le sue forze si sono esaurite. «Lascia che mi appoggi a te, Talcott» mormora cingendomi le spalle con un braccio magro e febbricitante. Torniamo verso la zona principale della casa, e lo zio Jack avanza facendo scivolare i piedi sul pavimento. Accanto a me, il suo corpo sembra leggero come quello di un bambino. «Ascoltami, Talcott» dice. «Mi ascolti?» «Ti ascolto, zio Jack.» «Io non sono un eroe, Talcott. Questo lo so. Nella mia vita ho fatto cose di cui mi rammarico. E ho soci in affari che sono altrettanto dispiaciuti. Capisci?» «Non proprio...» «Ho fatto delle scelte, Talcott. Scelte difficili. E le scelte producono delle conseguenze. Credo che questa sia la prima regola di qualsiasi etica: le scelte producono delle conseguenze. Tutte. Io l'ho sempre accettata. Ho fatto delle buone scelte e ne ho ricavato benefici. Ho fatto delle cattive scelte e ne ho sofferto. Tutti noi ne abbiamo sofferto.» Lascia che anche questo concetto faccia presa. Mi rendo conto che sotto le belle maniere è furioso. I calabroni stanno ronzando. «Capisco quello che...» comincio, ma lui mi interrompe immediatamente. «Conseguenze, Talcott. Un termine troppo poco usato. Oggi viviamo in un mondo in cui nessuno crede che le scelte debbano avere conseguenze. Ma posso rivelarti il grande segreto che la nostra cultura cerca di negare? Non puoi sfuggire alle conseguenze delle tue scelte. Il tempo scorre in una sola direzione.» «Suppongo di sì» rispondo, anche se non è vero. Gli occhi umidi e stanchi di Jack Ziegler mi sfiorano il volto, si spostano sul muro - sta pensando ancora alle cimici? - infine si fermano sulla vista di Aspen al di là delle vetrate. Comincia una nuova predica: «Nessun padre riesce a essere quello che avrebbe voluto essere per i suoi figli. Lo imparerai anche tu, penso». Ricordo che pure lui ha un figlio, Jack Junior, un agente di cambio che vive dall'altra parte del globo, a Hong Kong, credo, per sfuggire a suo padre. Mi chiedo se sia abbastanza lontano. Jack Ziegler prosegue a filosofeggiare, come se lo scopo del mio viaggio
fosse quello di comprendere la sua idea di una vita ben spesa. «Un padre, un figlio: è un vincolo sacro. Nel corso della storia la guida della famiglia viene trasmessa in questo modo, dal padre al figlio, al figlio del figlio e così via. Il capofamiglia, Talcott! È una missione, capisci? Una responsabilità che un uomo non può eludere, neanche se lo volesse. Lo so, oggi nei campus idee simili vengono accantonate. Sessiste, le chiamano. Conosci i termini meglio di me. Patriarcato. Dominazione maschile. Bah! La mia generazione non aveva i lussi della tua. Non avevamo tempo da perdere in simili discussioni. Dovevamo vivere, Talcott. Dovevamo agire. Che fossero gli altri a preoccuparsi del perché Dio aveva parlato a Mosè da un cespuglio in fiamme invece che da un sicomoro o da un supermercato WalMart o da un televisore. Chi aveva tempo per pensarci? La tua è la generazione dei chiacchieroni, e vi auguro ogni bene. La nostra era la generazione di chi agisce, Talcott, l'ultima che il nostro paese abbia visto. Tu non capisci, lo so. Tu non hai mai vissuto una vita in cui non c'è tempo per discutere, per dibattere, per litigare, per analizzare le proprie opzioni - non è così che si dice oggi? Noi non chiamavamo le stazioni radio per lamentarci delle nostre difficoltà. Non facevamo derivare la stima in noi stessi dalla denuncia dei maltrattamenti che avevamo subito. Non ci lamentavamo. Non ne avevamo il tempo. La mia generazione aveva delle cose da fare, Talcott. Decisioni da prendere. Capisci?» Non gli importa che capisca. Non gli importa che io sia d'accordo. È deciso a dimostrare la sua tesi... e in questo momento sembra proprio il Giudice. «E questa era la generazione a cui apparteneva tuo padre, Talcott. Tuo padre e io. Eravamo uguali. Eravamo capifamiglia. Uomini. Tipi antiquati, diresti tu. Sapevamo quali erano le nostre responsabilità. Provvedere ai nostri cari, sì. Allevarli, certo. Guidarli. Ma soprattutto proteggerli.» Il sole è al tramonto sulla cittadina di Aspen, e la neve si sta tingendo di un meraviglioso rosso-arancione. Giù a valle gli sciatori stanno per cominciare la fase serale della loro giornata. Mi chiedo quando dormano. «So che provi rabbia, Talcott. So che tuo padre ti ha deluso.» Mi scocca un'occhiata umida, ma la distoglie subito. «Credi di aver scoperto qualcosa di terribile su di lui. E allora dimmi: tu cosa avresti fatto? Tua figlia è morta, la polizia non fa un bel niente e tu credi di sapere chi l'ha uccisa. Cosa avresti fatto?» Attende. Mi sto ponendo la stessa domanda fin da quando la visita di Mariah mi ha fatto imboccare questo sentiero. Se qualcuno facesse del male a Bentley e se la legge non mi offrisse alcuna giustizia, assolderei un as-
sassino? Oppure mi vendicherei da solo? Forse. Forse no. Nessuno, credo, è in grado di rispondere con certezza finché l'interrogativo resta astratto. Soltanto quando c'è in gioco qualcosa mettiamo alla prova i principi che ostentiamo con tanto orgoglio. «So quello che ha fatto lui» rispondo. Jack Ziegler scuote la testa sottile. «Credi di saperlo. Ma cosa sai di preciso? Dimmelo, Talcott: cosa sai veramente?» La sua improvvisa franchezza mi coglie di sorpresa. I suoi occhi mi fissano penetranti. Distolgo lo sguardo. Mi chiedo come mai lo zio Jack non sia più preoccupato per le cimici, ma ripensando a ciò che abbiamo detto mi rendo conto che le uniche frasi incriminanti sono state pronunciate da me e riguardano il Giudice, il quale è morto... e che lo zio Jack mi ha messo nella posizione di diffamare la memoria di mio padre a vantaggio degli ascoltatori dell'Fbi. E sia. «Ha assoldato un assassino» mi decido a dire con l'intenzione di rispondere a tono alla franchezza dello zio Jack. «Bah! Un assassino! L'uomo che ha maciullato tua sorella era un assassino, Talcott. E stava girando a piede libero.» «L'uomo che mio padre credeva avesse maciullato mia sorella. Non è mai stato condannato.» «Condannato? Non è mai stato arrestato, né incriminato o indagato.» I suoi occhi glaciali non si staccano dai miei. «E allora come faceva mio padre a essere sicuro che fosse stato lui?» «È un errore, Talcott, considerarla un'asserzione, vera o falsa che sia.» Un colpo di tosse umido e stridente. «Essere uomo significa agire. A volte devi agire sulla base delle informazioni disponibili al momento. Forse sono esatte, forse sono errate. Ma devi agire comunque.» «Non ti seguo.» «E io non sono in grado di spiegarti altro.» Il problema è che non mi ha spiegato un bel niente. Arrivo quasi a dirlo, ma lo zio Jack ha ripreso il tono e lo stile del conferenziere. «Alcune delle tue domande non hanno risposta, Talcott, e altre hanno risposte che non scoprirai mai. È così che va il mondo, ed è la nostra incapacità di scoprire tutto ciò che vorremmo a renderci mortali.» Il lato oracolare di Jack Ziegler mi infastidisce, forse per ragioni etiche: che diritto ha un assassino di fare prediche sul significato della vita? Conosce forse cose di cui noi mortali più deboli siamo all'oscuro? Oppure la sua oratoria è una semplice cor-
tina di fumo, così che le cimici, se davvero esistono, non lo sorprendano a confessare un crimine? «Ma alcune delle tue domande hanno risposte che tu hai il diritto di sapere. Credo che tuo padre volesse che fossi tu, più degli altri suoi figli, a scoprire le risposte. Perché ha sempre avuto un certo timore reverenziale nei tuoi riguardi, Talcott. In parte timore, in parte invidia. E ha sempre desiderato la tua approvazione. Più di quella di Addison, più di quella di Mariah.» Non sono sicuro se credere alle sue parole, ma sono alquanto sicuro di non volerle sentire. «E così, tuo padre ha fatto in modo che tu ottenessi alcune delle risposte. Ma devi anche trovarle da solo.» «E questo che significa?» «Le disposizioni, Talcott. Devi trovare le disposizioni.» Lo zio Jack aggrotta la fronte. «Non so dove tuo padre abbia sepolto le risposte, ma le ha nascoste così in profondità che soltanto tu puoi sapere dove cercare. È per questo che molti ti hanno importunato. Ma non dimenticare mai che nessuno di loro può farti del male.» Un cenno secco del capo. «E che non devi abbandonare la ricerca, Talcott. Non devi.» «Ma per quale ragione è così importante, questa ricerca?» È la domanda che ho cercato di porre a Maxine, il cui nome probabilmente non è Maxine. «Diciamo... per la tua tranquillità di spirito.» Ci rifletto. Non può essere tutto qui. Lo zio Jack vuole che scopra ciò che c'è da scoprire. Potrebbe anche darsi, vista la sua insistenza e quella di Maxine, che in qualche modo la sua... la sua capacità di proteggermi... sia legata alla promessa che la ricerca abbia successo. Aggrottando di nuovo la fronte, provando una gran voglia di fuggire da questa orrida stanza, sparo il mio ultimo colpo. «E se trovo le disposizioni? Che succede?» «A quel punto, saranno tutti contenti.» Jack Ziegler smette di parlare, ma io capisco che è soltanto una pausa: so perfino cosa sta per aggiungere. E ho ragione. «Forse, quando troverai le disposizioni lasciate da tuo padre, non dovresti esaminarle da solo. Sarebbe un errore. Penso che la cosa migliore... sì, mi aspetto che prima di tutto le mostri a me. Naturalmente.» «Naturalmente» mormoro, ma a voce troppo bassa perché mi possa udire. Mallory Corcoran, Maxine senza cognome, e adesso lo zio Jack: quando le trovi, portale a me! Eppure Jack Ziegler, a differenza degli altri, pronuncia la sua richiesta come se reclamasse un diritto. Insinuando, forse, che non farei altro che restituirgli qualcosa di suo.
«È uno scambio equo, penso.» Con la sua promessa di proteggerci, intende dire. «Ehm, sì, certo.» Il suo tono suggerisce che sta per congedarmi. Ho la netta sensazione di aver dimenticato una cosa importante. Prima che riesca a controllarmi mi sento dare voce all'unico argomento che avevo sepolto nel profondo, coperto dalla coltre pesante degli altri misteri, e a cui mi ero ripromesso di non accennare. «Zio Jack, una settimana prima di morire mio padre ha detto... a qualcuno... di aver parlato con te.» «E allora?» «Vorrei sapere se è vero.» Trattengo il respiro in attesa che i calabroni attacchino, ma la risposta arriva in modo così fluido che è probabile l'avesse in programma da mesi. «Sì, ho visto Oliver. Perché me lo chiedi?» «Ti ha chiamato lui o l'hai chiamato tu?» «Sembri un pubblico ministero, Talcott.» Tende le labbra in un sorriso pacifico con cui mi fa capire che è irritato. «Ma visto che me lo chiedi, tuo padre mi aveva chiamato qualche settimana prima per dirmi che voleva vedermi. Gli risposi che sarei stato in Virginia a metà settembre e che avremmo potuto incontrarci allora. Abbiamo avuto una cena piacevole, in un clima di pura amicizia.» «Capisco.» Non ho dubbi che la recita corrisponda esattamente alla registrazione della telefonata di mio padre in possesso dell'Fbi. Ma non esistono registrazioni della conversazione a tavola: deve averci pensato lo zio Jack. Avverto un crescente disagio nel padrino di Abby; sono arrivato vicino a ciò che più desidera nascondermi. Durante quella cena è successo qualcosa. Qualcosa che ha convinto mio padre a riprendere le lezioni di tiro? So che Jack Ziegler non me lo dirà mai. «Capisco» ripeto. Sono confuso. «Il nostro tempo è scaduto, Talcott.» Lo zio Jack tossisce. «Se potessi farti solo un'altra...» Mi interrompe alzando una mano e chiama Henderson. Mi chiedo come decida quale guardia del corpo chiamare. «Aspetta, zio Jack. Aspetta un secondo.» La sua testa ruota lentamente verso di me, riesco quasi a sentirne il cigolio. Le sue sopracciglia chiare sono inarcate, i suoi occhi scuri e guardinghi. Non è abituato a sentirsi dire di aspettare. «Sì, Talcott?» chiede piano mentre compare Henderson. Rivolgo una rapida occhiata alla guardia del corpo, poi inclino il capo e
abbasso la voce. «Sai l'uomo in competizione con mia moglie per quel seggio... È stato travolto da uno scandalo.» La sua espressione è di febbrile divertimento. «Te l'avevo detto che c'era uno scheletro.» «Sì. Be', non capisco come... come facevi a saperlo.» Non è affatto quello che stavo per chiedere, ma a mano a mano che Henderson si avvicina la stanza sembra chiudersi attorno a me, il panorama torna a darmi le vertigini e ho l'improvvisa certezza che non dovrei fare altre domande. «Parlo dello scheletro.» «Non ha importanza» sussurra Jack Ziegler dopo un istante. «Ti devi concentrare sul futuro, Talcott, non sul passato.» «No, aspetta. Come facevi a saperlo? Ne erano al corrente soltanto due persone. E nessuna di loro l'avrebbe mai...» Detto a un uomo come te, non arrivo ad aggiungere. Jack Ziegler sa perfettamente cosa sto pensando. Glielo posso leggere sul volto stanco mentre mi posa una mano avvizzita sulla spalla. «Non esiste nulla che sia noto soltanto a due persone, Talcott.» «Stai dicendo che altri ne erano al corrente? Che te l'aveva detto qualcun altro?» Ha perso ogni interesse. «Il signor Garland ci lascia, Henderson. Lo accompagni all'appartamento in cui pernotterà. È uno dei vecchi condomini vicino alla biblioteca, quelli con le porte blu. Non ricordo il numero, ma glielo mostrerà il signor Garland.» «Non ti ho mai detto dove avrei alloggiato.» La mia obiezione fuoriesce lentamente, poiché un improvviso brivido di paura mi ha intorpidito i sensi. «No, non me l'hai mai detto» conviene il padrino di Abby. Non sorride, la sua vocetta sottile e la sua occhiata velata non vacillano, ma io capisco che ha scelto, per un breve istante, di mostrarmi una minuscola parte del suo potere. Forse il suo scopo è persuadermi a fidarmi di lui, a credere che mi proteggerà e a rivelargli ciò che scoprirò. Se invece il suo obiettivo è mettermi paura... ebbene, ci è riuscito. Henderson è in piedi sulle scale che portano all'ingresso con il mio cappotto sul braccio. Ringrazio lo zio Jack per avermi ricevuto. Lui mi porge la mano, e quando gliela stringo non lascia la presa. «Talcott, ascoltami. Ascoltami bene. Sono un uomo malato, e in molti si interessano al mio stato di salute. Prendo le mie contromisure, ma loro mandano furgoni e seminano cimici. Non credo che dovresti rimetterti in
contatto con me. A meno che tu non abbia trovato le disposizioni di tuo padre.» «Perché no? Aspetta. Perché no, zio Jack?» Jack Ziegler quasi sorride. Ci arriva vicino. Non credo che si sforzi di non farlo, gliene manca semplicemente l'energia. Mi rivolge un cenno silenzioso di saluto, poi viene preso da un attacco di tosse. Il signor Harrison gli si affianca all'istante, lo prende per un braccio e lo conduce via. Mentre scendiamo verso il paese scorgo dei fari nello specchietto laterale, ma non significa nulla: tutti ad Aspen possiedono un'auto. Mi chiedo se Jack Ziegler avesse ragione sul furgone della compagnia elettrica. Mi domando quanto tempo passerà prima che l'agente Nunzio venga a sapere della mia visita, o se magari non fosse già in ascolto. Controllo ancora una volta lo specchietto mentre superiamo un tornante, ma i fari sono scomparsi. Henderson mi chiede se ho gradito la visita... e all'improvviso riconosco la sua voce vellutata. Mi prenderei a calci per non essermene accorto prima. Il signor Henderson è l'uomo che mi ha telefonato alle due e cinquantuno del mattino dopo che ero stato malmenato, assicurandomi tranquillamente che io e la mia famiglia non saremmo più stati importunati. Avendo il compito di proteggere lo zio Jack, è probabile che mi abbia chiamato da Aspen. Ma Elm Harbor è soltanto a un volo di distanza, e gli attrezzi necessari per mozzare le dita a due uomini si trovano di sicuro in qualsiasi negozio di ferramenta. 45 UNA CHIAMATA ALLE ARMI Dalla finestra del piccolo appartamento in multiproprietà di John e Janice Brown guardo la Range Rover uscire agilmente dal parcheggio. Faccio il giro della casa accendendo un'abbondanza di luci e rammentando l'ultima volta che ci sono stato, tanti anni fa, quando il mio matrimonio era ragionevolmente felice. Mi chiedo se ci sia qualche speranza che torni a esserlo; se, per esempio, l'uomo che quel mattino piovoso ha telefonato chiamando "piccola" mia moglie ci rovinerà la vita o se si limiterà a scomparire, come in passato hanno sempre fatto gli uomini di Kimmer. O se questa volta mia moglie farà scomparire me. L'appartamento è su due piani, il primo costituito da uno stretto soggiorno-sala da pranzo con cucinino annesso, il secondo da due camere da letto,
ognuna con il proprio bagno. Rovisto nel frigorifero ma trovo soltanto dell'acqua in bottiglia, e decido che chiunque l'abbia lasciata non si offenderà se ne approfitto. Non ho pranzato e in casa non c'è niente da mangiare; consulto l'elenco del telefono, chiamo per ordinare una pizza e scopro che, in questa eccitante serata invernale ad Aspen, c'è da aspettare almeno un'ora e mezzo. Rispondo che un'ora e mezzo va benissimo. Torno alla finestra sul davanti chiedendomi, come ho già fatto mentre scendevamo a valle, se il fiato che sentivo sul collo era la mia immaginazione o qualcuno che mi seguiva. Sulla Red Mountain, servita soltanto da un paio di strade, non è facile capirlo. Un'altra automobile potrebbe seguirti per tutta la salita o la discesa senza che ci sia modo di distinguere il malintenzionato dal residente del luogo che sta semplicemente andando nella tua stessa direzione. Mi consolo con il pensiero che Henderson non sembrava preoccupato. Scosto la tendina di pizzo e scruto il parcheggio. Alcuni festaioli ubriachi barcollano sul piazzale, qualche sporadica automobile entra ed esce con un fruscio, ma non riesco a capire se sono sorvegliato, e, in questo caso, chi mi sta sorvegliando. Una parte ribelle e contorta della mia immaginazione spera che Maxine si presenti baldanzosa sulla soglia, ma la parte più razionale suggerisce come molto più probabile l'ipotesi di un agente dell'Fbi o addirittura di un finto agente come Foreman, il quale, come Maxine mi ha ricordato a Martha's Vineyard, è vivo e vegeto. Visto che non c'è modo di scoprirlo, decido di non preoccuparmi. Torno invece in cucina e chiamo a casa per dire a Kimmer che sto bene. Mi risponde la segreteria telefonica. Potrebbero esserci mille ragioni per l'assenza di mia moglie, mi ammonisco. Qui ad Aspen sono le sei appena passate, dunque a casa sono le otto, e Kimmer potrebbe essere fuori a fare compere con Bentley. Naturalmente. Fare acquisti, qualche commissione: non è mai stato nel carattere di Kimmer tenermi al corrente dei dettagli dei suoi programmi. Mi collego alla rete con il portatile e gioco a scacchi per una mezz'ora, poi controllo la mia e-mail senza trovarvi, come al solito, niente di importante. La segreteria telefonica del mio ufficio mi rivela che adesso anche la Visa è interessata a sapere quando avverrà di preciso il prossimo versamento, e mi chiedo quanto a lungo sarò in grado di affrontare questi viaggi con un bilancio già stiracchiato per mantenere una casa che non potremmo permetterci.
Le sette in punto, le nove all'Est. Scollego il portatile e chiamo di nuovo a casa, e ancora una volta vengo premiato con la segreteria telefonica. Strano, perché è l'ora in cui Bentley va a nanna. Forse gli sta facendo il bagnetto, mi dico, e Kimmer non sente squillare il telefono oppure non vuole lasciarlo solo. Tranne che si porta sempre il portatile in bagno. Gli acquisti sono andati per le lunghe, decido. Mezz'ora dopo, quando ancora non risponde nessuno, non riesco più a trattenere le riflessioni più cupe che fanno di tutto per attirare la mia attenzione. Il fatto, per esempio, che Colin Scott sarà anche morto, ma che Foreman è ancora vivo. La mia famiglia non è in pericolo, lo zio Jack mi ha appena rassicurato, e io penso che lui stesso ci creda; ma nemmeno io dovevo essere in pericolo, eppure qualcuno mi ha aggredito nel bel mezzo del campus. È vero che un uomo che sembrava Henderson mi ha chiamato in seguito per farmi le sue scuse, ma ha chiamato in seguito. Le otto, le dieci all'Est. Faccio il numero del cellulare di Kimmer. Provo a chiamarla in ufficio. Poi di nuovo a casa. Quando non ottengo risposta, faccio una cosa che non faccio quasi mai: chiamo la Cara Dana Worth a casa sua, a due isolati di distanza dalla mia su Hobby Road. Suppongo di non farlo mai perché Alison mi mette a disagio, o forse sono io a mettere a disagio lei. Comunque sia, non andiamo d'accordo. Naturalmente, è Alison che risponde al telefono. Quando le chiedo scusa per l'orario, tira fuori la vecchia, frusta battuta che ha dovuto alzarsi comunque perché squillava il telefono. Il suo tono mi dice che è quasi seria, che è infastidita dalla mia telefonata: forse è un momento inopportuno, ipotesi che preferirei non approfondire. Quando chiedo di parlare con Dana, Alison mi domanda perché. «Perché ho bisogno di parlarle.» «Di cosa?» «È... personale.» Un breve, furioso silenzio. «Be', al momento non è in casa.» «Credi che arriverà presto?» «Non ne ho idea» borbotta Alison, e la rabbia nel suo tono mi fa capire che lei e Dana hanno litigato di nuovo, cosa che fanno spesso. Non posso certo chiedere ad Alison, che non ha alcuna ragione per provare simpatia nei miei confronti, di fare ciò che avevo in mente di chiedere a Dana - andare a casa nostra e vedere se Kimmer e Bentley stanno bene -,
così le faccio le mie scuse e riaggancio. Un'altra telefonata a casa. Di nuovo la segreteria. Torno alla finestra del soggiorno. L'appartamento ha pochi mobili: un piccolo tavolo da pranzo con il piano di vetro e sei sedie in finta pelle, un orrendo divano verde con relativo divanetto a due posti, due poltrone a sacco sulle quali, in caso di necessità, è possibile dormire. Immagino che anche il divano possa diventare un letto. Scosto di nuovo la tendina. Aspen è buia. Hobby Road è buia. Più preoccupato che mai, torno in cucina e faccio il numero di Don e Nina Felsenfeld, i nostri vicini. Non risponde nessuno. Non c'è segreteria. Mi ricordo che sono andati a fare visita a una figlia nel North Carolina per qualche giorno. E all'Est sono quasi le dieci e mezzo di sera. Sto cominciando a tremare. Chi altri potrei chiamare nel vicinato? Peter Van Dyke, che abita di fronte a noi, sa a malapena che sono vivo. Tish Kirschbaum, la seconda collega più vicina della facoltà, ha una casa giusto dietro l'angolo, ma io e lei non siamo in confidenza. Theo Mountain, a una strada di distanza, starà sicuramente dormendo. Nello spazio di un paio di isolati ci sono Ethan Brinkley, Arnie Rosen e qualche altro collega, ma in tutta Hobby Hill non c'è nessuno, a eccezione della Cara Dana, compagna di emarginazione, che posso pensare di tirare giù dal letto per scacciare il babau. Ammesso che ci sia un babau. Non c'è problema, mi ripeto. Va tutto bene. Kimmer sta dormendo, provo a dirmi. Ma la segreteria telefonica è accanto al letto. Si sarà addormentata al pianterreno, magari nel salottino, guardando la televisione e sorseggiando vino. Tranne che Kimmer non beve mai fino a addormentarsi: era il Giudice che lo faceva. Allora è in ufficio, impegnata a finire un progetto importante mentre Bentley sonnecchia per terra, ma l'idea è folle, e oltretutto in ufficio ho già provato a chiamarla. È imprigionata nel traffico. È morta in un incidente stradale. Dovrei chiamare l'ospedale dell'università? È fuori in giardino, e Foreman la sta torturando. Foreman, che è ancora vivo. Basta! Faccio quello che avrei dovuto fare fin da subito e chiamo la polizia di Elm Harbor. Quando riaggancio dopo aver passato cinque minuti con uno scettico sergente di turno, il campanello mi fa sobbalzare sulla sedia. Ma è solo il fattorino con la pizza.
Mastico tristemente la pizza sempre più fredda e sorseggio la Diet Coke sempre più calda chiedendomi quando dovrei richiamare. Il sergente ha promesso che avrebbe inviato un'auto a casa mia non appena se ne fosse liberata una. Non sono riuscito a convincerlo ad accelerare i tempi. Forse riceve di continuo telefonate come questa Seduto nel minuscolo appartamento di Aspen, il volto sepolto nelle mani, aspetto notizie. Esiste una prassi? Un intervallo stabilito fra una chiamata e l'altra alla polizia? Non ricordo di essermi mai sentito così impotente, nemmeno quando ho rischiato di farmi arrestare la sera in cui i due uomini mi hanno picchiato: in quel caso, se non altro, sapevo che alla fine la questione si sarebbe chiarita. Ma adesso, a tremila chilometri da casa, sono assolutamente incapace di fare quello che Jack Ziegler ha definito il mio dovere: proteggere la mia famiglia... Jack Ziegler? Dovrei? Non ho niente da perdere, a questo punto. Sollevo la cornetta e chiamo la casa sulla Red Mountain; il telefono fa appena in tempo a squillare che sento la voce voluttuosa di Henderson. «Sì, professore?» lo sento mormorare prima ancora che riesca a dire qualcosa, e rimango sbalordito soltanto finché non capisco che lo zio Jack ha ovviamente il servizio di identificazione della chiamata. «Io... ho bisogno di aiuto» rispondo senza tanti convenevoli. «In che senso, professore?» Paziente, calmo, ma non esattamente entusiasta. «Posso parlare con il signor Ziegler?» «Temo che stia dormendo e che non possa essere disturbato. Mi dica.» «Io... non riesco a trovare mia moglie» sbotto. «Sì?» Lo stesso tono tranquillo e privo di inflessione, a proclamare la sua disponibilità a uccidere o essere ucciso senza alcuna obiezione. «Si trova a Elm Harbor. È molto tardi, ma non risponde al telefono, e se... se c'è qualcosa...» «La richiamo» dice, e la comunicazione si interrompe. Sono di nuovo costretto ad aspettare. Ora tratteggio uno scenario diverso. Kimmer non è morta, non sta facendo una commissione e non è in ufficio. È a casa di un altro, nel letto di un altro, malgrado le sue recenti dichiarazioni d'amore. Sta dormendo da qualche parte a Elm Harbor, non con il mio avversario pugilistico Gerald Nathanson, ma con un uomo di colore che la chiama "piccola", malgrado la mia febbrile immaginazione
non sia in grado di dirmi dove possa essere il nostro piccolo in questo quadro. Finalmente squilla il telefono. «Kimmer?» «Professor Garland» dice Henderson «mi dispiace, ma al momento non disponiamo della necessaria copertura.» «Può ripeterlo in parole semplici?» «Non sono in grado di stabilire dove si trovi sua moglie. Le chiedo scusa. Se è preoccupato, le suggerisco di chiamare la polizia.» «L'ho già fatto» mormoro riagganciando in preda alle vertigini, irragionevolmente affranto dalla scoperta che lo zio Jack, con tutto il suo presunto potere, non è in grado di arrivare al cuore di Elm Harbor con una semplice parola, di parlare con la spia di turno in Hobby Road e di scoprire se mia moglie è viva, morta o addormentata nel letto di un altro. Mi drizzo a sedere mentre il panico comincia ad avere il sopravvento: se Jack Ziegler al momento non ha... copertura, allora chi di preciso sta facendo rispettare l'editto che protegge mia moglie e mio figlio? Sollevo la cornetta e richiamo la polizia di Elm Harbor. Lo stesso sergente mi informa che ha trasmesso la richiesta al centralino e che mi richiamerà non appena avrà saputo qualcosa. «Non era una richiesta» giungo quasi a gridare attraverso i chilometri che ci separano mentre la tensione trabocca. «Non mi ha sentito? Le ho detto che mia moglie è in pericolo!» «No, signore, lei ha detto che potrebbe essere in pericolo.» «Be', adesso penso che sia in pericolo. Credo... La prego, mandi subito qualcuno, va bene?» «Può dirmi che tipo di pericolo?» Il sergente sembra un po' più interessato di prima. Cerco di pensare a cosa potrebbe catturare la sua attenzione. «Potrebbe esserci... ehm, un intruso in casa.» «Sa per certo che c'è un intruso, oppure lo sta dicendo per avere la precedenza sulle altre chiamate?» «Sergente...» «Signor Garland, ascolti. Di notte abbiamo soltanto sei auto in servizio. Per una città di più di novantamila abitanti. Significa un'auto ogni quindicimila.» Gemo al pensiero delle devastazioni prodotte dalle disuguaglianze di reddito nella vita reale: sono pronto a scommettere che soltanto sulla Red Mountain ci siano sei auto di pattuglia, tutte private. «Ci occuperemo
della sua chiamata non appena potremo.» Il sergente riaggancia. All'Est sono le undici passate. Rifaccio il numero di casa, e ancora una volta non ottengo risposta. Ormai tremo da capo a piedi. Un'ultima idea. Sfilo dal portafoglio il biglietto da visita di Fred Nunzio e compongo il numero del suo cercapersone. Alla fine aggiungo le due cifre che l'agente mi ha detto di usare per le emergenze. Tre minuti dopo mi richiama. E sembra preoccupato, o almeno disposto a darmi ascolto. «Sono sicuro che sia tutto a posto, ma se la fa sentire meglio chiamerò io stesso il sergente, d'accordo?» «Grazie, agente Nunzio.» «Fred, continuo a ripeterle di chiamarmi Fred.» «Fred. Grazie. Mi richiamerà subito?» «Naturalmente.» L'attesa non supera i dieci minuti, che trascorro andando su e giù per il salottino e rimpiangendo di non avere un sacco da pugilato. «Okay, professore, c'è una squadra diretta a casa sua in questo preciso istante. Libero la linea perché la possano chiamare. Sono sicuro che non c'è alcun problema, ma mi faccia sapere.» «Lo farò.» Mi rimetto in attesa. Dieci minuti. Quindici. A casa è quasi mezzanotte, e io ho dato fondo alle mie risorse. Ho semplicemente esaurito le idee. La situazione è grama come sembra? Di sicuro ci sarà una spiegazione razionale: il telefono di Hobby Road non funziona bene. Avrei dovuto chiamare la segnalazione guasti. Ma se il telefono è difettoso, come mai è scattata la segreteria? Mezzanotte a Elm Harbor. Nessuna chiamata. Vorrei gettare qualcosa fuori dalla finestra, vorrei prendere un fucile e correre a salvare la mia famiglia, vorrei tirare fuori il Giudice dalla sua tomba e scuoterlo fino a fargli sputare perché ci ha fatto questo. Voglio la mia famiglia sana e salva. Alla fine faccio l'unica cosa che mi resta. Mi inginocchio di fronte al divano del salottino e prego che Kimmer e Bentley siano al sicuro, o che in caso contrario riposino fra le braccia del Signore. Mentre mi rialzo squilla il telefono. Mi faccio forza.
«Ma che diavolo ti prende?» vuole sapere Kimmer, incandescente di rabbia. «Stiamo dormendo e all'improvviso picchiano alla porta, mi spavento a morte perché nessuno bussa a mezzanotte, mi metto la vestaglia, scendo ed è un'invasione delle truppe d'assalto, metà dei poliziotti che esistono al mondo è davanti a casa nostra, e mi dicono che li hai chiamati tu, che li ha chiamati l'Fbi, e che...» «Ero in pensiero» la interrompo lasciandomi cadere sulla sedia mentre dentro di me la tensione si allenta. «In pensiero! E così hai pensato bene di svegliare tutto il vicinato!» «Non rispondevi al telefono, e ho pensato...» «Perché non lo sentivo! Stavamo dormendo, te l'ho detto!» Mi massaggio le tempie. Sì, ha parlato al plurale, due volte. «Stavamo dormendo chi?» «Chi diavolo credi? Io e Bentley. Sentiva la tua mancanza, piangeva, e così mi sono sdraiata nel suo letto e ci siamo addormentati. In camera sua non c'è telefono, Misha» aggiunge Kimmer nel caso me ne sia dimenticato. «Ma come facevo a sapere...» «Non lo so, Misha, ma avresti potuto farti venire un'idea migliore! Insomma, non posso più sopportare queste stronzate! Scompari per ore senza dirmi dove vai, fai a pugni in facoltà, rischi di farti arrestare...» All'improvviso, inspiegabilmente, mia moglie sta piangendo. «È troppo, Misha, troppo, non ce la faccio!» «Kimmer, mi dispiace, io non...» «Ti dispiace? Non voglio che ti dispiaccia! Voglio che tu la smetta di fare pazzie!» «Ero in pensiero...» «No, Misha, no! Non voglio sentire altro, okay? Non voglio altre storie, altre scuse o altre spiegazioni. Dici di amarci, ma non fai che pensare a te. A te, a te, a te! Be' sei tu che devi smetterla di comportarti come un pazzo. Sei tu che devi piantarla con le teorie deliranti, con gli allarmi alla polizia dal Colorado, con le telefonate alle due del mattino...» Allora Kimmer era in all'erta la notte in cui sono stato aggredito. «Devi smetterla di ficcarti nei pasticci. Questa storia deve finire, Misha. Non ce la faccio più. Non è giusto. Devi tornare a essere quello che eri. Perché se non lo fai, Misha, ti prometto che un giorno verrai a casa da uno dei tuoi folli viaggi e noi non ci saremo!» E riaggancia. Mi richiama sei minuti dopo per chiedermi scusa, ma temo che questa
volta il danno sia troppo grave. Il mattino dopo, mentre aspetto il taxi per l'aeroporto, mi sento uno stupido per essermi lasciato prendere dal panico. Alla luce del sole di Aspen, la paura più profonda è quella di perdere i miei cari. Ora che ho dormito, mi rendo conto che Kimmer ha ragione. Mi sto comportando come un pazzo, e devo smetterla. L'unico problema è che non posso ancora fermarmi, malgrado gli avvertimenti di mia moglie. Non siamo ancora liberi: è questo il messaggio che Jack Ziegler ha cercato di farmi capire ieri sera. Continuerà a proteggerci perché ha promesso a mio padre che l'avrebbe fatto, ma può mantenere la promessa soltanto se proseguirò a cercare. Presumibilmente, è questo l'accordo che ha preso con... be', chiunque sia in trattativa con un uomo come Jack Ziegler. Lasciatelo in pace e lui troverà le disposizioni. Ve lo garantisco. Quid pro quo. Se la dessi vinta alla mia sposa furente, se abbandonassi la ricerca delle disposizioni, lo zio Jack potrebbe non essere in grado di proteggere la mia famiglia. È ancora tutto un gran pasticcio. Ed è tutta colpa del Giudice. Il suono di un clacson annuncia l'arrivo del taxi. Guardo dalla finestra e vedo il minivan bianco che attende con il motore acceso, il conducente immerso nella lettura del giornale. Vado nell'ingresso, tolgo l'allarme, prendo la mia sacca, il cappotto e mi guardo intorno per l'ultima volta. Ho lasciato tutto in ordine come l'ho trovato? Lo spero. C'è una via d'uscita. Morris Young direbbe probabilmente che Dio me la mostrerà a tempo debito, e credo che forse l'abbia fatto. Un modo per non perdere mia moglie e mantenere la mia famiglia al sicuro. Credo di potercela fare, ma so che non ci riuscirò senza aiuto, e non ho più quasi nessuno che potrebbe essere disposto a... be', a correre un rischio in nome dell'amicizia. In realtà, c'è una sola persona che può farlo. Dunque, mi conviene tornare al più presto a Elm Harbor e chiederglielo. Scrollo le spalle e reinserisco il sistema di allarme, che tornerà in funzione novanta secondi dopo la mia uscita. Esito, la mia memoria inaspettatamente risvegliata da questo semplice gesto. Una convinzione segreta che mi sta crescendo nel profondo affiora ancora una volta in superficie. Aggrottando la fronte preoccupato, apro la porta. E mi fermo di botto. Al centro dello zerbino c'è una busta con il mio nome scritto in maiuscolo con un pennarello nero. I caratteri sono così grossi che potrei leggerli a qualche decina di metri di distanza.
Rivolgo un cenno al tassista, mi chino e raccolgo la busta con dita tremanti. È poco più grande di quella con dentro il pedone bianco che mi è stata consegnata alla mensa gratuita, e contiene qualcosa di duro e piatto. Non sembra il pedone nero, come avrei creduto. Chiudo gli occhi, barcollando leggermente nell'aria frizzante di montagna. In un momento di follia mi immagino costretto a rivivere il passato, prigioniero in eterno di un istante, intento ad aprire di continuo la stessa busta. Ma questa busta non contiene alcun pedone. Quando la strappo vi trovo un dischetto di metallo di meno di tre centimetri di diametro, color ottone ma chiazzato di un disgustoso marrone. Lo strofino fra le dita. La macchia viene via a scaglie. Lo rovescio, ma prima ancora di leggere ciò che è inciso sul lato opposto capisco che cosa sto reggendo in mano: la piastrina del collare di un cane. Non devo leggere il nome per sapere a chi appartiene, o meglio apparteneva: a Cinque, il cane di Shirley Branch. La chiazza marrone è sangue rappreso. Un messaggio, scritto al computer e stampato su un foglio di carta bianca, mi dà il colpo finale: "Non smettere di cercare". Non c'è bisogno di interpretazione. Il sangue racconta una storia tutta sua. Non possono farmi del male, mi ha assicurato il ben introdotto Jack Ziegler. Non possono farlo a me, né ai miei cari. Lo zio Jack l'ha promesso, e io gli credo; non ho mai dubitato del suo potere, nemmeno per un istante. Ma nessuno ha parlato del divieto di spaventarmi a morte. 46 LUOGHI DI RIPOSO La facoltà di legge si trova all'angolo fra Town Street e Eastern Avenue. Allontanandosi dall'università lungo Town Street, oltrepassando il vecchio edificio di arenaria condiviso dalle facoltà di musica e belle arti e il basso, indefinibile fabbricato che ospita, difficile a credersi, gli uffici approvvigionamento, parcheggio e pubbliche relazioni, si giunge al confine orientale del campus, contrassegnato da un parcheggio sconnesso e malamente delimitato, pieno di allegri autobus rossi e bianchi, tutti acquistati di seconda mano da distretti scolastici intenzionati a migliorare il parco automezzi. Da qui si attraversa Monitor Boulevard (chiamato così non in onore della cannoniera della Guerra civile ma di un giovane del luogo che negli
anni Sessanta ha goduto di una breve, poco ispirata carriera nel football professionistico), e all'improvviso ci si ritrova fuori dalla cittadella universitaria. La differenza è subito evidente. Sul lato di Monitor Boulevard opposto al parcheggio c'è un parco in disuso, a un'estremità del quale ci sono i resti brulli e fangosi di un campo di softball, all'altra quello che potrebbe essere considerato un campo giochi da genitori che non badino ai cocci di vetro, alle altalene di legno scheggiato e a quelle a cui manca qualche fondamentale bullone. Di solito un paio di tossici strafatti di crack poltriscono innocui su ciò che resta delle panchine, ciondolando il capo e sorridendo nei loro sogni segreti. Oggi il parco è deserto. Sono pochi gli studenti o i professori che si avventurano troppo a est, a causa dell'incidenza del crimine o, come ama dire Arnie Rosen, di quella che viene percepita come l'incidenza del crimine. Qualche isolato più in là si stagliano i resti di un gruppo di case popolari, torri grigie e invecchiate dalle immancabili tapparelle color crema, e le case popolari, a parere di molti, segnalano pericolo. Un pomeriggio invernale di quattro o cinque anni fa mi sono fermato al confine di questo stesso parco con il Giudice, che si trovava in città per una cerimonia di ex alunni, e lui si è limitato a scuotere la testa in silenzio mentre gli occhi gli si colmavano di lacrime senza che io osassi chiedere se stava piangendo per la sua giovinezza perduta (quando il parco, se poi è mai esistito, era senza dubbio vibrante di vita), per le vite distrutte dei membri della nazione più scura che soffrivano in quelle case, oppure per chissà quale sfuggente ricordo della sua Claire, o di Abby, o della sua carriera spezzata. "Sai, Talcott" disse nel suo tono da predicatore "noi esseri umani siamo capaci di tanta gioia. Ma è l'uomo che genera pene..." "... come le scintille volano in alto" completai la frase per lui secondo il Libro di Giobbe. Mio padre fece un piccolo sorriso, probabilmente pensò di abbracciarmi, poi cacciò le mani in fondo alle tasche del suo cappotto di cammello e riprese il cammino, poiché quel giorno nevoso il parco non era la nostra destinazione ma una stazione secondaria, un indicatore sulla nostra strada. Come oggi lo è per me mentre ripeto il viaggio che feci con mio padre, oltrepassando il parco e una scuola elementare che sembra la rovina di una guerra balcanica ma che in realtà è ancora attiva. I graffiti imbrattano i muri, così come alcune bruciature nere sembrerebbero indicare un'esplosione in cortile. Un poliziotto armato è di guardia accanto alla porta, intento a
strusciare la punta della scarpa sul terreno mentre si concede una sigaretta. Volti solitari virati seppia mi guardano con aria di sfida dalle finestre sbarrate. Servono a tenere dentro loro o fuori me, le sbarre? Scuoto il capo, chiedendomi quanti dei miei colleghi di facoltà continuerebbero a opporsi alle sovvenzioni scolastiche se i loro figli fossero costretti a frequentare istituti come questo. Ahimè, l'istruzione della nazione più scura è diventato un argomento secondario del progressismo contemporaneo, che ha trovato problemi più alla moda da trasformare in ossessioni. Prima di proseguire nel mio viaggio compio un giro completo su me stesso per vedere se mi stanno seguendo. Non scorgo nulla di sospetto, ma a differenza di Maxine non sono stato addestrato a capire di cosa sospettare. Là fuori c'è qualcuno. Là fuori ci sarà sempre qualcuno, mi dico mentre riprendo a camminare. È ciò che mi ha fatto capire Jack Ziegler: qualcuno sarà sempre là fuori, finché non riporterò alla luce quello che mio padre ha sepolto. Bella metafora. Suggestiva. Un isolato più in là raggiungo la mia meta, che è l'Old Town Cemetery. Nel corso degli anni il nome ha dato origine a certe frottole all'interno del campus, come quella che il cimitero fosse un tempo circondato da un sito storico, l'eponima "città vecchia" che l'università ha seppellito nella sua frenetica, eterna e implacabile ricerca di spazio. La verità è che il cimitero era un tempo conosciuto come Old Town Street Burial Ground, il luogo di sepoltura di Old Town Street, e che nel corso degli anni il nome era stato accorciato, come spesso capita, in una metamorfosi simbolo del graduale offuscamento della storia. Le dicerie sono raramente più interessanti dei fatti, ma sono sempre più a portata di mano. Varco l'unico cancello che interrompe le alte mura di cinta e saluto con un cenno della mano il sagrestano, un vecchio di nome Samuel la cui occupazione principale sembra essere quella di starsene seduto su una panchina di metallo accanto al piccolo cottage di pietra appena all'interno del cancello e rivolgere un sorriso vacuo a ogni visitatore. Il cottage ha un solo locale, con un vecchio bagno annesso. Di tanto in tanto Samuel scompare all'interno, forse per i suoi bisogni, malgrado non sembri mai mangiare né bere. E sei sere alla settimana, ogni singola settimana dell'anno, alle cinque e mezzo precise, chiude a chiave il pesante cancello di ferro e torna a casa, ovunque essa sia. (Il mercoledì, per qualche strana ragione, il cimitero resta aperto fino a tardi.) Quando ero studente, e Samuel faceva lo stesso lavoro e sembrava un po' stonato come adesso, gli spiritosi sostenevano che
chiudesse a chiave il cancello dall'interno, vaporizzasse il proprio corpo e si rifugiasse nella prima tomba disponibile. Da parte mia sapevo che non era vero, poiché una sera ero rimasto per caso chiuso nel cimitero mentre vi passeggiavo con la mia futura moglie, che si era rivolta a me perché doveva decidere fra due uomini, nessuno dei quali ero io. Mi aveva chiesto consiglio, senza preoccuparsi se avrei sofferto ad ascoltare i suoi dilemmi. Era maggio, poche settimane prima della laurea, il clima era mite e Kimmer era davvero incantevole, come le succede sempre in primavera. Parlammo a lungo ma non ci baciammo, non ci tenemmo per mano e non facemmo le altre cose che per i roventi dieci mesi del nostro secondo anno di specializzazione erano state naturali come respirare. Quando finalmente giungemmo di nuovo davanti al cancello, Kimmer aveva deciso di lasciare entrambi gli uomini e trovare qualcuno di meglio (io speravo che facesse riferimento a me, ma i fatti dimostrarono che non era così), ed era di ottimo umore. Finché non scoprimmo che il cancello era chiuso, e nessuno fece la sua apparizione munito di chiave. Le mura di arenaria del cimitero sono alte due metri e mezzo, e il cancello è ancora più alto. Mentre Kimmer oscillava fra la risata e il ringhio, io accostai il volto alle sbarre nella speranza di fermare un passante. Ma non c'era nessuno. Picchiai alla porta del cottage. Nessuno rispose ai miei colpi. Alla fine, dissi a Kimmer che avevamo un'unica scelta. Lei mi fulminò con lo sguardo, le mani sui fianchi, e mi disse che non aveva intenzione di passare la notte con me al cimitero. Mi concessi qualche secondo per chiedermi cosa intendesse di preciso: che era disposta a passare la notte con me ma non al cimitero, oppure al cimitero ma non con me? Poi scossi il capo e le spiegai che quando ero al college alcuni di noi entravano e uscivano dal cimitero attraverso un condotto di scarico all'estremità opposta. "Hai detto scarico?" chiese lei sbalordita. "Da un cimitero?" Le assicurai che non c'era alcun rischio. La pregai di fidarsi di me. Kimmer esitò, forse domandandosi se non avesse qualche altra risorsa, ma poi acconsentì. E così rientrammo nel cuore del cimitero. Era sceso il crepuscolo, ma ci si vedeva bene. La condussi lungo il viale principale, che percorre serpeggiando circa mezzo chilometro fino alle mura sul retro, dove il terreno comincia a digradare verso la statale e il fiume ancora più oltre. Passammo davanti a torreggianti obelischi, angeli di marmo e cupi mausolei. Un animaletto, probabilmente uno scoiattolo, zampettò attraverso il viale di ghiaia. La mano di Kimmer scivolò finalmente nella mia. La temperatura stava
calando ed entrambi indossavamo pantaloncini corti, e cominciai a chiedermi se restare davanti al cancello non fosse, dopo tutto, l'idea migliore. La guidai giù dalla collina aggirando le lapidi, molte delle quali erano state rovesciate dal terreno che si era sollevato nel corso degli anni, poiché quella era la parte più vecchia del cimitero. Ed eccolo lì, il condotto di scarico, coperto dalla stessa rete metallica che ricordavo e ancora appoggiata senza essere fissata. La scostai con un calcio. Kimmer mi lasciò andare la mano. Mi chiese se davvero mi aspettavo di uscire in quel modo dal cimitero. Dissi di sì. Lei osservò che il passaggio era alto meno di un metro. Risposi che avremmo dovuto procedere a quattro zampe. Lei incrociò le braccia sul petto e fece un passo indietro. "No-no, non entrerò mai lì dentro. Non sappiamo cosa potrebbe venir fuori da queste tombe. No." Allargai le braccia. Le dissi che non avevamo scelta. Le dissi che non era così tremendo, che il condotto era sempre asciutto, che era soltanto una grossa tubatura di metallo che scendeva passando sotto la statale. Le dissi che era lungo soltanto sei metri, che ce l'avremmo fatta in tre o quattro minuti. Le dissi che ai tempi del college l'avevo fatto almeno cinque volte. Lei mi scoccò quella sua occhiata alla Kimmer. E io sono venuta a letto con te per un anno? Ma, se non altro, sorrideva. Alla fine si arrese e strisciammo all'interno del condotto. Avrei voluto che lei mi precedesse ma Kimmer si rifiutò categoricamente, sospettando che volessi soltanto guardarle il sedere. Il che non era vero, non tanto perché mi sarebbe dispiaciuto farlo, quanto perché sarebbe stato impossibile; una cosa che non le avevo detto, ma che lei scoprì ben presto, era che il condotto, pure non superiore ai sei metri, era immerso nel buio più assoluto non appena ti lasciavi l'imboccatura alle spalle. In un primo momento la prese sul ridere, poi si arrabbiò, e infine, appena oltre la metà del condotto, mi resi conto che non era più dietro di me. Tornare indietro era impossibile. La chiamai e la sentii imprecare. Indietreggiai finché il mio piede giunse a contatto con la sua mano. Le dissi che non c'era alcun pericolo, che eravamo quasi fuori, che davanti a noi c'era la luce. Ma lei non faceva che singhiozzare. Sapevo che l'uscita era a non più di un minuto e mezzo di distanza, ma quando sei spaventato un minuto e mezzo, come è in grado di confermare chiunque sia stato su una di quelle montagne russe al buio, è un'eternità... e la mia preziosa Kimmer era terrorizzata. Non riusciva a muoversi, si era bloccata. Non reagiva alle rassicurazioni né alle lusinghe. E quel buio caldo e polveroso stava cominciando a spaventare anche me. Non c'era lo spazio per cambiare direzione, ma feci ciò che potei. Mi girai
sulla schiena, portai le ginocchia al petto e mi avvicinai ancheggiando. Ancora disteso supino tesi la mano verso di lei e l'afferrai per il polso. La chiamai. Lei non rispose. Tirai. Kimmer fece resistenza. Diedi uno strattone più deciso e all'improvviso il suo corpo mi investì, mi travolse, e d'un tratto stavamo scivolando sul fondo metallico del condotto, gridando, e io cercavo un appiglio, un appiglio qualsiasi, e le mie dita esplodevano di dolore, e poi sbucai fuori dal condotto sfondando la rete metallica e finii lungo disteso sul declivio roccioso con le mura del cimitero alle mie spalle, il cavalcavia di cemento della statale sopra di me e i bacini, i depositi e le cisterne di petrolio della zona industriale di Elm Harbor a valle. Vidi tutto questo disteso supino, i piedi rivolti verso il condotto, la testa rovesciata con il mento teso verso il cielo, i capelli infangati. Kimmer, incredibilmente ma indicativamente, era caduta in piedi. Le sue lacrime erano scomparse, i suoi abiti erano luridi ma non laceri e la sua espressione, quando si accovacciò accanto a me, era più divertita che preoccupata. "Sei vivo?" chiese dolcemente. Le assicurai che stavo bene, malgrado in realtà non avessi una sola parte del corpo che non mi doleva, malgrado le mie dita fossero gonfie e la gamba mi desse una strana sensazione. Kimmer mi baciò sulla fronte, si spazzolò i vestiti con le mani e scese all'emporio a fondovalle, dove usò il telefono pubblico per convocare un suo amico... uno dei due che aveva deciso di scaricare, a dire il vero. Il suo pretendente mi aiutò a scendere a valle. Insieme mi accompagnarono al centro sanitario dell'università, dove scoprimmo che ero riuscito a fratturarmi due dita e a procurarmi una distorsione alla caviglia e una brutta ferita alla gamba. A mio modo di vedere era un onorevole sacrificio per aiutare Kimmer, che ne era uscita incolume. A suo modo di vedere, ero un idiota che non aveva avuto il buonsenso di aspettare davanti al cancello principale e che aveva dovuto trovare un modo spettacolosamente stupido per fare qualcosa di semplice. "Avremmo dovuto entrare nel cottage" osservò Kimmer mentre un'infermiera mi misurava la pressione. "Di sicuro ci sarà stato un telefono." Se ne andò con il suo amico mentre mi stavano ricucendo la gamba, con la promessa che sarebbe tornata mezz'ora dopo per riaccompagnarmi a casa. All'improvviso sembravano molto affettuosi l'uno con l'altra. Alla fine impiegò più di due ore per tornare, mentre io l'aspettavo soffrendo all'ingresso non osando chiamarla nel timore di ciò che avrei potuto interrompere e non osando andarmene nel timore di farla arrabbiare se la sua giustificazione si fosse ri-
velata innocente. Kimmer si ripresentò radiosa e soddisfatta; si era lavata e cambiata, e mi aveva portato un paio di occhiali da sole per coprire un occhio nero che non ricordavo di essermi fatto. Mi convinse a sedere sul retro dell'auto dicendomi che avrei dovuto stendere la gamba ferita e caricò le mie stampelle sul sedile anteriore. Durante il tragitto verso il mio caotico appartamento all'estremità occidentale del campus, Kimmer ciarlò allegramente di tutto tranne di dove aveva passato le ultime due ore e di dove avevamo passato le due precedenti. Lasciandomi davanti a casa, mi ringraziò per averla fatta uscire dal cimitero, mi sfiorò la guancia con le labbra morbide e scomparve nella notte. Certe metafore non hanno bisogno di interpretazione. Ho raccontato a mio padre la storia della fuga con Kimmer attraverso il condotto, continuo a ripetermi dal mio colloquio con Dean Lynda. Lo tengo bene a mente. Ho raccontato la storia a mio padre, mi ripeto, anche se non è così. Me lo ripeto di continuo, sperando di non dimenticarmene. Spiego a Samuel ciò che voglio, sforzandomi di essere chiaro e al tempo stesso esauriente. Lui annuisce deciso e cerca più volte di mettere fine alla conversazione, ma io sono un docente di legge e non è facile farmi tacere. Finalmente Samuel si arrende e mi ascolta in silenzio. Quella di oggi è la mia quarta visita all'Old Town Cemetery negli ultimi sette giorni. La prima è stata poche ore dopo l'ultimatum di Dean Lynda: la "passeggiata" che non ero pronto a spiegare a Kimmer. Due giorni dopo mi trovavo ad Aspen. La sera successiva ero di nuovo a casa, e da allora ci sono tornato due volte. Tutte le mie visite hanno avuto la stessa dinamica: un esame del registro seguito da un guardingo giro del cimitero. Ciò nonostante, ripeto ancora una volta a Samuel le ragioni della mia presenza. Voglio che ricordi la nostra conversazione, che ricordi ciò di cui ho bisogno. Voglio che sia la prima cosa che gli viene in mente quando pensa a me. Perché se ho intenzione di mettere fine a questo pasticcio, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane avrò bisogno del suo aiuto, e il suo aiuto sarà inutile se non ricorderà che cosa sto cercando. E così Samuel si tiene occupato a un'estremità dell'ufficio e lascia che tiri giù i vecchi, polverosi registri dagli scaffali. Per la terza volta dalla mia chiacchierata con lo zio Jack mi siedo a un tavolaccio di legno che probabilmente occupava questa stessa posizione ai tempi dell'assassinio di Lincoln. Esamino la lista dei defunti, voltando pagine vecchie di duecento anni per arrivare a pagine riempite soltanto il mese scorso, aggiungendo pro-
lissi appunti (ma spero chiarissimi e facili da seguire) su un taccuino che sto "nascondendo" in bella vista nel primo cassetto della mia scrivania priva di chiavi. Resto seduto per circa tre quarti d'ora, che Samuel trascorre quasi completamente a guardarmi con occhi vacui. È proprio quello che voglio che faccia: che mi guardi e ricordi, nel caso glielo chiedano. Quando ho finito lo ringrazio, luì sorride e mi stringe la mano con entrambe le sue come se avessi appena vinto il premio più ambito. Dopo essermi liberato proseguo la visita al cimitero, dove per la quarta volta sfido la pioggerella quasi primaverile percorrendo i vialetti fra le lapidi, studiando la piantina che ho disegnato sul taccuino, aggiungendo appunti quando necessario per sincerarmi di aver seguito il percorso esatto. Passo davanti al mausoleo degli Hadley, che sono presenti a Elm Harbor e all'università da ben più di un secolo; Marc è il quarto professore della famiglia a insegnare qui. Supero un piccolo lotto di vecchie lapidi che un tempo era un minuscolo cimitero per neri all'interno di quello più grande. Centocinquant'anni or sono i padri abolizionisti della città consentirono la sepoltura dei neri liberi, ma lontano dal resto delle tombe. Di tanto in tanto mi guardo alle spalle, abitudine che temo non riuscirò ad abbandonare molto presto; vedo soltanto qualche isolato visitatore, in piedi da solo sotto la pioggia sottile. Mi chiedo se tutti stiano effettivamente lamentando una perdita, se qualcuno non mi stia seguendo, ma come potrei capirlo? Suppongo che tutti siano in pena per qualcuno. Mi fermo diverse volte, scrivendo sul mio taccuino a mano a mano che leggo le lapidi e annotando gli incroci dei vialetti di ghiaia. Copio i nomi dei morti e le date dei loro decessi. Traccio quadrati all'interno di quadrati. Quando ho finalmente completato le mie note, esco dall'ingresso principale del cimitero. Nessuno dei visitatori fa una piega. Saluto con un cenno il sorridente Samuel seduto sulla sua panchina e percorro Town Street verso il campus, continuando a cercare l'ombra invisibile che so mi sta seguendo. Quasi pronto. 47 UNA DECISIONE AL POST «Dana?» «Sì, amore mio?» La cara Dana Worth mi rivolge un sorriso da ragazzi-
na attraverso il tavolo del Post, fingendo, anche se non potrei mai essere il suo amore, per un migliaio di ragioni al di là delle più ovvie. «Dana, ascolta. Ho bisogno di un favore.» «Come al solito.» «Sul serio. È importante, e... non so a chi altro chiederlo.» «Mmh-mmh.» Dana è cauta, senza dubbio sicura che stia per chiederle dei soldi. È mercoledì, quattro giorni dopo il mio ritorno da Aspen e dodici giorni dopo lo scontro in corridoio con Jerry Nathanson, un evento che ha ridotto ai minimi termini la mia già traballante reputazione all'interno dell'Oldie. Sto pranzando con Dana perché è la prima volta che siamo riusciti a sincronizzare i nostri impegni. E anche perché sto esaurendo le alternative. In precedenza avevo messo in programma di chiederle aiuto come piano di emergenza, ma ora il mio bisogno è impellente. Se la Cara Dana accetta e va tutto bene, sarò in grado di scrollarmi tutti di dosso e riportare la mia famiglia alla normalità nel giro di una settimana, due al massimo. Il mio piano potrebbe farmi oltrepassare il limite di tempo imposto da Dean Lynda, ma di quel poco che potrebbe permettermi di rappezzare la situazione. Se la Cara Dana dirà di no, o se le cose andranno male... ebbene, così sia. Ruminando il mio hamburger, cerco di trovare le parole giuste. A Darien, Mariah sta per affrontare una scadenza tutta sua, poiché manca meno di un mese alla nascita del suo bambino. Non fa più viaggi a Shepard Street, ma è felice. Ci parliamo al telefono quasi ogni sera con l'avvicinarsi del gran giorno, e perfino Kimmer partecipa di tanto in tanto. Invidio la gioia di mia sorella. A tre tavoli di distanza, Norm Wyatt, architetto nonché loquace marito di Dean Lynda, sta pranzando con una cliente prosperosa ma leggermente circospetta. Assumo lo stesso atteggiamento, ingobbendomi per avvicinarmi alla Cara Dana. Lei interpreta il mio gesto nel modo giusto e sposta la testa verso di me. Come al solito, mi chiedo cosa penseranno le malelingue. Mi domando perché ho scelto il Post per chiederle aiuto. L'ufficio di Dana sarebbe stato più sicuro. Forse ho deciso di venire qui perché dopo i pasti Dana tende a essere più indulgente. Ó forse perché d'un tratto ho paura che le mie conversazioni vengano intercettate. «Dana, ascolta. Quello che sto per chiederti... se vuoi dirmi di no...» «Se vorrò dirti di no, Misha, ti dirò di no. Sono bravissima a farlo.» Una pausa. «Anche se, ora che ci penso, non sono molto brava a farlo con te.
