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ISAAC ASIMOV LE GRANDI STORIE DELLA FANTASCIENZA 7 1945 (Isaac Asimov Presents The Great Science Fiction Stories 7: 1945, 1982) A cura di ISAAC ASIMOV & MARTIN H. GREENBERG Indice Introduzione Gli ondifagi di Fredric Brown Il figlio del pifferaio di Lewis Padgett Un nemico vivo o morto di Fritz Leiber Vicolo cieco di Isaac Asimov Corso per corrispondenza di Raymond F. Jones Primo contatto di Murray Leinster Venusiani addio di Leigh Brackett Nelle tue mani di Lester del Rey Mimetizzazione di Henry Kuttner Il potere di Murray Leinster L'uccisore di giganti di A. Bertram Chandler Ciò che ti serve di Henry Kuttner De Profundis di Murray Leinster Pi nel cielo di Fredric Brown Introduzione Nel mondo fuori della realtà fu un anno importante. Le forze americane invasero le Filippine il 9 gennaio, mentre il 31 gennaio il soldato semplice Eddie Slovik divenne il primo militare americano ad essere giustiziato per diserzione dai tempi della guerra civile. Il 13 febbraio Dresda fu bombardata e rasa al suolo durante un attacco aereo che uccise almeno 135.000 persone; Kurt Vonnegut jr, allora prigioniero di guerra, aiutò a spegnere gli incendi. Lo stesso giorno le forze americane attraversarono il Reno a Remagen sull'ultimo ponte rimasto. Il 16 marzo Iwo Jima cadde nelle mani degli americani. Il presidente Franklin D. Roosevelt morì il 12 aprile e Harry Truman si insediò alla presidenza il giorno dopo. In Europa le truppe sovietiche rag-
giunsero la periferia di Berlino il 21 aprile, mentre Benito Mussolini e la sua amante venivano giustiziati il 28 aprile. Due giorni più lardi Adolph Hitler si suicidava nel suo bunker a Berlino — i suoi «mille anni di Reich» in sfacelo. La Germania si arrese il 7 maggio, anche se soltanto l'8 maggio fu dichiarato V-E Day. Entro il 5 luglio le Filippine furono liberate dalle ultime truppe giapponesi e il 1° luglio s'iniziarono massicci bombardamenti sull'arcipelago giapponese. Il 18 luglio il mondo cambiò quando il primo ordigno nucleare fu sperimentato con successo ad Alamogordo nel Nuovo Messico. Poche settimane dopo, il 6 agosto, l'Enola Gay sganciò una bomba atomica su Hiroshima, uccidendo all'istante 100.000 persone mentre decine di altre sarebbero morte in seguito. Il 9 agosto anche Nagasaki provò gli effetti dell'energia atomica quando una seconda bomba uccise quasi altrettante persone. Il 10 agosto il Giappone chiese la pace, e il 14 fu dichiarato V-J Day. La resa ufficiale dei giapponesi avvenne sulla corazzata americana Missouri nella baia di Tokio il 2 settembre. I nazisti avevano ucciso circa 14.000.000 esseri umani; il totale dei morti per cause d'ogni tipo nella seconda guerra mondiale fu stimato a più di 54.000.000. Durante il 1945 Conrad Hilton aprì un albergo con lo stesso nome a Chicago. I Detroit Tigers strapparono il titolo mondiale ai Chicago Cubs col punteggio di quattro a tre. I cibi congelati divennero disponibili dovunque nei supermercati americani mentre la compagnia che produceva la Coca-Cola registrava il marchio di fabbrica «Coke». Menachem Begin guidò il suo IZL in attacchi contro le truppe inglesi che occupavano la Palestina. La penicillina e la streptomicina furono messe in vendita commercialmente. Diego Rivera dipinse Il mercato di Tiangucio, e Incontri con la Stampa debuttò alla radio. Richard Wright pubblicò Ragazzo negro. La squadra dell'Esercito vinse il campionato di football americano ma il campionato di golf degli Stati Uniti fu rinviato un'altra volta a causa della guerra. Le canzoni Till the End of Time, Laura e I'm beginning to see the Light ottennero uno strepitoso successo. Jean-Paul Sartre diede alle stampe L'Età della Ragione. Joe Louis era ancora campione mondiale dei massimi, ma adesso il record del miglio era stato abbassato a 4'01"4 dallo svedese Gunder Haegg. Comparvero sul mercato le penne a sfera. Per la prima volta furono eseguite la sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore di Sergej Prokofiev e la sinfonia n. 9 di Dimitri Shostakovich. Fu pubblicato Forever Amber di Kathle-
en Winsor. Un bombardiere dell'aeronautica militare si schiantò contro l'Empire State Building a New York City uccidendo tredici persone. C'erano cinquemila apparecchi televisivi negli Stati Uniti. Phil Cavarretta (come facciamo presto a dimenticarcene!) era in testa tra i majors con una media di .355. Lo Zoo di Vetro di Tennessee Williams ebbe la sua prima a Broadway, mentre Toronto vinceva la coppa Stanley. Alexander Calder costruiva la sua Piramide Rossa. Hoop su Eddie Arcaro up vinse il derby del Kentucky e i Redskins di Washington s'imposero nel campionato della lega nazionale di football. George Orwell pubblicò La Fattoria degli Animali. Tra i film dell'anno in testa alla classifica erano The Story of G.I. Joe, The Lost Weekend, Io ti salverò di Alfred Hitchcock, State Fair, e A Walk in the Sun. A Broadway vi fu la prima di Carousel di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein, mentre La pazza di Chaillot di Jean Giraudoux veniva presentata per la prima volta. Grand Rapids nel Michigan divenne la prima comunità americana ad avere l'acqua potabile trattata col fluoro. Nel mondo reale fu un buon anno. Donald Wollheim curò il Portable Novels of Science, e The Workl of A di A.E. Van Vogt comparve a puntate su Astounding. Fu pubblicata anche Questa orribile forza di C.S. Lewis. Su un altro fronte comparve, su Amazing, I Remember Lemuria di Richard S. Shaver, dando inizio a tutta una nuova serie di storie che aiutarono le vendite ma danneggiarono la fantascienza. Altri meravigliosi individui fecero il loro volo inaugurale nella realtà: in estate Jack Vance con The World Thinker; in dicembre Rog Phillips (Roger Phillips Graham) con Let Freedom Ring; e in inverno Bryce Wolton con The Ultimate World. La morte colse Malcolm Jameson, Franz Werfel e Charles Williams, ma si udiva un lontano frullar d'ali poiché nascevano Michael Bishop, Dean R. Koontz, George Zebrowski, M. John Harrison, Robert Chilson, Gordon Eklund, Robert E. Toomey e Vincent DiFate. Ritorniamo dunque a quell'onorato anno 1945 e godiamoci i migliori racconti lasciatici dal mondo reale. Gli ondifagi The Waveries di Fredric Brown Astounding Science Fiction, gennaio
Negli anni Quaranta Fredric Brown creò un buon numero di eccellenti storie fantascientifiche, compreso questo gioiello sugli effetti d'una inversione tecnologica in una società già sofisticata. Il direttore di Astounding, John W. Campbell jr, voleva che i suoi scrittori mettessero a fuoco le conseguenze della scienza applicata, e in «Gli Ondifagi» Fredric Brown applicò uno dei suoi tipici effetti a sopresa a questa direttiva, con ottimi risultati. Eccellente scrittore del mistero e del suspense, Brown fu cronista del Milwaukee Journal prima di decidere, nel 1947, di diventare scrittore a tempo pieno. Malgrado nel mondo della fantascienza fosse conosciuto soprattutto, e giustamente, per i suoi racconti brevi, scrisse parecchi ottimi romanzi, tra cui «What Mad Universe» (Assurdo universo - 1949), «The Lights in the Sky are Stars» (Le luci nel cielo sono stelle - 1953), e «Martians go Home» (Marziani andate a casa - 1955). (Be' credo di dover dissentire un tantino da questo racconto. No, no, non contesto affatto la sua presenza qui. Voglio dire, dissento dalla sua tesi poiché sono un tecnofilo — vale a dire che la tecnologia avanzata mi piace — e non credo che camminare a ritroso sia la via per l'Età dell'Oro. Voglio soltanto far riferimento a quel punto della storia in cui Pete Mulvaney dichiara che l'aria a New York City «è migliore di quella di Atlantic City, senza le esalazioni di benzina», perché non ci sono più automobili. Fanno seguito la domanda fatta da George Bailey: «Ci sono già abbastanza cavalli per andarsene in giro?» e la risposta: «Quasi». Be', sono passato davanti ai due o tre cavalli che in Central Park trainano le carrozzelle, e tutte le volte ho dovuto trattenere il respiro. Puzzano di sudore e di sterco. E sono soltanto due o tre. Riempite la città di cavalli quanti bastano a soddisfare le richieste anche soltanto dell'«ultimo milione rimasto di abitanti», cui si riferisce la storia, e tutti agogneranno di nuovo le esalazioni di benzina. Soprattutto nei mesi estivi, quando non ci sarà l'aria condizionata — qualcosa di cui Fred, poiché scriveva nel 1945, non parla. Godetevi il racconto, ma non perdete la prospettiva. È tutto. I.A.) Definizioni tratte dal Dizionario Webster-Hamlin, edizione 1998, versione ridotta per le scuole:
ondifago (on-DI-fa-go) n. Un vasore (gergale). vasore (va-SO-re) n. Inorgan della classe Radio. inorgan (i-NOR-gan) n. Non corporeo, un vasore. radio (RA-di-o) n. 1 classe d'inorgan. 2. frequenza eterea compresa tra quelle luminose e le pulsazioni della corrente alternata. 3. (in disuso) sistema di comunicazione impiegato fino al 49S7. Le cannonate che fecero preludio all'invasione non furono affatto assordanti, anche se furono udite da milioni di persone. George Bailey era una di esse. Ho scelto Bailey poiché fu il solo ad avvicinarsi a un'incollatura di pochi anni-luce dall'indovinare cosa fossero. George Bailey era sbronzo ma, viste le circostanze, non si poteva fargliene una colpa. Stava ascoltando pubblicità radiofonica del tipo più nauseante... non perché volesse ascoltarla, non c'è bisogno che lo dica, ma perché così gli era stato detto di fare dal suo capo, J.R. McGee della rete radiofonica MID. George Bailey scriveva pubblicità per la radio. La sola cosa che odiava più della pubblicità era la radio. E adesso stava ascoltando gli annunci più disgustosi e stucchevoli d'una rete rivale sprecando il proprio tempo libero. «Bailey», gli aveva detto J.R. McGee, «dovrebbe familiarizzarsi con quello che fanno gli altri. In particolare dovrebbe tenersi informato su quelli, fra i nostri clienti, che utilizzano anche altre reti. Le suggerisco vivamente...» Non si discutono i vivi suggerimenti di un datore di lavoro riuscendo allo stesso tempo a conservare duecento dollari alla settimana. Ma si possono bere dei whisky doppi mentre si ascolta. George Bailey lo faceva. Inoltre fra un annuncio e l'altro giocava a ramino con Maisie Hetterman, una piccola e graziosa dattilografa dalla chioma rossa dello studio. L'appartamento era di Maisie e anche la radio (per principio George non possedeva né radio né televisore) ma George aveva portato da bere. «... solo i tabacchi più raffinati», diceva la radio. «Fumate le dit-dit-dit, le sigarette più richieste in tutto il paese...» George lanciò un'occhiata alla radio. «Marconi», disse. Voleva dire Morse, certo, ma i whisky doppi l'avevano confuso un po' per cui la sua prima congettura si avvicinò, quasi, all'esattezza più di qualunque altra. In un certo senso si trattava proprio di Marconi. In un senso molto speciale.
«Marconi?» chiese Maisie. George, che odiava aver per rivale la voce di una radio mentre stava parlando, si sporse in avanti e la spense. «Volevo dire Morse», precisò. «Morse, come i boy-scout o il corpo segnalatori. Un tempo ero boy-scout». «Sei cambiato un bel po'», commentò Maisie. George sospirò. «Qualcuno la pagherà salata per essersi messo a trasmettere in codice su quella frequenza». «E cosa intendeva dire?» «Dire?... Oh, vuoi dire cosa intendeva dire... Uh... S. La lettera S. Ditdit-dit è S. SOS è dit-dit-dit dah-dah-dah dit-dit-dit». «Cos'è dah-dah-dah?» George sogghignò: «Dillo di nuovo, Maisie. Mi piace. E penso che anche tu sia dah-dah-dah». «George, potrebbe essere davvero un SOS. Riaccendi». George riaccese. La pubblicità delle sigarette continuava ancora: «... signori dal gusto più dit-dit-dit... preferiscono lo squisito aroma delle sigarette dit-dit-dit. Nel nuovo pacchetto che le contiene dit-dit-dit e ultrafresche...» «Non è un SOS. È solo un S». «Come una pentola a pressione o... Ehi, George, forse è soltanto una trovata pubblicitaria». George scosse il capo: «No, perché cancella il nome del prodotto. Aspetta un momento che...» Allungò la mano e girò la manopola della radio prima un po' a destra e poi un po' a sinistra. Un'espressione incredula gli comparve sul volto. Girò la manopola a sinistra, fino in fondo alla scala. Non c'era nessuna stazione su quel lato, neppure il ronzio di un'onda portante. Ma: «Dit-dit-dit», diceva la radio, «dit-dit-dit». George girò la manopola fino all'estremità destra. «Dit-dit-dit». Spense allora la radio e fissò Maisie senza vederla, il che era un'ardua impresa. «Qualcosa non va, George?» «Spero di sì», disse George Bailey. «Lo spero davvero». Accennò a riempirsi di nuovo il bicchiere, poi cambiò idea. Ebbe la improvvisa intuizione che stesse accadendo qualcosa di grosso e voleva smaltire la sbornia per essere in grado di valutare le cose. Non aveva la più pallida idea di quanto fosse grossa.
«George, cosa vuoi dire?» «Non so cosa voglio dire. Ma, Maisie, facciamo una corsa fino allo studio, no? Dovrebbe esserci un bel po' di eccitazione». 5 aprile 1957: fu quella la notte in cui arrivarono gli ondifagi. Era iniziata come una serata normale. Adesso non lo era più. George e Maisie si misero ad aspettare un tassì ma non ne arrivò nessuno. Così presero la metropolitana. Oh, sì, la metropolitana funzionava ancora a quell'epoca. Li portò a un isolato dall'edificio che ospitava la rete del MID. L'edificio era un manicomio. George attraversò l'atrio a grandi passi, con un ampio sogghigno sul viso, tenendo Maisie a braccetto, prese l'ascensore fino al quinto piano e senza alcuna ragione diede un dollaro al ragazzo dell'ascensore. Mai prima di allora, in tutta la sua vita, aveva dato la mancia a un addetto all'ascensore. Il ragazzo lo ringraziò. «Meglio star lontano dai pezzi grossi, signor Bailey», lo mise in guardia. «Sono pronti a masticare le orecchie a chiunque osi anche soltanto guardarli». «Magnifico», replicò George. Dall'ascensore andò dritto all'ufficio di J.R. McGee. Si udivano voci stridule da oltre la porta di vetro. George allungò la mano verso la maniglia; Maisie cercò di fermarlo: «Ma George», bisbigliò, «ti licenzieranno!» «Arriva sempre il momento», replicò George. «Tienti lontana dalla porta, tesoro». Con cortese fermezza la sospinse in una posizione più sicura. «Ma George, cos'hai intenzione...» «Guarda», disse George. Quando socchiuse d'un palmo la porta il coro di voci concitate si interruppe. Gli occhi di tutti si girarono verso di lui quando fece capolino da dietro lo stipite. «Dit-dit-dit», disse. «Dit-dit-dit». Si scansò appena in tempo per sfuggire alle schegge di vetro della porta infranta da un fermacarte e un calamaio. Afferrò Maisie e si precipitò di corsa verso la scala. «Adesso andiamo a berci qualcosa», disse. Il bar di fronte alla sede della stazione radio era affollato, ma su tutti i presenti gravava uno strano silenzio. Il bar, rispettoso ovviamente del fatto che la maggior parte dei clienti erano impiegati della radio, non aveva un
televisore, ma ostentava un massiccio apparecchio radio in un angolo, quasi ad altezza d'uomo, e quasi tutta la gente vi si pigiava intorno. «Dit», diceva la radio. «Dit-dah-d'dah-dii-dahditdah-dit...» «Non è stupendo?» sussurrò George e Maisie. Qualcuno stava cincischiando con la manopola della sintonia. Un altro chiese: «Che frequenza è?» E un terzo rispose: «Quella della polizia». Un quarto disse: «Prova una frequenza estera». Quello che cincischiava con la manopola lo fece: «Questa dovrebbe essere Buenos Aires», annunciò. «Dit-d'dah-dit...» disse la radio. Qualcuno si passò le mani tra i capelli e intimò: «Spegni quel dannato coso». Qualcun altro lo riaccese. George sogghignò e guidò Maisie in un separé sul retro dove aveva visto Pete Mulvaney seduto tutto solo con una bottiglia davanti a sé. George e Maisie gli si sedettero di fronte. «Ciao», disse George con voce grave. «Al diavolo», ribatté Pete, che era capo della stazione tecnica addetta alle ricerche del MID. «Una splendida notte, Mulvaney», riprese George. «Hai visto come la luna cavalcava le nuvole sfilacciate, un galeone dorato sbattuto qua e là sui cavalloni dalle argentee creste in un tempestoso...» «Chiudi il becco», latrò Pete. «Sto pensando». «Due whisky doppi», ordinò George rivolto al cameriere. Poi tornò a girarsi verso l'amico sul lato opposto del tavolo. «Pensa a voce alta, così possiamo sentire anche noi. Ma prima dimmi come sei riuscito a scappare da quella gabbia di matti dall'altra parte della strada...» «Mi hanno mandato a spasso, dimesso, licenziato». «Stringiamoci la mano. E poi spiegami: gli hai detto dit-dit-dit?» Pete lo fissò con improvvisa ammirazione. «Tu si?» «Ho una testimone. Ma tu, cos'hai fatto?» «Gli ho detto cosa pensavo che fosse... e mi hanno preso per matto». «Lo sei?» «Sì». «Bene», annuì George. «Allora vorremmo sapere...» Fece schioccare le dita. «E la TV?» «Stessa cosa. Lo stesso suono nell'audio e le immagini guizzano e si estinguono ad ogni punto o linea. Ormai è soltanto una macchia confusa». «Magnifico. E adesso dimmi cosa c'è che non funziona. Non m'importa
cosa sia, basta che non sia banale... Ma voglio saperlo». «Credo sia lo spazio. Lo spazio si è distorto». «Buon vecchio spazio», disse George Bailey. «George», lo sollecitò Maisie, «per favore, taci. Voglio ascoltare Pete». «Lo spazio», proseguì Pete, «è qualcosa di finito». Si versò un altro bicchiere. «Ti allontani di parecchio in qualunque direzione e ti ritrovi dove sei partito. Come una formica che si arrampica intorno a una mela». «Facciamo un'arancia», disse George. «D'accordo, un'arancia. Supponi adesso che la prima onda radio mai trasmessa dalla Terra abbia compiuto tutto il periplo. In cinquantasei anni». «Cinquantasei anni? Pensavo che le onde radio viaggiassero alla stessa velocità della luce. Se questo è esatto, allora in cinquantasei anni potevano percorrere soltanto cinquantasei anni-luce, e questo non può costituire il giro completo intorno all'universo poiché ci sono galassie che si trovano, com'è noto, a milioni o forse miliardi di anni-luce di distanza. Non ricordo bene i numeri, Pete, ma la nostra galassia, da sola, supera di parecchio i cinquantasei anni-luce». Pete Mulvaney sospirò. «È per questo che dico che lo spazio dev'essersi distorto. Da qualche parte dev'essersi aperta una scorciatoia». «Una scorciatoia così corta? Non può essere». «Ma George, hai ascoltato quella roba che sta arrivando? Sai leggere il codice?» «Non più. Non così in fretta, ad ogni modo». «Be', io so farlo», disse Pete. «È il gergo dei primi radioamatori americani. È il genere di roba di cui era pieno l'etere prima delle trasmissioni regolari. Sì, è il gergo, le abbreviazioni, le chiacchiere da cortile e da caserma dei radioamatori armati di tasto, d'un rivelatore Marconi o d'un dispositivo Fessenden... e tra poco potrai ascoltare un assolo di violino. E già posso dirti adesso cosa sarà». «Cosa?» «Il Largo di Haendel. Il primo disco fonografico che sia mai stato trasmesso via radio. Con un Fessenden, da Brant Rock nel 1906. Sentirai questo CQ-CQ da un momento all'altro. Ci scommetto da bere». «D'accordo. Ma cos'era questo dit-dit all'inizio di tutto?» Mulvaney sogghignò. «Marconi, George. Qual è stato il più potente segnale mai trasmesso, e da chi e quando?» «Quello di Marconi? Dit-dit-dit? Cinquantasei anni fa?» «Sei il primo della classe. Il primo segnale transatlantico, il 12 dicembre
1901. Per tre ore quella grossa stazione di Marconi, a Poldhu, con antenne alte sessanta e più metri, trasmise a intermittenza una S, mentre Marconi e due assistenti a St. Johns in Terranova facevano volare un'antenna a centoventi metri di quota con un aquilone riuscendo alla fine a captare il segnale. Attraverso l'Altantico, George, con le scintille che sprizzavano dalle grosse bottiglie di Leida a Poldhu e 20.000 volt che sparavano via come calci gli impulsi da quelle tremende antenne...» «Aspetta un attimo Pete, sei sfasato. Se quello è accaduto nel 1901 e la prima trasmissione è stata nel 1906, ci vorranno cinque anni prima che quella roba del Fessenden arrivi fin qui seguendo la stessa strada. Sempre che ci sia davvero quella scorciatoia di cinquantasei anni-luce attraverso lo spazio e sempre che quei segnali non si siano tanto indeboliti durante il viaggio da diventare inaudibili per noi... È pazzesco». «Te l'avevo già detto che lo era», replicò Pete, tetro. «Diamine, dopo aver viaggiato tanto quei segnali dovrebbero essere talmente infinitesimi a tutti i fini pratici da non esistere. Inoltre occupano tutte le bande dalle microonde in giù e sono ugualmente intensi su tutte le frequenze. E come tu hai fatto notare, abbiamo superato cinque anni in due ore, il che non è possibile. Te l'ho detto che è pazzesco». «Ma...» «Sssshh. Ascoltate», l'interruppe Pete. Una voce umana, confusa ma inequivocabile, stava uscendo dalla radio, mescolandosi coi segnali scanditi in codice. E poi una musica, sottile e stridula, ma senz'ombra di dubbio un violino. Che suonava il Largo di Haendel. Solo che tutt'a un tratto la musica prese a scivolar via verso frequenze sempre più alte e insopportabili... e continuò fino a oltrepassare il limite superiore di udibilità e nessuno riuscì più a sentirla. Qualcuno esclamò: «Spegnete quel maledetto affare!» Qualcun altro lo fece e questa volta nessuno riaccese. Pete riprese: «Anch'io stentavo a crederci. E c'è un'altra cosa a sfavore, George. I segnali influenzano anche la TV, ma quelle prime onde radio sono della frequenza sbagliata per poterlo fare». Scosse lentamente la testa. «Dev'esserci qualche altra spiegazione, George. Ora, più che ci penso, più sono convinto di sbagliarmi». Aveva ragione. Sì, aveva torto. «Assurdo», disse il dottor Ogilvie. Si tolse gli occhiali, corrugò feroce-
mente la fronte e se li rimise. Fissò i numerosi fogli dattiloscritti che stringeva in mano e li scaraventò con disprezzo sulla superficie della scrivania. Scivolarono fin sull'altro lato andando a. fermarsi contro il supporto prismatico della targa che diceva: B.R. OGILVIE Direttore «Assurdo» ripeté. Casey Blair, il migliore dei suoi giornalisti, soffiò un anello di fumo e vi infilò il dito indice. «Perché?» chiese. «Perché... ma sì, è del tutto assurdo». Casey Blair insisté: «Ora sono le tre del mattino. L'interferenza continua ormai da cinque ore e nessun programma ci arriva più alla TV o alla radio. Tutte le più importanti stazioni radio o televisive del mondo hanno smesso di trasmettere.» «E per due ragioni. Prima, perché stavano solo sprecando corrente. Secondo, gli uffici addetti alle telecomunicazioni dei rispettivi governi le hanno pregate d'interrompere le trasmissioni per non intralciare le ricerche avviate dovunque con gli indicatori direzionali. Ma sono passate cinque ore, ormai, dall'inizio dell'interferenza: hanno messo in opera tutto il possibile... e cos'hanno trovato?» «È assurdo!» ribadì il direttore. «D'accordo, ma le cose stanno proprio così. Greenwich alle 23 (ora di New York: sto traducendo tutte queste ore in quella di New York) ha stabilito che l'interferenza proveniva all'incirca dalla direzione di Miami. Poi si è spostata verso nord finché, alle 2 antimeridiane, la direzione approssimativa era quella di Richmond, Virginia. Sempre alle 23 San Francisco ha compiuto un rilevamento all'incirca in direzione di Denver; tre ore più tardi la direzione dell'interferenza si è spostata a sud verso Tucson. Emisfero meridionale: i rilevamenti fatti da Città del Capo, nel Sudafrica, si sono spostati dalla direzione di Buenos Aires a quella di Montevideo, mille miglia a nord. «Alle 23 New York ha rilevato deboli segnali in direzione di Madrid; ma alle 2 non c'era più nessun segnale». Soffiò un altro anello di fumo. «Forse perché le antenne circolari che usano ruotano soltanto su un piano orizzontale?» «Paradossale».
«Mi piace di più "assurdo", signor Ogilvie», replicò Casey. «È assurdo, non paradossale. Se mi consente... ho una tremenda paura. Tutti quei rilevamenti che le ho nominato e molti altri di cui ho udito parlare, puntano nella stessa direzione, se si considerano come rette che si dipartono dalla Terra come tangenti, senza incurvarsi intorno alla sua superficie. Ho fatto dei calcoli con un piccolo mappamondo e una carta delle costellazioni. Convergono tutti verso la costellazione del Leone». Si sporse in avanti e batté l'indice sulla prima cartella dell'articolo che aveva appena portato. «Le stazioni che hanno la costellazione del Leone allo zenit o quasi non ricevono nessun segnale. Le stazioni lungo quello che sarebbe il cerchio dell'orizzonte, sulla Terra, rispetto a quel punto in cielo ricevono i segnali più forti. Senta, faccia controllare questi dati a un astronomo, se vuole, prima di pubblicare l'articolo, ma lo faccia in fretta se non vuole leggerlo prima sugli altri giornali». «Ma lo strato ionizzato, Casey, non dovrebbe bloccare tutte le onde radio e rifletterle all'indietro?» «Certo. Ma forse lo strato ionizzato lascia passar qualcosa. Forse i segnali possono attraversarlo dall'esterno, anche se non dall'interno... Non è una parete solida». «Ma...» «So che tutto ciò è assurdo. Ma è reale. E manca soltanto un'ora prima di andare in macchina. Farà meglio a mandar subito questo articolo in tipografia perché lo compongano, mentre sta controllando con qualche astronomo i miei numeri e le direzioni. Inoltre c'è qualcos'altro che dovrà controllare». «Che cosa?» «Non ho fatto in tempo a verificare le posizioni dei pianeti. Il Leone è sull'eclittica, potrebbe esserci un pianeta in mezzo. Forse Marte». Gli occhi del signor Ogilvie s'illuminarono, poi tornarono a offuscarsi. «Blair, se lei si sbaglia diventeremo lo zimbello del mondo intero». «E se avessi ragione?» Il direttore agguantò il telefono e cominciò ad abbaiare ordini. 6 Aprile - Titolo di testa del Morning Messenger di New York, ultima edizione (ore 6 del mattino): INTERFERENZA RADIO PROVIENE DALLO SPAZIO:
HA ORIGINE NEL LEONE Potrebbe essere un tentativo di comunicazione da parte di Esseri esterni al Sistema Solare Tutte le trasmissioni radio e televisive erano state sospese. Le azioni delle stazioni radio e televisive aprirono in borsa con parecchi punti in meno rispetto al giorno precedente, poi subirono una caduta verticale fino a mezzogiorno, recuperando qualche punto alla chiusura. Le reazioni della gente furono disparate: chi non possedeva una radio si precipitò a comperarne una e ci fu un vero boom delle vendite, soprattutto gli apparecchi portatili e quelli da tavolo. Al contrario, non fu venduto nessun televisore. Con la sospensione delle trasmissioni televisive non appariva nessuna immagine sugli schermi, neppure confusa. I loro circuiti radio, se accesi, producevano lo stesso caos degli apparecchi radio. Il che, come Pete Mulvaney aveva fatto notare a George Bailey, era impossibile: le onde radio non possono attirare i circuiti dei televisori. Ma queste lo facevano, sempre che fossero onde radio. Alla radio sembravano proprio onde radio, ma terribilmente frammentate. Nessuno riusciva ad ascoltarle molto a lungo. Oh, c'erano sprazzi: momenti in cui per parecchi secondi consecutivi si poteva riconoscere la voce di Will Rogers o di Geraldine Farrar oppure ad afferrare sprazzi dell'incontro Dempsey-Carpentier o dell'eccitazione dei giorni di Pearl Harbor (ricordate Pearl Harbor?). Ma erano assai rare le cose che valesse la pena ascoltare, sia pure per un briciolo d'interesse. Per la maggior parte era un miscuglio senza senso di sceneggiati, pubblicità e stralci sfasati e gracchianti di quella che un giorno era stata musica. Era del tutto indiscriminato e insopportabile per qualunque lunghezza di tempo. Ma la curiosità è uno stimolo irresistibile. Per qualche giorno vi fu un boom nelle vendite degli apparecchi radio. Vi furono altri boom, meno spiegabili, quasi impossibili ad analizzarsi. Vi fu un'improvvisa corsa all'acquisto di pistole e fucili, che ricordò la grande paura che aveva contagiato tutti all'epoca dell'invasione marziana inventata da Orson Welles sulla falsariga di Wells. Bibbie e manuali d'astronomia andarono a ruba come panini. Una buona porzione del paese mostrò un improvviso interesse per i parafulmini, i cui fabbricanti si trovarono inondati da una pioggia di ordinazioni per l'installazione immediata.
Per motivi mai accertati a Mobile, Alabama, andarono a ruba gli ami da pesca. Nel giro di poche ore i negozi di articoli sportivi ne furono letteralmente svuotati. Le biblioteche pubbliche e le librerie conobbero un decuplicato interesse per i libri astrologici e quelli su Marte. Sì, Marte, malgrado il pianeta rosso in quei giorni si trovasse sul lato opposto del Sole e ogni quotidiano avesse sottolineato nei suoi articoli sull'argomento che nessun pianeta si trovava in quel momento fra la Terra e la costellazione del Leone. Stava accadendo qualcosa di strano e l'unica fonte di notizie sull'argomento erano appunto i giornali. La gente si affollava fuori dalle redazioni e dalle tipografie in fremente attesa d'ogni nuova edizione. Gli addetti alla diffusione impazzirono in silenzio. La gente si raccoglieva in piccoli crocchi incuriositi anche intorno alle stazioni radio e agli studi televisivi, parlando a bassa voce come se stessero presenziando a una veglia funebre. Le porte del MID erano chiuse a chiave, anche se c'era sempre un usciere in servizio per far entrare i tecnici che continuavano a scervellarsi alla ricerca di una risposta al problema. Alcuni dei tecnici, che erano stati di servizio il giorno prima, non avevano chiuso occhio da più di ventiquattr'ore. George Bailey si svegliò a mezzogiorno. Aveva soltanto un leggero mal di testa. Si rase e fece la doccia, uscì e dopo una leggera colazione si sentì di nuovo se stesso. Acquistò le prime edizioni dei giornali del pomeriggio, le lesse e sogghignò. La sua intuizione era stata giusta. Qualunque cosa fosse, non era per niente banale. Ma cos'era, poi? Le ultime edizioni del pomeriggio ebbero la risposta. LA TERRA INVASA, DICE UNO SCIENZIATO Il corpo settantadue era il più grande di cui disponevano. E l'avevano usato. Quella sera non una sola copia fra quelle riservate agli abbonati giunse a destinazione. I fattorini furono, alla lettera, assaltati dalla gente durante il percorso. Invece di recapitare le copie dei giornali, le vendettero; i più furbi riuscirono a spuntare un dollaro alla copia. I più sciocchi, o onesti, che non vollero venderli perché pensavano che i giornali spettassero agli abbonati, li persero ugualmente per strada: la gente li strappò via dalle loro mani.
L'ultimissima edizione cambiò solo dal punto di vista tipografico. Tuttavia il significato ne usci enormemente cambiato. Il nuovo titolo diceva: LA TERRA INVASA, DICONO GLI SCIENZIATI È curioso come il passaggio dal singolare al plurale possa tanto variare il significato d'una frase. Quella sera la Carnegie Hall infranse tutte le tradizioni ospitando una conferenza a mezzanotte. Una conferenza imprevista e fuori programma. Il professor Helmetz era sceso dal treno alle 23 e 30, atteso da più di un'ora da una folla di cronisti. Helmetz, di Harvard, era lo scienziato, quello al singolare, che aveva fatto il primo titolo di testa. Harvey Ambers, direttore del consiglio di amministrazione della Carnegie Hall, si fece largo in qualche modo tra la folla. Arrivò senza occhiali, cappello e fiato, ma riuscì a ghermire il braccio di Helmetz e non lo mollò più fino a quando non fu di nuovo in grado di parlare. «Vogliamo che lei parli al Carnegie, professore», gridò all'orecchio di Helmetz. «Cinquemila dollari per una conferenza sui "vasori"». «Certo. Domani pomeriggio?» «Adesso! Ho una macchina che ci aspetta. Venga». «Ma...» «Avrà un pubblico. Presto!» Si rivolse alla calca: «Fateci passare», intimò. «Qui non riuscirete a sentire tutti quanti quello che il professore ha da dire. Venite alla Carnegie Hall: lì parlerà a tutti. E spargete la voce!» La voce si sparse talmente bene che quando il professore cominciò a parlare Carnegie Hall era piena da scoppiare. Quasi subito fu piazzato un sistema di altoparlanti cosicché anche la gente fuori potesse sentire. All'una del mattino le strade per molli isolati intorno erano stracolme. Non c'era un solo sponsor sulla faccia della Terza con un milione di dollari da spendere che non avrebbe versato con gioia sull'unghia quel milione di dollari per il privilegio di sponsorizzare quella conferenza alla radio o alla televisione; ma la conferenza non venne né tele, né radiotrasmessa. Entrambi i canali erano occupati. «Qualche domanda?» chiese il professor Helmetz. Un cronista in prima fila precedette i colleghi. «Professore», domandò, «tutte le stazioni di rilevamento direzionale sulla Terra hanno confermato ciò che lei ci ha detto, del cambiamento di questo pomeriggio?»
«Sì, in modo assoluto. A mezzogiorno, circa, tutte le indicazioni direzionali hanno incominciato a indebolirsi. Alle 14 e 45, ora locale orientale, sono cessate del tutto. Fino a quel momento le onde radio provenienti dal cielo, che cambiav'ano direzione con andamento costante in dipendenza della rotazione della Terra, mostravano sempre d'irradiarsi tutte da un punto nella costellazione del Leone». «Quale stella del Leone?» «Nessuna stella che sia visibile nelle nostre mappe. O giungevano da un punto nello spazio, o da una stella troppo debole per i nostri telescopi.» «Ma dalle 14 e 45 di oggi, o meglio di ieri poiché mezzanotte è già passata, tutti i rilevatori di direzione hanno taciuto. Ma i segnali sono rimasti, provenendo adesso da tutte le direzioni con uguale intensità. Gli invasori erano arrivati tutti. «Non si possono trarre conclusioni diverse. Ora la Terra è circondata, completamente avvolta e oscurata da onde di tipo radio che non hanno nessun preciso punto di origine, ma viaggiano incessanti attorno alla Terra in tutte le direzioni, cambiando forma a volontà... una forma che per il momento è ancora un'imitazione dei segnali di origine terrestre che hanno attratto la loro attenzione, conducendoli qui». «Lei pensa che siano venuti da una stella che noi non possiamo vedere, oppure la loro origine può essere davvero stata un punto nello spazio?» «Probabilmente un punto nello spazio. E perché no? Non sono creature fatte di materia. Se fossero giunti fin qui da una stella, dovrebbe trattarsi di una stella assai fioca per essere invisibile a noi, dal momento che dovrebbe trovarsi piuttosto vicina alla Terra, a soli ventotto anni-luce di distanza, il che non è molto in termini di distanze stellari». «Come fa a conoscere la distanza?» «Partendo dalla premessa — ed è una premessa ragionevole — che si siano messi in viaggio quando hanno captato per la prima volta i nostri segnali radio: le S trasmesse da Marconi cinquantasei anni fa. Dal momento che è stata quella la forma assunta dai primi arrivati, abbiamo supposto che si siano messi in viaggio verso di noi non appena hanno intercettato quei segnali. Poiché i segnali di Marconi hanno viaggiato alla velocità della luce, devono aver raggiunto un punto distante da noi ventotto anni-luce, ventotto anni fa. Gli invasori, viaggiando anch'essi alla velocità della luce, dovrebbero aver impiegato un ugual tempo a raggiungerci. «Come ci si poteva aspettare, i primi arrivati hanno preso soltanto la forma del codice Morse. I successivi hanno preso la forma di altre onde in-
contrate, superate — o forse assorbite — durante il percorso verso la Terra. Ora stanno vagando intorno alla Terra, frammenti di programmi trasmessi fino a pochissimi giorni fa. Non c'è dubbio, infatti, che debbano esserci frammenti anche degli ultimissimi programmi trasmessi, anche se non sono stati ancora identificati». «Professore, ci saprebbe descrivere uno di questi invasori?» «Quanto potrei descrivere un'onda radio, non più. In effetti, sono radioonde, anche se non s'irraggiano da nessuna stazione trasmittente. Sono una forma di vita che è legata al movimento delle onde, come la nostra forma di vita è legata alle vibrazioni della materia». «Sono di differenti dimensioni?» «Sì, nei due significati della parola dimensione. Le onde radio vengono misurate da cresta a cresta, misura nota come lunghezza d'onda. Dal momento che gli invasori coprono l'intera banda dei nostri apparecchi radiofonici e televisivi, è ovvio che entrambe le cose sono vere: o esistono in tutte le dimensioni possibili, misurate dalla distanza da cresta a cresta, oppure ognuno di essi può variare la propria dimensione da cresta a cresta per adattarsi alla sintonizzazione di qualunque ricevitore. «Ma questa è soltanto la distanza da cresta a cresta. In un certo senso si può dire che un'onda radio ha anche una lunghezza complessiva determinata dalla sua durata. Se una stazione trasmette un programma della durata, diciamo, d'un secondo, un'onda che porti quel programma sarà lunga un secondo-luce, press'a poco trecentomila chilometri. Un programma della durata ininterrotta di mezz'ora costituirà un'onda continua di mezz'oraluce. E così via. «In base dunque alla lunghezza complessiva, i singoli invasori variano da poche migliaia di chilometri — della durata d'una piccola frazione di secondo — a quasi un milione di chilometri — della durata di parecchi secondi. Il più lungo frammento di programma finora captato è stato di sette secondi». «Ma, professor Helmetz, come mai suppone che queste onde siano creature viventi, una forma di vita? Perché non potrebbero essere soltanto onde?» «Perché, le "soltanto onde", come lei le chiama, seguirebbero certe leggi, proprio come la materia inanimata segue certe leggi. Ad esempio, un animale può arrampicarsi in salita; una pietra non può farlo, a meno che non vi sia costretta da qualche forza esterna. Questi invasori sono forme di vita poiché mostrano una propria volontà, poiché possono cambiare dire-
zione, e in modo ancora più specifico perché conservano la propria identità; due di quei segnali non sono mai entrati in conflitto nello stesso ricevitore radio. Sì succedono l'uno all'altro ma non arrivano mai simultaneamente. Non si mescolano mai, come fanno di solito i segnali sulla stessa lunghezza d'onda. Non sono "soltanto onde"». «Direbbe che sono intelligenti?» Il professor Helmetz si tolse gli occhiali e pulì le lenti soprappensiero. Disse: «Non lo sapremo mai. L'intelligenza di simili esseri, sempre che esista, si troverebbe su un piano così diverso dal nostro da escludere un qualunque punto in comune dal quale iniziare un contatto. Noi siamo materiali; essi sono immateriali. Non c'è alcun terreno comune fra noi». «Ma se fossero intelligenti anche soltanto un po'...» «Le formiche sono intelligenti, in un certo qual modo. Lo chiami istinto, se vuole, ma l'istinto è una forma d'intelligenza; almeno, consente alle formiche di compiere alcune fra le cose che l'intelligenza consentirebbe. Eppure, non possiamo comunicare con le formiche ed è assai meno probabile che riusciamo a comunicare con questi invasori. La differenza che esiste fra l'intelligenza delle formiche e la nostra non è niente al confronto di quella tra noi e gli invasori, sempre che questi abbiano una qualche forma d'intelligenza. No, dubito molto che si riesca mai a comunicare». Il professore aveva visto giusto. La comunicazione coi vasori — una forma abbreviata per invasori, ovviamente — non fu mai stabilita. In quella stessa giornata le azioni delle compagnie radiofoniche si stabilizzarono in borsa. Il giorno successivo, però, qualcuno ebbe la bella idea di porre al professor Helmetz la domanda da un milione di dollari (e i giornali si affrettarono a pubblicarla, insieme alla risposta): «Riprendere le trasmissioni? Non so se lo faremo mai più. Certo non sarà possibile finché gli invasori non se ne saranno andati, e perché mai dovrebbero farlo? A meno che gli abitanti di qualche altro lontano pianeta, non comincino anche loro le trasmissioni radio, e gli invasori non ne vengano attratti.» «Ma anche così, qualcuno di loro tornerebbe subito qui da noi nel momento stesso in cui ricominciassimo a trasmettere». Nel giro di un'ora le azioni radio e televisive precipitarono a zero a tutti gli effetti pratici. Tuttavia non ci furono scene frenetiche in borsa; non ci furono vendite frenetiche poiché nessuno comperava, né con frenesia né senza. Nessuna azione di queste compagnie cambiò di mano. Impiegati e intrattenitori della radio e della televisione cominciarono a
cercarsi altri lavori. Gli intrattenitori non ebbero nessun problema: qualunque altra forma d'intrattenimento conobbe un'esplosione folle. «Due a zero», disse George Bailey. Il barista gli chiese cosa intendesse dire. «Non lo so, Hank. È soltanto un'intuizione che mi è venuta». «Che genere d'intuizione?» «Non so neppure questo. Su preparamene un altro, e poi me ne andrò a casa». Lo shaker elettrico non voleva funzionare e Hank dovette preparare il cocktail a mano. «Buon esercizio. È proprio quello che ti ci vuole», commentò George. «Ti farà perdere un po' di grasso». Hank grugnì e il ghiaccio tintinnò allegro quando inclinò lo shaker per versare la bevanda. George Bailey lo trangugiò lentamente, poi usci fuori nel bel mezzo di un rovescio d'aprile. Si fermò sotto il tendone del bar e cercò un tassì con lo sguardo. Accanto a lui c'era un vecchio. «Che tempaccio», disse George. Il vecchio lo fissò sogghignando. «Se n'é accorto, vero?» «Uh? Accorto di che?» «Osservi, osservi, signor mio. Osservi un po'». Il vecchio proseguì per la sua strada. Poiché nessun tassì vuoto si decideva a comparire, George rimase lì per un bel po' prima di rendersene conto. Aprì a metà la bocca per la sorpresa, la chiuse e rientrò nel bar. S'infilò nella cabina telefonica e chiamò Pete Mulvaney. Prima di riuscire a collegarsi con quello di Pete, gli risposero tre numeri sbagliati. La voce di Pete fece: «Sì?» «George Bailey, Pete. Senti, hai osservato il tempo?» «Dannazione, sì, certo. Niente lampi. E dovrebbero essercene, con un temporale come questo». «Cosa significa questo, Pete? I vasori?» «Certo. E questo è soltanto l'inizio, se...» Un crepitio cancellò la voce. «Ehi, Pete, sei ancora là?» Il suono d'un violino. Pete non suonava il violino. «Ehi, Pete, che diavolo...?» Di nuovo la voce di Pete: «Vieni da me, George. Il telefono non durerà a
lungo. Porta...» Si udì un ronzio, poi una voce disse:»... venite alla Carnegie Hall. Le migliori canzoni di...» George sbatté giù il ricevitore. Raggiunse a piedi, sotto la pioggia, l'abitazione di Pete. Strada facendo, comperò una bottiglia di scotch. Pete aveva cominciato a dirgli di portar qualcosa e forse era quello che intendeva. Lo era. Si versarono un bicchiere a testa e li alzarono. Le luci tremolarono per un attimo, si spensero, poi si riaccesero ma assai fioche. «Niente lampi», disse George. «Niente lampi e ben presto niente luce elettrica. Si stanno impadronendo del telefono. Cosa se ne fanno dei lampi?» «Se li mangiano, immagino. Mangiano elettricità». «Niente lampi», ripeté George. «Dannazione, posso cavarmela senza il telefono, e le candele e i lumi a petrolio non sono malaccio come illuminazione... Ma dei lampi, sì, sentirò la mancanza. I lampi mi piacciono. Dannazione». Le luci si spensero del tutto. Pete Mulvaney sorseggiò il suo drink al buio. Disse: «Luce elettrica, frigoriferi, tostapane elettrici, aspirapolvere...» «Juke box», aggiunse George. «Pensa, non ci saranno più quei maledetti juke box. Nessun sistema di altoparlanti per comunicare col pubblico, nessun... ehi, e i film?» «Niente film, neppure quelli muti. Non si può far funzionare un proiettore con una lampada a petrolio. Ma ascolta, George: nessuna automobile, nessun motore a benzina può funzionare senza elettricità». «Perché no, se lo si mette in moto con la manovella invece di usare l'avviamento automatico?» «La scintilla, George. Cosa credi produca la scintilla?» «Giusto. Ma allora neppure gli aeroplani. Ma i jet?» «Be'... suppongo che alcuni tipi di jet potrebbero essere attrezzati così da poter fare a meno dell'elettricità, ma non servirebbero a molto. I jet sono più strumenti che motore, e tutta quella strumentazione è elettrica. E non si può far volare o atterrare un jet per il rotto della cuffia». «Niente radar. Ma a cosa servirebbe? Non ci saranno più guerre, per lungo tempo». «Un tempo dannatamente lungo». D'un tratto, George si drizzò a sedere: «Ehi, Pete, e la fissione nucleare?
L'energia atomica? Funzionerà ancora?» «Ne dubito. I fenomeni subatomici sono sostanzialmente di natura elettrica. Scommetto dieci centesimi che si mangiano anche i neutroni liberi». (Avrebbe vinto la sua scommessa; il governo si era ben guardato dall'annunciare che una bomba atomica sperimentale fatta detonare quel giorno nel Nevada si era spenta con uno sfrigolio da fuoco artificiale bagnato, e le pile atomiche stavano via via cessando di funzionare). George scosse lentamente la testa, estasiato. Commentò: «Macchine e autobus, transatlantici... Pete, questo significa che faremo ritorno alla fonte originaria dei cavalli-vapore. I cavalli in carne e ossa, cioè. Se vuoi fare un buon investimento, compera cavalli. Giumente soprattutto. Una giumenta da allevamento varrà mille volte il suo peso in platino». «Giusto. Ma non dimenticare il vapore. Avremo ancora macchine a vapore, sia statiche che semoventi». «Certo. Hai ragione. Di nuovo il cavallo d'acciaio, ma per le lunghe distanze. Ma i cavalli da tiro per quelle brevi. Sai cavalcare, Pete?» «Una volta, ma credo d'esser troppo vecchio, ormai. Mi accontenterò d'una bicicletta. Ehi, sarà meglio comperare una bicicletta domattina, come prima cosa, prima che cominci l'assalto. Io la comprerò». «Buon suggerimento. Ero un discreto ciclista, un tempo. Sarà una bellezza senza auto intorno a impacciarti. E senti...» «Cosa?» «Mi comprerò anche una cornetta. La suonavo da ragazzino e posso imparare di nuovo. E poi forse mi rintanerò da qualche parte e scriverò quel roman... Ehi, e la stampa?» «Stampavamo libri molto prima dell'elettricità, George. Ci vorrà un po' di tempo prima che l'industria della carta si riadatti, ma i libri ci saranno. Grazie a Dio». George Bailey sogghignò e si alzò in piedi. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori nella notte. La pioggia era cessata e il cielo era limpido. Una macchina era ferma, i fari spenti, a metà dell'isolato di fronte. Un'altra auto si arrestò, poi riprese ad avanzare con molta lentezza, si arrestò di nuovo; la luce dei suoi fari si stava affievolendo, in fretta. George alzò gli occhi a fissare il cielo e buttò giù un sorso. «Niente lampi», ripeté. «Mi mancheranno proprio, i lampi». Il cambiamento avvenne con molto meno difficoltà di quanto previsto. Il governo, durante una seduta d'emergenza, prese la saggia decisione di
eleggere un comitato con autorità illimitata, al quale facevano capo soltanto tre sottocomitati. Il maggior comitato — chiamato Ufficio per il Riadattamento Economico — aveva soltanto sette membri e il suo lavoro consisteva nel coordinare gli sforzi dei tre sottocomitati, decidendo in fretta e senza nessuna possibilità di appello su qualunque disputa giuridica che dovesse insorgere tra essi. Il primo dei tre sottocomitati era l'Ufficio Trasporti. Il quale prese subito sotto controllo, in via temporanea, le ferrovie. Ordinò che i locomotori diesel fossero trainati sui binari morti e lì lasciati. Organizzò l'impiego delle locomotive a vapore e risolse ogni problema di funzionamento del traffico ferroviario facendo a meno della telegrafia e dei segnali elettrici. Poi impose una lista di priorità su ciò che si sarebbe dovuto trasportare: gli alimentari venivano per primi, il carbone e l'olio combustibile per secondi, e i manufatti essenziali seguivano in ordine d'importanza. Vagonate e vagonate di radio nuove di zecca, stufe elettriche, frigoriferi e tutta una lunga serie di articoli inutili furono scaricati senza cerimonie su terreni brulli e fuori mano, per venir recuperati in seguito come rottami. Tutti i cavalli furono dichiarati sotto la speciale tutela del governo, classificati a seconda delle capacità e messi al lavoro e alla riproduzione, I cavalli da tiro furono impiegati soltanto per i trasporti essenziali. Al programma di riproduzione e allevamento fu dato il maggiore spazio possibile; l'ufficio calcolò che in due anni la popolazione equina sarebbe raddoppiata, quadruplicata in tre, e nell'arco di sei o sette anni ci sarebbe stato un cavallo in ogni garage privato del paese. Gli agricoltori, privati per il momento dei loro cavalli e coi trattori che arrugginivano nei campi, ricevettero istruzioni per utilizzare i bovini per arare e svolgere altri lavori nelle fattorie, compresi i trasporti meno pesanti. Il secondo sottocomitato, l'Ufficio per il Ricollocamento della Mano d'Opera, funzionava proprio come diceva il suo nome. Si occupava dei sussidi che andavano ai molti milioni di persone rimaste senza lavoro, ma nel contempo operava attivamente a risistemarle: un compito non troppo difficile vista l'enorme crescita della domanda di lavoratori manuali che si registrava nei campi più disparati. Nel maggio 1957 trentacinque milioni d'individui in età lavorativa erano disoccupati; in ottobre, quindici milioni. Nel maggio 1958, cinque milioni. Nel 1959 la situazione era completamente risolta e l'abbondanza della domanda cominciava a provocare i primi, consistenti aumenti di paga.
Il terzo sottocomitato aveva il compito più arduo. Era chiamato l'Ufficio per il Riadattamento delle Fabbriche. Affrontò l'incredibile compito di convertire le fabbriche piene di macchinari a funzionamento elettrico, e per la maggior parte adibite alla fabbricazione di altre macchine a funzionamento elettrico, in fabbriche che, senza elettricità, producessero articoli non elettrici. Durante quei primi tempi le poche macchine a vapore statiche lavorarono in turni di ventiquattr'ore, e la prima cosa ad esse affidata fu la produzione di torni e presse e laminatoi in grado di sfornare altre macchine a vapore. Il numero delle macchine a vapore crebbe inizialmente in proporzione quadratica, poi al cubo, e così pure fece il numero dei cavalli messi alla monta. Il principio era lo stesso. Uno potrebbe, e non pochi lo fecero, riferirsi alle prime macchine a vapore come a cavalli da monta. In ogni caso per fabbricarle non c'era certo penuria di metallo. Le fabbriche erano colme di macchine non convertibili che aspettavano di venir fuse. Soltanto quando i motori a vapore, la base della nuova economia di fabbrica, furono in piena produzione, si cominciò a destinarli alla fabbricazione anche di altre cose. Lampade a olio, indumenti, stufe a carbone, vasche da bagno e telai per letti. Non tutte le grosse fabbriche furono convertite. Questo perché, mentre proseguiva il periodo di conversione, in migliaia di posti la produzione riprese a dimensioni artigianali. Piccoli laboratori con una o due persone che fabbricavano o riparavano mobili, scarpe, candele, tutte quelle cose che potevano esser fatte senza macchine grosse e complicate. All'inizio questi piccoli laboratori realizzarono grosse fortune poiché non c'era concorrenza da parte dell'industria pesante. Più tardi comparvero piccoli e maneggevoli motori a vapore in grado di far funzionare piccoli macchinari, e i laboratori artigianali difesero le posizioni conquistate sviluppandosi sempre più e adeguandosi al boom che arrivò col ritorno ai normali livelli d'occupazione e del potere d'acquisto; anzi, aumentarono di dimensioni al punto che non pochi fra essi furono in grado di rivaleggiare con le fabbriche più grosse in termini di produzione, battendole sul piano della qualità. Sì, vi furono sofferenze durante il periodo del riadattamento economico, ma molto meno di quante ce n'erano state durante la grande depressione dei primi anni Trenta. E la ripresa fu più rapida. La ragione era ovvia. Nel combattere la depressione negli anni Trenta i legislatori si erano trovati a lavorare al buio. Essi non ne conoscevano le cause, e meno ancora potevano conoscerne la cura. Erano ostacolati dall'idea che la faccenda fosse temporanea e si sarebbe curata da sola se la si
fosse lasciata stare, e le mille cause in conflitto fra loro che l'avevano provocata si sarebbero neutralizzate a vicenda. In breve, con tutta franchezza, non sapevano di che si trattava, e mentre operavano a tentoni il crollo diventò una valanga irrefrenabile. Ma nel 1957 la situazione che si trovò ad affrontare il paese (e anche tutti gli altri paesi) era ovvia e ben definita. L'elettricità non ci sarebbe stata mai più. Bisognava riadattarsi al vapore e ai cavalli. Chiaro e semplice, senza se o ma. E tutta la gente, salvo per la solita manciata di svitati, appoggiava i comitati. Nel 1961... Era una piovosa giornata d'aprile e George Bailey stava aspettando sotto la tettoia della stazioncina ferroviaria di Blakestown, Connecticut, per vedere chi sarebbe arrivato col treno delle 15 e 14. Il treno arrivò sbuffando alle 15 e 25 e si fermò con un rantolo. Tre vagoni passeggeri e un bagagliaio. La portiera di quest'ultimo si spalancò, il sacco della posta fu lanciato fuori, e la portiera tornò a chiudersi. Niente bagaglio, perciò nessun passeggero sarebbe... Poi alla vista di un uomo alto, bruno, che scendeva dalla piattaforma dell'ultimo vagone, George Bailey si lasciò sfuggire un grido di contentezza. «Pete! Pete Mulvaney! Cosa diavolo...» «Bailey! Santo cielo, cosa fai qui?» George gli strinse la mano. «Io? Vivo qui già da due anni, ormai. Ho comperato nel '59 il Blakestown Weekly per un tozzo di pane, e ho cominciato a dirigerlo. Sono direttore, cronista, fattorino. Ho trovato un tipografo che mi ha dato una mano per la stampa e Maisie si occupa delle rubriche e della posta dei lettori. È...» «Maisie? Maisie Hetterman?» «Maisie Bailey adesso. Ci siamo sposati quando ho comperato il settimanale e ci siamo trasferiti qui. Ma Pete, che cosa ci fai tu, da queste parti? «Affari. Soltanto per una notte. Devo incontrare un uomo di nome Wilcox». «Oh, Wilcox, il nostro pazzoide... Ma non fraintendermi: non c'è dubbio che è un tipo ingegnoso. Bene, potrai incontrarlo domani. Adesso verrai a casa mia per la cena e ti fermerai per la notte. Maisie sarà felice di vederti. Vieni, ho qui il calessino». «Ma certo. Ma... non dovevi far qualcosa, qui alla stazione?» «Oh, sì. Dovevo informarmi su chi arrivava col treno. E sei arrivato tu,
perciò possiamo andare». Salirono sul calesse. George afferrò le redini e intimò alla cavalla: «Al lavoro, Bessie». Poi: «Cosa stai facendo adesso, Pete?» «Ricerca. Per una compagnia del gas. Stiamo lavorando per una reticella catalizzatrice più efficiente, che dia più luce e duri più a lungo. Questo Wilcox ci ha scritto dicendo d'aver ottenuto qualcosa in questo campo, così la compagnia mi ha mandato a dare un'occhiata. Se ciò che dice Wilcox è vero, lo porterò di peso a New York e lo lascerò in pasto agli avvocati della compagnia perché trattino con lui». «Per il resto, come vanno gli affari?» «Benissimo, George. Il gas: questo è il futuro. Ogni nuova casa viene collegata con la rete di distribuzione e anche moltissime di quelle vecchie. E tu?» «A vele spiegate. Per fortuna avevamo una di quelle vecchie linotype che fondono i caratteri con un bruciatore a gas, perciò eravamo già collegati. E la nostra abitazione è subito sopra la redazione e la tipografia, così abbiamo dovuto soltanto prolungare il tubo del gas d'una rampa di scale. Gran bella cosa il gas. E New York com'è?» «Splendida, George. Ormai è discesa a un solo milione di abitanti e si sta stabilizzando su quella cifra. Niente affollamento, e spazio per tutti, in abbondanza. Quell'arto, diamine, è migliore che ad Atlantic City, senza le esalazioni di benzina». «Ci sono già abbastanza cavalli per andare tutti in giro?» «Quasi. Ma sono le biciclette a farla da padrone; le fabbriche non riescono mai a produrne abbastanza per star dietro alla domanda. C'è un club ciclistico quasi in ogni isolato e tutti quelli fisicamente capaci la usano per andare e tornare dal posto di lavoro. E gli fa anche bene alla salute; qualche anno ancora e i medici, cominceranno a far la fame». «Hai una bicicletta?» «Certo. Una pre-vasori. Ci faccio una media di sette-otto chilometri al giorno, e mangio come un cavallo». George Bailey ridacchiò. «Dirò a Maisie di aggiungere un po' di fieno alla cena. Bene, eccoci arrivati. Ferma, Bessie». Una finestra al primo piano si spalancò e Maisie si affacciò guardando in basso. Gridò subito: «Ciao, Pete!» «Metti un altro piatto in tavola, Maisie», l'invitò George. «Saliremo non appena avrò messo via la cavalla e avrò fatto vedere a Pete il pianterreno». Dal fienile guidò Pete fino all'ingresso posteriore della tipografia.
«La nostra linotype!» esclamò con orgoglio, indicandogliela. «Come funziona? Dov'è il vostro motore a vapore?» George sogghignò. «Non funziona ancora; componiamo ancora a mano. Sono riuscito finora a procurarmi una sola macchina a vapore e ho dovuto usarla per la stampa. Ma ne ho ordinata una per la linotype, e arriverà tra un mese o giù di li. Quando la riceveremo il mio tipografo, Pop Jenkins, perderà il posto non appena mi avrà insegnato a farla funzionare. Con la linotype in funzione posso fare tutto da solo». «Un po' dura per Pop?» George scosse il capo. «Pop non aspetta altro. Ha sessantanove anni e vuole andare in pensione. Rimarrà soltanto fino a quando non potrò fare a meno di lui. Ecco la stampatrice: una piccola Miehle che è un gioiello, e ci facciamo anche qualche lavoretto extra. E qui davanti c'è la redazione. Caotica ma efficiente». Mulvaney si guardò intorno a sogghignò. «George, credo proprio che tu abbia trovato la tua nicchia. Eri tagliato su misura per fare il direttore di un settimanale di provincia». «Tagliato? Ci vado pazzo. Nessuno ci si diverte più di me. Che tu ci creda o no, lavoro come un mulo e mi piace. Vieni di sopra». Sulle scale, Pete gli chiese: «E il romanzo che volevi scrivere?» «È fatto per metà, e non è male. Ma non è il romanzo che volevo scrivere. Allora ero un cinico. Adesso...» «George, credo che gli ondifagi si siano dimostrati i tuoi migliori amici». «Ondifagi?» «Oh, Signore, ma quanto ci vuole perché lo slang di New York arrivi nelle campagne? I vasori, naturalmente. Qualche professore fra quelli che si sono specializzati in materia ne aveva descritto uno come un movimento ondulatorio dell'etere, chiamandolo "ondifago", e la parola ha fatto presa... Ciao, Maisie, ragazza mia. Sei uno splendore». Cenarono con tutto comodo. Quasi scusandosi George tirò fuori alcune bottiglie di birra in ghiaccio. «Mi spiace, Pete, non ho niente di più forte da offrirti. Ma di recente ho smesso di bere. Indovina...» «Sei diventato astemio, George?» «Non proprio astemio. Non ho fatto giuramenti o altro, ma è quasi un anno che non ho più bevuto niente di forte. Non so perché, ma...» «lo lo so», l'interruppe Pete Mulvaney. «So esattamente perché non bevi... poiché neppure io bevo molto, per la stessa ragione. Non beviamo
perché non c'è più niente che ci spinge a farlo... Ehi, ma quella non è una radio?» George ridacchiò: «Un ricordo. Non la venderei neanche per un milione. Di tanto in tanto mi piace guardarla e pensare a quante sudate mi son fatto per scrivere tutte quelle fesserie. Poi mi avvicino, l'accendo e non succede niente. Silenzio, e basta. Il silenzio a volte è la cosa più bella che ci sia al mondo, Pete. Certo non potrei godermelo se ci fosse corrente, perché allora riceverei i vasori. Suppongo che siano tuttora in affari, là fuori?» «Sì. L'Ufficio Ricerche fa un controllo ogni giorno. Cercano di produrre corrente con un piccolo generatore mosso da una macchina a vapore. Ma non c'è niente da fare: i vasori se la succhiano nel medesimo istante in cui è generata». «Pensi che se ne andranno un giorno?» Mulvaney scrollò le spalle. «Helmetz pensa di no. È convinto che si moltiplichino in proporzione con la corrente disponibile. Anche se qualche altro pianeta nell'universo sviluppasse le trasmissioni radio, attirandoli come abbiamo fatto noi, alcuni rimarrebbero qui e si moltiplicherebbero come mosche nel preciso momento in cui tentassimo di usare di nuovo l'elettricità. E nel frattempo possono vivere dell'elettricità statica che c'è nell'aria. Cosa fate qui alla sera?» «Cosa facciamo? Leggiamo, scriviamo, ci facciamo visita... c'è anche una discreta filodrammatica: Maisie è presidente degli Attori di Blakestown, e anch'io di tanto in tanto faccio qualche piccola parte. Spariti i film, tutti vanno pazzi per il teatro, e abbiamo scoperto qualche autentico talento. E poi c'è il club scacchistico, e le escursioni in bicicletta, le scampagnate... In verità, non c'è tempo di annoiarsi. Per non parlare della musica. Tutti, qui, suonano uno strumento, o per lo meno ci provano». «E tu?» «Ma sì, la cornetta. Sono prima cornetta nella Silver Concert Band, e dovresti sentirmi negli assolo... E... santo cielo! Stasera c'è la prova, daremo un concerto domenica pomeriggio. Odio doverti lasciare, ma...» «Posso venire anch'io e star seduto a guardare? Ho il mio flauto qui nella valigetta, e...» «Flauto? Siamo a corto di flauti. Portalo con te, e Sid Perkins, il nostro direttore, finirà per sequestrarti perché tu rimanga fino al concerto di domenica... e mancano soltanto tre giorni, così, perché no? Dai, tiralo fuori adesso: suoneremo qualche vecchio motivo per scaldarci. Ehi, Maisie, lascia perdere quei piatti e mettiti al piano!»
Mentre Pete Mulvaney andava nella stanza degli ospiti a tirar fuori il flauto dalla valigetta, George Bailey prese la cornetta che era appoggiata sul pianoforte e provò un paio di frasi svolazzanti in tono minore. Limpido come una campana: stasera aveva il labbro in piena forma. E stringendo in mano lo squillante strumento si avvicinò alla finestra, sostando lì accanto a rimirare la notte. Ormai le ultime luci del crepuscolo sfumavano nel buio profondo e la pioggia era cessata. Udì il clop clop scandito da un cavallo che passava là sotto, poi il campanello d'una bicicletta. Qualcuno sul lato opposto della strada stava strimpellando con una chitarra e cantava. George inspirò a fondo, poi esalò un lungo sospiro. Il profumo della primavera era dolce e delicato nell'aria umida. La profonda pace della sera. Il borbottio lontano di un tuono. Dannazione, pensò George, se soltanto lampeggiasse un po'. Sentiva la mancanza dei lampi. Il figlio del pifferaio The Piper's Son di «Lewis Padgett» (Henry Kuttner e C.L. Moore) Astounding Science Fiction, febbraio Henry Kuttner e sua moglie, Catherine L. Moore, furono senza dubbio gli scrittori di SF che dominarono il secondo quinquennio degli anni Quaranta, scrivendo molti racconti coi loro veri nomi e altri come «Lewis Padgett» e «Lawrence o'Donnell», e questo loro racconto è il primo dei tre prescelti per questo libro. Dovremmo però valutare con occhio attento anche tutti i racconti pubblicati dai due sotto i loro veri nomi: è probabile infatti che entrambi abbiano posto mano anche ai racconti firmati soltanto Kuttner, o Moore — dopo il 1940. «Il figlio del pifferaio» fu il primo dei loro racconti sui «calvi» (pubblicati come Mutant nel 1953), i cui protagonisti sono umani mutati e dotati di speciali poteri, come conseguenza d'una guerra atomica. Tutte queste storie sono efficaci, intense esemplificazioni della situazione in cui vengono a trovarsi questi mutanti emarginati dalla società e per di più tutt'altro che concordi sull'uso da farsi dei loro peculiari talenti.
(Il 1945 fu l'anno della bomba e le storie di mutanti divennero di gran moda. Sapevamo infatti che le radiazioni potevano danneggiare i meccanismi genetici dell'organismo, ma noi immaginavamo mutazioni drammatiche che, dal punto di vista della scienza più seria, erano del tutto improbabili, ignorando le conseguenze più ovvie: le malattie e la morte per radiazioni. Inoltre, analizzando le storie d'una generazione fa è straordinario osservare quante di esse rechino il chiaro marchio dei concetti di John W. Campbell jr. Mi chiedo se John abbia mai pubblicato una sola storia in cui non avesse impresso il proprio marchio, di solito indottrinando in anticipo i suoi autori. Io so che faticò delle buone ore per indottrinarmi, ma a quell'epoca non mi resi mai conto che anche gli altri scrittori subivano un identico trattamento. Campbell era più che convinto che dei mutanti dotati di qualità sovrumane sarebbero stati braccati e distrutti dagli esseri umani normali. Lo vedemmo in maniera assai evidente nello «Slan» di A.E. Van Vogt e nei «Figli di Matusalemme» di Heinlein. Sospetto che Campbell fosse convinto di questo perché sentiva di aver duramente pagato da giovane la colpa di essere mentalmente superiore ai suoi coetanei, e molti autori di fantascienza devono averlo assecondato poiché anch'essi, forse, avevano avuto un'infanzia disagiata per lo stesso motivo. A pensarci bene, anche a me è capitato di fare da capro espiatorio quand'ero giovane, ma non per la mia superiorità mentale... bensì perché ero un rompiscatole. In verità, ero un grosso rompiscatole, finché imparai a non esserlo più. I.A.) L'Uomo Verde si arrampicava sulle montagne di vetro e piccoli volti pelosi di gnomi lo scrutavano dai crepacci. Questo era soltanto un altro passo nell'odissea interminabile ed eccitante dell'Uomo Verde. Aveva già vissuto motte grandi avventure: nel Paese delle Fiamme, tra i Mutadimensione, con le scimmie della Città che continuavano a ghignare mentre con le loro goffe dita cercavano di ghermire i raggi della morte. Ora i troll, maestri di magia, tentavano di fermare l'Uomo Verde con gli incantesimi. Piccoli turbini di forza schizzarono fuori dal suolo cercando di far inciampare l'Uomo Verde, un individuo dal meraviglioso sviluppo muscolare, bello come un dio, e del tutto privo di peli dalla testa ai piedi, la pelle luccicante d'un verde pallido. Quei turbini formavano uno schema affascinante. Solo seguendo un intricato percorso tra essi — evitando in modo particolare
quelli color giallo pallido — si sarebbe riusciti a passare. E quei gnomi pelosi adocchiavano maligni e gelosi dai loro crepacci nei dirupi di vetro. Al Burkhalter, avendo di recente raggiunto la maturità dei suoi otto anni di età, se ne stava stravaccato sotto un albero e masticava un filo d'erba. Era immerso così profondamente nelle sue fantasticherie che suo padre dovette dargli una cortese gomitata per riportare un barlume di comprensione nei suoi occhi socchiusi. Era una buona giornata per sognare, in verità: il sole era rovente, appena mitigato dalle fresche folate del vento che soffiava giù dalle bianche cime della sierra a oriente. L'erba timothy esalò la sua sottile fragranza muschiosa tra un refolo e l'altro, e Ed Burkhalter si sentì contento all'idea che suo figlio appartenesse alla seconda generazione dallo Scoppio. Lui stesso era nato dieci anni dopo da quando era stata sganciata l'ultima bomba, ma anche le rievocazioni di seconda mano possono essere alquanto spiacevoli. «Salve, Al», disse, e il ragazzo gli lanciò un'occhiata di tollerante accettazione da dietro le palpebre. «Ciao, papà». «Vuoi venire in città con me?» «Niente da fare», rispose Al, tornando a sprofondare subito dopo nel suo torpore. Burkhalter sollevò un sopracciglio e accennò a voltarsi. Poi, d'impulso, fece qualcosa che di rado osava senza il tacito permesso della controparte: usò il suo potere telepatico per penetrare nella mente di Al. Ammise, come sempre, che c'era da parte sua una certa esitazione, un'inconscia maldisposizione a farlo, anche se Al aveva superato il repulsivo e inumano stadio dell'infanzia mentale. Ricordò il tempo in cui la mente di Al aveva il potere di sconvolgerlo nella sua assoluta estraneità. Burkhalter ricordò qualche esperimento abortito che aveva fatto prima della nascita di Al; pochi erano i padri capaci di resistere alla tentazione di compiere esperimenti coi cervelli in embrione, e ciò aveva fatto rinascere incubi che Burkhalter non aveva più vissuto dalla sua giovinezza. C'erano state immani masse rotolanti, una vastità che faceva sgomento, e altre cose ancora. I ricordi prenatali erano cupi e angosciosi e avrebbero dovuto esser lasciati agli psicologi mnemonici, gli unici qualificati. Ma adesso Al stava maturando e fantasticava, come al solito, a vividi colori. Burkhalter, rassicurato, sentì di aver assolto il proprio dovere con quel suo invito che era un larvato controllo, e lasciò suo figlio a masticare il filo
d'erba e a ruminare dentro di sé. Malgrado ciò, provò un'improvvisa, intima tenerezza, e la dolorosa, futile pietà che era incline a provare nei confronti delle creature impotenti che non avevano ancora qualità ed esperienza bastevoli ad affrontare quella faccenda del sopravvivere che presentava tante, ed eccezionali complicazioni. La lotta, la competizione, non si erano estinte quando la guerra si era autoabolita; quei fatto di doversi adattare, di trovare un modus vivendi perfino li, nei propri ristretti dintorni, era un perenne conflitto, un duro confronto, una schermaglia. Anche con Al il problema era duplice. Sì, il linguaggio era una sorta di barriera daziaria, e un calvo poteva valutare in pieno ciò che questo significava, poiché una simile barriera non esisteva tra i calvi. Camminando lungo il cedevole sentiero che conduceva verso il centro cittadino, Burkhalter diede in un sogghigno forzato e si passò le dita magre attraverso la parrucca ben tenuta. Spesso gli estranei rimanevano sorpresi nell'apprendere che lui era un calvo, un telepate. Lo fissavano con occhi pieni di meraviglia, troppo cortesi per chiedere cosa si provasse ad essere un anormale, ma allo stesso tempo era fin troppo chiara la loro bramosia di saperlo. Burkhalter, tutt'altro che digiuno di diplomazia, era ben disposto a guidare la conversazione. «I miei vivevano vicino a Chicago dopo lo Scoppio. È stato per questo». «Oh». Fissità dello sguardo. «Ho sentito dire che è stato per questo che tanti...» Pausa sbigottita. «Anormali o mutanti. Ce ne sono stati di ambedue le specie. Io non so ancora a quale classe appartengo», finiva per aggiungere in tono disarmante. «Lei non è un anormale!» Ma non protestavano troppo. «Be', qualche esemplare davvero bizzarro è venuto fuori dalle aree investite dalle radiazioni, tutt'intorno ai bersagli delle bombe. Strane cose capitarono al plasma germinale. Quasi tutti però sono morti, o estinti: non erano in grado di riprodursi. Ma se ne trova ancora qualcuno in certe cliniche: tipi con due teste, e così via». Nondimeno, erano sempre a disagio davanti a lui. «Intende dire che sa leggere il pensiero... anche in questo momento?» «Potrei, ma non lo faccio. È difficile, salvo con un altro telepate. E noi calvi... be', non lo facciamo. Questo è tutto». Un uomo con un anormale sviluppo muscolare non andrebbe certo in giro a sbatter la gente per terra. A meno che non voglia esser linciato dalla folla. I calvi erano sempre con-
sci d'un pericolo serpeggiante: la legge di Linch. E i calvi più accorti neppure sottintendevano d'essere in possesso d'un senso in più. Si limitavano a dire d'esser diversi, e si fermavano lì. Ma una domanda era sempre implicita, anche se non sempre espressa: «Se fossi un telepate, io... Quanto guadagna lei in un anno?» Rimanevano sorpresi della risposta. Certo, un lettore del pensiero avrebbe potuto realizzare una fortuna, se avesse voluto. Allora, perché mai Ed Burkhalter continuava a fare l'esperto di semantica alla Città Editoriale Modoc, quando un solo viaggio in una delle città delle scienze gli avrebbe consentito d'impadronirsi di segreti che gli avrebbero procurato una fortuna? C'era una buona ragione. L'istinto di conservazione ne costituiva una parte. Era per questo motivo che Burkhalter, e molti come lui, portavano capelli posticci. Anche se c'erano molti calvi che non lo facevano. Modoc e Pueblo, sull'altro lato della barriera montagnosa a sud della distesa che un tempo aveva ospitato Denver, erano due città gemelle. A Pueblo c'erano le stamperie, le fotocompositrici, tutte le macchine che trasformavano i manoscritti originali in libri, dopo che erano stati prodotti e revisionati a Modoc. A Pueblo c'era anche una flotta di elicotteri per la distribuzione, e durante l'ultima settimana Oldfield, il direttore, gli aveva chiesto di revisionare il manoscritto di «Psicostoria», opera d'un tizio di New Yale che si era lasciato coinvolgere in maniera eccessiva da vecchi problemi emotivi, a tutto detrimento della chiarezza letteraria. E questo tizio non si fidava di Burkhalter il quale, pur non essendo né prete né psicologo, era stato costretto a diventare entrambe le cose senza che il confuso autore di «Psicostoria» se ne accorgesse. Gli edifici della casa editrice formavano una complicata struttura a più livelli, più simile a un luogo di villeggiatura che a qualcosa di strettamente utilitaristico. Ma era stata una concreta necessità a farla progettare in tal modo. Gli autori erano gente quasi sempre strana e originale, e spesso era necessario indurli a fare cure idroterapiche prima che fossero nella giusta forma per lavorare sui loro libri insieme agli esperti di semantica. Nessuno, ovviamente, aveva intenzione di morderli, ma loro non se ne rendevano conto e finivano per rannicchiarsi negli angoli tutti impauriti, oppure se ne andavano in giro dando in escandescenze, facendo uso d'un linguaggio che pochi riuscivano a capire. Jem Quayle, l'autore di «Psicostoria», non rientrava in nessuno di questi due gruppi; era semplicemente sconcertato dall'intensità della propria ricerca. La sua storia personale in verità rendeva
inevitabile in lui questo profondo, emotivo coinvolgimento col passato — e questo era particolarmente grave quand'era in ballo un lavoro del tipo che Quayle stava svolgendo. Il dottor Moon era un membro del consiglio: sedeva accanto all'ingresso meridionale, intento a mangiare una mela che sbucciava con cauti movimenti servendosi del suo pugnale dall'elsa d'argento. Moon era basso e grasso, quasi informe. Non aveva molti capelli, ma non era un telepate; i telepati erano completamente glabri dalla testa ai piedi. Moon mandò giù un boccone e salutò Burkhalter con un cenno della mano. «Ed...urp... volevo parlarti». «Ma certo», rispose Burkhalter con bonomia. Si fermò davanti a lui, dondolandosi sui tacchi. Ma quasi subito un'abitudine innata lo spinse a sedersi accanto al rappresentante del consiglio. I calvi, per ovvie ragioni, non rimanevano mai in piedi quando i non telepatici stavano seduti. Ora, i loro occhi s'incontrarono allo stesso livello. Burkhalter chiese: «Che cosa succede?» «Ieri il supermercato ha ricevuto per via aerea un po' di mele Shasta. Meglio dire a Ethel che vada a comperarne qualcuna prima che le finiscano... Ecco». Burkhalter guardò il suo compagno che ne mangiava un pezzo, e annui. «Sono ottime. Glielo dirò. Tuttavia oggi l'elicottero è fuori uso; Ethel ha tirato la leva sbagliata». «A prova di errore», commentò Moon in tono amaro. «Huron sta proprio sfornando dei bei modelli, oggigiorno. Quello nuovo io me lo sto facendo mandare da Michigan. Senti... stamattina Pueblo mi ha chiamato per quel libro di Quayle». «Oldfieid?» «Proprio lui», annuì Moon. «Dice se non potresti mandargli almeno qualche capitolo». Burkhalter scosse il capo. «Non credo proprio. Ci sono alcune interpretazioni proprio all'inizio che devono esser chiarite, e Quayle è così...» Esitò. «Cosa?» Burkhalter pensò al complesso d'Edipo che aveva scoperto nella mente di Quayle, ma si trattava pur sempre di qualcosa d'intimo e inviolabile, anche se impediva a Quayle d'interpretare la figura di Dario con fredda logica. «In quelle pagine il suo modo di pensare è assai confuso. Non posso lasciar correre; ho provato ieri con tre lettori, e ho ottenuto un diverso risul-
tato con ognuno dei tre. Così com'è, attualmente, «Psicostoria» può esser letto e interpretato da chiunque come gli pare... I critici ci strapazzerebbero se pubblicassimo il libro così com'è. Non puoi menar per il naso Oldfield ancora per un po'?» «Forse», replicò Moon in tono dubbioso. «Ho un romanzo intimista che potrei far passare avanti. Un pizzico d'erotismo sostitutivo... ed è innocuo; inoltre, dal punto di vista semantico è a posto. L'avevamo bloccato per cercare un illustratore adatto, ma posso metterci sopra Duman. Sì, farò così. Manderò subito il manoscritto a Pueblo per posta pneumatica e Duman potrà preparare le lastre più tardi. Conduciamo proprio una vita allegra, Ed». «A volte un po' troppo allegra», commentò Burkhalter. Si alzò in piedi, annui, e andò a cercare Quayle che si stava rilassando in uno dei solarium. Quayle era un uomo magro, alto, il volto preoccupato e astratto insieme, quasi una tartaruga senza guscio. Era disteso sul suo lettino di flessovetro con la luce del sole che pioveva dritta dall'alto tostandolo, mentre i raggi riflessi gli arrivavano furtivi da sotto, attraverso il vetro trasparente. Burkhalter si sfilò la camicia e si lasciò cadere su una sedia a sdraio accanto a Quayle. Lo scrittore fissò il petto glabro di Burkhalter e un'istintiva ripugnanza accennò a prender forma in lui: Un calvo... niente intimità... Non sono cose sue... ciglia e sopracciglia false, è sempre un... E qui si concretizzò qualcosa di molto sgradevole. Con mossa diplomatica, Burkhalter schiacciò un pulsante e su uno schermo sopra di loro comparve una pagina di «Psicostoria», ingrandita e perciò facile a leggersi. Quayle scrutò il foglio. Su di esso c'erano annotazioni in codice fatte dai lettori, che Burkhalter riconobbe come reazioni contorte ed emotive, ben diverse dalle valutazioni limpide e lineari che avrebbero dovuto esserci. Se tre lettori avevano tratto da quei pochi paragrafi tre significati del tutto diversi... be', allora che cosa intendeva dire Quayle? S'insinuò con delicatezza nella sua mente, conscio degli inutili ostacoli innalzati contro le intrusioni, barricate di fango sopra le quali l'occhio della mente si muoveva furtivo come una tranquilla brezza inquisitrice. Nessun uomo normale poteva proteggere la propria mente da un calvo. Ma i calvi potevano proteggere la propria intimità contro l'intrusione di altri telepati... adulti, naturalmente. C'era un selettore di banda psichico, ma... Eccolo. Ma un po' confuso. Dario: non era soltanto una parola, e neppure un'immagine; era in effetti una seconda vita. Ma sparpagliata, frammentaria. Frammenti d'odori, di suoni, ricordi, reazioni emotive. Ammirazione
e odio. Una bruciante impotenza. Un tornado nero che odorava di pino, che attraversava ruggendo una carta geografica dell'Europa e dell'Asia. Ora l'odore di pino si era fatto più intenso, e un'orribile umiliazione, il ricordo d'una sofferenza... occhi... Esci fuori... Vattene! Burkhalter mise giù il microfono del dittografo e giacque immobile, guardando verso l'alto attraverso gli occhiali-parasole che aveva infilato. «Sono uscito non appena mi ha chiesto di farlo», disse. «E sono ancora fuori». Quayle respirava affannosamente, disteso accanto a lui. «Grazie», rispose. «Le mie scuse. Perché non chiede un duello...» «Non voglio duellare con lei», replicò secco Burkhalter. «In tutta la mia vita non ho mai insanguinato il mio pugnale. Inoltre, capisco il suo punto di vista. Si ricordi che questo è il mio lavoro, signor Quayle, e ho appreso un bel po' di cose... che subito ho dimenticato». «Suppongo che si tratti di un'intrusione...» fece Quayle. «Continuo a dirmi che non ha importanza, ma la mia intimità è importante». Burkhalter riprese, paziente: «Possiamo continuare, tentando da diverse angolazioni, fino a quando non ne troveremo una che non sia troppo intima. Supponiamo ad esempio che io le chieda se lei ammira Dario». Ammirazione... e odore di pino... Burkhalter aggiunse in fretta: «Sono fuori, va bene?» «Grazie», borbottò Quayle. Si girò di lato, voltando la schiena a Burkhalter. Un attimo dopo disse ancora: «È una sciocchezza... voglio dire, questa di girarmi mostrandole la schiena. Lei non ha affatto bisogno di vedere il mio viso per sapere quello che penso». «Dovrà stendere il tappeto rosso del benvenuto prima che io entri», ribadi Burkhalter. «Immagino di doverle credere. Tuttavia ho incontrato certi calvi che erano... Che non mi piacevano». «Ce ne sono molti di quel tipo, certo. Li conosco. Quelli che non portano la parrucca». Quayle annui: «Ti leggono la mente e ti mettono in imbarazzo soltanto per divertirsi. Bisognerebbe... dargli una lezione». Burkhalter ammiccò alla luce del sole. «Be', signor Quayle, le cose stanno così. Anche un calvo ha i suoi problemi. Deve orientarsi in un mondo che non è telepatico; e suppongo che molti calvi abbiano l'impressione di esser costretti a gettare alle ortiche la loro miglior dote. Ma ci sono lavori adatti a un uomo come me...»
«Uomo!» Intercettò lo scampolo di pensiero uscito da Quayle. Lo ignorò, il volto privo d'espressione, e proseguì: «La semantica ha sempre costituito un problema, perfino in paesi dove si parla una sola lingua. Un calvo, con la sua dote, è un magnifico interprete. E malgrado non vi siano calvi che fanno ufficialmente parte delle forze investigative, capita spesso che lavorino con la polizia. È un po' come essere una macchina che può far soltanto alcune cose». «Alcune cose in più di quanto possano fare gli umani», commentò Quayle. Certo, rifletté Burkhalter, se soltanto potessimo competere alla pari con l'umanità non telepatica... Ma si fiderebbe un cieco di uno che può vedere? Giocherebbe a poker con lui? Un'improvvisa, profonda amarezza riempi di uno sgradevole sapore amaro la bocca di Burkhalter. Qual era la risposta? Delle riserve in cui costringere i calvi a vivere? L'isolamento? E una intera nazione di ciechi, anche così, si sarebbe fidata dei calvi? Oppure li avrebbe spazzati via, applicando la cura più drastica ed efficace prevista dall'attuale sistema di controllo ed equilibrio che faceva della guerra un'eventualità impossibile? Ricordava quando Red Bank era stata spazzata via, e, forse, con piena giustificazione. Red Bank era cresciuta troppo ed era diventata troppo tracotante per un'epoca in cui la dignità personale era un fattore di sopravvivenza, e gli altri non erano certo disposti a perdere la faccia fintanto che un pugnale pendeva alla loro cintura. Erano migliaia e migliaia le piccole città che oggi coprivano l'America, ognuna con la sua particolare specializzazione (fabbricazione di elicotteri per Huron e Michigan, coltivazione di ortaggi per Conoy e Diego, tessili, insegnamento, arte, macchine utensili per altre ancora, e così via), e ogni singola città teneva d'occhio tutte le altre con molta attenzione. I centri scientifici e di ricerca erano un po' più grandi, nessuno trovava da obbiettare a questo, poiché scienziati e tecnici non facevano mai la guerra se non costretti da politici e tiranni; ma ben poche fra tutte queste piccole città ospitavano più di qualche centinaio di famiglie. Era un sistema di controllo ed equilibrio spinto alla massima efficienza; tutte le volte che una cittadina mostrava i segni di voler diventare una città — e poi una metropoli, capitale d'un impero — veniva spazzata via. Ma questo non accadeva più da molto tempo. E anche la distruzione di Red Bank, in fin dei conti, poteva essere stato un errore. Comunque, da un punto di vista geopolitico era un'ottima impostazione; sociologicamente era accettabile, ma aveva imposto dei cambiamenti. Bo-
ria e smania di potere erano state ricacciate nel subconscio. Era intervenuto un maggior rispetto per i diritti dei singoli, man mano la decentralizzazione procedeva. E gli uomini avevano imparato. Avevano imparato ad usare un sistema monetario basato soprattutto sul baratto. Avevano imparato a volare: nessuno usava più macchine di superficie. Avevano imparato molte cose nuove, ma non avevano mai dimenticato lo Scoppio, e in luoghi segreti, vicino ad ogni abitato, erano nascoste le bombe che potevano, in modo incredibilmente completo, polverizzare una cittadina, allo stesso modo in cui bombe analoghe avevano sterminato le grandi città durante lo Scoppio. E tutti sapevano come fabbricarsi quelle bombe. Erano d'una bella e terribile semplicità. Gli ingredienti si trovavano dovunque e metterli insieme non era per niente difficile. Poi, si poteva guidare il proprio elicottero fin sopra una cittadina, sganciarci sopra un uovo... e la cittadina era cancellata. Fatta eccezione per i malcontenti delle terre incolte, i disadattati presenti in ogni razza, nessuno aveva da ridire. E le tribù dei nomadi non facevano mai scorrerie, né si riunivano mai in grandi gruppi, per timore di venire cancellate. Entro certi limiti anche gli artisti erano dei disadattati, ma non antisociali, e potevano perciò vivere dove volevano e dipingere, scrivere, comporre musica o ritirarsi nei loro mondi privati. Gli scienziati, anch'essi disadattati ma per altro verso, si erano ritirati nelle loro cittadine un po' più grandi, riunendosi a formare, così, dei piccoli universi tutti loro, sfornando uno dopo l'altro straordinari successi tecnologici. E i calvi trovavano lavoro dove potevano. Nessun non-telepate avrebbe mai visto il mondo circostante come Burkhalter. Egli era conscio con intensità anormale dell'elemento umano e attribuiva un significato assai più profondo ai valori umani, senza dubbio perché valutava gli uomini secondo una diversa dimensione, anzi, più di una. E inoltre, in un certo qual senso, guardava l'umanità come l'avrebbe fatto un osservatore esterno. Eppure era umano. La barriera che la telepatia aveva innalzato induceva gli uomini a sospettare di lui, più ancora che se avesse avuto due teste, poiché in tal caso avrebbe potuto contare sulla loro pietà. Ma, visto come stavano le cose... Già, visto come stavano, regolò lo schermo finché non comparvero in uno sfarfallio sopra di loro altre pagine del dattiloscritto. «Dica quando», disse rivolto a Quayle. Questi scostò all'indietro i capelli grigi. «Ho i nervi a fior di pelle», obbiettò. «Tutto il lavoro di stesura del mio libro e la revi-
sione mi hanno sottoposto a una tensione quasi insopportabile». «Be', possiamo sempre rimandare la pubblicazione», suggerì Burkhalter, in tono casuale, e si compiacque quando constatò la viva repulsione che Quayle provava a quell'idea. Neppure a lui piaceva fallire. «No, no. Voglio concludere adesso». «La catarsi mentale...» Be', si, forse, con l'aiuto di uno psicologo? Ma non un...» «... un calvo. Lo sa che parecchi psicologi hanno dei calvi per assistenti? E ottengono anche degli ottimi risultati». Quayle cominciò a fumare, inspirando con lentezza. «Suppongo... Non ho avuto molti contatti con i calvi. O forse troppi... e d'ogni tipo e qualità. Un giorno ne ho visto alcuni in un manicomio. Ma non la sto offendendo?» «No», disse Burkhalter. «È il rischio d'ogni mutazione, passar troppo vicina alla linea di demarcazione. Ci sono stati molti insuccessi. Quella dei telepati glabri, creati dalle radiazioni dure, può dirsi una mutazione riuscita. Ma non tutti sono riusciti a mantenersi in carreggiata. La mente è uno strano congegno... lei lo sa. È un colloide in equilibrio, in senso figurato, sulla punta di uno spillo. Se c'è qualche difetto, la telepatia è quel che ci vuole per farlo saltar fuori. E così si è scoperto che tra gli effetti dello Scoppio c'è l'aver scatenato un mucchio di pazzia. Non soltanto fra i calvi: anche fra molti altri tipi di mutanti che si svilupparono allora. Solo che i calvi... sono quasi tutti paranoici». «Ma c'è anche la demenza precoce», aggiunse Quayle, provando sollie vo nell'uscire dal suo imbarazzo, sviando l'attenzione su Burkhalter. «E la demenza precoce, già. Quando una mente confusa acquisisce la facoltà telepatica... una mente ereditariamente caotica... non riesce a controllarla del tutto. Il suo disorientamento cresce. I paranoici riempiono il mondo che li circonda di persecuzioni e altre manie, mentre chi è affetto da demenza precoce non sa nemmeno che questo mondo esiste. Ci sono differenze tra i singoli individui, è ovvio, ma sostanzialmente le cose stanno così». «In un certo senso», commentò Quayle, «la cosa fa paura. Non mi viene in mente nessun parallelo storico». «No, infatti». «Come andrà a finire?» «Non lo so», rispose Burkhalter, pensieroso. «Credo che verremo assimilati, alla fine. Non c'è stato ancora abbastanza tempo... In fin dei conti
siamo specializzati, e per certi lavori siamo utili, no?» «Contenti voi. Ma quei calvi che non portano parrucca...» «Sono talmente collerici che mi aspetto, col passar del tempo, di vederli tutti uccisi nei duelli». Burkhalter sorrise. «Non sarà una gran perdita. Il resto di noi sta ottenendo ciò che vuole: essere accettati. Non abbiamo né corna, né aureola». Quayle scosse la testa. «Credo d'essere contento di non possedere facoltà telepatiche. Comunque, la mente è già abbastanza misteriosa senza che si debbano aprire nuove porte. Grazie per avermi fatto parlare... È servito a farmi sfogare, almeno in parte. Possiamo andare avanti, adesso, col manoscritto?» «Certo», annui Burkhalter, e ancora una volta le pagine comparvero una dopo l'altra sullo schermo sopra le loro teste. Quayle pareva meno sulla difensiva; i suoi pensieri erano più lucidi e Burkhalter riuscì a penetrare il vero significato di molte affermazioni che fino a quel momento erano rimaste confuse. Lavorarono con facilità, col telepate che rimodellava le frasi al dittafono, e due volte soltanto dovettero affrontare l'ostacolo di grovigli emotivi. Staccarono a mezzogiorno e Burkhalter, salutando l'autore con un amichevole cenno del capo, s'infilò nello scivolo che portava al suo ufficio, dove trovò alcune chiamate registrate sul visore. Attaccò il riascolto e un'espressione preoccupata s'insinuò nei suoi occhi azzurri. Pranzò in un separé col dottor Moon. La conversazione durò così a lungo che soltanto le tazze a induzione riuscirono a mantenere caldo il caffé, ma Burkhalter aveva più d'un problema da discutere. E conosceva Moon da moltissimo tempo. L'uomo grasso era uno dei pochi uomini normali che non provasse una ripugnanza subconscia per il fatto che lui era un calvo, pensò Burkhalter. «Non ho mai fatto un duello in vita mia, dottore. Non posso permettermelo». «Non puoi permetterti di non farlo. Non puoi respingere la sfida, Ed. Nessuno lo fa». «Ma questo individuo, Reilly... Neppure lo conosco». «Io sì», disse Moon. «Ha un pessimo carattere. Fa molti duelli». Burkhalter picchiò i pugni sul tavolo. «È ridicolo. Non lo farò». «Be'», fece Moon, prosaicamente, «tua moglie non può battersi contro di lui. E se Ethel avesse letto nella mente della signora Reilly per poi spettegolare, Reilly avrebbe un motivo».
«Non credi che noi siamo fin troppo consci di questi pericoli?» chiese Burkhalter a bassa voce. «Ethel non se ne va in giro a leggere il pensiero degli altri più di quanto non faccia io. Sarebbe fatale... per noi. E per qualunque altro calvo». «Non per i pelati... quelli che non portano parrucche. Loro...» «Sono pazzi. E procurano a tutti i calvi una cattiva fama. Insomma: punto primo, Ethel non legge la mente degli altri, e non ha letto quella della signora Reilly. Punto secondo: Ethel non spettegola». «È ovvio che Reilly è un tipo isterico», annuì Moon. «Si è sparsa la voce di questo scandalo, qualunque cosa sia, e la signora Reilly si è ricordata di aver visto Ethel di recente. In ogni caso è il tipo che ha bisogno di scaricare la colpa su qualcun altro... un capro espiatorio. Io sono convinto, invece, che è stata proprio lei a lasciarsi scappar di bocca qualcosa di delicato, e che abbia messo su tutta questa storia per non doversi discolpare con suo marito». «Non ho intenzione di accettare la sfida di Reilly», ripeté Burkhalter, cocciuto. «Dovrai». «Ascolta, dottore. Forse...» «Cosa?» «Niente. Un'idea. Potrebbe funzionare. Be', non è più il caso di lambiccarsi il cervello: credo proprio di aver trovato la soluzione giusta. E ad ogni modo è l'unica. Non posso permettermi un duello, e questo è tassativo». «Ma non sei un codardo». «C'è una cosa di cui i calvi hanno paura», lo corresse Burkhalter. «L'opinione pubblica. Si dà il caso che io sappia per certo che finirei per uccidere Reilly. È per questo che non ho mai duellato in vita mia». Moon finì di bere il suo caffè. «Uhmmmm. Penso che...» «Non farlo. E c'è qualcos'altro. Mi sto chiedendo se non dovrei mandare Al in una scuola speciale». «Cos'è che non va col ragazzo?» «Ci stiamo accorgendo che è un magnifico delinquente. Stamattina il suo insegnante mi ha chiamato. E senz'altro valeva la pena di ascoltare il riassunto che mi ha fatto. Al parla e agisce in modo strano. Fa piccoli scherzi cattivi ai suoi amici... sempre che a quest'ora ne abbia ancora qualcuno». «Tutti i bambini sono crudeli».
«I bambini non sanno cosa voglia dire crudeltà. È per questo che si comportano in modo crudele: gli manca l'empatia. Ma Al sta...» Burkhalter fece un gesto d'impotenza, «... sta diventando un giovane tiranno. Stando al suo insegnante, pare che non gl'importi di niente e di nessuno». «Non è poi così tremendamente anormale...» «Non è questo il peggio. È diventato molto, troppo egocentrico. Non voglio che diventi come uno di quei calvi senza parrucca di cui parlavi prima». Burkhalter non accennò alle altre possibilità: la paranoia, la demenza precoce. «Deve aver imparato da qualche parte. A casa? Improbabile. Che altri posti frequenta tuo figlio, Ed?» «I soliti. Vive in un ambiente normale». «Mi parrebbe», disse Moon, «che un calvo dovrebbe avere insolite, eccezionali opportunità nell'allevare un giovane. Il rapporto mentale... eh?» «Già. Ma... non so. Il guaio è», la sua voce si era abbassata a un sussurro, «il guaio è... Dio, come non vorrei esser diverso! Non abbiamo chiesto noi di essere telepati. Forse finirà per essere meraviglioso, in tempi lunghi, ma io sono soltanto un uomo, con la sua vita e il suo piccolo mondo personale. Quelli che si occupano di sociologia sui lunghi periodi tendono a dimenticarsene. Sono bravi, loro, a elaborare le risposte, ma tocca a ognuno di noi, a ogni calvo, da solo, combattere la propria battaglia finché è vivo. E non è esattamente una battaglia. È qualcosa di peggio, la necessità di controllarsi ad ogni istante, di adeguarsi a un mondo che non ti vuole». Moon si mosse a disagio. «Sei un po' dispiaciuto per te stesso, Ed?» Burkhalter si scosse. «Lo sono, dottore. Ma ce la farò ad uscirne». «Ce la faremo insieme», replicò Moon, ma Burkhalter non si aspettava un grande aiuto da lui. Moon era pieno di buona volontà, ma sarebbe sempre stato uno sforzo tremendo, orribile quasi, per un uomo comune convincersi che un calvo fosse... sì, fosse come lui. Gli uomini cercavano le differenze... e le trovavano. Ad ogni modo, avrebbe dovuto sistemare quella faccenda prima di rivedere Ethel. Avrebbe potuto facilmente nasconderle l'accaduto, ma lei si sarebbe accorta dell'esistenza d'una barriera mentale e si sarebbe chiesta il perché. Il loro matrimonio era stato un'unione ideale proprio grazie a quell'ulteriore rapporto, qualcosa che li compensava dell'inevitabile, semiavvertita ma sempre presente, alienazione dal resto del mondo. «Come va la "Psicostoria?"» chiese Moon, dopo qualche istante di silenzio.
«Meglio di quanto mi aspettassi. Ho trovato una nuova direzione di approccio con Quayle. Se parlo di me stesso, riesco a farlo uscire dal suo riserbo. Ciò gli dà abbastanza fiducia da consentirgli di aprirsi mentalmente a me. Malgrado tutto, potremmo anche aver subito quei primi capitoli pronti per Oldfield». «Ottimo. Ad ogni modo è bene che non possa farci fretta. Se fossimo costretti a sparar fuori i libri con tanta velocità, tanto varrebbe tornare ai giorni della confusione semantica; Cosa che non faremo mai!» «D'accordo». Burkhalter si alzò in piedi. «Io me la filo. Ci vediamo». «Ma Reilly...» «Non ci pensare». Burkhalter usci, dirigendosi all'indirizzo che aveva letto sul suo visore. Toccò il pugnale che aveva alla cintola. Il duello non era per i calvi, ma... Un silenzioso saluto s'insinuò nella sua mente e sotto l'arco che conduceva al campus si fermò per sorridere a Sam Shane, un calvo originario della zona di New Orleans che sfoggiava una parrucca rosso fiammeggiante. Non si diedero la pena di parlare. Domanda personale sul benessere mentale, morale e fisico... Un bagliore soddisfatto. E tu, Burkhalter? Per un attimo Burkhalter colse nella mente di Shane l'immagine di ciò che simboleggiava il suo nome (1). Ombra di guai. Una calorosa disponibilità ad aiutare. I calvi erano assai legati tra loro. Burkhalter pensò: Ma dovunque andassi vi sarebbero gli stessi sospetti. Siamo degli anormali. Ancora di più altrove, pensò Shane. Siamo in molti qui a Modoc. La gente è sempre più sospettosa dove non è in contatto quotidiano con... noi. Il ragazzo... Anch'io ho problemi, pensò Shane. Sono preoccupato. Le mie due ragazze... Delinquenti? Sì. Denominatori comuni? Non so. Ce n'è più d'uno, tra noi, che ha avuto problemi coi suoi figli. Caratteristiche secondarie della mutazione? Che emergono nella seconda generazione? C'è quasi da pensarlo, fu la riposta di Shane, mentre si accigliava dentro la sua mente. Il concetto tremolò, si offuscò. Ci rifletterò più tardi. Devo
andare. Burkhalter sospirò e proseguì per la sua strada. Le case erano disposte tutt'intorno al centro produttivo di Modoc, perciò prese una scorciatoia attraverso il parco per arrivare prima a destinazione. Si trovò davanti a un edificio curvo che sembrava protendersi in tutte le direzioni, ma non c'era nessuno, così Burkhalter rimandò a dopo l'incontro con Reilly. Diede un'occhiata al cronometro e deviò in direzione della scuola, superando una collinetta. Come si era aspettato, era l'ora della ricreazione e trovò Al stravaccato sotto un albero, a una certa distanza dai suoi compagni che erano impegnati nel divertente e proibito gioco dello Scoppio. I pensieri di Al l'investirono: L'Uomo Verde aveva quasi raggiunto la cima della montagna. Gli gnomi pelosi stavano bersagliando vigliaccamente la sua pista con sfrigolanti strisce di luce cercando di colpire la loro preda, ma l'Uomo Verde riusciva agilmente a schivarle. Le rocce sporgevano... «Al». «... sempre più all'esterno, spinte dagli gnomi, sul punto di...» «Al!» Burkhalter accompagnò il pensiero con le parole, schizzando dentro la mente del ragazzo, un espediente di cui si serviva di rado, dal momento che i giovani erano incapaci di difendersi da simili invasioni. «Ciao, papà», disse Al, per niente turbato. «Cosa c'è?» «Un rapporto del tuo insegnante». «Non ho fatto niente». «Non è quello che tu hai fatto o non fatto... Ascolta, ragazzo. Non cominciare a metterti idee strane in testa». «Non lo faccio». «Pensi che un calvo sia migliore o peggiore di un non calvo?» Al mosse i piedi a disagio. Non rispose. «Bene», proseguì Burkhalter. «La risposta è: tutte e due le cose e nessuna delle due. Ed eccoti il perché. Un calvo può comunicare mentalmente, ma vive in un mondo in cui la maggior parte della gente non può farlo». «Sono stupidi», dichiarò Al. «Non così stupidi, se sono più adatti di te al loro mondo. Potresti anche dire, allo stesso modo, che una rana è migliore di un pesce perché è un anfibio?» Burkhalter gli forni una breve spiegazione telepatica dei termini da lui usati. «Be'... oh, ho capito, d'accordo». «Forse», disse ancora Burkhalter, misurando attentamente le parole,
«quello di cui hai bisogno è un calcione nel sedere. Il tuo pensiero era tutt'altro che in accordo con le parole. Ripeti?» Al cercò di nasconderlo, di velario così da renderlo irriconoscibile. Burkhalter cominciò a penetrare la barriera, una cosa facile per lui, ma si fermò. Al stava fissando suo padre in maniera assai poco filiale... In effetti, dava l'idea di giudicarlo una sorta di animale molliccio, senza spina dorsale. Un'immagine fin troppo chiara. «Visto che sei tanto egocentrico», gli fece notare Burkhalter, «forse puoi anche vederla così. Sai perché non ci sono calvi in posizione-chiave?» «Certo che lo so», sbottò Al. «Hanno paura». «E di che cosa?» «Dei...» L'immagine era strana, confusa e rimescolata, eppure familiare a Burkhalter. «... dei non-calvi». «Be', se occupassimo dei posti dove potessimo approfittare delle nostre facoltà telepatiche, i non-calvi sarebbero pieni d'invidia, soprattutto se avessimo successo. Se un calvo inventasse anche soltanto una trappola per topi di tipo migliore, un mucchio di gente salterebbe fuori a dire che ha rubato l'idea dal cervello di qualche non-calvo. Hai capito?» «Sì, papà». Ma non aveva capito. Burkhalter sospirò e alzò lo sguardo. Riconobbe una delle figlie di Shane su una collinetta lì vicino, seduta tutta sola, le spalle appoggiate a un macigno. Qua e là c'erano altre figure isolate. Lontano a oriente gli innevati bastioni delle Montagne Rocciose formavano un profilo irregolare sullo sfondo del cielo azzurro. «Al», riprese Burkhalter, «non voglio che tu covi rancori. Questo è un mondo splendido e la gente che lo abita nell'insieme è simpatica. Esiste una legge delle medie. Non sarebbe mostrarsi assennati se c'impadronissimo di troppe ricchezze o potere, poiché combatterebbero contro di noi... e in ogni caso non ne abbiamo bisogno. Nessuno è povero. Gli è facile trovare un lavoro adatto a noi, lo facciamo, e siamo ragionevolmente contenti. Abbiamo alcuni vantaggi che i non-calvi non possiedono; nel matrimonio, ad esempio. L'intimità mentale è importante quanto quella fisica. Ma non voglio che il fatto d'essere un calvo ti faccia sentire un dio. Non è così. Posso ancora», aggiunse, cambiando tono, «farti cambiare idea a sculacciate, nel caso in cui tu abbia in mente di seguire fino in fondo i concetti che stai accarezzando nella tua mente in questo momento». Al deglutì e si affrettò a battere in ritirata. «Mi spiace. Non lo farò più». «E tienti in testa i capelli. Non toglierti la parrucca in classe. E quando fai la doccia, ricordati poi di riapplicarti l'adesivo».
«Sì, ma... il signor Vanner non porta la parrucca». «Ricordami di svolgere qualche ricerca storica insieme a te sugli esibizionisti d'ogni epoca e tipo», replicò Burkhalter. «L'assenza di parrucca sulla testa del signor Venner è con ogni probabilità la sua sola virtù, sempre che si possa considerare tale». «Fa un sacco di soldi». «Chiunque li farebbe, in quel suo emporio. Ma avrai notato che la gente non compera da lui, se soltanto può farne a meno. È questo che intendevo dire, parlando di rancore. Lui ne sta coltivando un bel po' intorno a sé. Già, esistono calvi come Venner, Al, ma faresti bene a chiedergli, una volta o l'altra, se è felice. Per tua informazione, io lo sono, e comunque più di Venner. Hai afferrato?» «Sì, papà». Al pareva remissivo. Ma niente affatto convinto. Burkhalter sempre turbato annui e si allontanò. Quando passò accanto al macigno dove sedeva la figlia di Shane, afferrò uno scampolo di pensiero. ... sulla vetta della Montagna di Vetro, facendo rotolare le rocce contro gli gnomi, finché... Si ritrasse; era una sua abitudine inconscia toccare menti sensibili, ma coi bambini era decisamente sleale. Coi calvi adulti equivaleva al gesto istintivo di toccarsi il cappello: l'altro rispondeva, oppure no. Poteva venir eretta una barriera; poteva esserci un deliberato offuscamento; o anche poteva uscirne fuori, sparato, un pensiero di ripulsa, che invitava a non intromettersi. Un elicottero che trainava una fila di alianti stava arrivando da sud: un trasporto carico di cibi congelati provenienti dal Sudamerica, a giudicare dai contrassegni. Burkhalter prese un appunto mentale di andarsi a comperare una bistecca argentina. Aveva una nuova ricetta che voleva provare: l'avrebbe cotta sulla brace, e condita con una salsa speciale. Un cambiamento più che benvenuto dopo tutti i pasti a microonde cui erano stati costretti per un'intera settimana. E poi, pomodori, chili, e... mmm. Che altro? Oh, sì. Il duello con Reilly. Burkhalter toccò con fare assente l'elsa del pugnale e produsse un lieve raschiamento di scherno con la gola. Forse era un pacifista innato. Gli riusciva difficile pensare seriamente a un duello anche se erano davvero tanti quelli che lo facevano... specialmente quando i prosaici dettagli d'una cena al barbecue gli si aggiravano nella mente. Così andavano le cose. Le maree della civiltà spazzavano i continenti con onde lunghe secoli, e ogni singola onda, malgrado fosse ben conscia di far parte della marea, si preoccupava soprattutto per la cena. E, a meno di
non essere alto mezzo chilometro, col cervello d'un dio, e la durata della vita d'un dio, cos'era la differenza? La gente perdeva tempo ed energie dietro a un bel po' di sciocchezze: gente come Venner, certo uno spostato, anche se non matto abbastanza da qualificarsi per il manicomio, ma senza alcun dubbio il tipo potenziale del paranoico. Il rifiuto di quell'uomo di portare la parrucca l'etichettava d'individualismo, ma anche di esibizionismo. Anche se non si vergognava della sua mancanza di peli, che bisogno c'era che la sbandierasse così? Inoltre, Venner, aveva un pessimo carattere, e anche se la gente lo trattava male, era lui che se l'era cercata, cominciando per primo. E in quanto ad Al... il ragazzo era su una strada che l'avrebbe portato molto vicino alla delinquenza. Non poteva trattarsi d'uno stadio normale della fanciullezza, rifletté Burkhalter. Lui non aveva la pretesa d'essere un esperto, ma era ancora abbastanza giovane da ricordare gli anni della sua formazione, e aveva incontrato più ostacoli di quanti ne avesse Al adesso; in quei giorni i calvi erano stati molto più «nuovi» e anormali. C'era stato più d'un movimento d'opinione per isolare, sterilizzare, o addirittura sterminare la mutazione telepatica. Burkhalter sospirò. Se fosse nato prima dello Scoppio, avrebbe potuto essere diverso? Impossibile a dirsi. Si poteva leggere la storia, ma non viverla. Forse in futuro vi sarebbero state, nelle biblioteche, registrazioni telepatiche che l'avrebbero reso possibile. In effetti, c'erano moltissime opportunità, oggi... e troppo poche quelle che il mondo fosse ora pronto ad accettare. Col tempo, i calvi non sarebbero più stati considerati degli anormali, e allora sarebbe stato possibile un vero progresso. Ma non erano i singoli individui a fare la storia... pensò Burkhalter, bensì i popoli. Non gli individui. Passò di nuovo davanti alla casa di Reilly, e questa volta un uomo venne a rispondergli. Un tizio corpulento, lentigginoso, strabico, con due mani immense e, Burkhalter ebbe modo di notarlo, un eccellente coordinamento muscolare. Appoggiò quelle mani sul pannello inferiore, indipendente, della porta, che aveva lasciato chiuso, e chiese: «Chi è lei, signore?» «Mi chiamo Burkhalter». Comprensione e cautela guizzarono negli occhi di Reilly. «Oh, capisco. Ha ricevuto la mia telefonata?» «Infatti», annuì Burkhalter. «Voglio parlarle in merito. Posso entrare?» «D'accordo». Reilly si fece indietro, scortandolo poi lungo un corridoio
fino a uno spazioso soggiorno, dove le pareti di vetro a mosaico lasciavano entrare una luce diffusa. «Vuol fissare l'ora?» «Voglio dirle che si sbaglia». «Oh, senta... aspetti un momento», fece Reilly, gesticolando. «Adesso mia moglie è fuori, ma mi ha detto l'essenziale. Non mi piace affatto questa faccenda d'intrufolarsi nella mente d'un altra persona, è disonesto. Avrebbe dovuto dire a sua moglie di farsi i fatti suoi... oppure di tener la bocca chiusa». Burkhalter replicò con pazienza: «Le do la mia parola, Reilly, che Ethel non ha letto la mente di sua moglie». «Questo lo dice la signora?» «Io... non gliel'ho chiesto». «Già», disse Reilly. «Per quanto ne so, lei potrebbe star leggendo la mia mente in questo momento...» Esitò. «Esca dalla mia casa. Amo la mia intimità. C'incontreremo domani all'alba, se a lei va bene. Adesso esca». Pareva aver qualcosa in mente, qualche vecchio ricordo che non voleva esibire. Burkhalter resistette nobilmente alla tentazione di leggergli dentro. «Nessun calvo leggerebbe mai...» «Su, esca!» «Ascolti! Non avrà nessuna possibilità in un duello contro di me!» «Sa quante tacche ho?» chiese Reilly. «Ha mai fatto un duello con un calvo?» «Domani avrò una tacca nuova, più profonda. Esca, mi ha sentito?» Burkhalter, mordendosi le labbra, replicò: «Uomo, non si è reso conto che in un duello potrei leggerle il pensiero?» «Non m'importa... Cosa?» «Sarò sempre di mezzo passo più avanti di lei. Non importa quanto saranno istintive le sue mosse, lei le conoscerà con una frazione di anticipo nella sua mente. E io conoscerò anche tutti i suoi trucchi e i suoi punti deboli. La sua tecnica sarà per me come un libro aperto. Qualunque cosa lei pensi di...» «No». Reilly scosse la testa. «Oh, no. Lei è furbo, ma sono tutte storie per impressionarmi». Burkhalter esitò, prese una decisione, e si girò di scatto spingendo via una sedia. «Impugni il suo pugnale», disse, «ma lo lasci dentro il fodero. Le farò vedere cosa intendo dire». Reilly spalancò gli occhi: «Se vuol farlo adesso...»
