ROBIN HOBB L'APPRENDISTA ASSASSINO (Assassin's Apprentice, 1995) A Giles E a Raphael e Freddy, i principi degli assassin...
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ROBIN HOBB L'APPRENDISTA ASSASSINO (Assassin's Apprentice, 1995) A Giles E a Raphael e Freddy, i principi degli assassini. 1 Passato remoto Una storia dei Sei Ducati è necessariamente una storia della famiglia regnante, i Lungavista. Un resoconto completo risalirebbe ben oltre la fondazione del Primo Ducato e, se tali nomi fossero ricordati, ci narrerebbero degli Isolani venuti a razziare dal mare, piombando come pirati su una riva più dolce e temperata delle gelide spiagge delle loro Isole Esterne. Ma di quei primi antenati noi non conosciamo i nomi. E del primo vero re rimane poco più del suo nome e di qualche bizzarra leggenda. Si chiamava Conquistatore, semplicemente, e forse con quel nome cominciò la tradizione che le figlie e i figli del suo lignaggio ricevessero nomi che avrebbero dato forma alle loro vite e alle loro personalità. Le credenze popolari affermano che tali nomi venivano uniti ai bambini appena nati con la magia, e che questi rampolli reali fossero incapaci di tradire le virtù di cui portavano il nome. Passati per il fuoco, immersi nell'acqua salata e offerti ai venti dell'aria; in questo modo i nomi venivano uniti ai piccoli prescelti. Così ci viene raccontato. Una graziosa fantasia, e forse un tempo esisteva davvero un simile rituale, ma la storia ci mostra che questo non sempre bastava a legare un bambino alla virtù di cui portava il nome... La penna vacilla, poi sfugge alla mia presa, lasciando una striscia d'inchiostro come la traccia di una lumaca attraverso la carta di mastro Piuma. Ho rovinato un'altra pagina di buon materiale per quella che sospetto sia un'impresa futile. Mi chiedo se sono in grado scrivere questa storia, o se ogni pagina conterrà la subdola manifestazione di un'amarezza che credevo morta da tempo. Mi considero guarito da ogni rancore, ma quando la penna tocca il foglio, il dolore di un ragazzo trasuda come sangue insieme all'inchiostro creato dal mare, al punto da farmi sospettare che ciascuna
lettera nera accuratamente tracciata sia una crosta sopra un'antica ferita scarlatta. Piuma e Pazienza erano sempre così entusiasti ogni volta che si discuteva di un resoconto scritto della storia dei Sei Ducati, dunque mi sono persuaso che stenderlo sarebbe stato uno sforzo lodevole. Mi sono convinto che l'esercizio avrebbe allontanato i miei pensieri dal dolore e mi avrebbe aiutato a passare il tempo. Ma ciascun evento storico che prendo in considerazione riesce solo a risvegliare le mie personali ombre di solitudine e perdita. Temo che dovrò interamente accantonare questo lavoro, o rassegnarmi a riconsiderare tutto ciò che mi ha plasmato come sono. E così ricomincio ancora una volta, e un'altra, ma scopro sempre che sto scrivendo dei miei inizi piuttosto che degli inizi di questa terra. Non so neppure a chi sto cercando di spiegare me stesso. La mia vita è stata una ragnatela di segreti, segreti che perfino adesso è pericoloso rivelare. Dovrò stenderli tutti su questa bella carta, solo per sprigionare da essi fiamme e cenere? Forse. I miei ricordi risalgono a quando avevo sei anni. Prima di allora il nulla, soltanto un abisso di nulla che nessun esercizio della mia mente è mai stato in grado di penetrare. Prima di quel giorno a Occhio di Luna, non c'è nulla. Eppure quel giorno i ricordi cominciano improvvisamente, talmente nitidi e dettagliati da sopraffarmi. A volte sembrano troppo completi, e mi chiedo se sono veramente miei. Sto richiamandoli dalla mia mente o da dozzine di racconti di legioni di sguattere e schiere di lacchè e mandrie di stallieri che cercavano di spiegarsi la mia presenza? Forse ho sentito la storia così tante volte, da così tante fonti, che adesso la richiamo come se fosse davvero un mio ricordo. I dettagli risultano dalle osservazioni di un bambino di sei anni che assorbe naturalmente tutto quello che succede intorno a lui? O forse la completezza del ricordo è la luminosa influenza dell'Arte, e delle droghe che in seguito bisogna prendere per controllare la dipendenza dall'Arte, le droghe che portano a loro volta dolori e brame? Quest'ultimo caso è più che possibile. Forse è perfino probabile. C'è solo da sperare che non sia così. Il ricordo è quasi fisico; il gelo grigio del giorno morente, la pioggia implacabile che mi inzuppava, le pietre ghiacciate delle strade della città sconosciuta, perfino i calli aspri dell'enorme mano che afferrava la mia manina. A volte rifletto su quella mano. Era dura e ruvida, una trappola. Eppure era calda, e non teneva la mia con brutalità. Era solo ferma. Non mi lasciava scivolare sulle strade gelate, ma non mi permetteva neppure di sfuggire
al mio destino. Era implacabile come la gelida pioggia grigia che faceva risplendere la neve calpestata e il ghiaccio sul sentiero di ghiaia fuori dalle enormi porte di legno della costruzione fortificata che si ergeva come una fortezza all'interno della città stessa. Le porte erano alte, non soltanto per un bambino di sei anni; alte abbastanza per far passare un gigante, per far sembrare minuscolo perfino il vecchio robusto che torreggiava su di me. E mi apparivano strane, anche se non riesco a immaginare che tipo di porta o di abitazione mi sarebbe apparsa familiare. Solo che queste, intagliate nel legno e incernierate su cardini di ferro nero, decorate con la testa di un cervo e un batacchio di ottone lucente, andavano al di là della mia esperienza. Ricordo che il fango mi aveva inzuppato i vestiti, e che avevo i piedi e le gambe umidi e freddi. E tuttavia, di nuovo, non riesco a ricordare di aver camminato a lungo attraverso le ultime maledizioni dell'inverno, o di essere stato trascinato. No, comincia tutto lì, proprio fuori dalle porte della fortezza, con la mia manina intrappolata in quella dell'uomo alto. È quasi come l'inizio di uno spettacolo di marionette. Sì, è proprio così che lo immagino. Si aprì il sipario e noi stavamo lì, davanti a quella grande porta. Il vecchio sollevò il batacchio d'ottone e lo lasciò ricadere, una, due, tre volte, e la piastra risuonò sotto i colpi. E poi, da fuori scena, si udì una voce. Non dall'interno delle porte, ma alle nostre spalle, dalla via che avevamo percorso. «Padre, ti prego» supplicava una voce di donna. Mi girai per guardarla, ma aveva ricominciato a nevicare, un velo di pizzo che rimaneva attaccato alle ciglia e alle maniche dei mantelli. Non riesco a ricordare di aver visto qualcuno. Certamente, non lottai per liberarmi dalla presa del vecchio, e neppure chiamai «Mamma, mamma!» Invece rimasi lì, come uno spettatore, e sentii il suono di stivali dentro la fortezza, e l'apertura della sbarra. Lei gridò un'ultima volta. Posso ancora sentire perfettamente le parole, la disperazione in una voce che ora suonerebbe giovane alle mie orecchie. «Padre, ti prego, ti supplico!» Un fremito scosse la mano che afferrava la mia, ma non saprò mai se si trattasse di rabbia o di qualche altra emozione. Rapido come un corvo nero che afferra un pezzo di pane, il vecchio si chinò e prese un pezzo gelato di ghiaccio sporco. Lo scagliò senza parole, con forza rabbiosa, e io mi rannicchiai dove mi trovavo. Non ricordo un grido, né il suono della carne colpita. Quello che ricordo è che le porte si aprirono verso l'esterno, in modo che il vecchio dovette indietreggiare frettolosamente, trascinandomi con sé.
E poi c'è un altro particolare: l'uomo che aprì la porta non era un domestico, come potrei immaginare se avessi solo sentito questa storia. No, il ricordo mi mostra un uomo d'armi, un guerriero, un poco ingrigito e con un ventre più simile al grasso rappreso che al muscolo, non un impeccabile domestico. L'uomo squadrò me e il vecchio dalla testa ai piedi con l'esperta diffidenza di un soldato, e poi rimase lì in silenzio, aspettando che gli dicessimo che cosa cercavamo. Credo che questo scuotesse un poco il vecchio, e che gli suscitasse non paura, ma rabbia. Infatti improvvisamente lasciò andare la mia mano e mi afferrò per il bavero del mantello e mi spinse avanti, come un cagnolino offerto a un possibile nuovo padrone. «T'ho portato il ragazzo» disse con una voce arrugginita. E mentre la guardia continuava a fissarlo, senza giudizio o curiosità, spiegò. «Ci ho dato da mangiare alla mia tavola per sei anni, e mai una parola da suo padre, mai un soldo, mai una visita, anche se mia figlia mi lascia capire che lui lo sa d'aver fatto un bastardo con lei. Non ci darò più da mangiare, e non mi romperò più la schiena con l'aratro per metterci i vestiti addosso. Che ci dia da mangiare chi l'ha fatto. Ci ho abbastanza lavoro a badare ai miei, con la mia vecchia che va in là con gli anni, e la madre di 'sto qua da mantenere. Perché nessuno la vorrà adesso, nessuno, non con 'sto cucciolo alle calcagna. Quindi piglialo, e daglielo a suo padre.» E mi lasciò andare così improvvisamente che crollai sulla soglia di pietra ai piedi della guardia. Mi tirai seduto, non troppo dolorante per quel che mi ricordo, e alzai lo sguardo per vedere che cosa sarebbe successo a quel punto fra i due uomini. La guardia mi osservò con una lieve smorfia, non per giudicarmi ma semplicemente per decidere come classificarmi. «Bastardo di chi?» chiese, e non era curioso, solo un uomo che chiede informazioni più specifiche per fare un buon rapporto a un superiore. «Chevalier» disse il vecchio, e stava già girandomi le spalle, allontanandosi a passi misurati per il sentiero lastricato. «Il principe Chevalier» disse, senza voltarsi mentre aggiungeva il titolo. «L'erede al trono. È lui che l'ha fatto. Dunque ci badi lui, e stia contento d'essere riuscito a fare un figlio da qualche parte.» Per un momento la guardia osservò il vecchio che si allontanava. Poi si chinò senza parole per afferrarmi per il colletto e tirarmi da parte in modo da poter chiudere la porta. Mi lasciò andare brevemente per mettere il catenaccio. Fatto ciò, rimase in piedi a guardarmi. Nessuna vera sorpresa,
solo la stoica accettazione di un soldato per gli aspetti più bizzarri del suo dovere. «In piedi, ragazzo, muoviti.» Così lo seguii, per un corridoio buio, oltrepassando stanze arredate semplicemente, con le finestre ancora sbarrate contro il gelo dell'inverno, e finalmente a un altro paio di porte chiuse, in ricco legno liscio abbellito da incisioni. Qui fece una pausa, e si assestò brevemente gli abiti. Ricordo molto chiaramente come si chinò su un ginocchio, per tirarmi diritta la camicia e lisciarmi i capelli con un paio di ruvide manate, ma non seppi mai se si trattasse di un impulso benevolo a farmi fare buona impressione, o semplicemente della preoccupazione che il pacchetto affidatogli apparisse ben curato. Si alzò di nuovo e bussò una volta alle doppie porte. Dopo aver bussato non attese una risposta, o almeno io non la sentii. Aprì i battenti con una spinta, mi cacciò avanti e richiuse. La stanza era calda quanto il corridoio era gelido, e viva quanto le altre camere erano deserte. Ricordo che conteneva una quantità di mobili, tappeti e arazzi, scaffali pieni di tavolette e pergamene e delle cianfrusaglie che si accumulano in qualsiasi stanza comoda e usata intensamente. Il fuoco ardeva in un enorme camino, riempiendo la stanza di calore e di un piacevole odore di resina. Un immenso tavolo era disposto ad angolo rispetto al fuoco, e dietro di esso sedeva un uomo robusto, con le sopracciglia aggrottate mentre si chinava su un blocco di fogli. Non alzò lo sguardo immediatamente, e quindi per qualche momento studiai i suoi capelli scuri piuttosto cespugliosi e disordinati. Quando alzò lo sguardo, parve prendere nota sia di me che della guardia con una rapida occhiata delle pupille nere. «Allora, Jason?» chiese, e perfino a quell'età riuscii a percepire il tono rassegnato a una seccante interruzione. «Che roba è?» Con una lieve spinta sulla spalla la guardia mi avvicinò di un mezzo passo all'uomo. «L'ha lasciato un vecchio contadino, principe Veritas, signore. Dice che è un bastardo del principe Chevalier, signore.» Per qualche istante l'uomo seccato dietro la scrivania continuò a fissarmi con una certa perplessità. Poi qualcosa molto simile a un sorriso divertito ammorbidì i suoi lineamenti, e l'uomo si alzò e girò attorno alla scrivania per fissarmi con i pugni sui fianchi. Non mi sentivo minacciato dal suo esame; piuttosto era come se fosse assurdamente compiaciuto del mio aspetto. Alzai curiosamente lo sguardo su di lui. Aveva una corta barba scura, disordinata e cespugliosa come i capelli, e le guance abbronzate. Sopra agli occhi scuri si sollevavano sopracciglia pesanti. Aveva un torace come
un barile, e spalle che mettevano a dura prova il tessuto della camicia. I pugni erano squadrati e segnati dal lavoro, tuttavia le dita della mano destra erano macchiate d'inchiostro. Mentre mi fissava, il suo sorriso si allargò gradualmente, e infine sbottò in una breve risata. «Che io sia dannato» disse infine. «Il ragazzo ce l'ha l'aria di Chev, non è vero? Fertile Eda. Chi l'avrebbe detto, il mio illustre e virtuoso fratello!» La guardia non diede risposta, e neppure gli era richiesta. Continuò a rimanere sull'attenti, in attesa del successivo ordine. Un perfetto soldato. L'altro uomo continuò a fissarmi con curiosità. «Quanti anni ha?» chiese alla guardia. «Il contadino dice sei.» La guardia fece per grattarsi una guancia, poi parve ricordarsi improvvisamente che stava facendo rapporto. Lasciò ricadere la mano. «Signore» aggiunse. L'altro non parve notare la mancanza di disciplina. Gli occhi scuri mi esaminarono, e il suo divertimento crebbe. «Quindi facciamo circa sette anni, tenendo conto del tempo che la donna era incinta. Dannazione. Già. Quello fu il primo anno che i Chyurda cercarono di chiudere il passo. Chevalier restò lassù per tre o quattro mesi, costringendoli a riaprirlo per noi. Si direbbe che non sia la sola cosa che ha aperto. Dannazione. Chi l'avrebbe detto di lui?» Fece una pausa, poi: «Chi è la madre?» chiese improvvisamente. La guardia si agitò a disagio. «Non so, signore. Ci stava solo quel vecchio contadino sulla soglia, e tutto quello che ha detto è che questo era il bastardo del principe Chevalier, e che non aveva più intenzione di dargli da mangiare o vestirlo. Ha detto che adesso a lui ci può badare quello che lo ha fatto.» L'uomo scrollò le spalle come se la faccenda non fosse di grande importanza. «Il ragazzo sembra ben tenuto. Una settimana, due al massimo, e ce la troveremo a piangere alla porta della cucina perché le manca il cucciolo. Lo scoprirò allora, se non prima. Forza, ragazzo, come ti chiamano?» Il suo giustacuore era chiuso da un'intricata fibbia a forma di testa di cervo. Era color ottone, poi dorata, poi rossa al movimento delle fiamme nel camino. «Ragazzo» dissi. Non so se stavo semplicemente ripetendo il modo in cui lui e la guardia mi avevano chiamato, o se davvero non avevo altro nome se non quella parola. Per un istante l'uomo apparve sorpreso e un'espressione forse di pietà gli attraversò il viso. Scomparve altrettanto in fretta, lasciandolo soltanto perplesso, o lievemente irritato. Gettò un'occhiata alla mappa che lo aspettava ancora sul tavolo.
«Dunque» disse nel silenzio. «Dobbiamo farne qualcosa, perlomeno fino a quando Chev non torna. Jason, fa' in modo che il ragazzo venga nutrito e messo a dormire da qualche parte, almeno per stanotte. Penserò domani a cosa fare di lui. Non possiamo lasciare la campagna brulicante di bastardi reali.» «Signore» disse Jason, senza esprimere la sua opinione, semplicemente accettando l'ordine. Mise una mano pesante sulla mia spalla e mi indirizzò di nuovo verso la porta. Mi avviai con una certa riluttanza, dato che la stanza era luminosa e piacevole e calda. I miei piedi freddi avevano cominciato a formicolare, e sapevo che se avessi potuto rimanere un poco più a lungo mi sarei scaldato tutto. Ma la mano della guardia era inesorabile, e fui avviato fuori dalla stanza calda e di nuovo nella gelida penombra degli orribili corridoi. Sembravano ancora più bui dopo il calore e la luce, e interminabili mentre cercavo di adattarmi al lungo passo della guardia che li percorreva. Forse uggiolai, o forse lui si stancò del mio passo più lento, perché si girò improvvisamente, mi afferrò, e mi tirò su facendomi sedere sulla sua spalla con disinvoltura, come se fossi stato privo di peso. «Sei solo un cucciolo fradicio» osservò, senza rancore, e poi mi trasportò attraverso i corridoi e dietro le curve e su per giù per le scale e finalmente nella luce gialla e nello spazio di una grande cucina. Lì una mezza dozzina di altre guardie sedevano comodamente sulle panche e mangiavano e bevevano a un grande tavolo logoro davanti a un fuoco grande almeno il doppio di quello dello studio. La stanza odorava di cibo, di birra e del sudore degli uomini, di abiti di lana umidi e del fumo della legna e del gocciolare di grasso delle fiamme. Teste di maiali e barilotti erano allineati contro il muro, e pezzi di carne affumicata pendevano come forme oscure dalle travi del soffitto. La tavola era affollata di cibo e piatti. Un pezzo di carne su uno spiedo fu tolto dalle fiamme sgocciolando grasso sul focolare di pietra. A quel ricco odore il mio stomaco si allargò d'un tratto contro le costole. Jason mi depositò piuttosto bruscamente all'angolo della tavola più vicino al calore del fuoco, urtando il gomito di un uomo il cui volto era nascosto da un boccale. «Ecco, Burrich» disse Jason in tono pratico. «Adesso questo cucciolo è per te.» Si rivolse altrove. Lo osservai con interesse mentre spezzava un angolo grosso come il suo pugno da una pagnotta scura, e poi estraeva dalla cintura il suo coltello per staccare una scheggia da una forma di formaggio. Me li mise fra le mani, e poi, avvicinandosi al fuoco, cominciò a
segare dall'osso una porzione di carne adatta a un uomo. Io non persi tempo a riempirmi la bocca di pane e formaggio. Accanto a me, l'uomo chiamato Burrich mise giù il boccale e rivolse a Jason uno sguardo torvo. «Che roba è?» chiese, con un tono molto simile a quello dell'uomo nella stanza calda. I suoi capelli e la barba erano altrettanto neri e disordinati, ma il suo volto era stretto e angoloso. Aveva il colorito di un uomo che trascorre molto tempo all'aperto. I suoi occhi erano castani piuttosto che neri, e le mani avevano lunghe dita abili. Odorava di cavalli e cani e sangue e cuoio. «Dovrai prendertene cura, Burrich. Lo dice il principe Veritas.» «Perché?» «Tu sei l'uomo di Chevalier, non è vero? Ti occupi del suo cavallo, dei suoi cani e dei suoi falchi?» «E allora?» «E allora ti prendi il suo bastardino, almeno fino a quando Chevalier non torna e decide cosa farne.» Jason mi offrì la fetta di carne gocciolante. Io guardai dal pane al formaggio che tenevo in mano, riluttante a lasciare andare uno dei due, ma anche attratto dalla carne calda. La guardia scrollò le spalle alla vista del mio dilemma, e, con la praticità di un uomo d'armi, lasciò cadere la carne con disinvoltura sul tavolo accanto a dove ero seduto. Io mi cacciai in bocca tutto il pane che potevo, e mi spostai in modo da poter tenere d'occhio la carne. «Il bastardo di Chevalier?» Jason scrollò le spalle, impegnato a prendersi la sua parte di pane e carne e formaggio. «Così dice il vecchio contadino che ce l'ha lasciato qui.» Depose la carne e il formaggio su una grossa fetta di pane, diede un enorme morso, e poi parlò con la bocca piena. «Ha detto che Chevalier dovrebbe essere contento di aver fatto un figlio da qualche parte, e adesso dovrebbe nutrirlo e curarlo lui.» Una quiete insolita sbocciò improvvisamente nella cucina. Gli uomini cessarono di mangiare, con il pane o i boccali o i taglieri a mezz'aria, e rivolsero lo sguardo all'uomo chiamato Burrich. Lui stesso depose con cura il boccale lontano dall'orlo del tavolo. La sua voce era sommessa e tranquilla, le parole precise. «Se il mio padrone non ha un erede, è il volere di Eda, non è colpa della sua virilità. Dama Pazienza è sempre stata delicata, e...» «Così è, così è» si affrettò a concordare Jason. «E qui sta la prova provata che non c'è un bel nulla che non va in lui come uomo, dicevo solo que-
sto, tutto qui.» Si ripulì in fretta la bocca sulla manica. «Assomiglia tutto al principe Chevalier, come ha detto perfino suo fratello poco fa. Non è colpa del principe ereditario se la sua signora Pazienza non riesce a far maturare il suo seme...» Ma Burrich s'era alzato improvvisamente. Jason indietreggiò frettolosamente di un paio di passi prima che si rendesse conto che ero io il suo bersaglio, non lui. Burrich mi afferrò le spalle e mi rivolse verso il fuoco. Quando mi prese fermamente il mento in mano e mi sollevò il viso per guardarmi, trasalii e lasciai cadere pane e formaggio. Burrich non ci badò mentre rivolgeva il mio viso al fuoco e mi studiava come se fossi stato una mappa. I suoi occhi incontrarono i miei, e c'era un che di selvaggio in essi, come se nel mio viso vedesse un torto che gli avevo fatto. Feci per sottrarmi al suo esame, ma la sua presa non me lo permise. Così gli restituii lo sguardo con tutta la sfida che riuscii a evocare, e vidi la sua agitazione mascherata improvvisamente da una specie di riluttante meraviglia. E alla fine chiuse gli occhi per un secondo, proteggendoli da un qualche dolore. «È una cosa che metterà alla prova la volontà della signora fino ai limiti del suo stesso nome» mormorò. Mi lasciò il mento, e si chinò goffamente per raccogliere il pane e il formaggio che avevo fatto cadere. Li spolverò e me li restituì. Io fissai le spesse bende che gli avvolgevano la gamba destra dal polpaccio fin sopra il ginocchio e che gli avevano impedito di piegarla. Burrich tornò a sedersi e riempì il boccale da una brocca sul tavolo. Bevve di nuovo, studiandomi sopra l'orlo del boccale. «Da chi l'ha avuto Chevalier?» chiese incautamente un uomo all'altra estremità del tavolo. Burrich rivolse lo sguardo all'uomo e depose il boccale. Per un momento non parlò, e io percepii quel silenzio che aleggiava di nuovo. «Io direi che sono affari del principe Chevalier, e non motivo di chiacchiere da cucina» disse con calma. «Così è, così è» concordò bruscamente la guardia, e Jason annuì come un uccello in una danza di corteggiamento. Pur piccolo com'ero, mi chiesi che tipo di uomo fosse questo che, con una gamba bendata, metteva a tacere una stanza piena di uomini rozzi con uno sguardo o una parola. «Il ragazzo non ce l'ha un nome» disse spontaneamente Jason nel silenzio. «Lo chiamano solo 'ragazzo'.» L'affermazione parve lasciare tutti senza parole, perfino Burrich. Il silenzio indugiò mentre finivo il pane e il formaggio e la carne, e li accom-
pagnavo con un sorso o due di birra offertami da Burrich. A poco a poco gli altri uomini lasciarono la stanza, in gruppi di due o tre, e l'uomo rimaneva lì, a bere e a fissarmi. «Ebbene» disse alla fine. «Se conosco tuo padre, affronterà la faccenda a viso aperto e farà ciò che è giusto. Ma soltanto Eda sa che cosa gli sembrerà giusto. Probabilmente la scelta più dolorosa.» Mi osservò in silenzio per un altro momento. «Hai mangiato abbastanza?» chiese infine. Io annuii, e Burrich si alzò rigidamente, mi sollevò dalla tavola e mi depose a terra. «E allora vieni, bastardino, vieni, fitz.» Uscì dalla cucina imboccando un corridoio diverso da quello per cui ero venuto. La sua gamba rigida rendeva goffo il suo passo, e forse c'entrava qualcosa anche la birra. Certamente non avevo problemi a tenergli dietro. Alla fine arrivammo a una porta pesante, e una guardia ci fece un cenno, fissandomi come se avesse voluto divorarmi. Fuori soffiava un vento gelido. Tutto il ghiaccio e la neve che si erano ammorbiditi durante la giornata si erano irrigiditi di nuovo con la venuta della notte. Il sentiero scricchiolava sotto i miei piedi, e il vento sembrava trovare ogni fessura e apertura nei miei abiti. I miei piedi e le brache erano state riscaldate dal fuoco della cucina, ma non si erano asciugate del tutto, così il freddo ci si attaccò. Ricordo l'oscurità, e l'improvvisa stanchezza che mi travolse, una terribile sonnolenza e voglia di piangere che mi appesantiva mentre seguivo l'uomo con la gamba fasciata attraverso il gelido cortile buio. C'erano alte mura attorno a noi, e in cima a esse si scorgevano a intermittenza le guardie, ombre nere visibili solo quando occasionalmente oscuravano le stelle. Il freddo mi morse, e io inciampai e scivolai sul sentiero ghiacciato. Ma qualcosa in Burrich non mi permise di piagnucolare o di chiedergli pietà. Invece lo seguii ostinatamente. Raggiungemmo un edificio e lui spalancò un'altra porta massiccia. Il calore e l'odore degli animali e una fioca luce gialla si riversarono all'esterno. Un giovane stalliere si tirò a sedere dal suo nido di paglia, battendo le palpebre come un uccellino insonnolito. A una parola di Burrich si distese di nuovo, raggomitolandosi nella paglia e chiudendo gli occhi. Gli passammo vicino e Burrich chiuse la porta. Prese la lanterna che ardeva fioca accanto alla porta e mi condusse all'interno. Fu allora che entrai in un mondo diverso, un mondo notturno dove gli animali si muovevano e respiravano negli stalli, dove i cani sollevavano la testa dalle zampe incrociate per guardarmi con occhi umidi verdi o gialli nel bagliore della lanterna. I cavalli si agitavano mentre oltrepassavamo i
loro stalli. «I falchi sono all'altra estremità» annunciò Burrich. Lo accettai come un'informazione che secondo lui dovevo conoscere. «Ecco» disse alla fine. «Questo andrà bene. Per adesso, comunque. Mi venga un colpo se so che altro farne di te. Se non fosse per dama Pazienza, penserei che gli dèi hanno fatto un bello scherzo al padrone. Ecco, Nasuto, allontanati e fai posto a questo ragazzo nella paglia. Esatto, stai vicino a Volpina, lì. Si occuperà di te e darà una bella graffiata a chiunque cercherà di infastidirti.» Mi trovavo di fronte a un ampio stallo occupato da tre cani. Avevano sollevato la testa e giacevano nella paglia dimenando le code corte e dritte alla voce di Burrich. Entrai incerto in mezzo a loro, e alla fine mi sdraiai di fianco a una vecchia cagna dal muso sbiancato e un'orecchia lacera. Il maschio più anziano mi guardò con un certo sospetto, ma il terzo era un cucciolo mezzo cresciuto. Nasuto mi accolse leccandomi le orecchie, mordicchiandomi il naso e mettendomi addosso le zampe. Io gli misi un braccio attorno al collo per tenerlo tranquillo, e poi mi distesi in mezzo a loro come aveva consigliato Burrich. Questi mi gettò addosso una pesante coperta che odorava intensamente di cavallo. Una bestia grigia, molto grossa, si mosse improvvisamente nello stallo accanto, battendo uno zoccolo pesante contro la partizione e poi sporgendo la testa dalla mia parte per vedere cos'era tutto quel movimento quella notte. Burrich lo calmò distrattamente con un tocco. «Tutti noi qui in questo avamposto siamo alloggiati come possiamo. Scoprirai che Castelcervo è un luogo più accogliente. Ma per stanotte resterai qui, al caldo e al sicuro.» Rimase lì ancora per un momento, abbassando lo sguardo su di noi. «Cavallo, cane e falco, Chevalier. Per molti anni me ne sono occupato per te, e me ne sono occupato bene. Ma questo tuo bastardino; ebbene... non so proprio che cosa farne.» Sapevo che non stava parlando con me. Lo osservai da sopra il bordo della coperta mentre prendeva la lanterna dal suo uncino e si allontanava, borbottando fra sé. Ricordo bene quella prima notte, il calore dei cani, la paglia che mi pungeva, e perfino il sonno che finalmente giunse mentre il cucciolo si accoccolava vicino a me. Scivolai nella sua mente e condivisi i suoi sogni vaghi di un'interminabile caccia, inseguendo una preda eternamente invisibile il cui odore acre mi spingeva avanti fra ortiche, rovi e sassolini. E come il sogno del cane, la precisione della memoria vacilla con i colori vivaci e i contorni netti di un sogno indotto dalla droga. Certamente i
giorni che seguirono quella prima notte non sono altrettanto chiari nella mia mente. Ricordo i giorni umidi della fine dell'inverno mentre imparavo il percorso dal mio stallo alla cucina. Ero libero di andare e venire come desideravo. A volte c'era un cuoco che sfaccendava, disponendo la carne sui ganci del focolare o lavorando la pasta del pane o aprendo una botte di qualche bevanda. Più spesso non c'era nessuno, e io mi servivo degli avanzi rimasti sulla tavola, e li condividevo generosamente con il cucciolo che divenne in fretta il mio fedele compagno. Gli uomini andavano e venivano, mangiando e bevendo, e osservandomi con una curiosità meditabonda che finii per accettare come normale. Sembravano tutti uguali, con i loro mantelli e le brache di lana rozza, i corpi duri e i movimenti disinvolti, e lo stemma di un cervo che salta impresso sul cuore di ciascuno. La mia presenza rendeva inquieti alcuni di loro. Mi abituai al borbottio che cominciava ogni volta che lasciavo la cucina. Burrich in quei giorni era una presenza costante, e mi prestava la stessa attenzione che riservava alle bestie di Chevalier; venivo nutrito, dissetato, ripulito e tenuto in forma, quest'ultima cosa di solito conseguenza del fatto che gli trottavo alle calcagna mentre lui compiva altri doveri. Ma quei ricordi sono confusi, e i dettagli, come lavarsi o cambiarsi i vestiti, sono probabilmente svaniti con la calma disposizione di un ragazzo di sei anni a dare tali cose per scontate. Certamente ricordo il cucciolo, Nasuto. Aveva il pelo rosso e liscio e corto, e così ispido che mi pungeva attraverso i vestiti quando di notte dividevamo la coperta da cavallo. I suoi occhi erano verdi come minerale di rame, il naso del colore del fegato cotto, e l'interno della sua bocca e la lingua erano di un rosa e nero variegato. Quando non stavamo mangiando in cucina, facevamo la lotta nel cortile o nella paglia dello stallo. Tale fu il mio mondo per tutto il tempo che ci passai. Non credo che sia durato a lungo, perché non rammento il mutare delle stagioni. Tutti i miei ricordi di quel periodo sono giorni crudi e raffiche di vento, neve e ghiaccio che ogni giorno si scioglievano parzialmente ma venivano ricreate dalle gelate notturne. Ho solo un altro ricordo di quel periodo, ma non è nitido. Piuttosto è tiepido e a colori soffusi, come un antico arazzo raffinato visto in una stanza in penombra. Ricordo di essere stato risvegliato dal cucciolo che si agitava e dalla luce gialla di una lanterna sospesa sopra di me. Due uomini si chinavano sopra di me, ma Burrich stava rigido in piedi dietro di loro e io non avevo paura.
«Adesso l'hai svegliato» ammonì uno, ed era il principe Veritas, l'uomo che avevo trovato nella camera calda e luminosa la prima sera. «E allora? Si rimetterà a dormire non appena ce ne andiamo. Maledetto lui, ha anche gli occhi di suo padre. Lo giuro, avrei riconosciuto il suo sangue dovunque. Sarà impossibile negarlo a chi lo veda. Ma tu e Burrich avete proprio il buon senso di una mosca! Bastardo o no, non si mette un bambino in una stalla con gli animali. Non c'era un altro posto dove metterlo?» L'uomo che aveva parlato assomigliava a Veritas nel contorno del viso e negli occhi, ma la somiglianza finiva lì. Era molto più giovane. Il viso era imberbe, e i capelli profumati e lisci erano più morbidi e castani. Le guance e la fronte erano dolorosamente arrossate dal gelo della notte, ma in modo diverso dalla rude abbronzatura di Veritas. E Veritas vestiva come i suoi uomini, in pratici abiti di lana, di trama robusta e colori smorzati. Soltanto lo stemma sul petto risaltava in un ricamo d'oro e d'argento. Invece l'uomo più giovane insieme a lui luccicava di scarlatti e gialli, e il suo mantello era drappeggiato con il doppio della stoffa necessaria a coprire un uomo. Il giustacuore era di un ricco color crema e carico di pizzi. La sciarpa attorno alla gola era fermata con un cervo balzante lavorato in oro, il cui unico occhio era una gemma verde luccicante. E il suo modo abile di parlare era come una contorta catena d'oro a paragone delle semplici connessioni delle parole di Veritas. «Regal, non ci ho pensato. Che ne so io di bambini? L'ho consegnato a Burrich. Lui è l'uomo di Chevalier, e lo tratta come una cosa del suo signore...» «Non intendevo mancare di rispetto alla famiglia, signore» disse Burrich confuso. «È vero, sono l'uomo di Chevalier, e mi sono occupato del ragazzo come mi pareva meglio. Potevo fargli un giaciglio nella stanza delle guardie, ma sembra piccolo per stare in compagnia di uomini che vanno e vengono a tutte le ore, si azzuffano, bevono e fanno rumore.» Il tono delle sue parole rese evidente il suo disgusto per la loro compagnia. «Messo a dormire qui, sta tranquillo, e il cucciolo gli si è affezionato. E con la mia Volpina che gli fa la guardia di notte, nessuno potrebbe fargli del male senza assaggiare i suoi denti. Miei signori, anch'io ne so poco di bambini, e mi sembrava...» «Va bene, Burrich, va bene» disse piano Veritas, interrompendolo. «Se bisognava pensarci, dovevo pensarci io. L'ho affidato a te, e non mi sembra che sia sbagliato. Sta meglio di molti bambini in questo villaggio, Eda
lo sa. Qui e ora, è la soluzione migliore.» «Bisognerà trovare qualcos'altro quando tornerà a Castelcervo.» Regal non sembrava soddisfatto. «Dunque nostro padre desidera che ritorni con noi a Castelcervo?» La domanda veniva da Veritas. «Nostro padre sì. Mia madre no.» «Oh.» Il tono di Veritas indicava che non aveva intenzione di discutere ulteriormente quel punto. Ma Regal aggrottò la fronte e continuò. «Mia madre la regina non è per niente soddisfatta di tutto ciò. Ha dato molti suggerimenti al re, ma invano. Mia madre e io avremmo preferito mettere il ragazzo... da parte. Sarebbe solo buon senso. Non abbiamo certo bisogno di altra confusione nella linea di successione.» «Io non ci vedo nessuna confusione adesso, Regal» disse con calma Veritas. «Chevalier, io, e poi tu. Poi nostro cugino Augusto. Questo bastardo sarebbe giù al quinto posto.» «Sono ben consapevole che tu mi precedi; non devi vantartene con me a ogni occasione» disse freddamente Regal. Abbassò su di me uno sguardo torvo. «Io penso sempre che sarebbe meglio non averlo fra i piedi. E se Chevalier non riesce a ottenere un erede legittimo con Pazienza? E se sceglie di riconoscere questo... ragazzo? Potrebbe portare divisione fra i nobili. Perché incoraggiare i problemi? Questa è l'opinione di mia madre, e la mia. Ma nostro padre il re non è un uomo avventato, come sappiamo bene. Sagace è chi Sagace fa, come dice il detto popolare. Ha proibito qualsiasi decisione in materia. Regal, mi ha detto, in quella sua maniera che sai, non fare quello che non puoi disfare, sino a quando non avrai considerato quello che non potrai fare se lo farai. Poi ha riso.» Regal stesso emise una breve risata amara. «Sono così stanco del suo umorismo.» «Oh» disse di nuovo Veritas, e io rimasi immobile e mi chiesi se stava cercando di comprendere le parole del re, o se si tratteneva dal rispondere alle proteste di suo fratello. «Tu comprendi la sua vera ragione, naturalmente» lo informò Regal. «Che sarebbe?» «Lui è ancora dalla parte di Chevalier.» Regal sembrava disgustato. «Malgrado tutto. Malgrado il suo stupido matrimonio e la sua moglie eccentrica. Malgrado questo pasticcio. E adesso pensa che questo influenzerà il popolo, alimenterà le loro simpatie verso di lui. Dimostrerà che è un uomo, che Chevalier può generare un figlio. O forse dimostrerà che è umano, e che può fare errori come tutti loro.» Il tono di Regal rivelava che
non approvava nulla di tutto ciò. «E questo spingerà il popolo ad amarlo di più, a sostenere più fortemente il suo futuro regno? Il fatto che abbia generato un figlio da qualche donna selvaggia prima di sposare la sua regina?» Veritas sembrava confuso da quella logica. Io avvertii l'amarezza nella voce di Regal. «Così sembra pensare il re. Possibile che non gli importi nulla di questo disonore? Io sospetto che Chevalier la penserà diversamente sul mettere in mostra il bastardo. Specialmente per quanto riguarda la cara Pazienza. E comunque, il re ha ordinato che il bastardo venga portato a Castelcervo quando torni.» Regal mi fissò con scarsa soddisfazione. Veritas apparve brevemente turbato, ma annuì. Un'ombra calò sul volto di Burrich e la luce gialla della lampada non riuscì a disperderla. «Il parere del mio padrone non conta?» si azzardò a protestare. «A me sembra che se vuole lasciare una donazione alla famiglia della madre del ragazzo, e tenerlo lontano, allora, certamente, per difendere la sensibilità della mia signora Pazienza, tale discrezione dovrebbe essergli permessa...» Il principe Regal lo interruppe con una risata di disprezzo. «Doveva usare la sua discrezione prima di farsi la ragazza. La dama Pazienza non è la prima donna che debba affrontare il bastardo di suo marito. Tutti qui sanno della sua esistenza; merito della stoltezza di Veritas. Non c'è ragione di cercare di nasconderlo. E per quanto riguarda un bastardo reale, nessuno di noi può permettersi simili sensibilità, Burrich. Lasciare un ragazzo come lui in un posto come questo è come lasciare una lama sospesa davanti alla gola del re. Certamente perfino un guardiano di cani può capirlo. E anche se non lo capisci tu, lo capirà il tuo padrone.» Ora la voce di Regal era dura e gelida, e io vidi Burrich ritrarsi da quella voce, lui che non avevo visto esitare davanti a nient'altro. Mi spaventò, e mi tirai la coperta sulla testa e affondai di più nella paglia. Accanto a me, Volpina ringhiò sommessamente dal fondo della gola. Non potrei esserne sicuro, ma credo che facesse fare un passo indietro a Regal. Gli uomini se ne andarono poco dopo e non mi ricordo che abbiano detto altro. Credo che fossero due o forse tre settimane più tardi quando mi trovai dietro a Burrich, aggrappato alla sua cintura, tentando di stringere le mie gambette corte attorno a un cavallo mentre lasciavamo quel gelido villaggio e cominciavamo quello che mi parve un viaggio infinito verso terre più calde. Suppongo che prima o poi Chevalier sia venuto a vedere il bastardo che aveva generato, e deve averne tratto qualche giudizio su se stesso per
quanto mi riguardava. Ma non ho ricordi di un tale incontro con mio padre. L'unica immagine che conservo di lui viene dal suo ritratto su una parete a Castelcervo. Anni dopo mi fu lasciato capire che la sua missione diplomatica aveva avuto risultati davvero buoni, ottenendo un trattato e una pace che durò per gran parte della mia fanciullezza e gli guadagnò il rispetto e perfino l'affetto dei Chyurda. In verità, quell'anno io fui il suo unico fallimento, ma fu un fallimento monumentale. Chevalier ci precedette a Castelcervo, dove abdicò alla sua pretesa al trono. Quando arrivammo, lui e dama Pazienza avevano lasciato la corte, per andare a vivere come signori di Giuncheto. Sono stato a Giuncheto. Il nome non ha nulla a che fare con il suo aspetto. È una valle calda, attorno a un fiume tranquillo che scava un'ampia pianura annidata fra colline basse e digradanti. Un luogo per far crescere viti e grano e bambini paffuti. Un possedimento pacifico, lontano dai confini, lontano dalle politiche di corte, lontano da qualsiasi cosa fosse stata la vita di Chevalier fino a quel momento. Era un pensionamento, un quieto e nobile esilio per un uomo che avrebbe dovuto essere re. Un guerriero soffocato nel velluto, un raro e abile diplomatico messo a tacere. E così io arrivai a Castelcervo, unico figlio e bastardo di un uomo che non avrei mai conosciuto. Il principe Veritas divenne erede al trono e il principe Regal risalì di un posto nella linea di successione. Se tutto quello che avessi mai fatto fosse nascere ed essere scoperto, avrei già lasciato un segno su tutta quella terra per l'eternità. Crebbi senza padre e senza madre in una corte dove tutti mi riconoscevano come un catalizzatore. E tale divenni. 2 Pivello Esistono molte leggende su Conquistatore, il primo Isolano che si appropriò di Castelcervo facendone il Primo Ducato e fondando il lignaggio reale. Una dice che il viaggio di conquista a cui prese parte fu la sua prima e unica sortita dall'isola aspra e gelida che l'aveva generato, quale che fosse. Si dice che, alla vista dei bastioni di legno di Castelcervo, avesse annunciato: «Se là trovo un fuoco e un pasto, non me ne andrò più.» Li trovò, e non se ne andò. Le voci di famiglia dicono che fosse un povero marinaio, nauseato
dall'acqua agitata e dalle razioni di pesce sotto sale che altri Isolani adoravano. Lui e il suo equipaggio erano rimasti smarriti per giorni e giorni sulle acque, e se non fosse riuscito a conquistare Castelcervo, il suo equipaggio lo avrebbe annegato. Tuttavia, l'antico arazzo nella Sala Grande lo mostra come un uomo saldo e vigoroso, fiero e sorridente sulla prua del suo vascello mentre i rematori lo spingono verso l'antica Castelcervo di tronchi d'albero e pietra rozza. Castelcervo aveva cominciato la sua esistenza come posizione difensiva su un fiume navigabile, all'imbocco di una baia con eccellente ancoraggio. Qualche piccolo capo locale, il cui nome si è perso nelle nebbie della storia, vide il potenziale per controllare il traffico commerciale sul fiume e costruì in quel luogo la prima roccaforte. Apparentemente, l'aveva costruita per difendere sia il fiume che la baia dai pirati isolani che venivano ogni estate a compiere razzie su e giù per il fiume. Non si aspettava tuttavia che i pirati riuscissero a infiltrarsi nelle sue fortificazioni con l'inganno. Le torri e le mura divennero la loro base di partenza. Spostarono i loro possedimenti e il controllo su per il fiume e, rimodellando il forte di legno in torri e mura di pietra ben tagliata, finalmente trasformarono Castelcervo nel cuore del Primo Ducato, e infine nella capitale del regno dei Sei Ducati. La casa regnante dei Sei Ducati, i Lungavista, discendeva da quegli Isolani. Per diverse generazioni, aveva mantenuto i contatti con gli Stranieri, compiendo viaggi di corteggiamento e tornando a casa con floride spose brune della sua gente. E così il sangue degli Isolani era ancora forte nel lignaggio reale e nelle famiglie nobili, e produceva bambini con i capelli neri e gli occhi scuri e membra muscolose e robuste. E a tali caratteristiche si accompagnava una predilezione per l'Arte, e tutti i pericoli e le debolezze che ne conseguivano. Anch'io ricevetti la mia parte di quel lascito. Ma la mia prima esperienza di Castelcervo non ha a che fare con la storia o il retaggio. Sapevo solo che era la fine del viaggio, un panorama di rumore e folla, carretti e cani e costruzioni e strade tortuose che conducevano finalmente a un'immensa fortezza di pietra costruita sulle rupi che dominavano il borgo ai loro piedi. Il cavallo di Burrich era stanco, e gli zoccoli scivolavano sulle pietre spesso viscide delle strade del borgo. Io mi tenevo aggrappato strenuamente alla cintura di Burrich, troppo stanco e dolorante per protestare. Piegai indietro la testa una volta per fissare le alte e grigie torri e le mura della fortezza sopra di noi. Perfino nell'insolito tepore della brezza marina, appariva gelida e spietata. Appoggiai la fronte
contro la schiena di Burrich, nauseato dall'odore salmastro dell'immensa massa d'acqua. E fu così che arrivai a Castelcervo. Burrich aveva un alloggio sopra le stalle, non lontano dalle scuderie reali. Fu lì che mi portò, insieme ai cani e al falco di Chevalier. Si occupò prima del falco, che appariva triste e sbattuto per il viaggio. I cani, felicissimi di essere a casa, erano pervasi da un'energia senza limiti, molto seccante per me che ero così sfinito. Nasuto mi buttò per terra una mezza dozzina di volte prima che riuscissi a far entrare in quella sua testa dura di cane che ero stanco e mi sentivo male e non avevo voglia di giocare. Lui reagì come qualsiasi cucciolo, cercando i suoi fratellini e lanciandosi in una zuffa semiseria con uno di loro, immediatamente interrotta da un urlo di Burrich. Poteva essere l'uomo di Chevalier, ma quando era a Castelcervo era il Padrone di cani, falchi e cavalli. Dopo aver badato alle proprie bestie, cominciò a percorrere le stalle, esaminando tutto quello che era stato fatto o non fatto in sua assenza. Gli stallieri, gli inservienti e i falconieri apparvero come per magia a difendere da qualsiasi critica gli animali a loro affidati. Io gli trottai alle calcagna finché potei. Fu solo quando finalmente mi arresi e crollai stancamente su un mucchio di paglia, che lui parve notarmi. Sul suo viso passò un'espressione di irritazione, e poi di profonda stanchezza. «Tu, Roano. Porta questo giovane fitz alle cucine e fa in modo che sia nutrito, quindi riportalo nei miei alloggi.» Roano era un ragazzo che si occupava dei cani, piccolo e bruno, di forse dieci anni, che era appena stato lodato per la salute di una cucciolata venuta alla luce in assenza di Burrich. Un attimo prima si stava godendo l'approvazione di Burrich. Ora il suo sorriso vacillò, e mi squadrò dubbiosamente. Ci studiammo a vicenda mentre Burrich proseguiva lungo la fila di stalli con la sua cerchia di nervosi guardiani degli animali. Poi il ragazzo scrollò le spalle, e si chinò a metà sulle ginocchia per guardarmi in faccia. «E allora, fitz, hai fame? Dobbiamo trovarti qualcosa da mangiare?» chiese in tono invitante, esattamente nello stesso tono che aveva usato per far uscire i suoi cuccioli e farli vedere a Burrich. Feci cenno di sì, sollevato che non si aspettasse nulla di più da me che da un cucciolo, e lo seguii. Roano continuava a voltarsi per vedere se gli tenevo dietro. Non appena fummo fuori dalle stalle, Nasuto mi raggiunse con grandi balzi. L'evidente affetto che il cane nutriva per me mi fece risalire nella stima di Roano, che continuò a parlare a tutti e due con brevi frasi incoraggianti, dicendoci che mancava poco alla pappa, forza adesso, no, lasciate stare quel gatto, segui-
temi, da bravi. Le stalle erano un alveare di attività, con gli uomini di Veritas che sistemavano i cavalli e i finimenti e Burrich che trovava difetti in tutto quello che in sua assenza non era stato fatto secondo il suo stile. Mentre ci avvicinavamo alla fortezza più interna, tuttavia, il traffico a piedi aumentò. La gente ci passava vicino svolgendo ogni tipo di compiti: un ragazzo con un immenso pezzo di pancetta sulla spalla, un gruppo ridente di ragazze con le braccia piene di erbe per lo stufato ed erica, un vecchio torvo con un cesto e tre giovani donne in abiti a pezze multicolori e campanellini, con le voci che risuonavano allegre quanto il tintinnio. Il mio naso mi informò che ci stavamo avvicinando alle cucine, e il traffico aumentò proporzionalmente finché ci avvicinammo a una porta con un'autentica folla di gente che entrava e usciva. Roano si fermò e Nasuto e io ci fermammo dietro di lui, annusando con interesse. il ragazzo contemplò la calca alla porta e aggrottò le sopracciglia, parlando fra sé. «È tutto pieno. Tutti si stanno preparando per la festa di benvenuto di stanotte, per Veritas e Regal. Tutti quelli che contano vengono a Castelcervo a vederla; la storia di Chevalier che ha rinunciato al trono è circolata in fretta. Tutti i duchi sono venuti o hanno mandato qualcuno per dare il loro parere. Ho sentito che perfino i Chyurda hanno inviato una delegazione per essere sicuri che i trattati di Chevalier saranno onorati anche se Chevalier non è più in giro...» S'interruppe, improvvisamente imbarazzato, ma non sono sicuro se fosse perché stava parlando di mio padre alla causa stessa della sua abdicazione, o perché si stava rivolgendo a un cucciolo e a un bambino di sei anni come se fossero stati dotati di cervello. Si guardò attorno, rivalutando la situazione. «Aspettate qui» ci disse finalmente. «Mi infilo dentro e vi porto qualcosa. Sarà meno facile che io mi faccia calpestare... o cogliere sul fatto. Adesso seduti.» E ribadì l'ordine con un gesto fermo della mano. Io indietreggiai fino a una parete e mi accovacciai, fuori dalla confusione, e Nasuto sedette obbediente accanto a me. Osservai ammirato Roano che si avvicinava alla porta e si infilava fra i capannelli di persone, scivolando disinvolto in cucina. Adesso che Roano era sparito, la mia attenzione fu attratta dal popolo più vario. Quelli che ci passavano vicino erano per la maggior parte domestici e cuochi, con alcuni menestrelli e mercanti e garzoni delle consegne. Li guardai andare e venire con una stanca curiosità. Avevo già visto troppo quel giorno per trovarli di grande interesse. Quasi più del cibo, desideravo
un posto tranquillo lontano da tutta quell'attività. Mi sedetti sul pavimento, con la schiena contro il muro della fortezza riscaldato dal sole, e appoggiai la fronte sulle ginocchia. Nasuto si accoccolò contro di me. La coda a bastoncino di Nasuto che batteva contro il terreno mi risvegliò. Sollevai il viso dalle ginocchia e vidi un alto paio di stivali bruni davanti a me. I miei occhi risalirono lungo dei rozzi pantaloni di cuoio e una camicia di lana ruvida fino a un viso ispido e barbuto sormontato da capelli sale e pepe. L'uomo che mi fissava teneva in equilibrio sulla spalla una botticella. «Sei tu il bastardo, eh?» Avevo sentito quella parola abbastanza spesso da capire che si riferiva a me, senza comprenderla pienamente. Annuii lentamente. Il viso dell'uomo si illuminò di interesse. «Ehi» disse ad alta voce, parlando non più con me ma con la gente che andava e veniva. «Ecco qui il bastardo. Il rampollo di quel presuntuoso di Chevalier. Gli somiglia parecchio, non vi pare? Chi è tua madre, ragazzo?» In loro favore c'è da dire che gran parte dei passanti continuavano ad andare e venire senza gettare più di uno sguardo curioso al bambino seduto contro il muro. Ma la domanda dell'uomo della botte era evidentemente di grande interesse, perché diverse teste si girarono, e parecchi commercianti appena usciti dalla cucina si fecero più vicini per sentire la risposta. Ma io non avevo una risposta. Mia madre era stata mia madre, e tutto quello che avevo saputo di lei stava già svanendo. Quindi non risposi ma continuai a fissare l'uomo. «Ehi. Allora come ti chiami, ragazzo?» E girandosi verso il suo pubblico, confidò: «Ho sentito che non ce l'ha, un nome. Nessun pomposo nome reale per dargli carattere, neppure un nome da popolano per gridargli dietro. Giusto, ragazzo? Ce l'hai un nome?» La folla di spettatori cresceva. Alcuni mostravano pietà negli occhi, ma nessuno interferì. Parte delle mie sensazioni passarono a Nasuto, che si buttò su un fianco e mostrò la pancia in segno di supplica battendo la coda in quell'antico segnale canino che significa sempre: «Sono solo un cucciolo. Non posso difendermi. Abbiate pietà.» Se fossero stati cani, mi avrebbero dato un'annusata e se ne sarebbero andati. Ma gli umani non conoscono simili cortesie innate. Così, quando non risposi, l'uomo fece un passo avanti, e ripeté: «Ce l'hai un nome, ragazzo?» Mi alzai lentamente, e il muro che era stato caldo contro la mia schiena un attimo prima ora era una gelida barriera contro la mia ritirata. Ai miei
piedi, Nasuto si agitò con la schiena nella polvere ed emise un guaito supplichevole. «No» dissi piano, e, quando l'uomo fece per avvicinarsi e ascoltare le mie parole, «NO!» gridai, e lo respinsi, mentre strisciavo di lato lungo il muro. Lo vidi barcollare e indietreggiare di un passo, abbandonando la botte che cadde sul pavimento lastricato e si spaccò. Nessuno tra la folla avrebbe potuto comprendere quello che era successo. Io certamente non lo compresi. Per lo più, la gente rise alla vista di un uomo adulto che ripiegava davanti a un bambino. In quel momento nacque la mia reputazione di testardaggine e audacia, dato che prima di sera il racconto del bastardo che si era ribellato al suo tormentatore aveva fatto il giro della città. Nasuto si tirò in piedi e scappò insieme a me. Colsi un'occhiata del viso di Roano paralizzato dalla confusione, mentre emergeva dalla cucina con in mano un paio di tortini e vedeva Nasuto e me in fuga. Se fosse stato Burrich, probabilmente mi sarei fermato e avrei affidato a lui la mia sicurezza. Ma non lo era, e quindi corsi via, lasciando che Nasuto aprisse la strada. Scappammo attraverso le schiere di servitori, uno dei tanti ragazzini e il suo cane che correvano per il cortile, e Nasuto mi condusse a quello che considerava evidentemente il posto più sicuro del mondo. Lontano dalla cucina e dalla fortezza più interna c'era una buca scavata da Volpina sotto l'angolo di una costruzione traballante dove erano accumulati sacchi di piselli e fagioli. Qui Nasuto era stato partorito, in completa sfida a Burrich, e qui Volpina era riuscita a mantenere nascosti i suoi cuccioli per quasi tre giorni. Burrich stesso l'aveva trovata lì. Il suo odore era il primo odore umano che Nasuto potesse ricordare. Facemmo fatica a cacciarci sotto l'edificio, ma una volta all'interno la tana era calda e asciutta e quasi buia. Nasuto si accoccolò vicino a me e io lo abbracciai. Lì nascosti, i nostri cuori ben presto calmarono il loro battito selvaggio, e dalla calma passammo al profondo sonno senza sogni riservato ai caldi pomeriggi di primavera e ai cuccioli. Mi svegliai fra i brividi, ore dopo. Era completamente buio e il tepore tenue di quel giorno di inizio primavera si era dileguato. Nasuto si svegliò nello stesso momento, e insieme strisciammo e grattammo fino a uscire dalla tana. Il cielo notturno era alto sopra Castelcervo, e le stelle splendevano luminose e fredde. L'odore della baia era più forte, come se gli odori diurni di uomini e cavalli e cucina fossero fenomeni temporanei che dovevano arrendersi ogni sera al potere dell'oceano. Percorremmo sentieri deserti, attraverso piazze per le esercitazioni e oltre granai e frantoi. Tutto era im-
mobile e silenzioso. Mentre ci avvicinavamo alla fortezza più interna, vidi le torce ancora accese, e sentii rumore di voci. Ma tutto sembrava in qualche modo stanco, le ultime tracce di una festa che si spegnevano prima che l'alba giungesse a illuminare i cieli. Tuttavia, evitammo ampiamente la fortezza interna, perché ne avevamo avuto abbastanza di persone. Mi ritrovai a seguire Nasuto verso le stalle. Mentre ci avvicinavamo alle pesanti porte, mi chiesi come avremmo fatto a entrare. Ma la coda di Nasuto cominciò ad agitarsi selvaggiamente, e allora anche il mio olfatto limitato percepì l'odore di Burrich nell'oscurità. L'uomo si alzò dalla cassa di legno vicino alla porta su cui era seduto. «Eccovi qui» disse in tono rassicurante. «Venite, allora. Venite.» E si alzò, ci aprì le porte e ci condusse all'interno. Lo seguimmo attraverso l'oscurità, fra file di stalli, superando i palafrenieri e gli addestratori che erano stati alloggiati per la notte nelle stalle, e poi oltre i nostri cavalli e i cani e i giovani stallieri che dormivano in mezzo a loro, fino a una scala che saliva lungo il muro fra le stalle e le scuderie reali. Seguimmo Burrich su per gli scricchiolanti gradini di legno, e poi l'uomo aprì un'altra porta. La fioca luce gialla di una candela gocciolante su un tavolo mi accecò per un momento. Lo tallonammo in una camera dal tetto inclinato che odorava di Burrich e di cuoio e degli olii e unguenti ed erbe che facevano parte del suo lavoro. Chiuse la porta fermamente dietro di noi, e mentre ci superava per accendere una candela nuova al posto di quella quasi consumata sul tavolo, gli annusai addosso la dolcezza del vino. La luce si diffuse e Burrich si sedette su una sedia di legno vicino al tavolo. Appariva diverso, vestito in una stoffa sottile e di buona qualità in giallo e marrone, con un tratto di catena d'argento attraverso il giustacuore. Appoggiò il palmo della mano sul ginocchio, e Nasuto andò subito da lui. Burrich gli grattò le orecchie penzoloni, e poi gli batté con affetto le costole, facendo una smorfia alla nuvola di polvere che si levò dal pelo. «Bella coppia, voi due» disse, parlando più al cucciolo che a me. «Guardati. Lurido come un mendicante. Oggi ho mentito al mio re per te. È la prima volta che mi capita in vita mia. A quanto pare la caduta di Chevalier trascinerà giù anche me. Ho detto al re che eri stato ripulito e stavi dormendo profondamente, sfinito dal viaggio. Non è stato contento di dover aspettare per vederti, ma per nostra fortuna aveva cose più importanti a cui pensare. L'abdicazione di Chevalier ha messo in agitazione parecchi signori. Alcuni la vedono come una possibilità per ottenere vantaggi, e altri sono infastiditi
perché è stato sottratto loro un re che ammiravano. Sagace sta cercando di calmarli tutti. Ha messo in giro la voce che è stato Veritas a negoziare con i Chyurda questa volta. Quelli che ci credono dovrebbero essere interdetti. E invece sono venuti a guardare Veritas con occhi diversi, e chiedersi se e quando sarà il loro nuovo re, e che tipo di re sarà. Buttando via tutto e partendo per Giuncheto, Chevalier ha messo in allarme tutti i Ducati come se avesse cacciato un bastoncino in un alveare.» Burrich sollevò gli occhi dal muso ansioso di Nasuto. «Ebbene, fitz. Direi che oggi ti sei fatto un'idea del posto. Hai proprio spaventato a morte il povero Roano, scappandotene via così. Vediamo, ti sei fatto male? Qualcuno ti ha picchiato? Avrei dovuto saperlo che certa gente ti avrebbe dato tutta la colpa della confusione. Vieni qui, dunque. Forza.» Quando esitai, si spostò vicino a un giaciglio di coperte preparato accanto al fuoco e vi batté la mano invitante. «Vedi? C'è un posto qui per te, tutto pronto. E pane e carne sul tavolo per voi due.» Le sue parole mi fecero notare il vassoio coperto sul tavolo. Carne, confermarono i sensi di Nasuto, e io fui improvvisamente colmo del profumo della carne. Burrich rise alla nostra corsa verso il tavolo, e silenziosamente approvò quando io preparai una porzione per Nasuto prima di riempirmi la bocca. Mangiammo a sazietà, dato che Burrich non aveva sottovalutato quanto potevano essere affamati un cucciolo e un ragazzo dopo le disavventure della giornata. E poi, malgrado il nostro lungo sonno di poco prima, le coperte così vicine al fuoco erano d'un tratto immensamente invitanti. A pancia piena, ci accovacciammo con le fiamme che ci cuocevano la schiena e dormimmo profondamente. Quando ci svegliammo il giorno dopo, il sole era alto da tempo e Burrich se n'era già andato. Nasuto e io mangiammo il fondo della pagnotta della sera prima e ripulimmo le ossa degli avanzi prima di scendere dall'alloggio di Burrich. Nessuno ci fermò o addirittura parve notarci. Fuori era cominciato un altro giorno di caos e festeggiamenti. La fortezza era se possibile ancor più gonfia di gente. Il loro passaggio alzava la polvere e le loro voci mescolate si sovrapponevano al soffio del vento e al mormorio più distante delle onde. Nasuto assorbiva tutto quanto, ogni odore, ogni immagine, ogni suono. L'impatto dei sensi raddoppiati mi stordiva. Mentre camminavo, colsi da frammenti di conversazione che il nostro arrivo era coinciso con qualche rito primaverile di gioia e incontro. L'abdicazione di Chevalier era ancora l'argomento principale, ma non impediva agli spettacoli di marionette e ai giocolieri di trasformare ogni angolo in un
teatro per le loro bizzarrie. Almeno uno spettacolo di marionette aveva già incorporato la caduta di Chevalier nelle sue commedie licenziose, e io rimasi anonimo fra la folla, perplesso dal dialogo che parlava di seminare i campi del vicino e provocava grandi risate negli adulti. Ma ben presto le folle e il rumore divennero per noi opprimenti, e io feci sapere a Nasuto che volevo scappar via. Lasciammo la fortezza, uscendo dal cancello fra le mura spesse e oltrepassando le guardie intente a scherzare con i festaioli che andavano e venivano. Nulla di strano in un altro ragazzo con un cane che usciva alle calcagna di una famiglia di pescatori. Senza passatempi migliori in vista, seguimmo la famiglia che scendeva lungo le strade tortuose allontanandosi dalla fortezza e verso il borgo di Castelcervo. Ci lasciarono sempre più indietro, mentre i nuovi odori richiedevano che Nasuto li indagasse e poi facesse pipì a ogni angolo, fino a quando non rimanemmo soltanto io e lui a vagare per il borgo. A quell'epoca, Castelcervo era un luogo ventoso e brutale. Le strade erano ripide e contorte, lastricate di pietre che traballavano e si spostavano sotto il peso dei carretti. Il vento mi sferzava le narici campagnole con l'odore di alghe disseccate sulla sabbia e interiora di pesce, mentre le strida acute dei gabbiani e degli uccelli marini erano una bizzarra melodia sopra al ritmico sussurro delle onde. Il borgo si aggrappava alle nere rupi rocciose come i mitili e i cirripedi si aggrappano ai piloni e ai moli che si stendono nella baia. Le case erano di pietra e di legno, e quelle più elaborate erano costruite più in alto sulla facciata rocciosa e scavate più a fondo dentro di essa. Il borgo era relativamente tranquillo a paragone della festosità e della folla su alla fortezza. Nessuno di noi due aveva il buon senso o l'esperienza di capire che una città portuale non era il miglior posto per un bambino di sei anni e un cucciolo. Nasuto e io esplorammo avidamente, annusando lungo la via dei Panettieri e attraverso un mercato quasi deserto e poi lungo i magazzini e le rimesse delle barche che costituivano il livello più basso del paese. Lì l'acqua era vicina, e ci trovavamo a camminare su moli di legno come sulla sabbia e sulla pietra. Lì gli affari procedevano come al solito, concedendo poco all'atmosfera carnevalesca della fortezza. Le navi devono attraccare e scaricare secondo il ritmo delle maree, e coloro che vivono di pesca devono seguire i ritmi dei pesci, non quelli degli uomini. Presto incontrammo altri bambini, alcuni occupati a svolgere piccole commissioni per i loro genitori, ma alcuni più sfaccendati, come noi. Mi aggregai facilmente a loro, senza gran bisogno di presentazioni o altre pia-
cevolezze da adulti. La maggior parte erano più vecchi di me, ma parecchi erano altrettanto piccoli o anche di più. Nessuno di loro sembrava trovare strano che io fossi in giro da solo. Mi mostrarono tutte le parti più importanti della città, incluso il cadavere gonfio di una mucca che era stato gettato sulla riva dall'ultima marea. Visitammo una nuova barca da pesca in costruzione su un molo coperto di scarti arricciolati di legno e macchie di pece dall'odore penetrante. Una rastrelliera di pesce affumicato lasciata incoscientemente senza sorveglianza fornì il pasto di mezzogiorno a una mezza dozzina di noi. Se anche i bambini con cui mi trovavo erano più laceri e rumorosi di quelli che passavano intenti ai loro compiti, non me ne resi conto. E se mi avessero detto che stavo trascorrendo la giornata con una banda di mocciosi mendicanti a cui era negato l'ingresso alla fortezza a causa delle loro dita svelte, sarei rimasto sconvolto. In quel momento sapevo solo che improvvisamente era un giorno piacevole, pieno di luoghi da vedere e cose da fare. C'erano alcuni ragazzini, più grossi e più rumorosi, che avrebbero colto l'occasione per dare una lezione al nuovo venuto se Nasuto non fosse stato con me a mostrare i denti alla prima spinta aggressiva. Ma dato che io non mostravo alcun segno di voler sfidare la loro autorità, mi fu permesso di seguirli. Ero debitamente impressionato da tutti i loro segreti, e mi azzarderei a dire che alla fine di quel lungo pomeriggio conoscevo i quartieri poveri della città meglio di tanti che erano cresciuti al di sopra di essi. Non mi fu chiesto il mio nome, ma semplicemente fui chiamato Pivello. Gli altri avevano nomi semplici come Dick o Kerry, o pittoreschi come Grattarete o Mazzapicchio. Quest'ultima avrebbe potuto essere graziosa, in circostanze migliori. Aveva uno o due anni più di me, ma era molto schietta e sveglia. Si cacciò in una disputa con un grosso ragazzo di dodici anni, ma mostrò di non aver paura dei suoi pugni, e le sue provocazioni taglienti presto lo esposero alle risa di tutti. La bambina accolse con calma la vittoria e mi impressionò con la sua caparbietà. Ma i lividi sul suo viso e sulle braccia magre erano colorati in sfumature di viola, blu e giallo, mentre una crosta di sangue secco sotto un orecchio spiegava il suo nome. Tuttavia, Mazzapicchio era vivace, e la sua voce era più stridula dei gabbiani che roteavano sopra di noi. Il tardo pomeriggio trovò Kerry, Mazzapicchio e me su una riva rocciosa oltre i tralicci dei pescatori che aggiustavano le reti, e Mazzapicchio mi insegnò a perlustrare le rocce in cerca delle conchiglie saldamente abbarbicate che sapeva staccare abilmente con un bastone appuntito. Mi stava mostrando come usare un chiodo per estrarre i