Sembra che tu mi chieda favori di continuo, e sembra che io dica sempre di sì.» Fa un sorriso nervoso. Fissa l'ampia schiena di Norm con aria torva. Avverte che c'è qualcosa di strano, e la situazione non le piace più di quanto piaccia a me. «Non so cosa ci sia in te. Non è che tu sia particolarmente affascinante o cose simili...» «Davvero carina.» «Sul serio, Misha. Se ci penso, è strano. Non riesco a capire il perché, ma a quanto pare non sono capace di dirti di no. Sai una cosa? È un bene che gli uomini non mi interessino, altrimenti a questo punto avremmo probabilmente una storia.» «Se io non fossi sposato.» Un sorriso. «E se mi interessassero le donne bianche.» «Touché.» Ricambia il mio sorriso. «Allora, qual è questo favore? Vuoi che spezzi le rotule a Jerry Nathanson? Spiacente, è un'attività da cui mi sono ritirata.» «No, ma... quando lo sentirai, potrebbe sembrarti scandaloso. Spaventoso, perfino. Non che ci sia il minimo rischio, ma non sarà facile. Però è qualcosa che... be', bisogna farlo, e da solo non posso. E se ci riuscirò, forse potrò... ehm, mettere fine a... a quello che sta succedendo.» «Grazie, amore mio, questo chiarisce ogni cosa.» «E il fatto è che... che ora non posso dirti perché ho bisogno che tu lo faccia. Te lo potrò spiegare più avanti, ma non subito.» Il suo sorriso si spegne lentamente. «Sto cominciando a chiedermi se non dovrei avere paura.» «No, no, certo che no. Non c'è niente di cui avere paura.» «Come disse Anthony Perkins a Janet Leigh.» «Non credo che in Psycho ci fosse una battuta simile.» «Okay, Misha, okay.» Dana ride alzando le mani. «Allora, cosa vuoi?» «Ascolta, Dana, non te lo chiederei se non...» «Non sai a chi altro rivolgerti, io sono la tua migliore amica e bla bla bla. Chiedimelo e basta. Te l'ho detto, sono bravissima a dire di no.» Faccio un respiro, e mi rendo conto di non aver mai abusato in questo modo di un amico. Ma non ho quasi più scelta. E così spiego a Dana Worth cosa ho bisogno che faccia. Ci impiego cinque minuti. E Dana rimane scandalizzata. Me lo dice, ma riesco a capirlo comunque dal modo in cui sgrana gli occhi neri come il carbone, dal sibilo dell'aria fra i suoi denti. Ci riflette. Si abbandona sulla sedia. Norm Wyatt e la sua cliente se ne stanno andando. Norm ci saluta con un cenno a distanza di si-
curezza, e noi ricambiamo. Un gruppetto di studenti sfiora il tavolo spettegolando su Lemaster Carlyle, su chi sceglierà come primi cancellieri, su quanto passerà prima che arrivi alla corte suprema. La Cara Dana torna a voltarsi verso di me. Mi dice che sono fuori di testa, completamente fuori di testa. Mi dice che perderò sia il lavoro che mia moglie. Che finirò in galera. Mi dice che aiutandomi potrebbe finire al fresco anche lei. Poi mi dice che lo farà. Sul marciapiede, Dana comincia a raccontarmi l'ultima predica del suo pastore, qualcosa sulla parabola dell'amministratore accorto. «Capisci il senso, vero Misha? Non è importante che le cose vadano come vuoi tu, ma solo come gestisci le cose che Dio ti mette...» L'afferro per un braccio. Lei si libera della stretta, poiché detesta essere toccata. «Misha, che ti prende?» «Dana, guarda.» La costringo a voltarsi. Lei si sottrae un'altra volta alla mia presa, forse chiedendosi se la preside non avesse ragione circa il mio stato mentale. «Vedi quella macchina?» «Quale macchina?» «Quella lì!» Perché è proprio di fronte a me, reale, ferma davanti a un parchimetro sul lato opposto della strada, a un isolato dalla facoltà di legge. «La Porsche blu!» La mia vecchia o forse nuova amica sorride. «Sì, Misha, certo che la vedo. Ora ascoltami. È una cosa importante. Ti prego, non chiamarla Porsche. Quell'auto non è una Porsche.» «Ah, no?» «No, caro. Si dà il caso che sia una Porsche Carrera cabriolet blu cobalto, il modello di quest'anno, apparentemente dotata di tutti gli optional. Prezzo su strada più di centomila dollari. E in contanti, per favore, non si accettano professori di legge scrocconi e bisognosi di finanziamenti.» Dana attende un istante. Di solito, worthismi come questo mi divertono. Ma non oggi. «Misha, credo proprio che tu abbia qualcosa che non va, lo sai?» «Dana... Dana, quella macchina... era davanti a casa mia un paio di settimane fa. E un'altra volta in dicembre. E credo che l'uomo al volante... credo che ci stesse spiando. Che stesse spiando la mia famiglia.» Ricordo il giorno in cui sono corso nel bosco insieme a John Brown. «Dana, penso che sia l'altro uomo che ha finto di essere un agente dell'Fbi. L'uomo di co-
lore, Foreman. Hai presente, subito dopo il funerale.» Dana sta ridendo. Come una matta, in tono quasi stridulo, piegata in avanti con le mani sulle ginocchia. Alla fine si raddrizza appoggiandosi a un lampione. «Oh, Misha, Misha.» Non riesco a capire cosa ci sia di tanto divertente. O forse sono definitivamente ammattito e ho immaginato l'intera scena, perché non c'è niente di sensato. «Che ti prende?» le domando. «Oh, Misha, sei troppo divertente!» «Cosa c'è di divertente?» «Una spia? Un agente segreto? Vuoi dire che non sai di chi è quella macchina?» La rabbia comincia a prendere il posto della confusione. I maschi Garland possono sopportare tutto eccetto l'imbarazzo di non sapere qualcosa. «No, Dana, non lo so.» «Ti do una traccia.» Dana sta ancora sorridendo, e arriva addirittura ad asciugarsi una lacrima o due. «È più famoso di tuo padre.» «Okay, questo restringe la ricerca a qualche milione di persone.» «Oh, andiamo, non fare così. Ascolta. Abita a Tyler's Landing in una grande casa sull'acqua che gli sarà probabilmente costata quattro milioni di dollari, che sospetto abbia pagato in contanti come ha fatto con la macchina. È uno studente di legge, e hai ragione sul fatto che è nero, anche se è l'unica cosa su cui hai ragione.» Mi volto a guardare l'auto. «Mi stai... dicendo che la Porsche è di Lionel Eldridge? Il giocatore di basket?» «L'ex giocatore di basket. Adesso è un normale studente.» Il tono di Dana è una cantilena ironica. «Vuole solo diventare un normale avvocato, come il suo eroe Johnnie Cochran. Glel'ho sentito dire a "Oprah". E a "48 Hours". E da Leno. E...» Fisso sempre l'auto mentre Dana continua a ridere. Lionel Eldridge. Sweet Nellie, come lo chiamavano ai tempi in cui fu convocato sette volte nella squadra di All Star del campionato nazionale. Un metro e novanta o giù di lì: ciò lo qualificherebbe come il nero alto che John Brown ha adocchiato nel bosco dietro casa mia. Uno studente serio ma non brillante, non qui, anche se aveva fatto di meglio al Duke ai tempi del college. Sweet Nellie, che continua a guadagnare milioni di dollari all'anno in contratti pubblicitari grazie al suo celebre sorriso. Sweet Nellie, che mi deve ancora consegnare la prova scritta della primavera scorsa. La primavera scorsa,
quando ha seguito a fatica il mio difficile seminario. La primavera scorsa, quando l'ho aiutato a ottenere un impiego nello studio legale di Kimmer. La primavera scorsa, quando un giorno ho fatto una sorpresa alle signore della mensa gratuita e l'ho portato con me a servire il pranzo. Ho trovato il mio nemico. Qualche minuto dopo, giunto davanti al mio ufficio, trovo anche qualcos'altro: una busta appoggiata alla porta con il mio nome e il mio titolo scritti a macchina sul davanti. È identica a quella che mi è stata consegnata alla mensa gratuita un secolo fa, o forse in ottobre. Quando ne strappo il lembo superiore vi trovo esattamente ciò che immaginavo: il pedone nero mancante degli scacchi di mio padre. Lo sistemo sopra lo schedario, subito accanto a quello bianco. Un pedone bianco, uno nero. Gli unici pezzi che vengono mossi sulla scacchiera nel corso di un doppio Excelsior. Il pedone bianco ha avuto la precedenza per farmi capire che è il bianco a muovere per primo, e se il bianco muove per primo in un aiutomatto, a vincere è il nero. "Si comincia", ha scritto mio padre nella sua lettera. Ma se per te fa lo stesso, papà, preferirei farla finita. Con l'aiuto di Dana sto per riuscirci. Se tutto andrà secondo i piani, sarò in grado di sbarazzarmi del fardello che mio padre mi ha tramandato. O così, stupidamente, immagino. Ma si prepara un altro disastro. 48 ZWISCHENZUG Non mi aspettavo di tornare così presto a Washington. La brutta notizia mi è giunta questa mattina grazie a Mariah e non a Mallory Corcoran, ma quando arrivo all'ospedale della George Washington University mi aspetto quasi di vederlo, anche se, per quanto ne so, in tutta la sua vita non ha scambiato più di cinque frasi con Sally Stillman. Nella coloratissima sala d'aspetto davanti all'ascensore trovo invece mia sorella, giunta quasi al nono mese di gravidanza, il compagno di Sally, Bud, che tradisce l'espressione tetra e indifesa tipica degli uomini forti in preda alla disperazione, e un piccolo gruppo di sconosciuti, presumibilmente in attesa di avere notizie dei loro cari che hanno tentato il suicidio. Poi una donna alta, nervosa e terribilmente magra, una rappresentante della nazione più pallida, si fa avanti e si presenta come Paula, la persona che si occupa di Sally presso gli Alcolisti Anonimi. Non sapevo nemmeno che mia cugina ne facesse parte.
«Ce la farà» mi assicura Paula con un sorriso smunto. Annuisco, le stringo il braccio e poso per un momento la mano sulla spalla di Bud. Poi mi affretto verso Mariah, che è seduta da sola e scuote la testa, elegante in un altro completo giacca e pantaloni di sartoria. È riuscita chissà come a creare intorno a sé uno spazio segreto che nessuno osa penetrare, con l'eccezione di ottusi come il sottoscritto. «Stai bene, piccola?» le chiedo prendendole la mano. «Non capisco. Non so perché l'abbia fatto.» Mariah si accarezza il ventre in un movimento rotatorio delicato e amorevole, quasi volesse rassicurare il figlio non ancora nato sul fatto che il mondo è un luogo sicuro. Non mi guarda. In grembo regge una delle sue cartelle da cui spunta l'angolo di una fotografia. Mi chiedo se sia un'altra immagine dell'autopsia, o se Mariah stia tramando qualcosa di nuovo. «Stava andando così bene. Così bene.» «In che senso?» «Stava lottando, Tal. Non beveva più da... oh, da quasi due mesi. Da prima di Natale. Un regalo per i suoi figli, diceva. Frequentava gli incontri degli Alcolisti Anonimi, andava in chiesa, ce la metteva tutta.» «Cos'è successo, di preciso?» «Non lo so. Ha chiamato Paula» racconta Mariah indicandola con un cenno della testa «e le ha detto che non resisteva più, che avrebbe preso delle pillole. Paula ha fatto quello che doveva. Quando ha capito che non sarebbe riuscita a dissuaderla, ha chiamato un'ambulanza e si è precipitata da lei, appena in tempo per vederla uscire in barella. Poi mi ha telefonato, e io ho chiamato te. Ed eccoci qui.» «Dove sono i figli di Sally?» «Erano con Thera quando... quando è successo. Sally li ha portati da sua madre, poi è tornata a casa e ha preso le pillole. Immagino non volesse che fossero loro a trovarla.» Cerco di pensare a un'altra domanda utile. «Hai avvertito Addison?» Mariah mi scocca un'occhiata. «Sono sicura che arriverà quando potrà.» Poi riprende il tema originale: «Continuo a non capire perché l'ha fatto». «Era depressa?» «Come diavolo faccio a saperlo?» Insoddisfatta, Mariah offre un'altra variazione: «Voglio dire, Tal, Sally è sempre depressa». «L'hai vista?» «Non me lo permettono. Lei... il dottore ha detto che deve stare in isolamento. È una specie di regola, suppongo. Per via di quello che ha fatto.
Che ha cercato di fare. Nessuna visita per un paio di giorni o qualcosa del genere.» Vado a parlare con l'infermiera e ottengo le stesse informazioni che già possiedo: sì, sembra che la signorina Stillman ce la farà; no, non potremo vederla per un periodo che va dalle quarantotto alle settantadue ore. Mi concedo la fantasia che lo zio Mal riuscirebbe a farci passare, ma anche i superavvocati hanno i loro limiti. E così Mariah e io ce ne stiamo seduti fianco a fianco, mano nella mano, confusi, spaventati, cercando di essere l'uno per l'altra quello che un fratello e una sorella dovrebbero essere. Mariah non piange, anche se in un paio di occasioni sembra sul punto di farlo. Io rifletto sui misteriosi propositi di Dio, e mi meraviglio che i miei problemi soltanto questa mattina sembrassero così enormi. Paula si para di nuovo davanti a noi. «Ehm, scusate.» Alziamo gli occhi su di lei come se avesse tutta la conoscenza del mondo sulla punta della lingua. «Lei è Misha, giusto?» domanda Paula con voce calma. Prima che riesca a rispondere si rivolge a Mariah: «È lui Misha?». Mia sorella riesce a trovare un sorriso chissà dove. «È uno dei suoi nomi. Ne ha un bel po'.» Paula sembra confusa. Indossa un completo costoso quasi quanto quello di Mariah. Probabilmente è un'avvocatessa, decido, una professionista di qualche tipo: è troppo nervosa per essere una lobbista, e non riesco a immaginarla in aula intenta a discutere un caso. Me la vedo che fuma una sigaretta dietro l'altra mentre progetta complesse scappatoie fiscali per clienti stranieri. «Ma lei è Misha, giusto?» «Alcuni mi chiamano così» confermo. «Il mio nome è Talcott Garland. Sono il cugino di Sally.» «Posso parlarle un minuto? In privato?» Mariah sta per obiettare qualcosa, ma con un'occhiata le chiedo di lasciar perdere. Paula mi conduce in un altro angolo. Vedo che ha intenzione di parlare a bassa voce e mi chino in avanti. Paula mi spiega che quando Sally l'ha chiamata ha detto che non ce la faceva a sopportare di sapere ciò che sapeva. Quando Paula le ha chiesto che cosa intendeva, Sally ha borbottato: "Povero Misha, povero, povero Misha". Paula esita, forse per darmi la possibilità di confessare, e io le assicuro che non ho la minima idea di cosa intendesse dire mia cugina. Lei annuisce tristemente, poi ag-
giunge che Sally le ha detto un'altra cosa prima di riagganciare: "Non so perché ha dovuto farla pagare a tutt'e due". Aggrotto la fronte. «Chi avrebbe dovuto farla pagare a chi?» «Ho immaginato che parlasse ancora di lei. Perché poi ha ripetuto: "Povero, povero Misha".» «Ha detto che io ho dovuto farla pagare a tutt'e due?» Un cenno del capo secco ma inoffensivo. «E non sapeva perché.» Mariah e io passiamo la notte in Shepard Street. Sono sbalordito dal fatto che abbia affrontato il viaggio malgrado l'imminenza del suo parto, ma scopro che ha preso una macchina con autista per le sei ore dell'andata e del ritorno. «Non è molto più costoso di un biglietto aereo in prima classe» mi spiega. Il mattino dopo facciamo una rapida colazione prima che io riparta. Mariah vuole sapere come mai ho tanta fretta, cosa ne penso della dichiarazione di colpevolezza di Conan, se è vero che ho picchiato l'amante di mia moglie nella biblioteca di legge come le ha riferito Valerie Bing, che cosa ho intenzione di fare riguardo a ciò che le ha detto Warner e mille altre cose. Le rispondo che presto sarà tutto finito e che le spiegherò appena posso. Mi preparo a subire un acido commento sul mio egoismo, ma mia sorella sembra rasserenata dalla nascita imminente del suo sestogenito. «Stai attento» dice quando arriva il taxi per la stazione. Le prometto che lo sarò. Devo esserlo. Malgrado questa deviazione, la situazione concreta, come amano dire gli istruttori di scacchi, non è mutata. Quando sarò di ritorno a Elm Harbor, avrò la possibilità di mettere fine a questa storia e liberare la mia famiglia. «Il tempo è scaduto» bisbiglio mentre il taxi si stacca dal marciapiede. Il conducente inarca le sopracciglia, pensando forse che gli stia mettendo fretta. Mentre percorriamo sempre più veloci Sixteenth Street, mi giro ripetutamente a cercare chi mi sta di sicuro pedinando. 49 UN PIANO VIENE ESEGUITO «Credo di aver capito tutto» annuncio lunedì al telefono a un Mallory Corcoran che ostenta noia. «Le disposizioni e tutto il resto. Domani sera avrò la risposta.» È lieto della notizia e ancora più lieto di dirmi che ha un'altra telefonata che non può attendere. Mi suggerisce di riferire i detta-
gli a Meadows. «È finita» assicuro a Dean Lynda quando la incontro, più o meno di proposito, quel pomeriggio nel parcheggio. «Entro mercoledì mattina avrò tutte le risposte.» Mancando ancora due giorni al suo ultimatum, Lynda sorride e mi dà qualche affettuoso colpetto sul braccio mentre si guarda intorno alla ricerca degli uomini in camice bianco. Martedì procedo con la mia campagna. «Ho risolto il mistero» mormoro a un annoiato Lemaster Carlyle, che presto sarà un ex collega, facendo capolino alle sue spalle mentre è impegnato nella ricerca di un periodico in biblioteca. È abbastanza diplomatico da rivolgermi un sorriso forzato e darmi una manata sulla spalla. «So tutto» annuncio a un sorpreso Marc Hadley davanti alla sua aula, dove si erge felice circondato da una nube di accoliti la cui costante adulazione l'ha aiutato a scordare l'umiliazione pubblica. «Credo di potermene finalmente dimenticare» prometto a Stuart Land quando ci incontriamo sulla scalinata principale. «Volevo ringraziarti per l'aiuto» confido a Ethan Brinkley durante un incontro casuale in cortile. Solo che non è veramente casuale. «Sto per risolvere il mistero.» Rivelo le stesse buone notizie, in termini più o meno simili, a Rob Saltpeter, a Theo Mountain, a Ben Montoya, a Shirley Branch, ad Arnie Rosen e a qualsiasi altro membro della facoltà di legge che potrebbe avere a che fare con... con... ... con quello che sta succedendo... Non so nemmeno come definirlo, ma so che c'è. Se la Cara Dana farà la sua parte, non mi rivelerò nemmeno un bugiardo: troverò tutte le risposte. Saprò perfino chi mi ha tradito. A meno che la traditrice non sia Dana, nel qual caso sono davvero nei guai. Mi libero della sensazione. Devo pur fidarmi di qualcuno. Dal mio ufficio, aspettando il momento giusto per agire, telefono a Mariah per avere notizie di Sally, ma Howard mi informa che a quanto sembra mia sorella ha cominciato il travaglio. Stanno cronometrando le contrazioni. Un mese fa un'ecografia ha confermato che si tratta di una femmina, e si sono finalmente messi d'accordo su un nome: Mary, in onore di Mary McLeod Bethune, un altro nome che comincia con "Ma" come gli altri, e proprio al momento opportuno. Howard aggiunge tranquillo che anche il cattolico che è in lui approva la scelta. Emetto una risatina stridula. Quando parlo con Mariah le faccio allegramente i miei auguri. Lei mi ringrazia, poi tradisce un gemito, quindi si riprende abbastanza per dirmi che lei e Howard hanno riservato un posto per Sally in un centro di recupero
nel Delaware, uno dei migliori del paese. «Non la perderemo di nuovo» dichiara in tono severo. Per la prima volta da anni capisco quanto amo mia sorella. Poi arriva il momento di agire. Devo fidarmi di qualcuno, mi ripeto di continuo. Ma non posso fidarmi di mia moglie. Il giorno del mio ritorno da Washington, due giorni dopo aver scoperto che Lionel Eldridge è il proprietario dell'onnipresente Porsche - scusami, Dana, della Porsche Carrera cabriolet -, l'ho rintracciato di persona. Ho controllato il calendario delle lezioni in segreteria e ho preso posizione nel corridoio di fronte all'aula dove Joe Janowski tiene il corso sulle discriminazioni sul lavoro, in attesa di veder apparire Lionel. Avevo già provato con i metodi più tradizionali - la mia segretaria gli aveva inviato un'e-mail, aveva affisso il suo nome a quella che gli studenti chiamano la "bacheca delle convocazioni" e l'aveva chiamato a casa lasciando un messaggio alla moglie - ma Lionel li aveva ignorati. E così sono andato a prenderlo dopo la lezione. E ci sono riuscito, individuando senza problemi la sua sagoma che torreggiava sugli altri ottanta o novanta studenti che uscivano dall'aula. Come al solito, una mezza dozzina di loro lo circondava come una banda, in attesa che dalle sue labbra fuoriuscisse la perla successiva. Quando mi ha visto, Lionel ha sgranato gli occhi per quella che, lo sapevo, era paura. Gli ho rivolto un gesto imperioso, come fanno i professori. Lui è indietreggiato, splendido nei suoi abiti di pelle blu e nei suoi ori scintillanti. Un normale studente di legge. Preoccupato di cosa avrebbe detto Lynda se avessi gridato, mi sono fatto gentilmente largo fra gli ammiratori, l'ho afferrato con delicatezza per un braccio e gli ho sussurrato che avrei gradito qualche minuto del suo tempo. Lionel potrà anche essere Sweet Nellie, ma io sono ancora un docente di legge, e uno a cui lui deve ancora una prova scritta, e così non aveva molta scelta. Ci siamo diretti insieme in una zona in disparte nei pressi dell'ufficio del preside. Gli altri studenti si sono tenuti alla larga. Ho notato che Lionel guardava prevalentemente il pavimento. Prima di tutto gli ho chiesto notizie della sua prova scritta. Un'espressione speranzosa gli ha illuminato i famosi occhi scuri. Ha cominciato a elencare scuse - i viaggi, sua moglie che gli dava dei problemi, lo choc culturale di frequentare quella che ha definito una facoltà di legge bianca, cosa che immagino renda Lem, Shirley e me professori bianchi - ma io l'ho in-
terrotto. Gli ho detto freddamente che gli concedevo un altro mese di tempo. Se a quel termine non mi avesse consegnato la prova scritta, l'avrei respinto. Lionel ha annuito e ha fatto per allontanarsi, sicuro che la mia minaccia fosse passibile di ulteriori trattative, come oggigiorno lo sono molte cose. Ma io l'ho trattenuto con un tocco lieve come quello di un poliziotto, e Lionel ha cominciato a mostrarsi allarmato. Guatandolo dal basso verso l'alto ho visto la scritta "Duke University" sul giubbotto di pelle e mi sono ricordato di come un decennio prima avesse portato due volte in semifinale la squadra del suo college. Malgrado abbia avuto i suoi problemi in facoltà, mi sono ripetuto le parole dei commentatori televisivi che anni prima ci ricordavano che Sweet Nellie era stato uno studente modello. Poi sono tornato all'attacco. Gli ho detto che c'era un altro problema di cui volevo parlare. A bruciapelo gli ho domandato perché mi seguiva. Mi aspettavo che rispondesse che era stata la sua amante segreta, Heather, a chiedergli di farlo, per una sorta di bizzarro favore a suo padre. La sua risposta è stata evasiva. Mi ha assicurato che non avrebbe mai fatto una cosa simile, e così ho riformulato la domanda. Che cosa stava facendo la settimana scorsa davanti a casa mia? E nei boschi due mesi fa? Lionel mi ha guardato negli occhi, e ancora prima che aprisse bocca ho capito di essermi sbagliato, e in modo terribile. Non era il mio nemico, se non altro non nel modo che avevo creduto. E si era ovviamente già trovato in questo tipo di situazione, perché sapeva esattamente cosa dire, le parole peggiori che potessi immaginare: "Non è niente di personale, professore. Lei mi piace. La ammiro". Poi ha aggiunto: "Ma mi piace anche sua moglie". E per finire, il sorriso da un milione di dollari. Ma a quel punto già sapevo che Lionel non aveva niente a che fare con le disposizioni, con il pedone consegnato alla mensa gratuita o con l'aggressione che avevo subito nel cortile della facoltà. Sapevo che stavo scoprendo in ritardo qualcosa di cui molti erano già al corrente. Sapevo a chi apparteneva la voce al telefono che aveva chiamato "piccola" mia moglie il giorno in cui lei avrebbe dovuto lavorare a casa e io sarei dovuto andare in ufficio. Sapevo che aveva chiamato perché non aveva visto la Bmw nel vialetto, dove lei la lasciava sempre, e voleva sapere se l'appuntamento era ancora valido. Sapevo perché gli studenti si stavano tenendo alla larga da noi, lasciando che discutessimo delle nostre faccende in privato. Sapevo qual era la spiegazione taciuta e innominabile del mio comportamento irrazionale che Dean Lynda doveva aver ipotizzato, e perché aveva deciso di
mostrare clemenza. Mi ero reso conto che perfino la Cara Dana Worth, alla quale non sfugge alcun pettegolezzo, doveva conoscere la verità. Per questo era rimasta così sorpresa quando le avevo chiesto di Lionel e Heather, e per questo aveva cercato di trasformare in uno scherzo l'avvistamento della Porsche davanti al Post: la sua risata stridula e un po' folle voleva nascondere il dolore che provava nel rendersi conto di ciò che non mi avrebbe mai detto e di cui io non avevo la minima idea... che era il famoso Lionel Eldridge e non Gerald Nathanson ad avere una relazione con mia moglie. 50 ANCORA ALL'OLD TOWN CEMETERY Sto mettendo fine al mio mistero lì dov'è cominciato: in un cimitero. Sono passati davvero quattro mesi da quando Jack Ziegler è emerso dall'ombra il giorno del funerale del Giudice per attirarmi in questo incubo? Oppure è successo la settimana scorsa? Nella mia recente confusione non sono soltanto la verità e la giustizia a essersi ripiegate su se stesse ma anche il tempo, curvandosi obbediente nella direzione dell'attrazione gravitazionale: quella esercitata dalla missione, dal bisogno disperato di sapere. Mi trovo ancora all'interno dell'Old Town Cemetery, ma non per parlare con Samuel, poiché sono le otto passate, è sceso il buio e Samuel se n'è andato da tempo. Non ho scavalcato le mura né il cancello. Non sono penetrato dal condotto. Sono semplicemente entrato intorno alle cinque, mi sono diretto verso una delle panchine di marmo in un angolo invisibile dall'ingresso, e ho atteso. Mi sono portato uno zaino, da cui ho estratto una copia della storia della guerra di Keegan, e ho letto come erano organizzati gli eserciti di un tempo, quando i soldati in prima linea sapevano che sarebbero morti ma marciavano comunque verso la battaglia. Siamo solo pezzi su una scacchiera. Ho letto, ho riflettuto, ho atteso. Samuel ha chiuso il cancello e se n'è andato, e io ho continuato ad aspettare. Dalla mia postazione accanto a un mausoleo non riesco a scorgere il cancello, ma posso vedere l'unico vialetto che conduce al mio piccolo angolo di cimitero. Se qualcuno è entrato dopo di me, non mi ha seguito fino alla panchina. Ciò nonostante, sono sicuro di non essere solo. Mentre il buio si infittisce, continuo a riflettere. Un cimitero è un affronto alla razionalità. Una ragione è l'incongruo spreco di spazio, questo tributo ai defunti che inevitabilmente degenera in un culto degli antenati nel quale, in occasione di compleanni e anniversari,
esseri umani di ogni fede o di nessuna fede sfidano qualsiasi condizione atmosferica per presentarsi al cospetto di file di lapidi silenziose. Per pregare, certo, e ricordare, naturalmente, ma molto spesso per parlare con i morti in un rituale di stampo pagano, nella finzione condivisa che dei cadaveri putrefatti racchiusi in casse di legno deforme siano in grado di capirci se ci fermiamo davanti alle loro tombe, e che non sentirebbero gli stessi messaggi ("Presto sarò con te, caro", oppure: "Sto facendo tutto quello che mi hai detto di fare, mamma") se ci limitassimo a proiettare i nostri pensieri verso l'aldilà mentre, che so, siamo al volante di un'auto. Se non siamo presenti, se non fronteggiamo la lapide giusta, i messaggi non arrivano a destinazione: questo, almeno, esprime il nostro comportamento. L'altra ragione per cui i cimiteri attraggono il nostro lato irrazionale è la loro discreta, irresistibile abitudine di sottrarsi alla patina di civiltà con cui copriamo le assi primitive delle nostre paure infantili. Quando siamo bambini, sappiamo che quello che i nostri genitori sostengono sia soltanto il ramo di un albero agitato dal vento è in realtà il dito nodoso di un'orrenda creatura della notte che attende fuori dalla finestra e picchietta, picchietta, picchietta per farci sapere che non appena i nostri genitori chiuderanno la porta e ci condanneranno a quel buio che loro sostengono formi il carattere, lei solleverà il pannello scorrevole, balzerà in camera e... E a quel punto di solito l'immaginazione infantile si esaurisce, incapace di dare forma alle precise paure che ci hanno tenuto svegli e che nel giro di qualche mese saranno del tutto dimenticate. Finché non avremo visitato un cimitero, dove all'improvviso la possibilità che esistano terrificanti creature della notte sembrerà straordinariamente reale. Stasera, per esempio. Stasera so che c'è in giro una creatura terrificante. Esito, puntando la torcia elettrica sul terreno, e alzo la testa, ascoltando e fiutando l'aria. La creatura è vicina. Ne avverto la presenza. Probabilmente è una creatura umana; è possibile che abbia commesso atti di violenza; ed è certo che mi ha tradito. Come mia moglie. Non so nemmeno più se sono sposato. Domenica, dopo la messa, il giorno prima di spargere la voce che ero sul punto di concludere la mia ricerca, ho finalmente rinfacciato a Kimmer la sua relazione con Lionel, seduti in cucina mentre Bentley giocava con il suo computer nella stanza accanto. Lei è rimasta seduta in silenzio, nel vestito azzurro che creava un contrasto delizioso con la sua pelle color acero, e poi mi ha detto quello che dicono sempre le persone sposate: "Non volevo farti del male". Siamo stati molto civili. Lei mi ha raccontato la storia a spizzi-
chi e bocconi - "Sì, è cominciata l'estate scorsa, sì, ho cercato di farla finita, no, lui non ne voleva sapere, e il giorno in cui l'hai visto davanti a casa dovevamo soltanto parlare" - ma io mi sono ben presto reso conto che stava girando attorno al vero problema. E così l'ho interrotta, l'ho costretta a guardarmi in faccia e le ho fatto la prima di due domande pertinenti: "È finita fra voi?". Lei ha risposto che non lo sapeva, e così le ho rivolto l'altra domanda: "Te ne andrai?". Kimmer ha retto il mio sguardo e si è detta convinta che passare un po' di tempo da soli fosse la cosa migliore. Abbiamo, ha spiegato, molte cose da risolvere. Quando ho recuperato la favella, ho accennato a Bentley e a quanto sarebbe stato difficile per lui. Kimmer ha annuito con aria triste e ha risposto: "Ma potrai venirlo a trovare quando vorrai". Mi ci è voluto un istante per capire. Le ho chiesto se aveva intenzione di portare nostro figlio con sé. "Ha bisogno di sua madre" ha risposto lei. "E poi è abituato a questa casa." Mentre me ne stavo lì seduto in preda allo sconcerto, Kimmer si è limitata a scuotere la testa. Le ho chiesto se mi stava lasciando per Lionel. Mi ha risposto di no, che non era quello il punto. Lionel non c'entrava. Il problema era il mio comportamento. "Non volevo che si arrivasse a questo, Misha, davvero. Io ti amo. Ma negli ultimi tempi ti comporti in modo troppo strano, e io non ce la faccio più. Abbiamo bisogno di un po' di tempo." Di tempo da soli, intendeva. Tempo durante il quale lei si tiene la casa e io me ne vado. Non è la risposta ideale, ma le battaglie per l'affidamento possono essere terribili, per i figli. Mi ha concesso una settimana. Sono passati due giorni. Sono andato a trovare Morris Young. Mi sono comportato in modo irragionevolmente accusatorio. Lui ha atteso che mi calmassi e mi ha ricordato che il problema non era mai stato la fedeltà di mia moglie. Quella che gli avevo fatto era una promessa di dovere cristiano, l'impegno a trattarla con amore finché fossimo stati sposati. Gli ho chiesto se la promessa è ancora valida. Lui mi ha chiesto se siamo ancora sposati. Continuo a camminare. Sono furioso, ma non con il dottor Young, che non è la causa della mia sofferenza. No, sono furioso con me stesso e alla fine anche con mia moglie. Sono passato da come ha potuto farmi questo? a come osa farmi questo? Sono sufficientemente antiquato per pensare che il vincolo matrimoniale non sia una promessa di stare insieme finché se ne ha voglia, ma di rimanere uniti qualsiasi cosa accada. Kimmer, ovviamente, la pensa in modo diverso... eppure continuo ad amarla. È questa la vera assurdità: se
l'amore è un'attività, mi ritrovo incapace, o forse riluttante, a cessarla. Ancora infuriato, scuoto il capo. Non posso farmi distrarre, nemmeno dal naufragio del mio matrimonio. Forse, quando questa storia sarà finita, Kimmer avrà un ripensamento. Mi restano cinque giorni per convincerla, e forse posso cominciare stasera. Ho calcolato le mosse come deve fare un giocatore di scacchi. Sono ragionevolmente sicuro che il mio gambetto sconfiggerà l'avversario sconosciuto ma onnipresente che siede come uno spettro sul lato opposto della scacchiera. Quando questa battaglia sarà conclusa sarò in grado di concentrarmi su come salvare il mio matrimonio. So che la mia condotta ha contribuito ad allontanare Kimmer. Le chiederò scusa, le offrirò dei fiori, e ancora meglio le porterò la notizia che la ricerca si è finalmente conclusa, che non ci saranno più stranezze. Se dieci anni fa sono riuscito a convincerla a sposarmi, di sicuro posso persuaderla a restare. Di sicuro. In caso contrario, vorrà dire che non è possibile. Vengo travolto da un'ondata di fatalismo, e mi chiedo se avrei potuto agire in modo diverso o se ogni cosa fosse predestinata fin dalla morte del Giudice, che ha messo in moto questo terribile piano, e da quando Jack Ziegler mi ha chiesto delle disposizioni. Mi chiedo se anche il mio matrimonio fosse condannato fin dal giorno del funerale. Mi ripeto di concentrarmi sul presente. Nel mio taccuino ci sono alcune genealogie e una manciata di piantine disegnate con cura. Ognuna riproduce una parte del cimitero, ognuna indica la strada verso un diverso lotto. Il lettore occasionale che sfogliasse le pagine penserebbe forse che stia cercando di capire quale lotto voglio. Sarebbe un'interpretazione realistica, ma del tutto inesatta. Nel corso delle mie visite ho esaminato la grande maggioranza dei lotti del cimitero; non di persona, ma sui registri affidati alla custodia di Samuel. Ho sperimentato teorie. Ho ristretto le possibilità. Rob Saltpeter, il futurista costituzionale, ama dire che le decisioni della corte suprema creano "plausibili opportunità per il dialogo e la scoperta". È questo lo scopo delle mie piantine: creare opportunità plausibili. Di dialoghi ne ho avuti abbastanza. La parte della scoperta dovrà venire da sé. Il cimitero è diviso da una serie di rettilinei di ghiaia che si intersecano ad angolo retto formando una griglia di quadrati, ognuno dei quali contiene un certo numero di lotti. Un po' come una scacchiera.
Seguendo la piantina sul mio taccuino, la griglia disegnata con cura, percorro il vialetto principale oltrepassando lapidi immerse nell'ombra, alcune spoglie, altre ornate, alcune decorate da angeli e croci, molte non più che minuscole targhe sul terreno. Tengo basso il raggio della mia torcia elettrica, puntandolo sulla ghiaia davanti a me. Raggiungo le mura sul retro del cimitero, sul lato opposto del cancello, non lontano dal condotto che Kimmer e io usammo per la nostra sciocca fuga quando avevamo l'età in cui ogni cosa apparteneva ancora al futuro. Attendo, ascoltando i suoni della notte. Uno scricchiolio di ghiaia: un essere umano lontano o un animaletto molto più vicino? Aguzzo gli occhi alla ricerca di un altro fascio di luce. Qua e là scorgo un bagliore: qualcuno che mi sta cercando o il faro di un'automobile lontana intravisto attraverso il cancello? Non c'è modo di saperlo. Ho compiuto questo percorso così spesso che non ho più bisogno della piantina. Mi trovo all'angolo sudoccidentale del cimitero, a destra del cancello. Avanzo sulla mia destra, verso est, e oltrepasso un vialetto svoltando a nord nel secondo. Una scacchiera è numerata secondo una griglia di otto caselle per otto, dalla Al nell'angolo inferiore sinistro alla H8 in quello superiore destro. Se la griglia del cimitero fosse una scacchiera, il vialetto su cui mi trovo ora sarebbe la fila B. Supero tre vialetti perpendicolari, segnati nei miei appunti come B1, B2 e B3 malgrado siano dedicati ai padri fondatori della città. Giunto al quarto vialetto, mi fermo. B4, secondo i miei appunti. B4 se si vede il cimitero come una scacchiera, anche se non ha sessantaquattro caselle, e se si considera arbitrariamente il cancello come il lato del nero. Plausibile. B4, la prima mossa del doppio Excelsior con cavallo, se il nero vince e il bianco perde. Il giorno del mio litigio con Jerry ho chiamato Karl per esserne assolutamente sicuro. Sì, ha detto lui, se il compositore è un artista e un romantico. Mio padre credeva di essere entrambe le cose. "Excelsior! Si comincia!" Se il bianco perde, allora si comincia con il pedone di cavallo della regina bianca che avanza di due caselle. Questa è la ragione per cui mio padre ha fatto sì che ricevessi prima il pedone bianco. Lanie Cross aveva ragione: il Giudice voleva far vincere il nero. La mossa è B4, la casella è B4, e io sono qui, in B4. Debole ma plausibile, quantomeno se è vero che ho raccontato a mio padre la storia della mia fuga dal cimitero con Kimmer. Debole ma plausibile, e al momento la plausibilità è tutto quello
che ho. Esco dal vialetto seguendo il cono di luce della torcia finché trovo il punto che sto cercando, un lotto di famiglia. Illumino le lapidi. Ce ne sono di grosse per gli adulti, di piccole per coloro che sono morti giovani. Scorro i nomi e le date: la maggior parte delle lapidi risale al diciannovesimo secolo, alcune all'inizio del ventesimo. Trovo la lapide che sto cercando. È la quarta volta che la osservo, ma la prima volta che lo faccio armato di pala. Avrei potuto scavare prima. Ma avevo le mie ragioni per attendere. Alzo il raggio di luce per esaminare il marmo e confermare l'identità della persona sepolta nella tomba: ANGELA, FIGLIA ADORATA. Guardo le date della sua breve esistenza: 1906-1919. È morta troppo giovane, ma sapevo già anche questo. Mi sposto verso sinistra, passando sul lotto accanto. Anche questo è circondato da una bassa ringhiera di ferro. E c'è una lunga parete di granito su cui è segnato il nome di una famiglia. E quel che è meglio, anche qui c'è una lapide più piccola in prima fila. Nell'angolo destro, vicina a quella di Angela. Perfettamente collocata. ALOYSIUS, NEL SUO TENERO RICORDO. Esamino le date: 19041923. Accanto a quella di Angela. Perfettamente collocata. Quasi certamente non era il ragazzo di Angela. Non nella vita vera. Ma è qualcosa di abbastanza simile da creare una plausibile opportunità di scoperta. "Essere uomo significa agire." Controllo la mia piantina, torno a leggere il nome e poi esamino il terreno. Ci impiego due o tre minuti, ma trovo quello che sto cercando. La luce schermata della mia torcia rivela una chiazza di terra rivoltata di fresco accanto alla tomba. Non c'è nemmeno un filo d'erba che la copra. Sono sbalordito che sia passata inosservata, ma le cose sembrano sempre più ovvie quando sai già che sono lì. Perfettamente collocate. Mi chino sullo zaino per estrarne la pala, quindi mi fermo, mi raddrizzo e scruto in lontananza nella nebbia. Troppi rumori, nel silenzio. Un piede sulla ghiaia o uno scoiattolo su un albero? Non posso obiettivamente dire se c'è qualcuno là fuori, ma sono sicuro che c'è. Deve esserci qualcuno. Ma non so da quale parte delle mura si trovi, né, se è per questo, a quale mon-
do appartenga. Forse i fantasmi esistono. Ma non posso permettere che mi fermino. Poso a terra la torcia illuminando la chiazza di terra fangosa e priva d'erba, e comincio a scavare con la mia pala. L'impresa è sorprendentemente facile. La terra è pesante, bagnata in superficie e scrocchiante di ghiaccio appena sotto, ma non è difficile immergervi la pala. Il difficile è sollevarla. Ciò nonostante, nel giro di quattro o cinque minuti sono riuscito a scavare una fossa poco profonda di circa trenta centimetri di ampiezza. Mi viene in mente che ci è voluto un po' di tempo per scavare questa fossa, e trovo sorprendente che nessuno se ne sia accorto. Mi stringo nelle spalle. Non è un problema mio, non adesso. Mi dedico al mio lavoro. Dopo due minuti la pala colpisce qualcosa di metallico. Uno scricchiolio. Mi fermo di nuovo, facendo compiere un ampio cerchio al raggio della torcia per sondare la nebbia. Là fuori c'è qualcuno. Ne sono sicuro. E a questo punto è inutile nascondere la torcia, perché se c'è una cosa di cui sono sicuro è che il qualcuno là fuori sa già dove trovarmi. Per un attimo intrattengo l'idea di ricoprire la fossa, rifiutando di giocare la partita fino in fondo. Ma mi sono spinto troppo in là. Mi ero già spinto troppo in là quando mi sono scontrato con Jerry Nathanson, quando sono andato a trovare Jack Ziegler e quando ho chiesto un favore a Dana Worth. Mi ero già spinto troppo in là quando ho cominciato a comportarmi in un modo che potrebbe essermi costato mia moglie. Scava. Allargo la fossa finché distinguo quelli che sembrano i bordi di una scatola azzurra di metallo, poi mi inginocchio e cerco di estrarla. Ma le mie dita non riescono a far presa sulla terra umida, e so che devo andare più a fondo. Non mi è mai venuto in mente che sarebbe stato più facile scavare la fossa che recuperare la scatola. Forse esiste un attrezzo speciale che la gente usa per imprese come queste. Decido di scavare a una certa distanza dai bordi della scatola. Mi raddrizzo e afferro la pala, ed è in questo istante che un fantasma esile e pallido si materializza dal buio, facendomi gridare e sollevare la pala come se volessi colpirlo. «Lascia che ti aiuti, Misha» sussurra il fantasma, ma in realtà è la Cara Dana Worth. Per un istante non riesco a dire nulla. Dana mi si para di fronte con un
sorriso timido e un tremito leggero, poiché aggirarsi di notte in un cimitero non è divertente per nessuno. Avrei dovuto immaginare che l'avrebbe capito. Si è coperta bene, con un piumino scuro e un paio di jeans pesanti, e si è perfino portata una pala. «Che ci fai qui?» domando, ancora tremante per lo spavento. «Oh, Misha, andiamo. Dopo quello che mi hai chiesto di fare? Credevi davvero che mi sarei persa lo spettacolo?» Lascio correre. «Come sei entrata?» «Dal cancello, come te.» «Io sono qui da prima dell'ora di chiusura.» «Il cancello non è chiuso.» «Cosa? Certo che lo è. Ho visto Samuel che lo chiudeva.» Dana scrolla le spalle. «Be', adesso non lo è più. Sono entrata senza problemi. Allora, mi permetti di aiutarti oppure no?» Faccio due più due. Il cancello non è chiuso. Qualcuno l'ha aperto. E perché lasciarlo scostato? Perché questa faccenda non riguarda più soltanto le disposizioni, né il fatto di pedinarmi finché non le trovo. Il cancello è stato lasciato aperto come un invito a entrare. Il che significa che ora questa faccenda riguarda anche Dana. Brutta notizia. Pessima notizia. Se Dana si fosse limitata a fare quello che le ho chiesto, se stasera non fosse venuta qui, quello che le ho detto al Post sarebbe stato vero: sarebbe stata perfettamente al sicuro. «Dana, te ne devi andare subito.» «Io non ti lascio qui, Misha. Nemmeno per idea.» «La smetti di essere così leale?» Sto facendo del mio meglio per gridare senza alzare la voce al di là di un sussurro. Malgrado la sua paura, Dana risponde in tono mordace: «Ma sentilo, è lo stesso che due anni fa mi faceva la predica sulla lealtà?». Si riferisce a quando ha lasciato Eddie. «Dana, per favore, dico sul serio. Te ne devi andare.» Con un gesto della mano indico il resto del cimitero. «È pericoloso.» «E allora non dovresti esserci nemmeno tu.» «Dana, andiamo...» «Andiamo un corno. Non cercare di elargirmi il trito repertorio io-uomo, tu-donna, d'accordo? So che sei un primitivo, ma non fino a questo punto. Sul serio, Misha. Non ti abbandonerò. Non lo farò. Se ce ne andiamo, lo facciamo insieme. Ma se tu resti, resto anch'io. Dunque ti prego, Misha, smettila di sprecare il tuo tempo.»
