MARK ROBSON L'ASSASSINO DI SHANDAR (Imperial Assassin, 2006)
Per Timothy: possa la tua vita essere ricca e piena di be...
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MARK ROBSON L'ASSASSINO DI SHANDAR (Imperial Assassin, 2006)
Per Timothy: possa la tua vita essere ricca e piena di bei momenti
DRAMATIS PERSONAE A Shandrim, capitale di Shandar REYNIK: membro della Legione Scelta del Generale. Uno dei due soli legionari che non hanno ancora compiuto i diciotto anni. TRENNON: membro della Legione Scelta.
SIDIS: caposquadra della Legione Scelta del Generale. Compagno di Femke nel viaggio verso Thrandor. FEMKE: giovane spia molto dotata, al servizio dell'Imperatore di Shandar. Maestra del travestimento. TYMM: membro della Legione Scelta del Generale. Amico di Reynik. NELEK: veterano della Legione Scelta del Generale. LORD TREMARLE: potente lord di Shandar della vecchia guardia. Padre di Lord Danar. LORD LACEDIAN: lord di Shandar. Il migliore amico di Lord Tremarle. LORD DANAR: giovane e bello, dongiovanni della Corte Imperiale. Unico figlio di Lord Tremarle, un potente lord della vecchia guardia. Ucciso da Shalidar durante la missione di Femke a Mantor. LORD FERRAND: istruttore delle spie imperiali. Mentore di Femke. Dato per disperso, presunto morto da due anni. SHALIDAR: membro della Corporazione degli Assassini (fratello Dragone) e nemico giurato di Femke. ALTRI ASSASSINI: fratelli Scorpione, Drago di Fuoco, Falco, Vipera, Coguaro, Volpe, Orso, Dragone, Tarantola. SURABAR: ex-militare, Generale delle Legioni Shandesi, ora Imperatore di Shandar. LADY ALYSSA: un fantasma, ovvero uno degli alias di Femke. Ragazza viziata e arrogante, conosciuta come la figlia di un ricco mercante di una città costiera. VERSANDE MATTHIASON: proprietario del Calice d'Argento, una
locanda di alto livello che si trova in centro a Shandrim. RIKALA: sarta e amica di Versande Matthiason. LORD KEMPTEN: anziano lord di Shandar, Reggente dell'Impero Shandese in assenza dell'Imperatore Surabar. LADY KEMPTEN: la graziosa moglie di Lord Kempten. Il marito la chiama affettuosamente Izzie. COMANDANTE SATERIS: comandante della Prima Legione Shandese. COMANDANTE VASCILLY: comandante che ogni giorno presenta rapporto all'Imperatore. ANEKI: domestico di Serrius, gladiatore a riposo di Shandrim. SERRIUS: gladiatore micidiale. Considerato il migliore spadaccino che abbia mai combattuto nell'arena shandese. A riposo. Istruttore di Reynik. DERRYN: artista di strada, esperto lanciatore di coltelli. Istruttore di Reynik. DEVARUSSO: brillante direttore della principale compagnia di attori di Shandrim. Istruttore di Reynik. DIKARIS: vicecaposquadra di Sidis nella Legione Scelta. Ossessionato dalla disciplina e dall'igiene personale. TOOMAS: pettegolo privo di scrupoli. SHANTELLA: vero nome di fratello Volpe, l'unico membro femminile della Corporazione degli Assassini. JARRON: guardia presso la casa di Lord Lacedian. DAKREAS: guardia presso la casa di Lord Lacedian.
SASSO: domestico di Lord Tremarle. MERRIK: lord di Shandar. SHEDRICK: informatore, agente di Femke. LUTALO: comandante assegnato alla Prima Legione Scelta dopo l'assassinio del Comandante Sateris. Padre di Reynik. TAM: legionario. JURRE: domestico nel complesso della Corporazione. GAETAN: carrettiere.
Capitolo uno «Ehi, ragazzi! Guardate un po' chi c'è qui! Non è il cocco dell'Imperatore di ritorno dalle vacanze? Allora, te la sei passata bene a Thrandor, Reynik? Ti sei ricordato di portarci un regalo?» Tutti gli occhi, nella tenda, si girarono e si posarono sul ragazzo fermo sulla soglia. Questi ricambiò gli sguardi con una sicurezza che mal si accordava con la sua giovane età. Reynik non aveva ancora compiuto diciott'anni, ma già aveva avuto il suo battesimo in battaglia. Durante il primo turno della Guardia d'Onore c'era stata una violenta schermaglia con un gruppo di ribelli. Grazie alla sua abilità in combattimento, Reynik si era fatto notare dall'Imperatore, che in seguito lo aveva scelto per una missione speciale di scorta. L'acido benvenuto, al suo ritorno, era ampiamente prevedibile. «Thrandor era un inferno! Vino buono, belle ragazze e una stanza lussuosa con una vasca da bagno tutta per me: un vero incubo! Voi non avreste resistito, ragazzi» rispose con un largo sorriso che lo fece apparire più un ragazzo che un uomo. «Ho speso tutto quel che avevo in buona compa-
gnia, perciò per regalo dovrete accontentarvi dei miei racconti.» «Non sapresti che fartene di una bella ragazza nemmeno se fosse accompagnata da un biglietto di istruzioni per l'uso!» sibilò stizzito uno dei compagni più anziani. «Almeno nessuno doveva preoccuparsi di non farmi andare troppo su di giri per paura che mi prendesse un colpo, Trennon» ribatté pronto Reynik. A quelle parole, tutti scoppiarono in una risata. Reynik si sentì sollevato. Esteriormente si sforzava di apparire tranquillo, ma dentro di sé tremava. Durante il recente periodo di addestramento, aveva imparato che qualunque cosa fosse stata vista dagli altri come un trattamento di favore l'avrebbe reso antipatico. Suo padre gli aveva insegnato bene le dinamiche di gruppo. Sapeva che ostentare una bella faccia tosta era il modo migliore di affrontare la situazione. Se avesse potuto raccontare ai suoi commilitoni la vera storia di ciò che era accaduto a Thrandor, gli sarebbe stato più facile farsi riaccogliere. Ma purtroppo aveva dovuto giurare di mantenere il segreto. L'Imperatore aveva messo bene in chiaro, sia con lui sia con Sidis, che non avrebbero dovuto parlare a nessuno degli avvenimenti che erano capitati durante il loro viaggio. Per tutto il tempo, Sidis era stato un compagno sgradevole. Dal momento che lui era un caposquadra e Reynik un semplice legionario, il ragazzo sperava che durante il viaggio Sidis avrebbe trovato il tempo di insegnargli qualcosa di nuovo sulla vita militare. Invece non era stato così. Si era dimostrato freddo e scontroso. Dopo aver visto Reynik affrontare un Assassino davanti a tutta la Corte Reale di Thrandor, il disinteresse di Sidis nell'affinare le capacità militari di Reynik si era trasformato in aperta ostilità. Durante il viaggio di ritorno era stato davvero insopportabile. "Se solo Sidis fosse un po' più gentile" aveva pensato Reynik. Avere qualcuno con cui parlare dei fatti avvenuti a Thrandor gli sarebbe stato di grande conforto. L'unica persona con cui avrebbe potuto discutere del viaggio era Femke, la spia imperiale che si era presentata come ambasciatrice shandese, ma la cosa era imbarazzante sotto diversi aspetti. Pensare a Femke non gli era di aiuto. Lo distraeva, e lui sapeva che ora era necessario mantenere il controllo. Doveva dimostrare ai suoi commilitoni di non aver perso la sua identità di membro del gruppo. Reynik issò la sua bisaccia attraverso la tenda aperta e la sistemò da una parte, sulla sinistra. Il posto più vicino all'ingresso della tenda era il peggiore. Era il più esposto alle correnti d'aria, il più difficile da tenere pulito e quello in cui c'erano più probabilità di venire disturbati, la notte.
«E allora, com'è davvero Thrandor, Reynik?» gli chiese uno dei soldati più giovani. «Non molto diversa da Shandar, Tymm» rispose lui scrollando le spalle. «È stato quasi tutto piuttosto noioso. Durante il viaggio, il caposquadra Sidis e io abbiamo dovuto fare da balia all'ambasciatrice. Una volta giunti a destinazione, ci ha lasciati quasi sempre liberi, finché non è giunto il momento di ritornare. Sono riuscito a vedere gran parte di Mantor, e quello è stato divertente. Le Guardie Reali al Palazzo di Thrandor erano impegnate in un'esercitazione, così ho imparato un paio di nuovi trucchi. Ma a parte questo, è stato noioso come fare il primo turno di guardia.» «In altre parole, è stata una vacanza» borbottò Nelek dal fondo della tenda. «Sarà bene che tu non abbia preso cattive abitudini o modi trasandati, giovanotto. Se il caposquadra troverà da ridire per colpa tua, te la faremo pagare.» «Bentornato, Reynik» mormorò sottovoce Tymm un po' esitante, evitando di farsi sentire da Nelek. Gli altri rimasero in silenzio, mostrandosi poco interessati al suo racconto. «Farò del mio meglio per non deludere nessuno» rispose Reynik mentre svuotava la sua bisaccia e rifaceva la brandina. Ci sarebbe voluto un po' di tempo per tornare a essere riaccettato del tutto. Nel frattempo, doveva concentrarsi sui fondamenti della vita militare e cercare di confondersi con gli altri. Tutti i legionari erano addestrati a badare a se stessi in ogni sfera della vita. Esisteva un unico modo di rifare il letto, di riporre gli abiti, di tagliarsi i capelli e di tenere in ordine il proprio equipaggiamento. Esisteva persino un modo tipico della legione di prepararsi la propria tazza di klah, la mattina. Diventare legionario significava diventare qualcosa di più di un semplice soldato, significava acquisire uno stile di vita. Per Reynik, le regole della legione erano un qualcosa di innato. Ne aveva imparate molte sulle ginocchia del padre fin da quando aveva iniziato a parlare e a camminare. Quella di Reynik era un'illustre famiglia militare, che vantava generazioni di buoni soldati. Negli ultimi anni, tanto il padre quanto lo zio erano stati comandanti di legione, il più alto grado militare dopo quello di generale al quale un soldato potesse aspirare. Il padre era ancora un comandante in servizio quando un Assassino aveva ucciso suo zio, qualche anno prima. Reynik aveva assistito all'assassinio dello zio e aveva visto l'uomo che lo
aveva ucciso. Non pensò mai che avrebbe potuto rivederlo, ma nel corso degli ultimi avvenimenti le loro strade si erano incrociate. Adesso sapeva che quell'uomo si chiamava Shalidar. Avendo riconosciuto l'Assassino, aveva sperato di riuscire a vendicare lo zio, ma non ne aveva avuto la possibilità. Si consolava al pensiero che lui e l'ambasciatrice Femke erano riusciti a mandare all'aria il tentativo di Shalidar di far naufragare le trattative di pace. L'Assassino era ancora in fuga. Nessuno sapeva come ci fosse riuscito, fatto sta che aveva eluso tutti gli inseguitori e aveva lasciato il Palazzo Reale di Mantor. Dentro di sé Reynik non se ne rammaricava. Sventare i piani di Shalidar gli aveva procurato una certa soddisfazione, ma non aveva placato il suo desiderio di vendetta personale. Voleva affrontare l'Assassino spada contro spada. Voleva che Shalidar comprendesse perché il suo odio per lui era così ardente. Allora, e soltanto allora, lo avrebbe ucciso, forse. Era improbabile che Shalidar fosse così folle da fare ritorno alla capitale shandese. L'Imperatore aveva messo sulla sua testa una taglia così alta che avrebbe tenuto alla larga qualunque uomo sano di mente. In ogni caso, Shalidar non era certo pazzo, anzi, era uno degli uomini più calcolatori che Reynik avesse mai conosciuto. E dato che Reynik non aveva modo di inseguirlo, per il momento era inutile coltivare idee di vendetta. «Adunata!» La voce del caposquadra tuonò nella tenda provocando una reazione istantanea. Tutti balzarono sull'attenti ai piedi delle proprie brande, diritti e tesi. «Inquadrati fuori. Un minuto. Muoversi, muoversi!» Gli uomini si precipitarono a mettere insieme l'equipaggiamento necessario. Fortunatamente per Reynik, era già perfettamente in ordine. Non doveva far altro che cingersi la spada e sarebbe stato pronto. Sfruttò i pochi secondi che gli restavano per richiudere con cura i lacci della bisaccia. Poi la sistemò ordinatamente accanto alla brandina. Una volta all'esterno, i legionari si disposero silenziosamente e rapidamente su tre file. I vicecapisquadra controllarono le distanze prima di prendere posizione, pronti a ricevere le istruzioni del caposquadra. Reynik riprese il suo vecchio posto nella retroguardia. L'accampamento delle legioni era situato fuori dal quartiere sudoccidentale di Shandrim. Ormai iniziava a sembrare un'estensione permanente della città. File su file di tende erano disposte con precisione milli-
metrica. In principio l'idea era stata di accamparsi lì per un breve periodo, arruolare nuovi coscritti e poi muovere all'attacco di Thrandor. Adesso invece gli uomini venivano usati per integrare le milizie cittadine e mantenere l'ordine pubblico, dopo il drammatico avvicendamento dell'Imperatore: la capitale era ancora sconvolta dall'insolita sequenza di eventi che aveva portato un generale a indossare il Mantello Imperiale. Il nuovo Imperatore era il Generale Surabar, fondatore della Legione Scelta cui apparteneva Reynik. I soldati lo veneravano come capo e quindi avevano ottimi motivi per aiutarlo a preservare il potere. Non c'era stato un colpo di stato. Ad ogni modo, ora che un soldato illustre con la reputazione di uomo giusto e onorevole aveva preso il comando dell'Impero, intendevano fare in modo che lo mantenesse. I membri della legione che quel giorno partecipavano alle esercitazioni marciarono in dieci gruppi di sessanta verso i vasti spiazzi per l'addestramento ai margini dell'accampamento. Gli altri legionari erano tutti in servizio in città. Ogni squadra da sessanta era guidata da un capo e, a gruppi alterni, un tamburino in prima fila batteva il passo. Reynik trovava strano essere di nuovo in marcia verso i campi di addestramento. Dopo un prolungato periodo di assenza dalla legione, era bello essere di nuovo lì. Quando raggiunsero lo spiazzo, ogni caposquadra istruì il proprio gruppo sul programma di lavoro per la mattinata. Il gruppo di Reynik ricevette l'ordine di iniziare con un'esercitazione individuale all'uso delle armi e poi di spostarsi verso l'area delle manovre. Reynik strinse i denti quando si trovò a far coppia con Nelek. Il veterano era un ottimo spadaccino, ma non era mai stato benevolo con Reynik. Sembrava che a quell'uomo piacesse tormentare i membri più giovani della legione. Reynik sapeva che la mezz'ora successiva sarebbe stata faticosa. Non si faceva illusioni su chi dei due fosse più abile con la spada. Nelek si muoveva con una grazia e una velocità incredibili. E aveva anche l'istinto dell'assassino. Il veterano era sopravvissuto a numerose battaglie nel corso della sua carriera, pur avendo passato molte ore nel cuore dei combattimenti. Quando Reynik era entrato a far parte della legione, uno dei veterani più disponibili gli raccontò di una volta in cui Nelek si trovava proprio dove infuriava l'azione. Quell'uomo affermò di aver visto con i propri occhi Nelek farsi strada in mezzo a un nugolo di soldati nemici come se fossero stati tanti alberi secchi da buttare giù. Che la storia fosse vera o fosse un'esagerazione non faceva differenza. Restava il fatto che quell'uomo era
un combattente di grande talento. Quelli che Reynik doveva conoscere in quel momento erano i suoi difetti, non i suoi punti di forza. «A noi due, dunque, Nelek» fece allegro Reynik sperando di ricevere una qualche risposta. Nelek grugnì mentre afferrava due spade da allenamento dal mucchio e ne lanciava una a Reynik. Si spostarono in un punto adatto e si disposero l'uno di fronte all'altro. «Vuoi fare un po' di riscaldamento?» domandò Reynik ruotando le spalle per scioglierle e prepararsi al castigo che prevedeva di ricevere. Nelek non rispose. Invece, attaccò. Senza preavviso. Si limitò a gettarsi a capofitto con la sua spada di legno, in un fuoco di fila di colpi rapidi e violenti. L'istinto e le reazioni fulminee aiutarono Reynik a evitare una serie di lividi nei primi secondi. Il veterano picchiava con tutte le sue forze. Allontanandosi da Nelek con un balzo nel tentativo di riacquistare equilibrio e compostezza, Reynik vide che l'altro lo inseguiva da vicino. Nelek non intendeva lasciargli tempo per pensare. La gragnola di fendenti continuò e iniziò a fare breccia nella guardia di Reynik. Ricevette un colpo secco alle costole e subito un altro sul braccio. Esteriormente, Nelek non dava segno di provare rancore o collera. Se così fosse stato, allora Reynik avrebbe lanciato il grido che avrebbe costretto l'avversario a interrompere l'attacco. Ma Reynik non era ancora pronto a farlo. Il ragazzo capì che Nelek stava cercando di dimostrare qualcosa. Ma che cosa? Non aveva importanza. In un combattimento vero con spade autentiche, Nelek lo avrebbe ferito più volte, forse in maniera letale. Ma quella era solo un'esercitazione. C'erano delle regole. Nelek ne aveva già infranta una trascurando il saluto. Ne avrebbe trasgredite altre? Reynik decise di scoprirlo. Con un balzo all'indietro in quella che sembrava una ritirata, Reynik immaginò che Nelek avrebbe continuato il suo implacabile inseguimento. Questa volta, però, anziché cercare un po' di tregua per respirare, Reynik utilizzò questo breve lasso di tempo per cambiare posizione e lasciare deliberatamente la testa esposta all'attacco. Nelek abboccò e puntò alla tempia di Reynik. Questi parò il colpo e poi mise in atto il piano che aveva premeditato. Aveva intenzionalmente portato il peso in avanti e, quando le spade di legno si incrociarono, si abbassò ruotando e si infilò nella guardia di Nelek, piantando il gomito sinistro nel plesso solare dell'avversario. Era un trucco che una delle guardie di Thrandor aveva usato su di lui durante un duello simulato al Palazzo Reale di Mantor. E per Reynik si rivelò
efficace come lo era stato per il thrandoriano. Nelek si piegò in due, ma così facendo il suo volto fu colpito in pieno dal dorso del pugno di Reynik, che incontrò il suo naso con tanta forza da fargli ancor più male della gomitata. Nelek indietreggiò barcollando. Prima che avesse la possibilità di riprendersi, Reynik lo aveva disarmato e aveva puntato la lama della sua spada da esercitazione sulla gola del veterano. «Basta così» lo interruppe una voce grave. Reynik si allontanò da Nelek e lo salutò prima di voltarsi verso il caposquadra. Sidis lo fissava con un'espressione minacciosa. "Siamo alle solite" pensò Reynik cupo. «A che gioco pensi di giocare, Reynik?» chiese Sidis con la voce colma di collera e sdegno. «Questo è uno spiazzo di esercitazione. Non tentiamo deliberatamente di infliggere ferite ai nostri compagni di allenamento. Tu sei un legionario, non un attaccabrighe da strapazzo. Hai volontariamente colpito Nelek in faccia. I colpi alla testa sono proibiti, e c'è una ragione, Reynik. Se credi di essere superiore alle regole solo per via della tua recente missione, allora vedi di rifletterci bene. Da questo momento sei consegnato per sette giorni. Inoltre, sarai assegnato alle latrine per lo stesso periodo. Forse una settimana a scavare servirà a farti entrare nella zucca un po' di senso di realtà. Se ti becco a fare di nuovo qualcosa del genere, non esiterò a farti espellere dalla legione. Non vogliamo nutrire serpi in seno, qui.» Reynik non disse nulla. Guardò il caposquadra negli occhi e lo salutò, ma lo fece in maniera meccanica. Sidis si voltò e si allontanò con decisione. Dentro di sé Reynik ribolliva, ma non c'era nulla che potesse fare. Conosceva Sidis abbastanza bene da sapere di non essergli mai piaciuto. Protestare avrebbe solamente peggiorato le cose. Il fatto che Nelek lo avesse colpito alla testa con la spada da esercitazione solo qualche istante prima era irrilevante. Non poteva fare altro che accettare la punizione e cercare di evitare ulteriori alterchi. "Fantastico!" pensò con un accenno di nausea. "Sono tornato da nemmeno un'ora e sono già nei guai!" «Pronto per un altro giro, ragazzo?» ghignò Nelek. Per un attimo, la collera infiammò Reynik come se qualcuno gli avesse acceso una torcia impregnata d'olio nella pancia, ma con disciplina ferrea riuscì a reprimere quell'emozione, sostituendo al calore della rabbia una furia fredda e calcolatrice. Si voltò per affrontare Nelek con uno sguardo di
ghiaccio che apparve insolito sul volto di un ragazzo tanto giovane. Per un attimo il sorriso maligno si gelò sulla faccia del veterano, che però nascose subito il proprio disagio. L'unica consolazione per Reynik fu il rivolo di sangue che gli colava dal naso. "È un peccato che non ti abbia colpito un po' più su" pensò. "Ancora un dito e probabilmente ti avrei procurato un bel paio di occhi neri." Con un saluto beffardo, Nelek iniziò un nuovo combattimento e Reynik si rese conto che questa volta il suo avversario non avrebbe avuto nessuna pietà. Lo squillo di tromba che indicava la fine dei duelli fu il benvenuto. Reynik aveva ricevuto così tanti colpi sulle braccia e sul corpo che senza dubbio quella sera sarebbe stato tutto nero e blu. La seduta successiva fu un tormento. Cercare di mantenere una posizione rigida ed energica dopo esser stato martoriato per mezz'ora con una spada da esercitazione di legno non fu impresa da poco. Sentì su di sé gli occhi del caposquadra durante tutta l'esercitazione. Il vecchio soldato stizzoso aspettava di vederlo mettere un piede in fallo, pronto a piombare su di lui come un gatto sul topo. Reynik non gli fece questo favore. In un modo o nell'altro, riuscì ad arrivare in fondo alla prova senza commettere errori, anche se per farcela dovette impegnare ogni briciola di concentrazione che aveva. Anche durante la marcia di ritorno all'accampamento, sapeva di non potersi rilassare. La sensazione di essere sorvegliato era costante. Non era mai stata così pressante prima di allora. Nemmeno nei primi tempi da legionario era stato sottoposto a un tale controllo. Mentre rientravano alle tende, se fosse stato in grado di concentrarsi su qualcosa d'altro che non fosse tenere il passo e portare le braccia all'altezza regolamentare, mantenendo al tempo stesso la giusta distanza dall'uomo che lo precedeva, Reynik avrebbe forse potuto cogliere i primi segni della primavera attorno a sé. L'aria era frizzante, ma non era più quella gelida dell'inverno. Sulle siepi e gli arbusti iniziavano a spuntare i primi boccioli verdi, e il sole splendeva un po' più in alto nel cielo. Ma gli unici elementi del cambio di stagione che ebbero effetto su di lui furono quelli negativi. Il fango appiccicoso, calpestato da centinaia di scarponi durante la marcia quotidiana da e verso i campi di addestramento, non era più indurito dal gelo, ma schizzava e gemeva come qualcosa di vivo, trattenendo i suoi piedi e risucchiando ancora di più le sue energie a ogni passo. Quello che rientrò malfermo nella sua tenda dopo l'addestramento mattutino non era più il giovane ottimista e dall'aspetto riposato che solo due
ore prima era ritornato dal viaggio per riunirsi ai suoi compagni, ma un ragazzo malconcio, esausto e sporco di fango. Era sicuro che prima di partire le cose non erano così dure, ma forse qualcosa di ciò che Nelek gli aveva fatto capire era giusto. Era fuori forma. Lo sapeva. Sebbene avesse cercato di mantenersi in esercizio mentre era via, non lo aveva fatto con la stessa ferrea disciplina impartita dagli istruttori della legione. "Be', se mai in futuro avrò bisogno di un motivo per tenermi in forma, basterà che ripensi a oggi" mormorò fra sé e sé mentre crollava sulla sua brandina all'interno della tenda. Non aveva molto tempo. Sapeva di dover pulire gli scarponi e rendere l'uniforme più presentabile prima di pranzo. Concesse al proprio corpo un momento di riposo prima di ripulirsi. E fu un errore. I muscoli, irrigiditi dalla fatica dell'intenso allenamento e della lunga marcia, protestarono, inondandogli gli arti e il torso di crampi dolorosi. E i lividi provocati dai colpi inferti da Nelek non fecero altro che acuire la sofferenza. «Per i denti di Shand!» imprecò con un gemito mentre si rialzava. Tymm, che era seduto lì vicino, scoppiò in una risata. «Sembri un uomo che ha il triplo dei tuoi anni! Che problema hai? È bastato un po' di esercizio leggero per farti crollare! Pensavo che fossi un po' più resistente.» «Be', allora pensavi male» ribatté Reynik con un sorriso. «Mi sento più fiacco e indolenzito che dopo la mia prima settimana da recluta. Merito di Nelek. Penso che mi ci vorranno un paio di giorni per riprendere il ritmo dell'addestramento. Lo ritroverò in fretta, e quando accadrà...» Reynik lasciò la frase in sospeso e Tymm scoppiò in un'altra risata. «Ho sentito dire che ti è bastato qualche minuto per beccarti una settimana di consegna. Complimenti, Reynik! Penso che tu abbia stabilito un nuovo record.» «Sai come funziona qui» rispose Reynik scrollando le spalle. «Sono cose che succedono. Non sono mai piaciuto al caposquadra Sidis. Il nostro viaggio a Thrandor non è servito a migliorare i nostri rapporti. Devo averlo infastidito in qualche modo, anche se non so con precisione che cosa ho fatto per meritarmi la sua antipatia. Credo che ciò che è capitato oggi sia stato il suo modo di ricordarmi che siamo di nuovo a Shandrim, dove la differenza di grado fra di noi si fa sentire molto di più. Insomma, una specie di regalo di bentornato.» «Proprio un bel regalo! E tu che cosa gli darai in cambio? Ti ricordi cosa abbiamo fatto a Severian quella volta che ha esagerato?» gli chiese Tymm con una faccia furba.
«Oh, no! Non intendo rifare niente del genere. Sarebbe troppo ovvio. Chi altri avrebbe motivo di fargli qualcosa di sgradevole? Non servirebbe ad altro che a peggiorare le cose, Tymm. Io ho bisogno di non farmi notare e di stare alla larga dai guai.» «E se a Sidis capitasse qualcosa quando tu sei impegnato nei tuoi servizi punitivi? Non potrebbe incolpare te, in quel caso. Sono pronto a dargli una bella lezione, ma dev'essere qualcosa di spettacolare.» «No! Assolutamente no! In questo momento, anche se il mio alibi fosse l'Imperatore in persona, non sarebbe sufficiente. Sidis troverebbe il modo di affibbiare comunque la colpa a me. Ti prego, non fare stupidaggini, Tymm. Apprezzo il pensiero, ma non è una buona idea.» Tymm sospirò. «Certo, hai ragione, però sarebbe stato divertente.» «Forse per te. Non dovresti sopportarne le conseguenze. Grazie del sostegno, ma questa volta è meglio che io mi limiti ad affrontare la tempesta e che cerchi di riprendere il mio posto senza farmi notare troppo.» Entro sera, Reynik aveva già cambiato idea. Aveva sopportato le sedute pomeridiane di addestramento a denti stretti. Adesso, dopo aver riempito le fosse delle vecchie latrine, era lercio di escrementi e puzzava come un letamaio. Ma quello era stato solo l'inizio. Lui e gli altri poveretti assegnati a quel compito avevano dovuto faticare parecchio per scavarne di nuove. Stando ai regolamenti, le buche dovevano essere lunghe cinque badili, larghe uno e profonde altrettanto, e se qualcuno avesse cercato di aggirare i regolamenti, be', allora poteva fare affidamento solamente su Shand. La storia aveva ripetutamente dimostrato che cattivi impianti sanitari mietevano fra i soldati più vittime dei combattimenti. Ed era questo il motivo per cui i turni alle latrine, e tutte le altre faccende relative all'igiene personale, erano prese estremamente sul serio. Dopo le attività fisiche delle esercitazioni, scavare nel terreno pesante e fangoso fu una vera tortura. Le braccia, la schiena e le spalle di Reynik protestavano ogni volta che affondava e sollevava il badile. Quando colpiva una pietra più grossa, l'impatto si ripercuoteva in tutto il corpo, amplificando le sofferenze. Il tempo si trascinava lento e ogni minuto diventava un'eternità. Credeva che non sarebbe mai arrivato in fondo. Era quasi completamente buio quando ebbe finito. «Puoi andare» ammise scontroso il vicecaposquadra addetto alla sorveglianza quando Reynik gli mostrò le dimensioni della fossa con il suo badile. «Adesso va' a darti una ripulita. Ti aspetto domani alla prima chiamata dopo l'esercitazione. Sei libero.»
Reynik era così stanco che riuscì a malapena ad arrampicarsi fuori dalla fossa. Barcollò mentre posava il badile sopra gli altri, facendo attenzione a non scomporre la pila ordinata. Poi, con tutta la dignità che riuscì a raccogliere, marciò stancamente fino alla sua tenda. Non era lontana. Una volta arrivato là, il suo unico desiderio era di crollare sulla sua brandina e dormire. Ma, per quanto il suo corpo anelasse al riposo, Reynik sapeva di dover resistere un altro po'. Al suo ingresso, gli altri nella tenda lo ignorarono. Nemmeno Tymm lo guardò, mentre si chinava per entrare. "Dunque le cose stanno così" pensò depresso. "Be', pazienza. Non durerà a lungo." Si spogliò, piegò gli abiti sudici e li impilò vicino all'ingresso. Poi indossò un paio di mutande pulite, si mise sotto il braccio gli abiti sporchi e un piccolo asciugamano, e si costrinse a uscire nuovamente dalla tenda, all'aria fresca della sera. Sapeva che non era una buona idea andarsene in giro così svestito, ma non voleva sporcare altri abiti. Aveva disperatamente bisogno di lavarsi prima di toccare l'uniforme pulita. Il caposquadra era intenzionato a rendergli la vita difficile e cercava la minima scusa per prendersela con lui, ma Reynik era deciso a non facilitargli le cose. Lavarsi con l'acqua fredda fu spiacevole. Strofinare gli abiti luridi prima di essersi asciugato del tutto fu ancora peggio. Però gli servì per svegliarsi e per stimolare il corpo a trovare le energie per stendere l'uniforme bagnata nell'area apposita prima di fare ritorno alla tenda. Ma ancora non poteva riposarsi. Per esperienza sapeva che se non avesse mangiato qualcosa di caldo e bevuto un po', l'indomani l'avrebbe pagata cara. Doveva andare alla cucina da campo. Così, fingendo di non accorgersi che i suoi compagni legionari lo stavano deliberatamente ignorando, si rivestì e uscì in cerca di cibo. Non dovette camminare molto, ma ogni passo fu per lui come una puntura di spillo. Quella fu la prima volta, da quando era entrato nell'esercito, che si interrogò sul perché volesse essere un membro delle legioni. Desiderava davvero questa vita o stava soltanto seguendo ostinatamente le orme del padre perché così ci si aspettava da lui? Non se la sarebbe cavata meglio facendo il mercante o imparando un mestiere rispettabile? Dopo essersi immerso per qualche istante in questi pensieri negativi, si fece una bella risata e disperse quell'umore malinconico. «Certo, è questo che voglio» mormorò con determinazione. «Questa è la vita per cui sono nato. Non potrei essere più adatto. Non lascerò che la meschinità di un paio di persone mi impedisca di vivere il mio sogno. Soppor-
terò il dolore. Sopporterò la stanchezza. Non permetterò a Sidis di piegarmi. Gli altri non ci metteranno molto a capire che io sono superiore alla sua meschina vendetta.»
Capitolo due «Morto? Danar è morto? Come? Lord Tremarle crollò sulla sedia con un tonfo e il sangue defluì dal suo volto, che diventò color grigio cenere. Le rughe si approfondirono sul suo viso mentre il peso del ferale annuncio sembrò deformare i suoi lineamenti. Lord Lacedian si domandò per un istante se quello non fosse un colpo troppo forte per il suo vecchio amico.» «Non lo so con precisione, Tremarle. La mia fonte non conosceva i dettagli. Si dice che Danar sia stato avvelenato, ma voglio che tu sappia che è soltanto una voce.» «Prima Espen e adesso Danar. I miei figli non ci sono più. Il mio casato è estinto.» Tremarle tacque. Incurvò le spalle e lo sguardo si fece distante. Lacedian continuava a fissarlo con una pietà impotente. Quale consolazione poteva offrirgli per una tale perdita? Danar era il primogenito di Tremarle. Erano passate solo poche settimane da quando il figlio più giovane era rimasto ucciso in un incidente di caccia. Per tradizione, alla morte di un lord, il maggiore dei figli maschi avrebbe assunto il nome del casato del padre. Lord Tremarle aveva delle figlie, ma le femmine non erano autorizzate a ereditare la guida di una casata. E lui era troppo vecchio per avere altri figli. Senza eredi maschi, la sua morte avrebbe significato la fine dei Tremarle. Il casato, insieme ai beni di famiglia, sarebbe passato alla famiglia del marito della figlia maggiore, ponendo così fine a quattrocento anni di storia. Per quest'uomo gretto, era un duro colpo. Il silenzio si protrasse per diversi minuti. Gli occhi di Lacedian iniziarono a vagare inquieti nel vasto studio di Lord Tremarle, mentre si domandava se dovesse prendere commiato. Doveva andarsene e permettere all'amico di affrontare il dolore da solo o rimanere e offrirgli il proprio conforto in questo momento di lutto? «C'era di mezzo una donna?» chiese Tremarle con tono inespressivo.
Lacedian sobbalzò a questa domanda inattesa. Tremarle non aveva mai dimostrato apertamente la propria disapprovazione per i facili amori di Danar con le giovani dame di corte, ma da tempo sentiva che, se qualcosa avrebbe portato suo figlio alla rovina, quella sarebbe stata una donna. Lacedian scrollò il capo. «Non credo, amico mio» rispose con tono rassicurante. «Come ti ho detto, le informazioni sono vaghe, ma ho preferito che tu non ricevessi la notizia direttamente dall'Imperatore. Non volevo che dicessi qualcosa che poi tutti quanti avremmo rimpianto.» «Certo, Lacedian, capisco. Ti ringrazio.» Lord Tremarle capiva davvero. Tutti coloro che erano coinvolti nella sommossa contro il nuovo Imperatore Surabar in quel momento avevano i nervi tesi. Parecchi lord erano stati impiccati per tradimento, nelle ultime settimane, per ordine del Reggente, un uomo che avevano creduto essere dei loro. Nel frattempo l'Imperatore aveva fatto ritorno dal suo viaggio a Thrandor. La cautela era più che giustificata. «Devo lasciarti solo, Tremarle?» «No, Lacedian, rimani. Ci sono delle cose che vorrei chiederti.» Tremarle guardò l'amico e scorse il disagio sul suo volto. Gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento. «Non preoccuparti, vecchio mio, non mi aspetto che tu risponda alle mie domande, ma farle mi farà bene comunque. Grazie di esserti assunto la responsabilità di portarmi la notizia. È stato coraggioso da parte tua.» Il vecchio lord fece cenno a Lacedian di mettersi a sedere in una delle grandi poltrone. Tremarle si sporse e si alzò dalla propria sedia. Attraversò la stanza e si avvicinò al mobiletto dei liquori. «Bevi qualcosa, Lacedian?» domandò mentre apriva l'anta dell'armadietto e ne estraeva due bicchieri. «È un po' presto per me, Tremarle, ma date le circostanze un goccetto ci sta. Grazie.» Tremarle tirò fuori una caraffa di cristallo piena di vino rosso scuro. Con grande attenzione, riempì generosamente i due bicchieri. Quando ebbe finito, asciugò il bordo della caraffa con un tovagliolo immacolato prima di rimettere a posto il tappo e di riporla nell'armadietto. Il vecchio lord porse uno dei bicchieri all'amico e tornò a sedersi in poltrona. Per un momento rimasero in silenzio, sorseggiando il vino. «Hai idea di che cosa stesse facendo esattamente Danar a Thrandor?» chiese piano Tremarle. «È venuto da me con una storia ridicola secondo cui sarebbe stato inviato là come ambasciatore. Mio figlio non aveva affat-
to la stoffa dell'ambasciatore. Era un dongiovanni con scarso senso di responsabilità. So che mi stava nascondendo qualcosa, ma non so cosa.» Lacedian scrollò il capo. «Non lo so» rispose lentamente. «Però ti aveva messo in guardia poco prima della partenza, non è vero? Surabar aveva scoperto che eri coinvolto nel complotto contro di lui e te lo aveva fatto sapere tramite Danar.» «È così.» «Be', forse Surabar lo stava ricattando per fargli fare qualcosa di pericoloso. Se dovessi tirare a indovinare, direi che l'ha mandato nella capitale thrandoriana come spia. Negli ultimi mesi da Thrandor sono arrivati diversi messaggeri. Surabar non ha spiegato alla Corte il motivo della sua visita improvvisa a Mantor. C'è chi dice che sia in combutta con i popoli meridionali. Sarà anche stato un generale, ma mi sembra che abbia perso il gusto dell'azione militare. Ha fatto capire chiaramente che non intende colpire Thrandor, nonostante abbiano massacrato il nostro popolo.» Tremarle rifletté un istante sulle parole di Lacedian. Immaginava che l'amico non fosse poi tanto lontano dal vero, con la sua teoria del ricatto. L'Imperatore Surabar non aveva sangue aristocratico nelle vene. Era perfettamente naturale che impiegasse tattiche subdole per proteggere i suoi seguaci. Era difficile immaginare Surabar cospirare per allearsi con i thrandoriani, soprattutto considerando che migliaia di legionari erano morti di recente per mano loro in una battaglia sanguinosa, ma c'era una logica perversa in tutto questo. Forse Lacedian aveva davvero capito tutto. Surabar non aveva il sostegno unanime dei nobili, a Shandar. Anzi, fra loro contava solo pochi amici. Se voleva rinsaldare la propria posizione di Imperatore, gli occorrevano alleati potenti. E dal momento che lì non ne aveva, era possibile che si rivolgesse ai paesi vicini perché lo aiutassero a mantenere la presa sul Mantello. Mentre pensava a tutto questo, Tremarle sentiva ribollire la rabbia dentro di sé. Se Surabar cercava un aiuto potente fuori da Shandar, allora la necessità di liberarsi di lui si faceva ancora più urgente. «È una teoria valida, Lacedian, mi pare. Ma come possiamo provarlo? Non sarà facile.» «Ne abbiamo bisogno? Sbarazzati di Surabar, e in un sol colpo vendicheremo Danar e troveremo l'Imperatore che i nobili possano rispettare.» «Allora gli altri si sono accordati per sostenere un unico candidato?» chiese Tremarle mentre la rabbia cedeva momentaneamente il posto alla sorpresa.
«No, non ancora, ma il numero di concorrenti si sta assottigliando. Pereth si è ritirato dalla contesa ieri. Alla fine si è reso conto di non avere lo stesso sostegno degli altri.» «E quindi sono rimasti in... quattro? Cinque?» «Quattro. Nessuno prende sul serio Miranthel.» «Be', sarebbe bene che si dessero una mossa e decidessero» borbottò Tremarle con tono minaccioso mentre la collera si ravvivava. «Non hanno molto tempo. Trovami un sicario, Lacedian. Voglio stipulare un contratto su Surabar. La Corporazione degli Assassini non accetterà un accordo sull'Imperatore, il loro codice d'onore non glielo permette. Ma qualcuno lo farà. C'è sempre qualcuno disposto a uccidere, se la ricompensa è abbastanza alta.» La sala circolare era immersa nella penombra, illuminata solo dalle torce montate su staffe lungo le pareti. Ombre danzavano e tremolavano nelle nicchie e nelle rientranze, disturbando la visione di chi non aveva familiarità con le stravaganze della sala. Era un luogo insolito. Segreto. Tanto che si poteva essere giustificati nel cogliere un che di "paranoico" nella sua architettura. Al centro del pavimento non c'era nulla, tranne un podio recintato, abbastanza grande per ospitare una persona. Lì accanto, sul pavimento, si apriva un buco nero che celava una scaletta a chiocciola che scendeva nell'oscurità in una stretta spirale. Il podio aveva la forma di un pulpito, sebbene nessun sacerdote avesse mai visitato quel luogo spaventoso. La scala che scendeva ripida sotto il pavimento conduceva nei recessi più segreti del rifugio: le stanze private del Maestro della Corporazione. Pochi avevano avuto il privilegio di vedere che cosa fosse custodito in quelle stanze. Il soffitto della sala era alto, a forma di cupola, ma poco appariscente. Sebbene gli artigiani che avevano scavato quel luogo nella roccia avessero intagliato archi decorati che si incontravano al centro del soffitto, la stanza era stata progettata per essere pratica più che fastosa. Nella parete circolare della sala si aprivano venti nicchie, ciascuna indipendente dalle altre, senza passaggi verso quella contigua. Un muretto, alto all'incirca come un uomo, posto davanti a ciascuna rientranza, le faceva assomigliare a stalle di una scuderia, a guardarle dal centro della sala. Erano identiche per forma e dimensione, a eccezione delle insegne intagliate sulla porta di legno che si apriva nel muro antistante ogni rientranza. Nessuna di esse era illuminata al suo interno. L'intento dell'architetto era chiaro: coloro che si trovavano
nelle nicchie dovevano rimanere anonimi ed essere considerati tutti alla pari, senza alcuna prospettiva di essere promossi al di sopra degli altri, tranne che rispetto alla posizione del Maestro. Un movimento improvviso al centro della stanza attirò l'attenzione delle figure sedute in silenziosa attesa all'interno delle nicchie. L'ombra che oscurava la tromba delle scale discendenti si mosse verso l'alto, mentre una sagoma scura usciva dai recessi proibiti. Era il Maestro della Corporazione, avvolto in mantello e cappuccio neri secondo il tradizionale abbigliamento della Corporazione degli Assassini. Tutti gli Assassini erano vestiti allo stesso modo, l'identità di ciascuno celata agli altri dai cappucci calcati sulla fronte e dall'oscurità delle nicchie. La figura indistinta si inerpicò agilmente sul podio, salendo gli scalini come se fluttuasse su un cuscino d'aria. Se la stanza era stata tranquilla prima dell'arrivo del Maestro della Corporazione, adesso il silenzio era ferale. Una torcia sgocciolò, con un rumore amplificato dalla quiete circostante. La figura in nero guardò tutto attorno alla sala facendo lentamente un giro completo, fermandosi di tanto in tanto per fissare lo sguardo in ciascuna delle nicchie. Erano quasi tutte occupate. Quella era l'adunanza della Corporazione più affollata che si tenesse da diversi mesi. Quel fatto, da solo, era la prova della gravità dell'incontro. «Io acconsento...» iniziò il Maestro. Con una voce sola, gli Assassini presero a cantare la litania della Regola della loro Corporazione. Io acconsento, in quanto membro della Corporazione, ad accettare l'autorità ultima del Maestro. Egli è mia guida, mio padre e mia coscienza. Egli mi manterrà sul sentiero della luce. Io accetterò i suoi ordini senza discutere e soddisferò le sue richieste incurante del prezzo, foss'anche la mia stessa vita. Io accetterò solo quei contratti che hanno uno scopo giusto. Io non accetterò quei contratti che, a mio giudizio, possono provocare la distruzione dell'Impero.
Coloro i quali offrono contratti che non dimostrano in modo chiaro un giusto scopo o che operano contro il bene della Corporazione, io li denuncerò al Maestro. Io ucciderò solamente per ottemperare a un giusto contratto, o per coprire le mie tracce, e ciò a unica tutela della Corporazione. Io ucciderò per ordine del Maestro. Egli sa discernere la verità, egli è la mia guida, che aspira a servire solamente la giustizia. Io ucciderò chiunque uccida indiscriminatamente, indipendentemente da condizione, età o sesso. Quei malfattori meritano la massima pena. Io non ucciderò mai per piacere, vendetta, collera o gelosia. Io accetto che, così facendo, dovrei rimettermi alla misericordia del Maestro. Io offro un decimo di tutti i guadagni ricavati dai miei contratti per il mantenimento della Corporazione. E tutto questo è buono e giusto. Io pronuncio codesta Regola pienamente consapevole che se dovessi infrangerla, pagherò con la vita. L'eco delle parole si spense e ancora una volta calò il silenzio. Quando iniziò a parlare, la voce del Maestro della Corporazione era calda e amichevole, in netto contrasto col suo aspetto tetro e la sua postura minacciosa. Alcuni fra i membri della Corporazione avevano avuto qualche dubbio, quando era stato scelto come loro guida, dal momento che il suo tono ricordava quello di un nonno gentile che si prende cura della fa-
miglia. Nessuno, tuttavia, aveva mai messo in dubbio la sua reputazione di sicario professionista. L'ambiguità era una delle doti principali di un Assassino di successo. Il Maestro della Corporazione possedeva questa qualità in abbondanza. «Fratelli, è bene che così tanti di voi siano qui oggi. Non posso sottolineare abbastanza l'importanza di questo nostro incontro. L'esito della discussione odierna segnerà il futuro della nostra Corporazione più di qualunque altro da quando sono diventato Maestro. In oltre seicento anni, la nostra confraternita non ha mai dovuto affrontare una crisi come quella che ci aspetta oggi. Ci sono questioni da discutere, opzioni da valutare e decisioni difficili da prendere.» Il Maestro della Corporazione tacque un istante per permettere a tutti di comprendere appieno le sue parole introduttive. Non era tipo incline all'esagerazione. «Vi prego di avere pazienza se già siete al corrente di quanto sto per dirvi, ma penso che sia importante che tutti conoscano i fatti prima che possiamo discutere il da farsi. Sono certo che tutti quanti voi siete a conoscenza del fatto che l'Imperatore è ritornato da Thrandor, la settimana scorsa. Il vero scopo della sua visita laggiù non è noto, ma si ritiene che si sia recato là per negoziare la pace. Egli aveva inviato un ambasciatore a Mantor alcuni mesi or sono. Fratello Falco si era infiltrato nella spedizione, in seguito a un contratto stipulato da un confratello. Si è trattato di un accordo insolito, che io non ho approvato. Un Assassino che stipula un contratto con un fratello Assassino per perseguire un obiettivo personale è pericolosamente vicino a infrangere la Regola. In futuro, chiunque voglia contrarre un accordo analogo dovrà prima consultarsi con me. Non permetterò che vi siano confratelli che si credono superiori al nostro codice d'onore. Abbiamo mantenuto la nostra reputazione nel corso dei secoli rispettando la Regola. Se l'abbandoniamo, non diventeremo altro che assassini comuni. E io non intendo farmi una fama del genere.» Si fermò e la sala fu percorsa da un debole mormorio di assenso. «Ma di questa questione interna discuteremo un altro giorno.» Nella sala calò nuovamente il silenzio, finché non risuonò di nuovo la voce del Maestro. «Sono sorti problemi che impongono a noi tutti di rivolgere la nostra attenzione all'esterno. Negli ultimi due giorni, il nuovo Imperatore ha avviato politiche che stanno avendo un impatto enorme sulla nostra Corporazione. Fratello Scorpione, vuoi fare il tuo rapporto ai confratelli?» «Volentieri, Maestro, sebbene ritenga che la maggior parte siano già a
conoscenza di quanto sto per dire.» Se la voce del Maestro era calda e amichevole, piena di espressione e ricca di inflessioni nel tono e nel ritmo, quella di Scorpione era fredda e priva di vita. Le parole gli cadevano dalle labbra come rami morti da un albero, come qualcosa di inerte, privo di emozione, che si abbatteva con un rumore secco. «Ieri mattina, all'ora ottava, l'Imperatore ha mandato i suoi araldi ad annunciare il suo proclama ai cittadini di Shandrim. Parte di questo ci riguardava direttamente. L'Imperatore ha dichiarato la Corporazione anaethus drax, illegale per tutta la durata del suo regno. Pertanto, qualunque Assassino catturato a Shandrim dopo la chiamata di mezzodì del prossimo giorno di festa sarà sottoposto a esecuzione sommaria.» «Ma mancano solamente tre giorni!» esclamò una voce dall'altro lato della sala. «Esatto, fratello Drago di Fuoco, ecco perché abbiamo subito convocato questa riunione.» La voce del Maestro era dolce. «C'è anche dell'altro, ma fratello Scorpione ha già detto il peggio. Adesso dobbiamo decidere quale risposta intendiamo dare a queste disposizioni prima di poter pensare a qualsiasi altra cosa, perché questo è il motivo per cui siamo qui.» «Uccidiamo l'Imperatore» suggerì immediatamente una voce. «In questo modo il suo potere avrà fine e il suo proclama non avrà più alcun valore.» Un diffuso mormorio di approvazione riecheggiò per la sala. «È una proposta tentatrice, fratello Vipera, ma non possiamo attuarla senza mettere a repentaglio la nostra integrità» rispose il Maestro. «Non nego che l'idea di eliminare l'Imperatore mi sia passata per la mente, ma ciò infrangerebbe il nostro codice d'onore sotto vari aspetti. Prima di tutto, non abbiamo alcun contratto. In secondo luogo, se uccidiamo l'Imperatore rischiamo di far crollare l'Impero. La nostra Regola ci vieta in modo esplicito di dare intenzionalmente il via a una sequenza di avvenimenti che abbiano forti probabilità di distruggere Shandar. Noi abbiamo il nostro posto nella società, ma non spetta a noi smantellare l'Impero con le nostre azioni. E in terzo e ultimo luogo, è assai probabile che questo proclama sia stato provocato da uno di noi. E, in un caso del genere, la nostra Regola non ci consente di reagire.» «Uno di noi?» «Chi?» «Perché un membro della Corporazione dovrebbe fare una cosa del genere?»
Domande piovevano da tutte le parti come frecce da una dozzina di balestre. Il Maestro rimase saldo e immobile sotto questo fuoco incrociato, lasciando che l'ondata di curiosità si abbattesse su di lui. Quando l'eruzione di voci si spense, riprese la parola. «Non ha alcuna importanza chi l'abbia provocato. L'Imperatore avrebbe comunque emesso questo proclama entro breve. Egli nutre un pregiudizio negativo nei confronti della Corporazione. Diciamo che questa è una ragione sufficiente. La domanda che dovremmo porci è: che cosa intendiamo fare al proposito? Vi ho già illustrato le ragioni per cui non possiamo uccidere l'Imperatore, anche se tale opzione andrà comunque tenuta sempre presente, dato che non escludo di ricorrervi in ultima battuta.» «Se non possiamo uccidere lui, allora colpiamolo nel punto che lo farà soffrire di più» sussurrò una voce femminile. «E quale sarebbe questo punto, fratello Volpe?» domandò il Maestro sorridendo sotto la profonda ombra del cappuccio mentre cercava di anticipare la proposta della donna. Sapeva che era una stratega naturale con una mente acutissima. Qualunque suggerimento provenisse da lei meritava di essere ascoltato. «Le legioni, Maestro. Colpiamo le legioni. Surabar ha dedicato la propria vita alle armate dell'Impero. È lì che batte il suo cuore. I soldati vanno in battaglia. Muoiono. È per questo che vengono pagati. All'uomo della strada non importerà nulla se colpiamo un paio di comandanti chiave. Non provocheremo proteste di piazza, ma l'Imperatore Surabar proverà grande dolore per la loro scomparsa, come se fossero suoi familiari. Le morti inutili non gli piacciono. Recepirà il messaggio abbastanza in fretta.» Il Maestro fu quasi sul punto di scoppiare in una risata. Se si voleva vedere al di là dell'ovvio e trovare una soluzione astuta, bastava chiedere alla Volpe. Ed era davvero una volpe, una degna depositaria dell'insegna che simboleggiava questo predatore. Le legioni erano il luogo perfetto per colpire. Non sarebbe stato difficile trovare persone disposte a pagare una piccola cifra per vedere certi comandanti di legione morire all'improvviso. In questo modo il codice d'onore sarebbe stato rispettato. Sì, era un buon piano. Era facile da attuare, era improbabile che scatenasse la collera della gente comune o dell'aristocrazia, e al tempo stesso avrebbe certamente trasmesso all'Imperatore il messaggio desiderato. «Il tuo suggerimento è molto valido, fratello Volpe. Se vogliamo passare all'offensiva, mi sembra un ottimo modo di procedere. E dico "se", perché dobbiamo comunque prendere in considerazione il punto di vista dell'Im-
peratore. Se dovessi ergermi a suo difensore, mi chiederei qual è il nostro ruolo nel mondo di oggi. La Corporazione degli Assassini ha esaurito il suo scopo? Siamo solamente una reliquia del passato che ha ormai fatto il suo tempo? L'Imperatore vorrebbe convincerci di questo. La Corporazione degli Assassini fa parte della vita di Shandrim da un millennio ormai. È facile capire come la Corporazione dei Fornai o quella dei Mercanti abbiano un loro ruolo, ma la società di oggi ha veramente bisogno di Assassini? L'Imperatore sosterrebbe di no. Egli ci vede come sicari, criminali mercenari che esercitano un'influenza destabilizzante sulla società. Qualcuno di voi qui condivide questa opinione?» Vi fu un lungo momento di silenzio prima che la donna riprendesse la parola. «Maestro, qui non vi è nessuno che dubiti del nostro ruolo. Noi abbiamo un codice d'onore che ha resistito per un millennio. Abbiamo lo stesso diritto di esistere qui a Shandrim di quanto ne hanno i mercanti, i fornai o qualunque altro artigiano possiamo immaginare. Noi non uccidiamo indiscriminatamente. Se un nobile indossasse il Mantello, questo decreto non sarebbe mai stato promulgato.» «Sì, i militari hanno già dato prova di non riconoscere il nostro ruolo, qui in città e nell'Impero» convenne un altro. «Esatto. Piagnucolano che siamo Assassini e poi ammazzano uomini molto più innocenti di quelli che noi uccidiamo su commissione.» Il Maestro annuì. «Mi fa piacere vedere che siete tutti d'accordo. Chi fra di voi ritiene che dovremmo cercare di farci rispettare accettando contratti su obiettivi militari?» Un coro di "sì" risuonò per la sala, riecheggiando debolmente. ' «Qualcuno contrario?» Silenzio. «Allora è deciso. Cercherò persone disponibili a stipulare questi contratti e farò le assegnazioni nei prossimi giorni. E ora, passiamo alle altre questioni...» Femke bussò alla porta dello studio dell'Imperatore. Dall'interno le giunse prontamente un invito a entrare, e la ragazza non perse tempo. Niente era cambiato nella stanza dalla sua ultima visita. Era un ambiente di lavoro spoglio, senza nulla a infondergli calore. Il grande scrittoio dietro il quale era seduto l'Imperatore ne era l'elemento principale. Un paio di spade incrociate alla parete erano gli unici oggetti decorativi, e questo aumentava
ancora di più l'atmosfera fredda e imponente anziché attenuarla. L'Imperatore le rivolse un caldo sorriso quando la vide entrare e le fece cenno di mettersi a sedere. Femke si inchinò e poi guardò nella direzione indicata da Surabar. C'erano due seggiole di legno addossate alla parete. Ne avvicinò una alla scrivania e si sedette con cautela. «Le tue ferite stanno guarendo, Femke? Vedo che hai ancora qualche fastidio» le chiese gentilmente l'Imperatore. «Stanno lentamente migliorando, grazie, vostra Maestà imperiale. È frustrante sentirsi come un'invalida. Comunque adesso riesco a muovermi più liberamente. Sembra che le costole stiano ritornando a posto. Mi fanno male, ma c'era da aspettarselo.» «Sì, è così. Anche io mi sono rotto un paio di costole, una volta; un colpo di striscio alla corazza con un'ascia. Non fu una faccenda piacevole. Se non altro, ora che i lividi sul tuo volto sono spariti, sembri di nuovo te stessa. Posso suggerirti, la prossima volta che deciderai di affrontare un tipo come Shalidar in un combattimento corpo a corpo, di usare le mani per parare i colpi anziché la testa? Di solito è meno doloroso, sai.» «Davvero, vostra Maestà? Cercherò di tenerlo a mente» rispose lei mantenendo un'espressione impassibile. L'Imperatore rise e scrollò il capo. «Sei una donna davvero straordinaria, Femke. Sono rimasto molto colpito da come hai affrontato la situazione a Mantor. Mi riesce difficile immaginare che qualcun altro potesse dimostrare la propria innocenza, in quelle circostanze. Non so come, ma tu ce l'hai fatta. Hai risparmiato a Shandar l'imbarazzo politico di dover ammettere di aver fatto ricorso a spie contro i suoi vicini. Mi hai evitato di dover ordinare la tua esecuzione capitale, un compito che non avrei certo assolto volentieri. Hai infranto più leggi thrandoriane di quante tu stessa non riesca a concepire. Bontà di Shand, hai persino rapinato la Tesoreria Reale di Thrandor! Eppure, al Re di Thrandor tu piaci. Signorina, tu meriti ogni elogio da parte mia, ma sai bene che non posso premiarti pubblicamente se non vogliamo compromettere il tuo ruolo di spia.» Femke sorrise. «Datemi qualcosa da fare, Maestà. Questa sarebbe la ricompensa migliore che io possa immaginare in questo momento. Mi sto annoiando a morte a starmene seduta in convalescenza. Ho bisogno di fare qualcosa. Qualsiasi cosa! Vi prego, affidatemi un altro incarico.» «Ma non sei in grado...» «Vostra Maestà» lo interruppe lei con un sorriso di scuse per la propria impertinenza. «Non vi chiedo di affidarmi una missione pericolosa. Voglio
soltanto rendermi di nuovo utile. Penso che potrei impazzire se dovessi sopportare ancora i condiscendenti inviti dei medici a riposare. Ho bisogno di muovermi. Ci saranno pure informazioni che posso andare a cercare senza mettermi nei guai!» Surabar le scoccò uno sguardo calcolatore. Il volto della giovane spia mostrava ancora lievi segni delle percosse inferte da Shalidar, ma gli occhi le scintillavano d'intelligenza. Femke sapeva esattamente quello che stava chiedendo. Sapeva che non esisteva un "incarico privo di rischi". Poteva affidarle un compito amministrativo, ma sarebbe stato come chiedere a un soldato appena promosso di starsene di guardia alle scorte mentre i suoi compagni se ne andavano in battaglia. Avrebbe ubbidito, ma avrebbe odiato quel lavoro. E il risentimento si sarebbe riversato sulla persona che le avesse dato l'ordine. E l'Imperatore aveva troppo bisogno dell'aiuto di Femke per alienarsi le sue simpatie. No, doveva farle fare qualcosa che mettesse in gioco le sue capacità senza sfociare in un confronto fisico. Mentre ci pensava, si rese conto di avere l'incarico perfetto per lei. Shalidar era il ritratto della tranquillità. Stava seduto in una semplice stanza priva di finestre e sfregava meticolosamente la cote contro la lama del suo pugnale. L'arma d'acciaio scintillava alla luce fioca mentre lui la rigirava avendo cura di applicare il medesimo sforzo su entrambi i fili. La lenta e ritmica eco della pietra sul metallo era quasi ipnotica. L'Assassino attendeva l'arrivo del Maestro della Corporazione. Non stava certo pregustando l'incontro, ma sapeva che era necessario, se non voleva essere inseguito da sicari ben più letali di quelli che l'Imperatore aveva sul suo libro paga. Il Maestro, nascosto nell'ombra fuori dalla porta aperta, lo osservò silenziosamente per un istante. "Per Shand, sei davvero un uomo freddo, Shalidar!" pensò. "Se tu non fossi così maledettamente bravo, ti ucciderei ora. Sarebbe uno spreco terribile, ma mi risparmierebbe un mucchio di guai." Guardò la snella figura seduta sulla seggiola di legno, una gamba incrociata con indifferenza a novanta gradi sopra l'altro ginocchio, e sentì la rabbia montargli nelle viscere. Dopo aver messo a repentaglio il futuro della Corporazione con le sue ultime bizzarrie, Shalidar sapeva che la sua vita era appesa a un filo. Il Maestro della Corporazione aveva il potere di spegnerlo come una candela con una semplice parola, eppure Shalidar se ne stava seduto lì, freddo come il ghiaccio, senza apparentemente curarsi della precarietà della propria situazione. Come si poteva essere così arroganti
e sicuri di sé? Per un momento, il Maestro rifletté se fosse il caso di ritirarsi e dare l'ordine di eliminarlo. "No" pensò. "Prima gli darò la possibilità di giustificarsi." L'Assassino si era accorto che il Maestro della Corporazione era lì. Non era diventato un sicario letale senza avere consapevolezza di quanto lo circondava. Anche se il Maestro non aveva fatto alcun rumore, per Shalidar quella sensibilità era quasi un sesto senso. Non c'era motivo di rimandare ancora: il Maestro entrò nella stanza, e Shalidar si alzò prontamente. L'Assassino fece grande attenzione a non compiere movimenti bruschi che potessero essere fraintesi. Mentre si alzava, posò il pugnale e la cote sul tavolino accanto a sé. Una volta in piedi, chinò il capo con deferenza e attese che il Maestro parlasse. «E così, fratello Dragone, hai deciso di ritornare fra di noi. Ammetto di essere sorpreso di vederti. Pensavo che oramai saresti stato lontano e che per qualche anno ci sarebbero state poche probabilità di rivederti a Shandrim. Dopo tutti i guai che hai provocato alla Corporazione, sei fortunato che io non abbia già ordinato la tua morte. Ti concedo quest'unica possibilità di spiegarti. Che cos'hai combinato a Thrandor per spingere l'Imperatore a dichiararci anaethus drax?» «Io, Maestro? Non riesco a credere che una sola delle mie azioni possa aver causato niente del genere. È vero che alcuni dei miei recenti progetti a Thrandor sono andati storti, ma è difficile credere che le conseguenze delle mie faccende personali abbiano potuto scatenare una tale reazione.» Il Maestro della Corporazione osservava attentamente il linguaggio del corpo di Shalidar, mentre questi parlava. Nascosto dal cappuccio nero calcato sulla fronte, increspò le labbra. Se Shalidar mentiva, lo stava facendo molto bene. «È stata una reazione eccessiva da parte dell'Imperatore, Maestro» continuò Shalidar. «Non avrei potuto prevederlo. Come lei sa, io ho un'attività del tutto legittima a Mantor, un'attività di mercante che ho potuto avviare grazie al denaro che mi sono guadagnato lavorando per la Corporazione. Non ho mai nascosto questi miei interessi, non ce n'era ragione. Un paio di aristocratici thrandoriani interferivano nei miei affari a Thrandor ed erano diventati davvero fastidiosi. Dal momento che il codice d'onore della Corporazione mi impediva di agire personalmente, ho stipulato un contratto con fratello Falco perché si recasse a Thrandor a sistemare la questione. Lei dovrebbe aver ricevuto un mio messaggio al riguardo.» «Sì, l'ho ricevuto» replicò freddamente il Maestro della Corporazione.
«Quel contratto non mi ha entusiasmato, ma di questo parleremo dopo, quando avrai finito la tua spiegazione.» «C'è poco da dire, Maestro. Fratello Falco si è recato a Thrandor viaggiando come domestico e ha portato a termine il suo contratto, per il quale gli ho pagato la somma pattuita. Purtroppo, in seguito gli eventi sono precipitati e ne ho perso il controllo. L'ambasciatrice shandese è stata incolpata degli assassinii. È stato spiacevole, perché ciò ha provocato un incidente diplomatico che a sua volta ha favorito il dialogo fra il Re di Thrandor e l'Imperatore Surabar. Tuttavia, a parte l'imbarazzo diplomatico provocato dal coinvolgimento dell'ambasciatrice shandese nelle morti di due nobili thrandoriani, è emerso che l'ambasciatrice era in realtà una spia inviata personalmente dall'Imperatore. Egli perciò aveva tutto l'interesse a celare la vera identità della sua spia, perché ciò avrebbe ulteriormente danneggiato i rapporti internazionali. La spia è stata molto astuta. Ha trovato il modo di implicare nelle morti dei due aristocratici sia me sia fratello Falco. Anche se le prove sono state fabbricate ad arte, sono bastate a convincere il Re. È stata lei a indicarci come i colpevoli. Non ha importanza se questo era vero oppure no. Oramai eravamo coinvolti, e siamo stati costretti a darci alla fuga. Io sono riuscito a farcela, fratello Falco non è stato altrettanto fortunato.» La storia sembrava plausibile. Il Maestro della Corporazione ci rifletté sopra cercando di cogliere una nota falsa. Shalidar non aveva cercato di confondere le cose usando parole ricercate o un linguaggio forbito. Aveva semplicemente elencato una sequenza di fatti, molti dei quali verificabili. Se stava mentendo, allora lo faceva in maniera perfettamente controllata, seguendo la regola migliore, cioè quella di attenersi a bugie semplici. L'assassinio era l'attività della Corporazione. Shalidar aveva fatto in modo che due persone venissero assassinate. Le morti non rimanevano mai senza conseguenze. La domanda allora era: le conseguenze di questi due assassinii erano prevedibili? Stando alla concatenazione di avvenimenti che gli era stata esposta, il Maestro non riusciva a capirlo. Avrebbe dovuto cercare di verificare la storia, ma dubitava che ci avrebbe trovato qualche lacuna. Vera o falsa che fosse, Shalidar avrebbe coperto le proprie tracce in modo tale da mascherare la verità. «Fratello Dragone, sei consapevole di camminare su un terreno pericoloso. Vedrò di verificare la tua versione dei fatti. Se scoprirò che mi hai mentito, morirai. Non ammetto che ci sia chi cerca di usare la Corporazione per i propri scopi personali. Hai ricavato ottimi guadagni dall'apparte-
nenza a questa eletta confraternita. Se dovessi scoprire che l'avidità ti ha corrotto fino a indurti a infrangere il nostro codice d'onore, non avrò alcuna pietà per te. Com'è morto fratello Falco? La sua icona è ritornata qui già da un pezzo.» Shalidar scosse tristemente il capo. «Lo hanno impiccato il giorno dopo la cattura. Non ho potuto fare nulla.» Il Maestro della Corporazione rimase in silenzio per qualche istante. «È stata... una vera sfortuna» disse. Dentro di sé completò la frase: "Ma una grande fortuna per te, Shalidar. Se fosse rimasto in vita, sarebbe stato facile controllare la tua storia. E invece, adesso devo sprecare tempo e risorse per verificarla." Poi, ad alta voce, aggiunse: «Presumo che tu sia a conoscenza della taglia che l'Imperatore ha messo sulla tua testa.» Shalidar annuì. «E dunque posso anche presumere che tu intenda trattenerti qui nel complesso della Corporazione per qualche tempo?» «Sì, Maestro.» «Molto bene. Ti verranno affidati incarichi come a tutti gli altri, e mi aspetto che tu li adempia. Saranno più difficili, per via della taglia che pende su di te, ma questo è un tuo problema. Se fossi in te, eviterei di occuparmi di qualunque faccenda al di fuori dei tuoi obblighi nei confronti della Corporazione. Sarebbe meglio lasciare che la polvere si depositi e che i cacciatori di taglie smettano di andar dietro alle ombre.» «Sì, Maestro.» Il Maestro della Corporazione si accomiatò allontanandosi. «Ma, Maestro?» «Sì, fratello Dragone?» rispose fermandosi e voltandosi a guardarlo. «E per quanto riguarda la spia che ha fatto incolpare fratello Falco e me? Alla fin fine è merito suo se si è venuta a creare questa situazione. È sua la responsabilità del fatto che la Corporazione degli Assassini è stata dichiarata anaethus drax. Non verrà punita per le sue azioni?» Per un momento il Maestro della Corporazione non disse nulla. Quando parlò, iniziò citando i versi del codice d'onore: «Io non ucciderò mai per piacere, vendetta, collera o gelosia. Noi non ci vendichiamo, fratello Dragone. Ciò ci abbasserebbe al livello di criminali da strada. Non perdere tempo a pensare alla spia. Lei è acqua passata per te, ormai. Questa sera vedi di dedicare un po' di tempo a meditare sulla nostra Regola, fratello. Falla risuonare nel tuo sangue. Ignorala e morirai. Le cose stanno così.» Shalidar chinò il capo in segno di accettazione e il Maestro lasciò rapi-
damente la stanza, mentre il suo mantello nero si confondeva in fretta con le ombre del corridoio. Quando la testa di Shalidar si rialzò, sul suo viso c'era un'espressione di sfida che avrebbe raggelato il sangue nelle vene persino al Maestro. L'incontro era stato un pericoloso azzardo per Shalidar. Aveva gettato i dadi della vita manifestando una fiducia che dentro di sé non provava. Aveva rischiato, e aveva vinto un'altra volta. Anziché fare subito ritorno, altri nella sua posizione sarebbero andati in paesi stranieri e avrebbero utilizzato là le proprie doti. I sicari di talento erano sempre molto richiesti. Shalidar, però, sapeva che se lo avesse fatto sarebbe rimasto per sempre un emarginato. Ogni volta che ci fossero stati guai, i sospetti sarebbero caduti su di lui. Era nella natura umana diffidare dei forestieri. Ritornare a Shandrim era stata un'impresa irta di difficoltà, ma Shalidar sapeva come non dare nell'occhio lì. Certo, era pericoloso, soprattutto data l'enorme taglia che l'Imperatore gli aveva messo sulla testa, ma nella professione che si era scelto tutte le strade nascondevano rischi. Cambiava solo il grado di pericolosità. Rimboccandosi le maniche, contemplò lo scintillante braccialetto d'argento che lo legava alla Corporazione. Il drago che vi era inciso sembrava deriderlo. C'erano momenti in cui avrebbe avuto voglia di toglierlo e gettarlo via, ma sapeva che farlo avrebbe significato per lui la morte istantanea. Accettando la sua icona, si era legato alla Corporazione per sempre, o almeno finché il Maestro non lo avesse mandato in pensione. La sua forza vitale era legata magicamente al bracciale. Non sapeva in che modo. Non gli era mai stato spiegato completamente. Poteva toglierlo, ma non poteva allontanarsene più di due passi se non voleva perdere la propria vita. In passato c'era stato chi aveva provato a scappare, ma erano tornati tutti, oppure erano morti. Le icone dovevano essere appoggiate alla pietra vincolante una volta l'anno. Senza questo contatto, volto a rinsaldare il legame, l'icona sarebbe tornata automaticamente alla pietra vincolante allo scadere dell'anno. E a meno che il portatore dell'icona non si fosse trovato accanto alla pietra in quel momento, sarebbe morto all'istante. A salvaguardia di eventuali infiltrati, i nuovi membri della Corporazione non venivano informati di tale limitazione finché non avevano completato un iniziale periodo di prova. Shalidar ricordava lo shock che aveva provato quando glielo avevano detto. Lo aveva indotto a chiedersi quali altri segreti fossero custoditi dal Maestro. Sebbene la Corporazione non potesse costringerlo a fare ritorno al quartier generale in un dato momento, pensare di poterla la-
sciare era come credere di poter imparare a volare. Per una tradizione ormai consolidata, i membri della Corporazione si incontravano, per rinnovare le loro icone, alla vigilia del solstizio d'estate e alla vigilia del solstizio d'inverno. Chi non riusciva a essere presente, doveva rinsaldare la propria icona il più presto possibile, al suo ritorno. Solo il Maestro della Corporazione era in grado di rimuovere un'icona senza problemi, ma come lo facesse Shalidar non era mai riuscito a saperlo. La nascose irritato sotto la manica. C'erano volte in cui quel braccialetto gli sembrava una manetta. E questa era una di quelle. Quel giorno aveva vinto la sua prima sfida. Era stato riaccettato dal Maestro della Corporazione. Sapeva che avrebbe dovuto muoversi con cautela, ma non aveva la minima intenzione di dimenticare ciò che Femke gli aveva fatto a Mantor. Si sarebbe vendicato. Forse gli ci sarebbe voluto un po' per manipolare gli eventi, ma Shalidar sapeva essere paziente, quando era necessario. Non aveva mai creduto realmente al codice d'onore degli Assassini. Non lo aveva mai rispettato come facevano gli altri. Se la Corporazione fosse mai venuta a sapere di tutte le volte che aveva infranto la Regola, sarebbe stato condannato a morte. Ed era stato anche il fascino di questo pericolo a spingerlo a travisarla ripetutamente. Fino ad allora, ne aveva violato praticamente tutti gli articoli, ma era sempre stato meticoloso nel coprire le tracce. Il suo compagno Assassino, Falco, sarebbe morto comunque a Mantor, indipendentemente dall'esito degli eventi. Aveva scoperto troppe cose sulle attività di Shalidar. Impiccandolo, i thrandoriani gli avevano risparmiato di farlo di persona e gli avevano fornito una copertura perfetta. «Verrà anche il tuo turno, Femke» sussurrò piano. «Verrà anche il tuo turno.»