gustosi abitanti dalla conchiglia quando un'altra ragazza ci chiamò con un grido. Il bel mantello azzurro che le si gonfiava attorno e le scarpe di cuoio la distinguevano dai miei compagni. E non si avvicinò per unirsi alla nostra caccia, ma si fece vicina quanto bastava per chiamare: «Molly, Molly, sta cercandoti dappertutto. Si è svegliato quasi sobrio un'ora fa e ha cominciato a insultarti non appena ha scoperto che te ne eri andata e il fuoco si era spento.» Un'espressione mista di sfida e timore percorse il volto di Mazzapicchio. «Scappa via, Gattina, ma porta con te la mia gratitudine. Mi ricorderò di te la prossima volta che la marea scopre i nidi dei granchi.» Gattina chinò la testa in un breve segno di conferma e immediatamente si girò e si affrettò a ripercorrere la via per cui era venuta. «Sei nei pasticci?» chiesi a Mazzapicchio quando vidi che non riprendeva a capovolgere le pietre in cerca di conchiglie. «Pasticci?» Emise un soffio di disprezzo. «Dipende. Se mio padre riesce a restare sobrio abbastanza a lungo per trovarmi, potrei passare un piccolo guaio. Più facile che stasera sarà troppo sbronzo da riuscire a colpirmi con tutto quello che mi tirerà addosso. Più facile!» ripeté fermamente quando Kerry aprì la bocca per obiettare. E con questo riportò l'attenzione alla spiaggia rocciosa e alla nostra ricerca di conchiglie. Eravamo accovacciati a guardare una creatura grigia dalle molte gambe rimasta intrappolata in una pozza lasciata dalla marea quando il rumore di un pesante stivale sulle rocce coperte di cirripedi ci fece sollevare la testa. Con un grido Kerry scappò lungo la strada, senza voltarsi a guardare. Io e Nasuto balzammo indietro, e il cane si schiacciò contro di me, scoprendo coraggiosamente i denti mentre la coda gli solleticava il pancino vigliacco. Molly Mazzapicchio non reagì altrettanto in fretta, oppure era rassegnata a quello che sarebbe successo. Un uomo le allungò una sberla sulla testa. Era scheletrico, dal naso rosso e dalle ossa sgraziate, così il suo pugno era come un nodo all'estremità del braccio ossuto, tuttavia il colpo bastò a buttare a terra Molly. I cirripedi le tagliarono le ginocchia arrossate dal vento, e quando strisciò di lato come un granchio per evitare il goffo calcio, io trasalii al pensiero della sabbia salata che le penetrava nei tagli freschi. «Bestiaccia traditrice! Non ti ho detto di rimanere a badare alla pentola? Ed ecco che ti trovo a perdere tempo sulla spiaggia, e la cera è diventata dura. Stasera alla fortezza vorranno altre candele, e io che cosa gli vendo?» «Le tre dozzine che ho fatto questa mattina. È tutto quello che ho potuto
fare con lo stoppino che mi avevi lasciato, vecchio pazzo ubriacone!» Molly si rimise in piedi e lo fronteggiò coraggiosamente malgrado gli occhi colmi di lacrime. «Che cosa dovevo fare? Consumare tutta la legna per mantenere la cera morbida, e poi tu mi davi lo stoppino e non c'era più niente per scaldare la pentola?» L'uomo barcollò lievemente contro una raffica di vento che ci portò il suo odore. Sudore e birra, così mi informò saggiamente Nasuto. Per un momento l'uomo apparve dispiaciuto, ma poi il dolore del ventre inacidito e della testa pulsante lo inasprì. Si chinò improvvisamente e afferrò un ramo sbiancato che era stato sospinto sulla riva. «Tu non mi parli così, monella selvaggia! Qui con questi piccoli mendicanti, a fare El solo sa cosa! A rubare di nuovo dai tralicci del pesce, scommetto, e a portarmi altra vergogna! Provati a scappare, e te ne darò il doppio quando ti becco.» La bambina dovette credergli, perché si limitò a rannicchiarsi mentre l'uomo avanzava verso di lei, alzando le braccia magre per proteggersi la testa e poi cambiando apparentemente idea e limitandosi a nascondere il viso con le mani. Io rimasi paralizzato dall'orrore mentre Nasuto uggiolava per il mio terrore e faceva pipì ai miei piedi. Sentii il sibilo del legno nodoso che calava. Il cuore mi balzò di lato nel petto e una forza proruppe misteriosamente dal mio ventre e spinse l'uomo. L'uomo cadde, proprio come il tizio della botte il giorno prima. Ma cadde stringendosi il petto, e il ramo che brandiva volò via senza far danni. L'uomo crollò sulla sabbia, fu scosso da un trasalimento in tutto il corpo e poi rimase immobile. Un istante dopo Molly riaprì gli occhi serrati, ancora curva in attesa del colpo. Vide suo padre stramazzato sulla spiaggia rocciosa, e la sorpresa la fece impallidire di colpo. Balzò verso di lui gridando: «Papà, papà, stai bene? Ti prego, non morire, mi dispiace di essere una bambina cattiva! Non morire, sarò buona, prometto che sarò buona.» Incurante delle ginocchia sanguinanti, si accovacciò accanto a lui, girandogli il viso in modo che non inghiottisse la sabbia, e poi cercò invano di metterlo a sedere. «Stava per ucciderti» le dissi, sforzandomi di capirci qualcosa. «No. Mi dà le botte, un po', quando sono cattiva, ma non mi ucciderebbe mai. E quando è sobrio e non sta male, piange per queste cose e mi supplica di non essere cattiva e di non farlo arrabbiare. Dovrei stare più attenta a non farlo arrabbiare. Oh, Pivello, credo che sia morto.» Non ne ero sicuro nemmeno io, ma un attimo dopo l'uomo emise un terribile gemito e socchiuse gli occhi. Qualsiasi attacco lo avesse abbattuto,
sembrava passato. Stordito, accettò le recriminazioni e l'aiuto premuroso di Molly, e perfino il mio supporto riluttante. Sostenendolo in mezzo fra noi, ripercorremmo la spiaggia rocciosa vacillando sul terreno irregolare. Nasuto ci seguiva, abbaiando e correndoci attorno. I pochi che ci videro passare non ci prestarono attenzione. Immagino che la vista di Molly che riportava a casa il papà non fosse una novità per loro. Li scortai fino alla porta di una piccola bottega di candele, e Molly piagnucolò chiedendo scusa per tutto il tempo. Li lasciai lì, e insieme a Nasuto ripercorsi le vie tortuose e la strada in collina verso la fortezza, meditando a ogni passo sulle stranezze della gente. Ora che avevo scoperto il borgo e i piccoli mendicanti, fui attratto da loro come da una calamita ogni giorno che seguì. Le giornate di Burrich erano occupate dai suoi doveri, e le sere dalle bevute e dall'allegria della Festa di Primavera. Badava poco al mio andirivieni; gli bastava trovarmi ogni sera sul mio giaciglio vicino al suo focolare. In verità, credo che non sapesse bene cosa farsene di me, a parte assicurarsi che fossi abbastanza ben nutrito per crescere sano e che di notte dormissi al sicuro in casa. Non poteva essere un bel momento per lui. Era stato il braccio destro di Chevalier, e ora che Chevalier era volontariamente uscito di scena, che cosa sarebbe successo di lui? Doveva essere una bella preoccupazione. E poi c'era la faccenda della gamba. Malgrado la sua conoscenza di impacchi e bende, sembrava incapace di applicare a se stesso le cure che normalmente riservava alle sue bestie. Una o due volte vidi la ferita senza bende e trasalii alla vista dello squarcio frastagliato che rifiutava di guarire regolarmente, rimanendo gonfio e purulento. All'inizio Burrich la malediceva sonoramente, e stringeva ostinato i denti ogni sera quando la puliva e la bendava, ma con il passare dei giorni cominciò a considerarla più che altro con una nauseante disperazione. Alla fine riuscì a farla chiudere, ma la cicatrice nodosa gli deformava la gamba e gli impacciava il passo. Non c'è da stupirsi che non avesse molta voglia di occuparsi di un giovane bastardo lasciato alle sue cure. Così io correvo libero come sanno fare solo i bambini piccoli, per lo più ignorato. Quando la Festa della Primavera terminò, le guardie alla porta della fortezza si erano abituate al mio quotidiano vagare. Probabilmente pensavano che fossi un servitorello impegnato in qualche missione, dato che ce n'erano tanti alla fortezza appena più vecchi di me. Imparai a sottrarre dalle cucine della fortezza il necessario per una sana colazione per me e Nasuto. Trovare altro cibo - croste bruciate dal panettiere, conchiglie
e alghe dalla spiaggia, pesce affumicato dai tralicci incustoditi - era una normale attività della mia giornata. Per lo più ero con Molly Mazzapicchio. Raramente vidi suo padre colpirla dopo quel giorno; generalmente era troppo ubriaco per trovarla, o per mettere in pratica le sue minacce quando ci riusciva. Di quello che avevo fatto quel giorno mi davo poco pensiero; ero solo grato che Molly non si fosse resa conto che ne ero responsabile io. Il borgo divenne il mio mondo, e la fortezza era solo il luogo dove andavo a dormire. Era estate, un momento meraviglioso in una città portuale. Non importa dove andassi, Borgo Castelcervo fremeva di attività. Le merci scendevano dai Ducati Interni lungo il fiume Cervo fino al paese, su piatti barconi pilotati da marinai sudati. Questi parlavano con competenza di banchi di pesci e secche e mire, e del salire e scendere delle acque del fiume. Il loro carico veniva trasportato fino ai negozi del borgo o ai magazzini, e le merci in partenza ridiscendevano ai moli e nelle stive delle navi pronte a solcare il mare. Queste navi erano piene di marinai sboccati che se la ridevano degli uomini del fiume e delle loro maniere da terricoli. Parlavano di maree e tempeste e notti in cui nemmeno le stelle mostravano il viso per guidarli. E anche i pescatori attraccavano al porto di Castelcervo, ed erano i più amichevoli del gruppo. Almeno, lo erano quando la pesca andava bene. Kerry mi insegnò a girare per i moli e le taverne, e mi mostrò come un ragazzo dal piede lesto poteva guadagnare tre o perfino cinque monetine al giorno, portando messaggi su per le strade ripide del paese. Ci consideravamo astuti e audaci, interferendo negli affari dei ragazzi più grandi che chiedevano due monetine o anche di più per una semplice commissione. Non credo di essere mai più stato coraggioso come allora. Se chiudo gli occhi, riesco a sentire l'odore di quei giorni gloriosi. Canapa e pece e freschi ritagli di legno dai bacini di carenaggio dove i carpentieri brandivano le asce e le mazze. Il buon odore del pesce freschissimo, e la puzza venefica di una pesca conservata troppo a lungo in un giorno caldo. Le balle di lana al sole aggiungevano la loro nota al profumo dei barili di quercia pieni del dolce liquore di Lungosabbia. I covoni di fieno destinati a profumare le stive mescolavano il loro odore alle cassette di meloni sodi. E tutti questi odori venivano amalgamati dal vento della baia, condito dal sale e dallo iodio. Nasuto portava alla mia attenzione tutto ciò che annusava, e i suoi sensi più acuti superavano i miei più spenti. Capitava che Kerry e io venissimo mandati a prendere un nocchiero an-
dato a dire addio alla moglie, o a portare un campione di spezie a un acquirente in un negozio. Il governatore del porto poteva spedirci di corsa a informare una ciurma che qualche idiota aveva legato le cime in modo sbagliato e che la marea stava per portare alla deriva la loro nave. Ma io preferivo le missioni che ci conducevano nelle taverne. Quello era il regno dei cantastorie e dei pettegoli. I cantastorie raccontavano le classiche vicende di viaggi di scoperta e di equipaggi che sfidavano tenibili tempeste e di capitani sciocchi che perdevano le loro navi con tutto l'equipaggio. Imparai a memoria molti racconti tradizionali, ma quelli che mi piacevano di più non venivano dai cantastorie di mestiere ma dagli stessi marinai. Non erano i racconti narrati davanti al focolare perché li sentissero tutti, ma gli avvertimenti e le notizie tramandate da un equipaggio all'altro o mentre gli uomini condividevano una bottiglia di liquore e una pagnotta di pane giallo. Parlavano delle prede catturate, delle reti piene fin quasi a far affondare la barca, o dei meravigliosi pesci e animali bizzarri intravisti soltanto nel raggio della luna piena che attraversava la scia di una nave. Storie di villaggi razziati dagli Isolani, sia sulla costa che sulle isole prospicienti il nostro ducato, racconti di pirati e battaglie navali e navi catturate in seguito al tradimento dell'equipaggio. Le più appassionanti erano le storie dei Pirati della Nave Rossa, gli Isolani che compivano scorrerie e atti di pirateria, e non attaccavano soltanto le nostre navi e città ma perfino altre navi isolane. Alcuni ridevano all'idea delle navi dalla chiglia rossa, e schernivano l'idea dei pirati isolani che si rivoltavano contro i loro stessi compatrioti. Ma Kerry e io e Nasuto sedevamo sotto i tavoli con la schiena contro i sostegni, rosicchiando dolcetti da un soldino e ascoltando con gli occhi spalancati i racconti di navi dalla chiglia rossa con una dozzina di corpi appesi agli alberi non ancora morti, no, legati a dibattersi e urlare quando i gabbiani calavano a beccarli. Ascoltavamo deliziati quei racconti spaventosi finché perfino le taverne afose sembravano gelide, e allora correvamo di nuovo ai moli per guadagnarci un altro soldo. Una volta, Kerry, Molly e io costruimmo una zattera con la legna gettata sulla spiaggia e la spingemmo con un palo sotto i moli. La lasciammo legata lì, e quando salì la marea, la zattera scalzò un'intera sezione di molo battendoci contro e danneggiò due barche da pesca. Per giorni tememmo che qualcuno avrebbe scoperto che eravamo noi i colpevoli. E un giorno un oste prese a sberle Kerry e ci accusò tutti e due di aver rubato. Ci vendicammo incastrando un'aringa puzzolente fra i supporti di un tavolo. An-
dò a male e puzzò e attirò le mosche per giorni prima che lui la trovasse. Nei miei viaggi imparai una manciata di mestieri: comprare il pesce, aggiustare le reti, costruire le navi, e far niente. Imparai ancora di più sulla natura umana. Divenni abile a giudicare chi avrebbe davvero pagato il soldo promesso per un messaggio consegnato, e chi mi avrebbe solo riso in faccia quando andavo a riscuotere. Sapevo in quale negozio di panettiere si poteva implorare, e in quali botteghe era più facile rubare. E in tutto questo, Nasuto era al mio fianco, legato a me a tal punto che raramente separavo del tutto la mia mente dalla sua. Usavo il suo naso, i suoi occhi e le sue fauci liberamente come se fossero state mie, e non mi parve mai minimamente strano. Così passò gran parte dell'estate. Ma un bel giorno, mentre il sole attraversava un cielo più azzurro del mare, la mia fortuna ebbe termine. Molly, Kerry e io avevamo sottratto una bella catena di salsicce da un affumicatoio e stavamo scappando per la via inseguiti dal legittimo proprietario. Nasuto era con noi, come sempre. Gli altri bambini avevano imparato ad accettarlo come una parte di me. Non credo che abbiano mai intuito la nostra unicità di mente. Eravamo Pivello e Nasuto, e probabilmente pensavano che quando Nasuto andava a mettersi esattamente dove io avrei tirato la sua parte di bottino fosse soltanto un astuto trucco. E così eravamo in realtà in quattro, a correre lungo la strada affollata, passando le salsicce da una mano avida a umide fauci e di nuovo alla mano mentre dietro di noi il proprietario strepitava e ci inseguiva invano. Poi Burrich uscì da una bottega. Io stavo correndo verso di lui. Ci riconoscemmo in un istante di reciproco sgomento. L'espressione minacciosa che apparve sul suo viso non mi lasciò alcun dubbio sulla mia condotta. Scappa, decisi in un respiro, ed evitai le mani che si tendevano verso di me, solo per scoprire con confusione improvvisa che per qualche motivo gli ero andato a sbattere contro. Non mi piace ricordare quello che accadde poi. Fui sonoramente schiaffeggiato, non solo da Burrich ma dal furibondo proprietario delle salsicce. Tutti i miei complici, a parte Nasuto, svanirono negli angoli bui della strada. Nasuto avanzò verso Burrich strisciando sulla pancia, pronto alle sberle e ai rimproveri. In preda al tormento osservai Burrich che prendeva alcune monete dalla bisaccia per pagare l'uomo delle salsicce. Mi teneva così forte per il collo della camicia da sollevarmi quasi dal terreno. Quando l'uomo delle salsicce fu scomparso e la piccola folla che si era radunata a osservare la mia disgrazia cominciò a disperdersi, finalmente mi lasciò andare. Mi
chiesi cosa significasse lo sguardo di disgusto che mi rivolse. Assestandomi un altro manrovescio sulla nuca, mi ordinò: «A casa. Subito.» Nasuto e io corremmo a casa, più in fretta che mai. Raggiungemmo il nostro giaciglio davanti al focolare, e attendemmo trepidanti. E attendemmo, e attendemmo, per tutto il lungo pomeriggio fino alla sera. Venne fame a tutti e due, ma sapevamo che non dovevamo andarcene. Nel viso di Burrich era apparso qualcosa di ancor più spaventevole perfino della rabbia del papà di Molly. Quando Burrich arrivò, era ormai notte fonda. Sentimmo il suo passo sulle scale, e non avevo bisogno dell'istinto più acuto di Nasuto per sapere che aveva bevuto. Ci rannicchiammo l'uno contro l'altro mentre Burrich entrava nella stanza in penombra. Aveva il respiro pesante, e gli ci volle più del solito per accendere diverse candele con quella che io avevo preparato. Fatto questo, si lasciò cadere su una panca e ci guardò tutti e due. Nasuto uggiolò, e poi si buttò su un fianco supplicando come fanno i cuccioli. Io avrei voluto fare lo stesso, ma mi accontentai di rivolgergli uno sguardo timido. Dopo un momento, parlò. «Fitz. Che ne sarà di te? Che ne sarà di noi? Correre con i ladri e i mendicanti da strada, tu che hai sangue regale nelle vene. In branco come animali.» Non dissi nulla. «E io ne ho colpa quanto te, suppongo. Vieni qui, dunque. Vieni qui, ragazzo.» Mi azzardai ad appressarmi di un paio di passi. Non mi piaceva andargli troppo vicino. Burrich aggrottò la fronte alla mia cautela. «Sei ferito, ragazzo?» Scossi la testa. «E allora vieni qui.» Esitai, e Nasuto uggiolò in una tormentosa indecisione. Burrich lo guardò perplesso. Riuscivo a vedere la sua mente che lavorava attraverso la nebbia del vino. I suoi occhi andarono dal cucciolo a me e di nuovo al cucciolo, e sul suo volto apparve un'espressione di disgusto. Scosse la testa. Lentamente si alzò e sì allontanò dal tavolo e dal cucciolo, risparmiando la gamba zoppa. In un angolo della camera c'era un piccolo ripiano con un assortimento di strumenti e oggetti polverosi. Lentamente Burrich alzò la mano e ne prese uno. Era fatto di legno e cuoio, irrigidito dal disuso. Lo agitò, e la corta cinghia di cuoio schioccò vivacemente contro la sua gamba. «Lo sai cos'è questo, ragazzo?» chiese piano, con voce
gentile. Scossi la testa senza parlare. «Una frusta per cani.» Lo guardai senza capire. Non c'era nulla nella mia esperienza o in quella di Nasuto che mi dicesse come reagire. Burrich dovette notare la mia confusione. Sorrise amabilmente e la sua voce rimase amichevole, ma io percepii qualcosa che era nascosto nelle sue buone maniere, qualcosa in attesa. «È uno strumento, fitz. Serve a insegnare. Quando hai un cucciolo che non ti dà retta - quando dici a un cucciolo 'vieni qui', e il cucciolo non vuol venire - ebbene, con qualche frustata ben assestata impara ad ascoltare e a obbedire subito. Basta qualche colpo preciso.» Parlava con indifferenza mentre abbassava la frusta e faceva penzolare lievemente la corta cinghia sopra il pavimento. Io e Nasuto non riuscivamo a distogliere lo sguardo, e quando improvvisamente lui agitò l'oggetto verso Nasuto, il cucciolo emise un guaito di terrore e balzò indietro, precipitandosi a nascondersi dietro di me. E Burrich si afflosciò lentamente su una panca vicino al fuoco, coprendosi gli occhi. «Oh, Eda» sussurrò, fra l'imprecazione e la preghiera. «Avevo indovinato, l'avevo sospettato, quando vi vedevo correre insieme a quel modo, ma per gli occhi di El, non volevo avere ragione. Non ho mai colpito un cucciolo con quella maledetta cosa in vita mia. Nasuto non aveva ragione di averne paura. A meno che tu non stessi condividendo la mente con lui.» Qualunque fosse stato il pericolo, avvertii che era passato. Crollai a sedere vicino a Nasuto, che mi si arrampicò in grembo e mi strofinò il naso umido sulla faccia. Lo tranquillizzai, suggerendo di stare a vedere che cosa sarebbe successo. Ragazzo e cane, restammo seduti, osservando l'immobilità di Burrich. Quando finalmente l'uomo alzò il viso, notai con sbalordimento che sembrava aver pianto. Come mia madre, ricordo di aver pensato, ma stranamente adesso non riesco a richiamare un'immagine di lei che piange. Solo del viso addolorato di Burrich. «Fitz. Ragazzo. Vieni qui» disse piano, e questa volta c'era qualcosa nella sua voce a cui non si poteva disobbedire. Mi alzai e andai da lui, con Nasuto alle calcagna. «No» disse al cucciolo, e indicò un punto vicino al suo stivale, ma prese me e mi sollevò sulla panca accanto a lui. «Fitz» cominciò, e poi fece una pausa. Trasse un profondo respiro e ricominciò. «Fitz, questo è sbagliato. È male, molto male, quello che hai
fatto con questo cucciolo. È innaturale. Peggio che rubare o mentire. Rende un uomo meno che uomo. Mi capisci?» Lo guardai senza espressione. Burrich sospirò e provò di nuovo. «Ragazzo, tu sei di sangue reale. Bastardo o no, sei il figlio di Chevalier, di antico lignaggio. E questa cosa che stai facendo, è sbagliata. Non è degna di te. Mi capisci?» Scossi la testa in silenzio. «Ecco, lo vedi. Non parli più. Adesso dimmi. Chi ti ha insegnato a fare questo?» Io tentai. «A fare cosa?» La mia voce suonava stridula e rauca. Gli occhi di Burrich divennero più grandi. Percepii il suo sforzo per controllarsi. «Lo sai cosa intendo. Chi ti ha insegnato a entrare nella mente del cane, a vedere le cose che vede lui, a permettergli di vedere quello che vedi tu, a comunicare fra voi?» Ci riflettei per un momento. Sì, era proprio così. «Nessuno» risposi infine. «È semplicemente successo. Siamo insieme da tanto tempo» aggiunsi, sperando che fosse una spiegazione. Burrich mi guardò severamente. «Non parli come un bambino» osservò improvvisamente. «Ma ho sentito che era così che succedeva, con quelli che possedevano l'antico Spirito. Che fin dall'inizio non erano mai veramente bambini. Sapevano sempre troppo, e man mano che diventavano grandi sapevano anche di più. Ecco perché non era mai considerato un crimine, nei tempi andati, dar loro la caccia e bruciarli. Capisci quello che ti sto dicendo, fitz?» Scossi la testa, e quando Burrich aggrottò la fronte al mio silenzio, mi costrinsi ad aggiungere: «Ma ci provo. Che cos'è l'antico Spirito?» Burrich apparve incredulo, poi sospettoso. «Ragazzo!» mi minacciò, ma io mi limitai a guardarlo. Dopo un momento, riconobbe la mia ignoranza. «Lo Spirito» cominciò lentamente. Il suo viso si fece torvo, e lui si guardò le mani come ricordando un antico peccato. «È il potere del sangue della bestia, proprio come l'Arte viene dal lignaggio dei re. Comincia come una benedizione, perché ti permette di comunicare con gli animali. Ma poi ti prende e ti trascina in basso, ti rende una bestia come loro. Fino a quando non rimane in te neanche un brandello di umanità, e tu corri e agiti la lingua e assaggi il sangue, come se il branco fosse tutto quello che hai mai conosciuto. Fino a quando nessuno potrebbe guardarti e pensare che tu sia mai stato un uomo.» La sua voce aveva continuato ad abbassarsi mentre parlava, e non mi guardava, ma si era rivolto verso il fuoco e fissava le
fiamme morenti. «Alcuni dicono che a quel punto un uomo prende la forma della bestia, ma uccide con la passione di un uomo piuttosto che con la semplice fame della bestia. Uccide per uccidere... «È questo che vuoi, fitz? Annegare il sangue regale che è in te nel sangue della caccia sfrenata? Essere una bestia fra le bestie, semplicemente per la conoscenza che questo ti permette? Pensa anche solo a quello che succede prima. L'odore del sangue fresco ti cambierà il carattere, la vista della preda annullerà i tuoi pensieri.» La sua voce divenne ancora più tranquilla, e io sentii il disgusto che provava mentre mi chiedeva: «Ti sveglierai febbricitante e sudato perché da qualche parte c'è una cagna in calore e il tuo compagno la sente? Sarà questa la conoscenza che porterai nel letto della tua signora?» Mi feci piccolo accanto a lui. «Non lo so» dissi con voce sottile. Burrich si girò a fronteggiarmi, indignato. «Non lo sai?» ringhiò. «Io ti sto dicendo dove ti condurrà, e tu dici che non lo sai?» Avevo la lingua secca, e Nasuto tremava ai miei piedi. «Ma è vero che non lo so» protestai. «Come faccio a sapere quello che farò fino a quando non l'avrò fatto? Come faccio a dirlo?» «Ebbene, se tu non lo sai, io sì!» ruggì l'uomo, e in quel momento compresi pienamente quanto avesse alimentato i fuochi della sua rabbia, e anche quanto avesse bevuto quella sera. «Il cucciolo se ne va e tu resti. Tu resti qui, affidato a me, dove posso tenerti d'occhio. Se Chevalier non mi vuole portare con sé, è il minimo che possa fare per lui. Farò in modo che suo figlio cresca come un uomo, e non come un lupo. Lo farò, anche se questo dovesse ucciderci tutti e due!» Si alzò di scatto dalla panca e afferrò Nasuto per la collottola. Almeno, questa era la sua intenzione. Ma io e il cucciolo balzammo lontano da lui. Insieme corremmo verso la porta, ma il chiavistello era tirato e, prima che io potessi toglierlo, Burrich ci fu addosso. Allontanò Nasuto con lo stivale; afferrò me per una spalla e mi spinse via. «Vieni qui, cucciolo» ordinò, ma Nasuto si rifugiò al mio fianco. Burrich rimase ansante e furibondo accanto alla porta, e io percepii la corrente rabbiosa dei suoi pensieri, la furia che gli suggeriva di farci a pezzi tutti e due e farla finita. Al di sopra avvertivo il controllo, ma quella breve occhiata fu sufficiente a terrorizzarmi. E quando improvvisamente balzò verso di noi, io lo respinsi con tutta la forza della mia paura. Burrich crollò improvvisamente come un uccello in volo colpito da una pietra, e rimase seduto per un istante sul pavimento. Io mi chinai e strinsi a
me Nasuto. Burrich lentamente scosse la testa come per scrollare gocce di pioggia dai capelli. Si alzò, torreggiando sopra di noi. «È nel suo sangue» lo sentii mormorare fra sé. «Viene dal sangue della sua maledetta madre, e non dovrei essere sorpreso. Ma bisogna dargli una lezione.» E poi, guardandomi dritto negli occhi, mi ammonì: «Fitz. Non farmi mai più una cosa del genere. Mai più. Ora, dammi quel cucciolo.» Avanzò di nuovo su di noi, e al tocco della sua collera nascosta non riuscii a trattenermi. Lo spinsi di nuovo. Ma questa volta la mia difesa incontrò un muro che me la ricacciò indietro, tanto che inciampai e crollai, quasi sul punto di svenire, la mente schiacciata dall'oscurità. Burrich si chinò su di me. «Ti ho avvertito» disse piano, e la sua voce era come il ringhio di un lupo. Poi, per l'ultima volta, sentii le sue dita afferrare il pelo di Nasuto. Sollevò di peso il cucciolo, e lo portò, senza malmenarlo, alla porta. Aprì velocemente il chiavistello che aveva resistito a me, e in pochi istanti udii il rimbombo dei suoi stivali che scendevano le scale. In un momento mi ero ripreso ed ero in piedi, e mi gettavo contro la porta. Ma Burrich l'aveva chiusa in qualche modo, e io annaspai vanamente con il chiavistello. Il mio senso di Nasuto si affievolì mentre veniva portato sempre più lontano da me, lasciando una disperata solitudine. Uggiolai, poi gettai un urlo, graffiando la porta e cercando il contatto con lui. Ci fu un improvviso lampo di rosso dolore, e Nasuto non c'era più. Mentre i suoi sensi canini mi abbandonavano completamente, urlai e piansi come può fare solo un bambino di sei anni, battendo vanamente i pugni sulle spesse tavole di legno. Parvero passare ore prima che Burrich ritornasse. Sentii il suo passo e sollevai la testa da dove giacevo ansante e sfinito sulla soglia. L'uomo aprì la porta, e poi mi afferrò agilmente per il dietro della camicia mentre cercavo di superarlo di corsa. Mi trascinò di nuovo nella stanza, quindi sbatté la porta richiudendola. Mi gettai senza parole contro di essa, e un gemito mi salì alla gola. Burrich sedette stancamente. «Non pensarci neanche, ragazzo» mi avvertì, come se avesse potuto vedere i piani disperati che stavo facendo per la prossima volta che mi lasciava uscire. «Non c'è più. Il cucciolo non c'è più, ed è un maledetto peccato, perché era di buona razza. La sua ascendenza era quasi lunga come la tua. Ma preferisco sprecare un cane piuttosto che un uomo.» Quando non mi mossi, aggiunse, quasi gentilmente: «Smettila di rimpiangerlo. A quel modo farà meno male.»
Ma io non smisi, e sentii nella sua voce che non si era veramente aspettato che lo facessi. Sospirò, e si mosse lentamente mentre si preparava per dormire. Non mi disse nient'altro, semplicemente spense la lampada e si. distese sul letto. Ma non dormì, e il mattino era ancora lontano diverse ore quando si alzò e mi sollevò dal pavimento e mi mise nel posto caldo lasciato dal suo corpo fra le coperte. Uscì di nuovo, e non ritornò per qualche ora. Quanto a me, fui depresso e febbricitante per giorni. Burrich, credo, fece sapere in giro che avevo qualche malattia infantile, così mi lasciarono in pace. Passarono giorni prima che mi fosse permesso di nuovo di uscire, e non da solo. In seguito, Burrich fece di tutto affinché non avessi alcuna occasione di legarmi a una bestia. Sono sicuro che pensò di esserci riuscito, e fino a un certo punto fu così, poiché non formai un legame esclusivo con alcun cane o cavallo. So che le sue intenzioni erano buone. Eppure non mi sentivo protetto da lui, ma prigioniero. Era il guardiano che assicurò il mio isolamento con un fervore quasi fanatico. La completa solitudine gettò il suo seme in me a quel punto, e affondò dentro di me radici profonde. 3 Patto La fonte originale dell'Arte probabilmente rimarrà per sempre avvolta nel mistero. Di certo l'inclinazione verso di essa scorre con forza notevole nella famiglia reale, eppure non è limitata, alla casata del re. Sembra esserci qualche verità nel detto popolare «Quando il sangue del mare scorre insieme al sangue delle pianure, l'Arte fiorisce». È interessante notare che gli Isolani sembrano non avere una predilezione per l'Arte, e neanche i popoli discesi solamente dagli originali abitanti dei Sei Ducati. È la natura del mondo che tutte le cose cerchino un ritmo e trovino in quel ritmo una sorta di pace? Certamente così è sempre sembrato a me. Tutti gli eventi, non importa quanto travolgenti o bizzarri, vengono diluiti quasi immediatamente dal proseguire della necessaria regolarità della vita di tutti i giorni. Gli uomini che percorrono un campo di battaglia in cerca dei feriti fra i morti continueranno a fermarsi per tossire, per soffiarsi il naso, continueranno ad alzare gli occhi per osservare uno stormo di oche in formazione a V. Ho visto contadini continuare ad arare e a piantare,
incuranti degli eserciti che si scontravano a poche miglia di distanza. Così fu per me. Ripenso a me stesso e medito. Separato da mia madre, trascinato in una nuova città e in un nuovo clima, abbandonato da mio padre alla custodia di quest'uomo, e poi privato del mio compagno canino, un giorno ricominciai tuttavia ad alzarmi dal letto e ripresi la mia vita di bambino. Per me, questo significava alzarmi quando Burrich si svegliava e seguirlo nelle cucine, dove mangiavo accanto a lui. Dopo questo, ero l'ombra di Burrich. Raramente mi perdeva d'occhio. Gli stavo alle calcagna come un cane, osservandolo compiere i suoi lavori, e in seguito aiutandolo in piccole faccende. La sera, quando si andava a cena, io sedevo al suo fianco su una panca e mangiavo, mentre i suoi occhi attenti controllavano le mie maniere. Poi si tornava ai suoi alloggi, dove potevo passare il resto della serata osservando il fuoco in silenzio mentre Burrich beveva, o osservando il fuoco in silenzio in attesa del suo ritorno. Era solito lavorare mentre beveva, aggiustando o fabbricando briglie, preparando un unguento, o mescolando una medicina per un cavallo. Lavorava, e io imparavo osservandolo, anche se per quanto mi ricordo poche parole passavano fra noi. Strano pensare che a quel modo trascorsero due anni e gran parte di un altro. Imparai a fare come Molly, rubando momenti per me stesso nei giorni in cui Burrich veniva chiamato ad aiutare in una caccia o ad assistere al parto di una cavalla. Solo ogni tanto osavo scivolare fuori quando aveva bevuto più di quello che poteva permettersi, ma erano uscite pericolose. Quando ero libero, scappavo a cercare i miei giovani compagni al borgo e correvo insieme a loro finché ne avevo il coraggio. Nasuto mi mancava così profondamente come se Burrich mi avesse tagliato un braccio o una gamba. Ma nessuno di noi due ne parlò mai. Guardando indietro, suppongo che Burrich si sentisse solo quanto me. Chevalier non gli aveva permesso di seguirlo in esilio. Era stato lasciato a occuparsi di un bastardo senza nome, e aveva scoperto che il bastardo aveva un'inclinazione che lui considerava perversa. E perfino dopo che la sua gamba fu guarita scoprì che non avrebbe mai più cavalcato o cacciato o addirittura camminato bene come un tempo; questo doveva essere difficile da accettare, per un uomo come Burrich. Non se ne lamentò mai con nessuno, per quel che ne so. Ma ancora una volta, guardando indietro, non riesco a immaginare con chi avrebbe potuto lamentarsene. Noi due eravamo legati nella solitudine, e guardandoci ogni sera vedevamo colui che ne ritenevamo responsabile.
Eppure tutte le cose devono passare, ma soprattutto il tempo, e con i mesi e poi con gli anni giunsi lentamente a trovare il mio posto nello schema delle cose. Facevo piccole commissioni per Burrich, portandogli quello che gli serviva prima che pensasse di chiedere, e mettevo ordine dopo che si era preso cura delle bestie, e provvedevo acqua fresca per i falchi e toglievo le zecche ai cani tornati dalla caccia. La gente si era abituata a vedermi, e non mi fissava più. Alcuni sembravano non vedermi affatto. Gradualmente Burrich allentò la sua sorveglianza su di me. Andavo e venivo più liberamente, ma continuavo a fare attenzione che non venisse a sapere delle mie visite al borgo. C'erano altri bambini alla fortezza, molti quasi della mia età. Alcuni erano perfino miei parenti, secondi o terzi cugini. Eppure non strinsi alcun vero legame con loro. I più piccoli erano affidati alle madri o alle governanti, i più grandi erano occupati con le loro commissioni e incarichi. La maggior parte non erano crudeli con me; ero semplicemente fuori dalla loro cerchia. Così, anche se non vedevo Dick o Kerry o Molly per mesi, rimanevano loro i miei più intimi amici. Nelle mie esplorazioni della fortezza, e nelle serate d'inverno quando tutti si radunavano nella Sala Grande ad ascoltare i menestrelli, o ad assistere agli spettacoli di marionette o ai giochi al coperto, imparai rapidamente dove ero benvenuto e dove non lo ero. Mi tenevo alla larga dalla regina, perché ogni volta che mi vedeva trovava sempre qualcosa che non andava nel mio comportamento e faceva rimproverare Burrich. Anche Regal era una fonte di pericolo. Ormai era diventato quasi un uomo, ma non si faceva scrupolo di spingermi da parte o calpestare con indifferenza qualsiasi cosa avessi trovato con cui giocare. Era capace di una meschinità e acrimonia che non avevo mai incontrato in Veritas. Non che Veritas mi dedicasse mai il suo tempo, ma i nostri incontri casuali non erano mai spiacevoli. Se mi notava, mi spettinava i capelli, o mi offriva una monetina. Un giorno un domestico portò agli alloggi di Burrich qualche giocattolino di legno, soldati e cavalli e un carretto, con la pittura molto scrostata, con un messaggio che Veritas li aveva trovati in un angolo del suo baule dei vestiti e aveva pensato che mi sarebbero piaciuti. Non credo di aver mai posseduto qualcosa che mi fosse più prezioso. Roano alle stalle era un'altra zona pericolosa. Se Burrich era in giro, mi parlava con gentilezza e mi trattava bene, ma le altre volte non sapeva che farsene di me. Mi fece capire che non mi voleva fra i piedi mentre lavorava. Finii per scoprire che era geloso di me, e che sentiva che occupandosi
di me Burrich avesse perso l'interesse che un tempo aveva avuto per lui. Non era mai apertamente crudele, non mi colpiva mai e non mi sgridava senza motivo; ma io avvertivo la sua avversione, e lo evitavo. Tutti i soldati mostravano una grande tolleranza per me. Dopo i bambini di strada a Borgo Castelcervo, probabilmente erano la cosa più vicina a degli amici che io avessi. Ma gli uomini adulti hanno ben poco in comune con un bambino di nove o dieci anni, non importa quanto possano essere tolleranti nei suoi confronti. Li guardavo giocare d'azzardo con gli astragali e ascoltavo le loro storie, ma per ogni ora trascorsa in loro compagnia c'erano giorni in cui non ci vedevamo affatto. E sebbene Burrich non mi proibisse mai di andare alla sala delle guardie, non nascondeva di disapprovare il tempo che vi trascorrevo. E così ero un membro della comunità della fortezza, eppure non lo ero. Evitavo alcuni, osservavo altri, ad altri ancora obbedivo. Ma con nessuno sentivo un legame particolare. Poi, una mattina, quando non avevo ancora raggiunto il mio decimo anno, stavo giocando sotto le tavole nella Sala Grande, rotolandomi con i cuccioli e provocandoli al gioco. Era presto. La sera prima c'era stata una qualche ricorrenza, e i festeggiamenti erano durati tutto il giorno e gran parte della notte. Burrich si era stordito con il bere. Quasi tutti, nobili o domestici, erano ancora a letto, e quella mattina la cucina non aveva concesso molto alle mie esplorazioni affamate. Ma le tavole nella Sala Grande erano una miniera di pasticcini frantumati e piatti di carne. C'erano anche ciotole di mele, fette di formaggio; in breve, tutto quello che un ragazzo potrebbe desiderare di razziare. I cani adulti avevano preso le ossa migliori e si erano ritirati nei loro angoli della sala, lasciando vari cuccioli a disputarsi i pezzi più piccoli. Io avevo portato un pasticcio di carne piuttosto grosso sotto il tavolo e stavo dividendolo con i miei cuccioli preferiti. Dopo l'incidente di Nasuto, stavo attento che Burrich non mi vedesse stabilire un'affinità troppo grande con un solo cucciolo. Ancora non capivo perché obiettasse alla mia familiarità con un cane, ma non volevo rischiare la vita di un cucciolo per un litigio con lui. Quindi stavo alternando morsi con i tre cagnetti quando udii dei passi lenti percorrere il pavimento sparso di giunchi. Due uomini stavano parlando, discutendo qualcosa in toni sommessi. Pensai che fossero gli sguatteri, venuti a far pulizia. Strisciai fuori da sotto il tavolo per agguantare ancora qualche avanzo scelto prima che sparissero.
Non fu un domestico a rimanere sorpreso dalla mia apparizione, ma il vecchio re in persona, mio nonno. Appena un passo dietro di lui, al suo fianco, c'era Regal. Gli occhi pesti e il giustacuore stropicciato dimostravano la sua partecipazione ai festeggiamenti della serata. Il nuovo Matto del re, acquisito di recente, li seguiva a piccoli passi silenziosi, con occhi pallidi spalancati in un volto bianco come un guscio d'uovo. Era una creatura tanto strana, con la pelle esangue e l'abito tutto a pezze bianche e nere, che osavo a malapena guardarlo. In contrasto, re Sagace aveva gli occhi limpidi, la barba e i capelli appena acconciati e gli abiti immacolati. Per un istante fu sorpreso, e poi commentò: «Lo vedi, Regal, è come ti dicevo. Un'occasione si presenta, e qualcuno l'afferra; spesso è un giovane, o uno spinto dalle energie e dalle brame della gioventù. I reali non possono permettersi di ignorare tali occasioni, o permettere che siano create per altri.» Il re mi superò nella sua passeggiata, continuando sullo stesso tema mentre Regal mi gettava uno sguardo minaccioso con gli occhi iniettati di sangue. Un cenno della sua mano mi indicò che dovevo scomparire. Accennai in fretta che avevo capito, ma prima corsi alla tavola. Mi cacciai due mele nel giustacuore e avevo afferrato un pasticcino ai lamponi quasi intero quando il re improvvisamente si girò e mi fece un cenno. Il suo Matto lo imitò. Io rimasi bloccato dov'ero. «Guardalo» ordinò il vecchio re. Regal mi fulminò, ma io non osavo muovermi. «Che ne dici di lui?» Regal apparve perplesso. «Lui? È il bastardo. Il bastardo di Chevalier. In giro a strisciare e a rubare, come al solito.» «Sei matto.» Re Sagace sorrise, ma i suoi occhi rimasero di pietra. Il Matto, pensando che dicesse a lui, sorrise dolcemente. «Hai la cera nelle orecchie?» proseguì il re. «Non senti quello che dico? Non ti ho chiesto che cosa mi dici di lui, ma che cosa ne dici di lui. Eccolo lì, giovane, forte e pieno di risorse. Il suo sangue è reale quanto il tuo, anche se è nato fuori dal matrimonio. E allora, che ne dici? Uno strumento? Un'arma? Un compagno? Un nemico? O lo lasceresti semplicemente in giro, aspettando che qualcun altro lo prenda e lo usi contro di te?» Regal mi guardò socchiudendo gli occhi, poi gettò un'occhiata dietro di me e, non trovando nessun altro nella sala, riportò il suo sguardo perplesso su di me. Vicino alla mia caviglia, un cucciolo uggiolò ricordandomi che prima stavamo dividendo il pasto. Lo avvertii di stare buono. «Il bastardo? È solo un bambino.»
Il vecchio re sospirò. «Oggi. Questa mattina è solo un bambino. La prossima volta che ti girerai a guardarlo sarà un ragazzo, o peggio, un uomo, e allora sarà troppo tardi perché tu possa influenzarlo. Ma prendilo adesso, Regal, dagli forma, e fra dieci anni potrai comandare la sua lealtà. Invece di un bastardo scontento che può essere persuaso a diventare un pretendente al trono, sarà un uomo di fiducia, unito alla famiglia in spirito oltre che nel sangue. Un bastardo, Regal, è una cosa unica. Mettigli un anello di famiglia al dito e mandalo nel mondo, e avrai creato un diplomatico che nessun governante straniero oserà respingere. Potrà andare tranquillamente dove un principe reale sarebbe a rischio. Immagina gli impieghi per uno che è di sangue reale eppure non lo è. Scambi di ostaggi. Alleanze matrimoniali. Lavoro silenzioso. La diplomazia del coltello.» Gli occhi di Regal si spalancarono alle ultime parole del re. Tutti respirammo in silenzio, guardandoci. Quando Regal parlò, sembrava che un pezzo di pane secco gli si fosse fermato in gola. «Voi parlate di queste cose davanti al ragazzo. Parlate di usarlo, come uno strumento, come un'arma. Pensate che non ricorderà le vostre parole quando sarà cresciuto?» Re Sagace rise, e il suono echeggiò contro le pareti di pietra della Sala Grande. «Ricordarle? Certo che le ricorderà. Ci conto. Guarda i suoi occhi, Regal. C'è intelligenza, e forse il potenziale dell'Arte. Sarei pazzo a mentirgli. E ancora più stupido a cominciare semplicemente a addestrarlo e educarlo senza spiegazioni, perché ciò lascerebbe la sua mente fertile a qualsiasi seme che altri potrebbero piantarvi. Non è così, ragazzo?» Mi guardava fisso e io improvvisamente compresi che gli stavo restituendo lo sguardo. Per tutta la durata del suo discorso i nostri sguardi erano stati congiunti mentre ci valutavamo a vicenda. Negli occhi dell'uomo che era mio nonno c'era una sorta di rocciosa, ossuta onestà. In essa non trovavo conforto, ma sapevo che avrai sempre potuto contare su di essa. Annuii lentamente. «Vieni qui.» Camminai cautamente verso di lui. Quando lo raggiunsi, il re si piegò su un ginocchio per guardarmi dritto negli occhi. E il Matto si inginocchiò solennemente accanto a noi, fissando ansiosamente da un volto all'altro. Regal ci squadrava torvo dall'alto. A quell'epoca non compresi l'ironia del vecchio re genuflesso davanti al suo nipote bastardo. Così rimasi a osservarlo con serietà mentre mi prendeva il dolcetto di mano e lo gettava ai cuccioli che mi avevano seguito. Tolse una spilla dalle pieghe della sciarpa
di seta intorno alla gola e solennemente la infilò nella lana semplice della mia camicia. «Ora sei mio» disse, e rese quell'affermazione più importante del nostro sangue comune. «Non dovrai mangiare gli avanzi di nessuno. Baderò io a te, e ti tratterò bene. Se qualcuno cerca di metterti contro di me offrendoti più di quanto faccia io, allora vieni da me e riferiscimi l'offerta, e io ti offrirò altrettanto. Non mi troverai mai avaro, e neppure potrai tradirmi con la scusa che ti maltratto. Mi credi, ragazzo?» Annuii, in silenzio come era ancora mia abitudine, ma i suoi fermi occhi scuri richiedevano di più. «Sì, signore.» «Bene. Darò alcuni ordini che ti riguardano. Fai in modo di eseguirli. Se ti sembreranno strani, chiedi a Burrich. O a me. Basta che tu venga alla porta della mia stanza e mostri quella spilla. Ti faranno entrare.» Abbassai lo sguardo sulla gemma rossa che luccicava in un nido d'argento. «Sì, signore» riuscii di nuovo a dire. «Ah» disse piano il re, e io avvertii una traccia di rimpianto nella sua voce, e mi chiesi perché. I suoi occhi mi lasciarono andare, e d'un tratto fui di nuovo consapevole di quello che avevo attorno, dei cuccioli e della Sala Grande e di Regal che mi guardava nuovamente con un'espressione disgustata, e il Matto che annuiva entusiasta nella sua maniera svagata. Poi il re si alzò. Quando si girò un gran freddo mi pervase, come se mi fosse improvvisamente caduto di dosso un mantello. Era la mia prima esperienza dell'Arte usata da un maestro. «Tu non approvi, vero, Regal?» Il re parlò con il tono di una semplice conversazione. «Il mio re può fare quello che vuole» disse imbronciato. Re Sagace sospirò. «Non è quello che ti ho chiesto.» «La regina mia madre sicuramente non approverà. Favorire il ragazzo darà solo l'impressione che voi lo riconosciate. Potrà mettergli strane idee in testa, e non solo a lui.» «Bah!» Il re ridacchiò come divertito. Subito Regal si stizzì. «La regina mia madre non sarà d'accordo con voi, e non sarà neppure contenta. Mia madre...» «Da diversi anni non è d'accordo con me, e non è contenta di me. Quasi non me ne accorgo più, Regal. Schiamazzerà e agiterà le ah e mi dirà di nuovo che tornerà a essere duchessa di Armento, e tu duca dopo di lei. E se si arrabbia particolarmente, minaccerà che in tal caso Riccaterra e Ar-
mento si ribelleranno e diventeranno un regno separato, con lei come regina.» «E io come re dopo di lei!» aggiunse Regal in tono di sfida. Sagace annuì fra sé. «Sì, immaginavo che avesse impiantato l'infezione di questo tradimento nella tua mente. Ascolta, ragazzo. Potrà arrabbiarsi e gettare piatti contro i domestici, ma non farà mai nulla di più. Perché sa che è meglio essere regina di un regno pacifico piuttosto che duchessa di un ducato in rivolta. E Armento non ha ragioni di ribellarsi contro di me, tranne quelle che si è inventata lei. La sua ambizione ha sempre superato di molto la sua abilità.» Fece una pausa, e guardò Regal dritto negli occhi. «In una famiglia reale, questo è un difetto davvero deplorevole.» Sentivo le ondate di rabbia repressa emanare da Regal che guardava per terra. «Vieni» ordinò il re, e Regal lo tallonò obbediente come un cane. Ma l'occhiata d'addio che mi rivolse era velenosa. Rimasi a guardare il vecchio re che lasciava la sala, e provai un forte senso di perdita. Strano uomo. Anche se ero un bastardo, avrebbe potuto dichiararsi mio nonno, e avere con una domanda quello che invece aveva scelto di comprare. Alla porta, il pallido Matto si trattenne. Per un istante si girò a guardarmi, e fece un gesto incomprensibile con le mani magre. Poteva essere un insulto o una benedizione. O semplicemente il gesto delle mani di un Matto. Poi sorrise, mi fece una linguaccia e si girò per raggiungere di corsa il re. Malgrado le promesse del re, mi riempii di dolci il davanti del giustacuore. I cuccioli e io li dividemmo nell'ombra dietro le stalle. Era una colazione più grossa di quelle a cui eravamo abituati, e in seguito il mio infelice stomaco si lamentò per ore. I cuccioli si raggomitolarono per dormire, ma io oscillavo fra terrore e anticipazione. Speravo quasi che non accadesse, che il re dimenticasse le parole che mi aveva detto. Ma non fu così. Quella sera finalmente salii i gradini ed entrai nella stanza di Burrich. Avevo passato la giornata a chiedermi che cosa avrebbero significato per me le parole di quel mattino. Avrei potuto risparmiarmi la fatica. Non appena entrai, Burrich mise da parte il pezzo di finimenti che stava aggiustando e concentrò tutta la sua attenzione su di me. Mi considerò in silenzio per un poco, e io gli restituii lo sguardo. Qualcosa era cambiato, e io avevo paura. Fin da quando aveva fatto sparire Nasuto, ero convinto che Burrich avesse potere di vita e di morte anche su di me; che potesse sbarazzarsi di un bastardino con la stessa facilità di un cucciolo. Ciò non mi
aveva impedito però di sviluppare un certo senso di familiarità con lui; non è necessario amare per essere dipendenti. Quella sensazione di potermi fidare di Burrich era l'unica vera stabilità che avessi nella mia vita, e ora la sentivo tremare sotto di me. «Dunque.» Alla fine parlò, e mise un che di definitivo nella parola. «Dunque. Dovevi farti notare da lui, vero? Dovevi attirare l'attenzione. Ebbene. Ha deciso cosa fare di te.» Sospirò, e il suo silenzio cambiò. Per un breve istante, parve quasi che avesse pietà di me. Ma dopo un poco parlò. «Domani devo sceglierti un cavallo. Ha suggerito di prenderlo giovane, per potervi addestrare insieme. Io l'ho convinto a cominciare con una bestia più vecchia e salda. Uno studente per volta, gli ho detto. Ma ho le mie ragioni per metterti con un animale che sia... meno impressionabile. Vedi di comportarti bene; se fai scherzi me ne accorgerò. Ci capiamo?» Gli risposi con un breve cenno del capo. «Rispondi, fitz. Dovrai usare la lingua per trattare con tutori e maestri.» «Sì, signore.» Era così tipico di Burrich. Affidarmi un cavallo era il suo pensiero principale. Liquidate le sue preoccupazioni, annunciò il resto in tutta disinvoltura. «D'ora in avanti ti alzerai con il sole, ragazzo. Al mattino ti addestrerai con me. Come prendersi cura di un cavallo e dominarlo. E come cacciare correttamente con i cani, e fare in modo che ti ubbidiscano. Io ti insegnerò il modo in cui gli uomini controllano le bestie.» Diede particolare enfasi a queste ultime parole, e fece una pausa per essere sicuro che comprendessi. Il mio cuore sprofondò, ma cominciai ad annuire, poi mi corressi: «Sì, signore.» «Nei pomeriggi, penseranno loro a te. Per le armi e il resto. Probabilmente l'Arte, prima o poi. Nei mesi d'inverno, ti insegneranno al coperto. Le lingue e i segni. Scrivere e leggere e contare, non ne dubito. Anche la storia. Che cosa ne farai di tutto questo non ne ho idea, ma vedi di impararlo bene per far contento il re. Non è uomo da scontentare, e meno ancora da far arrabbiare. Il comportamento più saggio è fare in modo che non si accorga di te. Ma io non ti ho avvertito di questo, e adesso è troppo tardi.» Si schiarì la gola improvvisamente e trasse un respiro. «Oh, e c'è un'altra cosa che deve cambiare.» Prese il pezzo di finimento su cui stava lavorando e si chinò di nuovo su di esso. Sembrava parlare alle sue dita. «Adesso avrai una stanza tutta per te. Su alla fortezza, dove dormono quelli di san-
gue nobile. Se ti fossi preso la briga di rientrare in tempo staresti già dormendo là.» «Cosa? Non capisco. Una stanza?» «Oh, dunque sai rispondere in fretta, quando ne hai voglia? Mi hai sentito, ragazzo. Avrai una stanza tutta tua, su alla fortezza.» Fece una pausa, poi proseguì in tono allegro. «Finalmente avrò di nuovo la mia tranquillità. Oh, e domani devi anche farti prendere le misure per i vestiti. E per gli stivali. Anche se non capisco proprio che senso ha mettere uno stivale su un piede che sta ancora crescendo...» «Non voglio una stanza lassù.» Sebbene vivere con Burrich fosse diventato opprimente, d'un tratto mi sembrava preferibile all'ignoto. Immaginavo una grande, gelida stanza di pietra piena di ombre annidate negli angoli. «Ebbene, dovrai averne una» annunciò Burrich senza pietà. «Era anche ora. Sei il figlio di Chevalier, anche se non sei nato nel modo giusto, e metterti qui nelle stalle, come un randagio, ebbene, non si addice alla tua condizione.» «A me non dispiace» azzardai disperatamente. Burrich sollevò gli occhi e mi fissò con severità. «Ma guarda. Stasera abbiamo voglia di chiacchierare, vero?» Distolsi gli occhi dai suoi, abbassandoli. «Tu vivi quaggiù» feci notare imbronciato. «Tu non sei un randagio.» «Non sono neanche il bastardo di un principe» disse semplicemente lui. «Adesso vivrai alla fortezza, fitz, e questo è tutto.» Mi azzardai a guardarlo. Stava di nuovo parlando alle sue dita. «Preferirei essere un randagio» proclamai coraggiosamente. E poi tutte le mie paure incrinarono la mia voce mentre aggiungevo: «Tu non lasceresti che lo facessero a un cucciolo randagio, cambiare tutto in una volta. Quando hanno dato quel cucciolo di segugio a messer Grimsby, gli hai dato anche la tua vecchia camicia, in modo che avesse qualcosa con l'odore di casa fino a quando non si fosse ambientato.» «Ebbene,» disse «io non... vieni qui, fitz. Vieni qui, ragazzo.» E, come un cucciolo, andai da Burrich, l'unico padrone che avessi, e lui mi diede una pacca leggera sulla schiena e mi spettinò i capelli, proprio come se fossi stato un cane. «Non aver paura, adesso. Non c'è nulla di cui avere paura. E poi, comunque» disse, e lo sentii arrendersi «ci hanno detto solo che devi avere una stanza alla fortezza. Nessuno ha detto che devi dormirci ogni notte. Certe notti, se le cose sono un po' troppo tranquille per te, puoi tornare
quaggiù. Eh, fitz? Ti sembra una buona idea?» «Suppongo di sì» borbottai. I cambiamenti piovvero veloci e furiosi su di me per le successive due settimane. Burrich mi fece alzare all'alba, mi lavò e mi strigliò, mi tagliò i capelli davanti in modo che non li avessi negli occhi e il resto me lo legò dietro la schiena in un codino come quelli che portavano gli uomini adulti alla fortezza. Mi disse di vestirmi con i migliori abiti che avevo, poi schioccò la lingua quando vide che mi andavano stretti. Scrollando le spalle disse che bisognava accontentarsi. Poi andammo alle stalle, dove mi mostrò quella che adesso era la mia cavalla. Era grigia, con il mantello lievemente picchiettato. La criniera, la coda, il naso e le zampe erano annerite come se le avesse infilate nella fuliggine. E infatti si chiamava così. Era una bestia placida, ben fatta e ben tenuta. Sarebbe stato difficile immaginare un cavallo meno impegnativo. Da quel ragazzo che ero, avevo sperato almeno in un vivace castrato. E invece il mio cavallo sarebbe stata Fuliggine. Cercai di nascondere la mia delusione, ma Burrich dovette percepirla. «Non ti pare un granché, vero? Ebbene, che cavallo avevi fino a ieri, fitz, per arricciare il naso davanti a una bestia ben disposta e sana come Fuliggine? È gravida di quel furfante dello stallone baio di messer Temperato, quindi fa' in modo di trattarla gentilmente. Finora l'ha addestrata Roano; sperava di fame un cavallo da caccia. Ma io ho deciso che era più adatta a te. Lui c'è rimasto un po' male, ma gli ho promesso che potrà ricominciare con il puledro.» Burrich aveva adattato per me una vecchia sella, promettendo che, qualunque cosa dicesse il re, avrei dimostrato di essere un cavaliere prima che lui me ne facesse fare una nuova. Fuliggine uscì con calma dalla stalla e rispose con prontezza alle redini e alle mie ginocchia. Roano aveva fatto un ottimo lavoro con lei. Il suo temperamento e la sua mente mi facevano pensare a uno stagno tranquillo. Se aveva pensieri, non riguardavano quello che stavamo facendo, e Burrich mi osservava troppo attentamente perché io potessi rischiare di leggerle la mente. Così la cavalcai alla cieca, parlandole soltanto attraverso le ginocchia e le redini e spostando il mio peso. Lo sforzo fisico mi sfiancò ben prima che fosse finita la mia prima lezione, e Burrich lo sapeva. Ma questo non gli impedì dall'esentarmi dal ripulirla e nutrirla, e poi ripulire la mia sella e i finimenti. La sua criniera era perfettamente pettinata e il vecchio cuoio era oliato fino a scintillare prima che mi fosse permesso di andare nelle cucine a mangiare.
Ma mentre stavo per schizzare di corsa verso la porta posteriore della cucina, la mano di Burrich calò sulla mia spalla. «Quella non fa più per te» mi disse fermamente. «Quella va bene per i soldati e i giardinieri e gente così. Ma c'è una sala dove mangiano i gran signori e i loro domestici speciali. E sarà lì che mangerai, adesso.» E così dicendo, mi spinse in una stanza in penombra dominata da una lunga tavolata, che aveva all'estremità un altro tavolo rialzato. Era apparecchiata con cibo di ogni tipo, e piena di gente impegnata in vari stadi del pranzo. Quando il re e la regina e i principi erano assenti dal tavolo superiore, come in quel caso, nessuno badava alle formalità. Burrich mi diede una spintarella verso un posto sul lato sinistro del tavolo, poco oltre la metà. Lui mangiava sullo stesso lato, ma più in basso. Io ero affamato, e nessuno mi guardava abbastanza fisso da innervosirmi, quindi feci sparire in fretta un pranzo rispettabile. Il cibo sottratto direttamente dalla cucina era stato più caldo e più fragrante. Ma tali sottigliezze non contano per un ragazzo in crescita, e io mangiai di gusto dopo la mia mattinata a stomaco vuoto. A pancia piena, stavo pensando a un certo pendio sabbioso, riscaldato dal sole del pomeriggio e pieno di tane di conigli, dove i cuccioli e io spesso trascorrevamo pomeriggi assonnati. Cominciai ad alzarmi da tavola, ma immediatamente mi ritrovai alle spalle un ragazzo che diceva: «Signore?» Mi guardai attorno per vedere con chi stava parlando, ma tutti gli altri erano occupati con i taglieri. Era più alto di me, e anche più vecchio di diverse estati, quindi io lo fissai sbalordito mentre lui mi guardava negli occhi e ripeteva: «Signore? Avete finito di mangiare?» Io annuii rapidamente, troppo sbigottito per parlare. «Allora dovete venire con me. Mi manda Poiana. Vi aspetta per l'addestramento con le armi nel cortile questo pomeriggio. Se Burrich ha finito con voi, naturalmente.» Burrich improvvisamente apparve al mio fianco e mi sbalordì piegandosi su un ginocchio. Mi raddrizzò il giustacuore e mi ravviò i capelli all'indietro mentre parlava. «Per adesso ho finito. Ebbene, non fare quella faccia stupita, fitz. Pensavi che il re non fosse un uomo di parola? Pulisciti la bocca e sbrigati. Poiana è un'insegnante più severa di me; non tollera ritardi nella corte delle armi. Adesso vai con Brando, di corsa.» Io obbedii con il cuore che sprofondava. Mentre uscivo dalla sala seguendo il ragazzo, cercai di immaginare un'insegnante più severa di Bur-
rich. Era un'idea spaventosa. Fuori dalla sala, il ragazzo abbandonò rapidamente le maniere raffinate. «Come ti chiami?» domandò mentre mi conduceva lungo il sentiero di ghiaia verso l'armeria e le corti di addestramento che la fronteggiavano. Io scrollai le spalle e distolsi lo sguardo, fingendo un improvviso interesse per la vegetazione che bordava il sentiero. Brando emise un suono ironico. «Ebbene, dovranno chiamarti in qualche modo. Come ti chiama il vecchio gambamatta?» L'evidente disprezzo del ragazzo per Burrich mi sorprese a tal punto che sbottai: «Fitz. Mi chiama fitz.» «Fitz?» ridacchiò. «Già, ci avrei scommesso. Il vecchio pazzo non ha peli sulla lingua.» «Un cinghiale gli ha rovinato la gamba» spiegai. Quel ragazzo parlava come se la menomazione di Burrich fosse uno sciocco tentativo di farsi notare. Per qualche ragione mi sentii ferito dalla sua derisione. «Questo lo so!» Brando sbuffò sprezzante. «Lo ha maciullato fino all'osso. Una bestiaccia enorme e tutta zanne, stava per abbattere Chev, poi Burrich si è messo in mezzo. E così ha preso lui, e una mezza dozzina dei suoi cani, dicono.» Passammo attraverso un'apertura in un muro coperto di edera, e improvvisamente davanti a noi si aprirono le corti di addestramento. «Chev si era buttato nella mischia pensando di dover soltanto finire il cinghiale, quando quello è balzato in piedi e gli è saltato addosso. Ha anche spezzato in due la lancia del principe rivoltandoglisi contro, così ho sentito dire.» Lo seguivo da vicino, bevendomi ogni parola, quando improvvisamente si girò verso di me. Rimasi così sbalordito che quasi caddi, indietreggiando goffamente. Il ragazzo più anziano rise di me. «Immagino che fosse proprio l'anno di Burrich per prendersi sulle spalle le disgrazie di Chevalier, eh? È quello che ho sentito dagli uomini. Che Burrich ha salvato la vita a Chevalier e ci ha guadagnato una gamba zoppa, e poi si è preso il bastardo di Chev e lo ha allevato come un cagnolino da compagnia. Quello che mi piacerebbe sapere è come mai tutto d'un tratto devi farti addestrare nelle armi? Già, e hai pure un cavallo, da quel che ho sentito dire.» Nel suo tono c'era qualcosa di più che semplice gelosia. Da allora sono giunto a comprendere che molti uomini vedono sempre la fortuna di un altro come uno sgarbo fatto a loro. Sentivo la sua crescente ostilità come se fossi entrato senza preavviso nel territorio di un cane. Ma con un cane avrei potuto toccargli la mente e rassicurarlo delle mie intenzioni. Con
Brando c'era soltanto l'ostilità, come una tempesta che si addensava. Mi chiesi se stava per colpirmi, e se si aspettava che io reagissi o mi ritirassi. Avevo quasi deciso di darmela a gambe quando una figura imponente vestita tutta di grigio apparve dietro a Brando e gli afferrò fermamente la collottola. «Io invece ho sentito dire che il re ha detto di addestrarlo, proprio così, e di dargli un cavallo per imparare a cavalcare. E questo è sufficiente per me, e dovrebbe essere più che sufficiente per te, Brando. E, da quello che ho sentito, hai ordine di portarlo qui, e poi fare rapporto a mastro Tullume, che ha delle commissioni per te. Non è quello che hai sentito anche tu?» «Sì, signora.» L'atteggiamento pugnace di Brando improvvisamente si era trasformato in un frenetico assenso. «E intanto che 'senti' tutti questi importantissimi pettegolezzi, potrei farti notare che il saggio non dice mai tutto quello che sa. E che colui che racconta storie non ha molto di più nella testa. Mi capisci, Brando?» «Penso di sì, signora.» «Pensi di sì? E allora sarò più chiara. Smettila di cacciare il naso dappertutto e dedicati ai tuoi compiti. Sii diligente e disponibile, e forse la gente comincerà a spettegolare che tu sei il mio 'cagnolino da compagnia'. Potrei fare in modo che tu sia troppo occupato per i pettegolezzi.» «Sì, signora.» «Tu, ragazzo.» Brando stava già affrettandosi per il sentiero mentre lei si voltava verso di me. «Seguimi.» L'anziana donna non attese di vedere se obbedivo o no. Si limitò ad avviarsi con passo deciso attraverso le corti di addestramento, costringendomi a trottare per starle dietro. La terra battuta della corte era indurita dal calore e il sole mi picchiava sulle spalle. Quasi immediatamente cominciai a sudare. Ma la donna non parve trovare quel passo veloce per niente faticoso. Vestiva interamente di grigio: una lunga sovratunica grigia scura, brache di un grigio più chiaro e sopra un grembiule di cuoio grigio che le arrivava quasi alle ginocchia. Immaginai che fosse una specie di giardiniera, anche se mi incuriosivano i suoi morbidi stivali grigi. «Sono stato mandato a addestrarmi... da Poiana» riuscii a dire ansimando. La donna annuì brevemente. Raggiungemmo l'ombra dell'armena e i miei occhi si spalancarono con gratitudine dopo il bagliore delle corti a cielo aperto.