Be', la verità è che con Dana la situazione è meno sinistra. E potrei avere bisogno di una mano. «E va bene. Mettiamoci al lavoro.» Io scavo. Dana tira. Dana scava. Io tiro. E finalmente facciamo la cosa giusta. Scaviamo entrambi, scostando la terra da tutti i lati della scatola. E poi tiriamo entrambi nello stesso momento. E d'un tratto la scatola è libera, e zolle di terra cadono dalla sua lucente superficie azzurra. Sulle prime il metallo è così freddo che le mie dita vi restano incollate. È il tipo di scatola nella quale di solito si tengono le matrici degli assegni o i passaporti. Una piccola cassaforte, che di norma dovrebbe essere chiusa a chiave. Ma sono sicuro che questa... Sì. Mentre Dana si ferma sorridente accanto a me, spazzolo via le zolle rimaste e sollevo il coperchio, che si apre senza fare resistenza. Mi guardo intorno, poi mi siedo sul muretto di pietra e poso la scatola al mio fianco. La lascio aperta ma non accenno a estrarne l'involto di tela cerata che ho adocchiato all'interno. Un sorriso mi distende le labbra mentre penso a tutti coloro che vorrebbero stringere in mano ciò che abbiamo appena riportato alla luce. «E adesso?» chiede Dana a disagio, spostando il peso da un piede all'altro. «È fatta? Abbiamo finito?» «Non ne sono sicuro.» «Misha, ascolta, è stato divertente, ma a questo punto me ne voglio andare.» Mi guardo di nuovo intorno, perplesso. «D'accordo. Hai ragione. Andiamo.» Chiudo la scatola senza toccarne il contenuto. Rimetto la pala e il taccuino nello zaino, me lo carico un'altra volta in spalla e mi incammino verso il cancello con la Cara Dana Worth al mio fianco. Questa volta il mio percorso è più diretto, ma le lapidi nella penombra somigliano a quelle di qualsiasi altro camposanto. Dana sta praticamente saltellando. Sembra felice al pensiero che ce ne stiamo andando, e io stesso sono alquanto soddisfatto. Cullo la scatola fra le braccia, ancora preoccupato al pensiero che qualcun altro possa trovarsi qui insieme a noi. Mentre camminiamo, ascolto. Era un passo, quello? Lo slittare di metallo su pietra? Rallento e aguzzo le orecchie. Adesso c'è solo un gran silenzio. Arriviamo al secondo incrocio, svoltiamo a destra sul vialetto che conduce al cancello. Dana accelera il passo. È un tipo tosto, il terrore della
facoltà di legge, ma io so che questo soggiorno fra le vestigia dei morti la spaventa. Sarà lieta di uscire. E lo sarò anch'io. La lascio andare avanti. Rallento. Inclino la testa di lato. «Va bene, Misha, adesso che c'è?» chiede Dana spazientita tornando sui suoi passi. Incrocia le braccia sul petto e schiocca la lingua. Le prove che ci hanno condotto a questo punto non hanno importanza: gli unici complotti che le interessano sono quelli della commissione nomine della facoltà. Ciò nonostante, avverto la sfumatura isterica della sua voce; la mia amica di un tempo è spaventata quanto me. «Zitta» mormoro, tendendo le orecchie. «Misha, davvero, credo che dovremmo...» «Dana, vuoi stare zitta?» Nel bagliore inclemente della mia torcia, il volto della Cara Dana è contorto dalla rabbia e offeso come quello di una bambina. Ha già dichiarato il nostro cameratismo, sta dicendo la sua espressione furiosa, presentandosi in questo posto. Non è costretta ad accettare anche i miei abusi verbali. «Scusami» bisbiglio. «Sai, Misha» sibila lei «ci sono momenti in cui non so che cosa ci vedo, in te.» «Ti capisco. Ma zitta, adesso.» «Perché?» «Perché sto cercando di ascoltare.» Con mio sollievo, stavolta Dana collabora. Si scosta, portandosi sul ciglio del vialetto, e scuote la testa per le mie ridicolaggini, ma lo fa in silenzio. Posa la mano sulla fiancata di un mausoleo, spingendo come se si aspettasse di trovare una porta segreta, ma la ritrae quando le sue dita toccano qualcosa a cui preferirebbe non dare un nome. Si stringe le braccia al petto e sbuffa. Le sue smargiassate, lo so, celano un'inquietudine profonda quanto la mia. Faccio qualche passo nella direzione da cui siamo venuti. Niente. «Spengo un attimo la torcia» l'avverto, e lo faccio. «Punta la tua dall'altra parte.» Dana, a disagio, annuisce. Aspetto che il raggio della sua torcia si allontani dalla mia visuale, quindi faccio qualche altro passo lungo il vialetto e scruto l'oscurità sempre più tetra. Niente. Qualcosa.
Un piccolo scatto metallico. Ripetuto, ma non abbastanza regolare da appartenere alla valvola difettosa di un camion al di là delle mura. È prodotto da un essere umano. Da un essere umano che trasporta qualcosa di sferragliante. Ma che sta cercando di non fare rumore. Scende di nuovo il silenzio, ma non mi faccio ingannare. Era uno scatto. Uno scatto provocato da un umano. Forse più di uno scatto. Forse più di un essere umano. E non distante. Continuando a stringere la scatola, attiro Dana verso di me. «Misha, non sapevo di piacerti» dice lei. Ma il suo tono è irritato, poiché, come credo di aver già detto, non ama farsi toccare. Mi chino verso di lei e bisbiglio: «C'è qualcuno». La Cara Dana rabbrividisce e si divincola. «Ridicolo. Primo, l'avremmo sentito. Secondo, nessuno è pazzo come te...» «Dana...» «Terzo, non afferrarmi in questo modo. Mai. D'accordo?» «Scusami, ma stavo cercando di...» «Misha, ascolta. Siamo amici e tutto il resto. Ma primo, agguantarmi così significa non rispettare il mio spazio. Secondo, è una cosa così aggressiva, maschi...» Ma questa volta Dana deve interrompere il suo elenco poiché entrambi udiamo, molto vicino alle nostre spalle, lo scricchiolio di quello che può essere soltanto un essere umano che procede sulla ghiaia, seguito da un'esclamazione sommessa quando il suddetto essere umano inciampa. Ormai terrorizzati, procediamo senza più preoccuparci di non fare rumore. In meno di un minuto abbiamo raggiunto il cancello. È chiuso. «Prova a dargli una spinta» suggerisco a Dana. Lei spinge, ci riprova con più forza, poi si volta verso di me scuotendo la testa. «Che c'è?» «Guarda.» Indica qualcosa con voce tremante. La catena e il lucchetto sono al loro posto. Ora capisco che cos'era a sferragliare nel buio. Siamo imprigionati nel cimitero. «Okay» borbotto affrettandomi a ragionare. Forse Samuel si era semplicemente scordato di chiudere ed è tornato a mettere la catena come sempre. Forse. D'altra parte, nell'ultimo quarto di secolo non ha fatto altro che aprire questo cancello la mattina e chiuderlo la sera. L'avrebbe fatto per pura abitudine. Qualcuno ha fatto scattare il lucchetto e ha aperto il cancel-
lo per vedere se ci sarebbero state altre visite. La visita di un mio complice, per esempio. Poi quello stesso qualcuno l'ha richiuso. Dana, sempre preparata, allunga la mano verso la sua cintura. «Userò il telefonino.» «Per chiamare chi?» Aggrotta la fronte. «Non lo so. La polizia, qualcuno. Hai un'idea migliore?» Rammentando il mio precedente incontro con le autorità, scuoto il capo. «Possiamo uscire dall'altra parte.» «Quale altra parte?» Non so dove trovo un sorriso, poi torno a girarmi verso il retro del cimitero. Non vorrei rituffarmi in quell'orribile oscurità, facile preda di chiunque o qualsiasi cosa sia in agguato fra le ombre dei morti, ma non abbiamo scelta. «È una lunga storia, Dana. Credimi, c'è un'altra via d'uscita. Un condotto di scarico lungo le mura meridionali. Dico sul serio. Ora te lo faccio vedere.» Faccio un paio di passi sul vialetto. «Vieni con me.» Lei non risponde. «Dana, andrà tutto bene. Te lo prometto.» È un paio di passi dietro di me, e i suoi occhi sgranati sono fissi nella direzione opposta, verso il cancello. Seguo il suo sguardo. «Misha» boccheggia Dana. Quindi lascia cadere a terra la pala e alza le mani lentamente. Guardando oltre lei, mi azzittisco all'istante. Doveva essersi nascosto dietro uno dei mausolei, mi dico, poiché è apparso come per magia. Mi congratulo per la deduzione per evitare di mettermi a gridare. Perché l'uomo che si erge a poca distanza dal vialetto, ben riconoscibile nel bagliore della mia torcia, ci stava palesemente aspettando al cancello. È un uomo dall'aspetto robusto, tarchiato, un muro di carne che ci impedisce il passaggio. Una barba incolta gli circonda il volto rabbioso. Il suo sguardo è implacabile. Regge con disinvoltura una pistola nella mano destra, puntandola nella nostra direzione. L'aria sembra improvvisamente fredda e melmosa, un ostacolo che rende faticoso ogni mio movimento. Dana ha già le mani in alto come il personaggio di un film, e io decido di fare lo stesso, soprattutto perché l'uomo agita la pistola mettendo bene in chiaro quali siano le sue intenzioni. Lentamente, per fargli vedere che non costituisco una minaccia, poso la torcia a terra. Mi raddrizzo. Lui mi rivolge un altro segnale con la pistola. Riluttante, metto giù anche la piccola cassaforte. «Molto bene» dice l'uomo barbuto con una voce spaventosamente fami-
liare. «No» mormoro. «Non è possibile.» Ma lo è. Avendo ovviamente concentrato l'attenzione sulla pistola brunita e sul suo silenziatore bulbiforme, il mio cervello terrorizzato ha impiegato qualche secondo ad assorbire un fatto semplice e sbalorditivo: l'uomo che ci sta sbarrando la strada non è uno sconosciuto. Dietro i capelli e la barba rossastri si cela il volto rubicondo e compiaciuto di Colin Scott. 51 IL RITORNO DI UN VECCHIO AMICO Come spesso accade sono il primo a parlare, e quello che dico è profondamente stupido: «Lei è morto». Colin Scott sembra considerare seriamente il problema, strofinandosi la nuova barba cespugliosa. Un'auto passa al di là del cancello, ma potrebbe anche passare dalla parte opposta del globo. La mano che regge la pistola è molto stabile, e mira in un punto a metà strada fra me e Dana. «Non mi sembra granché morto, Misha» bisbiglia Dana fingendo di non essere spaventata a morte. Ma io mi sento sempre più calmo. Sia che moriremo qui oppure no. Il Giudice ha sempre dato rilievo al libero arbitrio, e io sto cercando l'occasione di esercitarlo. «Non muovete le mani» dice finalmente Colin Scott. Le mie, come quelle di Dana, sono levate verso la stratosfera. E stanno tremando. «Spinga la scatola verso di me con il piede.» Lo faccio. Lui non accenna a raccoglierla. «Sapevo che doveva avere un aiutante, professore.» Si rivolge a Dana. «Non ci hanno presentati.» Mi rendo conto che è serio. «Dana, questo, ehm, è l'agente... cioè, Colin Scott, conosciuto anche come Jonathan Villard» dico goffamente. «Signor Scott, la professoressa Dana Worth.» Il signor Scott fa un cenno distratto del capo, poi lo inclina mettendosi all'ascolto. Si acciglia. È lui ad avere la pistola, e così aspettiamo che sia lui a parlare. «C'è qualcun altro insieme a voi? Vi prego di non farmi perdere tempo.» «No, siamo solo noi due» gli assicuro. Dana e io ci scambiamo un'occhiata, passandoci messaggi telepatici, cercando di coordinare una menzogna. Se la telepatia esistesse, potremmo addirittura cavarcela.
«Sa cosa contiene la scatola?» «L'ho aperta. Non è chiusa a chiave. Ho visto un pacchetto, nient'altro.» «Nient'altro.» Il signor Scott si accovaccia, continuando a puntarci addosso la pistola, e solleva lentamente il coperchio. Al cinema questo sarebbe il momento in cui io ruoto su me stesso e faccio volare via la pistola con un calcio mentre il cattivo resta immobile a guardarmi sbalordito. Non riesco a trattenermi: «Hanno detto che era annegato». «Non ero io» risponde Scott calmo. «Un uomo è annegato, ma non ero io. Le avevo detto che avrei dovuto fare qualcosa riguardo all'Fbi. Morire è un modo eccellente di prevenire un'indagine.» «Ho visto la fotografia...» «Sì, della patente. Be', quello ero io. La foto. Ma il corpo in acqua? Poche ore insieme ai pesci possono cambiarti i connotati al punto che è difficile distinguerli.» Sento un brivido plumbeo. "Poche ore insieme ai pesci possono cambiarti i connotati." È lì che siamo diretti io e Dana? È il turno di Dana: «Ma il corpo è stato identificato...». «No. Non è stato identificato. È un equivoco abbastanza comune.» Inclina la testa dall'altra parte e arriccia le labbra carnose come se ci stesse prendendo le misure per una bara. «Nessun corpo viene mai identificato. Di sicuro nessun corpo in stato di decomposizione. Sono le impronte digitali a essere identificate. Sono le radiografie dentali. Diamo per scontato che, conoscendo il proprietario delle impronte digitali, conosciamo anche l'identità del corpo. Ma è un assunto il cui valore non va oltre i documenti su cui è fondato.» Pur essendo probabile che fra una manciata di secondi sarò morto, il semiotico che è in me è colpito. In questo senso, l'intera scienza forense è fondata su un classico errore di interpretazione: l'incapacità di distinguere il significante dal significato. Le impronte digitali sono significanti. Le radiografie dentali sono significanti. Sono i messaggi in codice a cui assegniamo significanza. L'identità del corpo, la persona che decidiamo sia morta, è il significato. Tutti ci comportiamo come se la conoscenza dei primi implicasse necessariamente la conoscenza del secondo. Ma tale implicazione non è altro che una convenzione. Non si tratta di meccanica celeste. Non si tratta della guarigione da una malattia. Funziona perché noi decidiamo che funzioni. E lo decidiamo accettando senza discutere l'accuratezza dei documenti da cui partiamo. «Ha sostituito i dati» mormora Dana, che non ha mai alcun problema a
stare al passo. «O l'ha fatto qualcun altro.» Colin Scott non dice nulla. Non è il momento giusto per le confessioni. Il suo silenzio è in se stesso una minaccia... e un'opportunità. La sua espressione è pensierosa. Non tutto, evidentemente, è andato come aveva previsto. Sta cercando di decidere cosa fare. «Bene, ha ottenuto la scatola» osservo cercando di prendere tempo. «A questo punto è al sicuro.» «La scatola non è mai stata per me, professore. Questo se non altro era vero. Ero stato... incaricato... di recuperarla da qualcuno.» «Da chi?» Un altro lungo silenzio nel quale il signor Scott soppesa cosa dire. Il suo volto è tirato, e mi ricorda che già trent'anni fa, quando venne cacciato dall'Agenzia, era un uomo di mezza età. Finalmente risponde: «Non sono qui per fornirle spiegazioni, professore. Ma non creda che fossi l'unico a sperare che lei trovasse questa scatola. Sono semplicemente quello che era presente quando lei l'ha trovata». È il turno di Dana: «Ma per quale ragione non poteva trovarla da solo?». Gli occhi gialli di Colin Scott si spostano su di lei, ripudiano il suo interrogativo con uno scintillio e tornano su di me. Eppure, parlando con me non fa che rispondere alla sua domanda. «Suo padre era un uomo brillante. Voleva che lei trovasse la scatola, ma sapeva anche che si sarebbe intromesso qualcun altro. Io o qualcuno come me. Non poteva correre rischi.» «Cosa?» «Sapevamo cos'era l'Excelsior, quello è stato un gioco da ragazzi. E sapevamo che il ragazzo di Angela non era quello giusto, perché altrimenti ci avrebbe detto quello che avevamo bisogno di sapere. Ma il cimitero... È stato abile, professore. Molto abile.» Un silenzio. Lo spezzo. «Bene, e adesso che facciamo?» Scott arriccia le labbra in un bieco sorriso, ma non si prende il disturbo di rispondere. Ci rivolge invece un cenno con la pistola, facendoci allontanare dal cancello e lungo il vialetto verso l'interno del cimitero. Dove potrà ucciderci più facilmente. Indica la cintura di Dana. Lei estrae il cellulare con dita tremanti e glielo consegna. Lui lo guarda per un istante, poi lo lascia cadere sulla ghiaia e senza apparente bisogno di prendere la mira lo colpisce con due proiettili in rapida successione. Gli spari attutiti fanno trasalire sia Dana che me. «Non deve temere, professore» dichiara Scott. Sembra osservare noi, il vialetto alle nostre spalle e, anche se so che è impossibile, quelli perpendi-
colari senza mai muovere la testa. «Ho ottenuto quello che cercavo, e lei non mi rivedrà più. Non la ucciderò.» «Non lo farà?» domando con la mia tipica incisività. «Non ho alcun problema a uccidere. Nella mia professione l'omicidio è uno strumento che bisogna essere preparati a usare.» Lascia che il concetto faccia presa. «Ma esistono anche gli ordini, e come già ebbi occasione di dire a suo padre, queste faccende hanno delle regole.» «Regole? Quali regole?» Colin Scott scrolla le spalle senza muovere la pistola di un millimetro. «Diciamo soltanto che il suo amico Jack Ziegler, oltre che spregevole, è un uomo molto vendicativo.» Ciò nonostante non abbassa l'arma, e comincio a capire il suo problema. È preoccupato per la promessa di Jack Ziegler: quella di cui lo zio Jack mi ha parlato al cimitero il giorno in cui abbiamo sepolto mio padre, quella che mi ha rammentato Maxine a Martha's Vineyard, quella che ad Aspen lo zio Jack mi ha assicurato di voler mantenere. La promessa di proteggere me e la mia famiglia. E questo piccolo dramma è il risultato: lo zio Jack ha diramato i suoi ordini, e perfino questo assassino di professione, che ha tutte le ragioni per odiare Jack Ziegler e per temere ciò che potrei dire alla polizia, non osa disobbedire. «Non ci può toccare» dice Dana con evidente sollievo. Abbassa le mani. Gli occhi malefici di Colin Scott si muovono, e anche la pistola ruota leggermente. «Ho l'ordine di non far del male al professor Garland e alla sua famiglia. Ma temo, professoressa Worth, che nessuno abbia parlato dei suoi amici.» La voce di Dana si affievolisce all'improvviso. «Ha intenzione di uccidermi?» «È necessario» sospira Scott, puntandole la pistola all'altezza del naso. «E ha una certa... simmetria.» «Aspetti» diciamo io e Dana all'unisono, mentre i nostri cervelli si sforzano di trovare le parole giuste per convincerlo. «La prego di allontanarsi dal professor Garland» riprende Scott in tono ragionevole, come se impedire che mi succeda qualcosa fosse la sua principale preoccupazione. Un ratto si materializza dal buio, bianco, enorme e repellente, e si siede sulle zampe posteriori avvertendo forse l'imminenza della cena. «Chiuda gli occhi, professoressa Worth, e non avrà nemmeno il tempo di soffrire. Lei, professor Garland, si sposti e si volti verso la parete del mausoleo.»
«Non lo faccia» protesto. «Professor Garland, devo chiederle di voltarsi. Sa già abbastanza da potermi spedire nel braccio della morte. Ma non lo farà, qualsiasi cosa io combini stasera, perché in caso contrario l'ordine di proteggere lei e la sua famiglia non sarà più valido. Potrebbe anche rischiare la propria vita, ma ha una moglie e un figlio a cui pensare. Ci siamo capiti?» Credevo di sapere cosa fosse il terrore, ma ora è vivo dentro di me, e agita follemente le sue ali rubandomi ogni pensiero. «Sì, ma non può...» «Si volti, professore.» «Mi ucciderà» ripete Dana con voce tremante. E in quell'istante compio il gesto più coraggioso e più stupido dei quattro decenni che ho trascorso su questo pianeta. Abbasso le mani e mi frappongo tra Dana Worth e Colin Scott. «No, non lo farà» dico, e la mia voce trema più di quella di Dana. «Si faccia da parte, professore, per favore» dice l'uomo che ha ucciso l'uomo che ha ucciso Abby. «No.» Scott esita. Posso quasi sentire gli ingranaggi che girano: non vuole lasciarsi sfuggire Dana né vuole lasciarsi sfuggire me; forse sta pensando che la cosa migliore sarebbe ucciderci entrambi e confidare nella propria abilità di sottrarsi all'ira di Jack Ziegler. Oppure sta pensando che potrebbe incolpare qualcun altro del mio omicidio. O che lo zio Jack è talmente malato che la sua parola non ha più l'autorità di un tempo. Oppure il suo nuovo cliente, chiunque sia, potrebbe essere ancora più potente del temuto Jack Ziegler. Oppure potrebbe avere un'altra teoria, una teoria che non sarei mai in grado di immaginare né di comprendere poiché non vivo in questo mondo. Ma qualunque sia la ragione, l'istante successivo capisco che l'ex agente segreto ha preso la sua decisione. Ci ucciderà entrambi, qui nell'Old Town Burial Ground. Il suo sguardo impassibile trasmette il messaggio come se fosse inciso nel granito. La canna della pistola si solleva di qualche centimetro e sembra allargarsi e scurirsi, pronta a inghiottirmi. Nello stesso istante in cui mi preparo a tuffarmi verso di lui capisco che non riuscirò mai a raggiungerlo prima che spari, e così uso i miei ultimi secondi di vita per pregare e rimpiangere di non aver potuto dire addio a mio figlio e a mia moglie che non è più del tutto mia moglie e vedo che la piccola mano di Dana è nella mia e sento il salmo 23 fuoriuscirle dalle labbra e mi chiedo dov'è finita la sua leggendaria perizia nelle arti marziali e i miei sensi sono vivi e accesi. Posso quasi
vedere i singoli capelli della chioma rossa di Colin Scott, posso quasi sentire la pressione del suo dito sul grilletto, e poi un profondo e tenace istinto di sopravvivenza ha la meglio sul mio naturale fatalismo. Mi libero della mano di Dana e copro con un balzo la breve distanza che mi separa da Colin Scott. Poi accade tutto nello stesso tempo. Colin Scott è molto rapido. Nella frazione di secondo che passa fra il momento in cui spicco il balzo e quello in cui atterro su di lui preme il grilletto, non una ma due volte, e l'intero cimitero viene scosso dagli spari mentre il mio corpo diventa improvvisamente gelido e subito dopo intorpidito e ruota da una parte, andando a sbattere contro un angelo di alabastro che veglia sopra una lapide. Sono stupito dai riverberi degli spari - la pistola di Scott ha il silenziatore, non dovrebbe fare tanto rumore - ma mi rendo anche conto che aveva ragione, non sento nulla, e poi mi accorgo che Dana sta gridando qualcosa che non riesco a sentire e anche che non sono morto, che i proiettili devono avermi mancato, e Colin Scott è in ginocchio e la parte superiore della sua camicia è intrisa di sangue e la ghiaia ghiacciata sembra scivolosa e il mio primo pensiero è che in qualche modo la sua pistola abbia fatto cilecca, che gli sia esplosa in mano, e sono di nuovo in piedi anche se barcollo e sospingo Dana nel buio verso la tubatura di scarico. Lei ha ripreso in mano la sua pala, e mi rendo conto che deve averla usata per colpire Colin Scott, poiché sulla fronte dell'ex agente segreto si apre un taglio sanguinante. Sto ancora cercando di far muovere Dana ma tengo d'occhio il signor Scott, che ruota su se stesso premendo una mano a terra e cercando di puntare la pistola contro qualcosa alle sue spalle nel buio, e spara altri due colpi in rapida successione, due lampi che lacerano l'oscurità del cimitero e scompaiono inghiottiti dal buio, e poi dalle ombre sorge un grido e io e Dana decidiamo di rannicchiarci e un attimo dopo sentiamo la secca esplosione di un altro sparo e Colin Scott crolla a terra, la pistola a qualche centimetro dalla sua mano tremante, e il suo collo è insanguinato e sta cercando di dire qualcosa, le parole gli si formano sulle labbra mentre la luce della vita si spegne nei suoi occhi ciechi e umidi di lacrime, e io non oso avvicinarmi perché non voglio sapere chi si nasconda là fuori nel buio, ma vedo la forma dei semplici suoni che emette e so che il suo ultimo pensiero è per sua madre. Dana e io restiamo appiattiti a terra. Aspettiamo. Ascoltiamo.
Passi che scricchiolano sulla ghiaia. Lenti. Cauti. Timorosi di una trappola. Dana sta piangendo. Non so perché. Siamo noi i sopravvissuti. La stringo a me sull'erba lungo il vialetto. Ho freddo malgrado il mio giaccone. Dana trema ed è leggera come una piuma fra le mie braccia. Il signor Scott è un ammasso sanguinolento. Siamo troppo terrorizzati per muoverci. Il raggio di una torcia guizza sopra di noi, illumina ciò che rimane di Colin Scott, fende l'aria sopra le nostre teste mentre particelle danzanti mi confondono la vista. Restiamo immobili. Sento che c'è qualcosa che dovrei fare, ma su di me è scesa una nuova apatia. Il mio corpo non vuole più muoversi. Forse è lo strascico del terrore mortale. La luce è molto vicina, quasi accecante. Vedo quelle che potrebbero essere delle scarpe da ginnastica. Dei jeans. Ma chiunque abbia sparato a Colin Scott non dice una parola, e io e Dana non riusciamo a distinguere nulla. Sentiamo un raschio metallico, poi la luce si spegne. I passi cominciano ad allontanarsi, e Dana balza in piedi con un grido di rabbia. Raccoglie da terra la pistola di Colin Scott e si mette a correre. Ma non verso l'uscita. Nel buio. «Dana!» grido arrancandole dietro, aggirando i resti del signor Scott. La mia voce è fioca, metallica, l'eco di un'eco. «Dana, aspetta.» Ma il mio urlo è un gemito. «Dana!» Comincio a barcollare. Il buio passa turbinando dal nero-nero al nerogrigio al grigio-grigio, e il terreno ruota nuovamente verso l'alto a incontrarmi. Dana scompare. Vorrei dirle che sta facendo una sciocchezza, che dovremmo prendere la scatola e dirigerci verso il cancello o la tubatura, ma mi manca la forza per gridare. Mi accascio contro la lapide. Vedo l'angelo di alabastro che torreggia sopra di me. Dana se n'è andata. Ma tutto sembra non avere importanza. Le mani mi si intorpidiscono. Appoggiarmi alla pietra è come cercare di afferrare l'acqua. No, il ghiaccio. Scivolo a terra. Uno dei miei piedi tradisce degli orribili spasmi. Mi prude lo stomaco, ma non riesco a sollevare un dito per grattarlo. Alla luce della torcia caduta a terra vedo Dana che corre via. La scatola di metallo è scomparsa; chi ha sparato a Colin Scott deve averla presa mentre eravamo accecati dal fascio di luce. Era quello il raschio metallico che ho sentito. Cerco di pregare. "Padre nostro che... che sei... che sei nei..." Raccolgo le energie residue cercando di rimettermi in piedi, di pensare,
di concentrarmi. Dio, ti prego... ti prego... Ma sostenere questi pensieri richiede troppa energia. Ho bisogno di riposo. L'erba è rossa e appiccicosa sotto la mia guancia. Appena prima che il buio mi avviluppi, mi rendo conto che non tutto il sangue appartiene al signor Scott. Dopo tutto, sono stato colpito. 52 VECCHI AMICI IN VISITA «I bambini vogliono vederti» prorompe Mariah seduta accanto al mio letto d'ospedale. «È come se tu fossi diventato una specie di eroe.» Sorrido con aria rassicurante dal profondo dell'intrico poco dignitoso di bende, sensori, tubi e punti di sutura. I miei dottori mi hanno allegramente informato che al cimitero avevo perso così tanto sangue da sfiorare la morte. Da quando ho ripreso conoscenza ho sofferto a sufficienza da chiedermi una o due volte se non sarebbe stato meglio che avessero impiegato qualche minuto in più a trovarmi. Non tutto il dolore è stato fisico. Ieri ho aperto gli occhi su Kimmer che sonnecchiava in poltrona con in grembo uno spesso memorandum, e quando più tardi li ho riaperti lei se n'era andata. Ho deciso che dovevo essermela sognata. Quando l'infermiera è passata a controllare che non fossi morto, o quantomeno che non vi fosse motivo di dare l'allarme e far accorrere tutti, le ho chiesto se mia moglie era venuta a trovarmi. La mia voce aveva qualcosa che non andava, ma l'infermiera è stata molto paziente e alla fine siamo riusciti a stabilire un contatto. Sì, mi ha detto, sua moglie è stata qui, ma è dovuta andare a una riunione. Ed è stato allora che il dolore è diventato permanente. La solita vecchia Kimmer. Abbastanza premurosa da farmi visita malgrado la separazione, ma non disposta a perdere ore di lavoro fatturabili. Ho chiesto all'infermiera se potevo avere qualcosa per il dolore. Lei ha sfogliato freddamente la mia cartella clinica, poi ha armeggiato qualche minuto con la fleboclisi, e quando ho riaperto gli occhi era scesa la sera e mi trovavo in compagnia di due detective. Il dottor Serra, il mio chirurgo, si è precipitato nella stanza e ha detto che ero troppo debole per parlare. Il primo giorno molti fiori ma nessun collega della facoltà, poiché l'unica visita consentita era quella di mia moglie. Una delle infermiere della tera-
pia intensiva, una robusta donna di colore di nome White, ha acceso il televisore e ha fatto il giro delle stazioni per me, ma io prestavo scarsa attenzione ai programmi. Alla fine si è decisa per un film, qualcosa che coinvolgeva Jean-Claude Van Damme e un gran numero di armi da fuoco. Ho rivolto la faccia al soffitto verde pallido, ripensando a quegli ultimi istanti al cimitero e chiedendomi quando avrei rivisto mio figlio. Mi sono riaddormentato. A un certo punto ho chiesto al dottor Serra come mai mi trovavo in una stanza singola, ma lui si è limitato a scrollare le spalle levando al cielo i palmi delle mani, suggerendo con quel gesto che a interessargli erano le mie condizioni di salute e non lo stato delle mie finanze. Ho chiesto un telefono e mi è stato rifiutato. Un ospedale può essere come una prigione. Avrei voluto farlo notare al dottor Serra, ma lui si è allontanato di gran carriera per visitare gli altri suoi pazienti quasi morti. Poi è tornata l'infermiera White, e mi ha spiegato che a causa delle mie condizioni critiche potevo avere pochi visitatori, di cui avrei dovuto redigere una lista. Non appena ho saputo che ai bambini era vietato l'accesso al reparto di terapia intensiva, ho perso ogni interesse nell'esercizio. Cinque nomi, mi ha detto, più i familiari. Ho segnato subito Dana Worth e Rob Saltpeter. Ho segnato John Brown. Dopo un istante di disperata riflessione, ho segnato il mio vicino Don Felsenfeld. E ho chiesto all'infermiera White il favore di chiamare il reverendo Morris Young, il quinto nome sull'elenco. Lei ha sorriso, favorevolmente colpita. Mentre se ne andava, ho notato un uomo in completo blu seduto fuori dalla porta, e prima di riaddormentarmi mi sono chiesto se fossi sotto protezione oppure in arresto. Quando mi sono ridestato c'era una Bibbia sul comodino, la "Versione di Re Giacomo", accompagnata da un biglietto del dottor Young nella grafia tremante di un vecchio. "Chiamami quando vuoi" aveva scritto. È entrata un'altra infermiera, e le ho chiesto se poteva leggermi qualche verso dal Capitolo 9 del Genesi. Ma aveva troppo da fare. I poliziotti sono tornati con il riluttante permesso del dottor Serra, e uno di loro era il mio vecchio amico Chrebet. Ho detto quello che ricordavo, ma loro avevano già parlato con l'Fbi, con Dana Worth, con lo zio Mal e con il sergente Ames, e sembravano saperne già molto. Mi hanno rivolto una sola domanda che pareva importante: se avessi visto il mio aggressore. Hanno detto proprio così, "aggressore". Una parola uscita dai giornali e dai
film. Ho scoperto che mi piaceva. Malgrado il dolore e l'intontimento il semiotico che è in me si è ridestato, chiedendosi per quale ragione avessero scelto un termine tanto morbido per descrivere un brutale criminale. Forse perché creava l'illusione che il loro lavoro occupasse una posizione più alta nella scala sociale di quella che aveva in realtà. Non cercavano meschini malviventi, i rifiuti umani ignoranti e disperati che, nella deliziosa espressione coniata da Marx ed Engels, erano stati "precipitati" nel Lumpenproletariat, davano la caccia ad aggressori. Ebbene, io ero stato aggredito. Ero stato aggredito dai proiettili. Con voce gracchiante ho spiegato ai due pazienti poliziotti che Colin Scott, colui che aveva effettuato l'aggressione, era morto. Loro si sono guardati, poi hanno scosso la testa e mi hanno spiegato che le tre pallottole che mi avevano colpito all'addome, alla coscia e al collo erano state recuperate e che soltanto due provenivano dalla pistola del defunto signor Scott. Intendevano dire che quella sera al cimitero ero stato colpito anche da una quarta persona. La persona che Dana aveva inseguito. Ora sapevo perché l'aveva fatto. Di sicuro non c'era bisogno di riprendere la scatola rubata. «Non siamo ancora certi che il colpo sia stato accidentale» ha detto uno dei detective. Era stato quel terzo proiettile, hanno aggiunto, a fare i danni più gravi, colpendomi alla parte inferiore del petto. Al cinema, mi hanno spiegato, la gente mira al cuore. Non è una brutta idea, ma il cuore è protetto dalle costole; nella vita reale spesso si producono danni peggiori mirando all'addome, nella speranza di spappolare un rene o ancora meglio il fegato. E anche se si mancano quegli organi, hanno proseguito, si provoca un'emorragia tale che c'è una buona possibilità che la vittima muoia prima che arrivino i soccorsi. Cercavano di mettermi paura, e ci stavano riuscendo. Poi mi hanno raccontato il resto. Anche Colin Scott era stato colpito tre volte. Ma soltanto l'ultimo proiettile, quello che l'aveva ucciso, proveniva dalla stessa arma misteriosa che aveva centrato il mio addome dal buio. Le prime due pallottole che l'avevano colpito erano state sparate da un'arma diversa. Altri due proiettili estratti dalle lapidi vicine al luogo dello scontro provenivano dalla medesima pistola. Un'ipotesi, hanno detto i detective, è che il cecchino segreto nascosto nel buio avesse finito le munizioni ed estratto una seconda arma. Un'altra è che quella sera al cimitero ci fossero non quattro ma cinque persone: Dana, io, Scott e due sconosciuti. Sbalordito, ho detto loro parte della verità: che avevo visto soltanto le fiammate degli spari e che mi ero reso conto di essere stato colpito soltanto
quando mi ero accasciato. Loro hanno scrollato le spalle e se ne sono andati, non rivolgendomi mai la domanda giusta. Mi sono appisolato, interrogandomi sulla dicotomia fra caso e intenzione. Quando mi sono risvegliato c'era Mariah accanto a me, e ora la sto guardando, vivace e matura, decisamente ricca con i suoi jeans firmati e il suo maglione da sci, un soffio di regalità in visita alla corsia dei cittadini comuni. Piange a causa mia, e mi sta dicendo che i suoi figli mi considerano un eroe. «Cosa ci fai qui?» riesco a gracchiare. «Mi ha avvertito la tua preside.» «No, voglio dire... insomma, hai appena messo al mondo una bambina.» «Non posso lasciarti solo un minuto» singhiozza, ma ridendo al tempo stesso. «Io comincio il travaglio e tu ti fai sparare.» «Come sta la bambina?» «La bambina è bellissima. È perfetta.» «E quanto tempo ha? Due giorni?» «Quattro. Sta bene, Tal. È meravigliosa. È giù in macchina con Szusza. Anzi, fra poco la sua mamma dovrà andare ad allattarla.» Mariah sorride fra le lacrime. «Ma guardati» sussurra torcendosi le mani in grembo. «Guardati.» «Sto bene. Non saresti dovuta venire, davvero.» Soffoco un colpo di tosse, perché tossire fa male. Molto male. «Voglio dire, sono felice che tu sia qui, piccola, ma... be', non dovevi lasciare tua figlia a causa mia.» Non voglio che capisca quanto sono commosso. Mi troverò anche nel reparto di terapia intensiva, ma sono pur sempre un Garland. «Be', no, forse se ti avessero sparato una sola volta, o magari due, sarei rimasta a Darien. Ma Tal, hai sempre puntato troppo in alto. Dovevi farti sparare tre volte!» Riesco a sorridere, più per Mariah che per me. Ricordo che, quando mia madre stava morendo, Mariah si era assunta il compito di offrire qualche parola di conforto a ogni visitatore ammutolito che passava da Vinerd Howse a porgere i suoi ormai ultimi saluti. Dedico un pensiero a mio fratello, chiedendomi come mai ci sia soltanto Mariah, ma Addison non si era presentato neanche alle udienze per la nomina del Giudice: a lui piacciono soltanto i finali allegri. «Immagino che tu abbia abbastanza da fare» dice Mariah indicando la mia scacchiera tascabile e il mio computer portatile allineati accanto al let-
to. Sorrido come un bambino a Natale. Lascio riposare la voce e faccio un gesto. Mia sorella mi apre il portatile sul tavolino, che ruota sopra il letto, e lo accende. "Grazie" mimo con le labbra mentre Windows mi dà il suo allegro benvenuto. Li ha portati Kimberly, dice Mariah. «Pensava che li avresti voluti.» Gentile, da parte sua, ma anche esasperante. «Kimmer mi sta lasciando» dico a mia sorella in tono piatto, ma devo ripeterlo tre volte prima che le parole siano chiare. Mariah ha la buona grazia di apparire imbarazzata dalla risposta. «Credo che lo sappia tutta la costa orientale» osserva con voce commiserevole. Poi si rallegra. «Ma è meglio così. Sai cosa mi diceva la mamma quando un ragazzo mi spezzava il cuore? Che il mare è pieno di pesci.» Chiudo gli occhi per un istante. Se un ospedale è una prigione, questa è la mia condanna: sentire mia sorella asserire che senza la madre di mio figlio vivrò meglio. «Io l'amo» replico, ma così piano che dubito lei mi abbia sentito. «Fa male» aggiungo, ma molto al di sotto della portata dell'orecchio umano. «Non mi è mai piaciuta» insiste Mariah, troppo turbata per badare a qualsiasi voce che non sia la sua. «Non era giusta per te, Tal.» Per un momento siamo entrambi soli, poiché la mia famiglia non ha gli strumenti emotivi per sostenere coloro che ne hanno bisogno, quantomeno se coloro che ne hanno bisogno sono parenti. Poi apro gli occhi e guardo mia sorella. Ha abbassato lo sguardo in grembo, dove agita nervosamente le dita. Ha qualcos'altro in mente. «Che succede, piccola?» bisbiglio, poiché al momento i bisbigli sono l'unica musica che la mia voce è in grado di modulare. «Forse non è il momento giusto...» «Mariah, di che si tratta?» Il rapido aumentare della paura inietta una punta di energia nella mia voce. «Non puoi presentarti qui e non dirmelo. Cosa c'è?» «Addison se n'è andato.» «Andato?» Panico. Ricordi di spari. E un'impennata, senza dubbio, nell'apparecchio azzurro che registra i miei battiti cardiaci. Probabilmente mi drizzerei a sedere, se non fossi mezzo morto e legato al letto. «In che senso, andato? Non vorrai dire... non è...» «No, Tal, no. Niente del genere. Dicono che sia fuggito all'estero. Da
qualche parte in America Latina. Stavano per arrestarlo, Tal.» «Arrestarlo? Per cosa?» Ma sono di nuovo esausto, la mia voce è fievole e secca, e devo ripetere la domanda diverse volte con Mariah sempre più vicina prima di farmi capire. «Frode fiscale. Non ne sono sicura, a dire il vero. C'è di mezzo un bel po' di denaro. Non conosco i dettagli. Ma lo zio Mal dice che qualsiasi cosa sia, l'hanno scoperto soltanto grazie ai controlli.» «I controlli?» «Lo sai, Tal. Su Kimberly.» Pronuncia il nome in tono mordace, a insinuare che se mia moglie non avesse fatto di tutto per aggiudicarsi la nomina gli imbrogli finanziari di Addison, qualsiasi cosa siano, non sarebbero mai stati smascherati. La colpa della rovina di Addison è di mia moglie, così come quella della rovina del Giudice era di Greg Haramoto. Nessuno dei due è crollato a causa dei suoi demoni. Nell'America odierna, e di sicuro nella famiglia Garland, la colpa non è mai della persona che compie il misfatto. È sempre della persona che fa la soffiata. «Oh, Addison» sussurro. Se non altro, so perché stava cercando terreni in Argentina. E cosa lo spaventava. «Solo Alma sostiene che abbia una ragazza da quelle parti. Ma, da come lo dice, temo che potrebbe essere sua moglie.» Forse è l'effetto dei farmaci, ma nel sentire questo sono costretto a ridacchiare. Povera Beth Olin! Povera Sally! Povera chiunque-fosse-lasettimana-scorsa! Poi mi rendo conto che potrebbero passare anni prima di rivedere mio fratello, e mi sento mancare. Oh, quali rovine si è lasciato dietro il Giudice! «Stai bene, Tal? Vuoi che chiami l'infermiera?» Scuoto la testa, ma lascio che Mariah mi dia un goccio d'acqua. Poi: «Qualcuno ha avuto sue notizie? Di Addison?». «No» risponde Mariah, ma il modo in cui distoglie lo sguardo dal mio trasmette il messaggio opposto. Poi, improvvisamente allegra, cambia discorso: «Ah, indovina un po'? Abbiamo ricevuto un'offerta incredibile per la casa». «La casa?» «In Shepard Street.» Sto perdendo colpi, il che potrebbe spiegare la mia confusione. «Non... non sapevo che fosse... in vendita.» «Oh, non lo è, ma sai come sono fatti gli agenti immobiliari. Vengono a
sapere che è morto qualcuno e mettono insieme una lista di acquirenti ancora prima che venga letto il testamento.» Mariah fraintende la preoccupazione che mi legge in faccia. «Non ti agitare, piccolo, l'ho rifiutata. Ho ancora una quantità di carte da esaminare.» Le faccio cenno di avvicinarsi. «Chi... di chi era l'offerta?» riesco a chiedere. «Oh, non lo so. Gli agenti non te lo dicono, sai com'è.» Malgrado sia troppo debole per spiegarlo, considero questo sviluppo più inquietante di quanto non faccia Mariah. «Devi scoprire chi» bisbiglio, troppo piano perché mia sorella capisca. Mariah comincia a parlare di Sally, che si trova nel lussuoso centro di recupero nel Delaware, ma io non riesco a connettere. La mia mente vuole un po' di riposo. L'infermiera entra decisa per aggiungere dell'antidolorifico alla flebo, dopodiché tutto diventa un po' nebbioso. Quando mi risveglio, Mariah se n'è andata ma al suo posto c'è la Cara Dana Worth. È la prima volta che la rivedo da... quanto è passato dalla sera al cimitero? Tre giorni? Quattro? Gli ospedali, come le prigioni, cancellano dal nostro organismo il senso naturale del passaggio del tempo. Indossa un abito, cosa che fa di rado, e sembra alquanto seccata. Forse è domenica ed è passata a trovarmi prima di andare a messa in quella chiesa metodista che adora tanto. Sopra il vestito indossa un cardigan bianco e porta un paio di scarpe dello stesso colore: ha un aspetto terribilmente "piccola città del Sud". Ha il braccio destro appeso al collo: un osso, spiega, è stato scheggiato da un proiettile di rimbalzo. «Quante facoltà di legge hanno due membri che vengono presi a pistolettate nella stessa sera?» mi stuzzica. Mi sforzo di ricambiare il suo sorriso. «Non sono riuscita a raggiungerlo» prosegue la Cara Dana serrando i pugni minuscoli. Mi rendo conto che è infuriata con se stessa. «Mi dispiace, Misha.» «Non c'è problema» mormoro, ma la mia voce è ancora più debole di prima e mi chiedo se Dana mi abbia sentito. «Poi sono tornata a vedere come stavi e c'era tutto quel sangue...» La faccio smettere con un gesto della mano. Non voglio sapere dell'eroismo con cui si è precipitata giù dallo stesso condotto di scarico che stavo cercando, di come ha requisito un telefono dell'emporio - magari lo stesso usato da Kimmer! - e ha atteso l'arrivo dell'ambulanza, della polizia e di Samuel con le chiavi del cancello, di come li ha guidati nel cimitero mettendo a tacere i loro dubbi e le loro domande mentre la processione ser-
peggiava lungo i vialetti bui, o della frenesia con cui i paramedici si sono messi al lavoro su di me, trasportandomi fuori dal cimitero più morto che vivo. Non voglio sentirlo, in parte perché sono già stato informato in modo frammentario - da Mariah, dal dottor Serra - e in parte perché in questo momento non riesco a pensare all'eroismo di Dana. E lei, con la sua acuta comprensione, avverte subito la mia riluttanza e cambia discorso. «In facoltà fanno tutti il tifo per te» asserisce stringendomi le dita come fa la gente quando vuole farti capire che è sinceramente rattristata. Forse gira voce che il professor Garland non ce la farà. «Gli studenti vogliono sapere cosa possono fare. Donare il sangue, qualsiasi cosa. E la preside vuole farti visita.» Proprio quello di cui ho bisogno. Scuoto stancamente il capo. «E... e l'ultimatum?» riesco a chiedere. «Stai scherzando? A questo punto non oserebbero mai licenziarti. Siamo famosi, Misha, siamo finiti su tutti i giornali.» Fa un sorriso, ma è forzato. Le indico il braccio, bisbiglio che mi dispiace. «Non c'è problema.» Mi dà qualche colpetto sulla mano. «La mia vita non è mai così eccitante.» «Non avresti... non avresti dovuto...» «Lascia stare, Misha.» «Hanno... ci sono...» Non riesco ad aggiungere altro, ma Dana ha recepito il messaggio. Prima di azzardarsi a rispondere scocca un'occhiata verso la porta. «Sì, Misha, ha funzionato. Per quanto ne sappia, l'hanno bevuta. E meno male.» Mi agita un minuscolo dito davanti al volto. «Sei in debito con me, signorino, e quando uscirai di qui...» Non termina la frase. Sorride. La verità è che la Cara Dana è una persona completa. Ha quasi tutto ciò che vuole. Non le viene in mente nulla che potrebbe chiedermi, neanche per scherzo. Qualsiasi cosa le manchi, va a cercarla nella sua piccola chiesa metodista, e fornirgliela è un problema di Dio, non mio. Sospira e scrolla le spalle. «In ogni caso, ha funzionato.» Mimo un "grazie" con le labbra, e malgrado stia cedendo di nuovo al sonno cerco di aggiungere: "Spero che tu abbia ragione". Dana è improvvisamente imbarazzata, o forse è stufa di cercare di rallegrarmi. Qualunque sia la ragione si alza, mi sfiora la fronte con le labbra, mi preme le dita sulla mano e indossa il soprabito. Giunta alla porta si volta ancora a guardarmi. «Mi dispiace di non averlo preso» ripete mentre io
scivolo verso l'incoscienza. Cerco di dirle, anche se dubito che le mie labbra formino parole vere e proprie, che sono abbastanza sicuro che il lui che continua a scusarsi di non aver preso, la persona che mi ha sparato la terza pallottola, fosse in realtà una lei. Non conosco il suo vero nome, ma la prima volta che l'ho vista calzava un paio di pattini. «Oggi hai un aspetto molto migliore, tesoro» sussurra la donna con cui sono sposato da nove anni, anche se lei non mi considera più suo marito. «Saranno le flessioni» riesco a emettere dalle labbra screpolate. Ma sono seduto a letto, e posso addirittura bere liquidi con la cannuccia. La mia mascella dolorante è sigillata con del filo di ferro. Il dottor Serra sostiene che me la sono fratturata, ma io non ricordo quando. Kimmer mi rivolge uno dei suoi leggeri, affettuosi, segreti sorrisi. Mi versa dell'acqua da una caraffa e mette il coperchio di plastica sul bicchiere. Poi si sporge sopra di me e mi infila la cannuccia in bocca per farmi bere. Guardarla muoversi è doloroso. Il taglio severo e professionale del completo nero e della camicetta écru non riescono a nascondere la sua pigra sensualità. Da quando mi ha allontanato dalla sua vita, una settimana fa, Kimmer sembra essere rifiorita. In questo momento è una donna eccezionalmente felice. E perché non dovrebbe esserlo? È libera. «Basta così?» mi domanda tornando a sedersi. Annuisco. Lei sorride. «Il dottore dice che presto ti rimetteranno in piedi.» «Magnifico.» «Quando ti dimettono, se vuoi puoi venire a casa» dice sorridendo, ma anche nel torpore indotto dai farmaci riesco a riconoscere la trappola. Kimmer non mi sta proponendo di provare a ricostruire il nostro matrimonio; mi sta semplicemente offrendo un luogo in cui riprendere le forze, casa sua, grazie alla sua condiscendenza, cosicché io sia debitore nei suoi confronti. «Potrei farti da infermiera, come al cinema.» Ce la sta mettendo tutta, devo concederglielo, ma è un'offerta che non posso accettare, e lei lo sa bene. E così mi limito a fissarla, e alla fine mia moglie smarrisce il suo sorriso, abbassa gli occhi e cerca un argomento meno controverso. «Non riconosceresti mai Bentley. Sta diventando così alto. E parla così tanto.» Come se mancassi da mesi o anni, e non fossi in ospedale soltanto da quattro o cinque giorni. «Mmh» rispondo.