«Non voglio». Burkhalter spinse via un'altra sedia. Sganciò il pugnale, con fodero e tutto, dalla sua cintura, e si assicurò che il piccolo gancio di sicurezza fosse al suo posto. «Qui abbiamo abbastanza spazio. Su, venga». Accigliandosi, Reilly tirò fuori il suo pugnale, lo impugnò con fare impacciato, ostacolato dal fodero, poi d'un tratto fece una finta in avanti. Ma Burkhalter non era più lì: aveva anticipato la mossa, e il suo fodero guizzò verso l'alto, puntando al ventre di Reilly. «Così», commentò Burkhalter, «avrei messo fine al combattimento». In risposta, Reilly vibrò un fendente verso il basso, deviandolo all'ultimo istante di taglio verso la gola dell'avversario. In risposta, Burkhalter parò fulmineo il colpo con l'avambraccio sinistro, mentre la punta del fodero del suo pugnale, spinto in avanti dalla mano destra, colpi due volte Reilly all'altezza del cuore. Le lentiggini spiccarono contro il volto pallidissimo dell'omaccione; ma non era ancora pronto ad arrendersi. Tentò altri colpi, abili, che indicavano un ottimo addestramento, ma li mancò, poiché Burkhalter li aveva previsti tutti. Il suo avambraccio sinistro copriva inevitabilmente il punto al quale Reilly aveva mirato, che perciò non veniva mai colpito. Reilly abbassò finalmente il braccio, lentamente, e deglutì. Burkhalter riagganciò il fodero del pugnale alla cintura. «Burkhalter», disse Reilly, «lei è un demonio». «Sono ben lungi dall'esserlo. Soltanto, non voglio correre un rischio. Lei crede davvero che essere un calvo sia una gran cosa?» «Ma se può leggere il pensiero...» «Quanto tempo crede che durerei, se accettassi di far duelli? Sarebbe una trappola mortale per i miei avversari. E nessuno, ovviamente, ci starebbe... e sarei fatto fuori, in un modo o nell'altro. Non posso far duelli perché sarebbe un assassinio, e quel che è peggio la gente saprebbe che lo è. Ho accettato senza fiatare un sacco di battute spiritose, ho inghiottito un bel po' d'insulti, proprio per questo motivo. Adesso, se vuole, sono pronto ad ammettere tutto ciò che lei vuole. Ma non posso duellare con lei, Reilly». «No, posso capirlo. E... sono contento che sia venuto». Reilly era ancora bianco in volto. «Sarei finito dritto in una trappola». «Non la mia», replicò Burkhalter. «Non avrei duellato. I calvi non sono affatto fortunati, sa. Hanno degli impedimenti... come questo, appunto. È per questo che non possono correr rischi e inimicarsi la gente. Ed è per questo che noi non leggiamo il pensiero, a meno che non ci sia chiesto e-
splicitamente di farlo». «La cosa ha senso. Più o meno». Reilly esitò. «Senta, ritiro la sfida. Va bene?» «Grazie», rispose Burkhalter, tendendogli la mano. L'altro la strinse con una certa riluttanza. «Lasciamo perdere la cosa, eh?» «Bene». Ma Reilly era pur sempre ansioso che il suo visitatore lasciasse al più presto la casa. Burkhalter tornò a piedi al centro editoriale, fischiettando soprappensiero. Adesso avrebbe potuto dirlo a Ethel; in realtà, era obbligato a farlo, poiché un segreto fra loro avrebbe infranto la pienezza della loro intimità telepatica. Non che le loro menti si offrissero nude alle reciproche ispezioni, ma era piuttosto il fatto che ogni barriera sarebbe stata subito avvertita dall'altro, e il rapporto non sarebbe più stato perfetto. Per quanto possa sembrare strano, malgrado questa totale intimità, marito e moglie riuscivano a rispettare la reciproca privacy. Ethel sarebbe rimasta un po' addolorata, ma il problema sarebbe stato presto dimenticato e, inoltre, anche lei era una calva. Non che ne avesse l'aspetto, con quella sua vaporosa parrucca di capelli castani e quelle lunghe ciglia ricurve. Ma i suoi genitori erano vissuti ad oriente di Seattle all'epoca dello Scoppio, e anche dopo, quando l'effetto delle radiazioni dure non era stato completamente studiato. Un vento da neve soffiava sopra Modoc, perdendosi verso sud in direzione della valle dell'Utah. Burkhalter desiderò di trovarsi nel suo elicottero, solo nell'azzurra vastità del cielo. Lassù c'era una pace strana, tranquilla, che nessun calvo era mai riuscito a conoscere del tutto sulla superficie della Terra, salvo nelle profondità delle lande incolte e desolate. Dovunque c'erano, sempre, frammenti vaganti di pensieri, subsensoriali, che come il fruscio quasi inaudibile d'una puntina su un disco fonografico, non cessavano mai. Era senz'altro questo il motivo per cui a tutti i calvi piaceva volare ed erano esperti piloti. Le alte, deserte immensità dell'aria erano i loro azzurri eremi. Però lui, adesso, era laggiù a Modoc, e per di più in ritardo per il nuovo colloquio che doveva avere con Quayle. Burkhalter accelerò il passo. Nell'atrio principale incontrò Moon. Gli riferì in breve, e senza soffermarsi sui particolari, che aveva risolto la faccenda del duello, e passò oltre, lasciando il grasso dottore a fissarlo perplesso. C'era una sola chiamata registrata dal visore, da parte di Ethel; la registrazione diceva che era preoccupata per Al e chiedeva a Burkhalter di andare a scuola, a controllare. Be', questo
l'aveva già fatto... a meno che il ragazzo non fosse riuscito a cacciarsi in qualche altro guaio dopo la sua visita. Burkhalter fece una telefonata per rassicurarsi. Per adesso, la situazione di Al non aveva subito mutamenti. Trovò Quayle, assetato, nello stesso solarium privato. Burkhalter si fece mandar su un paio di dramzowie, dal momento che non aveva alcuna obiezione a sciogliere le inibizioni di Quayle. Lo scrittore dai capelli grigi era immerso nello studio d'una mappa a strati del globo terrestre, in cui ogni strato rappresentava una particolare epoca storica, e veniva illuminato singolarmente premendo il corrispondente pulsante. Ed era appunto ciò che Quayle stava facendo, procedendo a ritroso nel tempo con la sua ricerca. «Guardi qua», disse, facendo scorrere il dito su tutta una fila di pulsanti. «Vede quante variazioni ha subito il confine tedesco?» Il confine palpitò un'ultima volta, scomparendo poi del tutto quando furono raggiunti i tempi moderni. «E il Portogallo... osservi la sua zona d'influenza. Oggi...» La zona continuò a restringersi sempre più dal 1600 in poi, mentre da altri paesi s'irradiavano linee che indicavano il loro crescente potere marittimo. Burkhalter sorseggiò il suo dramzowie. «Non ne è rimasto granché, adesso». «Non da quando... cos'ha?» «Cosa vuol dire?» «Ha un'aria abbattuta». «Non credevo si vedesse», replicò Burkhalter con una smorfia. «Ho schivato un duello per il rotto della cuffia». «È una tradizione della quale non ho mai capito il senso», commentò Quayle. «Cosa le e successo? E da quando in qua è possibile schivare un duello?» Burkhalter glielo spiegò. Quayle trangugiò un sorso e sbuffò. «Che bella situazione per lei. Immagino che non sia poi tanto vantaggioso essere un calvo». «Be', qualche vantaggio molto particolare c'è». D'impulso, Burkhalter prese a parlargli di suo figlio. «Lei capisce in che situazione mi trovo, no? Io davvero non so quali criteri applicare con un giovane calvo. Dopotutto è una mutazione. E la mutazione telepatica non ha ancora avuto il tempo di esprimersi compiutamente. Non possiamo fare esperimenti e controlli, poiché le cavie e i conigli non generano telepati. Non che non si sia tentato, sa... E, insomma, il figlio d'un calvo dev'essere allevato in un modo molto speciale perché sia in grado di affrontare la maturità». «Mi sembra che lei si sia adattato molto bene».
«Ho... imparato. E come me, l'hanno fatto gli altri calvi più realisti. È per questo che non sono ricco, e non mi sono dato alla politica. In effetti, ci comperiamo la sicurezza per la nostra specie rinunciando a certi vantaggi individuali. Siamo ostaggi del destino... e il destino ci risparmia. Ma si tratta, come lei capisce, di benefici negativi a lungo termine che ci paghiamo in questo modo — poiché chiediamo soltanto di essere risparmiati e accettati — negando a noi stessi un sacco di benefici positivi immediati. Un modo per soddisfare il destino». «Pagando il pifferaio», annuì Quayle. «Siamo noi i pifferai. I calvi come gruppo, intendo dire. E i nostri figli. Così il conto torna; in effetti; e lo paghiamo sulla nostra pelle. Se volessi avvantaggiarmi in maniera sleale dei miei poteri telepatici... mio figlio non vivrebbe molto a lungo. I calvi verrebbero spazzati via. È questo che Al deve imparare, e invece sta diventado antisociale... ogni giorno di più». «Tutti i bambini sono antisociali», gli fece notare Quayle. «Sono dei completi individualisti. Mi pare che l'unico motivo di preoccupazione sarebbe una deviazione dalla norma, da parte del ragazzo, strettamente collegata col suo senso telepatico», «C'è qualcosa di vero in ciò». Burkhalter si protese a sondare con delicatezza la mente di Quayle, e constatò che l'antagonismo era diminuito in maniera considerevole. Sogghignò tra sé e riprese a parlare dei propri guai. «Proprio così, un ragazzo è il padre dell'adulto che diventerà. E un calvo adulto dev'essere bene adattato, altrimenti è spacciato». «L'ambiente è importante quanto l'eredità genetica. L'uno completa l'altra. Se un bambino viene allevato nel modo giusto, non avrà troppi problemi... a meno che l'eredità genetica non giochi un ruolo dominante». «Ma potrebbe essere questo il caso, no? Si sa così poco della mutazione telepatica. Noi sappiamo che la calvizie ne è un effetto collaterale... ma quali e quante altre cose potrebbero saltar fuori alla terza o alla quarta generazione? Mi chiedo se la telepatia sia davvero una cosa buona per la mente». Quayle mormorò: «Hmph. Personalmente mi rende nervoso...» «Come Reilly». «Si», annui Quayle, ma non parve avere apprezzato granché il paragone. «Be', in ogni caso se una mutazione è un insuccesso, si estinguerà. Non continuerà a proliferare». «E l'emofilia, allora?» «Quanti sono gli individui che ne sono affetti?» ribatté Quayle. «Sto
cercando di veder le cose dal punto di vista d'uno psicostorico. Se vi fossero stati telepati, in passato, la storia del mondo avrebbe potuto esser diversa». «Come fa a sapere che non ce n'erano?» chiese Burkhalter. Quayle ammiccò. «Oh, già. Anche questo è vero. Nel Medioevo sarebbero stati chiamati stregoni... o santi. Gli esperimenti Duke-Rhine... ma incidenti del genere sarebbero abortiti. La natura va in giro alla cieca, nella speranza di far centro, ma non sempre le riesce al primo tentativo». «Potrebbe aver mancato il colpo anche stavolta». Era l'abitudine che parlava per lui, l'innata modestia dettata dalla prudenza. «La telepatia potrebbe essere soltanto il tentativo riuscito a metà di produrre qualcosa di inimmaginabile. Magari una sorta d'ipersenso quadrimensionale...» «Troppo astratto per me». Quayle mostrava un genuino interesse e le sue esitazioni erano quasi del tutto scomparse; accettando Burkhalter come telepate, aveva tacitamente spazzato via ogni sua precedente obiezione verso la telepatia in sé. «I tedeschi un tempo avevano l'idea d'esser diversi; come pure quel popolo orientale che dominava sulle isole al largo della costa cinese: i giapponesi. Questi affermavano, tassativamente, di essere una razza superiore, poiché discendevano direttamente dagli dèi. Sublimazione d'un complesso d'inferiorità, poiché erano bassi di statura e si sentivano a disagio quando dovevano trattare con gente più alta di loro. Ma neanche i cinesi sono alti di statura, soprattutto i cinesi meridionali, eppure non hanno mai sofferto d'un simile complesso». «Questione di ambiente, allora?» «L'ambiente, sì... l'ambiente creato da una continua, efficace propaganda. I... sì, i giapponesi adottarono il buddismo e l'alterarono completamente per adattarlo ai propri bisogni, trasformandolo nello scintoismo. I samurai, i cavalieri-guerrieri, furono il loro ideale. Il loro codice d'onore era affetto da un affascinante strabismo. L'idea-base dello scintoismo consisteva nel venerare i propri superiori e nel soggiogare gli inferiori. Ha mai visto gli alberi-gioiello dei giapponesi?» «Non li ricordo. Cosa sono?» «Riproduzioni in miniatura di alberi, fatti di gemme montate su piccole intelaiature, con ninnoli e gingilli d'ogni tipo che pendono dai rami. Il primo albero-gioiello fu fatto per attirare la dea della luna fuori dalla caverna dove si era rintanata, imbronciata. Sembra che la signora sia rimasta tanto incuriosita dai ninnoli, soprattutto da uno specchietto che rifletteva il suo viso, da uscir fuori dal suo nascondiglio. L'intera morale giapponese era
agghindata in graziosi indumenti: era questa l'esca. E i tedeschi fecero press'a poco lo stesso. L'ultimo dittatore tedesco, Hitler, aveva fatto rivivere l'antica leggenda di Sigfrido. Pura paranoia razziale. I tedeschi avevano legami familiari molto forti, ma in casa veneravano il padre, il tiranno, non la madre. E questo si estendeva allo stato. E Hitler divenne, simbolicamente, il Padre di Tutti, e ciò diede inizio a una lunga e complicata serie di eventi, che si concluse con lo Scoppio. E le mutazioni». «Io... dopo il diluvio», mormorò Burkhalter, inghiottendo l'ultimo sorso di dramzowie. Quayle fissava il vuoto. «Singolare», disse dopo un po'. «Questa faccenda del Padre di Tutti...» «Sì?» «Mi chiedo se lei sappia quale potente effetto possa avere su un uomo». Burkhalter non disse niente. Quayle gli rivolse un'occhiata penetrante. «Sì», disse lo scrittore con calma. «Dopo tutto lei è un uomo. Le devo le mie scuse, sa». Burkhalter sorrise. «Non ci pensi più». «E invece sì», riprese Quayle. «Mi sono appena reso conto, all'improvviso, che le facoltà telepatiche non sono così importanti. Voglio dire... non la rendono diverso. Ho parlato con lei...» «A volte la gente impiega anni per rendersi conto di ciò che lei sta scoprendo adesso», osservò Burkhalter. «Anni di vita e di lavoro con qualcosa che non considerano un uomo, ma... un calvo». «Sa cosa ho sempre tenuto nascosto dentro di me?» chiese Quayle. «No, non lo so». «Lei mente da vero gentiluomo. Grazie. Be', ecco qui, e glielo dico per mia libera scelta, perché voglio farlo. Non m'importa se lei mi ha già estratto l'informazione dalla mente; è soltanto che voglio dirglielo di mia libera volontà. Mio padre... certamente l'odiavo... era un tiranno, e mi ricordo che una volta, quand'ero ancora un ragazzino ed eravamo in montagna, mi picchiò davanti a parecchia gente che se ne stava lì a guardare la scena. Per molto tempo ho cercato di dimenticarlo, inutilmente. E adesso...» Quayle scrollò le spalle «... adesso non sembra più così importante». «Non sono uno psicologo», replicò Burkhalter. «Se vuole la mia opinione, o meglio la mia reazione personale, le dirò che non ha importanza. Lei non è più un ragazzino, la persona con la quale sto parlando e lavorando è il Quayle adulto». «Uhmmm. S...sì. Suppongo di averlo sempre saputo... quanto poca importanza avesse. Era soltanto il fatto di veder violata la mia intimità... Ora
credo di conoscerla assai meglio, Burkhalter. Può... può entrare». «Lavoreremo meglio», annuì Burkhalter, sorridendo. «In particolare con Dario». Quayle aggiunse: «Cercherò di spazzar via tutte le riserve dalla mia mente. Con tutta franchezza, non sarà più un problema, per me, darle... le risposte, anche quelle più personali». «Be', sarà facile controllare. Vuole affrontare il problema di Dario, adesso?» «Sì», assentì Quayle. E nei suoi occhi non c'era più alcuna traccia di guardingo sospetto. «Dario s'identifica con mio padre...» Tutto andò liscio, e con successo. Quel pomeriggio riuscirono a fare assai più di quanto fossero riusciti le due settimane precedenti. Soddisfatto per più d'un aspetto, Burkhalter si fermò un attimo dal dottor Moon per informarlo che le cose stavano andando a gonfie vele, poi si diresse verso casa, scambiando pensieri con un paio di calvi suoi compagni di lavoro, che come lui quel giorno avevano finito. Le Montagne Rocciose erano insanguinate dalla luce del sole ormai prossimo all'orizzonte, a occidente, e la fresca brezza era piacevole sulle guance di Burkhalter mentre camminava verso casa. Era bello sentirsi accettati. Dimostrava che anche per lui era possibile realizzarsi completamente. E un calvo aveva bisogno di essere spesso rassicurato, in un mondo popolato di estranei sospettosi. Quayle era stato un guscio duro da rompere, ma... Burkhalter sorrise. Ethel sarebbe stata contenta. In un certo qual modo la sua vita era ancora più dura, difficile. Per le donne doveva esser così. Gli uomini normali erano disperatamente ansiosi che la loro privacy non venisse violata dalle donne calve, e quanto alle donne non-calve... be', andava tutto a merito del luminoso fascino personale di Ethel se, infine, era stata accolta nei club e nei gruppi femminili di Modoc. Soltanto Burkhalter conosceva l'intima disperazione di Ethel per il fatto di esser calva, e neppure suo marito l'aveva mai vista senza parrucca. Il suo pensiero lo precedette dentro la casa bassa, con le due ali avvolgenti, sul fianco della collina, e s'intrecciò con quello di lei in una calda intimità. Era qualcosa di più di un bacio. E, come al solito, c'era l'eccitante sensazione di attesa, che cresceva e cresceva, fino a quando l'ultima porta si spalancava e si toccavano fisicamente. È questo, pensò, il motivo per cui sono nato calvo: vale la pena perdere interi mondi per questo.
Durante la cena quel rapporto si ampliò, coinvolgendo anche Al, era qualcosa d'intangibile ma così profondamente radicato che dava più sapore al cibo e faceva sembrare vino l'acqua. La parola casa per i telepati aveva un significato che i non-calvi non potevano comprendere del tutto, poiché implicava un legame che essi non potevano conoscere. C'erano piccole, intangibili carezze... L'Uomo Verde vien giù lungo la Grande Discesa Rossa; i nani pelosi cercano di arpionarlo mentre lo fa... «Al», chiese Ethel, «stai ancora lavorando sul tuo uomo verde?» Qualcosa di totalmente odioso, gelido e micidiale tremolò in silenzio nell'aria, come un ghiacciolo che vibrasse un colpo assassino al fragile vetro dorato, mandandolo in frantumi. Burkhalter lasciò cadere il tovagliolo e alzò io sguardo, scosso fin nel profondo. Sentì il pensiero di Ethel ritrarsi, e protese il suo in tutta fretta per toccarla e rassicurarla col suo contatto mentale. Ma sull'altro lato del tavolo il ragazzino, con le guance ancora paffute dell'infanzia, sedeva guardingo e silenzioso, rendendosi conto di aver commesso un errore e cercando la salvezza nella più completa immobilità. La sua mente era troppo debole, ancora, per resistere a un sondaggio, lo sapeva, e per questo restava dei tutto immobile, in attesa, mentre gli echi d'un pensiero continuavano a librarsi velenosi. Burkhalter disse: «Vieni, Al». Si alzò in piedi. Ethel fece per parlare. «Aspetta, tesoro. Innalza una barriera. Non ascoltare». Burkhalter toccò la mente di lei con dolcezza e tenerezza, poi prese la mano di Al e obbligò il ragazzo a seguirlo fuori, nel giardino. Al osservava suo padre con occhi spalancati, vigili. Burkhalter si sedette su una panchina e obbligò Al a prendere posto al suo fianco. Dapprima usò la voce, per chiarezza, e per un altro motivo. Era sgradevole servirsi di questo espediente per indurre il ragazzo ad abbassare le sue deboli difese, ma era necessario. «É un modo molto strano, questo, di pensare a tua madre», gli disse. «È un modo molto strano di pensare a me». Per una mente telepatica l'oscenità era più oscena, e l'irriverenza più irriverente, ma qui non si era trattato né dell'una né dell'altra. Era stato... gelido e maligno. E questa è la carne della mia carne, pensò Burkhalter, fissando il ragazzo e rievocando gli otto anni della sua crescita. La mutazione deve forse trasformarsi in qualcosa di diabolico? Al continuò a tacere. Burkhalter si spinse dentro quella giovane mente. Al tentò di divincolarsi e fuggire, ma le forti mani di suo padre lo tenevano stretto. Era l'istinto,
non la ragione, a far agire il ragazzo, poiché la mente può percorrere lunghe distanze... Non gli piaceva far questo, poiché l'accresciuta sensibilità si era accompagnata ad un aumento d'emotività, e una violazione dell'intimità era pur sempre una violazione. Ma era necessario essere spietati. Burkhalter cercò. Con violenza, scagliava addosso ad Al delle parole-chiave, e in risposta emergevano pulsanti ondate di ricordi. Alla fine, sconvolto e nauseato, Burkhalter lasciò andare Al e rimase seduto, solo, sulla panchina a fissare il bagliore rossastro che si andava spegnendo sulle cime innevate. Il biancore era macchiato di rosso. Ma non era troppo tardi. Quell'individuo era un pazzo, lo era stato sin dall'inizio, altrimenti avrebbe riconosciuto l'impossibilità di tentare una cosa del genere. Il condizionamento era appena cominciato. E Al poteva essere ricondizionato. Gli occhi di Burkhalter s'indurirono. Lo sarebbe stato. Lo sarebbe stato. Ma non ancora, finché all'immediata rabbia furiosa non si fossero sostituite la compassione e la comprensione. Non ancora. Entrò in casa, parlò brevemente con Ethel, e videofonò alla dozzina di calvi che lavoravano con lui al Centro Editoriale. Non tutti avevano famiglia, ma nessuno di loro mancava quando mezz'ora più tardi si incontrarono nella saletta sul retro della Pagan Tavern, nel centro cittadino. Sam Shane aveva colto un frammento di ciò che Burkhalter sapeva, e tutti coloro leggevano le sue emozioni. Fusi in un'unione empatica grazie al loro senso telepatico, attesero fino a quando Burkhalter non fu pronto. Poi, Burkhalter li informò. Non ci volle molto, col pensiero. Disse loro dell'albero-gioiello coi suoi ninnoli scintillanti, un'esca luccicante. Disse loro della paranoia e della propaganda razziale. E sottolineò come la propaganda più efficace fosse quella rivestita di zucchero, ben mascherata cosicché le sue vere motivazioni restassero nascoste. Un uomo verde, glabro, eroico... che simboleggiava un calvo. E avventure eccitanti, sfrenate, l'esca per acchiappare i pesci giovani la cui mente informe era abbastanza plasmabile per venir guidata lungo il sentiero d'una pericolosa follia. I calvi adulti potevano ascoltare, ma non lo facevano; i giovani telepati avevano una soglia mentale di ricettività più bassa, e gli adulti di solito non leggono i libri dei propri ragazzi, salvo che per accertarsi che non ci sia niente di dannoso nelle loro pagine. E nessun adulto si sarebbe dato la pena di ascoltare le trasmissioni mentali dell'Uomo Verde. La maggior parte di loro l'avevano accettata come una fantasti-
cheria creata spontaneamente dai loro figli. «Io, infatti, l'avevo creduto», intervenne Shane. «Le mie figlie...» «Risali all'origine», l'invitò Burkhalter. «Alla vera origine. Io l'ho fatto». I pensieri di quella dozzina di menti si propagarono all'esterno, su una frequenza più alta, quella dei bambini, e qualcosa cercò bruscamente di sottrarsi a loro, colto di sorpresa e impaurito. «E lui», annui Shane. Non ebbero bisogno di parlare. Uscirono in gruppo compatto dalla Pagan Tavern, minacciosi, e attraversarono la strada fino all'emporio. La porta era chiusa. Due dei calvi l'aprirono a spallate. Attraversarono l'emporio immerso nell'oscurità ed entrarono in una stanza sul retro, dove un uomo era in piedi accanto a una sedia rovesciata. Il suo cranio nudo luccicava alla luce della lampada sul soffitto. Le sue labbra si muovevano, farfugliando qualcosa d'inaudibile. Il suo pensiero li implorò... e fu ricacciato indietro da un'implacabile, micidiale muraglia. Burkhalter sfoderò il pugnale. Altre lame d'acciaio mandarono bagliori... E si dissetarono. L'urlo di Venner era da tempo cessato, ma il suo ultimo, morente pensiero agonizzante echeggiò a lungo nella mente di Burkhalter, mentre faceva ritorno verso casa. Il calvo senza parrucca non era un pazzo, no... Ma paranoico lo era stato senz'altro. Ciò che aveva tentato di nascondere fino all'ultimo istante era sconvolgente. Un tremendo, tirannico egocentrismo, e un odio feroce per i nontelepati. E un complesso autogiustificatorio, questo sì, degno d'un folle. Noi siamo il futuro! Noi, i calvi! Dio ci ha creati per dominare gli uomini inferiori! Burkhalter, inspirò a fondo, rabbrividendo. La mutazione non aveva avuto del tutto successo. Un gruppo di mutanti si era adattato: i calvi che portavano la parrucca e si erano inseriti nell'ambiente. Un secondo gruppo aveva manifestato una completa pazzia, e si poteva scartarlo: si trovava nei manicomi. Ma il gruppo intermedio era quello formato dai paranoici: non erano pazzi, ma non erano neppure savi. E non portavano la parrucca. Come Venner, E Venner aveva cercato discepoli. Il suo tentativo era condannato in partenza a fallire, ma soltanto perché Venner aveva agito da solo. Un calvo... paranoico.
Ma c'erano altri calvi paranoici... Molti altri. Davanti a Burkhalter, annidata sul fianco scuro della collina, c'era la pallida macchia che contrassegnava la sua casa. Si fece precedere una volta ancora dai propri pensieri, che toccarono quelli di Ethel, soffermandosi un breve istante a rassicurarla. Poi, i suoi pensieri proseguirono, entrando nella mente addormentata d'un ragazzino che, confuso e avvilito, si era infine addormentato dopo il gran piangere. Adesso, in quella mente c'erano soltanto sogni, un po' scoloriti, un po' macchiati, ma che potevano venir schiariti. E lo sarebbero stati. (1) Burkhalter = laccio che strangola (N.d.T.). Un nemico vivo o morto Wanted - an Enemy di Fritz Leiber Astounding Science Fiction, febbraio Fritz Leiber, alto di statura ed eccezionalmente dotato, ha ricevuto il Grand Master Award dei Science Fiction Writers of America nel 1981, e sarebbe stato ben difficile trovare una persona più degna. Leiber ha dato piacere e stimolazione mentale ai lettori di fantascienza e del fantastico per più di quarant'anni, mantenendo costantemente un alto livello di qualità pur lavorando in campi il più possibile distanti, come la fantascienza tecnologica e il fantastico pieno di spade e stregonerie. Il problema della soluzione dei conflitti ha da tempo catturato l'attenzione degli scrittori di science-fiction, i quali hanno fornito un vastissimo ventaglio di soluzioni, che vanno dal combattimento fra singoli al mettere nelle mani di tutti le più micidiali armi per la distruzione di massa. In «Un nemico vivo o morto» (un racconto misteriosamente trascurato) Leiber discute i pericoli e le occasioni fornite dal concetto del «comune nemico». (Il riferimento fatto da Marty al Grand Master A ward vinto da Fritz nel 1981 mi ricorda lo shock che provai a quella notizia... No, non perché l'abbia ricevuto lui al mio posto. Io non sono così egocentrico. Soltanto che... Norman Spinrad, l'affabile presidente degli Science Fiction Writers of America mi aveva telefonato un mese o giù di lì prima della cerimonia,
per assicurarsi che io fossi presente al banchetto, poiché voleva che fossi io a presentare il premio. M'informò che sarebbe stato Fritz a riceverlo, e mi fece giurare la più assoluta segretezza. Mantenni il segreto. Non ne parlai neppure a mia moglie. La sera prima del banchetto Janet ed io eravamo in un tassì insieme a Clifford Simak che aveva vinto il Grand Master Award in una precedente occasione. Cliff mi disse: «Credo che stavolta dovrebbe vincerlo Fritz Leiber. È uno scrittore incredibilmente sottovalutato». Io mantenni un silenzio indifferente, che quasi mi fece saltare i bottoni della camicia per lo sforzo. Giunse l'ora del banchetto. Ricevetti la mia ricompensa per aver mantenuto il segreto pur sotto quella tremenda pressione? No! Norman Spinrad, scordandosi in pieno di avermi assegnato l'onore, consegnò lui stesso il premio a Fritz. Ma non importa... visto che è stato Fritz a riceverlo. I.A.) Le luminose stelle del cielo di Marte formavano la volta scintillante di un fantastico dipinto. Un individuo fornito di visione retinica avrebbe visto un terrestre abbigliato con la familiare giacca e i calzoni del ventesimo secolo in piedi su un macigno che lo poneva a poco più d'un metro sopra la sabbia rugginosa. Il suo volto era ossuto, dall'aspetto ascetico. I suoi occhi balenavano indomiti dentro alle orbite incassate. Di tanto in tanto i lunghi capelli ricadevano sopra gli occhi. Le sue labbra si agitavano, vociferanti, mostrando grossi denti giallastri, e davanti ad essi vi era stabilmente una nube di fiato condensato, poiché stava tenendo un discorso... in lingua inglese. L'uomo assomigliava talmente a uno di quegli oratori di vecchio stampo che parlavano da sopra una cassetta di limoni, che veniva voglia di guardarsi intorno alla ricerca di un lampione, di una folla di ascoltatori dai volti imbambolati, traboccanti dal marciapiede, e dei poliziotti in divisa intenti a passeggiare su e giù. Ma lo sconcertante globo di morbida radiosità che circondava il signor Whitlow faceva sprizzare bagliori di luce riflessa da gusci di smalto nero e da zampe articolate simili a quelle d'una formica vista al microscopio. Ciascun individuo di quella folla possedeva un corpo Ovale lungo circa trentacinque centimetri, del tutto sprovvisto d'una testa in qualche modo riconoscibile, nonché di qualunque orifizio sensoriale o altro sulla nera e lucida superficie, salvo una piccola bocca che funzionava come una porta scorrevole e che continuava ad aprirsi e a chiudersi ad intervalli regolari. A questo corpo erano attaccate otto zampe articolate, un paio delle quali mostrava organi terminali dotati di alte capacità di manipolazione.
Queste creature erano disposte in cerchio intorno al macigno del signor Whitlow. Davanti a lui una di queste creature se ne stava un po' discosta dalle altre, su un macigno più piccolo. Ai lati di questa, vi erano altre due creature i cui gusci vagamente argentei suggerivano l'erosione del tempo, e perciò la vecchiaia. Al di là della folla, si stendeva un deserto nero fino a un orizzonte che s'intuiva soltanto per la brusca interruzione della distesa di stelle. Bassa nel firmamento brillava la Terra dall'azzurro cielo, che adesso era la stessa della sera di Marte, e vicino ad essa cavalcava l'esile falce di Fobos. Ai coleotteroidi di Marte questa scena si presentava molto diversa, poiché essi dipendevano dalla percezione più di qualunque altro sistema sensoriale, per quanto elaborato. Il loro cervello interno era conscio in modo diretto di tutto ciò che si trovava entro un raggio d'una ventina di metri. Per loro, l'azzurro bagliore della Terra era una nube fotonica che si diffondeva ai limiti della soglia della percezione, simile, ma ben distinta dalle altre nubi fotoniche delle stelle e delle deboli lune. Non potevano percepire nessuna immagine distinta della Terra, a meno che non avessero fatto uso di lenti per portare una simile immagine all'interno della loro portata percettiva. Erano consci del suolo sotto di loro come di un emisfero sabbioso percorso da un labirinto di gallerie scavate da vermi e centopiedi. Erano consci dei propri corpi corazzati e segmentati, e dei propri pensieri. Ma la loro attenzione era soprattutto concentrata, adesso, su quell'inefficiente congerie d'organi molli e scoperti che pensava a se stesso come al signor Whitlow: una stupefacente, umidiccia zuppetta di vita sull'asciutto, avaro Marte. La fisiologia dei coleotteroidi era tipica d'un pianeta dall'economia impoverita. I loro gusci erano doppi; l'intercapedine poteva essere svuotata durante la notte, per trattenere il calore, e nuovamente riempita di giorno per assorbirlo dall'esterno. I loro polmoni erano veri e propri accumulatori di ossigeno: ad ogni espirazione corrispondevano circa cento inspirazioni di quell'atmosfera rarefatta, e la bocca a doppia valvola consentiva di accumulare una considerevole pressione interna. Utilizzavano il cento per cento dell'ossigeno inspirato ed esalavano anidride carbonica mista ad altri prodotti di scarto della respirazione. Le occasionali folate di quest'alito incredibilmente cattivo facevano arricciare le narici al signor Whitlow. Non era niente affatto ovvio cosa mai permettesse al signor Whitlow di continuare a funzionare, di parlare perfino, in quella gelida scarsità di ossi-
geno. Ciò costituiva una domanda sconcertante almeno quanto la fonte del morbido chiarore che l'inondava. La comunicazione fra lui e il suo pubblico era puramente telepatica. Stava parlando vocalmente dietro precisa richiesta dei coleotteroidi, poiché, come la maggior parte dei non-telepati, riusciva a organizzare e a render chiari al meglio i suoi pensieri mentre parlava. La sua voce era drasticamente attenuata a causa dell'aria sottile: sembrava l'ago d'un fonografo che raschiasse la superficie d'un disco senza amplificazione, il tutto intensificato dall'arcana e ridicola ampollosità del suo ampio gesticolare e delle sue contorsioni facciali. «E così», concluse ansando Whitlow, scostandosi una volta ancora i lunghi capelli dalla fronte, «torno alla mia domanda originaria: attaccherete la Terra?» «E noi, signor Whitlow», pensò il capo-coleotteroide, «torniamo alla nostra domanda originaria: perché dovremmo?» Il signor Whitlow fece una smorfia, rivelando una pazienza ormai logora: «Come vi ho già detto ormai parecchie volte, non posso fornirvi una spiegazione completa. Ma vi garantisco la mia buona fede. Farò del mio meglio per fornirvi i mezzi di trasporto e facilitarvi la cosa in tutti i modi. Intendiamoci, dovrà trattarsi soltanto d'una invasione simbolica. Dopo breve tempo, potrete ritirarvi su Marte col vostro bottino. Non vorrete certo trascurare quest'occasione». «Signor Whitlow», rispose il capo-coleotteroide con un umorismo velenoso e asciutto come il suo pianeta, «non posso leggere i suoi pensieri a meno che lei non li vocalizzi. Sono troppo confusi. Ma posso percepire i suoi pregiudizi. Lei opera partendo da un grosso malinteso riguardo la nostra psicologia. È chiaro che sul suo mondo è tradizione pensare agli esseri alieni dotati d'intelligenza come a mostri malefici il cui unico desiderio è saccheggiare, distruggere, tiranneggiare e infliggere innominabili crudeltà a creature meno progredite di loro. Niente potrebbe essere più lontano dal vero. Noi siamo una razza antica e priva di emozioni. Ci siamo lasciati alle spalle le passioni e le vanità — perfino le ambizioni — della nostra giovinezza. Noi non intraprendiamo nessun progetto se non per motivi più che validi». «Ma questo è appunto il caso. Non vedete i grossi vantaggi della mia proposta? Quasi senza alcun rischio per voi avrete modo di fare un prezioso bottino». Il capo dei coleotteroidi si sistemò più a suo agio sul piccolo macigno, e
così fecero i suoi pensieri. «Signor Whitlow, mi permetta di ricordarle che non abbiamo mai affrontato una guerra con leggerezza. Durante l'intero corso della nostra storia, i nostri unici nemici intelligenti sono stati i molluscoidi dei mari senza maree di Venere. Nella primavera della loro cultura giunsero fin qui a bordo delle loro astronavi spaziali piene d'acqua, e noi fummo costretti a combattere guerre lunghe e amare. Ma alla fine anch'essi raggiunsero la maturità razziale e una certa spassionata saggezza, anche se non equivalente alla nostra. Fu dichiarata una tregua perpetua, a condizione che ognuna delle parti se ne restasse sul proprio pianeta e non tentasse più nessuna incursione. Per molte epoche abbiamo rispettato quella tregua, vivendo in mutuo isolamento. Perciò, come può vedere, signor Whitlow, lei può imputarci qualunque cosa, ma non d'essere inclini ad accettare una proposta strana e confusa come la sua». «Posso dare un suggerimento?» interloquì il coleotteroide anziano alla destra del capo. I suoi pensieri guizzarono sottili verso Whitlow: «Terrestre, lei sembra possedere poteri perfino superiori, sotto certi aspetti, ai nostri. Il suo arrivo su Marte senza nessun riconoscibile mezzo di trasporto e la sua capacità di sopportare i rigori del nostro mondo senza nessun percettibile mezzo protettivo, ne sono prove sufficienti. Da quanto lei ci ha detto, gli altri abitanti del suo pianeta non possiedono questi poteri. Perché allora non li attacca lei da solo, come fa il verme solitario corazzato? Perché ha bisogno del nostro aiuto?» «Amico mio», disse il signor Whitlow con solennità, piegandosi in avanti e puntando il suo sguardo sull'anziano dal carapace argenteo, «detesto la guerra come il male più abbietto, e giudico il fatto di prender parte ad essa come il crimine più grande. Nondimeno, sarei pronto a sacrificare me stesso, come lei suggerisce, se ciò bastasse a raggiungere i miei fini. Sfortunatamente non posso. Non avrebbe l'effetto psicologico che desidero. Inoltre...» e fece una pausa imbarazzata, «... tanto vale che vi confessi che non sono del tutto padrone dei miei poteri. Non li capisco. L'opera di qualche inscrutabile provvidenza ha messo nelle mie mani un congegno che è probabilmente il manufatto di creature la cui intelligenza trascende mille volte quelle che abitano il nostro sistema solare, o addirittura il nostro universo. Ed è grazie a questo congegno che posso attraversare lo spazio e il tempo, protetto dai pericoli. Esso mi fornisce calore e luce, concentra intorno a me una sfera d'aria così da consentirmi di respirare normalmente. Ma in quanto a usare questo congegno in maniera più ampia... avrei una mortale paura che possa sfuggire al mio controllo. L'unico, piccolo esperimento in tal
senso da me fatto è stato disastroso. Non oserei mai più». Il coleotteroide anziano inviò un pensiero al suo capo su una frequenza riservata: «Devo tentare d'ipnotizzare la sua mente turbata, facendomi consegnare da lui questo congegno?» «Sì, fallo». «Benissimo. Tuttavia temo che quel congegno proteggerà la sua mente, oltre al suo corpo. Tuttavia, vale la pena tentare». «Signor Whitlow», pensò d'un tratto il capo, «è giunto il momento di passare ad argomenti più concreti. Ogni sua successiva parola fa sembrare la sua proposta ancor più irrazionale, e i suoi motivi sempre più incomprensibili. Se si aspetta che noi mostriamo un serio interesse, deve dar subito una chiara risposta a questa domanda: perché vuole che attacchiamo la Terra?» Whitlow si contorse tutto: «Ma è proprio la domanda alla quale non posso rispondere». «Mettiamola così, allora», continuò il capo, paziente. «Quale vantaggio personale si aspetta di conseguire dal nostro attacco?» Whitlow si erse in tutta la sua statura e si raddrizzò la cravatta: «Nessuno! Nessuno in assoluto! Non cerco niente per me stesso!» «Vuole dominare la Terra?» insisté il capo. «No! No! Detesto ogni forma di tirannia». «Una vendetta, allora? La Terra le ha fatto del male e lei sta cercando di ripagarla con la stessa moneta?» «Assolutamente no! Non mi piegherei mai a un simile barbaro comportamento. Io non odio nessuno. Il desiderio di vedere qualcuno ferito è la cosa più lontana dai miei pensieri». «Suvvia, suvvia, signor Whitlow! Ci ha appena sollecitato ad attaccare la Terra. Come può far quadrare questo coi suoi sentimenti?» Whitlow si rosicchiò il labbro, perplesso. Il capo approfittò della pausa per una rapida domanda al coleotteroide anziano: «Qualche progresso?» «Nessuno. Afferrare la sua mente è straordinariamente difficile. E, come avevo previsto, c'è uno schermo». Whitlow scrollò le spalle, gli occhi fissi all'orizzonte bordato di stelle. «Vi dirò questo», riprese. «È soltanto perché amo moltissimo la Terra e l'umanità, che voglio che voi l'attacchiate». «Ha scelto uno strano modo di dimostrare il suo affetto», dichiarò il capo.
«Sì», continuò Whitlow, accalorandosi ancor di più, gli occhi ancora perduti lontano. «Voglio che lo facciate per porre fine alla guerra». «Questa faccenda sta diventando sempre più misteriosa. Scatenare una guerra per farla cessare? Questo è un paradosso che richiede una spiegazione. Faccia attenzione, signor Whitlow, o io stesso cadrò nel vostro errore di giudicare tutti gli alieni mostri malefici e dementi». Whitlow distolse lo sguardo dall'orizzonte e lentamente lo abbassò sul capo. Sospirò. «Immagino che farò meglio a dirvelo», borbottò. «È probabile che alla fine l'avreste scoperto lo stesso. Anche se sarebbe stato più semplice nell'altra maniera...» Spinse indietro la capigliatura ribelle e si massaggiò la fronte mostrando un po' di stanchezza. Quando riprese a parlare, lo fece con un tono assai meno retorico: «Sono un pacifista. Ho dedicato la vita al compito di prevenire la guerra. Amo i miei simili. Ma essi sono immersi fino al collo negli errori e nel peccato. Sono vittime delle loro più basse passioni. Invece di marciare fiduciosi, la mano nella mano, verso il glorioso conseguimento dei loro sogni, insistono a impegolarsi nei più assurdi conflitti, nelle guerre più abbiette». «Forse c'è un motivo», suggerì il capo, in tono pacato. «Alcune diseguaglianze che devono esser livellate per...» «Per favore», l'interruppe il pacifista in tono di rimprovero. «Queste guerre sono diventate sempre più violente e terribili. Io, ed altri, abbiamo tentato di ragionare con la maggioranza, ma invano. Essi persistono nella loro idea fissa. Mi sono lambiccato il cervello per trovare una soluzione. Ho preso in considerazione qualunque rimedio concepibile. Dall'istante in cui sono venuto in possesso di... ehm... del congegno, ho cercato per tutto il cosmo, perfino in altre correnti temporali, il segreto per prevenire la guerra. Senza successo. Tutte le razze intelligenti che ho incontrato o sono impegnate in qualche guerra, il che le esclude automaticamente, oppure non hanno mai conosciuto la guerra — questi erano molto gentili, ma com'è ovvio non potevano fornirmi nessuna indicazione utile. Altri ancora si sono lasciati la guerra alle spalle attraverso il doloroso e orribile procedimento di combattere finché non è rimasto più nulla per cui combattere». «Come abbiamo fatto noi», fu il fuggevole pensiero del capo. Il pacifista allargò le braccia, il palmo delle mani rivolto al cielo: «Così, mi ritrovai una volta ancora abbandonato alle mie proprie risorse. Studiai allora l'umanità da ogni angolazione. E a poco a poco mi convinsi che la sua peggiore caratteristica, quella più d'ogni altra responsabile della guer-
ra, era una straripante presunzione. Sul mio pianeta l'uomo è il signore della creazione. Ogni altra specie animale è una fra le tante, nessuna è preminente. I carnivori hanno i loro rivali carnivori. Ogni animale che bruca o che pascola compete con un gran numero di altre specie analoghe per ciò che riguarda l'erba e i germogli. Perfino i pesci del mare e la miriade di parassiti che pullulano nel sangue si trovano suddivisi in specie di capacità e habitat press'a poco uguali. Ciò induce umiltà e senso della prospettiva. E nessuna di queste specie è incline a combattere contro se stessa quando si rende conto che, farlo, significherebbe soltanto aprire la strada al predominio di altre specie. Soltanto l'uomo non ha nessun vero rivale, nessun'aitra specie in grado d'impensierirlo. E il risultato è che ha sviluppato manie di grandezza... di persecuzione e odio. E poiché gli manca il freno che gli verrebbe offerto da una seria rivalità con altre specie, inquina il suo nido planetario scatenando in continuità guerre civili. «È un bel po' che sto rimuginando su quest'idea. Ho pensato con nostalgia a quanto sarebbe stato diverso lo sviluppo dell'umanità, se fosse stata costretta a condividere il suo pianeta con qualche altra specie di pari intelligenza, ad esempio un abitante dei mari col genio per la meccanica. Ho riflettuto sul fatto che, quando avvengono grandi catastrofi naturali, incendi, inondazioni, terremoti, pestilenze, l'uomo sembra abbandonare temporaneamente tutti i litigi, e tutti si mettono a lavorare insieme, d'amore e d'accordo: i ricchi coi poveri, gli amici coi nemici. Sfortunatamente una simile collaborazione dura solo fino a quando l'uomo non riesce a imporre di nuovo il suo dominio sopra l'ambiente. Questi disastri, queste catastrofi, non sono una minaccia tale da farlo rinsavire una volta per tutte. E allora... mi è venuta un'ispirazione». Lo sguardo del signor Whitlow vagò inquisitivo su quel brulichio di gusci neri: un guazzabuglio di riflessi satinati a forma di mezzaluna che circondavano d'ogni parte la sfera luminosa che l'avviluppava. In ugual maniera la sua mente guizzò attraverso gli enigmatici pensieri che si agitavano all'interno dei loro carapaci. «Ricordai un incidente degli anni della mia fanciullezza. Una trasmissione radio — noi usiamo vibrazioni ad alta velocità per trasmettere i suoni — aveva descritto in maniera diabolicamente realistica un'invasione, del tutto inventata, della Terra da parte di esseri provenienti da Marte, esseri dalla natura malvagia e distruttiva che, come voi dite, noi abbiamo la tendenza ad attribuire a ogni forma di vita aliena. Molti credettero che l'invasione stesse davvero accadendo, vi fu paura, terrore, panico. Ho pensato,
allora, che al primo accenno d'una autentica invasione di creature aliene, i popoli della Terra in guerra tra loro sarebbero stati pronti a dimenticare ogni contrasto, unendosi saldamente insieme per affrontare gli invasori, rendendosi conto che i motivi per cui si erano azzuffati fino a un attimo prima erano in realtà insignificanti, fantasmi di cattivi umori e di paure prive di sostanza. Avrebbero riacquistato equilibrio e buonsenso. Avrebbero capito che il fatto di gran lunga più importante era quello d'essere tutti alla pari, uomini dal primo all'ultimo, posti ora nella necessità di affrontare un comune nemico... e in grado di affrontare splendidamente una simile sfida. Ah, amici miei, quando quella visione ha preso forma nella mia mente... un'umanità in guerra unita d'un sol colpo e per sempre, sono rimasto tremante e senza parole. Io...» Perfino li, su Marte, l'emozione lo soffocava. «Molto interessante», fu il blando pensiero del coleotteroide anziano, «ma il metodo che lei propone non entrerebbe, forse, in contraddizione con quella moralità più alta cui, a quanto riesco a percepire, lei anela?» Il pacifista chinò il capo. «Amico mio, lei ha ragione... nel senso più alto e supremo della definizione. Ma permetta che le assicuri...» il fuoco tornò ad avvampare nella sua voce rauca, «... che quando verrà il giorno, quando sorgerà il problema delle relazioni interplanetarie, io sarò all'avanguardia per ciò che riguarderà le relazioni interspecie ed esigerò la completa uguaglianza tra i coleotteroidi e gli uomini. Ma...» i suoi occhi febbrili nuovamente si trovarono a scrutare da sotto la ciocca di capelli che una volta ancora gli era ricaduta sulla fronte, «... questa è una faccenda che riguarda il futuro. La domanda immediata è: come fermare la guerra sulla Terra? Come ho già detto prima, la vostra invasione della Terra dovrà essere soltanto simbolica, e naturalmente meno sangue verrà sparso, meglio sarà. Basterà soltanto un assaggio di minaccia esterna, una prova convincente che nel cosmo esistono esseri alla pari, e perfino superiori, per riportare alla normalità la prospettiva dell'uomo, per fonderlo in una grande fratellanza per la reciproca protezione, consolidando per sempre la pace!» Allargò le braccia e gettò indietro la testa. I capelli gli ricaddero al posto giusto, ma la cravatta gli saltò fuori un'altra volta. «Signor Whitlow», pensò il capo, con gelida e sardonica allegria, «se davvero si è messo in testa l'idea che noi si sia disposti a invadere un altro pianeta per migliorare la psicologia dei suoi abitanti, se la scordi subito. I terrestri non significano niente per noi. La loro maturazione è una faccenda tanto recente che non ce ne saremmo neppure accorti senza che lei fosse
qui a farcela notare. Che continuino pure a far la guerra, se vogliono. Che si sterminino pure fra loro. Non sono fatti nostri». Whitlow ammiccò più volte. «Ma...» cominciò a dire con rabbia. Poi si riprese. «Ma non vi stavo chiedendo di farlo per ragioni umanitarie. Vi ho fatto notare, no?, che ci sarà un bottino...» «Dubito molto che i suoi terrestri abbiano qualcosa in grado di tentarci». Whitlow quasi cadde giù dal macigno. Fece per farfugliare qualcosa, poi cambiò un'altra volta, radicalmente, il suo approccio. Nella sua espressione era balenato un guizzo astuto. «È possibile che voi stiate tentennando perché avete paura che i molluscoidi venusiani vi attacchino, se violerete la tregua perpetua attuando un'incursione armata contro un altro pianeta?» «Niente affatto», pensò il capo con asprezza, rivelando per la prima volta una certa alterigia e un orgoglio razziale frutto di tanti aridi eoni di tradizione. «Come le ho già detto prima, i molluscoidi sono una razza chiaramente inferiore. Niente più che esseri acquatici. Non li abbiamo più visti da molte epoche. Per quanto ne sappiamo, potrebbero essersi estinti. Certo non siamo legati a loro da accordi ormai logori, se dovesse presentarsi un motivo valido e vantaggioso per infrangerli. E noi non abbiamo nessuna, ripeto: nessuna, paura di loro!» Whitlow annaspò convulso tra i propri pensieri. Le sue mani dalle dita a spatola tracciavano gesti altrettanto confusi. Risospinto verso i suoi argomenti originari, balbettò in modo assai poco convincente: «Ma deve esserci senz'altro qualche tipo di bottino che renda per voi conveniente invadere la Terra. Dopotutto la Terra è un pianeta ricco di ossigeno, di acqua e di minerali e forme di vita organica, mentre Marte deve lottare contro la scarsità di tutte queste cose». «Proprio così», pensò il capo. «E noi abbiamo sviluppato uno stile di vita che si adegua perfettamente a questa penuria. Raccogliendo la polvere interplanetaria che fluttua nelle vicinanze di Marte, e con l'uso giudizioso della trasmutazione e di altre tecniche, ci siamo assicurati una scorta sufficiente di tutti i materiali grezzi indispensabili. La spropositata abbondanza della Terra sarebbe un imbarazzo per noi e finirebbe per sconvolgere il nostro sistema. Un'accresciuta disponibilità di ossigeno ci costringerebbe ad imparare un nuovo ritmo respiratorio per evitare di morirvi annegati dentro... oltre a rendere disagevole e pericolosa per noi una qualunque invasione della Terra. Rischi analoghi potrebbero derivarci dall'abbondanza di altri elementi chimici e composti. E in quanto alle forme di vita che pullulano dovunque sulla Terra, in modo così nocivo, nessuna di esse sarebbe di
qualche importanza su Marte... salvo la sfortunata circostanza in cui una di esse trovi rifugio nei nostri corpi e dia inizio a un'epidemia». Whitlow trasalì. Che se ne rendesse conto oppure no, la sua vanità planetaria era rimasta ferita. «Ma lei si sta scordando della cosa più importante», protestò. «I prodotti dell'industria e dell'ingegnosità dell'uomo. Perché l'uomo ha cambiato la faccia del suo pianeta più di quanto voi abbiate mai fatto col vostro. L'ha coperto di strade. Non si raduna all'aperto nel modo selvatico che fate voi. Ha edificato grandi città. Ha ideato ogni sorta di veicoli. In una simile abbondanza certamente troverete molte cose per voi desiderabilissime». «Del tutto improbabile», fu la risposta del capo. «Non riesco a veder raffigurata nella sua mente una sola cosa che possa destare, in noi, anche un semplice, passeggero interesse. Noi ci siamo adattati al nostro ambiente. Non abbiamo bisogno d'indumenti o di case o di tutte le altre cose artificiali che i suoi maladattati terrestri richiedono. Il dominio che noi abbiamo del nostro pianeta è assai più grande di quello che voi avete del vostro, ma non ci mettiamo certo a farne la propaganda in maniera tanto pacchiana. Dall'immagine che lei ne fa, posso vedere che i terrestri sono dediti all'adorazione di tutto ciò che è grosso ed eccessivo, e sono altresì vittime della più grossolana forma di esibizionismo». «Ma poi ci sono le nostre macchine», insisté Whitlow, ribollendo dentro di sé e tirandosi il colletto. «Macchine d'incredibile complessità, adatte a ogni scopo. Macchine senz'altro utili a un'altra specie oltre che a noi». «Sì, posso immaginarmele», commentò il capo, sarcastico. «Giganteschi e goffi grovigli di ruote e leve, fili e griglie. In ogni caso, le nostre sono migliori». Rivolse una rapida domanda all'anziano: «La sua rabbia rende la sua mente un po' più vulnerabile?» «Non ancora». Whitlow fece un ultimo sforzo, controllando con grande difficoltà la sua indignazione: «Oltre a tutto questo, c'è la nostra arte. Tesori culturali d'incalcolabile valore. Opere d'una specie dalla creatività assai più ricca della vostra. Libri, musica, dipinti, sculture. Certamente...» «Signor Whitlow, lei sta diventando ridicolo», l'interruppe il capo. «L'arte non ha nessun significato al difuori del suo ambiente culturale. Quale interesse si aspetta che noi dimostriamo nei confronti dell'impacciata autoespressione d'una specie immatura? Inoltre nessuna delle forme d'arte da lei citate potrebbe venire adattata al nostro modo di percepire,
salvo la scultura... e in questo campo i nostri conseguimenti sono incomparabilmente superiori, poiché noi abbiamo una consapevolezza diretta della solidità. La sua mente è soltanto una mente-ombra, limitata agli esili modelli bidimensionali». Whitlow si erse in tutta la sua altezza e incrociò le braccia sul petto. «Molto bene!» esclamò con voce raschiante. «Vedo che non posso convincervi. Ma...» puntò l'indice della mano destra verso il capo, «... lasci che le dica qualcosa! Lei disprezza gli umani, pensa di poter fare a meno di loro. Li ha definiti grossolani e infantili. Lei disdegna le industrie della Terra, la sua scienza, la sua arte. Rifiuta di aiutare l'umanità nel bisogno. Crede di potersi permettere di fare a meno degli umani. Va bene. Faccia pure. Questo è il mio consiglio. Fate pure... e vedrete quello che succederà!» Una luce vendicativa cominciò ad ardere nei suoi occhi. «Conosco i miei simili. Li conosco perché li ho studiati per molti anni. La guerra ha fatto dell'uomo un tiranno e uno sfruttatore. Ha fatto schiave le bestie dei campi e delle foreste. Ha fatto schiava la sua stessa specie, quando ha potuto, e quando non ha potuto ha imprigionato i suoi simili con le subdole catene delle necessità economiche e la soggezione dettata dal prestigio. È perverso, ostinato, brutale, uno strumento dei suoi impulsi più abbietti, e inoltre è abile, cocciuto, insistente, spinto da un'ambizione sconfinata! Possiede già l'energia atomica e i razzi come mezzi di trasporto. Nel giro di pochi decenni disporrà di navi spaziali e armi subatomiche. Fate pure, e aspettate! La predisposizione per far sempre la guerra lo porterà a sviluppare queste armi fino a livelli a tutt'oggi mai sognati di efficienza distruttiva. Aspettate anche questo! Aspettate che gli uomini arrivino su Marte in forze. Aspettate che abbiano fatto la vostra conoscenza e si siano resi conto di quali meravigliosi lavoratori sareste con la vostra corazza che vi rende adatti a qualunque tipo di ambiente. Aspettate che trovi una scusa per litigare con voi, che vi sconfigga e vi renda tutti schiavi e vi spedisca lontani dal pianeta, schiacciati dentro fetidi scafi, per obbligarvi a lavorare nelle miniere della Terra e sul fondo degli oceani, nella stratosfera e sugli asteroidi che l'uomo già adesso è bramoso di sfruttare. Sì, fate pure, aspettate!» Whitlow s'interruppe, il petto che gli pulsava affannoso. Per un attimo fu conscio soltanto della sua sadica soddisfazione per aver sgridato quelle esasperanti creature simili a scarafaggi. Poi si guardò attorno. I coleotteroidi si erano fatti più vicini. Le forme di quelli più prossimi si erano fatte più distinte e definite, somigliando repulsivamente a dei ragni che quasi invadevano la sua sfera di luce. In ugual modo anche i loro pen-
sieri si erano fatti sempre più vicini, fino a formare un muro minaccioso, più nero di quello che incombeva sulla notte marziana. Era scomparsa quella riservatezza arrogante e spassionata che tanto l'aveva irritato. Incredulo, si rese conto di essere riuscito a penetrare la loro corazza e a toccarli in un punto vulnerabile. Colse un rapido pensiero dal capo all'anziano: «E se il resto di loro assomiglia a questo anche soltanto un poco, allora si comporteranno proprio come ha detto lui. È un'informazione in più». Whitlow tornò a guardarsi lentamente intorno, la fronte una volta ancora coperta dalle ciocche di capelli che gli erano ricadute in avanti, cercando un indizio che gli spiegasse l'improvviso mutamento nell'atteggiamento dei coleotteroidi. Il suo sguardo perplesso finì per appuntarsi sul capo. «Abbiamo cambiato idea, signor Whitlow», gli disse spontaneamente il capo, in tono truce. «All'inizio le avevo detto che noi non esitiamo mai a intraprendere delle iniziative quando ci viene fornita una ragione valida e sufficiente. Ciò che i suoi sciocchi argomenti sull'umanitarismo e sul bottino non sono riusciti a ottenere, ce l'ha dato il suo ultimo sfogo. Le cose sono proprio come dice lei. I terrestri finiranno per attaccarci, e anche con qualche speranza di successo, se noi aspetteremo inerti. Perciò, a ragion di logica, dobbiamo agire in modo preventivo, e prima lo faremo meglio sarà. Faremo una ricognizione sulla Terra, e se le condizioni laggiù saranno quello che lei ha descritto, l'invaderemo». Dalle profondità del suo sconforto Whitlow in un istante si trovò catapultato all'acme di una gioia febbrile. Il suo volto fanatico divenne radioso. Il suo corpo allampanato parve espandersi. I capelli gli schizzarono all'indietro. «Meraviglioso!» ridacchiò, e proseguì eccitato: «Naturalmente, farò tutto ciò che posso per aiutarvi. Vi fornirò dei mezzi di trasporto...» «Questo non sarà necessario», lo interruppe bruscamente il capo. «Non ci fidiamo dei suoi grandi poteri più di quanto se ne fidi iei. Abbiamo le nostre navi spaziali, più che adeguate a qualunque impresa. Non è nostra abitudine ostentarle più di quanto ostentiamo gli aspetti meccanici della nostra cultura. Non le usiamo, come farebbero i suoi terrestri, per farne volutamente bella mostra in giro. Nondimeno le abbiamo, pronte nei nostri magazzini, in caso di bisogno». Ma neppure quello sprezzante rimprovero poté offuscare l'esultanza di Whitlow. Il suo volto era radioso, gli occhi gii sbattevano frenetici sotto la spinta delle lagrime che urgevano per uscire. Il pomo d'Adamo gli andava
su e giù quasi a soffocarlo. «Ah, amici miei... miei buoni amici! Se soltanto riuscissi a farvi capire cosa significa per me questo momento! Se soltanto potessi dirvi quanto sono felice, poiché penso che il grande momento sta per arrivare! Quando gli uomini alzeranno gli occhi dalle loro buche e dalle loro trincee, dai loro caccia e dai bombardieri, dai loro posti d'osservazione e dai quartier generali, dalle loro fabbriche e dalle case, per vedere, tutti, questa nuova minaccia dai cieli... Quando tutte le loro meschine divergenze d'opinione verranno a cadere come un indumento sporco e a brandelli. Quando taglieranno il filo spinato di quest'odio illusorio e si uniranno insieme, mano nella mano, finalmente veri fratelli, per affrontare il comune nemico. Quando, nel compimento dell'impresa comune, essi raggiungeranno infine una pace perfetta e durevole!» Fece una pausa per respirare. I suoi occhi vitrei fissavano con amore la stella azzurra della Terra, che adesso stava ormai sfiorando l'orizzonte. «Sì», gli giunse debole e asciutto il pensiero del capo. «Per uno con un temperamento emotivo come il suo si tratterà indubbiamente di una scena molto toccante... appagante. Per un po'». Whitlow abbassò lo sguardo senza capire. L'ultimo pensiero del capo era stato come una graffiata di striscio: il tocco, lieve come una piuma, d'un artiglio avvelenato. Non capiva il perché, ma fu conscio d'un crescente timore. «Cosa...» s'impaperò. «Cosa... vuol dire?» «Voglio dire», fu il pensiero del capo, «che durante la nostra invasione della Terra non avremo neppure bisogno di usare la tattica del divide et impera, che sarebbe di norma indicata in un caso del genere... lei sa, unirsi a una fazione della Terra per aiutarla a sconfiggere l'altra, gli esseri che combattono non badano mai molto alla natura dei loro alleati — per poi fomentare ulteriori disunioni, e così via. No, con la nostra superiorità negli armamenti potremo con tutta probabilità dedicarci a un diretto lavoro di pulizia, evitando lunghe e fastidiose macchinazioni. Perciò è probabile che lei riesca ad avere quella sua fugace visione dei terrestri uniti, per la quale si è tanto affannato». Whitlow lo fissò bianco in volto per l'orrore che si stava chiarendo in lui. «Cosa intende dire con "per un po'"?» bisbigliò con voce rauca. «E cosa intende con "fugace visione"?» «Ma certo tutto ciò dovrebbe esserle ovvio, signor Whitlow», rispose il capo, irradiando un buonumore quasi offensivo. «Non supporrà, anche sol-
tanto per un attimo, che siamo disposti ad attuare una piccola, sciocca invasione e che, dopo aver sgomentato i terrestri, siamo disposti a ritirarci? Sarebbe il sistema giusto per garantirci, in modo assoluto, una loro controinvasione su Marte in un prossimo futuro. In effetti, la nostra invasione servirebbe soltanto ad accelerare la loro... e arriverebbero con intenzioni ferocemente ostili, con l'intento di spazzar via completamente una minaccia. No, signor Whitlow, quando noi invaderemo la Terra, sarà per proteggere noi stessi da qualsivoglia minaccia futura. Il nostro scopo sarà lo sterminio più completo e totale, compiuto con la maggior efficienza e rapidità possibili. La nostra attuale superiorità militare ci consente di esser certi del successo». Whitlow fissò il capo con gli occhi fuori dalle orbite, come una statua di se stesso, macchiata di giallo e screpolata qua e là. Aprì la bocca... ma tornò a chiuderla senza dir nulla. «Non avrà mica creduto, signor Whitlow», continuò il capo con estrema gentilezza, «che avremmo fatto qualcosa soltanto per far piacere a lei? O a qualcun altro... salvo che a noi stessi coleotteroidi?» Whitlow fissò quelle orribili uova nere a otto zampe che si accalcavano sempre più dappresso intorno a lui: l'incarnazione vivente dell'oscurità velenosa del loro pianeta. Tutto ciò che riuscì in qualche modo a biascicare, fu: «Ma... pensavo che lei avesse detto... che era un grosso malinteso pensare a degli esseri alieni come a mostri diabolici, intenzionati soltanto a saccheggiare... a distruggere...» «Forse l'ho detto, signor Whitlow. Forse l'ho detto... forse», fu l'unica risposta del capo. In quell'istante il signor Whitlow si rese conto di cosa fosse veramente un alieno. Come in preda a un incubo soffocante, osservò i coleotteroidi che si facevano sempre più vicini. Udì il pensiero carico di disprezzo che il capo rivolgeva all'anziano, senza neppure preoccuparsi di schermarlo: «Non ti sei ancora impadronito della sua mente?» e il «no» dell'anziano e il rapido ordine impartito dal capo agli altri. Le uova nere invasero la sua sfera di luce, crudeli artigli corazzati si aprirono per ghermirlo... quelle furono le ultime impressioni che Whitlow ebbe di Marte. Un paio d'istanti più tardi — poiché il congegno gli garantiva un traspor-
to istantaneo attraverso qualunque distanza spaziale — il signor Whitlow si trovò all'interno di una bolla che conservava per qualche miracolosa proprietà la normale pressione atmosferica terrestre anche negli abissi privi di maree dei mari venusiani. In posizione invertita rispetto a quella d'un pesce in un vaso, scrutò l'ondeggiante vegetazione fosforescente e i giganteschi edifici rivestiti di fango che in parte essa mascherava. Navi luccicanti e creature tentacolate gli sfrecciavano tutt'intorno. Il capo dei molluscoidi rimirò l'intruso che era penetrato nei suoi giardini privati, con un'altera disapprovazione che neppure la sorpresa riuscì a scuotere. «E lei cos'è?» pensò, gelido. «Sono... sono venuto qui per informarla della minacciata violazione d'una tregua durata millenni». Cinque occhi in cima a lunghi peduncoli lo fissarono con una freddezza uguale al pensiero che continuava a bussargli nel cranio: «Ma cos'è lei?» Un improvviso impulso di dolente onestà costrinse il signor Whitlow a rispondere: «Suppongo... suppongo che lei mi chiamerebbe un guerrafondaio». Vicolo cieco Blind Alley di Isaac Asimov Astounding Science Fiction, marzo (Non riesco mai a giudicare le mie storie. So quali mi piacciono più di altre — non ce n'è quasi nessuna che decisamente non mi piaccia — ma non riesco a stabilire quali siano migliori delle altre. Così, è Marty a decidere quali delle mie, sempre che ce ne siano, meritino di appartenere a queste antologie. Questo racconto mi piace perché mi ricorda quando facevo parte della burocrazia, durante la seconda guerra mondiale, e lavoravo alla Naval Air Experimental Station a Filadelfia (insieme a Robert Heinlein e L. Sprague De Camp). In quegli anni mi trovavo ad aver continuamente a che fare con ogni tipo di trafila, ma soprattutto con la stravagante, peculiare maniera di scrivere le lettere, che ho appunto usato in questa storia. Era una sfida: ricordo che un giorno scrissi una lunga e dettagliata descrizione in burocratese, e la resi, apposta, il più possibile complicata, pur rispettando, allo stesso tempo, tutte le regole. Ho delle capacità formida-
bili, sotto questo aspetto, e terminai la relazione con qualcosa che, temei, mi avrebbe mandato davanti alla corte marziale, e fu soltanto il mio irresistibile senso dell'umorismo che mi spinse a farla proseguire lungo tutta la trafila, fino ai massimi livelli. Non fui mandato davanti alla corte marziale. Al contrario, fui lodato e coperto d'encomi per aver fatto un lavoro d'ottima qualità, e credo sia stato proprio questo a darmi l'idea di «Vicolo Cieco». I.A.) Soltanto una volta, nella Storia Galattica, fu scoperta una razza intelligente di non-umani... Saggi storici di Ligurn Vier I Da: Ufficio Province Esterne. A: Loodun Antyok, Capo Amministrazione Pubblica, A-8. Oggetto: Supervisore Civile di Cefeo 18, Carica amministrativa di cui sopra. Riferimenti: (a) Atto del Consiglio 2515, anno 971 dell'Impero Galattico, intitolato «Nomina dei Funzionari del Servizio Amministrativo, Metodi e Aggiornamenti». (b) Direttiva Imperiale, Ja 2374, data 243/975 I.G. 1. In ottemperanza al riferimento (a), Lei viene qui nominato alla carica in oggetto. L'autorità di tale carica, come Supervisore Civile di Cefeo 18, si estenderà sui soggetti non-umani dell'Imperatore che vivono sul pianeta, secondo i dettati dell'autonomia descritta in riferimento (b). 2. I doveri della carica in oggetto comprenderanno: supervisione generale di tutti gli affari interni non-umani; coordinamento delle ricerche dei comitati governativi autorizzati e delle relative relazioni; stesura di rapporti semestrali su ogni questione inerente i non-umani. C. Morily, Capo Uf Pro Es 12/977 LG. Loodun Antyok aveva ascoltato con attenzione, e adesso scosse con fare pacato la testa rotonda: «Amico, vorrei aiutarla, ma lei ha afferrato per le orecchie il cane sbagliato. Sarà meglio che discuta la cosa con l'Ufficio».
Tomor Zammo si buttò di nuovo sulla poltrona, si sfregò ferocemente il naso e la bocca, rifletté su quello che stava per dire, e rispose con calma: «Logico, ma non pratico. Adesso non posso fare un viaggio fino a Trantor. È lei il rappresentante dell'Ufficio su Cefeo 18. Davvero non può far niente?» «Be', anche nella mia veste di Supervisore Civile, devo operare entro i limiti della politica dell'Ufficio». «Oh, bene!» gridò Zammo. «Mi dica qual è la politica dell'Ufficio. Io sono a capo d'un comitato per l'indagine scientifica, autorizzato direttamente dall'Imperatore, con quelli che si presumono essere i poteri più ampi possibili, eppure ad ogni angolo di strada vengo fermato dalle autorità civili che come tanti pappagalli strillano "Politica dell'Ufficio!" per giustificarsi. Qual è la politica dell'Ufficio? Finora nessuno me ne ha dato una definizione decente». Lo sguardo di Antyok rimase calmo e imperturbato. Rispose: «Da come la vedo io — e questo non è ufficiale, per cui non può considerarlo impegnativo da parte mia — la politica dell'ufficio consiste nel trattare i nonumani quanto più decentemente possìbile». «Allora che autorità hanno di...» «Ssh! Non serve alzare la voce. In effetti Sua Maestà Imperiale è un filantropo, un discepolo della filosofia di Aurelion. Posso dirle, in tutta tranquillità, poiché è ben noto, che è stato l'Imperatore in persona a suggerire per primo che venisse insediato questo pianeta. Può scommettere che la politica dell'Ufficio aderisce in modo assai rigoroso ai concetti imperiali. E può scommettere che io non posso certo andare controcorrente... contro quella corrente». «Be', ragazzo mio», le palpebre carnose del fisiologo tremolarono, «se lei assume questo atteggiamento, finirà per perdere il suo lavoro. No, non ho alcuna intenzione di farla mettere alla porta. Non è affatto questo che intendo. Semplicemente... il suo lavoro finirà per svanirle di tra le mani, giacché qui non combineremo un bel niente!» «Davvero? Perché?» Antyok era basso, roseo, tozzo e grassoccio, e al suo volto dalle guance paffute riusciva, di solito, difficile esibire un'espressione che non fosse di blanda e ilare cortesia... ma adesso, eccezionalmente, si era fatto serio. «Lei non ha vissuto a lungo qui. Io sì». Zammo aggrottò la fronte. «Le spiace se fumo?» Il sigaro che stringeva in mano era scuro e compatto, e lo scienziato gl'infuse vita con una noncurante soffiata.
Proseguì senza tante cerimonie: «Amministratore, qui non c'è posto per la filantropia. Voi trattate i non-umani come se fossero umani, ma la cosa non può funzionare. In effetti non mi piace l'espressione "nonumani". Sono animali». «Sono intelligenti», replicò Antyok a bassa voce. «Be', allora diciamo che sono animali intelligenti. Suppongo che i due termini non si escludano a vicenda. In ogni caso, se due intelligenze, l'una aliena per l'altra, si mescolano nello stesso spazio, non possono funzionare». «Propone forse di sterminarli?» «Per la Galassia, no di certo!» Zammo fece un gesto vivace col sigaro. «La mia proposta è che li consideriamo soggetti di studio, niente altro. Potremmo imparare un sacco di cose da questi animali, se ci fosse consentito. Conoscenze che, mi permetto di sottolineare, potrebbero venir usate a immediato beneficio della specie umana. E non è qui la vera filantropia, non è qui il bene delle masse? Ci pensi, è proprio questo culto senza spina dorsale di Aurelion che l'ha tra i suoi proseliti. «A cosa si riferisce, per esempio?» «Prendiamo la cosa più ovvia... immagino che abbia sentito parlare della loro biochimica». «Si», ammise Antyok. «Ho sfogliato la maggior parte dei rapporti sui non-umani pubblicati negli ultimi dieci anni. E mi aspetto di esaminarne ancora molti». «Uhm. Be'... allora mi sarà sufficiente dire che la loro terapia chimica è di un'efficacia sbalorditiva. Per esempio, ho assistito personalmente alla guarigione di un osso rotto — quello che per loro è un osso rotto, cioè — grazie a una semplice pillola. L'osso è ridiventato intero nel giro di quindici minuti. Com'è naturale, nessuna delle loro medicine ha un possibile impiego per i terrestri. Per la maggior parte ucciderebbero noi umani. Ma se riuscissimo a scoprire come funzionano sui non-umani... sugli animali...» «Sì, sì. Capisco l'importanza della cosa». «Oh, davvero? Mi fa proprio piacere. E un secondo punto, è che questi animali comunicano fra loro in un modo sconosciuto». «Telepatia!» La bocca dello scienziato si contorse quando disse, arrotando le parole: «Telepatia! Telepatia! Telepatia! Tanto varrebbe dire, grazie alla pozione d'una strega. Nessuno sa niente della telepatia, fuorché il nome. Qual è il
meccanismo della telepatia? Quali sono la fisica e la fisiologia che vi presiedono? Vorrei poterlo scoprire, ma non posso. Stando a quanto lei dice, la politica dell'Ufficio lo proibisce». La piccola bocca di Antyok si contrasse. «Ma... mi scusi, dottore, non riesco a seguirla. Cosa gliel'impedisce? L'Amministrazione Civile certo non ha fatto nessun tentativo di ostacolare un'indagine scientifica su questi non-umani. Io non posso parlare per i miei predecessori, certo, ma...» «Non c'è stata nessuna interferenza diretta. Non parlo di cose come queste. Ma, per la Galassia, amministratore, veniamo ostacolati dallo spirito dell'organizzazione nel suo insieme. Li trattate come esseri umani. Gli consentite di avere un proprio capo e un'autonomia interna. Li viziate dandogli tutti quelli che la filosofia di Aurelion chiamerebbe "diritti". Io non posso trattare col loro capo». «Perché no?» «Perché si rifiuta di darmi mano libera. Non vuol consentirci di fare esperimenti su un qualunque soggetto, senza il consenso del soggetto stesso. I due o tre volontari che siamo riusciti a ottenere erano quanto di più ottuso si possa immaginare... È un compromesso impossibile». Antyok scrollò le spalle in un gesto d'impotenza. Zammo continuò: «Inoltre, com'è ovvio, è impossibile imparare qualcosa di valido sul cervello, la fisiologia, la biochimica di questi animali senza la dissezione, gli esperimenti dietetici, l'introduzione di droghe. Lei dovrebbe sapere, amministratore, che le indagini scientifiche sono un gioco duro, nel quale i sentimenti umanitari non trovano posto». Loodun Antyok si batté, dubbioso, un dito sul mento: «Dev'essere per forza un gioco duro? Sono creature innocue, questi non-umani. Mi pare che la dissezione... Forse, se il suo approccio fosse un po' diverso... Ho la sensazione che lei se li stia inimicando. Il suo atteggiamento è forse un po' arrogante». «Arrogante! Io non sono uno di quegli psicologi sociali uggiolanti che vanno tanto di moda oggigiorno. Non credo che si possa risolvere un problema che implica la dissezione affrontandolo con quello che nel linguaggio alla moda vien definito "il corretto atteggiamento personale"». «Mi spiace che lei la pensi così. L'addestramento sociopsicologico è un requisito indispensabile per tutti gli amministrativi superiori al grado A-4». Zammo tirò fuori dalla bocca l'estremità tutta masticata del sigaro e tornò a infilarvela dopo un lungo silenzio sprezzante. «Allora sarà meglio che, nello svolgimento delle sue mansioni, cominci ad applicare ciò che ha
imparato. Io ho degli amici alla corte imperiale, nel caso in cui non lo sappia». «Be', adesso non posso certo sollevare la questione con loro, non in maniera esplicita. L'alta politica non è di mia competenza, e comunque cose del genere possono venir risolte dall'Ufficio, senza interventi esterni. Ma... si, potremmo tentare un approccio indiretto». Abbozzò un sorriso. «Questione di strategia», «Di che genere?» Antyok puntò un dito, all'improvviso, mentre l'altra mano gli ricadeva giù, rilassata, sul fianco della poltroncina: «Ora mi ascolti. Ho dato una scorsa alla maggior parte di questi rapporti. Sono monotoni, ma contengono alcuni fatti. Per esempio... mi sa dire quando è nato l'ultimo piccolo non-umano su Cefeo 18?» Zammo vi rifletté sopra per pochi istanti. «Non lo so. E non me ne importa». «Ma all'Ufficio sì. Non è nato nessun piccolo non-umano su Cefeo 18... (negli ultimi due anni, dal giorno in cui il pianeta è stato insediato. Ne conosce la ragione?» Il fisiologo scrollò le spalle: «I motivi potrebbero esser molti... troppi fattori. Ci vorrebbe uno studio approfondito». «Bene, allora. Supponiamo che lei rediga un rapporto...» «Rapporto! Ne ho scritti venti». «Ne scriva un altro. Metta l'accento sui problemi irrisolti. Dica che certi sistemi vanno cambiati. Insista sul drastico calo delle nascite. L'Ufficio non oserà ignorare un fatto del genere. Se questi non-umani si dovessero estinguere, qualcuno dovrà risponderne all'Imperatore. Vede...» Zammo lo fissò, coi suoi occhi cupi: «Questo smuoverebbe le cose?» «Sono ventisette anni che lavoro per l'Ufficio. Lo conosco come le mie tasche». «Ci penserò». Zammo si alzò in piedi e uscì fuori dall'ufficio. La porta sbatté alle sue spalle. Fu più tardi che Zammo disse a un suo collaboratore: «Prima d'ogni altra cosa è un burocrate. Non si staccherà d'un millimetro dall'ortodossia dei suoi moduli in triplice copia e non metterà mai a repentaglio il proprio collo. Da solo, combinerà assai poco, tuttavia se ce lo lavoreremo un po', forse riusciremo a tirar fuori qualcosa di più da lui». Da: Quartier Generale Amministrativo, Cefeo 18
A: UfProEs Oggetto: Progetto Province Esterne 2563, Parte II Ricerche Scientifiche su non-umani di Cefeo 18, Coordinamento delle. Riferimenti: (a) UfProEs leu. Cef-N-CM/jg, 100132, data 302/975 LG. (b) QGAm-Cef 18 lett. AA-LA/mn, data 140/977 LG. Allegati: 1. GrupSci 10, Sezione Fisica e Biochimica, rapporto intitolato «Caratteristiche fisiologiche dei non-umani di Cefeo 18, parte XI, data 172/977 LG.» 1. L'Allegato 1, qui accluso, viene inviato per informazione dell'UfProEs. Da sottolineare che la Sezione XII, paragrafi 1-16 dell'Ali. 1 riguarda possibili modifiche nell'attuale politica deU'UfProEs nei confronti dei non-umani in vista di facilitare le indagini fisiche e biochimiche che attualmente procedono previa autorizzazione del rif. (a). 2. Viene portato all'attenzione deU'UfProEs che il rif. (b) ha già discusso possibili cambiamenti nei metodi d'indagine e che il QGAm-Cef 18 rimane dell'opinione che tali cambiamenti siano ancora prematuri. Nondimeno si suggerisce che ia questione del ritmo delle nascite dei non-umani sia fatta oggetto d'un progetto deU'UfProEs assegnato al QGAmCef 18 in vista dell'importanza attribuita dal GrupSci 10 al problema, come viene evidenziato nella sezione V dell'Allegato 1. L. Antyok, Superv., QGAm-Cef 18, 174/977 Da: UfProEs A: QGAm-Cef 18 Oggetto: Progetto Province Esterne 2563 - Ricerche Scientifiche sui non-umani di Cefeo 18, Coordinamento delle. Riferimento: (a) QGAm-Cef 18 lett. AA-LA/mn, data 174/977 I.G. 1. Il risposta al suggerimento contenuto nel paragrafo 2 del rif. (a), si ritiene che la questione del ritmo delle nascite dei non-umani non ricada entro la competenza del QGAm-Cef 18. Considerato il fatto che il GrupSci 10 ha riferito che detta sterilità è probabilmente dovuta ad una carenza chimica negli alimenti, tutte le ricerche in materia vengono affidate al
GrupSci 10 quale autorità pertinente. 2. Le procedure delle ricerche dei vari GrupSci continueranno secondo le direttive correnti. Non sono previsti cambiamenti nella politica adottata. C. Morily, Capo UfProEs 186/977 LG. II Il giornalista, scarno e dinoccolato, sembrava più alto di quanto realmente fosse. Si chiamava Gustiv Bannerd, e la sua abilità era senz'altro all'altezza della sua reputazione, cose queste che non sempre andavano insieme, malgrado ciò che affermavano tutti i moralisti da quattro soldi. Loodum Antyok lo valutò con un occhio dubbioso, e disse: «Lei ha ragione, è inutile negarlo. Ma il rapporto del GrupSci era confidenziale. Non capisco come...» «C'è stata una falla», disse Bannerd, con fatalistica indifferenza. «Oggi è tutta una falla». Il volto chiaramente perplesso di Antyok si raggrinzì un po'. «Allora dovrò tappare la falla qui e subito. Il suo articolo non può esser pubblicato così come sta. Tutti gli accenni alle lamentele del GrupSci dovranno restar fuori. Lo capisce, vero?» «No», replicò Bannerd senza scomporsi. «È una faccenda importante e la direttiva imperiale mi concede precisi diritti. L'Impero deve sapere ciò che sta accadendo». «Ma non sta accadendo», replicò Antyok, sentendo salire in sé la disperazione. «Quanto lei sostiene è tutto sbagliato. L'Ufficio non cambierà la sua politica. Le ho fatto vedere le lettere». «Crede davvero di poter resistere a Zammo, quando comincerà a esercitare un po' di pressione?» gli chiese il giornalista in tono di scherno. «Certo... se penserò che si sbagli». «Appunto... se», tagliò netto Bannerd. Poi, con improvviso fervore: «Antyok, qui c'è qualcosa di grande, d'importante per l'Impero, qualcosa di gran lunga più importante di quanto il governo, a quanto pare, ha capito. E stanno rovinando tutto. Stanno trattando queste creature come animali». «Ma insomma...» cominciò a replicare Antyok, con un filo di voce. «Cos'è Cefeo 18? È un zoo. Uno zoo d'alta classe, con quei vostri scienziati dal cervello mummificato che stuzzicano quelle povere creature coi loro bastoni spinti attraverso le sbarre. Gli avete buttato qualche brandello
di carne... ma li avete chiusi in gabbia. Lo so! Sono due anni che scrivo su di loro. In pratica, sono sempre vissuto con loro». «Zammo dice...» «Zammo!» Il nome esplose fuori da Bannerd intriso nel più completo disprezzo. «Zammo dice», insisté Antyok, preoccupato ma deciso, «che già così li trattiamo fin troppo come esseri umani». Le lunghe guance incavate del giornalista s'irrigidirono. «Semmai è Zammo che è molto più una bestia di loro. Lui adora soltanto la sua scienza. Meno tipi come lui saranno in giro, meglio sarà per tutti. Ha Ietto le opere di Aurelion?» Fece quest'ultima domanda all'improvviso. «Uhm, si... E l'Imperatore...» «L'Imperatore è con noi. E questo è un bene... assai meglio che le persecuzioni dell'ultimo regno». «Non capisco dove vuole arrivare». «Questi alieni hanno molto da insegnarci. Non capisce? Niente che possano scoprire Zammo e il suo GrupSci con tutti i loro barbari esperimenti; non la chimica, non la telepatia. È il loro modo di vivere... e di pensare. Tra quegli alieni non vi sono delinquenti, e neppure disadattati. Abbiamo fatto niente per studiare la loro filosofia? Li abbiamo affrontati come un problema di tecnica sociale?» Antyok rifletté su quanto detto, e il suo volto grassoccio si ridistese. «Sono considerazioni interessanti, le sue. Soprattutto per gli psicologi...» «Niente affatto. La maggior parte di loro sono ciarlatani. Gli psicologi identificano sì, i problemi, ma le loro soluzioni sono sbagliate. Ci servono gli uomini di Aurelion. Uomini della Filosofia...» «Ma, senta, non possiamo trasformare l'intero Cefeo 18 in un soggetto di studi metafisici». «E perché no? Può esser fatto facilmente». «Come?» «Dimentichi le sue miserabili sbirciatine nelle provette. Permetta che gli alieni costituiscano liberamente una propria società, senza interferenze umane. Dia loro un'indipendenza priva di ostacoli e lasci che la nostra filosofia entri in contatto e si mescoli con la loro...» Antyok l'interruppe, nervoso: «Non si può fare in un giorno». «Ma si può cominciare in un giorno». L'amministratore replicò lentamente: «Be', non posso impedirle di provare a cominciare». E, mentre il suo sguardo pacato si accigliava un'altra
volta: «Tuttavia, rovinerà il suo stesso gioco se pubblicherà il rapporto dei GrupSci 10 e lo denuncerà per motivi umanitari. Gli scienziati sono potenti». «Anche noi della Filosofia lo siamo». «Sì, ma c'è un modo più facile, senza sparar fuori proclami e denunce. Faccia semplicemente notare che un GrupSci non sta risolvendo i suoi problemi. Scriva senza emotività, e lasci che siano i lettori a meditare da soli sul suo punto di vista. Per esempio, il problema del calo delle nascite. Questo è qualcosa che fa per lei. In appena una generazione i non-umani potrebbero estinguersi, malgrado tutto ciò che la scienza può fare. Faccia notare che è indispensabile un approccio più filosofico al problema. Oppure scelga qualche altro punto altrettanto ovvio. Usi il suo giudizio, eh?» Antyok sorrise in modo accattivante quando si alzò. «Ma per il bene della Galassia, non sollevi un gran polverone». Bannerd era rimasto rigido e impassibile. «Potrebbe aver ragione», commentò. Più tardi, Bannerd spedì un messaggio riservato, per capsula, a un amico: «Niente affatto intelligente, in nessun modo. È confuso e non ha nessuna linea precisa che lo guidi nella vita. Ed è del tutto incompetente per il suo lavoro. Ma è un armeggione, sa trovare il modo, i compromessi per aggirare le difficoltà, ed è disposto a far concessioni piuttosto che mantenere una rigidità adamantina. Sotto questo aspetto, potrebbe rivelarsi prezioso. Tuo in Aurelion. Da: QGAm-Cef 18. A: UfProEs. Oggetto: Ritmo delle nascite di non-umani su Cefeo 18, Articolo su. Riferimenti: (a) QGAm-Cef 18 lett. AAA-LA/mn. data 174/977 LG. (b) Direttiva Imperiale, Ja2374, data 243/975 LG. Allegati: 1-G. Articolo di Bannerd, data e luogo Cefeo 18, 201/977 LG. 2-G. Articolo di Bannerd, data e luogo Cefeo 18, 203/977 LG. 1. La sterilità dei non-umani su Cefeo 18, riferita all'UfProEs in riferimento a (a) è diventata oggetto di artìcoli sulla stampa galattica. Gli articoli in questione vengono qui acclusi per informazione dell'UfProEs come Allegati 1 e 2. Malgrado detti articoli siano basati su materiale classificato
confidenziale e vietato al pubblico, il giornalista in questione ha invocato i propri diritti alla libera espressione secondo i termini del riferimento (b). 2. In considerazione dell'inevitabile pubblicità ed equivoci da parte dell'opinione pubblica, si richiede che l'UfProEs decida una nuova linea politica da adottarsi sul problema della sterilità dei non-umani. L. Antyok, Superv. QGAm-Cef 18, 209/977 I.G. Da: UfProEs. A: QGAm-Cef 18. Oggetto: Ritmo di nascita dei non-umani su Cefeo 18, ricerche su. Riferimenti: (a) QGAm-Cef 18 lett. AA-LA/mn, data 209/977 LG. (b) QGAm-Cef 18 lett. AA-LA/mn, data 174/977 LG. 1. Si propone d'indagare sulle cause e i mezzi per scongiurare lo sfavorevole fenomeno del ritmo delle nascite citato nei riferimenti (a) e (b). Viene perciò istituito un progetto, intitolato «Ritmo di nascita dei nonumani su Cefeo 18, ricerche su» al quale, vista la cruciale importanza dell'oggetto, viene attribuita una priorità AA. 2. Il numero assegnato al progetto di cui in argomento è 2910, e tutte le spese ad esso inerenti verranno addebitate al numero di finanziamento 18/78. C. Morily, Capo UfProEs, 223/977 LG. III Se anche il cattivo umore di Tomor Zammo all'interno dell'area della Stazione sperimentale del GrupSci 10 si attenuò un poco, non per questo la sua affabilità aumentò in proporzione. Antyok si ritrovò solo, in piedi, a guardare attraverso un'ampia finestra d'osservazione il campo principale del laboratorio. Questo campo principale era un ampio cortile dalle condizioni climatiche rese identiche a quelle dello stesso Cefeo 18, con grande disagio degli sperimentatori e piena comodità dei soggetti da esperimento. La luce del sole, bianca e caldissima, ardeva, aspra, attraverso l'aria asciutta, ricca di ossigeno, trasformando la sabbia in una distesa rovente. E immersi in que-
ste vampate i non-umani color rosso mattone, nerboruti, la pelle rugosa, se ne stavano accovacciati nella consueta posizione di riposo, soli o in coppia. Zammo comparve accanto ad Antyok, trangugiò, assetato, lunghe sorsate d'acqua. Poi alzò la testa, le labbra ancora stillanti, e lo fissò: «Vuol venir là dentro?» Antyok scosse la testa, con fare deciso: «No, grazie. Qual è la temperatura, in questo momento?» «Quasi cinquanta, se ci fosse un po' d'ombra. E quelli... ancora si lamentano che fa freddo. Adesso è l'ora dell'abbeverata. Li vuol guardare mentre bevono?» Uno zampillo schizzò alto dalla fontana al centro del cortile. Le piccole figure aliene si alzarono in piedi e, dondolando, avanzarono avide, con quel loro strano modo che era una via di mezzo fra il correre e il saltare. Si accalcarono intorno alla fontana, spingendosi l'un l'altro. I loro volti all'improvviso si deformarono estrudendo al centro un tubo carnoso, lungo e flessibile, che s'immerse nello spruzzo e ne fu ritirato tutto gocciolante. L'operazione continuò per parecchi minuti. I corpi si gonfiarono e le rugosità scomparvero. I non-umani arretrarono infine, lentamente, col tubo di carne che continuava a guizzar dentro e fuori, riducendosi infine a una massa rosea e grinzosa appena sopra l'ampia bocca senza labbra. Gonfi e dissetati, si ritirarono a dormire, a gruppi, negli angoli in ombra. «Animali!» sbottò Zammo, sprezzante. «Quanto spesso bevono?» chiese Antyok. «Tutte le volte che vogliono. Possono resistere senza bere anche una settimana. Noi li dissetiamo tutti i giorni, e loro immagazzinano l'acqua sotto la pelle. Mangiano alla sera. Sa che sono vegetariani?» Antyok esibì il suo sorriso paffuto: «Fa piacere ricevere ogni tanto qualche informazione di prima mano. Non posso leggere i rapporti tutte le volte». «Sì?» in tono volutamente distratto. Poi: «Cosa c'è di nuovo? Cos'ha da dirmi di quei signori dalle mutande di pizzo di Trantor?» Antyok scosse il capo, dubbioso: «Con l'Imperatore che vede con tanta simpatia Aurelion e i suoi seguaci, non può certo sperare che l'Ufficio voglia compromettersi. La filantropia è all'ordine del giorno, e lei lo sa meglio di me». Vi fu una pausa, durante la quale l'amministratore si mordicchiò il labbro, incerto. «Ma adesso c'è questo nuovo problema del calo delle nascite.
È stato finalmente assegnato al QGAm, sa... e per giunta con priorità doppia A». Zammo masticò qualcosa fra i denti. Antyok insisté: «Lei forse non se ne rende conto, ma quel progetto adesso avrà la precedenza sopra qualunque altro lavoro, qui su Cefeo 18. È importante». Tornò a girarsi verso la finestra e, dopo aver guardato il cortile per qualche istante, sbottò: «Pensa che quelle creature possano essere infelici?» «Infelici?» La parola fu un'esplosione. «Be', se non infelici», si affrettò a correggersi Antyok, «diciamo disadattate. Capisce? È difficile ricreare alla perfezione un ambiente per una razza di cui sappiamo così poco». «Mi dica... ha mai visto il pianeta dove le abbiamo prese?» «Ho letto i rapporti...» «Rapporti!» Un disprezzo infinito. «Io l'ho visto. Quel che c'è la fuori a lei potrà sembrare un deserto, ma per quei diavoli è un paradiso pieno d'acqua. Possono mangiare e bere quanto vogliono. Hanno un mondo tutto per loro ricco d'acqua e di vegetazione invece che una rupe di granito e silici in cui dovevano far crescere a forza i funghi nelle caverne e dovevano distillar fuori l'acqua dalle rocce gessose. Fra dieci anni sarebbero morti tutti fino all'ultima bestia, e noi li abbiamo salvati. Infelici? Puah, se lo sono, non hanno proprio nessuna decenza! «Be', forse. Tuttavia ho un'idea». «Un'idea? E quale sarebbe quest'idea?» Zammo allungò la mano per tirar fuori uno dei suoi sigari. «Qualcosa che potrebbe aiutarla. Perché non studia quelle creature in maniera più completa, integrata? Lasci che usino la propria iniziativa. Dopotutto avevano una scienza assai sviluppata. I suoi rapporti ne parlano sempre. Gli dia dei problemi da risolvere». «Per esempio?» «Oh... oh», Antyok annaspò con le mani, non sapendo più che dire. «Qualunque cosa lei pensi possa servirle. Per esempio, le navi spaziali. Li accompagni in una cabina di comando e studi le loro reazioni». «Perché?» replicò Zammo, asciutto. «Perché le loro reazioni a strumenti e comandi progettati per gli umani potrebbero insegnarle molto. Inoltre, senz'altro li interesserà più di ogni altra cosa che lei abbia tentato finora. Avrà un mucchio di volontari». «Ecco la sua psicologia che salta fuori. Uhmmm... Sembra meglio di
quanto, probabilmente, si rivelerà all'atto pratico. Ci dormirò sopra. Ma, in ogni caso, dove, e in che modo, otterrei il permesso di lasciarli maneggiare una nave spaziale? Non ne ho nessuna a mia disposizione, e ci vorrebbe più tempo di quanto valga la pena per seguire fino in fondo la trafila burocratica». Antyok rifletté, corrugando la fronte. «Non è proprio indispensabile che sia una nave spaziale. Ma anche così... se volesse scrivere un altro rapporto e presentare lei stesso l'esperimento, caldeggiandolo, potrei trovare il modo di collegarlo al mio progetto sul calo delle nascite. Una priorità doppia A può praticamente farmi ottenere tutto, senza domande indiscrete». Zammo era interessato, si vedeva, ma non per questo volle mostrarsi gentile. «Be', forse», tagliò corto. «Adesso ho in corso un test sul metabolismo basale, e si sta facendo tardi. Ci penserò. La sua idea ha dei meriti». Da: QGAm-Cef 18. A: UfProEs. Oggetto: Progetto Province Esterne 2910, Parte I: Ritmo di nascita di non-umani su Cefeo 18, Ricerche su. Riferimento: (a) UfProEs. Cef-N-CM/Car, 115097, 223/977 LG. Allegato: 1. GrupSci 10, Sezione Fisica e Biochimica, Parte XV, data 220/977 LG. 1. L'allegato 1 viene qui incluso per informazione dell'UfProEs. 2. Speciale attenzione va rivolta alla Sezione V, paragrafo 3 dell'allegato 1, in cui si richiede che una nave spaziale sia assegnata al GrupSci onde accelerare le ricerche autorizzate dall'UfProEs. Il QGAm-Cef 18 giudica che tali ricerche potrebbero rivelarsi di rilevante utilità nel quadro dei lavori attualmente in corso relativi al progetto di cui sopra, autorizzato dal riferimento (a). Si suggerisce, vista la priorità AA posta dal UfProEs al progetto, che sia presa in immediata considerazione la richiesta del GrupSci. L. Antyok, Superv. QGAm-Cef 18 240/977 LG. Da: UfProEs. A: QGAm-Cef 18. Oggetto: Progetto Province Esterne 2910 — Ritmo di nascita di non-
umani su Cefeo 18, Ricerche su. Riferimento: (a) QGAm-Cef 18 lett. AA-LA/mn, data 240/977 LG. 1. La nave-scuola AN-R-2055 viene messa a disposizione del QGAmCef 18 per impiego in ricerche su non-umani di Cefeo 18 in riferimento al progetto in oggetto e altri progetti autorizzati dall'UfProEs, come da richiesta nell'Allegato 1, riferimento (a). 2. Si richiede con urgenza che i lavori del progetto in oggetto siano accelerati con tutti i mezzi possibili. C. Morily, Capo UfProEs 251/977 LG. IV La piccola creatura color mattone doveva sentirsi più a disagio di quanto il suo comportamento tradiva. La temperatura ambientale era stata accuratamente regolata in base alle sue esigenze, il che faceva grondar di sudore i suoi compagni umani, nonostante avessero le camicie sbottonate. La sua voce sottile risuonò, sillabando con cura: «È molto umido ma non insopportabile, a una temperatura così bassa». Antyok sorrise: «È stato cortese da parte sua venire. Avevo progettato di farle visita, ma anche un breve tragitto nella vostra atmosfera, là fuori...» Il suo sorriso prese una piega dolente. «Oh, non importa. Voi abitanti di altri mondi avete fatto per noi molto più di quanto saremmo stati capaci di fare per noi stessi. Al confronto, è ben piccolo il disagio che qui mi trovo doverosamente a sopportare». Il suo linguaggio era sempre circonvoluto, come se l'etichetta gli vietasse di esprimersi con franchezza». Gustiv Bannerd, seduto in un angolo della stanza, le lunghe gambe incrociate, buttò giù alcuni rapidi appunti e chiese: «Non le dispiace se registro tutto quello che vien detto?» Il cefeide non-umano fissò per un attimo il giornalista: «Non ho nessuna obiezione». Antyok, sempre con l'aria di volersi scusare di chissà quale torto, insisté: «Questo non è un puro incontro di cortesia, signore. Non l'avremmo certo costretta a sopportare tanto disagio per una cosa del genere. Vi sono importanti questioni da discutere e lei è il capo del suo popolo».
Il cefeide annui: «La vostra gentilezza è quanto di meglio io possa desiderare. Prego, procedete». L'amministratore quasi si contorse per la difficoltà che trovò a dar corpo ai propri pensieri: «È una questione delicata», cominciò. «E mai mi sarei permesso di sollevarla se non fosse per la grande importanza del... uh... del problema. Io sono soltanto il portavoce del mio governo...» «Il mio popolo giudica oltremodo benevolo il governo del vostro mondo». «Uhm, sì, siamo gentili. E proprio per questo il mio governo è assai turbato perché il suo popolo non genera più». Antyok fece una pausa, e attese, angosciato, una reazione... che non ci fu. Il volto del cefeide era immobile, salvo per il lieve pulsare del raggrinzimento sopra la sua bocca che era il tubo retrattile, ora sgonfio. Antyok riprese: «È una domanda che abbiamo esitato a farle a causa della sua natura estremamente personale. Il principio della non-interferenza ispira ogni atto del mio governo, e noi abbiamo fatto del nostro meglio per indagare sul problema con estrema circospezione, senza turbare la sua gente. Ma, ad esser franchi, noi...» «Avete fallito?» concluse per lui il cefeide. «Sì. O quanto meno non abbiamo scoperto nessun apprezzabile errore nella scrupolosa riproduzione dell'ambiente del vostro mondo originario, naturalmente con le modifiche indispensabili a renderlo più abitabile. Ora, ci siamo convinti che debbano esserci delle carenze chimiche, e perciò le chiediamo il suo aiuto... volontario, s'intende. Ma se lei non vuole, se decide di non...» «No, no, io voglio aiutarvi». Il cefeide pareva assai ben disposto. Sul suo cranio glabro, la pelle continuava a raggrinzirsi e a rilassarsi, la risposta aliena all'emozione di un'altra razza. «Nessuno di noi avrebbe immaginato che si trattasse d'una questione che potesse turbare voi, abitanti d'un altro mondo. Il fatto che siate turbati per noi, è un'ulteriore conferma delle vostre intenzioni gentili. Questo nuovo mondo noi lo troviamo congeniale, un paradiso se confrontato col nostro mondo di un tempo. Non gli manca niente. Le sue condizioni ambientali sono quelle che noi abbiamo sempre ricordato nelle nostre leggende dell'Età dell'Oro». «Be'...» «Ma c'è qualcosa... qualcosa che forse voi non siete in grado di capire. Non possiamo aspettarci che intelligenze diverse pensino in maniera uguale».
«Cercherò di capire». La voce del cefeide si fece più sottile e levigata, quasi liquida: «Sul nostro mondo nativo stavamo morendo, ma lottavamo. La nostra scienza sviluppatasi lungo il corso d'una storia più antica della vostra, era perdente... ma non si dava ancora per sconfitta. Forse perché la nostra scienza era intrinsecamente più biologica che fisica, come invece è la vostra. Il vostro popolo ha scoperto nuove forme di energia e ha raggiunto le stelle. La nostra gente aveva scoperto nuove verità psicologiche e psichiatriche, creando una società libera dalle malattie dal crimine. «Non è qui il caso di discutere su quale dei due angoli di approccio sia stato più apprezzabile, ma non c'è incertezza su quale si sia dimostrato, alla fine, di maggior successo. Sul nostro mondo morente, pur senza mezzi sufficienti per vivere né fonti d'energia, la nostra scienza biologica poteva soltanto renderci più facile la morte. «Eppure lottammo. Già da molti secoli stavamo avanzando, brancolando, verso i principi basilari dell'energia atomica, e seppure con gran lentezza avevamo visto baluginare davanti a noi la speranza di riuscire un giorno a infrangere i limiti bidimensionali della nostra superficie planetaria, raggiungendo le stelle. Non c'erano altri pianeti nel nostro sistema solare che potessero servirci da trampolino. Niente, soltanto venti anniluce fino alla stella più vicina... e neppure sapevamo se esistessero altri sistemi planetari, semmai tutto stava a indicare il contrario. «Ma c'è qualcosa, una scintilla in ogni forma di vita che insiste a lottare perfino quando tutto sembra inutile. Negli ultimi giorni, sul nostro mondo eravamo rimasti soltanto in cinquemila. E la nostra prima nave era pronta: solo un modello sperimentale, probabilmente destinato all'insuccesso. Ma tutti i princìpi della propulsione e della navigazione spaziale erano stati da noi elaborati in modo corretto». Vi fu una lunga pausa, e i piccoli occhi neri del cefeide fissavano il vuoto, all'inseguimento di quel ricordo. Il giornalista si fece vivo dal suo angolo: «E poi arrivammo noi?» «E poi arrivaste voi», annui con semplicità il cefeide. «Questo cambiò tutto. L'energia che ci serviva... non dovevamo far altro che chiederla. Un nuovo mondo, un mondo ideale, perfettamente adatto a noi, fu nostro senza che neppure dovessimo chiederlo. Se noi, da lungo tempo, avevamo risolto da soli i nostri problemi sociali, i nostri più difficili problemi ambientali furono risolti da voi in modo altrettanto completo». «Allora?» lo sollecitò Antyok.
«Bene... cioè, per qualche motivo non fu un bene. Per secoli i nostri antenati avevano lottato per raggiungere le stelle, e adesso, d'un tratto, scoprivamo che le stelle erano proprietà d'altri. Avevamo lottato per la vita, e questa ci veniva offerta in dono da altri. Non c'era più nessun motivo per lottare. Non c'era più niente a cui mirare. Tutto l'universo è proprietà della vostra specie». «Questo mondo è vostro», disse Antyok, gentilmente. «Per compassione... È un dono. Non è nostro di diritto». «Io credo che ve lo siate guadagnato». Ora gli occhi del cefeide si appuntarono su di lui: «Le vostre intenzioni sono buone, ma dubito che comprendiate. Non abbiamo nessun posto dove andare, salvo questo mondo donatoci. Siamo in un vicolo cieco. La funzione basilare della vita è la lotta, e questa ci è stata tolta. La vita non ha più interesse per noi. Non abbiamo più figli... di nostra volontà. È il nostro modo di toglierci dalla vostra strada». Distrattamente Antyok aveva tolto il globo fluorescente dal davanzale della finestra e lo stava facendo roteare sul supporto. La liscia sfera di circa un metro di diametro irradiò luce, mentre sembrava ondeggiare con grazia incongrua, senza peso, a mezz'aria. Antyok chiese: «È questa la vostra soluzione? La sterilità?» «Potremmo fuggire ancora», mormorò il cefeide. «Ma dove mai nella Galassia esiste un posto per noi? È tutta vostra». «Sì, non c'è posto per voi più vicino delle Nubi di Magellano, se desiderate l'indipendenza. Le Nubi di Magellano...» «E voi non ci lascereste partire. Le vostre intenzioni sono buone, lo so». «Sì, le nostre intenzioni sono buone... e non potremmo mai lasciarvi andare». «È una gentilezza... sbagliata». «Forse. Ma non c'è altro modo di riconciliarvi con voi stessi? Avete tutto un mondo per voi». «È qualcosa che va più in là delle migliori spiegazioni. La vostra mente è diversa. Non potremmo mai riconciliarci con noi stessi. E io credo, amministratore, che lei abbia già analizzato a fondo ogni aspetto della situazione. Il concetto del vicolo cieco in cui ci troviamo intrappolati non le è nuovo». Antyok alzò gli occhi, sorpreso. Con una mano arrestò la rotazione del globo fluorescente. «Può leggermi il pensiero?»
«È soltanto una congettura. Anche se buona, credo». «Sì... ma può leggermi nella mente? Voglio dire, nella mente degli umani in generale? È un punto di grande interesse per noi. I nostri scienziati dicono che non potete, ma a volte mi chiedo se non sia soltanto perché non volete farlo. Può rispondermi? Ma forse la sto forzando indebitamente...» «No, no...» Il piccolo cefeide si strinse ancora di più addosso l'indumento che l'avvolgeva e affondò il viso per un attimo nell'imbottitura del collare riscaldato a elettricità. «Voi, di altri mondi, parlate di leggere il pensiero. Non è affatto così, ma è certo un'impresa disperata spiegarlo». Antyok bofonchiò l'antico proverbio: «Non si può spiegare la vista a chi è cieco dalla nascita». «Sì. Proprio così. Questo senso che voi chiamate "lettura del pensiero" in maniera del tutto erronea, non può essere applicato a noi. Non è che noi non possiamo ricevere le giuste sensazioni, ma la vostra gente non le trasmette, e noi non abbiamo nessun modo per spiegarvi come dovreste fare». «Uhmmmmm...» «Vi sono naturalmente momenti di forte concentrazione e tensione emotiva da parte d'un abitante d'altri mondi, in cui qualcuno di noi, tra i più esperti nell'uso di questo senso, dotati d'un occhio più acuto per così dire, avverte vagamente qualcosa. Ma è molto vago; eppure io stesso mi sono a volte chiesto...» Cautamente, Antyok riprese a far girare il globo fluorescente. Il suo volto roseo era assorto, i suoi occhi fissi sul cefeide. Gustiv Bannerd stiracchiò le dita e rilesse i suoi appunti, muovendo silenziosamente le labbra. Il globo fluorescente ruotò, e un po' per volta anche il cefeide parve diventare più teso, man mano i suoi occhi seguivano il colorato vorticare della liscia superficie del globo. Il cefeide chiese: «Cos'è?» Antyok trasalì. Il suo volto si distese del tutto, acquistando una placidità quasi ilare. «Questo? Una moda galattica di tre anni fa, il che significa che oggi è una reliquia fuori moda senza più nessuna speranza di successo. È un congegno del tutto inutile, ma grazioso. Bannerd, potrebbe opacizzare le finestre?» Si udì un lieve click, e le finestre divennero chiazze di oscurità, mentre al centro della stanza il globo divenne, d'un tratto, il punto focale d'un roseo fulgore che parve scagliare verso l'esterno un turbinio di stelle filanti. Antyok, una figura scarlatta in una stanza scarlatta, l'appoggiò sul tavolo e continuò a farlo girare con una mano che grondava di rosso. Mentre il glo-
bo girava, i colori cambiarono con crescente rapidità, per poi fondersi e scindersi di nuovo in una serie di contrasti ancora più estremi. Antyok stava parlando immerso in quello che sembrava un arcobaleno liquido, in continuo cambiamento: «La superficie è costituita da una sostanza che emana una fluorescenza variabile. È quasi senza peso, d'una fragilità estrema, ma giroscopicamente equilibrato, così basta un minimo di attenzione perché non cada mai a terra. È piuttosto grazioso, no?» Da qualche punto della stanza giunse la voce del cefeide: «Estremamente grazioso». «Ma ha superato l'epoca in cui era il benvenuto. È vissuto più di quanto la moda gli permettesse di esistere». La voce del cefeide risuonò ancora, più vaga e astratta: «È molto grazioso». Bannerd con un gesto riaccese le luci e i colori svanirono. Il cefeide commentò: «È qualcosa che piacerebbe alla mia gente». Fissò il globo affascinato. Ora Antyok si alzò: «Farà meglio ad andare, adesso. Se si fermerà più a lungo, quest'atmosfera potrebbe avere degli effetti nocivi su di lei. La ringrazio umilmente per la sua gentilezza». «Ed io per la sua». Il cefeide si alzò a sua volta. Antyok riprese: «A proposito, la maggior parte della sua gente ha accettato la nostra offerta di studiare la struttura e il funzionamento delle nostre moderne astronavi. Suppongo che lei capisca che il nostro scopo era quello di studiare le reazioni della sua gente alla nostra tecnologia. Confido che ciò soddisfi il vostro senso di correttezza». «Non deve scusarsi. Anche se non ho la costituzione fisica e mentale di un pilota umano, ho trovato la cosa molto interessante. Mi ha riportato alla memoria i nostri sforzi d'un tempo, facendomi ricordare quanto fossimo vicini alla giusta soluzione». Il cefeide se ne andò. Antyok restò seduto, corrugando la fronte. «Bene», disse infine, rivolgendosi un po' bruscamente a Bannerd. «Lei ricorda il nostro accordo, spero. Questo colloquio non dev'essere pubblicato». Bannerd scrollò le spalle: «D'accordo». Antyok era sempre seduto, e stava giocherellando con una statuina di metallo sul tavolo. «Cosa ne pensa di tutto ciò, Bannerd?» «Mi spiace per loro. Credo di capire ciò che provano. Dobbiamo educarli, aiutarli a dimenticare. La Filosofia può farlo».
«Lo pensa davvero?» «Si». «Non possiamo lasciarli andare, naturalmente». «Oh, no. È fuori questione. Abbiamo troppo da imparare da loro. Questa loro frustrazione è soltanto uno stadio passeggero. La penseranno in maniera del tutto diversa in seguito, specialmente quando avremo concesso loro la piena indipendenza». «Forse. Cosa pensa dei globi fluorescenti, Bannerd? Gli sono piaciuti. Potrebbe essere un gesto indovinato ordinarne qualche migliaio per loro. Lo sa la Galassia che razza di palla al piede sono oggi questi globi per i nostri mercati. Potremo averli per prezzi stracciati». «Mi sembra una buona idea», disse Bannerd. «Tuttavia l'Ufficio non lo consentirebbe mai, li conosco fin troppo bene». Il giornalista socchiuse gli occhi: «Ma potrebbe esser proprio quello che stiamo cercando. Hanno bisogno di nuovi interessi». «Sì? Be', potremmo far qualcosa. Potrei includere la sua trascrizione di questo colloquio come parte d'un rapporto, e calcare un po' la mano sulla faccenda dei globi. Dopotutto, lei è membro della Filosofia e potrebbe avere influenza su qualche persona importante, il cui intervento sull'Ufficio potrebbe avere un effetto assai maggiore del mio. Mi capisce, Bannerd?...» «Sì», rifletté Bannerd. «Sì». Da: QGAm-Cef 18. A: UfProEs. Oggetto: Progetto Province Esterne 2910, Parte II; Ritmo di nascita di non-umani su Cefeo 18, Ricerche su. Riferimenti: (a) UfProEs lett. Cef-N-CM/car, 115097, data 223/977 LG. Allegato: 1. Trascrizione della conversazione fra L. Antyok di QGAm-Cef 18 e Ni-San, Gran Giudice dei non-umani su Cefeo 18. 1. Allegato 1 viene qui incluso a informazione dell'UfProEs. 2. Le ricerche relative al progetto in oggetto intraprese in risposta all'autorizzazione del riferimento (a) vengono proseguite secondo le nuove direttive indicate nell'Allegato 1. Si assicura l'UfProEs che ogni mezzo possibile verrà impiegato per combattere il dannoso atteggiamento psicologico
che al momento prevale fra i non-umani. 3. Si fa notare che il Gran Giudice dei non-umani su Cefeo 18 ha manifestato interesse per i globi fluorescenti. Si è dato inizio a una ricerca preliminare su questa manifestazione di psicologia non-umana. L. Antyok, Superv. QGAm-Cef 18 272/977 LG. Da: UfProEs. A: QGAm-Cef 18. Oggetto: Progetto Province Esterne 2910; Ritmo di nascita di nonumani su Cefeo 18, Ricerche su. Riferimento: (a) QGAm-Cef 18 lett. AA-LA/mn, data 272/977 LG. 1. Con riferimento all'Allegato 1 del riferimento (a), cinquemila globi fluorescenti sono stati acquistati per venire spediti su Cefeo 18, dall'Ufficio Commerciale. 2. Si danno istruzioni perchè QGAm-Cef 18 applichi ogni possibile metodo per placare l'insoddisfazione dei non-umani, in accordo con i proclami imperiali. C. Morily, Capo UfProEs 283/977 LG. V La cena era finita, i liquori versati, i sigari tirati fuori e accesi. Si erano formati gruppi qua e là e il capitano della flotta mercantile era al centro di quello più numeroso. La sua brillante uniforme bianca sfavillava assai più di quelle dei suoi ascoltatori. Nel tenere il suo discorsetto si mostrò quasi compiaciuto: «Questo viaggio è stato qualcosa di tutto riposo... una sciocchezza, oserei dire. Ho fatto trecento viaggi prima di questo, e con che carico! Cosa volete farvene di cinquemila globi fluorescenti su questo deserto, per la Galassia?» Loodun Antyok replicò con una risatina di cortesia e una scrollata di spalle: «Sono per i non-umani. Non è stato un trasporto difficile, spero». «No, non difficile. Ma voluminoso. Sono estremamente fragili e non ho potuto caricarne più di venti per nave, con tutti i regolamenti governativi sull'imballaggio e ogni altra precauzione contro le rotture. Ma sono soldi
del governo, immagino». Zammo replicò con un cupo sorriso: «È la sua prima esperienza con i metodi governativi, capitano?» «Per la Galassia, no», sbottò a dire lo spaziale. «Cerco di evitarli il più possibile, certo, ma a volte non si può fare a meno di restarci invischiati. Ed è una cosa disgustosa quando càpita, ve lo garantisco. La burocrazia! I moduli! Ce n'è abbastanza per farvi scoppiare il fegato e coagularvi il sangue. È un tumore, un cancro della Galassia. Se fosse per me, spazzerei via subito tutto questo casino!» Antyok replicò: «Lei è ingiusto, capitano. Lei non capisce». «Ah, si! Bene, supponiamo che lei, adesso, visto che è uno di questi burocrati», e sorrise amabilmente a questa parola, «mi spieghi il suo punto di vista». «Be', insomma», Antyok parve confuso, «il governo è una cosa seria e complicata. In questo nostro impero abbiamo migliaia di pianeti di cui occuparci, e miliardi d'individui. È quasi al di là delle capacità umane far funzionare quest'impresa di governarle tutte senza un'organizzazione la più rigorosa possibile. Credo che oggi ci siano quattrocento milioni di persone nel solo Servizio Amministrativo Imperiale, e per poter coordinare i loro sforzi e tutte le loro conoscenze, bisogna avere anche quelli che lei chiama burocrati e moduli. Ogni più piccola frazione di questo sistema, per quanto insensata possa sembrare e fastidiosa si riveli all'atto pratico, ha una sua ragion d'essere. Ogni pezzo di carta è un filo che collega gli sforzi di quattrocento milioni di umani. Abolisca il Servizio Amministrativo e avrà abolito l'Impero, e con esso la pace interstellare, l'ordine e la civiltà». «Suvvia...» intervenne il capitano. «No. Dico sul serio». Antyok era rimasto senza fiato per il fervore con cui aveva parlato. «Le regole e i sistemi dell'organismo amministrativo devono essere onnicomprensivi e rigidi quanto basta, cosicché, nel caso in cui vi siano funzionari incompetenti — e a volte ne viene nominato qualcuno... si metta pure a ridere se vuole, ma esistono anche scienziati, giornalisti e capitani incompetenti — nel caso dunque che ci siano funzionari incompetenti, i danni che essi fanno possano esser ridotti al minimo. Poiché, nel peggior dei casi, il sistema può procedere anche da solo». «Sì», grugnì il capitano, acido. «Ma se dovesse venir nominato un amministratore di grandi capacità? Anche lui si troverebbe intrappolato dalla stessa rigida rete e si troverebbe costretto alla mediocrità». «Niente affatto», replicò Antyok accalorandosi. «Un uomo capace può
sempre operare contro i limiti del regolamento e compiere ciò che desidera». «E come?» chiese Bannerd. «Be'... be'...» Antyok si trovò nuovamente a disagio. «Uno dei metodi consiste nel farsi affidare un progetto con priorità A, o magari doppia A, se possibile». Il capitano rovesciò la testa all'indietro pronto a esplodere in una fragorosa nsata, ma non fece in tempo, poiché la porta si spalancò e degli uomini sconvolti si precipitarono di corsa dentro la sala. Sulle prime le loro grida furono prive di senso. Poi: «Signore, le navi sono sono scomparse. I non-umani se ne sono impadroniti con la forza!» «Cosa? Tutte le navi?» «Fino all'ultima. Sono scomparse tutte, le navi, e i non-umani a bordo di esse...» Soltanto due ore più tardi i quattro si trovarono di nuovo insieme, questa volta da soli nell'ufficio di Antyok. Antyok dichiarò con freddezza: «Non hanno commesso nessun errore. Non è rimasta nessuna nave... neppure la sua nave-scuola, Zammo. E non è disponibile una sola nave governativa in quest'intero settore galattico. Quando saremo riusciti a organizzare l'inseguimento, loro saranno fuori della Galassia, a metà strada verso le Nubi di Magellano. Capitano, non toccava a lei la responsabilità di organizzare un adeguato servizio di sorsorveglianza?» Il capitano gridò: «Era la nostra prima giornata fuori dallo spazio, chi si sarebbe mai aspettato...» Zammo l'interruppe, infuriato: «Aspetti un momento, capitano. Sto cominciando a capire. Antyok», la sua voce era dura, «è stato lei a macchinare tutto questo». «Io?» L'espressione di Antyok era stranamente fredda, quasi indifferente. «Proprio stasera lei ci ha detto che un abile amministratore si fa assegnare un progetto con priorità A per fare ciò che desidera. Lei si è fatto assegnare questo progetto per aiutare i non-umani a scappare». «Sarei stato io? Mi scusi, ma come sarebbe stato possibile? È stato lei stesso a sollevare, in uno dei suoi rapporti, il problema del calo delle nascite. È stato Bannerd, qui presente, a spaventare l'Ufficio con i suoi articoli a sensazione, inducendolo ad approvare un progetto con priorità A doppia.
