FRED SABERHAGEN LE TERRE DESOLATE (The Broken Lands, 1968) 1 ASCOLTAMI, EKUMAN Le prime difficoltà del satrapo Ekuman so...
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FRED SABERHAGEN LE TERRE DESOLATE (The Broken Lands, 1968) 1 ASCOLTAMI, EKUMAN Le prime difficoltà del satrapo Ekuman sorsero quando portò il vecchio prigioniero nelle segrete del castello e cercò di sottoporlo a un energico interrogatorio. Nonostante quel che si sarebbe detto a prima vista, il problema non stava nel fatto che il prigioniero era troppo debole e fragile, pronto a morire alla prima buona razione di dolore. Niente affatto. Per incredibile che sembrasse, la verità era esattamente l'opposto. Il vecchio era troppo resistente, i suoi poteri continuavano a proteggerlo. Per tutta la lunga notte non solo continuò a difendere se stesso, ma cercò di colpire a sua volta. I maghi di Ekuman - Elslood e Zarf - erano due dei più abili adepti che il satrapo avesse mai incontrato a occidente dei Monti Neri: erano troppo forti per lasciarsi sopraffare da un qualsiasi prigioniero, soprattutto laggiù e sul loro terreno. Eppure il vecchio continuò a lottare, forse per orgoglio e per ostinazione, e certo con la convinzione che la lotta potesse far scendere in campo, contro di lui, poteri in grado di creare una tensione così grande da procurargli, nel momento inevitabile del crollo delle sue forze, una morte improvvisa e relativamente indolore. La tensione della lotta silenziosa continuò a salire per tutte le ore di massima oscurità che precedono il sorgere del sole, allorché i poteri umani impallidiscono e quelli di altre creature raggiungono il vertice. Ekuman e i suoi maghi non riuscivano a riconoscere le particolari forze dell'Ovest a cui faceva appello il vecchio, ma certo non si trattava di forze trascurabili. Molto prima della fine, a Ekuman sembrò che l'aria della segreta sotterranea echeggiasse sotto l'impatto di sconosciuti poteri e la sua vista umana cominciò a ingannarlo, facendogli credere che le antiche volte del soffitto di pietra si fossero alzate fino a sparire in qualche lontananza misteriosa. Perfino il demone servitore di Zarf - un rospo - che di solito era incapace di trattenersi e saltellava per il piacere durante l'interrogatorio di qualche prigioniero più ostinato degli altri, era andato a rifugiarsi nella pozzanghera di luce scaturita da una torcia, accanto ai piedi della scala, e per una volta non voleva avere niente a che fare con gli angoli bui della camera. Rimaneva acquattato laggiù, con aria preoccupata, e i suoi occhi, simili a
bocce di vetro, non osavano staccarsi dalla figura del padrone. Elslood e Zarf continuarono a darsi il cambio sull'orlo del pozzo, profondo tre braccia, in fondo al quale era incatenato il vecchio. Avevano con sé talismani di loro fattura e avevano tracciato segni arcani sul pavimento e sulle pareti. Essi, ovviamente, avevano la massima libertà di muovere le braccia... anche se sul piano del movimento fisico la lotta era pressoché inavvertibile, come c'era da aspettarsi quando si svolgeva tra maghi di quel livello. Mentre uno dei maghi di Ekuman teneva alta la pressione, l'altro, indietreggiato fino a raggiungere il seggio del satrapo, stava parlando con lui. Erano certi che il vecchio fosse un capo, forse il capo supremo, di coloro che si facevano chiamare il Popolo Libero: bande della popolazione locale, a cui si erano uniti alcuni ostinati esuli di altre terre, che si nascondevano sui monti e nelle paludi lungo la costa, e conducevano contro gli armigeri di Ekuman un'interminabile guerra per bande. Il satrapo doveva ringraziare un insperato colpo di fortuna, se nel corso di una normale operazione di pattuglia nelle paludi erano riusciti a prendere il vecchio. Zarf e un gruppo di quaranta armigeri lo avevano sorpreso mentre dormiva in una capanna. Ekuman cominciava a credere che se il vecchio fosse stato sveglio, forse non sarebbero affatto riusciti a catturarlo. Anche adesso che il prigioniero era nelle loro mani, in condizioni di inferiorità, Elslood e Zarf, riunendo le forze, non erano riusciti a scoprirne il nome. In fondo al pozzo, la luce crepitante della torcia si rifletteva con uno strano chiarore su catene che non erano fatte di normale metallo. Il sangue formava una pozzanghera nera attorno ai piedi del vecchio, ma non una sola goccia di quel sangue era sua. Senza vita, davanti a lui, giaceva uno dei carnefici di Ekuman. L'uomo si era incautamente accostato al mago in catene; con sua grande sorpresa, il coltello da tortura gli era balzato fuori dal fodero, si era sollevato e si era piantato nel collo, fino alla guardia. A quel punto, Ekuman aveva ordinato a tutti i suoi servitori umani, tranne i due maghi, di allontanarsi dalla camera. Più tardi, quando il prigioniero cominciò a dare piccoli, inconfondibili segni di stanchezza, Ekuman si chiese se non fosse il caso di richiamare i carnefici, per vedere che cosa si riusciva a combinare con coltelli e fiamme. Ma i maghi l'avevano dissuaso dal farlo, spiegandogli che la miglior possibilità di prolungare crudelmente l'agonia, per estrarre dalla vittima le informazioni utili, stava nel terminare con i soli poteri della magia il pro-
cesso già in corso. Erano stati punti nell'orgoglio. Il satrapo rifletté sulle loro parole e lasciò fare ai maghi quello che volevano; per tutte le lunghe ore della prova rimase immobile al suo posto, senza mai allentare la propria attenzione. Aveva la fronte alta e dritta come una parete a picco; la barba gli copriva tutto il volto, piena e scura. Indossava una semplice veste di color nero e bronzo; di tanto in tanto spostava con impazienza sul pavimento i piedi calzati di stivali neri. Solo quando la notte, nel mondo esterno, si stava avvicinando al termine - anche se, laggiù nella segreta, giorno e notte erano la stessa cosa - il vecchio si decise infine a rompere il silenzio. Parlò a Ekuman, e le parole evidentemente non servirono a formulare alcun incantesimo, perché attraversarono senza difficoltà la zona protetta al di sopra del pozzo di tortura. Allorché, verso la fine, alla vittima cominciò a mancare il fiato, Ekuman si alzò e si sporse verso di lui, per ascoltare meglio. Sulla faccia del satrapo, in quel momento, c'era solo un'espressione cortese, come se volesse semplicemente mostrare rispetto per un uomo più anziano. «Ascoltami, Ekuman!» Al suono di queste parole d'esordio, il demone-servitore a forma di rospo si appiattì ancor di più contro il suolo, dove rimase immobile. «Ascoltami, perché sono Ardnih! Ardnih, che cavalca l'Elefante, che brandisce il fulmine, che fa a pezzi le fortificazioni così come il precipitoso passaggio del tempo consuma una stoffa da poco prezzo. Tu mi uccidi in questa incarnazione, ma io continuo a vivere in altri esseri umani. Io sono Ardnih, e alla fine ti ucciderò, e tu scomparirai.» Date le circostanze, Ekuman non si allarmò troppo per le minacce. La parola "Elefante", però, richiamò immediatamente la sua attenzione. Nell'udirla, girò subito gli occhi verso i due maghi. Zarf ed Elslood abbassarono lo sguardo, e il satrapo tornò a dedicare al prigioniero tutta la sua concentrazione. Ora sul volto del prigioniero compariva una smorfia di dolore; lo stesso dolore gli incrinava la voce. Con il crollo delle sue difese, con la caduta delle sue forze, si stava rapidamente trasformando in nient'altro che un vecchio, nient'altro che una delle solite vittime pronte a morire. Continuò a parlare, con voce gracchiante. «Ascoltami, Ekuman. Né di giorno né di notte io ti ucciderò. Non ti colpirò né di spada né di arco. Né con il taglio della mano né con il pugno... Né con l'acqua né con il fuoco...» Ekuman si sforzò di ascoltare altre parole, ma le vecchie labbra avevano
cessato di muoversi. Ora, solo il guizzo delle torce dava un'illusione di vita alla faccia della vittima e a quella dell'aguzzino morto che giaceva ai suoi piedi. La vibrazione e la pressione di forze invisibili svanirono in fretta dall'aria viziata. Nel raddrizzarsi con un sospiro e nell'allontanarsi dal pozzo, Ekuman non riuscì a evitare di lanciare un rapido sguardo verso l'alto, per accertarsi che la volta fosse rimasta al suo giusto posto. Zarf, che era il più giovane dei due maghi, si recò a una porta e chiamò le guardie perché portassero via i cadaveri. Quando l'incantatore tornò a voltarsi verso di lui, Ekuman chiese: «Esaminerete il corpo del vecchio, penso. E con particolare attenzione.» «Certo, Sire.» Zarf non nutriva eccessivo ottimismo sui risultati che ci si poteva aspettare da una simile dissezione. Il suo servitore-rospo, invece, aveva riacquistato la solita vivacità e pareva ansioso di mettersi al lavoro. Ridacchiando tra sé con la sua vocina acuta, si diresse saltellando verso il pozzo e iniziò come sempre a oltraggiare i due corpi. Ekuman si stirò, pigramente, e cominciò a salire gli scalini della scala di pietra, consumati dal passaggio di innumerevoli piedi. Qualcosa, rifletté, era stato fatto: uno dei capitani dei ribelli era morto. Ma non bastava. Non erano riusciti a ottenere le informazioni che Ekuman desiderava. Giunto a metà della prima spirale della scala a chiocciola, si fermò, girò la testa e chiese: «Che mi dite delle parole del vecchio?» Tre scalini dietro di lui, Elslood mosse in segno d'assenso la testa coperta di fini capelli grigi, aggrottò la fronte coperta di rughe e sporse le labbra, pensieroso; ma dopo un momento fu chiaro che il mago non aveva niente di significativo da dire. Con un'alzata di spalle, il satrapo riprese a salire. Occorsero più di cento scalini di pietra per portarlo dalle segrete alla grigia aria del mattino di un cortile recintato, dal cortile al maschio e dal maschio alla torre dove si trovavano i suoi quartieri. Varie volte, durante il tragitto, Ekuman rispose, senza fermarsi, ai saluti delle sentinelle che, con la testa infilata nell'elmo di bronzo, erano di guardia. Giunta al livello del terreno, la scala penetrava nelle massicce mura del castello, rinforzate dallo stesso Ekuman poco tempo addietro. Il massiccio maschio era alto tre doppi piani e la torre s'innalzava di altri due piani al di sopra del tetto. Gran parte del piano inferiore della torre era occupata da un'unica grande sala, quella delle udienze, dove in genere Ekuman trattava
gli affari di stato. In un lato di questa grande sala circolare era stato ricavato uno spazio destinato ai maghi: alcune nicchie, chiuse da tendaggi, dove gli stregoni tenevano i loro arnesi, le panche e i tavoli dove potevano compiere i loro incantesimi sotto l'occhio sempre vigile del loro signore. Non appena lui ed Ekuman si trovarono nella torre Elslood si diresse immediatamente verso quel lato della sala delle udienze. Attorno a lui c'era tutta l'attrezzatura dei maghi: maschere, talismani, incanti non facilmente riconoscibili, tutti di fattura estremamente bizzarra, in parte messi in pila sui sedili e sui tavoli, e in parte appesi alle pareti. Su un candeliere ardeva un singolo cero scuro, molto spesso. La sua fiamma adesso impallidiva alla fredda luce del mattino che filtrava dalle finestre alte e sottili. Dopo essersi fermato per un istante a mormorare una parola segreta di protezione, Elslood allungò la mano per scostare l'arazzo dietro cui era celata una delle nicchie. Il satrapo gli permetteva di tenere laggiù, dove poteva entrare lui solo, certi volumi e arnesi personali. Con lo spostarsi dell'arazzo comparve un enorme ragno-guardiano, di colore nero, momentaneamente immobilizzato dalla parola segreta, che stava appollaiato su uno degli ultimi scaffali. L'alto mago allungò il lungo braccio al di là del ragno e afferrò un volume coperto di polvere. Quando il mago lo portò alla luce, Ekuman vide che era un libro del Mondo Antico, con una carta e una legatura talmente mirabili da avere già superato una generazione di copie pergamenacee. Merito della tecnologia, pensò il Satrapo, e rabbrividì involontariamente, senza staccare l'occhio dalle pagine bianche ed eleganti che Elslood voltava con tanta familiarità. Per una persona appartenente a un mondo che si riteneva razionale, moderno e stabile, non era facile accettare la realtà di quel genere di oggetti. Neppure per Ekuman, che spesso aveva avuto fra le mani i prodotti della tecnologia più di molti suoi sudditi. Quel libro non era il solo resto del Mondo Antico conservato tra le mura del suo castello. E da qualche parte, al di là delle mura, in attesa che lo scoprissero... c'era l'Elefante. Ekuman si strofinò le palme delle mani, impaziente. Dato che aveva accostato il libro alla finestra per approfittare della luce del giorno, evidentemente Elslood aveva trovato il brano da lui cercato. Ora leggeva in silenzio, e annuiva tra sé come se avesse trovato la conferma di quanto già sapeva. Infine si schiarì la gola e disse: «Era una citazione, Sire Ekuman; quasi parola per parola. Da questo libro... che è una leggenda o una storia del Mondo Antico, non so neppure io quale delle due cose. Adesso ve la tra-
duco.» Si sfilò dai capelli grigi e spettinati il cappuccio da mago, si schiarì un'ultima volta la gola e lesse a voce alta: «"Disse Indra al demone Namuke: "Ti ucciderò, ma né di giorno né di notte, né con il bastone né con l'arco, né con il palmo della mano né con il pugno, né con l'acqua né con il calore'."» «Indra?» «Uno degli dèi, Sire. Il dio del tuono...» «E anche degli elefanti?» chiese il satrapo. La voce di Ekuman era carica di sarcasmo. "Elefante" era il nome di una creatura, reale o mitica, del Mondo Antico. Laggiù, nelle Terre Desolate, immagini di quell'animale erano visibili in vari luoghi: impresse o dipinte su metallo del Mondo Antico, ricamate su un tessuto del Mondo Antico che Ekuman aveva avuto occasione di vedere, e scolpite (ma probabilmente in epoche assai più recenti) su una parete rocciosa dei Monti Desolati. E ora, chissà perché, l'Elefante era divenuto il simbolo di coloro che si proclamavano il Popolo Libero. Cosa ancor più importante, un riferimento a questo simbolo esisteva ancora sotto forma di un misterioso potere materiale, nascosto in qualche punto di quella regione che si rifiutava di accettare Ekuman come conquistatore: questo gli assicuravano i suoi maghi, questo credeva il satrapo. La regione era sua. a giudicare da quanto si poteva vedere alla superficie, e il Popolo Libero era solo un rimasuglio di fuorilegge; eppure, in tutte le loro divinazioni, i suoi maghi non facevano che ripetergli che se non avesse avuto il controllo dell'Elefante, il suo dominio era destinato a scomparire. Eppure rimase leggermente sorpreso, nell'udire quanto gli rispose Elslood: «Può darsi, Sire. È possibilissimo. In almeno un'immagine che ho visto in un altro testo, Indra è ritratto in groppa a un animale che deve essere un Elefante.» «Allora, continua a leggere.» Nella voce di Ekuman c'era un inconfondibile tono di minaccia; il mago si affrettò a proseguire: «"Ma egli l'uccise nel crepuscolo dell'alba, spruzzando su di lui la schiuma del mare." Ossia, il dio Indra uccise il demone Namuke.» «Uhm» disse Ekuman. Aveva notato un particolare: Indra-Ardni; Namuke-Ekuman. Certo, nelle parole si poteva nascondere un potere magico, ma non certo in una sempli-
ce trasposizione di lettere come quella. La scoperta di quel trucchetto verbale gli diede sollievo, invece di allarmarlo. Il vecchio, accortosi di non poter colpire in modo più efficace, era riuscito a infilare una certa arguzia nella sua minaccia in punto di morte. Ma l'arguzia non poteva prendere il posto della forza, neppure nella magia. Ekuman si concesse un debole sorriso. «Un demone davvero poco robusto» commentò «se a ucciderlo è stata sufficiente un po' di schiuma del mare...» Sollevato, anche Elslood si concesse una breve risata. Sfogliò qualche altra pagina del libro. «A quanto mi pare di ricordare, Sire, il demone Namuke aveva nascosto la sua essenza vitale, la sua anima, nella schiuma del mare. Di conseguenza, era vulnerabile a quella schiuma.» Poi scosse la testa e aggiunse: «A dire il vero, l'avrei giudicata una scelta assai astuta, come nascondiglio.» Ekuman brontolò qualcosa, in tono non impegnativo. Poi, nell'udire rumore di passi, si voltò e scorse Zarf, che in quel momento entrava nella sala delle udienze. Zarf era più giovane e meno alto di Elslood; inoltre, nell'aspetto fisico, corrispondeva assai meno di lui all'idea che in genere ci si faceva dei maghi. A giudicare dalle apparenze, Zarf sarebbe potuto piuttosto passare per un mercante o per un ricco contadino, a parte la presenza del servitore-rospo, che ora gli si posava sulla spalla, sotto una piega del mantello, e di cui si scorgeva solo il luccichio degli occhietti, coperti di una membrana trasparente. «Hai già terminato di esaminare il corpo del vecchio? Ti ha rivelato qualcosa?» «Non c'era niente da sapere da quel cadavere, Sire» disse Zarf. Cercò di reggere coraggiosamente lo sguardo di Ekuman, ma dovette abbassare gli occhi. «Potrei tornare a esaminarlo più tardi... ma non c'è niente.» Senza parlare, ma con un'aria chiaramente insoddisfatta, Ekuman rimirò a lungo i suoi maghi, che attendevano i suoi ordini e che, pur rimanendo immobili, per tutto il resto avevano l'aspetto di due bambini impauriti. Il satrapo provava sempre un notevole piacere, quando poteva esercitare il suo potere su due individui pericolosi come i maghi. Naturalmente, se era in grado di dominare Elslood e Zarf, il satrapo non doveva certo ringraziare qualche forza o qualche abilità personali e innate. Il dominio dei due maghi gli era stato dato nell'Est, ed entrambi conoscevano perfettamente la forza che era in grado di esercitare su di loro. Il rospo - creatura troppo in-
fima per rischiare qualsiasi genere di punizione - pigolò in tono acuto, ridendo fra sé e sé. Dopo avere concesso ai maghi il tempo di riflettere sulle possibili conseguenze della sua collera, Ekuman disse: «Poiché nessuno di voi due, ora come ora, sa dirmi qualcosa di utile, fareste meglio a tornare ai vostri cristalli e alle vostre macchie d'inchiostro, per vedere cosa siete in grado di capire. O qualcuno di voi ha da proporre qualche metodo di chiaroveggenza più potente?» «No, Sire» disse Elslood, umilmente. «No, Sire» gli fece eco Zarf, per poi tentare immediatamente una difesa: «Dato che questo Elefante che cerchiamo non è certo una creatura vivente, bensì un'opera di... ingegneria, di scienza...» Le assurde parole faticavano a uscire dalle labbra di Zarf. «...Allora, trovarlo... sapere qualcosa di più di ciò che già ci è noto, ossia che esiste ed è importante... potrebbe essere un compito superiore alle forze divinatorie di qualsiasi chiaroveggente...» Poi la voce gli si spense per la paura: aveva sollevato gli occhi e aveva scorto la faccia di Ekuman. Il satrapo attraversò con un sospiro la sala delle udienze, aprì una porta e posò il piede sulla scala che portava ai suoi appartamenti privati. «Trovatemi l'Elefante» ordinò, semplicemente, minacciosamente, prima di salire. Poi, dalla scala, giunse ancora la sua voce: «Fate salire da me il Maestro degli armigeri e anche il Maestro dei Rettili. Voglio che tutta questa regione sia in mio potere, e voglio che lo sia presto!» «Il giorno del matrimonio della figlia si avvicina» disse Zarf, con un grave cenno d'assenso. I due maghi si scambiarono un'occhiata cupa. Entrambi sapevano che per Ekuman era importantissimo che il suo potere fosse, o almeno apparisse, saldo e perfetto, il giorno che i Signori delle vicine satrapie fossero giunti al castello per la festa di nozze. «Vado giù io» disse Elslood, con un sospiro «e cerco di scoprire qualcosa nel cadavere del vecchio. Mi occupo io di mandargli le persone che ha convocato. Tu, rimani qui; cerca nuovamente di avere qualche visione utile.» Zarf annuì e si precipitò verso l'alcova dove teneva i suoi oggetti magici; intendeva versare una macchia d'inchiostro e fissare lo sguardo su di essa. Quando ebbe disceso la prima rampa di scale dalla sala delle udienze, Elslood si fece di lato e si inchinò profondamente per lasciar passare la principessa Charmian, che in quel momento stava salendo. La bellezza del-
la donna rischiarava come un sole lo stretto passaggio. Indossava abiti color bronzo, argento e nero, e una sciarpa rossa e nera che le era stata data dal promesso sposo. Dietro di lei, in fila tremebonda, venivano le dame al seguito, che la principessa sceglieva appositamente in base alla loro bruttezza. Charmian oltrepassò Elslood senza degnarlo di una parola o di una sola occhiata. Da parte sua, come sempre, il mago non poté fare a meno di seguirla con lo sguardo finché la donna non sparì alla sua vista. Solo allora si raddrizzò e infilò la mano in una tasca segreta della veste per toccare i lunghi fili biondi dei capelli di Charmian che vi teneva nascosti. Per procurarseli aveva corso un rischio mortale; poi li aveva intrecciati tra loro - con molti potenti incantesimi - per comporre un intricato nodo d'amore. E infine, ahimè, l'incantesimo amoroso si era dimostrato inutile per Elslood... come lui stesso, in cuor suo, aveva sempre saputo. Ogni dominio d'amore gli era proibito, come parte del prezzo che aveva dovuto pagare per accrescere i suoi poteri di mago. E adesso pensò che probabilmente il nodo di capelli di Charmian sarebbe risultato altrettanto inutile per qualsiasi altro uomo. Non c'era potere d'incantesimo in grado di spingere una persona profondamente malvagia come la principessa a provare qualcosa di simile all'amore. 2 ROLF Quando giunse alla fine del solco e. nel girare dall'altra parte il rudimentale aratro, alzò per caso gli occhi, Rolf scorse uno spettacolo che, pur non essendo del tutto inatteso, non per questo era meno spaventoso: i rettili alati del Castello erano di nuovo usciti dalle loro tane, per razziare la campagna circostante. "Che un demone se li divori, se anche oggi si avvicinano alle mie galline!" pensò. Ma, non essendo un incantatore, non aveva il controllo di alcun demone. Doveva limitarsi a fare da spettatore, e a disperarsi. Dietro le spalle di Rolf, il sole del pomeriggio distava ancora quattro ore dalla superficie del Mare Occidentale, la cui sponda si stendeva a poche leghe dalla posizione in cui si trovava il giovane in quel momento. Il territorio tra Rolf e il mare era in gran parte un bassopiano paludoso. Guardando innanzi a sé, il giovane scorgeva invece, al di sopra della cima degli alberi, una parte della linea frastagliata dei Monti Desolati, a
mezza giornata di cammino in direzione del sole nascente. Da quel punto non scorgeva il castello, ma sapeva perfettamente dove si trovava, appollaiato in cima alla parete meridionale del passo che tagliava quei monti in direzione est-ovest. I rettili venivano dal castello: tra le sue mura abitavano coloro che li avevano portati nelle Terre Desolate... persone così malvagie da parere inumane, anche se a guardarle avevano forma di uomo. In quel momento, dalla direzione del castello, volava a ovest uno sciame di minuscoli punti che, con la loro sola presenza, erano sufficienti a rovinare agli occhi di Rolf tutta la dolcezza del cielo primaverile. Il giovane aveva sentito dire che i padroni umani di quei rettili li mandavano a perlustrare il territorio per cercare più di una semplice preda: infatti c'era qualcosa di nascosto, ed Ekuman desiderava disperatamente mettergli le mani sopra. Ma, vere o false che fossero le voci, di una cosa non si poteva dubitare: i rettili, per procurarsi il cibo e anche per pura e semplice crudeltà, saccheggiavano le abitazioni dei contadini. Gli occhi di Rolf, che aveva sedici anni d'età, erano abbastanza acuti per scorgere il movimento delle loro ali simili a cuoio. Sotto il suo sguardo, le creature volanti del castello divennero lentamente sempre più grandi: la nube sottile, formata dalle centinaia di rettili, si precipitò verso di lui. Sapeva che i loro occhi erano ancor più acuti dei suoi. Quasi ogni giorno, negli ultimi tempi, i rettili piombavano sulla terra già spogliata e ferita dai nuovi padroni venuti dall'Est; una terra che adesso, nonostante la sua ricchezza, era ridotta alla fame, perché ogni mese altri contadini venivano uccisi, derubati, o portati via dai loro poderi. E i villaggi erano stati trasformati in campi di concentramento, o erano stati svuotati per fornire a Ekuman gli schiavi che gli occorrevano per rendere ancora più forte il castello. A volte, Rolf si era chiesto se quelle bestiacce dal turpe sorriso volavano solo cinque volte più veloci di un uomo in corsa o se non riuscissero a superare di ben dieci volte la sua velocità. Sollevando la mano ossuta, Rolf si ravviò una ciocca di capelli neri; sollevò la testa per osservare l'avanguardia dei rettili che volava quasi sopra di lui. Il giovane indossava calzoni di stoffa robusta, tessuta in casa, chiusi in vita da una spessa corda; la casacca, dello stesso materiale dei calzoni, era aperta sul petto per permettergli di respirare il tepore dell'aria primaverile e per non infastidirlo nel lavoro. Rolf era un giovane di media statura, magro come un pezzo di corda annodata e tesa. Le sue spalle ossute parevano più
ampie di quanto non fossero realmente. Anche i polsi, le mani coperte di calli e i piedi nudi parevano fatti per un uomo di taglia superiore a quella del resto del suo corpo. Visti da lontano, i rettili avevano dato l'impressione di volare in formazione compatta. Ma ora Rolf vide che si erano distribuiti su una vasta zona e che seguivano rotte diverse, avevano velocità diverse. Qua e là una di quelle orribili creature s'isolava dal gruppo, si lasciava portare dalle correnti e descriveva nel cielo un pigro cerchio, per meglio esaminare qualcosa che aveva intravisto sul terreno sottostante. Poi, a volte, il rettile riprendeva a volare veloce, senza sforzo apparente, poiché ciò che aveva controllato non gli pareva meritevole di attenzione. Ma altre volte scendeva a terra. Si lasciava andare in picchiata, ripiegava le ali, e cadeva come un sasso... ...Sopra la casa di Rolf! Con un tuffo al cuore, il giovane scorse il predatore alato che si tuffava per colpire. Prima ancora che la forma volante svanisse dietro la cima degli alberi, Rolf era già scattato a correre, diretto verso la propria casa, senza sapere che cosa fosse successo perché la radura e la piccola costruzione risultavano invisibili dal punto in cui si trovava in quel momento, a più di mille passi di distanza, in una zona di basse colline, coperta di arbusti. Il rettile aveva certamente avvistato un pollo della loro stia, si disse Rolf, anche se sua madre, dopo l'ultimo attacco, aveva cercato di nasconderli sotto una rete di corda, rametti e giunchi, mentre lui aveva fatto il suo turno di lavori forzati al castello. E in quello stesso momento la piccola Lisa doveva già essere uscita come aveva fatto la volta precedente, minacciando con una scopa o una zappa il rettile assassino, zannuto e intelligente, che era quasi più grande di lei... Tra la casa e il campo dove aveva lavorato fino a poco tempo prima, il sentiero seguito da Rolf passava per una zona che non si poteva arare perché troppo sassosa e accidentata. Il percorso a cui era avvezzo saliva e scendeva placidamente lungo le basse colline; ora invece saltava e balzava sotto di lui, che vi si era avviato di corsa, a grandi falcate. In precedenza, non aveva mai fatto la strada così a precipizio. Continuava a guardare davanti a sé, e sentiva i timori aumentare di momento in momento, perché il rettile, stranamente, non si era ancora risollevato in volo, con o senza preda. Che qualcuno, sfidando la legge del castello, avesse ucciso l'animale? Ma chi era stato? E come aveva fatto? Il padre di Rolf era a malapena in
grado di alzarsi dal letto. Sua madre? Come prescritto da un'altra legge del castello, dalla casa era stata portata via ogni lama che superasse le dimensioni di un piccolo coltello da cucina. La piccola Lisa... Rolf se la immaginò con in mano un attrezzo da giardiniere, intenta a combattere contro le zanne e gli artigli di una di quelle bestiacce, e cercò di correre ancor più in fretta. Poco probabile, dunque, che il rettile fosse stato ucciso. Eppure, gli abitanti della casa non gli avrebbero certamente permesso di starsene tranquillamente posato a terra, a mangiarsi le galline, senza fare di tutto per cacciarlo via. Ormai Rolf era giunto vicino a casa e avrebbe dovuto sentire le grida d'allarme e i suoni della lotta, ma su tutta la scena regnava soltanto un silenzio che non presagiva niente di buono. Quando finalmente giunse nella radura e posò lo sguardo sulle rovine del semplice edificio che era sempre stato la sua casa, Rolf comprese che già da tempo sapeva che cosa avrebbe trovato. L'aveva sempre saputo, fin da quando aveva visto scendere il rettile. E nello stesso tempo la verità stava diventando incomprensibile. Superava tutto quel che la mente era in grado di concepire. Il fuoco, le fiamme, come quelli che in passato, sotto gli occhi di Rolf, avevano divorato altre case distrutte dall'invasore, avrebbero potuto rendere maggiormente credibile ai suoi occhi la realtà ehe ora gli si parava dinanzi. Ma l'unica casa che Rolf potesse chiamare sua era stata semplicemente abbattuta a calci e spinte, fatta a pezzi come le capanne costruite per gioco dai ragazzi, come se non meritasse l'onore di essere bruciata. Era una struttura leggera e semplice; non c'era voluta molta forza per buttare giù il tetto, per abbatterne i pali. Rolf non si rendeva conto di essere scoppiato a piangere. E non si era accorto del rettile, che batteva le ali, senza staccarsi dalla carcassa che teneva tra gli artigli: un pollo, che probabilmente era scappato dalla stia quando la casupola era stata abbattuta. Dunque, la distruzione era avvenuta prima dell'arrivo dei rettili. E l'autore doveva essere stato qualche gruppo di sbandati, appartenenti agli armigeri del castello: chi altri? Nessun abitante delle Terre Desolate conosceva il momento in cui si sarebbero presentati da lui gli invasori, né poteva fare previsioni sulla propria sorte. Scavando con agitazione nelle rovine della casupola, Rolf scoprì alcune forme che parevano del tutto incongrue, come in un sogno. Trovò cose di nessuna importanza. Una pentola bruciata dal fuoco - il manico sbreccato
lo stupì perché corrispondeva esattamente a come lo ricordava - e più in là... La voce che aveva continuato a gridare il nome dei familiari, la voce di Rolf, ora tacque bruscamente. Incapace di muoversi, il giovane abbassò lo sguardo su una figura supina e immobile, una forma di carne e capelli e di strana nudità e di sangue. Sua madre aveva qualche somiglianza con quella cosa morta. Assomigliava alla forma che ora giaceva laggiù, in mezzo alle rovine della casa, e che ne condivideva l'immobilità. Ma Rolf doveva continuare a cercare. Più avanti c'era il corpo di un uomo, vestito, con la faccia molto simile a quella di suo padre. Gli occhi di suo padre erano adesso tranquilli, non protestavano più, ed erano spalancati e rivolti verso il cielo. Niente più paura, né preoccupazione, né collera soffocata. Niente più risposte da dare al figlio. Niente più dolore e debolezza per la ferita al piede. Era al di là della sofferenza, anche se era sporco di sangue; solo adesso Rolf gli scorse sul petto, dove la camicia era aperta, strane ferite dalle labbra rosse. "Certo" pensò il giovane, con un cenno d'assenso tra sé e sé "deve essere proprio il tipo di ferite fatto da una spada." Non ne aveva mai viste di simili, in precedenza. A quel punto aveva ormai smesso da tempo di gridare. Si guardò attorno, per cercare il rettile, ma l'animale era già sparito. Dopo avere frugato tra quanto rimaneva della casa e delle poche costruzioni che la circondavano, si fermò ai margini della radura. Comprendeva in modo vago di essersi fermato come una persona occupata a riflettere intensamente, anche se in realtà aveva il cervello del tutto vuoto. Ma si impose di pensare. Non aveva trovato Lisa. Se la sorellina si fosse nascosta nei paraggi, da tempo il rumore fatto da Rolf l'avrebbe fatta accorrere. A distrarlo da quelle riflessioni giunse un acciottolio di zoccoli: il cavallo da tiro di cui si era servito per manovrare l'aratro stava entrando in quel momento nella radura. L'animale aveva imparato a liberarsi da solo delle pastoie, se lasciato fermo nel campo per qualche motivo. Ora, giunto trotterellando nelle vicinanze della casa, si fermò all'improvviso e cominciò a rabbrividire e a nitrire a causa della stranezza di ciò che lo circondava. Senza pensare, Rolf parlò all'animale e si diresse verso di lui, ma il cavallo si voltò all'improvviso e galoppò via, come se il comportamento così normale e ordinario del giovane, in mezzo a quella distruzione, l'avesse atterrito... e in effetti era davvero strano che Rolf riuscisse a mantenersi così calmo.
Il cuore gli diede nuovamente un balzo. Riprese a scavare freneticamente in mezzo alle rovine. Ma no, il corpo di Lisa non c'era. Esaminò l'intera radura, osservando ogni cosa per assicurarsi della sua natura. Poi cominciò a descrivere cerchi sempre più grandi, nel bosco circostante. Con l'immaginazione, ogni tronco caduto gli pareva un cadavere steso sul suolo. Prese a chiamare piano la sorella, per nome. O Lisa era corsa lontano, o gli armigeri l'avevano... Non ci poteva credere. Era impossibile che gli armigeri fossero arrivati laggiù e avessero commesso tutti quegli orrori, mentre lui, Rolf, se ne stava calmo e pacifico, nei campi, ad arare. Perciò, in realtà non era successo niente. Perché non era possibile. E anche mentre se lo ripeteva, sapeva che era vero. ...O gli armigeri l'avevano portata via con loro. Se erano degli assassini, potevano essere anche dei rapitori. Rolf si trovò nuovamente davanti a casa, e dovette distogliere lo sguardo dalla nudità della cosa che era stata sua madre. Non si soffermò a pensare che le erano stati tolti i vestiti, né al motivo per cui l'avevano fatto, anche se si trattava di cose che conosceva perfettamente. Gli uomini del castello. Gli armigeri. Gli invasori. L'Est. «Lisa!» Era ritornato nel bosco e gridava a voce alta il nome della sorella. Il pomeriggio era molto caldo, anche laggiù all'ombra degli alberi. Rolf alzò il braccio per asciugarsi il sudore dalla fronte, e solo in quel momento si accorse di avere in mano un piccolo coltello da cucina. Doveva averlo raccolto in mezzo alle rovine della casa. Poi, qualche tempo più tardi, allorché la sua mente tornò a riprendersi dal trauma e dalla follia, si accorse di essersi avviato lungo la stretta stradina di terra battuta che passava accanto a quella che fino a poco tempo prima era la sua casa. Il mondo che lo circondava pareva stranamente normale, come se quella non fosse che una giornata comune, uguale a tante altre. Rolf si dirigeva approssimativamente verso est e presto avrebbe incontrato una strada più grande, che portava al castello minacciosamente appollaiato sul monte, al di sopra del passo. Dove credeva di andare? si chiese. Che cosa intendeva fare? Infine, dopo che fu passato altro tempo, il mondo divenne grigio e rarefatto davanti ai suoi occhi. Sentendosi girare la testa, si affrettò a mettersi a sedere sull'erba accanto alla strada. Non perse i sensi. Ma neppure si riposò, anche se, per la stanchezza, gli tremavano i muscoli delle gambe. Si ac-
corse che il vestito era strappato in più punti. Poco prima era corso per i boschi, gridando il nome di Lisa. Ma la sorella era scomparsa; e lui non sarebbe mai più riuscito a riaverla. Scomparsa. Come il resto della famiglia. Dopo essere rimasto per qualche tempo a sedere, si accorse con leggera sorpresa delia presenza di un uomo accanto a lui, fermo sulla polvere giallognola della strada. Scorgeva i piedi calzati di sandali, i lacci di cuoio sulle caviglie, i polpacci inconfondibilmente maschili, muscolosi e cosparsi di lunghi peli neri. Dapprima, Rolf riuscì soltanto a pensare che il nuovo venuto fosse un armigero; si chiese se non dovesse estrarre il coltello per tentare di colpirlo prima che l'armigero lo uccidesse. Il giovane si era infilato goffamente l'arma nella corda che gli faceva da cintura, e l'aveva nascosta sotto la casacca. Ma quando sollevò gli occhi, si accorse che non era un armigero. Pareva non portare armi, e non sembrava affatto pericoloso. «C'è qualcosa che non va?» Il nuovo venuto pronunciava distintamente le parole, con uno strano accento: una delle poche voci udite da Rolf che portavano in sé il suggerimento di paesi lontani e di popoli stranieri. Quando alzò gli occhi, il giovane vide che l'uomo lo guardava con gentilezza. Fissandolo, Rolf notò che l'espressione troppo addolorata, i lineamenti un po' grossolani, impedivano al suo volto di trarre eccessivo orgoglio dall'imperioso naso aquilino. Non si trattava certo di un contadino. Anche se non indossava le stoffe preziose delle persone veramente importanti, i suoi abiti erano di fattura estremamente migliore di quelli di Rolf. Era impolverato dal lungo cammino e portava uno zaino sulle spalle. Indossava un mantello di linea semplicissima, aperto, che gli scendeva fino alle ginocchia. Con la mano indicava il giovane, in un gesto interrogativo. «Le cose vanno molto male, eh?» Al momento, trovare una risposta a questa domanda pareva un problema insormontabile. Rolf abbandonò subito il tentativo. Abbandonò tutto, perdendo i sensi. Quando rinvenne, la prima cosa di cui si accorse fu che gli veniva accostata alla bocca una borraccia piena d'acqua. La sua mente aveva dimenticato la sete, ma il suo corpo no: per alcuni istanti, bevve come se fosse uscito in quel momento dal deserto. Poi, per reazione, sentì un conato di
vomito. L'acqua fresca e pulita minacciò di soffocarlo e gli salì nel naso, ma infine ritornò nello stomaco. Bere fu come una scossa, ridiede vita a Rolf, lo riportò alla ragione. Solo in quel momento si accorse di essere in piedi, appoggiato all'uomo. Si affrettò a staccarsi da lui e lo guardò attentamente. Il suo soccorritore era poco più alto di lui e aveva la pelle leggermente più chiara. Era più robusto di quanto non paresse a guardarlo in faccia, e dava l'impressione di essere una persona diversa da quella che voleva sembrare, come se avesse abituato la propria faccia a mostrare solo una parte di una grande e continua preoccupazione. Un'altra persona l'avrebbe definita "ascetica", ma Rolf non conosceva né la parola né il concetto. «Allora, va davvero tutto così male?» Batté alcune volte gli occhi e cercò di sorridere, come se sperasse in una risposta negativa da parte di Rolf, come se le cose non fossero poi così gravi. Ma presto gli svanì dalle labbra ogni accenno di sorriso. Chiuse con dita tozze e robuste la borraccia dell'acqua e se la infilò nuovamente sotto il mantello. Poi incrociò le braccia, come se implorasse Rolf di fargli conoscere il peggio. Al giovane occorse qualche tempo, ma gli riferì la sua storia a grandi linee. Prima che il racconto fosse finito, entrambi avevano ripreso il cammino, allontanandosi dalla strada principale e dal castello, per ritornare nella direzione da cui era giunto Rolf. Il giovane se ne accorse in modo vago, come se la direzione in cui andava non avesse alcuna importanza. Ora l'ombra degli alberi cominciava ad allungarsi e la stradina era fredda e grigia. «Terribile!» l'uomo continuava a mormorare, mentre ascoltava Rolf. Aveva smesso di torcersi le mani e adesso le teneva dietro la schiena. Di tanto in tanto spostava sulle spalle il peso dello zaino, come se non si fosse ancora abituato a portarlo, nonostante tutti i viaggi da lui fatti. Durante le pause nella narrazione di Rolf, l'uomo gli chiese il suo nome e a sua volta disse di chiamarsi Mewick. E quando il giovane non seppe più cosa dire, Mewick continuò a parlare, rivolgendogli domande in apparenza futili, sulla strada e sul clima, per evitare che si ritirasse nuovamente in se stesso. Poi gli raccontò che stava percorrendo la costa del grande mare, dal nord al sud, e che vendeva il migliore assortimento di strumenti magici, incantesimi e amuleti che si potesse trovare sul mercato, dovunque. Lo disse con un sorriso mesto, come se in realtà non si aspettasse di essere creduto.
«Avete...» cominciò Rolf, ma gli mancò la voce e dovette riprendere dall'inizio. Ma la seconda volta riuscì a pronunciare bene le parole: «Avete con voi qualcosa, nello zaino, che serva a trovare un gruppo di uomini e a ucciderli?» Nell'udire questa domanda, il mercante parve rattristarsi ancora di più. Per lungo tempo, non diede una risposta, ma si limitò a rivolgere a Rolf lunghe occhiate preoccupate. «Uccidere, sempre uccidere» disse alla fine, scuotendo la testa, disgustato. «No, no, non ho niente di simile nel mio zaino. No... ma oggi non è il giorno più adatto per ascoltare le mie spiegazioni. Senti, cosa posso fare per te?» Erano giunti a un bivio: la stradina di destra portava alla radura dove sorgeva la casa di Rolf. Il giovane si fermò all'improvviso. «Devo ritornarci» disse, a fatica. «Devo seppellire i miei genitori.» Senza parole, Mewick lo accompagnò. Nella radura, la scena non era cambiata, a parte il fatto che adesso le ombre erano più lunghe. Il lavoro non richiese molto tempo, scavando in due, con zappa e vanga, nel soffice terreno di quello che un tempo era l'orto. Una volta coperte le due tombe e costruita su di esse una montagnola di terra, Rolf indicò lo zaino di Mewick, che il mercante aveva posato a terra, e chiese: «Non avete niente, là dentro, che...? Vorrei mettere sulle tombe qualche incantesimo che le protegga. Vi pagherei più tardi. Prima o poi.» Mewick aggrottò la fronte e scosse la testa. «No. Qualsiasi cosa abbia detto prima, qui non ho niente che valga la pena di essere dato. A parte il cibo.» Con un pallido sorriso, aggiunse: «E quello è per i vivi, non per i morti. Te la senti di mangiare, adesso?» Rolf non se la sentiva. Si guardò attorno per l'ultima volta, osservando tutta la radura, e pensò che Lisa non aveva risposto, quando aveva provato nuovamente a chiamarla. Mewick si stava rimettendo sulle spalle lo zaino, senza fretta, e pareva esitante, come se non sapesse che cosa dire, o che cosa fare. «Allora, vieni con me» disse infine. «Per questa sera, mi pare di conoscere un posto dove potremmo fermarci. A una lega o poco più di distanza. Un ottimo posto per riposare.» Il sole era quasi al tramonto. «Che posto?» chiese Rolf, anche se non provava alcun vero interesse per il posto dove avrebbe passato la notte. Mewick si osservò attorno, come se fosse in grado di vedere quel che si stendeva al di là degli alberi. Guardò a sud e chiese a Rolf alcune informa-
zioni sulle strade che passavano accanto alla palude in quella direzione. «Faremo più in fretta, credo, se lasceremo la strada battuta» disse infine. Rolf non aveva voglia di discutere, e nemmeno di pensare. Mewick lo aveva aiutato. Grazie a quello strano mercante era riuscito a mantenere una certa presa sulla vita e sulla ragione, e non aveva nulla in contrario a seguirlo. Disse: «Sì, possiamo attraversare il bosco, se preferite, e di lì raggiungere la strada della palude.» Come previsto, all'uscita dal bosco incontrarono la strada costiera che andava a sud, proprio mentre il sole rossiccio scivolava dietro un basso banco di nubi, sull'orizzonte marino. Nel punto dove l'avevano raggiunta, la strada correva dritta a sud per circa un chilometro, in piano, e poi curvava a sinistra, verso l'entroterra, per evitare le prime paludi. Ormai si erano allontanati dai boschi e attorno a loro, su entrambi i lati, si stendevano campi aperti, abbandonati e non arati. In due distinti punti Rolf scorse case vuote e in rovina, in mezzo al loro orto coperto di erbacce. Rolf continuò a camminare a fianco di Mewick. senza provare alcun senso di stanchezza, sentendosi leggero e irreale. Non provò alcuna sorpresa quando Mewick si fermò bruscamente e si voltò verso di lui, si sfilò di spalla lo zaino e glielo porse. «Senti, per qualche tempo potresti portarlo tu, vero? Non è pesante. Sarai l'apprendista di un mercante di oggetti magici. Per un po' di tempo, almeno.» «D'accordo.» Con indifferenza, prese lo zaino e se lo infilò sulle spalle. Sciocchezze per i gonzi, aveva sempre detto suo padre, per definire gli oggetti che qualche mercante di incantesimi, dalla parlantina sciolta, offriva in vendita di fattoria in fattoria. «Ehi, e che cos'è questo?» chiese bruscamente Mewick. Aveva scorto il manico del piccolo coltello da cucina, visibile adesso che le corregge dello zaino avevano sollevato la casacca attorno alla vita di Rolf. Prima che Rolf riuscisse a rispondere, il mercante gli sfilò il coltello, emise un'esclamazione di disgusto e lo scagliò lontano, fra le alte erbacce che spuntavano ai bordi della carreggiata. «Male! È contro la legge, qui nelle Terre Desolate, nascondere un'arma!» «La legge del castello» mormorò Rolf, con una voce d'oltretomba, a
denti stretti. «Sì. Se gli armigeri del castello ti vedono con un simile coltellino... ah!» Desideroso di fare ammenda per avere buttato via un oggetto che era proprietà di Rolf. Mewick si sforzò di aggrottare ferocemente la fronte. Ma non gli riuscì granché. Le spalle abbassate, Rolf fissava con occhi vacui la strada davanti a lui. «Non fa niente» disse. «Cosa potrei fare, con un coltello così piccolo? Forse, se fossi fortunato, potrei ucciderne uno. Devo trovare il modo di ucciderne molti. Moltissimi.» «Uccidere!» esclamò Mewick, con aria di profondo disgusto. Con la testa, indicò a Rolf di proseguire, ed entrambi ripresero il cammino. Il giorno era ormai finito, stava scendendo la sera. Il mercante prese a mormorare tra sé e sé, come se ripassasse a fior di labbra una serie di frasi da ripetere. Dimentico e perso nei suoi pensieri, allungò il passo, senza accorgersene, e dopo breve tempo finì per trovarsi qualche passo davanti a Rolf. Rolf fu il primo a udire il rumore di zoccoli proveniente dalla strada alle loro spalle. Si voltò subito e la mano gli corse alla cintola, per prendere il coltello che ormai non aveva più. Tre armigeri si stavano avvicinando al piccolo trotto: impugnavano lance nere e corte, puntate verso il cielo sempre più scuro. Rolf afferrò le cinghie dello zaino, pronto a sfilarselo e ad allontanarsi di corsa dalla strada, alla ricerca di un rifugio. Ma Mewick lo teneva saldamente per il dietro della casacca, e Rolf, dopo pochi istanti, si rilassò. D'altra parte, i campi spogli che in quella zona circondavano la strada non offrivano alcuna protezione, e questo spiegava perché tre soli armigeri cavalcassero con tanta sicurezza sulla strada, all'approssimarsi del buio. Gli armigeri portavano un'uniforme di tessuto nero e l'elmo di bronzo; appesi alla sella avevano piccoli scudi tondi di bronzo. Uno di loro indossava anche una parziale armatura: schinieri e usbergo di colore opaco, corrispondente a quello dell'elmetto. Montava il cavallo più robusto e con molta probabilità, pensò Rolf, era un sergente. Da tempo gli uomini del castello avevano smesso di indossare le insegne del grado, quando erano di servizio. «Dove vai. mercante?» chiese il sergente, in tono burbero. Tirò la briglia e si fermò accanto a Mewick e Rolf. Era un uomo massiccio, e smontò di sella con movimenti lenti e pesanti... a quanto pareva, smontò solo perché voleva sgranchirsi le gambe. Le altre due guardie rimasero in sella, una per parte, con aria tranquilla
ma sul chi vive. Il loro sguardo, però, correva più ai ciuffi di erba alta che li circondavano e alla palude poco lontana che non ai due viandanti disarmati incontrati lungo la strada. Dopo qualche istante, Rolf capì che gli armigeri dovevano averlo preso per il servo o l'assistente del mercante, dato che camminava due passi dietro di lui, portava lo zaino ed era vestito poveramente. Ma questo pensiero, e altri simili a esso, non facevano che sfiorare la superficie della mente di Rolf, vi passavano in fretta e senza lasciare segno. L'unica cosa a cui riuscisse a pensare in quel momento era che quegli armigeri potevano essere i colpevoli. Proprio quei tre. Mewick si era messo immediatamente a parlare, si era inchinato di fronte al sergente, non appena questi era smontato di sella, e spiegava che stava viaggiando a piedi attraverso le Terre Desolate per il suo commercio umile ma importante, dal nord al sud, e che era sempre stato accolto con amicizia, dovunque, dai valorosi armigeri, perché essi sapevano che vendeva i migliori portafortuna e gli incantesimi più potenti, a prezzi estremamente ragionevoli, signore. Il sergente si era piantato in mezzo alla strada e ruotava la testa come se avesse un crampo al collo. Senza girare la testa verso i suoi armigeri, ordinò: «Date un'occhiata allo zaino.» Uno degli armigeri scese di sella e si avvicinò a Rolf, mentre l'altro rimaneva a cavallo e continuava a osservare la campagna circostante. I due uomini scesi da cavallo avevano lasciato la lancia in una tasca della sella, ma ciascuno di essi aveva anche una spada corta. L'armigero che si recò da Rolf era giovane come lui: forse poteva avere lui stesso una sorellina più giovane, in qualche luogo dell'Est. Ai suoi occhi, Rolf era solo un oggetto, un portabagagli su cui c'era uno zaino. Rolf portò avanti le spalle, per liberare lo zaino, e l'armigero lo prese. Tempo prima, quando gli uomini delle Terre Desolate si dedicavano ancora alle imprese di pace, qualcuno aveva riempito e consolidato la sede stradale, in quel punto in cui passava in una cuna; sotto i piedi nudi, Rolf sentiva la forma di ciottoli grossi come un pugno, in mezzo all'argilla e alla sabbia. Il sergente scrutava Mewick come se volesse perforarlo con lo sguardo; l'armigero portò lo zaino fino a lui e ne rovesciò sul terreno umido il contenuto: una pioggia di carabattole. Ne uscirono anelli, braccialetti e collane, che rotolarono da tutte le parti insieme con nodi d'amore fatti di capelli anonimi, con amuleti di legno scolpito e d'osso. Sulla maggior parte di
quegli oggetti erano scritti o graffiti caratteri indecifrabili, cifre prive di qualsiasi significato che avevano il solo scopo di impressionare i creduloni. Il sergente fece scorrere oziosamente nel mucchio la punta del piede, mentre Mewick, che batteva gli occhi e si torceva le mani, attendeva in silenzio davanti a lui. Anche il giovane armigero infilò il piede nel mucchietto d'oggetti e ne isolò un incantesimo d'amore, sporco di fango; poi si chinò a raccoglierlo. Con la mano, tolse il fango dal nodo di lunghi capelli e poi lo sollevò e si mise a fissarlo pensosamente. Infine mormorò, senza parlare con nessuno in particolare: «Chissà perché, quaggiù non incontriamo mai una ragazza giovane?» In quel momento, l'armigero che era rimasto in sella aveva girato la testa da un'altra parte e non badava a loro. Rolf, senza pensare neppure per un istante a quel che stava facendo, si mosse in preda a una follia che era simile ad una calma glaciale: si chinò e raccolse da terra una pietra suffiientemente grossa da uccidere un uomo, scagliandola poi con tutte le sue forze contro la nuca del giovane armigero appiedato. Questi doveva essere molto veloce, perché in qualche modo riuscì a evitare il sasso. Allargò gli occhi e la bocca come un pesce e lo vide passare davanti a sé sotto forma di una scia a mezz'aria. Con un senso di profondo, ma tranquillo, dispiacere per avere mancato il bersaglio, Rolf si chinò a raccogliere un'altra pietra. Senza neppure avere il tempo di sorprendersi, scorse con la coda dell'occhiò che il massiccio sergente stava cadendo a terra e che Mewick tirava indietro il braccio, per lanciare contro l'armigero ancora in sella un piccolo oggetto luccicante. Il giovane armigero che aveva scansato la prima pietra aveva intanto estratto la corta spada e si stava lanciando contro Rolf. Questi aveva già in mano un'altra pietra e si preparava ad adottare una tattica appresa da bambino, quando lui e i compagni giocavano con le palle di fango. Prima una finta - un movimento del braccio che serviva soltanto a fare in modo che l'avversario si chinasse e cercasse di scansare il colpo - poi il vero lancio, nell'istante in cui l'avversario si raddrizzava. La tattica non permise a Rolf di scagliare con tutte le sue forze la pietra, ma il colpo riuscì a fermare l'armigero, schiantandosi contro la parte inferiore della sua faccia. Il giovane si fermò per un istante, con un'espressione sorpresa, e si portò la mano alla bocca insanguinata, mentre l'altra mano non lasciava la spada.