«Nellie non si avvicina alla casa» aggiunge piano Kimmer, riconoscendo per istinto i miei timori. «Non ti farei mai una cosa simile, Misha. Non la farei mai a nostro figlio.» Mi chiedo se ci sia una sola parola di verità in tutto questo. Kimmer è un ottimo avvocato: che cosa intende per "avvicinarsi"?, mi domando argutamente. «Mi dispiace per quello che è successo» dice Kimmer qualche istante dopo, tenendomi la mano nelle sue. I suoi occhi sono velati di pianto. Le carezzo le dita. «Anche a me» le assicuro. «Non capisci.» Sembra pronta a riprendere la discussione che ha già vinto, anche se non riesco a immaginare il perché. «Non adesso» la imploro chiudendo gli occhi. Tutto ciò che riesco a vedere è il volto radioso di Bentley. «Non è che non ti ami, Misha» insiste Kimmer con tristezza, sospingendo il mio cuore sempre più vicino al precipizio. «Ti amo, davvero. È solo che non... che non posso... non lo so.» «Kimmer. Per favore, non farmi questo.» Scuote il capo. «È così complicato!» sbotta, come se la mia esistenza fosse più semplice della sua. Ma forse aveva ragione la povera Sally. Magari lo è. «Non sai cosa significhi essere me!» «Va tutto bene, Kimmer» sussurro con nessun risultato apparente. «Va tutto bene.» «Non va affatto bene! Ci ho provato, Misha, davvero!» Mi punta contro un dito affusolato. «Volevo fare la cosa giusta, Misha, davvero. Per te, per i miei genitori, per nostro figlio... per tutti. Ho cercato di essere quella che volevi, ma tu sei diventato troppo strano. O forse lo sono diventata io. In un modo o nell'altro, non ero più in grado di essere quella persona. Mi dispiace.» «Va tutto bene» le dico per la terza volta, o forse per la trentesima. Lei annuisce. Il silenzio si protrae. L'infermiera rientra per compiere una di quelle operazioni invasive ma necessarie che compiono le infermiere e chiede a quella che presto sarà la mia ex moglie di aspettare fuori. Kimmer si asciuga le lacrime, si alza e dice che deve andare in ogni caso. Mi bacia dolcemente sull'angolo della bocca e raggiunge la porta con passo orgoglioso; poi si ferma, si volta e mi offre un mezzo sorriso e un quarto di saluto con la mano, e durante tutto ciò sembra alta e forte, incredibilmente desiderabile e per niente mia.
«Lei è un uomo fortunato» osserva l'infermiera. La cosa strana è che, dalla profondità dei miei innumerevoli dolori, sono d'accordo con lei. 53 ARRIVA UN ALTRO AMICO Il quinto giorno dopo l'intervento chirurgico sono in grado di alzarmi dal letto e passeggiare per cinque minuti. Tre giorni dopo scambio l'aiuto delle infermiere con il sostegno di due stampelle di metallo. Poi tocca alle streghe della riabilitazione contribuire alle mie torture mediche, ridendo e blandendomi mentre soffro e per poco non muoio di nuovo. Dopo nove giorni di rudi trattamenti, i dottori riconoscono di malavoglia che sono quasi pronto a tornare a casa. È il momento che tanto temevo. Come faccio a dire ai medici che non ho una casa in cui tornare? Non ho intenzione di mettere piede a Hobby Hill, cercando di vivere sotto lo stesso tetto, seppure momentaneamente, con una moglie che non soltanto mi ha cacciato via ma che ha avuto, e che potrebbe ancora avere, una relazione con uno dei miei studenti. Dana si è offerta di ospitarmi per il tempo necessario, ma dal modo in cui lo dice riesco a capire che Alison è contraria. Rob Saltpeter mi invita a stare con la sua famiglia, e io sono tentato dalla tranquilla stabilità che regna in casa sua, ma non voglio essere di peso a Rob e alla sua straordinaria moglie Sara. Don e Nina Felsenfeld, esercitando ancora l'arte dell'hesed, mi hanno offerto la loro camera degli ospiti, ma vivere così vicino alla moglie che non mi vuole più sarebbe una lenta tortura. Lo zio Mal mi fa sapere che sarei il benvenuto nella sua casa di Vienna, in Virginia, ma io non lo richiamo. Dean Lynda non mi offre ospitalità, ma al telefono mi suggerisce di prendermi il resto del semestre di vacanza. E stavolta lo dice con gentilezza. Con l'aiuto occasionale dell'infermiera White mi dedico finalmente ai biglietti di auguri accatastati sul davanzale della finestra. Molti provengono dai soliti sospetti - membri della facoltà, studenti e sparuti componenti della famiglia - ma c'è anche qualche sorpresa, fra cui un paio inviati da amici del college che non vedevo da anni e che devono aver saputo della sparatoria al telegiornale, visto che la notizia è stata ripresa un po' ovunque. Ci sono fiori da parte di Mallory Corcoran e della facoltà di legge, un biglietto di Wallace Wainwright e perfino uno del sergente Bonnie Ames.
E un altro, con il timbro postale del Miami International Airport, mi fa venire un colpo, poiché sul bordo inferiore, con una grafia decisa ma femminile, c'è scritto: "Spiacente, Misha. Il lavoro è lavoro. Lieta che tu stia bene. Con amore, M". Chissà perché, dubito che provenga da Meadows. Guardo fuori dalla finestra e cerco di conciliare due immagini, una dolce passeggiata serale a Martha's Vineyard e il terzo proiettile che per poco non mi ha ucciso nell'Old Town Burial Ground. Morris Young passa spesso a trovarmi, parlandomi della provvidenza divina e di ciò che la Bibbia dice sulla fine dei matrimoni. Dio preferisce che proseguano fino alla morte, spiega, ma ci perdona, se ci mostriamo pentiti, quando falliamo nell'impresa di fare la sua volontà. Il suo messaggio non lenisce la mia sofferenza. Tre giorni prima che l'ospedale mi dimetta, un'impiegata della contabilità viene a farmi firmare un grosso fascio di carte. Ho finalmente l'opportunità di sapere come mai ho trascorso la mia intera degenza in una stanza privata. Mi mostra il modulo di ammissione: a pagare sono Howard e Mariah Denton. Suppongo che avrei dovuto saperlo. Sto per chiamare Howard per ringraziarlo di malavoglia quando Mariah fa di nuovo irruzione in camera, per dirmi che sembro pronto ad affrontare un viaggio e informarmi che quando il "gran giorno" arriverà la sua Navigator sarà giù ad aspettarmi, offrendomi spazio in abbondanza per stendere le gambe durante la trasferta fino a Darien. Ci rifletto. Una foresteria tutta per me, spazio per passeggiare sui loro tre ettari di boschi, una donna di servizio a mia disposizione, probabilmente un'infermiera diurna e un fisioterapista per farmi riprendere. E Mariah a cui dar retta dalla mattina alla sera, e cinque - no, sei, adesso - bambini in cui inciampare. E tanti chilometri di distanza dal mio Bentley. «Grazie» dico a mia sorella, sconcertato dal modo e dalla rapidità con cui le mie alternative sembrano essersi ridotte. Il pomeriggio successivo passa a trovarmi l'agente speciale Nunzio, e io capisco che stanno per ridursi ulteriormente. «Non posso dirle tutto» ammette tristemente, come se volesse poterlo fare. «Ma qualcosa può dirmela?» «Dipende da quello che vuole sapere.» «Cominci con le menzogne» suggerisco. Nunzio si passa una mano ruvida fra i lustri capelli corvini. Quando par-
la, distoglie parzialmente il volto. Non vorrebbe essere qui. Mallory Corcoran deve aver fatto ricorso a tutto il suo potere per ottenere che l'Fbi inviasse un agente da Washington allo scopo di mettermi al corrente. D'altra parte, lo zio Mal mi è debitore. Oh, se mi è debitore! «Nessuno le ha mentito nel vero senso della parola, professor Garland» comincia Nunzio. Siamo tornati ai toni formali. «Ah, no? Be', tanto per cominciare l'ha fatto lei.» «Io?» Annuisco. Sono di nuovo seduto in poltrona davanti alla finestra, e il sole mi riscalda la nuca. «Non è stata una coincidenza che proprio lei sia venuto a interrogarmi sui due finti agenti dell'Fbi che si erano presentati in Shepard Street. Se non fossi stato troppo occupato a pensare al resto, l'avrei capito subito. Il Bureau si è mosso rapidamente, non le pare? Ma non è stato a causa di quella visita. La ragione è che già sospettavate che uno dei finti agenti fosse Colin Scott. L'avevate perso di vista, non è vero? E avevate bisogno di me per ritrovarlo.» Nunzio fissa le apparecchiature mediche allineate accanto al letto. «Forse è andata più o meno così.» «No, è andata esattamente così. Devo essere un idiota per non essermene accorto prima. Non ha mai nemmeno cercato di scoraggiarmi. Non mi ha mai detto che ero ammattito. Non mi ha mai detto di lasciarla in pace. Io la chiamavo con le teorie più deliranti, e lei le prendeva sul serio. Perché voleva che continuassi a cercare. Voleva che trovassi Scott per conto suo.» «Forse.» «Per questo Bonnie Ames mi ha fatto tutte quelle domande sulle disposizioni. Erano domande sue, non del sergente Ames, ma lei non voleva interrogarmi ufficialmente sulle disposizioni di mio padre perché avrei potuto insospettirmi. E così l'ha fatto fare a lei.» «È possibile.» «È possibile. Già. E tutto perché voleva che attirassi Colin Scott allo scoperto. Un assassino.» «Lei non ha mai corso alcun pericolo» sospira Nunzio, ammettendo finalmente l'assunto principale. «È quello che tutti continuano a ripetermi. Ma guardi qui.» Sollevo il camice ospedaliero per mostrargli le bende sul mio addome. Lui non trasalisce. Ha visto di peggio. «Mi dispiace, professore. Davvero. Forse avremmo dovuto offrirle una protezione più ufficiale. Ma la controllavamo periodicamente. Lei non lo
sapeva, ma tenevamo gli occhi aperti. Poi, quando Scott è morto - quando tutti hanno creduto che fosse morto - abbiamo pensato che lei fosse al sicuro. Abbiamo sbagliato i nostri calcoli, suppongo.» «Qualcuno di sicuro li ha sbagliati.» Raccolgo le mie esigue forze. «Ora mi parli di Ruthie Silverman.» «La signorina Silverman? Che cosa c'entra lei?» «È l'assistente del consulente legale della Casa Bianca. Lo aiuta a scegliere i giudici.» «Questo lo so. Ma non riesco a capire perché abbia fatto il suo nome.» «Sa di cosa parlo. Mia moglie non è mai stata candidata alla corte federale, non è vero? Era solo una copertura. Una copertura che vi dava la libertà di indagare sulla vita della mia famiglia fingendo di raccogliere dati su Kimmer. Una copertura che è stata opportunamente abbandonata non appena è parso che potesse impedirmi di andare a trovare Jack Ziegler.» «E che cosa avremmo dovuto coprire, per l'esattezza?» «Me lo dica lei.» Vorrei continuare a combattere, ma mi sto stancando. «Sono stufo di fare congetture.» L'agente speciale Fred Nunzio stende le braccia muscolose, intreccia le dita e fa scrocchiare le nocche. Le sue spalle sembrano troppo ampie per l'abito scuro. Un altro agente vestito in modo simile attende in corridoio l'ho visto prima - e sospetto che il fatto che Nunzio mi stia parlando da solo sia contrario al regolamento del Bureau. Il che significa che Washington vuole avere la possibilità di negare tutto ciò che mi dice. «Ha capito male, professore. La signorina Silverman non vi ha mai mentito. Nessuno della Casa Bianca l'ha mai fatto. Non erano coinvolti, non nel modo che lei sembra credere. Sua moglie era veramente candidata alla corte federale. Questo non l'abbiamo manipolato. Dubito che ci saremmo riusciti. È la Casa Bianca a dare gli ordini, ricorda? Non il contrario. Ma ne abbiamo approfittato, su questo non c'è dubbio. Ci ha permesso di... be', di addentrarci in cose su cui altrimenti non avremmo potuto indagare.» «Come le finanze di mio fratello.» Nunzio è più a disagio che mai. «Questa storia non riguardava suo fratello, professore. La definirei una... coincidenza.» «Ma davvero? Il Bureau sta svolgendo i controlli su una certa Kimberly Madison e per coincidenza scopre informazioni sui problemi finanziari di suo cognato?» «Dobbiamo seguire ogni pista» dice in tono untuoso. «No. C'è sotto qualcosa di più. Il problema non era nemmeno Colin
Scott. Lui era... era...» Non riesco a trovare la parola. Poi mi sovviene, grazie a mio padre. «Era soltanto un pezzo sacrificabile, non è vero? Esattamente come me. Un pedone nero e uno bianco.» Nunzio ignora la mia ultima frase. «Colin Scott era un uomo malvagio, signor Garland. È quello che facciamo al Bureau, diamo la caccia agli uomini malvagi.» «Ma davvero? Allora è stata l'Fbi a sparargli nel cimitero?» «No, naturalmente» risponde Nunzio con troppa rapidità. Ma non penso che stia mentendo nel vero senso della parola. Semplicemente, non mi sta dicendo l'intera verità. L'Fbi potrebbe anche non aver ucciso Scott, ma si è fatta un'idea abbastanza chiara di chi è stato. E non me lo dirà mai. Lo accetto: anch'io ho segreti che non rivelerò mai. Mi chiedo soltanto se il Bureau non potrebbe dirmi dov'è andata lei. Sono stanco, e le parti doloranti del mio corpo sono talmente numerose che il sistema nervoso non riesce a decidere quale segnale inviare per primo. E così li diffonde tutti insieme. I punti di sutura sul ventre mi prudono in modo orribile, ma non posso grattarli. Sono stato avvertito dal dottor Serra, che non ha intenzione di rifare daccapo tutto il lavoro. «Mi parli di Foreman» dico piano. «È uno dei vostri, giusto?» L'agente chiude gli occhi per un istante e sospira. «No, non era del Bureau. Apparteneva a un'agenzia... con cui collaboriamo.» «Era?» «Un cacciatore ha trovato i suoi resti in un bosco nel Nord dello Stato. Non era un bello spettacolo. Ha visto le foto di Freeman Bishop, giusto? Be', questo era mille volte peggio.» «Mi dispiace» mormoro, rifiutando con decisione di immaginare cosa potrebbe essere mille volte peggio di ciò che è accaduto a padre Bishop. «Foreman era un brav'uomo. Si era unito a Scott per un affare che riguardava una partita d'armi. Dove non importa. Il punto è che era riuscito a guadagnare la fiducia di Scott. O almeno così credevamo. Quando Scott è rientrato dall'estero per rintracciare le disposizioni di suo padre, si è portato dietro Foreman per farsi aiutare.» «O per tenerlo d'occhio.» Il precedente eufemismo di Nunzio indicava che Foreman lavorasse per la Cia, il che avrebbe senso anche dal punto di vista legale, se l'operazione contro Scott è davvero cominciata all'estero. «Scott potrebbe aver sospettato di lui fin dall'inizio...» «Sì, è possibile.» Nunzio scrolla di nuovo le spalle. «In ogni caso, è ovvio che a un certo punto ha cominciato a sospettare.»
«Adesso capisco. Non avevate perso di vista Scott. È Foreman che non trovavate più. Ecco perché... ecco perché...» Ecco perché lei si è fatto prendere dal panico, decido di non dire. Ecco perché ha continuato a incoraggiare la mia ricerca. Ecco perché insisteva a dirmi che non correvo alcun rischio. Sapeva che Foreman era nei pasticci, e voleva che io la portassi da Colin Scott. Lascio che i miei occhi si chiudano. Il dolore sta avendo la meglio su di me, e desidero tornare a letto. Ma devo sviscerare un ultimo argomento. «E l'obiettivo era proprio quello, non è vero? Far rientrare Scott negli Stati Uniti. Era quello lo scopo dell'operazione?» «Non sono sicuro di cosa intende dire, professore» si schermisce Nunzio. «Sì che lo è. Il Giudice... mio padre... è morto, e qualcuno doveva persuadere Scott che c'era il rischio che trapelasse qualcosa che lui non voleva far sapere.» «Ah, capisco. Sì, è giusto.» Un'altra risposta rapida, in tono evasivo. Che cosa sta succedendo? Un'altra domanda che non avrò mai più un'occasione migliore di porre. «Allora, mio padre... è stato assassinato oppure no?» Il modo in cui Fred Nunzio riflette prima di rispondere, accarezzandosi il mento e strizzando gli occhi, è già di per se stesso spaventoso. «No, professore» dichiara alla fine. «No, noi crediamo di no.» Malgrado la mia mente sia annebbiata dai sedativi, le sue parole mi colpiscono come un fulmine. «Voi credete... di no?» «Non ci sono prove di omicidio. Non c'è nessuno che potrebbe trarne vantaggio. No, siamo abbastanza sicuri che si sia trattato di un attacco di cuore come ha stabilito l'autopsia.» «Abbastanza sicuri?» Allarga le braccia. «La vita è probabilità, professore, non certezza.» Forse. Forse. Non sembra esserci più niente di sicuro. Dopo tutto questo tempo, sono ancora in alto mare. «Agente Nunzio?» «Sì, professore?» «I due uomini che mi hanno aggredito quella sera. Quelli a cui hanno mozzato le dita.» «Che cosa vuole sapere?» «Pensate che sia stato Jack Ziegler, non è vero?» «E chi altri? Stava proteggendo lei e la sua famiglia, ricorda? Mutilare i
suoi aggressori è stato probabilmente il suo modo di inviare un messaggio.» «A chi? Un messaggio per chi?» Per la seconda volta ho la sensazione di aver sfiorato informazioni che preferirebbe non rivelarmi. «A chiunque prestasse attenzione» risponde alla fine. «Ma non erano tutti al corrente del suo... del suo editto?» «Evidentemente no.» Di nuovo quel tono evasivo. «Ma se... se sapete che è stato Jack Ziegler, perché non lo arrestate?» Gli occhi di Fred Nunzio si induriscono. «Io non so che è stato lui, professor Garland. Nessuno sa mai per certo che è stato lui a fare qualcosa. No, non è esatto. Lo sanno tutti, ma nessuno sa come lo sa. Non ci sono mai prove, quando c'è di mezzo suo zio Jack.» Probabilmente mi lascio sfuggire un grugnito. L'agente Nunzio non lo apprezza. «Cosa sa di preciso su suo zio Jack?» «Quello che leggo sui giornali.» «Be', lasci che le spieghi una cosa. Lasci che le dica come mai la sua parola era sufficiente a proteggerla. Lei sa di preciso come si guadagna da vivere Jack Ziegler?» «Posso immaginarlo.» «No, non può immaginarlo. Mi permetta di dirglielo. È quello che si potrebbe definire un intermediario, un uomo in grado di gestire un'operazione in Turchia per conto di... che so, di Cali in Colombia. Tutti si fidano di lui, perché se mentisse pagherebbe con il sangue. Il suo compenso è una percentuale sul valore dell'affare. Immagino lo si potrebbe definire un banchiere d'affari della malavita. Calcoliamo che il suo reddito annuale si aggiri sui venti, venticinque milioni di dollari.» «E allora come mai non è in prigione?» Un altro colpo d'incontro. «Perché non possiamo provare nulla.» Cerco di analizzare l'immagine di un uomo che vive sul valore della propria parola in un mondo pericoloso, un uomo le cui promesse sono rispettate a tal punto che può... Oh! Malgrado tutto, un sorriso mi contrae gli angoli delle labbra. «Che succede, professore? Cosa c'è di divertente?» «Niente, niente. Io... Senta, questi discorsi mi hanno provato. Devo coricarmi, Mi aiuterebbe a tornare a letto?»
«Mmh? Oh, certo.» Nunzio mi permette di appoggiargli un braccio sulle spalle muscolose e un po' mi sorregge, un po' mi trasporta sul lettino per bambini promosso a letto d'ospedale. Durante il tragitto butto lì un'altra domanda: «Ma come mai Colin Scott era tanto importante? Perché montare un'operazione per farlo tornare negli Stati Uniti?». Nunzio esita. «Mi lasci indovinare. Non è necessario che io lo sappia, giusto?» «Mi dispiace, professore.» «Non c'è problema.» Mi distendo e premo il pulsante per chiamare l'infermiera, che compare un istante dopo e comincia a sistemare le lenzuola e a collegare i sensori. «La scatola» sussurro mentre l'infermiera svolge il suo lavoro. «Avete trovato chi l'ha presa?» «Non ancora.» Il tono di Nunzio è feroce e determinato. Mi rendo conto che il modo in cui le cose sono andate gli procura imbarazzo. «Ma ci riusciremo.» «Lo spero.» Mi guarda. Qualcosa nella mia voce, mi preoccupo per un istante, ha tradito il mio gioco. «Come l'ha capito?» domanda. «Il messaggio di suo padre, voglio dire. Cosa le ha fatto pensare al cimitero?» «Gli avevo raccontato... a mio padre, intendo... una storia sul cimitero. Molto tempo fa. Una storia personale. Forse ha creduto che avrei capito immediatamente che... che intendeva il cimitero. Non lo so. Me n'ero... immagino che l'avessi scordato.» L'espressione sul volto duro dell'agente Nunzio non mi piace. Crede che stia nascondendo qualcosa, ed è vero. «E cosa gliel'ha fatto tornare in mente?» domanda con scaltrezza. È l'interrogativo giusto per smascherare la mia menzogna, se non fosse che ho già la risposta pronta. «I due scacchi» dico in tono stanco. «Uno consegnato all'interno della facoltà di legge, l'altro fuori.» «E allora?» «Un pedone bianco e uno nero... separati dalle mura della facoltà di legge. Mio padre ripeteva sempre...» Sbadiglio. La mia stanchezza non è una finta. «Diceva che le mura ci separavano... separavano le due nazioni anche nella morte.» «Non capisco.»
«Un tempo, l'Old Town Burial Ground aveva una zona delimitata sul retro... una sorta di cimitero nero all'interno del cimitero... e il... mio padre amava andarci a passeggiare.» Nunzio mi scocca un'occhiata da poliziotto, scettica e paurosa. Ma mi manca l'energia per esserne intimidito. Lo scruto attraverso le nebbie del dolore e della stanchezza. «È stato bravo, professore» dice alla fine. «Grazie» mormoro, tornando a rilassarmi. «E grazie di essere venuto.» «Oh. Oh, prego. Piacere mio.» Ed è contento, lo so: contento di essersela cavata a buon mercato. Lo guardo uscire dalla stanza, sorridendo fra me mentre il mio corpo scivola nel sonno. Non lo sa, mi dico, deliziato dalla mia stessa furbizia. Non lo sa nessuno eccetto Dana. Abbiamo ingannato Colin Scott, abbiamo ingannato Maxine e abbiamo ingannato perfino l'Fbi. La scatola per cui Colin Scott è morto e per la quale io e la Cara Dana siamo stati quasi uccisi non ha alcun valore. L'involto all'interno era vuoto. Lo so perché erano state queste le istruzioni che avevo dato a Dana un mese fa quando, impossibilitato ad agire in prima persona poiché ero pedinato, le avevo chiesto di comprare una scatola di metallo e seppellirla per me. 54 UN RITORNO VACILLANTE Non ci rendiamo conto di quanto ci tenga occupati una famiglia finché non ne abbiamo più una. Il giorno in cui esco dall'ospedale passo a trovare Bentley per un paio d'ore, giocando nel giardino sul retro della casa di Hobby Hill mentre Kimmer lavora in cucina. Le mie valigie sono pronte nell'atrio: Kimmer e Mariah le hanno preparate insieme in un raro momento di tregua nel quale ognuna delle due non vedeva l'ora di ottenere ciò che voleva. I Felsenfeld passano a salutare ma anche, ne sono sicuro, a mantenere la calma. Quando i nostri vicini se ne sono andati, mia moglie e io abbiamo un'ultima discussione, in ricordo dei bei tempi andati. Forse sono io a cominciarla, ma Kimmer di sicuro la conclude. Siamo in cucina, chiacchierando come se fosse una giornata qualsiasi, quando esauriamo gli argomenti di conversazione e io dico finalmente quello che qualsiasi coniuge nella mia posizione deve dire: «Non capisco, Kimmer. Davvero, non capisco». «Cos'è che non capisci?» Avverto la sua ostilità in ebollizione; è cresciuta dalla prima visita all'ospedale, forse perché la mia partenza imminente
rende all'improvviso reali tutte le nostre decisioni. «Che cosa ci vedi in lui. In Lionel.» «Tanto per cominciare» risponde lei con calma «mi fa fare cose che a te neanche verrebbero in mente.» «Quali cose?» domando stupidamente; è un'iniziativa sbagliata, e spreco la mia ultima possibilità, la mia ultimissima possibilità di riconquistarla, ma probabilmente è troppo tardi in ogni caso. Oltretutto, il mio cervello è troppo occupato per mostrare cautela. Bizzarre pratiche sessuali, penso. Passeggiate a piedi nudi nella neve. Droghe. «Cose come leggere!» sbotta Kimmer, sbalordendomi. «Nellie non è come te, Misha. Non pensa di essere due volte più intelligente di me.» Per poco non le chiedo - ci arrivo vicino, ma mi trattengo - come mai, se io sono due volte più intelligente di lei, lei guadagna due volte più di me. La verità è che non ho mai pensato di essere più intelligente di Kimmer, ma lei è sempre stata convinta che io lo credessi. La prima volta che si innamorò di me (o qualsiasi cosa fosse ciò che provava) mi disse che ammirava quella che definì la mia brillantezza. Quando le risposi che non ero particolarmente brillante, si irritò e mi accusò di falsa modestia. Fra l'altro, è stata abbastanza intelligente da rendersi conto che non poteva nascondere la sua relazione, facendomi credere che il suo amante fosse Jerry Nathanson. «E pensi veramente che questa, ehm, relazione sia... seria?» «Non è una relazione» mi corregge Kimmer con la precisione dell'esperta. «È qualcosa che è successo, tutto qui. Una di quelle cose. Lui dice di amarmi, ma io penso che probabilmente sia finita.» La sua voce è tornata ad attenuarsi e si è fatta compiaciuta; ho la sensazione che Kimmer non ricambi l'amore di Nellie ma che lo veda come una conquista. Il grande Lionel Eldridge, che potrebbe avere tutte le donne della città, finisce con una donna di quasi un decennio più vecchia di lui. Ma so che la storia non è nemmeno tutta qui. Vedo Lionel che cova la sua rabbia nei miei confronti per quelle che gli sono sembrate ingiustizie durante il seminario dell'anno scorso, me lo immagino mentre lavora allo studio legale di Kimmer, vedendola ogni giorno nei suoi eleganti completi gessati, guardandola attraversare a passo deciso un mondo in cui lei è la star e lui il pivellino, un mondo che probabilmente non riuscirà a sottomettere, un mondo che Kimmer e io abbiamo già conquistato. Come poteva resistere alla tentazione di provarci? Ecco il professor Garland, severo fino all'esasperazione, apertamente poco impressionato dalla fama di Sweet Nellie, ed ecco la
moglie del professor Garland, Kimberly, alta e sexy, apparentemente irraggiungibile. Vedo Lionel che rimugina seduto alla scrivania in un silenzioso bugigattolo, rigirandosi l'idea in testa, facendo congetture, tramando, chiedendosi se mia moglie non sarebbe potuta diventare lo strumento con il quale ottenere la giusta dose di vendetta. Immagino i suoi approcci iniziali, molto probabilmente respinti ma senza troppa convinzione, poiché Kimmer, come mi avvertì ai tempi in cui la corteggiavo, è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. O forse la mia teoria è troppo egocentrica. Forse è stata mia moglie ad andare all'attacco. Ma forse non c'è nessuna teoria e, come dice Kimmer, è stata soltanto una di quelle cose. «È un uomo sposato» faccio notare. «Lui non l'ama, quella» replica Kimmer. Quella è la moglie di Lionel, Pony, ex modella o attrice o qualcosa del genere, e madre dei suoi due figli. «Dunque, se ne andrà di casa anche lui?» «Chi lo sa? Le cose finiranno per sistemarsi da sole.» La discussione è inconcludente perché è inutile concluderla. Torno in giardino a giocare a palla con Bentley e mia moglie riprende a dedicarsi al lavoro che è sparpagliato sul tavolo della cucina. Nel tardo pomeriggio mia sorella viene a prendermi con la Navigator. A prendere me e le valigie. In corridoio saluto Bentley. Con mia sorpresa non piange, piccolo Garland che non è altro, e mi chiedo cosa gli abbia detto di preciso sua madre. Non sta fingendo di fare il coraggioso: sembra sinceramente sereno. Kimmer non mi bacia, non mi abbraccia né sorride. Immobile nell'atrio con i jeans e il maglione scuro, non lontana dalla soglia attraverso la quale l'ho portata in braccio ridendo il giorno in cui ci siamo trasferiti in questa casa, mi ricorda tranquilla che potrò vedere mio figlio quando vorrò, e che basterà un colpo di telefono. Il vero messaggio è che sarà lei a gestire i miei contatti con lui, e vuole che lo sappia. Non mi ha ancora perdonato, anche se non è ben chiaro per cosa. Sono settimane che non va dal parrucchiere e la sua acconciatura afro si è infoltita. In questo momento Kimmer, robusta forza di blocco contro qualsiasi penetrazione in casa, la rabbia che irradia dal suo volto scuro e sensuale, mi ricorda una militante dei vecchi tempi. Dovrebbe avere un pugno levato al cielo, un cartello e uno slogan: "Date potere alle persone giuste!". Non era certo questo che dicevano i dimostranti, ma di sicuro era ciò che molti di loro intendevano. O così proclamava il Giudice nel suo deciso rifiuto della fumosa retorica estremista
della mia giovinezza. "Non sanno veramente ciò che vogliono" li accusava. "Sanno soltanto che lo vogliono subito, e sono disposti a usare 'qualunque mezzo necessario' per ottenerlo." Ebbene, Kimmer sa di certo cosa vuole, e per ottenerlo è disposta a distruggere la sua famiglia. Probabilmente ribatterebbe che proseguire per un altro istante in questo matrimonio ucciderebbe lei, e considerate le mie stramberie degli ultimi mesi non posso certo fargliene una colpa. Forse eravamo mal assortiti fin dall'inizio, proprio come la mia famiglia ha sempre sospettato. Il matrimonio fu una mia idea, tanto per cominciare: dopo un'unione così fallimentare come quella con il suo primo marito, Kimmer desiderava di meno, non di più. Ai tempi disse che la nostra era una "relazione passeggera", espressione crudele ma comoda lasciata in eredità dall'autoindulgenza degli anni Sessanta. Insisteva che non eravamo giusti l'uno per l'altra, che ognuno dei due avrebbe finito per incontrare qualcuno di meglio. Perfino quando la persuasi a diventare mia moglie, Kimmer rimase pessimista. "Adesso sei incastrato con me" sussurrò dopo la cerimonia mentre ci abbracciavamo nella limousine bianca. "È stato un grosso errore" mi ha ripetuto decine di volte nel corso degli anni riferendosi alla decisione di sposarci, di solito nel mezzo di un litigio. Eppure, quali che siano le virtù della decisione di non sposarsi perché con il tuo compagno siete una coppia mal assortita, non è così ovvio che si applichino a un matrimonio con quasi un decennio di vita e in cui c'è di mezzo anche un figlio. Avremmo dovuto impegnarci di più, mi rendo conto mentre mi si torce lo stomaco. I miei difetti sono di sicuro gravi quanto quelli di Kimmer, ma avremmo dovuto impegnarci di più. Rifletto se dirlo a voce alta, se suggerire addirittura di riprovarci, ma la durezza del bel volto di mia moglie mi rivela che lei ha già chiuso la porta a quell'idea. Il nostro matrimonio è davvero finito. «Sarà meglio andare» sussurra Mariah tirandomi per il braccio mentre io me ne sto lì a guardare mia moglie, che ricambia inflessibile il mio sguardo. «Va bene» dico piano distogliendo gli occhi, lottando contro il velo umido che li appanna, sforzandomi di comportarmi come si sarebbe comportato il Giudice, anche se il Giudice non si sarebbe mai trovato in una situazione come questa. Aspetta. Nella mia mente affiora qualcosa: il Giudice, che non si sarebbe mai trovato in un simile pasticcio, e mia moglie, ferma con aria di sfida nell'in-
gresso, e le immagini si mescolano fra loro unendosi alla mia conversazione con Alma mentre l'ultima, sorprendente tessera del puzzle si inserisce al suo posto. Mariah e io percorriamo Hobby Road, allontanandoci dalla vecchia ed elegante casa in cui ho vissuto con la mia famiglia fino alla sera in cui mi hanno sparato. Non guardo nello specchietto retrovisore, perché mio padre non l'avrebbe mai fatto. Sto già cercando di tracciare una linea come lui ha sempre predicato. Il processo sarà divertente come farsi asportare un organo, ma non è mai troppo presto per cominciare a pianificare. Eppure, ad accompagnare tutto questo, sepolta nel crepaccio più profondo della mia mente, c'è una vaga esaltazione. So chi è il ragazzo di Angela. Copriamo l'agitato tragitto fino a Darien e io trasloco nella foresteria di Mariah. Il giorno dopo sono già diventato un membro della famiglia. Per due settimane consumo pasti salutisti preparati dalla sua cuoca, passeggio sui suoi prati ben curati e nuoto nella piscina coperta, e il riposo, il cibo e l'esercizio fisico mi restituiscono le forze. Mi intenerisco davanti alla neonata. Ogni mattina e ogni sera telefono a Bentley. Gioco con gli sregolati figli di Mariah e la sera ascolto le sue sregolate teorie mentre lei salta di canale in canale alla ricerca di un altro gioco a premi. Howard non c'è quasi mai: passa le notti in città o è in viaggio per la parte opposta del pianeta. E così io e Mariah ce ne stiamo seduti sul divano di pelle nel minuscolo salottino di questa villa da ottocento metri quadri. I mobili sono sistemati con una tale perfezione che l'accesso dei bambini al pianterreno è severamente limitato. Sembra di vivere nella pagina di una rivista, e infatti Mariah mi informa tristemente che l'arredatore ha presentato le fotografie a "AD" ma che non se ne è fatto nulla. Il suo tono suggerisce che si tratta di una genuina sconfitta. Guardo mia sorella, la migliore di noi tutti, affrontare la propria solitudine nel mezzo di tutto questo benessere mentre l'au pair alleva i suoi bambini, la cuoca prepara i pasti e pulisce, il giardiniere passa ogni due giorni a curare le piante e a tagliare l'erba, la ditta di pulizie si presenta due volte alla settimana affinché ogni cosa luccichi, il commercialista telefona periodicamente per parlare di un conto appena arrivato... e mi rendo conto che in realtà Mariah non ha niente da fare. Lei e Howard hanno acquistato tutti i servizi di cui gli esponenti del ceto medio come me presumono di doversi dotare. A parte il regolare allattamento della piccola Mary, tutto
quello che le resta è fare acquisti, guardare la televisione e arredare la casa. E così comincio a portarla fuori: al cinema, al centro commerciale, zoppicando con il mio bastone a una mostra d'arte in città mentre spingiamo Mary nel passeggino e due o tre dei suoi figli ci saltellano dietro. Mariah è troppo insoddisfatta per mostrare interesse. Cerco di parlarle: dell'ultimo scandalo a Washington o del nuovo libro di Toni Morrison, la sua autrice preferita fin dai tempi dell'Occhio più azzurro. Cerco di farla parlare dei suoi bambini, ma lei scrolla le spalle e risponde che sono qui, se voglio vedere come stanno. Le chiedo come stanno andando le lezioni di golf, e lei replica indifferente che fa ancora troppo freddo. Ricordando i racconti di Sally sulle loro serate nei locali le propongo di andare a sentire del jazz, ma lei dice che non è in vena. Non c'è niente che la attiri. Sembra troppo infelice per prendersi la briga di essere depressa. Un pomeriggio, un paio di sue amiche della contea di Fairfield passano a trovarla, ricche mogli bianche che Mariah ha conosciuto in un qualche country club, esibendo la forzata magrezza dei programmi di ginnastica personalizzati e l'apatia pettegola di vite vuote come quella di Mariah. Svogliatamente sedute nella veranda coperta con il suo pavimento di lucenti piastrelle bianche e argento, sorseggiando limonata giusto perché è lì, mi fissano con palese curiosità; non tanto, mi rendo conto, perché sono stato preso a pistolettate, quanto perché sono un membro della nazione più scura. È come se per accettare Mariah nella loro cerchia segreta avessero imparato a scordare che è nera, e io svolgessi il ruolo del fantasma al loro piccolo, elegante banchetto, obbligandole a rammentare qualcosa di sconveniente di cui si erano disfatte. Mi chiedo se la loro caduta nell'agnosia conti come progresso razziale. A volte, a tarda sera, Mariah si siede in biblioteca, si collega ad AOL - i tempi di risposta sono molto rapidi, poiché lei e Howard utilizzano una linea in fibra ottica - e conversa con amici sparsi per il mondo. Osservo comparire i messaggi in tempo reale: nel cyberspazio, se non altro, Mariah non sembra sola, e forse l'anonimato della chat room è una componente di ciò che la attrae. A quanto pare conosce qualche teorico del complotto, e malgrado non abbia rivelato la sua identità, si sono scambiati ogni genere di "informazioni" sul modo in cui il Giudice è "veramente" morto. Mi mostra una chat room dedicata solo a questo. Cerco di seguire la conversazione, che riguarda testimoni che non erano presenti e prove inesistenti. Annuisco con fare saggio e rimpiango di non poter vedere cosa succede nel suo cervello torturato. Mariah è ossessionata, e il suo rifiuto di affrontare i
fatti è intenzionale. Continua a blaterare sull'autopsia, anche se sa bene quanto me che due patologi e un esperto fotografico pagati dalla Corcoran & Klein hanno confermato la versione del medico legale, secondo cui le macchioline sono tracce di polvere sull'obiettivo. Mi informa che ha inviato le foto via e-mail ai suoi cyberamici in giro per il mondo. Mi viene in mente di chiederle se uno di questi amici si nasconda in Argentina, ma lei si limita a sorridere. Howard torna a casa a cena una o due volte alla settimana, e imparando a conoscerlo comincio ad apprezzarlo. Sembra incapace di gestire i numerosi figli, ma la sua totale devozione a mia sorella mi rassicura. Dopo cena, di solito fa ginnastica in una stanza adibita a palestra, invasa dagli attrezzi più moderni, e mi invita a fargli compagnia. Guardandolo mentre solleva pesi, mi rendo conto che in fin dei conti Howard Denton non è che un bambinone cresciuto e con un gran talento per i soldi. Parla del suo lavoro perché non sa di cos'altro si possa parlare. Mariah è palesemente stufa dei suoi racconti di battaglia sulle fusioni; ma io li trovo affascinanti. Mentre ascolto rammento, con più sentimento di quanto avrei immaginato, i tempi in cui facevo l'avvocato. Mi chiedo se Kimmer e io ci saremmo mai sposati se fossimo rimasti a Washington invece di rifugiarci a Elm Harbor. Nel mio abbondante tempo libero cerco fra le scatole di appunti e documenti che Mariah ha immagazzinato in una delle sei camere da letto della casa principale, i frutti dei suoi numerosi viaggi in Shepard Street. Sono quasi tutte inutili scartoffie, ma un paio di reperti attirano la mia attenzione. In una cartella che Mariah ha chiamato "Corrispondenza incompiuta?" scopro alcune bozze incomplete di missive, fra cui quattro brutte copie di una lettera di dimissioni dallo studio dello zio Mal che risalgono all'ultimo giorno di Ringraziamento nella vita del Giudice, undici mesi prima che morisse, e un frammento di un biglietto di scuse destinato a un certo "G": "Non so se mi crederai quando ti dico che sono profondamente dispiaciuto per le sofferenze che hai dovuto sopportare a causa del tuo semplice e disadorno amore per..." e qui la lettera si interrompe. La mostro a mia sorella, e lei, lieta del mio interesse, spiega che era destinata a Gigi Walker. Non ci credo nemmeno per un istante, e non penso ci creda neanche Mariah. Se il Giudice avesse avuto intenzione di scrivere "la verità" o "la legge" dopo le parole "amore per...", la lettera avrebbe potuto essere indirizzata a Greg Haramoto. Ma quando chiamo la ditta di importazioni della sua famiglia a Los Angeles vengo informato che Greg è impegnato in un lungo viaggio all'estero e non può essere raggiunto. Chiedo il numero della sua
segreteria telefonica in ufficio e il suo indirizzo e-mail. Dopo essersi consultata con qualcuno, la centralinista rifiuta di darmeli. Una sera tardi, mentre guardiamo lo show di Letterman, dico a Mariah quello che penso e lei accetta di malavoglia di confidarmi le sue congetture: che Wallace Wainwright potrebbe avere ragione, che forse nostro padre voleva essere scoperto. Nient'altro potrebbe spiegare il motivo per cui aveva invitato Jack Ziegler, accusato di omicidio ed estorsione, al palazzo di giustizia, dove anche nel mezzo della notte qualche testimone era destinato a vederli e le visite erano necessariamente registrate. Forse voleva uscire di scena a qualsiasi costo. Forse, dice Mariah, sperava che se fosse stato accusato di aver incontrato il suo vecchio amico nessuno avrebbe scavato in quello che stava veramente accadendo. Se la seconda ipotesi è vera, i gran giurì che erano stati convocati dovevano averlo fatto tremare nel profondo. «Supponiamo che fosse corrotto» dice Mariah in tono triste. «Il giudice Wainwright ha detto che non lo era» osservo. È l'ultimo raggio di speranza. «Il giudice Wainwright non è un veggente. Mettiamo che papà fosse corrotto e avesse trovato il modo di nasconderlo al suo amico. Forse, dopo le udienze, è andato da Jack Ziegler e gli ha detto che non poteva continuare a fare... ciò che stava facendo a quelle condizioni. Jack ha parlato con i suoi soci, e loro hanno accettato che papà si dimettesse. O forse l'ha fatto per conto suo. In entrambi i casi aveva finalmente una via d'uscita.» Ci rifletto. «Se la testimonianza di Greg non fosse stata una sorpresa, la lettera avrebbe una sua logica.» Mia sorella annuisce. «Se era indirizzata a Greg, allora papà era un grande attore. Se era indirizzata a Gigi, be', è meglio che non lo sappiamo.» È vero. Ma, pensandoci bene, sono sicuro che Mariah abbia ragione per quanto riguarda Greg. Ciò significa che in quelle notti di profonda depressione di cui mi ha parlato Lanie Cross, le notti in cui si lamentava della rovina della sua carriera e chiedeva dov'era finita la lealtà, mio padre non ce l'aveva con Greg: ce l'aveva con Jack. In effetti, aveva lasciato che Greg ne pagasse le conseguenze, ma anche quella era una componente della recita. Se Mariah ha ragione, se il Giudice stava effettivamente truccando le sentenze per conto di Jack Ziegler e dei suoi amici ammettere che Greg stava dicendo il vero sarebbe stato come firmare la propria condanna a morte, o quella della sua famiglia. Ma questa risposta sembra insufficiente a catturare quella che dev'essere stata la complessità del momento. Il Giudice si
chiedeva probabilmente se avesse fatto bene a mollare tutto, a sabotare la propria nomina alla corte suprema. Parte del suo odio nei confronti di Greg Haramoto doveva essere sincera. A questo punto la neonata comincia a piangere, e Mariah deve scappare. Il mattino dopo non parlerà più del Giudice. Com'è morto, desidera intensamente scoprirlo. Come viveva, preferisce non saperlo. Venerdì mia moglie mi porta Bentley per il fine settimana, spiegandomi nei dettagli come occuparmi di lui nel tipico modo dei coniugi separati. Mi dà un bacetto sulle labbra e qualche pacca sulla schiena. Emette le esclamazioni di rito davanti alla piccola Mary, stringe mia sorella in un abbraccio indesiderato e poi torna a Elm Harbor fino a domenica, forse per fare qualcosa con Lionel, forse perché ha semplicemente bisogno di una pausa. Faccio attenzione ad allontanarmi dalla soglia, chino sul bastone, prima che Kimmer percorra come un fulmine il vialetto. Provo un gran sollievo a stringere fra le braccia il mio bambino. Ma lui sembra scontroso con me, e preferisce passare il tempo con la prole di Mariah. E così, invece di stringerlo per ore come desidererei fare, lo guardo da lontano, in giardino, in piscina, nella sala giochi del seminterrato, e il mio cuore singhiozza. Lunedì, quando Bentley è di ritorno a Elm Harbor e Mariah si trova a un evento benefico, prendo in prestito la Mercedes di mio cognato e vado alla Borders di Stamford, dove compro un numero di libri sufficiente a tenermi impegnato per un po'. Leggere è più facile che provare sentimenti. Ma faccio anche programmi. Sto pianificando come avvicinarmi al ragazzo di Angela. Non so soltanto dove si trova; capisco anche che c'è bisogno di una straordinaria cautela. Malgrado Colin Scott e Foreman siano morti, malgrado Maxine e quelli per cui lavora siano stati ingannati, là fuori c'è un altro nemico, colui che ha assoldato i miei aggressori. Chiedo a mia sorella di cercare di scoprire chi ha fatto l'offerta per la casa in Shepard Street, ma lei si scontra con un muro di gomma. Una società di capitali, è tutto ciò che dice l'agente immobiliare. Durante la colazione del mio nono giorno a Darien, Mariah mi informa che la settimana prossima avrà un'altra ospite nella foresteria, una donna divorziata che conosce dai tempi di Stanford e della sua organizzazione studentesca, una collega giornalista madre di due bambini, che rimarranno a Filadelfia nel corso di questa sua visita. «Sherry è una persona magnifica» si entusiasma «intelligente, di successo, e davvero bellissima.» Quando aggiunge timidamente che Sherry occuperà la seconda camera da letto della foresteria, capisco che a godere della visita della sua vecchia amica
dovrei essere io e non lei, che malgrado sia separato da mia moglie da neanche un mese - a seconda che si cominci a contare dall'ultimatum di Kimmer o dal giorno in cui sono uscito dall'ospedale - mia sorella sta già cercando di presentarmi qualcun'altra. Non so se essere furioso o deliziato; ma so che è giunto il momento di andarmene. Glielo dico. Mariah mi implora di trattenermi ancora un po', senza dubbio perché sono la prova vivente, con i fori di proiettile e tutto il resto, delle sue teorie del complotto. Quando insisto che devo tornare al lavoro, mia sorella si ostina a offrirmi il suo aiuto. E così passa tre giorni a scorrazzarmi per Elm Harbor e i suoi sobborghi alla ricerca di una casa in affitto, e ride in modo ostentato ogni volta che uno sciocco agente immobiliare vede la piccola nel passeggino, giunge alle ovvie conclusioni e la chiama "Signora Garland". Gli agenti rispondono alla risata, anche se non ne capiscono il motivo. Nessuno degli appartamenti che vediamo mi piace. Uno è troppo piccolo, un altro non ha vista. Un grande appartamento sul porto è troppo costoso, e Mariah, che ha già dato ampia dimostrazione di generosità, è troppo saggia per offrirmi una sovvenzione. Uno degli agenti dice di avere qualcosa a Tyler's Landing che potrebbe piacermi, ma Tyler's Landing è territorio di Eldridge e l'espressione del mio volto è sufficiente a fargli capire di passare ad altro. E Lemaster Carlyle, alla fine, a risolvere il dilemma. Entra nel mio ufficio il terzo pomeriggio della mia infruttuosa ricerca indossando uno dei suoi perfetti completi, un abito su misura di lana pettinata blu scuro con sottilissime righe chiare, completato da una camicia azzurra con le cifre ricamate, da una cravatta dai colori calendula e blu cobalto e da un paio di bretelle in tinta: un insieme che qualsiasi legale di Wall Street sarebbe felice di possedere. Le udienze per la sua nomina si terranno la settimana prossima. Sono venuto a controllare la mia posta prima che Mariah passi a prendermi e non mi trattengo più di un'ora, dunque significa che Lem mi stava cercando. Sorrido e ci stringiamo la mano. Lem non fa commenti su ciò che è accaduto al cimitero. Viene subito al punto. Ha saputo del mio problema, e forse potremmo aiutarci a vicenda. A quanto pare, lui e Julia possiedono un appartamento con vista sul mare in un complesso di Harbor Road poco distante da quello dove abita Shirley Branch. È stato il loro primo appartamento a Elm Harbor, ai tempi in cui Lem era una giovane promessa e non la superstar accademica di mezz'età che è diventato, e quando si sono trasferiti a Canner's Point il mercato era talmente fiacco
che nessuno ha fatto un'offerta seria di acquisto. Hanno cominciato ad affittarlo, e non hanno mai smesso. L'ultimo locatario, un professore di etica cristiana in visita dalla Nuova Zelanda, è ripartito in anticipo e in modo inaspettato, lasciando sei mesi di affitto scoperti. Loro hanno bisogno di un inquilino, e io ho bisogno di un posto in cui vivere. «Non so che effetto ti faccia avere un collega come padrone di casa» dice Lem con la buona grazia di non mostrarsi imbarazzato. «Ma suppongo che non saremo colleghi ancora per molto. E poi possiamo trattarti bene con l'affitto.» Ormai non mi vergogno più. Farti soffiare la moglie da uno studente ti porta anche a questo. «Quanto bene?» Lem mi dice una cifra, che riconosco come uno sconto sostanzioso rispetto alla media del mercato. Non voglio la carità, ma non ho molti soldi. Le rate del mutuo per la casa di Hobby Hill vengono detratte dal mio stipendio mensile, malgrado quello di Kimmer sia molto più alto, perché il programma universitario di investimenti in città ci faceva risparmiare due punti e mezzo sugli interessi. «Allora, che ne dici?» chiede Lem. Faccio una controfferta più bassa, tanto per rispettare le apparenze, e Lem ha l'ulteriore buona grazia di non mostrare l'irritazione che di sicuro sta provando. Ci incontriamo a metà strada e Lem mi consegna la chiave. Siamo avvocati, uno dei due sta per ottenere un seggio federale e deve quindi mostrarsi eticamente pignolo, per questo mi consegna anche un contratto d'affitto per la firma. Mentre scarabocchio, Lem prosegue a ciarlare. Lui e Julia vogliono che vada a cena da loro non appena le udienze saranno finite. Julia sta già programmando di preparare una quantità sufficiente di pasticci di carne da sfamarmi fino all'estate. Lo ringrazio. E così adesso ho un posto in cui vivere. Mia sorella emette le esclamazioni di rito, soprattutto per una vista sul mare in realtà alquanto limitata, anche se è palesemente delusa dal fatto che stia lasciando la sua foresteria e rinunciando all'incontro con la bellissima e disperata Sherry. Ma Mariah è una che sa perdere. Mi accompagna a Hobby Hill a ritirare altre cose, più che altro libri e indumenti, ma durante il giorno, quando Kimmer non è in casa. Don Felsenfeld e Rob Saltpeter mi aiutano a caricare la macchina. «Allora, adesso hai il tuo appartamentino da scapolo» dice Don ammiccando. Ma io sto pensando alla necessaria, impaziente attesa del momento
giusto per far visita al ragazzo di Angela. Vedo Bentley il più possibile, e cioè tutte le volte che Kimmer me lo consente; cosa che accade molto spesso. Parla sempre di quanto ami suo figlio, di quanto lui abbia bisogno di lei, ma anche le sue ore di lavoro fatturabili sono importanti. Kimmer non ha un'au pair, e non le serve: ha già me. Quando è in ritardo chiama domandandomi per favore se posso andare a prendere Bentley, senza mai chiedere se è un problema. Quando deve partire per una trasferta inaspettata mi telefona con non più di un'ora di preavviso e mi prega di tenerlo qualche sera. In fondo, non ho niente da fare tutto il giorno, a parte riprendermi da tre ferite d'arma da fuoco, un rene contuso, due costole incrinate e una mascella fratturata. Un pomeriggio, mentre stiamo pranzando al Cadaver's - offre lei, di questi tempi - Dana Worth borbotta che dovrei dare battaglia a Kimmer per l'affidamento di Bentley. Sono tentato di farlo, ma la verità resta quella di sempre: le battaglie legali sull'affidamento sono rovinose per le vite dei bambini, e io amo troppo mio figlio per esporlo a questo pericolo. «È proprio su questo che lei conta» osserva Dana. «Vorrà dire che questo round sarà suo» scatto, malgrado la colpa del mio dilemma non sia certo di Dana. Ieri era il compleanno di Bentley, il che ha significato regali dal papà nel pomeriggio e altri regali dalla mamma la sera. Bentley sembrava calmo ma confuso; io, indebolito dalle ferite, sono tornato a casa e ho pianto. Dana mi consola a modo suo: «Lo vedi, Misha? È qui che si sbagliano i teorici del matrimonio fra individui dello stesso sesso. Perché dovrei affrontare tutte queste idiozie?». La Cara Dana non è una seguace di quello che chiama lo stile di vita eterosessista. Mi rifiuto di lasciarmi scoraggiare. Io e mio figlio di quattro anni passeggiamo sulla spiaggia, o su quella che chiamano spiaggia a Elm Harbor, e non riesco a credere quant'è cambiato. È vero, sembra più alto. La camminata è inaspettatamente rettilinea. Lo sguardo è più diretto. E Kimmer ha ragione: non riesce a smettere di parlare. Be', non ci è mai riuscito, ma adesso all'improvviso dice cose sensate. «Oh papà guarda il gabbiano, hai visto il gabbiano papà?» Annuisco, timoroso di aprire bocca. Sento il cuore enorme nel petto, un peso caldo e doloroso. Qualche mese fa questo bambino camminava a passi incerti e le sue parole preferite erano "osa tu", e noi temevamo che fosse un po' tardo; ora assorbe il linguaggio quasi più rapidamente di quanto il mondo sia pronto a insegnarglielo.