Capitolo tre «Fatto» annunciò stancamente Reynik. «Fammi vedere» gli ordinò il vicecaposquadra. Aveva finito. Anche l'ultima fossa era stata scavata. L'indomani sarebbe ritornato alla relativa normalità della routine di addestramento senza le ore
di punizione aggiuntive la sera. A quel pensiero provò un tale sollievo che un'ondata di calore gli salì dallo stomaco. Reynik saltò nella fossa con le ginocchia che rischiarono di cedere per l'impatto. Un attimo dopo mostrò le dimensioni della buca al vicecaposquadra, superando con successo la sua ispezione. «Benissimo. Lascia il tuo badile insieme agli altri e poi vai a darti una ripulita. Non voglio più vederti in punizione, legionario.» «Grazie, vicecaposquadra. Farò del mio meglio per tenermi alla larga dai guai.» Reynik si arrampicò fuori dalla latrina appena scavata e raggiunse il mucchio di utensili e attrezzi che stava accanto alla tenda. Posò il badile insieme agli altri e fece un sospiro di sollievo mentre si sfregava delicatamente fra loro le mani coperte di vesciche. "Se anche non dovessi mai più scavare una buca, me ne farò una ragione" decise. Fu mentre si voltava per andarsene che scorse una figura solitaria passare fra le tende non lontano di lì. Sebbene si sentisse travolto da un'ondata di stanchezza, qualcosa in quella sagoma gli apparve immediatamente fuori posto. Un brivido gli corse lungo la schiena e capì che quell'intuizione, chiunque fosse quella figura, non significava niente di buono. "Lascia perdere. Non farti coinvolgere. Tu non c'entri." I pensieri si affollavano nella sua mente. "Se ti sbagli, potrebbero esserci altre conseguenze. Potresti finire di nuovo in punizione." Ma non era così facile. Quella sensazione non voleva saperne di andarsene e gli occhi di Reynik tornarono a posarsi sulla figura che adesso stava rapidamente svanendo fra le ombre del campo. L'uomo indossava l'uniforme, ma da quella distanza Reynik non riuscì a vedere le insegne della sua legione. Da lì sarebbe stato difficile riuscirci in piena luce, ma nella penombra del crepuscolo era impossibile distinguerle. Quel modo di camminare, di muoversi. Gli era familiare. «Ecco chi è!» ansimò Reynik. «Non cammina come un legionario. Nessuno della Legione del Generale cammina in quel modo. Si sforza, ma non è naturale. Non è un legionario. Cammina più come... Shalidar! No, non può essere!» Il pensiero scioccante che quello che stava guardando fosse il suo nemico giurato galvanizzò Reynik spingendolo ad agire. Tutte le sue preoccupazioni per eventuali conseguenze svanirono. Se quello era Shalidar che aveva la faccia tosta di attraversare l'accampamento, allora Reynik voleva essere certo che l'Assassino non fuggisse. La mano gli salì automaticamen-
te al fianco, in cerca dell'elsa della spada. Imprecò sottovoce. Aveva lasciato la sua arma nella tenda, dalla parte opposta rispetto a quella verso cui la figura stava scomparendo. Non c'era tempo di andare a prenderla. Non aveva con sé nemmeno il pugnale, perché mentre scavava gli dava fastidio. Avrebbe dovuto seguirlo senza un'arma? Ma doveva seguirlo, poi? La sua curiosità gli rispose di sì. Inoltre il suo istinto gli diceva che forse non avrebbe avuto un'altra occasione. Ora o mai più. Voltandosi in fretta verso il vicecaposquadra per controllare se lo stesse guardando, Reynik riprese il badile e si mise alle calcagna della figura indistinta che si stava allontanando. Il badile era ingombrante, ma lo si poteva usare come arma, se necessario. L'adrenalina iniziò a scorrere, mentre sfrecciava silenziosamente tra le prime file di tende nel tentativo di accorciare le distanze dall'uomo. «Fa' attenzione» si disse piano Reynik. «Shalidar starà sicuramente in guardia.» La fioca luce crepuscolare lo aiutava a passare rapidamente da un'ombra all'altra. Ma Reynik sapeva che se Shalidar lo avesse scorto, si sarebbe trasformato in un batter d'occhio da cacciatore a preda. Il buio stava calando e sarebbe stato sempre più difficile e pericoloso individuare il sicario. Per non perderlo di vista, Reynik doveva avvicinarsi ancora di più, anche se le probabilità di essere scoperto sarebbero aumentate. Non era una cosa saggia, concluse, ma la sua decisione di seguirlo non vacillò. "Che cosa ti ha riportato a Shandrim, Shalidar?" si domandava. "Con i cacciatori di taglie di Shandar che non vedono l'ora di mettere le mani sulla ricompensa che l'Imperatore ha messo sulla tua testa, perché hai deciso di ritornare? Deve trattarsi di qualcosa di importante." Ma ancora di più lo incuriosiva sapere che cosa stesse facendo nel cuore dell'accampamento della Legione Scelta dell'Imperatore. Shalidar aveva forse un amico nella legione? Reynik non ne sarebbe stato sorpreso. Assassini e spie avevano tutti dei contatti nei posti più improbabili. Stava rapidamente riducendo le distanze. A quanto pareva, il sicario non aveva fretta. Si muoveva a passo regolare fra le tende in direzione dei quartieri periferici. Se Shalidar aveva un amico nella legione, doveva già avergli fatto visita. Fu il baccano scoppiato improvvisamente alle spalle di Reynik a far andare a posto il tassello principale dell'enigma. L'Assassino non era venuto in visita di cortesia. Era lì per lavoro. Dal rumore delle grida confuse che sentiva dietro di sé, Reynik intuì che Shalidar doveva aver già completato
la propria missione, e che adesso si stava freddamente allontanando come se nulla fosse. Chi era stata la sua vittima? Era impossibile capirlo dal rumore. "Be', non è finita finché non sarai scomparso, Shalidar" si disse Reynik. "E oggi non riuscirai ad andartene tanto facilmente." L'Assassino allungò leggermente il passo. Non dava ancora segni di avere fretta, almeno non tanto da voler attirare attenzione. Reynik si rese conto che con i propri movimenti furtivi rischiava di attirare l'attenzione più dell'Assassino con il suo passo audace e sicuro. Era seccante, ma inevitabile. Non poteva permettere che l'Assassino si accorgesse di essere seguito. Se fosse stato scoperto, per Reynik sarebbe stata la morte certa. Il sicario non avrebbe impiegato molto a scomparire dietro un angolo e a tendere un agguato al suo inseguitore. Sfruttando l'elemento sorpresa, anche un Assassino meno abile di lui poteva uccidere chiunque senza problemi. E per un sicario esperto come Shalidar, sarebbe stato un gioco da ragazzi. "A quanto pare sei diretto al posto di guardia sudoccidentale. Ma perché mai vuoi farti vedere da quelle parti, Shalidar? Pensi di potertene uscire tranquillamente dall'accampamento senza che nessuno se ne accorga?" Reynik era stupefatto dall'audacia di quell'uomo. Sicuramente, una delle sentinelle avrebbe notato che lui non era un legionario. Avendo intuito dove l'Assassino si stava dirigendo, Reynik si voltò e corse silenziosamente tra le file di tende perpendicolari rispetto alla sua destinazione. Una volta messa sufficiente distanza fra sé e Shalidar in modo da non farsi scoprire, svoltò e seguì il percorso dell'Assassino in parallelo. Non gli ci volle molto per raggiungerlo. Quando Shalidar arrivò al posto di guardia al margine dell'accampamento, Reynik era già in posizione, nascosto nei pressi per vedere che cosa sarebbe accaduto. L'Assassino si fermò e iniziò a parlare alle sentinelle a bassa voce e con tono pressante. Da come si muoveva, ciò che stava dicendo era perfettamente comprensibile. Reynik non era abbastanza vicino da sentire le sue parole, ma non ce ne era bisogno. Ricevette il messaggio forte e chiaro. Al centro dell'accampamento era successo qualcosa di grave e le sentinelle dovevano aumentare la vigilanza. "Molto furbo" riconobbe Reynik fra sé e sé. "In quanto latore della notizia, ti sei messo al di sopra di ogni sospetto. È ora di prendere una decisione. Se gli permetto di andare in città, è probabile che lo perda di vista o che mi faccia scoprire. Se chiamo aiuto, è possibile che muoiano altri soldati."
Era una scelta difficile, ma Reynik non poteva in tutta coscienza lasciarlo andare. Fece un respiro profondo e con un balzo fu fuori dal suo nascondiglio. «Fermate quell'uomo!» urlò. «È un Assassino! Fermatelo!» Le sentinelle si guardarono intorno sorprese, ma se anche l'Assassino fu preso alla sprovvista, non lo diede a vedere. La momentanea confusione dei legionari fu sufficiente per dargli il vantaggio che gli occorreva. Prima che Reynik avesse coperto metà della distanza che lo separava dal posto di guardia, due sentinelle erano già state abbattute e le altre due erano arretrate in preda alla sorpresa, lasciando all'Assassino lo spazio necessario per fuggire. Shalidar iniziò a correre. Reynik gli andò dietro, e mentre passava davanti alle sentinelle gridò loro di seguirlo. Non si mossero. Qualche secondo dopo si voltò a guardare e vide che esitavano, paralizzate dall'indecisione. Si rese conto che da loro non avrebbe ricevuto alcun aiuto. Erano uno contro uno. Nei suoi sogni, Reynik aveva immaginato il loro incontro, anche se le cose non stavano andando come aveva pensato. Nella sua mente si era visto affrontare Shalidar faccia a faccia con la spada in mano in un duello all'ultimo sangue. Certo non si era mai immaginato stanco morto, intento a inseguire l'Assassino armato solo di un badile! Shalidar era veloce come un lampo e ci volle ogni briciola delle sempre più deboli forze di Reynik per non perdere di vista la sua preda. Il badile non era propriamente un attrezzo comodo con cui correre sia per la sua lunghezza sia per il peso della pala di ferro. Reynik cercò di cambiare la presa durante la corsa, ma non riuscì a trovare il modo migliore per reggerlo senza che gli ostacolasse i movimenti. Nel giro di un paio di minuti si rese conto che l'Assassino stava guadagnando terreno. Le strade erano sgombre. Quella che stavano percorrendo era una delle vie principali che portavano al centro della città, ma era tardi, e i mercanti avevano terminato i loro commerci più di un'ora prima. La maggior parte della gente era in casa, impegnata a preparare la cena. In giro c'erano poche persone, per lo più gruppetti di uomini che si stavano recando alle taverne per bere qualcosa. Osservavano la caccia con interesse, alcuni facevano segno e ridevano vedendo il soldato sudicio che impugnava un badile mentre inseguiva un altro uomo che sfoggiava una spada e un pugnale al fianco. Nemmeno uno di loro si mosse per interferire. Se avesse potuto, Reynik avrebbe chiesto il loro aiuto, ma non gli rimaneva fiato abbastanza per gridare. Quello che aveva gli serviva tutto per continuare a correre.
L'aroma nelle strade era pungente. Il lezzo di rifiuti in via di putrefazione che fermentavano per le strade si mescolava al tanfo delle fogne a cielo aperto. Non c'era da stupirsi che i contadini dei quartieri poveri avessero un'aspettativa di vita così bassa, pensò Reynik mentre calpestava quel sudiciume. Anche ansimando, come stava facendo lui a bocca aperta, era impossibile ignorare quella puzza. Gli si incollava in fondo alla gola come melassa. Ma nonostante l'odore soffocante, riuscì a non perdere la concentrazione e non distolse mai l'attenzione dalla sua preda. Shalidar svoltò a sinistra, lasciando la via principale per imboccarne una secondaria. Ormai aveva un vantaggio di una sessantina di passi. Procedendo alla cieca, arrivato all'angolo Reynik proseguì diritto. Solo all'ultimo momento si rese conto del suo sbaglio e allargò la traiettoria per evitare di avvicinarsi troppo al punto cieco mentre svoltava attorno all'edificio. E fu un bene, perché il suo rivale lo stava aspettando. L'istinto e una buona dose di fortuna salvarono Reynik dall'essere massacrato in uno scontro aperto. L'Assassino fece un balzo e abbatté la spada su di lui con un micidiale affondo. Mentre l'arma scendeva su di lui con un sibilo, il giovane legionario si contorse e alzò il badile per parare il colpo. La lama affondò nel manico un paio di centimetri sotto la pala di metallo e si conficcò nel legno. L'impatto spinse il manico in basso, verso il corpo di Reynik, ma la resistenza offerta dal giovane e la rotazione della lama incastrata nel legno, a poca distanza dalle sue mani, gli allontanarono la punta della spada dal corpo. Reynik reagì subito. La punta del badile non aveva ancora toccato il terreno che lui spostò il peso e invertì la rotazione del manico, torcendo il braccio armato dell'Assassino verso l'alto fino a fargli tracciare un arco. L'impugnatura della spada gli sfuggì dalle dita, ma Reynik non fermò il movimento del badile e lo abbatté sull'acciottolato. Il profondo taglio nel manico l'aveva indebolito tanto che nell'impatto si spezzò, facendo volare dall'altra parte della strada la spada e la pala. Per un attimo, Reynik e il suo assalitore si trovarono faccia a faccia. Mentre guardava l'Assassino negli occhi, Reynik si rese conto con grande stupore che quello che lo fissava non era Shalidar, ma un perfetto estraneo. Per una frazione di secondo i due si bloccarono, ciascuno sorpreso dall'altro. Com'erano cambiate le circostanze in quei pochi attimi concitati! L'assalitore di Reynik aveva perso il duplice vantaggio della sorpresa e dell'arma migliore, e ora si trovava disarmato di fronte a un soldato dotato di qualcosa che sembrava una via di mezzo fra un bastone e una lancia.
Non era Shalidar, ma Reynik avrebbe scommesso che quell'uomo era un Assassino prezzolato. «Sei... in... arresto...» iniziò il giovane ansimando mentre sollevava con fare minaccioso il manico di legno dall'aspetto letale. L'uomo ringhiò. Non si può trovare parola migliore per descrivere adeguatamente il suono che gli uscì dalla bocca. Era un profondo ruggito di collera e frustrazione che fuoriuscì dalla gola dell'uomo come il minaccioso brontolio di un grosso felino. Poi però sfruttò la sorpresa e la stanchezza di Reynik, ruotò su se stesso e con uno scatto fuggì. Reynik esitò. Era stanco. Il fuoco della vendetta che aveva arso dentro di lui si era spento alla scoperta che quello che stava inseguendo non era il suo nemico giurato. Non era in grado di andare avanti. Quell'uomo aveva ancora un pugnale da soldato, che se maneggiato in maniera sapiente poteva essere letale quanto una spada. Tutto ciò che rimaneva a Reynik, per contro, era soltanto un bastone. Reynik diede un'occhiata alla spada che giaceva al suolo, ma si rese conto che raccoglierla gli avrebbe fatto perdere altro tempo. Dentro di sé lottava fra il dovere e la stanchezza. Fu un conflitto rapido. Il dovere ebbe la meglio. Non sapeva che cosa l'uomo avesse combinato nell'accampamento, ma a giudicare da come si era comportato quando lo aveva inseguito, era improbabile che avesse fatto qualcosa di buono. Stringendo i denti e costringendosi a procedere, Reynik riprese l'inseguimento. La strada secondaria era stretta e diventava sempre più buia. Il crepuscolo aveva ceduto il passo alla notte. Il suo respiro affannoso, accompagnato dall'eco dei passi in corsa, gli rimbombava negli orecchi. Un gatto randagio miagolò e corse da un lato quando vide l'Assassino avvicinarsi. Qualche istante dopo soffiò minacciosamente anche contro Reynik, chiaramente seccato di essere disturbato nella sua caccia notturna. L'uomo svoltò a destra, in un vicolo che si apriva tra due file di alte e sporgenti case a schiera. Di nuovo Reynik fece un giro più largo per evitare un attacco di sorpresa, ma questa volta l'Assassino non si era fermato. A poco a poco stava incrementando il proprio vantaggio. Non c'era nulla che Reynik potesse fare se non continuare caparbiamente a inseguirlo. Era così buio, nel vicolo, che Reynik non riusciva più a vedere l'uomo che scappava. Fu un acciottolio seguito da un'imprecazione stizzita a dirgli che aveva incespicato ed era caduto a terra. Quel rumore scatenò in Reynik un senso di trionfo, sebbene attenuato dalla cautela. Rallentò il passo, mentre si avvicinava al punto in cui l'Assassino era inciampato. Lo scalino che
l'aveva tradito rischiò di essere letale anche per Reynik, che però riuscì a scorgerlo all'ultimo secondo. Non c'era traccia dell'Assassino, perciò Reynik comprese che si era rialzato e aveva ripreso a correre. Il vicolo curvava poco più avanti e poi si immetteva in un'altra stradina. Reynik procedette con prudenza e si avvicinò alla fine del vicolo ad andatura più lenta, quasi di marcia. Non sentiva più il rumore dei passi dell'Assassino, il che significava che aveva ripreso vantaggio o che si stava nascondendo da qualche parte. Quando uscì dal vicolo, la sua cautela si dimostrò fondata. L'uomo lo attaccò da destra, piombando su di lui con il lungo pugnale da soldato. L'istinto di sopravvivenza aiutò Reynik ancora una volta. Ruotò bruscamente l'asta di legno colpendo con forza l'uomo sul polso che reggeva il pugnale, deviandolo. Proseguendo il movimento, sollevò il piede sinistro per sferrare un calcio e colpire con lo scarpone la tempia del suo assalitore. Ma con sua grande sorpresa, il calcio non andò a buon fine. L'avversario riuscì a bloccarlo con l'avambraccio e gli fece perdere l'equilibrio. Seguì una colluttazione confusa, mentre entrambi cercavano di riprendere posizione, poi una rapida sequenza di colpi andati a vuoto, tutti parati e contrattaccati. Presto fu chiaro che l'asta di legno di Reynik era l'arma superiore, soprattutto perché era maneggiata con un'abilità eccezionale. In preda alla disperazione, l'Assassino lanciò il proprio pugnale. Il lancio fu affrettato e impreciso, ma sebbene Reynik si fosse piegato per evitarlo, la lama lo colpì di striscio al bicipite del braccio sinistro. Di nuovo sbilanciato e con il rovente taglio del metallo che gli lacerava la carne, Reynik fu preso alla sprovvista, mentre l'Assassino afferrava il suo bastone di fortuna. Tra i due uomini vi fu una breve colluttazione per il possesso dell'arma. Con una pura scarica di adrenalina, Reynik strattonò il bastone tirando verso di sé l'avversario e sferrandogli una brutale testata sul setto nasale. La testa dell'Assassino emise un rumore secco e un rivolo di sangue iniziò a sgorgargli dal naso. Non ebbe tempo di riprendersi quando Reynik portò il peso del corpo all'indietro, cadendo sulla schiena, e trascinò l'altro verso di sé, contro i suoi piedi pronti a colpire. Reynik sollevò le gambe e assestò un calcio sulla faccia dell'Assassino, che cadde pesantemente all'indietro, sul selciato. Per l'Assassino fu troppo. Rimase completamente senza fiato e se ne stette lì a terra a contorcersi in preda al dolore, lasciando andare il bastone. Reynik non perse tempo. In un lampo fu di nuovo in piedi e prima che il
suo assalitore avesse il tempo di riprendersi, gli assestò un violento colpo sulla tempia con l'estremità più grossa dell'asta di legno. L'Assassino si accasciò, completamente privo di sensi. Dopo un gran sospiro di sollievo, Reynik si avvicinò barcollando alla parete della casa più vicina. Lasciò cadere a terra il manico di legno del badile e poi si mise a sedere con la schiena contro il muro per riprendere fiato. Si toccò il braccio sinistro, dove il pugnale dell'Assassino lo aveva ferito, e sussultò mentre una fitta di dolore gli risaliva lungo la spalla. Sulla sua camicia c'era una macchia umida che si stava rapidamente allargando dove il sangue sgorgava. "Ci mancherebbe solo che adesso perdessi tanto sangue da svenire" si disse stancamente. "È meglio bendarsi prima che la situazione peggiori troppo." Il petto di Reynik ansimava ancora per la fatica. Prima la corsa e poi il combattimento lo avevano privato delle ultime risorse di energia che gli rimanevano dopo la prima settimana di ritorno all'addestramento. Molto probabilmente Sidis gliel'avrebbe fatta pagare cara per aver strappato la camicia, indipendentemente dalle circostanze. Poi gli venne in mente che l'Assassino indossava una camicia identica quasi della stessa taglia, ma senza strappi. «Ottimo!» mormorò. «Forse non ne uscirò così male, dopo tutto.» Si riposò un minuto, continuando ad applicare pressione sul braccio ferito in modo da arrestare il flusso di sangue. Quando ebbe ripreso fiato a sufficienza, afferrò il bastone e lo usò per aiutarsi a rimettersi in piedi. Con le gambe deboli e le ginocchia che minacciavano di cedere, si avvicinò al punto in cui l'Assassino privo di sensi stava scompostamente disteso. Reynik lo toccò piano con il bastone, cercando di capire se non fosse tutta una finta. Non era così. Era davvero svenuto. Una volta stabilito ciò, Reynik andò a recuperare il pugnale dell'uomo, che era finito un po' più in là, sulla strada. Si tolse la camicia, sussultando alla nuova fitta di dolore mentre sfilava il braccio dalla manica zuppa di sangue. Guardarsi la ferita gli diede il capogiro. Aveva bisogno di punti, ma non poteva farcela da solo. Usando il pugnale, tagliò diverse strisce di stoffa dal dorso della sua vecchia camicia. Piegò la prima per farne un tampone, che poi fissò alla ferita con la seconda. Non fu una cosa facile. Armeggiò per un po' di tempo, cercando di legare bene la fasciatura. Lavorando con una mano sola gli era impossibile stringere il nodo in modo accurato, ma quando lo ebbe fissato
alla meglio, concluse che poteva reggere finché non fosse riuscito a farsi vedere dai medici della legione. La temperatura calava, mentre il buio della notte si faceva sempre più fitto. Reynik tremava, mentre le fredde dita della brezza serale gli sfioravano la schiena. Ancora una volta si avvicinò all'uomo con tutte le cautele. L'ultimo colpo che gli aveva rifilato con il bastone di legno era stato energico e preciso. Guardando da vicino la faccia dell'Assassino, Reynik si chiese se non l'avesse colpito con troppa forza. A giudicare dai danni inferti alla tempia sinistra, forse non avrebbe ripreso i sensi mai più. Spogliarlo non avrebbe certo aiutato quell'uomo, ma Reynik non intendeva congelare per lui. Togliergli la camicia non fu facile. Ci vollero diversi minuti di lavorio goffo e affannoso, ma alla fine Reynik aveva la camicia fra le mani. La indossò in tutta fretta, ignorando il dolore mentre infilava il braccio ferito nella manica. La misura non era proprio perfetta, gli era un po' grande, ma andava fin troppo bene, date le circostanze. Ora che era più a suo agio, Reynik si chinò sull'avversario per osservare meglio qualcosa di curioso che aveva scoperto sotto la sua camicia. Era una specie di pendente. Un cordoncino di cuoio attorno al collo reggeva un talismano d'argento decisamente insolito. Quando Reynik lo guardò più da vicino, vide che raffigurava una tarantola. Non ne aveva mai visto una viva, ma nel suo studio, a casa, suo padre ne aveva una stampa di un artista, perciò la riconobbe immediatamente. Da ragazzo aveva chiesto al padre di parlargliene, e ricordava perfettamente la risposta. "La tarantola è uno straordinario predatore, figliolo. Non è come tutti gli altri ragni. Non tesse tele in cui intrappolare le sue prede. Va a caccia come un lupo, insegue le sue vittime e le uccide con un morso velenoso. Brutte bestie, le tarantole." "Brutte bestie, le tarantole." Queste parole gli risuonavano nella mente come una profezia. Tremò ancora, ma questa volta non per il freddo. Pensando di guardare un po' più da vicino, Reynik sfilò la collana di cuoio dalla testa dell'uomo e percorse un tratto di strada verso il lampione più vicino. Mentre si allontanava da lui, la collana iniziò a pizzicargli fra le dita. Fu una sensazione stranissima e, istintivamente, Reynik la lasciò subito cadere a terra. Quando toccò il suolo, il ragno brillò per un attimo di un'innaturale energia scintillante. Quindi si dissolse nel nulla, lasciando solo il cordoncino di cuoio come unica prova della sua esistenza. In quello stesso istante,
l'uomo disteso a terra iniziò improvvisamente a dimenarsi e a gemere, come soffrendo terribilmente, poi si accasciò e sul suo volto si diffuse un pallore mortale. Reynik non ebbe bisogno di controllare per sapere che era morto. «Ma in nome di Shand, che cosa...?» Gli Assassini poteva affrontarli, ma questa bizzarra magia era tutt'altra cosa. Il soprannaturale era qualcosa che era meglio lasciar stare. Aveva ucciso quell'uomo con un colpo del manico del badile oppure all'opera c'era qualcosa di più sinistro? Il talismano d'argento della tarantola non era certo un semplice monile, ma qual era il suo scopo? Quello era un mistero che, sospettava, non si sarebbe risolto tanto facilmente. Ci volle parecchio perché Reynik riuscisse a riportare il corpo dell'uomo al posto di guardia sud-occidentale. Non si era reso conto di aver corso così tanto. Quando arrivò là, tutto l'accampamento della legione era in subbuglio. Per fortuna, le due sentinelle che non lo avevano aiutato a inseguire l'Assassino facevano ancora parte del gruppo di guardia. Si affrettarono a prendere in consegna il corpo senza fare troppe domande. «Che succede?» domandò Reynik. «Immagino che tutta questo trambusto sia dovuto a questo individuo. Ma chi era il suo bersaglio?» Gli rispose un legionario con i gradi di caposquadra sulla manica. «Il nostro comandante è stato ucciso. Se questo è il suo Assassino, sei stato bravo. Non siamo riusciti a prendere nessuno degli altri.» «Temo che lui non potrà rispondere a nessuna domanda, caposquadra. Non ne voleva sapere di seguirmi, e senza volerlo l'ho colpito troppo forte sulla testa. È morto. Ma ha parlato di altri, caposquadra. Ci sono state altre vittime o altri Assassini?» «Questa notte sono morti altri tre comandanti di legione, oltre al nostro. Non posso credere che quest'uomo sia il responsabile di tutte e quattro le morti. Sarebbe stato impossibile per un solo uomo fare tanta strada in così poco tempo. Questa è stata una notte terribile per le legioni.» Le informazioni del caposquadra fecero risalire un amaro fiotto di bile su per la gola di Reynik. «Mio padre è un comandante di legione. Conosce i nomi dei morti?» Il caposquadra restituì a Reynik uno sguardo colmo d'apprensione. «Non conosco i loro nomi» rispose circospetto «però so quali erano le legioni che comandavano. A quale legione appartiene tuo padre?» «La terza.» «Allora, per quanto ne so, è ancora vivo.»
Reynik sospirò e subito crollò a terra mentre un'ondata di sollievo gli pervadeva il corpo. Per un attimo era stato certo che avrebbe sentito la peggiore delle notizie. Nella sua mente si affollavano i ricordi dell'omicidio dello zio. Gli Assassini erano sicari della peggior specie, concluse: agivano a sangue freddo, spinti solamente dalla ricompensa in denaro. Era una buona cosa che l'Imperatore li avesse dichiarati anaethus drax. Adesso la Corporazione degli Assassini aveva dato la sua risposta. A quanto pareva, l'Imperatore aveva scatenato una guerra. Gli Assassini avevano assestato il primo colpo, facendo in modo che le prime vittime si contassero fra i militari. Sarebbe stato interessante vedere come l'Imperatore avrebbe risposto. Il caposquadra riteneva impossibile che un solo uomo avesse ucciso tutti e quattro i comandanti di legione, ma il ricordo della scomparsa del talismano dava a Reynik motivo di dubitarne. Anche quella gli era sembrata una cosa impossibile, e invece era accaduta. Ne era certo. C'era un legame? E se c'era, allora nuovi ragionamenti potevano condurli verso una miriade di improbabili possibilità. «Stai bene? Vedo che sanguini. Hai bisogno di un medico?» Il caposquadra si era accovacciato accanto a lui. Reynik si guardò il braccio e vide che il sangue era filtrato attraverso le bende macchiandogli nuovamente la manica. «Avrei bisogno di un paio di punti. L'ho bendato con la mia camicia strappata e poi mi sono messo la sua, dato che a lui non serviva più. Sopravviverò, però farei meglio a fare un salto in infermeria, prima che peggiori.» «Direi che hai bisogno di una mano, per arrivarci. Ehi! Tu e tu!» chiamò facendo un cenno a due soldati vicini. «Aiutate questo giovane legionario...» «Reynik.» «Aiutate il legionario Reynik ad andare alla più vicina tenda medica. Sono sicuro che qualcuno vorrà interrogarti su come hai catturato quest'uomo. Ci sarà certamente un'inchiesta. Chi è il tuo caposquadra?» «Sidis.» «Sidis, eh?» Una certa acidità nel tono di voce del caposquadra fece intendere a Reynik che neanche lui era un ammiratore di Sidis. «Parlerò al caposquadra Sidis più tardi. Adesso vai a farti vedere da un medico, poi sarà meglio che tu dorma un po'. Ne hai bisogno.»
Capitolo quattro Lady Alyssa era tornata a Shandrim, per qualche giorno, e tutta la gente che contava ne era al corrente. Aveva già cominciato a fare le sue solite bizze. I suoi ben noti modi altezzosi e i suoi tipici gesti imperiosi avevano creato non poco scompiglio al Calice d'Argento. Versande Matthiason, proprietario della locanda, non fu affatto dispiaciuto quando la lady annunciò che se ne sarebbe tornata a casa. Era orgoglioso che lei fosse scesa nuovamente alla sua locanda, dato che non era una donna facile da accontentare. Il fatto che avesse scelto ancora il Calice d'Argento la diceva lunga su quali locali fossero di moda. Inoltre, non gli dispiaceva alleggerire il patrimonio apparentemente infinito della giovane lady di un bel po' di monete d'oro. Tuttavia, ancora una volta la sua visita aveva messo a dura prova il suo carattere solitamente imperturbabile. Dal momento in cui era arrivata, Alyssa aveva avuto una sequela interminabile di pretese. Versande Matthiason aveva dovuto organizzare alcune serate nel salottino privato della locanda per gli ospiti scelti da Lady Alyssa. Aveva fatto venire profumieri, mercanti di cosmetici, sarti, calzolai, e aveva richiesto i servigi di Rikala, la sarta, perché le preparasse un altro abito. La giovane gli aveva dato il tormento esigendo che, per ciascuno di questi suoi ricevimenti riservati, il salottino fosse curato nei minimi dettagli. Fornitori di specialità gastronomiche, fioristi, artisti: non si era fatta mancare nulla affinché la sala avesse quel "non so che". Era stato estenuante. Nell'accomiatarsi, Lady Alyssa, fresca come una rosa, aveva ringraziato educatamente Versande per i suoi servigi. «Mi scuso se sono stata un poco difficile» gli disse con un accenno di sorriso. «Qualche volta in effetti mi lascio un po' andare.» «Lei è sempre la benvenuta al Calice d'Argento, Lady Alyssa» rispose Versande, che si chiedeva quanto il proprio sorriso apparisse forzato mentre stringeva i pugni dietro la schiena. «Le auguro un buon viaggio di ritorno a casa.» Femke, sebbene fosse un'attrice consumata, stentò a restare seria quando udì il saluto di Versande. Quell'uomo era un tesoro, molto professionale e
deciso con tutto il cuore a mantenere intatta la reputazione della propria locanda. Come avesse potuto resistere sotto la pressione che lei aveva esercitato su di lui negli ultimi quattro giorni davvero non lo sapeva. Aveva fatto in modo che lui si meritasse ogni singolo sen d'oro del suo scandaloso conto per la sua breve permanenza. Interpretare il ruolo di Lady Alyssa era sempre divertente. E anche questa volta era stato così. Mentre percorreva la strada principale verso est, il suo domestico guidava il cavallo da soma davanti a lei. Mentalmente Femke redasse il suo rapporto per l'Imperatore. Era stata una settimana fruttuosa. Aveva offerto ottimi pranzi e cene ai figli e alle figlie dei nobili più influenti di Shandrim. Con una sottigliezza davvero rara, era riuscita a ottenere da loro tutte le informazioni sugli affari correnti e sugli atteggiamenti nei confronti del nuovo Imperatore e della Corporazione degli Assassini. Fare domande su quest'ultimo argomento era alquanto rischioso. Se la Corporazione fosse venuta a conoscenza della sua inchiesta, avrebbe potuto decidere che era opportuno eliminarla. Femke aveva selezionato i propri ospiti con la massima cautela. Non voleva rischiare di attirare inavvertitamente l'attenzione delle persone sbagliate. Se un inquisitore l'avesse tenuta d'occhio, sarebbe rimasto ammirato davanti alla tortuosità delle sue domande. Aveva fatto della raccolta di informazioni utili una forma d'arte. Purtroppo non era riuscita a scoprire l'ubicazione della sede della confraternita. In realtà non ci sperava molto: nessuno aveva fatto congetture su questo argomento né sull'identità del Maestro della Corporazione, poiché fare una cosa del genere significava sfidare apertamente la morte. A ogni modo, le informazioni che aveva ricavato sarebbero comunque state apprezzate dall'Imperatore. Fra i nobili l'atteggiamento stava lentamente mutando. C'era stato un graduale e positivo cambiamento di vedute nel corso degli ultimi mesi, ossia da quando Surabar aveva preso il Mantello. L'Imperatore li stava conquistando con il suo approccio fermo ma costruttivo al governo di Shandar. Lord Kempten era riuscito a convincere qualcuno, durante il viaggio dell'Imperatore a Thrandor. Il fatto che un lord della vecchia guardia come Kempten si fosse lasciato affascinare dalle doti dell'ex generale aveva dato motivo di riflettere a molti fra i suoi pari. C'era ancora un buon numero di nobili desiderosi di sostituire Surabar con uno di loro. Tuttavia, quando Lord Kempten aveva mandato sulla forca alcuni degli oppositori più accaniti, gli altri si erano trovati costretti ad essere molto più cauti.
Femke stava ancora rimuginando sulle informazioni che aveva raccolto, quando lei e il suo domestico lasciarono il confine orientale della città. Ripetersi continuamente i nomi e gli altri dettagli acquisiti era essenziale, se voleva ricordare tutto. Metterli per iscritto non era una possibilità da prendere in considerazione. Sarebbe stato estremamente pericoloso. Con il senno di poi, si rese conto che avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alla strada. L'improvviso sibilo di una freccia fu seguito da un tonfo sordo mentre il suo domestico cadeva di sella. Non diede nemmeno un grido: la freccia lo aveva preso in pieno petto. La mente di Femke entrò in subbuglio. Se la freccia era stata scoccata da un Assassino, forse il vero bersaglio era lei. Molto probabilmente, il motivo dietro l'attacco era la fama della ricchezza di Lady Alyssa. Se le cose stavano così, aveva qualche possibilità di uscire viva da quella situazione. Fu facile far mostra di sgomento e orrore. Femke lanciò il suo miglior urlo da "damigella in difficoltà" con un trillo così acuto che la sua intensità lo avrebbe portato ben oltre gli alberi circostanti. «Smettila di fare tanto baccano o la prossima freccia ti chiuderà il becco» le ordinò una voce profonda alla sua sinistra. Femke si portò una mano alla bocca e intanto sciolse il laccio del pugnale che teneva nascosto nella manica. Portava sempre numerose armi con sé. Che poi decidesse di usarle, dipendeva dal numero di avversari. Se le sue probabilità di farcela fossero state scarse, avrebbe continuato a fare la parte della patetica aristocratica terrorizzata. Almeno finché non avesse avuto una valida opportunità di scappare. «Non c'è nessun altro dietro di noi, capo» sentì dire da una seconda voce, a una certa distanza alle sue spalle. «Bene» rispose la prima voce, più profonda. Udì un certo fruscio tra i cespugli a lato della strada. Ne emersero due uomini che sorridevano tutti soddisfatti. Uno aveva il petto ampio, capelli neri e folti, mascella quadrata e lineamenti stranamente spigolosi. Teneva in mano una spada e sembrava che la sapesse usare. Accanto a lui c'era un uomo più magro che imbracciava un arco. Aveva il viso furbo, con capelli lisci e untuosi. Femke non aveva dubbi che fosse stato lui a uccidere il suo domestico qualche istante prima. Il suo sguardo compiaciuto verso il punto in cui il poveretto giaceva a terra ne era una prova evidente. Il terzo uomo rimase nascosto da qualche parte lungo la strada in direzione della città. "Sono almeno in tre" pensò lei. "Ma sono separati, e questo è un bene. "
Rimase seduta in sella, come se fosse paralizzata dalla paura. I due uomini le si avvicinarono sicuri di sé. «Scenda da cavallo, damigella» le ordinò il capo sollevando la spada contro di lei. «Vorremmo conoscere un po' meglio lei e il suo denaro, e non possiamo certo farlo finché se ne sta a tremare là sopra, non le pare?» Femke strillò spaventata coprendosi la bocca con la mano, gli occhi spalancati. I due uomini si scambiarono uno sguardo e scoppiarono in una risata. Come si conveniva a una lady, Femke cavalcava all'amazzone. Aveva le gambe rivolte verso i briganti armati: chiaramente avevano premeditato di avvicinarla da quella parte. Non volevano che potesse usare il cavallo come scudo e fuggire via. Mentre rifletteva sulle diverse possibilità, Femke decise che finché rimanevano in vista solamente in due, avrebbe avuto una buona opportunità di prenderli di sorpresa. Il grido del terzo uomo era arrivato da una certa distanza. Decise di non considerarlo una minaccia immediata. «Voi... voi mi ammazzerete se io... se io scendo giù!» «Noi l'ammazzeremo se lei non scenderà giù! Smonti da cavallo. Subito!» L'uomo mosse la spada a lato per incoraggiarla. Fu appunto l'occasione che Femke stava aspettando. Senza esitare, si buttò giù di sella colmando la distanza che la separava da lui. Il balzo la portò entro l'arco naturale della spada, e durante la discesa ruotò leggermente. Femke atterrò con decisione, puntando con il tacco sinistro sul piede sinistro dell'uomo. Mentre piegava le ginocchia nell'impatto, con la mano destra afferrò il pugnale che portava infilato nello stivale destro, mentre un altro, nascosto nella manica, le apparve come per incanto nella mano sinistra. Il ruggito di dolore che l'omone aveva appena iniziato a eruttare dalla bocca si spense. Femke, rimettendosi in piedi, aveva piantato il pugnale che teneva nella destra dritto nella pancia del rapinatore più mingherlino. Intanto, con un fendente deciso della lama che aveva nella sinistra, trafisse l'altro. Questi, scioccato, lasciò cadere la spada. Femke non attese altre reazioni. Il grido di dolore dell'uomo, levatosi ancora più forte, fece imbizzarrire il cavallo della ragazza, che si impennò e partì al galoppo, spaventando anche il cavallo carico di bisacce, che iniziò a galoppare anch'esso. La fortuna e la rapidità delle sue reazioni l'aiutarono: fu così svelta da voltarsi e afferrare un ciuffo della criniera del suo cavallo prima che si allontanasse. Col braccio piegato, diede uno strattone, mentre il cavallo terrorizzato la trascinava via. Così dovette fare un paio di saltelli, mentre il cavallo la ti-
rava più velocemente di quanto lei riuscisse a correre e, sfruttando lo slancio, al secondo saltello rimbalzò con forza sul terreno e montò al volo sulla groppa dell'animale. Quando andò a picchiare contro il pomolo della sella, il petto fu invaso da una fitta di dolore che si aggiunse alla sofferenza che provava alle costole, già malridotte dopo che il suo braccio era stato strattonato dal cavallo. Le salirono le lacrime agli occhi, ma strinse i denti e si concentrò per rimanere in sella. Alberi e cespugli le sfrecciavano a fianco nel verde mentre il suo cavallo partiva al galoppo pieno. Il fruscio del suo abito contro i fianchi dell'animale non faceva che aumentarne lo spavento. Le ci volle qualche istante prima di riuscire ad acquisire una posizione più salda, e quando riuscì a farlo la minaccia principale, rappresentata dai briganti, era ormai alle sue spalle. I due uomini in mezzo alla strada erano entrambi in gravi condizioni. Femke non sapeva se sarebbero sopravvissuti alle ferite, ma la certezza che il loro complice li avrebbe raggiunti in fretta servì a lenire le prime fitte di rimorso. Se ce l'avessero fatta, era certa che in futuro si sarebbero ben guardati dall'assalire giovani aristocratiche. Dopo aver percorso un breve tratto di strada, riuscì ad affiancare il cavallo del suo domestico. Poi, con entrambi gli animali e i suoi averi ancora intatti, proseguì verso il punto in cui aveva predisposto il suo incontro. Quando vi arrivò, il suo contatto era là ad aspettarla. Femke si cambiò in fretta e indossò abiti poco appariscenti, informando il suo uomo dell'agguato che le avevano teso. All'apprendere il destino del suo compagno, questi assunse un'espressione cupa, ma non chiese altre informazioni. Sapeva che quello non era il momento di far chiacchiere. L'uomo mise gli abiti da viaggio di Lady Alyssa nelle sue bisacce, insieme a tutte le altre cose, prese i suoi due cavalli e se ne andò. Femke montò l'animale meno stanco, lo allontanò dalla strada e si diresse in aperta campagna, tracciando un lungo arco a sud della città. Era molto improbabile che subisse un secondo attacco in un solo giorno, ma per precauzione spostò alcune delle sue armi in punti in cui avrebbe potuto afferrarle in fretta se ne avesse avuto bisogno. Un'occhiata al sole le disse che era in anticipo. "Non ha importanza" decise. "Non sarebbe bene far aspettare l'Imperatore." Quando più tardi, quello stesso pomeriggio, arrivò alla porta dello studio dell'Imperatore, fu felicemente sorpresa di vedere che anche Reynik era in attesa in corridoio. Dopo le loro avventure insieme a Thrandor, era come la
visita inaspettata di un fratello. Lui la salutò con un abbraccio delicato, memore delle sue costole convalescenti, e Femke gli fu grata della sua premura. «Che cosa ti porta qui, oggi?» gli domandò Femke sottovoce, notando che Reynik sembrava alquanto imbarazzato dopo il loro rapido abbraccio. «L'Imperatore Surabar mi ha mandato a chiamare. Probabilmente vuole parlarmi dell'Assassino che ho catturato ieri notte» rispose lui. «Ne hai preso uno? Sai chi era? Ti ha dato informazioni sulla Corporazione?» Prima che Reynik avesse modo di rispondere a quel fuoco di fila di domande, la porta dello studio si aprì, mettendo fine al loro colloquio. L'Imperatore era sulla soglia e aveva un'espressione grave. Fece cenno a entrambi di entrare. «Non potrà più dire niente» le bisbigliò Reynik all'orecchio mentre obbedivano. «L'ho ucciso.» Femke girò di scatto la testa e guardò il volto del giovane soldato, ma lui seppe nascondere bene le emozioni. In presenza dell'Imperatore, Reynik si comportò da perfetto legionario. Marciò in avanti spedito e si fermò con decisione davanti alla scrivania del sovrano, tanto che al confronto Femke si sentì decisamente sciatta. Una sentinella di guardia in corridoio chiuse la porta alle loro spalle. «Riposo, legionario» gli ordinò Surabar, che si mise a sedere dietro lo scrittoio, appoggiò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani. Aggrottò le sopracciglia con un'espressione strana, un po' contrariato e un po' riflessivo. «A quanto pare non mi riesce di tenervi lontano dai guai, per quanto mi sforzi. Voglio rapporti da entrambi, ma dal momento che è probabile che la cosa vada per le lunghe, fareste meglio a prendervi una sedia. Reynik, pensaci tu.» Reynik andò immediatamente a prendere una seggiola per Femke. Gliela porse come un perfetto gentiluomo, pur sentendosi un po' goffo, e lei si mise a sedere. Quindi ne prese un'altra per sé e si sedette accanto a lei. «Bene. E adesso, Femke, iniziamo da te, d'accordo? Ti avevo chiesto di raccogliere qualche informazione senza farti notare, e invece non ho sentito altro che racconti dei tuoi sfarzosi ricevimenti riservati al Calice d'Argento. Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro su quelli che erano i miei desideri.» «Lo siete stato, Maestà Imperiale. Avevo ordine di raccogliere informazioni sulla lealtà dei nobili senza attirare attenzione sui miei propositi. Inoltre, dovevo fare in modo di evitare i pericoli personali. Ed è stato esat-
tamente ciò che ho fatto. Nessuno sospetterebbe Lady Alyssa di essere una spia. Gli aristocratici sono talmente colpiti dai suoi modi scandalosi e dal suo stile di vita eccessivo che non riescono a guardare oltre la facciata. Posso rassicurare vostra Maestà che alle mie piccole feste nessuno ha sospettato nemmeno per un secondo che io stessi raccogliendo informazioni.» «Eccessivo, sì. Scandaloso, anche. Gusti scandalosamente costosi, su questo sono perfettamente d'accordo! Non voglio nemmeno pensare a quanto mi costerà la tua piccola spedizione, signorina. Per favore, la prossima volta che sentirai l'urgenza di spendere metà del Tesoro di Stato, potresti almeno informarmi, non ti pare? Mi ha preso un colpo quando ho scoperto quello che stavi facendo.» «Vostra Maestà» protestò lei con fare innocente «i risultati sono stati commisurati all'entità della spesa. Sono in grado di fornirvi un elenco completo di quali aristocratici sostengono il vostro governo oggi. E non solo, ma anche un elenco di quelli le cui attività sconfinano nel tradimento. Di sicuro queste informazioni valgono un paio di monete d'oro?» «Certamente, ma dubito che il conto si limiti a un paio di monete d'oro! Ho visto i prezzi del Calice d'Argento. Sono sicuro che quel ladro di Matthiason ti fa pagare il suolo su cui metti piede fin dal momento stesso in cui entri dalla sua porta.» Femke scoppiò a ridere. «Quando scriverò per voi quell'elenco di nomi, vostra Maestà, sono certa che converrete che ogni sennut di rame è stato ben speso.» «Molto bene, per il momento sospenderò ogni giudizio. Presumo che tu abbia trovato confortevole la tua permanenza. Immagino dunque che tu non abbia rischiato la tua incolumità fisica nella scelta della locanda.» Femke sussultò ripensando all'attacco subito fuori città, quella mattina. Non c'era ragione di nascondere qualcosa all'Imperatore. Se in seguito fosse venuto a sapere che era stata aggredita e non glielo aveva detto, non si sarebbe più fidato di lei. Era strano, ma la fiducia era la base principale su cui si fondava il lavoro di una spia. Tradire quella del proprio datore di lavoro era l'errore più grosso che una spia potesse commettere. «A dire il vero, vostra Maestà, non è stata poi una scelta così felice.» «Davvero? Che intendi dire?» «La mia apparente ricchezza ha attirato un criminale che non avevo previsto. Sono stata sciocca, avrei dovuto pensarci. Io e il mio servitore siamo stati aggrediti poco dopo aver lasciato i confini della città. Lui è stato ucci-
so da un arciere. Poi i ladri hanno cercato di derubarmi. Non sono certa di quali fossero le loro vere intenzioni.» L'Imperatore la guardò ansioso. Anche Reynik la ascoltava incantato. «E allora? Che è successo? Come hai fatto a scappare?» «Sono stata fortunata. Non si aspettavano che fossi armata, o che avessi il coraggio di reagire. Ne ho ferito uno e ho piantato un pugnale nella pancia dell'altro. C'era anche un terzo uomo, ma non sono riuscita a vederlo. Era dietro di me, a una certa distanza, ed è rimasto nascosto fra gli alberi quando sono scappata. Sono arrivata all'appuntamento in tempo e ho cambiato identità, ma avrei dovuto provvedere a portare con me una scorta più numerosa. A pensarci adesso, è facile capire come il mio personaggio potesse attirare un attacco del genere. Il mio agente era un uomo valido. Mi mancherà la sua fedeltà.» L'Imperatore la guardò severamente. «Tu corri troppi rischi» le disse con voce inflessibile. «Non voglio che ritorni in campo finché le tue costole non saranno del tutto guarite. Non accetto discussioni al riguardo, perciò non provarci nemmeno. Capito?» «Sì, vostra Maestà.» «Ora, a parte l'elenco degli uomini che mi sono fedeli, sei riuscita a fare qualche progresso e a scoprire dove ha sede la Corporazione degli Assassini?» «No, vostra Maestà» rispose Femke sospirando. Non le piaceva ammettere di aver fallito, ma era inutile cercare di abbellire quelle poche informazioni che aveva raccolto con le sue argute domande. «Nessuna delle persone con cui ho parlato sapeva niente di utile, al proposito. Si possono dedurre molte cose dal linguaggio del corpo, vostra Maestà, e dubito che quelli con cui ho parlato fossero bugiardi così in gamba da riuscire a mascherare i segni che si manifestano quando non si dice la verità. Nessuno di loro sa niente di importante sulla Corporazione degli Assassini. Forse qualcuno dei lord più anziani ne sa qualcosa. Avete provato a chiedere a Lord Kempten? Può darsi che lui abbia qualche informazione.» «Kempten non sa niente di utile. L'ho già interrogato a fondo. Forse Reynik potrà colmare qualche lacuna, e questa è una delle ragioni per cui è qui con noi. Gli attacchi di ieri notte a opera della Corporazione degli Assassini erano chiaramente un messaggio di sfida diretto a me, ma io non intendo farmi intimidire. Non mi lascerò comandare da una società segreta di sicari. È un residuo superato di un'epoca passata. Non voglio ammettere che siano un elemento necessario o tantomeno auspicabile della società
shandese. La mia decisione di dichiararli fuori legge è oggi confermata dalle loro azioni. Voglio vederli fuori da Shandar. Puoi dirci qualcosa del tuo incontro dell'altra notte, Reynik? Forse ci aiuterà a capire il modo in cui lavorano.» Reynik spiegò le circostanze in cui aveva individuato l'Assassino, come avesse in un primo tempo creduto che si trattasse di Shalidar, e come lo avesse inseguito armato solamente di un badile. Raccontò di come le sentinelle al posto di guardia non avessero fermato l'uomo, dell'inseguimento e del loro primo, breve scontro. Femke notò che, nonostante l'espressione impassibile, l'Imperatore era decisamente colpito dal fatto che Reynik fosse sopravvissuto al primo confronto. Essendo riuscito a disarmare l'Assassino della spada, aveva fatto pendere la bilancia dalla sua parte, perciò era strano che l'Assassino avesse scelto di attaccare una seconda volta, quando avrebbe chiaramente potuto seminare Reynik e mettersi in salvo. Quando finì di raccontare di come aveva colpito l'avversario fino a fargli perdere i sensi, si fermò, incerto se parlare all'Imperatore anche del bizzarro talismano d'argento. «C'è ancora qualcosa in questa storia che non mi hai detto, non è così?» domandò Surabar piantando gli occhi freddi in quelli di Reynik. «Sono così trasparente, vostra Maestà?» ribatté Reynik, arrossendo per l'imbarazzo. «Avete ragione. C'è ancora una cosa, una cosa davvero strana. Quell'uomo portava al collo un bizzarro talismano. Era una tarantola d'argento appesa a un cordino di cuoio.» «E allora, che ne è del talismano? Lo abbiamo noi? Il Comandante Vascilly non me ne ha parlato, nel suo rapporto di questa notte.» «È questa la cosa strana, vostra Maestà. È scomparso. Si è dissolto sotto i miei occhi, emanando un'energia scintillante che non mi è parsa naturale. Immagino che quel talismano avesse delle proprietà magiche, ma il suo scopo per me rimane misterioso. La cosa più interessante è che è scomparso nel preciso momento in cui quell'uomo è morto.» «Dissolto, dici? Quando è morto l'uomo... Uhm, interessante. Hai mai visto niente del genere, Femke? Shalidar ha uno di questi talismani a forma di ragno?» Femke scosse il capo. «A quanto ne so, no, vostra Maestà. Non ho mai sentito dire che la Corporazione avesse un simbolo del genere, e nemmeno che faccia ricorso alla magia. Un mago nelle loro fila sarebbe un avversario temibile.» Si fermò un istante a riflettere, poi proseguì. «Se hanno scelto la tarantola come loro simbolo, la cosa non è di dominio pubblico. La
tarantola sarebbe un simbolo adatto per la loro professione, ma mi riesce difficile crederlo, dato che è la prima volta che ne sentiamo parlare.» L'Imperatore Surabar si grattò il naso pensieroso, per un istante. Guardò prima Femke, poi Reynik, poi di nuovo Femke. C'erano molte cose da prendere in considerazione, ma aveva già un piano in mente. I due giovani non gli avevano comunicato nulla che potesse modificare quanto aveva già programmato, perciò decise di procedere e di mettere in atto la sua strategia. «Sono d'accordo con te, Femke. Il talismano scomparso è interessante, ma non credo che ci sia un nesso con ciò che sto cercando di ottenere. Ho bisogno di sapere qualcosa di più della Corporazione degli Assassini. Intendo distruggerli, ma solo uno sciocco distrugge qualcosa senza conoscere prima tutte le possibili conseguenze delle proprie azioni. Dichiarando la Corporazione anaethus drax, ho messo in chiaro la mia intenzione di cacciarla da Shandrim. Non mi aspettavo che se ne sarebbero andati tranquillamente, ma non immaginavo che avrebbero colpito le legioni. È stata un'abile contromossa da parte loro. Chiunque sia a capo della Corporazione non è uno sciocco. Ho bisogno di sapere qualcosa in più su questo Maestro della Corporazione contro cui mi sono messo. "Conosci il tuo nemico" è una massima che ho imparato fin dall'inizio della mia carriera militare; ma come si fa a conoscere un nemico che non si riesce a trovare? Non è un problema facile. Avrei una soluzione, ma comporta dei rischi. Quelli per la mia persona non mi spaventano, ma il mio progetto comporta dei rischi anche per le vite di altri.» Quando Surabar tacque, Femke sorrise. «Per "altri" immagino che intendiate noi, vero?» domandò indicando con un cenno se stessa e Reynik. L'Imperatore annuì. «Dunque, cosa volete che facciamo, vostra Maestà? Io sono ai vostri ordini.» «E anch'io» intervenne Reynik con un cenno del capo. «Un'altra massima che ho imparato molto tempo fa diceva: "Non offrirti mai volontario senza sapere con precisione in che cosa stai andando a invischiarti"» ribatté Surabar con un largo sorriso. «Vi suggerirei di ascoltare la mia idea, prima di acconsentire. Il mio piano metterà in estremo pericolo per lo meno una persona. Non vi ordino di partecipare. Accetterò solamente volontari.» «Siamo pronti ad ascoltarvi, vostra Maestà» lo invitò Femke. «Voglio qualcuno che si infiltri nella Corporazione. Ho bisogno di un volontario che sia disposto a diventare un Assassino sotto copertura.
Quando avremo qualcuno all'interno, potremo mettere le mani sulle due informazioni cruciali che ci occorrono per poter sconfiggere la Corporazione. Dobbiamo scoprire dove si trova la sede. E dobbiamo conoscere l'identità del Maestro. Quando avremo queste informazioni, distruggere la Corporazione degli Assassini sarà un compito relativamente semplice.» Femke non esitò. «Ci penserò io, vostra Maestà. Ho l'addestramento necessario per riuscirci. Mi ci vorrà un po' di tempo per crearmi un'identità adatta, ma con l'aiuto adeguato dovrei potercela fare.» «No, Femke, questa volta no. Tu non sei adatta, e per diverse ragioni. Prima di tutto, non ti sei ancora ripresa completamente dalle ferite. Non intendo rimangiarmi la promessa di non lasciarti tornare in campo finché non sarai di nuovo completamente in forma. In secondo luogo, Shalidar dev'essere un membro della confraternita, e lui ti conosce fin troppo bene. Se dovesse ritornare a Shandrim, ti scoprirebbe e verresti subito uccisa. Non sappiamo che tipo di procedure di reclutamento abbia la Corporazione o come scelga i suoi affiliati, ma le tue identità sono ben conosciute a Shandrim già da alcuni anni. Non sarei sorpreso di scoprire che la Corporazione ti ha già individuata.» «Quindi rimango soltanto io, vostra Maestà» rispose freddo Reynik. «Se dovessi accettare la vostra missione, dovrei uccidere per essere accettato nella Corporazione?» «Sì» gli rispose cupo Surabar. «L'ipocrisia di tutta questa faccenda mi disgusta, ma è evidente che hai bisogno di avere una copertura solida. Se può esserti di conforto, ogni vita che saremo costretti a sopprimere peserà sulla mia anima come un macigno assai più pesante di quelli di cui mi sono gravato con le decisioni prese da soldato. Ti assicuro che qualunque obiettivo ti assegnerò sarà comunque già segnato da una condanna a morte. Vi sono molti nobili eminenti, là fuori, che stanno tramando contro di me. Tutta questa faccenda di uccidere per denaro mi ripugna, ma sarà necessario che tu diventi davvero un Assassino se vuoi avere qualche speranza di infiltrarti nella Corporazione. Inoltre dovrai compiere un'azione spettacolare se vuoi attirare il loro interesse.» «Vostra Maestà» lo interruppe Femke «se posso permettermi di essere così audace, il legionario Reynik, nonostante tutta la sua buona volontà, non ha un addestramento da Assassino e nemmeno da spia. Si farà scoprire subito.» «Ed ecco perché voglio che tu, Femke, assuma l'incarico di addestrarlo. Avete tre settimane. Non di più.»
«Tre settimane, vostra Maestà! Ma è impossibile! Sarebbe già difficile in tre mesi, ma...» «Hai tre settimane, Femke» la interruppe Surabar. «Gli eventi stanno precipitando. A ben vedere, sono stato affrettato nel dichiarare la Corporazione anaethus drax. Avrei dovuto aspettare di avere altre informazioni. Tre settimane è il massimo che posso concedervi. Più aspettiamo, più gente rischia di perdere la vita senza motivo. Il legionario Reynik dovrà imparare in fretta. Si è già dimostrato pieno di risorse, in passato. Non ho dubbi che sarà in grado, in questo arco di tempo, di assorbire informazioni sufficienti da riuscire a diventare convincente. Se accettate, il vostro primo colpo avrà luogo fra tre settimane. Metterò a vostra disposizione tutto ciò che vi potrà occorrere. Che cosa ne dici, Reynik?» «Sono ai vostri ordini, vostra Maestà. Farò come volete.» «Faremo entrambi del nostro meglio, vostra Maestà» aggiunse Femke. «Il vostro meglio dovrà essere abbastanza. Ottime persone stanno morendo per un mio errore di calcolo. Un luogo e un nome: è tutto ciò che vi chiedo.» Reynik fece un inchino, riconoscendo in quest'ultima frase il commiato dell'Imperatore. Quando si voltò per andarsene, la sua mente era in subbuglio. Fra tre settimane avrebbe dovuto uccidere qualcuno a sangue freddo. Non era un'idea che lo riempisse di gioia. «Come va la tua ricerca? Mi hai trovato un Assassino disposto a uccidere l'Imperatore? Lacedian scosse il capo.» Non ha risposto nessuno. Sei sicuro che sia una buona idea, Tremarle? Ultimamente altri ci hanno provato e sono stati impiccati per tradimento. Basta una sola parola all'orecchio sbagliato e i prossimi a penzolare dalla forca saremo noi. «Non intendo tirarmi indietro. Trovami qualcuno che non fallirà. Voglio vendetta per la perdita di mio figlio e della discendenza del mio casato. Surabar deve morire.» Un brivido corse lungo la schiena di Lord Lacedian. Negli occhi del suo vecchio amico scorse un lampo di follia. Forse la morte di Danar gli aveva sconvolto la mente. Doveva continuare a dargli retta? Voleva vedere l'Imperatore sostituito da qualcuno che avesse sangue nobile nelle vene tanto quanto lo volevano tutti gli altri. Ma un assassinio era davvero il modo migliore per arrivarci? «Ci proverò, amico mio» disse infine, sentendosi costretto a parlare per spezzare quel silenzio così assoluto. «Sono pochi quelli disposti ad accet-
tare di far fuori qualcuno, ma mi informerò.» «Puoi offrire loro quattromila pezzi d'oro, vedi se questo li aiuterà a decidere.» «Quattromila? Sei così ricco? Magari nella Corporazione ci sarà qualcuno disposto a trasgredire la Regola, per una somma del genere.» «Lacedian, sono disposto a ridurmi in miseria pur di vedere Surabar morto. Ha distrutto il futuro della mia famiglia. Non avrò pace finché non sarà stato eliminato.» In quel momento, una nuvola di passaggio oscurò il sole. La luce nel salotto di Lord Tremarle diminuì drasticamente. Lacedian tornò a rabbrividire. Di solito non era superstizioso, ma il tempismo di quell'improvviso oscuramento gli sembrò di cattivo auspicio. Per quanto cercasse di scrollarsi di dosso tale sensazione, non riusciva a liberarsi dell'idea di doversi tirare indietro subito, prima che fosse troppo tardi. Aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì niente. Chinò il capo ed ebbe un tuffo al cuore. Era inutile. Non poteva dire di no al suo amico. Segnato o no dal destino, Lacedian avrebbe trovato qualcuno disposto a portare a termine quell'incarico. Quattromila pezzi d'oro avrebbero attirato interesse. Il problema principale era di impedire alle spie dell'Imperatore di venire a conoscenza del contratto. Se non ci fosse riuscito, sarebbe stata la morte, e questo era un grosso stimolo a non commettere errori.
Capitolo cinque «Per di qua, Reynik» ordinò Femke mentre percorreva con sicurezza i corridoi del Palazzo Imperiale come se fosse a casa sua. «Dove stiamo andando?» chiese lui accelerando il passo. «Prima di tutto dobbiamo trovare degli abiti civili da farti indossare. Poi andremo da un uomo che ti insegni a usare la spada.» «Ma io so già combattere con la spada» obiettò Reynik. «Ti concedo che non sarò il migliore spadaccino del mondo, però me la cavo.» Femke si fermò di botto. Reynik barcollò leggermente, mentre cercava di arrestarsi senza perdere l'equilibrio. Lei lo fissò a lungo e quando gli parlò lo fece a voce così bassa che nessun altro avrebbe potuto sentirla.
«Tu cammini come un soldato. Tu parli come un soldato. Per quanto ne so, probabilmente scoreggi e bestemmi come un soldato! Abbiamo tre settimane per correggere tutto questo, Reynik, se non vogliamo che quelli della Corporazione ti scoprano subito. E non voglio neanche pensare a quello che ti farebbero in questo caso. Inizieremo dalle cose più ovvie. Devi imparare a maneggiare la spada in modo completamente diverso. E avrai bisogno di imparare a usare le armi in maniera meno convenzionale. Non riusciremo a mascherare del tutto il tuo addestramento militare, in così poco tempo, ma dovremmo riuscire a crearti un'identità di disertore. Ti vedrei bene come un soldato insoddisfatto che ha deciso di diventare un sicario prezzolato. Il trucco per rendere convincente un personaggio del genere sta nell'eliminare alcune, ma non tutte, delle tue vecchie abitudini militari.» «Mi sembra sensato.» «Certo che è sensato, perciò ti prego di non mettere in dubbio le mie decisioni. Fai come ti dico, come un bravo soldatino, e tutto andrà bene. In parte ti addestrerò io personalmente, ma per quello che non posso insegnarti, troverò chi possa farlo. Conosco uno spadaccino esperto che in questo momento ha proprio bisogno di un lavoro remunerato. Se c'è qualcuno in grado di insegnarti a usare la spada in maniera efficace, questo è lui.» Femke scambiò qualche parola con un addetto del personale di servizio del Palazzo Imperiale, e Reynik ebbe accesso al guardaroba degli ospiti. Abiti di tutte le taglie erano tenuti di scorta per evitare ogni imbarazzo ai visitatori senza nulla di adatto da indossare a Palazzo, in caso di arrivo col maltempo o dopo un viaggio difficile. Non ci volle molto perché Reynik trovasse qualcosa della sua misura. Una casacca bianco sporco, gambali neri, stivali da cavallo alti fino al polpaccio e una giacca turchese con un ricamo d'argento erano perfetti. Appallottolò la sua uniforme e la infilò in una bisaccia che lasciò nelle stanze di Femke. La ragazza approfittò dell'occasione per indossare abiti poco vistosi prima che si rimettessero in moto per lasciare il Palazzo e andare nel quartiere sud-occidentale della città. Impiegarono un po' di tempo per arrivare a destinazione. Le strade erano affollate di gente impegnata nelle attività di tutti i giorni. Nell'aria aleggiava il profumo di carne e di aromi, usati dai venditori delle bancarelle per attirare i clienti. I negozianti li invitavano magnificando le virtù delle proprie merci, e ragazzini cercavano di convincerli a entrare nei loro negozi e nelle loro taverne, nella spe-
ranza di ricevere una mancia dai proprietari per aver portato loro nuova clientela. Femke li ignorava, tutta presa dalla sua missione, lasciando a Reynik il compito di dirottarli su altri potenziali acquirenti. Reynik non aveva passato molto tempo nel quartiere commerciale della città, da bambino, perciò si sentiva a disagio nell'ignorare la gente. L'educazione gli aveva instillato delle maniere di cui ora aveva difficoltà a liberarsi. Era buona norma scuotere per lo meno il capo o fare un cenno negativo con la mano, se qualcuno ti importunava. Ignorare del tutto la presenza di un'altra persona gli sembrava il massimo della scortesia. A un tratto Reynik si rese conto che se aveva difficoltà in faccende così semplici, cambiare abitudini più profonde e radicate sarebbe stato ben più faticoso. Capì che Femke aveva ragione. Aveva bisogno di un grande aiuto se voleva rendere credibile il suo travestimento. Quando arrivarono alla destinazione indicata da Femke, Reynik fu di nuovo colto di sorpresa. La casa che avevano davanti non era certo come se l'era aspettata. Le parole di Femke, secondo cui lo spadaccino che stavano visitando aveva bisogno di un lavoro, contrastavano con la vasta e lussuosa residenza alla cui porta stavano bussando. Quella casa non poteva essere di proprietà di un pover'uomo. Venne ad aprire un domestico e Femke gli parlò a voce così bassa che Reynik non riuscì a capire una parola. L'uomo non sembrò per nulla contento, ma dopo qualche attimo di indecisione li fece entrare. L'ingresso era ampio e imponente. Sul pavimento di marmo lucido campeggiava un complesso mosaico che raffigurava due avversari avvinghiati in un combattimento. Sulle pareti erano appesi numerosi e bellissimi arazzi e dipinti con temi analoghi. Una statua a grandezza naturale di un antico gladiatore stava minacciosamente di guardia alla sinistra dello scalone che con un arco maestoso portava al piano superiore. La ringhiera di ferro battuto era meravigliosamente lavorata con molti disegni a volute e spiccava nera contro il marmo chiaro. «Da questa parte, signori.» Il domestico non si voltò a controllare se lo seguissero. Si limitò ad attraversare l'ingresso diretto verso una delle numerose e imponenti porte di solido legno di quercia, anch'esse dotate di maniglie e cardini in ferro battuto. La stanza in cui entrarono era un ampio soggiorno, arredato con gusto ma sempre con la lotta per tema di fondo, come se il padrone di casa ne fosse ossessionato. I tavolini per le bevande avevano gambe a forma di spade, conficcate in basso in piccole sfere di ferro.