«Mi deve insegnare le armi e il loro uso» le dissi, nel caso che non avesse compreso le mie precedenti parole. La donna annuì di nuovo e aprì una porta nella struttura simile a un fienile che era l'armeria esterna. Sapevo che quello era il luogo dove venivano tenute le armi da addestramento. Il ferro e l'acciaio di buona qualità erano conservati nella fortezza stessa. All'interno dell'armeria c'era una dolce penombra e una lieve frescura, insieme all'odore del legno e del sudore e dei giunchi appena sparsi. La donna non esitò, e io la seguii fino a una rastrelliera che sorreggeva una scorta di pali appuntiti. «Scegline uno» mi disse, le prime parole che pronunciava dopo avermi ordinato di seguirla. «Non dovrei aspettare Poiana?» chiesi timidamente. «Sono io Poiana» rispose la donna con impazienza. «Adesso prenditi un bastone, ragazzo. Voglio trascorrere un po' di tempo con te da solo, prima che arrivino gli altri. Per vedere di cosa sei fatto e che cosa sai.» Non le ci volle molto per stabilire che non sapevo quasi niente e mi sgomentavo facilmente. Dopo appena qualche colpo e parata con il suo bastone bruno, assestò facilmente al mio un colpo di taglio che me lo fece volar via dalle mani indolenzite. «Hmm» mugugnò, senza né durezza né comprensione. Era lo stesso verso che può fare un giardiniere per una patata con un poco di muffa. Cercai verso di lei, e trovai lo stesso silenzio che avevo incontrato con la cavalla. Non c'era traccia dell'atteggiamento riservato di Burrich verso di me. Credo che per la prima volta mi resi conto che certe persone, come certi animali, non si accorgevano affatto che io estendevo i sensi verso di loro. Avrei potuto cercare più a fondo nella sua mente, ma ero così sollevato dall'assenza di ostilità che temevo di finire per provocarla. Quindi rimasi immobile, facendomi piccolo sotto il suo esame. «Ragazzo, come ti chiami?» chiese improvvisamente. Di nuovo. «Fitz.» Poiana aggrottò la fronte alla mia voce sommessa. Io raddrizzai le spalle e parlai più forte. «Burrich mi chiama Fitz.» La donna fece una lieve smorfia. «Non ne dubito. Chiama cagna una cagna e bastardo un bastardo, Burrich. Ebbene... suppongo di capire le sue ragioni. Tu sei Fitz, e anch'io ti chiamerò Fitz. Dunque. Ti mostrerò perché l'asta che hai scelto è troppo lunga per te, e troppo spessa. E poi ne sceglierai un'altra.» E così fu, e poi lei mi guidò lentamente in un esercizio che allora mi
parve infinitamente complesso, ma che per la fine della settimana non era più difficile che intrecciare la criniera del mio cavallo. Finimmo proprio mentre gli altri studenti arrivavano in gruppo. Erano quattro, tutti più o meno della mia età, ma tutti più esperti di me. Adesso c'era un numero dispari di studenti e la situazione era imbarazzante, e nessuno ambiva particolarmente a addestrarsi con me. In qualche modo sopravvissi alla giornata, anche se il ricordo di come ci riuscii svanisce in una nebbia misericordiosamente vaga. Ricordo quanto ero indolenzito quando finalmente ci lasciò andare; e gli altri corsero su per il sentiero verso la fortezza mentre io mi trascinavo tristemente dietro di loro, maledicendomi per aver attirato l'attenzione del re. C'era una lunga salita per arrivare alla fortezza, e la sala era affollata e rumorosa. Ero troppo stanco per mangiare molto. Credo che mi limitai a pane e stufato, e poi avevo già lasciato il tavolo e mi avviavo verso la porta, pensando solo al calore e al silenzio delle stalle, quando Brando di nuovo mi si accostò. «La vostra camera è pronta» fu tutto quello che disse. Gettai un'occhiata disperata a Burrich, ma lo vidi impegnato in una conversazione con l'uomo accanto a lui. Non notò affatto la mia supplica. E così mi ritrovai ancora una volta a seguire Brando, questa volta su per un'ampia scalinata di pietra, verso una parte della fortezza che non avevo mai esplorato. Ci fermammo al primo piano, e lui prese un candelabro da un tavolo e accese le candele. «La famiglia reale vive in quest'ala» mi informò con indifferenza. «Il re ha una stanza da letto grande come le scuderie, in fondo a questo corridoio.» Io annuii, credendo ciecamente a ogni parola, anche se in seguito avrei scoperto che un inserviente come Brando non avrebbe mai potato mettere piede nell'ala reale. Quella era destinata a lacchè più importanti. Mi condusse su per un'altra rampa di scale e di nuovo si fermò. «I visitatori vengono alloggiati qui» disse, facendo cenno con il candelabro, e il vento provocato da quel movimento fece curvare le fiamme. «Quelli importanti, è ovvio.» E salimmo un'altra rampa di scale, dai gradini parecchio più stretti rispetto alle prime due. Ci fermammo di nuovo al piano successivo, e io guardai con terrore una rampa ancora più angusta e ripida. Ma Brando non mi condusse da quella parte. Invece ci avviammo per quella nuova ala, superammo tre porte e poi lui tolse il chiavistello a una porta di legno e la spinse con la spalla. La pesante porta girò rumorosamente sui cardini. «La
stanza non viene usata da qualche tempo» osservò allegramente. «Ma adesso è tua e sei il benvenuto.» E con questo mise il candelabro su un baule, ne tolse una candela e se ne andò. Uscendo si tirò dietro la pesante porta, lasciandomi nella semioscurità di una stanza grande e sconosciuta. In qualche modo mi trattenni dal corrergli dietro o dall'aprire la porta. Invece presi il candelabro e accesi le lanterne alle pareti. Altre due file di candele ricacciarono le ombre a strisciare negli angoli. Un camino conteneva una pietosa parvenza di fuoco. Lo attizzai un poco, più per ottenere luce che calore, e mi misi a esplorare il mio nuovo alloggio. Si trattava di una semplice stanza quadrata con un'unica finestra. Le pareti di pietra, la stessa pietra del pavimento, erano decorate soltanto da un arazzo su un lato. Sollevai la candela per studiarlo, ma non riuscii a illuminarne molto. Scorsi una specie di creatura alata e splendente, e un personaggio d'aspetto regale in atteggiamento supplice davanti a essa. In seguito fui informato che si trattava di re Savio che faceva amicizia con l'Antico. In quel momento mi parve minaccioso. Distolsi lo sguardo. Qualcuno aveva fatto un tentativo superficiale di rinfrescare la stanza. Il pavimento era sparso di giunchi ed erbe pulite, e il letto di piume sembrava gonfio e sprimacciato di fresco. Le due coperte erano di lana buona. I tendaggi del baldacchino erano aperti e il baule e la panca che costituivano il resto dell'arredamento erano stati spolverati. Ai miei occhi inesperti era davvero una stanza sontuosa. Non ricordavo di aver mai avuto un vero letto, con coperte e baldacchino, e una panca con un cuscino, e un baule per metterci le mie cose. C'era anche il camino, a cui aggiunsi coraggiosamente un altro ciocco di legno, e la finestra, con davanti un sedile di quercia, ora chiusa per proteggere dall'aria notturna, ma probabilmente affacciata sul mare. Il baule era semplice, con angoli d'ottone. All'esterno era scuro, ma quando lo aprii l'interno era di legno chiaro e fragrante. Vi trovai il mio limitato corredo, portato su dalle stalle. Vi erano state aggiunte due camicie da notte, e in un angolo era arrotolata una coperta di lana. Tutto lì. Presi una camicia da notte e chiusi il baule. Appoggiai la camicia sul letto, e poi mi sedetti. Era presto per pensare al sonno, ma ero tutto dolorante e non sembrava esserci altro da fare. In quel momento, giù nella stanza alle stalle, Burrich era seduto a bere e ad aggiustare finimenti o chissà che altro. C'era il fuoco nel camino, e i suoni sommessi dei cavalli che si muovevano di sotto nei loro stalli. La stanza odorava di cuoio e di olio e di Burrich stesso, non di pietra umida e polvere.
Mi infilai la camicia da notte dalla testa e spinsi i vestiti ai piedi del letto. Mi rannicchiai nel letto di piume; era fresco e mi venne la pelle d'oca. Lentamente il mio calore corporeo lo riscaldò e cominciai a rilassarmi. Era stata una giornata piena e faticosa. Ogni muscolo sembrava dolorante e sfinito. Sapevo che dovevo alzarmi di nuovo a spegnere le candele, ma non riuscii a radunare le forze o la volontà per farlo e permettere che un'oscurità più profonda invadesse la camera. Così dormicchiai, guardando da sotto le palpebre le fiamme affannate del piccolo focolare. Desiderai confusamente qualcos'altro, qualunque altra situazione che non fosse quella camera solitaria e neppure la tensione della stanza di Burrich. Desideravo un riposo che forse avevo conosciuto un tempo, da qualche altra parte, ma non riuscivo più a ricordare. E così scivolai nell'oblio. 4 Apprendistato Si narra una storia di re Conquistatore, colui che sì impadronì dei territori interni che divennero in seguito il ducato di Armento. Poco dopo aver aggiunto le terre di Lungosabbia ai suoi domini, mandò a chiamare la donna che, se Conquistatore non si fosse impadronito della sua terra, sarebbe stata la regina di Lungosabbia. La donna viaggiò fino a Castelcervo con grande trepidazione, temendo l'incontro ma temendo ancora di più le conseguenze per il suo popolo se li avesse pregati di nasconderla. Quando arrivò, fu sorpresa e in un certo modo contrariata che Conquistatore intendesse usarla non come serva ma come educatrice dei suoi figli, in modo che imparassero la lingua e i costumi locali. Quando gli chiese perché avesse scelto di insegnare loro il modo di essere della sua gente, egli replicò: «Un governante deve governare tutto il suo popolo, dato che si può governare soltanto ciò che si conosce.» In seguito, la donna diventò di buon grado la moglie del suo figlio maggiore, e nel giorno della sua incoronazione prese il nome di regina Amabile. Mi svegliai con il sole in faccia. Qualcuno era entrato nella mia camera e aveva aperto gli scuri della finestra per far entrare la luce del giorno. Sul baule erano stati lasciati una bacinella, un panno e una brocca d'acqua. Fui grato di trovarli, ma neppure lavandomi la faccia riuscii a rinvigorirmi. Il sonno mi aveva lasciato un po' intorpidito, e ricordo di aver provato una sensazione di disagio all'idea che qualcuno potesse entrare nella mia stanza
e circolare liberamente senza svegliarmi. Come avevo immaginato, la finestra si affacciava sul mare, ma non avevo molto tempo da dedicare al panorama. Un'occhiata al sole mi disse che avevo dormito troppo. Mi gettai addosso i vestiti e mi affrettai alle stalle senza fermarmi a far colazione. Ma Burrich aveva poco tempo per me quella mattina. «Torna alla fortezza» mi avvertì. «Madama Presta ha già mandato Brando quaggiù a cercarti. Deve prenderti le misure per i vestiti. Farai meglio a trovarla in fretta; fa onore al suo nome e non sarà contenta se sconvolgi le sue consuetudini mattutine.» La mia corsa per tornare su alla fortezza risvegliò tutti i dolori del giorno prima. Per quanto temessi l'idea di cercare questa madama Presta e farmi prendere le misure per i vestiti di cui ero certo di non aver bisogno, ero sollevato di non dover subito risalire a cavallo. Dopo aver chiesto indicazioni alle cucine, finalmente trovai madama Presta in una stanza che si trovava diverse porte più avanti della mia camera da letto. Mi fermai intimidito sulla soglia e sbirciai dentro. Tre alte finestre riversavano nella stanza la luce del sole e una dolce brezza marina. Cesti di filati e lana tinta erano accumulati contro un muro, mentre un alto scaffale contro un'altra parete conteneva un arcobaleno di tessuti. Due giovani donne stavano chiacchierando sopra a un telaio, e nell'angolo più lontano un ragazzo non molto più grande di me oscillava al ritmo tranquillo di un filatoio. Non avevo dubbi che la donna che mi rivolgeva le ampie spalle fosse madama Presta. Le due giovani donne mi notarono e fecero una pausa nella loro conversazione. Madama Presta si girò per vedere dove stavano guardando, e un momento dopo ero nelle sue grinfie. Non sì preoccupò di presentazioni o spiegazioni. Mi ritrovai su uno sgabello, rigirato e misurato fra commenti sommessi, senza considerazione per la mia dignità o addirittura la mia umanità. La donna espresse alle due giovani donne giudizi sprezzanti sui miei vestiti, commentò con tutta calma che le ricordavo benissimo il giovane Chevalier, e che le mie misure e il mio colorito erano molto simili ai suoi quando aveva la mia età. Poi domandò la loro opinione mentre sollevava rotoli di diversi tessuti per appoggiarmeli addosso. «Quello» disse una delle tessitrici. «L'azzurro fa risaltare i suoi capelli scuri. Sarebbe stato molto bene a suo padre. È una misericordia che Pazienza non debba mai vedere il ragazzo. L'impronta di Chevalier è fin troppo evidente sul suo viso per lasciarle un minimo di orgoglio.»
E mentre stavo lì in piedi, avvolto in tessuti di lana, sentii per la prima volta quello che chiunque a Castelcervo sapeva benissimo. Le tessitrici discussero nei particolari come le notizie della mia esistenza avessero raggiunto Castelcervo e Pazienza ben prima che mio padre potesse informarla di persona, e la profonda angoscia che ciò le aveva causato. Infatti Pazienza era sterile, e sebbene Chevalier non avesse mai detto una parola contro di lei, tutti indovinavano come doveva essere difficile per l'erede al trono rimanere senza un figlio che potesse un giorno succedergli. Pazienza considerava la mia esistenza come il più estremo dei rimproveri, e la sua salute, che non era mai stata buona dopo tanti aborti, crollò completamente insieme al suo spirito. Era per lei, oltre che per il buon nome, che Chevalier aveva rinunciato al trono, e aveva riportato la moglie invalida alle dolci terre temperate che erano la sua provincia d'origine. Si diceva che laggiù vivessero bene e comodamente, che la salute di Pazienza migliorasse lentamente, e che Chevalier, notevolmente più silenzioso di prima, stesse gradualmente imparando a occuparsi della sua valle ricca di vigneti. Peccato che Pazienza incolpasse anche Burrich del cedimento morale di Chevalier, e avesse affermato di non poter più sopportare la sua vista. Poiché, fra la gamba zoppa e l'abbandono di Chevalier, il vecchio Burrich non era più l'uomo che era stato. Un tempo nessuna donna della fortezza gli passava davanti di fretta; attirare il suo sguardo significava diventare l'invidia di quasi tutte le donne grandi abbastanza da portare sottane. E ora? Il vecchio Burrich, lo chiamavano, e lui ancora nel fiore degli anni - così ingiusto, come se un attendente fosse responsabile delle azioni del suo padrone. Ma in ogni caso era tutto per il meglio, così supponevano. E Veritas, dopotutto, non era forse un erede al trono migliore di Chevalier? Chevalier era così rigorosamente nobile che faceva sentire tutti maleducati e sporchi in sua presenza; non si era mai concesso un attimo di tregua da ciò che era giusto, e pur essendo troppo cavalleresco da disprezzare i meno disciplinati, si aveva sempre la sensazione che il suo perfetto comportamento fosse un silenzioso rimprovero. Ah, ma adesso c'era lì il bastardo, tuttavia, dopo tanti anni, e dunque, ecco la prova che non era stato l'uomo che fingeva di essere. Veritas, ecco, lui sì che era un uomo fra gli uomini, uno che il popolo poteva ammirare e considerare davvero regale. Cavalcava senza stancarsi, e combatteva come un soldato insieme ai suoi uomini, e se occasionalmente era ubriaco e a volte era stato meno che discreto, ebbene, non lo nascondeva, onesto come il suo nome. Un uomo come quello, il popolo poteva comprenderlo e seguirlo.
Ascoltai tutto avidamente, mentre diverse stoffe mi venivano disposte addosso, discusse e scelte. Acquistai una comprensione molto più profonda del motivo per cui i ragazzi della fortezza mi lasciavano giocare da solo. Se le donne ritenevano che io avessi pensieri e sentimenti sulla loro conversazione, non lo diedero a vedere. Ricordo un solo commento rivolto specificamente a me da madama Presta: dovevo fare più attenzione a lavarmi il collo. Poi mi cacciò fuori dalla stanza come se fossi stata una gallina invadente, e finalmente mi diressi verso le cucine in cerca di cibo. Quel pomeriggio ero di nuovo da Poiana, a addestrarmi fino a convincermi che il mio bastone fosse misteriosamente raddoppiato di peso. Poi cena, e a letto, e di nuovo sveglio al mattino e di nuovo sotto la tutela di Burrich. L'apprendimento riempiva le mie giornate, e tutto il tempo libero veniva inghiottito dai compiti associati al mio apprendimento, che si trattasse di occuparmi dei finimenti per Burrich, o di spazzare l'armeria e rimetterla in ordine per Poiana. A tempo debito scoprii non uno, o perfino due, ma tre interi completi, comprese le calze, lasciati un pomeriggio sul mio letto. Due erano di materiale abbastanza ordinario, un comune tessuto bruno che la maggior parte dei bambini della mia età sembravano indossare, ma uno era di una fine stoffa azzurra, e sul petto c'era una testa di cervo, ricamata in filo d'argento. Burrich e gli altri soldati indossavano come loro emblema un cervo che spiccava un balzo. Io avevo notato una testa di cervo soltanto sul giustacuore di Regal e Veritas. Così osservai pensierosamente lo stemma, ma meditai anche sulla banda ricamata rossa che lo tagliava diagonalmente, attraversando il disegno. «Vuol dire che sei un bastardo» mi disse brutalmente Burrich quando gli chiesi cosa significasse. «Di sangue reale riconosciuto, ma comunque un bastardo. Tutto qui. È soltanto un modo rapido per mostrare che hai sangue reale, ma non sei del vero lignaggio. Se non ti piace, poi cambiarlo. Sono sicuro che il re te lo concederebbe. Un nome e uno stemma tutto tuo.» «Un nome?» «Certamente. È una richiesta abbastanza semplice. I bastardi sono rari nelle casate nobili, specialmente in quella del re. Ma non sono sconosciuti.» Con la scusa di insegnarmi come si trattava correttamente una sella, stavamo perquisendo la stanza dei finimenti, cercando fra quelli vecchi e inutilizzati. Conservare e recuperare vecchi finimenti era una delle fissazioni più bizzarre di Burrich. «Inventati un nome e uno stemma, e poi chiedi al re...» «Che nome?»
«Be', un nome che ti piace. Questo sembra rovinato; qualcuno lo ha ritirato ancora umido e ha fatto la muffa. Ma vedremo cosa possiamo fare.» «Non sembrerebbe vero.» «Che cosa?» Mi stava tendendo una bracciata di cuoio puzzolente. Io la presi. «Un nome che mi do da solo. Non sembrerebbe veramente mio.» «Ebbene, che intendi fare, allora?» Trassi un respiro. «Il re dovrebbe darmi un nome. O dovresti darmelo tu.» Mi feci forza. «O mio padre. Non lo credi anche tu?» Burrich aggrottò la fronte. «Che idee strane che ti vengono. Pensaci da solo per un poco. Ti verrà in mente un nome adatto.» «Fitz» dissi sarcastico, e vidi Burrich stringere i denti. «Adesso occupiamoci di aggiustare questo cuoio» suggerì con calma. Lo portammo al suo banco di lavoro e cominciammo a ripulirlo. «I bastardi non sono poi così rari» osservai. «E al borgo sono i loro genitori a trovare un nome.» «Non sono così rari al borgo» concordò Burrich dopo un momento. «I soldati e i marinai vanno a puttane. È un'usanza comune per la gente comune. Ma non per il sangue reale. O per chiunque abbia un poco d'orgoglio. Che cosa avresti pensato di me, quando eri più piccolo, se fossi andato a puttane di notte, o avessi portato donne nella stanza? Come considereresti le donne adesso? O gli uomini? Innamorarsi va bene, Fitz, e nessuno nega a un giovanotto o a una ragazza un bacio o due. Ma ho visto come vanno le cose a Borgomago. I commercianti portano le ragazze carine o i giovani ben fatti al mercato come se fossero polli e patate. E i bambini che prima o poi nascono hanno magari un nome, ma non hanno molto altro. E perfino quando si sposano, non interrompono le loro... abitudini. Se mai trovo la donna giusta, voglio che sappia che non guarderò mai un'altra. E voglio essere certo che tutti i miei figli sono miei.» Burrich era quasi infervorato. Io lo osservai abbattuto. «Allora che cosa successe a mio padre?» Burrich apparve improvvisamente stanco. «Non lo so, ragazzo. Non lo so. Era giovane, aveva solo vent'anni o poco più. Ed era lontano da casa, e cercava di sostenere un pesante fardello. Queste non sono ragioni o scuse. Ma è tutto quello che io e te potremo mai sapere.» E il discorso finì lì. La mia vita continuò con il suo ritmo ben scandito. Trascorrevo alcune serate nelle stalle, in compagnia di Burrich, e, più raramente, nella Sala
Grande quando arrivava qualche cantastorie girovago o uno spettacolo di marionette. Molto raramente riuscivo a scivolare via per andare a trascorrere la serata giù al borgo, ma questo significava scontare il giorno dopo il sonno perduto. I pomeriggi venivano invariabilmente trascorsi insieme a qualche tutore o istruttore. Giunsi a comprendere che quelle erano le mie lezioni estive, e che in inverno sarei stato introdotto all'addestramento nella scrittura e nelle lettere. Ero più impegnato di quanto fossi mai stato nella mia giovane vita. Eppure, malgrado i miei impegni, mi trovavo il più delle volte da solo. Solitudine. Mi trovava ogni notte mentre cercavo vanamente di creare un angolino accogliente nel mio grande letto. Ai tempi in cui dormivo sopra le stalle nell'alloggio di Burrich, le notti erano state dolci e sfumate, i miei sogni rivestiti della calda e stanca soddisfazione degli animali trattati bene che dormivano e si muovevano e facevano rumore nella notte sotto di me. I cani e i cavalli sognano, come sa chiunque abbia mai osservato un cane guaire e sussultare in un inseguimento immaginario. I loro sogni erano come il profumo dolce che si sollevava da una buona pagnotta appena sfornata; ma adesso, isolato in una stanza circondata di pietra, finalmente avevo tempo per tutti quei sogni divoranti e dolorosi che sono il destino degli uomini. Non avevo una calda mamma chioccia contro cui rannicchiarmi, nessun senso di fratellini o animali della mia razza alloggiati nelle vicinanze. Invece giacevo sveglio e mi domandavo di mio padre e di mia madre, e come avessero potuto allontanarmi così facilmente dalle loro vite. Ascoltavo i commenti che gli altri scambiavano con tanta indifferenza davanti a me, e interpretavo i loro discorsi a modo mio, terrorizzandomi. Mi chiedevo che cosa sarebbe stato di me una volta che fossi cresciuto e il vecchio re Sagace morto e sepolto. Mi chiedevo, occasionalmente, se Molly Mazzapicchio e Kerry sentivano la mia mancanza, o se avevano accettato la mia improvvisa scomparsa con la disinvoltura con cui avevano accettato la mia venuta. Ma soprattutto soffrivo la solitudine, poiché in quell'immensa fortezza non c'era nessuno che sentissi amico. Nessuno tranne gli animali, e Burrich mi aveva proibito qualsiasi vicinanza con essi. Una sera ero andato stancamente a letto, solo per tormentarmi con le mie paure fino a quando il sonno mi aveva trascinato via con riluttanza. Mi svegliai con la luce sul viso, ma qualcosa non andava. Non avevo dormito abbastanza, e la luce era gialla e vacillante, ben diversa dal bianco del sole
che di solito si riversava dalla mia finestra. Mi mossi controvoglia e aprii gli occhi. L'uomo stava ai piedi del mio letto, con una lampada sollevata. Questo già di per sé era una rarità a Castelcervo, ma i miei occhi furono attirati da qualcosa di più della luce morbida della lampada. L'uomo stesso era strano. La sua veste era del colore del vello di pecora non tinto, lavato solo occasionalmente e non di recente. I capelli e la barba erano più o meno dello stesso colore e sembravano altrettanto in disordine. Malgrado ciò, non riuscivo a decidere quanti anni avesse. Alcune malattie lasciano sfregi sul volto. Ma non avevo mai visto un uomo così segnato, con decine di minuscole cicatrici, di un violento rosa e rosso come piccole bruciature, e livide perfino nella luce gialla della lampada. Le sue mani erano tutte ossa e tendini avvolti in una pelle bianca come carta. Mi stava scrutando, e perfino alla luce della lampada i suoi occhi erano del verde più penetrante che avessi mai visto. Mi ricordavano gli occhi di un gatto quando caccia; la stessa combinazione di gioia e ferocia. Mi tirai la coperta fin sotto il mento. «Sei sveglio» osservò. «Bene. Alzati e seguimi.» Girò improvvisamente le spalle al mio letto e si allontanò dalla porta, verso un angolo in penombra fra il focolare e la parete. Io non mi mossi. Mi gettò un'altra occhiata, sollevò ulteriormente la lampada. «Sbrigati, ragazzo» disse con irritazione, e batté il bastone su cui si appoggiava contro una delle colonne del mio letto. Mi alzai, trasalendo quando i piedi nudi toccarono il pavimento freddo. Tesi la mano verso i vestiti e le scarpe, ma lui non mi aspettò. Si voltò a guardare una sola volta, per vedere che cosa mi stava trattenendo, e quello sguardo tagliente fu sufficiente per farmi abbandonare i vestiti tremando. Lo seguii senza parole, m camicia da notte, per nessuna ragione plausibile, tranne che me l'aveva chiesto lui. Lo seguii fino a una porta che non c'era mai stata, e su per una stretta rampa di scale illuminate soltanto dalla lampada che l'uomo teneva alta sopra la testa. La sua ombra cadeva dietro di lui e mi ricopriva, e io camminavo in un'oscurità mobile, cercando ogni gradino con il piede. Le scale erano di pietra fredda, consumate e lisce e notevolmente regolari. E salivano, e salivano, e salivano, fino a quando mi parve che fossimo arrivati più in alto di qualsiasi torre della fortezza. Un vento gelido risaliva su per i gradini e attraverso la mia camicia, facendomi rabbrividire per qualcosa che non era semplice freddo. E continuammo a salire, e poi finalmente l'uomo stava aprendo una robusta porta che tuttavia
si mosse con silenziosa facilità. Entrammo. Diverse lampade illuminavano la stanza di una luce calda, appese a un soffitto invisibile tramite raffinate catene. Era grande, di certo tre volte la mia. Un'estremità era invitante. Era dominata da un enorme letto di legno, imbottito di materassi e cuscini di piume. C'erano tappeti sul pavimento, sovrapposti l'uno all'altro, scarlatti e verde vivo e in ogni sfumatura di blu. C'era un tavolo di legno del colore del miele selvatico, e sopra una scodella di frutta così perfettamente matura che potevo sentirne il profumo. Libri e rotoli di pergamena erano sparsi in giro con noncuranza per la loro rarità. Tutte e tre le pareti erano ricoperte di arazzi che raffiguravano distese di dolci colline con basse montagne boscose in lontananza. Mi diressi da quella parte. «Di qua» indicò la mia guida, e senza pietà mi condusse verso l'altra estremità della stanza. Lì mi si presentò uno spettacolo ben diverso. Vi dominava un tavolo costituito da una lastra di pietra, dalla superficie molto macchiata e bruciacchiata. Sopra erano appoggiati vari utensili, contenitori e accessori, una bilancia, un mortaio con pestello e molte cose a cui non sapevo dare un nome. Un leggero strato di polvere ne ricopriva la maggior parte, come un progetto abbandonato a metà, mesi o addirittura anni prima. Dietro al tavolo una scansia racchiudeva una disordinata collezione di rotoli, alcuni bordati di blu o d'oro. L'odore della stanza era insieme pungente e aromatico; su un altro scaffale erano disposti fasci d'erba a seccare. Sentii un fruscio e intravidi un movimento in un angolo lontano, ma l'uomo non mi diede il tempo di indagare. Il cammino che avrebbe dovuto riscaldare quella estremità della stanza si spalancava nero e freddo. Gli antichi tizzoni sembravano umidi e immobili. Sollevai gli occhi alla mia guida. La delusione sul mio viso parve sorprenderlo. Esaminò a sua volta la stanza. La considerò per qualche istante, e poi avvertii in lui un imbarazzato fastidio. «È uno schifo. Più che uno schifo, suppongo. Ma, ecco. È passato un po' di tempo, suppongo. Anche più di un po' di tempo. Dunque. È facile mettere in ordine. Ma prima, le presentazioni. E suppongo che faccia un po' freddo a starsene lì con addosso soltanto una camicia da notte. Da questa parte, ragazzo.» Lo seguii all'estremità confortevole della stanza. L'uomo sedette su uno scranno di legno malridotto, strapieno di coperte. I miei piedi nudi affondarono con gratitudine in un tappeto di lana. Rimasi in piedi davanti a lui, in attesa, mentre quegli occhi verdi mi esaminavano. Il silenzio durò per
qualche minuto. Poi l'uomo parlò. «Per prima cosa, lascia che io ti presenti a te stesso. Hai la tua ascendenza scritta in faccia. Sagace ha scelto di accettarla, dato che negandola non avrebbe convinto nessuno.» Fece una pausa per un istante, e sorrise come se avesse trovato qualcosa di divertente. «Peccato che Galen abbia rifiutato di insegnarti l'Arte; ma anni fa il suo uso era limitato, per timore che diventasse uno strumento troppo comune. Scommetto che se il vecchio Galen dovesse cercare di insegnarti, scoprirebbe che sei portato. Ma non abbiamo tempo di preoccuparci di quello che non succederà.» Sospirò meditabondo e rimase in silenzio per un momento. Improvvisamente proseguì: «Burrich ti ha mostrato come lavorare, e come obbedire. Due cose in cui lui stesso è bravissimo. Non sei particolarmente forte, o veloce, o intelligente. Non devi esserlo. Ma hai la cocciutaggine per sfinire chiunque sia più forte o più veloce o più intelligente di te. E questo è un pericolo più per te che per chiunque altro. Ma non è questa adesso la cosa più importante di te. «Adesso sei un uomo del re. E adesso, proprio adesso, devi cominciare a comprendere che è questo che ti caratterizza. Il re ti nutre, ti veste, ti fa istruire. E tutto quello che chiede in cambio, per ora, è la tua lealtà. Più tardi chiederà il tuo servizio. Queste sono le condizioni a cui ti insegnerò. Che tu sia un uomo del re, e completamente leale al re. Perché in caso contrario sarebbe troppo pericoloso addestrarti nel mio mestiere.» Fece una pausa e per un lungo momento ci guardammo semplicemente in faccia. «Sei d'accordo?» chiese, e non era una semplice domanda ma la firma di un contratto. «Sì» dissi, e poi, mentre lui attendeva «vi do la mia parola.» «Bene.» Lo disse con fervore. «Adesso. Passiamo ad altre cose. Mi hai mai visto prima?» «No.» Per un istante compresi quanto fosse strano. Sebbene alla fortezza arrivassero spesso degli stranieri, quest'uomo evidentemente vi aveva abitato per molto, molto tempo. E io conoscevo di vista, se non di nome, quasi tutti coloro che vivevano lì. «Sai chi sono, ragazzo? O perché ti trovi qui?» Scossi la testa velocemente a ogni domanda. «Ebbene, non lo sa nessuno. Quindi fai in modo che rimanga così. Voglio che ti sia chiaro: non parlare con nessuno di ciò che facciamo qui, e neanche di ciò che imparerai. Capito?» Il mio cenno del capo dovette sembrare sufficiente, dato che l'uomo par-
ve rilassarsi nella poltrona. Le sue mani ossute afferrarono le ginocchia attraverso la veste di lana. «Bene. Bene. E adesso. Puoi chiamarmi Umbra. E io ti chiamerò...?» Fece una pausa e attese, ma quando io non proposi un nome, lui concluse: «Ragazzo. Non sono nomi adatti a nessuno di noi due, ma dovranno andar bene, per il tempo che trascorreremo insieme. Dunque. Io sono Umbra, e sono un altro insegnante che Sagace ti ha trovato. Gli ci è voluto un poco a ricordarsi che ero qui, e poi un altro poco per trovare il coraggio di chiedermelo. E io ci ho messo ancora di più per accettare. Ma adesso è cosa fatta. Quanto a ciò che ti insegnerò... dunque.» Si alzò e si avvicinò al fuoco. Lo fissò inclinando la testa, poi si chinò per prendere un attizzatoio e suscitare nuove fiamme dai tizzoni. «Si tratta di assassinio, più o meno. Uccidere la gente. La nobile arte dell'assassinio diplomatico. O di accecare, o assordare. O indebolire le membra, o causare paralisi o una tosse debilitante o l'impotenza. O la senilità precoce, o la follia o... Ma non importa. Questo è stato il mio mestiere. E sarà il tuo, se accetti. Sappi solo, fin dall'inizio, che io ti insegnerò a uccidere. Per il tuo re. Non nella maniera vistosa che ti sta insegnando Poiana, non sul campo di battaglia dove gli altri ti vedono e ti incitano a gran voce. No. Io ti insegnerò le maniere crudeli, furtive, educate di uccidere. Ci farai l'abitudine, oppure no. Quello non tocca a me. Ma io farò in modo che tu sappia come si fa. E mi occuperò anche di un'altra cosa, dato che questo è l'accordo che ho stipulato con re Sagace: che tu sappia ciò che stai imparando, come non accadde a me quando avevo la tua età. Dunque. Dovrò insegnarti a diventare un assassino. Ti va bene, ragazzo?» Annuii di nuovo, incerto, senza sapere che altro fare. Umbra mi scrutò. «Sai parlare, vero? Non sei muto oltre che un bastardo, vero?» Inghiottii a vuoto. «No, signore. So parlare.» «E allora, dunque, parla. Non limitarti ad annuire. Dimmi che cosa pensi di tutto questo. Di ciò che sono e di ciò che ti ho appena proposto.» Pur invitato a parlare, rimasi in silenzio. Fissavo il viso butterato, la pelle delle sue mani simili alla carta, e sentivo il luccichio dei suoi occhi verdi su di me. Mossi la lingua in bocca, ma trovai solo silenzio. Il suo atteggiamento invitava le parole, eppure il suo viso era più terrificante di qualsiasi cosa io avessi mai immaginato. «Ragazzo» disse, e la gentilezza nella sua voce mi sorprese fino a spingermi a incontrare i suoi occhi. «Io posso istruirti perfino se mi odi, o se disprezzi le lezioni. Posso istruirti se sei annoiato, o pigro o stupido. Ma
non posso istruirti se hai paura di parlare con me. Almeno, non come desidero farlo. E non posso istruirti se tu decidi che è qualcosa che preferiresti non imparare. Ma devi dirmelo. Hai imparato a nascondere i tuoi pensieri così bene che hai quasi paura di lasciarli conoscere a te stesso. Ma prova a pronunciarli ad alta voce, adesso, con me. Non verrai punito.» «Non è che mi piaccia molto» sbottai improvvisamente. «L'idea di uccidere la gente.» «Ah.» Fece una pausa. «Neppure a me, quando mi toccò farlo. Non mi piace tuttora.» Sospirò all'improvviso, profondamente. «Ogni volta che capita, deciderai. La prima volta sarà la più difficile. Ma sappi, per ora, che quella decisione è lontana molti anni. E nel frattempo hai molto da imparare.» Esitò. «Il fatto è questo, ragazzo - e dovresti ricordartelo in ogni situazione, non solo questa - imparare non è mai sbagliato. Persino imparare a uccidere non è sbagliato. O giusto. È solo un mestiere da imparare, un mestiere che io ti posso insegnare. Ecco tutto. Per ora, credi che potresti impararlo, e più tardi decidere se vorrai farlo davvero?» Che domanda da porre a un ragazzo. Perfino allora, qualcosa dentro di me drizzò il pelo e annusò con disgusto l'idea ma, da quel bambino che ero, non riuscii a trovare un'obiezione. E la curiosità mi rodeva. «Posso imparare.» «Bene.» Sorrise, ma il suo viso era stanco e non sembrava soddisfatto come poteva essere. «È sufficiente, dunque. Sufficiente.» Girò lo sguardo per la stanza. «Potremmo anche iniziare stanotte. Cominciamo a mettere ordine. C'è una scopa in quell'angolo. Oh, ma prima togliti la camicia da notte e mettiti qualcos'altro... ah, c'è una vecchia vestaglia lacera laggiù. Per ora basterà. Non possiamo lasciare che la gente in lavanderia sì chieda perché la tua camicia da notte odora di canfora e linimento, vero? Adesso, spazza un po' il pavimento mentre io ritiro qualche cianfrusaglia.» E così trascorsero le ore successive. Spazzai il pavimento di pietra, poi lo lavai. Umbra mi diede istruzioni mentre liberavo il grande tavolo dagli ingombri. Girai le erbe poste ad asciugare sullo scaffale. Nutrii le tre lucertole che teneva in una gabbia nell'angolo, tagliando un po' di vecchia carne appiccicosa in pezzi che ingoiarono interi. Ripulii diverse pentole e scodelle e le ritirai. E Umbra lavorava accanto a me, apparentemente grato della compagnia, e chiacchierava come se fossimo stati due vecchietti. O due ragazzini. «Ancora niente alfabeto? Niente numeri? Accidenti! A cosa sta pensando il vecchio? Ebbene, farò in modo di rimediare in fretta. Hai la fronte di
tuo padre, ragazzo, e la stessa maniera di aggrottarla. Te lo ha mai detto nessuno? Ah, eccoti, Quatto, briccone! Che cosa stavi combinando?» Una donnola bruna apparve da dietro un arazzo, e fummo presentati. Umbra mi permise di somministrare a Quatto uova di quaglia da una scodella sul tavolo, e rise quando la bestiola cominciò a seguirmi implorando di averne altre. Mi diede un braccialetto di rame che trovai sotto il tavolo, avvertendomi che poteva farmi venire il polso verde, e se qualcuno me lo chiedeva dovevo dire di averlo trovato dietro le scuderie. A un certo punto ci fermammo per consumare dolci al miele e vino caldo speziato. Sedemmo insieme a un basso tavolo su alcuni tappeti davanti al camino, e io osservai la luce del fuoco che gli danzava sul volto sfigurato e mi chiesi perché fosse apparso così spaventoso. Umbra noto che lo guardavo, e il suo volto si contorse in un sorriso. «Sembra familiare, vero, ragazzo? Il mio aspetto, intendo.» Non lo sembrava affatto. Stavo solo osservando le cicatrici grottesche sulla pelle bianca come gesso. Non avevo idea di cosa intendesse. Lo fissai con fare interrogativo, cercando di capire. «Non preoccupartene, ragazzo. Lascia i suoi segni su tutti noi, e prima o poi ti ci abituerai. Ma adesso, ecco...» Si alzò, stiracchiandosi al punto che la sua veste scoprì i bianchi polpacci magli. «Adesso direi che è tardi. O presto, a seconda di quale estremità del giorno preferisci. È ora che tu torni al tuo letto. Subito. Ti ricorderai che questo è tutto un oscuro segreto, vero? Non solo io e questa stanza, ma tutta la faccenda, svegliarsi di notte e imparare come uccidere la gente, tutto quanto.» «Me ne ricorderò» assicurai, e poi, comprendendo che avrebbe significato qualcosa per lui, aggiunsi: «Avete la mia parola.» Umbra ridacchiò, poi annuì quasi tristemente. Mi rimisi la camicia da notte, e l'uomo mi accompagnò giù per le scale. Tenne la lanterna splendente sollevata accanto al mio letto mentre mi infilavo sotto le coperte, e poi me le rimboccò come nessuno aveva fatto da quando avevo lasciato gli alloggi di Burrich. Credo di essermi addormentato prima ancora che si fosse allontanato dal letto. Brando fu mandato a chiamarmi il mattino dopo, tanto ero in ritardo ad alzarmi. Mi svegliai stordito, con la testa che pulsava dolorosamente. Ma non appena lui lasciò la stanza io balzai dal letto e corsi nell'angolo della mia stanza. Incontrai pietra fredda e spinsi, e nessuna fessura nella malta o nella pietra rivelava la porta segreta che ero sicuro di trovarvi. Neppure per un istante pensai che Umbra fosse stato un sogno, e anche se lo avessi pen-
sato, rimaneva il semplice braccialetto di rame al mio polso a dimostrare il contrario. Mi vestii in fretta e furia e passai dalle cucine a prendere una fetta di pane e formaggio. Stavo ancora mangiando quando arrivai alle stalle. Burrich era furibondo per il mio ritardo, e trovò da ridire su ogni mia azione a cavallo o sulle mie attività nella stalla. Ricordo bene il suo rimprovero: «Non pensare che adesso che hai una stanza su al castello, e uno stemma sulla giubba, puoi trasformarti in un fannullone incapace che russa fino a mezzogiorno e poi si alza solo per acconciarsi i capelli. Non te lo permetterò. Potrai essere un bastardo, ma sei il bastardo di Chevalier, e io farò di te un uomo di cui lui sarà orgoglioso.» Interruppi quello che stavo facendo, con le brusche ancora in mano. «Stai parlando di Regal, vero?» La mia domanda inattesa lo sorprese. «Cosa?» «Quando parli di incapaci che restano a letto tutta la mattina e non fanno altro che preoccuparsi dei capelli e dei vestiti, intendi dire che Regal è così.» Burrich aprì la bocca e poi la richiuse. Le sue guance arrossate dal vento si fecero ancora più rosse. «Né io né te» borbottò alla fine «siamo nella posizione di criticare uno dei principi. Intendevo dire solo come regola generale che trascorrere il mattino a dormire non è adatto a un uomo, e ancor meno a un ragazzo.» «E mai a un principe.» Lo dissi, e poi mi fermai, a chiedermi da dove fosse venuto quel pensiero. «E mai a un principe» concordò tetro Burrich. Era occupato nello stallo accanto con la gamba dolorante di un castrato. L'animale trasalì improvvisamente, e io sentii Burrich grugnire nello sforzo di tenerlo fermo. «Tuo padre non ha mai dormito fino a mezzogiorno passato per aver bevuto la notte prima. Naturalmente, reggeva il vino come nessun altro, ma aveva anche disciplina. E non aveva bisogno di qualcuno che lo venisse a svegliare. Si alzava da solo, e si aspettava che i subordinati seguissero il suo esempio. Ciò non lo rendeva sempre popolare, ma i suoi soldati lo rispettavano. Agli uomini piace un comandante che esige da se stesso le stesse cose che si aspetta da loro. E ti dirò un'altra cosa: tuo padre non sprecava soldi ad agghindarsi come un pavone. Quando era più giovane, prima di sposare dama Pazienza, una sera era a cena in una delle fortezze minori. I duchi mi avevano fatto sedere non troppo lontano da lui, un grande onore per me, e colsi una parte della sua conversazione con la loro figlia che a-
vevano piazzato con tanta speranza accanto all'erede al trono. Lei gli chiese che ne pensava degli smeraldi che indossava, e Chevalier le fece i complimenti. 'Mi chiedevo, signore, se vi piacciono i gioielli, dato che stasera non ne indossate affatto' disse lei invitante. E Chevalier rispose in tutta serietà che i suoi gioielli splendevano quanto quelli della ragazza, ed erano molto più grandi. 'Oh, e dove tenete queste gemme, dato che mi piacerebbe molto vederle?' Ebbene, Chevalier replicò che sarebbe stato felice di mostrargliele più tardi, quando era buio. Io vidi che la ragazza arrossiva, aspettandosi una qualche tresca. E più tardi Chevalier la invitò davvero sugli spalti, ma invitò anche metà degli altri ospiti. E indicò le luci delle torri di guardia sulla costa, radiose e nitide nel buio, e le disse che le considerava i suoi gioielli più belli e più cari, e che spendeva il denaro delle tasse di suo padre per mantenerli così brillanti. E poi indicò agli ospiti le luci palpitanti delle sentinelle che apparivano nelle fortificazioni del castello del suo ospite, e disse loro che quando guardavano il loro duca dovevano considerare quelle luci splendenti come i gioielli sulla sua fronte. Fu un gran complimento al duca e alla duchessa, e gli altri nobili lo notarono. Gli Isolani ebbero successo in ben poche razzie quell'estate. Era così che Chevalier governava. Con l'esempio, e con la grazia delle sue parole. Così dovrebbe fare un vero principe.» «Io non sono un vero principe. Io sono un bastardo.» Suonò strana sulle mie labbra, quella parola che sentivo così spesso e pronunciavo così raramente. Burrich sospirò sommessamente. «Fai onore al tuo sangue, ragazzo, e ignora ciò che gli altri pensano di te.» «A volte sono stanco di fare questa vita così.» «Anch'io.» Assorbii in silenzio le sue parole mentre spazzolavo la spalla di Fuliggine. Burrich, ancora inginocchiato vicino al cavallo grigio, parlò improvvisamente. «Non chiedo a te più di quanto chieda a me stesso. Lo sai che è vero.» «Lo so» replicai, sorpreso che insistesse sull'argomento. «Voglio solo fare del mio meglio con te.» Quella era un'idea del tutto nuova per me. Dopo un momento chiesi: «Pensi che se tu potessi fare in modo che Chevalier fosse orgoglioso di me, di quello in cui tu mi hai trasformato, allora forse tornerebbe a Castelcervo?» Il suono ritmico delle mani di Burrich che applicavano il linimento alla
gamba del castrato rallentò, poi cessò improvvisamente. Ma l'uomo rimase accovacciato accanto al cavallo, e parlò sommessamente attraverso la parete dello stallo. «No. Non penso. Non credo che qualcosa lo spingerebbe a tornare. E anche se lo facesse» e Burrich parlò piú lentamente «anche se lo facesse, non sarebbe com'era. Com'era prima, intendo.» «È tutta colpa mia se se n'è andato, vero?» Le parole delle filatrici echeggiavano nella mia mente. Se non fosse per il ragazzo, sarebbe ancora in linea di successione. Burrich fece una lunga pausa. «Credo che nessuno sia colpevole di essere nato...» Sospirò, e le parole parvero seguire con maggiore riluttanza. «E certamente un bambino non può cessare di essere un bastardo. No. Chevalier stesso ha causato la propria caduta, anche se per me è difficile ammetterlo.» Sentii le sue mani tornare al lavoro sulla zampa del castrato. «E anche la tua caduta.» Lo dissi alla spalla di Fuliggine, sottovoce, senza immaginare che lui avrebbe sentito. Ma pochi istanti dopo lo sentii borbottare: «Me la cavo, Fitz. Me la cavo.» Finì il suo lavoro e passò nello stallo di Fuliggine. «Oggi sei ciarliero come i pettegoli del borgo, Fitz. Che ti prende?» Toccò a me fermarmi a riflettere. Aveva a che fare con Umbra, decisi. Qualcuno voleva che io capissi e dicessi il mio parere su quello che imparavo, e questo mi aveva finalmente sciolto la lingua, permettendomi di porre tutte le domande che da anni mi portavo dietro. Ma non potevo rivelarlo, quindi scrollai le spalle, e replicai sinceramente: «Sono solo cose che mi chiedo da molto tempo.» Burrich accettò la risposta con un grugnito. «Bene. Se lo chiedi è un miglioramento, anche se non posso prometterti di avere sempre una risposta. È bello sentirti parlare come un uomo. Ho meno timore di vederti scomparire fra le bestie.» Mi gettò un'occhiataccia mentre pronunciava le ultime parole, e poi si allontanò zoppicando. Lo guardai allontanarsi, e ricordai la prima sera in cui l'avevo visto, e come un solo suo sguardo era stato sufficiente a zittire un'intera stanza piena di uomini. Non era piú lo stesso. E non era soltanto la gamba zoppa che aveva cambiato il suo portamento e il modo in cui gli uomini lo guardavano. Era ancora il signore riconosciuto delle stalle, e nessuno metteva in dubbio la sua autorità in quel luogo. Ma non era più il braccio destro dell'erede al trono. Tranne che per prendersi cura di me, non era più l'uomo di Chevalier in nulla. Non c'era da stupirsi che non potesse guardarmi senza risentimento. Non aveva procreato lui il
bastardo che era stato la causa della sua caduta. Per la prima volta da quando lo conoscevo, la mia diffidenza verso di lui si venò di pietà. 5 Lealtà In alcuni regni e territori, è usanza che i figli maschi abbiano precedenza sulle femmine nelle questioni di eredità. Questo non è mai stato il caso nei Sei Ducati. I titoli sono ereditati soltanto per ordine di nascita. Chi eredita un titolo deve considerarsi solo un intendente. Se un signore o una signora sono così sciocchi da tagliare troppa foresta in una volta sola, o trascurare i vigneti o lasciare che la qualità del bestiame peggiori a causa degli incroci all'interno della mandria, la gente del ducato potrebbe insorgere e venire a richiedere la Giustizia del Re. È successo, e ogni nobile sa che può succedere ancora. Il benessere del popolo appartiene al popolo, e il popolo ha il diritto di obiettare se il suo duca lo gestisce male. Quando il detentore del titolo si sposa, deve tenere presente tutto ciò. Il compagno o la compagna prescelta deve accettare la stessa responsabilità. Per questa ragione, chi dei due possiede un titolo minore deve cederlo al fratello o alla sorella minore. Si può essere vero intendente di una tenuta sola. In alcuni casi questo ha portato conflitti. Re Sagace sposò dama Désirée, che sarebbe stata duchessa di Armento se non avesse scelto di accettare l'offerta del re e di diventare invece regina. Si dice che Désirée finì per rimpiangere la sua decisione, e si convinse che, se fosse rimasta duchessa, avrebbe avuto maggiore potere. Sposò Sagace sapendo bene di essere la sua seconda regina, e che la prima gli aveva già partorito due eredi. Non nascose mai il suo disprezzo per i due principi più grandi, e spesso faceva notare che, essendo di nascita molto più nobile della prima regina di re Sagace, considerava suo figlio Regal più vicino al trono che non i due fratellastri. Tentò di instillare quest'idea a tutti con la scelta del nome per suo figlio. Sfortunatamente, quasi tutti la considerarono una scelta di cattivo gusto. Alcuni addirittura schernivano Désirée chiamandola Regina dell'Interno, quando, con la mente offuscata, si vantava implacabilmente di avere l'influenza politica per unire Armento e Riccaterra in un nuovo regno, che a un suo ordine si sarebbe sbarazzato del dominio di re Sagace. Ma i più attribuivano le sue affermazioni alla passione per le droghe, che fossero liquori o erbe. È vero, tuttavia, che prima di soccom-
bere finalmente alla sua dipendenza, Désirée fu responsabile per avere incoraggiato la frattura fra i Ducati dell'Interno e i Ducati della Costa. Giunsi ad attendere con ansia i miei incontri notturni con Umbra. Non c'era un programma, né uno schema che io potessi scorgere. Poteva passare una settimana, perfino due, fra un incontro e l'altro, o magari Umbra mi convocava ogni notte per una settimana di seguito, lasciandomi stravolto per i miei compiti diurni. A volte mi chiamava non appena la gente del castello era a dormire; altre volte mi chiamava all'alba. Era una tabella di marcia spaventosa per un ragazzo in crescita, eppure non mi venne mai in mente di protestare con Umbra o di rifiutare una sua chiamata. E credo che Umbra fosse convinto che le mie lezioni notturne non presentassero alcuna difficoltà per me. Lui stesso era una creatura notturna, quindi doveva sembrargli un momento perfettamente naturale per insegnarmi. E le cose che imparavo erano bizzarramente adatte alle ore più buie del mondo. Le lezioni di Umbra avevano una portata tremendamente vasta. La sera poteva trascorrere nello studio laborioso delle illustrazioni di un suo grande erbario, con il compito di raccogliere l'indomani sei piante che corrispondessero alle illustrazioni. Umbra non vide mai la necessità di suggerirmi se dovevo cercare le erbe nell'orto o negli angoli più oscuri della foresta, eppure le trovavo, e intanto il mio spirito di osservazione si affinava notevolmente. Facevamo anche dei giochi. Per esempio, Umbra mi diceva che l'indomani dovevo andare da Sara la cuoca e chiederle se la pancetta di quest'anno era più magra di quella dell'anno passato. E poi la sera stessa dovevo riferirgli l'intera conversazione, con la massima precisione, e rispondere a una dozzina di domande sulla posizione della cuoca, e se era mancina, e se sembrava dura d'orecchio, e che cosa stava cucinando in quel momento. La mia timidezza e reticenza non venivano mai considerate una scusa sufficiente per fallire nel compito, e così finii per incontrare e conoscere molti degli abitanti più umili della fortezza. Anche se le mie domande erano ispirate da Umbra, ciascuno di loro accoglieva volentieri il mio interesse ed era più che disponibile a condividere la sua conoscenza. Senza volerlo, cominciai a guadagnarmi la reputazione di «giovincello sveglio» e «bravo ragazzo». Anni dopo compresi che la lezione non era soltanto un esercizio di memoria ma anche un modo per imparare a fare amicizia con la gente comune, e a comprendere il loro modo di pensare. Molte volte, da allora, un sorriso, un complimento per aver curato bene il
mio cavallo e una rapida domanda a uno stalliere mi hanno fornito informazioni che non avrei potuto ottenere da lui per tutto il denaro del regno. Altri giochi rinsaldavano i miei nervi insieme al mio potere d'osservazione. Un giorno Umbra mi mostrò un pezzo di filo, e mi disse che, senza chiedere a madama Presta, dovevo scoprire esattamente dove teneva la scorta di filo corrispondente, e quali erbe erano state usate per tingerlo. Tre giorni più tardi mi fu detto che dovevo far sparire le sue migliori forbici, nasconderle dietro un certo scaffale di bottiglie nella cantina per tre ore, e poi riportarle al loro posto, senza che madama Presta o altri se ne accorgessero. Tali esercizi inizialmente facevano appello al naturale amore di un ragazzo per le birbonate, e raramente fallivo. Ma se ciò capitava, le conseguenze ricadevano su di me. Umbra mi avvertì che non mi avrebbe difeso dalla collera di nessuno, e mi suggerì di tener pronta una storia credibile per spiegare perché mi trovassi dove non avrei dovuto, o perché possedessi ciò che non mi apparteneva. Imparai a mentire molto bene. Non credo che fosse un caso. Queste erano le lezioni del mio corso preparatorio da assassino. E c'era di più. La rapidità di mano e l'arte di muovermi in silenzio. Dove colpire un uomo per fargli perdere i sensi. Dove colpirlo in modo che muoia senza gridare. Dove pugnalarlo in modo che muoia senza perdere troppo sangue. Imparai tutto in fretta e bene, prosperando nell'approvazione che Umbra manifestava per la mia mente svelta. Presto cominciò a usarmi per piccoli lavori nella fortezza. Non mi diceva mai se erano prove di abilità o effettive commissioni di cui aveva bisogno. Per me non faceva differenza; le eseguivo tutte con ostinata devozione. Nella primavera di quell'anno, manomisi le coppe di vino di una delegazione dei mercanti di Borgomago, rendendoli molto più ebbri di quanto intendessero. Nello stesso mese, nascosi una marionetta della troupe di un burattinaio in visita, e questi dovette mettere in scena il Caso delle coppe uguali, un'allegra favola popolare, invece del lungo dramma storico che aveva in programma per la serata. Alla Festa di Mezza Estate aggiunsi una certa erba al tè del pomeriggio di una domestica, e quella sera lei e tre sue amiche furono colpite dalla diarrea e impossibilitate a servire a tavola. Nell'autunno legai uno spago attorno al garretto del cavallo di un nobile in visita, azzoppando temporaneamente l'animale e costringendo il nobile a rimanere a Castelcervo per due giorni di più di quanto avesse programmato. Non conobbi mai le ragioni più profonde per i compiti che Umbra mi affidava. A quell'età, mi concentravo su come fare, piuttosto che sul per-
ché. E credo che anche quello facesse parte dell'apprendimento; obbedire senza chiedere la ragione. Ci fu un compito che mi riempì di gioia. Perfino a quell'epoca, compresi che la missione non era soltanto un capriccio di Umbra. Mi convocò per affidarmela negli ultimi momenti di oscurità prima dell'alba. «Messer Jessup e la sua dama sono qui in visita da due settimane. Li conosci di vista; lui ha i baffi molto lunghi, lei si aggiusta continuamente i capelli, perfino a tavola. Hai capito chi intendo?» Aggrottai la fronte. Un certo numero di nobili si erano radunati a Castelcervo, per formare un concilio e discutere dell'aumento nelle razzie degli Isolani. Avevo compreso che i Ducati della Costa volevano più navi da guerra, ma i Ducati dell'Interno erano contrari a investire le loro tasse per quello che ritenevano puramente un problema della costa. Messer Jessup e dama Dalia venivano dall'Interno. Jessup sembrava di temperamento nervoso quanto i suoi baffi, e costantemente accalorato. Dama Dalia, invece, sembrava non avere alcun interesse nel concilio, ma trascorreva gran parte del suo tempo a esplorare Castelcervo. «Porta fiori nei capelli, tutto il tempo? Le cadono continuamente?» «Proprio lei» replicò con enfasi Umbra. «Bene. La conosci. Ora, ecco la tua missione, e non ho tempo di mettere a punto i dettagli con te. Oggi, in un momento qualsiasi, dama Dalia manderà un'ancella nella stanza del principe Regal. L'ancella consegnerà qualcosa; un messaggio, un fiore, un oggetto di qualche tipo. Tu rimuoverai l'oggetto dalla stanza di Regal prima che lui lo veda. Hai capito?» Io annuii e aprii la bocca per dire qualcosa, ma Umbra si alzò improvvisamente e quasi mi cacciò fuori dalla stanza. «Non c'è tempo; è quasi l'alba!» dichiarò. Riuscii a fare in modo di trovarmi nella stanza di Regal, nascosto, quando arrivò l'ancella. Dal modo in cui la ragazza si introdusse nella stanza mi convinsi che non era la sua prima missione. Depose una minuscola pergamena e un fiore in boccio sul cuscino di Regal, e scivolò fuori dalla stanza. In un istante entrambi gli oggetti erano nel mio giustacuore, e più tardi sotto il mio cuscino. Credo che la parte più difficile della missione consistette nel trattenermi dall'aprire la pergamena. Più tardi, quella sera stessa, consegnai pergamena e fiore a Umbra. Nei successivi giorni, attesi, sicuro che ci sarebbe stata un'esplosione di qualche tipo, e sperando di vedere Regal sbigottito. Ma con mia sorpresa non accadde nulla. Regal rimase uguale a se stesso, tranne che era addirit-
tura più sarcastico del solito, e sembrava trescare ancora più sfacciatamente con qualsiasi signora. Quanto a dama Dalia, manifestò un improvviso interesse per l'andamento del concilio, e sbalordì suo marito diventando un'ardente sostenitrice delle tasse per le navi da guerra. La regina espresse il suo fastidio per questo cambio di schieramento escludendo dama Dalia da un giro di bevute nelle sue stanze. L'intera faccenda mi lasciò perplesso, ma quando alla fine la menzionai a Umbra, lui mi rimproverò. «Ricorda, tu sei l'uomo del re. Ti viene dato un compito, e tu lo porti a termine. E dovresti essere pienamente soddisfatto di te stesso per avere completato la missione. È tutto quello che devi sapere. Soltanto Sagace può decidere le mosse e pianificare il suo gioco. Tu e io, siamo solo pedine, forse. Ma siamo le pedine migliori; stanne certo.» Tuttavia, Umbra scoprì quasi subito i limiti della mia obbedienza. Quando si trattò di azzoppare il cavallo, lui suggerì che io gli tagliassi un tendine. Quello non mi passò neppure per la mente. Lo informai, con tutta la saggezza mondana di uno che è cresciuto fra i cavalli, che c'erano molti modi per azzoppare un cavallo senza fargli davvero male, e che poteva star certo che avrei scelto la maniera appropriata. Non ho mai scoperto che cosa abbia pensato del mio rifiuto. In quel momento non disse nulla per condannarlo, o per suggerire che approvava le mie azioni. In questa occasione, come in molte altre, tenne le sue opinioni per sé. Circa una volta ogni tre mesi, re Sagace mi convocava nelle sue stanze. Di solito la chiamata arrivava nelle prime ore del mattino. Io rimanevo davanti a lui, spesso mentre faceva il bagno, o si faceva legare i capelli nel codino intrecciato d'oro che soltanto il re poteva portare, o mentre il suo domestico gli preparava i vestiti. Il rituale era sempre lo stesso. Il re mi osservava attentamente, studiando la mia crescita e le mie condizioni come se fossi stato un cavallo che considerava di comprare. Mi rivolgeva un paio di domande, di solito sulle mie abilità di cavaliere o sullo studio delle armi, e ascoltava con gravità la mia breve risposta. E poi chiedeva, quasi formalmente: «E hai l'impressione che io stia rispettando la mia parte dell'accordo con te?» «Signore, sì» rispondevo ogni volta. «E allora fai in modo di rispettare la tua.» Questa era sempre la sua risposta, e il mio congedo. E il domestico che si occupava di lui o che mi apriva la porta per entrare o uscire, chiunque fosse, non sembrava mai accorgersi remotamente di me o delle parole del re. Nel tardo autunno di quell'anno, proprio alla cuspide del dente dell'in-
verno, mi fu assegnata la missione più difficile. Quando Umbra mi convocò nelle sue stanze avevo appena spento la candela. Dividemmo rognoni e un poco di vino speziato, seduti davanti al focolare di Umbra. Aveva lodato profusamente la mia ultima impresa, che mi aveva richiesto di rivoltare tutte le camicie stese nel cortile della lavanderia senza farmi sorprendere. Non era stato facile, e la parte peggiore era stata trattenermi dal ridere per non rivelare la mia posizione dentro una botte per tinture quando due dei lavandai più giovani avevano dichiarato che era colpa degli spiriti dell'acqua e per quel giorno avevano rifiutato di continuare a lavare. Umbra, come al solito, sapeva di tutta la scena ancor prima che io gliela riferissi. Mi riempì di gioia facendomi sapere che mastro Lew, il capo dei lavandai, aveva ordinato di appendere iperico a ogni angolo del cortile e disporlo in ghirlande intorno a ogni pozzo per allontanare gli spiriti dal lavoro dell'indomani. «Hai un dono per queste cose, ragazzo» ridacchiò Umbra e mi spettinò i capelli. «Credo quasi che non esista un compito impossibile per te.» Era seduto davanti al fuoco nel suo scranno dall'alto schienale, e io ero sul pavimento davanti a lui, con la schiena appoggiata alla sua gamba. Mi batté la mano sulla testa, come Burrich avrebbe accarezzato un giovane cane da caccia che si era comportato bene, e poi sì chinò in avanti e disse piano: «Ma ho una sfida per te.» «Di che si tratta?» chiesi avidamente. «Non sarà facile, neppure per il tuo tocco leggero» mi avvertì. «Mettimi alla prova!» lo sfidai a mia volta. «Oh, fra un mese o due, forse, quando avrai imparato un po' di più. Stanotte voglio insegnarti un gioco, che affinerà il tuo sguardo e la tua memoria.» Mise una mano in una tasca e ne estrasse una manciata di qualcosa. Aprì la mano brevemente davanti a me; pietre colorate. La mano si richiuse. «Ce n'erano di gialle?» «Sì. Umbra, cos'è la sfida?» «Quante?» «Ne ho viste due. Umbra, scommetto che saprei farlo adesso.» «Potevano essercene più di due?» «Forse, se qualcuna era tutta nascosta sotto le altre. Non credo. Umbra, cos'è la sfida?» Umbra aprì la vecchia mano ossuta, spostò le pietre con il lungo indice. «Avevi ragione. Solo due gialle. Riproviamo?» «Umbra, posso farlo.»