Trascorro più tempo alla mensa gratuita. Dee Dee e io confrontiamo i nostri bastoni: dal suono che il mio produce, lei capisce che è scadente. Mi affeziono alle donne a cui servo da mangiare. So che poche di loro arriveranno a vedere un altro decennio, ma comincio ad ammirare il loro spirito di combattenti malgrado i numerosi disastri dell'esistenza, la loro abilità nel frugare ai bordi dello stato assistenziale per il bene dei loro figli, e in molte di loro una fede sorprendentemente tenace. La maggior parte di queste donne, capisco, vogliono sinceramente amare i loro figli ma non sanno come. Vado a parlare con il dottor Young per convincerlo ad accoglierne qualcuna nel suo programma "Fede Vita Mestieri". Lui sospira. Il programma ha quasi esaurito i fondi e non ha più posti liberi, ma mi dice di mandargliele e promette che vedrà cosa si può fare. «Dio provvede» gli ricordo sorridendo. «Con i suoi tempi, non con i nostri» mi corregge. Comincio a frequentare la chiesa battista e ascolto con un sorriso segreto mentre il grasso Morris Young, che ama le puntine di maiale e il pesce fritto, predica l'autocontrollo. Frequento la palestra dell'YMCA con Rob Saltpeter. Non posso correre, e a causa di numerosi muscoli doloranti attorno alle costole riesco a fatica a tirare a canestro, ma posso allenare e fare il tifo. La sera, solo nel mio appartamento, prendo l'abitudine di accendere il fuoco e mettermi a leggere di fronte al caminetto. Un pomeriggio, mentre torno zoppicando all'Oldie dalla libreria del campus, mi volto sentendomi addosso gli occhi di qualcuno, ma non vedo nulla. Il giorno dopo do venti dollari a Romeo della mensa gratuita perché mi segua attraverso il centro di Elm Harbor a un paio di isolati di distanza e controlli se qualcuno mi sta pedinando. Forse, mi riferisce quando ci rincontriamo. Forse no. Non si può che andare avanti. Marzo scivola nel passato. Torno a insegnare, leggermente impedito nei movimenti, incapace di zampettare su e giù come facevo un tempo, ma agli studenti sembro piacere di più così. Sono teso, ma a quanto pare non ne ho ragione. I miei cinquantasette studenti di diritto amministrativo, che hanno trascorso l'ultimo mese ad ascoltare le prediche di Arnie Rosen, balzano in piedi ad applaudire quando varco la soglia. Arnie sarà anche brillante, ma a me hanno sparato, e la cosa sembra conferirmi una speciale autorità. Sono così colpiti alla vista di un professore con tre fori di proiettile che non si disturbano a sollevare le loro solite, brillanti obiezioni. Quando rivolgo le mie domande vengo premiato da sguardi vacui e adoranti, come
se fossero troppo in soggezione per concentrarsi sull'argomento. E così mi dedico a curare la loro idolatria, dimostrandomi severo ed esigente come un tempo. Alla fine si rendono conto quanto sia raro che i proiettili trasformino gli uomini in santi e torniamo alla nostra solita convenzione, secondo la quale i miei studenti non mi apprezzano in modo particolare ma sgobbano come matti. Eppure ho perso un po' della mia forza, e loro sembrano avvertirlo. È come una commediola. Sai che sappiamo che non sei più quello di un tempo, mi stanno comunicando, con il sorriso dietro la loro irritazione. I miei colleghi della facoltà sono più trattenuti. Mi dicono quanto è bello rivedermi con il tono di voce alto e gentile che usiamo per comunicare con chi è duro d'orecchi, ricorrendo al volume per rassicurarci sulla nostra superiorità fisica. Alle riunioni del corpo insegnante i miei colleghi mi ascoltano con indulgenza, mi fanno i complimenti per la mia perspicacia e poi si affrettano a emettere il loro verdetto come se non avessi mai aperto bocca. Smetto di andarci. In un paio di occasioni vedo il grande Lionel Eldridge che ciondola nei corridoi dell'Oldie, ma sempre da una certa distanza. Non guarda mai nella mia direzione. Io non lo interpello mai. Non c'è nulla, nei miei anni di insegnamento, che mi abbia preparato a gestire una situazione simile. Che ne sarà della prova scritta che mi deve ancora consegnare? Esiste una regola speciale da applicare quando devi dare il voto a uno studente che ti ha rubato la moglie? Consulto Dana e Rob, ognuno dei quali mi consiglia di passare Lionel a qualche altro collega. Una sera, per sicurezza, chiedo a Romeo di seguirmi di nuovo, e lui si diverte tanto che stavolta lo fa gratis. Ma non ha nulla da riferire. Aprile procede stancamente. Kimmer annuncia che andrà una settimana in Giamaica a visitare dei parenti. Protesto che non è sicuro, come sempre, ma lei non condivide la mia paura di volare. Non dice se Lionel andrà con lei, e io non glielo chiedo. Non so nemmeno se abbia davvero lasciato sua moglie: sono fuori dal giro dei pettegolezzi e ho paura di chiederlo a Dana, che potrebbe sicuramente dirmi la verità. In ogni caso, Bentley starà con me per sette giorni di fila. Sono eccitato, ma lui è a disagio; la nuova vita in due case con una famiglia separata lo sta stancando. Manifesta un'irritabilità che prima non è mai stata una componente del suo carattere. Quando brucio il pollo la terza sera, scaraventa il piatto per terra. Quando lo punisco mandandolo in camera sua, il capriccio peggiora. Dice che mi odia. Dice che odia la mamma. Dice che odia se stesso. Io lo abbraccio forte e lo
rassicuro su quanto bene gli voglio, su quanto bene gli vuole la mamma, ma lui si divincola e corre a letto piangendo. Sono confuso, spaventato e furioso con mia moglie. Questo è il momento in cui i bravi genitori chiedono consiglio ai loro stessi genitori, ma io non ho nessuno a cui telefonare e non chiederei consigli educativi a mia sorella più di quanto nuoterei fino all'Antartide. Il mattino seguente telefono a Sara Jacobstein, la moglie di Rob Saltpeter, che è una psichiatra dell'infanzia affiliata alla facoltà di medicina. Abusando della nostra amicizia, la chiamo a casa prima che vada in ufficio. Lei è molto paziente. Mi spiega che l'ansietà di Bentley è normale, che devo essere severo ma anche dimostrargli il mio amore e il mio sostegno, e che non devo mai, per nessuna ragione, criticare sua madre davanti a lui. Poi mi avverte che prima o poi Kimmer e io dovremo scegliere una delle due residenze come casa sua e l'altra come luogo da visitare regolarmente. Bentley avrà bisogno di avere una situazione stabile nei mesi e negli anni a venire, mi spiega con dolcezza. Ascolto le parole di Sara con un dolore fisico nelle vicinanze del cuore e non faccio alcun commento: so quale può essere il risultato di una qualsiasi trattativa con Kimmer. Sara è più di ogni altra cosa una donna gentile. Decifrando correttamente il mio silenzio, accetta di vedere Bentley questo stesso pomeriggio, se penso che sia importante. Decido di aspettare. Il mattino seguente Meadows mi chiama per informarmi che Sharik Deveaux, detto Conan, reo confesso dell'omicidio di Freeman Bishop, è stato assassinato nel corso di una rissa in prigione mentre aspettava che venisse emessa la sentenza. Il testimone chiave a suo carico, il pentito della sua banda, è scomparso. Riaggancio e mi copro il volto con le mani, rimpiangendo di non essermi adoperato di più per far scarcerare Conan; ma non ne ho avuto il tempo, e le mie energie erano indirizzate altrove. Prego per la sua anima, anche se in verità al momento ho ben poca compassione da elargire, soprattutto per uno spacciatore di droga dai precedenti violenti. Ciò nonostante, Conan non ha commesso il crimine che ha confessato, e sono certo che sia morto nella rissa perché nessuno sappia la verità. So anche chi è stato a organizzare quest'ultimo omicidio. Colin Scott, allungando la mano dalla tomba. Maggio. Giugno. Esami finali, tocchi e toghe. Il corso dei neolaureati premia i miei fori di proiettile, o forse il fatto che ho perso mia moglie per mano del nostro studente più famoso, eleggendomi oratore al conferimento
delle lauree. Attraverso a passo di marcia la cerimonia con l'aiuto di un nuovo bastone, pesante e scuro, riccamente intagliato. Me l'ha regalato Shirley Branch, che l'ha portato in marzo da un viaggio in Sud Africa con Kwame Kennerly. Fa un figurone insieme alla mia scialba toga accademica. Qualche settimana fa, Kwame ha lasciato la squadra del sindaco per una nobile questione di principio - non ricordo quale - e ora Shirley mi confida che ha deciso di sfidare il suo ex principale alle elezioni dell'anno prossimo. Sono troppo preso dalla mancanza di Bentley perché me ne importi qualcosa. Nel mio discorso dico agli studenti di usare le loro capacità per fare il bene e non il male, e loro cominciano ad agitarsi, perché queste sono le parole che sentono ogni anno. E così getto via il mio testo, mi sporgo sul leggio e li avverto che quando gli avvocati antepongono gli interessi del cliente alla virtù, la gente muore. Mi applaudono con entusiasmo. Dico che se decideranno che il loro ruolo è quello di fare ciò che dicono i loro clienti saranno una componente della rovina di una grande nazione, che sta già morendo per il nostro tenace rifiuto di considerare la vita come qualcosa più di un'opportunità per ottenere ciò che vogliamo. Mi applaudono poco convinti. Parlo del proliferare delle armi da fuoco e dell'assenza della volontà politica di intervenire. Mi applaudono doverosamente. Parlo del proliferare degli aborti e dell'assenza di una volontà politica di intervenire. Non mi applaudono gli studenti, ma lo fanno molti dei loro genitori. Prospetto che entrambe le cose siano segni di un'autoindulgenza che sta rimpiazzando sia il capitalismo che la democrazia come vera ideologia del paese. Nessuno applaude, perché nessuno pensa che stia dicendo alcunché di sensato. Dico loro che devono lavorare all'ideale di un paese migliore e impegnarsi per realizzarlo, non solo nelle loro vite professionali ma anche dal punto di vista personale. Dico loro che la dicotomia contemporanea fra pubblico e privato non tiene conto del fatto che è nelle nostre cosiddette esistenze private che insegniamo ai nostri figli cosa significhi vivere rettamente, e che vivere rettamente, e non usare la legge per costringere gli altri a vivere rettamente, è la definizione di un'esistenza ben spesa. Sento un tossicchiare educato. Li sto annoiando. Mi immagino di fronte a Kimmer mentre espongo le mie ragioni nella nostra discussione interrotta. Uso le parole di Emerson: il mondo è tutto ciò che non sono io, compreso non soltanto ciò che è fuori di me, ma molto di quello che è dentro. Gran parte della vita odierna, faccio notare, sembra incitarci a essere più di quello che
già siamo. Ma Emerson, avverto, aveva visto giusto. A volte perfino il corpo, i suoi bisogni e i suoi desideri in guerra con la volontà, è altro. Non sanno di cosa sto parlando. Non vogliono saperlo. Vogliono soltanto le congratulazioni per i loro risultati e che li si spedisca nel mondo perché possano assecondare le loro inclinazioni. Un risolino nervoso percorre le file di studenti in toga e di genitori improvvisamente a disagio. I neolaureati capiscono d'un tratto che hanno commesso uno sbaglio a invitarmi a parlare, che il fatto che mi abbiano sparato e quasi ucciso al cimitero mi ha reso soltanto più rabbioso, non più saggio; mi sto rifiutando di offrire loro la benevolenza che ci si aspetta il giorno della laurea. Faccio un ultimo tentativo. Scelgo un episodio dal Libro dell'Esodo. Racconto di come, quando Dio sfamò il suo popolo nel deserto, Mosè avvertì che la gente prendesse soltanto ciò di cui aveva bisogno. Fu facile capire chi si era accaparrato troppo cibo, faccio notare, poiché quelli che ne avevano fatto scorta l'avevano conservato durante la notte, sfidando l'ordine divino, e le derrate in eccedenza si erano guastate e riempite di vermi. Guardo il mare di volti giovani e freschi, istruiti in modo eccellente, pronti a mettersi in fila per rifornire di personale i potenti studi forensi delle grandi città. Una buona parte di questi ragazzi, mi ripeto, non ha mai letto l'Esodo, e probabilmente ricorda Mosè come il protagonista di un cartone animato. Ma ci devo provare. Prendete soltanto ciò di cui avete bisogno, li ammonisco, non soltanto in termini monetari. Conoscono già quella parte della legge divina, anche se il novanta per cento di loro la ignorerà non appena entrerà in contatto con le opportunità di guadagno, come succede a molti di noi. Anche per quanto concerne ciò che prendete dal prossimo: l'energia emozionale, per esempio. Prendete soltanto ciò di cui avete bisogno in amore. In famiglia. Nei rapporti con i vostri colleghi. Restano in silenzio. E in quello che chiedete a voi stessi, aggiungo. Prendete soltanto ciò di cui avete bisogno da voi stessi. La legge è una professione mortale. Cito le statistiche: la nostra assurda percentuale di suicidi, di alcolismo, di depressioni e di divorzi. Perché non ascoltiamo la saggezza dell'Esodo. Perché chiediamo, anche a noi stessi, più di quanto abbiamo veramente bisogno. Guardiamo ai nostri corpi, alle nostre energie, e crediamo che ci appartengano: non riconosciamo, con Emerson, che sono una parte del mondo che va amministrata con parsimonia, che va rispettata, che non deve essere maltrattata; crediamo che siano nostri e che possiamo farci ciò che vogliamo. E così, pensando di essere stati liberati, lastrichiamo irresponsabil-
mente le strade che portano alla nostra stessa rovina. Non si rendono conto che ho finito. Non lo capisco neanch'io finché non torno al mio posto. Gli studenti applaudono, ma soltanto perché è quello che ci si aspetta da loro. Scendendo dal palco mi consolo al pensiero che probabilmente avrebbero fischiato Aristotele, a cui ho rubato la mia idea centrale. Più tardi, Rob Saltpeter mi dice che sono stato brillante. La Cara Dana Worth mi bacia sulla guancia e confessa che l'ho rattristata. Lem Carlyle, alla sua ultima cerimonia di laurea come membro della facoltà, mi informa che è stato un discorso coraggioso, dai molteplici significati. Arnie Rosen lo definisce leggermente troppo mistico per i suoi gusti. Betsy Gucciardini mormora che è stato affascinante, sinonimo gergale di l'ho detestato. Dean Lynda mi stringe la mano e dice che andava benissimo - un altro eufemismo negativo - ma domanda se non potevo provare a essere un po' più ottimistico. Ben Montoya mi ammonisce solennemente che le analogie bibliche sono elitarie e risultano molto spesso offensive nella nostra società sempre più composita. Tish Kirschbaum mi confida che sa cosa intendevo dire sull'aborto, ma che il modo in cui l'ho espresso darà probabilmente sostegno all'estrema destra. Shirley Branch suggerisce che avrei dovuto essere più esplicito rispetto al sottotesto, che secondo lei è la subordinazione razziale. Ethan Brinkley sorride dicendo che gli ho ricordato una chiacchierata con il Dalai Lama. Marc Hadley mi avverte che ho sbagliato la citazione da Emerson. 55 IL COMPLICE DI ELM HARBOR «Non eri alla cerimonia» dico il giorno dopo a Theo Mountain. Siamo di nuovo nel suo ufficio, e io mi fermo nel suo enorme bovindo. «No.» «Se ne sono accorti tutti. Non mancavi da quanto tempo? Vent'anni?» «Non ce l'ho fatta» borbotta, ma questo è un Theo nuovo, più furtivo. Dai suoi modi è scomparsa ogni traccia di trionfale condiscendenza. Se ne sta svogliatamente seduto alla scrivania, in attesa che cali la mannaia. So benissimo perché non era presente alla cerimonia, e lui sa che lo so. Ha potuto leggere la collera nei miei occhi ogni volta che ci siamo visti nelle due settimane appena trascorse. L'ultima cosa che aveva voglia di fare ieri era sedersi fra i membri della facoltà sul palco e tormentarsi sulle responsabili-
tà di quello che mi è successo al cimitero. «Lo sai, Theo, da quassù hai una magnifica vista.» «Così dicono.» «Puoi far scorrere lo sguardo per tutto il vicolo fino alla corte originale. Arrivi in linea retta fin quasi ai confini del campus.» Torno a fronteggiarlo. È un'ombra ingobbita e sconfitta. Ora so perché ha impiegato tanto tempo a farmi le sue condoglianze dopo la scomparsa di mio padre. Si vergognava delle proprie azioni, e faceva bene. Ma cercare di odiarlo non serve a nulla. Mi appoggio al mio bastone. Oggi il dolore è intenso. Il dottor Serra dice che soffrirò di dolori intermittenti per il resto dei miei giorni. I quali, se nelle prossime settimane sbaglierò i miei calcoli, potrebbero essere contati. «Perché l'hai fatto, Theo?» «Fatto cosa?» domanda lui, un tentativo poco convinto di assumere un tono innocente. «Perché mi hai mandato quei pedoni?» Insiste a non guardarmi. E a non parlare. Sta fissando le fotografie sulla scrivania: una della sua defunta moglie; una della sua unica figlia, ora cinquantenne e socia molto importante di uno studio legale di Wall Street, ma nel ritratto ancora una timida diplomata del college; e un'altra che ritrae i tre fratelli Mountain mentre scalano una roccia, forti e tenaci, ai tempi in cui insieme dominavano il mondo dell'accademia giuridica. Si limita a scuotere il capo. «Andiamo, Theo, parlami. So quasi tutto. Voglio il resto.» Quando non dice nulla, mi porto davanti alla scrivania. «Quel giorno mi hai visto uscire dall'Oldie, perché dalla tua finestra vedi tutto. Dal mio tragitto hai indovinato che ero diretto alla mensa gratuita. Era l'ora di pranzo. Andavo di fretta. Ed eri stato tu a presentarmi Dee Dee. E così hai chiamato chi hai chiamato e le hai detto di consegnare la prima busta. Chi era, a proposito? A chi l'hai chiesto?» «A mia nipote» risponde lui alla fine, ancora ingobbito. «Non potevo fidarmi di nessun altro.» Semplice. Sua nipote, una studentessa del college. Se fossi stato nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, avrei potuto capirlo. «Le ho detto di non entrare e di consegnarla prima che tu uscissi» aggiunge carezzandosi pensoso la barba. «Le ho detto di darla a Romeo e di riferirgli che era stata pagata per farlo. Non c'era alcun vantaggio nel fatto che tu la identificassi.» O che identificassi te, sto pensando.
Zoppico fino a una sedia, scosto una pila di fogli e riesco a sedermi. La rabbia sembra peggiorare i miei persistenti dolori. «E l'altro pedone? Quello nero?» «Con quello è stato più facile. Ti ho visto andare a pranzo con Dana.» Il suo sguardo percorre la stanza, posandosi brevemente sul mio volto torvo prima di fermarsi sullo schedario in cui, per venti furbissimi anni, Theo ha nascosto le prove del plagio di Marc. Forse sarebbero dovute restare lì. «Non aveva importanza che tu li ricevessi dentro o fuori dalla facoltà, e così ho adottato entrambe le soluzioni. Sarebbero dovuti arrivare uno dopo l'altro, ma... be', ho avuto qualche indecisione.» «Istruzioni di mio padre» suggerisco. Il quale voleva rammentarmi che il doppio Excelsior è un problema scacchistico che riguarda due pedoni, voleva segnalarmi che il bianco muove per primo... e voleva stimolare il mio interesse al punto da farmi continuare la ricerca. «Sì» ammette Theo di malavoglia. «Mi chiese di farlo... be', se gli fosse successo qualcosa. Eravamo ospiti a una trasmissione televisiva, saranno stati due anni fa.» Torna a mettermi a fuoco. «Me lo chiese nei camerini.» «Ma non ti diede subito i pedoni.» «No. No, disse che sarebbero arrivati al momento necessario. E sono arrivati, circa una settimana dopo... dopo la sua morte.» Sospira. «E prima che tu me lo chieda, Talcott, temo che la busta non avesse un mittente.» «Aveva per caso il timbro postale di Filadelfia?» Gli occhi tristi di Theo Mountain si illuminano per un istante. «Credo che fosse del Delaware.» È il mio turno di sospirare. La cara vecchia Alma, che aveva tanta fretta di andarsene il mattino dopo il funerale: probabilmente aveva nascosto i pedoni nella borsetta e si era fermata sulla strada verso casa per spedirli. Mi domando quanta gente il Giudice abbia trascinato nel suo folle disegno. «Perciò quando mi hai detto che negli ultimi tempi non eri in confidenza con mio padre, quando mi hai detto che lui era più vicino a Stuart, stavi mentendo. Cercavi di sviarmi.» «Cercavo di sviarti, questo sì, ma non stavo mentendo.» Una risposta da pubblico ufficiale accusato di spergiuro. «Io e tuo padre non eravamo più grandi amici. Questo è vero. Ed è vero anche che lui e Stuart lo erano. Quando tuo padre si rivolse a me, gli domandai perché non l'avesse chiesto a Stuart. Lui si innervosì e rispose che non si fidava fino in fondo di lui.» Theo scuote la testa e per un breve istante riacquista la sua vecchia bonomia. «E chi può fargliene una colpa? Stuart venderebbe sua nipote per un
contratto di consulenza.» Ma vedo che Theophilus Mountain non è penetrato fino alla verità. Stuart, malgrado le sue posizioni politiche, è un uomo migliore di Theo. Più diretto, meno losco. O Stuart rifiutò seccamente la proposta, oppure il Giudice capì che l'avrebbe fatto e non si prese nemmeno la briga di formularla. Si rivolse a Theo proprio a causa dell'amore bizantino per il complotto del suo vecchio professore. «E cosa mi dici di Marc Hadley?» domando. «Cosa ti dico?» mi fa eco Theo con un filo di voce, spossato dalla simulazione di forza. «Mi hai assicurato che non sei stato tu a informare la Casa Bianca del plagio...» «Non sono stato io, Talcott! È vero!» «Lo so. Ma qualcuno stava facendo arrivare alla Casa Bianca le trascrizioni dei discorsi di Marc durante i dopocena, quando esternava le idee più strane. Quel qualcuno eri tu, Theo. D'accordo, non hai gli agganci politici giusti per esercitare qualche influenza sull'attuale amministrazione. Ma Ruthie Silverman è stata anche una tua studentessa, non soltanto di Marc. Lei ti avrebbe ascoltato.» Si stringe nelle spalle. La mia rabbia trabocca. «E non hai mai pensato, Theo, non ti sei mai fermato a pensare che la cosa si sarebbe ritorta contro mia moglie? Che avresti danneggiato anche lei, mentre sabotavi Marc Hadley? E che avresti rovinato ciò che restava del mio matrimonio?» Theo non dice niente. Sembra sinceramente sconvolto. Dal prezzo che è stato pagato? Dal fatto che è stato smascherato? Scopro che non me ne importa più nulla. Non posso sopportare oltre la sua presenza, quest'uomo che un tempo ammiravo tanto. Punto il bastone nel tappeto orientale e mi alzo in piedi. «Addio, Theo» mormoro dirigendomi verso l'uscita. «Non l'avrei mai fatto» insiste Theo, e nella foga di persuadermi la sua voce sale di un paio di registri fino a farsi stridula «se avessi saputo come sarebbe finita.» Dalla porta gli rivolgo un'occhiata. «Sì, l'avresti fatto.» 56 UNA PASSEGGIATA ESTIVA
Tre giorni dopo, Sally accetta finalmente di vedermi. Si trova nel centro di recupero da più dei due mesi obbligatori, e può ricevere visite. La vecchia casa di mattoni è appollaiata su un promontorio che si affaccia sul Delaware River: se vi capita di attraversare il ponte venendo dal New Jersey la potete vedere ergersi come il palazzo in rovina che in effetti è. Un alto muro circonda il terreno su tre lati. Il quarto lato è il fiume. Sally e io passeggiamo per il parco lussureggiante seguiti a una decina di metri di distanza da un inserviente e dal cappellano del centro, la reverenda Doris Kwan, presente su richiesta di Sally. L'inserviente è presente in ossequio a qualche regola. Prima di ottenere il permesso di vedere Sally, ho affrontato un colloquio con la reverenda Kwan nel suo ufficio soleggiato. È una donna sulla cinquantina compatta, robusta e dall'espressione imperiosa, con capelli neri legati malamente dietro la nuca. Se scoprissi che nel tempo libero corre la maratona, non ne sarei sorpreso. Oltre alla sua laurea in teologia, possiede un dottorato in assistenza sociale. I diplomi sono appesi ai muri del suo ufficio, accanto a una brutta riproduzione dell'Ultima Cena. Nel corso della nostra breve conversazione, la sua occhiata scettica non ha mai abbandonato il mio volto. "Mi ero opposta a questo incontro" mi ha detto "ma Sarah ha insistito." Mi ha illustrato il programma del centro: due riunioni di gruppo al giorno, quattro sedute di terapia individuale alla settimana, funzione religiosa obbligatoria ogni mattina, un'ora di palestra al pomeriggio. "Stiamo cercando di guarire la sua mente, il suo corpo e il suo spirito. Qui la fede la prendiamo sul serio. Sarah sta tornando in sé, ma ha ancora molta strada da fare." Ho assicurato alla reverenda Kwan che non sconvolgerò il programma. Lei ha lasciato che il suo volto esprimesse un palese scetticismo. Mi sono chiesto che cosa abbia rivelato Sally nella sua terapia. Ora, camminando al suo fianco, sono meravigliato dai cambiamenti avvenuti in lei dopo i mesi di astinenza. E leggermente più magra e molto più aggraziata. Indossa una tuta da ginnastica e un paio di sandali. Dice che ha visto sua madre in diverse occasioni ma che le mancano i suoi figli, i quali non hanno ancora l'età per farle visita. Il suo tono di voce è più sommesso, le sue esclamazioni più contenute. Ha perso un po' della sua vivacità, e ciò mi addolora, anche se non c'era altra scelta. Le sue occhiaie mi fanno capire quanto è stata dura. «Ero così in ansia per te quando ho saputo» mormora. Sembra stanca ma tranquilla. «Sarei venuta a trovarti all'ospedale, ma...» Con un rapido cenno del polso indica il centro, il parco, le mura.
«Sto bene.» «Zoppichi. Una volta non zoppicavi.» Scrollo le spalle mentre il mio pesante bastone si protende in avanti come una gamba supplementare. «Sono fortunato a essere vivo» le assicuro. Poi è il mio turno di chiederle come sta, e affrontiamo lo stesso repertorio a parti rovesciate. Sally mi dice che in questi ultimi mesi ha capito molte cose su se stessa, e che gradisce ben poco di ciò che vede. Mormoro qualche parola di rassicurazione, ma Sally non vuole essere rassicurata: vuole scoprire la verità brutale di ciò che ha fatto a se stessa per riuscire a non rifarlo. E vuole, aggiunge, riparare per quanto è possibile ai danni che ha provocato. «Mi dispiace per le cose che ti ho detto in tutti questi anni, Tal. Specialmente su tua moglie. La tua ex moglie.» Faccio una smorfia. «Non ancora ex.» «Lascia perdere, Tal. Sei solo, adesso. Abituati all'idea.» «Non mi voglio abituare.» «Non è necessario.» Ride e mi colpisce affettuosamente sulla spalla con un pugno delicato. La sua risata sembra metallica e risoluta, un'eco lontana dell'antica effervescenza. «Le sorelle ti prenderanno d'assalto, aspetta e vedrai.» «Ne dubito.» «Stai scherzando? Un uomo di colore solo che non si droga, non beve e adora i bambini? Un tipo dolce, che va in chiesa e non ha un caratteraccio? Dovrai tenerle lontane con il bastone.» Scuoto la testa, sinceramente meno interessato a una simile prospettiva di quanto sembrino pensare Sally e i miei amici. Ma sto al gioco. «Hai dimenticato attraente.» «Non l'ho dimenticato. Non volevo che ti montassi la testa.» Un altro pugno leggero. Camminiamo in silenzio attraverso il corridoio di vecchi, saggi aceri, mentre Doris Kwan ci segue protettiva come una delle guardie del corpo di Jack Ziegler. Il sorriso comincia a sembrare incollato sul volto di Sally, e io capisco che la mia visita è un motivo di tensione. Quali che fossero i suoi demoni, la famiglia dal lato di mio padre ha certamente contribuito a farla crollare. Al momento, meno ci incontra meglio è. Emergiamo in una radura che sovrasta il fiume. Ci sistemiamo fianco a fianco su una sedia a dondolo di legno dipinta di bianco e guardiamo la costa del New Jersey. Una rete metal-
lica rovina il panorama, ma l'ospedale non può correre rischi. «Non sei venuto soltanto a vedere come stavo» dice alla fine Sally. Sembra più dispiaciuta che critica. Sente la mancanza dell'amore. Mi chiedo se sappia di Addison. «È la ragione principale.» «Forse una delle ragioni, ma non quella principale.» Non riesco a guardarla negli occhi. Più in basso, nei pressi della rete, un'anziana stringe fra le braccia una donna più giovane che sta singhiozzando. Potrebbero essere madre e figlia, ma non so quale delle due sia la paziente. Un paio di inservienti sorvegliano ansiosi l'abbraccio. «C'è un altro motivo» ammetto. «Okay.» Arrischio un'occhiata, ma lei sta fissando l'erba, raschiando la terra con la punta del sandalo. «Ho bisogno di chiederti una cosa.» «Okay.» «Perché hai preso l'album di ritagli?» Sally alza piano la testa. Il mezzo sorriso accuratamente costruito è ancora al suo posto. I suoi occhi sono intensi ma circospetti. Tradiscono un luccichio di lacrime, o forse di dolore. «Quale album di ritagli?» chiede in tono poco convincente. «In Shepard Street, il giorno dopo il funerale. L'album con i ritagli sui pirati della strada. L'hai portato via quando te ne sei andata.» Riesco a rivedere l'immagine: Sally che si allontana sul vialetto mentre io parlo con i finti agenti dell'Fbi, la sacca che le penzola allegramente dalla spalla. «Perché l'hai preso, Sally?» Sulle prime penso che mia cugina insisterà a negare. Ma dopo un istante lei bisbiglia una sola parola, come una tenera imprecazione: «Addison». «Addison? Che cosa c'entra Addison?» «Me l'aveva chiesto lui.» «Ma perché? Se lo voleva, perché non l'ha preso lui stesso?» «Non poteva. Aveva dietro quella stupida poetessa.» Una risata priva di allegria. «Lui... mi ha telefonato il giorno dopo che è morto vostro padre. In Shepard Street. Ricordi? Mi ha detto di andare nello studio e prendere l'album, ma quando sono entrata c'eri tu, e... be', non me la sono sentita, suppongo. Ma dopo il funerale mi ha chiesto se l'avevo preso, e quando ho risposto di no mi ha pregato di portarlo via, che era importante. E così, il giorno dopo l'ho fatto.» Rifletto per un istante. «Doveva contenere qualcosa che non voleva ve-
nisse trovato.» Sally annuisce, continuando a strascicare la punta del piede sul prato. «È quello che ho pensato anch'io.» La domanda da un milione di dollari: «Allora, che cosa conteneva?». Fa un breve respiro. L'ansiosa reverenda Kwan, che si era opposta a questo incontro, compare ai margini del mio campo visivo. «Addison ha detto... ha detto che Mariah avrebbe indagato sul... sul passato del Giudice. Voleva che prendessi l'album per non farglielo trovare. Poi mi ha chiesto di aiutarla nella sua ricerca per... per sorvegliarla. E di tenerlo al corrente delle sue scoperte.» Posso facilmente immaginare mio fratello che manipola in questo modo la povera Sally; la sua cotta per lui, come tutti in famiglia sanno bene, non si è mai sopita del tutto. Osservando mia cugina che soffre e ricorda mi domando se la parte sessuale della loro relazione sia davvero finita, ma scaccio l'indegno pensiero: sarebbe troppo facile mettermi a odiare mio fratello. Di questa faccenda Addison ne sa probabilmente più di tutti noi messi insieme, ma si è portato le sue conoscenze in Sudamerica. A questo punto devo fare attenzione, ponendo le mie domande nell'ordine giusto. «Perciò non ti ha mai detto che cosa c'era in quell'album?» «Non l'ha mai più neppure nominato. Mi aveva in pugno.» Il sorriso è scomparso. Piano, piano: «E ti ha anche chiesto di rubare il quaderno di Mariah, suppongo. Quello in cui segnava i suoi appunti mentre eravate nella soffitta. Per poterlo leggere». «Quello l'ho rubato di mia iniziativa. Volevo far colpo su di lui, se riesci a crederci. Temevo che Mariah lo capisse, ma non ci è mai arrivata.» «E Addison ne è rimasto colpito?» Sally scuote il capo. «L'ho chiamato per dirglielo, ero tutta eccitata, ma lui non l'ha nemmeno voluto vedere. Tutto quello che gli interessava era l'album di ritagli.» «Ma perché gli interessava tanto, Sally? Te l'ha mai detto?» La risposta tarda a venire, come se ancora adesso stesse cercando di soppesare le parole. Temendo che Doris Kwan possa interrompere il colloquio da un momento all'altro, combatto l'impulso di farle fretta. «Mi ha detto... ha detto che vostro padre aveva fatto una cosa terribile, molto tempo fa. E che se qualcuno l'avesse scoperto, lui avrebbe potuto passare dei guai.» «Chi, il Giudice?»
«Addison.» «Addison avrebbe potuto passare dei guai?» «Chi altro credi?» Per qualche motivo, la sua voce si è fatta stridula. «Intendevo solo...» «Per chi altro si sarebbe preoccupato?» Un singhiozzo strozzato. «Che bastardo! Mi ha fatto mentire per lui, mi ha fatto rubare per lui, mi ha trasformato in una spia! E mi ha trattato come una puttana! L'ha sempre fatto! Bastardo! Lo odio!» «Sally...» Mi dà uno spintone. «Siete tutti dei bastardi! Tutti voi Garland! Non mi avete mai amato! Vi amavate fra voi, amavate voi stessi, ma non avete mai amato mio padre e non avete mai amato me!» La reverenda Kwan è accanto a noi. «Credo che basti» interviene in tono deciso, facendo alzare una docile Sally e allontanandola da me. «Aspetti» protesto. Vorrei rimediare ai fraintendimenti di Sally, assicurarle che sono uno dei buoni. «Deve andare, professore. Sua cugina ha sopportato abbastanza.» «Ma devo dirle...» Scuote il capo, frapponendo il suo corpo agile tra noi. Ha già consegnato Sally a un'assistente che si è materializzata da chissà dove. L'inserviente si erge in piedi accanto alla reverenda Kwan, e insieme formano una barriera impenetrabile. Mariah e Howard si sono procurati il meglio. «Capisco che provi dolore, professore, che stia soffrendo anche lei. Ma non posso permettere che trasformi sua cugina nello strumento della sua liberazione. Sarah è un essere umano, non un oggetto. È già stata usata da troppa gente. È stata prosciugata.» Il resto delle mie manovre mi fa sentire un po' abietto, ma almeno sto facendo qualcosa. Da un telefono pubblico chiamo Mariah a Darien e le chiedo l'indirizzo e il numero di telefono di Thera Garland, che nel tipico modo di fare dei maschi Garland non sembro aver segnato da nessuna parte. Mia sorella è curiosa, ma si scontra con il muro che ho imparato a erigere dal Giudice e alla fine si arrende e mi rivela ciò che voglio sapere, strappandomi in cambio la promessa di metterla al corrente di "tutti i dettagli". Mia sorella crede ancora al complotto, e sarà lieta di inserire nella sua costruzione ciò che sto cercando, qualsiasi cosa sia. Thera vive a Olney, nel Maryland, una ventina di chilometri a nord di Washington, e dall'ospedale è un viaggio di meno di due ore. La gamba fe-
rita non smette un istante di dolermi. Faccio due soste, ma la chiamo soltanto quando sono nei paraggi perché non voglio darle la possibilità di dire di no. Sally è la figlia unica di Thera, e sua madre è ferocemente protettiva nei suoi riguardi; troppo protettiva, poiché spesso le ha impedito di rendersi conto delle conseguenze delle sue cattive abitudini. Le leggende di famiglia raccontano che Thera abbia perfino mentito alla polizia in un paio di occasioni, e che una volta abbia commesso una frode assicurativa per nascondere la vera identità della responsabile di un incidente stradale. Il suo scarso entusiasmo le appiattisce la voce. Le dico che sono venuto a trovare i bambini, il che è vero ma non è tutto. Malgrado sia riluttante, alla fine Thera si arrende all'inevitabile e mi spiega come arrivare al suo appartamento in centro. La ringrazio e mi affretto a rimettermi al volante. Sto cercando Thera sulla base di una semplice teoria: devo entrare nell'appartamento di Sally. Sally ha detto che Addison le aveva chiesto di prendere l'album. Ha anche detto che non ne aveva più parlato, perché l'aveva in pugno. Questo può soltanto significare che lui sapeva che avrebbe fatto ciò che le chiedeva. Dunque, quando Sally ha detto che Addison non aveva più parlato dell'album, vuol dire che non le aveva neanche chiesto se l'aveva preso. Il che significa che lei non gliel'ha mai consegnato. Quando raggiungo l'esteso complesso in cui abita Thera mi fermo all'imbocco del vialetto lasciandomi superare dal traffico, perché ho avvertito di nuovo la sensazione gelida, allarmante, di essere osservato. Ma nessuna delle auto dietro di me fa mostra di rallentare per controllare dove vado, dunque probabilmente è la mia immaginazione. Suono il campanello ed ecco Thera, massiccia e scura, molto simile alla barricata che ha sempre cercato di erigere attorno a Sally. Possiede la focosità della figlia, ma usa l'energia per intimidire più che per affascinare. Non sembra lieta di vedermi, e non posso certo fargliene una colpa: i Garland, quantomeno i maschi, non sono stati teneri con sua figlia. Indossa un paio di jeans larghi e una camicetta bianca, e i due timidi figli di Sally, di sette e otto anni, sbirciano con fare ansioso da dietro le forti gambe della nonna. «Ciao, Thera.» Lei mi rivolge un cenno brusco del capo, poi si scosta e con un movimento solenne del braccio mi fa entrare nel piccolo atrio. Mi fermo sulle piastrelle di ceramica azzurra in tinta con le pareti. All'ingresso sono appe-
si due quadri: un Gesù nero e un Gesù bianco. Sulla parete opposta ci sono alcune fotografie: Derek, Malcolm X, Martin Luther King. Quella di Derek è la più grande. Mi chino per stringere la mano ai figli di Sally, che strabuzzano gli occhi speranzosi. Quando capiscono che non ho portato alcun regalo - grossolana mancanza da parte di un parente che vedono di rado - corrono via a giocare. «Quanto tempo è passato, Talcott? Quattro anni? Cinque?» «Qualcosa del genere. Mi dispiace, Thera.» Lei emette un grugnito che potrebbe essere di perdono. Mi conduce in cucina, dove ci sediamo ai lati opposti del bancone a sorseggiare un tè. Una Bibbia giace aperta sulla formica. Accanto c'è un libro di Oswald Chambers. Di fianco alla finestra è appeso un ricamo all'uncinetto: "Io e la mia casa serviremo il Signore". Thera se ne sta seduta con i suoi settant'anni, cupa e forte, circondata dalla sua fede, preoccupata a morte per sua figlia, chiedendosi forse come mai Sally abbia preso più dal padre che dalla madre. Tranne che, a sentire Solo Alma, ai suoi tempi anche Thera era alquanto sregolata. «Che cosa vuoi, Talcott?» Questa parte del suo carattere, questa onestà emozionale, Thera l'ha passata a sua figlia. Nessuna delle due è brava a fingere di provare ciò che non prova, o a nascondere ciò che pensa. «Non sei venuto fin qui per vedere Rachel e Josh, non raccontarmi storie.» «Questo pomeriggio sono andato a trovare Sally.» Nel suo volto si muove qualcosa, e la sua voce diviene meno arcigna. «Come stava?» «Sta ancora soffrendo.» «Questo lo so. Intendo dire, come ti ha trattato?» La domanda mi sorprende: è allo stesso tempo perspicace e cattiva. Scelgo un tono diplomatico. «Ci siamo chiesti scusa.» Thera non sopporta gli eufemismi. «Ah, sì? E come mai? La scopavi anche tu?» Uno sciocco istante di panico. «No, no, ti prego, non pensarlo neanche. No, certo che no.» «La vostra famiglia non si è comportata bene con lei, Talcott.» La vostra famiglia. Thera è una parente acquisita. E ha messo al mondo Sally prima di entrare a farne parte. «Lo so.» «Non saresti dovuto andare.» Una pausa. Forse ha deciso di perdonarmi. «Allora, perché ci sei andato?»