Io, con tutto ciò, non ho avuto niente a che fare». «È stato lei a suggerirmi di menzionare il calo delle nascite», replicò con violenza Zammo. «Davvero?» fece Antyok, in tono compunto. «E se è per questo», ruggì Bannerd d'un tratto, «è stato lei a suggerire che parlassi del calo delle nascite nei miei articoli». I tre lo strinsero sempre più dappresso, rinchiudendolo fra loro. Antyok si lasciò andare contro lo schienale della poltroncina e replicò con calma: «Non so cosa intendiate per suggerimenti. Se mi state accusando, allora per favore attenetevi alle prove... quelle con valore legale. Le leggi dell'Impero si basano sul materiale scritto, filmato o trascritto, oppure su precise dichiarazioni avallate da testimoni. Tutte le mie lettere come amministratore si trovano schedate qui, all'Ufficio, e in altri luoghi. Io non ho mai chiesto un progetto con priorità A. È stato l'Ufficio ad assegnarmelo, e Zammo e Bannerd ne sono responsabili. E per iscritto, sottolineo». La voce di Zammo era divenuta un ringhio quasi inarticolato: «Lei mi ha infinocchiato convincendomi a insegnare a quelle creature come manovrare una nave spaziale». «Il suggerimento è stato suo. In archivio ho un suo rapporto in cui propone che siano studiate le loro reazioni a strumenti e comandi umani. E anche l'Ufficio ne ha una copia autentica. Le prove... quelle legali, sono chiare. Io non ho avuto niente a che fare con tutto questo». «Neppure con i globi fluorescenti?» chiese Bannerd. Il capitano cacciò un urlo improvviso: «Lei ha fatto venire fin qui le mie navi apposta. Cinquemila globi! Lei sapeva che ci sarebbero volute centinaia di navi». «Io non ho mai chiesti i globi», replicò Antyok, gelido. «Quella è stata un'idea dell'Ufficio, anche se sono convinti che vi abbiano contribuito gli amici di Bannerd, quelli della Filosofia». Bannerd quasi soffocò: «Lei ha chiesto a quel capo dei cefeidi se poteva leggere il pensiero! Lei gli stava dicendo di manifestare un vivo interesse per i globi!» «Oh, suvvia, Bannerd. Ha approntato lei stesso una fedele trascrizione di quel colloquio, e anch'essa è schedata. Non può provare ciò che dice». Si alzò in piedi. «Ora dovete scusarmi. Devo preparare un rapporto per l'Ufficio». Giunto alla porta, Antyok si voltò: «In un certo qual modo, il problema di quei non-umani è risolto, anche se gli unici soddisfatti sono loro. Ades-
so ricominceranno a moltiplicarsi e avranno un mondo che si saranno guadagnati da soli. È proprio quello che volevano. «È un'altra cosa. Non accusatemi di sciocchezze. Sono nel Servizio da ventisette anni, e posso garantirvi che il mio lavoro cartaceo è prova sufficiente che mi sono comportato in maniera del tutto corretta in tutto ciò che ho fatto. E, capitano, sarò lieto di continuare la nostra conversazione stasera, quando le farà più comodo, e chiarirle come un amministratore capace possa operare in mezzo alla burocrazia e ottenere lo stesso ciò che vuole». Era straordinario come quel viso rotondo e liscio, da bambino, potesse ostentare un sorriso così sardonico. Da: UfProEs. A: Loodun Antyok, Capo Amministratore Pubblico, A-8. Oggetto: Servizio amministrativo. In attesa di conferma nel Riferimento: (a) SerAm Decisione del Tribunale 22874-Q, data 1/978 LG. 1. Vista l'opinione favorevole espressa nel riferimento (a) lei viene con questa decisione assolto da ogni responsabilità per la fuga dei non-umani da Cefeo 18. Si richiede che lei si tenga pronto per nuova assegnazione. R. Horpritt, Capo SerAm 15/977 LG. Corso per corrispondenza Correspondance Course di Raymond F. Jones Astounding Science Fiction, aprile Raymond F. Jones, scrittore interessante ma altresì un po' misconosciuto, comparso soprattutto su Astounding con la sua serie degli «Ingegneri della Pace» e altro ancora. I suoi due migliori lavori sono il romanzo Renaissance (1951), ma comparso a puntate su Astounding nel 1944 e il brillante Noise Level (1947), ma ha pubblicato complessivamente una quindicina di libri di genere fantascientifico, compreso This lsland lìarth (1952) dal quale è stato tratto uno dei migliori film di fantascienza degli anni Cinquanta. Il Cittadino dello Spazio. La sua forza si è manifestata soprattutto nel campo delle idee, più che nelle raffinatezze stilisti-
che, ma ha prodotto lavori davvero interessanti. «Corso per corrispondenza» vale sia per l'idea che per il forte messaggio. (Uno degli inevitabili espedienti tentati da tutti gli scrittori è il doppiodoppio gioco. In altre parole, si «costruisce» un finale a sorpresa facendo in modo da renderlo appariscente quanto basta per far sì che il lettore lo intraveda con congruo anticipo. E mentre questo stesso lettore si sta congratulando con se stesso per essere riuscito a mettere nel sacco l'autore, quello stesso autore tira fuori un coniglio dal cappello e rivela il vero finale a sorpresa. Di solito ciò vien fatto con qualche evento imprevisto, l'identità del cattivo o le motivazioni dell'eroe. È assai meno comune che la sorpresa si trovi invece nella tematica stessa della storia, o nella "morale", se così preferite. Questa è dunque una storia in cui potete prepararvi a restar sorpresi dalla natura e dallo scopo del "corso per corrispondenza" che figura nel titolo, per poi scoprire che non si tratta affatto di ciò che stava più a cuore a Jones. Non preoccupatevi: non vi sto rivelando niente... Perfino con questi accenni dubito che riuscirete ad arrivarci. I.A.) Il vecchio sentiero che correva dalla fattoria alla cassetta delle lettere sulla strada era la stessa pista polverosa che ricordava da molti eoni prima. L'alto strato della polvere estiva si smuoveva lento e incerto ai suoi piedi. Perché le impronte del suo piede sinistro erano salde e profonde come lo erano state quando aveva percorso per l'ultima volta quel sentiero, ma là dove si muoveva il suo piede destro, veniva tracciata una linea frastagliata e continua, con depressioni irregolari, e c'era il segno nitido di un bastone accanto alle impronte strascicate. Alzò per un attimo gli occhi al cielo quando una formazione di aerei passò sopra la sua testa, proveniente dalla base per l'addestramento all'alta acrobazia, a cinquanta miglia di distanza. Fu colto da una viva nostalgia, un desiderio che quasi lo sopraffece, nei confronti degli uomini che aveva conosciuto... e Ruth. Era a casa; era tornato vivo, ma tanti di loro erano morti, non sarebbero mai tornati, e a cosa serviva? Con Ruth morta niente serviva. Per un attimo sentì gli occhi bruciargli, per l'intimo dolore... gli fecero male come se lo scoppio d'una bomba l'a-
vesse accecato, quando ricordò quel giorno nel piccolo ospedale da campo quanto l'aveva vista morire e aveva udito il rombo degli aerei che passavano sopra, in alto. Più tardi, aveva preso il volo da solo, ignorando gli ordini, deciso a morire insieme a lei, ma dopo aver trascinato con sé il maggior numero possibile di nazisti. Ma non era morto. Ne era venuto fuori con una gamba frantumata da una pallottola esplosiva ed era stato mandato a casa ad arrugginire e a morire un po' per volta, un anno dopo l'altro. Scosse la testa e cercò di scacciar via questi pensieri dalla sua mente. Stava sbagliando. I medici l'avevano avvertito... Riprese la sua lunga marcia, trascinandosi dietro la gamba mezza inutile. Quello era lo stesso sentiero si era precipitato di corsa tante volte anni prima, d'estate. C'erano una pozza per nuotare e uno stagno per pescare a un quarto di miglio da lì. Cercò di cancellare il ricordo della tragedia con la rievocazione di quei giorni felici. Socchiuse gli occhi e si sforzò di spazzar via dalla mente la paura e l'amarezza. Erano le dieci del mattino e il signor McAfee, il postino di campagna, era in ritardo, ma Jim Ward intravide a un miglio di distanza, sulla strada, la sua Ford vecchia e sbuffante che sollevava una nuvolaglia di polvere. Jim era pesantemente appoggiato al robusto palo di legno di cedro che reggeva la cassetta delle lettere, e quando il signor McAfee si avvicinò con passo saltellante, riusci a salutarlo con la mano e a sorridere con allegria. Il signor McAfee si riaggiustò gli occhiali a cavalcioni sul naso, muovendo rapidamente le dita come sui pistoni d'un trombone. «Buon Dio, Jim, è un piacere vederti in giro!» «Fa un bell'effetto essere in piedi». Jim riuscì a infondere entusiasmo nella sua voce. Ma sapeva che non sarebbe riuscito a parlare molto a lungo col vecchio Charles McAfee... come se niente fosse cambiato dall'ultima volta». «Qualche lettera per i Ward, oggi?» Il postino sfogliò la manciata di corrispondenza. «Soltanto una». Jim gettò un'occhiata al nome del mittente, e scrollò le spalle. «Sono già sulla lista dei polli da spennare. Non perdono tempo; non appena si accorgono che sulle tue ossa è rimasta ancora un po' di carne da rosicchiare. Tienla tu». Si girò dolorante e guardò in direzione della casa. «Devo tornare. Lieto di averti visto, signor McAfee». «Già, sicuro, Jim. Lieto di averti rivisto. Ma io... ehm... devo consegnare
la corrispondenza...» Gli porse la lettera, speranzoso. «E va bene». Jim sbottò in una risata e agguantò la circolare. Tornò indietro soltanto fino alla quercia gigante i cui rami si protendevano tanto da proiettare l'ombra sulla cassetta delle lettere. Si sedette lì all'ombra, la schiena rivolta al grosso tronco, e cercò di seguire con lo sguardo la formazione di aerei che era ritornata sopra la valle e traspariva qua e là tra i ciuffi di fogliame. Dopo un po' abbassò lo sguardo sulla busta dalla quale le sue dita stavano strappando piccoli frammenti di carta. Aprì la busta di malavoglia e gettò un'occhiata sul suo contenuto. In sgargianti, dozzinali caratteri rosso e porpora, lo scritto parve balzargli addosso: SOLDATO - QUALE SARÀ IL TUO FUTURO? Sei tornato dalla guerra. Hai trovato la vita diversa da quella che era prima, e la maggior parte di ciò che ti era familiare non c'è più. Al loro posto vi sono altre cose, cose nuove che sono destinate a restare e fanno parte del mondo in cui dovrai vivere. Hai pensato a! posto che occuperai? Sei pronto a riprendere la tua vita, in un tempo di pace? NOI POSSIAMO AIUTARTI Hai sentito parlare del COORDINATORE D'ENERGIA? No, naturalmente, poiché si tratta d'una fonte segretissima d'energia che ha fatto girare le ruote dell'industria bellica per molti mesi. Ma adesso il segreto di questa sterminata fonte di nuova energia può essere rivelato, e nel prossimo decennio saranno richiesti centinaia, migliaia di tecnici addestrati — come tu, tu stesso, potresti diventare. LASCIA CHE TI DIMOSTRIAMO Lascia che ti dimostriamo che sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Noi siamo certi che tu, soldato addestrato a usare le più complicate macchine di guerra, sarai tanto interessato a questa nuova, quasi miracolosa fonte d'energia e alla tecnica per maneggiarla, che siamo disposti a spedirti ASSOLUTAMENTE GRATIS le tre prime lezioni del nostro corso di venticinque lezioni,
che farà di te uno specialista del COORDINATORE D'ENERGIA. Lascia che te lo dimostriamo. Riempi l'allegata cartolina e spediscila oggi stesso! Non scrollare le spalle, non buttar via questa circolare come se fosse una pubblicità qualsiasi. IMPOSTA LA CARTOLINA SUBITO! Jim Ward sorrise al peculiare stile della circolare, riandando indietro con la memoria. Gli ricordava Billy Hensley, quando avevano tutti e due tredici anni. Spedivano diligentemente per posta tutti i tagliandi, regolarmente compilati, che riuscivano a trovare nelle riviste. Avevano ricevuto uno sterminato campionario di saponette, trucchi magici, cataloghi, e una volta perfino un uccello vivo. Avevano ammucchiato tutta la roba nella soffitta di Hcnsley, fino a quando il padre di Bill non aveva deciso di buttarla via. D'impulso, in un estemporaneo tributo alla felicità di quei giorni scomparsa per sempre, Jim Ward scribacchiò il suo nome e l'indirizzo con un mozzicone di matita, invitando così i coordinatori d'energia a spedirgli le loro prime tre lezioni. Il signor McAfee doveva percorrere un altro miglio soltanto per arrivare in fondo alla strada, poi sarebbe tornato indietro, passando di nuovo davanti alla fattoria dei Ward, diretto a Kramer's Forks. Jim lo aspettò e lo chiamò. «Vuoi prender su questa?» Il postino fermò la sua sferragliante Ford e balzò a terra. «Cosa c'è?» Jim ripeté la richiesta e gli porse la cartolina per la risposta, già affrancata. «Vuoi prenderla?» Il signor McAfee prese la cartolina, la girò tra le dita e lesse tutto quello che c'era scritto. «Buona idea», grugnì. «Così, hai intenzione di seguire un corso per corrispondenza su questa nuova energia, qualunque cosa sia? Penso sia formidabile, Jim. Ti darà nuovi interessi». Jim si alzò in piedi con uno sforzo, aiutandosi col bastone e il tronco della quercia. «Ora farò meglio a vedere se ce la faccio a tornare a casa». Tutto l'estro e il buonumore se n'erano andati. Con fantastica rapidità — tre giorni più tardi — il signor McAfee si fermò di nuovo alla fattoria dei Ward. Controllò con un'occhiata la grossa busta che aveva nello zaino e il nome del mittente. Aveva scorto Jim Ward
sulla veranda della fattoria e fece svoltare la Ford su per il sentiero. Lo sferragliare indusse Jim a girare la testa e a riscuotersi dal torpore senza pensieri in cui aveva tentato d'immergersi. Si tolse la pipa di bocca e seguì l'avvicinarsi della macchina. «Ecco il tuo corso», urlò il signor McAfee. «Ecco le tue prime lezioni!» «Quali lezioni?» «Il corso per corrispondenza che avevi chiesto. L'energia... cos'era? Non ricordi?» «No», disse Jim. «Me n'ero completamente scordato. Porta via quella roba, non la voglio. È stato soltanto uno stupido scherzo». «Non dovresti sentirti così, Jim, dopotutto la tua gamba guarirà. Ho sentito il dottore che lo diceva all'emporio, ieri. E tutto andrà a posto. Non serve che ti lasci abbattere. Inoltre... io devo consegnare la posta». Gettò la busta marrone sulla veranda accanto a Jim. «Te l'ho portata subito, perché pensavo che avessi una gran fretta di riceverla». Jim sorrise per scusarsi. «Mi spiace, Mac. Non intendevo prendermela con te. Grazie per avermela portata. La studierò bene, e con la massima concentrazione, proprio qui, sulla veranda, subito stamattina». L'espressione del signor McAfee si fece raggiante. Annui e si allontanò con la Ford sferragliante. Jim tornò a chiudere gli occhi, ma non riuscì a ritrovare la piacevole vacuità di poco prima. Ora, nella sua mente continuava a stagliarsi il cielo con gli aerei che volavano in cerchio e in picchiata, e il volto d'una ragazza che giaceva immobile e pallida, gli occhi chiusi. Jim aprì gli occhi, le mani gli scivolarono giù dai fianchi e toccarono la busta. L'aprì, lacerandola, ed esaminò i fogli in essa contenuti. Era proprio il genere di roba che gli arrivava per posta da ragazzo. Scorse rapidamente i titoli dei capitoli e gettò da parte la prima lezione. C'era un sacco di roba ovvia, con esempi banali sui mulini ad acqua, le macchine a vapore e l'elettricità. Aveva tutto l'aspetto d'un tema tirato via da uno studente delle superiori sullo sviluppo dell'energia dai tempi di Archimede a oggi. Le pagine ciclostilate erano realizzate in modo assai scadente. Pareva che le matrici fossero state battute su una macchina per scrivere i cui tasti fossero stati colpiti con un martello. Gettò da parte anche la seconda lezione e lanciò un'occhiata sul primo foglio della terza. La sua mano si arrestò a mezz'aria nell'atto di buttar via anche questa lezione accanto alle prime due. Aveva intravisto, nel primo foglio e nei successivi, formule e calcoli. Questa era roba a livello universitario. Il suo cervello lottò per richia-
mare a sé i primi elementi del calcolo integrale e delle equazioni a derivate parziali di cui da lungo tempo non si era più servito. C'erano pagine e pagine di quella roba. Era come la luce di un faro, fioca e lontanissima, ma che indicava un percorso sicuro alla sua mente, e si faceva sempre più intensa man mano procedeva. Avanzò lungo i passi intricati dell'alta matematica, superandoli uno alla volta, assimilando i brevi paragrafi tra una formula e l'altra. Quando infine giunse all'ultima pagina e poté chiudere il grosso fascicolo, si accigliò: il sole era ormai disceso a metà nel cielo pomeridiano. Jim fissò i campi lontani, e rifletté. Quella non era roba terra terra. Una matematica come quella non poteva far parte d'un corso per corrispondenza alla buona. Raccolse la grossa busta e si concentrò sul nome del mittente. Tutto quello che vi era scritto diceva: M.H. Quilcon Schools, Henderson, Iowa. E ogni lezione era firmata, in calce, con una riproduzione in ciclostile della vistosa firma «M.H. Quilcon». Jim raccolse la prima lezione e cominciò a leggerla lentamente, con la massima attenzione, alla ricerca, quasi, di ciò che poteva trovarsi nascosto fra le righe, un qualche mistico messaggio. Alla fine di luglio la sua gamba si era irrobustita quanto bastava a consentirgli di camminare senza bastone. Procedeva con lentezza, zoppicando, e di tanto in tanto la gamba cedeva come se il ginocchio non riuscisse a sostenere il peso. Ma Jim imparò presto a recuperar l'equilibrio prima di cadere, e si godette tutto il brivido di poter camminare di nuovo. Alla fine di luglio era ormai arrivata la decima lezione del corso per corrispondenza, e Jim seppe di essere giunto fin dove poteva farcela da solo. Viveva in uno stupore incantato, mentre si aggirava in quel nuovo, meraviglioso mondo scientifico che gli si era schiuso davanti agli occhi. Sapeva che erano stati compiuti grandi passi nella tecnologia e nella produzione, ma gli pareva incredibile che un scoperta fondamentale come quella della coordinazione d'energia si fosse limitata a produrre, per tanti mesi, macchine di guerra. A produrle soltanto: si chiese come mai il principio non fosse stato applicato più direttamente dentro le stesse armi, nel loro stesso funzionamento... ma non ne capiva abbastanza per sapere se fosse o no possibile. Non riusciva ancora a capire da dove provenisse quell'energia che era alla base del sistema. La decima lezione era stampata male come tutte le precedenti. Ma era assai più consistente: lo spessore del fascicolo era quello d'un libro. Quando l'ebbe finito, Jim si era ormai reso conto che era indispensabile, per lui,
saperne di più sulle origini e i fondamenti della nuova scienza. Doveva parlare con qualcuno che ne sapesse qualcosa. Ma non conosceva nessun altro che ne avesse sentito parlare. E anche lui, non aveva visto in giro nessuna pubblicità della M.H. Quilcon Schools. Tutto ciò che ne sapeva era contenuto in quella prima circolare e nelle dieci lezioni. Non appena ebbe completato i compiti per casa relativi alla decima lezione, e li ebbe affidati alle cure del signor McAfee, Jim Ward decise di recarsi personalmente a Henderson, nello Iowa, a far visita alla Quilcon Schools. Desiderò aver trattenuto presso di sé i fogli coi compiti svolti: avrebbe potuto portarli laggiù più in fretta di quanto avrebbero impiegato attraverso i normali canali della posta. L'accelerato si fermò a Henderson, Iowa, appena quel tanto che gli consentì di scendere. Riparti, poi, subito, e Jim Ward si guardò intorno. L'uomo dall'aria assonnata che fungeva da bigliettaio, spedizioniere e custode lo fissò meravigliato e sputò un cospicuo fiotto ambrato di tabacco attraverso lo scrittoio, fuori della finestra. «Cerca qualcuno, signor mio?» «Sto cercando Henderson, Iowa. È questa?» chiese Jim, dubbioso. «C'è proprio arrivato, signor mio. Ma non cammini troppo in fretta, altrimenti se ne troverà fuori. I confini di Henderson sono a un solo isolato oltre lo spaccio di Smith». Jim notò il cartello sopra la porta e diede un'occhiata alla scritta che non aveva visto prima: Henderson, Iowa. Pop. 806. «Sto cercando un certo signor M.H. Quilcon. Dirige una scuola per corrispondenza, qui da qualche parte. Lo conosce?» L'intero personale della stazione tornò a frugarsi il cervello e infine sbottò, pensieroso: «Col prossimo ottobre saranno ventinove anni che vivo qui. Mai sentito un nome simile qui intorno... e li conosco tutti». «C'è qualche scuola per corrispondenza qui da voi?» «La signorina Marybell Anne Simmons di tanto in tanto dà qualche lezione come estetista, ma è l'unica scuola di quel genere che io conosca». Stupito, Jim Ward mormorò i suoi ringraziamenti e uscì a lenti passi dalla stazione. Il panorama che gli si parò davanti era sconcertante. Si chiese se la popolazione non fosse drasticamente diminuita da quand'era stato fatto il censimento scritto sul cartello, là dentro. Un piccolo emporio fatiscente lo fronteggiava sul lato opposto della
strada. Un po' più là era un minuscolo edificio scheletrico che una scritta qualificava come Ufficio dello Sceriffo. Al di qua della strada Jim vide lo spaccio di Smith, a una settantina di metri di distanza, con una sella e un sacco di fertilizzante esposti in vetrina. Nella direzione opposta in un unico blocco occhieggiavano l'ufficio postale, la banca e quello che veniva pubblicizzato come un giornale con relativa tipografia. Jim s'incamminò verso quest'ultimo edificio mentre, dalla sconquassata veranda dell'emporio, alcuni sfaccendati seguivano incuriositi il suo avanzare strascicato nella polvere. La direttrice dell'ufficio postale alzò gli occhi dalla bracciata di corrispondenza che stava suddividendo fra le varie cassette quando Jim entrò. Lo salutò con un allegro «allò!» che parve cadere tintinnando dalla sua formosa figura. «Sto cercando un uomo chiamato Quilcon. Ho pensato che lei potesse darmi qualche informazione su di lui». «Kweelcon?» Corrugò le sopracciglia. «Non c'è nessuno, qui, con quel nome. Com'è scritto?» Prima che lui potesse rispondere la donna lasciò cadere una manciata di lettere sul pavimento. Jim fu certo di aver visto quella che lui aveva spedito alla scuola prima di partire. Mentre la donna si chinava per raccogliere le lettere, un'ombra bruna parve sfrecciare attraverso il pavimento. Jim ebbe la fugace impressione di un'enorme lumaca marrone che si muoveva con la velocità del fulmine. La direttrice cacciò un grido di rabbia e batté i piedi sul pavimento. Un attimo dopo si era già ripresa. «Un armadillo», spiegò. «Quella dannata bestia gira qui intorno da mesi e pare che nessuno riesca ad ammazzarlo». Ricominciò a classificare la corrispondenza. «Credo che gliene manchi una», disse Jim. La donna non stringeva più tra le mani la busta che lui aveva riconosciuta per propria. La donna scrutò il pavimento tutt'intorno. «Le ho raccolte tutte, grazie. Adesso... come ha detto che era il nome?» Jim si sporse oltre il bancone e scrutò il pavimento. Ne era certo... Ma era ovvio che non c'erano più lettere in vista, là sotto, e non c'era nessun altro posto dove poteva essersi ficcata. «Quilcon», sillabò Jim. «Io stesso non sono sicuro della pronuncia, ma è scritto proprio così». «Non c'è nessuno a Henderson con quel nome. Ma... si, aspetti un mo-
mento. È strano, sa?, ma un mese fa ho visto una busta partire da qui con quel nome scritto sull'angolo in alto a sinistra. Quel giorno pensai che era un nome strano, e mi chiesi chi poteva avercelo messo, ma non l'ho mai scoperto, e ho pensato di essermelo immaginato. Come fa a sapere che doveva venir qui a cercarlo?» «Potrei aver ricevuto io quella lettera che lei ha visto in partenza quel giorno, no?» «Be', perché non lo chiede al signor Herald? È al giornale, qui alla porta accanto. Ma sono certa che non c'è nessuno, qui a Henderson, con quel nome». «Pubblicate un giornale, qui?» La donna scoppiò a ridere. «Lo chiamiamo così. Il signor Herald possiede una banca e una grossa fattorìa, e pubblica gratis il giornale... è un hobby. Non è gran cosa, ma qui a Henderson lo leggono tutti. Al sabato ne fa un'edizione completa, stampata. Questo, invece, è il quotidiano». Gli mostrò un foglietto ciclostilato, non molto leggibile. Jim lo sbirciò, poi mosse verso l'uscita. «Grazie lo stesso». Quando uscì nuovamente nel sole d'estate, c'era qualcosa che gli rodeva il cervello, una sorta di sensazione del tipo là-dentro-ti-sei-dimenticato-diqualcosa. Non riuscì però a focalizzarne il motivo e si sforzò d'ignorarla. Poi, quando attraversò la soglia della tipografia, ci arrivò. Quel foglietto ciclostilato di notizie: assomigliava in modo sorprendente ai fogli delle lezioni che aveva ricevuto da M.H. Quilcon. Lo stesso inchiostro purpureo. I fogli un po' spiegazzati. Ma gli parve una pazzia voler trovare un collegamento tra i due fatti. Tutti i fogli ciclostilati si assomigliano. Il signor Herald era un ometto corpulento con una frangetta tutt'intorno al cranio calvo. Jim gli ripeté la sua domanda. «Quilcon?» Il signor Herald si mordicchiò le labbra pensieroso. «No, sono certo di non avere mai udito quel nome. Un nome bizzarro... Sono certo che lo ricorderei, se l'avessi udito». Jim Ward si rese conto che ulteriori indagini in quel luogo sarebbero state una pura perdita di tempo. C'era qualcosa di sbagliato da qualche parte. Le informazioni altamente tecniche contenute nel suo corso per corrispondenza non potevano certo essere uscite da quella cittadina moribonda. Gettò un'occhiata al foglietto di notizie che giaceva sulla scrivania cosparsa di carte, accanto a una vecchia Woodstock. «Bel giornaletto, quello che pubblica qui», disse a Herald. Il signor Herald scoppiò a ridere. «Be', non è granché in verità, ma mi
diverte farlo e la gente se la gode a leggere dei maiali perduti dalla signora Kelly e della pertosse dei figli di Dorius. Serve a vivacizzare un po' l'atmosfera». «Ha mai fatto nessun lavoro per conto di altri, stampato o ciclostilato?» «Sono sempre a disposizione di chi voglia, ma sono tre anni che non ho più nessun cliente esterno». Jim si guardò intorno con occhio indagatore. La vecchia Woodstock pareva l'unica macchina per scrivere presente nella stanza. «Tanto vale che riparta», disse. «Ma, mi chiedevo se non potrebe lasciarmi usare la sua macchina per buttar giù un appunto e lasciarlo all'ufficio postale, se mai Quilcon si facesse vivo». «Certo, faccia pure. Si accomodi». Jim sì sedette alla sferragliante macchina e batté qualche riga mentre il signor Herald scompariva nel retro della tipografia. Poi Jim si alzò e si cacciò in tasca il foglio. Avrebbe tanto voluto aver portato con sé un foglio d'una delle lezioni. «Grazie», gridò al signor Herald. Prese su una copia dell'edizione più recente del quotidiano e se la cacciò in tasca insieme al foglio battuto a macchina. Durante il viaggio di ritorno studiò il foglio ciclostilato fino a quando non ne ebbe mandata a memoria ogni riga, ma si astenne dal trarre conclusioni finché non fu tornato a casa. Dalla stazione chiamò la fattoria e Hank, il suo bracciante, venne a prenderlo. Le dieci miglia che lo separavano dalla fattoria gli parvero cento. Ma, giunto infine nella sua stanza, Jim stese sul letto i due fogli che aveva portato con sé e aprì il fascicolo della prima lezione del corso per corrispondenza. Non c'era possibilità di sbagliarsi. Le matrici delle pagine ciclostilate del corso erano state battute con la vecchia macchina del signor Herald. C'era l'identica sbrecciatura sul lato della o, e la b era appiattita sul lato del rigonfiamento. Alla r mancava metà del trattino di base. Era stato il signor Herald a stilare il corso. Il signor Herald doveva essere M.H. Quilcon. Ma perché mai aveva negato di conoscere il nome? Perché non aveva voluto confessare di esser lui l'autore del corso? Alle dieci di quella sera il signor McAfee arrivò alla fattoria con un espresso per Jim.
«Di solito non faccio le consegne così fuori mano a quest'ora di notte», dichiarò. «Ma ho pensato che forse ti sarebbe piaciuto averla subito. Potrebbe trattarsi di qualcosa d'importante. Forse un lavoro, qualcosa del genere. È del signor Quilcon». «Grazie... Grazie per avermela portata, Mac». Jim si affrettò a tornare nella sua stanza e aprì la busta, lacerandola con le mani che gli tremavano: Lesse: Caro Signor Ward, i suoi progressi nella comprensione dei principi della coordinazione d'energia sono davvero eccezionali e sono molto soddisfatto del modo in cui ha affrontato e svolto la decima lezione che ho appena ricevuto da lei. Si è presentata un'insolita opportunità che sono spinto a offrirle. A qualche distanza da qui si trova un grosso motore a coordinamento d'energia che necessita d'importanti riparazioni. Ritengo che lei sia del tutto qualificato a lavorare su questa macchina, sotto un'adeguata supervisione, arricchendosi così d'una preziosa esperienza. L'installazione è situata a una certa distanza dall'abitato di Henderson, circa due miglia a sud, sulla Balmer Road. Là troverà l'Hortan Machine Works, dove è situato appunto il motore. Sono richieste delle riparazioni urgenti e lei è lo studente qualificato più vicino, in grado di approfittare di quest'occasione, che potrebbe anche condurre a un ambito rapporto permanente. Perciò, le chiedo di venire subito. L'incontrerò là. Con ossequi M.H. Quilcon Jim Ward restò seduto a lungo sul letto con la lettera dispiegata davanti a sé. Quella che era cominciata come una semplice ricerca d'informazioni si stava rivelando un vero e proprio rompicapo. Chi era M.H. Quilcon? Sembrava ovvio che Quilcon fosse il signor Herald, il banchiere e editore di giornali a tempo perso. I fascicoli del corso per corrispondenza erano certamente usciti dalla sua macchina per scrivere. Le probabilità che due macchine per scrivere avessero gli stessi quattro o cinque difetti nei caratteri erano infinitesime. E Herald — se era Quilcon — doveva aver scritto quella lettera subito
prima o subito dopo la sua visita. Anche quella lettera, in tutta evidenza, era uscita dalla vecchia Woodstock. C'era qualcosa di affascinante in quell'enigma, e in più la sensazione di un che di sinistro, pensò Jim. Poi scoppiò a ridere, prendendosi in giro per quell'atmosfera da melodramma, e cominciò a rifare la valigia. C'era un treno a mezzanotte con cui poteva ripartire subito per Henderson. Quando per la seconda volta arrivò a Henderson, era un pomeriggio rovente. L'unico membro del personale della stazione alzò gli occhi sorpreso, quando scese dal treno. «Di nuovo qui? Credevo ci avesse rinunciato». «Ho scoperto dove si trova il signor Quilcon. È all'Hortan Machine Works. Mi sa dire con precisione dove si trova?» «Mai sentita nominare». «Dovrebbe trovarsi circa due miglia fuori dell'abitato, sulla Balmer Road». «È la strada principale che prosegue attraverso il distretto di Willow Creek. Li non ci sono fabbriche. Dev'essersi sbagliato di stato, signor mio. Oppure qualcuno la sta prendendo in giro». «Lei pensa che il signor Herald potrebbe dirmi qualcosa su questa fabbrica di macchine? Voglio dire, lei sa se si occupa di macchine e di tutto ciò che le riguarda?» «Buon Dio! Al vecchio Herald interssano soltanto i soldi e quel suo piccolo, stupido giornale. Macchinari! Non riuscirebbe ad agganciare niente di più complicato delle sue giarrettiere». Jim si avviò lungo la strada principale, verso Wollow Creek. La Balmer Road ben presto si restrinse e svoltò, e Henderson ben presto scomparve dietro le alture. Il corso del Willow Creek era un nastro scintillante attraverso una distesa di prati. Non c'era un posto più improbabile al mondo per una fabbrica di macchinari di qualsiasi genere, pensò Jim. Qualcuno gli stava giocando un incredibile scherzo. Ma in che modo, e perché avessero scelto proprio lui per farlo gli riusciva del tutto inspiegabile. Ma allo stesso tempo sentiva, dentro di sé, che non era uno scherzo. C'era qualcosa di serio, di ben deciso ed efficace in tutta la faccenda. I principi della coordinazione d'energia suonavano giusti. Aveva sgobbato abbastanza su quelle lezioni per esserne convinto. Sentiva che, adesso, sarebbe stato quasi capace di costruire coi suoi soli mezzi un motore funzionante con la coordinazione d'energia... salvo per il fatto che non sapeva di dove
derivasse l'energia. L'aria intorno a lui riverberava la luce del sole, nel silenzio rotto soltanto dal mormorio del ruscello e dal fruscio dei salici accanto ad esso. Jim trovò impossibile valutare il tempo e la distanza. Si sforzò di fare passi sempre uguali e si mise a contarli finché non fu certo di aver percorso almeno due miglia. Si fermò e si guardò intorno quasi deciso a tornare indietro, riesaminando la strada già fatta. Guardò davanti a sé. I suoi occhi scrutarono ogni più piccolo dettaglio della prateria tutt'intorno. E poi lo vide. La luce del sole mandava barbagli come se si riflettesse su una superficie metallica. E in quella chiazza luminosa, appena leggibile per la distanza, c'era una scritta: HORTAN MACHINE WORKS Accantonando ogni giudizio sull'incongruità di una fabbrica di macchinari in quell'ambiente pastorale, attraversò il ruscello e s'incamminò attraverso l'erba verso il piccolo rialzo. Quando fu vicino, la fabbrica parve essere una semplice struttura a forma di cupola, di circa dieci metri di diametro, con una porta aperta su un lato. Si avvicinò ad essa con la mente preparata ad ogni sorpresa. La scritta rozzamente tracciata sopra la porta sembrava opera d'un imbianchino in stato di ebbrezza alcoolica. Jim entrò in un locale fiocamente illuminato e mise giù la sua valigia sul pavimento, accanto a uno stretto banco che si allungava tutt'intorno alla stanza. Utensili e altri arnesi di foggia insolita erano appoggiati sul banco e appesi alle pareti. Attese un po', ma non comparve nessuno. Poi notò una porta interna e una ripida rampa a spirale che conduceva giù, in un seminterrato. Superò la porta e, un po' camminando, un po' scivolando, scese di sotto. Qui ebbe modo di notare che c'era una illuminazione artificiale dovuta a tubi fluorescenti dal curioso aspetto. Ma ancora non si vedeva segno di anima viva, e non c'era un solo oggetto in quella stanza che gli apparisse familiare. Qua e là erano appoggiati alle pareti strani affari che in modo vago assomigliavano a mobili. Jim si sentì a disagio in tutta quella stranezza e stava per risalire la ripida rampa quando udì una voce. «Sono il signor Quilcon. È lei, signor Ward?» «Sì. Lei... dov'è?»
«Mi trovo nella stanza accanto. Non potrò uscire finché non avrò finito un lavoro che ho appena incominciato. Le dispiace proseguire fino al piano inferiore? Laggiù troverà i macchinari danneggiati. La prego di mettersi subito al lavoro. Sono certo che lei capirà subito ciò che va fatto. Io la raggiungerò fra un attimo». Esitando, Jim si girò verso l'altro lato della stanza dove vide una seconda rampa che portava ancora più in basso, in un locale vividamente illuminato. Si guardò intorno ancora una volta, poi scese la seconda rampa. Questa nuova stanza aveva il soffitto molto alto e un diametro un po' maggiore delle precedenti, ed era quasi del tutto occupata dalle macchine. La principale struttura del motore era formata da alte sagome simili a torrioni metallici disposti a brevi intervalli e con rigonfiamenti bulbo a una certa altezza. Formavano un cerchio compatto, con strette passerelle radiali che passavano tra essi. Per un lungo attimo Jim sostò a esaminare queste torri, che s'innalzavano fin quasi a sette metri dal pavimento. Tutte le varie parti di quello strano corso per corrispondenza, ogni singolo paragrafo da lui mandato a memoria, parvero scivolare al posto giusto in un singolo, grande mosaico. I diagrammi, i disegni di macchine, che gli erano parsi incomprensibili, ora chiarirono davanti a lui strutture e funzioni. Ora sapeva esattamente a cosa serviva ogni singola parte, e come funzionava l'intero motore. Spremette il suo corpo lungo le strette passerelle che passavano in mezzo alle torri e s'insinuò fino al centro della grande macchina composita. La sua gamba malata gli rese difficile la cosa, ma alla fine raggiunse la struttura danneggiata. Uno dei tubi si era spaccato, aprendosi sotto un tremendo sforzo, e oltre la fenditura Jim poteva intravedere il prodigioso intrico dei cavi che lo riempivano. Cavi che adesso in buona parte erano bruciati e ridotti a una massa fusa. Il danno era avvenuto in uno dei circuiti di controllo, e ciò bloccava il funzionamento dell'intera macchina, ma Jim sapeva che la riparazione non sarebbe stata difficile. Scivolò nuovamente fuori dalla grande struttura e trovò i comandi d'un congegno simile a una gru: li azionò e la gru discese fino al tubo spaccato, l'afferrò e portò via il tratto danneggiato. Jim si avvicinò alle pareti, e da armadietti e cassetti sparsi dovunque prelevò utensili e parti di ricambio; poi tornò al tubo lesionato. Racchiuso in uno spazio angusto, cominciò a strappar via i cavi bruciati e le parti fuse. Ben presto dimenticò ogni altra cosa, per immergersi tutto,
corpo e mente, in quel lavoro, affascinato dalla bellezza e dalla potenza di quel grande motore. Qui, dentro quell'ampio locale, c'era una macchina in grado di fornire, da sola, l'energia necessaria a una grande città. Il suo funzionamento si basava sul principio delle correnti magnetiche, non più su quelle elettriche. La scoperta delle correnti magnetiche era stata annunciata soltanto pochi mesi prima che lui tornasse a casa dalla guerra. L'applicazione pratica della scoperta era stata fulminea. E Jim cominciò a intravedere la vera origine dell'energia che alimentava la macchina. Questa risiedeva nelle grandi correnti di forza magnetica e gravitazionale che scorrevano tra i pianeti e i soli dell'universo. Potente quanto l'energia atomica, e altrettanto illimitata nelle sue risorse, essa non richiedeva nessun macchinario tremendamente pericoloso per essere imbrigliata. Il principio del coordinatore d'energia era semplice. La scomoda, contorta posizione in cui si trovava cominciò a fargli dolere i muscoli, al punto da costringerlo a uscir fuori a distendere le gambe. Mentre sostava, ritto in piedi, accanto al motore, ricominciò a riflettere sullo scopo che quella possente macchina poteva avere, in quella strana località. Perché mai era stato costruito là, e quale uso potevano mai avere le sue energie? Cominciò a camminare avanti e indietro, per ripristinare la circolazione nelle gambe, e intanto cercò di seguire lo scorrere dell'energia attraverso il motore, per determinare dove, e quanta tensione esso dovesse sopportare. Le sue ricerche lo condussero ancora più in basso, a un ulteriore livello sotterraneo dell'edificio, e qui trovò ciò che stava cercando, la tensione alla quale la tremenda potenza del motore veniva accoppiata. Qui, però, si trovò davanti a qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione, poiché il generatore di tensione era anch'esso una macchina di strana concezione, e nessuna delle sue caratteristiche era stata trattata dal corso per corrispondenza. La macchina al piano superiore intercettava le correnti magnetiche dello spazio, selezionando e concentrando quelle che scorrevano in una data direzione. Poi, l'energia di quelle correnti veniva convogliata nella macchina in questa sala più sotto, ma non c'era nessun punto di reazione contro cui l'energia potesse venir applicata. A meno che... La conclusione logica, inevitabile s'impose nella sua mente. C'era un solo punto concepibile di reazione.
Rimase completamente immobile e un fremito lo percorse tutto. Fissò le lisce pareti tutt'intorno. Metalliche, dovunque. E quel locale: era più stretto di quello superiore — come se l'intero edificio avesse la forma d'un fuso, dalla cupola che sporgeva là sopra, dal terreno, fino al pavimento dell'ultimo sotterraneo. L'unico punto possibile di reazione era l'edificio stesso. Ma non era un edificio, era un vascello. Jim risali nella sala del motore, su per la rampa, incespicando e aiutandosi con le unghie, poi proseguì tenacemente fino alla camera sovrastante. Era ormai a metà strada sulla rampa superiore, quando udì un'altra volta la voce. «È lei, signor Ward? Ho quasi finito e sarò da lei fra un attimo. Ha completato le riparazioni? È stato molto difficile?» Jim esitò, ma non rispose. C'era qualcosa, nella tonalità di quella voce, che gli dava i brividi. Prima non se n'era accorto, pieno di curiosità come era, e d'interesse per quel posto. Ma adesso avvertiva la qualità ultraterrena di quella voce... inumana. Capi all'improvviso che non si trattava d'una voce, ma che le parole erano state formate nel suo cervello come se fosse stato lui stesso a pronunciarle. Aveva quasi raggiunto la sommità della rampa e si stava tirando su, carponi, sul pavimento della stanza superiore, quando colse l'ombra della porta che si chiudeva e udì il clangore metallico quando sbatté nell'incorniciatura. La stanza era ermeticamente chiusa, e soltanto le piccole finestre lasciavano passare un po' di luce. Si alzò, drizzandosi completamente, e si calmò al pensiero che il vascello non poteva volare. Non poteva ancora decollare, con tutto quel lavoro di riparazione ancora da fare, e lui non aveva nessuna intenzione di finirlo, di questo era fermamente convinto. «Quilcon!» chiamò. «Si faccia vedere. Chi è lei, e cosa vuole da me?» «Voglio che lei finisca le riparazioni, e in fretta», rispose all'istante la voce. «E in fretta... devono esser terminate in fretta». C'era una nota di disperazione e sconforto in quella voce, che cominciava a far effetto su Jim. Poi, egli colse il lieve movimento sulla parete accanto a lui. In un piccolo emisfero trasparente appeso sulla parete si trovava la lumaca che Jim aveva intravisto nell'ufficio postale, la creatura che la direttrice aveva definito «armadilio». Non l'aveva notata, quand'era entrato per
la prima volta nella cupola. Ora la creatura si stava muovendo con lente pulsazioni che rigonfiavano la sua superficie, sulla quale spiccava una rete di linee livide, come un intrico di vene. Da quel piccolo emisfero dalle sfumature dorate si dipartiva un groviglio di cavi che andavano a strumenti e a scatole di raccordo disseminati per tutto il locale. All'interno dell'emisfero un centinaio di minuscoli pseudopodi stringevano le estremità dei cavi. Era una nave... e quella lumaca all'interno dell'emisfero era il suo incredibile pilota alieno. Jim lo seppe all'istante, diventando conscio della realtà sgomentante e gelida che gli giungeva in ondate di pensiero da quella lumaca chiamata Quilcon, facendo irruzione nella sua mente. Erano una nave e un pilota giunti da fuori della Terra... dagli sconfinati abissi dello spazio. «Cosa vuole da me? Chi è lei?» chiese Jim Ward. «Sono Quilcon. Lei è un buon allievo. Impara bene e subito». «Cosa vuole da me?» «Voglio che lei ripari il motore danneggiato». C'era qualcosa che non andava in quella creatura. Jim lo sentiva, sia pure come qualcosa d'impalpabile. Un'aura d'infermità. Una disperata sollecitazione che finì per invadergli del tutto la mente. Ma c'era qualcos'altro in primo piano nella mente di Jim. L'orrore causato dalla creatura aliena si attenuò e Jim poté contemplare quel miracolo che era giunto fin qui, all'umanità. «Farò un patto con lei», disse con calma. «Mi dica come costruire una nave come questa, ed io riparerò il motore per lei». «No, no! Non c'è tempo per questo. Devo fare in fretta...» «Allora me ne andrò e non farò più nessuna riparazione». Si avviò verso la porta, ma subito fu afferrato da un'onda paralizzante, come se avesse stretto in mano due elettrodi carichi. La morsa si rilassò soltanto quando arretrò dalla porta. «Il mio potere è debole», disse Quilcon, «ma ancora per molti giorni sarà forte abbastanza per questo. Troppi, perché lei possa sopravvivere senza cibo e acqua. Ripari il motore, e io la lascerò andare». «Quello che le chiedo è un prezzo troppo alto da pagare, per avere il mio aiuto?» «Lei è stato pagato abbastanza. Può insegnare alla sua gente a costruire macchine a coordinamento d'energia. Non è sufficiente?»
«La mia gente vuol costruire motori come questo e viaggiare nello spazio». «Questo non glielo posso insegnare. Non so farlo. Non sono stato io a costruire questa nave». La sua mente fu spazzata da impetuose ondate di pensieri turbati, ma la tensione si acquietò in lui. Il primo timore che aveva provato davanti a una vita totalmente aliena lasciò la sua mente, e Jim provò una strana affinità con quella creatura. Era ferita e malata, questo l'aveva capito, ma non riusciva a credere che non sapesse com'era costruita la nave. «Coloro che hanno costruito questa nave vengono spesso a commerciare sul mio pianeta», spiegò Quilcon. «Ma noi non possediamo navi come questa. La maggior parte di noi non desidera altro che passar la propria vita tra le caverne umide e le spiagge soleggiate del nostro mondo, ma io ardevo dal desiderio di vedere gli altri mondi, quelli da cui queste navi venivano. «Quando questa nave atterrò vicino alla mia caverna, vi strisciai dentro e mi nascosi. Poi la nave decollò, e viaggiò per un tempo lunghissimo. Finché un giorno un guasto al motore uccise tutti e tre gli operatori della nave ed io rimasi solo. «Anch'io rimasi ferito, ma non ucciso. Morì soltanto l'altro di me». Jim non comprese quest'ultima, strana frase, ma non interruppe la storia di Quilcon. «Fui in grado di elaborare dei mezzi per controllare il volo della nave», questi proseguì, «e di atterrare sul vostro pianeta senza distruggerla. Ma non potevo ripararla a causa della natura del mio corpo». Allora Jim capì che la storia della creatura doveva esser vera. Era ovvio che quella nave era stata costruita per essere impiegata da creature del tutto diverse da Quilcon. «Esplorai la vostra città più vicina e appresi il vostro modo di vivere e i vostri costumi. Mi serviva l'aiuto di uno di voi per riparare la nave. Avrei potuto indurre con la forza uno di voi a svolgere i compiti più semplici, ma non certo le operazioni più complesse che la riparazione richiede. «Poi, scoprii quel curioso modo d'imparare in uso tra voi. Costrinsi l'uomo Herald a preparare il materiale e a spedirlo a lei. E m'impadronivo delle lettere di risposta prima che quella persona all'ufficio postale potesse vederle. Mi ero procurato il suo nome dai giornali, insieme a quello di molti altri che risultarono insoddisfacenti. «Dovevo insegnarle a capire a fondo il coordinatore d'energia, giacché
soltanto usando volontariamente le sue più alte facoltà mentali, lei sarebbe staio in grado di afferrare ogni singolo particolare della sua struttura ed eseguire le riparazioni. Io posso assisterla, ma non costringerla a farlo». La creatura ricominciò a pregarlo: «E adesso, vuole affrettarsi a riparare il motore?... Sto morendo, ma vivrò più a lungo di lei... è un lungo viaggio fino al mio pianeta natio, ma devo arrivarci e ho bisogno d'ogni istante che ancora mi rimane». Jim colse per un attimo una visione... quasi un sogno... Il mondo natio della creatura. Un mondo di sicurezza e di pace... secondo il punto di vista di Quilcon. Ma neppure l'estraneità di quel mondo riuscì a cancellare del tutto la sensazione di tranquilla bellezza che la mente di Quilcon trasmetteva a quella di Jim. Essi, Quilcon e la sua gente, erano una specie molto intelligente. Avevano sviluppato a livelli eccezionali le leggi della matematica e le teorìe della logica, ma l'esiguità del loro sviluppo corporeo aveva loro impedito d'indagare in altri campi della scienza la cui esistenza era stata dimostrata alle loro menti proprio dalla logica e dalla matematica che avevano elaborato. I più ricchi d'intelligenza fra loro erano creature frustrate la cui esistenza era resa tollerabile soltanto da un'infinita capacità di stoico adattamento. Ma di tutti loro, Quilcon era fra i più inquieti, ribelli e ambiziosi. Nessuno di loro aveva mai osato intraprendere un viaggio come il suo. Un'ondata di pietà e di comprensione s'irradiò da Jim Ward. «Farò un patto con lei», esclamò Jim, fremente e affannato. «Riparerò il motore se lei mi insegnerà i principi del suo funzionamento. Se lei non li possiede, adesso, se li potrà procurare senza grandi difficoltà. La mia gente deve avere una nave come questa». Cercò di visualizzare nella propria mente cosa avrebbe significato per la Terra possedere il volo spaziale un secolo... o addirittura cinque secoli prima che il lento avanzare della scienza e della tecnica umane lo rendesse possibile. La creatura continuò a tacere. Poi infine parlò. «Farò un patto con lei», disse Quilcon. «Lasci che io sia l'altro di lei, e le darò ciò che vuole». «L'altro di me? Di che cosa sta parlando?» «Per lei è difficile capire. Si tratta d'un unione... come quella che facciamo nel nostro mondo. Quando due o più di noi vogliono essere insieme, noi andiamo insieme nello stesso cervello, lo stesso corpo. Adesso io sono solo, ed è un'esistenza insopportabile poiché ho conosciuto cosa voglia di-
re avere un altro di me». «Lasci che entri stabilmente nel suo cervello, nella sua mente, e che viva lì con lei. Insegneremo al suo e al mio popolo. Porteremo questa nave in tutti gli universi che le creature viventi possono sognare. O così, o moriremo insieme entrambi, poiché è passato troppo tempo perché io possa tornare al mio mondo. Questo mio corpo sta morendo». Stupefatto dall'ultimatum di Quilcon, Jim Ward fissò quella brutta lumaca là sulla parete. Il suo corpo bruno pulsava, scosso da violente pulsazioni di dolore, e Jim sentì emanare da esso una sensazione di delirio e terrore crescenti. «Presto! Lasci che venga lì da lei!» implorò la creatura. Jim avverti una sensazione... come se delle dita gli stessero sondando il cranio, cercando, implorando di poter entrare. Si sentì raggelare. S'immaginò gli anni futuri, e pensò a un'esistenza con questa mente aliena dentro la sua. Le due menti avrebbero forse lottato per la conquista definitiva del suo corpo, e lui sarebbe forse finito schiavo nel proprio cadavere vivente... Cercò di sondare i pensieri di Quilcon, ma non riuscì a trovare nessuna sensazione, nessun intento di conquista. C'erano invece gradevolezze quasi umane intrecciate a un nuovo mondo di scienza e pensiero. Seppe che Quilcon avrebbe mantenuto la promessa di consegnare agli uomini della Terra i segreti di quella nave. Già questo, da solo, sarebbe valso il prezzo del suo sacrificio... sempre che di sacrificio si trattasse. «Vieni!» Fu un invito pacato. Fu come se un torrente di luce liquida fluisse nel suo cervèllo. Fu accecante, straziante nella sua intensità. Gli parve di sentire, più che vedere, l'involucro bruno di Quilcon che tremolava dentro l'emisfero trasparente, per poi raggrinzirsi fino a sembrare una piccola noce marrone. Ma nella sua mente c'era adesso l'unione, e Jim si soffermò ad assaporare, tremando all'improvvisa, indicibile realtà, la nuova conoscenza. Seppe cos'era Quilcon, e la gioia zampillò dentro di lui ancor più avida di quella luce abbagliante. Un pensiero fiorì nel suo cervello: il sesso sta forse soltanto nella diversità delle funzioni corporee, nella grana della pelle e nel tono della voce? Riandò col ricordo a un altro giorno... quando il cielo e la terra sottostante erano pieni di morte, e anche un piccolo ospedale da campo. Una figura pallida, distesa su una branda, aveva mormorato: «Starai bene, Jim. Io vado... avanti, credo, ma tu starai bene. Lo so. Non sentire troppo la mia mancanza».
Si era convinto che per lui non ci sarebbe stata più pace, ma adesso c'era di nuovo pace in lui, e la voce di Quilcon era come quella voce, di tanto tempo prima, poiché man mano la creatura sondava i suoi pensieri, la sua innata capacità accordò sentimenti e pensieri alieni con quelli d'un terrestre, e infine disse: «Ora, tutto è a posto, Jim Ward?» «Sì... sì, è proprio così». L'intensità dei sentimenti che erompevano in lui quasi l'accecò. «Ed io voglio chiamarti Ruth, come un'altra Ruth...» «Mi piace questo nome». La sua voce aveva una punta di timidezza, mentre esprimeva il suo gradimento. E Jim non trovò affatto strano il fatto di non poter vedere il suo interlocutore, poiché nella sua mente c'era una visione molto più bella di quanto avrebbe potuto essere una concreta immagine terrestre. «Avremo tutto», disse. «Tutto ciò che il tuo mondo e il mio possono offrire. E vedremo tutti gli altri mondi». Ma, com'era stata così pratica l'altra Ruth, anche questa lo era. «Prima di tutto dobbiamo riparare il motore. Vogliamo farlo, adesso?» La figura solitaria di Jim Ward si riscosse. Si avviò verso la rampa a spirale e nuovamente scomparve nelle profondità della nave. Primo contatto First Contact di Murray Leinster (Will. F. Jenkins) Astounding Science Fiction, maggio Murray Leinster era il decano degli scrittori di fantascienza, un uomo la cui carriera copriva quasi mezzo secolo, da The Runaway Skyscraper nel 1919 fino agli ultimi anni Sessanta. Assai pochi dei suoi romanzi, per lo più sciatti, sono ancora in catalogo, ma come scrittore di racconti era davvero in gamba, soprattutto tra la seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta. Fu uno dei pochissimi scrittori dell'era di Gernsback che riuscirono a compiere con successo il passaggio alla SF moderna. E addirittura vinse un premio Hugo nel 1956 (con Exploration Team). I suoi migliori lavori si possono trovare in The Best of Murray Leinster (1978). «Primo contatto» è un autentico classico, una storia che si pone nel mondo più ricco e fantasioso le domande che, oggi più che mai, si agitano nella mente dei lettori di fantascienza e del grosso
pubblico in generale: cosa accadrà quando i terrestri incontreranno gli alieni? Come faremo a sapere se ci possiamo fidare, gli uni degli altri? (È fuori questione che «Primo contatto» sia il racconto più famoso e più citato di Leinster. In effetti, era così famoso che provocò una risposta da parte d'uno scrittore sovietico di fantascienza, Ivan Efremov. Efremov scrisse «Nel Cuore del Serpente», che tratta anch'esso d'un primo incontro nello spazio di terrestri e alieni, ma da un diverso punto di vista. Mentre nella storia di Leinster il motivo centrale è quello della paura e della sfiducia, quello della storia di Efremov è dell'unione attraverso la ragione. Naturalmente i sovietici puntarono molto sul fatto che questo dimostrava la natura superiore, sia dal punto di vista intellettuale che morale, della filosofia comunista nei confronti di quella capitalista — ma anche tenendo conto di tutto ciò, mi trovo a simpatizzare con Efremov. Io voglio che l'unione, grazie alla ragione, trionfi sulla paura e la sfiducia. Il problema del primo contatto rimane importante nella fantascienza, in ogni caso. Invero, man mano i nostri esperimenti col volo spaziale progrediscono, e noi restiamo nell'incertezza sulla possibilità che ci sia vita altrove, il problema è destinato a farsi sempre più importante. Di recente, Carl Sagan ha incassato un anticipo di due milioni di dollari (un primato per la fantascienza) per la sua prima opera di narrativa, e qual è il soggetto? Il Primo Contatto. I.A.) Tommy Dort entrò nella cabina del capitano con l'ultimo paio di stereofoto e disse: «Ho finito, signore. Queste sono le due ultime fotografie che ho potuto scattare». Gli porse le fotografie e guardò con interesse professionale le visipiastre che mostravano lo spazio, fuori della nave. La cabina era pervasa da una fioca luminosità rossa che rivelava quanto bastava dei comandi e degli strumenti necessari al pilota per la navigazione dell'astronave Llanvabon. La poltroncina davanti ai comandi aveva un'imbottitura molto spessa. E c'era la piccola, ingegnosa struttura formata da specchi posti a strane angolature — remoto discendente degli specchietti retrovisivi degli automobilisti del ventesimo secolo — che consentiva di tener d'occhio tutte le visipiastre senza girar la testa. E c'erano le piastre giganti che garantivano, a chi lo volesse, ampie panoramiche della distesa stellata.
La Llanvabon era molto lontana da casa. Le visipiastre, che potevano esser portate a qualsiasi ingrandimento desiderato, mostravano stelle di ogni immaginabile grado di splendore, nello stupefacente caleidoscopio di colori che esibivano fuori dell'atmosfera. Ma erano quasi tutte sconosciute. Soltanto due costellazioni erano riconoscibili, fra quante si vedevano dalla Terra, ma rimpicciolite e distorte. La Via Lattea pareva vagamente fuori posto. Ma perfino queste stranezze erano cose da poco in confronto alla vista mostrata dalle piastre di prua. Davanti a loro c'era un'immensa nebulosità, impalpabile e luminescente. Pareva immobile. Ci volle molto tempo perché le piastre visive mostrassero un apprezzabile avvicinamento, anche se l'indicatore della nave spaziale mostrava un'incredibile velocità. Quella nebbia luminosa era la Nebulosa del Granchio, lunga sei anni-luce, profonda tre anni-luce e mezzo, con delle porzioni che si protendevano verso l'esterno e, vista con i telescopi della Terra, assomigliava un po' alla creatura da cui aveva preso il nome. Era una nube di gas infinitamente tenue, che si estendeva su una distanza pari a una volta e mezza quella del Sole dalla stella più vicina. Nel cuore della nube ardevano due stelle, che formavano un sistema doppio: una del familiare color giallo del Sole, l'altra d'un bianco sacrilego. Tommy Dort disse, pensieroso: «Siamo diretti dentro una fossa, signore?» Il comandante studiò le due ultime lastre prese da Tommy, poi le mise da parte. Tornò a contemplare con un certo disagio le visipiastre anteriori. La Llanvabon stava decelerando al massimo. Si trovava a solo mezzo anno-luce dalla nebulosa. Il lavoro di Tom si era prolungato per tutta la rotta di avvicinamento della nave, e adesso era finito. Durante tutta la permanenza della nave esploratrice all'interno della nebulosa, Tommy Dort avrebbe oziato. Ma fino a quel momento si era più che pagato il viaggio. Aveva appena completato la registrazione fotografica del movimento d'espansione d'una nebulosa durante un periodo di quattromila anni... una registrazione eseguita da una sola persona, sempre con la stessa apparecchiatura e lo stesso controllo delle esposizioni per individuare e registrare qualunque errore sistematico — un primato davvero unico. In sé questo era già un successo che valeva il viaggio dalla Terra. Ma Tommy Dort in aggiunta aveva anche registrato quattromila anni di storia d'una stella doppia, e altresì quattromila anni di storia d'una stella nell'atto di degenerare in una nana bianca. Non che Tommy Dort avesse un'età di quattromila anni. In realtà, aveva
da poco oltrepassato la ventina. Ma la Nebulosa del Granchio si trova a quattromila anni-luce dalla Terra, e le ultime due fotografie erano state prese ad una luce che non avrebbe raggiunto la Terra fino al sesto millennio d.C. Lungo tutto il percorso — a velocità che erano multipli incredibili della velocità della luce — Tommy Dort aveva fissato sulle sue lastre ogni aspetto della nebulosa, con la luce che l'aveva lasciata a partire da quaranta secoli prima, fino a sei mesi prima. La Llanvabon continuava la sua corsa attraverso lo spazio. Con estenuante lentezza l'indescrivibile luminosità avanzava, strisciante, e un po' alla volta invadeva l'intera superficie delle visipiastre. Cancellava ormai alla vista una buona metà dell'universo. Davanti a loro si stendeva una nebbia ardente; alle loro spalle, un vuoto punteggiato di stelle. La nebulosità giunse poi a escludere alla loro vista tre quarti di tutte le stelle. Alcune delle più luminose continuavano a baluginare, fioche, attraverso la nebbia, vicino ai suoi bordi, ma erano assai poche. Infine, rimase soltanto una chiazza irregolare di buio a poppa, sul cui sfondo le stelle brillavano senza palpitare. La Llanvabon si era ormai tuffata dentro la nebula, e parve che penetrasse in una galleria di tenebra con pareti di nebbia scintillante. Il che era proprio ciò che la nave spaziale stava facendo. Già le prime fotografie, alla maggiore distanza, avevano rivelato la presenza di strutture nella nebulosa. Non era un ammasso amorfo di gas. Man mano la Llanvabon aveva continuato ad avvicinarsi, le indicazioni d'una struttura si erano fatte più precise, e Tommy Dort aveva sostenuto la necessità d'un avvicinamento in curva per motivi fotografici. Così, la nave spaziale aveva compiuto l'ultima parte del viaggio seguendo una curva logaritmica, e Tom in tal modo era stato in grado di, prendere successioni di fotografie ad angoli sempre diversi, ottenendo così delle stereoscopie che mostravano la nebulosa a tre dimensioni; e questo aveva rivelato una struttura assai complicata fatta di ondulazioni simili a quelle d'un cervello umano. La nave si era appunto tuffata dentro una di queste cavità. Erano state chiame «fosse» per analogia con i profondi crepacci che incidevano il fondo degli oceani terrestri. E promettevano di essere assai utili alla missione della nave. Il comandante si rilassò. Oggigiorno, una delle funzioni d'un comandante è quella di cercare sempre qualcosa di cui preoccuparsi, e poi preoccuparsene. Il comandante della Llanvabon era assai coscienzioso, e soltanto dopo che un certo strumento non aveva registrato più nulla in modo tassativo, si era lasciato andare sullo schienale della poltroncina. «C'era sempre la possibilità», dichiarò, «che queste fosse potessero risul-
tar piene di gas non luminoso. Invece sono vuote. Così saremo in grado di usare l'iperpropulsione finché ci staremo dentro». C'era un anno-luce e mezzo dal bordo della nebulosa al sistema della stella doppia che ne costituiva il cuore. Questo, appunto, era il problema. Una nebulosa è un gas. È talmente rarefatto che al suo confronto la coda di una cometa è solida, ma una nave che viaggia in iperpropulsione — ben oltre la velocità della luce — non deve urtare neppure contro un vuoto spinto (una rarefazione come quella ottenuta con le migliori pompe). Ha bisogno del vuoto puro, assoluto, come quello esistente fra le stelle. Ma la Llanvabon non avrebbe potuto far granché in quell'ammasso di nebbia se avesse dovuto limitarsi alle velocità consentite dal solo vuoto spinto. La luminosità parve chiudersi del tutto dietro la nave spaziale, che continuava a decelerare. L'iperpropulsione si spense con l'improvvisa sensazione di risonanza metallica che percorre il corpo d'un uomo quando il campo iperpropulsivo viene staccato. Poi, quasi nello stesso istante, i campanelli presero a squillare, invadendo l'intera nave col loro stridulo baccano. Tommy fu quasi assordato dal campanello d'allarme che risuonò nella cabina di comando, prima che il capitano lo facesse tacere con un colpo della mano. Ma in tutto il rimanente della nave si udirono squillare in distanza gli altri campanelli, il cui clangore andò via via spegnendosi al successivo rinchiudersi delle porte automatiche. Tommy Dort fissò il comandante. Questi strinse i pugni, Tommy scrutò al di sopra della sua spalla. Sembrava che uno degli indicatori avesse le convulsioni. Altri faticavano a registrare i loro rilevamenti. In mezzo alla nebulosità diffusa che riempiva col suo bagliore una delle visipiastre di prua c'era un punto che — quando il regolatore automatico lo mise a fuoco — stava diventado chiaramente sempre più luminoso. Quella era la direzione dell'oggetto che aveva fatto scattare l'allarme, segnalando il pericolo di collisione. Stando alle letture dello stesso analizzatore, c'era appunto un oggetto solido a ottantamila miglia di distanza, un oggetto di dimensioni non troppo grandi... Ma c'era anche un altro oggetto, la cui distanza variava da un massimo a zero, e le cui dimensioni sembravano condividere quell'impossibile avanzata e ritirata. «Diamo il massimo ingrandimento!» sbottò il comandante. Il punto luminosissimo sullo schermo crebbe ancor più d'intensità, cancellando buona parte dell'impalpabile distesa luminescente. L'ingrandimento aumentò ancora. Ma non comparve nient'altro. Eppure il localizza-
tore-radar insisteva a dire che qualcosa di mostruoso e d'invisibile eseguiva delle folli puntate verso la Llavanbon, con velocità che sembravano rendere inevitabile una collisione, per poi deviare bruscamente e fuggir via quasi pauroso, con la stessa velocità. La visipiastra raggiunse il massimo ingrandimento. Ancora niente. Il comandante digrignò i denti. Tommy Dort disse, pensoso: «Signore, ho già visto qualcosa di simile su un transpazio della linea Terra-Marte, una volta, quando fummo localizzati da un'altra nave. Il loro raggio localizzatore aveva la stessa frequenza del nostro, e tutte le volte che si sovrapponevano davano l'impressione di qualcosa di solido e mostruosamente grande». «Questo», sbraitò il comandante, «è proprio quello che sta accadendo adesso. C'è qualcosa che assomiglia a un raggio localizzatore puntato su di noi. Riceviamo quel raggio sovrapposto all'eco del nostro. Ma l'altra nave è invisibile! Chi c'è mai, qua fuori, in una nave invisibile dotata di congegni localizzatori? Non uomini, di certo!» Schiacciò il pulsante del suo comunicatore da polso e gridò: «Stazioni di combattimento! Condizioni immediate di massimo allarme in tutte le sezioni, subito!» Continuò ad aprire e a chiudere le mani, nervosamente. Tornò a fissare la visipiastra: il punto luminoso era scivolato fuori del bordo e adesso era visibile soltanto un'informe luminescenza. «Non uomini?» Tommy Dort si raddrizzò di scatto. «Vuol dire...?» «Quanti sistemi solari ci sono nella nostra galassia?» chiese, aspro, il comandante. «Quanti pianeti adatti alla vita? E quanti differenti tipi di vita potrebbero esserci? Se questa nave non proviene dalla Terra — e certamente è così — allora deve avere un equipaggio che non è umano. E creature non umane giunte a uno stadio di civiltà che comprende viaggi nello spazio profondo potrebbero significare qualunque cosa!» Le mani del comandante tremavano. Non avrebbe mai parlato con tanta libertà davanti a un membro del suo equipaggio, ma Tommy faceva parte del personale d'osservazione. E perfino un comandante i cui doveri comprendevano quello di preoccuparsi poteva a volte avere un disperato pensare ad alta voce può essere di aiuto. «Di una cosa del genere si è discusso per anni, e si sono fatte congetture d'ogni tipo», dichiarò, a bassa voce. «Matematicamente è certo che in questo o quel punto della Galassia dovrebbe esserci una qualche razza con una civiltà allo stesso livello della nostra, o più progredita. Nessuno ha mai potuto indovinare dove o quando li avremmo incontrati. Ma a quanto pare, l'abbiamo fatto proprio noi, adesso!»
Gli occhi di Tommy lampeggiarono vividi. «Ritiene che si mostreranno amichevoli, signore?» Il comandante diede un'occhiata all'indicatore di distanza. L'oggettofantasma eseguiva ancora le sue folli picchiate, precipitandosi verso la Llanvabon e schizzandone via precipitosamente. L'altra indicazione di qualcosa a ottantamila miglia si muoveva appena. «Si sta spostando», sottolineò, asciutto, il comandante. «E nella nostra direzione. Proprio quello che noi stessi faremmo se una strana astronave comparisse sui nostri terreni di caccia. Amichevoli? Forse. Tenteremo di metterci in contatto con loro. Dobbiamo farlo. Ma sospetto che questa potrà essere la fine della nostra spedizione... Ringraziamo Dio che abbiamo i fulminatori!» I fulminatori sono quei raggi di spaventevole capacità distruttiva che si occupano dei meteoriti recalcitranti lungo la rotta di un'astronave, quando i deflettori non riescono a respingerli tutti. Non sono concepiti come armi, ma possono benissimo funzionare come tali. Possono entrare in azione a una distanza di cinquemila miglia, e attingere a tutta la riserva d'energia della nave. Col puntamento automatico e un brandeggio di cinque gradi, una nave come la Llanvabon era senz'altro in grado di praticare un buco attraverso un asteroide di piccole dimensioni, così da passarci attraverso senza danni. Ma non durante l'iperpropulsione, ovviamente. Tommy Dort si era avvicinato alla visipiastra di prua. Ora girò di scatto la testa. «I... fulminatori, signore? E perché?» Il comandante fece una smorfia, rivolto alla visipiastra che inquadrava l'oggetto invisibile: «Perché non sappiamo come son fatti e non possiamo correr rischi!... Sì, lo so», aggiunse, amaro, «stabiliremo contatto e cercheremo di sapere quanto più possiamo su di loro — soprattutto da dove vengono. Sì, ci sforzeremo di mostrarci amichevoli, ma non abbiamo molte possibilità. Non possiamo fidarci di loro neppure d'una frazione di centimetro. Non possiamo osarlo! Essi dispongono di localizzatori. Forse hanno degli individuatori migliori dei nostri. Forse sono in grado di ricostruire l'intera nostra rotta fino a casa senza che noi lo sappiamo! Non possiamo rischiare che una razza non umana sappia dov'è la Terra, prima che noi si sia del tutto sicuri di loro! E come possiamo esser sicuri? Potrebbero venir da noi per commerciare, naturalmente... ma anche piombarci addosso in iperpropulsione con una flotta da guerra e spazzarci via prima che sappiamo che cosa aspettarci, e quando!»
Il volto di Tommy mostrò sorpresa. «Il problema è stato analizzato a fondo parecchie volte, in teoria», proseguì il comandante. «Ma nessuno è mai stato capace di trovare una risposta valida, neppure sulla carta. E per di più, malgrado tutte le loro teorizzazioni, nessuno ha mai considerato l'ipotesi... davvero pazzesca, in teoria... d'un contatto nello spazio profondo, in cui nessuna delle due parti conosca il mondo di provenienza dell'altra! Ma il fatto è che, noi, adesso, dobbiamo trovare una riposta. Cosa dobbiamo fare con loro? Forse queste creature saranno bellissime a vedersi, simpatiche, amichevoli e cortesi... con sotto la brutale ferocia d'un giapponese. O forse saranno rozze e burbere come un contadino svedese... e altrettamento oneste e cordiali nell'intimo. Forse sono qualcosa che sta nel mezzo. Ma posso mettere a repentaglio il futuro dell'intera specie umana soltanto sull'ipotesi che, forse, ci si può fidare di loro senza rischi? Dio solo sa se non sarebbe una splendida cosa farsi amica una nuova civiltà! Sarebbe uno stimolo potente e positivo per la nostra, un immenso guadagno per noi. Ma non possiamo correr rischi. Soprattutto, quello che non sono disposto a rischiare è fargli sapere dove si trova la Terra! O sarò più che convinto che non sono in grado di seguirmi, o non tornerò mai più a casa! Ed è probabile che quella gente, là fuori, la pensi nell'identico modo». Schiacciò un'altra volta il pulsante del comunicatore da polso. «Ufficiali navigatori, attenzione! Predisponete le cose in modo che ogni mappa stellare su questa nave possa essere immediatamente distrutta. Ciò comprende ogni fotografia o diagramma dai quali la nostra rotta e il nostro punto di partenza possano esser dedotti. Voglio che tutti i dati astronomici siano raccolti e disposti in modo che possano esser distrutti in una frazione di secondo, dietro mio ordine. Fatelo subito, e riferite non appena siete pronti!» Staccò il dito dal pulsante. D'un tratto parve invecchiato. Il primo contatto dell'umanità con una razza aliena era un'eventualità che era stata ipotizzata in molti modi diversi, ma mai in una situazione angosciosa come quella. Una solitaria nave terrestre e una nave aliena altrettanto solitaria che s'incontravano in una nebulosa senz'altro lontanissima dai pianeti d'origine di entrambe. Potevano far mostra di desiderare la pace, ma la miglior linea da seguire, se si aveva intenzione di attaccare a tradimento, era proprio quella di fingersi amichevoli. Il non mostrarsi sospettosi poteva segnare la condanna della specie umana... e d'altra parte un pacifico scambio dei frutti delle rispettive civiltà avrebbe costituito il più grande benefi-
cio immaginabile. Qualunque errore sarebbe stato irreparabile, ma il non stare sul chi vive avrebbe potuto avere conseguenze fatali. La cabina di comando era molto, troppo tranquilla. La visipiastra a prua mostrava ormai una sezione assai piccola della nebulosa. Era tutta nebbia diffusa, amorfa, luminescente. Ma d'un tratto Tommy. Dort puntò il dito: «Là, signore!» C'era una piccola forma nella nebulosità. Era molto lontana. Appariva nera e opaca, non lucidata a speccho com'era invece la superficie esterna della Llanvabon. Era bulbosa, quasi una forma a pera. La luminosità, per quanto rarefatta, che si stendeva in mezzo a loro, impediva di riconoscere i particolari, ma non era certo un oggetto naturale. Poi, Tommy diede un'occhiata all'indicatore di distanza e annunciò con calma: «Sta puntando verso di noi ad altissima accelerazione, signore. Ci sono buone probabilità che stiano pensando la stessa cosa... che nessuno di noi due oserà consentire all'altro di seguirlo fino a casa. Pensa che tenteranno un contatto con noi, oppure che si scateneranno con le loro armi non appena si troveranno a portata di tiro?» La Llanvabon non si trovava più nella «fossa», in quell'abisso di vuoto assoluto che sprofondava nel cuore della nebulosa. Adesso nuotava nella luminescenza. E non si vedeva più nessuna stella, salvo i due ardenti bagliori del sistema doppio nel cuore della nebulosa. Tutt'intorno allo scafo non c'era altro, se non quella luminosità che tutto permeava, creando una sensazione simile a quella che si sarebbe provata dentro un acquario tropicale sulla Terra. La nave aliena se non altro non diede segno di voler scatenare subito le ostilità. Quando fu più vicina alla Llanvabon, decelerò. La stessa Llanvabon, dopo esserle andata incontro, si era fermata del tutto. La sua decelerazione era stata un ovvio riconoscimento della vicinanza dell'altra nave. Il suo fermarsi era allo stesso tempo un segno amichevole e una precauzione nei confronti di un possibile attacco. Relativamente immobile lì nello spazio, poteva sempre, però, ruotare su se stessa così da fornire il bersaglio minore allo scatenarsi d'un attacco in forze, e avrebbe avuto un più lungo intervallo utile di sparo se l'altra nave le fosse guizzata lungo il fianco. La tensione salì al massimo al momento dell'approccio vero e proprio. La prua aghiforme della Llanvabon era puntata con ferma decisione contro lo scafo alieno. Un contatto azionabile nella cabina di comando consentiva al capitano di scatenare in una minima frazione di secondo l'intera potenza dei fulminatori. Tommy Dort stava osservando, corrugando la fronte. Gli
alieni dovevano possedere un alto grado di civiltà se disponevano di navi spaziali, e le civiltà non si sviluppano se non si accompagnano a un alto grado di prudenza. Quegli alieni dovevano ben conoscere tutte le implicazioni di quel primo contatto fra due specie civilizzate, all'identico modo in cui le conoscevano gli umani dentro la Llanvabon. Le prospettive d'una lussureggiante fioritura di entrambe le civiltà grazie a un contatto pacifico e a liberi scambi delle rispettive tecnologie avrebbe dovuto far piacere a loro come all'uomo. Ma, sulla Terra, quando due differenti culture umane venivano a contatto, una finiva sempre in posizione subordinata all'altra... e in caso contrario, si scatenava la guerra. C'erano quindi due possibilità. Ma una condizione subordinata fra razze sorte su diversi pianeti non avrebbe certo potuto stabilirsi in via pacifica. Gli umani, per lo meno, non avrebbero mai acconsentito a trovarsi subordinati, né era probabile che una qualunque altra specie altamente sviluppata l'avrebbe accettato. I benefici derivanti dal commercio e dallo scambio d'informazioni non avrebbero mai compensato una condizione d'inferiorità. Alcune razze — gli uomini... forse — avrebbero preferito il commercio alla conquista. Forse — forse! — anche questi alieni. Ma c'era sempre qualcuno, anche tra gli umani, che avrebbe bramato una guerra sanguinosa. Se quella nave aliena, che adesso si stava avvicinando alla Llanvabon, fosse tornata al pianeta d'origine con la notizia dell'esistenza dell'umanità e di navi come la Llanvabon, appunto, avrebbe dato alla sua specie la scelta fra commerciare o combattere. Avrebbero preferito il commercio... o la guerra? Non potevano esser sicuri delle intenzioni degli uomini, né gli uomini potevano esser sicuri delle loro. L'unica certezza assoluta, per gli uni come per gli altri, sarebbe stata offerta dalla completa distruzione di una o di entrambe le navi, qui e subito. Ma neppure la vittoria totale sarebbe stata sufficiente. Perché, ora, gli uomini si trovavano nella necessità di sapere da dove veniva quella specie aliena, per evitarla, se non per combatterla. Dovevano conoscere le sue armi, e ogni altra risorsa, se quella specie aliena poteva essere una minaccia, e come poterla eliminare in caso di necessità. E gli alieni avrebbero avvertito le identiche necessità nei confronti degli uomini. Così, il comandante della Llanvabon non schiacciò il tasto che avrebbe potuto ridurre a niente l'altra nave. Non osò farlo. Ma non osava neppure non sparare. Il sudore cominciò a imperlargli la fronte. Un altoparlante bofonchiò. Qualcuno dalla centrale di tiro. «L'altra nave si è fermata, signore. È in condizione stazionaria. Le te-
niamo i fulminatori centrati addosso, signore». Era un invito a sparare. Ma il comandante scosse la testa, rivolto a se stesso. La nave aliena era a non più di venti miglia di distanza. Era nera come la notte. Ogni più piccola porzione del suo scafo era d'un profondo nero opaco. Non si distingueva nessun particolare, salvo qualche variazione del suo profilo sullo sfondo della nebulosa. «Si è arrestata del tutto, signore», disse un'altra voce. «Hanno trasmesso un'onda corta modulata, signore. Modulazione di frequenza. Sembra un segnale. Non ha abbastanza energia per essere dannoso». Il comandante disse, a denti stretti: «Finalmente fanno qualcosa... C'è del movimento all'esterno del loro scafo. Tenete sotto osservazione quello che sta uscendo. Puntateci sopra i fulminatori ausiliari». Qualcosa di piccolo e rotondo scivolò fuori dalla sagoma ovoidale della nave nera. La nave si mosse. «Si stanno allontanando, signore», annunciò l'altoparlante. «L'oggetto che hanno mandato fuori è stazionario nel punto in cui l'hanno lasciato». Un'altra voce intervenne: «Un altro fascio d'onde a modulazione di frequenza, signore. Inintelligibile». Gli occhi di Tommy Dort s'illuminarono. Il comandante scrutò la visipiastra con la fronte imperlata di sudore. «Piuttosto ben fatto, signore», commentò Tommy. «Se avessero mandato qualcosa verso di noi, avremmo sempre potuto interpretarlo come un proiettile, qualcosa di esplosivo. Così, si sono avvicinati, hanno fatto uscire una scialuppa, laggiù, e si sono nuovamente allontanati. Hanno immaginato che anche noi possiamo mandar fuori una scialuppa con un uomo, e stabilire un contatto senza rischiare l'intera nave. Devono pensare in un modo assai simile al nostro». Il comandante replicò, senza distogliere gli occhi dalla visipiastra: «Signor Dort, le spiacerebbe uscir fuori e dare un'occhiata da vicino a quel coso? Non posso ordinarglielo, ma... ho bisogno di tutto il mio personale operativo in quest'emergenza. Il personale d'osservazione, invece...» «È sacrificabile. D'accordo, signore», si affrettò a concludere Tommy. «Non prenderò una scialuppa, signore. Soltanto una tuta con un propulsore. Sarò più piccolo, e in più le braccia e le gambe convinceranno chi guarda che non sono una bomba. Credo che dovrei portare con me un videotrasmettitore...» La nave aliena continuò a ritirarsi: quaranta, ottanta, quattrocento miglia. Si fermò, e rimase laggiù come appesa, aspettando. Mentre si infilava nella
tuta spaziale a propulsione atomica, appena fuori della camera d'equilibrio della Llanvabon, Tommy continuava ad ascoltare i rapporti, man mano venivano trasmessi attraverso gli altoparlanti in tutta la nave. Il fatto che l'altra nave avesse arrestato la sua ritirata a quattrocento miglia di distanza era incoraggiante. Forse non disponeva di armi efficaci oltre quella distanza, e così si sentiva al sicuro. Ma aveva appena pensato questo, che la nave aliena si ritirò a precipizio a una distanza assai maggiore. Il che, rifletté Tommy, quando infine uscì dalla camera di equilibrio nello spazio esterno, poteva esser dovuto al fatto che gli alieni si erano resi conto di essersi traditi... o forse perché volevano dar l'impressione di averlo fatto. Tommy schizzò via dalla Llanvabon, lucida come uno specchio, attraverso un vuoto che ardeva luminoso e rappresentava, per un essere umano, un'esperienza completamente nuova. Dietro di lui la Llanvabon virò di bordo e sfrecciò via. La voce del comandante gli risuonò negli auricolari del casco. «Ci ritiriamo anche noi, signor Dort. C'è la remota possibilità che abbiano caricato in quella scialuppa qualche tipo di esplosivo atomico che non potevano usare in prossimità della loro nave, ma che potrebbe essere distruttivo per noi anche da così lontano. Noi arretriamo. Lei tenga sempre il suo videotrasmettitore puntato sull'oggetto». Il ragionamento era fondato, anche se sconfortante. Un esplosivo in grado di distruggere ogni cosa nel raggio di venti miglia era possibile in teoria, ma gli umani non l'avevano ancora. Era senz'altro più sicuro per la Llanvabon farsi indietro. Ma Tommy Dort si sentì molto solo. Saettava attraverso il vuoto verso il minuscolo punto nero sospeso in quell'incredibile splendore. La Llanvabon svanì. Già a una distanza relativamente breve il suo scafo lucido si confuse con quella nebbia luminosa. Neppure la nave aliena era visibile a occhio nudo. Tommy nuotava nel niente, a quattromila anni-luce da casa, diretto al punto nero, l'unico oggetto distinguibile in tutto lo spazio. Quando vi fu vicino, l'oggetto gli apparve come una sfera lievemente schiacciata, con un diametro di poco inferiore ai due metri. Quando Tommy vi atterrò sopra coi piedi, rimbalzò via. Dalla superficie della sfera sporgevano in tutte le direzioni piccole protuberanze simili a corna o viticci. L'aspetto non differiva molto da una mina subacquea innescata, ma c'era il baglione d'un cristallo su ogni punta. «Sono arrivato», annunciò Tommy nel microfono del casco. Afferrò uno di quei corni e si tirò verso l'oggetto. Era tutto di metallo ne-
ro opaco. Attraverso lo spessore dei guanti non poteva avvertire, ovviamente, se la superficie fosse liscia o granulosa, ma continuò a farvi scorrere sopra la mano cercando di scoprire lo scopo del manufatto. «Punto morto, signore», disse poco dopo: «Niente da riferire che il videotrasmettitore non abbia già mostrato». Fu a questo punto che cominciò a percepire le vibrazioni attraverso la tuta, che si fecero sempre più forti. Una sezione della sfera metallica si aprì, scivolando di lato. Tommy si sporse a guardar dentro, aspettandosi di vederne uscire i primi alieni civilizzati incontrati dall'uomo. Ma ciò che vide fu soltanto una piastra piatta sulla quale un bagliore rosso cupo strisciava qua e là apparentemente senza uno scopo. Dagli auricolari del casco uscì un'esclamazione di sorpresa. La voce del comandante. «Molto bene, signor Dort. Piazzi il suo videotrasmettitore davanti a quella piastra. Hanno sganciato lì fuori un congegno automatico con una visipiastra all'infrarosso, per comunicare con noi senza rischiare nessuno dei loro. Qualunque reazione violenta da parte nostra danneggerebbe soltanto una macchina. Forse si aspettano che lo portiamo a bordo... e potrebbe anche essere una bomba da far esplodere nel preciso momento in cui s'inizierà il loro viaggio di ritorno a casa. Bene, manderò anch'io una visipiastra da piazzare davanti alla loro. Lei torni a bordo». «Sissignore», rispose Tommy. «Ma da che parte sta la Llanvabon, signore?» Non c'erano costellazioni: la nebulosa le oscurava tutte con la sua luminosità diffusa. L'unica cosa visibile oltre al robot sferico era la stella doppia al centro della nube. Tommy non riusciva più a orientarsi. Ma gli restava ancora quel punto di riferimento. «Si allontani in direzione opposta a quella della stella doppia», gli giunse l'ordine attraverso gli auricolari del casco. «Ci penseremo noi a raccoglierla». Poco dopo gli passò accanto un solitario oggetto opaco, diretto verso la sfera aliena, anch'esso con una videopiastra da mettere in posizione. Le due navi spaziali, ognuna ben conscia di non poter rischiare la propria razza per una sia pur minima mancanza di precauzioni, avrebbero comunicato l'una con l'altra grazie a quei piccoli robot. I rispettivi sistemi visivi avrebbero consentito di scambiare tutte le informazioni che si sarebbe osato fornire, mentre da ambedue le parti si sarebbe continuato a scervellarsi sul miglior modo di garantirsi che la propria civiltà non sarebbe stata messa in pericolo da quel primo contatto con l'altra. Certo, il modo più sicuro e pra-
tico sarebbe stato quello di distruggere l'altra nave con un attacco fulmineo e micidiale... per autodifesa, s'intende. Da quel momento la Llanvabon fu una nave che si trovò ad affrontare due distinte imprese nello stesso tempo. La nave era giunta dalla Terra per compiere osservazioni a distanza ravvicinata sul membro più piccolo della stella doppia che si trovava al centro della nebulosa. La nebulosa stessa era il risultato della più titanica esplosione della quale l'uomo avesse conoscenza. L'esplosione aveva avuto luogo in un certo periodo dell'anno 2946 a.C, prima che la più antica delle sette successive città di Troia, da tempo scomparse, fosse anche soltanto immaginata. La luce di quella esplosione aveva raggiunto la Terra nell'anno 1054 d.C, ed era stata doverosamente registrata negli annali ecclesiastici, e in un modo un po' più attendibile dagli astronomi cinesi di corte. Divenne eccezionalmente luminosa, al punto da esser visibile alla luce del giorno per ventitré giorni di seguito. La sua luce... distava quattromila anni-luce... aveva superato, in luminosità apparente, quella di Venere. Da tutto ciò, novecento anni più tardi gli astronomi erano stati in grado di calcolare la violenza dell'esplosione. La materia sparata via dal centro dell'esplosione aveva viaggiato verso l'esterno a una velocità di due milioni e trecento miglia all'ora, più di trentottomila miglia al minuto, qualcosa di più di seicentotrentotto miglia al secondo. Quando i telescopi del ventesimo secolo erano stati puntati sulla scena di quest'immensa esplosione, rimanevano soltanto una stella doppia... e la nebulosa. La stella più luminosa del sistema doppio aveva caratteristiche quasi uniche, poiché aveva una temperatura superficiale così alta da non mostrare alcuna riga di assorbimento nello spettro. Aveva uno spettro continuo. La temperatura alla superficie del Sole è all'incirca di 7000 gradi assoluti. Quella della caldissima stella bianca era di 500.000 gradi. Questa stella aveva all'incirca la massa del Sole, ma soltanto un quinto del suo diametro, cosicché la sua densità era centosettantatré volte quella dell'acqua, sedici volte quella del piombo e otto volte quella dell'iridio, la sostanza più densa conosciuta sulla Terra. Ma questa densità, pur eccezionale, non raggiungeva quella di una nana bianca come la compagna di Sirio. La stella bianca nella Nebulosa del Granchio era una nana incompleta; una stella ancora nell'atto di collassare. L'esame ravvicinato di questa stella — unito alla lunga successione di fotografie prese all'interno del fascio luminoso da essa irradiato per quattromila anni di tempo e lungo una distanza di quattromila anni-luce attraverso
lo spazio in direzione della Terra — avrebbe fornito informazioni d'inestimabile valore. La Llanvabon era giunta fin lì per compiere questo esame. Ma la scoperta d'una nave aliena intenta a un'analoga missione aveva implicazioni che relegavano in secondo piano lo scopo originario della missione. Il minuscolo robot bulboso lasciato dagli alieni galleggiava nel tenue gas nebulare. Il personale operativo della Llanvabon era ai propri posti in attenta vigilanza, in preda a un crescente nervosismo. Il personale di osservazione si divise in due gruppi. Uno andò, a malincuore, a compiere le osservazioni per le quali la Llanvabon era venuta fin lì. L'altro gruppo si dedicò al problema rappresentato dalla nave aliena. La presenza di questa nave implicava una cultura che aveva conseguito il volo interstellare. L'esplosione di cinquemila anni prima doveva aver spazzato via ogni traccia di vita in tutta la porzione di spazio cosmico riempita adesso dalla nebulosa. Per cui, gli alieni della nave nera dovevano provenire da un altro sistema solare esterno alla nebulosa stessa. Il loro viaggio doveva essere stato simile a quello della nave terrestre... per puri scopi scientifici. Non c'era nient'altro che si potesse ricavare dalla nebulosa. Quindi, quegli alieni dovevano trovarsi per lo meno al livello della civiltà umana, il che significava che potevano disporre di capacità, conoscenze e merci di cui poter far commercio con gli uomini, in amicizia. Ma, fatalmente, anch'essi si sarebbero resi conto che l'esistenza dell'umanità, e il livello di civiltà da questa raggiunto rappresentavano una potenziale minaccia per la loro razza. Umani e alieni... le due razze avrebbero potuto essere amiche, ma altresì nemiche mortali. Ognuna, seppur involontariamente, rappresentava una mostruosa minaccia per l'altra. E l'unica cosa da farsi con una simile minaccia era distruggerla. Lì, nella Nebulosa del Granchio, il problema era acuto e immediato. Quel che sarebbe stato, in futuro, il rapporto tra le due razze, sarebbe stato sistemato qui e adesso. Se fosse stato possibile stabilire relazioni di amicizia, una razza, altrimenti condannata, sarebbe sopravvissuta, ed entrambe ne avrebbero beneficiato immensamente. Ma ci si doveva, prima di tutto, conoscere, e instaurare una reciproca fiducia, senza che vi fosse il più piccolo rischio di tradimento. Nessuna delle due parti osava arrischiarsi a fare una sola delle cose indispensabili ad arrivare alla fiducia. L'unica cosa certa, per entrambe le parti, era distruggere l'altra o esser distrutta. Ma anche per iniziare una guerra di distruzione totale, bisognava saperne
assai di più sull'avversario. Vista la capacità di quegli alieni di attuare viaggi interstellari, essi dovevano disporre dell'energia atomica e di qualche forma d'iperpropulsione per viaggiare più veloci della luce. E insieme ai localizzatori, alle visipiastre, e alla telecomunicazione a onde corte, dovevano per necessità disporre di moltissimi altri congegni. Che armi avevano? Fino a che punto era estesa la loro cultura? Quali erano le loro risorse? Era possibile uno sviluppo di rapporti amichevoli, di commerci, oppure le due razze erano tanto dissimili che fra esse poteva esistere soltanto la guerra? E se la pace era possibile, come si poteva cominciare? Agli uomini della Llanvabon occorrevano fatti... e occorrevano fatti anche all'equipaggio dell'altra nave. Ognuna delle due parti doveva portare indietro con sé ogni possibile frammento d'informazione. L'informazione più importante di tutte sarebbe stata l'esatta ubicazione dell'altra civiltà, nel caso in cui vi fosse stata guerra. Ma anche altre notizie sarebbero state ugualmente preziose. Il fatto più tragico era però che non poteva esserci nessuna possibile informazione in grado di condurre alla pace. Nessuna delle due navi era pronta a rischiare la sopravvivenza della propria razza basandosi su una dichiarazione di buona volontà o sulla parola d'onore dell'altra. Così, era una ben strana tregua quella in atto fra le due navi. Sia quella aliena che la Llanvabon continuarono la loro attività di osservazione. Il piccolo robot sferico galleggiava nel vuoto luminoso. Una telecamera della Llanvabon era messa a fuoco su una visipiastra aliena, e viceversa. Le comunicazioni ebbero inizio. E progredirono in fretta. Tommy Dort fu tra quelli che fecero il primo rapporto sui progressi in corso. Il suo compito specifico in quella spedizione era terminato; adesso gli era stato affidato il compito di lavorare al problema della comunicazione con le entità aliene. Si recò insieme all'unico psicologo della nave fino alla cabina del capitano, per comunicargli la notizia del primo successo conseguito. La cabina del capitano era come sempre un luogo di silenzio e le luci rosso-cupo degli indicatori occhieggiavano tra le grandi visipiastre disposte sulle pareti e sul soffitto. «Abbiamo stabilito un contatto abbastanza soddisfacente, signore», riferì lo psicologo. Aveva un aspetto stanco; il suo lavoro, durante tutto il viaggio, avrebbe dovuto consistere nel valutare i fattori individuali di errore nel personale di osservazione, portando l'attendibilità di tutti i dati ottenuti sempre più in là, un decimale dopo l'altro, verso l'esattezza assoluta. Quel nuovo incarico, al quale non era adatto, gli era stato imposto quasi a forza,
e cominciava a risentirne gli effetti deleteri. «In altre parole, siamo in grado di dir loro quasi tutto ciò che vogliamo, facendoci capire, ed essere ugualmente in grado di capire ciò che ci dicono in risposta. Ma, com'è ovvio, non sappiamo quanto ci sia di vero in quello che ci dicono». Gli occhi del comandante si appuntarono su Tommy Dort. «Abbiamo collegato alcune apparecchiature», riferì Tommy, «forrealizzando un traduttore automatico. Disponiamo di visipiastre, naturalmente, e altresì di fasci direzionali di onde corte. Essi usano la modulazione di frequenza, più una variazione del profilo d'onda che, probabilmente, equivale alla successione dei suoni delle vocali e delle consonanti nel discorso. È qualcosa di nuovo, per noi, perciò non disponiamo di circuiti in grado di registrarlo; abbiamo comunque elaborato una specie di codice, che non è la lingua di nessuno di noi. Loro trasmettono su onde corte in modulazione di frequenza, e noi lo registriamo come suono. Quando noi trasmettiamo suoni, vengono convertiti in modulazione di frequenza». Il comandante disse, corrugando la fronte: «Come avete fatto ad accorgervi della variazione del profilo delle onde corte, se non possiamo registrarla?» «Gli abbiamo mostrato il nostro registratore nelle visipiastre, e gli alieni ci hanno fatto vedere il loro. Registrano direttamente la modulazione di frequenza. Credo», aggiunse Tommy, soppesando le parole, «che non usino affatto i suoni, neppure per parlare tra loro. Hanno montato una vera e propria cabina di comunicazione, e noi li abbiamo osservati mentre comunicavano con noi. Non c'è stato nessun movimento percettibile di qualcosa che assomigliasse a un organo vocale. Invece che a un microfono, essi si tengono vicini a qualcosa che dovrebbe funzionare come un'antenna. La mia ipotesi, signore, è che usino microonde per quella che si potrebbe definire una comunicazione tra individuo e individuo. Credo che producano pacchetti di onde corte allo stesso modo in cui noi produciamo suoni». Il comandante lo fissò: «Questo vorrebbe dire, forse, che possiedono la telepatia?» «Mmmm... sì, signore», annuì Tommy. «E significa che anche noi possediamo la telepatia, dal loro punto di vista. Essi, certo, ignorano il concetto della produzione di onde sonore nell'aria per comunicare. Semplicemente, non usano né suoni né rumori per nessuno scopo». Il comandante assimilò l'informazione, poi la mise da parte. «Qualcos'altro?» «Be', signore...» fece Tommy, dubbioso, «credo che tutto sia pronto, a-
desso. Abbiamo concordato dei simboli arbitrari per ogni singolo oggetto, tramite le visipiastre, e abbiamo altresì elaborato rapporti tra i vari oggetti, verbi e così via, tramite diagrammi e immagini. Ora abbiamo un vocabolario di duemila parole che hanno un significato reciproco. Abbiamo installato un analizzatore dei loro pacchetti d'onda corta, che abbiamo collegato a una macchina decodificatrice. La sezione codificante di questa macchina sceglie poi tra le registrazioni per tradurre nei loro pacchetti d'onda, e ritrasmetterli, ogni nostro messaggio. Lei può parlare col comandante dell'altra nave anche subito, signore. Noi siamo pronti». «Uhmmm... Qual è la sua impressione circa la loro psicologia?» Il comandante si era rivolto allo psicologo. «Non saprei, signore», rispose questi, preoccupato. «Sembrano del tutto sinceri. Ma non hanno lasciato trapelare neppure un po' della tensione che, sappiamo, deve senz'altro esistere laggiù. Si comportano come se stessero semplicemente installando un mezzo di comunicazione tra amici. Ma c'è... be'... c'è una sfumatura...» Quello psicologo si era sempre mostrato in gamba quando si era trattato di valutare la psicologia degli umani, una cosa assai bella e utile. Ma non era attrezzato per analizzare uno schema di pensiero del tutto alieno. «Se posso permettermi, signore...» disse Tommy, a disagio. «Sì?» «Respirano ossigeno», proseguì Tommy. «E non sono molto diversi da noi anche sotto altri aspetti. Mi sembra, signore, che vi sia stata un'evoluzione parallela. Forse l'intelligenza si evolve in linee parallele proprio come... si... le funzioni basilari del corpo. Voglio dire», puntualizzò, «qualunque essere vivente, di qualunque tipo, deve ingerire, metabolizzare ed espellere. E forse, allo stesso modo, ogni cervello intelligente deve percepire, valutare e avere reazioni personali. Sono sicuro di aver percepito dell'ironia. Ciò implica anche l'esistenza di umorismo. In breve, signore, penso che possano rivelarsi creature piacevoli». Il comandante si alzò in piedi. «Hmmm...» fece, pensieroso, «vedremo quello che hanno da dire». S'incamminò verso la cabina di comunicazione. Il trasmettitore d'immagini collegato al robot alieno era pronto, e il comandante si piazzò davanti ad esso. Tommy Dort si sedette alla macchina codificatrice e cominciò a battere sui tasti. Ne uscirono dei rumori del tutto improbabili che entrarono in un microfono e qui modularono la frequenza d'un segnale inviato all'altra astronave attraverso lo spazio. Quasi subito la visipiastra del robot sfe-
rico si accese, mostrando l'interno illuminato dell'altra nave. Un alieno si portò davanti all'obbiettivo e sembrò guardar fuori, in attesa, dalla visipiastra. La sua somiglianza con un essere umano era sbalorditiva. Ma non era umano. Era completamente calvo, e li fissò con uno sguardo schietto, con una vaga ombra ironica. «Vorrei dire», cominciò il comandante, con voce grave, «le cose giuste, in questo primo contatto fra due differenti razze civilizzate, ed esprimere la speranza che tra i nostri due popoli s'instauri un rapporto d'amicizia». Tommy Dort esitò, poi scrollò le spalle e batté con mano esperta sulla codificatrice. Altri improbabili rumori. Il comandante alieno ricevette il messaggio. Fece un gesto di assenso, anche se non del tutto convinto. Il decodificatore sulla Llanvabon prese a ronzare e una successione di schede, una per parola, cadde giù in bell'ordine formando il messaggio in risposta nell'apposito riquadro. Tommy annunciò, con voce incolore: «Signore, sta dicendo: "Tutto ciò suona bene, ma c'è un sistema che permetta a entrambi di tornare a casa vivi? Sarei felice se lei mi potesse descrivere un simile sistema, nel caso sia riuscito a idearlo. Al momento, mi pare inevitabile che uno di noi due debba essere ucciso"». La confusione era al colmo. C'erano troppe domande che avrebbero dovuto trovar subito una risposta. Ma nessuno poteva rispondere a tutte. Eppure, bisognava. La Llanvabon avrebbe potuto ripartire verso casa. La nave aliena poteva essere in grado, oppure no, di moltiplicare la velocità della luce per una unità in più rispetto al vascello terrestre. Se era in grado di andar più veloce, la Llanvabon avrebbe finito per arrivare abbastanza vicina alla Terra, rivelando la sua destinazione, e qui esser costretta a combattere. Avrebbe vinto, oppure no. Ma anche se avesse vinto, gli alieni potevano disporre d'un sistema di comunicazione grazie al quale informare il loro pianeta d'origine, prima dell'inizio della battaglia, di dov'era situata la base di partenza della Llanvabon. Ma la nave dei terrestri avrebbe anche potuto venire sconfitta. E se il suo destino era quello di finire distrutta, allora sarebbe stato meglio che ciò avvenisse qui, dove non avrebbe fornito nessun indizio circa la zona di spazio in cui gli esseri umani avrebbero potuto esser trovati da una flotta da guerra aliena, preavvertita e armata fino ai denti. Ma... la nave nera si trovava esattamente nell'identica situazione. Anch'essa avrebbe potuto ripartire verso casa. Ma la Llanvabon poteva rive-
larsi più veloce e tallonarla (la traccia lasciata da un campo iperpropulsivo non era affatto difficile da seguirsi, se ci si metteva all'opera con prontezza e con gli strumenti adatti). Inoltre, anche gli alieni non potevano sapere se la Llanvabon era in grado di far rapporto alla sua base di partenza anche da quell'immensa distanza. E se c'era una forte probabilità di venir distrutti, anche gli alieni avrebbero preferito combattere là nella nebulosa, piuttosto che far da guida a un probabile nemico fino al cuore della propria civiltà. Quindi, nessuna delle due navi poteva pensare di fuggire. Era possibile che la nave nera conoscesse la rotta della Llanvabon all'interno della nebulosa, ma questa era una curva logaritmica, e poteva esser seguita all'indietro, questo è vero, ma senza conoscere il punto esatto in cui la curva aveva avuto inizio, era impossibile conoscere la direzione da cui la nave dei terrestri era arrivata attraverso la Galassia. Per il momento, dunque, le due navi erano alla pari. Ma la domanda era, e restava: «E adesso?» Non c'era nessuna risposta specifica. Gli alieni scambiavano informazioni al ritmo di una data per una ricevuta — e non sempre sembravano rendersi conto di quali informazioni in realtà stessero dando. Anche per gli umani si procedeva al ritmo di un'informazione data per una ricevuta — e Tommy Dort sudava sangue per l'ansia di non fornire nessun indizio circa l'ubicazione della Terra. Gli alieni vedevano alla luce infrarossa, e le visipiastre e le telecamere degli umani e degli alieni dovevano far variare le rispettive frequenze di trasmissione di un'intera ottava all'insù o all'ingiù perché le immagini trasmesse dall'una all'altra nave fossero reciprocamente visibili. Agli alieni non venne in mente che le caratteristiche della loro vista rivelavano che il loro sole era una nana rossa, il cui massimo di radiazione si trovava a una frequenza appena al di sotto di quella minima visibile agli occhi umani. Ma non appena sulla Llanvabon ci si congratulò per questa brillante deduzione, ci si rese conto che anche gli alieni, in base al tipo di radiazione cui erano sensibili gli occhi umani, potevano aver dedotto il tipo di luce irradiato dal Sole. C'era un congegno per la registrazione dei pacchetti d'onde corte che veniva usato correntemente tra gli alieni, così come gli uomini usavano i registratori di suoni. Gli umani bramavano averlo a tutti i costi. E allo stesso modo gli alieni erano affascinati dai misteri del suono. Naturalmente, gli alieni erano, si, in grado di percepire i suoni, ma allo stesso modo in cui il palmo della mano di un uomo percepisce la luce infrarossa attraverso la sensazione del calore, ma non riuscivano a distinguere l'altezza di un suo-
no, o il timbro, più di quanto un uomo sia capace di distinguere fra due frequenze di radiazione termica, anche se separata da una mezza ottava. Per quegli alieni, la scienza umana dei suoni era una straordinaria scoperta. Avrebbero trovato usi, per i rumori, che gli umani non si sarebbero mai sognati... se fossero sopravvissuti. Ma quello era un problema secondario. Nessuna delle due navi poteva partire se prima non avesse distrutto l'altra. Ma, mentre il flusso delle informazioni continuava, nessuna delle due navi poteva permettersi di distruggere l'altra. C'era altresì la faccenda del colore esterno delle due navi. La Llanvabon risplendeva, all'esterno, come uno specchio; la nave aliena era d'un nero tenebroso alla luce visibile. Assorbiva perfettamente il calore, e avrebbe dovuto irradiarlo con altrettanta prontezza. Ma non era così. Quel rivestimento nero non la rendeva equivalente a un «corpo nero», non era, cioè, una mancanza assoluta di «colore». In realtà, era una perfetta superficie riflettente per certe lunghezze d'onda infrarosse; altre, a una frequenza più alta, le assorbiva, convertendone una parte a una frequenza più bassa, di frequenza uguale alle radiazioni riflesse. Grazie a questa sorta di «fluorescenza» nell'infrarosso, la nave aliena si garantiva un perfetto equilibrio termico e manteneva costante la temperatura interna anche lì, nel vuoto. Tommy Dort stava duramente sgobbando alla sezione comunicazioni. Non trovava i processi mentali degli alieni talmente alieni da non riuscire a seguirli. Le discussioni tecniche, ora, avevano raggiunto lo stadio della navigazione interstellare. Per illustrare le rispettive tecniche era necessaria una mappa stellare. Naturalmente, non era certo il caso di procurarsi una mappa presa dalla sala delle carte della Llanvabon, poiché gli alieni, studiandola, avrebbero potuto senz'altro scoprire il punto dal quale la mappa era stata proiettata. Tommy, perciò, si era confezionato una mappa nuova di zecca con immagini stellari immaginarie ma convincenti riprodotte su di essa. Trasmise, quindi, le istruzioni per l'interpretazione attraverso la codificatrice. In cambio, gli alieni presentarono una propria mappa stellare alla visipiastra del robot sferico. Copiatala all'istante a mezzo fotografia, gli ufficiali della Llanvabon si misero subito a lavorarci sopra, cercando di calcolare da quale punto della Galassia le costellazioni sarebbero apparse in quel modo. La mappa li lasciò assai perplessi. Fu Tommy che finì per rendersi conto che anche gli alieni avevano realizzato una mappa stellare posticcia per quella dimostrazione... un'immagi-
ne speculare della finta mappa che lui stesso aveva propinato loro poco prima. A questa constatazione, Tommy sogghignò. Quegli alieni cominciavano a piacergli. Non erano umani. Ma avevano un senso molto umano dell'umorismo. A un certo punto, Tommy tentò una battuta di spirito. Dovette venir tradotta in codice, e poi trasformata in una successione di pacchetti d'onde corte, a modulazione di frequenza, questi pacchetti furono trasmessi all'altra nave, e qui Dio soltanto sapeva attraverso quali altri congegni si trovarono costretti a passare per diventare intelligibili. Non sembrava proprio che una battuta di spirito, costretta a passare attraverso tante formalità, avesse molte possibilità di sembrar divertente ai destinatari. Ma gli alieni riuscirono ugualmente a capirla. Per uno di quegli alieni l'uso del trasmettitore divenne una funzione normale almeno quanto era diventato per Tommy l'uso della codificatrice. Tra l'umano e il suo equivalente alieno si sviluppò ben presto una paradossale amicizia che ambedue svilupparono conversando tra loro tramite codificatrice, decodificatore e pacchetti d'onde corte a modulazione di frequenza. Quando le questioni tecniche nei rispettivi messaggi cominciarono a farsi troppo impegnative, quell'alieno a volte ci buttava dentro delle sue personali interpretazioni in una sorta di slang... e molto spesso era proprio quest'intercalare alla buona che chiariva i punti di maggior confusione. Tommy, per nessun particolare motivo, aveva registrato in codice il nome «Daino», che il decodificatore ora sceglieva ogni volta che quel particolare alieno firmava un messaggio col proprio simbolo. Durante la terza settimana di comunicazioni, il decodificatore esibì all'improvviso a Tommy, nell'apposito riquadro, il messaggio: Sei un bravo tipo. Peccato che dobbiamo ucciderci - DAINO. Tommy, che aveva pensato la stessa cosa, batté la sua amara risposta: Non riusciamo a vedere una via d'uscita. E voi? Vi fu una pausa, poi si formò un altro messaggio: Se potessimo fidarci l'uno dell'altro, si. Al nostro comandante piacerebbe. Ma non possiamo fidarci di voi, e voi non potete fidarvi di noi. Ma ci dispiace - DAINO.