«È così che la pensi, vero? Guarda, riecco le pietre. Uno, due, tre, sparite di nuovo. Ce n'erano di rosse?» «Sì. Umbra, cos'è la missione?» «Ce n'erano più di rosse o di blu? Portarmi un oggetto personale dal comodino del re.» «Cosa?» «C'erano più pietre rosse o blu?» «No, voglio dire, cos'era la missione?» «Sbagliato, ragazzo!» annunciò allegramente Umbra. Aprì il pugno. «Vedi, tre rosse e tre blu. Esattamente lo stesso numero. Dovrai essere più rapido se vorrai essere all'altezza della mia sfida.» «E sette verdi. Lo sapevo, Umbra. Ma... vuoi che io rubi al re?» Ancora non credevo a quello che avevo sentito. «Non rubare, solo prendere in prestito. Come hai fatto con le forbici di madama Presta. Uno scherzo inoffensivo, non ti pare?» «Sì, tranne che se mi prendono mi frustano. O peggio.» «E tu temi che ti prenderanno. Lo vedi, te l'ho detto che è meglio aspettare un mese o due, quando sarai più abile.» «Non è per la punizione. E che se venissi scoperto... il re e io... abbiamo fatto un accordo...» Le mie parole si spensero. Lo fissai confuso. Quell'insegnamento era parte dell'accordo che avevo stipulato con Sagace. Ogni volta che ci incontravamo, prima che cominciasse la lezione, Umbra me lo ricordava. A lui, come al re, avevo dato la mia parola che sarei stato leale. Certamente doveva capire che se agivo contro il re avrei infranto la mia parte dell'accordo. «È un gioco, ragazzo» disse pazientemente Umbra. «Tutto qui. Solo un trucchetto. Non è un affare serio come lo fai sembrare. La sola ragione per cui te lo assegno è che la stanza del re e le sue proprietà sono sorvegliate con estrema attenzione. Sono capaci tutti di scappare con le forbici di una sarta; ma ci vuole autentica astuzia per entrare negli appartamenti stessi del re e prendere qualcosa che gli appartiene. Se ne sarai capace, avrò speso bene il mio tempo con te. Vuol dire che apprezzi quello che ti ho insegnato.» «Lo sai che lo apprezzo» dissi in fretta. Non si trattava affatto di quello. Umbra sembrava non aver capito niente di ciò che gli dicevo. «Mi sentirei... sleale. Mi sembrerebbe di usare quello che mi hai insegnato per imbrogliare il re. Mi sembrerebbe di deriderlo.» «Ah!» Umbra si rilassò sulla sedia, con un sorriso. «Non preoccuparti
per questo, ragazzo. Re Sagace sa apprezzare uno scherzo ben riuscito quando lo vede. Qualsiasi cosa tu prenda, gliela restituirò. Sarà per lui un segno che ti ho insegnato bene e che tu hai imparato bene. Prendi qualcosa di semplice, se sei così preoccupato; non devi togliergli la corona dalla testa o l'anello dal dito! Solo la sua spazzola, o qualche pezzo di carta che trovi in giro - andrebbero bene anche il suo guanto o la cintura. Nulla di grande valore. Solo un simbolo.» Ebbi la sensazione che dovevo fermarmi a riflettere, ma sapevo di non averne bisogno. «Non posso. Voglio dire, non lo farò. Non a re Sagace. Scegli qualcun altro, qualunque altra stanza, e lo farò. Ricordi quando ho preso la pergamena di Regal? Vedrai, posso strisciare dovunque e...» «Ragazzo?» Umbra parlò lentamente, perplesso. «Non ti fidi di me? Ti dico che va tutto bene. Stiamo parlando solo di una sfida, non di alto tradimento. E questa volta, se ti prendono, prometto che mi farò avanti e spiegherò tutto. Non verrai punito.» «Non si tratta di questo» precisai. Avvertivo la crescente perplessità di Umbra per il mio rifiuto. Cercai freneticamente dentro di me un modo per spiegarglielo. «Ho promesso di essere leale a Sagace. E questo...» «Non c'è nulla di sleale in questo!» scattò Umbra. Alzai lo sguardo e vidi un luccichio d'ira nei suoi occhi. Spaventato, mi ritrassi. Non l'avevo mai visto guardarmi così male. «Che cosa stai dicendo, ragazzo? Che ti sto chiedendo di tradire il tuo re? Non fare l'idiota. Questa è solo una piccola, semplicissima prova, il mio modo di valutarti e di mostrare a Sagace stesso quello che hai imparato, e tu ti tiri indietro. E cerchi di nascondere la tua codardia blaterando di lealtà. Ragazzo, tu mi fai vergognare. Credevo che avessi più spina dorsale, o non avrei mai cominciato a insegnarti.» «Umbra!» cominciai con orrore. Le sue parole mi avevano sconvolto. L'uomo si allontanò da me, e io sentii il mio piccolo mondo traballare attorno a me mentre la sua voce proseguiva freddamente. «Farai meglio a ritornare a letto, ragazzino. Pensa attentamente a come mi hai insultato stanotte. Insinuare che potrei essere in qualche modo sleale al nostro re. Striscia giù per le scale, piccolo vigliacco. E la prossima volta che ti mando a chiamare... Bah, se ti manderò a chiamare ancora, vieni preparato a obbedirmi. O non venire affatto. Ora vattene.» Umbra non mi aveva mai parlato così. Non riuscivo a ricordare che avesse mai alzato la voce con me. Fissai quasi senza comprendere il braccio magro e butterato che usciva dalla manica della sua veste, il lungo dito che indicava con disprezzo la porta e le scale. Mentre mi alzavo, mi sentii ma-
le. Vacillai, e dovetti aggrapparmi a una sedia mentre passavo. Ma proseguii, feci come mi diceva, incapace di pensare ad altro. Umbra, che era diventato il pilastro centrale del mio mondo, che mi aveva spinto a credere di avere un qualche valore, stava portandomi via tutto. Non soltanto la sua approvazione, ma il tempo che trascorrevamo insieme, la sensazione che la mia vita avesse uno scopo. Scesi le scale inciampando e barcollando. Non mi erano mai sembrate così lunghe o così fredde. La porta in fondo alle scale si chiuse stridendo dietro di me, e rimasi nell'oscurità totale della mia stanza. Raggiunsi a tentoni il letto, ma le coperte non riuscivano a riscaldarmi, e quella notte non trovai traccia di sonno. Mi agitavo in preda al tormento. La parte peggiore era che non riuscivo a scorgere alcuna indecisione in me stesso. Non potevo fare quello che Umbra mi chiedeva. Dunque, l'avrei perduto. Senza il suo insegnamento, non servivo a nulla al re. Ma non era quello che mi tormentava. Era semplicemente la scomparsa di Umbra dalla mia vita. Non riuscivo a ricordare come avevo fatto prima, quando ero stato così solo. Tornare alla noia di vivere giorno per giorno, andando di dovere in dovere, sembrava impossibile. Tentai disperatamente di pensare a un rimedio. Ma non sembrava esserci soluzione. Potevo andare da Sagace in persona, mostrare la mia spilla per essere ammesso nelle sue stanze, e raccontargli del mio dilemma. Ma che cosa avrebbe detto il re? Mi avrebbe considerato solo un ragazzino sciocco? Avrebbe detto che dovevo obbedire a Umbra? O peggio, avrebbe detto che avevo fatto bene a disubbidire a Umbra e si sarebbe arrabbiato con lui? Erano domande molto difficili per la mente di un ragazzo, e non trovai risposte che mi aiutassero. Quando finalmente venne il mattino, mi trascinai fuori dal letto e come sempre feci rapporto a Burrich. Mi occupai dei miei compiti in una grigia indifferenza che dapprima mi procurò un rimprovero, e poi un'indagine sullo stato del mio stomaco. Gli risposi semplicemente che non avevo dormito bene, e Burrich mi lasciò andare senza somministrarmi la minacciata tisana. All'addestramento delle armi non me la cavai meglio. Ero così distratto che permisi a un ragazzo molto più giovane di darmi una bella botta sul cranio. Poiana ci rimproverò tutti e due per l'imprudenza e mi disse di sedermi per un poco. Quando tornai alla fortezza mi pulsava la testa e le gambe mi tremavano. Andai nella mia stanza, dato che non avevo animo per il pranzo di mezzogiorno o per le sguaiate conversazioni che lo accompagnavano. Mi buttai
sul letto, con l'intenzione di chiudere gli occhi per un momento, ma caddi in un sonno profondo. Mi svegliai a metà pomeriggio, e pensai ai rimproveri che mi aspettavano per aver perso le lezioni. Ma non fu abbastanza per scuotermi, e crollai di nuovo, solo per essere risvegliato all'ora di cena da una domestica che era venuta a cercarmi su richiesta di Burrich. La sviai dicendole che soffrivo di acidità di stomaco e che volevo digiunare fino a farmela passare. Quando se ne andò, sonnecchiai ma non dormii. Non potevo. La notte si fece più profonda nella mia stanza senza luce, e io sentii il resto della fortezza avviarsi al riposo. Nell'oscurità immobile, giacqui in attesa di una chiamata a cui non avrei osato rispondere. E se la porta si apriva? Non potevo andare da Umbra, perché non potevo obbedirgli. Che cosa sarebbe stato peggio: se non mi chiamava, o se apriva la porta per me e io non osavo andare? Mi sentivo come fra l'incudine e il martello, e allo strisciare del grigio mattino ebbi la risposta. Non si era neanche preoccupato di chiamarmi. Perfino adesso, non amo ricordare i giorni successivi. Li trascorsi a spalle curve, così addolorato da non poter mangiare o riposare come si deve. Non riuscivo a concentrare la mente su alcun lavoro, e accettavo i rimproveri dei miei insegnanti con cupa rassegnazione. Guadagnai un mal di testa incessante, e il mio stomaco rimaneva così contratto che il cibo non m'interessava. Il pensiero stesso di mangiare mi sfiniva. Burrich mi sopportò per due giorni, poi mi acciuffò e mi costrinse a trangugiare una tisana contro i vermi insieme a un tonico per il sangue. La combinazione mi fece vomitare quel poco che avevo mangiato quel giorno. Dopo mi fece lavare la bocca con vino di prugne, e perfino adesso non riesco a bere il vino di prugne senza che mi venga la nausea. Poi, con mia stanca sorpresa, mi trascinò su per le scale al suo alloggio e mi ordinò seccamente di rimanere lì per il resto della giornata. Quando venne la sera, mi trascinò alla fortezza, e sotto il suo occhio vigile fui costretto a consumare una scodella di zuppa diluita e un pezzo di pane. Mi avrebbe riportato al suo alloggio, se non avessi insistito che volevo il mio letto. In realtà, dovevo assolutamente trovarmi nella mia stanza. Dovevo sapere se Umbra avrebbe almeno cercato di convocarmi, che io potessi andare o meno. Attraverso un'altra notte senza sonno, fissai nell'oscurità l'angolo più oscuro della mia stanza. Ma Umbra non mi convocò. Il mattino ingrigì la mia finestra. Mi girai dall'altra parte e rimasi a letto. Il peso dell'angoscia che mi piombò addosso era troppo palpabile perché potessi combatterlo. Tutte le mie possibili scelte conducevano a una fine
tetra. Non riuscivo ad affrontare l'inutilità di alzarmi dal letto. Caddi preda di una specie di sonnolento mal di testa. Tutti i suoni sembravano troppo forti, e io avevo troppo caldo o troppo freddo, non importa cosa facessi delle coperte. Chiusi gli occhi, ma perfino i miei sogni erano accecanti e fastidiosi. Uno scontro di voci, forti come se fossero state nel letto con me, e tanto più frustranti perché sembravano un solo uomo che discuteva con se stesso, prendendo entrambe le parti. «Spezzalo, come hai fatto con quell'altro!» borbottava irritato. «Tu e le tue stupide prove!» e poi: «Bisogna stare attenti. Non ci si può fidare di chiunque. Il sangue parlerà. Provare la sua tempra, ecco tutto.» «Tempra! Se vuoi una spada senza cervello, forgiatela da solo. Battila fino a rovinarla.» E più sommessamente: «Non ho il cuore per questo. Non mi farò usare di nuovo. Se volevi mettere alla prova il mio carattere, l'hai fatto.» Poi: «Non parlarmi di sangue e famiglia. Ricorda chi sono per te! Non è della sua lealtà che lei si preoccupa, o della mia.» La voce arrabbiata si frantumò, si confuse, si trasformò in un'altra discussione, questa più stridula. Aprii un varco fra le palpebre. La mia stanza era diventata la scena di una scaramuccia. Mi riscossi e trovai Burrich e madama Presta che dibattevano vivacemente se io ricadevo sotto la giurisdizione dell'uno o dell'altra. La donna teneva un cesto di vimini da cui sporgevano i colli di diverse bottiglie. L'odore di empiastro di senape e camomilla mi arrivò così forte che mi venne quasi da vomitare. Burrich si ergeva stoicamente fra lei e il mio letto. Aveva le braccia conserte e Volpina ai piedi. Le parole di madama Presta rimbalzavano nella mia mente come sassolini. «Nella fortezza», «Le lenzuola pulite», «Li conosco i ragazzi», «Quel cane puzzolente.» Non ricordo che Burrich abbia detto una parola. Si limitava a rimanere lì, talmente solido che potevo sentirlo con gli occhi chiusi. Più tardi, Burrich se n'era andato, ma Volpina era sul letto, non ai miei piedi ma al mio fianco, e ansimava pesantemente ma rifiutava di abbandonarmi per il pavimento più fresco. Aprii di nuovo gli occhi, ancora più tardi, a prima sera. Burrich aveva tirato via il cuscino, lo aveva sprimacciato un poco e me lo stava ricacciando goffamente sotto la testa, con il lato fresco verso l'alto. Poi sedette pesantemente sul letto. Si schiarì la gola. «Fitz, non ti ho mai visto così. Almeno quello che ti sta succedendo non è nel tuo stomaco o nel sangue. Se tu fossi un poco più grande, penserei a problemi di donne. Ti comporti come un soldato durante un'ubriacatura di tre giorni, ma senza il vino. Ragazzo, che ti succede?»
Mi guardò con sincera preoccupazione. Era la stessa espressione che aveva quando temeva che una cavalla avesse un aborto, o quando i cacciatori riportavano i cani feriti dai cinghiali. Mi fece effetto, e senza volere lo cercai. Come sempre, trovai un muro, ma Volpina uggiolò lievemente e mi mise il naso sulla guancia. Io cercai di esprimere quello che avevo dentro senza tradire Umbra. «Mi sento così solo, adesso» sentii che diceva la mia voce, e parve perfino a me una fiacca protesta. «Solo?» Burrich aggrottò la fronte. «Fitz, ci sono qui io. Come fai a dire che sei solo?» La conversazione finì lì, e ci guardammo a vicenda senza capirci. Più tardi Burrich mi portò del cibo, ma non insistette per farmelo mangiare. E lasciò Volpina con me per la notte. Una parte di me si chiedeva come avrei reagito se si fosse aperta la porta, ma una parte più preponderante mi diceva di non preoccuparmi. Quella porta non si sarebbe aperta mai più. Giunse di nuovo il mattino, e Volpina mi annusò uggiolando per uscire. Troppo distrutto per preoccuparmi che Burrich mi sorprendesse, la cercai. Fame e sete e una vescica piena fino a scoppiare. E il suo disagio improvvisamente era il mio. Mi cacciai addosso una tunica e la portai giù per le scale e poi fuori, e dopo andai in cucina a mangiare. Non avrei mai immaginato che qualcuno potesse essere tanto felice di vedermi come la cuoca in quel momento. Volpina ricevette una generosa scodella di stufato della sera prima, mentre la cuoca insistette nel darmi sei fette di pancetta tagliata spessa sulla crosta calda della prima infornata di pane della giornata. Il naso fino e la fame da lupo di Volpina accesero anche i miei sensi, e mi ritrovai a mangiare non con il mio solito appetito, ma con la brama sensuale di cibo di un giovane animale. Di lì Volpina mi condusse alle stalle, e anche se staccai la mente da lei prima di entrare, mi sentii in qualche modo riconfortato dal contatto. Burrich si raddrizzò dal lavoro che stava facendo, mi rivolse un'occhiata indagatrice, guardò brevemente Volpina, emise un grugnito ironico e poi mi tese una bottiglia di latte con una cannuccia. «Non c'è molto nella testa di un uomo,» mi disse «che non possa essere curato lavorando e dedicandosi a qualcos'altro. La cagna dei ratti ha fatto i cuccioli qualche giorno fa, e ce n'è uno troppo debole per competere con gli altri. Vedi se oggi riesci a tenerlo in vita.» Era un cucciolo bruttissimo, con la pelle rosa che traspariva attraverso il pelo ispido. Aveva ancora gli occhi strettamente chiusi, e la pelle in eccesso che gli sarebbe servita crescendo era tutta rincagnata sopra il muso. Il
codino spelato sembrava proprio quello di un topo, così mi chiesi se la madre non maltrattava i suoi stessi cuccioli a causa della somiglianza. Era debole e passivo, ma lo stuzzicai con il latte caldo e la cannuccia fino a convincerlo a succhiare un poco, e gliene versai addosso abbastanza da ispirare sua madre a leccarlo e annusarlo. Tolsi da una tetta della cagna una delle sue sorelle più robuste e lo piazzai al suo posto. In ogni caso il ventre della cucciola era tondo e pieno; stava ciucciando per pura cocciutaggine. Sarebbe stata bianca con una macchia nera su un occhio. Mi prese il mignolo e lo succhiò, e potevo già sentire la forza immensa che avrebbero avuto un giorno quelle fauci. Burrich mi aveva raccontato che i cani dei ratti potevano azzannare il naso di un toro e restare attaccati, non importa cosa faceva il toro. Lui non sapeva che farsene di gente che insegnava queste cose ai cani, ma nutriva un incontenibile rispetto per il coraggio di un cane che sapeva affrontare un toro. I nostri cani dei ratti venivano tenuti per dare la caccia ai topi, e portati regolarmente di pattuglia fra i mucchi di pannocchie e nei granai. Trascorsi lì l'intera mattinata, e me ne andai a mezzogiorno con la gratificazione di vedere il pancino del cucciolo tondo e gonfio di latte. Trascorsi il pomeriggio a ripulire le stalle. Burrich mi fece lavorare, affibbiandomi un nuovo compito non appena avevo finito il precedente, senza lasciarmi il tempo di fare altro. Non mi parlò e non mi fece domande, ma sembrava sempre lavorare ad appena una dozzina di passi. Era come se avesse preso alla lettera la mia dichiarazione di solitudine, ed era deciso a restare dove potevo vederlo. Terminai la giornata con il mio cucciolo, che era notevolmente più forte di quella mattina. Lo cullai sul mio petto e lui mi si cacciò sotto il mento, cercando il latte con il suo musetto schiacciato. Mi fece il solletico. Lo allontanai e lo guardai. Avrebbe avuto il naso rosa. Gli uomini dicevano che i cani dei ratti con il naso rosa erano i più selvaggi nel combattimento. Ma adesso il suo cervellino emanava solo un soffice tepore di sicurezza e voglia di latte e affetto per il mio odore. Lo avvolsi nella mia protezione, lo lodai per la sua nuova forza. Il cucciolo si agitò fra le mie dita. E Burrich si affacciò sopra il lato dello stallo e mi batté le nocche sulla testa, suscitando un doppio guaito dal cucciolo e da me. «Adesso basta,» ammonì severamente. «Non è una cosa da uomo. E non risolverà quello che ti sta rodendo l'anima, qualsiasi cosa sia. Rendi subito quel cucciolo a sua madre.» Così feci, ma con riluttanza, e niente affatto sicuro che Burrich avesse ragione a dire che legarmi a un cucciolo non avrebbe risolto nulla. Brama-
vo il suo piccolo mondo di paglia e fratellini e latte e mamma. In quel momento, non riuscivo a immaginarne uno migliore. Poi Burrich e io andammo su a mangiare. Mi portò alla mensa dei soldati, dove le maniere erano quelle che uno aveva e nessuno era obbligato a fare conversazione. Era confortante trovarsi ignorato con disinvoltura, vedere il cibo che mi passava sopra la testa senza nessuno che si affannasse per me. Tuttavia Burrich controllò che mangiassi, e poi ci sedemmo fuori accanto alla porta posteriore della cucina e bevemmo. Io avevo già bevuto birra chiara e birra scura e vino, ma mai con la determinazione che Burrich mi mostrò quella sera. Quando la cuoca osò uscire a rimproverarlo perché dava del liquore a un ragazzino, le rivolse una delle sue calme occhiate che mi ricordò la sera in cui lo avevo incontrato, quando aveva affrontato una stanza piena di soldati per difendere il buon nome di Chevalier. E la donna se ne andò. Burrich mi riportò alla mia stanza, mi tirò via la tunica dalla testa mentre vacillavo accanto al letto, e poi mi ribaltò sul materasso con disinvoltura e mi buttò addosso una coperta. «Ora dormirai» mi informò con voce impastata. «E domani faremo la stessa cosa. E poi di nuovo. Fino a quando non ti alzerai e scoprirai che qualsiasi cosa fosse non ti ha ucciso, tutto sommato.» Spense la mia candela e se ne andò. La testa mi girava e il corpo mi doleva per il lavoro della giornata. Eppure non dormivo. Piuttosto, mi ritrovai a piangere. L'alcool aveva sciolto qualsiasi nodo trattenesse il mio controllo, e piansi. Non in silenzio. Singhiozzai e ansimai e poi urlai fino a farmi tremare la mandibola. Mi si chiuse la gola, mi colava il naso, e piangevo così tanto che mi pareva di non poter respirare. Credo di aver pianto tutte le lacrime che non avevo mai versato da quando mio nonno aveva costretto mia madre ad abbandonarmi. «Sono solo!» mi sentii gridare, e improvvisamente due braccia erano attorno a me e mi tenevano stretto. Umbra mi abbracciò e mi cullò come se fossi stato un bambino molto più piccolo. Perfino nell'oscurità riconobbi le braccia ossute e l'odore di erbe e polvere che aveva addosso. Incredulo, mi aggrappai a lui e piansi fino a perdere la voce, con la bocca così arida che non ne usciva alcun suono. «Avevi ragione» disse contro i miei capelli, in tono sommesso, confortante. «Avevi ragione. Ti stavo chiedendo una cosa sbagliata, e avevi ragione a rifiutare. Non verrai più messo alla prova in quel modo. Non da me.» E quando finalmente rimasi immobile, mi abbandonò per qualche momento, e poi mi portò qualcosa da bere, tiepido e quasi senza sapore,
ma non era acqua. Accostò il boccale alla mia bocca e io lo trangugiai senza domande. Poi mi distesi, con un sonno così improvviso che non ricordo neanche che Umbra abbia lasciato la mia stanza. Mi svegliai che era quasi l'alba e feci rapporto a Burrich dopo una lauta colazione. Svolsi i miei compiti in fretta e fui attento agli animali in mia custodia, e non capivo affatto perché lui si fosse svegliato così ingrugnato e con il mal di testa. Bofonchiò qualcosa come «regge il vino come suo padre», e poi mi lasciò andare presto, dicendomi di andare a fischiettare da qualche altra parte. Tre giorni più tardi, re Sagace mi convocò all'alba. Era già vestito, e c'era lì un vassoio di cibo per più di una persona. Non appena arrivai, mandò via il domestico e mi disse di sedermi. Presi posto al tavolino nella sua stanza, e senza chiedermi se avevo fame il re mi servì con le sue mani e poi sedette a mangiare davanti a me. Apprezzai il gesto, ma anche così non riuscii a mangiare molto. Il re parlò solo del cibo, e non disse nulla di accordi o lealtà o mantenere la parola data. Quando vide che avevo finito di mangiare, allontanò il suo piatto. Si assestò a disagio. «È stata una mia idea» disse all'improvviso, quasi brutalmente. «Non sua. Lui non è mai stato d'accordo. Io ho insistito. Quando sarai più grande, capirai. Non posso correre rischi, con nessuno. Ma gli ho promesso che lo avresti saputo personalmente da me. È stata tutta un'idea mia, non sua. E non gli chiederò mai più di mettere alla prova la tua tempra in questo modo. Hai la parola di un re.» Fece un cenno che mi congedava. E io mi alzai, ma mentre lo facevo presi dal vassoio un piccolo coltello d'argento, tutto inciso, che il re aveva usato per tagliare la frutta. Lo guardai negli occhi mentre lo facevo, e me lo infilai apertamente nella manica. Gli occhi di re Sagace si dilatarono, ma non disse una parola. Due notti più tardi, quando Umbra mi convocò, le nostre lezioni ricominciarono come se non ci fosse stata alcuna pausa. Lui parlava, io ascoltavo, facevo il gioco delle pietre senza mai sbagliare. Mi diede una missione, e ci scherzammo sopra. Mi mostrò come Quatto, la donnola, danzava per una salsiccia. Tutto andava di nuovo bene fra noi. Ma prima di lasciare le sue stanze per la notte, andai al focolare. Senza una parola, posi il coltello al centro della mensola. Anzi, lo affondai nel legno. Poi me ne andai senza parlarne, senza guardarlo negli occhi. In effetti non ne parlammo mai. Credo che il coltello sia ancora lì.
6 L'ombra di Chevalier Ci sono due tradizioni riguardo all'usanza di dare ai rampolli reali nomi che suggeriscono virtù o abilità. Quella più comunemente caldeggiata è che in qualche modo questi nomi siano vincolanti; che quando un nome del genere viene assegnato a un bambino che verrà addestrato nell'Arte, in qualche modo l'Arte fonde il nome con il bambino, il quale non può fare a meno di crescere praticando la virtù fornitagli da quel nome. Questa prima tradizione è sostenuta più ostinatamente dagli stessi che sono più pronti a togliersi il cappello in presenza della nobiltà minore. Una tradizione più antica attribuisce nomi simili al caso, almeno all'inizio. Si dice che re Conquistatore e re Dominatore, i primi due Isolani che dominarono quelli che sarebbero diventati i Sei Ducati, non si chiamavano affatto così. Piuttosto i loro nomi nella loro lingua erano molto simili al suono di tali parole nella lingua dei ducati, e quindi i due re finirono per essere noti con i nomi locali piuttosto che con i loro veri nomi. Ma per la convenienza delle famiglie reali è meglio che il popolo creda che un ragazzo che riceve un nome nobile debba crescere con una natura nobile. «Ragazzo!» Alzai la testa. Degli altri cinque o sei ragazzini distesi davanti al fuoco, nessuno si mosse di un pelo. Le fanciulle badarono ancor meno mentre mi alzavo per prendere posto davanti al basso tavolo dove mastro Piuma era inginocchiato. Questi aveva scoperto qualche trucco nella voce che faceva capire a tutti quando Ragazzo significava «ragazzo» quando significava «il bastardo». Infilai le ginocchia sotto al tavolino e sedetti sui talloni, poi offrii a Piuma il mio foglio di carta di sughero. Mentre faceva scorrere gli occhi lungo le mie precise colonne di lettere, lasciai che la mia attenzione vagasse. L'inverno ci aveva raccolti come covoni e confinati lì nella Sala Grande. Fuori, una tempesta sul mare sferzava le mura della fortezza mentre le onde si abbattevano sulle rupi con una forza che occasionalmente suscitava un tremito attraverso il pavimento di pietra sotto di noi. Le nuvole pesanti avevano rubato perfino le poche ore di luce fioca che l'inverno ci aveva lasciato. Mi sembrava che un'oscurità simile a una nebbia ci incombesse addosso, sia fuori che dentro di noi. La penombra penetrava i miei occhi,
al punto che mi sentivo assonnato senza essere stanco. Per un breve momento lasciai espandere i miei sensi, e percepii la pigrizia invernale dei cani che dormicchiavano e sussultavano negli angoli. Neppure lì riuscii a trovare un pensiero o un'immagine che mi interessasse. Il fuoco bruciava in tutti e tre i grandi focolari, e davanti a ciascuno era radunato un diverso gruppo. C'erano i costruttori di frecce intenti al loro lavoro, nel caso che l'indomani fosse stata una giornata abbastanza limpida per andare a caccia. Avrei voluto essere lì con loro, perché la voce tranquilla di Sherf saliva e scendeva raccontando una storia, spesso interrotta dalle risate soddisfatte dei suoi ascoltatori. Al focolare più lontano, le voci dei bambini squillavano nel ritornello di una canzone. Riconobbi il Canto del pastore, una filastrocca per imparare a contare. Alcune madri vigili battevano i piedi creando merletti con il chiacchierino, mentre le vecchie dita avvizzite di Jerdon sulle corde dell'arpa invogliavano le giovani voci ad andare quasi a tempo. Al nostro focolare, i bambini grandi abbastanza per stare fermi e imparare l'alfabeto facevano esattamente questo. Se ne occupava Piuma. Nulla sfuggiva ai suoi acuti occhi azzurri. «Ecco» mi disse, indicando il foglio. «Hai dimenticato di fare il trattino alle code. Ricordi quello che ti ho mostrato? Giustino, apri gli occhi e torna alla tua penna. Se ti appisoli ancora ti manderò a prenderci un altro ciocco per il fuoco. Charity, un altro risolino e andrai ad aiutarlo. A parte questo» e la sua attenzione era di nuovo sul mio lavoro «la tua mano è molto migliorata, non solo con questi caratteri dei Ducati ma anche con le rune degli Isolani. Anche se quelle non possono essere tracciate come si deve su questa carta scadente. La superficie è troppo porosa, e assorbe eccessivamente l'inchiostro. Per le rune ci vogliono fogli di corteccia ben schiacciati» e fece scorrere un dito con soddisfazione sul foglio su cui stava lavorando. «Continua così, e prima che finisca l'inverno ti permetterò di farmi una copia dei Rimedi della regina Benevolenza. Che ne dici?» Cercai di sorridere e di apparire sufficientemente lusingato. Di solito il lavoro di copiatura non veniva affidato agli studenti; la buona carta era troppo rara, e un tratto di penna imprudente poteva rovinare un foglio. Sapevo che i Rimedi erano un elenco abbastanza semplice di proprietà delle erbe e profezie, ma qualsiasi lavoro di copiatura era un onore a cui aspirare. Piuma mi diede un nuovo foglio di carta di sughero. Mentre mi alzavo per tornare al mio posto, alzò la mano per fermarmi. «Ragazzo?» Rimasi immobile.
Piuma appariva a disagio. «Non so a chi rivolgermi, se non a te. Per fare le cose per bene dovrei chiederlo ai tuoi genitori, ma...» Misericordiosamente lasciò che la frase si spegnesse. Si grattò la barba con le dita macchiate d'inchiostro, meditabondo. «Presto l'inverno sarà finito, e io ripartirò. Lo sai cosa faccio d'estate, ragazzo? Viaggio attraverso i Sei Ducati, raccogliendo erbe e bacche e radici per i miei inchiostri, facendo provviste di carta. È una bella vita, camminare liberi lungo le strade d'estate ed essere ospiti in questa fortezza di inverno. La professione dello scrivano ha molti vantaggi.» Mi guardò pensieroso. Gli restituii lo sguardo, chiedendomi a che cosa mirava. «Ogni anno, mi scelgo un apprendista. Alcuni vanno bene, e continuano a fare gli scrivani nelle fortezze minori. Altri non ce la fanno. Non hanno la pazienza per il dettaglio, o la memoria per gli inchiostri. Io credo che tu ce l'avresti. Che ne diresti di diventare scrivano?» La domanda mi colse completamente di sorpresa, e lo fissai ammutolito. Non era semplicemente l'idea di diventare scrivano; era l'intera nozione che Piuma mi volesse come suo apprendista, per seguirlo e imparare i segreti del suo mestiere. Erano trascorsi diversi anni da quando avevo stipulato il mio accordo con il vecchio re. A parte le notti che trascorrevo in compagnia di Umbra o i pomeriggi rubati con Molly e Kerry, non avevo mai pensato che qualcuno potesse apprezzare la mia compagnia, e tanto meno che mi considerasse materiale da apprendista. La proposta di Piuma mi lasciò senza parole. L'uomo dovette avvertire la mia confusione, perché sorrise, il suo solito sorriso brillante, giovane e vecchio insieme. «Ebbene, pensaci, ragazzo. Il mestiere dello scrivano è buono, e quali altre prospettive hai? Detto fra noi, io credo che passare un po' di tempo lontano da Castelcervo potrebbe farti bene.» «Lontano da Castelcervo?» ripetei meravigliato. Era come se qualcuno avesse aperto una tenda. Non avevo mai considerato quella possibilità. Improvvisamente le strade che conducevano via dalla fortezza brillarono nella mia mente, e le noiose mappe che ero stato costretto a studiare divennero luoghi dove potevo andare. L'idea mi paralizzò. «Sì» disse piano Piuma. «Lasciare Castelcervo. Man mano che diventi grande, l'ombra di Chevalier si farà più fioca. Non sarà sempre lì a proteggerti. Meglio che tu sia indipendente, con la tua vita e una vocazione che ti soddisfi, prima che la sua protezione scompaia completamente. Ma non devi rispondermi subito. Pensaci. Parlane con Burrich, magari.» E mi tese la mia carta di sughero rimandandomi al mio posto. Pensai alle
sue parole, ma non fu a Burrich che le riferii. Nelle fioche ore di un nuovo giorno, Umbra e io eravamo accovacciati, testa a testa, io intento a raccogliere i frantumi rossi di una terrina rovesciata da Quatto mentre Umbra recuperava i fini semi neri sparsi in tutte le direzioni. Quatto era appollaiato in cima a un arazzo piegato sotto il suo peso ed emetteva versi di scusa, ma io percepivo il suo divertimento. «Venivano fin da Kalibar, questi semi, pezzo di pelliccia senza cervello!» lo rimproverò Umbra. «Kalibar» dissi io, e pescai nella mia memoria: «A un giorno di viaggio dal nostro confine con Lungosabbia.» «Esatto, ragazzo mio» borbottò Umbra in tono di approvazione. «Ci sei mai stato?» «Io? Oh, no. Volevo solo dire che vengono da molto lontano. Ho dovuto farmeli arrivare da Crestapino. Laggiù hanno un grande mercato, che attira il commercio da tutti i Sei Ducati e anche da molti dei nostri vicini.» «Oh. Crestapino. Ci sei mai stato?» Umbra ci pensò su. «Una o due volte, quando ero più giovane. Ricordo il rumore, soprattutto, e il caldo. Le zone dell'Interno sono così: troppo secche, troppo calde. Sono stato felice di tornare a Castelcervo.» «Hai mai trovato un posto che ti piacesse più di Castelcervo?» Umbra si raddrizzò lentamente, con la mano pallida tenuta a coppa, piena di fini semi neri. «Perché non mi fai una domanda diretta invece di menare il can per l'aia?» E così gli dissi dell'offerta di Piuma, e anche di come avevo improvvisamente compreso che le mappe erano più che linee e colori. Erano luoghi e possibilità, e io potevo andarmene ed essere qualcun altro, uno scrivano o... «No.» Il tono di Umbra era sommesso ma brusco. «Non importa dove vai, sarai sempre il bastardo di Chevalier. Piuma è più perspicace di quanto credessi, ma anche lui non capisce. Non il quadro completo. Vede che qui a corte tu sarai sempre un bastardo, tenuto ai margini. Quello che non comprende è che qui, dove puoi godere della generosità di re Sagace, imparando le tue lezioni, sotto i suoi occhi, non sei una minaccia per lui. Certamente, qui sei sotto l'ombra di Chevalier. Certamente questo ti protegge. Ma se tu fossi lontano da qui, non soltanto avresti ancora bisogno di tale protezione, ma saresti anche un pericolo per re Sagace, e un pericolo ancora più grande per i suoi eredi dopo di lui. Non godresti della semplice vita libera di uno scrivano itinerante. Un bel mattino ti ritroverebbero nel tuo
letto in qualche taverna con la gola tagliata, o sulla strada maestra con una freccia in corpo.» Il freddo mi percorse come un brivido. «Ma perché?» chiesi piano. Umbra sospirò. Lasciò cadere i semi in un piatto, si spolverò leggermente le mani per scuotere via quelli che gli erano rimasti attaccati alle dita. «Perché sei un bastardo reale, un ostaggio del tuo stesso sangue. Per adesso, come ti dico, non sei una minaccia per Sagace. Sei troppo giovane, e poi qui ti tiene sott'occhio. Ma il re guarda avanti. E dovresti farlo anche tu. Sono tempi inquieti. Gli Isolani si fanno sempre più audaci nelle loro scorrerie. La gente della costa comincia a protestare, dice che servono più navi per le pattuglie, e alcuni dicono che dovremmo avere anche noi navi da guerra, per predare invece di essere predati. Ma i Ducati dell'Interno non vogliono saperne di pagare per navi di qualsiasi genere, soprattutto non navi da guerra che potrebbero precipitarci in un conflitto su larga scala. Protestano che il re pensa soltanto alla costa, senza preoccuparsi delle loro fattorie. E la gente di montagna sta diventando più avara nel concedere l'uso dei passi. I pedaggi sul commercio crescono ogni mese. Così i mercanti brontolano fra loro e protestano. A sud, a Lungosabbia e oltre, c'è la siccità, e sono tempi duri. Tutti laggiù non fanno altro che imprecare, come se il re e Veritas avessero colpa anche di quello. Veritas va benissimo per berci un bicchiere insieme, ma non è né il soldato né il diplomatico che era Chevalier. Preferirebbe cacciare gli stambecchi, o ascoltare i menestrelli vicino al fuoco, piuttosto che percorrere strade invernali con il brutto tempo, solo per rimanere in contatto con gli altri ducati. Presto o tardi, se le cose non migliorano, la gente si guarderà intorno e dirà: 'Ebbene, un bastardo non è poi gran cosa. Chevalier avrebbe dovuto salire al trono; lui avrebbe posto fine in fretta a tutto questo. Sarà stato un po' rigido sul protocollo, ma almeno agiva, e non permetteva che gli stranieri ci mettessero i piedi in testa'.» «Dunque Chevalier potrebbe ancora diventare re?» La domanda mi causò una strana eccitazione. In un attimo stavo immaginando il suo ritorno trionfale a Castelcervo, prima o poi il nostro incontro, e... Poi che cosa? Umbra parve leggere i pensieri sul mio viso. «No, ragazzo. Non è affatto probabile. Perfino se tutto il popolo lo volesse, dubito che Chevalier andrebbe contro ciò che ha deciso per se stesso, o contro i desideri del re. Ma la situazione causerebbe brontolii e mugugni, e quelli potrebbero condurre a rivolte e scontri... oh, in generale non sarebbe un bell'ambiente per un bastardo che se ne va in giro libero. Dovrebbero sistemarti in un modo o
nell'altro. O come un cadavere, o come lo strumento del re.» «Lo strumento del re. Capisco.» Un'oppressione mi calò addosso. La mia breve visione di cieli azzurri curvi su strade gialle e io che le percorrevo a cavallo di Fuliggine svanì improvvisamente. Pensai invece ai cani nei loro canili, o al falco, con il cappuccio e i lacci, che viaggiava sul polso del re e veniva lasciato andare soltanto per compiere la volontà del re. «Non deve necessariamente essere così brutto» disse piano Umbra. «La maggior parte delle prigioni ce le costruiamo da noi. Un uomo si costruisce anche la libertà.» «Non andrò mai da nessuna parte, vero?» Malgrado la novità dell'idea, viaggiare improvvisamente mi sembrava importantissimo. «Io non direi.» Umbra stava frugando in cerca di qualcosa da usare come coperchio per la ciotola piena di semi. Finalmente si accontentò di metterci sopra un piatto. «Andrai in molti luoghi. In silenzio, e quando l'interesse della famiglia ti richiederà di andarci. Ma non è poi così diverso per un principe legittimo. Credi che Chevalier potesse scegliere dove andare a operare la sua diplomazia? Credi che a Veritas piaccia essere mandato a esaminare le città razziate dagli Isolani, a sentire le proteste della gente che insiste che se solo fossero stati meglio fortificati o difesi da una guarnigione più nutrita questo non sarebbe mai successo? Un vero principe ha ben poca libertà quando si tratta di scegliere dove andare o come trascorrere il suo tempo. Probabilmente Chevalier è molto più libero adesso da entrambi i punti di vista di quanto sia mai stato prima.» «Tranne che non può tornare a Castelcervo?» Il lampo di intuizione mi raggelò, lì in piedi con le mani piene di frammenti di argilla. «Tranne che non può tornare a Castelcervo. Non va bene eccitare gli animi con le visite di un ex erede al trono. Meglio che svanisca silenziosamente.» Gettai i frammenti nel focolare. «Almeno lui può andare da qualche parte» bofonchiai. «Io non posso nemmeno scendere al borgo...» «E quel porticciolo lurido e miserabile che è Borgo Castelcervo è così importante per te?» «Laggiù ci sono altri ragazzi...» Esitai. Neppure Umbra sapeva dei miei amici al borgo. Andai avanti malgrado tutto. «Mi chiamano Pivello. E non pensano 'ecco il bastardo' ogni volta che mi vedono.» Non avevo mai tradotto in parole quel pensiero, ma improvvisamente l'attrazione del borgo mi fu perfettamente chiara. «Ah» disse Umbra, e le sue spalle si mossero come in un sospiro; ma
rimase in silenzio. E un momento dopo mi stava dicendo come si poteva far ammalare un uomo semplicemente dandogli da mangiare rabarbaro e spinaci durante lo stesso pranzo, farlo ammalare addirittura fino a farlo morire se le porzioni erano sufficienti, senza mettere in tavola neanche un poco di veleno. Gli chiesi come si faceva a evitare che anche gli altri alla stessa tavola si ammalassero, e la nostra discussione da quel punto in poi divagò. Solo più tardi mi parve che le sue parole su Chevalier fossero state quasi profetiche. Due giorni dopo fui sorpreso quando mi dissero che Piuma aveva richiesto i miei servigi per un giorno o due. Fui sorpreso ancora di più quando lo scrivano mi consegnò una lista di provviste di cui aveva bisogno al borgo, e denaro sufficiente per comprarle, con due monetine in più per me. Trattenni il respiro, aspettandomi che Burrich o un altro dei miei padroni me lo proibisse, e invece mi fu detto di affrettarmi. Varcai le porte della fortezza con un cesto sul braccio e la mente abbacinata dall'improvvisa libertà. Contai i mesi dall'ultima volta che ero stato in grado di scivolare via da Castelcervo, e rimasi sconvolto rendendomi conto che era passato un anno o più. Immediatamente decisi di rinnovare la mia antica familiarità con il borgo. Nessuno mi aveva detto quando tornare, ed ero certo di potermi prendere un'ora o due per me senza che nessuno se ne accorgesse. La varietà degli oggetti sulla lista di Piuma mi fece girare per tutta la città. Non avevo idea di cosa se ne facesse uno scrivano di capelli di sirena seccati, o di una manciata di noci. Decisi che forse li usava per produrre i suoi inchiostri colorati, e quando non riuscii a trovarli nei normali negozi me ne andai al mercato del porto, dove chiunque possedesse una coperta e qualcosa da vendere poteva definirsi mercante. Trovai in fretta le alghe, e scoprii che erano un ingrediente abituale della zuppa di pesce. Ci volle di più per le noci, dato che dovevano arrivare dall'interno piuttosto che dal mare, e c'erano meno mercanti che si occupavano di merci del genere. E poi le trovai, insieme a cesti di aculei di porcospino e perline di legno lavorato e pigne e tessuto di corteccia schiacciata. La donna che presiedeva a quella coperta era vecchia, e i suoi capelli erano diventati d'argento piuttosto che bianchi o grigi. Aveva il naso lungo e forte e gli occhi piazzati su scaffali d'osso sopra le guance. Quel tratto razziale mi era allo stesso tempo straniero e misteriosamente familiare, e un brivido mi scese lentamente lungo la schiena quando compresi d'un tratto che veniva dalle montagne. «Keppet» disse la donna del tappeto accanto mentre completavo il mio acquisto. Le gettai un'occhiata, pensando che parlasse con la donna che
avevo appena pagato. Invece fissava me. «Keppet» ripeté, con decisa insistenza, e mi chiesi che cosa significasse nel suo linguaggio. Sembrava una richiesta, ma la donna più anziana si limitava a fissare freddamente la strada, quindi io scrollai le spalle con fare di scusa alla sua vicina più giovane e mi girai ritirando le noci nel mio cesto. Non avevo percorso più una dozzina di passi quando la sentii urlare «Keppet!» un'altra volta. Mi girai e vidi le due donne impegnate in una zuffa. La più vecchia aveva afferrato il polso della più giovane, che lottava e scalciava per liberarsi. Attorno a loro, altri mercanti si alzavano allarmati e toglievano in fretta le loro mercanzie dalla zona di pericolo. Avrei potuto rimanere a guardare se un altro volto più familiare non fosse apparso ai miei occhi. «Mazzapicchio!» esclamai. La ragazza si girò e mi guardò dritto in faccia, e per un istante credetti di essermi sbagliato. Era passato un anno dall'ultima volta che l'avevo vista. Come poteva una persona cambiare così tanto? I capelli scuri che di solito erano arrangiati in pratiche trecce dietro alle orecchie ora cadevano liberi oltre le spalle. E non indossava un giustacuore e pantaloni larghi, ma una camicia e una gonna. Gli abiti da grande mi lasciarono senza parole. Avrei potuto girarmi e fingere di essermi rivolto a qualcun altro, se i suoi occhi scuri non mi avessero sfidato mentre mi chiedeva con calma: «Mazzapicchio?» Resistetti. «Non sei Molly Mazzapicchio?» La ragazza sollevò una mano per allontanare i capelli da una guancia. «Io sono Molly la Candelaia.» Vidi nei suoi occhi che mi riconosceva, ma la sua voce era fredda mentre aggiungeva: «Non sono sicura di conoscervi. Il vostro nome, signore?» Confuso, reagii senza pensare. La cercai, trovai il suo nervosismo e fui sorpreso dalle sue paure. Tentai di calmarle con il pensiero e con la voce. «Sono Pivello» dissi senza esitazione. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa, e poi rise come se fosse stato uno scherzo. La barriera che aveva eretto esplose come una bolla di sapone, e improvvisamente la conobbi come un tempo. C'era fra noi la stessa calda vicinanza che mi ricordava sopra ogni cosa Nasuto. Tutto il disagio scomparve. Una folla si stava formando intorno alle donne che litigavano, ma ce le lasciammo alle spalle avviandoci per la strada lastricata. Ammirai la sua gonna, e Molly mi informò con calma che indossava le gonne ormai da diversi mesi e che le preferiva decisamente ai pantaloni. Quella era ap-
partenuta a sua madre; le era stato detto che non era più possibile trovare lana filata così bella, o una tintura di un rosso così vivo. Ammirò i miei abiti, e io compresi improvvisamente che forse le apparivo diverso quanto lei appariva diversa a me. Indossavo la mia migliore camicia, i miei pantaloni erano stati lavati solo pochi giorni prima, e portavo stivali belli come quelli di un soldato, malgrado Burrich obiettasse che presto mi sarebbero diventati piccoli. Molly mi chiese che cosa stavo facendo, e io le dissi che svolgevo commissioni per il mastro scrivano alla fortezza. Le dissi anche che Piuma stava cercando due candele di cera d'api, una completa invenzione ma che mi permise di rimanere al suo fianco a passeggiare per la strada tortuosa. I nostri gomiti si urtavano familiarmente mentre parlava. Al braccio aveva anche lei un cesto. Conteneva diversi pacchetti e mazzi d'erba, per fare le candele profumate, mi disse. La cera d'api assorbiva il profumo molto meglio del sego, a suo parere. Molly faceva le migliori candele profumate di Castelcervo; lo ammettevano perfino gli altri due candelai del borgo. Questa - annusala! - è lavanda, non è ottima? La preferita di sua madre, e anche la sua. Questo era ginepro, e questo bergamotto. Questa era radice del trebbiatore, non la sua preferita, no, ma alcuni dicevano che serviva a fare una buona candela per curare il mal di testa e la depressione invernale. Mavis Tagliafilo aveva detto che la madre di Molly era solita mescolarla con altre erbe per fare una candela meravigliosa, che poteva calmare perfino un bambino con la colica. Quindi Molly aveva deciso di ritrovare, facendo esperimenti, le erbe giuste per ricreare la ricetta di sua madre. La tranquilla vanteria della sua conoscenza e abilità mi faceva bruciare dalla voglia di distinguermi in qualche modo ai suoi occhi. «Conosco la radice del trebbiatore» le dissi. «Alcuni la usano per fare un unguento per i dolori alle spalle e alla schiena. È da lì che viene il nome. Ma se ne distilli una tintura e la mescoli bene al vino, non ha sapore; farà dormire un uomo adulto per due giorni e una notte, o farà morire un bambino nel sonno.» I suoi occhi si allargarono mentre parlavo, e alle mie ultime parole l'orrore le passò sul viso. Rimasi in silenzio e sentii di nuovo la puntura del disagio. «Come fai a sapere queste cose?» domandò senza fiato. «Io... ho sentito una vecchia levatrice itinerante che parlava con la nostra levatrice su alla fortezza» improvvisai. «Era... una storia triste quella che ci ha raccontato, di un uomo ferito a cui era stata data quella tintura per aiutarlo a riposare, ma ne bevve anche il suo bambino. Una storia molto, molto triste.» Il suo volto si addolcì e la sentii riscaldarsi di nuovo verso di me.
«Te lo dico solo per assicurarmi che tu stia attenta con quella radice. Non lasciarla in giro dove la può trovare un bambino.» «Grazie. Non lo farò. Ti interessi di erbe e radici? Non sapevo che uno scrivano si occupasse di queste cose.» Improvvisamente compresi che mi aveva preso per l'aiutante dello scrivano. Non vidi ragione per dirle altrimenti. «Oh, Piuma usa molte cose per le sue tinture e gli inchiostri. Alcune delle copie che fa sono molto semplici, ma altre sono raffinate, tutte decorate di uccelli e gatti e tartarughe e pesci. Mi ha mostrato un Erbario con i margini delle pagine decorati con le foglie e i fiori di ogni erba.» «Mi piacerebbe tanto vederlo» disse Molly di cuore, e io cominciai subito a escogitare un modo per sottrarlo temporaneamente. «Potrei riuscire a trovarti una copia da leggere... non da tenere, ma da studiare per qualche giorno» proposi esitando. Molly rise, ma c'era una certa tensione nella risata. «Come se fossi capace di leggere! Oh, ma immagino che tu abbia imparato un poco l'alfabeto, andando in giro a fare commissioni per lo scrivano.» «Un pochino» le dissi, e fui sorpreso dall'invidia nei suoi occhi quando le mostrai la mia lista e confessai che potevo leggere tutte e sette le parole che conteneva. Un'improvvisa timidezza la colse. Camminava più lentamente, e compresi che ci stavamo avvicinando al negozio delle candele. Mi domandai se suo padre la picchiava ancora, ma non osavo chiederglielo. Il suo viso, almeno, non ne mostrava traccia. Raggiungemmo la porta della bottega e ci fermammo. Molly prese un'improvvisa decisione, perché mi mise la mano sulla manica, trasse un respiro e chiese: «Credi che potresti leggere qualcosa per me? Anche solo un pezzo?» «Proverò» accettai. «Quando io... adesso che porto le gonne, mio padre mi ha dato le cose di mia madre. Da ragazza era stata cameriera di una dama alla fortezza, e aveva imparato l'alfabeto. Ho alcune tavolette che ha scritto lei. Mi piacerebbe sapere cosa dicono.» «Proverò» ripetei. «C'è mio padre alla bottega.» Non disse altro, ma bastò il modo in cui il suo pensiero risuonò contro il mio. «Devo prendere le due candele di cera d'api per lo scrivano Piuma» le ricordai. «Non oso tornare senza alla fortezza.» «Non comportarti in modo troppo familiare con me» mi avvertì, e poi
aprì la porta. La seguii, ma lentamente, come se solo per coincidenza fossimo arrivati insieme alla porta. Tanta circospezione non era necessaria. Suo padre dormiva sodo in una poltrona accanto al focolare. Fui colpito dal cambiamento in lui. Non era più ossuto ma scheletrico, e la carne del suo viso mi ricordava la crema poco cotta sopra una crostata di frutta bitorzoluta. Umbra mi aveva insegnato bene. Osservai le unghie e le labbra dell'uomo, e perfino dall'altra parte della stanza compresi che non poteva vivere molto più a lungo. Forse non picchiava più Molly perché non ne aveva più la forza. Molly mi fece cenno di restare in silenzio. Scomparve dietro alle cortine che dividevano la loro casa della bottega, lasciandomi a esplorare il negozio. Era un luogo piacevole, non grande, ma con il soffitto più alto della maggior parte delle botteghe e delle abitazioni di Borgo Castelcervo. Sospettai che fosse la diligenza di Molly a mantenerlo pulito e ordinato. Gli odori piacevoli e la luce dolce della sua attività riempivano la stanza. Le sue candele pendevano da lunghe aste su una rastrelliera, a due a due, con gli stoppini annodati. Un altro ripiano era pieno di grosse candele robuste da usare sulle navi. Aveva perfino esposto tre lampade di ceramica smaltata, per coloro che potevano permettersi oggetti simili. Oltre alle candele, scoprii che teneva vasi di miele, prodotti dagli alveari che curava dietro alla bottega e che fornivano la cera per i suoi prodotti più raffinati. Molly riapparve e mi fece cenno di seguirla. Mise su un tavolo un candeliere e una pila di tavolette. Poi si raddrizzò e strinse le labbra come chiedendosi se quello che stava facendo era saggio. Le tavolette erano di vecchio stile, semplici riquadri di legno tagliati lungo le venature dell'albero e resi lisci. Le lettere erano state tracciate attentamente con un pennello, e poi fissate al legno con uno strato ingiallito di resina. Erano cinque, scritte con calligrafia eccellente. Quattro erano descrizioni accuratissime di ricette di erbe per le candele di guarigione. Mentre le leggevo sottovoce a Molly, una per una, vidi che cercava di impararle a memoria. Alla quinta tavoletta, esitai. «Questa non è una ricetta» le dissi. «E allora, che cos'è?» domandò lei in un sussurro. Scrollai le spalle e cominciai a leggere. «In questo giorno è nata la mia Molly Mazzolino, dolce come un mazzo di violette. Per le doghe del parto ho bruciato due candele alle bacche di alloro e due lumini profumati con due manciate delle piccole violette che crescono vicino al Mulino di Do-
well e una manciata di radice rossa, sminuzzata molto fine. Possa lei fare lo stesso quando verrà il suo momento di partorire, e che le sue doglie siano facili come le mie, e il frutto di esse altrettanto perfetto. Così io credo.» Non c'era altro, e quando ebbi finito il silenzio crebbe e sbocciò. Molly mi riprese dalle mani quell'ultima tavoletta e la tenne fra le sue e la fissò, come se vi avesse letto cose che io non avevo visto. Strusciai i piedi sul pavimento, e il suono le ricordò che ero lì. In silenzio raccolse tutte le sue tavolette e scomparve di nuovo. Quando tornò indietro, andò in fretta al ripiano e prese due alte candele di cera d'api, e poi da un altro ripiano due robuste candele rosa. «Io ho bisogno solo...» «Shhh. Non devi pagare. Quelle ai boccioli di bacche dolci ti daranno sogni tranquilli. A me piacciono molto, e credo che piaceranno anche a te.» La sua voce era amichevole, ma mentre le metteva nel mio cesto compresi che aspettava che me ne andassi. E tuttavia mi accompagnò alla porta, e l'apri piano per non svegliare suo padre. «Addio, Pivello» disse, e poi mi regalò un autentico sorriso. «Mazzolino. Non ho mai saputo che mi chiamasse così. Mazzapicchio, mi chiamavano sulla strada. Suppongo che i più grandi, che sapevano quale nome mi aveva dato, pensassero che fosse divertente. E dopo un poco probabilmente hanno dimenticato com'era all'inizio. Ebbene, non m'importa. Adesso ce l'ho. Un nome che mi ha dato mia mamma.» «Ti si addice» dissi in un improvviso scoppio di galanteria, e poi, mentre Molly mi fissava e il calore mi saliva alle guance, corsi via dalla porta. Fui sorpreso di scoprire che era tardo pomeriggio, quasi sera. Feci di corsa le mie ultime commissioni, implorando l'ultimo oggetto sulla lista, la pelle di una donnola, attraverso gli scuri della finestra di un mercante. L'uomo mi aprì la porta con riluttanza, protestando che la sua zuppa gli piaceva calda, ma io lo ringraziai così profusamente che dovette considerarmi un poco matto. Mi stavo affrettando su per la parte più ripida della strada che riportava alla fortezza quando sentii il suono inatteso di cavalli dietro di me. Venivano dalla zona portuale del borgo, al galoppo. Era ridicolo. Nessuno teneva cavalli al borgo, perché le strade erano tanto ripide e sconnesse da renderli pressoché inutili. Inoltre il borgo era così piccolo e angusto che andare a cavallo era segno di vanità più che di comodità. Quindi dovevano essere cavalli usciti dalle scuderie della fortezza. Mi portai a lato della strada e attesi, curioso di vedere chi rischiava la collera di Burrich caval-
cando a tale velocità sui sassolini lisci e sconnessi nella luce scarsa. Con sgomento, vidi che erano Regal e Veritas sui due cavalli gemelli neri che erano l'orgoglio di Burrich. Veritas reggeva un bastone piumato, come quello dei messaggeri che portavano alla fortezza notizie di estrema importanza. Quando mi videro in piedi in silenzio sul ciglio della strada entrambi trattennero i cavalli così violentemente che quello di Regal si rigirò e quasi finì sulle ginocchia. «A Burrich verrà un accidente se rompete le ginocchia a quel puledro!» gridai sgomento, e corsi verso di lui. Regal gettò un grido inarticolato, e un mezzo istante dopo Veritas rise di lui, scosso. «Pensavi che fosse un fantasma, e anch'io. Ehi, ragazzo, ci hai fatto prendere un colpo, standotene così silenzioso. E così somigliante a lui. Eh, Regal?» «Veritas, sei un idiota. Tieni a freno la lingua.» Regal diede uno strattone alla briglia del suo cavallo, poi si assestò il giustacuore. «Che ci fai su questa strada così tardi, bastardo? Che cosa credi di fare, a uscire di nascosto dalla fortezza per andare al borgo a quest'ora?» Ero abituato al disprezzo di Regal. Tuttavia quel brusco rimprovero era una novità. Di solito, si limitava a evitarmi, o a cercare di non toccarmi, come se fossi stato un mucchio di letame fresco. La sorpresa mi spinse a rispondere in fretta: «Sto tornando alla fortezza, signore. Avevo da fare alcune commissioni per Piuma.» E sollevai il mio cestino per dimostrarlo. «Ma certo» sogghignò Regal. «Proprio una bella storia. È una coincidenza un po' strana, bastardo.» Mi scagliò di nuovo addosso quella parola. Dovetti apparire ferito e confuso, perché Veritas sbuffò nella sua maniera spiccia e disse: «Non badargli, ragazzo. Ci hai fatto prendere un colpo. E appena entrata in città una nave venuta dal fiume, che innalzava il vessillo per segnalare un messaggio speciale. E quando Regal e io siamo scesi a riceverlo, incredibilmente, era un messaggio di Pazienza, per dirci che Chevalier è morto. Poi, mentre torniamo su dalla strada, ecco che vediamo l'immagine precisa di lui da ragazzo, in piedi in silenzio davanti a noi, e naturalmente eravamo in un tale stato d'animo che...» «Sei davvero un idiota, Veritas!» sputò Regal. «Proclamalo a tutto il borgo prima ancora che lo sappia il re. E non mettere in testa a quel bastardo che assomiglia a Chevalier. Da quel che sento, di idee ne ha già abbastanza, e possiamo ringraziare il nostro caro padre per questo. Forza. Abbiamo un messaggio da consegnare.» Regal fece rialzare la testa al suo cavallo, e poi lo spronò. Lo vidi allon-
tanarsi, e per un istante giuro che tutto quello che pensai fu che dovevo andare alle stalle non appena tornato alla fortezza, per controllare la povera bestia e vedere com'era ridotta la sua bocca. Ma per qualche ragione alzai lo sguardo su Veritas e dissi: «Mio padre è morto.» Il principe rimase immobile in sella. Più alto e robusto di Regal, aveva sempre avuto un portamento migliore a cavallo. Credo che fosse il soldato che era in lui. Mi guardò in silenzio per un momento. Poi disse: «Sì. Mio fratello è morto.» Mi concesse questo, mio zio, quell'istante di vicinanza, e io credo che da quel momento il modo in cui lo vedevo cambiò. «Sali dietro di me, ragazzo, e ti riporterò alla fortezza» mi offrì. «No, grazie. Burrich mi spellerebbe vivo per aver cavalcato un cavallo in due su questa strada.» «Penso di sì, ragazzo» concordò Veritas gentilmente. «Mi spiace che tu lo abbia scoperto in questo modo. Non ho riflettuto. Non mi sembra vero.» Colsi un lampo del suo autentico dolore, e poi si chinò in avanti e parlò al suo cavallo facendolo balzare in avanti. In pochi istanti ero di nuovo solo sulla strada. Cominciò una pioggia lieve come nebbia e l'ultima luce del giorno si spense, e io ero ancora lì. Alzai lo sguardo verso la fortezza, nera contro le stelle, punteggiata qua e là di piccole luci. Per un momento pensai di mettere giù il mio cesto e correre via, correre dentro il buio e non tornare più indietro. Mi chiesi se qualcuno sarebbe mai venuto a cercarmi. E invece mi passai il cesto sull'altro braccio e cominciai la lenta, faticosa salita su per la collina. 7 Una missione Quando la regina Désirée morì si parlò di veleno. Ho deciso di mettere per iscritto qui ciò che conosco come una verità assoluta. La regina Désirée morì davvero di veleno, ma di un veleno amministrato da lei stessa, per lungo tempo, con cui il suo re non aveva nulla a che fare. Spesso egli aveva cercato di dissuaderla dall'uso sfrenato delle droghe. Erano stati consultati medici ed erboristi, ma non appena il re la persuadeva ad abbandonarne una lei ne scopriva un'altra da provare. Verso la fine dell'ultima estate della sua vita, divenne ancor più sfrenata; ne usava diversi tipi simultaneamente e senza più alcun tentativo di nascondere la sua dipendenza. Il suo comportamento era una pesante pro-
va per Sagace, poiché quando era ubriaca di vino o eccitata dal fumo scagliava selvagge accuse e affermazioni provocatorie senza preoccuparsi affatto di chi fosse presente o quale fosse l'occasione. Si potrebbe pensare che tanti eccessi verso la fine della sua vita avessero disilluso i suoi seguaci. Al contrario, questi dichiararono che Sagace l'aveva spinta all'autodistruzione, o che l'aveva avvelenata lui stesso. Ma io posso dire con completa certezza che la sua morte non fu opera del re. Burrich mi tagliò i capelli per il cordoglio. Li lasciò lunghi appena un dito. Si rase il capo, perfino la barba e le sopracciglia, in segno di lutto. Le parti pallide della sua testa contrastavano bruscamente con le guance e il naso arrossato; lo facevano apparire molto strano, perfino più di quegli uomini della foresta che venivano in città con i capelli acconciati con la pece e i denti tinti di rosso e di nero. I bambini fissavano gli uomini selvaggi e al loro passaggio sussurravano fra loro nascondendosi dietro alla mano, ma si ritraevano silenziosamente da Burrich. Credo che fosse per i suoi occhi. Ho visto fori in un cranio che avevano più vita degli occhi di Burrich in quei giorni. Regal mandò un uomo a rimproverare Burrich per essersi raso il capo e avermi tagliato i capelli. Quello era il lutto per un re incoronato, non per un uomo che aveva abdicato al trono. Burrich lo fissò finché se ne andò. Veritas si tagliò un palmo di barba e capelli, e quello rappresentava il lutto per un fratello. Alcune delle guardie della fortezza tagliarono porzioni diverse delle loro code intrecciate, come fa un soldato per un compagno caduto. Ma quello che Burrich aveva fatto a se stesso e a me era estremo. La gente ci fissava. Volevo chiedergli perché dovessi piangere un padre che non avevo mai visto, un padre che non era mai venuto a vedermi; ma bastò un solo sguardo ai suoi occhi glaciali e alla sua bocca, e non ne ebbi il coraggio. Nessuno riferì a Regal della ciocca che Burrich aveva tagliato dalla criniera di ciascun cavallo in segno di lutto, o del fuoco fetido che consumò tutte quelle offerte sacrificali. Avevo la vaga idea che Burrich stesse mandando una parte dei nostri spiriti insieme a quello di Chevalier; era una qualche usanza che gli veniva dalla gente di sua madre. Era come se Burrich stesso fosse morto. Una gelida forza animava il suo corpo, spingendolo a svolgere tutti i suoi compiti senza errore, ma anche senza calore o soddisfazione. Gli aiutanti che in precedenza facevano a pugni per ottenere da lui il minimo cenno di approvazione ora si distoglievano dal suo sguardo, come se si vergognassero per lui. Solo Volpina non
lo abbandonò. La vecchia cagna lo seguiva strisciando dovunque andasse, senza ricevere in cambio uno sguardo o una carezza, ma sempre presente. Una volta la abbracciai, in simpatia, e osai perfino cercare verso di lei, ma il tocco della mia mente incontrò soltanto uno stordimento spaventoso. La cagna soffriva insieme al suo padrone. Le tempeste invernali sferzavano e ringhiavano attorno alle rupi. Le giornate contenevano un gelo senza vita che negava qualsiasi possibilità di primavera. Chevalier fu sepolto a Giuncheto. Alla fortezza si tenne un Digiuno di Compianto, ma fu breve e riservato. Era più un'osservanza del corretto protocollo che un vero Compianto. Coloro che lo piangevano veramente sembravano colpevoli di cattivo gusto. La sua vita pubblica avrebbe dovuto finire con la sua abdicazione; com'era insensibile da parte sua attirare ulteriore attenzione su di sé permettendosi di morire. Almeno una settimana dopo la morte di mio padre, mi svegliai sentendo la familiare corrente dalla scala segreta e la luce gialla che mi chiamava. Mi alzai e mi affrettai su per le scale fino al mio rifugio. Sarebbe stato bello andarsene da tutte quelle stranezze, ricominciare a mescolare erbe e creare strani fumi con Umbra. Non sapevo più cosa farmene di quella bizzarra sospensione della mia identità che provavo da quando avevo sentito della morte di Chevalier. Ma l'estremità della camera con il tavolo da lavoro era oscura, il focolare freddo. Umbra era seduto davanti al suo fuoco. Mi fece cenno di sedere accanto alla sedia. Sedetti e alzai lo sguardo verso di lui, ma lui fissava le fiamme. Sollevò la mano coperta di cicatrici e me l'appoggiò sui capelli ispidi. Per un poco rimanemmo seduti così, guardando insieme il fuoco. «Ebbene, eccoci qua, ragazzo mio» cominciò infine, e nient'altro, come se avesse detto tutto quello che doveva dire. Mi spettinò i capelli corti. «Burrich mi ha tagliato i capelli» gli dissi improvvisamente. «Ho visto.» «Non mi piace. Mi prude contro il cuscino e non riesco a dormire. Il mio cappuccio non sta su. E ho un aspetto stupido.» «Hai l'aspetto di un ragazzo in lutto per suo padre.» Rimase in silenzio per un momento. Avevo pensato che i miei capelli fossero una versione più moderata del taglio estremo di Burrich. Ma Umbra aveva ragione. Era la lunghezza adatta per un ragazzo che piange suo padre, non per un suddito che piange un re. Quello aumentò la mia collera. «Ma perché dovrei piangerlo?» chiesi a Umbra come non avevo osato chiedere a Burrich. «Non lo conoscevo neanche.»