In quell'istante, Mewick gli passò di lato e fu su di lui. Con un'inaspettata traiettoria orizzontale, un calcio colpì all'inguine il giovane armigero, dove non aveva protezione; poi, quando si piegò su se stesso e l'elmetto cadde a terra, Mewick gli calò sul collo il taglio della mano, che lo colpì come se fosse stata una scure. I due cavalli rimasti senza cavaliere si impennarono e si lanciarono lungo la piccola strada; pochi istanti più tardi, i cavalli senza cavaliere furono tre, perché anche il terzo armigero scivolò lentamente a terra, con le mani ancora strette all'impugnatura arrossata di sangue del piccolo pugnale che gli aveva trafitto la gola. Ancora qualche istante, e i tre animali liberi galoppavano in direzione nord-est, la stessa da cui erano giunti. Solo allora Rolf si rese conto che già da tempo si levava lo stridulo grido d'allarme di un rettile, alto sulla loro testa. Eppure, non riuscì a fare altro che osservare stupidamente Mewick, il quale, avvolto nel suo svolazzante mantello, attraversava rapidamente la strada e tagliava una gola dopo l'altra con il movimento preciso e pratico di un esperto macellaio. L'ultimo dei tre armigeri a morire fu quello che era caduto per primo: il massiccio sergente, che sembrava essere stato sbudellato dall'inguine all'ombelico nel primo istante della lotta. Rolf vide Mewick dare l'ultimo, necessario, colpo di coltello, pulire la lama sulla manica del sergente e poi farla di nuovo svanire in una guaina segreta, nascosta sotto il mantello. La mente di Rolf riprese a funzionare. Il giovane si guardò intorno, scorse ai margini della strada una delle lance, inutilizzata e senza neppure una macchia di sangue, infine si chinò a prendere la corta spada del giovane armigero. Con quest'arma in pugno, Rolf seguì di corsa Mewick, che si diresse verso sud lungo la strada, e poi a occidente, attraverso un campo incolto e pieno di erbacce, per raggiungere la più vicina palude. Era il crepuscolo, e le strida del rettile svanirono in lontananza. Ma già mentre lui e Mewick ponevano piede nel primo specchio d'acqua della palude, Rolf cominciò a sentire in lontananza un rumore di zoccoli e di grida. Gli uomini del castello non li inseguirono a lungo: era caduta la notte, e laggiù si era nelle paludi. Con tutto questo, però, il cammino dei due fuggiaschi fu tutt'altro che facile. Verso la mezzanotte, mentre attraversava al guado l'acqua alta fino alla
cintola, rischiando di finire sommerso in mezzo a strani vegetali fosforescenti se Mewick non lo avesse tenuto per il braccio, Rolf scorse all'improvviso un'enorme forma alata che volava sopra di lui silenziosa come un sogno. Non era certamente un rettile, ma era assai più grande degli uccelli a lui noti. Gli parve che facesse domande - parlando con uno strano tono dolce e musicale - e che Mewick gli rispondesse qualcosa, bisbigliando. Un attimo più tardi, la creatura s'innalzò in volo e sparì dietro di lui; Rolf riuscì a scorgerne gli occhi tondi e grandissimi perché riflettevano una piccola luce, molto luminosa. Guardando da quella parte, vide infatti una piccola lingua di fuoco. E ora il terreno si sollevò e divenne solido. L'animale alato era scomparso nella notte, ma, da accanto al fuoco, venne verso di loro un uomo gigantesco, dai capelli biondi, che doveva essere un capo guerriero e che si rivolse con familiarità a Mewick, guardò Rolf e lo salutò. Laggiù c'era un rifugio, un accampamento. Infine Rolf fu in grado di sedersi, di riposarsi. L'ultima cosa che sentì fu una voce di donna che gli chiedeva se volesse del cibo... 3 IL POPOLO LIBERO "Sì, i miei genitori sono morti e sepolti" si disse Rolf, l'istante dopo il risveglio, prima ancora di aprire gli occhi per controllare dove si trovava. "Mia madre e mio padre sono morti. E mia sorella... se Lisa non è morta, forse in questo stesso momento si augura di esserlo." Assicuratosi così di poter affrontare questi pensieri, Rolf si decise infine ad aprire gli occhi. Scoprì di trovarsi sotto una tettoia, posta a meno di un braccio da lui, e dalle cui fessure si scorgeva una luce. A una delle estremità, la tettoia era legata ad alcuni sottili tronchi d'albero: pareva fatta prendendo semplicemente i rami vivi, coperti di foglie, di quegli alberi e intrecciandoli tra loro. Le strisce di cielo che si vedevano tra un ramo e l'altro erano chiare e luminose; era già giorno inoltrato. Rolf non ricordava di essere entrato in quel rifugio. Forse qualcuno lo aveva portato laggiù in braccio, come si fa con i bambini piccoli. Ma la cosa non aveva importanza. Si sollevò su un gomito, e sentì scricchiolare sotto di sé le foglie secche su cui aveva dormito. Il movimento gli fece dolere tutti i muscoli. I suoi
vestiti erano pieni di strappi e sporchi di fango. A causa della fame, gli pareva di avere un buco nello stomaco. Vera e robusta, sulle foglie accanto a lui c'era anche la corta spada che aveva tolto al giovane armigero, il giorno precedente. Con l'occhio della mente, rivide la pietra che aveva scagliato colpire i denti dell'armigero e far schizzare il sangue. Allungò la mano e afferrò per un istante l'impugnatura dell'arma che era la sua preda di guerra. A poca distanza dal suo giaciglio c'erano alcune persone che parlavano a voce bassa, con il tono di chi deve prendere delle decisioni. Rolf, tuttavia, non riuscì a distinguere le parole. Dopo qualche istante si mise a quattro zampe e, lasciando dietro di sé la spada, strisciò fuori dal suo rifugio. Quando fu all'esterno, vide davanti a sé tre persone intente a parlare, attorno a un piccolo fuoco senza fumo. Del gruppo faceva parte Mewick, che si era liberato del mantello e sedeva tranquillamente a gambe incrociate. Accanto a lui c'era il gigante biondo che Rolf aveva già visto la notte precedente, e al suo fianco una donna che gli assomigliava moltissimo, al punto che sarebbe potuta passare per sua sorella. Nello scorgere Rolf, tutt'e tre tacquero e si voltarono a guardarlo. Uscito dalla tettoia, il giovane si alzò faticosamente in piedi. Le prime parole le rivolse a Mewick: «Mi spiace, ieri, di avere dato inizio alla lotta. Ho rischiato di farvi uccidere.» «Sì» disse Mewick, annuendo con la testa. «Ma avevi i tuoi buoni motivi, e forse hai fatto la cosa giusta. D'ora in poi cercherai di rimanere tranquillo, eh?» «Sì, lo prometto.» Rolf trasse un profondo sospiro. «Mi insegnerete a lottare come voi?» Mewick non diede alcuna risposta immediata, e l'argomento venne lasciato cadere, per il momento. La donna che sedeva accanto al fuoco portava abiti maschili - cosa abbastanza comprensibile, per accamparsi nelle paludi - e si era annodata in cima alla testa i lunghi capelli biondi. «Allora, ti chiami Rolf» disse, girandosi verso di lui per vederlo meglio. «Mi chiamo Manka. Io e mio marito Loford abbiamo saputo la tua storia da Mewick.» Il gigante biondo annuì gravemente. La donna proseguì: «Dietro quegli alberi c'è un laghetto dove si può fare il bagno senza pericolo, Rolf. Al tuo ritorno mangerai qualcosa e potremo continuare il nostro discorso.»
Con un cenno d'assenso, Rolf si allontanò. Girò attorno al gruppo di alberi dove c'era la tettoia che aveva coperto il suo giaciglio e vide che erano posti al centro di un'isoletta di terraferma del diametro di una ventina di passi. Dietro gli alberi, una breve discesa portava a un laghetto che sembrava più profondo e più pulito della palude circostante. Solo dopo essersi lavato e rivestito ed essere risalito sull'argine per unirsi agli altri, Rolf scorse una creatura vivente appollaiata su uno dei rami più alti dell'albero in centro alla fila. Appoggiata al tronco, dormiva una massa di penne color castano chiaro, grande come un bambino di una decina di anni. La creatura aveva un colore così smorto, ed era talmente immobile, ripiegata su se stessa, che Rolf dovette guardare due volte per convincersi che non faceva parte dell'albero. Quando cercò di osservare le zampe del grande uccello, vide che avevano tre dita, erano più robuste di quelle dei rettili volanti ed erano munite di spaventosi artigli. Non riuscì però a capire dove fosse la testa dell'uccello, nascosta sotto tutte quelle penne. Stava ancora guardando l'uccello quando raggiunse gli altri accanto al fuoco. «Strijeef è nostro amico» spiegò Loford, seguendo la direzione dello sguardo di Rolf. «La sua razza è dotata della parola e dell'intelligenza; danno a se stessi il nome di Popolo Silenzioso. Al pari del nostro amico Mewick, anch'essi sono stati cacciati via dalla loro terra. Ora sono qui con noi, con la schiena rivolta al mare.» Manka versò un po' di minestra in una ciotola e la porse a Rolf. Il giovane la ringraziò e cominciò a mangiare, per poi chiedere: «Adesso, sta dormendo?» «La sua razza dorme tutto il giorno» spiegò Loford. «O, quanto meno, si nasconde. I loro occhi non sopportano la piena luce del sole, e di conseguenza, finché è chiaro, i rettili, loro nemici, li cercano e li uccidono. Ma di notte sono gli uccelli a dare la caccia ai rettili.» «Sono lieto di sentire che qualcuno dà la caccia a quei rettili» disse Rolf, con un cenno d'assenso. «Mi chiedevo perché, tutte le sere al tramonto, rientrassero al castello.» Poi si dedicò all'abbondante porzione che Manka gli aveva servito, e si limitò ad ascoltare i discorsi degli altri. Mewick stava riferendo al Popolo Libero della palude l'attività delle altre bande che lottavano lungo la costa settentrionale delle Terre Desolate. Anche quella parte della regione era occupata da uomini e creature venuti dall'Est, sotto il comando del satrapo
Chup, avente un rango uguale a quello di Ekuman. In quel momento, Chup era diretto a sud, per raggiungere il castello di Ekuman, dove si sarebbe sposato con la figlia di questi. Per la cerimonia sarebbero giunti anche i satrapi di altre regioni vicine. Ciascuno di loro, come nel caso di Ekuman e di Chup, era il signore della propria regione, e dominava grazie ai suoi armigeri e sotto la bandiera nera dell'Est. Approfittando di una pausa nel discorso di Mewick, Rolf chiese: «Mi sono chiesto molte volte... che cos'è l'Est? O chi è? C'è una sorta di re che comanda tutti gli altri?» «Ho sentito molte voci diverse» disse lentamente Loford «sui veri padroni di Ekuman, ma non so quasi nulla di loro. Quaggiù siamo in un angolo molto appartato del mondo. Non so neppure molto sui poteri superiori dell'Ovest.» Dall'espressione di Rolf, Loford comprese che il ragazzo avrebbe voluto rivolgergli dieci altre domande. Gli sorrise e riprese: «Sì, c'è anche un Ovest, e noi ne facciamo parte... noi che siamo disposti a lottare per la possibilità di vivere da uomini. Quaggiù l'Ovest è stato sconfitto. Ma non è morto. Credo che i padroni di Ekuman siano troppo occupati in qualche altro luogo per mandare nuove forze in suo aiuto... se riusciremo ad abbattere quelle che già possiede.» Nell'accampamento scese un breve silenzio. Rolf si sentì balzare il cuore, al pensiero di abbattere Ekuman, ma conosceva la dura realtà della forza del satrapo: le lunghe colonne di armigeri che sfilavano in parata e con lo scopo di impressionare chi vedeva le centinaia di cavalieri e le migliaia di armigeri a piedi; le spesse mura del grande castello. Loford, che aveva riflettuto su qualche sua idea, riprese il discorso: «Se Ekuman non può aspettarsi aiuto, non possiamo aspettarcelo neppure noi. Gli uomini delle Terre Desolate dovranno infrangere da sé le loro catene, o rassegnarsi a portarle in eterno.» Scosse tristemente la testa e si rivolse a Mewick: «Speravo che potessi darci notizia di qualche libera armata ancora in campo, nel Nord. Qualche principe dell'Ovest sopravvissuto lassù, o almeno qualche governo che cerca ancora di rimanere neutrale. Sarebbe stato un grande incoraggiamento.» «Il principe Duncan d'Islandia sopravvive» disse Mewick. «Ma credo che al momento non abbia alcun esercito, sul continente. E forse, al di là del mare, ci sono altri stati indipendenti.» Sulle sue labbra tristi comparve
un pallido sorriso. «Io sono qui per aiutare, se questo può essere d'incoraggiamento.» «Lo è certamente» disse Loford. Poi, cambiando argomento, fissò Rolf. «Dimmi, ragazzo» chiese. «Che cosa sai dell'Elefante?» Rolf fu colto di sorpresa. «L'Elefante? Be', è un simbolo degli stregoni. Non so che cosa significhi. In tutto, credo d'averlo visto cinque o sei volte.» «Dove e quando?» Rolf rifletté. «La prima volta» disse poi «ricamato su una stoffa, nello spettacolo di un mago che ho visto ai villaggio. E c'è un posto, nei Monti Desolati, dove qualcuno l'ha scolpito sulla roccia...» Proseguì, elencando come meglio poteva i luoghi e le date in cui aveva visto la strana immagine di quell'animale impossibile, con il naso prensile e le corna - o i denti? - a forma di spada. Loford lo ascoltò attentamente. «Nient'altro? Qualche discorso che puoi avere udito, magari negli scorsi giorni?» Rolf scosse la testa. «Ho passato le ultime settimane ad arare i campi. Finché...» «Sì, certo» disse Loford, sospirando. «Ma mi devo attaccare a tutto. Dobbiamo assolutamente trovare l'Elefante, prima che lo trovino quelli del castello.» Rolf credette di capire che Loford si riferiva a qualche importante immagine magica dell'Elefante. Suggerì: «Perché non chiedete aiuto a un magò?» Loford rimase a bocca aperta. Mewick sollevò le sopracciglia e fece una faccia strana; poi diede in qualche colpo di tosse, come se soffocasse... dovettero passare alcuni istanti perché Rolf comprendesse che stava ridendo. Quanto a Manka, dapprima diede l'impressione di volerlo fulminare con gli occhi, ma poi prese a sorridere anche lei. «Non hai mai sentito parlare del Grande Mago, ragazzo?» gli chiese, in tono per metà irritato e per metà divertito. Rolf cominciò a capire. Una sera, molto tempo prima, si trovava al villaggio, dopo il mercato, e aveva lasciato i suoi giochi per ascoltare i discorsi dei grandi. Tutti i maghi dilettanti della regione si erano riuniti, e parlavano delle prodezze dei professionisti della magia. «Il Grande Mago venuto dal sud del delta sapeva fare senza difficoltà questo e quello» avevano detto alcuni, e ne avevano pronunciato il nome come paragone di ec-
cellenza. E tutti coloro che ascoltavano avevano assentito gravemente, dondolando le lunghe barbe da contadini. Sì, il Grande Mago. Quel nome li aveva colpiti tutti, e il piccolo Rolf, per qualche tempo, aveva continuato a pensare a lui come a un essere enorme e potentissimo, che sorrideva benevolo sui campi, sui monti e sulle paludi. «No, non preoccuparti» lo rassicurò Loford, sorridendogli. «Mi hai dato un buon consiglio. Devo ricordarmi che non sono il miglior mago che esista al mondo.» Poi il sorriso gli svanì bruscamente dalle labbra. «Sono solo il migliore attualmente disponibile» disse «da quando il Vecchio Mago è stato portato nei sotterranei del castello a morire.» Mewick gli disse: «Devi prendere il posto che aveva il Vecchio in tutte le cose di magia. Ma chi ci guiderà in tutto il resto, ora che lui non c'è più? Parlo apertamente. Tu non sei... non sei mai stato molto portato per gli aspetti pratici, mi pare.» «Sì, so di non esserlo» disse Loford, ma sembrava un po' seccato. «Thomas, forse. Spero che sia disposto a guidarci. Oh, non manca di coraggio, e odia il castello come tutti gli altri. Ma guidarci nel vero senso della parola, assumersi le responsabilità, è una cosa diversa.» I discorsi continuarono. Manka versò altra minestra nella tazza di Rolf, e il ragazzo continuò a mangiare e ad ascoltare. Ogni volta, i piani e le speranze di tutti ritornavano al misterioso Elefante; Rolf giunse pian piano a capire che parlavano di qualcosa di assai superiore a un'immagine, poiché il nome significava qualche oggetto o qualche creatura del Mondo Antico ancora esistente laggiù nelle Terre Desolate. Quella creatura o quell'oggetto dominava il prossimo futuro, con un'enorme importanza sia per l'Est sia per l'Ovest. Questo - ma, con grande irritazione di Loford, non di più - era tutto ciò che il Grande Mago era riuscito a sapere dell'Elefante, mediante i suoi poteri. Mewick smise all'improvviso di parlare, arrestandosi a metà della frase, e guardò in alto, facendo segno agli altri di rimanere immobili. Ma era troppo tardi, erano già stati scoperti dall'alto, nonostante il riparo offerto dagli alberi. Sopra di loro, già echeggiavano gli schiamazzi dei rettili. Una decina delle creature volanti si tuffava all'attacco, diretta verso la radura ai piedi degli alberi, e aveva già snudato gli artigli e aperto le lunghe mandibole per mostrare i denti. Rolf si tuffò verso il suo giaciglio e ne balzò fuori un istante più tardi,
con in pugno la spada. Mewick e Manka avevano già preso arco e frecce dalla loro piccola pila di abiti e scorte, accanto al fuoco; un istante più tardi, uno degli attaccanti si agitava a terra, ai piedi di Rolf, trafitto da una freccia. Il principale bersaglio dell'attacco, però, era l'uccello raggomitolato sull'albero. Strijeef si destò quando i rettili, provvisoriamente fermati dai rami, presero a roteargli attorno; ma sembrava accecato, instupidito dalla luce. Prima che i rettili riuscissero a passare, però, il loro attacco venne fermato. Una freccia dopo l'altra si innalzarono contro di loro, e quasi sempre colpirono il bersaglio. E Rolf salì sui rami più bassi, menando all'impazzata colpi di punta e di taglio. Non poté essere certo di avere ferito qualcuno dei rettili, ma tranciò rami e foglie in quantità. Tuttavia, tra spada e frecce, i rettili furono costretti a ritirarsi, volandosene via in uno sciame urlante, verde e grigio. Le frecce avevano abbattuto quattro rettili e ora Rolf ebbe la soddisfazione di finirli con la sua lama. Morendo, gridarono contro di lui, scagliando maledizioni e minacce comprensibili solo a metà; ma per Rolf fu come uccidere dei semplici animali. Portatisi fuori gittata dalle frecce, i rettili superstiti continuarono a girare in cerchio sull'isolotto, lanciando una cacofonia di grida. «Quando fanno così, è perché gli armigeri non sono lontani» disse Manka. Si era già infilata l'arco a tracolla ed era intenta a raccogliere le poche cose dell'accampamento. Disse a Rolf: «Svelto, giovanotto, va' a liberare la canoa.» Rolf aveva già visto l'imbarcazione, nascosta sotto un mucchio di rami nelle vicinanze del laghetto dove s'eralavato. Ora corse in quella direzione, portando con sé una parte del carico. Nel frattempo, Manka chiamò l'uccello. Guidato dalla sua voce, Strijeef discese lentamente dall'albero. Per tutto il tragitto, gli artigli minacciosi brancolarono e cercarono ciecamente la presa, e infine trovarono la prua della canoa. Con un solo, sorprendente battito d'ali, vi salì e si appollaiò, coprendosi poi la testa, in modo da sembrare una brutta polena. Mewick, con l'arco ancora in mano, passava ansiosamente da un lato all'altro dell'isolotto, cercando di capire da che parte provenissero gli armigeri. Loford, chino accanto alla canoa, immerso nell'acqua fino alle caviglie, raccoglieva grandi manate di fango grigiastro dal fondo della palude. Ogni volta, fissava il fango e mormorava alcune parole, poi lo lasciava
nuovamente scivolare nell'acqua. Alla fine, una delle file di gocce che gli sfuggivano dalle mani lasciò la verticale e si aprì a ventaglio, come se fosse stata colpita da un forte soffio di vento. Loford indicò nella stessa direzione. «Mewick, vengono da quella parte» disse piano. «Allora, andiamo dall'altra... e in fretta!» esclamò Mewick, correndo verso la canoa. Ma Loford stava mormorando più rapidamente che mai, e faceva con le braccia strani gesti larghi, come un uomo che cercasse di nuotare all'indietro nell'aria. Dalle dita gli sfuggivano gocce di fanghiglia. Continuò a gesticolare anche quando Manka lo condusse al suo posto nella canoa, e per poco, con la sua goffaggine, non la fece rovesciare, anche se gli altri fecero di tutto per tenerla in equilibrio. "E io, che l'avevo giudicato un guerriero!" pensò Rolf, con tristezza, dalla sua posizione sul primo banco. Ma, pochi istanti più tardi, il giovane rimase a bocca aperta. Vide disegnarsi nell'acqua limacciosa una serie di onde concentriche, che non erano spinte da alcun vento e da alcuna corrente. L'ampiezza delle onde saliva ad ogni movimento delle braccia del Grande Mago, che continuava ad agitarle regolarmente, e le onde seguivano la cadenza delle sue mani. Inoltre, invece di allargarsi come onde normali, più salivano d'altezza, più tendevano a raggrupparsi. Puntando il remo contro la sponda, Manka allontanò dalla riva la canoa e iniziò a pagaiare dall'ultimo banco, mentre l'acqua sollevata dalla magia del Grande Mago seguiva lentamente l'imbarcazione. Rolf aveva posato la spada sul fondo della canoa - da dove, all'occorrenza, poteva recuperarla in un attimo - e remava a sua volta. Mewick, che impugnava ancora l'arco con una lunga freccia incoccata, era nel secondo banco e comunicava a Rolf dove si doveva dirigere in mezzo ai ceppi fradici e ai piccoli isolotti coperti di vegetazione. Ma Rolf continuava a guardarsi alle spalle. Nel terzo banco, Loford lavorava ancora al suo incantesimo. Spostava goffamente da un lato all'altro la sua grande mole, e una volta per poco non rovesciò la canoa. Rolf si vedeva già nell'acqua, ma una massa di fango che sembrava un braccio avvolto in un guanto scaturì dalla palude e tenne fermo, per pochi istanti, ma saldamente, il parapetto. Infine, Rolf capì che cosa stava facendo il mago: intendeva sollevare un elementare. Il rispetto del ragazzo per Loford salì a vertici che non avrebbe
creduto possibili. Anche i rettili dovevano avere visto sollevarsi l'acqua, perché uno di loro lasciò il gruppo che volava in cerchio sulla canoa e, lanciando un avvertimento, volò in direzione dell'isolotto da cui si era allontanato il gruppo di Rolf. Ma ormai era troppo tardi perché gli armigeri inseguitori, ancora invisibili, potessero trarne profitto. Spinto dai movimenti, limitati ma precisi, delle dita di Loford, il mucchio di onde dietro la canoa aveva lasciato il posto a un lento, fantastico bolli-bolli, che salì sempre più in alto e che infine si allontanò di corsa, girando attorno all'isolotto dietro cui si stava avvicinando il nemico. Ora l'acqua attorno alla canoa era ritornata immobile. Come per un ordine non detto, Rolf e Manka avevano smesso di pagaiare. Tutti, tranne il solo uccello accecato dalla luce, si erano girati a guardare e rimanevano immobili. Loford tendeva ancora le braccia. «Remate!» ordinò, a bassa voce. Per un attimo, Rolf non fu in grado di obbedire, perché ora vedeva, sull'altro lato dell'isolotto, sollevarsi una grande struttura di acqua e di fango. In un istante, la massa s'innalzò fino quasi a superare l'altezza degli alberi. La comparsa dell'elementare fu accolta da un coro di grida: le grida di stupore e di paura di un numero di uomini sufficiente a riempire molte canoe. Rolf non era in grado di vedere gli uomini, ma attraverso gli alberi riusciva a scorgere l'essere di fango che marciava pesantemente tra loro. Era grigio e nero, e luccicava come se fosse sporco di goccioline di olio; muovendosi, aveva perso quasi del tutto la forma originaria. Echeggiarono urla che non provenivano certamente dalla gola di qualche rettile, e poi un rumore di tuffi rivelò che qualcuno si gettava nell'acqua da un'imbarcazione rovesciata. Ancora un gruppo di urla confuse, poi il suono ritmico di molte pagaie in ritirata. «Remate!» ordinò Loford. «Adesso c'è il rischio che si rivolti contro di noi.» Seguendo le direttive di Mewick, Rolf diresse la canoa verso una sorta di canale tra due grandi banchi di terra. «Remate!» li incitò nuovamente il mago, anche se Rolf e Manka stavano già pagaiando con tutte le loro forze. Gettandosi rapidamente un'occhiata alle spalle, Rolf vide che l'elementare - ormai ridotto di dimensione, ma grande ancora come un uomo - aveva fatto di corsa il giro dell'isolotto e inseguiva il suo creatore e la barca che
lo portava. Dalla forma di fango giungevano suoni liquidi, incomprensibili, e schizzavano grandi spruzzi di schiuma; nel tragitto fino alla canoa si rimpicciolì progressivamente. In tutto il periodo, Loford continuò a cercare di placare l'essere che aveva evocato: di placarlo e di distruggerlo, bisbigliando formule magiche e muovendo le mani verso il basso, come se avesse dovuto schiacciare una massa invisibile. La misteriosa forma di vita posseduta dall'elementare scivolò via da lui insieme con la massa di fango che lo formava. Nel raggiungere infine la canoa, era poco più di un'onda sonnolenta che sollevava le piccole piantine verdi che coprivano la superficie dell'acqua. Quando l'onda passò sotto di loro e li sollevò, Rolf vide roteare al suo interno un sandalo, del tipo portato dagli armigeri del castello. Continuò a osservarla con attenzione, per vedere se vi si scorgeva qualche altro trofeo più interessante, ma non ebbe questa soddisfazione. I rettili che seguivano la canoa gridavano di rabbia, ma non potevano fare niente, perché dovevano tenersi fuori portata dagli archi. Poco più avanti, il canale scompariva sotto le fronde degli alberi e risultava del tutto invisibile dall'alto. Nel vedere che avrebbero perso la preda, alcuni rettili, infuriati e frustrati, osarono scendere fra grandi strida, per cercare di colpire l'uccello appollaiato sulla prua. Rolf lasciò subito la pagaia per afferrare la spada. Con le frecce di Mewick che sibilavano contro di loro e la spada che fischiava sulla loro testa, i rettili dovettero ritirarsi. Tornarono a salire e in breve sparirono al di sopra di quello che ormai era divenuto un completo tetto di fronde. Rolf guardò con tristezza la spada, che in quell'ultima scaramuccia non aveva versato neppure una goccia di sangue, e disse: «Mewick, mi insegnerete a usare le armi?» «Sì, ma solo per difenderti...» brontolò l'ex venditore di amuleti, tornando a sedere sul banco. Si era gettato sul fondo della canoa per evitare l'ultimo fendente vibrato dal giovane. «Oh! Mi spiace» rispose Rolf, arrossendo. Prese la pagaia e si dedicò soltanto a quella, senza voltarsi indietro. Dopo qualche tempo, dietro di lui, Mewick disse: «Sì, d'accordo, te l'insegnerò, quando avrò tempo. Visto che hai già in mano la spada.» Rolf si voltò verso di lui. «E anche gli altri tipi di combattimento?» chiese, speranzoso. «Ad e-
sempio, mi piacerebbe servirmi dei calci come avete fatto voi, ieri, con quell'armigero...?» «Sì, sì, quando ne avremo il tempo» promise Mewick, senza alcun entusiasmo. «Ma non credere che si possa imparare in una settimana, e neppure in un mese.» Il canale lungo cui navigavano si suddivideva in canali più piccoli, che poi ritornavano a congiungersi e a separarsi di nuovo. Manka, che ora sceglieva la rotta dalla sua posizione a poppa, non pareva avere esitazioni sulla direzione da prendere. Per tutto il tempo, Loford contribuì con la magia ad agevolare il viaggio: apriva davanti alla canoa le pareti di liane attorcigliate - o rendeva più facile aprirle agli occupanti dell'imbarcazione - e poi le chiudeva nuovamente dopo il passaggio della canoa, in modo che sembrassero una barriera mai violata. Rolf si limitava a pagaiare nella direzione che gli veniva indicata e a guardare attentamente davanti a sé. Essendo l'unico che in quel momento stesse guardando lungo il corso del canale, Rolf fu il primo a vedere la ragazza che li fissava dall'alto di un albero; sollevò la pagaia e fece per avvertire i compagni, ma fu preceduto da Manka, che disse: «Non preoccuparti. Quella ragazza è una sentinella del grande accampamento.» Quando furono più vicini, Rolf poté vedere meglio la ragazza. Aveva i capelli castani ed era vestita di abiti maschili come la stessa Manka. A quanto pareva, la sentinella conosceva bene il Grande Mago e sua moglie: scese rapidamente dal suo osservatorio naturale e corse lungo la riva per salutarli. Manka la presentò a Rolf e a Mewick dicendo che si chiamava Sarah; Rolf giudicò che avesse circa quattordici anni. E, come si vide subito, era estremamente preoccupata. «Sapete qualcosa di Nils?» chiese, facendo correre lo sguardo dall'uno all'altro. Nils era il fidanzato di Sarah; a quanto Rolf capì, doveva avere pressappoco la sua età o poco più. Era partito per una spedizione esplorativa, insieme con altri giovani del Popolo Libero, e ormai era passato da tempo il momento previsto per il ritorno. Purtroppo, nessuno degli occupanti della canoa fu in grado di dare informazioni a Sarah, ma tutti cercarono di rassicurarla. Quando la canoa ripartì e lei li salutò, la ragazza sembrava più tranquilla. Dopo avere superato la sentinella, in breve giunsero a un'isola molto più
grande di quella da cui erano dovuti fuggire. Su una riva fangosa erano arenate una decina di canoe e tra queste e gli alberi si scorgevano alcuni sentieri molto battuti. Da uno di essi stavano in quel momento giungendo sette o otto persone, in fila indiana, che salutarono con grandi gesti i nuovi venuti. Ormai si avvicinava il tramonto e, nell'ombra dell'isola, il grande uccello, Strijeef, si svegliò dal suo letargo. Sollevò la testa e pronunciò con voce musicale qualche parola, per poi volare senza alcun rumore su un alto albero dove tornò ad appollaiarsi. Questa volta, però, non nascose la testa coperta di soffici piume, ma si limitò a tenere socchiusi gli occhi. L'uccello aveva rivolto alcune delle sue parole a Rolf, ma il giovane non era riuscito a capirle. Vedendo la sua perplessità, uno di coloro che erano giunti dal sentiero, un giovane alto, spiegò: «Strijeef ti ringrazia per averlo difeso dai rettili.» «Grazie» disse Rolf. Poi, amareggiato, aggiunse: «Ho avuto la possibilità di ucciderne un certo numero, ma non sono riuscito a farlo.» L'alto giovane alzò le spalle e gli mormorò qualche parola di incoraggiamento. Disse di chiamarsi Thomas e cominciò a interrogare Rolf sugli avvenimenti dei precedenti due giorni. Osservandolo, Rolf vide che Thomas doveva avere circa venticinque anni; era robusto e parlava con estrema gravità. Aveva salutato come vecchi amici Mewick e Loford e sua moglie, e li aveva subito interrogati sui movimenti del nemico. Mentre Rolf forniva a Thomas e ai suoi compagni una descrizione della sorella, l'intero gruppo lasciò l'imbarcatoio delle canoe per raggiungere quello che era evidentemente il campo principale: una radura dove, sotto le fronde degli alberi che le nascondevano allo sguardo dei rettili volanti, erano costruite dieci o dodici capanne. La storia di Rolf venne ascoltata con gravi cenni d'assenso, ma senza alcuna sorpresa: gran parte dei presenti avrebbero potuto raccontargli una storia analoga. Promisero di comunicare agli altri gruppi del Popolo Libero la descrizione di Lisa, ma Thomas lo avvertì che non c'erano molte speranze di trovarla. All'accampamento, il pasto serale era pronto per essere servito; il pesce era abbondante, e così pure la minestra. Attorno al fuoco del bivacco si radunò un gruppo che presto raggiunse una ventina di elementi. Rolf dedicò al cibo gran parte dell'attenzione, ma questo non gli impedì di sentire quanto dicevano i suoi compagni: da una postazione di sentinelle
era giunta parola dell'arrivo di un'altra canoa. A bordo dell'imbarcazione c'era solo un messaggero, che presto raggiunse il gruppo seduto attorno al fuoco. Portava alcune notizie di normale amministrazione, ma, dopo averle riferite ed essersi ritirato a parlare con Loford, Thomas e alcuni dei presenti, un altro messaggero lasciò l'accampamento. Evidentemente, su quell'isola c'era una sorta di quartier generale, che si teneva in contatto con gli altri gruppi del Popolo Libero. Ma quando fu discusso il messaggio portato dall'uomo della canoa, Rolf ebbe l'impressione che ci fosse qualcosa di sforzato nel modo in cui venivano prese le decisioni. Alla discussione prendevano parte troppe persone, e alcune di esse controvoglia, perché parlavano in modo esitante, controllando a ogni parola le reazioni dei compagni. In genere, nessuno pareva molto ansioso di farsi avanti o di manifestare un proprio punto di vista. «Se il Vecchio fosse ancora con noi!» si lamentò a un certo punto un uomo, esasperato dalla lentezza con cui si affrontava il nodo della decisione, ossia l'opportunità di spostare da un certo nascondiglio una determinata riserva di armi. «Be', non c'è più» gli rispose una donna. «E non ritornerà.» «Se volete la mia opinione» riprese il primo «lui era l'Ardnih, e adesso non ne abbiamo nessuno.» Rolf non aveva mai sentito parlare dell'"Ardnih". Perciò, poco più tardi, quando Loford si sedette accanto a lui a mangiare, chiese al mago il significato di quelle parole. Dapprima, Loford si limitò a dargli una risposta non troppo impegnativa. «Oh» disse «abbiamo finito per usare quel nome come un simbolo della nostra causa. Della nostra speranza di libertà. A quanto pare, cerchiamo di costruirci un nostro dio.» "Un... che cosa?" si chiese Rolf, senza parlare. Masticando lentamente un boccone di pesce, Loford fissò il fuoco, che ora, al cader della sera, pareva illuminarsi rapidamente. Poi riprese in tono più serio: «In una visione, io stesso ho visto Ardnih sotto questo aspetto: una figura di guerriero, armato del fulmine, in groppa all'Elefante.» Rolf rimase assai colpito da queste parole. «Allora» chiese «Ardnih è reale? È un essere vivente, una sorta di demone o di elementare?» Loford mosse le ampie spalle come per dire che era una domanda a cui
non sapeva rispondere. «Era un dio del Mondo Antico» spiegò. «O almeno è quanto crediamo.» La curiosità non lasciò a Rolf alcuna alternativa. Fu costretto a rivelare quanto fosse profonda la sua ignoranza. «Che cos'è un "dio"?» chiese. «Già» rispose Loford. «Ormai non abbiamo più dèi.» Tornò quindi a dedicarsi al cibo. «Gli dèi erano come i demoni?» chiese Rolf, desolato, vedendo che l'altro intendeva lasciar cadere il discorso. Rolf, che invece aveva trovato un argomento molto interessante, sarebbe voluto arrivare fino in fondo. «Erano più di questo; ma io sono soltanto uno stregone di campagna e le mie conoscenze sono limitate» disse il Grande Mago, con voce per un istante velata da una grande tristezza. Ma anche Rolf perse la voglia di occuparsi di questioni tanto profonde, perché al gruppo seduto attorno al fuoco si era aggiunta anche Sarah, che aveva terminato poco prima il suo turno di guardia. Mentre la ragazza consumava il pasto serale, Rolf continuò a parlarle. Era assai graziosa e gli abiti maschili non nascondevano certo il suo corpo snello e ben fatto. Per il momento, Rolf dimenticò ogni altra compagnia. La ragazza parlò amichevolmente con lui, ascoltò con tristezza la sua storia, si fece dare una completa descrizione di Lisa... e poi, con voce quasi distaccata, raccontò come anche la sua famiglia fosse stata distrutta dagli armigeri e dalle altre creature del castello. Ma la sua maschera di calma cadde immediatamente quando giunse la notizia che stava arrivando, con una canoa, un altro messaggero. Allorché l'uomo giunse al fuoco, la ragazza prese ad ascoltarlo con profondo interesse... che presto si dileguò. Le notizie da lui portate non avevano niente a che vedere con Nils. Ormai il sole era tramontato da tempo e Rolf rifletté che Sarah, alla luce del fuoco, diventava sempre più bella. Ma tali riflessioni vennero bruscamente interrotte dall'arrivo di un nuovo messaggero. A differenza di quelli che l'avevano preceduto, questo giunse in volo. Strijeef, che aveva preso a muoversi in fretta per tutto il campo non appena il sole era sceso dietro l'orizzonte, fu il primo a vedere l'uccello in arrivo. Ma fece soltanto in tempo a balzare in volo e a lanciargli un grido: il nuovo venuto si lanciò a capofitto tra gli alberi, in direzione del fuoco, e toccò subito terra. L'uccello rabbrividiva e ansimava per la stanchezza; tutti gli uomini si
alzarono e gli si radunarono attorno, per proteggergli gli occhi dalla vista diretta delle fiamme e per portargli acqua, ansiosi di conoscere le sue notizie, che dovevano essere assai importanti, se lo avevano indotto a compiere un tale sforzo. Le prime parole pronunciate dall'uccello furono accompagnate dagli ansimi e dai fischi con cui prendeva fiato, ma furono abbastanza forti e chiare perché le capisse lo stesso Rolf, per poco allenato che fosse a comprendere il linguaggio degli uccelli: «Ho... trovato l'Elefante.» L'uccello era una giovane femmina che si chiamava, a quanto capì Rolf, Punta di Penna. La sera precedente, poco dopo il tramonto, si era messa in agguato nei pressi del castello. Grazie a corde e reti, i nidi dei rettili posti in cima alla costruzione erano protetti dall'attacco degli uccelli, ma c'era sempre la possibilità, poco dopo il calar del sole, di intercettare qualche rettile ritardatario che si affrettava a ritornare al castello. La sera precedente c'erano stati parecchi ritardatari, ma Punta di Penna non era riuscita a raggiungerli; aveva perso troppo tempo nel tragitto fra il castello e il nascondiglio dove era rimasta nelle ore del giorno. Nonostante l'oscurità, l'ultimo rettile era rientrato senza danni poco prima del suo arrivo. Perciò le era venuto in mente di cercare un posto più vicino al castello, in cui nascondersi durante le ore del giorno. Per trovarlo, si era messa in volo lungo il versante settentrionale del passo, opposto a quello dove sorgeva il castello. Il passo tagliava bruscamente la sottile linea dei Monti Desolati. Sul suo versante settentrionale, i monti terminavano sotto forma di una confusione di crepacci e di stretti canyon che parevano promettere molti nascondigli. Alla luce della luna, Punta di Penna li esaminò alla ricerca di una caverna o di una cengia così ben nascosta da sfuggire ai rettili, durante le loro ronde di giorno, e talmente alta e inaccessibile da impedire agli armigeri di avvicinarsi. La vista del grande uccello era fatta apposta per utilizzare la luce lunare e per distinguere le minime sfumature fra le ingannevoli ombre della notte. Nonostante questo, Punta di Penna passò per ben due volte davanti all'apertura prima di fermarsi, nel corso del suo terzo volo lungo uno stretto canyon, a controllare quella che pareva semplicemente una macchia scura su una parete riparata. La macchia era in realtà un'apertura: l'ingresso di una caverna. Un'apertura pressoché invisibile a qualsiasi esame dall'aria, e talmente stretta che
Punta di Penna, se mai si fosse arrivati al peggio, era certa di poterla difendere anche alla luce del giorno. Perciò decise di adottarla come nascondiglio. Quando si era recato a esaminare l'interno della caverna, per controllare se c'erano altri ingressi e per allontanarsi il più possibile dal sole dell'alba, l'uccello aveva fatto la sua grande scoperta. Calandosi lungo uno stretto pozzo - lungo il quale poteva scendere anche uno dei pesanti senza-ali, all'occorrenza - Punta di Penna aveva raggiunto una caverna liscia come l'interno di un uovo, e grande a sufficienza per contenere una casa. L'uccello aveva già visto il simbolo dell'Elefante: ora lo riconobbe sul fianco dell'enorme... creatura...? cosa? (Punta di Penna non sapeva come chiamarla) che occupava quasi tutta la caverna e che, secondo lei, non poteva essere altro che l'Elefante stesso. Se aveva quattro zampe? No, le era parso che non ne avesse nessuna. Aveva il muso lungo, capace di afferrare, e denti simili a spade? No... o, almeno, non proprio. Ma l'uccello non aveva mai visto niente di simile alla cosa immobile e in attesa all'interno della caverna sepolta. A quel punto, Punta di Penna aveva ripreso fiato e, chiaramente, si divertiva a raccontare una storia come quella, che teneva sulle spine i pesanti senza-ali e li spingeva a interrogarla con tanta impazienza. Aveva girato la schiena al fuoco e gli uomini la vedevano unicamente come una sagoma scura e indistinta, con enormi occhi che di tanto in tanto riflettevano qualche bagliore proveniente dalla palude. L'uccello era fermamente convinto che l'oggetto contenuto nella caverna non potesse essere altro che l'Elefante. No, non si era mai mosso; ma non sembrava morto o guasto. Sulla parte che corrispondeva alla testa aveva vari oggetti sporgenti, che sembravano duri come artigli. No, Punta di Penna non aveva toccato l'Elefante. Ma tutte le sue parti parevano molto dure, come gli oggetti fatti di metallo. Sarah spiegò a Rolf che gli uccelli incontravano sempre qualche difficoltà a descrivere gli oggetti fabbricati dall'uomo; alcuni di essi non riuscivano a distinguere un'ascia da una spada. La forza della loro intelligenza, semplicemente, non stava in quella direzione. Le domande rivolte all'uccello cominciavano a ripetersi. Il gruppo pareva ancora dominato dalla stessa aria di esitazione, di scarsa voglia di assumersi le responsabilità del comando, che Rolf aveva già notato. «Be', qualcuno dovrà andare a vedere di che cosa si tratta» disse infine
Thomas, guardando anche gli altri. «Qualcuno di noi pesanti senza-ali. E al più presto possibile. Questo è chiaro.» Cominciò una discussione per determinare quale gruppo, tra quelli del Popolo Libero sparsi per la regione, fosse più vicino alla caverna, e quale fosse in grado di raggiungerla con il minimo rischio. Thomas soffocò la discussione sul nascere. «Siamo a quattro sole leghe dalla caverna... credo che il modo più rapido di raggiungerla sia quello di mandare laggiù un paio di persone del nostro gruppo.» Loford, dal suo posto a sedere, sorrise e annuì con il capo, non appena Thomas prese la guida degli altri. Poi l'alto giovane si rivolse all'uccello e gli chiese: «Punta di Penna, pensaci attentamente. Un essere umano sarebbe in grado di raggiungere l'entrata della caverna che hai descritto?» «No. Occorrerebbe scavare una scala nella roccia.» «E quanto dovrebbe essere alta?» «Undici volte la tua altezza.» Evidentemente, quando di trattava di altezze, l'intelligenza degli uccelli era molto rapida e precisa. «Nessuno di noi ha mai imparato a scalare una montagna, e inoltre abbiamo fretta» disse Thomas. Prese a passeggiare nervosamente, avanti e indietro; poi si fermò all'improvviso. «Naturalmente» disse «abbiamo le corde. Nella caverna, o nelle sue vicinanze, c'è qualche sporgenza attorno a cui si possa legare una corda? Potresti portarla lassù, legarla, e poi gettarla a uno di noi.» Dopo qualche riflessione, Punta di Penna riferì che nella parte alta della caverna non c'era quel tipo di sporgenza. Dirimpetto a essa, però, dall'altra parte del canyon, c'era una guglia di roccia a cui si poteva legare una corda, ma, una volta giunti lassù, occorreva attraversare tutta la larghezza del canyon e infilarsi sotto una specie di tetto che copriva l'ingresso. «Riuscirei a fare il salto, io? Quanto è largo?» A quel che disse l'uccello, la distanza non era superiore a quella che un uomo in corsa, con un lungo salto, sarebbe stato in grado di superare. Ma occorreva prendere lo slancio da un trampolino alquanto precario. Gli uomini cominciarono a discutere, e a poco a poco prese a emergere un piano. «Sentite, sappiamo che un uccello non è in grado di sollevare un uomo adulto» disse Thomas. «Ma qui ne abbiamo due, e sono abbastanza grossi per la loro razza.»