Tommy Dort portò i messaggi al comandante. «Guardi qua, signore!» disse, affannato. «Questa gente è quasi umana. Sono dei tipi simpatici». Il comandante era impegnato nel suo importante compito di pensare alle cose di cui preoccuparsi, e se ne preoccupava. Replicò, stancamente: «Respirano ossigeno. La loro aria ha il ventotto per cento di ossigeno, ma potrebbero cavarsela molto bene anche sulla Terra. Per loro il nostro pianeta sarebbe una preziosa conquista. E non sappiamo ancora quali armi abbiano, né di che cosa sono capaci. Lei gl'insegnerebbe la strada per la Terra?» «È probabile che loro la pensino allo stesso modo», aggiunse il comandante, asciutto. «E se anche riuscissimo a stabilire un contatto amichevole, per quanto tempo resterebbe amichevole? Se le loro armi fossero inferiori alle nostre, penserebbero di doverle migliorare per la loro stessa sicurezza. E noi, sospettando la loro intenzione di ribellarsi, li schiacceremmo non appena ci fosse possibile... per motivi di sicurezza! E se fossero le nostre armi ad essere inferiori, sarebbero loro a doverci liquidare prima che potessimo metterci alla pari!» Tommy non aveva replicato, ma si agitava inquieto. «Se distruggessimo questa nave aliena e ce ne tornassimo a casa», disse ancora il comandante, «il governo della Terra ci farebbe oggetto del suo biasimo se non sapessimo dirgli da dove provenivano. Ma cosa possiamo fare? Potremo chiamarci fortunati se riusciremo a ritornare vivi, con l'annuncio di questa civiltà aliena. Non è possibile estrarre da queste creature più informazioni di quante noi stessi gliene diamo, e certo noi non gli daremo il nostro indirizzo! Ci siamo imbattutti in loro per caso. Forse, se distruggessimo questa nave, non ci sarà un altro contatto per altri mille anni. E sarebbe un peccato, perché tutti gli scambi possibili con loro potrebbero significare tanto! «Ma bisogna essere in due per fare la pace, e noi non possiamo rischiare di fidarci di loro. L'unica risposta è ucciderli, se possiamo, e se non possiamo, accertarci che quando ci uccideranno, non scoprano niente che possa condurli fino alla Terra. Non mi piace», concluse il comandante, desolato, «ma, semplicemente, non c'è nient'altro da fare!» Sulla Llanvabon i tecnici lavoravano frenetici, divisi in due gruppi: uno si preparava per la vittoria, l'altro per la sconfitta. Quelli che lavoravano
per la vittoria potevano far poco. I fulminatori principali erano le uniche armi che dessero qualche affidamento. Le loro incastellature furono modificate così da non essere più fisse, con soli cinque gradi di gioco come erano state finora. Adesso, collegate grazie a dei sistemi elettronici a una centrale automatica, a sua volta comandata da un localizzatore radar, avrebbero tenuto i fulminatori esattamente puntati con assoluta precisione su un dato bersaglio, qualunque manovra questo tentasse per disimpegnarsi. Inoltre, in sala-motori, un genio fino a quel momento misconosciuto, aveva congegnato un sistema di accumulatori grazie al quale l'intera energia normalmente prodotta dai motori della nave poteva essere temporaneamente immagazzinata e liberata a straripanti bordate. Almeno teoricamente, la portata dei fulminatori ne risultava moltiplicata e le loro capacità distruttive portate a livelli assai maggiori... Ma non c'era granché di più che si potesse fare. Il gruppo per la sconfitta aveva assai più spazio per manovrare. Le mappe stellari, gli strumenti di navigazione che contenevano indicazioni rivelatrici, le registrazioni fotografiche che Tommy Dort aveva realizzato durante i sei mesi di viaggio dalla Terra, e qualunque altra cosa che potesse offrire indizi sull'ubicazione della Terra nella Galassia, furono approntati per la distruzione. Furono posti in armadi chiusi ermeticamente, i quali, aperti da qualcuno che non conoscesse tutte le fasi del corretto procedimento per farlo, avrebbero trasformato in cenere il loro contenuto in una sola vampata, soffiando via le ceneri in modo che non fosse possibile ricostruire niente da esse. Naturalmente, se la Llanvabon fosse uscita vittoriosa, esisteva il metodo — tenuto prudentemente segreto — per aprirli in tutta sicurezza. Delle bombe atomiche furono piazzate lungo tutto lo scafo della nave. Se l'equipaggio umano fosse rimasto completamente ucciso senza che la nave andasse distrutta, quelle bombe sarebbero scoppiate non appena la Llanvabon fosse stata arpionata e portata al fianco dello scafo alieno. Non che ci fossero delle bombe atomiche già pronte a bordo, ma la nave disponeva di cartucce di riserva di combustibile nucleare e non fu difficile riadattarle in modo che, una volta attivate, invece di liberare un flusso graduale d'energia, esplodessero. E quattro uomini del personale operativo della nave terrestre rimanevano sempre in tuta spaziale, coi caschi chiusi, per continuare a combattere contro la nave aliena nel caso in cui lo scafo della Llanvabon fosse stato perforato da prua a poppa in un attacco improvviso. Un simile attacco, tuttavia, non sarebbe avvenuto a tradimento. Il co-
mandante alieno aveva parlato con franchezza. I suoi modi erano quelli d'un individuo che mal giudicava le bugie, ammettendone l'inutilità. A loro volta, la Llanvabon e il suo comandante sostenevano, scandendo ogni parola, le virtù della franchezza. Ognuna delle due parti insisteva — e forse era sincera — di desiderare l'amicizia fra le due razze. Ma nessuna delle due parti poteva fidarsi che l'altra, proprio mentre diceva questo, non stesse invece facendo ogni sforzo per scoprire proprio quell'unica cosa che a tutti i costi bisognava nascondere: l'ubicazione del pianeta d'origine dell'altra nave. E nessuna delle due navi osava credere che l'altra fosse incapace di seguirla per tutto il viaggio di ritorno, e scoprirlo. Poiché ognuna delle due parti sentiva che era suo dovere compiere proprio quest'atto, inaccettabile dall'altra, nessuna delle due poteva rischiare la sopravvivenza della propria gente mostrandosi fiduciosa. Dovevano combattere, poiché non potevano fare nient'altro. Potevano procrastinare l'inizio della battaglia scambiandosi informazioni. Ma c'era un limite alla quantità e al tipo d'informazioni che si potevano offrire. Né gli uni né gli altri avrebbero dato informazioni sulle armi, sull'entità e la distribuzione della popolazione e delle risorse. Non sarebbe mai stata rivelata neppure la distanza dei propri mondi d'origine dalla Nebulosa del Granchio. Certo, si scambiarono parecchie informazioni, ma sapevano che tutto era destinato a concludersi con una battaglia all'ultimo sangue, e ognuna delle due parti si affannava a dipingere la propria civiltà come dotata d'una straripante potenza, per intimorire l'altra e dissuaderla da ogni prospettiva di conquista; in tal modo i terrestri apparivano sempre più minacciosi agli alieni, e viceversa, e la battaglia finale era resa sempre più inevitabile. Tuttavia, era curioso come questi cervelli alieni potessero colloquiare, intrecciarsi fra loro, capirsi... Tommy Dort, continuando a sudare tra codificatrice e decodificatore, vide emergere qualcosa d'inconfondibile, di personale, da quella che all'inizio era soltanto un'accozzaglia ampollosa di parole-scheda, Tommy aveva visto gli alieni soltanto alla visipiastra, e anche così in una luce dalla frequenza spostata di un'ottava rispetto alla luce alla quale essi vedevano. E gli alieni, a loro volta, lo vedevano anch'essi in una maniera strana, in una luce spostata di un'ottava rispetto a quello che, per i loro occhi, sarebbe stato il lontano ultravioletto. Ma il cervello umano e quello alieno funzionavano allo stesso modo. In maniera sbalorditivamente uguale. Tommy Dort provava simpatia, anzi, qualcosa di molto simile all'amicizia, per quelle creature della nave spaziale nera, calve, con una loro
asciutta ironia, e che respiravano, com'era stato appurato, tramite branchie. Spinto da quella affinità mentale, preparò — anche senza nessuna speranza — una specie di tabella con tutti gli aspetti del problema che si trovavano ad affrontare. Non era affatto convinto che quegli alieni avessero l'istintivo desiderio di distruggere l'uomo. In effetti, l'analisi approfondita delle comunicazioni che continuavano a giungere dagli alieni aveva finito per creare, sulla Llanvabon, un sentimento di tolleranza non dissimile da quello che aveva quasi sempre finito per crearsi, sulla Terra, fra i soldati nemici durante una tregua. Gli uomini non provavano nessun sentimento d'inimicizia, e con tutta probabilità neppure gli alieni. Ma dovevano uccidere, o essere uccisi, a causa d'una logica implacabile. La tabella di Tommy era assai dettagliata. Fece una lista degli obbiettivi che gli umani miravano a conseguire, in ordine d'importanza. Il primo era senz'altro quello di portare indietro, sulla Terra, la notizia dell'esistenza della cultura aliena. Il secondo, era l'esatta localizzazione di quella cultura aliena in un preciso pianeta della Galassia. Il terzo era riportare indietro il maggior numero possibile d'informazioni su quella cultura. Sul terzo ci stavano lavorando sopra, ma il secondo era probabilmente impossibile. Il primo sarebbe dipeso dal risultato che doveva aver luogo. Gli obbiettivi degli alieni sarebbero stati esattamente gli stessi, cosicché gli uomini dovevano impedire, primo, che la notizia dell'esistenza della civiltà della Terra fosse riportata indietro da essi sul loro pianeta natale; secondo, che gli alieni scoprissero la posizione della Terra; e, terzo, l'acquisizione da parte degli alieni d'informazioni che li potessero incoraggiare e aiutare ad attaccare l'umanità. Ma anche in questo caso il terzo punto era in corso, del secondo si stavano con tutta probabilità occupando, e il primo doveva aspettare la battaglia. Non c'era nessuna possibilità di evitare l'amara necessità di distruggere la nave nera. E anche gli alieni non avrebbero visto nessun'altra soluzione del loro problema se non la distruzione della Llanvabon. Ma Tommy Dort, contemplando mesto la tabella si rese conto che neppure la vittoria completa sarebbe stata la soluzione perfetta. L'ideale sarebbe stato che la Llanvabon portasse con sé la nave nera per poterla studiare. Soltanto in questo modo il terzo obbiettivo sarebbe stato realizzato in pieno. Ma Tommy si rese conto di odiare l'idea d'una vittoria così completa, anche se fosse stata possibile. Odiava l'idea di dover uccidere delle creature, anche se erano non-umane e perfettamente in grado di afferrare il concetto di esseri umani che allestivano una flotta da combattimento per distruggere una cultura a-
liena in quanto la sua esistenza rappresentava un pericolo. Il puro caso di quell'incontro, sia pure tra gente che avrebbe potuto provar simpatia l'una per l'altra, aveva creato una situazione che poteva sfociare soltanto nella distruzione totale. Tommy Dort era amareggiato nei confronti del proprio cervello che si mostrava incapace di trovare una risposta in grado di funzionare. Ma doveva esserci una risposta! La posta in gioco era troppo grossa! Era troppo assurdo che due navi spaziali dovessero combattere — e nessuna delle due era stata concepita per farlo — cosicché il sopravvissuto riportasse indietro la notizia che avrebbe indotto la sua razza a compiere frenetici preparativi contro l'altra che non era stata in nessun modo avvertita. Tuttavia, se entrambe le razze fossero state avvertite, e ciascuna delle due avesse saputo che l'altra non voleva combattere, e se avessero potuto comunicare l'una con l'altra ma non localizzarsi a vicenda finché non fosse stato trovato un terreno per la reciproca fiducia... Era impossibile. Era una chimera. Era un sogno a occhi aperti. Era una sciocchezza. Ma era una sciocchezza tanto attraente che Tommy Dort, con una punta d'amaro, la trasferì nella codificatrice per comunicarla al suo amico Daino che respirava con le branchie e in quel momento si trovava a qualche centinaio di migliaia di miglia di distanza, in mezzo alla nebbiosa luminosità della nube. «Certo», rispose Daino, nelle schede-parole che guizzarono al loro posto nel riquadro del decodificatore. «È un bel sogno. Ma anche se mi sei simpatico non posso ancora crederti. Se l'avessi detto io per primo, mi troveresti simpatico ma neppure tu mi crederesti. Io ti dico la verità più di quanto tu creda, e forse tu mi dici la verità più di quanto io ti creda. Ma non c'è nessun modo di esserne certi. Mi spiace». Tommy Dort fissò con tristezza il messaggio. Avvertiva uno sgradevolissimo, orribile senso di responsabilità. Tutti l'avvertivano sulla Llanvabon. Se avessero fallito in quell'incontro, la razza umana avrebbe avuto un'ottima probabilità d'essere sterminata in un prossimo futuro. Se invece avessero avuto successo, sarebbe stata con ogni probabilità la razza degli alieni che si sarebbe trovata ad affrontare la distruzione. Milioni e milioni di vite dipendevano dalle azioni di pochi uomini. Fu allora che Tommy Dort vide la risposta. Sarebbe stato incredibilmente semplice, se avesse funzionato. Nel peggiore dei casi avrebbe dato una vittoria parziale all'umanità e alla Llanvabon. Tommy restò seduto, immobile, non osando compiere il minimo mo-
vimento per timore che ciò potesse spezzare la catena di pensieri che era seguita a quella prima, tenue idea. La rimuginò tra sé più volte, in preda a una crescente eccitazione, trovando qua delle obiezioni e risolvendole, e là delle impossibilità, e superandole. Era la risposta! Ne era più che convinto. Quando imboccò il corridoio che conduceva alla cabina del comandante e chiese il permesso di parlare, si sentì quasi stordito dal sollievo. Una delle funzioni del comandante, fra le molte, è quella di cercare le cose di cui preoccuparsi. Ma il comandante della Llanvabon non aveva certo bisogno di andarsele a cercare, le sue preoccupazioni. Durante le tre settimane e quattro giorni da quando c'era stato il primo contatto con la nave nera aliena, il volto del comandante era invecchiato e si era coperto di rughe. Non doveva preoccuparsi per la sola Llanvabon, ma per tutta l'umanità. «Signore», disse Tommy Dort, la gola secca a causa della schiacciante importanza di ciò che stava per riferire. «Posso proporle un modo per impadronirsi della nave nera? L'intraprenderò io stesso, signore, e se non dovesse funzionare, la nostra nave non ne uscirà indebolita». Il comandante lo fissò senza vederlo. «Ogni tattica possibile è già stata elaborata, signor Dort», replicò, in tono grave. «Ora vengono tutte perforate su nastro, perché la nave possa usufruirne. È un terribile rischio, ma bisogna correrlo». «Credo», insisté Tommy, calcando le parole, «di aver escogitato un modo per eliminare il rischio. Supponga, signore, che inviamo un messaggio all'altra nave, offrendo...» La sua voce continuò, nel silenzio totale della cabina del comandante, con le visipiastre che mostravano soltanto una vasta nebulosità all'esterno e le due stelle che ardevano feroci nel cuore della nube. Il comandante in persona passò attraverso la camera di equilibrio insieme a Tommy. Per un motivo, l'azione suggerita da Tommy richiedeva l'appoggio della sua autorità. Per un altro, il comandante si era preoccupato con più intensità di chiunque altro, là sulla Llanvabon, e la cosa l'aveva stancato. Se fosse andato con Tommy, lui stesso si sarebbe preso il carico e la responsabilità dell'atto; se avesse fallito, sarebbe stato il primo a restare ucciso, ma il nastro con tutte le manovre in dettaglio della nave terrestre era già stato dato in pasto al sincronizzatore principale. Se. Tommy e il comandante fossero rimasti uccisi, sarebbe bastato schiacciare un solo pulsante per scagliare la Llanvabon nel più furioso di tutti gli attacchi totali, destinato a concludersi con la completa distruzione della nave terrestre o di
quella aliena... o di entrambe. Così, il comandante non aveva disertato il suo posto. Il portello esterno della camera di equilibrio si spalancò, aprendosi su quel vuoto splendente che era la nebulosa. A venti miglia di distanza il piccolo robot nero era sospeso nello spazio, alla deriva in un'incredibile orbita intorno ai soli gemelli centrali, e galleggiando sempre più vicino ad essi. Naturalmente, non avrebbe mai raggiunto nessuno dei due. La stella bianca da sola era talmente più calda del Sole della Terra che la sua vampa termica avrebbe riscaldato un oggetto alla stessa temperatura di quella media dell'atmosfera terrestre perfino a una distanza quintupla di quella di Nettuno dal Sole. Anche trovandosi a una distanza pari a quella di Plutone dal Sole il piccolo robot sarebbe diventato rosso come una ciliegia per il calore irradiato dall'avvampante nana bianca. E non poteva certo avvicinarsi a soli centocinquanta milioni di chilometri, che sono all'incirca la distanza della Terra dal Sole: così vicino, il suo metallo si sarebbe fuso, ribollendo sempre più e fuggendo via sotto forma di vapore. Ma, a mezzo anno-luce di distanza dalla stella doppia, il bulboso oggetto nero ondeggiava tranquillo nel vuoto. Le due figure in tuta spaziale si librarono allontanandosi sulla Llanvabon. I piccoli propulsori atomici che facevano di esse delle piccole astronavi autonome avevano subìto delle modifiche accortamente studiate e inappariscenti all'esterno, ma che non interferivano col loro funzionamento. Puntarono verso il robot comunicatore. Il comandante, una volta là fuori, nello spazio, disse burbero: «Signor Dort, durante tutta la mia vita ho bramato l'avventura. Questa è la prima volta che ne vivo una autentica». La sua voce giunse a Tommy attraverso gli auricolari spaziofonici. A sua volta, Tommy s'inumidì le labbra e rispose: «A me non sembra una avventura, signore. Io voglio fortissimamente che il piano vada in porto. Credo che si possa parlare di avventura quando del suo esito non ci importa poi tanto». «Oh, no», ribatté il comandante. «C'è avventura quando si butta la propria vita sulla bilancia della fortuna e si guarda dove l'ago si arresta». Raggiunsero il robot sferico. Si aggrapparono alle sue corte corna sormontate dai sensori. «Intelligenti queste creature», dichiarò il comandante con voce grave. «Devono disperatamente voler vedere qualcosa di più della nostra nave, oltre alla sola cabina delle comunicazioni, per aver acconsentito a questo scambio di visite prima della battaglia».
«Sì, signore», annuì Tommy. Ma dentro di sé sospettava che Daino, il suo amico che respirava con le branchie, volesse veder lui in carne e ossa, prima che uno di loro, o tutti e due, morissero. E gli parve che tra le due navi avesse preso forma un preciso rituale di cortesie, come quello tra due antichi cavalieri prima d'un torneo, quando si esprimevano l'un l'altro una sincera ammirazione prima di colpirsi con tutte le armi e i colpi a disposizione. Attesero. Poi, altre due figure uscirono dalla nebbia: due alieni anch'essi in tute spaziali munite di propulsori. Gli alieni erano più corti degli umani, e le visiere dei loro caschi erano schermate da filtri che escludevano i raggi visibili e gli ultravioletti, che per loro sarebbero stati letali. Non si distingueva niente più, delle loro teste, che un vago profilo. Il telefono nel casco di Tommy disse, dalla sala comunicazioni della Llanvabon: «Dicono che la loro nave la sta aspettando, signore. La camera d'equilibrio sarà aperta». La voce del comandante disse a sua volta, in tono grave: «Signor Dort, Lei aveva già visto le loro tute spaziali? Se è così, è sicuro che non stiano trasportando qualcosa di extra, ad esempio bombe?» «Sì, signore», rispose Tommy. «Ci siamo mostrati il nostro reciproco equipaggiamento per lo spazio. Ora, non si vede altro che roba normale, regolare». Il comandante fece un gesto ai due alieni. Lui e Tommy Dort continuarono il tuffo verso la nave nera. A occhio nudo non riuscivano a distinguere la nave con molta chiarezza, ma dalla sala comunicazioni giungevano continuamente le istruzioni per ogni cambiamento di direzione. La nave nera si profilò infine sopra di loro. Era gigantesca, lunga quanto la Llanvabon ma molto più grossa. La camera di equilibrio era aperta. I due uomini in tuta spaziale entrarono e si ancorarono al pavimento con le suole magnetiche degli stivali. Il portello esterno si chiuse. Si udì il sibilo dell'aria che entrava e allo stesso tempo fu innestata la gravità artificiale. Poi, il portello interno si aprì. Tutto era tenebra. Tommy accese la lampada del suo casco nel medesimo istante del comandante. Poiché gli alieni vedevano nell'infrarosso, una luce bianca sarebbe stata per loro insopportabile. Perciò le luci nei caschi dei due uomini erano rosso-cupo, quello stesso che veniva impiegato per illuminare i pannelli della "strumentazione, così da non abbacinare occhi che non sopportavano neppure la più piccola scintilla di luce bianca in una
visipiastra. C'erano alcuni alieni che li stavano aspettando. Ammiccarono più volte alla luce delle lampade dei caschi. I ricevitori del telefono spaziale dissero all'orecchio di Tommy: «Signori, stanno dicendo che il loro comandante l'aspetta». Tommy e il comandante si trovavano in un lungo corridoio dal pavimento cedevole. Le loro luci mostravano una gran quantità di dettagli strani. «Credo che aprirò il mio casco, signore», annunciò Tommy. Lo fece. L'aria era buona. Stando alle analisi, la percentuale d'ossigeno doveva toccare il trenta per cento rispetto al venti dell'atmosfera terrestre, ma la pressione era minore. Nel complesso, pareva senz'altro adatta a polmoni umani. Anche la gravità artificiale era inferiore a quella mantenuta a bordo della Llanvabon. Il pianeta d'origine degli alieni doveva essere più piccolo della Terra e... stando ai raggi infrarossi... doveva orbitare intorno a un sole rosso-cupo, quasi morto. L'aria aveva strani odori, ma non sgradevoli. Un'apertura ad arco. Una rampa dello stesso materiale morbido che rivestiva i pavimenti; luci che diffondevano un fioco bagliore rosso-cupo. Come gesto di cortesia, gli alieni avevano aumentato l'intensità di quella parte del loro impianto d'illuminazione. Quella luce certo gli abbagliava, ma era un gesto di riguardo che fece desiderare ancor di più a Tommy che il suo piano andasse in porto. Il comandante alieno li fronteggiò con quello che a Tommy parve un gesto arguto e deprecatorio insieme. Gli auricolari nel casco dissero: «Il comandante alieno, signore, dice che vi dà il benvenuto con piacere, ma che è riuscito a pensare a un solo modo, purtroppo, in cui il problema creato dall'incontro di queste due navi può venir risolto». «Intende riferirsi alla battaglia», interloquì il comandante. «Ditegli che sono qui per proporgli un'altra scelta». Il comandante della Llanvabon e il comandante della nave aliena erano faccia a faccia, ma il loro modo di comunicare era bizzarramente indiretto. Infatti parlavano grazie alle microonde, quasi una forma di telepatia. Ma non potevano udire le parole nel senso ordinario della cosa... per cui anche il comandante della Llanvabon e Tommy parlavano tra loro in un modo che, dal punto di vista degli alieni, era telepatia. Quando il comandante terrestre parlò, il suo telefono spaziale rinviò le sue parole alla Llanvabon, dove qui vennero date in pasto alla codificatrice, dopo di che un loro equivalente sotto forma di onde corte venne rispedito alla nave nera. La rispo-
sta del comandante alieno giunse alla Llanvabon, passò attraverso il decodificatore e fu ritrasmessa tramite il telefono spaziale sotto la forma di parole leggibili, lette appunto dai tecnici della comunicazione nell'apposito riquadro. Un sistema scomodo, ma funzionava. L'alieno basso e tarchiato fece una pausa. Gli auricolari del casco ritrasmisero ai terrestri la sua risposta altrimenti silenziosa: «È pronto, anzi, desideroso di ascoltarla, signore». Il comandante terrestre si tolse il casco. Portò le mani ai fianchi, assumendo un posa bellicosa. «Senta un po'!» esclamò, con fare truculento, rivolgendosi alla strana, calva creatura che gli stava davanti, avvolta in un ultraterreno bagliore rosso. «Pare che si debba combattere e che, noi o voi, una delle due parti debba restare uccisa. Siamo pronti a farlo, se sarà necessario. Ma se voi vincerete, abbiamo predisposto le cose in modo che voi non possiate mai scoprire dove si trova la Terra, e c'è una buona probabilità che anche dopo morti si riesca a distruggervi! Ma se vinceremo noi, ci troveremo in un'identica situazione. Ma se noi vinceremo e torneremo a casa, il nostro governo armerà una flotta e comincerà a dar la caccia al vostro pianeta. Se lo troveremo, saremo pronti a farlo saltare in aria! Se vincerete voi, la stessa cosa accadrà a noi! E questa è follia! Siamo qui da un mese, abbiamo continuato a scambiarci informazioni, e nessuno di noi odia l'altro. E non abbiamo nessun motivo di combattere, se non per il futuro degli altri e delle nostre rispettive razze!» Il comandante si fermò a riprender fiato, corrugando la fronte. Senza dar nell'occhio, anche Tommy portò le mani alla cintura della sua tuta spaziale. Attese, sperando disperatamente che l'espediente funzionasse. «Ha risposto, signore», riferirono gli auricolari del casco, «che tutto ciò che lei dice è vero. Ma che la sua razza va protetta, proprio come lei ritiene che debba esserlo la sua». «Certo», sbottò il comandante con rabbia, «ma la cosa davvero sensata da fare è quella d'immaginare un modo efficace di proteggerle! Mettere a repentaglio l'intero futuro in un combattimento è insensato. Come pure il fatto che le nostre razze non debbano essere informate l'una dell'esistenza dell'altra. Invece, ognuna delle due dovrebbe avere prove concrete che l'altra non soltanto esiste, ma non vuole combattere e desidera soltanto essere amica. E noi dovremmo essere in grado, qui, di trovare il modo di comunicare gli uni con gli altri su una base di reciproca fiducia. Se i nostri governi, poi, vorranno esser pazzi, che lo siano pure! Ma noi dovremmo dargli,
almeno, la possibilità di diventare amici, invece di cominciare scatenando una guerra spaziale solo perché abbiamo reciprocamente paura!» Il telefono spaziale disse in breve: «Dice che la maggior difficoltà sta proprio nel fidarsi l'uno dell'altro qui, adesso. Lui, con la possibilità ch«sia messa a repentaglio l'esistenza stessa della sua razza, non può correre nessun rischio, e neppure lei può correrlo, di concedere all'altro un vantaggio». «Ma la mia razza», tuonò il comandante, fissando furioso il capitano alieno, «la mia razza ha, in questo momento, un vantaggio. Siamo venuti a bordo della vostra nave dentro tute spaziali alimentate dall'energia atomica! Prima di partire abbiamo modificato i propulsori: siamo in grado di far scoppiare cinque chilogrammi di combustibile nucleare a testa, qui, dentro questa nave, e se fosse impossibile per noi farli esplodere personalmente, ciò può esser fatto con un comando a distanza dalla nostra nave! E sarebbe davvero sorprendente se l'intera vostra riserva di combustibile non saltasse con noi! In altre parole, se non accetterete la mia proposta, un approccio al problema basato sul buonsenso, Dort ed io salteremo in aria in un'esplosione atomica, e la vostra nave, anche se non sarà del tutto distrutta, verrà come minimo ridotta a un relitto... e la Llanvabon attaccherà con tutto ciò di cui dispone meno di due secondi dopo l'esplosione!» Nella cabina del capitano della nave aliena la scena acquistò un sapore ancor più surreale agli occhi dei due terrestri, con la sua illuminazione rosso-cupa e gli alieni calvi, che respiravano con le branchie, i quali fissavano il comandante e aspettavano la traduzione dell'arringa per loro inaudibile. La tensione crebbe all'improvviso, in un misto di furia e di stanchezza. Il comandante alieno fece un gesto. Gli auricolari dei caschi ronzarono. «Signore», li informò il tecnico a bordo della Llanvabon, «il comandante alieno vuol sapere qual è la sua proposta». «Scambiarci le navi!» ruggì il comandante terrestre. «Scambiarci le navi e tornare tutti a casa! Noi possiamo sistemare i nostri strumenti cosicché gli alieni non possano seguirci, e loro possono far lo stesso con gli strumenti a bordo di questa nave. Entrambi asporteremo tutte le mappe stellari e ogni altro tipo di registrazione. Smantelleremo entrambi le nostre armi. Tutte e due le atmosfere sono respirabili sia da noi che da loro, noi prenderemo la loro nave, e gli alieni la nostra, nessuno dei due potrà danneggiare o seguire l'altro, e ognuno porterà con sé a casa più informazioni di quante avrebbe potuto portarne in qualunque altro modo! E possiamo sempre scegliere entrambi questa stessa Nebulosa del Granchio come il luogo del
prossimo appuntamento quando la stella doppia avrà compiuto un altro giro completo... così, se la nostra gente vorrà incontrarli, potrà farlo, e se avrà paura, potrà evitarlo... e lo stesso vale per loro. Questa è la mia proposta. E lui dovrà accettarla, altrimenti Dort ed io faremo saltare la sua nave e la Llanvabon ridurrà in briciole quel che ne resterà!» Lanciò occhiate minacciose tutt'intorno mentre aspettava che la traduzione raggiungesse quelle basse figure, frementi e tese, tutt'intorno a lui. Seppe quando il messaggio arrivò, poiché la tensione cambiò. Le figure si agitarono, gesticolarono. Una di esse si esibì in una serie di movimenti convulsi, si lasciò cadere sul pavimento e cominciò a scalciare. Altre si appoggiarono alle pareti in preda a un tremito convulso. La voce negli auricolari di Tommy Dort, che fino a quel momento si era mantenuta su una gelida impersonalità, ora suonò sbigottita: «Signore, ha detto che questo è un bellissimo scherzo, giacché i due membri dell'equipaggio che ha mandato sulla nostra nave, accanto ai quali siete passati venendo qui, hanno anch'essi le tute spaziali imbottite di esplosivo atomico, signore. Lui aveva intenzione di farci l'identica offerta, con le identiche minacce! Naturalmente accetta, signore. La Llanvabon vale per lui più della sua nave, come per lei la sua nave vale più della Llanvabon. A quanto pare, signore, è affare fatto». Fu allora che Tommy Dort capi cos'erano i movimenti convulsi degli alieni. Erano risate. Non fu così semplice come il comandante l'aveva descritto. L'attuazione pratica della proposta si rivelò assai complessa. Per tre giorni gli equipaggi delle due navi si mescolarono insieme: gli alieni per imparare il funzionamento dei motori della Llanvabon, e gli umani per imparare il funzionamento dei motori della nave nera. Era un bello scherzo... ma non era soltanto uno scherzo. C'erano ad ogni istante uomini sulla nave nera, e alieni sulla Llanvabon, pronti, al minimo preavviso, a far saltare la nave avversaria. E l'avrebbero fatto senza pensarci due volte, in caso di necessità. Per questo, la necessità non si presentò. Infine, tutta la bontà di questo accordo ebbe a manifestarsi, concedendo a due spedizioni di far ritorno a due civiltà, piuttosto che facesse ritorno o l'una o l'altra soltanto. Non si riuscì ad evitare che insorgessero disaccordi. Vi furono discussioni circa il trasferimento di questo o quel documento. Nella maggior parte dei casi il problema fu risolto con la distruzione del documento in questione. Altri problemi furono causati dai libri di narrativa a bordo della
Llanvabon, e dall'equivalente alieno d'una biblioteca di bordo, che conteneva opere che si avvicinavano ai romanzi della Terra. Ma erano oggetti preziosi per una possibile amicizia, poiché avrebbero mostrato gli aspetti più intimi di ognuna delle due culture all'altra, il punto di vista della gente comune delle due razze, senza l'ufficialità della retorica e della propaganda. E furono lasciati ai loro posti. Ma durante quei tre giorni i nervi rimasero comunque a fior di pelle. Gli alieni scaricarono e ispezionarono i viveri che gli uomini avrebbero consumato a bordo della nave nera. A loro volta gli uomini trasferirono dalla nave nera i viveri di cui gli alieni avrebbero avuto bisogno nel loro ritorno a casa. C'erano altri particolari interminabili, dallo scambio dei sistemi d'illuminazione, poiché ognuno dei due equipaggi doveva disporre di quello più adatto ai suoi occhi, fino a un ultimo, dettagliato controllo dei più diversi macchinari. Un gruppo misto d'ispezione, composto da qualificati rappresentanti di ambedue le razze, controllò che tutti i dispositivi d'individuazione fossero stati fracassati (e non rimossi), cosicché nessuna delle due navi potesse usarli per seguire le tracce dell'altra. E naturalmente gli alieni erano ansiosi di non lasciare nessun'arma funzionante sulla nave nera, allo stesso modo in cui gli umani non volevano lasciarne sulla Llanvabon. Era un fatto curioso come ognuno dei due equipaggi mostrasse la massima competenza ed efficacia nel prendere le misure che avrebbero reso impossibile una violazione dell'accordo all'altro. Vi fu una conferenza finale prima che le due navi si separassero, nella cabina di comunicazione della Llanvabon. «Di' a quel tappetto», brontolò l'ex comandante della Llanvabon, «che ha per le mani un'ottima nave e che farà meglio a trattarla bene». Le schede-parola presero subito a piovere nel riquadro dei messaggi del decodificatore: «Può star certo», fu il messaggio di risposta del comandante alieno, «che quella che adesso è la sua nave è altrettanto buona. Spero d'incontrarvi qui quando la stella doppia avrà fatto un giro completo». L'ultimo degli umani lasciò infine la Llanvabon. Questa si allontanò e scomparve in mezzo alla nebulosità prima che avessero fatto ritorno alla nave nera. Le piastre visive del vascello alieno erano state modificate, per adattarle agli occhi umani, e l'equipaggio umano frugò il cielo con una punta di nostalgia alla ricerca della Llanvabon mentre la loro nuova nave sceglieva una fulminea rotta evasiva verso i bordi esterni della nebulosa. Sbucò dentro un crepaccio di vuoto assoluto che conduceva fuori, alle stelle. Infine balzò fuori nello spazio aperto. Per un attimo provarono quell'ar-
resto della respirazione che viene provocato dall'attivazione del campo d'iperpropulsione, e la nave sfrecciò attraverso il vuoto a molte volte la velocità della luce. Molti giorni più tardi il comandante vide Tommy che stava studiando uno di quegli strani oggetti che equivalevano a libri. Era affascinante scervellarsi sopra. Il comandante era soddisfatto con se stesso. I tecnici dell'ex equipaggio della Llanvabon stavano scoprendo quasi in continuazione cose assai interessanti, per non dire preziose, in quella nave. Senza alcun dubbio, gli alieni dovevano essere altrettanto soddisfatti delle scoperte che stavano compiendo a bordo della Llanvabon. Ma, in ogni caso, La nave nera si stava rivelando una miniera inesauribile d'informazioni — perfino nelle tecniche di combattimento, in cui i terrestri, fino a poco prima, si erano ritenuti senz'altro superiori. «Uhmmm, signor Dort», disse scandendo le parole. «Lei non dispone più di nessuna attrezzatura per realizzare un'altra serie di registrazioni fotografiche durante il viaggio di ritorno. È rimasta a bordo della Llanvabon. Ma per fortuna abbiamo con noi le registrazioni fatte durante il viaggio d'andata... ed io farò un rapporto assai favorevole sul suo suggerimento e sulla sua assistenza nel metterlo in pratica. La tengo in altissima considerazione, signore». «Grazie, signore», rispose Tommy Dort. Aspettò. Il comandante si schiari la gola. «Lei... ehm... si è reso conto per primo dell'intima somiglianza dei processi mentali nostri e degli alieni», osservò. «Cosa pensa della prospettiva d'un accordo amichevole, se ci presenteremo all'appuntamento che abbiamo con loro, nella nebulosa, come abbiamo concordato?» «Oh, andremo benissimo d'accordo, signore», replicò Tommy. «Questo nostro primo incontro è stato un buon passo verso l'amicizia. E, dopotutto, poiché essi vedono attraverso l'infrarosso, i pianeti che possono usare non sono adatti a noi, e viceversa. Non c'è motivo per cui non dovremmo andar d'accordo. Come psicologia siamo quasi uguali». «Uhmmmm... Adesso, cosa intende dire con questo?» chiese il comandante. «Ma si, sono proprio come noi, signore!» esclamò Tommy. «Sì, respirano attraverso le branchie e vedono grazie alle radiazioni termiche, e il loro sangue ha enzimi a base di rame invece che di ferro, e c'è qualche altra piccola differenza di questo tipo. Ma per il resto siamo proprio uguali! C'erano soltanto uomini nel loro equipaggio, signore, ma hanno due sessi co-
me noi, hanno famiglia, e... ehm... il loro senso dell'umorismo... Infatti...» Tommy esitò. «Vada avanti, signore», lo sollecitò il comandante. «Già... Ce n'era uno che avevo chiamato Daino, signore, poiché non aveva un nome che si potesse tradurre in onde sonore», spiegò Tommy. «Siamo andati d'accordo quasi subito, e bene. Potrei senz'altro dire che eravamo amici, signore. E siamo stati insieme un paio d'ore prima che le navi si separassero, poiché non avevamo niente di particolare da fare. Così, mi sono convinto che gli umani e quegli alieni sono destinati a diventare buoni amici, se verrà data alle due razze anche una mezza possibilità. Vede, signore, abbiamo passato quelle due ore a raccontarci barzellette sporche». Venusiani addio The Vanishing Venusians di Leigh Brackett Planet Stories, Primavera Una delle ragioni per cui molta fantascienza dell'era dei pulp è diventata oggi illeggibile risiede nel fatto che le nuove scoperte scientifiche hanno invalidato non poche delle fondamentali premesse sulle quali queste storie erano basate. Ciò è soprattutto vero per l'astronomia: oggi noi sappiamo cosa c'è sull'altra faccia della luna e abbiamo appoggiato piedi e occhi meccanici sulla superficie di Marte. Inoltre conosciamo parecchio su Venere... quanto basta per invalidare del tutto l'ambientazione di «Venusiani addio»: non ci sono distese d'acqua e meno ancora venusiani che ci nuotano dentro. Ma «Venusiani addio» appartiene di diritto a questa antologia per il suo colore, la sua forte caratterizzazione, e l'avventura: tutte caratteristiche eminenti dell'opera della sua autrice, la scomparsa e rimpianta Leigh Brackett, stella di prima grandezza, ed essenza stessa del meglio di Planet Stories degli anni Quaranta. (Marty ha accennato al fatto che Venere non possiede distese d'acqua o di qualsivoglia altro liquido e che nessun venusiano ci nuota dentro. Nella realtà, Venere è ancora peggiore. Ha una temperatura considerevolmente più alta del punto di fusione del piombo, sia all'equatore che ai poli, di
giorno come di notte. Ha un'atmosfera novanta volte più densa di quella terrestre, che consiste quasi del tutto di anidride carbonica. Le sue nubi sono di acido solforico. A meno che la nostra tecnologia non progredisca al punto da consentirci di modificare drasticamente le caratteristiche dell'atmosfera di Venere, e d'importarci acqua, gli esseri umani non potranno mai colonizzare quel pianeta, anzi, non potranno neppure metterci i piedi. E questo è davvero un peccato. Fra tutti i pianeti dell'astronomia prespaziale Venere era il più interessante. Che magnifiche storie ci ha dato quel mondo, che s'immaginava lussureggiante, primitivo, brulicante di vita. E se n'è andato — andato per sempre — e ci ha lasciato al suo posto una palla di roccia rovente, completamente spoglia. Eppure, fintanto che le storie di fantascienza del passato saranno ancora con noi, come lo è Leigh, il suo ricordo rimarrà incancellato. I.A.) 1 La brezza soffiava costante, ma non impetuosa. Gonfiava la vela al quarto quel tanto che bastava a spingere attraverso l'acqua lo scafo sudicio e coperto d'alghe troppo cresciute... non di più. Matt Harker era disteso accanto alla barra del timone e contava i rivoli di sudore che colavano sulla sua nudità e fissava con occhi cupi, e opachi, la notte color indaco. La rabbia, incatenata e impotente, crebbe nella sua gola come vomito amaro. Il mare — la moglie venusiana di Rory McLaren lo chiamava il Mare degli Opali Mattutini — si stendeva immoto, nero, rigato dalla fosforescenza. Il cielo gravava basso sul mare, la densa coltre di nubi di Venere che aveva fatto del Sole una leggenda a stento ricordata dagli esiliati della Terra. Luci ardenti cavalcavano nell'oscurità blu profondo, disposte in fila. Dodici navi, tremilaottocento persone, che non andavano da nessuna parte, intrappolate nell'intervallo fra la nascita e la morte, e che non sapevano proprio che farne. Matt Harker gettò uno sguardo alla vela e poi alla lanterna di poppa della nave che li precedeva. Il suo volto, al fioco bagliore che illuminava Venere perfino di notte, era oblungo e scarno, una successione d'ombre e di scabre prominenze ossee, coperto dalle cicatrici della vita, del bisogno e delle privazioni, della morte e dell'assenza di morte. Era un uomo magro, non alto di statura, tenace, con un'agilità da rettile nei movimenti. Qualcuno scivolò silenzioso attraverso il ponte, da prua, evitando i corpi addormentati accalcati dovunque. Harker disse, senza emozione: «Ciao,
Rory». Rory McLaren rispose: «Ciao, Matt». Si sedette. Era giovane, forse la metà degli anni di Harker. C'era ancora speranza sul suo viso, ma già mostrava i segni della fatica. Restò seduta un po', senza parlare, né guardare, poi disse: «In tutta franchezza, Matt, quanto tempo possiamo resistere ancora?» «Cosa c'è, ragazzo? Cominci a cedere?» «Non so. Forse. Quando ci fermeremo da qualche parte?» «Quando troveremo un posto dove fermarci». «C'è forse un posto dove fermarsi? Mi pare che da quando sono nato, non abbiamo fatto altro che cercarlo. C'è sempre qualcosa che non va. Indigeni ostili, o la febbre, o il terreno cattivo... sempre qualcosa, e noi ci rimettiamo in viaggio. Non è giusto. Non è affatto questo il modo per cercar di vivere». Harker replicò: «Te l'avevo detto di non ostinarti ad aver figli». «E questo cosa c'entra?» «Stai già cominciando a preoccuparti. Il piccolo non è ancora arrivato, e tu già ti preoccupi». «Certo che mi preoccupo». McLaren si prese all'improvviso la testa fra le mani e imprecò. Harker seppe che l'aveva fatto per impedirsi di piangere. «Sono preoccupato», ammise McLaren. «Forse, a mia moglie e a mio figlio capiterà la stessa cosa che è successa ai tuoi. Abbiamo la febbre a bordo». Per un attimo gli occhi di Harker arsero come carboni. Poi, alzò lo sguardo alla vela e disse: «Starebbero meglio morti». «Non son cose da dire!» «È la verità. Tu mi hai chiesto quando ci fermeremo... quando avremo trovato il posto giusto. Forse mai. Tu ti lagni di aver fatto questa vita da quando sei nato. Be', io ho dovuto farla da molto più tempo. Prima che tu nascessi, ho visto coi miei occhi il nostro primo insediamento incendiato dal Popolo della Nube, e mia madre e mio padre crocifissi nella loro vigna. Ero fra quelli partiti dalla Terra, quando iniziò questo viaggio alla Terra Promessa, e sto ancora aspettando di vederla». I tendini sul volto di Harker si erano tesi come cavi d'acciaio. La sua voce aveva una calma terribile. «Tua moglie e tuo figlio starebbero assai meglio se morissero adesso, subito. Così, Viki che è giovane e ha ancora speranza, non la perderà mai.
E il bambino non aprirà mai gli occhi su questa vita grama». Sim, un uomo nero, grande e grosso, diede il cambio ad Harker prima dell'alba. Iniziò a cantare sommesso, qualcosa di lento e lamentoso come la brezza, e assai bello. Harker gli lanciò una maledizione e salì dentro prua per dormire, ma la canzone continuò ad accompagnarlo. Oh, ho guardato il Giordano, e cos'ho visto arrivare per portarmi a casa... Harker si addormentò, infine. Cominciò a gemere e a contorcersi, e ad urlare. Gli altri intorno a lui si svegliarono. Lo fissarono pieni di curiosità. Da sveglio, Harker era un lupo solitario, violento e sempre di pessimo umore. Quando, a lunghi intervalli, era colto da uno dei suoi attacchi, nessuno era particolarmente desideroso di aiutarlo a uscirne. Provavano una sorta di perverso piacere a potergli sbirciare nell'intimo, quando lo coglievano così allo scoperto. Ad Harker non importava. Stava di nuovo giocando in mezzo alla neve: aveva sette anni, e i cumuli erano bianchi e alti nel cielo, un cielo così azzurro e pulito che il bambino si chiedeva se Dio non facesse anche lui le pulizie ogni due o tre giorni, come la mamma quando sfregava energicamente il pavimento in cucina. Il sole splendeva. Era come una grande moneta d'oro, e traeva infiniti barbagli dalla neve trasformandola in uno spolverio di diamanti. Alzò le braccia verso il sole, e l'aria fredda lo schiaffeggiò come due mani pulite, e lui scoppiò a ridere. E poi ogni cosa scomparve..." «Mio Dio», disse qualcuno, «ma quelle sul suo viso non sono lagrime?» «Strilla... Strilla come un bambino, non sentite?» «Ehi», disse ancora il primo, impacciato, «non credete che dovremmo svegliarlo?» «Al diavolo quel vecchio gattaccio inacidito. Ehi, ascoltate...» «Papà», bisbigliò Harker, «papà, voglio tornare a casa». L'alba arrivò come una manciata di opali di fuoco attraverso le nubi di un grigio perlaceo. Harker, nel sonno, udì il grido fioco e lontano. Si sentiva stordito, stanco, le palpebre gli si erano come incollate insieme. Il grido a poco a poco acquistò forma e divenne la parola «Terra!» ripetuta più volte. Harker si scosse per svegliarsi e si alzò in piedi. Il mare privo di maree rifletteva i colori opalini, sotto la foschia. Branchi di piccoli draghi marini, le scaglie simili a gioielli, s'innalzavano dalle on-
nipresenti isole galeggianti d'alghe, e le alghe stesse, o almeno una parte di esse, si agitarono, pulsando d'una vita senziente. Davanti a loro una lunga e bassa prominenza della costa si dilatava nell'inestricabile groviglio d'una palude. Oltre la bassa distesa paludosa, si innalzava a picco fino alle nubi una scogliera di granito, una scarpata maestosa che si drizzava come una muraglia davanti agli sguardi colmi di speranza degli esuli. Harker trovò Rory McLaren ritto in piedi, lì accanto, il braccio avvolto intorno a Viki, sua moglie. Viki era una delle molte venusiane che avevano sposato coloni terrestri. La sua pelle era bianca come il latte, i suoi capelli d'un vivido argento, le sue labbra scarlatte. I suoi occhi erano come il mare, mutevoli, pieni di vita nascosta. In quel momento avevano quella particolare espressione che gli occhi delle donne assumono quando pensano alla vita, al suo inarrestabile perpetuarsi... Harker distolse lo sguardo da lei. McLaren disse: «Sì, è terra». Harker ribatté: «È fango. È una palude... la febbre. È identica al resto». Viki disse: «Non possiamo fermarci qui, solo un po'?» Harker scrollò le spalle. «Spetta a Gibbons decidere». Stava impulsivamente per chiederle quale dannata differenza facesse dove sarebbe nato il bambino, ma per una volta tenne la lingua a freno. Viki si allontanò. In qualche punto della parte centrale della nave una donna gridò nel delirio. C'erano tre forme immote, avvolte in coperte a brandelli e distese sul tavolato accanto agli ombrinali. «È probabile che ci fermeremo quel tanto che basterà a seppellirli», disse. «Forse... sarà sufficiente». Guardò per un attimo il volto di McLaren. La speranza che l'aveva illuminato poco prima aveva lasciato il posto alla stanchezza. Era morta. Morta come il resto di Venere. Gibbons chiamò i capi a bordo della sua nave: i condottieri, i combattenti, i cacciatori e i marinai, gli uomini duri e coriacei che costituivano la dura corazza intorno al corpo molle della colonia. C'erano anche Harker e McLaren. McLaren era giovane e fino a poco tempo prima aveva avuto la qualità dell'ottimismo che incoraggiava i suoi compagni di nave, una naturale inclinazione a guidare gli uomini. Gibbons era vecchio. Era lo spirito-guida originario dei cinquemila coloni che erano venuti dalla Terra per ricominciare a vivere sul nuovo mondo. Il tempo e le tragedie, le delusioni e i tradimenti l'avevano crudelmente segnato, ma teneva ancora la testa alta. Harker ammirava il suo coraggio,
pur maledicendolo come pazzo idealista. Com'era inevitabile, cominciarono a discutere se dovessero o no tentare un insediamento permanente su quella distesa di fango, oppure continuare a vagare su quel mare inesplorato e interminabile. Harker dichiarò, impaziente: «Perbacco, ma guardate il posto! Ricordatevi dell'ultima volta. Ricordatevi della volta prima dell'ultima, e smettetela di blaterare». Sim, il grande uomo nero, replicò con calma: «La gente comincia ad essere tremendamente stanca. L'uomo è nato per aver radici da qualche parte. Avremo ben presto dei guai se non troveremo un pezzo di terra». Harker sbottò: «Se pensi di poterlo trovare, amico, allora fallo». Gibbons disse in tono grave: «Ma Sim ha ragione... C'è isterismo, tra noi, febbre, dissenteria e noia, e la noia è la cosa peggiore di tutte». McLaren esclamò: «Io voto perché ci stabiliamo qui». Harker scoppiò a ridere. Era appoggiato al portello della cabina e fissava la scogliera, là fuori. Il granito grigio s'innalzava pulito sopra la palude. Harker cercò di penetrare le nubi che ne nascondevano la sommità, ma non ci riuscì. Socchiuse gli occhi. Le voci eccitate dietro di lui si smorzarono un po' per volta. D'improvviso, si girò verso Gibbons e disse: «Signore, vorrei che mi venisse dato il permesso di vedere cosa c'è in cima a quella scogliera». Seguì un completo silenzio. Poi Gibbons lo ruppe, scandendo le parole: «Abbiamo perso troppi uomini in esplorazioni del genere, e questo soltanto per scoprire un altopiano inabitabile». «C'è sempre una possibilità. Il nostro primo insediamento era sugli altipiani, non ricorda? Aria pulita, terreno buono, niente febbre». «Ricordo», annuì Gibbons. «Sì, ricordo...». Restò silenzioso per un po', poi lanciò ad Harker un'occhiata d'intesa. «Ti conosco, Matt. Tanto vale che ti dia il permesso». Harker sogghignò. «In tutti i casi non sentirete troppo la mia mancanza. Non rappresento più una buona influenza sugli altri». Si avviò verso l'uscita. «Datemi tre settimane. In ogni caso, è tempo che vi mettiate a raschiare e a rattoppare la chiglia delle navi. Forse tornerò con qualcosa di concreto». McLaren interloquì: «Vengo con te, Matt». Harker lo fissò senza scomporsi. «Tu farai meglio a restare con Viki». «Se c'è del buon terreno, là sopra, e dovesse capitarti qualche guaio che t'impedisce di tornare indietro a dircelo...»
«O che non avessi più voglia di tornare indietro, forse?» «Non ho detto questo. Potremmo anche non farcela tutti e due a tornare. Ma due... è sempre meglio di uno». Harker sorrise. Un sorriso enigmatico e non molto piacevole. Gibbons s'intromise: «Ha ragione lui, Matt». Harker scrollò le spalle. Poi Sim si alzò in piedi. «Due va bene», dichiarò, «ma tre è meglio ancora». Si rivolse a Gibbons: «Siamo quasi in cinquecento, signore. Se lassù c'è una nuova terra, dovremo dividere la fatica di trovarla». Gibbons annui. Harker ribatté: «Sei matto, Sim. Perché vuoi farti tutta quella scalata, magari per non arrivare da nessuna parte?» Sim sorrise. I suoi denti spiccarono incredibilmente bianchi sul nero lucido di sudore del suo viso. «Ma è quello che la mia gente ha sempre fatto, Matt. Un sacco di scalate per non arrivare in nessun posto». Fecero i loro preparativi e si dedicarono a un'ultima notte di sonno. McLaren salutò Viki. La donna non pianse. Sapeva perché lui partiva. Lo baciò; tutto quello che gli disse, fu: «Stai attento». Tutto ciò che Rory disse, fu: «Tornerò prima che lui nasca». Si misero in viaggio all'alba, portando con sé pesce secco e frutti di mare trasformati in strisce di carne essicata, e i loro lunghi coltelli e le corde per la scalata. Da molto tempo avevano finito ie munizioni per i pochi fulminatori di cui disponevano, e non avevano le attrezzature per produrne altre. Tutti erano assai esperti con le lance, e ne portavano tre, appese alla schiena, corte e munite di spine confezionate con ossa. Quando attraversarono il tratto fangoso, pianeggiante, pioveva, e dovettero guardarlo affondando fino alle cosce nella nebbia fitta. Harker li guidò attraverso la cintura paludosa. Era un veterano in queste imprese, con una rapidità soprannaturale nell'individuare quella vegetazione che era viva, indipendente e affamata quanto lui. Venere è un'immensa serra, e le piante si sono sviluppate in innumerevoli specie, strane e fantastiche, almeno quanto i rettili e i mammiferi, capaci di strisciar fuori da quei mari precambriani simili a primitivi flagellati, per sviluppare poi una propria volontà, con appetiti e motivazioni in proporzione. I bambini dei coloni imparavano sin dalla più tenera infanzia a non coglier fiori. Troppo spesso i germogli rispondevano a morsi. La palude non si estendeva per molto, e ne uscirono sani e salvi. Un grande drago delle paludi, un leshen, urlò non molto lontano, ma era un cacciatore notturno e adesso era troppo pieno di sonno per dar loro la cac-
cia. Infine, Harker mise il piede sul terreno solido, e si mise a studiare la scogliera. La roccia era stata resa ruvida dalle intemperie, incisa da molti millenni d'erosione, e per di più squassata dai terremoti. C'erano tratti di scisti crollati e frantumati, grandi lastre che parevano sul punto di precipitare al solo sfiorarle, ma Harker annuì. «Possiamo arrampicarci», dichiarò. «Il problema è: quant'è alto, lassù in alto?» Sim scoppiò a ridere. «Forse alto abbastanza per la città d'oro. Abbiamo tutti la coscienza pulita? Non posso portare il peso del peccato così lontano!» Rory McLaren guardò Harker. Harker disse: «D'accordo, lo confesso. Non m'importa affatto se lassù c'è o no una buona terra per noi. Tutto quello che volevo era andarmene via da quella stramaledetta nave prima di perdere del tutto la testa. Così, adesso lo sapete». McLaren annuì. Non parve sorpreso. «Arrampichiamoci». Il mattino del secondo giorno giunsero in mezzo alle nubi. Salirono sempre più in alto strisciando attraverso un vapore semiliquido, dalle sfumature opaline, insopportabilmente caldo. Continuarono a salire strisciando per altri due giorni. Per le prime notti Sim cantò durante il suo turno di guardia, mentre gli altri due riposavano distesi su qualche cengia. Dopo, però, anche Sim fu troppo stanco. McLaren cominciò a cedere, anche se non lo disse. Matt Harker divenne più taciturno e il suo umore peggiorò ancora, se ciò era possibile, ma per il resto non ci furono cambiamenti. Le nuvole continuavano a nascondere la sommità dello strapiombo. Durante uno dei brevi riposi, McLaren disse con voce rauca: «Ma questa scogliera non finisce mai?» La sua pelle era giallognola, gli occhi vitrei per la febbre. «Forse», rispose Harker, «salgono dritte al di là del cielo». La febbre era tornata a cogliere anche lui. Essa viveva nel midollo degli esuli, riaffiorando a intervalli per scuoterli e bruciarli, per poi ritirarsi. A volte non si ritirava, e dopo nove giorni non aveva più bisogno di farlo. McLaren disse: «Non te ne importerebbe niente se fosse così, vero?» «Non ti ho chiesto io di venire». «Ma non te ne importerebbe». «Ah, chiudi il becco». McLaren si lanciò alla gola di Harker.
Harker lo colpi, con calma e precisione. McLaren si accasciò al suolo, si afferrò la testa fra le mani e pianse. Sim si tenne fuori dalla zuffa. Scosse la testa, e dopo un po' cominciò a canticchiare fra sé... o rivolgendosi a qualcuno al di là di lui stesso. «Oh, nessuno capisce questo problema, come io lo vedo...» Harker si alzò in piedi. Le orecchie gli rintronavano e tremava in modo incontrollato, ma riuscì ugualmente a prendere su di sé un po' del peso di McLaren. Stavano risalendo una cengia obliqua, abbastanza larga e non troppo difficile. «Andiamo avanti», sollecitò Harker. Una sessantina di metri oltre quel punto la cengia piegava bruscamente verso il basso, in una sorta di gradinata rotta e accidentata. Sopra le loro teste la parete della scogliera si rigonfiava verso l'esterno. Soltanto una mosca avrebbe potuto scalarla. Si fermarono. Harker si esibì in una lenta e ragionata serie d'imprecazioni. Sim chiuse gli occhi e sorrise. Anche lui era un po' ammattito a causa della febbre. «C'è la città d'oro lassù in cima. È là che sto andando». S'incamminò lungo la cengia, seguendo la sua pendenza fino a una gobba rocciosa, oltre la quale scomparve. Harker rise sardonico. McLaren si liberò dalla stretta e testardamente seguì la strada di Sim. Harker scrollò le spalle e lo imitò. Subito oltre la gobba la cengia finiva. Rimasero immobili. Le dense nubi di vapore li bloccavano su un lato, e sull'altro s'innalzava una parte di granito sulla quale erano appesi dei rampicanti carnosi. Vicolo cieco. «Allora?» fece Harker. McLaren si sedette. Non pianse né disse niente. Si limitò a restar seduto. Sim era là, in piedi, le braccia penzoloni e il mento appoggiato sull'ampio petto nero. Harker disse ancora: «Capisci cosa voglio dire quando rido, se sento parlare di Terra Promessa? Venere è una roulette truccata. Non potrai mai vincere». Fu allora che si accorse dell'aria fresca. Aveva creduto, sulle prime, che fosse soltanto il brivido della febbre, ma la brezza gli scompigliava i capelli e avvolgeva il suo corpo secondo una direzione ben precisa. Aveva perfino un odore fresco e pulito. Soffiava attraverso la coltre dei rampicanti. Harker cominciò a scavare col suo coltello. Scopri che quella era la imboccatura d'una caverna, uno squarcio frastagliato, lisciato sul fondo da
quello che un tempo doveva essere stato un fiume. «La corrente d'aria arrivava dalla sommità dell'altopiano», disse Harker. «Lassù deve soffiare il vento che la spinge in basso. Potrebbe esserci il modo di passare». McLaren e Sim mostrarono entrambi un lento e terribile rifiorire della speranza. Tutti e tre entrarono senza parlare nella galleria. 2 Proseguirono veloci. L'aria pulita agiva su di loro come un tonico, e la speranza li stimolava. La galleria saliva seguendo un'inclinazione piuttosto ripida, e poco dopo Harker udì uno scroscio d'acqua, un mormorio sordo e tonante, come un fiume sotterraneo che scorresse davanti a loro, a un livello più alto. L'oscurità era totale, ma non era difficile seguire quel liscio canale di pietra. Sim disse: «Quella lì davanti, non è luce?» «Si», annui Harker, «una specie di fosforescenza. Non mi piace quel fiume lì davanti a noi. Potrebbe bloccarci». Avanzarono in silenzio. La luminiscenza si fece via via più intensa, l'aria più umida. Chiazze di licheni fosforescenti comparvero sulle pareti, luccicando come fiochi gioielli in un caleidoscopio di colori malaticci. Il ruggito dell'acqua si era fatto assordante. Vi capitarono davanti all'improvviso. L'acqua scorreva di traverso alla galleria, in un ampio canale scavato in profondità nella roccia, cosicché il suo livello era sceso al di sotto dell'antico letto, lasciando asciutta la galleria. Era un ampio fiume, lento e maestoso. I licheni ornavano il soffitto e ie pareti, riflettendosi in opachi luccichii sulla superficie dell'acqua. Sopra le loro teste s'innalzava un nero camino attraverso la roccia, e la corrente d'aria fresca scendeva da li, quasi con la forza d'un uragano, ma la maggior parte di essa si dissipava nella galleria del fiume. Harker giudicò che dovesse esserci una formazione di rupi, in superficie, che convogliava il vento verso il basso, come una sorta di sifone. Quel camino nella roccia era del tutto inaccessibile. Harker disse: «Credo che dovremo risalire il corso del fiume». La roccia era abbastanza erosa da render possibile la cosa, mostrando ampie sporgenze a tutti i livelli. McLaren obbiettó: «E se questo fiume non venisse dalla superficie? Se sgorgasse da una fonte sotterranea?»
«Rischierai il tuo collo», ribatté Harker. «Su, vieni». S'incamminarono. Dopo un po', facendo capriole come focene nell'acqua nera, le creature dorate passarono nuotando, videro gli uomini e sempre nuotando tornarono indietro. Non erano molto grandi. Fra tutte, la più grande aveva le dimensioni di un bambino di dodici anni. Il loro corpo era antropoide, ma adattato al nuoto con lucide membrane. Irradiavano una luminosità dorata, fosforescenti come i licheni, i loro occhi erano neri e senza palpebre, quasi un'unica, immensa pupilla. I loro volti erano incredibili. Seppur vagamente, ricordarono ad Harker le bocche di leone che crescevano sui prati in estate: teste e volti dei nuotatori erano identici, coperti di petali grondanti d'acqua che parevano dotati di movimenti indipendenti, come se fossero organi sensori e non soltanto decorazioni. Harker esclamò: «Perbacco, cosa sono?» «Sembrano fiori», disse McLaren. «Assomigliano di più a dei pesci», osservò il negro. Harker rise. «Scommetto che sono tutte e due le cose insieme. Scommetto che sono pianni, e anfibi per giunta». I coloni avevano abbreviato l'espressione piante-animali in piantani, e infine in pianni. «Ho visto creature, nelle paludi, non molto diverse da queste. Ma... caspita, guardateli: sembrano umani!» «Hanno una forma quasi umana», fece McLaren, rabbrividendo, «e... vorrei che non ci guardassero così!» Sim replicò: «Finché si limitano a guardarci, non ho intenzione di preoccuparmi...» Ma non si limitarono a questo. Cominciarono a stringersi intorno agli uomini, nuotando controcorrente senza nessuno sforzo. Alcuni di loro cominciarono ad arrampicarsi fuori dell'acqua, su una bassa sporgenza. Erano agili e graziosi. C'era qualcosa di sgradevolmente infantile in loro. Erano quindici o venti, e ricordavano ad Harker una banda di giovani discoli: soltanto che lo scherzo, nell'insieme, dava una strana, inquietante sensazione di malignità senz'anima. Harker fece strada ai compagni accelerando il passo sulla banchina rocciosa. Aveva estratto il pugnale e stringeva la corta lancia nella destra. L'aspetto generale del fiume cambiò. Il letto si ampliò e in alto, davanti a loro, Harker vide che la galleria si allargava in un'ampia cavità in ombra, con l'acqua che vi formava un lago oscuro, riversandosi lentamente fuori da un basso e largo labbro roccioso. Qui altre di quelle strane creature fo-
sforescenti, simili a bambini, stavano giocando. Subito si unirono ai loro compagni, serrando ancor più dappresso i tre uomini. «Non mi piace», disse McLaren. «Se soltanto producessero un qualche suono, un...» D'improvviso lo fecero. Una risatina acuta che suonava un insulto blasfemo a quella che avrebbe potuto emettere un bambino. I loro occhi luccicavano. Si lanciarono in avanti, correndo, grondanti d'acqua, lungo la riva rocciosa, protendendo fuori dall'acqua quelle che sembravano braccia per agguantare le caviglie degli uomini, mentre continuavano a ridere. All'interno del suo ventre duro e piatto, Harker sentì rivoltarglisi le budella. McLaren gridò e scalciò. Un paio d'artigli, piccole cose spinose acuminate come aghi, gli stavano graffiando una caviglia. Sim trapassò un petto dorato con la sua lancia. Non avevano ossa. Il corpo era leggero e membranoso, e il sangue che ne gocciolò fuori era verdastro, appiccicoso, come la linfa d'una pianta. Harker rispedi dentro il fiume con un calcio due di quegli esseri, fece roteare la lancia come una mazza da baseball e ne sbalzò giù altri due dalla banchina rocciosa — erano incredibilmente leggeri — e urlò: «Lassù, su quella cengia in aito. Non credo possano arrampicarsi fin lassù». Spinse McLaren davanti a sé e aiutò Sim in una breve scaramuccia di retroguardia, mentre si arrampicavano tutti e tre lungo un passaggio difficile. Giunto in cima, McLaren si rannicchiò, e scagliò pietre giù, verso gli aggressori. C'era una grande fessura che correva lungo tutto il soffitto della caverna, la cicatrice di qualche antico terremoto. Qualche istante dopo, un punto del costone smottò, producendo una piccola slavina. «Su, basta», ansimò Harker. «Piantala prima di far crollare tutto il soffitto. Non possono seguirci quassù». I pianni erano attrezzati per nuotare, non per arrampicarsi. Artigliarono rabbiosamente la roccia, ma scivolarono e ricaddero all'indietro; infine, si ritirarono nell'acqua pieni di rancore. D'un tratto afferrarono il corpo esanime ancora con la lancia di Sim piantata attraverso, e lo divorarono, litigando ferocemente tra loro per i bocconi migliori. McLaren si sporse oltre la cengia e vomitò. Anche Harker non si sentiva molto bene. Ma si rialzò in piedi e riprese ad arrampicarsi. Sim aiutò McLaren, la cui caviglia sanguinava parecchio. Quell'alta cengia saliva a un forte angolo, correndo tutt'intorno alla parete della grande caverna occupata dal lago. Qui l'aria era più fresca e asciutta, e i licheni si diradavano sempre più, fino a svanire, lasciando ogni cosa nella più totale oscurità. Harker, a una svolta, cacciò un grido. A giudicare
dall'eco, quella cavità era immensa. Sotto, nell'acqua nera, i corpi dorati sfrecciavano come comete in un universo color ebano, scomparendo una dopo l'altra tutte nella stessa direzione. Harker avanzava tastando tutt'intorno a sé: la sua pelle fremeva per l'impulso nervoso del pericolo, la sensazione di qualcosa d'invisibile, innaturale e maligno. Sim disse: «Ho sentito qualcosa». Si arrestarono. L'aria cieca sapeva d'una intensa fragranza, piacevolmente aromatica... ma in qualche modo impura. L'acqua sospirava pigramente molto più in basso. In qualche punto davanti a loro si udiva lo sciabordio tranquillo d'una corrente: Harker giudicò che fosse quello il punto in cui il fiume penetrava nella caverna. Ma non erano questi i rumori sui quali Sim aveva richiamato la loro attenzione. Il negro aveva inteso parlare del fruscio fremente che sembrava giungere da ogni punto della caverna. Ora la superficie del lago era costellata di chiazze colorate d'una vivida fosforescenza, che lasciavano dietro di sé scie impetuose. Le macchie crebbero rapidamente di numero, facendosi più vicine, e divennero tappeti di fiori, scarlatti, azzurri, dorati e purpurei. Ce n'erano interi campi galleggianti, rimorchiati sull'acqua da risplendenti nuotatori. «Mio Dio», sillabò Harker, gli occhi sbarrati. «Quanto sono grandi?» «Quel che basta a farne tre di me». Sim era un uomo grande e grosso. «Quelli piccoli, prima, erano davvero i bambini. Sono andati a chiamare i loro papà. Oh, Signore!» I nuotatori erano assai simili alle creature più piccole che li avevano attaccati più in basso, salvo per le dimensioni gigantesche. Ma non erano pesanti, impacciati. Erano magnifici, agili di membra e leggeri. Le loro membrane si erano allargate in grandi ali lucenti, ogni nervatura terminava con un'estremità di fuoco. Soltanto le loro teste dorate, simili a bocche di leone, erano cambiate. Avevano perso i petali. Le loro teste di adulti erano coronate da piatte escrescenze che avevano la bellezza velenosa e sordida dei funghi. E i loro volti erano in tutto umani. Per la prima volta dai tempi dell'infanzia Harker si sentì raggelare. I campi di fiori fiammeggianti furono riuniti insieme in un grande turbinio ai piedi della scogliera. I giganti dorati tutt'a un tratto si misero a gridare, una sonora nota squillante, e l'acqua cominciò a ribollire, sollevando una schiuma avvampante quando a migliaia quei corpi simili a fiori ne u-
scirono e cominciarono ad arrampicarsi su per la roccia su lunghe zampe a ventosa, simili a quelle dei ragni. Sembrava fosse del tutto inutile provarsi a fuggire, ma Harker li sollecitò: «Scappiamo via!» Adesso da quell'esercito là sotto s'irradiava luce sufficiente a illuminare il cammino davanti a loro. Harker cominciò a correre sulla sporgenza rocciosa con gli altri alle calcagna. I fiori che li inseguivano si arrampicavano veloci, mentre i loro padroni nuotavano comodamente più in basso, osservando la scena. La sporgenza rocciosa curvò verso il basso. Harker schizzò lungo di essa come un cervo. Al di là del punto più basso, Harker si tuffò in una nuova galleria, quella da cui proveniva il fiume. Una breve galleria, alla cui estremità... «La luce del giorno!» urlò Harker. «La luce del giorno!» La gamba sanguinante di McLaren cedette e il giovane cadde al suolo. Harker lo agguantò. Erano sul punto più basso della discesa. Le bestiefiori erano subito sotto di loro e stavano ormai per raggiungerli. Il piede di McLaren era gonfio, il polpaccio esangue. Un'infezione dal fulmineo decorso dovuta agli artigli dei pianni. McLaren si dibatté nella stretta di Harker. «Vattene», lo sollecitò. «Corri, salvati!» Harker lo colpi con forza alla tempia e ricominciò ad avanzare, trascinando con sé il corpo esanime del giovane. Ma vide che non avrebbe funzionato: McLaren pesava più di lui. Lo gettò tra le braccia possenti di Sim. Il grosso negro annui e continuò la corsa reggendo McLaren come un bambino. Harker vide i primi fiori salire sulla sporgenza rocciosa davanti a loro. Sim li scagliò via: non erano molto grossi, e in quell'avanguardia erano soltanto in tre. Altri comparvero dietro di loro e si lanciarono all'inseguimento: Harker li colpi con la lancia, squarciandoli con gli uncini d'osso. Ma ormai erano in molti ad aver completato la scalata e li inseguirono come una grande onda di marea luminosa. Harker accelerò, ma i fiori erano più veloci. Li ricacciò indietro con la lancia e il coltello e riprese a correre, poi tornò a voltarsi per combattere ancora; quand'ebbero infine percorso tutta la galleria, Harker barcollava, stremato. Sim si arrestò. Disse: «Non c'è via d'uscita». Harker alzò lo sguardo: il fiume precipitava da una parete a picco: il salto era troppo alto, e il getto d'acqua aveva troppa forza perché anche i giganteschi pianni potessero pensare di affrontarlo. La luce del giorno si riversava su di loro dall'alto, calda e accogliente come avrebbe potuto esser-
lo su Marte. Vicolo cieco. Poi Harker individuò il piccolo canale eroso che saliva contorto su un lato. Era poco più di uno scolo, lungo e asciutto, e formava un passaggio fino alla sommità della cascata, una fessura a stento larga perché un uomo riuscisse a strisciarvi attraverso. Era una speranza fin troppo vaga, un azzardo, ma... Harker l'indicò, fra una stoccata e l'altra contro i fiori che sciamavano dappertutto. Sim gridò: «Tu per primo». Harker, poiché era il miglior scalatore, obbedì, aiutando McLaren ancora intontito a salire dietro di lui. Sim maneggiava la lancia come un dardo fiammeggiante, proteggendo le loro spalle, strisciando all'insù un centimetro dopo l'altro. Raggiunto un appoggio abbastanza sicuro, si fermò. Il suo petto gigantesco si gonfiava come un mantice, le sue braccia continuavano ad alzarsi e ad abbassarsi come sbarre d'ebano. Harker gli gridò di continuare a salire. Lui e McLaren erano quasi arrivati in cima. Sim scoppiò a ridere: «Come intendi farmi passare attraverso quel buchetto?» «Vieni su, pazzo!» «Farete meglio a sbrigarvi. Io sono pressoché finito». «Sim! Sim, dannazione a te!» «Striscia fuori da quel buco, tappo, e tirati dietro quello spilungone! Io sono un uomo che ha le dimensioni di un uomo, e devo restar qui». Poi, infuriandosi: «Sbrigati, altrimenti ti trascineranno indietro prima che tu sia passato!» Aveva ragione. Harker sapeva che aveva ragione. Si mise al lavoro spremendo McLaren attraverso la stretta apertura. McLaren era ancora intontito, ma era magro e con le ossa sottili, e ce la fece. Ruzzolò fuori su un pendio coperto d'erba verde, la prima che Harker vedeva dai giorni in cui era bambino. Ora Harker si affannò per seguire McLaren. Non si voltò a guardare Sim. L'uomo nero stava cantando tutta la gloria della venuta del Signore. Harker tornò a infilare la testa nel buio dello stretto condotto: «Sim!» «Sì?» Debole, rauco, echeggiante. «Qui c'è terra, Sim. Una buona terra». «Già». «Sim, troveremo a tutti i costi il modo...»
Sim aveva ripreso a cantare. La sua voce si fece più fioca, allontanandosi sempre più verso il basso. Le parole si smarrirono, ma non ciò che sottintendevano. Matt Harker affondò il viso nell'erba verde, e la voce di Sim scomparve con lui nel buio. Le nubi si stavano colorando dei bagliori del sole nascosto che tramontava. Erano sospese sopra di loro come un baldacchino d'oro intriso di sangue. Vi era un profondo silenzio, interrotto soltanto dal canto degli uccelli. Giù nei luoghi bassi non si udivano mai simili canti d'uccelli. Matt Harker ruotò su se stesso e lentamente si rizzò a sedere. Gli pareva di essere stato picchiato a sangue. Provava nausea e vergogna, e l'antica, micidiale collera era avvolta in strette spire intorno al suo cuore. Davanti a lui si stendeva un ampio pendio erboso che arrivava fino al fiume, il cui corso curvava verso sinistra, allontanandosi fino a sparire dietro uno sperone roccioso. Oltre il pendio si stendeva un vasto terreno pianeggiante, e ancora più oltre una foresta d'alberi giganteschi. Parevano galleggiare in un alone color rame, le fronde scure dispiegate come ali e costellate di fiori. L'aria era fresca, senza alcun sentore di fango e di marcio. L'erba era abbondante, il suolo pulito e morbido. Rory McLaren cacciò un gemito sommesso e Harker si voltò verso di lui. La gamba del giovane aveva un pessimo aspetto. McLaren era in preda a un crescente stordimento, la sua pelle era arrossata e arida. Harker imprecò a bassa voce, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto fare. Si voltò indietro a guardare verso la pianura, e vide la ragazza. Non sapeva come fosse arrivata li. Forse era sbucata fuori dai cespugli che crescevano in folte macchie qua e là sul pendio. Poteva esser lì da parecchio tempo, a osservarli. E anche adesso teneva il suo sguardo puntato su di loro, restando immobile a una dozzina di passi. Una grande farfalla scarlatta si teneva aggrappata alla sua spalla, muovendo le ali con pigra voluttuosità. Pareva più una bambina che una donna. Era nuda, piccola di statura, deliziosamente snella. La sua pelle, sotto il biancore, aveva una lieve sfumatura verde. I suoi capelli, simili a foglie d'erba e raccolti in corte ciocche ricciute sulla testa, erano d'un azzurro cupo, e anche i suoi occhi erano azzurri, e strani. Harker la fissò, e lei fissò lui, senza che nessuno dei due accennasse a muoversi. Un uccello dai vividi colori scese giù in picchiata e si librò per un attimo accanto alle sue labbra, accarezzandole col becco. Lei lo sfiorò con una carezza, e sorrise, ma non distolse gli occhi da Harker.
Harker si alzò in piedi, lentamente. La chiamò: «Ehi». La ragazza non si mosse, né produsse alcun suono, ma tutt'a un tratto un paio di enormi uccelli con becco e artigli come quelli di un'aquila, e neri come il peccato, si tuffarono giù dal cielo e sfiorarono la testa di Harker con un sibilante fruscio, poi tornarono in alto e si misero a girare in cerchio. Harker tornò a sedersi. Gli strani occhi della ragazza si staccarono da lui, fissando la fenditura, più in alto sulla parete rocciosa, dalla quale era uscito. Le sue labbra non si mossero, ma la sua voce — o qualcosa del genere — gli parlò chiaramente dentro la testa: «Sei venuto da... là». Quel Là conteneva una fremente carica di eccitazione, per niente piacevole. «Harker replicò: «Sì. Telepate... uh?» «Ma tu non sei...» L'immagine di alcuni nuotatori dorati si formò nella mente di Harker. Erano chiaramente riconoscibili, ma l'odio e la paura avevano spazzato via da essi ogni traccia di bellezza, lasciando soltanto l'orrore. Harker disse: «No». Le spiegò cos'era successo a lui e a McLaren. Le parlò di Sim. Sapeva che lei stava ascoltando attenta la sua mente, saggiandola per controllare se diceva la verità. Ma non lo preoccupava ciò che lei vi avrebbe trovato. «Il mio amico è ferito», le disse. «Abbiamo bisogno di un rifugio». Per un po' non vi fu risposta. La ragazza era era tornata a fissarlo. Il suo volto, la forma e la struttura del suo corpo, i suoi capelli, e infine i suoi occhi. Non era mai stato guardato in quel modo prima di allora. Cominciò a sogghignare. Un sogghigno provocante del tipo «che tu sia dannata...», che arricchiva d'una luce e d'un fascino sorprendenti la sua personalità sardonica. «Tesoro», le disse, «sei formidabile. Animale, vegetale o minerale?» Lei drizzò la piccola testa rotonda con un guizzo per la sorpresa, e gli restituì, pronta, la stessa domanda. Harker scoppiò a ridere. Lei sorrise, piegando la bocca in una V invitante, e i suoi occhi scintillavano vividi. Harker accennò a muoversi verso di lei. E nell'identico istante i due rapaci lo ammonirono a tornare indietro. La ragazza scoppiò a ridere, un'increspatura d'allegria sbarazzina. «Vieni», lo invitò, e si voltò. Harker si accigliò. Si chinò e parlò a McLaren con insolita gentilezza.
Riuscì in tal modo a convincere il giovane a rizzarsi in piedi, poi se lo caricò sulle spalle, vacillando un poco sotto il suo peso. McLaren parlò, staccando le sillabe: «Sarò di ritorno prima che nasca». Harker attese finché la ragazza non si fu decisamente avviata, poi la seguì, tenendosi a debita distanza. I due grandi uccelli neri lo seguirono vigili. Attraversarono la folta erba del pianoro in direzione degli alberi. Adesso il cielo aveva tutto il colore del sangue. Una leggera brezza avvolse la testa della ragazza e prese a giocare coi suoi capelli. Matt Harker vide che quei capelli erano corti e piatti, come petali azzurri. 3 Fu una lunga camminata, prima di raggiungere la foresta. L'intero altopiano, lassù, sembrava avere una forma a scodella, protetta da alte rupi tutt'intorno. Harker, riandando col pensiero al loro primo insediamento di tanto tempo prima, decise che quel posto era infinitamente migliore. Era quasi la visione che aveva avuto nei suoi sogni febbricitanti: la Terra Promessa. Era come se l'aria tersa e fresca di quell'altopiano gli avesse tolto dei pesi dai polmoni, dal cuore, da tutto il corpo. Ma anche se quell'aria pulita gli restituiva vigore e giovinezza, non riusciva a compensare del tutto il peso di McLaren. Poco dopo, Harker fu costretto a dirle: «Aspetta», e si sedette, facendo rotolare con delicatezza il corpo di McLaren sull'erba folta. La ragazza si fermò. Tornò indietro di qualche passo e studiò Harker, che stava sbuffando come un cavallo esausto. Harker sollevò gli occhi su di lei, sogghignando. «Sono sfinito», le spiegò; «Ho consumato troppe energie per un uomo della mia età. Non puoi chiamare qualcuno che mi aiuti a portarlo?» Ancora una volta lei lo studiò in silenzio, affascinata e perplessa. La notte stava ormai per chiudersi sopra di loro, era d'una sfumatura indaco, più chiara della notte cupa che tutti opprimeva al livello del mare. Gli occhi della ragazza mostravano una curiosa luminosità nel buio. «Perché lo fai?» gli chiese. «Far che cosa?» «Portare quello». «Quello», per Harker fu facile intuirlo, era McLaren. D'improvviso, fu gelidamente consapevole dell'abisso che li separava... e che nessuna dose
di spiegazioni, per quanto abbondante, sarebbe riuscita a colmare. «È un mio caro amico. È un... Devo farlo». Lei studiò i suoi pensieri, poi scosse il capo. «Non capisco. È guasto...» L'immagine, nella sua mente, era una combinazione di «rotto», «finito» e «inutile». «... portarselo dietro?» «McLaren non è un "quello". È un uomo come me... un amico. È ferito, e devo aiutarlo». «Non capisco». La sua scrollata di spalle fu fin troppo eloquente, l'ovvio giudizio che lui era un pazzo, e che non valeva la pena dedicargli altro tempo. La ragazza ricominciò ad avanzare senza prestar più nessuna attenzione agli appelli di Harker, che le chiedeva di aspettarlo. Per forza di cose, Harker si caricò nuovamente del peso di McLaren e la seguì barcollando. Desiderò ardentemente che Sim fosse là, e subito desiderò di non aver pensato a Sim. Si augurò che Sim fosse morto in fretta prima di... prima di che cosa? Oh Dio, è buio e ho paura e il mio stomaco è diventato acqua fredda e quella creatura che trotterella davanti a me, in mezzo a questa foschia azzurra... Tuttavia, quella creatura era molto bella. Uno splendido, affascinante profilo, uno snello, curvo luccichio fatto d'impalpabile chiaro di luna, il calice d'un fiore esotico contenente il nettare mistico e profumato dell'irreale, l'ignoto, l'inesplorato... Suo malgrado, Harker sentì il sangue pulsargli d'una profonda eccitazione. Giunsero infine sotto le ombre fragranti degli alberi. La foresta non era un groviglio impraticabile, ma aveva abbondanti radure e crinali coperti di muschio. Non c'era sottobosco, né arbusti, né macchie di felci, ma soltanto distese fiorite. La ragazza si fermò e protese una mano verso l'alto. Un ramo piumato, lassù, fuori della sua portata, si piegò e le sfiorò il viso, la ragazza ne colse un grande germoglio pallido e se l'infilò tra i capelli. Si voltò e sorrise ad Harker. Questi cominciò a tremare, in parte per la stanchezza, in parte per qualcos'altro. «Come puoi farlo?» le chiese. Lei lo fissò perplessa. «Vuoi dire il ramo? Oh, quello!» Rise. Era il primo, vero suono che l'udiva emettere, e gli parve d'essere trapassato da uno spruzzo di mercurio bollente. «Mi basta pensare che mi piacerebbe un fiore... e il fiore viene». Teletrasporto, psicocinesi... come lo definivano nei libri? Sulla Terra ne sapevano qualcosa, ma la colonia non aveva avuto neppure il tempo di
compulsare la sua povera biblioteca. C'era stata qualche setta religiosa che riusciva a far chinare le rose che reggevano in mano. L'antica saggezza, la misteriosa forza dietro i miracoli biblici... niente più che il pensiero, l'infinito potere del pensiero. Molto semplice. Già. Harker si chiese a disagio se la ragazza potesse usarlo anche su di lui. Ma anche lui aveva un proprio cervello. O no? «Qual è il tuo nome?» le chiese. Lei produsse un limpido trillo. Harker cercò d'imitarlo fischiando, ma subito ci rinunciò. Una specie di linguaggio tonale, pensò, privo di parole... o almeno, di parole come lui le intendeva. Pareva che lei, la sua gente — qualunque cosa fossero — avessero copiato gli uccelli. «Ti chiamerò Fiordaliso» le disse. «Sì... Fiordaliso. Ma tu non sai cosa vuol dire». Lei colse l'immagine nella sua mente e gliela rinviò. Fiori dai petali azzurri che occhieggiavano dalla fruttiera di porcellana di sua madre. La ragazza tornò a ridere, mandò via gli uccelli neri e s'inoltrò tra gli alberi facendogli strada, riempiendo l'aria di trilli come un rigogolo. Altre voci le risposero e poco dopo, correndo come la brezza fra gli alberi, arrivò la sua gente. Erano tutti come lei. C'erano maschi... esili creature simili a ragazzini... e ragazze come Fiordaliso. Erano molte centinaia, tutti nudi, tutti che ridevano incuriositi, i loro corpi flessuosi che guizzavano come farfalle fra le ombre color indaco. Erano coronati di petali — così li chiamava Harker, anche se non sapeva, in realtà, cosa fossero — di tutti i colori, dallo scarlatto al bianco più puro. Vi fu un lungo incrociarsi di trilli. A quanto pareva Fiordaliso stava raccontando come aveva trovato Harker e McLaren. Tutta quella folla avanzò lenta attraverso la foresta fino ad arrivare a un vasto spiazzo aperto cosparso di pochi alberi qua e là. Una sorgente formava un laghetto, dal quale usciva un ruscello che si perdeva fra la vegetazione. Continuava ad arrivare altra gente del piccolo popolo; ora Harker vide finalmente i più giovani: dalle creature più minuscole e sottili, via via attraverso le varie fasi dello sviluppo, erano repliche in minor formato degli adulti. Non c'erano vecchi. Non c'era nessuno che avesse un corpo imperfetto, o ferito. Harker, esausto e sull'orlo di un attacco di febbre, provò un profondo scoramento davanti a tanta fragile bellezza. Mise giù McLaren accanto alla sorgente. Bevve, ansando come un animale, e si rinfrescò la testa e le spalle. Il popolo della foresta si era dispo-
sto in cerchio tutt'intorno ad osservarlo. Adesso erano silenziosi. Harker si sentì rozzo e bestiale, in un certo senso quasi come se avesse ruttato sonoramente in una chiesa. Si occupò di McLaren. Lo lavò, lo aiutò a bere, e si diede da fare per curargli la gamba ferita. Ma avrebbe avuto bisogno di luce, d'un fuoco. C'erano foglie secche, lì intorno, e zolle di muschio morto. Ne raccolse abbastanza, fra le rocce intorno alla sorgente, e le ammucchiò. La gente della foresta l'osservava. Harker cominciò a sentirsi innervosito per tutti quegli sguardi luminescenti puntati verso di lui. Le mani presero a tremargli al punto che dovette ricominciare per ben quattro volte con la selce e l'acciarino prima di ottenere una scintilla. Già quel minuscolo guizzo produsse un'intensa agitazione tra le file silenziose degli astanti. Harker ci soffiò sopra. Le fiamme si levarono, dapprima piccole e pallide, poi presero vigore, crebbero e crepitarono. Harker vide i loro volti all'improvviso sfavillio luminoso, i loro occhi spalancati per il terrore. Uno strillo acuto eruppe dalle loro gole, e poi fuggirono tutti come foglie frusciami, sospinte dal vento. Harker estrasse il coltello. Un profondo silenzio era calato sulla foresta. C'era silenzio... ma non tranquillità. Harker sentì la pelle accapponarglisi sulla schiena, mentre i capélli gli si rizzarono in testa. Sentì la gola secca. Passò la lama tra le fiamme. McLaren alzò lo sguardo su di lui. Harker gli disse: «Va tutto bene, Rory». E gli vibrò un pugno sulla punta del mento. McLaren si rovesciò all'indietro, immobile. Harker gli afferrò la gamba gonfia, gliela distese, e si mise al lavoro. Era di nuovo l'alba. Harker giaceva accanto alla sorgente, in mezzo all'erba fresca, le ceneri del fuoco erano grige e morte lì accanto alle chiazze più scure della vegetazione. Si sentiva riposato, i nervi distesi, e sembrava che la paura l'avesse lasciato. L'aria era inebriante come vino. Si girò sulla schiena. Soffiava un vento forte e vivificante, ricco d'aromi. Gli alberi ondeggiavano vivaci, sembravano quasi urlare di piacere. Harker inspirò profondamente. L'odore, quella sensazione di purezza, di pulizia... D'improvviso si rese conto che le nubi erano alte, più alte di quanto le avesse mai viste prima d'ora. Il vento le sospingeva tutte d'un lato, e la luce del giorno era luminosa, tanto luminosa che... Harker balzò in piedi. Il sangue gli tumultuava nelle vene. Avverti un bruciore negli occhi, un intenso pizzichio. Cominciò a correre verso un alto albero, fece un salto aggrappandosi ai rami più bassi, poi prese ad arrampicarsi spericolatamente fino alla cima ondeggiante. La conca della
valle si stese sotto di lui, verde, rigogliosa... affascinante. Le grige rocce di granito s'innalzarono intorno ad essa, crescevano sempre più imponenti contro il cielo nella direzione verso la quale il vento soffiava. Erano molto alte ma al di là, molto al di là di esse, torreggiavano montagne colossali. E su queste montagne, attraverso gli squarci delle nubi sferzate dal vento, si stendeva una coltre nevosa, gelida e bianca, d'una purezza accecante, e mentre Harker aguzzava gli occhi, colse un brillio, così rapido e fuggevole che lo intuì più che altro col cuore... La luce del sole. Campi di neve e, sopra di essi, il sole... Molto tempo dopo, tornò a calarsi nel silenzio della radura. E restò immobile, gli occhi fissi su ciò che, prima, non aveva fatto in tempo a vedere. Rory McLaren non c'era più, e non c'erano più neppure gli zaini, col cibo, le corde da scalata, le bende, la selce e l'acciarino. Neppure le corte lance c'erano più. Harker si tastò istintivamente il fianco, e non vi trovò niente, soltanto la carne nuda. Il coltello, perfino il perizoma gli erano stati tolti. Un corpo snello, delizioso, avanzò fuori dall'ombra degli alberi. Grandi boccioli bianchi spiccavano sui riccioli azzurri che le coronavano la testa. Occhi luminosi fissarono Harker, pieni d'una vibrazione sottile e d'una ironia appena accennata. Fiordaliso sorrise. Matt Harker s'incamminò verso Fiordaliso, senza affrettarsi, i muscoli del viso induriti, cancellando ogni espressione. Cercò di mantenere sgombro anche il cervello. «Dov'è l'altro, il mio amico?» «Nel luogo del termine». Gli indicò con un vago cenno del capo i dirupi intorno al punto dove lui e McLaren erano emersi dalla galleria. Colse l'immagine mentale di qualcosa d'intermedio fra un mucchio di spazzatura e un cimitero, in una sorta di traduzione approssimativa che riuscì a fare nei concetti terrestri. Colse anche una totale noncuranza e anche un po' di fastidio per il tempo perso in una simile sciocchezza. «L'avete... è ancora vivo?» «Lo era quando l'abbiamo messo là. Tutto andrà bene, aspetterà fino a quando non si... fermerà. Come tutti». «Perché è stato spostato? Perché avete...» «Era brutto». Fiordaliso scrollò le spalle. «In ogni caso era rotto». Protese le braccia in alto e alto il viso al vento. Un brivido deliziato la percorse. Tornò a sorridere ad Harker, in tralice. Lui cercò di dominare la rabbia, di tenerla nascosta. Si avviò, con volto
sempre privo d'espressione, verso i dirupi. Passò accanto a un cespuglio dai fiori gialli e i rami spinosi e flessibili. D'un tratto la pianta si contorse e lo sferzò sul ventre. Harker si arrestò di botto, piegandosi in due. E udì la risata di Fiordaliso. Quando si raddrizzò, la ragazza era davanti a lui. «È rosso», lei fece, sorpresa, e appoggiò le sue dita sottili e appuntite sui graffi lasciati dalle spine. Pareva eccitata, e affascinata, dal colore e dal tocco del sangue. Le sue dita si mossero, saggiando la forma dei suoi muscoli, la trama della sua pelle e la peluria scura sul suo petto. Le dita tracciarono piccole linee di fuoco lungo il suo collo, la sporgenza delle sue mascelle... gli toccarono i lineamenti, uno ad uno, le palpebre, le nere sopracciglia. «Cosa sei?» gli bisbigliò con la mente. «Questo». Harker la cinse, lentamente, con le braccia. La pelle di lei era liscia, e stranamente gelida, sotto le sue mani, facendogli provare un brivido indescrivibile, in parte di piacere, in parte di ripugnanza. Piegò la testa. Gli occhi di lei s'incupirono, laghi di fuoco azzurro, poi Harker trovò le sue labbra. Erano fredde e strane come il resto di lei, cedevoli, come il resto del suo corpo, odoranti di spezie, lo stesso profumo che esalò, con improvvisa, sopraffacente dolcezza, dai suoi petali ricciuti. Harker colse un movimento tra gli squarci della foresta, un assieparsi di corolle dai vivaci colori. Fiordaliso si tirò indietro. Gli prese la mano e lo condusse via, verso il ruscello e le macchie di felci che lo bordavano. Alzando lo sguardo, Harker vide che i due uccelli neri avevano ripreso a seguirli, alti nel cielo. «Ma allora in realtà siete piante? Fiori come questi?» Toccò i bianchi boccioli sopra la sua testa. «Allora in realtà tu sei una bestia? Come le creature pelose e ringhianti che a volte si arrampicano su dal passo?» Scoppiarono a ridere tutti e due. Il cielo sopra di loro aveva il colore di un vello soffice e perlaceo. Il terreno era tiepido e le felci cedevano elastiche sotto i loro piedi. «Quale passo?» chiese Harker. «Laggiù». Lei gliel'indicò verso il confine roccioso della valle. «Scende giù fino al mare, credo. Molto tempo fa andavamo anche noi fin laggiù, ma in realtà non era necessario... e le bestie lo rendono pericoloso». «Davvero», disse Harker, e la baciò nel cavo sotto il mento. «Cosa succede quando vengono le bestie?» Fiordaliso scoppiò a ridere. Prima che potesse muoversi, Harker si trovò saldamente intrappolato in un groviglio di rampicanti e di robuste fronde
di felci, e gli uccelli neri si precipitarono giù stridendo e fecero roteare i loro becchi taglienti a pochi centimetri dal suo viso. «Ecco cosa succede», disse Fiordaliso. Accarezzò le felci. «I nostri cugini ci capiscono ancora meglio degli uccelli». Harker giacque a terra, ansante e intriso di sudore, anche dopo essere stato liberato. Alla fine disse: «Quelle creature del lago sotterraneo... sono anch'essi vostri cugini?» Il pensiero di Fiordaliso, pieno di paura, si scontrò con la sua mente come un paio di mani che cercassero di spingersi affannosamente lontano. «No, non... La leggenda dice che molto, molto tempo fa tutta questa valle era un immenso lago e i nuotatori ci vivevano dentro. Erano d'una specie completamente diversa dalla nostra. Noi siamo venuti dalle alte gole, dove adesso vi sono soltanto rocce spoglie. Questo è stato molto tempo fa. Man mano il lago si ritirava, siamo diventati sempre più numerosi e abbiamo cominciato a scendere verso il basso, alla fine ci fu una battaglia e i nuotatori furono cacciati oltre la cascata, dentro il lago nero. Hanno tentato molte volte di uscire, di tornare alla luce, ma non hanno potuto. Alle volte mandano fuori i loro pensieri verso di noi. Loro...» S'interruppe. «Non voglio più parlare di loro». «Come potreste combattere contro di loro, se dovessero uscire?» le chiese Harker, sbrigativo. «Soltanto con gli uccelli e le creature che crescono dal suolo?» Fiordaliso tardò alquanto a rispondere. Poi disse: «Ti farò vedere un modo». Gli appoggiò le mani sugli occhi. Per un attimo ci fu soltanto buio. Poi cominciò a prender forma un'immagine... gente, la gente di Harker, vista come un riflesso su uno specchio opaco e distorto, ma riconoscibile. Si riversarono dentro la valle attraverso una fenditura tra i dirupi, e subito ogni cespuglio, ogni albero, ogni singolo filo d'erba si scatenavano contro di loro. Essi combattevano selvaggiamente coi loro coltelli, riuscendo ad avanzare, ma lentamente. E poi attraverso il pianoro venne avanti una nebbia leggera, ma morbida e compatta. Si fece più vicina, avanzando per forza propria, sfidando il vento contrario. Harker vide che si trattava d'una infinità di pappi, semi portati da seriche ali. La nube si distese sopra la gente intrappolata tra i cespugli. Era una marea interminabile e lenta che li coprì tutti d'una sottile lanugine. Gli uomini cominciarono a contorcersi e ad urlare per il dolore, in preda a una terribile paura. Si dibattevano, ma non riuscivano a fuggire. La lanugine bianca cadde giù dai loro corpi, i quali rivelarono adesso di
esser coperti da minuscole, innumerevoli punture verdi, attraverso le quali venivano risucchiate le sostanze chimiche dalla carne viva... I semi lì conficcati cominciavano già a crescere. Il pensiero parlato di Fiordaliso si sovrappose alle immagini: «Ho visto i tuoi pensieri... o almeno alcuni di essi... dal momento in cui sei uscito dalle caverne. Non riesco a capirli, ma ho potuto vedere le nostre terre squarciate fino alla nuda roccia, i nostri alberi abbattuti e ogni creatura abbrutita. Se la tua razza venisse qui, noi dovremmo andarcene. E la valle appartiene a noi». Il cervello di Matt Harker giacque immobile nell'oscurità del suo cranio, vigile, ritirato in se stesso. «Prima di voi, apparteneva ai nuotatori». «Non sono riusciti a tenersela. Noi possiamo farlo». «Perché mi hai salvato, Fiordaliso? Cosa vuoi da me?» «Da te non veniva nessun pericolo. Eri strano. Volevo giocare con te». «Mi ami, Fiordaliso?» Il suo dito sfiorò una larga pietra liscia tra le radici delle felci. «Amore? Cos'è?» «È il domani e lo ieri. È speranza e felicità e dolore. È la totalità dell'essere perché è disinteressato, la catena che ti lega alla vita e che fa sì che valga la pena viverla. Capisci?» «No. Io cresco, prendo al suolo e alla luce, gioco con gli altri, con gli uccelli, il vento e i fiori. Quando viene il momento sono matura di semi, e dopo vado lì, nel termine, ad aspettare. È tutto ciò che capisco. È tutto ciò che c'è». Harker sollevò lo sguardo e guardò nei suoi occhi. Un brivido lo colse. «Non hai anima, Fiordaliso. Ecco la differenza tra noi. Tu vivi... ma non hai anima». E dopo... non gli fu difficile far ciò che doveva. Farlo in fretta, fare ciò che era la sua unica, debole possibilità di giustificare la morte di Sim. Ciò che Fiordaliso poteva anche aver intravisto nella sua mente, ma contro la quale non poteva difendersi, poiché a lei mancava del tutto la comprensione dell'assassinio. 4 Gli uccelli neri si scagliarono contro Harker, ma la costrizione che li guidava si spense troppo presto. Le felci e i rampicanti vibrarono convulsi, poi s'immobilizzarono. Gli uccelli neri volarono via con pesanti battiti del-
le ali. Matt Harker si alzò in piedi. Era probabile che il popolo dei fiori mantenesse un contatto mentale molto intimo, ma forse non avrebbero notato l'assenza di Fiordaliso per un po'. Forse non sbirciavano nei suoi pensieri perché lui era il giocattolo di Fiordaliso. Forse... Cominciò a correre verso le rupi, verso il punto dov'era il termine. Si tenne quanto più possibile sui tratti aperti, lontano dagli alberi e dai cespugli. Evitò accuratamente di guardare, prima di allontanarsi, ciò che adesso giaceva ai suoi piedi. Era ormai vicino alla sua destinazione, quando seppe di essere stato individuato. Gli uccelli neri tornarono indietro, sfrecciando verso di lui sulle ali sibilanti. Harker raccolse un ramo secco per respingerli, ma questo gli si sbriciolò tra le mani. Telecinesi. Il potere della mente sulla materia. Una volta Harker aveva letto che si poteva sempre vincere ai dadi, pensando intensamente alla posizione in cui si volevano far cadere. Desiderò poter concepire un fulminatore col pensiero... Becchi adunchi gli lacerarono le braccia. Si coprì il volto e, afferrato uno degli uccelli per il collo, l'uccise. L'altro urlò, e questa volta Harker non fu altrettanto fortunato. Quand'ebbe infine ucciso anche il secondo, aveva abbondantemente assaggiato i suoi artigli, e aveva le guance incise da solchi sanguinolenti. Riprese a correre. I cespugli si piegavano di scatto verso di lui mentre passava. Rami spinosi si allungavano. Rampicanti balzavano su come serpenti dall'erba, e ogni filo d'erba puntava come un coltello a trafiggergli i piedi. Ma, ormai aveva raggiunto le rupi: davanti a lui si apriva una distesa brulla, e l'erba e i cespugli mancavano quasi del tutto. Seppe di esser vicino al termine quando ne sentì l'odore. La fragranza dolciastra dei fiori appassiti, con sotto un acre odore di marcio e di morte. Gridò il nome di McLaren, atterrito all'idea che potesse non esserci nessuna risposta... e quasi si afflosciò per il sollievo quando la risposta vi fu. Scavalcò di corsa alcune rocce franose in direzione di quel suono. Un piccolo rampicante gli attorcigliò intorno a un piede e lo fece cadere. Harker lo strappò, con le radici, dalla fenditura poco profonda da cui sporgeva, e proseguì. Quando si voltò a guardare dietro di sé, vide un sottile velo bianco, una piccola chiazza lontana a mezz'aria, che stava avanzando verso di lui. Giunse infine al termine. Era un canyon dalla sezione quadrata, profondo, le pareti a picco, così da assomigliare a un ampio pozzo. In fondo ad esso, i corpi inerti in esso get-
tati formavano un mucchio spugnoso e secco. Corpi vegetali senza più nessun colore, vizzi e ingrigiti, un'incredibile coacervo in decomposizione. McLaren giaceva in cima al mucchio, in apparenza illeso. I due zaini erano accanto a lui, con le armi. Sparsi sopra il mucchio, seduti o distesi, che si muovevano appena, c'erano quelli in attesa, come aveva detto Fiordaliso, di fermarsi. Qui c'erano i vecchi, gli sbiaditi e consunti, gli imperfetti e i feriti, gettati in un luogo in cui tali brutture non potevano offendere nessuno. Naturalmente, parevano tutti quasi morti, ormai. Non prestavano nessun attenzione né agli uomini, né ai loro simili. Riuscivano a sopravvivere ancora per un po' soltanto grazie alle pure energie vegetative, allo stesso modo in cui un geranio resta fiorito ancora un po', dopo che il suo stelo è stato reciso. «Matt», disse McLaren, «oh, Dio, Matt... sono contento di vederti!» «Stai bene?» «Sicuro. Anche la mia gamba sta molto meglio. Puoi tirarmi fuori?» «Lancia quassù quegli zaini». McLaren obbedi. Anche lui si trovò contagiato dalla febbrile urgenza di Harker, e soprattutto alla vista del sangue che colava giù dal viso dilaniato dell'amico, che faceva presagire qualcosa di brutto. Harker gli spiegò in fretta l'accaduto, mentre tirava fuori una delle corde, usandola subito dopo per tirar fuori McLaren, di peso, dal pozzo. Adesso la nebbia bianca si era fatta vicina... troppo vicina. «Riesci a camminare?» gli chiese Harker. McLaren fissò la nube lanuginosa. Harker gli aveva detto cos'era. «Ce la faccio», annuì. «Ce la farei a correre come il demonio». Harker gli porse la corda. «Vai sul lato opposto del pozzo proprio sul lato opposto, hai capito?» Aiutò McLaren a infilarsi lo zaino. «Tienti sulla roccia spoglia... e stai pronto a tirarmi su con la corda». McLaren si allontanò. Zoppicava molto e aveva il volto contorto dal dolore. Harker imprecò. Ora la nube era così vicina che riusciva a distinguere i milioni di semi che galleggiavano sulle loro ali seriche, lanugine di cardo guidata dalle menti del popolo dei fiori, giù nella valle. Si affibbiò le cinghie dello zaino e cominciò ad avvolgere bende e ciuffi d'erba morta intorno alla punta d'osso d'una delle lance che aveva recuperato. L'orlo della nube gli era quasi addosso quando fece scoccare una scintilla dentro la torcia improvvisata, per poi balzare dentro al mucchio di creature-fiore morte, nel pozzo. Sprofondò dentro quella superficie traditrice, lottando per passarvi at-
traverso, mentre appiccava il fuoco con la torcia. La materia appassita, secca, s'incendiò. Harker continuò ad allargare la cortina di fiamme fino all'opposta parete rocciosa, poi si guardò alle spalle. Le creature morenti non si erano mosse, neppure quando il fuoco le aveva avvolte. Sopra la sua testa, l'orlo della nuvola di semi avvampava crepitando, agitandosi alla cieca sopra il fuoco. Vi fu un pallido lampo di luce, e la nube comparve in uno sbuffo di fumo. «Rory!» urlò Harker. «Rory!» Per un lungo minuto rimase là sotto, tossendo, soffocando in mezzo al fumo, sentendo la vampa delle fiamme tutt'intorno, che gli arrostiva la pelle. Poi, quand'era quasi troppo tardi, il volto sudato di McLaren comparve sopra di lui, e la corda scese giù come un serpente. Lingue di fuoco gli lambirono rabbiose la schiena, mentre si arrampicava rapido come una scimmia lungo la parete a picco. Si allontanarono dal pozzo, salendo ancor più in alto sul terreno roccioso, colpendo di tanto in tanto coi coltelli gli arbusti e i rampicanti che non riuscivano ad evitare. McLaren rabbrividì. «Ma è impossibile...» esclamò. «Come ci riescono?» «Sono cugini di sangue. O forse dovrei dire di linfa. Credo che sia più o meno come un collegamento radio: basta trasmettere sulla frequenza giusta. Ecco, fermiamoci qui per un attimo». McLaren si lasciò cadere al suolo con un sospiro di sollievo. Il sangue filtrava attraverso le bende ben strette, là dove Harker gli aveva inciso il gonfiore prodotto dalla ferita. Harker tornò a guardarsi indietro, verso la valle. Il popolo dei fiori si era sparpagliato per un ampio tratto, in un ampio schieramento curvo, le vivide teste multicolori si stagliavano con chiarezza contro il verde del pianoro. Harker immaginò che avrebbero tenuto il passo sotto stretta sorveglianza. Immaginò che avessero saputo tutto quello che gli era passato per la mente, allo stesso modo in cui l'aveva saputo Fiordaliso. Una sorta di comunismo, una mente per tutti e tutti per una mente. Si rese subito conto che, anche senza la menomazione di McLaren, non ce l'avrebbero mai fatta ad arrivare al passo. Neppure un sorcio ce l'avrebbe fatta. Harker si chiese quanto tempo ci sarebbe voluto prima che arrivasse la prossima nube di semi. «Cosa possiamo fare, Matt? C'è qualche modo...» McLaren non stava pensando a se stesso. Stava guardando la valle allo stesso modo in cui Lu-
cifero avrebbe occhieggiato con bramosia verso il Paradiso, e stava pensando a Viki... non a Viki soltanto, ma a Viki come simbolo di tremilaottocento nomadi umani sulla superficie di Venere. «Non so», Harker rispose. «Il passo è da escludere, e la galleria del fiume anche... Ehi! Non ricordi quando abbiamo combattuto contro quelle bestiacce lì al fiume, e tu quasi hai provocato un crollo scagliando pezzi di roccia? Là c'era una faglia, proprio sopra il bordo del lago. Una lunga fessura causata da un terremoto. Se soltanto potessimo arrivarci da sopra e farla precipitar giù...» Ci volle un minuto prima che McLaren capisse. Sgranò gli occhi. «Una frana che sbarrasse il lago...» «Se il livello s'innalzasse abbastanza, i nuotatori potrebbero uscir fuori». Harker fissò gli occhi brucianti sulle teste oscillanti del popolo dei fiori, là in fondo alla valle. «Ma, Matt, se la valle verrà allagata e quelle bestiacce prenderanno il sopravvento, che vantaggio ne trarranno i nostri?» «Non ci sarà poi una gran frana, non credo. La roccia è solida su entrambi i lati della faglia. E, in ogni caso, il peso della gran massa di acqua trattenuta quassù spingerebbe via qualunque cosa, perfino una diga di cemento armato, nel giro d'un paio di settimane». Harker studiò con attenzione il profilo della valle. «Vedi laggiù com'è il pendio? Anche se la frana non venisse spazzata via dall'acqua, un po' di scavi basterebbero a scaricare l'inondazione giù per il passo. Non faremmo altro che creare un nuovo fiume... anzi, una nuova cascata». «Forse», annui McLaren. «Anzi, sì, immagino di si. Ma rimarranno pur sempre i nuotatori, i pianni. Non credo che sarebbero molto più disposti di queste maledette creature-fiori a rinunciare a questa terra». Il tono della sua voce diceva chiaramente che avrebbe preferito di gran lunga combattere contro la gente di Fiordaliso, piuttosto che con le creature della caverna. La bocca di Harker si torse in un lento sogghigno. «Rory, i nuotatori sono creature acquatiche. Anfibie. Inoltre hanno vissuto sottoterra nella più totale oscurità, Dio sa per quanto tempo. Sai bene cosa succede a un verme per pescatori quando lo tiri fuori alla luce. Sai cosa succede a un fungo che cresce al buio». Si passò le dita, quasi con reverenza, sulla pelle. «Hai notato niente su di te, Rory? Oppure sei stato troppo occupato?» McLaren lo fissò. Si sfregò la pelle e sussultò; se la sfregò di nuovo, notando come sulla sua pelle si formassero dei lividi bianchi che sparivano subito.
«Il sole mi ha scottato», esclamò, pieno di meraviglia. «Mio Dio, il sole mi ha scottato!» Harker si alzò in piedi: «Andiamo a dare un'occhiata». Là sotto le teste dei fiori erano in preda a una viva agitazione. «Non gli piace questo pensiero, Rory. Forse si può fare... e loro lo sanno», McLaren si alzò, appoggiandosi a una delle corte lance come a un bastone. «Matt, non ce lo lasceranno fare». Harker corrugò la fronte. «Fiordaliso ha detto che c'erano altri modi oltre ai semi...» Si girò di scatto. «Non serve a niente star qui a preoccuparsi». Ripresero l'arrampicata, molto lenta, a causa di McLaren. Harker cercò di calcolare il punto in cui si trovavano, rispetto alla caverna sottostante. Il fiume costituiva una buona traccia. Qui le rocce erano quasi prive di vegetazione, il che era una benedizione. Tornò a guardare, ma non vide niente di minaccioso che stesse arrivando dalla valle. Adesso il popolo dei fiori era ridotto a lontani punti di colore, immobili. D'un tratto la formazione rocciosa cambiò. Antichi terremoti avevano lasciato cicatrici in forma di strati contorti, grandi lastre di granito inclinate, in precario equilibrio come danzatori, e fessure che sprofondavano nel buio. Harker si fermò. «Ecco, ci siamo. Ascolta, Rory. Voglio che tu vada lassù, in alto, fuori dall'area pericolosa...» «Matt, io...» «Chiudi il becco. Uno di noi deve restar vivo per informare le navi, non appena sarà riuscito a uscir fuori dalla valle. Non c'è molta fretta, e ce la farai ad arrivare in tre... o quattro giorni. Tu...» «Ma perché io? Tu sei molto più bravo di me, qui in montagna...» «Tu sei sposato», l'interruppe Matt, brusco. «Basterà uno soltanto di noi a spinger giù un paio di quei grossi lastroni. Praticamente, sono lì pronti a cader giù sotto il loro stesso peso. Forse non accadrà nulla. Forse ne uscirò vivo. Ma sarebbe davvero sciocco se corressimo tutti e due il rischio, non trovi?» «Sì. Ma, Matt...» «Ascolta, figliolo». La voce di Harker si era fatta stranamente gentile. «So quello che sto facendo. Porta i miei saluti a Viki e...» S'interruppe con un acuto grido di dolore. Abbassò gli occhi, incredulo, e vide il proprio corpo coperto da tante esitanti fiammelle, che guizzavano, si spegnevano, ma lasciavano le loro rosse impronte. McLaren stava sperimentando la stessa cosa.
Si guardarono negli occhi. Un terrore impotente afferrò Harker alla gola. Di nuovo la telecinesi. Il popolo dei fiori ora li aggrediva con la loro stessa arma. Avevano visto il fuoco e ciò che faceva, e stavano copiando il processo nella loro mente, concentrando tutti insieme l'intera forza mentale della colonia sui due umani. Harker capiva perfino perché la stavano concentrando sulla pelle: avevano colto il pensiero della bruciatura solare, e l'avevano applicato alla lettera. Il fuoco. Combustione spontanea. Una reazione semplice e facile, se si conosceva il trucco. C'era qualcosa a proposito d'un roveto che bruciava... L'attacco si ripeté, e con più forza. Adesso il popolo dei fiori stava prendendoci mano. Faceva male. Oh, Dio, se faceva male! McLaren urlò. Il suo perizoma e le bende cominciavano a fumare. Cosa fare? pensò Harker, frenetico, presto, dimmi cosa fare... Il popolo dei fiori riusciva a mettersi a fuoco sugli umani attraverso la loro mente cosciente. Forse non potevano arrivare con altrettanta facilità al subconscio, ai suoi simboli, alle sue immagini troppo vaghe. Forse, se Rory non avesse più pensato secondo un pensiero cosciente, non avrebbero più potuto concentrarsi su di lui... Un'altra vampata di dolore bruciante, straziante. Fra un attimo avrebbero raggiunto una mortale efficacia, rinnovando i loro attacchi fino a quando... Senza preavviso, Harker colpi con violenza McLaren alla mascella, e lo trascinò più in alto, là dove la roccia era solida, compatta. Fece tutto questo con rapidità ed energia stupefacenti. Non c'era nessun bisogno che salvasse se stesso. Non avrebbe avuto bisogno di se stesso ancor per molto. Si allontanò più o meno d'un trentina di metri, sempre con gli occhi fissi su McLaren. Un terzo attacco lo colpi: si sentì stordito e nauseato, e quasi cadde al suolo. Rory McLaren, questa volta, non era stato toccato. Harker sorrise. Si girò e tornò indietro di corsa verso il punto franoso in mezzo ai dirupi. Una parte del suo pensiero cosciente si era concentrato su quell'idea con tale intensità che il suo corpo gli obbedì automaticamente, senza fermarsi neppure quando le fiamme investirono ancora, e ancora, la sua pelle, ravvivandosi, crescendo, rafforzandosi sempre più man mano le energie mentali del popolo di Fiordaliso si fondevano insieme sempre meglio, in forma sempre più completa. Abbatté un tentennante colosso di pietra, e l'urto ne smosse un altro. Harker ne raggiunse barcollando un terzo, appoggiato su un letto scivoloso di scisto, spinse con tutte le sue forze e anche di più, e anch'esso crollò con un fragore di tuono. Harker cadde. L'universo si dissolse in un caos ruggente, al di là d'un vi-
vido velo di fiamma e all'acre odore di carne bruciata. A quel punto, una cosa soltanto era chiara nella mente di Harker, un'immagine prodotta dalla seconda porzione della sua coscienza, collegata alla prima e perfino più forte di questa. L'immagine che portò con sé nella morte era un'alta montagna incappucciata di candida neve che risplendeva, abbacinante, al sole. Era notte. Rory McLaren giaceva prono su una sporgenza sopra la valle. Sotto di lui, la valle scompariva in un'immensa distesa d'ombra color indaco, ma c'era un nuovo, lontano fragore: un rabbioso, fremente turbinio dell'acqua. E c'era anche nuova vita. Cavalcava la cresta delle acque inondanti, ardendo dorata nerazzurro cupo della notte, risplendenti giganti che ritornavano, vendicativi, al loro antico luogo d'origine. Grandi chiazze di avvampante fosforescenza, dalla sfumatura di gioielli, punteggiavano le acque: i fiori cacciatori, scatenati all'inseguimento delle prede. E fra essi, nelle mille evoluzioni d'un gioco mortale, guizzavano i piccoli dei nuotatori. McLaren contemplò la caccia al popolo della foresta. Per tutta la notte guardò, tremando per la paura, mentre i titani dorati riscuotevano il pagamento delle molte epoche trascorse nel buio. All'alba era tutto finito. E poi, durante il giorno successivo, vide morire i nuotatori. Il fiume, ripiegatosi su se stesso, gl'impediva di far ritorno alle caverne. E l'intensa, vivida luce esterna li abbatteva. Dapprima i nuotatori si rivolsero ad essa, salutandola con patetica gioia. Poi si resero conto... McLaren guardò altrove. Aspettò, riposando, fino a quando, come Harker aveva predetto, la barriera rocciosa fu spazzata via dal tremento peso dell'acqua accumulata, e il grande lago che aveva invaso la valle tornò a vuotarsi, e il fiume riprese a scorrere normalmente. Quando McLaren raggiunse il passo tra le rocce, la valle già si stava prosciugando. McLaren alzò lo sguardo verso le montagne e respirò il vento fresco e salubre, e provò una grande vergogna e umiltà per trovarsi lì, a far questo. Guardò verso la caverna, dove Sim era morto, e le rupi sovrastanti, che avevano sepolto i resti di Matt Harker. Gli parve di dover dire qualcosa, ma non gli vennero le parole, il suo petto era così gonfio che riusciva appena a respirare. Si voltò, e discese in silenzio il passo roccioso verso il Mare degli Opali Mattutini e i tremilaottocento nomadi che avevano trovato una casa.
Nelle tue mani Into Thy Hands di Lester del Rey Astounding Science Fiction, agosto Lester del Rey è un veterano di questa serie di antologie («The Day is Done», 1939; «Dark Mission», 1940; «Hereafter, Inc., 1941; «The Wings of Night», e «Nerves», 1942; «Kindness» 1944), ed è uno dei primi autori di fantascienza che abbiano pubblicato una raccolta di propri racconti in edizione rilegata, l'ormai raro And Sole Were Human (Prime Press, 1948). Ha servito la fantascienza praticamente in ogni possibile veste: direttore di rivista, curatore di collana, recensore e autore, un vivido esempio d'incredibile sovrapposizione delle diverse funzioni che caratterizzano questo nostro genere letterario. Malgrado fosse in chiara concorrenza con uno dei curatori di queste antologie, una delle sue specialità erano eccellenti storie di robot; «Nelle tue mani» è una delle sue opere migliori. (Ho scritto in una delle mie precedenti introduzioni che, secondo l'opinione di Cliff Simak, Fritz Leiber era un autore «sottoapprezzato». La mia personale sensazione è che anche Lester lo sia. È uno scrittore straordinario, sempre chiaro e interessante, qualunque cosa faccia. Sia che scriva una storia di fantascienza, una eulogia o un necrologio, ci sono sempre delle vivide intuizioni nelle sue parole che non credo potreste trovare da nessun'altra parte. Ascolto sempre con la massima attenzione ciò che dice Lester, poiché so che incapperò certamente in qualche vivida favilla che potrò assimilare e sfruttare come parto del mio stesso pensiero. A Lester non importa; c'è grande abbondanza di faville là, nel suo cervello, donde queste sono sprizzate. Uno dei miei personaggi è modellato su Lester. Si tratta di Emmanuel Rubin, della mia serie del mistero riguardante i «vedovi neri». Lester nega qualunque somiglianza, ma io posso provarla. In quelle storie, Manny Rubin è sempre impegnato nelle più svariate controversie e, non importa quanto io mi sforzi perché succeda il contrario, lui riesce a spuntarla in ogni discussione. Se questo non è Lester, allora niente lo è. I.A.)