«Era tuo padre.» «Mi ha fatto con una qualche donna. Quando ha scoperto di me, se n'è andato. Un padre. Non gli è mai importato di me.» Provai un senso di sfida a dirlo finalmente ad alta voce. Mi rendeva furioso, il profondo lutto selvaggio di Burrich e ora il quieto dolore di Umbra. «Questo non lo sai. Senti solo quello che dicono le malelingue. Non sei grande abbastanza per comprendere certe cose. Non hai mai visto un uccello selvatico attirare i predatori lontano dai suoi piccoli fingendo di essere ferito.» «Non ci credo» dissi, ma improvvisamente mi sentivo meno sicuro di quello che dicevo. «Non ha mai fatto nulla per farmi pensare che si preoccupasse di me.» Umbra sì girò a guardarmi e i suoi occhi erano più vecchi, infossati e rossi. «Se tu avessi saputo che si preoccupava, l'avrebbero saputo anche altri. Quando sarai un uomo, forse capirai quanto gli sia costato. Non conoscerti per tenerti al sicuro. Per fare in modo che i suoi nemici ti ignorassero.» «Ebbene, adesso non lo conoscerò mai fino alla fine dei miei giorni» dissi imbronciato. Umbra sospirò. «E la fine dei tuoi giorni arriverà molto più tardi che se lui ti avesse riconosciuto come erede.» Fece una pausa, poi chiese cautamente: «Che cosa vuoi sapere di lui, ragazzo mio?» «Tutto. Ma tu come faresti a saperlo?» Più Umbra si mostrava tollerante, più io ero risentito. «L'ho conosciuto per tutta la mia vita. Ho... lavorato con lui. Molte volte. La mano e il guanto, come dice il proverbio.» «Tu eri la mano o il guanto?» Non importa quanto io fossi scortese, Umbra rifiutava di arrabbiarsi. «La mano» disse dopo una breve considerazione. «La mano che si muove non vista, ammantata del guanto di velluto della diplomazia.» «Che cosa intendi dire?» Involontariamente, ero affascinato. «Si possono fare certe cose.» Umbra si schiarì la gola. «Alcuni avvenimenti rendono più facile il compito della diplomazia. O rendono una delle parti più disposta a negoziare. Cose che capitano...» Il mio mondo si capovolse. La realtà mi si palesò improvvisamente come una visione, la pienezza di ciò che Umbra era e di ciò che io sarei stato. «Vuoi dire che un uomo può morire, e che il suo successore può essere più disposto al negoziato. Più amico della nostra causa, per paura o per...»
«Riconoscenza. Sì.» Un gelido orrore mi scosse mentre tutti i pezzi improvvisamente andavano a posto. Tante lezioni e attente istruzioni, ed era a questo che portavano. Cominciai ad alzarmi, ma la mano di Umbra improvvisamente mi strinse la spalla. «Oppure un uomo può vivere due anni o cinque o dieci più a lungo di quanto tutti pensino, e portare la saggezza e la tolleranza dell'età ai negoziati. Oppure un bambino può essere curato da una tosse soffocante, e la madre improvvisamente vedere con gratitudine che ciò che offriamo può essere benefico a tutte le parti in causa. La mano non infligge sempre la morte, ragazzo mio. Non sempre.» «Abbastanza spesso.» «Su questo non ti ho mai mentito.» Nella voce di Umbra sentii due cose che non avevo mai percepito prima. Si difendeva. Ed era ferito. Ma i ragazzi non hanno pietà. «Non credo di voler imparare altro da te. Credo che andrò da Sagace e gli chiederò di trovare qualcun altro che uccida per lui.» «Questa è la tua decisione. Ma io ti consiglio di non farlo, per ora.» La sua calma mi colse di sorpresa. «Perché?» «Perché negherebbe tutto quello che Chevalier ha cercato di fare per te. Attirerebbe l'attenzione su di te. E in questo momento, non è una buona idea.» Le sue parole giunsero con una lentezza ponderata, cariche di verità. «Perché?» Scoprii che stavo sussurrando. «Perché alcuni vorranno scrivere la definitiva parola fine alla storia di Chevalier. E il miglior modo per farlo sarebbe di eliminare te. Costoro osserveranno come reagisci alla morte di tuo padre. Ti metterà idee in testa, ti renderà inquieto? Diventerai tu il problema, adesso, come lo era lui?» «Cosa?» «Ragazzo mio» mi apostrofò, e mi attirò contro il suo fianco. Per la prima volta percepii la passione delle sue parole. «In questo momento tu devi essere silenzioso e attento. Capisco perché Burrich ti ha tagliato i capelli, ma in verità vorrei che non l'avesse fatto. Vorrei che a nessuno fosse stato ricordato che Chevalier era tuo padre. Sei solo un cucciolo per ora... ma ascoltami. Per adesso, non cambiare nulla in quello che fai. Aspetta sei mesi, un anno. Poi decidi. Ma per adesso...» «Com'è morto mio padre?» Gli occhi di Umbra mi frugarono in viso. «Non hai sentito che è caduto
da cavallo?» «Sì. E ho sentito Burrich maledire l'uomo che l'ha detto, perché Chevalier non sarebbe caduto, e quel cavallo non lo avrebbe disarcionato.» «Burrich deve tenere a freno la lingua.» «E allora com'è morto mio padre?» «Non lo so. Ma come Burrich, non credo che sia caduto da cavallo.» Umbra rimase in silenzio. Io mi afflosciai seduto vicino ai suoi nudi piedi ossuti e fissai il fuoco. «Vogliono uccidere anche me?» Umbra rimase in silenzio per diverso tempo. «Non lo so. Non se posso evitarlo. Credo che prima debbano convincere Sagace che è necessario. E se lo fanno, io lo verrò a sapere.» «E allora tu pensi che venga dall'interno della fortezza.» «Sì.» Umbra attese a lungo, ma io rimanevo in silenzio, rifiutandomi di chiedere. Lui comunque rispose. «Non ne sapevo nulla prima che succedesse. Non ci ho avuto nulla a che fare. Non me l'hanno neppure chiesto. Probabilmente sapevano che non mi sarei limitato a rifiutare. Avrei fatto in modo che non succedesse.» «Oh.» Mi rilassai un poco. Ma Umbra mi aveva già addestrato troppo bene al modo di pensare della corte. «E allora probabilmente non verranno da te se decidono di farmi fuori. Avranno paura che tu avverta anche me.» Umbra mi prese il mento tra le mani e mi fece girare il viso in modo che lo guardassi dritto negli occhi. «La morte di tuo padre dovrebbe essere l'avvertimento che ti serve, ora e per sempre. Sei un bastardo, Fitz. Siamo sempre un rischio e un punto debole. Siamo sempre eliminabili. Tranne quando siamo un'assoluta necessità per la loro sicurezza. Ti ho insegnato parecchio, in questi ultimi anni. Ma conserva questa lezione più vicina al cuore e abbila sempre davanti agli occhi. Se mai farai in modo che loro non abbiano bisogno di te, ti uccideranno.» Lo guardai con gli occhi spalancati. «Adesso non hanno bisogno di me.» «No? Io sto invecchiando. Tu sei giovane, e malleabile, con il viso e il portamento della famiglia reale. Finché non dimostri ambizioni inappropriate, andrai benissimo.» Fece una pausa, poi ribadì con precisione: «Noi apparteniamo al re, ragazzo. Esclusivamente a lui, in un modo a cui forse non hai pensato. Nessuno sa quello che faccio, e la maggior parte ha dimenticato quello che sono. O che ero. Se qualcuno viene a sapere di noi, lo viene a sapere dal re.» Rimasi seduto, mettendo tutto insieme con cautela. «Allora... hai detto
che è venuto dall'interno della fortezza. Ma se tu non sei stato usato, allora non è venuto dal re... La regina!» Lo dissi con improvvisa certezza. Gli occhi di Umbra schermarono i suoi pensieri. «È pericoloso supporre una cosa simile. Ancora più pericoloso se pensi di dover reagire in qualche modo.» «Perché?» Umbra sospirò. «Quando balzi su un'idea, e decidi che è la verità, senza prove, ti rendi cieco ad altre possibilità. Considerale tutte, ragazzo. Forse è stato un incidente. Forse Chevalier è stato ucciso da qualcuno che aveva offeso a Giuncheto. Forse non aveva nulla a che fare con il fatto che era un principe. O forse il re ha un altro assassino, uno di cui non so nulla, ed è stata la mano stessa del re contro suo figlio.» «Tu non credi a nessuna di queste possibilità» affermai con certezza. «No. Non ci credo. Perché non ho prove per dichiarare che sono la verità. Così come non ho prove per dire che la morte di tuo padre è stata decretata dalla regina.» È tutto ciò che ricordo della nostra conversazione di quella notte. Ma sono sicuro che Umbra mi avesse deliberatamente condotto a considerare chi avrebbe potuto agire contro mio padre, per instillare in me una più profonda diffidenza nei riguardi della regina. Tenni il pensiero vicino al mio cuore, e non solo nei giorni che seguirono. Mi attenni ai miei compiti, e lentamente mi ricrebbero i capelli, e quando cominciò la vera estate tutto sembrava tornato alla normalità. Quasi ogni settimana venivo spedito a sbrigare commissioni al borgo. Presto mi resi conto che, indipendentemente da chi mi aveva mandato, uno o due oggetti sulla lista comparivano negli alloggi di Umbra, così indovinai chi c'era dietro ai miei brevi momenti di libertà. Non sempre quando andavo al borgo riuscivo a trascorrere un poco di tempo con Molly, ma mi bastava rimanere fuori dalla finestra della sua bottega fino a quando mi notava, e almeno scambiare un cenno del capo. Una volta sentii qualcuno al mercato che parlava della qualità delle sue candele profumate, e di come nessuno aveva mai creato candele più piacevoli ed efficaci dai tempi di sua madre, e sorrisi per lei e fui felice. Venne l'estate, portando un clima più caldo alle nostre coste, e con il caldo gli Isolani. Alcuni vennero come onesti commercianti, a vendere i beni delle terre fredde - pellicce e ambra e avorio e barili d'olio - e a raccontare storie mirabolanti, storie che riuscivano ancora a farmi formicolare la nuca come quando ero piccolo. I nostri marinai non si fidavano di loro, e li chiamavano spie o peggio. Ma le loro merci erano ricche, e l'oro con cui
compravano i nostri vini e il grano era solido e pesante, e i nostri mercanti lo accettavano. Anche altri Isolani visitarono le nostre terre, anche se non molto vicino alla fortezza di Castelcervo. Vennero con coltelli e torce, con archi e arieti, a saccheggiare e violentare negli stessi villaggi in cui avevano saccheggiato e violentato per anni. A volte sembrava una gara elaborata e sanguinosa: loro dovevano trovare villaggi colti di sorpresa o male armati e noi attirarli con bersagli apparentemente vulnerabili e poi massacrare e derubare i pirati stessi. Se era una gara, tuttavia, andò molto male per noi quell'estate. Ogni mia visita al borgo era appesantita dalle notizie di distruzione e dai mugugni del popolo. Su alla fortezza, fra i soldati, c'era una sensazione di inutilità collettiva che condividevo. Gli Isolani eludevano facilmente le nostre navi da guerra, e non cadevano mai nelle nostre trappole. Colpivano dove eravamo meno muniti e dove meno ce lo aspettavamo. Il più frustrato di tutti era Veritas, perché toccava a lui difendere il regno da quando Chevalier aveva abdicato. Sentivo mormorare nelle taverne che da quando aveva perduto i buoni consigli del fratello maggiore tutto era andato in rovina. Nessuno ancora parlava contro Veritas; ma era inquietante che nessuno parlasse con decisione neanche in suo favore. In maniera infantile, mi pareva che le razzie non mi riguardassero. Certamente erano una cosa brutta, e alla lontana mi dispiaceva per i paesani le cui case erano state date alle fiamme o saccheggiate. Eppure, sicuro a Castelcervo, mi preoccupavo poco della costante paura e allarme che altri porti di mare sopportavano, o dei tormenti dei paesani che ricostruivano ogni anno, solo per vedere i loro sforzi dati alle fiamme l'anno successivo. Non avrei mantenuto a lungo la mia ignorante innocenza. Una mattina scesi da Burrich per la mia 'lezione'; anche se trascorrevo altrettanto tempo nella cura degli animali e nell'addestramento dei puledri e delle puledre che nell'apprendimento. Avevo interamente sostituito Roano, che era stato promosso a valletto e custode dei cani di Regal. Ma quel giorno, con mia sorpresa, Burrich mi portò di sopra nella sua stanza e mi fece sedere al tavolo. Avevo il terrore di trascorrere un mattino noioso a riparare finimenti. «Oggi ti insegnerò le buone maniere» annunciò improvvisamente Burrich. La sua voce era dubbiosa, come se non avesse creduto che fossi in grado di impararle. «Con i cavalli?» chiesi sbalordito.
«No. Quelle le conosci già. Con la gente. A tavola, e dopo, quando si siedono e parlano fra loro. Quelle maniere.» «Perché?» Burrich aggrottò la fronte. «Perché, per ragioni che non capisco, dovrai accompagnare Veritas quando andrà a Baia Ridente a incontrare messer Kelvar di Acquemosse. Messer Kelvar non sta collaborando con messer Shemshy nel fornire la guarnigione per le torri della costa. Shemshy lo accusa di lasciare le torri completamente prive di sentinelle, e gli Isolani le oltrepassano indisturbati e possono perfino gettare l'ancora al largo dell'Isola di Guardia, e di là razziare i villaggi di Shemshy nel ducato di Costabassa. Il principe Veritas dovrà andare a consultarsi con Kelvar riguardo a queste accuse.» Afferrai al volo la situazione. Era un pettegolezzo comune a Borgo Castelcervo. Messer Kelvar del ducato di Acquemosse aveva in custodia tre torri di guardia. Le due che dominavano le estremità di Baia Ridente erano sempre ben munite, poiché proteggevano il miglior porto nel ducato di Acquemosse. Ma la torre sull'Isola di Guardia proteggeva ben poco di Acquemosse che avesse valore per messer Kelvar; il litorale alto e roccioso riparava pochi villaggi, e gli aspiranti razziatori avrebbero fatto fatica a tenere le loro navi lontane dagli scogli mentre compivano le loro scorrerie. La costa meridionale veniva raramente infastidita. L'Isola di Guardia stessa ospitava poco più che gabbiani, capre e una fiorente popolazione di vongole. Tuttavia la torre che vi sorgeva era critica per la difesa tempestiva di Cala del Sud nel ducato di Costabassa. Offriva una veduta dei canali interni ed esterni, e sorgeva su un'altura naturale che permetteva al suo faro di essere facilmente scorto dalla terraferma. Shemshy stesso aveva una torre di guardia su Isola Uovo, ma quella era poco più di un banco di sabbia che con l'alta marea spuntava appena dalle acque. Non offriva nessuna vera vista del mare, e necessitava costantemente di essere ripristinata dopo gli spostamenti delle sabbie e l'occasionale marea che la ricopriva. Tuttavia di lì si poteva scorgere un fuoco di avvertimento acceso sull'Isola di Guardia e trasmettere il messaggio. Bastava che la torre dell'Isola di Guardia lo accendesse. Tradizionalmente, i banchi di pesce e le spiagge di vongole dell'Isola di Guardia era nel territorio del ducato di Acquemosse, che quindi doveva anche rifornire la guarnigione della torre. Ma mantenervi una guarigione significava far arrivare uomini e provviste, e anche fornire legno e olio per i fuochi di segnalazione, e difendere la torre stessa dalle selvagge tempeste
dell'oceano che spazzavano la sterile isoletta. Era una postazione impopolare per i soldati, e si diceva che essere mandati lì era una sottile punizione per le guarnigioni disubbidienti o politicamente difficili. Più di una volta, dopo aver alzato il gomito, Kelvar aveva affermato che se equipaggiare la torre era così importante per il ducato di Costabassa, allora messer Shemshy doveva farlo da solo. Non che il ducato di Acquemosse fosse interessato a cedere i banchi di pesce al largo dell'isola, o i ricchi campi di molluschi. Quindi, quando senza preavviso furono razziati i villaggi di Costabassa, in una scorreria all'inizio della primavera che distrusse ogni speranza di seminare i campi in tempo, e vide uccise, rubate, o disperse gran parte delle pecore gravide, messer Shemshy protestò a gran voce con il re che Kelvar era stato lento a equipaggiare le sue torri. Kelvar aveva negato, affermando che la piccola forza che vi aveva installato era sufficiente per un luogo che raramente aveva bisogno di essere difeso. «La torre dell'Isola di Guardia ha bisogno di sentinelle, non di soldati» aveva dichiarato. E per quella ragione, aveva reclutato un gruppo di uomini e donne anziani. Alcuni di loro erano stati soldati, ma molti provenivano da Baia Ridente; debitori e borseggiatori e puttane attempate, dicevano alcuni, mentre i sostenitori di Kelvar affermavano che erano semplicemente cittadini anziani che avevano bisogno di un impiego sicuro. Tutte queste cose io le conoscevo meglio dai pettegolezzi di taverna e dalle prediche politiche di Umbra di quanto Burrich potesse immaginare. Ma mi morsi la lingua e ascoltai la sua dettagliata e faticosa spiegazione. Non per la prima volta, compresi che mi considerava un po' lento. Pensava che i miei silenzi indicassero mancanza di cervello, non mancanza del bisogno di parlare. Quindi, laboriosamente, Burrich cominciò a istruirmi nelle maniere che, così mi disse, la maggior parte degli altri ragazzi imparava semplicemente stando attorno ai più grandi. Dovevo salutare quando incontravo qualcuno per la prima volta ogni giorno, o se entravo in una stanza e la trovavo occupata; confondermi silenziosamente con la parete non era educato. Dovevo chiamare le persone per nome, e se erano più anziani di me o politicamente più importanti, come - così mi ricordò - pressoché chiunque avrei incontrato durante questo viaggio, dovevo rivolgermi a loro anche con il titolo. Poi mi inondò di protocollo; chi poteva precedermi uscendo da una stanza, e in quali circostanze (praticamente chiunque, e praticamente sempre). E poi passò a illustrarmi le buone maniere a tavola. Fare attenzione a
dove dovevo sedermi; fare attenzione a chiunque occupasse il posto d'onore e condurre di conseguenza la mia cena; come partecipare a un brindisi, o a una serie di brindisi senza esagerare. E come parlare piacevolmente o, cosa più probabile, ascoltare con attenzione chiunque fosse seduto al mio fianco a cena. E così via. E ancora. Fino a quando non cominciai a sognare nostalgicamente di ripulire finimenti senza posa. Burrich richiamò la mia attenzione con una gomitata secca. «E non devi fare neanche quello. Sembri un imbecille, lì seduto ad annuire con la testa altrove. Non credere che nessuno se ne accorga quando fai così. E non fare quella faccia offesa quando vieni corretto. Sta' seduto dritto, e assumi un'espressione piacevole. Non un sorriso vuoto, scemo. Ah, Fitz, cosa devo fare di te? Come posso proteggerti quando attiri i guai? E perché vogliono mandarti via a questo modo, comunque?» Le ultime due domande, rivolte a se stesso, tradirono la sua vera preoccupazione. Forse ero un po' stupido a non essermene accorto. Burrich non sarebbe partito. Io sì. E lui non riusciva a trovare una buona ragione. Aveva vissuto abbastanza a lungo vicino alla corte per essere molto cauto. Per la prima volta da quando gli ero stato affidato, venivo allontanato dalla sua sorveglianza. Non era trascorso molto tempo dal funerale di mio padre. E quindi Burrich si chiedeva, anche se non osava dirlo, se sarei tornato, o se qualcuno stava creando l'occasione per sbarazzarsi silenziosamente di me. Compresi quale colpo al suo orgoglio e alla sua reputazione sarebbe stato se fossi «svanito». Quindi sospirai, e poi commentai cautamente che forse volevano una mano in più con i cavalli e i cani. Veritas non andava da nessuna parte senza Leon, il suo cane da caccia. Soltanto due giorni prima mi aveva fatto i complimenti per come lo trattavo bene. Lo ripetei a Burrich, e fui soddisfatto nel vedere che il piccolo sotterfugio funzionava alla perfezione. Il sollievo invase il suo viso, poi l'orgoglio per avermi insegnato bene. Il discorso passò subito dalle buone maniere al modo corretto di occuparsi di un cane da caccia. Se le prediche sulle buone maniere mi avevano stancato, il ripasso dell'arte di trattare i cani fu quasi dolorosamente noioso. Quando mi congedò, corsi via con le ali ai piedi verso le mie altre lezioni. Trascorsi il resto della giornata in una nebbia distratta che spinse Poiana a minacciarmi una buona battuta se non prestavo attenzione a quello che facevo. Poi la donna scosse la testa, sospirò e mi disse di filare e tornare quando avevo di nuovo un cervello. Fui fin troppo felice di obbedire. Il pensiero di lasciare sul serio Castelcervo e mettermi in strada, viaggiare
sino a Baia Ridente, era la sola cosa che riuscivo a far entrare nella mia mente. Sapevo che avrei dovuto chiedermi perché ci stavo andando, ma ero sicuro che presto Umbra mi avrebbe dato consigli. Avremmo viaggiato per terra o per mare? Perché non l'avevo chiesto a Burrich? Le strade che portavano a Baia Ridente non erano le migliori, così avevo sentito dire, ma non m'importava. Fuliggine e io non avevamo mai fatto un lungo viaggio insieme. Ma un viaggio per mare, su una vera nave... Presi la strada lunga per tornare alla fortezza, su per un sentiero che attraversava un tratto di collina rocciosa sparso di alberi. Vi erano betulle che crescevano faticosamente, e alcuni pioppi, ma per lo più si trattava di cespugli indistinti. La luce del sole e una brezza leggera giocavano insieme in mezzo ai rami più alti, dando alla giornata un aspetto fatato e cangiante. Alzai gli occhi al brillare del sole attraverso le foghe di betulla, e quando riabbassai lo sguardo mi stava davanti il Matto del re. Mi fermai dov'ero, sbalordito. Di riflesso, cercai il re, sebbene fosse ridicolo immaginare di trovarlo lì. Ma il Matto era solo. E all'aperto, alla luce del giorno! Il pensiero mi fece drizzare la peluria sui muscoli contratti delle braccia e del collo. Era conoscenza comune alla fortezza che il Matto del re non sopportava la luce del giorno. Conoscenza comune. Eppure, sebbene ogni paggio e sguattera lo sussurrassero ritenendosi ben informati, ecco lì il Matto, con i capelli pallidi che fluttuavano nella brezza leggera. La seta blu e rossa della giubba e dei pantaloni pezzati era straordinariamente brillante contro il suo pallore. Ma i suoi occhi non erano privi di colore come erano sembrati nei corridoi in penombra della fortezza. Mentre accoglievo il loro sguardo da pochi passi di distanza alla luce del giorno, scorsi una sfumatura azzurra in essi, molto pallida, come una singola goccia di cera azzurro chiaro caduta su un piatto bianco. Anche il candore della sua pelle era un'illusione, poiché lì fuori, nella luce cangiante del sole scorsi una tinta rosata che lo pervadeva dall'interno. «Sangue» compresi con improvviso timore. «Sangue rosso che traspare attraverso la pelle.» Il Matto non badò al mio commento sussurrato. Piuttosto, alzò un dito, come per interrompere non solo i miei pensieri ma il giorno stesso attorno a noi. Ma io non avrei potuto essere più concentrato su di lui, e quando il Matto ne fu soddisfatto sorrise, mostrando piccoli denti candidi e separati, come il nuovo sorriso di un bambino nella bocca di un ragazzo. «Fitz!» intonò con voce acuta. «Fitz sitz fix. Fix trutz.» Si interruppe improvvisamente, e mi rivolse di nuovo quel sorriso. Io lo fissai incerto, senza una parola o movimento.
Di nuovo il dito si levò, e questa volta me lo scosse contro. «Fitz! Fitz asitz afix. Ficz strutz.» Inclinò la testa verso di me, e il movimento fece ondeggiare in una nuova direzione la peluria sul suo capo come un soffione. Cominciavo ad avere meno paura di lui. «Fitz» dissi attentamente, e mi battei l'indice sul petto. «Fitz, sono io. Sì. Il mio nome è Fitz. Ti sei perso?» Cercai di parlare in modo dolce e rassicurante per non allarmare la povera creatura. Infatti sicuramente si era allontanata in qualche modo dalla fortezza, ed era per quello che sembrava così felice di trovare una faccia familiare. Il Matto inspirò dal naso, e poi scosse violentemente la testa, e i suoi capelli si allargarono come una fiamma attorno a una candela mossa dal vento. «Fitz!» disse con enfasi, con voce un poco tesa. «Fitz assitz asfix. Ficcastrutz.» «Va tutto bene» sussurrai in tono rassicurante. Mi piegai un poco, anche se in realtà non ero poi molto più alto del Matto. Feci un gesto gentile con la mano aperta per farlo avvicinare. «Vieni, dunque. Vieni con me. Ti mostrerò la via del ritorno. Va bene? Non aver paura, adesso.» Bruscamente il Matto lasciò cadere le mani lungo i fianchi. Poi sollevò il viso e alzò gli occhi al cielo. Mi guardò di nuovo, fissamente, e sporse le labbra come se avesse voluto sputare. «Vieni con me, adesso.» Gli feci cenno di nuovo. «No» disse lui, con perfetta chiarezza, con voce esasperata. «Ascoltami, idiota. Fitz assistz asfix. Ficcastrutz.» «Cosa?» chiesi, sbalordito. «Ho detto» scandì attentamente il Matto «Fitz assistse asfiss. Ficcastrutt.» Si inchinò, si girò, e cominciò ad allontanarsi da me, su per il sentiero. «Aspetta!» gli ordinai. Mi si arrossavano le orecchie per l'imbarazzo. Come si fa a spiegare educatamente a qualcuno di aver creduto per anni che fosse un idiota, oltre che un Matto? Non potevo. «Che cosa significa tutto questo fitz-sitz? Mi stai prendendo in giro?» «Per niente.» Il Matto si fermò il tempo di girarsi, e dire: «Fitz assiste se asfissi. Ficca strutto. È un messaggio, credo. La chiamata a un'azione importante. L'unico che conosco che sopporti di farsi chiamare Fitz sei tu, quindi credo che sia per te. Quanto al significato, come faccio a saperlo? Sono un Matto, non un interprete di sogni. Buona giornata.» Di nuovo mi girò le spalle, ma questa volta, invece di continuare su per il sentiero, entrò
in un cespuglio di alloro. Lo rincorsi, ma quando arrivai dove aveva lasciato il sentiero, era scomparso. Rimasi immobile, scrutando i boschi aperti e macchiati di sole, pensando che avrei dovuto vedere un cespuglio che oscillava ancora al suo passaggio, o scorgere per un attimo la sua giubba pezzata. Ma non c'era traccia di lui. E il suo sciocco messaggio non aveva alcun senso. Mentre tornavo alla fortezza riflettei sullo strano incontro, e alla fine lo accantonai come un fatto bizzarro ma casuale. Umbra non mi chiamò quella notte, ma la successiva sì. Ardendo di curiosità, corsi su per le scale. Ma quando raggiunsi la cima mi fermai, sapendo che le mie domande avrebbero dovuto aspettare. Perché lì sedeva Umbra al tavolo di pietra, con Quatto appollaiato sulle spalle, e una pergamena nuova mezza srotolata sul tavolo davanti a lui. Un bicchiere di vino teneva ferma un'estremità, mentre il suo dito contorto seguiva lentamente una specie di lista. Vi gettai un'occhiata mentre mi avvicinavo. Era una lista di villaggi e date. Sotto al nome di ciascun villaggio c'era un conteggio: tanti guerrieri, tanti mercanti, tante pecore o barili di birra o stai di grano, e così via. Sedetti dall'altra parte del tavolo e attesi. Avevo imparato a non interrompere Umbra. «Ragazzo mio» disse piano, senza alzare lo sguardo dalla pergamena. «Tu cosa faresti se qualche manigoldo ti arrivasse alle spalle e ti desse una botta in testa? Ma soltanto quando gli dai le spalle. Come ti comporteresti?» Ci pensai brevemente. «Continuerei a voltargli le spalle e farei finta di guardare qualcos'altro. Ma avrei in mano un lungo bastone robusto. Così quando mi prende alle spalle io mi girerei e gli spaccherei la testa.» «Hmm. Sì. Ebbene, ci abbiamo provato. Ma non importa se ci mostriamo indifferenti, gli Isolani sembrano sempre capire quando stiamo tendendo una trappola, e non attaccano. Ecco, in effetti, siamo riusciti a ingannare i predoni normali una o due volte. Ma mai i Pirati della Nave Rossa. E sono loro che vogliamo.» «Perché?» «Perché sono quelli che ci colpiscono maggiormente. Vedi, ragazzo, siamo abituati alle scorrerie. Potresti quasi dire che ci siamo adattati. Seminiamo un acro in più, tessiamo un altro rotolo di stoffa, alleviamo un cavallo di scorta. I nostri contadini e paesani cercano sempre di mettere da parte qualcosa, e quando il granaio di qualcuno viene bruciato o un magazzino va a fuoco nella confusione di una razzia, tutti si presentano per aiuta-
re a ricostruirlo. Ma i Pirati della Nave Rossa non si limitano a rubare, e a distruggere mentre rubano. Distruggono sì, ma quello che effettivamente portano via sembra quasi avvenga per caso.» Umbra fece una pausa e fissò una parete come se avesse potuto attraversarla con lo sguardo. «Non ha senso» continuò perplesso, parlando più a se stesso che a me. «O perlomeno non un senso che io riesca a scorgere. È come uccidere una mucca che partorisce un buon vitello ogni anno. I Pirati della Nave Rossa danno fuoco al grano e al fieno ancora nei campi. Uccidono il bestiame che non possono portare via. Tre settimane fa, a Tornsby, hanno dato fuoco al mulino e hanno lacerato i sacchi di grano e farina che vi si trovavano. Che profitto ne traggono? Perché rischiano la vita semplicemente per distruggere? Non hanno fatto alcuno sforzo di catturare e tenere territori; non hanno mai espresso alcun rancore contro di noi. Ci si può difendere da un ladro, ma questi uccidono e distruggono a caso. Tornsby non verrà ricostruita; i sopravvissuti non ne hanno né la volontà né le risorse. Sono andati avanti con la loro vita, alcuni raggiungendo la famiglia in altri paesi, altri diventando mendicanti nelle nostre città. È uno schema che vediamo troppo spesso.» Sospirò, e poi scosse la testa per schiarirsela. Quando alzò lo sguardo, si concentrò su di me. Era un dono tipico di Umbra. Poteva mettere da parte un problema tanto completamente che si sarebbe potuto giurare che lo aveva dimenticato. Ora annunciò, come se fosse l'unica cosa di cui si preoccupava: «Tu accompagnerai Veritas quando va a ragionare con messer Kelvar a Baia Ridente.» «Così mi ha detto Burrich. Ma era curioso, e anch'io. Perché?» Umbra apparve perplesso. «Qualche mese fa non protestavi che ti eri stancato di Castelcervo e desideravi vedere qualcosa di più dei Sei Ducati?» «Certamente. Ma dubito alquanto che questa sia la ragione per cui Veritas mi porta con sé.» Umbra sbuffò ironicamente. «Come se Veritas badasse a chi fa parte del suo seguito. Non ha pazienza per i dettagli; e quindi non ha il genio di Chevalier per trattare con la gente. Tuttavia Veritas è un buon soldato, e alla fine forse sarà quello di cui abbiamo bisogno. No, hai ragione. Veritas non ha la minima idea del perché vada anche tu. Ma il tuo re sì. Lui e io ci siamo consultati. Sei pronto per cominciare a ripagare tutto quello che ha fatto per te? Sei pronto a cominciare il tuo servizio per la famiglia?» Lo disse con tale flemma e mi guardò così apertamente che fu quasi faci-
le restare calmo mentre chiedevo: «Dovrò uccidere qualcuno?» «Forse.» Si assestò nella poltrona. «Dovrai decidere tu. Decidere e poi farlo... è diverso da sentirsi dire semplicemente: quello è l'uomo, fallo. È molto più difficile, e non sono per niente sicuro che tu sia pronto.» «Sarò mai pronto?» Provai a sorridere, e invece ghignai come in preda a uno spasmo muscolare. Cercai di farmelo passare e non ci riuscii. Uno strano fremito mi percorse. «Probabilmente no.» Umbra rimase in silenzio, e poi decise che avevo accettato la missione. «Partirai come attendente di un'anziana nobildonna che va a visitare i parenti a Baia Ridente. Non sarà un compito troppo pesante per te. Dama Maggiorana è molto anziana e la sua salute non è buona. Viaggia in una lettiga chiusa. Tu dovrai cavalcarle accanto, per accertarti che non venga sballottata troppo, per portarle da bere se lo chiede, e per occuparti di altre piccole richieste.» «Non sembra troppo diverso dall'occuparsi del cane di Veritas.» Umbra fece una pausa, poi sorrise. «Eccellente. Avrai anche questo compito. Renditi indispensabile a tutti in questo viaggio. Così avrai ragione di andare dappertutto e ascoltare ogni cosa, e nessuno obietterà alla tua presenza.» «E il mio vero compito?» «Ascoltare e imparare. A Sagace e a me sembra che questi Pirati della Nave Rossa siano troppo familiari con le nostre strategie e la nostra forza. Di recente Kelvar ha rifiutato i fondi per munire come si deve l'Isola di Guardia. Per due volte l'ha trascurata, e per due volte i villaggi costieri del ducato di Costabassa hanno pagato per la sua trascuratezza. È passato dalla negligenza al tradimento? È in combutta con il nemico per trarne profitto? Vogliamo che tu annusi in giro e scopra quello che puoi. Se tutto quello che trovi è innocenza, o se hai anche solo forti sospetti, faccelo sapere. Ma se scopri un tradimento, e ne sei certo, allora non sarà mai troppo presto per sbarazzarci di lui.» «E in che modo?» Non ero sicuro che quella fosse la mia voce. Era così disinvolta, così contenuta. «Ho preparato una polverina, insapore in una pietanza, incolore in un bicchiere di vino. Confidiamo nella tua inventiva e discrezione per somministrarla.» Sollevò un coperchio da un piatto di argilla sul tavolo. All'interno c'era un pacchetto fatto di carta molto bella, più sottile e più fine di qualsiasi carta mi fosse mai stata mostrata da Piuma. Strano; il mio primo pensiero fu che il mio mastro scrivano avrebbe apprezzato moltissimo una
carta come quella. All'interno del pacchetto c'era una polvere bianca finissima. Rimaneva attaccata alla carta e si sollevava nell'aria. Umbra si coprì la bocca e il naso con un panno mentre ne versava una quantità precisa in un cartoccio di carta oleata. Me lo tese, e io accolsi la morte sul mio palmo aperto. «E come funziona?» «Non troppo in fretta. Non crollerà morto sul tavolo, se è questo che mi chiedi. Ma se indugia sulla sua coppa, si sentirà male. Conoscendo Kelvar, sospetto che se ne andrà a letto con lo stomaco gorgogliante, e non si sveglierà più.» Me lo feci scivolare in tasca. «Veritas ne sa qualcosa?» Umbra considerò. «Veritas vale quanto il suo nome. Non potrebbe sedere a un tavolo con un uomo che sta avvelenando e tenerlo nascosto. No, in questa missione la segretezza ci servirà più della verità.» Mi guardò dritto negli occhi. «Lavorerai da solo, e le decisioni saranno solo tue.» «Capisco.» Mi agitai sul mio alto sgabello di legno. «Umbra?» «Sì?» «È così che è stato per te? La tua prima volta?» Umbra si guardò le mani, e per un momento percorse con le dita le violente cicatrici rosse che punteggiavano il dorso della sinistra. Il silenzio si prolungò, ma io attesi. «Avevo un anno più di te» disse infine. «E si trattò solo di farlo, non di decidere se doveva essere fatto. Ti basta?» Ero improvvisamente imbarazzato senza sapere perché. «Suppongo di sì» mormorai. «Bene. Lo so che non lo chiedi per cattiveria, ragazzo. Ma gli uomini non parlano del tempo che passano fra le lenzuola con una signora. E gli assassini non parlano... del nostro mestiere.» «Neppure da maestro ad allievo?» Umbra distolse lo sguardo da me, fissando un angolo oscuro del soffitto. «No.» Dopo un istante aggiunse: «Fra due settimane, forse capirai perché.» E questo fu tutto ciò che mai dicemmo su quell'argomento. Secondo i miei calcoli, avevo tredici anni. 8 Dama Maggiorana
Una storia dei ducati è uno studio della loro geografia. Lo scrivano di corte di re Sagace, tale Piuma, era molto affezionato a questo detto. Non posso dire di averlo mai visto smentito. Forse tutte le storie sono narrazioni di confini naturali. I mari e il ghiaccio che ci separano dagli Isolani ci resero popoli distinti e le ricche praterie e i campi fertili dei ducati generarono le ricchezze che ci resero nemici; forse questo dovrebbe essere il primo capitolo di una storia dei ducati. I fiumi Orso e Vin hanno creato i ricchi vigneti e frutteti di Riccaterra, senza dubbio così come le montagne Crinaltinto che si levano sopra Lungosabbia hanno riparato e insieme isolato gli abitanti della zona e li hanno lasciati vulnerabili ai nostri eserciti organizzati. Mi svegliai di scatto prima che la luna avesse abdicato al suo regno del cielo, sbalordito di essere riuscito a addormentarmi. La sera prima Burrich aveva supervisionato le mie preparazioni per il viaggio così attentamente che, se fosse stato per me, sarei partito un minuto dopo aver ingoiato la mia zuppa del mattino. Ma non capita così quando un gruppo di persone si organizza per fare qualcosa insieme. Il sole era alto sopra l'orizzonte prima che fossimo tutti radunati e pronti. «Il sangue reale,» mi aveva avvertito Umbra «non viaggia mai leggero. Veritas parte per questo viaggio seguito dal peso della spada del re. Tutti coloro che lo vedono passare devono saperlo senza che nessuno glielo dica. Le notizie devono precederlo di corsa fino a Kelvar, e a Shemshy. La mano imperiale sta per ricomporre le loro differenze. Alla fine entrambi dovranno desiderare di non aver mai avuto alcuna divergenza. È questo il trucco del buon governo. Fare in modo che la gente desideri vivere in modo tale che non ci sia bisogno dell'intervento del governo.» Così Veritas viaggiava con una pompa che chiaramente irritava il soldato in lui. La sua truppa di uomini scelti portava i suoi colori, oltre allo stemma del cervo dei Lungavista, e cavalcava più avanti delle truppe regolari. Ai miei giovani occhi, era una scena abbastanza impressionante. Per evitare che l'impatto fosse troppo marziale, tuttavia, Veritas portò con sé una compagnia di nobili per provvedere alla conversazione e alla distrazione alla fine della giornata. Falchi e cani con i loro addestratori, musicisti e bardi, un burattinaio, i domestici dei signori e delle dame, i sarti e i parrucchieri e i cuochi per preparare i loro piatti preferiti, e infine le bestie da soma; tutti in fila dietro ai bei cavalli dei nobili, a chiudere la nostra processione.
Il mio posto era più o meno a metà del corteo. Sedevo su una inquieta Fuliggine accanto a una lettiga decorata sospesa fra due tranquilli castrati grigi. Mani, uno degli stallieri più promettenti, aveva ricevuto un pony e si occupava dei cavalli che portavano la lettiga. Io dovevo occuparmi del nostro mulo da soma, e attendere all'occupante della lettiga. Si trattava della decrepita dama Maggiorana, che non avevo mai incontrato. Quando alla fine apparve per salire sulla lettiga, era così fasciata di mantelli, veli e sciarpe che notai solo che era anziana ma ossuta piuttosto che grassoccia, e che il suo profumo faceva starnutire Fuliggine. Si assestò nella lettiga in un nido di cuscini, coperte, pellicce e tappeti, poi immediatamente ordinò che le tende venissero tirate e legate malgrado la bella mattina. Le due damigelle che si erano occupate di lei corsero via allegramente, e rimasi solo io, il suo unico servitore. Il mio cuore sprofondò. Mi ero aspettato che almeno una di loro viaggiasse nella lettiga insieme alla donna. Chi si sarebbe occupato delle sue esigenze personali una volta montato il suo padiglione? Non avevo la minima idea di come ci si occupasse di una donna, figuriamoci di una molto anziana. Decisi di seguire il consiglio di Burrich riguardo a come un giovane deve comportarsi con le donne anziane: sii attento e educato, allegro e piacevole nei modi. Le donne anziane si lasciavano facilmente conquistare da un giovane simpatico. Lo diceva Burrich. Mi avvicinai alla lettiga. «Dama Maggiorana? Siete comoda?» domandai. Trascorse un lungo intervallo senza risposte. Forse era un po' sorda. «Siete comoda?» chiesi a voce più alta. «Smetti di seccarmi, giovanotto!» fu la risposta sorprendentemente decisa. «Se avrò bisogno di te ti chiamerò.» «Chiedo scusa» dissi in fretta. «Smetti di seccarmi, ho detto!» gracchiò la donna in tono indignato. E aggiunse sottovoce: «Sciocco zoticone.» A quelle parole ebbi il buon senso di restare zitto, anche se il mio sgomento aumentò notevolmente. Alla faccia della cavalcata allegra e simpatica! Alla fine sentii suonare i corni e vidi lo stendardo di Veritas che veniva innalzato, laggiù alla testa del corteo. La polvere che si spostava verso di noi mi disse che l'avanguardia aveva cominciato il viaggio. Trascorsero lunghi minuti prima che i cavalli davanti a noi si muovessero. Mani mise in movimento i cavalli della lettiga e io schioccai la lingua rivolto a Fuliggine. La cavalla avanzò di buon grado e il mulo la seguì con rassegnazione.
Ricordo bene quel giorno. Ricordo la spessa polvere sospesa nell'aria, sollevata da tutti coloro che ci precedevano, e Mani e io che conversavamo a voce bassa, dato che la prima volta che avevamo riso ad alta voce dama Maggiorana ci aveva rimproverati: «Smettetela di far rumore!» Ricordo anche i cieli azzurro vivo come volte sospese da una collina all'altra mentre seguivamo i dolci tornanti della strada costiera. Dalle cime delle colline si godeva una vista mozzafiato del mare, e nelle valli l'aria era spessa e assonnata e sapeva di fiori. C'erano anche le pastorelle, in fila in cima a un muro di pietra a ridacchiare e indicarci e arrossire mentre passavamo. Le loro bestie lanute punteggiavano il fianco della collina dietro di loro, e Mani e io esclamammo sottovoce per il modo in cui si erano annodate su un fianco le gonne multicolori, scoprendo le ginocchia e le gambe al sole e al vento. Fuliggine era irrequieta e annoiata dal nostro passo lento, mentre il povero Mani continuava ad affondare i talloni nelle costole del suo vecchio pony per fargli tenere il passo. Ci fermammo due volte durante la giornata, per permettere ai cavalieri di smontare e sgranchirsi un po' e ai cavalli di abbeverarsi. Dama Maggiorana non si mosse dalla lettiga, ma a un certo punto mi ricordò seccamente che avrei già dovuto portarle da bere. Mi morsi la lingua e le portai un bicchiere. Fu il massimo della nostra conversazione. Ci fermammo quando il sole era ancora sopra l'orizzonte. Mani e io montammo il piccolo padiglione di dama Maggiorana mentre la donna cenava dentro la sua lettiga con un cestino di vimini pieno di carne fredda, formaggio e vino che si era giudiziosamente portata. Mani e io ce la passammo peggio con le razioni dei soldati di pane duro e formaggio ancora più duro e carne secca. Nel mezzo del mio pranzo, dama Maggiorana ordinò che io la scortassi dalla lettiga al suo padiglione. Emerse imbacuccata e velata come per affrontare un uragano. I suoi bei vestiti erano di vari colori e varia antichità, ma tutti erano stati un tempo dispendiosi e di buona fattura. Ora, mentre si appoggiava pesantemente su di me e avanzava barcollando, annusai una repellente cacofonia di polvere e muffa e profumo, con un sottofondo di urina. La dama mi liquidò seccamente sulla porta, e mi avvertì che aveva un coltello e che l'avrebbe usato se io avessi tentato di entrare a infastidirla in qualsiasi modo. «E lo so usare, giovanotto!» mi minacciò. Avremmo anche dormito allo stesso modo dei soldati: sul terreno, avvolti nei nostri mantelli. Ma era una bella notte, e accendemmo un piccolo fuoco. Mani mi prese in giro ridacchiando riguardo alla mia presunta con-
cupiscenza verso dama Maggiorana e al coltello che mi aspettava se avessi tentato di darvi sfogo. Ciò condusse a uno scontro di lotta fra noi, fino a quando dama Maggiorana ci indirizzò stridule minacce perché la tenevamo sveglia. Ci mettemmo a parlare piano, e Mani disse che nessuno invidiava il mio incarico; chiunque avesse mai viaggiato con la dama faceva in modo di evitarla per il futuro. Mi avvertì anche che il mio compito peggiore doveva ancora arrivare, ma rifiutò assolutamente, malgrado i suoi occhi traboccassero di lacrime di ilarità, di dirmi di più. Mi addormentai facilmente, perché, da quel ragazzo che ero, avevo allontanato dalla mente la mia vera missione fino a quando non fossi stato costretto ad affrontarla. Mi svegliai al mattino fra il cinguettare degli uccelli e il travolgente puzzo di un pitale ricolmo fuori dal padiglione di dama Maggiorana. Anche se il mio stomaco era stato indurito dalla pulizia di stalle e canili, riuscii appena a costringermi a vuotarlo e ripulirlo prima di restituirglielo. A quel punto la dama mi stava rimproverando attraverso la tenda della porta perché non le avevo ancora portato la sua acqua, calda o fredda, né le avevo preparato la minestra d'avena con gli ingredienti che aveva lasciato fuori. Mani era sparito, per condividere il fuoco e le razioni della truppa, lasciandomi ad affrontare la mia tirannica signora. Le porsi un vassoio di cibo che secondo la sua ferma convinzione era preparato malamente, e quando ebbi ripulito i piatti e la pentola e restituito il tutto a lei, il resto del corteo era pronto a ripartire. Ma la donna non permise che il suo padiglione venisse smontato fino a quando non fu al sicuro all'interno della sua lettiga. Riuscimmo freneticamente a imballare tutto, e alla fine mi ritrovai in sella alla mia cavalla senza una briciola di colazione in corpo. Dopo il lavoro della mattinata, stavo morendo di fame. Mani osservò con una certa simpatia la mia faccia torva e mi fece cenno di cavalcare più vicino a lui. Si chinò verso di me per parlarmi. «Tutti tranne noi avevano già sentito parlare di lei.» Disse questo con un cenno furtivo in direzione della lettiga di dama Maggiorana. «La puzza che produce ogni mattina è una leggenda. Cioccabianca dice che era solita partecipare a molti viaggi di Chevalier... Ha parenti in tutti i Sei Ducati, e non ha molto da fare se non visitarli. Tutti gli uomini della truppa dicono che hanno imparato molto tempo fa a starle lontani, se non vogliono ritrovarsi con una quantità di commissioni inutili da sbrigare. Oh, e Cioccabianca ti manda questo. Dice di non illuderti, non riuscirai a mangiare seduto finché ti occupi della dama. Ma lui cercherà di metterti da parte un boccone ogni mattina.»
Mi passò un fagotto di pane da campo con tre strisce di pancetta fredde e unte all'interno. Aveva un sapore fantastico. Trangugiai avidamente i primi bocconi. «Zoticone!» stridette dama Maggiorana dall'interno della sua lettiga. «Cosa ci fai lì avanti? Parli male dei tuoi superiori, non ho dubbi. Torna alla tua posizione! Come fai a occuparti delle mie esigenze se vai a farti bello laggiù?» Tirai velocemente le redini di Fuliggine e rallentai fino a ritrovarmi accanto alla lettiga. Ingoiai un grosso pezzo di pane e pancetta e quindi riuscii a chiedere: «Vostra signoria desidera qualcosa?» «Non parlare con la bocca piena» scattò lei. «E smetti di seccarmi. Stupido ragazzotto.» E così continuò. La strada seguiva la costa, e con il nostro passo lento ci vollero ben cinque giorni per raggiungere Baia Ridente. A parte due piccoli villaggi, il panorama consisteva in rupi battute dal vento, gabbiani, prati e occasionali boschetti di alberi contorti e gracili. Eppure a me sembrava pieno di bellezze e meraviglie, perché ogni curva della strada mi portava in un posto dove non ero mai stato. Man mano che il nostro viaggio continuava, dama Maggiorana diventava sempre più tirannica. Durante il quarto giorno di viaggio fu un torrente costante di proteste, e io raramente riuscii a porvi rimedio. La lettiga oscillava troppo; le dava la nausea. L'acqua che avevo preso da un ruscello era troppo fredda, quella dai miei otri troppo calda. Gli uomini e i cavalli davanti a noi sollevavano troppa polvere; era sicura che lo facessero apposta. E di' loro di smettere di cantare quelle canzonacce. Dovendo occuparmi di lei non avrei avuto tempo di pensare se uccidere messer Kelvar o meno, anche se avessi voluto. Al mattino del quinto giorno vedemmo levarsi davanti a noi il fumo di Baia Ridente. A mezzogiorno riuscivamo a scorgere gli edifici più grandi e la torre di guardia sulle rupi sopra al paese. Baia Ridente sorgeva in una zona molto più dolce di Castelcervo. La strada scese seguendo un'ampia vallata. Le acque azzurre della baia si aprirono davanti a noi. Le spiagge erano sabbiose, e la flotta da pesca era costituita da barche di poco pescaggio e con la chiglia piatta, o piccoli vascelli che solcavano le onde come gabbiani. Baia Ridente non aveva il fondale profondo di Castelcervo, così non era un porto commerciale come il nostro, ma lo stesso mi sembrava un bel posto dove vivere. Kelvar mandò una guardia d'onore a incontrarci, quindi ci fu un ritardo
mentre scambiavano formalità con le truppe di Veritas. «Come due cani che si annusano il fondoschiena a vicenda» osservò acidamente Mani. Alzandomi sulle staffe, riuscii a guardare abbastanza lontano per osservare le cerimonie ufficiali, e concordai con riluttanza. Finalmente ripartimmo, e presto stavamo cavalcando attraverso le strade del borgo di Baia Ridente. Tutti gli altri andarono dritti verso la fortezza di Kelvar, ma Mani e io fummo costretti a scortare attraverso i vicoli la lettiga di dama Maggiorana per raggiungere la taverna dove la dama insisteva per alloggiare. A giudicare dalla faccia della cameriera, era già passata di lì altre volte. Mani portò alle stalle i cavalli e la lettiga, ma io dovetti sopportare la dama che si appoggiava pesantemente al mio braccio mentre la scortavo in camera sua. Mi chiesi quali orrende spezie ci fossero nel suo pranzo per trasformare ogni suo respiro in una prova di coraggio per me. Mi liquidò sulla porta, minacciandomi con una miriade di punizioni se non fossi tornato puntualmente dopo sette giorni. Mentre me ne andavo, provai simpatia per la cameriera, dato che la voce di dama Maggiorana già si levava in una sonora predica sulle cameriere ladruncole che aveva incontrato in passato, e su come voleva esattamente che le lenzuola fossero disposte sul letto. Con cuore leggero salii in groppa a Fuliggine e gridai a Mani di sbrigarsi. Ci avviammo per le strade di Baia Ridente al piccolo trotto, e riuscimmo a raggiungere la coda della processione di Veritas mentre i primi entravano nella fortezza di Kelvar. Guardabaia era costruita su un terreno piatto che offriva poche difese naturali, ma prima di affrontare le robuste mura di pietra della fortezza un nemico avrebbe dovuto superare una serie di valli e trincee. Mani diceva che i pirati non erano mai arrivati oltre al secondo vallo, e io gli credetti. Passando scorgemmo alcuni operai che si occupavano di riparare le fortificazioni, e che si fermarono a guardare meravigliati mentre l'erede al trono arrivava a Guardabaia. Una volta che le porte della fortezza furono chiuse dietro di noi, ci fu un'altra interminabile cerimonia di benvenuto. Ci lasciarono in piedi sotto il sole di mezzogiorno, uomini e bestie e il seguito al completo, mentre Kelvar e Guardabaia accoglievano Veritas. I corni risuonarono, e poi giunse il borbottio delle dichiarazioni ufficiali smorzate dal fremere di cavalli e uomini. Ma finalmente la cerimonia ebbe termine con un improvviso movimento generale di uomini e bestie mentre le formazioni davanti a noi si scioglievano. Gli uomini smontarono e gli stallieri di Kelvar erano improvvisamente fra noi per indicarci dove abbeverare le nostre cavalcature, dove potevamo
riposare per la notte e, fatto importantissimo per qualsiasi soldato, dove trovare da lavarci e mangiare. Mani e io conducemmo Fuliggine e il pony verso le stalle. Mi sentii chiamare e mi girai, e vidi Sig, un uomo di Castelcervo, che mi indicava a un tizio con i colori di Kelvar. «Eccolo lì, il fitz, il bastardino. Ehi, Fitz! C'è qui Distinto, dice che sei convocato. Veritas ti vuole in camera sua; Leon non sta bene. Mani, occupati di Fuliggine per conto del bastardino.» Sentii quasi il cibo che mi veniva tolto di bocca. Ma trassi un respiro e mi mostrai ben disposto verso Distinto, come Burrich mi aveva consigliato. Dubito che quel veterano se ne accorgesse. Per lui ero solo un altro ragazzino fra i piedi in un giorno frenetico. Mi condusse alla camera di Veritas e mi lasciò, evidentemente sollevato di tornare alle sue stalle. Io bussai appena e l'attendente di Veritas mi aprì la porta immediatamente. «Ah! Grazie a Eda, sei tu. Vieni dentro, dunque, perché la bestia non mangia e Veritas è sicuro che sia una cosa seria. Sbrigati, Fitz.» L'uomo portava lo stemma di Veritas, ma non ricordavo di averlo mai incontrato. A volte ero sconcertato da quante persone sapevano chi ero quando io non avevo idea di chi fossero loro. In una camera accanto, sentivo Veritas sguazzare e dare istruzioni ad alta voce riguardo agli abiti per la sera. Ma non dovevo preoccuparmi di lui. Dovevo preoccuparmi di Leon. Leon era il cane da caccia di Veritas. Estesi il pensiero a tentoni verso di lui, perché non avevo scrupoli a farlo quando Burrich non era in giro. Leon sollevò la testa ossuta e mi guardò con occhi tormentati. Giaceva in un angolo sulla camicia sudata di Veritas, vicino a un focolare spento. Aveva troppo caldo, si annoiava, e se nessuno aveva intenzione di portarlo a caccia voleva tornare a casa. Feci mostra di passargli le mani sul corpo e sollevargli le labbra per esaminare le gengive, e poi gli premetti fermamente la mano sul ventre. Terminai grattandolo fra le orecchie, quindi dissi al maggiordomo di Veritas: «Non c'è niente che non va in lui, semplicemente non ha fame. Diamogli una scodella d'acqua fresca e aspettiamo. Quando vorrà mangiare, si farà sentire. E portiamo via tutta questa roba, prima che vada a male per il caldo e lui se la mangi lo stesso e stia male veramente.» Mi riferivo a un piatto traboccante di pezzi di sformato provenienti da un vassoio preparato per Veritas. Non era roba adatta a un cane, ma avevo tanta fame che non mi sarebbe dispiaciuto mangiarla io; anzi il mio stomaco gorgogliò alla vista. «Forse se trovo le cucine potrebbero avere un osso fresco per lui. In
questo momento gli piacerebbe soprattutto qualcosa con cui giocare, più che mangiare...» «Fitz? Sei tu? Vieni qui, ragazzo! Cos'ha che non va il mio Leon?» «Manderò a prendere l'osso» mi assicurò l'attendente, e io mi alzai e andai sulla soglia della camera accanto. Veritas uscì gocciolando dal bagno e prese l'asciugamano che gli offriva il domestico. Si strofinò in fretta i capelli e poi chiese di nuovo mentre si asciugava: «Che cos'ha Leon?» Veritas era fatto così. Erano passati mesi dall'ultima volta che avevamo parlato, ma non perse tempo in saluti. Umbra diceva che era un difetto in lui, che non lasciava capire ai suoi uomini l'importanza che avevano per lui. A mio parere, pensava che se mi fosse successo qualcosa di significativo qualcuno glielo avrebbe detto. C'era in lui una brusca concretezza che mi piaceva, la certezza che le cose andavano bene a meno che qualcuno non gli dicesse diversamente. «Non ha molto che non va, signore. È un po' stanco per il caldo e il viaggio. Una notte di riposo in un luogo fresco lo rimetterà in piedi; ma io non lo riempirei di pezzi di sformato e cibi grassi; non con questo clima caldo.» «Bene.» Veritas si chinò per asciugarsi le gambe. «Probabilmente hai ragione, ragazzo. Burrich dice che ci sai fare con i cani, e non ho intenzione di ignorare il suo parere. È solo che sembrava così malinconico, e di solito ha appetito per qualsiasi cosa, ma specialmente per quello che cade dal mio piatto.» Sembrava imbarazzato, come se fosse stato sorpreso a fare le coccole a un bambino. Io non sapevo cosa dire. «Se è tutto, signore, devo tornare alle stalle?» Veritas mi gettò un'occhiata da sopra la spalla, perplesso. «Mi sembra uno spreco di tempo. Si occuperà Mani della tua cavalcatura, vero? Tu devi farti un bagno e vestirti se vuoi essere in tempo per la cena. Charim? Hai acqua per lui?» L'attendente si raddrizzò dopo aver disposto gli abiti di Veritas sul letto. «Subito, signore, E preparerò i vestiti anche per lui.» Nell'ora successiva, il mio posto nel mondo parve capovolgersi. Sapevo che sarebbe successo. Sia Burrich che Umbra avevano cercato di prepararmi. Ma passare improvvisamente da insignificante osservatore a Castelcervo a membro del seguito formale di Veritas era inquietante. Tutti sembravano supporre che io sapessi quello che stava accadendo. Veritas era vestito e fuori dalla stanza prima che io fossi nella vasca.