Qualcuno cercò di interromperlo con un'obiezione. «Lasciatemi finire. Non possono sollevare di peso un uomo, ma non potrebbero aiutarlo a saltare? Fargli attraversare il canyon, rallentargli la caduta, mentre salta dalla guglia di roccia all'apertura della caverna?» Entrambi gli uccelli dissero, sia pure con forti dubbi, che forse si poteva fare qualcosa di simile. Nessuno riuscì a trovare un sistema migliore per portare all'interno della caverna un essere umano; e, naturalmente, prima era necessario esaminare il terreno. In qualsiasi caso, non si poteva inviare a così poca distanza dal castello un gruppo munito di scale e di altro materiale ingombrante. Fosse come fosse, Thomas non riusciva a nascondere l'entusiasmo. «In qualche modo» disse «occorre farlo, e l'aiuto degli uccelli può renderlo possibile. Quando saremo lassù, potremo vedere di persona qual è la strada migliore. Non c'è tempo da perdere. Partendo tra un'ora, prima dell'alba potrò già essere nascosto fra le rocce a settentrione del passo. Mi terrò nascosto finché non scenderà il buio, e domani notte...» «Tu?» gli chiese Loford. Thomas gli rivolse un sorriso obliquo. «Be', hai tanto insistito perché mi assumessi il comando...» «Questo non è un compito che spetta a un comandante. È un lavoro da esploratore. Perché ci devi andare tu? La tua presenza è necessaria qui, per prendere le decisioni.» Altri si unirono al dibattito. Presto si giunse alla conclusione che occorreva mandare due uomini, ma non c'era accordo sul nome di coloro che dovevano partire. Si offrirono volontari tutti, uomini e donne, tranne coloro che erano troppo vecchi o che erano convalescenti di qualche ferita. «Il vuoto non mi fa paura» disse Rolf. «Neanche a me!» gridò Sarah, che voleva andare come tutti. Disse di essere più leggera degli altri e che questo era certamente un vantaggio, dato che per una parte del tragitto occorreva farsi trasportare dagli uccelli. «Ah!» le disse Thomas, sorridendo. «E se Nils tornasse e venisse a sapere che sei partita con me?» L'osservazione servì a calmare Sarah - almeno per qualche tempo - ma gli altri non si lasciarono tacitare così facilmente. Alla fine, Thomas dovette quasi gridare: «Va bene, va bene! Conosco il territorio come tutti gli altri. Sono anch'io in grado di decidere che cosa fare dell'Elefante, una volta che lo abbia raggiunto. «Andrò io. Qui, Loford sarà il capo, se ho l'autorità sufficiente a nomi-
narne uno. «Mewick: tu dovrai rimanere nelle paludi per qualche tempo. Dovrai parlare ai nostri compagni che arriveranno, spiegare loro la situazione che regna al nord e altrove, perché capiscano che non c'è da aspettarsi alcun aiuto... «E, adesso, controlliamo. Sono abbastanza leggero? Potrò raggiungere la caverna, con l'aiuto di due uccelli?» Sollevò le braccia. Strijeef e Punta di Penna si levarono in volo e si fermarono sopra di lui; ciascuno lo afferrò saldamente per un braccio. Poi presero a battere vigorosamente le ali, con forti colpi che schiaffeggiavano l'aria; l'aria mossa dalle loro penne colpì i resti del fuoco e sollevò cenere e faville. Ma i piedi di Thomas non si staccarono dal suolo. Solo quando spiccò un salto, i due uccelli riuscirono a tenerlo in aria, ma dopo un istante fu di nuovo a terra. «Fate provare a me!» chiese Sarah. Con grande fatica, gli uccelli riuscirono a sollevare dal terreno la ragazza, e a tenerla in aria per il tempo sufficiente a contare fino a tre. Dal canto suo, lei cercò di aiutarli mettendosi a saltare, ma la cosa non servì a molto. Sarah era raggiante, ma Thomas continuò a scuotere la testa. «No, no» le disse. «Può darsi che ci sia da combattere o da...» «Un arco lo so usare anch'io!» protestò lei. Ma Thomas ignorò le sue proteste e si voltò verso Rolf. «Proviamo con lui» disse. «Mi sembra il più leggero.» Gli uccelli ripresero fiato, poi afferrarono i capi di una corda che Rolf si era avvolto attorno al petto. «Quando sarò alla caverna» spiegò il ragazzo «dovrò avere le mani libere per salire e per tenermi...» Poi balzò in alto con tutta la forza che aveva nelle gambe, mentre i due uccelli battevano poderosamente le ali. Salì finché i suoi piedi non furono giunti al di sopra della testa dei compagni. Gli uccelli continuarono a battere le ali, e da quell'altezza, per scendere a terra, Rolf impiegò il tempo necessario per contare fino a cinque. «Be'» rifletté Thomas. «Sembra che non si possa fare di più.» «Io sono pronto a partire fin da questo momento» gli disse Rolf. «Mi sono riposato per tutto il giorno. Ho solo remato sulla canoa.» Thomas continuò a fissarlo per qualche istante e infine sorrise. «E quello lo chiami riposare?» chiese.
Poi si girò verso Mewick, che sedeva dall'altra parte del fuoco, e gli rivolse un'occhiata interrogativa. L'ex venditore di incantesimi disse: «Penso che il nostro giovanotto sia rinsavito del tutto.» Thomas tornò a guardare Rolf. «È vero?» chiese. «Se ti porto con me, può darsi che ci sia da combattere, ma non intendo cercare appositamente la lotta.» «Certo» promise Rolf. Il folle desiderio di vendetta non l'aveva certo lasciato: tutt'altro. Ma si era trasformato in qualcosa di lento e di paziente. Di calcolato. Thomas fissò il giovane ancora per un istante; poi tornò a sorridere. «Benissimo» disse. «Allora, in marcia!» 4 LA CAVERNA Alle prime luci dell'alba, Rolf e Thomas erano stesi l'uno accanto all'altro, all'imboccatura di un piccolo canyon chiuso tra altissimi baluardi di roccia, e guardavano verso sud, in direzione del versante opposto del passo. Il passo stesso non aveva mai avuto un nome, benché, per molte leghe a nord e a sud, fosse l'unica apertura praticabile che s'incontrasse sui Monti Desolati. Rolf e Thomas erano esausti, dopo avere remato nelle paludi per parte della notte e dopo avere attraversato per ore i boschi, avere guadato in un punto nascosto il fiume Dolles ed essersi arrampicati fino alla loro attuale posizione, in corsa contro il sorgere dell'alba. Il punto dove si trovavano era una sorta di osservatorio naturale. Sporgendosi di un passo dall'imboccatura del piccolo canyon, alla loro destra si potevano vedere i meandri del Dolles, che si snodava ai piedi della montagna, come un pigro serpente, da nord a sud. Al di là del fiume si stendeva il territorio dove Rolf era nato: una zona di boschi e di campi agricoli, di depressioni e di paludi. E lontano, perfettamente visibile, c'era la grande macchia azzurra del mare occidentale. Dirimpetto all'imboccatura del canyon, invece, il terreno brullo e accidentato scendeva per circa duecento braccia, con un pendio che progressivamente si addolciva, fino al punto dove passava la strada carreggiabile est-ovest, sul fondo del passo. E più a sud, al di là della strada, il terreno
riprendeva a innalzarsi, con un declivio sempre più accentuato, fino alla prima altura della catena montuosa meridionale. Su quell'altura sorgevano le mura grigie e recentemente rinforzate del castello. A sinistra del castello, Rolf scorgeva una parte del deserto che iniziava dal versante interno dei Monti Desolati - dove non pioveva in alcuna stagione dell'anno - e che si stendeva per una cinquantina di leghe fino agli alti e insuperabili Monti Neri. A guardarlo, il deserto pareva già arroventato dalla calura, anche se il sole era sorto da poco. «Questa mattina» disse Thomas, indicando col mento davanti a sé «i rettili si sono alzati presto.» Il sole illuminava vivacemente i posatoi e i nidi ammassati sulle torri più alte del castello e protetti da reti e corde, e alla sua luce si scorgeva il movimento di moltissime forme grigio-verdi: i corpi dei rettili, dietro le reti. Sul tetto piatto del maschio del castello, lo stendardo color nero e bronzo di Ekuman era rimasto a sventolare per tutta la notte da un alto palo, e dal parapetto e dalle mura pendevano altre decorazioni: le piccole figure, bianche e rinsecchite, che un tempo erano persone - persone oneste - che, per avere destato l'ira dei nuovi padroni della regione, erano state appese lassù, a servire da giocattoli viventi e da cibo per i rettili. Gli unici uomini ancora in vita che si scorgessero in quel momento sulle parti più alte del castello erano dei punti color nero e bronzo, di cui, a quella grande distanza, si potevano a malapena distinguere i movimenti. Ma Rolf sapeva che si stavano dedicando al primo lavoro del mattino, consistente nel togliere dai nidi dei rettili le reti che li proteggevano durante la notte. Presto le forme grigie e verdi si poterono distinguere meglio. Si allargavano di scatto per poi restringersi: i rettili si sgranchivano le ali. L'eco delle loro grida e dei loro richiami giunse debolmente anche all'orecchio di Rolf. Dopo qualche istante, i primi rettili si levarono in volo, e altri presero il loro posto sui posatoi. Presto l'aria attorno al castello brulicò dei loro sciami. «Meglio nascondersi bene» disse Thomas, guardandosi attorno. Dietro di loro, lo stretto canyon curvava verso l'interno del monte; il fondo sabbioso si perdeva fra grandi massi e affioramenti di roccia consumati dalle intemperie. Un intero costone della montagna si era sfaldato ed era caduto laggiù, nelle passate epoche geologiche. Poi, più avanti, oltrepassata l'area dei massi, il canyon si allargava e su una delle sue pareti si scorgeva l'apertura della caverna. Strijeef e Punta di Penna si erano rifugia-
ti al suo interno per nascondersi durante il giorno, ma perché Rolf o Thomas salissero fino a essa era necessario attendere che scendesse la notte. Direttamente al di sopra di Thomas e di Rolf, le proiezioni di roccia delle pareti del canyon li rendevano del tutto invisibili dal cielo. Gli sciami di rettili che volavano in cerchio attorno al castello si erano ormai allargati fino al nascondiglio dei due giovani e oltre, ma dall'alto non si udivano ancora grida di allarme, non comparivano facce sulle mura del castello. Di momento in momento, Rolf trovava sempre più facile credere che lui e Thomas non sarebbero stati avvistati, se fossero riusciti a rimanere immobili. E Rolf non aveva alcuna difficoltà a rimanerlo. Gli uomini della palude gli avevano dato un paio di sandali, ma i piedi gli facevano ancora male per il lungo cammino. E aveva tutti i muscoli indolenziti. Disteso sulla sabbia, con i nervi tesi e incapace di prendere sonno, lasciò correre nuovamente lo sguardo verso est. Lontano, all'estremo orizzonte, i Monti Neri parevano grigi e incorporei, alla luce del mattino che li illuminava ancora da dietro. Molto più vicino al passo, ma ancora in pieno deserto, le nubi formavano un grosso nodo che prometteva pioggia. Rolf sapeva che sotto quelle nubi non poteva che esserci l'Oasi delle Due Pietre, anche se un lieve rialzo del terreno gli impediva di vedere quel pezzetto circolare di terra fertile. Alcuni anni addietro, il padre lo aveva portato nei pressi del luogo in cui si trovava in quel momento, per mostrargli il castello - che allora era solo un'innocente, meravigliosa rovina - e in quell'occasione gli aveva anche mostrato il punto dove sorgeva l'Oasi, in pieno deserto, e gli aveva parlato della pioggia magica che la teneva in vita. Poi, all'improvviso, Rolf si accorse che in quelle nubi stava succedendo qualcosa di strano. Invece di rimanere immobili sul loro punto eternamente favorito, si stavano muovendo nella direzione approssimativa del passo. La cosa gli parve talmente strana che sentì il bisogno di comunicarla a Thomas. Questi si spostò leggermente in avanti e si sporse, circospetto, dall'orlo del canyon. «Qualcosa dev'essere andato storto nelle loro magie» disse concisamente. «Mi chiedo che magie siano» disse Rolf. Ma Thomas si limitò a scuotere la testa. Il lontano nodo di vapori si era già oscurato fino a divenire una nube di tempesta che rincorreva la propria ombra sul deserto, diretta verso di loro. Poi, tutt'a un tratto, si illuminò di
un lampo improvviso. «Suppongo che gli invasori abbiano catturato anche l'Oasi» commentò Rolf. Gli parve di sentire il tuono, debole e lontano. Thomas annuì. «E vi hanno posto una guarnigione assai nutrita.» Poi strisciò indietro, fino alla posizione precedente. «Sarà bene fare dei turni di guardia» rifletté. «In questo modo, ciascuno di noi potrà dormire almeno per qualche ora.» Poiché Rolf disse che per il momento non aveva voglia di dormire, Thomas gli lasciò fare il primo turno di guardia. Quindi aprì lo zaino e ne trasse un oggetto meraviglioso. Era uno strumento del Mondo Antico, spiegò, che doveva essere giunto dall'altra sponda del mare occidentale. Per generazioni era stato uno dei tesori della famiglia di un uomo che ora faceva parte del Popolo Libero. Lo strumento era costituito di due cilindri metallici, ciascuno lungo come una mano. I cilindri erano fissati tra loro mediante cerniere di metallo che si incastravano perfettamente: Rolf stesso poté sincerarsene quando Thomas glielo lasciò prendere in mano. Fino a quel momento non aveva mai toccato così a lungo un manufatto del Mondo Antico e non aveva mai visto del metallo lavorato con tanta precisione. Alle due estremità, ciascuno dei cilindri terminava con una superficie di vetro convesso; se si accostava all'occhio la parte più stretta, la distanza di ogni cosa si riduceva istantaneamente a un decimo della precedente. Di primo acchito, Rolf fu assai più colpito dalla forma dell'oggetto che non dalla sua funzione. Ma gradualmente Thomas gli fece capire che in quell'oggetto non c'era nessuna magia; gli spiegò che gli strumenti del Mondo Antico non se ne servivano mai. Invece, l'illusione della vicinanza veniva da quella che Thomas chiamò tecnologia pura; l'oggetto era un utensile, come poteva esserlo una sega o una vanga, ma invece di lavorare sul legno o sulla terra, lavorava sulla luce. L'unico potere che gli serviva era quello degli occhi che guardavano attraverso i suoi due tubi. Dunque, non occorreva alcuna magia, per prendere il potere visivo dell'uomo, toglierlo dal corpo e poi riportarvelo. Era un concetto strano e sovrannaturale. Rolf aveva udito una decina di volte al massimo, in tutta la vita, la parola "tecnologia", e sempre sotto forma ironica e scherzosa, ma ora cominciava gradualmente a capirne il significato. «Come puoi affermare che non contiene alcuna magia?» chiese a Thomas. L'alto giovane alzò leggermente le spalle. «Nessuno è mai riuscito a sen-
tirla. Diversi maghi hanno esaminato l'oggetto.» Completamente soggiogato dall'esperienza del binocolo, Rolf se ne servì per guardare il castello; poi, nel vederlo così vicino, si affrettò a puntare l'oggetto da un'altra parte. Cercò la nube temporalesca, ma si era già dissolta. Poi lo puntò sulla faccia di Thomas, che, essendo troppo vicina, gli parve una massa sfocata di marmo. «Non usarlo per guardare il sole. Rischieresti di bruciarti gli occhi.» «Grazie.» Rolf sentiva già un'istintiva affinità per la tecnologia: un'affinità assai più profonda di quella mai provata per la magia. Aveva già capito da sé che era sconsigliabile fissare un sole dieci volte più abbagliante. Qualcosa, nel piacere che Rolf provava grazie al binocolo, finì per alleggerire la tensione che l'aveva tenuto desto fino a quel momento; sbadigliò e sentì che le palpebre gli divenivano di piombo. Thomas se ne accorse e disse che forse era meglio che facesse lui il primo turno di guardia. Rolf si raggomitolò contro la parete di roccia del canyon, abbassò la testa e piombò immediatamente nel sonno, per poi svegliarsi con un sobbalzo quando si sentì prendere per il braccio. Gli pareva che fossero passati pochi minuti da quando si era addormentato, ma scoprì di essere riposato e constatò che il sole era quasi allo zenit. Potendo usare il binocolo del Mondo Antico, per Rolf il turno di veglia pomeridiano passò in un baleno. Alla porta principale del castello c'era un continuo andirivieni di armigeri e di civili. Alcuni carri pieni di vettovaglie attraversarono sobbalzando il ponte sul Dolles, in mezzo a quello che adesso era solo più un villaggio semideserto, ai piedi del monte su cui sorgeva il castello. A forza di braccia, gli schiavi portavano al castello i barili, le balle e i sacchi scaricati dalle chiatte ormeggiate all'imbarcatoio del villaggio. Solo schiavi lavoravano adesso in quello che Rolf ricordava come un villaggio libero e prospero. Macchioline di color bronzo e oro facevano la guardia con fruste che soltanto grazie al binocolo si potevano distinguere a quella distanza. Ma Rolf non perse molto tempo a guardare il villaggio. Ogni volta che una squadra di armigeri usciva dal castello, o attraversava il passo sotto di lui, nell'uno o nell'altro senso, la guardava con grande attenzione, pronto a svegliare Thomas nel caso che qualche armigero si arrampicasse sul monte, nella loro direzione. Thomas si era raggomitolato sotto una sporgenza rocciosa; si era accostato il più possibile alla roccia e dormiva. Di tanto in tanto gli sfuggiva un debole gemito e agitava debolmente le braccia robuste. Chissà perché, a
Rolf non parve né giusto, né molto incoraggiante, che un uomo forte e robusto, un capo apprezzato dai compagni, facesse dei brutti sogni. Rolf tornò nuovamente a esaminare con il binocolo l'intero paesaggio. Ora scorse qualcosa di nuovo, un gruppo di persone che si dirigeva al castello da sud-ovest, la direzione delle paludi. Poco più tardi, Rolf vide che era un gruppo di schiavi o di prigionieri che marciava lungo la strada. Inizialmente, Rolf aveva visto soltanto la polvere sollevata dal loro lento passaggio; ora, con il binocolo, vide che era una fila di uomini e di donne, incatenati l'uno all'altro: una quindicina di persone. Poi scorse il braccio di un armigero dall'elmo di bronzo levarsi e abbassarsi di scatto. Molti istanti più tardi, gli giunse all'orecchio lo schiocco della frusta. Non voleva guardare quella scena, ma non riusciva a distogliere gli occhi. Presto divennero visibili anche le facce dei prigionieri. Altrettanti disgraziati reclutati a forza per l'interminabile rafforzamento delle mura del castello... Per poco, Rolf non si lasciò sfuggire il binocolo. Poi si affrettò a riaccostarselo agli occhi e con dita tremanti ruotò il disco zigrinato da usare come gli aveva insegnato Thomas - per ottenere una maggiore chiarezza. L'immagine però continuò a tremolare, finché non si ricordò di appoggiare saldamente i gomiti sulla sabbia. Dietro agli altri prigionieri, legata con catene molto più leggere, o addirittura senza catene - da lassù non si poteva vedere - veniva una ragazza che assomigliava a Sarah. Era a cavallo, su una grande bestia condotta alla briglia da un armigero. A mano a mano che il drappello si avvicinava, la somiglianza con Sarah divenne sempre più forte. Se non era un inganno di quelle lenti demoniache... Rolf continuò a ripetersi che doveva essersi ingannato. Infine si decise a svegliare Thomas, che balzò subito in piedi, ma un po' troppo tardi per vedere la ragazza, perché i prigionieri e le loro guardie erano ormai scomparsi nelle fauci del castello. I denti della saracinesca si serrarono di scatto dietro di loro. Thomas abbassò il binocolo che aveva sollevato pochi istanti prima. «Sei certo che si trattasse di Sarah?» chiese. «Sì.» Rolf aveva abbassato gli occhi: fissava il mucchio di sabbia e ciottoli in cui piantava le dita della mano fino a farsi male. «Ah.» A Rolf parve che Thomas prendesse la notizia con una calma eccessiva. Dopo qualche istante, l'alto giovane chiese: «Hai riconosciuto altri?»
«No. Non credo che si trattasse di gente del nostro accampamento.» «Già. Può darsi che alla palude sia giunta notizia di Nils, e che Sarah si sia allontanata per andare a controllare, di qualunque cosa si trattasse. E che l'abbiano presa prigioniera. Sono cose che succedono continuamente. Comunque, non possiamo fare niente, tranne che portare a termine quello che stiamo facendo.» Nel vedere che Rolf annuiva, Thomas gli posò la mano sulla spalla, per un istante, e poi tornò a girarsi contro la roccia. «Ho bisogno di dormire ancora per un po'» disse. «Svegliami poco prima del tramonto.» Ma Thomas fece appena in tempo ad addormentarsi prima che il giovane lo svegliasse di nuovo. Un'altra comitiva si stava avvicinando al castello, ed era comparsa improvvisamente davanti a Rolf, perché la roccia dietro cui lui e Thomas si nascondevano gli aveva impedito di scorgerla fino a quel momento. E i nuovi venuti erano tutt'altro che in catene: erano in pompa magna, su una barca di piacere dai colori vivaci che scendeva lungo il Dolles, scortata, sulle due rive, da almeno un centinaio di guardie a cavallo. Questa volta, Thomas li osservò a lungo, prima di restituire a Rolf il binocolo. «È il satrapo Chup» disse «sceso dal suo nido di predoni, a settentrione. Il futuro genero di Ekuman.» La barca ormeggiò in centro all'imbarcatoio. Tra i primi a scendere a terra c'era un uomo che pareva un fortissimo guerriero, in calzoni neri e corazza decorata di rosso, che montava un magnifico cavallo da parata. Accanto a lui, su un animale dal manto bianchissimo, veniva una ragazza dai capelli biondi ed eccezionalmente lunghi; aveva la pelle così chiara, il viso così affascinante, che Rolf si chiese nuovamente, e questa volta ad alta voce, se il binocolo non alterasse magicamente le cose che mostrava. «No, no» lo rassicurò Thomas, seccamente. «Non l'hai mai vista perché non è quasi mai uscita dal castello. Ma si tratta di Charmian, la figlia di Ekuman. Evidentemente si è recata ad accogliere il fidanzato lungo il percorso e poi ha compiuto con lui l'ultima parte del viaggio. Sarà un matrimonio da tenere d'occhio; so che c'è un'altra persona, nel castello, che ha posato lo sguardo sulla ragazza.» «E come fai a saperlo?» «I servitori del castello sono esseri umani, anche se i padroni non meritano più questo nome. Sono troppo spaventati per parlare molto, ma a volte
una singola parola riesce a fare molta strada...» Rolf aveva già sentito parlare dell'esistenza di Charmian, ma fino a quel momento non aveva mai pensato a lei. «Credevo che Ekuman non avesse moglie» osservò. «L'aveva, o forse si trattava soltanto di una favorita. Poi si è recato all'Est, per perfezionarsi nella... nella strada da lui scelta.» Rolf non capì. «Si è recato all'Est?» «Da dove sia arrivato, non saprei dirtelo, ma è salito sui Monti Neri, per giurare fedeltà a Som dei Morti.» Rolf non aveva mai sentito quel nome. Si ripromise di informarsene, più tardi, ma per il momento si chiuse in un silenzio colmo di riflessioni. Non capiva come quel demone in forma umana di Ekuman potesse avere una figlia così bella, e darla in sposa con una bella festa come avrebbe fatto un qualsiasi onesto contadino. Evidentemente, anche Thomas pensava a qualcosa di analogo. «A volte mi chiedo perché gente simile si prende la briga di sposarsi» disse. «Non certo per giurarsi eterno amore. Anzi, credo che nessuno possa aspettarsi dall'altro qualsiasi tipo di onestà o di aiuto, nella vita in comune che li attende.» «Allora, perché lo fanno?» chiese Rolf, che non voleva pensare a quel che forse stava succedendo a Sarah in quello stesso momento. Thomas alzò le spalle. «A volte è difficile» disse «ricordarsi che Ekuman e i suoi pari sono ancora degli esseri umani, e che i crimini che commettono sono crimini umani. Una volta, Loford mi ha detto che se i satrapi vivono abbastanza a lungo, e diventano sempre più forti nella loro malvagità, a volte finiscono per essere chiamati all'Est, per rimanerci definitivamente.» «Perché?» chiese Rolf. «Per diventare qualcosa di più, e insieme di meno, che umano. Credo che Loford abbia detto proprio queste parole.» Thomas s'interruppe per fare un lungo sbadiglio. Poi riprese: «Comunque, Loford non sapeva con esattezza che cosa fosse, e io parlo di cose che ignoro del tutto. Hai ancora sonno?» «No. Non mi sento stanco.» Così, fu Thomas a riprendere a dormire, ma si svegliò quando mancava ancora molto tempo al tramonto; a quel punto, anche Rolf si sentì disposto a fare un breve sonno. Comunque, non riuscì ad addormentarsi e si alzò senza necessità di essere chiamato, non appena cadde la sera.
Esattamente come gli uomini del castello, anche i rettili avevano continuato ad andare avanti e indietro per tutta la giornata, in piccoli gruppi, ma ora facevano ritorno da ogni direzione, ansiosi di raggiungere il nido prima di notte. Era l'ora in cui Punta di Penna, se avesse seguito il suo vecchio piano, sarebbe sbucata dal nascondiglio per fare strage di rettili. E quella sera sarebbe riuscita a prendere ben più di un ritardatario, reso distratto dalla vicinanza del castello. Ma con quella missione assai più importante in ballo, gli uccelli non intendevano dare la caccia a nessuno: i rettili poterono fare ritorno a casa senza subire molestie, e lentamente oscurarono con i loro sciami i tetti del castello. Non appena fu notte, i due uccelli scesero lentamente lungo il canyon, seguendone senza un solo battito d'ali il lungo, sinuoso corso. La loro enorme sagoma fu su Rolf prima ancora che questi si immaginasse di vederla. Tanto Rolf quanto Thomas avevano con sé un lungo rotolo di corda, sottile ma robusta, arrotolata attorno al petto. Thomas svolse quella che portava e poi ne legò un'estremità in modo da formare un cappio, della dimensione che Punta di Penna gli insegnò. A quel punto i due uccelli volarono via, verso il fondo del canyon, portando con sé la corda, la cui estremità scivolò sulla sabbia e sulle rocce del fondo, buie e insidiose, dove i piedi umani dovevano muoversi con somma cautela. Rolf e Thomas si misero in cammino a loro volta. Quando raggiunsero gli uccelli, Strijeef e Punta di Penna avevano già assicurato la corda alla guglia descritta da quest'ultima, in modo da permettere a Thomas di scalare agevolmente la parete. Ora, seduti sulla sabbia del fondo, attendevano pazientemente l'arrivo degli uomini. «Ci siamo» disse Thomas. Posò a terra lo zaino, poi diede alcuni strattoni alla corda, per assicurarsi che il cappio, legato attorno alla guglia ormai invisibile nel buio, a più di venti braccia sopra di lui, fosse in grado di reggere il suo peso. Poi ebbe qualche attimo di esitazione e infine si decise a dire: «Se dovessi morire, o perdere i sensi e non svegliarmi più... ho visto diversa gente finire così, dopo una caduta... dovrai continuare tu, come meglio puoi.» «Lo so» rispose Rolf. Udito questo, Thomas non perse altro tempo e diede inizio alla salita, in fretta e senza esitazione. Rolf provò un po' di invidia per le sue braccia, talmente robuste da poter sollevare senza difficoltà un uomo così grande.
Per qualche istante, riuscì vagamente a scorgere sullo sfondo delle stelle la figura di Thomas che saliva; poi la sua sagoma scomparve dietro uno sperone di roccia. Poco dopo, la corda cessò di oscillare. Dal punto in cui si trovava, Rolf riusciva a vedere soltanto un tratto di corda che si perdeva nel buio, e niente di quel che si stava svolgendo sopra di lui. Vedeva però la zona dove sarebbe caduto Thomas, se avesse perso l'appiglio. Cadendo da una simile altezza, sarebbe già stata pericolosa una superficie dura e piatta, ma in realtà il terreno in fondo al canyon era ancora peggiore: un caos di frammenti di roccia aguzzi e taglienti. La corda rimaneva immobile, e il tempo non passava mai. Poi la corda riprese a oscillare e Rolf tornò a respirare a pieni polmoni. Gli uccelli furono i primi a toccare terra; poi arrivò l'uomo, che percorse l'ultimo tratto scendendo come un marinaio, con la corda stretta in mezzo ai sandali. Quando toccò terra, Thomas si appoggiò alla parete di roccia da cui era appena disceso, come se avesse bisogno di sostegno. Poi si asciugò la fronte e disse: «Non ho neppure fatto il tentativo. L'unico modo di raggiungere la grotta è quello di farsi aiutare dagli uccelli.» Strijeef tubò: «Troppo pesante.» Punta di Penna mosse il capo in segno d'assenso: un movimento che doveva avere imparato dagli uomini. «Andrò io» disse Rolf. Diede un'occhiata agli uccelli, cercando di valutare la loro resistenza, soprattutto in quel momento, dopo una buona giornata di riposo. Ma l'occhio gli cadeva sempre sulle rocce aguzze che coprivano il terreno, in fondo al canyon. «È per questo» disse poi, per farsi coraggio «che sono venuto.» «Certo» rispose Thomas, con irritazione. Ancora per qualche istante, Rolf si augurò che il compagno cambiasse idea e decidesse di saltare... e che, naturalmente, arrivasse sano e salvo alla grotta. Ma Thomas, ostinatamente, non cambiò idea. Rolf posò a terra lo zaino e si liberò della corda che portava attorno al petto. Avrebbe potuto sollevarli senza difficoltà in seguito, se... anzi, una volta che... fosse entrato nella caverna. Tenne però il breve pezzo di fune che doveva servire a legarlo e a cui dovevano afferrarsi gli uccelli. «Buona fortuna» gli augurò Thomas. Rolf annuì e prese subito ad arrampicarsi sulla lunga corda, appoggiando i piedi alla parete di roccia e sollevandosi con la forza delle braccia. Ricordò che quando si era sospesi sul vuoto non si doveva mai guardare in bas-
so, e perciò tenne sempre gli occhi fissi sulla corda davanti a lui. E poi, prima che avesse il tempo di studiare le sue prossime mosse, si trovò sulla guglia. Lo spazio era limitatissimo: bastava a malapena ad accoccolarsi in cima all'alta roccia. Da lassù, il mondo veniva ad assumere un aspetto irreale: si scorgevano solo il chiarore delle stelle e la luce tremolante delle torce del castello. La luna, immensa e quasi piena, cominciava appena in quel momento a illuminare il deserto. Gli uccelli si mantenevano librati nell'aria al fianco di Rolf. Il giovane passò loro i due capi della fune che si era annodato sotto le ascelle. Poi studiò con attenzione le ombre confuse che si scorgevano sulla parete opposta del canyon. «Non vedo la caverna» disse. «Dov'è?» «Alzati.» Fece come gli era ordinato, allargando le braccia per tenersi in equilibrio. Con qualche leggero strattone, gli uccelli lo fecero spostare in modo da girarlo nella giusta direzione. Si erano avvolti strettamente attorno alle zampe i capi della fune. «Non riesco ancora a vederla.» «Ti porteremo noi. Tu, devi solo saltare verso l'alto, più lontano che puoi. Poi, appena tocchi la roccia, non lasciare la presa.» Rolf ripensò a quand'era bambino e, per scommessa, saltava a terra da qualche alto ramo. Bisognava non pensare, e darsi solo una forte spinta: se ci si fermava, non si trovava più il coraggio. Dopo il batticuore del salto, c'era però il piacere di toccare terra, e soprattutto non si doveva mai guardare sotto di sé! «Direttamente davanti a me?» «Davanti a te.» Con la punta delle loro aìi parevano impartirgli una silenziosa benedizione. «Adesso, piega le gambe e salta!» Affidandosi in tutto e per tutto agli uccelli, Rolf spiccò il salto, e la paura parve mettergli nuova forza nelle gambe. La tensione da cui si sentiva sollevare lo rincuorò notevolmente... per i primi istanti. Poi cominciò a cadere. Non era la caduta a picco, nel vuoto, che ricordava da quando era bambino, ma non era neppure come volare, né come avere un appoggio. Preso dal panico, agitò le braccia davanti a sé, alla ricerca di qualcosa a cui afferrarsi. Ma, in quell'oscurità, l'occhio umano non riusciva a valutare le distanze. Sopra di lui, le grandi ali continuarono a battere, schiaffeggiandolo con
l'aria da esse spostata. Rolf sentiva sulla faccia anche l'aria da lui attraversata nella caduta, ma la spinta che si era dato nel salto continuava a trasportarlo verso la parete di roccia dove si trovava la caverna. Quando giunse a sfiorarla con le dita, gli parve che la parete si sollevasse con una velocità spaventosa. Poi la roccia fece un balzo verso di lui, e un attimo dopo - Rolf infilò le braccia nel vuoto di un'apertura. Con un forte urto, il giovane si fermò bruscamente: aveva urtato con il petto il bordo inferiore dell'apertura. Si affrettò ad allungare le braccia, mentre, con le ginocchia, colpiva dolorosamente la parete sotto di lui. Rimase sospeso lassù, senza appigli, trattenuto soltanto dall'attrito del corpo e delle braccia contro la roccia liscia. La fune che lo reggeva si afflosciò quando gli uccelli si posarono accanto a lui ed entrarono nella caverna. Poi presero nuovamente a tirarlo, ma questa volta da davanti: con il becco e con gli artigli lo aiutarono a trascinarsi all'interno dell'apertura. Quando si trovò al sicuro, Rolf rimase per lungo tempo seduto senza muoversi, cercando di vincere l'istintivo desiderio di afferrarsi a tutto ciò che gli capitava a tiro. Poi, rivolgendosi agli uccelli che ancora ansimavano per lo sforzo, disse: «Riferite a Thomas che ce l'ho fatta.» «Ha visto che non sei caduto» tubò uno degli uccelli. «Lo sa già.» Ma, dopo qualche istante, Strijeef e Punta di Penna presero il volo e si allontanarono per andare a prendere lo zaino e la corda. Rolf si augurò che i brividi cessassero: voleva tornare a fare qualcosa di utile. Rifletté che Thomas, per sua fortuna, era stato tanto saggio da non tentare il salto. I suoi muscoli massicci, le sue ossa pesanti, senza dubbio gli avrebbero impedito di raggiungere la caverna e si sarebbe sfracellato sulle pietre. Comunque, era inutile pensarci. Rolf si impose di rilassarsi. Strijeef fu di ritorno prima che Rolf se lo aspettasse e lasciò cadere ai piedi del giovane lo zaino, avvolto nel rotolo di corda. «Rolf» disse in fretta l'uccello «una grossa squadra di armigeri. Viene da questa parte. Thomas si allontanerà, per non essere qui vicino, nel caso che lo catturassero. Noi Popolo Silenzioso dobbiamo aiutarlo. Ritorneremo quando potremo. Gli armigeri non possono salire qui. Thomas ti dice di scoprire quello che puoi.» «Sì» balbettò Rolf, dopo il primo istante di sorpresa. «D'accordo. Ditegli di non preoccuparsi per me. Scoprirò quello che potrò.» Non sapeva che cos'altro dire. L'uccello attese ancora un istante, fissando Rolf con i suoi occhi saggi, che nell'oscurità della caverna parevano due grandi gocce di luce spettrale.
«Buona fortuna» gli augurò infine, e lo sfiorò con la punta dell'ala. «Anche a te.» Quando Strijeef si fu allontanato, Rolf rimase seduto sul pavimento della caverna, in assoluto silenzio, tendendo l'orecchio ai rumori che giungevano dall'esterno. Dopo quello che gli parve un tempo molto lungo, sentì giungere dal basso un rumore di zoccoli: suoni attutiti quando urtavano la sabbia, deboli acciottolii quando montavano sulle pietre. Per qualche tempo, i movimenti parvero rallentare; poi divennero più rapidi e presto svanirono in lontananza. Per quanto si sforzasse, Rolf non riuscì a udire altro. Si disse che se Thomas fosse stato catturato, si sarebbero uditi rumori di lotta e grida. Del resto, gli uccelli gli facevano da occhi: Thomas era certamente riuscito a fuggire. Passò il tempo, senza altri rumori. Rolf sciolse la corda legata attorno allo zaino e vi trovò cibo e acqua, altra corda, selce e acciarino, alcune candele di cera, e anche un piccolo scalpello, avvolto in un pezzo di tela perché non facesse rumore. Doveva servirsene per ricavare un foro a cui ancorare la corda: non sarebbe più stato necessario ripetere la follia del salto frenato dagli uccelli... Rolf occupò il tempo riflettendo sulla situazione. Evidentemente, gli armigeri che erano passati sotto di lui dovevano essersi allontanati. Erano ritornati al castello, o stavano cercando Thomas, o semplicemente continuavano i loro giri di ronda. Ma certo non si erano limitati a lasciare nel canyon uno di loro, o anche due, perché di notte non lo facevano. Se invece ne avessero lasciati di più, Rolf avrebbe dovuto sentire dei rumori. Però, l'indomani mattina, forse sarebbero giunti altri uomini. E l'indomani mattina si sarebbero levati in volo i rettili. Tutto considerato, perciò, quello sembrava il momento migliore per scavare la roccia. Per attutire i rumori, svuotò lo zaino e se ne servì per coprire lo scalpello. Poi trovò una pietra da usare come mazza e si mise al lavoro, fermandosi ad ascoltare dopo ogni colpo. A un'estremità della corda era già legato un bastone corto e robusto: Rolf dovette solo incidere leggermente una fessura del pavimento per disporre di un ottimo posto in cui incastrare quella specie di ancora. Perciò, dopo breve tempo nella caverna tornò a regnare il silenzio. Rolf infilò nuovamente ogni cosa nello zaino e riprese a tendere l'orecchio per
cogliere qualche rumore proveniente dall'esterno. Una volta gli parve che il vento gli portasse l'eco di un lontano grido, ma da quella distanza non riuscì a distinguere se si trattasse di uomo o di animale. Rabbrividì leggermente. Poi, accorgendosi di non avere alcun desiderio di dormire, si chiese se non fosse il caso di esplorare la caverna sottostante. Se non altro, poteva fare un'esplorazione preliminare. Strisciando sul pavimento, si allontanò dall'ingresso della caverna e, nell'oscurità più completa, cercò di determinare a tastoni la forma della galleria in cui si trovava. Pochi passi più avanti, però, la sua mano incontrò il vuoto: era giunto sul ciglio di un pozzo verticale; Rolf si sporse sull'orlo e cercò l'altra estremità, ma, anche tendendo quanto più possibile il braccio, non riuscì a toccarla. Tornò allo zaino e prese una delle torce. Erano fabbricate con i giunchi della palude, seccati e tuffati nel sego; poi Loford le aveva poste sotto un incantesimo che le faceva bruciare con poco fumo e che rendeva più chiara la fiamma. Tuttavia, dopo avere riflettuto, Rolf decise che era troppo rischioso accendere la torcia e che era meglio rimandare al mattino l'esplorazione. Con il sorgere del sole, un po' di luce sarebbe filtrata anche nella caverna sotterranea, e lui non avrebbe avuto bisogno di una torcia per raggiungerla. Inoltre, da un momento all'altro si augurava di veder ritornare uno degli uccelli, per riferirgli che cosa fosse successo a Thomas. E, soprattutto, provava una certa riluttanza ad affrontare l'Elefante, senza alcun aiuto, nel cuore della notte. Si sedette accanto all'ingresso della caverna e, nonostante i dubbi e i timori, si addormentò immediatamente. Per ben due volte si svegliò con un sobbalzo da un incubo in cui sognava di cadere in un precipizio, e nello svegliarsi si accorse che si teneva con tutte le sue forze alla roccia. E ogni volta che si svegliò, sentì aumentare le preoccupazioni, perché gli uccelli non erano ancora ritornati. Dopo tante ore, Thomas doveva certamente essere riuscito a fuggire. O che fosse stato catturato? E che anche gli uccelli fossero stati abbattuti, da una freccia particolarmente fortunata, al lume delle torce? Rolf trascorse il resto della notte in una sorta di dormiveglia, e infine, destandosi con un sobbalzo da un sonno più profondo, si accorse che l'alba era ormai alle porte. A quel punto aveva ormai la certezza che gli uccelli non sarebbero più arrivati, almeno fino a sera.
L'ancora che aveva piantato nella roccia era fissata saldamente e poteva reggere pesi in entrambe le direzioni. Vi legò un capo della corda più lunga che aveva a disposizione: l'altro capo lo calò nel pozzo verticale. Allo spuntar del sole iniziò la sua discesa, dopo essersi saldamente legato alle spalle lo zaino. In cima, il camino era largo più di tre braccia, ma nell'abbassarsi si restringeva progressivamente. Sembrava un crepaccio naturale, formatosi probabilmente quando erano crollate anche le rocce che si trovavano all'esterno della caverna, sul fondo del canyon. A mano a mano che Rolf scendeva, aumentava progressivamente l'oscurità, ma Rolf, per la prima ventina di braccia, non ebbe bisogno di una torcia. Poi, giunto a poche braccia dal livello del fondo del canyon, il pozzo terminò in un ampio spazio vuoto e buio, in cui la corda si perdeva. A questo punto, Rolf fissò saldamente i piedi contro le due pareti del pozzo e accese una delle torce. Dal movimento della fiamma, vide che l'aria attorno a lui era in lento movimento verso l'alto. Rolf continuò a calarsi lungo la fune, stringendola tra i piedi per avere una mano libera con cui tenere la torcia. Presto si accorse di trovarsi in un'ampia sala sotterranea, ma, dopo essere sceso solo di poche braccia, poté posare i piedi su un pavimento orizzontale di pietra levigata. Alla luce della torcia, scorse la parete della caverna, con due enormi porte chiuse. Davanti a lui posava immobile una forma tonda, alta il doppio di un uomo e probabilmente mille volte più massiccia. Rolf capì di avere trovato l'Elefante. 5 LAMPI NEL DESERTO Thomas non era riuscito a vedere il volo di Rolf, aiutato dagli uccelli, attraverso la larghezza del canyon; aveva sentito solo il rumore del suo arrivo nella caverna. Ma questo gli era stato più che sufficiente, per il momento. Thomas si concesse un sospiro di sollievo. Quel sollievo durò pochi istanti, perché gli uccelli, scendendo dalla caverna, lo informarono che stava arrivando una squadra di armigeri a cavallo, usciti dal castello, e che già in quel momento atraversavano la strada in fondo al passo. Questo significava che distavano poche centinaia di braccia, e Thomas si mise subito in cammino, spiegando: «Se dovessero trovarmi qui, si ferme-
rebbero a esaminare l'intero canyon. Cerco di raggiungere il lato ovest delle montagne. Dite a Rolf di scoprire tutto quel che può, nella caverna. E non lasciate sulle rocce nessuna corda penzolante!» Stava allontanandosi tra le rocce, a ovest del canyon, con l'intenzione di ritornare alla palude e di tenere i contatti con Rolf, almeno per un paio di giorni, servendosi unicamente degli uccelli, quando Strijeef lo raggiunse per avvertirlo che da ovest arrivavano altri uomini: erano partiti dalla riva del fiume e ora risalivano il monte. «Devi andare a est, Thomas» gli disse l'uccello. «Noi ti aiuteremo.» A Thomas dispiaceva abbandonare Rolf, ma non poteva fare diversamente; il giovane nella caverna si sarebbe dovuto affidare al proprio ingegno e al proprio coraggio. Così Thomas si diresse a est e si avviò furtivamente lungo i primi pendii del grande deserto. Thomas aveva con sé una borraccia d'acqua e pensava di potersi nascondere sotto la sabbia per una giornata almeno. Al calar della notte si sarebbe potuto dirigere a nord e avrebbe potuto valicare in qualche modo le montagne: i Monti Desolati non erano né tanto alti né tanto larghi da non permettere il passaggio di un uomo agile, a piedi. Nel procedere lungo il pendio liscio e privo di nascondigli che lo allontanava dal passo e dal castello, Thomas imprecò di cuore contro la luna, troppo chiara per i suoi gusti. Ma dopo avere percorso poche centinaia di passi si fermò ad ascoltare. Gli pareva di avere udito giungere, dalla zona alle sue spalle, i rumori attutiti di una consistente squadra di armigeri, e gli sarebbe piaciuto sapere se si trattava semplicemente di una normale ronda o se quegli armigeri avessero visto o sospettato qualcosa. Thomas pensava che Sarah era chiusa nel castello. Se il nemico avesse avuto qualche motivo di collegarla al Popolo Libero, l'avrebbe costretta facilmente a riferire tutto ciò che sapeva. Ed era certamente colpa dello stesso Thomas se Sarah sapeva più del necessario. In realtà, lui e gli altri capi avrebbero dovuto mantenere una maggiore segretezza sui piani di guerra, isolarsi per gran parte del tempo dal resto dei loro uomini, comunicare loro soltanto le informazioni che dovevano conoscere assolutamente. Probabilmente, rifletté, esisteva qualche sistema per organizzare bene una rivoluzione. Instaurare una rigida struttura di comando e una disciplina ferrea: si trattava di necessità vitali e sarebbe stato necessario adottarle... se Ekuman avesse lasciato sopravvivere il Popolo Libero per il tempo neces-
sario a impararlo. Nel frattempo, se Thomas voleva sopravvivere, doveva continuare la sua ritirata. Dopo avere percorso poche decine di passi, si guardò alle spalle e vide che il nemico cominciava a uscire dalle rocce: alte figure spettrali, a cavallo, illuminate dalla luna. Thomas piegò la schiena e continuò ad avanzare lentamente. Nel lasciare le rocce, lo schieramento degli armigeri si aprì a ventaglio e prese a cavalcare lentamente nella sua direzione. Ovviamente, non l'avevano ancora visto, ma non davano neppure l'impressione di volersene tornare presto a casa. Benché l'avessero scelta a caso, la direzione in cui svolgevano la loro ricerca era fin troppo accurata. Thomas raccolse una pietra e la scagliò in direzione sud-est, ad angolo retto rispetto alla sua linea di ritirata. Gli armigeri udirono perfettamente il tonfo: Thomas vide che alcuni di essi si fermavano. Probabilmente, avrebbero pensato che era stato un animale, ma il rumore li avrebbe insospettiti. Infatti, dopo qualche istante si fermò tutta la squadra: una ventina di uomini. Thomas continuò ad allontanarsi da loro senza fare rumore. Poco più tardi, quando ripresero la perlustrazione, gli armigeri piegarono verso est. A quel punto, Thomas si sarebbe potuto stendere a terra per lasciarli passare, ma c'era il rischio che gli armigeri tornassero indietro, e lui non voleva trovarsi chiuso tra loro e la montagna. Perciò continuò a ritirarsi lungo la direzione seguita fino a quel momento, inoltrandosi un po' di più nel deserto e riprendendo a respirare. Thomas si stava già congratulando con se stesso, convinto che il lancio di quella pietra fosse stata la mossa giusta nel momento giusto, quando uno degli uccelli giunse in fretta sopra di lui e gli disse a bassa voce qualche parola di avvertimento. Il giovane si voltò, e quel che vide alla luce della luna lo costrinse a immobilizzarsi per la sorpresa. All'improvviso, si sentì troppo grosso, troppo visibile. Il lungo pendio, che un momento prima si stendeva libero e allettante nella distanza, adesso era divenuto una trappola pronta a scattare su di lui. Una vasta formazione a ventaglio, composta di cento o più cavalieri, stava calando su di lui dalla direzione del nord. La loro linea iniziava dalla parete delle montagne - che in quel punto scendeva a picco, impossibile a scalarsi - e s'inoltrava nel deserto, assai al di là di dove giungesse la vista di Thomas.
Ora, tutto era chiaro. La piccola squadra che lo aveva fatto uscire dalle rocce serviva solo a spingere nella rete la preda. Forse si trattava unicamente di un'esercitazione, ma la trappola era quanto mai reale. Lui era un uomo solo, e appiedato; probabilmente, gli armigeri non l'avevano ancora visto. Per un istante, entrambi gli uccelli si raccolsero sopra di lui, ma non parlarono: si limitarono a girare attorno a lui e poi si allontanarono. Del resto, non c'era niente da dire; avrebbero fatto il possibile per aiutarlo, e Thomas lo sapeva. Lo schieramento dei cavalieri era come una rete dalle maglie fittissime. Thomas aveva smesso da tempo di muoversi perché non aveva alcun posto dove andare. Se l'avessero preso vivo... ma lui conosceva troppe cose per poter correre quel rischio. Si sfilò dalla cintura un lungo coltello: l'unica arma che aveva con sé. Sarebbe stata una follia cercare di aprirsi la strada con la forza in mezzo alla fila dei nemici. Mentre il cerchio si stringeva, Thomas si limitò a schiacciarsi contro il terreno, facendosi piccolo piccolo, nascosto dietro l'ombra di un cespuglio. Con una mano prese della sabbia e si coprì le gambe che sporgevano dall'ombra. Non era granché, ma Thomas non poteva fare altro. A meno che gli uccelli non riuscissero a distrarre gli armigeri. La linea spettrale dei cavalieri si avvicinava a un passo che pareva non avere fretta, ma che copriva rapidamente il terreno. Nel punto più vicino a Thomas, il loro schieramento era talmente fitto che neppure un sorcio sarebbe potuto passare inosservato in mezzo a loro. Di momento in momento, la maledetta luna pareva farsi più chiara, e Thomas pensò che ormai dovevano averlo scorto: ora gli armigeri volevano semplicemente divertirsi con lui. Armato del solo coltello, Thomas non sarebbe stato neppure in grado di ucciderne uno. Rinunciò a coprirsi le gambe, e si limitò ad attendere, trattenendo il respiro. I cavalieri l'avevano quasi raggiunto. All'improvviso, l'armigero più vicino a Thomas si levò di scatto sulle staffe. Sull'elmetto gli era spuntata un'escrescenza mostruosa e alata, una macchia di oscurità che lo tirava e che cercava di sollevarlo, facendogli lanciare terribili grida di dolore e di paura. Anche il cavallo sgroppava in preda al panico, e quelli vicini s'impennavano, mentre i cavalieri cercavano a fatica di controllarli. «Uccelli!» La parola passò dall'uno all'altro, rapidamente, a bassa voce.