Simon Ames era vecchio, e il suo volto era amaro come poteva esserlo soltanto quello d'un idealista incallito. Per un attimo uno strano miscuglio d'emozioni l'attraversò mentre guardava gli operai intenti a versare cemento per riempire la piccola apertura nella struttura a forma di cupola, ma i suoi occhi tornarono subito a fissare il robot che si scorgeva all'interno. «L'ultimo Ames, il Modello Dieci», disse con voce mesta a suo figlio. «E perfino in questo non ho potuto inserire una serie completa di bobine mnemoniche! Qui, ci sono soltanto le scienze fisiche; nell'altra forma maschile, le scienze biologiche, e quelle umanistiche nella versione femminile. Ho dovuto ripiegare sui libri e su una serie completa di strumenti e congegni, per coprire il resto. Siamo ormai così totalmente concentrati sui robot-soldati, che non c'è più tempo, e neanche mezzi, per qualcosa di più pacifico e costruttivo... Dan, non c'è proprio più nessun modo di evitare la guerra?» Il giovane capitano delle Squadre Lanciamissili scrollò le spalle, mentre la sua bocca si storse in una smorfia d'amarezza: «Nessuno, papà. Hanno nutrito i popoli con le glorie della carneficina e del saccheggio per tanto tempo, che adesso devono a tutti i costi trovare un pretesto per usare le loro orde di guerrieri-robot». «Quei folli, ciechi, idioti!» Il vecchio rabbrividì. «Dan, potranno sembrarti paure da vecchie comari, ma questa volta è proprio vero. A meno che noi non riusciamo in qualche modo a evitare questa guerra, o a vincerla in fretta, non rimarrà nessuno in grado di combatterne un'altra. Ho passato la mia vita sui robot, so quello che sono in grado di fare... e non dovrebbero mai essere stati costruiti per farlo! Credi proprio che sprecherei un patrimonio per questi depositi soltanto per un capriccio?» «Non sto discutendo, papà. Dio mi è testimone che la penso come te!» Dan tenne gli occhi puntati sugli operai che versavano l'ultimo cemento, eliminando in tal modo ogni soluzione di continuità in quelle pareti spesse sei metri. «Be', per lo meno, se qualcuno sopravviverà, avrai fatto tutto quello che potevi per loro. Adesso le cose sono nelle mani di Dio». Simon Ames annui, ma non c'era nessuna soddisfazione sul suo viso quando tornò indietro con suo figlio. «Tutto quello che ho potuto... e mai abbastanza! E Dio? Non saprei neppure per che cosa pregare, perché sopravviva: la scienza, la vita, o la cultura». Le parole si spensero nel silenzio con un sospiro; i suoi occhi tornarono a fissare la galleria appena riempita di cemento. Dietro di loro, la cupola lentamente sprofondò dentro al suolo, la super-
ficie esterna spazzata dalla pioggia di Dio e dalle ventate di distruzione dell'uomo. La neve la copri, e poi si sciolse, e altre cose si accumularono, che nessun sole d'estate poteva disperdere, fino a quando il suolo raggiunse lo stesso livello della sua sommità. La foresta avanzò lenta e le stagioni scivolarono via nella loro immutabile alternanza, accumulando uno sopra l'altro i decenni e i secoli. All'interno, il lucido involucro di SAIO aspettava, immobile. E alla fine il fulmine colpi, squarciando un albero, e penetrò dritto nella cupola, percorse un cavo, cortocircuitò un interruttore arrugginito, facendolo scattare, e infine si scaricò nel suolo sottostante. Sopra il robot un cardinale cominciò a cantare, all'improvviso, e l'automa alzò lo sguardo, meravigliato. In qualche modo sulla sua faccia stolida si disegnò un'espressione di meraviglia. Si fermò ad ascoltare, ma ormai l'uccello era scappato via alla vista della sua figura che si muoveva pesantemente. Con un lieve sospiro, proseguì schiantando gli arbusti della foresta, fino a quando non si ritrovò vicino all'ingresso della caverna. Il sole brillava vivido sopra la sua testa; si mise a studiarlo, pensieroso. Sapeva il suo nome, e anche la complessa catena di reazioni nucleari coinvolgenti il carbonio che si svolgeva dentro di esso. Ma non sapeva come lo sapeva, e perché. Ancora per un attimo restò immobile, in silenzio, poi aprì la bocca per un lungo grido lamentoso: «Adamo! Adamo, vieni avanti!» Ma, adesso, in quel richiamo tante volte ripetuto s'infiltrava il dubbio, come pure nella posizione della sua testa, protesa in avanti ad aspettare una risposta. E ancora una volta l'unica risposta fu l'indistinto brusio della foresta. «Dio? Oh, Dio, mi senti?» Ma la risposta fu la stessa. Un topo di campagna sgusciò tra l'erba e un falco s'innalzò sopra la foresta. Il vento frusciava tra gli alberi, ma non vi fu nessun segno del Creatore. Lasciando indugiare a lungo lo sguardo dietro di sé, tornò lentamente alla galleria che aveva scavato e, spingendo e agitandosi, tornò giù dentro alla sua caverna. L'unica lampadina funzionante illuminava la cavità. Lasciò vagare il suo sguardo, dalla frastagliata spaccatura che attraversava l'intera parete fino al punto in cui qualche antica esplosione aveva scagliato grossi frammenti di calcestruzzo. In mezzo, c'erano soltanto rovine e terriccio. Un tempo, a giudicare dai resti, buona parte dello spazio disponibile era stata piena di libri e film, ma adesso c'erano soltanto pezzi marciti di rilegature e inutili
frammenti di celluloide, mescolati a schegge di vetro e sudiciume. Soltanto sul lato dove lui era stato, immobile, per tanti secoli, il disastro non era completo. Là c'erano gli strumenti d'un piccolo laboratorio, molti ancora utilizzabili, e lui li nominò uno ad uno, dal proiettore con relativo schermo a un generatore atomico che ancora ronzava quietamente. Qui, e nella sua mente, c'erano ordine e logica, e il mondo là fuori sembrava essersi anch'esso conformato a un modello comprensibile. Soltanto lui pareva esser privo di scopo. Com'era finito li? Come mai non aveva nessun ricordo di sé? Se non c'era nessuno scopo per lui, perché mai possedeva una mente funzionante? Ma tutte queste domande non gli fornivano alcuna risposta. C'erano soltanto quelle enigmatiche parole nel frammento di celluloide conservato all'interno del proiettore. Ma quelle poche, fra esse, a lui comprensibili erano tutto ciò che aveva. Spense la luce e si chinò dietro il proiettore, lo accese e fissò attento lo schermo. Brevi attimi d'un confuso turbinio oscuro, sullo schermo, poi punti e dischi luminosi che diventavano stelle e pianeti, creando un firmamento. «All'inizio», scandi una voce, «Dio creò il cielo e la terra». Il firmamento scomparve e sullo schermo fu sostituito dagli inizi della vita. «Simbolismo?» mormorò il robot. L'astronomia e la geologia facevano parte delle sue conoscenze strettamente scientifiche, ma sentì ugualmente la mistica bellezza e l'intrinseca verità di quell'affermazione. Perfino le forme di vita, incontrate là fuori, concordavano nell'aspetto con quelle comparse sullo schermo. Poi una voce stentorea, non dissimile dalla sua stessa potente voce, riempi l'altoparlante: «Ora scendiamo a creare l'uomo a nostra immagine!» E comparve una nube luminosa che simboleggiava Dio, il quale plasmava l'uomo dalla polvere del suolo e gli alitava dentro la vita... Adamo si sentiva solo, e dalla sua costola fu fatta Eva. Qui, nell'Eden, Eva fu tentata da una serpentina nebbia d'oscurità; e a sua volta tentò il debole Adamo, ma Dio scopri il loro peccato e li esiliò. Ma l'esilio finiva in una macchia confusa, là dove la pellicola era spezzata, e l'altoparlante tacque. Il robot spense l'apparecchio e cercò di afferrare il significato di quanto aveva visto e udito. Doveva riguardare lui, dal momento che lui era il solo che si trovasse là a vederlo. Ma come poteva esser questo... a meno che lui non fosse uno di quei personaggi? Non Eva e neppure Satana; forse Adamo. Ma allora Dio avrebbe dovuto rispondergli. D'altro canto, lui poteva esser Dio... allora, forse, ciò che si vedeva nella registrazione non era stato
ancora compiuto, Adamo non era stato ancora plasmato, per cui non poteva esserci nessuna risposta. Annui lentamente fra sé. Sì, lui aveva riposato là dentro, con quel film destinato, appunto, a ricordargli il suo progetto, mentre il mondo si preparava per Adamo. E ora, di nuovo sveglio, doveva uscir fuori e creare l'uomo a sua immagine! Ma prima di tutto, doveva eliminare il pericolo contro il quale il film l'aveva messo sull'avviso. Si raddrizzò, incamminandosi con passo deciso. S'infilò nella galleria, e con energiche spinte rifece la strada verso l'esterno. Fuori, il sole splendeva ancora, e lui s'incamminò verso il disco luminoso attraverso la foresta dell'Eden, così mal tenuta. Il suo passo si fece furtivo, mentre si muoveva in silenzio nel sottobosco, come un grande folletto metallico, gli occhi che dardeggiavano tutt'intorno e le mani pronte a scattare con la velocità del fulmine. Finalmente lo vide, arrotolato accanto a una grande roccia. Era più piccolo di quanto si era aspettato, soltanto due metri di nera e scagliosa flessuosità, ma la forma e la lingua biforcuta erano inequivocabili. Gli fu addosso in un movimento che apparve come una macchia confusa, tanto fu veloce, e un grido di esultanza; e quando si allontanò, l'oggetto senza vita sulla roccia aveva smesso per sempre di corrompere anche la più ingenua delle Eve. Il sole del mattino trovò il robot chino su quello che fino a poco prima era stato un maiale selvatico, e un coltello che si muoveva rapido e preciso nella sua mano. Con delicatezza il robot aprì il cuore del maiale, studiando il funzionamento delle valvole. La vita, decise, era estremamente complicata, e fu colto da un dubbio. Nel film gli era parso facile! E tornò a chiedersi come mai lui conoscesse così bene il complesso ordine del firmamento, ma nulla di quest'altra sua creazione. Infine, scacciò il dubbio, seppellì i resti del maiale selvatico, e prese posto fra le argille multicolori che aveva raccolto, muovendo con destrezza le dita mentre le impastava, modellandole in forma d'ossa per lo scheletro (quelle bianche), aggiungendovi poi l'argilla rossa per il cuore. I nervi e i capillari sanguigni erano troppo al di là delle sue possibilità, ma non poteva farci niente; d'altra parte, se era stato lui a creare quel gigantesco sole dal niente, Adamo avrebbe certo potuto prender vita dalla sua grossolana scultura. Il sole salì più in alto, e i particolari si moltiplicarono. L'ultimo degli organi interni era stato completato, compreso il grumo grigio che era il cer-
vello. E il robot cominciò a stendere la rossa guaina dei muscoli. Qui dovette riflettere più a lungo per adattare la struttura muscolare del maiale a gambe e braccia assai più lunghi, e a un torso pure diverso; ma la sua mente affrontò con tenacia tutti i problemi matematici, e infine terminò l'opera. Inconsciamente, si mise a cantare a bassa voce, imitando gli uccelli, mentre le sue dita modellavano altra argilla, più pallida, per nascondere i muscoli e dare la sua liscia simmetria al corpo. Questo colore aveva dovuto immaginarselo, anche se aveva dedotto che la tinta scura delle labbra, nel film, era il rosso vivo del sangue che scorreva sotto di esse. La luce del crepuscolo lo trovò ritto in piedi, intento ad approvare il suo lavoro, annuendo col capo. Sì, era una copia fedele dell'Adamo del film che aspettava soltanto l'alito della vita; e questo doveva venire da lui, esser parte delle forze che scorrevano attraverso i suoi nervi e il cervello metallici. Collegò, delicatamente, dei fili alla testa e ai piedi del corpo d'argilla; poi aprì la propria piastra toracica per collegare l'altro capo dei cavi ai morsetti del suo generatore, imponendo con la sua volontà alla corrente di scorrer fuori da lui, dentro la figura che giaceva ai suoi piedi. E nel medesimo istante un'ondata di debolezza l'investi, minacciando di oscurare la sua coscienza, ma non si rincrebbe per quella perdita di energia. Il vapore esalò dalla figura distesa, avvolgendola allo stesso modo in cui la nebbia aveva coperto Adamo nel film, poi, lentamente, si dissolse, e lui interruppe il collegamento, concedendosi un attimo per riprendersi, mentre la corrente tornava a percorrere il suo corpo al massimo d'energia. Staccò quindi i fili, facendo attenzione, e li tirò indietro. «Adamo!» L'ordine echeggiò attraverso la foresta, vibrante d'impazienza. «Adamo, alzati. Io, il tuo creatore, te lo ordino!» Ma la figura giacque immobile, e adesso vide che su di essa si erano formate delle lunghe, vistose crepe, mentre il nobile sorriso del suo volto si era deformato, diventando un ghigno inverecondo. Non c'era alcun segno di vita! Era morto, come il suolo dal quale veniva. Si accucciò su di esso, gemendo, ondeggiando avanti e indietro, e le sue dita cercarono di chiudere quelle orribili crepe, riuscendo soltanto a creare un guasto più grande. Alla fine si alzò, e prese a calpestarlo finché non lo ridusse a una chiazza multicolore sulla terra. Continuò a calpestare e a gemere mentre distruggeva il simbolo del suo fallimento. La luna lo guardava beffarda con una faccia saggia e cinica, e lui le lanciò un ululato mi-
sto di rabbia e d'angoscia, al quale rispose un gufo solitario che si interrogava sulla propria identità. Un Dio impotente, o un Adamo senza Dio! Le cose erano andate troppo bene nel film, dove Adamo si alzava dalla polvere del suolo... Ma il film era simbolico, e lui l'aveva preso alla lettera! E naturalmente aveva fallito. I maiali non erano polvere, ma complesse strutture colloidali, gelatinose. E essi ne sapevano più di lui, poiché ne aveva visti di appena nati, a dimostrazione che in qualche modo erano senz'altro capaci di trasmettersi l'un l'altro l'alito della vita. D'improvviso, drizzò le spalle e tornò a incamminarsi dentro la foresta. Adamo si sarebbe levato da terra per alleviare la sua solitudine. I maiali conoscevano il segreto, e lui poteva impararlo; ciò che adesso gli serviva erano altri maiali, e non gli sarebbe stato difficile procurarseli. Ma due settimane più tardi era un robot preoccupato che sedeva osservando i suoi maiali che mangiavano, ingordi e felici, il loro cibo. La vita, invece che rivelarsi più semplice, si era fatta più complicata. Il fluoroscopio e il microscopio elettronico, da lui riparato, gli avevano fatto veder molto, ma c'era sempre qualcosa che mancava. La vita pareva aver inizio soltanto dalla vita; e perfino le due cellule di partenza erano vive in qualche maniera strana che differiva dalla sua. Certo, la vita di un dio poteva esser diversa da quella animale, ma... Con una scrollata di spalle lasciò perdere la metafisica e tornò al laboratorio, scansando i maialetti che gli camminavano fiduciosi tra i piedi. Lentamente estrasse l'ultimo ovulo dal fluido nutriente in cui l'aveva conservato, lo mise su un vetrino e l'osservò col microscopio ottico. Con un sottile filo di platino depositò qualche spermatozoo vicino all'ovulo. Le sue dita operavano sicure, attraverso i centesimi di millimetro necessari a metterli in posizione. Aveva sviluppato la sua tecnica dopo molti fallimenti; ora, uno degli spermatozoi trovò l'ovulo e lo penetrò. Mentre osservava, quell'unica cellula rotonda cominciò ad allungarsi, a dividersi nel mezzo. Sì, questo sarebbe stato un successo! Prima ci furono due, poi quattro cellule; le sue mani agirono fulmineamente e con precisione estrema, mentre, all'interno del campo visivo del microscopio, sostituiva al vetrino una membrana sottile, dotata di minuscoli tubi che portavano l'ossigeno, il nutrimento, e minuscole quantità di ormoni per la stimolazione e il controllo grazie ai quali sperava di modellare a suo piacimento il nuovo essere vivente. Adesso c'erano otto cellule, e lui attese febbrilmente che si portassero
sulla membrana, per proseguire il loro sviluppo. Ma non lo fecero. Mentre guardava, un'ulteriore divisione ebbe inizio, ma si arrestò a mezzo; ancora una volta le cellule erano morte. Tutto il suo studio, il suo lavoro, erano stati futili, vani, ancora una volta. Rimase lì in silenzio, abbandonando ogni pretesa di divinità. La sua mente abdicò, lasciando che il sogno svanisse nel nulla; e non c'era niente che potesse prendere il suo posto, e dargli uno scopo e una ragione... soltanto il vuoto invece che un disegno preciso. Scoraggiato, tolse le sbarre alla rozza gabbia e cominciò a spingere su per la galleria i maiali riluttanti fino alla foresta, fuori della caverna. Era un mattino fosco, il sole era nascosto, e s'intonava benissimo al suo umore quando l'ultimo maialetto scomparve tra la vegetazione lasciandolo doppiamente solo. Erano stati ben scarsi compagni, i maiali selvatici, ma avevano occupato il suo tempo, quelle piccole creature gli erano piaciute. Adesso, anche loro se n'erano andate. Scoraggiato, lasciò cadere i suoi trecento chilogrammi sull'erba, fissando le nere nubi sopra di lui. Una formica si arrampicò incuriosita sopra il suo corpo, e lui la guardò senza interesse. Poi, anche la formica se ne andò. «Adamo!» Il grido era giunto dalla foresta, squillante e irresistibile. «Adamo, vieni avanti!» «È Dio!» Si rizzò di scatto, sulle sue membra meccaniche fattesi goffe e insicure. Nell'ora più buia del suo maggior bisogno, Dio era finalmente giunto! «Dio, eccomi!» «Vieni avanti, Adamo! Adamo, vieni avanti...» Con un grido selvaggio, il robot si precipitò come un lampo verso il bosco. Un pizzicore elettrico l'impregnava tutto. Non era più indesiderato, non era più un frammento smarrito nella tempesta. Dio era venuto a cercarlo. Continuò ad avanzare incespicando, inciampando sui rami, schiantando arbusti, incurante del fracasso che faceva; che Dio sapesse pure della sua ansia! Il richiamo giunse ancora una volta, adesso spostato su un lato, e lui deviò un poco la sua corsa, proseguendo coi suoi passi pesanti. «Eccomi, sto arrivando!» Dio avrebbe alleviato le sue preoccupazioni, spiegandogli perché lui era così diverso dai maiali. Dio avrebbe saputo tutto questo. E poi ci sarebbe stata Eva... e non più solitudine! Avrebbe avuto qualche problema a tenerla lontana dall'albero della conoscenza, ma non gliene sarebbe importato! Il richiamo lo raggiunse da una direzione ancora una volta diversa. Forse Dio non era soddisfatto di tutto il rumore che lui faceva. Il robot calmò il
suo passo e venne avanti con reverenza. Intorno a lui gli uccelli cantavano, e adesso la chiamata gli giunse di nuovo, squillante e vicina. Si affrettò, sforzandosi di combinare la velocità col silenzio, malgrado il suo peso. Questa volta l'intervallo fu più lungo, ma quando la chiamata si ripeté, era quasi sopra la sua testa. Si curvò e letteralmente strisciò fino all'antica quercia dalla quale il richiamo era giunto, incerto e pieno di timore, ma colmo d'una ardente aspettativa. «Vieni avanti, Adamo, Adamo!» Il suono era direttamente sopra di lui, ma Dio non si manifestò di persona in maniera visibile. Lentamente, il robot ruotò la testa guardando in alto, attraverso i rami dell'albero. Là c'era soltanto un uccello... e dal suo becco dischiuso giunse di nuovo il richiamo: «Adamo, Adamo!» Un mimo poliglotta: l'aveva già sentito imitare altri uccelli... e adesso stava imitando la sua voce e le sue parole! E lui, aveva seguito il suo richiamo attraverso la foresta nella speranza d'incontrare Dio! Lanciò un grido stridulo in direzione dell'uccello, la sua rabbia era così acuta che la creatura alata si affrettò a volar via dal ramo per appollaiarsi su un altro albero e allungare la testa verso di lui. «Dio?» chiese l'uccello con la sua stessa voce, poi passò a imitare il rauco richiamo d'una ghiandaia. Il robot si accasciò contro l'albero, rifiutandosi di consentire che la speranza svanisse del tutto. Sapeva così poco di Dio. Non era possibile che Lui avesse usato l'uccello per chiamarlo fin lì? Quanto meno, quell'albero non era molto dissimile da quello sotto il quale Dio aveva fatto addormentare Adamo prima di creare Eva. Prima il sonno, poi la venuta di Dio! Si stiracchiò, ben deciso in questo suo tentativo d'imitare il torpore dei maiali, respingendo i tentativi sciocchi della sua mente d'indovinare dove potessero trovarsi le sue costole. Fu una cosa lenta e difficile, ma insisté, tenace, riuscendo a ipnotizzare se stesso fino a intorpidirsi mentalmente; a poco a poco i rumori della foresta divennero un rivolo sottile nella sua mente. Poi, anche questo si acquietò. Non aveva nessun modo per sapere quanto tempo fosse durato, ma d'un tratto si rizzò a sedere, stordito, al rombo d'un tuono, mentre un torrente di pioggia sferzante gli scrosciava, accecante, sugli occhi. Per un attimo si guardò il fianco, ma non vide nessuna cicatrice. Una folgore colpi, avvampando, un albero lì vicino, facendogli piovere addosso una cascata di schegge. Questo, certo, non si accordava a quanto aveva visto nel film! Si alzò in piedi, tentennando, scrollando via un po' di pioggia dalla faccia, e s'incamminò con passo incerto verso la caverna.
Ancora una volta il lampo colpi, più vicino; allora accelerò il passo, e cominciò a correre. Il vento fustigava gli alberi, spezzandone qualcuno con selvaggia ferocia, e ci volle tutta l'energia dei suoi magneti per riuscire ad avanzare a dieci miglia all'ora, invece delle sue normali cinquanta. Una raffica più violenta lo colse impreparato, mandandolo a sbattere contro una roccia, con clangore di metallo. Ma non poteva fargli del male, e lui proseguì barcollando fino a quando non raggiunse l'ingresso, protetto da un basso argine, della sua galleria fangosa. Al sicuro, dentro la sua caverna, si asciugò con una lampada a raggi infrarossi, seduto accanto all'imboccatura della galleria per studiare la furia selvaggia della burrasca. Certo, tutto quel furore non trovava posto nell'Eden, dove la rugiada inumidiva le foglie, la sera, sotto carezzevoli brezze musicali! Annuì lentamente, rilassando i muscoli che serravano la mascella. Quello non poteva essere l'Eden, ed era nell'Eden che Dio l'aspettava. Non aveva importanza quale maligno incantesimo Satana avesse usato su di lui, per attirarlo fin là, derubandolo dei ricordi. Tutto quello che importava era tornare, e non avrebbe dovuto esser difficile, dal momento che il Giardino si stendeva tra i fiumi. Stanotte, finita la tempesta, sarebbe tornato là fuori e domattina avrebbe seguito il ruscello in mezzo alla foresta finché non l'avesse condotto là, dove Dio l'aspettava. Con la fede di un bimbo, si voltò e, continuando a raffigurarsi in mente la sua creazione e quella di Eva, cominciò a strappare i sottili pannelli di berillite dai tavoli e dagli armadi del laboratorio. Fuori, la tempesta continuava a imperversare furiosa, ma lui non l'udiva più. Domani si sarebbe messo in viaggio verso casa! Questa parola era nebulosa, nella sua mente, come lo erano tutte le parole più belle, ma aveva un buon suono, sgombro da ogni concetto di solitudine, e gli piaceva. Seicento lunghi anni si erano trascinati con interminabile lentezza, e perfino il duro pavimento di cemento era butterato da tutti quei secoli di andirivieni e di attesa. Il tempo aveva eroso tutte le sue speranze, tutti i progetti, tutte le congetture, e ora c'era soltanto una disperazione sorda, atona, troppo vecchia per poter mai esplodere in accessi di rabbia o addirittura pazzia. Il robot-femmina si accasciò immota sullo scavatore atomico, i suoi occhi fissavano, spenti, la cupola, tra le file dei libri, le bobine dei film. Inutili, ingombranti macchine stavano, coperte di polvere, qua e là sul pavimento. Là giaceva anche un piccone, e i suoi occhi lo contemplarono svogliati; un tempo, quando il dizionario le aveva mostrato la sua
immagine, rivelandole il suo corpo, aveva creduto che fosse la chiave per fuggire, ma adesso era soltanto un altro simbolo di futilità. Si avvicinò ad esso senza uno scopo, lo afferrò per la parte metallica e colpi la parete col manico di legno; un'altra scheggia si staccò dal legno, un po' di polvere vecchia di secoli s'innalzò turbinando e ricadde, ma ciò non offri nessuna nuova via d'uscita. Niente l'offriva. L'umanità, e gli altri robot, i suoi simili, dovevano esser morti molto tempo prima, lasciandola senza nessuna speranza di libertà, ma altresì senza nessun uso possibile di essa, se fosse riuscita a conquistarla. Un tempo, aveva elaborato piani e progetti per ricostruire l'eredità dell'uomo, grazie alle sue vaste conoscenze di psicologia, ma adesso lo scrittoio coperto di appunti era soltanto una presa in giro; allungò stancamente una mano... E s'immobilizzò, diventando una statua di metallo! Attraverso la parete di cemento un fioco segnale l'aveva raggiunta, animando la radio ricevente che faceva parte di lei! Concentrando in un unico sforzo disperato tutta la sua energia, inviò a sua volta un segnale; ma non vi fu risposta. Restò immobile per parecchi minuti, mentre i segnali continuavano a giungerle dall'esterno, sempre più intensi, ma sempre vaghi e distaccati, del tutto inconsci della sua presenza. Lei si riscosse, concentrò l'attenzione... e come un lampo improvviso, i pensieri dell'altra mente robotica divennero più potenti, chiari e comprensibili: ma erano pensieri incoerenti, sconvolti, folli! E proprio mentre la loro demenza si palesava, cominciarono ad affievolirsi; un attimo dopo l'altro, finirono per svanire in distanza, e la lasciarono di nuovo sola e senza speranza! Con uno sferragliante grido selvaggio, scagliò l'inutile piccone contro la parete, da cui rimbalzò con un'eco assordante. Il robot-femmina non era più senza uno scopo; i suoi occhi avevano osservato le schegge di cemento che si staccavano dal muro sotto l'urto della punta metallica acuminata, e fu rapida ad agguantare il piccone prima che cadesse a terra, e questa volta strinse il manico di legno tra le mani robuste. Con tutta la forza dei suoi magneti, sollevò il piccone e lo vibrò, mentre i suoi piedi scostavano a calci i frammenti che cadevano giù in una fitta pioggia, per la forza e la rapidità dei suoi colpi. Dietro a quel muro che si stava sbriciolando in fretta c'era la libertà... e la follia! Certo non poteva esserci nessuna vita umana in un mondo che
poteva far impazzire un robot, ma se ci fosse stata... Respinse quell'immagine e continuò ad aggredire con selvaggia violenza la massiccia parete. Il sole illuminò la foresta intrisa d'acqua e sconvolta dalla tempesta, rivelando il robot-maschio che procedeva instancabile lungo la riva del ruscello. Malgrado il pesante fardello che trasportava, adesso le sue gambe si muovevano veloci, e quando arrivava su qualche tratto sabbioso o di terreno coperto soltanto d'erba, i suoi passi si allungavano ancora di più; aveva fretta: si era baloccato anche troppo a lungo con le illusioni, in quella terra ostile. Il ruscello giunse alla confluenza con un corso d'acqua più grande; il robot si fermò, e lasciò cadere il suo ingombrante fardello, aprendolo a metà. Gli bastarono pochi minuti, e si trovò a spingere sull'acqua una barca confezionata a regola d'arte coi pannelli di berillite. Vi sali dentro. Il piccolo generatore che aveva estratto dal microscopio elettronico ronzò sommesso e un getto d'acqua cominciò a schizzar via d'ambo i lati della barca; un propulsore rozzo ma efficace, come testimoniava la scia ribollente alle sue spalle. Anche se la barca appariva lenta al confronto col suo rapido passo sulla terraferma, non ci sarebbero state deviazioni o barriere invalicabili a ostacolare il suo cammino. Le ore passarono e le ombre ripresero ad allungarsi, ma il nuovo ruscello continuava ad allargarsi, e le sue speranze crebbero, anche se guardava le rive con indifferenza: l'Eden non era qui, avrebbe dovuto viaggiare ancora chissà quanto per... Ma a una nuova curva, si rizzò a sedere con un sobbalzo e subito puntò con la barca verso riva, avendo osservato qualcosa di totalmente diverso rispetto al resto del paesaggio. Mentre tirava a riva la barca e si avvicinava, vide una grande buca beante nel terreno, che scendeva almeno a trenta metri di profondità e aveva un quarto di miglio di diametro, circondata da quelle che, ovviamente, erano rovine artificiali. Spezzoni metallici contorti spuntavano tra ammassi di cemento in equilibrio precario, frammisti a manufatti danneggiati al punto d'essere irriconoscibili. Un palo piegato fin quasi a spezzarsi in due, lì vicino, recava ancora un cartello. Il robot grattò via ruggine e sporcizia e riuscì a leggere le lettere sbiadite: BENVENUTI A HOGANVILLE. Abitanti 1876 Non significava niente per lui, ma le rovine lo affascinavano. Quello do-
veva essere stato un vecchio espediente di Satana. Una simile bruttura non poteva essere altro. Scuotendo la testa fece ritorno all'imbarcazione, e proseguì veloce la sua corsa sull'acqua mentre spuntavano le stelle. S'imbatté in altre rovine, più estese e più difficili da vedere, poiché qui la distruzione era stata più completa e la foresta ne aveva fittamente invaso la maggior parte. Ebbe la certezza che erano rovine soltanto per la presenza di quelle grandi buche dal profilo frastagliato dentro le quali non cresceva neppure un filo d'erba. Mentre la notte passava, trovò altre buche più piccole, come se fossero stati distrutti, uno ad uno, degli oggetti isolati. Alla fine, rinunciò a risolvere l'enigma; non era una cosa che lo riguardasse. Quando tornò a spuntare il mattino, quelle vaste rovine erano lontane dietro a lui, il fiume era ampio e la corrente assai forte, e ciò gii suggerì che il viaggio dovesse ormai volgere alla fine. Poi, gli giunse il debole odore salmastro dell'oceano, e lui lanciò un grido di gioia, frugando qua e là nel paesaggio alla ricerca d'un conveniente punto di osservazione. Davanti a lui una bassa collina interrompeva il terreno pianeggiante, coronata da un cocuzzolo verde; il robot si avviò verso di essa. La barca scricchiolò sulla ghiaia, e lui balzò a terra mettendosi a correre sull'erba in direzione della collina, salendo fino in cima al cocuzzolo verdeggiante, rivestito di rampicanti. Da quella piccola altura era visibile tutto l'ultimo tratto del corso del fiume, che percorreva dritto, senza diramazioni, le ultime venticinque miglia prima di raggiungere il mare. Non era difficile immaginare l'Eden là, in quella terra dall'aspetto così piacevole. Ma adesso, mentre stava per scendere, si accorse che la gibbosità dove era salito non faceva parte del resto della collina, come sulle prime gli era parso. Aveva lo stesso colore verde-grigio delle pareti di cemento della caverna da cui era uscito come un pulcino dall'uovo. Ma sì, qui doveva esserci un'altra caverna, un uovo non ancora schiuso ma che già si stava rompendo, come la crepa sulla superficie accanto a lui stava a testimoniare. Per un attimo l'immagine d'un uovo che si stava aprendo lo sbigottì, poi si riscosse e si mise a strappare i rampicanti che coprivano la spaccatura. Si aprì un passaggio e vi si calò dentro, allungando la mano verso una piccola piastra inchiodata a poca distanza dalla crepa. Riuscì facilmente a staccarla: era un utensile ben misero, ma se Eva era intrappolata là dentro, bisognosa di aiuto per rompere il guscio, lui gliel'avrebbe dato. «A voi che riuscirete a sopravvivere all'olocausto, io, Simon Ames...»
Suo malgrado si sentì attratto da quelle parole incise, il suo sguardo fu costretto ad abbassarsi e a fissarle. «... dedico questo. Non è facile entrare, ma non dovete aspettarvi una facile eredità. Apritevi la strada con la forza, prendete quello che c'è dentro, usatelo! A voi che ne avete bisogno e faticherete per averlo, ho lasciato tutto il sapere che era...» Il sapere! Il sapere, proibito da Dio! Satana aveva posto sui suoi passi tutto il male simboleggiato dall'Albero del Sapere, nascosto lì in quel falso uovo, e lui c'era quasi cascato! Qualche minuto ancora... Rabbrividì e arretrò, ma dentro di lui l'ottimismo stava riprendendo vigore. Perché, se c"era l'albero, ciò significava che quello era davvero l'Eden, e poiché lui era stato messo sull'avviso dal segno di Dio, non aveva paura degli inganni di Satana, vivo o morto. Con lunghi passi saltellanti discese la collina, dirigendosi verso le praterie e il bosco, lasciandosi alle spalle la barca, adesso inutile. Sarebbe entrato nell'Eden camminando coi propri piedi, così come Dio l'aveva creato! Mezz'ora più tardi fischiettava tra sé tutto felice mentre passava accanto a campi lussureggianti, ricchi di vegetazione, lungo un piccolo sentiero che costeggiava il bosco. Qui c'erano ordine e logica, proprio come doveva essere. Quello era certamente l'Eden! E a conferma, arrivò Eva! Stava arrivando dal lungo sentiero che lui stava percorrendo, i capelli al vento, e una veste sciolta che le modellava i fianchi e i seni: l'intera forma che la veste celava senza nasconderla era quella di una donna, inequivocabilmente donna, e bella. Si tirò indietro, nascondendosi alla vista di lei, all'improvviso spaurito e incerto, chiedendosi vagamente come avesse fatto ad arrivargli davanti. Poi gli fu accanto, e lui si mosse d'impulso. La sua voce fu un sussurro estatico: «Eva!» «Oh, Dan, Dan!» Fu uno strillo acuto che tagliò l'aria, e lei fuggi via, in preda al panico, nel folto del bosco. Lui scosse la testa sbalordito, mentre le sue gambe pomparono con più forza per inseguirla. Le era quasi addosso quando vide il serpente, vivo e più forte di prima! Ma non per molto! Mentre lei cacciava un breve rantolo, una delle sue braccia la sollevò, scostandola, mentre l'altra scattò all'infuori e fece schizzar via la testa dai denti venefici dal resto del corpo. La voce del robot fu di gentile rimprovero, quando tornò a metterla giù: «Non avresti dovuto fuggire dal serpente, Eva!» «Dal... Ugh! Ma... Avresti potuto uccidermi, prima che lui mi avesse morso!» Il pallore terrorizzato stava svanendo dal suo viso, sostituito da un
atteggiamento di sfida e di dubbio. «Ucciderti?» «Sei un robot! Dan!» I suoi richiami s'interruppero quando una figura nerboruta emerse dal sottobosco stringendo un'ascia in mano; uno splendido cane comparve subito dopo. «Dan, mi ha salvato la vita... ma è un robot!» «Ho visto, Syl. Stai calma. Vieni qui accanto a me, se puoi. Bene, così! A volte hanno dei periodi di passività ho sentito dire. Shep!» Il cane rispose con un sordo ringhio, ma i suoi occhi rimasero incollati sul robot. «Sì, Dan?» «Vai a chiamare gli altri! Grida la parola "robot" e torna indietro. Su. vai!» Disse Dan al cane. Poi, rivolto al robot: «E tu... cosa vuoi?» SA-10 replicò con un aspro grugnito, curvando le spalle. «Cose che non esistono! Compagnia, e la possibilità d'impiegare la mia forza e la scienza che conosco. Forse non dovrei voler questo, ma non importa. Lo voglio!» «Uhmmm... Ci sono storie su robot amichevoli nascosti da qualche parte, pronti ad aiutarci, sì, le ho sentite. E abbiamo certamente bisogno d'aiuto. Qual è il tuo nome e da dove vieni?» La voce del robot era intrisa d'amarezza quando indicò la direzione a monte del fiume. «Dal lato del sole. Finora sono riuscito soltanto a scoprire ciò che non sono!» «Dunque, è così? Avevo intenzione di recarmi laggiù io stesso, una volta terminato d'insediare la colonia». Dan fece una pausa, studiando soprappensiero la figura metallica. «Durante gli anni dell'inferno abbiamo perduto i nostri libri, o almeno quasi tutti, e i sopravvissuti non erano esattamente dei tecnici. Così, pur cavandocela con le bestie, l'agricoltura, la medicina e cose del genere, per il resto siamo piuttosto primitivi. Se davvero conosci le scienze, perché non rimani con noi?» Il robot aveva visto troppe speranze infrante, allo stesso modo del suo uomo d'argilla, per fidarsi del tutto di quella promessa d'uno scopo e di compagnia, ma la sua voce mostrò una traccia di commozione quando rispose: «Voi... voi mi volete?» «Perché no? Sei un magazzino di sapere, Say-Ten, e noi...» «Satana?» (1) «Il tuo nome. Ce l'hai lì sul petto». Dan gliel'indicò con la mano sinistra, il suo corpo si era fatto d'improvviso teso. «Vedi? Proprio lì!» Ora, quando SA-10 allungò il collo e guardò in basso, quelle oscene lettere divennero visibili, alte e ben chiare sul suo petto! Esse, A...
Il primo avvertimento fu dato dall'ascia che si schiantò sopra il suo petto, facendolo barcollare all'indietro sui calcagni... e poi scese di nuovo, proiettata da muscoli che parvero vigorosi quasi quanto i suoi. Al terzo colpo, qualcosa si ruppe dentro di lui. Tutte le sue forze svanirono, e crollò al suolo con uno schianto sferragliante, che gli chiuse le palpebre per il contraccolpo. E giacque la, incapace perfino di riaprire gli occhi. Non tentò neppure di farlo, ma giacque aspettando quasi con ansia i colpi finali, che l'avrebbero finito. Satana, il magazzino del sapere, il tentatore degli uomini... l'unico essere che aveva imparato a odiare! Aveva fatto tutta quella strada per trovare un nome e uno scopo; adesso li aveva! Non c'era da meravigliarsi che Dio l'avesse chiuso in una caverna per tenerlo lontano dagli uomini. «Morto! Quella vecchia favoletta mi ha permesso di coglierlo alla sprovvista». L'uomo scoppiò in una risata nervosa. «Spero che il suo generatore funzioni ancora. Con quello, potremo scaldare tutte le case della colonia. Chissà dov'era il suo nascondiglio?» «Come quello, su a nord, con tutte le armi nascoste? Oh, Dan!» Uno strano suono schioccante accompagnò la frase, poi la voce parlò ancora, più calma: «Sarà meglio tornare indietro e chiedere aiuto per trasportarlo». I loro passi si allontanarono, lasciando il robot ancora immobile ma non più passivo. L'Albero del Sapere, così facilmente visibile senza la copertura di rampicanti, era appena a una ventina di miglia, e non ci avrebbero impiegato molto a scoprirlo! Doveva distruggerlo prima che ciò accadesse! Ma, a stento la piccola batteria riusciva a mantenerlo cosciente, e il generatore non rispondeva più ai suoi comandi. I sensori continuavano a inviargli messaggi attraverso i nervi, garantendogli che il generatore funzionava ancora, ma sull'automatico, fuori dal suo controllo. Già prima, un intera sezione dei suoi circuiti era guasta, probabilmente era stato il sovraccarico d'energia da lui usato per cuocere l'uomo d'argilla... e adesso comunque i colpi e la caduta avevano completato l'opera, cortocircuitando tutti i restanti circuiti collegati al generatore e lasciandolo nell'incapacità di muovere un solo dito. Neppure quando escludeva del tutto la sua mente, la batteria riusciva a far muovere le sue mani. La sua opera demoniaca era compiuta: ora lui avrebbe riscaldato le loro case, mentre essi avrebbero cercato le tentazioni che lui aveva loro offerto. E non poteva far nulla per impedirlo. Dio gli negava perfino la possibilità di rimediare al male che aveva fatto. Continuò a pregare, con amarezza, mentre strani rumori si udivano ac-
canto a lui. Si sentì sollevare e portar via in una corsa sussultante. Dio non voleva ascoltarlo! Alla fine, cessò di pregare, mentre la corsa sussultante continuava, qualunque fosse la sua meta. Poi, anche la corsa finì e vi furono istanti di assoluto silenzio. «Ascolta! So che sei ancora vivo!» Era una voce dolce, quasi ipnotica, che s'insinuò nei vortici oscuri dei suoi pensieri, e li placò. Pensò a Dio, per un attimo, ma questa era una voce femminile, e ciò voleva dire che una delle donne della colonia doveva aver creduto in lui e stava tentando segretamente di salvarlo. L'udì di nuovo: «Ascolta e credimi! Tu puoi muoverti ... molto poco, sì, ma quanto basta perché io possa cogliere l'intenzione di ogni tuo movimento. Cerca di riparare te stesso, e io sarò la forza delle tue mani. Prova... Ah, il tuo braccio!» Era incredibile che lei riuscisse a capire quei suoi movimenti appena accennati, eppure sentì che il suo braccio veniva sollevato e posto sopra il suo petto, non appena ebbe desiderato di farlo. Ma non erano affari suoi chiedersi il come e il perché. Doveva dedicare tutta la sua restante energia a recuperare interamente le forze, prima che gli uomini riuscissero a trovare l'Albero! «Così; io giro questo... questo dado. E quest'altro... Ecco, la piastra è tolta. Cosa faccio adesso?» Questo lo fermò. La forza vitale era stata fatale a un maiale, e con ogni probabilità avrebbe ucciso anche una donna. Eppure lei si fidava di lui. Non osò muoversi... eppure l'intenzione doveva aver prodotto un moto istintivo, poiché le sue dita furono scostate, le mani di lei gli penetrarono nel petto e un istante dopo un'ondata d'energia gli attraversò tutto il corpo. Le dita di lei gli si erano appoggiate sopra gli occhi, ma non ebbe bisogno del loro aiuto quando strappò via il pezzo guasto e inserì il ricambio, ripristinando i circuiti. Ora c'era preoccupazione nella voce della donna, malgrado si sforzasse di tenerla calma: «Non restare troppo sorpreso da ciò che vedrai. Va tutto bene». «Va tutto bene!» ripeté lui, obbediente, sillabando le parole mentre la voce gli risuonava di nuovo alle orecchie. Per pochi istanti ancora, mentre riavvitava la piastra, lasciò che lei gli tenesse gli occhi chiusi. «Donna, chi sei?» «Eva. E... si, Adamo, questi nomi andranno bene per noi». Le dita si ritrassero dagli occhi, anche se lei gli rimase alle spalle, fuori dalla sua vista. Ma il primo sguardo che lui rivolse davanti a sé fu sufficiente. Malgrado
le file di scaffali pieni di libri e di bobine di film, le macchine, e le dimensioni del laboratorio, quello era chiaramente il duplicato della sua caverna, circondato dalle stesse pareti di cemento. Ciò poteva significare solamente... l'Albero! Con un balzo frenetico si girò per affrontare la sua salvatrice, e vide davanti a sé un altro robot, più piccolo e grazioso, dalle forme femminili, la risposta a tutte le sue brame, a tutta la solitudine che aveva conosciuto! Ma quelle emozioni l'avevano tradito già altre volte, e le ricacciò indietro con rabbia. Non poteva esserci nessun dubbio, visto che quelle dannate lettere spiccavano anche sul corpo di lei... Satana era maschio e femmina e il Male si era mosso per salvare la sua razza! Quell'inferno di emozioni doveva esser trapelato, almeno in parte, all'esterno, poiché lei si stava ritraendo, annaspando con le mani per coprire i segni che lui stava fissando. «Adamo, no! Quell'uomo ha letto male, sciaguratamente male. Non è un nome, noi siamo macchine, e tutte le macchine hanno la sigla e il numero del modello, come questo. Satana non ostenterebbe mai, così, il suo nome. Ed io non ho mai avuto intenzioni diaboliche!» «Neppure io!» Smozzicò le parole, incespicando sugli oggetti sparsi sul pavimento, facendola arretrare un po' per volta, fino a intrappolarla in un angolo senza uscita della caverna, cercando allo stesso tempo di controllare le proprie emozioni che si ribellavano a ciò che lui doveva fare. «Il male dev'essere distrutto! Il sapere è vietato agli uomini!» «Non tutto il sapere... Aspetta! Lasciami finire! Un condannato ha sempre il diritto alle sue ultime parole... L'albero del sapere era del Bene e del Male. Dio lo chiamò così! E proibì loro di mangiarne i frutti perché essi non potevano sapere quale fosse il bene; non capisci? Lui li voleva proteggere fino a quando non fossero stati più saggi e in grado di scegliere da soli! Soltanto che... Satana diede ad essi il frutto del male: l'odio e l'assassinio, per rovinarli. Diresti mai che la guarigione dei malati, il buon governo o il giusto uso degli animali siano il male? È il sapere, Adamo: il benefico, glorioso sapere che Dio vuole che l'uomo abbia. Non capisci?» Per un attimo, quando lesse in lui la risposta, il robot-femmina si voltò per fuggire; poi, con un piccolo singhiozzo, tornò a fronteggiarlo senza opporgli resistenza. «Va bene, ammazzami pure! Credi forse che la morte mi spaventi, dopo esser rimasta prigioniera, qui dentro, per seicento anni senza alcun modo per liberarmi? Soltanto... fai in fretta!»
La sorpresa e la sfrontatezza di quella menzogna trattennero la sua mano mentre il suo sguardo andava dallo scavatore atomico a una grossa trivella a un bidone con la scritta «Esplosivo». Eppure, neanche queir occhiata superficiale poteva trascurare il pavimento consunto e tanti altri segni di molti secoli di occupazione, come pure l'indubbio fatto che la cupola, fino a poche ore prima, era rimasta intatta. Con riluttanza il suo sguardo tornò allo scavatore, e anche lei lo guardò. «Non serve a niente! Le istruzioni su di esso dicono di mettere sullo zero qualcosa contrassegnato "Controllo dell'Orifizio", prima di cominciare a usarlo. Così come sta, non si muove!» Il robot-femmina si fermò, sbalordita, senza più parole, quando vide le dita di lui sollevare la piccola leva dal dente di arresto, facendola scattare sullo zero della scala! Poi, scosse la testa, sconfitta, e alzò le mani per aiutarlo, svogliatamente, a svitare la propria piastra toracica. Riprese a parlare, con voce priva d'emozione: «Seicento anni soltanto perché non ho mosso una leva! Soltanto perché mi manca qualunque concetto della meccanica, là dove invece tutti gli uomini l'hanno per istinto, dando tutto ciò per scontato. Col tempo, un uomo avrebbe imparato a dominare queste macchine e avrebbe dato un significato ai libri che io ho memorizzato senza neppure capirne i titoli. Ma io sono come il cane che cerca di aprire la porta a unghiate, mentre ha il più semplice dei chiavistelli proprio davanti al naso. Be', è finita. Addio, Adamo!» Ma lui, per qualche sconvolgente motivo, pur avendo i cavi di lei, scoperti, a pochi centimetri dalle mani, esitò. Sì, le istruzioni non avevano parlato del dente di arresto; era qualcosa di troppo ovvio perché qualcuno pensasse a menzionarlo... Cercò d'immaginarsi una simile, totale ignoranza, e trasalì quando gli occhi gli caddero sopra uno dei trattati elementari sulla radio, in uno scaffale davanti a lui: «Applicazioni d'un Risonatore di Cavità». Si rese conto, riflettendoci su, che una traduzione letterale, non tecnica, era priva di significato: «Uso d'un produttore o rafforzatore di suoni in un buco»! Ma quasi subito gli balzò alla mente un fatto da lui trascurato: «Ma sei uscita!» «Perché ho perso la pazienza e ho scagliato il piccone contro la parete. E ho scoperto allora che la sua lama era il metallo, e non il legno! Le uniche macchine che potevo usare erano il proiettore e la macchina per scrivere... e la macchina per scrivere si è rotta!»
«Uhmmmm...» Prese su la piccola macchina, notando il foglio ingiallito e incompleto infilato dentro, mentre staccava l'uno dall'altro le levette di due tasti che erano rimaste incrociate e manovrava avanti e indietro il cervello. Ma la sua attenzione era soprattutto rivolta alle schegge di cemento conficcate dentro il manico scheggiato del piccone. Nessuno, uomo o robot, poteva essere così stupido o incapace, eppure lui non dubitava più. Lei era un robot stupido, idiota! E se il sapere era male, lei certamente apparteneva a Dio! Tutto l'orrore dell'assassinio che era stato sul punto di commettere, scomparve, lasciando la sua mente ripulita, e debole, davanti al sollievo che l'invase quando le fece cenno di uscire. «D'accordo, non sei il male. Puoi andare». «E tu?» E lui? Prima, nella veste di Satana, le argomentazioni di lei sarebbero state plausibili, e lui le aveva date per scontate. Ma adesso... si, era davvero l'Albero del Sapere del Bene e del Male! Eppure...» Lei l'afferrò all'improvviso, trascinandolo fino all'ingresso: «I cani, non senti?» L'abbaiare giunse forte, da fuori. «Ti stanno dando la caccia, Adamo... sono a dozzine!» Lui annui studiando le forme lontane degli uomini a cavallo, mentre le sue dita si davano da fare con una matita e un pezzo di carta. «E saranno qui tra una ventina di minuti. Bene o Male che sia, non devono trovare ciò che c'è qui. Eva, c'è una barca sulla riva del fiume; spingi la leva rossa nella direzione in cui vuoi andare, con forza se vuoi andar veloce, con poca se vuoi viaggiare lentamente. Ecco una mappa per arrivare alla mia caverna. Lì sarai al sicuro». E subito tornò allo scavatore, prendendo posto sul seggiolino. Le sue dita azionarono fulminee i comandi. Il possente generatore muggì, sbuffando, e la pesante, tozza macchina cominciò a manovrare fra i pochi spazi liberi, spingendo da parte gli ostacoli. Quando fosse stato fuori, avrebbe potuto usare tutta la sua forza, senza pericolo di urti e rimbalzi, e in dieci minuti l'intera collina sarebbe stata ridotta ad un ammasso di macerie triturate, irriconoscibili; infine, il generatore di quell'ultima macchina avrebbe potuto essere spinto oltre il massimo, e lo scavatore si sarebbe ridotto a un'inutile massa di metallo fuso. «Adamo!» Lei era a cavalcioni del seggiolino posteriore, e urlava per farsi sentire sopra il ruggito della sottile lama d'energia che stava allargando lo scavo. «Vai, scappa, Eva! Non puoi fermarmi!»
«Non voglio... Non sono pronti per macchine come questa, non ancora! E in ogni caso, noi due insieme potremo ricostruire tutto ciò che c'era qui, Adamo». Lui grugnì a disagio, incapace di distogliere lo sguardo dal raggio aghiforme. Era già difficile riuscire a pensare senza che lei lo distraesse, sapendo che non poteva correr rischi e doveva distruggersi, mentre le parole di lei, e i suoi stessi istinti, combattevano contro questa sua decisione. «Tu parli troppo!» «E parlerò molto di più, fino a quando non ti comporterai in modo sensato! Ti guasterai il cervello, se cercherai di decidere adesso. Vieni con me lassù, a monte del fiume, per sei mesi. Così lontano, non potrai fare del male a nessuno, neppure se fossi davvero Satana! Poi, Adamo, quando ci avrai ben riflettuto sopra, potrai fare ciò che vorrai. Ma non adesso!» «Per l'ultima volta, vuoi andartene?» Adesso, mentre si scavava una strada attraverso il cemento incrinato, non osava pensare, eppure non riusciva a mettere a tacere nella propria mente le parole di lei, che continuavano a echeggiare, implacabili. «VATTENE!» «Non senza di te, Adamo. Il mio ricevitore non è guasto. Sapevo che avresti tentato di uccidermi, quando ti ho salvato... Credi che mi arrenderei tanto facilmente, adesso?» Spense con un gesto brusco lo scavatore, e si girò di scatto per fronteggiarla: «Lo sapevi... e malgrado ciò mi hai salvato? Perché?» «Perché avevo bisogno di te, e il mondo ha bisogno di te. Tu dovevi vivere, anche a costo della mia vita!» Poi, il generatore ricominciò a ruggire, aprendosi la strada come un coltello attraverso gli ultimi centimetri di cemento. Infine, sbucò fuori di slancio dalla cupola, e il raggio brandeggiò tutt'intorno. Mentre con un ruggito l'energia, scatenata fino a un attimo prima alla massima potenza, si spegneva, il robot girò la testa verso di lei e annuì. Lei poteva anche essere la robot-femmina più stupida del creato, ma era anche la più dolce. Era meraviglioso sentire che c'era qualcuno che aveva bisogno di te, e ti voleva! E dietro di lui Eva annui tra sé, benedicendo Simon Ames per aver compreso la psicologia tra le scienze umanistiche. Nel giro di sei mesi lei sarebbe riuscita a rieducarlo del tutto, e avrebbe avuto in più il tempo di recitargli per intero il Libro che lui conosceva soltanto come uno spezzone di pellicola. Ma non ancora! E certamente non il Levitico; la Genesi avrebbe già creato abbastanza problemi nella sua testa.
Era meraviglioso sentire che c'era qualcuno che aveva bisogno di te, e ti voleva! La primavera era tornata un'altra volta e Adamo sedeva sotto uno degli alberi in fiore, dando pigramente da mangiare a una nuova nidiata di maialetti, mentre le mani di Eva si muovevano rapide per completare quello che sarebbe stato il suo nuovo abito, copiato attentamente da quello di Dan. Erano quasi pronti a ritornare al sud per mescolarsi tra gli uomini e assolvere la missione di ricondurre la razza alla sua eredità. Già la plastica manipolabile che lui aveva sintetizzato e lei modellato sui rispettivi corpi era diventata parte integrante di loro stessi, e i muscoli magnetici che lui vi aveva dissimulato non richiedevano più un impulso cosciente per esibire le loro emozioni con espressioni umane. Quando si alzò in piedi e si avvicinò a lei, avrebbe potuto benissimo essere soltanto un uomo dall'insolita bellezza. «Sempre alla ricerca di Dio?» lei gli chiese, gaiamente. Ma non c'era nessuna preoccupazione dipinta sul suo volto. L'orgia metafisica era da tempo guarita. Un sorriso pensoso si disegnò sul suo viso, mentre cominciava a infilarsi il nuovo abito. «Si trova ancora dove l'ho trovato io... Qualcosa dentro di noi che non ha bisogno d'essere cercato. No, Eva: stavo pensando al terzo robot, con la speranza che sia sopravvissuto. Anche se non abbiamo trovato alcuna traccia della sua cupola, là dove la tua documentazione l'indicava, sono ancora convinto che dovrebbe essere con noi». «Forse lo é, in spirito, dal momento che tu insisti a dire che i robot hanno un'anima. Dov'è la tua fede, Adamo?» Ma nella sua voce non c'era nessuna sfumatura di derisione verso di lui. Anima o no, il Dio di Adamo era stato molto buono con loro. E lontano, verso sud, una figura invecchiata zoppicava sopra il pietrisco sparso su un breve pianoro davanti a un dirupo roccioso. Sotto le sue mani, la porta abilmente nascosta si spalancò, e lui la spinse verso l'interno, per poi chiuderla e sbarrarla dietro di sé; si avviò lungo una stretta galleria che terminava in una caverna rotonda. Erano passati anni da quando era stato là dentro l'ultima volta, ma quel luogo era ancora, per lui, la casa. Si sedette, cigolando, su una panca e cominciò a togliersi gli indumenti sbrindellati e macchiati dal viaggio. Come ultima cosa, si tirò via dalla testa una maschera e una parrucca grigia, rivelando così il corpo logoro e ammaccato del terzo robot.
Esalò un sospiro di stanchezza, guardando i pochi libri e i documenti stracciati che aveva salvato dalla rovinosa crescita delle stalattiti e delle stalagmiti all'interno della cavità, e l'interruttore corroso che l'umidità non prevista aveva cortocircuitato settecento anni prima. E infine il suo sguardo si appuntò sul suo tesoro più grande. Era sbiadito perfino sotto il telo di plastica, ma il volto amareggiato di Simon Ames lo guardava ancora, del tutto riconoscibile. Il terzo robot annuì verso quel volto antico, con uno strano miscuglio di vecchia familiarità e d'una reverenza perennemente nuova. «Più di duemila miglia nelle mie condizioni, Simon Ames, per controllare una storia che avevo udito in una delle colonie, e molti mesi per cercarli. Ma dovevo saperlo. Sì, loro sono un'ottima cosa per il mondo. Daranno ad essi tutte le cose che io non ho potuto, e i loro pensieri sono giovani e forti, così come la razza è giovane e forte». Per qualche istante guardò la cavità intorno a sé e la galleria che i batteri da lui adattati avevano aperto, divorando il suolo. Poi tornò a fissare quell'immagine. Infine, spense il generatore principale e restò seduto, immobile, al buio. «Settecento anni fa sono uscito di qui per scoprire che l'uomo si era estinto, sulla Terra», mormorò, sempre rivolto all'immagine. «Quattrocento anni fa avevo imparato a sufficienza per tentare di ricreare l'uomo, e più di trecento anni fa gli ultimi ovuli umani supercongelati si sono sviluppati con successo. Adesso, la mia parte è compiuta. L'uomo ha una tradizione che lo collega senza interruzioni alla sua razza, senza alcuna coscienza dell'interruzione. È forte, giovane, fecondo, e ha nuovi capi, migliori di quanto io potrei essere da solo. Non posso fare nient'altro per lui». Per un attimo, vi fu soltanto il cigolio delle sue mani che scivolavano contro altro metallo. Poi un debole sospiro: «Alle mie mani, Simon Ames, hai affidato la tua razza. Ora, nelle Tue Mani, Dio di quella razza, se tu esisti come il mio fratello crede, rimetto lui... e il suo spirito». Poi vi fu un clic quando le sue mani trovarono l'interruttore del suo generatore. E il silenzio finale. (1) SA-10 si legge in inglese Say-Ten, pronuncialo quasi uguale a Satana. (N.d.t.) Mimetizzazione Camouflage
di Henry Kuttner Astounding Science Fiction, settembre «Mimetizzazione» riguarda un cyborg, una persona che è in parte umana e in parte macchina. Certo, oggi i cyborg sono comuni, specialmente in senso tecnico, dal momento che un arto artificiale con parti mobili o un pacemaker sarebbero in perfetto accordo con la definizione. I cyborg sono stati piuttosto comuni nella fantascienza, sin dall'era di Gernsback; uno dei primi esempi fu, infatti, The Clockwork Man di E.V. Odle nel 1923. La tendenza generale verso l'estrapolazione biologica nella sciencefiction più recente ha prodotto parecchi eccellenti romanzi in questi ultimi anni, su questo tema, compreso Man Plus (1976) di Frederick Pohl, che vinse il premio. Un'ottima antologia sull'argomento è Human-Machines (1975) curata da Thomas N. Scortie e George Zebrowski. I Kuttner hanno impiegato i cyborg in un certo numero delle loro storie, e «E mai più nacque una donna» di C. L. Moore (vedi il sesto volume di questa serie) viene giustamente considerato uno svolgimento classico del tema. (Sin da quando ero molto giovane, ho riflettutto parecchio sulla possibilità di esser ridotto a un semplice cervello mentre tutto il resto sarebbe stato costituito unicamente da protesi. L'avevo letto nelle storie di Falco Carse nei primi anni Trenta, per non parlare della popolarissima serie del professor Jameson. Sembrava l'unica strada sicura per l'immortalità, senza rinunciare a niente di veramente essenziale per l'umanità. La vostra coscienza, la vostra intelligenza, i vostri ricordi, la vostra capacità di apprendimento sarebbero rimaste del tutto indenni, e in quanto alle sensazioni fisiche, e perfino il sesso... be', non erano in verità cose essenziali. Eppure, a pensarci bene, l'evoluzione ha fatto del suo meglio per produrre proprio una situazione del genere. Il cervello è strettamente chiuso in un cranio osseo così da esser protetto meglio di ogni altra parte del corpo. È collegato per mezzo di nervi alle migliori protesi che l'evoluzione sia riuscita a produrre, anche se fatte di carne e sangue. E per coronare il tutto, il cervello ha lunga vita. Malgrado le sue cellule siano troppo specializzate per moltiplicarsi, nondimeno durano molto, e lavorano, anche per più di cento anni. Ma infine, dopo tante estati, muoiono. E morirebbero anche se protette
dal metallo invece che dall'osso, non importa con quanta efficienza vengano nutrite. Certo, potremmo fabbricare un cervello artificiale di materiale più durevole e altrettanto compatto e versatile quanto le cellule del cervello umano, ma sarebbe tutto un altro paio di maniche. I.A.) Talman era tutto sudato quando raggiunse il numero 16 di Knobhill Road. Fu con uno sforzo che premette la piastra di chiamata. Vi fu un sordo ronzio mentre le fotoelettriche controllavano e approvavano le sue impronte; infine la porta si aprì e Talman si addentrò nel corridoio in penombra. Guardò dietro di sé, là dove, dietro le colline, le luci dello spazioporto formavano un basso e pulsante alone. Andò avanti; discese una rampa e si trovò in una stanza comodamente arredata, dove un uomo grasso, dai capelli grigi, sedeva in una poltrona giocherellando con un bicchiere pieno di whisky allungato col seltz. La voce di Talman suonò tesa, quando disse: «Ciao, Brown. Tutto bene?» Un sogghigno si disegnò sulle guance cadenti di Brown. «Certo», replicò. «E perché no? La polizia non ti sta dando la caccia, vero?» Talman si sedette e cominciò a prepararsi un drink, scegliendo dal vassoio lì accanto. Il suo volto sottile e sensibile si era incupito. «Non ci si può mettere a discutere con le proprie ghiandole. In ogni caso, questo è l'effetto che lo spazio fa a me. Sin da quando ho lasciato Venere, aspetto che qualcuno mi si avvicini e mi dica: "La vogliono per interrogarla"». «Nessuno l'ha fatto». «Non sapevo cosa avrei trovato qui». «La polizia non si aspettava che ci dirigessimo sulla Terra», obbiettò Brown, dandosi un'aggiustata ai capelli grigi. «Ed è stata un'idea tua». «Già. Consulente di psicologia per...» «... per criminali. Vuoi lasciare?» «No», ribatté Talman, esplicito. «No, coi profitti che ci sono già in vista. Questa faccenda è grossa». Brown sogghignò. «Certo che è grossa. Nessuno ha mai organizzato il crimine prima d'oggi in questo modo. Prima di noi, al confronto, non c'era nessun crimine che valesse una cartina di spilli». «Tuttavia, come ci ritroviamo, adesso? Dobbiamo scappare». «Fern ha trovato un nascondiglio assolutamente sicuro». «Dove?» «Nella Cintura degli Asteroidi. Ma ci serve ancora una cosa».
«Che cosa?» «Una centrale atomica». Talman lo fissò sbalordito. Ma vide che Brown non stava scherzando. Un attimo dopo mise giù il bicchiere e lo fissò torvo. «Ma è impossibile. Una centrale atomica è troppo grossa». «Già», annuì Brown, «salvo che, questa starà già viaggiando nello spazio, diretta a Callisto». «Un dirottamento? Non abbiamo abbastanza uomini...» Talman tirò indietro la testa: «Uh. È fuori dal mio campo...» «Ci sarà un equipaggio minimo, naturalmente. Ma ci occuperemo noi di loro... e prenderemo il loro posto. Poi, dovremo soltanto staccare il transplant e inserire i comandi manuali. Non è affatto fuori dal tuo campo. Fern e Cunningham possono occuparsi degli aspetti tecnici, ma prima dobbiamo scoprire quanto possa essere pericoloso un transplant». «Non sono un ingegnere». Brown proseguì, ignorando l'interruzione. «Il transplant incaricato di questo trasporto su Callisto un tempo era Bart Quentin. Tu lo conoscevi, vero?» Talman, colto di sorpresa, annuì. «Certo. Anni fa. Prima che...» «Tu sei pulito, per ciò che riguarda la polizia. Va' a trovare Quentin. Tiragli fuori tutte le informazioni che puoi. Scopri... Cunningham ti dirà quello che devi scoprire. Dopo saremo in grado di procedere. Spero». «Non so. Non sono...» Brown aggrottò le sopracciglia. «Dobbiamo trovare un nascondiglio. Ora è d'importanza vitale. Altrimenti, tanto vale che entriamo nella più vicina stazione di polizia e ci facciamo ammanettare. Siamo stati in gamba, ma adesso... dobbiamo nasconderci. E in fretta». «Be'... questo l'ho capito. Ma tu sai cos'è veramente un transplant?» «Un cervello libero. In grado di manovrare congegni artificiali». «Da un punto di vista strettamente tecnico, sì. Hai mai visto un transplant che fa funzionare una scavatrice? Oppure una draga venusiana? Comandi d'una incredibile complessità che richiederebbero altrimenti una dozzina di uomini?» «Vuoi dirmi che un transplant è un superuomo?» «No», replicò Talman, lentamente, «non intendo dir questo. Ma ho idea che sarebbe più sicuro inguaiarsi con dodici uomini che con un solo transplant». «Be'», riprese Brown, «tu ora andrai a Quebec a trovare Quentin. Ho
scoperto che adesso si trova là. Ma prima parla con Cunningham. Studieremo ogni dettaglio. Dobbiamo soprattutto conoscere le capacità di Quentin e i suoi punti vulnerabili. E se è o no telepatico. Tu sei un vecchio amico di Quentin, e sei anche uno psicologo, perciò sei il tipo adatto per questo lavoro». «Già». «Dobbiamo impadronirci di quella centrale. Perché dobbiamo nasconderci... subito!» Talman pensò che con ogni probabilità Brown aveva progettato tutta quella faccenda fin dall'inizio. Quell'uomo grasso era molto furbo; era stato abbastanza intelligente da rendersi conto che dei criminali comuni non avrebbero avuto nessuna possibilità in un mondo altamente tecnico e specializzato. Le forze di polizia potevano fare appello alle più svariate scienze per chiedere aiuto. Le comunicazioni erano ottime e veloci anche da un pianeta all'altro. C'erano congegni d'ogni tipo... L'unica possibilità di commettere con successo un crimine era di farlo in fretta e di darsi subito alla fuga. Ma un crimine doveva esser progettato con cura. Quando si entra in competizione con un'unità sociale organizzata qual è la società umana, come ogni delinquente fa, è saggio procurarsi un'organizzazione di pari efficacia. Un'anitra non ha nessuna possibilità davanti a un fucile. Un bandito tutto muscoli è condannato al fallimento per lo stesso motivo. Le tracce da lui lasciate verrebbero analizzate con le tecniche più sottili; la chimica, la criminologia e la psicologia lo braccherebbero senza lasciargli scampo; e finirebbe comunque per confessare, senza nessun terzo grado. Per cui... Così, Cunningham era un ingegnere elettronico. Fern era astrofisico. Talman era un psicologo. Il grosso e biondo Dalquist era un cacciatore, per libera scelta e professione, incredibilmente veloce e preciso con la pistola. Cotton era matematico... e Brown in persona era il coordinatore. La combinazione aveva funzionato alla perfezione per tre mesi, su Venere. Poi, com'era inevitabile, la rete si era chiusa su di loro. Ma la banda era riuscita a scivolar via tra le maglie e a rifugiarsi sulla Terra, pronta a compiere il passo successivo in quel piano dettagliato a lungo raggio. A tutt'oggi Talman non sapeva quale fosse questo piano. Ma poteva facilmente intuirne la sua logica. Nell'immensa desolazione della cintura degli Asteroidi avrebbero potuto, se necessario, nascondersi per sempre, uscendone per fare un colpo tutte le volte che se ne offriva l'opportunità. Laggiù, al sicuro, avrebbero potuto
creare un'organizzazione criminale clandestina, con un'efficiente rete d'informazione, stesa fra i pianeti... Sì, era uno sviluppo inevitabile. Però, si sentiva ugualmente incerto, ed esitante, alla prospettiva di misurare il suo intelletto contro quello di Bart Quentin. Quell'uomo... non era più umano. Continuò ad esser preoccupato sulla via di Quebec. Per quanto fosse abituato ad affrontare ogni tipo di gente, non poteva fare a meno di sentirsi teso e imbarazzato in previsione dell'incontro con Quentin. Fingere d'ignorare quell'... incidente... sarebbe stato troppo ovvio. Tuttavia... Ricordò che sette anni prima Quentin aveva posseduto un fisico aitante e muscoloso, ed era stato orgoglioso della sua abilità di ballerino. In quanto a Linda, si chiese cosa ne fosse stato. Viste le circostanze, non poteva essere ancora la moglie di Bart Quentin. Oppure si? Fece passare lo sguardo sul San Lorenzo, una striscia d'argento opaco, che scivolò sotto l'aereo quando questo s'inclinò per l'atterraggio. Piloti robot... un sottile raggio-guida. Soltanto durante le tempeste più violente i piloti umani prendevano i comandi. Nello spazio era una faccenda diversa. C'erano altre funzioni, di enorme complessità, per le quali un cervello umano era inadeguato. A meno che non fosse un cervello d'un tipo molto speciale... Un cervello come quello di Quentin. Talman si sfregò la mascella ed ebbe un pallido sorriso, cercando di localizzare la fonte di tutte le sue preoccupazioni. E finalmente colse la risposta. Quent, nella sua nuova incarnazione, possedeva più di cinque sensi? Era forse in grado d'individuare reazioni inavvertibili a un uomo normale? Se era così, Van Talman poteva considerarsi sconfitto ancora prima di cominciare. Guardò Dan Summers, della Wyoming Engineers, seduto al suo fianco, attraverso il quale aveva preso contatto con Quentin. Summers, un giovanotto biondo, gli occhi circondati da una rete di rughe sottili create dal sole, ebbe un sogghigno d'intesa. «Nervoso?» «Forse un po'», annui Talman. «Mi stavo chiedendo quanto possa esser cambiato». «I risultati sono diversi da caso a caso». L'aereo, guidato dal raggio, scivolò giù attraverso l'aria tinta dai colori del tramonto, in direzione dell'aeroporto. Le torri illuminate di Quebec si stagliavano all'orizzonte.
«Suppongo che, fisicamente, debbano cambiare per forza. Mentalmente... Lei è uno psicologo, signor Talman. Come si sentirebbe, se...» «Potrebbero esserci compensazioni». Summers scoppiò a ridere. «Bell'eufemismo, questo. Compensazioni... diamine, l'immortalità è soltanto una di queste... compensazioni!» «La considera una benedizione?» chiese Talman. «Ma si, certamente. Rimarrò all'apice delle sue capacità per chissà quanto tempo. Non soffrirà di nessun deterioramento. I veleni della fatica eliminati automaticamente per irradiazione. Certo, le cellule del cervello non possono rinnovarsi allo stesso modo... diciamo... del tessuto muscolare; ma il cervello di Quent non può venir danneggiato in quella sua robusta custodia, fabbricata apposta. L'arteriosclerosi non rappresenta nessun problema per il tipo speciale di plasma che usiamo... non c'è calcio che si depositi sulle pareti interne delle arterie. La condizione fisica del suo cervello viene controllata in maniera perfetta, e automatica. Le uniche afflizioni di cui Quent potrà mai soffrire sono mentali». «E la claustrofobia? No. Mi ha detto che possiede lenti con le funzioni degli occhi. Grazie a queste, deve possedere, automaticamente, una sensazione di spazio». Summers disse: «Se dovesse notare qualche cambiamento — oltre alla normale evoluzione mentale di questi sette anni — m'interesserebbe molto. In quanto a me... be', io sono cresciuto fra i transplant. Non sono conscio dei loro corpi meccanici intercambiabili più di quanto un medico non lo sia, quando pensa ad un amico come ad un fascio di muscoli, vasi sanguigni e nervi. È la facoltà raziocinante che conta, e quella non è. cambiata». Talman fece, soprappensiero: «Lei è una specie di medico, per i transplant, in ogni caso. Un profano potrebbe avere un altro tipo di reazione. Specialmente se è abituato a vedere... un viso». «Non sono mai stato conscio di quella mancanza». «E Quent?» Summers esitò. «No», disse infine, «sono sicuro di no. Si è adattato benissimo. Il riadattamento alla vita di un transplant dura un anno, e dopo tutto fila liscio come il velluto». «Ho visto dei transplant al lavoro, su Venere, da lontano. Ma non se ne vedono molti fuori dalla Terra». «Non abbiamo abbastanza tecnici addestrati. Letteralmente, ci vuole metà di una vita per addestrare un uomo a lavorare sui transplant. Bisogna essere ingegneri elettronici qualificati ancora prima di cominciare». Sum-
mers scoppiò a ridere. «Tuttavia le compagnie di assicurazione coprono molte delle spese iniziali». Talman lo fissò perplesso: «Come mai?» «Fanno polizze sui rischi da lavoro... l'immortalità. Lavorare nella ricerca atomica è pericoloso, amico mio!» Uscirono dall'aereo, nell'aria fresca della notte. Mentre si avvicinavano a un tassì in attesa, Talman disse: «Siamo cresciuti insieme, Quentin ed io. Ma il suo incidente è accaduto due anni dopo da quando avevo lasciato la Terra, e non l'ho più rivisto da allora». «Come transplant? Uhm... Certo, è un appellativo infelice, questo. Qualche idiota incompetente ci ha appiccicato quest'etichetta, mentre avrebbero dovuto essere gli esperti delle relazioni pubbliche a scovare un nome adatto. Per colmo di sfortuna, quell'appellativo ha fatto presa. Col tempo, speriamo di rendere popolari i... transplant. Ma non è ancora possibile. Siamo appena all'inizio. Ne abbiamo soltanto duecentotrenta, adesso. Quelli che hanno avuto successo». «Molti fallimenti?» «Non più adesso. Ma quando abbiamo cominciato... È una faccenda complicata, sa? Dalla prima trapanazione del cranio fino all'energizzazione finale e al ricondizionamento, è l'impresa tecnica più difficile, complessa, estenuante, che la mente umana abbia mai elaborato. Conciliare un meccanismo colloidale con una rete di collegamenti elettronici... ma il risultato ne vale la pena». «Psicologicamente, vuol dire? Be'... Quentin potrà parlarle di questo aspetto. E in quanto all'aspetto tecnologico, lei non ne conosce neanche la metà. Nessuna macchina colloidale complessa come un cervello umano è stata mai costruita... finora. Non è una questione soltanto meccanica. È un miracolo vero e proprio, questa combinazione d'un tessuto vivente intelligente con dei congegni artificiali che rispondono alla perfezione». «Ma avrà pur sempre dei limiti, quelli della macchina... e del cervello». «Vedrà. Eccoci arrivati. Ceneremo con Quent...» Talman sbarrò gli occhi. «Cenare?» «Già». Gli occhi di Summers mostrarono un'espressione divertita. «No, non mangia trucioli d'acciaio. In effetti...» Lo shock d'incontrare di nuovo Linda colse Talman di sorpresa. Non si era aspettato di vederla. Non adesso, in quelle condizioni così diverse. Ma lei non era cambiata granché, era sempre la stessa donna piena di calore,
amichevole, proprio come la ricordava, anche se adesso era un po' più vecchia, ma sempre molto graziosa, adorabile. Aveva sempre avuto fascino. Era snella e alta, la sua testa coronata da una bizzarra pettinatura spiraleggiante, color miele ambrato. I suoi occhi castani non avevano la tensione che Talman si era aspettato di trovarvi. Le strinse una mano. «Non dirlo», esclamò. «So quanto tempo è passato». «Non conteremo gli anni, Van». Alzò gli occhi a fissarlo, sorridendo. «Riprenderemo dal punto esatto dove c'eravamo interrotti. Con un drink, no?» «Uno lo berrei volentieri», annuì Summers, «ma devo tornar subito a rapporto al quartier generale. Mi basterà parlare con Quentin solo per un minuto. Dov'è?» «Là dentro». Linda gl'indicò una porta con un cenno del capo, e tornò a rivolgersi a Talman: «Così, sei stato su Venere? Ti sei sbiancato un bel po', non c'è che dire. Raccontami com'è andata». «Si». Prese lo shaker dalle mani di lei e, agitò con cura i Martini. Provava imbarazzo. Linda sollevò le sopracciglia. «Sì, siamo ancora sposati Bart ed io. Sei sorpreso?» «Un po'». «È ancora Bart», lei spiegò, con calma. «Può anche non sembrarlo, sulle prime, ma è proprio l'uomo che ho sposato. Perciò puoi rilassarti, Van». Verso i Martini. Senza guardarla, disse: «Fintanto che tu sei soddisfatta...» «So cosa stai pensando. Che è come avere per marito una macchina. Sulle prime... be', ho superato quella sensazione. Dopo un po', ci siamo riusciti entrambi. Certo, sulle prime è stato necessario uno sforzo; immagino che anche tu dovrai farlo per adattarti, quando lo vedrai, all'inizio. Ma questo non è importante, te lo garantisco. Lui è... Bart». Spinse un terzo bicchiere verso Talman, e lui la guardò sorpreso. «Non...» Linda annui. Cenarono insieme, tutti e tre. Talman scrutò il cilindro di settanta centimetri per settanta, davanti a lui, adagiato sul tavolo, e cercò di leggervi la personalità e l'intelligenza attraverso le sue doppie lenti. Non poté fare a meno d'immaginarsi Linda nelle vesti d'una sacerdotessa al servizio d'una qualche immagine di divinità aliena, e l'idea lo inquietò. Adesso Linda sta-
va infilando forchettate di gamberetti in salsa in un piccolo scomparto metallico, tirandoli fuori col cucchiaio quando il segnalatore gliel'indicava. Talman si era aspettato una voce piatta e senza toni, ma il sonovox dava profondità e timbro, tutte le volte che Quentin parlava. «Quei gamberetti... puoi mangiarli senz'altro, Van. È soltanto l'abitudine che mi fa buttar fuori il cibo dopo averlo avuto per un po' nell'apposito scomparto. Certo, l'assaggio... ma non ho saliva», «L'as... l'assaggi». Quentin scoppiò a ridere. «Senti, Van. Non cercar di fingere che tutto questo è per te del tutto naturale. Dovrai abituartici». «A me ci è voluto parecchio tempo», interloquì Linda. «Ma dopo un po' mi sono scoperta a pensare che era proprio il genere di sciocchezza che Bart aveva sempre avuto l'abitudine di fare. Ricordi quella volta che indossasti quell'armatura per la riunione del consiglio d'amministrazione a Chicago?» «Be', volevo dimostrare qualcosa», disse Quentin. «Mi sono dimenticato cos'era, ma... stavamo parlando del sapore. Posso gustare questi gamberetti, Van. Certe sfumature mi mancano, è vero. Le sensazioni più delicate per me sono perdute. Ma posso gustare qualcosa di più del dolce, dell'amaro, del salato e dell'acido. Le macchine erano in grado di assaporare diversi gusti già anni or sono». «Ma non c'è digestione...» «Ma neanche mal di pancia. Ciò che perdo in raffinatezza del gusto lo guadagno con la libertà dai disordini gastrointestinali». «E neanche rutti più», commentò Linda. «Grazie a Dio». «E posso anche parlare a bocca piena», aggiunse Quentin. «Ma non sono il cervello col corpo da supermacchina al quale tu stai pensando dentro di te, vecchio mio. Io non sputo fuori raggi della morte». Talman sogghignò, a disagio: «Stavo pensando questo?» «Scommeto di si. Ma...» il timbro della sua voce cambiò. «Non sono super. Sono del tutto umano, dentro, e non credere che a volte non senta la mancanza dei vecchi tempi. Starmene disteso sulla spiaggia a sentire il sole sulla mia pelle... piccole cose del genere. Ballare al ritmo della musica, e...» «Tesoro», disse Linda. La voce tornò a cambiare. «Già. Sono quelle piccole cose banali che rendono completa una vita. Ma adesso ho delle compensazioni... fattori paralleli. Reazioni del tutto impossibili da descrivere, poiché sono... dicia-
mo... vibrazioni elettroniche invece dei familiari impulsi neurali. Ho i sensi, ma attraverso organi meccanici. E quando i loro impulsi raggiungono il mio cervello, vengono automaticamente tradotti nei simboli familiari. Oppure...» Esitò. «Non proprio così, adesso». Linda infilò un pezzo di pesce guarnito nel compartimento del cibo. «Ci diamo arie, vero?» «No, in verità qualcosa è cambiato... ma non mi sto dando arie, amor mio. È una semplice constatazione. Capisci, Van: quando mi trovai ad essere un transplant, all'inizio, non avevo nessun punto di riferimento se non quelli, convenzionali, che avevo sempre avuto. Ma erano adatti soltanto a un corpo umano. Quando avvertivo l'impulso proveniente da una macchina scavatrice, lo sentivo istintivamente come se avessi il mio piede sull'acceleratore. Adesso, quei vecchi simboli stanno svanendo. Io sento, adesso... in modo più diretto, senza dover tradurre gli impulsi nelle immagini d'un tempo». «Dovrebbe essere più veloce», commentò Talman. «Lo è. Non devo più pensare al valore di "pi greco" quando ricevo un segnale "pi greco". Non devo più scomporre l'equazione nei suoi fattori e risolverla. Comincio a percepire l'equazione, e i suoi valori, in blocco». «Una sintesi completa con la macchina?». «Ma non sono un robot. Ciò non influenza l'identità, la quintessenza di ciò che è Bart Quentin». Vi fu un breve silenzio, e Talman colse una rapida occhiata di Linda al cilindro. Poi, Quentin continuò sullo stesso tono: «Ricavo una grande soddisfazione, quando risolvo dei problemi. Per me, è sempre stato così. E adesso, non devo neppure servirmi dell'intermediario della carta e penna: svolgo tutto dentro di me, dall'inizio alla fine. Sono io che colgo, subito, ogni possibile applicazione, e... Van, sono io la macchina!» «La macchina?» «Non hai mai notato, quando guidi, o piloti, fino a qual punto finisci per identificarti con la macchina? È un'estensione di te stesso. Io vado un passo più in là. E ne provo una grande soddisfazione. Supponi di poter spingere l'empatia al limite estremo e essere uno dei tuoi pazienti, mentre risolvi il suo problema? È, sì... un'estasi». Talman fissò Linda che stava versando del Sauterne in una diversa cavità del cilindro. «Ti prendi ancora delle ubriacature?» gli chiese. Linda rise: «Non di alcool... ma Bart si ubriaca lo stesso, se è per questo!» ^
«E come?» «Cerca d'indovinarlo», disse Quentin, compiaciuto. «L'alcool viene assorbito dal sangue, raggiungendo così il cervello... l'equivalente d'una endovenosa, forse?» «Preferirei mettere il veleno del cobra nel mio sistema circolatorio», replicò il transplant. «Il mio equilibrio metabolico è troppo delicato, è organizzato in modo troppo perfetto per sconvolgerlo introducendo sostanze estranee. No, uso stimoli elettrici... una corrente indotta ad alta frequenza che mi fa volare ai sette cieli». Talman lo fissò: «Ed è un sostituto?» «Lo è. Il fumo e le bevande sono degli irritanti, Van. Lo è anche il pensare, per questo! Quando sento il bisogno fisico di far bisboccia, ho un congegno che mi fornisce un'irritazione stimolante... e sono pronto a scommettere che ci ricavo una scossa maggiore di quella che tu proveresti da una dose di mescalina». «Sta citando Housman», disse Linda. «E, lo sai?, fa le imitazioni degli animali. Col suo controllo tonale, Bart è una meraviglia». Si alzò in piedi. «Se volete scusarmi per un po', malgrado abbia una cucina automatica, ho sempre dei pulsanti da pigiare». «Posso aiutarti?» si offri Talman. «Grazie, no. Rimani qui con Bart. Vuoi che t'innesti le braccia, caro?» «No», rispose Quentin. «Van può occuparsi della mia dieta liquida. E... affretta i tempi, Linda. Summers ed io dobbiamo tornar subito al lavoro». «L'astronave è pronta?» «Quasi». Linda si fermò un attimo sulla soglia, mordendosi le labbra. «Non mi abituerò mai all'idea che tu sia in grado di manovrare una nave spaziale tutto da solo, soprattutto quella». «Anche se è destinata a quest'unica missione, ce la farò lo stesso ad arrivare su Callisto». «Be'... c'è pur sempre un equipaggio, sia pur minimo, no?» «C'è», confermò Quentin, «ma non serve. Sono le compagnie d'assicurazione che esigono un equipaggio d'emergenza. Summers ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad attrezzare la nave in sole sei settimane». «Con qualche gancio e un po' di gomma americana», osservò Linda. «Spero soltanto che non si sfasci tutto a mezza strada». Uscì, mentre Quentin scoppiava a ridere. Poi ci fu un breve silenzio. E fu allora che, mai come prima, Talman sentì che il suo amico era... si, era cambiato. Poiché
si accorse che Quentin lo fissava... e Quentin non era là. «Brandy, Van», disse la voce. «Versane un po' nel mio scomparto». Talman face per obbedire, ma Quentin lo fermò. «Non dalla bottiglia. È passato un bel po' da quando ho mescolato rum e coca nella mia bocca. Usa l'inalatore. Ecco... così. Bevi anche tu e dimmi come ti senti». «A proposito di che...?» «Non lo sai?» Talman si avvicinò alla finestra e restò lì a fissare il riflesso di tante luci sulle acque del San Lorenzo. «Sette anni, Quent. È difficile abituarsi a te, in questa... forma». «Non ho perso niente». «Neppure Linda», disse Talman. «Sei fortunato». Quentin replicò con calma: «Mi è rimasta vicina. L'incidente, cinque anni fa, mi distrusse. Mi ero lasciato coinvolgere nella ricerca atomica, e c'erano rischi che bisognava correre. Fui straziato, maciullato dall'esplosione. Non credere che Linda ed io non l'avessimo previsto. Conoscevamo i rischi di quel lavoro». «E tuttavia, tu...» «Pensavamo che il nostro matrimonio sarebbe durato, anche se... Ma dopo, mi trovai quasi ad insistere perché divorziasse. Ma Linda mi convinse che potevamo ancora provarci. E l'abbiamo fatto». Talman annui: «Direi di sì». «Ed è stato questo», proseguì Quentin, con voce sommessa, «che mi ha consentito di andare avanti. Tu sai cosa provavo per Linda. È sempre stata un'equazione pressoché perfetta. Anche se i fattori sono cambiati, abbiamo saputo adattarci». L'improvvisa risata di Quentin fece voltare di scatto Talman. «Non sono un mostro, Van. Cerca di vincere quell'idea!» «Non l'ho mai pensato», replicò Talman. «Tu sei...» «Cosa?» Di nuovo silenzio. Quentin grugnì. «In cinque anni ho imparato a osservare come la gente reagisce in mia presenza. Dammi un altro po' di brandy. Immagino ancora di gustarlo col mio palato. È strano come queste associazioni mentali persistano». Talman versò dell'altro brandy nell'inalatore. «Così, sei convinto di non essere cambiato, se non nell'aspetto fisico». «E tu m'immagini come un cervello nudo in un cilindro di metallo. Non come il tizio con cui avevi l'abitudine di ubriacarti sulla Terza Strada. Oh, sono cambiato... certo. Ma è un cambiamento che rientra nella normalità.
Non c'è niente di alienante nel possedere gambe e braccia metalliche. È soltanto un passo più in là che guidare un'auto o comandare una qualunque macchina. Se fossi davvero quel tipo di supercongegno che tu ti immagini nel tuo subconscio, sarei completamente chiuso in me stesso e passerei la mia intera vita a elaborare e risolvere equazioni cosmiche». Quentin se ne uscì in un'esclamazione volgare. «E se lo facessi, impazzirei. Giacché non sono un superuomo. Sono un tizio normale, un fisico, e ho dovuto abituarmi a un nuovo corpo. Che, naturalmente, ha i suoi inconvenienti». «Quali, per esempio?» «I sensi. O la mancanza di essi. Ho contribuito a mettere a punto un bel po' di apparecchiature compensatorie. Leggo romanzi d'avventure, mi ubriaco di stimolazioni elettriche, e assaporo i cibi, anche se non posso mangiarli. Guardo i programmi televisivi. Cerco per quanto possibile di conservare l'equivalente di tutti i piaceri umani puramente sensori. Serve a creare un equilibrio che è senz'altro indispensabile». «Parrebbe. Ma funziona?» «Senti un po'. Possiedo occhi d'una straordinaria sensibilità anche alle minime sfumature cromatiche. Ho delle braccia accessorie che sono delicate al punto da consentirmi di manipolare oggetti di dimensioni microscopiche. Posso disegnare e... sotto pseudonimo, sono un vignettista molto popolare. Lo faccio come attività collaterale. Perché il mio vero lavoro è ancora la fisica. È tuttora un ottimo lavoro. Conosci la sensazione di puro piacere che provi quando hai risolto un problema, di geometria, elettronica o psicologia... un problema, insomma? Adesso risolvo problemi infinitamente più complicati, che oltre ai calcoli in sé esigono reazioni d'una frazione di secondo. Come ad esempio, manovrare da solo una nave spaziale. Altro brandy, per favore. Evapora troppo in fretta, al calore di questa stanza». «Sei ancora Bart Quentin», dichiarò Talman, «ma sono più convinto di questo quando tengo gli occhi chiusi. Manovrare una nave spaziale...» «Non ho perso niente di umano», insisté Quentin. «Le emozioni fondamentali non sono cambiate. Non... non è proprio piacevole, per me, che tu te ne stia lì a guardarmi con autentico orrore, ma me ne faccio una ragione. Siamo stati amici per molto tempo, Van. Potresti dimenticartene tu, per primo, e non io». Talman avvertì all'improvviso una stretta allo stomaco. Ma, nonostante le parole di Quentin, era convinto di avere ormai trovato buona parte delle risposte alle domande per cui era venuto a Quebec. Diventare un transplant
non conferiva nessun potere anormale... non c'erano funzioni telepatiche. Ma c'erano altre domande da fare. Sì, certo. Versò dell'altro brandy e sorrise al cilindro che luccicava sull'altro lato del tavolo, davanti a lui. Sentiva Linda cantare sommessa in cucina. La nave spaziale non aveva nessun nome, e per due ragioni. Una, perché avrebbe fatto soltanto quest'unico viaggio a Callisto; l'altra era più strana. Sostanzialmente, non era una nave che trasportava un carico, ma il carico stesso era la nave. Le centrali atomiche sono delle dinamo che, per quanto grosse, possono essere smontate e imballate pezzo su pezzo e distribuite su dei camion o dei vagoni ferroviari. Sono monoblocchi ciclopici, voluminosi e massicci. Ci vogliono due anni per costruire un generatore atomico, e poi dev'essere portato al punto critico sulla Terra; negli enormi impianti standardizzati di controllo che coprono sette contee della Pennsylvania. Il Dipartimento Pesi e Misure ed Energia possiede una sbarra di metallo in una bacheca di vetro a temperatura rigorosamente costante a Washington: è il metro-standard. Allo stesso modo, in Pennsylvania, c'è, protetto da eccezionali misure di sicurezza, l'unico generatore-standard d'energia atomica di tutto l'intero sistema solare. Il combustibile nucleare doveva obbedire a un solo requisito: esser filtrato attraverso una griglia metallica dalle maglie del diametro d'un paio di centimetri: una misura arbitraria, che contribuiva, comunque, a dare un minimo di uniformità ai carburanti. Per il resto, qualunque sostanza andava bene per produrre energia atomica. Poche persone, comunque, accettavano di lavorare con l'energia atomica, qualcosa di troppo violento e pericoloso. I tecnici vi lavoravano a rotazione, per turni brevissimi. E anche così, soltanto la garanzia dell'immortalità sotto forma di transplant impediva che le neurosi sfociassero in aperta pazzia. La centrale destinata a Callisto era troppo grossa per essere caricata anche nelle navi più grandi di qualunque linea commerciale, ma doveva a tutti i costi esser portata a destinazione. Così, i tecnici avevano costruito una nave intorno alla centrale. Non era proprio un lavoro raffazzonato alla bell'e meglio, ma certo il risultato era insolito. Il profilo era parecchio diverso da quello di ogni altra nave, e ogni esigenza particolare — e se ne erano presentate molte — era stata affrontata e risolta con parecchia ingegnosità, magari in modo tutt'altro che ortodosso. Dal momento che il completo con-
trollo sarebbe stato affidato al transplant Quentin, non si era posta granché cura per gli alloggi del piccolo equipaggio di emergenza. Questi uomini non avrebbero affatto dovuto aggirarsi per l'intera nave, a meno che un guasto non l'avesse reso necessario, e un guasto era quasi impossibile. In pratica il vascello era un'unica entità vivente... ma non del tutto. Il transplant aveva ogni tipo d'estensioni, collegate ad ogni singolo apparato della grande nave, nelle sue diverse sezioni, per tutte le più svariate funzioni. Gli erano stati staccati tutti gli apparati sensori, tranne la vista e l'udito, poiché Quentin, in quel viaggio, sarebbe stato soltanto il controllo propulsivo della nave... una sorta di superpilota per una nave d'eccezione. Il cilindro col cervello fu portato a bordo da Summers il quale lo inserì... da qualche parte! Quando ebbe finito di collegarlo, la costruzione della nave poté dirsi conclusa. La nave decollò a mezzanotte in punto per Callisto. A un terzo del percorso verso l'orbita di Marte, sei uomini in tuta spaziale sbucarono in una grande sala che sembrava uscita dall'incubo di un tecnico. Da un altoparlante alla parete la voce di Quentin chiese: «Cosa stai facendo qui, Van?» «Oh, bene», disse Brown. «Ci siamo. E adesso facciamo in fretta. Cunningham, tu individua i collegamenti. Dalquist, tienti pronto con la pistola». «Cosa devo cercare?» domandò il gigante biondo. Brown lanciò un'occhiata a Talman: «Sei certo che non sia in grado di muoversi?» «Ne sono certo», confermò Talman, muovendo gli occhi nervosamente. Si sentiva nudo, esposto com'era allo sguardo di Quentin, e questo non gli piaceva. Cunningham, scarno, rugoso, disse, accigliandosi: «L'unica mobilità è nella propulsione stessa. Ne ero convinto ancora prima che Talman controllasse. Quando un transplant viene innestato per un lavoro, i suoi utensili sono unicamente quelli per il lavoro che deve compiere». «Bene. Non perdete tempo in chiacchiere. Interrompete il circuito». Cunningham aguzzò gli occhi attraverso il visore del casco. «Un momento. Questa non è l'attrezzatura standardizzata. È sperimentale... diversa. Devo prima rintracciare... uhm». Talman, furtivamente, stava cercando d'individuare le lenti dell'organo
della vista del transplant, ma non ci riuscì. Sapeva che in qualche punto di quel labirinto di cavi, tubi, griglie, magneti, valvole e ogni altro marchingegno messo su dai tecnici, Quentin teneva lo sguardo puntato su di lui. Anzi, non da un solo punto, ma da parecchi... Quentin doveva avere una visione d'assieme, con occhi distribuiti in modo strategico in tutta la sala. Ed era davvero grande, quella sala dei controlli. La luce era d'un giallo fosco. Aveva l'aspetto d'una cattedrale aliena, torreggiante, così alta e spoglia, che finiva per ridurre le dimensioni dei sei uomini a quelle di sorci. Sotto i loro piedi, enormi, spoglie piastre metalliche ronzavano e vibravano; sopra di esse, grandi lampade fluorescenti irradiavano quella luce arcana. Sopra le loro teste, lungo le pareti, correva una lunga e stretta piattaforma metallica; alta sei metri da terra, era cinta da una bassa ringhiera. Due scalette ai lati opposti della sala consentivano di salirvi. Un globo azzurro era sospeso in alto, e l'aria, dal vago sentore di cloro, pulsava d'una grande, mormorante energia. L'altoparlante disse ancora: «Questa è pirateria». Brown replicò, in tono disinvolto: «La chiami pure così. E si metta tranquillo. Non le faremo del male. Potremo perfino rispedirla sulla Terra, se riusciremo a escogitare un modo sicuro per farlo». Cunningham stava esaminando una griglia di lucite, stando bene attento a non toccarla. Quentin disse: «Non vale la pena dirottare questo cargo. Non sto trasportando radium, sapete». «Mi serve una centrale atomica», replicò Brown, asciutto. «Come avete fatto a salire a bordo?» Brown sollevò una mano per asciugarsi il sudore dalla fronte, fece una smorfia e non rispose. «Trovato niente, ancora, Cunningham?» «Dammi tempo. Sono soltanto un tecnico elettronico. Quest'impianto sembra fatto da un pazzo. Fern, viene qui a darmi una mano». Talman sentì crescere il disagio. Si era accorto che Quentin, dopo il primo commento sorpreso, l'aveva ignorato.. Un indefinibile, irrefrenabile impulso lo spinse ad alzare il capo e a fare il nome di Quentin. «Dunque?» rispose Quentin. «Fai parte della banda?» «Si». «E laggiù, a Quebec, sei venuto a strapparmi informazioni. Ad accertarti che fossi innocuo». Talman parlò, sforzandosi perché la sua voce non tremasse: «Dovevamo esserne certi». «Capisco. Come avete fatto a salire a bordo? Il radar segnala subito qua-
lunque massa in avvicinamento. Non avreste potuto abbordarmi nello spazio con la vostra nave». «Non l'abbiamo fatto. Abbiamo eliminato l'equipaggio d'emergenza e ci siamo impadroniti delle loro tute». «Eliminato?» Talman girò gli occhi verso Brown. «Che altro potevamo fare? È un gioco troppo grosso, questo, per le mezze misure. Più tardi avrebbero costituito un pericolo per noi, al momento di dare praticamente inizio al nostro piano. Nessuno ne saprà mai niente, salvo noi. E tu». Talman lanciò un'altra occhiata a Brown. «Quent, credo che farai meglio a passare dalla nostra parte». L'altoparlante ignorò ogni minaccia implicita in quel suggerimento. «Perché volete la centrale atomica?» «Abbiamo scelto un asteroide», spiegò Talman, piegando di nuovo la testa all'indietro scrutando la grande cavità labirintica della nave, che pareva quasi ondeggiare tra foschi vapori velenosi. Si aspettava che Brown l'interrompesse, ma il grassone non parlò. Talman pensò che era stranamente difficile parlare in modo persuasivo con qualcuno di cui non si conosceva l'ubicazione. «L'unico guaio è che su un asteroide non c'è aria. Con la centrale atomica potremo produrcela da noi. E sarebbe un miracolo se qualcuno riuscisse a scoprire il nostro rifugio, nella Cintura degli Asteroidi». «E poi, cosa? Pirateria?» Talman non rispose. L'altoparlante disse pensieroso: «Sì, certo, potrebbe uscirne un bel racket. Per un po', almeno. Quel tanto che basta a metter su un bel gruzzolo. Nessuno si aspetterà niente del genere... Sì, certo. Potreste ricavarne parecchio da questa vostra idea». «Bene», fece Talman. «E se pensi questo, qual è il successivo passo, secondo logica?» «Non quello che pensi tu. Non intendo stare al vostro gioco. Non tanto per ragioni morali, ma per motivi di autoconservazione. Per voi, sarei inutile. Soltanto in una civiltà ampia e complessa c'è bisogno di transplant. Per voi, sarei soltanto bagaglio superfluo». «Se ti dessi la mia parola che...» «Non sei tu il pezzo grosso», ribatté Quentin. Talman lanciò istintivamente un'altra occhiata interrogativa a Brown. E dall'altoparlante uscì un suono strano, come una risata soffocata. «D'accordo», disse Talman, scrollando le spalle. «È naturale che tu non sia disposto a decidere subito a nostro favore. Pensaci su. Ricorda che non
sei più Bart Quentin... hai certi impedimenti meccanici. Non abbiamo molto tempo, ma possiamo sempre concedertene un po', diciamo dieci minuti, mentre Cunningham dà un'occhiata in giro. Poi... be', qui non stiamo giocando a palline, Quent». Strinse le labbra. «Se passerai dalla nostra parte e guiderai la nave secondo i nostri ordini, potremo permetterci di lasciarti vivere. Ma devi decidere in fretta. Cunningham sta per snidarti. E quando avrà preso i comandi...» «Cosa ti fa sentire tanto sicuro che io possa venir rintracciato?» gli chiese con calma Quentin. «So quanto varrebbe la mia vita una volta che vi avessi fatto atterrare dove volete. No, finirei senz'altro per raggiungere i sei uomini dell'equipaggio che avete liquidato. Vi darò io un'ultimatum». «Tu... cosa?» «State buoni e non mettetevi a pasticciare con niente, e vi farò atterrare su un punto isolato di Callisto, dandovi modo di fuggire», disse Quentin. «Se non lo farete, che Dio vi aiuti». Per la prima volta Brown mostrò d'avere ascoltato quella voce remota. Si voltò verso Talman. «Sta bluffando?» Talman annuì lentamente. «Ma certo. È inoffensivo». «È un bluff», ribadì Cunningham, senza alzare gli occhi dal suo lavoro. «No», rispose l'altoparlante, sempre calmo, «non sto bluffando. Fai attenzione, tu, con quel pannello. Quei fili sono collegati con la centrale atomica. Se pasticcerai coi contatti, ci farai saltare tutti». Cunningham fece un balzo all'indietro dal labirinto dei fili che uscivano come tanti serpenti da un pannello di bakelite, davanti a lui. Fern, a qualche passo da lui, si girò a guardarlo col suo viso scuro: «Vacci piano», gli disse. «Dobbiamo esser certi di ciò che stiamo facendo». «Chiudi il becco», grugnì Cunningham. «Io so quello che faccio. Forse è proprio questo che teme il transplant. Starò molto attento a tenermi lontano dall'impianto atomico, ma...» Fece una pausa per studiare l'intreccio dei cavi. «No. Questi non riguardano l'impianto atomico... credo. Non il circuito principale, in ogni caso. Ora, se io interrompo questo collegamento...» La sua mano guantata si alzò, impugnando una cesoia dal manico isolante. L'altoparlante disse: «Cunningham... non farlo». Cunningham appoggiò la cesoia al cavo. L'altoparlante sospirò. «Tu per primo, allora. Ecco!» Talman sentì la visiera del casco sbattergli dolorosamente contro il naso.
L'immensa stanza parve dare un'energica sgroppata, mentre lui barcollava in avanti, incapace di fermarsi. Tutt'intorno a lui vide le figure in tuta spaziale che incespicavano grottesche. Brown perse l'equilibrio e stramazzò in avanti. Cunningham era stato sbattuto tra i fili, quando la nave aveva decelerato all'improvviso. Adesso era appeso a quel groviglio come una mosca intrappolata in una ragnatela, con le braccia e le gambe, e la testa, che sussultavano e si contorcevano spasmodicamente. La furia di quella diabolica danza aumentò. «Tiratelo fuori da li!» gridò Dalquist. «Aspetta!» urlò Fern. «Stacco la corrente...» Ma non sapeva come. Talman, la gola arida, osservò il corpo di Cunningham arcuarsi e contorcersi, scuotendosi tutto, nella spasmodica agonia. All'improvviso vi fu uno scricchiolio d'ossa. E Cunningham continuò a sussultare, ma come un pupazzo di pezza, la testa che ciondolava grottesca. «Tiratelo giù», sbottò Brown, ma Fern scosse il capo. «Cunningham è morto. E quei cavi sono pericolosi». «Morto? E come?» Sotto i baffi sottili le labbra di Fern si schiusero in un sorriso privo di umorismo. «Un tizio in preda a un attacco epilettico può rompersi l'osso del collo». «Già», annuì Dalquist, chiaramente scosso. «Si è proprio rotto l'osso del collo. Guardate in che modo gli dondola la testa». «Fatti attraversare da una corrente alternata a venti cicli, e verranno le convulsioni anche a te», ribatté Fern. «Non possiamo lasciarlo là!» «Possiamo», disse Brown, corrugando la fronte. «Tenetevi tutti lontani dalle pareti». Infuriato, fissò Talman. «Perché non hai...» «Ma si, lo so. Ma Cunningham avrebbe dovuto avere il buon senso di tenersi lontano da quei cavi scoperti». «Sono pochi i fili isolati, qua in giro», ringhiò l'uomo grasso. «Avevi detto che il transplant era innocuo». «Ho detto che non aveva mobilità. E che non era telepate». Talman si rese conto che la sua voce suonava sulla difensiva. Fern disse: «Non dovrebbe esserci un segnale che suona tutte le volte che una nave accelera o decelera? Dev'essere stato proprio il transplant a interromperlo, per coglierci alla sprovvista». Alzarono gli occhi alla vasta cavità ronzante, bagnata da quella fosca lu-
ce giallastra. Talman si sentì cogliere da un accesso di claustrofobia. Gli parve che le pareti stessero per crollargli addosso... come una gigantesca mano che si stesse chiudendo su di lui. «Potremmo fracassare le cellule dei suoi occhi», suggerì Brown. «Trovale». Fern gli indicò l'immenso labirinto dell'impianto. «Tutto quello che dobbiamo fare è staccare il transplant. Tagliare i suoi collegamenti. Dopo, sarà come morto». «Per sfortuna», disse Fern, «Cunningham era l'unico ingegnere elettronico fra noi. Io sono soltanto un astrofisico!» «Non importa. Basterà staccare una spina, e il transplant cesserà di funzionare. Questo possiamo pur farlo!» L'atmosfera si faceva sempre più tesa. Ma intervenne Cotton, un ometto dagli occhi azzurri, ammiccanti, a riportare la calma: «La matematica... la geometria... dovrebbero aiutarci. Noi vogliamo localizzare il transplant, e...» Alzò lo sguardo e rimase come pietrificato. «Siamo fuori rotta!» esclamò infine, umettandosi le labbra secche. «Vedete quella spia luminosa?» Lassù in alto, Talman fissò il grande globo azzurro. Sulla sua scura superficie risplendeva chiaramente un punto rosso. Il transplant sta correndo ai ripari. La Terra è il posto più vicino dove può ricevere aiuto. Ma ci rimane ancora tempo in abbondanza. Non sono il tecnico specializzato che era Cunningham, ma neppure un completo idiota». Non guardò il corpo che continuava a sussultare, appeso ai fili. «Non c'è bisogno di provare ogni collegamento della nave». «Va bene. Occupatene tu, allora», grugnì Brown. Impacciato nella sua tuta, Fern raggiunse un'apertura quadrata al centro del pavimento, e scrutò una grata metallica venticinque metri più sotto. «Bene. Laggiù c'è l'alimentatore per il carburante. Nbn c'è bisogno di rintracciare i collegamenti per tutta la nave. Il carburante viene scaricato da quel tubo principale, là sopra. Ora, guardate: tutto ciò che è collegato con l'energia atomica è stato contrassegnato col rosso. Visto?» Videro. Qua e là, su piastre e pannelli, c'erano enigmatici segni rossi. Altri simboli erano in azzurro, nero e bianco. «Ora, partiamo da questa premessa», proseguì Fern. «Quanto meno in via provvisoria. Il rosso rappresenta l'energia atomica. L'azzurro... il verde... uhm». D'un tratto Talman disse: «Qui non vedo niente che assomigli all'involucro del cervello di Quentin».
«Ti aspettavi davvero di vederlo?» gli chiese, sarcastico, l'astrofisico. «Sarà infilato in un buco imbottito da qualche parte. Il cervello umano può sopportare una gravità maggiore che il resto del corpo, ma sette G in ogni caso è il massimo. Il che, incidentalmente, vale anche per noi. Non valeva la pena dare a questa nave la capacità di accelerare di più. In ogni caso il transplant non avrebbe potuto sopportare più di quanto possiamo noi». «Sette G», fece Brown, pensoso. «Una simile accelerazione farebbe perdere i sensi anche al transplant. Ma deve restar cosciente, se vuol pilotare l'astronave attraverso l'atmosfera terrestre. Abbiamo tempo in abbondanza». «Adesso stiamo andando molto lenti», interloquì Dalquist. Fern lanciò un'occhiata al globo azzurro. «Pare di sì. Lasciate che ci lavori sopra». Srotolò una corda che aveva alla cintura, e si legò saldamente a uno dei pilastri centrali. «Questo ci garantirà da qualunque futuro incidente». «Non dovrebbe essere così difficile rintracciare un circuito», osservò Brown. «Di solito no. Ma in questa sala hanno messo tutto: i controlli della centrale atomica, il radar, e perfino anche il lavello della cucina. E tutti questi segni sono soltanto ad uso dei costruttori. Non c'è mai stato nessun progetto standard di questa nave. È un modello unico. Posso trovare il transplant, ma ci vorrà del tempo. Perciò chiudi il becco e lasciami lavorare». Brown aggrottò la fronte ma non disse niente. La testa calva di Cotton era imperlata di sudore. Dalquist strinse le braccia intorno a un pilastro metallico e attese. Talman alzò di nuovo lo sguardo verso la stretta piattaforma che correva tutt'intorno alle pareti. Il globo azzurro mostrava sempre il punto rosso in lento movimento. «Quent», chiamò. «Sì, Van». La voce di Quentin suonò tranquilla e lontana. Brown portò con noncuranza la mano al fulminatore che aveva alla cintura. «Perché non ti arrendi?» «Perché non lo fate voi?» «Non puoi combatterci. Quello di Cunningham è stato un colpo di fortuna. Adesso siamo tutti sul chi vìve... non puoi farci del male. È soltanto una questione di tempo prima che riusciamo a rintracciarti. Non aspettarti pietà quando ti avremo trovato, Quent. Puoi risparmiarci un bel po' di problemi dicendoci subito dove ti trovi. Siamo disposti a pagare per questo. Ma dopo che ti avremo trovato senza il tuo aiuto, non potrai più venire a
patti con noi. Che ne dici?» Quentin rispose soltanto: «No». Per qualche minuto vi fu silenzio. Talman stava guardando Fern che, srotolando con estrema cura la corda, stava esaminando il groviglio di cavi ai quali Cunningham era ancora appeso. Quentin disse: «Non mi troverà mai, laggiù. Sono mimetizzato troppo bene». «Ma impotente», si affrettò ad aggiungere Talman. «Anche voi. Chiedilo a Fern. Se pasticcerete coi collegamenti sbagliati, finirete per distruggere la nave. Pensate al vostro problema, Stiamo tornando sulla Terra. Mi sto inserendo su una nuova rotta che ci terminerà a casa. Se vi arrendete subito...» Brown si intromise: «Le vecchie leggi non sono mai state modificate. La punizione per la pirateria è sempre la morte». «Da cent'anni non c'è più stato nessun atto di pirateria. Se un caso concreto finisse oggi in tribunale, potrebbe concludersi in modo del tutto diverso». «La prigione? Il ricondizionamento?» chiese Talman. «Preferirei esser morto». «Stiamo decelerando!» gridò Dalquist, stringedosi più saldamente al suo pilastro. Guardando Brown, Talman pensò che l'uomo grasso doveva senz'altro aver capito ciò che lui aveva in mente di fare. Se le conoscenze tecniche fallivano, forse non sarebbe stato così per la psicologia. E Quentin, dopotutto, era un cervello umano. Per prima cosa, cogli il soggetto impreparato. «Quent». Ma Quentin non rispose. Brown fece una smorfia e si voltò a guardare Fern. Il sudore colava giù per la faccia scura del fisico, mentre si concentrava sui circuiti, tracciando diagrammi sul blocco di appunti con la stilografica che portava appeso all'avambraccio. Dopo un po', Talman cominciò a provare una sensazione di vertigine. Scosse il capo, rendendosi conto che la nave aveva decelerato fin quasi a zero, e si afferrò più saldamente al pilastro più vicino. Fern imprecò. Cominciava ad aver qualche difficoltà a mantenere il punto d'appoggio. Poco dopo lo perse del tutto, quando la nave entrò in caduta libera. Cinque figure in tuta spaziale si aggrapparono ad ogni possibile conveniente appiglio. Fern ringhiò: «Questo potrebbe essere un punto morto, ma non
aiuta il transplant. Io non posso lavorare senza gravità, ma lui non può tornare sulla Terra senza accelerazione». L'altoparlante annunciò: «Ho mandato un SOS». Fern scoppiò a ridere: «Ho studiato la cosa con Cunningham... e tu hai parlato anche troppo con Talman. Con un radar per evitare i meteoriti, non hai bisogno d'una trasmittente. E infatti non ce l'hai». Diede una occhiata ai circuiti che aveva appena finito di esaminare. «Forse mi sto avvicinando troppo alla risposta giusta, eh? È per questo che...» «Non ci sei neppure vicino», replicò Quentin. «Ma ugualmente...» Fern si allontanò con un calcio dal pilastro, lasciando scorrere la corda dietro di sé. Fece un cappio intorno al suo polso sinistro e, fluttuando a mezz'aria, si mise a studiare un altro collegamento. A Brown scivolò la mano sulla liscia superficie della colonna e si trovò a galleggiar libero come un pallone troppo gonfio. Talman si spinse con un calcio verso la piattaforma con la ringhiera. Afferrò la sbarra di metallo con le mani guantate e la scavalcò con una piroetta, come un acrobata, e guardò giù... anche se non era veramente giù... nella sala di comando. «Credo che fareste meglio ad arrendervi», disse Quentin. Brown stava fluttuando attraverso la sala per raggiungere Fern. «Mai», disse, e nel medesimo istante quattro G colpirono la nave con la violenza d'un maglio. Non era un'accelerazione in avanti, ma in un'altra direzione calcolata con cura. Fern la scampò, anche a costo di un polso mezzo slogato... ma la corda stretta intorno all'avambraccio lo salvò comunque da un tuffo fatale in mezzo ai fili non isolati. Talman fu sbattuto giù sulla piattaforma. Poté vedere gli altri che precipitavano con violenza contro superfici dure. Tuttavia Brown non fu fermato dal pavimento metallico. Si era trovato a galleggiare sopra il foro di alimentazione del combustibile quando l'accelerazione di quattro G era stata applicata di colpo. Talman vide il suo corpo voluminoso scomparire alla vista dentro l'apertura. Si udì un rumore indescrivibile. Dalquist, Fern e Cotton lottarono per tirarsi in piedi. Si avvicinarono cauti al foro e guardarono giù. Talman gridò: «È...?» Cotton aveva distolto lo sguardo. Dalquist restò dove si trovava, come affascinato pensò Talman, finché non vide le spalle dell'uomo scosse da conati di vomito. Fern sollevò lo sguardo verso la piattaforma. «È passato attraverso lo schermo filtrante», disse. «È una rete metallica
con le maglie larghe un paio di centimetri...» «L'ha rotta passando?» «No», replicò Fern, duro. «Non l'ha rotta. L'ha attraversata». Quattro gravità e una caduta di venticinque metri assommano a qualcosa di terribile. Talman chiuse gli occhi e disse: «Quent!» «Vi arrendete?» Fern ringhiò: «Neanche per sogno! La nostra associazione non è così interdipendente. Possiamo farcela anche senza Brown». Talman sedette sulla piattaforma, tenendosi stretto alla ringhiera, e lasciò che i suoi piedi penzolassero nel vuoto. Fissò il globo azzurro una dozzina di metri alla sua sinistra. Il punto rosso identificava che la nave era immobile. «Credo che tu non sia più un essere umano, Quent» disse. «Perché non uso un fulminatore? Adesso ho armi diverse con cui combattere, Van... e sto lottando per la mia vita». «Possiamo sempre trattare». Quentin prosegui: «Te l'ho detto, che ti saresti dimenticato della nostra amicizia prima di me. Dovevi sapere che questo dirottamento poteva terminare soltanto con la mia morte. Ma a quanto pare non te ne importava». «Non mi aspettavo che tu...» «Già», disse l'altoparlante. «Mi chiedo se saresti stato altrettanto pronto a eseguire il piano se io avessi avuto ancora una forma umana. In quanto all'amicizia... usa gli espedienti che ti suggerisce la tua psicologia, Van. Tu guardi al mio corpo meccanico come a un nemico, una barriera fra te e il vero Bart Quentin. Forse a livello inconscio lo odi, e perciò sei disposto a distruggerlo. Anche se distruggerai me con esso. Non so... Forse stai razionalizzando tutta la faccenda pensando in tal modo di salvarmi da quella cosa che ha eretto la barriera. E ti dimentichi che, in sostanza, io non sono cambiato». «Un tempo giocavamo a scacchi insieme», fece Talman, «ma non ci mettevamo mica a spaccare le pedine». «Io sono sotto scacco», replicò Quentin, «e tutto quello che mi rimane per combattere sono i cavalli. Tu hai ancora torri e alfieri. Tu puoi puntare dritto al tuo bersaglio. Ti arrendi?» «No!» gridò Talman. I suoi occhi fissavano sempre quel punto rosso. Lo vide muoversi con un leggero tremito, e si afferrò con una stretta convulsa alla sbarra metallica. Il suo corpo fu sbalzato fuori dalla ringhiera come su un'altalena, quando la nave schizzò via. Una mano guantata fu strappata
dall'appiglio, ma l'altra tenne. Il globo azzurro dondolò violentemente. Talman lanciò una gamba sopra la ringhiera e tornò ad arrampicarsi sul suo precario posatoio. Guardò giù. Fern era ancora aggrappato al suo cavo di emergenza. Dalquist e il piccolo Cotton stavano slittando lungo il pavimento e si arrestarono con uno schianto contro un pilastro. Qualcuno urlò. Sudando, Talman si calò cautamente in basso. Ma quando ebbe raggiunto Cotton, vide che era morto. Una ragnatela di crepe sulla visiera del suo casco e i lineamenti contorti e scoloriti gliel'indicarono al di là di ogni dubbio. «Mi ha sbattuto dritto addosso», deglutì Dalquist. «La sua visiera si è fracassata contro il lato posteriore del mio casco...» L'atmosfera a base di cloro dell'interno della nave aveva messo fine alla vita di Cotton, orribilmente, ma in pochi attimi. Dalquist, Fern e Talman si fissarono l'un l'altro. Il gigante biondo disse: «Siamo rimasti in tre. Non mi piace questa storia. Non mi piace affatto». Fern digrignò i denti. «Così, stiamo ancora sottovalutando quell'affare. D'ora in avanti state ben attaccati ai pilastri. Non muovetevi senza avere un robusto ancoraggio. Tenetevi lontani da qualunque cosa possa causare guai». «Stiamo sempre tornando verso la Terra», constatò Talman. «Già». Fern annuì. «Potremmo aprire uno dei boccaporti e uscir fuori nello spazio aperto. Ma poi? Prima avevamo progettato di usare questa nave. Ora dobbiamo farlo». Dalquist disse: «Se ci arrendessimo...» «Verremmo giustiziati», tagliò corto Fern. «Abbiamo ancora tempo. Ho rintracciato alcuni dei più importanti circuiti. Ho escluso un bel po' di collegamenti». «Pensi ancora di riuscirci?» «Credo di sì. Ma non lasciate andare i vostri appigli, neppure per un attimo. Troverò la risposta prima che tocchiamo l'atmosfera». Talman ebbe un suggerimento: «Il cervello emette delle onde riconoscibili. Forse con un indicatore direzionale...» «Se fossimo in mezzo al deserto di Mojave, funzionerebbe. Non qui. Questa nave è imbottita di correnti e radiazioni d'ogni tipo. Come potremmo mai identificarle una ad una senza un'apparecchiatura adatta?» «Abbiamo portato alcuni strumenti con noi. E ce ne sono in abbondanza
sulle pareti». «Tutti collegati insieme. Continuerò il lavoro, ma senza correr rischi. Vorrei proprio che Cunningham non fosse morto». «Quentin non è uno stupido», disse Talman. «Prima ha fatto fuori l'ingegnere elettronico, e poi Brown. E poi ha cercato di eliminare anche te. L'alfiere e la regina». «Ed io cosa sarei?» «La torre. E se troverà il modo, liquiderà anche te». Talman si accigliò, cercando di ricordare qualcosa. Poi ci arrivò. Si avvicinò al braccio di Fern, dal quale pendevano ancora la stilo col blocco di appunti, e schermando il foglio col corpo, nel caso in cui qualche cellula fotoelettrica potesse esser sistemata lì intorno, sulle pareti o nel soffitto, scrisse: «Si ubriaca alle alte frequenze. Puoi far qualcosa?» Fern accartocciò il foglietto, poi lo strappò in piccoli pezzi, con le dita impacciate dai guanti. Strizzò l'occhio a Talman e fece un breve cenno col capo. «Be', continuerò a provare», disse ad alta voce, e lasciò scorrere la corda fino al gruppo di strumenti che lui e Cunnigham avevano portato a bordo. Rimasti soli, Dalquist e Talman, si agganciarono ai pilastri e attesero. Non c'era nient'altro che potessero fare. Talman aveva già riferito di quella faccenda dell'alta frequenza a Fern e a Cunningham, i quali però non avevano visto, allora, nessuna possibilità di sfruttare quell'informazione. Ma adesso, poteva esser questa la risposta, con l'applicazione della psicologia pratica come integrazione della tecnologia. Talman desiderava ardentemente una sigaretta, ma tutto quello che poteva fare, sudando nella scomoda tuta, era maneggiare un congegno incorporato per inghiottire qualche pastiglia di sare e pochi sorsi d'acqua tiepida. Il cuore gli batteva sempre più affannoso, e provava un sordo dolore alle tempie. La tuta spaziale era scomoda: non era abituato a quella sorta di prigionia personale. Attraverso il ricevitore incorporato del casco udiva il silenzio ronzante, interrotto dal fruscio degli stivali di Fern che si aggirava lì intorno. Ammiccò davanti al caos di cavi e tubazioni che lo circondava dovunque, e socchiuse gli occhi: quella spietata luce gialla non era destinata alla vista umana, gli provocava piccole, continue pulsazioni nervose in qualche punto delle cavità orbitali. Da qualche parte, dentro quella nave, pensò, e con tutta probabilità in quella stessa sala, c'era Quentin. Ma mimetizzato. E come?