Charim mi informò che era andato a conferire con il suo capitano delle guardie. Fui grato che l'attendente fosse un tale pettegolo. Non considerava la mia posizione così elevata da trattenersi dal chiacchierare e protestare davanti a me. «Ti preparerò qui un giaciglio per la notte. Dubito che avrai freddo. Veritas ha detto di farti alloggiare vicino a lui, e non solo per occuparti del cane. Ha altri compiti per te?» Fece una pausa speranzosa. Io nascosi il mio silenzio sprofondando con la testa sotto l'acqua tiepida e insaponando i capelli sporchi di sudore e polvere. Mi tirai su per prendere fiato. Charim sospirò. «Ti preparerò i vestiti. Lasciami quelli sporchi. Te li laverò.» Mi sembrava molto strano che qualcuno si occupasse di me mentre mi lavavo, e ancora più strano che supervisionasse il mio abbigliamento. Charim insistette per stirarmi le cuciture del giustacuore e fare in modo che le maniche fuori misura della mia camicia migliore sbuffassero nel modo più soddisfacente e fastidioso. I miei capelli erano ricresciuti abbastanza da ingarbugliarsi, e l'attendente li mise in ordine con una spazzola senza troppi riguardi. A un ragazzo abituato a vestirsi da solo i ritocchi e le ispezioni parvero infinite. «Il sangue parlerà» disse una voce turbata dall'ingresso. Mi girai e trovai Veritas che mi fissava con un misto di dolore e divertimento sul viso. «È il ritratto di Chevalier alla sua età, non è vero, mio signore?» Charim sembrava immensamente compiaciuto di se stesso. «È vero.» Veritas fece una pausa per schiarirsi la gola. «Nessun uomo può dubitare chi sia tuo padre, Fitz. Mi chiedo che cosa pensava mio padre quando mi ha detto di metterti bene in mostra. Sagace è il suo nome e sagace è la sua natura; chissà cosa si aspetta di ottenere. Ah, bene.» Sospirò. «Questo è il suo dovere di re, e lo lascio a lui. Il mio dovere è solo andare a chiedere a un damerino stagionato perché non riesca a tenere una guarnigione decente nelle sue torri di guardia. Vieni, ragazzo. È tempo di scendere.» Si girò e se ne andò senza aspettarmi. Io mi affrettai a seguirlo, ma Charim mi prese il braccio. «Tre passi dietro di lui e sulla sua sinistra. Ricorda.» E così presi la posizione che mi spettava. Mentre Veritas si avviava per il corridoio, altri personaggi del seguito uscirono dalle loro stanze e seguirono il loro principe. Tutti erano abbigliati nelle loro vesti più raffinate ed elaborate, per sfrattare al massimo l'opportunità di essere visti e invi-
diati al di fuori di Castelcervo. Lo sbuffo delle mie maniche era perfettamente ragionevole a paragone di quelle sfoggiate da alcuni. Almeno le mie scarpe non erano decorate di minuscoli campanellini tintinnanti o perline di ambra che ticchettavano sommessamente. Veritas fece una pausa in cima a una scalinata, e la gente radunata nel salone di sotto rimase in silenzio. Osservai i visi alzati verso il loro principe, ed ebbi il tempo di leggere su di essi tutte le emozioni note all'umanità. Alcune donne sorridevano in modo affettato, mentre altre sembravano sogghignare. Alcuni giovani si misero in posa per dare risalto ai loro vestiti; altri, abbigliati più semplicemente, si raddrizzarono come sull'attenti. Io lessi invidia e amore, disprezzo, paura, e su alcuni volti, odio. Ma Veritas non concesse a nessuno di loro più che una rapida occhiata prima di scendere. La folla si aprì davanti a noi e rivelò messer Kelvar in persona che attendeva di condurci nella sala da pranzo. Kelvar non era come me l'aspettavo. Veritas lo aveva definito un damerino, ma io vidi un uomo che stava invecchiando rapidamente, smilzo e angosciato, che portava i suoi abiti stravaganti come un'armatura contro il tempo. I capelli volgevano al grigio ed erano legati in un codino sottile come se fosse stato ancora un soldato; camminava con il passo inconfondibile dell'abile spadaccino. Lo osservai come Umbra mi aveva insegnato a osservare la gente, e ancor prima che fossimo seduti pensavo di comprenderlo abbastanza bene. Ma solo dopo che avemmo preso posto a tavola (e il mio posto, con mia sorpresa, non era molto lontano dai nobili) riuscii a guardare più a fondo nell'anima dell'uomo. E questo non per le sue azioni, ma per l'atteggiamento della signora che venne a unirsi a noi. Dama Grazia, la moglie di Kelvar, doveva avere solo una manciata d'anni più di me, ed era addobbata come il nido di una gazza. Non avevo mai visto accessori che parlassero così vistosamente di scialo e di cattivo gusto. Prese posto in una nuvola di cenni e sventolii che mi ricordarono il rituale del corteggiamento di un uccello. Il suo profumo mi sommerse come un'onda, e anche quello sapeva di denaro più che di fiori. Aveva portato con sé un cagnolino, un barboncino tutto pelo serico e occhioni lucidi. Gli sussurrò paroline dolci prendendoselo in grembo, e la bestiola si rannicchiò contro di lei e appoggiò il mento sul bordo del tavolo. E per tutto il tempo gli occhi della ragazza rimasero fissi sul principe Veritas, cercando di vedere se la notava o ne era colpito. Da parte mia, studiai Kelvar, che la osservava mentre la dama tentava di sedurre il principe, e mi dissi che lì
stava più di metà dei nostri problemi con la guarnigione dell'Isola di Guardia. La cena fu per me una tortura. Avevo una fame da lupo, ma le belle maniere mi impedivano di dimostrarlo. Mangiai come mi era stato insegnato, prendendo il cucchiaio quando lo prendeva Veritas, e mettendo da parte un piatto non appena lui mostrava di non essere interessato. Io bramavo un bel piatto di carne ben cotta, con il pane per raccogliere il sugo, e invece ci offrirono bocconcini di carne bizzarramente speziata, composte di fratta esotica, pane pallido e verdure cotte fino a sbiancare e poi condite. Era un'impressionante esibizione di buon cibo rovinato in nome della moda. Notai che l'appetito di Veritas era deluso quanto il mio, e mi chiesi se tutti potevano vedere che il principe non era particolarmente compiaciuto. Umbra mi aveva insegnato meglio di quanto immaginassi. Riuscii ad annuire educatamente alla mia vicina di tavolo, una giovane donna coperta di lentiggini, e a seguire la sua conversazione sulla recente difficoltà di trovare buone pezze di lino ad Acquemosse, intanto che tendevo le orecchie per cogliere passaggi chiave delle conversazioni attorno al tavolo. Nessuna riguardava il problema che ci aveva condotti fin lì. Veritas e messer Kelvar si sarebbero appartati l'indomani per discuterlo. Ma la maggior parte di quello che afferravo riguardava la guarnigione della torre dell'Isola di Guardia, e vi gettava una strana luce. Sentii alcuni mugugnare che le strade non erano ben mantenute come una volta. Qualcuno era felice di vedere che erano state riprese le riparazioni delle fortificazioni di Guardabaia. I predoni dell'interno erano tanto comuni, fece notare un altro, che se due terzi della sua merce riuscivano ad arrivare da Armento era già un successo. Anche le proteste della mia vicina di tavola sulla mancanza di buona stoffa sembravano fondate su questa situazione. Guardai messer Kelvar sdilinquirsi a ogni gesto della giovane moglie. Come se Umbra mi stesse sussurrando all'orecchio, sentii il suo giudizio: «Ecco un duca che non ha in testa il governo del suo ducato.» Sospettavo che dama Grazia indossasse la necessaria manutenzione delle strade e i salari dei soldati che avrebbero dovuto mantenere le vie commerciali al sicuro dai briganti. Forse i gioielli che sfoggiava alle orecchie erano lo stipendio della guarnigione per la torre dell'Isola di Guardia. Finalmente la cena ebbe termine. Il mio stomaco era pieno, ma la mia fame non era stata saziata da un pasto di così poca sostanza. Dopo cena due menestrelli e un poeta ci intrattennero, ma io rivolsi l'orecchio alla conversazione casuale della gente piuttosto che alla bella dizione del poeta
o alle ballate dei musici. Kelvar sedeva alla destra del principe Veritas mentre la sua dama sedeva alla sinistra, insieme al suo cagnolino. Grazia era radiosa alla presenza del principe. Le sue mani spesso vagavano a sfiorare prima un orecchino, poi un braccialetto. Non era abituata a indossare così tanti gioielli. Sospettavo che provenisse da una famiglia semplice, forse sgomenta della sua stessa posizione. Un menestrello cantò Bella rosa nel trifoglio senza staccare gli occhi dal suo viso, e fu ricompensato dal suo rossore. Ma con il trascorrere della serata e il crescere della mia stanchezza, notai che anche dama Grazia stava crollando. A un certo punto sbadigliò, alzando la mano troppo tardi per nasconderlo. Il suo cagnolino le si era addormentato in grembo, e occasionalmente sussultava e guaiva inseguendo un sogno nel suo cervellino. Man mano che la ragazza si faceva più assonnata, mi ricordava sempre di più una bambina; coccolava il suo cane come una bambola, e appoggiava la testa all'indietro nell'angolo della poltrona. Due volte parve sul punto di addormentarsi. La vidi pizzicarsi di nascosto la pelle dei polsi nello sforzo di svegliarsi. Fu visibilmente sollevata quando Kelvar chiamò a sé i menestrelli e il poeta per ricompensarli della serata. Prese il braccio del suo signore per seguirlo verso la loro camera da letto, senza abbandonare il cane che teneva sotto il braccio. Fui sollevato quando tornai su, nell'anticamera della stanza di Veritas. Charim mi aveva procurato un materasso di piume e alcune coperte. Il mio giaciglio era comodo esattamente come il mio letto a Castelcervo. Volevo andare a dormire, ma Charim mi fece cenno di entrare nella camera del principe. Veritas, da buon soldato, non sapeva cosa farsene di lacchè che gli togliessero gli stivali. Soltanto Charim e io lo assistemmo. L'attendente borbottava e commentava mentre seguiva Veritas, raccogliendo e piegando gli abiti che il principe buttava in giro con tanta disinvoltura. Portò immediatamente gli stivali di Veritas in un angolo e cominciò a strofinare nuova cera sul cuoio. Il principe si cacciò addosso una camicia da notte e poi si rivolse a me. «Ebbene? Che cos'hai da dirmi?» E così feci rapporto a lui come facevo con Umbra, riferendogli tutto quello che avevo percepito, usando per quanto potevo le stesse parole, e annotando chi aveva parlato e a chi. Alla fine aggiunsi le mie supposizioni sul significato di tutta la faccenda. «Kelvar è un uomo che si è preso una moglie giovane, facilmente impressionabile dalla ricchezza e dai doni» riassunsi. «Non ha la minima idea delle responsabilità della sua posizione,
figuriamoci di quelle del duca. Kelvar sottrae denaro, tempo e riflessione ai suoi doveri per affascinarla. Se non temessi di essere irrispettoso, direi che la sua virilità lo sta abbandonando, e che cerca di soddisfare la sua giovane moglie con i doni come sostituto.» Veritas sospirò pesantemente. Durante l'ultima parte della mia spiegazione si era buttato sul letto. Ora afferrò un cuscino troppo morbido, piegandolo per ottenere maggior supporto per la testa. «Maledetto Chevalier» disse in tono assente. «Questo groviglio sarebbe fatto per lui, non per me. Fitz, parli come tuo padre. Se Chev fosse qui, troverebbe il modo di gestire tutta la faccenda con sottigliezza. A questo punto l'avrebbe già risolta, con uno dei suoi sorrisi e un baciamano. Ma non è il mio stile, e non farò finta che lo sia.» Si agitò a disagio nel letto, come aspettandosi che io mi mettessi a discutere dei suoi doveri. «Kelvar è un uomo e un duca. E ha un dovere. Deve munire quella torre come si deve. È una situazione abbastanza semplice, e intendo dirglielo proprio così. Ci metta dei buoni soldati, ce li lasci, e faccia in modo che siano abbastanza contenti da svolgere il loro lavoro. A me sembra semplice. E non ho intenzione di trasformarlo in una danza diplomatica.» Si mosse pesantemente nel letto, poi bruscamente mi girò la schiena. «Spegni la lanterna, Charim.» E Charim obbedì, così improvvisamente che mi ritrovai in piedi nell'oscurità e dovetti uscire a tentoni dalla camera per tornare al mio giaciglio. Mentre mi stendevo, riflettei che Veritas vedeva ben poco del quadro completo. Poteva costringere Kelvar a munire la torre, certo. Ma non poteva costringerlo a usare buoni soldati, o a esserne orgoglioso. Quello era il campo della diplomazia. E non si preoccupava delle strade e della manutenzione delle fortificazioni e del problema dei briganti. Bisognava porre rimedio a tutto questo, in modo che l'orgoglio di Kelvar rimanesse intatto, e che la sua posizione con messer Shemshy venisse corretta e allo stesso tempo rafforzata. E qualcuno doveva dedicarsi a insegnare a dama Grazia le sue responsabilità. Tanti problemi. Ma non appena la mia testa toccò il cuscino, mi addormentai. 9 Ficca strutto Il Matto giunse a Castelcervo nel diciassettesimo anno di regno di re Sagace. È uno dei pochi fatti che si conoscono di lui. Si dice che fosse un dono da parte dei mercanti di Borgomago, ma le sue origini possono solo
essere ipotizzate. Sono sorte diverse storie. Secondo una versione, il Matto sarebbe un prigioniero dei Pirati della Nave Rossa, a cui i mercanti di Borgomago lo strapparono. Un'altra è che il Matto fu trovato da bambino alla deriva su una piccola barca, difeso dal sole da un ombrellino di pelle di squalo e protetto dagli scossoni da un letto di erica e lavanda. Questa può essere liquidata come una creazione fantastica. Non abbiamo alcuna informazione sulla vita del Matto prima del suo arrivo alla corte di re Sagace. Il Matto nacque quasi certamente dalla razza umana, anche se non da genitori interamente umani. Le voci secondo cui sarebbe nato dagli Altri sono quasi certamente false, poiché le dita delle sue mani e dei piedi sono del tutto libere da membrane, e non ha mai mostrato la minima paura dei gatti. Le insolite caratteristiche fisiche del Matto (per esempio la mancanza di colorito) sembrano tratti della sua ascendenza aliena, piuttosto che un'aberrazione individuale, anche se in questo potrei benissimo sbagliarmi. Ciò che non sappiamo del Matto è quasi più significativo di ciò che sappiamo. L'età del Matto al tempo del suo arrivo a Castelcervo è stata motivo di congetture. Per esperienza personale, posso testimoniare che il Matto appariva molto più giovane, e sotto tutti gli aspetti più infantile di adesso. Ma dato che il Matto mostra pochi segni di invecchiamento, può darsi che non fosse così giovane come appariva inizialmente, ma fosse piuttosto alla fine di una infanzia prolungata. Del sesso del Matto è stato discusso. Quando una volta gli fu posta una domanda diretta da una persona più giovane e più sfacciata di quanto sia io ora, il Matto replicò che erano solo affari suoi. Quindi tralascio l'argomento. Per quanto riguarda la sua precognizione e le forme fastidiosamente vaghe che essa assume, non c'è accordo se si tratti della manifestazione di un talento razziale o individuale. Alcuni ritengono che il Matto conosca tutto in anticipo, e anche che sappia sempre se qualcuno da qualche parte parla di lui. Altri dicono che semplicemente gli piaccia moltissimo la frase «Te l'avevo detto!» e che sappia prendere le proprie affermazioni più oscure e trasformarle in profezie a posteriori. Forse a volte è stato così, eppure in molti casi e alla presenza di molti testimoni ha previsto, per quanto oscuramente, eventi che in seguito si sono verificati. La fame mi svegliò poco dopo mezzanotte. Giacqui nel letto, ascoltando
il brontolio del mio stomaco. Chiusi gli occhi, ma il languore era tale da darmi la nausea. Mi alzai e a tentoni raggiunsi la tavola dove prima si trovava il vassoio di sformato di Veritas, ma i domestici lo avevano portato via. Aprendo cautamente la porta della camera, uscii nel corridoio in penombra. I due uomini che Veritas vi aveva appostato mi guardarono con fare interrogativo. «Sto morendo di fame» dissi loro. «Avete visto dove sono le cucine?» Non ho mai incontrato un soldato che non conoscesse la posizione delle cucine. Li ringraziai, e promisi di portare su qualcosa anche per loro. Scivolai fra le ombre del corridoio. Mentre scendevo le scale, mi sembrava strano sentire sotto i piedi il legno anziché la pietra. Camminavo come mi aveva insegnato Umbra, appoggiando i piedi silenziosamente, muovendomi entro le zone più ombreggiate dei passaggi, camminando lungo il lato dove era meno probabile che le assi del pavimento scricchiolassero. E mi veniva naturale. Il resto della fortezza sembrava profondamente addormentato. Le poche guardie che incontrai per lo più sonnecchiavano; nessuno mi chiese spiegazioni. All'epoca lo attribuii al mio camminare furtivo; ora ho il dubbio che un ragazzino smilzo e spettinato non fosse considerato una gran minaccia. Trovai facilmente le cucine. Era una grande stanza aperta, con pavimento e pareti di pietra come difesa contro gli incendi. C'erano tre grandi focolari, con i fuochi ben alimentati per la notte. Malgrado fosse così tardi, o così presto, la stanza era ben illuminata. La cucina di una fortezza non è mai completamente addormentata. Vidi le pentole coperte e sentii l'odore del pane che lievitava. Una grande pentola di stufato era tenuta in caldo sull'orlo di un focolare. Gettai un'occhiata sotto il coperchio: nessuno si sarebbe accorto che ne mancava una scodella o due. Cercai il necessario e mi servii. Alcune pagnotte avvolte in un panno su un ripiano mi fornirono la crosta per raccogliere il sugo, e in un altro angolo c'era un barile di burro mantenuto al fresco dentro una grossa botte d'acqua. Niente di elaborato, tutto sommato, ma solo il cibo onesto e semplice che avevo desiderato per tutta la giornata. Ero a metà della seconda scodella quando sentii un lieve fruscio di passi. Alzai lo sguardo con il mio sorriso più disarmante, sperando che questa cuoca avrebbe dimostrato un cuore tenero come quella di Castelcervo. Ma era una sguattera, con una coperta gettata sulle spalle sopra alla camicia da
notte e un bambino in braccio. Stava piangendo. Distolsi lo sguardo a disagio. In ogni modo, la ragazza mi guardò a malapena. Appoggiò il bambino avvolto in panni sul tavolo, prese una scodella e attinse acqua fresca, continuando a sussurrare. Si chinò sul bambino. «Ecco, mio dolce agnellino. Ecco, tesoro mio. Questo ti farà bene. Bevine un po'. Oh, piccolino, non riesci neanche a leccare? Apri la bocca, allora. Forza, apri la bocca.» Non potei fare a meno di guardare. Teneva goffamente la scodella e cercava di appoggiarla alla bocca del bambino. Stava usando l'altra mano per costringerlo ad aprire la bocca, e usando molta più forza di quanto avessi mai visto fare a una madre con un bambino. Inclinò la scodella, e l'acqua traboccò. Sentii un gorgoglio strozzato, e poi il suono di un conato di vomito. Mentre balzavo in piedi per protestare, la testa di un cagnolino emerse dal fagotto. «Oh, sta soffocando di nuovo! Sta morendo! Il mio cucciolo sta morendo e non importa a nessuno tranne che a me. Quello là continua a russare, e io non so cosa fare e il mio tesoro sta morendo!» Si strinse al petto il cagnolino che tossiva e annaspava. Scuoteva freneticamente la piccola testa, e poi parve quietarsi. Se non fossi stato in grado di udire il suo respiro faticoso, avrai giurato che le era morto fra le braccia. I suoi occhi scuri e sporgenti incontrarono i miei, e sentii la forza del panico e del dolore della bestiola. Calmati. «Vediamo un po'» mi sentii dire. «Non gli fai bene tenendolo così stretto. Quasi non respira. Mettilo giù. E tiralo fuori da quel fagotto. Lascia decidere a lui come sta più comodo. Imbacuccato a quel modo, ha troppo caldo, quindi sta cercando di ansimare e tossire tutto in una volta. Dallo a me.» Era più alta di me di tutta la testa e per un momento pensai che avrei dovuto lottare con lei. Ma mi lasciò prendere il fagotto dalle sue braccia, e liberare il cane da diversi strati di tessuto. Lo deposi sul tavolo. La bestiola era in preda all'infelicità. Stava in piedi con la testa penzoloni fra le zampe. Il muso e il petto erano viscidi di saliva, il ventre teso e duro. I conati di vomito ricominciarono. Le piccole fauci si spalancarono, le labbra si ritrassero dai minuscoli denti appuntiti. La lingua rossa rivelava la violenza dei suoi sforzi. La ragazza strillò e balzò in avanti, cercando di afferrarlo di nuovo, ma io la spinsi via in malo modo. «Lascialo stare» le dissi spazientito. «Sta cercando di tirare su, e non può farlo se tu gli schiacci la pancia.»
La ragazza si fermò. «Tirare su?» «Si direbbe che abbia qualcosa bloccato in gola. Per caso ha messo il naso fra le ossa o le piume?» Parve colpita. «C'erano spine nel pesce. Ma erano piccolissime.» «Pesce? Chi è l'idiota che gli ha lasciato mettere il naso nel pesce? Era fresco o andato a male?» Avevo visto quanto poteva star male un cane quando mangiava il salmone marcio e verminoso sulla riva del fiume. Se quella bestiola aveva trangugiato roba del genere, non aveva speranza. «Era fresco, e ben cotto. La stessa trota che ho mangiato io a cena.» «Bene, almeno probabilmente non lo avvelenerà. In questo momento il problema è solo la spina. Ma se la ingoia, è ancora probabile che lo uccida.» La ragazza rimase senza fiato. «No, non è possibile! Non deve morire. Starà bene. Ha soltanto lo stomaco fuori posto. Gli ho solo dato da mangiare troppo. Starà bene! Tu che ne sai, comunque, sguattero?» Io osservai il cucciolo che di nuovo tentava convulsamente di vomitare. Non venne su nulla se non bile gialla. «Non sono uno sguattero. Mi occupo dei cani. Del cane di Veritas, se vuoi saperlo. E se non aiutiamo questo cucciolo, morirà. Molto presto.» Mi osservò, con un misto di ammirazione e orrore sul viso, mentre afferravo fermamente il suo cucciolo. Sto cercando di aiutarti. Lui non mi credeva. Lo costrinsi ad aprire le fauci e gli cacciai due dita in gola. Il cucciolo reagì con conati ancora più violenti, e cercò freneticamente di allontanarmi. Aveva anche bisogno che gli si tagliassero le unghie. Con la punta delle dita sfiorai l'osso. Mossi le dita e lo sentii spostarsi, ma era incastrato di lato nella gola della bestiola. Il cane emise un ululato strozzato e si agitò freneticamente in braccio a me. «Ebbene. Non riuscirà a liberarsene se non lo aiutiamo» sentenziai. La lasciai a gemere e singhiozzare sul cane. Almeno non lo afferrava e non lo schiacciava. Presi una manciata di burro dal barile e la lasciai cadere nella mia ciotola di stufato. Ora mi serviva qualcosa di ricurvo, o un gancio, ma non troppo grosso... Frugai rumorosamente fra le pentole, e finalmente trovai un uncino di metallo con un manico. Forse veniva usato per sollevare dal fuoco le pentole calde. «Siediti» ordinai alla ragazza. Mi guardò a bocca aperta, e poi sedette obbediente sulla panca che le avevo indicato. «Ora tienilo saldamente, fra le ginocchia. E non lasciarlo andare, non
importa se graffia e si agita o guaisce. E tienigli le zampe anteriori, così non mi fa a pezzi mentre mi occupo di lui. Capito?» La ragazza trasse un profondo respiro, poi inghiottì a vuoto e annuì. Le lacrime le correvano per il viso. Le deposi il cane in grembo e con le mie mani misi le sue sul cane. «Tienilo fermo» le ripetei. Afferrai uno gnocchetto di burro. «Userò questo per ungergli la gola. Poi dovrò spalancare le fauci, agganciare l'osso e tirarlo fuori. Sei pronta?» Accennò di sì. Le lacrime avevano smesso di scorrere e le sue labbra erano serrate. Fui felice di vedere che c'era un poco di forza in lei. Ricambiai il cenno. Far andare giù il burro fu la parte più facile. Al cane si bloccò la gola tuttavia, e il suo panico aumentò, urtando il mio autocontrollo con ondate di terrore. Non c'era tempo di fare piano, così gli aprii le fauci con forza, e gli cacciai l'uncino in gola. Sperai di non lacerargli la carne. Ma in tal caso, ebbene, sarebbe morto comunque. Gli girai l'attrezzo in gola mentre si agitava e uggiolava e faceva pipì sulla sua padroncina. L'uncino si agganciò all'osso e io tirai, con regolarità e fermezza. Emerse insieme a un mucchio di bava e bile e sangue. Un brutto ossicino, non una lisca di pesce, ma un pezzo dello sterno di un piccolo uccello. Lo lasciai cadere sul tavolo. «E non dovrebbe mangiare neanche ossa di pollo» la ammonii severamente. Non mi sentì neanche, credo. Il cagnolino ansimava con gratitudine sul suo grembo. Io presi la scodella d'acqua e gliela tesi. Lui l'annusò, diede qualche lappata, e poi si accucciò, sfinito. La ragazza lo raccolse e lo cullò fra le braccia, con la testa china sulla sua. «Voglio che tu faccia qualcosa» chiesi. «Qualsiasi cosa.» Parlò con la bocca contro il pelo del cane. «Chiedi, e sarà tuo.» «Prima di tutto, smettila di dargli la roba che mangi tu. Dagli soltanto carne rossa e grano bollito per un poco. E per un cane di quelle dimensioni, non dargli più di un pugno. E non portarlo in braccio dappertutto. Fallo correre, così sviluppa un po' di muscoli e si consuma le unghie. E lavalo. Ha il pelo e l'alito che puzzano per il cibo troppo ricco. Se non lo fai, non vivrà più di un paio d'anni.» La ragazza alzò lo sguardo, sgomenta. Si porto la mano alla bocca. E qualcosa nel suo movimento, così simile al modo in cui a cena giocherellava imbarazzata con i gioielli, improvvisamente mi fece comprendere chi
stavo rimproverando. Dama Grazia. E io avevo appena lasciato che il suo cane le facesse pipì sulla camicia da notte. Qualcosa nella mia espressione dovette tradirmi. La dama sorrise di gioia e strinse più forte il cucciolo. «Farò come suggerisci, ragazzo dei cani. Ma per te? Non vuoi nulla come ricompensa?» Credeva che avrei chiesto una moneta o un anello o perfino una posizione fra i suoi domestici. Invece, con tutta la calma che potevo, la guardai e dissi: «Per favore, dama Grazia. Desidero che voi chiediate al vostro signore di mandare alla torre dell'Isola di Guardia una guarnigione dei suoi uomini migliori, per porre fine alla contesa fra i ducati di Acquemosse e Costabassa.» «Cosa?» Quella semplice parola mi rivelò moltissimo di lei. L'accento e l'inflessione non erano da dama Grazia. «Chiedete al vostro signore di munire bene le sue torri. Per favore.» «Perché un ragazzo dei cani si preoccupa di queste cose?» Una domanda troppo brusca. Dovunque Kelvar l'avesse trovata, non era stata di nobile nascita, o ricca, prima di diventare duchessa. La gioia quando l'avevo riconosciuta, il modo in cui aveva portato il suo cane al familiare conforto di una cucina, da sola, avvolta in una coperta, tutto parlava di una ragazza del popolo che aveva fatto molta strada troppo in fretta, sollevandosi troppo in alto al di sopra della sua precedente posizione. Si sentiva sola e incerta, e non le era stato spiegato che cosa ci si aspettava da lei. Peggio, sapeva di essere ignorante, e quella conoscenza la divorava e amareggiava con la paura i suoi piaceri. Se non avesse imparato a fare la duchessa prima che la sua gioventù e la sua bellezza svanissero, l'attendevano solo anni di solitudine. Aveva bisogno di un consigliere, un tutore segreto, come Umbra. Aveva bisogno del consiglio che io le potevo dare in quel momento. Ma dovevo fare attenzione, perché non avrebbe accettato suggerimenti da un ragazzo dei cani. Soltanto una popolana avrebbe potuto farlo, e la sola cosa che lei sapeva di se stessa in quel momento era che non era più una popolana ma una duchessa. «Ho fatto un sogno» dissi, improvvisamente ispirato. «Era così nitido. Come una visione. O un avvertimento. Mi ha svegliato, e ho sentito che dovevo scendere in cucina.» Lasciai che i miei occhi divenissero vaghi. I suoi si spalancarono. Era in trappola. «Ho sognato una donna, che pronunciava parole di saggezza e trasformava tre uomini forti in un muro compatto che i Pirati della Nave Rossa non potevano infrangere. Ella si presenta-
va a loro e, tenendo dei gioielli fra le mani, diceva: 'Le torri di guardia splendano più luminose delle gemme in questi anelli. I vigili soldati che vi prestano servizio circondino le nostre coste come queste perle un tempo circondavano il mio collo. Le fortezze siano di nuovo rinforzate contro coloro che minacciano la nostra gente. Perché io sarei felice di camminare senza orpelli sotto lo sguardo di re e popolani, e far sì che le difese che proteggono il popolo diventino i gioielli della nostra terra'. E il re e i suoi duchi rimasero sbalorditi per la saggezza del suo cuore e la nobiltà del suo portamento. Ma il suo popolo l'amò più di tutti, perché sapevano che lei lo amava più dell'oro e dell'argento.» Un discorso goffo, non le parole astute che avevo sperato. Ma colpì la sua fantasia. Vidi che si immaginava in piedi diritta e nobile davanti al re e lo sbalordiva con il suo sacrificio. Avvertivo in lei il desiderio bruciante di distinguersi, di essere lodata dal popolo da cui proveniva. Avrebbe dimostrato loro che non era una duchessa solo di nome. Messer Shemshy e il suo seguito avrebbero riferito della sua impresa nel ducato di Costabassa. I menestrelli avrebbero celebrato nelle canzoni le sue parole. E per una volta suo marito sarebbe rimasto sorpreso da lei. Che la vedesse come una donna che si preoccupava per la terra e per il popolo, piuttosto che come la graziosa fanciulla che aveva intrappolato con il suo titolo. Potevo quasi vedere i pensieri che si rincorrevano nella sua mente. I suoi occhi erano distanti e il sorriso distratto. «Buonanotte, ragazzo dei cani» disse piano, e scivolò fuori dalla cucina, con il cucciolo raccolto contro il petto. Portava la coperta attorno alle spalle come se fosse stato un mantello di ermellino. L'indomani avrebbe recitato il suo ruolo molto bene. Sorrisi improvvisamente, chiedendomi se avevo compiuto la mia missione senza fare uso del veleno. Non che avessi davvero indagato se Kelvar fosse colpevole di tradimento o meno; ma avevo la sensazione di aver risolto il problema alla radice. Ero pronto a scommettere che la torre dell'Isola di Guardia sarebbe stata ben munita prima della fine della settimana. Ritornai al mio letto. Avevo sottratto una pagnotta di pane fresco dalla cucina e la offrii alle guardie quando mi fecero rientrare nella camera da letto di Veritas. In qualche lontana parte di Guardabaia una voce possente scandiva le ore. Non vi prestai molta attenzione. Sprofondai nel mio giaciglio, con lo stomaco soddisfatto e lo spirito ansioso di vedere lo spettacolo che dama Grazia avrebbe presentato l'indomani. Mi assopii scommettendo con me stesso che avrebbe indossato qualcosa di pratico e semplice e bian-
co, e che avrebbe avuto i capelli sciolti. Non lo scoprii mai. Pochi momenti dopo, così mi parve, qualcuno mi stava scuotendo. Aprii gli occhi e trovai Charim chino sopra di me. La fioca luce di una candela proiettava lunghe ombre sulle pareti della camera. «Svegliati, Fitz» fu il suo sussurro rauco. «È arrivato un messaggero alla fortezza, da parte di dama Maggiorana. Richiede immediatamente il tuo servizio. Stanno preparando il tuo cavallo.» «Vuole me?» chiesi stupidamente. «Naturalmente. Ti ho messo fuori i vestiti. Preparati in silenzio. Veritas dorme ancora.» «Perché ha bisogno di me?» «Ecco, non lo so. Il messaggio non era particolarmente dettagliato. Forse si è ammalata, Fitz. Il messaggero ha detto che ti voleva immediatamente. Credo che lo scoprirai quando arriverai là.» Questo era di scarso conforto. Ma bastò a suscitare la mia curiosità, e in ogni caso dovevo andare. Non sapevo esattamente in che rapporti dama Maggiorana fosse con il re, ma quanto a importanza era molto al di sopra di me. Non osavo ignorare il suo ordine. Mi vestii velocemente alla luce della candela e lasciai la mia stanza per la seconda volta quella notte. Mani aveva Fuliggine pronta e sellata, insieme a un paio di battute ribalde sulla mia convocazione. Gli suggerii il modo di divertirsi per il resto della notte e poi me ne andai. Le guardie, avvisate della mia venuta, mi fecero uscire dalla fortezza e passare attraverso le fortificazioni con un cenno. In città presi due volte la strada sbagliata. Di notte tutto appariva diverso, e quel giorno non avevo badato molto al percorso. Alla fine mi trovai nel cortile della taverna. L'ostessa preoccupata era sveglia e aveva una luce alla finestra. «Si lamenta e ti chiama da quasi un'ora, ormai, ragazzo» mi disse ansiosamente. «Temo che sia una cosa seria, ma non vuole lasciar entrare nessuno tranne te.» Mi affrettai per il corridoio fino alla porta della dama. Bussai cautamente, quasi aspettandomi la sua voce stridula che mi diceva di andarmene e smettere di seccarla. Invece una voce tremante chiamò: «Oh, Fitz, finalmente sei tu, sbrigati, ragazzo. Ho bisogno di te.» Trassi un profondo respiro e sollevai il saliscendi. Entrai nella semioscurità della stanza senz'aria, cercando di non inalare i vari odori che mi assalirono le narici. La puzza della morte non poteva essere molto peggio di così, pensai. Pesanti cortine circondavano il letto. La sola luce della stanza proveniva
da una singola candela che sfrigolava nella sua bugia. La presi e mi avventurai più vicino al letto. «Dama Maggiorana?» chiesi piano. «Cosa vi succede?» «Ragazzo.» La voce giunse sommessa da un angolo buio della stanza. «Umbra» dissi, e immediatamente mi sentii tanto stupido che non posso neanche ripensarci. «Non c'è tempo per spiegare tutto. Non restarci male, ragazzo. Dama Maggiorana ha imbrogliato molti, e continuerà a farlo. Almeno spero. Dunque. Fidati di me e non fare domande. Fai solo quello che ti dico. Per prima cosa, vai dall'ostessa. Dille che dama Maggiorana ha avuto uno dei suoi attacchi e che deve riposare in assoluta tranquillità per qualche giorno. Dille di non disturbarla per nessun motivo. Verrà la sua bisnipote a occuparsi di lei.» «Chi...» «È già stato organizzato. E la sua bisnipote le porterà da mangiare e tutto ciò che le serve. Tu limitati a ribadire che dama Maggiorana ha bisogno di tranquillità e di essere lasciata sola. Vai ora, sbrigati.» Obbedii, ed ero abbastanza scosso da apparire molto convincente. L'ostessa mi promise che non avrebbe neppure permesso che qualcuno bussasse alla porta, perché le sarebbe dispiaciuto perdere la buona opinione che dama Maggiorana aveva della sua taverna, e le sue visite. Da ciò dedussi che dama Maggiorana la pagava davvero generosamente. Rientrai in silenzio nella stanza, chiudendo piano la porta dietro di me. Umbra mise il catenaccio e con il mozzicone palpitante accese una candela nuova. Accanto distese sul tavolo una piccola mappa. Notai che indossava vestiti da viaggio - mantello, stivali, giustacuore e pantaloni tutti neri. Sembrava improvvisamente un uomo diverso, energico e in forma. Mi chiesi se anche il vecchio con la vestaglia logora era una posa. Gettò un'occhiata verso di me, e per un momento avrei giurato che l'uomo che mi stava davanti era Veritas il soldato. Non mi diede il tempo di rifletterci. «Le cose fra Veritas e Kelvar dovranno andare come è destino che vadano. Tu e io abbiamo da fare altrove. Stanotte ho ricevuto un messaggio. I Pirati della Nave Rossa hanno colpito, in questo punto, a Forgia. Tanto vicino a Castelcervo che è più che un semplice insulto; è una vera minaccia. E tutto mentre Veritas è a Baia Ridente. Non dirmi che non sapevano che si trovava qui, lontano da Castelcervo. Ma non è tutto. Hanno preso alcuni ostaggi, li hanno portati alle loro navi. E hanno mandato un messaggio a Castelcervo, a re Sagace in persona. Chiedono oro, mucchi d'oro,
o riporteranno gli ostaggi al villaggio.» «Vuoi dire che li uccideranno se non avranno l'oro?» «No.» Umbra scosse la testa irritato, come un orso infastidito dalle api. «No, il messaggio era molto chiaro. Se il riscatto verrà pagato, li uccideranno. Se no, li libereranno. Il messaggero era di Forgia, un uomo a cui hanno preso la moglie e il figlio. Ha insistito che la minaccia era corretta.» «Non vedo il problema» dissi ironicamente. «A un primo sguardo, neppure io. Ma l'uomo che ha portato il messaggio a Sagace stava ancora tremando, malgrado la lunga cavalcata. Non riusciva a spiegare, neppure per dire se pensava che il riscatto dovesse essere pagato oppure no. Tutto quello che poteva fare era ripetere continuamente che il capitano della nave aveva sorriso mentre riferiva l'ultimatum, e che gli altri pirati avevano sghignazzato. «E così andiamo a vedere, tu e io. Adesso. Prima che il re reagisca ufficialmente, prima ancora che Veritas lo venga a sapere. Ora ascoltami. Questa è la strada da cui siamo venuti. Vedi come segue la curva della costa? E questa è la pista che percorreremo. Più dritta, ma molto più erta e paludosa in alcuni punti, tanto che non è mai stata usata dai carri. Ma più veloce per uomini a cavallo. Qui, ci aspetta una piccola barca; attraverseremo la baia, risparmiando parecchie miglia e parecchio tempo. Prenderemo terra qui, e poi proseguiremo per Forgia.» Studiai la mappa. Forgia era a nord di Castelcervo; mi chiesi quanto aveva impiegato il nostro messaggero a raggiungerci, e se una volta che fossimo arrivati lì la minaccia dei Pirati della Nave Rossa sarebbe già stata messa in atto. Ma era inutile sprecare tempo in domande. «E il cavallo per te?» «L'uomo che ha portato questo messaggio ci ha già pensato. Fuori c'è un baio con tre zampe bianche. È per me. Il messaggero fornirà anche una bisnipote per dama Maggiorana, e la barca ci aspetta. Andiamo.» «Una cosa» dissi ignorando la sua smorfia di disapprovazione. «Devo chiederlo, Umbra. Sei venuto con noi perché non ti fidavi di me?» «Una domanda onesta, suppongo. No. Ero qui per ascoltare le chiacchiere delle donne in città, così come tu dovevi tenere le orecchie aperte alla fortezza. Le modiste e le venditrici di bottoni possono saperne di più del consigliere di un re supremo, senza neppure sapere che lo sanno. Dunque. Partiamo?» Partimmo. Ce ne andammo dall'entrata secondaria, e il baio era legato proprio fuori. A Fuliggine non piaceva molto, ma si comportò da signora.
Umbra era impaziente e io potevo percepirlo, eppure mantenne i cavalli a un passo tranquillo finché non ci lasciammo alle spalle le strade lastricate di Baia Ridente. Una volta che le luci delle case furono dietro di noi, spronammo i cavalli a un'andatura regolare. Umbra apriva la strada, e io ero sorpreso da come cavalcava bene, e come sceglieva senza sforzo i sentieri nell'oscurità. A Fuliggine quel rapido viaggio notturno non piaceva. Se non fosse stato per la luna quasi piena, non credo che avrei potuto persuaderla a tenere il passo del baio. Non dimenticherò mai quella cavalcata nella notte. Non perché fosse una selvaggia galoppata verso un salvataggio, ma perché non lo era. Umbra manovrò il gioco e usò i cavalli come pezzi su una scacchiera. Non giocava velocemente, ma per vincere. E quindi c'erano momenti in cui facevamo camminare i cavalli per lasciarli riposare, e zone in cui smontavamo e li guidavamo per le redini in modo che superassero con sicurezza terreni infidi. Mentre il mattino ingrigiva il cielo, ci fermammo per consumare alcune provviste dalle borse da sella di Umbra. Eravamo sulla cima di una collina coperta di alberi tanto fitti che potevamo appena intravedere il cielo sopra la testa. Io udivo l'oceano, e ne sentivo l'odore, ma non riuscivo a scorgerlo. Il nostro percorso era diventato un sentiero sinuoso attraverso quei boschi, poco più di una pista di cervi. Ora che eravamo immobili, potevo sentire e odorare la vita tutto intorno. Gli uccelli cantavano, e i piccoli animali frusciavano nel sottobosco e fra i rami sopra di noi. Umbra si stiracchiò, poi si lasciò cadere seduto sul muschio spesso con la schiena contro un albero. Bevve profondamente da un otre d'acqua, e poi più brevemente da una fiaschetta di liquore. Appariva stanco, e la luce del giorno rivelava la sua età più crudelmente di quanto avesse mai fatto la lanterna. Mi chiesi se sarebbe arrivato in fondo al viaggio o se sarebbe crollato prima. «Starò bene» disse quando mi sorprese a fissarlo. «Ho visto missioni più difficili di questa, e in cui ho dormito molto meno. E poi, avremo a disposizione cinque o sei ore di riposo sulla barca, se il tragitto fila liscio. Quindi non c'è bisogno di desiderare il sonno. Andiamo, ragazzo.» Circa due ore dopo arrivammo a un bivio, e di nuovo prendemmo il ramo meno battuto. In breve mi trovai praticamente sdraiato sul collo di Fuliggine per evitare la sferza dei rami bassi. Sotto gli alberi il terreno era paludoso, e moltitudini di minuscole mosche affamate torturavano i cavalli e strisciavano nei miei vestiti in cerca di carne con cui abbuffarsi. Erano
così fitte che, quando finalmente radunai il coraggio di chiedere a Umbra se avevamo sbagliato strada, quasi soffocai per la nuvola che mi si infilò in bocca. A mezzogiorno emergemmo sul fianco della collina, più aperto e battuto dal vento. Ancora una volta vidi l'oceano. Il vento rinfrescò i cavalli sudati e spazzò via gli insetti. Semplicemente, poter stare di nuovo seduto dritto in sella era un piacere intenso. Il sentiero era abbastanza ampio da permettermi di cavalcare a fianco di Umbra. Le macchie livide risaltavano crudelmente sulla sua pelle pallida; sembrava ancora più dissanguato del Matto. Cerchi scuri gli bordavano gli occhi. Mi sorprese mentre lo fissavo e aggrottò la fronte. «Fammi rapporto, invece di fissarmi come un sempliciotto» mi ordinò seccamente, e io obbedii. Era difficile guardare la pista e il suo viso allo stesso tempo, ma la seconda volta che sbuffò gli gettai un'occhiata e lo vidi ironicamente divertito. Terminai il mio rapporto e lui scosse la testa. «Fortuna. La stessa fortuna di tuo padre. La tua diplomazia da cucina potrebbe bastare a capovolgere la situazione; se il problema era tutto qui. I pochi pettegolezzi che ho sentito concordano. Bene. Kelvar è stato un buon duca in passato, e a quanto pare la sua giovane moglie gli è semplicemente andata alla testa.» Sospirò all'improvviso. «Comunque, è una brutta situazione, con Veritas che rimprovera un uomo perché non bada alle sue torri, e si ritrova lui stesso con una razzia in un villaggio di Castelcervo. Dannazione! Ci sono così tante cose che non sappiamo. Come hanno fatto i pirati a superare le nostre torri senza farsi vedere? Come facevano a sapere che Veritas era lontano da Castelcervo? Ma lo sapevano, o è stata pura fortuna? E che cosa significa quello strano ultimatum? È una minaccia, o una presa in giro?» Per un momento cavalcammo in silenzio. «Vorrei sapere cosa intende fare Sagace. Quando mi ha mandato il messaggero, non aveva ancora deciso. Potremmo arrivare a Forgia e scoprire che è già tutto sistemato. E vorrei sapere esattamente che tipo di messaggio ha trasmesso a Veritas con l'Arte. Dicono che un tempo, quando i praticanti dell'Arte erano più numerosi, un uomo poteva comprendere quello che il suo capo stava pensando semplicemente rimanendo silenzioso in ascolto per un poco. Ma può essere solo una leggenda. Non molti imparano l'Arte, ormai. Credo che sia stato re Generoso a deciderlo. Se mantieni l'Arte più segreta, uno strumento per pochi, diventa più preziosa. Era quella la logica, allora. Non l'ho mai capita molto. E se facessero lo stesso con i
bravi arcieri, o con i nocchieri? Comunque, suppongo che l'aura di mistero possa accrescere il prestigio di un capo fra i suoi uomini... e a un uomo come Sagace, adesso, piacerebbe far sospettare ai suoi sottoposti che può veramente capire quello che pensano senza che dicano una parola. Sì, a Sagace piacerebbe, gli piacerebbe proprio.» Dapprima pensai che Umbra fosse molto preoccupato, o addirittura arrabbiato. Non l'avevo mai sentito divagare così su un argomento. Ma quando il suo cavallo evitò uno scoiattolo che attraversò il sentiero, Umbra fu quasi disarcionato. Tesi la mano e afferrai le redini. «Stai bene? Che succede?» Umbra scosse la testa lentamente. «Non è niente. Quando arriveremo alla barca, starò bene. Dobbiamo soltanto andare avanti. Ormai non è molto distante.» La sua pelle pallida era diventata grigia, e l'uomo oscillava sulla sella a ogni passo del cavallo. «Riposiamoci un poco» suggerii. «Le maree non aspettano. E il riposo non mi aiuterebbe, non se passassi il tempo a pensare alla nostra barca che finisce sulle rocce. No. Dobbiamo andare avanti.» E aggiunse: «Fidati di me, ragazzo. Conosco i miei limiti, e non sono così sciocco da tentare di superarli.» E così andammo avanti. Non c'era molto altro da fare. Ma io cavalcavo vicino alla testa del suo cavallo, dove potevo afferrare le redini al bisogno. Il suono dell'oceano si fece più forte, e la pista molto più ripida. Presto mi trovai ad aprire la strada, che lo volessi o no. Uscimmo completamente dal sottobosco su un'altura sopra una spiaggia sabbiosa. «Grazie a Eda, sono qui» mormorò Umbra dietro di me, e poi vidi il battello dal fondo piatto pressoché insabbiato vicino al capo. Un uomo di guardia ci lanciò un richiamo e agitò il cappello in aria. Io sollevai il braccio per restituirgli il saluto. Scendemmo, scivolando più che cavalcando, e Umbra salì a bordo immediatamente. Così io rimasi con i cavalli. Nessuno dei due era ansioso di avventurarsi fra le onde, figuriamoci scavalcare la bassa murata per salire sul ponte. Provai a cercare verso di loro, perché capissero le mie richieste. Per la prima volta nella mia vita, scoprii che ero semplicemente troppo stanco. Non riuscivo a concentrarmi a sufficienza. Così per caricarli a bordo furono necessari tre marinai che imprecavano profusamente, e due tuffi nell'acqua per me. Ogni pezzo di cuoio e ogni fibbia dei finimenti era inzuppata di acqua salata. Come avrei fatto a spiegarlo a Burrich? Riuscii a
pensare solo a quello mentre mi sistemavo a prua e guardavo i rematori del battello piegare la schiena sui remi e portarci verso le acque più profonde. 10 Il Butterato Il tempo e la marea non aspettano nessuno. È un proverbio antichissimo. I marinai e i pescatori lo usano semplicemente per dire che la tabella di marcia di una barca è determinata dall'oceano, non dalla convenienza dell'uomo. Ma a volte, mentre giaccio qui, dopo che il tè ha calmato il peggio del dolore, ci penso. Le maree non aspettano nessuno, e so che questo è vero. Ma il tempo? Forse i tempi in cui sono nato aspettavano la mia nascita? Forse gli eventi si sono incastrati sferragliando come le grandi ruote dentate di legno dell'orologio di Sayntanns, provocando il mio concepimento e sospingendomi verso la vita? Non pretendo di essere stato un grande uomo. Eppure, se io non fossi nato, se i miei genitori non avessero ceduto a un impeto di lussuria, tante cose sarebbero diverse. Tante cose. Migliori? Non penso. E poi batto le palpebre e cerco di concentrare lo sguardo, e mi chiedo se questi pensieri vengano da me o dalla droga nel mio sangue. Sarebbe bello chiedere consiglio a Umbra, un'ultima volta. Il sole era disceso nel tardo pomeriggio quando un marinaio mi svegliò con una lieve spinta del piede. «Il tuo padrone ti vuole» disse semplicemente, e io mi riscossi di scatto. I gabbiani che roteavano in cielo, l'aria fresca del mare e il dignitoso ondeggiare della barca mi ricordarono dov'ero. Mi rimisi in piedi, vergognandomi di essermi addormentato senza neppure chiedermi se Umbra stava comodo; mi precipitai a poppa nel cassero del battello. Là scoprii che Umbra si era impadronito del minuscolo tavolo della cambusa. Vi aveva steso una mappa e la stava studiando, ma ciò che attirò la mia attenzione fu un grosso recipiente di zuppa di pesce. Senza distogliere l'attenzione dalla mappa, Umbra mi fece cenno di favorire, e io fui felice di avventarmi sulla zuppa. C'erano anche gallette da marinaio e un vino rosso inacidito. Non mi ero reso conto di quanta fame avessi. Stavo raschiando il mio piatto con un pezzo di galletta, quando Umbra mi chiese: «Meglio?» «Molto» risposi io. «E tu?»
«Meglio» assicurò lui, e mi guardò con il suo familiare sguardo da falco. Con sollievo notai che sembrava essersi ripreso del tutto. Spostò di lato i miei piatti e mi spinse davanti la mappa. «Entro questa sera» disse «saremo qui. Lo sbarco sarà più brutto di quanto sia stata la partenza. Se siamo fortunati, avremo il vento quando ci serve. Altrimenti perderemo la marea migliore, e la corrente sarà più forte. Potremmo essere costretti a portare a riva i cavalli a nuoto. Spero di no, ma tu stai pronto, in ogni caso. Una volta sbarcati...» «Puzzi di semi di carris.» Non credevo alle mie stesse parole. Ma avevo colto nel suo alito l'inconfondibile olezzo dolciastro dei semi e dell'olio. Avevo già assaggiato i dolci di semi di carris, alla Festa della Primavera, quando li assaggiano tutti, e conoscevo l'energia folle che perfino una spruzzata appena di semi su un dolce può generare. Tutti celebravano il Culmine della Primavera in quel modo. Una volta all'anno, che male poteva fare? Ma sapevo anche che Burrich mi aveva avvertito di non comprare mai un cavallo che puzzasse di semi di carris. E mi aveva anche detto che, se avesse sorpreso qualcuno a versare olio di semi di carris nel grano di uno dei nostri cavalli, l'avrebbe ucciso. A mani nude. «Davvero? Che buffo. Ora, se dovrai far nuotare i cavalli, ti suggerisco di mettere la tua camicia e il mantello in una borsa cerata e di lasciarla a me sulla scialuppa. In questo modo resteranno asciutti e avrai almeno quelli da indossare quando raggiungeremo la spiaggia. Dalla spiaggia, la nostra strada ci...» «Burrich dice che, quando lo dai a un animale, quell'animale non è più lo stesso. Fa cose strane ai cavalli. Dice che puoi usarlo per vincere una gara, o inseguire un cervo, ma dopo la bestia non sarà più quella che era. Dice che i mercanti disonesti lo usano per far fare bella figura ai loro cavalli al mercato; conferisce vivacità e occhi lucenti, ma l'effetto passa in fretta. Burrich dice che impedisce loro di capire quando sono stanchi, così vanno avanti oltre il punto in cui crollerebbero per la stanchezza. Mi ha detto che a volte, quando l'effetto dell'olio termina, il cavallo semplicemente crolla dove si trova.» Le parole mi si riversarono fuori, come acqua fredda sulle pietre. Umbra alzò lo sguardo dalla mappa. Mi fissò con calma. «Curioso che Burrich sappia tante cose sui semi di carris. Sono contento che tu lo abbia ascoltato così attentamente. Ora forse sarai così gentile da concedermi pari attenzione mentre prepariamo il passo successivo del nostro viaggio.» «Ma Umbra...»
Lui mi trapassò con lo sguardo. «Burrich è un bravo maniscalco. Perfino da ragazzo mostrava di essere molto promettente. Raramente si sbaglia... quando si tratta di cavalli. Ora presta attenzione a quello che sto dicendo. Ci servirà una lanterna per salire dalla spiaggia alle rupi soprastanti. Il sentiero è molto sconnesso; potremo aver bisogno di portare su un cavallo alla volta. Ma mi dicono che si può fare. Da lì, raggiungeremo Forgia via terra. Non c'è una strada che ci porti laggiù abbastanza in fretta. È una zona collinosa, ma non boscosa. E viaggeremo di notte, quindi le stelle dovranno essere la nostra mappa. Spero di raggiungere Forgia a metà pomeriggio. Arriveremo come viaggiatori, tu e io. È tutto quello che ho deciso finora; il resto dovrà essere progettato di ora in ora...» E il momento in cui avrei potuto chiedergli come poteva usare i semi e non morire era passato, spazzato via dai suoi piani accurati e dai suoi dettagli precisi. Per un'altra mezz'ora mi fece la predica affinando ogni particolare, e poi mi congedò dalla cabina, dicendo che aveva altre cose da sistemare prima della partenza e che dovevo controllare i cavalli e riposare quanto potevo. I cavalli erano a prua, in un recinto improvvisato con una corda legata sul ponte. La paglia proteggeva il ponte da zoccoli ed escrementi. Un nostromo dal viso acido stava aggiustando un pezzo di murata che Fuliggine aveva abbattuto con un calcio salendo a bordo. Non sembrava in vena di chiacchiere, e i cavalli erano abbastanza tranquilli e comodi, date le circostanze. Passeggiai brevemente sul ponte. Eravamo su un'imbarcazione ordinata, un battello per il commercio fra le isole, più largo che profondo. La chiglia piatta gli permetteva di risalire i fiumi o attraccare sulle rive sabbiose senza danni, ma il suo passaggio per acque più profonde lasciava molto a desiderare. Avanzava barcollante, rollando di qui e beccheggiando di là, come una contadina carica che si apre la strada attraverso un mercato affollato. Noi sembravamo il suo unico carico. Un marinaio mi diede un paio di mele da condividere con i cavalli, ma mi disse ben poco. Così, dopo aver spartito la frutta, mi sistemai vicino ai cavalli sulla loro paglia e riposai seguendo il consiglio di Umbra. I venti ci furono propizi, e il capitano ci portò incredibilmente vicini alle rupi incombenti, ma scaricare i cavalli dal vascello fu comunque un compito spiacevole. Tutte le prediche e gli avvertimenti di Umbra non mi avevano preparato al buio della notte sull'acqua. Le lanterne sul ponte sembravano sforzi patetici, e con le ombre che gettavano mi confondevano più di quanto mi aiutassero con la loro luce fioca. Alla fine, un marinaio portò
Umbra a riva con la scialuppa della nave. Io superai la murata con i cavalli riluttanti, poiché sapevo che Fuliggine si sarebbe ribellata a una cavezza e probabilmente avrebbe fatto affondare la scialuppa. Tenni stretta Fuliggine e la incoraggiai, confidando che il suo buonsenso ci portasse verso la lanterna fioca sulla riva. Tenevo il cavallo di Umbra legato a una lunga fune, perché non volevo che si agitasse nell'acqua troppo vicino a noi. Il mare era freddo, la notte era nera, e se avessi avuto un po' di buonsenso anch'io avrei desiderato di essere altrove; ma c'è qualcosa in un ragazzo che prende le cose banalmente difficili e spiacevoli e le trasforma in una sfida personale, in un'avventura. Uscii dall'acqua gocciolante, gelato e completamente esaltato. Tenni saldamente le redini di Fuliggine e convinsi il cavallo di Umbra a uscire dall'acqua. Quando li ebbi tutti e due sotto controllo, trovai Umbra accanto a me, con la lanterna in mano, e rideva esultante. Il marinaio con la scialuppa era già lontano, diretto verso il battello. Umbra mi diede i vestiti asciutti, ma infilarli su quelli bagnati non fu di grande aiuto. «Dov'è il sentiero?» chiesi, con la voce che tremava scossa dai brividi. Umbra emise uno sbuffo di derisione. «Sentiero? Ho dato un'occhiata rapida mentre stavi portando a riva il mio cavallo. Non è un sentiero, è poco più del letto dell'acqua quando scende dalle rupi. Ma dovrà bastare.» Era un pochino meglio della sua descrizione, ma non molto. Era stretto e ripido e il pietrisco era scivoloso. Umbra andava avanti con la lanterna. Io lo seguivo, con i cavalli legati insieme. A un certo punto il baio di Umbra si impuntò, tirando le redini, sbilanciandomi e facendo quasi crollare Fuliggine in ginocchio nel suo sforzo di andare nell'altra direzione. Mi rimase il cuore in gola fino a quando non arrivammo in cima alle rupi. Poi la notte e il fianco aperto della collina si schiusero sotto il vascello della luna e le stelle sparse a distesa sopra di noi, e lo spirito della sfida mi travolse di nuovo. Ho il sospetto che fosse l'atteggiamento di Umbra. I semi di carris rendevano i suoi occhi dilatati e splendenti, perfino alla luce della lanterna, e la sua energia, per quanto innaturale, era contagiosa. Perfino i cavalli sembravano influenzati, e sbuffavano e scuotevano la testa. Umbra e io mettemmo i finimenti e montammo in sella ridendo come due dementi. Umbra gettò un'occhiata alle stelle, e poi scrutò il fianco della collina che scendeva davanti a noi. Con incurante disprezzo gettò via la nostra lanterna. «Andiamo!» annunciò alla notte, e spronò il baio che balzò in avanti. Fuliggine non volle farsi lasciare indietro, e così cavalcai come non avevo
mai osato prima, galoppando di notte giù per un terreno sconosciuto. È incredibile come non ci siamo rotti tutti quanti l'osso del collo. Eppure è così; a volte la fortuna è dei pazzi e dei bambini. In quel viaggio mi parve che fossimo entrambe le cose. Umbra apriva la strada e io lo seguivo. Quella notte afferrai un altro pezzo del gioco a incastro che Burrich era sempre stato per me. C'è infatti una pace molto strana nell'affidare il proprio giudizio a qualcun altro, nel dirgli «Tu guida e io ti seguirò, interamente fiducioso che non mi conduci alla morte o al danno.» Quella notte, mentre spingevamo al limite i cavalli e Umbra ci guidava soltanto seguendo il cielo notturno, non pensai a quello che poteva succederci se avessimo deviato dal nostro sentiero, o se un cavallo fosse rimasto ferito per una scivolata improvvisa. Non provavo alcun senso di responsabilità per le mie azioni. Improvvisamente, tutto era semplice e chiaro. Mi limitavo a fare ciò che Umbra mi diceva, e confidavo che lui avrebbe fatto in modo che andasse tutto bene. Il mio spirito cavalcava orgoglioso sulla cresta di quell'ondata di fede, e a volte durante quella notte mi venne in mente che questo era ciò che Burrich aveva avuto da Chevalier, ciò che gli mancava così tanto. Cavalcammo per tutta la notte. Umbra fece riposare i cavalli, ma non spesso come avrebbe fatto Burrich. Si fermò più di una volta per esaminare il cielo notturno, e poi l'orizzonte, per assicurarsi che fosse la direzione giusta. «Vedi quella collina laggiù, contro le stelle? Non la puoi vedere tanto bene, ma la conosco. Alla luce del giorno, ha la forma della berretta di un lattaio. Keefashaw, si chiama. Dobbiamo averla sempre a ovest. Andiamo.» Un'altra volta fece una pausa sulla cima di una collina. Avvicinai il mio cavallo al suo. Umbra sedeva immobile, molto alto e dritto. Avrebbe potuto essere scolpito nella pietra. Poi sollevò un braccio e indicò. La mano gli tremava leggermente. «Vedi quella scarpata laggiù? Siamo arrivati un po' troppo a est. Dovremo correggere la direzione mentre procediamo.» Per me la scarpata era invisibile, un taglio più scuro nel buio del paesaggio illuminato dalle stelle. Mi chiesi come faceva a sapere che era lì. Forse mezz'ora più tardi, fece un cenno verso la nostra sinistra, dove su un'altura brillava una singola luce. «Qualcuno è già sveglio stanotte a Laniera» osservò. «Probabilmente il panettiere, che sta mettendo a lievitare le prime pagnotte della mattina.» Fece un mezzo giro sulla sella e io sentii il suo sorriso, più che vederlo. «Sono nato a meno di un miglio da qui. Vieni, ragazzo, andiamo. Non mi piace pensare ai pirati così vicini a Laniera.»
E andammo avanti, giù per il fianco di una collina così ripida che io sentii i muscoli di Fuliggine contrarsi mentre si appoggiava indietro sui fianchi e praticamente scendeva scivolando. L'alba colorava il cielo prima che io sentissi di nuovo l'odore del mare. Ed era ancora presto quando superammo un'altura e abbassammo lo sguardo sul piccolo villaggio di Forgia. In un certo senso non era un bel posto; l'ancoraggio era buono soltanto con certe maree. Tutte le altre volte le navi dovevano ormeggiare più al largo e venivano collegate alla riva tramite scialuppe. Se Forgia era sulla mappa, era solo per le miniere di ferro. Non mi aspettavo di vedere una città popolosa. Ma neppure ero preparato ai fili di fumo che si levavano da edifici anneriti e senza tetto. Da qualche parte muggiva una mucca non ancora munta. Un pugno di barche da pesca stava proprio davanti alla riva, con gli alberi dritti come scheletri di piante. Il mattino si affacciava sulle strade vuote. «Dove sono gli abitanti?» mi chiesi ad alta voce. «Morti, presi in ostaggio o ancora nascosti nei boschi.» Nella voce di Umbra c'era una tensione che mi spinse a guardarlo in viso. Fui colpito dal dolore che vi lessi. Notò che lo fissavo e scrollò le spalle in silenzio. «La sensazione che questa gente ti appartiene, che il loro disastro è un tuo fallimento... succederà anche a te quando crescerai. Viene con il sangue.» Mi lasciò a rifletterci sopra e spinse gentilmente il suo cavallo stanco. Scendemmo giù per la collina ed entrammo in città. L'unica cautela di Umbra sembrava l'avanzata più lenta. Eravamo in due, senza armi, su cavalli sfiniti, ed entravamo in un villaggio dove... «La nave se n'è andata, ragazzo. Una nave pirata non si sposta senza una squadra completa di rematori. Altrimenti non può affrontare le correnti al largo di questo tratto di costa. Un'altra stranezza. Come fanno a conoscere le nostre maree e correnti così bene? E perché compiere razzie proprio qui? Per portar via il minerale di ferro? Molto più facile per loro rubarlo a una nave mercantile. Non ha senso, ragazzo. Non ha senso per niente.» La rugiada era scesa copiosa nella notte. Dalla città si levava la puzza delle case bruciate e poi inumidite. Qua e là alcune fumavano ancora. Davanti a certe soglie erano sparsi oggetti per la strada, ma non sapevo se gli abitanti avevano cercato di salvare alcune delle loro proprietà, o se i pirati avevano cominciato a portarle fuori e poi avevano cambiato idea. Una saliera senza coperchio, diversi metri di tessuto di lana verde, una scarpa, una sedia rotta; quella spazzatura parlava con silenziosa eloquenza di come torto ciò che era familiare e sicuro era stato distrutto per sempre e calpesta-
to nel fango. Un cupo orrore si impadronì di me. «Siamo arrivati tardi» disse piano Umbra. Fece fermare il cavallo e Fuliggine si fermò accanto a lui. «Cosa?» chiesi stupidamente, riscosso dai miei pensieri. «Gli ostaggi. Li hanno restituiti.» «Dove?» Umbra mi guardò incredulo, come se fossi stato pazzo o molto stupido. «Là. Nelle rovine di quell'edificio.» Difficile spiegare che cosa mi accadde nei successivi momenti. Fu così tanto, tutto in una volta. Alzai gli occhi e vidi un gruppo di persone, uomini e donne di ogni età, dentro alle rovine bruciate di una specie di bottega. Borbottavano fra loro mentre la depredavano. Erano malridotti, ma non sembrava che questo li preoccupasse. Mentre guardavo, due donne raccolsero lo stesso oggetto contemporaneamente, una grossa teiera, e poi cominciarono a prendersi a schiaffi, ciascuna cercando di allontanare l'altra e appropriarsi del bottino. Mi ricordarono una coppia di corvi che lottavano per una crosta di formaggio. Strepitavano e menavano botte e si scambiavano ignobili insulti tirando i manici in direzioni opposte. Gli altri non badavano a loro e continuavano il saccheggio. Era un comportamento stranissimo per gli abitanti di un villaggio. Avevo sempre sentito dire che dopo una razzia la gente del villaggio si radunava insieme, per ripulire e rendere abitabili gli edifici sopravvissuti, e poi per aiutarsi a vicenda a salvare le proprietà più care, condividendo e organizzandosi fino a quando le capanne non potevano essere ricostruite, e le botteghe trasferite in nuovi edifici. Ma questi sembravano completamente incuranti di aver perso quasi tutto e di aver visto morire familiari e amici nella razzia. Invece, si erano riuniti per disputarsi il poco che era rimasto. Questo era già abbastanza orribile da accettare. In più, io non riuscivo neanche a percepirli. Non li avevo visti o uditi fino a quando Umbra non me li aveva indicati. Avrei potuto passare a cavallo accanto a loro senza vederli. Così in quel momento compresi - altro fatto fondamentale - di essere diverso da chiunque altro conoscessi. Immaginate un bambino dotato della vista che cresca in un villaggio di ciechi, dove nessun altro sospetta lontanamente la possibilità di un simile senso. Quel bambino non avrebbe parole per descrivere i colori, o l'intensità della luce. Gli altri non avrebbero alcuna comprensione del modo in cui il bambino percepisce il mondo. Così fu in quel momento, mentre osservavamo quella gente, seduti sui nostri cavalli. Poi Umbra e-
sclamò, con la disperazione nella voce: «Che cos'hanno che non va? Che è successo?» Io lo sapevo. Tutte le trame che scorrono avanti e indietro fra le persone, i legami da madre a figlio, da uomo a donna, tutte le relazioni che si estendono ai parenti e ai vicini, agli animali da compagnia e da cortile, perfino ai pesci del mare e agli uccelli dell'aria - tutte, tutte erano scomparse. Per tutta la mia vita, senza saperlo, ero dipeso da quei fili di sentimenti per capire quando altri esseri viventi erano nelle vicinanze. I cani, i cavalli, perfino i polli li manifestavano, come gli umani. E così potevo alzare lo sguardo all'uscio prima che Burrich entrasse, o sapere che c'era un altro cucciolo appena nato nello stallo, quasi sepolto sotto la paglia. Così mi svegliavo quando Umbra apriva la porta. Perché potevo percepire le persone. E quel senso mi avvertiva sempre per primo, mi faceva sapere di usare anche gli occhi e le orecchie e il naso, per capire che cosa stessero facendo. Ma quelli non emanavano alcun sentimento. Immaginate l'acqua senza peso o umidità. Così erano per me. Spogliati di ciò che li rendeva non solo umani, ma vivi. Era come se vedessi le pietre levarsi dalla terra e litigare e borbottare l'una con l'altra. Una bambina trovò un vaso di marmellata, vi affondò il pugno e ne tirò fuori una manata da leccare. Un uomo adulto abbandonò la pila di stoffa bruciacchiata in cui stava frugando e la raggiunse. Afferrò il vaso e spinse via la bambina, incurante delle sue grida furibonde. Nessuno si mosse per interferire. Mi chinai in avanti e afferrai le redini di Umbra mentre lui stava per smontare. Gettai un urlo inarticolato a Fuliggine, e per quanto fosse stanca la paura nella mia voce le diede energia. Balzò in avanti, e lo strattone che diedi alle redini trascinò con noi il baio. Umbra fu quasi disarcionato, ma rimase attaccato alla sella, e io lo condussi al più presto fuori dalla città morta. Sentivo le urla dietro di noi, più fredde dell'ululato dei lupi, fredde come un vento di tempesta giù per un camino, ma eravamo a cavallo e io ero terrorizzato. Non rallentai e non restituii le redini a Umbra finché le case non furono ampiamente alle nostre spalle. La strada faceva una curva, e accanto a un boschetto di alberi finalmente mi fermai. Credo che solo in quel momento sentii la voce irritata di Umbra che chiedeva una spiegazione. Non ne ottenne una molto coerente. Mi chinai in avanti sul collo di Fu-
liggine e la abbracciai. Percepivo la sua stanchezza e il mio orrore. Oscuramente sentivo che condivideva il mio disagio. Pensai alla gente vuota laggiù a Forgia e le diedi una piccola spinta con le ginocchia. La cavalla si avviò stancamente e Umbra ci tenne dietro, reclamando di sapere che cosa c'era che non andava. Avevo la bocca secca e la voce che tremava. Ansimando buttai fuori la mia paura e una spiegazione confusa di ciò che avevo percepito, senza guardarlo. Quando rimasi in silenzio, i nostri cavalli continuarono a camminare lungo la strada di terra battuta. Alla fine radunai il coraggio e guardai Umbra. Lui mi fissava come se mi fosse spuntato un palco di corna. Adesso che ero consapevole di questo nuovo senso, non potevo ignorarlo. Avvertivo il suo scetticismo. Ma lo sentivo anche distanziarsi da me, appena un lieve ritrarsi, schermandosi un poco da qualcuno che improvvisamente gli era diventato alieno. Fece ancora più male, perché non era rifuggito in quel modo dalla gente di Forgia. E loro erano cento volte più alieni di me. «Erano come marionette» spiegai a Umbra. «Come oggetti di legno che prendono vita per recitare una crudele commedia. E se ci avessero visti, non avrebbero esitato a ucciderci per i nostri cavalli o i nostri mantelli, o un pezzo di pane. Loro...» Cercai le parole. «Non sono neanche più animali. Non emanano nulla. Nulla. Sono come oggetti separati. Come una fila di libri, o di sassi o...» «Ragazzo,» disse Umbra, fra la gentilezza e il fastidio «devi controllarti. È stata una lunga notte di viaggio per noi, e tu sei stanco. Troppo tempo senza sonno, e la mente comincia a fare scherzi, con sogni a occhi aperti e...» «No.» Tentai disperatamente di convincerlo. «Non è questo. Non è mancanza di sonno.» «Torneremo laggiù» insistette Umbra in tono ragionevole. La brezza del mattino fece roteare il mantello scuro attorno a lui, una visione così ordinaria che sentii il mio cuore spezzarsi. Come potevano esserci persone come quelle al villaggio, e una semplice brezza del mattino nello stesso mondo? E Umbra, che parlava con voce così tranquilla e normale? «È solo povera gente, ragazzo, che ha passato un momento molto brutto, e quindi si comporta in modo strano. Una volta ho conosciuto una ragazza che aveva visto un orso uccidere suo padre. Faceva così, guardava nel vuoto e grugniva, quasi non si mosse per prendersi cura di se stessa, per più di un mese. Quelle persone si riprenderanno, quando torneranno alle loro vite comuni.»