Non si fermarono nel soggiorno, ma lo attraversarono, fino a raggiungere un'altra porta che si apriva sulla stanza più strana che Reynik avesse mai visto. Misurava una decina di passi di lato ed era priva di arredamento o di decorazioni, a parte due pareti ricoperte di specchi. Al centro della stanza stava un uomo il cui volto scarno gli sembrò sinistramente familiare. Questi avvertì la loro presenza nel momento in cui entrarono, ma rimase nella stessa posa per alcuni secondi, prima di rilassarsi e di voltarsi a salutarli. «Che succede, Aneki? Non ti avevo detto che non volevo essere disturbato?» «Sì, padrone, ma questa signora ha una proposta da farle che penso potrebbe interessarla.» «Davvero? Be', allora passiamo nel salottino sul retro. Portaci qualcosa da bere, Aneki, per favore. Preferite dahl o acqua? Purtroppo non ho in casa niente di più forte. Sono convinto che allontanando la tentazione mi sia più facile resisterle.» «Due bicchieri d'acqua andranno benissimo, grazie» lo rassicurò Femke. Aneki fece un inchino e si ritirò per andare a prendere da bere. «Vi prego di scusarmi se debbo cambiarmi la camicia, ma altrimenti mi sentirei a disagio» si scusò l'uomo con un cenno agli abiti intrisi di sudore. Attraversò la stanza e si avvicinò a un piccolo guardaroba da cui estrasse una camicia bianca pulita. Quando si sfilò dalla testa la camicia che aveva indosso, Reynik rimase inorridito nel vedere la terribile ferita sulla sua schiena fissarlo come fosse un rosso occhio accusatore. L'uomo si voltò, e con grande sgomento Reynik vide che aveva una ferita analoga sullo stomaco. Qualcuno lo aveva trafitto da parte a parte con una spada. A un tratto Reynik comprese perché il suo volto gli sembrava familiare. Quell'uomo era una leggenda, era un gladiatore che si era fatto un nome nell'arena come il più micidiale spadaccino al mondo. Di solito i gladiatori combattevano finché uno dei due non si arrendeva. Non con lui. Con lui, ogni scontro era all'ultimo sangue. Durante i tre anni in cui aveva combattuto nell'arena, non aveva mai lasciato un avversario vivo perché potesse misurarsi con lui una seconda volta. Si diceva che avesse affrontato fino a cinque gladiatori esperti contemporaneamente e che nessuno di loro fosse sopravvissuto per combattere ancora. O per lo meno, nessuno ci era riuscito fino al suo ultimo combattimento. L'uomo fu assai divertito quando, guardando Reynik negli occhi, capì che il ragazzo l'aveva riconosciuto ma, al tempo stesso, era incredulo. «Serrius!» articolò silenziosamente Reynik.
Serrius fece un lieve cenno di assenso e poi si voltò verso Femke. «Presumo che questo giovanotto non sapesse che lo stavi portando da me» osservò come per caso. «Mi compiaccio che tu non vada dicendo in giro che sono sopravvissuto, Femke. Ebbene, che qual buon vento ti porta a disturbare la mia convalescenza?» «Serrius, questo è Reynik. Voglio che tu lo addestri in alcune delle più avanzate tecniche di scherma.» «Lo sai che io non insegno a nessuno. Perché dovrei svelare a un uomo i trucchi che un domani potrebbe usare contro di me?» «Allora intendi ritornare nell'arena? Pensavo che avresti lasciato, dopo...» «Dopo che sono stato trafitto da quel giovane thrandoriano?» completò per lei la frase. Serrius fece una grassa risata, con un'allegria che apparve strana sul suo volto normalmente impassibile. «Sì, pensi bene. Ho smesso. Sarei uno sciocco a scendere nuovamente nell'arena, adesso; mi farebbero a fette al primo scontro. La mia abilità e la mia forma fisica se ne sono andate per sempre; ci ha pensato la lama di quel thrandoriano quando mi è entrata nelle viscere; ma è comunque inopportuno che ci siano in circolazione troppi uomini più bravi di te con la spada, quando hai passato tutta la vita ad ammazzare la gente per dimostrare di essere il migliore.» Aneki entrò nella stanza con un vassoio su cui erano posati tre alti bicchieri d'acqua, e tutti si servirono ringraziando educatamente. Reynik mandò giù un lungo sorso, mentre Serrius beveva a piccoli sorsi, dimostrando, anche senza volerlo, di saper controllare la sete che, Reynik ne era sicuro, il gladiatore stava patendo. Il domestico si allontanò con un inchino. «Reynik non è mai stato un gladiatore e non ha intenzione di diventarlo. Che cosa ti fa pensare che un giorno potrebbe volerti uccidere?» chiese Femke con curiosità. Serrius rise di nuovo. «Non provare a fare i tuoi giochetti con me, Femke. Ho osservato gli uomini per anni: la loro postura, il loro modo di muoversi e il loro stile di combattimento. Ho capito che Reynik è un legionario nel momento stesso in cui siete entrati. Tutto il suo portamento grida "militare". E allora, perché vuoi che lo addestri? E che cosa ti fa pensare che farò per lui ciò che ho ostinatamente rifiutato di fare per chiunque altro?» «Non hai risposto alla mia domanda, ma immagino che meriti comunque una spiegazione. L'Imperatore ha bisogno che lui acquisisca determinate tecniche per una missione che intende affidargli. Una di queste tecniche
prevede che sappia maneggiare la spada in maniera credibile. Il suo addestramento militare fin qui è adeguato. Conosce le basi, ma dovrà essere superiore alla media, se vuole portare a termine la sua missione. Se tutto va bene, non dovrebbe essere impegnato in scontri furiosi. Tuttavia, se dovesse essere costretto a dimostrare di saper usare la spada, allora è necessario che il suo stile di combattimento sia diverso da quello di un normale soldato.» Serrius rimase in silenzio per qualche istante, guardò prima Femke, poi Reynik, e infine di nuovo Femke. Reynik tratteneva il fiato. Imparare le tecniche della spada dal gladiatore più pericoloso dell'arena di Shandrim era il sogno di molti giovani spadaccini. Per lui sarebbe stata un'opportunità straordinaria. «Sento che mi stai nascondendo molte cose, Femke. Questa segretezza non ti aiuta. Che cosa ti fa pensare che mi metterò a insegnare adesso, quando ho rifiutato di farlo già tante volte in passato?» «Lo farai perché ti serve una ragione per vivere, Serrius. Se non accetterai questo lavoro, o un altro simile, la tentazione di scendere di nuovo nell'arena si farà troppo forte. Tornerai e morirai per mano di un combattente sconosciuto, che uccidendoti acquisterà una fuggevole fama. E poi qualcuno più bravo di lui lo ucciderà, riducendo ancora di più la stima per la tua bravura. La leggenda da te creata morirà. È strano, ma la tua reputazione è stata soltanto scalfita dalla sconfitta che hai subito dal lottatore thrandoriano. Il fatto che vi siate trafitti a vicenda è stato considerato da molti come un onorevole pareggio. Lui ha "vinto" solo perché è rimasto in piedi più a lungo di te. Il pubblico non ha più visto nessuno dei due, da quel giorno. La maggior parte della gente crede che siate morti entrambi, dopo l'incontro, ma se tu ti presentassi in pubblico, saresti considerato il sopravvissuto. L'annuncio ufficiale della morte del thrandoriano si è reso necessario per nascondere la sua scomparsa. Una tua apparizione in pubblico non farebbe che accrescere ancora la tua reputazione.» «Non ci vai leggera, eh?» disse Serrius con un sorriso triste. «Nelle tue parole c'è qualcosa di vero che non posso negare. È una pazzia, ma sto già iniziando a sentire la voglia di scendere di nuovo nell'arena. Pur sapendo che morirei, e ripetendo a me stesso che sarebbe una follia ritornare, sento questo desiderio farsi sempre più forte dentro di me. Se accetterò la tua proposta, per quanto tempo dovrò lavorare con Reynik?» «Tre settimane.» «Tre settimane? Ma è assurdo! Nessuno può imparare a maneggiare la
spada in così poco tempo!» «Non ti sto chiedendo di fare di lui uno spadaccino provetto. Voglio soltanto che tu modifichi il suo stile di combattimento quanto basta perché non si faccia identificare immediatamente come soldato. Inoltre, non avrai tutta la giornata, perché dovrà frequentare anche altre lezioni.» Serrius sospirò. «Forse non è un male che abbiamo solo tre settimane. Per allora dovrei sapere se sarò in grado di tollerare questo cambiamento. C'è un compenso ragionevole, suppongo.» «Posso garantirti che la Tesoreria Imperiale sarà generosa» rispose Femke senza dare mostra del giubilo che provava dentro di sé. «La missione è importante, perciò l'Imperatore non intende badare a spese.» «Benissimo. Allora è necessario che iniziamo subito, Reynik. Vieni con me.» Serrius indicò a Reynik la porta che dava sulla stanza vuota con gli specchi alle pareti. «Verrò a prenderlo alla seconda campana del pomeriggio, Serrius. E poi te lo riporterò alla settima campana per un'altra seduta. Va bene?» «Posso scegliere?» «No» gli sorrise Femke soddisfatta «ma pensavo che fosse meglio chiedertelo educatamente.» Serrius mandò uno sbuffo divertito e fece strada a Reynik. Femke guardò la porta chiudersi alle loro spalle. Sollevò silenziosamente il bicchiere in segno di saluto verso la porta chiusa, prima di girarsi e di tornare verso l'ingresso. Aneki la stava aspettando. La accompagnò alla porta e la ringraziò garbatamente per la sua visita. La ragazza ritornò risoluta al centro della città. C'erano tante cose da organizzare e così poco tempo per farlo! La sua prima visita dalla sarta, Rikala. La robusta donnina fu professionale come al solito. Rikala aveva conosciuto Femke solamente nelle sembianze dell'altezzosa Lady Alyssa, ma fu chiaro dalla sua espressione che l'aveva subito riconosciuta. Femke ne rimase colpita. Non c'erano molte persone capaci di guardare una giovane donna con gli stivali, una gonna di cuoio che le arrivava a mezza coscia e una semplice camicia senza colletto, e di riconoscervi la giovane lady viziata che vi si nascondeva sotto. Evidentemente, Rikala era il tipo che nota i minimi dettagli. Femke prese mentalmente nota di questa piccola informazione. Se avesse avuto a che fare con la sarta in futuro, era evidente che avrebbe potuto farlo solo come Lady Alyssa, se non voleva che la sua professione venisse scoperta. Se la sarta fu sorpresa dall'arrivo di Femke, o dai suoi modi, non lo diede
a vedere. Tuttavia, inarcò un sopracciglio con fare interrogativo mentre la squadrava da capo a piedi. «Dove ha preso quegli abiti, Lady Alyssa?» le domandò senza fare alcun tentativo di nascondere il proprio disprezzo per la loro fattura, mentre tastava la cucitura sulla manica di Femke. «Le preparerò gli abiti che desidera per il giovanotto, ma mi pare che dovrei cucirne qualcuno anche per lei. Qualunque sia l'aspetto che vuole assumere, non ci sono scuse per queste cuciture scadenti. E a giudicare da questo ricamo, la sua sarta non è degna di questo nome. Mi porti qui il ragazzo domattina all'ottava ora per le misure. Dovrei essere in grado di completare il mio lavoro per la fine della settimana.» «Grazie, Rikala. Ah, preferirei che non parlasse a nessuno di questo» rispose Femke guardandosi intorno con fare esageratamente cospiratore. «Non sarebbe un bene per la mia immagine se si venisse a sapere che a volte mi piace venire in città vestita come una persona comune.» «Il suo segreto è al sicuro con me, Lady Alyssa. In realtà, nonostante la qualità indecente di quella camicia, penso che lei mi piaccia di più vestita così. Ed è molto più facile comunicare con lei quando non è così arrogante.» Femke sorrise e se ne andò. Procurarsi una buona serie di coltelli da lancio per Reynik fu piuttosto semplice. Dal momento che le legioni non addestravano i loro soldati al lancio dei coltelli, ci sarebbe voluta parecchia fatica per far sì che Reynik diventasse sufficientemente abile in quest'arte in un così breve arco di tempo, ma sapeva che era essenziale per il personaggio che avrebbe dovuto interpretare. Femke era una bravissima lanciatrice di coltelli, ma non era la migliore. Con una visita al suo amico Derryn si guadagnò un altro insegnante. Derryn era un artista di strada di grande talento e di una certa età, che per parecchi anni si era procurato da vivere lanciando i coltelli e facendo il giocoliere con ogni sorta di oggetti. Si era esibito in tutto l'Impero Shandese, meravigliando il pubblico con la sua destrezza e la sua precisione ovunque andasse. Ormai preferiva rimanere a Shandrim. Ma come per tutti gli spettacoli, dopo averlo visto un paio di volte, la gente non era più così generosa. Un guadagno supplementare, da qualunque parte provenisse, era sempre benvenuto, perciò fu molto contento di avere un lavoro temporaneo e ben remunerato di insegnante. Femke dispose che desse lezioni a Reynik tutti i giorni.
C'erano così tante tecniche che un bravo Assassino doveva padroneggiare, che era impossibile pensare a tutte. Idealmente, Reynik avrebbe dovuto diventare un tiratore scelto con la balestra. Non tutti gli Assassini usavano quest'arma, ma era convinzione comune che, nel caso di un bersaglio molto ben protetto, a volte era necessario uccidere da lontano. Femke era abbastanza realistica da sapere che non avevano tempo a sufficienza perché Reynik raggiungesse un livello convincente di abilità in questa disciplina. Detto questo, rimaneva da decidere se fosse opportuno tentare di migliorare le sue capacità con quest'arma. Sicuramente ne aveva già usata una, dato che tutti i legionari venivano addestrati a farlo. Le balestre venivano assegnate ai soldati di guardia, per cui doveva averne una certa esperienza. Alla fine, Femke decise che avrebbero dovuto lasciar perdere la balestra a favore di tecniche più importanti, come il muoversi furtivamente, la capacità di forzare serrature e la conoscenza dei veleni. Lei era esperta in tutte e tre le cose e sulle prime pensò che, per limitare il numero di persone coinvolte nell'addestramento di Reynik, avrebbe fatto meglio a occuparsi personalmente del suo addestramento in questi campi. Ma dopo averci riflettuto a lungo, cambiò idea e si rivolse a un ultimo insegnante. Attualmente in città c'era una compagnia di attori coi quali aveva recitato nel corso di una passata missione. Allora il nome che aveva usato come copertura era stato Dana. Femke era stata accettata nella compagnia come favore personale a Lord Ferrand, il suo vecchio maestro. Il capo della compagnia era un tipo appariscente di nome Devarusso, noto per la sua parlantina sciolta e per il suo modo esagerato di gesticolare. Era passato un po' di tempo dall'ultima volta che Femke l'aveva visto, ma si erano separati amichevolmente, e Devarusso era un vecchio amico di Ferrand, perciò Femke era sicura che l'avrebbe aiutata ancora. Ciò che la maggior parte della gente non sapeva era che, sotto l'appariscente facciata pubblica dell'attore, quell'uomo era in realtà fine e misurato. Femke sapeva per esperienza che Devarusso sarebbe stato per Reynik un ottimo maestro. Imparare a muoversi con la destrezza di un attore avrebbe aiutato il legionario a celare il proprio passato militare e ad agire furtivamente. Lord Ferrand aveva il massimo rispetto per la bravura d'attore di Devarusso, ma si era anche premurato di raccomandare a Femke di non metterlo mai a parte dei suoi segreti. Da tempo Femke sapeva che Ferrand era un ottimo giudice di caratteri e, dopo aver passato diversi mesi con la compagnia di Devarusso, aveva constatato che il giudizio del suo maestro era sta-
to ancora una volta esatto. Devarusso sapeva essere un terribile pettegolo. Era possibile evitare che questo diventasse un problema, ma di certo complicava un po' le cose. «Dana! Che piacere rivederti, mia cara! Vieni, vieni. Guarda, stavo proprio preparando un po' di dahl. Prendine una tazza. Ti prego, dimmi che hai deciso di unirti nuovamente a noi. Ho un ruolo che sarebbe ideale per te. Ah, meraviglioso! Saresti una perfetta Camilla!» Il volto espressivo di Devarusso era raggiante. Versò una seconda tazza di dahl fumante e glielo porse con grande affettazione. Per un attimo l'idea di essere di nuovo sul palco con Devarusso e gli altri attori la allettò, ma la ragazza sapeva che non era possibile. «Mi dispiace, Devarusso» gli rispose senza bisogno di fingersi rammaricata. «Non sono qui per riunirmi alla compagnia. Sono qui per una persona.» Per un attimo la faccia di Devarusso manifestò tutta la sua delusione, ma subito ritrovò la consueta compostezza. «Ma certo, mia cara. Parlami della tua amica. Vorrebbe recitare?» Femke gli fece un sorriso affettuoso. «No, è un lui, e non vuole recitare, però ha bisogno di imparare a mascherare certe sue abitudini.» Abbassò la voce e assunse un tono da cospiratrice. «Lui ha... ecco... ha lasciato la legione un po' prima del dovuto e ora deve imparare a nascondere il suo passato militare. Non mi viene in mente una persona migliore di te per insegnargli a modificare il suo portamento.» «Dana, dimmi, quanto prima ha lasciato la legione, il tuo amico?» domandò Devarusso sollevando con fare interrogativo una delle sopracciglia nere così arcuate. «Ecco, diciamo tra i venticinque e i trenta... anni prima, direi» rispose lei imbarazzata e con un sorriso di scusa. Devarusso tossì per il dahl che gli andava di traverso non appena si rese conto cosa esattamente lei gli stesse chiedendo di fare. Femke non distolse lo sguardo. Gli impressionanti occhi azzurri dell'attore davano sul viola, e i suoi lineamenti regolari e i capelli nerissimi e ondulati ne facevano il perfetto eroe scapestrato di ogni commedia. Aveva le spalle ampie ed era così arditamente bello da far battere il cuore a ogni ragazza, ma Femke conosceva il suo segreto: il vero Devarusso era un uomo che amava gli uomini. Era un attore consumato, ma sebbene fosse riuscito a nascondere la sua inclinazione al resto della compagnia, non l'aveva potuta celare a lei. Femke era stata addestrata a osservare i comportamenti e a guardare sotto la su-
perficie. «Dana, lo sai che sono un uomo molto impegnato. Tu, più di chiunque altro, sai quanta fatica richieda affinare le nostre produzioni» obiettò Devarusso con le parole che gli uscivano di bocca come un torrente in piena. «E poi le autorità chiuderebbero la compagnia e mi impiccherebbero se lo venissero a sapere. Tutto il mio duro lavoro crollerebbe in polvere in un istante, e per cosa? No, non potrei sopportarlo. È impossibile, Dana, mi dispiace.» Femke gli scoccò il suo miglior sguardo da cucciolo indifeso. Gli occhi le si riempirono a comando di lacrime mentre si stringeva le ginocchia con le mani fino a far diventare bianche le nocche. A giudicare dall'effetto che ebbe su di lui, non aveva perso nessuna delle sue capacità di attrice. «E questo giovanotto è... speciale, non è così?» volle sapere Devarusso mentre si torceva le dita a disagio. «Più di quanto tu non immagini, Devarusso» gli rispose con fervore. «Ti prego. Mi serve davvero il tuo aiuto per un po' di tempo, per dare lezioni al mio amico. Non ti chiedo di accoglierlo e nasconderlo. Voglio solo che gli insegni a muoversi in modo da camuffare il suo addestramento militare. Ha tre settimane di tempo per diventare convincente. Puoi aiutarlo in questo periodo? Verrebbe da te solo un paio d'ore al giorno. Ti posso pagare. Abbiamo dei soldi da parte. Ti posso dare quattro sen al giorno. Che ne dici?» Devarusso aggrottò la fronte pensieroso, poi fece un gran sospiro. «Tre settimane non è un periodo lungo e tuttavia può sembrare una vita per chi cerchi di mantenere un segreto del genere. Immagino che dovrei esserti grato per non avermi chiesto di più. Dana, se il tuo amico intende lasciare la legione, o l'ha già fatto, sai che rischierei tutto, se venissi coinvolto. Aiutare un disertore è un crimine grave.» «Lo so, ma non ho nessun altro a cui rivolgermi» rispose lei spremendo una lacrima che fece colare lungo la guancia. «Sei sempre stato così buono con me, quando ero nella tua compagnia. Sono venuta da te perché sapevo di potermi fidare. E poi, sei il miglior maestro che io conosca. Sono certa che tu potresti riuscirci senza farti scoprire.» L'adulazione funzionava sempre con Devarusso. Femke lo manovrò come uno strumento, toccando ogni corda con tanta bravura che lui non poté fare a meno di suonare alla sua musica. Era un tipo arrendevole, ormai era quasi fatta. «Se dovessi decidere per il sì, sarebbe meglio tenere le lezioni al mattino
presto» rispose lui quasi riflettendo ad alta voce. "Eccolo che cede" pensò lei. "Come previsto." «Difficilmente la compagnia si sveglia di buon'ora, dopo lo spettacolo della sera, perciò potrei trovare un po' di tempo per lui. Se non attiriamo l'attenzione su di noi, non dovremmo correre troppi rischi. Il tuo amico sarebbe disponibile al mattino presto?» «Certamente.» «Benissimo, Dana. Lo farò, ma non voglio rubarvi tutti i vostri soldi. Darò lezioni al tuo amico per due sen al giorno. Ma ti prego, non farne parola con nessuno. Fai venire qui il tuo amico tutte le mattine all'alba, farò quello che posso. Ho un debole per le storie strappalacrime, ma immagino che tu lo sapessi già, non è vero?» Femke non rispose, si limitò a un sorriso di gratitudine e poi si asciugò gli occhi con il fazzoletto. «E ora che ci siamo messi d'accordo su questa faccenda» aggiunse Devarusso «raccontami un po' che cosa combini. Come sta il mio vecchio amico Ferrand? Sono secoli che non lo vedo. Un tempo veniva regolarmente ai nostri spettacoli. Ho perso favore ai suoi occhi per qualche ragione?» Femke non si aspettava di dover rispondere a domande sul suo vecchio mentore, ma non ebbe bisogno di ricorrere alle sue doti di attrice per manifestare le proprie emozioni. Il solo pensiero di Ferrand, che lei considerava un genitore più del suo vero padre, minacciava di farle versare altre lacrime. Le aveva dato così tanto: non in beni materiali, perché lei non era mai stata il tipo cui interessava accumulare ricchezze. I doni che le aveva fatto erano la conoscenza, l'abilità e l'esperienza, tutte insegnate con una dolcezza che non aveva mai conosciuto nei suoi veri genitori. Ferrand le aveva mostrato che cosa significasse essere una spia. L'aveva condotta lungo il labirinto morale della professione in modo tale da farle acquisire una sicurezza e una risolutezza incrollabili. Le aveva fornito le basi su cui poi lei aveva costruito la sua carriera, il suo senso morale e la sua personalità. Per lei era ancora difficile accettare la sua perdita. Femke aveva sempre creduto che sarebbe riuscita a scoprire ogni cosa se avesse avuto abbastanza tempo, ma cercando di dipanare il mistero che avvolgeva la scomparsa di Ferrand si era imbattuta nel nulla più assoluto. «Non c'è più, Devarusso. È scomparso da oltre due anni, ormai. Nessuno sa che cosa ne sia stato di lui; una notte è sparito e non ha più fatto ritorno. Penso che sia morto, perché altrimenti mi avrebbe dato sue notizie.» «Oh, che tristezza!» rispose l'attore con una voce piena di compassione.
«È sempre stato un grande sostenitore delle arti. Mi è difficile credere che abbia lasciato questo mondo. Era il tipo di persona che ti immagini viva per sempre. Ma se lui non c'è più, tu che cosa fai adesso? Lavori? Sai che sarai sempre la benvenuta, se deciderai di tornare a recitare con noi.» Femke annuì e mormorò qualche parola di ringraziamento. Devarusso era un animo nobile, sebbene lei sapesse che la sua offerta non era dettata da mera generosità. Recitare era una cosa che le riusciva bene. Devarusso aveva sempre parti in serbo per i bravi attori. Il tempo stringeva. Era già ora di andare ad accompagnare Reynik all'attività successiva. Dopo un altro breve scambio di complimenti con l'attore, si scusò e si avviò verso la casa del gladiatore. Aneki le aprì la porta con un sorriso educato e l'accompagnò nella stanza con gli specchi, dove Serrius e Reynik stavano completando in silenzio una serie di esercizi di ginnastica. Fu interessante starli a osservare, mentre finivano. Se Serrius si muoveva in maniera fluida e aggraziata, Reynik appariva impacciato e rigido, ma al tempo stesso ben addestrato. Il perfetto equilibrio e la padronanza di sé del gladiatore contrastavano nettamente con le leggere esitazioni del giovane legionario. Femke, però, vide che Reynik appariva oltremodo composto, se si considerava che era alla fine di una seduta di addestramento durata quattro ore. «Voglio rivederti questa sera, Reynik. Pensa agli schemi che ti ho insegnato e vedi di non fare tardi. Non mi piace stare ad aspettare.» Reynik lo ringraziò per il tempo che gli aveva dedicato e seguì Femke fuori casa. Lei non gli chiese nulla e si limitò a guidarlo in silenzio per le strade che conducevano al centro della città. I venditori ambulanti avevano perso parte del brio del mattino. Le voci che invitavano i passanti erano ancora alte, ma senza l'interesse e la vitalità che avevano mostrato in precedenza. «Fame?» chiese Femke quando sentì lo stomaco di Reynik brontolare forte. «Sto morendo.» «Che cosa vorresti mangiare?» «Qualcosa di caldo ma non troppo saporito. Femke lo portò a una bancarella e gli ordinò una grossa porzione di carne al sugo avvolta in pane azzimo. Reynik borbottò un ringraziamento e morse il gustoso panino sporgendosi in avanti per non farsi colare il sugo bollente sui vestiti.» «Mmm!» borbottò a bocca piena. «Squisito.»
Si allontanarono dalla bancarella e proseguirono per una strada secondaria. Qualche minuto dopo Femke si fermò davanti a una spoglia porta di legno. Reynik, che si stava ancora leccando le dita dopo aver mangiato in fretta e furia, le rivolse uno sguardo interrogativo. «Devi entrare» gli disse lei, facendogli segno di passarle avanti. «Non dovremmo bussare?» «Puoi farlo, se vuoi, ma non ti risponderà nessuno. È una delle mie "case sicure".» Reynik sorrise e fece per aprire la porta. Era chiusa a chiave. Si voltò e guardò Femke con aria incerta. «A quanto pare ti sei ricordata di chiudere a chiave. La chiave dov'è?» le chiese. «Non lo so. Non ricordo di averne mai avuta una, di questa casa.» «E allora come facciamo a entrare?» Femke gli rivolse un sorriso sbarazzino. «Usa l'ingegno» gli rispose. «Ma non fare rumore. Non vorrei che disturbassi i vicini.» Reynik annuì. Femke lo osservò divertita mentre si guardava furtivamente attorno per vedere se qualcuno li stesse osservando, prima di iniziare a perlustrare in modo rapido ma approfondito tutto ciò che stava intorno alla porta per controllare se non vi fosse una chiave nascosta da qualche parte. Era consapevole che si trattava di una prova e non era certo che lei gli avesse detto la verità. "Ottimo" pensò lei. "Questa sarà una lezione che non avrò bisogno di insegnargli." La sua prima ricerca fu infruttuosa, così passò alle finestre. Dopo qualche istante, scoprì che uno dei ganci di una finestra era lento e iniziò a scuoterlo piano per cercare di farlo cedere. Dato che questo sistema non funzionava, prese il pugnale che portava alla cintura e cercò di forzare la finestra. Ma il paletto non ne volle sapere di cedere. Per quanto Reynik facesse leva, non mollava. Dopo qualche minuto di tentativi, cedette quel tanto perché Reynik potesse inserirvi la punta del pugnale e sollevarlo. Con uno sguardo di trionfo si voltò verso Femke e le fece cenno di entrare. «Oh ti prego, dopo di te» gli rispose lei con garbo. «Benissimo» fece lui. Con un'altra rapida occhiata su e giù per la strada, per verificare che nessuno li stesse guardando, appoggiò le mani sul davanzale, che gli arrivava al petto, e fece un salto, finché non si trovò con la testa all'interno e le gambe penzoloni. Rimanendo appoggiato sullo stomaco, introdusse le mani per togliere eventuali oggetti fragili dal davanzale interno, quindi, si spinse in avanti ruotando su se stesso e iniziò a scivolare
all'interno. Aveva ormai superato il punto di non ritorno quando si rese conto che la distanza che separava il davanzale dal pavimento era tale che non sarebbe mai riuscito a calarsi fino a toccare il pavimento senza perdere il controllo. Era troppo tardi per tirarsi indietro, così, aiutandosi col peso del corpo, si slanciò con le gambe oltre la finestra e cadde a terra in maniera scomposta. Mentre si rimetteva in piedi all'altro lato dalla stanza, Reynik sentì un leggero battimani. Là c'era Femke, che lo osservava con un largo sorriso sulla faccia. «Sono colpita. Ben fatto» gli disse con la voce che trasudava sarcasmo. «Per lo meno non hai rotto nessuno dei miei soprammobili.» «Ma non mi avevi detto che non avevi la chiave?» «Non ce l'ho.» «E allora, come...?» «Ci sono anche altri modi di aprire le porte chiuse a chiave, sai. Vieni. Chiudi quella finestra e ti insegnerò a forzare una serratura. Dato il tuo notevole sfoggio di grazia e agilità, forse questo ti eviterà di essere beccato in una situazione compromettente.»
Capitolo sei «Dove sei stato? Il caposquadra schiuma di rabbia. Dovevi essere di ritorno ore fa. Reynik guardò Tymm con aria stanca. Il suo commilitone lo stava evidentemente aspettando e gli parlava a voce bassa per non farsi sentire dalla tenda, a qualche metro di distanza. Reynik scrollò le spalle.» Non posso dirtelo. Obbedivo agli ordini dell'Imperatore. Non posso aggiungere altro. «Be', spero per il tuo bene che ti sia permesso dire a Sidis qualcosa di più, oppure ti ritroverai di nuovo di servizio alle latrine per un mese. È chiaro che ce l'ha con te, perciò è meglio che tu abbia una risposta pronta.» Reynik annuì. Non era proprio quello che gli ci voleva dopo una logorante giornata di esercitazione, ma sapeva che quello era un confronto che non poteva evitare. Qualunque cosa avesse detto, Sidis non ne sarebbe stato soddisfatto. Il caposquadra sembrava essersi messo d'impegno per ren-
dere la sua vita nella legione un inferno. Non c'era da sperare che questa sua nuova missione avrebbe migliorato il loro rapporto. Il contrasto con Sidis non era la preoccupazione maggiore di Reynik. Se in precedenza il suo incarico speciale di scorta aveva provocato un certo risentimento fra i suoi compagni, molto probabilmente questa seconda missione speciale avrebbe suscitato aperta ostilità. Se avessero saputo dell'estrema pericolosità di questo compito, magari qualcuno sarebbe anche stato tollerante, ma gli altri li conosceva bene. Pur senza sapere quello che stava facendo, ognuno di loro si sarebbe convinto che avrebbe potuto essere il prescelto al posto suo. Data la natura estremamente riservata di questo incarico, non poteva raccontare a nessuno, nemmeno al Comandante, quello che stava facendo. E questo non lo avrebbe certo aiutato a cavarsela, con la gerarchia interna della legione. L'unica sua speranza era che gli ordini impartiti dall'Imperatore scendessero la catena di comando abbastanza in fretta da non farlo arrivare in ritardo al suo prossimo appuntamento con Femke, l'indomani mattina. Il programma di addestramento che la ragazza aveva elaborato era entusiasmante. In una sola seduta con Serrius, Reynik aveva appreso più cose sull'importanza del portamento, dell'equilibrio e della posizione nel combattimento con la spada di quante non ne avesse imparate in due anni di addestramento da legionario. «Grazie di avermi avvisato, Tymm. Ora vado a parlare con Sidis. Domani mattina dovrò andare di nuovo via, perciò è meglio che sbrighi subito questa faccenda.» «Ascolta, Reynik, non so che cosa stia succedendo, ma se hai bisogno di aiuto, conta pure su di me.» «Ti ringrazio. Mi dispiace di non poterti dire di più in questo momento, Tymm. Forse un giorno...» Strinse il braccio dell'amico e lo guardò negli occhi, sforzandosi di esprimere con lo sguardo la riconoscenza che provava per la sua comprensione. Tymm ricambiò la stretta. «Cercherò di tenerti alla larga i lupi, Reynik, ma se vuoi essere accettato nel gruppo, dovrai correre con loro. Ora che ti sei inimicato Nelek e Sidis, per te sarà sempre più difficile ambientarti, se continui a passare tempo fuori.» Reynik annuì ancora. Con un sospiro risoluto, oltrepassò la tenda che ospitava la sua squadra e proseguì su per il sentiero, in direzione delle tende dei capisquadra. Come prevedeva, Sidis non rimase per nulla impressionato.
«Segreto!» esplose. «Che cosa intendi per segreto?» Reynik trasalì. Dopo quello scoppio, di sicuro gli orecchi di tutte le spie nel giro di mezzo miglio si sarebbero drizzati. Senza dubbio in quel momento stavano convergendo tutte lì per scoprire di che cosa stesse parlando Sidis. «Le chiedo scusa, caposquadra, ma potrebbero esserci spie qui in giro...» «Non ci sono spie, qui!» sibilò questi di rimando, ma abbassò comunque la voce. Gli occhi di Sidis bruciavano di rabbia. «Così ti sei messo in testa di diventare il cocco dell'Imperatore, vero? Be', a me non me ne frega niente, Reynik. Se pensi di ricevere un trattamento speciale in questa legione solo perché sei il preferito dell'Imperatore, mi spiace dirtelo, ma ti sbagli. Finché non riceverò ordini dal Comandante, tu dovrai seguire lo stesso addestramento degli altri. Non accetto ordini da un pivellino come te, e non ammetterò alcuna insubordinazione. Domattina tu te ne andrai in parata come tutti gli altri, altrimenti userò le tue budella come esche per topi.» Reynik sostenne risoluto lo sguardo velenoso del caposquadra. «No» ribatté semplicemente. «Non ci verrò.» Per un attimo, il giovane pensò che al caposquadra sarebbero schizzati gli occhi fuori dalle orbite. Se la sua situazione non fosse stata così miserevole, sarebbe perfino stata comica. Non avrebbe voluto arrivare a questo punto, ma ormai non aveva scelta. «Devo chiederle di venire con me dal Comandante, caposquadra. Ho ricevuto ordini direttamente dall'Imperatore. Lui vuole che io sia in città domattina alle prime luci dell'alba. La notte è già fonda e ho bisogno di essere in forma, se domani voglio svolgere i miei compiti. È una faccenda che dobbiamo risolvere subito.» «Va bene, andremo dal Comandante» borbottò il caposquadra «ma sia chiaro: sei tu che stai seguendo me, sfrontato piccolo bastardo.» Reynik ignorò l'insulto. Non valeva la pena rispondere. Invece, si scostò di lato e lasciò che il caposquadra gli facesse strada fino alla tenda del Comandante. Era tardi per disturbare il superiore, ma Sidis era talmente furioso che aveva dimenticato il protocollo. Reynik rimase fuori, mentre il caposquadra parlava con il Comandante, ma riuscì a sentire ogni parola. «Sì, Sidis, sono stato informato degli ordini superiori riguardo il legionario Reynik. Li ho ricevuti questa sera a tarda ora. Tuttavia, a differenza tua, a quanto pare, io ho un certo rispetto per il riposo degli altri. Intendevo informarti dell'autorizzazione alla sua assenza, domattina, ma dal momento che sei qui, fino a nuovo ordine considera il legionario Reynik autorizzato
ad andare e venire a suo piacimento per soddisfare gli ordini ricevuti dall'Imperatore. E ora vattene a dormire, caposquadra.» Reynik sussultò nel sentire il tono del Comandante. Non gli sarebbe piaciuto ricevere un commiato così acido. Se prima aveva una minima speranza di riconciliarsi con Sidis, ora era svanita. Quello era un momento che il caposquadra non avrebbe dimenticato. Di sicuro, avrebbe pensato che era tutta colpa di Reynik. Sidis non lo degnò nemmeno di uno sguardo, mentre si allontanava a passi pesanti. «Hai sentito quello che ha detto il Comandante» sibilò con un ringhio velenoso mentre scompariva nella notte. «Vattene!» Reynik se ne andò a letto con un senso di oppressione. Quando sgattaiolò nella tenda, la maggior parte degli uomini dormiva già. Tymm si sollevò puntellandosi sul gomito e rivolse a Reynik uno sguardo interrogativo, ma questi portò un dito alle labbra e scosse il capo. Non voleva rischiare di svegliare gli altri. Era confortante avere ancora un amico, lì, ma sapeva che quest'ultima missione gli avrebbe rivoltato contro la maggior parte dei suoi commilitoni. Sdraiato sulla sua brandina, si domandava in che guaio si fosse ficcato. In fondo, tutto quello che voleva era un posto nelle legioni e la possibilità di emulare i suoi antenati. Il sogno della sua vita era sempre stato quello di avere una soddisfacente carriera di soldato. Desiderava così tanto che suo padre fosse orgoglioso di lui! E ora, invece, senza neanche sapere come, si era trovato invischiato in eventi che lo stavano allontanando da quel posto tanto sudato nella più prestigiosa delle legioni. Se non fosse stato attento, presto per lui sarebbe stato impossibile farvi ritorno. Che cos'avrebbe pensato la sua famiglia se le autorità lo avessero catturato e lo avessero accusato di essere un Assassino? O se lo avessero ritrovato morto in un fiume, ammazzato dalla Corporazione? L'Imperatore avrebbe mai detto loro la verità? Ne dubitava. C'era dentro fino al collo, di questo era certo. Non fu una bella notte. Il suo fu un sonno inquieto e leggero, con sogni spezzettati in cui da cacciatore diventava preda e da Assassino vittima. E in tutti i sogni, gli sembrava di vedere un mare di facce accusatrici che lo fissavano. Si svegliò prima dell'alba e si alzò. Si sentiva indolenzito e più stanco di quando era andato a dormire. Si vestì in silenzio e uscì per recarsi a Palazzo. Le sentinelle del Palazzo Imperiale lo lasciarono andare senza domande quando esibì il lasciapassare che gli aveva procurato Femke. Raggiunse senza indugio le stanze della ragazza. Lei rispose subito al suo discreto
colpetto alla porta e gli indicò con un cenno di indossare gli abiti che gli aveva già preparato sul letto. Erano perfetti. «Dove sono i vestiti che avevo ieri?» le domandò una volta che si fu cambiato. «Il personale di Palazzo te li sta lavando. Hai sudato un bel po', con Serrius, perciò ho pensato che oggi ti avrebbe fatto piacere indossare qualcosa di pulito. Questi li ho presi dal magazzino, ma oggi all'ottava campana andrai da una sarta a farti prendere le misure per degli abiti nuovi.» Femke scorse le occhiaie scure sul viso di Reynik e per un attimo si domandò se non fosse opportuno chiedere che venisse autorizzato a lasciare la legione per la durata dell'incarico. Se non avesse dovuto ritornare a piedi all'accampamento per poi lasciarlo ogni mattina, le sue giornate sarebbero state un po' meno pesanti. Sapeva che era un soldato devoto e non voleva rendergli le cose più difficili di quanto già non fossero. Un po' di stanchezza era inevitabile i primi giorni, finché il suo corpo non si fosse abituato alle nuove abitudini. Decise di non fare nulla, per il momento, ma di tenere d'occhio la sua salute per essere sicura che non peggiorasse. Sarebbe dovuto essere al massimo della forma per la missione che lo aspettava. «E fino ad allora, che facciamo?» chiese Reynik. «Dovrai imparare uno degli elementi chiave del travestimento. Andremo a trovare un mio vecchio amico che ti insegnerà qualcosa dell'arte di recitare.» «Recitare? Nel senso di fare finta?» «Se ti piace metterla così» rispose Femke, chiaramente divertita dall'uso di questa espressione infantile. «Solo, fai in modo che Devarusso non ti senta parlare così. Per lui, recitare è la suprema delle arti. È un maestro in questo campo, perciò vedi di osservarlo attentamente e ascolta quello che ha da dirti. Sarà una lezione breve, questa mattina, perché hai le prove dalla sarta, ma nel prossimo futuro sarai da Devarusso dall'alba fino all'ora nona, poi da Serrius dalla decima fino alla seconda del pomeriggio. Quindi avrai lezione di lancio di coltelli con un uomo di nome Derryn dalla terza chiamata alla quarta, un misto di lezioni con me dalla quarta alla settima e poi una seduta più breve con Serrius, di nuovo in serata, dalla settima chiamata alla nona. Ti verrò a prendere da Derryn e farò in modo che tu arrivi in tempo da Serrius la sera.» «E quando mangio?» domandò lui preso alla sprovvista dal programma quotidiano. «Ti suggerirei di procurarti del cibo come e quando puoi mentre sei per
strada fra una lezione e l'altra. Hai un mucchio di cose da imparare, Reynik, e non hai abbastanza tempo per fare tutto. Il programma varierà nel corso delle prossime settimane. Ho pensato che fosse meglio cominciare concentrandoci sull'uso della spada, ma più avanti apporteremo qualche modifica all'orario di lavoro, visto che probabilmente dovrai ricorrere all'astuzia più che all'uso delle armi quando daremo il via alla missione.» Femke lo condusse fuori dal Palazzo e lo accompagnò fino al teatro in cui la compagnia di Devarusso era attualmente impegnata. Sul retro dell'edificio, c'era l'area in cui le varie compagnie parcheggiavano i loro carrozzoni. Quello di Devarusso era un po' distaccato dagli altri, come voleva la tradizione per il capocomico. Non appena ebbe bussato, la porta del carrozzone dai colori vivaci si spalancò e ne uscì l'attore. Valutò Reynik con uno sguardo e gli fece cenno di seguirlo. In silenzio, Devarusso li condusse sul retro del teatro e, aperta la porta con una chiave d'ottone che teneva nel taschino, li fece entrare. Il retropalco era sorprendentemente luminoso. Una fila di finestre lasciava entrare i raggi del sole appena sorto e inondava il vasto ambiente di luce. Nonostante le dimensioni, la stanza sembrava piccola, ingombra com'era di tutta una serie di arredi scenici e rastrelliere cariche di costumi sgargianti di ogni foggia e colore. Reynik era affascinato e non sapeva da che parte cominciare a guardare, dato che ogni cosa attirava la sua attenzione. Ma non ebbe modo di cedere alla curiosità per più di un paio di secondi, perché Devarusso li fece passare dalle quinte e li portò sul palcoscenico. Le file di panche disposte a semicerchio di fronte al palco diedero a Reynik uno strano senso di claustrofobia. Era come trovarsi in trappola senza avere la possibilità di fuggire. Gli diede un brivido pensare a come si sarebbe sentito se tutte quelle file di posti a sedere fossero state piene di persone che lo guardavano, tutte concentrate su di lui. «È meglio che oggi io stia ad aspettarlo qui, Devarusso. Possiamo fermarci solo tre quarti d'ora. Ha un appuntamento con una sarta all'ottava campana.» L'attore annuì. «Benissimo» rispose. «Dovrebbe bastarmi per capire con chi devo lavorare.» Femke scese dal palco con un balzo, si andò a sedere in una delle prime file e rimase a osservare Devarusso che girava attorno a Reynik, guardandolo pensieroso. «Salve Devarusso, sono...»
«Niente nomi!» lo interruppe secco l'attore. «Quello che non so, non lo posso ripetere. Il nostro non è un accordo che mi entusiasmi, ma Dana è una vecchia amica. Ti aiuterò per amor suo e spero che sarete felici insieme.» Reynik scoccò un'occhiata a Femke, chiedendosi cosa mai la ragazza gli avesse raccontato di lui. Probabilmente era un'altra delle sue prove, si disse. Avrebbe dovuto parlare il meno possibile, cercando di non compromettere la storia che lei aveva inventato. Certo, non avere idea di chi fosse Dana né del perché lui mettesse così a disagio Devarusso non lo aiutava. «Attraversa il palcoscenico, voglio guardarti camminare» gli ordinò Devarusso. Reynik fece come gli era stato detto. «E adesso torna indietro.» L'attore annuì mentre studiava Reynik. «E ora vediamo quanto sei osservatore. Attraversa un'altra volta il palco, ma questa volta voglio che tu immagini di essere un mendicante. Non mangi da giorni e stai disperatamente cercando del cibo.» Reynik chiuse gli occhi per un secondo e cercò di immaginare un mendicante che cammina. Fu più difficile di quanto credesse, perché la maggior parte dei mendicanti che gli venivano in mente se ne stavano seduti ai bordi della strada con la mano tesa. Ne aveva mai visto qualcuno camminare? Come si muovevano? Cercando di immaginare che cosa volesse dire essere come l'uomo descritto da Devarusso, attraversò il palco. «Bontà di Shand, figliolo! Ti hanno infilato un bastone dietro la camicia? Giù quella schiena, ragazzo, giù quella schiena. Un mendicante non se ne va tutto impettito. Incurva le spalle. Ora abbandonati, di più... di più! Ecco, così. No, non sollevare i piedi... trascinali. Non hai l'energia di sollevarli. Così va meglio.» Alla fine di quella breve seduta, Reynik era più dolorante che se avesse maneggiato una spada per tutto il tempo. Sentiva fitte sorde in muscoli che nemmeno sapeva di avere. Non riusciva a capire come mai, visto che non aveva fatto altro che camminare su e giù per il palco per neanche un'ora. Una volta lasciato il teatro, domandò a Femke che storia avesse raccontato all'attore, chi fosse Dana e altre notizie su Devarusso. Non gli piacque granché l'idea di essere considerato un disertore, ma tanto non gli piaceva nemmeno l'idea di essere considerato un Assassino. Rikala fu professionale come al solito. Rigirò Reynik da tutte le parti per prendergli una serie di misure. Braccia davanti, braccia di lato, seduto e in
piedi. Reynik finì per chiedersi cosa diavolo se ne facesse di tutti quei numeri. Di sicuro fare un vestito non poteva essere una cosa così complicata! La sarta se la sbrigò talmente in fretta con le misure che nel giro di un quarto d'ora li stava già accompagnando alla porta per potersi mettere al lavoro. Così adesso Reynik aveva ancora due ore prima del successivo appuntamento con Serrius. «E adesso?» domandò a Femke. «Adesso approfitti dell'occasione per mangiare, ma non troppo, se non vuoi rischiare di appesantirti per il tuo incontro con Serrius. Mentre andiamo alle bancarelle, discuteremo delle qualità necessarie per la professione che ti sei scelto. A parte quella di uccidere senza scrupoli, quali capacità deve avere un Assassino?» «L'anonimato» rispose subito Reynik. «La capacità di confondersi tra la folla e di uscirne e colpire quando meno ce lo si aspetta.» «Bene. Un ottimo punto di partenza; adesso parliamo dell'arte di travestirsi e di nascondersi.» Per l'ora e mezza seguente, Femke tenne una lezione minuziosa sull'arte di mascherarsi e di ingannare. Reynik aveva già visto Femke presentarsi come un ragazzo durante il loro recente viaggio a Thrandor, perciò si era fatto qualche idea su come modificare il proprio aspetto. Tuttavia, scoprì ben presto che le sue erano solo nozioni superficiali. Femke non limitò la sua lezione al travestimento, perché gli fece notare che c'erano luoghi cui non era possibile accedere mediante un semplice travestimento. Parlarono piuttosto di come ci si può muovere per le strade, a tutte le ore del giorno e della notte, senza farsi notare. Discussero di colori, di sfondi contrastanti, delle differenze nel movimento furtivo di giorno e di notte, e persino di odori. Molte delle cose a cui si riferiva Femke sembravano ovvie quando lei gliele faceva notare, ma in realtà lui non ci aveva mai riflettuto consciamente: il fatto che i rumori, nelle ore notturne, risaltano di più, mentre un movimento improvviso è più evidente alla luce del giorno; il fatto che l'occhio umano sia attratto dal movimento, e che una mossa rapida o a scatti si faccia notare più facilmente che una più lenta. Parlarono dei tre principi di base di nascondersi, confondersi e ingannare, e di come essi si applicassero agli spostamenti all'interno di una città. Inoltre, Femke sollevò la questione del travestimento in campagna e di quando usare strisce o macchie sul volto e del perché funzionano meglio su certi sfondi. Alla fine della sua esposizione, la stima di Reynik per Femke era salita
ancora di più. Durante il loro viaggio a Thrandor si era già reso conto che Femke era brava nel suo lavoro, ma non aveva capito fino in fondo quante conoscenze servissero per diventare spie di successo. C'erano molte specializzazioni che si sovrapponevano, fra il lavoro di spia e quello di Assassino. Ed era chiaro che Femke aveva parecchie cose da insegnargli. Dopo quattro ore con Serrius, Reynik fu più che contento di avere un'ora di pausa. Femke lo accompagnò da un venditore ambulante e gli comprò qualcosa da mangiare, prima di portarlo in uno dei quartieri più poveri della città. Qui gli presentò Derryn, per la lezione di lancio dei coltelli. A un primo sguardo, era impossibile immaginare che Derryn fosse un artista di strada. Aveva il volto serio e coperto di rughe e occhi tristi come se avesse assistito a un'infinità di tragedie. Reynik si era aspettato di incontrare una persona dotata di bel portamento, ma quello che aveva davanti era un vecchio con le spalle curve e una gobba pronunciata. Il volto triste di Derryn si aprì a un sorriso sghembo quando vide l'espressione di Reynik. Era come se il vecchio riuscisse a leggergli nella mente: era quella la persona da cui avrebbe dovuto imparare a lanciare i coltelli? Derryn li condusse attraverso la sua casetta e li portò nel cortile sul retro. Qui Reynik trovò un campo d'allenamento su misura fatto in casa. In tutto il cortile erano sparsi bersagli di ogni forma: bersagli statici di diverse misure, bersagli sospesi su corde in movimento, bersagli che si potevano abbattere e perfino bersagli che scivolavano su funi tese. Ognuno era segnato con un cerchio dipinto di giallo. Su una panca in mezzo al cortile erano appoggiate tre serie di coltelli scintillanti. Ogni serie aveva dimensioni diverse e contava otto lame. Derryn fece cenno a Reynik di prenderne uno. «Avanti» lo esortò con una voce straordinariamente chiara e forte. «Scegli quello che preferisci. Vediamo che cosa sai del lancio di coltelli, tanto per cominciare.» Derryn osservò attentamente Reynik mentre faceva la sua scelta. Il ragazzo prese la lama più pesante, soppesandola fra le mani e annuendo con un segno di apprezzamento mentre ne valutava l'equilibrio. Era ovvio che quei coltelli erano di ottima fattura. «E così, sai già qualcosa del combattimento coi coltelli» commentò Derryn. «Lo tieni proprio come farebbe un lottatore. Adesso vediamo come lo lanci a quell'obbiettivo laggiù» lo esortò indicando il più grande dei bersagli costituiti da balle di fieno. Reynik sollevò la lama per lanciare, ma non arrivò a completare nemmeno metà movimento.
«Fermo!» gli intimò Derryn secco. «Mah, può anche darsi che tu sappia qualcosa di come si combatte con un pugnale, giovanotto, ma di sicuro nessuno ti ha mai insegnato come si fa a lanciarlo. Vieni qui. Guarda, se non hai le mani grandi come pale e i muscoli che ti spuntano dagli orecchi, non puoi tirar bene un coltello di queste dimensioni tenendolo per la punta. I coltelli più grandi vanno sempre tenuti con una presa a martello, così.» Il vecchio prese un altro pugnale della stessa serie di lame, gli mostrò la presa a martello e lo scagliò verso il bersaglio. Lo colpì perfettamente al centro e la lama si conficcò fin quasi al manico. Reynik ne rimase impressionato. Derryn aveva fatto apparire il lancio una cosa semplicissima. «Adesso provaci tu.» Reynik regolò la presa come gli aveva fatto vedere Derryn e lanciò il pugnale con forza, deciso a dimostrare al vecchio di non essere del tutto un incapace. Il pugnale colpì il bersaglio dalla parte del manico, all'incirca mezzo metro sopra e a destra rispetto al centro, e poi ricadde a terra. Le sopracciglia di Derryn si inarcarono leggermente e le sue labbra si strinsero. «Non male» commentò con un altro dei suoi lievi cenni del capo. «Se intendevi prendere a bastonate il tuo bersaglio, questo è stato un buon inizio.» Femke tossì e si mise una mano sulla bocca per nascondere un sorriso divertito. Non ci riuscì. Reynik la guardò storto, seccato dal sarcasmo del vecchio, ma ancora di più perché aveva fatto la figura dello sciocco davanti a Femke. «Che cosa cambieresti del tuo modo di lanciare la prossima volta per colpire di punta?» gli domandò Derryn. Reynik ci rifletté su un momento. «Arretrerei di un metro circa» rispose. «Oppure avanzerei» aggiunse in fretta. «Potrebbe funzionare» ammise il vecchio. «Ma diciamo che questa opzione non è possibile. Devi lanciare rimanendo nello stesso punto. Che cos'altro potresti fare?» «Cambiare la presa?» propose Reynik incerto. «Bene. In che modo?» «Be', la lama ha fatto una rotazione e mezza, perciò potrei provare a rallentare la rotazione, oppure ad accelerarla. Non lo so con certezza, ma se dovessi tirare a indovinare, direi che tenere il coltello più vicino all'estremità del manico accelererebbe la rotazione, mentre tenerlo più vicino al centro la rallenterebbe.»
«Quale delle due cose sceglieresti?» Reynik rifletté attentamente. «Rallenterei la rotazione, in modo che la punta sia rivolta verso il bersaglio più a lungo. Avrebbe più possibilità di conficcarsi.» «Ottimo! Puoi lasciarci soli, Femke. Forse mi hai portato un pivellino, ma per lo meno è intelligente. Riuscirò a combinare qualcosa di buono con lui. Quanto diventerà bravo rimane ancora da vedere, ma sono contento di lavorarci insieme.» Questa volta, il sorriso di Femke fu più ampio. La ragazza fece un inchino a Derryn, si voltò e se ne andò. Un'ora dopo fu di ritorno e vide che Reynik stava già iniziando a colpire i bersagli statici con una certa precisione. Dopo aver ringraziato Derryn e averlo pagato, Femke e Reynik si accomiatarono. Quando ancora si stavano dirigendo verso una delle sue case sicure, non lontano da dove abitava Serrius, Femke iniziò la lezione seguente. L'argomento del pomeriggio furono i veleni. Tipi, nomi, origini, effetti e antidoti si mescolarono nelle due ore successive in una totale babele di paroloni. Reynik sapeva che entro il giorno dopo avrebbe già dimenticato una buona metà di quello che Femke gli aveva appena insegnato, e glielo disse. «Ripeteremo la lezione ogni giorno finché non saprai tutto quanto a memoria. Non posso darti appunti. Non si tratta esattamente di informazioni che ti farebbe piacere farti scoprire addosso. Andiamo, abbiamo poco tempo prima della tua prossima seduta con Serrius. Vediamo che cos'hai imparato ieri su come si forzano le serrature.» Quando ebbe finito un'altra estenuante seduta con il gladiatore, Reynik stava per crollare. Il tragitto dalla città fino all'accampamento militare non gli era mai sembrato tanto lungo. Aveva una mezza intenzione di chiedere a Femke se potesse sollevarlo dai suoi obblighi presso la legione, in modo da evitargli un'ora di camminata al mattino e alla sera, ma era molto combattuto. Sapeva che se lo avesse fatto, le sue possibilità di essere riaccettato a pieno titolo dai compagni si sarebbero ulteriormente ridotte. Per quanto fosse faticoso, decise di scegliere la via più difficile. Avrebbe sopportato la camminata finché fosse stato fisicamente in grado. Non era ancora pronto a cedere la sua posizione solo per evitarsi una camminata di qualche miglio al giorno. Fu un bene che avesse preso questa decisione prima di arrivare alla sua tenda, perché c'erano in vista guai che avrebbero potuto far vacillare la sua
risolutezza. Il suo equipaggiamento era sparso sulla branda e il vicecaposquadra era lì in piedi con un severo cipiglio di disapprovazione. Il vicecaposquadra, Dikaris, un veterano tarchiato dallo sguardo severo, era ossessionato dalla disciplina. Il suo spauracchio principale erano l'igiene personale e il decoro. Non appena Reynik inquadrò la situazione, si preparò all'inevitabile sfuriata. Dikaris piantò gli occhi in quelli di Reynik, cercando di capire come avrebbe reagito. Dopo che si furono fissati un istante, fu il vicecaposquadra a parlare. «Fuori. Subito!» gli ordinò con un tono di voce che ricordava la rapida successione di colpi di una lancia contro uno scudo. Reynik obbedì senza discutere, rendendosi conto amaramente che non c'era modo di evitare i guai. Con Sidis che già ce l'aveva con lui, avere contro anche Dikaris avrebbe reso la sua vita nella legione insopportabile. Si allontanarono dalla tenda fino a trovarsi fuori dalla portata d'orecchio degli altri. «Vuoi dirmi chi è stato?» gli domandò Dikaris con voce piatta e priva di emozioni. «Non sono uno sciocco, Reynik. Non saresti stato scelto per questa legione se avessi dato prova anche solo di un accenno di trascuratezza riguardo alle tue cose e al decoro durante l'addestramento. I selezionatori non sono ciechi. Loro scelgono solo i migliori. Perciò ci dev'essere qualcuno nella squadra che vuol metterti nei guai. Sai di chi si tratta?» «No, vicecaposquadra» rispose il giovane soldato. Una calda ondata di sollievo si riversò nel suo corpo al sapere che finalmente c'era qualcuno che non aveva un atteggiamento prevenuto nei suoi confronti. «Potrebbero essere state diverse persone. In questo momento non sono esattamente il preferito della legione. Qualcuno si è risentito per il fatto che sono stato scelto per due incarichi speciali in rapida successione. Se solo conoscessero la natura della missione che mi è stata affidata, forse sarebbero più comprensivi, ma l'Imperatore mi ha ordinato di non farne parola con nessuno, neanche con il Comandante Sateris.» Il vicecaposquadra annuì e si soffermò a riflettere per un momento. «Per quanto tempo dovrai dedicarti a questo incarico, Reynik?» «Non lo so, vicecaposquadra. Potrebbero volerci alcune settimane, o magari mesi. Non saprei dirlo davvero.» «C'è qualche motivo per cui dovresti continuare a vivere nell'accampamento durante questa missione?» «Io... in realtà non ne sono del tutto certo. Avevo pensato che fosse me-
glio restare a vivere qui per mantenere la mia identità di membro della legione, ma non sono sicuro che funzionerà.» Dikaris annuì ancora e guardò Reynik con fare pensieroso. «Restando a vivere qui non fai che aumentare la pressione del tuo attuale incarico, Reynik. Non sono cieco. Sidis ti ha preso di mira. Mi sono accorto del suo pregiudizio da quando siete tornati da Thrandor. Per come la vedo io, questo vuol dire che non sei affatto male. Quell'uomo è un asino. Come sia riuscito a farsi promuovere caposquadra rimane un mistero per me. Ma ricordati, se dovessi venire a sapere che hai riferito ad altri queste mie parole, sarei pronto ad aprirti in due e a dare la tua carcassa in pasto agli avvoltoi. Mi hai capito?» «Certamente, vicecaposquadra» rispose immediatamente Reynik reprimendo a fatica un sorriso. «Va bene. Ora, se fossi in te io cercherei di trovare un alloggio in città per tutta la durata del tuo incarico. Ci penserà il Palazzo a pagare. Lo fa sempre. Vedi di portare a termine la tua missione e poi di ricominciare con noi. Penso che te la caverai bene nella nostra legione, Reynik, ma hai bisogno di un periodo di tempo per farti accettare dal gruppo e non puoi farlo finché continui ad andartene avanti e indietro ovunque l'Imperatore ti mandi. Libera la tua branda stasera stessa. Non sopporto il disordine, lo sai bene. E domani, vattene di qui. Troverai un posto nella legione al tuo ritorno. Non ti preoccupare di Sidis. Il Comandante Sateris è sveglio, capirà in fretta di che pasta è fatto. Non credo che durerà a lungo. Buona fortuna con la tua missione, di qualunque cosa si tratti.» «Grazie, vice caposquadra.» «Ah, Reynik...» «Sì, vice caposquadra?» «Fammi un favore, con gli altri fingi che io ti abbia fatto una sfuriata, d'accordo? Nei prossimi giorni li terrò d'occhio per vedere se qualcuno di loro sembra un po' troppo soddisfatto. È sempre bene sapere dove si nascondono le serpi.» Reynik salutò e tornò a passo di marcia alla tenda sentendosi molto più sollevato. Trovare alloggio in città non sarebbe stato un problema. L'indomani mattina avrebbe chiesto a Femke di cercargli qualcosa. Arrivato alla tenda, raccolse le sue cose in silenzio. Era così stanco che non gli fu difficile mantenere la faccia scura e un atteggiamento depresso. Non si curò nemmeno della presenza degli altri, mentre si dava da fare, anche se si sentiva i loro occhi addosso. Infine, con le gambe che gli tremavano per la
stanchezza, si sdraiò sulla branda e si addormentò.
Capitolo sette Gli elogi degli istruttori di Reynik gli risuonavano ancora negli orecchi: "Progressi sorprendenti"... "Un braccio fatto per lanciare"... "Sarebbe un valido avversario nell'arena". Era stato bello avere gente che si congratulava con lui per aver lavorato bene, cosa che succedeva di rado durante l'addestramento militare. Ma la questione era: in una situazione reale, dinamica, sarebbe riuscito a tenere tutto a mente così da non fallire? Anche il giudizio di Femke era stato molto positivo e il pensiero lo faceva arrossire. Di tutti i suoi istruttori, lei era quella che desiderava impressionare più di tutti gli altri. Oggi ne avrebbe avuto la possibilità. "Avanti, Reynik. Non farti distrarre. Concentrati. Ricorda quello che Devarusso ti ha insegnato. Tu sei un aristocratico. Hai il diritto di stare qui. Hai denaro a sufficienza per pagare il terreno su cui cammini." La mente di Reynik scoppiava per tutte le informazioni e i consigli che aveva cercato di assimilare nelle ultime tre settimane. Era deciso a non fallire. Con indosso un abito nobiliare delle grandi occasioni e una parrucca di riccioli neri ben acconciati che mascherava i lunghi capelli castani strettamente raccolti sotto, era certo che nemmeno i suoi commilitoni lo avrebbero riconosciuto. Non gli restava che mettere in pratica tutte le nozioni che aveva appena appreso. Stava arrivando in prossimità dei cancelli del Palazzo Imperiale. Con la schiena dritta come un fuso, Reynik procedette impettito con aria d'importanza e oltrepassò il cancello ostentando una sicurezza che in realtà non provava. Superò disinvolto le guardie come se entrasse e uscisse da Palazzo tutti i giorni. Quando vide che nessuna delle sentinelle si muoveva per fermarlo, la sua fiducia in se stesso salì alle stelle. "Incredibile!" pensò mentre attraversava il cortile antistante il Palazzo in direzione dell'ingresso principale. "Due pezzi d'oro per procurarmi documenti falsi e questi non mi hanno nemmeno chiesto di mostrarglieli. Farò in modo che l'Imperatore ne sia informato, quando lo vedrò." Procurarsi la pianta del Palazzo non era stato altrettanto facile, ma era
riuscito a convincere due domestici a fargli uno schizzo dopo che avevano bevuto un po' troppo in una delle taverne della città. Reynik l'aveva trasformata in una gara di memoria promettendo di offrire da bere al vincitore. Lui faceva il nome di una stanza del Palazzo e uno dei domestici disegnava il tragitto per arrivarci partendo dall'ingresso principale. Se l'altro domestico confermava che era giusto, il disegnatore vinceva un bicchierino. Se l'altro invece ne trovava uno più rapido, ne vinceva uno lui. Naturalmente, c'erano state discussioni su quale itinerario fosse migliore, ma a Reynik non importava. Lui continuava comunque a offrire, e con tatto riusciva ogni volta a spostare l'attenzione su una nuova sfida. Nel giro di un'ora si era fatto un'idea della disposizione della maggior parte degli ambienti di Palazzo. Non poteva essere sicuro dell'accuratezza delle informazioni, ma era sempre meglio che dover vagare tra i corridoi e aprire porte a casaccio. Facendo attenzione a mantenere il portamento, Reynik superò la porta e svoltò a sinistra nel primo corridoio laterale. Fece un cenno educato a qualcuno che non era un domestico, mentre ignorò volutamente chi indossava la livrea. Non era opportuno salutare il personale. Svoltò a destra al secondo corridoio, salì la scala sulla sinistra, poi ancora a sinistra in cima alle scale, infine seguì il corridoio fino in fondo. "Eccomi arrivato" pensò con il cuore che faceva un balzo di entusiasmo. "Proprio come hanno detto i domestici: due gradini e poi una serie di porte a due battenti con dipinti ai lati degli stipiti: questa deve essere la biblioteca privata dell'Imperatore." Il corridoio alle sue spalle era vuoto. Si avvicinò alla porta. All'interno non si sentiva alcun rumore. Reynik provò la maniglia con cautela ma, come aveva previsto, la porta era chiusa a chiave. Gli bastò un'occhiata alla serratura per capire ciò che gli occorreva. Costringendosi a non guardarsi intorno, estrasse due attrezzi dal taschino interno. Uno era una specie di minuscolo scalpellino, mentre l'altro era un pezzo di metallo più sottile piegato a novanta gradi all'estremità. Facendo bene attenzione a non fare rumore, infilò la sottile lama di metallo nella serratura e la ruotò, forzandola. Poi esplorò col suo attrezzo in cerca dei perni che sapeva dovevano essere lì da qualche parte. Quando la serratura cedette, lo scatto fu non troppo rumoroso, ma abbastanza da far trasalire Reynik per quel suono brusco. Era entrato. Con gli scuri chiusi, com'erano adesso, la biblioteca era un posto ideale per muoversi furtivamente. Tutta la stanza era immersa nella semioscurità.