Ho avuto tempo di pensare a come rispondere. «Thera, non posso dirti tutto. Vorrei poterlo fare, ma non posso. Ma Sally era... Lei e mia sorella stavano svolgendo delle ricerche su quello che è successo a mio padre. Non volevo disturbarla, ma c'era una domanda a cui poteva rispondere soltanto lei. E sono andato a fargliela.» Thera sembra divertita. Beve un sorso di tè. La sua grossa mano fa quasi scomparire la tazza. Non riesco a capire se mi creda. «E l'hai ottenuta, la risposta?» «Sì, sì, l'ho ottenuta.» Attende. Sento i bambini che gridano nella stanza accanto. È arrivato il momento di sputare il rospo. «Thera, devo entrare nell'appartamento di Sally.» «E pensi che io ti darò la chiave?» «È importante. In caso contrario non sarei venuto fin qui.» «Che c'è di importante? Cosa stai cercando, Talcott?» «C'è qualcosa... qualcosa che credo Sally abbia nascosto nell'appartamento e che proviene da casa di mio padre. Devo trovarlo.» «Stai dicendo che ha rubato?» Scuoto la testa con enfasi. «Credo che stesse cercando di essere d'aiuto. Credo che... pensasse di fare la cosa giusta nascondendolo.» Thera socchiude gli occhi. «D'aiuto a chi? A tuo fratello, giusto?» «Perché dici questo?» mi schermisco. «Perché quando non la finiva più di piangere, prima di... prima che cercasse di uccidersi, continuava a parlare di tuo fratello e di quello che le aveva fatto.» Riflettiamo per un istante sulle sue parole. La domanda successiva mi coglie di sorpresa, ma è l'interrogativo di una madre: «La cosa che vuoi è la ragione del suo crollo?». «Non lo so. Potrebbe essere... una delle ragioni.» «Se la trovi, la porterai via?» «Sì, penso di sì.» «Ed è per questo che vuoi la chiave? Per trovare quella cosa e portartela via?» «Sì.» «Aspettami qui.» Si allontana faticosamente in corridoio. La sento chiedere ai bambini di calmarsi. Un attimo dopo rientra in cucina con una sporta della spesa. «Credo che sia questo che cerchi, Talcott.» Me la porge. Guardo all'interno. Vedo il mio vecchio impermeabile, quello che ho prestato a Sally il mattino in cui è uscita furtivamente
dall'Hilton. Mi volto verso Thera, e sono sul punto di spiegarle che non era questo che mi preoccupava quando mi rendo conto che la borsa è più pesante del dovuto. Torno a infilarvi la mano e scopro sul fondo il quaderno di Mariah. Sto per protestare che nemmeno questo è ciò che cerco, ma poi apro l'impermeabile e all'interno trovo l'album blu. «Porta via quell'oggetto diabolico» mi ordina Thera. «Ho capito che veniva da Satana fin da quando Sally l'ha fatto entrare in questa casa. Non riesci a sentirlo?» Rabbrividisce, stringendosi le braccia al petto. «Avrei dovuto bruciarlo. Ha già rovinato troppe esistenze.» Non ho fatto tutta questa strada per cedere all'impazienza. Come già mio fratello, non sono particolarmente interessato al quaderno, che non contiene più alcun segreto. È soltanto l'album ad attirarmi. Ma non lo guardo, non subito. Riparto invece verso nord, raggiungendo rapidamente la I-95. Continuo a sfrecciare per un'altra ora, controllando lo specchietto retrovisore e rimpiangendo che Maxine non sia qui a consigliarmi. Ma forse c'è. Alla fine mi fermo in un motel qualunque di Elkton, appena entro i confini del Maryland, per trascorrervi la notte. Ceno con un panino al pollo di McDonald's, dopodiché mi siedo al tavolo della spartana stanzetta e cerco di concentrarmi malgrado il tanfo di disinfettante. Dalla sporta della spesa estraggo il mio vecchio soprabito verde, talmente grinzoso che la tintoria potrebbe non essere in grado di salvarlo. Poi prendo l'album di pelle e lo sistemo al centro del tavolo. Una cosa diabolica. Ricordo come l'ho scoperto, il venerdì successivo alla morte di mio padre, e il panico che mi ha preso quando ho temuto che la povera Sally potesse trovarlo. Già allora l'istinto mi diceva che era meglio non vedesse la luce del giorno. Be', adesso è sera, posso aprirlo e cercare di capire cos'è stato a spaventare Sally al punto da portarla, unendosi alle oscene pressioni provenienti dal mio ramo della famiglia, a cercare di togliersi la vita. E così, ancora una volta, sfoglio queste pagine sgradevoli, il catalogo di morti oltre a mia sorella, ognuno di essi vittima di pirati della strada, ognuno di essi una tragedia per una famiglia: tutte queste persone, ne sono sicuro, erano amate. Turpe, sì. Ma quali sono state le parole di Sally? "Non so perché abbia dovuto farla pagare a tutt'e due." È questo che Sally ha detto prima di ingoiare le pillole. Paula, la persona che la seguiva presso gli Alcolisti Anonimi, ha concluso che stesse parlando di me, poi-
ché Sally continuava a ripetere "povero Misha". Ma forse non intendeva me. Forse qualcun altro aveva dovuto farla pagare a tutt'e due. Sono arrivato ancora una volta alla fine dell'album. Le ultime pagine sono vuote, poiché il Giudice aveva smesso di raccogliere i ritagli dopo che ebbe superato la crisi. Ma come era guarito? Che cosa aveva causato l'improvviso cambiamento che i miei fratelli e io ricordiamo così bene? Torno all'ultimo ritaglio, l'ultimo articolo che mio padre ha incollato sull'album prima di smettere. Come tutti gli altri, anche questo riguarda un incidente causato da un pirata della strada. Phil McMichael, leggo, l'ex ragazzo di Dana e il figlio del vecchio amico del Giudice, il senatore Oz McMichael, investito da un autoarticolato mentre era al volante della sua Camaro rossa. E allora? Una coincidenza interessante, ma cos'altro? Sul margine c'è una delle illeggibili annotazioni di mio padre. Impiego qualche istante a decifrarla. Poi capisco: Excelsior. Excelsior? Non un problema scacchistico ma una pagina di un album di ritagli? Oppure entrambe le cose? Aspetta un attimo. "Ha dovuto farla pagare a tutt'e due." Comincio a leggere l'articolo, cercando di venire a capo del mistero. La prima riga del terzo paragrafo è sottolineata: "Curiosamente, la fidanzata del signor McMichael, Michelle Hoffer, è rimasta uccisa in un incidente simile tre mesi fa...". Mi sudano le dita mentre giro freneticamente le pagine all'indietro e trovo in effetti una fotografia di Michelle Hoffer, rampolla di un'altra ricca famiglia, uccisa da un pirata della strada. E sul margine, la stessa parola: Excelsior. Il doppio Excelsior. Quelli sull'auto. Il guidatore e il passeggero. Posso vedere Sally, sveglia nel suo appartamento notte dopo notte, intenta a studiare l'album per capire come mai Addison le abbia chiesto di prenderlo, aspettando una telefonata che non è mai arrivata. Un bel giorno riesce a decifrare la scrittura del Giudice e capisce tutto. E rimpiange di aver capito. E allora che fa? Consegna l'album a sua madre cercando di sbarazzarsene, cercando di allontanare i Garland dalla sua esistenza una volta per tutte, ma non è sufficiente. Sa cosa sta nascondendo mio fratello, sa quello che ha fatto il Giudice e, nel suo fragile stato emotivo, ciò la fa
crollare. Non c'è da meravigliarsi che la polizia non avesse fatto niente circa la morte di Abby. A quei tempi, nessuno avrebbe perseguito il figlio del senatore più influente del Campidoglio. Non certo per aver investito una ragazzina di colore che aveva fumato un po' d'erba e stava guidando un'auto non sua nel mezzo di un temporale e senza la patente. Nessuno avrebbe voluto toccare un caso simile. Nessuno tranne Oliver Garland. Nessuno tranne Colin Scott. E non era stata una semplice vendetta, occhio per occhio. C'erano due persone a bordo dell'auto che aveva ucciso Abby, e nella sua follia il Giudice aveva deciso che doveva farla pagare a tutt'e due. 57 ALCUNI PEZZI VENGONO SCAMBIATI Con la fine dell'anno accademico, la nostra cittadina di Elm Harbor torna a svuotarsi. O così sembra. D'estate non sono soltanto gli studenti e gli insegnanti a scomparire, ma anche i residenti fissi sembrano ritirarsi in qualche rifugio nascosto, come se non avessero lavori da svolgere, autobus da prendere, code alla cassa da formare. Io mi tengo alla larga dalla facoltà. Ho ripreso a lavoricchiare, sistemando il mio appartamento, rendendolo più abitabile. Gioco un po' a scacchi in rete, ascolto musica, scrivo qualche saggio. Reprimo la mia paura di volare e vado a trovare John e Janice Brown in Ohio per un paio di giorni, ma la loro famiglia è troppo felice perché riesca a sopportarla a lungo. Telefono ancora a Mariah due o tre volte alla settimana, ma ci resta ben poco di cui parlare. Credo che si tenga in contatto con Addison, ma lei non me lo conferma mai. Sto aspettando. Ho stabilito i criteri d'azione, e visto che questi non sono ancora stati soddisfatti mi sto imponendo una pazienza estranea alla mia natura. Comincio a seguire con attenzione le previsioni meteorologiche nella speranza che spunti un uragano, perché soltanto un uragano mi consentirà di agire. Continuo a raccogliere informazioni. Una mattina mi spingo fino alla biblioteca della facoltà di legge per controllare un nome nel MartindaleHubbell, l'annuario giuridico nazionale. Quello stesso giorno pranzo con Arnie Rosen per porgli una domanda delicata sulla deontologia forense. La sera dopo partecipo a una cena nella casa in periferia di Lem e Julia Car-
lyle, prossimamente "Giudice e Signora", ma quando mi rendo conto che l'unico altro invitato single è una giovane, intelligente, graziosa donna di colore di una decina d'anni più giovane di me - l'annunciatrice del telegiornale di mezzogiorno - e che i benintenzionati padroni di casa ci hanno messi a sedere vicini, porgo le mie scuse e tolgo il disturbo in anticipo. Lei è di certo meravigliosa, ma io sono lungi dall'essere pronto. Due giorni dopo, un gruppo di attivisti conservatori lancia una campagna pubblica per chiedere un'indagine sulle "questioni irrisolte" relative alla "tragica e sospetta" morte del giudice Oliver Garland. Facendomi piccolo per la vergogna seguo la conferenza stampa sulla CNN, ma soltanto per il tempo sufficiente a sincerarmi che non siano coinvolti membri della famiglia; è con profondo dolore, tuttavia, che tra la folla di cacciatori di complotti riconosco il volto torvo di Eddie Dozier, l'ex marito di Dana. Nella sua posizione di ex cancelliere del Giudice, e come se non bastasse di membro della nazione più scura, è un luminoso trofeo per il gruppo, che infatti lo esibisce in prima fila. Mi preparo a un fuoco di fila di domande, alle quali intendo rispondere "no comment", ma i giornalisti che si prendono la briga di chiamare sono pochi. Mio padre, morto da otto mesi, non fa più notizia, e nemmeno il mio vecchio amico Eddie, che lo venerava, è in grado di farlo resuscitare. Alla fine di giugno vado in macchina fino a Woods Hole e prendo il traghetto per Martha's Vineyard, la mia prima visita da gennaio. Mi concedo qualche giorno per aprire casa - questa volta nessun vandalismo - poi torno a Elm Harbor a prendere mio figlio, previo accordo con Kimmer. Di nuovo a Oak Bluffs per tre meravigliose settimane con Bentley, durante le quali gli concedo qualsiasi cosa posso concedergli. La mattina passiamo ore sulla giostra dei Flying Horses, nel pomeriggio giochiamo sulla spiaggia. Mangiamo ogni tipo di dolce. Andiamo tutti i giorni al campo giochi. Passeggiamo sulle scogliere di Gay Head e nelle paludi di Chappaquiddick. Frequentiamo le letture di racconti alla biblioteca pubblica. Tiriamo su un enorme castello di sabbia sull'Inkwell. Aspettiamo in coda davanti a Linda Jean's. Noleggiamo biciclette e io provo a insegnare a mio figlio a usare le due ruote, ma Bentley ha soltanto quattro anni e alla fine le rotelle non vengono tolte. Consumiamo abbastanza gelato da ingrassare un esercito. Gli compro felpe, berretti e giocattoli. Gli compro il suo primo paio di scarpe da barca, che lui tiene sempre ai piedi. Tutto questo non rappresenta la solita volontà di viziare il proprio figlio da parte di due agiati genitori separati; non sono, in questo momento, in competizione con Kimmer per
l'affetto del nostro strano, meraviglioso bambino; è solo che le mie questioni in sospeso restano in sospeso, e prima o poi dovrò mettervi fine, o potrebbero essere loro a mettere fine a me. In breve, ho paura di non rivederlo più. Kimmer telefona per sapere come sta nostro figlio e anche per dirmi quanto è felice. Sembra pensare che io sia lieto di saperlo. Mariah telefona con la notizia che Howard sta per passare a un'altra banca d'investimenti, della quale sarà vicepresidente. Soltanto per il trasferimento, mi confida mia sorella, riceverà una somma sulle otto cifre, anche se dovrà reinvestirne gran parte nel capitale della società. Non sapendo bene che risposta si aspetti, le dico che sono felice per loro. Mentre ascolto le sue manifestazioni di gioia mi chiedo quale sia il significato di "sulle". Mi rammento la battuta del film Arturo: "Come ci si sente ad avere tutti quei soldi?". "Benissimo." O qualcosa del genere. Di sicuro Mariah sembra stare benissimo, e non accenna nemmeno una volta alle immagini dell'autopsia. Morris Young telefona per assegnarmi una lista di letture bibliche. Mi faccio un dovere di non guardare i quotidiani del continente. Non seguo mai il telegiornale e ascolto raramente i notiziari radio. Voglio vivere in un mondo minuscolo e impossibile che include soltanto me e mio figlio, e anche mia moglie, se soltanto decidesse di tornare. Patetico. Lynda Wyatt telefona e fa l'espansiva. «Non so cos'hai detto a Cameron Knowland, Tal, ma non ci darà più tre milioni per la biblioteca: ce ne darà sei! Ha raddoppiato la donazione! E sai cos'altro ha detto? Che suo figlio è un marmocchio viziato ed era ora che uno dei suoi insegnanti lo rimettesse in riga! Mi ha chiesto di ringraziarti da parte sua. Dunque, grazie, Tal, da parte di Cameron e anche da parte mia. Come sempre, ti sono grata per tutto ciò che fai per la facoltà, e congratulazioni. Hai la stoffa del preside, Tal!» Magnifico. La mia reputazione accademica è tornata a salire, e non perché abbia formulato una teoria nuova e sorprendente nel mio campo, ma perché a quanto pare sto aiutando la preside a raccogliere fondi, e in abbondanza. Non faccio notare a Lynda il punto debole della sua calorosa analisi: non ho mai più riprovato a mettermi in contatto con Cameron Knowland. Una simile informazione non farebbe che turbarla. Non lo saprò mai per certo, ma sospetterò sempre che dietro il raddoppio della donazione, e forse addirittura dietro il denaro stesso, ci sia la mano abile e maligna di Jack Ziegler, che ancora adesso continua a proteggere la mia
famiglia. Spero che ciò non significhi che gli devo un favore. La Cara Dana Worth chiama dandomi la notizia che Theo Mountain, il suo vicino all'Oldie, ha deciso di andare in pensione. Non è restia ad aggiungere che era ora. Condivido il suo sentimento, anche se non le dico quanto sono felice né perché. Suggerisco che in questo modo potrà passare più tempo con sua nipote. Ma Dana ha altre cose da raccontare. A quanto pare, ha saputo com'è venuta a galla la storia del plagio. È riuscita pazientemente a cavare da Theo la rivelazione che un altro professore in facoltà era al corrente di ciò che aveva fatto Marc. Capisco dove vuole arrivare prima ancora che finisca. «Stuart?» «Tombola.» Ma certo. Stuart Land era il preside quando Marc aveva pubblicato il libro. Forse Marc si era rivolto a Stuart dopo che Theo l'aveva affrontato, o forse era stato lo stesso Theo a coinvolgere il preside. In un caso o nell'altro, doveva essere stato Stuart ad agire da intermediario fra i due, mettendo a tacere Theo per il bene della facoltà. Poteva addirittura essere stato lui a strappare a Marc, in cambio del silenzio di Theo, la promessa di non scrivere mai più una sola parola interessante. Non c'è da stupirsi che Stuart mi abbia chiesto di convincere Kimmer a ritirarsi dalla corsa! Voleva che Marc ottenesse quel seggio perché non sopportava più di averlo fra i piedi a ricordargli ciò che aveva fatto. E non c'è da stupirsi che Marc fosse coinvolto nella congiura che l'ha eliminato. Oh, che trama intricata... «In questo posto non ci si può fidare di nessuno» ridacchia Dana. «Tranne che di te.» «Forse sì, forse no. Questo è un vero covo di iniquità.» Un'altra risatina. «Sicuro di voler tornare?» «No» le rispondo sinceramente, anche se l'altro lato della verità è che non ho alternative. Mezz'ora dopo, passeggiando lungo l'Inkwell con Bentley e guardando giocare i privilegiati della nazione più scura, mi racconto il resto della storia. Theo mi ha detto che il Giudice doveva conoscere Lynda Wyatt grazie alla sua partecipazione a diverse commissioni di ex alunni. Ma tale partecipazione avveniva più che altro quando il preside era Stuart, prima della caduta di mio padre. Era Stuart, non Lynda, l'amico del Giudice. E Stuart avrebbe potuto confidargli la storia del plagio, forse addirittura consultarlo fin dal primo momento. Per quanto ne so, l'accordo finale fra Theo e Marc può essere stato un'idea di mio padre. In un modo o nell'altro, il Giudice
avrebbe potuto parlarne con Jack Ziegler, magari accennandovi di passaggio, dimenticando forse che lo zio Jack non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione di catalogare ogni singolo misfatto di ogni singola persona di spicco su cui avrebbe potuto allungare le mani. Il che spiegherebbe il fatto che lo zio Jack ne era al corrente. Bentley sta rincorrendo i gabbiani, tendendo le braccia come se anche lui potesse volare. Continuo a rigirarmi i fatti nella mente, cercando un'altra configurazione. Jack Ziegler, mi rammento, è un uomo di parola. Ha detto che non avrebbe interferito con la nomina di mia moglie, e così devo credere - devo credere - che sia stato Stuart e non Jack a spifferare alla Casa Bianca il plagio di Marc. L'altra ipotesi è troppo orribile perché la si possa contemplare. Non voglio pensare a cosa sarebbe potuto succedere se Kimmer avesse raggiunto il suo obiettivo, a come Jack Ziegler, o qualche suo sostituto, sarebbe un bel giorno entrato a passo di marcia nel suo ufficio rivelandole chi le aveva fatto ottenere il seggio, chi aveva protetto la sua famiglia in un momento difficile, quali erano le sue nuove responsabilità e cosa sarebbe stato rivelato al mondo intero se avesse cercato di sottrarsi. Trasformandola nell'erede del Giudice. Tremo per la moglie che continuo ad adorare, e all'improvviso sono contento che Kimmer abbia fallito. Non capisco perché il telefono non mi dia tregua. Ricevo due chiamate dallo studio legale di cui sono consulente e una da Cassie Meadows con la notizia che il Bureau non ha scoperto niente sul secondo sparatore; ma non ho bisogno che sia il Bureau a dirmi chi era. Poi Cassie bisbiglia che il signor Corcoran è molto preoccupato per me. «Bene» le dico. «Cerchi di vedere la cosa dal suo punto di vista...» «No, grazie.» «Ma, Misha...» «So che è il suo principale, Cassie, e che lei lo ammira. Però, io penso che sia un bugiardo e una spia.» Sorpresa, lei mi chiede cosa intendo dire, ma sono troppo alterato per spiegarglielo. Telefonate dalla segreteria di facoltà, che mi ricorda di formulare i voti degli esami di diritto amministrativo, e di due agenti letterari che mi chiedono se voglio scrivere un libro. Shirley Branch mi chiama, ma non ha alcuna novità da riferirmi. Più che altro, spiega, voleva sapere come stavo. E dirmi quanto le manchi Cinque, il suo terrier scomparso. Chiedo notizie di Kwame. Lei canta le sue lodi
per qualche minuto, esultando per il fatto che non esiste un altro candidato in grado di salvare la città, anche se non specifica da cosa. Poi emette un profondo sospiro e confessa che Kwame è talmente occupato a presentarsi come un paladino che non si vedono più molto. Stranamente stucchevole, quando sei da solo, il significato di allusioni così impercettibili e sfuggenti che potrebbero benissimo non essere allusioni. Ma gran parte della mia attenzione è ancora concentrata su Bentley. Gli insegno a far volare un aquilone, male, e a nuotare, ragionevolmente bene. Prendiamo in prestito una catasta di libri per i più piccoli alla biblioteca pubblica in cima a Circuit Avenue; tanto vale che si cominci anche a leggere. Torniamo a piedi a Ocean Park, e Bentley regge gran parte dei libri come l'ometto che sta rapidamente diventando. All'improvviso ruoto su me stesso, avvertendo un'attenzione indesiderata, ma la sonnolenta stradina laterale fiancheggiata da case vittoriane in sfacelo non sembra diversa in questo assolato pomeriggio di luglio da quella che è in qualsiasi altro momento, e se qualcuno mi sta osservando non riuscirò mai a riconoscerlo. Bentley sgrana gli occhi e mi chiede se sto bene. Gli scompiglio i capelli. Nel bel mezzo della seconda settimana a Martha's Vineyard un forte vento di grecale si abbatte sull'isola, e per quasi due giorni restiamo senza corrente elettrica. Bentley è allegro, niente affatto turbato dal buio del tardo pomeriggio mentre ceniamo a lume di candela. Per mio figlio tutto è un'avventura. Ora che ha una certa padronanza del linguaggio sta rapidamente immagazzinando ricordi, e arriva perfino a parlare di eventi che, a quanto sembra, si sono verificati prima che cominciasse a parlare. Gli permetto - no, gli impongo - di dormire nel mio letto, e osservando il volto scuro, pacifico e sonnecchiante di mio figlio prima di spegnere la vecchia lanterna che ho trovato in soffitta, mi meraviglio al pensiero di come pochi brevi mesi possano cambiare ogni cosa. Perché se questo fosse gennaio e non luglio, sarei fuggito dall'isola piuttosto che affrontare una notte senza luce elettrica, e senza un sistema di allarme ad avvertirmi se i pericoli in agguato nel buio si fossero avvicinati troppo alla casa. Ma quelle paure sono morte nell'Old Town Burial Ground insieme al signor Scott, anche se i misteri che le hanno generate sono ancora vivi. Giaccio in stato di veglia, pensando a Freeman Bishop e all'agente Foreman - davvero un agente, anche se non esattamente un Foreman - e mi meraviglio della provvidenza divina. "Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli" recita il salmo 45. Il pensiero che Bentley sarà il mio successore su questa terra mi riempie di timo-
re reverenziale e di speranza. "Proteggi la tua famiglia" mi ha istruito Jack Ziegler. Ebbene, sto facendo del mio meglio. Ma resta qualcos'altro da fare. L'ultimo giorno azzardiamo un ardito picnic a Menemsha Beach, guardando il sole che tramonta oltre il più bell'orizzonte della costa orientale. La stessa spiaggia al largo della quale il signor Scott ha affogato un altro poveretto per farci credere che fosse morto. Sfido i fantasmi degli ultimi nove mesi a farsi vedere. Seduto sulla coperta stringo il mio bambino con tale forza che lui comincia a dimenarsi. Non riesco a lasciare la presa. Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ripenso alla notte della sua nascita, a come sia lui che Kimmer avessero rischiato di morire. Al mio terrore dopo che i medici mi fecero uscire a viva forza dalla sala parto. Alla gioia che provammo io e Kimmer quando tutto finì, entrambi in ginocchio a pregare per nostro figlio, facendo a Dio tutte quelle promesse che non si mantengono quasi mai una volta ottenuto ciò che si vuole. Mi sorprendo a chiedermi come tutto abbia potuto sfuggirci di mano, ed è a questo punto che capisco: è giunta l'ora di tornare a casa. Il mattino dopo carico i bagagli sull'auto e affronto con mio figlio la breve coda per il traghetto del mattino. È ora di riportare Bentley da sua madre, a casa sua. Ed è ora, finalmente, che io affronti i miei demoni. 58 UN RESOCONTO PLAUSIBILE La residenza estiva di Mallory Corcoran è una malandata tenuta che copre un'area di circa ottanta ettari nei pressi di Middlebury, nel Vermont: una casa di assi di legno del diciottesimo secolo restaurata, una mezza dozzina di fabbricati annessi, una grande quantità di prati affittati come pascoli agli allevatori locali e fitti boschi in cui lo zio Mal ama cacciare. La fattoria non è difficile da trovare: ti salta quasi addosso, stendendosi al di là della strada mentre percorri la Route 30 verso Cornwall. Non ci vengo da quando frequentavo il secondo anno di legge e lo zio Mal mi invitò per il fine settimana del Memorial Day insieme al segretario di Stato e a un paio di senatori. Suppongo stesse cercando di arruolarmi - Un giorno tutto questo sarà tuo! - e avrebbe anche funzionato se già allora non avessi trovato spaventosa la sua amicizia con mio padre, malgrado non la conoscessi ancora in tutti i suoi aspetti. Sediamo nella veranda su due vecchie sedie a dondolo di legno, avvoca-
to e cliente, sorseggiando limonata, mentre Edie gioca con un paio di nipotini e un'orda di cani e gatti in quello che la gente del New England chiama il cortiletto. Lo zio Mal indossa jeans sporchi, scarponcini da lavoro e camicia a scacchi: ha proprio l'aria del signore di campagna, o di un avvocato di Washington che cerca di passare per tale. Io porto la mia solita divisa estiva, pantaloni di tela color cachi e giubbotto. Il mio bastone giace sul pavimento accanto a me, sorvegliato da un altro degli innumerevoli cagnoni di famiglia, ma voglio che Mallory Corcoran sia assolutamente consapevole della sua presenza. «Quanto hai capito?» domanda quando abbiamo esaurito i convenevoli. «So che sei stato tu a lasciare la lettera a Vinerd Howse.» «Non io. Meadows.» Sorride senza chiedere scusa. «Ecco perché l'hai fatta partecipare al nostro primo incontro. Era già coinvolta.» «Era già coinvolta» ammette. «Ma siamo stati costretti ad agire in quel modo. Stavamo eseguendo le ultime volontà di un cliente. Di tuo padre. Ci aveva lasciato una di quelle lettere "da aprire nell'eventualità che mi succeda qualcosa".» Mi torna in mente il mattino della partenza da Aspen. «E vi aveva lasciato il codice del sistema d'allarme di Vinerd Howse. Perché nessuno capisse.» Lo zio Mal annuisce, ma io sono confuso. «Ma perché non ti ha semplicemente chiesto di dirmi quello che voleva farmi sapere? A che scopo tutta questa folle sceneggiata?» Mallory Corcoran sorseggia la sua limonata e carezza fra le orecchie un altro enorme cane che brontola al suo fianco. Non lo intimidisco. Non si è mostrato restio a ricevermi. A suo modo di vedere ha agito onorevolmente e non ha niente da nascondere. «Credo che tuo padre volesse farti sapere certe cose, ma non sono sicuro che intendesse esprimerle a chiari termini. Penso che avesse... che temesse di farle sapere anche ad altri. E così ha formulato le sue disposizioni e le ha nascoste dove soltanto tu avresti potuto trovarle.» «Un anno fa» mormoro. «Quasi due, direi.» Annuisco. «Questo ottobre saranno due anni da quando ti diede la lettera.» Lo zio Mal è un avvocato troppo astuto per chiedermi subito come faccio a saperlo. Ma non sa quello che mi ha detto Miles Madison, mio suocero.
«Mi pare» conferma continuando a giocherellare con il cane. Annuisco. All'inizio dell'estate ho consultato il mio collega Arnie Rosen, esperto di responsabilità professionale, il quale mi ha detto che l'impegno di un avvocato perdura anche dopo la morte del cliente. L'avvocato non agisce più a nome del cliente, ovviamente, ma è tenuto comunque a eseguirne le ultime volontà, sempre che queste non comportino azioni illecite e non vadano oltre i doveri di un legale, e sempre che il cliente fosse in pieno possesso delle sue facoltà mentali al conferimento dell'incarico. Se le richieste gli sembrano sbagliate, l'avvocato può cercare di dissuadere il cliente o addirittura rifiutarsi di soddisfarle; ma se accetta il compito, ha l'obbligo di svolgerlo. In altre parole, ciò che ha fatto Mallory Corcoran portando la lettera del Giudice a Oak Bluffs rientra nei confini etici della sua responsabilità nei riguardi di mio padre... per quanto contorta fosse la moralità dell'atto stesso. «Perché è stato necessario distruggere il pianterreno della Vinerd Howse?» domando. «O sfondare il vetro della porta?» Lo zio Mal scrolla le spalle. «Per assicurarci che tu fossi il solo a salire al primo piano e a trovare la lettera. Un'idea di tuo padre.» «È stata Meadows anche in questo caso?» «Non mi sono informato sui dettagli.» «E se avessi aspettato la polizia prima di salire?» «Non lo so. Suppongo che avrebbero trovato la lettera e te l'avrebbero data. Lo stesso se l'avesse trovata per primo il custode, non ricordo come si chiama. Ma devo confessarti che non sono sicuro che tuo padre avesse tenuto conto della possibilità che Kimberly la vedesse prima di te. O forse si era detto che sei troppo gentiluomo per mandare tua moglie in avanscoperta dopo un'effrazione.» Non riesco a capire se è un complimento o una presa in giro, e così lascio cadere l'argomento e formulo invece la prima delle due domande che mi hanno condotto a bussare alla porta di Mallory Corcoran. «Sapevi cosa stava combinando mio padre? Perché ti aveva lasciato la lettera?» «Permetti che ti anticipi. Mi stai chiedendo se so quali sono le sue disposizioni, o se conosco la ragione precisa per cui voleva che tu sapessi quello che voleva che tu sapessi. La risposta è no, Talcott. Non lo sapevo, temo, e continuo a non saperlo.» «Sai perché ha scelto me e non Addison?» Stavolta la risposta tarda ad arrivare. «La mia impressione era che tuo fratello fosse... in disgrazia.»
«In disgrazia?» «Tuo padre sembrava pensare che lui l'avesse tradito.» Questo mi disorienta. Ma mi basta un'occhiata al volto da superavvocato di Mallory Corcoran per capire che non otterrò altro. E così gli rivolgo la seconda domanda: «Sapevi cosa stava succedendo veramente? Fra mio padre e Jack Ziegler?». Ha la risposta pronta. Probabilmente ce l'ha fin dal giorno in cui la donna di servizio ha chiamato lo studio avvertendo che il Giudice era morto. «Tuo padre era mio socio e mio amico, Talcott, ma era anche un cliente. Sai che non posso divulgare quello che mi ha detto in via riservata.» «Lo prendo come un sì.» «Non dovresti prenderlo né in un modo né nell'altro. Non dovresti dare nulla per scontato.» «Be', sono anch'io un tuo cliente. Ciò significa che dovrai mantenere i miei segreti.» «Vero.» «Bene. Concedimi di fare qualche supposizione.» Lo zio Mal è una statua. «Non so esattamente cosa stessero combinando mio padre e lo zio Jack, ma so che c'era sotto qualcosa. Non so quanto tu avessi capito, ma non credo che mio padre ti avrebbe detto molto, perché... be', aveva bisogno del tuo rispetto.» "E non si fidava del tutto di te" penso ma non dico, poiché sono impegnato ad adularlo. "Il Giudice non si fidava completamente di te, ed è questo il vero motivo per cui ti ha lasciato soltanto quella misteriosa lettera e ha nascosto altrove le sue disposizioni." «Ma mi piacerebbe dirti cosa credo sia successo.» «Sarei molto interessato a sentirlo, Talcott.» E così glielo dico. Gli dico che penso che all'inizio fosse una cosa ragionevolmente innocente. Il Giudice si rivolse a Jack Ziegler per trovare un investigatore privato, e Jack Ziegler gli raccomandò Colin Scott, un ex collega dell'Agenzia in cerca di lavoro. Dubito che mio padre stesse cercando un sicario fin dall'inizio. Forse Jack Ziegler volle tentarlo, e la cosa prese forma al momento. In un caso o nell'altro, quando mio padre ricevette il rapporto di Scott decise di non informare la polizia. «Perché no?» «Per i nomi che conteneva.» Ma non c'è niente nel volto esperto dello zio Mal che possa farmi capire se il Giudice gli avesse confidato quella verità. Da parte mia non l'ho confidata alla Cara Dana... e non lo farò mai. Invece di andare alla polizia, proseguo, mio padre chiese a Scott di ucci-
dere il pirata della strada. Scott si rifiutò. Era questa la discussione udita da Sally e Addison: "Non esistono regole quando c'è di mezzo una figlia" diceva, o implorava, il Giudice. «E così mio padre tornò da Jack Ziegler» continuo. Tornò dallo zio Jack e gli chiese di esercitare la sua influenza su Scott, o di trovare qualcun altro disposto a uccidere. Forse Jack Ziegler rimase sorpreso, forse no. Da quello che ho letto, ha sempre avuto una notevole capacità di indurre alla trasgressione. Immagino avesse iniziato muovendo obiezioni, avvertendo mio padre che non sapeva in cosa si stava cacciando, poiché conosceva il suo vecchio amico abbastanza bene da capire che una volta imboccata la strada per l'altro mondo, difficilmente avrebbe rinunciato soltanto perché l'altro mondo possedeva tutti i terribili risvolti che lui già si aspettava. Al contrario, obiezioni di tale natura non avrebbero fatto che attirarlo ancora più dentro. Mio padre non si sarebbe tirato indietro, avrebbe insistito sulla morte del pirata della strada. Probabilmente disse che avrebbe pagato qualsiasi prezzo, che si sarebbe preso qualsiasi impegno pur di fare giustizia. Forse fu quello il momento in cui chiese a Jack Ziegler di fargli una promessa: che se a lui, a mio padre, fosse successo qualcosa a causa di quell'accordo, Jack avrebbe fatto sì che la sua famiglia non corresse rischi. E il Giudice si fidava della parola dello zio Jack perché, come mi ha detto l'agente Nunzio, Jack Ziegler viveva sulla base della sua parola. «Sono solo congetture» osserva Mallory Corcoran. Il suo disagio sta crescendo, poiché le mie congetture riguardano i misfatti di due suoi ex clienti, non più di uno solo. «Lo so. Ma hanno un senso.» Non fa obiezioni, e così io riprendo. A un certo punto Jack Ziegler accettò di fare da intermediario e chiese il permesso a chiunque prenda tali decisioni nel suo mondo. Venne stipulato un accordo. Scott si sarebbe occupato degli omicidi. Non ci sarebbe stata alcuna tariffa, così come non c'era stata per le indagini. In cambio, al Giudice sarebbero stati chiesti piccoli favori. Nulla di appariscente: nessun voto per ribaltare la condanna di un capo mafioso o di un boss della droga. No, il suo compito sarebbe stato quello di aiutare le società in cui erano investiti i fondi illegali. Respingere una normativa dispendiosa o severa. Ribaltare un verdetto antitrust. «Per questo i voti di mio padre diventarono più conservatori dopo la morte di Abby» spiego con sincero dolore. «Il motivo per cui respingeva tutti i progetti di regolamentazione. Stava coprendo i suoi favori con una parvenza di purezza ideologica.»
«Sono sempre congetture, Talcott.» «Sì, lo sono. Ma non posso certo andare a interrogare Jack Ziegler per averne conferma.» Sto sperando che si offra di intercedere, visto che dalla sparatoria al cimitero lo zio Jack non risponde alle mie telefonate, ma il grande Mallory Corcoran se se sta seduto, in attesa che le mie parole lascino un segno. Nulla di ciò che ho detto ha provocato una risposta. So che riesce a scorgere la mia frustrazione, ma ciò non lo smuove. Rifletto. Da quello che mi ha detto Wainwright, è chiaro che il Giudice sentiva il peso della propria slealtà. Era arrivato alla corte d'appello per fare giustizia, non per essere eterno schiavo di criminali. Senza dubbio i favori speciali si accumulavano. Forse, a mano a mano che i fondi illegali venivano investiti nelle imprese legali, la frequenza era aumentata. Chi può sapere quali azioni formano i portafogli della mafia? Quando all'improvviso arrivò la nomina alla corte suprema, Jack Ziegler e i suoi soci probabilmente andarono in estasi. Mio padre, invece, doveva essere preoccupato. Forse sarebbe emersa la verità, e con questo la sua rovina. Ma poi forse gli venne un'altra idea. La verità sarebbe dovuta venire a galla, concedendogli di sfuggire all'inferno a cui si era venduto. «Ed è a questo punto che entra in gioco Greg Haramoto» dico, ma senza suscitare alcuna reazione. «Ho cercato di parlare con lui, ma non ha voluto.» Lo zio Mal, uno spettrale sorriso di rimembranza sulle labbra, offre finalmente un suo contributo: «Non mi sorprende, visto quello che disse di lui tua sorella durante quelle tristi udienze. Di cosa lo accusò?». «Di essere innamorato del Giudice.» «Giusto. Sai, Talcott, le persone non dimenticano certe cose.» «Non sto criticando Greg. Voglio soltanto capire se le mie sono ancora supposizioni.» «Senza alcun dubbio.» Si alza, e mi rendo conto che il colloquio è terminato. «Tutto ciò che hai detto non sono altro che congetture. Non puoi avere la certezza che sia vero.» «Me ne rendo conto.» Ci siamo incamminati verso la mia auto. Pensavo che mi avrebbe invitato a pranzo, ma lo zio Mal è fatto a modo suo, e considera sacrosante le proprie vacanze. Suppongo che dovrei essergli grato per aver sottratto questa preziosa mezz'ora a quello che i grandi avvocati fanno nelle loro tenute di campagna, qualunque cosa sia. Non riesco a vederlo mentre munge una vacca, anche se mi sembra di ricordare che abbia una mandria di bestiame nascosta da qualche parte.
Mi sta tenendo aperta la portiera dell'auto. «Sai, Talcott, le congetture non sono sempre così terribili. A volte mi lascio tentare anch'io.» Mi arresto, senza osare guardarlo. Dietro la casa, Edie e i bambini stanno cantando una canzone. I gatti e i cani, molti dei quali sono orrendamente grassi, sonnecchiano al sole estivo. «Suppongo che ciò che hai detto potrebbe essere vero.» Il suo tono di voce è sommesso e un po' triste. «Potrebbe esserlo, Talcott, potrebbe esserlo. E suppongo anche che tuo padre, quando mi ha dato la lettera e mi ha parlato delle disposizioni, mi abbia anche anticipato che stava pensando di dare le dimissioni dallo studio. Se fossi portato per le congetture, direi che era spaventato, che era rispuntato fuori qualcosa che apparteneva al suo passato. Non aveva paura di morire, non credo. Se dovessi tirare a indovinare, direi che aveva paura di qualche rivelazione. Che stesse per venir fuori qualcosa.» A questo punto mi volto. «Ma le disposizioni... tutta questa storia... non aveva a che fare con delle rivelazioni?» «Alle sue condizioni.» «Che cosa mi stai dicendo?» Un sorriso enigmatico. «Non ti sto dicendo niente, Talcott. Sai che non tradirei mai una confidenza. Sto solo facendo delle congetture.» «D'accordo... e quali sono le tue congetture?» «Che tuo padre avesse in programma di nascondere le informazioni che voleva farti avere e poi suicidarsi.» 59 D'ALTRA PARTE... «È la cosa più ridicola che abbia mai sentito» dice la Cara Dana Worth. «Quale?» «Che tuo padre si sia suicidato.» Mi stringo nelle spalle. «È quello che ha detto.» Dana freme di rabbia. Non è affatto pronta ad accettare le mie congetture sull'uomo che un tempo adorava, e men che meno quelle di Mallory Corcoran. Stiamo passeggiando fianco a fianco lungo i sentieri di arenaria azzurra della corte originale, che d'estate, quasi priva di studenti, è alquanto piacevole. In questi giorni ci frequentiamo più del solito, anche se naturalmente non c'è nulla di romantico. Entrambi stiamo avendo quelli che i miei genitori chiamavano "problemi domestici". Mia moglie, proclamando il suo amore per me, mi ha cacciato di casa, e negli ultimi tempi A-
lison è arrabbiata perché Dana passa troppo tempo a chiedersi se quello che stanno facendo è giusto. Vorrebbe che smettesse di frequentare la sua chiesetta metodista insieme a quelli che lei definisce "omofobi di destra", ma Dana si rifiuta di farlo, sostenendo che sono dei bravi cristiani e che lei vuole ascoltare il loro punto di vista. Alison chiede se la gente di colore è obbligata a pregare con i razzisti bianchi per conoscere il loro punto di vista. Dana risponde che non è la stessa cosa. Io non ho intenzione di intromettermi. Dana è sufficientemente stoica da guadagnarsi la qualifica di Garland onoraria, ma quando le nostre varie sofferenze trapelano da dietro la facciata, noi amici facciamo del nostro meglio per confortarci a vicenda. «Suicidio» ripete Dana con una smorfia. «Succede, Dana. La gente fa cose stupide.» Una delle pene che condividiamo è quella per Theo Mountain, che due giorni fa ha avuto un grave colpo apoplettico e che si teme non ce la farà. Vorrei incolpare il Giudice, vorrei incolpare il vecchio Theo, ma non riesco a fare a meno di incolpare me stesso: sono stato troppo severo con lui? «E così tuo padre si sarebbe suicidato perché aveva paura di essere smascherato? E poi si sarebbe vendicato facendoti trovare le disposizioni?» «Qualcosa del genere.» «Mi spiace, Misha, ma non ha senso. Lasciamo perdere il tipo di persona che era tuo padre. Se un giornalista o qualcun altro stava per smascherarlo, perché mai la sua morte avrebbe dovuto fermarlo? Un morto non può nemmeno fare causa per diffamazione.» «Non sono sicuro che fosse di questo tipo di rivelazioni che aveva paura. Di rivelazioni pubbliche.» «Quale sarebbe l'altro tipo?» «Forse qualcuno minacciava di dire alla sua famiglia quello che aveva fatto.» «Ma perché? Che cosa poteva volere da lui questo qualcuno? E perché avrebbe dovuto fermarsi soltanto perché era morto?» Scuoto la testa in preda alla frustrazione; sto ancora inseguendo un'ombra e sono sempre convinto dell'esistenza, là fuori, di una parte interessata che non si è lasciata ingannare. L'unica cosa che quel qualcuno potrebbe volere al punto da minacciare il Giudice è quella che non ho ancora trovato: le disposizioni. «Non lo so» confesso. Dana emette un sospiro esasperato, forse nei miei riguardi. Proseguiamo ad attraversare la corte deserta dove ai tempi in cui studiavo venivo a passeggiare con mio padre, il quale si abbandonava per un po' ai ricordi e poi
mi trascinava a visitare i suoi vecchi professori ancora in vita e i suoi vecchi compagni di studi che erano diventati membri della facoltà. Mi presentava con disinvoltura ai miei professori come se non mi avessero mai visto prima, come se non mi avessero mai messo in imbarazzo in aula, come se non mi avessero mai ordinato di riscrivere ricerche di cinquanta pagine in tre giorni, e loro circondavano me di premure per adulare lui. Anche allora mio padre possedeva l'aura che incantava, la presenza che imponeva rispetto, e fra l'altro, con Reagan alla Casa Bianca, ognuno di loro sapeva che l'onorevole Oliver Garland sarebbe arrivato alla corte suprema degli Stati Uniti non appena si fosse liberato un posto. Al termine delle visite accompagnavo il Giudice al minuscolo aeroporto di Elm Harbor con la mia trasandata ma zelante Dodge Dart, e ci sedevamo nel caffè a mangiare paste stantie in attesa del piccolo velivolo per pendolari che l'avrebbe riportato a Washington e che era sempre in ritardo. Per passare il tempo, lui tornava a bombardarmi con nuove versioni delle vecchie domande come se sperasse in una serie di risposte diverse - com'erano i miei voti, quando avrei avuto notizie dalla rivista di legge, con chi uscivo in quel periodo - e io provavo invariabilmente la tentazione di mentire sulle prime due e dire la verità sulla terza, soltanto per vedere la sua faccia e per far sì che mi lasciasse in pace. A quei tempi, naturalmente, era già diventato il parassita giudiziario di Jack Ziegler, e per questo le sue viscerali speranze nei miei confronti, per cui io provavo irritazione, assumono una qualità patetica eppure amorevolmente ambiziosa: voleva che il figlio avvocato facesse una fine diversa dalla sua. «Misha?» Dana ha un'altra domanda. «Misha, perché Jack Ziegler avrebbe dovuto farlo?» «Fare cosa, lasciare che mio padre mettesse fine all'accordo? Che si ritirasse?» «No, no. Perché è andato al palazzo di giustizia? Non immaginava che qualcuno l'avrebbe riconosciuto, e che la carriera giudiziaria di tuo padre sarebbe stata stroncata?» «Probabilmente sì» rispondo, poiché è un interrogativo su cui ho riflettuto. «Ma forse la rovina della carriera giudiziaria di mio padre è stato l'ultimo regalo di Jack Ziegler.» Dana annuisce. «E, una volta sottrattosi all'impegno, tuo padre deve averli avvertiti che aveva preso nota di tutto. Che se gli fosse accaduto qualcosa di strano, l'intera faccenda sarebbe venuta alla luce.» È eccitata.
«Dev'esserci proprio questo sui documenti, Misha! Tutti i favori che ha fatto, le società, i loro proprietari... ogni cosa!» «È quello che ho pensato anch'io.» Ricordo ancora come il Giudice pretendesse di conoscere i nomi dei titolari che stavano dietro alle società di facciata che si presentavano in tribunale, e come pochi osassero opporre resistenza. Il giudice Wainwright ha descritto le pretese di trasparenza di mio padre come un segno della sua ossessione per i dettagli. Ma c'era un'altra ragione: stava proteggendo se stesso, accantonando informazioni. Il che spiegherebbe anche chi stava dietro ai pedinamenti di Colin Scott. La possibilità che anche lui fosse nominato nei documenti avrebbe fornito un ulteriore incentivo, ma l'idea che Scott avesse agito per motivi personali continua a essere l'anello debole della versione dell'Fbi. Non so se il Bureau sospettasse che Scott era l'assassino di Phil McMichael, il figlio del senatore, ma è chiaro che pensava che fosse tornato perché era in ansia per qualcosa contenuto nelle disposizioni. Il che non ha senso. Se si trovava al sicuro all'estero, vivendo sotto falso nome, perché sarebbe dovuto rientrare negli Stati Uniti e rischiare l'arresto per omicidio? No, mi stava seguendo per conto di qualcun altro, qualcuno che lo pagava profumatamente per ricostruire il percorso di colui che l'aveva assoldato in passato, e sospetto che se non troverò le disposizioni non riuscirò mai a sapere chi erano i suoi clienti, poiché dovevano essere coloro che avevano tratto beneficio dalla corruzione di mio padre. «Sai, Misha, io ammiravo davvero tuo padre.» C'è dolore nei profondi occhi neri di Dana. Mi chiedo quanto più ce ne sarebbe se sapesse ciò che le ho tenuto nascosto, l'identità del conducente della Camaro rossa massacrato da Colin Scott. «Ma questo... Cosa dovrei fare, adesso? Perdonarlo? Odiarlo?» Sono costretto a sorridere. La Cara Dana Worth, egocentrica sino alla fine. L'idea che io stia combattendo con gli stessi interrogativi non sembra sfiorarla. Dalla vita mi aspetto ben poco al di là di mistero e ambiguità, quindi pretendere che ciò che provo per mio padre si metta improvvisamente a fuoco è forse esagerato. Dana, come Mariah, ha bisogno di risposte precise. Cercando qualcosa da dire mi imbatto in un'altra delle banalità di mio padre: «Devi tracciare una linea, Dana. Devi mettere il passato nel passato». «Mi sento come se non lo avessi mai conosciuto. Come se in realtà fosse... una sorta di mostro.» Rabbrividisce. «Aveva tutte queste sfaccettature. Tutti questi livelli.»
Ricordo il soliloquio di Jack Ziegler. «Stava cercando di proteggere la sua famiglia. E poi... ci si è ritrovato dentro fino al collo.» «È una scusa un po' facile.» «Non sto cercando di giustificarlo. Penso solo... non credo che avesse deciso di farlo fin da subito. Credo che si sia lasciato travolgere dagli eventi.» Dana scuote il capo. Non ha mai paura di esprimere giudizi, ed è sempre particolarmente severa con se stessa. «Mi dispiace, Misha, ma non regge. Tuo padre non era uno stupido inesperto. Era un uomo intelligente. Sapeva chi era Jack Ziegler. Sapeva cosa era Jack Ziegler. Se è vero che si è rivolto a lui e gli ha chiesto di avallare un omicidio, credi davvero che non sapesse che sarebbe rimasto suo ostaggio per il resto della vita? Non era così ingenuo, Misha. Non prenderti in giro.» Si concede un brivido, poi si tocca il gomito ancora dolorante nel punto in cui il proiettile ha scheggiato l'osso. «Non so cosa pensare di lui, Misha. Non voglio dire che fosse malvagio... ma non era nemmeno cieco. Ha deciso di far uccidere il conducente di quell'auto. Ha deciso di diventare un giudice corrotto.» Scuote un'altra volta la testa. «Non riesco a credere che sapessi così poco di ciò che gli passava per la testa. È una cosa che fa paura, Misha. E fa male.» «Dovresti provare a essere suo figlio.» «Oh, Misha, non intendevo in quel senso.» Mi stringe la mano. «Scusami.» «Lo so, Dana. Ma nemmeno per me è facile.» Sospiro. «In ogni caso, non è più un tuo problema.» Dana mi scocca un'occhiata tagliente, a bocca aperta: nel mio tono ha sentito qualcosa che non le piace. Mi lascia andare la mano. Forse si è resa conto di ciò che penso da quando ci hanno sparato: che la nostra amicizia non sarà più la stessa. Mi punta addosso un dito. «Non pensi che sia finita» dice in tono meravigliato. «C'è qualcosa di cui mi tieni all'oscuro, Misha.» «Lascia perdere, Dana. Ti prego.» «È questo che farai? Lascerai perdere? Chissà perché, ma ne dubito.» Si è fermata al centro della corte originale, e punta i pugni sui fianchi sottili. La sua voce si addolcisce. «Credi davvero che la scatola li abbia ingannati, Misha?» «Lo spero. Spero... si convincano che il Giudice stava semplicemente bluffando.» «E se ci fosse qualche sistema in grado di stabilire quanto è rimasta sottoterra quella scatola?»