In qualche modo, l'uomo che era stato attaccato per primo riuscì a liberarsi dell'aggressore. La fila di cavalieri riprese ad avanzare. Ma a poca distanza ci fu un altro movimento, e poi un terzo. Adesso, entrambi gli uccelli erano passati all'attacco, e davano l'impressione che il loro numero fosse più alto. Correndo avanti e indietro lungo la fila, Strijeef e Punta di Penna diffusero il panico e la confusione, riuscirono a sbalzare di sella un armigero, qualcun altro ne ferirono col becco o con gli artigli e si affrettarono a battere in ritirata quando ne trovarono qualcuno pronto ad affrontarli con la spada o con la loro caratteristica corta lancia. Impossibile dire per quanto tempo Strijeef e Punta di Penna potessero continuare. Thomas si appiattì sulla pancia e si costrinse a uscire dall'ombra del cespuglio. Pareva incredibile, ma gli armigeri non lo videro. Tutti guardavano verso l'alto, per difendersi dall'attacco aereo. Tutti i cavalli ormai nitrivano e si impennavano: alcuni per il nervosismo, altri per un vero e proprio panico. Steso a terra, Thomas avanzò di poche spanne per volta, nascondendo la faccia contro la sabbia. Sopra di lui, un animale nitrì e lo sfiorò con gli zoccoli, ma anche se il cavallo lo vide, non lo vide il cavaliere. Ormai li aveva dietro le spalle quando udì il grido di trionfo di uno degli uomini, e nello stesso tempo un urlo che non aveva mai sentito in precedenza, né da uomo né da bestia. Ci fu un frullo d'ali e poi un battito rumoroso: Thomas non aveva mai sentito fare tanto chiasso da un appartenente al Popolo Silenzioso. Poi, quasi immediatamente, il deserto ridivenne muto. Thomas continuò a rimanere sdraiato a terra, senza muoversi, senza cercare di guardarsi attorno. A ogni respiro gli entrava in bocca la polvere del deserto. Le orecchie gli dicevano che i cavalieri avevano ripreso a muoversi e che si stavano allontanando da lui. Quando gli parve che i suoni fossero ormai distanti, si rizzò lentamente sui gomiti e sulle ginocchia e voltò la testa. I cavalieri erano a molte decine di passi di distanza e continuavano ad allontanarsi; non gli parve che qualcuno di essi portasse con sé un trofeo alato. Strisciando, cercò di esaminare l'area dove gli uccelli avevano lottato contro gli uomini, ma non trovò alcuna traccia del combattimento, neppure una piuma. Forse gli uccelli erano morti per lui, forse no. In qualsiasi caso, gli avevano salvato la vita. E ora, morti o feriti, si erano allontanati. Thomas s'inoltrò nel deserto finché non gli parve di avere messo una
sufficiente distanza tra sé e il nemico; a quel punto corse il rischio di alzarsi in piedi. Guardandosi alle spalle, vide che il cerchio degli armigeri aveva continuato a serrarsi e che ora il nemico, dopo essersi radunato, pareva suddividersi in piccole bande. Evidentemente, i cavalieri intendevano perlustrare ancora la pianura, ma era impossibile capire in che direzione intendessero muoversi. Per Thomas, dunque, la sola possibilià di salvezza stava nell'allontanarsi quanto più possibile da loro, nell'inoltrarsi nel deserto. E così si rassegnò a fare. Sarebbe ritornato a est non appena possibile, e forse avrebbe dovuto aspettare fino a notte per farlo. In qualsiasi caso, aveva la borraccia. All'alba stava ancora camminando; ormai il castello e il passo erano a varie leghe di distanza. I Monti Neri davanti a lui non sembravano più vicini. Pressoché brullo, il terreno che lo circondava si stendeva fino all'orizzonte formando una serie di basse alture ondulate; a perdita d'occhio non si vedeva traccia dell'uomo e delle sue opere. Con la luce del giorno, comunque, sarebbero apparsi i rettili. Ormai il passo era troppo lontano perché Thomas potesse scorgere i loro sciami che volavano attorno al castello, ma era sicuro che cominciassero a uscire proprio in quel momento. Presto avrebbe dovuto trovarsi un nascondiglio per il giorno. La rada vegetazione intorno a lui non forniva alcun rifugio promettente. Thomas decise di andare ancora avanti, alla ricerca di un cespuglio grande a sufficienza. Ora che si era fatto giorno, però, cominciò a notare uno strano particolare. La sabbia su cui camminava aveva una superficie dura, butterata, come se vi fosse piovuto poco tempo prima. Certo, rifletté il giovane. Il giorno precedente, lui e Rolf avevano visto una strana tempesta raggiungere quella parte del deserto. L'Oasi delle Due Pietre si trovava in quella zona, anche se Thomas non poteva vederla perché era coperta dalle alture. Proseguì, cercando un buon nascondiglio e osservando ansiosamente il cielo sempre più chiaro. Poi scorse un rettile, ma era sul terreno, ed era morto... e - come la sabbia bagnata dalla pioggia che lo circondava - era alquanto strano. Oltrepassata una bassa duna, se lo trovò davanti, nel cavo tra una duna e l'altra. Era ridotto a una forma contorta: aveva perso i colori grigi e verdi, era nero e gonfio. Il lato strano della cosa non stava nel fatto che fosse morto, giacché i ret-
tili, come tutti, avevano le loro malattie e i loro incidenti - e certo anche i loro nemici - bensì nel modo in cui era morto. Il corpo si era talmente gonfiato da spezzare la pelle scagliosa, ma quel che l'aveva fatto gonfiare non era la putrefazione: a dire il vero, pareva che la creatura fosse stata arrostita viva. Eppure sulla sabbia che lo circondava non si vedevano segni di fuoco o di grande calore, ma solo le deboli tracce della pioggia del giorno precedente. Attorno al corpo gonfio c'erano ancora un cinghia e una borsa: il rettile era uno dei corrieri di Ekuman. Con la punta del piede, Thomas rovesciò il corpo del rettile, grande come quello di un bambino. La borsa era nera e informe; quando la toccò, la stoffa carbonizzata si dissolse in minuscoli fiocchi. Ormai era fredda. Frugando con cautela all'interno, trovò quello che senza dubbio era in origine un messaggio scritto, ma la carta andò in polvere non appena la sfiorò. La borsa conteneva anche un altro oggetto, e questo non andò in polvere. Un cofanetto chiuso, di metallo pesante. Dalla forma, pareva contenere qualche gemma preziosa, ma era alquanto grosso: il doppio del pugno di Thomas. Il giovane lo osservò attentamente e infine si disse che non poteva essere un oggetto del Mondo Antico, perché la forma e le cerniere non mostravano l'incredibile precisione che caratterizzava i lavori in metallo degli antichi. Il cofanetto era annerito e ammaccato. Thomas non riuscì a leggere le scritte incise sulla sua superficie, ma soppesandolo nelle mani ne ricavò la netta impressione che contenesse una forte magia. Il nemico non si sarebbe certo servito di un rettile-corriere per trasportare un oggetto fabbricato da un ciarlatano. Il cofanetto, dunque, doveva essere esaminato da Loford. Thomas si affrettò a coprire di sabbia il rettile e la sua borsa vuota, per impedire ai suoi compagni di trovarlo. Ripreso il cammino, scosse fra le mani lo strano cofanetto e sentì che conteneva un oggetto pesante. Lo girò da tutte le parti e provò la naturale tentazione di aprirlo. Ma infine la cautela ebbe la meglio sulla curiosità e Thomas, senza aprirlo, s'infilò nello zaino il cofanetto. Quando tornò a guardare il cielo per assicurarsi dell'assenza di rettili, Thomas vide con piacere che il cielo si stava rannuvolando. Se quell'anno, nel deserto, la stagione delle piogge era particolarmente ricca, lui non poteva che rallegrarsene; le nubi l'avrebbero nascosto allo sguardo dei rettili.
Sotto questo aspetto, erano assai preferibili ai radi cespugli. Il sole si levò al di sopra dei Monti Neri, e Thomas vide che da quella parte l'intero orizzonte era sgombro, ma che sopra di lui, per circa mezza lega, continuava ad addensarsi una coltre di nubi. Le nubi divennero sempre più grigie e minacciose, e più diventavano buie e dense, più il giovane si rallegrava. Oltre a proteggerlo dall'osservazione aerea, una buona pioggia gli avrebbe permesso di rinnovare le sue scorte d'acqua. Thomas si sedette a terra per riposare. Le nubi non parevano intenzionate a muoversi in qualche particolare direzione, l'aria era priva di vento. In alto, sopra di lui, echeggiò il primo brontolio di tuono; le prime grosse gocce cominciarono a cadergli sulla testa. Thomas sporse la lingua per assaggiarle. Poi, in mezzo alle nubi, si accese per un attimo una luce violenta, presto seguita da un secondo rombo di tuono. L'atmosfera divenne carica di tensione, e proprio in quel momento si levò uno strillo acutissimo che fece immediatamente balzare in piedi Thomas. Il giovane si guardò attorno e vide giungere di corsa una ragazza, dalla stessa direzione da cui era giunto lui. La giovane donna distava meno di una cinquantina di passi da lui; indossava un semplice abito da contadina e portava uno dei larghi cappelli che la gente dell'Oasi metteva quando andava a lavorare nei campi. Mentre correva verso di lui, la ragazza gridava a Thomas con quanto fiato aveva in gola: «Oh, gettatela via! Gettatela via!» In qualche parte sepolta della sua mente, Thomas doveva già avere avuto dei sospetti, perché, nell'udire le parole della ragazza, non esitò un solo istante. Afferrò il magico cofanetto contenuto nello zaino e, con un solo movimento del braccio, lo scagliò lontano da sé, con tutta la forza. In quel momento l'aria divenne incandescente attorno a lui e uno schianto, talmente forte da superare ogni sua capacità uditiva, parve squassare il mondo. 6 LA TECNOLOGIA Camminando molto lentamente, Rolf fece un paio di volte il giro dell'Elefante, mantenendosi a rispettosa distanza e levando alta la torcia. A parte l'impressione che trasmetteva - di un enorme e misterioso potere - l'oggetto davanti a lui non assomigliava granché alla creatura ritratta nei
simboli. Era una losanga piatta, dalle curve regolari, alquanto bassa per una costruzione tanto pesante. Non si scorgeva il naso straordinariamente flessibile, né i denti sporgenti. Non c'era un vero e proprio muso, ma solo qualche sottile tubo metallico che spuntava in tutte le direzioni dalla gobba che aveva in cima. Quando si avvicinò maggiormente, Rolf vide che attorno a quella gobba, o testa, c'erano alcune minuscole zone coperte di vetro, come gli occhi finti di una statua mostruosa. L'Elefante non aveva gambe visibili, e questo lo faceva sembrare ancor più impressionante, perché portava a chiedersi come potesse dispiegare i suoi poteri. Inoltre, non aveva vere e proprie ruote, come per esempio i carri. Invece l'Elefante poggiava su due cinture chiuse, fatte di pesanti piastre metalliche borchiate, la cui parte alta, coperta da una sorta di scudo, si trovava al di sopra della testa di Rolf. Ai due lati, sul metallo opaco, era dipinta - con la caratteristica precisione del Mondo Antico - la nota figura dell'animale, grigia e possente, e qualche trucco dell'arte pittorica faceva capire all'osservatore che l'animale ritratto era gigantesco. Nel suo mostruoso naso prensile, la creatura del quadro brandiva una lancia aguzza, bianca e spezzata per l'intera lunghezza. Sotto le zampe, l'animale calpestava i simboli 426a DIVISIONE CORAZZATA, di cui Rolf non avrebbe saputo dire il significato, e neppure la lingua in cui erano scritti. Ora, trattenendo il respiro, s'azzardò ad allungare una mano e a toccare una delle cinture chiuse, un pezzo d'armatura troppo pesante per essere portato da un uomo e perfino, in battaglia, da un cavallo. Nel vedere che l'Elefante non si accorgeva di essere stato toccato, Rolf corse il rischio di appoggiare la mano sulla superficie liscia di uno dei suoi fianchi metallici. Poi fece un passo indietro e osservò anche il resto della caverna. Non c'era molto da vedere. Alcune aperture nelle pareti curve: fori troppo piccoli per permettere il passaggio di un uomo. Forse erano una sorta di camino: l'aria della caverna era perfettamente respirabile e non sapeva di chiuso. E c'erano le grandi porte incassate nel muro proprio davanti all'Elefante... se "davanti" era la direzione in cui puntavano i tubi che sporgevano dalla gobba più alta.
Le porte erano due piatte are di metallo, che parevano coprire un'apertura avente esattamente la dimensione necessaria per lasciar passare l'Elefante. I bordi delle porte non si chiudevano perfettamente, ma tra essi e la parete c'era una fessura verticale, un po' più larga ai piedi che in cima, come se le grandi lastre fossero state sforzate. Dalle aperture era filtrata una montagnola di sassolini e di polvere. Rolf si inginocchiò per esaminare la polvere. A quanto gli pareva di capire, il pavimento era al livello del fondo del canyon. Probabilmente, le porte erano state nascoste dalla stessa frana che aveva riempito di sassi il canalone. Chiuse per un momento gli occhi, per meglio valutare le distanze da lui percorse per arrivare alla caverna, e ne ebbe la conferma. Per liberare l'Elefante sarebbe bastato aprire quelle porte e portare via alcuni dei macigni, grandi come una capanna, che ostruivano il passaggio. La torcia si era ridotta a un mozzicone che gli bruciava le dita: Rolf lo usò per accenderne un'altra. L'aria della caverna non recava traccia dell'odore della torcia e il poco fumo continuava a innalzarsi gradualmente. Quel filo di fumo era troppo debole perché qualcuno, nel canyon, potesse vederlo uscire dall'ingresso esterno della caverna. Rolf tornò a girare attorno all'Elefante, facendo scorrere la mano sulla sua superficie e prestando molta attenzione ai particolari. Tornò a provare quello che aveva sentito quando aveva usato il cannocchiale di Thomas: nessuna sensazione di magia, ma solo quella di altri poteri che, in qualche modo, Rolf trovava più congeniali di quelli magici. In alto, su uno dei grandi fianchi corazzati, poco al di sopra dello scudo che proteggeva la parte alta del nastro chiuso, c'era una sottilissima linea circolare, che subito ricordò a Rolf una porta che combaciava in modo mirabile con il suo telaio. Osservando meglio, Rolf vide che dentro la superficie del cerchio c'era una rientranza e pensò che potesse contenere la maniglia da cui si apriva quella porta, ammesso che fosse davvero una porta. E, abbassando lo sguardo, vide quattro stretti scalini, inseriti nel metallo, che portavano dal pavimento al cerchio-porta. Il giovane trasse un profondo respiro, s'infilò la torcia fra i denti e cominciò a salire. La maniglia della porta si lasciò afferrare senza difficoltà. A denti stretti, Rolf mormorò un incantesimo protettivo - imparato nell'infanzia e in seguito pressoché dimenticato - e poi la tirò. Al primo strattone la maniglia non si mosse, e neppure al secondo. Poi,
quando si appese alla maniglia con tutto il suo peso, gli antichi meccanismi si spostarono all'improvviso, con un cigolio. La porta, incredibilmente spessa, ruotò sui cardini e si spalancò. Nello stesso momento, dall'interno dell'Elefante giunse uno scatto metallico e Rolf fu colpito da una luce vivissima, che rivaleggiava con i dorati raggi del sole. Il ragazzo aveva già perso l'equilibrio quando la porta si era spalancata. Ora abbandonò il fianco dell'Elefante e si lasciò cadere a terra, rinunciando anche alla torcia. Non ne aveva più bisogno, con tutta la luce che usciva dal fianco aperto dell'Elefante. Il bagliore dorato non era forte come la luce del sole, poté constatare ora, ma era fermo come il sole, senza fiamme, fumo, tremolìi. "Adesso apparirà Ardnih" pensò Rolf e si costrinse ad alzarsi. Aveva una certa idea dell'aspetto di un demone - o pensava di averla - ma non sapeva che aspetto poteva avere un "dio". Aspettò, ma non comparve alcuna creatura, di nessun tipo. L'Elefante rimaneva ostinatamente immobile. Il giovane pensò bene di interpretare la luce come un segno di favore e tornò ad arrampicarsi sugli scalini, soffermandosi a osservare con meraviglia il perfetto equilibrio della pesante porta da lui aperta. Poi infilò la testa nel passaggio e si fermò a guardare ciò che gli si parava dinanzi, perché le forme che scorgeva all'interno dell'Elefante erano stupefacentemente varie, e a tutta prima parevano incomprensibili. Simboli dipinti o incisi, tutti assolutamente sconosciuti a Rolf, parevano coprire gran parte delle superfici. Niente si muoveva, niente aveva apertamente un aspetto minaccioso. La luce ferma come quella del sole giungeva da stretti pannelli che brillavano come ferro portato all'incandescenza ma che non parevano irradiare calore. Rolf si sollevò gradualmente finché la parte bassa della porta non gli giunse alla vita e, lì giunto, si fermò ad ascoltare. Dall'interno dell'Elefante giungeva un basso rumore, simile allo sciacquio dell'acqua corrente o al fruscio del vento. E forse era proprio il vento, si disse, perché sentiva sulla faccia una debole corrente d'aria. Rimase seduto ancora per qualche tempo sulla soglia della porta, e continuò a esaminare lo strano ambiente che vedeva davanti a sé. In realtà, vide poi, l'interno dell'Elefante non era così grosso come sembrava. Al massimo, vi potevano entrare tre o quattro uomini, e sarebbero stati un po' alle strette, in mezzo a tutti gli strani oggetti che si trovavano laggiù. Ma ora Rolf capì da talune indicazioni che l'interno era fatto per acco-
gliere gli esseri umani. La porta aveva una maniglia robustissima, ma molto semplice, che poteva essere azionata solo da dentro. E gli stretti passaggi, sul pavimento metallico, erano coperti di una sostanza ruvida, perché il piede vi potesse fare presa. Inoltre, dagli strani oggetti fissi che conteneva, sporgevano quelle che sembravano impugnature, appositamente fatte per essere strette da dita umane. Presto Rolf oltrepassò la soglia e si trovò immerso nella luce senza calore, e continuò a meravigliarsi. Dal nuovo punto d'osservazione poteva distinguere altri particolari. Tre oggetti, che sulle prime l'avevano lasciato perplesso, risultarono essere delle sedie. Erano basse e tozze, e invece di essere rivolte l'una verso l'altra, erano poste fianco a fianco e guardavano nella direzione verso cui era rivolto l'Elefante, la direzione delle due grandi porte piatte. Fattosi sempre più ardito, Rolf si alzò cautamente in piedi - anche se non era molto alto, tra la sua testa e il soffitto non rimaneva molto spazio - e avanzò un passo alla volta, sfiorando con molta attenzione gli oggetti, fino a raggiungere la sedia centrale. La sedia aveva una spessa copertura di un materiale che in origine doveva essere molto comodo, ma che con il tempo era diventato secco e fragile. Non appena Rolf lo toccò, si staccarono dei frammenti; quando infine si azzardò a sedersi, dal sedile si alzò una nuvola di polvere. La polvere suscitò in Rolf un accesso di starnuti, ma presto venne portata via dalla misteriosa circolazione "sussurrante" d'aria all'interno dell'Elefante. Attorno ai tre sedili e davanti a essi erano disposti molti oggetti incomprensibili, fatti di metallo, vetro e altre sostanze di cui il giovane non conosceva il nome. Ad alcune delle impugnature potevano corrispondere armi o attrezzi; vari esperimenti, prima condotti con cautela e poi con forza sempre crescente, rivelarono a Rolf che nessuna di quelle impugnature si staccava per rivelare di essere il manico di semplici strumenti come quelli che lui conosceva. L'Elefante pareva accettare la presenza di Rolf come un grande e placido cavallo da tiro avrebbe accettato i giochi di un bambino; quando gli venne in mente il paragone, il giovane sorrise. Cominciava a provare uno strano senso di possesso. Tutte quelle meraviglie stavano diventando sue: già gli appartenevano più che a qualsiasi altro vivente. "Supponiamo che ci sia Thomas, al posto mio, o Loford" si disse. "Sup-
poniamo che ci sia uno degli astuti, potenti maghi del castello. Uno di loro oserebbe fare questo?" E Rolf sollevò una mano e, senza riflettere, sfiorò uno dei pannelli luminosi, da cui si irradiava soltanto un debolissimo tepore. Seduto sulla poltroncina centrale, notò che sopra ciascuna di esse era appesa una maschera. Le maschere avevano una cinghia, come per tenerle ferme sulla testa, e due pezzi circolari di vetro al posto degli occhi. Dal naso di ciascuna maschera usciva una proboscide di lunghezza ben più che elefantina, che poi si infilava in un foro della parete. Non appena Rolf la toccò, la maschera posta sopra il suo sedile scricchiolò sinistramente e la lunga proboscide si ruppe, sollevando una nube di polvere e di scaglie. Battendo gli occhi e cercando di togliersi la polvere dai capelli, il giovane si guardò attorno, con apprensione. Ma non successe niente. Perfino il debole mormorio pareva ridursi progressivamente al silenzio. Rolf esalò un lunghissimo sospiro e comprese che, almeno per il momento, non provava più alcun timore. Qualunque fosse il potere che dominava laggiù, aveva accettato la sua presenza. Continuò ad attendere. L'aria tranquilla pareva aspettare che succedesse qualcosa di importante. Il movimento dell'aria spazzava via anche la nuova polvere. Forse, la rottura di una maschera non dava alcun fastidio ad Ardnih, perché lui non era un demone. Ardnih era... qualcosa di più. Ammesso che esistesse. D'impulso, Rolf cominciò a parlare a voce alta, in tono conciliante. «Ardnih? Tu eri un dio del Mondo Antico, dove fu costruito questo Elefante. Non conosco incantesimi con cui evocarti. Ma, dato che non sei un demone, può darsi che non ci sia bisogno di incantesimi... non saprei.» S'interruppe. Dall'aria che sussurrava piano, gli parve giungere come un incoraggiamento: una sensazione che lo avvolse completamente. «Loford dice che tu hai finito per divenire il simbolo della libertà, e allora io... vorrei che tu mi usassi come tuo strumento. Qualcuno ha detto che il Vecchio, in un certo senso, era un Ardnih; allo stesso modo vorrei essere un Ardnih anch'io.» Per un momento, nella sua immaginazione, Rolf si vide come il guerriero della visione di Loford: montato sull'Elefante, armato del fulmine. E per un momento il sogno non gli apparve affatto ridicolo. Eppure, non ci fu alcuna voce a rispondergli, ma solo il brusio sempre più debole. Rolf si mosse sulla sedia: all'improvviso, capì di essere un bambino sciocco, che per gioco si metteva a parlare da solo. Tornò a starnutire perché il movimento aveva sollevato una nuova nuvo-
la di polvere. Basta. Sarebbe stato bello avere i poteri di un mago, ma era sciocco pretendere per gioco di averli, come un bambino. Lui non aveva alcun modo di comandare i demoni, e neppure gli dèi, qualunque cosa fossero. Decise di continuare il lavoro che Thomas gli aveva affidato. Riprese a esaminare gli oggetti davanti a lui, cercando di tirarli, di spingerli, di girarli delicatamente. Pensò che se nell'Elefante ci fosse stato qualche lato magico, lui non sarebbe stato in grado di utilizzarlo. Perciò doveva affrontarlo come avrebbe fatto un contadino posto di fronte a un nuovo e grosso attrezzo: tirare tutte le maniglie finché non si trova quella giusta... Poi, con un mormorio di sorpresa, ritrasse le mani dall'oggetto davanti a lui, che assomigliava a un tavolo di lavoro. Sul pannello era improvvisamente comparsa una serie di punti luminosi, tutti di forma regolare e posti alla medesima distanza tra loro, ma ciascuno di colore diverso. Accanto ai punti luminosi c'erano delle scritte, illuminate da dietro, in un alfabeto che Rolf non conosceva. La più grossa diceva: CONTROLLO SISTEMI. Dopo avere contemplato per qualche tempo lo spettacolo, ed essersi assicurato che non succedeva niente di più grave, Rolf trovò il coraggio di posare nuovamente la mano sull'ultimo comando da lui mosso e di abbassare la leva che in precedenza aveva sollevato. Obbedienti, le luci sul pannello si spensero. Pensando di avere capito, Rolf le accese e le spense varie volte, beandosi del nuovo potere che aveva scoperto. Il punto di luce in cima al pannello era di colore arancio chiaro. Anche una piccola leva su un lato del pannello, accanto alla mano destra di Rolf, si era illuminata di arancione. Il giovane la spinse, ed essa si mosse con uno scatto e rimase ferma nella nuova posizione. Sul pannello, sotto CONTROLLO SISTEMI, si accese una scritta in caratteri arancioni: INNESCO PILA NUCLEARE. E nello stesso momento l'Elefante emise un basso brontolio. Il rumore giungeva dalle più profonde viscere dell'Elefante. Si ripeté fino a divenire un gemito, come per un forte dolore all'intestino. Rolf, improvvisamente colto da tutte le sue vecchie paure, tese la mano verso la leva, per riportarla nella posizione iniziale. Ma non riuscì ad afferrarla, perché l'intera massa dell'Elefante sobbalzò sotto di lui. Poi, il gemito parve suddividersi in varie voci, come una gabbia di demoni tormentati e inferociti che si azzannassero tra loro. Rolf era paralizzato: aveva paura di fermarli, aveva paura di lasciarli continuare. Ma le voci, lentamente, trovarono una sorta di armonia nella loro collera, presero
a gridare più in fretta e infine si confusero in un unico, drammatico ruggito. PILA NUCLEARE ACCESA. Rolf provò il desiderio di balzare in piedi e di darsela a gambe, ma lo trattenne il timore di non poter uscire dalla caverna senza essere abbattuto da Ardnih. Si tenne stretto alla sua sedia che spargeva polvere e attese. Ma non venne colpito da alcun fulmine. Anzi, i tremolii dell'Elefante si spensero gradualmente. Il ruggito divenne più basso, più regolare, più sicuro. Rolf provò una sensazione inebriante: quella di ricevere in consegna uno smisurato potere. La sensazione si fuse con la fiducia in se stesso che stava lentamente ritornando in lui e la fece diventare più forte che mai. All'interno del pannello, la luce arancione vicino alla scritta PILA NUCLEARE ACCESA era sparita, ed era sparita anche la luce arancione della piccola leva. Il colore successivo, sul pannello, era il viola, ed era viola anche una piccola leva accanto alla mano sinistra di Rolf. Questa volta, mentre il suo dito schiacciava la leva, Rolf chiuse gli occhi e strinse i denti, aspettandosi il peggio. Poi, quando li riaprì, fu colto da un nuovo accesso di timor panico. Dal soffitto stava scendendo su di lui un grosso anello, che sembrava il collare di un gigante e che aveva più di un braccio di diametro. L'anello si fermò al livello dei suoi occhi, senza toccare Rolf. La sua superficie interna era levigata e luminosa, e vi si rincorrevano complesse figure di luce, un po' come doveva succedere - pensò il giovane - alla sfera di cristallo di un mago quando la visione non era del tutto perfetta. Ma presto la confusione si dileguò e Rolf notò che adesso, grazie a qualche misterioso potere, poteva vedere attraverso la superficie del vasto anello come se fosse stato una finestra. Era qualcosa di più impressionante dei tubi di Thomas per avvicinare gli oggetti lontani. Rolf era in grado di vedere senza alcuna difficoltà la caverna che lo circondava, le porte massicce davanti a lui, come se la massa dell'Elefante fosse divenuta trasparente, cristallina. Il viola era sparito. Sul pannello adesso brillava un puntino rosso, e c'era da manovrare una levetta illuminata dello stesso colore. ARMAMENTO NON OPERATIVO. Sull'anello visivo era comparso un paio di sottili linee rosse, che si incontravano ad angolo retto. Rolf schiacciò una seconda volta la levetta rossa, e un fiotto di quello che sembrava fuoco liquido schizzò debolmente da uno dei tubi che sporgevano dalla torretta dell'Elefante. Pareva che l'Ele-
fante avesse sputato una boccata di fiamma pura e che con quello sputo si fosse sporcato tutto il davanti. Solo una goccia di fiamma riuscì a raggiungere le porte: vi rimase appiccicata, scivolando verso il basso come una lacrima di fuoco, e lasciò sulla superficie della porta una scia nera. Per qualche tempo, Rolf non si mosse più, e osservò lo schizzo di fuoco spegnersi e annerirsi sulla porta e sulla robusta pelle di metallo dell'Elefante. Alla fine provò a far scattare nuovamente il comando che aveva fatto scaturire il fuoco, ma non ottenne alcuno schizzo. Diversamente da quelli che l'avevano preceduto, il punto rosso continuò a rimanere acceso, accanto ad ARMAMENTO NON OPERATIVO, anche se il giovane riusciva a far comparire e sparire a volontà, sull'anello visivo, le due sottili linee rosse incrociate. La prese come una tacita autorizzazione a passare al colore successivo, che era un bel celeste. Riuscì a fare in modo che il puntino celeste si spegnesse, e proseguì con gli altri colori, attivando un comando dopo l'altro. Diverse altre luci divennero rosse e rimasero accese. Alcuni comandi destarono nelle viscere dell'Elefante strani brontolii e scricchiolii ancor più strani. Altri comandi non produssero alcun risultato degno di nota, ma le luci corrispondenti si spensero. Quando finalmente si fu spento anche l'ultimo punto luminoso della serie, sparì anche la scritta CONTROLLO SISTEMI. E ora, per la prima volta, anche le due grosse manopole davanti a Rolf s'illuminarono e assunsero un color verde intenso. Le manopole, robuste come l'impugnatura di un aratro, stavano ai due lati del suo sedile. Rolf aveva già cercato di azionarle in precedenza, ma non era riuscito a spostarle. Ora fece una seconda prova. Alla prima debole pressione sulle maniglie, tornò a levarsi il ruggito proveniente dal basso, che nel frattempo si era progressivamente ridotto a un leggero brusio. Rolf esitò, attese, e poi irrigidì le braccia, spingendo decisamente le maniglie. Con un nuovo ruggito, l'Elefante scattò avanti. All'improvviso, Rolf vide avvicinarsi a lui le due porte metalliche. Sorpreso, il ragazzo tirò indietro entrambe le leve. La sua grande cavalcatura s'impennò, con un rumore di piastre metalliche che cercavano di artigliare il pavimento, e poi si lanciò in direzione inversa. In un attimo, l'Elefante prese velocità. Ora, la parete posteriore della caverna era troppo vicina. Anche questa volta, Rolf reagì con eccessiva foga, spingendo le leve con forza. Questa volta, però, tradito dalla fretta, le spinse in modo disuguale: più
la destra che la sinistra. L'Elefante, nell'avanzare, girò verso sinistra. Con la spalla destra urtò contro la porta, mentre Rolf, che cercava di vincere il panico, invertiva i due comandi manuali. Poi pensò che qualsiasi bambino era capace di usare un paio di redini. Bastava far capire alla propria cavalcatura chi fosse il padrone. Questo familiare ordine di pensieri lo aiutò a riprendere la padronanza di sé; una volta riacquistata la calma, trovò che il controllo dell'Elefante era facile. Attentamente, sempre più pratico di momento in momento, continuò a spingere avanti e indietro la sua grande cavalcatura. Non sembrava esserci abbastanza spazio per un giro completo, ma cominciò a girare a sinistra e poi tornò indietro, e provò a fare la stessa cosa dall'altra parte. Infine riuscì a riportare l'Elefante in una posizione poco diversa da quella d'origine, immobile e animato da un leggero fremito. Solo allora osò staccare le mani dai comandi, per asciugarsi il sudore dalla fronte. Annuì tra sé e sé: "Per oggi, basta". Probabilmente, aveva già sfruttato troppo la sua fortuna. Adesso doveva trovare il modo di rimettere a dormire l'Elefante. Seguendo quello che gli sembrava il sistema più ragionevole, Rolf riportò i comandi alla loro posizione originale, in ordine inverso rispetto a quello da lui seguito per svegliare l'Elefante. Il sistema funzionò. Sul pannello riapparvero i punti colorati, dal basso in alto. L'anello visivo si spense, divenne opaco, tornò a innalzarsi verso il soffitto. E presto anche il ruggito si spense e tutti i caratteri e i punti luminosi del CONTROLLO SISTEMI svanirono dietro il vetro scuro. Lentamente, tremando per una tensione di cui non s'era accorto fino a quel momento, Rolf uscì dal foro praticato sul fianco dell'Elefante. Dapprima lasciò aperta la porta, perché illuminasse l'interno della caverna, e scese sul pavimento di pietra per contemplare con meraviglia la grande sala. "Sì" pensò "è realmente accaduto." Si scorgeva una fresca frattura nella roccia dove la spalla dell'Elefante aveva urtato lo stipite dell'enorme porta; c'erano dei punti anneriti sulla porta e sullo stesso Elefante, dove era caduto lo schizzo di fuoco; forse, si disse Rolf, con il passare degli anni i fulmini dell'Elefante si erano indeboliti. Ma, anche se così era, la cosa non aveva eccessiva importanza. La dimensione, la potenza, l'invulnerabilità metallica dell'Elefante parevano sufficienti a fargli vincere qualsiasi battaglia. Con l'occhio dell'immaginazione, Rolf vide se stesso abbattere le mura del castello, salvare Sarah. Ma ora doveva riposare, prepararsi per la notte,
in attesa dell'arrivo degli uccelli e forse di qualche compagno venuto ad aiutarlo. Accese una torcia e salì nuovamente sul fianco dell'Elefante, per chiudere la porta massiccia: quando i battenti si furono riaccostati, la luce si spense. Poi, con la torcia tra i denti, si arrampicò sulla fune, già certo che Loford, Thomas e tutti gli altri non avrebbero creduto alla sua narrazione. La galleria era illuminata dal sole del primo pomeriggio. Aprì lo zaino e mangiò parte del cibo di scorta. Notò che nella borraccia rimaneva solo un sorso d'acqua. Probabilmente gli uccelli gliene avrebbero portato dell'altra al calar della notte. Rolf era sicuro che entro poche ore sarebbero ritornati a prenderlo. Dopo tante emozioni, Rolf si addormentò con la schiena appoggiata alla parete di roccia, e si svegliò solo quando all'esterno si stavano addensando le prime ombre. Bevve l'ultimo sorso d'acqua rimasto nella borraccia e si preparò ad attendere l'arrivo degli uccelli. Il buio si addensò, e Rolf cominciò a chiedersi perché tardassero, ma gli uccelli non comparvero. Il giovane si sedette sull'imboccatura della caverna e osservò la fetta di cielo che si vedeva da quella posizione, fissando le stelle. "Non appena quella stella azzurra e luminosa avrà oltrepassato la guglia" si disse "sarà trascorso un tempo sufficiente. A quel punto, saprò con certezza che c'è stato qualche contrattempo. Ma sono certo che arriveranno prima di allora. Da un momento all'altro, ormai..." La stella azzurra seguì il proprio corso nel cielo e svanì. Con un certa soddisfazione per essere costretto ad agire, Rolf si alzò e si morse il labbro. "Va bene" si disse. "Deve essere successo qualcosa." Doveva lasciare la caverna e tornare alla palude per ricongiungersi con gli amici. Non solo aveva terminato l'acqua, ma le informazioni da lui raccolte erano troppo importanti: non potevano attendere. Nell'oscurità che si stendeva all'esterno della caverna pareva muoversi solo il vento della notte. Rolf agganciò la corda al suo piolo sul pavimento, s'infilò sulle spalle lo zaino e poi iniziò a scendere. Invece di calare la corda fino in fondo, se l'era avvolta attorno al torace e ora la srotolava a mano a mano che scendeva. Adesso, guardando le rocce sotto di lui, illuminate dalla luna, si disse che doveva essere stato un pazzo o un grande eroe, per lanciarsi nel salto che lo aveva portato alla caverna. Alla fine sentì la terra sotto i piedi. Era il momento giusto perché il nemico, che aveva atteso pazientemente fino ad allora, lasciasse il nascondi-
glio e si precipitasse contro di lui... ma non ci fu alcun movimento. I nemici non avevano alcun sospetto della sua presenza. Dopo vari tentativi riuscì a sganciare la corda dal suo ancoraggio nella caverna; ne fece una matassa e la infilò nello zaino. Poi iniziò il viaggio di ritorno che doveva riportarlo alle paludi. Uscì con molta attenzione dalle rocce del canyon e si trovò sul versante occidentale dei monti, poco al di sopra del fiume. Da quel punto, poi, si diresse a nord, per allontanarsi dal passo e dal castello. Dopo avere percorso solo un centinaio di metri sulla riva sabbiosa, pensò che fosse meglio seppellire lo zaino sotto la sabbia. Se l'avessero catturato e gli avessero trovato quel genere di equipaggiamento, avrebbero capito dove era stato; inoltre, senza zaino, avrebbe fatto più in fretta. Quando ebbe sepolto lo zaino, proseguì lungo la riva est del Dolles, aspettandosi a ogni istante di essere salutato dal richiamo di uno degli uccelli. Evitò tutti i punti dove lui e Thomas, nel viaggio che li aveva portati al passo, avevano visto gli armigeri. Dopo una mezz'ora di cammino, si avvicinò ancor di più all'acqua. Sapeva che laggiù c'era un guado: si accinse ad attraversarlo senza togliersi i vestiti. Aveva appena messo piede sulla riva opposta, quando gli armigeri del castello uscirono dai loro nascondigli per afferrarlo. Rolf si voltò immediatamente, con l'intenzione di fuggire, ma qualcosa di duro e di pesante lo colpì su un lato della testa. Cadde a faccia in giù, sul fango della riva. Come da una nebbia, gli giunse la voce degli armigeri. «L'hai sistemato proprio bene.» Una breve risata. «Sarà riuscito ad arrivare alle barche? Guarda se ha qualche oggetto rubato.» Due mani lo voltarono su se stesso e presero a frugarlo. «Cosa ne facciamo, lo impicchiamo a un albero? In questo punto del fiume non abbiamo mai impiccato un ladro.» «No, al castello hanno bisogno di braccia. Questo è abbastanza robusto: dovrebbero riuscire a utilizzarlo. Se non gli hai scombussolato eccessivamente il cervello.» 7 LE DUE PIETRE
Thomas, ancora accecato dalle immagini luminose che gli ballavano davanti agli occhi, ancora assordato dal tuono, sollevò la testa e cercò di riprendere i sensi. Era steso sulla sabbia del deserto, nel punto dove era caduto - o era stato scagliato - un attimo prima. Pioveva forte. Si passò una mano sugli occhi, per vedere meglio. A poca distanza da lui era inginocchiata la ragazza dall'ampio cappello. Lo stava osservando. «Non siete morto» diceva la ragazza. «Sono contenta. Non siete uno di loro, vero? Oh, no, non lo siete di certo. Mi spiace.» «Certo che non lo sono.» Se soltanto fosse stata un po' meno bagnata, pensò, quella ragazza sarebbe stata davvero carina. Notò che non portava anelli matrimoniali alle dita. «Perché mi hai voluto avvertire?» le chiese. «Come sapevi che stava per cadere il fulmine?» La ragazza aveva distolto lo sguardo da lui e si stava osservando attorno, come se cercasse un oggetto perduto. «Visto che vi ho salvato la vita» disse a Thomas «mi aiuterete, adesso? Devo assolutamente trovarla.» «La cosa che era contenuta nel cofanetto, eh?» «Sì. Dov'è finita?» «Se fosse mia, non vorrei più averci niente a che fare.» «Oh, ma io devo...» Si alzò in piedi, continuando a guardarsi attorno. «Mi chiamo Thomas.» «Oh... Io mi chiano Olanthe.» «Sei dell'Oasi? Vedo che hai uno dei loro cappelli.» «Io... sì. Mi aiutate a trovare la Pietra?» Solo allora si accorse di avergli involontariamente fornito un'altra informazione. «La Pietra, eh?» Gli venne in mente un particolare. «L'Oasi delle Due Pietre; suppongo che il nome significhi qualcosa. La Pietra che cerchi è una di esse? Mi piacerebbe conoscere la cosa che per poco non mi ha ucciso.» La pioggia stava quasi per finire. Olanthe si allontanò da lui, continuando a osservare in basso e girando in cerchi sempre più grandi sulla sabbia. «Olanthe? Ho il diritto di essere curioso, non ti pare? Io non voglio fare del male alla vostra Oasi. Anch'io ero un contadino, una volta. Spiegami come sei riuscita a sfuggire alle guardie.»
«Eravate un contadino? Perché, adesso che cosa siete?» «Adesso combatto.» Lei lo guardò, come per capire se dicesse la verità. «Ho sentito dire che i veri combattenti sono nelle paludi.» «E io voglio ringraziarti di avermi avvertito. Però, avresti potuto avvertirmi prima, non credi?» La ragazza distolse lo sguardo e lo posò distrattamente sulle dune e sugli arbusti. «Vi ho visto» spiegò Olanthe «quando avete trovato il rettile morto. Ma all'inizio ho temuto che foste unicamente un volgare bandito.» «Questa tua Pietra attira in qualche modo il fulmine e ha ucciso il rettile. Tu mi hai seguito, aspettando che il fulmine cadesse di nuovo, per recuperare la Pietra dal mio cadavere. E poi non l'hai fatto.» «Non vi conoscevo, avevo paura» rispose lei, piano. «Vi prego, aiutatemi a trovarla, è molto importante.» «Capisco. Senti, non devi avere paura di me, ragazza, se quel che dici è vero. Tieni pure la tua Pietra. Noi delle paludi non abbiamo bisogno della sua pioggia.» Ormai la pioggia era quasi cessata; Thomas osservò il cielo, dove, in mezzo alla massa di nubi, apparivano già squarci e macchie d'azzurro. «Visto che i rettili piacciono poco anche a te» continuò «faresti meglio a ripararti sotto uno dei quei cespugli, come conto di fare io.» «Prima, devo trovare la Pietra! Non può essere lontana.» «D'accordo. Ci rinuncio. Ma, se ti vedranno correre qui attorno, vedranno anche me. Il fulmine ha colpito direttamente la Pietra? Potresti spiegarmi qualcosa, mentre la cerchiamo.» Entrambi si misero a scrutare attentamente le dune del deserto, con gli occhi chini a terra. Muovendosi in cerchio, si allontanavano e poi tornavano a ricongiungersi. Olanthe spiegò in fretta: «Il fulmine colpisce sempre in pieno la Pietra, sì, e a volte la scaglia molti metri lontano. Caduto il fulmine, la pioggia cessa.» Dopo un istante, aggiunse una sorta di avvertimento: «Capite, chi ha creato la Pietra l'ha voluta proteggere dall'avidità dei singoli individui. Solo quando passa di mano in mano riesce a svolgere il suo compito di evocare una tempesta con lampi e tuoni.» Mentre la ragazza gli parlava della Pietra, a Thomas parve di scorgere qualcosa. Se si trattava davvero della Pietra nel suo cofanetto, non sarebbe
stato facile recuperarla. Un istante più tardi, anche Olanthe seguì la direzione del suo sguardo e raggiunse Thomas. «Oh!» disse, quando la vide. Il cofanetto di metallo annerito era semisommerso sotto la superficie piatta e luccicante di una pozza d'acqua, larga una decina di braccia, che si stendeva in una piccola depressione fra le dune. «Una fata morgana!» Thomas annuì. «E la più grossa che ho visto.» Non potevano esserci dubbi sulla natura di quel che vedevano: la ragione diceva che una simile distesa d'acqua, nel bel mezzo del deserto, era del tutto impossibile. Di per sé, l'illusione creata dalla pianta carnivora era perfetta. La luce del sole si rifletteva sulla superficie apparente del laghetto (la pioggia, che adesso era cessata, avrebbe però rivelato l'illusione, perché l'avrebbe attraversata senza disturbarla, e così avrebbe mostrato che il laghetto non conteneva acqua). Attorno all'illusorio laghetto vivevano piccole piante verdi sufficientemente vere, queste - alimentate dall'acqua distribuita loro dalla pianta carnivora semi-intelligente che si nascondeva nel fondo. Il travestimento dava un aspetto di freschezza al laghetto, che in realtà era solo la superficie di separazione tra due strati d'aria aventi temperature diverse. E, al pari della vera acqua, quella superficie tremolava leggermente sotto il soffio del vento. Thomas sapeva che se ci si accostava per bere e si giungeva a un braccio o poco più dalla superficie, l'illusione spariva. A quel punto, l'uomo o l'animale facevano un balzo indietro, ma, una volta giunta a un braccio di distanza, nessuna creatura vivente era in grado di saltare in modo così veloce da salvarsi. Aggrottando la fronte, Thomas scrutò il cielo, dove le nubi si stavano ancora disperdendo, invece di radunarsi come il giovane avrebbe supposto. «Non mi hai detto che c'era una nuova tempesta, ogni volta che la Pietra cambiava proprietario, e che un fulmine colpiva la Pietra stessa? Se è come mi hai detto, basta aspettare, e la nostra fata morgana verrà carbonizzata.» Si erano fermati a una decina di metri dal miraggio. Olanthe scosse la testa. «La tempesta» spiegò «si ha solo quando la Pietra passa a un altro essere umano o a una creatura che, come i rettili, è capace di parlare.» La Pietra era a poca distanza dalla riva del falso laghetto, appena sotto la
superficie. Pareva facilissimo fare un passo avanti e raccoglierla. Dallo zaino, Thomas prese una matassa di corda e fece un nodo scorsoio; poi cercò di scagliarlo attorno al cofanetto. Il cappio attraversò senza alcun rumore la superficie dell'"acqua" e poi, all'improvviso, venne afferrato da qualcosa che fece tendere la corda. Thomas piantò i calcagni nella sabbia; Olanthe accorse ad aiutarlo con la sua esile forza muscolare, ma presto si videro trascinare verso il laghetto e dovettero lasciare la presa. Dall'esterno della zona di pericolo, i due guardarono affascinati la corda sparire nel laghetto come se si fosse trattato di un serpente. Ma, evidentemente, la fata morgana non dovette trovare di suo gusto la corda: pochi istanti più tardi, la pianta tornò a sputarla fuori, sotto forma di un gomitolo e alquanto malconcia. Finì a una decina di metri di distanza. Olanthe suggerì di coprire di sabbia o di sassi la pianta carnivora. Ma la sabbia venne ricacciata indietro molto più rapidamente di quanto non riuscissero a versarla da una distanza di sicurezza. E non c'erano a disposizione pietre. «Se solo sputasse via la tua Pietra, come fa con la sabbia e con la corda» brontolò Thomas. «Ma no, deve avere un particolare gusto per la magia.» Ora che aveva trovato la Pietra, il compito di recuperarla non pareva preoccupare eccessivamente Olanthe. La ragazza disse: «Allora, uno di noi cercherà di distrarre la creatura, mentre l'altro farà una corsa e afferrerà la Pietra.» «E la cosa ti sembra facile? O sei stanca di vivere?» «La Pietra è la vita della gente dell'Oasi» disse lei, guardandolo con superiorità. «Comunque, sarò io a espormi al pericolo, per creare la distrazione. La Pietra è mia; il rischio maggiore spetta a me. E il vostro piano di prenderla al laccio non ha funzionato.» L'ultima accusa era inconfutabile, ma Thomas non capì come si collegasse logicamente al nuovo piano. Prima di riuscire a capirlo, comunque, si trovò a chiedere insistentemente di essere lui a creare la distrazione, anche se, a dire il vero, entrambi i ruoli parevano pericolosi allo stesso modo. Che non fosse tutto un trucco della ragazza, per fargli assumere la parte che gli aveva assegnato fin dall'inizio? Tutto qui, puro e semplice? Dopo avere discusso il piano, Thomas e Olanthe si separarono, poi si accostarono al laghetto, in apparenza tanto innocente, da lati diametralmente opposti. A un segnale convenuto, Thomas corse avanti, urlando a squarciagola.
In una mano teneva il coltello, nell'altra la matassa di corda sputata via dalla pianta, che lui aveva parzialmente svolta. Si fermò all'ultimo istante, e si gettò a quattro zampe sulla sabbia. Poi allungò il braccio e colpì con la corda la superficie del miraggio. Gli parve che il trucco potesse funzionare, perché la creatura sotto di lui afferrò nuovamente la corda che aveva già scartato una volta. Olanthe fu molto svelta, e scattò al momento giusto. Purtroppo, però, si lasciò sfuggire di mano la Pietra mentre la stava sollevando, e fu costretta ad afferrarla una seconda volta. Guardando dal lato opposto della depressione, Thomas vide per la prima volta i tentacoli mortali della pianta quando scattarono al di sopra della superficie dell'illusione e si avvolsero con straordinaria rapidità attorno al corpo della giovane. Thomas lanciò un urlo. Fece il giro del laghetto e si gettò nella lotta, sferrando colpi di coltello. Solo quando si trovò avvolto in modo inestricabile si accorse che, incredibilmente, i lacci mortali non erano riusciti a trattenere la ragazza, che si stava allontanando senza danni. Ma non ebbe il tempo di chiedersi come avesse fatto, perché la sua situazione era molto più grave. La pianta lo aveva afferrato per la vita e per la testa. Thomas riuscì a tagliare uno dei tentacoli resistenti ed elastici, ma venne circondato da altri due, con le ventose assetate di sangue. Uno gli si avvolse attorno al braccio destro, in cui teneva il coltello. Non poteva muovere la mano sinistra, bloccata dietro la schiena. Thomas era disteso sulla sabbia e solo i suoi piedi, disperatamente ancorati al suolo, gli impedivano di farsi trascinare verso la morte. La superficie apparente del miraggio, simile ad acqua, era del tutto svanita, perché la pianta carnivora dedicava tutte le energie a trascinare la preda ostinata. Quando, per resistere alla trazione dei tentacoli, fu costretto a rialzarsi, Thomas vide l'intera cavità: dove l'illusione aveva solo mostrato un fondo sabbioso, si scorgevano ora il nido di bocche frementi e i mucchi di ossa di animali spolpate. Thomas gridò qualche parola. Vide che la ragazza, con un'aria di profonda preoccupazione, tuffava la mano nel proprio zaino. Quando la trasse fuori, conteneva un oggetto grigio, ovale; glielo porse. «Prendete questo!» Per prendere in mano l'oggetto che la ragazza gli cacciava fra le dita, Thomas dovette lasciare il coltello, ormai inutile. L'oggetto era duro e pe-
sante; prima di chiedersi come dovesse usarlo, il giovane si accorse che i tentacoli della fata morgana non lo stringevano più. Era come se sulla sua pelle e sui suoi vestiti fosse improvvisamente comparsa una patina d'olio o di ghiaccio. In un istante riuscì a liberarsi e ad allontanarsi di molti metri. Cadde sulla sabbia e continuò ad ansimare mentre i tentacoli, frustrati nella loro ricerca, ondeggiavano sconsolati e poi si ritraevano. Olanthe, con la Pietra del Tuono ancora chiusa nel cofanetto ammaccato sotto il braccio, s'inginocchiò accanto a lui. Tese la mano per farsi dare la Pietra grigia che era ancora in mano a Thomas, ma il giovane, invece di riconsegnargliela, l'afferrò per il polso. «Un momento, ragazza. Tira fuori un'altra Pietra e distruggimi, se vuoi, ma prima voglio alcune spiegazioni.» Ma poi, quando vide che la ragazza non rispondeva e si limitava in silenzio a cercare di liberarsi, la lasciò andare. A quel punto, Olanthe si sedette sulla sabbia, accanto a lui, e disse, in tono di scusa: «Io... non ho altre Pietre. Non ce ne sono altre.» «Ah. È già qualcosa. Mi sento meglio. Se fosse l'Oasi delle Dodici Pietre, non saprei cosa...» S'interruppe e scrutò il cielo. «Il sole» disse «si sta di nuovo oscurando. Suppongo che tra poco dovremo aspettarci un altro fulmine.» Lei, con aria infastidita, agitò la mano sottile. «Sì, certo» rispose «dato che la Pietra del Tuono è passata nuovamente di mano quando è tornata a me. Ma non c'è nessun pericolo. La lascerò qui sulla sabbia: noi ci allontaneremo un poco e aspetteremo. Poi, dopo che sarà stata colpita, potrò portarla via tranquillamente.» «Posso suggerirti di lasciarla a una buona distanza dalla fata morgana? In questo modo, non dovremo più... eh? E visto che non abbiamo niente da fare mentre aspettiamo che finisca la pioggia, potresti spiegarmi le virtù della seconda Pietra?» Le nubi si stavano rapidamente addensando. Thomas e Olanthe, con i vestiti ancora bagnati dalla pioggia di poco prima, lasciarono la Pietra del Tuono in una piccola cavità tra le dune e si allontanarono di varie decine di passi, per poi sedere sotto il riparo, alquanto scarso, di un arbusto del deserto. Olanthe disse d'un fiato: «Non volevo farvi conoscere la Pietra della Libertà. Se fossi stata sola, mi sarei semplicemente diretta verso la fata mor-
gana e avrei ripreso il cofanetto.» «Certo. Adesso lo capisco.» «Mi spiace. Quelle ventose, non vi hanno mica succhiato il sangue? No? Bene. Comunque, adesso conoscete i nostri segreti, e io devo fidarmi di voi. All'Oasi ci occorre aiuto. Gli invasori sono... non riusciamo più a sopportarli.» «E chi li sopporta? Può darsi che tra noi ci si possa aiutare.» Cominciò a piovere. Thomas rifletté per qualche tempo, poi disse: «Parlami delle Pietre.» L'origine delle due Pietre, spiegò Olanthe, si perdeva nel più lontano passato. Fin dall'inizio della storia dell'Oasi, i suoi contadini le possedevano entrambe. La gente dell'Oasi era sempre vissuta in armonia, lieta del proprio isolamento dal resto del mondo, anche se aveva sempre accolto in modo amichevole i visitatori e i viaggiatori esausti giunti dal deserto. Il segreto delle due Pietre non era mai uscito dall'Oasi. Il terreno del deserto era ricco, e gli mancava solo l'acqua. E quando i campi dell'Oasi avevano bisogno di pioggia, colui che in quel momento possedeva la Pietra del Tuono la dava al proprio vicino. In questo modo, la pioggia corrispondeva esattamente alle necessità della terra ed erano sconosciute sia la siccità, sia l'alluvione. L'altro talismano, chiamato Pietra della Libertà o Pietra del Prigioniero, veniva tenuto nascosto e solo gli anziani dell'Oasi ne conoscevano l'esistenza. Non rivestiva molto interesse agli occhi delle persone oneste, finché la libertà regnava sulla regione. Poi gli orrendi invasori erano giunti dall'Est, ed erano troppo forti perché si potesse opporre loro resistenza. Gli anziani dell'Oasi, in qualche modo, erano riusciti a mantenere il segreto su entrambe le Pietre. «Ahimè, fu il mio stesso padre a rompere il patto di segretezza. Oh, non lo fece per aiutare gli invasori; anzi, proprio il contrario.» Dopo avere così parlato, Olanthe s'interruppe per un istante, abbassando gli occhi, mentre la pioggia prendeva a scenderle dal largo cappello. «Che cosa successe?» chiese Thomas, togliendosi la pioggia dalla fronte. Stava diventando un deserto molto umido. Pensò con piacere alla prospettiva che una certa pianta della fata morgana potesse essere la prima della sua specie a morire affogata. Olanthe si era appoggiata le mani sulle ginocchia e le guardava fissamente. «Il comandante della guarnigione...» disse. «Ecco, lui voleva...»