Dalle fessure negli scuri proveniva solo quel tanto di luce che permetteva a Reynik di vederne la disposizione generale dei mobili. Le pareti erano ricoperte di scaffali che andavano dal pavimento al soffitto, a eccezione dei vani in cui si aprivano le finestre. C'erano anche tre alte librerie che sporgevano a intervalli regolari dalle due pareti laterali, creando tre profonde rientranze. La parte centrale della vasta stanza era libera, a parte un tavolo enorme al centro con una seggiola. Oltre il tavolo, nella penombra, Reynik riuscì a distinguere soltanto una serie gemella di scaffali sporgenti, in fondo, che formavano altre rientranze. Dove poteva essere il suo bersaglio? Non poteva permettersi di tardare. Era una corsa contro il tempo, ormai. Il pavimento era rivestito di tappeti, per cui muoversi senza fare rumore non fu un problema. Ripose nel taschino interno i due attrezzi ed estrasse invece un pugnale dalla fondina sotto il braccio sinistro. Le prime rientranze ai due lati erano vuote, quando era entrato. Strisciò in avanti e, quando sbirciò nella penombra del secondo gruppo di vani, vide che anche lì non c'era nessuno. Invece, guardando oltre l'estremità degli scaffali nella terza coppia di rientranze, in quella di destra scorse una guardia. La figura indistinta dava le spalle a Reynik, sembrava stesse cercando un libro nella semioscurità. Reynik approfittò dell'occasione e lanciò il pugnale, che andò a finire dritto al centro della schiena del soldato con un rumore sordo. Reynik non rimase a guardare se la guardia fosse caduta a terra. Stava già avanzando. Scoprì una seconda guardia rivolta verso di lui, sulla sinistra. Senza fermarsi a riflettere, Reynik estrasse dalla manica un secondo pugnale e lo scagliò contro la figura. Fu un buon lancio, che colpì con forza letale. Ora non c'era più ragione di muoversi furtivamente, perciò Reynik aggirò il tavolo con un balzo e passò nell'ultima sezione della biblioteca. Il suo obiettivo era nella prima delle rientranze oltre la zona centrale. Reynik aveva già in mano il terzo pugnale, che aveva estratto dalla fondina nascosta sotto la casacca, prima ancora di vedere il suo bersaglio. Non ebbe alcuna esitazione. La terza lama andò a segno con una precisione perfetta, ma Reynik non si fermò. Estrasse un altro pugnale che teneva nascosto e arrivò di corsa fino all'estremità della biblioteca, controllando ogni rientranza al suo passaggio. Sarebbe stato fin troppo facile esporre la schiena a una guardia trascurata e morire prima di riuscire a fuggire. La stanza era vuota. Aveva completato la missione. Non gli restava altro
da fare che uscire dal Palazzo. Infilò il pugnale nella fondina sotto il braccio e raggiunse la porta di corsa. Dopo una breve pausa per ascoltare i rumori nel corridoio all'esterno, Reynik fu certo di non sentire nulla a eccezione del proprio cuore che batteva e del tranquillo ansimare del proprio respiro. Attendere che il battito del cuore potesse rallentare poteva essere controproducente, perciò aprì audacemente la porta e uscì. Per un momento rifletté se non fosse il caso di chiuderla a chiave, ma ancora una volta decise che era inutile. Invece si lisciò la casacca e si calò ancora nel personaggio di membro dell'aristocrazia. Camminando con noncuranza, ripercorse tutti i corridoi fino all'uscita. Intanto, in biblioteca, si udì lo scatto improvviso di un gancio che veniva liberato e uno degli scaffali sulla parete principale dell'area centrale si aprì verso l'interno della stanza. Femke e l'Imperatore Surabar uscirono dal loro nascondiglio. «E allora, che cosa ne pensate, vostra Maestà?» «Sono impressionato, Femke. Hai fatto miracoli con quel giovanotto. Ormai è un vero professionista. Andiamo a dare un'occhiata e vediamo con che precisione i suoi coltelli hanno centrato i bersagli, d'accordo?» Attraversarono la biblioteca in fretta, aprirono gli scuri e la stanza fu inondata dalla luce del giorno. Ora le figure che indossavano le uniformi delle Guardie Imperiali non sembravano più così umane. Uno a uno, partendo dalla prima sagoma in uniforme, ispezionarono i manichini di legno. Femke estrasse il pugnale dal centro della schiena del primo fantoccio. Non fu facile, perché la punta era penetrata in profondità nel legno. Quando lo ebbe liberato, annusò con cautela la lama. «Mmh, rivestito di quiltite. Ottima scelta. Ha un'azione rapida e letale, soprattutto se colpisce nella regione del cuore» commentò. «Ed è stato anche un buon colpo, considerata la luce scarsa» osservò l'Imperatore con un cenno di assenso. «È stato un colpo notevole, ma non particolarmente difficile come il secondo, vostra Maestà. Lì si stava muovendo. Ha dovuto prendere la mira e tirare mentre camminava, e questo richiede molta più agilità, anche se ha lanciato da più vicino. Vediamo quanto è stato preciso.» Quando recuperarono il secondo pugnale, videro che era conficcato profondamente quanto il primo, dritto nel cuore del manichino. E anch'esso era rivestito di un veleno mortale. Femke fece grande attenzione per evitare di ferirsi mentre estraeva la lama. Sebbene avesse un antidoto per la quiltite in camera sua, l'odore era ripugnante, e soprattutto non c'era garan-
zia che funzionasse. C'era chi reagiva malamente all'antidoto quanto al veleno, e Femke non aveva la minima voglia di verificare di persona. Il terzo pugnale aveva colpito il bersaglio un po' più in basso e più centralmente rispetto agli altri due, finendo nella regione corrispondente al plesso solare. «Non è stato il suo lancio migliore» notò pensieroso Surabar. «Ed è un peccato, dato che era proprio questo il suo obiettivo.» «In realtà, vostra Maestà, secondo me questo è stato il suo lancio più sicuro. Non voleva correre il rischio di sbagliare. La lama ha colpito il bersaglio in pieno e con violenza, proprio al centro del corpo. È andata così vicina al cuore del bersaglio che il veleno avrebbe fatto effetto nel giro di un minuto. Date le circostanze, lo considero un buon lancio. No, la mia unica lamentela è la scelta dei pugnali per i vari bersagli. Si è complicato la vita da solo. Un Assassino davvero in gamba non lo farebbe mai. Lo istruirò al riguardo più tardi.» L'Imperatore la guardò perplesso. «Che intendi dire, Femke? Questi pugnali sono tutti uguali. Non vedo nessuna differenza fra loro.» «Non sono i pugnali a essere diversi, vostra Maestà. Ricorda da dove ha estratto ogni lama?» L'Imperatore ci pensò su per un istante, con gli occhi che si alzarono istintivamente mentre frugava nella memoria. «Non ho visto da dove ha estratto il primo, lo aveva già in mano quando è entrato nel mio campo visivo. Il secondo lo ha tirato fuori da una manica, il terzo da una fondina sulla schiena e l'ultimo dallo scarpone.» «Assolutamente esatto, vostra Maestà, il che significa che deve aver estratto il primo dalla fondina sotto l'ascella, che è quello più facile da recuperare in caso di necessità. Se entrando nella stanza avesse preso il pugnale per esempio dallo scarpone, avrebbe fatto più in fretta a estrarre il secondo. In una situazione di emergenza, questo avrebbe potuto fare la differenza fra la vita e la morte.» «Capisco. Non ci avevo riflettuto» rispose lui pensieroso. «Ci sarebbero anche un altro paio di cosette, ma in linea di massima direi che se l'è cavata bene. Sarò onesta: non penso che sia pronto per infiltrarsi nella Corporazione, ma sento di avergli dato la preparazione migliore che poteva ricevere in così poco tempo.» «Bene. Concordo che la situazione non sia l'ideale, ma la Corporazione ha ucciso altri due comandanti, in quest'ultima settimana. Se gli Assassini continueranno a eliminare i miei comandanti con questa velocità, presto
diventerà difficile trovare uomini validi disposti ad assumere il comando. Porta Reynik nel mio studio questo pomeriggio dopo che avrà fatto rapporto da te. Se qualcosa fosse andato storto durante la fuga, lo verrò certamente a sapere fra breve dalle guardie di Palazzo.» «Molto bene, vostra Maestà.» Femke fece un piccolo inchino formale, rimise a posto le tre lame avvelenate nelle fondine di cuoio vuote che aveva portate con sé e le avvolse in un pezzo di stoffa prima di mettersi il fagotto sotto il braccio e di lasciare la biblioteca. Riflettendo con tranquillità mentre percorreva i corridoi e poi usciva da Palazzo, Femke si rese conto di provare sentimenti contrastanti riguardo al fatto che Reynik avesse superato la prova. Negli ultimi anni, ogni volta che aveva stretto un forte legame emotivo con qualcuno, quella persona ne aveva subito serie conseguenze. Prima Lord Ferrand, il mentore che le aveva fatto da padre, finito il suo addestramento come spia, era scomparso senza lasciare traccia. Poi, più recentemente, l'amato Lord Danar era morto fra le sue braccia dopo averla seguita fino a Thrandor e averla aiutata a fuggire dalle Carceri Reali. Era come se fosse destinata a non avere più rapporti stretti con nessuno. E adesso, per quanto avesse cercato di impedirlo, capì di aver sviluppato un legame speciale con questo giovane legionario che desiderava seguire una strada pericolosa al servizio dell'Impero. Era difficile non provare simpatia per lui. Era talmente entusiasta di tutto. Femke sapeva che era sotto pressione a causa di tutte le informazioni che aveva dovuto assimilare in quei giorni, eppure non si era lamentato neppure una volta del ritmo serrato di quell'addestramento né della difficoltà dei compiti che lei gli aveva imposto. Non sembrava gli importasse di fare la figura dello sciocco. In effetti, sembrava capace di sopportare ogni cosa con una maturità superiore alla sua giovane età. A un tratto, Femke ridacchiò. "Ma chi sono io per parlare di giovane età?" pensò rendendosi conto dell'ironia della sua situazione. "Non ho nemmeno due anni più di lui, eppure me ne sto qui a pontificare come se sapessi tutto di tutto. Cara Femke, è ora che tu faccia un passo indietro e ritorni alla realtà. Questa è la sua vita. Ha lo stesso diritto di correre rischi che hai tu. Non fare tanto la romantica. Il solo fatto che tu sia la sua istruttrice non ti rende responsabile di quello che gli succederà. Sii sincera: le sue probabilità di sopravvivere alla settimana prossima non sono alte. Se la Corporazione non lo ammazzerà per aver invaso il suo territorio, lo eliminerà quando farà saltare la sua copertura di infiltrato. Non ti ci affezionare
troppo." Il problema era che, per quanto ripetesse a se stessa di non lasciarsi coinvolgere, in cuor suo sapeva che era già troppo tardi. Con lui aveva creato un legame che era troppo forte per spezzarsi senza conseguenze. Era forte, attraente, con un certo carisma naturale, tanto che, nonostante il suo aspetto quasi infantile e la sua inesperienza, sarebbe stato un affascinante compagno di vita. E questo, ovviamente, non era possibile per molte ragioni, a cominciare dal fatto che la sua speranza di vita poteva essere misurata in giorni, più che in anni. Se Reynik fosse stato ucciso Femke non era pronta a farsi ferire più profondamente del necessario. "Sii fredda, calma e distaccata" pensò. "È l'unica cosa da fare. Tu sei la sua insegnante, Femke, non la sua ragazza. Mantieni le cose nella giusta prospettiva." In seguito, quello stesso pomeriggio, mentre aspettava di entrare nello studio dell'Imperatore con Reynik al suo fianco, Femke si era compiaciuta del proprio autocontrollo. Era stata capace di far scendere una cortina di ferro attorno al cuore e sentiva che qualunque folle piano Reynik avrebbe accettato di mettere in atto, lei si sarebbe messa da parte. Gli aveva insegnato tutto il possibile nel breve tempo che avevano avuto a disposizione. Laddove le proprie capacità non erano all'altezza del compito, gli aveva trovato i più abili maestri di Shandrim per colmare le sue lacune. Aveva finito. Era convinta di poter andare avanti come prima e di poter lasciare Reynik al proprio destino senza rimpianti. Senza dubbio l'Imperatore aveva altri incarichi in serbo per lei, e sarebbe stata troppo impegnata per pensare a lui. «Chi sarà? Che cosa ne pensi?» le domandò Reynik bisbigliando mentre aspettavano di essere introdotti. «Tu sai chi devo uccidere?» Femke aveva un suo elenco di potenziali vittime abbastanza importanti da attirare l'interesse della Corporazione. Per fortuna non ebbe il tempo di esporre le sue idee, perché sarebbe stata decisamente smentita. «Kempten!» esplose, quando l'Imperatore annunciò le proprie intenzioni. «Ma... ma... lui è più leale di chiunque altro!» «Fidati di me, Femke. Mi rendo conto che può sembrare una follia, ma so esattamente cosa sto facendo. Lord Kempten deve morire. Se non lo uccidiamo noi, lo farà la Corporazione. Stanno colpendo i comandanti delle legioni per colpire me. Prima o poi lo prenderanno di mira, è solo una questione di tempo. E io non permetterò che accada.» «La morte è definitiva, Maestà. Mi rendo conto che non spetta a me met-
tere in discussione le vostre motivazioni, ma Kempten è un brav'uomo. Ha fatto un ottimo lavoro come Reggente, mentre voi eravate via. Per Shand, ha perfino fatto impiccare alcuni dei suoi pari per amor vostro. In che modo la sua uccisione favorirà la vostra causa?» «La morte è definitiva solo quando smetti di respirare, Femke. Non ho affatto intenzione di privarmi di un alleato valido come Lord Kempten. Ecco perché deve essere messo al sicuro. Lascia che ti spieghi...» Il piano era semplice. Raggiungere la porta dell'ufficio di Lord Kempten. Lanciare il coltello. Andarsene senza essere fermato. Come gli aveva insegnato Femke, l'ultima fase era cruciale. Andava bene eliminare il bersaglio, ma se ci si faceva beccare, il prezzo da pagare sarebbe stata la vita. E Reynik non aveva la minima intenzione di morire, per il momento. Mancava solo una settimana al suo diciottesimo compleanno. La sua vita era appena iniziata. Reynik cercò di non lasciarsi ostacolare nel suo compito dalle emozioni. L'idea che nel giro di pochi giorni si sarebbe messo allo stesso livello di Shalidar gli procurò una fitta allo stomaco. E anche il pensiero che avrebbe dovuto ammazzare a sangue freddo gli fece salire in bocca un fiotto di amarissima bile. E tuttavia era necessario. Lo sapeva. Era una causa giusta. Continuava a ripetere a se stesso che, se non avesse agito, molte altre persone innocenti sarebbero morte. Per raggiungere il risultato finale era necessario quel sacrificio. Per lo meno, Lord Kempten era facile da raggiungere. Il suo ufficio si trovava nel palazzo della Corte Civile, che non era un'area sottoposta a restrizioni. Una volta concluso il suo breve mandato di Reggente, Lord Kempten era stato incaricato dall'Imperatore di raccogliere certe informazioni e di occuparsi di alcune delle questioni interne di Shandrim. L'anziano lord aveva scelto di farlo rendendosi facilmente rintracciabile da chi aveva delle informazioni. E questo tornava utile a Reynik. La Corte Civile non era distante dal Palazzo, ma la sorveglianza non era così stretta. Entrare era facilissimo. Era molto improbabile che qualcuno avrebbe cercato di fermarlo. Uscire dopo la missione non sarebbe stato altrettanto facile, tanto più che gli era stato chiesto di fare in modo che qualcuno assistesse all'omicidio. La Corporazione degli Assassini avrebbe avuto bisogno di prove se voleva entrare in contatto con lui, perciò era necessario che fosse visto. Visto, ma non catturato: un equilibrio rischioso. L'ufficio di Lord Kempten era al centro del palazzo, il che significava un
lungo tragitto per fuggire. E questo era un bene, in quanto era certo che sarebbe stato visto da qualcuno, ma anche un male, dal momento che ciò aumentava le sue possibilità di essere fermato. Con indosso abiti poco vistosi, quel pomeriggio Reynik perlustrò accuratamente l'edificio. C'erano diversi percorsi alternativi per raggiungere l'uscita principale. C'era anche un'uscita secondaria che si apriva su uno dei vicoli posteriori. Era una possibilità interessante, ma fin troppo ovvia. Un'altra era rappresentata dalle finestre ma, dal momento che Reynik intendeva agire in pieno giorno, uscendo da lì si sarebbe fatto notare troppo. Girare diverse volte per l'edificio della Corte senza suscitare alcun sospetto fu facile. Come molti altri, portava sotto il braccio diversi rotoli di pergamena e camminava in fretta. Con un'aria indaffarata, procedendo volutamente di buon passo ed evitando di guardare negli occhi chiunque incontrasse, si confuse perfettamente con i burocrati che infestavano i corridoi. Nessuno lo degnò di una seconda occhiata. In seguito si incontrò con Femke per discutere delle varie possibilità. Le tracciò in fretta la pianta dell'edificio su una lavagnetta, indicando porte, finestre e corridoi con tratti sicuri. Femke guardava con attenzione. Conosceva già a fondo il palazzo della Corte Civile, dal momento che ci aveva lavorato sotto copertura in diverse occasioni. La pianta di Reynik era ben fatta e conteneva più dettagli di quanti si sarebbe aspettata da un principiante. Interrogandolo in maniera approfondita, scoprì che Reynik aveva buon occhio e una memoria eccezionale per i dettagli. Aveva notato i quadri e gli arazzi alle pareti, che sarebbero stati ottimi punti di riferimento se si fosse perso. Aveva preso nota dei colori dei tappeti, delle decorazioni ornamentali, perfino delle anomalie nelle staffe delle torce a parete. «Ottimo lavoro, Reynik, davvero ottimo. La via migliore per scappare è questa. Non perché sia la più rapida, ma perché ti offre più possibilità nel caso una strada sia bloccata. Guarda qui» gli indicò sulla piantina. «Se trovi il passaggio impedito, non soltanto puoi tornare sui tuoi passi, ma ti rimane anche una serie di possibili vie d'uscita alternative. Potresti passare di qua, da questa strada, oppure, come ultima risorsa, potresti uscire dalla finestra in fondo a questo corridoio.» Reynik seguì il dito della ragazza perplesso. «Dici che non è una buona idea scappare dalla stessa parte da cui sono entrato?» le domandò. «No, è meglio di no. Vuoi essere visto, ma non devi dare a nessuno la
possibilità di farlo una seconda volta, per lo meno non con lo stesso aspetto. Vederti due volte darebbe la possibilità di rammentare troppi dettagli. Quando si incrocia una persona, di solito ci si forma un'impressione piuttosto vaga del suo aspetto. Se però la si incontra una seconda volta, si assimilano altri dettagli. Più volte si vede una persona, più particolari si tengono a mente. Fa' in modo che nessuno ti veda più del necessario. Se scegli la strada che ti ho indicato io, ridurrai le possibilità che qualcuno possa dare di te una descrizione particolareggiata.» «Sì, hai ragione. Sei riuscita a ottenere altre informazioni utili, questo pomeriggio?» Femke sorrise. «Ovvio. Ottenere informazioni è il mio lavoro.» «Avanti allora, stupiscimi» la esortò Reynik mettendosi seduto comodo e accavallando le gambe con finta indifferenza, come se si preparasse a farsi raccontare una storia. «Kempten è un tipo abitudinario. Fissa tutti i suoi appuntamenti al mattino e al pomeriggio presto. L'ultimo è alla prima chiamata del pomeriggio. Non ne accetta mai altri dopo quell'ora, perché passa il resto della giornata a studiare e a scrivere rapporti per l'Imperatore. Alla seconda chiamata del pomeriggio fa una pausa per il pranzo. Posa la penna non appena suona la campana, qualunque cosa stia facendo, e lascia il suo ufficio. Consuma il pranzo in uno di questi tre posti: La Fenice, Korrin's o Il Vecchio Cane. Vuoi che ti dica che cosa mangia?» «Non credo che sarà necessario» rispose Reynik con un sorriso. «A quanto pare, il momento ideale per colpire è qualche istante prima della seconda chiamata del pomeriggio.» «Esattamente come pensavo io.» «Sarà alla scrivania, quasi certamente solo. L'edificio sarà più tranquillo che in altri momenti della giornata, perché la maggior parte della gente va a pranzo prima di lui. È quasi troppo bello per essere vero. Anzi, con un piccolo trucco in più potremmo fare in modo che la nostra missione funzioni ancora meglio. Puoi fissare un appuntamento alla Corte con uno degli altri nobili?» Femke annuì. «Sì, posso farlo, ma ti ricordo che non posso compromettermi per te, Reynik. Se ti fai prendere, sei solo. Lo capisci questo, vero? L'Imperatore non può contare su molte persone fedeli a lui, al di fuori delle legioni. Gli servirà tutto l'aiuto possibile nei mesi a venire.» Reynik alzò le spalle e fece una smorfia. «Sapevo che non sarebbe stato facile. Le cose più meritevoli non lo sono mai. Ma comunque, l'idea che ho
in mente non dovrebbe comprometterti. Ascolta. Penso che dovremmo fare così...» Due giorni dopo, Reynik era sulla strada fuori dalla Corte Civile, appoggiato a un muro. Fingeva disinteresse, pescando dal sacchetto di noccioline che aveva comprato da un venditore ambulante. Ma sotto l'apparente indifferenza, il cuore gli batteva all'impazzata. Era il momento. Se tutto fosse andato bene, di lì a pochi minuti sarebbe stato un ricercato: ricercato per l'omicidio di Lord Kempten. "Omicidio" era una parola orribile. Non c'era da stupirsi che la Corporazione si celasse dietro parole come "contratto", "incarico" e "missione", pensò cupo. Una nube passò davanti al sole e lui imprecò fra sé e sé. «Non nasconderti proprio adesso» mormorò alzando gli occhi al cielo per controllare per quanto tempo il sole sarebbe stato oscurato. Il tempismo era tutto. Anche solo qualche istante di ritardo o di anticipo potevano fare la differenza. Reynik guardò il segno di riferimento. Non riusciva a distinguere la linea d'ombra. «Avanti, sole, non tradirmi.» Istanti carichi d'ansia passarono con una lentezza esasperante. Non poteva mancare molto al momento in cui doveva mettersi in moto, ma se non avesse potuto seguire le ombre sui punti di riferimento che si era segnato prima, i suoi preparativi sarebbero stati inutili. Altrettanto improvvisamente, però, il sole tornò a splendere, gettando ombre sulla piazza. Reynik controllò il suo punto di riferimento. L'ombra dell'edificio lo aveva quasi raggiunto. Ancora un minuto o due e sarebbe stato troppo tardi. Passarono secondi dolorosamente lenti, mentre l'ombra scivolava silenziosamente in avanti. Il battito del cuore di Reynik accelerò mentre si accorse di un'altra nuvola che si avvicinava. L'ombra avrebbe toccato il punto di riferimento prima che la nube nascondesse la luce del sole? Fu un testa a testa. Vinse la nuvola, ma di poco. Quando la linea dell'ombra scomparve e l'aria rinfrescò, Reynik decise che oramai mancava così poco tempo che, se si fosse mosso in quel momento, non avrebbe fatto differenza. Secondo i suoi calcoli, doveva contare fino a trecento, a passo medio di marcia, prima che suonasse la seconda campana del pomeriggio. Per raggiungere la porta di Kempten, doveva arrivare a duecentotrenta. Si staccò dal muro e attraversò la piazza diretto all'edificio della Corte Civile. Muoversi gli fece bene. La sensazione spiacevole che lo aveva preso allo stomaco sparì mentre iniziava a camminare. Con ostentazione, gettò il contenuto del sacchetto per strada. Un istantaneo battito d'ali e decine
di piccioni, sempre in cerca di cibo, furono lesti a scendere dai posatoi per beccare le noccioline. Salì gli scalini, entrò dalla porta principale e seguì il primo corridoio; era arrivato a centotrenta. "Rallenta!" si rimproverò dentro di sé. "Non c'è fretta." Con il cuore che batteva come il tamburo di una galea, Reynik svoltò nell'ultimo corridoio. Tre porte più in là, sulla sinistra, c'era l'entrata dell'ufficio di Lord Kempten. Il corridoio era vuoto. In circostanze normali, questo sarebbe stato perfetto per la sua missione, ma lui aveva bisogno di essere visto. Rallentò ancora. Aveva ormai superato i duecentoventi. Che cosa doveva fare? Se avesse colpito senza che nessuno lo vedesse, il suo obiettivo principale sarebbe fallito. L'unica alternativa era farsi scorgere durante la fuga. Se però lo avesse fatto in maniera troppo evidente, sarebbe stato considerato un dilettante e quindi indegno dell'interesse della Corporazione. Duecentocinquanta: il tempo stringeva. «Maledizione!» imprecò serrando i denti frustrato. Esitò fuori dalla porta di Lord Kempten, lacerato dall'indecisione, mentre i secondi passavano lentamente. La sua conta mentale superò i duecentottanta. Ora o mai più. Non poteva aspettare oltre. Estrasse il pugnale dall'interno della giacca e spalancò la porta di Lord Kempten. Come si aspettava, il lord era seduto dietro la scrivania. Il vecchio non ebbe quasi la possibilità di alzare lo sguardo dal proprio lavoro prima che la lama avvelenata lo colpisse con una forza mortale. Kempten gridò e si accasciò sul tavolo, con le mani strette attorno all'impugnatura del coltello che gli spuntava dal petto. Una pozza di sangue scuro si stava già allargando sul piano della scrivania, mentre Reynik si voltava e correva in corridoio. Un grido improvviso in lontananza, nel corridoio dietro di lui, lo fece sobbalzare. Lo avevano visto. Ottimo, il piano era semplificato. L'unica cosa che gli rimaneva da fare era fuggire in maniera pulita. Si guardò alle spalle per capire chi avesse gridato. C'erano due persone in fondo al corridoio. Non erano guardie, ma stavano già correndo verso di lui. Dovevano averlo visto lanciare il coltello. Tutto andava alla perfezione. Fuori, il trombettiere suonò la seconda chiamata. Reynik balzò in fondo al corridoio e svoltò a sinistra, addentrandosi nell'edificio. Non appena ebbe svoltato, si arrestò e iniziò a liberarsi del suo travestimento. Con un movimento rapido si tolse la giacca e la rivoltò. Infilata dall'altro verso, la giacca che prima era marrone scuro diventò di un bel blu intenso, con il bavero completamente diverso e spalline ricoperte di bottoni d'argento.
Più avanti, nel corridoio, si aprì una porta e ne emerse Femke, che indossava una giacca marrone scuro della stessa foggia di quella che lui portava poco prima. Reynik le diede solo un'occhiata fuggevole mentre si toglieva la parrucca castana e si strappava i baffi finti, infilandoli entrambi in una tasca interna prima di allacciare il bottone più in alto della giacca. La notte prima si era tinto i capelli di biondo con l'aiuto di Femke. Mentre sentiva i passi dei suoi inseguitori che si avvicinavano all'angolo, Reynik si arruffò i capelli con le dita e scivolò silenziosamente a terra in maniera scomposta. I due uomini svoltarono l'angolo e lo videro contorcersi sul pavimento, apparentemente senza fiato, mentre una figura con una giacca marrone spariva dietro l'angolo in lontananza. «Sei ferito?» gli chiese uno dei due uomini fermandosi un attimo per inginocchiarsi accanto a lui. «Solo senza fiato» ansimò lui, con il petto che si sollevava in apparente segno di protesta. «Da quella parte» aggiunse poi indicando il corridoio nella direzione presa da Femke. Gli uomini non ebbero bisogno di altro incoraggiamento. Si rimisero a correre. Non impiegarono più di un minuto a raggiungere Femke che percorreva in fretta i corridoi in direzione dell'uscita principale. La ragazza ignorò deliberatamente le loro richieste di fermarsi, finché non le furono addosso. Quando finalmente si arrestò e si voltò verso di loro, li guardò con un'espressione colma di collera e di frustrazione. «Sentite, ho fretta. Che c'è? Sputate l'osso e fate in fretta. Sono già in ritardo per il mio prossimo appuntamento.» «Il prossimo appuntamento! Non penso proprio, signorina. L'unico posto in cui andrà sarà la galera, se Lord Kempten è morto.» «Lord Kempten? Ma di cosa state parlando? Vengo da un colloquio con il capo del personale, per un lavoro da fare qui. E ho un altro colloquio a Palazzo, fra poco, per un altro impiego. Vi prego, non fatemi fare tardi. Ho bisogno di un lavoro, se no la mia padrona di casa mi butterà per la strada. Non credo che il colloquio con il capo del personale sia andato bene, perciò ho davvero bisogno di arrivare in tempo al prossimo.» Femke discusse con loro ancora per qualche minuto prima di accompagnarli all'ufficio del capo del personale, che confermò la sua storia, aggiungendo che se ne era andata di fretta al suono della seconda chiamata del pomeriggio. Quando sentirono parlare della seconda chiamata, i due uomini si guardarono e compresero di essere stati ingannati. Non furono sorpresi quando non trovarono traccia dell'uomo biondo che avevano visto
disteso sul pavimento. Reynik se n'era andato da un pezzo.
Capitolo otto In piedi sul suo podio, il Maestro della Corporazione scandagliò con gli occhi la sala. L'ultima eco della tradizionale recitazione della Regola degli Assassini rimbombava ancora nell'aria mentre lui controllava i presenti. Due adunanze di questa portata in altrettanti mesi erano estremamente insolite, ma questi erano tempi insoliti. Quasi tutte le nicchie erano occupate. Le eccezioni erano rappresentate da fratello Falco e da fratello Tarantola, morti entrambi da poco. Perfino fratello Dragone era di nuovo al suo posto. Era l'incontro della Corporazione più completo fra quelli che aveva tenuto durante il suo mandato di Maestro della Corporazione. Prese fiato. «Il primo punto all'ordine del giorno è sapere chi di voi ha accettato un contratto per Lord Kempten. Il fratello in questione può cortesemente spiegare perché ha accettato l'incarico senza informarmi?» chiese mantenendo un tono di voce mellifluo e privo di rimprovero. Il silenzio più totale scese nella cupa penombra della sala. Il Maestro percorse lentamente con lo sguardo tutta la stanza, posando gli occhi su ciascuna figura, e vide solamente teste che oscillavano in segno di diniego. Quando ebbe completato il giro, emise un "uhm" pensieroso e alzò un indice a sfregarsi le labbra. «Se nessuno di voi è responsabile, allora chi ha effettuato il colpo? Qualcuno di voi sa qualcosa dell'assassinio di Lord Kempten avvenuto questo pomeriggio?» Ci fu un'altra pausa, ma questa volta il silenzio fu rotto da una voce. Era la voce sommessa della donna conosciuta come Volpe. «Ho sentito dire che la missione è stata portata a termine da un ragazzo, anche se forse aveva come complice una giovane. Si dice che abbiano inscenato un astuto scambio di persona per ingannare i loro inseguitori. Chiunque sia è un professionista ed era bene organizzato. È stata un'operazione brillante.» «Sì, ho sentito anche io qualcosa di simile. È stato il coinvolgimento della donna a colpirmi. Certo, è possibile che lei fosse davvero una passante
innocente che si è trovata coinvolta per caso nella fuga dell'assassino, ma mi sembra alquanto improbabile, tanto più che adesso nessuno riesce a trovarla. Confesso che sulle prime ho pensato che quella donna fossi tu, fratello Volpe. Ma ora capisco di essermi sbagliato.» L'assassina fece un inchino nella sua nicchia e il Maestro si inchinò a sua volta. Si guardò intorno per la sala e chiese se qualcun altro sapesse qualcosa dell'omicidio. Non ebbe altre risposte. «Benissimo» fece allora il Maestro con decisione. «Nei prossimi giorni vi prego di far convergere tutti i vostri sforzi per cercare di scoprire chi sia la coppia misteriosa. Non mi piace avere assassini estranei per le strade di Shandrim. Abbiamo sempre saputo che occasionalmente le spie dell'Imperatore uccidono qualcuno per suo ordine, ma questo non mi sembra uno dei loro lavori. Per cominciare, Surabar è ben noto per disprezzare gli assassinii e chi li commette. È improbabile che l'Imperatore abbia ordinato una tale missione mentre sta cercando di cacciarci dalla città. Se un'ipocrisia del genere dovesse mai venire alla luce, sarebbe rovinato per sempre. Inoltre, Kempten era il più strenuo sostenitore di Surabar. Perché l'Imperatore avrebbe dovuto ordinare di ucciderlo? No. Questo è qualcuno che ha agito dall'esterno, dal nostro lato delle mura del Palazzo. Perciò ora tocca a noi fare qualcosa. Sicuramente l'Imperatore ci incolperà della morte di Kempten. Dobbiamo essere pronti. Dobbiamo trovare i colpevoli. Se sono così in gamba come hanno dato a vedere, allora potremmo offrire loro di unirsi a noi. Se rifiutano, li uccideremo e invieremo i loro corpi all'Imperatore per dimostrare che non siamo noi i responsabili. La Corporazione ne uscirà vittoriosa in entrambi i casi. Che cosa ne dite?» Vi fu un coro di "sì". Il Maestro sorrise sotto il cappuccio. Era sicuro che avrebbero acconsentito. Non era una buona cosa essere a ranghi ridotti in tempi di crisi, e le perdite di Falco e Tarantola si facevano sentire. Se fosse emerso che i due lavoravano in coppia e che non c'era un unico sicario, che cos'avrebbe dovuto fare? La politica della Corporazione prevedeva che i suoi membri non conoscessero le identità gli uni degli altri, così da garantire la sicurezza della confraternita. L'unica persona a conoscere tutte le vere identità degli Assassini era il Maestro. Era un male che due membri della Corporazione si conoscessero fra di loro? Oppure questo avrebbe spinto altri membri a riunirsi in segreto per lavorare in coppia? Quella dell'Assassino era una vita solitaria sotto molti aspetti. La possibilità di lavorare in squadre di due o più persone poteva essere un'ipotesi allettante per molti. Istintivamente, il Maestro guardò verso la nicchia in cui Shalidar se ne
stava nascosto nell'ombra. Che cos'aveva fatto a Thrandor fratello Dragone con fratello Falco? In che modo si erano messi in contatto? Conoscevano da tempo l'identità l'uno dell'altro? Riteneva improbabile che sarebbe mai riuscito a scoprire tutta la verità. Il fatto che fratello Falco fosse morto era fuori discussione, dato che la sua icona era ritornata. Il gemello d'argento a forma di falco in volo era una delle icone più sottili, ma l'allarme magico della stanza centrale aveva suonato altrettanto sonoramente di quanto aveva fatto quando era stato il pendente a forma di tarantola a fare ritorno senza il suo proprietario. Shalidar non aveva ucciso Kempten. Il Maestro ne era certo, perché l'Assassino non lasciava il complesso della Corporazione da giorni. In questo momento la città era un posto troppo pericoloso per lui. Erano molte le persone che lo cercavano, a Shandrim, ansiose di ottenere la ricca taglia che l'Imperatore aveva messo sulla sua testa. E poi il Maestro della Corporazione lo faceva sorvegliare. Per una volta, aveva la certezza che Shalidar stesse dicendo la verità. Gli era difficile pensare che quell'uomo potesse essere coinvolto in questi ultimi sviluppi, tuttavia il Maestro si ritrovò a riflettere sul fatto che, dati i precedenti di Shalidar, non si poteva escludere a priori un suo coinvolgimento. Fratello Dragone era riuscito a suscitare così tanti vespai negli ultimi anni, che era difficile ignorare la sua capacità di creare guai. «Va bene. Questo è sistemato. Comincerete a cercarli subito dopo la riunione. Adesso passiamo al prossimo punto, le congratulazioni ai fratelli Vipera e Drago di Fuoco per i loro recenti successi...» «Ottimo, Femke! Sono lieto che l'operazione Kempten sia andata liscia. Mi mancherà qui, era una persona utile da avere a Corte, ma mi è più utile dov'è ora. L'esca è gettata, ma adesso dobbiamo decidere un altro bersaglio, in modo che la Corporazione possa intercettare Reynik. Hai qualche idea?» Femke si sentiva a disagio. Assumersi la responsabilità della morte di altri le dava sempre quella sensazione. Quella era indubbiamente la parte più sgradevole del suo lavoro. «Parecchie, vostra Maestà, ma non penso che vi piaceranno.» «Probabilmente no» ammise l'Imperatore con una smorfia. «Tutta questa faccenda mi disgusta, ma la ritengo necessaria, se vogliamo localizzare e distruggere la Corporazione. Mi è parzialmente d'aiuto vederla come una tattica di guerra, ma, comunque voglia considerarla, non riesco a trovare
meno sbagliato falciare delle vite in questo modo. Preparami una rosa di cinque nomi e poi porta Reynik a Palazzo questa sera. Vi vedrò in biblioteca. Allora stabiliremo il prossimo obiettivo.» Con una riverenza, Femke si voltò per andarsene. Mentre lasciava lo studio di Surabar, un domestico si accingeva a bussare alla porta. Un carrello con il pranzo dell'Imperatore le bloccava la strada. Lei si ritrasse per farlo passare e gli sorrise, facendogli un cenno del capo. L'uomo ricambiò il cenno, ma non il sorriso. Sembrava nervoso, pensò Femke mentre si allontanava. Le venne da pensare che i domestici di Palazzo dovevano essere abituati a servire l'Imperatore, ma che alcuni non ci riuscivano mai. Una volta giunta in fondo al corridoio, si arrestò improvvisamente prima di svoltare. C'era qualcosa che non andava. Il domestico aveva un aspetto familiare, ma, d'altra parte, lei conosceva la maggior parte del personale di Palazzo, quindi la cosa non era insolita, di per sé. Era la combinazione di nervosismo e familiarità. Lì c'era qualcosa che non andava. Poi comprese. Sì, quell'uomo le era familiare, ma non nelle sembianze di domestico. L'ultima volta che l'aveva visto era coinvolto in una missione di spionaggio. Però non era una delle spie imperiali. Quando l'aveva visto, lavorava per uno dei lord shandesi. Non riusciva a ricordare quale, ma in quel momento rammentarlo non costituiva una priorità. L'uomo uscì dallo studio dell'Imperatore senza il carrello e si chiuse la porta alle spalle. Quando si guardò in giro e vide che lei lo stava fissando, Femke scorse con chiarezza un lampo di panico sul suo volto. Fu sufficiente. «Fermati subito!» gridò puntandogli contro un dito accusatore. L'uomo non esitò. Si voltò e si mise a correre a più non posso lungo il corridoio. Femke fece un balzo in avanti e lo rincorse. Le ci volle qualche secondo per raggiungere la porta dello studio dell'Imperatore. La spalancò e vide che Surabar stava portando alla bocca una forchettata di cibo. L'Imperatore si fermò a quell'ingresso inaspettato e guardò Femke con autentica sorpresa. «È avvelenato! Non mangiatelo!» annaspò lei. Si fermò quel tanto da vedere l'Imperatore posare la forchetta prima di riprendere a correre con tutte le sue forze nella direzione presa dall'infiltrato. Le costole le dolevano già, e ancora non aveva fatto che qualche dozzina di passi di corsa. Era evidente che non era ancora pronta a un lungo inseguimento. Se voleva prenderlo, doveva farlo in fretta, senza faticare troppo. La possibilità migliore sarebbe stata quella di intercettarlo, anziché rin-
correrlo, ma per riuscirci avrebbe dovuto prevedere dove sarebbe andato. Dunque, dove poteva essere diretto? Fuori dal Palazzo, questo era certo. Se aveva progettato un piano accurato, allora doveva avere un itinerario già segnato. Ma quanta familiarità aveva con il Palazzo? Femke lo conosceva come le sue tasche. Si era prefissa il compito di perlustrarne ogni angolo. Non vi erano passaggi segreti o nascondigli che non avesse esplorato, e molto tempo prima aveva individuato tutti i percorsi più efficaci per raggiungere l'uscita. Era probabile che il fuggiasco fosse diretto alla porta di servizio, per via della livrea, ma avrebbe proseguito nella direzione che si era prefissata se si fosse reso conto che Femke non lo inseguiva più? Era un rischio che la ragazza doveva correre. La via più rapida per raggiungere l'uscita dei domestici passava dal corridoio centrale e poi dalla grande scala che portava giù nell'atrio principale. Da lì poteva tagliare dall'ala della servitù, passare per le cucine e ritrovarsi all'uscita posteriore. Stringendo i denti per tenere a bada il dolore che le trafiggeva il fianco, attraversò il Palazzo zigzagando finché non raggiunse il corridoio principale al primo piano. Lì c'era sempre un flusso costante di persone che andavano su e giù, ma c'era abbastanza spazio perché Femke potesse continuare la sua corsa senza essere ostacolata. Quando raggiunse il ballatoio in cima alla grande scala, non ebbe esitazioni. Fin dalla prima volta che aveva messo piede a Palazzo, aveva sempre avuto voglia di scivolare giù per la grande ringhiera lucida, e quella era l'occasione buona. Al grido di: «Attenzione!» saltò sulla ringhiera di sinistra e iniziò a prendere velocità. Fu una fortuna che avesse il senso dell'equilibrio di un gatto. Se si fosse sbilanciata e fosse caduta nel vuoto, l'impatto col pavimento di marmo non sarebbe stato piacevole. «Grandissimo Shand!» esclamò mentre la velocità giù per la lunga e diritta ringhiera raggiungeva un punto ben al di là delle sue capacità di controllo. La ringhiera si appiattiva verso il fondo, ma lei non attese fin lì per scendere. Pose fine a quella corsa a rompicollo un paio di gradini prima del pavimento, e di slancio oltrepassò gli ultimi scalini per andare a finire sulla spessa passatoia che andava dalla porta principale su per la scala. Nonostante il folto tappeto, non fu un atterraggio morbido, ma Femke assorbì parte dello slancio lasciandosi rotolare, così da ritrovarsi a metà del grande atrio. La gente la guardava stupefatta mentre lei si rimetteva in piedi con l'agilità di un'acrobata, ma senza rimanere ad aspettare i loro applausi. Corse in fretta verso una delle uscite laterali, spinse la porta con la spalla, tenendosi il fianco dolente con una mano.
Il corridoio laterale che aveva imboccato la portò dritta nelle cucine di Palazzo, che avevano le porte a spinta. In preda al dolore, piombò su di esse e sfrecciò attraverso la cucina: per colpa sua, un cuoco lasciò cadere per terra un grosso vassoio di cibo e un altro si ustionò la mano sul fornello. Non aveva tempo di fermarsi a chiedere scusa, e in ogni caso non avrebbe avuto fiato a sufficienza. Giunta in fondo alla cucina, afferrò da un gancio alla parete un forchettone di metallo, mentre con la spalla apriva la porta di fronte. Grida di paura e di dolore la seguirono, ma si spensero in fretta, mentre lei spariva in corridoio e svoltava l'angolo in direzione dell'uscita della servitù. Quando percorse barcollando gli ultimi passi, ormai Femke aveva il fiato grosso. Con il forchettone da carne stretto in pugno, aprì la porta e guardò il cortile all'esterno. Non c'erano tracce del suo avversario. Era arrivata all'uscita prima di lui. Il dolore al fianco era lancinante e la trafiggeva come una lancia. Con una disciplina ferrea, calmò il respiro e si concentrò per bloccare il dolore. A lato della porta c'era una rientranza. Femke vi si accovacciò schiacciandosi contro la parete per impedire a chiunque arrivasse dal corridoio di vederla fino all'ultimo secondo. Le ci volle un attimo. Aveva appena fatto in tempo a nascondersi, che il sicario arrivò correndo dal corridoio. L'uomo afferrò la maniglia della porta, ma sentì i rebbi in metallo del forchettone premergli contro la giugulare. «Fai un solo movimento e ti infilzo come un maiale» ansimò Femke. Evidentemente l'uomo non credeva che lei avrebbe portato a termine la sua minaccia e alzò di scatto la mano per cercare di spazzare via il pericoloso attrezzo. Ma non fu abbastanza rapido. Femke gli piantò i rebbi del forchettone nel collo mentre lui le stava ancora colpendo il polso con la mano. Così facendo, si spinse da solo l'attrezzo nel collo, infilzandosi la giugulare e facendone sgorgare sul pavimento il sangue con un brillante zampillo rosso. L'uomo diede un grido d'orrore e si afferrò il collo cercando di bloccare il flusso di sangue. «Chi ti ha mandato?» gli chiese Femke parando il forchettone davanti a sé con fare minaccioso. «Dimmelo e ti aiuterò.» L'uomo non rispose. Femke non era certa che lui l'avesse sentita, in preda al panico com'era. «Chi ti ha mandato?» ripeté con fermezza. «Ti serve un medico, se non vuoi morire. L'arteria principale ha bisogno di punti, altrimenti non durerai
più di qualche minuto. Ti aiuterò a trovare un medico se mi dirai chi ti ha mandato.» «No! Mi farà uccidere se parlerò.» «E io ti lascerò morire, se non lo farai. Vuoi morire adesso o preferisci avere una possibilità di sfuggire all'ira del tuo padrone? Scegli in fretta. Non hai molto tempo per decidere.» L'uomo la guardò con occhi frenetici. Lei ricambiò con uno sguardo di ghiaccio. «Lacedian» sbottò lui. «Mi ha mandato Lord Lacedian. E ora portami da un medico, svelta!» Passò un po' di tempo prima che Femke facesse ritorno allo studio dell'Imperatore. Le sentinelle alla porta erano raddoppiate di numero. Lei lo notò con un sorriso. Un po' tardi, forse, ma almeno adesso Surabar aveva ripreso a considerare la propria sicurezza una priorità. Era fin troppo facile rilassarsi in un ambiente familiare. Era passato un po' di tempo da quando i Lord della vecchia guardia avevano cercato di ucciderlo, per cui era stato più che naturale che avesse ceduto alla tranquillità. Femke chiese alle sentinelle di annunciarla e fu fatta entrare immediatamente. Quando fu nello studio, gli occhi dell'Imperatore Surabar erano come quelli di un falco: attenti a non lasciarsi sfuggire nulla. Lei fece un inchino cortese, piegando più il collo che la vita per non accrescere il disagio che provava al fianco. Quanto ci sarebbe voluto perché le costole guarissero? Di sicuro quella giornata non aveva abbreviato la convalescenza, pensò tetra. Era frustrante essere così limitati nei movimenti, ma sapeva che se non avesse preso sul serio il processo di guarigione, le costole sarebbero diventate per lei un ostacolo permanente, e questo non poteva permetterselo. «Lo hai preso?» «Sì, vostra Maestà. Non è più una minaccia.» «Lo hai ucciso? Speravo di poterlo interrogare.» Surabar aggrottò la fronte vedendo il fianco dolorante di Femke. «Ti sei fatta male di nuovo, non è così?» «Le mie costole non si sono ancora riprese del tutto» ammise la ragazza con una smorfia. «In futuro farò più attenzione.» «Tu non sei in grado di fare altro se non riposare, signorina. Se non fossi così a corto di agenti validi, chiederei ai medici di chiuderti a chiave in infermeria fino alla tua completa guarigione. Purtroppo però non mi è possibile farlo. Dimmi, dov'è e cos'hai saputo da lui?»
«È rinchiuso. Ha perso molto sangue, ma i medici si stanno prendendo cura di lui. Credo che ce la farà. Posso dirvi che non è un membro della Corporazione degli Assassini. L'ho già visto prima, ma non conosco il suo vero nome. Avevo pensato che fosse una spia più che un Assassino, ma gli hanno offerto abbastanza denaro da spingerlo a cambiare attività. A quanto pare abbiamo trovato la prossima missione per Reynik.» La carrozza si avvicinava a passo solenne alla grande magione di campagna di forma rettangolare. Lord Kempten sbirciò attraverso le tende dei finestrini della vettura. L'edificio di pietra era freddo e grigio. Per certi versi sarebbe stato bello trascorrere di nuovo un po' di tempo lì. Erano passati alcuni mesi dall'ultima volta che ci era stato. Certo, Izzie era con lui, allora. Non sarebbe stata la stessa cosa, senza di lei. Izzie era stata in cima ai suoi pensieri durante tutto il viaggio. Come avrebbe reagito alla sua "morte"? L'Imperatore aveva promesso che l'avrebbe inviata lì, nella casa di campagna, alla prima occasione, ma farlo subito avrebbe destato sospetti. Aveva il cuore gonfio di pena al pensiero di quello che lei stava provando in quel momento. Per lo meno sapeva che i suoi figli si sarebbero presi cura di lei. Erano tipi affidabili e di buon senso. L'avrebbero aiutata a farcela. «Non posso dirglielo» gli aveva spiegato Surabar. «È troppo rischioso. Ho bisogno che lei abbia una reazione di autentico dolore se vogliamo che l'inganno sembri realtà. So quanto sarà difficile per lei e per i suoi figli. Stia certo che mi scuserò con loro appena mi sarà possibile, sono sicuro che capiranno che l'ho fatto per un'ottima ragione. Lei è diventato un bersaglio perfetto per la Corporazione. Non permetterò che la colpiscano. Questo inganno ha un vantaggio duplice. Offrirà immediatamente a Reynik la copertura che gli occorre per infiltrarsi nella Corporazione e servirà a mettere fuori pericolo lei per un po'.» La carrozza si fermò davanti al portone principale. Il vetturino, che in realtà era un membro della rete di spie imperiali, scese con un balzò e aprì la porta. «Via libera, mio signore. Però non stia a perdere tempo qua fuori. C'è sempre la possibilità che ci sia qualcuno a osservarla.» Kempten saltò giù dalla vettura. Aveva la schiena irrigidita dal lungo viaggio, ma non volle perdere tempo a stiracchiarsi. Salì i pochi scalini che lo separavano dal portone d'ingresso il più in fretta possibile e sparì all'interno.
Il personale domestico era ridotto al minimo, quanto bastava per tenere il posto pulito e ordinato durante l'assenza dei padroni. Izzie era solita condurre con sé gran parte del personale dalla loro abitazione in città. In giro non c'era nessuno. Andò nelle cucine e frugò nella credenza finché non trovò il dahl. La brace in cucina era ancora tiepida. Un po' di combustibile e qualche soffiata col mantice, e ben presto si risvegliò un bel fuocherello. Poco dopo Kempten era seduto nella sua sedia preferita nello studio, con i piedi su uno sgabello e una grossa tazza di dahl fumante fra le mani. Guardava fuori dalla finestra, verso gli alberi verdi e i campi aperti. Era tutto così silenzioso lì. Chiuse gli occhi e a un tratto riandò con la mente agli attimi precedenti la sua "morte" nell'ufficio della Corte a Shandrim. La scena era ancora vivida nella sua mente, ne rammentava ogni dettaglio: Come ci si sentiva a morire? Era un pensiero che non lo abbandonava. Giocherellava con le carte che aveva sul suo tavolo, prima le rimetteva in ordine e poi le sparpagliava di nuovo. Il sacchetto pieno di sangue di maiale gli dava fastidio e gli sembrava che si notasse troppo. L'impugnatura del pugnale finto che Femke gli aveva dato avrebbe ingannato qualcuno? Si passò le dita fra i capelli argentei. Un attimo dopo li scompigliò di nuovo. «È ridicolo!» borbottò a voce alta. Quale aspetto fosse opportuno avere per il proprio assassinio era un pensiero che non lo aveva mai sfiorato prima. C'erano talmente tanti dettagli che potevano tradirlo. Di solito aveva i capelli così ben pettinati? E il suo scrittoio era sempre così in ordine! Dove avrebbe dovuto posare la penna e il calamaio? Avrebbe dovuto tenere la penna in mano? Morendo avrebbe dovuto assumere una posizione drammatica riverso sulla scrivania oppure doveva soltanto lasciarsi cadere sul pavimento come un sacco di patate! Erano tutte domande che gli affollavano la mente, accrescendo la sua tensione e il suo nervosismo a ogni minuto che passava. Quanto mancava! Doveva succedere di lì a poco. Un pensiero nuovo gli attraversò la mente. E se mi stessero imbrogliando! E se questo assassinio fosse autentico! L'Imperatore Surabar l'aveva realmente perdonato per aver tentato di ucciderlo in occasione dell'incoronazione! L'addestramento di Reynik come Assassino era reale. L'Imperatore aveva forse deciso di mettere alla prova la risolutezza del suo protetto chiedendogli di uccidere davvero! Che cosa poteva esserci di più facile che lanciare un pugnale a un bersaglio a cui era stato ordinato di
starsene seduto immobile! La sua agitazione non faceva che aumentare. Avrebbe davvero fatto la figura dello sciocco se lo avessero trovato con un pugnale finto che gli spuntava dal petto insieme a uno vero. Che cosa ne avrebbe pensato la gente! Qualcuno sarebbe riuscito a ricomporre i pezzi del puzzle! E a qualcuno sarebbe importato! Si era fatto un mucchio di nemici fra i nobili in quegli ultimi tempi. Non era mai stato un tipo popolare, e il suo sostegno all'Imperatore non aveva certo migliorato la sua reputazione fra i suoi pari. Ai loro occhi era un traditore. Secondo loro, chi sosteneva che un cittadino comune potesse indossare il Mantello da Imperatore perdeva il diritto di essere chiamato Lord. E se il contratto fosse stato reale? Fece per alzarsi dalla sedia, si fermò e si rimise a sedere con un sospiro. "Oh, Izzie" disse fra sé "che cosa sto facendo? È terribile farti soffrire in questo modo, ma non durerà a lungo, andrà tutto bene, vedrai. " Per un attimo, ogni minuto dei suoi sessantasei anni gravò su di lui. Si sentiva vecchio, anche se sapeva di avere ancora molti anni di vita davanti a sé, presumendo, ovviamente, di non incorrere in una morte violenta. Si passò le dita sotto gli occhi e poi su tutta la faccia, sentendo la pelle rilassata delle guance tendersi mentre la tirava verso l'alto. "Sei un vecchio sciocco e grinzoso, Kempten" pensò tristemente. "Surabar ha solo cinque anni meno di te, ma nonostante i capelli grigi, ha l'aspetto e il comportamento di un uomo di neanche cinquant'anni. Che cosa credi di fare? Tu non sei Surabar. In un modo o nell'altro, questo pasticcio significherà la morte per te. " Non ci fu alcun preavviso. La porta si spalancò. Era Reynik. Scorse di sfuggita la lama già in volo e la sua mente, nonostante stesse già andando al massimo, accelerò ancora. Raggelò. Il pugnale gli passò sopra la spalla a una velocità fulminea e centrò l'interno della credenza alle sue spalle con un tonfo impressionante. Non lo aveva colpito. Tutte le sue preoccupazioni erano state inutili. Surabar lo stava proteggendo come aveva promesso. Il sollievo si riversò dentro di lui con una vampata di calore, partendo dalla bocca dello stomaco per arrivare a colorirgli il viso. Reynik si fermò sulla soglia per un istante. Il suo volto da ragazzo era concentrato, il suo equilibrio perfetto. "Benedetto Shand! Sono stato anch'io così giovane?" si trovò assurdamente a divagare per un attimo. Sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Allentò la giacca per mettere in mo-
stra il pugnale finto che gli spuntava dal petto, poi premette il sacchetto che teneva sotto la casacca facendo sgorgare il sangue di maiale. Quindi afferrò il falso pugnale con entrambe le mani e cadde riverso in avanti sul tavolo, mentre una pozza di sangue rosso scuro si allargava sotto di lui. Reynik non c'era già più. Il rumore dei suoi passi che percorrevano di corsa il corridoio si stava facendo sempre più lieve. Mentre il giovane si allontanava, altri si avvicinavano, anch'essi a gran velocità. I nuovi arrivati si fermarono sulla soglia. «Quell'uomo ha appena ucciso Lord Kempten. Ehi, tu! Fermati!» Era la voce di Jeremus, una delle spie colleghe di Femke. La riconobbe per averla sentita alla riunione che avevano tenuto il giorno prima per programmare i dettagli. Senza fermarsi, Jeremus si mise alle calcagna di Reynik, facendo così allontanare il suo inconsapevole complice. Il rumore dei passi che correvano svanì in fretta. Tutto stava andando alla perfezione. Era davvero così facile ingannare tutti e farsi credere morto? Rimase dov'era, immobile e in silenzio. Se si fosse spostato avrebbe smosso il sangue sulla scrivania. Ora non doveva fare altro che aspettare. Se tutto fosse andato bene, non ci sarebbe voluto molto. La fase successiva prevedeva che Lord Kempten portato via dall'edificio in fretta e senza troppo chiasso. Meno gente l'avesse visto, più ci sarebbero state chiacchiere. La voce si sarebbe diffusa come un lampo. Nel giro di un paio d'ore, la notizia del suo omicidio si sarebbe sparsa per tutta la città. E certamente, sarebbe stato utile che le speculazioni venissero alimentate e amplificate dalla rete di agenti e di pettegoli di Femke. L'intera vicenda, dall'inizio alla fine, non sarebbe durata più di un giorno. Nel giro di una settimana, i commenti sull'assassinio sarebbero diventati storia vecchia e il suo nome, Lord Kempten, non sarebbe stato più di una noterella nella sanguinosa storia di Shandrim. Passò un minuto, poi un altro. Udì un rumore alla porta. Non si mosse. Sbirciare poteva significare rovinare tutto. «Benissimo, Milord, i portantini stanno arrivando.» Era Reynik. Il fatto che fosse ritornato così in fretta significava che era riuscito a imbrogliare l'uomo che era con Jeremus. Tutto stava andando secondo i piani. Se la sua rete di spie era sempre così efficiente, rifletté, non c'era da stupirsi che l'Imperatore fosse sempre al corrente di tutto. Il rumore di altri passi che si avvicinavano si fece sempre più forte. Rimase immobile, deciso a non tradirsi inavvertitamente. Al loro arrivo, Reynik iniziò a dare istruzioni.
«Posate la barella qui. Avete la giacca? Ottimo. Allargate la giacca sulla barella. Ci poseremo sopra Lord Kempten. Datemela. Grazie. Ora, tu e tu, prendetelo per le spalle. Noi lo prenderemo per le gambe. Al tre... Uno, due, tre.» Si rilassò completamente, lasciando che gli uomini lo sollevassero dalla seggiola e lo deponessero sulla barella. Reynik era precisissimo nelle sue indicazioni. Lo sollevarono in modo preciso, efficiente, senza il minimo scrollone. Merito dell'addestramento militare, pensò. Nel giro di un minuto dal loro arrivo, lo stavano già portando fuori dal suo ufficio lungo il corridoio, verso l'atrio dell'ingresso principale. La tentazione di socchiudere gli occhi per vedere come la gente reagisse a quella drammatica piega presa dagli avvenimenti era fortissima. Ma sapeva che quello non era un gioco. Non poteva permettersi di dare agli altri anche solo il minimo motivo di dubitare che ciò che stavano vedendo fosse reale. Non cedette alla tentazione. Un improvviso cambiamento nella temperatura e nei rumori di fondo gli fece capire che erano usciti dalla porta principale. Nella confusione della piazza antistante l'edificio, distinse il consueto tramestio di carrozze, cavalli e pedoni che caratterizzava il centro di Shandrim. Fece eccezione il grido di una donna, a pochi passi da lui. Il cuore di Lord Kempten sobbalzò a questo strillo improvviso e lacerante. Come avesse potuto impedire anche al proprio corpo di sobbalzare, non lo capì. O forse in realtà non c'era riuscito. La barella fu issata su una carrozza arrivata proprio in quel momento. Reynik ci salì sopra insieme a lui e richiuse lo sportello. Sentì la luce calare mentre il ragazzo tirava le tendine. La carrozza si mise lentamente in moto a passo di trotto, allontanandolo dalla scena dell'omicidio. Ce l'avevano fatta... o no? Tutto era accaduto così in fretta che qualcuno avrebbe potuto nutrire dei dubbi sull'andamento dei fatti. Dal colpo dell'Assassino all'uscita del corpo dall'edificio erano passati solo pochi minuti. L'inganno sarebbe stato svelato dalla loro perfetta efficienza? Solo il tempo avrebbe potuto dirlo. «È tutto a posto, Lord Kempten. Può mettersi a sedere adesso. È improbabile che qualcuno ci fermi. Congratulazioni, signore. Può considerarsi appartenente alla schiera dei nostri cari estinti.» Si mise seduto, sentendosi stranamente distaccato e assente. A giudicare dallo sguardo sul viso di Reynik, il suo aspetto non doveva essere dei più salutari. L'espressione del giovane legionario era grave e preoccupata,
come se stesse osservando un uomo sul punto di crollare. Il rumore delle ruote della carrozza che sbatacchiavano sull'acciottolato era forte. «Povera Izzie!» mormorò fra sé. «Mi chiedo se mi perdonerà mai per questo.» «Si dice in giro che offriate denaro in cambio di informazioni» disse la donna con voce roca. «Dipende tutto da quali informazioni, brutta megera. Che cosa vorresti vendermi?» Toomas guardò la vecchia sudicia alla sua porta. I suoi abiti erano poveri e laceri, si teneva il lurido mantello avvolto strettamente attorno al corpo nel tentativo di nascondere i vestiti malandati che aveva sotto. E puzzava. Dal fetore che emanava, si sarebbe detto che quella donna non si lavava da mesi. Era difficile capire come anche la persona più malridotta potesse cadere ancora più in basso. Teneva il cappuccio calcato a nascondere il viso, ma non era poi così strano. Molti di coloro che gli vendevano informazioni volevano rimanere anonimi. Ma lei non si sarebbe dovuta preoccupare. Lui non aveva il minimo desiderio di scoprire l'identità di vecchie e lacere mendicanti. «Ho sentito dire che vuole sapere qualcosa dell'uomo che ha ucciso Lord Kempten.» Quelle parole attirarono la sua attenzione. La vecchia ridacchiò. Aveva cercato di nascondere il lampo di curiosità nei suoi occhi, ma non era stato abbastanza veloce. Lei lo aveva notato e sapeva che avrebbe pagato un buon prezzo per sentire quello che aveva da dire. «Quanto?» chiese lui. «Cinque sen d'oro» rispose la donna continuando a ridacchiare. «Ma è ridicolo!» ribatté lui in fretta. «Nessuno pagherebbe tanto per le tue informazioni, vecchia. Ti darò due sen d'argento, non un sennut di più.» La vecchia si voltò e fece per ciabattare via. «Aspetta! Dove stai andando?» «Sarò anche vecchia e povera, Toomas, ma non sono una sciocca» replicò lei voltandosi. «Le informazioni che ho valgono cinque sen d'oro. Se non sei disposto a pagarmele, so dove trovare chi lo farà.» Toomas strinse i denti seccato. Non voleva spendere così tanto, ma sapeva che in città c'era chi sarebbe stato pronto a pagare molto, ma molto di più, per avere informazioni su quell'uomo.
«Va bene, vecchia, cinque sen d'oro. Aspetta qui un attimo mentre vado a prenderti i soldi.» Toomas chiuse la porta, tirò il catenaccio e corse al piano di sopra, dove teneva le sue riserve segrete di denaro. Se l'era sempre cavata bene in questo suo secondo lavoretto. Ed era un bene che fosse così, perché la sua attività legittima non era altrettanto lucrosa. Avrebbe passato diversi inverni davvero duri se non avesse avuto questa capacità di trarre profitto da qualche piccola informazione passata di mano qua e là. La sua rete attraverso la città si era allargata, negli ultimi anni. Non era altrettanto grande di altre, ma di recente aveva rubato una fetta di mercato a molti degli informatori più affermati. Quella poteva essere la sua possibilità di fare un colpo come si doveva. Riaprì la porta col mucchietto di monete d'oro in mano. La vecchia era ancora là, strascicava i piedi e intanto sembrava guardare a terra. «Voglio avere un'idea di quello che hai da dire prima di darti una somma del genere, megera. Che cosa sai? Solamente un nome? Non intendo mollare cinque sen d'oro per un nome che potrebbe essere falso.» «Ho un nome, ma non quello del colpevole. So quale sarà il suo prossimo bersaglio.» Toomas rischiò di soffocare. La sua mente era in subbuglio. La donna si rendeva conto di quello che aveva in mano? Ne dubitava. «Il suo prossimo bersaglio? Ne sei sicura? Se ti sbagli, vecchia, ti farò cercare per tagliarti la gola. Queste sono informazioni pericolose.» «Ma valgono cinque sen» osservò lei. «Benissimo: di chi si tratta?» «Lord Lacedian» bisbigliò con fare drammatico Femke sotto il suo travestimento puzzolente. «Ucciderà Lord Lacedian.» «Dannazione! Vorrei non aver mai dato inizio a tutto questo!» borbottò Surabar sparpagliando le carte sullo scrittoio con un gesto irritato della mano. «Non riesco a concentrarmi. Non riesco a pensare. È ridicolo!» Si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro per lo studio. «Nella classifica delle decisioni più stupide che ho preso nella mia vita, quella di dichiarare guerra alla Corporazione degli Assassini si trova sicuramente ai primi posti.» Mentre camminava il suo sguardo era distante e la sua mente rimuginava sempre sugli stessi pensieri che lo perseguitavano da settimane. "Non doveva accadere niente di tutto questo. Dovevo lasciare il trono di
Imperatore non appena tornato da Mantor" pensava con il volto tetro. "Avrei potuto rientrare nelle legioni. Lì la morale è molto più lineare. Se non fosse stato per quel maledetto Shalidar e le sue interferenze, avrei potuto lasciare il Mantello a qualcuno di più adatto. Allora non sarebbe emersa nessuna di queste complicate questioni. Il senno di poi è una cosa meravigliosa, Surabar, ma è troppo tardi per avere ripensamenti" si disse. "Doveva essere una cosa semplicissima: trovare la sede della Corporazione e stanare il nemico. Era una tattica che avrebbe funzionato con un gruppo di ribelli o una fazione di dissidenti, ma la Corporazione è qualcosa di ben diverso da tutto quello che abbia mai dovuto affrontare con le mie legioni. Invece di esploratori, ho spie. Invece di legioni, ho milizie cittadine. Certo, posso ordinare alle legioni di venire in appoggio ai miliziani, ma questo non è un ambito di guerra tradizionale. Devo tenere conto delle conseguenze delle mie azioni sulla popolazione civile. "Femke e i suoi colleghi della rete di spionaggio sono in gamba, ma hanno i loro limiti. Il trucco con Kempten ha funzionato perché, con tutti gli assassinii di comandanti militari eseguiti finora dalla Corporazione, nessuno ha avuto motivo di sospettare che questo omicidio fosse diverso dagli altri. Non c'era nessuno a guardare abbastanza da vicino per svelare l'inganno. Ma perché Reynik riesca a entrare nella Corporazione, loro vorranno vedere un corpo. Qualcuno dovrà morire sul serio." Si fermò di botto. "Ma perché la morte di un uomo, di un traditore, dovrebbe farmi sentire così immorale? Come comandante, ho teso agguati che hanno portato allo sterminio di centinaia di uomini, ma questo, al confronto, mi sembra ripugnante." Le parole del suo vecchio mentore gli risuonavano nella mente: "Non esistono tattiche sleali in guerra, solo tattiche vincenti o perdenti. Il trucco per essere un buon comandante sta nell'usare quelle vincenti." "E allora perché questa è diversa?" La domanda rimase sospesa. Ultimamente gli capitava sempre più spesso di parlare da solo. Avrebbe preferito discutere i suoi problemi con qualcuno, ma era una questione di fiducia. Aveva preso in considerazione l'idea di confidarsi con Femke, ma non gli sembrava opportuno. La risposta era sempre stata lì. Riprese a camminare su e giù, questa volta con maggiore decisione. "La persona che dovrà morire non è parte in causa, in questa guerra" comprese. "Lacedian sarà anche un traditore, ma non è legato alla Corpo-
razione degli Assassini. Ecco perché sento che è sbagliato. È come sferrare un attacco a uno stato neutrale solo per colpire il proprio vero nemico. Quella nazione può anche non essere amica, ma non ha niente a che fare con la guerra in corso. È contrario al codice di comportamento militare. "Forse non ci sono tattiche ingiuste, in guerra, ma si suppone che solo le parti impegnate nel conflitto siano coinvolte. Pensavo di fare qualcosa di imprevisto, di ingannare la Corporazione dando un ordine che loro non si potevano aspettare. Eppure, anche se alla lunga dovessi avere successo, non posso ignorare la mia natura. Devo rispettare una certa etica. Pensavo di poter giustificare questa mia scelta, ma non è così, perché so che tutto questo è intrinsecamente sbagliato." Era troppo tardi per fermare Reynik. Surabar non aveva più la possibilità di mettersi in contatto con lui. Se il giovane legionario avesse ucciso lord Lacedian, Surabar avrebbe dovuto sopportarne le conseguenze. Pur essendo Reynik la freccia che avrebbe ucciso il lord, era lui l'arco che l'avrebbe scoccata. Comunque non ci sarebbero stati altri tentativi del genere. Se Reynik non fosse stato contattato dalla confraternita dopo questo assassinio, Surabar avrebbe messo fine al suo piano. Sapeva che cosa doveva fare adesso. Doveva tornare a combattere su un terreno che conosceva. Era tempo di far intervenire le legioni. Provocare disagio fra i civili era una cosa, ucciderli era un altra. Avrebbe chiesto alle legioni di smantellare la città pietra su pietra, se necessario, ma prima o poi avrebbe trovato la sede della Corporazione. «Questa volta non potrò aiutarti, Reynik. Dovrai fare il colpo da solo. La Corporazione terrà costantemente d'occhio Lacedian, e non sarei sorpresa se anche il tuo bersaglio fosse informato del tuo arrivo. Se qualcuno mi vedesse, tu saresti compromesso. Reynik annuì con un sorriso. Sperava che il senso di nausea che provava dentro di sé non trapelasse sul suo volto. Non voleva farle una cattiva impressione. Era difficile immaginare come una persona come Shalidar potesse sopportare di uccidere tante volte a sangue freddo. Non voleva affatto assomigliare all'assassino di suo zio ma, date le circostanze, era difficile non invidiare il freddo distacco di quell'uomo.» Il solo pensiero di uccidere Lacedian gli dava il voltastomaco. Ma il ragazzo non voleva mostrare la propria debolezza a Femke. Sapeva che lei aveva dovuto uccidere a sangue freddo, in passato, ma aveva saputo tenere a bada le sue emozioni. Pur sapendo che lei aveva ucciso, non la vedeva
come un'assassina. Perché? Che cosa la rendeva differente da Shalidar? Forse il fatto che questo non la lasciava indifferente. Shalidar non ci avrebbe pensato due volte, ad ammazzare qualcuno, se la cosa fosse stata nel suo interesse. Femke aveva ucciso quando le era stato ordinato di farlo, ma dalle conversazioni che aveva avuto con lei durante il suo addestramento, sapeva che ancora oggi doveva lottare con la sua coscienza per scendere a patti con quello che aveva fatto. «Lo so» rispose lui cercando di lasciar fuori dalla mente ogni pensiero negativo che potesse distrarlo. «Lo immaginavo. Però vorrei conoscere la tua opinione sul modo di portare a termine la missione. Sei così brava che io mi sento ancora un goffo principiante.» Femke lo fissò a lungo. Lui aveva superato a una velocità quasi allarmante lo stadio del principiante, ma gli mancava ancora un po' di fiducia in se stesso. C'erano volte in cui avrebbe voluto picchiarlo e altre in cui avrebbe solo voluto baciarlo. Maledizione! Perché doveva essere un tipo così simpatico? Che cos'aveva? Era giovane, ma i suoi lineamenti erano già forti e belli. Lo immaginava soltanto o lui era veramente attratto da lei? Non aveva mai fatto nulla per darlo a vedere, però sentiva che se lei avesse fatto la prima mossa, lui avrebbe risposto positivamente. I suoi sentimenti per Reynik crescevano e sembrava che non potesse fare molto per fermarli. «Reynik, tu ti butti sempre giù. Non te lo puoi permettere. Più ripeti a te stesso che non sei capace, più ti convincerai che è proprio così. Ascoltami: hai acquisito le doti che ti occorrono per svolgere questa missione più in fretta di quanto avrei mai creduto possibile. Ci sei portato. Puoi farcela, Reynik. Devi credere in te stesso. Io credo in te. Davvero. Puoi farcela.» «Ti ringrazio. Mi fa bene sentire queste parole, però, diciamolo, qui le parole contano poco. Dove dovrei colpire, secondo te? È un altro lavoro alla luce del giorno o è meglio aspettare il buio?» «Istintivamente, direi che è meglio colpire di notte. Avrà schierato tutte le sue difese contro di te, ma a casa sua si sentirà al sicuro. E per quanto sia protetto, c'è sempre un punto debole. E poi, la situazione dovrebbe essere abbastanza tranquilla perché la Corporazione abbia modo di mettersi in contatto con te senza temere di farsi scoprire. Il trucco, comunque, sta nell'aggirare le difese di Lord Lacedian e nel venirne fuori riducendo al minimo i contrasti. Sai dove abita?» «No.» «Non è lontano dal centro città. È una casa piuttosto grande, ma non la più grande di tutte. A memoria, direi che è più o meno così.»