«Sono sicuro che esiste, ma non possono sapere quando il Giudice l'avrebbe sotterrata. Per quello che ne sanno, l'ha fatto il giorno prima di morire. Tu l'hai seppellita mesi dopo. Un esame può veramente rivelare la differenza?» «Spero di no.» Un sorriso fievole. «In caso contrario, siamo nei guai seri.» Ci riflettiamo entrambi. Sono i nostri ultimi istanti insieme prima che Dana levi le tende per il resto dell'estate, diretta - forse con Alison, forse senza - al lago Cayuga nello Stato di New York, dove, poco più a nord di Ithaca, conserva quello che lei chiama il suo "piccolo cottage per scrivere", una vecchia e fresca casetta di pietra sulla riva del lago. Credevo che ci saremmo abbracciati, che avremmo fatto i sentimentali. Ancora una volta, mi sbagliavo. «Se sapessimo dove sono quelle carte» dice Dana con aria pensierosa «potremmo usarle per proteggerci.» «Però non lo sappiamo.» Preoccupata, mi studia in volto. «Fammi un favore, Misha caro. Quando verranno a cercarti perché la scatola era vuota e tu deciderai di mentire per proteggermi, sforzati di farlo meglio di come l'hai appena fatto.» «Nessuno verrà a cercare nessuno» la tranquillizzo. «Li abbiamo ingannati, Dana.» Ma l'espressione sul volto pallido della mia migliore amica mi dice che non ne è affatto sicura. E, a dire il vero, non lo sono neanch'io. 60 FINALE DI PARTITA E così tengo gli occhi aperti, aspettando che si facciano vivi mentre cerco di mandare avanti la mia vita. Come molti professori, generalmente approfitto dell'estate per scrivere. Ma quest'anno passo tutto il tempo che posso con mio figlio. Kimmer non sembra dispiacersene, e di tanto in tanto ci vediamo tutti e tre. Sara Jacobstein mi ricorda che Bentley ha bisogno di vedere che i suoi genitori si trattano con rispetto. Morris Young mi dice che Dio esige la stessa cosa. Non torneremo insieme, la mia imminente ex moglie l'ha messo bene in chiaro, ma queste occasioni - una passeggiata nel parco, uno spettacolo a Broadway - riescono in qualche modo a non essere troppo onerose, come se Kimmer e io stessimo crescendo proprio mentre ci stiamo allontanando. Una sera, nell'atrio della casa di Hobby
Road, sentendosi particolarmente spensierata al rientro da una cenetta a tre, Kimmer mi chiede se mi andrebbe di trattenermi per la notte, e io sono al settimo cielo finché mi rendo conto che non si tratta di una promessa di ricominciare, ma di un impulso nato dal fatto che Lionel è temporaneamente fuori città. Quando il mio educato rifiuto incontra una scrollata di spalle, capisco che avevo ragione. Quando non sono con Bentley passo molto tempo ad aggirarmi per la campagna al volante della mia Camry, controllando lo specchietto con una certa attenzione, poiché ho cominciato ad avvertire la presenza, l'alito vago e lontano, di un nuovo pedinatore. Sono sicuro che là fuori c'è qualcuno. Forse gli uomini di Nunzio, forse quelli di Jack Ziegler, forse quelli dei suoi soci. Ma ho l'impressione che il fiato che sento sul collo appartenga a qualcun altro; a qualcuno che manca da un po' di tempo, anche se sapevo che sarebbe tornato. Il tempo sta per scadere, ma lo so soltanto io. Un giorno di mezza estate, Shirley Branch si mette a correre avanti e indietro per i corridoi della facoltà come una scolaretta, non riuscendo a controllare il proprio entusiasmo, e abbraccia tutti coloro che incontra. «È tornato!» grida singhiozzando di gioia. Quando è il mio turno di ricevere l'abbraccio per poco non ne vengo travolto, bastone e tutto il resto, e faccio appena in tempo a chiedere chi è tornato di preciso che lei strilla: «Cinque! È tornato!». Ieri sera è rientrata a casa dall'Oldie e l'ha trovato seduto sui gradini dell'ingresso che agitava allegro la coda. Sono sbalordito, e sollevato, e più che mai certo di una piccola teoria. La cosa strana, aggiunge Shirley, è che portava un collare nuovo senza il suo nome. Ma è abbastanza intelligente da avere una spiegazione pronta: «Deve aver perduto la piastrina quando è scappato, poi qualcuno l'ha trovato e non sapendo da dove veniva gli ha messo un collare nuovo, ma lui sentiva la mia mancanza ed è tornato a casa!». Una bella storia, anche se non vera. Ricordo invece una certa amante degli animali a Martha's Vineyard, che è cresciuta con cinque cani e dieci gatti, che ha potuto spararmi al cimitero e definirlo un lavoro, ma che non è riuscita a fare del male al terrier nero di Shirley. Mi domando dove Maxine si sia procurata il sangue con cui sporcare la piastrina quando mi ha seguito ad Aspen. E perché non sia passata a salutarmi quando è venuta a Elm Harbor per riportare Cinque sulla soglia di casa di Shirley. Quella sera telefono a Thera per sapere come sta Sally, ma trovo soltanto la sua segreteria e lei non mi richiama. Qualche giorno dopo Kimmer mi
telefona alle due del mattino, piangendo e sussurrando il mio nome senza alcuna ragione comprensibile. Le chiedo se vuole che vada da lei, ma Kimmer esita e poi risponde di no. Quando la richiamo nel corso della giornata per vedere come sta, mi chiede scusa per il disturbo e non aggiunge altro. Forse tutti i matrimoni in via di disgregazione hanno momenti simili. Il giorno dopo, l'elegante Peter Van Dyke mi invita a pranzo insieme a Tish Kirschbaum per parlare dei molti processi in cui sono coinvolti i boy scout; Peter sostiene che non esiste giudice migliore di me. Scherziamo e discutiamo quasi fossi tornato a essere un membro rispettato della facoltà. E forse anche un membro rispettato della comunità, poiché il tris di proiettili mi ha regalato una certa notorietà locale: un paio di sacerdoti di Elm Harbor mi invitano a parlare nelle loro chiese, e il Rotary e la sezione locale della NAACP mi informano che ai loro membri piacerebbe molto sentire ciò che ho da dire. Ancora più significativo è il fatto che Kwame Kennerly mi inviti a bere un caffè, cercando di accaparrarsi il mio sostegno alla sua campagna in rapida evoluzione. Ha sostituito il berretto di kente e la giacca blu con un completo beige con il panciotto, e mi assicura che nella nostra città avverranno grandi cambiamenti. Gli dico che la politica non mi interessa. A metà della prima settimana di agosto il mio padrone di casa, Lemaster Carlyle, presta giuramento per la carica di giudice presso la corte d'appello degli Stati Uniti. Sua moglie gli regge la Bibbia con un sorriso radioso. Metà della facoltà, la metà che non è in vacanza, è assembrata nel nuovissimo tribunale federale della città. Ci sono tutti i leader locali dell'ordine degli avvocati. Il giudice Carlyle tiene un breve discorso, promettendo solennemente che farà del suo meglio per essere all'altezza delle tradizioni della corte, le tradizioni migliori, si presume. Viene calorosamente applaudito, poiché tutti hanno deciso di amarlo. Riceve pacche sulle spalle da più amici di quanti probabilmente sapeva di avere. Tenendomi a una certa distanza dall'eroe del giorno, mi scopro ancora un po' irritato dal fatto che non ci abbia mai detto di essere in lizza. Malgrado tutto quello che è successo, continuo a provare, pur riconoscendone il masochismo, un certo grado di lealtà verso la mia capricciosa consorte, le cui ambizioni giudiziarie Lem è riuscito a sconfiggere. Ricordo a me stesso che Lemaster Carlyle, quello delle infinite conoscenze a Washington, ha agito alle spalle di entrambi, con successo, senza dubbio, ma comunque in modo subdolo. Ciò nonostante, gli stringo la mano e recito i convenevoli di rito. C'è an-
che Kimmer, ed è fra i molti che lo coprono di pacche sulle spalle. Dahlia Hadley aveva ragione, e mia moglie lo sa: ci saranno altre possibilità per lei, se continuerà a lavorare sodo e ad accontentare coloro che deve accontentare. E se soltanto riuscirà ad aggiustare questo disaccordo con il marito e a comportarsi in modo ragionevole per quanto riguarda Lionel. Mi sorprendo perfino a chiedermi se alcune delle sue valutazioni quando ha deciso di lasciarmi non l'avessero portata a pensare di avere più possibilità senza di me che con me. Ma è un pensiero indegno, e lo scaccio con un dovuto omaggio al Giudice. Facciamo conversazione, Kimmer e io, visto che non ci resta altro. Decido di non farle pesare ciò che ho capito: e cioè che essendosi assunta il compito di protestare con la società responsabile del sistema di allarme dopo l'effrazione a Martha's Vineyard, deve aver saputo subito che i vandali possedevano il codice giusto per disattivarlo e riattivarlo. Non mi ha mai messo al corrente di questo importantissimo indizio, conservando il segreto nel corso dei mesi angosciosi della mia ricerca, perché non voleva mettere a repentaglio la sua nomina fornendomi la prova che avevo ragione. Guardo il suo volto teso e la perdono. Il caso vuole che la cerimonia si tenga il giorno del mio quarantaduesimo compleanno. Kimmer non accenna alla coincidenza, e io non ho certo intenzione di elemosinare un ricordo. E così il mio unico festeggiamento è una telefonata notturna di Mariah, la quale si dilunga a parlare di Mary, che ha ormai sei mesi, ma poi mi confida che ha intenzione di tornare quanto prima in Shepard Street: dopo tutto, ci sono carte non ancora catalogate. Le faccio i miei auguri. Theo Mountain muore due giorni dopo il giuramento di Lem. Sua figlia Jo, l'avvocatessa di New York, credendo erroneamente che Theo fosse ancora il mio mentore, mi chiede di pronunciare uno degli elogi funebri al suo grandioso funerale cattolico. Non riesco a pensare a come rifiutare senza arrecarle altro dolore. Scrivo qualche riga, cercando di rievocare ciò che provavo un tempo per Theo, ma le lacrime mi impediscono di leggere il testo fino in fondo. Mentre tutti si scambiano occhiate imbarazzate, è Lynda Wyatt che emerge dalla congregazione, mi cinge dolcemente la vita con un braccio e mi riconduce al mio banco. Suppongo che la gente pensi che abbia pianto per Theo. Forse è vero, in piccola parte. Ma soprattutto ho pianto per tutte le cose belle che non esisteranno più, e per il modo in cui il Signore, quando meno te lo aspetti, ti costringe a crescere.
Il signor Henderson si presenta alla porta del mio appartamento il mattino del secondo giorno dopo il funerale. Era nei paraggi, dice in tono allegro a beneficio dei vicini che potrebbero essere in ascolto, e così ha pensato di passare a salutarmi. Indossa una giacca per nascondere la pistola e non tradisce alcun danno evidente, dunque suppongo che la quinta persona che si trovava nel cimitero la sera in cui mi hanno sparato sia il suo alter ego Harrison. C'eravamo io e Dana, c'era Colin Scott e c'era Maxine, che ha rubato la scatola dissotterrata. Siamo a quota quattro. Ma io so che c'era anche un quinto, non solo perché lo pensa anche la polizia, ma perché ho sentito un uomo - non una donna - lanciare un grido di dolore quando è stato colpito dal proiettile disperato dell'agonizzante Colin Scott. La polizia non ha trovato alcuna traccia di lui, dunque doveva essere abbastanza vicino da farsi colpire e abbastanza forte da riuscire a fuggire. Faccio entrare il signor Henderson poiché non ho altra scelta. In attesa che cali la ghigliottina lo conduco al piccolo tavolo della cucina, una reliquia della mia infanzia dipinta più volte e recuperata dalla cantina della casa in Hobby Road. Gli offro acqua o succo di frutta. Henderson declina. Teniamo le mani bene in vista, come giocatori d'azzardo che diffidano l'uno dell'altro. Siamo molto educati, anche se Henderson prende la precauzione di accendere un piccolo aggeggio elettronico che, mi assicura, renderà difficile ascoltare ciò che ci diciamo. Tutto quello che so è che mi procura un'improvvisa, acuta emicrania, anche se non sembra emettere alcun suono. «Il suo amico capisce perché ha fatto ciò che ha fatto» mi informa Henderson con la sua voce affabile. «Non la biasima per il fatto che il contenuto della scatola era... deludente. Al contrario. Ne è contento.» La notizia mi sorprende. «Davvero?» «Il suo amico è dell'opinione che tutte le parti in causa siano soddisfatte.» Strofinandomi un orecchio dolorante, rifletto. Quello che Dana e io temevamo sembra essersi avverato: Jack Ziegler è troppo esperto per lasciarsi ingannare così facilmente. Suppongo che anche le altre parti in causa siano esperte, eppure sono soddisfatte. E Henderson è qui. Il che significa... «La scatola è nelle mani di qualcun altro» mormoro. Dei buoni, sto pensando. Non dei buonissimi, ma dei buoni. «Il mio... amico non ce l'ha, giusto?» Henderson si rifiuta di illuminarmi. Il suo volto dai lineamenti forti è so-
avemente impassibile. «Il suo amico è dell'opinione che se non è stato trovato nulla, forse significa che non c'era nulla da trovare. Che certe minacce siano soltanto un bluff.» «Capisco.» «Forse, lei è d'accordo.» Afferro finalmente dove mi si vuole condurre: di cosa sono stato perdonato e quali parole devo pronunciare per guadagnare quel perdono. «Sono d'accordo. Certe minacce sono soltanto un bluff.» «Forse, non ci sono mai state delle vere disposizioni.» «È sicuramente possibile.» «Addirittura probabile.» «Addirittura probabile» ripeto, concludendo l'affare. Henderson si alza, flettendo le ampie spalle come un gatto sotto la giacca larga. Mi chiedo in quanti secondi potrebbe uccidermi a mani nude, nel caso se ne presentasse la necessità. «Grazie dell'ospitalità, professore.» «Grazie della visita.» Prima di riporre il suo apparecchio elettronico aggiunge un'osservazione finale: «Il suo amico vuole anche informarla che se in futuro dovesse scoprire contenuti meno... deludenti, si aspetta di avere sue notizie. Nel frattempo, le assicura che non sarà più importunato sull'argomento». Rifletto anche su questo. "Certe minacce sono soltanto un bluff." Sta insinuando più di quanto dice. «La mia famiglia e io...» «Sarete perfettamente al sicuro. È ovvio.» Ma non sorride. «Ha la parola del suo amico.» Finché io manterrò fede ai miei impegni, intende dire. Finora, la protezione dello zio Jack era assicurata dalla sua promessa alle parti in causa che io avrei trovato le disposizioni. Ora che le cose sono cambiate, la sua protezione si basa sulla promessa che non lo farò. Non possono avere la certezza che io non abbia trovato le vere disposizioni da qualche altra parte; che come mio padre le abbia nascoste e abbia a mia volta formulato disposizioni nell'eventualità di una mia inaspettata scomparsa. Le parti in causa e io vivremo d'ora in avanti in un equilibrio basato sul terrore. «D'accordo» dico. Non ci stringiamo la mano. Ogni sera guardo il Weather Channel. Verso la fine della terza settimana di agosto, mentre Bentley si trova da me per qualche giorno, accendo il televisore e noto con soddisfazione che un tremendo uragano sta risalendo la
costa. Se manterrà il suo corso, si abbatterà su Martha's Vineyard fra quattro giorni. Perfetto. Il mattino seguente, sabato, riporto Bentley da sua madre. Mio figlio e io ci fermiamo in giardino, e Don Felsenfeld, intento a badare ai suoi fiori, ci saluta sollevando la paletta. Decido di non chiedermi se Don, che si accorge di tutto, sapesse di Lionel prima di me. «Quando torni da Bemley?» «Il prossimo weekend, tesoro.» «Promesso?» «A Dio piacendo, Bentley. A Dio piacendo.» I suoi occhi intensi mi studiano in volto. «Osa papà?» chiede rifugiandosi nel linguaggio segreto che non sentiamo quasi più. «Sì, tesoro. Osa papà. Assolutamente.» Accompagno mio figlio al numero 41 di Hobby Road percorrendo il tortuoso sentiero di mattoni. Tortuoso poiché fummo io e Kimmer a posare i mattoni, poco dopo esserci trasferiti qui. Un lavoretto di due giorni che due occupatissimi, innamorati pivelli come noi impiegarono circa un mese a completare. La mia mano trema sul bastone. La casa è deserta. Il pensiero mi viene spontaneo, ma con tutta la forza morale di una verità assoluta. È una casa vuota... no, un focolare vuoto. Kimmer è di sicuro all'interno, in attesa di suo figlio. La sua Bmw è parcheggiata nella piazzuola, come al solito, in barba ai miei consigli. E se mia moglie è stata negligente e non ha rispettato la sua solenne promessa niente di nuovo in questo - allora Lionel Eldridge potrebbe aggirarsi per casa, e la sua Porsche blu cobalto potrebbe essere nascosta in garage. Eppure, la costruzione vittoriana è vuota, per essere una casa che una volta accoglieva una famiglia e adesso ne ospita i cocci, come una spiaggia la cui sabbia è stata erosa fino allo strato di roccia, conservandone soltanto il nome e nessuna delle ragioni di quel nome. Sulla soglia informo Kimmer che andrò qualche giorno a Martha's Vineyard. Lei annuisce indifferente, poi si blocca e mi guarda con attenzione. La decisione nel mio tono di voce l'ha spaventata. «Cos'hai intenzione di fare, Misha?» «Metterò fine a questa storia, Kimmer. Devo farlo.» «No, non devi. Non c'è niente a cui mettere fine. È acqua passata.» Si stringe nostro figlio alla coscia, cercando di scacciare la verità. «Abbi cura di lui, Kimmer. Se mi succederà qualcosa, voglio dire.»
«Non dirlo! Non dirlo mai!» «Devo andare.» Mi stacco la sua mano dalla manica. Poi riconosco il terrore sincero sul suo volto e mi rendo conto che mi ha completamente frainteso. Crede che vada a Oak Bluffs con l'intenzione di uccidermi. Per lei! L'amo, certo, sto soffrendo, ma il suicidio! E così sorrido, la prendo per mano e le faccio scendere i gradini fino al giardino. Kimmer mostra abbastanza buonsenso da mandare Bentley in casa. «Non dire queste cose, ti prego» mormora con un brivido. Non protesta quando la cingo con un braccio. «Kimmer, ascoltami. Ascoltami bene. Non ho intenzione di fare stupidaggini. C'è una parte del mistero che non è stata ancora risolta. Tutti se ne sono dimenticati, ma non io. E devo andare a vedere.» «Vedere cosa?» Penso alle presenze che ho avvertito, e mi chiedo come spiegarle. Penso all'aggressione che ho subito nel bel mezzo del campus e i cui risvolti sono ancora oscuri. Penso ai miei fori di proiettile. Penso alla chiacchierata con il signor Henderson. Dai ricordi ripesco la frase del Giudice: «Com'era prima, cara. Devo vedere com'era prima». Kimmer si umetta le labbra. Indossa un paio di jeans e una polo, ed è attraente come sempre. I suoi capelli sono spettinati, e mi chiedo con angoscia se la notte scorsa fosse troppo occupata a letto per intrecciarli. Si solleva gli occhiali sulla fronte e mi rivolge una sola domanda: «Sarà pericoloso, Misha? Per te, voglio dire». «Sì.» 61 IL RAGAZZO DI ANGELA L'uragano si abbatte sull'isola il mio secondo giorno di permanenza a Oak Bluffs, ed è un trionfo, una tempesta memorabile di cui si parlerà per anni, proprio come speravo. Per tutta la mattina la polizia percorre le strade con i megafoni, avvertendo coloro che abitano in riva al mare di cercare rifugio. Le stazioni radio dell'isola e di Cape Cod prevedono terribili danni alle proprietà. Io resto in casa o in veranda, e osservo la tempesta che si avvicina. Nel primo pomeriggio il vento ha già abbattuto rami e cavi elettrici in tutta l'isola, e casa mia è rimasta senza corrente. Sento degli scricchiolii provenire dalla soffitta, come se il comignolo stesse decidendo se cedere oppure no. Un paio di decenni or sono, durante una tempesta meno
violenta di questa, crollò lungo disteso sul tetto della casa. Apro la porta d'ingresso. La pioggia forma una barriera liquida e lucente appena oltre i gradini, come se attraversandola si entrasse in un mondo di fantasia in cui le foglie volano, i mobili da giardino rotolano senza meta lungo le strade e gli alberi si spezzano in due. Ma io aspetto. Non ci sono più automobili su Ocean Avenue o Seaview, non c'è più nessuno che gioca nel parco. Come sempre c'è qualche stupido che cammina lungo la diga marittima, forse aspettando di vedere se i marosi diventeranno abbastanza grossi da trascinarlo via. Ma non sono più folli di Talcott Garland, Misha per gli amici, seduto alla finestra non sbarrata della sua casa in barba all'ordine di evacuazione. Non me ne posso andare. Ho programmato, ho cercato, ho sperato che arrivasse questo momento fin dal giorno in cui sono stato dimesso dall'ospedale, ho visto Kimmer rigida e immobile nell'atrio del numero 41 di Hobby Road e ho risolto il mistero. Non ho osato rivelarlo a nessuno, e soltanto Dana ha sospettato che lo sapessi. Non posso evacuare la casa. Sto aspettando il momento peggiore della tempesta, l'unico istante da quando ho incontrato Jack Ziegler al cimitero in cui posso avere la certezza assoluta di essere solo. Sto scommettendo sul fatto che nessuno sia in grado di mantenere la sorveglianza durante un uragano di questa forza. Alle tre e venti i marosi si abbattono sulla diga marittima, superandola e trasportando sabbia, alghe e addirittura pesci su Seaview Avenue. Cade un altro albero. Vedo un'auto solitaria che arranca sulla strada, ma il vento la fa ruotare su se stessa e il conducente l'abbandona e fugge. Lo controllo per sincerarmi che non faccia dietrofront. Un ramo sfonda la finestra della casa accanto con uno schianto tremendo. Ma io aspetto. Vinerd Howse è ombrosa e tremante. La zona è completamente priva di corrente elettrica. La strada è deserta. Non ci sono auto, camioncini o fuoristrada. Non ci sono biciclette. Non c'è letteralmente nessuno, e quando esco nella tempesta, penetrando il grigio infinito con il potente riflettore portatile che ho acquistato sul continente riesco a vedere le facciate sigillate di ogni singola casa di Ocean Park. Faccio scorrere il raggio sulle finestre e sui portici, sugli alberi e sul palco dell'orchestra, alla ricerca di un essere umano nascosto. Niente. Ripeto l'operazione sui lati e sul retro della casa. Il mio impermeabile
può fare ben poco per proteggermi mentre attraverso il nostro piccolo giardino illuminando le finestre dei vicini. Sono solo. Chiunque altro al mondo è dotato di buonsenso. Questo momento appartiene ai folli. Il mio momento. Di nuovo in casa, lascio il riflettore portatile e prendo una normale torcia elettrica. Passando davanti alla sala da pranzo rivedo quella sciocca copertina di "Newsweek": L'ora dei conservatori. Ma non era così sciocca, dopo tutto. Forse il Giudice l'aveva tenuta come ricordo. Di qualcuno a cui doveva delle scuse. Rivedo le fotografie molto diverse appese alle pareti dell'atrio di Thera. "Com'era prima." Mio padre ripeteva quella frase di continuo, cercando di inculcarmela. Sperando che non la dimenticassi. Salgo al primo piano della casa e abbasso la scala che conduce in soffitta. Il basso solaio di Vinerd Howse non è un luogo in cui d'estate convenga trascorrere più di venti o trenta secondi. Per qualche scherzo della fisica l'aria calda che va verso l'alto, forse, oppure la cattiva ventilazione - l'aria è soffocante e praticamente irrespirabile anche quando nel resto della casa è sceso il fresco della sera. In pieno uragano, l'atmosfera è ancora peggiore. Fuori fa freddo, ma qui dentro ogni singolo passo mi fa sudare. E, a parte questo, il coraggio per poco non mi abbandona quando vedo oscillare il tetto. Ma lo studioso che è in me prende il sopravvento, affascinato dai caotici movimenti. Non ho mai visto un tetto che si solleva a intermittenza, mentre gli stessi travicelli tremano come immagino farebbero durante un terremoto. Mi sento straordinariamente al sicuro. Comincio a perlustrare il ridottissimo spazio. So che è quassù, da qualche parte. Nascosto tra il ciarpame accumulato negli anni, ma è qui. Deve essere qui. Lo zio Derek, sto pensando. Come ho potuto dimenticarmi dello zio Derek? È stato lui a darmi il soprannome. Inciampo su bauli, vecchi vasi e lanterne, frugo tra indumenti e libri ancora più vecchi, ma non lo trovo. La pioggia e il vento sferzano l'unica finestra come se pretendessero di entrare. Sento uno sgocciolio e capisco che il tetto ha cominciato a perdere. Il locale non è stipato di oggetti, a differenza della soffitta di Mariah in Shepard Street: trovare ciò che sto cercando non dovrebbe essere così difficile. Mi graffio uno stinco su un frusto divano e mi meraviglio dell'energia e della stupidaggine che ci sono volute
per trasportarlo quassù. Sotto un cappotto trovo il mio vecchio guantone da baseball, che credevo di aver perduto per sempre. Scopro un quaderno pieno di disegni infantili di fari costieri. Anche questo mio? Di Abby? Non ricordo. Il comignolo cigola. Trovo un ombrellone che non viene aperto da un decennio o due, e un paio di teli da spiaggia che non vengono lavati da altrettanto tempo. Sono pronto a rinunciare. Forse la mia teoria è sbagliata, forse sono lontano dalla verità... Ma so di avere ragione. "Com'era prima." B4. La prima mossa del doppio Excelsior quando il bianco perde. A indicare, però, non la casella di una scacchiera immaginaria in un cimitero, ma una parola. B4. Before. Cioè, "prima". Com'era prima. Prima che andasse tutto in malora. Ma non andò in malora quando mio padre lasciò la corte d'appello. Era successo già da tempo. Era andato in malora - così continuava a ripetere, a sentire Alma - quando aveva rotto con suo fratello, spinto dall'ambizione. Lo zio Derek, il suo fratello minore, il fedele comunista che negli ultimi anni della sua vita si era votato al nazionalismo. Lui non amava la protesta pacifica - "pregare mentre la polizia ti sfonda il cranio", la definiva - bensì la battaglia. La lotta armata. Quando il Giudice non era nei paraggi ci sedevamo incantati ai piedi dello zio Derek, soprattutto Abby. Attivismo, attivismo, attivismo, predicava lui. Ma soltanto con l'ideologia giusta. Gli piacevano le Pantere Nere, anche se reputava che la loro ideologia fosse un po' carente. Gli piaceva l'SNCC, il Comitato non violento di coordinazione studentesca. Ma più di tutti, Derek ammirava i comunisti neri che si impegnavano nella lotta. E chi era la comunista nera più in vista? Angela Davis. Angela Davis. Sposto un tappeto arrotolato, e all'improvviso me lo trovo davanti. Drizzo la schiena. Sto guardando l'animale di peluche che Abby aveva vinto alla fiera: il panda che la mia povera sorellina aveva chiamato George Jackson, come il militante ucciso mentre cercava di fuggire dalla prigione di San Quentin. A quei tempi ogni donna di colore americana di una certa età sembrava innamorata di lui, anche chi, come Abby, era decisamente troppo giovane. George Jackson, il rivoluzionario bello e dinamico. George Jackson, il presunto fidanzato di Angela Davis.
Il ragazzo di Angela. Sono in cucina, e sto riflettendo. La tempesta continua a scuotere la casa. Qualche minuto fa sono uscito di nuovo con il riflettore portatile, sfidando vento, pioggia e fulmini, la furia estiva della natura, per assicurarmi di non essere osservato. Per un istante da brivido, puntando il raggio verso il palco dell'orchestra offuscato dalla pioggia, ho avuto quasi la percezione della presenza di un osservatore, e così ho attraversato di corsa Ocean Avenue e ho perlustrato i dintorni. Niente. Nessuno. Ma adesso sono fradicio, e il riflettore sta mostrando evidenti segni di stanchezza. Troppo tardi per comprare delle nuove pile. Ho una lampada portatile da interni, che ora uso per illuminare George. L'orsacchiotto è sul tagliere di legno, e giace inerte come in attesa di essere sezionato. Lo sto tastando, centimetro per centimetro, scostandone con cautela il pelo, cercando tracce di uno strappo o di un taglio ricucito a mano. Non trovo nulla. Sollevo l'animale e lo scuoto, aspettandomi che ne fuoriesca un messaggio segreto, ma non succede niente. Gratto gli occhietti di plastica con le unghie, ma non si stacca nulla. Rivolto la piccola maglietta azzurra del panda (che un tempo andava bene ad Abby) ma non trovo lettere nascoste. E così dedico la mia attenzione al punto su cui si è fissata fin da quando ho spostato il tappeto e ho scoperto l'orsacchiotto: la cucitura dove la zampa destra incontra il torso e da cui la disgustosa imbottitura rosa fuoriesce da trent'anni. Vi infilo un dito, poi due, ma sento soltanto l'imbottitura. Lentamente, con cautela, attento a non rovinare quello che potrei trovare, estraggo il materiale interno e lo spargo sul banco. E senza bisogno di andare troppo a fondo, le mie dita fanno presa su qualcosa. È un oggetto piatto e duro, largo una decina di centimetri. Tira, tira lentamente, non romperlo... ... sembra quasi... quasi... ... quasi un dischetto per computer. Ed è esattamente questo. Sollevo il dischetto reggendolo fra due dita, avvicinandolo alla luce per controllarne le condizioni. Sono infuriato con il Giudice. Tutte queste ricerche, tutti gli indizi, i morti e i feriti, per questo! Un dischetto! Nella calura della soffitta per quasi due anni! A cosa stava pensando? Non gli era mai passato per la testa che l'alta temperatura poteva danneggiarlo? Non è mai stato portato per la tecnologia, mio padre; la rivoluzione digitale era,
secondo il suo riaffermato punto di vista, un gigantesco errore. Cercando di calmarmi, poso il dischetto sul banco. È leggermente deformato, e non oso inserirlo nel drive del mio portatile. Incredibile. Che spreco. Ma forse contiene ancora qualcosa. Chi conosco che potrebbe avere la competenza necessaria per recuperare dati da un dischetto danneggiato? Mi viene in mente soltanto un nome: il mio vecchio compagno di college John Brown, professore di ingegneria elettronica alla Ohio State. Una delle ultime volte che l'ho visto, John ha adocchiato Lionel Eldridge nel bosco dietro casa mia, anche se allora non sapevamo che si trattava di Lionel. Quello stesso innocente pomeriggio, Mariah mi ha detto che il rapporto dell'investigatore privato era scomparso, e le disposizioni di mio padre sembravano lontanissime. Ora le ho finalmente in mano, e ancora una volta ho bisogno che John mi aiuti ad accedervi. Perché aspettare? Posso chiamarlo subito, a meno che la tempesta non abbia abbattuto le linee telefoniche oltre che quelle elettriche. Prima di farlo prendo la precauzione di rinfilare il dischetto nell'orsacchiotto di peluche di mia sorella. Con l'uragano che imperversa contro le finestre, potrebbe essere il nascondiglio più sicuro. Sto per andare nel salottino a cercare la rubrica quando la porta della cucina si spalanca di botto. Mi giro, immaginando che sia stato il vento. Non è così. Ritto sulla soglia mentre cortine di pioggia si riversano in casa, armato di una piccola pistola che gli brilla fra le dita, c'è il giudice aggiunto della corte suprema Wallace Warrenton Wainwright. 62 LA BATTAGLIA PER GEORGE «Buonasera, signor giudice» dico nel tono più calmo possibile. «Non sembri troppo sorpreso.» «Non lo sono.» Anche se in realtà non è vero. Guardo la sua mano armata. Sono stanco di guardare mani armate, ma c'è poco altro da fare. Wainwright si richiude la porta alle spalle e increspa le labbra sottili. «È quello?» Indica con la pistola. Quando è entrato stavo reggendo l'orsacchiotto, e lo sto ancora stringendo fra le mani. Non dico niente, e Wainwright sospira. «Non fare giochetti, Misha. È troppo tardi. È evidente che
tuo padre ha nascosto qualcosa lì dentro. Di che si tratta?» «Un dischetto per computer.» Si massaggia il collo con la mano libera. Il suo impermeabile blu scuro, difficile da distinguere nel mezzo della tempesta, sgocciola sul pavimento. «Mi ha detto che c'era qualcosa. Ma non mi ha detto cosa. E neanche dove.» La sua voce è vaga, distaccata, quasi irreale. Mi rendo conto che è esausto, fisicamente ed emotivamente, quanto me. «Tutti sapevano che c'era... qualcosa. Ma nessuno cercava un orsacchiotto. E nessuno credeva che potesse aver lasciato un dischetto. Non tuo padre, con il suo scarso amore per la tecnologia. È stato molto furbo. Un dischetto.» Un lungo respiro mentre riacquista il controllo di sé. «Allora, quando hai capito che ero coinvolto?» «Dal momento in cui mi sono reso conto di una cosa ovvia. E cioè che mio padre non poteva occuparsi da solo di tutti quei casi. L'organo giudicante della corte d'appello federale è composto da tre giudici. Se mio padre stava truccando i verdetti, aveva bisogno di due voti, non di uno.» Wainwright avanza nella stanza, portandosi accanto al passaggio ad arco che dà sul corridoio. Mi accorgo che in questo modo può tenere d'occhio sia me che l'ingresso di servizio, come se si aspettasse qualche sorpresa. Sembra sapere il fatto suo, con la pistola, e così decido di non fare movimenti bruschi. Il mio piano ha avuto successo, ma è anche fallito. Ero sicuro che nessuno si sarebbe avventurato fuori in questa tempesta, e pertanto non ho fondate speranze di salvezza. «E allora? Avrebbe potuto essere uno qualsiasi di una dozzina di giudici. Non dovevo per forza essere io.» Wainwright sembra preoccupato, e mi viene in mente che si sta chiedendo se abbia fatto il necessario per cancellare le proprie tracce. Se io l'ho scoperto, chi altri potrebbe esserci arrivato? «È vero. Ma in pratica me l'ha detto lei stesso, quando sono venuto a trovarla. Ha detto che mio padre non avrebbe addomesticato i verdetti più di quanto l'avrebbe fatto lei.» Mi offre il suo famoso sorrisetto storto, più sardonico che divertito. Ci siamo lasciati ingannare per tutti questi anni? Abbiamo davvero scambiato la sua arroganza morale per compassione? Probabilmente ha goduto nel dirmi la pura verità mentre stava mentendo. Wallace Wainwright, come il Giudice, ha sempre saputo di essere più intelligente di quasi tutti gli altri. Non è abituato al fatto che qualcuno stia al passo con lui. «Suppongo di aver fatto troppo il furbo» dice.
«Suppongo.» Non c'è ragione per non dirgli il resto. Dopo tutto, finché continuiamo a parlare lui non spara, e ho imparato ad apprezzare l'idea di non farmi sparare. «E suppongo anche che Cassie Meadows la tenesse aggiornata su quello che succedeva.» Forse è la mia immaginazione. La pistola sembra vacillare leggermente. «Cosa te lo fa pensare?» «Avrei dovuto capirlo fin da subito. Mallory Corcoran mi ha affidato a Cassie perché non aveva tempo per i miei problemi. E ha cercato di impressionarmi dicendomi che lei è stata cancelliere della corte suprema. Era chiaro che tutto ciò che Cassie scopriva veniva riferito a qualcun altro. Avevo dato per scontato che fosse Mallory Corcoran, ma poi mi è venuto in mente che forse Cassie si teneva in contatto con il suo ex principale. Il giudice a cui faceva da cancelliere. Così ho controllato sul MartindaleHubbell e, come volevasi dimostrare, Cassie Meadows era il cancelliere del giudice Wallace Wainwright. Probabilmente il fatto che fosse Cassie a occuparsi del mio problema era soltanto una coincidenza, ma lei ne ha comunque approfittato.» Non mi ha detto di alzare le mani. Sto ancora reggendo George Jackson. Voglio che la conversazione continui. «È una semplice pettegola che le riferiva qualche voce, oppure faceva parte del gioco?» «Non ho intenzione di rispondere alle tue domande.» Fuori il vento continua a sferzare, e da un albero vicino alla casa si stacca un ramo con uno schiocco secco. La pioggia insiste nel suo regolare assalto alle finestre. In corridoio, il giudice Wainwright aggrotta la fronte spostandosi leggermente di lato, come se non riuscisse a stare fermo. Riflette su quello che ho appena detto, chiedendosi ancora una volta se non si sia tradito. Poi scuote il capo. «No. No, non è sufficiente. Non saresti arrivato a questa conclusione soltanto perché Cassie aveva lavorato per me.» Mi punta la pistola al petto. Indietreggio verso il lavandino e lui mi segue, tenendosi a distanza di sicurezza nel caso tentassi di sferrargli un calcio o un pugno, se solo sapessi come fare. Per quanto riguarda l'orsacchiotto, Wainwright non me l'ha chiesto e io non gliel'ho offerto. «Perché non sei rimasto sorpreso nel vedermi? Come facevi a sapere che c'era qualcun altro? Chiaramente pensavi che tuo zio Jack ti stesse sorvegliando. E magari anche i suoi soci in affari. Ma perché avrebbe dovuto esserci una terza parte interessata?» «Ha ragione. Il fatto che Meadows lavorasse per lei non è stato sufficiente.» I palmi delle mie mani e la schiena sono bagnati di sudore. Ho ancora una pallida speranza di fuga. La tempesta che avrebbe dovuto proteg-
germi può ancora salvarmi, se soltanto riuscissi a far parlare Wainwright ancora per un po'. «Ma sapevo che doveva esserci... come ha detto lei, una terza parte interessata... perché sapevo che c'era qualcuno che non era a conoscenza dell'editto di Jack Ziegler.» Sincera confusione. «Quale editto?» «Che non mi si dovesse toccare. Gli altri che mi seguivano erano al corrente delle regole. Non mi si poteva torcere un capello, né a me né ai miei familiari. Jack Ziegler si era messo d'accordo con... be', con chiunque si facciano certi accordi. L'ordine è stato emesso. Non mi sarebbe dovuto succedere niente, e io avrei trovato quello che mio padre aveva nascosto. E così tutti si sono limitati a tenermi d'occhio e aspettare. Ma poi, quando hanno cominciato a succedermi delle cose, ho capito che o le regole erano cambiate, o c'era di mezzo qualcun altro. Mi è stato... assicurato che le regole non erano diverse da prima. E così doveva esserci un estraneo. Qualcuno che non aveva conoscenze nella cerchia di Jack Ziegler.» «Ti sorprenderebbe sapere dove arrivano le mie conoscenze, Misha.» So cosa intende dire, ma scuoto la testa. «Non è sufficiente che Jack Ziegler possa mettersi in contatto con lei. È lei che dovrebbe essere in grado di mettersi in contatto con lui.» Wainwright non gradisce affatto la notizia; glielo posso leggere sul volto, che da sardonico è diventato furioso. Forse non gli piace ricordare che i suoi rapporti con Jack Ziegler non sono mai stati intimi come quelli di mio padre. Una nuova variante della sindrome di Stoccolma: il corrotto vuole essere il preferito del corruttore. Mi ammonisco di non cercare di umiliare un uomo armato. «Quindi, Jack Ziegler ha diramato un editto» dice lui alla fine, liberando un lungo respiro. «Ordinando che nessuno ti toccasse.» «Sì. Lei non lo sapeva, e mi ha fatto aggredire da un paio di energumeni. E c'è anche un'altra cosa.» Sono indietreggiato fino ad aggirare completamente il tavolo con il tagliere. Ora Wainwright è di fronte al lavandino. George Jackson, la zampa quasi staccata dal corpo, è ancora uno scudo fra noi. «Che cosa?» «Meadows. Ha cominciato a chiamarmi Misha. Da chi poteva averlo sentito? Non dallo zio Mal, che mi chiama Talcott. Poteva averlo sentito dire da Kimmer, ma dubito che sarebbe stata così sfrontata da adottare un soprannome usato soltanto da mia moglie. Potevo pensare a una sola persona che Meadows conosceva a Washington e che mi chiamava Misha.
Lei.» Il giudice Wainwright annuisce con un sorriso distante. «Molto bravo. Sì. In futuro dovrò stare più attento.» Sospira. «Bene, Misha, è finita. Dammi il dischetto e me ne andrò.» Guardo di sfuggita la porta alle sue spalle, e lui se ne accorge. «Non c'è nessun altro, temo. Nessuno verrà a salvarti. Siamo soli. Dammi il dischetto. Per favore, non costringermi a chiedertelo un'altra volta.» Continuo a prendere tempo. «Cosa c'è di tanto importante nel dischetto? Cosa contiene?» «Cosa contiene? Te lo dico io cosa contiene. Protezione.» «Che tipo di protezione?» «Oh, Misha, andiamo, a questo punto l'avrai sicuramente capito. Non sei il tonto che fingi di essere. Nomi. Nomi delle persone che hanno avuto interessi in quelle società in tutti questi anni. Ministri. Sì. Senatori. Un paio di governatori. Alcuni direttori generali e importanti avvocati. Chiunque possieda quel dischetto può assicurarsi una gran bella protezione.» E all'improvviso capisco. «Oh. Oh, no. Intende dire protezione da Jack Ziegler. La tiene ancora in pugno, non è vero? Lui o i suoi soci in affari? E non le permettono di smettere, giusto?» «Non mi permettono di andare in pensione. Sono così esigenti.» Non dico niente. Anche se c'ero quasi arrivato, l'implicita confessione mi ha scosso. «Ma tuo padre non era meglio di loro. Quando gli ho chiesto di condividere con me le sue informazioni, mi ha guardato e mi ha risposto che ero parte delle sue disposizioni. E che se non mi fossi tenuto alla larga da lui, l'avrebbe rivelato al mondo intero.» «Un anno prima che morisse» mormoro, arrivando finalmente a capire. «Cos'hai detto?» «Mi stavo, ehm, chiedendo qual è la versione ufficiale della sua presenza sull'isola.» Una menzogna, ma sospetto che qualsiasi appello alla sua vanità provochi una disquisizione. Deve farmi vedere quant'è intelligente. Prima di uccidermi, intendo dire. «Andiamo, Misha. Sono un ospite ambito. Sì. Be', anche tu hai fatto qualche errore. Sei stato troppo deciso, Misha; era chiaro che ti preparavi a fare qualcosa. Ho saputo dell'uragano e della tua decisione di venire comunque. Be', a quel punto ho capito cosa tramavi. Ho accettato un vecchio invito. Questo pomeriggio, quando è arrivato l'uragano, sono uscito a fare due passi.» Di nuovo quel suo sorriso storto. «Ho detto ai miei anfitrioni che mi piacciono le tempeste. In questo preciso istante mi trovo fuori a
passeggiare.» Il vento spalanca la porta di servizio e poi la richiude. E Wainwright non ha più voglia di abbandonarsi ai ricordi. «Bene, Misha, ora basta con le chiacchiere. Dammi il dischetto.» «No.» «Non fare lo stupido, Misha.» Scopro in me una sorprendente testardaggine. «Mio padre non l'ha lasciato a lei. L'ha lasciato a me. Voglio vedere cosa contiene, poi deciderò che farne.» Il giudice Wainwright spara un colpo. Lo fa senza preavviso, e la sua mano trema a malapena. Il proiettile mi sibila sopra la testa mentre mi abbasso, naturalmente troppo tardi, e penetra nel muro della cucina. «Ero un marine, Misha. So come usare quest'arma. Ora consegnami il dischetto.» «Non le servirebbe a niente. È rimasto troppo al caldo e si è deformato.» «Ragione di più per darmelo.» Scuoto il capo. Il giudice sospira. «Misha, considera la cosa dal mio punto di vista. Non ce la faccio più. Sono rimasto legato troppo a lungo a quella gente. Devo uscirne. Ho bisogno di quel dischetto.» I suoi occhi si induriscono. «Tuo padre si è rifiutato di dirmi dov'era, ma da te posso ottenerlo di sicuro.» «Mio padre si è rifiutato di dirglielo» ripeto. «Due anni fa questo ottobre, giusto? È stato allora che gli ha chiesto dove l'aveva nascosto?» «È possibile. E allora? Ho commesso un altro errore?» «No, ma...» Ma era stato lui a mettere paura al Giudice, sto pensando. Era stato Wallace Wainwright - e non Jack Ziegler, come credevo - a spaventarlo tanto da convincerlo a chiedere in prestito una pistola al Colonnello. E a iscriversi a un poligono di tiro per imparare a usarla. Wainwright, stanco e intenzionato ad abbandonare la corte suprema, si era presentato da lui un anno prima che morisse e aveva cercato di farsi rivelare le informazioni che mio padre aveva nascosto per proteggersi da Jack Ziegler e dai suoi soci. Il Giudice aveva rifiutato e Wainwright aveva minacciato di smascherarlo, cosa che aveva portato mio padre a chiedere umilmente aiuto a Miles Madison. Era passato qualche mese, non era successo niente e mio padre aveva riposto la pistola. Poi, lo scorso settembre, un disperato Wainwright si è rifatto vivo, e mio padre, altrettanto disperato, ha ripreso a frequentare il poligono di tiro. Cerco di dipingermi queste due icone giudiziarie, uno sulla destra e l'altro sulla sinistra, intenti a duellare per il possesso del materiale che ora giace all'interno di questo orsacchiotto; a darsi battaglia spinti dal frenetico desiderio di sfuggire alla punizione per una
vita professionale corrotta. «La pistola» sussurro. «Ora capisco.» «Quale pistola?» «Il Giudice... si era procurato una pistola. Era...» Credevo che le sorprese fossero finite, e questa sembra a malapena plausibile. Ma è l'unica spiegazione. Lo zio Mal non ha capito niente. Ciò che mio padre aveva detto al Colonnello era la pura verità: voleva proteggersi. Ma non, come immagina Mariah, da un possibile assassino. Voleva proteggersi da un ricattatore. Sullo schermo della mia mente scorre l'ultimo mese di vita del Giudice. Quando Wainwright è ricomparso, mio padre ha telefonato a Jack Ziegler e l'ha visto a cena. È così facile, a questo punto, capire qual è il favore che il Giudice deve avergli chiesto, spingendo il suo vecchio amico e principale tentatore a rifiutarglielo. Scorgendo il lato divertente della nostra serie di errori, riesco addirittura a ridere. «Cosa c'è di divertente, Misha?» «So che troverà difficile crederlo, signor giudice, ma credo che mio padre intendesse ucciderla. Sul serio. Se lei non lo avesse lasciato in pace, se avesse continuato a minacciare di smascherarlo. Aveva comprato una pistola, e penso che volesse spararle.» Lo sguardo di Wainwright si incupisce. Per un lugubre istante sembra meditare sulla diversa conclusione che questa storia avrebbe potuto avere. Poi il suo volto si contorce in un ringhio. «Ora sai che genere d'uomo era veramente tuo padre. Il grande giudice Oliver Garland. Dici che era pronto a uccidermi. Be', non posso dire che mi sorprenda. Era un mostro, Misha, un mostro egoista, arrogante e senz'anima.» Fuori un altro albero si spezza in due con uno schianto sonoro e improvviso. La pistola sobbalza e Wainwright si guarda intorno. Ma poi i suoi occhi pieni di rabbia tornano a posarsi su di me. Ora capisco perché non mi ha ancora ucciso. Vuole che il figlio soffra per i peccati del padre. E a quanto pare sta funzionando. «È stato tuo padre a trascinarmi in questo pasticcio, Misha. È stato lui a farmi cominciare. Che ne dici di questo?» Non dico nulla. Non sono più in grado di sorprendermi, per quanto riguarda il Giudice. Ma è facile capire come sia riuscito ad allettarlo. Il povero ragazzo del Tennessee arriva al successo. Una moglie ricca? Forse il frutto di due decenni di mazzette, riciclate attraverso la famiglia della moglie. Qualcosa del genere. Di sicuro troppo sofisticato perché io riesca a capire fino in fondo, ma il risultato è lo stesso: Wallace Wainwright, il grande progressista, l'uomo del popolo, si è arricchito addomesticando
verdetti. Se non altro, se il motivo conta qualcosa, mio padre l'aveva fatto per amore. «Era come il diavolo, tuo padre. Non sai quanto poteva essere persuasivo! E completamente corrotto. Ti sembra abbastanza privo di scrupoli? Prendeva gli ordini da Jack Ziegler, votava come gli si diceva di votare. Pensaci, Misha. Ma era così furbo che nessuno lo sapeva. E quando si rivolse a me lo fece con grande cautela, girando intorno all'argomento... Ma lasciamo perdere. L'amore per il denaro è la sorgente del male, non è vero? Volevo avere successo e ricchezza, e tuo padre... se n'è approfittato.» Sto per protestare che mio padre non ha mai preso soldi da nessuno ma mi trattengo, poiché capisco che il fatto che non l'abbia mai detto a Wallace Wainwright è una componente del suo genio malvagio. Non saprò mai come il Giudice avesse sedotto il futuro membro della corte suprema, ma noto come il discorso di autocommiserazione di Wainwright segua l'andazzo tipico di Washington: lui ha preso le mazzette, ma la colpa è di chi gliele ha date. Wallace Wainwright sembra rendersi conto del proprio tono, poiché si interrompe. «Abbiamo passato troppo tempo fra i ricordi, Misha. Ora, se non ti dispiace, il dischetto. Mettilo sul tavolo.» «No.» «No?» «Non ho paura di lei. Non provi a torcermi un capello.» Disperazione. «Ha visto cos'ha fatto Jack Ziegler ai suoi scagnozzi.» «Ah, sì, i miei scagnozzi. Bella parola. Scagnozzi, sì.» È inorgoglito. Se riesco a fare appello alla sua vanità, posso continuare a farlo parlare. «Non è così facile, sai. Trovare degli scagnozzi, voglio dire.» Quel suo sorriso storto. «Dopo tutto, sono un giudice della corte suprema degli Stati Uniti. Non hai idea di quali rischi abbia corso. Ho dovuto ripescare le mie conoscenze dei tempi dei marines... Ma lasciamo stare. È stato un rischio, ma ora quella catena è spezzata. Sì. Gli scagnozzi non hanno mai saputo chi li ha assoldati, e nessuno li può collegare a me.» "La catena è spezzata." Forse è stato lo stesso Wainwright a rimuovere l'anello principale. Magari con la stessa pistola che mi sta puntando addosso. «Capisco.» Tanto per dire qualcosa. L'ammissione noncurante che Wainwright, malgrado la sua posizione, ha recentemente ucciso qualcuno mi ha lasciato pochi dubbi sul mio destino.
«No, non capisci.» Tende il braccio armato sopra il tavolo, poi lo ritrae prima che possa decidere di afferrargli la mano. È inspiegabilmente furioso. Il vento fa sbattere qualcosa contro il portico. «Non sei d'accordo. Pensi che nella mia posizione avresti fatto una scelta diversa.» «So solo quella che ha fatto lei.» Senza alcun preavviso, Wainwright esplode. «Mi stai giudicando! Non ci posso credere. Tu che giudichi me! Come ti permetti? Sei ancora peggio di tuo padre!» Agita la pistola come un folle, e l'adrenalina mi scorre più veloce nelle vene. «Probabilmente pensi che avrei dovuto fare qualcosa di nobile, come costituirmi. Non sai quello che dici. Hai idea di chi sono? Nell'ultimo decennio sono stato l'unica speranza, te ne rendi conto? La Costituzione sta morendo, nel caso tu non l'abbia notato. Anzi, no, la stanno assassinando. Facile per te scagliare pietre, standotene nel tuo ufficio a scrivere articoli che nessuno legge. Sono io quello che sta lì a combattere per la libertà e l'uguaglianza in questi tempi reazionari! Sono il leader di un'intera corrente della corte suprema!» La sua voce si raddolcisce. «E loro avevano bisogno di me, Misha. Davvero. Il lavoro che abbiamo svolto per la giustizia è troppo importante perché possa essere fatto deragliare da... da una cosa come questa. Non potevo mollare, Misha. Anche se Jack Ziegler mi avesse concesso di farlo, non ne avevo il diritto. La corte aveva bisogno di me. Il paese aveva bisogno di me. Sì, d'accordo, non sono un santo, molto tempo fa mi sono prestato a certi compromessi, lo so. Ma anche le questioni di principio contano qualcosa! Se avessi lasciato la corte, se la mia corrente avesse perso il suo leader, la legge sarebbe incalcolabilmente peggiore. Non lo capisci?» Sì, lo capisco. Sono tramortito dalla sua ipocrisia, ma lo capisco. Tentazioni, tentazioni: Satana non cambia mai. «E così non... non ha potuto dimettersi.» «No, non ho potuto. Era qualcosa di più grande di me. Il mio destino non aveva importanza, contavano soltanto le questioni di principio. È una vocazione, Misha, la battaglia per la giustizia, e io non ho potuto fare altro che rispettarla. La corte aveva bisogno di me. Per conservare una traccia, per quanto piccola, di decenza ed equità. La gente crede nella corte suprema. Se avessi permesso che lo scandalo ne danneggiasse l'immagine, persone in carne e ossa ne avrebbero pagato le conseguenze.» È tornato all'inizio, e sembra spossato dalla sua stessa argomentazione. «Persone in carne e ossa» ripete. «Capisco.»