«Qualcosa che ti riguardava.» «Sì, voleva me.» Annuì e tornò a sollevare la testa. «Ma io non volevo, e lui ha fatto delle minacce...» Rimase in silenzio finché Thomas non le prese la mano. «Allora...» Dovette schiarirsi la gola e ripetere la parola. «Allora, mio padre... per caso era lui, in quel momento, ad avere la Pietra del Tuono. La disseppellì dal nascondiglio...» A una cinquantina di passi da loro, il fulmine colpì la Pietra. Anche se se lo aspettava, Thomas sobbalzò e si sentì fremere i denti e le ossa. «Fingendo di volersi guadagnare i suoi favori, la portò al comandante della guarnigione. Mio padre finse di essere compiaciuto che quel maiale avesse posato gli occhi su di me. Gli disse che la Pietra era legata alla pioggia che cadeva sull'Oasi, ma naturalmente si guardò bene dall'accennare al fulmine. «Si trovavano nel quartiere degli invasori, in quello che in precedenza era un parco. Più tardi, mio padre mi raccontò che sentiva il fulmine sulla loro testa, mentre erano lì fermi a chiacchierare, e che lui sorrideva al suo nemico, l'uomo che voleva... Poi il comandante si allontanò con la Pietra del Tuono sotto il braccio, attraverso la piazza d'armi, diretto verso la propria abitazione. Non finì mai il percorso.» Thomas annuì, stringendole leggermente la mano. La ragazza proseguì: «L'indomani, un armigero raccolse da terra la Pietra e la portò a colui che era in precedenza il vice comandante, e che adesso aveva il comando. «Capirono che si trattava di un oggetto magico, ma non capirono altro. Prima che sulle loro teste si potesse formare una nuova tempesta, infilarono la Pietra del Tuono nella borsa di un rettile corriere e la inviarono ai maghi del castello. «Noi ce ne accorgemmo perché vedemmo che la tempesta, nell'addensarsi, seguiva il volo del rettile, sul deserto. Sapevamo che la tempesta l'avrebbe raggiunto prima che arrivasse al castello, e qualcuno doveva inoltrarsi nel deserto per recuperare le Pietra, prima che cadesse nuovamente in mano a degli estranei o a dei nemici. «Senza la Pietra, l'Oasi finirebbe per mancanza d'acqua.» «E tu, come sei stata scelta?» «Una ragazza può cercare bene quanto un uomo. E altri nemici... altri nemici mi si metteranno alle costole, ora che il vecchio comandante è morto. E mio padre potrebbe ripetere il gioco... con il rischio di distruggerci tutti.
«Gli anziani hanno accettato di mandarmi e mi hanno affidato la Pietra della Libertà, che abbatte ogni barriera e scioglie ogni legame. Adesso, in qualche modo devo riportare all'Oasi la Pietra del Tuono e poi... non so che cosa farò.» «Capisco» disse Thomas. Cambiò posizione, dentro i vestiti fradici. La pioggia stava di nuovo cessando. La Pietra del Tuono non si era spostata molto, quando era stata colpita dall'ultimo fulmine: il giovane la vedeva, un piccolo grumo nero sullo sfondo della sabbia. Porse a Olanthe la Pietra della Libertà. «Le Pietre sono tue» disse. «Ma spiegami, a che cosa servono... a che cosa serve la vita stessa... al tuo popolo, se gli invasori sono sulla nostra terra? Olanthe prese la Pietra.» «Che cosa possiamo fare?» chiese. «Che cosa volete dire? Se non riporterò all'Oasi la Pietra, moriremo tutti.» «Per qualche giorno, l'Oasi può farne a meno. E ricorda questo: finché è qui, il nemico può trovarla, capire che cos'è, servirsene per dominarvi ancor di più.» Olanthe chiese di nuovo, in tono implorante: «Che cosa possiamo fare?» Thomas sorrise. Si alzò in piedi, mentre il sole usciva di nuovo dalle nuvole. «Qualche suggerimento potrei darvelo io stesso. E conosco persone capaci di darne altri. Accompagnami nelle paludi!» 8 CHUP Benché stordito dal colpo alla testa, Rolf capì che i soldati lo ritenevano soltanto un ladro, che aveva cercato di salire a bordo di uno dei barconi del fiume. Non gli fecero domande e lui non disse parola. Con i piedi incatenati tra loro e le mani dolorosamente legate dietro la schiena, fu condotto in un posto di comando nascosto tra gli alberi, sulla riva del fiume. La testa gli doleva: si limitò a sedere sul terreno e a non pensare a niente. C'erano troppi armigeri perché avesse qualche speranza di liberarsi, e quegli uomini parevano sgradevolmente capaci di fare il loro lavoro, mentre si occupavano delle routine quotidiane. Alla prima luce dell'alba ci fu il cambio della guardia. Gli armigeri che avevano catturato Rolf gli legarono una corda attorno al collo, gli sciolsero
le gambe e lo portarono per la strada che andava al castello, legato dietro il cavallo come un piccolo animale condotto dal macellaio. Il viaggio non fu lungo. La strada seguiva per mezza lega la sponda occidentale del Dolles, e s'incontrava con varie altre strade dirette al passo. Presto anche il passo divenne visibile, con in primo piano il villaggio e il suo ponte, e, in alto, la fosca sagoma del castello. Nell'attraversare il ponte, Rolf alzò lo sguardo verso nord-est e osservò le rocce alte e lontane che, solo il giorno prima, l'avevano nascosto dentro di sé. Ora però vi scorse uno spettacolo che non fece che accrescere la sua disperazione: le rocce e l'aria sovrastante erano coperte di rettili, fitti come sciami di mosche attorno a un pezzo di carne marcia. E sul pendio marciava una compagnia di armigeri, simili a formiche color bronzo e nero. Il nemico, allora, aveva trovato la caverna. Non c'era altra spiegazione. Rolf abbassò gli occhi sul ponte che aveva sotto i piedi, ma non pensò più a quel che aveva attorno. Tutto era perduto. Giunti sul ponte, gli armigeri cominciarono ad allentare la vigilanza. Nella piazza del villaggio semideserto, si fermarono e si misero in ordine l'uniforme, evidentemente per prepararsi a entrare nel castello. Rolf continuò a fissare con occhi vacui la coda del cavallo a cui era legato, finché la sua attenzione non venne richiamata da un movimento che gli parve di scorgere con la coda dell'occhio. La locanda del villaggio - una costruzione in legno di due piani - evidentemente era ancora in affari, perché sul suo porticato erano fermi due uomini. Si sentì balzare il cuore in petto nel riconoscere Mewick. Non c'era possibilità di errore, anche se un'abbondante aggiunta di fili grigi ai suoi capelli neri l'aveva invecchiato di vent'anni... e l'aveva invecchiato in modo quanto mai convincente, pensò Rolf, nel contemplare la serietà dell'espressione di Mewick. Ora, però, il mantello era sparito, e così pure lo zaino del venditore di amuleti. Mewick indossava abiti relativamente di lusso e ricordava a Rolf certi mercanti da lui visti occasionalmente, che si diceva venissero da lontane isole del mare. Rolf distolse lo sguardo, mantenendo quanto più vacua possibile la propria espressione. Un solo errore in quel momento, e Mewick sarebbe finito al suo fianco, legato, ed entrambi sarebbero andati incontro a un destino assai più spiacevole di quello che poteva toccare a un semplice ladro. Disperatamente, Rolf cercò di escogitare qualche modo per trasmettere a Mewick le sue nuove conoscenze dell'Elefante.
Il porticato della locanda era a una decina di passi da lui. Sentiva la conversazione tra Mewick e un uomo obeso - forse l'oste - sui problemi del commercio e del trasporto, sulla presenza dei banditi. Mewick pareva triste come sempre. "Speriamo che chieda qualcosa degli armigeri che sciamano sull'altro versante del passo, speriamo che chieda qualcosa a cui io possa rispondere con un 'sì' o con un 'no', e io gli risponderò con un cenno della testa" pensò Rolf. Ma Mewick non rivolse alcuna domanda di quel genere: o non ne ebbe il coraggio, o non riuscì a pensare a nessuna domanda utile che potesse suonare del tutto innocente. Non ci riuscì neanche Rolf. Quella sera stessa, nelle carceri del castello, gli sarebbero certo venute in mente dieci domande che Mewick gli avrebbe potuto rivolgere. O qualche modo diverso per passarsi le informazioni. Ma, se non altro, Mewick lo aveva visto: gli amici sapevano quel che gli era successo. Guardando fisso innanzi a sé, Rolf fece solo un cenno d'assenso con la testa. Ormai gli armigeri erano pronti, e ripresero a trascinarlo dietro di loro. Usciti dal piccolo villaggio, la strada prendeva a salire, consumata dal quotidiano passaggio di un esercito. Le pareti e le torri del castello erano ormai vicine e s'ingrandivano sempre più. La porta principale era aperta e la saracinesca assomigliava più che mai ai denti di una grande mascella. In un cortile interno, nei pressi delle stalle, Rolf venne sciolto dei legami e fu consegnato ad alcune guardie che non portavano né l'elmo di bronzo né la spada, ma solo un mazzo di chiavi e un corto bastone infilato nella cintura. Queste lo spinsero dentro una porticina, ai piedi del maschio, e da essa, per una rampa di scalini umidi e consumati, lo fecero scendere nei sotterranei. Laggiù il passaggio diventava orizzontale, buio, stretto. Vi si affacciava una doppia fila di celle, chiuse da pesanti cancelli di ferro. Una parte delle celle era affollata di figure spettrali, mentre un'altra parte era vuota: evidentemente in attesa del ritorno degli schiavi che lavoravano in qualche piano superiore. Il puzzo era superiore a quello di qualsiasi stalla conosciuta da Rolf. Con un calcio assestato con indifferenza, il giovane venne spedito a raggiungere i corpi apatici di una delle celle, e la porta gli venne chiusa alle spalle. La luce del mattino, che entrava con tanta fatica nei sotterranei, faceva altrettanta fatica a superare i ricchi tendaggi che coprivano le finestre in
cima alla torre. Quel giorno non fu la luce del sole a svegliare il satrapo Ekuman, ma un brusio di voci eccitate, all'esterno della sua camera da letto. Sbattendo gli occhi, si rizzò a sedere nell'ampio letto. Quando la sua concubina della notte, che dormiva raggomitolata come una morbida bestia ai piedi del padrone, fece un movimento che gli impediva di stirarsi, lui le assestò un calcio, con irritazione. Sceso dal letto, si drappeggiò sulle spalle una vestaglia di pelliccia, poi dovette perdere qualche istante per annullare la difesa magica che proteggeva dall'interno la sua camera da letto, prima di chiedere perché fossero venuti da lui a quell'ora. Le guardie lasciarono passare il Maestro dei Rettili. Era un uomo di bassa statura, il cui comportamento era di solito assai flemmatico. Ma ora gli brillava in faccia un'espressione di trionfo: lo stesso Ekuman, nel vederla, sentì accendersi le sue speranze, prima ancora che l'uomo aprisse bocca. «Sire, vi abbiamo trovato l'Elefante!» Ciò detto, il Maestro si affrettò a fornire tutta una serie di spiegazioni, come gli chiedeva l'espressione di Ekuman: aveva diligentemente svolto indagini sul rapporto che gli era giunto, il giorno precedente, di uno strano mormorio, udito dai rettili, proveniente dal sottosuolo, sul versante settentrionale del passo. E sul fatto che i cavalieri fossero stati attaccati dagli uccelli, durante le manovre che si erano svolte in quella zona la notte precedente... «L'Elefante, l'Elefante!» sbottò Ekuman. «Avete notizie, o no?» «Sì, Sire!» All'alba, il Maestro aveva inviato orde di rettili verso quelle rocce, ordinando di esaminarle palmo per palmo, strisciando, se era necessario, per trovare l'origine dello strano rumore. E i rettili avevano trovato, per prima cosa, l'ingresso di una caverna, con ancora le tracce della recente presenza di almeno un essere umano, e anche di uccelli... Guardando la faccia del suo Signore, il Maestro dei Rettili trangugiò alcune parole e si affrettò a condensare ancor di più la sua storia. Un rettile aveva infine visto l'Elefante nella caverna: una cosa di metallo, grande come una casa e con il familiare simbolo dipinto sui fianchi. «Benissimo. Sarete ben ricompensato, se quanto avete detto risulterà vero.» Poi Ekuman gettò all'uomo un anello con una pietra preziosa, in pegno di altri doni a venire. Infine il satrapo, anche se era semisvestito, scese fino
al piano più basso della torre. Laggiù una porta dava accesso al tetto del maschio, da cui si godeva di un'ottima vista dell'opposto versante del passo. Il Maestro dei Rettili, che si crogiolava del favore di cui era venuto a godere presso il suo signore negli ultimi tempi, gli correva dietro. E presto, Ekuman sapeva, sarebbero comparsi anche gli altri suoi diretti subordinati, non appena giunta loro la notizia della grande scoperta. Infatti, Ekuman ebbe appena il tempo di posare le mani sul parapetto nord che gli giunse,' dalla scala, il rumore di molte persone che salivano. Voltandosi, vide che arrivava il Maestro degli Armigeri, accompagnato dai suoi ufficiali e dai suoi aiutanti di campo. Fissando accigliato il Maestro degli Armigeri - un vecchio soldato robusto dai capelli grigi, chiamato Garl - Ekuman chiese: «Che cosa fanno, laggiù, tutti quegli uomini?» La faccia di Garl, pronta a unirsi al trionfo del suo signore, ridivenne improvvisamente seria. «Sire» disse «stiamo... consolidando la posizione, in vista di una possibile azione nemica. E attendo il vostro ordine per inviare qualche uomo nella caverna stessa.» Ekuman annuì. «Meglio aspettare il mio ordine, prima di intraprendere un simile passo.» Zarf era giunto proprio in tempo per udire le ultime parole. «Sire» si offrì «sarebbe bene che scendessi io per primo, nella caverna...» Poi accennò un leggero inchino, mentre il mago più anziano arrivava dalle scale, con il fiato corto. «...O Mastro Elslood, ovviamente» continuò Zarf. «Se la sua presenza non è necessaria altrove.» Ekuman distolse lo sguardo dai suoi maghi. Elslood e Zarf erano saldamente sotto i suoi ordini, e tramite i due maghi lo erano tutti gli altri. Eppure aveva sentito di altri satrapi che erano altrettanto saldi nel loro potere, ma che erano stati rovesciati da intrighi scoppiati nella loro stessa casa. Som dei Morti non si curava della sostituzione, se l'usurpatore lo serviva con fedeltà pari o superiore. Di conseguenza, Ekuman non intendeva affidare ad altri che a se stesso il controllo di un potere grande come quello dell'Elefante. O, almeno, intendeva rimandare la scelta finché non avesse conosciuto meglio l'Elefante, che finora conosceva soltanto attraverso. quel poco che i maghi erano
riusciti a dirgli. Ekuman disse a Garl: «Segnalate immediatamente agli uomini sull'altro versante del passo. Nessun essere umano dovrà entrare nella caverna finché io stesso non avrò dato l'autorizzazione.» I segnali vennero prontamente trasmessi. Poi, notando sullo sfondo il Maestro dell'Harem, Ekuman si ricordò di un'altra cosa da fare. Rivolse un cenno all'eunuco e gli disse: «La ragazza della scorsa notte si è comportata senza il minimo brio. Liberatevi di lei.» «Subito, Sire.» Poi l'eunuco si portò la mano dietro la schiena e con un gesto teatrale fece uscire una piccola figura snella, abbigliata di una veste da harem. Fino a quel momento, la ragazza era rimasta nascosta dietro la sua mole. «Penso che questa ragazza sarà assai vivace, Sire» disse l'eunuco. «È stata portata due giorni fa, e per mio ordine è stata esaminata attentamente e riservata a voi.» «Uhm.» Anche se era occupato con altre cose, Ekuman dedicò qualche istante alla ragazza. Bruna e molto giovane, e certo attraente. Arrossì quando l'eunuco le aprì la veste. Zitta, ma abbastanza coraggiosa da fissarlo con odio... sì, era interessante. «Bene. Ma non è il momento di pensare all'harem.» Con un gesto della mano, congedò l'eunuco. Il Maestro dei Rettili era adesso al fianco di Ekuman. Con un colpetto di tosse per ribadire la sua nuova importanza, chiese: «Sire? Desiderate che prepari un corriere da inviare all'Est? Con la notizia della nostra scoperta?» Quell'uomo era già diventato presuntuoso. Ma Ekuman avrebbe lasciato che si pavoneggiasse ancora per un po', in modo che la correzione, quando fosse giunta, potesse essere ancor più precisa e salutare. «No» disse. «Non intendo ancora comunicare questa scoperta. Prima, voglio sapere con esattezza che cosa è stato trovato laggiù.» Se il potere dell'Elefante corrispondeva alle aspettative, era possibile che Ekuman, avendolo a disposizione, un giorno potesse addirittura guardare l'Est senza prostrarsi a terra nel modo più abbietto e servile... no, non doveva neppure pensare a una cosa simile. Per ora. Dalla direzione della scala che portava al terrazzo, una sonora voce maschile disse: «Ehi, il più bel bocconcino che ho visto nell'ultimo mese!» Ekuman tornò a voltarsi, per salutare il satrapo suo vicino nonché prossimo genero: Chup poneva piede in quel momento sul terrazzo, a fianco della bionda Charmian. Ekuman sapeva leggere perfettamente le espres-
sioni del viso della figlia; guardandola ora, ebbe la chiara impressione che l'inopportuno commento, sulle grazie della nuova giovane schiava bruna, in futuro avrebbe finito per costare a Chup qualche momento di pace, se non di più. La principale sensazione che provava Ekuman quando pensava al prossimo matrimonio della figlia era di sollievo; era così dedita alle ripicche e alle piccole malvagità che la sua partenza, senza dubbio, avrebbe liberato la casa di un intero vortice di piccoli intrighi. Anzi, Ekuman pensava con una certa soddisfazione che la presenza di Charmian avrebbe finito per indebolire Chup e che questo prometteva bene per le sue ambizioni. Si continuava a sentir dire che presto uno dei satrapi della costa potesse essere elevato al rango di sovranità sugli altri. Erano solo voci, forse diffuse ad arte, per mantenerli in competizione tra loro nel servizio dell'Est, ma non si sa mai... Chup si affiancò a Ekuman. Era alto, con il fisico da guerriero, e indossava una ricca veste rossa e nera; si appoggiò al parapetto e osservò l'attività degli uomini e dei rettili, sul versante settentrionale del passo. Ekuman disse, come se volesse conversare: «Pensavo, fratello, che questo pomeriggio potrei uscire a cavallo, per osservare questa caccia al tesoro che occupa i miei uomini. Senza dubbio ne avrete sentito parlare. Se vorrete venire a cavallo con me, naturalmente, sarete il benvenuto.» Ekuman gli aveva rivolto l'invito in modo da offrirgli la possibilità di accettare o di rifiutare cortesemente, e Chup scelse la seconda. «Naturalmente, fratello maggiore, la vostra compagnia è sempre un piacere» rispose. «E una cavalcata, anche se solo per andare a curiosare fra delle pietre, sarebbe sempre un buon esercizio. Ma, a meno che voi...» Ekuman finse di ricordarsi improvvisamente di un particolare. «In realtà» disse «era un suggerimento alquanto misero, come modo di divertirvi. Però ne ho un altro, molto più adatto a un guerriero. Come sapete, vorrei preparare qualche incontro di gladiatori per il giorno fatidico... niente di professionistico, solo qualcuno di quei robusti ragazzi di campagna...» «Mi piace veder combatterre i dilettanti, se hanno un po' di fuoco» disse Chup. «Lo pensavo. Fratello Chup, vorreste degnarvi di visitare i sotterranei con il mio Maestro dei Giochi? Sono certo che nessuno dei miei uomini riuscirebbe a scegliere i combattenti meglio di voi. Potreste addirittura trovarne qualcuno già addestrato... o, se così non fosse, sono certo che sa-
preste riconoscere di primo acchito la capacità grezza...» Chup annuiva, anche se con scarso entusiasmo, mentre Ekuman lo pilotava verso la scala. Il Maestro dell'Harem li seguiva, serrando fermamente nella mano massiccia il braccio della schiava dai capelli neri. Charmian, la cui faccia celestiale era sfigurata da una delle sue meschine collere, li guardava allontanarsi e aveva gli occhi di fuoco. Infine la principessa rimase sola sul terrazzo, a parte la sua cameriera privata... e un'altra persona. Il mago Elslood si fermò davanti a Charmian e chinò leggermente la grande testa grigia. Vedeva con quanto odio la principessa guardasse la bella schiava bruna. «Mia Principessa?» Charmian rivolse lo sguardo verso di lui. Dagli occhi le scomparve l'odio, ma rimase irrimediabilmente distante come sempre. «Che c'è?» gli chiese. Presto la principessa sarebbe partita, e lui non avrebbe potuto seguirla. Però, finché fosse stata al castello, Elslood avrebbe corso grandi rischi, per nient'altro che per la semplice speranza di compiacerla. Era la sua maledizione, e il mago non poteva farci niente, salvo che cercare di nasconderla agli occhi di tutti; anzi, non poteva neppure fare quello, pensò, sentendosi sprofondare, quando vide che la cameriera sorrideva apertamente di lui. «Riguarda la nuova schiava dell'harem» disse Elslood. «Forse, mia principessa, una notizia di cui sono venuto casualmente a conoscenza potrebbe contribuire a procurarvi un divertimento...» Nell'ascoltare il mago, Charmian cominciò a sorridere. Seguendo il gioviale Maestro dei Giochi e il cupo Maestro delle Carceri lungo i bassi corridoi, Chup arricciò il naso e cercò di trattenere il respiro a causa del gran lezzo. Finora, di fronte agli aspiranti gladiatori che gli avevano mostrato, la sua unica reazione erano state alcune frasi sprezzanti. Forse in passato erano davvero robusti ragazzi di campagna, ma ormai erano rimasti per troppo tempo a marcire nelle loro gabbie. Chup aveva l'impressione che tutti quelli sani fossero fuori, a scaricare barche o a costruire muri. Puah! A che cosa serviva chiudere gli uomini in gabbia come faceva Ekuman? Se erano persone inutili e disobbedienti, meglio ucciderle. Se invece si voleva ottenere da loro del buon lavoro, occorreva dar loro aria fresca e nutrirli, come si faceva con i cavalli da tiro e con le bestie di un certo valore.
Chup non aveva ancora compiuto il pellegrinaggio all'Est, non aveva ancora giurato obbedienza a Som dei Morti e agli altri misteriosi padroni. Pensava che prima o poi ci sarebbe andato; forse presto. Ogni uomo deve servire qualche padrone, o, almeno, così pareva andare il mondo. Charmian insisteva perché lui andasse, perché dicesse ai suoi maghi di occuparsi della cosa. Charmian... perché gli era venuto in mente di sposarla? Aveva donne a sufficienza... certo, ma nessuna così bella. E il più grande guerriero deve avere la principessa più incantevole: era una delle cose per cui gli uomini combattevano. Così, ancora una volta, pareva andare il mondo. Il carceriere si fermò davanti a un'ennesima cella buia e puzzolente e rammentò con educazione a Chup come non avesse ancora scelto alcun gladiatore: «Consiglierei a Vostra Signoria di scegliere fin d'ora i prigionieri che intende riservare per i ludi gladiatorii. Credo che presto arriverà il Maestro delle Opere Murarie per portare via tutti coloro che sono ancora in grado di smuovere delle pietre.» E poi, nell'accorgersi che il Maestro dei Giochi gli aveva rivolto un'occhiataccia, l'uomo piombò improvvisamente nel silenzio. Probabilmente, pensò Chup, nuove squadre di lavoro dovevano essere mandate sull'altro versante del passo, ad aprire l'ingresso di qualche caverna, ma non bisognava parlarne davanti a un visitatore. Chup aveva una buona idea di quel che fosse la ricerca dell'Elefante e, naturalmente, gli sarebbe piaciuto saperne di più. Inoltre, sapeva che se fosse partito a cavallo con lui, Ekuman lo avrebbe tenuto accuratamente lontano dai posti dove c'era qualcosa di importante da vedere. Ma il giovane satrapo era certo di venire a conoscenza, a tempo debito, di tutto quel che avrebbero trovato. Charmian, che certamente poteva dargli una mano, era ansiosa di divenire la regina di un sovrano supremo. Ai maghi di Chup era giunta voce che presto si contava di innalzare a tale onore uno dei satrapi della costa... «Questo gruppo è un po' più fresco degli altri» disse speranzosamente il carceriere, guardando nella cella. Chup fiutò l'aria. «Il profumo è lo stesso» commentò. La cella era piena: una decina di uomini che a una prima occhiata non parevano granché; ma, in quel genere di cose, un'occhiata non era mai sufficiente. Chup era sempre affascinato dalla lotta e dai lottatori, anche se solo potenziali. Accanto a lui, il Maestro dei Giochi cominciò ad arringare quel
mucchio di disgraziati: «Su, miei coraggiosi, alzate la mano, chi fa un passo avanti per cogliere la sua grande occasione di gloria?» eccetera eccetera. Se Chup si fosse trovato in una cella, non ne avrebbe creduto una sola parola, neppure per un istante. Né, a dire il vero, parvero credergli i prigionieri nella cella, anche se, ragionevolmente, se ci fosse stato tra loro un vero uomo, non si sarebbe lasciato scappare quella possibilità, sia pur minima, di vendicarsi del proprio destino ingrato. D'impulso, Chup intervenne. «Aprite la porta» ordinò. Bruscamente interrotto nel bel mezzo della sua concione, il Maestro dei Giochi lo guardò con stupore, e così pure il carceriere, ma il tono e l'atteggiamento del satrapo erano talmente autoritari che non ci fu bisogno di ripetere l'ordine. Mentre il carceriere faceva ruotare sui cardini una parte del cancello, Chup estrasse la spada dal fodero e la posò fra il sudiciume del pavimento. Naturalmente, non era la preziosa spada con cui aveva vinto tante battaglie: non l'avrebbe mai trattata a quel modo. Era una lama da parata che portava nelle occasioni ufficiali; ma, com'è ovvio, era ben temprata e affilata. Tutti lo guardavano a bocca aperta. «Ora, prestatemi questo» disse. E prese, dalla cintura dello stupefatto guardiano, il corto manganello. Ne saggiò l'impugnatura, provò a vibrare qualche colpo nell'aria. Poi abbassò il braccio. Si rivolse alle facce torpide, incredule, all'interno della cella. «Voi uomini, lì dentro. O quello che siete. Se tra voi c'è un uomo, che esca fuori e che raccolga questa lama.» Con la punta dell'elegante calzare, spinse avanti, di mezzo palmo, l'elsa della spada. «Siamo alla fine del corridoio, e potete mettervi con le spalle al muro e cercare di colpirmi... I miei accompagnatori ci lasceranno tutto lo spazio necessario, non ne dubito. Allora?» Nessuna risposta. «Via, via, avete paura di sporcarmi questi bei vestiti? Allora, lasciate che vi dica una cosa. Ho violentato una decina delle vostre sorelle questa mattina stessa, prima ancora di fare colazione. La spada è vera. Cosa pensate, che mi abbassi a fare degli scherzi a una marmaglia come la vostra...? Oh,
vedo che c'è un galletto con ancora un po' di sangue nelle vene, anche se avrei preferito un uomo adulto.» Mettendo lentamente un piede davanti all'altro, Rolf uscì dalla cella. Non appena fu uscito, il guardiano fece un balzo e si affrettò a chiudere la porta. Forse Rolf era posseduto dal potere di Ardnih, forse solo da quello dell'odio, ma nel suo cuore non c'era posto per la paura. Senza staccare lo sguardo dagli occhi di Chup, si accoccolò sulle ginocchia e poi si alzò di nuovo, con ben stretta, nella mano destra, l'impugnatura della spada. L'arma pareva meravigliosamente mortale: era più lunga e più pesante dell'unica altra spada che il giovane avesse mai impugnato. Il carceriere e il Maestro dei Giochi si tirarono indietro; con aria diffidente e offesa, protetti dalla mole del satrapo, contemplarono l'inusitata creatura, un prigioniero armato. In un altro momento, nel vedere la loro espressione, Rolf sarebbe scoppiato a ridere. Il Maestro dei Giochi aveva cominciato a sollevare la mano, come se volesse tirare per la manica il satrapo Chup, ma poi si era interrotto a mezz'aria, intimorito; il carceriere continuava a brontolare che bisognava far venire due armigeri con le picche. Lo sguardo di Chup era inchiodato in quello di Rolf, come se tra loro ci fosse un'arcana risonanza. Sulla faccia dell'alto satrapo compariva un'esaltazione che in precedenza era assente. Senza voltarsi, rispose al brusio dei suoi accompagnatori: «Oh, allontanatevi, se volete, e nascondetevi dietro i vostri armigeri. Ma lasciatemi qualche momento di vita, in una giornata noiosa come questa.» E pensava: "Per i Monti dell'Est! Guarda com'è pronto a tagliarmi a fette! Guardalo in faccia: in questo momento non dà alcun valore alla sua pelle. Se soltanto sapesse come si impugna una spada, preferirei anch'io avere al mio fianco gli armigeri. Ah, guidare in battaglia un esercito di uomini con una simile volontà di combattere!". Il giovane stava ora avanzando. Dapprima aveva continuato a procedere lentamente, per convincersi che non c'era alcun inganno. Tra qualche istante avrebbe tentato un affondo, o un colpo dall'alto. Chup attese, in guardia, con il manganello all'altezza della vita, puntato in avanti come se fosse un pugnale. Adesso che era passato alla vita vera e intensa del rischio e della lotta - la vita più reale di tutte - il satrapo era felice. Sentiva di dover ricorrere a tutta la sua abilità per vincere, armato solo di un corto bastone di legno, la spada lunga e affilata e l'odio, goffo ma genuino, che animava colui che l'aveva in pugno.
Sulla faccia di Rolf, l'intenzione di attaccare si manifestò un istante prima che tentasse l'affondo, e Chup si rallegrò sinceramente del preavviso; sapeva che i giovani erano in grado di muoversi con grande rapidità, e che l'ignoranza portava a brandire una spada in modo pericoloso e non ortodosso. Nell'indietreggiare, Chup fu sfiorato dalla goffa curva discendente della spada, che gli giunse più vicino di quanto non avrebbe progettato in uno dei suoi momenti di massimo coraggio. Poi il satrapo passò al contrattacco, avanzando con la massima velocità, servendosi del manganello per allontanare la spada in modo da evitare colpi di rovescio alle gambe o all'inguine e infine colpendo in avanti, con la punta smussata, come se si fosse trattato di un pugnale. Mirò allo stomaco del ragazzo, poco al di sotto dello sterno; non voleva che quel coraggioso giovane subisse danni permanenti. Rolf non riuscì neppure a vedere l'arrivo del colpo. Ne sentì solo l'urto mortale che lo paralizzava e gli toglieva il fiato. La spada gli sfuggì dalle dita. Anche i ginocchi lo tradirono: cadde pancia a terra, sulle sudicie pietre, con la vista coperta da un velo rossastro, e si trovò a dover lottare per poter semplicemente trarre un respiro. Il carceriere e il Maestro dei Giochi, in tono di grande sollievo, lodarono a voce alta il coraggio e l'abilità di Sua Signoria. Il satrapo sbuffò. Con il piede, toccò Rolf, delicatamente. «Tu...» disse. «Tra pochi giorni avrai un'altra occasione di versare del sangue.» Riconsegnò il manganello al carceriere e prese la spada che questi si era affrettato a raccogliere da terra. «Dategli da mangiare e fategli fare esercizio» ordinò Chup, indicando con la testa la figura di Rolf. Poi osservò per l'ultima volta gli altri prigionieri, che ora si muovevano inquieti all'interno della gabbia fetida. Adesso che era troppo tardi e che la porta si era nuovamente chiusa su di loro, si erano svegliati dal torpore. Chup l'aveva previsto, poiché conosceva gli uomini. «Puah!» fece, sprezzante. «Gli altri, sceglieteveli voi!» E si affrettò ad allontanarsi. Rolf non venne più chiuso nella cella, ma - quando fu in grado di camminare - fu condotto a una scala che lo portò alla luce del sole. Poi attraversò una successione di stretti cortili, in mezzo a un labirinto di pareti, tettoie e cancelli.
Cercò di orientarsi voltando la testa verso il maschio e la sua torre, e vide che si trovava nella parte est del castello, sempre all'interno, naturalmente, delle robuste mura di cinta. E, non appena tornò a respirare in modo normale e poté camminare senza difficoltà, scorse qualcosa che gli tolse di nuovo il fiato, come se fosse stato colpito una seconda volta dal bastone di Chup: una piccola faccia, incorniciata di capelli neri, in una stretta finestra in cima al maschio. Cercò di fermarsi per un istante a guardare, ma le guardie lo trascinarono avanti. Senza entrare nella costruzione, lo portarono infine in una cella isolata, posta a ridosso di una scuderia: una cella dalle pareti in muratura, alta quanto bastava a starci in piedi e lunga quanto bastava a sdraiarsi sul pavimento. Non c'erano finestre, ma la porta era un cancello di legno di quercia e di sbarre di ferro. Benché fosse piccola, la cella era più spaziosa di quella da cui era uscito. Inoltre era pulita e vi circolava l'aria. Guardando al di là del cancello, Rolf poteva vedere soltanto un muro illuminato dal sole, l'angolo delle scuderie e qualche altra parete, bianca, a poca distanza. Il maschio del castello e le sue finestre non facevano parte del suo campo visivo. Si era appena messo a sedere sul pavimento coperto di paglia, quando giunse un guardiano che gli portava una brocca d'acqua e un piatto di cibo che - stranamente - pareva non solo sostanzioso, ma anche pulito. Rolf mangiò e bevve, cercando di non pensare ad altro che alla soddisfazione di quel momento. Poi cadde in un sonno nervoso e agitato, e fu destato bruscamente dal cigolio del lucchetto. Sulla soglia si parò la figura di un uomo: un soldato dall'aria robusta, con il volto abbronzato e coperto di rughe, e non uno dei soliti carcerieri. Il nuovo venuto portava l'elmo di bronzo degli armigeri e sotto il braccio reggeva un paio di spade finte, con la regolare impugnatura, ma con al posto della lama un bastone di legno senza punta. «Esci fuori, ragazzo.» Senza proferire parola, Rolf si alzò e lo seguì. L'uomo lo fece girare dietro un angolo e lo condusse in un piccolo cortile chiuso. Accanto a una delle pareti erano stati saldamente piantati nel terreno alcuni pali di legno, corti e robusti; erano tutti scheggiati, segnati da colpi di lama. L'uomo porse a Rolf una delle spade da allenamento, tenendola per la punta. «Prendi questa e cerca di colpirmi. Vediamo cosa sai fare.»
Poi, notando che il giovane non gli obbediva istantaneamente, aggiunse con tono greve di minaccia: «Avanti! O preferisci salire sulla torre, a combattere i rettili? Lassù non avrai la spada: ti sospenderanno al tetto, legato per le dita.» Lentamente, Rolf prese l'arma che l'altro gli porgeva. Ma, forse, l'armigero si accorse che il giovane era sinceramente perplesso e che non capiva che cosa gli stava succedendo; lasciò da parte le minacce e aggiunse: «Ragazzo, sei fortunato. Scenderai nell'arena per combattere. Se ti comporterai bene, non vedrai più i sotterranei. Non ti piacerebbe entrare nell'esercito? Vivere da vero uomo?» «Se scenderò nell'arena con Chup» disse Rolf, a bassa voce «cercherò di strappargli le budella. E lui dovrà uccidermi. Perciò, in qualsiasi caso, non potrò entrare nel vostro esercito.» L'armigero si strofinò il mento. «Il satrapo Chup» disse. «Mi ha scelto lui» spiegò Rolf. «Mi ha detto che tra pochi giorni mi darà la rivincita.» «Già. Già, lui è fatto così. Un vero uomo, un vero guerriero: ammira soltanto chi è disposto a lottare.» Per quando odiasse gli invasori, Rolf si dovette convincere dell'onestà dell'uomo che lo aveva battuto poco prima, bastone di legno contro spada. Gli aveva fatto avere aria pura, acqua e buon cibo, e ora, a quanto pareva, anche una persona che gli avrebbe insegnato l'uso della spada. Gli veniva data una vera possibilità, anche se piccola, di restituire il colpo, prima di essere ucciso. «Bene, ragazzo, deciditi.» Rolf sorrise, guardando la spada di legno che teneva in mano. Forse avrebbe potuto restituire più di un colpo. Scattò in avanti all'improvviso e vibrò una bastonata, con le migliori intenzioni di colpire, mirando alla faccia dell'altro. L'arma del vecchio soldato si alzò senza difficoltà per parare il colpo. Rivolse a Rolf un amaro sorriso. «Proprio così, ragazzo. Colpire per primo, e colpire forte, quando si può. Ma adesso impara da me come si deve tenere una spada.» 9 MESSAGGI NELLA NOTTE «Dobbiamo colpire per primi, e colpire forte» disse Thomas.
Il giovane aveva parlato a voce bassa, in tono grave, consapevole della verità delle proprie parole e nello stesso tempo anche del grave rischio a cui si sarebbe esposto il Popolo Libero. Attorno a lui, sotto la vasta tettoia, erano riuniti i capi dei combattenti per la libertà che avevano fatto in tempo a rispondere alla chiamata a consiglio. Olanthe gli sedeva alla destra, e Loford alla sinistra. Anche l'uccello Strijeef partecipava alla riunione: sedeva di lato e sollevava l'ala non ferita, per proteggersi gli occhi dal chiarore del fuoco. Attorno all'isolotto si levavano, a ondate, i rumori notturni della palude. Thomas proseguì: «Quando Ekuman avrà l'Elefante e se ne sarà reso padrone... sarà troppo tardi per attaccarlo o per difenderci, anche se riuscissimo a mettere in campo diecimila uomini. Vero?» Loford si affrettò ad annuire con un cenno della testa leonina. Altri del cerchio si dissero d'accordo. Impossibile negare la correttezza delle parole di Thomas. L'alto giovane proseguì: «Se saremo abbastanza risoluti, prima ci converrebbe lasciare che Ekuman scavi la montagna, e poi potremmo colpirlo per togliergli il tesoro. Ma tra oggi e il momento più opportuno ci sono solo pochi giorni.» «Il giorno delle nozze» disse qualcuno. «Probabilmente» assentì Thomas. Ma un altro uomo, il capo di una delle bande del delta, scosse la testa. «Intendi attaccarlo sulla soglia di casa» disse. «Quanti uomini possiamo raccogliere, in un tempo così breve, per poi portarli in assoluta segretezza sul luogo dell'attacco? Poco più di duecento, secondo me.» Ci fu qualche discussione, ma nessuno poté negare che la cifra di duecento era sostanzialmente corretta. «Ekuman farà proteggere da un forte schieramento di armigeri gli scavi dell'Elefante» profetizzò l'uomo del delta. «Nel castello e nelle vicinanze ha a disposizione almeno un migliaio di uomini.» «Eppure, c'è qualche concreta alternativa all'attacco?» chiese Thomas. Poi guardò le altre facce, nel cerchio illuminato dal fuoco, e le fissò a una a una, con aria interrogativa. Nessuno aveva dei suggerimenti da offrire. Le visioni di Loford e, prima delle sue, quelle del Vecchio, li avevano convinti che l'Elefante era la chiave su cui si basava il futuro. «Dunque, visto che dobbiamo assolutamente attaccare, restano solo da stabilire le modalità dell'attacco. Non dimentichiamo che ora abbiamo con noi nuovi poteri magici. Per prima, la Pietra del Tuono: abbiamo già di-
scusso alcuni piani per il suo impiego. E troveremo il modo di utilizzare anche la Pietra della Libertà. Ci sono molti prigionieri da liberare. Uno di essi, in particolare, ci sarebbe utile in questo momento.» «Il ragazzo che era nella caverna» disse Olanthe. Thomas assentì. A questo punto, prese la parola Mewick; con i capelli ancora tinti di grigio, pareva un severo anziano di qualche tribù. Disse: «Credo che gli armigeri che lo avevano in custodia non conoscessero la sua importanza e non avessero alcun sospetto di dove era stato. Aveva del fango sui vestiti, e perciò è probabile che l'abbiano catturato sulla riva del fiume. Inoltre, l'avevano legato dietro un cavallo, senza troppe preoccupazioni, e non mostravano alcuna fretta. Rolf si è comportato con astuzia: mi ha guardato una sola volta. Se continuerà a comportarsi con astuzia, credo che lo impiegheranno come un normale schiavo.» Thomas spiegò: «Gli uccelli cercano Rolf nelle squadre di lavoro che escono dal castello durante la notte. Adesso lassù si lavora anche dopo il tramonto.» Ebbe un attimo di esitazione, e aggiunse: «Naturalmente, non sappiamo se abbia imparato qualcosa dell'Elefante.» «Mi ha rivolto un cenno affermativo» disse tristemente Mewick. «Come avrebbe potuto parlarmi? Che altri segnali avrebbe potuto darmi? Perciò credo che quel cenno avesse un significato.» Olanthe disse: «Forse significava soltanto che vi aveva riconosciuto.» «Forse.» «Bene» disse Thomas. Con un gesto, accantonò il problema di Rolf. «Indipendentemente dalla nostra conoscenza dell'Elefante» riprese «dobbiamo toglierlo a Ekuman, oppure sconfiggerlo prima che possa usarlo. Comunque, dobbiamo tenere presente che il nostro amico Ekuman non è affatto uno sciocco, e che non lo sono neppure i suoi ufficiali. Sanno che dobbiamo agire.» «Dunque, la situazione è ancor più disperata» disse l'uomo del delta, pessimista. «Niente affatto» ribatté Thomas, con fermezza. Si guardò attorno e vide che tutti i presenti condividevano il suo punto di vista. «Per prima cosa» continuò «prepareremo delle diversioni. Faremo uscire gli armigeri dal castello, se potremo, e in caso contrario impediremo loro
di raggiungerlo. Inoltre, colpiremo Ekuman in un modo che non si aspetta.» Si chinò a tracciare una mappa delle Terre Desolate, sulla nuda terra, accanto al fuoco. «Questi» indicò «sono i punti più adatti per attraversare il fiume, se vogliamo avvicinarci al castello per attaccare. Ekuman rafforzerà la ronda notturna in questi punti. Ma noi li eviteremo.» «In che modo?» chiese l'uomo del delta. «Occorrerà una lunga deviazione, ma possiamo farcela. Scenderemo a sud e guaderemo il Dolles nella tua zona, nel delta. Ci muoveremo in piccoli gruppi, e, com'è ovvio, soprattutto di notte. Attraverseremo le montagne qui a sud. Ci riuniremo in qualche punto del deserto...» Thomas s'interruppe. Nella sua mente stava prendendo forma una nuova idea. Olanthe parve leggergli nel pensiero. «Non è lontano dall'Oasi» disse. Thomas la fissò. «Olanthe» le chiese «quanti contadini dell'Oasi sarebbero disposti ad aiutarci, contro un nemico tanto superiore?» «Quanti? Tutti!» Il viso della ragazza si era illuminato. «Duecento e più, uomini e ragazzi» disse. «E alcune delle donne non vorranno mancare. Se riuscirete a toglierle gli invasori dal collo, la mia gente combatterà con voi fino al castello, combatterà con voi fino ai Monti Neri. Combatterà con le falci e con i forconi!» «Per questo raccolto» promise Thomas «avrà spade, scudi e frecce, se riusciremo a colpire nel modo giusto la guarnigione dell'Oasi!» Il giovane si era esaltato nel vedere la nuova espressione di speranza comparsa sul volto di quegli uomini forti che dipendevano dalle sue parole. Ma l'uomo del delta non rinunciava ad ancorare alla realtà i sogni troppo arditi di Thomas. «Sì» disse. «Supponiamo di attaccare l'Oasi nella notte! Supponiamo di vincere! Ma che cosa succederà l'indomani, quando i rettili usciranno dal castello e vedranno quel che è successo? Saremo all'aperto, in mèzzo a un deserto di sabbia; prima che si possa fare ritorno alla palude o alle montagne, la cavalleria di Ekuman avrà fatto piazza pulita di noi.» E continuò, in tono sarcastico: «O pensi che possiamo assalire l'Oasi,
spazzare via la guarnigione e poi raggiungere un rifugio sicuro, tutto in una sola notte?» Sbuffò in segno di disprezzo e concluse: «Se fosse così facile, l'avremmo già fatto da tempo.» «Ora abbiamo nuovi poteri, non dimenticarlo» disse Thomas. Indicò la Pietra del Tuono, chiusa in una nuova borsa, al fianco di Olanthe, e concluse: «Non porta soltanto il fulmine, ma anche nubi e pioggia che possono costituire un'ottima copertura. E io intendo sfruttare fino in fondo i poteri che possiede!» La prima notte da lui trascorsa nel castello, Rolf era talmente stanco da non poter fare altro che dormire. La mattina gli venne dato del buon cibo, e così pure a mezzogiorno. Sia la mattina sia il pomeriggio giunse il vecchio soldato, che lo portò nel cortile d'addestramento, dove rimasero per un paio d'ore ogni volta. Il pomeriggio si esercitarono con veri scudi, oltre che con le spade finte, e a Rolf fu dato un elmo da gladiatore perché si abituasse a portarlo. Rolf aveva le mani incallite a causa del lavoro dei campi e aveva sempre pensato di avere le braccia robuste. Ma non era abituato al peso delle armi, che ora parevano cercargli muscoli sempre nuovi, per poi farglieli dolere. L'insegnamento impartitogli dal suo istruttore consisteva principalmente in infinite ripetizioni di semplici affondi e parate, di ritirate e di colpi di rovescio: un tipo di addestramento che presto finiva per venire a noia. A ciò si aggiunga il fatto che, nonostante il suo cupo desiderio di colpire i nemici, Rolf non riusciva mai a toccare il vecchio armigero, che invece, per correggere la tecnica del ragazzo, gli assestava colpi di punta e di taglio alle costole, apparentemente a volontà. Come se le lezioni di Rolf fossero qualcosa di semisegreto, l'allenamento terminava quando nel cortile entravano altri armigeri che si mettevano coscienziosamente a colpire i tronchi di legno o a lottare tra loro. Rolf provò una certa curiosità per questo particolare, la prima volta che se ne accorse, ma aveva altre cose in mente, e presto se ne dimenticò. Pensava molto alla fuga, adesso che si sentiva sazio e riposato. Ma era circondato da alte mura di cinta, e solo i suoi pensieri erano in grado di scavalcarle. Di tanto in tanto, durante il giorno, quando alzava lo sguardo dal campo di addestramento, Rolf notava i preparativi per il matrimonio ormai prossimo.