Femke andò al suo comò e tirò fuori da un cassetto un pezzo di pergamena. Lo posò sul piano del tavolo, intinse la penna nel calamaio e iniziò a tracciare lo schizzo di una casa. Reynik la osservò con interesse mentre la piantina prendeva forma. Nel giro di qualche istante, il giovane iniziò a farsi un'idea dello stile della casa. Aveva visto molte forme simili, nelle parti più ricche della città. Era uno stile comune. Non conosceva la storia dell'architettura di Shandrim, ma immaginava che tutte le case fossero state costruite più o meno nello stesso periodo, probabilmente dagli stessi costruttori. «Lacedian è vedovo» gli spiegò Femke assumendo un tono di voce che gli ricordava quello di una maestra. «Non ha figli, perciò se in casa ci sarà qualcuno, si tratterà molto probabilmente di guardie o di domestici. Preferibilmente, non dovresti colpire nessuno di loro: più la missione è pulita, meglio è. Ma come agire?» Femke si fermò, sfregandosi con l'indice prima le labbra e poi il mento, persa nei suoi pensieri. Reynik si lasciò distrarre da quel movimento e la sua concentrazione sul problema di come uccidere Lacedian svanì mentre diventava consapevole della vicinanza di lei. Erano spalla contro spalla, chini sulla piantina. "Per Shand, com'è carina" pensò osservando affascinato la punta del dito che abbassava lievemente il labbro inferiore a ogni passaggio. Tutta la sua attenzione era attratta da quel gesto. Avrebbe tanto voluto baciare quelle labbra e vedersi ricambiare il bacio con passione. Il suo corpo si tese e il cuore iniziò a battere più in fretta, mentre la vicinanza di Femke minacciava ormai di sopraffarlo. Il suo profumo fresco gli riempiva le narici e lo travolgeva. A un tratto Femke arricciò le labbra. Il cuore di Reynik sobbalzò. «Uhm... non sarà facile, ma se fossi in te, io...» "Come posso pensare a qualcosa del genere in questo momento?" si chiese lui. "Stiamo discutendo di come uccidere un vecchio a sangue freddo, per Shand! Tutto questo è surreale. Accidenti, che professionista sei, Femke! Come fai?" In un modo o nell'altro, lei riusciva a mantenere le sue emozioni sulla missione distaccate dalle questioni che stavano discutendo. Avrebbe voluto sapere come ci riusciva. Il momento era passato. Gli affari chiamavano. Era una questione di vita o di morte, la sua vita o morte. Sapeva di doversi concentrare sul lavoro da svolgere, oppure i suoi bei sogni a occhi aperti non avrebbero mai avuto la possibilità di realizzarsi. Con un sospiro quieto si costrinse a riportare l'attenzione sullo schizzo di Femke.
«La Volpe desidera vederla, Maestro.» «Adesso?» domandò lui stancamente. «Che ore sono?» «È suonata da poco la seconda campana, mio signore.» Il Maestro sospirò. Doveva essere importante per disturbare il suo riposo a quest'ora. Shantella era una delle donne più intelligenti che avesse mai conosciuto. Aveva la mente ottenebrata dal sonno, ma sapeva di non poter ignorare quella richiesta. «Va bene. Informa fratello Volpe che sarò pronto a vederla fra pochi minuti» rispose senza riuscire a reprimere uno sbadiglio. Si stiracchiò in fretta e tirò giù le gambe dal letto. Gli ci vollero pochi istanti per vestirsi, ma prima di lasciare la sua stanza per salire al livello principale del complesso della Corporazione, si prese un po' di tempo per lavarsi accuratamente la faccia con l'acqua fredda. Una volta asciugatosi con una salvietta morbida, si sentì assai più reattivo. Il suo corpo protestava ancora per la stanchezza, ma almeno adesso era del tutto sveglio. Il Maestro risalì la scala a chiocciola ed entrò nella sala delle assemblee, mentre rifletteva sulle notizie che Shantella poteva avere in serbo per lui. Attraversò la sala e oltrepassò la porta contrassegnata dall'emblema della volpe. La richiesta doveva aver a che fare con gli assassini misteriosi. Li aveva scoperti? Erano davvero due o uno soltanto? Bussò alla sua stanza privata e la melodiosa voce della donna lo invitò a entrare. Aprì la porta e la trovò distesa su un divanetto con un bicchiere di vino rosso in mano. Ce n'era un altro sul tavolo, chiaramente pronto per lui. Lui non l'avrebbe toccato, ovviamente. Non si accetta tranquillamente qualcosa da mangiare o da bere da una nota Assassina, anche se si è il Maestro della Corporazione degli Assassini. Anzi, forse non lo accettò proprio perché lui era il Maestro della Corporazione. Ad ogni modo, era altamente improbabile che qualcuno degli altri Assassini sapesse chi era destinato a essere il successivo Maestro, perciò era altrettanto improbabile che qualcuno potesse avere intenzione di ucciderlo per prendere il suo posto. Quella Volpe era una gran donna. Lo stuzzicava impietosamente col suo corpo. Le sue gambe lunghe e snelle spuntavano distintamente dallo spacco che si apriva nella sua veste informale. «Benvenuto, Maestro. Si accomodi» disse sommessamente, scuotendo piano la testa e facendo scendere sulle spalle i suoi riccioli ramati. «No grazie, Shantella. Non credo che tu mi abbia fatto venire qui a quest'ora di notte per scambiare convenevoli, perciò veniamo subito al noccio-
lo» le domandò mantenendo un tono formale. «Hai scovato gli assassini misteriosi?» «Assassino, al singolare, a quanto pare...» lo corresse lei. «Anche se non ho conferma del fatto al di là di ogni dubbio.» «Be', è già un buon inizio. Chi è quest'uomo? O questa donna?» Shantella si imbronciò un poco per i modi freddi del Maestro, ma la sua voce rimase vellutata come la seta mentre rispondeva. «Non so chi sia... ancora» ammise. «Però so che ha accettato un altro contratto.» «Un altro contratto? Chi? E chi lo ha pagato?» domandò il Maestro mentre la sua voce tradiva l'ansia per questa informazione. «Il mandante rimane un mistero. Per quanto riguarda il bersaglio, voci di corridoio dicono che si tratti di Lord Lacedian.» «Lacedian! Un obiettivo interessante. Mi chiedo chi lo voglia morto. È della vecchia guardia, ma non è fra quelli in corsa per diventare Imperatore, se dovessero riuscire a liberarsi di Surabar. Grazie, Shantella. Ottimo lavoro. Farò in modo di avere un gruppo dei nostri a sorvegliare Lacedian notte e giorno. Non voglio perdere l'occasione di scoprire quest'uomo del mistero e di farlo venire qui per una chiacchierata. Disporrò la sorveglianza. Nel frattempo vorrei che tu scoprissi chi lo ha pagato. Chiaramente quest'uomo opera negli strati superiori della società, qui a Shandrim. Ma chi lo ha addestrato? Da dove viene? Ho bisogno di sapere di più su di lui, e in fretta.»
Capitolo nove «Tremarle! Tremarle! Il prossimo sarò io. Lo sanno tutti in città! Il prossimo sarò io! Lord Lacedian entrò precipitosamente nello studio di Lord Tremarle senza più nulla della sua consueta dignità. Tremarle guardò l'amico e notò il suo pallore e le sue mani tremanti senza perdere il proprio abituale contegno freddo e imperturbabile. Dentro, però, il suo cuore si fermò per un attimo. Di cosa andava parlando il suo amico? Che cos'aveva spaventato Lacedian tanto da ridurlo in quello stato?» «Calmati, vecchio mio, calmati» rispose Tremarle con un tono ancora
pacato e tranquillizzante. Si alzò senza fatica dalla sedia e attraversò la stanza fino allo stipetto dei liquori. Ne estrasse due bicchieri e versò una dose abbondante di brandy da una caraffa di cristallo in ognuno dei due, poi porse quello più pieno a Lacedian. Il vecchio lord lo afferrò con entrambe le mani, stringendolo con forza per evitare di scuoterlo e di rovesciare l'alcol sul prezioso tappeto. «Siediti, Lacedian. Calmati e dimmi perché sei così agitato.» L'amico mandò giù un gran sorso di brandy e chiuse gli occhi per un secondo mentre cercava di ritrovare una certa compostezza. Fece per sedersi, poi all'ultimo istante cambiò idea, e iniziò a camminare avanti e indietro per il salottino con la mente che galoppava furiosamente, mentre riordinava i pensieri per parlare. «L'uomo che ha ucciso Kempten ha preso di mira me. Un informatore è venuto da me questa mattina e mi ha venduto la notizia. Sono stato tentato di considerarlo un falso allarme, ma poi ne è venuto un altro, nel pomeriggio. Il secondo era seccato di non essere stato il primo a portarmi la notizia. Qualcuno deve aver deliberatamente diffuso la voce. L'unica ragione che riesco a immaginare è che il sicario voglia che io sappia che sta arrivando. Ma che razza di lurido sadico è? Ha tormentato anche Kempten in questo modo?» «Non essere precipitoso, Lacedian, dubito che Kempten sapesse di essere il bersaglio di un Assassino, altrimenti avrebbe aumentato la sorveglianza. Da quanto ho sentito dire, il sicario è entrato nella Corte Civile e gli ha lanciato contro un pugnale. Non c'erano sentinelle alla porta di Kempten. Non indossava nemmeno una qualche armatura protettiva. Niente. E poi, questa potrebbe essere solo una beffa. Ultimamente hai dato fastidio a qualcuno per spingerlo a stipulare un contratto contro di te?» Lacedian smise di camminare avanti e indietro e fissò su Tremarle uno sguardo penetrante. «Nessuno, a parte la persona più ovvia» rispose. «Surabar! Ma è assurdo! In questo momento è impegnato a liberare la città dagli Assassini. Immagina che cosa significherebbe per il suo prestigio se si scoprisse che ha contattato un sicario durante una campagna come questa! Una tale ipocrisia lo costringerebbe a cedere il Mantello in men che non si dica. Quell'uomo è troppo retto per fare una cosa del genere. No, dimentica l'ipotesi che sia stato Surabar. Se il sicario che hai pagato per far fuori l'Imperatore avesse parlato, a quest'ora penzoleresti già dalla forca... e io con te, probabilmente.»
«Ma l'assassino che avevo assoldato è stato preso. Surabar non può non sapere che ho cercato di farlo uccidere. Quell'uomo non apparteneva alla Corporazione. Non si sentiva vincolato a non rivelare il nome del suo mandante come avrebbe fatto un loro membro.» «In ogni caso, questo non significa necessariamente che sia stato proprio Surabar a ordinare la tua morte, Lacedian.» Lord Lacedian riprese ad andare su e giù. «Ma se non è Surabar, allora chi è stato? Io non sono in corsa per prendere il posto di Surabar, se lui dovesse lasciare l'incarico di Imperatore. Non ho fatto niente per infastidire od offendere qualcuno tanto da spingerlo a mettermi un Assassino alle calcagna. È tutta una farsa? O c'è davvero qualcuno che vuole uccidermi?» Lord Tremarle tacque per qualche istante. Rimase a osservare Lacedian che camminava inquieto sul tappeto del salottino. La Corporazione degli Assassini era un'organizzazione strana. Nelle ultime settimane aveva colpito Surabar dove sapeva che gli avrebbe fatto più male. Un contratto su Lord Lacedian non aveva il minimo senso, considerati i suoi ultimi bersagli. Prima aveva ucciso molti comandanti di legione, poi Lord Kempten. La Corporazione sembrava decisa a rimuovere le persone su cui Surabar faceva maggiore affidamento. Non si poteva proprio dire che Lacedian rientrasse in questa categoria, perciò non avrebbe accettato un incarico su queste basi, ti pare? E allora, chi aveva stipulato il contratto, e perché? Era davvero strano. «Ascolta, vecchio mio» disse alla fine Tremarle. «Io ho un contatto nella Corporazione degli Assassini. Lo sentirò e scoprirò se c'è un contratto contro di te. Nel frattempo, manderò quattro dei miei uomini a integrare la tua guardia personale. Ti suggerirei di metterli a sorvegliare la tua abitazione notte e giorno finché non avremo una risposta dalla Corporazione. Forse potresti anche tenere qualche cane da guardia in giardino. Agli Assassini i cani non piacciono.» «Oh, grazie, amico mio. Grazie. Non so dirti che cosa significhi per me il tuo aiuto. Dormirò molto meglio, con questa protezione in più. E voglio assumere anche altri uomini. Se questo Assassino verrà davvero a cercarmi, dovrà fronteggiare un piccolo esercito se vorrà guadagnarsi la paga prevista dal suo contratto.» Pioveva a catinelle. Il rumore secco e continuo dei goccioloni che cadevano sul tetto di ardesia era forte e copriva tutti i fruscii provocati dalla figura accucciata e vestita di nero. Gli appoggi erano scivolosi, la visibilità
scarsa. Un lampo serpeggiò nel cielo, illuminandolo brevemente con la sua abbagliante luce bianco-azzurra. Dal suo punto d'osservazione sulla sommità del tetto, Reynik sbirciò da sotto il cappuccio in lontananza, verso il tetto più basso della casa di Lord Lacedian. Durante il breve baluginare del lampo, gli era apparso più vicino di quanto non gli fosse sembrato nel suo giro di perlustrazione alla luce del giorno. Era un'illusione, ovviamente. Sapeva quanto fosse distante. Sperava soltanto che la sua balestra non si fosse inumidita nell'involto di tela cerata. Nel giro di tre secondi, il rombo crepitante di un tuono manifestò la sua irritazione per il passaggio del lampo. Il cuore del temporale non era lontano e si stava avvicinando rapidamente. Reynik doveva muoversi in fretta. In queste condizioni, non appena avesse tolto il suo attrezzo dalla tela cerata, la sabbia avrebbe iniziato a scendere velocemente nella clessidra. Aveva solo pochi secondi. Se la corda dell'arco si fosse bagnata, avrebbe perso tensione e potenza. E se la fune si fosse inzuppata, sarebbe stata troppo pesante perché la freccia potesse portarla al di là del tetto vicino. Ma il temporale aveva anche un lato positivo: le guardie di Lacedian erano infastidite e se ne stavano a testa bassa. Le probabilità che una di loro alzasse gli occhi e lo vedesse con questo tempo erano davvero minime. Questo, però, era l'unico vantaggio in mezzo a un mucchio di controindicazioni. Entrare nella casa di Lacedian sarebbe stato due volte più pericoloso con questo tempo. Inevitabilmente avrebbe lasciato tracce, una volta dentro, e scappare dopo il colpo sarebbe stato altrettanto pericoloso che entrare. Reynik si rese conto che quella sera avrebbe avuto una possibilità soltanto. Il suo primo lancio doveva essere perfetto. Togliendosi la sacca dalla schiena, la incastrò ai suoi piedi nella "V" fra il comignolo e il tetto. Una volta pronto, lavorò in fretta. Prima di tutto, estrasse dalla sacca l'involto di tela cerata e iniziò a svolgerlo. Non fu facile ma, tenendosi accucciato contro il comignolo, riuscì a mantenere la balestra al riparo della tela mentre la estraeva. Poi la sollevò e la caricò con l'ancoretta cui era legata una sottile fune. La pioggia gli sibilava accanto turbinando fra le raffiche di vento. Il picchiettio tambureggiante sulla tela era riconoscibile per i suoi orecchi, ma a breve distanza si confondeva con i rumori di fondo. Continuava a sembrargli incredibile che una fune così sottile potesse reggere il suo peso, ma Femke glielo aveva dimostrato in maniera convincente nelle sedute di addestramento. Gli aveva assicurato che la pioggia non ne avrebbe ridotto la resistenza. Sperava che avesse ragione, dal mo-
mento che lui non l'aveva mai messa alla prova in condizioni del genere. Se si fosse spezzata, difficilmente sarebbe sopravvissuto alla caduta. «Va bene, lampi, fate il vostro lavoro» mormorò, mentre le sue parole si perdevano nel vento. Con un tempismo perfetto, un'altra lancia seghettata di fuoco illuminò il cupo cielo notturno. Fu così misteriosamente tempestiva che il volto di Reynik si curvò in un sorriso divertito, mentre inclinava la balestra, prendeva la mira e premeva il grilletto. Si udì un tum e l'ancoretta partì con una traiettoria bassa e arcuata in direzione del tetto di Lord Lacedian, mentre la corda serpeggiava dietro di essa srotolandosi con un sibilo. Un maligno soffio di vento si abbatté sul tetto, spostando leggermente sulla sinistra la traiettoria del rampone. «... due, tre...» Esplose un fragoroso rombo di tuono, unito a una raffica di vento che fece sbattere porte e imposte. La sua eco proseguì ancora per qualche secondo mentre la furia del temporale si faceva ancora più vicina. Reynik seguì ansiosamente la traiettoria della fune, ma non gli fu possibile vedere dove fosse atterrata la piccola ancora. La pioggia era sferzata furiosamente dal vento, il che riduceva ulteriormente la visibilità. Sapeva che un lieve spostamento sulla sinistra era meno problematico che uno sulla destra, perché l'ancoretta sarebbe semplicemente andata a impattare in un punto più alto del ripido piano inclinato del tetto e avrebbe potuto poi scendere fino al comignolo e agganciarsi a esso. Troppo a sinistra, invece, sarebbe andato oltre il tetto e non avrebbe trovato niente a cui fissarsi. Ora la fune si srotolava più lentamente. Lo slancio impartito dalla balestra si era esaurito. Reynik afferrò il rotolo di fune restante e sbirciò verso il tetto di Lord Lacedian nel tentativo di vedere dove fosse andato a finire il rampone. Era impossibile a dirsi. Non poteva fare altro che tirare lentamente la corda e sperare che il rampone si fosse agganciato a qualcosa di solido. Con estrema attenzione, tirò la fune verso di sé, raccogliendola nuovamente in una serie di giri ordinati man mano che procedeva. Aveva dipinto di bianco il punto che pensava gli fosse necessario per raggiungere il comignolo del lord. La pittura bianca gli sporcò le mani, ma la fune non era ancora tesa. Si fermò per un attimo e respirò a fondo. "Ti prego, reggi" implorò silenziosamente. "Ti prego. Impigliati nel comignolo e reggi." Palmo a palmo, continuò lentamente ad arrotolare la fune. Cinque brac-
cia di lunghezza oltre il segno bianco, e la corda si tese. Il rampone si era impigliato in qualcosa. Ma in che cosa? Avrebbe retto il suo peso? C'era un solo modo per scoprirlo. Puntellandosi al comignolo vicino a lui, Reynik tese a poco a poco la corda finché non si trovò a tirarla con tutto il suo peso. La fune resistette. «Grazie Shand!» mormorò con un sospiro di sollievo. Avendo cura di mantenere una certa tensione, ne raccolse ancora qualche giro e fece passare il grosso anello così formato oltre il comignolo contro cui stava appoggiato. Poi, grazie alla pratica fatta di recente, aumentò la tensione della fune attorno al comignolo grazie a un nodo scorsoio, tagliò i giri rimasti e li ripose nella sacca. Da lì estrasse poi un attrezzo tendifune che Femke gli aveva mostrato qualche giorno prima. Gli ci volle qualche istante per fissarlo, poi lo fece girare più volte su se stesso finché la fune non divenne quasi perfettamente tesa. Non sapendo con esattezza quanta presa avesse l'ancoretta, era restio a rischiare di aumentare troppo il carico. Quando la tensione fu quella giusta, assicurò il tendifune e tirò fuori un altro degli aggeggi di Femke. Questa volta si trattava di un congegno bizzarro: una sottile carrucola centrale che ruotava liberamente attorno a uno spesso asse circolare di ferro con due manici sporgenti ai due lati dell'asse di rotazione. Impugnature di stoffa erano state legate attorno al manico esterno di ciascuna estremità della staffa di metallo e spire di corda robusta erano fissate alla parte interna di ognuna delle impugnature. Reynik posò con cura l'aggeggio nella "V" fra il tetto e il camino, poi richiuse la sacca agganciando le fibbie e se la rimise in spalla. Afferrò il congegno di Femke, infilò la mano destra attraverso uno dei lacci, lo strinse attorno al polso e impugnò il manico. Una volta accertatosi che la presa fosse salda, sollevò il congegno e appoggiò la carrucola sopra la corda in tensione. Infilò la mano sinistra nell'altro laccio di sicurezza, serrando anche questo saldamente attorno al polso, e strinse le dita attorno all'impugnatura. Tutto ciò che gli rimaneva da fare per iniziare la discesa era sollevare i piedi e lasciar reggere tutto il suo peso dalla barra di ferro. Eccolo: il momento della verità. «Che Shand mi aiuti! Devo essere pazzo» mormorò stringendo i denti e socchiudendo gli occhi per proteggersi dalla pioggia battente. Sapeva che se avesse rimandato, avrebbe trovato qualche scusa per non fare più quel salto nel buio. Perciò, prima di poter cambiare idea, tese le braccia e sollevò i piedi.
La fune si abbassò sensibilmente sotto il suo peso, ma ciononostante Reynik prese velocità e iniziò ad allontanarsi dal tetto. Un lampo squarciò nuovamente il cielo, biforcandosi in modo spettacolare. Raffiche di vento lo facevano dondolare furiosamente da una parte all'altra mentre penzolava nel vuoto. Una folata particolarmente bellicosa gli scalzò il cappuccio dalla testa. La pioggia gli inzuppò immediatamente i capelli. Il resto del mantello ondeggiava dietro di lui con un fruscio pericolosamente rivelatore, mentre il diluvio gli incollava gli altri abiti sulla pelle. La pioggia lo accecava. Strizzando e sbattendo gli occhi contro la barriera di acqua sospinta dal vento, Reynik non si accorse del problema finché non fu quasi troppo tardi. All'ultimo secondo preparò il corpo all'impatto. Non aveva teso la fune a sufficienza per poter planare sul tetto. Anzi, la fune si era così abbassata sotto il suo peso che, quando si avvicinò alla casa, Reynik si trovò al di sotto della superficie del tetto. Avendo poco tempo per reagire, Reynik andò a sbattere a tutta velocità contro il muro laterale della casa di Lord Lacedian. Nonostante avesse fatto del suo meglio per smorzare l'impatto, la collisione contro il muro fu piuttosto violenta. Rimase completamente senza fiato e non riuscì a lanciare più di un "ahi!" di dolore. Qualunque rumore da lui provocato fu portato via dal vento. Per fortuna aveva stretto saldamente le mani nei lacci di sicurezza, così poté evitare una brutta caduta. La mano sinistra scivolò dall'impugnatura di stoffa e il congegno si inclinò rapidamente sulla destra. A quel punto perse la presa anche con la destra, e rimase a dondolare appeso per i lacci di sicurezza. Senza fiato e pieno di contusioni, rimase appeso per un istante, mentre raffiche di vento lo facevano oscillare sulla fune e lo sfregavano avanti e indietro contro la ruvida superficie della parete. Gli sembrava che le braccia gli si fossero allungate. Fitte di dolore gli trafiggevano le ascelle e tutta la parte anteriore del suo corpo era ammaccata a causa dell'impatto ad alta velocità. Un rumore proveniente dal basso attirò la sua attenzione. Esattamente sotto di lui c'erano due guardie che si trascinavano attorno alla casa durante uno dei loro consueti giri di ronda. Rendendosi conto di essere vulnerabile, riprese ad agire. Usando la parete come sostegno, portò in alto i piedi fino a trovarsi quasi a testa in giù, agganciando prima un piede e poi l'altro sopra la fune. Quindi, sospingendosi contemporaneamente con entrambe le braccia, Reynik sollevò il torso e afferrò la fune con la mano destra. Ebbe qualche problema, perché entrambe le mani erano strette nei lacci di sicu-
rezza del congegno di scivolamento. In pochi istanti sciolse la sinistra dal laccio di sicurezza e la affiancò alla destra sulla fune, lasciando la carrucola a penzolare dal polso destro. Appeso alla corda, Reynik trascinò il corpo in avanti sul tetto, finché non sentì di poter sganciare i piedi senza pericolo e mettersi sdraiato. Alleggerita dal peso la fune, tendendosi, si staccò dalla superficie. Senza lasciarla andare, Reynik si rimise in piedi e attraversò l'ardesia scivolosa fino a raggiungere il comignolo. Si accovacciò per un momento al riparo della sottile torre di mattoni, godendosi la breve pausa. Si tolse la sacca dalle spalle ed estrasse da una delle tasche interne un altro rotolo di fune premisurato. Dopo la sua impresa di attraversamento quasi disastrosa avrebbe avuto bisogno di riposare ancora un po', ma sapeva di non potersi permettere di sostare lì. Doveva entrare e uscire da quella casa in fretta, se voleva ridurre al minimo il rischio di essere visto. Non osava sganciare l'ancoretta, perciò la fune rimase dov'era, lasciando una traccia evidente per chi l'avesse vista. Sebbene il temporale fosse stato un colpo di fortuna perché aveva mascherato i rumori che aveva fatto durante la traversata, i lampi potevano ancora tradirlo con la loro luce saettante. Gli elementi erano alleati a dir poco volubili. Gettò un giro di corda oltre il camino e legò la fune con un nodo scorsoio. Poi, come gli aveva insegnato Femke, fece una "U" nella fune e la passò nel congegno di ghisa a forma di otto che teneva alla cintola. Rimise in spalla la sacca e, tenendosi forte con la fune, iniziò a muoversi a tentoni attorno al comignolo e a scendere lungo il ripido tetto. Via via che scendeva e la fune si stringeva, Reynik diventava sempre più sicuro di sé. Il momento peggiore fu il passaggio dalla gronda al fianco della casa, ma una volta superato questo ostacolo, Reynik discese tranquillamente lungo la parete fino a raggiungere le imposte del piano superiore. Come aveva previsto Femke, erano chiuse da un semplice saliscendi, che Reynik riuscì a sollevare facilmente con il suo pugnale. Ma una volta fatto ciò, il problema era mettere via il pugnale e aprirle senza che le raffiche di vento le facessero sbatacchiare rumorosamente. Aprì l'imposta di sinistra e guardò all'interno. Attraverso il vetro Reynik vide che la stanza era vuota e la porta chiusa. Nel giro di qualche secondo anche la finestra era aperta. Era dentro. Reynik scivolò silenziosamente all'interno della stanza, tirando dentro anche quanto rimaneva della fune. Si diede rapidamente un'occhiata in giro per memorizzare la disposizione dei mobili, poi infilò la fune libera sul
davanzale, fra imposta e vetro, e richiuse tutto alle sue spalle. Il rumore diminuì improvvisamente. Una volta lasciati all'esterno il vento e la pioggia, il silenzio in casa era profondo. Qualcuno si era accorto che il temporale si faceva sentire più forte mentre lui apriva la finestra? Non riusciva a distinguere segni di movimento, ma poteva dipendere dal fatto che gli uomini lo stessero aspettando dall'altra parte della porta. Muovendosi come un gatto, strisciò nella stanza buia fino alla porta. Se le informazioni di Femke erano precise, quando fosse uscito da lì avrebbe trovato la camera di Lord Lacedian alla sua sinistra: la seconda porta lungo il corridoio del piano superiore, sul lato destro. Trovò la porta a tentoni e si fermò ad ascoltare: ancora nessun rumore. Reynik estrasse il pugnale dalla fondina sulla schiena. Facendo la massima attenzione a evitare qualunque rumore, spinse la maniglia per aprire la porta. In cima alle scale, alla sua destra, una sola torcia ardeva nella sua staffa. La fiammella arancione gettava ombre dalle lingue ondeggianti, che danzando tracciavano disegni sinuosi. Reynik sbirciò con cautela il ballatoio attorno alla porta. L'ombra di una persona a nemmeno due passi di distanza lo lasciò interdetto. Gli ci volle solo un momento per comprendere che era un'armatura. Riprese a respirare con un sospiro silenzioso. In giro non si vedeva nessun altro. La porta scricchiolò piano mentre lui la apriva quel tanto da riuscire a infilarcisi dentro. Si fermò ancora, col fiato in gola per non far rumore, ma non sentì muoversi nulla. Una volta in casa, era davvero tutto così facile? Sforzandosi di camminare come gli aveva insegnato Devarusso, furtivamente e a passo leggero, Reynik strisciò lungo il corridoio fino alla porta che dava sulla camera da letto di Lord Lacedian. Gli istanti immediatamente successivi sarebbero stati cruciali. Non doveva permettere al vecchio di attirare attenzione sulla sua presenza. Aveva appena posato la mano sulla maniglia che un basso ringhio risuonò nella stanza del lord. Reynik si arrestò. Non era un ringhio umano. Sembrava piuttosto un cane di grossa taglia. Era un cane domestico? Lacedian teneva un cane da guardia nella sua camera? Se sì, le difficoltà erano appena iniziate. Reynik arretrò silenziosamente dalla porta e il ringhio si spense. "Maledizione!" pensò. "E adesso, che faccio?" Femke non sapeva che ci fossero cani in casa, altrimenti gliene avrebbe parlato. Evidentemente il lord era a conoscenza del fatto che c'era qualcuno che lo voleva morto, e aveva preso qualche precauzione in più. Era già
chiaro dall'aumento nel numero delle guardie che sorvegliavano la casa, ma l'uso dei cani era qualcosa a cui Femke e Reynik non avevano pensato. "Se fossi Lacedian e sapessi che qualcuno vuole uccidermi, dormirei in camera mia? Difficile. E dove andrei?" pensò guardando nervosamente su e giù per il corridoio. "Di sicuro piazzerei una trappola nella mia solita stanza: ecco il perché del cane. Ma resterei in casa mia? Probabilmente no, invece Lacedian lo ha fatto. Sono sicuro che è qui, da qualche parte. È rientrato a casa. Non l'ho visto uscire. Deve essere qui, ma dove?" Il tempo stringeva. Voltandosi ancora una volta verso la sommità delle scale, Reynik notò la traccia lasciata dai suoi passi sul tappeto. Come c'era da aspettarsi, il muschio umido dei tetti che aveva attraversato si era impigliato nelle suole dei suoi scarponi. Il tappeto del corridoio al piano di sopra era di un beige chiaro e le sue impronte erano pericolosamente evidenti. Doveva muoversi in fretta. Reynik sbirciò oltre la ringhiera, verso il corridoio sottostante. In fondo alle scale era seduta una guardia. Sembrava annoiata e non particolarmente attenta. Reynik si allontanò dalla ringhiera e percorse lentamente il corridoio fin dove riuscì ad arrivare senza rischiare di farsi scoprire dalla guardia ai piedi delle scale. Aveva bisogno di attraversare il ballatoio, ma non sapeva come farlo passando inosservato. Esaminò mentalmente le varie possibilità, ma prima che giungesse a una conclusione, il portone di casa si aprì e due delle sentinelle che erano di ronda all'esterno entrarono nell'atrio. Quella distrazione fu perfetta. Attraversò di corsa il ballatoio, tenendosi accucciato per evitare di gettare un'ombra lunga mentre passava davanti alla torcia a muro. Nessuna delle guardie notò il suo movimento. Le due in arrivo da fuori erano troppo prese a scuotersi l'acqua dai vestiti e a lamentarsi del tempo. Quella seduta ai piedi delle scale le stava guardando. Da questa parte del ballatoio c'erano tre porte. Femke gli aveva disegnato la pianta della casa. Se ricordava bene, quella di mezzo era dell'appartamento degli ospiti. Lacedian era un uomo avanti negli anni. Reynik immaginò che non avrebbe rinunciato senza motivo alle sue comodità. Non si fermò. Con il pugnale in mano, provò la porta. Il suono del chiacchiericcio delle guardie copriva ogni rumore più lieve. La porta non cedette. E adesso che cosa c'era? Sembrava che Lacedian l'avesse sbarrata dall'interno. La faccenda si stava facendo sempre più complicata. Doveva rinunciare e cercare di colpirlo da un'altra parte, lontano da casa sua?
A un tratto gli venne un'idea. Poteva ancora portare a termine la sua missione, ma riuscire a scappare dopo poteva essere un po' più difficile del previsto. Le guardie stavano ancora chiacchierando giù nell'atrio, perciò Reynik sfrecciò nuovamente attraverso il ballatoio, ancora una volta senza farsi vedere. In silenzio, scivolò verso la stanza dalla cui finestra era entrato, aprì piano la porta ed entrò, richiudendosela alle spalle. Ricordava perfettamente la disposizione dei mobili. Muovendosi a tentoni, trovò la torcia a muro più vicina alla porta. Prese una pietra focaia e un acciarino che erano appesi a una corda sotto la staffa. Un certo rumore fu inevitabile, ma era abbastanza lontano dalle guardie per essere sentito. Reynik accese la torcia. Il graffio della pietra sull'acciaio risuonò forte nel silenzio della stanza, ma l'improvvisa pioggia di scintille accese la fiaccola al primo tentativo. Reynik ne ravvivò la fiamma finché non fu abbastanza stabile, quindi esaminò la mobilia. Una poltrona ben imbottita gli parve perfetta per il suo scopo. Avvicinò la torcia e passò la fiamma sopra la poltrona, finché una parte di essa non fu in preda al fuoco. Iniziò a vomitare fumo, che rapidamente riempì la stanza di una fitta nube nera. Questo era un pericolo in più, ma ormai Reynik doveva attenersi al suo piano improvvisato. Gettò la torcia nell'angolo della stanza, dove diede fuoco a un tappeto. La camera si sarebbe trasformata in un inferno nel giro di qualche minuto. La poltrona non era così pesante come Reynik si aspettava, ma, dato che non aveva chiuso completamente la porta, non aveva molta importanza. La sollevò dalla parte che non aveva ancora preso fuoco e caricò la porta, usando il mobile in fiamme come un ariete. Lo schianto contro la porta attirò sicuramente l'attenzione delle sentinelle, che però non ebbero tempo di reagire prima che il mobile in fiamme fosse lanciato oltre il ballatoio e precipitasse come una meteora di fuoco verso la sentinella seduta in fondo alle scale. «AL FUOCO! AL FUOCO!» urlò Reynik a gran voce, impugnando un pugnale in ogni mano. «In nome di Shand, che succede?» La sentinella in fondo alle scale era riuscita a evitare il missile in arrivo con un tuffo, ma l'impatto aveva sparso pezzi di legno in fiamme per tutto il corridoio del piano inferiore. «Spegnete quel fuoco! Presto, prima che vada in fiamme l'intera casa! Jarron, Dakreas, salite e uccidetelo, prima che dia fuoco a tutto» ordinò un'altra voce.
Si sentì un rumore di piedi che correvano e il cane in camera di Lord Lacedian iniziò ad abbaiare furiosamente. Rumore di passi anche su per le scale. Reynik piantò entrambi i pugnali nella ringhiera di legno, si voltò e afferrò l'armatura lì vicino. Con sorpresa constatò che era più pesante della poltrona, ma riuscì a sollevarla e a buttarla giù. Il fracasso, le urla e le imprecazioni tutte insieme ottennero esattamente il risultato che aveva sperato. Dall'altra parte del corridoio, la maniglia della porta si abbassò. «Al fuoco! Al fuoco! Scappate se vi è cara la vita!» gridò ancora Reynik deciso a spingere Lacedian a uscire dalla stanza. Funzionò. Reynik estrasse uno dei suoi due pugnali dalla ringhiera e si trovò in posizione ideale quando la porta di Lord Lacedian si aprì e il vecchio guardò fuori esitante per vedere che cosa stesse succedendo. La distanza era superiore a quanto Reynik avrebbe voluto, ma fu un lancio pulito: non esitò e scagliò la lama con tutte le sue forze. Il pugnale volò dritto al bersaglio e si conficcò nel petto dell'anziano lord prima che questi avesse la possibilità di reagire. L'immagine del volto scioccato del vecchio si impresse nei suoi occhi. Era un momento che Reynik non avrebbe mai dimenticato: un momento che avrebbe lasciato sulla sua anima una macchia che sapeva non sarebbe mai riuscito a rimuovere completamente. Reynik non perse tempo. Ora stava tutto nel riuscire a scappare. Si voltò e tornò di corsa nella stanza piena di fumo, con un conato di vomito in gola. Era facile incolpare il fumo di avergli svuotato lo stomaco sul pavimento, ma non si poteva negare la verità. Quello che aveva appena fatto era sbagliato: terribilmente e irrevocabilmente sbagliato. Ogni fibra del suo corpo lo sapeva. Nessuno avrebbe mai capito quanto questa missione gli fosse costata veramente. Tutto ciò che gli altri avrebbero visto sarebbe stato l'Assassino, l'uomo che prima aveva ucciso Lord Kempten e adesso Lord Lacedian. Accucciandosi per evitare il grosso del fumo, si rese conto che ormai la torcia aveva dato fuoco anche alle assi del pavimento. Se qualcuno non avesse messo presto sotto controllo l'incendio, tutta la casa sarebbe bruciata in breve tempo. Corse alla finestra e l'aprì. Le mani gli tremavano mentre afferrava la fune dal davanzale. Con un calcio spalancò le imposte. Il vento le richiuse con un colpo, ma ormai il gancio era rotto. Aprendole di nuovo con le spalle, scavalcò la finestra e iniziò a scendere lungo la fune palmo a palmo. Da quanto riusciva a vedere sotto di sé, adesso tutte le sentinelle erano all'interno dell'edificio, impegnate a tentare di spegnere l'incendio nell'atrio
o a cercare lui. Stava quasi per dare un'altra volta di stomaco, ma combatté il senso di nausea rovesciando la testa all'indietro e facendosela lavare dalla pioggia per un momento. La sensazione delle gocce che battevano sulla faccia fu stranamente purificatrice. Abbassò lo sguardo. Il suolo distava l'altezza di circa due uomini dall'estremità della fune. Si lasciò andare e atterrò lieve mentre estraeva un altro pugnale e si preparava ad allontanarsi di corsa dalla casa. La notte oscura lo proteggeva mentre correva sotto la fitta pioggia che gli garantiva una copertura in più. Non vide tracce di inseguitori dietro di lui, ma non volle ancora rallentare. Svoltato al primo angolo, Reynik si liberò della sacca e la gettò in un vicolo scuro. Non voleva farsi sorprendere dalla milizia con tutto il suo armamentario. Riprese a correre, seguendo il piano di fuga che aveva programmato, attraverso le stradine e i vicoli secondari, finché non ebbe messo una buona distanza fra sé e la sua vittima. Per lo meno aveva dovuto uccidere solamente il proprio bersaglio, pensò, grato per questa fortuna. Il compito sarebbe stato infinitamente peggiore se fosse stato costretto a uccidere anche delle sentinelle innocenti. Lord Lacedian aveva dato prova di essere un traditore. Quel fatto lo consolava, almeno in parte, per le sue azioni. Reynik pregò che gli uomini impegnati a combattere l'incendio avessero abbastanza buon senso da mettersi in salvo se le fiamme fossero diventate troppo pericolose. Il temporale li avrebbe aiutati a contenere l'incendio. La pioggia torrenziale avrebbe avuto un effetto rinfrescante, anche se dubitava che sarebbe stata sufficiente, senza un intervento rapido e attivo all'interno della casa. Nonostante la pioggia battente ne smorzasse l'odore, Reynik comprese che probabilmente puzzava di bruciato. Avendo inalato una buona quantità di quel fumo, non riusciva a sentire altri odori, ma sicuramente, se qualcun altro se ne fosse accorto, quel miasma poteva incriminarlo. Doveva cambiarsi e buttare via in fretta i vestiti. Qual era il posto migliore in cui andare? Sentì un rumore lieve nel vicolo dietro di sé e fu subito all'erta. Aveva già il pugnale in mano quando si voltò per affrontare la persona alle sue spalle. «Piano! Non voglio combattere. Voglio solamente parlare» gli disse una voce d'uomo che veniva dalle ombre del vicolo. «Chi sei, e di che cosa vuoi parlare?» gli rispose con calma Reynik mentre assumeva una postura perfettamente bilanciata per avere la massima flessibilità.
«Il mio nome non è importante. Ti porto un messaggio del Maestro della Corporazione degli Assassini. Ti offre una scelta semplice. Puoi chiedere di diventare membro della Corporazione oppure lui ti farà ammazzare.» «Ah sì?» gli chiese Reynik sforzandosi di non lasciar trapelare alcuna emozione nella voce. «E se chiedessi di essere ammesso nella Corporazione e poi non venissi accettato?» «In tal caso, non potresti lasciare la Corporazione vivo.» «Non mi sembra una gran scelta.» «Non lo è.»
Capitolo dieci Reynik si fermò un attimo, come per riflettere sul da farsi. Il cuore gli batteva all'impazzata. Tutto stava andando alla perfezione. L'uomo nel vicolo lo avrebbe portato dalla Corporazione degli Assassini. Una volta accettato, avrebbe potuto riferire all'Imperatore l'ubicazione della sede e la Corporazione degli Assassini sarebbe stata spazzata via una volta per tutte. Il punto dolente era quel "una volta accettato". Come avrebbero deciso se poteva essere accettato? Avevano un sospetto su ciò che stava realmente cercando di fare? "Non essere negativo" disse a se stesso. "Devi dare un'impressione di forza e prudenza. Se sbagli adesso, ti sarai macchiato le mani di sangue per niente." «E allora?» stava chiedendo l'uomo. «Vieni con me o devo dare ordine che tu sia ucciso?» «Vengo» rispose Reynik con un tono di voce fermo e controllato. A quel punto dall'ombra uscì una sagoma scura. Come Reynik, indossava un mantello e un cappuccio neri. Non riuscì a distinguere il suo volto, ma d'altra parte dubitava che il proprio fosse visibile per l'altro. «Seguimi» gli ordinò l'uomo e subito si incamminò lungo la strada, muovendosi senza fatica e senza fare alcun rumore tra la pioggia e l'oscurità. Reynik lo seguì, sentendosi goffo al suo confronto. Pozze nere erano in agguato a ogni passo, ma la sua guida sembrava in grado di schivarle senza produrre il minimo schizzo. Deciso e risoluto, Reynik fece ricorso a tutte
le piccole astuzie che aveva appreso durante le sue recenti lezioni. Devarusso e Serrius avevano concentrato buona parte dei loro sforzi per migliorare il suo equilibrio e il suo modo di camminare. Adesso Reynik iniziava a capire perché la cosa fosse così importante. Quell'uomo era evidentemente un maestro nell'arte di muoversi in silenzio, in ogni condizione. Era probabile che fosse un membro esperto della Corporazione. Se tutti gli Assassini erano altrettanto furtivi, allora Reynik avrebbe dovuto superare se stesso per essere ammesso. A un tratto il suo senso di inadeguatezza si decuplicò. Gli era difficile mantenere l'orientamento. L'uomo seguì un tragitto complicato attraverso la città. Sembrava che per buona parte della strada svoltasse a caso, ma Reynik dubitava che fosse così. Solo quando sentì un leggero rumore alle sue spalle, si rese conto che l'uomo non era solo. Chi lo seguiva intendeva senza dubbio controllare se Reynik lavorasse da solo prima di condurlo dalla Corporazione. Non lasciavano nulla al caso. Si trovavano in una delle aree più povere del quartiere nord-occidentale della città, quando finalmente si fermarono. Reynik non conosceva quella parte di Shandrim, ma aveva preso nota di un numero sufficiente di punti di riferimento per ritrovarla se fosse stato necessario. «Togliti il cappuccio» gli ordinò l'uomo. «Tu togliti il tuo e io toglierò il mio» ribatté Reynik risoluto con i piedi ben piantati per terra. «Non è permesso.» «E allora perché io dovrei togliermi il mio?» «Perché te l'ho ordinato io. Nel caso non te ne fossi accorto, in questo momento siamo circondati da un gruppo di Assassini. A un mio segnale ti sommergeranno di frecce prima che tu riesca a fare due passi. Non voglio farti ammazzare, ma se non mi lasci altra scelta non esiterò. E adesso, togliti quel cappuccio. Da qui in poi devo bendarti.» "Un gruppo di Assassini!" Quel pensiero fulminò Reynik come se fosse stato colpito da uno dei lampi che ancora si facevano furiosamente strada nel nero cielo notturno. Non resistette alla tentazione di dare una rapida occhiata in giro per cercare di scorgerli. Non ci riuscì. Non vide altro che una pioggia fitta e strade deserte, però ne aveva sentito muoversi per lo meno uno dietro di sé. Meno male che non aveva fatto tanto rumore mentre si muoveva per le strade fino a lì. «Va bene» concesse Reynik mentre abbassava il cappuccio per mettere in mostra i corti capelli neri. Il nero non era il suo colore naturale, ma
Femke aveva insistito che se li tingesse, per distaccarsi dal suo vero passato. Gli aveva tinto anche le sopracciglia e gli aveva raccomandato di radersi con cura tutti i giorni, per nascondere il colore più chiaro della barba. L'Assassino fece un passo in avanti ed estrasse dal mantello una striscia di stoffa scura. Reynik rimase spavaldamente immobile, con gli occhi spalancati e guardando dritto davanti a sé, mentre l'uomo gli metteva una benda e gliel'annodava stretta sulla nuca. Aveva sperato che sarebbe riuscito a vedere qualcosa attraverso la stoffa o che, abbassando gli occhi il più possibile, avrebbe potuto scorgere qualcosa da qualche fessura vicino al naso, ma non ce n'erano. Era completamente al buio. «Fidati di me. Ti guiderò con cautela. Non è lontano» gli disse l'uomo a voce bassa. Reynik avvertì le sue mani posarglisi sulle spalle e spingerlo delicatamente in avanti. Procedevano lentamente ma in maniera regolare, con le mani dell'uomo che lo guidavano con lievi cambi di pressione per farlo girare a destra o a sinistra a seconda dei casi. Sebbene Reynik cercasse di farsi un'idea di dove stessero andando, si accorse ben presto che era uno sforzo inutile. Tutto ciò che poteva fare era tenere conto del tempo in modo da poter tracciare un possibile raggio dal punto in cui era stato bendato fino alla destinazione finale. L'uomo aveva detto che non sarebbero andati lontano, ma Reynik fu molto sorpreso quando, premendogli le spalle, lo fece arrestare di colpo. Di sicuro non potevano trovarsi già alla sede della Corporazione degli Assassini. Se così fosse stato, allora Reynik avrebbe potuto restringere le possibili ubicazioni sapendo da dove erano partiti. Lo prendevano per uno sciocco? «Stendi in avanti la mano destra» gli ordinò la voce dell'Assassino. «Bravo» disse quando Reynik obbedì senza esitare. «Adesso stringi questo fra il pollice e l'indice.» Reynik sentì in mano qualcosa di metallico e lo strinse come gli era stato detto, cercando nel contempo di capire di che cosa si trattava. Era un oggetto che aveva lo spessore dell'asticella di una freccia, ma ricurvo e leggermente ruvido. Pensò di esplorarlo con le dita, ma la sua guida strinse la mano di Reynik con la sua e gliela sollevò all'altezza della spalla mentre al tempo stesso lo spingeva leggermente in avanti. L'oggetto toccò qualcosa. Reynik fu certo che dal metallo si diffondessero sottilissime scosse, quando si stabilì il contatto, ma la sensazione seguente non l'aveva mai provata prima. Non era esattamente doloroso, ma
nemmeno piacevole. Nel suo corpo si diffuse un fremito e avvertì come una strana energia che sprizzava dai polpastrelli per arrivargli dritto nel petto. Poi vi fu uno strattone e per un attimo gli sembrò che tutte le parti del suo corpo esplodessero in maniera indolore in un milione di pezzi, prima di rimettersi insieme con un altro scatto violento. Reynik crollò a terra. Non poté evitarlo. La forza che aveva nelle gambe si era apparentemente dissolta con quella strana scarica di energia. Cadde al suolo con la grazia di un sacco di grano lasciato andare. La testa iniziò a girargli come se avesse bevuto troppo vino e rotolò sulla schiena, appoggiando a terra il dorso delle mani per aiutarsi a ritrovare un po' di senso dell'orientamento. Iniziò a registrare di nuovo le sue sensazioni. Gli ci volle un secondo perché il cervello capisse che cosa stava sentendo sulle punte delle dita, poi anche gli altri sensi gliene diedero la conferma. Non era più su una strada bagnata. La pioggia non gli cadeva più sulla faccia, né il vento gli sbatacchiava il mantello. L'aria era immobile. Era al chiuso. Quello che sentiva era la superficie fredda, asciutta e polverosa di un pavimento di pietra. Ma come poteva essere? Un attimo prima era per strada. Prima di cadere a terra i suoi piedi non avevano fatto un passo. La strana sensazione che aveva provato con quell'oggetto di metallo che gli avevano messo in mano non era quella di una caduta. La caduta era venuta dopo. Era finito in una specie di scivolo? No, se lo sarebbe ricordato, e l'atterraggio avrebbe avuto un impatto più duro. Quello che era appena accaduto andava al di là della sua capacità di comprensione, eppure non poteva negare l'evidenza dei suoi sensi. Di sicuro non era più all'aria aperta. Con uno sforzo di concentrazione, Reynik si mise in ascolto attentamente, per cogliere eventuali rumori che potessero dargli qualche indizio. Non c'era nulla. L'unico suono che udì fu quello dei passi leggeri della sua guida quando gli girò attorno. E poi capì: non c'era niente! Nessun rumore di vento, né di pioggia. Non c'era nemmeno il minimo indizio che lì fuori infuriasse il temporale. Ma dov'era, in nome di Shand? «Quando ti sarai ripreso, togliti la benda» gli disse improvvisamente l'Assassino. «Ci vuole un po' per abituarsi al trasferimento, ma gli effetti svaniranno nel giro di qualche minuto.» Anche la voce dell'uomo era diversa, ora che erano al coperto. C'era solo un lievissimo accenno di eco. Potevano essere sottoterra? Reynik si portò le mani al volto e si sciolse la benda.
Quello che videro gli occhi di Reynik lo lasciò ancora più stupefatto. Si trovava in un salotto di medie dimensioni, all'incirca sei passi per cinque. La maggior parte dei mobili nella stanza erano antichi, molto antichi, e di pregevole fattura. E alle pareti c'erano anche degli splendidi arazzi che sembravano risalire a parecchie dinastie addietro. Un solo arazzo più nuovo ricopriva la parete vicino alla più grande delle due porte della stanza. Sembrava raffigurasse una pianta del Palazzo Imperiale nei minimi dettagli, cosa che sarebbe sicuramente tornata molto utile a un Assassino che si muoveva nelle alte sfere. L'arazzo centrale, ai cui lati stavano affisse due torce a muro, rappresentava una vipera nell'atto di colpire. Era una scena raggelante, ma in un certo senso adatta al luogo. Quando Reynik si mise faticosamente a sedere, notò che il motivo della vipera era ripetuto su piccoli scudi di legno sopra ognuna delle porte. «Benvenuto nella mia umile dimora.» L'uomo che aveva condotto Reynik in quel luogo indossava ancora mantello e cappuccio, ma alla luce tremolante delle torce Reynik riuscì a scorgere la parte inferiore del suo volto. Aveva una barba scura e ben curata e baffi secondo la moda degli uomini più benestanti dell'alta società di Shandrim. Un cenno divertito incurvò leggermente le labbra dell'uomo, ma Reynik non riuscì a vedere altro se non la punta del naso, che non gli disse nulla di più dei suoi lineamenti. «Pensavo che stessimo andando dal Maestro della Corporazione» obiettò Reynik con la voce un po' rauca. Aveva la gola secca. Forse dipendeva dal fumo aspirato durante l'incendio, poco prima, o forse dallo strano modo in cui era arrivato lì. «Ogni cosa a suo tempo. Immagino che tu abbia bisogno di bere qualcosa. Preferisci un boccale di birra, un bicchiere di vino o magari un po' d'acqua?» «L'acqua andrà benissimo, grazie.» La stanza era senza finestre, sebbene apparisse come una normale stanza d'abitazione. Reynik non ne fu sorpreso, perché era certo di non trovarsi in un edificio. C'era qualcosa, nell'aria di quel posto, che gli dava sempre di più la sensazione di trovarsi sottoterra. Le due porte erano chiuse, ma lui avrebbe scommesso fino all'ultimo sennut di rame che, da qualunque porta fosse uscito, non avrebbe comunque trovato finestre. L'uomo incappucciato andò a un armadietto e versò in un bicchiere un liquido trasparente da una caraffa di cristallo. Reynik si domandò per un
attimo se fosse prudente bere, ma non aveva senso che quell'uomo l'avesse portato lì solo per avvelenarlo. Se lo avesse voluto morto, Reynik immaginò che l'avrebbe fatto con un metodo un po' più diretto. Reynik prese il bicchiere e bevve senza esitare quanto gli era stato offerto. Si sentì subito meglio. I sensi gli si erano affinati e si sentiva più vigile. L'Assassino incappucciato continuava a osservarlo con interesse. «Ricordo la prima volta che sono venuto nella sede della Corporazione. Non è stato piacevole. L'acqua ti rimette in sesto. Se ne vuoi ancora, serviti pure dalla brocca, ma non uscire da questa stanza. Aspettami, sarò di ritorno fra poco.» L'uomo uscì dalla più grande delle due porte. Prima che questa si richiudesse con un tonfo, Reynik scorse all'esterno un corridoio buio. Si alzò in piedi e iniziò a perlustrare la stanza. Ma dove poteva essere, in nome di Shand? Non potevano trovarsi lontano dalla strada sferzata dalla pioggia nel quartiere nord-occidentale... o forse sì? La sensazione che aveva provato era stata stranissima. Poteva trattarsi di qualcosa di magico? Mentre quel pensiero faceva capolino nella sua mente, Reynik rivide l'immagine del talismano d'argento a forma di tarantola. Aveva sentito pizzicare la mano in maniera spiacevole, quando aveva toccato il pendente tolto all'Assassino, un mese addietro. Non era stato un pizzicore simile a quello che aveva provato poco prima, ma il fatto che il ragno si fosse dissolto con uno strano bagliore di energia lo indusse a chiedersi di nuovo che cosa gli fosse successo. I due eventi erano collegati fra loro? Il ragno si era semplicemente dissolto ed era sparito o c'era qualcosa di più, in quell'incidente, di quanto non avesse creduto al momento? «Allora, fratello Vipera? L'avete portato?» «Sì, Maestro. È nelle mie stanze.» «Ottimo! Per favore, digli di restare lì. Ti pregherei di rimanere nelle stanze di fratello Falco per questa notte. Ho fatto portare via le sue cose. Metti delle guardie in corridoio, fuori dalle tue stanze. Vedrò la nostra potenziale recluta domattina. Se sceglierà di unirsi a noi, vorrei convocare i membri della Corporazione presenti nel complesso perché assistano alla cerimonia di investitura. Sappiamo altro del suo passato?» «Niente, Maestro. Il suo colpo è stato... spettacolare, anche se imperfetto. Dubito che domattina resterà molto della residenza di Lord Lacedian. Quando mi sono girato a guardare per l'ultima volta, l'incendio che aveva appiccato durante la fuga divampava con violenza. Ha commesso degli er-
rori, ma ha saputo improvvisare bene. Ha molto da imparare, per diventare un esperto Assassino, ma chiaramente sa programmare bene ed è capace di arrangiarsi. Se non è una trappola, dovrebbe cavarsela bene.» «Dunque, ancora non sei convinto che sia un autentico Assassino? Ha compiuto due colpi di alto livello in due settimane, contro bersagli che sono alle due estremità dello spettro politico. Ho messo qualcuno a cercare un possibile legame fra Lord Lacedian e Lord Kempten, ma neanche i migliori sono riusciti a trovare niente. L'unica cosa che sembrano avere in comune è che sono morti entrambi. Che cos'è che ti induce a sospettare di lui?» Vipera guardò il Maestro, serrò le labbra e si strinse nelle spalle. «Non lo so» ammise. «È una sensazione istintiva. Ma altre volte mi sono sbagliato.» «Sì, ma altre ancora hai avuto ragione. Terrò presente il tuo sospetto quando gli parlerò domattina. Grazie, fratello Vipera. E ti prego di trasmettere la mia gratitudine anche al resto del gruppo. Avete fatto un buon lavoro, questa sera.» «Ah, Femke! Speravo proprio che ricevessi il mio messaggio.» «Il vostro messaggio, Maestà Imperiale? Non ho ricevuto alcun messaggio» rispose Femke entrando nello spoglio studio di Surabar. «Ero venuta per informarvi che Reynik ha avuto successo ieri sera. O almeno ha avuto successo nella prima parte della missione. I pettegoli in città non parlano che dell'uccisione di Lord Lacedian. Il fatto che in seguito Reynik sia scomparso senza lasciare traccia mi induce a credere che abbia anche preso contatto con la Corporazione degli Assassini.» «Bene. Vorrei poter dire "benissimo", ma questa faccenda mi fa sentire tutt'altro che bene. Ho permesso alla mia determinazione di avere la meglio sul mio senso morale. Preghiamo che la Corporazione degli Assassini lo accetti. Non mi piacerebbe ritrovarlo morto in qualche vicoletto. E non intendo autorizzare altri assassinii di questa natura.» Surabar aveva dato voce ai peggiori timori di Femke. Non aveva pensato ad altro da quando lei e Reynik si erano separati, il pomeriggio precedente. Non era riuscita a prendere sonno facilmente. E anche quando, alla fine, il suo corpo aveva ceduto alla necessità di riposarsi, a tarda ora, gli incubi l'avevano tormentata per il resto della notte. Oggi le costole le dolevano terribilmente, più di quanto non avessero fatto nei primi giorni dopo il suo scontro con Shalidar. Sapeva che ciò dipendeva dalla tensione nervosa e si
rendeva conto che non c'era molto che potesse fare per allentarla finché non avesse saputo che Reynik era sano e salvo. L'Imperatore guardò le occhiaie scure sul viso della ragazza e le sorrise comprensivo. Aveva convissuto per anni con decisioni che avevano mandato alla morte i suoi uomini. In quanto spia, anche Femke doveva aver fatto scelte simili, inviando i suoi agenti. Ma era diverso quando mettevi a repentaglio la vita di persone con cui avevi lavorato a stretto contatto. Il senso di responsabilità si acuiva ben al di là dell'importanza della missione in se stessa. Surabar aveva passato molte notti insonni, quando era un giovane ufficiale delle legioni. Ancora adesso ricordava che cosa significava essere mortalmente preoccupati per un certo progetto. Sapeva che non c'era nulla che potesse fare per alleviare l'ansia di Femke. La ragazza doveva imparare a gestire le emozioni a modo suo. Oltre tutto, ciò che stava per dirle non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. «Femke, ho deciso di far intervenire le legioni» le annunciò adagio. «Quali legioni, vostra Maestà? Sono già quasi tutte qui in città. Non starete pensando di infrangere l'accordo con il Re Malo, vero? Non credo proprio che sarebbe una buona idea.» «No, Femke, non mi hai capito. Ho deciso di far intervenire le legioni in città per cercare la sede della Corporazione degli Assassini. Voglio che mettano Shandrim a soqquadro, letteralmente, se sarà necessario. In un modo o nell'altro, intendo trovare la Corporazione e distruggerla una buona volta.» «E Reynik, vostra Maestà? Non intendete dargli una possibilità? Se è stato accettato nella Corporazione degli Assassini, potrebbe riferirvi dove si trova la sede nel giro di qualche giorno.» «Lo so, ma iniziando la ricerca adesso potrei salvare delle vite. Ieri sera un altro Comandante di legione è stato ucciso. Questa volta sono andati troppo in là.» «Il Comandante Sateris?» domandò Femke notando l'espressione dolente dell'Imperatore. Il Generale Surabar annuì. «È stato mio buon amico per molti anni. La Corporazione ha scelto l'uomo sbagliato da colpire, se voleva convincermi a lasciar perdere. Ho giurato sul corpo del mio vecchio amico che scoverò quegli Assassini a uno a uno, foss'anche l'ultima cosa che farò. E io prendo sul serio questi giuramenti. Se anche non dovessi riuscire a combinare altro nel mio breve regno, come Imperatore, allora liberare Shandar da questo abominio del passato sarà il mio testamento personale. Intendo ripulire
le strade di Shandrim e scacciarli dalle tane buie in cui si nascondono. In un modo o nell'altro, pagheranno per i loro crimini.» «Vostra Maestà, so che volete agire in fretta, ma abbiamo lavorato tanto per far arrivare Reynik dov'è ora. Non volete dargli una possibilità? Lord Lacedian è stato ucciso ieri sera su vostro ordine. Reynik lo ha ammazzato a sangue freddo, proprio come un membro della Corporazione ha ucciso Sateris. So che cosa sta provando Reynik in questo momento, vostra Maestà, perché uccidere a sangue freddo mi fa orrore come lo fa a lui. Reynik vuole essere un soldato come voi. Ciò che desidera più di ogni altra cosa è di tornare alla sua legione, a marciare e a addestrarsi per essere pronto il giorno in cui sarà chiamato ad agire per l'Impero. E invece sta compiendo per vostro conto una pericolosa missione segreta che va contro la sua morale. Perché lo fa? Perché vi rispetta e ha fiducia in voi, vostra Maestà. La vostra reputazione di uomo retto che combatte per cause giuste vi ha guadagnato la sua lealtà. Ma la lealtà non dovrebbe funzionare nei due sensi? Non gli lascerete portare a termine ciò che gli avete chiesto di incominciare?» L'espressione dell'Imperatore Surabar, che in principio era fredda e distaccata, durante l'appassionata supplica di Femke diventò furente. Femke l'aveva guardato spavaldamente negli occhi, mentre gli faceva queste due ultime domande. «Tu vieni a dare lezioni di lealtà a me, signorina? Ti rispetto per le tue qualità e apprezzo il tuo aiuto e le tue idee, ma non ti permetterò di farmi la lezione. Sono stato chiaro?» Femke annuì, ma nei suoi occhi ardeva un fuoco. «Sì, l'idea di infiltrarsi nella Corporazione degli Assassini è stata mia» continuò Surabar. «Ho scelto io Reynik come agente. E perciò, mi assumerò io la responsabilità delle sue azioni. E mi assumerò anche la responsabilità della sua morte, se dovesse cadere in missione. Ma devo considerare che ho doveri più ampi nei confronti dei cittadini di Shandrim. Credi davvero che mi piaccia prendere decisioni come queste? Per tutta la vita ho fatto scelte che hanno provocato la morte di uomini validi perché i miei piani, o quelli dei miei superiori, potessero realizzarsi. Be', Femke, non ho più una catena di comando sopra di me da biasimare, per queste decisioni. Sono io a reggere tutto il peso della responsabilità di tutte le morti.» Si fermò per un istante e respirò a fondo. Quando riprese, la sua voce aveva perso buona parte della sua collera. Appariva molto più segnato dal tempo di quanto Femke non lo avesse mai visto. Il peso del Mantello evi-
dentemente iniziava a farsi sentire. «In quest'ultimo mese la Corporazione degli Assassini mi ha sfacciatamente sventolato sotto il naso le sue attività illegittime. Quella della notte scorsa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non sono così cieco da non capire i vantaggi che le informazioni di Reynik potrebbero portarci. Mandarlo là è stato un mio piano, dannazione! Ma questa è una situazione molto fluida. I piani cambiano. Gli darò una possibilità, ma non sono disposto ad aspettare a lungo, Femke. Ha due giorni. Non di più. Dopo di allora, intendo iniziare a rivoltare la città. Se hai ancora qualche risorsa da sfruttare, ti consiglierei di farlo subito.» «Sasso, invia dei messaggeri. Contatta gli informatori. Voglio parlare con qualcuno della Corporazione degli Assassini, oggi se possibile. Voglio stipulare un contratto. Pagherò mille sen d'oro a chi sarà in grado di portarlo a termine.» Il valletto personale di Lord Tremarle fece un inchino e lasciò la stanza con il volto pallido. Uno degli altri domestici si aggirava fuori dalla porta. «Come l'ha presa? Non bene, a giudicare dalla tua faccia.» Sasso scrollò il capo. «Non l'ho mai visto così» rispose turbato, ripensando all'espressione del padrone. «Pensavo che quando aveva perduto il figlio avesse toccato il fondo, ma mi sbagliavo. È ferito. È scioccato. E soprattutto, è arrabbiato. Non l'ho mai visto così arrabbiato. Mi fa paura. Non sono neppure sicuro che sia ancora del tutto sano di mente.» «Che cosa te lo fa pensare?» «È pronto a spendere fino all'ultimo sennut per vendicarsi, ma non credo che sappia realmente chi è il responsabile. Penso che intenda colpire quello che considera il suo nemico più ovvio. Ed entrambi sappiamo che cosa significa questo.» «Inizierò a guardarmi in giro per trovare un posto presso un altro lord, Sasso. Non vorrei rimanere implicato in un'accusa di tradimento.» «È una buona idea. Ma nel frattempo sarà meglio fare come dice Lord Tremarle. Considerato l'umore in cui si trova, farebbe frustare chiunque si permetta di non rispettare alla lettera i suoi ordini. Dove sono i messaggeri?» «Uno è nel seminterrato, gli altri due stanno sbrigando commissioni per conto della cuoca.» «Grazie. Ci vediamo più tardi.»