«Sei sicuro, Misha?» Agita di nuovo la pistola. «Vorrei poter continuare a lottare, davvero. Ma sono stanco, Misha, sono molto stanco.» Un sospiro. «Ora, ti prego, dammi quello per cui sono venuto.» Ancora barcollante dopo la sua filippica, chiamo a raccolta un'ultima punta di coraggio: «E poi?». Quando non risponde, dico quello che sto pensando: «Non è venuto soltanto per il dischetto. È qui per uccidermi». «È vero. Non ti racconterò storie. Mi piacerebbe che ci fosse un altro modo. Però, Misha, puoi ancora scegliere. Non voglio che tu soffra inutilmente. La tua morte può essere rapida e indolore, un proiettile alla nuca; oppure prolungata, se cominciassi, diciamo, sparandoti alle ginocchia, poi passassi ai gomiti e infine all'inguine. Fa un male del diavolo, ma non si muore subito.» Indica l'orsacchiotto con la pistola. «Ora dammi il dischetto.» «No.» «In Vietnam ho ucciso. So usare una pistola, e non ho paura di farlo.» Ricordo la foto nel suo ufficio, un Wainwright molto più giovane nell'uniforme dei marines. Non ho alcun dubbio che sia vero. «Può anche darsi» provo a dire «ma non lo farà in casa. Rischierebbe di lasciare troppe tracce.» All'esterno, schianti e scricchiolii mentre tutto viene scaraventato contro tutto. L'uragano, incredibilmente, sembra rinforzare. Ma forse il peggio è passato e questa è solo la coda. «Posso spararti anche qui» risponde calmo Wainwright. «E allora perché non l'ha fatto?» «Perché l'orsacchiotto potrebbe essere un altro bluff. Non ho intenzione di sottovalutarti. Hai ingannato uno specialista, in quel cimitero. Ma abbiamo parlato abbastanza. Fra trenta secondi ti sparerò alla rotula, a meno che tu non mi dia...» Un boato terribile fa tremare la casa, stordendoci entrambi. I quadri si staccano dalle pareti, il vasellame va in frantumi negli armadietti. Il giudice Wainwright, che non è un uomo del New England, sussulta. Non sa quello che so io: che il botto tremendo è stato prodotto dal comignolo che, divelto dall'uragano, è crollato lungo disteso sul tetto. Alza automaticamente gli occhi con espressione allarmata, chiedendosi forse se l'intera casa stia crollando. Approfittando della distrazione e continuando a stringere George Jackson, mi tuffo fuori dalla porta di servizio nella tempesta.
63 IL BAMBINO ACQUATICO La porta di servizio si apre su una veranda di legno che dà sulla minuscola striscia di prato dall'erba bruciata e pieno di buche che passa per giardino posteriore. Supero gli scalini con un balzo e atterro nella palude in cui si è trasformato il terreno. Sguazzo oltre l'angolo della casa nello stretto vicolo che conduce su Ocean Avenue. So che Wainwright mi seguirà poiché non ha scelta, e so anche che il mio piano di sfruttare l'uragano mi si è ritorto contro nel peggiore dei modi: posso correre e gridare quanto voglio, ma anche se riuscissi a farmi sentire nella tempesta non c'è in giro nessuno, nemmeno un poliziotto, che mi possa aiutare. Per un attimo sono spaventato, quasi sopraffatto dalla maestosità delle nuvole rabbiose che vorticano basse nel cielo. Poi sento un proiettile colpire la fiancata della casa dei vicini e mi metto in moto. Wallace Wainwright potrà anche sparare a casaccio, ma non durerà, e ne so troppo poco di armi da fuoco per capire quanti colpi gli rimangono. Avanti! La mia Camry, con il suo nuovo e scintillante paraurti, è parcheggiata sul ciglio della strada, totalmente inutile visto che le chiavi sono in casa, nella tasca della giacca. Mentre attraverso la strada sento Wainwright che grida e impreca alle mie spalle, ma non oso voltarmi. Quasi tutti i vantaggi sono dalla sua parte. Lui ha un impermeabile e un cappello, io indosso una tuta da ginnastica che mi si è già incollata al corpo. Lui calza un paio di stivali, io scarpe da ginnastica impregnate d'acqua. Lui ha una pistola, io un orsacchiotto. Tanto per sottolineare il concetto, un proiettile rimbalza sull'asfalto dietro di me. Sta aggiustando la mira. Da parte mia ho due vantaggi, mi ricordo mentre sguazzo attraverso il parco, il cui terreno è ormai coperto da più di due centimetri d'acqua. Il primo è che fin da quando ero piccolo ho sempre amato stare fuori durante un temporale, quantomeno a Martha's Vineyard; mia madre mi chiamava il suo bambino acquatico. Il secondo vantaggio è che ho trent'anni in meno di Wainwright. D'altra parte a me hanno sparato più recentemente che a lui, e non ho il bastone. Nel mezzo di Ocean Park una raffica di vento mi manda a sbattere contro il palco coperto dell'orchestra, e staccandomi dalla parete mi volto a guardare. Wainwright è un'ombra nella tempesta; deve ancora superare la
balaustra di legno che fiancheggia la strada, ma presto mi raggiungerà, perché ho poche destinazioni verso cui fuggire. Sento i punti di sutura che si allentano, i muscoli doloranti. Sono esausto, le gambe mi fanno male per lo sforzo della breve corsa. Per quanto fuori allenamento, dovrei essere in grado di distanziare il vecchio giudice. Sfortunatamente, la mia gamba non è ancora guarita dalla ferita del proiettile di Colin Scott; zoppico, rallentando inesorabilmente mentre il dolore si propaga nella coscia ferita. Un altro sparo, coperto quasi del tutto dal rombo dei tuoni. La tempesta è ancora un'alleata: il vento sta rovinando la mira di Wainwright. Mi rendo conto di essere scappato nella direzione sbagliata. Non avrei dovuto attraversare Ocean Park, dove se il mio inseguitore riuscirà ad aggiustare il tiro sarò un bersaglio facile. Mi sarei dovuto dirigere in fondo all'isolato, verso i negozi - uno potrebbe essere aperto! - o verso la stazione di polizia, un agente solitario potrebbe essere di turno! Ma Wainwright, il veterano del Vietnam, mi ha anticipato aggirandomi da quella parte ed eliminando le possibilità di fuga in qualsiasi direzione che non sia quella della spiaggia. Se voglio rivedere mio figlio, devo muovere le gambe. E così mi lancio in un'andatura a metà fra il passo e la corsa in direzione dell'oceano, avanzando a fatica a causa di un nuovo, lancinante dolore all'addome, e pregando che il vento che devia il mio corso e la pioggia schiaffeggiante che mi ha già impregnato gli indumenti continuino a impedirgli di prendere la mira. Attraverso Seaview Avenue, e un proiettile colpisce la balaustra di metallo che separa il marciapiede dalla spiaggia. Wallace Wainwright ha settantun anni e sta guadagnando terreno. Per un attimo mi fermo in cima alla traballante scalinata di legno che scende fino all'Inkwell. Sotto di me onde feroci sferzano la spiaggia, rubandone una parte per sempre. Il pontile che di solito segna il confine con la zona sorvegliata è invisibile. Gran parte delle onde giunge fin quasi alla diga marittima prima di ritirarsi. Non voglio scendere. Ma Wainwright è dietro di me, e non ho scelta. Scendo goffamente i gradini, rimpiangendo il bastone. Sento Wainwright gridare. Accelero il passo, pur temendo il mare che infuria, e raggiungo l'ultimo gradino. Il quale, già vecchio e ora indebolito dalla tempesta, si spezza in due sot-
to il mio peso. Finisco lungo disteso sulle onde che coprono la sabbia e George Jackson mi vola via e finisce in acqua a più di tre metri di distanza, galleggiando beffardo. Il dolore mi riecheggia in tutto il corpo. Vorrei starmene qui nell'acqua fredda, lasciarmi trasportare al largo. Wainwright sta scendendo gli scalini, ma con cautela. Mi rimetto goffamente in piedi e sguazzo verso l'orsacchiotto di Abby, ma l'onda successiva mi fa finire di nuovo a gambe all'aria. Mi rialzo a fatica, mi allungo nell'acqua, tendo la mano mentre sento squarciarsi qualche altro lembo di carne e riesco a riafferrare George Jackson. Ma l'acqua gelida e vorticante mi è giunta quasi alla vita, le onde mi sbattono da una parte e dall'altra e le mie riserve di energia si sono quasi esaurite. L'orizzonte è inghiottito da rabbiose nubi scure. «Bene, Misha, sei stato bravo.» Wainwright, a un paio di metri di distanza, è nell'acqua più bassa. La sua voce è stridula. «Ora dammelo.» Lo guardo, con il suo impermeabile blu e gli stivali, così pratico, così preparato. Non si è lasciato ingannare nemmeno per un minuto, non si è fatto cogliere in fallo dalla scatola nel cimitero. Sapeva che ero tornato sull'isola, sapeva perché avevo atteso l'uragano. Sapeva ogni cosa. Mi gira la testa per il freddo e il dolore, e la mia volontà è semplicemente troppo debole. La sua intelligenza, la sua pazienza, la sua programmazione mi hanno sconfitto. Continuando a stringere l'orsacchiotto di Abby guardo la pistola scintillante, guardo il volto bianco, freddo e sicuro di Wainwright, e d'un tratto non riesco più ad andare avanti. Ho dato tutto ciò che potevo. Sono esaurito. Dal punto di vista emotivo come da quello fisico. Forse mi sparerà. Sono troppo stanco, troppo intirizzito, troppo infelice per preoccuparmene. Mi dispiace, Giudice. La saga delle disposizioni si è finalmente conclusa. So che sto per consegnargli l'orsacchiotto. Barcollo verso la spiaggia reggendo George Jackson di fronte a me, ma Wainwright sgrana gli occhi e indietreggia come se qualcuno stesse avanzando di soppiatto alle mie spalle, sorgendo dall'oceano per intervenire all'ultimo secondo: Maxine, Henderson, Nunzio o qualche altro vendicatore armato, ma quando mi volto ciò che vedo è un muro di acqua nera alto due metri che avanza rapidamente verso di noi. Wainwright si sta già precipitando verso le scale. Cerco di seguirlo, ma l'onda mi crolla addosso e mi scaraventa a terra. Per un paio di secondi il mio volto è sepolto nella sabbia e l'acqua mi sommerge. Non ho idea di
dove siano l'orsacchiotto, Wainwright e il resto, e se non mi muovo, dolore o non dolore, morirò affogato. Con la poca energia che mi resta balzo fuori dall'acqua ma vengo nuovamente inghiottito dalla corrente di ritorno e l'onda gigantesca mi trascina con sé senza che possa oppormi. Non ho più forze e così mi lascio trasportare dall'acqua aspettando che mi sommerga, finché arriva un'altra onda e mi riporta sulla spiaggia. Sento Wallace Wainwright che grida qualcosa. Mi drizzo a sedere, scuotendo la testa per liberarmi gli occhi e i capelli dall'acqua e dalla sabbia. Wainwright è in mare. Sta cercando di raggiungere l'orsacchiotto di Abby, che viene trascinato sempre più al largo dalla risacca. Rimango a guardare. Non c'è niente che possa fare per aiutarlo o per ostacolarlo, poiché mi resta soltanto la forza di starmene qui seduto sulla sabbia ad aspettare che la prossima onda mi sommerga. Wainwright è agile, per la sua età, ha la resistenza del corridore, ma anche da questa distanza mi rendo conto che non ha alcuna possibilità. Sembra aver perduto la pistola: sta allungando entrambe le braccia verso George Jackson. Trovo un momentaneo divertimento nell'immagine del grande eroe progressista bianco che cerca disperatamente di recuperare il grande martire nero. Poi aggrotto la fronte, perché a quanto pare mi sbagliavo. Wainwright ha catturato l'orsacchiotto. Stringendoselo al petto si sta girando per tornare a riva. E regge ancora la pistola. Doveva essersela infilata in tasca. Mi si sta avvicinando con torva determinazione, il volto contratto mentre lotta contro la risacca e avanza centimetro dopo centimetro verso la spiaggia. Per un istante arrivo addirittura a credere che ce la faccia. Poi un altro maroso alto due metri lo travolge e lo risucchia sott'acqua. Agita la mano nel vuoto, risale a prendere fiato una, due volte, poi scompare, trascinato nel cuore rabbioso della tempesta. La mia testa ricade sulla sabbia e, per un po', muoio anch'io. 64 DOPPIO EXCELSIOR "Fra le vittime dell'uragano" dice l'annunciatrice in tono solenne "figura il giudice Wallace Warrenton Wainwright della corte suprema degli Stati Uniti, annegato nelle acque dell'isola di Martha's Vineyard dopo essere apparentemente caduto in mare mentre passeggiava sulla spiaggia per vedere
più da vicino la tempesta. Malgrado l'uragano si sia esaurito tre giorni fa, il corpo è stato restituito dalle acque soltanto questa mattina. Wainwright, che aveva settantun anni, si trovava sull'isola ospite di amici. Considerato l'ultimo dei grandi progressisti del potere giudiziario, Wainwright era noto soprattutto per la sua emozionante difesa di..." Kimmer afferra il telecomando e spegne il televisore da cinquantatré pollici che fra noi è assurdamente diventato un oggetto del contendere. Si volta verso di me e sorride. «Hai idea di quanto sei fortunato, Misha? Sarebbe potuto succedere a te.» «Suppongo di sì.» «Ma cosa ci facevi su quella spiaggia?» Forse pensa ancora che stessi cercando di uccidermi. «Cercavo di sfuggire al giudice Wainwright. Che mi stava sparando.» «Oh, Misha, non fare il morboso. Non è affatto divertente.» Balza in piedi per ritirare i piatti di carta sui quali abbiamo appena finito di mangiare una pizza ordinata per telefono. È scalza, ma indossa ancora il completo da ufficio color crema e la camicetta azzurro pallido. È un po' dimagrita, forse volontariamente, forse per lo stress. È più splendida che mai, e più splendidamente irraggiungibile. In un angolo del salottino, Bentley sta giocando con il suo computer. Un'ora fa, quando sono venuto a prenderlo per il fine settimana, lui e Kimmer si stavano sedendo a mangiare una pizza al doppio formaggio, e la mia ex moglie mi ha invitato a trattenermi. «Bemmy batte, Bemmy batte!» grida felice nostro figlio. «Tre più sei fa nove! Nove! Bemmy batte!» «Bemmy batte» convengo senza aprire gli occhi. Sullo schermo della mia immaginazione, il finale si svolge in una quantità di modi diversi. Forse avrei potuto farmi forza e tuffarmi nelle onde per salvare Wallace Wainwright. Forse le mie riserve erano troppo scarse o lui era troppo al largo. A volte mi vedo mentre lo trascino fuori dalle onde. A volte mi vedo morire nel tentativo. A volte mi ricordo di pregare per la sua anima. A volte sono felice che sia morto. «Non è bellissimo, il nostro bambino?» mormora Kimmer in un sussurro perfettamente udibile. «Lo è.» «Hai gli occhi chiusi, sciocco.» «Sai una cosa? È bellissimo anche a occhi chiusi.» Ma li apro comunque, e per un dorato istante Kimmer e io siamo insie-
me, uniti nell'amore e nell'ammirazione per l'unica cosa al mondo a cui teniamo entrambi. Poi mi torna in mente il costoso giubbotto di pelle con la scritta "Duke University" ricamata in azzurro che ho trovato mentre appendevo il giubbotto nel guardaroba, e l'oro si trasforma in ciarpame. «Ah, Misha, a proposito. Indovina chi ha telefonato chiedendo di te?» «Chi?» «John Brown. Ha detto che l'avevi cercato. Ti sei dimenticato di dargli il tuo nuovo numero, vero?» È in piedi sulla soglia, le braccia incrociate sul petto. Si è tolta la giacca. Sorride ancora. Ha molte ragioni per sorridere. «Oppure stai cercando di dimostrare qualcosa?» «L'avevo chiamato da Martha's Vineyard.» Mi sono abbandonato sul divano di pelle, chiudendo gli occhi e posando i piedi sull'ottomana come facevo quando vivevo qui. «Credevo di avergli dato il numero.» «Dovresti farti mettere sull'elenco.» «Mi piace la mia privacy.» «Non capisco perché ci tieni tanto» osserva Kimmer, che non riuscirebbe a vivere cinque minuti senza telefono. Viene colpita da un pensiero improvviso, e si porta la mano alla bocca ridacchiando. «A meno che... a meno che tu non abbia bisogno di tanta riservatezza perché... Ehi, non starai nascondendo una donna nel tuo appartamento? Shirley Branch, magari? Qualcuno del genere?» «Non c'è nessuna donna, Kimmer.» Eccetto te. «O magari Pony Eldridge? I due coniugi traditi che si consolano?» «Spiacente di deluderti. Sono ancora un uomo sposato.» Kimmer ignora saggiamente la frecciata. «Non sarà Dana, vero? Ho sentito che sta avendo qualche problema con Alison. O viceversa. Avete intenzione di combinare qualcosa dopo tutti questi anni?» Riciclo la vecchia battuta: «A lei non piacciono gli uomini, e a me non piacciono le donne bianche». Kimmer liquida la mia risposta con un gesto della mano. Si sporge verso di me, abbacinandomi con la sua vicinanza, poi mi mette una mano sul braccio, prende il suo bicchiere di vino e ne beve un piccolo sorso. «Oh, di questi tempi piace tutto a tutti» mi assicura con l'autorità dell'esperta prima di tornare in cucina. «Gelato in arrivo» annuncia. «Al burro di noci pecan. Ne vuoi un po'?» «Sarebbe magnifico.» «Sciroppo di cioccolato?» «Sì, grazie.»
Sì, avrei potuto salvarlo. No, non ne avevo le forze. Sì, avrei dovuto provarci. No, avrei fallito. Un altro grido dalla cucina. «A proposito, hai trovato quello che cercavi? A Martha's Vineyard, intendo dire.» Ottima domanda. «Misha? Tesoro?» Mi rammento di non dare alcuna importanza a quel tesoro: forza dell'abitudine, niente di più. Probabilmente, Kimmer non sa nemmeno di averlo detto. «Non proprio» grido di rimando. «No.» «Mi dispiace.» «Anche a me.» Una pausa. È una sensazione strana, ma tanto vale che faccia l'educato e lo chieda. «Ti spiace se faccio una telefonata?» «Accomodati.» Il volto sorridente di Kimmer fa capolino da dietro lo stipite. «Sulla bolletta c'è ancora il tuo nome.» Scompare un'altra volta. Entro nel mio vecchio studio. Kimmer non l'ha adibito ad altri usi. Un paio di scaffali sono ancora al loro posto; gli altri, insieme alla scrivania, alla credenza e alle sedie, stipano la cantina del mio appartamento. Qua e là ci sono alcune riviste e un paio di libri, ma fondamentalmente il locale accogliente in cui ho trascorso molte ore angoscianti a osservare Hobby Road alla ricerca dei miei pedinatori è vuoto. Il telefono portatile giace sul pavimento. La stanza sembra abbandonata. Mi chiedo come faccia Kimmer a sopportarla. Forse tiene semplicemente la porta chiusa. Prendo il telefono, compongo il numero in memoria e attendo pazientemente che John Brown risponda. La polizia di Oak Bluffs mi ha trovato privo di sensi sulla spiaggia. Malgrado la tempesta, pattugliava il lungomare. Tutto quello che avrei dovuto fare era aspettare. Sarei anche potuto fuggire verso il comando. Soltanto il panico mi aveva portato a immaginare che fosse chiuso. Quando è arrivata l'ambulanza avevo già ripreso i sensi e mi ero drizzato a sedere, ed è stato un bene perché, mentre i paramedici mi caricavano sulla barella e si preparavano a inserirmi la fleboclisi nel braccio, uno dei poliziotti si è avvicinato al suo collega e gli ha detto: "Un bambino ha perso un orsacchiotto". Mi sono voltato e ho visto che teneva sottobraccio un fradicio George Jackson. La tempesta, avanzando verso Cape Cod, si era lasciata dietro George come una complicazione indesiderata. Ho assicurato allo sbalordito poliziotto che l'orsacchiotto era mio. Più per curiosità che
per dovere mi hanno chiesto cosa ci facessi sulla spiaggia con un panda di peluche nel bel mezzo di un uragano. "Ottima domanda" ho risposto, cosa che non li ha esattamente rassicurati. Ma hanno lasciato perdere. E così eccomi qui, finalmente di ritorno nel mio appartamento, intento a prepararmi per l'apertura dell'anno scolastico fra due settimane, quando riprenderò le mie lezioni sull'illecito di fronte a una cinquantina di volti nuovi, facendo del mio meglio per non maltrattare nessuno. Bentley corre di qua e di là nello spazio un po' ristretto in cui vivo, giocando a nascondino con Miguel Hadley, che due ore fa è arrivato accompagnato da suo padre. Marc si è trattenuto qualche minuto, emettendo grandi nubi di tabacco alla fragola; abbiamo convenuto che ciò che è successo al giudice Wainwright è un gran peccato, e abbiamo dato vita al vecchio giochetto accademico di fingere di avere la vaga idea di chi sarà il sostituto. Mentre questa triste estate si avvicina precipitosamente alla fine, apprezzo il tentativo di Marc di aggiustare le cose fra noi; ma le amicizie spezzate, come i matrimoni, sono spesso irreparabili. Sebbene manchino ancora due giorni alla fine di agosto il pomeriggio è freddo, poiché è arrivato un fronte di bassa pressione che ha portato temporali. Nel mio appartamento non ho un vero e proprio studio, e così tendo a lavorare in cucina con il portatile, scendendo quand'è necessario in cantina per consultare la mia biblioteca. In questo momento sono seduto al computer, cercando di dedicarmi seriamente a un articolo su quanto la ricchezza influisca sugli esiti delle cause per illecito. È il mio gesto riparatorio nei confronti di Avery Knowland: cercare di capire se potrebbe aver ragione. Mi alzo e mi porto davanti alla finestra della cucina, abbassando lo sguardo sul mio giardinetto grande come un francobollo, sull'area comune asfaltata al di là, sul lungomare e sulla spiaggia. Ieri vi ho passeggiato sotto il sole brillante del pomeriggio prima di andare in Hobby Road a prendere Bentley. Stavo cercando di capire cosa fare con il dischetto che rimane nascosto all'interno di George Jackson. Sono ancora indeciso. John Brown mi ha detto che malgrado il caldo, le deformazioni e l'acqua salata in cui il dischetto è stato immerso, una buona parte dei dati è probabilmente ancora recuperabile. Bisogna agire in fretta, poiché il caldo potrebbe "scioglierli", ma il vero problema è l'acqua di mare: ossidandosi, il sale potrebbe causare danni ulteriori. John mi ha detto di sciacquare la superficie del dischetto con acqua distillata, cosa che ho fatto. I supporti ma-
gnetici, mi ha assicurato, sono più resistenti di quanto si creda. L'unico modo certo di cancellare i dati contenuti è scriverci sopra. E, tanto per essere sicuri, ha aggiunto, conviene passare una potente calamita sul dischetto e riformattarlo. "E dopo aver fatto tutto questo" ha riso "se sei veramente furbo distruggerai il dischetto." Cuocendolo in un forno a microonde, diciamo. O gettandolo nell'inceneritore. In mancanza di procedure così estreme, ha ipotizzato, è probabile che alcuni dati siano sopravvissuti. Esistono esperti che, a pagamento, potrebbero essere in grado di recuperarli. Io so cosa contiene il dischetto. Wainwright ha detto che era pieno di nomi: nomi di individui ora importanti i cui casi lui e mio padre avevano addomesticato. Potrei causare molti problemi. Potrei leggere i tormentati vaneggiamenti del Giudice e scoprire i dettagli dei suoi innumerevoli crimini. Potrei ricattare senatori corrotti o assicurarli alla giustizia, potrei consegnare il dischetto alla stampa e lasciare che i media si scatenino. Le accuse potrebbero ribaltare significative porzioni della storia degli anni Settanta e Ottanta. Non ci sono prove, naturalmente, e magari si tratta soltanto degli ultimi, disperati deliri di una mente tormentata... ma niente di tutto questo ha mai impedito ai giornalisti di arrecare il maggior numero possibile di danni con il minor numero di pretesti, poiché al diritto della gente di sapere corrisponde esattamente la capacità dei media di approfittare di uno scandalo. Mi immagino mio padre di nuovo sulle prima pagine, ma questa volta con un gran numero di amici a fargli compagnia. Tremo. Senatori, ha detto Wainwright. Governatori. Ministri. Sì, potrei fare molti danni. E forse fare danni era ciò che mio padre bramava: una vendetta finale contro il mondo che l'aveva così rudemente disdegnato. Forse era questa la ragione della lettera, dei pedoni e di tutto il pericoloso e sconcertante percorso che ha finito per condurmi alla soffitta di Vinerd Howse. All'improvviso, la furbizia di mio padre mi spaventa. Il mondo l'ha distrutto, e io sembro lo strumento che lui ha scelto per distruggere il mondo. Provo un breve, delizioso brivido di potere, subito seguito da un fremito di ribrezzo. Non ha senso chiedersi: "Perché proprio io?". Non ha senso inveire contro il fato. O contro Dio. O contro mio padre. I maschi Garland non fanno queste cose. I maschi Garland sopportano i problemi con uno stoicismo che rasenta l'autolesionismo, facendo quasi ammattire le donne della loro vita con il loro distacco. I maschi Garland prendono le loro decisioni con cura e poi le rispettano, seguendo ciò che implica il verbo latino
da cui il termine ha origine, decaedere, cioè separare, eliminare altre possibilità, anche quando le decisioni che prendiamo sono terribili. Ma forse il Giudice non voleva affatto che decidessi; forse è morto credendo che la decisione fosse già stata presa, che avrei fatto ciò che Addison, che aveva problemi legali tutti suoi, non poteva fare. Forse il Giudice credeva che avrei letto i nomi e sarei partito all'attacco, che l'avrei fatto non per rabbia o desiderio di vendetta, né per il freddo piacere intellettuale di vedere puniti i colpevoli, ma perché me l'aveva chiesto mio padre. I colpevoli dovrebbero essere puniti, non c'è dubbio. Ma esistono diversi gradi di colpa. Ed esistono diversi gradi di punizione. Addison. Ecco un interrogativo che nessuno ha sollevato, malgrado Nunzio l'abbia sfiorato. Alma ha detto che Addison non poteva essere il capofamiglia. Sally ha detto che Addison le aveva chiesto di prendere l'album. Mallory Corcoran ha detto che mio padre pensava che Addison l'avesse tradito. E le disposizioni di mio padre coinvolgevano il figlio minore, non il maggiore, quello che lui amava più di tutti. La ragione poteva essere che Addison sapeva già tutto? Mio fratello mi ha rivelato che il Giudice si era rivolto a lui a Chicago un anno prima di morire, cercando di fargli leggere il rapporto di Villard. Era stata di sicuro una reazione alla visita di Wainwright. La prima idea di mio padre era stata quella di dire tutto al suo primogenito, trasformandolo nella propria polizza di assicurazione nel caso fosse successo qualcosa. Ma Addison non era stato al gioco. So che aveva letto il rapporto, quindi sapeva che l'auto che aveva ucciso Abby aveva due persone a bordo e non una. Forse il Giudice aveva rivelato a mio fratello ciò che era accaduto in seguito, forse Addison ci era arrivato da solo. In ogni caso, era rimasto sconvolto a tal punto che si era rifiutato di sentire altro. Non voleva sapere cosa aveva fatto il Giudice per ripagare Jack Ziegler degli omicidi di Phil McMichael e Michelle Hoffer. E mio padre, come aveva detto allo zio Mal e come Solo Alma aveva saputo o indovinato, l'aveva preso come un tradimento. E così era passato al secondo figlio. Ma stavolta aveva agito con più cautela. Temendo forse che avrei reagito come Addison, aveva deciso di non lasciarmi scelta, di studiare le disposizioni come se fossero uno dei suoi problemi scacchistici in modo che alla sua morte gli eventi si sarebbero messi in moto e io avrei potuto seguire un solo percorso. Quello che mi avrebbe condotto a Vinerd Howse, in soffitta, fino a George Jackson.
Probabilmente sperava che avrei capito tutto non appena avessi letto il suo messaggio. O forse il coinvolgimento di Addison non si era limitato alla rivendicazione di non voler essere coinvolto. Dopo tutto, qualcuno doveva aver trasferito i documenti su quel dischetto. Mio padre non avrebbe mai saputo farlo, ma Addison ama i computer. Forse gli aveva spiegato come fare, forse l'aveva fatto lui stesso. In un caso o nell'altro, mio fratello doveva essersi fatto una vaga idea di ciò che il Giudice aveva nascosto e del perché, anche se non sapeva dove. Ma allora per quale motivo si è rifiutato di aiutare me e Mariah nelle nostre ricerche? Perché, quando sono finalmente riuscito a parlargli, ha cercato di convincermi a desistere? Per la stessa ragione per cui ha fatto sì che Sally facesse scomparire l'album. Perché la sera in cui il Giudice aveva cercato di stringere il suo patto con il diavolo, lui si trovava nella cucina di Shepard Street. Perché aveva sepolto quel segreto per più di vent'anni. E perché non era pronto a riesumarlo. Non c'è da stupirsi che non avesse mai trovato il tempo di presentarsi alle udienze del Giudice. Mi manca, Addison. Non quello che è adesso, ma quello che era un tempo. Come era prima, avrebbe detto il Giudice. A quanto pare mi manca la stessa cosa in ogni risvolto della mia esistenza: come era prima. La mia vita familiare mi sembra una catena ininterrotta di perdite. Mio fratello, mia sorella, mia moglie, mio padre, se ne sono andati tutti tranne Mariah. Morris Young, come il Giudice nei suoi momenti migliori, predica che dovremmo guardare sempre avanti, mai indietro, e io ci provo. Oh, se ci provo! Ho perso mia moglie. Mio padre, in tutta la sua follia, non ha mai perso la sua Claire, non fino al giorno in cui è morta. Negli ultimi anni sono stato talmente ossessionato da mio padre - prima cercando di essere alla sua altezza, e recentemente sforzandomi di risolvere il terrificante mistero che mi ha scaricato addosso - che ho pensato a malapena a mia madre. È giunto il momento di correggere lo squilibrio. È ora di tornare a fare la conoscenza di Claire Garland, di studiare la sua vita con la stessa attenzione con cui ho studiato quella di Oliver. Ho cercato di trovare un posto per mio padre nel mio modo di ricordare il passato. Devo fare lo stesso con mia moglie. E devo ricordare mia madre tanto da concederle il posto che le compete nelle stanze della mia memoria. Se la memoria è il nostro contributo alla storia, allora la storia è la somma dei nostri ricordi. Come tutte le
famiglie, anche la mia ha una sua storia. Mi piacerebbe ricordarla. Bentley e Miguel sono giù nel seminterrato, e bisbigliano fra loro come fanno gli amiconi di quell'età. Controllo il piccolo fuoco che ho acceso in questo freddo pomeriggio, poi salgo al primo piano, entro nella mia angusta camera da letto e chiudo la porta. Mi siedo sul letto a buon mercato e fisso il cassettone, l'unico altro mobile della stanza. Appollaiato sopra, George Jackson sembra ammiccare con i suoi scuri occhietti di plastica. Il dischetto rimane indisturbato dentro di lui, perdendo lentamente informazioni. L'album diabolico è nascosto in un cassetto, sotto gli indumenti da ginnastica che uso di rado. Chiudo gli occhi e ricordo la mano di Wainwright che si agita fuori dall'acqua. Li riapro e ricordo il racconto disperato di come volesse ritirarsi e di come Jack Ziegler e i suoi soci gli avessero impedito di farlo. Probabilmente è stato Wainwright a cercare di acquistare la casa di Shepard Street per poterla perlustrare da cima a fondo. In seguito avrebbe sicuramente tentato di comprare anche Vinerd Howse. Con tutto ciò che conteneva. Compreso il panda di Abby. Un lampo si riflette negli occhi di plastica di George Jackson, facendolo ammiccare di nuovo. È magico, questo vecchio giocattolo ferito. Sono sbalordito che sia sopravvissuto alla tempesta, ma le tempeste sono strane, da questo punto di vista: a volte quello che la corrente trascina al largo viene riportato a riva dall'onda successiva, altre volte viene risucchiato sott'acqua e scompare. I pontili che si estendono dalla spiaggia dell'Inkwell hanno probabilmente facilitato il suo ritorno, ricacciando indietro alcune delle onde; ma la verità è che ho avuto fortuna. O forse no. Se George non fosse più tornato a riva, se il poliziotto non l'avesse trovato, se io non avessi ripreso i sensi, se un'altra dozzina di dettagli fosse stata diversa non mi ritroverei con questo dilemma. Se le onde avessero trascinato al largo l'orsacchiotto, non sarei qui a tormentarmi. Non ci sarebbe stato niente da fare, poiché non ci sarebbe stato alcun dischetto con cui farlo. Nessuna disposizione. Jack Ziegler e i suoi amici, o nemici, o qualunque cosa siano, hanno deciso dopo il cimitero che probabilmente avevo già trovato le informazioni nascoste da mio padre, e io ho implicitamente promesso a Henderson che avrei mantenuto il segreto su ciò che sapevo. Ora ciò che credevano è un
fatto: le disposizioni sono finalmente nelle mie mani, e provo il tumulto della tentazione che è sempre associato al senso di potere. Afferro l'orsacchiotto, ne estraggo il dischetto e rimetto a posto George. Reggendo il dischetto per i bordi, torno nel soggiorno-sala da pranzo. Fuori dalle finestre, il temporale non si è ancora calmato. Vero, è poca cosa in confronto alla tempesta che ha imperversato su Martha's Vineyard, ma una burrasca è una burrasca, e malgrado il fuoco l'appartamento si sta raffreddando. O forse sono io. Ricordo il sogno di mio padre, di guadagnare la fama componendo il primo doppio Excelsior con cavallo, impresa che quel vecchio pazzo di Karl ha definito impossibile. Il doppio Excelsior, ma con la vittoria finale del nero: due pedoni solitari, uno bianco e uno nero, patetici nella loro impotenza, che partono dalle rispettive case madri e si sfidano mossa dopo mossa finché, alla quinta, ognuno dei due raggiunge l'estremità opposta della scacchiera e diventa un cavallo e la mossa finale dà scacco matto al re bianco. E il problema non è valido con nessun'altra opzione: è permesso soltanto un modo. Se il re nero può subire scacco matto più velocemente, o se ciascuno dei due pedoni può fare qualsiasi altra mossa in qualsiasi momento e ottenere il medesimo risultato, il problema non ha alcun valore. Mio padre ha lasciato in eredità il suo doppio Excelsior, non sulla scacchiera ma nella vita vera, mettendo in moto i suoi pedoni, uno nero e uno bianco, che si sono sfidati mossa dopo mossa, inseguendosi a vicenda, una casella dopo l'altra, fino a trovarsi all'estremità opposta della loro scacchiera su una spiaggia di Oak Bluffs oscurata dalla tempesta, dove si sono fronteggiati per la sfida finale. Un cavallo è morto. L'altro è sopravvissuto per poter dare scacco matto. Esattamente come nei vendicativi progetti di mio padre. E io ne reggo in mano lo strumento. Mi basterebbe prendere il telefono e chiamare l'agente Nunzio, o il "Times", oppure il "Post", e il doppio Excelsior del Giudice sarebbe completo. Ma se sussiste un'altra possibilità, il problema è rovinato. E la difficoltà con i cavalli è che spesso si muovono in modo... eccentrico. "Impossibile" ha detto Karl. I bambini hanno ripreso a correre per casa. Fra qualche minuto gli farò fare merenda, riscaldando uno degli innumerevoli manicaretti che mi hanno portato Nina Felsenfeld e Julia Carlyle. Poi ci stringeremo sulla Camry per il breve tragitto fino alla bellissima casa degli Hadley a Harbor Peak.
Credo di aver già detto che Marc è ricco di famiglia. Anni fa, suo zio Edmund fu uno dei fondatori di una piccola finanziaria chiamata Elm Harbor Partners. Kimmer non aveva alcun conflitto di interessi, visto che il denaro degli Hadley ha preso da tempo altre strade; ma so da Dana, che non avrebbe mai dovuto dirmelo, che Marc fece una telefonata al vecchio avvocato di famiglia, a quei tempi consigliere generale dell'EHP, raccomandandogli di richiedere le prestazioni di Kimberly Madison non appena fosse arrivata in città. La richiesta faceva parte del tentativo di Stuart Land, allora preside della facoltà, di non farmi andar via, poiché nel corso del mio primo anno a Elm Harbor ero stato infelice quanto l'ultimo anno a Washington. Se Marc non avesse fatto quella telefonata, Kimmer forse non sarebbe rimasta; se non fosse rimasta, non ci saremmo mai sposati; il che spiega come mai non sono stato capace di provare per Marc la stessa avversione che prova mia moglie. Marc è stato abbastanza uomo da non accennare al favore che mi ha fatto. Non credo che Kimmer ne sia al corrente. E io non ho intenzione di dirglielo. Fra l'altro, l'EHP potrà anche aver chiesto di lavorare con Kimmer per fare un favore a Marc, ma è stato grazie alla sua esemplare abilità di avvocato che mia moglie ha guadagnato la sua duratura fiducia, e quella di Jerry Nathanson. Controllo l'ora ed entro nell'angusta cucina per riscaldare la merenda dei bambini. C'è così tanto da fare, così tanto. Voglio essere un cristiano migliore, passare del tempo con Morris Young e imparare il significato della fede che professo. Voglio fare altre passeggiate con Sally, chiederle scusa da parte della famiglia e aiutarla, se posso, a guarire. Voglio andare a trovare Solo Alma, sedermi ai suoi piedi e ascoltare i racconti dei vecchi tempi, quando la famiglia era felice... com'era prima. Poi voglio andare da Thera e confrontare i loro racconti. Voglio aiutare mia sorella a superare la sua noia. Voglio credere nella facoltà di legge come ci crede Stuart Land. Voglio credere nel valore della legge come ci credevo una volta, prima che il Giudice e il suo amico Wainwright mandassero in frantumi la mia fede. E c'è dell'altro. Voglio sapere che ne è stato di Maxine. Voglio sapere perché mi ha sparato, se è stato un incidente e, in caso contrario, chi le aveva ordinato di farlo. Voglio che mi guardi negli occhi e mi dica che non operava per conto di Jack Ziegler o dei soci sconosciuti con cui lui aveva architettato l'assassinio di Phil McMichael e della sua ragazza, oltre alla corruzione della corte d'appello federale. Forse riuscirà addirittura a convincermi. Il tal caso vorrebbe dire che Maxine lavorava, come mi ha detto
lei stessa, per i buoni; non i buonissimi, soltanto i buoni, che promettevano di distruggere quello che aveva lasciato mio padre invece che usarlo. Un'altra fazione? Un'altra banda? Un'altra agenzia federale? Voglio sapere perché, malgrado le mie ardenti preghiere mentre giacevo in punto di morte sulla spiaggia, o almeno così credevo, non l'ho più rivista. Lo zio Jack ha detto che certe domande non hanno risposta. Forse un giorno di questi tornerò ad Aspen, busserò alla sua porta e gliele rivolgerò comunque. E in questo caso, suppongo che dovrò ringraziarlo per aver protetto me e la mia famiglia nel corso di questi mesi, quando avremmo potuto essere rapiti, torturati e assassinati. Tranne che, se lo zio Jack non fosse stato l'uomo che è e se non avesse fatto le cose che ha fatto, non avremmo mai avuto bisogno di protezione. Il telefono squilla, distraendomi dalle mie fantasticherie, e io rispondo dicendomi che non ci sono più cattive notizie da temere. Come avrei dovuto immaginare è mia sorella, che mi chiama per informarmi delle nuove prove scoperte in Shepard Street o su Internet, o in una bottiglia galleggiante chissà dove: la mia mente ostinata rifiuta di mettere a fuoco le sue parole, che diventano un fiume di suoni senza relazione alcuna con qualsiasi aspetto della mia realtà. Sorprendo entrambi interrompendola. «Ti voglio bene, piccola.» Una pausa in cui Mariah aspetta la battuta finale. Poi la sua risposta, cauta ma felice: «È una bella cosa, perché ti voglio bene anch'io». Un altro silenzio, nel quale ci sfidiamo a vicenda a fare i sentimentali. Ma siamo pur sempre dei Garland, abbiamo raggiunto il limite estremo delle emozioni, e così la conversazione si sposta rapidamente sulla sua famiglia. Mariah mi promette che non proverà a presentarmi nessuna donna se parteciperò al suo barbecue annuale del Labor Day. Accetto. Cinque minuti dopo mia sorella riaggancia, ma io so che continuerà nelle sue ricerche. E mi sta bene. Che provi pure a dimostrare che il Giudice è stato assassinato; è il suo modo di lenire il dolore, e con la sua tenacia da giornalista potrebbe scoprire una verità ancora più sgradevole. Ammiro la sua volontà, ma non parteciperò. Da tempo, ormai, mi trovo a mio agio senza una conoscenza perfetta. La semiotica mi ha insegnato a vivere con l'ambiguità nel mio lavoro: Kimmer mi ha insegnato a vivere con l'ambiguità a casa mia; e Morris Young mi sta insegnando a vivere con l'ambiguità nella mia fede. Sul fatto che esista la verità, e perfino una verità morale, non ho alcun dubbio, poiché non sono certo un relativista; ma noi deboli, colpevo-
li esseri umani non la percepiremo mai se non in modo imperfetto, una presenza fiocamente luminosa verso cui avanziamo strisciando attraverso le nebbie della ragione, della tradizione e della fede. Così tanto da sapere, così poco tempo. Rientrando in soggiorno fisso il dischetto deformato che reggo in mano. Vorrei poter scoprire i suoi segreti con la semplice forza di volontà, poiché sapere con precisione cosa vi ha inserito mio padre, capire se si tratta di verità o di pura invenzione potrebbe aiutarmi a decidere cosa fare. Ma mi manca il tempo, o la fiducia, per seguire i consigli di John Brown e incaricare qualcuno di decifrarlo. Dovrò prendere la mia decisione - la mia decisione - sulla base di quel poco che so. "Essere uomo significa agire." Mi accorgo che il fuoco si sta indebolendo. Non posso permetterlo, in un pomeriggio così freddo. Ai tempi in cui io e Kimmer eravamo più o meno felici, coccolarci davanti al caminetto era uno dei nostri passatempi preferiti. Se in Hobby Road il freddo è pungente come qui sulla spiaggia, Kimmer lo sta facendo di sicuro. Ma non con me. Mi manca ciò che avevo. Com'era prima. Ma posso comunque apprezzare un bel fuoco. Aggiungo un ceppo e osservo le scintille. Non basta: il fuoco ha bisogno di essere ravvivato. Non c'è legna minuta, e così afferro il dischetto che mio padre aveva nascosto nell'orsacchiotto di Abigail e, tracciando una linea e lasciandomi il passato alle spalle, lo getto tra le fiamme. NOTA DELL'AUTORE Questa è un'opera di fantasia. Nasce dalla mia immaginazione. Non è un roman à clef sull'insegnamento della legge, sul bizzarro processo con il quale ratifichiamo (o non ratifichiamo) la nomina dei giudici della corte suprema, sulle tribolazioni della borghesia nera americana o su qualsiasi altra cosa. Di certo non è la storia della mia famiglia, mononucleare o estesa che sia. È soltanto una storia, e i personaggi sono mie invenzioni, con l'eccezione di una manciata di veri avvocati, legislatori e giornalisti che svolgono ruoli secondari ma del tutto romanzeschi. La mia immaginaria facoltà di legge non è modellata su Yale, dove ho insegnato per due beati decenni, e la mia immaginaria cittadina di Elm Harbor non è una New Haven vagamente mimetizzata, anche se il lettore attento noterà che le due comunità hanno qualche fantasma in comune. Nessuna delle lamentele di Misha Garland sui suoi colleghi o studenti
dev'essere interpretata come se rappresentasse le mie opinioni sui miei colleghi o i miei studenti, che apprezzo e rispetto. Il personaggio di Oliver Garland, padre di Misha ed ex giudice della corte d'appello degli Stati Uniti per il distretto di Columbia, non ha alcun collegamento con l'onorevole Merrick Garland, giudice realmente esistente presso quello stesso tribunale, che è stato nominato molto dopo l'invenzione dei miei Garland. A quel punto era troppo tardi per cambiare il nome della famiglia: per me era già viva. Mi sono concesso alcune libertà riguardo alla geografia di Martha's Vineyard, soprattutto nei confronti dello splendido villaggio di Menemsha, dove la linea costiera alle spalle dei ristoranti e dei negozi non è percorsa dalle baracche di pescatori che Misha perlustra, e dove non ho mai incontrato nessuno che fosse egoista e sgradevole come il pescatore con cui Misha discute. Il panorama del porticciolo di Oak Bluffs dal parco in cui Misha e Maxine hanno la loro intima conversazione è ormai rovinato da un orrendo stabilimento balneare, ma preferisco ricordarne la bellezza prima che questa mostruosità venisse costruita, e per questo non l'ho inserita nel romanzo. L'Edgartown Road nei pressi dell'aeroporto è in realtà più pianeggiante di quanto sia nella mia storia. La sola giustificazione è che la narrazione funziona meglio con qualche ripida collina. La vecchissima scalinata di legno che conduce da Seaview Avenue all'Inkwell non si trova sul lato opposto del prato rispetto a una casa sul versante meridionale di Ocean Park, ma avevo bisogno che fosse lì e così l'ho spostata qualche centinaio di metri a ovest rispetto alla sua vera posizione. Nel 1997 la cittadina di Gay Head è stata ufficialmente ribattezzata Aquinnah, ma, come Misha Garland e altri che amano l'isola, trovo difficile sconfiggere un'abitudine vecchia di tre decenni. Sono sicuro che con il tempo imparerò a fare meglio. A Oak Bluffs, né Murdick's Fudge né il Corner Store sarebbero aperti la settimana successiva al giorno del Ringraziamento, quando Misha e Bentley li visitano, ma mi sono concesso qualche licenza poetica per rendere il tardo autunno in Circuit Avenue un po' più allegro di quanto sia in realtà. È improbabile che Misha avrebbe potuto portare la sua auto sull'isola con la frequenza con cui lo fa nella storia, poiché le prenotazioni per il traghetto non sono così facilmente ottenibili e le possibilità di una lista d'attesa sono molto ridotte rispetto a un tempo. Ma uno può sempre sognare. Nemmeno la Washington del romanzo è uguale a quella delle piante stradali. In particolare, il negozio Brooks Brothers del centro si è trasferito
qualche anno fa dalla sua tranquilla sede in L Street a un angolo decisamente più elegante e affollato di Connecticut Avenue. Ma il nuovo edificio è troppo vicino al Dupont Circle perché la vicenda potesse funzionare, e così l'ho tenuto dov'è rimasto per tanto tempo. Ho alterato la storia degli ultimi due decenni in America in alcuni aspetti minori ma evidenti, e spero che nessuno dei personaggi reali le cui esistenze ho sgarbatamente sballottato per adattarle al romanzo si offenda. D'altro canto, alcune cose che il lettore potrebbe credere inventate non lo sono. L'Alleanza per la Vita di Gay e Lesbiche, tanto per fare un esempio, è un'organizzazione realmente esistente, e uno dei suoi dirigenti nazionali mi ha effettivamente detto, più o meno testualmente: «Ci odiano tutti». Sono grato a David Brown della rivista "Chess Life" per avermi insegnato alcune delle complessità del problema scacchistico che forma uno dei temi dominanti del libro. Sono grato anche all'egregio signor George Jones, socio dello studio legale Sidley Austin Brown & Wood, L.L.R, ex membro della commissione permanente sull'etica dell'Ordine degli avvocati americani e presidente dell'Ordine degli avvocati del distretto di Columbia (2002-3) per avermi guidato attraverso alcuni spinosi interrogativi sulle regole che governano i rapporti fra cliente e avvocato, e a Natalie Roche, M.D., F.A.C.O.G., ai tempi membro dello staff del Beth Israel Medical Center di New York City, per le utili conversazioni sui problemi che possono insorgere durante il parto. Qualsiasi errore ricorra nella storia, qui come altrove, è mio o forse dei miei personaggi. E, in effetti, alcuni dei personaggi commettono errori imbarazzanti. Misha Garland cita in modo erroneo la legge che riguarda la collaborazione con gli investigatori federali nel corso della sua discussione con gli agenti Foreman e McDermott, ma il lettore dovrebbe ricordare che il diritto penale non è la sua area di competenza. Marc Hadley, nel suo entusiasmo per le proprie idee, riporta erroneamente tanto i fatti quanto la sentenza della corte suprema sul caso "Griswold contro il Connecticut", che non aveva niente a che vedere con i medici o con le donne sposate. (Forse stava pensando al caso "Eisenstadt contro Baird", oppure, come fa spesso, stava improvvisando.) Lionel "Sweet Nellie" Eldridge aumenta sempre la media-punti di quando giocava nella National Basketball Association, portando i suoi punti a partita da 18,6 a 19. Ciò nonostante, come ama dire Pony Eldridge, sua moglie e statistica, si tratta di una licenza tollerabile poiché la sua media-punti sarebbe stata di 19,5 se non fosse coraggiosamente rientrato dopo l'infortunio per quell'ultima, disastrosa stagione, parole di Pony, in cui a-
veva cercato di raggiungere i diecimila punti segnati prima di ritirarsi. Molti studiosi degli scacchi attribuiscono a Siegbert Tarrasch la citazione usata come epigrafe a questo libro, ma a volte viene fatta risalire all'ex campione del mondo Alexander Alekhine. Diverse fonti riportano versioni differenti della frase di Felix Frankfurter citata da Wallace Wainwright. Ho scelto quella che mi pare la più autorevole, l'importante libro pubblicato nel 1996 dal defunto Bernard Schwartz, Decision: How the Supreme Court Decides Cases. Il professor Schwartz ebbe conferma della citazione da un cancelliere che era presente quando la frase venne pronunciata. Per finire, devo confessare che non tutte le battute di questo libro sono mie creazioni. La frase che Bentley usa per annunciare che si trova su una barca non è invenzione del figlio di Misha Garland, bensì del mio. Il bon mot di Rob Saitpeter sul fatto che gli Stati Uniti siano un paese cristiano l'ho sentito per la prima volta dal profondo David Bleich, il quale è sia un rabbino che un professore di legge. Le regole della polka del tribunale non sono un'invenzione né mia né di Misha Garland; attingono a un lontano ricordo della mia infanzia, una battuta sul fatto che il presidente Lyndon Johnson stesse ballando la "polka della conferenza stampa". (Sarei grato a qualsiasi lettore che mi indicasse la fonte originaria.) E la frecciata di Dana Worth su Bonnie Ziffren è stata in realtà coniata, in un diverso contesto, dal mio compianto collega Leon Lipson, la cui sagacia, lo spirito e la pura e semplice gioia di sapere saranno sempre un'ispirazione ma non potranno mai essere rimpiazzati. Devo mostrare riconoscenza verso la mia agente letteraria, Lynn Nesbit, che ha pazientemente atteso per anni che terminassi un manoscritto che continuavo a prometterle per il mese successivo. Lynn mi ha incoraggiato durante i miei frequenti blocchi e non ha mai cercato di mettermi fretta. Il romanzo ha tratto incalcolabile beneficio dall'editing gentile e comprensivo di Robin Desser della Knopf e dai meditati commenti della cerchia di amici intimi che hanno letto il manoscritto prima della sua pubblicazione. Per finire, come sempre, non ho parole adeguate a esprimere la mia gratitudine nei confronti della mia famiglia: dei miei figli Leah e Andrew, con i quali ho perso molti sabati pomeriggio di divertimento perché "papà deve scrivere"; della loro prozia Maria Reid, che ha sopportato il fatto che la ignorassi per ore mentre me ne stavo seduto nel mio studio incollato al computer; e soprattutto di mia moglie Enoia Aird, senza il cui costante amore, le lucide letture, le dolci lusinghe e la guida spirituale questo romanzo non avrebbe mai potuto essere terminato. Che Dio vi benedica.
Maggio 2001 FINE