Fiori e allegri stendardi venivano portati nel castello a carri interi, e una volta entrati venivano immediatamente ad assumere un aspetto grottesco a causa dell'ambiente che li circondava. Come dettava il gusto del Maestro dei Giochi, i fiori venivano disposti a ornare muri, parapetti e scale. Rolf si chiese se anche le ossa umane sbiancate che pendevano accanto agli alti nidi dei rettili sarebbero state decorate di fiori. E da qualche punto, non lontano dalla sua cella, per tutto il giorno si provavano musiche vivaci. Il castello si preparava all'allegria come se si preparasse a un lavoro, ma Rolf non riuscì a scorgere la minima gioia in alcuna faccia, diversamente da quel che aveva visto nei matrimoni dei contadini. Nel castello, lo stesso Maestro dei Giochi aveva l'aria di un prigioniero. Nel corso della seconda notte da lui trascorsa nella cella privilegiata, Rolf vide tornare, poco dopo il tramonto, le squadre di lavoro: uomini barcollanti che venivano spinti nei sotterranei da cui erano usciti all'alba. Ma quella sera, diversamente dal solito, gli schiavi erano sporchi di sabbia e di polvere di roccia, anziché del fango del fiume. Evidentemente, erano stati condotti sul versante nord del passo, per rimuovere la montagna di detriti che copriva il luogo di riposo dell'Elefante. Appoggiandosi alla parete della cella, nascosto dietro il cancello, Rolf ascoltò i discorsi di due sorveglianti che passavano stancamente davanti a lui. Uno diceva che durante lo scavo, quel pomeriggio, era emerso l'angolo di una porta, ma che sarebbero occorsi ancora vari giorni per liberarla completamente. Sì, confermò l'altro, neppure per il giorno delle nozze sarebbero riusciti a finire il lavoro. Le voci si allontanarono. Rolf si gettò sul suo letto di paglia. La cavalcatura di Ardnih sarebbe stata presto libera... l'Elefante, che apparteneva più a Rolf che a chiunque altro. Di fronte a questi pensieri, anche il suo duello con Chup veniva ad assumere un'importanza secondaria. Durante la notte, un secondo gruppo di schiavi uscì dai sotterranei per recarsi al lavoro, accompagnato da una colonna di soldati che aveva dimensioni pressoché analoghe e che marciava con le spalle altrettanto curve. Il cortile rimase illuminato dalle torce per gran parte della notte. Continuò l'andirivieni di prigionieri e portamessaggi e anche le prove di canto proseguirono per tutto il tempo, dando così l'impressione che ci fosse un
legame tra gli scavi e il matrimonio. Quella notte, a causa della luce e del rumore, Rolf poté dormire ben poco. La cosa lo preoccupò, perché ormai la vita non gli pareva più priva di valore. Non doveva morire per il misero piacere di colpire Chup, ora che il Popolo Libero rischiava di essere sterminato perché non conosceva i poteri dell'Elefante. E quella conoscenza poteva dargliela solo Rolf. Quando giunse il mattino e Rolf fu fatto uscire dalla cella per essere condotto, come sempre, alla latrina dei soldati, il ragazzo notò in terra, sulle lastre di pietra del pavimento, molti mozziconi di torcia consumati, in mezzo alla sporcizia della notte. La guardia che lo scortava doveva avere bevuto troppo o lavorato troppo, o entrambe le cose, perché era più il tempo in cui teneva gli occhi chiusi che quello in cui li teneva aperti. Nel tornare indietro, Rolf riuscì a fermarsi e a fingere di doversi allacciare i sandali. Quando la porta della cella si chiuse dietro di lui, il giovane stringeva al sicuro, nella mano sudata, un piccolo bastoncino di carbone di legna. Anche quel giorno gli vennero dati acqua e buon cibo. Anche quel giorno giunse il vecchio armigero che lo portò ad allenarsi. Rolf era riuscito a nascondere il pezzo di carbone in una cucitura della camicia. E l'impulso che l'aveva spinto a raccoglierlo si stava trasformando in una sorta di piano. Quel giorno, il suo istruttore portò spade vere, anche se senza filo e senza punta, e durante l'addestramento la mente di Rolf fu troppo occupata per architettare qualsiasi piano. Il giovane cominciava ad accorgersi della verità delle parole di Mewick: le arti marziali non si imparano nel giro di una settimana. Quando pensava che il suo braccio fosse finalmente divenuto abile nell'uso della spada, l'arma del vecchio soldato finiva per colpirlo ancora una volta alle costole. Ma durante l'intervallo di mezzogiorno, e quando venne nuovamente chiuso nella sua cella al cader della notte, Rolf ebbe il tempo di riflettere. Gli era già venuto in mente che di notte, e probabilmente ogni notte, gli uccelli venivano in ricognizione sul castello. Rolf aveva visto che le corde e le reti difensive venivano sempre accuratamente stese sui punti più alti, dopo che i rettili avevano fatto ritorno in massa al calar del sole. Ma non c'era niente che impedisse agli uccelli di sorvolarle dall'alto, e c'era sempre la possibilità che ne ricavassero qualche interessante informazione, grazie alla loro intelligenza e ai loro occhi acuti.
Ora, se solo avesse potuto mostrare loro qualche messaggio da leggere... Quella notte, il castello era più tranquillo di quanto non lo fosse stato nella notte precedente; pareva che fosse stato abbandonato il tentativo di fare doppi turni per giungere ad aprire il nascondiglio dell'Elefante. Forse non c'era un sufficiente numero di schiavi ancora in grado di reggersi in piedi. Quella notte non c'erano torce nel cortile, e nessuno che sorvegliasse la cella di Rolf, a parte la sentinella che passava a pochi metri di distanza, a intervalli ragionevolmente prevedibili. Rolf aveva notato che nessuno poteva vedere il tetto della sua cella. La scuderia che le stava davanti la nascondeva agli occhi di chi si trovava sulla torre. Utilizzando l'interno della sua camicia relativamente nuova, Rolf ottenne una superficie bianca su cui scrivere. Dopo essersi chiesto come mettere il maggior numero di informazioni nel minor numero possibile di parole, scrisse: HO CAVALO, L'ELE. Poi cercò il modo di far capire il potere che aveva visto e sentito, ma riuscì solo a scrivere: TOGLIETELO A E. - ROLF. Per rendere più leggibili le lettere, le ripassò varie volte con il bastoncino di carbone, poi le umettò con la saliva. Arrotolò la camicia e tornò a srotolarla; il messaggio pareva sufficientemente stabile. Ora occorreva solo collocarla sul tetto della cella, stendendola senza grinze, in modo che gli uccelli riuscissero a leggere la scritta. Dopo qualche riflessione, si accostò al fondo della porta, sporse la mani attraverso le sbarre e raccolse alcuni calcinacci che nessuno aveva mai pensato di spazzare. Prese sassolini e pezzetti d'intonaco, ne scelse un certo numero che avevano la taglia opportuna e tirò alcuni fili, sull'orlo della camicia, di cui si servì per fissarli. Gli occorse un po' di tempo per legarli accuratamente, ma il tempo era proprio la cosa che non gli mancava. Arrotolò poi la camicia come se fosse stata un papiro e si allenò ad aprirla con uno scatto del polso, lanciandola sul pavimento. Uno dei pesi si staccò e Rolf dovette legarlo meglio, ma non vide perché la cosa non dovesse funzionare. Intanto aveva continuato a contare in silenzio, per calcolare approssimativamente quanto tempo passava tra un giro e l'altro della sentinella. Ora attese che l'uomo fosse passato ancora una volta, poi raggiunse la porta.
Infilò tra le sbarre più alte la camicia arrotolata, poi la tenne per le spalle e la srotolò di scatto. Sentì il leggero rumore dei sassolini che colpivano il tetto piatto sopra di lui. Lasciandola stesa sul tetto - o, almeno, si augurava che fosse stesa - si rannicchiò nell'angolo più buio della cella. Si imponeva con tanta forza di non cedere ad alcuna speranza che, quando sentì giungere dal tetto un altro debole colpo, balzò in piedi con la convinzione che il suo segnale fosse stato scoperto dal nemico. Ma nessuno lanciò l'allarme. Non giunse nessuna squadra di armigeri con le torce. Comprese gradualmente che il colpo da lui udito sul tetto era uguale al rumore di un sassolino caduto da grande altezza. Ormai mancava poco al passaggio della sentinella. Rolf rimase immobile sulla paglia finché l'uomo non si fu allontanato. E non appena la guardia se ne fu andata, si udì il rumore di un altro sasso, che rimbalzò sul pavimento davanti alla sua cella e che colpì debolmente una delle sbarre. Rolf non poté vedere il sassolino, ma il suono era inconfondibile. Corse alla porta, infilò la mano tra le sbarre e afferrò la camicia, agitandola un paio di volte come una bandiera. Ciò fatto, si affrettò a riportare la camicia all'interno della cella, staccò le pietre e le gettò via. Poi strofinò a lungo la scritta, fino a renderla irriconoscibile, e tornò a infilarsi l'indumento. I suoi amici erano vivi e vegliavano su di lui. Non l'avevano dimenticato, non era del tutto solo. Si chiuse la camicia sul collo. Solo allora si rese conto di rabbrividire, non per il freddo o per la paura, ma perché provava un senso di trionfo e non poteva parlare. Il giorno seguente, Rolf si dedicò con buona lena ai suoi esercizi con la spada, guadagnandosi qualche debole lode dal suo insegnante. La notte seguente non tentò di fare nuovi segnali - la cosa era pericolosa, e Rolf non aveva niente di nuovo da dire - ma rimase sveglio, tendendo le orecchie, fino all'ora in cui, la sera prima, aveva trasmesso i segnali. Clic. Clic. Clic. Uguali e ben distanziati: tre minuscoli colpi sul suo tetto. Si rizzò di scatto a sedere, poi attese, appoggiando un gomito alla paglia. L'uccello si aspettava che rispondesse? Rolf si recò alla porta, infilò il braccio tra le sbarre e lo mosse lentamente avanti e indietro, una, due, tre, volte. Poi rimase sveglio per lungo tempo, tendendo l'orecchio e chiedendosi se ci fosse un seguito, ma dall'alto non gli giunsero nuovi segnali.
10 LA BATTAGLIA DELL'OASI Sdraiato dietro la cima di una bassa duna, e sporgendosi a guardare al di là della sua cresta, Thomas vedeva stendersi davanti a lui la massa scura dell'Oasi delle Due Pietre, simile a un'isola illuminata dalla luce lunare, a meno di cento passi di distanza. La notte rendeva incerti i confini del grande cerchio di terra fertile e gli conferiva un aspetto quasi magico. Grazie alle spiegazioni di Olanthe, però, il giovane era in grado di riconoscere dove si trovavano le varie aree dell'insediamento. Gran parte della superficie dell'Oasi era costituita dal grande anello di campi coltivati che la circondava. Gli invasori, gli aveva spiegato Olanthe, dapprima avevano pensato di recintare l'intero cerchio fertile, ma i materiali con cui costruire il recinto erano alquanto rari nel deserto, e perciò si erano limitati a chiudere il cerchio più interno. Tutte le abitazioni dei contadini - strutture semi-provvisorie di telai di legno e di pelli animali tese - erano state raggruppate in una sola zona, senza lasciare spazio tra l'una e l'altra, e attorno a esse era stata costruita una robusta palizzata. Ogni sera, al tramonto, l'intera popolazione dell'Oasi veniva chiusa nel recinto. E di giorno e di notte agguerrite pattuglie di armigeri a piedi e a cavallo facevano la ronda nei campi e lungo il loro perimetro esterno. Stesi sulla duna accanto a Thomas, e sulle dune più vicine che la fiancheggiavano dai due lati, c'erano i duecento uomini della sua forza d'attacco. Si riposavano in silenzio dalla faticosa marcia che li aveva portati dai monti all'Oasi. Alla sinistra del capo del Popolo Libero c'era Olanthe e alla sua destra c'era Mewick: questi si era sporcato di nero il viso, in preparazione dell'attacco notturno, fino a farlo assomigliare alla faccia del demone della malinconia. Accanto a Mewick era disteso Loford: nella quiete della notte, Thomas udì il suo debole respiro. Poi i capelli di Olanthe, agitati dalla brezza notturna, gli sfiorarono la guancia: la ragazza gli si era accostata per bisbigliare e tendeva il braccio verso un punto lontano. Laggiù, gli mostrò Olanthe, nell'area centrale dell'Oasi, c'era il campo del nemico, chiuso da una robusta palizzata. Laggiù bisognava cogliere di
sorpresa gli armigeri durante la notte e ammazzarli. Su due angoli della palizzata ardevano in quel momento le torce. Olanthe gli aveva già spiegato che in genere la porta dell'accampamento rimaneva aperta, anche se, naturalmente, era sorvegliata. Thomas sapeva che sull'Oasi, in quel momento, c'era una ventina di uccelli, invisibili sia agli occhi degli uomini sia a quelli dei rettili. Stavano rilevando per lui la posizione delle pattuglie nemiche; in seguito, iniziato l'attacco, gli uccelli avrebbero avuto il compito di impedirne la fuga. Neppure uno di loro doveva dare l'allarme, né a piedi né in volo. Se il castello fosse giunto a conoscenza dell'assalto quella notte, o anche l'indomani, l'attacco del Popolo Libero sarebbe stato soffocato con il sangue, mentre Thomas voleva che i suoi guerrieri rimanessero nell'Oasi almeno per un giorno e una notte, prima di iniziare la marcia che li avrebbe portati alla battaglia finale per l'Elefante. La battaglia dell'Oasi sarebbe risultata decisiva soltanto se il Popolo Libero avesse perduto. «Passate di nuovo la parola» sussurrò Thomas, ripetendo il messaggio a destra e a sinistra. «Niente incendi.» Un grosso fuoco sarebbe stato certamente visto dalle guardie posizionate sui bastioni del lontano castello; poi, l'indomani, i rettili sarebbero certamente venuti per controllare, e dopo i rettili sarebbe giunta una grossa forza di cavalleria. Ekuman non avrebbe avuto bisogno dell'Elefante per vincere una battaglia di giorno, in luogo aperto. Loford si avvicinò lentamente a Thomas, passando dietro Mewick e poi risalendo lungo il fianco della duna. Il Grande Mago si muoveva, pensò Thomas, con una leggerezza ancora inferiore, se possibile, a quella di un bue zoppo; ma si consolò pensando che, sulla sabbia, neppure lui poteva fare molto rumore, e che la cosa non aveva dunque molta importanza. «Ho fatto alcune prove» brontolò Loford, lasciandosi cadere sulla sabbia accanto a lui ed emettendo un gemito. «Ma la situazione è tutt'altro che favorevole per la magia. Ci sono troppe spade snudate, suppongo.» «Neppure un elementare?» chiese Thomas. Voleva mettere in campo tutte le forze di cui poteva disporre, e sapeva che Loford era particolarmente abile nell'impiego degli elementari. Loford scosse la testa. «Potrei evocarne uno dal deserto» disse. «Ma non di notte. Il deserto è un'entità del giorno. Dammi il sole, il calore e un vento secco che innalza una parete di sabbia, e vedrai che riuscirò a soddisfarti! Ma non di notte.» Il mago pareva avvilito, sulle difensive.
Thomas lo toccò gentilmente sulla spalla. «A dire il vero» confessò «non facevo molto affidamento sui tuoi poteri, per questa notte. Il tuo elementare di sabbia ci servirà più avanti, come schermo dietro cui nasconderci quando attraverseremo il deserto in direzione del castello, dopodomani. Nel caso che la pioggia evocata dalla Pietra del Tuono non dovesse costituire una copertura sufficiente.» «Ho pensato anche alla marcia» disse il mago. «Lanciare la Pietra davanti a noi perché la pioggia non cessi, e cercare di non farci colpire dai fulmini. Sarà un'esperienza avventurosa come una battaglia. E vorresti anche un elementare a tenerci compagnia? Oh!» «Silenzio!» li interruppe Mewick. Ma, parlando sottovoce, Thomas volle ancora aggiungere: «Penso che d'ora in poi non dovremo più combattere nelle paludi, in un modo o nell'altro.» Silenziosa come uno spettro, l'ombra di un uccello scese su di loro e si fermò accanto a Thomas, sulla duna. Allargando orgogliosamente le ali, riferì il numero esatto delle pattuglie nemiche e la loro posizione. Thomas si affrettò a prendere le necessarie decisioni e a trasmettere ordini ai capi delle varie squadre. A una di esse ordinò di prendere posizione lungo il confine occidentale dell'Oasi, perché fosse pronta a intercettare qualsiasi nemico che cercasse di l'uggire per portare l'allarme a! castello. «E noi siamo già pronti, Thomas, in volo» gli assicurò l'uccello. «Se i rettili oseranno alzarsi da terra, nessuno di loro ci sfuggirà.» Ricevuti gli ordini, la lunga fila di figure umane cominciò a spezzarsi, allontanandosi in silenzio, in piccoli capannelli, a stento visibili nel chiarore lunare. «Va', adesso» disse Thomas, rivolto all'uccello «e fammi raporto non appena le nostre squadre saranno in posizione, sull'altro lato dell'Oasi.» Si doveva fare in modo che gli attacchi contro le pattuglie nemiche fossero simultanei, e nello stesso tempo occorreva impadronirsi dell'ingresso del campo nemico. Il corriere si allontanò con un battito d'ali. A quel punto, se Thomas si era dimenticato qualcosa, era troppo tardi per prendere provvedimenti. Tra sé e sé, Thomas pensò che il fatto di essere un capo comportava però un vantaggio: non si aveva il tempo di preoccuparsi per la propria pelle. Alla luce della luna, incrociò lo sguardo di Olanthe. I due giovani si fissarono per alcuni istanti; nessuno sentì il bisogno di parlare. Poi fece ritorno l'uccello, prima di quanto non si aspettasse Thomas.
«Dall'altra parte sono pronti» comunicò. «E anche sul lato ovest.» «Bene. Allora, siamo pronti anche noi.» Trasse un profondo respiro e guardò i compagni che gli stavano ancora vicino, visibili alla luce della luna. Poi concluse: «Attacchiamo.» Con un largo gesto del braccio, diede il segnale di partenza alla decina di compagni che dovevano stargli vicino nella lotta, per impadronirsi della porta del campo. Un'altra squadra della stessa dimensione, guidata da Mewick, doveva seguirli a poca distanza, con il compito di entrare di corsa nell'accampamento e di uccidere gli invasori addormentati nei dormitori. Il confine esterno dell'Oasi era contrassegnato da un fossato che, a detta di Olanthe, serviva a tenere lontano la sabbia del deserto. Nell'attraversarlo, la ragazza mormorò a Thomas: «È quasi asciutto. Mentre siamo qui, dobbiamo usare la Pietra per far cadere la pioggia.» Superato il fosso, Thomas guidò la sua squadra tra filari di piante alte fino al ginocchio, verso il centro dell'Oasi. Indicò ai suoi compagni di allargarsi, e si avviò di corsa, chinando la schiena per non farsi scorgere. Quando ebbero coperto alcune centinaia di passi, rallentò l'andatura e infine si mise a strisciare tra le piante. Non molto lontano da lui c'era una squadra di otto armigeri a piedi: le squadre di Thomas e di Mewick dovevano passare inosservate davanti a loro, perché se ne sarebbe occupato un altro gruppo del Popolo Libero, poco più tardi. Thomas scorse la squadra, che camminava lentamente, in fila indiana, perpendicolarmente alla sua direzione. La luna trasformava in teste di spettri gli elmi di bronzo. Il giovane si fermò; tutt'intorno a lui, i suoi uomini cercarono di fondersi con le ombre della notte. Il nemico passò davanti a loro. Poi il loro capo fece una svolta imprevista. Sollevando di pochi centimetri la testa, Thomas vide che gli armigeri si dirigevano verso il punto dove si era nascosta la squadra di Mewick. "Speriamo che non facciano rumore" si augurò Thomas, quando lo scontro parve inevitabile. Il capo degli armigeri si fermò e si girò di scatto, sorpreso. Attorno a lui e ai suoi uomini, la squadra di Mewick si levò in piedi, come un gruppo di cupi, silenziosi demoni. Gli uomini di Mewick avevano il vantaggio del numero - dodici contro otto - e della sorpresa, e naturalmente riuscirono a eliminare senza perdite
gli armigeri del castello. Tuttavia, pretendere il silenzio sarebbe stato eccessivo, e alcune grida si alzarono nell'aria. Thomas si alzò, in preda alla tensione, e guardò verso il centro dell'Oasi, che ora distava un migliaio di passi. Olanthe gli posò la mano sul braccio. «Non temere che venga dato l'allarme generale» gli disse piano. «Penseranno che stiano rincorrendo alcuni fuggiaschi per i campi, o che gli uccelli abbiano attaccato una pattuglia. Capita tutti i momenti.» «Da un momento all'altro possono giungere rumori anche dalle altre pattuglie. Meglio sbrigarsi» rispose Thomas. Ordinò alla propria squadra di avanzare. Segnalò a Mewick di seguirlo a breve distanza e ne ebbe come risposta un largo cenno del braccio. Thomas portava la corta spada in una guaina legata alla gamba. Mentre procedevano, vide che Olanthe apriva il fermaglio per liberare dal fodero il suo lungo coltello. Ora la parte centrale dell'Oasi era vicina e si cominciavano a distinguere i particolari. Per prima cosa si scorgeva la barriera di pali aguzzi che formava la prigione in cui erano chiusi, durante la notte, gli abitanti dell'Oasi. Si scorgevano silos di mattoni, stalle e granai. Più avanti, la palizzata difensiva degli invasori, ancora illuminata dalle torce. La porta era aperta. Non si scorgeva neppure un albero; Olanthe gli aveva detto che erano stati abbattuti tutti per fare i pali. In vista non c'erano né uomini né rettili. «Per primi, andremo noi due» mormorò Thomas, quando la sua squadra si fu raccolta attorno a lui. Poi prese per mano Olanthe e la condusse lungo la stradina buia che portava direttamente alla porta della palizzata. Presto si poterono scorgere il braccio e parte dell'uniforme di un soldato che pareva oziare nel vano della porta. Thomas e Olanthe speravano che gli armigeri, nel vederli, li considerassero una semplice coppia che cercava di entrare dopo il coprifuoco: niente di pericoloso, dunque. Alla loro destra correva la palizzata entro cui erano chiuse le case dei contadini, alla loro sinistra c'erano i magazzini e le stalle. Da dietro una di queste sbucò all'improvviso un armigero che sbarrò loro la strada. Nel notare la loro aria sorpresa, fece un sorriso di compiacimento. «Cercavate un buco sotto la palizzata?» disse. «Spero che per la prima metà della notte il vostro divertimento ne sia valso la pena, perché ades-
so...» Osservò con maggiore attenzione la mano di Olanthe. «Ehi, cos'hai lì?» Dai campi giunse un grido di paura: dolore indebolito e purificato dalla distanza. Nel riconoscere il lungo coltello di Olanthe, l'armigero fece per lanciare un grido analogo e portò la mano alla spada, ma, prima che riuscisse a fare un passo indietro, la lama di Thomas gli si conficcò tra le costole. Thomas corse verso la porta della palizzata, seguito da dodici uomini. Comparvero un paio di sentinelle, allarmate, ma ormài era troppo tardi. Ebbero il tempo di lanciare un grido, non di più. Catturata la porta, Thomas si diede un'occhiata alle spalle. La squadra di Mewick stava accorrendo di corsa ed era a pochi passi di distanza. Poi il giovane fece segno a Olanthe di rimanere ferma e corse all'interno, in direzione della porta spalancata del dormitorio più vicino. Alla sua destra, se voltava le spalle alla porta, c'erano alcune scuderie lungo la palizzata e poi il dormitorio: un basso edificio in legno che poteva contenere comodamente un centinaio di uomini. Alla sua sinistra c'erano un altro dormitorio e alcune scuderie è dirimpetto alla porta un edificio lungo e basso che, come sapeva Thomas, ospitava gli ufficiali e serviva da quartier generale. Tra le varie costruzioni c'era solo terra sabbiosa, pestata dai piedi degli armigeri in marcia. Di fronte al quartier generale, un'asta reggeva la bandiera di Ekuman, color nero e bronzo e un po' afflosciata. Nel centro della piazza d'armi, su una sorta di palco, c'era un uomo legato: un uòmo nudo, con il corpo segnato da colpi di sferza, che sollevò la testa grigia per guardare Thomas. In quel momento, però, il giovane non aveva il tempo di dare un'occhiata attenta alla vittima: stava correndo verso la porta spalancata del dormitorio. Sulla soglia si affacciò un uomo, seminudo e semiaddormentato, che si stava affibbiando la cintura della spada. Fece un passo, incespicando, e si fermò a bocca aperta nel vedere Thomas che arrivava alla carica, enorme, tutto coperto di nero per mimetizzarsi con le ombre nel corso dell'attacco notturno. Thomas mirò al centro del corpo, gli infilò la spada nello stomaco, fino all'elsa, spinse di lato il morto ed entrò nel dormitorio. Dietro di lui, i suoi uomini si riversarono dalla piccola porta, urlando a squarciagola per destare terrore e panico. Solo pochi nemici avevano fatto
in tempo a impugnare le armi. Thomas non era un grande spadaccino, e lo sapeva. Sfruttò quindi i vantaggi che aveva - la forza e la dimensione - per quello che che valevano. Con due forti colpi abbatté la guardia dell'avversario, e con un terzo gli tagliò il braccio a poca distanza dal gomito. In pochi attimi gli attaccanti ebbero il controllo della porta e dell'armeria che le stava vicino e dalla quale Thomas prelevò uno scudo; pochi istanti più tardi, non si poté neppure più parlare di combattimento. Gli armigeri vennero uccisi nelle brande, vennero pugnalati mentre strisciavano negli angoli per nascondersi, morirono mentre facevano finta di essere morti, vennero massacrati come animali da macello, gementi e terrorizzati, in un mattatoio. Il massacro non era ancora finito quando Thomas raggiunse la porta, camminando sul pavimento scivoloso. Ormai gli uomini del Popolo Libero entrati nell'accampamento erano più di venti e davanti agli edifici del campo infuriava la lotta. Tra gli altri c'era anche Mewick, che colpiva con un lungo pugnale e brandiva un'ascia di guerra che sembrava un arnese da contadino, a parte la guardia attorno all'impugnatura, simile a quella di una spada. Ma anche se avevano sterminato gli occupanti di un dormitorio, gli uomini del Popolo Libero entrati nel campo erano una minoranza. Urlando, Thomas guidò la propria squadra in aiuto di Mewick. Gli uomini del secondo dormitorio avevano avuto a disposizione un periodo più lungo per svegliarsi e questo aveva fatto molta differenza. Si stavano accingendo a uscire per combattere, ma la comparsa di Thomas e dei suoi uomini li indusse a ritirarsi all'interno: probabilmente, nella confusione, non si erano accorti di avere ancora il vantaggio del numero. Dalle feritoie praticate fra i tronchi cominciarono a piovere frecce. Il dormitorio era molto robusto, costruito accanto all'alta palizzata. «Ricordatevi: niente incendi!» gridò Thomas. Due dei suoi uomini erano già a terra, colpiti dalle frecce. Ma i rinforzi stavano finalmente arrivando dalla porta della palizzata: uomini che avevano teso l'imboscata a una delle pattuglie esterne. Olanthe comparve improvvisamente al fianco di Thomas. «Sta' giù!» le gridò lui, afferrandola per proteggerla. Poi le aprì lo zaino e ne prese la Pietra del Tuono, che fece rotolare verso il dormitorio. Il cofanetto di metallo ammaccato si fermò all'angolo del basso edificio.
Sarebbe occorso qualche tempo perché si formasse la tempesta. Intanto, Thomas schierò alcuni uomini che dovevano dissuadere il nemico dal tentare una sortita; fatto questo, rivolse la sua attenzione all'edificio del quartier generale. Vide che Mewick aveva già fatto salire sul tetto alcuni uomini, per fermare alcuni armigeri saliti lassù dall'interno. Altri combattevano con lance e frecce dalle porte e dalle finestre. Un'altra squadra del Popolo Libero entrò nel campo, seguita dai primi contadini in armi: forconi e falci, come predetto, e una grande furia, mista a una profonda soddisfazione. Thomas corse a incontrarli, e li portò davanti al quartier generale. Sul tetto dell'edificio, guardie e ufficiali cercavano di allontanare con picche, spade e mazze il Popolo Libero, per proteggere un angolo della palizzata. Laggiù, uno di loro agitava due torce per scacciare gli uccelli, mentre un altro cercava di togliere da uno dei nidi dei rettili la rete protettiva. Intendevano mandare un corriere a Ekuman. Il soldato con le torce cadde a terra, trafitto da un forcone scagliato dal basso. Thomas si affrettò a salire sulle tegole per spegnere le fiaccole prima che il tetto prendesse fuoco. L'uomo che lottava con la rete riuscì infine a toglierla dal nido... ma non uno dei rettili osò uscire dalla porticina. La notte apparteneva agli uccelli, ed essi lo sapevano bene. Dall'alto giunse un primo brontolio di tuono. Poi, tutt'a un tratto, in piedi sul tetto rimasero solo gli uomini del Popolo Libero, accanto ad altre forme distese. Il sangue scivolava sulle assi e si raccoglieva nelle grondaie. Qualcuno aveva preso una picca abbandonata dagli armigeri e cercava di far uscire dal nascondiglio i rettili. Gli uccelli si erano posati davanti alla porta del nido e, con la voce carica di minaccia, invitavano i rettili che avevano assaggiato le uova d'uccello a non fare complimenti, ma a uscire per dare il benvenuto ai loro ospiti, venuti a restituire la visita. Da sotto, alcuni uomini fermi accanto all'ingresso del quartier generale chiamarono Thomas. Il giovane scavalcò l'orlo del tetto e si calò giù. Un uomo della squadra di Mewick gli disse di essere certo di avere trovato il comandante della guarnigione. Gli mostrò un uomo dai capelli grigi, con il collo lungo e sottile. L'avevano trovato in un magazzino, intento a infilarsi un'uniforme da soldato
semplice. La pioggia cominciò a scendere, sempre più fitta. Quando il cielo, all'improvviso, s'illuminò di una luce abbagliante, Thomas alzò lo sguardo e vide Strijeef, con l'ala ferita ancora avvolta in una benda, con gli occhi folli e fiammeggianti, emergere da un nido dei rettili. Dagli artigli gli pendevano frammenti di guscio dall'aspetto di pergamena. Aveva il becco e le penne cosparsi di sangue scuro. «C'è ancora un altro nido!» gli gridò Thomas. Poi prese il prigioniero dai capelli grigi e lo trascinò verso Olanthe e alcuni abitanti dell'Oasi, per accertarsi che fosse davvero la persona che credevano. Olanthe era in mezzo alla piazza d'armi, a tiro delle frecce scagliate dalla baracca che resisteva ancora. Un paio di contadini con lo scudo le stavano davanti, pronti a riparare coloro che staccavano dall'impalcatura il vecchio. Olanthe piangeva, senza pensare alle frecce; Thomas capì che l'uomo legato al patibolo era suo padre. La vittima era stata appena staccata quando la Pietra del Tuono ebbe finalmente il fulmine che aveva evocato. La scarica seguì l'orlo della costruzione, dal tetto a terra, spalancandola come un grande uovo colpito dalla lama del coltello. La pioggia, che ora scendeva a torrenti, impedì al fuoco di attecchire. Thomas corse verso gli uomini che si apprestavano a entrare nella breccia, ma vide che non c'era bisogno dei suoi comandi. I suoi compagni entrarono a valanga dall'apertura e terminarono senza subire perdite il lavoro di quella notte. Così finì la battaglia dell'Oasi. Il padre di Olanthe e i combattenti per la libertà che erano rimasti feriti vennero fatti uscire dal campo degli invasori per essere curati nelle case dei contadini. Dal recinto degli abitanti dell'Oasi, che ormai non era più una prigione, cominciarono a levarsi voci di uomini, di donne e di bambini che cantavano per la gioia di essere stati liberati. Sentendosi toccare sulla spalla, Thomas si voltò e scorse Loford, con un largo sorriso sulle labbra. In alto, sull'enorme braccio destro del mago, c'era una minuscola ferita che sanguinava. «Com'è andata la battaglia?» chiese Thomas. «Oh, ottima! Eccellente! Pensa che a un certo punto ho visto ben due nemici davanti a me... ma sono venuto a ricordarti che questa volta spetta a te raccogliere la Pietra del Tuono.»
«Hai ragione.» Sorridendo tra sé, Thomas si ripropose di non dare mai a Loford la soddisfazione di chiedergli come si fosse procurato la sua gloriosa ferita. Si diresse verso il dormitorio colpito dal fulmine e raccolse da una pozzanghera il cofanetto coperto di scritte misteriose. Mentre era lì, un uccello scese fino a lui, portandogli la buona notizia che non un solo nemico era sfuggito al massacro. Alcuni armigeri delle pattuglie assalite nei campi avevano cercato di allontanarsi in direzione del castello, quando avevano capito che l'intera Oasi era stata attaccata. Tutti quegli armigeri, meno uno, erano stati abbattuti dagli uomini che Thomas aveva lasciato, appunto per quello scopo, lungo il confine ovest dell'Oasi. L'unico nemico che era riuscito a rompere l'accerchiamento - a cavallo era stato sanguinosamente strappato di sella da tre del Popolo Silenzioso, che l'avevano raggiunto ed erano piombati su di lui dall'alto. E ora, anche la sua bestia terrorizzata era stata presa e veniva ricondotta alle scuderie. Anche se la battaglia era finita, nessuno aveva il permesso di riposare, tranne i feriti. C'erano ancora troppe cose da fare prima dell'alba. Occorreva togliere dal campo i feriti e provvedere loro. Occorreva seppellire i morti e cancellare ogni traccia delle loro tombe. I corrieri del castello non dovevano avere alcun sospetto di quel che era successo... almeno, non dovevano averlo finché non fossero atterrati, o almeno scesi a tiro di freccia. La parete squarciata venne di nuovo rizzata al suo posto e si cercò di tappare come meglio possibile i buchi. All'alba la solita quantità di contadini doveva recarsi nei campi per svolgere il solito lavoro. Gli uomini del Popolo Libero dovevano indossare le uniformi nere e bronzo in modo che i rettili in arrivo potessero vederli, e così vestiti dovevano marciare, o stare in sella, o fare la guardia. Dall'ingresso dei nidi vennero ripuliti il sangue scuro dei rettili e i frammenti di uova. «Un'ultima cosa» disse Olanthe. Con un cenno del capo, indicò il patibolo vuoto, in centro alla piazza d'armi, da cui suo padre era stato staccato appena in tempo per salvargli la vita. Nella sua voce c'era una spietatezza che Thomas non aveva mai udito prima. «Un cadavere andrà bene» disse il giovane. «Il cadavere di un uomo dai capelli grigi.»
Cercò di ricordare se avesse visto qualche morto, tra quelli che venivano seppelliti in quel momento, che assomigliasse al padre di Olanthe, ma non riuscì a farselo venire in mente. Allora guardò i pochi prigionieri che erano ancora vivi per essere interrogati. In mezzo a loro scorse i capelli lunghi e scomposti del comandante della guarnigione. Thomas lo indicò con la testa, e gli uomini a cui erano affidati i prigionieri compresero immediatamente le sue intenzioni. Sorridendo, portarono avanti il pallidissimo ufficiale. «Lo metteremo in mostra per voi, capo! E prima gli decoreremo ben bene la schiena!» Avevano ragione. Era la cosa migliore da farsi. Ma Thomas si girò dall'altra parte e vide che lo faceva anche Mewick, con la faccia addolorata come sempre. Ma non era Mewick a dover portare la responsabilità del comando. Thomas si costrinse a voltarsi e a guardare, e ad ascoltare i rumori della fustigazione. Fu sorpreso nel constatare che gli costava una grande fatica, come se non avesse mai visto il sangue. Olanthe assisteva con un'aria di distacco e di soddisfazione. Ma Thomas aveva paura. Temeva le spinte e i piaceri del potere, che sentiva già agitarsi dentro di sé, come le fitte di una malattìa stregata. La fustigazione del comandante della guarnigione fu inutile. Per tutto il giorno seguente, mentre pendeva senza vita dal patibolo, non giunse alcun corriere dal castello. Il Popolo Libero e i contadini dell'Oasi che avrebbero marciato con i combattenti della palude fecero solo lavori leggeri per tutto il giorno, e poi si riposarono completamente nel corso della notte. Quella notte gli uccelli riferirono di avere scoperto dove si trovava Rolf all'interno del castello, e ripeterono a Thomas il messaggio del giovane. Dissero che avevano cercato di avvertire il prigioniero che mancavano tre giorni all'attacco. Se Rolf fosse uscito di cella dopo il calar della notte, avrebbero cercato di mettergli in mano la Pietra del Prigioniero. 11 IO SONO ARDNIH La prima sera erano cadute tre pietre sul tetto di Rolf, e la seconda sera
ne erano cadute due, alla stessa ora. In risposta, il ragazzo agitò due volte il braccio. Il mattino successivo, Rolf ricevette per la prima volta una vera spada affilata e trascorse l'intera mattina a esercitarsi con quest'arma, in affondi e in colpi di taglio contro i bersagli di legno. Il suo tutore gli rimase accanto, per criticarlo, accompagnato da un paio di picchieri che, per tutto il tempo in cui Rolf impugnò la spada, tennero sotto attento controllo il giovane. Nel pomeriggio, Rolf e il suo insegnante furono di nuovo soli e ripresero ad allenarsi con le spade senza punta e senza filo. Durante l'allenamento, varie volte le parate del maestro furono troppo basse; Rolf riuscì a colpirlo di punta nella pancia o di taglio sul braccio, senza che scorresse il sangue. Ma il giovane non trasse molta soddisfazione da questi successi, perché aveva il sospetto che l'armigero lo lasciasse vincere per fare in modo che si sentisse più sicuro. L'uomo non lo sapeva, ma la sicurezza gliel'aveva già data la presenza dei due picchieri, quel mattino. Quella notte, come segnale, giunse un solo sassolino, e Rolf rispose agitando una sola volta la mano. Il conto, da una notte all'altra, era stato: tre, due, uno. Rolf sapeva che per la mattina del giorno seguente erano fissate le nozze. Quel pomeriggio, lui avrebbe affrontato Chup nell'arena. Ma certo il Popolo Libero, con le sue segnalazioni, non intendeva riferirsi a uno di questi avvenimenti. Di conseguenza, l'indomani - durante il giorno o nella notte - sarebbe successo qualcosa di importante. E lui intendeva sopravvivere per vederlo. Il giorno delle nozze, Rolf venne svegliato molto presto, da forti grida e da una musica che sembrava l'accompagnamento di una danza sfrenata. Tornò a pensare che i ricevimenti di quel giorno sarebbero stati assai diversi dalle semplici feste di nozze a cui aveva assistito in passato. In quelle occasioni, tutti cercavano di conservare una certa dignità fino a metà giornata, in attesa che gli sposi si scambiassero i voti e che forse qualche dilettante mago della campagna mettesse sugli anelli un incantesimo di felicità. A quel punto iniziavano le danze e le bevute, le gare e il banchetto, a seconda delle possibilità degli ospiti. Il giorno continuò a trascinarsi lentamente. Rolf ricevette una veste di tessuto nero di poco prezzo da mettere sugli abiti. Non si allenò con la spada, non vide segno del suo istruttore. Gli diedero dà mangiare come sempre e lo accompagnarono alla latrina. Nel cortile c'erano uomini che indossavano livree che Rolf non aveva
mai visto in precedenza, combinazioni del nero con un altro colore: rosso, verde, bianco o grigio. Dunque, era vero, pensò, che al matrimonio erano stati invitati ospiti di tutte le satrapie vicine. Nel pomeriggio inoltrato, il Maestro dei Giochi si presentò accompagnato da due guardie alla porta di Rolf, che venne fatto rapidamente uscire. Prima lo condussero di nuovo alla latrina degli armigeri: per non disgustare Lorsignori, nel caso che nell'arena si facesse prendere dal terrore. Poi fu condotto ai piedi del maschio, in uno stanzino senza finestre, con un soffitto di legno inclinato in modo bizzarro. Dalle fessure del soffitto e dal telaio della porta situata dirimpetto a quella da cui erano entrati filtrava la luce del sole. Sopra di loro si sentiva rumore di passi e giungeva il suono delle risate: da questo, Rolf capì di trovarsi sotto i sedili posti tutt'intorno all'arena. L'armigero che l'aveva addestrato gli aveva dato una sommaria descrizione del luogo. C'erano un elmo di bronzo, uno scudo e una spada che lo aspettavano. Mentre il Maestro dei Giochi si allontanava per svolgere qualche altra incombenza, le guardie passarono a Rolf elmo e scudo. Lo guardarono con occhio critico mentre s'infilava lo scudo sul braccio e si poneva la barbuta sulla testa; probabilmente, temevano che il giovane cadesse a terra per la paura. Poi presero, dalla parete, una gabbia fatta in modo molto astuto, che doveva trattenerlo contro la porta che dava sull'arena. Solo dopo averlo bloccato dietro la gabbia gli misero in mano la spada. Ciò fatto, dovettero ricevere subito qualche tipo di segnale, perché uno degli uomini tirò una catena che fece spalancare la porta davanti a Rolf, mentre l'altro prese una lancia con cui intendeva pungolarlo, se fosse stato necessario, in modo da spingerlo nell'arena. Ma non c'era bisogno della lancia. Automaticamente, Rolf avanzò verso il bagliore del sole già basso. Attraverso la T della visiera dell'elmo, scorse in alto un anello di facce, movimento, colori allegri; venne accolto da un clamore di suoni brutali. Si fermò a un'estremità di un ovale di sabbia, lungo venti braccia e grande in proporzione, circondato da una parete alta, liscia, invalicabile. Si levò un nuovo ruggito di applausi, e Rolf vide la figura del suo avversario, alta e vestita di nero, uscire dall'altra estremità del piccolo mondo in cui, da quel momento in poi, sarebbero rimasti soli e venire a grandi passi
verso di lui. La faccia di Chup era nascosta dietro una maschera rossa, dipinta sulla parte anteriore di un nero elmo liscio. Avanzò direttamente verso il giovane, tenendo pronti la spada e lo scudo; nel suo modo di camminare c'era uno strano dondolio che Rolf non riuscì a spiegarsi e che forse doveva servire a deriderlo. Ma il giovane cercò di togliersi dalla mente tutti i pensieri, salvo "colpisci per primo e colpisci forte". Le gambe avevano smesso di tremargli e lo portavano avanti con sicurezza. Il suo avversario era più alto di lui e aveva un maggiore allungo; di conseguenza poteva colpire per primo, e ne approfittò subito. Anche il suo fendente dall'alto in basso parve a Rolf una presa in giro: era più lento di molti colpi del vecchio armigero che Rolf non aveva avuto difficoltà a parare. Il giovane parò con lo scudo e forse gridò; qualche tempo prima si era ripromesso di lanciare un grido, nel momento cruciale, in modo che tutti i malvagi che lo osservavano sapessero che moriva per la libertà. In seguito non ricordò se avesse gridato qualcosa in quel momento. Ricordò solo di avere respinto con lo scudo il goffo colpo dell'avversario come gli era stato insegnato - e di avere fatto un affondo per colpire di punta. La lama attraversò con tanta facilità il tessuto nero e le costole dell'avversario che Rolf, per un momento, non credette al proprio successo. Fece un passo indietro e pensò: "Che trucco è questo?". Ma l'uomo vestito di nero non fingeva. Sul davanti della veste cominciò ad allargarsi una macchia rossa. Abbassò le braccia, con ancora le armi in pugno, piegò le gambe e scivolò in ginocchio, con quella che sembrava un'infinita stanchezza. Poi, girando su se stesso, cadde lungo disteso sulla sabbia. A Rolf la vittoria sembrava irreale. La folla allegra che lo circondava stava applaudendo, e il tutto era reso ancor più assurdo dalle proteste che si mescolavano con gli applausi: non lamenti di collera o di sorpresa, ma proteste dettate dalla delusione, il rumore di persone che si vedevano improvvisamente defraudare di un divertimento, perché la lotta era finita troppo presto. Il giovane si sfilò l'elmetto e guardò in alto. Chup sedeva nella prima fila e abbassava lo sguardo su di lui: gli rivolgeva un debole sorriso e applaudiva. Accanto a Chup c'era la sua sposa dai capelli d'oro; Rolf notò che Charmian guardava dall'altra parte dell'arena, con l'aria di chi si aspetta che da un momento all'altro debba succedere qualcosa.
Rolf si voltò e tornò a osservare la figura stesa sulla sabbia. Non si accorse dell'arrivo delle due guardie che gli tolsero la spada; era intento a osservare i due carcerieri che si avvicinavano all'uomo da lui colpito. Uno di loro allontanò con un calcio la spada caduta sulla sabbia, mentre l'altro voltava il corpo sulla schiena e gli toglieva l'elmo raffigurante un demone. La faccia del caduto era quella di un giovane: Rolf non l'aveva mai vista. Uno dei guardiani impugnò una pesante mazza, per dargli il colpo di grazia, ma prima che riuscisse a sollevare il braccio fu interrotto da un urlo... un urlo femminile così improvviso e terribile che perfino i rettili, nei loro alti nidi in cima alla torre, si lasciarono sfuggire un grido. E Rolf finalmente capì chi avesse ferito; lo capì quando alzò gli occhi e vide che la ragazza che urlava era Sarah. Anche il satrapo Ekuman si era girato sulla sua sedia d'onore, imbottita e protetta da un baldacchino color bronzo e nero, e stava guardando Sarah. Chiaramente, la ragazza strillava il nome dell'uomo che era caduto a terra pochi istanti prima, nel corso di uno scontro stranamente ineguale. E questo, pensò Ekuman, era più di una coincidenza. Con un'occhiata indicò al Maestro dell'Harem di calmare la ragazza, perché gli ospiti non dovessero sopportare le sue urla fastidiose e lo spettacolo della sua faccia contorta. Poi tornò a guardare innanzi a sé, nella zona dell'arena dove sua figlia sedeva accanto al promesso sposo. Per Ekuman era quasi un riflesso sospettare della figlia, ogni qualvolta un antipatico intrigo domestico minacciava la pace della casa, se non la sua sicurezza. E l'espressione di Charmian un'aria aristocratica di leggera perplessità per l'incidente - gli pareva troppo perfetta per essere genuina. Come volevasi dimostrare. Il satrapo, naturalmente, non dava alcuna importanza al dolore di una schiava dell'harem. E neppure, in realtà, al fatto che un combattimento di gladiatori fosse stato truccato, anche se questa era una cosa fastidiosa. Lo preoccupava che potesse ancora mandare a buon fine un intrigo - nel suo castello, senza che lui lo sapesse - una persona che era già sul piede di partenza, che l'indomani non avrebbe più avuto niente a che fare con quel luogo. Significava che fra i suoi servitori c'erano delle persone, in posizione di responsabilità, che obbedivano a sua figlia ancor prima che a lui, e che così avrebbero continuato a fare anche in futuro, quando sua figlia fosse stata Signora di una casa rivale, e con in ballo cose estremamente più importanti.
Ekuman si propose di impressionare i suoi ospiti. Avrebbe scoperto, quello stesso giorno, chi erano le persone che lo tradivano e quello stesso giorno se ne sarebbe sbarazzato. Si sporse verso l'arena e, tendendo il braccio, fermò i guardiani che stavano per dare il colpo di grazia al ferito. Più avanti, lo si sarebbe potuto interrogare. Garl, Maestro degli Armigeri, aveva capito dall'espressione del suo signore che doveva essere successo qualcosa di preoccupante ed era già al suo fianco. Ekuman diede l'ordine di portare davanti a lui, subito, i due gladiatori e coloro che se ne erano occupati. «Nella sala delle udienze» precisò. Poi, voltando la testa verso il Maestro dei Giochi, ordinò ancora: «Intrattenete i miei ospiti con qualche altro divertimento, e poi venite da me.» Lanciò un'occhiata verso l'altro lato dell'arena e, dando il bando alla segretezza, disse a voce alta: «Figlia cara, figlio, venite con me, vi prego.» Ma Ekuman dovette aspettare ancora qualche momento, prima di potersi alzare, perché il Maestro dei Rettili stava dirigendo in fretta verso di lui, lungo il passaggio posto davanti alle prime file di sedie. Con il suo arrivo, l'uomo aveva destato fra gli ospiti una nuova ondata di perplessità. Dalla sua faccia si capiva che riteneva di avere qualcosa di urgente da comunicare. Teneva in mano una delle tipiche borse dei rettili-corrieri, che, a quanto pareva, doveva contenere qualcosa di pesante. «Portatela con voi» gli disse Ekuman, passando tra i cortigiani, che si affrettavano a farsi da parte per lasciarlo passare e, avviandosi verso il maschio, notò una nube che correva, con portentosa rapidità, a nascondere il sole già basso e sentì il Maestro dei Giochi dire, dietro di lui: «Signori e Signore, vi prego di venire all'interno! Anche il tempo si allea agli altri fattori di disturbo per impedirci di proseguire i festeggiamenti all'aperto. Il Sire Ekuman vi invita a continuare i festeggiamenti nella sua sala, dove si unirà a voi non appena possibile!» Giunto all'interno del maschio, Ekuman trasse da parte il Maestro dei Rettili. L'uomo sussurrò: «Mio Signore, questa borsa ci è stata quasi certamente inviata dalla guarnigione dell'Oasi, perché l'abbiamo trovata nel deserto. Deve essere stata spedita qualche giorno fa, perché il corpo del corriere era già in decomposizione quando uno dei miei esploratori l'ha scoperto nel corso dell'ultima ora. Il corriere è probabilmente morto in una delle tempeste fuori stagione che hanno colpito il deserto negli scorsi giorni.» «Che cosa contiene?»