Reynik si svegliò di soprassalto. Che ore erano? Quanto aveva dormito? Non gli era possibile dirlo, in quella prigione sotterranea. Quando l'Assassino era tornato, ordinandogli di restare nelle sue stanze fino al mattino dopo, in attesa di essere ricevuto dal Maestro della Corporazione, Reynik non aveva saputo cosa pensare. Era normale? Stavano decidendo che cosa fare di lui? Che cos'avevano scoperto? Sapevano che era stato mandato dall'Imperatore? "Non essere sciocco, Reynik" si era rimproverato. "Se sapessero cosa stai facendo, saresti già morto. Fa' come ti hanno detto e non preoccuparti." Non era stato facile. Quelle stanze non erano certo piccole, ma non c'era voluto molto tempo per esplorarle. C'era un ambiente per il riposo, uno separato per i pasti, un bagno e un piccolo studiolo. In realtà, il complesso era confortevole, con spazio a sufficienza per diverse persone. Reynik non aveva idea di dove avesse passato la notte l'uomo che di solito abitava lì ma, considerate le dimensioni del suo appartamento, non pensava che la Corporazione avesse problemi di spazio. L'uomo gli aveva detto di non uscire dalla stanza per la più grande delle due porte se non voleva morire. E lui non lo aveva fatto, anche se la tentazione era stata forte. E adesso si faceva nuovamente sentire. C'era un corridoio là fuori. Dove conduceva? Quando sarebbe arrivato il Maestro? Se solo avesse saputo che ore erano. Camminò su e giù per la stanza per un paio di volte, prima di fermarsi in ascolto accanto all'uscita. C'era qualcuno là fuori? Avrebbe osato sbirciare fuori dalla porta? Sarebbe stato un crimine così grave guardare? «Abbi pazienza, Reynik» mormorò. «Il Maestro verrà quando sarà il momento.» Mentre aspettava, decise di dare un'altra occhiata alla stanza. Era un locale affascinante, con un mucchio di cose interessanti da guardare. Ma l'immagine che più lo incantava era l'arazzo che raffigurava la vipera. Il fatto che quella figura venisse ripetuta sugli scudi di legno sopra le due porte era significativo. Era l'emblema della Corporazione degli Assassini? Avrebbe avuto un certo senso. I serpenti colpivano con il veleno e spesso gli Assassini facevano altrettanto. Ma se la vipera era l'emblema della Corporazione, come mai nessuno lo aveva ancora scoperto? Reynik era ancora intento a contemplare il disegno, quando la porta si aprì ed entrarono due persone. Uno era l'uomo che l'aveva condotto lì, l'altro era più basso, ma anche lui portava un mantello e un cappuccio talmen-
te calcato sulla fronte che lui non riusciva a vederne il viso. Sebbene quell'uomo non avesse le spalle ricurve, Reynik comprese immediatamente che era avanti negli anni. Forse dipendeva dal suo modo di camminare o da qualche altro piccolo segno nel linguaggio del corpo che Reynik aveva colto inconsciamente, ma quando parlò, il ragazzo si compiacque nel sentire che la sua voce raschiava per l'età come gli aveva suggerito il suo istinto. «Benvenuto, giovanotto, alla sede della Corporazione degli Assassini. A giudicare dalla tua espressione, noto che hai dedotto che io sono il Maestro. Fratello Vipera ti ha detto perché sei stato condotto qui?» Fratello Vipera. Questo spiegava l'emblema del serpente, pensò. «Lo ha fatto, Maestro. So che state prendendo in esame la mia possibile affiliazione a membro della vostra confraternita. Posso chiedere se è già stata presa una decisione?» «Puoi chiedere tutto quello che vuoi. Ecco perché sono qui, per rispondere alle tue domande, e perché tu risponda alle mie. Sarai affiliato alla Corporazione fra breve, ma non ne diventerai un membro a pieno titolo finché non avrai portato a termine con successo il tuo primo contratto per la Corporazione. Fino ad allora, sarai in prova. La maggior parte dei membri hanno dei segreti, è un aspetto della nostra professione. Tuttavia, se tu ti unirai a noi e non osserverai la nostra Regola, o se la tua presenza metterà in qualche modo a repentaglio il futuro della confraternita, sappi che morirai per mano di uno dei fratelli. Non è una minaccia vana. Ho già dovuto ordinare altre morti in passato, per questa ragione, e non esiterò a farlo ancora.» «Capisco» rispose Reynik con solennità. «Bene. Fratello Vipera, lasciaci soli per qualche minuto. Non credo che il nostro amico sarà così sciocco da cercare di farmi del male. Non ha l'aspetto di un sicario suicida.» «Molto bene, Maestro. Le guardie rimarranno qui fuori, nel caso dovesse avere bisogno di aiuto.» L'Assassino si ritirò con un inchino, sempre senza fare il minimo rumore. Reynik lo osservò andarsene affascinato dai suoi movimenti fluenti e silenziosi. Avrebbe ripreso a esercitarsi al più presto possibile. Devarusso era capace di muoversi con la grazia di un gatto, ma l'Assassino conosciuto come fratello Vipera aveva saputo portare quell'arte a un livello completamente nuovo. «E ora, giovanotto, ti farò questa domanda una volta sola. Sarà un'in-
formazione che terrò per me. Nessuno degli altri membri della confraternita ne conoscerà la risposta, a meno che non sia tu a scegliere di rivelarla per ragioni tue. Qual è il tuo vero nome?» «Reynik» rispose lui guardando il Maestro della Corporazione degli Assassini dritto negli occhi celati. Reynik conosceva abbastanza della lettura del linguaggio del corpo da sapere che non si poteva mentire facilmente a un uomo tanto abile nell'interpretare gli altri. Il suo era un nome piuttosto comune, nella regione centrale di Shandar, perciò quando Femke gli aveva creato una falsa identità aveva deciso di non cambiarlo. Per una persona priva di esperienza nell'arte di mantenere un'identità falsa, avrebbe ridotto i rischi di commettere errori irrimediabili. «È un piacere conoscerti, Reynik. Ti direi il mio nome, ma meno persone sono a conoscenza di questa informazione e meglio è. Non ti mentirò. Alcuni nella Corporazione sanno il mio vero nome, ma solo perché mi conoscevano prima che io diventassi Maestro. È tradizione che quando si viene affiliati nella Corporazione, l'adepto scopra il viso davanti agli Assassini riuniti. Questa sarà l'unica occasione in cui gli altri vedranno il tuo volto. Ma tu non vedrai il loro, a meno che non scelgano di rivelartelo. Questa, a mio parere, è una delle tradizioni più sagge della Corporazione, perché significa che solo i membri più anziani e fidati possono conoscere i volti della maggior parte degli altri membri. Quando questi diventano a loro volta membri anziani, spesso sono passati molti anni dall'ultima volta che sono stati visti dagli altri. Così, nel caso in cui uno di loro venga catturato e torturato per ottenere informazioni, non potrà rivelare molte notizie recenti sugli altri. È un buon sistema.» Il Maestro fissava attentamente il volto di Reynik mentre gli spiegava questo aspetto della vita della Corporazione. Gli interessava sempre vedere come i nuovi membri reagivano alle notizie sulla Corporazione. Il giovane era pensieroso e ascoltava con attenzione ogni sua parola. Lo facevano in molti, all'inizio. Se poi intendevano prendere un'altra strada, di solito passava almeno un anno perché i loro istinti più bassi li spingessero a ignorare le norme per tornaconto personale. E quando un membro infrangeva la Regola, non c'era una seconda possibilità. Dovevano essere sottoposti alla severa giustizia della Corporazione. Il Maestro era perfettamente conscio che non tutte le infrazioni venivano scoperte. Vi erano alcuni membri, anche in quel momento, che vivevano sul filo del rasoio, forzando costantemente i limiti della Regola. «Comprendo la logica che si cela dietro a tali precauzioni» rispose pru-
dentemente Reynik. «Ma qualcuno deve pur conoscere l'aspetto di tutti gli altri, altrimenti sarebbe impossibile guardarsi dagli impostori.» «È una buona osservazione, Reynik. La risposta è duplice. Prima di tutto, è impossibile che un impostore possa entrare qui. I fondatori della Corporazione hanno previsto efficacissimi sistemi di sicurezza quando hanno costruito questo complesso, oltre seicento anni fa. Alcuni dei maghi più potenti del loro tempo hanno creato una serie di icone magiche. Ciascun nuovo membro ne accetta una, quando viene accolto nella Corporazione. È questa icona che gli consente di accedere al complesso della Corporazione. Non la si può rubare, perché è magicamente legata alla forza vitale del membro della Corporazione. Se viene portata a più di qualche passo di distanza dalla persona cui è vincolata, quella persona muore e l'icona ritorna magicamente qui. La seconda parte della risposta alla tua domanda è che qui c'è un gruppo ristretto di persone che conosce tutti i volti. Io sono una di esse. Le altre sono selezionate fra il personale di servizio. Fra gli Assassini, io sono l'unico a sapere chi del personale serve tutti i membri.» Finalmente Reynik stava cominciando a rimettere a posto molti pezzi. Il talismano d'argento a forma di tarantola che indossava l'Assassino con cui aveva lottato per la strada doveva essere una di quelle icone. Avvicinandosi al lampione per vederlo alla luce, senza volerlo Reynik lo aveva allontanato troppo dal proprietario cui era legato. Era orribile pensare che aveva ucciso una persona con un'azione tanto innocente, ma doveva essere andata così. Il talismano si era smaterializzato sotto i suoi occhi. Tutto tornava. Se l'uomo che l'aveva condotto lì era fratello Vipera, allora, immaginò Reynik, l'icona di quell'uomo doveva avere forma di serpente. L'oggetto di metallo che gli aveva dato in mano quando era bendato era ricurvo e tubolare come il corpo di un serpente. Sì, anche questo aveva un senso. Una cosa che non capiva invece era il personale di servizio. «Ma come fanno i domestici a entrare qui? E come potete sapere se sono affidabili? Non vi preoccupa che possa esserci un infiltrato fra di loro?» domandò Reynik perplesso. Il Maestro sorrise. «No» rispose chiaramente divertito. «Quando gli uomini vengono qui per servire, lo fanno per sempre. Sono i membri a portarli qui, ma una volta dentro non possono più andarsene. Non esiste una via d'uscita o d'ingresso convenzionale da questo complesso. Come probabilmente ormai avrai capito, siamo completamente sotto terra. Queste grotte sono state scavate più di sei secoli fa. Nessuno sa esattamente dove si trovino, nemmeno i membri della Corporazione. È uno dei più grandi se-
greti del nostro tempo.»
Capitolo undici "Nessuno sa..." Quelle parole riecheggiavano nella mente di Reynik come i rintocchi di una campana a morto. Anche se fosse stato accettato come membro della Corporazione, non avrebbe scoperto dove si trovava la sede. Come avrebbe potuto prevederlo? E, come se non bastasse, stava per vincolarsi per la vita a un'icona magica che lo avrebbe legato alla Corporazione degli Assassini per sempre. Le cose potevano andare peggio di così? A un tratto ricordò una cosa che gli aveva detto una volta suo padre: "Figliolo, per quanto le cose possano sembrarti brutte, potrebbero sempre andare peggio. Non lasciare mai che la disperazione ti impedisca di cercare gli aspetti positivi". Gli aspetti positivi: doveva cercare i lati buoni di quella situazione. Il Maestro era lì ed era disposto a rispondere alle sue domande. Quella era un'opportunità che probabilmente non gli si sarebbe ripresentata tanto presto. Doveva sfruttarla al massimo e cercare di trasmettere a Femke più informazioni possibili, la prossima volta che l'avesse vista. «Maestro... Signore? Non so come preferisce essere chiamato.» «Maestro va benissimo.» «Maestro, la mia mente è piena di domande. Ognuna delle sue risposte va a colmare un piccolo tassello dell'enigma che compone questa confraternita, ma ogni volta che uno va a posto, mi accorgo che ce ne sono altri dieci che mancano. Per esempio, mi ha detto che non esiste una via d'uscita o d'accesso convenzionale per la Corporazione, però avete dei domestici che vivono qui. Vivere qui implica una fornitura costante di cibo e bevande, oltre a molte altre piccole necessità della vita. In che modo si regola la vostra confraternita per queste cose senza che nessuno dei fornitori sappia dove sta consegnando la sua merce? E poi, se questo è un complesso sotterraneo senza una via d'accesso o d'uscita, com'è che l'aria è ancora così fresca dopo secoli?» «È un bene che tu pensi a tutto questo. Dimostra che hai una buona
comprensione della logistica. Molti degli altri membri della Corporazione danno tutto questo per scontato. Ti basti sapere, per il momento, che chi ha disegnato questo posto ha tenuto conto di questi aspetti. Quando ti sarai sistemato e sarai diventato un membro ufficiale, allora, se sarai ancora curioso, ti mostrerò come ci regoliamo a questo proposito.» «La ringrazio, Maestro. Mi è sempre interessato sapere come funzionano queste cose. E sono curioso anche riguardo a queste icone magiche. Non mi è capitato spesso di imbattermi nella magia, perciò non ne so molto. Ma in questo caso, il processo magico non mi interessa quanto i suoi aspetti pratici. Il luogo in cui fratello Vipera ha usato la sua icona per condurmi qui: è l'unico posto del genere da cui si può raggiungere la Corporazione o ve ne sono altri? E viceversa: si può arrivare ovunque con questa icona o ci sono dei limiti?» Il Maestro scoppiò in una risata. «Le tue domande sono intelligenti e ragionevoli. Ti risponderò, ma poi dobbiamo procedere. Ho disposto che la cerimonia abbia inizio presto, perché la Corporazione degli Assassini si trova in un periodo di grande lavoro.» «Sì, lo immagino. Ultimamente l'Imperatore non vi ha reso la vita facile. La sua dichiarazione di anaethus drax era la principale ragione per cui non intendevo avere a che fare con voi. Ma ora comprendo che sarà impossibile per lui riuscire a raggiungerci qui. Sono contento che siate venuti a cercarmi.» «Mi fa piacere. Come vedrai presto, le icone hanno i loro limiti. Esse sono i pezzi mobili all'interno di una rete cittadina di oggetti magici che si trovano al loro posto da secoli. Ogni icona è legata magicamente ad altri quattro oggetti: la pietra vincolante, la pietra di casa e due pietre di destinazione, in città. La pietra vincolante viene usata per legare ogni membro alla sua icona. Quando un membro muore, la sua icona fa ritorno al suo posto sulla pietra vincolante. La prima persona a toccarla sarà legata a essa. Alcune delle icone hanno avuto centinaia di legami, da quando sono state create. Altre ne hanno avuto solo qualche decina.» Il Maestro si fermò per un secondo, come se stesse riflettendo sul perché di queste differenze. Quando riprese, Reynik si domandò se in quella pausa avesse riflettuto sulla propria icona, ammesso che anche lui ne avesse una. «Per usare l'icona per viaggiare, il suo portatore deve metterla in contatto con la sua pietra di casa, o con una delle pietre di destinazione. Se l'icona tocca una pietra di destinazione, il portatore verrà sempre condotto alle
sue stanze, qui, nel complesso della Corporazione. Se l'icona viene appoggiata contro la pietra di casa, il luogo in cui il portatore verrà trasportato dipende da quale lato della pietra tocca l'icona. Vi sono trenta pietre di destinazione complessivamente. Ciascuna icona ha una sua pietra di destinazione unica e una in comune con un'altra. Conoscerai presto l'ubicazione della tua.» «Affascinante» commentò Reynik con sincero entusiasmo. «E lei, Maestro, ha un'icona separata?» «Questa è una domanda a cui non posso rispondere in questo momento. Vieni. Dobbiamo andare nella sala centrale. È quasi giunto il momento della tua investitura. Non vorrai far aspettare gli altri.» «Lord e lady di Shandar, sono lieto che oggi siate venuti tutti qui. So che avete molti impegni di cui occuparvi, perciò non vi tratterrò a lungo. Vi ho convocato qui per chiedervi di aiutarmi a risolvere una questione importante.» L'Imperatore Surabar si interruppe e scrutò il mare di volti ostili. Era chiaro che l'ultima cosa che la maggior parte di quella gente voleva fare era aiutarlo, ma ciò che loro desideravano era irrilevante. Se c'era anche una sola persona fra di loro che aveva informazioni da dargli per fermare quel bagno di sangue, quell'adunanza non sarebbe stata vana. «Come sapete, qualche tempo fa ho dichiarato la Corporazione degli Assassini anaethus drax. Ritengo fermamente che tale organizzazione sia un abominio di un'epoca passata. In una società civile, la sua esistenza non deve essere permessa. Forse qualcuno di voi avrà motivo di non essere d'accordo con me: è una vostra prerogativa. Tuttavia, a quelli di voi che condividono le mie convinzioni su questo argomento dico: se avete qualunque informazione che possa aiutarmi nel mio tentativo di estirpare questa organizzazione una volta per tutte, vi prego di chiedermi udienza il più presto possibile. Se non riceverò informazioni nel giro di ventiquattr'ore, prenderò misure drastiche per cominciare a distruggere la Corporazione degli Assassini con altri mezzi. Con questo appello sto semplicemente tentando di ridurre al minimo i disagi per tutti.» La Corte fu percorsa da un brusio di voci che si chiedevano quali mai potessero essere queste "misure drastiche". «Vostra Maestà.» Calò il silenzio. Nell'aria l'attesa aleggiava come un profumo. Qualcuno avrebbe appoggiato pubblicamente l'Imperatore? Chi aveva parlato? «Sì, Lord Merrik?»
«Con tutto il dovuto rispetto, quello che domandate è insensato, vostra Maestà.» «Davvero, Lord Merrik? E perché dice questo?» «Perché nessuno che abbia un po' di istinto di conservazione potrebbe mai darvi queste informazioni, ammesso che le abbia, vostra Maestà. La Corporazione degli Assassini non è un'organizzazione con cui si possa scherzare. Esiste da secoli... Ha una Regola...» «E spreme un sacco di stupidi lord dotati più di denaro che di senso dell'onore, o di decenza» lo interruppe Surabar. «Lasci stare quelle stupidaggini sul fatto che gli Assassini hanno una Regola, come se questo giustificasse i loro omicidi. In questa città esiste un sistema giudiziario. Non è sempre perfetto, ma esiste per un motivo. Voglio mettere fine ai giorni in cui la gente cerca di aggirare la giustizia dell'Impero. La Regola degli Assassini è una scusa che permette loro di guadagnare soldi dai loro omicidi, niente di più.» «Non intendevo giustificare la loro esistenza, vostra Maestà. Desideravo solo far notare che hanno avuto secoli per consolidare una rete di spionaggio che fa impallidire quella dell'Impero. Hanno uomini ovunque, vostra Maestà. Non potete proteggere il vostro popolo da loro. Lord Kempten ha preso le vostre difese e ha pagato con la vita. I comandanti di legione stanno cadendo come mosche perché vi sono fedeli. Invece voi, come Imperatore, rimanete al riparo dalle loro attenzioni, perché essi non possono uccidervi in virtù della loro Regola, vostra Maestà. Voi lo sapete, non è vero? Ecco perché tutti coloro che vi stanno attorno muoiono, mentre voi siete ancora vivo. Ecco perché nessun Assassino ha ancora bussato alla vostra porta.» «Un Assassino è stato catturato mentre cercava di colpirmi, la settimana scorsa...» «Allora scommetterei fino all'ultimo sennut che non era un membro della Corporazione, vostra Maestà. Se lo fosse stato, molto probabilmente adesso sareste morto.» L'Imperatore tacque e rifletté per un istante sulle parole di Lord Merrik. Surabar sapeva di aver perso la posizione di vantaggio. Merrik aveva ragione. La Corporazione aveva un'ottima rete di spie. E inoltre stava uccidendo uno dopo l'altro tutti i comandanti militari che gli erano fedeli, e lui non era riuscito a fare nulla per fermarla. Chiunque gli avesse fornito informazioni avrebbe corso il rischio di ricevere una visita da un Assassino della Corporazione. Ma lui aveva ancora un'ultima carta da giocare e deci-
se di usarla ora. «Riconosco, Lord Merrik, che quello che vi sto chiedendo oggi potrebbe essere pericoloso per le vostre vite. Tuttavia, pensate ai benefici che ne trarreste: una società in cui la giustizia è praticata in tribunale anziché nei vicoli bui; una società in cui un mediatore imparziale risolve le dispute senza che una delle due parti assuma un Assassino specializzato: alcuni fini giustificano i mezzi. C'è chi sacrificherebbe qualsiasi cosa per realizzarli. Lady Kempten, vuole raggiungermi?» Tutti gli occhi nella Corte si voltarono a guardare la contegnosa figura vestita di un sobrio abito nero alzarsi dal suo posto in prima fila e salire con grazia i gradini che portavano alla pedana su cui si trovava l'Imperatore. La dama si fermò alla destra dell'Imperatore e si voltò per rivolgersi alla Corte. «Mio marito...» iniziò con voce salda e sincera. «Il mio defunto marito credeva fermamente nella capacità dell'Imperatore Surabar di trasformare l'Impero. Lui era convinto che le sue riforme avrebbero portato beneficio a tutti i cittadini di Shandar, dal più potente dei lord al più povero dei mendicanti di strada. Se lui fosse qui oggi, si offrirebbe di rivelare ogni informazione in suo possesso nonostante la possibilità di eventuali ritorsioni da parte della Corporazione. Perché?» Fece una pausa a effetto. «Perché credeva che fosse giusto. Perché credeva che questo fosse il modo di progredire. Perché credeva che la società nel suo complesso ne avrebbe tratto giovamento. Mio marito era pronto a dare la sua vita per queste convinzioni. Non lasciate che la paura vi trattenga. I giorni della Corporazione degli Assassini sono contati. La nuova Shandar dell'Imperatore Surabar sarà per tutti un posto più sicuro e migliore in cui vivere.» Lady Kempten li aveva commossi. Non tutti, certo, ma parecchi sì. Surabar se ne accorse. L'Imperatore non si era aspettato miracoli. Però, guardando nella Corte i volti dei nobili, sentì che lo sforzo compiuto non era stato vano, anche se nessuno si fosse fatto avanti con delle informazioni. «Grazie, Lady Kempten. Credo di parlare a nome di tutti i presenti nell'offrirle le mie più sincere condoglianze per il suo lutto. Ho saputo che intende ritirarsi nella sua casa di campagna per qualche tempo, il che è perfettamente comprensibile. I miei più sinceri auguri accompagnino lei e la sua famiglia.» Con una riverenza a Surabar, Lady Kempten discese dalla pedana, immagine di forza ed eleganza davanti a una grande tragedia. Surabar attese
che lei riprendesse posto prima di concludere il suo breve discorso. «Signori e signore della Corte Imperiale, vi ringrazio di avermi dedicato il vostro tempo. Non vi tratterrò oltre. Le mie porte saranno aperte per chiunque desideri parlarmi a questo riguardo.» Reynik sentì un'onda di paura montare dentro di sé mentre il Maestro della Corporazione lo conduceva lungo il corridoio che si dipartiva dalle stanze di fratello Vipera. In fondo al corridoio c'era una porta che si apriva su una nicchia simile a una stalla di scuderia in cui fratello Vipera stava in piedi accanto a una sedia. La nicchia dava su una grossa sala con un podio centrale. Il Maestro accettò l'inchino di Vipera con un cenno al suo passaggio. Senza fermarsi, aprì la porta ed entrò nella sala, portando Reynik verso il podio. Mentre procedeva, Reynik vide che lungo la parete della sala si aprivano altre rientranze. Sembravano molte, e ognuna di esse aveva un diverso simbolo di animale sulla porta e sul muro soprastante. Reynik si voltò per guardare i simboli. Un coguaro, un lupo, un orso, un drago di fuoco, un falco, un'aquila, un gufo, una volpe: erano tutti predatori. Finalmente capiva. Gli occhi gli si posarono per un momento sul motivo del drago sopra una delle porte e tremò. Campanelli d'allarme iniziarono a suonare nella sua testa mentre guardava il drago. Aveva già visto prima quel simbolo. "Shalidar!" pensò, mentre un senso di imminente fatalità lo scuoteva per un attimo e un'ondata di odio montava dentro di lui. Con la mente ritornò a Mantor e alla casa che Shalidar possedeva là. In quell'abitazione erano in mostra molti quadri, immagini e ornamenti con figure di draghi. Improvvisamente capì perché l'Assassino era così interessato ai draghi: quell'animale era il suo simbolo. Un lievissimo movimento nell'oscurità della nicchia del drago riportò Reynik al presente. Lo stava fissando? Sperava di no. Avrebbe dovuto immaginare che le cabine sarebbero state occupate. Se Shalidar l'avesse riconosciuto, sarebbe stata la morte certa per lui. Ma era improbabile. Si erano incontrati faccia a faccia solo una volta, quando Reynik aveva finto di essere un cliente agiato desideroso di avvalersi dei suoi servizi. Reynik non credeva che il loro incontro sul tetto del Palazzo contasse, dato che l'Assassino gli aveva dato appena un'occhiata prima di fuggire. No, il legame era troppo tenue. Si trovavano a centinaia di leghe di distanza dal luogo del loro ultimo incontro e da allora Reynik aveva cambiato aspetto. Era davvero improbabile che Shalidar potesse associarlo al loro breve confronto a Mantor.
Il Maestro era salito sul podio simile a un pulpito. Reynik rimase in fondo agli scalini. Cercò di non apparire nervoso, ma l'apprensione tornava a crescere. Non sapeva dove guardare, dato che non voleva che lo cogliessero a fissare qualcuno in particolare. E poi non sapeva che cosa fare con le mani. Gli sembrava sbagliato tenerle ai fianchi, ma se le avesse messe dietro la schiena sarebbe sembrato un atteggiamento militare, e questo andava evitato. Se le avesse intrecciate, sapeva che avrebbe iniziato a giocherellare con le dita. Aveva già i palmi appiccicosi per il sudore provocato dalla tensione nervosa. Che cosa sarebbe accaduto adesso? Il Maestro non gli aveva fornito alcun dettaglio. Improvvisamente la voce del Maestro della Corporazione risuonò nella sala semioscura. «Io acconsento...» Vi fu una breve pausa, poi una serie di voci si unirono a lui in un canto rituale che Reynik comprese essere la Regola degli infami Assassini. Ne ascoltò le parole, affascinato da alcune delle formulazioni. Se gli Assassini erano legati al rispetto di quel codice d'onore, allora era chiaro che, negli ultimi tempi, Shalidar aveva camminato sul filo del rasoio. Io pronuncio codesta Regola pienamente consapevole che, se dovessi infrangerla, pagherò con la vita. Le ultime parole riecheggiarono nella sala. Reynik sentì un nodo stringergli lo stomaco. Il suo nervosismo cresceva di secondo in secondo. Dov'era la pietra vincolante di cui gli aveva parlato il Maestro? Non sembrava essere in quella sala. Come funzionava? Stringere il vincolo sarebbe stato doloroso o l'avrebbe lasciato confuso e disorientato, come era successo durante il trasferimento magico alla sede della Corporazione? «Fratelli, questo è un buon giorno. Accogliamo un nuovo fratello nella nostra Corporazione. Ti prego di camminare attorno al podio centrale, mio giovane amico.» Reynik fece come gli era stato chiesto. Camminò lentamente, tenendo il volto impassibile e lo sguardo diritto davanti a sé. Questa volta non permise ai suoi occhi di soffermarsi sull'emblema del drago, ma passò subito oltre, come fece con tutti gli altri, finché non si ritrovò al punto di partenza. «Tutti voi avete potuto vedere il suo volto. Qualcuno di voi è a conoscenza di un motivo per cui quest'uomo non dovrebbe essere accolto come membro della nostra Corporazione?»
Il cuore di Reynik gli martellava furiosamente nel petto. Shalidar avrebbe parlato? Preziosi secondi di silenzio passarono senza che nessuno intervenisse. «Benissimo.» Il Maestro tornò a posare lo sguardo su Reynik. «Puoi metterti il cappuccio» gli disse solennemente. «Non lo toglierai più finché sarai in questa sala. Fate un passo in avanti, fratelli, in modo che si possa procedere all'imposizione del nome.» Il Maestro scese dal podio e guidò Reynik verso la parete, fra le nicchie dell'orso e del grifone. Il muro era fatto di solida roccia. Reynik non vide traccia di vie d'uscita, ma per non fare la figura dello sciocco non espresse i suoi dubbi ad alta voce. Il Maestro estrasse qualcosa da sotto il suo mantello e agitò ad arte la mano davanti alla parete. Reynik fremeva dalla curiosità di vedere che cosa avesse in mano il Maestro, ma accanto a lui c'erano una decina di Assassini. Non voleva fare alcun movimento che potesse essere frainteso. Nel giro di un istante, una parte della parete svanì, lasciando un grosso buco a forma di porta. Reynik aveva ormai superato la fase dello stupore. Sembrava che in quel luogo ci fossero parecchie cose che andavano al di là della normale comprensione umana. Che cos'era accaduto alla parete? Era sempre stata un'illusione? Una parte era stata fatta scomparire mediante la stessa magia dei talismani? La questione era irrilevante, rifletté. Il Maestro lo guidò per il buio corridoio. Ora quello che lo preoccupava era ciò che avrebbe trovato in fondo. Una volta entrato nel corridoio di pietra, Reynik si accorse che l'oscurità non era completa. C'era un vago chiarore proveniente da un punto sopra le loro teste che faceva una luce appena sufficiente perché vedessero dove stavano andando. Quando entrarono nella stanza in fondo al corridoio, il contrasto con la sala delle assemblee fu sorprendente. Se la sala era stata chiaramente scavata e lavorata dall'uomo, questa sembrava invece una grotta naturale. Pareti irregolari risplendevano di una inquietante luce verde che Reynik non sapeva se definire naturale, chimica o magica. Non aveva mai visto un fuoco ardere di quel colore. Ma lì non c'erano fiamme. Sembrava quasi che fossero le rocce stesse a risplendere. Per un attimo, la mente di Reynik ritornò alla Corte Reale di Thrandor e al processo di Femke. Allora l'alchimista Pennold, per dimostrare la colpa di Shalidar, aveva usato una pietra che emetteva un influsso invisibile. Quella che vedeva ora era una reazione analoga? Reynik avrebbe voluto
poter studiare più a fondo quel luogo, ma gli eventi lo spingevano a procedere a ritmo inesorabile. Al centro della stanza c'era un grosso blocco di pietra piatta che sembrava singolarmente simile a un altare. Avvicinandosi, Reynik vide che sulla sua superficie vi erano profonde incisioni. Immagini corrispondenti ai simboli dei predatori nella sala delle assemblee erano state scavate nella pietra. Alcune erano minuscole, altre più grandi. Ma tutti i simboli dei predatori su quella roccia avevano qualcosa in comune: attorno a ognuno di essi era inciso un identico cerchio di rune. Il linguaggio della magia veniva scritto con rune simili a quelle, si rese conto Reynik. A quel pensiero si sentì rizzare i capelli in testa. Era una delle poche cose che sapeva delle arti magiche. Fino ad allora, nei più profondi recessi della sua mente si era chiesto se il trasferimento magico alla sede della Corporazione non potesse essere altro che una complicata farsa. I suoi residui dubbi al riguardo si dissolsero alla vista di quelle rune. Quella era magia vera. Il Maestro condusse Reynik fino alla pietra, mentre gli Assassini incappucciati si disponevano in cerchio tutt'attorno. La grotta era ampia, ma a un tratto Reynik si sentì travolgere da un senso di claustrofobia. Era circondato da tutte le parti da Assassini mortali e rinchiuso nella solida roccia. Non c'era modo di andare via di lì. Il panico rischiò di sopraffarlo, ma ancora una volta gli tornarono alla mente le tranquillizzanti parole di suo padre. "Il panico è morte. Non cedervi. Respira a fondo e lentamente. Rilassa le spalle e tieniti pronto. Il modo migliore per uscire da una situazione difficile ti apparirà solamente quando riuscirai a pensare con chiarezza." «Fratelli, siamo qui riuniti nuovamente attorno alla pietra vincolante per prendere una decisione. Il nostro nuovo fratello qui presente deve assumere un nome. Ce ne sono tre disponibili. Che cosa dite, fratelli? Quale icona dovrebbe vincolare il nostro nuovo fratello? Il Falco, il Serpente di mare o la Tarantola? Voi tutti avete sentito i racconti delle sue ultime imprese. Quale credete sia la più adatta a lui?» Reynik guardò nuovamente la superficie della pietra vincolante e vide le tre icone d'argento sistemate nelle loro rispettive incisioni. "Oh, Shand, ti prego, fa' che non sia il ragno!" pregò. Il Maestro si voltò verso l'Assassino accanto a sé. «Che cosa dici tu, Drago di Fuoco?» «Tarantola.»
«E tu, Orso?» «Falco.» E così proseguì per tutto il cerchio. «Tu che cosa dici, Dragone?» «Tarantola» rispose la figura incappucciata. Un brivido percorse la schiena di Reynik. Quella voce non gli era nuova. Era quella di Shalidar. Sicuramente. Il sicario di suo zio era il Dragone. Quando il Maestro della Corporazione si rivolse a Volpe, fu una voce di donna, lieve e sommessa, a rispondere: «Falco.» Per Reynik fu una sorpresa. Il Maestro non parlava mai di sorelle, ma solo di fratelli. Come aveva potuto una donna riuscire a essere affiliata alla Corporazione se erano tanto discriminate da non essere neppure riconosciute come tali? Infine fu interpellato l'ultimo membro. «Due dicono Serpente di mare, cinque Falco e cinque Tarantola. Il mio voto sarà decisivo» annunciò solennemente il Maestro. «Ho riflettuto sul tuo approccio alla tua ultima missione e il tuo nome mi è sembrato evidente. Ti impongo il nome di... fratello Tarantola. Prendi la tua icona, fratello, e lega la tua anima alle nostre.» Il cuore di Reynik ebbe un tuffo. L'icona d'argento della tarantola gli dava i brividi. Non era piacevole pensare che avrebbe dovuto viverle accanto per il resto della sua vita. Ma quello non era il momento di mostrare esitazione. Con le mascelle serrate per la tensione, allungò la mano e sollevò il ragno d'argento dall'incisione sottostante. Per un attimo brevissimo, il mondo prese a ruotargli intorno, ma poi... niente: si sentì perfettamente normale. Nessuna sensazione insolita, nessun fremito magico, nessun effetto inconsueto. Il legame descritto dal Maestro fra l'icona e la forza vitale di un individuo lo aveva indotto ad aspettarsi che in qualche modo si sarebbe sentito diverso. Non fu così. Fu una grande delusione. «E ora, fratello Tarantola, ti è richiesto di recitare la Regola. Secondo questa Regola tu vivrai e sarai giudicato. Qualunque cosa l'attuale Imperatore possa credere, questa confraternita ha resistito alla prova del tempo grazie all'integrità dei suoi membri. Noi vantiamo un'orgogliosa tradizione di lealtà e di rispetto che dura ormai da secoli. Nel bene e nel male, tu sei diventato nostro fratello. Fintanto che rispetterai la Regola, godrai della protezione e del sostegno della Corporazione. Non cercare di distorcerne le parole o di piegarle a tuo piacimento, perché ti distruggerebbe. Ripeti dopo di me, per favore: Io acconsento in quanto membro della Corporazione...»
Reynik fece quanto gli era stato detto e ripeté ogni frase della Regola con inflessioni il più possibile identiche a quelle del Maestro. Gli ultimi versi rischiarono di restargli in gola, ma si costrinse a recitarli: Io pronuncio codesta Regola pienamente consapevole che, se dovessi infrangerla, pagherò con la vita. Era fatta. Era riuscito a infiltrarsi nella Corporazione degli Assassini. Ma a che prezzo? Le informazioni che ne aveva ricavato valevano la sua vita? Forse l'Imperatore lo avrebbe ritenuto un piccolo prezzo da pagare: la vita di un legionario in cambio di informazioni che potevano aiutarlo a spazzare via la Corporazione degli Assassini. Sì, all'Imperatore tutto questo doveva sembrare uno scambio ragionevole, pensò Reynik. Un generale calcola e analizza attentamente le possibili perdite prima, durante e dopo ogni campagna. Un buon comandante fa lo stesso. A volte occorre qualche sacrificio per vincere. Non c'è spazio per i sensi di colpa nelle menti di uomini del genere. Reynik lo sapeva fin troppo bene. Lo aveva nel sangue. Se un comandante avesse permesso ai sentimenti nei confronti dei singoli di interferire nelle proprie decisioni, come avrebbe potuto aspettarsi di avere successo? Reynik aveva tante cose da raccontare a Femke e all'Imperatore. Pur non avendo scoperto dov'era la sede della Corporazione, aveva raccolto un mucchio di informazioni fin qui sconosciute sulla confraternita e sul suo funzionamento. Con quello che sapeva dell'organizzazione, ora sarebbe stato molto più facile identificarne i membri. Erano informazioni dal valore inestimabile. Tutto ciò che doveva fare adesso era sopravvivere abbastanza a lungo da riuscire a trasmetterle. «Benvenuto, fratello» annunciò il Maestro con un tono di voce sinceramente caloroso. Mise amichevolmente un braccio attorno alle spalle di Reynik. «Ci sarà un breve periodo di prova e dovrai compiere il tuo primo assassinio per conto della Corporazione per poter diventare un fratello a tutti gli effetti. Ma non credo che nessuna delle due cose costituirà un problema per te. E adesso vieni. Chiederò a uno dei domestici di accompagnarti nelle tue stanze. Ti prego di non cercare di usare la tua icona per uscire dal complesso finché non sarò io a dartene il permesso. Non è opportuno che tu viaggi da solo finché il tuo corpo non si sarà adattato al malessere che accompagna il trasferimento. Alla tua prima incursione di ritorno
a Shandrim, il tuo confratello di pietra ti accompagnerà. Il tuo confratello di pietra è fratello Coguaro.» Uno degli altri Assassini fece un inchino. «Benvenuto, confratello di pietra» gli disse. «Sarà un piacere per me farti da guida.» Il Maestro condusse Reynik fuori dalla stanza dell'imposizione del nome e gli fece nuovamente attraversare uno scuro corridoio per ritornare alla sala delle assemblee. Là furono accolti da un domestico che indossava una semplice tunica marrone, il quale, a sua volta, accompagnò Reynik nella nicchia della Tarantola, e di lì al corridoio e alle stanze retrostanti. Shalidar lo guardò allontanarsi, seguendo ogni suo passo con gli occhi socchiusi. Gli altri Assassini si stavano incamminando per raggiungere ognuno le sue stanze, ma Shalidar si trattenne. «Maestro. Un momento, la prego» lo chiamò piano. «Sì, fratello Dragone? Che cosa c'è?» «C'è qualcosa nel nuovo fratello Tarantola che mi turba» disse con voce esitante. «Di che cosa si tratta?» «Non lo so, Maestro. Una sensazione. Un istinto che mi avverte che ci saranno guai.» «È davvero strano, detto da te» ridacchiò il Maestro. «Però anche fratello Vipera mi ha detto qualcosa di simile. Non temere, fratello Dragone. Sarà attentamente sorvegliato. Ripensandoci, vista la sensazione che provi, vorrei che tu fossi uno di quelli che lo terranno d'occhio. Fa' attenzione. Da quanto mi ha riferito fratello Vipera, manca di esperienza ma è ricco di talento. Non sottovalutarlo. Se è venuto qui per tradirci, forse ha molte altre qualità di cui non siamo al corrente.» «Se è con la Corporazione, non riuscirai mai a trovarlo.» «Ma la Corporazione deve avere una sede da qualche parte, Shedrick. Dev'essere qui a Shandrim, reagiscono troppo in fretta agli eventi. Di sicuro qualcuno deve saperlo. Nessuna organizzazione può mantenere completamente segreta la propria sede per sempre.» La frustrazione di Femke aumentava. In passato aveva già cercato di scoprire la sede della Corporazione degli Assassini, ma non lo aveva mai fatto veramente sul serio. Aveva agito soltanto per soddisfare la sua curiosità personale. Raccogliere informazioni era il suo lavoro, ed era bene anticipare le richieste. La gente cercava sempre di scoprire segreti. La Corporazione degli Assassini era una delle associazioni più misteriose che si fos-
sero mai costituite. Era più che evidente che qualcuno, prima o poi, avrebbe cercato di saperne qualcosa di più. «Oh, sì che si può, signorina» rispose sommessamente Shedrick mentre il suo volto assumeva un'espressione cospiratrice. Si guardò intorno nervosamente e abbassò ancora di più la voce. «Scompaiono magicamente. Loro possono... sparire.» Femke scoppiò quasi a ridere a questa conclusione così melodrammatica, ma si trattenne. Shedrick era un informatore prezioso. Stava parlando sul serio. Se avesse pensato che lei si stava prendendo gioco di lui, avrebbe potuto riferire le proprie informazioni a qualcun altro. E lei aveva troppo bisogno di lui per rischiare di perderlo per una sciocchezza simile. «Scomparire, Shedrick? Ne sei sicuro? Non voglio mettere in dubbio le tue parole, ma se gli Assassini possono scomparire a loro piacimento, allora perché vengono catturati?» «Questo non lo so, signorina, però so che è così. L'ho visto con i miei occhi, signorina. Un attimo prima era qui e un attimo dopo c'era qualche scintilla luminosa e lui era scomparso. Non ho mai visto niente di simile in vita mia, signorina. Mi ha dato i brividi, mi ha fatto rizzare i capelli in testa.» «Ma chi, Shedrick? Chi hai visto scomparire, e quando?» «Uno di quegli Assassini, signorina. Non credo di avere mai sentito il suo nome, ma l'ho visto strisciare fuori dall'accampamento delle legioni la settimana scorsa. Tutto vestito di nero, ecco. Mantello e cappuccio neri. Sembrava la morte, sembrava. Uno dei comandanti di legione è stato ucciso quella stessa notte. Non ci vuole un genio per capire che quell'uomo vestito di nero era l'Assassino.» «E così tu l'hai visto fuori dall'accampamento. È lì che è scomparso?» «No, signorina. Prima mi ha fatto fare un bel giro per la città. Eravamo quasi arrivati in centro quando è successo. Ora mi chiedo se si fosse accorto che lo stavo seguendo. Sono stato più che attento, perché non si può mica far arrabbiare un membro della Corporazione degli Assassini. Avrei giurato che non mi avesse visto, ma poi, tutt'a un tratto, si è fermato all'imbocco di un vicolo e si è guardato alle spalle. Guardava dritto nel punto in cui ero nascosto quando è svanito nel nulla. Tutto ciò che è rimasto sono state un paio di scintille in aria, e poi anche quelle sono scomparse. Lo giuro, signorina. Quanto è vero Shand, è andata proprio così.» Femke guardò a lungo la faccia dell'uomo. Era difficile fissarlo negli occhi perché si muovevano continuamente. Sembrava un furetto: piccolino,
vispo e sempre pronto a ficcare il naso dove c'erano guai in vista. Tuttavia, nel suo atteggiamento non c'era traccia di menzogna. Senza dubbio quello che diceva era la verità. La domanda allora era: che cos'aveva visto, realmente? Era stata un'astuta illusione, qualcosa per nascondere un ingresso segreto? Avrebbe dovuto scoprirlo. «Ti ringrazio, Shedrick, mi sei stato di grande aiuto.» Gli porse diversi sen d'argento che l'uomo fece scomparire in una delle sue tasche con la velocità di un serpente a sonagli. «Ne avrai altrettanti se mi indicherai il punto in cui l'uomo è scomparso» aggiunse lei. Shedrick ci pensò su un momento mentre si grattava nervoso dietro l'orecchio. «Non lo so, signorina. Potrebbe essere pericoloso.» «Questo potrebbe aiutarti a decidere, forse?» domandò Femke con una voce che diventò vellutata come la seta mentre estraeva un sen d'oro e ci giocherellava con le dita. Shedrick si leccò le labbra e allungò le mani per afferrare la moneta, ma Femke fu più veloce di lui. «Non lo avrai finché non mi avrai mostrato il posto» insistette, facendo dondolare un'ultima volta la moneta prima di rimettersela in tasca. «Il suo è un gioco pericoloso, signorina, ma le farò vedere. Venga con me. È buio là, ma è ancora presto perché ci siano già in giro ladri e tagliagole. Facciamola finita prima che cambi idea.»
Capitolo dodici «Finalmente! Pensavo che non saresti mai arrivato. Benvenuto. Vieni, accomodati, prendi qualcosa da bere. Ho una proposta vantaggiosa da farti.» «Sono le proposte che preferisco, Lord Tremarle» rispose Shalidar con un mezzo ghigno. L'Assassino si avvicinò senza fretta a una poltrona. Si voltò, si mise a sedere e accavallò le gambe, tutto in un unico movimento fluido, poi si appoggiò allo schienale e congiunse le mani sul petto fissando il suo ospite con sguardo intenso. Era evidente che Lord Tremarle si trovava in uno stato di agitazione emotiva. Collera e dolore contrastavano con il normale nervosismo di chi aveva a che fare coi membri della Corporazione. Shalidar guardò attenta-
mente il vecchio e tarchiato lord cercando di capire se dietro quella collera e quel dolore si nascondesse qualche informazione precisa. Lord Tremarle sapeva che seduto di fronte a lui in quella stanza c'era l'Assassino di suo figlio? Era improbabile. Quell'uomo sapeva essere un subdolo politico assetato di potere, ma quando c'erano di mezzo la famiglia e gli amici era del tutto trasparente. Tremarle porse a Shalidar un generoso bicchiere di vino. L'Assassino ne bevve appena un sorso con un cenno di ringraziamento. «Quando ti ho lasciato il messaggio in cui ti chiedevo di venire, avevo in mente qualcosa di diverso» esordì il lord. «Lord Lacedian mi aveva detto di essere diventato il bersaglio di uno dei tuoi colleghi. A quanto pare, questa informazione era esatta. L'Assassino responsabile della morte del mio amico era un membro della Corporazione?» «No... e sì» rispose Shalidar mandando giù un altro sorso. «La persona che ha ucciso il suo amico non era un membro della confraternita quando ha effettuato il colpo, ma da allora è stata affiliata. Mentre noi siamo qui, si sta sistemando nelle sue nuove stanze. Se intende vendicarsi per la morte del suo amico, ho paura di dovermi accomiatare subito, perché per quanto io voglia esserle di aiuto, non posso accettare un contratto per uccidere uno dei miei confratelli.» «No, no, non intendevo chiederti questo» lo interruppe in fretta Tremarle. «Sono l'ultima persona a voler sconvolgere la Corporazione con una richiesta del genere. Però vorrei stipulare un contratto sulla persona che è la responsabile ultima. Voglio che tu uccida chi ha ordinato la morte di Lacedian, perché sono certo che sia la stessa persona responsabile della morte di mio figlio.» Shalidar inarcò un sopracciglio sorpreso. "Potrebbe essere interessante" pensò. Gli era difficile immaginare che vi fosse un qualche legame fra le due morti, considerate le informazioni privilegiate di cui disponeva. «Lacedian mi ha confidato di sapere con certezza chi aveva stipulato il contratto su di lui» continuò Tremarle senza avvedersi delle reazioni di Shalidar. «Qualche tempo fa ho sentito una voce piuttosto vaga secondo cui anche tu avresti svolto un servizio simile, in passato. Questa voce non ha mai trovato conferma, perché nessuno vuole farsi sorprendere a ripetere una cosa del genere. Sono a conoscenza della vostra Regola, e so che questo tipo di servizio di solito non è in vendita, ma la somma che sono disposto a pagarti per portare a termine questo contratto forse ti indurrà a riflettere se valga la pena correre il rischio.»
Nella mente dell'Assassino si accese un lampo di interesse. Shalidar aveva capito che cosa voleva Tremarle. Lui aveva ucciso l'ultimo Imperatore per conto di Vallarne. In qualche modo, Tremarle ne era a conoscenza. Come e chi glielo avesse detto era preoccupante, perché Shalidar era già abbastanza nei guai con il Maestro. Però il ragionamento che aveva portato Lord Tremarle a chiedergli di stipulare un contratto su Surabar era errato. Doveva avere ricevuto delle informazioni tremendamente sbagliate per supporre che l'Imperatore, proprio lui, potesse ordinare un assassinio. E anche il ragionamento che lo aveva portato a ipotizzare che Surabar fosse il responsabile della morte di Danar non era dei più lineari. Shalidar lo aveva ucciso solo per far soffrire Femke: in che modo quella poteva essere colpa di Surabar? Era vero, d'altra parte, che nulla avrebbe fatto più piacere a Shalidar che essere pagato per uccidere l'Imperatore, tranne forse essere pagato per eliminare Femke, ma il Maestro della Corporazione lo teneva d'occhio. Non avrebbe potuto infrangere la Regola in maniera così eclatante e sperare di farla franca. E tuttavia, pensò, non aveva nulla da perdere ad ascoltare Lord Tremarle. Avrebbe sempre potuto trasmettere al Maestro le informazioni sul contratto offerto dal lord in segno di lealtà. «Non so quali siano le voci che le sono giunte, Lord Tremarle, ma nel corso degli anni mi sono stati ingiustamente attribuiti diversi assassinii. Posso solo immaginare che si stia riferendo all'ultimo attentato all'Imperatore, il che, come ha correttamente fatto notare, esula gli affari della Corporazione. Ma immaginiamo per un momento che un bersaglio del genere sia possibile. Quale sarebbe l'onorario che dovrebbe indurmi non solo a trascurare il rischio, ma anche ad affrontare la collera della Corporazione degli Assassini, se lo accettassi?» Lord Tremarle lo guardò dritto negli occhi con un'espressione carica di risolutezza. «Tutto ciò che possiedo» rispose. Shalidar scoppiò a ridere e si affrettò a posare il bicchiere di vino sul tavolino per evitare di rovesciarlo. «Tutto, Milord! Come potrebbe darmi tutto? Dove andrebbe a vivere? E che ne sarebbe di sua moglie?» Lord Tremarle sostenne con fermezza il suo sguardo e la sua espressione mantenne una serietà mortale. «Darò le mie proprietà, la mia ricchezza, anche il mio stesso nome, all'uomo che lo farà» sussurrò. «Lo adotterò come mio figlio, così che alla mia morte erediterà legalmente il mio casato.»
Femke tirò un sospiro e spinse via il piatto. Non aveva quasi toccato cibo. Ordinarlo era stato un errore. L'ansia per Reynik le aveva fatto chiudere lo stomaco. Perfino il profumo dello stufato di carne e patate le dava la nausea. Non era ancora pronta a perderlo. Avevano concordato un luogo e un'ora di incontro diversi per ogni giorno della settimana. Quello era il terzo a cui non si era presentato, ma lei avrebbe continuato a recarsi nei punti prestabiliti finché non avesse completamente perso la speranza. Quanto tempo ci sarebbe voluto, si chiedeva? Una settimana? Un mese? Non poteva pensarci. Le legioni stavano già iniziando il primo rastrellamento in città. Entravano in ogni edificio e lo buttavano all'aria in cerca della Corporazione degli Assassini. Era improbabile che si lasciassero sfuggire qualcosa. Ovunque si trovasse la sede della Corporazione, doveva essere completamente invisibile per non venire scoperta con una ricerca così determinata, pensò cupa. Che Shand aiutasse Reynik, se i legionari l'avessero trovato là. Femke aveva perlustrato tutta la zona attorno al punto in cui il suo informatore, Shedrick, sosteneva di aver visto scomparire un Assassino. Non aveva trovato traccia di niente di insolito. Shedrick era sempre stato una fonte affidabile, in passato, ma Femke sospettava che la notte in cui sosteneva di aver seguito "l'Assassino" avesse bevuto un bicchiere di troppo. Non c'era nulla nella sua storia che avesse veramente senso, ma il suo racconto le ricordava quello di Reynik a proposito della tarantola d'argento svanita dopo che lui l'aveva tolta dal corpo dell'Assassino. Un racconto di una scomparsa magica era insolito, ma due storie del genere riguardo ad Assassini e a oggetti di loro proprietà erano qualcosa di più di una coincidenza. Si era fatto tardi, troppo tardi per aspettare di veder arrivare Reynik. Femke gettò un paio di sennut di rame sul tavolo come mancia per la ragazza che l'aveva servita. Si alzò e si fece strada fra i tavoli verso la porta. Aveva ancora un paio di contatti a cui poteva rivolgersi. C'era sempre la vaga possibilità che uno di loro potesse darle la traccia che le serviva. Femke era quasi alla porta, quando vide l'uomo seduto al tavolo d'angolo in fondo alla sala comune della locanda. Il suo cuore sussultò. Era Reynik. Non alzò lo sguardo dal piatto da cui stava mangiando, ma lei capì che era consapevole della sua presenza. Le bastò un'occhiata verso di lui per avere la risposta che cercava. Fece un cenno di ringraziamento al padrone e uscì per la strada.
Reynik aveva usato il codice che lei gli aveva insegnato. Non l'aveva contattata perché qualcuno lo stava seguendo. Invece si era seduto in un punto in cui lei potesse vederlo e aveva disposto le stoviglie intorno a sé in modo da trasmettere il suo messaggio. Il pugnale era posato lateralmente sopra il piatto, con la lama affilata lontana dal corpo, e significava: "Non avvicinarti." Reynik mangiava usando solamente la destra, teneva la sinistra appoggiata tranquillamente sul tavolo accanto al piatto col pollice nascosto sotto il palmo e le altre dita distese. Femke avrebbe dovuto incontrarlo nel punto convenuto per il quarto giorno. Poco dopo Femke stava curiosando a una bancarella in uno dei tanti mercati all'aperto, non lontano dalla locanda. Questa volta vide Reynik arrivare, ma ancora non la avvicinò. Passando, Reynik si lisciò il mantello. Era il segnale per: "Controlla se mi stanno pedinando." Femke rimase alla bancarella e osservò di nascosto tutti i passanti per cogliere un qualche indizio che qualcuno lo stesse seguendo. Non c'era nessuno. A quanto pareva, era riuscito a liberarsi di chi lo pedinava. Reynik fece il giro del mercato, fermandosi di tanto in tanto a curiosare fra i banchi. Quando si avvicinò per la seconda volta, Femke gli diede il segnale di via libera e lui la raggiunse con fare indifferente. «Allora?» gli chiese lei. «Mi hanno preso» rispose lui «ma non si fidano ancora di me. Mi pedinano dappertutto. Sono quasi sicuro di essermeli scollati di dosso, ma ce n'è più di uno che mi segue.» «Sei al corrente dei rastrellamenti che stanno effettuando le legioni? Credi che riusciranno a trovare la sede della Corporazione?» «Ne sono informato, ma le legioni stanno sprecando il loro tempo. Non troveranno mai la sede, perché non c'è un modo convenzionale di accedervi. Gli Assassini hanno icone magiche che li trasportano dentro e fuori il loro complesso sotterraneo di grotte. Dove si trovino queste grotte nessuno lo sa. Farebbero meglio a cercare i singoli. Ognuno degli Assassini porta con sé o indossa un oggetto d'argento.» «Per esempio un talismano a forma di ragno?» domandò Femke. «No. L'unica persona che porta un talismano a forma di ragno sono io» rispose lui. «Uccidendo il precedente proprietario, senza volerlo ho ereditato il suo incarico. Immagino che Phagen avesse un falco o un serpente di mare d'argento, perché anche questi due erano privi di portatori.» «Maledizione!» imprecò Femke mordendosi il labbro inferiore. «I legionari hanno l'ordine di trattenere chiunque indossi qualunque tipo di tali-
smano d'argento a forma di ragno. Puoi sbarazzartene? O evitare di indossarlo quando esci? O nasconderlo da qualche parte e riprenderlo quando hai bisogno di ritornare alla sede della Corporazione?» «No, non è possibile. Se ci provo, morirò. L'icona è stata legata in qualche modo alla mia energia vitale. Non posso dire di aver capito tutto, però so che ormai sono vincolato alla Corporazione. Non posso andarmene come se niente fosse.» Femke non riuscì a nascondere del tutto il proprio sgomento. «Sarà bene che faccia avere un messaggio all'Imperatore al più presto. Bisogna che modifichi i suoi ordini» disse. «Quindi ci sono un falco e un serpente marino; quali altre icone ci sono?» «Sono tutte icone di animali predatori, veri e leggendari. Vipera, coguaro, orso, volpe, drago di fuoco. Hai afferrato il concetto? In tutto sono venti. Shalidar ha un drago. Ne sono sicuro. Femke, che cosa devo fare? Più tardi il Maestro della Corporazione vuole comunicarci in che modo risponderemo a questo rastrellamento da parte delle legioni. E se mi daranno un bersaglio da colpire? Devo portare a termine la missione per mantenere la copertura? Mi ha nauseato uccidere persino quando la persona che ho colpito era già condannata a morte per tradimento. Non so se riuscirei a uccidere qualcuno a sangue freddo senza neanche questa giustificazione.» «Sì... no... non lo so. Dammi un po' di tempo per pensare. È una domanda difficile» rispose Femke con una qualche esitazione nella voce. «Se ti affidano un incarico, fammelo sapere. Penserò a qualcosa. Sei riuscito a identificare qualcun altro nella Corporazione?» «No. Ogni volta che si radunano, rimangono incappucciati e tengono il mantello addosso per tutto il tempo. La disposizione della sala delle assemblee è interessante. Gli Assassini restano sempre separati, rimangono seduti in nicchie individuali che danno tutte su una stanza centrale in cui il Maestro presiede la riunione. Da quanto sono riuscito a capire, gli Assassini non lavorano mai insieme, a meno che non sia il Maestro a ordinarlo.» «E Shalidar e Phagen? Mi stai dicendo che dietro al loro complotto a Mantor c'era il Maestro della Corporazione?» «Non lo so, Femke. Posso dirti solo quello che ho visto. Sembra che il Maestro tenga le redini molto salde sugli altri membri della Corporazione, ma questo potrebbe dipendere dalle circostanze del momento. È rispettato da tutti... e temuto, anche. Se Shalidar ha contravvenuto ai desideri del Maestro, allora è molto audace o molto incauto. Ho l'impressione che il Maestro ucciderebbe senza esitazione qualunque membro della Corpora-
zione se dovesse disobbedirgli.» «Shalidar ha sempre amato vivere pericolosamente» osservò meditabonda Femke. «Pensa alla sua storia. Dubito che il Maestro sapesse quanto Shalidar fosse legato a Lord Vallaine. Avrà affermato di non sapere nulla dell'inganno del mago al Palazzo Imperiale, e dal momento che Vallaine aveva usato arti arcane per mascherare il suo vero aspetto, il Maestro avrà dovuto accettare la spiegazione di Shalidar. In tali circostanze, qualsiasi uomo razionale gli avrebbe concesso il beneficio del dubbio. No, secondo me a Thrandor Shalidar ha agito al di fuori dell'incarico della Corporazione. Il rischio è il suo pane.» Reynik annuì. «Quadra, anche se, in una maniera un po' contorta» ammise. «Ascolta Reynik, puoi riuscire a infiltrarmi nella sede della Corporazione degli Assassini? Se riuscissi a entrare, potrei trovare qualche indizio sulla posizione del complesso. Non so molto di magia, però so che, come per muovere le cose in maniera convenzionale, spostarle magicamente richiede più energia quanto più cresce la distanza a cui si devono portare. Il che significa che molto probabilmente la sede della Corporazione si trova sotto la città. Se riuscissi a trovare anche solo un indizio, potrei dire all'Imperatore dove incominciare a scavare. Una volta stanato il loro nido, per loro sarà molto più difficile sopravvivere.» Reynik ci pensò su per un momento. Il suo primo viaggio nel complesso della Corporazione era avvenuto tramite l'icona di Vipera. Non c'era motivo di pensare che non potesse fare altrettanto con il suo ragno. «Dovrebbe essere possibile» disse cauto «ma il trasferimento ti disorienta, le prime volte. Con ogni probabilità, una volta dentro non riusciresti ad agire nell'immediato. E se nel frattempo qualcuno ti trovasse, non potresti difenderti.» «E non c'è un posto in cui potrei nascondermi mentre mi riprendo?» «Be', le uniche persone che entrano nelle mie stanze sono i domestici e il Maestro. Se ti faccio entrare nel cuore della notte, i domestici non dovrebbero essere lì. E non è nemmeno probabile che il Maestro venga a farmi visita a quell'ora. Potrei nasconderti sotto il mio letto. Immagino che a nessuno verrebbe in mente di guardare lì. Dovrai aspettare qualche giorno. Mi tengono ancora sotto controllo. E dato che oggi sono riuscito a liberarmi di chi mi seguiva, probabilmente mi terranno d'occhio ancora più strettamente, almeno per un po'. Rivediamoci fra tre giorni. Se nel frattempo avrò disperatamente bisogno di parlarti, ti raggiungerò nella tua stanza a Palaz-
zo.» «D'accordo, Reynik. Il calendario degli appuntamenti può rimanere inalterato. Ci vedremo nel posto previsto. Fai attenzione.» Shalidar era confuso. L'idea di ereditare le proprietà di Tremarle lo stuzzicava. Se avesse assunto il titolo di Casa Tremarle, che cosa avrebbe potuto trattenerlo dall'aspirare a qualcosa di più? Aveva già messo il Mantello sulle spalle di un Imperatore, e lo avrebbe fatto una seconda volta, se non fosse stato per Femke. Se fosse stato Lord Tremarle, che cosa poteva impedirgli di aspirare a indossare lui stesso il Mantello? Il Maestro non avrebbe potuto trovare niente da ridire, perché non sarebbe stata un'infrazione alla Regola. E nemmeno sarebbe andato a scapito della Corporazione, anzi: avrebbe riabilitato il suo ruolo e anche qualcosa di più. Avere uno dei suoi al timone dell'Impero, avrebbe messo la Corporazione al riparo da ogni rappresaglia. Certo, la sua ascesa sarebbe dovuta apparire legittima. Non poteva semplicemente organizzare un bagno di sangue per salire sul trono. Il Maestro della Corporazione avrebbe smascherato subito una strategia così clamorosa. Perciò non poteva prendere il potere dall'oggi al domani. Doveva far ricorso a tutta l'astuzia e la scaltrezza di cui era capace per realizzare un piano del genere, ma questo non era al di là delle sue possibilità. Il primo grosso ostacolo era Surabar. Doveva uccidere l'Imperatore, se voleva diventare l'erede legittimo di Casa Tremarle. E questa era una violazione della Regola. Per quanto potesse rigirare la questione, non vedeva come risolvere la cosa. Non era tanto la violazione del codice d'onore in sé, a far tentennare Shalidar: da quando era entrato nella Corporazione degli Assassini l'aveva regolarmente aggirato. Quello che lo preoccupava era come coprire le proprie tracce in modo che il Maestro non si sentisse costretto a condannarlo a morte. «Per i denti di Shand!» borbottò guardando su e giù per la strada in cerca del suo uomo. Fratello Tarantola era scomparso. Dove poteva essere andato? Shalidar si voltò per vedere se avesse inavvertitamente sorpassato il ragazzo mentre sognava a occhi aperti. Nessuna traccia. Che cosa doveva fare? Anche Coguaro era lì per seguirlo. Sperò che il suo compare fosse stato più attento di lui. Il ragazzo non aveva fatto niente di sospetto, quel giorno, durante la sua escursione in città. Si era aggirato per il mercato, aveva parlato a un paio di persone note come informatori e poi aveva pranzato in una locanda
tranquilla. Sembrava che avesse comprato informazioni, più che averle vendute. Se avesse cercato di venderle, lui e Coguaro sarebbero stati costretti a intervenire. Nonostante il comportamento che Tarantola aveva tenuto fino a quel momento, Shalidar non era ancora pronto a concedergli fiducia. Il suo istinto continuava a dirgli che c'era qualcosa di infido, nell'ultimo arrivato della Corporazione. Aveva già visto prima quel ragazzo. Ne era sicuro. Shalidar era bravo con le facce. Di solito non aveva problemi a ricordare dove e quando avesse visto qualcuno, ma il volto di questo giovane gli sfuggiva. "Dev'essere stato di recente" pensò "perché è poco più di un ragazzo. Forse mi ricorda qualcun altro. Ma chi?" Ovviamente, la risposta a quella domanda non era ancora pronta a farsi trovare, perciò decise di lasciare che fosse il suo inconscio a lavorarci su. Se avesse smesso di rifletterci consciamente, forse il blocco alla memoria si sarebbe dissolto. Molto probabilmente, una notte si sarebbe svegliato all'improvviso colto dall'ispirazione e tutto si sarebbe chiarito, pensò. Sperò. Shalidar decise di tornare alla più vicina delle due pietre di trasferimento e di rientrare nelle sue stanze, alla sede della Corporazione. Aveva fatto pochi passi, quando calpestò qualcosa di appuntito e una fitta di dolore gli salì su per la gamba. «Ahi!» Si fermò ed esaminò la suola dello scarpone destro. Era logora. Una pietra appuntita spuntava ancora dal cuoio e gli faceva male. La estrasse e scorse un buchino. Gli scarponi erano vecchi, ma erano così comodi che gli dispiaceva comprarne di nuovi. Shalidar ci rifletté un istante. Non ne era sicuro al cento per cento, ma ricordava vagamente un banchetto di un ciabattino, nel mercato lì nei pressi. Non si era mai rivolto ai servizi di quell'uomo prima, ma era un lavoro semplice. Un ciabattino non avrebbe impiegato molto a risuolare un paio di scarponi. Il tempo era bello e Shalidar non aveva più alcuna fretta. Poteva permettersi di starsene seduto e aspettare che l'uomo facesse la riparazione, così non avrebbe dovuto comprare un altro paio di scarpe. Presa la decisione, Shalidar zoppicò fino al mercato e trovò il banco del ciabattino. Questa volta la memoria non l'aveva tradito. Era esattamente dove si ricordava. Il ciabattino era libero e si disse disposto a occuparsi della cosa. Si affaccendò a trovare uno sgabello affinché Shalidar potesse mettersi seduto e gli portò una tazza d'acqua da bere durante l'attesa. L'As-
sassino lo osservò divertito in silenzio per un po', prima di voltarsi a guardare cosa succedesse per la strada. Gli occhi superarono la coppia che chiacchierava con fare noncurante al banchetto del conciapelli, ma furono lesti a ritornare su di loro quando si rese conto di chi avesse appena visto. «Femke!» mormorò. «Con il giovane Tarantola! Ora ho capito. Adesso ricordo.» «Novità, Femke?» Femke entrò nello studio dell'Imperatore e si richiuse la porta alle spalle prima di avvicinarsi al tavolo di Surabar. Come al solito, l'Imperatore stava scartabellando un grosso mucchio di pergamene. La sete di conoscenza di quell'uomo era instancabile, pensò. Era una buona caratteristica per una persona che si trovava al posto di potere supremo, ma anche pericolosa. C'erano circostanze in cui un eccesso di conoscenze serviva solo a complicare le decisioni. A onore di Surabar, tuttavia, bisognava riconoscere che le decisioni difficili non lo avevano mai spaventato. «Reynik ha avuto successo, vostra Maestà. È stato accettato nella Corporazione degli Assassini.» «Davvero? È fantastico! Dove sono nascosti? Farò circondare il posto da una legione intera...» «Purtroppo, vostra Maestà» lo interruppe Femke sollevando una mano per indicare che non aveva finito «la cosa non è così semplice.» Surabar le lanciò uno dei suoi sguardi penetranti. «Ho sempre odiato la parola "ma", e sento che sta per arrivare. Avanti, Femke, qual è il tuo "ma"?» Femke sorrise. «Reynik è riuscito a entrare nella Corporazione, ma non conosce l'ubicazione della sua sede.» «E perché no? Non ce lo hanno ancora portato?» «Sì, è stato là. Da quello che ho capito, nessuno sa dove si trovi esattamente quel luogo, perché non è accessibile con mezzi normali. Anche gli stessi membri della confraternita non sanno dove sia. Le vostre legioni stanno sprecando il loro tempo a mettere a soqquadro la città. Reynik ha scoperto che la sede della Corporazione è un enorme complesso di caverne sotterranee che non sono direttamente accessibili dal mondo soprastante. L'unico modo per entrarne e uscirne è quello di usare una delle venti icone d'argento che sono cariche di una potente magia. Quando un'icona viene messa a contatto con una particolare pietra, trasferisce chi la tocca nella sede della Corporazione.»