«C'è qualcuno davanti a noi!» lo avvertii. Non avevo udito o visto niente, avevo sentito soltanto una pressione sulla ragnatela di senso che avevo appena scoperto. Ma guardando la strada vedemmo che ci stavamo avvicinando alla coda di una lacera processione. Alcuni conducevano bestie cariche, altri spingevano o trascinavano carretti di beni malconci. Si voltarono a guardarci come se fossimo stati demoni sorti dalla terra per inseguirli. «Il Butterato!» gridò un uomo vicino al fondo della fila, e sollevò una mano per indicarci. Il suo viso era tirato dalla stanchezza e bianco di paura. La sua voce si spezzò. «La leggenda ha preso vita» disse agli altri, che si fermarono tremebondi a fissarci. «Fantasmi senza cuore hanno preso corpo fra le rovine del nostro villaggio, e il Butterato dal mantello nero porta la sua pestilenza su di noi. Abbiamo vissuto troppo confortevolmente, e gli antichi dèi ci puniscono. Le nostre vite prospere saranno la morte di tutti noi.» «Oh, maledizione. Non volevo che mi vedessero così» sussurrò Umbra. Guardai le sue mani pallide che raccoglievano le redini per far girare il baio. «Seguimi, ragazzo.» Non guardò l'uomo che ancora puntava un dito tremante verso di noi. Si avviò lentamente, quasi languidamente, guidando il cavallo lontano dalla strada e su per il fianco di una collina coperta di ciuffi d'erba. Non c'era minaccia nei suoi movimenti, come quando Burrich affrontava un cavallo o un cane diffidente. Il suo cavallo stanco lasciò con riluttanza la pista liscia. Umbra si diresse verso un boschetto di faggi sulla cima della collina. Io lo fissai senza comprendere. «Forza, ragazzo» mi ordinò da sopra la spalla quando esitai. «Vuoi essere lapidato in mezzo alla strada? Non è un'esperienza piacevole.» Mi mossi cautamente, portando Fuliggine fuori dal sentiero come se non avessi affatto notato la gente in preda al panico davanti a noi. Loro rimasero lì, fra rabbia e paura. Quella sensazione era una macchia nero-rossastra sulla freschezza del giorno. Vidi una donna chinarsi, vidi un uomo abbandonare la sua carriola. «Stanno arrivando!» gridai a Umbra, proprio mentre cominciavano a correre verso di noi. Alcuni stringevano in pugno pietre o bastoni verdi sottratti di fresco alla foresta. Avevano tutti l'aspetto lacero di cittadini costretti a vivere all'aperto. Ecco dov'era il resto degli abitanti di Forgia, quelli che non erano stati presi in ostaggio dai pirati. Lo compresi fra il momento in cui spronai Fuliggine e il suo stanco tuffo in avanti. I nostri cavalli erano sfiniti; si affrettavano con riluttanza, malgrado le pietre che piovevano per terra dietro di noi. Se i cittadini fossero stati riposati, o me-
no spaventati, ci avrebbero raggiunti facilmente. Ma credo che fossero sollevati nel vederci fuggire. Le loro menti erano più concentrate su ciò che camminava per le strade del loro villaggio che sugli stranieri in fuga, non importa quanto sinistri. Rimasero sulla strada a gridare e agitare i bastoni fino a quando non fummo fra gli alberi. Umbra aveva preso la guida e io non gli feci domande mentre ci conduceva su un sentiero parallelo che ci avrebbe tenuto fuori dalla vista dei profughi di Forgia. I cavalli avevano di nuovo un passo pesante e dubbioso. Ero grato per le colline dolci e gli alberi sparsi che ci nascondevano a qualsiasi inseguitore. Quando vidi un torrente luccicare, lo indicai senza una parola. In silenzio facemmo bere i cavalli, e li nutrimmo con un poco di grano scosso dai sacchi di Umbra. Io allentai i finimenti e strofinai i loro manti rovinati con manciate di erba. Per noi, c'era la fredda acqua del torrente e il rozzo pane da viaggio. Mi occupai dei cavalli al meglio che potevo. Umbra sembrava molto pensieroso, e per un lungo intervallo di tempo rispettai il suo silenzio. Ma alla fine non potei trattenere più a lungo la curiosità. «Sei davvero il Butterato?» Umbra trasalì, poi mi fissò. Nel suo sguardo c'erano in parti uguali meraviglia e rimpianto. «Il Butterato? Il leggendario araldo di epidemia e disastro? Oh, suvvia, ragazzo, non sei così ingenuo. Quella leggenda ha centinaia di anni. Certamente non puoi credere che io sia così antico.» Scrollai le spalle. Avrei voluto dire: «Sei coperto di cicatrici, e porti la morte» ma non ci riuscii. A volte Umbra mi pareva davvero vecchissimo, e altre volte così pieno di energia da sembrare un giovincello nel corpo di un vecchio. «No, non sono il Butterato» proseguì, parlando più con se stesso che con me. «Ma da oggi le voci della sua venuta si diffonderanno per i Sei Ducati come polline nel vento. Si parlerà di epidemia e pestilenza e punizione divina per peccati immaginali. Vorrei che non mi avessero visto così. La gente del regno ha già abbastanza paure. Tuttavia dobbiamo preoccuparci di cose più gravi della superstizione. Non so come hai fatto a capirlo, ma avevi ragione. Ho ripensato molto attentamente a tutto quello che ho visto a Forgia. E ho ricordato le parole di quei paesani che hanno cercato di lapidarci. E il loro aspetto. Un tempo conoscevo la gente di Forgia. Tipi resistenti, non certo pronti a fuggire colti da un panico superstizioso. Ma quelli che abbiamo visto lungo la strada stavano scappando proprio così. Lasciavano Forgia, per sempre, o almeno tale è la loro intenzione. Portandosi via
tutti gli avanzi che possono. Lasciando le case in cui sono nati i loro nonni. E abbandonando parenti che si aggirano e saccheggiano le rovine come dementi. «Quella dei pirati non era una vuota minaccia. Penso a quella gente e rabbrividisco. C'è qualcosa di profondamente sbagliato, ragazzo, e ho paura di quello che succederà in seguito. Perché se la Nave Rossa può catturare la nostra gente, e poi esigere che li paghiamo per ucciderli, per timore che altrimenti ce li restituiscano così - quale amara scelta! E ancora una volta hanno colpito dove eravamo meno preparati a reagire.» Si rivolse verso di me come per dire altro, poi improvvisamente barcollò. Sedette bruscamente, grigio in faccia. Chinò la testa e si coprì il viso con le mani. «Umbra!» gridai in preda al panico, e balzai al suo fianco, ma lui mi allontanò. «Semi di carris» disse con la voce soffocata dalle mani. «La parte peggiore è che ti abbandonano così improvvisamente. Burrich ha fatto bene a metterti in guardia, ragazzo. Ma a volte non si può fare altro che la scelta sbagliata. Capita, in tempi brutti come questi.» Sollevò la testa. I suoi occhi erano opachi, la bocca quasi senza forma. «Ho bisogno di riposare, adesso» disse nel tono pietoso di un bambino ammalato. Lo afferrai mentre crollava e lo distesi sul terreno. Gli misi le mie borse da sella come cuscino, e lo coprii con i nostri mantelli. Giacque immobile, con il polso rallentato e il respiro pesante, da quel momento fino al pomeriggio del giorno successivo. Quella notte dormii contro la sua schiena, sperando di tenerlo caldo, e il giorno dopo lo nutrii con quello che era rimasto delle nostre provviste. A sera si era ripreso a sufficienza per rimettersi in marcia, e cominciammo un viaggio terribile. Procedevamo lentamente, viaggiando di notte. Umbra sceglieva il sentiero, ma io aprivo la strada, e spesso l'uomo era poco più di un fagotto sul suo cavallo. Impiegammo due giorni a coprire la distanza che avevamo attraversato in quell'unica notte selvaggia. Il cibo era scarso, e le parole ancora più rare. Umbra sembrava stancarsi solo a pensare, e in ogni caso riteneva che i suoi pensieri fossero troppo tristi per esprimerli. Mi indicò dove accendere il fuoco di segnalazione che avrebbe richiamato la barca. Mandarono a riva una scialuppa a prenderlo, e rientrò senza una parola. Era la misura del suo sfinimento: semplicemente riteneva che sarei stato in grado di condurre i nostri cavalli stanchi a bordo della nave. Così il mio orgoglio mi costrinse ad affrontare quel compito, e una volta a
bordo dormii come non ero riuscito a fare per giorni. Poi sbarcammo di nuovo, e tornammo stancamente fino a Baia Ridente. Arrivammo prima dell'alba e dama Maggiorana riprese residenza nella taverna. Nel pomeriggio del giorno successivo fui in grado di dire all'ostessa che la dama si sentiva molto meglio e che le sarebbe piaciuto un vassoio dalle sue cucine, se era così gentile da mandarne uno in camera. Umbra sembrava veramente migliorato, anche se a volte sudava profusamente ed emetteva un odore rancido e dolciastro di semi di carris. Mangiò come un lupo, e bevve grandi quantità di acqua. Ma dopo due giorni mi fece dire all'ostessa che dama Maggiorana sarebbe partita l'indomani mattina. Io mi ripresi più in fretta, e trascorsi diversi pomeriggi vagando per Baia Ridente, guardando a bocca aperta le botteghe e i mercanti e tenendo le orecchie ben aperte in cerca dei pettegolezzi che Umbra riteneva così preziosi. In questo modo scoprimmo ciò che più o meno ci eravamo aspettati. La diplomazia di Veritas era andata a buon fine, e dama Grazia era diventata la beniamina della città. Potevo già notare gli operai, un incremento di attività per migliorare le strade e le fortificazioni. La torre dell'Isola di Guardia ora era munita con i migliori uomini di Kelvar, e la gente adesso la chiamava Torre Grazia. Ma circolava anche la voce di come le Navi Rosse avessero superato nascostamente le torri dello stesso Veritas, e degli strani eventi di Forgia. Sentii parlare più di una volta degli avvistamenti del Butterato. E le storie raccontate intorno al fuoco della locanda su coloro che adesso vivevano a Forgia mi davano gli incubi. I profughi di Forgia raccontavano storie da lacerare l'anima, di parenti diventati freddi e senza cuore. Adesso vivevano là, proprio come se fossero stati ancora umani, ma chi li aveva conosciuti meglio si lasciava ingannare meno degli altri. Quella gente faceva alla luce del giorno ciò che a Castelcervo non si era mai verificato nemmeno nel buio della notte. I delitti di cui si mormorava andavano al di là della mia immaginazione. Le navi non si fermavano più a Forgia. Il minerale di ferro avrebbe dovuto essere scavato altrove. Si diceva che nessuno volesse accogliere neppure la gente che era fuggita, perché chi poteva immaginare quale maledizione portassero? Dopotutto, a loro era apparso il Butterato. Eppure in qualche modo era ancora più duro sentire la gente comune dire che presto sarebbe finito tutto, che le creature di Forgia si sarebbero uccise a vicenda, e grazie agli dèi per questo. Le brave persone di Baia Ridente desideravano la morte per coloro che un tempo erano state le brave persone di Forgia, e la desideravano come l'unica fortuna che ancora potessero avere. E così era.
La sera prima che dama Maggiorana e io ci riunissimo al seguito di Veritas per tornare a Castelcervo, mi svegliai e trovai una singola candela accesa e Umbra seduto nel letto, a fissare il muro. Senza che dicessi una parola, si girò verso di me. «Bisogna insegnarti l'Arte, ragazzo» disse, come se fosse stata una decisione dolorosa. «Tempi malvagi sono su di noi, e resteranno a lungo. In questo momento le brave persone devono trovare tutte le armi che possono. Andrò ancor una volta da Sagace, e questa volta lo pretenderò. Sono giunti tempi duri, ragazzo. E mi chiedo se passeranno mai.» Negli anni che seguirono, me lo chiesi spesso anch'io. 11 Forgiati Il Butterato è una figura ben nota nei racconti popolari e nelle tragedie dei Sei Ducati. È ben povera la compagnia di marionette che non possieda una marionetta del Butterato, non solo per i suoi ruoli tradizionali, ma anche come presagio di disastro nelle produzioni originali. A volte la marionetta del Butterato viene semplicemente mostrata sullo sfondo, per dare una nota sinistra alla scena. Nei Sei Ducati, è un simbolo universale. Si dice che le radici della sua leggenda risalgano ai primi abitanti dei ducati; non alla conquista da parte dei Lungavista delle Isole, ma addirittura alla colonizzazione più antica. Perfino gli Isolani conoscono una versione fondamentale della leggenda. È una storia di avvertimento, della collera di El, il dio del mare, quando viene dimenticato. Quando il mare era giovane, El il primo Antico, credeva nella gente delle isole. A loro donò il suo mare, e con esso tutto ciò che vi nuotava, e tutte le terre che il mare toccava dovevano essere loro. Per molti anni, la gente fu grata. Pescava nel mare, viveva sulle sue rive dove lo desiderava, e depredava chiunque altro avesse osato dimorare dove El aveva concesso loro di regnare. Anche coloro che si azzardavano a navigare nel loro mare erano una preda legittima. Il popolo prosperò e crebbe robusto e forte perché il mare di El era come uno spigolatore. Le loro vite erano dure e pericolose, ma in quel modo i loro ragazzi crescevano per diventare uomini forti, e le loro fanciulle si trasformavano in donne senza paura al focolare o sul ponte. Il popolo rispettava El e a quell'Antico offriva le lodi e soltanto in suo nome malediceva. Ed El era orgoglioso del suo popolo. Ma El, nella sua generosità, concesse al suo popolo troppe benedizioni.
Nei duri inverni non ne morivano abbastanza, e le tempeste che mandava erano troppo miti per vincere la loro perizia di naviganti. Così il popolo crebbe. Insieme crebbero anche le loro mandrie e le loro greggi. Negli anni di prosperità, i bambini deboli non morivano, ma crescevano e rimanevano a casa, e si dedicavano a coltivare la terra per nutrire le greggi e le mandrie floride e gli altri deboli come loro. Gli zappaterra non lodavano El per i suoi venti forti e per le correnti favorevoli ai pirati. Invece, benedicevano e imprecavano solo in nome di Eda, che è l'Antica di coloro che arano e coltivano e si occupano delle bestie. Così Eda benedisse i suoi deboli seguaci aumentando le loro piante e animali. Questo non piacque a El, ma egli li ignorò, dato che aveva ancora il popolo ardito delle navi e delle onde. Loro benedicevano nel suo nome e imprecavano nel suo nome, e per incoraggiare la loro forza mandò loro tempeste e freddi inverni. Ma con il passare del tempo, i fedeli seguaci di El diminuirono. La gente debole della terra sedusse i naviganti, e partorì loro figli adatti soltanto a occuparsi della terra. E il popolo lasciò le rive dell'inverno e i pascoli coperti di ghiaccio, e si spostò verso sud, verso le dolci terre dell'uva e del grano. Erano sempre meno quelli che venivano ogni anno ad arare le onde e a mietere i pesci che El aveva loro assegnato. Sempre più raramente El udiva il suo nome in una benedizione o in un'imprecazione. Finché alla fine venne un giorno in cui rimase solo uno che benediva o imprecava soltanto nel nome di El. Era un vecchio ossuto, troppo anziano per il mare, con le giunture gonfie e doloranti e pochi denti in bocca. Le sue benedizioni e le sue imprecazioni erano deboli e insultavano più che compiacere El, che non sapeva cosa farsene dei vecchi traballanti. Alla fine venne una tempesta che avrebbe dovuto porre fine al vecchio e alla sua barchetta. Ma quando le fredde onde si chiusero su di lui, il vecchio si aggrappò al relitto della barca e oso implorare misericordia da El, anche se tutti sanno che la misericordia non è in lui. El fu così infuriato da quella bestemmia che non volle accogliere il vecchio nel suo mare, e invece lo rigettò sulla riva, e lo maledì in modo che non potesse più navigare, ma non potesse nemmeno morire. E quando il vecchio strisciò fuori dalle acque salate, il suo viso e il suo corpo erano butterati come se fosse stato coperto di cirripedi, e si rimise in piedi barcollando e si avviò verso le terre deboli. E dovunque andasse, vedeva soltanto deboli zappaterra. E li avvisò della loro follia, e che El avrebbe fatto sorgere un popolo nuovo e più coraggioso a cui avrebbe affidato la loro eredità. Ma il popolo non volle ascoltare, tanto era diventato fiacco e testardo. Eppure, dovunque
andasse il vecchio, l'epidemia lo seguiva. E diffuse le malattie contagiose come il vaiolo, quelle a cui non importa se un uomo è forte o debole, duro o molle, ma che prendono tutti quelli che toccano. E questo era appropriato, perché tutti sanno che le infezioni vengono dalla cattiva polvere e si diffondono zappando la terra. Così narra il racconto. E così il Butterato è diventato il messaggero di morte e malattia, e un rimprovero per coloro che vivono vite deboli e facili perché la loro terra è fertile. Il ritorno di Veritas a Castelcervo fu gravemente turbato dagli eventi di Forgia. Veritas, con la sua mentalità pratica, lasciò Guardabaia non appena i duchi Kelvar e Shemshy raggiunsero un accordo a proposito dell'Isola di Guardia. Anzi, era già partito con le sue truppe scelte prima che Umbra e io tornassimo alla locanda. Così il viaggio di ritorno parve vuoto. Durante le giornate, e attorno ai fuochi di notte, la gente parlava di Forgia, e perfino all'interno della nostra carovana le storie si moltiplicavano e si coprivano di ricami. Il mio viaggio di ritorno fu rovinato dal fatto che Umbra ricominciò la fastidiosa pantomima dell'orrenda vecchiaccia. Io dovetti seguirla e assisterla, fino al momento in cui le sue cameriere di Castelcervo apparvero per scortarla di nuovo alle sue stanze. «Lei» viveva nell'ala delle donne, e sebbene nei giorni successivi io cercassi di carpire qualsiasi pettegolezzo su di lei, mi sentii rispondere solo che era solitaria e bisbetica. Non riuscii mai a scoprire come avesse fatto Umbra a crearla e a mantenere la sua esistenza fittizia. In nostra assenza, Castelcervo sembrava aver subito una tale tempesta di nuovi eventi che mi sembrava che fossimo stati lontani dieci anni piuttosto che poche settimane. Neppure Forgia poteva completamente eclissare l'impresa di dama Grazia. La storia fu raccontata e ripetuta, e i menestrelli si disputavano l'onore di comporre la versione di maggior successo. Sentii che il duca Kelvar aveva addirittura chinato un ginocchio e le aveva baciato la punta delle dita dopo che la dama aveva parlato con grande eloquenza di trasformare le torri nei magnifici gioielli della sua terra. Una fonte mi disse addirittura che messer Shemshy aveva personalmente ringraziato la dama e aveva cercato spesso di danzare con lei quella sera, quasi precipitando i due ducati in una disputa di tutt'altro genere. Fui felice del successo della dama. Addirittura sentii sussurrare, più di una volta, che il principe Veritas avrebbe dovuto trovarsi una moglie come
lei. Dato che era lontano tanto spesso, a risolvere questioni interne e a dare la caccia ai pirati, il popolo cominciava a sentire il bisogno di un forte governante in patria. Il vecchio re, Sagace, era ancora nominalmente il nostro sovrano. Ma, come osservò Burrich, il popolo tendeva a guardare avanti. «E quindi» aggiunse «alla gente piace pensare che l'erede al trono ha un letto caldo a cui fare ritorno. Dà loro qualcosa su cui fantasticare. Pochi possono permettersi romanticherie nelle loro vite, così immaginano tutto quello che possono per il loro re. O principe.» Ma Veritas, io lo sapevo, non aveva tempo di pensare a letti caldi, o a qualunque tipo di letto. Forgia era stata un esempio e una minaccia. Seguirono notizie di nuovi attacchi, in rapida successione. Il villaggio di Pascolo, su nelle Isole Vicine, poche settimane prima era stato a quanto pareva «Forgiato dai pirati», come si cominciava a dire. Le notizie arrivarono lentamente da quelle rive gelate, ma quando arrivarono erano tetre. Anche la gente di Pascolo era stata presa in ostaggio. Il consiglio della città, come Sagace, era rimasto confuso dall'ultimatum delle Navi Rosse. Non avevano pagato. E, come a Forgia, i loro ostaggi erano stati restituiti, per lo più sani di corpo, ma privati di tutte le più civili emozioni dell'umanità. Si sussurrava che Pascolo avesse trovato una soluzione più diretta. Il clima aspro delle Isole Vicine nutriva un popolo aspro. Eppure perfino loro l'avevano considerata una gentilezza quando avevano passato a fil di spada i loro parenti ormai senz'anima. Dopo Forgia furono razziati altri due villaggi. A Portaroccia la gente pagò il riscatto. Parte dei corpi furono portati a riva dalle onde il giorno successivo, e il villaggio si riunì per seppellirli. La notizia giunse a Castelcervo senza giustificazioni; soltanto con il sottinteso che, se il re fosse stato più vigile, almeno sarebbero stati avvertiti delle razzie. Il villaggio di Pantano del Gregge affrontò la sfida con decisione. Rifiutarono di pagare il tributo; tuttavia, mentre le voci da Forgia correvano per il paese come lava incandescente, si prepararono. Affrontarono gli ostaggi restituiti con corde e manette. Riportarono indietro la loro gente, in alcuni casi dando loro una botta in testa prima di legarli e trascinarli alle legittime abitazioni. Il villaggio si unì nello sforzo di farli rinsavire. Le storie provenienti dà Pantano erano quelle ripetute più spesso. La madre che ringhiava al figlio da allattare, maledicendolo e dichiarando che non sapeva cosa farsene di quella creatura frignona e fradicia. Il bambino che urlava e piangeva per farsi liberare, solo per aggredire suo padre con uno spiedo non appena l'uomo, con il cuore spezzato, l'aveva slegato. Alcuni imprecavano
e lottavano e sputavano contro i loro parenti. Altri si rassegnavano a una vita di prigionia e inattività, mangiando il cibo e bevendo la birra che veniva posta davanti a loro, ma senza una parola di ringraziamento o di affetto. Liberati dai legami, questi ultimi non attaccavano le loro famiglie, ma neanche lavoravano, né si univano a loro nei passatempi serali. Rubavano senza rimorso, perfino ai loro stessi figli, e dissipavano i soldi e divoravano qualsiasi cosa. Non procuravano gioia a nessuno, neppure una parola gentile. Ma la voce che giungeva da Pantano era che la gente del luogo intendeva perseverare fino a quando la «malattia della Nave Rossa» non passava. Ciò dava ai nobili di Castelcervo un briciolo di speranza a cui aggrapparsi. Parlavano con ammirazione del coraggio dei paesani, e giuravano che avrebbero fatto lo stesso se qualcuno dei loro parenti fosse stato Forgiato dai pirati. Pantano del Gregge e i suoi coraggiosi abitanti divennero motivo di incoraggiamento per i Sei Ducati. Re Sagace raccolse altre tasse in loro nome. Una parte servì a fornire grano a coloro che erano così occupati a prendersi cura dei parenti prigionieri da non avere tempo di ricostruire le greggi devastate o ripiantare i campi bruciati. E un'altra fu usata per costruire nuove navi e ingaggiare altri uomini per pattugliare le coste. Dapprima la gente era orgogliosa della propria alacrità. Coloro che vivevano sulle scogliere cominciarono a fare volontariamente la guardia. Venivano tenuti pronti messaggeri e piccioni viaggiatori e fuochi di segnalazione. Alcuni villaggi inviarono pecore e rifornimenti a Pantano, per coloro che avevano maggiormente bisogno d'aiuto. Tuttavia, con il passare di lunghe settimane, e senza che alcuno degli ostaggi restituiti desse traccia di aver recuperato il senno, le speranze e le preghiere cominciarono a sembrare patetiche piuttosto che nobili. Coloro che avevano maggiormente sostenuto quegli sforzi dichiararono che, se fossero stati presi in ostaggio, avrebbero preferito essere fatti a pezzi e gettati in mare piuttosto che tornare a causare alle loro famiglie tanta difficoltà e angoscia. La cosa peggiore, credo, è che in quel momento il trono stesso non aveva idea di cosa fare. Se fosse stato emesso un editto reale per stabilire se la gente doveva pagare o meno il riscatto, sarebbe stato meglio. Non importa cosa avesse deciso il re, non tutti sarebbero stati d'accordo. Ma almeno il re avrebbe preso una posizione, e il popolo avrebbe avuto la sensazione che la minaccia veniva affrontata. Invece, l'aumento delle pattuglie e della sorveglianza servì solo a dare l'impressione che perfino Castelcervo avesse terrore del nuovo pericolo, e nessuna strategia per affrontarlo. In assenza di
un editto reale, i villaggi della costa presero in mano la situazione. I consigli si riunirono per decidere cosa fare se fossero stati Forgiati. E alcuni scelsero in un modo, altri nell'altro. «Ma in ogni caso» mi disse stancamente Umbra «non importa che cosa decidono; questo indebolisce la loro lealtà verso il trono. Che paghino il riscatto o meno, i pirati possono ridere di noi mente bevono la loro birra di sangue. Infatti, prendendo queste decisioni, i nostri paesani non pensano 'se verremo Forgiati' ma 'quando verremo Forgiati'. In tal modo sono già stati violentati nello spirito se non nella carne. Guardano i loro parenti, la madre il figlio, l'uomo i genitori, e hanno già rinunciato a loro, abbandonandoli alla morte o alla Forgiatura. E il regno viene meno, perché se ogni città deve decidere da sola rimane isolata. Ci frazioneremo in mille cittadelle, ciascuna preoccupata soltanto di quello che farà per se stessa se viene razziata. Se Sagace e Veritas non agiscono in fretta, il regno finirà per esistere solo di nome, e nelle menti dei suoi ex governanti.» «Ma che cosa possono fare?» obiettai. «Non importa quale editto venga emanato, sarà comunque sbagliato.» Presi le pinze del camino e spinsi un poco più a fondo fra le fiamme il crogiolo a cui badavo. «A volte» brontolò Umbra «è meglio avere torto coraggiosamente che rimanere in silenzio. Guarda, ragazzo, se tu, che sei così giovane, puoi comprendere che qualsiasi decisione è sbagliata, possono comprenderlo tutti. Ma almeno un simile editto costituirebbe una risposta collettiva. Non lascerebbe ogni villaggio a leccarsi le ferite da solo. E inoltre, Sagace e Veritas dovrebbero prendere altri provvedimenti.» Si chinò più vicino per scrutare il liquido ribollente. «Più calore» suggerì. Presi un piccolo mantice e lo manovrai con cautela. «Per esempio?» «Organizzare anche noi scorrerie contro gli Isolani. Fornire vascelli e provviste a chiunque sia disposto a intraprenderle. Proibire che le mandrie e le greggi vengano lasciate a pascolare sulle coste in modo così allettante. Fornire più armi ai villaggi, se non possiamo fornire uomini per proteggerli. Per l'aratro di Eda, diamo loro pastiglie di semi di carris e belladonna da portare in sacchetti appesi ai polsi, così se vengono catturati in una scorreria possono togliersi la vita invece di diventare ostaggi. Qualsiasi cosa, ragazzo. Qualsiasi cosa facesse il re a questo punto sarebbe meglio di questa maledetta indecisione.» Rimasi seduto a fissare Umbra. Non l'avevo mai sentito parlare con tanta forza, o criticare Sagace così apertamente. Rimasi sconvolto. Trattenni il respiro, sperando che dicesse qualcosa di più, ma quasi timoroso di quello
che potevo sentire. L'uomo sembrava non notare il mio sguardo. «Spingilo più verso il fondo. Ma stai attento. Se esplode, re Sagace potrebbe ritrovarsi con due Butterati invece di uno.» Mi gettò un'occhiata. «Sì, è così che sono rimasto sfigurato. Ma avrebbe potuto essere veramente il vaiolo, per come Sagace mi tratta ultimamente. 'Sei pieno di cattivi presagi e avvertimenti e ammonizioni' mi dice. 'Credo che tu voglia far addestrare il ragazzo nell'Arte soltanto perché a te non è stato possibile. È un'ambizione infausta, Umbra. Allontanala da te.' Così parla il fantasma della regina con la lingua del re.» L'amarezza di Umbra mi riempì di apatia. «Chevalier. È di lui che avremmo bisogno» proseguì dopo un momento. «Sagace esita, e Veritas è un buon soldato, ma ascolta troppo suo padre. Veritas è stato addestrato a essere secondo, non primo. Non prende l'iniziativa. Avremmo bisogno di Chevalier. Lui andrebbe in quei villaggi, parlerebbe con la gente che ha perso i suoi cari per la Forgiatura. Maledizione, parlerebbe perfino ai Forgiati...» «Credi che servirebbe?» chiesi piano. Osavo a malapena muovermi. Avvertivo che Umbra stava parlando più con se stesso che con me. «Non risolverebbe il problema, no. Ma il nostro popolo avrebbe l'impressione che il loro signore è coinvolto. A volte basta solo questo, ragazzo. Ma Veritas si limita a far marciare i suoi soldatini di piombo e a soppesare le strategie. E Sagace sta a guardare, e non pensa al suo popolo, ma solo a come fare in modo che Regal rimanga dove non può far danni, e tuttavia sia pronto ad assumere il potere nel caso che Veritas riesca a farsi ammazzare.» «Regal?» sbottai sbalordito. Regal, con i suoi bei vestiti e atteggiamenti da galletto? Era sempre alle calcagna di Sagace, ma non avevo mai pensato a lui come a un vero principe. Sentire il suo nome emergere in una simile discussione mi turbò. «È diventato il favorito di suo padre» ringhiò Umbra. «Sagace non ha fatto altro che viziarlo da quando la regina è morta. Cerca di comprare il suo cuore con i doni, adesso che la lealtà del ragazzo non può più andare a sua madre. Regal se ne approfitta. Dice solo quello che il vecchio ama sentire. E Sagace gli dà troppa corda. Lo lascia andare in giro a sperperare denaro in inutili visite ad Armento e Riccaterra, dove la gente di sua madre lo riempie di fantasie sulla sua importanza. Il ragazzo dovrebbe stare a casa e giustificare come spende il suo tempo. E il denaro del re. Quello che butta via nelle sue avventure sarebbe servito a munire una nave da guerra.»
E poi, improvvisamente seccato: «È troppo caldo! Lo perderai, tiralo fuori subito.» Ma le sue parole arrivarono troppo tardi, perché il crogiolo si spaccò con il rumore del ghiaccio che si rompe, e il suo contenuto riempì la stanza di Umbra di un fumo acre che per quella notte interruppe lezioni e discussioni. Non fui più chiamato per un bel pezzo. Le mie altre lezioni proseguivano, ma con il passare delle settimane sentivo la mancanza di Umbra. Sapevo che non era arrabbiato con me, ma solo preoccupato. Un giorno che avevo le mani in mano, estesi la mia coscienza verso di lui, ma ottenni solo segretezza e conflitto. E una botta sulla nuca quando Burrich mi sorprese. «Piantala» sibilò, e ignorò la mia espressione di finta innocenza attonita. Girò lo sguardo sullo stallo che stavo ripulendo come se si fosse aspettato di trovarvi nascosto un cane o un gatto. «Non c'è niente qui!» esclamò. «Solo letame e sabbia» concordai, strofinandomi la nuca. «E allora cosa stavi facendo?» «Sognavo a occhi aperti» mormorai. «Tutto qui.» «Non mi freghi, Fitz» ringhiò lui. «Non lo permetterò. Non nelle mie stalle. Non corromperai le mie bestie in questo modo. Non degraderai il sangue di Chevalier. Bada a quello che ti dico.» Strinsi i denti, abbassai gli occhi e continuai a lavorare. Dopo qualche momento lo sentii sospirare e allontanarsi. Continuai a rastrellare, ribollendo dentro di me e decidendo di non permettere mai più a Burrich di cogliermi di sorpresa. Il resto di quell'estate fu un tale turbine di eventi che faccio fatica a ricordarne la progressione. Da un momento all'altro, l'aria stessa parve cambiare. Quando andai in città, non si parlava d'altro che di fortificazioni e preparativi. Soltanto altre due città furono Forgiate quell'estate, ma sembravano un centinaio, dato che le storie venivano ripetute di bocca in bocca e si ingrandivano a dismisura. «Sembra che ormai la gente non parli d'altro» protestò Molly con me. Stavamo camminando a Spiaggialunga sotto il sole vespertino dell'estate. Il vento dal mare era un tocco fresco e piacevole dopo una giornata afosa. Burrich era stato chiamato a Fontanile per cercare di capire perché tutto il bestiame del posto stesse sviluppando enormi vesciche sulla pelle. In sua assenza non avrei avuto lezioni al mattino, ma in compenso avrei dovuto svolgere molti, molti più doveri con i cavalli e i cani, specialmente dato
che Roano era andato a Torlago con Regal, a occuparsi dei suoi cavalli e cani per una caccia estiva. Il risvolto della medaglia, tuttavia, era che le mie sere erano meno sorvegliate, e avevo più tempo per visitare il borgo. Le mie passeggiate serali con Molly ormai erano un'abitudine. La salute di suo padre andava peggiorando e ormai non gli serviva neanche una bevuta per cadere ogni sera in un precoce profondo sonno. Molly preparava per noi un pezzo di formaggio e salsiccia, o una pagnottella e un poco di pesce affumicato, e con un cestino e una bottiglia di vino da poco prezzo scendevamo alla spiaggia fino ai frangiflutti. Lì sedevamo sulle rocce che restituivano l'ultimo calore del giorno e Molly mi raccontava della sua giornata di lavoro e dei pettegolezzi che aveva sentito, e io ascoltavo. A volte i nostri gomiti si urtavano mentre camminavamo. «Sara, la figlia del macellaio, dice che non vede l'ora che venga l'inverno. I venti e il ghiaccio respingeranno per qualche tempo le Navi Rosse alle loro rive, e ci daranno un po' di respiro dalla paura, così dice. Ma poi Kelty salta su e dice che forse potremo smettere di aver paura di altre Forgiature, ma dovremo continuare a temere la gente Forgiata che vaga per le nostre terre. Si dice che alcuni hanno lasciato Forgia, adesso che non c'è più nulla da rubare, e che vagano come banditi, derubando i viaggiatori.» «Ne dubito. Più probabilmente sono briganti che cercano di farsi passare per Forgiati per distogliere da loro le rappresaglie. I Forgiati non hanno abbastanza umanità per formare una banda.» La contraddissi pigramente. Contemplavo la baia, con gli occhi quasi chiusi per proteggermi dal riverbero del sole sull'acqua. Non avevo bisogno di guardare Molly per sentirla vicino a me. Era una tensione interessante, che non comprendevo del tutto. Lei aveva sedici anni, e io circa quattordici, e quei due anni si ergevano fra noi come un muro insormontabile. Eppure Molly faceva sempre in modo di avere tempo per me, e sembrava apprezzare la mia compagnia. Sembrava consapevole di me come io lo ero di lei. Ma se cercavo verso di lei, si ritraeva, fermandosi per scuotere un sassolino dalla scarpa o parlando improvvisamente della malattia di suo padre e di quanto avesse bisogno di lei. Eppure, se ritiravo i miei sensi da quella tensione, Molly si faceva incerta e più timida nel parlare, e cercava di guardarmi in faccia e di scrutare l'espressione della mia bocca e degli occhi. Non lo capivo, ma era come giocare al tiro alla fune. Ora sentii una vena di irritazione nelle sue parole. «Oh. Capisco. E tu ne sai così tanto dei Forgiati, vero, più di coloro che hanno subito le loro rapine?»
Le sue parole brusche mi colsero di sorpresa e ci volle un momento o due prima che riuscissi a parlare. Molly non sapeva nulla di Umbra e me, figuriamoci del mio viaggio segreto con lui a Forgia. Per lei, ero un servitorello della fortezza, che lavoravo per il capo stalliere quando non facevo commissioni per lo scrivano; non potevo rivelare la mia conoscenza di prima mano, e certamente non il modo in cui avevo percepito che cos'era la Forgiatura. «Ho sentito parlare le guardie, quando vanno in giro per le stalle e le cucine di notte. I soldati come loro hanno visto gente di ogni tipo, e sono loro che dicono che i Forgiati non hanno amici, famiglia, legami d'affetto. Tuttavia, suppongo che se uno di loro si mettesse a derubare i viaggiatori, altri lo imiterebbero, e sarebbe come una banda di briganti.» «Forse.» Parve addolcita dai miei commenti. «Guarda, saliamo lassù a mangiare.» 'Lassù' era una cornice quasi in cima alla rupe, lontana dai frangiflutti. Tuttavia assentii con un cenno, e la successiva manciata di minuti fu trascorsa issandoci lassù con il nostro cestino. Ci voleva una scalata più difficile delle nostre precedenti spedizioni. Mi sorpresi a controllare come se la cavava Molly con le sue sottane, e a cogliere l'occasione di prenderle il braccio per sostenerla, o prenderle la mano per aiutarla su per un tratto ripido mentre lei teneva il cestino. In un lampo di intuito compresi che la scalata era stata un'idea di Molly per causare questa situazione. Finalmente raggiungemmo la cornice e ci sedemmo, guardando l'acqua con il cestino fra noi, e io assaporavo la mia consapevolezza della consapevolezza che Molly aveva di me. Mi vennero in mente i giocolieri alla Festa della Primavera che si lanciavano le mazze avanti e indietro, avanti e indietro, sempre più numerose e sempre più veloci. Il silenzio durò fino al punto in cui uno di noi doveva dire qualcosa. La guardai, ma lei distolse lo sguardo. Frugò nel cestino e disse: «Oh, vino di tarassaco? Credevo che non fosse buono fino a dopo il solstizio d'inverno.» «È dell'anno scorso... ha avuto un inverno intero per invecchiare» dissi, e le tolsi la bottiglia dalle mani per stapparla con il mio coltello. Molly mi osservò arrabattarmi per un poco, poi me la riprese e, con il suo coltello sottile, trafisse il tappo e lo estrasse facendolo girare con una consumata abilità che le invidiai. Colse il mio sguardo e scrollò le spalle. «Stappo bottiglie per mio padre da quando ho memoria. Un tempo era troppo ubriaco per farlo. Ora non ha più forza nelle mani, anche quando è sobrio.» Nelle sue parole si mescola-
vano dolore e amarezza. «Ah.» Cercai disperatamente un argomento più piacevole. «Guarda, la Ninfa delle Piogge.» Indicai verso l'acqua, dove una nave dalla chiglia snella entrava a remi nella cala. «Ho sempre pensato che fosse la nave più bella del porto.» «È stata di pattuglia. I mercanti di stoffe hanno fatto una colletta. Hanno contribuito quasi tutti i commercianti del borgo. Perfino io, anche se ho potuto fare a meno solo delle candele per le sue lanterne. Ora ha un equipaggio di guerrieri e scorta le navi fra qui e Montagnole. La Spuma Verde le incontra là e le porta più su lungo la costa.» «Non lo sapevo.» Strano che non avessi sentito una cosa del genere su alla fortezza. Il mio cuore sprofondò; perfino Borgo Castelcervo prendeva misure indipendenti dal consiglio o dal consenso del re. Lo dissi. «Ebbene, la gente fa quello che può, se re Sagace ha solo intenzione di schioccare la lingua e aggrottare la fronte. A lui va bene ordinarci di essere forti, mentre se ne sta seduto al sicuro nel suo castello. Non sarà suo figlio o suo fratello o la sua bambina a essere Forgiata.» Mi vergognai perché non sapevo che dire in difesa del mio re. E la vergogna mi punse a rispondere: «Ebbene, tu sei quasi al sicuro come il re in persona, dato che vivi quaggiù a Borgo Castelcervo.» Molly mi guardò con calma. «Avevo un cugino che faceva l'apprendista a Forgia.» Fece una pausa, poi aggiunse cautamente: «Forse mi riterrai insensibile se dico che siamo stati sollevati di sentire che era solo stato ucciso? Per una settimana o due non abbiamo avuto certezze, ma finalmente abbiamo parlato con uno che l'ha visto morire. E mio padre e io ne siamo stati sollevati. Abbiamo potuto piangerlo, sapendo che la sua vita era semplicemente finita e che ci sarebbe mancato. Non dovevamo più chiederci se era ancora vivo e si stava comportando come una bestia, causando infelicità agli altri e vergogna a se stesso.» Rimasi in silenzio per un poco. Poi: «Mi dispiace.» Sembrava inadeguato, e tesi la mano per batterla sulla sua mano immobile. Per un secondo fu come se non percepissi nulla, come se il suo dolore l'avesse irrigidita in una insensibilità emotiva pari a quella di un Forgiato. Ma poi sospirò e io risentii la sua presenza accanto a me. «Lo sai,» azzardai «forse neanche il re sa cosa fare. Forse anche lui non sa dove trovare una soluzione, come noi.» «Lui è il re!» protestò Molly. «Ed è stato chiamato Sagace perché fosse sagace. La gente adesso dice che esita perché tiene stretti i cordoni della
borsa. Perché dovrebbe pagare dal suo Tesoro, quando i mercanti disperati ingaggiano mercenari a proprie spese? Ma adesso basta...» Sollevò una mano per impedirmi di rispondere. «Non siamo venuti qui, nella pace e nel fresco, per parlare di politica e di paure. Piuttosto, raccontami che cosa hai fatto. La cagna macchiata ha già avuto i cuccioli?» E così parlammo di altre cose, dei cuccioli di Pezzata e della cavalla in calore che aveva trovato lo stallone sbagliato, e poi Molly mi raccontò di aver trovato alcune pigne per profumare le sue candele e di aver raccolto i mirtilli, e che la settimana successiva sarebbe stata occupata a fare marmellate di mirtilli per l'inverno mentre continuava a occuparsi della bottega e a fabbricare candele. Parlammo e mangiamo e bevemmo e guardammo il tardo sole d'estate che indugiava basso sull'orizzonte, quasi al tramonto ma non del tutto. Sentivo la tensione fra noi come una sensazione piacevole, una specie di incanto sospeso. La vedevo come un'estensione del mio strano nuovo senso, e quindi fui meravigliato che anche Molly sembrasse sentirla e reagire a essa. Volevo parlargliene, chiederle se anche lei era così consapevole delle altre persone. Ma temevo che se glielo avessi chiesto avrei potuto rivelarmi come avevo fatto con Umbra, o che Molly potesse esserne disgustata come di certo sarebbe stato Burrich. Così sorrisi, e continuammo a parlare, e io mi tenni i miei pensieri per me. L'accompagnai a casa attraverso le strade silenziose e le augurai la buonanotte sulla porta della bottega. Molly fece una pausa per un momento, come pensando a qualcos'altro da dire, ma poi mi rivolse soltanto uno sguardo dubbioso e mormorò sommessamente: «Buonanotte, Pivello.» Tornai a casa sotto un cielo profondamente blu trafitto da stelle lucenti, passando davanti alle sentinelle impegnate nelle loro eterne partite a dadi, e poi su alle scuderie. Feci un rapido controllo degli stalli, ma tutto era calmo e in ordine, perfino i nuovi cuccioli. Notai due cavalli sconosciuti in uno dei recinti, e il palafreno di una signora era stato portato in uno stallo. Qualche nobildonna in visita alla corte, decisi. Mi chiesi che cosa l'avesse portata lì alla fine dell'estate, e ammirai la qualità dei suoi cavalli. Poi lasciai le stalle e mi diressi alla fortezza. Per abitudine i miei passi mi portarono alle cucine. La cuoca conosceva bene l'appetito degli stallieri e dei soldati, e sapeva che i pasti regolari non sempre bastavano a saziarli. Particolarmente negli ultimi tempi mi era capitato di sentirmi affamato a qualsiasi ora, e madama Presta aveva dichiarato che se non smettevo di crescere così in fretta avrei dovuto vestirmi di
corteccia come un uomo selvaggio, dato che non sapeva più come fare a farmi star bene i vestiti addosso. Pensando alla grossa scodella di argilla coperta da un panno che la cuoca teneva rifornita di morbidi biscotti, e a una certa ruota di formaggio particolarmente saporito, e a una birra come accompagnamento ideale, entrai dalla porta della cucina. C'era una donna al tavolo. Stava mangiando una mela e del formaggio, ma quando mi vide entrare balzò in piedi con una mano sul cuore come se mi avesse scambiato per il Butterato in persona. Feci una pausa. «Non intendevo spaventarvi, signora. Avevo solo fame, e ho pensato di prendermi un po' di cibo. Vi dispiace se rimango?» La signora lentamente ricadde sulla sedia. Mi chiesi che cosa facesse una persona del suo rango da sola in cucina di notte, poiché il semplice abito color crema e la stanchezza sul suo viso non potevano nascondere la sua nascita nobile. Indubbiamente era lei la padrona del palafreno nella stalla, e non la domestica di qualche dama. Se si era svegliata per la fame durante la notte, perché non aveva semplicemente chiamato una cameriera per farsi portare qualcosa? La mano con cui si stringeva il cuore salì a battere sulle labbra, come per calmare il suo respiro irregolare. Quando parlò, la sua voce era ben modulata, quasi musicale. «Non ti terrò lontano dal cibo. Ero solo un poco sorpresa. Sei... entrato così improvvisamente.» «Grazie, mia signora.» Camminai attraverso la grande cucina, dalla botte della birra al formaggio al pane, e dovunque andassi i suoi occhi mi seguivano. Il suo cibo era rimasto ignorato sulla tavola dove l'aveva lasciato cadere al mio ingresso. Mi girai dopo essermi versato un boccale di birra e scoprii i suoi occhi spalancati su di me. Distolse subito lo sguardo. Le sue labbra si muovevano, ma non diceva nulla. «Posso fare qualcosa per voi?» chiesi educatamente. «Aiutarvi a trovare qualcosa? Gradireste un bicchiere di birra?» «Se vuoi essere così gentile.» Parlò in un sussurro. Le portai il boccale che avevo appena riempito e lo appoggiai sulla tavola accanto a lei. La dama si ritrasse quando mi avvicinai, come se fossi stato contagioso. Mi chiesi se puzzavo per il mio lavoro alle stalle. Conclusi che non era così, perché Molly sicuramente me l'avrebbe detto. Molly era franca con me perfino su certe cose. Presi un altro boccale per me e poi, guardandomi intorno, decisi che sarebbe stato meglio portarmi il cibo su in camera. Tutto l'atteggiamento
della dama rivelava il suo disagio in mia presenza. Ma mentre lottavo per bilanciare biscotti e formaggio e boccale, lei indicò la panca davanti a sé. «Siediti» mi disse, come se mi avesse letto nel pensiero. «Non è giusto che io ti impedisca di mangiare.» Il suo tono non era né un ordine né un invito, ma una via di mezzo. Presi posto come mi indicava, versando un poco di birra mentre deponevo cibo e boccale sul tavolo. Sentivo i suoi occhi su di me mentre sedevo. Il suo cibo continuava a rimanere dimenticato davanti a lei. Abbassai la testa per evitare quello sguardo, e mangiai in fretta, furtivo come un topo in un angolo che sospetta un gatto in attesa dietro la porta. La dama mi fissava, uno sguardo non scortese ma aperto, che mi rendeva impacciato e acutamente consapevole di essermi appena asciugato la bocca distrattamente sulla manica. Non riuscivo a trovare niente da dire, eppure il silenzio mi tormentava. Il biscotto in bocca sembrava asciutto e mi fece tossire, e quando cercai di buttarlo giù con la birra per poco non mi strozzai. Le sue sopracciglia ebbero un sussulto, le labbra si strinsero più fermamente. Perfino con gli occhi abbassati sul piatto, sentivo il suo sguardo. Mi affrettai a finire il cibo, desiderando solo di sfuggire a quegli occhi nocciola e alla diritta bocca silenziosa. Mi cacciai in bocca gli ultimi pezzi di pane e formaggio e mi alzai in fretta, urtando il tavolo e quasi rovesciando la panca. Mi girai verso la porta, poi ricordai le istruzioni di Burrich su come ci si congeda dalla presenza di una signora. Ingoiai il boccone mezzo masticato. «Buonanotte a voi, signora» borbottai, pensando che non erano proprio le parole giuste, ma incapace di trovarne di migliori. Strisciai verso la porta. «Aspetta» disse la dama, e quando mi fermai, chiese: «Dormi di sopra, o alle stalle?» «Tutt'e due. Qualche volta. Voglio dire, l'una o l'altra. Ah, buonanotte, dunque, signora.» Mi girai e praticamente fuggii. Ero già a metà strada sulle scale quando riflettei sulla stranezza della domanda. Fu solo quando mi spogliai per andare a letto che mi resi conto che stringevo ancora in mano il mio boccale vuoto. Andai a dormire sentendomi un idiota, e chiedendomi perché. 12 Pazienza
Ben prima che venissero a tormentare le rive dei Sei Ducati, i Pirati della Nave Rossa erano una disgrazia e un'afflizione già per il loro popolo. Nati come un oscuro culto, assursero al potere politico e religioso tramite tattiche spietate. I capi e i signori che rifiutavano di conformarsi alle loro credenze spesso scoprivano che le loro mogli e figli erano caduti vittime di ciò che finimmo per denominare Forgiatura nel ricordo dello sfortunato villaggio di Forgia. Pur se consideriamo gli Isolani come un popolo crudele e dal cuore duro, nella loro tradizione scorre una forte vena di onore, e tenibili pene sono previste per coloro che infrangono le regole della famiglia. Immaginate l'angoscia del padre isolano il cui figlio è stato Forgiato. Deve decidere se nascondere i crimini di suo figlio quando il ragazzo gli mente, lo deruba e viola le donne della casa, oppure se farlo scuoiare vivo per i suoi crimini e patire sia la perdita dell'erede che del rispetto delle altre Case. La minaccia della Forgiatura era un forte deterrente per chi avesse voluto opporsi al potere politico dei Pirati della Nave Rossa. Quando i pirati cominciarono ad affliggere seriamente le nostre rive, avevano già soppresso gran parte dell'opposizione nelle Isole Esterne. I loro avversari più accesi erano morti o fuggiti. Altri pagavano con riluttanza i tributi e stringevano i denti davanti agli oltraggi dei capi del culto. Ma molti vi si unirono con gioia, e dipinsero di rosso le chiglie delle loro navi pirata e non misero mai in dubbio la validità di ciò che facevano. Sembra probabile che questi convertiti provenissero in maggioranza dalle casate minori, a cui in precedenza non era mai stata offerta l'occasione di crescere in influenza. Ma a colui che controllava i Pirati della Nave Rossa bastava avere l'incrollabile lealtà di un uomo, non importa chi fossero i suoi antenati. Vidi la dama altre due volte prima di scoprire chi era. La seconda volta fu la notte successiva, più o meno alla stessa ora. Molly era occupata con le sue marmellate, così ero uscito per una serata di musica nelle taverne assieme a Kerry e Dirk. Avevo bevuto forse uno o al massimo due bicchieri di birra in più di quanto avrei dovuto. Non mi girava la testa e non mi veniva da vomitare, ma guardavo dove mettevo i piedi, poiché avevo già fatto un capitombolo inciampando in una buca sulla strada buia. Alla fortezza c'è una zona recintata da una siepe, separata ma adiacente al cortile polveroso della cucina con i suoi ciottoli e le rimesse per i carri. Comunemente viene chiamato il Giardino delle Donne, non perché sia loro zona esclusiva, ma semplicemente perché sono loro a occuparsene e a co-
noscerlo. È un luogo piacevole, con uno stagno al centro e molte basse aiuole di erbe medicinali incastonate fra macchie di fiori, frutteti e sentieri lastricati di pietra verde. Non potevo andare subito a letto in quelle condizioni. Se avessi tentato di dormire, il letto avrebbe cominciato a girare e a ondeggiare, ed entro un'ora avrai vomitato anche l'anima. Era stata una serata piacevole, e sembrava un modo terribile per concluderla, così me ne andai al Giardino delle Donne invece che in camera mia. In un angolo del giardino, fra un muro riscaldato dal sole e uno stagno più piccolo, crescevano sette varietà di timo. La loro fragranza in un giorno caldo può dare le vertigini, ma in quel momento, mentre la sera si affacciava alla notte, l'armonia di profumi parve rinfrescarmi la mente. Mi sciacquai il viso nel piccolo stagno, e poi appoggiai la schiena al muro di roccia che ancora restituiva alla notte il calore del sole. Le rane chiacchieravano sommessamente. Abbassai gli occhi e osservai la superficie calma dello stagno per ritrovare stabilita. Rumore di passi. Poi la voce di una donna chiese acidamente: «Sei ubriaco?» «Non abbastanza» replicai amichevolmente, pensando che fosse Tilly, la giovane giardiniera. «Non abbastanza tempo o soldi» aggiunsi scherzando. «Suppongo che tu l'abbia imparato da Burrich. Quell'uomo è un idiota e un debosciato, e ha coltivato in te simili tratti. Trascina sempre al suo livello quelli che gli stanno intorno.» L'amarezza nella voce della donna mi fece alzare lo sguardo. Socchiusi gli occhi nella luce calante per distinguere i suoi lineamenti. Era la signora della sera prima. In piedi sul sentiero del giardino, in una veste semplice, appariva al primo sguardo poco più di una ragazza. Era snella, e più bassa di me, anche se io non ero particolarmente alto per i miei quattordici anni. Ma il viso era di una donna, e in quel momento la bocca era stretta in una linea di disapprovazione richiamata dalle sopracciglia aggrottate sopra agli occhi nocciola. I capelli erano scuri e ricci, e sebbene avesse cercato di legarli alcuni boccoli sfuggivano attorno alla fronte e al collo. Non che io mi sentissi in dovere di difendere Burrich; semplicemente la mia condizione non dipendeva da lui. Così risposi più o meno che si trovava a diverse miglia di distanza in un alto città, e non poteva certamente essere responsabile di quello che mi mettevo in bocca e mandavo giù. La dama si avvicinò di due passi. «Ma non ti ha mai insegnato di meglio, vero? Non ti ha mai consigliato di non ubriacarti, vero?» Secondo un detto delle terre del Sud, nel vino c'è la verità. Ce ne deve
essere un poco anche nella birra. Quella notte mi sentivo fin troppo sincero. «In effetti, mia signora, in questo momento sarebbe molto scontento di me. Per prima cosa mi rimprovererebbe perché non mi alzo quando una signora si rivolge a me.» E qui mi tirai in piedi barcollando. «E poi mi farebbe una lunga predica severa sul comportamento che ci si aspetta da chi vanta il sangue di un principe, anche se non i suoi titoli.» Feci un inchino, ed essendoci riuscito mi feci bello raddrizzandomi con uno svolazzo. «Dunque, buona serata a voi, bella Dama del Giardino. Vi auguro la buonanotte, e rimuoverò la mia scempiaggine dalla vostra presenza.» Ero già arrivato fino all'arco d'ingresso quando la dama mi richiamò: «Aspetta!» Ma il mio stomaco emise un sommesso brontolio di protesta, e io feci finta di non sentire. Lei non mi seguì, ma sono sicuro che mi guardava, e così camminai a testa alta e con passo regolare fino a quando non fui fuori dal cortile della cucina. Scesi alle scuderie, dove vomitai nella pila del letame, e finii per dormire in uno stallo vuoto e pulito perché i gradini che portavano all'alloggio di Burrich apparivano decisamente troppo ripidi. Ma la gioventù ha incredibili capacità di recupero, specialmente quando si sente minacciata. Il giorno dopo ero in piedi all'alba, perché sapevo che Burrich tornava quel pomeriggio. Mi lavai alle stalle, e decisi che la camicia che indossavo da tre giorni doveva essere sostituita. Fui doppiamente consapevole delle sue condizioni quando la dama misteriosa mi avvicinò nel corridoio fuori della mia stanza. Mi guardò dalla testa ai piedi, e prima che potessi parlare mi apostrofò. «Cambiati la camicia» mi ordinò. E poi aggiunse: «Quelle brache ti fanno sembrare una cicogna. Di' a madama Presta che bisogna sostituirle.» «Buongiorno, signora.» Non era una risposta, ma furono le uniche parole che mi salirono alle labbra nella mia sorpresa. Decisi che era molto eccentrica, ancor più di dama Maggiorana. La cosa migliore che potevo fare era darle corda. Mi aspettavo che si girasse e se ne andasse. E invece continuava a trattenermi con gli occhi. «Suoni qualche strumento?» domandò. Scossi la testa senza parole. «Allora canti?» «No, mia signora.» La dama apparve turbata e chiese: «Allora forse ti è stato insegnato a recitare le Epiche e i versi di conoscenza delle erbe e della guarigione e della navigazione... quel genere di cose?»
«Solo quelli che parlano della cura dei cavalli, dei falchi e dei cani» risposi, quasi onestamente. Burrich aveva insistito che li imparassi. Umbra mi aveva insegnato la serie dei veleni e degli antidoti, ma mi aveva avvertito che non erano comunemente noti e non andavano recitati con leggerezza. «Ma sai ballare, naturalmente? E ti hanno insegnato a comporre versi?» Ero del tutto confuso. «Signora, credo che voi mi abbiate scambiato con qualcun altro. Forse state pensando ad Augusto, il nipote del re. Ha soltanto un anno o due meno di me e...» «Non mi sbaglio. Rispondi alla mia domanda!» ordinò con voce quasi stridula. «No, mia signora. Le cose di cui parlate sono riservate a quelli... di nascita nobile. Non mi sono state insegnate.» A ciascuno dei miei dinieghi, appariva sempre più turbata. La sua bocca si fece più diritta, e i suoi occhi nocciola si offuscarono. «Intollerabile» dichiarò, e girandosi in un turbinio di sottane si allontanò in fretta lungo il corridoio. Dopo un momento, entrai nella mia stanza, mi cambiai la camicia, e indossai il paio di brache più lungo che possedevo. Allontanai la signora dai miei pensieri e mi buttai a capofitto nei miei lavori e nelle lezioni della giornata. Pioveva quel pomeriggio quando Burrich ritornò. Lo incontrai fuori dalle scuderie, e gli presi le redini della cavalla mentre scendeva rigidamente dalla sella. «Sei cresciuto, Fitz» commentò, e mi osservò con occhio critico, come se fossi stato un cavallo o un cane che mostrava un potenziale inatteso. Aprì la bocca come per dire qualcosa di più, poi scosse la testa ed emise un mezzo sbuffo. «Ebbene?» mi chiese, e io cominciai il mio rapporto. Burrich era stato lontano poco più di un mese, ma gli piaceva conoscere le cose nei minimi dettagli. Camminava al mio fianco, ascoltandomi, mentre conducevo la sua cavalla allo stallo e cominciavo a prendermene cura. A volte ero sorpreso di quanto potesse essere simile a Umbra. Entrambi si aspettavano che io mi ricordassi i dettagli esatti, e che fossi in grado di riferire gli avvenimenti della settimana precedente o del mese precedente nel giusto ordine. Imparare a fare rapporto a Umbra non era poi stato così difficile; lui aveva semplicemente formalizzato ciò che Burrich da tempo esigeva da me. Anni dopo avrei compreso quanto era simile al rapporto che un soldato fa al suo superiore. Dopo aver udito il mio resoconto di tutto ciò che era successo in sua as-
senza, un altro se ne sarebbe andato in cucina o a fare un bagno. Ma Burrich insistette nel passeggiare per le sue scuderie, fermandosi a chiacchierare con uno stalliere o a parlare sottovoce a un cavallo. Quando arrivò al vecchio palafreno della dama, si fermò. Guardò il cavallo in silenzio per alcuni minuti. «Ho addestrato io questa bestia» disse bruscamente, e al suono della sua voce il cavallo si girò nello stallo a guardarlo e nitrì sommessamente. «Buongiorno, Serica» sussurrò Burrich, e accarezzò il naso morbido. Sospirò improvvisamente. «Dunque dama Pazienza è qui. Ti ha già visto?» Difficile rispondere. Mille pensieri in una volta mi si scontrarono nella testa. Dama Pazienza, la moglie di mio padre nonché, a parere di molti, la principale responsabile per il suo allontanamento dalla corte e da me. Era con lei che avevo chiacchierato in cucina e a cui avevo rivolto un saluto avvinazzato. Era lei che quella mattina mi aveva interrogato sulla mia educazione. Borbottai: «Non ufficialmente. Ma ci siamo incontrati.» Burrich mi sorprese con una risata. «La tua faccia è un quadro, Fitz. Noto dalla tua reazione che non è cambiata molto. La prima volta che io l'ho incontrata era nel giardino di suo padre. Era seduta sul ramo di un albero. Ha preteso che io le togliessi una scheggia dal piede, e si è levata la scarpa e la calza proprio lì. Proprio davanti a me. E non aveva la minima idea di chi fossi. Per me era lo stesso. Credevo che fosse la cameriera di una dama. È stato anni fa, naturalmente, addirittura qualche anno prima che il mio principe la incontrasse. Suppongo che non fossi molto più grande di quanto sia tu adesso.» Fece una pausa, e il suo viso si addolcì. «E aveva un orrendo cagnetto che portava sempre in giro in un cestello. Continuava a tossire e a vomitare palle di pelo. Lo chiamava Spolverino.» Si interruppe per un momento, e sorrise quasi con affetto. «Strano ricordare proprio questo, dopo tanti anni.» «Le piacevi quando ti ha incontrato per la prima volta?» chiesi poco diplomaticamente. Burrich mi guardò e i suoi occhi si fecero opachi. L'uomo scomparve dietro lo sguardo. «Più di adesso» disse bruscamente. «Ma questo importa poco. Sentiamo, Fitz. Che cosa pensa di te?» Bella domanda. Mi affrettai a riferire i nostri incontri, glissando sui dettagli per quel che ne avevo il coraggio. Ero a metà dell'incontro nel giardino quando Burrich alzò la mano. «Basta» mormorò. Io rimasi in silenzio.
«Quando tagliuzzi la verità per evitare di apparire sciocco, finisci per sembrare un idiota. Ricominciamo.» Ricominciai, e non gli risparmiai nulla, né del mio comportamento né dei commenti della signora. Alla fine attesi il suo giudizio. Invece tese la mano e accarezzò il naso del palafreno. «Certe cose cambiano con il tempo» disse infine. «E certe no.» Sospirò. «Ebbene, Fitz, hai la specialità di presentarti proprio alle persone che dovresti vivamente evitare. Sono sicuro che tutto questo porterà delle conseguenze, ma non ho la minima idea di quali saranno. Perciò, non ha senso preoccuparsi. Andiamo a vedere i cuccioli della cagna dei ratti. Hai detto che ne ha fatti sei?» «Tutti sopravvissuti» annunciai orgogliosamente, dato che la cagna era famosa per i parti difficili. «Speriamo di sopravvivere anche noi» borbottò Burrich mentre attraversavamo le scuderie, ma quando gli gettai un'occhiata, sorpreso, mi parve che non stesse affatto parlando con me. «Pensavo che avessi il buon senso di evitarla» brontolò Umbra. Non era l'accoglienza che mi aspettavo dopo più di due mesi di assenza dalle sue stanze. «Non sapevo che fosse dama Pazienza. Sono sorpreso che non ci siano stati pettegolezzi sul suo arrivo.» «Lei combatte strenuamente i pettegolezzi» mi informò Umbra. Sedeva nel suo scranno davanti al piccolo fuoco nel camino. Le sue stanze erano gelide, e lui era sempre vulnerabile al freddo. Quella notte appariva anche stanco, sfinito da qualsiasi cosa avesse fatto nelle settimane in cui non lo avevo visto. Particolarmente le mani apparivano vecchie, scarne e ossute. Bevve un sorso di vino e continuò. «E ha una sua maniera eccentrica di liquidare chi parla di lei alle sue spalle. Ha sempre insistito perché le fosse accordata riservatezza. È una delle ragioni per cui sarebbe stata una pessima regina. Non che a Chevalier importasse. Fu un matrimonio che fece per se stesso piuttosto che per la politica. Credo che sia stata la prima grande delusione che diede a suo padre. Dopo di allora, non ha mai fatto nulla che soddisfacesse completamente Sagace.» Sedevo immobile come un topo. Arrivò Quatto e mi si appollaiò sulle ginocchia. Era raro che Umbra fosse così loquace, specialmente riguardo alle faccende della famiglia reale. Non osavo respirare per timore di interromperlo. «A volte penso che ci fosse qualcosa in Pazienza di cui Chevalier istintivamente sapeva di aver bisogno. Era un uomo attento e ordinato, sempre
corretto, sempre esattamente consapevole di quello che stava succedendo attorno a lui. Era un vero cavaliere, ragazzo, nel miglior senso della parola. Non cedeva a impulsi malvagi o meschini. Per questo irradiava sempre una certa aria di riserbo; così coloro che non lo conoscevano bene lo ritenevano freddo o sgarbato. «E poi incontrò questa ragazza... e lei era davvero poco più che una ragazza. E non aveva molta più sostanza delle ragnatele e della schiuma del mare. I suoi pensieri e parole saltavano sempre da un argomento all'altro, un continuo chiacchiericcio, senza mai una pausa o una connessione che io riuscissi a vedere. Di solito mi sfinivo solo ad ascoltarla. Ma Chevalier sorrideva, e si meravigliava. Forse perché la fanciulla non era minimamente in soggezione. Forse perché non sembrava particolarmente ansiosa di conquistarlo. Ma sebbene fosse corteggiato da decine di dame più confacenti, di nascita migliore e di intelligenza più viva, scelse Pazienza. E non era neanche il miglior momento per sposarsi; quando la prese in moglie, chiuse la porta a una dozzina di possibili alleanze che un'altra moglie gli avrebbe portato. Non aveva nessuna ragione di sposarsi in quel momento. Nessuna.» «Se non che così voleva» dissi, e poi avrei voluto mordermi la lingua. Umbra annuì, e poi parve scrollarsi un poco. Distolse lo sguardo dal fuoco e mi fissò. «Ebbene. Basta con questi discorsi. Non ti chiederò come tu sia riuscito a fare tanta impressione su di lei, o che cosa le abbia fatto cambiare idea nei tuoi confronti. Ma la settimana scorsa è andata da Sagace a chiedere che tu venga riconosciuto come il figlio ed erede di Chevalier, e che riceva un'educazione adatta a un principe.» Ero sbalordito. Gli arazzi ondeggiavano davvero davanti a me o era uno scherzo dei miei occhi? «Naturalmente il re ha rifiutato» continuò Umbra senza pietà. «Ha cercato di spiegarle che una cosa del genere è completamente impossibile. Lei continuava a dire: 'Ma voi siete il re. Come può essere impossibile per voi?' 'I nobili non lo accetterebbero mai. Significherebbe una guerra civile. E pensate a cosa accadrebbe a un ragazzino impreparato, cacciato improvvisamente in questa situazione.' Così le ha detto.» «Oh» esclamai piano io. Non riuscivo a ricordare che cosa avessi provato un istante prima. Entusiasmo? Rabbia? Paura? Sapevo solo che adesso la sensazione se ne era andata, e mi sentivo stranamente spogliato e umiliato per aver provato qualcosa.