«Ci doveva essere un messaggio, Sire, ma... vedete...? la chiusura della borsa si è spezzata, a causa della tempesta o dell'urto contro il terreno, e il vento del deserto non ha lasciato alcun messaggio. Solo questo.» Il Maestro dei Rettili gettò via la borsa lacerata; in mano gli rimase solo un pesante cofanetto di metallo, grande come due pugni, che dava l'impressione di avere subito molte traversie, di essere passato per il ferro e per il fuoco. Ekuman prese l'oggetto. Quando passò il pollice sulle incisioni che ne decoravano la superficie, sentì vibrare un forte potere; anche il satrapo era in grado di riconoscere una potente magia, quando vi poneva le mani sopra. «Avete fatto bene» disse «a portarlo subito a me.» All'improvviso, si sentì circondato da problemi che spuntavano da tutti i lati, come altrettanti eserciti all'attacco. Doveva tenerli lontano come meglio poteva, assestando un colpo qui e un colpo là, in attesa di poterli afferrare uno alla volta e distruggerli; era il continuo pericolo in cui viveva ogni sovrano. «Ordinate anche a Elslood di presentarsi nella sala delle udienze» ordinò a un armigero che sorvegliava la porta. L'uomo salutò e corse via. Ekuman lasciò entrare due altri armigeri che portavano la barella del gladiatore ferito. Nel passare davanti a una stretta finestra, notò che all'esterno si era improvvisamente fatto buio. Il Maestro dei Giochi non si era certo sbagliato, nell'invitare gli ospiti a raccogliersi nella sala. Rolf aveva accettato senza proteste di essere disarmato; in quel momento, si augurò di non dover mai più toccare una spada in vita sua. Rimase immobile nel bel mezzo dell'arena, senza sapere se dovesse augurarsi di vivere o di morire. Solo una volta, dopo il ferimento di Nils, Sarah aveva guardato nella sua direzione, e i suoi occhi l'avevano trafitto come una lama. Almeno, Nils era ancora vivo... per quanto poteva valere la sua vita. Giunsero due uomini dalla veste lunga fino a terra, che si presero cura del ferito e ne organizzarono il trasporto. Poco dopo, anche Rolf venne portato via, al seguito del gruppetto. Sotto un cielo che all'improvviso si era fatto minaccioso, tutti gli spettatori allegramente vestiti cominciarono a sfilare in direzione del maschio del castello. Rolf venne scortato all'interno e fu fatto salire ai piani più alti. Pian piano, cominciò a capire che qualcosa, nel suo combattimento con Nils, do-
veva avere preoccupato gli alti papaveri della rocca; la faccia delle guardie pareva turbata da qualcosa di assai più importante del semplice desiderio di evitare la pioggia. Infine comparve un ufficiale che frugò Rolf e che poi precedette lui e la sua scorta lungo un corridoio vasto e riccamente arredato, che in quel momento cominciava a riempirsi di ospiti provenienti dall'arena. Nel passare davanti a loro, Rolf vide che lo fissavano e che bisbigliavano incuriositi, mentre il Maestro dei Giochi continuava a rivolgersi a loro a gran voce, per richiamare l'attenzione sul gruppo di giocolieri che si stava esibendo. Nugoli di servitori infilavano torce negli anelli che sporgevano dalle pareti, per rischiarare l'ambiente oscurato dalla precoce caduta della notte. Ancora una rampa di scale e un'attesa in una lussuosa anticamera. Poi Rolf venne condotto in un'ampia sala circolare, che costituiva il piano più basso della sgraziata torre in cima al castello. Contro una parete c'era Ekuman, seduto su un ricco trono. Su due sedie più basse, al suo fianco, c'erano Chup e la dorata Charmian, altezzosa come una statua. Alle spalle di Ekuman, la parete curva era decorata di innumerevoli trofei di guerra e di caccia, tra cui diversi oggetti del Mondo Antico: almeno, Rolf era quasi certo che lo fossero, perché ne aveva riconosciuto la fattura precisa, regolare, identica a quella dei tubi per avvicinare gli oggetti e dell'Elefante. In tutta la sala c'era un andirivieni di cortigiani in preda a un grande nervosismo. Sul pavimento di legno intarsiato, davanti a Ekuman, era stesa la barella contenente Nils, e gli uomini dalla lunga veste erano ancora curvi su di lui per arrestargli l'emorragia. Davanti a Ekuman c'era l'armigero che aveva insegnato a Rolf l'uso della spada; in quel momento era sull'attenti, e fremeva nella tensione della disciplina. C'era anche Sarah, tra due guardie che la tenevano per le braccia per impedirle di cadere a terra o di gettarsi sul suo amante steso sulla barella. Rolf ebbe a disposizione solo un istante per guardare i presenti, perché venne spinto avanti per essere interrogato dal satrapo stesso. L'occhio minaccioso di Ekuman si piantò su di lui e i due uomini che lo tenevano per le braccia lo costrinsero a genuflettersi. Al ragazzo, la voce del satrapo parve ancor più impressionante proprio perché era così calma. «Hai combattuto bene, oggi, giovanotto. Che cosa vorresti, come premio?» «Vorrei solo... quel che già credevo di avere. La possibilità di lottare con la persona contro cui credevo di combattere, nascosta sotto quell'elmo di-
pinto come un demonio!» Rolf non guardò in direzione di Sarah, ma si augurò che la ragazza l'avesse sentito. «E chi credevi di combattere?» gli chiese con calma Ekuman. Rolf voltò la testa in direzione di Chup. Dovette passare qualche istante perché al guerriero-satrapo giungesse il significato delle parole del prigioniero. Poi Chup si alzò dalla sedia. «Io? Mucchio di letame! Pensavi che io prendessi elmo e scudo per scendere a combattere in singoiar tenzone con te?» Ripensando agli avvenimenti di quei giorni, Rolf si rese conto che l'idea di dover combattere contro Chup era stata solo una sua sciocca convinzione. Ma qualcuno aveva approfittato della sua ingenuità per piegarlo al suo gioco, per fargli uccidere Nils al fine di trarne un divertimento. «"Mucchio di letame"?» rifletté Ekuman. «Sì, un contadino, sotto tutte le apparenze... ma il colpo che ha ferito l'avversario era ben assestato. Giovanotto, dove hai imparato a usare la spada?» L'intrigo era una cosa nuova per Rolf, che però riusciva a percepire la mutua diffidenza e la malizia della gente malvagia che lo circondava. Sentiva le fazioni che schieravano ciascuno di loro contro l'altro. Se avesse conosciuto la bugia capace di portarli alla distruzione reciproca, avrebbe cercato di dirla. Ma, vedendo come stavano le cose, istintivamente scelse come propria arma la verità. «Quel che conosco della spada» disse chiaramente «mi è stato insegnato qui al castello.» E comprese che, in qualche modo, la verità aveva fatto centro; se gli occhi di Charmian fossero stati pugnali, lui sarebbe morto in quello stesso istante. «Insegnato da chi?» chiese Ekuman, gentilmente. «Da quest'uomo.» Rolf sollevò il braccio per indicare il vecchio soldato. L'uomo non lo guardò. Dietro la sua maschera di stoicismo, non pareva fremere né più né meno che prima. Si udì rumore di tuono, non lontano. Dapprima un leggero crepitio, che poi squarciò il cielo da cima a fondo, con un bagliore che pareva giungere dalla bocca di una fornace posta attorno alla torre. La luce illuminò la faccia di Charmian, quando la principessa sollevò gli occhi con aria di sollievo. Rolf si accorse che la ragazza guardava qualcosa che gli stava alle spalle, e girò a sua volta la testa, per un istante. Sulla soglia era ferma una figura alta e grigia: un mago, se mai ce n'era stato uno.
«Guarda il satrapo!» esclamò un armigero, colpendo sulla faccia Rolf, con un pugno. Il giovane tornò a voltarsi. Ma continuò ad avere negli occhi l'immagine dello sguardo grigio e vuoto del mago, che si sovrappose a quella della faccia di Ekuman. «E sei stato nutrito bene?» chiese Ekuman, come se fosse mosso unicamente da una blanda curiosità per il benessere di Rolf. «Sì.» Uno degli uomini dalla lunga veste che si stavano occupando del ferito sollevò la faccia; Rolf vide, con fascino misto a orrore, che portava appollaiata sulla spalla, seminascosta sotto una piega del mantello, una creatura che pareva un rospo e insieme qualcosa di più di un semplice rospo. «Sire» disse «ora ne sono certo, quest'uomo che è stato sconfitto è stato indebolito dal digiuno e dalla mancanza di riposo. I segni sono chiarissimi.» Dopo queste parole, Rolf, per vari istanti, non fu più in grado di udire niente. Nell'abisso di paura e di odio in cui era precipitato, sentiva quasi pietà per gente divenuta talmente meschina e maligna da ordire simili macchinazioni servendosi di inermi schiavi. E lui aveva creduto loro... aveva creduto di poter combattere con Chup... aveva voluto credere. Si sentiva mancare le ginocchia. In quel momento, non avrebbe avuto il coraggio di guardare Sarah, neppure per salvarsi la vita. Salvarsi la vita? No, non valeva la pena di essere salvata. Perché Nils non lo aveva ucciso, invece? Quando fu nuovamente in grado di pensare e il suo disgusto tornò a rivolgersi all'esterno, verso coloro che si erano serviti di lui e che lo avevano ingannato, vide che al suo insegnante di scherma veniva ordinato di inginocchiarsi davanti a Ekuman. L'uomo si decise a parlare, infine, mormorando: «Pietà, Sire.» Ma non sollevò gli occhi per guardare Ekuman. «Dimmi, mio fedele sergente... chi ti ha ordinato di addestrare in questo modo i due gladiatori?» Come tutta risposta, il vecchio armigero boccheggiò, senza fiato. Sbarrò gli occhi e girò la testa, come se avesse voluto guardare qualcosa di invisibile che lo avesse afferrato alle spalle. Un attimo più tardi, scivolò lentamente a terra, come era successo a Nils nell'arena. Ma, diversamente da questi, non era stato colpito da una spada: una sorta di crisi epilettica si era impadronita di lui e gli aveva irrigidito i muscoli; ora l'uomo li tendeva spasmodicamente, aveva la schiuma alla bocca e non era in grado di parlare. Ekuman balzò in piedi, gridando rabbiosamente alcuni ordini. L'uomo
con il mostruoso rospo sulla spalla osservò il soldato colpito dalla crisi; non disse nulla, ma sollevò la testa, aggrottando le sopracciglia nel vedere che l'altro mago alto e grigio, rimasto in fondo alla stanza fino a quel momento, veniva avanti camminando maestosamente. Ekuman porse a quest'ultimo un cofanetto di metallo annerito e disse: «Elslood. Dimmi in fretta che cosa può essere.» Aggrottando la fronte, il mago Elslood prese l'oggetto, se lo soppesò nella mano, mormorò alcune parole e infine sollevò il coperchio convesso, mentre varie persone, attorno a lui, si facevano prudentemente indietro. Guardò la pietra annerita custodita all'interno del cofanetto e disse: «Non posso riferirvi niente, Sire, con un esame così breve, salvo il fatto che contiene un fortissimo potere.» «Questo l'avevo capito anch'io. Allora, inetti via il tutto, in qualche luogo sicuro, e aiutami. Voglio scoprire ogni particolare del gioco che si è consumato oggi nell'arena.» Elslood chiuse rumorosamente il coperchio del cofanetto. Rivolse una sola occhiata verso il basso - con aria indifferente - al vecchio soldato che continuava a contorcersi debolmente sul pavimento mentre gli altri cercavano di soccorrerlo. Poi il mago guardò Rolf, e negli occhi del giovane, anche questa volta, e più forte che mai, brillò la gigantesca, bruciante immagine del suo sguardo. Infine, il mago passò il cofanetto all'uomo del rospo, e nello stesso tempo gli indicò, con un cenno del capo, un lato della camera. L'uomo del rospo prese dalle sue mani il cofanetto e si avviò verso il punto indicatogli dal mago grigio: una zona dove, alla parete, era appeso un arazzo che pareva nascondere una nicchia o un appartamento separato. Dalla più vicina finestra, Rolf sentì la pioggia battere improvvisamente sul piatto terrazzo del maschio. I servitori avevano appena finito di accendere le torce, e le fiamme crepitavano e mandavano fumo. Il giovane provò la netta sensazione che il cielo, come il grande, piatto coperchio di una cassa da morto, si preparasse a chiudersi sulla torre. «Allora, giovanotto!» Ekuman si rivolgeva nuovamente a lui. Ma questa volta la voce del satrapo pareva andare e venire, come se parlasse da dietro una barriera e la sua eco si riflettesse su pareti lontane. Rolf non era più capace di parlare. L'immagine degli occhi di Elslood si dilatava davanti a lui, sempre più grande, e non si voleva allontanare dalla sua testa, come un'escrescenza maligna che gli annebbiava il pensiero e la vista. Il mago al-
to e grigio era fermo accanto a lui, ma Rolf non osava posare nuovamente gli occhi sulla sua figura. «Rispondimi!» Ekuman stava quasi urlando. «Una buona risposta adesso, ti risparmierà molte sofferenze quando ritornerai nei sotterranei!» Forse per il coraggio della profonda disperazione, forse per merito di qualche potere che gli era venuto in aiuto dall'esterno, Rolf riuscì a vincere sia il terrore delle minacce di Ekuman, sia l'imposizione degli occhi di Elslood che volevano costringerlo a tacere. La faccia del satrapo tornò chiara davanti a lui, e il giovane si alzò in piedi. Anche la voce di Elslood era di nuovo normale e comprensibile: essa e il rumore della pioggia battente erano gli unici suoni che rompessero il profondo silenzio. «Dimmi, mastro spadaccino, chi è il tuo padrone?» Ormai al di là di qualsiasi paura, Rolf sorrise. «Io? Io sono Ardnih...» La notte che opprimeva il castello venne distrutta. La luce che la squarciò fu brusca come quella scaturita dal fianco dell'Elefante, ma mille volte, un milione di volte più luminosa. Lo schianto che la accompagnò superò il fragore di qualsiasi altro suono. Rolf si accorse soltanto di essere stato colpito con forza sufficiente a scagliarlo a terra e, anzi, a rovesciarlo su se stesso come un guanto. Non solo lui, ma anche altre persone dovevano essere state colpite, perché c'era una voce che urlava, senza smettere. Poi capì che non gridava una persona sola, erano molte. La voce di alcune donne era divenuta gutturale, e quella di alcuni uomini era divenuta acuta e infantile. Per qualche motivo che Rolf non riuscì a capire, la finestra più vicina a lui si era aperta e la pioggia gli batteva addosso, bagnando i calcinacci e i pezzi di legno stesi sul pavimento. Le urla di dolore proseguirono. Che fossero urla di Sarah, colpita dalla lama di un vendicativo Chup? Quando Rolf sollevò la testa, un fulmine globulare si librava ancora nell'aria, in centro alla sala. Il giovane lo guardò danzare, leggero ed esitante: il fulmine pareva voler controllare di non essersi perso alcuna possibilità di distruzione, prima di correre verso la parete e di svanire lungo un camino. Nel centro della sala si era aperta una scia di rovine. Dalla finestra infranta vicino a Rolf, fino all'arazzo in fiamme della lontana alcova, dappertutto erano sparsi corpi umani e frammenti di mobili, come un nido di topi squarciato dall'aratro. Il pavimento di legno era segnato da una scia annerita, che fumava e rosseggiava di braci. La pioggia colpiva questa cicatrice e si trasformava in vapore nei pressi
della testa di Rolf, ma non riusciva a giungere più in là. Il fumo che si levava dal pavimento formava una spessa nube nell'aria; Rolf lasciò passare qualche tempo prima di tentare di alzarsi. Per il momento, era sufficiente strisciare. Dov'era Sarah? Era morta anche lei, come sua sorella e i suoi genitori? Procedendo carponi, si aggirò attraverso la sala semidistrutta, guardando senza emozione le figure contorte dei morti e i feriti che si agitavano, e nelle orecchie sentì il crepitio delle giovani, voraci, rabbiose fiamme. Non riuscendo a trovare Sarah, il giovane proseguì come stordito, seguendo il solco nero e bruciante lasciato dall'aratro del fulmine. Alla fine del percorso giunse al corpo bruciato di Zarf: il mago, ora, aveva odore di carne arrostita. Nella morte, la sua faccia aveva perso i lineamenti volgari e la cosa morta che gli stava accanto alla spalla non era più un rospo, ma una strana creatura, piccola e terribile, che faceva pensare a un feto umano con la barba. C'era anche un mostruoso ragno, carbonizzato e reso fragile dal fulmine, e altre cose ancor più strane, sparse sul pavimento, fra scaffali caduti e tendaggi fumanti. Poiché non aveva trovato Sarah neppure lì, Rolf tornò indietro. Nel vedere che nella sala erano accorse varie persone che ora si muovevano per l'ambiente in modo pratico ed efficiente, si alzò anche lui. Di più non poteva fare. Armigeri e servitori stavano arrivando dalla scala e dal tetto. Lo stesso Ekuman si era rialzato. I suoi ricchi abiti erano stracciati, aveva la faccia sporca di nero, ma il vigore dei suoi movimenti dimostrava che non aveva subito gravi ferite. Ora teneva fra le mani uno degli oggetti del Mondo Antico che Rolf aveva notato nelle panoplie appese dietro il trono: un cilindro rosso. In origine ce n'erano due, e il secondo era ancora legato a una cinghia. A un'estremità del cilindro si scorgeva un imbuto lungo e nero: con una mano, Ekuman lo puntò contro il pavimento in fiamme e con l'altra premette una leva che fece subito venire in mente a Rolf i comandi dell'Elefante. Dall'imbuto nero scaturì un getto bianco che pareva poco più compatto del fumo, ma che non si spezzava e non lasciava passare la luce, e che era abbastanza pesante per scendere al suolo. Arrivato laggiù, si allargava. Come una polenta magica, la sostanza bianca si stendeva sul pavimento in fiamme, e fuoco e legno fumante svanivano sotto di essa. I feriti distesi a terra sporgevano la testa al di sopra della coltre bianca per respirare, ma non dovevano più divincolarsi e gridare per il timore di bruciarsi. Il fuoco
si stava rapidamente spegnendo. E Rolf, infine, riuscì a vedere anche Sarah, che inginocchiata accanto alla barella di Nils, gli teneva sollevata la testa perché non venisse coperta dalla sostanza bianca. Nel constatare che la ragazza era viva, provò un'immensa gioia, anche se accanto a lei c'era un armigero. Altri due afferrarono il giovane non appena fece un passo verso la barella. Ekuman continuava diligentemente a spegnere il fuoco, come un bravo inserviente. Dal cilindro da lui impugnato, che dava l'impressione di essere inesauribile, scaturì pian piano un tappeto bianco che copriva tutto il fuoco. I soldati e i servitori si rincuorarono nel vedere che il loro signore, calmo e indenne nel mezzo del caos, si prendeva cura dei danni. Presto, ai suoi ordini, i feriti vennero portati via, si fece una prima valutazione delle distruzioni e si ristabilì l'ordine. Una sola voce continuava a lamentarsi, in preda a una paura irragionevole, ed era quella di una persona che non aveva subito ferite. Rolf vide Chup alzare la mano e schiaffeggiare freddamente la moglie, il cui viso era macchiato di fuliggine. Bastò un solo colpo a farla tacere per lo stupore, incredula e a bocca aperta. Ora, nella stanza si alzavano soltanto i suoni dei soccorritori. Il fuoco era spento; Ekuman chiuse il cilindro della schiuma e lo posò a terra. Nils era ancora vivo e l'alto mago Elslood pareva non avere subito danni. Sul terrazzo, la pioggia stava progressivamente cessando, ma la luce del giorno non era ritornata. Il sole, pensò Rolf, doveva già essere tramontato. Un istante più tardi, entrò qualcosa dalla finestra: non un raggio di luce, ma una macchia di oscurità. Non un'oscurità nera, ma scagliosa e verdegrigia. Con un ultimo, sonoro battito d'ali, il rettile si fermò in mezzo al pavimento chiaro, e gracchiò in direzione di Ekuman: «Mio Signore! Mio Signore! Il nemico attacca, dall'altro lato del passo!» 12 IN SELLA ALL'ELEFANTE Rolf si contorceva fra la stretta degli armigeri, cercando di guardare all'esterno. Spiando da una finestra affacciata a settentrione, riuscì a scorgere nelle tenebre ormai fitte solo alcune lontane scintille, fuochi o torce, prima che i suoi guardiani lo tirassero indietro. «Riportatelo nella sua cella» ordinò un ufficiale. «Tenetelo in isolamen-
to finché il Sire Ekuman non troverà di nuovo il tempo di interrogarlo.» I due armigeri spinsero Rolf lungo le scale. Varie volte furono costretti a fermarsi per lasciar passare dei messaggeri che salivano o che scendevano. Nella faccia dei soldati, Rolf non vedeva altro che soddisfazione alla notizia che il Popolo Libero stesse attaccando in forze. Gli uomini del castello non dubitavano di vincere una battaglia in campo aperto, sia pure di notte. Ogni volta che passava davanti a una finestra, Rolf cercava inutilmente di vedere che cosa stesse succedendo all'esterno. "Tre, due, uno" gli avevano detto le pietre, e si riferivano a quella notte stessa. I segnali servivano a comunicargli qualcosa che lo riguardava assai più direttamente che non un attacco dall'altro versante del passo. I suoi amici si aspettavano qualcosa da lui. E ora lui veniva riportato nella sua cella, dove gli amici si aspettavano di trovarlo. Nei cortili erano state accese molte più torce del solito, e dappertutto regnava un bailamme di uomini e animali. Tre, due, uno: il momento era giunto, e Rolf era ancora vivo per vederlo. Il giovane era giunto a un culmine di attenzione e le sue orecchie colsero immediatamente l'acuto richiamo che scendeva a lui dall'alto. Non sollevò lo sguardo, perché, nello stesso istante, un piccolo oggetto colpì il pavimento accanto ai suoi piedi e rimbalzò davanti a lui. Legata allo strano oggetto da lancio c'era una nota, un foglio di carta... o, almeno, una sorta di appendice chiara. Rolf afferrò la pietra al primo rimbalzo, e nello stesso tempo pensò che l'uccello doveva essere impazzito, per lanciargli un messaggio in quel modo. Le guardie afferrarono il giovane per le braccia, ma poi, imprevedibilmente, le loro mani scivolarono via, proprio mentre chiudeva le dita sulla pietra. Rolf si divincolò, sperando di avere un momento libero per scoprire che messaggio poteva valere il rischio che gli armigeri lo uccidessero. «Posa quella roba!» abbaiò una guardia, e accompagnò l'invito con una filza di nomi di demoni, indirizzata al compagno che, per qualche motivo, era finito goffamente a sbattere contro di lui. Rolf si allontanò leggermente e aprì il foglietto di carta, ma, prima che riuscisse a leggerlo, i due uomini stavano già piombando su di lui a braccia tese. Il giovane sollevò la pietra, chiedendosi se fosse il caso di colpire sulla testa uno dei due armigeri, ma in quell'istante vide aprirsi una porta, sulla parete che gli stava alle spalle. La porta, evidentemente, era stata lasciata aperta dal soldato che ne era uscito a precipizio con qualche urgente messaggio da recapitare; come se non li vedesse, il nuovo venuto si gettò direttamente contro i due che veni-
vano dietro Rolf. Cogliendo al volo l'occasione, Rolf si lanciò a testa bassa verso l'apertura. Il battente si chiuse di colpo dietro di lui, poi rimbombò sotto l'urto dei due inseguitori urlanti, che cercavano di passare. Il giovane si trovò in un altro cortile, che era quasi completamente pieno di armigeri che si mettevano in riga per l'appello. Non si vedevano altre porte aperte. Rolf passò davanti a un ufficiale, che rimase a fissarlo a occhi aperti per la sorpresa, e poi, non avendo altra meta, curvò la schiena e corse fra le file, cercando freneticamente una via d'uscita. Gli uomini lo fissavano, alcuni imprecando, altri ridendo. «Prendete quell'uomo!» «Ci sfugge di mano!» «È sotto incantesimo!» «Che cosa dite? Prendete quell'uomo!» «È solo uno schiavo, uccidiamolo e facciamola finita.» «No, è uno di quelli che il satrapo vuole interrogare! Prendetelo vivo!» Sollevando le braccia per coprirsi il viso, che già gli doleva per i colpi di quelle mani che non riuscivano a trattenerlo, Rolf uscì dalle due file di nemici... ma uscì dalla parte sbagliata, come si accorse in quel momento. Per la confusione, si era lanciato verso il castello. A quel punto aveva però compreso di essere protetto da qualche magia: si voltò indietro. L'ordinato schieramento di armigeri si era trasformato in una folla che urlava e rumoreggiava, e in cui ciascuno intralciava i compagni. Il giovane riuscì a passarvi in mezzo senza danni e se la lasciò alle spalle. Le loro dita lo sfioravano come rami, ma erano incapaci di afferrarlo. L'ufficiale era irritato con i suoi uomini; ma, anche se continuava a gridare agli armigeri di formare un anello, si spostò di lato, lasciando così inavvertitamente fuggire Rolf. Davanti al giovane c'era un basso muro, il fianco di un magazzino a un solo piano. Rolf balzò su un barile appoggiato al muro, e dal barile saltò sul muro stesso, senza pause. Il legno elastico del coperchio parve dare un'innaturale forza alla sua spinta. Le mani del ragazzo non ebbero neppure bisogno di toccare il cornicione: i suoi piedi si trovarono immediatamente sul tetto leggermente inclinato; continuò a correre su di esso, senza fermarsi un solo istante. La Pietra gli ronzava tra le dita. Un regalo di Loford, senza dubbio; avrebbe dovuto capirlo subito. Tra lui e lo spesso muro di cinta del castello rimaneva un solo cortile, alla cui estremità si trovava l'uscita posteriore: una porta stretta, che in quel
momento era chiusa da pesanti sbarre trasversali e custodita all'interno da un paio di sentinelle. Gli armigeri fissarono con stupore il ragazzo che saltava a terra con agilità dal basso tetto, tornava in piedi con un balzo e correva verso di loro. Rolf aveva deciso di fidarsi fino in fondo della magia che gli era stata affidata. Mentre correva, sentiva gridare alle proprie spalle: «Ehi, guardie! Fermate quell'uomo in fuga! Uccidetelo, se dovete, ma fermatelo!» Una delle sentinelle fece per impugnare la spada. Rolf arrivò di corsa, stringendo a due mani la Pietra e tenendola davanti a sé, come se intendesse sfondare la porta con un ariete da assedio. E, a dire il vero, l'effetto non fu molto diverso. Quando Rolf si trovò a cinque falcate dalla porta, la sbarra gigantesca che la teneva chiusa si alzò in volo, roteando nell'aria. Nello stesso istante, con un rumore cavernoso, la porta si spalancò. Le sentinelle fecero un passo indietro, impaurite, e prima che si riprendessero passarono alcuni istanti. Mentre il giovane attraversava la porta, scorse con la coda dell'occhio la spada che calava su di lui; sentì solo un debolissimo tocco, sotto la scapola, e poi fu libero, in corsa verso la sicurezza del buio che lo avvolgeva. Presto la scarpata che iniziava sotto le mura del castello si trasformò in un pendio più dolce. Le stelle facevano capolino e in breve tempo il ragazzo riuscì a trovare l'orientamento. Era a est del castello. Doveva spostarsi alla propria sinistra, tenendosi accuratamente lontano dalle mura, per giungere sul versante opposto del passo e alla grotta dell'Elefante. Guardando da quella parte, gli parve di scorgere meno torce di quante ne avesse viste poco prima, dalla finestra, ma dalla loro direzione gli giungevano molte urla, terribili e vaghe. Rolf si avviò a un leggero passo di corsa, tendendo le orecchie perché da un momento all'altro si aspettava di sentire un altro suono... ma la voce dell'Elefante non era ancora stata risvegliata, a quanto poteva giudicare. Quasi subito fu costretto a rallentare e a procedere cautamente al passo. Poco lontano da lui si udivano alcune voci umane che parlavano piano. Quando gli occhi gli si furono abituati al buio e il cielo stellato divenne più luminoso con la sparizione delle nubi, scorse alcune figure, lontane e vaghe come ombre, che si muovevano nella generica direzione in cui si muoveva lui. Non riuscì a determinare se si trattava di amici o di nemici; probabilmente l'intera vallata del passo brulicava di soldati in movimento, appartenenti a entrambe le fazioni. «Rolf!» Questa volta, il richiamo musicale era debole, tremava di piace-
re e giungeva da poco lontano, direttamente da sopra la sua testa. «Ben fatto, una bella fuga, uovo pesante!» Il giovane sollevò gli occhi per osservare la scura forma che volava sopra di lui. «Strijeef?» «Sì, sono io. Svelto, svelto! Più a destra. Ekuman è morto?» «L'ultima volta che l'ho visto, era vivo e vegeto. Il fulmine non l'ha colpito, anche se non ha certo fatto del bene ai suoi amici. Dov'è Thomas? Strijeef, mi devi portare all'Elefante.» «Sono venuto per portarti lassù. Corri: davanti a te, in questo momento, la strada è libera! Thomas sta combattendo. Ti chiede se sei in grado di risvegliare l'Elefante e di montarlo in battaglia.» «Rispondigli di sì, purché riesca a entrare nella caverna. E a farne uscire l'Elefante. C'è qualcuno al suo interno, adesso? Si sta combattendo?» «No. La lotta si svolge davanti alle grandi porte: sono ancora chiuse. La Pietra che porti ti aiuterà ad aprirle dall'interno. Ekuman non si è fidato a far entrare qualcuno dei suoi uomini nella caverna prima di lui; perciò sono riuscito a legare una corda all'appiglio che hai preparato quando sei stato al suo interno. Quando arriveremo lassù, la calerò dalla caverna e tu potrai salire.» Varie volte Strijeef gli fece fare delle deviazioni per allontanarlo dagli armigeri nemici o lo fece rimanere immobile in attesa che passassero. Negli intervalli in cui poteva procedere senza pericolo, Rolf riuscì ad avanzare in fretta, mentre Strijeef lo informava degli avvenimenti dei giorni precedenti: gli riferì che Punta di Penna era stata uccisa e che lui era rimasto ferito, nell'aiutare Thomas a fuggire, e che per questo avevano dovuto lasciare Rolf a se stesso, nell'interno della caverna. Gli parlò della scoperta della Pietra del Tuono e di come, quel giorno, se ne fossero serviti per nascondere l'avanzata del Popolo Libero attraverso il deserto. Poi, quando si erano trovati tutti al sicuro, sul fianco della montagna, l'avevano rimessa in una delle borse che avevano catturato nell'Oasi, e l'avevano lasciata accanto al corpo del rettile che era caduto con essa, appositamente liberato dalla sabbia perché gli esploratori di Ekuman potessero vederlo. «E la Pietra che mi hai lanciato, Strijeef? Che cosa diceva il biglietto che c'era legato? Ho rischiato di essere ucciso, cercando di aprirlo e di leggerlo.» «Oooh!» La cosa dovette parere molto buffa all'uccello. «La nota spiegava semplicemente la natura della Pietra; l'hai scoperta da solo. Ooh! Mi
sono divertito a guardarti volare sopra un tetto e attraverso un muro!» A quel punto, Rolf aveva ormai superato la strada che si trovava ai piedi del passo e ora il pendio de! versante settentrionale diventava sempre più ripido sotto i suoi piedi. Passò accanto a una torcia da segnalazione, bruciata quasi del tutto, che ancora illuminava una piccola area della sabbia, compresa la mano dell'armigero che se ne era servito. Rolf si sarebbe fermato accanto al morto per cercare di procurarsi un'arma ma Strijeef lo invitò a fare in fretta. «Il nemico resiste ancora, davanti alle grandi porte. Per ora, laggiù si è cessato di combattere e i nostri uomini si sono leggermente ritirati. Io ti terrò lontano da tutt'e due.» Proseguirono lungo la salita. Ancora una volta Rolf dovette fermarsi ad attendere in silenzio, accovacciato dietro una roccia, mentre una fila di nemici gli passava davanti, lungo il pendio, diretta da ovest a est. Quando anche l'ultima eco dei loro passi si fu spenta, l'uccello, che era sempre rimasto silenziosamente in volo sopra Rolf, gli sfiorò la spalla e il ragazzo si alzò e tornò a seguire il compagno alato. Ma ora riconobbe la sagoma delle torri di roccia sullo sfondo del cielo. E dall'oscurità gli giunsero i gemiti dei feriti. «Com'è andata la battaglia?» Rolf si concesse di bisbigliare, quando l'ala dell'uccello scese a sfiorargli la faccia. «Né troppo bene, né troppo male. Gli uomini del castello non hanno occhi che li aiutino a vedere nel buio, ma hanno dalla loro parte il vantaggio del numero. Zitto, adesso.» Servendosi di uno dei crepacci che si aprivano a est, Strijeef guidò Rolf lungo il labirinto di pietre cadute. Il giovane si fece strada a tentoni, salendo sui passi e infilandosi in stretti passaggi. Alla fine sentì sotto i piedi la superficie di sabbia che conosceva bene, e poi i frammenti di roccia che, come sapeva, si trovavano sotto l'imboccatura della galleria. Strijeef lo precedette, volando in silenzio fino a essa, e un momento più tardi, con un fruscio, la corda si srotolò lungo la parete di roccia e giunse a sfiorare la faccia di Rolf. Per misura di sicurezza, il giovane diede uno strattone alla corda, poi si arrampicò rapidamente. La ferita alla schiena gli faceva un po' male, ma non tanto da impedirgli la salita. Dopo essere salito fino alla galleria - con Strijeef che gli volava nervosamente attorno e che lo incitava a fare in fretta - il ragazzo recuperò velocemente la corda. Lasciò nel foro l'asticciola a cui era ancorata la corda e prese a strisciare nell'oscurità, fino al camino, e ve la calò. Nella discesa fino alla caverna inferiore non c'era spazio suffi-
ciente perché l'uccello potesse guidarlo, ma il ragazzo non ebbe difficoltà a ritrovare la strada. Presto poté posare prima la mano e poi la fronte contro la superficie fredda e robusta del fianco dell'Elefante. In quel momento, ogni stanchezza parve allontanarsi miracolosamente da lui e solo dopo essersene liberato si rese conto di quanto fosse grande. Ora gli pareva che una parte dell'antico potere dell'Elefante fosse scesa in lui e che la forza di qualche fantastico esercito di metallo gli fosse entrata nei muscoli delle braccia. Le sue mani, che ora accarezzavano l'Elefante anziché procedere a tentoni sulla sua gelida superficie, trovarono presto gli scalini rientranti. Prima di aprire la porta circolare, comunque, si ricordò di chiudere gli occhi, che ormai si erano abituati al buio, e di avvertire Strijeef di chiudere i suoi. Lo choc della luce proveniente dall'interno gli giunse attraverso le palpebre, come una macchia rossa. Si portò all'interno e si chiuse ermeticamente la porta alle spalle, strizzando le palpebre per assicurarsi che il massiccio saliscendi fosse entrato nelle guide. Con una strana impressione di essere ritornato su un terreno noto. cercò il sedile che aveva occupato in precedenza, e nel frattempo abituò progressivamente gli occhi. Il familiare bisbiglio dell'aria si muoveva attorno a lui. Poi si preparò al compito, ancora in buona parte presente nella sua memoria, di destare l'Elefante dal sonno. Ammiccando verso Rolf con le sonnolente luci dei suoi pannelli, l'Elefante emise il primo gemito. Il risveglio, questa volta, fu meno agitato, meno tormentoso del primo: Rolf suppose che l'Elefante non avesse avuto il tempo di sprofondare nuovamente nel sonno delle millere. I simboli del CONTROLLO SISTEMI si accesero in modo rassicurante e ancora una volta Rolf si accinse al rito di spegnere i puntini luminosi. L'anello visivo scese come la volta precedente a circondargli la testa. Grazie a esso, la caverna e il suo contenuto divennero visibili: Strijeef, come il ragazzo poté vedere, era intento a descrivere ansiosamente grandi cerchi nell'aria. Gli occhi dell'uccello erano spalancati: pupille nere e insondabili, dilatate come Rolf non le aveva mai viste in precedenza; inoltre, si poteva scorgere ogni penna delle grandi ali aperte, e la benda su una di queste. La visione notturna dell'Elefante, evidentemente, non aveva nulla da invidiare a quella degli uccelli; se Rolf fosse riuscito a uscire dalla caverna, non avrebbe avuto bisogno di una guida per trovare il nemico. Un puntino dopo l'altro, CONTROLLO SISTEMI svanì. Questa volta il procedimento fu assai più veloce della precedente. Presto la voce senza re-
spiro dell'Elefante ruggì forte e sicura. Strijeef gli aveva detto che era stata l'eco di quella voce a condurre il nemico fino alla caverna. Bene, che la ascoltassero adesso. Che l'Elefante scuotesse la terra sotto i loro piedi, da lì all'altro capo della valle. Che vibrasse nelle segrete del castello, e che facesse tremare le ossa di coloro che davano ordini dall'interno della torre orgogliosa, al di sopra di tutti. All'improvviso, un verde ricamo di luce comparve sulle due manopole poste ai lati della poltroncina di Rolf. Il giovane s'infilò una mano nella camicia, per toccare ancora una volta la Pietra della Libertà che vi aveva nascosto. Poi afferrò le leve e le tirò con delicatezza. L'Elefante rinculò leggermente, brontolando, e, diretto da Rolf, ruotò su se stesso fino ad affacciarsi alle porte che si dovevano ancora aprire. Eccitato, Strijeef prese a volare più in fretta, fino a divenire una macchia confusa. Rolf spinse con decisione entrambe le leve. La sua enorme cavalcatura balzò in avanti con un forte ruggito, come se fosse una bestia incollerita che si lanciava alla carica. Rolf ebbe l'impressione che la Pietra, dentro la sua camicia, prendesse a vibrare. Prima che l'Elefante le toccasse, le grandi porte si aprirono, scorrendo di lato come tendine di tela, grazie all'invisibile influenza della Pietra. Le spalle impazienti dell'Elefante le raggiunsero quando non si erano ancora spalancate del tutto, e Rolf sentì cedere la barriera metallica, come un foglio di carta che si spezzasse rumorosamente. I massi che gli schiavi di Ekuman non avevano ancora fatto in tempo a togliere rallentarono l'Elefante, quando cominciò a scendere lungo il pendio aperto. Ma non riuscirono a fermarlo; scivolarono via, rotolarono, furono scagliati lontano, per fare strada al mostro meccanico. Straordinariamente vicino, il castello comparve all'improvviso davanti a Rolf. Ed erano visibili anche i due eserciti schierati sul campo, distribuiti in file irregolari, in squadre e pattuglie d'imboscata. Tutti erano immobili, e attendevano l'esito di quel momento: avevano udito il possente schianto dell'uscita dell'Elefante, senza vederlo, e sapevano che cosa fosse, ma non avevano idea di quali potessero essere le conseguenze. La voce dell'Elefante, ancora sepolta, aveva avvertito tutti coloro che si trovavano a breve distanza delle porte, e alcuni, amici e nemici, erano abbastanza vicini perché Rolf riuscisse a leggere sulla loro faccia lo stupore e la paura. E ogni faccia, resa cieca dall'oscurità, era voltata nella sua direzione e si sforzava di scorgere almeno qualcosa. Rolf continuò a spingere in avanti le due leve di guida. Muggendo di
rabbia lungo tutta la valle, l'Elefante si lanciò alla carica lungo la discesa, e rapidamente acquistò velocità. Il giovane aveva già scelto il suo primo bersaglio: una compagnia di cavalleggeri nemici. Erano in fondo al passo e cominciavano appena in quel momento a risalire il pendio, tenendo i cavalli alla briglia: erano arrivati troppo tardi per aiutare i compagni durante la lotta nei pressi della caverna. Rolf voltò l'Elefante in modo da colpire frontalmente lo schieramento. La crescente velocità della sua cavalcatura gli assestava forti scrolloni e lo faceva sobbalzare, ma riuscì a rimanere seduto al suo posto. Nell'udire che l'Elefante si avvicinava, anche senza vederlo, la compagnia montò in sella. Ma, dopo qualche istante, gli animali divennero assolutamente incontrollabili. Presi dal panico, cercarono di fuggire lontano dal mostro rombante che faceva tremare la terra e che si scagliava contro di loro nella notte. Coloro che si lanciarono al galoppo da uno dei due lati riuscirono a sfuggire all'Elefante, ma coloro che fecero dietro-front non riuscirono a correre abbastanza in fretta. Animali e cavalieri finirono senza distinzione sotto i larghi, veloci cingoli. Rolf si guardò alle spalle, ma solo una volta. Sterminata o dispersa la compagnia di cavalleggeri, Rolf attraversò la strada carreggiabile. Non scorgendo nuovi nemici davanti a sé, tirò indietro la leva di sinistra e, con una curva rumorosa come il tuono, che gli assestò un'altra serie di violente scosse, si rimise sulla strada, avviandosi in direzione ovest, verso il punto dove la carreggiabile passava sotto il castello. Ora il nemico sul campo di battaglia gli sembrava poco più di un mucchio di formiche. Come bersaglio era indegno della sua collera, finché il formicaio era ancora in piedi, arrogante come sempre. Pensò di dirigere l'Elefante sul pendio del monte, in modo da raggiungere il castello per la via più breve. Ma, anche se gli sarebbe piaciuto farlo, rinunciò a questo progetto non appena gli tornò in mente il terribile spessore di quelle mura alte e grigie, la vastità delle lastre di pietra che ne costituivano la base. Nella sua concentrazione di furia e di gioia, notò a malapena gli uccelli eccitati che giungevano sopra di lui, giravano in tondo e poi ripartivano. Decise di assalire il castello nel suo punto più vulnerabile. Avrebbe seguito la carreggiabile fino al villaggio e poi avrebbe imboccato la strada che conduceva alla porta da cui era entrato lui stesso, un tempo, legato dietro un animale. E che i denti di quella saracinesca si provassero a morderlo ora!
Thomas si trovava a metà del pendio, sul versante settentrionale del passo, e si sforzava di scorgere qualcosa nella notte, allorché sentì allontanarsi la forte voce e il rumore dei passi dell'Elefante. «Dove sta andando, adesso?» chiese Thomas, rivolto a un uccello che volava attorno a lui. «Digli di aspettare, digli che devo parlargli!» Quella notte, naturalmente, il Popolo Silenzioso costituiva gli occhi e il sistema di comunicazione di Thomas. Grazie a loro, il capo del Popolo Libero aveva in mente un'immagine del campo di battaglia che era quasi completa come quella che Rolf aveva potuto vedere dal cerchio visivo dell'Elefante. Per Thomas, abituato a pensare in termini di tattica militare, era ovvio che la prima carica dell'Elefante aveva aggirato il nemico sul fianco, l'aveva isolato dal castello e aveva messo la parola conclusiva alla sua demoralizzazione, che era stata iniziata dalla notte stessa. L'Elefante aveva dimostrato di vedere perfettamente anche nel buio, e con la sua velocità e la sua forza invulnerabile pareva perfettamente in grado di ripulire il campo dalla presenza del nemico, di completarne la rotta, di cacciarne i superstiti - esausti e in preda al panico - nel fiume o nel deserto, dove in seguito gli uomini di Thomas, più freschi, avrebbero dato loro la caccia... Ma Rolf si limitava a proseguire lungo la strada. Strijeef giunse a capofitto dal cielo, gridando: «Non riusciamo a parlargli! L'Elefante sembra privo di orecchie, anche se i suoi occhi devono essere buoni come i miei!» Thomas chiese: «Dove si sta dirigendo? A quanto pare, in questo momento dovrebbe trovarsi nel villaggio.» «Sì.» Strijeef salì a una quota più alta, tornò a osservare, gridò: «Ha svoltato lungo l'altra strada! Sta salendo al castello!» Dopo avere pensato per qualche istante, Thomas ordinò: «Allora, tu e gli altri uccelli dovete radunare qui attorno a me tutti i nostri compagni che trovate. Se Rolf non ci può sentire... be', chi non può ricevere ordini deve darli, se combatte.» Rolf non era ancora molto esperto nel condurre l'Elefante lungo le curve strette; anche se attraversò il villaggio a velocità moderata, con un colpo del fianco dell'Elefante fece crollare una casa che pareva deserta. Comunque, non vide cadere persone, insieme con la casa; il villaggio doveva essere completamente spopolato. Presto ne uscì e si trovò sulla strada in salita che portava al castello. La grande porta alla fine della strada era aperta, e una compagnia di soldati a piedi, fuggita dal campo di battaglia, vi stava entrando in quel mo-
mento; quando la porta venne chiusa, vi era a malapena entrato l'ultimo degli armigeri. Ora, per tenerla serrata, l'avrebbero rinforzata con sbarre grosse come tronchi d'albero. Che apprestino pure le loro difese, pensò Rolf. Sì, si convincano di trovarsi al sicuro. Con le leve a solo metà della loro escursione, l'Elefante si arrampicava sulla strada in salita con la velocità di un uomo in corsa. Le mura del castello si allargarono davanti al giovane. Anche in quel momento, nel vederne la dimensione, Rolf provò il vecchio timore reverenziale. Ora le torri difensive che fiancheggiavano la grande porta parevano pendere sulla sua testa, e la loro sommità si trovava nel punto cieco del cerchio visivo, direttamente sopra Rolf. Poi, quando si fermò a poca distanza dalla porta, vide che in cima alle torri c'erano degli uomini. Una pioggia di pietre e di frecce cominciò a cadere su di lui. L'Elefante non si curava di questo genere di cose; Rolf non ne sentiva neppure il rumore. Spinse in avanti l'Elefante, come per chiedere di farlo entrare, e gli uomini sopra di lui cominciarono a versare fuoco liquido; l'Elefante non gli badò, come se si fosse trattato di acqua. Nella corta spianata davanti al castello non c'era spazio sufficiente per spingere l'Elefante alla massima velocità. Eppure, al primo colpo del mostro meccanico, i denti d'acciaio della saracinesca si piegarono all'interno come fili di paglia e la grande porta si scheggiò e cedette, fra cigolii di legno spezzato. A impedire l'ingresso dell'Elefante non fu la solidità della porta, ma solo la sua apertura troppo stretta; la mole della cavalcatura di Rolf venne fermata e trattenuta dalle torri che sorgevano ai due lati dell'ingresso al castello. Il liquido ardente gettato dall'alto si riversava sugli occhi dell'Elefante come una massa luminosa color dell'ambra, poi scivolava lontano, senza causare danni, e la vista di Rolf ritornava perfetta come prima. Il giovane tirò indietro le manopole per fare indietreggiare l'Elefante. Per un attimo si chiese se la porta sarebbe stata in grado di resistere alla Pietra del Prigioniero che portava su di sé. Ma poi gli venne in mente che lui non era più un prigioniero: cercava di entrare, non di uscire. Mosse con delicatezza le leve, voltando l'Elefante leggermente a destra e dirigendolo frontalmente contro la torre posta su quel lato. Poi tornò a lanciarsi alla carica. La torre massiccia fermò l'Elefante e scagliò Rolf in avanti; il giovane, che non se l'aspettava, batté la fronte contro la superficie interna dell'anello visivo. Per un attimo rimase semistordito, poi montò in collera per la rabbia e la
frustrazione. Soffiando e mormorando tra sé, tirò indietro le leve. L'Elefante, che non aveva subito danni, rispose immediatamente ai comandi; quando fu indietreggiato di alcuni passi, Rolf notò con soddisfazione che alcune delle grandi pietre alla base della torre erano state allentate e scalzate. La porta era fuori quadro e in parte sfondata; le sue spesse tavole di legno erano state intaccate dal fuoco liquido gettato dall'alto e cominciavano a bruciare. Rolf si lanciò una seconda volta alla carica, opponendo la forza bruta dell'Elefante alla resistenza della gigantesca parete in muratura. Adesso, però, fece forza con le gambe contro il bordo del pannello che gli stava davanti, e si preparò a resistere all'urto. Altre pietre della torre crollarono verso l'interno, come denti colpiti da una mazza. In preda a una gelida rabbia, Rolf continuò a portare indietro l'Elefante e poi a spingerlo contro la torre con tutta la sua forza. L'Elefante non si stancava e non si indeboliva. Dalla cima della torre assediata cominciarono a staccarsi le prime pietre del parapetto, mescolate con uomini urlanti, con fasci di frecce inutilizzate e con un calderone da cui schizzava fuoco liquido. "Ekuman, dove sei? Nasconditi in una torre più grande di questa, o seppellisciti nel più profondo dei tuoi sotterranei, se vuoi, ma non mi sfuggirai. Ardnih viene a prenderti!" Alla carica successiva, la porta si sfondò del tutto, scagliando nel cortile deserto le travi e le tavole di legno incendiate, che roteavano su se stesse con apparente lentezza. Ma ancora la torre si rifiutava di cedere, e chiudeva l'ingresso di quel tanto che impediva all'Elefante di passare. L'ultima carica dell'Elefante contro la torre in rovina non venne più arrestata. Tra forti scosse, il mostro meccanico avanzò con fragore di tuono, in mezzo a un suono che Rolf accolse con grande piacere: quello della pietra che crollava, simile a un rumore di macina. Per la prima volta, gli occhi dell'Elefante si chiusero: a causa, prima, dei blocchi di pietra che gli rovinavano addosso, poi di una nube di polvere talmente fitta che né uccello né macchina sarebbero riusciti ad attraversarla con lo sguardo. Coprendosi con le mani e con le braccia le orecchie, Rolf si raggomitolò sul sedile, con l'impressione che la torre gli fosse crollata sulla testa. Quando la sua avanzata giunse finalmente a termine, l'Elefante pencolava su un lato, ma la voce delle sue viscere continuava a ronzare in modo imperturbabile. Rolf si era appena rimesso normalmente a sedere e stava per riprendere in mano le leve di comando, quando notò con grande sor-
presa che alle sue spalle aveva preso a soffiare una nuova corrente d'aria. Il soffio era accompagnato da rumori provenienti dall'esterno e dall'odore della roccia sbriciolata. Rolf si voltò a guardare la porta, e vide con profondo stupore che era aperta. Incorniciata nell'apertura si scorgeva la figura di un guerriero. La veste, l'elmo e lo scudo del nuovo venuto erano neri e rossi; con il braccio ancora piegato a metà, puntava la spada contro Rolf: la punta era a meno di un metro dal cuore del giovane. La visiera - nera e con una maschera demoniaca dipinta in rosso - gli nascondeva la faccia, ma Rolf non ne dubitò neppure per un momento: il guerriero era Chup. Ma perfino un uomo come Chup, entrando per la prima volta nell'Elefante, dovette fermarsi per un attimo, intimorito e stupefatto. E Rolf approfittò di quell'attimo per alzarsi dalla sedia e per allontanarsi dalla spada. La punta della lama si affrettò a seguire i suoi movimenti, ma Rolf aveva ancora nella camicia la Pietra della Libertà, e il talismano, anche in quel momento, trovò una via d'uscita e gliela aprì. Sul fondo dell'abitacolo, accanto a lui, si spalancò un pannello di cui non avrebbe mai sospettato l'esistenza. Con un tuffo nello spazio buio che era così prodigiosamente comparso sotto di lui, Rolf si trovò in uno stretto ambiente, tutto circondato da macchinari strani, massicci. Il pannello si stava ancora chiudendo sulla sua testa, quando si aprì anche la superficie su cui il giovane era accoccolato: gli apparve una via di uscita. Con qualche leggera contorsione, attraversò una lastra compatta di acciaio più spessa di un uomo; poi il metallo tornò a chiudersi ermeticamente dietro di lui. Quando si guardò intorno, Rolf si trovò disteso pancia a terra, su una delle pietre cadute dalla torre, sotto il corpo dell'Elefante, che era inclinato su un fianco. Nell'aria c'era ancora una spessa, soffocante nube di polvere. Una debole illuminazione era fornita dal legno che, in mezzo alle macerie, aveva preso fuoco dalla pece incendiaria. Là sotto, la voce del mostro meccanico era forte e assordante. Ma quando uscì all'aperto, Rolf sentì un clamore di voci umane, che giungeva da poco lontano. Si alzò e si guardò attorno, alla ricerca di un'arma; da un momento all'altro, Chup gli sarebbe stato addosso. Fortunatamente, non si scorgevano altri soldati; il coraggio di Chup pareva più unico che raro, fra i difensori del castello. Un istante più tardi, Rolf fu costretto a correggersi: vicino a lui c'era effettivamente un armigero del castello che era rimasto coraggiosamente al suo posto... o che semplicemente era stato troppo lento nella fuga. Ma a-
desso era sepolto sotto le pietre. Con la mano che sporgeva dal cumulo di rovine impugnava ancora la spada; quando si chinò a raccoglierla, Rolf dovette aprirgli con la forza le dita, serrate in uno spasmo. Non appena ebbe in pugno l'arma, scorse la figura di Chup che veniva contro di lui: era davanti ai quarti anteriori dell'Elefante e saliva con attenzione sulle macerie. Il satrapo-guerriero aveva evidentemente rinunciato a imitare la magica fuga di Rolf ed era uscito dall'Elefante servendosi della porta più immediata. Ma il giovane non aveva certo il tempo di chiedersi come Chup, in primo luogo, fosse riuscito ad aprire quella porta. «Ti ho trovato, giovanotto!» esclamò Chup, in tono quasi gioviale; nell'avvicinarsi a Rolf, comunque, si mosse con una certa prudenza. Perfino lui era consigliato a muoversi con cautela, davanti a una persona che aveva dominato il potere dell'Elefante. «Il mio giovane gladiatore... e, a quanto vedo adesso, anche un mago precoce. Su, ora; hai combattuto bene, hai combattuto come un gigante, ma hai perduto. Dammi la parola magica, la briglia, la sferza, quello che usi per legare questo mostro alla tua volontà!» Rolf non perse tempo a rispondere, ma si chinò a raccogliere con la sinistra una pietra, e nello stesso tempo tenne pronta, nella destra, la spada. Ora, le grida si stavano facendo più vicine. Parevano giungere dall'apertura dove, fino a poco tempo prima, sorgeva la porta: un'apertura adesso in gran parte bloccata dalla sagoma dell'Elefante, messa per storto. Chup si era piazzato tra Rolf e l'Elefante. Il giovane fece qualche passo nel cortile, per posare i piedi sul terreno anziché sulle macerie della torre. Ma Chup non era disposto a sopportare i temporeggiamenti; si portò in fretta verso Rolf. Il giovane capì di non avere scampo: la leggera ferita sulla spalla gli ricordava che la Pietra del Prigioniero non forniva alcuna protezione contro i colpi di spada. Rolf scagliò con la sinistra, come meglio poté, la pietra che aveva impugnato, e subito cercò di colpire l'avversario con un affondo. Vide la pietra rimbalzare sullo scudo che Chup aveva sollevato di scatto; un attimo più tardi, la spada gli fu strappata dalle dita: il satrapo l'aveva intercettata con una parata corta, di una tale violenza da fargli dolere la mano. Poi Chup si lanciò alla carica su Rolf come un Elefante umano, e il giovane finì a terra. Sapeva che l'avversario gli risparmiava la vita soltanto perché voleva conoscere il suo segreto; la maschera demoniaca di Chup giganteggiava su di lui; la punta della sua spada gli premeva contro lo stomaco. «Adesso, rivelami il segreto dell'Elefante, o vedrai che io, lentamente...»