L'Imperatore si alzò dalla sedia e iniziò a camminare avanti e indietro per la stanza, passandosi le dita fra i capelli incanutiti. «Sì» disse. «Ha una sua logica. Adesso capisco perché sono riusciti a non farsi scoprire per così tanto tempo. Ma c'è una cosa che non mi convince. È difficile credere che un complesso così grande possa essere stato costruito senza che ne siano rimaste tracce, da qualche parte. È del tutto improbabile che esistesse già un complesso di caverne perfettamente formate affinché la Corporazione degli Assassini potesse trasferirvisi, perciò devono aver fatto degli scavi. Seguendo questa logica, una volta dev'esserci stato un ingresso alle caverne. Che ne è stato di chi ha fatto i lavori? Nessuno ha tenuto dei registri? I costruttori di solito sono persone metodiche. Non sarei sorpreso se esistessero dei documenti da qualche parte.» «È stato tanto tempo fa, vostra Maestà. In ogni caso, la Corporazione avrà distrutto quei documenti. E poi sono passati secoli da quando è stato costruito il complesso.» «In caverne sigillate, l'aria diventerebbe viziata se non esistesse un collegamento col mondo esterno. No, non credo che Reynik si sia ancora fatto un quadro completo. Gli aspetti pratici e logistici per rifornire una serie di caverne di tutto ciò che occorre per la vita quotidiana renderebbero irrealizzabile la disposizione di cui mi hai parlato. La Corporazione deve ricevere rifornimenti da qualche parte, e questo vuol dire che qualcuno porta loro cibo e altre provviste. Questo mi dice due cose: la prima, che deve esistere un ingresso alternativo, di tipo convenzionale. Può essere che solo pochi eletti all'interno della Corporazione ne siano a conoscenza, ma deve esistere. E in secondo luogo, dev'esserci una traccia di denaro da seguire. Soldi e documenti vanno di pari passo. Qualcuno deve tenere qualche registro, da qualche parte. Altrimenti, in che modo i fornitori potrebbero tenere il conto dei propri crediti?» Femke non ne era così sicura. Seguiva la logica dell'Imperatore. Il suo era un ragionamento valido e di certo lui aveva una mente portata per la logistica. Ma Femke aveva un approccio diverso ai problemi. E se non fosse esistito un accesso sufficientemente grande per farci passare una persona? Se esistessero condotti di ventilazione per far circolare aria fresca e i magazzini fossero riforniti da un sistema che faceva uso di altra magia? I condotti di ventilazione da soli sarebbero stati una traccia sufficiente per localizzare le grotte? Le sembrava improbabile. «E dunque, che cosa suggerite, vostra Maestà? Reynik ha acconsentito a farmi entrare nella sede della Corporazione usando la sua icona. C'è qual-
cosa di particolare che volete che io faccia, una volta che sarò là?» «Cerca qualunque cosa possa indicare in che modo vengono riforniti o chi sono i fornitori. Prendi nota del colore e del tipo di roccia. Procuratene un campione, se possibile. Forse avremo fortuna. In città ci sono degli esperti nell'identificare i vari tipi di roccia. Forse uno di loro è in grado di dirci dove cercarne altre dello stesso tipo. E poi, cerca di capire con chi abbiamo a che fare. Se riesci a scoprire la vera identità del Maestro della Corporazione, forse riusciremo a prevenire le sue mosse. Ma non fare sciocchezze, Femke. Sono certo che non ci sia bisogno di raccomandarti di essere prudente. Il pericolo è chiaro, non voglio che tu corra rischi inutili. Mi servi viva.» Femke annuì. «Certo, vostra Maestà. Farò del mio meglio.» «Il solo fatto che fratello Tarantola abbia parlato con una spia imperiale non fa di lui un traditore. La sua conversazione con la ragazza poteva essere del tutto innocente, o può essere stata istigata da lei. Hai ammesso di non aver visto chi abbia fatto la prima mossa, perciò come puoi essere certo che stia complottando un tradimento?» Shalidar strinse i denti mentre combatteva la voglia di urlare. Perché il Maestro non voleva capire? Di solito era così veloce a buttarsi su ogni traccia di tradimento. Fece un gran respiro e parlò appassionatamente. «Quando ho visto per la prima volta Tarantola ho pensato che avesse un aspetto familiare. È stato a Thrandor di recente, con Femke. L'ultima volta che l'ho visto, era vestito da legionario. Femke è notoriamente una spia ed è in stretti rapporti con l'Imperatore. Tarantola deve per forza essere un infiltrato. È una spia come Femke. Ne sono sicuro.» «Fratello Dragone, siamo a corto di membri. E in più siamo anche in un momento di crisi. Fratello Tarantola ha dimostrato di avere un talento naturale di Assassino. Stiamo a vedere se è disposto a impiegare le sue qualità a favore della Corporazione degli Assassini prima di giudicarlo. Più avanti gli assegnerò un incarico. Seguilo. Assicurati che svolga il suo dovere nei confronti della Corporazione. Se non lo farà, allora avrai il permesso di ucciderlo.» «Il Maestro della Corporazione desidera parlarle. La prega di raggiungerlo fra un'ora nella sala delle assemblee.» «La ringrazio» rispose Reynik con un garbato cenno del capo. «Sarò puntuale.»
Il domestico fece un profondo inchino e uscì richiudendosi la porta alle spalle. Reynik tornò a guardare il libro che stava leggendo. Lo richiuse. Era inutile. Non riusciva a concentrarsi abbastanza per leggere. Quelle stanze gli davano i brividi. Reynik non amava particolarmente i ragni, ma come le stanze di Vipera erano piene di immagini di serpenti, le sue lo erano di aracnidi. Gli stemmi sopra la porta recavano le insegne della tarantola. Ornamenti, arazzi, perfino i dorsi dei libri riportavano incisioni, intrecci, disegni o decorazioni con le immagini del predatore che gli dava il nome. C'era qualcosa nella magia delle icone che impregnava il portatore di una sorta di ossessione per il simbolo che portava? In tal caso, il pendente d'argento non aveva ancora iniziato a operare la sua seduzione su Reynik. I domestici, poi, erano un altro mistero della Corporazione. Non sapeva in che modo rivolgersi a loro. Nessuno di loro gli aveva svelato il proprio nome, si limitavano a ignorare la domanda, quando lui li interrogava. Indossavano semplici tuniche marroni dotate di ampi cappucci che tenevano celati i loro visi. Reynik aveva distinto alcune particolarità, in alcuni di loro, ma non avrebbe saputo dire quanti erano. Negli ultimi giorni, i domestici che a varie riprese lo avevano servito nelle sue stanze erano stati per lo meno sette oppure otto. Dove vivevano? Se ognuno degli Assassini aveva stanze separate che non erano collegate fra di loro se non dalla sala centrale delle assemblee, allora quelle dei domestici costituivano un altro settore, o magari due, fuori da quel nucleo centrale, oppure si trovavano a un livello diverso? Magari vivevano sopra, o sotto, il livello degli Assassini? Reynik non aveva visto scale, ma d'altronde non aveva osato avventurarsi molto in là. Doveva andare a esplorare? O doveva lasciare che fosse Femke a curiosare in giro? Nella sua situazione, ogni cosa costituiva un dilemma. Perfino il compito più semplice comportava scelte che preferiva non fare. La vita nella legione era dura, ma almeno ne comprendeva le difficoltà. Reynik si alzò e attraversò la stanza per prendere una clessidra poggiata in cima a uno dei tre scaffali situati lungo la parete. La girò sul perno centrale finché la parte piena di sabbia andò a poggiare sull'orribile metà inferiore a forma di ragno. Rimase a osservare per qualche minuto mentre la sabbia iniziava a filtrare. Per svuotare la clessidra ci voleva mezz'ora. Girandola un'altra volta, avrebbe avuto un'idea abbastanza precisa di quando muoversi per incontrarsi con il Maestro. Non voleva fare tardi. I tre quarti d'ora successivi passarono lentamente. Quando circa metà
della sabbia si riversò di nuovo nella clessidra, Reynik uscì dalla porta come un ratto da una trappola. Non c'era dubbio che il Maestro avrebbe voluto sapere come aveva passato la giornata, pensò nervoso. Non aveva motivo di mentirgli. Si sarebbe limitato a saltare la parte riguardante il suo incontro con Femke o per lo meno avrebbe sorvolato. Perché non avrebbe dovuto incontrare delle spie? Doveva pur procurarsi le informazioni in qualche modo. E perché non dalle fonti migliori? No, non c'era motivo di mentire. Reynik raggiunse la propria nicchia e si mise seduto in attesa. Gli era bastato meno di mezzo minuto per arrivare lì dalla sua stanza, perciò era largamente in anticipo. La sala centrale era silenziosa e tranquilla, tranne che per l'occasionale crepitio di una torcia. Reynik si sporse oltre la porta. Era solo? Non aveva modo di saperlo. Tutte le altre rientranze erano immerse nel buio. Vedeva il simbolo del drago, alla propria destra. Ebbe la tentazione di saltare oltre il muretto e andarlo a guardare da vicino, ma si trattenne. Si accomodò sulla sua panca e rimase in attesa. Starsene seduto nell'ombra all'interno della sua nicchia risultò estremamente soporifero. Prima di rendersi conto che rischiava di addormentarsi, il mento gli batté sul petto, mentre la testa ciondolò di lato, svegliandolo di scatto. Fu fortunato. Il Maestro stava attraversando il pavimento della sala diretto verso di lui. Reynik non pensava che si fosse accorto del suo movimento, dato che era seduto nell'oscurità più profonda. Quando il Maestro parlò, la sua voce era calda come era stata al loro ultimo incontro. Reynik era pronto a rispondere alle sue domande, ma non ce ne furono. «Spero che tu ti sia sistemato nelle tue stanze e che le trovi di tuo gradimento, fratello Tarantola. Fratello Coguaro mi dice che ti sei perfettamente adattato al nostro sistema di trasferimento e che usare la tua icona non ti infastidisce più come prima. È così?» «Sì, Maestro. Non la definirei un'esperienza piacevole, ma riesco a sopportarla senza risentire di effetti spiacevoli.» «Bene. Molto bene. Questa sera programmerai il tuo primo servizio per la Corporazione. Dato che questo contratto è stato cercato da noi, la ricompensa non è alta. Non ti preoccupare. L'onorario nominale di dieci sen d'oro è solo una parte del premio che potrai ricevere per altre missioni. La Corporazione non si aspetta che tu svolga molti di questi servizi senza una giusta ricompensa.» «Comprendo benissimo, Maestro. Farò del mio meglio.»
«Bene, fratello Tarantola. Sono certo che è così. Questo è il tuo bersaglio. Buona fortuna.» Il Maestro della Corporazione consegnò a Reynik un pezzetto di pergamena, si voltò e attraversò la sala in direzione di un'altra nicchia, dove iniziò a parlare piano con qualcun altro. Reynik strizzò gli occhi per leggere il foglio, ma non riuscì a decifrare lo scritto in quella luce così fioca, così si alzò e ritornò nel corridoio che conduceva alle sue stanze. C'era una torcia non molto distante dalla porta. Reynik si sporse in avanti e sollevò nuovamente il foglietto. «No!» sussurrò, mentre un soffocante senso di orrore gli serrava la gola e gli stringeva il cuore, finché non lo sentì martellare in petto in preda al panico. «Non può essere vero!» Lesse il nome più e più volte, sperando che cambiasse. Non fu così. Scritte a chiare lettere sul foglio, c'erano le parole "Lutalo, Comandante della prima legione". Con tutti i recenti assassinii di comandanti militari, dovevano esserci state molte nuove assegnazioni. Per quanto Reynik ne sapeva, c'era un solo Comandante Lutalo. Il suo primo incarico per la Corporazione degli Assassini era di uccidere suo padre.
Capitolo tredici «Oh, Shand! Che cosa faccio adesso?» Reynik cercò di impedirsi di cedere al panico. Il suo istinto gli diceva di scappare, ma sapeva che non era possibile. Dove sarebbe andato? L'icona del ragno lo legava alla Corporazione per la vita. Un senso di nausea partì dallo stomaco e si diffuse in tutto il corpo. Era come una gocciolina di vernice che cade in un bicchiere d'acqua e si spande finché tutto il liquido non cambia colore. Aveva la mente in subbuglio. Come aveva potuto anche solo pensare di poter commettere un omicidio per la Corporazione per mantenere la propria copertura? Se mai uno scherzo del destino aveva fatto ritrovare il buon senso a qualcuno, quello era il caso di Reynik. Sapeva di dover mettere in guardia suo padre, ma la domanda era: co-
me? Non poteva certo presentarsi nel bel mezzo dell'accampamento della legione e dire: "Ciao, papà. Ti ho mai detto che ho venduto l'anima alla Corporazione degli Assassini? Ah, fra parentesi, mi hanno chiesto di assassinare te." Guardò un'altra volta il foglio di pergamena. La prima legione: tecnicamente lui ne faceva ancora parte. Dopo quasi un mese di addestramento per diventare un Assassino, non gli riusciva di vedersi di ritorno alla sua vecchia unità. Tuttavia, sebbene avesse trovato ridicola la sua prima idea di presentarsi lì come se niente fosse, in realtà non era poi così male. Ad ogni modo, se voleva riuscire nel suo intento, doveva anzitutto fare in modo di liberarsi degli inseguitori che il Maestro gli metteva alle calcagna. Il modo migliore di farlo era quello di prenderli di sorpresa. Il nodo che aveva allo stomaco si allentò mentre il panico scemava. Aveva un piano. Con un piano, improvvisamente la vita era di nuovo meno complicata. Percorse a grandi passi il corridoio fino alle sue stanze, ma non si fermò e andò dritto alla pietra di trasferimento. La parte destra l'avrebbe portato verso il punto in cui era accampata la legione, la sinistra invece l'avrebbe condotto più vicino al luogo in cui era nascosta la sua uniforme. Con indosso l'uniforme, entrare nell'accampamento sarebbe stato più facile. Avvicinò il talismano alla pietra. Accolse quasi con piacere l'ormai familiare formicolio, mentre aveva inizio il trasferimento, seguito da quella sensazione inquietante di esplodere e di ricostituirsi. Lo sgradevole strattone, e subito dopo la sua comparsa nel vicolo sul retro, gli diedero un senso di redenzione dalla corruzione delle sue stanze. Era fuori dai confini del complesso della Corporazione ed era impegnato a salvare qualcuno, non a ucciderlo. Si sentiva bene. La sera stava già cedendo il passo alla notte. Le ombre erano profonde ed eventuali rumori potevano essere attribuiti alla fredda brezza che soffiava nel vicolo. Mentre arrivava silenziosamente in fondo alla strada, si tolse il mantello. Rapido, lo ripiegò ordinatamente e ne fece un fagotto, che infilò dietro a un'imposta rotta. Si passò diverse volte le dita fra i capelli per togliere i segni del cappuccio, poi uscì dal vicolo e ritornò sulla strada. Reynik era deciso a non fare soste. Se si fosse mosso in fretta, gli osservatori della Corporazione avrebbero faticato a seguirlo senza farsi scoprire. Senza mantello, il vento gli penetrava sotto gli abiti, ma se tutto fosse andato bene, non sarebbe stato a lungo all'aria aperta. Si mise in cammino di
buon passo e, giunto in fondo alla strada, svoltò a sinistra. Lungo la via, a duecento passi sulla sinistra, c'era una taverna. Era troppo presto perché ci fosse qualcuno, a parte i bevitori più incalliti, ma Reynik non aveva intenzione di fermarsi a lungo. Il tepore del fuoco nel camino era invitante, ma lui fece un cenno al taverniere e andò dritto alla porta sul retro. L'uomo ricambiò il cenno, chiaramente deluso che Reynik non si fermasse a spendere qualcosa. «Più tardi» borbottò Reynik. Una delle lezioni che Femke gli aveva insegnato era come liberarsi degli inseguitori indesiderati. Durante il periodo di adattamento all'esperienza del trasferimento, Reynik aveva utilizzato alcuni momenti liberi per esaminare l'area attorno ai due punti di arrivo e aveva stabilito precisi itinerari per allontanarsi da lì. Quegli itinerari prevedevano stratagemmi e cambi di abbigliamento per confondere chi lo pedinava. All'insaputa di Coguaro, non aveva frequentato locande e botteghe solo per curiosità, ma per prendere accordi coi proprietari. Uno di questi accordi era stato proprio con quel taverniere. Come promesso, sul portamantelli accanto alla porta sul retro, c'era un mantello blu appeso al gancio posteriore. Reynik lo prese, se lo mise sulle spalle, si calcò il cappuccio sulla fronte e uscì dalla porta sul retro. Continuò a muoversi di buon passo, senza correre ma marciando con decisione, zigzagando fra vicoli e stradine con una sicurezza intesa a mettere in guardia eventuali ladri e tagliagole, come a dire: "Non sono una preda facile". Femke gli aveva chiesto di informarla, nel caso in cui la Corporazione gli avesse dato un bersaglio, ma sapeva di non avere il tempo di farlo. Se voleva dare a suo padre la possibilità di sfuggire al lungo braccio della Corporazione, doveva agire subito. Il Maestro non si sarebbe aspettato che andasse dritto alla tenda del Comandante senza fare prima un giro di perlustrazione. In questo modo avrebbe avuto un vantaggio, non grandissimo, è vero, ma anche se piccolo era benvenuto. Reynik aveva nascosto la propria uniforme nella stanza che aveva preso in affitto per il periodo dell'addestramento. Non era molto distante, in linea d'aria, ma con tutte le deviazioni che fu costretto a fare gli ci volle più di mezz'ora per arrivarci. A quel punto, era ormai certo di essersi liberato dei suoi inseguitori. Gli bastò qualche minuto per indossare l'uniforme. Fu sorpreso dal senso di benessere che provava nel rivestire i suoi panni. Era come ritornare a casa da un lungo viaggio: si sentiva un po' strano, ma era una sensazione
piacevole e familiare. La cintura di cuoio e gli scarponi erano un po' rigidi, ma sapeva che si sarebbero ammorbiditi quando si fosse rimesso in moto. Controllò che sulla spada non ci fossero macchie di ruggine, ma quella era una parte del suo equipaggiamento che non aveva mai trascurato, anche quando non la utilizzava. Aveva pulito e affilato la lama solo pochi giorni prima, perciò, quando la estrasse dal fodero, fu lieto di constatare che il metallo era ancora in condizioni perfette. Con indosso l'elmo e il mantello, Reynik uscì nuovamente per la strada. Oramai era calata la notte. I lampioni spandevano un tenue chiarore sulle strade acciottolate e ogni ombra celava oscure minacce. Fremeva all'idea di essere osservato. Sapeva che era molto improbabile che qualcuno l'avesse seguito fin lì, considerate tutte le precauzioni che aveva preso, ma quello non era il momento di correre rischi inutili. Dirigendosi verso casa, Reynik si era stretto il mantello attorno al corpo per proteggersi dal vento pungente. Ora che era in uniforme, sentiva che la sua postura era cambiata. L'orgoglio che gli derivava dall'indossare la divisa da legionario lo aveva spinto a raddrizzarsi. Non marciava, però camminava più eretto, più diritto. E anche se non indossava abiti più pesanti di prima, non sentiva più il freddo allo stesso modo. Chiunque lo avesse osservato avrebbe visto solamente un giovane soldato fiero, spada al fianco, testa eretta. Reynik attraversò Shandrim puntando diritto all'accampamento. Ogni tanto si voltava o si fermava dietro un angolo per controllare se qualcuno lo seguisse. Una volta giunto al posto di guardia, ai confini dell'area militare, era convinto che la sua immaginazione gli stesse giocando brutti scherzi. Il fuoco delle sentinelle bruciava allegro al margine della strada, quando Reynik si avvicinò. Non fu sorpreso nel vederci attorno tutte le guardie, tranne una. L'unica sentinella che stava all'ingresso dell'accampamento gli intimò di fermarsi. Reynik obbedì. «A quale unità appartieni?» gli chiese la guardia. «Alla Prima Legione.» «Strano. Quelli della prima legione sono tutti presenti. L'ultima delle loro ronde è rientrata un'ora fa. Inoltre abbiamo ordini di non girare da solo per le strade di Shandrim. Come ti chiami e chi è il tuo caposquadra? Dovrò fare rapporto.» «Sono il legionario Reynik. Il mio caposquadra è Sidis, però io devo fare rapporto direttamente al Comandante Lutalo. Sono stato in missione spe-
ciale. Il rapporto che ho per lui non può aspettare. Se vuoi farmi scortare alla sua tenda, per me va benissimo.» «Reynik? Bene, Reynik, avrai la tua scorta» promise, anche se la sua voce non era benevola. «Tarn! Vieni qui. Scorta il legionario Reynik alla tenda del Comandante Lutalo. Dice di essere in missione speciale. Controlla che il Comandante lo riconosca prima di andartene, mi raccomando.» Tarn borbottò qualcosa di incomprensibile. Reynik colse le parole "come al solito" e "caldo", perciò non gli fu difficile capire il senso. La sentinella venne verso di lui a passi pesanti senza sforzarsi di nascondere il proprio disappunto per l'incarico. «Vieni, allora» ringhiò. «Vediamo di sbrigarci.» «Mi dispiace trascinarti via dal fuoco.» «Spero bene. Ero appena riuscito a sentirmi di nuovo le dita dei piedi. Non capisco perché ci preoccupiamo di montare di guardia qui. Qualunque intruso voglia entrare nell'accampamento, potrebbe passare da uno delle centinaia di punti sparsi lungo il perimetro. Nessun Assassino sarebbe così stupido da voler passare dalla strada.» Reynik fece un gran sorriso. «Montare di guardia non serve solamente a tenere lontani i tipi loschi» spiegò, senza per questo ignorare l'ironia della situazione. «Serve anche come collegamento con i civili. Inoltre dimostra quanto ci stia a cuore la sicurezza, anche se non è così efficiente come vorremmo. Le ronde non programmate sono un deterrente molto più efficace, lo ammetto, ma i posti di guardia hanno un loro senso.» «Che c'è, hai preso il siero della lealtà o qualcosa del genere, Reynik? Dammi tregua!» Attraversarono in silenzio la vasta area ricoperta da tende. Tarn sembrava deciso a crogiolarsi nel suo cattivo umore, perciò Reynik lasciò che tenesse il broncio in pace. Quando arrivarono ai margini dell'accampamento della Prima Legione, il senso di aspettativa di Reynik aumentò. Si trovava di nuovo in un territorio familiare, anche se non era rimasto lì a lungo. Tra la sua missione a Thrandor e quella attuale, aveva trascorso più tempo fuori dall'accampamento che dentro. La tenda del Comandante di legione non era più grande di quelle della squadra. La differenza stava nel fatto che era occupata da una persona sola anziché da dieci. Un vessillo con l'insegna della legione garriva al vento, in cima a un pennone alla destra dell'ingresso. Reynik alzò lo sguardo verso il vessillo mentre si avvicinava. Era impossibile distinguere l'insegna al buio, ma non aveva bisogno di vederla per conoscerne il disegno: un elmo d'oro
con due spade incrociate. Era un emblema che gli era molto caro. Aveva conquistato a fatica il diritto di appartenere alla legione che esso rappresentava. E ritornare gli sarebbe stato difficile, adesso. Ci sarebbe mai riuscito? Non lo sapeva. Il bagliore di una lampada a olio risplendeva attraverso la tela. Tarn si avvicinò al lembo d'ingresso. «Comandante Lutalo. Mi dispiace disturbarla, signore, ma qui c'è un soldato che dice di essere il legionario Reynik e di volerle parlare. Dice che è importante, signore.» Vi fu un attimo di pausa, poi il lembo della tenda venne scostato e Lutalo uscì all'aperto. Guardò Reynik e la sua faccia si aprì in un grande sorriso. «Reynik! Che bello vederti. Vieni dentro. Voglio proprio sentire il tuo rapporto.» «Ai suoi ordini, signore» rispose lui con un cenno di ringraziamento verso Tarn, che fece il saluto militare a Lutalo e subito si voltò per tornare al cancello. Il Comandante ricambiò il saluto e poi fece strada a Reynik nella tenda. Una volta dentro, Reynik rimase sorpreso quando Lutalo lo abbracciò forte. «Dove sei stato, figliolo? Ero preoccupatissimo per te. Non hai pensato che magari mi avrebbe fatto piacere sapere dov'eri finito? Non avevo il coraggio di dire a tua madre che eri scomparso per una missione segreta. Sarebbe diventata matta. Ho scoperto che te n'eri andato solo quando sono subentrato a Sateris, ma nessuno sapeva dirmi dove fossi.» «È una storia lunga, papà. E anche molto complicata. Ci sono cose che devo dirti che non ti farà piacere ascoltare, ma non ho scelta. La situazione sta andando fuori controllo. L'Imperatore non si è reso del tutto conto di quello che avrebbe provocato quando ha dichiarato la Corporazione degli Assassini anaethus drax. Siamo tutti e due terribilmente in pericolo, soprattutto tu. Papà, dovrai lasciare la legione per un po'. Altrimenti ti uccideranno. La Corporazione ha accettato un contratto su di te.» Lutalo fissò il figlio con uno sguardo penetrante. Rimase in silenzio per qualche secondo prima di rispondere. «Penso che faresti meglio a metterti a sedere e a raccontarmi questa storia, Reynik. Voglio sapere esattamente in che cosa ti sei invischiato. Come fai a conoscere i dettagli dei progetti della Corporazione degli Assassini?» Reynik si sedette, si tolse l'elmo e iniziò a parlare a bassa voce. Gli riferì tutta la storia, completa di un breve resoconto di quanto era accaduto a
Thrandor. Lutalo continuava a fissare intensamente suo figlio. Quando Reynik ebbe finito, il padre si appoggiò allo schienale della sua sedia con un sorriso curioso sul volto. «Figliolo, che posso dire? Sono incredibilmente orgoglioso di te. Un giorno sarai un buon comandante. Ho sempre saputo che ne avevi le capacità, ma ora ne sono doppiamente sicuro. Il Gen... l'Imperatore Surabar ti ha usato, Reynik, ma a lungo andare tutta questa faccenda ti darà la possibilità di fare carriera.» «Se sopravviverò abbastanza a lungo da riuscirci» commentò Reynik con una certa amarezza nella voce. «Sì, figliolo, di solito il problema sta proprio in questo. Ma abbi fede. Tu sei qui. Sei ancora vivo. Hai acquisito un mucchio di informazioni essenziali che devi riferire all'Imperatore. Immagino che, sfruttando al meglio quanto già sai, si potrebbe distruggere la Corporazione degli Assassini.» «Femke avrà già riferito all'Imperatore buona parte di queste informazioni. Oggi sono già riuscito a farle sapere le cose più importanti.» «Bene. Da quanto mi hai detto di questa spia, sono certo che non si prenderà meriti che non le spettano. Hai lavorato bene. Uccidere in battaglia è una cosa per cui siamo stati addestrati. Ma io non avrei avuto il fegato di compiere alcune delle cose che l'Imperatore ti ha chiesto di fare. Nelle legioni c'è chi fa di tutto per finire nei guai. Non vedono l'ora di mettersi alla prova. Non mi pare questo il tuo caso. Vedo che il mestiere dell'Assassino ti ripugna e non posso che ammirarti per avere messo in pratica il piano dell'Imperatore nonostante i tuoi sentimenti. Considera concluso il tuo compito, Reynik. Hai fatto abbastanza. Devi andare subito dall'Imperatore. Quando la Corporazione si renderà conto che non hai portato a termine il tuo incarico, ti verranno a cercare e ti uccideranno. Solo lui ha i mezzi per proteggerti adeguatamente.» «Ma e tu, papà? Mi hanno inviato per ucciderti. Manderanno qualcun altro. Ho visto alcune di quelle persone, pa'. Sono micidiali. Si muovono più silenziose della bruma, e uccidono senza scrupoli. Il Comandante Sateris è morto in questa stessa tenda. Non sei al sicuro, qui.» Il padre di Reynik lo guardò dritto negli occhi. «Lo so, figliolo. Ammetto che saperlo mi spaventa, ma non posso cedere alla paura. Se scappassi, quale messaggio darei alle truppe? Un comandante è una guida, Reynik. So che mi capisci. Io devo guidarli con il mio esempio. Però ti prometto che ora che so con certezza di essere un loro bersaglio, prenderò tutta una serie di nuove misure di sicurezza in tutto l'ac-
campamento. Non lascerò che mi colpiscano così facilmente.» Dentro di sé Reynik sapeva che nessuna misura di sicurezza avrebbe potuto fermare un Assassino di prima classe: uno come Shalidar avrebbe superato le sentinelle volteggiando come se niente fosse. Ma suo padre aveva preso la sua decisione. Fare altre pressioni sarebbe servito solo a farlo arrabbiare, e Reynik non voleva accomiatarsi da suo padre in malo modo. Allora si alzò, lo abbracciò un'altra volta e fece un passo indietro. «Allora, pa', abbi cura di te. Ora è meglio che vada. Andrò dritto a Palazzo. Puoi darmi qualcosa col tuo sigillo, in modo che possa lasciare l'accampamento? Le guardie hanno insistito molto sul fatto che nessuno può andarsene' in giro da solo, questa notte.» «Non c'è problema.» Lutalo si avvicinò al suo tavolino, prese un pezzo di pergamena e vi scrisse con cura un breve messaggio. Accese una candela e sciolse un po' di cera, facendone cadere qualche goccia sul foglio. Poi vi impresse saldamente il proprio sigillo. «Buona fortuna, figliolo. Qualunque cosa accada, ricordati sempre che sono orgoglioso di te.» Reynik gli sorrise con gratitudine. Il senso di nausea che aveva provato per aver ucciso per conto dell'Imperatore iniziava a diminuire. Sapeva che non se ne sarebbe andato mai, però era bello avere la benedizione di suo padre. Arrotolò la pergamena, la infilò in una tasca all'interno del mantello, rimise l'elmo sulla testa e salutò. Il Comandante Lutalo restituì il saluto. Fuori dalla tenda, la temperatura era calata ancora. Una fredda brezza rendeva l'aria gelida. Reynik si sistemò meglio il mantello attorno alle spalle e agganciò un'altra fibbia, proteggendo anche il petto oltre alla gola. Si fermò un istante per abituarsi all'oscurità, quindi prese la via principale attraverso l'accampamento per ritornare verso il posto di guardia. Dietro di lui, una sagoma scura scivolò in silenzio dal punto in cui era rimasta a origliare, dietro alla tenda di Lutalo. Shalidar non era riuscito a sentire tutto, ma aveva capito abbastanza. Tarantola era il figlio del Comandante: questo era uno sviluppo interessante. Questa informazione avrebbe quantomeno dato motivo al Maestro di esonerare il nuovo membro dal suo incarico. In passato, il Maestro aveva saputo mostrare compassione, ma ora Shalidar aveva sentito il Comandante invitare il figlio a rivolgersi all'Imperatore. Il cerchio era chiuso. Il legame con l'Imperatore era provato. Shalidar sapeva di poter agire senza timore di punizioni da parte della Corporazione. In quanto infiltrato, Tarantola doveva essere eliminato, e in fretta. L'Assassino seguì la sua preda per circa un minuto, per essere sicuro che
Reynik tornasse davvero al posto di guardia come aveva detto, poi ritornò sui propri passi. Shalidar avrebbe ricevuto una ricompensa per aver ucciso un infiltrato, ma mentre era lì decise di guadagnarsi altri dieci sen d'oro per aver fatto fuori anche il Comandante. Quando fu di ritorno alla tenda del Comandante Lutalo, Shalidar scorse l'ombra del militare. Era in piedi, accanto al fianco della tenda, e stava elencando ad alta voce le misure di sicurezza da prendere per impedire agli Assassini di entrare nell'accampamento. Shalidar sorrise. L'ironia della situazione era perfetta. Da quando era diventato Dragone, Shalidar aveva ucciso molte volte, usando molte armi diverse. Aveva sempre preferito farlo da vicino, in modo da essere lì a vedere la morte impossessarsi delle sue vittime. Il senso di potere che provava nel privare una persona della vita lo faceva sentire un dio. Però non ne era così ossessionato da ignorare la possibilità di uccidere senza rischi. Silenzioso come l'ombra che gettava, estrasse la spada e si avvicinò furtivamente alla tenda. Con un brivido che rasentava quasi l'estasi, affondò la lama attraverso la tela nel corpo del Comandante. La voce di Lutalo si spense a metà frase. Shalidar ruotò la lama e la estrasse. Il corpo cadde esanime con un tonfo, ma l'Assassino non si fermò a vedere se si muoveva ancora. Era già ripartito. Il padre era morto: adesso toccava al figlio. Shalidar attraversò l'accampamento come un soffio di vento. La sua sagoma si confuse con l'oscurità, il cui abbraccio lo avvolgeva come un ulteriore strato di abiti. Aveva pensato di raggiungere Reynik prima che arrivasse al posto di guardia, ma la sua preda si era mossa più in fretta di quanto avesse immaginato. Quando lo vide, Reynik stava già parlando con le guardie. Shalidar si arrestò per un momento fra le ombre. Conosceva la destinazione di Tarantola. Il ragazzo sarebbe andato dritto a Palazzo: lo aveva promesso al padre. La via più rapida per il Palazzo Imperiale era la strada centrale della città. Shalidar decise che la cosa migliore da fare fosse intercettarlo più avanti, dove i suoi amici non lo avrebbero sentito se avesse gridato aiuto. Non ci sarebbe voluto molto a superarlo. L'unica questione rimasta era come ucciderlo. L'uniforme, coi suoi elementi protettivi, rendeva più difficile colpirlo da lontano con un lancio di pugnale. "No" pensò. "Mi darà molta più soddisfazione trapassarlo con la lama ancora sporca del sangue di suo padre. Non c'è recluta che possa preoccuparmi con la spada. Lo infilzerò
come ho fatto con suo padre. C'è un che di poetico nell'ucciderli entrambi allo stesso modo." Reynik ebbe qualche problema a convincere la sentinella a lasciarlo uscire da solo dall'accampamento, ma la pergamena con l'autorizzazione scritta del Comandante fu sufficiente a vincere anche le obiezioni più ostinate. Con le esortazioni alla cautela che ancora gli risuonavano nelle orecchie, imboccò di buon passo la strada principale, in direzione del centro città e del Palazzo. Non aveva fatto ancora quattrocento passi, che una sagoma scura uscì da una stradina laterale alla sua sinistra e piegò verso di lui. La mano di Reynik salì istintivamente all'impugnatura della spada. «Fermati subito! Non ti avvicinare o estrarrò la spada. Non voglio farti del male» avvertì con voce forte e chiara. «Mi scusi, capo, non avevo cattive intenzioni. Volevo solamente chiederle qualche monetina per un vecchio veterano.» La voce dello sconosciuto era querula e roca come quella di uomo anziano, ma Reynik era sospettoso. In quei giorni, chiunque fosse in giro da solo dopo il tramonto era un potenziale pericolo. Reynik era troppo nervoso per permettere a un estraneo di avvicinarsi senza dargli prima una bella occhiata. «Vai sotto quel lampione. Voglio vedere chi sei» gli ordinò Reynik indicando un lampione poco più avanti lungo la strada. La sagoma scura allungò le mani con i palmi in avanti per dimostrare di avere intenzioni pacifiche. Si spostò cautamente, finché non arrivò sotto la luce del lampione a olio. Da quanto Reynik riuscì a vedere, era un vecchio normalissimo vestito miseramente. Aveva il mantello lacero in diversi punti. E anche il resto del suo abbigliamento sembrava nelle stesse condizioni. «Mi dispiace, amico, non vorrei sembrarti ostile, ma nonostante tutte le ronde di guardia, le strade di Shandrim non sono sicure, di questi tempi. Ti suggerirei di scegliere zone più illuminate per chiedere la carità, se non vuoi finire male.» «È un buon consiglio, mio signore, ma le strade nelle parti più ricche della città sono piene di canaglie che non ci penserebbero due volte a uccidermi. Non vogliono che la gente come me entri nella loro zona. Ti danno un solo avvertimento, poi, se ti vedono invadere il loro territorio una seconda volta, ti fanno fuori. Non ho altra scelta. Sono troppo vecchio per essere utile a qualcuno. Una volta ero un soldato anch'io, ma ora non ho
più la spada. Non ho un posto dove vivere. Devo fare affidamento sulla carità degli sconosciuti. Non è una bella vita, la mia.» Reynik provò pietà per il vecchio mendicante, ma era ancora cauto. Tenendogli gli occhi addosso per controllare che non gli facesse brutti scherzi, Reynik frugò in cerca di qualche moneta. Quando ne trovò qualcuna, le posò su una lastra del selciato a margine dell'area illuminata e procedette con prudenza, aggirando da lontano l'uomo sotto il lampione. «Che Shand la benedica» ringraziò il vecchio. Poi all'improvviso gridò: «Attento!» Reynik era talmente concentrato su quell'uomo che non si era accorto di un'altra figura che veniva verso di lui dalla strada. Il grido di avvertimento arrivò in tempo. La spada di Reynik uscì dal fodero in un lampo e d'istinto deviò la lama del nuovo arrivato. Il clangore di metallo su metallo risuonò nel silenzio della sera. Costretto ad arretrare dalla sagoma scura, Reynik entrò nel cerchio di luce fioca del lampione. Lo sconosciuto lo seguì con la spada, che non si fermava un istante. «Lascialo stare!» gridava il mendicante mentre stringeva le sue monete e si allontanava barcollando con una corsa strascicata. Mentre se ne andava urlò ancora: «Non ha fatto niente di male, lascialo stare.» «Fratello Dragone!» grugnì Reynik quando capì chi aveva davanti. «Fratello Tarantola» rispose Shalidar con un sussurro aspro mentre tirava un fendente con la lama. Reynik non riuscì quasi a deviarla. Scorse un sorriso di derisione sotto l'ombra del cappuccio dell'Assassino. «Che stai facendo? E il legame tra i confratelli? E la Regola? Perché stai cercando di uccidermi?» Shalidar interruppe per un istante il suo assalto, la spada in posizione. «La nostra confraternita non tollera che i traditori restino in vita, fratello Tarantola. Avresti dovuto completare la tua missione questa notte. La Corporazione degli Assassini ti ha offerto un posto nella nostra famiglia. Un uomo non può avere legami con due famiglie. E dato che lavori anche per l'Imperatore, sei doppiamente un traditore. Mi farà piacere poter dire al Maestro che si sbagliava su di te, ma mi farà ancora più piacere ricevere il compenso destinato a te. E adesso ti manderò a raggiungere tuo padre. Il premio per la testa di un traditore non dev'essere affatto male.» Il cuore di Reynik ebbe un tuffo quando Shalidar lo accusò di aver tradito la Corporazione degli Assassini. L'Assassino lo aveva detto a qualcun altro? Se Reynik fosse riuscito a ucciderlo, sarebbe riuscito a tornare sano
e salvo alla sede? E poi raggelò quando comprese il significato delle ultime frasi. Shalidar aveva ucciso suo padre... Shalidar aveva ucciso suo padre! In un attimo, la greve paura che gli attanagliava lo stomaco si trasformò in una furia cieca. In quei primissimi secondi dovette fare un supremo sforzo di volontà per trattenersi dal lanciarsi in un attacco forsennato. A salvarlo furono sia l'addestramento militare che le lezioni di Serrius. Alcune parole del gladiatore gli risuonarono alla mente. "Non combattere mai in preda alla rabbia; ho permesso al mio avversario nell'arena di irritarmi, e guarda che cosa mi è successo." Reynik aveva già visto le cicatrici di Serrius, ma l'impressione che gli faceva posare gli occhi sui segni di entrata e di uscita nei punti in cui il gladiatore era stato trafitto era tuttora vivissima. "Pace ed equilibrio devono essere al centro del tuo essere, oppure perderai consapevolezza e compostezza. Rimani tranquillo. Concentrati. Controlla il respiro. Lascia che lucidità e velocità siano la tua forza." In un modo o nell'altro, Reynik riuscì a reprimere la rabbia. Non era in uno stato mentale di pace ed equilibrio, ma tenne le emozioni sotto controllo, mentre Shalidar attaccava di nuovo. L'Assassino era uno spadaccino provetto, ma si aspettava di dover affrontare un avversario dotato solo di un po' di addestramento militare di base. Gli ci volle un momento, ma presto Shalidar si rese conto che quella non era una giovane recluta come le altre. Reynik affrontò l'attacco di Shalidar con colpi fluenti e un buon equilibrio. Non c'era legnosità nel suo modo di maneggiare la spada. E non c'era nemmeno traccia dell'addestramento delle legioni, che si preoccupavano di tirare su spadaccini capaci di combattere in linea senza ferire il compagno accanto. Reynik manteneva il terreno, rispondendo all'Assassino colpo su colpo e sfoggiando eleganti movimenti di spada. Il clangore delle due lame che si scontravano in rapida sequenza risuonava alto per le strade, sprizzando scintille a ogni impatto. Reynik capiva che Shalidar gli era superiore per abilità e tecnica, ma quello che gli mancava in abilità, il ragazzo lo compensava con velocità e agilità. Dopo un prolungato scambio di colpi senza che nessuno dei due antagonisti riuscisse a superare le difese dell'altro, Reynik iniziò a schernire l'avversario nel tentativo di provocarlo. «Che ti succede, Shalidar? Hai perso il tuo tocco? Sei un po' fiacco, ecco cosa sei. Ti sei così abituato a pugnalare la gente alla schiena l'hai perso
mordente.» Shalidar lo ignorava. Sapeva perfettamente quello che Reynik stava cercando di fare. Non avrebbe funzionato. Iniziò a girare attorno al suo avversario muovendosi come un gatto. Anche Reynik iniziò a spostarsi in tondo, continuando con i suoi commenti. Con un improvviso balzo in avanti, Reynik passò all'attacco. Ci fu un altro scontro ravvicinato mentre Reynik effettuava una pericolosa sequenza di affondi, ma Shalidar parava ogni colpo con una solida difesa. Reynik arretrò, ma il suo assalitore lo seguì cogliendolo momentaneamente in contropiede. La lama di Shalidar balenò al collo di Reynik. In qualche modo il giovane riuscì a bloccarla, ma il colpo successivo sul suo pettorale fu troppo rapido. Fu una fortuna che, anziché un affondo, Shalidar avesse sferrato un colpo di taglio, altrimenti la sua armatura leggera non lo avrebbe salvato. Ma dato che stava arretrando, fu sufficiente a sbilanciarlo. Deviò un altro fendente mentre era ancora alzato. Poi cadde a terra. L'impatto con il selciato fu doloroso, e Reynik perse l'elmo, che rotolò sulle pietre tintinnando. La lama dell'Assassino si abbatté su di lui con un affondo micidiale. In qualche modo, rotolando su se stesso e con una parata istintiva, Reynik riuscì a spostare la lama e la punta andò a picchiare sui ciottoli, a un pelo di distanza dal suo corpo. Per tentare l'affondo, Shalidar era stato costretto a venire vicino a lui, troppo vicino. Con un'altra potente torsione, Reynik scalciò da sotto le gambe di Shalidar, facendolo cadere sulle pietre con la stessa rudezza con cui era appena caduto lui. I due uomini si rialzarono a fatica. A quel punto si udì un altro rumore, quello di piedi in corsa, piedi che calzavano scarponi. Una formazione di legionari correva per la strada verso di loro, con le spade già sguainate. Shalidar non esitò. Si voltò e si diede alla fuga. Reynik gli andò dietro. L'Assassino era rapido e silenzioso. Quando svoltò dalla strada principale per imboccare un vicolo secondario, Reynik si fermò di colpo, rischiando di cadere. Un conto era inseguire Shalidar per una strada illuminata, ma farlo al buio era un altro discorso. Non aveva scelta. Doveva lasciarlo andare. «La prossima volta ti prenderò Shalidar!» gli urlò. Non ebbe risposta. Era sparito. I legionari si avvicinavano. Non poteva permettersi di perdere tempo a spiegare chi era a ogni caposquadra convinto di avere il diritto di sapere che cosa stesse succedendo. Doveva rag-
giungere il Palazzo in fretta. Se Femke voleva entrare nella sede della Corporazione, doveva farlo al più presto, prima che il Maestro mettesse la sua stanza sotto controllo. Reynik si voltò e riprese a correre su per la strada principale. «Ehi tu! Legionario! Fermati!» Reynik non sprecò fiato a rispondere. Imboccò il primo vicolo sul lato opposto della strada e scomparve nella notte.
Capitolo quattordici Reynik disse la parola d'ordine alla guardia che sostava all'ingresso del Palazzo Imperiale che dava sulla zona della servitù. La sentinella gli fece cenno di passare senza fare domande. Sapeva di non dover chiedere altro a chi conosceva quella parola d'ordine. Prima Reynik era andato nella casa sicura in cui soggiornava Femke. Era vuota. Se lei la stava ancora usando, quella sera non era in casa. Reynik sapeva che c'era una possibilità che pernottasse lì a Palazzo, ma era un'eventualità remota. Era più probabile che fosse in missione in giro per la città. Non aveva tempo di cercarla né di aspettare che tornasse a casa. Reynik aveva bisogno di aiuto. Doveva parlare all'Imperatore. Surabar avrebbe saputo che cosa fare. Era stato un generale dell'esercito per molti anni. E poi, quello era il piano dell'Imperatore: non li avrebbe coinvolti senza aver preso in considerazione tutte le possibilità. D'altra parte, era probabile che non avesse previsto una situazione del genere, ossia che lui arrivasse a infiltrarsi nella Corporazione degli Assassini, si facesse scoprire e poi riuscisse a scappare vivo. Non era una sequenza di avvenimenti tanto prevedibile. Reynik attraversò di corsa i corridoi e salì le scale fino alla porta dello studio dell'Imperatore. Non fu sorpreso di vedere una luce tremolare dalle alte finestre che si aprivano sul corridoio. Bene, pensò, per lo meno l'Imperatore c'era. Si rivolse alla sentinella alla porta. «Legionario Reynik a rapporto» annunciò. La sentinella lo guardò sospettosa. «Parola d'ordine?»
Reynik diede la parola d'ordine e la sentinella annuì. «Va bene» disse. «Aspetta un momento.» L'uomo bussò alla porta dello studio e scomparve al suo interno. Riapparve poco dopo. «L'Imperatore ti vedrà subito.» «Grazie.» Reynik entrò nello studio. Aveva sperato che Femke fosse già lì, ma l'Imperatore era solo. Avanzò deciso fino allo scrittoio e si fermò sull'attenti. Salutò l'Imperatore che gli rispose con un sorriso. «Riposo, Reynik. Mi fa piacere vedere che non hai dimenticato l'addestramento militare. E ora dimmi, perché sei qui? Femke mi ha riferito che sei riuscito a infiltrarti nella Corporazione degli Assassini. Hai scoperto dove si trova la loro sede? Altrimenti hai corso un grosso rischio a venire qui.» «No, vostra Maestà. Non ho scoperto niente di nuovo. Sono qui perché ho un problema. La mia copertura è saltata. Shalidar ha cercato di uccidermi nemmeno un'ora fa. Il Maestro della Corporazione mi ha affidato una missione, ma non potevo portarla a termine. Mi dispiace, vostra Maestà, ma ho fallito. Mi è stato chiesto di uccidere il Comandante Lutalo. Non avrei mai potuto farlo. Il Comandante Lutalo è mio padre.» «Tu sei il figlio di Lutalo? Non lo sapevo, ma ora vedo la somiglianza.» L'Imperatore si alzò dalla sedia e iniziò a camminare pensieroso avanti e indietro per la stanza con l'indice appoggiato alle labbra. «E tu credi che loro se ne siano resi conto? Il Maestro della Corporazione era a conoscenza del vostro legame di parentela, prima di affidarti il compito?» «È possibile, vostra Maestà, ma estremamente improbabile. Ho sempre cercato di tenere nascosta la cosa per evitare che gli altri soldati pensassero a favoritismi. Non so come, vostra Maestà, ma nonostante tutte le precauzioni che ho preso per non essere seguito, Shalidar mi è stato alle costole e ha origliato una conversazione fra mio padre e me. Abbiamo parlato di quello che sto facendo. So che non avrei dovuto farlo, ma non potevo mentirgli. Parlando apertamente, senza volere ho compromesso la posizione che abbiamo conquistato con tanta fatica.» L'Imperatore si interruppe un momento e guardò Reynik con uno sguardo penetrante. «Non essere troppo severo con te stesso, giovanotto. Chiunque sia capace di uccidere suo padre a sangue freddo per portare a termine una missione non avrebbe un goccio di umana dignità dentro di sé. È un peccato che tu sia andato da Lutalo prima di venire qui, ma probabilmente il risultato sarebbe stato identico. Il fatto che tu sia andato da lui è perfettamente comprensibile. La domanda è sempre la stessa: come possiamo
rimediare? Non hai ancora indizi sull'identità del Maestro della Corporazione? Se sapessimo contro chi stiamo combattendo, potremmo anticiparne le mosse più facilmente.» «Tutto quello che posso dirvi è che non è giovane, vostra Maestà. Il suo timbro di voce e il suo portamento indicano che si tratta di un uomo di una certa età. Direi che è fra i cinquantacinque e i settant'anni. Parla in modo colto e con una certa inflessione nobiliare. È di corporatura e di statura medie. Non è una gran descrizione, lo so, ma a parte questi elementi, non c'è altro che possa dirvi.» «Mah! Se il Maestro è un nobile, non è un lord della vecchia guardia. Se lo fosse, la Corporazione degli Assassini avrebbe fatto un serio tentativo di uccidermi.» «La Regola impedisce loro di uccidervi, vostra Maestà. Non sono autorizzati a fare nulla che possa provocare la distruzione dell'Impero.» Surabar sogghignò. «Oh, sì che lo sono, Reynik. Tutto sta nel come si interpreta la Regola. La conosco bene, la Regola, ma vedi, agli occhi dei lord della vecchia guardia avere per Imperatore un comune cittadino è l'inizio della fine di Shandar. Loro vedono la mia rimozione come necessaria per la sopravvivenza dell'Impero. Perciò, uccidendomi, lo salverebbero dalla distruzione. Penso che possiamo tranquillamente escludere l'idea che il Maestro della Corporazione sia uno della vecchia scuola, altrimenti a questo punto sarei letteralmente circondato di Assassini.» «Bene, vostra Maestà, forse Femke riuscirà a scoprire qualcosa in più. È molto rischioso, però potrei ancora farla entrare nel complesso della Corporazione. Se vogliamo provarci, deve essere ora o mai più. Deve entrare prima che mettano qualcuno di guardia alle mie stanze. Sapete dove si trova?» «Sì, è qui a Palazzo. Ci siamo visti mezz'ora fa. Ha una stanza qui. Sai dov'è?» «Sì, vostra Maestà, lo so. Quali sono i vostri ordini? Devo tentare di far entrare Femke nella sede della Corporazione o il rischio è troppo grosso?» L'Imperatore aggrottò la fronte mentre rifletteva sulla risposta. Era una scelta difficile. Femke era una spia così in gamba che era incerto se inviarla in una missione tanto rischiosa. Le possibilità di successo erano minime, tuttavia, se c'era qualcuno in grado di scoprire l'identità del Maestro e l'ubicazione della sede della Corporazione, quella era Femke. La sua mente girava a vuoto, e questo era insolito per una persona abituata a prendere decisioni vitali. Era lacerato. Valeva la pena correre il rischio? Lei era la
sua fonte di informazioni più affidabile. Il potenziale guadagno era tale da rischiare la vita della sua spia più valida? «Va'» decise, il volto serissimo. «Vai a prendere Femke e falla entrare nella sede della Corporazione. Ma, Reynik...» aggiunse mentre il ragazzo salutava all'istante e si girava per uscire. Reynik si fermò e si voltò a guardarlo. «Sì, vostra Maestà?» «Cerca di riportarla indietro intera, d'accordo? È una spia troppo brava. Non ne ho molte come lei.» Reynik fece un gran sorriso. «Non preoccupatevi, vostra Maestà. Femke è una ragazza molto abile, ma io cercherò di fare del mio meglio per aiutarla.» La stanza di Femke non era lontana. Reynik bussò alla porta, che si aprì all'istante. Era come se lei fosse stata lì dietro ad aspettarlo. Il cuore di Reynik si fermò quando vide il suo sorriso. Aveva ancora gli abiti comuni che le aveva visto indosso prima, ma era bellissima, qualunque vestito portasse. La sua mente si ribellava all'idea di farle correre un rischio così grosso, ma non aveva scelta. «Femke, l'Imperatore vuole che ti faccia entrare nel complesso della Corporazione. Dobbiamo andare subito. Gli Assassini sanno che sono un impostore. Shalidar ha cercato di uccidermi nemmeno un'ora fa. Se devo farti entrare, dobbiamo agire prima che Shalidar li induca a organizzarsi e a tenere d'occhio le mie stanze. Ti consiglio di indossare qualcosa di scuro. Tutta la sede della Corporazione è in penombra.» «Aspetta un attimo» gli rispose Femke cogliendo l'urgenza nella sua voce. «Vieni dentro e siediti. Ci metterò solo qualche secondo.» Reynik entrò e si chiuse la porta alle spalle. La stanza di Femke era abbastanza grande, ma non c'era uno spogliatoio per cambiarsi. Con grande imbarazzo, quando si voltò di nuovo Reynik si rese conto che lei si stava già spogliando e si stava dirigendo in fretta al suo guardaroba. Le sue gote arrossirono mentre si sforzava di guardare da un'altra parte. Femke continuava a parlare mentre frugava nell'armadio tirandone fuori una serie di abiti scuri. «Come hanno fatto a scoprirlo? Ci hanno visti al mercato?» «No, be', penso di no. Questo pomeriggio mi hanno affidato un incarico. Per caso o apposta, non ne sono sicuro, il Maestro mi ha incaricato di uccidere mio padre. Non era possibile che facessi una cosa del genere. Purtroppo, nonostante tutte le mie precauzioni, Shalidar è riuscito a seguirmi.
Mi ha sentito mentre mettevo in guardia mio padre. Shalidar...» Con un groppo in gola, Reynik si interruppe senza riuscire a proseguire. «Che cosa, Reynik? Cosa è successo?» Femke lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla per confortarlo. Reynik la guardò con gratitudine, ma subito abbassò gli occhi quando si accorse che Femke non era ancora completamente vestita. Una lacrima gli corse lungo il viso. «Shalidar lo ha ucciso dopo che me ne sono andato» balbettò. «Oh, Reynik, mi dispiace così tanto.» Femke lo abbracciò, ma si accorse del suo imbarazzo. Ovviamente quello non era il momento di prenderlo in giro per il suo pudore. Si allontanò e finì di vestirsi. Come aveva detto, le bastò pochissimo. «Andiamo. Sono pronta» gli annunciò sollevandogli le mani dalle ginocchia e tirandolo su in piedi. Questa volta lo abbracciò stretto. «Distruggeremo la Corporazione e faremo in modo che Shalidar abbia quel che si merita» gli bisbigliò all'orecchio. «Hai fatto un ottimo lavoro, Reynik. Ora è il mio turno. Fammi strada.» Reynik aveva il cuore che gli martellava in petto. Come poteva portarla alla sede della Corporazione? Se fosse rimasta uccisa, sapeva che non avrebbe mai potuto perdonarselo. Però non aveva scelta. Se volevano riuscire, qualcuno doveva procurarsi le informazioni di cui avevano bisogno. E lui non poteva negare che Femke fosse la persona più qualificata per farlo. Riluttante, si sciolse dall'abbraccio e ricambiò il suo sguardo. Femke capiva quello che lui provava per lei? Lo avrebbe abbracciato in quel modo se lo avesse saputo? Tutte le emozioni che reprimeva dentro di sé minacciarono di esplodere come un torrente in piena. In un modo o nell'altro, riuscì a tenerle sotto controllo. L'unica traccia del suo stato emotivo era la lacrima che ancora gli scendeva lungo la guancia. Reynik non si mosse mentre Femke con delicatezza gliela asciugava con un dito. «Non abbatterti, Reynik. Andrà tutto a posto, alla fine. Fidati di me. Su, adesso andiamo.» Reynik non trovò le parole per risponderle. Si limitò ad annuire. Una rapida visita al magazzino di Palazzo, e cambiò l'uniforme con abiti scuri simili a quelli scelti da Femke: Come due ombre silenziose, le due sagome in nero scivolarono lungo il corridoio e uscirono dal Palazzo per affrontare la notte. «Tarantola è un impostore, una spia inviata per studiarci. È uno degli uomini dell'Imperatore.»
«Davvero? E puoi provarlo?» La voce del Maestro della Corporazione era piena di scetticismo. «L'ho seguito fino alla tenda di Lutalo e ho ascoltato la loro conversazione. Con Lutalo ha ammesso molte delle cose che sta facendo. Ho sentito tutto. Sembra che fratello Tarantola appartenga alla Prima Legione. Ma la cosa più importante è che Lutalo è suo padre. Era al corrente dei suoi legami familiari, Maestro? La missione è stata scelta appositamente per mettere alla prova la sua lealtà?» L'insinuazione di Shalidar era evidente: se il Maestro della Corporazione conosceva il loro rapporto, la prova era particolarmente dura. Shalidar dubitava che molti degli attuali membri della Corporazione avrebbero portato a termine un tale contratto. Fra di loro ce n'erano alcuni che forse l'avrebbero fatto, se il compenso fosse stato abbastanza elevato, ma sarebbero stati l'eccezione più che la regola. «No, non ne ero informato. Tuttavia, a quanto pare il caso ha operato in nostro favore, fratello Dragone. La mia inconsapevole scelta del bersaglio ha svelato un infiltrato più che convincente. È strano. Anche con la tua testimonianza, continuo a trovare difficile che Surabar possa aver ordinato la morte di Kempten e di Lacedian solo per infiltrare qualcuno nella Corporazione. Se una tale ipocrisia venisse rivelata in pubblico, sarebbe screditato come regnante. Nessuno si fiderebbe più di lui. E il bello è che la sua reputazione è talmente immacolata che pochi ci crederebbero, anche se noi divulgassimo questa informazione. Non mi sorprenderebbe scoprire che quella vecchia volpe ci avesse fatto conto quando ha mandato in missione quel ragazzo. Sapevo che Surabar era un generale scaltro, ma non avevo idea che fosse spietato fino a questo punto. Sai, tutto sommato incomincia a piacermi.» A questa ammissione, Shalidar alzò bruscamente lo sguardo. Il Maestro era appoggiato al muretto davanti alla sua nicchia. Anche nella penombra, l'Assassino riuscì a cogliere un accenno di sorriso sotto il cappuccio del vecchio. «Che cosa vuole che faccia, Maestro?» «Ucciderai il ragazzo, ovviamente. Fratello Tarantola non deve vivere un secondo più del necessario. Ha visto il santuario interno. Il suo tradimento nei confronti della Corporazione degli Assassini deve essere punito. Invierò altri fratelli a tenere d'occhio i suoi punti di trasferimento finché non sarà trovato ed eliminato. E metterò una guardia anche alle sue stanze, nel caso in cui riuscisse in qualche modo a superare le difese esterne. Tu
cercalo e uccidilo. Affiderò anche ai fratelli Vipera e Orso la stessa missione...» «Non sarà necessario, Maestro, a Tarantola posso pensarci io» lo interruppe Shalidar. «Ne sono sicuro, fratello Dragone. E tuttavia manderò anche loro per esserlo ancora di più. Chi lo ucciderà per primo avrà la ricompensa. Per lo meno, con un po' di sana competizione dovreste rimanere più concentrati. So quanto sia facile per alcuni di voi fratelli lasciarsi distrarre da qualche altra lucrosa missione collaterale. Non fatelo. La Corporazione, per assicurarsi che non perdiate di vista il vostro obiettivo, pagherà il doppio del normale compenso a chi ucciderà il traditore.» «Doppio! Ottimo, Maestro, parto immediatamente.» «Bene. Puoi star certo che Vipera e Orso ti seguiranno subito dopo. Sto andando da loro proprio ora.» «Ascolta, Femke. Quando appoggeremo il talismano a quella roccia, verremo trasferiti nel mio soggiorno nel complesso della Corporazione. Sembra che siamo arrivati in tempo. Io non vedo nessuno di guardia, e tu? Femke scosse la testa. Avevano perlustrato il vicolo senza scorgere segno di pericolo. Se c'era qualcuno di guardia, doveva essere nascosto bene e, probabilmente, mezzo congelato. La temperatura era precipitata nell'ultima ora. Aria gelida in arrivo dalla regione di Vortaff rendeva il vento particolarmente pungente. Femke aveva la sensazione che migliaia di spilli le stessero trafiggendo la faccia e non sentiva più i polpastrelli per il freddo. Nessuno poteva stare fermo così a lungo in quelle condizioni, pensò. Il vicolo doveva essere libero.» «Ricordati che il disorientamento durerà per un po'. Ti porterò in camera mia e ti lascerò sotto il letto. Rimani lì finché non ti sarai completamente ripresa dagli effetti della traslocazione. Io tenterò una manovra diversiva. Se siamo fortunati, avrai la possibilità di dare un'occhiata in giro prima che io torni a prenderti. Avrai due ore, non di più. Cerca di scoprire il più possibile in questo lasso di tempo e poi ritorna alla mia stanza. Contenta?» «Entusiasta!» rispose lei con un sorriso forzato cercando di non pensare a quello che avrebbe fatto se Reynik non fosse tornato a prenderla. «Bene, allora andiamo» riprese lui con decisione, lasciando la posizione accucciata che avevano tenuto nell'oscurità. «Aspetta!» «Cosa c'è?» chiese lui tornando ad accovacciarsi.
Femke si sporse verso di lui e lo baciò risoluta sulle labbra. «Come portafortuna» gli sussurrò. Reynik era esterrefatto. "Oh Shand, ma sei davvero stupida alle volte" Femke si maledisse dentro di sé. "Hai bisogno che abbia la mente lucida, attenta e concentrata, perché adesso lo confondi con emozioni inutili? Non hai proprio imparato niente a Mantor? Hai perso la testa?" Permettersi di provare sentimenti per Danar era stato uno sbaglio. Questa volta poteva essere ancora peggio. A suo merito, Reynik riprese in fretta la compostezza esteriore. Femke ne fu sollevata, ma sapeva di non aver giovato alla loro causa. «Grazie» mormorò lui con un sorriso stentato. «Adesso sbrighiamoci, non dobbiamo tardare ancora. Il Maestro non è uno sciocco. Le informazioni di Shalidar provocheranno una reazione rapida. Andiamo.» Reynik le afferrò la mano e corsero insieme vicino alla pietra di trasferimento. A Femke non sembrava diversa dalle altre pietre circostanti, tranne che per otto piccoli incavi sulla sua superficie. Reynik strinse il talismano d'argento nella mano sinistra e mise la destra attorno al polso della ragazza. «Tieni il talismano insieme a me» la invitò. Lei fece come le aveva detto. Insieme, avvicinarono il ragno alla pietra. Reynik le aveva descritto il trasferimento, ma sebbene avesse cercato di farle capire le sensazioni che avrebbe provato, quello che sentì la travolse. Per un attimo fu come se dentro di sé il vento avesse scatenato un tornado, facendola roteare così in fretta da farle perdere l'orientamento. Femke aveva le vertigini e la nausea. Reynik era ancora lì con lei? Non sentiva più il suo braccio. Minuscole stelline le danzarono attorno come se in qualche modo lei si fosse dilatata mentre l'universo si era tanto ristretto che lei adesso dominava i cieli. Si sentiva una dea. E poi ci fu l'esplosione. Reynik le aveva detto che cosa aspettarsi, ma niente avrebbe potuto prepararla alla sensazione di esplodere in un milione di particelle, ancor più piccole del pulviscolo che mulinava attorno a lei. Anche la ricomposizione la disorientò completamente. Femke sentì che il ragazzo la sorreggeva mentre tutt'e due si rimaterializzavano nella stanza sotterranea. Sebbene si sforzasse di rimanere cosciente, non ci riuscì. Quando riemerse, ricordava vagamente di essere stata portata in braccio. C'erano state grida e il rumore di passi di corsa. Era realtà o solamente un sogno? Femke riaprì gli occhi. Era buio. L'aria era strana, soffocante. Cercò di
portarsi la mano alla faccia, ma sbatté in un pezzo di legno pochi centimetri sopra di sé. "Ma certo, il letto" comprese. Reynik ce l'aveva fatta. Lei era sotto il suo letto. Il pavimento di pietra aveva assorbito buona parte del calore dal suo corpo. Il sedere, la schiena e le spalle erano insensibili. Da quanto tempo stava lì? Non aveva modo di dirlo. Il tempo era essenziale. Non aveva idea di quanto le rimanesse prima che Reynik facesse ritorno. Per quanto ne sapeva, lui poteva tornare da un momento all'altro, o peggio, poteva essere già in ritardo. Tutto ciò che le restava da fare era esplorare il complesso il più in fretta possibile. Avrebbe scoperto più cose che poteva e poi sarebbe tornata lì, nella speranza che Reynik riuscisse a rifarsi vivo. Scivolando lateralmente, centimetro per centimetro, Femke uscì da sotto il letto puntellandosi sui gomiti e sui calcagni. Tutto intorno a lei era silenzio, silenzio e oscurità. Piano piano, si mise prima a sedere e poi si tirò faticosamente in piedi. Si prese un momento per massaggiarsi, in modo da ripristinare la circolazione nei glutei. Il sangue che riprendeva a scorrere le provocò dolore, ma fu un dolore benefico, accompagnato dal sollievo di ritornare alla normalità. Fece un paio di flessioni sulle gambe: le cosce erano perfettamente a posto. Non aveva più tempo per soffermarsi a pensare ai suoi fastidi. Doveva darsi da fare. Nel buio vide una porta. La luce filtrava attorno alla cornice. Scivolò attraverso la stanza senza fare rumore e la raggiunse, poi si mise in ascolto. Non sentiva niente. Se c'era qualcuno nella stanza accanto, era perfettamente immobile. Femke aspettò accanto alla porta per almeno due minuti, tendendo gli orecchi per cogliere eventuali movimenti o rumori dall'altra parte. Ancora niente. Abbassò la mano ed estrasse un pugnale da lancio dalla fondina che portava in cima agli stivali. Poi, con un unico movimento fluido, aprì la porta e l'attraversò rotolando a terra senza fare rumore. Alla fine di questa manovra acrobatica si ritrovò in piedi. Scandagliò la stanza con lo sguardo: non c'era nessuno. La luce tremolante di tre torce illuminava l'ambiente. Le ci volle un momento per assorbire un paio di dettagli. La prima cosa che notò fu il predominio dell'immagine del ragno. Rabbrividì. I ragni non erano mai stati le sue creature preferite. Femke prese nota delle file di libri, dei mobili lussuosi e dell'emblema con il motivo del ragno sull'altro uscio. La sua attenzione fu attratta dal muro attorno all'arco della porta. Le stanze erano state scavate nella roccia viva, ma chiaramente qualcuno
ne aveva lavorato la forma, inserendo stipiti di pietra tagliata. Chiunque avesse realizzato il vano della porta era certamente un grande artigiano. Femke si voltò per guardare lo stipite della stanza da letto. Anch'esso era di pregevole fattura. C'era un che di familiare nel modo in cui le pietre erano collocate attorno all'intelaiatura che le stuzzicava la memoria. Aveva già visto un lavoro di muratura simile da qualche parte... Ma dove? Qualunque fosse la risposta a quella domanda, non era ancora pronta a salirle alla mente. Guardò attentamente il vano per memorizzare il disegno in base al quale erano disposte le pietre, poi proseguì. La porta che conduceva fuori dal soggiorno era già aperta. Ancora una volta, non c'era nessuno. Non sapeva che cosa avesse fatto Reynik, ma evidentemente aveva attirato l'attenzione fuori dalle sue stanze. Proseguì quanto più velocemente potesse osare, strisciando lungo il corridoio silenziosa come un fantasma. In fondo c'era la porta che dava sulla sala centrale. Femke sgusciò nella nicchia buia che si apriva sulla sala delle assemblee della Corporazione. Mentre lo faceva, sentì qualcun altro entrare in una delle nicchie vicine. Si accucciò il più possibile, strisciò in avanti e si accovacciò nell'angolo anteriore destro della piccola rientranza. Sentì un rumore di passi. Era una persona sola o erano due? Difficile a dirsi. «Preferirei inseguirlo, Maestro, ma farò il primo turno. Purtroppo, non penso che sia così sciocco da tornare qui un'altra volta. Mi sarebbe piaciuto essere io a inchiodarlo. A essere onesti, sono sorpreso che sia ritornato, una volta saputo che la sua copertura era saltata. Non riesco a capire che cosa ci fosse qui di tanto prezioso da farlo tornare. Verrà Volpe a rilevarmi? Bene.» Femke ascoltò la voce dell'uomo mentre si avvicinava. Non era quella di Shalidar. Avrebbe riconosciuto quei toni striduli ovunque. Era chiaro che la seconda serie di passi che aveva sentito erano quelli del Maestro della Corporazione. Pregò silenziosamente che parlasse in modo che lei potesse sentire la voce dell'uomo la cui identità l'Imperatore era così ansioso di scoprire. Ma non fu così. Sul muretto davanti alla nicchia apparve una mano. Femke si ritrasse nell'angolo. Qualcuno sollevò il gancio e spalancò la porta, che si aprì verso di lei nascondendola ancora di più alla vista dell'uomo. Questi entrò e si lasciò richiudere il battente alle spalle. Femke scorse nella penombra la sua alta figura. Per un attimo pensò che l'avrebbe scoperta, ma quello si voltò e uscì dal fondo della nicchia. Femke tirò un silenzioso sospiro di sollievo. Sentì i passi del Maestro
mentre si allontanava silenziosamente, perciò si arrischiò a dare un'occhiata oltre il parapetto. Vicino al podio centrale c'era una sagoma nera. Mentre lo guardava, l'uomo si voltò verso di lei. Femke tornò ad accucciarsi, chiedendosi perché mai si fosse girato. Aveva scordato di dire qualcosa all'altro Assassino? Aveva in qualche modo percepito la sua presenza? Rimase ad aspettare in silenzio per qualche istante, ma non sentì alcun rumore di passi. Dopo un minuto circa, Femke decise di arrischiare un secondo sguardo al di là della ringhiera. E quando lo fece, la sala centrale era vuota. Strano, pensò. Dov'era andato il Maestro? Non lo aveva sentito lasciare la stanza, eppure aveva avvertito perfettamente i suoi passi, quando aveva raggiunto il centro della sala. Aveva una pietra di trasferimento, lì da qualche parte? Decise di scoprirlo. Con un'ultima occhiata in giro per accertarsi che ci fosse via libera, scivolò oltre il muretto e strisciò fino a quella specie di podio al centro. Quando l'ebbe raggiunto, scorse un buco nero nel pavimento. Avvicinandosi, si rese conto che non era un semplice buco, bensì il vano che conteneva una ripida scala a chiocciola. Ecco perché il Maestro si era girato verso di lei: doveva farlo per scendere i primi gradini. La confortava sapere che la sua scomparsa non aveva natura magica. Poteva osare scendere? Reynik le aveva detto che tutti gli Assassini avevano stanze a cui accedevano dalle rispettive nicchie. Ragionando allo stesso modo, era plausibile che quella scala portasse alle stanze private del Maestro della Corporazione. Se era così, era improbabile che lì fosse circondato da guardie. Dopo tutto, quello era un complesso segretissimo con un sistema di controllo all'ingresso e all'uscita davvero unico. Decise di correre il rischio. Non appena ebbe messo piede sul primo scalino, Femke si rese conto del perché non avesse sentito il Maestro scendere nelle sue stanze. Sul gradino era fissato un piccolo tappeto triangolare. Lo stesso allo scalino successivo. Sorrise. Senza dubbio questo sistema serviva al Maestro per entrare in silenzio nella sala. E viceversa, ora permetteva a lei di scendere senza preoccuparsi di rumori rivelatori. Tenendo saldamente il pugnale nella mano destra, scese nell'oscurità. Dopo cinque o sei gradini scorse una ringhiera alla sua sinistra, alla quale poté reggersi con una mano, mentre nell'altra tenere sempre la lama davanti a sé. La scala era ripida e stretta, ma gli scalini erano lisci e ben lavorati. Dopo aver percorso all'incirca due spirali complete nella più totale oscurità,
vide provenire dal basso il bagliore di una luce fioca. Un passo alla volta, continuò a scendere tenendosi accucciata e sporgendosi verso il centro, in modo da vedere il più possibile il fondo della spirale. Poi Femke si fermò, per controllare se ci fossero segni di movimento. Con orrore capì che i rumori che sentiva non provenivano dal basso, ma dall'alto: qualcuno stava scendendo le scale, e non era lontano. Non c'era tempo per la cautela. Percorse in fretta gli ultimi gradini e si ritrovò a metà di un corridoio illuminato. Sinistra o destra? Doveva decidere all'istante. Optò per la destra, avanzando in fretta e silenziosamente sulle punte dei piedi, con il cuore che le martellava in petto. Un po' più avanti, lungo il corridoio, scorse sulla destra il vano di una porta. Si accucciò nella nicchia e vi premette contro il corpo. Aveva tutti i muscoli tesi. Nonostante l'adrenalina e lo sforzo della corsa improvvisa, trattenne il fiato e restò in ascolto. Inizialmente, tutto ciò che sentì fu il battito del proprio cuore. Poi ebbe bisogno di lasciar andare il fiato. Lentamente, molto, molto lentamente, espirò e inspirò una boccata d'aria. Sollievo. I lievi rumori di passi che si allontanavano furono come musica per i suoi orecchi, e le permisero di tornare a respirare in maniera normale. Femke decise di arrischiare un'altra occhiata in corridoio. La figura che si stava allontanando indossava una tunica marrone. Doveva essere un domestico, pensò. Quello era il piano della servitù? No, non aveva senso. Perché l'ingresso al piano della servitù avrebbe dovuto trovarsi proprio nel bel mezzo della sala delle assemblee degli Assassini? Era più probabile che il domestico stesse svolgendo un'incombenza per conto del Maestro della Corporazione. Con un po' di fortuna avrebbe potuto scoprire dov'era. Se fosse riuscita a scorgere anche solo di sfuggita la faccia del Maestro, avrebbe potuto sapere se l'opinione di Reynik secondo cui era un aristocratico era corretta. Femke conosceva tutti i membri della nobiltà, alta e bassa, di nome e di vista. Erano informazioni indispensabili nella sua professione. Il domestico percorse tutto il corridoio fino in fondo e lì bussò alla porta. Dovette ricevere una risposta positiva, perché entrò. Femke non perse tempo. Corse fuori dal suo nascondiglio e attraversò tutto il corridoio per fermarsi ad ascoltare alla porta. Dentro la stanza sentì alcuni movimenti, ma nessuno parlava. "Su, su" li pregava dentro di sé. "Dite qualcosa!" «Desidera cenare subito, Maestro?» Vi fu una pausa. L'attesa di Femke era febbrile.