Roba degna della «Lettera rubata» di Poe... oppure no? Quentin non aveva nessun motivo di aspettarsi dei dirottatori. Solo per puro caso il transplant si era trovato protetto da un nascondiglio così efficace. Quello, e la particolare tecnica seguita per costruire quella nave, senza un progetto generale, ma procedendo passo passo, tutt'al più con l'uso d'un regolo calcolatore. Ma, pensò Talman, se fosse stato possibile indurre lo stesso Quentin a rivelare la sua posizione... E come? Tramite un'irritazione cerebrale indotta? Un'intossicazione?» Fare appello alle cose più basilari. Al sesso, magari? Ma un cervello isolato non era in grado di propagare la specie. L'unico suo istinto era quello della conservazione di se stesso. Talman desiderò aver portato Linda con sé. Allora, avrebbe avuto qualcosa su cui far leva. Se soltanto Quentin avesse avuto un corpo umano! Non sarebbe stato così difficile trovare la risposta. E non necessariamente con la tortura. Le reazioni muscolari automatiche, la vecchia risorsa dei maghi professionisti, avrebbero potuto guidare lui, Talman, alla meta. Ma, per sfortuna, lo stesso Quentin era la meta... un cervello senza corpo in un cilindro di metallo imbottito e isolato. E un cavo elettrico per colonna vertebrale. Se Fern fosse riuscito a montare un congegno per irradiare l'alta frequenza, le radiazioni avrebbero indebolito le difese di Quentin; in qualche modo. Ma al momento, il transplant era un avversario molto, molto pericoloso. Ed era perfettamente mimetizzato. Be', non perfettamente. Decisamente no. Perché — e Talman se ne rese conto con un'eccitazione improvvisa — Quentin non se ne stava semplicemente seduto, comodo, ignorando i pirati, ma aveva preso la via più veloce per far ritorno alla Terra. Il fatto stesso che ripercorresse la sua rotta invece di proseguire per Callisto, indicava che Quentin voleva chiedere aiuto. E nel frattempo, si sforzava in ogni modo di assassinarli, distraendoli dalla ricerca. Perché, com'era ovvio, Quentin poteva esser trovato. Con il tempo. Cunningham ci sarebbe riuscito. E perfino Fern rappresentava una minaccia per il transplant. Questo significava che Quentin... aveva paura. Talman risucchiò il proprio respiro. «Quentin», disse, «ho una proposta. Mi stai ascoltando?» «Si», disse quella voce distante e terribilmente familiare. «Ho una soluzione per tutti noi. Tu vuoi rimanere in vita. Noi vogliamo questa nave. Giusto?»
«Giusto». «Supponi che ti sganciassimo col paracadute non appena toccheremo l'atmosfera della Terra. Poi potremo prendere i comandi e puntare di nuovo verso lo spazio. In questo modo...» «E Bruto è un uomo d'onore», osservò Quentin. «Ma naturalmente non lo era. Non posso più fidarmi di te, Van. Gli psicopatici e i criminali sono troppo amorali. Sono spietati perché pensano che il fine giustifichi i mezzi. Tu sei uno psicologo psicopatico, Van, ed è proprio per questo che non ti prendo in parola su niente». «Stai correndo un grosso rischio. Se troveremo in tempo il collegamento giusto, non ci sarà più spazio per trattare, lo sai». «Se». «La via per la Terra è lunga. Adesso stiamo prendendo le nostre precauzioni. Non puoi più uccidere nessuno di noi. Basterà soltanto che continuiamo a lavorare con metodo fino a quando non ti avremo trovato. Ora... che ne dici?» Dopo una pausa, Quentin rispose: «Preferisco correre i miei rischi. Conosco i valori tecnologici meglio di quelli umani. Fintanto che dipendo dal mio proprio campo di conoscenza, sarò molto più al sicuro che se tentassi di addentrarmi nella psicologia. Conosco i coefficienti e i coseni, ma non ne so molto sulla macchina colloidale che sta dentro il tuo cranio». Talman chinò la testa; il sudore gli colò sul naso all'interno della visiera del casco. Ebbe un improvviso attacco di claustrofobia; paura dello spazio troppo stretto della sua tuta, e paura della prigione molto più grande costituita dalla sala e dalla nave stessa. «Sei limitato, Quent», riprese, con voce troppo alta. «Le tue armi sono limitate. Non puoi regolare la pressione atmosferica, qua dentro, o l'avresti già compressa al punto da schiacciarci». «Schiacciando nello stesso tempo un bel po' di equipaggiamento vitale. Inoltre, quelle tute possono sopportare una pressione molto alta». «Il tuo re è ancora sotto scacco». «Anche il tuo», replicò Quentin senza scomporsi. Fern rivolse a Talman una lunga occhiata che conteneva approvazione e una traccia di trionfo. Sotto i goffi guanti, manipolando strumenti delicati, l'allacciamento cominciava a prender forma. Per fortuna era un lavoro di conversione più che di costruzione, altrimenti non vi sarebbe stato tempo a sufficienza. «Godetevela fin che potete», disse ancora Quentin. «Sto per sbattervi
addosso tutte le G che possiamo sopportare». «Non sento niente», rispose Talman. «Tutte quelle che possiamo sopportare, non tutte quelle che potrei sviluppare. Procedete pure e divertitevi. Non potete vincere». «No?» «Be'... Rifletteteci su. Fintanto che ve ne state attaccati da qualche parte, siete abbastanza al sicuro. Ma se comincerete a muovervi d'attorno, allora potrò distruggervi». «Il che significa che dovremo muoverci... da qualche parte... per raggiungerti, eh?» Quentin scoppiò a ridere. «Non ho detto questo. Sono ben mimetizzato. Spegni quell'affare! L'urlo echeggiò e riecheggiò contro l'alto soffitto, scuotendo l'aria giallastra. Talman sussultò nervosamente. Incontrò lo sguardo di Fern e colse il suo sogghigno. «Sta avendo effetto», disse Fern. Poi ci fu silenzio per molti minuti. La nave diede in un balzo improvviso. Ma l'irradiatore di frequenza era saldamente ancorato, e anche gli uomini erano legati ai loro cavi. «Spegnilo», disse di nuovo Quentin. La sua voce non era del tutto controllata. «Dove ti trovi?» chiese Talman. Nessuna risposta. «Possiamo aspettare, Quent». «Continuate ad aspettare, allora lo... non vengo distratto da paure personali. È uno dei vantaggi di essere un transplant». «Ha un alto effetto irritante», mormorò Fern. «E fa subito effetto». «Suvvia, Quent», riprese Talman, con voce suadente. «Hai ancora l'istinto dell'autoconservazione. Questo non può essere piacevole per te». «È... troppo piacevole». La voce di Quentin si era fatta ineguale. «Ma non funzionerà. Ho sempre ben sopportato l'alcool». «Questo non è alcool», replicò Fern. Mosse un comando. Il transplant scoppiò a ridere; Talman constatò con soddisfazione che stava perdendo il controllo orale. «Non funzionerà, ti dico. Sono troppo furbo per voi». «Sì?» «Sì. Non siete degli idioti... nessuno di voi lo é. Fern è un buon tecnico, forse, ma non è bravo abbastanza. Van, ricordi che a Quebec mi avevi chiesto se c'era stato qualche... cambiamento? Ti avevo detto di no. Adesso
sto scoprendo che mi sbagliavo». «Come?» «L'assenza di distrazione». Quentin parlava troppo; un sintomo d'intossicazione. «Un cervello dentro il corpo non può mai concentrarsi del tutto. È troppo conscio del suo stesso corpo, il quale è un meccanismo imperfetto. Troppo specializzato per essere efficiente. Il sistema respiratorio, circolatorio... tutti interferiscono. L'atto stesso della respirazione è una distrazione. Adesso, il mio corpo è la nave... ma è un meccanismo perfetto. Funziona con assoluta efficienza. E il mio cervello è migliorato in uguale proporzione». «Superman». «Superefficiente. Di solito, è la mente migliore che vince agli scacchi, perché prevede tutti i rischi possibili. Io sono in grado di prevedere tutto ciò che potreste fare. E siete per di più molto ostacolati». «Perché?» «Siete umani». Egocentrismo, pensò Talman. Era forse quello il suo tallone d'Achille? I successi finora ottenuti avevano alterato il suo equilibrio psicologico, e l'equivalente elettronico dell'ubriachezza aveva liberato le inibizioni. Era logico. Dopo cinque anni di lavoro di routine, non importa quanto nuovo potesse essere per lui quel lavoro, ecco l'improvvisa modifica alla situazione — quel passaggio dal passivo all'attivo, da essere una pura macchina a trovarsi protagonista — questo poteva essere stato il catalizzatore. L'ego. E un modo di pensare confuso. Quentin non era un supercervello. Proprio no. Più alto è il quoziente di intelligenza, minore è la necessità di autogiustificazione, diretta o indiretta. E, cosa strana, Talman a questo punto si sentì libero da qualunque scrupolo gli fosse rimasto. Il vero Bart Quentin non si sarebbe mai reso colpevole di schemi di pensiero paranoici. Così... Le parole di Quentin erano chiare; non farfugliava. Ma non parlava più con l'ugola, la lingua e le labbra, modulando una colonna d'aria. Tuttavia, il controllo tonale della sua voce era adesso alterato in maniera percettibile, la voce del transplant oscillava da un sussurro a un urlo. Talman sogghignò. In qualche modo, si sentiva meglio. «Siamo umani», disse, «ma ancora sobri». «Sciocchezze. Guarda la spia. Ci stiamo avvicinando alla Terra». «Piantala, Quent», replicò Talman, stancamente. «Tu stai bluffando, tutti
e due sappiamo che stai bluffando. Non puoi resistere a una quantità indefinita d'alta frequenza. Risparmia tempo e arrenditi subito». «Arrendetevi voi», ribatté Quentin. «Posso vedere tutto ciò che fate. L'intera nave pullula di trappole. Tutto quello che devo fare da quassù e guardare fino a quando non vi avvicinate a una di esse. Sto pianificando il mio gioco in anticipo, ogni mossa è accuratamente elaborata per dare scacco a uno di voi. Non avete una sola possibilità. Una sola possibilità. Una sola possibilità». Da quassù, pensò Talman. Quassù dove? Ricordò la casuale osservazione di Cotton, sul fatto che la geometria avrebbe potuto essere usata per localizzare il transplant. La geometria e la psicologia. Dividere in due la nave, in quattro, e continuare a sezionare a metà quanto rimaneva... Non era più necessario. Quassù era la parola-chiave. Talman vi si aggrappo con una frenesia che non trapelò dalla sua faccia. Quassù, c'era da presumere, riduceva a metà l'area che dovevano esplorare. La metà più bassa della nave poteva essere esclusa. Ora doveva dividere in due la sezione più alta, usando il globo celeste come mezzeria. Il transplant doveva avere, ovviamente, cellule visive disseminate per tutta la nave, ma Talman ritenne che Quentin dovesse pensare a se stesso come ubicato in un punto ben determinato, e non sparso dovunque nello scafo, in corrispondenza di ogni occhio meccanico. Per la mente di un uomo, la testa è il punto in cui egli si trova. Quindi, anche se Quentin poteva vedere il punto rosso sul globo azzurro, ciò non significava affatto che dovesse per forza trovarsi in un punto della parete dirimpetto alla sfera. Il transplant doveva esser convinto, senza accorgersene, a nominare altri oggetti, là a bordo della nave, così che si potesse scoprire la sua attuale posizione rispetto ad essi... anche se ciò era difficile, poiché, appunto, è la vista che costituisce il miglior riferimento d'una posizione. Questo non creava problemi in un individuo normale, ma con Quentin... la sua vista era distribuita dovunque, poteva veder tutto. Ma doveva pur esserci un modo per localizzarlo. Un test associativo, con un'adeguata serie di parole, avrebbe colto lo scopo. Ma ciò implicava la collaborazione dell'altro, e Quentin non era ubriaco fino a questo punto! Non era possibile valutar niente, sapendo da Quentin ciò che lui poteva vedere... poiché non era necessario che il suo cervello si trovasse vicino a uno dei suoi occhi. Nel transplant, però, doveva esserci un'effettiva, intrinseca percezione del posto in cui in realtà si trovava: la conoscenza che lui
— cieco, sordo e muto salvo per i suoi remoti estensori sensoriali — aveva una ben precisa localizzazione. E in che modo, se non attraverso domande non troppo dirette, era possibile fare in modo che Quentin desse la risposta giusta? Era impossibile, pensò Talman, con una sorta di rabbiosa frustrazione. La rabbia crebbe in lui, gli riempì il viso di sudore, destando in lui un odio ottuso e tenace per Quentin. Tutto questo era colpa di Quentin, il fatto che lui, Talman, fosse imprigionato qui, in quell'odiosa tuta spaziale e in quella immensa trappola mortale che era la nave. Colpa di una macchina... Sarebbe dipeso, naturalmente, da quanto Quentin era ubriaco. Diede un'occhiata a Fern, interrogò l'uomo con lo sguardo, e in risposta l'uomo girò una manopola, e annuì. «Dannazione a te», disse Quentin con un bisbiglio. «Sciocchezze», replicò Talman. «Non hai suggerito, poco fa, di non aver più l'istinto di conservazione?» «lo... non ho...» «È vero, no?» «No», disse Quentin ad alta voce. «Dimentichi che sono uno psicologo, Quent. Avrei già dovuto vederlo prima. Il libro era spalancato, pronto a farsi leggere... perfino prima che ti incontrassi di nuovo. Quando ho visto Linda». «Lascia stare Linda!» Talman ebbe una fugace, nauseante immagine del cervello ebbro e torturato, nascosto in qualche punto, su quelle pareti, un incubo surrealista. «Certo», disse. «Sei tu che non vuoi pensare a lei». «Stai zitto». «Non vuoi neppure pensare a te stesso, vero?» «Cosa stai cercando di fare, Van? Vuoi farmi impazzire?» «No», replicò Van. «Semplicemente, sono stufo, nauseato e disgustato da tutta questa faccenda. Fingere di essere Bart Quentin, di essere ancora umano... che si debba trattare con te alla pari». «Non ci saranno trattative...» «Non è questo che intendevo, e tu lo sai. Mi sono appena reso conto di ciò che sei». Lasciò le parole sospese a mezz'aria. S'immaginò di udire il pesante respiro di Quentin, anche se sapeva che era soltanto un'illusione. «Per favore, stai zitto, Van», disse Quentin. «Chi mi sta chiedendo di star zitto?» «Io».
«Io, chi?» La nave ebbe un sobbalzo. Talman quasi perse l'equilibrio. La corda legata al pilastro lo salvò. Scoppiò a ridere. «Mi dispiacerebbe per te, Quentin, se fossi... te. Ma non lo sei». «Non mi lascio intrappolare dai tuoi espedienti». «Potrebbe essere un espediente, ma è anche la verità. E te lo sei chiesto tu stesso. Di ciò sono assolutamente certo». «Chiesto cosa?» «Non sei più umano», spiegò Talman, con voce soave. «Sei un oggetto, una macchina. Un congegno. Un pezzo di carne grigia e spugnosa chiuso in una scatola. Credi davvero che potrei abituarmi a te... adesso? Che potrei identificarti col vecchio Quent? Tu che non hai neppure un viso?» L'altoparlante produsse dei rumori. Parevano meccanici. Poi... «Stai zitto», tornò a dire Quentin, quasi implorante. «So cosa stai cercando di fare». «E non vuoi guardare in faccia il problema. Soltanto... dovrai guardarlo in faccia, prima o poi, sia che tu ci uccida adesso oppure no. Questa faccenda é... un incidente. Ma i pensieri nel tuo cervello continueranno a crescere, a crescere... e tu continuerai a cambiare, e a cambiare. Sei già cambiato parecchio». «Sei pazzo», disse Quentin. «Non sono... un mostro». «È quello che tu speri, eh? Guarda alla cosa con logica. Finora non hai osato farlo, vero?» Talman alzò la mano guantata e cominciò ad enumerare gli argomenti sulla punta delle sue dita. «Stai cercando disperatamente di mantener la presa su qualcosa che ti sta sfuggendo via: l'umanità, l'eredità per la quale eri nato. Ti aggrappi ai simboli, sperando che significhino realta. Perché fingi di mangiare? Perché insisti a farti servire il brandy da un bicchiere? Lo sai che andrebbe altrettanto bene se te lo schizzassero dentro prelevandolo da un bidone di benzina». «No. No! È una questione d'estetica...» «Fesserie. Assisti agli spettacoli televisivi. Leggi. Fingi di essere umano al punto di disegnare vignette. Tutte queste finzioni sono soltanto un disperato, impotente aggrapparsi a qualcosa che ti ha già lasciato. Perche senti il bisogno di far bisboccia? Sei disadattato, perché fingi di essere ancora umano, e non lo sei, non più». «Sono... be', qualcosa di meglio...». «Forse... se tu fossi nato macchina. Ma eri umano. Avevi un corpo umano. Avevi occhi, e capelli, e labbra. Questo Linda senz'altro lo ricorda,
Quent. Avresti dovuto insistere per il divorzio. Senti, se l'esplosione ti avesse semplicemente mutilato, lei avrebbe potuto prendersi cura di te. Avresti avuto bisogno di lei. Così come stanno le cose, sei un'unità autosufficiente, chiusa in un perfetto involucro. Lei sa fingere bene, lo ammetto. Cerca di non pensare a te come ad un elicottero supercarrozzato... un marchingegno. Un grumo di tessuto cellulare umidiccio. Dev'essere dura per lei. Si ricorda di te com'eri un tempo». «Mi ama». «Ha pietà di te», disse Talman, implacabile. Nella ronzante immobilità la spia rossa strisciava sul globo. Fern si umettò le labbra, facendovi scorrer sopra la lingua in cerchio. Dalquist se ne stava a osservare in silenzio. I suoi occhi erano due fessure sottili. «Già», disse Talman, «guarda in faccia la cosa. E pensa al futuro. Ci sono compensazioni. Ti senti talmente eccitato quando metti in moto i tuoi ingranaggi, che alla fine perfino dimenticherai che eri umano. Allora sarai più felice, giacché non puoi tenertici aggrappato, Quent. Ti sfugge via. Puoi continuare a fingere per un po', ma verrà il giorno in cui non avrà più importanza. Sarai pienamente soddisfatto d'essere un meccanismo. Vedrai la bellezza in una macchina, e non in Linda. Forse è già accaduto. Forse Linda sa, che è accaduto. Tu non sei obbligato ad essere onesto con te stesso, non ancora, sai. Tu sei immortale. Ma io non accetterei in dono quel tipo d'immortalità». «Van...». «Io sono ancora Van, tu sei una macchina. Procedi pure e uccidici, se vuoi. E se puoi. Poi, torna sulla Terra, e quando vedrai di nuovo Linda, guarda il suo viso. Guardala quando lei non sa che la stai osservando. Puoi farlo facilmente. Infila una cellula fotoelettrica in una lampada, o qualcosa di simile». «Van... Van!» Talman lasciò ricadere le mani sui fianchi. «Va bene. Dove sei?» Il silenzio crebbe, mentre una domanda inaudibile risuonava in quella gialla vastità. La domanda che, forse, aleggiava nella mente di ogni transplant. La domanda... qual era il prezzo da pagare? Quale prezzo? La solitudine più totale, la nauseante consapevolezza che i vecchi legami si spezzavano uno ad uno, che al posto di un'umanità calda e viva sarebbe subentrato... un mostro di metallo? Sì, se l'era chiesto... questo transplant che era stato Bart Quentin. Se lo
era chiesto, mentre le macchine enormi ed orgogliose che erano il suo corpo si preparavano a scattare di vita pulsante. Sto cambiando? Sono ancora Bart Quentin? Oppure loro... gli umani... mi guardano come... Cosa prova davvero Linda per me, adesso? Sono un... Sono un oggetto? «Sali sulla piattaforma», disse Quentin. La sua voce era stranamente smorta. Talman fece un rapido gesto. Fern e Dalquist scattarono. Ognuno dei due prese a salire una delle scalette ai lati opposti della sala, ma con cautela, allacciando prudentemente il cavo alla ringhiera. «Dov'è?» domandò Talman, gentilmente. «La parete sud... Usate il globo azzurro per orientarvi. Potrete raggiungermi...». La voce venne meno. «Sì?». Silenzio. Fern chiese, dall'alto: «È svenuto?». «Quent!». «Sì... all'incirca al centro della piattaforma. Ve lo dirò quando sarete arrivati». «Calma», disse Fern, ammonendo Dalquist. Legò l'estremità del suo cavo alla ringhiera, là sopra, e avanzò piano, scrutando attentamente ogni punto della parete. Talman si ripulì con un braccio la visiera appannata. Il sudore gli scorreva giù per il viso e i fianchi. Quella fosca luminosità giallastra, l'immobilità ronzante di macchine che avrebbero dovuto produrre un rombo di tuono, gli stuzzicavano i nervi fino a un'intensità insopportabile. «Qui?» gridò Fern. «Dov'è, Quent?» chiese Talman. «Dove ti trovi?». «Van», disse Quentin, con un'orribile, profonda angoscia nella voce, «non puoi pensare davvero a ciò che hai detto. Non puoi. Questo è... devo saperlo. Sto pensando a Linda». Talman rabbrividì. S'inumidì le labbra. «Sei una macchina, Quent», disse, con calma. «Sei un meccanismo. Lo sai che non avrei mai tentato d'ucciderti se tu fossi stato ancora Bart Quentin». E poi, con sconvolgente repentinità, Quentin scoppiò a ridere. «Ecco che arriva, Fern!» urlò, e gli echi rimbombarono e si scontrarono,
spaventosi, su ogni superficie metallica dell'immensa sala. Fern artigliò la ringhiera. Quello fu un errore fatale. Il cavo che lo teneva legato alla ringhiera si rivelò una trappola... poiché non vide in tempo il pericolo per sganciarsi. La nave dette un balzo. Era stato calcolato con meravigliosa precisione. Fern venne sbalzato verso la parete e arrestato dal cavo. Nel medesimo istante il grande globo azzurro descrisse un arco come un pendolo gigantesco, come un enorme schiacciamosche. L'urto fracassò il casco di Fern. Lo schianto fu assordante in quello spazio chiuso. Talman si afferrò a un pilastro e tenne gli occhi fissi sul globo azzurro, il quale continuò ad oscillare avanti e indietro diminuendo l'arco man mano l'attrito dell'atmosfera frenava la velocità. C'era del liquido che sgocciolava da esso. Vide il casco di Dalquist comparire sopra la ringhiera. L'uomo gridò: «Fern!» Non ci fu risposta. «Fern! Talman!» «Sono qui», disse Talman. «Dove...» Dalquist girò la testa verso la parete. Urlò. Un balbettio osceno gli sgorgò poi dalla bocca. Afferrò il fulminatore che portava appeso alla cintura, fra gli altri attrezzi. «Dalquist!» urlò Talman. «Apetta!» Dalquist non lo senti. «Farò a pezzi la nave», urlò ancora. «Io...». Talman sfoderò il suo fulminatore, appoggiò la canna al pilastro e mirò alla testa di Dalquist. Vide il corpo piegarsi sopra la ringhiera, cader giù e schiantarsi sulle piastre del pavimento. Poi rotolò bocconi, e giacque laggiù, producendo suoni nauseanti e penosi. «Van» disse Quentin. Talman non rispose. «Van!» «Sì?» «Spegni l'irradiatore di frequenza». Talman si alzò in piedi, raggiunse con passi incerti il congegno e strappò via i fili. Non si preoccupò di trovare un metodo più semplice. Dopo un po', la nave atterrò. La continua vibrazione si spense. Ora, l'oscura, gigantesca sala di comando pareva stranamente vuota.
«Ho aperto un boccaporto», annunciò Quentin. «Denver è circa cinquanta miglia a nord. C'è un autostrada a circa quattro miglia, nella stessa direzione». Talman si alzò in piedi, guardandosi intorno. Il suo volto era sconvolto dall'emozione. «Ci hai ingannati», borbottò. «Per tutto il tempo, stavi giocando con noi come il gatto col topo. La mia psicologia...». «No», fece Quentin. «C'eri quasi riuscito». «Cosa...». «Tu non pensi a me come a un meccanismo, in realtà. Hai finto di farlo, ma una piccola questione di semantica mi ha salvato. Quando mi sono reso conto di ciò che avevi detto, sono rinsavito». «Cosa avevi detto?» «Già. Che non avresti mai cercato di uccidermi se fossi stato ancora Bart Quentin». Talman si stava sfilando con faticosa lentezza la tuta spaziale. L'aria fresca e pulita della Terra aveva sostituito l'atmosfera velenosa della nave. Scrollò il capo, stordito. «Non capisco». La risata di Quentin echeggiò nella vasta sala, riempiendola di calde vibrazioni umane. «Una macchina può essere fermata, o distrutta, Van», spiegò. «Ma non può essere... uccisa». Talman non disse niente. Adesso si era del tutto liberato dell'ingombrante tuta, girandosi con fare esitante verso l'uscita. Guardò dietro di sé. «La porta è aperta», ripeté Quentin. «Mi lasci andare?» «A Quebec ti avevo detto che ti saresti dimenticato della nostra amicizia prima di me. Meglio far presto, Van, finché c'è ancora tempo. È probabile che Denver abbia già mandato fuori gli elicotteri». Talman esplorò con una lunga occhiata interrogativa la vasta sala. Da qualche parte, mimetizzato in modo perfetto fra quelle poderose macchine, c'era un piccolo cilindro di metallo nel suo ricettacolo segreto. Bart Quentin... Aveva la gola secca. Deglutì, aprì la bocca, e tornò a chiuderla. Girò sui tacchi e usci. Il rumore ovattato dei suoi passi si spense in distanza.
Solo, nella nave silenziosa, Bart Quentin aspettava i tecnici che avrebbero nuovamente messo a punto il suo corpo per il volo fino a Callisto. Il potere The Power di Murray Leinster Astounding Scienze Fiction, settembre Uno degli aspetti più tipici della fantascienza è costituito dal grande numero di storie che sono strutturale in forma di lettere, memorandum e diari. Le storie possono essere realizzate in una forma relativamente convenzionale, ad esempio con una serie di lettere tutte con lo stesso indirizzo all'inizio, e la stessa firma in calce; ma possono anche consistere d'un continuo scambio tra le parti, e questo è assai più difficile: lo scrittore deve creare, in qualche modo, un retroterra informativo, preoccuparsi della trama e dei personaggi, e non tutti gli scrittori riescono a farlo con successo, pur restando rigorosamente nei confini della forma lettera/memorandum. Questo tipo di storie si può incontrare anche fuori della SF, ma sono assai più comuni all'interno del genere. «Il potere» è un brillante esempio di questa forma di racconto, (Uno degli argomenti a sfavore dell'esistenza d'una qualunque civiltà intelligente fuori della Terra è che, se fossero là, sarebbero qua. In altre parole, perché non ci hanno raggiunto, anche se noi non siamo ancora riusciti a raggiunger loro? Alcuni degli argomenti favorevoli, invece, all'esistenza di altre civiltà, sono, ad esempio: la velocità della luce è davvero un limite invalicabile e allora il tempo che s'impiegherebbe ad andare da una civiltà stellare all'altra è tanto lungo da sconfiggere in partenza ogni tentativo, cosicché tutti sono eternamente isolati. Oppure, che altre civiltà ci hanno davvero raggiunto, ma rifiutano di prendere contatto con noi per non interferire, fino a quando non saremo abbastanza progrediti, e nel frattempo, ci tengono sotto la loro protezione. Oppure, si, ci hanno raggiunto a bordo dei loro dischi volanti, ma noi siamo troppo ottusi per riconoscere questo ovvio fatto. Se dovessi scegliere l'ipotesi che più mi piace direi che sì, ci hanno davvero raggiunto, ma è stato perfettamente inutile. Essi debbono essere, ov-
viamente, a un livello tecnologico di gran lunga superiore al nostro, e se le cose stanno così, noi, semplicemente, non siamo in grado di capire né loro né la loro tecnologia. Tutte le nostre storie di angeli e demoni potrebbero essere soltanto il nostro fallimento nel capire i visitatori extraterresti. Non che io ci creda sul serio, ma è comunque materiale con cui si può realizzare dell'ottima science-fiction. I.A.) Memorandum dal professor Charles, Facoltà di Latino, Università di Haverford, al professor McFarland, stessa Università. Caro professor McFarland, in una recente partita di documenti latini del quindicesimo secolo, giunti dall'estero, ne abbiamo trovati tre che sembrano collegati. Il nostro interesse va al latino di quel periodo, ma il toro contenuto sembra aver a che fare col suo campo. Glieli invio in una libera traduzione. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa. Charles A Johannus Hartmannus, Licentiato in Philosofia abitante alla casa del fabro Grote Vicolo della Pulce Tinta Leida, Paesi Bassi Amico Johannus, ti scrivo la presente dalla Locanda della Testa del Goto, a Padua, il secondo giorno dopo la festa di San Michele, anno Domini 1482. Ti scrivo in fretta, poiché un degno olandese qui incontrato viaggia verso casa e ha promesso di recapitare questa mia corrispondenza. È uno zotico affabile, ma ignorante. Non parlargli di misteri. Non ne sa nulla. Meno di nulla. Ringrazialo, dagli da bere, e parlagli di me come d'uno studioso pio e degno. Poi dimenticati di lui. Lascerò Padua domani per realizzare tutte le mie speranze e le tue. Questa volta sono sicuro. Sono venuto qui per acquistare aromi e mandragora e le altre cose necessarie per un'operazione della più assoluta, immaginabile importanza, che condurrò fra cinque notti in cima a una certa collina vicino al villaggio di Montevecchio. Ho trovato una Parola e un Nome d'incalcolabili poteri, che nel luogo che conosco dovranno schiudermi la conoscenza di tutti i misteri. Quando leggerai questa mia, possiederò poteri che Hermetes Trismegi-
stus ha solo lontanamente immaginato, e dei quali Alberto Magno poteva parlare solo per sentito dire. Altre volte prima d'ora sono stato vittima di abbagli, ma qui, ora, ne sono sicuro. Ho visto le prove! Tremo tutto di agitazione mentre ti scrivo. Sarò breve. Mi sono imbattuto in queste prove e nella Parola e nel Nome nel villaggio di Montevecchio. Ero arrivato a cavallo al villaggio al cader della notte, sconsolato perché avevo sprecato un mese a cercare un saggio di cui avevo udito dire grandi cose. L'avevo trovato, infine... ma era soltanto uno stupido antiquario senza nessuna conoscenza dei misteri! Così, continuando a cavalcare per la mia strada, arrivai a Montevecchio, e colà mi parlarono d'un uomo che proprio allora stava morendo, e proprio a causa delle meraviglie che aveva operato. Era entrato a piedi, nel villaggio, soltanto il giorno prima. Indossava ricchi paludamenti eppure parlava come un uomo semplice e povero. Dapprima si era mostrato tranquillo e umile, ma aveva pagato per il cibo e il vino con un pezzo di oro, e i villici l'avevano adulato e gli avevano chiesto insistenti l'elemosina. Lui aveva gettato loro una manciata di pezzi d'oro, e quando la notizia si fu diffusa, fulmineamente, per tutto il villaggio, tutti impazzirono per la cupidigia. Si ammassarono intorno a lui, gridando e implorando, e assiepandosi con sempre più forza e insistenza quanto più lui si affannava a soddisfarli. Si dice che alla fine si sia spaventato, e che sarebbe fuggito, se i villici non gli si fossero aggrappati, gridando la loro povertà, fino a quando, tutt'a un tratto, i suoi ricchi paludamenti scomparvero e divenne anch'egli un contadino in cenci e la borsa da cui aveva seminato l'oro era un sacco di tela grezza pieno di ceneri. Questo era accaduto soltanto il giorno prima del mio arrivo, e l'uomo era ancora vivo, anche se ancora per poco, poiché i villici avevano gridato alla stregoneria e l'avevano aggredito a sassate e a frustate, per poi trascinarlo dal prete del villaggio per farlo esorcizzare. Ho visto l'uomo e gli ho parlato, Johannus, presentandomi al prete come un pio studioso delle insidie che Satana è solito tendere all'umanità sotto forma di stregonerie. Respirava appena, le ossa rotte e le carni trafitte in molte parti dai forconi. Era un nativo di quegli stessi luoghi e fino a quel giorno infausto era stato giudicato da tutti un'anima semplice. Per assicurarsi la mia intercessione presso il prete, perché accettasse di confessarlo prima di morire, quell'uomo mi ha detto tutto. Ed era molto! Su un certo pendio, quello stesso dove attuerò l'Operazione fra cinque notti, si era appisolato, sul mezzogiorno. E qui, gli apparve un Potere che
si offri d'istruirlo nei misteri. Quel contadino era uno sciocco: chiese invece la ricchezza, e così il Potere gli diede ricchi indumenti e una borsa che non si sarebbe mai vuotata fintanto che — l'ammoni il Potere — non si fosse trovata vicina a un certo metallo che distrugge tutte le cose del mistero. E il Potere gli disse anche che, come pagamento di quei benefici, voleva che gli fosse inviato un dotto, ad apprendere quelle stesse cose che gli aveva offerto e che lui aveva rifiutato, incapace di capirle, come tutti i contadini. Dissi perciò al moribondo che sarei andato di persona a incontrare questo Potere, soddisfacendo così il suo desiderio, e quell'uomo mi confidò il Nome e la Parola che l'avrebbero evocato, e anche il Luogo, e mi implorò di nuovo d'intercedere per lui presso il prete. A sua volta, il prete mi mostrò l'unica moneta d'oro rimasta, fra quante il contadino aveva distribuito. Era dell'epoca di Antonino il Pio, ma nuova e lustra come se fosse stata appena coniata. Aveva il peso e ogni altra apparenza dell'oro vero. Ma il prete, con una smorfia vi appoggiò sopra il crocefisso che portava appeso a una catenella di ferro alla cintola. L'oro scomparve all'istante, lasciando dietro di sé un tizzone ardente che si raffreddò e divenne un pizzico di cenere. Questo ho visto coi miei occhi, Johannus! Per cui sono venuto tosto a Padua per comperare spezie e mandragora e le altre cose necessarie per quest'Operazione e rendere così grandi onori a questo Potere che evocherò fra cinque notti. Esso ha offerto saggezza al contadino, che bramava soltanto oro. Ma io desidero la saggezza più dell'oro, e certo sono istruito quanto basta a comprendere misteri e Poteri! Non conosco nessuno al di fuori di te che mi superi nella vera conoscenza delle cose segrete. E quando leggerai questo, Johannus, sorpasserò persino te! Ma potrebbe darsi che io acquisti un sapere che mi consenta di trasportarmi, grazie a un mistero, fino alla tua soffitta, e colà informarti io stesso, prima che ti giunga questa mia lettera, degli esiti di quest'insuperabile buona sorte che mi fa tremar tutto d'agitazione ogni qualvolta ci penso. Il tuo amico Carolus alla locanda della Testa del Goto a Padua ... fortuna, forse, che mi si sia presentata l'occasione di spedirti una seconda missiva, tramite un soldato sciancato che è stato congedato da una banda di mercenari e viaggi verso casa per poi starsene seduto a poltrire al sole per il resto della sua vita. Gli ho dato un pezzo d'oro e gli ho promesso
che tu gliene avresti dato un altro quando ti avesse consegnato questo messaggio. Manterrai o no questa promessa, come ti piacerà, ma c'è quanto meno il valore d'un pezzo d'oro in questo frammento di pergamena coperto da strani simboli, che allego qui per te. Ordunque: Sono in comunicazione quotidiana con il Potere del quale ti scrissi, e apprendo giornalmente grandi misteri. E altresì eseguo, già, meraviglie quali nessun uomo è mai riuscito a compiere, per mezzo di certi sigilli o talismani che il Potere ha preparato per me. Parimenti, però, il Potere si rifiuta recisamente di confidarmi i Nomi o gli incantesimi grazie ai quali tali cose vengon fatte, così da potermi preparare da solo tali sigilli. Invece m'istruisce su disparati argomenti che non hanno nessun rapporto con la realizzazione delle meraviglie, con mia amara impazienza che a stento nascondo. Ma per intanto, odimi bene: all'interno di questo pacchetto troverai un frammento di pergamena. Vai in un luogo remoto e giunto costà strappalo e gettalo al suolo. All'istante tutt'intorno a te comparirà un bel giardino con frutti meravigliosi, statue e padiglioni. Potrai usare di questo giardino come vorrai, salvo che, se qualsivoglia persona vi entrerà, o anche tu stesso, portando una spada o un qualsiasi altro oggetto, per quanto piccolo fatto di ferro, tale giardino sparirà all'instante senza mai più riapparire. Ciò tu potrai verificare quando vorrai. Per il resto, io sono come un prigioniero che trema alla porta stessa del Paradiso, impedito a procedere aldilà dell'anticamera da quel Potere stesso che mi nega l'essenza vera dei misteri e mi concede soltanto le briciole... che, comunque, sono meraviglie più grandi di quelle mai con certezza praticate prima d'ora. Per esempio, la pergamenta che ti mando. Quest'arte io l'ho praticata parecchie volte. Ho nella mia bisaccia molti sigilli del genere, fatti per me dal Potere dietro mia preghiera. Ma quando ho portato via di nascosto altre pergamene e copiato su di esse i simboli stessi con la massima esattezza, si sono mostrate inutili. Ci sono parole o formule che vanno pronunciate sopra di esse o — lo ritengo più probabile — un sigillo più grande che dona alle pergamene la loro magica proprietà. Sto iniziando a preparare un piano, un piano molto ardito, per impadronirmi anche di quel sigillo. Ma tu vorrai sapere dell'Operazione e dei suoi esiti. Sono tornato a Montevecchio partendo da Padua in tre giorni di viaggio. Il contadino che aveva operato i prodigi era morto, giacché i villici, ancora intimoriti, gli avevano maciullato il cervello con magli e martelli. Ciò mi ha fatto in verità
piacere, poiché temevo che dicesse ad altri la Parola e il Nome che mi aveva rivelati. Ho parlato al prete e gli ho detto di essermi recato a Padua per assicurarmi il consiglio di alti dignitari riguardo l'attuazione di quei prodigi, e che ero stato rinviato a Montevecchio con ordini speciali di cercare ed esorcizzare l'immondo demone che aveva insegnato al contadino simili demoniache meraviglie. Il giorno dopo, con l'aiuto del medesimo prete!, ho portato in cima alla collina le spezie, i ceri e le altre cose necessarie all'Operazione. Il prete tremava, ma sarebbe rimasto, se non l'avessi mandato via. E, giunta la notte, ho disegnato il cerchio magico e il pentacolo con i Segni al loro giusto posto. Quando si è levata la luna nuova ho acceso gli aromi e i ceri e ho iniziato l'Operazione. Come ben sai, molte volte in passato avevo fallito, ma questa volta ero fiducioso, e mi sentivo del tutto certo. Quando è giunto il momento di servirmi dei Nome e della Parola, li ho invocati entrambi ad alta voce e ho aspettato. Sulla cima di questa collina ci sono molte pietre grigiastre. Alla terza chiamata del Nome una delle pietre ha tremato e non è stata più pietra. Una voce mi ha chiesto, brusca: «Cos'è tutta questa puzza? È stato il mio messaggero a mandarti qui?» C'era un'ombra là dov'era stata la pietra e non riuscivo a vedere chiaramente. Ma m'inchinai in quella direzione. «Potentissimo Potere», proclamai, con la voce che mi tremava poiché l'Operazione aveva avuto successo, «un contadino che operava prodigi mi ha detto che bramavi parlare con un dotto. A paragone di Vostra Potenza io sono un povero ignorante, ma ho consacrato tutta la mia vita a studiare i misteri. Perciò sono venuto a offrirti la mia adorazione, o qualsivoglia altro patto tu possa desiderare, in cambio della suprema saggezza». C'è stato un agitarsi nell'ombra, e il Potere si è fatto avanti. Il suo aspetto era quello d'una creatura di non più d'un braccio e mezzo di altezza e la sua espressione alla luce della luna era di sardonica impazienza. Il denso fumo aromatico sembrava raccogliersi intorno a lui, formando una nebulosità stretta intorno al suo profilo. «Penso», replicò con voce asciutta, «che tu sia sciocco almeno quanto il contadino col quale ho parlato. Cosa pensi che io sia?» «Un principe della razza celestiale, Vostra Potenza», replicai con voce tremante. Vi fu una pausa. Poi il Potere aggiunse, con una punta di stanchezza: «Gli uomini! Eternamente sciocchi! Oh, uomo, io sono l'ultimo della mia
razza che ha viaggiato fin qui a bordo d'una flotta di navi da un'altra stella. Questo tuo piccolo pianeta ha il nucleo composto dal metallo maledetto, che è fatale ai congegni della mia razza. Alcune delle mie navi si avvicinarono troppo. Altre tentarono di aiutarle e condivisero il loro destino. Molti, moltissimi anni fa scendemmo dal cielo e non potemmo più risollevarci. Ora, io solo sono rimasto». Parlare del mondo come d'un pianeta era un'assurdità, naturalmente. I pianeti sono vagabondi fra le stelle, che viaggiano secondo i loro cicli ed epicicli, come ha spiegato Tolomeo mille anni or sono. Ma ho capito subito che mi stava mettendo alla prova. Così, mi son fatto ardito e ho replicato: «Signore, non ho paura. Non c'è bisogno d'ingannare me. Non so forse di coloro che vennero cacciati dal Paradiso per essersi ribellati? Devo forse scrivere il nome del tuo capo?» Ha risposto: «Eh?», e ti posso assicurare che pareva un vecchio. Così, sorridendo, gli ho scritto sul terreno il vero nome di Colui che il volgo chiama Lucifero. Ha guardato i segni sul terreno e ha detto: «Bah! Non ha alcun significato. Ancora le vostre leggende! Senti, uomo, presto morirò. Per più anni di quanti tu possa mai credere mi sono nascosto alla tua razza e al suo maledetto metallo. Ho osservato gli uomini e li ho disprezzati. Ma... sto morendo. E non è bene che il sapere perisca con me. È mio desiderio impartire agli uomini quel sapere che altrimenti perirebbe con me. Non può danneggiare la mia specie, e potrebbe dare alla razza degli uomini un qualche livello di civiltà nel corso dei secoli». Mi sono prostrato a terra davanti a lui. La bramosia m'infiammava. «Potentissimo», esclamai con gioia. «Puoi fidarti di me. Custodirò alla perfezione i tuoi segreti. Non ne divulgherò mai né un'oncia né una briciola!» Ancora una volta la sua voce suonò asciutta e infastidita: «Desidero che questo sapere venga diffuso, cosicché tutti possano imparare. Ma...» e a questo punto ha prodotto un suono che non ho capito, salvo il fatto che pareva di derisione; «...ciò che ho da dire potrebbe servire, persino ingarbugliato e contorto. Non credo che tu terrai inviolati i segreti. Hai penna e pergamena?» «No, signore!» «Tornerai di nuovo, allora, pronto a scrivere ciò che ti dirò». Ma rimase lì a guardarmi. Mi ha fatto domande alle quali ho risposto con zelo. Poco dopo si è messo nuovamente a parlare, in tono meditativo, ed io ho ascoltato, con grande attenzione. Il suo modo di parlare assomi-
gliava stranamente a quello di un uomo solitario, rivolto soprattutto al passato, ma ben presto mi sono reso conto che stava parlando secondo un cifrario, per allegoria, e tra le sue parole, di tanto in tanto, faceva capolino la verità. Quasi volesse rivivere i suoi ricordi, ha parlato del luogo d'origine della sua razza, su quello che, ha detto, è un bel pianeta talmente lontano che parlare di leghe o dell'estensione d'un intero continente sarebbe inutile per riuscire a far capire la distanza. Ha parlato delle città nelle quali la sua gente viveva — e qui non ho avuto nessuna difficoltà a capire, e mi ha raccontato di grandi flotte di oggetti volanti che si levavano da quelle città per raggiungere altre belle città, e di musica che si trovava nell'aria stessa, cosicché ogni persona, dovunque sul pianeta, poteva udire dolci suoni o saggi discorsi, a volontà. In queste faccende non c'era metafora, poiché i dolci, eterni suoni del Paradiso sono ben noti a tutti noi. Ma subito ha aggiunto una metafora, perché, sorridendo, mi ha detto che non c'era un mistero nella creazione di questa musica, bensì che si trattava di onde come quelle della luce, ma più lunghe. E questo era chiaramente espresso in un cifrario, poiché la luce è un fluido impalpabile, senza lunghezza e certamente senza onde! E poi ha parlato di volare attraverso il vuoto dell'empireo, il che ancora una volta non è chiaro, siccome tutti possono vedere che il cielo è abbastanza affollato di stelle, e ha parlato di molti soli e di altri mondi, alcuni gelati e altri di nuda roccia. Si tratta di cose alquanto oscure. E ha parlato di come si sono avvicinati a questo mondo che è il nostro, e di un errore commesso, che sarebbe stato una pura questione di matematica (e non una ribellione a Dio) cosicché si sono approssimati troppo alla Terra, proprio come Icaro al Sole. Poi ha parlato nuovamente per metafora, siccome ha parlato di macchine che, come ben sappiamo, sono cose che servono a scagliare pietre contro le mura, e in senso più ampio a macinare il grano e a pompare l'acqua. Ma lui ha detto che le loro macchine son diventate calde a causa del metallo maledetto nel nucleo della Terra e dell'incapacità della sua razza di opporre resistenza all'attrazione della Terra (altra metafora) e poi ha parlato d'una urlante discesa dai cieli. E tutto ciò é, chiaramente, un resoconto allegorico della cacciata dei Ribelli dal Paradiso, con l'ammissione che lui è uno di codesti ribelli. Quando ha fatto una pausa l'ho pregato con umiltà che mi mostrasse un mistero, e di farmi la grazia della sua protezione nel caso in cui la mia conversazione con lui divenisse nota. «Cosa è accaduto al mio messaggero?» ha chiesto allora il Potere.
Gliel'ho detto, e lui ha ascoltato, immobile. Ho fatto attenzione a dirglielo con precisione, siccome, com'è naturale, già lo sapeva (sapendo già ogni cosa grazie ai suoi misteriori poteri) e la domanda era soltanto un'altra prova. Invero io mi ero convinto che il messaggero e tutto ciò che era accaduto dovevano essere stati architettati da lui per portare me, sperimentato studioso dei misteri, a conversare con lui in quel luogo. «Gli uomini», disse alla fine con voce amara. Poi aggiunse, gelidamente: «No! Non posso darti alcuna protezione. La mia razza non ha protezione su questa terra. Se vuoi imparare ciò che posso insegnarti, devi rischiareìl furore dei tuoi compatrioti». Ma poi, d'un tratto, ha scritto qualcosa su una pergamena, e l'ha premuta su un qualche oggetto al suo fianco, gettandolo poi al suolo. «Se gli uomini ti attaccano», ha detto con disprezzo, «strappa questa pergamenta e buttala lontano da te. Se non ci sarà metallo maledetto lì intorno, potrebbe distrarli un po' mentre fuggi. Ma basterà un pugnale a ridurre tutto al niente!» Poi si è allontanato. Ed è svanito. Ed io son rimasto lì a tremare violentemente a lungo, prima di ricordarmi della formula di Apollonio di Tiana per congedare gli spiriti del male. Mi azzardai a uscire dal cerchio magico. Nessun male me ne incolse. Raccolsi la pergamena da terra e la esaminai alla luce della luna. I simboli su di essa erano senza significato, anche per uno come me che ha studiato tutto ciò che è conosciuto sui misteri. Sono tornato al villaggio, meditabondo. Ti ho detto tanto e con tanti particolari perché tu possa osservare come questo Potere non abbia parlato con orgoglio o minacce, cose di cui molti autori dei misteri e delle Operazioni parlano. Si dice* spesso che un adepto debba comportarsi con grande fermezza durante un'Operazione, per evitare che i Poteri da lui evocati lo sopraffacciano. Invece questo Potere ha parlato con voce stanca, ironica, come qualcuno prossimo alla morte. E ha anche parlato della morte. Il che, naturalmente, era una prova e un inganno, siccome i Principi e i Poteri delle tenebre non sono forse immortali? Aveva in mente qualcosa che non voleva io conoscessi. Perciò ho capito che devo procedere con cautela sulla strada di questa inestimabile opportunità. Nel villaggio, ho detto al prete d'essermi imbattuto in un demone immondo che mi ha implorato di non esorcizzarlo, promettendomi di rivelarmi dove si trovano certi tesori nascosti che un tempo appartenevano alla
Chiesa, tesori che lui non poteva toccare né rivelare a uomini malvagi, poiché erano sacri; poteva però descrivermi il luogo in cui erano celati. Ed io mi sono procurato pergamena, penna e inchiostro, e il giorno seguente sono ritornato da solo in cima alla collina. Era deserta, ed io, dopo essermi assicurato di non essere osservato, e aver gettato il pugnale lontano da me, ho strappato la pergamena che lui mi aveva dato e l'ho buttata per terra. Quando la pergamena ha toccato il suolo è apparso un così grande tesoro in oro e gioielli che avrebbe potuto davvero far impazzire di cupidigia qualsiasi uomo. C'erano sacchi e cofani e scrigni ricolmi d'oro e di pietre preziose, scoppiati per il peso, spargendo al suolo il contenuto. C'erano gemme che scintillavano alla luce del sole al tramonto, e anelli e collane tempestate di brillanti, e mucchi enormi di monete d'oro d'ogni antico conio... Johannus, perfino io ho quasi finito per impazzire! Sono balzato in avanti quasi avessi sempre sognato di tuffar le mani nell'oro. Sbavando di cupidigia, riempii le mie vesti di rubini e fili di perle, e gonfiai le saccocce di pezzi d'oro, ridendo tra me come un folle. Sguazzavo nella ricchezza. Mi ci crogiolavo gettando in aria le monete d'oro e lasciando che ricades sero su di me. Ridevo e cantavo da solo. Poi udii un rumore. All'istante, mi sentii riempire di terrore per il mio tesoro. Balzai accanto al mio pugnale e ringhiai, pronto a difendere le mie ricchezze fino all'ultimo respiro. Poi una voce disse, in tono beffardo: «Davvero non te ne importa niente delle ricchezze?» Il Potere se ne stava lì a guardarmi. Ora lo vedevo più chiaramente, ma non del tutto, poiché c'era una nebulosità che si addensava intorno al suo corpo. Era, come ho detto, alto un braccio e mezzo, e dalla sua fronte sporgevano delle antenne nodose che non erano corna, anche se vi assomigliavano, salvo per dei bulbi alle estremità. La sua testa era grossa e... ma non cercherò di descriverlo, poiché avrebbe certo potuto assumere una qualsiasi tra mille diverse forme, per cui, che importanza può avere? Poi sono stato colto dal terrore, poiché non avevo nessun Cerchio o Pentacolo a proteggermi. Ma il Potere non ha fatto alcuna mossa minacciosa. «Quelle ricchezze sono vere», disse nuovamente, in tono asciutto. «Han no il colore, il peso e la consistenza della materia concreta. Ma il tuo pugnale le distruggerà tutte». Disday di Corinto affermò che un tesoro del mistero dev'essere fissato da una speciale Operazione prima di diventare permanente e libero dal po-
tere di coloro che l'hanno creato. Poiché essi, altrimenti, possono sempre tramutarlo in foglie, o in qualsivoglia altra immondizia. «Toccalo col tuo pugnale», disse il Potere. Ho obbedito, sudando per la paura. E quando il ferro della lama ha toccato quel grande mucchio d'oro, vi è stato un violento tremore accompagnato da una vampa, e il tesoro — tutto, ti dico, fino all'ultima briciola, alla più minuscola perla! — è svanito davanti ai miei occhi. Il pezzo di pergamena è riapparso, fumante. Si era carbonizzato. E il pugnale mi scottava tra le dita. Rovente, ti dico! «Ah, sì», ha annuito il Potere. «Il campo di forza ha energia. Quando il ferro l'assorbe, si trasforma in calore». Poi mi ha fissato con uno sguardo non ostile. «Hai portato penna e pergamena», ha constatato, «e quanto meno non hai usato il sigillo per stupire i tuoi compatrioti. E inoltre hai avuto il buonsenso di non produrre altri odori puzzolenti. Può darsi che ci sia davvero un grano di saggezza in te. Ti sopporterò ancora per un poco. Siediti e prendi penna e pergamena... Aspetta! Mettiamoci comodi. Reinfodera il tuo pugnale, o meglio, buttalo lontano da te». Me lo infilai nella veste, sul petto. Ed è stato, poi, come se lui avesse pensato, e toccato qualcosa sul fianco, e subito tutt'intorno a noi è sorto un bel padiglione con morbidi cuscini e un'amabilissima fontana. «Siediti», mi ha detto il Potere. «Ho imparato che voi amate questo genere di cose da un uomo del quale un tempo sono stato amico. Era stato ferito e spogliato dai ladroni, cosicché non aveva addosso nessun frammento del metallo maledetto, ed io ho potuto aiutarlo. Da lui ho imparato a parlare la lingua che gli uomini usano oggigiorno. Ma alla fine anche lui mi credette uno spirito maligno e prese a odiarmi». Le mani mi tremavano ancora, per l'agitazione seguita alla scomparsa d'un così grande tesoro. Era stato un tesoro d'una tale abbondanza che nessun Re aveva mai posseduto, Johannus! Agognavo di riavere quel tesoro fin dal profondo della mia anima! Le monete d'oro, da sole, avrebbero riempito come un uovo la tua soffitta, ma il pavimento sarebbe crollato sotto il loro peso; e i gioielli avrebbero riempito non so quanti barili. Ah, Johannus: quale tesoro! «Ciò che ti farò scrivere», ricominciò il Potere, «dapprima significherà poco, per te. Dapprima io ti darò fatti e teorie, poiché sono le cose più facili da ricordare. Poi ti darò l'applicazione delle teorie. E voi uomini avrete così la possibilità di dar inizio a quella civiltà che può esistere in vicinanza del metallo maledetto».
«Grande Potestà!» ho implorato con voce umilmente spregevole. «Mi darai un altro sigillo per il tesoro?» «Scrivi!» mi ha ingiunto. Ho scritto. E, Johannus, non so dirti neppure io cos'è che ho scritto. Ha detto parole che erano in un cifrario così oscuro che anche adesso, mentre le studio, non hanno alcun significato. Ascolta queste, e cerca in esse una saggezza sufficiente all'esecuzione dei misteri! «La civiltà della mia razza è basata su campi di forza che hanno la proprietà di agire come sostanze in ogni attività essenziale. I campi di forza che la mia gente usa per le abitazioni, gli utensili, i veicoli, e persino le macchine, sono percepibili ai sensi, e agiscono, come solidi. Inoltre, siamo capaci di creare questi campi in forma invisibile, fissandoli a oggetti organici come campi permanenti che non richiedono nessuna energia per la loro conservazione, proprio come i campi magnetici non richiedono nessuna fonte di energia per continuare ad esistere. I nostri campi possono anche essere proiettati come solidi tridimensionali che assumono qualsiasi forma desiderata e hanno qualsiasi proprietà delle sostanze, salvo l'affinità chimica». Johannus! Non è incredibile che si siano potute mettere assieme delle parole aventi a che fare con i misteri così vuote di qualsiasi indizio riguardante il loro significato mistico? Scrivo e scrivo con la disperata speranza che Lui alla fine mi dia la chiave, ma il mio cervello barcolla davanti alla difficoltà di estrarre le direttive per le Operazioni che un tale cifrario deve nascondere! Te ne do un altro esempio: «Quando un generatore di campo di forza è stato costruito come sopra, si noterà che i campi pulsanti che rappresentano la nostra coscienza fungono in modo perfetto da comandi. Si deve soltanto creare nella propria mente l'immagine dell'oggetto desiderato, attivare il comando ausiliario del generatore, e il generatore modulerà la sua emissione a seconda del campo pulsante della coscienza...». Durante il primo giorno di scrittura, il Potere ha parlato per ore, e ho scritto fino a quando la mia mano ha potuto reggere ai crampi. Di tanto in tano, riposando, gli ho riletto le parole che avevo scritto. Lui ha ascoltato soddisfatto. «Signore!» ho detto con voce tremante. «Potente Signore! Vostra Potenza! Questi misteri che mi ordini di scrivere... sono aldilà della mia comprensione!» Ma lui ha replicato, sprezzante: «Scrivi! Alcuni saranno chiari per qualcuno. Ed io li spiegherò a poco a poco fino a quando persino tu potrai comprenderne gli inizi». Poi ha aggiunto: «Tu ti stai stancando. Tu deside-
ri un giocattolo. Bene, farò per te un sigillo che creerà di nuovo quel tesoro col quale hai giocato. Aggiungerò un sigillo che creerà una barca per te, con una macchina che trarrà potenza dal mare per condurti dovunque tu voglia senza bisogno del vento o delle correnti. E ne farò altri, perché tu possa creare un palazzo dove vorrai, e bei giardini, se ti piacerà...». E tutto questo l'ha fatto, Johannus. Pare lo diverta scrivere su pezzi di pergamena, e pensare, e poi premerli sul suo fianco prima di depositarli per terra dove potessi raccoglierli. Mi ha spiegato, divertito, che le meraviglie sono completamente contenute nei sigilli, ma in maniera latente, e vengono liberate dallo strappo della pergamena, ma vengono assorbite e distrutte dal ferro. In tal modo continua a usare il suo cifrario, ma a volte scherza! È strano pensare come, un po' per volta, io sia giunto ad accettare questo Potere come una persona. Non è conforme alle leggi del mistero. Santo che è solo. Sembra che trovi soddisfazione a parlare con me. Eppure è un Potere, uno dei ribelli che è stato scagliato giù dal Paradiso sulla terra! Di questo parla soltanto in termini vaghi e metaforici, come se fosse giunto da un altro mondo, come il mondo, ma più grande. Parla di se stesso come di un viaggiatore dello spazio, e parla della sua razza con affetto, e del Paradiso (in ogni caso, la città da cui proviene, poiché là debbono esserci grandi città) con uno strano, orgoglioso affetto. Se non fosse per i suoi poteri, che appartengono al mistero, troverei possibile credere che sia un membro solitario di una strana razza, esiliato per sempre in uno strano luogo, e divenuto amico di un uomo a causa della sua solitudine. Ma come potrebbe esistere qualcuno come lui e non essere un Potere? Come potrebbe esserci un altro mondo? Questa strana conversazione prosegue ormai da dieci giorni o anche più. Ho riempito foglio dopo foglio di pergamena con la mia scrittura. Le stesse metafore si ripetono più volte. «Campi di forza» — un termine senza nessun significato letterale — si ripete spesso. Ci sono altre metafore come «bobine» e «primario» e «secondario» che si trovano situate in un contesto in cui si citano fili metallici di rame. Ci sono descrizioni dettagliate, come se fossero fatte nel linguaggio più piano possibile, di fogli di metalli differenti da immergere nell'acido, e altre descrizioni di piastre di metalli identici che devono esser tenute separate da strati d'aria o di cera d'un certo spessore. E c'è una spiegazione dei mezzi grazie ai quali lui si tiene in vita. «Essendo io abituato a un'atmosfera assai più densa di quella della Terra, sono costretto a mantenere intorno a me stesso un campo di forza che man-
tiene tutt'intorno a me una densità atmosferica pari a quella del mio pianeta natio per consentirmi di respirare. Questo campo è trasparente, ma poiché deve pulsare in continuazione per cambiare e rinfrescare l'aria che respiro, provoca una certa nebulosità del profilo del mio corpo. È mantenuto dal generatore che porto al mio fianco, il quale allo stesso tempo fornisce energia agli altri manufatti costituiti da campi di forza che utilizzo quotidianamente». Ah, Johannus! L'impazienza mi sta portando alla pazzia. Non avevo forse previsto che un giorno mi avrebbe fornito la chiave del suo linguaggio metaforico, cosicché da esso potessero venir estratti i Nomi e le Parole che danno origine ai suoi prodigi? Quasi ci rinuncerei per la disperazione. Eppure è diventato quasi gioviale con me. Mi ha dato i sigilli che gli ho chiesto, e li ho provati molte volte. Il sigillo che creerà per te un bellissimo giardino è soltanto uno fra i molti. Dice che il suo più grande desiderio è dare all'uomo tutte le conoscenze che lui possiede, e poi vuole che io scriva cose nel suo cifrario come questa, senza alcun significato: «La propulsione di una nave per viaggiare oltre la velocità della luce è un semplice adattamento del generatore propulsivo già descritto. È sufficiente soltanto modificare i suoi parametri, cosicché, invece di operare nello spazio normale, generi una tensione iperspaziale. Il procedimento é... Oppure (scelgo a caso, Johannus): «Il metallo maledetto, il ferro, dev'essere eliminato, non soltanto da tutti i circuiti, ma altresì dalle vicinanze dell'apparato che funziona con altissime frequenze, dal momento che assorbe l'energia delle vibrazioni e impedisce il funzionamento...». Sono come un uomo che freme sulla soglia del Paradiso, eppure è incapace di entrarvi perché la chiave gli viene negata. «Velocità della luce!» Un'allegoria... ma di che cosa? Nel linguaggio comune tanto varrebbe parlare della velocità del bel tempo o del granito! Ogni giorno lo supplico invano di darmi la chiave del suo linguaggio. Eppure anche adesso, nei sigilli che prepara per me, c'è un potere più grande di qualunque altro uomo abbia mai conosciuto prima. Ma non basta. Il Potere continua a parlare di sé come di qualcuno condannato a un'estrema solitudine; l'ultimo membro d'una razza estranea alla Terra... Parla come se ricavasse uno strano piacere dalla mia pura e semplice presenza, e dal fatto di potermi parlare. Ma quando lo imploro di dirmi un Nome o una Parola che mi darebbero un potere ben più grande di quello che mi centellina coi sigilli, si mostra divertito e mi chiama sciocco, seppure in tono cortese e amico. E parla sempre più nel suo linguaggio al-
legorico, di forze della natura e di campi di forza... e mi ha dato un sigillo che, quando lo userò, creerà per me un palazzo dalle mura d'oro e le colonne di smeraldo! E poi mi ha ammonito, sarcastico, che un solo saccheggiatore munito di un'ascia o d'una zappa di ferro lo farebbe svanire in un attimo! Sto quasi impazzendo, Johannus! Ma è certo indicibile la saggezza che si può ottenere da lui. Procedendo con cautela, passo passo, sono giunto a comportami come se fossimo soltanto degli amici, di razza diversa, uno dei quali, lui, immensamente più saggio... ma pur sempre amici più che principe e suddito. Però, ricordo sempre gli ammonimenti degli autori più versati i quali affermano che si deve essere sempre sul chi vive contro i Poteri evocati nel corso di un'Operazione. Sto elaborando un piano. È pericoloso, lo so bene, ma sono in preda a una disperazione crescente. Starmene qui, fremente, sulla soglia di tanto potere e saggezza quali un uomo non ha mai neppure concepito, e poi vedersi negato... Il mercenario che ti porterà questa mia missiva partirà domani. È sciancato, e potrebbe impiegar mesi per arrivare. Tutto si deciderà prima che tu riceva questa mia. So che mi auguri ogni fortuna. C'è mai stato uno studioso dei misteri che si sia trovato in una situazione così grama, con tutto il sapere possibile a portata di mano, ma non ancora tutto suo? Il tuo amico Carolus Scritto nella sporca e cadente locanda di Montevecchio Johannus! Un corriere è diretto a Gand per incarico del mio Signore di Brabante, ed io colgo l'occasione d'inviarti questa corrispondenza. Credo d'impazzire, Johannus! Possiedo poteri che nessun uomo ha neppure immaginato, prima d'ora, e sono qui, angosciato e pieno d'amarezza. Ascoltami! Per tre settimane sono andato ogni giorno sulla cima della collina al di là di Montevecchio, per trascrivere il linguaggio cifrato di cui ti ho già ragguagliato. Il mio scritto era colmo di sigilli e di misteri, ma non possedevo nessuna Parola di Potere, nessun Nome di Autorità. Il Potere si era fatto sempre più beffardo, ma il suo sarcasmo era sempre più venato di tristezza. Insisteva a dire che le sue parole non contenevano nessun cifrario, e dovevano semplicemente esser lette con un po' di attenzione. Alcune le aveva
ripetute moltissime volte, al punto che erano diventate soltanto delle istruzioni per mettere insieme dei pezzi di metallo, in modo meccanico. Insisté finché imparai a memoria quelle istruzioni. Ma senza Parola, senza Nome,... niente più di un'accozzaglia di pezzi di metallo messi insieme in maniera strana. Ma com'era possibile che il metallo inanimato, non infuso dal potere dei Nomi o delle Parole, fosse in grado di operare dei misteri? Finalmente mi convinsi che non mi avrebbe mai rivelato la saggezza che mi aveva promesso. Ero arrivato a una tale familiarità con questo Potere che giunsi a coltivare l'idea di ribellarmi, e a credere persino di avere una possibilità di successo. C'era quella nebulosità intorno alla sua forma che veniva mantenuta da un sigillo che portava al fianco, chiamato «generatore». Se quella nebulosità fosse stata distrutta, non avrebbe potuto vivere, o per lo meno era quello che mi aveva detto. Proprio per quella ragione lui non osava toccare nulla che fosse fatto di ferro. Quella era la base del mio piano. Finsi di cader malato, e dissi che avrei riposato in una capanna dal tetto di paglia che si trovava ai piedi di quella stessa collina. Era l'abitazione d'un contadino, assai rozza e primitiva, adesso disabitata. Non c'era in essa un solo chiodo di ferro. Se provava per me l'amicizia che dichiarava, mi avrebbe concesso di assentarmi e di riposare là dentro per tutta la mia malattia. Se la sua amicizia fosse stata davvero grande, avrebbe potuto persino venir laggiù a trovarmi, nella capanna. Sarei rimasto solo, là dentro, nella speranza che la sua amicizia arrivasse a tal punto. Strane parole, queste, da parte di un uomo, nei confronti di un Potere! Ma avevo parlato con lui ogni giorno, per tre settimane. Giacqui, gemendo, tutto solo nella capanna. Il secondo giorno venne a trovarmi. Finsi una grande gioia e mi detti da fare per accendere un fuoco con una candela che avevo tenuta accesa. Lui lo considerò un segno d'onore e di rispetto, ma in realtà era un segnale. E poco dopo, infatti, mentre si stava informando di quella che credeva fosse la mia malattia, giunse un urlo da là fuori. Era il prete del villaggio: un uomo semplice ma assai coraggioso a modo suo. Al segnale dato dal fumo che s'innalzava dalla casa del contadino, si era avvicinato strisciando e, nel massimo silenzio, aveva disteso al suolo tutt'intorno alla capanna una catena di ferro, che aveva avvolto in panni perché non producesse il minimo cigolio. E adesso comparve, in piedi, davanti alla porta della capanna, col crocefisso alzato, intonando a gran voce un esorcismo. Un uomo davvero coraggioso, quel sacerdote, visto che gli avevo di-
pinto il Potere come un demone immondo. Il Potere si girò e mi guardò, ed io impugnai con mano ferma il pugnale. «Ho in mano il metallo maledetto», l'aggredii con rabbia. «Un cerchio dello stesso metallo circonda la capanna. Ora, dimmi in fretta le Parole e i Nomi che fanno funzionare i sigilli! Dimmi il cifrario per svelare tutto ciò che mi hai fatto scrivere! Fallo, e io ucciderò questo sacerdote, getterò lontano la catena di ferro e tu potrai andartene illeso da qui. Ma fai presto, altrimenti...». Il Potere gettò a terra un sigillo. Quando la pergamena toccò il suolo, l'aria per un attimo si fece confusa e qualcosa di orribile cominciò a formarsi. Ma poi la pergamena fumò e si trasformò in cenere. Il cerchio di ferro intorno alla capanna aveva distrutto il suo potere quando aveva tentato di usarlo. Ora lui sapeva che avevo detto la verità. «Ah!» esclamò il Potere, con voce aspra. «Gli uomini! Ed io che mi ero illuso che uno di loro fosse mio amico!». Si portò la mano al fianco. «Avrei dovuto immaginarlo. Il ferro mi circonda, la mia macchina si scalda...». Mi fissò. Gli alzai il pugnale davanti agli occhi, in un gesto spietato. «I Nomi!» gridai. «Le Parole!» Concedi anche a me il potere, e ucciderò il prete!» «Ho tentato di darti la saggezza», rispose il Potere, calmo. «E tu mi pugnalerai col metallo maledetto, se io non ti dirò cose che non esistono. Ma non c'è bisogno che tu mi pugnali. Non posso vivere a lungo in un cerchio di ferro. La mia macchina sta per bruciarsi, il mio campo di forza verrà meno. Soffocherò in quest'aria sottile che per te è densa quanto basta. Questo non ti soddisfa? Devi pugnalarmi, per giunta?». Balzai in piedi dal mio giaciglio di paglia per minacciarlo con ferocia ancora maggiore. Era follia, non è vero? Ma ero impazzito, Johannus! «Non farlo», disse il Potere. «Potrei ucciderti qui, adesso... potrei farti morire con me! Ma ti avevo accettato come amico. Andrò fuori a incontrare il tuo prete. Preferisco morire per mano sua. O, chissà, forse lui non è uno sciocco come...». S'incamminò con passo fermo verso l'uscita. Appena fuori, quasi incespicò sulla catena di ferro. Mi parve di cogliere uno sbuffo di fumo, ma lui fu rapido a toccar qualcosa al suo fianco. La nebulosità intorno alla sua persona scomparve. Vi fu un violento sbuffo e uno schiocco, e i suoi indumenti si agitarono violentemente come investiti da una raffica di vento. Barcollò. Ma andò avanti, si toccò di nuovo il fianco e la nebulosità ri-
comparve ad avvolgerlo. Accelerò il passo. Non tentò di fuggire, ma avanzò direttamente verso il prete e, come potei vedere anche da dentro la capanna dov'ero rimasto, con un'amara dignità. E... vidi anche gli occhi del prete spalancarsi per l'orrore, poiché era quella la prima volta che vedeva il Potere, e il Potere era alto un braccio e mezzo, con una grossa testa e due antenne bitorzolute che gli sporgevano dalla fronte; e il prete seppe subito che non apparteneva a nessuna razza umana, ma era un Potere e uno dei ribelli scacciati dal Paradiso. Sentii il Potere che parlava col prete con grande dignità. Non capii, però, ciò che gli disse, e m'infuriai per il disappunto. Ma il prete non tentennò. Quando il Potere mosse verso di lui, il prete mosse verso il Potere. Il suo volto era colmo d'orrore, ma risoluto. Afferrò il crocefisso e lo protese in avanti... quel crocefisso che portava sempre appeso con una catenella di ferro alla cintura. Lo spinse in avanti fino a toccare il Potere, gridando: In nomine Patri... Vi fu una zaffata di fumo. Uscì da quel punto, sul fianco, dove il Potere aveva la macchina alla quale accostava i sigilli da lui fatti, per impregnarli del mistero. E poi... Fui accecato. Vi fu una mostruosa vampata di luce biancoazzurra, come una folgore caduta dal cielo. Si formò una sfera ondeggiante di fuoco giallastro che riarse per lunghi istanti esalando una nuvola di denso fumo nero. E rimbombò un lungo, catastrofico tuono. Là fuori non rimase niente, soltanto il prete, il volto color cenere, gli occhi sgranati, le sopracciglia riarse, che continuava a cantare salmi con voce tremante. Ora mi trovo a Venezia. Le molte pergamene scritte che ho in mio possesso sono piene di sigilli coi quali sono in grado di operare meraviglie. Nessun uomo ha mai operato le meraviglie che io posso. Ma non lo faccio. Mi affatico ogni giorno e ogni notte, ogni ora, ogni minuto, sempre alla ricerca della chiave del cifrario che mi concederà la saggezza che il Potere possedeva e desiderava donare agli uomini. Ah, Johannus! Ho questi sigilli e posso far meraviglie, ma una volta che li avrò usati tutti, saranno finiti, e io sarò impotente. Ho avuto un'incredibile occasione di accedere alla saggezza quale nessun uomo ha mai avuto prima, e ora non c'è più! Ma io passerò anni... anzi, tutto il resto della mia vita... alla ricerca del vero significato di ciò che il Potere ha detto! Sono l'unico uomo in tutto il mondo che abbia parlato, un giorno dopo l'altro, per settimane, senza interruzione,
con un principe dei Poteri delle Tenebre, e che è stato accettato da lui come un amico al punto da affrontare, per questo, la propria distruzione. È senz'altro vero che quanto ho scritto è la saggezza! Ma come potrò trovare la chiave del cifrario per riuscire a capire tutti questi misteri che affermano (scelgo un esempio a caso) «... lastre di due metalli dissimili, immerse nell'acido, generano una forza per la quale gli uomini non hanno ancora un nome, la quale però è la base della vera civiltà. Queste lastre...». E mille altre cose simili a questa? Sto impazzendo per il disappunto, Johannus! Perché non ha parlato chiaramente? Ma a tutti i costi scoprirò il segreto... Memorandum da Peter McFarland, Facoltà di Fisica, Università di Haverford, al professor Charles, Facoltà di Latino: Caro professor Charles, ciò che ne penso è: Dannazione! Dov'è il resto di questa roba? McFarland L'uccisore di giganti Giant Killer di A. Bertram Chandler Astounding Science Fiction, ottobre A. Bertram Chandler fu un ufficiale in pensione della marina mercantile australiana, la cui opera più famosa nel campo della fantascienza sono le storie della serie dei «mondi dell'Orlo», che hanno per protagonista John Grimes. Si tratta di affreschi nel campo della space opera di notevole fascino, a un ottimo livello, che hanno garantito a Chandler un pubblico vasto e affezionato. Il guaio è che questa serie ha finito per mettere in ombra i suoi racconti di altro argomento, i quali, però, sono anch'essi, spesso, di eccellente qualità. In particolare, degni di nota sono «The Cage» (1957). una delle migliori storie mai scritte sul tema di cosa significhi essere umano, e il racconto che segue, in questa antologia. «L'uccisore di giganti» e una storia su un «universo chiuso», nella quale i personaggi — o almeno alcuni di essi — non si rendono conto che il loro ambiente costituisce soltanto uno spazio piccolo e confinato. Si può senz'altro dire che questo è il miglior
lavoro di Chandler. di soggetto fantascientifico. (Suppongo che un curatore abbia il diritto di avere una storia preferita in qualunque antologia abbia messo insieme. Di solito, se una delle mie storie compare in una antologia da me curata, è quella la mia storia preferita, e dal momento che è accettato da tutti che la modestia è una qualità che mi manca, mi è anche concesso dirlo. Tuttavia, malgrado io abbia, appunto, una mia storia in questa antologia, sono costretto ad ammettere che la storia di Chandler è la mia preferita. Se non l'avete mai letta prima, ora leggetela fino infondo e poi, col chiarimento che ne avete ricavato, leggetela una seconda volta. Allora, vi sembrerà del tutto diversa. I problemi tecnici insiti nello scrivere una storia di questo tipo sono enormi, ma Chandler li risolve con quella che sembra una invidiabile facilità, anche se io ne so abbastanza di queste faccende per immaginarmi che, dietro le quinte, Chandler abbia dovuto pensarci su per un buon numero di notti insonni. I.A.) Shrick sarebbe morto prima che i suoi occhi di bambino si fossero aperti su questo mondo. Shrick sarebbe morto, ma Weena, sua madre, aveva deciso che lui, unico fra tutti i suoi figli, sarebbe vissuto. Aveva generato tre altre volte, prima di questa, dal suo accoppiamento con Skreer, e in ogni occasione il vecchio, grigio Sterret, giudice dei neonati, aveva condannato i suoi figli come Diversi. Weena non aveva nulla da obiettare alla legge, quando non toccava lei o i suoi. Lei, come qualsiasi altro della tribù, godeva con entusiasmo le feste con la carne fresca e gustosa, che seguivano il macello rituale dei Diversi. Ma quando venivano sacrificati i frutti del suo grembo, la cosa cambiava aspetto. C'era silenzio, nella caverna, mentre Weena aspettava la venuta del suo signore. Silenzio, salvo per il suo respiro, e l'occasionale, lamentevole gnaulio del nuovo nato. E perfino quei suoni venivano smorzati dalle pareti e dal soffitto morbidi come spugne. Percepì l'avvicinarsi di Skreer molto prima della sua vera e propria comparsa. Previde la sua prima domanda, e quando Skreer entrò nella caverna, gli annunciò, con calma: «Uno, maschio». «Un maschio?» Skreer irradiò la sua approvazione. Poi, Weena sentì che il suo umore cambiava, diventando interrogativo, dubbioso: «È un... lui...?»
«Sì». Skreer raccolse tra le sue braccia quell'essere minuscolo e caldo. Non c'era luce ma lui, come tutti quelli della sua razza, era abituato al buio. Le sue dita gli dissero tutto ciò che voleva sapere. Il piccolo era glabro. Le gambe erano troppo dritte. E — questa la cosa peggiore — la testa era una grande cupola rigonfia. «Skreer!» La voce di Weena era ansiosa. «Pensi...?» «Non c'è alcun dubbio. Sterret lo condannerà... è un Diverso». «Ma...» «Non c'è speranza». Weena sentì il suo compagno rabbrividire, il lieve, serico frusciare della sua pelliccia. «La sua testa... è come quella dei giganti!» La madre sospirò. Era duro, ma conosceva la legge. Eppure... Questa era la quarta volta che partoriva, e forse non avrebbe mai provato cosa volesse dire guardare e aspettare con un misto d'orgoglio e di terrore i suoi figli che si avventuravano fuori con gli altri giovani maschi per depredare il territorio dei giganti, portando indietro il bottino dalla grande Caverna-delCibo, dal Luogo-delle-Cose-Verdi-che-Crescono, o perfino preziosi frammenti di metallo luccicante dal Luogo-della-Vita-che-Non-è-Vita. Si aggrappò a una debole speranza. «La sua testa è come quella d'un gigante? Non potrebbe essere, non credi, che i giganti siano dei Diversi? L'ho sentito dire». «E se anche così fosse?» «Soltanto questo. Forse crescerà per diventare un gigante. Forse combatterà contro gli altri giganti per noi, per la sua gente. Forse...». «Forse Sterret lo lascerà vivere, vuoi dire». Skreer produsse quel suono breve e spiacevole che fra la sua gente passava per una risata. «No, Weena. Deve morire. Ed e passato molto tempo dall'ultimo banchetto...» «Ma...» «Basta. Oppure vuoi diventare anche tu carne per la tribù? Potrei anche desiderare una nuova compagna, che mi dia figli sani e robusti, non mostri!» Il Luogo-d'Incontro era quasi deserto quando Skreer e Weena, lei con Shrick rannicchiato strettamente fra le sue braccia, entrarono. Due altre coppie si trovavano là, ognuna con i propri figli. Una delle madri reggeva due bambini, ognuno dei quali pareva normale. L'altra ne aveva tre, il suo compagno ne reggeva uno.
Weena la riconobbe come Teeza e le rivolse un mesto sorriso di comprensione quando vide che il bambino portato dal suo compagno sarebbe stato certamente condannato da Sterret, quando questi avesse scelto di farsi vivo, giacché, era forse ancor più ripugnante del suo Diverso, avendo due mani all'estremità di ogni braccio. Skreer si avvicinò a uno degli altri maschi, lui che non reggeva nessun bambino. «Da quanto tempo aspettate?» chiese. «Molti battiti di cuore. Noi...» La guardia piazzata alla porta dalla quale giungeva la luce dell'interno sibilò un ammonimento: «Silenzio! Sta arrivando un gigante!» Le madri strinsero a sé i propri figli ancora più forte, la pelliccia si drizzò a entrambe per il terrore superstizioso. Sapevano che, se avessero conservato un perfetto silenzio, non ci sarebbe stato nessun pericolo, e che anche se si fossero traditi con qualche leggero rumore, non vi sarebbe stato un pericolo immediato. Non erano soltanto le dimensioni a render pericolosi i giganti, ma anche i poteri sovrannaturali che, si sapeva, possedevano. Il cibo-che-uccide aveva sterminato parecchi membri incauti della tribù, e c'erano inoltre i loro congegni d'un'astuzia diabolica che schiacciavano e maciullavano chiunque, del Popolo, fosse così poco saggio e avido da sforzarsi di acchiappare i gustosi bocconi lasciati esposti su una specie di piccola piattaforma. Malgrado vi fossero quelli i quali sostenevano che in quest'ultimo caso il rischio valeva ben la pena, poiché i grani gialli portati via dai molti sacchi della Caverna - del - Cibo erano, sì, nutrienti, ma quanto di più monotono si poteva immaginare. «Il gigante è passato!» Prima che la gente radunata li, nel Luogo-d'Incontro, avesse potuto riprendere il discorso, Sterret sbucò fuori dall'ingresso della sua caverna. Reggeva con la destra il bastone del suo ufficio, una bacchetta dritta fatta di quel materiale duro ed elastico che divideva il territorio del Popolo da quello dei Giganti. Aveva una punta acuminata. Era vecchio. Era Sterret. Quelli, fra loro, che erano nonni, avevano udito i loro nonni parlare di lui. Per generazioni era sopravvissuto agli attacchi dei giovani maschi gelosi delle sue prerogative di capo, e alle aggressioni, peraltro più rare, dei genitori scontenti dei suoi verdetti come Giudice dei Nati. In questi casi isolati, tuttavia, non aveva niente da temere, poiché la stessa tribù si era sempre sollevata tutta insieme per fare a pezzi i colpevoli.
Dietro a Sterret veniva la sua guardia personale e poi, rovesciandosi fuori dagli ingressi di molte altre caverne, la maggioranza della tribù. Non c'era stato nessun bisogno di convocarli: lo sapevano. Il capo, con lentezza deliberata, andò a occupare la sua posizione, al centro del Luogo-d'Incontro. Senza bisogno di nessun ordine esplicito, la folla si aprì per far posto ai genitori e ai loro nati. Weena trasalì quando vide i loro occhi avidi appuntarsi sulla repulsiva calvizie di Shrick, sul suo cranio deforme. Sapeva quale sarebbe stato il verdetto. Sperò che i nati degli altri venissero giudicati prima del suo, anche se ciò avrebbe ritardato la morte di suo figlio di pochi battiti di cuore soltanto. Sperò... «Weena! Portami tuo figlio, cosicché io possa vederlo e giudicarlo!» Il capo protese le braccia scheletriche, prese il bambino dalle mani riluttanti della madre. I suoi pìccoli occhi profondamente infossati luccicarono al pensiero dell'abbondante sorsata di sangue rosso che ben presto avrebbe potuto godersi. Eppure, era riluttante a perdersi anche il sapore d'un solo battito di cuore dell'angoscia della madre. Forse era possibile provocarla al punto che l'attaccasse... «Tu c'insulti», dichiarò, scandendo le parole, «portandoci questo». Diede una stretta maligna a Shrick, il quale proruppe in uno strillo. «Guardate», proseguì Sterret, tenendo il piccolo staccato da sé con le braccia protese, «guardate, o popolo, quest'ignominia che la sventurata Weena ha portato al mio giudizio!» «Ha la testa di un gigante», fece Weena, con un filo di voce. «Forse...» «... suo padre è un gigante!» Una fragorosa risata echeggiò nel Luogo-d'Incontro. «No. Ma ho sentito dire che forse i giganti, o i loro padri e madri, erano dei Diversi. E...» «Chi te l'ha detto?» «Strela». «Sì, Strela la Saggia. Che nella sua saggezza mangiò una grande quantità di cibo-che-uccide!» Ancora una volta quell'odiosa risata echeggiò tra l'assemblea. Sterret sollevò la mano che reggeva la lancia, scorciando la sua stretta sull'impugnatura. Il suo volto si corrugò mentre pregustava il vivido zampillo di sangue che tra un attimo sarebbe sgorgato dalla gola del Diverso. Weena urlò. Con una mano tolse suo figlio all'odiosa stretta del capo, con
l'altra afferrò la sua lancia e gliela strappò. Sterret era vecchio, e poiché aveva esercitato da molte generazioni la sua autorità senza alcuna opposizione, si era fatto incauto. Eppure, per quanto vecchio fosse, evitò il colpo violento che gli vibrò la madre. E non ebbe bisogno di gridare ordini. Da ogni parte il popolo si stava precipitando sulla ribelle. Già in preda all'orrore per la sua azione. Weena sapeva di non potersi aspettare alcuna pietà. Eppure la vita, perfino quella vissuta dalla tribù, era dolce. Prendendo lo slancio dalla superficie grigia e spugnosa del Luogod'Incontro, saltò. L'impeto del suo balzo la fece arrivare accanto alla porta attraverso la quale entrava a fiotti la luce dell'Interno. La guardia che si trovava là era disarmata, giacché, a cosa mai sarebbe servita una minuscola lancia contro i giganti? La guardia, dunque, arretrò davanti all'aguzza punta luccicante e ai denti digrignanti di Weena. E poi Weena fu all'Interno. Sapeva che avrebbe potuto difendere la porta per un tempo indefinito contro gli inseguitori. Ma quello era il paese dei giganti. Nell'angoscia della indecisione, si appoggiò al fianco della porta, sempre stringendo in mano la lancia. Una testa sbucò dall'apertura, poi si ritrasse sgocciolante sangue. Soltanto più tardi si rese conto che era la testa di Skreer. Fu conscia dell'intensa luce che illuminava tutto, intorno a lei, dei vasti spazi che si stendevano da ogni lato del suo corpo avvezzo ai luoghi angusti delle caverne e delle gallerie. Si sentiva nuda, e, malgrado la lancia, del tutto indifesa. Poi, ciò che temeva, avvenne. Avverti, dietro di lei, l'avvicinarsi di due giganti. Percepì il loro respiro, il rombo basso, infinitamente minaccioso, delle loro voci mentre parlavano fra loro. Non l'avevano vista — di questo era certa, ma era soltanto questione di pochi battiti di cuore prima che ciò avvenisse. Quella porta spalancata, con la certezza della morte che l'attendeva oltre ad essa, pareva assai più preferibile al terrore dell'ignoto. Se fosse stata in gioco soltanto la sua vita, sarebbe tornata dentro ad affrontare la giusta collera del suo capo, del suo compagno e della sua tribù. Lottando per non cader preda del panico cieco, si costrinse a una lucidità di pensiero di solito estranea alla sua stessa natura. Se avesse ceduto all'istinto, fuggendo all'impazzata davanti ai giganti che si avvicinavano, si sarebbe fatta vedere. La sua unica speranza stava nel rimanere del tutto immobile. Skreer e gli altri maschi che avevano partecipato alle incursioni nell'Interno le avevano detto che i giganti, incuranti a motivo delle loro
dimensioni e della loro forza, più spesso che no non si accorgevano del Popolo, a meno che non venisse fatto qualche movimento che li tradiva. I giganti erano molto vicini. Girò la testa con estrema lentezza. Adesso poteva vederli, due immense figure che galleggiavano nell'aria con tranquilla arroganza. Non l'avevano vista, e lei ebbe conferma che non si sarebbero minimamente accorti se non avesse fatto qualche movimento inconsulto che richiamasse la loro attenzione. Però, com'era difficile resistere all'impulso di rituffarsi dentro la porta che dava sul Luogo-d'Incontro, per incontrare la morte certa per mano della tribù offesa! Era ancora più difficile lasciar la presa con la quale si teneva aggrappata alla porta e fuggire — dovunque — in preda a un panico urlante. Ma tenne duro. I giganti passarono. Il sordo rombare delle loro voci si perse in distanza, il loro odore acre e sgradevole, del quale aveva sentito parlare senza mai sperimentarlo prima di quel momento, si attenuò. Weena osò, ancora una volta, alzare la testa. Nel tumulto confuso e terrorizzato dei suoi pensieri, un'idea si stagliava con terribile chiarezza. La sua unica speranza di sopravvivenza, per quanto pietosamente esile, stava nel seguire i giganti. Non c'era tempo da perdere: già udiva il clamore delle voci che uscivano dalla caverna, poiché i suoi occupanti si erano anch'essi accorti che i giganti erano passati. Lasciò la presa sull'orlo della porta e galleggiò lentamente verso l'alto. Quando la testa di Weena entrò in improvviso contatto con qualcosa di duro, cacciò un grido. E attese per un lungo istante, gli occhi chiusi per il terrore, la morte che certamente sarebbe calata su di lei. Ma non accadde nulla. La pressione sulla cima del suo cranio non crebbe né diminuì. Timidamente aprì gli occhi. Fin dove poteva vedere, in entrambe le direzioni, si stendeva un'asta, o meglio una sbarra diritta. Aveva all'incirca la grossezza del suo corpo, ed era fatta, o rivestita, d'un materiale che non le era del tutto nuovo. Assomigliava alle corde che le femmine della sua specie intrecciavano con le fibre che i maschi qualche volta riportavano dal Luogo-delle-Cose-Verdi-cheCrescono, ma incomparabilmente meno rozzo e più compatto. Un tempo si era creduto che fosse il pelo dei giganti, ma adesso si presumeva che fosse prodotto da loro per qualche uso specifico. Sui tre lati della lunghissima sbarra si spalancava il vuoto abbagliante
che tanto spaventava il popolo della caverna. Sul quarto lato c'era una superficie piatta e luccicante. Weena scopri di potersi insinuare senza eccessivo sforzo tra la sbarra e questa superficie. Scopri anche che, potendo contare su questa duplice solidità sulla sua pancia e sulla schiena, riusciva a spingersi avanti con ragionevole velocità. Soltanto quando guardava su entrambi i lati sentiva tornarle le vertigini. Presto imparò a non guardare. È difficile valutare il tempo che impiegò in questo suo viaggio in un mondo dove il tempo era senza significato. Per due volte dovette fermarsi e nutrire Shrick — timorosa che i suoi vagiti famelici tradissero la loro presenza ai giganti, o a qualcuno del Popolo che poteva, anche se la cosa appariva del tutto improbabile, averla seguita. Una volta sentì la sbarra vibrare, e s'immobilizzó sulla sua superficie opaca in preda a un abbietto terrore. Un gigante passò, spingendosi rapidamente in avanti con le due mani. Se una di quelle due mani fosse finita su Weena, sarebbe stata la fine. Per molti battiti di cuore dopo il passaggio del gigante, lei rimase accasciata e impotente, quasi incapace, perfino, di respirare. Le parve di attraversare, nel suo viaggio, luoghi di cui aveva sentito i maschi parlare, e poteva essere senz'altro vero, ma non aveva alcun modo di controllarlo, poiché il mondo del Popolo, con le sue gallerie e le caverne, era un territorio a lei familiare, mentre il mondo dei giganti le era noto soltanto grazie alle porte attraverso le quali un coraggioso esploratore poteva penetrarvi e tornare a riferire. Weena cominciava a provare una grande debolezza e sentiva i morsi della fame e della sete farsi più insistenti, quando l'interminabile sbarra finì per condurla in un luogo dove poté annusare l'accattivante odore del cibo. Si fermò e guardò in tutte le direzioni. Ma qui, come in ogni altro punto di quel paese alieno, la luce era troppo abbagliante per i suoi occhi non abituati. Poteva distinguere, vagamente, grandi forme che erano al di la della sua limitata comprensione. Non vide nessun gigante, né altre cose che si muovessero. Cautamente, schiacciandosi contro la superficie della sbarra, si spostò di lato, scostandosi dall'altra superficie, liscia e lucida, a contatto della quale aveva viaggiato. La sua testa oscillò avanti e indietro, le sue sensibili narici si dilatarono. La luce troppo viva la confondeva, per cui chiuse gli occhi. Ancora una volta il suo naso cercò la fonte di quell'odore così appetitoso; la testa oscillò sempre più lentamente, finché si arrestò, puntando nella direzione giusta. Odiava l'idea di abbandonare la relativa sicurezza che le offriva la sbar-
ra, ma la fame prevalse infine su ogni altra considerazione. Puntò tutto il corpo nella direzione che aveva stabilito col naso, e saltò. Arrivò con un tonfo su un'altra superficie piatta. Cercò intorno con la mano libera, finché trovò una sporgenza e vi si aggrappò. Quando la sporgenza ruotò, fu quasi sul punto di lasciarla andare, colta di sopresa, poi, con sconcertante rapidità, davanti ai suoi occhi comparve una fessura che si allargò in fretta. Dietro di essa, comparve un'oscurità profonda, più che benvenuta. Weena vi scivolò dentro, grata del sollievo che le veniva offerto dopo l'abbagliante luminosità dell'Interno. Soltanto più tardi si rese conto che quella non era una porta come quelle fatte dal suo popolo nella Barriera, ma una porta diversa di proporzioni davvero gigantesche. Ma ciò che le importò, a tutta prima, fu solo quell'ombra fresca e tonificante. Esaminò, quindi, il luogo dove si trovava. Dalla porta, ora appena socchiusa, entrava abbastanza luce da consentirle di vedere ciò che si trovava nella caverna. Anche se era la forma sbagliata per una caverna, in verità, poiché le pareti, il pavimento e il soffitto erano perfettamente piani e regolari. All'estremità opposta, ognuno nel suo scomparto, c'erano dei globi enormi, d'una lucentezza opaca. Da essi giungeva un odore che quasi ridusse al delirio l'affamata Weena. Ma Weena si trattenne: conosceva quell'odore. Era quello dei frammenti di cibo che erano stati portati a volte nelle caverne, strappati con furtiva astuzia alle piattaforme assassine dei giganti. Era forse anche quella una piattaforma assassina? Si lambiccò il cervello per ricordare le scarse descrizioni fatte dai maschi, di quei congegni, e decise che quella, in fin dei conti, doveva essere la Caverna-del-Cibo. Lasciò Shrick e la lancia di Sterret, e si avvicinò a uno dei globi. Dapprima cercò di tirarlo fuori dal suo scomparto, ma parve che qualcosa lo bloccasse. Ma non importava. Schiacciando la sua faccia contro la superficie del globo, affondò i denti nella sua pelle sottile. Sotto la pelle c'erano carne e sangue... — un succo leggero, dolce, con una lieve punta d'acido. Skreer una volta le aveva promesso una porzione di quel cibo, ma quella promessa non era mai stata mantenuta. Adesso Weena aveva un'intera caverna di quel cibo tutta per lei. Dopo essersene ingozzata, tornò indietro per prendere Shrick che adesso si lamentava facendo un gran baccano. Aveva giocato con la lancia e aveva finito per tagliarsi con la punta acuminata. Ma fu la lancia che Weena afferrò, per difendere se stessa e suo figlio, poiché una voce disse all'improvviso, comprensibile ma dallo strano accento: «Chi sei? Cosa fai nel
nostro paese?». Era uno del Popolo, un maschio. Era disarmato, altrimenti, ne fu convinta, non avrebbe fatto domande. Ma anche così, Weena seppe che il minimo rilassarsi dell'attenzione, da parte sua, l'avrebbe costretta ad affrontare un selvaggio attacco a suon di denti. Strinse più saldamente la lancia, e la girò in modo che la punta fosse rivolta contro lo sconosciuto. «Sono Weena», dichiarò, «della tribù di Sterret». «Della tribù di Sterret? Ma la tribù di Sessa domina le strade fra i nostri paesi». «Io sono venuta dall'Interno. E tu chi sei?». «Tekka. Sono del popolo di Skarro. Tu devi essere una spia». «E avrei portato con me mio figlio?» Tekka fissò con attenzione Shrick. «Capisco», disse infine. «Un Diverso. Ma come hai fatto ad attraversare il paese di Sessa?» «Non l'ho attraversato. Sono venuta fin qui dall'Interno». Era ovvio che Tekka si rifiutava di credere alla sua storia. «Devi venire con me da Skarro», replicò. «Giudicherà lui». «E se io venissi?» «Per il Diverso, la morte. Per te, non so. Abbiamo già fin troppe femmine nella nostra tribù». «Questo vuol dire che non verrò». Agitò minacciosa la lancia. Non avrebbe mai sfidato un maschio della propria tribù in quel modo — ma questo Tekka non era del suo popolo. E le avevano insegnato fin da piccola che perfino una femmina della tribù di Sterret era superiore a un maschio — anche se era un capo — di una qualsiasi comunità aliena. «I giganti ti troveranno, qui». La voce di Tekka mostrava uno ostentato disinteresse. Poi, in un tono diverso: «Bella quella lancia». «Sì. Apparteneva a Sterret. Con questa ho ferito il mio compagno. Forse è morto». Il maschio la guardò con nuovo rispetto. Se la sua storia era vera... quella era una femmina da maneggiarsi con tutte le precauzioni. Inoltre... «Me la daresti?». «Sì... così». Weena fece il gesto di vibrare la lancia, con una risata cattiva. Non vi fu equivoco possibile, su ciò che intendeva. «Non in questo modo», si affrettò ad aggiungere Tekka. «Senti, non molto tempo fa, nella nostra tribù, molte madri, due intere mani di madri con figli Diversi, sfidarono il giudice dei Neonati. Fuggirono lungo una
galleria e adesso vivono laggiù, vicino al Luogo-delle-Piccole-Luci. Skarro non ha ancora condotto contro di loro una spedizione di guerra. Ebbene... non so, c'è sempre un gigante in quel posto. Può darsi che Skarro tema che un combattimento così vicino alla Barriera avverta i giganti della nostra presenza...». «E tu mi condurresti là?». «Sì. In cambio della lancia». Weena restò silenziosa per molti battiti di cuore. Fintanto che non avesse voltato la schiena a Tekka sarebbe stata al sicuro. Non le venne mai in mente di lasciare che Tekka facesse quanto aveva promesso, rifiutandogli poi il pagamento. Il suo popolo era una razza semplice e schietta. «Verrò con te», annui. «D'accordo». Gli occhi di Tekka fissarono a lungo e amorevolmente la bella lancia. Skarro non sarebbe rimasto capo ancora per molto. «Per prima cosa», aggiunse, «dobbiamo tirar dentro la nostra galleria quello che hai lasciato della palla-buona-da-mangiare. Poi dovrò chiudere la porta, nel caso in cui arrivi un gigante...». Insieme, tagliarono la palla in piccoli pezzi. Dietro a uno scomparto vuoto c'era una porta. Spinsero attraverso questa il fragrante fardello. Weena entrò per prima nella galleria, portando Shrick e la lancia. Poi venne Tekka, il quale spinse la porta rotonda al suo posto, dove combaciò perfettamente, senza che si vedesse il minimo segno che la Barriera era stata violata. Fece scorrere infine due rozze sbarre che fungevano da chiavistello. «Seguimi», ordinò a Weena. Il lungo viaggio attraverso le caverne e le gallerie fu un paradiso, al confronto di quello che Weena aveva compiuto nell'Interno. Qui non c'era luce — o, nel peggior dei casi, qualche lieve barlume che filtrava da piccoli buchi e fessure nella Barriera. Pareva che Tekka la stesse guidando lungo le vie e le gallerie meno frequentate del paese di Skarro, poiché non incontrarono nessuno del suo popolo. Comunque, i sensi dicevano a Weena che si trovava in un territorio densamente popolato. Tutt'intorno a lei pulsavano le ondate calde e confortevoli della vita sempre uguale del Popolo. Sapeva che in comode caverne, maschi, femmine e i loro piccoli vivevano in piacevole intimità. Per un attimo fugace provò rincrescimento per aver buttato via tutto questo per il brutto e glabro fagottino che stringeva tra le braccia. Ma non avrebbe mai
più potuto tornare alla sua tribù, e se avesse desiderato unirsi a quella comunità aliena, le alternative sarebbero state la morte o la schiavitù. «Attenzione!» sibilò Tekka. «Ci stiamo avvicinando al loro paese». «Ma tu...». «No, io mi fermo qui. Mi ucciderebbero. Basterà che tu prosegua diritta lungo questa galleria, e le troverai. Ora, dammi la lancia». «Ma...». «Tu sei al sicuro. È quello il tuo lasciapassare». Diede una lieve pacca a Shrick, che si agitava inquieto. «Su, dammi la lancia, e me ne andrò». Riluttante, Weena gli consegnò l'arma. Tekka la prese senza dire una parola, poi se ne andò. Per brevi attimi Weena lo scorse alla fioca luce che filtrava in quel punto attraverso la Barriera: un vago profilo che svanì rapidamente nel grigiore. Si sentì smarrita, spaventata. Ma il dado era tratto. Lentamente, con cautela, riprese a strisciare lungo la galleria». Quando la trovarono, urlò. Per molti battiti di cuore aveva percepito la loro odiosa presenza, aveva sentito che esseri ancora più alieni dei giganti si stavano stringendo intorno a lei. Una o due volte aveva chiamato, gridando che veniva in pace, che era la madre di un Diverso. Ma neppure l'eco le rispose, poiché la galleria, morbida e spugnosa, attutiva il suono acuto della sua voce. E il silenzio che non era silenzio era, se possibile, ancora più minaccioso. Senza alcun preavviso, il terrore l'aggredì, furtivo. Weena lottò col coraggio della disperazione, ma fu sopraffatta dal numero esorbitante degli assalitori. Shrick, che protestava debolmente, fu strappato alla sua stretta frenetica. Le mani — e certo c'erano troppe mani rispetto al numero dei suoi assalitori — le inchiodarono le braccia sui fianchi, le chiusero le caviglie in una stretta che era una morsa. Incapace ormai di combattere guardò i suoi catturatori. Poi urlò di nuovo. La fioca luce le risparmiò misericordiosamente tutto l'orrore del loro aspetto, ma ciò che vide sarebbe stato sufficiente a infestare i suoi sogni fino al giorno della sua morte, se fosse riuscita a fuggire. Morbide, quasi carezzevoli, quelle odiose mani scivolavano sopra il suo corpo con disgustosa intimità. Poi... «È una Diversa». Si permise un barlume di speranza. «E il bambino?». «Due-Code ha un neonato. Può nutrirlo». E quando una lama affilata trovò la sua gola, Weena ebbe il tempo di
rimpiangere amaramente d'esser venuta via dal suo mondo familiare e confortevole. Non tanto per la perdita della sua vita — che comunque aveva già sacrificato quando aveva osato sfidare Sterret — quanto perché si rendeva conto che Shrick, invece d'incontrare una morte pulita per mano della sua gente, avrebbe passato la sua vita fra quelle immonde mostruosità. Poi vi fu un acuto dolore e una sensazione di totale impotenza, mentre la marea della sua vita rifluiva rapida e l'oscurità, che Weena aveva tanto amato, si chiudeva su di lei per sempre. Senza-Pelo, che, alla sua nascita, era stato chiamato Shrick, giocherellava nervoso al suo posto di guardia a metà strada di quella che al suo Popolo era nota come Galleria Skarro. Era tempo, ormai, che Lungo-Naso venisse a dargli il cambio. Erano passati molti battiti di cuore da quando aveva sentito i rumori sull'altro lato della Barriera, i quali dicevano che il gigante nel Luogo-delle-Piccole-Luci era stato sostituito da un altro della sua razza. Ciò che i giganti facevano là dentro era un mistero — ma il Nuovo Popolo era giunto a riconoscere una strana regolarità nelle azioni di quegli esseri mostruosi e a regolare su di esse i propri tempi. Senza-Pelo strinse ancora più forte la lancia — era fatta del materiale della Barriera, rozzamente appuntita a un'estremità — quando percepì l'avvicinarsi di qualcuno lungo la galleria che proveniva dalla direzione del paese di Tekka. Poteva essere un Diverso che portava un bambino che sarebbe diventato uno del Nuovo Popolo... o poteva essere un attacco. Ma, chissà perché, le confuse impressioni ricevute dalla sua mente non confermavano nessuna di queste supposizioni. Senza-Pelo si appiatti contro la parete della galleria, il suo corpo affondò dentro il materiale spugnoso. Adesso riusciva a scorgere vagamente l'intruso — una forma solitaria che volteggiava furtiva tra le ombre. Il suo senso dell'olfatto gli disse che si trattava d'una femmina. Eppure era certo che non aveva nessun piccolo con lei. Il suo corpo divenne teso, pronto ad attaccare non appena l'estranea avesse superato il suo nascondiglio. Cosa stupefacente, la femmina si arrestò. «Vengo in pace», disse. «Sono una di voi. Sono...» e qui la sua voce fece una breve pausa, «... una del Nuovo Popolo». Shrick non diede nessuna risposta, non tradì nessun movimento. Sapeva che era possibile, anche se il fatto era assai raro, che quella femmina possedesse una vista anormalmente acuta. Era assai più probabile che avesse percepito il suo odore. Ma, in ogni caso, come faceva a conoscere il nome
col quale la gente del Nuovo Popolo definiva se stessa? Per il mondo esterno essi erano i Diversi — e se l'estranea si fosse proclamata tale, si sarebbe rivelata per un'aliena e la sua vita sarebbe stata subito condannata. «Tu non puoi sapere», disse ancora la voce della femmina, «come mai ho chiamato me stessa col nome giusto. Nella mia tribù vengo chiamata una Diversa...». «Allora, come mai», la voce di Senza-Pelo suonò trionfante, «ti hanno permesso di vivere?» «Vieni da me! No, lascia la tua lancia. Adesso, vieni!». Senza-Pelo piantò la sua arma nella morbida parete della galleria. Lentamente, quasi con timore, avanzò fino al punto in cui la femmina l'attendeva. Adesso poté vederla meglio — e non pareva differente dalle altre madri fuggiasche dei Diversi, del cui massacro tante volte era stato testimone. Il suo corpo era ben proporzionato e ricoperto d'una sottile peluria serica. La testa era ben formata. Fisicamente, era tanto normale da parer ripugnante al Nuovo Popolo. Eppure... Senza-Pelo si trovò a paragonarla alle femmine della sua tribù, e con grande svantaggio per queste ultime. L'emozione, più che la ragione, gli disse che l'odio suscitato dalla vista d'un corpo normale era provocato da un radicato senso d'inferiorità, più che da qualunque altra cosa. E lui voleva quella straniera. «No», lei disse, misurando le parole, «non è il mio corpo che è differente. È la mia testa. Non conoscevo me stessa fino a poco tempo fa, all'incirca due mani di nutrimento. Ma adesso posso dire ciò che passa dentro alla tua testa, o nella testa di chiunque del Popolo...». «Ma», chiese lui, «come hanno potuto...». «Ero matura per l'accoppiamento. Fui accoppiata a Trillo, il figlio di Tekka, il capo. E nella nostra caverna dissi a Trillo cose che soltanto lui poteva conoscere. Avevo pensato che ciò potesse fargli piacere, credevo che gli sarebbe piaciuto avere una compagna con poteri magici che lui avrebbe potuto usare nel migliore dei modi. Col mio aiuto, avrebbe potuto farsi eleggere capo. Ma s'infuriò — anzi, si spaventò moltissimo. Corse da Tekka, che subito mi giudicò una Diversa. Si preparavano ad uccidermi, ma sono riuscita a fuggire. Essi non hanno osato inseguirmi così lontano in questo paese...». «Allora... tu mi vuoi?» Era un'affermazione, più che una domanda. «Sì...» fece lui, confuso. «Ma...»
«Senza-Coda? Morirà. Se lotterò con lei e vincerò, sarò la tua compagna». Per un breve attimo, Senza-Pelo pensò, con una punta di rincrescimento, alla sua femmina. Era stata leale, paziente. Ma subito capì che, con quella straniera per nuova compagna, non c'erano limiti alla carriera che avrebbe potuto fare nella tribù. Non che lui fosse più intelligente o furbo di Trillo, ma, come membro del Nuovo Popolo, giudicava l'anormalità come qualcosa di perfettamente normale. «Allora, mi prenderai con te?» Ancora una volta, non fu affatto una domanda. Poi: «Il mio nome è Wesel». L'arrivo di Senza-Pelo con Wesel a rimorchio nel Luogo-d'Incontro non avrebbe potuto capitare nel momento più adatto. C'era un processo in corso, contro un giovane maschio di nome Grosse-Orecchie che era stato colto in flagrante nell'atto di rubare un prezioso pezzo di metallo nella caverna di un Quattro-Braccia. Lungo-Naso, che avrebbe dovuto dare il cambio a Senza-Pelo, aveva trovato assai più avvincente lo spettacolo di un processo (con la prospettiva del festino che ne sarebbe seguito) che dare il cambio a una solitaria sentinella. Fu lui che si accorse per primo dei nuovi venuti. «Oh, Zanna-Grossa!» gridò. «Senza-Pelo ha abbandonato il suo posto!» Ma il capo era disposto alla clemenza. «Ha un prigioniero», dichiarò. «Una Diversa. Sarà un grande banchetto!» «Ha paura di te», sibilò Wesel. «Sfidalo!» «Non è una prigioniera». La voce di Senza-Pelo suonò arrogante. «È la mia nuova compagna. E tu, Lungo-Naso, vai subito alla galleria». «Vai, Lungo-Naso. Il mio paese non deve restare incustodito. SenzaPelo, consegna la femmina straniera alle guardie cosicché sia macellata». Senza-Pelo sentì la propria fermezza vacillare sotto lo sguardo severo del capo. Quando due dei bravacci di Zanna Grossa si avvicinarono, allentò la stretta sul braccio di Wesel. Lei si girò verso di lui, implorante, lo sguardo colmo di disperazione. «No, no. Ha paura di te, ti dico. Non cedergli. Insieme, potremo...» Per colmo d'ironia, fu proprio l'intervento di Senza-Coda a capovolgere la situazione. Senza-Coda affrontò il suo compagno col disprezzo chiaramente scritto sulla sua faccia sgraziata. La sua lingua bisbetica, temuta da tutto il Nuovo Popolo e perfino dal capo, entrò fulmineamente in azione.