Avvertito da un acuto grido di battaglia. Chup girò su se stesso in tempo per affrontare Mewick che stava balzando su di lui. Il finto mercante non aveva scudo, ma si proteggeva la destra, armata di una corta spada, impugnando con la sinistra una strana ascia da guerra, con una guardia a protezione delle dita. Rolf approfittò della diversione per rotolare via. Vide che Chup faticava a reggere al primo assalto; il satrapo dovette cedere terreno e indietreggiare, ma, dopo qualche passo, si fermò e cominciò a rispondere ai colpi. Spada e scudo, spada e ascia, cozzarono tra loro a una tale velocità che l'occhio non riuscì più a distinguerli, si separarono per un istante, tornarono a scontrarsi con maggiore violenza. Dall'apertura dove un tempo si trovava la porta principale del castello, cominciavano ora ad affluire gli armati del Popolo Libero, che scavalcavano i mucchi di pietre e giravano attorno all'Elefante. E i soldati dall'elmo di bronzo uscivano dal castello e si schieravano per affrontarli. In mezzo alla confusione, Rolf strisciava sulle macerie, cercando di ritornare all'interno dell'Elefante: dalle viscere del mostro continuava a levarsi un basso ruggito, in mezzo al crescente clamore della lotta. Ma il giovane scorgeva sempre, davanti a sé, qualche elmetto di bronzo. Non poteva aprirsi la strada fino all'Elefante senza una spada. Dov'era quella che Chup gli aveva fatto volare via di mano? Gli pareva che, per chissà quale maledizione, lui finisse sempre senza armi. Saltando da una pietra all'altra e scansando il nemico per non farsi scorgere, Rolf riuscì a girare attorno alla mischia fino a portarsi in un punto da cui scorgeva la porta dell'Elefante, ancora aperta in modo invitante. Cercò di farsi sentire da qualcuno del Popolo Libero, per invitarlo a entrare nella macchina, ma il clamore della battaglia soffocava le sue parole. E nessuno dei suoi compagni aveva mai visto l'Elefante prima di quel momento: non c'era da stupirsi che non fossero particolarmente ansiosi di gettarsi nella caverna rumorosa che si spalancava al suo interno. Rolf riuscì infine a procurarsi un'altra arma, togliendola a un armigero morto. Ma più tardi, quando cercò di aprirsi la strada verso il mostro meccanico, fece fatica a difendersi da un compagno dell'uomo a cui aveva preso la spada. Questa volta, l'avversario era ben lontano dalla forza e dall'abilità di Chup nell'uso delle armi, ma non era neanche un novellino come Rolf. Il giovane fu costretto ad allontanarsi dall'Elefante e dalla breccia praticata nella torre. Il duello non giunse mai a conclusione; Rolf e il suo avversario vennero
separati dalla confusa, precipitosa ritirata degli armigeri, che andarono a rifugiarsi in un cortile interno. Il giovane finì nuovamente a terra e finse di essere svenuto mentre i nemici correvano attorno a lui. Per un momento si chiese se tutte le battaglie fossero assurde e stupidamente disperate come quella. Quando la fuga ebbe termine e lui poté di nuovo alzare la testa, vide che i suoi amici erano in possesso della zona attorno a lui. Ma la battaglia era tutt'altro che conclusa. Gli ultimi uomini del Popolo Libero che erano entrati dalla porta sfondata non stavano più attaccando, ma parevano piuttosto in ritirata. Dietro di loro echeggiavano suoni di tromba, accompagnati dall'acciottolio degli zoccoli: arrivava una squadra di cavalleggeri, e piuttosto consistente. I primi uomini a cavallo entrarono nel cortile, ma gli animali inciamparono nelle rovine della torre e si ritrassero impauriti dall'Elefante e dai tronchi incendiati che si scorgevano da ogni parte. Thomas radunò i propri uomini per schierarli davanti alla porta, contro la forza di cavalleria. Il nemico smontò di sella e, con le lance abbassate, riuscì a tenere il suo lato della breccia... e a tenere l'Elefante, anche se nessuno osava avvicinarglisi. I cento armati che erano entrati con Thomas si trovavano ora in trappola nel castello. Gli "Evviva" echeggiarono da un lato all'altro del cortile, tra gli uomini di Ekuman che difendevano la porta e i loro compagni nella rocca: La selva di lance che difendeva l'Elefante pareva inespugnabile. «Alla rocca, allora!» gridò Thomas, prendendo rapidamente una decisione. Prima che Rolf potesse dare qualche avvertimento al capo del Popolo Libero, i suoi compagni si lanciarono alla carica all'interno del castello, e il giovane non poté fare altro che unirsi a loro. La sua spada non versò neppure una goccia di sangue, perché la carica non incontrò resistenza finché non ebbe risospinto nella massa insuperabile della rocca i difensori delle mura e delle scuderie. A quel punto, il Popolo Libero incontrò porte robuste come quella esterna, chiuse e sbarrate a protezione dal nemico. E dall'alto cominciarono a piovere sassi e frecce. Il cortile era pieno di carri e di altri oggetti sotto cui ci si poteva nascondere. Rolf, boccheggiante, era appena sgattaiolato sotto un carro, quando venne a raggiungerlo un uomo di alta statura, con una spada in mano, che si lasciò cadere a terra. Nel voltarsi, il giovane riconobbe Thomas. Anche il capo del Popolo Libero, al pari di Rolf, aveva il fiato corto.
«L'Elefante è guasto?» chiese. «Si è azzoppato?» «No.» «No? Allora, che demone ti è preso, per lasciarlo?» «Il demone Chup. Ha aperto la porta... non so come abbia fatto...» Thomas si lasciò sfuggire un gemito. «Non chiediamoci come ha fatto. Ma il nemico sarebbe in grado di usare l'Elefante? Quel mostro gli obbedirebbe, se qualcuno osasse salirvi?» «Forse.» Rolf cominciò a spiegargli il funzionamento dei comandi. «Va bene, va bene. Allora, non ci resta che riportarti al suo interno. Abbi cura di te stesso finché non saremo riusciti a farlo... Che cosa succede? Gli uccelli! Ecco una buona manovra diversiva, se riusciremo ad approfittarne!» Dalle parti alte del castello giungeva un coro polifonico di grida. Il sistema difensivo di reti e di corde, probabilmente indebolito dalla caduta della torre posta accanto alla porta, era sottoposto a un feroce attacco da parte degli uccelli, che parevano essersi procurati qualche lama per fare meglio il lavoro. Pezzi di rete e di corda cominciavano già a pendere fino al cortile: gli uomini del Popolo Libero li sfiorarono, quando Thomas li lanciò in un nuovo assalto contro la porta esterna. Ma nel cortile c'erano troppe fiamme perché gli uccelli potessero venire a dare man forte. E alla luce dei fuochi, il dorso del Popolo Libero era esposto al tiro delle frecce che ora grandinavano dal tetto della rocca. Le lunghe armi dei cavalieri, puntate verso il cortile, fitte e aguzze come un filare di rovi, formavano una parete impervia alle spade, alle mazze ferrate e ai forconi dei contadini. «Indietro! Tutti indietro!» gridò Thomas. Ancora una volta si rifugiarono, stremati, nella relativa protezione del cortile interno. Ora Thomas ordinò: «Cercate un tronco! Dobbiamo abbattere la porta della rocca!» ma nella sua voce c'era un chiaro sottofondo di disperazione. Quella porta era in grado di resistere a qualsiasi ariete manovrato dagli uomini; e dall'alto sarebbero continuati a piovere sassi e frecce; inoltre, con il passare del tempo, Ekuman avrebbe finito per ricevere rinforzi. Rolf sentì il peso della Pietra del Prigioniero, ancora nascosta sotto la sua camicia. Ma sarebbe stata inutile per schiudere quella porta... Poi, all'improvviso, capì. Il giovane afferrò Thomas per il gomito e nello stesso tempo gli mostrò la Pietra. «È stata questa ad aprire la porta a Chup» disse «quando mi trovavo al-
l'interno dell'Elefante! Per chi ha questa pietra, nessuna porta rimane chiusa, di quante lo custodiscono...» Thomas lo fissò per un istante, perplesso, e poi capì. Sollevò un braccio e prese ad agitarlo in fretta, per far accorrere uno degli uccelli. 13 SPUNTA L'ALBA Accigliato, intento alle proprie magie, Elslood era fermo accanto a un tavolo illuminato da torce, nella sala delle udienze colpita dal fulmine, sul lato opposto al trono. Il pavimento accanto a lui era ancora coperto di pietre cadute dalla finestra da cui era passata la folgore, da grumi e macchie della schiuma che spegneva il fuoco e che impiegava molto tempo ad asciugarsi, e da altri resti della sciagura di quel pomeriggio, compreso un paio di cadaveri. Ma quelli di Zarf e del suo demone servitore erano stati portati via; la salma di un mago resta pur sempre un corpo carico di potere, capace di interferire con la magia di un altro mago. Ritornato nel suo posto tradizionale, dove un tempo la sua nicchia era coperta di ricchi tessuti e protetta da un ragno, Elslood si era procurato un nuovo tavolo di lavoro e aveva fatto un po' d'ordine. Ma, mentre era intento a passare le mani sui disegni e sugli oggetti da lui distesi sul tavolo e a mormorare formule magiche, Elslood aveva già la sensazione che il suo lavoro dovesse risultare inutile. Era difficile usare le arti più sottili contro un nemico che era sceso contro di te in campo aperto: la magia era disturbata dalle spade sguainate e dal versamento di sangue. A volte, in simili situazioni, si potevano usare gli elementari, naturalmente... il suo industrioso avversario Loford aveva una notevole abilità nell'evocarli, anche se in tanti altri rami della magia era di gran lunga inferiore a lui. Ma nessuno poteva sollevare un elementare dalle pietre lavorate del castello, né dal terreno calpestato da un infinito numero di piedi umani su cui sorgeva la rocca. Sul ripiano del tavolo era posato un cristallo piatto che, sotto la magia di Elslood, si stava lentamente oscurando. Il mago non riusciva a portare a buon frutto l'oscurità, non riusciva a evocarne il temuto potere da lui cercato... ma il cristallo, nella sua condizione presente, faceva più prosaicamente da specchio e distraeva Elslood mostrandogli quel che si stava svolgendo in quel momento nella sala, a poca distanza dal trono di Ekuman,
ora vuoto. Nella sala, gli armigeri continuavano ad andare e venire, eseguendo le missioni loro affidate, ma uno di loro non si staccava mai dalla barella su cui era adagiato il prigioniero che nel pomeriggio era stato ferito nell'arena. Né si staccava da lui la ragazza dai capelli neri, che continuava amorosamente a vegliarlo. Elslood sapeva che neppure il combattimento e l'invasione del castello sarebbero riusciti a far dimenticare a Ekuman l'intrigo di quel giorno. Ekuman non dimenticava mai nulla. E quando il satrapo avesse vinto la battaglia notturna - e in quel momento pareva prossimo a vincerla - avrebbe ripreso l'indagine dal punto a cui era giunto. Elslood era riuscito a tacitare con efficacia il sergente infliggendogli una serie di accessi di follia. E il giovane misterioso che aveva detto di chiamarsi Ardnih era riuscito a fuggire. Il ferito, però, poteva tuttora rendere una testimonianza che avrebbe finito per coinvolgere Elslood, e di conseguenza era indispensabile metterlo a tacere. Ma c'erano l'armigero di guardia e la ragazza bruna dell'harem, che, sia pure inconsapevolmente, costituiva un ostacolo ancor maggiore. La sua dedizione, che splendeva come una torcia, teneva lontano le nere arti della magia. Eppure, doveva essere possibile fare qualcosa, per dare il colpo di grazia a una persona che era così gravemente ferita... Fu così che, mentre, dimentico dei doveri verso il suo signore, guardava sulla superficie speculare del cristallo ciò che accadeva dietro di lui, Elslood vide una forma alata entrare nella stanza dalla finestra colpita dal fulmine. Dapprima pensò che si trattasse di un rettile, poi udì il forte, sonoro richiamo musicale. Si girò su se stesso, in tempo per vedere la zampa del grande uccello, munita di lunghi artigli, lanciare nella sala un oggetto che, chissà perché, gli parve assurdamente simile a un uovo. L'oggetto rimbalzò e percorse una breve distanza sul pavimento bruciato, fino a raggiungere la ragazza accanto alla barella. Lei si protese in avanti e lo raccolse; più, a quanto pareva, per impedirgli di colpire il suo innamorato che per qualche altra ragione. L'uccello era già sparito dalla finestra. Per un attimo, la ragazza rimase ferma come una cerbiatta spaventata e maldestra, poi fece un passo indietro, stringendosi al seno l'oggetto misterioso. Non lo voleva. Elslood le lesse in faccia che desiderava soltanto sbarazzarsene, nasconderlo, tornare a vegliare il ferito prima che qualcuno se ne accorgesse.
L'armigero che stava di guardia aveva lanciato un grido in direzione dell'uccello, che però era scomparso senza che lui potesse fare molto di più. Ora afferrò la schiava bruna e, anche se lei non fece alcun tentativo di fuggire, non riuscì a tenerla: ogni volta, le mani gli scivolarono lungo le braccia o lungo il vestito della ragazza. E, poiché cercò ripetutamente di afferrarla, diede l'impressione di volerla accarezzare con frenesia. Infine, spaventato dal suo incontro con qualcosa di magico, il soldato si trasse indietro, proprio mentre Elslood lo raggiungeva. Il mago non cercò di bloccare la ragazza. Lei, del resto, non aveva alcuna intenzione di fuggire: almeno, non senza il suo uomo. Questa volta, si disse Elslood, gli uccelli avevano commesso un errore, cercando di salvare il prigioniero sbagliato. Guardando dall'alto della sua statura la ragazza spaventatissima. il mago si limitò a tendere la mano aperta, con il palmo in su. Lei gli consegnò la Pietra. Un istante più tardi, dalla base della rocca giunse un coro di grida impaurite. Il mago provò un forte choc, prima di sospetto e poi di comprensione, quando la ragazza tornò a inginocchiarsi vicino alla barella. Con le dita sensibili, sfiorò rapidamente la superficie dell'oggetto che aveva ricevuto in consegna e che era coperto di un'antica iscrizione: ...né da fattura né da catena, né da fossato né da dirupo potrà essere confinato colui che ha in mano questa Pietra. Né lucchetto, né serratura né chiavistello potranno imprigionarlo. Perdano ogni potere sentinelle e porte, guardiani e pareti, aventi lo scopo di custodirlo al loro interno... Per un istante, Elslood si limitò a fissare nel vuoto, poi sulle labbra gli spuntò un debole sorriso: "Già, Loford. Io pensavo a te con disprezzo, ma alla fine hai vinto tu". Sulla terrazza del maschio, Ekuman gridava di rabbia e di stupore, e dalle scale sotto di lui giungevano già i rumori di una ritirata in preda al panico. I pochi soldati rimasti nella rocca non erano in grado di difenderla, dopo che le grandi porte su cui avevano fatto affidamento si erano improvvisamente spalancate. Al pensiero di Charmian, Elslood si sentì ritornare tutte le energie. Senza dare retta alle grida di Ekuman, senza badare ad altro, l'alto mago grigio corse via dalla sala delle udienze e si diresse verso le scale. Con gambe
scattanti come quelle di un giovane, percorse a rotta di collo una rampa e oltrepassò i satrapi che erano venuti a festeggiare le nozze e che in quel momento salivano le scale all'indietro, in ritirata, con la faccia truce e la corazza sporca di sangue. Elslood lasciò la scala quando fu giunto al piano più alto del maschio. Corse lungo un corridoio da cui giungeva un penetrante odore di fiori marci e, senza farsi annunciare, entrò nell'appartamento di Charmian, arredato con squisita eleganza. Mentre era ancora nel corridoio, aveva già sentito levarsi in quell'appartamento un coro di grida femminili. Il clamore si spense immediatamente al suo arrivo. Il nemico era ancora lontano: nella stanza c'era solo una zuffa tra donne, a base di tirate di capelli. Per maggiore sicurezza, all'inizio della battaglia tutte le Signore dei satrapi ospitati da Ekuman erano state raccolte in quelle stanze, in mezzo all'allegria - divenuta ormai alquanto inopportuna - dei grandi mazzi di fiori, in quello che doveva essere l'appartamento degli sposi. E alcune delle Signore avevano litigato con Charmian. Ora la bionda principessa sollevò la testa, in mezzo a uno sgraziato gruppo di litiganti: la faccia di Charmian, distorta dalla collera, era divenuta quasi brutta. Elslood non l'aveva mai vista così. L'avevano spettinata per tirarle dolorosamente i capelli, aveva gli occhi gonfi di lacrime e d'ira... ma Elslood non notò alcuna di queste cose. Vide solo che la sua principessa, per qualche motivo, era felice del suo arrivo. «Cambiatele!» gli gridò, con voce stridula. «Colpite queste cagne con i vostri incantesimi, fatele diventare delle vecchie repellenti, delle megere...» Elslood non aveva il tempo di obbedire o di calmarla. Alzò la voce, superando il tono di quella di Charmian, per dirle, mentre le passava la Pietra della Libertà: «Mia Signora, prendete questa! È la condanna di chi governa, ma per il fuggitivo è la benedizione. Passando dal potere alla fuga, il suo effetto cesserà di essere un danno e diverrà un aiuto. In questo momento non posso darvi altro.» Nell'udire il tono del mago, la donna tornò seria. Accettò la Pietra, obbediente. «Fuga? Dunque, abbiamo perduto?» L'ultima volta che il mago l'aveva sentita parlare in quel modo, Charmian aveva dieci anni. Mentre le altre donne si allontanavano da lui terrorizzate, Elslood prese per il polso la bionda principessa e la fece uscire dall'appartamento. Conosceva l'imboccatura del passaggio segreto di Ekuman, e sapeva che quella via di fuga, buia e priva di finestre, correva sotto le
scale, oltrepassava le mura del castello per poi sbucare dal sottosuolo a una lega di distanza dalla rocca, nel deserto orientale. Alla fine del passaggio segreto c'era anche un nascondiglio, contenente acqua, cibo e armi nell'eventualità che sopraggiungesse un momento come quello. Ekuman li aspettava sulla prima rampa di scalini dietro la sala delle udienze, accanto all'ingresso del passaggio segreto. «Come prevedevo» disse il satrapo, e per qualche tempo non aggiunse altro. Ma la giovane donna dai capelli d'oro e l'alto uomo grigio rimasero impietriti davanti a lui, muti e tremanti. Fu Charmian a rompere il silenzio. «Padre?» implorò, con il tono di prima, infantile e spaventato. E accorgendosi che Ekuman, intento a fissare Elslood, non muoveva gli occhi e non parlava, si sciolse il polso dalla stretta del mago e corse via, oltre il padre, per poi sparire entro l'imboccatura del passaggio. «Sapevo che il traditore eri tu» disse Ekuman. I suoi occhi non lasciavano quelli di Elslood. Aveva la faccia dura come la pietra. «L'ho pensato quando l'armigero è stato preso dalle convulsioni. Ma ho aspettato, perché volevo averne la certezza.» Il satrapo scosse la testa, perplesso. «Può darsi che tu mi abbia distrutto» continuò. «Per niente. Per un'infatuazione.» Elslood si era sempre abituato a non affrontare la paura, bensì a evitarla. Perciò, ora se ne sentì schiacciare, come se fosse un peso molto greve, sceso improvvisamente sulle spalle di un uomo indebolito dalla trascuratezza e dalla mancanza di esercizio. Guardando ora Ekuman, gli lesse negli occhi il suo inevitabile destino, e sentì Fondata di paura salirgli dallo stomaco alla testa, come un fiotto di vomito. Impossibile che succedesse proprio a lui; no, non ora; c'era sempre una via di scampo... Con un riflesso difensivo, Elslood cominciò a formulare un proprio incantesimo, ma non riuscì mai a terminarlo. Per grandi che fossero i suoi poteri, essi erano del tutto inermi contro quelli che Ekuman aveva ricevuto nei Monti Neri, a quell'unico, preciso scopo, da Som dei Morti. Ma Elslood non riusciva ancora a capire che stava succedendo proprio a lui. Senza credere a quel che vedeva, osservò la mano del satrapo sollevarsi nel gesto di potere, sentì la voce di Ekuman pronunciare l'unica parola necessaria. Poi Elslood non riuscì a vedere più niente... per qualche tempo. Ma non perse mai la coscienza. Gli parve che da ogni poro del suo corpo uscisse un sottile rivolo d'acqua: gli parve che tutta la sostanza che lo rendeva alto e forte si allontanasse da lui sotto forma di acqua e di vapore, lasciandolo
con la dimensione di un neonato. Anche il suo cervello sapeva di ridursi, per tenersi alla pari con ogni altro organo. E, cosa ancor più orribile, sapeva che la sua mente e la sua ragione si restringevano insieme con il cervello. L'intelletto era consapevole, passo passo, della mutilazione che subiva. Per un momento, i suoi sensi rimasero disorganizzati, sfocati, ma presto gli ritornarono: tornarono a un corpo dalla forma diversa da quella di prima, nascosto sotto il mucchio di abiti umani caduti sul pavimento. La creatura che riacquistò i sensi si era dimenticata della magia, e perfino del linguaggio. Ma conservava ancora alcuni ricordi, e sapeva che non sarebbe mai riuscita a dimenticare che un tempo era stata un uomo. Ekuman diede un calcio alla creatura, che si allontanò da lui terrorizzata, cercando di usare i nuovi piedi palmati a cui non era avvezza. Gracidò e saltellò via, come se volesse fuggire da quel che era diventata. Il satrapo non pensò più a essa, perché i rumori della lotta, provenienti dalle scale sottostanti, si stavano ormai avvicinando. Girò su se stesso e prese la medesima strada da cui era fuggita la figlia: il passaggio segreto. Si ricordò di controllare che la porta d'ingresso, alle sue spalle, fosse ben chiusa. Charmian doveva essere già lontana, nel buio della galleria, perché non si udiva più neppure l'eco dei suoi passi. Ekuman si avviò con disinvoltura lungo il passaggio, senza bisogno di luci e senza pensare alla figlia. Non intendeva dirigersi verso il deserto, almeno per ora. Gli rimaneva una possibilità di vittoria. Pensava all'Elefante. Dalla cima della rocca aveva visto l'impavido Chup entrare nell'Elefante e cacciare via il giovane che l'aveva cavalcato fino a quel momento. Poi l'Elefante era rimasto aperto, senza cavaliere, ed Ekuman aveva compreso con ira, ma anche con soddisfazione, che nessuno dei suoi uomini osava introdursi all'interno. Al punto cui era giunto, Ekuman era disposto a osare qualsiasi cosa. E il passaggio segreto aveva anche un altro sbocco, a poca distanza dalla porta sfondata presso cui era fermo l'Elefante. Quando uno degli uomini del castello aveva preso in mano la Pietra del Prigioniero, il cui potere aveva fatto spalancare la grande porta del maschio, Rolf era stato uno dei primi del Popolo Libero a entrare. Nel piano più basso della rocca dovette usare la spada... con risultati molto modesti, esattamente come prima. Ma ai suoi fianchi c'erano dei combattenti più esperti. Il nemico era costretto a indietreggiare e veniva abbattuto: era stato
colto di sorpresa ed era inferiore di numero, nella rocca dove aveva pensato di potersi trovare infine al sicuro. Rolf si unì agli altri che combattevano lungo la scala e che ora dovevano lottare contro l'ultima, disperata resistenza dei satrapi e delle loro guardie del corpo. Chup non era tra loro; Rolf non lo aveva più visto, né aveva visto Mewick, da quando i due avevano iniziato il loro duello nel cortile. Cessata ogni resistenza, Rolf, che conosceva meglio degli altri la planimetria del castello, condusse la prima squadra verso i piani più alti della rocca. Con la spada in mano, fu il primo del Popolo Libero a entrare nella sala delle udienze: la stessa sala da cui era stato portato via sotto scorta qualche ora prima. Si sentì tremare di sollievo le ginocchia nel vedere che Sarah era viva e che non era ferita. Era nello stesso punto dove Rolf l'aveva vista l'ultima volta: inginocchiata accanto alla barella di Nils, come se il tempo da allora trascorso l'avesse trovata immune ai pericoli e si fosse limitato a passarle attorno. La ragazza sollevò con gioia lo sguardo nel sentir giungere il Popolo Libero... ma quando riconobbe Rolf sotto il sangue e il sudiciume che gli coprivano la faccia, gli occhi le si fecero improvvisamente di ghiaccio. Nils respirava ancora; al loro ingresso, volse uno sguardo un po' appannato, ma ancora vivo, verso i suoi salvatori. Thomas si guardò rapidamente attorno e poi chiese a Sarah: «Hai visto da che parte è andata Sua Grazia il Sire Ekuman?» La ragazza poté solo scuotere la testa: non lo sapeva. Gli uomini del Popolo Libero cominciarono a separarsi in piccoli gruppi e a esplorare la rocca. Alcuni si recarono sul terrazzo, altri frugarono tra gli arazzi appesi alle pareti, altri ancora controllarono con la punta della spada che nessuno si fingesse morto. Rolf raggiunse le scale che salivano fino alla cima della torre. Sui primi scalini incontrò un mucchietto di abiti. Lo sollevò con la spada, e vide che era una lunga veste grigia. Gli pareva d'averla già vista, ma per il momento non si ricordò di chi l'avesse indossata... Un piccolo cerchietto, che pareva fatto di raggi di sole intrecciati, uscì dalla veste e cadde a terra proprio ai piedi di Rolf. Al giovane tornò in mente quanto fossero gelidi e minacciosi gli occhi di Sarah, nel guardarlo pochi istanti prima. Ma Sarah aveva i capelli neri, e non biondi come quelli. Lui amava Sarah: perché allora si piegava in fretta a raccogliere quell'incantesimo color dell'oro? Il cerchio era sottile, perfetto e annodato in modo complesso. Nel toccar-
lo, Rolf ne avvertì tutto il potere. Ma perché si era affrettato a infilarlo nella tasca interna della camicia? Thomas si affiancò a lui e si avviarono insieme lungo le scale. Quando videro il lusso che regnava nell'appartamento posto in cima alla torre, ebbero la certezza che si trattava di quello di Ekuman. Ma il satrapo non c'era. In un piccolo vestibolo, due ragazze dell'harem cercavano di nascondersi; gridarono terrorizzate quando Rolf e Thomas si precipitarono su di loro. «Dov'è?» chiese Thomas, ma le ragazze riuscirono solo a scuotere la testa, impaurite. Rolf notò che una di loro aveva i capelli rossi, l'altra castani. Pareva che in tutto il castello, e forse in tutta la regione, ci fosse stata una sola ragazza con i capelli di quel particolare colore dorato... Dall'esterno giunse un "Evviva" che pareva un ruggito, e Rolf e Thomas si recarono a una finestra. Sul terrazzo, la quantità di torce era sufficiente a mostrare che la bandiera nero e bronzo di Ekuman veniva abbassata, fatta a pezzi, coperta di sputi e presa a calci. L'ammainabandiera venne visto anche da altri: gli ultimi soldati di Ekuman che detenevano ancora una porzione del campo, i lancieri tuttora raccolti attorno all'Elefante. Ma la caduta della torre, testimoniata dall'ammainarsi della bandiera, fu troppo anche per loro. Abbandonarono i feriti, alcuni di loro lasciarono anche le armi, si voltarono e fuggirono. Lassù, in cima alla torre, le finestre erano più larghe e meno profonde che nei piani inferiori. Lassù Thomas era in grado di sporgersi a vedere che cosa succedeva sotto di loro e di picchiare il pugno sul davanzale. «Erano meno di quel che pensavamo! Avremmo potuto raggiungere l'Elefante con un solo assalto in più. Be', ora è nostro...» Gli incendi che erano inziati quando Rolf aveva aperto una breccia nella porta, si stavano estendendo alle costruzioni più vicine alle mura del castello; nel cortile, la luce era sufficiente a mostrare a Rolf e Thomas una lastra del pavimento che si era improvvisamente sollevata, spinta dal di sotto. Dal terreno emersero prima la testa e poi le spalle di un uomo alto e magro. L'uomo si voltò da una parte e dall'altra, e poi si lanciò di corsa verso l'Elefante. «È Ekuman!» Anche a quella distanza, Rolf era certo di non sbagliarsi. Thomas gridava qualcosa di incomprensibile. La figura di Ekuman pareva divenire sempre più piccola, a mano a mano che si avvicinava alla grande mole del mostro meccanico. Il satrapo trovò gli scalini sul fianco dell'Elefante, entrò nel cerchio illuminato della porta, allungò il braccio e
la chiuse dietro di sé. Appena in tempo, perché un contadino ruppe il forcone scagliandolo contro la porta chiusa e un altro giunse di corsa e si mise a sferrare grandi colpi d'ascia sulla sua circonferenza. Ma tutto era inutile: Ekuman si era ormai installato in un luogo da cui nessuna forza umana sarebbe più riuscita a toglierlo; e Rolf sapeva che le redini erano pronte per la mano del satrapo, o di chiunque si desse la pena di impugnarle. Il giovane stava già precipitandosi giù per le scale. Thomas, un passo dietro di lui, gli chiese: «L'Elefante gli obbedirà?» «Io ho imparato in fretta a dare ordini all'Elefante. E questa volta è già sveglio.» Obbedendo a un impulso che non sarebbe riuscito a spiegare, Rolf lasciò la scala quando fu giunto al livello della sala delle udienze. Si arrestò in mezzo alla vasta sala, che un tempo era tanto lussuosa. Ora sul pavimento si scorgeva il solco del fulmine, nero e bruciacchiato, in mezzo a mucchietti di schiuma persistente... Con un balzo, Rolf salì in piedi sul trono e cercò di staccare dalla parete il gemello del cilindro rosso che Ekuman aveva usato per spegnere l'incendio. Non era pesante. Thomas era ancora dietro di lui. «Quella cosa fermerà l'Elefante?» chiese. «Non credo che riuscirebbe a fermarlo neppure la Pietra del Tuono.» «Non conosco niente che sia in grado di fermare l'Elefante» rispose Rolf, con convinzione. «Potrebbe abbattere questa rocca, penso, se le braccia di chi lo guida non si stancassero di muovere le leve avanti e indietro. Ma forse riuscirò ad accecare l'Elefante per breve tempo. Forse quanto basterà ai nostri per salire su una montagna, o per tornare nelle paludi.» Rolf aveva già buttato a terra la spada. Quando tornò a scendere lungo le scale, cercò di legarsi attorno alla spalla, a bandoliera, il lungo cilindro, mediante la correggia di cuoio che fino a quel momento era servita ad assicurarlo alla parete. Dopo essersi chiuso all'interno dell'Elefante, Ekuman si disse che era il momento di rallentare l'andatura, di riflettere e di comportarsi con grande circospezione. Le squadre ribelli che l'avevano visto entrare dovevano gridare in preda allo sconforto, ma gli unici suoni che si udivano all'interno dell'Elefante erano il profondo ronzio della forza misteriosa che giungeva da un punto sotto i suoi piedi e il respiro affannato dello stesso Ekuman. Con mano ferma si avvicinò alle strane luci che brillavano attorno a lui,
tanto luminose e tanto fredde, e poi le toccò senza timore. Si sentiva quanto mai coraggioso, ora che non aveva più niente da perdere. Presto notò che qualcuno doveva essersi seduto sulla poltroncina di centro, perché l'antico cuscino era rotto e appiattito. Ed Ekuman sapeva chi aveva occupato quel seggio più potente di un trono: era sul terrazzo, a guardare, quando Chup aveva costretto Rolf a uscire dall'abitacolo. Il satrapo aveva riconosciuto lo stesso giovane, esteriormente niente più di un contadino, che aveva preso parte allo sciocco intrigo di Charmian e che, durante l'interrogatorio, si era improvvisamente alzato in piedi e aveva guardato Ekuman negli occhi, senza timore. «Io sono Ardnih» aveva detto il ragazzo, e dopo un istante era giunto il fulmine, come se l'avesse scagliato con la sua mano destra. Ma il satrapo Ekuman era sopravvissuto al fulmine, così come era sempre sopravvissuto ai colpi di Ardnih. E ora il trono del potere dell'Elefante era suo. Forse Ardnih era solo un simbolo, forse era qualcosa di più, ma in qualsiasi caso Ekuman intendeva schiacciarlo. Si sedette cautamente nel posto dove in precedenza c'era stato Rolf. Non successe niente di particolare, tranne il fatto che si sollevò una piccola nube di polvere, prosaica e a suo modo rassicurante. Quando si fu seduto, scorse l'anello visivo e fu colto da una grande meraviglia. A quel punto, cautamente, ma con sicurezza, abbassò le braccia fino a sfiorare le leve di comando. Erano il posto più ovvio dove mettere le mani, quando si era seduti laggiù. Rolf uscì dalla porta spalancata della rocca, saltando sui corpi dei morti e sulle macerie. Fece appena in tempo a vedere i primi, incerti movimenti dell'Elefante sotto i comandi del suo nuovo padrone. Chinò le spalle e corse fra le macerie che occupavano il cortile, cercando di nascondere dietro la schiena, quanto più possibile, il cilindro rosso, in modo che Ekuman, non vedendolo, non capisse quali erano le sue intenzioni. Forse il satrapo lo vide, forse no; l'Elefante sobbalzò rumorosamente, con rumore di pietre macinate, e si liberò dalle rovine della torre: poi, con un assordante ruggito, uscì a marcia indietro dalla breccia che aveva aperto nelle mura. L'Elefante svanì alla vista di Rolf, ma il suo rumore non diminuì; quando il giovane giunse alle rovine della torre caduta, vide che la grande sagoma corazzata era immobile davanti a lui, come in attesa del suo arrivo, sulla prima curva della strada che scendeva al villaggio. Rolf capì che il nuovo conducente non era ancora perfettamente certo
del fatto suo. Corse verso l'Elefante, ed Ekuman lo fece ruggire e avventarsi contro di lui. Il giovane attese che i grandi cingoli fossero quasi giunti alla sua altezza, che la terra gli tremasse violentemente sotto i piedi; poi, con un balzo, si tolse di mezzo e corse verso il fianco dell'Elefante. Prima che la grande bestia di metallo potesse allontanarsi, Rolf trovò i piccoli scalini incassati sulla superficie dell'Elefante e si arrampicò verso la torretta. All'improvviso, l'Elefante lasciò la strada e si gettò lungo il pendio. Il movimento rischiò di far perdere la presa al ragazzo, che si tenne con tutte le forze agli appigli, con il cilindro che gli penzolava dalla schiena. Quando raggiunse la maniglia della porta, vi si appoggiò con tutto il proprio peso, ma naturalmente Ekuman aveva chiuso la porta dall'interno... e non aveva con sé una Pietra del Prigioniero che gliela spalancasse a tradimento. Ekuman girò nell'altro senso, e Rolf ne approfittò per trovare una presa più salda: con un balzo si aggrappò a uno dei cilindri che sporgevano dalla cima dell'Elefante. Pochi istanti più tardi fu in grado di issarsi lassù. Seduto sulla groppa più alta del mostro di metallo, si tenne con le gambe alle sporgenze e con le mani poté impugnare il cilindro rosso. Afferrò il lungo imbuto nero e lo puntò come aveva visto fare al satrapo; poi, con le dita della mano destra, trovò senza difficoltà la leva da premere e spruzzò i piccoli occhi da insetto che costellavano, regolarmente distanziati, la testa dell'Elefante. Alla pallida luce che precede l'alba, la schiuma che usciva dal cilindro pareva priva di colore, priva di sostanza. Diversamente da quanto si era augurato il giovane, la schiuma non rimaneva a lungo sugli occhi dell'Elefante. Il metallo e il vetro infrangibile erano molto lisci e, con i sobbalzi dell'Elefante e il vento della corsa, la schiuma scompariva in fretta. Tuttavia, gli occhi dell'Elefante rimanevano coperti finché Rolf dirigeva il getto su di essi: il satrapo non sarebbe stato in grado di vedere la direzione in cui andava, tanto meno di rincorrere bersagli mobili; Rolf ricordò che, nel periodo in cui si era trovato ai comandi, sia la polvere, sia le pietre, sia il fuoco liquido avevano accecato l'Elefante per breve tempo. Ekuman, che non avrebbe potuto fare niente finché non si fosse sbarazzato di Rolf, faceva arrestare bruscamente l'Elefante, tornava ad avviarlo, gli faceva compiere delle strette curve, lo faceva scendere lungo il pendio che portava ai piedi del passo. Dal cilindro rosso, la schiuma continuava a uscire a velocità prodigiosa. Rolf cominciò a muoverlo in cerchio, cercando di coprire con quella so-
stanza sia gli occhi anteriori sia quelli posteriori del mostro. Quando il giovane si concesse un momento di sosta per sollevare lo sguardo, vide che il Popolo Libero usciva dal castello e si disperdeva lungo le pendici del monte. I suoi compagni avrebbero ancora avuto la possibilità di combattere in futuro... combattere contro un satrapo che cavalcava l'Elefante e contro le forze che un simile uomo avrebbe potuto chiamare a sé. Ma Rolf non aveva il tempo di piangere un domani così amaro. L'Elefante continuava a contorcersi e a voltarsi, lungo la strada che portava al passo, e le sue manovre diventavano sempre più violente a mano a mano che Ekuman imparava a usare i comandi. Varie volte, Rolf fu quasi scagliato a terra, dovette abbandonare il cono del suo spruzzatore di schiuma e usare entrambe le mani per salvarsi. Ma ogni volta si riprese quasi subito e ricominciò a coprire gli occhi dell'Elefante. Poi, all'improvviso, Ekuman rinunciò a quella tattica e si avviò verso ovest, senza più cambiare direzione. Per alcuni istanti, riuscì a vedere con chiarezza e si fece un'idea della sua posizione, ma scelse un percorso che l'avrebbe condotto nei pressi del villaggio e poi al fiume. Che il satrapo fosse talmente disperato da rischiare che la sua pesante cavalcatura si bloccasse nell'acqua e nel fango? si chiese Rolf. Perché? Il cilindro rosso pareva inesauribile. Ora, alle prime luci dell'alba, la schiuma che copriva la torretta dell'Elefante era candida: un cappuccio bianco che. scendeva senza interruzione verso il basso, a coprire gli occhi. E Rolf, finalmente, notò un curioso particolare. In un piccolo punto, proprio dietro la testa del mostro meccanico, la schiuma veniva inghiottita invece di staccarsi dalla superficie, come se laggiù ci fossero le narici dell'Elefante e l'enorme bestia respirasse senza mai interrompersi. A Rolf tornò in mente la circolazione dell'aria all'interno dell'abitacolo, anche quando la porta d'ingresso era chiusa. Il giovane era in una posizione precaria, su un mostro sobbalzante, ma girò su se stesso come meglio poté e diresse il getto di schiuma in modo da coprire le froge del mostro, anche se, così facendo, non poteva più occuparsi degli occhi anteriori. L'Elefante si stava ora precipitando a piena velocità lungo il pendio, diretto a occidente, e dal suo interno si levava un fortissimo muggito. Anche se aveva gli occhi aperti, continuava a ondeggiare come una bestia cieca. Rolf era sbattuto in tutte le direzioni, urtava dolorosamente contro il metallo. Continuò a resistere, però, e a puntare il getto di schiuma contro il piccolo foro che aspirava con tanta voracità l'aria. Quando si guardò alle spal-
le, vide che l'Elefante, come un animale malato, si lasciava alle spalle una traccia continua di deiezioni. Una scia di schiuma usciva ormai con continuità da qualche punto delle viscere della grande bestia. Il villaggio fluviale era ormai vicino. I primi alberi si scagliavano verso di loro. Rolf si appiattì, afferrandosi con la forza della disperazione alle sporgenze della testa dell'Elefante, mentre i grandi rami sferzavano l'aria sopra di lui. Molti tronchi vennero spianati come fili d'erba dalla carica del mostro di metallo. Un basso muro di confine venne sbriciolato dai cingoli. I fianchi dell'Elefante strisciavano contro le pareti delle case. Pareva che al conducente fossero ormai sfuggite di mano le redini. Rolf vide che l'ultimo tuffo, dal ripido argine del fiume, era ormai inevitabile e che lui stesso rischiava di essere travolto. Mentre l'Elefante scendeva dalla riva, il ragazzo si staccò con un balzo. Cercò con tutte le sue forze di gettarsi verso l'alto e di lato, e si augurò di cadere in un punto dove l'acqua era alta. Aveva ancora con sé il cilindro rosso, trattenuto dalla cinghia che gli passava sulle spalle. I suoi piedi stavano giusto sfiorando la calma superficie del Dolles, quando venne raggiunto dall'immenso spruzzo sollevato dalla caduta del mostro. Il rumore del tuffo dell'Elefante continuò a colpirgli le orecchie anche quando era sott'acqua. Ora il cilindro rosso era quasi vuoto e galleggiava: grazie a esso, con qualche bracciata il giovane riguadagnò senza difficoltà la superficie. Gli parve che, a causa della forza dell'Elefante, l'intero fiume continuasse a fremere, schizzando acqua come un catino tenuto da mani malferme. L'Elefante, per metà sommerso, si era fermato, ma continuava a fremere. Evidentemente, premeva la parte frontale contro qualche grossa roccia sotterranea, contro qualche saldo e immobile osso della terra. I cingoli continuavano a girare senza fermarsi, come serpenti che si mordevano la coda, sollevando mucchi di fango e torrenti d'acqua, immergendo sempre più profondamente l'Elefante nel fondo del fiume. Esausto, Rolf tornò a riva. Poi si fermò dove l'acqua gli arrivava poco al di sopra delle ginocchia e riprese il cilindro rosso. Finché non l'ebbe vuotato del tutto, continuò a riempire di schiuma la stretta e avida gola dell'Elefante. Non che quella schiuma potesse fare danni al mostro metallico che la respirava. La sua voce era sempre forte, i cingoli continuavano a ruotare con la rapidità di prima. Rolf, però, pensava all'interno della cabina, alle luci fredde e immobili che continuavano ad ardere e a illuminare la massa
bianca e incorporea che riempiva tutto lo spazio disponibile, che colmava occhi e orecchie, naso e polmoni... Quando il cilindro fu vuoto, Rolf se lo sfilò dalle spalle indolenzite e lasciò che se lo portasse via la corrente. Il giovane aveva a malapena la forza di raggiungere la riva. Come uscì dall'acqua, si stese nel fango e riuscì ancora a sollevare la testa nell'udire il rumore di molte persone che correvano verso di lui. Non appena le vide, riconobbe i suoi amici: lo avevano seguito per la lunga scia di schiuma e attraverso il villaggio semidistrutto dal mostro meccanico, anche se l'Elefante, con la sua folle corsa, li aveva distanziati di parecchie centinaia di passi. Ora, alle prime luci dell'alba, si raccolsero attorno a Rolf, lo sollevarono in trionfo e lanciarono grida di esultanza a cui il giovane, nella sua spossatezza, non fu in grado di unirsi. Era quasi mezzogiorno, quando l'Elefante, improvvisamente, morì... o tornò di nuovo ad addormentarsi. Diede un paio di colpi di tosse e poi s'interruppe, e con la sua voce cessò anche l'interminabile e insensato mulinio dei cingoli. Il fiume ne approfittò subito per risanare la propria superficie disturbata: rimase solo una piccola increspatura, simile a una cicatrice, attorno all'immobile massa metallica. Dapprima, coloro che sorvegliavano il mostro meccanico si tirarono indietro, poi si avvicinarono. Ma la porta rotonda che tenevano sotto controllo non si aprì. Quando Rolf si svegliò, al tramonto, gli riferirono dell'Elefante. Il giovane, in quel momento, si trovava al castello. Ricordava vagamente di avere risalito la collina con l'aiuto di uomini stanchi come lui, ma non ricordava di essersi addormentato. C'erano altre notizie. Gli armigeri giunti a difendere Ekuman dalle altre guarnigioni sparse in tutte le Terre Desolate si erano voltati ed erano fuggiti nel vedere che il castello era stato conquistato e nel sapere dai loro esploratori che il satrapo stesso era morto. Tutti gli alti comandanti di Ekuman erano fuggiti o caduti. Cosa ancor più importante, nessuno dei satrapi venuti al castello per le nozze era scampato alla morte; quel giorno, perciò, e con un colpo solo, tutto il potere dell'Est lungo la costa era stato infranto. Nelle Terre Desolate, gli abitanti delle campagne e dei villaggi avevano letto la notizia della vittoria in un cielo che per la prima volta, dopo molti anni, era privo di rettili; la gente dava ora la caccia agli ultimi rimasugli dell'esercito di Ekuman o li respingeva nel deserto orientale. Dopo avere pasteggiato con i manicaretti originariamente destinati al banchetto di Ekuman, Rolf salì sui bastioni del castello per fare un turno di
guardia. Dai tetti e dai muri erano stati allontanati i corpi dei rettili, e anche le ossa delle loro vittime erano state staccate dal torrione per essere sepolte. Ora, tutti i nidi erano pieni di uccelli, che cominciavano a svegliarsi all'approssimarsi del tramonto; Rolf scorse Strijeef, che agitava l'ala bendata. Rolf osservò in tutte le direzioni, esaminando le mura del castello. Gli pareva strano che la nuova aria di libertà non fosse visibile sulle paludi e sulle fattorie lontane, sui villaggi e sulle strade, nel passo e nel deserto, nell'Oasi delle Due Pietre. La Pietra del Tuono era tornata al sicuro, ma la Pietra del Prigioniero era scomparsa. Come era scomparsa Charmian. Guardando da una finestra del terrazzo quella che era stata la sala delle udienze, Rolf vide che Sarah non s'era mossa. Ora, lei e le altre donne avevano molti feriti da curare, ma la ragazza rimaneva il più possibile accanto a una sola barella. Nils era vivo. Ed era vivo anche Mewick, e riusciva a camminare, ma aveva varie ferite ed era coperto dal proprio sangue. Ed era vivo anche Chup... almeno in parte. Era steso su una delle barelle disposte in fila nella sala delle udienze. Per gran parte del tempo teneva sollevate le braccia per coprirsi il volto. Le gambe e tutto il resto del corpo del satrapo-guerriero, al di sotto della cintola, erano morti, insensibili, da quando l'ascia di Mewick era riuscita ad aggirare la sua guardia e a colpirlo sulla schiena. Quando scorse Rolf, Sarah guardò da un'altra parte. Il giovane si allontanò e osservò il cortile. Scorse la schiena dritta, le spalle larghe e instancabili di Thomas: il capo del Popolo Libero dirigeva la costruzione di una barriera provvisoria attraverso la breccia fatta dall'Elefante nelle mura del castello. Se qualche banda superstite di nemici avesse pensato di vendicarsi sfruttando il fattore sorpresa, non avrebbe colto Thomas alla sprovvista. Anche se continuava a dare ordini, l'alto giovane non esitava a chinarsi per raccogliere personalmente qualche tronco. Al fianco di Thomas c'era una ragazza che Rolf non aveva mai visto e che portava uno dei larghi cappelli caratteristici dell'Oasi. C'era anche la testa bionda di Manka: la donna stava cucinando il rancio, in un enorme calderone. Accanto a lei sedeva Loford, con un'allegra fasciatura sulla parte alta del braccio destro. Anche Rolf aveva una fasciatura: sulla ferita alla schiena. Ed era dolorante a causa di un'altra decina di contusioni. Ma non se ne curava: aveva altre cose, più importanti, a cui pensare.
Ancora non aveva avuto indicazioni di quanto era successo a sua sorella Lisa; aveva perso quasi del tutto la speranza di conoscere il suo destino. Le dita continuavano a corrergli alla tasca interna della camicia, per toccare il nodo di capelli dorati che vi aveva nascosto. Doveva parlare a Loford di quell'incantesimo... sì, lo avrebbe fatto alla prima occasione. Solo sui bastioni, con gli occhi fissi sul deserto, Rolf fece l'ultimo turno di guardia del giorno. Le montagne dell'Est erano nere anche allora, a dispetto dei raggi del sole del tramonto che le illuminavano in pieno. FINE