«Grazie, Jurre, sarebbe fantastico. Che cosa c'è di buono oggi?» Femke rimase a bocca aperta e sentì il suo cuore sprofondare fino alla bocca dello stomaco. Per un attimo, la voglia di mettersi a gridare "traditore!" fu travolgente. Non aveva più alcun bisogno di vedere la faccia del Maestro. Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque.
Capitolo quindici Reynik sorresse il corpo di Femke quando la ragazza perse i sensi. Era preparato. Se lei avesse sopportato il primo trasferimento senza svenire, si sarebbe sentito veramente inadeguato. C'erano così tante cose in cui Femke era abile, che gli fece piacere notare che reagiva a questa situazione esattamente come era capitato a lui. Era pronto a lasciarla cadere se nella sua stanza ci fosse stato qualcuno, ma era tutto tranquillo. A quanto pareva, la Corporazione non aveva ancora messo nessuno di guardia alle sue stanze. Sospettava che fra non molto qualcuno ci avrebbe pensato. Si chinò per afferrare le gambe di Femke, poi la prese fra le braccia e la portò nella sua camera da letto. Era del tutto incosciente. Immaginò che le ci sarebbero voluti un paio di minuti per riprendersi, ma lui non poteva permettersi di aspettare tanto. Sarebbe stato meglio attuare una manovra diversiva per attirare l'attenzione lontano dalle sue stanze e spostarla nelle strade della città. Così, quando Femke si sarebbe svegliata, avrebbe potuto dare un'occhiata a quel luogo senza trovarsi una schiera di Assassini alle calcagna. La posò delicatamente sul pavimento e per un attimo contemplò il suo viso sereno. Le sue labbra erano morbide e invitanti. La tentazione di abbassarsi e di posarci sopra le sue era enorme. Perché mai lei l'aveva baciato? Allora provava qualcosa per lui? Lui aveva sempre pensato che fosse cordiale con lui solo perché lavoravano insieme. C'era qualcos'altro? Stava incominciando a nutrire qualche sentimento più profondo? Non fu facile farla scivolare sotto il letto. Alla fine dovette usare un po' di forza. Cercò di fare attenzione alle costole doloranti, ma non riusciva a trovare altri punti adatti per spingerla. Se si fosse ritrovata dei lividi perché lui era stato troppo rozzo, sarebbe stato imperdonabile... soprattutto dopo
quel bacio. «Smettila, idiota che non sei altro!» si rimproverò con un ringhio sussurrato. «Cresci una buona volta e concentrati. Non è il momento di pensare a queste cose.» Abbassò le coperte verso la parte più esposta del letto: adesso nessuno avrebbe visto Femke a meno che non avessero deciso di perquisire la stanza. Un rumore riportò la sua attenzione alla porta. Stava arrivando qualcuno. Doveva uscire in fretta di lì. Corse all'uscio. Dall'altra parte si avvicinavano alcune voci. Reynik decise di correre verso la pietra di trasferimento. Non era lontana, ma la porta si aprì proprio mentre lui stava attraversando la stanza di corsa. Era il Maestro con uno degli altri Assassini, non sapeva quale. Ma chiunque fosse, reagì molto in fretta. Strappando il talismano dalla cordicella di cuoio, Reynik raggiunse la pietra con un tuffo nel momento stesso in cui l'Assassino estraeva un pugnale e lo lanciava verso di lui. Con la coda dell'occhio, Reynik vide la lama roteare in aria verso di lui mentre allungava la mano che reggeva il ragno. Strinse i denti aspettandosi la fitta del pugnale, ma non sentì nessun dolore. Il talismano toccò la pietra di trasferimento e diede inizio al trasferimento magico. In seguito, Reynik avrebbe giurato di aver sentito la lama trapassargli il corpo, ma probabilmente era solo frutto della sua immaginazione. Avendo iniziato il trasferimento con un tuffo, ricadde a terra allo stesso modo, completando lo slancio iniziale. E fu per lui una fortuna. Emerse con un salto in orizzontale, precipitando al suolo in maniera sgraziata, e proprio in quel momento una freccia scagliata da una balestra si schiantò nel muro nel punto in cui si sarebbe trovato lui se fosse arrivato in piedi. Chiunque imbracciasse la balestra, per sferrare il colpo non aveva aspettato che le scintille rivelatrici completassero la ricomposizione. Reynik si tirò su e si mise a correre. L'Assassino di guardia doveva essere arrivato solo qualche istante dopo che lui e Femke si erano trasferiti nelle sue stanze. In quel momento si ritrovò a pensare a una frase che suo padre gli aveva detto anni prima. "Ci sono momenti in cui è meglio essere fortunati che abili, figliolo." Era proprio così! L'arciere aveva bisogno di un po' di tempo per ricaricare la balestra e Reynik cercò rapidamente di mettersi fuori portata. Balzò fuori dal vicolo
e imboccò una strada secondaria. Istintivamente svoltò a destra. Se doveva combattere per salvarsi, lo avrebbe fatto nel cuore di Shandrim. Là ci sarebbero state ronde regolari di legionari e di miliziani. Con un'altra dose di fortuna, gli sarebbero state d'aiuto. «Va'! Tarantola si è trasferito alla sua pietra comune. Se fai in fretta, gli starai alle costole.» «Sì, Maestro» rispose Coguaro, che però esitò mentre si avvicinava alla porta. «E la sentinella? Ha ordine di uccidere chiunque emerga di là.» «Sta' accucciato. Se sei fortunato, Drago di Fuoco avrà abbastanza buon senso da capire che Tarantola non potrebbe materializzarsi due volte in così poco tempo.» «Sì, Maestro» rispose l'altro a denti stretti. «E chi sta qui di guardia alle sue stanze?» «Dirò a qualcun altro di farlo. Il giovane Tarantola non avrà fretta di tornare. Sa che lo stiamo aspettando. E ora vai!» Coguaro si allontanò in fretta. «Se Drago di Fuoco non si è distratto, la spia dovrebbe essere già morta» mormorò il Maestro fra sé e sé. «Bene, mio giovane Reynik, se quello è davvero il tuo nome» soggiunse rivolto alla pietra di trasferimento, come se le sue parole potessero in qualche modo colmare la distanza magica fra loro «a quanto pare hai la capacità di venir fuori dalle situazioni più difficili. Perciò sarà più prudente prendere provvedimenti. Drago di Fuoco ti sta aspettando al punto di uscita, Coguaro sta andando là, e Dragone, Vipera e Orso sono tutti in città a cercarti. Non durerai a lungo. Uno di loro si guadagnerà la ricompensa per la tua uccisione. Lo fanno sempre.» Reynik corse fino alla taverna più vicina e si precipitò all'interno. A quell'ingresso irruente, la gente che affollava la stanza si guardò attorno. Il brusio si abbassò di tono per qualche secondo, mentre lui si fermava istintivamente sulla porta, ansimante, poi ritornò al volume di prima quando tutti ripresero le loro conversazioni o iniziarono a discutere del motivo dell'arrivo così improvviso di quel giovanotto. Lui misurò la stanza in un secondo e si incamminò, facendosi strada fra i tavoli e la gente; scusandosi a ogni passo ma senza mai rallentare. Quando arrivò alla porta sul retro, frugò tra le armi nella grossa rastrelliera alla sinistra dell'uscita. Archi, spade, bastoni e coltelli da cintola erano riposti lì secondo la regola del locale. Il padrone era severissimo al ri-
guardo. Chiunque fosse stato trovato armato nella zona principale sarebbe stato scacciato immediatamente dalla taverna. Questa politica aveva dato i suoi frutti negli anni, perché i danni e le visite della milizia si erano ridotti al minimo. «Ti ho trovato!» mormorò trionfante Reynik fra sé e sé. Estrasse dalla rastrelliera un bastone che era più lungo di un palmo di quanto lui fosse alto. Nella rastrelliera aveva lasciato anche una spada, ma era un po' riluttante a prenderla, perché era difficile correre veloci con una spada al fianco e un bastone in mano. Dopo qualche secondo di esitazione, decise di sacrificare la velocità a favore della difesa. Da una credenza alla destra della porta estrasse una cotta di maglia e un giustacuore di cuoio. Dato che aveva deciso di lasciar perdere la velocità, avrebbe fatto meglio a proteggersi il più possibile. Era davvero contento di aver pensato di lasciare in anticipo così tanti oggetti utili nei locali pubblici. La cotta gli avrebbe offerto una certa protezione contro lanci e stoccate, anche se non lo avrebbe potuto riparare da un tiro di balestra ben assestato. Si tolse il mantello e indossò la casacca. Non aveva tempo per allacciarla a dovere. Passò i lacci attraverso un paio di buchi e li annodò. Sopra mise la cotta di maglia, seguita da un mantello azzurro preso da un gancio lì vicino, e tornò in strada nella notte, portandosi lontano dalla sua pietra di trasferimento. La stradina, con la fioca luce delle lanterne a olio e le case storte e sporgenti, emanava un senso di ostilità. Ombre minacciose si profilavano dappertutto. I peli gli si rizzarono sulla nuca per la tensione. La strada era piena di buche per i ciottoli mancanti. Era una superficie pericolosa per correre nella semioscurità, pensò Reynik cupo. Be', non si sarebbe ancora messo a correre, per il momento. Farlo avrebbe solamente attirato l'attenzione. Avrebbe lasciato che gli Assassini si avvicinassero per identificarlo con certezza, prima di attaccare. Armato com'era, adesso si sentiva molto più a suo agio ad affrontare i membri della Corporazione a distanza ravvicinata. Diretto verso il centro della città, Reynik camminava con aria decisa. Non correva, però allungò l'andatura, per coprire il tragitto di buon passo. Non aveva fatto molta strada, quando il primo Assassino lo raggiunse. Senza preavviso. Reynik si rese conto della sua presenza solo quando un pugnale lo colpì proprio in mezzo alla schiena. Con la protezione della cotta di maglia e del cuoio, ebbe semplicemente la sensazione che qualcuno gli avesse mollato un gran pugno. Incespicò mentre la lama cadeva innocua a terra tintinnan-
do fra i ciottoli. Drago di Fuoco si era fatto avanti, consapevole, nel momento in cui aveva scagliato il pugnale, che il suo era stato un buon lancio. Ma la sua mossa era stata prematura. Se fosse rimasto acquattato nell'ombra, avrebbe potuto lanciare un altro pugnale prima di essere visto. Reynik lo scorse immediatamente. Ritrovando in fretta l'equilibrio, si mosse per intercettare l'avversario. «Maledizione! Hai più vite di un gatto!» borbottò l'Assassino mentre estraeva dal fodero la spada. «Su, fatti avanti, traditore, hai appena consumato l'ultima. È ora di morire.» Dal modo in cui Drago di Fuoco gli veniva incontro, Reynik capì che non aveva mai combattuto prima contro qualcuno armato di bastone, per lo meno non contro un avversario competente. Si sentì un po' più rincuorato. Era tentato di dire qualcosa, ma sapeva che era meglio rimanere in silenzio. Quello non era il momento per i dileggi o le vanterie. "Sbrigatela in fretta e vattene da qui" pensò. L'Assassino fece volteggiare la spada con forza e velocità. Reynik la deviò senza problemi e piantò energicamente l'estremità del bastone nello stomaco dell'altro. L'urto lasciò l'Assassino senza fiato, con l'aria che gli uscì dai polmoni in un'unica ventata. Reynik arretrò subito e prese a roteare il bastone in modo da assestare con l'altra estremità un colpo energico alla tempia sinistra del suo nemico. Drago di Fuoco cadde a terra. Per sicurezza, Reynik gli diede un'altra bastonata sulla testa. Sapeva che avrebbe dovuto estrarre la spada e finirlo, e per un attimo pensò di farlo. Ma poi lasciò perdere l'idea. Uccidere Lacedian a sangue freddo lo aveva macchiato in un modo che non voleva si ripetesse. Non intendeva uccidere un'altra persona a sangue freddo, nemmeno un Assassino. Quando si voltò per allontanarsi, Reynik colse un lieve movimento con la coda dell'occhio. C'era qualcun altro che scendeva di soppiatto lungo la strada e avanzava verso di lui. Non c'era dubbio che fosse un altro membro della Corporazione, perché si teneva nell'ombra e si muoveva rapidamente. Già un altro, pensò inorridito. Come facevano a trovarlo così presto? Forse le strade brulicavano di Assassini? Sapendo che un altro Assassino era sulle sue tracce, Reynik decise di usare alcune delle tecniche che Femke gli aveva insegnato per liberarsi degli inseguitori. Anzitutto cominciò ad allontanarsi rapidamente e a portarsi verso il centro della città. Era impossibile ignorare che quasi certamente qualcuno lo stava seguendo con l'intenzione di ucciderlo, ma fece del suo
meglio per non guardarsi alle spalle più spesso di quanto avrebbe fatto una persona normale che attraversava le strade a quell'ora di notte. Per un attimo Reynik pensò che forse sarebbe stato meglio tornare sui propri passi e affrontare direttamente l'uomo invece di dargli la possibilità di colpire senza preavviso. Non voleva affatto uno scontro, ma se scontro doveva essere, allora voleva essere lui a dettarne le regole. Poi però si rese conto che il suo ragionamento si basava su presupposti infondati. Come poteva essere sicuro che l'uomo che aveva appena messo fuori combattimento fosse la stessa persona che aveva usato la balestra nel vicolo? Non ne aveva la certezza. Se si fosse voltato apertamente e l'uomo che lo seguiva fosse stato il balestriere, Reynik sarebbe diventato un facile bersaglio. Un confronto aperto era troppo rischioso. Avrebbe dovuto usare l'astuzia se voleva sopravvivere. Affrettò l'andatura senza cambiare il passo e in men che non si dica svoltò dietro l'angolo, uscendo dal campo visivo del suo inseguitore. Non appena fu certo che l'Assassino non potesse vederlo, Reynik cominciò a correre il più in fretta possibile. C'era un vicolo sulla destra. Lo imboccò. Non portava al centro della città, ma non lontano da lì c'era una delle strade più trafficate. Da lì avrebbe potuto raggiungere velocemente la strada principale e poi tornare indietro verso la sua destinazione finale. L'ora non era ancora tarda. C'era ancora un bel po' di traffico sulla strada principale. Non doveva essere un problema confondersi tra la folla e diventare così un bersaglio molto più difficile. Il vicolo era buio e Reynik si trovò costretto a rallentare. Non voleva fare rumori che attirassero attenzioni indesiderate. Muovendosi con cautela, si concentrò sulle tecniche insegnategli da Femke. L'Assassino, Vipera, era come scivolato nell'oscurità quella sera che l'aveva seguito nei vicoli e nelle strade secondarie. Reynik non era ancora diventato altrettanto bravo in questo metodo, ma tentò di imitare quanto riusciva a rammentare dei suoi movimenti. Mentre si avvicinava in fondo al vicolo, sentì dei bisbigli fiochi. Guardando verso la luce in fondo alla strada, vide le sagome di tre uomini ricurvi su un quarto. Sembrava che gli stessero frugando le tasche in cerca di qualcosa da rubare. Quell'uomo era morto o lo stavano tenendo fermo? Un altro dilemma! Doveva accovacciarsi in un angolo e aspettare che finissero i loro affari o doveva soccorrere quella vittima sfortunata? Se l'Assassino che lo stava seguendo fosse passato di lì, forse l'avrebbe superato nel buio e sarebbe stato costretto ad affrontare lui i ladri al posto suo.
L'Assassino avrebbe addirittura potuto pensare che la vittima fosse lo stesso Reynik e che i ladri avessero compiuto il lavoro al posto suo. Ma, d'altro canto, poteva anche fermarsi proprio dove si era nascosto Reynik per riflettere sul da farsi. Se lo avesse fatto, con tutta probabilità avrebbe scoperto la sua preda nel giro di qualche secondo. Qualunque decisione avesse preso, Reynik sapeva di non potersi permettere di indugiare. L'uomo a terra iniziò a dibattersi. Uno dei suoi aggressori gli appioppò col dorso della mano un terribile colpo sulla faccia che lo ridusse di nuovo all'immobilità. Il fatto che l'uomo fosse ancora vivo alimentò il desiderio di giustizia di Reynik. Non poteva restare lì a guardare che i tre briganti continuassero con quell'infamia. Doveva fare qualcosa. Procedendo con la massima cautela, Reynik si avvicinò ai malfattori finché non gli fu quasi addosso. Senza alcun preavviso, attaccò. Un colpo violentissimo con l'estremità del bastone si abbatté proprio dietro l'orecchio del primo uomo, che cadde a terra senza emettere suono. «Ma che...» Il secondo uomo non riuscì a finire la frase mentre Reynik roteava il bastone con un poderoso fendente che gli finì sul setto nasale con tanta forza da sollevarlo da terra. Il terzo delinquente tirò fuori un pugnale, ma non ebbe la possibilità di usarlo. Una sola rotazione del bastone, e gli picchiò sul polso facendogli schizzare il pugnale dalla mano. Un colpo all'inguine, seguito da un altro sulla testa, e fu tutto finito. Reynik controllò il polso della vittima. Era forte e stava iniziando a riprendere i sensi. Reynik non voleva rimanere lì ad aspettare. Non poteva lasciarsi coinvolgere ancora di più. Il suo attacco era durato solo qualche secondo ed era stato silenzioso ed efficace, ma aveva provocato comunque un po' di inevitabile rumore. Era improbabile che il suo inseguitore non avesse sentito niente. Da vicino, l'arma che Reynik prediligeva per combattere era sempre il bastone. Però non era molto comune in città. Combattere coi bastoni era un passatempo che di solito era riservato alla gente di campagna. Gli Assassini erano per lo più gente di città, perciò era improbabile che fossero ben addestrati in questa arte o che sapessero cavarsela con un avversario armato di bastone. E ciò dava a Reynik un netto vantaggio nei combattimenti corpo a corpo. Sfortunatamente, nascondere un bastone era impossibile. Seguendo la scia di corpi che Reynik si stava lasciando alle spalle, qualunque Assassino degno di questo nome avrebbe scelto di non affrontarlo a distanza ravvici-
nata, a meno che non avesse avuto altra scelta. Doveva rinunciare alla sua arma preferita, anche se non voleva lasciarla lì: era meglio che l'uomo che aveva alle calcagna credesse di dover cercare un avversario armato di bastone. Reynik scivolò fuori dal vicolo buio e ritornò sulla via. Non mancava molto alla strada principale verso nord. Doveva agire in fretta. Reynik prese a correre, aguzzando i sensi per cogliere segni di pedinamento, mentre cercava un posto in cui nascondere l'arma. Non sentì nulla, e non trovò nessun posto adeguato. Raggiunse la strada principale e rallentò per non farsi notare. Non era trafficata nel vero senso del termine, però c'era abbastanza gente che entrava e usciva dalla città. Reynik la attraversò e svoltò in direzione del centro. Non lontano da lì avanzava un carro trainato da un cavallo che arrancava faticosamente. Reynik affrettò il passo e lo affiancò. Le fibbie che fissavano il telone superiore ai montanti del carro gli offrirono un nascondiglio perfetto per il bastone. Lo fece scivolare orizzontalmente dietro a quattro file di legacci. Era incastrato così saldamente che non poteva certo cadere, pensò soddisfatto. «Dove sei diretto, amico?» gridò al carrettiere. «Al Palazzo Imperiale. Ho un carico di derrate per la cucina di Sua Maestà» gli rispose l'uomo. «Mi puoi dare un passaggio?» «Be', non è tanto lontano, ma se proprio ti serve un passaggio, non vedo perché no.» Fermò il carro. «Salta su.» «Grazie. Te ne sono grato.» Reynik si sfilò il cappuccio e si arrampicò a cassetta accanto al carrettiere. L'uomo diede subito un colpo alle redini per ripartire. Il cavallo sospirò pesantemente, rassegnato, e il carro si rimise in moto, sobbalzando e rimbombando sui ciottoli. Quando si voltò verso il carrettiere, Reynik vide con la coda dell'occhio una sagoma scura emergere dalla strada laterale. La figura si arrestò e si guardò intorno, scandagliando con gli occhi la gente per la strada in cerca del suo bersaglio. Reynik si voltò per guardare avanti e scoppiò in una sonora risata. «Che c'è di così buffo?» «Stavo solo pensando che il tuo cavallo ha tanta voglia di lavorare quanta ne ho io» rispose con un tono di voce normale, ma non così forte da poter essere udito dall'Assassino. Tutto ciò che il sicario avrebbe visto sareb-
bero stati due carrettieri che chiacchieravano fra loro per passare il tempo. Anche il carrettiere si mise a ridacchiare. «Se pensi che il mio cavallo non sia un granché, dovresti conoscere mia moglie!» osservò. «Meera dice che dar da mangiare e accudire otto marmocchi è un lavoro. Ma pensa un po'! Non capisco proprio cos'abbia da lamentarsi, quella donna!» Reynik guardò perplesso il carrettiere, che ridacchiò ancor di più nel vedere l'espressione interrogativa del giovane. «Io mi chiamo Gaetan. E tu?» «Reynik.» «Piacere di conoscerti, Reynik. Hai scelto una buona notte per chiedere un passaggio, amico mio. Di norma ti avrei mandato a quel paese, ma questa sera sono di buon umore.» «Non sono sicuro di far bene a chiederti perché, ma lo farò lo stesso.» Gaetan guardò nuovamente Reynik con gli occhi che gli brillavano. «Questa sera tornerò a casa per la prima volta da diverse settimane» gli spiegò contento. «Meera è sempre felice di vedermi, quando sono stato via per un po'.» «Oh, sì» borbottò Reynik arrossendo. «Allora sono sicuro che ti aspetta una bella serata, Gaetan. E sai già dove metterai gli altri marmocchi che verranno?» Il carrettiere scoppiò in una nuova risata. «Sta' tranquillo, giovane Reynik, sta' tranquillo. Meera aspetta già il nono, perciò per il momento non ho bisogno di preoccuparmi, ti pare?» Proseguirono verso il centro di Shandrim. Gaetan continuava a cianciare con entusiasmo e orgoglio della moglie e della nidiata di figli. Reynik lo ascoltava educatamente, ma intanto teneva sotto controllo la sagoma scura che continuava a stargli dietro. Era sicuro che non l'avesse visto, ma sembrava che il suo inseguitore avesse un sesto senso. Nonostante non avesse dato segno di aver individuato Reynik, continuava a procedere alle loro spalle lungo la strada principale come guidato dall'istinto. Non erano lontani da Palazzo quando Reynik decise che era il momento di scendere. «Per me va bene qui. Grazie per il passaggio, Gaetan. Ti chiederei di salutarmi tua moglie, ma ho il sospetto che avrai altro a cui pensare. Spero che un giorno potrò restituirti il favore. Auguri.» «Buonanotte, Reynik. Buona fortuna.» Reynik balzò giù da cassetta e, mentre la sagoma del carro lo riparava, recuperò il bastone da dove lo aveva incastrato. L'ombra scura di una stra-
da secondaria distava solo pochi passi. Reynik coprì la breve distanza in fretta e si nascose nel buio più fitto dell'edificio d'angolo. Poi si voltò e attese di vedere che cos'avrebbe fatto il suo inseguitore. Con suo sollievo, l'uomo incappucciato non diede segno di essersi accorto di lui. Reynik era certo che si trattasse di un altro membro della Corporazione. Dal suo modo di camminare, sospettava che fosse Coguaro, l'Assassino che lo aveva accompagnato nelle sue prime sortite per assicurarsi che non fosse troppo disorientato dalla traslocazione magica. Quell'uomo era stato freddo come il ghiaccio per tutto il tempo che avevano passato insieme. Reynik rimase a guardare l'Assassino che oltrepassava la sua posizione e continuava a risalire la strada principale in direzione del Palazzo. Più l'uomo vestito di nero procedeva lungo la via, più Reynik si rilassava. Accertatosi di poter proseguire per la sua strada senza temere di essere ancora pedinato, stava per voltarsi, quando una seconda figura, anch'essa vestita di nero e con il cappuccio calcato sulla fronte, uscì da un'ombra buia e salutò il suo primo inseguitore. Con il cuore in gola, Reynik guardò le due sagome impegnate in una conversazione silenziosa. Da quella distanza sarebbe stato impossibile cogliere anche un colloquio normale, ma quando la seconda sagoma indicò il punto in cui Reynik si trovava in quel momento, il ragazzo capì che i suoi guai erano ben lungi dall'essere finiti. «Bontà di Shand! E quest'altro da dove arriva? Ho forse un cartello sulla schiena con su scritto "Uccidetemi, sono l'infiltrato"?» borbottò seccato. Le due sagome vestite di nero si incamminarono verso di lui a passo deciso e con intenzioni micidiali. Reynik avrebbe voluto scappare, ma sapeva che a quel punto fuggire non gli sarebbe servito a molto. Prima o poi avrebbe dovuto affrontarli. Era improbabile che riuscisse a liberarsene senza difficoltà. Erano troppo esperti nel pedinare un bersaglio per lasciarsi ingannare dal suo repertorio di trucchi. Affrontare due Assassini contemporaneamente sembrava un suicidio, ma non aveva altra scelta. Il primo Assassino con il quale si era scontrato non conosceva le tecniche per combattere una persona armata di bastone: poteva sfruttare ancora questo stesso punto debole? C'era una sola maniera per scoprirlo. Reynik si allontanò dal muro in modo da avere abbastanza spazio per manovrare liberamente. Era ancora al riparo dell'ombra, ma sapeva che i due Assassini riuscivano a vederlo. Si stavano avvicinando in fretta, perciò si mise in posizione di difesa. Quando furono a una distanza di circa dieci
passi, Reynik provò a far roteare il bastone un paio di volte per vedere se uno dei due uomini mostrasse qualche segno di cautela. Non fu così. Continuarono ad avvicinarsi senza esitare. Reynik ultimò la sequenza di rotazioni con il bastone diritto e scoppiò in un "Ha!" che doveva dimostrare la sua sicurezza. Per un caso fortuito, mentre lanciava il suo grido di sfida, un pugnale che Reynik non aveva nemmeno visto partire andò a impattare contro il bastone, proprio davanti alla sua faccia. La punta sbucò dal legno appena sopra l'impugnatura. Per una frazione di secondo incrociò gli occhi per concentrarsi sul punto a neanche una spanna dal suo naso. Era stato un miracoloso colpo di fortuna, ma gli Assassini lo intesero come un atto intenzionale. Non sarebbe stato ammesso nella Corporazione se non fosse stato un sicario efficiente. Per un istante, la loro sicurezza vacillò. Reynik prese l'iniziativa e balzò in avanti. Uno dei due aveva estratto la spada, mentre nella mano dell'altro era comparso un secondo pugnale da lancio. C'era troppo spazio da coprire perché Reynik potesse impegnare il lanciatore di coltelli prima che questi colpisse di nuovo. Era troppo veloce. La seconda lama puntò verso di lui, questa volta dritto al centro del corpo. Il ragazzo riuscì a ruotare appena, ma non poté evitare del tutto la lama che gli arrivò in diagonale sul torace e fu deviata dalla cotta di maglia che portava sotto il mantello. L'Assassino non ebbe la possibilità di lanciare un altro pugnale. Reynik deviò la spada del suo compagno e con il bastone colpì violentemente al petto il lanciatore di coltelli. L'Assassino cadde all'indietro, tenendosi stretto nel punto in cui era stato toccato. L'uomo armato di spada era veloce. Peggio, era chiaramente esperto nell'affrontare uomini armati di bastone. Sebbene Reynik fosse riuscito a deviare il suo fendente iniziale, difendersi dalla sua lama diventò sempre più arduo. E il pugnale conficcato nel bastone non gli era di aiuto. Il peso supplementare a un'estremità lo sbilanciava e lo rendeva poco maneggevole. Compensare era difficile, ma per qualche istante la maestria di Reynik nell'uso dell'arma a doppia impugnatura gli permise di resistere. Il secondo Assassino si stava riprendendo. Reynik sapeva che se avesse permesso loro di affrontarlo con un attacco simultaneo sarebbe morto. Con un'audace manovra che gli costò il bastone, si lanciò contro lo spadaccino. La lama dell'Assassino andò a sbattere nel centro del bastone e lo spezzò, ma senza tagliarlo in due. Mentre lo slancio lo stava ancora portando in avanti, Reynik ruotò con forza il suo legno dando uno strattone al polso
dello spadaccino. La rotazione completò l'opera e il bastone si ruppe in due pezzi scheggiati lunghi quanto una spada. Quando lui gli aveva torto il polso, lo spadaccino aveva perso l'equilibrio. Prima che potesse muoversi per difendersi, Reynik gli piantò in faccia la punta scheggiata di una delle due metà del bastone. L'uomo diede un grido e cadde a terra con le mani che si proteggevano la parte ferita. Reynik avvertì un movimento dietro di sé. Ruotò su se stesso, spostando istintivamente la spada del secondo Assassino con uno dei due pezzi di legno e colpendogli una tempia col secondo. Il sicario non cadde a terra, ma rimase stordito. Il calcio che seguì a distanza ravvicinata completò l'opera. Entrambi gli Assassini erano in suo potere. Ansimando, Reynik si fermò. Ora doveva affrontare una scelta peggiore della precedente. Aveva già lasciato vivo un nemico. Qui ce n'erano altri due. Poteva davvero permettersi di risparmiarli, sapendo che non appena fossero stati in grado di farlo gli sarebbero venuti dietro? Estrasse la spada e si avvicinò al punto in cui il primo Assassino si contorceva con le mani sulla faccia. Ucciderlo sarebbe stato facile. Era la scelta più sicura, ma per quanto fosse ragionevole, Reynik non riusciva a decidersi. «Alzati!» gli ordinò secco con un calcio alla coscia. «Alzati, o per Shand, ti trafiggo e ti faccio fuori!» Senza togliere le mani dalla faccia, l'uomo contorse il corpo finché non riuscì prima a mettersi in ginocchio e poi in piedi. «Chi sei? Che icona indossi?» «Coguaro. Sono Coguaro» gemette. «L'avevo immaginato. E il tuo amico?» «Vipera.» «Ah! Perfetto!» osservò Reynik. Ma non stava parlando dell'identità del secondo Assassino. Una ronda di legionari aveva svoltato l'angolo poco più avanti e stava marciando verso di loro. Se fosse riuscito a convincere il capopattuglia della sensatezza del suo piano, Reynik avrebbe avuto una terza opzione.
Capitolo sedici
Femke ribolliva di collera come non mai. Lord Ferrand, il suo mentore, era il Maestro della Corporazione degli Assassini. Come aveva potuto farlo? Con tutte le volte che le aveva ripetuto come si dovesse prendere in considerazione l'assassinio solo come ultima risorsa, eccolo lì, secondo solo alla morte in persona! La sua rabbia era così intensa che per un momento si scordò di seguire la conversazione dall'altro lato della porta. Se non si fosse distratta, non avrebbe ignorato il semplice fatto che, una volta ottenuta una risposta positiva, il domestico stava uscendo per andare a prendere la cena. Quando improvvisamente la porta si aprì, fu uno shock tanto per Femke quanto per l'uomo. Per un momento rimasero semplicemente a osservarsi faccia a faccia. Femke fu la prima a riprendersi dalla sorpresa. Un rapido colpo alla gola a mano tesa scaraventò il domestico sul pavimento. Per un breve istante, guardò dritto negli occhi il suo vecchio mentore, che era accomodato in poltrona dall'altro lato della lussuosa stanza. Come un vecchio ragno grasso rintanato nel suo covo, pensò lei amareggiata. «Bugiardo!» gli sibilò, e corse via. Ferrand la riconobbe all'istante. «Femke, aspetta! Posso spiegarti tutto.» Ma Femke non intendeva fermarsi e starlo a sentire. Lui era il nemico. Ferrand aveva violato la sua fiducia in un modo che lei non avrebbe mai potuto perdonargli, qualunque spiegazione le avesse dato. Il suo mentore era sempre stato eloquente. Le sue lezioni mentre la addestrava a diventare una spia l'avevano sempre lasciata ammirata per intelligenza e logica. Ora, invece, non voleva starlo a sentire. Come aveva potuto lasciarle credere di essere morto in questi ultimi anni? Se gli fosse importato minimamente di lei, le avrebbe fatto sapere che era vivo. Era ovvio che lui non voleva rivelarle cosa stava tramando. Nonostante tutte le sue belle parole e i suoi nobili gesti, Ferrand non era niente di più che un sicario a pagamento, una cosa che aveva sempre sostenuto di disprezzare in Shalidar. Mentre si allontanava di corsa, tutto il senso dell'ordine di Femke andò in pezzi. Aveva gli occhi gonfi di lacrime, di dolore ma anche di rabbia bella e buona. Arrivò alla tromba delle scale e corse su per la scurissima spirale, camminando a quattro zampe come una scimmia. Non era elegante, ma non c'era nessuno a vederla nell'oscurità ed era il sistema più efficace. Femke raggiunse la sala centrale della Corporazione. Si sentiva la testa girare per la rapida corsa su per la scala a chiocciola. Sembrava che non ci
fosse nessuno, perciò fece gli ultimi gradini e attraversò la sala a passi felpati fino alla nicchia con il logo della tarantola. Superò il muretto con un volteggio e atterrò all'interno con leggerezza. Subito si accovacciò. Una lieve fitta di dolore alle costole le strappò una smorfia. Ogni volta che le costole le sembravano finalmente guarite, il dolore tornava ad affliggerla. Estrasse un pugnale dallo stivale. Davanti a lei, non sapeva esattamente dove, si nascondeva l'Assassino che era stato mandato a guardia della stanza di Reynik nel caso di un suo ritorno. Dolore o no, avrebbe dovuto sbrigarsela con lui, se voleva uscire viva di lì. Non aveva molto tempo. "Ferrand: il Maestro della Corporazione" si disse con fermezza. "Non penserò più a lui come a Ferrand. Lord Ferrand non esiste più. È morto. Esiste solo il Maestro." Il Maestro non avrebbe perso tempo. Fra non molto avrebbe ordinato di catturarla. Lui conosceva le sue capacità, sapeva che pericolo rappresentava. Femke scivolò oltre la porta ed entrò nel corridoio. Le torce alle pareti sgocciolarono al lieve passaggio d'aria provocato dalla porta aperta. Se l'uomo fosse stato in guardia per sorprendere qualcuno in arrivo da quella direzione, il tremolio delle torce l'avrebbe messo sul chi vive. Probabilmente era concentrato sulla possibile ricomparsa di Reynik. Non aveva motivo di aspettarsi un attacco da quella direzione, ragionò Femke. Si chiuse con cura la porta alle spalle. Come un felino che si muove di soppiatto, strisciò per il corridoio e raggiunse la porta del soggiorno di Reynik. Credeva di non aver fatto alcun rumore, ma quando arrivò alla porta aperta sentì una voce dietro di sé. «Vieni, mia bella volpacchiotta. Sei in anticipo. Sei venuta per giocare? Ehi, un momento! Tu non sei Volpe...» L'uomo se ne stava seduto rilassato su una sedia con le spalle verso la porta aperta. Solo quando si alzò e si voltò verso di lei si rese conto del proprio errore, ma ormai era troppo tardi. Il pugnale di Femke lo prese in pieno petto e lui cadde a terra con un gemito di dolore. Era una ferita letale. Femke ne aveva viste abbastanza per sapere che l'uomo non sarebbe vissuto a lungo. Mentre ancora l'uomo stava cadendo, udì aprirsi la porta in fondo al corridoio. Si sentivano diverse voci che si facevano sempre più vicine. Il Maestro aveva radunato le forze più in fretta del previsto. Femke sbatté la porta e ci trascinò davanti la poltrona per tenerla chiusa. La inclinò per farla stare sotto la maniglia. Era pesante, ma non abbastanza da impedire un attacco violento. L'angolazione che le aveva dato sarebbe
stata di aiuto, ma non per molto. Si guardò intorno per cercare altri mobili per barricare la porta. Il tavolino da dahl era facile da spostare, ma non aggiungeva molto peso. Lo scaffale alla destra della porta sembrava più utile. Lo aggirò di corsa e vi appoggiò le spalle, iniziando a spingerlo con tutte le sue forze. Sentì uno scricchiolio impressionante e la pesante struttura di legno iniziò a scivolare sul pavimento finché non fu accanto alla poltrona già incastrata sotto la maniglia della porta. Le costole di Femke tornarono a farsi sentire e la ragazza si tenne il fianco. Lo scaffale bloccava la porta solo con uno spigolo e non sarebbe servito a molto. Si chinò ancora di più e afferrò il mobile dal retro. Era più facile farlo ruotare che spingerlo per il pavimento. La maniglia della porta si stava muovendo, mentre lei riuscì a coprire le ultime spanne per metterlo in posizione. «Apri la porta, Femke. Barricarti dentro non ti servirà a niente. Non c'è modo di uscire. Abbatteremo la porta, se sarà necessario.» Femke non rispose. Non aveva niente da dire a Ferrand. Il suo unico pensiero era resistere finché Reynik non fosse tornato a prenderla. Non prese nemmeno in considerazione di rintanarsi nella camera da letto come seconda linea di difesa. Era in quella stanza che Reynik sarebbe arrivato col trasferimento. Doveva difendersi lì. Il pezzo successivo ad aggiungersi alla barricata fu un'altra poltrona. Non era pesante quanto Femke avrebbe desiderato, ma forse li avrebbe ritardati ancora per un paio di secondi. Che cosa altro c'era? Non molti mobili che potesse spostare da sola. Un tonfo sordo scosse la porta. Stavano iniziando a buttarla giù. Ormai mancava poco. «Sbrigati Reynik!» mormorò mentre restava dietro la pila di mobili e guardava ansiosamente la porta. «Ti prego, fa' presto.» Nella stanza riecheggiò un altro fragore prolungato. Gli occhi di Femke si allontanarono appena dalla porta e si posarono sul lavoro in pietra. Un lavoro davvero ottimo, notò ancora una volta. Erano pietre familiari, ma familiari perché? Era lì, nella sua mente, ma fuori dalla sua portata, come una parola sulla punta della lingua che si rifiuta di farsi pronunciare. Dov'era? Non le sembrava che fosse un ricordo recente, perciò doveva essere molto giovane quando l'aveva visto. Come se si stesse arrampicando su per il fianco di un pozzo fangoso, Femke sentiva di esserci vicina. Riusciva quasi ad allungare la mano e ad afferrare la preda, ma questa continuava a stuzzicarla e a tenersi lontana.
Senza alcun preavviso, una presa simile a una morsa le strinse la caviglia, e Femke si sentì spostare i piedi da sotto. Riuscì a stendere le mani in avanti in tempo per attutire la caduta, ma le costole le lanciarono un'altra fitta di protesta in tutto il corpo. L'Assassino che aveva dato per morto aveva approfittato della sua distrazione e del rumore dei colpi alla porta per mascherare il suo lentissimo progredire sul pavimento verso di lei. Per quanto stesse morendo, il sicario era deciso a non andarsene senza combattere. Femke vide che l'altra mano si stava alzando con un pugnale, pronta a uccidere. Il panico montò dentro di lei dandole una forza che non credeva di possedere. Ruotando su se stessa come un serpente preso per la coda, scalciò la mano alzata dell'Assassino e allontanò il pugnale dalla sua portata. Il pugnale volò per aria, schizzò contro la parete, cadde sul pavimento di pietra e andò a finire sotto le teche da esposizione. Ne seguì una lotta strana, una contorsione in cui nessuno dei due contendenti era in grado di mettersi in una posizione adatta per nuocere veramente all'altro. Impegnata in quel combattimento silenzioso, Femke non poteva fare niente per arginare l'assalto che continuava contro la porta barricata. Si sentì un altro schianto. Questa volta la porta di legno si scheggiò. Un'altra scarica di adrenalina le percorse il corpo, ma nonostante i suoi sforzi disperati di liberarsi, la presa dell'Assassino rimaneva salda. Femke era impotente. «Grazie, non te ne pentirai, te lo prometto» gridò Reynik mentre si allontanava. Si mise a correre, attraversando le strade in direzione del suo punto di trasferimento. C'era voluto un bel po' per convincere i legionari. A un certo punto aveva pensato che avrebbe dovuto parlare con il caposquadra della pattuglia di ronda per farsi prendere sul serio. Per fortuna non ce n'era stato bisogno. Il veterano si era imposto sugli altri, dichiarandosi pronto ad assumersi la responsabilità di prendere prigionieri i due uomini feriti e di lasciar andare Reynik. Il ragazzo sapeva di dovere a quell'uomo ben più di un paio di bicchieri, per quella decisione. Ci sarebbero state domande. Era inevitabile. Era il sistema militare. Ormai era improbabile che avrebbe incontrato altri Assassini. Coguaro si era dimostrato piuttosto collaborativo, quando l'aveva minacciato di ucciderlo all'istante. Una raffica di domande prima dell'arrivo dei soldati aveva rivelato che Shalidar era a Palazzo per cercarlo, mentre Orso era da qual-
che parte fuori dal Palazzo, nel centro della città. Per quanto ne sapeva Coguaro, erano solamente in quattro a cercarlo attivamente, più un uomo di guardia a ognuno dei suoi punti di trasferimento. Reynik sapeva che era possibile che Coguaro stesse cercando di dargli informazioni fuorvianti, però qualcosa nella voce dell'uomo lo induceva a pensare che non mentiva. Succedono cose strane nella mente di un uomo quando ha la morte in faccia. Anche quelli che sembrano più forti possono crollare. Per il momento, Reynik decise di prendere per buone quelle informazioni. Andando per esclusione, sapeva di aver già eliminato uno degli Assassini di guardia, perciò la cosa più ragionevole era tornare alla stessa pietra di trasferimento da cui era arrivato in città. Per avvicinarsi avrebbe comunque dovuto fare attenzione. Poteva esserci stato un cambio di turno, anche se gli sembrava improbabile. L'uomo che aveva affrontato non poteva essere lì da più di un paio di minuti, quando era arrivato Reynik. Le vie si stavano svuotando. Era quasi mezzanotte. Mentre correva per le strade semibuie, gli sembrava difficile credere che in una sola notte fossero accadute così tante cose, e non era ancora finita. Doveva rientrare alla sede della Corporazione, trovare Femke e uscire di nuovo. E rimaneva la possibilità che qualche imprevisto mandasse all'aria i loro piani. Quando aveva lasciato la sua camera, il Maestro e un altro Assassino stavano entrando. Ciò significava che ci sarebbe stato un uomo di guardia dentro le sue stanze oltre che nei punti di trasferimento? Era assai probabile. In tal caso, Femke sarebbe riuscita a uscire dalla camera da letto? A Reynik scappò quasi una risata. Ci sarebbe voluto più di un Assassino per impedire a Femke di fare qualcosa che era decisa a portare a termine, pensò. Tuttavia, la possibilità che una persona ostile lo stesse aspettando nella sua stanza alla Corporazione era una preoccupazione autentica. Quella sera era stato incredibilmente fortunato in più di un'occasione. Se non si fosse tuffato quando aveva usato la pietra di trasferimento per lasciare la Corporazione, sarebbe emerso nel vicolo giusto in tempo per farsi infilzare al muro dalla freccia di una balestra. Era il caso di tentare qualcosa di simile per tornare? Il pericolo, se avesse preso molto slancio, stava nella direzione in cui sarebbe emerso. Non aveva alcuna garanzia che non sarebbe andato a sbattere dritto contro un tavolo o una sedia facendo un baccano indesiderato. Attirare attenzione sul proprio arrivo poteva essere letale per lui tanto quanto trovare qualcuno pronto ad aspettarlo e infilzarlo.
Reynik raggiunse la stradina in cui si apriva il vicolo con la sua pietra di trasferimento. Si nascose fra le ombre e si concesse qualche istante per riprendere fiato. Quanto tempo era passato da quando aveva lasciato Femke? Sembrava un secolo e al tempo stesso un secondo. La ragazza aveva avuto tempo a sufficienza per esplorare il complesso? Erano domande inutili. Poteva scoprirlo solo tornando indietro. Controllando il proprio respiro, Reynik inspirò a fondo e trattenne il fiato. Dopo qualche secondo, espirò lentamente. Ripeté il processo altre due volte. Poi, riprendendo a respirare normalmente, fece attenzione a non iperventilare e cercò di regolare la velocità e la profondità del suo respiro, finché non sentì che il suo corpo era in grado di continuare automaticamente. L'autocontrollo gli servì a schiarirsi le idee. Quella non era una notte per farsi troppe domande. Per Reynik era una notte di azione. Sapeva di non poter tardare. Se Femke non aveva ancora completato la sua opera di spionaggio, avrebbe dovuto aspettarla nelle sue stanze o andare a cercarla. Stava per arrivare a un punto di svolta. Doveva seguire il flusso degli eventi o rischiare che la marea lo spazzasse via. Ora che respirava in maniera abbastanza regolare, Reynik volteggiò fra le ombre finché non raggiunse l'ingresso del vicolo. Rimase lì in silenzio per un minuto buono, perlustrando con lo sguardo i tetti che davano sulla pietra di trasferimento e aguzzando gli orecchi per cogliere eventuali segni di movimento. Non ce n'era nessuno. Da qualche parte, nel cuore della città, una campana solitaria prese a suonare. Si fermò ad ascoltarla. Era un suono profondo, lugubre, diverso da tutti gli altri rintocchi che Reynik avesse mai sentito. Si domandò che cosa annunciasse, perché sicuramente non indicava l'ora. Femke lo saprebbe, pensò. Senza fermarsi oltre, imboccò arditamente il vicolo. Se ci fosse stato un uomo di guardia, Reynik sarebbe stato visto anche se avesse cercato di avvicinarsi alla pietra con cautela. La sua ricognizione non aveva rivelato nessuno, perciò decise di essere positivo. Si diresse verso il muro in cui era incastonata la pietra. Si inginocchiò accanto al muro e allungò l'icona del ragno. In questo modo non avrebbe offerto a chiunque fosse stato in agguato l'intera sagoma del suo corpo. O la va o la spacca. Lord Tremarle si drizzò nella sua poltrona quando la solenne campana iniziò a trasmettere il suo mesto annuncio. Un sorriso gli si disegnò lenta-
mente sulla faccia e la lingua gli salì istintivamente alle labbra. «Bontà di Shand!» sussurrò. «Ce l'ha fatta!» Posò il libro che stava leggendo e si issò su dalla poltrona. Il vecchio lord andò all'armadietto dei liquori e si versò un bel bicchiere di brandy. Si sentiva vivo, più vivo di quanto non si fosse sentito da mesi, forse anche da anni, rifletté. L'euforia lo travolse, mentre sorseggiava il liquore appena versato. L'aroma del vecchio brandy di qualità gli pervase la lingua e l'alcol gli bruciò la gola trasmettendogli un'ondata di calore fino allo stomaco. Una risatina partì dal profondo e crebbe finché Tremarle non si trovò piegato in due dal ridere. Cercò a fatica di trattenere l'ilarità. Non poteva permettere che qualcuno lo vedesse reagire a quel modo. La gente avrebbe potuto sospettare qualcosa. Una parola sbagliata da parte di un domestico e poteva ritrovarsi a penzolare dalle mura della città prima di accorgersene. Ricomponendo la sua espressione in una maschera di controllata sobrietà, andò al suo scrittoio e abbassò la ribaltina per scrivere. Frugò all'interno e trovò i rotoli di pergamena in una fessura sulla destra. Con le dita che gli tremavano, scartabellò finché non trovò l'ultimo foglio. Mise via gli altri, tirò fuori la penna e tolse il tappo al calamaio. Tremarle respirò profondamente per placare l'agitazione, mentre apponeva sul foglio la propria firma. Prese una candela da una bugia lì accanto, vi avvicinò un blocco di cera rossa e sciolse qualche goccia di cera sul foglio sotto la sua firma. Impresse sulla cera il proprio sigillo, il sigillo di Casa Tremarle. Tutto ciò che gli rimaneva da fare per assicurare il futuro del proprio casato era far firmare l'erede designato e poi depositare il documento presso l'Archivio della Corte Imperiale. «Che figlio sarà» mormorò Tremarle. «Dopotutto, Casa Tremarle continuerà a vivere.» CRASH! La porta cedette ancora di più. Questa volta il danno sembrava troppo grosso. Sarebbero stati dentro in meno di un minuto, comprese Femke mentre scalciava contro l'Assassino con tutte le forze che le erano rimaste. Non servì a niente. Per quanto facesse, lui non cedeva. Improvvisamente ci fu un botto sordo, e la presa dell'Assassino si allentò. «Sbrigati! Andiamo. Adesso!» La voce di Reynik era angosciata. Femke non se lo fece dire due volte. Non l'aveva sentito arrivare, ma fu più che felice di vederlo. Prima che potesse muoversi, Reynik le afferrò le mani e la tirò in piedi talmente in fretta che perse l'equilibrio e lei gli finì tra le
braccia. Mezzo abbracciati e mezzo avvinghiati, barcollarono attraverso la stanza fino alla pietra di trasferimento. Vi fu un altro tonfo di legno infranto. La barricata traballò, mentre quello che rimaneva della porta si spezzò in due. Reynik le prese la mano e la posò sul ragno. Mentre lo sentì appoggiare l'icona alla pietra, Femke lo guardò negli occhi. Questa volta sapeva che cosa stava per succedere, ma non le servì comunque. Le stelle roteanti, il vortice turbinante e l'esplosione furono orribili e disorientanti quanto la prima volta. La ricomposizione nel vicolo le lasciò un senso di nausea e la debolezza di un neonato, ma lottò con una tenacia terribile per mantenersi cosciente. Questa volta non poteva permettersi di svenire, Reynik non l'avrebbe potuta portare lontano. I loro inseguitori sarebbero stati rapidi. Dovevano allontanarsi il più possibile dal vicolo prima che arrivassero gli altri Assassini. Ogni passo che fossero riusciti a mettere fra loro e quel posto sarebbe stato cruciale. Miriadi di stelle volteggiavano davanti agli occhi di Femke mentre gli orecchi le ronzavano. «Mettimi giù» farfugliò mentre Reynik la prendeva fra le braccia. «Ce la faccio a camminare, se mi aiuti.» Il giovane fece come gli aveva chiesto. Femke sentì che lui le passava il braccio destro attorno al collo e le metteva il sinistro dietro la schiena per sostenerla. Cercò di camminare, ma uscì dal vicolo per metà trascinata e per metà sorretta da Reynik. Quando svoltarono nella strada, Reynik iniziò ad allontanarsi dalla città. Femke fu sorpresa di vedere un sacco di persone per la strada, molte più di quante ne aveva viste prima, nel corso della serata, e altre ancora continuavano a uscire di casa. Intere famiglie erano per le vie e tutti stavano andando dalla stessa parte: verso il centro della città. Stava succedendo qualcosa che avevano trascurato? Questo si chiese la ragazza, mentre avanzavano controcorrente lungo la strada. Forse una festa? Qualunque cosa fosse, sembrava attirare una gran folla. «Fermati!» disse a un tratto Femke. «Questi rintocchi non sono solo nella mia testa, vero? Questa è la campana imperiale!» «Davvero? Se lo dici tu, immagino che sia così. Cosa significa? Ha iniziato a suonare poco prima che ti raggiungessi.» «Non lo sai? È da un po' che non la si sentiva suonare. La campana imperiale suona solo alla morte di un Imperatore, Reynik. Significa che Surabar è morto.» Per qualche secondo Reynik sorprese Femke con la più indecente sfilza
di imprecazioni che lei avesse mai sentito. «Shalidar!» sbottò dopo aver temporaneamente esaurito il repertorio di parolacce. «Dev'essere stato lui. Prima che lo consegnassi ai legionari, Coguaro mi ha detto che Shalidar era andato a Palazzo a cercarmi. A quanto pare, Shalidar ha deciso di infrangere una delle norme cardinali della Regola degli Assassini.» «Non lo sai per certo» ribatté Femke con un tono di voce più lucido. «Potrebbero essere successe centinaia di altre cose. Non era un uomo giovane.» «Era forte come un toro, Femke, e tu lo sai. Scommetterei il mio ultimo sennut di rame che è stato Shalidar a ucciderlo. Ma perché? Perché adesso? Se voleva uccidere Surabar, sono sicuro che avrebbe potuto organizzare la morte dell'Imperatore anche prima.» «Shalidar ha sempre avuto le sue priorità, Reynik, te ne sarai reso conto anche tu. È un cane sciolto. Quello che mi stupisce è che il Maestro della Corporazione lo abbia lasciato in vita così a lungo. Quei due si sono sempre disprezzati.» «E tu come fai a saperlo?» le chiese Reynik scettico. «Per caso hai fatto una visitina dal Maestro e glielo hai domandato?» «In un certo senso è così. Conosco il Maestro della Corporazione fin troppo bene, Reynik, o per lo meno credevo di conoscerlo. È il mio vecchio maestro, Lord Ferrand.» Reynik la guardò con gli occhi sbarrati. «Davvero? Ho sentito parlare di lui. Mio padre diceva sempre che era un tipo davvero interessante: molto intelligente, leale all'Impero e soprattutto all'Imperatore. Credo che su certi argomenti non avesse peli sulla lingua.» «Leale! Gliela farò pagare, mi ha ingannata, e di solito io non mi lascio gabbare tanto facilmente. Maledetto! Pendevo dalle sue labbra. È dura da ammettere, ma è stato sempre un traditore: ha tradito l'Impero, ha tradito i suoi ideali altisonanti e ha tradito me. Non lo perdonerò mai per questo. Se penso a tutte le sue lezioni sull'etica... E per tutto questo tempo uccideva per denaro. Oh Shand, vorrei davvero sapere che cosa lo ha indotto a farlo! Perché mai ha compromesso la sua posizione in questo modo? Non posso credere che l'abbia fatto per soldi; aveva ricchezze sue. Che cosa può averlo spinto a unirsi alla Corporazione degli Assassini?» «Insomma, Femke, non vorrei sembrarti scortese, ma non credi che queste domande potrebbero aspettare finché non siamo al sicuro da qualche parte? Qui brancoliamo nel buio, e non sto parlando solo di questa strada. Senza Surabar non abbiamo dove andare.»
«Non essere sciocco, Reynik. Lo sai che non è così. Abbiamo ancora il nostro piano di riserva.» «No, Femke, non abbiamo più il controllo della situazione. Sto iniziando a credere che dovremmo soltanto cercarci il buco più profondo o la cantina più buia che possiamo trovare e rimanere nascosti lì per i prossimi cinque anni!» Femke si arrestò. Tutti i suoi muscoli erano tesi. «Dillo di nuovo» gli ordinò lentamente. «Dire di nuovo che cosa?» «Quella parte sul buco e sulla cantina.» «Ho detto che dovremmo cercare il buco più profondo o la cantina più buia che possiamo trovare e nasconderci lì» ripeté lui incerto. «Che c'è, Femke? Che succede?» «Ho trovato!» esclamò lei tutta eccitata. «Reynik, sei un genio!» Femke gli gettò al collo l'altro braccio e gli stampò un bel bacio sulle labbra. Se prima lui era rimasto sorpreso, adesso era del tutto esterrefatto. Femke rise nel vedere l'espressione smarrita sulla sua faccia. «Be', mi piacerebbe tanto poter dire "Certamente" e crogiolarmi sugli allori, ma dal momento che non ho la più pallida idea di che cosa stia parlando, mi accontenterò di una spiegazione.» «Benissimo, ma non qui. Avevi ragione. Dobbiamo continuare a camminare. Saremmo molto meno visibili se ci muovessimo in mezzo alla folla, ma so che Ferrand si aspetta che facciamo proprio questo. È stato lui a insegnarmi questo trucco, quindi noi adesso faremo esattamente il contrario. Vieni, allontaniamoci il più possibile da questo posto e da Palazzo. Una grossa calca è un buon posto per nascondersi, ma non oggi. Ferrand avrà mandato tutti i suoi uomini a controllare la folla davanti al Palazzo Imperiale in cerca di noi.» Ripresero a camminare. Femke aveva ripreso il controllo della situazione. Lui ne era impressionato. Capiva che la ragazza soffriva per aver scoperto il tradimento di Ferrand, ma non si lasciava travolgere da questa emozione. Non riusciva a pensare a nessun altro che avesse la stessa capacità di mantenere una tale risolutezza in circostanze così difficili. Quello che lui non sapeva era che Femke soffriva a diversi livelli. Un mare di domande le stava assalendo la mente. Perché Ferrand si era unito alla Corporazione? Perché l'aveva addestrata come spia per l'Imperatore se lui già lavorava per la Corporazione? Come aveva potuto nasconderle la propria ipocrisia per tutto questo tempo? Credeva di conoscerlo bene e sol-
tanto adesso iniziava a capire di non conoscerlo affatto. A parte il tradimento di Ferrand, ogni rintocco di campana era una fitta di rimorso per Femke. Era stata lei a convincere il Generale a indossare il Mantello. E ora era morto. Come spia, per lei non era una novità perdere qualcuno, ma questo era un caso diverso. Nei confronti dell'Imperatore Surabar aveva sentito un senso di responsabilità particolare. Aveva giurato di essere al suo servizio: di proteggerlo e obbedirgli. Ed era un giuramento che aveva preso molto sul serio. La sua morte la colmava di un senso di perdita e al tempo stesso di fallimento. Lui era un uomo buono: fedele ai suoi ideali, generoso e con uno straordinario senso della giustizia. Pensare alle sue qualità la faceva infuriare ancora di più per il tradimento di Ferrand. Anche Reynik piangeva la morte dell'Imperatore, ma per ragioni assai diverse. Lui non conosceva bene Surabar. Per lui, l'Imperatore era stato come un qualunque altro ufficiale anziano, una persona a cui si deve obbedire senza discutere. Il rispetto di cui godeva da parte delle legioni per lui contava più dei suoi sentimenti personali nei confronti dell'uomo. Il vero senso di perdita che provava Reynik era più egoistico. Aveva perso la sua protezione. Senza l'Imperatore, solo Femke avrebbe potuto testimoniare per lui nel caso in cui fosse stato interrogato sulla morte di Lord Lacedian. Agli occhi del resto del mondo, lui era un Assassino. Finché Surabar indossava il Mantello, si era sentito al sicuro nella sua missione, ma ora si domandava quale peso avrebbe avuto la parola di Femke se si fosse arrivati a un processo. Femke faceva strada, tenendosi sempre su vie secondarie. In questo modo non dovevano combattere contro i flussi più intensi di gente diretta al centro della città lungo le strade principali. Reynik era un po' deluso che lei non avesse più bisogno di essere sostenuta da lui. Quella sera lo aveva baciato due volte. Sorrise al pensiero. Una volta era un caso, ma due diventavano un'abitudine. E lui sperava che quell'abitudine si sarebbe consolidata. Un quarto d'ora dopo, Femke gli fece imboccare un altro vicolo e si misero a sedere su uno scalino di pietra per riposare. «Direi che in questo momento non corriamo pericoli imminenti» fece la ragazza meditabonda. «Volevi una spiegazione. Ne ho una. Hai notato il lavoro in pietra attorno ai vani delle porte, nel complesso della Corporazione?» Reynik ci pensò su per un momento e poi scrollò la testa. «Non direi.
Non c'era niente di strano che io ricordi.» «Hai ragione. Non c'era niente di strano, ma c'era qualcosa di caratteristico. Il lavoro in pietra è di ottima qualità e le arcate delle porte hanno uno stile che ho visto una sola volta, prima d'oggi. Stavo frugando tra i miei ricordi per ripensare a dove avessi visto un lavoro simile, ma non riuscivo a rammentare... Finché tu non hai parlato di una cantina buia. Le tue parole mi hanno fatto ripensare alle cantine più buie e profonde che io conosca. Ti sorprenderebbe sapere che il lavoro in pietra di quelle cantine è un perfetto duplicato di quello nel complesso della Corporazione?» «Ne sei sicura? E dove sono queste cantine?» «Sì che ne sono sicura. E per di più, avendo capito che lo stesso tagliapietre ha svolto lo stesso lavoro in entrambi i casi, ho trovato la risposta al mistero più enigmatico di tutti. Non mi stupiva tanto che la sede della Corporazione fosse scavata nella roccia. La questione che mi turbava era come colui che aveva fatto il lavoro fosse riuscito a mantenere segreta un'impresa del genere. Dopotutto, la gente che ha scavato quelle stanze deve aver riempito migliaia di carri di roccia da buttare. Devono esserci voluti molti anni, per completare i lavori. La portata di un tale progetto dev'essere stata enorme.» «Sì, ma se il posto fosse abbastanza remoto, la faccenda non avrebbe comportato problemi particolari.» «Se lo fosse, sì, sarei d'accordo con te, Reynik. Ma questo posto non è lontano. Dev'essere vicino al centro di Shandrim per via delle limitazioni dei poteri magici delle icone e delle pietre. Se ti dicessi che il posto in cui ho visto un'opera simile a quella della Corporazione sono le cantine inferiori del Palazzo, capiresti a cosa sto pensando?» Gli occhi di Reynik si sbarrarono per lo stupore mentre assorbiva le parole di Femke. «La sede della Corporazione si trova sotto il Palazzo Imperiale?» «È quello che penso, sì.» «E puoi provarlo?» «Credo di sì. Sono convinta che il sistema di ventilazione del complesso sia collegato a quello delle cantine. Scommetterei che se contassimo i condotti di ventilazione che portano fuori dalle cantine e poi le grate attorno al Palazzo, troveremmo una discrepanza notevole.» «Ma perché nessuno se n'è mai accorto? Di sicuro qualcuno doveva esserne a conoscenza» obiettò Reynik. «E perché? Chi penserebbe a controllare una cosa del genere? Credo che
siano stati ben pochi i membri della Corporazione a percorrere i livelli più profondi delle cantine di Palazzo. Non ci sono molti bersagli di rilievo là. Io ci sono stata solo perché mi sono finta domestica di Palazzo, per diversi mesi, nell'ambito del programma di addestramento stilato da... dal mio mentore. Tu non hai visto niente di insolito nella muratura. Perché dovrebbe essere diverso per un Assassino professionista? Io l'ho notato solo perché sono stata addestrata a osservare i dettagli ovunque vada. Ormai è un'abitudine per me.» «Benissimo! Conosciamo la posizione della sede della Corporazione. E sappiamo anche chi è l'uomo alle spalle dell'organizzazione. Ma a che cosa ci serve sapere tutto questo? Se Surabar è morto, noi siamo sconfitti. Ti ripeto il mio commento di prima. Faremmo meglio ad andare a cercarci una tana. Io non posso ritornare nella legione, la Corporazione degli Assassini conosce la mia storia, ormai. Mi troverebbe in un batter d'occhio. E tu non puoi ritornare a Palazzo. Perciò, che cosa pensi di fare?» Femke sospirò. «Sei molto negativo, Reynik. Ammetto che la situazione non è ideale, però Surabar aveva previsto questa eventualità. L'Imperatore ha sempre saputo che c'era la possibilità che lui diventasse un fastidio tale per la Corporazione degli Assassini che alla fine questa potesse decidere di ignorare la Regola e di liberarsi di lui. Io, dal canto mio, non intendo rinunciare al nostro obiettivo. Ora che so che dietro alla Corporazione degli Assassini c'è Ferrand, voglio vederla distrutta più che mai. Surabar aveva ragione. Nella nostra società non c'è posto per una confraternita di sicari, per quanto possano infiorare i loro principi morali con la loro maledetta Regola.» «Non intendo discutere le tue intenzioni, ma in nome di Shand, come pensi di farcela senza il sostegno dell'Imperatore?» «Non avrò l'aiuto di Surabar, ma non sono completamente priva di risorse. C'è ancora Lord Kempten. Non dobbiamo dimenticarlo. Lui credeva in quello che stava facendo Surabar. L'Imperatore aveva buone ragioni per metterlo al sicuro. Tu hai capito di non avere più un posto dove andare. Mi aiuterai a finire quello che abbiamo incominciato?» Reynik guardò gli occhi grigio-blu di Femke. Scintillavano di decisione e risolutezza. «Certo che ti aiuterò» le rispose con voce calma e ferma. "Shalidar mi ha portato via mio zio e mio padre" aggiunse dentro di sé. "Che io sia dannato se gli permetterò di portarmi via anche te.
FINE