«Così», esclamò, «mi preferisci questa sciocca femmina Diversa. Su, consegnacela, cosicché possiamo finalmente riempire le nostre pance. In quanto a te, bello mio, la pagherai per questo insulto!» Senza-Pelo considerò la forma storta e sgraziata di Senza-Coda, e poi quella snella e agile di Wesel. Quasi senza volerlo, dichiarò: «Wesel è la mia compagna... È una del Nuovo Popolo!» A Zanna-Grossa mancava un vocabolario adeguato per riversare tutto il suo disprezzo su quell'insolente ribelle. Lottò per cercare le parole più forti e sferzanti, ma non ne trovò nessuna adeguata a quella situazione. I suoi piccoli occhi luccicarono rossastri, e le sue orrende zanne si snudarono in un ringhio crudele. «Adesso!» lo sollecitò la straniera. «La sua testa è confusa. Agirà troppo precipitosamente. Il suo vivo desiderio di sbranarti e farti a pezzi oscurerà il suo giudizio. Attacca!» Senza-Pelo balzò all'attacco con freddezza, sapendo che, se avesse tenuto la testa sgombra, senza farsi travolgere dall'emozione, avrebbe senz'altro vinto. Sollevò la lancia per arginare il primo assalto del capo infuriato. Zanna-Grossa vide appena in tempo la rozza punta e, usando la coda come un timone, guizzò di lato. Non fu abbastanza rapido, anche se la sua azione lo salvò da una morte immediata: la lancia lo colse alla spalla e si ruppe, lasciando la punta dentro la ferita. Pazzo di rabbia e di dolore, il capo si era trasformato, adesso, in un nemico, talmente pericoloso ma — allo stesso tempo — carne facile per un avversario che avesse saputo conservare il controllo di sé. All'inizio, Senza-Pelo fu appunto un avversario di questo tipo. Ma il suo autocontrollo fece presto a cedere. Per quanto si sforzasse, non riusciva a contenere la crescente marea di paura isterica, mista a un'animalesca bramosia di sangue. Si trovò a parare i reiterati attacchi del nemico con un'arma quasi inutile, mentre Zanna-Grossa disponeva della sua efficacissima lancia dalla punta metallica. Occorse tutta la forza di volontà, a Senza-Pelo, per non cercar rifugio nella fuga, o per non gettarsi ciecamente in un corpo a corpo che gli sarebbe stato fatale, vista la maggior prestanza del capo. La ragione riuscì a farsi sentire e a dirgli che entrambe le scelte sarebbero state disastrose: la prima l'avrebbe visto braccato dalla intera tribù e certamente raggiunto e massacrato; la seconda l'avrebbe messo alla portata degli enormi denti assassini che avevano dato a Zanna-Grossa, appunto, il suo nome. Così continuò a parare e a colpire, a parare e a colpire, fino a quando il
bordo affilato dell'arma del capo non gli incise il braccio. Il dolore pungente lo trasformò in un puro animale, e con un urlo acuto di furore si scagliò a corpo morto contro l'avversario. Ma se la natura aveva fornito a Zanna-Grossa il suo bell'armamentario offensivo, non era stata neppure avara con l'equipaggiamento difensivo del ribelle. Era vero che Senza-Pelo non era per niente eccezionale, quanto a denti e ad artigli, e che non possedeva nessuno di quegli arti supplementari così comuni fra i suoi conterranei del Nuovo Popolo. Il suo cervello poteva anche essere un po' più agile, ma a quello stadio del combattimento ciò non contava niente. Quello che gli salvò la vita fu la sua pelle glabra. A più riprese il capo cercò di attirarlo a una distanza tale da poterlo colpire con efficacia, ma lui sempre riuscì a schivarlo. La sua pelle scivolosa era ormai un intreccio di dozzine di graffi, alcuni dei quali assai profondi, ma nessuno di essi era grave. E durante tutto quel tempo anche lui aveva graffiato e colpito con le mani e coi piedi, mordendo e sfregiando. Pareva che Zanna-Grossa si stesse stancando, ma anche Senza-Pelo sentiva le proprie energie farsi via via più deboli. E il capo aveva ormai imparato che era inutile tentar di agguantare il nemico per la folta pelliccia, che non aveva, bensì doveva tentare di stringerlo in un abbraccio rompi-ossa. E infine ci riuscì: Senza-Pelo fu trascinato sempre più vicino a quelle zampe bavose, sentì sulla propria faccia l'alito fetido dell'altro, seppe che era questione ormai di pochi battiti di cuore prima che la sua gola fosse squarciata... Urlò, proiettò, in alto le gambe, scalciando con estrema violenza il ventre di Zanna-Grossa. Sentì i piedi che affondavano nella carne cedevole, ma il capo grugnì e non allentò la stretta. Cosa ancora peggiore, il fallimento del contrattacco aveva condotto Senza-Pelo ancora più vicino alla morte. Con un braccio, il destro, esercitò una disperata pressione contro il petto dell'altro. Cercò di sollevare le ginocchia per vibrare un colpo paralizzante, ma esse erano strette in una sorta di tenaglia formata dai massicci muscoli delle gambe di Zanna-Grossa. Con il braccio sinistro libero sferzò, rabbioso e disperato, ma sarebbe stato lo stesso se avesse colpito la Barriera. Il Popolo, adesso che il risultato della battaglia era deciso stava urlando incoraggiamenti al vincitore. Senza-Pelo udì tra queste voci anche quella della sua compagna, Senza-Coda. Il piccolo angolo del suo cervello, in cui la ragione conservava ancora una punta di lucidità, gli disse che non poteva biasimarla. Se Senza-Coda avesse gridato per sostenere lui, si sarebbe potuta aspettare soltanto la morte per mano del capo trionfante. Dimenticò
di averla insultata e umiliata, ricordò soltanto che era la sua compagna. E l'amarezza della cosa lo spinse a continuare a combattere là dove altri avrebbero rinunciato ad aggrapparsi a una vita già condannata. Il taglio della sua mano calò giù con forza là dove il grosso collo di Zanna-Grossa si congiungeva con la spalla. Fu appena conscio del sussulto dell'altro, del piccolo uggiolio di dolore che era seguito a quel colpo. Poi, alta e acuta udì la voce di Wesel: «Di nuovo! Di nuovo! È quello il suo punto debole!» Annaspando alla cieca cercò lo stesso punto. E Zanna-Grossa aveva paura, di ciò non c'era dubbio. Torse di scatto la testa, cercando di coprire la propria vulnerabilità. Tornò a uggiolare, e Senza-Pelo seppe che la battaglia era sua. Le sue dita sottili e robuste, dalle unghie taglienti, affondarono nella carne e la straziarono. Là non c'era pelo, e la carne era tenera. Sentì il caldo sangue sgorgare sotto le sue mani. Il capo cacciò un urlo terribile, poi la sua stretta ferrea cessò d'un tratto. Prima che Zanna-Grossa potesse usare le mani o i piedi per scagliare lontano da sé Senza-Pelo, il suo nemico, questi si era girato di scatto e, ghermendo pelle e pelo con ciascuna mano, affondò i denti nel collo dell'altro. E i denti trovarono la giugulare. Quasi subito gli ultimi, disperati tentativi di lotta del capo cessarono. Senza-Pelo bevve a lungo e con soddisfazione. Poi, ancora imbrattato di sangue, scrutò, ansante, il Popolo davanti a lui. «Io sono il capo», dichiarò. «Tu sei il capo!» gli risposero in coro. «E Wesel è la mia compagna». Questa volta il Popolo esitò. Il nuovo capo udì levarsi i mormorii tra la folla... «Il banchetto... ZannaGrossa è vecchio e duro... Dobbiamo esser defraudati, dunque?...» «Wesel è la mia compagna», ripeté. Poi... «Ecco il vostro banchetto». Pur all'apice del suo potere, quasi non sopportò gli occhi afflitti di Senza-Coda, la tremenda sensazione di essersi posto, con le sue parole, fuori di tutte le tradizioni, di tutte le Leggi. «Al di sopra della legge», gli bisbigliò Wesel. Temprò il proprio cuore. «Ecco il vostro banchetto», ripeté. Fu Grosse-Orecchie che, strappata una lancia a una delle guardie, con un rapido colpo liquidò la tremante Senza-Coda. «Sono la tua compagna», disse Wesel.
Senza-Pelo la prese tra le braccia. Si sfregarono i nasi. Non fu il sangue del vecchio capo, che ancora l'imbrattava, a causarle un lieve tremore. Fu la sensazione di quel corpo disgustosamente glabro contro il suo. Già il Popolo stava squartando e dividendo i due corpi e litigava per la spartizione delle succulente spoglie. C'era una, fra quelle del Nuovo Popolo, che, se le differenze dal ceppo razziale fossero state soltanto psicologiche, sarebbe stata trucidata già da tempo. Malgrado i suoi tre occhi, se avesse esercitato il suo dono in maniera imprudente, avrebbe senz'altro conosciuto la morte. Ma, come le sue simili in società ben più civilizzate, faceva bene attenzione a raccontare, a quanti venivano da lei, soltanto ciò che desideravano sentire. Ma anche qui esercitava il suo riserbo. L'esperienza le aveva insegnato che la conoscenza anticipata degli eventi futuri spesso dava risultati del tutto imprevisti, nella gente. Ciò la infastidiva. Meglio la sventura nel flusso principale del tempo che il benessere in una diramazione secondaria. Per questo Tre-Occhi andò da Senza-Pelo e Wesel. Prima che il capo potesse fare anche una sola domanda, la veggente sollevò una mano scarna. «Tu sei Shrick», gli disse. «Così ti chiamò tua madre. Shrick, l'Uccisoredi-Giganti». «Ma...» «Aspetta. Tu vuoi chiedermi della tua guerra contro il Popolo di Tekka. Continua con i tuoi piani. Vincerai. Poi combatterai contro la tribù di Sterret il Vecchio. E ancora una volta vincerai. Diverrai il Signore dell'Esterno. E poi...» «E poi?» «I giganti sapranno del Popolo. Molti del Popolo, ma non tutti, morranno. Tu combatterai contro i giganti. E tu ucciderai l'ultimo dei giganti, ma lui precipiterà il mondo in ... Oh, se soltanto potessi farti vedere! Non abbiamo parole per descriverlo!» «Cosa?» «No, non c'è alcun modo per fartelo sapere... Non lo saprai finché la fine non sarà su di te. Ma questo posso dirti: il Popolo è condannato. Niente, che tu o loro possiate fare, apporterà la salvezza. Ma tu ucciderai quelli che uccideranno noi, e questo è bene». Ancora una volta Senza-Pelo implorò lumi. D'un tratto le sue implora-
zioni divennero minacce. La rabbia saliva rapida in lui, preparando uno dei suoi tremendi attacchi di furore. Ma Tre-Occhi era dimentica della sua presenza. I suoi due occhi esterni erano serrati, e quel suo strano e temuto occhio interno stava fissando qualcosa... qualcosa al di là dei limiti della caverna, ben fuori della struttura delle cose-come-sono. Il capo ringhiò dal profondo della gola. Alzò la bella lancia che era il simbolo del suo potere e la conficcò ben dentro il corpo della vecchia femmina. L'occhio interno si chiuse, e i due esterni si aprirono con un guizzo per l'ultima volta. «Mi è stata risparmiata la Fine...» esalò. Fuori della piccola caverna, il fedele Grosse-Orecchie era in attesa. «Tre-Occhi è morta», gli disse il suo padrone. «Prendine ciò che vuoi, e dà il resto al Popolo...» Per un po' ci fu silenzio. Poi... «Sono lieta che tu l'abbia uccisa», disse Wesel. «Mi spaventava. Sono stata dentro la sua testa... e mi ci sono smarrita!» La sua voce aveva una sfumatura isterica. «Ero sperduta! Era un posto... e c'erano l'adesso e quello che sarà. E ho visto la Fine». «Cosa hai visto?» «Non ho visto. Ero smarrita. Tutto quello che ho visto è stata la Fine». Senza-Pelo rimase silenzioso. La sua mente agile e viva correva veloce intorno a tutto quello che gli aveva detto la profetessa morta. Uccisore-diGiganti, Uccisore-di-Giganti. Perfino nei suoi sogni più grandiosi non si era mai visto in quella veste. E cos'era mai quel nome: Shrick? Lo ripeté fra sé... Shrick, l'Uccisore-di-Giganti. Aveva un bel suono. Il quanto all'altra cosa, la Fine, se lui poteva uccidere i giganti, allora certamente avrebbe potuto evitare quella condanna che la sorte avrebbe elargito al Popolo. Shrick, l'Uccisore-di-Giganti... «È un nome che preferisco a Senza-Pelo», dichiarò Wesel. «Shrick, signore dell'Esterno. Shrick, Signore del Mondo. Shrick, l'Uccisore-di-Giganti...» S'interruppe. Poi disse, lentamente: «Ma la Fine...» «Varcherai quella porta quando ci arriverai». La guerra contro il Popolo di Tekka era cominciata. Lungo le caverne e le gallerie si riversarono le orde da incubo di Shrick. La fioca luce rivelava soltanto in parte i loro corpi sgraziati, gli arti che spuntavano dove non avrebbe dovuto essercene nessuno, teste simili a
qualcosa uscito da sogni semi-dimenticati. Erano tutti armati. Ogni maschio e ogni femmina portava una lancia, e già questa era un'innovazione sorprendente nelle guerre del Popolo, poiché il metallo tagliente, col quale venivano fatte le punte delle armi, era difficile da trovare. Era vero che un'asta del materiale con cui era fatta una Barriera poteva venir affilato, ma in una battaglia campale era più un peso che un vantaggio. Al primo colpo la punta si sarebbe rotta, lasciando il combattente con un'arma assai inferiore allo stesso armamentario naturale dei denti e degli artigli. Il fuoco era una novità per il popolo — ed era stato Shrick a portare il fuoco. Per lunghi periodi aveva spiato i giganti nel Luogo-delle-PiccoleLuci, li aveva visti tirar fuori dalle borse delle loro pellicce piccoli congegni luccicanti, dai quali, quando una piccola sporgenza veniva premuta, usciva una minuscola fiammella luminosa. E li aveva visti portare questa luce fino all'estremità di strani bastoni bianchi che essi parevano succhiare. E l'estremità del bastone ardeva, e c'erano nuvole... simili alle nuvole che uscivano dalla bocca di quelli del Popolo in alcune delle caverne del Lontano Esterno, dove faceva molto freddo. Ma queste nuvole erano fragranti e parevano esercitare uno strano potere calmante. Uno dei giganti aveva perduto la sua piccola fiamma lucente. L'aveva accostanta a uno dei bastoni bianchi, aveva poi fatto per riporla nella sua borsa, ma la sua mano aveva mancato l'apertura. Il gigante non se n'era accorto. Stava facendo qualcosa che attirava tutta la sua attenzione — ma per quanto avesse sforzato gli occhi e l'immaginazione, Shrick non aveva potuto vedere cos'era. C'erano strane macchine scintillanti attraverso le quali scrutava intento le Piccole Luci al di là della Barriera trasparente... oppure si trovavano all'interno della Barriera? Nessuno era mai stato capace di decidere. C'era qualcosa di vivo, là, che non era vivo e ticchettava. C'erano fogli di pelle bianca e sottile sui quali il gigante faceva dei segni neri con un bastone acuminato. Ma Shrick perse presto interesse a quegli strani riti, che non avrebbe mai potuto sperare di capire. Tutta la sua attenzione si stava concentrando sullo scintillante bottino che stava andando molto lentamente alla deriva verso di lui, spinto da qualche occasionale vortice d'aria. Quando parve che si sarebbe infilato con precisione dentro la porta alla quale Shrick era in attesa, virò. E Shrick, per quanto temesse quelle pseudo-vite che ronzavano e ticchettavano tutt'intorno, balzò fuori. Il gigante, impegnato in una sua qualche stregoneria, non si accorse di lui. Shrick in
un attimo fu accanto al trofeo galleggiante, e se lo strinse al petto. Era più grande di quanto gli era parso, poiché era stato piccolo soltanto in rapporto alle gigantesche dimensioni del precedente proprietario. Ma non era troppo grande da non poter passare attraverso la porta della Barriera. Trionfante, Shrick lo trasportò fino alla sua caverna. Molti furono gli esperimenti che eseguì con maldestro zelo. Per un po', sia lui che Wesel dovettero curarsi qualche dolorosa bruciatura. Ciononostante aveva un'altra lunga lista di nuovi esperimenti da compiere in un prossimo futuro, quando incappò per caso su un impiego di quella fiamma che gli parve di molta importanza per le sue guerre. Imitando i giganti, si era ficcato in bocca una scheggia lunga e stretta del materiale di cui era fatta la Barriera. Ne aveva poi accostato l'estremità alla piccola fiamma. Vi fu, come si era quasi aspettato, una nuvola. Ma per niente fragrante né distensiva. Accecata, e colta da un accesso di tosse, Wesel afferrò il bastoncino ardente e ne soffocò la strana vita fra le mani. Poi... «È duro», constatò. «È duro quasi come il metallo...» E così Shrick era divenuto il primo produttore in serie di armi che il suo mondo avesse mai conosciuto. Preparò lui stesso i primi paletti appuntiti. Gli altri, li lasciò fare a Wesel e al fedele Grosse-Orecchie. Non oso affidare quel nuovo e meraviglioso potere a nessuno che non fosse tra i suoi intimi. L'altra innovazione di Shrick fu una completa violazione di tutte le regole delle guerra. Chiamò anche le femmine a combattere, formando la retroguardia con le più vecchie e inferme, cariche di grossi fasci di quelle nuove lance fabbricate in serie. Il Nuovo Popolo, che già da tempo si stava chiedendo perché mai il loro capo non avesse consentito di uccidere tutti coloro che erano sopravissuti alla loro utilità, ora ebbe la risposta. Le caverne del Nuovo Popolo furono abbandonate, salvo per poche femmine che rimasero coi neonati. E le orde di Shrick si rovesciarono attraverso le gallerie. La guerra contro il Popolo di Tekka fu condotta con sbrigativa brutalità. Le sentinelle che occupavano gli avamposti furono massacrate senza tante cerimonie, ma fecero in tempo ad avvertire la tribù dell'attacco. Tekka andò in avanscoperta con un corpo dei suoi lancieri scelti, fiducioso che, grazie alla sua possibilità di avere accesso a quei punti dell'Interno dov'era possibile procurarsi il metallo, sarebbe stato in grado di sopraffare, grazie alla superiorità del numero e delle armi, quell'orda eterogenea.
Quando Tekka, alla fioca luce, vide quei pochi, rivelatori luccichii di metallo tra le lance ammassate di Shorick, scoppiò a ridere. «Questo Senza-Pelo è pazzo», esclamò. «Ed io l'ucciderò con questa». Brandi la sua arma. «Sua madre me la diede molti, moltissimi nutrimenti or sono». «Wesel è...?» «Forse, figlio mio. Mangerai il suo cuore, te lo prometto». E poi Shrick colpi. La massa urlante dei suoi si precipitò lungo l'ampia galleria. Fiduciosi, i lancieri di Tekka attesero, sapendo che le armi del nemico erano buone soltanto per un colpo, e non sarebbe stato, quasi certamente, un colpo mortale. Tekka corrugò la fronte quando valutò il numero degli attaccanti. Non potevano esserci tanti maschi nel Nuovo Popolo. Non potevano... E poi l'ondata colpi. In un batter d'occhio la galleria divenne un unico groviglio di corpi avvinghiati in una stretta mortale. I combattimenti si scatenarono senza alcun ordine o dignità, come quelli che in passato avevano sempre contrassegnato le guerre del Popolo. E con crescente terrore Tekka si rese conto che le lance del nemico resistevano ai colpi della battaglia, almeno quanto le poche armi dalle punte metalliche. Con lentezza, ma con slancio sempre crescente, gli attaccanti continuarono a premere ed a guadagnare impeto, lasciandosi dietro le spalle mucchi di corpi inerti. Cercando affannosamente di respirare in mezzo agli effluvi di sudore e di sangue appena versato, Tekka e le ultime delle sue guardie si trovarono respinti sempre più indietro. Quando uno del Nuovo Popolo si trovava disarmato, era pronto a retrocedere dietro la prima linea dei suoi. E come per magia, un nuovo combattente armato compariva sempre a sostituirlo... «Usa le femmine!» gridò Trillo. «Shrick fa combattere anche le...». Ma Tekka non rispose. Stava lottando per la sua vita contro un mostro a quattro braccia. Ogni mano di costui reggeva una lancia — e ogni lancia grondava sangue fresco. Per lunghi battiti di cuore Tekka parò i colpi dell'avversario, poi il suo sangue freddo venne meno. Urlando, voltò la schiena al nemico. Fu l'ultima cosa che fece. I resti delle truppe da combattimento della tribù di Tekka si trovarono infine inchiodati contro una parte del loro Luogo-d'Incontro. Intorno a loro, la gente del Nuovo Popolo formava un cerchio compatto. A ringhio ri-
spondeva ringhio. Trillo e la sua scarsa mezza dozzina di guardie sapevano che non ci sarebbe stata resa. Tutto quello che potevano fare era vender la propria vita quanto più cara possibile. E così attesero l'inevitabile, raccogliendo le ultime riserve della loro energia in quell'ultima breve tregua, respirando affannosamente le ultime, dolci boccate d'aria che avrebbero mai più assaporato. Da dietro il muro compatto dei loro assalitori potevano udire le urla delle femmine e dei piccoli che si erano nascosti nelle loro caverne e adesso venivano braccati e massacrati. Non avrebbero mai saputo che il magnanimo Shrick stava risparmiando la maggior parte delle femmine. Shrick sperava infatti che queste producessero, per lui, altri membri del Nuovo Popolo. E poi Shrick si fece avanti, aprendosi la strada fino alla prima linea delle sue forze. Il suo corpo liscio e nudo era illeso, salvo per le sue vecchie cicatrici della lotta contro Zanna-Grossa. E con lui c'era Wesel, non un solo pelo della sua serica pelliccia era fuori posto. E Grosse-Orecchie... ma lui, ovviamente, aveva combattuto. Con loro giunsero altri guerrieri, freschi d'energie e avidi di combattere. «Finiteli!» ordinò Shrick. «Aspettate!» esclamò Wesel, imperiosa. «Voglio Trillo». Lo indicò ai guerrieri scelti che sollevarono le lance — armi sottili e leggere, inadatte al combattimento corpo a corpo. Un barlume di speranza si riaccese nel petto degli ultimi difensori. «Adesso!» Trillo e le sue guardie si prepararono ad affrontare l'ultimo assalto. Ma questo non giunse mai. Invece, scagliate con mira infallibile, quelle lance sottili e affilate volarono a inchiodarli orribilmente contro le pareti grige e spugnose del Luogo-d'Incontro. Risparmiato da quel massacro finale, Trillo si guardò intorno con occhi sgranati, resi folli dal terrore. Cominciò a urlare, poi si scagliò contro Wesel che rideva. Ma Wesel scivolò tra la gente accalcata del Nuovo Popolo e scomparve. Cieco ad ogni altra cosa, fuorché all'odiata figura. Trillo cercò d'inseguirla. E il Nuovo Popolo si affollò intorno a lui, legandogli le braccia e le gambe con robuste corde, strappandogli la lancia dal pugno prima che questa facesse in tempo a dare altro sangue. Poi il prigioniero rivide colei che era stata la sua compagna. Senza vergogna, Wesel stava accarezzando Shrick. «Mio Glabro», gli disse ad alta voce, «un tempo ero accoppiata a costui. Tu avrai la sua pelliccia per coprire il tuo corpo liscio». E poi: «Grosse-
Orecchie! Tu sai cosa devi fare!» Sogghignando, Grosse-Orecchie raccolse la punta affilata d'una lancia, che si era staccata. Sogghignando, si mise al lavoro. Trillo cominciò a uggiolare, poi a urlare. Shrick si sentì un po' male. «Fermo!» esclamò. «Non è morto. Devi prima...». «Che importanza ha?» Gli occhi di Wesel erano avidi, e la sua piccola lingua uscì fuori a leccare le labbra sottili, piegate in un sorriso. GrosseOrecchie aveva esitato un attimo ma poi, a un suo gesto imperioso, riprese il lavoro. «Che importanza ha?» disse di nuovo Wesel. Così come la tribù di Tekka, finì la tribù di Sterret, e una mano o giù di lì di comunità minori che erano in qualche modo vincolate a queste due. Nella guerra contro Sterret, però, Shrick quasi incontrò il disastro. I pochi sopravvissuti al massacro dell'esercito di Tekka si erano rifugiati dall'astuto vecchio. Le guardie di frontiera li avevano ammazzati quasi tutti, quando infine uno o due riuscirono a convincere i loro catturatori di portar notizie di grande importanza. Sterret li ascoltò. Ordinò che i superstiti fossero nutriti e trattati come membri del suo Popolo, poiché si era subito reso conto che avrebbe avuto bisogno anche dell'ultima briciola di forza combattente che avrebbe potuto raccogliere intorno a sé. A lungo e profondamente meditò sulle loro parole, e poi mandò i suoi maschi più giovani a compiere tutta una serie d'incursioni nel Luogo-dellaVita-che-Non-é-Vita. Non si curò della possibilità che i giganti li scoprissero. Forse avrebbero agito contro di lui, forse no, ma si era convinto che, malgrado le loro dimensioni, essi fossero relativamente stupidi e innocui. Certo, in quel frangente, non costituivano una minaccia paragonabile a quella di Shrick, che già si era autonominato Signore dell'Esterno. E così, il suo magazzino di frammenti acuminanti di metallo crebbe, mentre i suoi armaioli lavoravano senza sosta per legarli solidamente ai manici fatti col materiale di cui era formata la Barriera. E anche lui era in grado d'immaginare cose nuove ed efficaci. Alcuni frammenti metallici, ad esempio, erano inutili come punte di lancia, essendo tozzi, smussati e irregolari. Ma, legati anch'essi all'estremità di un'asta, consentivano di sferrare colpi di estrema violenza, in grado di schiantare ossa e maciullare teste. Di ciò Sterret si sentiva sicuro dopo qualche esperimento compiuto su alcuni
membri vecchi e indesiderati della tribù. Cosa forse ancora più importante, la sua mente, ricca d'esperienza, ma non priva, ancora, d'un giovanile vigore, si diede da fare coi problemi strategici. Nella galleria principale, in un tratto che aveva fatto parte del paese di Tekka, le sue femmine tagliarono e strapparono via grossi pezzi dalle pareti spugnose, e il materiale così rimosso fu pressato dentro un'altra galleria più piccola che veniva usata assai di rado. Alla fine, i suoi esploratori portarono la notizia che le forze di Shrick erano in movimento. Incurante, perché convinto del peso schiacciante della sua forza militare, Shrick disdegnava ogni soluzione che non comportasse un attacco frontale. Forse avrebbe dovuto esser messo sul chi vive dal fatto che tutti gli orifizi che avevano fatto trasparire la luce dall'Interno erano stati tappati, e la galleria lungo la quale stava avanzando era immersa nell'oscurità più totale. Tuttavia, ciò l'ostacolava assai poco. Il corpo di lancieri scelti che avanzò per primo a contrastarlo, combatteva in maniera convenzionale: furono inesorabilmente respinti, lasciando dietro di sé morti e feriti. Ognuna delle due parti si affidava, molto più che alla vista, all'odore e all'udito e a una sorta di percezione extrasensoriale posseduta da molti, se non da tutti, i membri del Popolo. E a distanza ravvicinata, ciò era più che sufficiente. Shrick non era fra quelli dell'avanguardia — quell'onore era stato riservato a Grosse-Orecchie, il suo generale sul campo. Se fosse toccato a lui decidere, si sarebbe trovato in prima linea, ma Wesel asseriva che il capo era molto più importante di un semplice lanciere, e doveva venir protetto da inutili rischi. Shrick era stato più che disposto a lasciarsi convincere. Circondato dalla sua guardia, con Wesel al fianco, il capo seguiva a distanza le fasi della fragorosa battaglia. Fu piuttosto sorpreso, quando gli fu riferito il numero apparente dei nemici, ma suppose che quella fosse soltanto un'azione per guadagnar tempo e che Sterret avrebbe opposto la sua ultima resistenza nel Luogo-d'Incontro. Nella sua arroganza, non gli venne mai in mente che anche altri, come lui, potessero portare innovazioni alla guerra. D'un tratto, Wesel gli strinse il braccio. «Shrick! Pericolo... dal fianco!» «Dal fianco? Ma...». Vi fu uno strillo acuto, e un'enorme sezione della galleria crollò verso l'interno. Quel materiale spugnoso era in fogli sottili, e galleggiò in mezzo
alle guardie, ostacolandone i movimenti. Poi, guidati da Sterret in persona, i difensori sciamarono fuori. Come montanari, erano legati insieme da corde, poiché in quel combattimento al buio la loro migliore speranza era quella di mantenere uno schieramento ordinato e compatto. Separati, sarebbero facilmente caduti preda del numero straripante dell'orda di Shrick. Con lance e mazze colpivano tutt'intorno a sé, gagliardamente. Già al primo battito di cuore quello scontro avrebbe visto la morte di Shrick, e fu soltanto la pelliccia non lavorata di Trillo, rigida e puzzolente di sangue rappreso, che gli salvò la vita. Ma anche così, la lama di Sterret penetrò in quella rozza armatura e, ferito in modo assai doloroso, Shrick si ritirò vacillando dalla battaglia. In testa allo schieramento, Grosse-Orecchie vedeva le cose prendere una piega del tutto diversa da quella da lui desiderata. I rinforzi di Sterret si erano ormai riversati in tutta la galleria, e lui non osò tornare indietro a dar man forte al suo capo. E le mazze di Sterret stavano avendo il loro effetto. Sfregi, graffi e lacerazioni, quelli il Popolo riusciva a capirli... ma un colpo schiantante era qualcosa di nuovo e orribile. Fu Wesel a salvare quella giornata campale. Aveva portato con sé il congegno che creava la piccola fiamma. Era stata sua intenzione provarne gli effetti su quei pochi prigionieri che si sarebbero fatti in quella guerra... era troppo astuta per sperimentare su qualcuno del Nuovo Popolo, gente, ad esempio, che avesse provocato lo scontento suo o del suo compagno. Quasi senza sapere ciò che stava facendo, premette la levetta. Con abbacinante repentinità, la scena della carneficina comparve vividamente illuminata agli occhi di tutti. Da ogni parte si levarono grida di paura. «Indietro!» gridò Wesel. «Indietro! Liberate lo spazio!» La gente del Nuovo Popolo si ritirò prontamente. Sbattendo gli occhi, abbagliati, i soldati di Sterret tentarono di seguirli, sforzandosi di trasformare quella che era più o meno una ritirata in bell'ordine in una rotta catastrofica. Ma le corde, che fino a poco prima erano egregiamente servite, ora si rivelarono un motivo di disfatta. Alcuni cercarono d'inseguire i nemici diretti al Luogo-d'Incontro, altri la gente del Nuovo Popolo che si stava ritirando verso il proprio territorio. Ringhiando ferocemente, il sangue che gli scorreva fuori da una dozzina di ferite superficiali, Sterret riuscì infine a recuperare il controllo delle sue forze e a spronarle, restituendo loro una parvenza di ordine. Cercò di guidare una carica proprio là dove Wesel, col congegno della piccola fiamma
ancora in funzione, stava retrocedendo, circondata dalle amazzoni che erano la sua guardia personale. Ma ancora una volta le corde — quelle corde troppo efficienti — frustrarono il suo scopo. Non pochi, infatti, erano i cadaveri rimasti appesi alle corde, che ostacolavano qualunque rapida manovra, e quasi nessuno dei suoi combattenti ebbe l'intelligenza di liberarsi dall'impaccio tagliando la corda che lo legava agli altri. Così, i lancieri di Shrick, portatisi in prima fila, ebbero facile gioco nell'inchiodare uno ad uno i soldati di Sterret alle pareti della gallerìa, trafiggendoli con le sottili, micidiali aste. Non tutti rimasero uccisi sul colpo, qualcuno, più sfortunato, si divincolò a lungo, uggiolando, cercando di strappar via dalle carni martoriate le lance, ma senza riuscirci. Fra questi c'era lo stesso Sterret. Shrick avanzò, con la lancia in mano, per dargli il colpo di grazia. Il vecchio capo lo fissò con gli occhi fuori della testa, poi: «Il glabro di Weena!» gridò. Per colmo d'ironia fu la sua stessa lancia, quella che, a turno, era appartenuta a Weena e a Tekka, a tagliargli la gola. Adesso che era Signore dell'Esterno, Shrick aveva tutto il tempo per riflettere e sognare. Sempre di più la sua mene andava alla profezia di TreOcchi. Non dubitò mai, neppure per un attimo, d'esser lui l'Uccisore-diGiganti, anche se scartava dalla sua mente la visione della Fine, giudicandola l'allucinazione d'una femmina mezzo impazzita. Così, mandò le sue spie all'Interno, a osservare i giganti nei loro misteriosi andirivieni, facendo ogni sforzo per scoprire un qualche schema nel loro incomprensibile comportamento. Molto spesso lui stesso accompagnava queste spie — e cupidamente osservò la grande ricchezza di cose belle e risplendenti di cui disponevano i giganti. Più d'ogni altra cosa, bramava un'altra di quelle piccole fiammelle calde, poiché la sua aveva cessato di funzionare, e tutti i goffi e ignoranti armeggii suoi e di Wesel non erano riusciti a produrre più di qualche fioca scintilla quasi del tutto priva di calore. Ora, sembrava che anche i giganti fossero consci del brulicare di vita che li circondava. Le trappole erano chiaramente cresciute di numero e ingegnosità. E il cibo-che-uccide era comparso in una nuova e terrificante guisa. Non soltanto morivano quelli che ne avevano mangiato, ma anche i loro compagni e... si, tutti quelli che erano venuti a contatto con loro. Tutto
ciò sapeva di stregoneria, ma Shrick aveva ormai imparato ad associare cause ed effetti. Fece in modo che i colpiti trasportassero quelli già morti in una piccola galleria. Uno o due cercarono di ribellarsi — ma i lancieri subito li circondarono, e li convinsero a obbedire puntando le loro leggere e micidiali lance. Quelli che tentavano di scavalcare il cordone di guardie venivano trafitti più volte, impedendo così che potessero toccare con le loro mani impure e contaminare qualcun altro del Popolo non colpito dal male. Grosse-Orecchie si trovò tra i sofferenti. Non fece nessun tentativo di ribellarsi al suo destino. Prima di entrare nella galleria che sarebbe stata la sua tomba, si voltò e guardò il suo capo. Shrick fece per richiamarlo al suo fianco — anche se ben sapeva che la vita del suo amico non poteva esser salvata e che, accettando che gli si avvicinasse troppo, avrebbe seguito il suo stesso destino... Ma Wesel vigilava al suo fianco. Fece un cenno ai lancieri scelti, e due intere mani di dardi trafissero l'afflitto Grosse-Orecchie. «È stato meno crudele in questo modo», mentì Wesel. Ma, in qualche modo, l'ultima occhiata del suo più fedele sostenitore aveva ricordato a Shrick la sua antica compagna, Senza-Coda. Pieno di malinconia, ordinò al suo Popolo di chiudere ermeticamente quella galleria. Furono portate grandi strisce di materiale spugnoso, che furono pressate dentro l'imboccatura finché la riempirono del tutto. Le grida di quelli ancora vivi, là dentro, si fecero sempre più fioche. Poi seguì il silenzio. Shrick ordinò che si ponessero guardie in tutti quei punti dove si potesse temere che i prigionieri condannati riuscissero ad aprirsi una via di fuga. Shrick fece ritorno alla propria caverna. Wesel, che gli leggeva dentro, lo lasciò andare: non si preoccupò, come avrebbe fatto un'altra femmina priva del suo dono. Sapeva che presto Shrick l'avrebbe voluta di nuovo. Wesel da tempo era convinta che, se ne avesse avuto l'occasione, sarebbe riuscita a penetrare nella mente dei giganti proprio come poteva fare con quelli del Popolo. E se avesse potuto farlo... chi mai poteva anche soltanto immaginare quali e quanti benefici ne avrebbe ricavato? Sentiva, più di quanto volesse ammetterlo, la mancanza di Shrick, ancora inavvicinabile e immerso in un profondo dolore per la morte del suo amico. L'ultimo dei prigionieri catturato nell'ultima guerra era stato ucciso, in modo assai ingegnoso, ormai da molti nutrimenti. Malgrado Wesel non
avesse alcun modo di misurare il passaggio del tempo, questo cominciava a gravarle addosso. Così, accompagnata da due delle sue guardie personali, vagava per quelle gallerie che correvano subito all'interno della Barriera. Sbirciò da uno spioncino dopo l'altro, contemplando con una meraviglia che nessuna consuetudine avrebbe potuto smorzare la ricca e varia vita che si svolgeva nell'Interno. Alla fine, trovò quello che stava cercando: un gigante solo e addormentato. La sua lunga esperienza con la gente del Popolo le aveva insegnato che era più facile leggere i pensieri più riposti in una mente addormentata. Per un battito di cuore, esitò. Poi: «Quattro-Braccia, Testa-Piccola, aspettatemi qui. State ferme e osservate». Testa-Piccola assentì con un grugnito, ma Quattro-Braccia si mostrò dubbiosa. «Signora Wesel», osò obbiettare, «e se il gigante dovesse svegliarsi? Cosa mai...?» «Cosa mai succederebbe se tu dovessi tornare dal Signore dell'Esterno senza di me? Allora lui, senza alcun dubbio, ti toglierebbe la pelliccia. Quella che ha adesso è vecchia, e il pelo comincia a cadere. Fai come ti dico, dunque». In questo punto della Barriera c'era una porta che veniva usata raramente. Era, però, aperta, e Wesel vi s'infilò. Con la facilità che tutta la gente del Popolo stava acquisendo, grazie alle loro sempre più frequenti missioni nell'Interno, Wesel si spinse galleggiando verso l'alto, verso il gigante addormentato. C'erano dai legacci che lo tenevano stretto a una sorta di telaio, e Wesel si chiese se non fosse stato imprigionato, per qualche colpa specifica, da quelli della sua stessa razza. Presto l'avrebbe saputo. E poi, un oggetto luccicante attirò il suo sguardo. Era una delle piccole fiamme calde, la custodia lucida apparve agli occhi bramosi di Wesel come la cosa più bella del mondo. Subito prese la sua decisione. Avrebbe potuto impadronirsi subito di quell'affascinante oggetto, consegnarlo alle sue due guardie, e poi tornar qui a compiere quello che era stato il suo obbiettivo originario. Ma, nella sua frenesia, non si avvide che l'oggetto era sospeso in mezzo a sottili fili metallici intrecciati fra loro... o anche se lo vide, non gliene importò. E quando le sue mani afferrarono l'esca, qualcosa, non molto lontano, cominciò a produrre un suono acuto, una pulsazione metallica che aveva un che di musicale. Il gigante si mosse... e si svegliò. Quelli che Wesel aveva preso per legacci caddero dal suo corpo, lasciandolo imme-
diatamente libero. Colta da un panico cieco, si voltò per fuggire nel suo mondo. Ma, in qualche modo, altri fili metallici erano caduti giù, e lei era prigioniera. Cominciò a gridare. Cosa stupefacente, Quattro-Braccia e Testa-Piccola accorsero in suo aiuto. Sarebbe stato bello e glorificante poter mettere agli atti l'affermazione che erano state spinte dalla grande devozione verso la loro padrona... ma in realtà Quattro-Braccia aveva subito capito che la sua stessa vita era perduta. E aveva visto troppi, di quelli che avevano scontentato Shrick o Wesel, venir scuoiati vivi. Testa-Piccola seguì ciecamente la sua compagna. Non stava a lei chiedersi le ragioni... Vibrando selvaggiamente le loro lance, assalirono il gigante. Lui scoppiò a ridere — o almeno, Wesel interpretò come una risata il rombo profondo che uscì dalla sua gola. Agguantò per prima Quattro-Braccia. Con una mano le strinse il corpo, con l'altra la testa. E la torse. E quella fu la fine di Quattro-Braccia. Chiunque altro che non fosse stato Testa-Piccola, avrebbe girato su se stesso e sarebbe fuggito. Ma la mente ottusa di Testa-Piccola si rifiutò di registrare ciò che aveva appena visto. Forse, un'intera nutrizione o giù di lì dopo l'accaduto, l'orrore di quanto aveva visto sarebbe riuscito a farsi strada in lei, stordendola... o forse no. In ogni caso, continuò l'attacco. Alla cieca, per puro istinto, si scagliò contro la gola del gigante. Wesel ora percepì che il gigante era impaurito. Ma dopo una breve lotta, una delle sue mani riuscì ad agguantare la squittente e frenetica Testa-Piccola. La scagliò lontana da sé con violenza. Wesel sentì il colpo, quando il corpo della sua guardia colpi qualcosa di duro e resistente. E le vaghe impressioni che aveva continuato a ricevere dalla sua mente cessarono di colpo. Malgrado il timor panico che si era impadronito di lei, Wesel notò che il gigante non era uscito dal combattimento del tutto illeso, poiché una delle sue mani era stata graffiata e sanguinava abbondantemente. E c'erano profondi graffi in quella faccia nuda e ripugnante. Dunque... i giganti erano vulnerabili! Poteva esserci stata, dopotutto, qualche briciola di verità in tutte quel delirante farfugliare di Tre-Occhi. E poi Wesel dimenticò la sua inutile lotta contro i fili metallici che la ingabbiavano. Con orrore misto a nausea osservò ciò che il gigante stava facendo. Aveva preso il corpo floscio di Quattro-Braccia e l'aveva fissato a una superficie piatta. Da qualche parte aveva tirato fuori un intero spiega-
mento di strumenti luccicanti. Ne afferrò uno e lo passò lungo il corpo di Quattro-Braccia dalla gola all'inguine. Su entrambi i lati della lama affilata la pelle cadde giù, lasciando esposta la carne. E la cosa peggiore era che tutto ciò non veniva fatto con odio o rabbia, né l'infelice Quattro-Braccia veniva fatta a pezzi per essere mangiata. C'era un che d'impersonale in tutta quella sanguinaria faccenda che faceva star male Wesel — poiché a quel punto, era riuscita a conquistare un sia pur limitato accesso alla mente del gigante. Questi fece una pausa nel suo lavoro. Era infatti arrivato un altro della sua razza, e per molti battiti di cuore i due parlarono insieme. Esaminarono la carcassa mutilata di Quattro-Braccia, il corpo schiacciato di TestaPiccola. E, insieme, fissarono Wesel che ringhiava impotente dentro la robusta gabbia. Ma, nonostante la sua paura isterica, una parte della mente di Wesel restava fredda e stava ricevendo e immagazzinando gran copia d'impressioni, che però gettarono la parte animalesca di lei in un panico ancora più grande. Mentre i due giganti parlavano, le impressioni erano chiare — con le loro due grandi e goffe teste sospese sopra la sua gabbia, a pochi palmi di distanza, quasi la sopraffacevano con la loro intensità. Wesel seppe chi erano lei e il Popolo, cos'era il loro mondo. Non avrebbe avuto la capacità di esprimerlo in parole... ma lo seppe. E vide la condanna che i giganti stavano preparando per il Popolo. Con poche parole di congedo dal suo compagno il secondo gigante se ne andò. Il primo riprese il suo lavoro di smembramento di Quattro-Braccia. Finalmente, ebbe terminato. Ciò che rimaneva del corpo fu posto in contenitori trasparenti. Il gigante raccolse poi Testa-Piccola. L'esaminò per molti battiti di cuore, girandola e rigirandola fra le grosse dita, Wesel pensò che avrebbe fissato anche quel corpo alla superficie piatta, per ripetergli le stesse cose che aveva fatto col corpo di Quattro-Braccia. Ma alla fine mise quel corpo da parte. Si tirò sopra le mani quella che sembrava una pelle supplementare. D'improvviso, i fili metallici a un'estremità della prigione furono tirate via e una di quelle immense mani calò giù per agguantare Wesel. Dopo la morte di Grosse-Orecchie, Shrick dormì un po'. Era l'unico modo in cui poteva trovar sollievo da quella sensazione di perdita... dall'impressione pungente di aver tradito il suo più fedele seguace. Ma i suoi so-
gni furono tormentosi, infestati dai fantasmi del suo passato. In essi comparivano Grosse-Orecchie, e Zanna-Grossa, e una femmina ancora più straniera con la quale però sentiva di possedere un sentimento di stretta unione. Sapeva che era Weena, sua madre. E poi, tutti questi fantasmi si dileguarono, lasciando soltanto l'immagine di Wesel. Ma non era la Wesel che lui aveva sempre conosciuto, fredda, sicura di sé, ambiziosa. Questa era una Wesel terrorizzata... una Wesel che calava dentro un nero abisso di dolore e di tortura perfino di quelli che lei aveva tanto spesso elargito agli altri. E sentì che lei l'invocava, con estrema urgenza. Shrick si svegliò, spaventato dai suoi sogni. Ma sapeva che i fantasmi non avevano mai fatto male a nessuno, e men che meno potevano far del male a lui, Signore dell'Esterno. Si scosse, uggiolando un poco, poi cercò di rimettersi comodo per dormire ancora un po'. Ma l'immagine di Wesel persisteva. Alla fine, Shrick dovette abbandonare i suoi tentativi di reimmergersi nell'oblio. E, sfregandosi gli occhi, emerse dalla sua caverna. Alla fioca luce del Luogo-d'Incontro, a piccoli gruppi il suo Popolo si stava aggirando, parlando a bassa voce. Shrick chiamò le guardie. Vi fu un improvviso silenzio. Chiamò di nuovo. Alla fine una guardia rispose. «Dov'è Wesel?» «Non lo so... signore». L'ultima parola uscì fuori con riluttanza. Poi, un'altra guardia gli diede spontaneamente l'informazione che Wesel era stata vista in compagnia di Quattro-Braccia e Testa-Piccola, mentre si inoltrava nelle gallerie che conducevano in quella parte dell'Esterno che si trovava sulla strada del Luogo-delle-Cose-Verdi-che-Crescono. Shrick esitò. Di rado si avventurava fuori senza la sua guardia personale, e GrosseOrecchie era sempre stato uno di loro. Ma Grosse-Orecchie non c'era più. Si guardò intorno. E decise che non poteva fidarsi di nessuno fra quanti, in quel momento, si trovavano nel Luogo-d'Incontro. Il Popolo era rimasto orrificato e sconvolto dalle dure azioni indispensabili che lui aveva dovuto intraprendere nei confronti di quelli che avevano mangiato il cibo-cheuccide, e Shrick sapeva che, adesso, lo giudicavano un mostro ancora peggiore dei giganti. La loro memoria era corta... ma fino a quando non se ne fossero dimenticati, avrebbe dovuto agire con estrema cautela. «Wesel è la mia compagna. Andrò da solo», dichiarò. Alle sue parole, avverti un cambiamento di umore, e fu tentato di chie-
dere una scorta. Ma l'istinto — come pure una sua certa superiorità mentale — che gli avevano consentito di conservare la sua autorità, lo ammonirono di non buttar via il suo vantaggio. «Andrò da solo», ripeté. Coda-Corta, più ardito dei suoi compagni, parlò. «E se non tornerai, Signore dell'Eterno? Chi dovrà prendere il...?» «Tornerò», ribatté Shrick, troncando corto, esibendo nella sua voce fiducia che non provava. Se nelle gallerie più popolate l'odore che distingueva Wesel era coperto da quello di molti altri, nelle gallerie frequentate raramente era forte e insistente... anche se adesso Shrick non aveva bisogno di usare i propri poteri olfattivi, poiché nel suo cervello quella piccola voce terrorizzata continuava a fargli urgenza: presto, presto... FAI PRESTO! gridava. Qualche potere al difuori della sua comprensione lo stava guidando in modo infallibile là dove la sua compagna aveva un disperato bisogno di lui. Dalla porta della Barriera attraverso la quale Wesel era entrata nell'Interno — era stata lasciata aperta — penetrava un fiotto di luce intensa. E qui, la naturale prudenza di Shrick riprese il sopravvento. La voce dentro il suo cervello era, se possibile, ancora più urgente, ma l'instinto di conservazione era altrettanto forte. Quasi con timore Shrick sbirciò fuori della porta. Sentì l'odore della morte. Sulle prime, temette che fosse troppo tardi, poi identificò gli odori personali di Quattro-Braccia e Testa-Piccola. C'era anche quella di Wesel — frammisto all'acre sentore del terrore e dell'agonia. Ma Wesel era ancora viva. Dimentico di ogni prudenza, Shrick si lanciò fuori della porta con tutta la forza dei muscoli delle sue gambe. E trovò Wesel, distesa supina su una superficie piatta, scivolosa per il sangue. La maggior parte di questo sangue apparteneva a Quattro-Braccia, ma una parte era suo. «Shrick!» urlò Wesel. «Il gigante!» Shrick distolse lo sguardo dalla sua compagna e vide sospesa sopra di lui la faccia immensa e pallida del gigante. Urlò, ma in quell'urlo c'erano più furore e rabbia che terrore. Vide, non lontana dal punto in cui si teneva aggrappato a Wesel, una enorme lama di metallo scintillante. Si accorse subito che l'orlo era affilato. Il manico era stato forgiato per una mano molto più grande delle sue, tuttavia riuscì ad afferrarlo, sia pure a stento. Pareva che la lama fosse fissata a qualcosa. Puntando i piedi contro il corpo di Wesel, come unico appiglio
possibile, diede un disperato strappo. Proprio mentre la mano del gigante, le grosse dita tese, stava calando giù per ghermirlo, la lama si sbloccò. Quando le gambe di Shrick, all'improvviso, si drizzarono, fu proiettato lontano da Wesel. Il gigante cercò di afferare quella forma volante, e ululò di angoscia quando Shrick calò un fendente con la lama e gli troncò un dito. Sentì la voce di Wesel che gli diceva: «Tu sei l'Uccisore-di-Giganti!» Adesso si trovava all'altezza della testa del gigante. Si girò di scatto e riuscì a infilare i piedi dentro una piega della pelle artificiale che copriva quel corpo gigantesco. E rimase sospeso lassù, roteando la sua arma con entrambe le mani, tagliando e squarciando. Le grandi mani del gigante roteavano impazzite, e lui si trovò coperto di botte e di lividi. Ma non una sola volta quelle mani riuscirono a trovare una presa. Poi vi fu un grande, orrendo zampillo di sangue, e uno sferzare impazzito di arti poderosi. Infine, anche questo movimento cessò, ma fu soltanto la voce di Wesel che lo richiamò alla realtà dalla sua furente bramosia di strage. Così, l'aveva ritrovata, ancora distesa per essere sacrificata alle oscure divinità dei giganti, ancora legata a quella superficie bagnata dal suo sangue e da quello della sua guardia. Ma lei gli sorrise, e nei suoi occhi c'era un rispetto che sconfinava nella reverenza. «Sei ferita?» le chiese, con una acuta punta ansiosa nella sua voce. «Soltanto un po'. Ma Quattro-Braccia è stata tagliata a pezzi... e anche io lo sarei stata, se tu non fossi arrivato. E...» la sua voce suonò come un inno, «... hai ucciso il gigante!» «Era stato predetto. Inoltre», per una volta fu onesto, «non sarebbe stato possibile, senza l'arma del gigante». Con la sua lama tagliò i legami di Wesel. Lentamente, la sua compagna ondeggiò via dal luogo del sacrificio. Poi: «Non posso muovere le gambe!» La sua voce suonò terrorizzata. «Non posso muoverle!» Shrick indovinò cosa non funzionava. Sapeva qualcosa di anatomia — la sua era la conoscenza del guerriero che poteva trovarsi costretto ad immobilizzare il nemico prima di ucciderlo — e si accorse subito in qual modo la lama affilata del gigante aveva fatto il suo danno. Il furore ribollì in lui contro quegli esseri mostruosi e crudeli. E c'era qualcosa di più del furore. C'era la sensazione, rara fra la sua gente, d'una profonda pietà per la sua compagna storpiata. «La lama... è molto affilata... Non sentirò niente», lei lo sollecitò.
Ma Shrick non riuscì a costringersi a farlo. Adesso stavano galleggiando verso l'alto, sfiorando l'enorme massa del gigante morto. Con una mano Shrick afferrò la spalla di Wesel — l'altra stringeva ancora quell'arma bella e nuova — e si allontanò dalla colossale carcassa con un calcio. Poi, spinse Wesel attraverso la porta della Barriera, e provò un profondo sollievo quando si ritrovò ancora una volta nel territorio familiare. La segui, poi, per prudenza, chiuse la porta dietro di sé e la sbarrò. Per qualche battito di cuore Wesel si diede da fare a rassettarsi la pelliccia tutta in disordine. Shrick non poté fare a meno di notare che Wesel stava bene attenta a non far scivolare le sue mani verso la parte bassa del corpo, dove si aprivano le ferite, piccole ma micidiali, che le avevano tolto ogni forza alle gambe. Aveva la vaga impressione che si potesse far qualcosa per qualcuno ferito in quel modo, ma sapeva anche che ciò era al di là dei suoi poteri. E il furore verso i giganti — non più, ora, un furore impotente — ritornò, minacciando di soffocarlo con la sua intensità. «Shrick!» La voce di Wesel lo richiamò alla realtà. «Dobbiamo tornare subito dal Popolo. I giganti stanno preparando una magia per provocare la Fine». «La grande luce rovente?» «No. Ma aspetta! Prima devo dirti tutto ciò che ho appreso. Altrimenti non mi crederesti. Ho appreso cosa siamo, cos'è il mondo. Ed è strano, e meraviglioso, e incredibile, per noi. «Cos'è l'Esterno?» Non attese la sua risposta, la lesse nella sua mente prima che la bocca potesse formare le parole: «Il mondo è soltanto una bolla di vuoto dentro un immenso pezzo di metallo, più grande di quanto la mente possa immaginare. Ma non basta! Al di là del metallo che si trova fuori dell'Esterno, non c'è niente. Niente! Non c'è aria». «Ma almeno l'aria deve esserci...» «No, ti dico. Non c'è niente». «E il mondo... come posso trovare le parole? Il loro nome per il mondo è: nave. E questo sembra significare qualcosa di grande che va da un luogo all'altro. E tutti noi, giganti e Popolo, siamo dentro la nave. Sono stati i giganti a costruire la nave». «Allora, non è viva?» «Non posso dirlo. Loro sembrano pensare che sia femmina. Deve avere qualche tipo di vita che non è vita. E va da un mondo all'altro». «E questi altri mondi?»
«Li ho intravisti. Sono orrendi... orrendi, ti dico! Noi troviamo paurosi gli spazi aperti dell'Interno... ma questi altri mondi sono tutti spazi aperti, salvo per un lato». «Ma noi... cosa siamo?» Suo malgrado, Shrick si scoprì a credere a una buona metà di ciò che Wesel gli stava dicendo. Forse lei possedeva, in un certo grado, la facoltà di proiettare le proprie convinzioni nella mente di un altro col quale fosse in particolare intimità. «Noi, cosa siamo?» Lei restò silenziosa per numerosi battiti di cuore. Poi: «Il nome che loro ci danno è Mutanti. L'immagine non era affatto... chiara. Significa che noi — il Popolo — siamo cambiati. Eppure la loro immagine del Popolo, prima del cambiamento, era identica ai Diversi, prima che noi li trucidassimo tutti. «Molto, moltissimo tempo fa — molte mani di nutrimenti — il primo Popolo, i padri dei nostri padri, arrivarono nel mondo. Arrivarono qui da un mondo più grande... uno di quei mondi dagli orribili spazi aperti. Arrivarono col cibo dentro la grande Caverna-del-Cibo e quel cibo viene trasportato su un altro mondo. «Ora, nello spazio orrendo e vuoto al di fuori dell'Esterno c'è... una luce che non è luce. E questa luce... cambia le persone. No; non le persone ormai cresciute o i piccoli già nati, bensì i piccoli prima della nascita. Come i capi ormai morti e dimenticati del Popolo, i giganti temono questi cambiamenti in se stessi. Così, hanno fatto in modo di tener fuori dall'Interno quella luce che non è luce. «Ed ecco come hanno fatto. Tra la Barriera e il vuoto, là fuori, hanno riempito lo spazio con quella materia spugnosa dentro la quale abbiamo scavato le nostre caverne e le gallerie. Il primo Popolo lasciò la grande Caverna-del-Cibo. Fecero dei buchi sulla Barriera, le porte, e poi scavarono lunghe gallerie dentro alla materia spugnosa. Scavare, era la loro natura. E alcuni di loro si accoppiarono nelle caverne più vicine al vuoto che si stende oltre il metallo. I loro figli furono... diversi». «Questo è vero», annuì, pensoso, Shrick. «Si è sempre saputo che mentre i piccoli nati vicino alla Barriera erano sempre uguali ai loro genitori, quelli nati nel Lontano Esterno non lo erano mai...» «Sì. E i giganti hanno sempre saputo che il Popolo si trovava qui dentro, ma non lo temevano. Non conoscevano il nostro numero, e ci consideravano assai inferiori rispetto a loro. Si accontentavano di tener basso il nostro numero con le loro trappole e il cibo-che-uccide. In qualche modo, hanno scoperto che eravamo cambiati. Allora, come i defunti capi del Popolo, an-
ch'essi hanno cominciato a temerci... e allo stesso modo tenteranno di ucciderci tutti prima che noi sterminiamo loro». «È la Fine?» «Sì, la Fine». Tacque per qualche istante, i suoi grandi occhi guardavano al di là di Shrick, verso qualcosa d'infinitamente orribile. «Sì», ripeté. «La Fine. Loro la creeranno, e loro riusciranno a evitarla. Perché loro indosseranno una pelle artificiale che coprirà tutto il loro corpo, perfino la loro testa. Poi, loro apriranno delle porte gigantesche nella... pelle della nave, e tutta l'aria uscirà fuori in quello spazio vuoto e terribile all'esterno dell'Esterno. E tutto il Popolo morirà. «Devo andare», disse Shrick. «Devo uccidere i giganti prima che ciò avvenga». «No! C'era in tutto una mano di giganti... adesso che hai ucciso PanciaGrossa ne rimangono sempre quattro. E poiché ora sanno che possono venir uccisi, saranno pronti a riceverti. «Ricordi quando abbiamo seppellito quella parte del Popolo che aveva la malattia dentro la galleria? È questo che dobbiamo fare con tutto il Popolo. E quando i giganti riempiranno di nuovo il mondo con l'aria che hanno di riserva in qualche magazzino, potremo tornar fuori». Shrick restò silenzioso per un po'. Fu costretto ad ammettere che lei aveva ragione. Un gigante impreparato era caduto sotto la sua lama — ma quattro giganti, all'erta, rabbiosi e guardinghi, lui non poteva affrontarli. In ogni caso, non c'era modo di sapere quando i giganti avrebbero fatto uscir fuori tutta l'aria dal mondo. Il Popolo andava avvertito — e in fretta. Shrick e Wesel, fianco a fianco, fronteggiavano il Popolo nel Luogod'Incontro. Avevano raccontato la loro storia, ma avevano incontrato una totale incredulità. Era vero che qualcuno, contemplando la grande e magnifica lama scintillante che Shrick aveva portato con sé dall'Interno era incline a crederlo, ma la maggioranza fu pronta ad azzittire chi la pensava così. E quando Shrick cercò di convincerli a seppellirsi dentro a qualche galleria, per scampare alla Fine, incontrò la più fiera opposizione. Il fatto che avesse trattato proprio in quel modo gli infettati dalla malattia faceva sì che la gente trovasse particolarmente repulsiva quell'idea. Fu Coda-Corta a far precipitare la situazione. «Vuole il mondo tutto per sé!» urlò. «Ha ucciso Zanna-Grossa e SenzaCoda, ha ucciso tutti i Diversi, e ha trucidato Grosse-Orecchie perché era forte e minacciava la sua posizione di capo. Lui e quella sua brutta compa-
gna sterile vogliono il mondo tutto per loro!» Shrick tentò di ribattere, ma i seguaci di Grosse-Orecchie lo subissarono di grida. Shrick squittì di rabbia e sollevando con entrambe le mani la lama si precipitò sul ribelle. Coda-Corta scappò via, fuori della sua portata. Shrick si trovò solo, in uno spazio improvvisamente sgombro. Da qualche parte, molto lontano, udì Wesel gridare il suo nome. Stordito, scosse il capo; la nebbia rossa si schiari davanti ai suoi occhi. Tutt'intorno a lui c'erano i lancieri, pronti a scagliargli addosso le loro armi sottili e micidiali. Lui stesso li aveva addestrati a non mancare il colpo. Era stato lui a creare la loro efficace tattica di guerra. E adesso... «Shrick!» gli stava dicendo Wesel. «Non combattere! Ti uccideranno, e io rimarrò sola. E cosa m'importerà, allora, avere il mondo tutto per me? Lascia che facciano ciò che vogliono di noi, e noi sopravviveremo alla Fine». Alle sue spalle, qualcuno rise scioccamente tra la folla. «Loro sopravviveranno alla Fine! Moriranno, così come sono morti Grosse-Orecchie e i suoi amici!» «Voglio la tua lama», ripeté Coda-Corta. «Dagliela», gridò Wesel. «La riavrai dopo la Fine!» Shrick esitò. L'altro fece un segno. Una delle lance affondò nella parte carnosa del suo braccio. Se non fosse stato per la voce di Wesel che continuava a implorarlo, si sarebbe scagliato contro i suoi tormentatori e avrebbe incontrato la sua fine in meno d'un battito di cuore. Con riluttanza lasciò la presa sull'arma. Lentamente — come riluttante a lasciare il suo vero padrone — la lama si allontanò galleggiando da lui. E poi il Popolo gli si accalcò tutt'intorno, quasi schiacciandolo con la pressione di tanti corpi. La caverna dentro la quale Shrick e Wesel furono costretti a entrare era la loro stessa abitazione. Erano in uno stato pietoso quando la plebaglia si ritirò all'ingresso — le ferite di Wesel si erano riaperte e il braccio di Shrick sanguinava copioso. Qualcuno gli aveva strappato brutalmente dalla carne la lancia, e la punta si era staccata dall'asta. Là fuori, Coda-Corta stava sferrando colpi tutt'intorno con la lama affilata che aveva preso al suo capo. Sotto i suoi colpi, grandi fette del materiale spugnoso dell'Esterno si staccavano e molte mani volonterose le afferravano, costipandole all'ingresso della caverna. «Vi lasceremo uscir fuori dopo la Fine!» gridò qualcuno. Vi fu un generale uggiolio di derisione. Poi: «Mi chiedo chi sarà il primo dei due a man-
giare l'altro!» «Non badarci», disse con voce sommessa Wesel a Shrick. «Rideremo noi per ultimi». «Forse. Ma... il Popolo. Il mio Popolo. E tu sei sterile. I giganti hanno vinto...» Wesel restò silenziosa. Poi Shrick udì di nuovo la sua voce, piagnucolante nel buio. Intuì i suoi pensieri: tutti i suoi sogni grandiosi di dominio del mondo l'avevano portato a questo... un minuscolo spazio, così angusto che a stento potevano muovere un dito. Non riuscì più a sentire le voci del Popolo, fuori della loro prigione. Si chiese se i giganti avevano già colpito. Più si rassicurò al ricordo di come le voci di quelli colpiti dalla malattia si fossero sempre più affievolite, per poi cessare del tutto. E si chiese come lui e Wesel avrebbero potuto sapere che la Fine era venuta, che il pericolo era passato e, senza rischio, avrebbero potuto scavare per uscir fuori. Sarebbe stata un'impresa lenta, e lunga, avendo a disposizione soltanto i denti e gli artigli per scavare. Ma lui aveva un utensile. Le dita della mano del suo braccio sano andarono alla punta della lancia ancora conficcata nell'altro. Sapeva che il modo di gran lunga migliore per estrarla sarebbe stato un rapido strappo — ma non riuscì a indursi a farlo. Lentamente, e soffrendo, si mise al lavoro sul tagliente frammento di metallo. «Lascia che faccia io». «No». La sua voce suonò brusca. «Inoltre, non c'è fretta». Affrontò, paziente, la ferita... Gemeva un po', anche se non si accorgeva di farlo. E poi, tutt'a un tratto, Wesel cominciò a urlare. Fu così inaspettato e orrendo in quello spazio ristretto, che Shrick ebbe un sobbalzo. La sua mano si allontanò di scatto dal braccio, strappando via, con sé, la punta della lancia. Il suo primo pensiero fu che Wesel, con le sue facoltà telepatiche, avesse scelto quel modo per aiutarlo. Ma non provò nessuna gratitudine, solo un ottuso risentimento. «Perche l'hai fatto?» chiese con rabbia. Lei non rispose alla sua domanda, dimentica della sua presenza. «Il Popolo...» bisbigliò. «Il Popolo... Riesco a sentire i loro pensieri... Sto provando quello che provano. E stanno rantolando... non riescono più a respirare. Rantolano e muoiono... Vedo la caverna di Lunga-Pelliccia, il fabbricante di lance... sta morendo, il sangue gli esce dalla bocca, dal naso
e dalle orecchie... non può...» E qui avvenne una cosa terrificante. I lati della caverna premettero contro di loro. In tutto il mondo, in tutta la nave, le celle d'aria del materiale spugnoso si stavano espandendo, mentre la pressione scendeva a zero. Fu soltanto questo che salvò Shrick e Wesel, anche se non lo seppero mai. Il rozzo tappo che sigillava la loro caverna, che altrimenti sarebbe stato sparato fuori dalla pressione interna, si gonfiò fino a saldarsi con le pareti in espansione, creando nella loro caverna una cavità a tenuta quasi perfetta. Ma i prigionieri non si trovavano in condizioni di apprezzarlo, anche se fossero stati in possesso delle indispensabili conoscenze. Il panico li afferrò entrambi. La claustrofobia era sconosciuta tra il Popolo — ma quelle pareti che si stavano chiudendo su di loro esulavano da qualunque precedente esperienza. Forse Wesel, tra i due, aveva la testa più saldamente sulle spalle. Fu lei che si sforzò di trattenere il suo compagno, il quale aveva preso ad artigliare e a mordere con furia selvaggia, come impazzito, le pareti dilatate, rigonfie. Shrick neppure s'immaginava cosa c'era adesso fuori della caverna, ma anche se l'avesse saputo, non gli sarebbe importato. Il suo unico, frenetico desiderio, era uscir fuori. Dapprima riuscì a fare ben pochi progressi, poi gli tornò in mente la piccola lama tagliente che stava ancora stringendo in mano. Con essa aggredì la massa polposa. Le pareti della cella erano tese al massimo, quasi sul punto di esplodere, e sotto il suo assalto non opposero più resistenza di una bolla di sapone. Un po' di spazio fu sgombrato e Shrick fu in grado di lavorare con più vigore ancora. «Fermati! Fermati!, ti dico! Fuori della caverna c'è soltanto la morte che soffoca. E tu ci ucciderai entrambi!» Ma Shrick non le prestò nessuna attenzione. Continuò a calar pugnalate e a tagliare. Ma solo con estrema lentezza riuscì ad allargare il primo squarcio che aveva praticato. Se le superfici rigonfie scoppiavano sotto le sue mani, sgonfiandosi in certi punti, in altri le pareti intatte si gonfiavano ancor di più. «Fermati!» gridò una volta ancora Wesel. Con le sole braccia, tirandosi dietro le gambe inutili, si tirò verso il suo compagno. Lottò con lui, mentre la disperazione le dava nuovo vigore. Così lottarono per molti battiti di cuore — silenziosi, selvaggi, dimentichi di tutto ciò che ognuno dei due doveva all'altro. Eppure, forse, Wesel non lo dimenticò mai del tutto. A dispetto di tutta la sua cieca, convulsa volontà di sopravvivere, i suoi poteri telepatici non cessarono mai di funzionare del
tutto. Suo malgrado lei, come sempre, condivideva la mente dell'altro. E questo fattore psicologico le dava un vantaggio che compensava la paralisi della metà inferiore del suo corpo — e allo stesso tempo le impediva di spingere questo suo vantaggio fino alla sua logica conclusione. Ma non poté salvarlo quando le sue dita, inavvertitamente, affondarono dentro la ferita nel braccio di lui. L'urlo lacerante, da spaccare i timpani, che Shrick lanciò, era un misto di dolore e di furore, e lo spinse ad attingere a riserve di energia che Wesel non aveva mai sospettato in lui. E la mano che stringeva la punta tagliente si mosse con forza irresistibile. Per Wesel vi fu un battito di cuore d'impossibile dolore, di dispiacere per sé e per Shrick, di rabbia cieca verso i giganti che, sia pure in modo indiretto, avevano provocato tutto questo. E poi il battito del suo cuore tacque per sempre. Con la morte di Wesel, il delirio lasciò Shrick. Là, nell'oscurità, passò le sue dita sensibili nella sua forma senza vita, assurdamente sperando che vi fosse ancora un fioco barlume di vita. Invocò il suo nome, scosse il suo corpo, con crescente, disperata energia. Ma alla fine la consapevolezza che era morta s'insinuò nel suo cervello — e vi rimase. Nella sua breve vita, Shrick aveva sperimentato molte volte quel senso di perdita, ma mai con tanta dolorosa acutezza. E la cosa peggiore era la consapevolezza che era stato lui ad ucciderla. Cercò di scostare da sé il fardello di questa sua colpa. Si disse che sarebbe morta in ogni caso a causa delle ferite ricevute per mano dei giganti. Cercò di convincersi che, ferite o non ferite, i giganti erano direttamente responsabili della sua morte. Ma sapeva altresì che lui era l'assassino di Wesel, proprio come sapeva che tutto ciò che gli rimaneva da fare nella vita era far pagare il fio ai negrieri del suo Popolo. Ciò lo rese cauto. Per molti battiti di cuore restò là, immobile, nell'oscurità più fitta, senza più osare nuovi attacchi alle pareti rigonfie della prigione. Si disse che, in qualche modo, avrebbe saputo quando i giganti avrebbero nuovamente riempito d'aria il mondo. Il modo in cui l'avrebbe saputo, non riusciva a immaginarlo. Ma la convinzione rimaneva. E quando, alla fine, col ritorno della pressione, la materia isolante riassunse dimensioni e consistenza normali, Shrick lo interpretò come il segno
che lui, ora, poteva uscire senza pericolo. Riprese, allora, a tagliare il materiale spugnoso, poi si fermò. Tornò accanto al corpo di Wesel. Mormorò il suo nome soltanto una volta, passò le mani sopra quella forma rigida e silensiosa per l'ultima carezza. Poi, non si voltò più indietro. E quando, alla fine, la fioca luce del Luogo-d'Incontro filtrò là dentro, Wesel era sepolta nel profondo dei pezzi del materiale spugnoso che Shrick aveva continuato a gettare dietro di sé. L'aria aveva un sapore vivificante, dopo l'atmosfera stantia che aveva dovuto respirare là, nella prigione, riciclandola più volte. Per qualche battito di cuore, Shrick fu colto dalle vertigini, per l'improvviso aumento della pressione, giacché buona parte dell'aria della sua prigione era sfuggita prima che il tappo si gonfiasse così da chiudere ermeticamente l'ingresso. Era probabile che, se non fosse stato per l'aria liberata là dentro dall'isolante spugnoso squarciato, lui sarebbe stato asfissiato da lungo tempo. Ma questo lui non poteva saperlo... e anche se l'avesse saputo, la cosa non l'avrebbe preoccupato granché. Era vivo, mentre Wesel e tutto il Popolo erano morti. Quando la nebbia si schiari davanti ai suoi occhi, poté vederli. I loro corpi giacevano qua e là in disordine, contorti negli spasimi dell'ultima agonia, muta testimonianza dell'orrendo potere dei giganti. E adesso che vide tanti morti, non provò affatto il travolgente dolore che avrebbe pensato di dover sentire. Provò invece una sorta di rabbia. Rifiutandosi di ascoltare il suo avvertimento, il Popolo l'aveva privato del suo regno. Non c'era nessuno, adesso, che potesse contendergli il dominio dell'Esterno — ma senza sudditi, volenti o nolenti, l'immenso territorio sotto il suo imperio era inutile. Con Wesel viva sarebbe stato diverso. Cos'era che aveva detto?... e la caverna di Lunga-Pelliccia il fabbricante di lance. Poteva ancora udire la sua voce mentre diceva... e la caverna di LungaPelliccia, il fabbricante di lance. Forse... ma c'era soltanto un modo per accertarsene. Trovò la caverna, vide che l'ingresso era stato sigillato. Sentì nascere dentro di sé un'incontrollabile favilla di speranza. Freneticamente, coi denti e gli artigli, strappò via l'isolante spugnoso. La grande, bella lama luccicante che si era conquistato nell'Interno giaceva, ben visibile, a non più d'una dozzina di palmi dal punto in cui si stava accanendo, ma tale era la sua furia cieca e irragionevole che ignorò del tutto l'utensile in grado di
rendere molto più breve la sua impresa. Infine, l'ingresso della caverna fu sgombro. Un debole grido accolse l'afflusso d'aria e di luce. Per un po' Shrick non riuscì a vedere cosa c'era là dentro, poi avrebbe anche potuto urlare la sua delusione. Poiché, là non c'erano né robusti maschi guerrieri, nessuna femmina fertile e vigorosa, ma due mani o giù di lì d'infanti che si agitavano debolmente. Le loro madri dovevano essersi rese conto, giusto all'ultimo momento, che lui e Wesel avevano avuto ragione, e c'era soltanto un modo di tener lontana la morte soffocante. Ma non erano state capaci di salvare anche se stesse. Ma cresceranno, si disse Shrick. Non ci vorrà molto prima che possano reggere saldamente una lancia per il Signore dell'Esterno, e prima che le femmine possano partorire i suoi figli. Vincendo la sua ripugnanza, li raccolse e li portò fuori. C'era un'intera mano d'infanti femmine, tutte vive, e una mano di maschi. Tre maschi erano morti. Ma Shrick seppe che, quelli che erano sopravvissuti, costituivano il nucleo d'un esercito col quale avrebbe ristabilito il suo dominio sul mondo, all'Interno come all'Esterno. Ma prima, dovevano essere nutriti. Ora si accorse della sua bella lama, lì vicino. L'afferrò e cominciò a tagliare a pezzi i tre maschi senza vita. L'odore del loro sangue lo constrinse ad accorgersi che anche lui era affamato. Ma soltanto quando tutti i piccoli, ora acquietati, masticarono felici, tagliò una porzione per sé. Quand'ebbe finito, si sentì molto meglio. Ci volle qualche tempo prima che Shrick riprendesse le sue visite nell'Interno. Doveva dedicare ogni sua cura ai meschini resti del suo Popolo, per condurli alla maturità, e inoltre non c'era nessuna necessità di depredare le scorte di cibo dei giganti. Essi stessi gli avevano fornito sostentamento in abbondanza, molto più di quanto lui fosse in grado di calcolare. Era anche conscio che sarebbe stato assai inopportuno far sì che i suoi nemici scoprissero che c'erano stati dei sopravvissuti al cataclisma che essi stessi avevano provocato. La morte soffocante... lui era sopravvissuto, sì, ma non era detto che i giganti non disponessero di qualche altra arma per completare l'opera. Ma, col passare del tempo, crebbe in lui il desiderio di osservare ancora una volta la strana vita che si svolgeva al di là della Barriera. Adesso che aveva ucciso un gigante, provava una strana affinità con quegli esseri mostruosi. Pensava a Magro, a Forte-Voce, a Testa-Clava e al Piccolo Gigan-
te quasi come a dei vecchi amici. A volte, con sua viva sorpresa, provava rincrescimento al pensiero di doverli uccidere tutti. Ma sapeva che soltanto in questo stava l'unica speranza di sopravvivenza per sé e il suo Popolo. Infine, giunse il momento in cui si sentì sicuro di poter lasciare che i piccoli se la cavassero da soli. Anche se lui non fosse più tornato dall'Interno, se la sarebbero cavata. Senza-Dita, la più matura delle piccole femmine, si era già dimostrata una balia capace. Così, Shrick vagò una volta ancora nel dedalo di caverne e gallerie che costeggiavano la Barriera. Attraverso le porte e ogni altro spioncino, studiò la vita luminosa e affascinante del Mondo Interno. Spaziò dalla Cavernadei-Tuoni — anche se nessuno del Popolo aveva mai saputo il perché di quel nome — al Luogo-delle-Piccole-Luci. Passarono molti nutrimenti, ma non era obbligato a tornar sempre al suo magazzino di cibo, poiché i cadaveri del Popolo erano sparsi dappertutto. Era vero che cominciavano a puzzare un po', ma come tutti quelli della sua razza. Shrick non era mai stato troppo schizzinoso. E continuò a osservare i giganti mentre svolgevano la strana, sempre uguale attività, che riempiva la loro vita. Spesso fu molto tentato di farsi vedere e urlar loro la sua sfida. Ma quell'esibizione doveva restare nel regno dei suoi desideri, poiché lui sapeva benissimo che, in tal modo, avrebbe causato una nuova, fulminea catastrofe. Poi, infine, si presentò l'occasione che lui aveva tanto aspettato. Era stato nel Luogo-delle-Piccole-Luci a guardare il Piccolo Gigante che svolgeva le sue misteriose e impegnative faccende. Avrebbe tanto desiderato di poterne capire il significato, di poter chiedere al Piccolo Gigante, nella sua propria lingua, cosa stava facendo, giacché, sin dalla morte di Wesel, non c'era più stato nessuno con cui fosse possibile una comunione delle menti. Sospirò, così forte che il gigante l'udì. Questi trasalì e, perplesso, alzò gli occhi dal lavoro che stava facendo in quel momento. Shrick si ritrasse in tutta fretta nella sua galleria. Per molti battiti di cuore rimase li, sbirciando fuori di tanto in tanto. Ma l'altro era ancora sul chi vive, doveva essersi reso conto, in qualche modo, di non esser solo. E così, alla fine, Shrick se ne andò, piuttosto che correre il rischio di attirare su di sé, un'altra volta, la potente collera dei giganti. La sua ritirata, fatta a casaccio, lo condusse a una porta usata di rado. Sull'altro lato si apriva un'immensa caverna, nella quale non c'era niente che avesse un vero interesse o valore. Qui, di regola, uno dei giganti dormiva, mentre gli altri erano impegnati in qualcuno dei loro incomprensibili
passatempi. Questa volta non udì nessun profondo brontolio di conversazione, non c'era nessun tipo di movimento. Le orecchie acute di Shrick poterono distinguere il respiro di tre diversi dormienti. Il Magro era là, la sua respirazione, come la sua persona, era scadente. Forte-Voce era forte perfino nel sonno. Testa-Calva, il capo dei giganti, respirava con tranquilla autorità. Mentre il Piccolo Gigante, unico fra quelli del suo popolo, era vigile e sveglio nel Luogo-delle-Piccole-Luci. Shrick seppe che sarebbe stato adesso, o mai più. Qualunque tentativo di affrontare i giganti uno per volta avrebbe certo portato la grande luce rovente presagita da Tre-Occhi; adesso, invece, con un po' di fortuna, lui avrebbe potuto affrontare i tre dormienti, e poi aspettare in agguato il Piccolo Gigante. E costui, colto di sorpresa, senza nessun sospetto, sarebbe stato una vittima non impossibile, anche affrontato da sveglio, come Pancia-Grassa. Eppure — non voleva farlo. Non era paura; era sempre quell'indefinibile sensazione di affinità, la consapevolezza che, malgrado tutte le immense disparità fisiche, i Giganti e il Popolo erano un tutt'uno. Giacché la storia dell'Uomo, anche se Shrick questo non poteva saperlo, è la storia di un animale che accende il fuoco e si serve di utensili. Poi, Shrick si costrinse a ricordare Wesel e Grosse-Orecchie, e lo sterminio in massa di quasi tutta la sua razza. Ricordò le parole di Tre-Occhi: Ma questo ti posso dire, il Popolo è condannato. Niente che tu o loro possiate fare li salverà. Ma tu ucciderai coloro che ci uccideranno, e questo è bene. Ma tu ucciderai coloro che ci uccideranno... Ma se uccidessi tutti i giganti, prima che uccidano noi, pensò, allora il mondo, tutto il mondo, apparterrà al Popolo... Ma continuò a trattenersi. Soltanto quando il Magro, che doveva essere in preda a un brutto sogno, bofonchiò qualcosa e si agitò nel sonno, Shrick uscì fuori dalla sua porta. Teneva stretta in entrambe le mani la lama luccicante e affilata con cui aveva trucidato Pancia-Grassa. Si lanciò addosso all'inquieto dormiente. La sua arma tagliò soltanto una volta — quella scena, quanto l'aveva vista e rivista nella sua mente! — e per il Magro il brutto sogno ebbe termine. Come sempre, l'odore del sangue fresco lo eccitò. Gli ci volle tutta la sua forza di volontà per trattenersi dal tagliare e squarciare il gigante morto.
Ma si ripromise di farlo più tardi. E balzò dal corpo del Magro fin là, dove Forte-Voce russava sonoramente. L'improvvisa interruzione di quel suono fin troppo familiare dovette però svegliare Testa-Calva. Shrick lo vide muoversi, e poi agitarsi freneticamente; vide le sue mani protendersi all'infuori a sciogliere i lacci che lo tenevano fisso al suo posto mentre dormiva. E quando l'Uccisore-diGiganti, coi piedi che cercavano freneticamente un appoggio, atterrò sul suo petto, Testa-Calva era pronto. E stava gridando a gran voce, cosicché Shrick seppe che era solo questione di pochi battiti di cuore prima che il Piccolo Gigante accorresse in suo aiuto. Pancia-Grassa era stato colto di sorpresa; il Magro e Forte-Voce erano stati uccisi nel sonno. Ma qui non c'era più una facile vittoria per l'Uccisore-di-Giganti. Per un po', parve che il capo dei giganti avrebbe vinto. Infatti, quasi subito smise di urlare, lottando invece con tenace e silenziosa disperazione. Una delle sue mani riuscì, a un certo punto, ad afferrare Shrick in una morsa da schiacciare le ossa, e parve che, con questo, la battaglia fosse conclusa. Shrick poteva sentire il sangue che gli pulsava sempre più assordante in testa, mentre i bulbi oculari quasi gli schizzavano fuori dalle orbite. Gli ci volle ogni briciola di decisione da lui posseduta per non lasciar cadere la lama, mettendosi ad artigliare freneticamente il polso dell'altro, nel modo più confuso e inefficace... Qualcosa cedette — erano le sue costole — e in quel fugace istante in cui la pressione si allentò, riuscì a torcersi, a girarsi e a colpire quel mostruoso polso irto di peli. Il sangue ne sprizzò fuori, caldo e schiumoso, e il gigante cacciò un grido stridulo. A più riprese Shrick usò la sua lama, finché divenne chiaro che il gigante non sarebbe più stato in grado di usare di nuovo quella mano. Adesso Testa-Calva aveva una mano sola per lottare contro un avversario — almeno per quanto riguardava i suoi arti — non mutilato. Era ben vero che ogni movimento della parte superiore del corpo causava e Shrick tremende fitte di dolore al petto, ma poteva muoversi e colpire e... trucidare. Giacché Testa-Calva s'indeboliva sempre più mentre il sangue continuava a zampillargli dalle ferite. Non era più in grado di respingere gli attacchi contro il viso e il collo. Eppure avrebbe continuato a combattere, come la sua razza aveva sempre fatto, fino all'ultimo respiro. Il suo nemico non gli avrebbe dato tregua, questo era ovvio, ma avrebbe sempre potuto rice-
vere aiuto dal Piccolo Gigante, facendolo accorrere dal Luogo-dellePiccole-Luci. Verso la fine, ricominciò a urlare. E mentre moriva, il Piccolo Gigante entrò nella caverna. Fu per un colpo di fortuna che l'Uccisore-di-Giganti scampò da una rapida morte per mano dell'intruso. Se il Piccolo Gigante avesse saputo quanto esigue erano le forze schierate contro di lui, sarebbe stata dura per Shrick. Ma Senza-Dita, lasciata sola coi suoi protetti, aveva finito per annoiarsi, là, nel Luogo-d'Incontro. Aveva sentito Shrick parlare delle meraviglie dell'Interno, e aveva perciò pensato che adesso avrebbe avuto la possibilità di vederle da sola. Seguita dai suoi protetti, aveva vagato senza una meta lungo le gallerie che costeggiavano la Barriera. Non conosceva l'esatta posizione delle porte che si aprivano sull'Interno, e ciò che riusciva a vedere da qualche occasionale spioncino, qua e là, era troppo poco. Giunse infine davanti alla porta che Shrick aveva lasciata aperta quando aveva iniziato il suo attacco ai giganti addormentati. Una vivida luce entrava a fiotti da quell'apertura — una luce più viva di quante Senza-Dita ne avesse viste nella sua breve vita. L'attirò come un faro. Non esitò. A differenza dei suoi genitori, non era cresciuta con qualcuno che le inculcava un superstizioso terrore nei confronti dei giganti. Shrick era il solo adulto che ricordava di aver mai conosciuto — e lui, parlandole dei giganti, si era vantato di averne ucciso uno in un feroce corpo a corpo. Le aveva anche garantito che, un giorno o l'altro, avrebbe ucciso tutti i giganti. Malgrado la sua mancanza di età e di esperienza, Senza-Dita non era una sciocca. Già femmina, aveva valutato Shrick. Aveva dato per scontato che la maggior parte dei suoi discorsi fossero soltanto vanterie oziose, ma non aveva mai visto nessuna ragione per non credere alle sue storie sulla morte di Zanna-Grossa, Sterret, Tekka, Pancia-Grossa... e dell'intero Popolo. Così fu che — temeraria nella sua ignoranza — fluttuò oltre la porta. Dietro di lei venivano i piccoli, squittendo eccitati. Anche se il Piccolo Gigante non li vide fin dal primo istante, si accorse della loro presenza a causa del gran baccano di grida e strilli. Poteva spiegare in un solo modo ciò che i suoi occhi gli dicevano: il piano per far morire soffocato tutto il Popolo era fallito. Erano usciti dalle loro caverne e dalle gallerie per massacrare gli altri giganti, suoi compagni...
e adesso stavano arrivando rinforzi freschi per liquidare lui. Si voltò e fuggi. Shrick raccolse tutte le sue forze e spiccò un lunghissimo balzo dalla mostruosa di Testa-Calva. Ma a metà volo una superficie dura e lucida si interpose fra lui e il gigante in fuga. Stordito, vi rimase appeso per molti battiti di cuore prima di rendersi conto che si trattava d'una porta gigantesca che gli si era chiusa in faccia. Ben sapeva, comunque, che il Piccolo Gigante non stava semplicemente cercando salvezza nella fuga, giacché, dove mai, lì dentro il mondo, poteva sperare di sfuggire alla collera del Popolo? Forse era andato a procurarsi un'arma. Oppure — e a questo pensiero Shrick si sentì ghiacciare il sangue — era andato a scatenare la morte finale predetta da Tre-Occhi? Adesso che i suoi piani avevano incominciato a fallire, Shrick ricordò la profezia nella sua interezza, non gli era più possibile ignorare quelle parti che, nella sua arroganza, non aveva trovato di suo gradimento. E poi Senza-Dita, con un volo impacciato — poiché questi immensi spazi erano una sconvolgente novità per lei — fu al suo fianco. «Sei ferito?» gli chiese, angosciata. «Sono così grandi!... E tu hai combattuto contro di loro». Mentre diceva queste parole, il mondo si riempì d'un sordo ronzio. Shrick ignorò la femmina eccitata. Quel rumore poteva significare una sola cosa. Il Piccolo Gigante era tornato nel Luogo-delle-Piccole-Luci, e stava scatenando forze immense e incomprensibili che avrebbero causato la totale, irrevocabile distruzione del Popolo. Scalciò coi piedi contro la colossale porta e filò veloce verso il basso, fino alla porta della Barriera. Protese le mani per frenare l'impatto, e cacciò un urlo quando l'urto gli trasmise al petto un'ondata di nauseante dolore. Cominciò a tossire, e quando vide il sangue che gli sprizzava fuori dalla bocca, provò una grande paura. Senza-Dita gli comparve di nuovo accanto. «Sei ferito, stai sanguinando. Posso...» «No!» Shrick si voltò di scatto verso di lei, ringhiando. «No! Lasciami solo!» «Ma dove vuoi andare?» Shrick fece una pausa. Poi: «Vado a salvare il mondo», le disse, scandendo le parole. Assaporò l'effetto di quanto aveva detto. Lo fece sentir meglio. Lo fece sentir grande nella propria mente, perfino più grande, forse, degli stessi gi-
ganti. «Vado a salvarvi tutti». «Ma come...» Questo fu troppo per l'Uccisore-di-Giganti. Urlò di nuovo, ma questa volta di rabbia. Col dorso della mano sferrò un colpo alla faccia della giovane femmina. «Tu resti qui!» le ordinò. I giroscopi stavano ancora cantando in coro la loro silenziosa canzone, pregna d'irrefrenabile potenza, quando Shrick raggiunse la cabina di comando. Allacciato al seggiolino, il navigatore si affacendava sopra i suoi grafici e il calcolatore. Fuori dagli oblò, le stelle ruotavano lentamente, in ordinata successione. Shrick ebbe paura. Fino a quel momento, non aveva mai creduto del tutto all'ingarbugliata descrizione che Wesel gli aveva fatto del mondo. Ma adesso, poteva vedere coi suoi stessi occhi che la nave si stava muovendo. La meraviglia di quel fantastico spettacolo lo tenne li, immobile, finché l'orlo d'una insopportabile incandescenza comparve alla vista da oltre il bordo di uno degli oblò. Il navigatore toccò qualcosa, e d'un tratto degli schermi di vetro azzurro-scuro calarono sugli oblò, a smorzare l'accecante bagliore. Ma era sempre troppo luminoso, e l'orlo divenne molto in fretta un ovale, e poi un disco perfetto. Il ronzio dei giroscopi cessò. Prima che il silenzio si prolungasse, un nuovo suono aggredì le orecchie di Shrick. Era il ruggito del motore principale. Una forza spaventosa lo afferrò e lo sbatté giù sul ponte. Sentì le proprie ossa scricchiolare per l'accelerazione. Da vero figlio della caduta libera, tutto questo aveva per lui del soprannaturale. Per un po', giacque laggiù, dimenandosi debolmente e piagnucolando un po'. Il navigatore abbassò lo sguardo su di lui e scoppiò a ridere. Fu questo suono che, più di ogni altra cosa, spinse Shrick a compiere il suo ultimo, supremo sforzo. Non avrebbe voluto muoversi. Avrebbe voluto soltanto giacer là sul ponte, cacciando via da sé un po' per volta, a colpi di tosse, la sua vita. Ma la derisione del Piccolo Gigante gli fece attingere a insospettate riserve di energie fisiche e morali. Il navigatore tornò ai suoi calcoli, maneggiando i suoi strumenti per l'ultima volta con una sorta di disperata euforia. Sapeva che la nave non sarebbe mai arrivata a destinazione, e neppure il carico di frumento. Ma non sarebbe andata — e questo aveva più importanza di ogni altra consi-
derazione — eternamente alla deriva tra le stelle portando dentro il suo scafo il seme della distruzione dell'uomo e di tutte le sue opere. Sapeva che — se non avesse scelto quella via d'uscita — prima o poi avrebbe dovuto dormire, e allora sarebbe giunta anche per lui, inevitabilmente, la morte per mano dei mutanti. E con la nave in totale controllo dei mutanti, avrebbe potuto accadere qualunque cosa. La decisione che aveva preso era la migliore. Inosservato, un lento passo dopo l'altro, Shrick avanzò lungo il ponte. Finché, protendendo la mano libera, avrebbe potuto toccare il piede del gigante. Nell'altra, impugnava ancora la sua lama, alla quale si era tenuto aggrappato come all'unica cosa certa e sicura in quel pazzo mondo. Poi trovò un appiglio sulla pelle artificiale che copriva la gamba del gigante. Cominciò ad arrampicarsi, malgrado ogni più piccolo movimento fosse per lui pura agonia. Non vide il gigante che portava la mano alla bocca, e inghiottiva le pallottoline che stringeva fra le dita. Fu così che quando, molto tempo dopo, raggiunse la gola liscia e indifesa del gigante, il gigante era morto. Era un veleno ad azione fulminea. Per un po', Shrick rimase aggrappato lassù. Avrebbe dovuto sentirsi euforico per la morte dell'ultimo dei suoi nemici... ma provò invece la sensazione d'essere ingannato, defraudato. C'erano tante cose che avrebbe voluto sapere, tante cose che soltanto i giganti avrebbero potuto dirgli. Inoltre... avrebbe dovuto essere stata la sua lama a conquistare la vittoria finale. Sapeva che, da qualche parte, il Piccolo Gigante in quel momento stava ridendo di lui. Attraverso gli oblò schermati di azzurro-scuro, ardeva il sole. Perfino a quella distanza, perfino con quei filtri interposti, la sua energia, il suo calore erano fin troppo evidenti. E a poppa i motori ruggivano ancora, e avrebbero continuato a ruggire fino a quando l'ultima briciola di propellente non fosse stata data in pasto al famelico motore principale. Shrick si tenne aggrappato al collo del gigante morto, e fissò a lungo, con occhi bramosi di desiderio, gli strumenti luccicanti, le levette, i pulsanti, le spie luminose, il cui scopo non avrebbe mai capito... per azionare i quali avrebbe avuto bisogno di tutte le sue forze, quelle forze che gli stavano rapidamente venendo meno. Guardò la fiammeggiante condanna davanti a lui, e seppe che si trattava proprio di ciò che gli era stato predetto. Se nella sua lingua fossero esistite le metafore, Shrick si sarebbe detto che lui, e i pochi sopravvissuti del Popolo, erano stati presi come topi in
trappola. Ma neppure i giganti avrebbero usato quella frase in senso metaforico. Giacché, proprio questo era il Popolo: topi in una trappola. Ciò che ti serve What you need di Henry Kuttner Astounding Science Fiction, ottobre La terza storia di Henry Kuttner & C. che compare in questo libro è una impegnativa ed efficace discussione sulle responsabilità e gli obblighi che accompagnano chi detiene il potere. E come molta della miglior fantascienza, possiede anche quel pizzico d'inquietante che ha stimolato i lettori fin dalla sua prima apparizione, più di trentacinque anni fa. Noi (per lo meno alcuni di noi) sappiamo ciò che vogliamo — ma sappiamo ciò di cui abbiamo davvero bisogno? (Durante i primi anni della seconda guerra mondiale Unknown fu la più eccitante rivista del mondo. Fu uccisa dalla scarsità di carta, ma non fu ucciso, con lei, il bisogno di scrivere storie del tipo di quella che stampavano sulle sue pagine. Gli scrittori che avevano lavorato per Unknown, che si erano abituati a scrivere «fantasy per adulti», scoprirono che questo era il modo migliore per trattare certi difficili temi. Sparita Unknown, vi fu la tentazione di aggiungere un pizzico di scienza a storie di questo genere... Sono convinto che Hank abbia scritto questa storia avendo in mente Unknown. Non richiederebbe quasi nessuna modifica per renderla adatta a quella rivista, eppure, così com'è, è senza alcun dubbio fantascienza. I.A.) La scritta diceva così, appunto. Tim Carmichael, che lavorava per un giornale economico, e arrotondava il suo magro salario vendendo articoli sensazionali e inattendibili ai rotocalchi, non riuscì a cogliere neppure il germe d'un articolo in quellla scritta all'incontrarlo. Pensò che fosse una qualche trovata pubblicitaria da quattro soldi, qualcosa che raramente si incontrava in Park Avenue, dove le vetrine dei negozi erano famose per la loro classica dignità. Provo una viva irritazione. Digrignò i denti in silenzio, proseguì lungo la sua strada, poi d'un tratto
si girò e tornò indietro. Non era abbastanza forte e deciso da resistere alla tentazione di chiarire la frase, anche se il suo fastidio crebbe. Si fermò davanti alla vetrina, alzando gli occhi, e compitò tra sé: «"Noi abbiamo ciò che ti serve". Ma...?» La scritta era formata da una successione di lettere piccole e ben tracciate su una striscia che si stendeva di traverso su uno stretto pannello di vetro. Il vetro era una tipica vetrina anti-riflesso, ricurva. Attraverso il vetro Carmichael vide una distesa di velluto bianco, con pochi oggetti disposti con cura sopra di esso. Un chiodo arrugginito, una racchetta da neve e una tiara tempestata di diamanti. Pareva una decorazione di Dalì per Cartier o Tiffany. «Gioiellieri?» si chiese Carmichael. «Ma perché ciò che ti serve?» Immaginò dei milionari afflitti e sconsolati perché gli mancava un filo di perle per fare il paio, ereditiere in lagrime perché non riuscivano a trovare un rubino stellato. Il principio basilare del commercio di lusso stava nel trattare con la crema della domanda e dell'offerta. Poche persone avevano bisogno di diamanti. E perché? Perché li volevano, e basta, e potevano permetterseli. «Oppure potrebbero vendere lampade magiche», decise Carmichael. «O bacchette magiche. Ma con lo stesso principio del cappello a cilindro dell'illusionista: una trappola per i creduloni. Mettete fuori un cartello con scritta sopra una qualunque assurdità, e la gente entrerà a fiotti e pagherà a contanti. Gonzi a tre per un soldo...» Quella mattina era tutto un bruciore di stomaco e provava antipatia per il mondo intero. La prospettiva d'un capro espiatorio l'attraeva, e la sua tessera di giornalista gli dava un certo vantaggio. Spinse la porta ed entrò nel negozio. Sì. Era proprio Park Avenue. Non c'erano banchi o bacheche. Avrebbe potuto essere una galleria d'arte poiché alle pareti erano appesi alcuni olii d'egregia fattura Carmichael fu colpito da un misto di lusso oppressivo e di inanimata desolazione. Una tenda sul fondo si mosse e ne uscì un uomo alto, dai capelli bianchi pettinati con cura, un volto sano e florido, e un paio di acuti occhi azzurri. Avrebbe potuto essere sulla sessantina. Indossava un costoso abito di tweed, alquanto stazzonato, che strideva con l'ordine impeccabile di quell'ambiente. «Buongiorno», disse l'uomo, dopo una rapida occhiata agli indumenti di Carmichael. Parve un po' sorpreso. «Cosa posso fare per lei?»
«Qualcosa... forse». Carmichael si presentò ed esibì la sua tessera. «Oh? Il mio nome è Talley. Peter Talley». «Ho visto la scritta, là fuori». «Oh?» «Il nostro giornale è sempre a caccia di argomenti interessanti per i suoi articoli. Non ho mai notato il suo negozio prima d'ora...» «Sono qui da anni», disse Talley. «Questa è una galleria d'arte?» «Be'... no». La porta esterna si apri. Un uomo dall'aspetto florido entrò e salutò Talley cordialmente. Carmichael, nel riconoscere il cliente, sentì crescere in se l'opinione che aveva del negozio. L'uomo florido era un Nome... e dei più grossi. «È un po' presto, signor Talley», disse l'uomo, «ma non volevo tardare. Ha avuto il tempo di procurarmi ciò... che mi serviva?» «Oh, sì. L'ho qui. Un momento, prego». Talley riattraversò in fretta la tenda e tornò quasi subito con un pacchetto bene incartato che consegnò all'uomo florido. Quest'ultimo gli porse un assegno — Carmichael intravide la somma e deglutì — e se ne andò. La sua macchina era parcheggiata là fuori, accanto al marciapiede. Carmichael si avvicinò alla porta, e guardò fuori. L'uomo florido pareva impaziente. Il suo autista attese, immobile e con lo sguardo vacuo, mentre il pacchetto veniva aperto da dita frettolose. «Non sono sicuro di desiderare pubblicità, signor Carmichael». disse Talley. «Ho una clientela... scelta con cura». «Forse i nostri bollettini economici settimanali potrebbero interessarla». Talley dominò chiaramente una risata. «Oh, non credo. Non è proprio il nostro ramo». L'uomo florido aveva finalmente aperto il pacchetto, tirandone fuori un uovo. Da quanto Carmichael poteva vedere, lì accanto alla porta, si trattava soltanto d'un comunissimo uovo. Ma il suo proprietario lo stava contemplando quasi con reverenza. Quell'uomo non avrebbe potuto essere più felice se l'ultima gallina della Terra fosse morta dieci anni prima. Qualcosa che assomigliava a un profondo sollievo comparve sul volto di quell'individuo, abbronzato dal sole della Florida. Disse qualcosa all'autista, e la macchina parti con fluido movimento, scomparendo dietro l'angolo. «Lei si occupa del settore lattiero-caseario?» chiese d'un tratto Carmi-
chael. «No». «Le spiace dirmi qual è il suo ramo?» «Mi spiace, ma temo proprio che mi dispiaccia», replicò Talley. Carmichael cominciava ad annusare un servizio. «Certo, potrei scoprirlo da me, tramite la Camera di Commercio...» «Non potrebbe». «No? Potrebbe interessare molto a qualcuno scoprire come mai un uovo può valere cinquemila dollari per uno dei suoi clienti». Talley replicò: «La mia clientela è così ristretta che devo far pagare prezzi molto alti. Lei... ehm... saprà che un mandarino cinese ha pagato migliaia di tael per un uovo di comprovata antichità». «Il tizio che è stato qui poco fa non era un mandarino cinese», obbiettò Carmichael. «Oh, be'... Come le ho già detto, la pubblicità non m'interessa». «Io credo di si, invece. Mi sono occupato di pubblicità, una volta. L'aver esposto quella sua scritta all'incontrano è un amo con un'esca molto ovvia...» «Allora lei non è uno psicologo», ribatté Talley. «È soltanto che posso permettermi di soddisfare i miei capricci. Per cinque anni ho guardato ogni giorno quella vetrina e ho letto la scritta a rovescio dall'interno del mio negozio. La cosa mi dava fastidio. Sa quanto una parola comincia a sembrare strana, se si continua a guardarla? Qualunque parola. Diventa qualcosa che non corrisponde a niente nel linguaggio umano. Be', ho scoperto che mi stava venendo una nevrosi, a causa di quella scritta. All'incontrario non ha alcun senso, ma io continuavo a leggerci un significato. Quando ho cominciato a compitare dentro di me 'Evres it ehc oic omaibba ion', mettendomi a cercare derivazioni filologiche, mi son deciso a chiamare un pittore d'insegne. E la gente abbastanza interessata continua a entrare». «Non molti», disse astutamente Carmichael. «Questa è Park Avenue. E lei ha sistemato il locale in modo troppo costoso. Nessuno, a basso o medio reddito, entrerebbe qua dentro. Perciò lei dirige un'azienda rivolta esclusivamente all'alto reddito». «Be'», ammise Talley. «Sì, lo faccio». «E non vuol dirmi di che si tratta?» «Preferirei di no». «Posso scoprirlo, sa? Potrebbe essere droga, pornografia, scommesse clandestine...»
«Assai probabile», annuì Talley, senza scomporsi. «Acquisto gioielli rubati, li nascondo dentro alle uova, e li rivendo ai miei clienti. Oppure quell'uovo era pieno di microscopiche fotografie pornografiche. Buongiorno, signor Carmichael». «Buongiorno», rispose Carmichael, e uscì. Era già in ritardo per l'ufficio, ma la prospettiva di passare delle ore ad annoiarsi ad una scrivania lo spinse a giocare all'investigatore, là fuori. Tenne dunque d'occhio il negozio di Talley e i risultati furono del tutto soddisfacenti... entro certi limiti. Riuscì a saper tutto... salvo il perché. Quel pomeriggio, sul tardi, andò di nuovo dal signor Talley. «Aspetti un momento», si affrettò a dire, davanti all'espressione tutt'altro che incoraggiante del proprietario. «Per quanto lei ne può sapere, io potrei anche essere un cliente». Talley scoppiò a ridere. «Be', perché no?» Carmichael fece una smorfia. «Come fa a sapere l'entità del mio conto in banca? Oppure lavora esclusivamente con una clientela fissa?» Carmichael si affrettò ad aggiungere: «Ho fatto qualche indagine. Ho osservato i suoi clienti. O, ad esser sinceri, li ho seguiti. E ho scoperto che cosa comperano da lei». Il volto di Talley cambiò. «Davvero?» «Davvero! Hanno tutti una fretta maledetta di toglier la carta ai suoi fagottini. Così, questo mi ha dato la possibilità di scoprire cosa c'è dentro. Ne ho mancati alcuni, ma... ho visto abbastanza da potervi applicare un po' di regole, secondo logica, signor Talley. Primo: i suoi clienti non sanno quello che comperano da lei. È una specie di gioco della pentolaccia. Un paio di volte sono rimasti sbigottiti. L'uomo che ha aperto il pacchetto e ha trovato un vecchio ritaglio di giornale, ad esempio. E gli occhiali da sole? E il revolver? Probabilmente illegale, a proposito... niente porto d'armi. E il diamante? Doveva essere un'imitazione... era talmente grosso!» «M... mmm», disse il signor Talley. «Non sono un genio, ma so annusare l'odore d'una truffa. La maggior parte dei suoi clienti sono pezzi grossi, per un motivo o per l'altro. E perché mai nessuno di loro l'ha pagata, come invece ha fatto il primo... il tizio che è entrato quand'ero qui, stamattina?» «È soprattutto una vendita a credito», disse Talley. «Ho una mia etica. Devo averla, per la mia coscienza. È una grossa responsabilità. Vede, vendo — la mia merce — sotto garanzia. Il pagamento viene effettuato soltan-
to se il prodotto risulta soddisfacente». «Già. Un uovo. Occhiali da sole. Un paio di guanti d'amianto — mi pare che lo fossero. Un ritaglio di giornale. Un revolver. E un diamante. Dev'esser un'impresa fare l'inventario». Talley non fece commenti. Carmichael sogghignò. «Lei ha un fattorino. Lo manda fuori e quello torna con dei fagotti. Forse va da un droghiere sulla Madison Avenue e compra un uovo. Oppure a un banco di pegni sulla Sesta, per un revolver. O... be', ad ogni modo, gliel'avevo detto che avrei scoperto qual è il suo genere di affari». «E l'ha scoperto?» chiese Talley. «'Noi abbiamo ciò che ti serve'», citò Carmichael. «Ma come fa a saperlo?» «Lei sta saltando alle conclusioni». «Ho mal di testa — non avevo gli occhiali da sole! — e non credo nella magia. Mi ascolti, signor Talley, ne ho fin sopra i capelli, e oltre, di strani negozietti che vendono cose ancora più strane. Ne so fin troppo... parecchio, insomma, su di essi. Un tizio cammina per la strada e vede una specie di strana bottega e il proprietario non vuole servirlo — lui vende soltanto ai folletti — oppure, gli vende un talismano a doppio taglio. Be'... pfui!» «Mph», disse Talley. «Mph' quanto vuole. Ma non può sfuggire alla logica. O qui lei ha un racket, molto concreto e bene organizzato, o altrimenti questo è uno di quegli strani negozietti di oggetti magici... e questo non lo credo. Poiché non è logico». «Perché no?» «A causa del costo», spiegò Carmichael, deciso. «Ammettiamo pure l'ipotesi che lei abbia certi misteriosi poteri — diciamo che lei è capace di fabbricare dei congegni telepatici. D'accordo. Ma perché mai dovrebbe metter su un'azienda per vendere questi congegni e guadagnarsi da vivere? Basterebbe che lei s'infilasse uno dei suoi congegni, leggesse la mente d'un agente di cambio, per poi comprare le azioni giuste. È questo l'errore concettuale in tutti questi negozietti strani — se lei avesse abbastanza roba per rifornire e gestire un negozietto del genere, non avrebbe bisogno del negozietto, in primo luogo. Perché girare intorno al granaio di Robin Hood?» Talley non replicò. Carmichael lo gratificò d'un sorriso d'intesa. «'Mi chiedo spesso cosa
comperino i vinai che valga anche soltanto la metà della roba che vendono'», citò. «Be', lei cosa compera? Io so cosa lei vende: uova e occhiali da sole». «Lei è un bel ficcanaso, signor Carmichael», mormorò Talley. «Le è mai passato per la mente che questi non sono affatto affari suoi?» «Potrei essere un cliente», ribatté Carmichael. «Che mi dice, allora?» I gelidi occhi azzurri di Talley si erano fatti attenti. In essi era spuntata una nuova luce. Talley increspò le labbra e si accigliò. «Non ci avevo pensato», ammise. «Potrebbe anche esserlo, viste le circostanze. Mi vuole scusare un momento?» «Ma certo», annui Carmichael. Talley andò dietro la tenda. Fuori del negozio, il traffico scorreva lento e ozioso lungo Park Avenue. Il sole stava scivolando giù, dietro l'Hudson, la strada veniva sempre più avvolta da un'ombra azzurrognola che risaliva impercettibilmente lungo i contrafforti degli edifici. Carmichael fissò la scritta NOI ABBIAMO CIÒ CHE TI SERVE, e sorrise. Nella stanza sul retro, Talley applicò gli occhi a una piastra binoculare e regolò una scala graduata. Ripeté l'operazione parecchie volte. Poi, mordicchiandosi le labbra — poiché era un uomo gentile — chiamò il fattorino e gl'impartì le sue istruzioni. Dopo di che, tornò fuori da Carmichael. «Lei è un cliente», annui. «A certe condizioni». «Quelle del mio conto in banca, intende dire?» «No», replicò Talley. «Farò per lei una tariffa ridotta. Lei deve capir questo: io ho davvero ciò che le serve. Lei non sa ciò che le serve, ma io lo so. E si da il caso che... be', le venderò ciò che le serve per, diciamo, cinque dollari». Carmichael allungò la mano verso il portafoglio. Talley sollevò una mano. «Mi pagherà dopo che sarà rimasto soddisfatto. E il denaro è soltanto la parte concreta, ufficiale, della tariffa. C'è un'altra parte. Se rimarrà soddisfatto, voglio che lei mi prometta di non venir mai più vicino a questo negozio, e di non parlarne con nessuno». «Capisco», replicò lentamente Carmichael. Le sue teorie erano lievemente cambiate. «Non ci vorrà molto prima che... ah, eccolo qua». Un ronzio dal retro indicò il ritorno del fattorino. Talley disse: «Mi scusi», e scomparve dietro la tenda. Ben presto fu di ritorno con un pacchetto bene incartato, che depositò tra le mani di Carmichael.
«Lo tenga sulla sua persona», disse Talley. «Buon pomeriggio». Carmichael annui, s'infilò in tasca il pacchetto, e usci. Sentendosi ricco, chiamò un tassì e si recò in un piccolo bar che conosceva. Là, nella penombra di un separé, scartò il fagottino. Denaro per la protezione, decise. Talley lo pagava perché tenesse la bocca chiusa sul suo racket, qualunque cosa fosse. D'accordo, allora. Vivi e lascia vivere. Quanto avrebbe trovato, là dentro...? Diecimila? Cinquantamila? Quanto grosso era quel racket? Trovò una scatoletta di cartone, oblunga. L'apri. All'interno, avvolte in un foglio di carta velina, c'erano... un paio di cesoie, le lame protette da un fodero fatto con del cartone piegato. Carmichael masticò qualcosa a bassa voce. Bevette il suo bicchiere di whisky allungato con seltz, poi ne ordinò un altro, ma non lo toccò neppure. Diede un'occhiata al suo orologio da polso, e decise che il negozietto di Park Avenue a quell'ora doveva esser già chiuso, e il signor Peter Talley se n'era andato. «"...che valga soltanto la metà della roba che vendono"» ripeté Carmichael. «Forse sono le forbici di Atropo. Bah». Sfoderò le lame e tagliò l'aria a mo' di esperimento. Non accadde nulla. Con le guance lievemente imporporate, Carmichael reinfoderò le cesoie e le fece scivolar dentro la tasca interna del soprabito. Una bella trovata!» Decise che avrebbe fatto un'altra visita a Peter Talley il giorno dopo. Nel frattempo, cosa mai? Ricordò che aveva un appuntamento con una delle ragazze dell'ufficio per cenare insieme, si affrettò a pagare il conto e se ne andò. Le strade si stavano oscurando e un vento freddo soffiava verso sud proveniente dal parco. Carmichael si strinse ancor di più la sciarpa intorno al collo e fece un cenno ai tassì che passavano. Era parecchio irritato. Mezz'ora più tardi, un uomo magro dagli occhi tristi — Jerry Worth, uno dei redattori pubblicitari — lo salutò all'altro bar dove Carmichael stava ammazzando il tempo. «Aspetti Betsy?» gli chiese Worth, facendo un cenno col capo verso il ristorante adiacente. «Mi ha mandato a dirti che non può venire. Un lavoro dell'ultimo minuto. Tante scuse e tutto il resto. Dov'eri, oggi? Le cose si sono arenate un po'. Bevi qualcosa con me?» Si misero a sorseggiare un whisky di segale. Carmichael era già un po' brillo. Il lieve rossore delle sue guance si era fatto alquanto più scuro e il suo intimo corruccio era cresciuto parecchio d'intensità. «Ciò che ti serve», borbottò. «Piccolo imbroglione...»
«Uh?» fece Worth. «Niente. Bevi. Ho appena deciso di mettere nei guai un tizio. Se potrò». «Sei stato tu, oggi, a cacciarti in un guaio... quasi. Quell'analisi di mercato sui minerali...» «Uova. Occhiali da sole!» «Ti ho tirato fuori da un pasticcio...» «Chiudi il becco», gl'intimo Carmichael, e ordinò un'altra volta da bere. Tutte le volte che sentiva il peso di quelle cesoie in tasca, scopriva che le sue labbra si stavano muovendo. Cinque bicchieri più tardi, Worth disse ancora, mesto: «Non mi dispiace fare buone azioni, ma mi piace parlarne. E tu non me lo lasci fare. Voglio soltanto un po' di gratitudine». «D'accordo, parlane», replicò Carmichael. «Vantati pure. Chi se ne frega?» Worth irradiò soddisfazione: «Quell'analisi di mercato sui mineali... ecco cos'era. Oggi non eri in redazione, allora l'ho completata io. Ho controllato coi nostri dati d'archivio, e ho visto che con la Trans-Steel avevi sbagliato tutto. Se io non avessi corretto le cifre, sarebbe finito tutto in tipografia senza che...» «Cos'hai fatto?» «La Trans-Steel. Le loro...» «Oh, imbecille», gemette Carmichael. «Sapevo bene che non coincideva con le cifre dell'archivio. Intendevo lasciare un appunto all'archivista perchè correggesse i suoi dati. Ho avuto le mie informazioni direttamente dalla fonte. Perché non ti fai i fatti tuoi?» Worth sbatté gli occhi. «Ho cercato di aiutarti». «Ci avrei ricavato un bell'aumento di paga...» l'interruppe Carmichael. «Dopo tutta la trafila che ho fatto per arrivare a quell'informazione riservata, quella vera!... Oh, senti, quella roba è già stata passata in composizione?» «Non lo so. Forse no. Croft stava ancora controllando la sua copia...» «Oh, al diavolo!» esplose Carmichael. «La prossima volta...» Diede uno strappo alla sciarpa, saltò giù dallo sgabello e si precipitò verso l'uscita, seguito da Worth che continuava a protestare. Dieci minuti dopo era in redazione intento ad ascoltare Croft che gli spiegava, soavemente, come il testo del suo articolo fosse già stato spedito in tipografia. «Ha importanza? C'era... a proposito, dov'eri quest'oggi?» «Danzavo sull'arcobaleno», sbottò Carmichael, e se ne andò. Era passato
dal whisky di segale a quello di malto, e la fredda aria notturna, come era naturale, non lo fece diventar sobrio. Barcollando un po', gli occhi sul marciapiede che sembrava oscillare avanti e indietro, mentre ammiccava, si fermò accanto alla cordonatura, riflettendo sulla situazione. «Mi spiace, Tim», disse Worth. «Comunque, adesso è troppo tardi. Non c'è nessun problema. Hai tutti i diritti di basarti sui dati che abbiamo in archivio». «Farmi questo proprio adesso...» biascicò Carmichael. «Piccolo schifoso...» Era rabbioso e sbronzo. D'impulso si precipitò verso la tipografia, con Jerry Worth che continuava a seguirlo, confuso. Là dentro, c'era un ritmico rumore di tuono. L'aria fredda e la corsa avevano accresciuto il senso di nausea a Carmichael; la testa gli faceva male, e la percentuale d'alcool nel suo sangue era a livelli di guardia. L'aria calda, gravida d'inchiostro, era sgradevole. Le grandi linotypes sbatacchiavano e ringhiavano. C'era un continuo andirivieni di gente. Tutto acquistava un sapore d'incubo, ma Carmichael scrollò, ostinato, le spalle e proseguì traballante, finché qualcosa non lo tirò indietro con uno strappo e cominciò a strangolarlo. Worth cominciò a urlare. Era anche lui mezzo ubriaco, e sul suo viso comparve un'espressione terrorizzata. Gesticolò frenetico. Ma tutto questo faceva parte di un incubo. Carmichael ora vide cos'era successo: le estremità della sua sciarpa si erano in qualche modo incastrate tra i meccanismi in movimento, e lui veniva trascinato inesorabilmente tra le ruote dentate. Vi fu un accorrere di gente, tonfi metallici, il rombo si fece assordante. E la sciarpa continuò, inesorabile, a tirare. Worth urlò: «...coltello! Tagliatela!» La semincoscienza causatagli dall'intossicazione alcoolica salvò Carmichael. Da sobrio, il panico l'avrebbe reso impotente. Così, invece, fra tanti pensieri che gli si accavallavano nella testa, riuscì ad agguantarne uno solo, e questo fu limpido e chiaro. Ricordò le cesoie, e s'infilò la mano in tasca. Le lame scivolarono fuori dalla guaina di cartone, e lui, sia pure annaspando, agguantò la sciarpa e la tagliò. La seta bianca scomparve, risucchiata dagli ingranaggi. Carmichael si toccò l'orlo frastagliato intorno alla gola, ed ebbe un agro sorriso. Il signor Peter Talley aveva caldamente sperato che Carmichael non sarebbe tornato. I tracciati della probabilità avevano mostrato due possibili alternative: in una tutto andava bene; nell'altra...
La mattina dopo Carmichael entrò nel negozio e tirò fuori un biglietto da cinque dollari. Talley l'accettò. «Grazie. Ma avrebbe potuto spedirmi un assegno per posta». «Avrei potuto. Solo che questo non mi avrebbe detto ciò che voglio sapere». «No», disse Talley, e sospirò. «Lei ha deciso, non è vero?» «Mi biasima?» chiese Carmichael. «La scorsa notte... sa cos'è successo?» «Si». «Come?» «Tanto vale che glielo dica», fece Talley. «Lo scoprirebbe comunque». Charmichael si sedette, si accese una sigaretta e annui. «A fil di logica. Non avrebbe potuto organizzare quel piccolo incidente in nessun modo. Betsy Hoag aveva già deciso ieri mattina sul presto di mandare in fumo il nostro appuntamento. Prima che io venissi da lei. Quello è stato l'inizio della catena di eventi che hanno condotto all'incidente. Ergo, lei deve aver saputo quello che stava per accadere». «Lo sapevo». «Prescienza?» «Meccanica. Ho visto che lei sarebbe rimasto schiacciato dalla macchina...» «Il che implica un futuro alterabile». «Certo», annui Talley, ripiegandosi un po' su se stesso. «Ci sono innumerevoli varianti possibili, nel futuro. Differenti linee di probabilità. Tutte dipendenti dal risultato di successivi eventi cruciali, man mano si verificano. Si dà il caso che io abbia una certa competenza nel campo dell'elettronica. Qualche anno fa, quasi per caso, mi sono imbattuto nel principio che permette di vedere il futuro». «Come?» «Comporta essenzialmente una precisa messa a fuoco sull'individuo. Nel preciso istante in cui entra in questo negozio», fece un ampio gesto, «lei si trova nel raggio del mio analizzatore. Nella stanza sul retro ho la macchina vera e propria. Ruotando un indice su una scala esattamente calibrata, passo in rassegna i possibili futuri. A volte ce ne sono tanti, a volte pochi. Come se certe stazioni non trasmettessero. Io guardo nel mio schermo, vedo ciò che le serve... e glielo fornisco». Carmichael esalò un lungo sbuffo di fumo dalle narici. Seguì le spire azzurrognole con gli occhi stretti a fessura.
«Lei segue l'intera vita di un uomo... in triplice o quadruplice... che cosa?» «No», replicò Talley. «Ho messo a fuoco il mio congegno cosicché sia sensibile soltanto ai punti critici della vita d'un uomo. Quando uno di questi si manifesta, lo seguo più oltre per accertare quali sentieri di probabilità comportino, per la persona in questione, una sopravvivenza sicura e felice». «Gli occhiali da sole, l'uovo, i guanti d'amianto...» Talley spiegò: «Il signor... uhm, Smith, è uno dei miei clienti abituali. Tutte le volte che, col mio aiuto, supera un punto critico con successo, torna da me per un nuovo controllo. Io localizzo la crisi successiva, e gli fornisco ciò di cui ha bisogno per affrontarla. Gli ho dato quei guanti di amianto. Fra un mese, circa, si verificherà una situazione in cui dovrà spostare una sbarra di metallo rovente. Lui è un artista. Le sue mani...» «Capisco. Perciò non si tratta sempre di salvar la vita di un uomo». «Certo che no», rispose Talley. «La sopravvivenza... non è l'unico fattore vitale. Una crisi in apparenza di minore importanza potrebbe condurre a... be', un divorzio, una nevrosi, una decisione sbagliata, in altre parole, a un'esistenza per cento motivi diversi disgraziata. Io garantisco non soltanto la vita, ma altresì la salute e la felicità». «Lei è un altruista. Solo, mi chiedo: perché mai il mondo intero non si precipita qui, nel suo negozio? Perché limitare i suoi interventi a pochi soltanto?» «Non ho il tempo né l'attrezzatura». «Potrebbero venir costruite altre di quelle macchine». «Be'», disse Talley, «la maggior parte dei miei clienti sono ricchi. Anch'io devo vivere...» «Lei potrebbe leggere il listino di borsa di domani, se volesse farsi un mucchio di soldi», ribatté Carmichael. «Torniamo alla mia prima domanda. Se un tizio ha poteri miracolosi, perché mai si accontenta di gestire un negozietto come questo?» «Per ragioni etiche. Io... ah... sono contrario al gioco d'azzardo». «Non sarebbe un gioco d'azzardo», gli fece notare Carmichael. «"Mi sono spesso chiesto cosa comperano i vinai..." Ma lei, cosa ricava da tutto questo?» «Soddisfazione», rispose Talley. «La chiami pure così». Ma Carmichael non era soddisfatto. Preferì cambiare argomento. Ciò che quella macchina poteva offrirgli. Un'assicurazione sulla vita, no? La
salute e la felicità. «E cosa può dirmi, di me? Ci sarà un altro punto cruciale nella mia vita?» «Con tutta probabilità, si. Ma non necessariamente una crisi che comporti un pericolo per la sua persona». «Allora mi consideri un cliente fisso». «Io non...» «Mi ascolti», insisté Carmichael. «Non sto tentando di estorcerle qualcosa. La pagherò. La pagherò molto... quanto vorrà. Non sono ricco, ma so esattamente quanto vale, per me, un simile servizio informazioni. Non si deve minimamente preoccupare...» «Ma non può...» «Oh, la smetta. Non sono un ricattatore, niente del genere. Non la sto minacciando di rivelare a tutti ciò che lei fa, se è questo che teme. Sono una persona normale, non un furfante. Le sembro pericoloso? Di che cosa ha paura?» «Lei è una persona normale, sì», ammise Talley. «Soltanto che...» «Perché no?» controbatté Carmichael. «Non le darò fastidio. Ho superato con successo un punto critico, col suo aiuto. Un giorno o l'altro ci sarà un'altra crisi. Mi dia ciò che serve a superarla. Mi faccia pagare ciò che vuole. In qualche modo mi procurerò i soldi. Li prenderò in prestito, se necessario. Non le darò il minimo disturbo. Tutto quello che le chiedo, è di lasciarmi venir qui ogni volta che avrò superato un punto critico, a munirmi di quanto è necessario per il successivo. Cosa c'è di male in questo?» «Niente», disse Talley, con calma. «Bene, allora. Sono un individuo come tanti altri. C'è una ragazza.. Betsy Hoag. Voglio sposarla. Sistemarmi da qualche parte in campagna, allevare bambini e avere sicurezza. Non c'è niente di male in tutto questo, non è vero?» Talley disse: «Era già troppo tardi nel momento in cui è entrato in questo negozio, oggi». Carmichael sollevò lo sguardo: «Perché?» chiese, brusco. Un cicalino ronzò nel retrobottega. Talley andò dietro la tenda e tornò quasi subito con un pacchetto incartato. Lo porse a Carmichael. Carmichael sorrise. «Grazie», disse. «Grazie infinite. Ha nessuna idea di quando sarà il prossimo punto cruciale, per me?» «Tra una settimana». «Le spiace se...» Carmichael stava scartando il pacchetto. Ne tirò fuori
un paio di scarpe dalla suola di plastica. Fissò Talley, perplesso. «È così, eh? Avrò bisogno di queste... scarpe?» «Si». «Suppongo...» Carmichael esitò. «Immagino che non vorrà dirmi il perché?» «No, non lo farò. Ma stia bene attento a calzarle tutte le volte che uscirà». «Non si preoccupi. E... le spedirò un assegno. Potrebbero volermici alcuni giorni per mettere insieme il malloppo, ma lo farò. Quanto?» «Cinquecento dollari». «Le spedirò un assegno oggi stesso». «Preferisco non accettare compensi fino a quando un cliente non è stato soddisfatto», disse Talley. Si era fatto più riservato. I suoi occhi azzurri erano freddi e distanti. «Come vuole», annui Carmichael. «Io vado fuori a celebrare. Lei... beve?» «Non posso lasciare il negozio». «Be', arrivederci. E grazie di nuovo. Non le causerò nessun guaio, sa. Glielo prometto!» Si girò e usci. Seguendolo con lo sguardo, Talley ebbe un sorriso forzato e infelice Non ricambiò il saluto di Carmichael. Non quella volta. Quando la porta si chiuse dietro Carmichael, Talley andò sul retro del suo negozio ed entrò nel locale dove si trovava l'analizzatore. Un periodo di dieci anni può coinvolgere una miriade di cambiamenti. Un uomo che può contare su un tremendo potere quasi a portata di mano può, in quell'intervallo di tempo, trasformarsi da un uomo che non vuole allungare la mano a un uomo che è senz'altro pronto a farlo... e al diavolo i valori morali! La trasformazione non si manifestò tanto in fretta in Carmichael. Va tutto a onore della sua integrità il fatto che ci volessero dieci anni perché una simile trasformazione avvenisse... un'alterazione completa di tutto ciò che gli era stato insegnato. Il giorno in cui era entrato per la prima volta nel negozio di Talley c'era ben poca malvagità in lui. Ma la tentazione era destinata ad accrescersi irresistibilmente una settimana dopo l'altra, visita dopo visita. Talley, per motivi suoi, era soddisfatto di starsene seduto lì in ozio, in attesa dei clienti, soffocando le inconcepibili possibilità della sua macchina sotto una cortina fumogena di funzioni banali. Ma Carmichael
non si accontentava. Gli ci vollero dieci anni per arrivare a quel giorno, ma il giorno arrivò. Talley sedeva nella stanza interna, la schiena rivolta alla porta. Adesso se ne stava rilassato su un'antica sedia a dondolo, gli occhi rivolti alla macchina. Era cambiata ben poco nello spazio d'un decennio. Copriva ancora la maggior parte di due pareti, e l'oculare dell'analizzatore luccicava sotto luci fluorescenti ambrate. Carmichael fissò bramoso l'oculare. Era una finestra, anzi, una porta che si apriva su un potere al di là dei sogni di qualsiasi uomo. Una ricchezza al di là di qualunque immaginazione si trovava appena oltre quello spioncino. Il diritto alla vita e alla morte di qualunque uomo vivente. E non c'era nulla, tra lui e quel favoloso futuro, se non l'uomo che stava lì seduto, guardando la macchina. Talley non parve udire quei passi cauti, o il lieve cigolio della porta alle sue spalle. Non si mosse quando Carmichael sollevò lentamente la pistola. Chiunque avrebbe pensato che fosse ben lungi dall'immaginarsi ciò che stava per capitargli, e neppure perché, o da parte di chi, quando Carmichael gli sparò attraverso la testa. Talley sospirò e rabbrividi un poco, e ruotò la monopola dell'analizzatore. Non era la prima volta che la macchina gli mostrava il suo corpo privo di vita, intravisto in fondo a qualche sequenza di probabilità nel futuro, ma non aveva mai puntato gli occhi sull'accasciarsi di quella figura fin troppo familiare senza che un alito d'incredibile gelo soffiasse su di lui all'indietro dal futuro. Alzo la testa, raddrizzò la schiena e si lasciò andare contro la sedia. Fisso gli occhi, pensieroso, su un paio di scarpe dalla suola ruvida che giacevano accanto a lui, sul tavolo. Restò seduto in silenzio per un po', gli occhi sempre puntati sulle scarpe, mentre seguiva con la mente Carmichael lungo la strada, nella luce calante della sera, e la mattina dopo, e avanti, un giorno dopo l'altro, fino alla crisi successiva, il cui esito sarebbe dipeso dalla solidità dell'appoggio dei suoi piedi sulla banchina di una stazione della metropolitana, mentre un treno passava rimbombando accanto al punto esatto dove Carmichael si sarebbe trovato un giorno della settimana seguente. Questa volta Talley aveva mandato fuori il suo fattorino ad acquistare due paia di scarpe. E un'ora prima aveva esitato a lungo fra il paio di scarpe a suola ruvida e quello con la suola liscia. Giacché Talley era umano, ed
erano molte le volte in cui il suo lavoro gli ripugnava. Ma questa volta, alla fine, era stato il paio di scarpe dalla suola liscia ad essere incartato per Carmichael. Ora, Talley sospirò e tornò a curvarsi per osservare il futuro dentro la macchina, girando il regolare per riportare alla sua vista una scena che aveva già osservato prima. Carmichael, in piedi sull'affollata banchina della metropolitana, la quale luccicava d'un'umida chiazza oleosa dovuta a un qualche traboccamento. Carmichael, con le scarpe dalla suola liscia che Talley aveva scelto per lui. Un movimento tumultuoso della folla, una spinta verso l'orlo della banchina: i piedi di Carmichael scivolarono spasmodicamente quando il treno passò ruggendo. «Addio, signor Carmichael», mormorò Talley. Era il saluto che non aveva pronunciato quando Carmichael aveva lasciato il negozio. Lo pronuncio con rincrescimento... e il rincrescimento era per il Carmichael di oggi, che non si meritava una simile fine. Oggi, non era un furfante melodrammatico alla cui morte si poteva assistere impassibili. Ma il Tim Carmichael di oggi doveva espiare per il Carmichael di dieci anni dopo, e il pagamento doveva, inesorabilmente, essere riscosso. Non e una bella cosa avere il potere di vita e di morte sui propri simili. Peter Talley sapeva, appunto, che non era una bella cosa — ma quel potere era stato posto tra le sue mani. Lui non l'aveva cercato. Gli pareva che la macchina fosse cresciuta quasi per caso, fino al suo incredibile completamento, sotto le sue dita e la sua mente addestrate. Sulle prime, la cosa l'aveva riempito di perplessità. Come avrebbe dovuto usare un simile congegno? Quali pericoli, quali terribili potenzialità si nascondevano in quell'occhio che poteva vedere attraverso il velo del domani? Sua era la responsabilità, e aveva pesato molto su di lui, finché la risposta non era venuta. Ma, quando aveva saputo la risposta, il peso... be', il peso era stato ancora maggiore. Giacché Talley era un uomo mite. Non avrebbe potuto dire a nessuno perché faceva il negoziante. Per la soddisfazione, aveva detto a Carmichael. E a volte, si, c'era davvero una profonda soddisfazione. Ma altre volte — in momenti come quello — c'erano soltanto sgomento e umiltà. Soprattutto umiltà. Noi abbiamo ciò che ti serve? Soltanto Talley sapeva che quel messaggio non era per gli individui che, uno alla volta, entravano nel suo negozio. Quel pronome, si, era proprio inteso al plurale, non al singolare. Era un
messaggio per il mondo intero — il mondo il cui futuro veniva riplasmato con attenzione e amore sotto la guida di Peter Talley. Non era facile modificare la linea principale del futuro... Il futuro è una piramide che prende forma con lentezza, un mattone dopo l'altro, e Talley doveva appunto cambiarlo un mattone dopo l'altro. C'erano uomini che erano indispensabili — uomini che avrebbero creato e costruito — uomini che dovevano venir salvati. Talley dava loro ciò che serviva. Ma, inevitabilmente, c'erano altri uomini il cui corpo era il male. Anche a loro Talley dava ciò di cui il mondo aveva bisogno: la morte. Peter Talley non aveva chiesto quel terribile potere. Ma nelle sue mani era stata posta la chiave, e lui non osava delegare ad altri una simile autorità... a nessun altro uomo vivente. A volte, anche lui. commetteva errori. Si era sentito un po' più sicuro di sé quando gli era venuta in mente l'allegoria della chiave. Sì, la chiave del futuro. Una chiave che era stata posta nelle sue mani. Ricordando ciò, si lasciò andare nuovamente contro lo schienale di quella vecchia sedia, e allungò la mano verso un libro dall'aspetto consunto. Il libro si aprì con facilità su un passo a lui familiare. Le labbra di Peter Talley si mossero silenziose mentre leggeva, una volta ancora, quel passo, in quella piccola stanza sul retro del negozietto in Park Avenue: «Ed io ti dico, che tu sei Pietro... E io darò a te le chiavi dei regno dei cieli...» De Profundis De Profundis di Murray Leinster Thrilling Wonder Stories, Inverno Il terzo contributo di Murray Leinster al meglio del 1945 è una intensa, forte storia in prima «persona» d'un individuo con un problema. Le virgolette che inquadrano quella parola, persona, stanno a significare che questa è una di quelle rare storie che vengono raccontate dal punto di vista alieno. La fantascienza degli anni Quaranta di solito preferiva metter l'accento sulle idee, a scapito dello sviluppo in profondità dei personaggi, ma non è questo il caso di «De Profundis».
(È possibile trovarsi con gli elementi essenziali d'una storia su una intelligenza aliena anche senza mai lasciare la Terra. «Uccisore-di-Giganti» ne era un esempio. Questo è un altro. È certo una buona occasione per far della satira, quando si ha a che fare con un'intelligenza riflessiva e indagatrice, ma del tutto ignorante di faccende che per il lettore sono scontate. Non possiamo fare a meno di sorridere, o anche ridacchiare, davanti agli errori che l'alieno commette, alle false conclusioni alle quali arriva. Eppure, una storia come questa, non serve (o non dovrebbe servire) unicamente come motivo di divertimento per noi. Dovrebbe piuttosto sollevare la domanda: Cos'è che noi non capiamo, e che potrebbe divertire qualcuno che ne sa più di noi? A quali false conclusioni noi arriviamo a causa della nostra ignoranza? In breve, in quali e quanti modi facciamo la parie degli sciocchi? E di far la parte degli sciocchi possiamo esser sicuri. Non faremmo mai la figura degli sciocchi con l'intensità con cui la facciamo, se soltanto riuscissimo a farci entrare in testa che la possibilità di fare la figura degli sciocchi esiste, eccome! I.A.) Io, Sard, faccio rapporto al Shadi durante le Maree della Pace, avendo compiuto un viaggio di ricerca suggerito dallo scienziato Morpt quando discusse con me di un Oggetto caduto dentro Honda dalla Superficie. Temo che il mio rapporto non verrà accettato come veritiero. Perciò, in attesa dei verdetto sulla mia salute mentale, do questo rapporto perché sia accettato come scienza o come delirio a seconda della scelta del Shadi... Ero presente quando l'Oggetto è caduto. In quel momento ero in comunicazione con lo scienziato Morpt, che stava meditando sui fatti dell'universo. Era piuttosto assonnato, e la sua mente s'impegnava al problema più per senso del dovere che per un'autentica ispirazione mentre rifletteva — a beneficio nostro, dei suoi studenti, cioè — sulle prove della teoria di Caluph sulla struttura dell'universo, secondo la quale questo e, in sostanza, un guscio di materia solida pieno d'acqua la quale, venendo respinta, per sua stessa natura, dal centro, acquista pressione, e noi, gli Shadi, viviamo nella regione di maggior pressione. Morpt si era quasi appisolato del tutto mentre rifletteva, per nostra informazione, che questa teoria giustifica tutti i fenomeni fisici conosciuti, salvo l'esistenza del gas, una sostanza che non è né solida né liquida e si trova soltanto nelle nostre vesciche natatorie. Per questa ragione si suppone, di solito, che sia la nostra parte immortale, la
quale s'innalza fino al centro dell'universo quando il nostro corpo si consuma, onde esistere colà per sempre. Mentre meditava, ricordai gli esperimenti di Morpt, secondo i quali una parte di questo gas poteva venir espulso dal corpo di un Shadi ed esser tenuto in un contenitore rovesciato, mentre il corpo formava una nuova riserva di gas nella vescica natatoria. Aspettavo con ansia l'acuto, penetrante ragionamento di Morpt, il quale aveva sempre negato che una sostanza — per quanto rara e singolare — in grado d'esser confinata in un contenitore, e per di più d'essere espulsa e sostituita in un corpo, possa costituirne l'essenza vitale. Questi esperimenti di Morpt hanno causato grandi turbamenti nei circoli scientifici. In quel momento, comunque, era soltanto un insegnante assonnato, il quale pensava, mezzo addormentato, una lezione che aveva pensato altre centinaia di volte. Era un po' infastidito da una pietra aguzza conficcata a metà dentro il suo settimo tentacolo, che, però, non era abbastanza scomoda da indurlo a muoversi. Io giacevo nella mia caverna in ansiosa attesa. Poi, d'un tratto, fui conscio di qualcosa che stava scendendo dall'alto. L'istinto della nostra razza è di bloccare il trasferimento del pensiero e ghermire il cibo prima che chiunque altro se ne accorga, entrando a sua volta fulmineamente in azione. Mi gettai subito fuori della mia caverna e mi portai nello spazio sotto l'Oggetto. Sollevai i miei tentacoli per afferrarlo. Tutto il procedimento fu automatico: attivazione del blocco mentale, percezioni esterne protese al massimo, messa a fuoco d'ogni immagine mentale proveniente dall'Oggetto che affondava per prevenire ogni suo tentativo di fuga... ma ogni Shadi ben sa come tutto ciò si faccia per puro istinto, ogni qualvolta qualcosa di mobile giunge alla nostra portata. Tuttavia, due fatti specifici influenzarono il mio comportamento dopo quella prima reazione automatica. Primo, mi ero già nutrito, e da poco. Secondo: ricevetti delle immagini mentali dall'interno dell'Oggetto che curiosamente concordavano con l'argomento della lezione di Morpt e i miei personali pensieri in quel momento. Quando il mio primo tentacolo si calò su quell'Oggetto che scendeva, invece di pensieri di paura e di battaglia, intercettai il messaggio d'una entità che stava esprimendo disperazione, rivolgendosi a un'altra. «Mia cara, non rivedremo mai più la Superficie», stava pensando. E ricevetti, nel medesimo istante, una vivida immagine di cos'è la Super-
ficie. Dal momento che descriverò quest'ultima più tardi, ometto la descrizione dell'immagine mentale che ricevetti, restandone quasi abbacinato. Mi diede, comunque, da pensare. E credo sia stata una fortuna. Tanto per cominciare, se avessi spinto l'Oggetto dentro le mie fauci, come l'istinto m'induceva a fare, credo che avrei avuto non pochi problemi a digerirlo. L'Oggetto, come ebbi modo di scoprire ben presto, era fatto di quella rara sostanza solida che compare soltanto sotto forma di manufatti. Un campione del genere è stato descritto a più riprese da Glor. E lungo circa la metà del corpo d'uno Shadi, cavo, appuntito a un'estremità, con uno dei fianchi stranamente piatto, e con escrescenze dalla forma strana, aperture, e due alberi e un tubo cavo che spuntano da esso. Come ho detto, l'Oggetto era fatto di questo strano materiale solido. Il mio senso spaziale mi disse subito che era cavo. In più, era anche pieno di gas! E ricevevo delle immagini mentali in conflitto fra loro, le quali mi dicevano che c'erano due creature vive dentro di esso! Lasciate che ripeta: c'erano due entità viventi all'interno dell'Oggetto, e vivevano nel gas invece che nell'acqua! Ero stupefatto. Per lungo tempo non fui conscio di nient'altro che non fossero i pensieri delle creature all'interno dell'Oggetto. Tenevo saldamente l'Oggetto fra due dei miei tentacoli, sbalordito per quell'incredibile fatto. Fui estremamente incauto. Avrei potuto essere ucciso e consumato mentre me ne stavo lì, paralizzato dalla sorpresa. Ma subito mi ripresi, e tornai in fretta alla mia caverna, portando con me l'Oggetto. Mentre facevo questo, fui conscio di pensieri che esprimevano una viva sorpresa: «Abbiamo toccato il fondo... no! Qualcosa ci ha afferrati. Qualcosa di dimensioni mostruose. Presto sarà finita, ormai...» Non in diretta risposta, ma in modo indipendente, l'altra entità pensò cose profondamente emotive che mi è impossibile descrivere. Incomprensibili per me. Il prodotto d'una psicologia così aliena nei confronti della nostra che non c'è alcun modo di esprimerle. Posso soltanto dire che la seconda entità era in preda alla più completa disperazione, e perciò bramava intensamente essere stretta fra i due tentacoli dell'altra entità. Ciò, a mio modo di vedere, dovrebbe mettervi in una condizione di totale impotenza, ma è proprio questo che la seconda creatura agognava. Riferisco il fatto senza fare nessun tentativo per spiegarlo. Mentre scivolavo dentro la mia caverna, mandai casualmente l'Oggetto a sbattere contro il bordo superiore dell'apertura. Fu un colpo duro. Ricevetti di nuovo un'improvvisa ondata di disperazione.
«Ci siamo!» pensò la prima creatura, e si aspettò, con orrore, il rovesciarsi dell'acqua dentro all'Oggetto pieno di gas. Dal momento che la psicologia di queste creature è del tutto inesplicabile, mi limiterò soltanto a riassumere le poche immagini mentali che ricevetti durante il successivo, breve periodo. Furono queste immagini che, in qualche modo, spiegarono la storia dell'Oggetto. Tanto per cominciare, si era trattato d'un esperimento scientifico. L'Oggetto era stato creato per contenere il gas dentro il quale quelle creature vivevano, consentendo poi che questo gas fosse calato nelle regioni della pressione. Le due creature appartenevano alla stessa specie, ma erano diverse in un modo per il quale noi non abbiamo pensiero. Una pensava a sé come ad un "uomo", e l'altra come a una "donna". Non avevano nessuna paura l'una dell'altra. Avevano accompagnato l'Oggetto allo scopo di registrare le loro osservazioni nella regione della pressione. Per effettuare queste osservazioni avevano sospeso l'Oggetto a un lungo tentacolo che partiva da uno di quei manufatti descritti da Glor. Una volta che avessero osservato, avrebbero dovuto esser riportati a quel manufatto. Poi il gas sarebbe stato liberato e le due creature si sarebbero riunite ai loro compagni. Il fatto che due creature potessero rimanere assieme, e che entrambe si sentissero sicure, l'una in presenza dell'altra, è già uno strano pensiero. Ma i loro pensieri mi dissero che quaranta o cinquanta altri della loro stessa specie li aspettavano sul manufatto, tutti ugualmente privi dell'istinto di nutrirsi l'uno dell'altro. Ciò vi sembrerà impossibile, naturalmente, ma io mi limito qui a descrivere le immagini che ricevetti. Era comunque accaduto che, giunto alla massima lunghezza, il tentacolo che sosteneva l'oggetto si era rotto. Perciò l'Oggetto era affondato nelle regioni della pressione dove noi Shadi viviamo. Mentre si avvicinava alla solidità, io avevo allungato un tentacolo, avevo afferrato l'oggetto e per miracolo non l'avevo inghiottito. Avrei potuto farlo facilmente. Là, dentro alla mia caverna, dopo che per un po' di tempo mi ero limitato a ricevere i pensieri che provenivano da dentro l'Oggetto, cercai di comunicare. Per prima cosa, com'è naturale, cercai di paralizzare le due creature con la paura. Ma esse non parvero consapevoli della presenza di un'altra mente. Tentai allora, con più delicatezza, di conversare con loro. Ma parevano del tutto prive della facoltà di ricevere. Sono creature razionali ma, avendo le menti bloccate, sono del tutto inconsce dei pensieri degli altri. In
effetti, era chiaro che i pensieri dell'una costituivano un segreto per l'altra. Cercai di capire il perché di tutto questo, ma non ci riuscii. Alla fine, dopo molti inutili sforzi, colto da un doveroso e profondo senso di umiltà, inviai una chiamata mentale a Morpt. Questi stava ancora spiegando in tono sonnolento i vari dettagli della teoria di Caluph — cioè, che il gas uscito dalle vesciche natatorie dei Shadi morti si è tutto raccolto al centro dell'universo in una grande bolla, e che il bordo tra la bolla centrale di gas e l'acqua è la leggendaria Superficie. Le leggende della Superficie sono ben note. Morpt rifletté, con sonnolenta ironia, che se il gas è la porzione immortale d'uno Shadi, allora, dal momento che due Shadi, quando capitano l'uno in vita dell'altro, iniziano subito a combattere fino alla morte, la grande bolla di gas al centro dell'universo dev'essere la scena d'un gigantesco, eterno, splendido combattimento. Ma la sua ironia andò perduta con me. L'interruppi per dirgli dell'Oggetto e di ciò che avevo già appreso da esso. Sentii subito altre menti affollarsi in me. Tutti gli allievi di Morpt si misero prontamente all'erta. Oscurai la mia mente con una cautela maggiore del solito per evitar di fornire qualche indicazione della posizione della mia caverna — e servii la scienza meglio che potevo. Dissi con franchezza tutto ciò che sapevo. In altre condizioni, sarei stato orgoglioso dello scalpore da me suscitato. Parve che ogni Shadi dell'Honda si fosse unito alla discussione. Molti, com'era ovvio, dissero che mentivo. Ma in quel momento ero ben nutrito e pieno di curiosità, perciò non rivelai dove mi trovavo a quelli che mi sfidarono. Aspettai. Perfino Morpt cercò di stuzzicarmi, sperando che facessi qualche incauta rivelazione, e fu colto da un tipico accesso di collera shadi quando non ci riuscì. Ma Morpt ha esperienza, ed è gigantesco. Non avrei avuto nessuna speranza di sopravvivere se ci fossimo affrontati fuori delle Maree della Pace. Comunque, una volta convinto che non sarebbe stato possibile farmi cadere in trappola, Morpt accettò di discutere il fatto spassionatamente e alla fine suggerì il viaggio dal quale sono appena tornato. Mi consigliò — se, malgrado la mia cautela nei confronti degli altri Shadi (tutti gli allievi di Morpt avranno certo riconosciuto l'ironico tono di sfida con cui pensò questo), non avevo paura di servire la scienza — di riportare l'Oggetto alle Altezze. Avrei dovuto chiedere, naturalmente, istruzioni alle creature dentro l'Oggetto. A mia volta, come protezione dalla loro specie avevo la mia forza e la mia ferocia. Per affrontare le condizioni delle Altezze, Morpt mi ri-
cordò i suoi esperimenti, come l'unica possibile salvaguardia. Morpt mi disse, come già sapevo, che il gas delle nostre vesciche natatorie si espande man mano la pressione diminuisce. In condizioni normali abbiamo dei muscoli che le controllano, cosicché ci è possibile fluttuare all'inseguimento delle nostre prede oppure affondare, a volontà, fino alla solidità. Ma, aggiunse, man mano mi fossi avvicinato all'Altezza, avrei scoperto che la pressione si sarebbe ridotta al punto che perfino i miei muscoli sarebbero stati incapaci di controllare il gas. In queste condizioni, come avevano mostrato gli esperimenti di Morpt, avrei dovuto liberarne una parte. Poi, avrei potuto ridiscendere. Altrimenti il mio stesso gas in espansione mi avrebbe trascinato sempre più in alto, magari rompendo la cavità natatoria e invadendo altre parti del corpo; espandendosi sempre di più, avrebbe finito per trascinarmi fino alla Superficie e alla bolla centrale della teoria di Caluph. In questo caso, commentò argutamente Morpt, sarei diventato l'unico Shadi a sapere se Caluph aveva oppure no ragione, ma era assai improbabile che avrei potuto far ritorno a raccontarlo. Tuttavia, insisté a ribadire che, se avessi fatto delle soste per espellere un po' di gas tutte le volte che avessi provato un'eccessiva spinta di galleggiamento, quasi certamente sarei riuscito a portare l'Oggetto assai vicino alla Superficie, ottenendo così una prova definitiva della verità (o dell'errore) dell'intera cosmologia di Caluph, rendendo così un grande servigio alla scienza. I penseri provenienti dall'interno dell'Oggetto mi sarebbero stati di grande aiuto nell'impresa. Decisi subito che avrei fatto il viaggio. Tanto per cominciare, non ero affatto sicuro che sarei riuscito a tenere nascosto il luogo dove abitavo, se fossi stato sondato in continuazione da menti più vecchie e più esperte. Soltanto menti di estrema potenza, come quella di Morpt e di altri insegnanti, possono rischiare d'esporsi a continue, e sempre più avide, ispezioni. Com'è ovvio, è proprio dagli errori e dalle imprudenze commesse dai loro studenti, che gli insegnanti traggono il maggior vantaggio... Sarebbe stata un'autentica prova di saggezza da parte mia lasciare la mia caverna, adesso che avevo richiamato a tal punto l'attenzione su di me. Così, rafforzai al massimo il mio blocco mentale e, con l'Oggetto stretto in un tentacolo, scivolai rapido su per il pendio che circonda Honda, prima che altri Shadi pensassero di pattugliarlo, alla mia ricerca... e alla ricerca l'uno dell'altro. Salii molto al di sopra del mio solito livello, prima di fare una sosta. Ar-
rivai talmente in alto che il gas nella mia vescica natatoria cominciò a crearmi un sensibile fastidio. Feci le contorsioni che mi aveva suggerito Morpt, finché non ne uscì una parte. Potrà parervi strano che l'abbia fatto con assoluta tranquillità. Ma la mia curiosità era ormai coinvolta, e noi Shadi siamo sperimentatori inveterati. Così, trovai possibile compiere quest'atto — la deliberata liberazione d'una parte del contenuto della mia vescica natatoria — che avrebbe riempito d'orrore, fino a poco tempo fa, intere generazioni di Shadi. Morpt aveva ragione. Fui in grado di proseguire la mia ascesa senza nessuna scomodità. Inoltre, man mano l'Altezza aumentava, la mia mente aveva sempre più cose a cui pensare. Le due creature — l'uomo e la donna — dentro all'Oggetto, erano stupefatte per ciò che era accaduto al loro contenitore. «Siamo risaliti di seicento metri dalla nostra massima profondità», disse l'uomo alla donna. «Mio caro, non devi mentire per farmi coraggio», rispose la donna. «Non m'importa. Non avresti mai potuto tenermi fuori dalla batisfera... preferisco morire con te, piuttosto che vivere senza di te». Simili pensieri non sembrano compatibili con l'intelligenza. Una razza con una simile psicologia sembrerebbe destinata a estinguersi. Ma non ho la pretesa di capire. Continuai verso l'alto, fino a quando non mi trovai costretto a ripetere un'altra volta gli esercizi raccomandati da Morpt. I movimenti necessari scossero violentemente l'Oggetto. Le creature dentro di esso si chiesero, disperate, il perché di quelle scosse. A queste creature non soltanto manca la facoltà ricettiva, cosicché i loro pensieri rimangono segreti l'uno per l'altro, ma a quanto pare non possiedono nessun senso spaziale, nessun senso della pressione, e sembrano perfino mancare di quel ciclo degli istinti che è così necessario a noi Shadi. Durante tutto il tempo del mio contatto con la loro mente, non ho trovato nessun pensiero di qualcosa che assomigliasse anche in modo approssimativo alle Maree della Pace, quando noi Shadi cessiamo del tutto di nutrirci e, perciò, d'istinto cessiamo di temerci l'un l'altro e ci mescoliamo liberamente per generare. C'è da chiedersi come la loro razza possa continuare a esistere senza le Maree della Pace, a meno che la loro intera vita non si svolga in una Marea della Pace. Ma in questo caso, poiché nessuno si nutre durante le Maree della Pace, perché non muoiono di fame? Davvero, sono inesplicabili. Fissavano con estrema attenzione i loro strumenti, man mano l'ascesa
continuava. Gli strumenti sono manufatti che quelle creature usano per supplire ai loro sensi difettosi. «Milleduecento metri», disse l'uomo alla donna. «Soltanto il cielo sa cosa è accaduto!» «Pensi che ci sia una speranza per noi?» chiese la donna con struggente desiderio. «E come potrebbe esserci?» si chiese l'uomo, in tono amaro. «Siamo sprofondati fino a una profondità di cinquemilacinquecento metri. Ci sono quasi tre miglia d'acqua sopra le nostre teste, e l'ossigeno non durerà per sempre. Vorrei tanto non averti lasciato venire con me. Se soltanto tu fossi lassù, al sicuro!» Cinquemilacinquecento metri — qualunque cosa ciò significasse — sopra l'Honda, le caratteristiche delle creature viventi erano cambiate. Tutte le forme di vita erano più piccole, e il loro senso spaziale pareva imperfetto. Non erano consce della mia venuta finché, praticamente, non gli ero addosso. Due dei miei tentacoli si affaccendarono senza soste a ghermirle al passaggio. Le luci dei loro corpi erano meno brillanti di quelle delle creature inferiori dell'Honda. Continuai la mia salita fluttuante verso la Superficie. Di tanto in tanto mi fermavo ad eseguire gli esercizi di Morpt: il volume di gas che liberavo dalla mia vescica natatoria era incredibile. Ricordo di aver pensato, alla stessa maniera ironica di Morpt, che se ogni Shadi possedeva una porzione immortale così ampia, la bolla centrale doveva esser più grande dell'intera Honda! Adesso le creature all'interno dell'Oggetto passavano da uno sbalordimento all'altro, guardando i loro strumenti. «Siamo risaliti di duemilacinquecento metri», disse l'uomo, come stordito. «Eravamo scesi a cinquemilacinquecento metri, la più grande profondità in questa parte del mondo». Il pensiero «mondo» si avvicina al concetto shadi per «universo», ma ci sono differenze che lasciano perplessi. «Siamo tornati a salire d'una buona metà», aggiunse l'uomo. «Pensi che la zavorra si sia staccata e galleggeremo fino alla superficie?» chiese la donna con ansia. Il pensiero «zavorra» corrispondeva a una cosa legata all'Oggetto per farlo discendere, e che se si fosse staccata dall'Oggetto l'avrebbe fatto sollevare. Questa parrebbe una sciocchezza, poiché tutte le sostanze scendono, eccettuato il gas. Comunque, io mi limito a riferire soltanto ciò che
ho percepito. «Ma non stiamo galleggiando», obbiettò l'uomo. «Se così fosse, saliremmo costantemente. Invece, finora siamo saliti ogni volta di circa trecento metri, subendo poi una scossa così violenta quasi da morirne. Poi saliamo di altri trecento metri, e c'è un'altra scossa. Non stiamo risalendo liberamente. Veniamo trasportati. Ma il cielo sa cosa ci trasporta, e perché». Questo, faccio notare, è segno di razionalità. Sapevano che la loro ascesa era del tutto inspiegabile, secondo i loro criteri. La mia curiosità crebbe. Dovrei spiegare a questo punto in che modo quelle creature conoscevano la loro posizione. Non hanno senso spaziale o un qualche senso della pressione. Per quest'ultimo usavano degli strumenti — manufatti — che rivelavano ad essi la loro ascesa. La cosa straordinaria era il fatto che ispezionavano questi strumenti per mezzo di una luce che non producevano essi stessi. Anche la luce era prodotta da un manufatto. E questa luce artificiale era intensa abbastanza da esser riflessa, non soltanto in modo percettìbile, ma anche assai chiaro, cosicché gli strumenti venivano visti soltanto per riflesso. Temo che Kanth, il quale grazie alla scoperta che la luce può esser riflessa si è guadagnato una grossa reputazione di scienziato, negherà che una luce qualsivoglia possa essere tanto potente da fare in modo che oggetti non luminosi sembrino possedere una propria luce, ma devo andare perfino oltre. Man mano imparavo a condividere con le creature dell'Oggetto non soltanto i pensieri formati in modo consapevole ma anche le loro impressioni sensoriali, appresi che per loro la luce ha qualità diverse. In altre parole, alcune luci hanno qualità che le rendono diverse da altre. Essi chiamano, la luce che noi conosciamo, «azzurra». E conoscono altri termini, che definiscono «rosso», «bianco» e «giallo», e altri ancora. Come noi percepiamo la differenza nella solidità delle rocce e della melma, essi percepiscono la differenza negli oggetti a seconda della luce che riflettono. Dunque, essi possiedono un senso che noi Shadi non abbiamo. Sono ben conscio che gli Shadi sono il più elevato tipo di organismo possibile, ma quest'osservazione sulle creature dell'Oggetto — se non è follia — costituisce un'importante fatto da meditare. Ma io continuai a fluire costantemente verso l'alto, fermandomi soltanto per eseguire le contorsioni indispensabili a espellere nuove porzioni di gas dalla mia vescica natatoria, la cui espansione minacciava di diventare incontrollabile. Man mano salivo sempre più in alto, l'uomo e la donna si riempirono di emozioni di natura del tutto straordinaria. Queste emozioni erano d'una intensità del tutto insopportabile per loro, e c'è da dubitare che
uno Shadi abbia mai provato sensazioni del genere. Certo, l'emozione che essi chiamano «amore» è inconcepibile per uno Shadi, a meno che non si trovi a osservarla, appunto, in creature del genere. Essa conduce a ogni sorta di stravaganze... ad esempio la donna mise i suoi tentacoli gemelli intorno all'uomo e gli si aggrappò senza fare nessun tentantivo per sbudellarlo o squartarlo. L'idea di due creature della stessa specie che assaporano il piacere di trovarsi insieme senza divorarsi fra loro — salvo che durante le Maree della Pace, com'è naturale — è quasi inconcepibile per uno Shadi. Tuttavia, sembra che sia parte integrante della loro psicologia. Ma questo rapporto si sta facendo troppo lungo. Fluttuai sempre più verso l'alto. Le creature dell'Oggetto provavano emozioni sempre più intense e incredibili. In successione, l'uomo riferì alla donna che si trovavano soltanto a milleduecento dei loro «metri» sotto la Superficie, poi a seicento, poi a trecento. Adesso, ero completamente posseduto dalla curiosità. Avevo appena compiuto quello che risultò essere l'ultimo, indispensabile esercizio di Morpt e mi stavo muovendo ancora più in alto, quando il mio senso spaziale mi trasmise un nuovo, incredibile messaggio. Sopra di me, c'era una barriera alla sua capacità di funzionare. Non posso in alcun modo trasmettervi la sensazione che si prova trovando una barriera al proprio senso spaziale. Ero consapevole dell'ambiente in cui mi trovavo in ogni direzione, ma a un certo punto, sopra di me, all'improvviso non c'era niente... niente! Niente! A tutta prima, fu allarmante. Fluii verso l'alto di metà della mia lunghezza, e la barriera si fece più vicina. Con cautela, perfino con timore, fluii lentamente sempre più vicino. «Centocinquanta metri», annunciò l'uomo dentro l'Oggetto. «Cielo, soltanto centocinquanta metri! Dovremmo cominciare a intravedere qualche barlume di luce attraverso gli oblò... No, adesso è notte». Mi fermai, dibattendo tra me la situazione. Ero abbastanza vicino alla barriera da poter allungare il mio primo tentacolo e toccarla. Esitai a lungo. Poi la toccai. Non accadde nulla. Arditamente, vi cacciai dentro il tentacolo. E penetrò nel nulla. Là, dove adesso si trovava, non c'era acqua. Con viva emozione, mi resi conto che sopra di me c'era la bolla centrale e che io solo, fra tutti gli Shadi viventi, l'avevo raggiunta e avevo osato toccarla. La sensazione sul mio tentacolo all'interno della bolla, oltre la Superficie era quella d'un peso enorme, come se il gas degli Shadi defunti mi stesse spingendo indietro. Ma non mi attaccarono, non tentarono neppure di far-
mi del male. Sì, ero tremendamente orgoglioso. Mi sentivo come se avessi sopraffatto e consumato uno Shadi grande il doppio di me. E mentre esultavo, fui conscio delle emozioni delle creature all'interno dell'Oggetto. «Sessanta metri!» esclamò l'uomo, frenetico. «Non può fermarsi qui! Non deve! Mia cara, il destino non può essere così crudele!» Provai piacere nell'avvenire le emozioni delle due creature. Adesso provavano una nuova emozione che era anch'essa assai strana, almeno quanto tutte le mie altre esperienze con loro. Era un'emozione che sembrava anticiparne altre. La donna le diede un nome. «È follia», dichiarò all'uomo, «ma per qualche motivo, comincio a sperare di nuovo». E, nel mio piacere e interesse intellettuale, parve una cosa proprio da niente, per uno come me che aveva già tanto osato, stimolare ancora un poco quelle emozioni. Risalii ancora un poco. La barriera che bloccava il mio senso spaziale, la Superficie, si fece ancora più vicina. «Trenta metri», disse l'uomo, con un'emozione che per lui era angoscia, ma che, per la sua novità, era una fonte di piacere intellettuale per me. Trasferii l'Oggetto su uno dei tentacoli anteriori e lo spinsi avanti. Urtò contro la solidità del pendio, che in quel punto era molto vicino e addirittura penetrava oltre la Superficie. L'uomo sperimentò con grandissima intensità quell'emozione chiamata «speranza». «Cinquantacinque metri!» gridò. «Tesoro, se ricominceremo a scendere, aprirò il portello e noi usciremo fuori non appena la batisfera sarà completamente allagata. Non so se siamo oppure no vicini alla riva, ma tenteremo». La donna gli si era premuta addosso. L'angosciata speranza che la riempiva era una sensazione che si mescolava piacevolmente con la grande euforia che provavo per il mio coraggio e il mio successo. Spinsi di nuovo l'oggetto in avanti. Qui la Superficie era così vicina alla Solidità che una parte del mio tentacolo sali sopra la Superficie. E le emozioni all'interno dell'Oggetto raggiunsero l'apice. Continuai a spingere con forza, contro il peso che mi schiacciava all'interno della Bolla, fino a quando anche P Oggetto ruppe la Superficie, e poi ancora più oltre, finché non fu più nell'acqua ma nel gas, adagiato sopra quella Solidità che era, essa stessa, toccata
soltanto dal gas. L'uomo e la donna lavorarono frenetici all'interno dell'Oggetto. Una parte di esso si staccò. Essi si arrampicarono fuori. Aprirono le loro fauci e pronunciarono grida. Si avvinghiarono l'un l'altro coi tentacoli e si toccarono vicendevolmente le fauci, non per divorarsi, ma per esprimere le loro emozioni. Si guardarono intorno storditi per il sollievo, ed io vidi attraverso i loro occhi. La Superficie si perdeva in lontananza fin dove i loro sensi erano in grado di rivelarla, era mobile e irregolare, eppure piatta. Si trovavano sopra una Solidità dalla quale delle cose sporgevano. Sopra, c'era una vasta oscurità, penetrata da innumerevoli piccole fonti risplendenti di luce. «Grazie a Dio!» esclamò l'uomo. «Poter vedere di nuovo gli alberi e le stelle!» Si sentivano del tutto sicuri, e in pace, come in una Marea della Pace moltiplicata per mille. E forse io ero inebriato dal mio ardimento o forse dalle emozioni che ricevevo da loro. Spinsi i miei tentacoli attraverso la Superficie. Il loro peso era enorme. Ma lo è anche la mia forza. Con grande coraggio sollevai il mio corpo. Spinsi tutta la mia parte anteriore attraverso la Superficie dentro la bolla centrale. Ero nella bolla centrale e vivevo ancora! Il mio peso crebbe al di là di ogni possibile calcolo, ma per un lungo, orgoglioso intervallo, mi profilai sopra la Superficie e vidi con i miei occhi — tutti e ottanta — la Superficie sotto di me e il tratto di Solidità sopra il quale si trovavano l'uomo e la donna. Io, Sard, feci questo! Mentre tornavo a sprofondare sotto la Superficie, ricevetti gli stupefacenti pensieri delle creature. «Un serpente di mare!» pensò l'uomo, e dubitò della sua salute mentale, proprio come io temo che anche la mia sarà posta in dubbio. «Ecco cos'è stato». «Perché no, tesoro?» rispose con calma la donna. «È stato un miracolo, ma non si poteva permettere che due persone, che si amano come noi ci amiamo, dovessero morire!» Ma l'uomo fissava la Superficie sotto la quale ero scomparso. Colsi il suo pensiero turbato. «Nessuno ci crederebbe. Direbbero che siamo pazzi. Ma, accidenti, qui c'è la nostra batisfera, e il nostro cavo si è spezzato proprio quand'eravamo sopra la Fossa. Quando ci troveranno, diremo soltanto che non sappiamo cos'è successo... e che cerchino pure d'immaginarselo loro!» Rimasi in stato di riposo, vicino alla Superficie, pensando a molte cose.
Dopo un lungo periodo ci fu luce. Una luce feroce e insopportabile. Divenne più forte, e ancora più forte. Era insopportabile. S'insinuava giù, fino alle più vicine profondità. Ciò avvenne molte maree fa, poiché non osai far ritorno a Honda con una porzione così enorme dei gas della mia vescica natatoria liberati dentro la bolla centrale. Sostai non molto al di sotto della Superficie, fino a quando la mia vescica natatoria mi parve tornata normale. Scesi un tratto dopo l'altro, e ad ogni tappa aspettai finché la mia «parte immortale» non si fu riempita. È difficile nutrirsi adeguatamente con creature tanto piccole come quelle che abitano le Altezze. Mi ci volle molto tempo per completare la discesa, per tutto quel tratto che, grazie alla scoperta di Morpt, avevo eseguito con tanta rapidità in salita. Passai tutto il mio tempo da sveglio intento alla cattura del cibo, ed ebbi perciò poco tempo per meditare. Non una sola voita fui realmente sazio, durante tutte le soste che feci per aspettare che la mia vescica natatoria si riempisse. Ma quando feci alfine ritorno alla mia caverna, scoprii che, nel frattempo, era stata occupata da un altro Shadi. Mi nutrii assai bene. Poi, arrivarono le Maree della Pace. E ora, avendo generato, metto il rapporto di questo mio viaggio alla Superficie a disposizione di tutti gli Shadi. Se verrà decretato che sono folle, non dirò altro. Ma questo è il mio rapporto. Adesso decidete, o Shadi. Sono pazzo? Io, Morpt, durante le Maree della Pace, ho ascoltato il rapporto di Sard, e dopo essermi consultato con altri Shadi, dichiaro che, con tutta evidenza, egli ha confuso l'immaginario con il reale. Le descrizioni degli aspetti scientifici del suo viaggio, che non sono collegati con le supposte creature dell'Oggetto, si adeguano alla nostra scienza. Ma è manifestamente impossibile che qualsivoglia creatura possa vivere in modo permanente in vicinanza dei suoi compagni senza l'istinto di nutrirsi di essi. È manifestamente impossibile, altresi, che delle creature possano vivere nel gas. La distinzione fra luce e luce, poi, è una palese assurdità. La psicologia di creature come quelle descritte da Sard è frutto di sogni. Perciò, per generale consenso, il rapporto presentato da Sard non è scienza. Comunque, non è detto che Sard sia folle. Gli effetti fisiologici del viaggio che ha ammesso di aver compiuto fino alle più grandi Altezze ha probabilmente provocato quei disordini, nel suo corpo, che sono sfociati
in illusioni. La lezione scientifica che dobbiamo imparare da questo rapporto è che i viaggi alle Altezze, anche se possibili grazie agli esercizi corporali da me inventati, sono molto poco saggi e non dovrebbero esser mai compiuti dagli Shadi. Redatto durante le Maree della Pace... Pi nel cielo Pi in the Sky di Fredric Brown Thrilling Wonder Stories, Inverno Durante gli anni Cinquanta e Sessanta uno dei bersagli prediletti per gli scrittori di fantascienza è stata l'industria della pubblicità, che subì pesanti attacchi, in particolare dalle pagine di Galaxy Science Fiction, di Horace Gold. Il capo riconosciuto di questo genere di attacchi era Frederik Pohl, che in romanzi e racconti come The Space Mercahts (1953, scritto insieme a C.M. Kornbluth), «Happy Birthday, Dear Jesus», e «The Tunnel under the World» (solo per citarne alcuni) smantellò l'intero ingranaggio produzione-consumo e le premesse sulle quali era fondato. Molti altri scrittori, da Ann Warren Griffith («Captive Audience») e John Jakes («The Sellers of the Dream») analizzarono a fondo quest'industria e le sue strategie. Ma molto prima di questa tendenza generalizzata, ci fu Fred Brown, col suo «Pi nel cielo». (Quanto sono splendide le meraviglie della semantica! Chiamatela «pubblicità», e, come dice Marty, i tizi intellettuali, come gli scrittori, sapranno trovare le parole più aspre per condannarla, le tecniche narrative più taglienti per farla a pezzi. L'ho fatto anch 'io. D'altro canto, chiamatela «attività promozionale», e gli scrittori accorreranno a torme da ogni direzione per prendervi parte. Con quanto ardore essi condannano i produttori di detersivi che reclamizzano le proprie merci. E con quanto, ancor di più, ardore, condannano gli editori che non reclamizzano abbastanza le proprie merci! Immagino che tutto dipenda da chi è padrone del bue che c'è da scannare. Fred Pohl è invero il capo riconosciuto di questi fustigatori... ma una
volta ho visto il programma d'un giro promozionale di Fred per uno dei suoi libri. Credo si sia fermato in ogni città con una popolazione superiore ai 400 abitanti, e cosa credete abbia fatto in ognuna di esse? Pubblicità al suo libro, naturalmente. Ora, per quanto mi riguarda, io non viaggio, perciò non m'impegno in questi bassi espedienti, ma non sono neppure io un modello di virtù. Non credo ci sia uno scrittore al mondo che discuta di se stesso quanto faccio io... e anche questa è pubblicità. I.A.) Roger Jerome Phlutter, per il cui assurdo nome non offro giustificazione alcuna, se non il fatto che è genuino, era, all'epoca degli avvenimenti qui narrati, un impiegato che sgobbava parecchio all'Osservatorio Cole. Era un giovanotto non particolarmente brillante, anche se sbrigava i suoi compiti quotidiani con impegno ed efficienza. Studiava calcolo a casa, un'ora ogni sera, e sperava, un giorno, di diventare astronomo capo in qualche importante osservatorio. Comunque sia, il nostro resoconto degli avvenimenti sulla fine di marzo dell'anno 1987 deve cominciare proprio con Roger Phlutter, per l'ottima e sufficiente ragione che lui, fra tutti gli uomini della Terra, fu il primo ad osservare l'aberrazione stellare. Vi presento Roger Phlutter. Alto, piuttosto pallido perché passava troppo tempo al chiuso, lenti spesse con montatura di tartaruga, capelli scuri tagliati corti alla maniera degli anni Ottanta, abbigliato né troppo bene né troppo male, fumava un po' troppe sigarette... Alle cinque meno un quarto di quel pomeriggio, Roger era impegnato in due operazioni simultanee. Una consisteva nell'esaminare con un microcomparatore a sfarfallio una lastra fotografica presa la sera prima, d'una porzione della costellazione dei Gemelli; l'altra, nel valutare se, coi tre dollari che gli restavano della paga della settimana prima, poteva osare una telefonata a Elsie per chiederle di uscire con lui da qualche parte. Non c'è dubbio che un qualunque giovanotto normale abbia condiviso in qualche momento della sua vita la seconda occupazione di Roger Phlutter, ma non tutti certamente avranno saputo non dico il funzionamento, ma l'esistenza stessa d'un microcomparatore a sfarfallio. Perciò distogliamo il nostro sguardo da Elsie e puntiamolo sui Gemelli. Un microcompratore a sfarfallio, dunque, è un dispositivo ottico in cui s'inseriscono due lastre fotografiche dell'identica porzione di cielo, scattate
in tempi diversi. Queste lastre vengono sovrapposte con grande attenzione, e l'operatore può mettere a fuoco nell'oculare, prima l'una e poi l'altra, alternativamente, a gran velocità, grazie a un otturatore. Se le due lastre sono identiche, questa manovra con l'otturatore non rivelerà niente, ma se uno dei punti sulla seconda lastra ha una posizione anche poco diversa da quella che occupava sulla prima, richiamerà l'attenzione su di sé dando l'impressione di saltare avanti e indietro ad ogni scatto dell'otturatore. Roger, dunque, azionò l'otturatore, e uno dei punti diede un balzo. Anche Roger diede un balzo. Provò di nuovo, dimenticandosi del tutto per il momento — come anche noi — di Elsie, e il punto fece un altro balzo. Balzò di quasi un decimo di secondo d'arco. Roger si raddrizzò e si grattò la testa. Accese una sigaretta, la mise giù nel portacenere, e guardò di nuovo nell'oculare. Il punto tornò a balzare avanti e indietro, quando azionò l'otturatore. Harry Wasson, che faceva il turno serale, era appena entrato nello studio e stava appendendo il soprabito. «Ehi, Harry!» esclamò Roger. «C'è qualcosa che non va con questo acchiappafarfalle». «Sì?» fece Harry. «Sì. Polluce si è spostata d'un decimo di secondo». «Sì», annuì Harry. «È giusto l'effetto di parallasse. Trentadue anni-luce — la parallasse di Polluce è giusto zero virgola uno zero uno. Poco più di un decimo di secondo. Così, se la tua lastra di paragone è stata presa all'incirca sei mesi fa, quando la Terra era sul lato opposto dell'orbita, è press'a poco giusto». «Ma, Harry, la lastra di paragone è stata presa l'altra sera. Le due lastre sono separate soltanto da ventiquattr'ore». «Sei matto». «Guarda tu stesso». Non erano ancora le cinque di sera, ma Harry Wasson passò sopra, magnanimo, alla piccola questione di principio e si sedette davanti al microcomparatore. Manipolò l'otturatore, e Polluce compiacente fece il balzo. Non c'era alcun dubbio che si trattasse di Polluce, poiché era di gran lunga il punto più luminoso sulla lastra. Polluce è una stella di magnitudo 1,2, una delle stelle più luminose del cielo, e senz'altro la più brillante dei Gemelli. E nessuna delle stelle più deboli intorno ad essa si era minima mente mossa. «Uhm», disse Harry Wasson. Si accigliò, e tornò a guardare. «Una di
queste due lastre ha la data sbagliata, ecco tutto... Controllerò subito, per prima cosa». «Queste lastre non hanno la data sbagliata», ribatté, cocciuto, Roger. «Le ho datate io stesso». «Questa è la miglior prova», gli disse Harry. «Vai a casa. Sono le cinque. Se Polluce si è spostata di un decimò di secondo da ieri sera, io la rimetterò al suo posto per te». Così, Roger se ne andò. Per qualche ragione si sentiva a disagio, come se non avesse dovuto farlo. Qualcosa l'inquietava, anche se non riusciva a inquadrare il problema... Decise di tornare a casa a piedi, invece di prendere l'autobus. Polluce era una stella fissa, non poteva essersi spostata d'un decimo di secondo in ventiquattro ore. «Vediamo... trentadue anni-luce», disse Roger tra sé. «Un decimo di secondo d'arco... Diamine, sarebbe un movimento di parecchie volte più veloce della luce. Il che é, senza alcun dubbio, una sciocchezza!» Ma lo era davvero? Stasera non se la sentiva di studiare o di leggere. Ma bastavano tre dollari per portar fuori Elsie? Le tre palle d'un negozio di pegni si stagliavano davanti a lui, e Roger cedette alla tentazione. Impegnò l'orologio, poi telefonò a Elsie. Cena e spettacolo? «Ma si, certo, Roger». Così, fino a quando non la riaccompagnò a casa, all'una e trenta, riuscì a dimenticarsi dell'astronomia. Niente di strano in ciò. Sarebbe stato assai strano se fosse riuscito a ricordarsela. Ma l'inquietudine che l'aveva agitato qualche ora prima, subito tornò a invaderlo non appena restò solo. Sulle prime, non ricordò il perché. Sapeva che proprio non se la sentiva di tornarsene a casa, non ancora. Il bar all'angolo era ancora aperto, così entrò a bere qualcosa. Si stava scolando il secondo bicchiere, quando ricordò. Ne ordinò un terzo. «Hank», disse, rivolto al barman. «Conosci Polluce?» «Polluce chi?» chiese Hank. «Lascia perdere», disse Roger. Bevve un altro bicchiere e riprese a scervellarsi. Sì, aveva commesso un errore da qualche parte. Polluce non poteva essersi mossa. Uscì dal bar e s'incamminò verso casa. C'era quasi arrivato quando gli venne in mente di alzare gli occhi su Polluce, non che ad occhio nudo sa-
rebbe riuscito a cogliere uno spostamento d'un decimo di secondo, ma era curioso. Alzò lo sguardo, si orientò col Leone, poi trovò i Gemelli — Castore e Polluce erano le uniche stelle visibili, dei Gemelli, poiché non era una notte particolarmente favorevole per osservare il cielo. Erano lassù, non c'era dubbio, ma gli sembrò che fossero un po' più staccate del solito. Assurdo, perché sarebbe stato uno spostamento di gradi, non di minuti o di secondi. Le fissò per parecchi istanti, poi si voltò e fissò l'Orsa Maggiore sul lato opposto. Smise di camminare e si arrestò. Chiuse gli occhi e li riaprì lentamente, con cautela. L'Orsa non gli appariva affatto giusta. Era storta. Pareva che ci fosse più spazio fra Alioth e Mizar, nel timone del carro, che fra Mizar e Alkaid. Phecda e Merak, in fondo all'Orsa, erano molto più vicine, rendendo più acuto l'angolo tra il fondo e il labbro. Assai più acuto. Incredulo, tracciò una linea immaginaria dalle indicatrici, Merak e Dubhè, fino alla Polare. La linea s'incurvava. Doveva incurvarsi: se fosse andata dritta, avrebbe mancato la Polare di quattro o cinque gradi addirittura. Il respiro un po' affannoso, Roger si tolse gli occhiali e li ripulì con molta cura col fazzoletto. Se li reinfilò sul naso, ma l'Orsa era sempre storta. E anche il Leone, quando tornò a guardarlo. Regolo, in particolare, distava d'un grado o due dalla sua normale posizione. Un grado o due! E alla distanza di Regolo! Non erano sessantacinque anni-luce o giù di li? Poi, appena in tempo per salvare la sua salute mentale, si ricordò che aveva bevuto. Tornò a casa senza più azzardare una sola occhiata in alto. Andò a letto, ma non riuscì a dormire. Non si sentiva sbronzo. Era sempre più eccitato, e del tutto sveglio. Si chiese se avrebbe osato telefonare all'osservatorio. Sarebbe parso ubriaco al telefono? Mandando al diavolo ciò che sarebbe sembrato, alla fine decise. Andò al telefono in pigiama. «Mi spiace», disse la centralinista. «Cosa intende dire... mi spiace?» «Non posso darle quel numero», spiegò la centralinista, con voce melodiosa. «Mi spiace proprio. Non...» Si fece passare la capo-centralinista. L'Osservatorio Cole era stato talmente inondato di chiamate da parte di astronomi dilettanti, che aveva trovato necessario chiedere alla compagnia telefonica di bloccare tutte le telefonate in arrivo, salvo quelle interurbane o intercontinentali provenienti da altri osservatori.
«Grazie», disse Roger. «Vuol chiamarmi un tassì?» Era una richiesta insolita, ma la capo-centralinista gli fece il favore e glielo chiamò. Trovò l'Osservatorio Cole praticamente ridotto a un manicomio. La mattina dopo, la maggior parte dei giornali riportava la notizia. Per lo più, le dedicavano quattro o cinque righe in una pagina interna. Comunque, la notizia c'era. Un certo numero di stelle, diceva la notizia, per lo più quelle più luminose, nel corso delle ultime quarantott'ore avevano sviluppato dei movimenti propri percepibili a occhio nudo. «Questo non significa», diceva il New York Spotlight, in un pietoso tentativo di far dello spirito, «che i loro movimenti siano stati in qualche modo impropri, in passato. Per un astronomo, "movimento proprio" significa il moto di una stella attraverso la sfera celeste, relativo ad altre stelle. Fino ad oggi, la "stella di Barnard", nella costellazione di Ofiuco, ha mostrato un moto proprio più grande di qualunque altra stella conosciuta, spostandosi alla velocità di dieci secondi e un quarto all'anno. La "stella di Barnard" non è visibile a occhio nudo». È probabile che la notte successiva nessun astronomo in tutta la Terra abbia dormito. Gli osservatori sprangarono le porte, con dentro il personale al gran completo, senza far entrare nessun altro, salvo qualche occasionale cronista che, dopo essere rimasto un po', se ne andava via, il volto perplesso, finalmente convinto che stesse accadendo davvero qualcosa di strano. Gli «acchiappafarfalle» sfarfalleggiavano, e gli astronomi ammiccavano. Furono consumati ettolitri di caffé. Le squadre antidimostranti della polizia furono chiamate d'urgenza da sei osservatori degli Stati Uniti. Due di queste chiamate furono provocate da tentativi d'irruzione da parte di dilettanti e pazzoidi. Le altre quattro da scazzottate accesesi, dopo violente discussioni, tra il personale stesso degli osservatori. Uffici e laboratori dell'osservatorio di Lick furono devastati, e James Truwell, astronomo reale, fu ricoverato al London Hospital con una lieve commozione cerebrale, dopo che una massiccia lastra fotografica gli era stata spaccata in testa da un dipendente infuriato. Ma questi incidenti furono eccezioni. In generale gli osservatori erano manicomi bene ordinati. Il centro dell'attenzione, nei più intraprendenti, era l'altoparlante, attraverso il quale si apprendevano le notizie che provenivano continuamente dall'emisfero orientale. Praticamente tutti gli osservatori tenevano continui
contatti telefonici col lato notturno della Terra, dove i fenomeni astronomici continuavano ad esser tenuti sotto osservazione. In pratica, gli astronomi sotto i cieli notturni di Singapore, Shangai e Sidney snocciolavano i dati delle loro osservazioni direttamente agli apparecchi telefonici posti all'estremità di linee lunghe mezzo pianeta o più. Di particolare interesse erano i rapporti provenienti da Sidney e Melbourne, che descrivevano i cieli del sud, non visibili — neppure di notte — dall'Europa o dagli Stati Uniti. In base a quei rapporti, la Croce del Sud non era più una croce, con le due stelle più brillanti spostate verso nord. Alfa e Beta Centauri, Canopo e Achernar mostravano anch'esse dei considerevoli moti propri — tutte, in generale, verso nord. Il Triangolo Australe e le Nubi di Magellano erano rimasti inalterati. Sigma Octanis, la debole stella polare meridionale, non si era minimamente mossa. Quindi le perturbazioni del cielo meridionale erano assai inferiori di quelle del cielo settentrionale, come numero di stelle spostate. Tuttavia, i moti propri relativi delle stelle perturbate erano assai maggiori. E anche se la direzione generale delle poche stelle che si muovevano era il nord, le loro traiettorie non puntavano direttamente a nord, né convergevano tutte verso un unico punto dello spazio. Gli astronomi degli Stati Uniti e dell'Europa digerirono questi fatti e bevettero dell'altro caffé. I giornali della sera, in particolare in America, mostrarono di essersi finalmente accorti che qualcosa d'insolito e sconvolgente stava accadendo nei cieli. La maggior parte di essi spostarono il servizio in prima pagina — ma non ancora fra i titoli di testa — dandogli mezza colonna di testo, e magari anche un "continua in... pagina", la cui lunghezza dipendeva dal fatto che il direttore avesse avuto oppure no la fortuna di strappare una qualche dichiarazione a un astronomo. E le dichiarazioni, quand'erano ottenute, si limitavano a esporre i fatti, ma non le opinioni. Già i fatti in sé, dicevano quei signori, erano abbastanza sorprendenti, ed esprimere opinioni sarebbe stato prematuro. Aspettate e vedrete. Qualunque cosa stia accadendo, accade in fretta. «Quanto in fretta?» chiese un direttore. «Più in fretta di quanto sia possibile», fu la risposta. Ma forse non è del tutto esatto dire che nessun direttore riuscì a ottenere delle opinioni così presto. Charles Wagren, l'intraprendente direttore del Chicago Blade, spese una piccola fortuna in telefonate interurbane e intercontinentali. Su una sessantina di tentativi, alla fine riuscì a raggiungere i
direttori di cinque osservatori. E fece a tutti la stessa domanda: «Qual è la sua opinione sulla possibile causa, qualunque essa sia, dei vistosi spostamenti esibiti dalle stelle in queste due ultime notti?» Trascrisse le risposte una sotto l'altra: «Vorrei tanto saperlo». Geo F. Stubbs, Osservatorio Tripp, Long Island. «Qualcuno o qualcosa è impazzito, e spero di non essere io... io in persona». Henry Collister McAdams, Osservatorio Lloyd, Boston. «Ciò che sta accadendo è impossibile. Non può esserci nessuna causa». Letton Tischauer Tinney, Osservatorio Burgoyne, Albuquerque. «Sto cercando un esperto in astrologia. Ne conosce qualcuno?» Patrick R. Whitaker, Osservatorio Lucas, Vermont. «Follie!» Giles Mathew Frazier, Osservatorio Grant, Richmond. Studiando con aria afflitta quest'elenco, che gli era costato 187,35 dollari, tasse comprese, il direttore Wangren firmò il modulo giustificativo della spesa, poi lasciò cadere l'elenco nel cestino della carta straccia. Telefonò all'esperto scientifico che lavorava per il giornale come collaboratore esterno. «Puoi farmi una serie di articoli — due-tremila parole l'uno — su tutta questa confusione astronomica?» «Certo», gli rispose il pubblicista. «Ma quale confusione?» Risultò che era appena tornato da una partita di pesca e non aveva letto i giornali né gli era mai capitato di alzare io sguardo al cielo. Ma scrisse gli articoli. Ci mise perfino del sex-appeal, illustrando gli articoli con antiche carte stellari che mostravano le costellazioni in deshabillé, riproducendo certi famosi dipinti quali «L'Origine della Via Lattea» e utilizzando altresì la fotografia di una ragazza, in costume da bagno che puntava un telescopio portatile in direzione di una delle stelle erranti, o così almeno si poteva presumere. La tiratura del Chicago Blade aumentò del 21,7 per cento. Erano di nuovo le cinque in quello studio dell'Osservatorio Cole, giusto ventiquattr'ore e un quarto dopo l'inizio di tutta quell'agitazione. Roger Phlutter — sì, siamo tornati da lui — si svegliò di colpo quando una mano gli si appoggiò sulla spalla. «Vai a casa, Roger», gli disse Mervin Ambruster, il suo capo, con voce gentile. Roger si rizzò di scatto a sedere. «Signor Ambruster», esclamò, «mi spiace essermi addomentato». «Sciocchezze», disse Ambruster. «Non puoi restare qui per sempre, nessuno di noi può farlo. Vai a casa».
Roger Phlutter andò a casa. Ma quand'ebbe fatto un bagno, si sentì molto più inquieto che assonnato. Erano soltanto le sei e un quarto. Telefonò a Elsie. «Mi spiace tanto, Roger, ma ho un altro appuntamento. Cosa sta succedendo, Roger? Voglio dire, con le stelle?» «Oh, Elsie. si stanno muovendo... e nessuno sa perché». «Ma io pensavo che tutte le stelle si stessero muovendo», protestò Elsie. «Il Sole è una stella, non è vero? Una volta mi hai detto che il Sole si sta muovendo verso un punto in Sansone». «Ercole». «D'accordo, Ercole. E visto che, come mi hai detto, tutte le stelle si muovono, perché mai la gente si eccita tanto?» «Questa è una cosa diversa», replicò Roger. «Prendi Canopo, ad esempio. Ha cominciato a muoversi alla velocita di sette anni-luce al giorno. Non può farlo!» «Perché no?» «Perché», le spiegò, paziente, Roger, «niente può muoversi più veloce della luce». «Ma se si muove così in fretta, allora vuol dire che può», obbiettó Elsie. «Oppure è il tuo telescopio che non funziona, o qualcosa del genere. Ad ogni modo, è molto lontana, non è vero?» «Centosessanta anni-luce. Così lontana che la vediamo com'era centosessanta anni fa». «Allora può darsi che non si stia muovendo affatto», disse Elsie. «Voglio dire, forse ha smesso di muoversi centocinquant'anni fa, e voi vi state eccitando per qualcosa che non ha più importanza perché è già finito. Mi ami sempre?» «Certo, tesoro. Non puoi mollare quell'appuntamento?» «Temo di no, Roger. Ma vorrei tanto poterlo fare». Doveva accontentarsi di questo. Decise di andare in centro a mangiare. Erano le prime ore della sera, troppo presto per vedere le stelle, anche se il limpido cielo azzurro aveva incominciato a imbrunire. Roger sapeva che, quando le stelle fossero comparse quella sera, poche costellazioni sarebbero state ancora riconoscibili. Mentre camminava, ripensò ai commenti di Elsie e decise che erano intelligenti almeno quanto tutti quelli che aveva ascoltato all'Osservatorio Cole. In un certo senso, Elsie aveva presentato il problema da un'angolatura alla quale lui non aveva pensato prima, e ciò rendeva la cosa ancora più
incomprensibile. Tutti quei movimenti dovevano essere incominciati la stessa notte... eppure non era così. Il Centauro doveva aver cominciato a muoversi all'incirca quattro anni prima, e Rigel cinquecentoquaranta anni prima, quando Cristoforo Colombo portava ancora i calzoncini corti, sempre che a quell'epoca si usassero, e Vega doveva aver cominciato a muoversi in quel modo nell'anno in cui lui, Roger, non Vega, era nato, ventisei anni prima. Ogni stella, di quelle centinaia, doveva aver cominciato a muoversi a un dato istante, in esatta dipendenza dalla sua distanza dalla Terra. Una dipendenza esatta al secondoluce, poiché il controllo di tutte le lastre fotografiche prese la penultima notte indicavano che tutti i movimenti stellari avevano avuto inizio alle 4 e 10 antimeridiane, ora di Greenwich. Che pasticcio! A meno che tutto ciò non significasse che, dopotutto, la luce aveva una velocità infinita. E se non l'aveva — ed è sintomatico della perplessità di Roger il fatto che avesse postulato quell'incredibile «se» — allora... allora cosa? Tutto restava sconcertante come, o peggio, di prima. Soprattutto, si sentiva offeso che potessero accadere cose come quelle. Entrò in un ristorante e si sedette. Una radio stava urlando l'ultima composizione disaritmica, la nuova musica da ballo in quarti di tono, un sottofondo di strumenti a corda e a fiato per una folle melodia battuta su tamtam di varie dimensioni. Fra un numero e l'altro, un esagitato speaker vantava le qualità di questo o quel prodotto. Masticando un sandwich, Roger si godette il disaritmo, cercando di ignorare la pubblicità. La maggior parte delle persone intelligenti degli anni Ottanta avevano sviluppato un'efficace sordità radiofonica che consentiva loro di non udire la voce umana che usciva dagli altoparlanti, pur continuando a udire e a godersi gli allora infrequenti interludi musicali, fra un annuncio e l'altro. In un'epoca in cui la concorrenza pubblicitaria era così acuta, non c'era in pratica un solo muro vuoto o un appezzamento di terreno senza manifesti o cartelloni pubblicitari, per un raggio di molte miglia intorno a un qualunque centro abitato. Per questo, la gente con un briciolo di criterio poteva conservare una normale prospettiva di vita solo se coltivava con molta cura una parziale cecità e sordità che consentiva loro d'ignorare la continua, massiccia aggressione portata ai loro sensi. Per questo motivo, buona parte del notiziario che seguì il programma di musica disaritmica entrò in un orecchio di Roger e uscì dall'altro, come si
dice, prima che si rendesse conto che non stava ascoltando uno sbrodoso panegirico di qualche alimento per la prima colazione. Gli parve di riconoscere la voce, e dopo un attimo o due fu certo che si trattava di Milton Hale, l'eminente fisico, la cui nuova teoria sul principio d'indeterminazione aveva negli ultimi tempi sollevato tante controversie nel mondo scientifico. A quanto pareva, il professor Hale veniva intervistato da un radiocronista. «... perciò un corpo celeste può avere una posizione o una velocità, ma non si può dire che le abbia ambedue contemporaneamente, in relazione a una data struttura spaziotemporale». «Dottor Hale, può ripeterlo in un linguaggio un po' meno... In un linguaggio comune, insomma?» disse la voce sciropposa dell'intervistatore. «Questo è linguaggio comune, signore. Espresso in termini scientifici, secondo il principio di contrazione di Heisenberg, n elevato alla settimana, tra parentesi, rappresenta la pseudo-posizione d'un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente della curvatura di massa...» «Grazie, dottor Hale, ma temo che lei sia un po' al di sopra dei cervelli dei nostri ascoltatori...» «E del tuo», pensò Roger Phlutter. «Sono certo, professor Hale, che la domanda che più interessa i nostri ascoltatori sia questa: tali movimenti stellari, finora senza precedenti, sono reali o illusori?» «Entrambe le cose. Sono reali in rapporto alla struttura spaziale, ma non in rapporto alla struttura dello spazio-tempo». «Potrebbe chiarire la cosa, professore?» «Credo di si. La difficoltà è puramente epistemologica. In stretta casualità, l'impatto d'una macroscopica...» «"The slithy tove did gyre and gimble in the wabe"», pensò Roger Phlutter (1). «... sul parallelismo del gradiente entropico». «Bah!» esclamò Roger, a voce alta. «Ha detto qualcosa, signore?» chiese la cameriera. Roger l'osservò per la prima volta. Era piccola, bionda e rotondetta. Roger le sorrise. «Dipende dalla struttura spaziotemporale in base alla quale si considera la cosa», dichiarò, in tono grave. «La difficoltà è puramente epistemologica». Per compensarla, diede alla cameriera una mancia superiore al dovuto, e se ne andò.
Si rese conto che il fisico più eminente che c'era al mondo ne sapeva, di ciò che stava accadendo, ancora meno della gente della strada. La gente sapeva che le stelle fisse si muovevano, o non si muovevano. Era ovvio che il professor Hate non sapeva neppure questo. Sotto una cortina fumogena di definizioni concettose, Hale aveva lasciato intendere che le stelle facevano, invece, tutte e due le cose. Roger alzò gli occhi al cielo, ma solo poche stelle, fioche nella luce del primo crepuscolo, erano visibili attraverso l'alone creato dalla miriade di insegne al neon e di finestre illuminate. Decise che era ancora troppo presto. Si fece un drink in un bar vicino, ma non gli parve che avesse il giusto sapore, per cui non lo finì. Non avrebbe saputo dire cosa c'era che non andava, ma era stordito dalla mancanza di sonno. Ma era troppo nervoso ed eccitato per aver voglia di andare a dormire, perciò decise di continuare a camminare finché le gambe non gli fossero letteralmente piegate per la stanchezza. Chiunque l'avesse colpito in testa con uno sfollagente gli avrebbe reso un segnalato servizio, ma nessuno se ne prese la briga. Roger continuò a camminare, e dopo un po' s'infilò nell'atrio d'uno sfarzoso cinematografo, vividamente illuminato, e si sedette appena in tempo per vedere le sequenze finali dell'ultimo dei tre lungometraggi in programma. Seguirono parecchi annunci pubblicitari che riuscì a guardare senza vederli. «Ora», disse una voce dallo schermo, «vi presentiamo una speciale trasmissione via cavo, in diretta, del cielo di Londra, dove adesso sono le tre di notte». Lo schermo si oscurò e vi comparve una miriade di puntolini che erano le stelle. Roger si sporse in avanti per guardare e ascoltare attentamente. Quella si annunciava come una trasmissione di fatti concreti, non di vuote e pompose parole. «La freccia», disse lo schermo, quando una freccia comparve su di esso, «sta indicando la Stella Polare... la quale, adesso, si trova a dieci gradi di distanza dal polo celeste, in direzione dell'Orsa Maggiore. La stessa Orsa Maggiore, il Gran Carro, non è più riconoscibile come un carro, ma adesso la freccia indicherà le stelle che prima lo formavano». Roger seguì senza fiato la freccia e la voce. «Alkaid e Dubhè», spiegò la voce. «Le stelle fisse non sono più fisse, ma...» L'immagine cambiò all'improvviso mostrando l'interno d'una cucina moderna, «... la qualità e l'eccellenza dei Forni Stella non cambia. I cibi
cucinati col sistema dell'induzione supervibratoria hanno come sempre un eccellente sapore. I Forni Stella sono insuperati». Con calma, Roger Phlutter si alzò, raggiunse la corsia, e s'incamminò verso lo schermo tirando fuori di tasca il temperino. Saltò agilmente sul basso palcoscenico. I colpi coi quali squarciò lo schermo non furono rabbiosi, bensì attenti e metodici, concepiti per fare il massimo danno col minimo sforzo. Quando due robusti usceri l'afferrarono, il danno era già fatto, e completo. Non fece nessuna resistenza né a loro, né alla polizia alla quale lo consegnarono. Un'ora più tardi, al tribunale notturno, ascoltò senza scomporsi le accuse contro di lui. «Colpevole o non colpevole?» chiese il magistrato che presiedeva la corte. «Vostro Onore, questa è una pura questione di epistemologia», rispose Roger, in tutta serietà. «Le stelle fisse si muovono, ma Fiocchini Tostati, la miglior prima colazione del mondo, rappresenta ancora la pseudo-posizione d'un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente di curvatura!» Dieci minuti più tardi dormiva come un ghiro. In una cella, è vero, ma pur sempre come un ghiro. La polizia lo lasciò li, poiché si erano resi conto che aveva bisogno di dormire... Fra le altre tragedie di minor portata di quella notte, si può menzionare il caso dello schooner Ransagansett, al largo della costa californiana. Molto al largo della costa californiana! Un'improvvisa burrasca l'aveva spinto molte miglia fuori rotta, ma quante miglia fossero il comandante poteva soltanto indovinarlo. Il Ransagansett era un vascello americano con un equipaggio tedesco, battente bandiera venezuelana, affittato per trasportare alcoolici da Ensenada, nella Bassa California, fin su alla costa canadese, naturalmente di contrabbando. Il Ransagansett era un vecchio vascello, con quattro motori e una bussola assai poco affidabile. Durante i due giorni di tempesta, il suo apparato radio — anno 1955 — era impazzito e Gross, il secondo, malgrado le sue indubbie capacità, non era stato in grado di ripararlo. Ma adesso, a ricordare la tempesta era rimasta soltanto una leggera foschia che le ultime raffiche di vento stavano portando via. Hans Gross, impugnando un antico astrolabio, se ne stava in attesa sul ponte. Intorno a lui c'era la più totale oscurità, poiché la nave procedeva senza luci per evitare le pattuglie costiere. «Si sta schiarendo, signor Gross?» chiamò il capitano da sotto.
«Zi, zignore. Zi sda sghiarendo in fredda». Nella cabina, il capitano Randall tornò alla sua partita di blackjack col terzo ufficiale e l'addetto alle macchine. L'equipaggio — un vecchio tedesco chiamato Weiss, con una gamba di legno — era addormentato a poppa del serbatoio dell'acqua, dovunque questo si trovasse. Passò una mezz'ora. Un'ora. Il capitano stava perdendo forte con Helmstadt, l'addetto alle macchine. «Signor Gross!» chiamò. Non vi fu nessuna risposta. Il capitano chiamò di nuovo, e di nuovo, e continuò a non ottenere risposta. «Solo un attimo, miei cari amici», disse al terzo ufficiale e al macchinista, e salì la scaletta del boccaporto fino al ponte. Gross era là in piedi, immobile, gli occhi al cielo e la bocca spalancata. La foschia era del tutto scomparsa. «Signor Gross», ripeté il capitano Randall. Il primo ufficiale non rispose. Davanti agli occhi del capitano, si limitò a ruotare lentamente sui tacchi, prima a destra e poi a sinistra. «Hans!» latrò il capitano Randall. «Cosa diavolo le sta succedendo?» Poi anche lui alzò lo sguardo. A prima vista, il cielo appariva del tutto normale. Niente angeli in volo, né il ronzio dei motori di un aereo. Il Carro, si disse il capitano, girando lentamente su se stesso, proprio come Gross, dov'era il Gran Carro? Ma d'altra parte, dov'era anche tutto il resto? Non gli riuscì di riconoscere una sola costellazione, pur voltandosi da ogni lato. Niente falce del Leone. Niente cintura di Orione. Niente corona del Toro. Cosa anche peggiore, c'era un gruppo di otto stelle luminosissime che potevano anche essere una costellazione, poiché erano disposte, grosso modo, a formare un ottagono. Soltanto che... una simile costellazione non era mai esistita, lo sapeva poiché aveva viaggiato anche intorno al Capo di Buona Speranza e al Capo Horn. Forse... ma no! Non c'era nessuna Croce del Sud! Stordito, il capitano Randall tornò ad avvicinarsi alla scaletta del boccaporto. «Signor Weisskopf», chiamò. «Signor Halmstadt. Venite sul ponte». Salirono e guardarono. Nessuno disse niente per un po'. «Spenga i motori, signor Halmstadt», disse il capitano. Halmstadt fece il saluto — prima non l'aveva mai fatto — e scese di sotto. «Kapitano, defo sfegliare Weiss?» chiese Weisskopf. «Per cosa?»
«Non so». Il capitano rifletté. «Lo svegli», disse poi. «Gredo ghe ziamo sul pianeda Marde», disse Gross. Il capitano ci aveva pensato, ma aveva respinto l'idea. «No», replicò con fermezza. «Da qualunque pianeta del sistema solare le costellazioni avrebbero più o meno lo stesso aspetto». «Fuol dire che ziamo fuori del cozmo?» Il fremito dei motori cessò all'improvviso e vi fu soltanto il familiare sciabordio delle onde contro lo scafo, e il pigro dondolio della nave. Weisskopf tornò su con Weiss, anche Halmstadt risalì sul ponte e rifece il saluto al capitano. «Dunqwe, kapitano?» Il capitano fece un gesto verso il ponte di poppa, dov'erano ammucchiate le casse di alcoolici, sotto dei teli catramati. «Liquidate il carico», ordinò. La partita di blackjack non fu più ripresa. All'alba, sotto un sole che non si erano aspettati di rivedere mai più — e se è per questo, neanche in quel momento lo vedevano — i cinque uomini, privi di sensi, furono trasferiti dalla nave alla prigione del porto di San Francisco, da membri perplessi della guardia costiera. Durante la notte, la Ransagansett era andata alla deriva di traverso al Golden Gate, andando a urtare di striscio contro la banchina del ferry-boat per Berkeley. Un gran telo catramato era a rimorchio a poppa dello schooner, trafitto da un arpione la cui corda era assicurata all'albero di poppa. La sua presenza, là dietro, non ebbe mai una spiegazione ufficiale, anche se al capitano Randall parve vagamente di ricordare, alcuni giorni dopo, di aver arpionato un capodoglio durante la notte. A sua volta, il vecchio ed esperto marinaio Weiss non riuscì mai a scoprire cos'era successo alla sua gamba di legno, il che, forse, era ancora peggio. Milton Hale, fisico emerito, aveva concluso l'intervista, e si stava congedando. «Grazie molte, professor Hale», gli disse l'intervistatore. Una luce gialla si era accesa, indicando che il microfono era spento. «E... si, troverà il suo assegno giù, alla cassa. Lei... uh... sa dove». «So dove», annuì il fisico. Era un ometto rotondo, dall'aria gioviale. Con la sua barbetta cespugliosa, sembrava un'edizione tascabile di Babbo Natale. Gli occhi gli luccicavano e fumava una pipa corta e mozza. Lasciò lo studio insonorizzato, e con passo spigliato proseguì fino allo
sportello della cassiera. «Ciao, dolcezza», disse all'impiegata in servizio. «Dovrebbero esserci due assegni per il professor Hale». «Lei è il professor Hale?» «A volte me lo chiedo», disse l'ometto. «Ma ho qui dei documenti che sembrano dimostrarlo». «Due assegni?» «Due assegni. Tutti e due per la stessa trasmissione, per uno speciale accordo. A proposito, questa sera danno un'ottima rivista al teatro Mabry». «Davvero? Sì, ecco i suoi due assegni, professor Hale. Uno per settantacinque dollari e uno per venticinque. È giusto?» «Piacevolmente giusto. Adesso, che ne dice della rivista al Mabry?» «Se vuole, chiamo mio marito e glielo chiedo», disse la ragazza. «È il portiere, laggiù». Il professor Hale esalò un profondo sospiro, ma i suoi occhi vispi continuarono a brillare. «Credo che sarà senz'altro d'accordo», dichiarò. «Eccole i biglietti, cara. Ci vada con lui. Mi sono ricordato di avere del lavoro importante, stasera. La ragazza sgranò gli occhi, ma prese i biglietti. Il professor Hale entrò nella più vicina cabina telefonica e chiamò la sua sorella maggiore. «Agatha, devo restare in ufficio stasera», le disse. «Milton, lo sai che puoi lavorare altrettanto bene nel tuo studio qui a casa. Ho sentito la tua trasmissione, Milton. È stata meravigliosa». «Erano pure sciocchezze, Agatha. Completa spazzatura. Cosa ho detto?» «Diamine, hai detto che... sì... che le stelle sono... voglio dire, che tu non...» «Proprio così, Agatha. La mia intenzione era quella d'impedire che il panico si diffondesse tra il popolino. Se gli avessi detto la verità, si sarebbero tutti spaventati. Ma mostrandomi pomposo e molto scientifico, gli ho lasciato credere che tutto fosse... uh... sotto controllo. Sai, Agatha, cosa vuol dire parallelismo di gradiente entropico?» «Be'... non esattamente». «Neppure io». «Milton, hai bevuto?» «Non... No, non ho bevuto. Ma, Agatha, non posso proprio venire a lavorare a casa stasera. Userò il mio studio all'università, perché devo consultare parecchi testi che sono là. E anche le carte stellari». «Ma, Milton, quei soldi che hai ricevuto per la tua trasmissione? Sai che non è prudente che tu vada in giro con dei soldi in tasca, quando ti senti...
così». «Non è contante, Agatha. È un assegno, e te lo spedirò per posta prima di andare all'università. Non lo incasserò lo stesso. Che ne dici?» «Be'... se devi consultare la biblioteca, suppongo che tu debba farlo. Arrivederci, Milton». Il professor Hale attraversò la strada fino al più vicino emporio. Qui acquistò un francobollo e una busta, e incassò l'assegno da venticinque dollari. Poi infilò l'assegno da settantacinque dollari nella busta, la chiuse e la spedi. Quando fu accanto alla cassetta delle lettere, alzò lo sguardo al cielo della prima sera... rabbrividì e abbassò in fretta gli occhi. Prese la strada per il bar più vicino e ordinò un doppio scotch. «È un bel po' che non la si vede, professor Hale», gli disse Mike, il barman. «Infatti, Mike. Versamene un altro». «Certo. Offre la casa, stavolta. Eravamo sintonizzati sulla sua trasmissione proprio un momento fa. È stata splendida». «Sì». «Proprio così. Ero un po' preoccupato per ciò che sta succedendo là in alto, con mio figlio aviatore e tutto il resto. Ma fintanto che voi gente di scienza sapete di che cosa si tratta, immagino che tutto sia a posto. È stato proprio un bel discorso, professore. Ma c'è una domanda che vorrei farle». «Lo temevo», disse il professor Hale. «Queste stelle... Si muovono, vanno da qualche parte. Ma dove? Voglio dire, come ha detto lei, se si muovono...» «Non c'è modo di saperlo con esattezza, Mike». «Non si muovono tutte in linea retta?» L'illustre scienziato ebbe un impercettibile istante di esitazione. «Be'... si e no, Mike. Stando alle analisi spettroscopiche, esse mantengono la stessa distanza da noi, tutte. Perciò si muovono... se si muovono... in cerchio intorno a noi. Ma questi cerchi ci appaiono tutti dritti, in prospettiva. Voglio dire, sembra che noi siamo nel centro esatto di tutti questi cerchi, perciò le stelle che si muovono non si avvicinano né si allontanano dalla Terra». «Si potrebbero disegnare quelle linee... cioè quei cerchi?» «Su un mappamondo celeste, si. Lo si sta già facendo. Sembrano dirigersi tutte verso una certa zona del cielo, ma non verso un unico punto. In altre parole, le loro traiettorie non si intersecano».
«Verso quale zona del cielo stanno andando?» «All'incirca fra l'Orsa Maggiore e il Leone, Mike. Quelle più lontane da quella zona si muovono più in fretta, quelle più vicine con più lentezza. Ma. dannazione, Mike, sono venuto qui per dimenticare le stelle, non per parlarne. Dammene un altro». «Tra un attimo, professore. E una volta arrivate là, si fermeranno oppure continueranno a muoversi?» «Come diavolo faccio a saperlo, Mike? Se si sono messe in movimento tutte al medesimo istante, e tutte già in piena velocità... voglio dire, se sono partite con la stessa velocità che hanno adesso, senza accelerare strada facendo... suppongo che allo stesso modo potrebbero fermarsi tutte nel medesimo istante, senza preavviso». Si arrestò all'improvviso, allo stesso modo in cui avrebbero potuto fare le stelle. Fissò la sua immagine riflessa nello specchio dietro al bar, come se non l'avesse mai vista prima. «Cosa succede, professore?» «Mike!» «Sì, professore?» «Mike, sei un genio». «Io? Lei sta scherzando». Il professor Hale gemette: «Mike, devo andare all'università a studiare la cosa. Per avere accesso alla biblioteca e al mappamondo celeste che vi si trovano. Stai facendo di me un uomo onesto, Mike. Su, impacchettami una bottiglia di questo scotch, di qualunque marca sia». «È Tartan Plaid. Un quartino?» «Un quartino. E fai in fretta. Devo vedere un tizio a proposito d'una stella-cane». «Parla sul serio, professore?» Il professor Hale emise un fragoroso sospiro. «La colpa è tua, Mike. Sì, la stella-cane... Sirio. Vorrei non essere mai entrato qui, Mike. La mia prima notte fuori casa dopo tanti anni, e tu me la rovini». Prese un tassì per recarsi all'università, entrò con la sua chiave e accese la luce nel suo studio privato e nella biblioteca. Poi ingollò una robusta sorsata di Tartan Plaid e si tuffò nel lavoro. Per prima cosa si qualificò con la capo-centralinista, e dopo una breve, energica discussione ottenne un collegamento con l'astronomo capo dell'Osservatorio Cole. «Sono Hale, Ambruster», disse. «Ho un'idea, ma voglio controllare i
miei dati prima di cominciare a lavorarci sopra. Secondo le ultime informazioni che ho ricevuto, c'erano quattrocentosessantotto stelle che mostravano un moto proprio. La cifra è ancora questa?» «Sì, Milton. Sono all'opera sempre le stesse stelle, non altre». «Bene. Ho la lista completa, allora. C'è stato qualche cambiamento nella velocità di spostamento di qualcuna di esse?» «No. Per quanto sembri impossibile, resta costante. Qual'è la sua idea?» «Prima voglio controllare la mia teoria. Se dovesse funzionare, in un modo o nell'altro, la richiamerò». Ma si dimenticò di farlo. Fu un lavoro lungo e noioso. Prima di tutto, Hale disegnò una carta stellare dettagliata della zona del cielo fra l'Orsa Maggiore e il Leone. Attraverso quella zona, tracciò 468 linee diritte che rappresentavano la proiezione delle traiettorie di ogni stella aberrante. Ai bordi di quella mappa, nei punti in cui ognuna di quelle traiettorie vi penetrava, annotò la velocità apparente della stella — non in anni-luce all'ora, bensì in gradi all'ora — con l'approssimazione fino al quinto decimale. Poi fece qualche ragionamento. «Postulando che il movimento, iniziatosi contemporaneamente per tutte, s'interrompa simultaneamente», si disse, «proviamo a indovinare quale l'istante... Facciamo, ad esempio, le dieci di domani sera». Ci provò, e fissò il complesso delle estrapolazioni sulla carta. Niente. Provò allora con l'una del mattino. Sembrò quasi... che avesse senso! Tornò indietro a mezzanotte. Funzionava. In ogni caso, c'era vicino, ormai. I calcoli potevano avere discrepanze di qualche minuto, al più, e non valeva la pena, adesso, andare a cercare l'istante esatto. Soprattutto adesso che conosceva quell'incredibile fatto. Trangugiò un altro drink e fissò la carta con sguardo truce. Una capatina in biblioteca diede al professor Hale l'ulteriore informazione che gli serviva: l'indirizzo! Così, ebbe inizio la saga del viaggio del professor Hale. Un viaggio inutile, è vero, ma un viaggio che poteva ben annoverarsi alla pari di quello del dottor Livingstone. Lo iniziò con un drink. Poi, conoscendo la combinazione, aprì e saccheggiò la cassaforte nell'ufficio del rettore. L'appunto che lasciò nella cassaforte era un capolavoro di concisione. Diceva: Presi soldi. Spiegherò dopo. Poi trangugiò un altro sorso e s'infilò la bottiglia in tasca. Uscì e chiamò
un tassi. Ci s'infilò dentro. «Dove, signore?» chiese il tassista. Il professor Hale gli diede un indirizzo. «Fremont Street?» chiese il tassista. «Scusi, signore, ma non so dove si trova». «A Boston», disse il professor Hale. «Avrei dovuto dirglielo... a Boston». «Boston? Vuol dire Boston, Massachusetts? È parecchio lontano da qui». «Perciò, sarà meglio partire subito», disse il professor Hale, a fil di logica. Una breve discussione d'ordine finanziario e il trasferimento d'una consistente porzione del denaro prelevato dalla cassaforte dell'università, ridiedero una completa tranquillità di spirito al tassista. Si misero in viaggio. Era una notte d'un gelo pungente, per il mese di marzo, e il riscaldamento del tassì non funzionava molto bene. Ma il Tartan Plaid funzionò in modo superlativo sia per il professor Hale che per il tassista, e quando ebbero raggiunto New Haven ambedue cantavano a gran voce le canzoni dei vecchi tempi. «Via ce ne andiamo, nell'ampia selva al di làaaa...» ruggivano le loro voci. Si racconta, per quanto, data l'incresciosità della cosa, sia con ogni probabilità un parto della fantasia, che a Hartford il professor Hale si sia rivolto sfrontatamente a una giovane donna in attesa d'un tram notturno, sporgendosi dal finestrino, chiedendole se volesse andare a Boston. Comunque, a quanto pare, la giovane donna non andò a Boston poiché, alle cinque del mattino, quando la macchina si arrestò davanti al 614 di Fremont Street, Boston, soltanto il professor Hale e il tassista si trovavano al suo interno. Il professor Hale scese dal tassì e guardò la casa. Era la dimora d'un milionario, ed era circondata da un'alta cancellata di ferro con del filo spinato in cima. Il cancello era chiuso a chiave e non c'era nessun campanello visibile. Ma la casa si trovava a un solo tiro di sasso dal marciapiede e il professor Hale non si lasciò scoraggiare. Tirò un sasso. Poi un altro. Alla fine riuscì a fracassare un vetro. Dopo un breve intervallo, un uomo comparve alla finestra. Un maggiordomo, decise il professor Hale. «Sono il dottor Milton Hale», gridò. «Voglio vedere subito Rutherford
R. Sniveley. È importante». «Il signor Sniveley non è in casa, signore», rispose il maggiordomo. «In quanto alla finestra...» «Al diavolo la finestra?» urlò il professor Hale. «Dov'è Sniveley?» «A pescare». «Dove?» «Ho ordini precisi di non dare quest'informazione». Forse il professor Hale era un po' ubriaco. «Me la darà lo stesso», ruggì. «Per ordine del Presidente degli Stati Uniti». Il maggiordomo scoppiò a ridere: «Non lo vedo proprio». «Lo vedrà», ribadì Hale. Tornò al tassi. Il conducente si era addormentato, ma Hale lo svegliò a scossoni. «La Casa Bianca», gli ordinò il professor Hale. «Uh?» «La Casa Bianca, a Washington», ripeté il professor Hale. «E in fretta!» Tirò fuori di tasca un altro biglietto da cento dollari. Il tassista lo fissò e cacciò un gemito. Poi s'infilò la banconota in tasca e mise in moto l'auto. Cominciava a cadere una spolverata di neve. Mentre la macchina si allontanava, Rutherford R. Sniveiey, sogghignando, si allontanò dalla finestra. Il signor Sniveiey non aveva mai avuto un maggiordomo. Se il professor Hale avesse conosciuto il bizzarro carattere dell'eccentrico signor Sniveiey, avrebbe capito subito che Sniveiey non teneva mai servitori durante la notte, ma viveva solo nella grande casa al 641 di Fremont Street. Ogni mattina, alle dieci, un piccolo esercito di servitori invadeva la casa, facevano tutti i lavori il più rapidamente possibile, e se ne andavano tutti prima dell'ora fatidica, mezzogiorno. A parte quelle due ore, ogni giorno, il signor Sniveiey viveva in solitario splendore. Aveva pochissimi contatti sociali, se pur ne aveva. A parte le poche ore del giorno che passava ad amministrare i suoi vasti interessi (era uno dei più grandi industriali del paese), il tempo del signor Sniveiey apparteneva a lui solo, e lui lo passava praticamente tutto nel suo laboratorio a fabbricare marchingegni. Sniveiey possedeva, perciò, un portasigari che gli porgeva un sigaro acceso tutte le volte che gliel'ordinava in tono brusco, e un radioricevitore così ben regolato che si accendeva automaticamente sui programmi spon-
sorizzati da Sniveiey, per spegnersi subito non appena erano finiti. Aveva una vasca da bagno che gli forniva un completo accompagnamento orchestrale quando lui c'era dentro e cantava, e aveva un congegno che gli leggeva ad alta voce qualunque libro posto sul suo leggio. La vita del signor Sniveiey poteva anche essere solitaria, ma non difettava certo di simili comodità materiali. Eccentrico, si, il signor Sniveiey poteva permettersi di essere eccentrico, con un reddito netto di quattro milioni di dollari l'anno. Niente male per un uomo che aveva iniziato la sua esistenza come figlio d'un comune impiegato d'una compagnia di trasporti marittimi. Il signor Sniveiey ridacchiò, mentre guardava il tassì che si allontanava, e poi tornò a letto, per il sonno dei giusti. «Così, qualcuno c'è arrivato con diciannove ore di anticipo», pensò. «Be', gli servirà davvero tanto!» Non c'era nessuna legge che potesse punirlo per ciò che aveva fatto... Quel giorno, le librerie fecero affari d'oro vendendo testi di astronomia. Il pubblico, a tutta prima apatico, adesso si mostrava tremendamente interessato. Perfino antichi e muffiti esemplari dei Principia di Newton andarono venduti a peso d'oro. L'etere era un continuo intrecciarsi di roboanti commenti sulla nuova meraviglia dei cieli. Assai pochi di questi commenti erano professionali, o anche soltanto intelligenti. Poiché quel giorno la maggior parte degli astronomi dormiva. Erano riusciti a restare svegli per quarantott'ore filate, da quando era iniziato il fenomeno, ma il terzo giorno li aveva trovati esausti di mente e di corpo, e inclini a lasciare che le stelle se la sbrigassero da sole mentre loro — gli astronomi, non le stelle — si rifacevano del sonno perduto. Offerte astronomiche da parte degli studi radiofonici e televisivi indussero alcuni di loro a tentare delle conferenze, ma i loro sforzi furono cose orrende che è meglio dimenticare. Il dottor Carver Blake, trasmettendo alla KNB, cadde addormentato tra un apogeo e un perigeo. Anche i fisici erano molto richiesti. Tuttavia, il più eminente tra i fisici fu cercato invano. L'unico, solitario indizio della scomparsa del dottor Milton Hale, «Presi soldi. Spiegherò dopo», non fu di molto aiuto. Sua sorelia Agatha temeva il peggio. Per la prima volta nella storia, notizie di astronomia occupavano i titoli di testa dei giornali. La neve aveva cominciato a cadere quella mattina, sul presto, lungo lo zoccolo continentale dell'Atlantico del Nord, e adesso la situazione meteo-
rologica stava peggiorando continuamente. Proprio appena fuori di Waterbury, Connecticut, il conducente del tassì del professor Hale comincio a dar segni di cedimento. Non era umano, pensò, che ci si aspettasse che un uomo guidasse fino a Boston e poi, senza praticamente fermarsi, da Boston a Washington. Neppure per cento dollari. Comunque, non con una bufera di neve come quella. Diamine, riusciva a vedere si e no per una dozzina di metri davanti a sé, nel turbinio, anche quando riusciva a tenere gli occhi aperti. Il suo passeggero se la dormiva sonoramente sul sedile posteriore. Forse, si, avrebbe potuto fermarsi per un'ora qui, lungo la strada, per rifarsi d'un po' di sonno perduto. Il suo passeggero non si sarebbe neppure accorto della differenza. Quel tizio doveva esser proprio uno svitato, pensò, altrimenti perché non aveva preso un treno o un aereo? Il professor Hale avrebbe anche potuto farlo. Ma non era abituato a viaggiare, e inoltre c'era il Tartan Plaid. Un tassì gli era parso il modo più facile per arrivare dappertutto — niente preoccupazioni per i biglietti, le coincidenze, le stazioni. Non era questione di soldi, e le condizioni della sua mente sotto l'influsso del Tartan gli avevano fatto trascurare il fattore umano che fatalmente sarebbe entrato in gioco in un viaggio in tassì di quella lunghezza. Quando si svegliò, quasi congelato, nel tassì parcheggiato, quel fattore umano non poté più essere trascurato. Il tassista era addormentato così profondamente che non si svegliò neppure ai più energici scrolloni. L'orologio del professor Hale si era fermato, così non aveva la minima idea di dov'era e che ora fosse. Inoltre, per sua sfortuna, non aveva nessuna idea di come guidare un tassì. Inghiottì una rapida sorsata di Tartan per non congelarsi del tutto, poi scivolò fuori dal tassì, e mentre faceva questo una macchina gli si fermò accanto. Era un poliziotto — e per di più il poliziotto giusto su un milione. Urlando sopra il frastuono della bufera, Hale si appellò a lui. «Sono il professor Hale», gridò. «Ci siamo perduti. Dove mi trovo?» Entri qui prima di gelare», gli intimò il poliziotto. «Vuol dire il professor Milton Hale, per caso?» «Sì». «Ho letto tutti i suoi libri, professor Hale», dichiarò il poliziotto. «La fisica è il mio hobby, e ho sempre desiderato incontrarla. Volevo chiederle
appunto del valore revisionato del quantum...» «È una questione di vita o di morte», l'interruppe il professor Hale. «Mi può portare in fretta al più vicino aeroporto?» «E, senta... c'è un tassista, dentro quella macchina. Congelerà, se non gli manderemo aiuto». «Lo metterò sul sedile posteriore della mia auto, e poi spingerò il tassì fuori della carreggiata. Ci occuperemo poi dei particolari». «Faccia presto, per favore». Il compiacente poliziotto si affrettò. Poi tornò dentro e mise in moto. «A proposito del valore revisione del quantum, professor Hale», ricominciò il poliziotto, ma subito s'interruppe. Il professor Hale era piombato in un sonno profondo. Il poliziotto guidò fino all'aeroporto di Waterbury, uno dei più grandi del mondo da quando lo sviluppo di New York City verso nord, negli anni Sessanta e Settanta, gli aveva conferito una posizione centrale. Svegliò con delicatezza il professor Hale, quando si trovò davanti alla biglietteria. «L'aeroporto, signore», gli annunciò. Il professor Hale era già balzato fuori dell'auto prima ancora che avesse finito di pronunciare queste parole, e correva incespicando verso l'edificio, gridando «Grazie!», voltandosi a salutarlo e quasi cadendo a terra nel farlo. Il ruggito dei motori di un superstratosferico che si stavano scaldando, là fuori nel campo, aggiunse ali ai suoi piedi, mentre si precipitava verso lo sportello dei biglietti. «Che aereo è quello?» urlò. «Il Washington Special. Parte tra un minuto. Ma non credo che ce la farà a prenderlo». Il professor Hale sbatté una banconota da cento dollari sul banco. «Biglietto», rantolò. «Tenga il resto». Ghermì il biglietto e si precipitò di corsa, acchiappando l'aereo proprio nell'istante in cui le porte si chiudevano. Ansando, si lasciò cadere su un sedile, col biglietto ancora stretto tra le dita. Dormiva come un ghiro prima ancora che l'hostess, a tentoni, riuscisse ad agganciargli la cinghia. Un po' più tardi, l'hostess lo svegliò. I passeggeri stavano scendendo. Il professor Hale si precipitò fuori dall'aereo e attraversò di corsa il campo fino agli edifici dell'aeroporto. Un grosso orologio appeso nell'atrio l'informò che erano le nove, e cacciò un sospiro di sollievo mentre correva verso un'uscita contrassegnata TASSÌ. Sali su quello più vicino.
«Casa Bianca», disse al tassista. «Quanto ci vuole?» «Dieci minuti». Il professor Hale cacciò un nuovo sospiro di sollievo e si lasciò andare contro i cuscini. Stavolta non ripiombò nel sonno. Adesso era del tutto sveglio. Ma chiuse gli occhi, per riflettere sulle parole più adatte a spiegar chiaramente le cose. «Ci siamo, signore». Il professor Hale cacciò tra le mani del tassista una banconota e balzò fuori dalla macchina, infilandosi nell'edificio. Non era còme si aspettava. Ma c'era un banco e corse lì. «Devo vedere il Presidente, presto. È d'importanza vitale!» Il professor Hale sgranò gli occhi. «Il Presidente degli... ehi, dica, che edificio è questo? E di che città?» L'impiegato inarcò ancora di più le sopracciglia. «Questo è l'Hotel Casa Bianca, Seattle, Washington». Il professor Hale svenne. Si svegliò in un ospedale tre ore più tardi. Allora era mezzanotte, ora del Pacifico. E questo significava che erano le tre del mattino sulla costa orientale. In effetti, era stata mezzanotte esatta a Boston e a Washington, D.C., quand'era disceso di corsa dal Washington Special a Seattle. Il professor Hale corse alla finestra e agitò i pugni, tutti e due, contro il cielo. Un gesto futile. A oriente, tuttavia, la tempesta di neve era cessata al cader della notte, lasciando una leggera bruma nell'aria. Al che il pubblico, ormai sensibilizzato alle stelle, tempestò gli uffici meteorologici per chiedere quanto sarebbe durata la nebbia. «È prevista una brezza dall'oceano», si sentirono rispondere. Anzi, è già cominciata. Nel giro di un'ora o due avrà spazzato via la nebbiolina». Alle undici e dieci il cielo di Boston era perfettamente sgombro. Migliaia e migliaia di persone affrontarono il gelo pungente e si riversarono fuori, fissando col naso all'insù la sfilata di quelle stelle non più eterne. Ciò che videro... era del tutto incredibile. Cominciò a udirsi un mormorio sbalordito, che lentamente crebbe d'intensità, finché, un quarto a mezzanotte, la cosa fu certa, al di là di ogni dubbio. Il mormorio tacque per un attimo, poi crebbe, sempre più fragoroso, raggiungendo l'apice a mezzanotte. Gente diversa reagisce in modo diverso, naturalmente, come ci si può aspettare. Vi furono risate, come pure indignazione, cinico divertimento come pure uno sconvolto orrore. Vi fu perfino ammirazione.
Ben presto, in certi punti della città, vi fu un movimento concertato da parte di coloro che conoscevano un certo indirizzo di Fremont Street. Un movimento convergente, in parte a piedi, in parte su veicoli pubblici. Cinque minuti prima di mezzanotte, Rutherford R. Sniveley se ne stava seduto, in attesa, dentro la sua casa. Si negava il piacere di guardare fino a quando, all'ultimo momento, la cosa non fosse stata completata. Sentì urlare il suo nome. Ma continuò ad attendere, cocciutamente, fino a quando l'orologio non ebbe battuto il dodicesimo rintocco. Poi uscì sul terrazzo. Per quanto bramasse guardare in alto, per prima cosa si costrinse ad appuntare lo sguardo giù in strada. La folla turbinante si accalcava laggiù, rabbiosa. Ma lui, per quella folla, provava soltanto disprezzo. Anche le macchine della polizia, arrivate a gran velocità, si stavano fermando laggiù, e riconobbe il sindaco di Boston che usciva da una di esse, insieme al capo della polizia. E con ciò? Non c'era nessuna legge che prevedesse quel caso. Poi, dopo essersi negato il supremo piacere abbastanza a lungo, girò gli occhi verso il cielo silenzioso, ed eccola là. Le quattrocentosessantotto stelle più luminose che formavano, in cielo, la scritta USATE IL SAPONE SNIVELY La sua soddisfazione durò soltanto un secondo. Poi il suo volto cominciò ad assumere una tinta purpurea apoplettica. «Mio Dio!» farfugliò il signor Sniveley. «C'è un errore di ortografia!» Il suo volto divenne ancora più purpureo, poi, come un albero schiantato dal fulmine, crollo all'indietro attraverso la portafinestra. Un'ambulanza portò in fretta il magnate caduto al più vicino ospedale, ma qui si accertò subito che era già morto — per apoplessia. Ma, ortografia sbagliata o no, le stelle tornate fisse mantennero la posizione che avevano assunto a mezzanotte in punto. Il movimento aberrante era cessato, e le stelle tornate immobili compitavano: USATE IL SAPONE SNIVELY! Fra le molte spiegazioni offerte da tutti i più svariati personaggi che professavano una qualche conoscenza di astronomia o di fisica, nessuna fu più acuta — o più vicina alla verità — di quella avanzata da Wendell Mehan, presidente dell'emerita Società Astronomica di New York. «È ovvio che il fenomeno è un gioco della rifrazione», disse il dottor
Mehan. «È del tutto impossibile che una qualunque forza concepita da un uomo possa muovere una stella. Perciò le stelle occupano ancora il loro vecchio posto nel firmamento. «La mia ipotesi è che Sniveley abbia elaborato un modo per rifrangere la luce delle stelle, in qualche punto all'interno dell'atmosfera terrestre, o appena sopra ad essa, così da fornire l'impressione che abbiano cambiato la loro posizione. Con ogni probabilità ciò è ottenuto grazie alle onde radio o qualcosa di simile — forse non con una sola trasmittente, ma con quattrocentosessantotto singoli apparecchi disseminati sulla superficie di tutta la Terra. Anche se non riusciamo a capire come ciò possa esser fatto, non è impossibile che i raggi luminosi possano venir deviati da un campo d'onde allo stesso modo in cui opera un prisma, o le forze gravitazionali. «Dal momento che Sniveley non era un grande scienziato, immagino che la sua scoperta sia stata empirica, più che secondo logica — una scoperta accidentale, insomma. È anche possibile che, se il suo proiettore verrà scoperto, ciò non consenta agli scienziati di capirne il segreto, non più di quanto un selvaggio sia in grado di comprendere il funzionamento d'un semplice apparecchio radio, smontandolo. «Dico questo perché mi sembra ovvio il fatto che questa particolare rifrazione è un fenomeno tetradimensionale, altrimenti i suoi effetti sarebbero puramente locali e limitati a una sola porzione del globo. Soltanto nella quarta dimensione e possibile che la luce venga rifratta in questo modo...» C'erano molte altre cose, ma è meglio saltare all'ultimo paragrafo: «Non è possibile che questo effetto sia permanente... in altre parole, che duri anche quando avrà cessato di funzionare il proiettore di onde che lo causa. Presto o tardi la macchina di Sniveley verrà trovata e spenta, oppure si consumerà e si guasterà da sola. Senza dubbio contiene parti delicate che un giorno si bruceranno, come fanno le valvole delle nostre radio...» La bontà dell'analisi del dottor Mehan fu dimostrata, due mesi e otto giorni più tardi, quando la Compagnia dell'Energia Elettrica di Boston interruppe, per il mancato pagamento della bolletta, l'erogazione della corrente a una casa situata al 901 di West Rogers Street, a dieci isolati di distanza dalla dimora di Sniveley. Nel medesimo istante dello spegnimento, eccitatissimi resoconti dall'emisfero notturno della Terra portarono la notizia che le stelle erano ritornate, di colpo, alle loro precedenti posizioni. Si condussero indagini in base alle quali si appurò che un certo Elmer Smith, il quale aveva comperato quella casa sei mesi prima, corrispondeva
perfettamente alla descrizione di Rutherford R. Sniveley: senza alcun dubbio, perciò, Elmer Smith e Rutherford R. Sniveley erano la stessa persona. All'ultimo piano di quella casa fu trovato un complicatissimo impianto comprendente 468 antenne radio, ognuna di diversa lunghezza, e tutte rivolte in differenti direzioni. Cosa strana, la macchina alla quale erano collegate non era più grande d'una trasmittente da radioamatore anche se, in base ai dati della compagnia elettrica, consumava una quantità esorbitante di corrente. Per precisa disposizione del Presidente degli Stati Uniti, il proiettore fu distrutto senza esaminarne la struttura interna. Da molte parti si levarono chiassose proteste contro una decisione così arbitraria dell'esecutivo. Ma, dal momento che ormai il proiettore era stato fatto a pezzi, le proteste non servirono a nulla. Cosa ancor più sorprendente, tutta la faccenda non ebbe serie ripercussioni. Roger Phlutter uscì di prigione e sposò Elsie. Il professor Milton Hale sì accorse che Seattle gli piaceva, e vi restò. Anche perché aveva scoperto che, a una distanza di duemila miglia da sua sorella Agatha gli era possibile, per la prima volta, sfidarla apertamente. Oggi, Milton Hale si sta godendo assai di più la vita ma, si teme, scriverà assai meno libri. Rimane un ultimo fatto, che è assai più penoso da considerare, dal momento che esso si riflette assai profondamente sul reale livello dell'intelligenza umana. E consente di provare, altresì, che l'ordine tassativo impartito dal Presidente era più che giustificato, malgrado le proteste degli scienziati. Il fatto è umiliante, e allo stesso tempo illuminante. Durante i due mesi e otto giorni che videro in funzione il proiettore di Sniveley, le vendite del Sapone Sniveley aumentarono del 915 per cento. FINE