«Pazienza, naturalmente, non è stata per niente convinta. 'Preparate il ragazzo' ha detto al re. 'E quando è pronto, giudicate voi stesso.' Solo Pazienza avrebbe chiesto una cosa del genere, e davanti a Veritas e a Regal. Veritas è rimasto ad ascoltare in silenzio, sapendo come andava a finire, ma Regal era livido. Si agita troppo facilmente. Perfino un idiota dovrebbe sapere che Sagace non poteva accettare la richiesta di Pazienza. Ma il re sa quando scendere a compromessi. Le ha concesso tutto il resto, soprattutto per farla tacere, credo.» «Tutto il resto?» ripetei stupidamente. «Qualcosa a nostro favore, qualcosa a nostro discapito. O quantomeno, sarà una dannata seccatura.» Umbra sembrava infastidito e insieme entusiasta. «Spero che tu riesca ad avere una giornata più lunga, ragazzo, perché non ho intenzione di sacrificare i miei piani per i suoi. Pazienza ha preteso che tu venga educato come si conviene al tuo sangue. E ha promesso di occuparsene personalmente. Musica, poesia, danza, canto, buone maniere... spero che tu lo tollererai meglio di quanto facessi io. Anche se a Chevalier non ha mai fatto male, che io sappia. È anche stato capace di farne buon uso, talvolta. Ma tutto ciò impegnerà gran parte della tua giornata. Diventerai anche il paggio di Pazienza. Sei troppo grande, ma lei ha insistito. Personalmente, credo che rimpianga molte cose e che stia cercando di recuperare il tempo perduto, una cosa che non funziona mai. Dovrai ridurre il tuo addestramento nelle armi. E Burrich dovrà trovarsi un altro aiutante alle stalle.» Non mi importava un fico secco dell'addestramento nelle armi. Come Umbra mi aveva spesso fatto notare, un assassino davvero bravo agisce da vicino e in silenzio. Se imparavo bene il mio mestiere, non mi sarei mai trovato a brandire uno spadone contro qualcuno. Ma il tempo che passavo con Burrich... di nuovo ebbi la strana sensazione di non capire i miei sentimenti. Odiavo Burrich. A volte. Era presuntuoso, tirannico e insensibile. Si aspettava che io fossi perfetto, eppure mi diceva senza mezzi termini che non sarei mai stato ricompensato per questo. Ma era anche aperto, e sincero, e convinto che io potessi compiere quello che richiedeva da me... «Probabilmente ti stai chiedendo che genere di vantaggio Pazienza abbia conquistato per noi» proseguì Umbra noncurante. Sentivo l'entusiasmo represso nella sua voce. «È qualcosa che io ho richiesto due volte per te, e che mi è stato due volte rifiutato. Ma Pazienza ha logorato Sagace fino a spingerlo ad arrendersi. È l'Arte, ragazzo. Verrai addestrato nell'Arte.» «L'Arte» ripetei, senza comprendere quello che dicevo. Stava girando
tutto troppo in fretta per me. «Sì.» Annaspai per radunare i miei pensieri. «Burrich me ne ha parlato, una volta. Molto tempo fa.» Bruscamente ricordai il contesto della conversazione. Dopo che Nasuto accidentalmente ci aveva traditi. Burrich aveva detto che era l'opposto del senso che io condividevo con gli animali, quale che fosse. Lo stesso senso che mi aveva rivelato il cambiamento nella gente di Forgia. Addestrarmi nell'una mi avrebbe liberato dall'altro? O sarebbe stata una privazione? Pensai al senso che condividevo con cavalli e cani quando sapevo che Burrich non era in giro. Ricordai Nasuto, in un misto di calore e sofferenza. Non ero mai stato così vicino, prima o dopo, a un'altra creatura vivente. L'addestramento nell'Arte mi avrebbe portato via tutto questo? «Che ti prende, ragazzo?» La voce di Umbra era gentile, ma anche preoccupata. «Non lo so.» Esitai. Ma non osavo rivelare la mia paura neppure a Umbra. O la mia vergogna. «Niente, suppongo.» «Avrai sentito le vecchie storie sull'addestramento» indovinò lui, sbagliando di grosso. «Ascolta, ragazzo, non può essere così brutto. Chevalier lo ha fatto. Anche Veritas. E con la minaccia delle Navi Rosse, Sagace ha deciso di tornare agli antichi sistemi, ed estendere l'addestramento ad altri candidati idonei. Vuole una confraternita, o anche due, per sostenere quello che lui e Veritas possono fare con l'Arte. Galen non ne è entusiasta, ma io penso che sia un'ottima idea. Anche se, dato che sono un bastardo io stesso, non mi è mai stato permesso di addestrarmi. Così non ho davvero idea di come l'Arte potrebbe essere utilizzata per difendere le nostre terre.» «Sei un bastardo?» Le parole si riversarono fuori di me. Tutti i miei pensieri ingarbugliati furono improvvisamente troncati da questa rivelazione. Umbra mi fissava, sconvolto dalle mie parole come io dalle sue. «Naturalmente. Credevo che lo avessi capito tempo fa. Ragazzo, per essere così percettivo hai delle lacune davvero strane.» Guardai Umbra come per la prima volta. Erano state le cicatrici, forse, che me lo avevano nascosto. La rassomiglianza c'era. La fronte, la posizione delle orecchie, la linea del labbro inferiore. «Sei il figlio di Sagace» azzardai d'impulso, giudicando solo dal suo aspetto. Ancor prima che parlasse, compresi quanto erano sciocche le mie parole. «Figlio?» Umbra rise tetro. «Come si arrabbierebbe a sentirti dire una cosa del genere! Ma la verità lo infastidisce ancora di più. È il mio fratella-
stro più giovane, ragazzo, anche se lui è stato concepito nel talamo nuziale e io durante una campagna militare vicino a Lungosabbia.» Più sommessamente aggiunse: «Mia madre era un soldato quando fui concepito. Ma tornò a casa per mettermi al mondo, e in seguito sposò un vasaio. Quando mia madre morì, suo marito mi mise su un mulo, mi diede una collana che lei aveva portato e mi disse di consegnarla al re a Castelcervo. Avevo dieci anni. A quel tempo la strada da Laniera a Castelcervo era lunga e difficile.» Non riuscii a trovare qualcosa da dire. «Basta con queste storie.» Umbra si raddrizzò severamente. «Galen ti addestrerà nell'Arte. Sagace lo ha costretto. Alla fine lui ha ceduto, ma con riserve. Nessuno deve interferire con i suoi studenti durante l'addestramento. Vorrei che fosse diversamente, ma non posso farci nulla. Dovrai solo stare attento. Hai sentito parlare di Galen, vero?» «Un poco» dissi. «Solo quello che dicono di lui.» «Che cosa ne hai ricavato?» mi interrogò Umbra. Trassi un respiro e riflettei. «Mangia da solo. Non l'ho mai visto a tavola, con i soldati o nella sala da pranzo. Non lo vedo mai in giro a chiacchierare, nelle corti di addestramento o al lavatoio o in un giardino. Sta sempre andando da qualche parte, e sempre di corsa. Non tratta bene gli animali. Ai cani non piace, e controlla i cavalli con troppa forza, gli rovina la bocca e il carattere. Immagino che abbia circa l'età di Burrich. Si veste bene, è quasi raffinato come Regal. L'ho sentito definire un uomo della regina.» «Perché?» chiese prontamente Umbra. «È stato molto tempo fa. Guanto. È un soldato. È andato da Burrich una notte, un po' ubriaco e malridotto. Si era scontrato con Galen, e Galen l'aveva colpito in faccia con un frustino o qualcosa del genere. Guanto ha chiesto a Burrich di sistemarlo, perché era tardi e quella notte non avrebbe dovuto essere in giro a bere. Stava per montare di sentinella, o qualcosa di simile. Ha detto a Burrich che per caso aveva sentito Galen dire che Regal era due volte più degno del trono di Chevalier o Veritas, e che solo una stupida usanza lo teneva lontano dal potere. Galen aveva detto che la madre di Regal era più nobile della prima regina di Sagace. E tutti sanno che è vero. Ma quello che ha fatto arrabbiare Guanto abbastanza da dare inizio alla zuffa è stato che Galen aveva detto che la regina Désirée era ancora più nobile di Sagace stesso, perché aveva il sangue dei Lungavista da entrambi i suoi genitori, e Sagace soltanto da suo padre. Così Guanto ha cer-
cato di dargli un pugno, ma Galen si è spostato e lo ha colpito in faccia.» Tacqui. «Che altro?» mi incoraggiò Umbra. «Dunque, preferisce Regal più di Veritas o perfino del re. E Regal, ebbene, lo accetta. È più amichevole con lui di quanto non sia normalmente con i domestici o i soldati. Sembra seguire i suoi consigli, le poche volte che li ho visti insieme. È quasi buffo guardarli; si direbbe che Galen cerchi di scimmiottare Regal, dal modo in cui si veste e cammina come il principe. A volte addirittura si assomigliano.» «Davvero?» Umbra si fece più vicino, in attesa. «Che altro hai notato?» Frugai nella mia memoria in cerca di ulteriori notizie di prima mano su Galen. «Tutto qui, penso.» «Ha mai parlato con te?» «No.» «Capisco.» Umbra annuì, quasi rivolgendosi a se stesso. «E che cosa ne sai della sua reputazione? Che cosa sospetti?» Stava cercando di condurmi a qualche conclusione, ma non riuscivo a immaginare quale. «Viene da Armento. È un uomo dell'Interno. La sua famiglia è arrivata a Castelcervo con la seconda regina di re Sagace. Ho sentito dire che ha paura dell'acqua, di navigare e di nuotare. Burrich lo rispetta, ma non lo ama. Dice che è un uomo che conosce il suo lavoro e lo sa fare, ma Burrich non sa andare d'accordo con chiunque maltratti un animale, sia pure per ignoranza. Agli inservienti della cucina non piace. Fa sempre piangere i più giovani. Accusa le ragazze di lasciare capelli nelle sue pietanze o di avere le mani sporche, e dice che i ragazzi sono troppo rumorosi e non servono correttamente il cibo. Così non piace neanche ai cuochi, perché quando gli apprendisti sono agitati non lavorano bene.» Umbra mi guardava ancora con interesse, come se stesse aspettando qualcosa di molto importante. Frugai nel mio cervello in cerca di altri pettegolezzi. «Porta una catena con tre gemme incastonate. Gliel'aveva data la regina Désirée, per aver compiuto qualche servizio speciale. Il Matto lo odia. Una volta mi ha detto che se non c'è nessuno in giro Galen lo chiama scherzo di natura e gli tira gli oggetti.» Le sopracciglia di Umbra si sollevarono. «Il Matto parla con te?» Il suo tono era più che incredulo. Si raddrizzò sulla sedia così improvvisamente che il vino schizzò dalla coppa e gli si versò sul ginocchio. Lo strofinò con la manica con fare distratto. «A volte» ammisi cautamente. «Non molto spesso. Solo quando gli pare.
Ogni tanto compare e mi dice delle cose.» «Cose? Che tipo di cose?» Mi resi conto improvvisamente che non avevo mai raccontato a Umbra l'indovinello dello strutto. Mi sembrò troppo complicato per parlarne in quel momento. «Oh, solo stranezze. Circa due mesi fa, mi ha fermato e ha detto che l'indomani sarebbe stato un brutto giorno per cacciare. Eppure il tempo era bello e limpido. È stato il giorno in cui Burrich ha preso quel grosso cervo. Te lo ricorderai. Abbiamo anche trovato un ghiottone. Ha ferito gravemente due cani.» «Per quel che mi ricordo, ha quasi preso anche te.» Umbra si chinò in avanti, con un'espressione stranamente compiaciuta sul viso. Scrollai le spalle. «Burrich lo ha messo in fuga. E poi mi ha insultato come se fosse stata colpa mia, e mi ha detto che mi avrebbe riempito di botte se quella bestia avesse fatto del male a Fuliggine. Come se io avessi potuto immaginare che si sarebbe rivoltato contro di me.» Esitai. «Umbra, lo so che il Matto è strano. Ma mi piace quando viene a parlare con me. Parla per indovinelli, e mi insulta, e mi sbeffeggia, e si permette di dirmi quello che dovrei fare, come lavarmi i capelli, o non vestirmi di giallo. Ma...» «Sì?» mi esortò Umbra come se quello che stavo dicendo fosse molto importante. «Mi piace» proclamai fiaccamente. «Mi prende in giro, ma da parte sua sembra una gentilezza. Mi fa sentire, ecco, importante. Perché sceglie di parlare con me.» Umbra si appoggiò nuovamente allo schienale. Portò la mano alla bocca per coprire un sorriso, ma non capivo lo scherzo. «Fidati del tuo istinto» mi disse brevemente. «E metti in pratica tutti i consigli che ti dà il Matto. E, come hai fatto finora, non dire a nessuno che viene a parlare con te. Alcuni potrebbero aversela a male.» «Chi?» domandai. «Re Sagace, forse. Dopo tutto, il Matto è suo. L'ha pagato e gli appartiene.» Una dozzina di domande si affacciarono nella mia mente. Umbra notò l'espressione sul mio viso, e sollevò una mano per tranquillizzarmi. «Non ora. È tutto quello che devi sapere, adesso. Anzi, più di quello che devi sapere. Ma la tua rivelazione mi ha sorpreso. Raccontare segreti che non sono i miei non è nel mio stile. Se il Matto vuole che tu ne sappia di più, può dirtelo lui stesso. Ma mi sembra di ricordare che stavamo discutendo
di Galen.» Affondai nuovamente nella mia sedia con un sospiro. «Galen. Dunque, è sgradevole con chi non può reagire, si veste bene e mangia da solo. Che altro devo sapere, Umbra? Ho avuto insegnanti severi, e ne ho avuti di antipatici. Credo che imparerò come comportarmi con lui.» «Farai meglio.» Umbra era mortalmente serio. «Perché ti odia. Ti odia più di quanto amasse tuo padre. La profondità di emozioni che provava per tuo padre mi innervosiva. Nessun uomo, neppure un principe, merita una tale cieca devozione, specialmente non così improvvisa. E te, ti odia con intensità ancora maggiore. Mi spaventa.» Qualcosa nel tono di Umbra suscitò una gelida nausea dal fondo del mio stomaco. Il disagio che provavo mi fece quasi star male. «Come fai a saperlo?» domandai. «Perché lo ha detto a Sagace quando Sagace gli ha ordinato di includerti fra i suoi allievi. 'Questo bastardo non dovrebbe imparare a stare al posto suo? Non dovrebbe accontentarsi di quello che voi avete stabilito per lui?' Poi ha rifiutato di insegnarti.» «Ha rifiutato?» «Te l'ho detto. Ma Sagace è stato inflessibile. E lui è il re, e Galen adesso deve obbedirgli, non importa che sia stato un uomo della regina. Così ha ceduto e ha detto che avrebbe cercato di insegnarti. Ti incontrerai con lui ogni giorno. A partire dal mese prossimo. Fino ad allora, sei nelle mani di Pazienza.» «Dove dovrò incontrarlo?» «C'è la cima di una torre chiamata il Giardino della Regina. Verrai ammesso lì.» Umbra fece una pausa, come se avesse voluto avvertirmi, ma senza spaventarmi. «Stai attento,» disse infine «perché entro le mura del giardino, io non ho influenza. Là sono cieco.» Era uno strano avvertimento, ma lo conservai nel cuore. 13 Ferrigno Dama Pazienza stabilì la sua eccentricità in tenera età. Da piccola le sue balie la trovavano cocciuta e indipendente, eppure le mancava il buonsenso di prendersi cura di se stessa. Una commentò: «Sarebbe andata in giro tutto il giorno con le stringhe slacciate perché non era capace di allacciarle da sola, eppure non tollerava che lo facesse qualcun altro.»
Prima dei dieci anni aveva deciso di evitare gli insegnamenti tradizionali adatti a una ragazza della sua posizione, e invece si interessava di arti che molto difficilmente si sarebbero rivelate utili: lavorare l'argilla, eseguire tatuaggi, creare profumi, e coltivare e far riprodurre piante, specialmente piante esotiche. Non aveva scrupoli a sottrarsi per lunghe ore alla sorveglianza. Preferiva i boschi e i frutteti alle corti e ai giardini di sua madre. Si sarebbe potuto pensare che questo avrebbe prodotto una bambina robusta e pratica. Nulla poteva essere più lontano dalla verità. Sembrava costantemente afflitta da irritazioni, graffi e punture, si perdeva spesso, e non sviluppò mai alcuna ragionevole diffidenza verso uomini o bestie. La sua educazione le venne in gran parte da lei stessa. Imparò a leggere e a far di conto in tenera età, e da quel momento studiò qualsiasi pergamena, libro o tavoletta che le capitasse a tiro, con un interesse avido e indiscriminato. I tutori spesso erano frustrati dalla sua facilità a distrarsi e dalle frequenti assenze, che tuttavia non sembravano influenzare affatto la sua abilità a imparare quasi tutto in fretta e bene. Eppure l'applicazione delle conoscenze acquisite non la interessava per niente. Aveva la testa piena di fantasia e immaginazione, sostituiva la poesia e la musica alla logica e alle buone maniere, non manifestava alcun interesse per le presentazioni in società e l'arte del corteggiamento. Eppure sposò un principe, che l'aveva corteggiata con un entusiasmo ossessivo, e fu il primo scandalo che le capitò. «In piedi diritto!» Mi irrigidii. «Non così! Sembri un tacchino con il collo teso che aspetta l'ascia. Rilassati di più. No, tieni indietro le spalle, non curvarle. Stai sempre con i piedi a papera?» «Signora, è solo un ragazzo. Sono sempre così, tutti angoli e ossa. Fatelo entrare e lasciate che sì senta a suo agio.» «Oh, molto bene. Vieni dentro, dunque.» Feci un cenno di gratitudine a una domestica dalla faccia tonda che mi restituì un sorriso tutto fossette. Mi indicò una panca piena a tal punto di cuscini e coperte che rimaneva a malapena spazio per sedersi. Mi appollaiai sul bordo ed esaminai la stanza di dama Pazienza. Era peggio di quella di Umbra. Avrei detto che si trattava dell'ingombro di anni, se non avessi saputo che la dama era arrivata solo di recente. Per-
fino un inventario completo della stanza non avrebbe potuto descriverla, perché era la giustapposizione degli oggetti che la rendeva notevole. Un ventaglio di piume, un guanto da scherma e un fascio di piante palustri erano infilati in uno stivale consumato. Un piccolo terrier nero con due cuccioli grassi dormiva in un cesto imbottito con un cappuccio di pelliccia e alcune calze di lana. Una famiglia di trichechi intagliati nell'avorio era radunata su una tavoletta che parlava di come ferrare i cavalli. Ma l'elemento dominante erano le piante. Grassi sbuffi di vegetazione verdeggiante traboccavano da vasi d'argilla, tazze da tè e boccali, e c'erano cesti di fiori e talee e rampicanti che si riversavano da teiere senza manici e scodelle incrinate. I fallimenti erano evidenti nei rametti nudi che spuntavano da vasi pieni di terra. Le piante erano appoggiate e raccolte in ogni luogo che prendesse il sole del mattino o del pomeriggio. L'effetto era quello di un giardino che si riversava dalle finestre e cresceva attorno alle carabattole nella stanza. «Probabilmente avrà anche fame, vero, Trina? Ho sentito dire che i ragazzi sono così. Credo che ci siano formaggio e biscotti sul tavolino vicino al mio letto. Prendili e daglieli, per favore, cara.» Dama Pazienza era poco distante da me e parlava con la sua cameriera oltre la mia testa. «Non ho fame, davvero, grazie» sbottai prima che Trina potesse tirarsi faticosamente in piedi. «Sono qui perché mi è stato detto... di rendermi disponibile per voi, ogni mattina, per tutto il tempo che mi volete.» Quella era un'attenta rielaborazione. Ciò che re Sagace in effetti mi aveva detto era: «Vai nelle sue stanze ogni mattina, e fai tutto quello che lei pensa che tu debba fare, così mi lascerà in pace. E continua fino a quando non sarà stufa di te così come io lo sono di lei.» La sua franchezza mi aveva sbalordito, perché non lo avevo mai visto così esasperato. Veritas era entrato nella stanza mentre io stavo affrettandomi a uscire, e anche lui sembrava distrutto. Dall'aspetto e da come parlavano, si sarebbe detto che entrambi avessero bevuto troppo la sera prima, eppure io li avevo visti tutti e due a tavola in una marcata assenza di allegria e di vino. Veritas mi spettinò i capelli mentre lo oltrepassavo. «Assomiglia sempre di più a suo padre ogni giorno che passa» commentò rivolto a Regal che lo seguiva torvo. Regal mi folgorò con lo sguardo mentre entrava nella stanza del re e chiuse rumorosamente la porta dietro di sé. E dunque ero lì, nella camera della signora, e lei passeggiava evitandomi e parlando senza guardarmi come se io fossi stato un animale che potesse
colpirla improvvisamente o sporcare i tappeti. Notai che Trina ne era molto divertita. «Sì. Lo sapevo già, vedi, perché sono stata io a chiedere al re che tu venissi mandato qui» mi spiegò meticolosamente dama Pazienza. «Sì, signora.» Mi agitai sul mio pezzettino di panca e cercai di apparire intelligente e educato. Ricordando le altre volte che ci eravamo incontrati, non potevo certo biasimarla se mi trattava come un imbecille. Cadde il silenzio. Io osservavo gli oggetti nella stanza. Dama Pazienza guardava verso una finestra. Trina sedeva e sogghignava fra sé e fingeva di lavorare al chiacchierino. «Oh. Ecco.» Veloce come un falco in picchiata, dama Pazienza si chinò e afferrò per la collottola il cucciolo nero di terrier. Lui emise un guaito di sorpresa, e sua madre alzò uno sguardo seccato mentre dama Pazienza me lo cacciava in braccio. «Questo è per te. Adesso è tuo. Ogni ragazzo dovrebbe avere un animale da compagnia.» Afferrai il cucciolo che si dibatteva e riuscii a tenerlo prima che lei lo lasciasse andare. «O magari preferiresti un uccellino? Ho una gabbia di fringuelli nella mia stanza da letto. Potresti averne uno, se preferisci.» «Uh, no. Un cucciolo va bene. È fantastico.» La seconda parte della frase fu diretta al cagnolino. La mia reazione istintiva al suo acuto guaire era stata di cercarlo con calma. Sua madre aveva avvertito il mio contatto con lui, e approvava. Si sistemò con indifferenza nel cestino insieme al cucciolo bianco. Il cagnolino alzò lo sguardo su di me e incontrò direttamente i miei occhi. Questo, nella mia esperienza, era abbastanza insolito. La maggior parte dei cani evitavano il contatto diretto prolungato. Ma altrettanto insolita era la sua consapevolezza. Sapevo dagli esperimenti segreti nella stalla che la maggior parte dei cuccioli della sua età non avevano molto più che una consapevolezza nebulosa di se stessi, ed erano più che altro interessati alla mamma e al latte e ai bisogni immediati. Questo piccoletto aveva in sé un'identità solidamente stabilita, e un interesse profondo per tutto quello che succedeva attorno a lui. Gli piaceva Trina, che gli dava pezzettini di carne, ed era diffidente di Pazienza, non perché fosse crudele, ma perché gli inciampava addosso e continuava a rimetterlo nel cestino ogni volta che lui faticosamente ne usciva. Pensava che io avessi un odore molto interessante, e gli odori dei cavalli e degli uccelli e degli altri cani erano come colori nella mia mente, immagini di cose che per il momento non avevano forma o realtà per lui, ma che trovava lo stesso affascinanti. Immaginai gli odori per lui, e il cucciolo mi si arrampicò sul petto, agitan-
dosi, annusando e leccandomi per l'emozione. Prendimi, fammi vedere, prendimi. «... stai ascoltando?» Io trasalii, aspettandomi una sberla da Burrich, poi tornai alla consapevolezza di dov'ero e della donnina in piedi davanti a me con le mani sui fianchi. «Credo che ci sia qualcosa che non va in lui» osservò improvvisamente, rivolta a Trina. «Hai visto come stava seduto lì a fissare il cucciolo? Credevo che stesse per venirgli un qualche attacco.» Trina sorrise benevolmente e continuò a lavorare. «Mi ricordava proprio voi, mia signora, quando cominciate a trafficare con le vostre foglie e pezzi di piante e finite per fissare la terra.» «Ebbene» sospirò Pazienza, chiaramente seccata. «Una cosa è un adulto pensieroso» osservò fermamente «e un'altra è un ragazzo, se rimane lì con aria da idiota.» Più tardi, promisi al cucciolo. «Mi dispiace» dissi, e cercai di apparire pentito. «Ero solo distratto dal cagnolino.» Il quale si era accomodato nella piega del mio braccio e stava rosicchiando senza parere il bordo del mio giustacuore. Difficile spiegare quello che provavo. Dovevo prestare attenzione a dama Pazienza, ma quell'esserino rannicchiato contro di me irradiava gioia e soddisfazione. È esaltante essere improvvisamente proclamato il centro del mondo di qualcuno, anche se quel qualcuno è un cucciolo di otto settimane. Mi fece comprendere quanto mi fossi sentito profondamente solo, e quanto a lungo. «Grazie» dissi, e perfino io fui colto alla sprovvista dalla riconoscenza nella mia voce. «Grazie infinite.» «È solo un cucciolo» disse dama Pazienza, e con mia sorpresa parve quasi vergognarsi. Si girò e guardò fuori dalla finestra. Il cucciolo si leccò il naso e chiuse gli occhi. Caldo. Sonno. «Dimmi di te» disse improvvisamente la dama. Mi colse di sorpresa. «Che cosa vorreste sapere, signora?» Pazienza fece un piccolo cenno frustrato. «Che cosa fai ogni giorno? Che cosa ti hanno insegnato?» E allora cercai di raccontarglielo, ma mi accorsi che non era soddisfatta. Stringeva le labbra a ogni menzione di Burrich. Non sembrava colpita da nessuna parte del mio addestramento da guerriero. Di Umbra, non potevo dire nulla. Annuì con riluttante approvazione quando le dissi che studiavo le lingue, la scrittura e i numeri. «Bene» mi interruppe improvvisamente. «Almeno non sei un completo
ignorante. Se sai leggere, puoi imparare qualsiasi cosa. Se ne hai voglia. Hai voglia di imparare?» «Suppongo di sì.» Era una risposta tiepida, ma cominciavo a sentirmi bistrattato. Neppure il dono del cucciolo poteva bilanciare il modo in cui Pazienza sminuiva la mia educazione. «Suppongo che imparerai, dunque. Perché io voglio che tu lo voglia, anche se ancora non è così.» Improvvisamente era severa, una metamorfosi che mi lasciò confuso. «E come ti chiamano, ragazzo?» Di nuovo quella domanda. «Ragazzo va bene» borbottai. Il cucciolo addormentato sul mio braccio uggiolò per l'agitazione. Mi costrinsi a restare calmo per lui. Ebbi la soddisfazione di notare il breve sguardo turbato di Pazienza. «Io ti chiamerò, oh, Tommaso. Tom fra di noi. Ti piace?» «Suppongo di sì» dissi con determinazione. Burrich ci pensava molto di più quando doveva dare un nome a un cane. Non avevamo nessun Fido o Bobi alle scuderie. Burrich assegnava i nomi alle bestie come se fossero stati membri della famiglia reale, nomi che li descrivevano o tratti che lui sperava di trovare in loro. Perfino il nome di Fuliggine mascherava un tranquillo fuoco che avevo imparato a rispettare. Ma questa donna mi aveva chiamato Tom senza altro sforzo che un respiro trattenuto. Abbassai lo sguardo in modo che non potesse vedermi negli occhi. «Va bene, dunque» concluse Pazienza, con fin troppa vivacità. «Vieni domani alla stessa ora. Avrò qualcosa pronto per te. Ti avverto, mi aspetto uno sforzo di volontà da parte tua. Buona giornata, Tom.» «Buona giornata, signora.» Mi girai e me ne andai. Gli occhi di Trina mi seguirono, e poi tornarono in fretta alla padrona. Avvertivo la sua delusione, ma non capivo a che cosa si riferisse. Era ancora presto. Il primo colloquio con Pazienza era durato meno di un'ora. Non mi aspettavano da nessuna parte; avevo tempo per me. Mi diressi in cucina, a cercare avanzi per il mio cucciolo. Sarebbe stato facile portarlo alle scuderie, ma poi Burrich lo avrebbe scoperto. Non mi facevo illusioni riguardo a quello che sarebbe successo. Il cucciolo sarebbe rimasto nelle scuderie. Sarebbe stato nominalmente mio, ma Burrich avrebbe fatto in modo che quel legame appena creato fosse spezzato. Non avevo intenzione di permettere che accadesse. Feci i miei piani. Un cestino preso dai lavandai, un mucchietto di paglia con sopra una vecchia camicia come cuccia. Ancora non sporcava molto, e
man mano che cresceva il mio legame con lui lo avrebbe reso facile da addestrare. Per il momento, avrebbe dovuto rimanere da solo ogni giorno per diverse ore. Ma crescendo sarebbe potuto andare in giro con me. Prima o poi Burrich lo avrebbe scoperto. Accantonai risolutamente quel pensiero; lo avrei affrontato a tempo debito. Per il momento, aveva bisogno di un nome. Gli diedi una buona occhiata. Non era il tipico terrier riccioluto e schiamazzante. Avrebbe avuto il pelo corto e liscio, il collo tozzo e la bocca come una pala da carbone. Ma una volta cresciuto non mi sarebbe neppure arrivato al ginocchio, quindi non poteva portare un nome troppo importante. Non volevo che fosse un combattente. Quindi niente Zanna o Ringhio. Sarebbe stato tenace, e attento. Magari potevo chiamarlo Costante. O Guardia. «O Incudine. O Forgia.» Alzai lo sguardo. Il Matto uscì da un'alcova e mi seguì per il corridoio. «Perché?» chiesi. Non mi domandavo più come facesse a indovinare quello che stavo pensando. «Perché il tuo cuore verrà battuto contro di lui, e la tua forza sarà temprata nel suo fuoco.» «Mi sembra un po' troppo drammatico» obiettai. «E adesso Forgia è una brutta parola. Non voglio marchiare il mio cucciolo in questo modo. Solo l'altro giorno, giù al borgo, ho sentito un ubriaco gridare a un borseggiatore: 'Che la tua donna sia Forgiata!' Tutti in strada si sono fermati a guardare.» Il Matto scrollò le spalle. «Lo credo bene.» Mi seguì nella mia stanza. «Fabbro, allora. O Ferro. O Ferrigno. Me lo fai vedere?» Con riluttanza gli tesi il cucciolo, che si riscosse, si svegliò e poi si agitò fra le mani del Matto. Niente odore, niente odore. Attonito, gli diedi ragione. Perfino con il nasino nero del cucciolo che lavorava per me, il Matto non aveva alcun odore percettibile. «Attento. Non farlo cadere.» «Sono un Matto, non un deficiente» precisò il Matto, ma sedette sul mio letto e depose accanto a sé il cucciolo. Ferrigno cominciò ad annusare e mettere in disordine le coperte. Io mi sedetti dall'altra parte per evitare che si avventurasse troppo vicino al bordo. «E allora?» chiese con disinvoltura il Matto. «Le permetterai di comprarti con regali?» «Perché no?» Tentai di rispondere con superiorità. «Sarebbe un errore, per tutti e due.» Il Matto prese fra le dita la minuscola coda di Ferrigno, che si girò con un ruggito da cucciolo. «Vorrà darti
delle cose. Dovrai accettarle, perché non c'è un modo educato di rifiutare. Ma dovrai decidere se queste cose saranno un ponte fra di voi, o un muro.» «Conosci Umbra?» chiesi improvvisamente, dato che il Matto aveva parlato proprio come lui, e io dovevo saperlo subito. Non avevo mai menzionato Umbra a nessun altro, tranne che a Sagace, e non avevo mai sentito nessuno parlare di lui alla fortezza. «Ombra o luce, so quando tenere a freno la lingua. Sarebbe una buona cosa che lo imparassi anche tu.» Il Matto si alzò all'improvviso e andò alla porta. Esitò per un istante. «Ti ha odiato soltanto per i pruni mesi. E non era veramente odio verso di te; era una cieca gelosia verso tua madre, che aveva potuto dare un figlio a Chevalier, mentre lei non poteva. Dopo, il suo cuore si è addolcito. Voleva mandarti a chiamare, allevarti come se fossi stato suo. Alcuni potrebbero dire che voleva semplicemente possedere qualsiasi cosa fosse appartenuta a Chevalier. Ma io non credo.» Io fissavo il Matto. «Sembri un pesce, così a bocca aperta» osservò. «Ma naturalmente tuo padre rifiutò. Disse che poteva sembrare un riconoscimento formale del suo passato. Non credo che si trattasse di questo. Credo che sarebbe stato pericoloso per te.» Il Matto fece uno strano gesto con la mano, e un bastoncino di carne secca apparve fra le sue dita. Sapevo che doveva averlo nella manica, ma non riuscivo mai a vedere come compiva i suoi trucchi. Lasciò cadere la carne sul mio letto e il cucciolo ci saltò sopra avidamente. «Puoi farle del male, se vuoi» mi propose. «Si sente molto colpevole perché sei rimasto solo. E assomigli tanto a Chevalier che qualsiasi cosa tu dica sarà come uscito dalle sue labbra. Lei è come una gemma con un difetto. Se le dai un colpo preciso, andrà in mille pezzi. È già mezza matta, lo sai. Non sarebbero mai riusciti a uccidere Chevalier se lei non avesse acconsentito alla sua abdicazione. Almeno, non con tanta disinvolta indifferenza per le conseguenze. Lei lo sa.» «Chi è 'loro'?» domandai. «Chi 'sono' loro?» mi corresse il Matto, e improvvisamente scivolò via. Quando arrivai alla porta, era già sparito. Lo cercai, ma non ottenni niente. Come se fosse stato Forgiato. Rabbrividii a quel pensiero, e tornai da Ferrigno. Stava rosicchiando la carne, spargendo frammenti bavosi per tutto il letto. Lo osservai. «Il Matto se n'è andato» gli dissi. Il cucciolo agitò distrattamente la coda in risposta e continuò a rosicchiare il suo bastoncino di carne.
Era mio, era stato dato a me. Non era uno dei cani delle scuderie di cui mi occupavo: era mio, e al di là della conoscenza e dell'autorità di Burrich. Oltre ai miei vestiti e al braccialetto di rame che Umbra mi aveva dato, possedevo ben poco. Ma lui riempiva qualsiasi mancanza avessi mai avuto. Era un cucciolo pulito e sano. Adesso il pelo era liscio, ma crescendo sarebbe diventato ispido. Quando lo sollevai alla finestra, notai lievi venature nel mantello. Sarebbe stato un focato scuro, dunque. Scoprii una macchia bianca sul suo mento, e un'altra sulla zampa posteriore sinistra. Lui chiuse le piccole fauci sulla manica della mia camicia e la scosse violentemente, emettendo selvaggi ringhi di cucciolo. Io lo feci rotolare sul letto fino a quando non si afflosciò in un sonno profondo. Allora lo trasferii sul suo cuscino di paglia e mi diressi con riluttanza alle mie lezioni e alle commissioni del pomeriggio. Quella prima settimana con Pazienza fu una prova per tutti e due. Imparai a mantenere un filamento della mia attenzione sempre diretto verso Ferrigno, in modo che non si sentisse mai abbastanza solo da ululare quando lo lasciavo. Ma ci voleva pratica, così ero in qualche modo distratto. Burrich aggrottava la fronte, ma lo persuasi che era colpa delle mie sessioni con Pazienza. «Non ho idea di cosa voglia quella donna da me» gli dissi il terzo giorno. «Ieri era la musica. Nel giro di due ore, ha tentato di insegnarmi a suonare l'arpa, la siringa e il flauto. Ogni volta che arrivavo quasi a produrre qualche nota da uno strumento, me lo strappava via e mi ordinava di provarne un altro. Ha terminato la sessione dicendo che non ho attitudine alla musica. Questa mattina è stato il turno della poesia. Si è messa a insegnarmi quella della regina Guaritrice e del suo giardino. C'è un pezzo lungo che parla di tutte le erbe che coltivava e degli usi di ciascuna. E lei continuava a sbagliarsi, e si arrabbiava con me quando glielo ripetevo come l'aveva detto, dicendo che dovevo sapere che l'erba gatta non serve per fare gli impacchi e che la stavo prendendo in giro. È stato quasi un sollievo quando mi ha fatto fermare perché le avevo fatto venire un gran mal di testa. E quando mi sono offerto di portarle boccioli dal cespuglio di orchidee selvatiche per calmarle il dolore, si è tirata su e ha detto: 'Ecco! Lo sapevo che mi stavi prendendo in giro.' Non so come fare a compiacerla, Burrich.» «Perché dovresti volerla compiacere?» ringhiò lui, e io accantonai la questione. Quella sera, Trina venne alla porta della mia stanza. Bussò lievemente,
poi entrò, arricciando il naso. «Farai meglio a portar su un po' di erbe per il pavimento se hai intenzione di tenere qui quel cucciolo. E usa acqua e aceto quando ripulisci dove ha sporcato. Questa stanza puzza come una stalla.» «Suppongo di sì» ammisi. La guardai con curiosità e attesi. «Ti ho portato questo. Sembrava il tuo preferito.» Mi tese la siringa. Guardai i corti tubi spessi legati con strisce di cuoio. Era davvero lo strumento che mi era piaciuto di più. L'arpa aveva troppe corde, e il flauto mi era sembrato stridulo perfino quando lo aveva suonato Pazienza. «Me l'ha mandata dama Pazienza?» chiesi, confuso. «No. Non sa che l'ho presa. Penserà di averla persa nella baraonda, come al solito.» «Perché me l'avete portata?» «Per esercitarti. Quando avrai imparato un poco, torna da lei e falle sentire.» «Perché?» Trina sospirò. «Perché la farebbe stare meglio. E questo renderebbe la mia vita molto più facile. Non c'è nulla di peggio che essere la cameriera di una donna malinconica come dama Pazienza. Desidera disperatamente che tu riesca bene in qualcosa. Continua a metterti alla prova, sperando che tu manifesti qualche improvviso talento, in modo da potersi vantare di te e dire a tutti: 'Ecco, ve lo dicevo che c'era qualcosa in lui.' Ora, ho avuto figli anch'io, e so che i ragazzi non sono così. Non imparano, non crescono, non hanno buone maniere quando li si guarda. Ma basta girare lo sguardo, voltare la schiena, ed eccoli lì, più svegli, più alti, capaci di affascinare chiunque tranne le loro madri.» Ero un po' perso. «Volete che io impari a suonare la siringa, in modo che Pazienza sia felice?» «In modo che abbia la sensazione di averti dato qualcosa.» «Mi ha dato Ferrigno. Nulla che possa darmi sarà meglio di lui.» Trina apparve sorpresa dalla mia improvvisa sincerità. Ero sorpreso anch'io. «Ebbene. Potresti dirglielo. Ma potresti anche cercare di imparare a suonare la siringa o a recitare una ballata o a cantare una delle antiche preghiere. Quello forse lo capirebbe meglio.» Dopo che Trina se ne fu andata, rimasi seduto a pensare, preso fra rabbia e malinconia. Pazienza desiderava che io fossi un successo e sentiva di dover scoprire che ero abile in qualcosa. Come se prima di lei non avessi mai fatto o ottenuto nulla. Ma mentre riflettevo sui miei risultati, e su quel-
lo che la dama sapeva di me, compresi che ai suoi occhi dovevo apparire piuttosto scialbo. Sapevo leggere e scrivere, e occuparmi di un cavallo o di un cane. Ero anche capace di creare pozioni, mescolare sonniferi, compiere traffici illegali, mentire e fare trucchi con le carte; e tutto ciò non le sarebbe piaciuto neppure se lo avesse saputo. Dunque, ero qualcosa, oltre che una spia e un assassino? Il mattino successivo mi alzai presto e andai a cercare Piuma. Lo scrivano fu contento quando gli chiesi in prestito pennelli e colori. La carta che mi diede era migliore dei fogli per le esercitazioni, e mi fece promettere di mostrargli i miei sforzi. Chissà se sarei stato bene come apprendista di Piuma, mi chiesi mentre salivo le scale. Sicuramente non poteva essere più difficile di quello che mi toccava fare negli ultimi tempi. Ma il compito che avevo imposto a me stesso si rivelò più difficile di tutti quelli che Pazienza mi aveva affidato. Osservai Ferrigno addormentato sul suo cuscino. Come poteva la curva della sua schiena essere diversa dalla curva di una runa, le sfumature delle orecchie più difficili delle sfumature sulle foglie che copiavo fedelmente dai lavori di Piuma? Eppure lo erano, e sprecai fogli su fogli fino a quando non vidi improvvisamente che erano le ombre attorno al cucciolo a creare la curva della sua schiena e la linea del fianco. Dovevo dipingere di meno, non di più, e riprodurre ciò che l'occhio vedeva, piuttosto che ciò che la mente sapeva. Era tardi quando lavai i pennelli e li misi via. Avevo due disegni soddisfacenti, e un terzo che mi piaceva, anche se era morbido e indistinto, più come il sogno di un cucciolo che come un vero cucciolo. Più come quello che percepivo che come quello che vedevo, pensai. Eppure, quando mi trovai fuori dalla porta di dama Pazienza, guardai i fogli nella mia mano e improvvisamente mi vidi come un bambino che offre soffioni schiacciati e appassiti a sua madre. Che razza di passatempo era per un ragazzo? Se fossi stato veramente l'apprendista di Piuma, esercizi di questo genere sarebbero stati appropriati, dato che un bravo scrivano deve saper illustrare e miniare oltre che scrivere. Ma la porta si aprì e io mi ritrovai lì, con le dita ancora macchiate di pittura e le pagine umide in mano. Rimasi senza parole quando Pazienza mi disse seccata di entrare, che ero già abbastanza in ritardo. Sedetti sull'orlo di una sedia coperta da un mantello spiegazzato e da alcuni ritagli di punto croce non finiti. Mi misi accanto i miei dipinti, sopra a un mucchio di tavolette. «Penso che sapresti imparare a recitare versi, se scegliessi di farlo» fece
notare lei con una certa asprezza. «E quindi potresti imparare anche a comporli, se volessi. Il ritmo e la metrica non sono nulla di più che... quello è il cucciolo?» «Dovrebbe» mormorai, e non ricordo di aver provato un imbarazzo più terribile in vita mia. Pazienza sollevò cautamente i fogli e li esaminò uno per uno, tenendoli vicini e poi allontanandoli a distanza del braccio. Fissò più a lungo quello indistinto. «Chi li ha fatti?» chiese infine. «Non che siano una scusa per essere in ritardo. Ma mi sarebbe utile qualcuno che sappia riprodurre sulla carta con colori così veri ciò che l'occhio vede. Questo è il problema con tutti gli erbari che ho: tutte le erbe sono dipinte nello stesso verde, non importa che siano grigie o sfumate di rosa quando crescono. Tavolette fatte così non servono a imparare...» «Sospetto che abbia dipinto lui il cucciolo, signora» interruppe benignamente Trina. «E la carta, è migliore di quella che io ho dovuto...» Pazienza si interruppe improvvisamente. «Tu, Tommaso?» Fu la prima volta, credo, che ricordò di usare il nome che mi aveva dato. «Tu dipingi così?» Davanti al suo sguardo incredulo, riuscii ad annuire velocemente. La dama sollevò nuovamente i ritratti. «Tuo padre non sapeva tracciare una linea curva, se non su una mappa. Tua madre sapeva disegnare?» «Non ho ricordi di lei, signora» risposi rigido. Non credo che qualcuno avesse mai avuto il coraggio di chiedermi una cosa del genere. «Come, non hai ricordi? Ma avevi cinque anni. Devi ricordare qualcosa: il colore dei capelli, la voce, il modo in cui ti chiamava...» C'era forse una bramosia dolorosa nella sua voce, una curiosità che non sopportava di soddisfare del tutto? Quasi, per un momento, ricordai. Odore di menta, o forse... era scomparso. «Niente, signora. Se avesse voluto che io la ricordassi, non mi avrebbe abbandonato, suppongo.» Chiusi il mio cuore. Certamente non dovevo alcuna reminiscenza alla madre che non mi aveva tenuto, e non mi aveva più cercato. «Ebbene.» Credo che solo a quel punto Pazienza comprese di aver condotto la nostra conversazione in una zona difficile. Fissò il giorno grigio fuori dalla finestra. «Qualcuno ti ha insegnato bene» osservò improvvisamente, con troppa vivacità. «Piuma.» La dama non disse niente, e io aggiunsi: «Lo scrivano di corte, sapete. Avrebbe voluto che gli facessi da apprendista. È contento della mia
calligrafia, e adesso sta lavorando con me alla copiatura delle sue illustrazioni. Quando abbiamo tempo, naturalmente. Sono molto occupato, e lui è spesso fuori in cerca di nuovi tipi di papiro.» «Papiro?» chiese distrattamente la dama. «Gliene rimane poco. Ne aveva diversi rotoli, ma poco per volta li ha consumati. Li aveva ottenuti da un mercante, che li ha avuti da un altro, e poi da un altro prima di lui, quindi non sa quale sia la loro provenienza originale. Ma da quello che gli è stato detto, è fatto di giunchi triturati. È una carta di qualità decisamente migliore di tutte quelle che facciamo noi; è sottile, flessibile e non si frantuma facilmente con il tempo; eppure apporre bene l'inchiostro, senza assorbirlo al punto che i bordi delle rune si sbiadiscono. Piuma dice che molte cose cambierebbero se potessimo duplicarla. Con una buona carta robusta, chiunque potrebbe avere una copia delle tavolette dalla biblioteca della fortezza. Se la carta fosse più economica, un maggior numero di bambini potrebbe imparare a leggere e a scrivere, o così dice lui. Non capisco perché sia tanto...» «Non sapevo che qualcuno qui condividesse il mio interesse.» Un'improvvisa animazione illuminò il volto della dama. «Ha provato la carta fatta di radici di giglio schiacciate? Con quella ho ottenuto qualche successo. E anche con la carta creata prima intrecciando e poi pressando fogli fatti di filamenti di corteccia dall'albero di kinue. È forte e flessibile, eppure la superficie lascia molto a desiderare. A differenza di questa...» Gettò di nuovo un'occhiata ai fogli nella sua mano e rimase in silenzio. Poi chiese esitando: «Ti piace così tanto il cucciolo?» «Sì» risposi semplicemente, e improvvisamente i nostri occhi si incontrarono. Affondò in me lo sguardo inquieto con cui spesso scrutava fuori dalla finestra. Improvvisamente, i suoi occhi si colmarono di lacrime. «A volte, gli somigli così tanto che...» La voce si strozzò. «Avresti dovuto essere mio! Non è giusto, avresti dovuto essere mio!» Gridò le parole con tale forza che credetti che stesse per colpirmi. Invece balzò verso di me e mi afferrò al volo in un abbraccio, allo stesso tempo calpestando il suo cane e rovesciando un vaso da fiori. Il cane balzò via con un guaito, il vaso si frantumò sul pavimento, mandando acqua e schegge in tutte le direzioni, e la fronte della mia signora mi colpì in pieno sotto il mento, tanto che per un momento vidi solo scintille. Prima che potessi reagire, si staccò di scatto da me e fuggì nella sua stanza da letto con un grido come un gatto scottato. Sbatté la porta dietro di sé. Per tutto il tempo, Trina aveva continuato con il chiacchierino.
«A volte è così» osservò con indulgenza, e fece un cenno verso la porta. «Torna domani» mi ricordò, e aggiunse: «Lo sai, dama Pazienza si è proprio affezionata a te.» 14 Galen Galen, figlio di una tessitrice, giunse a Castelcervo da ragazzo. Suo padre era uno dei domestici personali della regina Désirée che l'avevano seguita da Armento. All'epoca, la maestra dell'Arte a Castelcervo era Sollecita. Costei aveva educato nell'Arte re Generoso e suo figlio Sagace, quindi, quando i figli di Sagace furono adolescenti, era già vecchissima. Chiese a re Generoso di poter istruire un apprendista, ed egli acconsentì. Il giovane Galen era grandemente favorito dalla regina, e dietro le esortazioni energiche di Désirée, allora futura regina, Sollecita scelse lui. All'epoca, come adesso, l'Arte era negata ai bastardi della casata dei Lungavista, ma quando il talento sbocciava inatteso fra coloro che non erano di sangue reale, veniva coltivato e ricompensato. Senza dubbio era il caso di Galen, un ragazzo il cui strano e inatteso talento attirò improvvisamente l'attenzione di una maestra dell'Arte. Quando i principi Chevalier e Veritas furono abbastanza cresciuti da essere addestrati nell'Arte, Galen aveva fatto sufficienti progressi da contribuire al loro addestramento, anche se aveva solo qualche anno più di loro. Ancora una volta la mia vita cercò un equilibrio, e brevemente lo trovò. Il disagio con dama Pazienza si consumò gradualmente nell'ammissione vicendevole che non saremmo mai stati a nostro agio o eccessivamente in confidenza l'uno con l'altra. Nessuno di noi due sentiva il bisogno di condividere i nostri sentimenti; anzi, ci tenevamo a debita distanza, e tuttavia giungemmo a comprenderci reciprocamente. Nella danza formale della nostra relazione c'erano momenti occasionali di autentica allegria, e a volte addirittura danzavamo alla stessa musica. Quando finalmente rinunciò all'idea di educarmi come un vero principe dei Lungavista, Pazienza fu in grado di insegnarmi molto, molto di più di quanto all'inizio non fosse stato nel suo programma. Guadagnai in effetti una conoscenza pratica della musica, ma questo avvenne grazie al prestito dei suoi strumenti e a molte ore di esperimenti privati. Diventai più il suo
galoppino che il suo paggio, e facendo commissioni per lei imparai parecchio dell'arte del profumiere, oltre ad aumentare grandemente la mia conoscenza delle piante. Perfino Umbra fu entusiasta di scoprire i miei nuovi talenti per la propagazione tramite radice o foglia, e seguì con interesse gli esperimenti, raramente riusciti, in cui dama Pazienza e io cercavamo di convincere i boccioli di un albero ad aprirsi e fare foglie quando venivano innestati su un altro albero. Pazienza aveva solo sentito mormorare di quella magia, ma non aveva scrupoli a tentarla. Perfino adesso, nel Giardino delle Donne, c'è un albero di mele con un ramo che produce pere. Quando espressi curiosità riguardo all'arte dei tatuaggi, rifiutò di lasciarmi marcare il mio corpo, dicendo che ero troppo giovane per una simile decisione. Ma senza alcun turbamento mi permise di osservare e infine aiutarla mentre si punzecchiava gradualmente la caviglia e il polpaccio e vi faceva colare la tintura sino a ottenere una ghirlanda intrecciata di fiori. Eppure tutto questo si sviluppò in mesi e anni, non giorni. Dopo dieci giorni ci eravamo assestati in una reciproca cortesia brutalmente sincera. Dama Pazienza incontrò Piuma e lo arruolò per il suo progetto della carta di radici. Il cucciolo cresceva bene, e costituiva per me un piacere più grande ogni giorno. Le commissioni che dovevo fare al borgo per la dama mi davano ampia opportunità di vedere i miei amici, specialmente Molly. La ragazza era una guida preziosa attraverso le bancarelle fragranti dove compravo le scorte di profumo per dama Pazienza. La Forgiatura e i Pirati della Nave Rossa potevano sempre comparire minacciosi all'orizzonte, ma per quelle poche settimane sembrarono un terrore remoto, come il ricordo del gelo dell'inverno in un giorno di mezza estate. Per un brevissimo periodo, fui felice, e, dono ancora più raro, seppi di essere felice. E poi cominciarono le mie lezioni con Galen. La sera prima, Burrich mi mandò a chiamare. Andai da lui chiedendomi per cosa sarei stato rimproverato. Lo trovai che mi aspettava fuori dalle scuderie, strascicando i piedi, irrequieto come uno stallone chiuso in un recinto. Subito mi fece cenno di seguirlo, e mi condusse alle sue stanze. «Tè?» offrì, e quando io annuii me ne versò una tazza da una teiera ancora calda sul focolare. «Che succede?» gli chiesi mentre mi porgeva la tazza. Non l'avevo mai visto così teso. Era così insolito per lui che temetti qualche notizia terribile - che Fuliggine era ammalata, o era morta, o che lui aveva scoperto Ferrigno. «Niente» mentì, e gli venne così male che lui stesso lo riconobbe subito.
«Si tratta di questo, ragazzo» confessò brusco. «Oggi è venuto da me Galen. Mi ha detto che sarai addestrato nell'Arte. E ha ordinato che nel frattempo io non interferisca in alcun modo: niente consigli, niente commissioni, neppure dividere un pasto con te. È stato molto... diretto riguardo a ciò.» Burrich fece una pausa, e io mi chiesi quale termine migliore avesse scartato. Distolse lo sguardo da me. «C'è stato un momento in cui speravo che ti fosse offerta questa possibilità, ma quando non successe pensai... ebbene, pensai che fosse la cosa migliore. Galen può essere un insegnante severo. Molto severo. L'ho già sentito dire. Incalza i suoi allievi, ma dichiara di non aspettarsi da loro più di quanto si aspetti da se stesso. E, ragazzo, questo l'ho sentito mormorare anche di me, se riesci a crederci.» Mi permisi un sorrisetto, e Burrich aggrottò la fronte in risposta. «Ascolta quello che ti dico. Galen non nasconde di non provare amore per te. Ovviamente, non ti conosce affatto, quindi non è colpa tua. Si basa solo su... su quello che sei, e quello che hai causato, ed El sa che non è stata colpa tua. Ma se Galen lo ammettesse, allora dovrebbe ammettere che è stata colpa di Chevalier, e non ho mai saputo che ammettesse alcun difetto in Chevalier... ma si può amare un uomo ed essere consapevoli dei suoi difetti.» Burrich fece un rapido giro per la stanza, poi tornò al fuoco. «Dimmi quello che vuoi dire» suggerii. «Ci sto provando» scattò lui. «Non è facile trovare le parole. Non sono neppure sicuro se dovrei parlare con te. È un'interferenza, o un consiglio? Ma le tue lezioni non sono ancora cominciate. Quindi adesso ti dico questo. Fai del tao meglio per lui. Non ribattere quando ti parla. Sii rispettoso e cortese. Ascolta tutto quello che dice e imparalo presto e bene.» Un'altra pausa. «Non avevo intenzione di fare diversamente» feci notare, un poco irritato, perché capivo che non era ciò che cercava di dire. «Lo so, Fitz!» sospirò Burrich improvvisamente, e si lasciò crollare al tavolo davanti a me. Premette i palmi sulle tempie come in preda al dolore. Non lo avevo mai visto così agitato. «Molto tempo fa, ti ho parlato di quell'altra... magia. Lo Spirito. La vicinanza con le bestie, quando si diventa quasi uno di loro.» Si interruppe e girò lo sguardo per la stanza come se avesse temuto che qualcuno potesse sentire. Si chinò verso di me e parlò con voce bassa e urgente. «Stanne lontano. Ho fatto del mio meglio per farti capire che è vergognoso e sbagliato. Ma non mi hai mai davvero dato ragione. Oh, lo so che rispetti la mia proibizione, il più delle volte. Ma altre volte ho percepito, o sospettato, che stavi trafficando con cose che
una brava persona non tocca. Te lo dico, Fitz, preferirei vederti... preferirei vederti Forgiato. Sì, non fare quella faccia sconvolta, è proprio così che mi sento. E quanto a Galen... Guarda, Fitz, non nominarglielo neanche. Non parlarne, non pensarci neanche quando sei vicino a lui. È il poco che so dell'Arte e di come funziona. A volte... oh, a volte, quando tuo padre mi toccava con l'Arte, sembrava conoscere il mio cuore prima che lo conoscessi io, e vedeva cose che io nascondevo perfino a me stesso.» Un rossore improvviso e profondo pervase il viso bruno di Burrich, e io credetti quasi di scorgere le lacrime nei suoi occhi scuri. Si distolse da me e guardò il fuoco, e io avvertii che ci stavamo avvicinando al cuore di ciò che aveva bisogno di dire. Che aveva bisogno di dire - non che lo volesse. C'era una profonda paura in lui, una paura che negava perfino a se stesso. Un uomo di minore statura, un uomo meno severo nei propri confronti, avrebbe tremato davanti a essa. «... paura per te, ragazzo.» Parlò alle pietre sopra al camino, e la sua voce era un brontolio così profondo che quasi non riuscii a capirlo. «Perché?» Una domanda semplice apre più facilmente le porte, così mi aveva insegnato Umbra. «Non so se lo vedrà in te. O che cosa farà se lo vede. Ho sentito... no. So che è vero. C'era una donna, anzi poco più di una ragazza. Sapeva comunicare con gli uccelli. Viveva sulle colline a ovest di qui, e si dice che potesse richiamare dal cielo un falco selvaggio. Alcuni la ammiravano, e dicevano che era un dono. Le portavano il pollame ammalato, o la chiamavano quando le galline non volevano deporre le uova. Faceva solo del bene, da quello che ho sentito. Ma Galen parlò contro di lei. Disse che era un abominio, e che sarebbe stato peggio per il mondo se avesse vissuto fino a riprodursi. E una mattina fu trovata picchiata a morte.» «Era stato Galen?» Burrich scrollò le spalle, un gesto che non gli era familiare. «Il suo cavallo era uscito dalla stalla quella notte. Questo lo so. E lui aveva le mani coperte di lividi, e graffi sul viso e sul collo. Ma non i graffi di una donna, ragazzo. Segni di artigli, come se un falco avesse cercato di colpirlo.» «E tu non hai detto niente?» chiesi incredulo. Burrich proruppe in una risata amara. «Un altro parlò prima che potessi farlo io. Galen fu accusato dal cugino della ragazza, che per caso lavorava qui alle scuderie. Galen non negò. Andarono alle Pietre Testimoni, e lottarono per la giustizia di El, che là prevale sempre. Più alta della corte del re è la risposta a una faccenda che si risolve in quel luogo, e nessuno può
opporsi. Il ragazzo morì. Tutti dissero che era la giustizia di El, che il ragazzo aveva accusato falsamente Galen. Uno lo riferì a Galen. E questi replicò che la giustizia di El era che la ragazza fosse morta prima di riprodursi, e così il suo cugino contaminato.» Burrich rimase in silenzio. Ero disorientato dalle sue parole, e una fredda paura cominciava a insinuarsi in me. Una volta decisa alle Pietre Testimoni, una questione non poteva essere sollevata di nuovo. Era più della legge, era lo stesso volere degli dèi. Dunque avrei avuto per insegnante un omicida, un uomo che avrebbe cercato di uccidermi se avesse sospettato che possedevo lo Spirito. «Sì» disse Burrich come se avessi parlato ad alta voce. «Oh, Fitz, figlio mio, stai attento, sii saggio.» E per un momento rimasi perplesso, perché sembrava che avesse paura per me. Ma poi aggiunse: «Non portarmi vergogna, ragazzo. Né a me né a tuo padre. Non lasciar dire a Galen che ho permesso che il figlio del mio principe crescesse come una mezza bestia. Mostragli che il sangue di Chevalier scorre davvero nelle tue vene.» «Ci proverò» mormorai. E quella sera andai a dormire infelice e spaventato. Il Giardino della Regina non era affatto vicino al Giardino delle Donne o all'orto della cucina o a qualsiasi altro giardino a Castelcervo. Era in cima a una torre circolare. Le mura che lo circondavano erano alte dalla parte che si affacciava sul mare, ma a sud e a ovest erano basse e dotate di panche. La cinta di pietra catturava il calore del sole e schermava dai venti salati del mare. L'aria lassù era immobile, come se qualcuno mi avesse messo le mani sulle orecchie. Eppure il giardino fondato sulla pietra aveva una strana qualità selvaggia. C'erano bacini di roccia, che forse un tempo erano stati fontane per gli uccelli o vasche di ninfee, e diverse conche e stagni e canali di terra, bordati di statue. Un tempo, probabilmente, le vasche e gli stagni erano stati traboccanti di verde e di fiori. Delle piante rimanevano soltanto pochi steli nudi e la terra coperta di muschio in fondo alle vasche. Lo scheletro di un rampicante strisciava su un traliccio mezzo marcito. Mi riempì di un'antica tristezza, più fredda del primo gelo dell'inverno che pure era presente lassù. Pensai che quel posto avrebbe dovuto finire in mano a Pazienza. Lei vi avrebbe riportato la vita. Io fui il primo ad arrivare. Poco dopo arrivò Augusto. Aveva la corporatura robusta di Veritas, così come io avevo l'altezza di Chevalier, e il colorito scuro dei Lungavista. Come sempre, fu distante ma educato. Mi con-
cesse un cenno del capo e poi cominciò a passeggiare, guardando le statue. Altri apparvero rapidamente dopo di lui. Fui sorpreso dal loro numero più di una dozzina. A parte Augusto, figlio della sorella del re, nessuno poteva vantare tanto sangue Lungavista quanto me. C'erano cugini e secondi cugini, di entrambi i sessi e sia più vecchi che più giovani di me. Augusto era probabilmente il più piccolo, avendo due anni meno di me, e Serena, una donna sui venticinque anni, doveva essere la più vecchia. Era un gruppo stranamente silenzioso. Alcuni facevano capannello, bisbigliando, ma la maggior parte vagavano qua e là, frugando nei giardini vuoti o guardando le statue. Poi arrivò Galen. Lasciò che la porta delle scale sbattesse dietro di lui. Diversi allievi sobbalzarono. Rimase a guardarci, e noi lo fissammo a nostra volta in silenzio. Ho notato qualcosa a proposito degli uomini smilzi. Alcuni, come Umbra, sembrano tanto assorti nelle loro faccende che dimenticano di mangiare, oppure bruciano nel fuoco del loro appassionato interesse per la vita tutto il nutrimento che assumono. Ma c'è un altro genere, quello che vaga come un cadavere, con le guance infossate e le ossa sporgenti, e chi lo guarda sospetta che disapprovi a tal punto il mondo intero da odiarne perfino i frammenti che assume in se stesso. In quel momento, avrei scommesso che Galen non aveva mai veramente apprezzato un boccone di cibo o un sorso di bevanda in vita sua. Il suo abito mi sorprese. Era ricco in maniera opulenta, con collo e colletto bordati di pelo, e la tunica tempestata tanto fittamente di ambra che avrebbe respinto una spada. Ma le ricche stoffe gli stavano tese addosso, gli abiti talmente su misura che c'era da chiedersi se al sarto fosse mancata la stoffa per finirli. In un periodo in cui le maniche a sbuffo tagliate a mostrare colori vivaci erano un segno di agiatezza, Galen indossava la camicia stretta come la pelle di un gatto. Gli stivali erano alti, e aderenti ai polpacci, e portava un frustino, come se fosse appena rientrato da una cavalcata. L'insieme appariva scomodo e, combinato alla magrezza, dava un'impressione di avarizia. I suoi occhi pallidi percorsero senza emozione il Giardino della Regina. Ci considerò, e immediatamente ci giudicò carenti. Emise un respiro attraverso il naso da falco, come chi affronta un compito spiacevole. «Fate largo» ci ordinò. «Mettete da parte tutta questa spazzatura. Accumulatela lì, contro quel muro. Sbrigatevi. Non ho pazienza per i fannulloni.» E così le ultime tracce del giardino furono distrutte. I vasi allineati e le
aiuole, ombre di antichi sentieri e pergolati, furono scompaginati. I vasi furono spostati da un lato, le graziose statuine accumulate precariamente sopra di essi. Galen parlò solo una volta, rivolgendosi a me. «Sbrigati, bastardo» mi ordinò mentre lottavo con un pesante vaso pieno di terra, e calò il frustino sulle mie spalle. Non fu un colpo forte, più che altro un tocco, ma parve tanto gratuito che interruppi i miei sforzi per girarmi a guardarlo. «Non mi hai sentito?» domandò. Io annuii, e tomai al mio vaso. Con la coda dell'occhio scorsi una strana soddisfazione sul suo viso. Sentivo che il colpo era stata una prova, ma non ero sicuro se l'avevo superata o meno. La sommità della torre divenne uno spazio vuoto, dove solo le tracce verdi del muschio e i mucchi di antica terra suggerivano il giardino che era stato un tempo. Galen ci ordinò di schierarci su due linee. Ci mise in ordine per età e dimensioni, e poi ci separò per genere, mettendo le ragazze dietro ai ragazzi e verso destra. «Non tollererò distrazioni o comportamento distruttivo. Voi siete qui per imparare, non per divertirvi» ci ammonì. Poi ci distanziò, facendoci allargare le braccia in tutte le direzioni per mostrare che non potevamo toccarci l'un l'altro, neppure sfiorarci con la punta delle dita. Da questo, mi aspettavo che sarebbero seguiti esercizi fisici, e invece Galen ci ordinò di rimanere immobili, con le braccia lungo i fianchi, e prestargli attenzione. Così, mentre stavamo in piedi sulla fredda cima della torre, si rivolse a noi. «Per diciassette anni sono stato Mastro d'Arte di questa fortezza. Prima di oggi, le mie lezioni venivano impartite a piccoli gruppi, con discrezione. Coloro che non mostravano promessa venivano allontanati senza clamore. In quel periodo i Sei Ducati non avevano bisogno di addestrare più di una manciata di adepti. Io istruivo soltanto i più promettenti, senza sprecare tempo con quelli che non avevano talento o disciplina. E negli ultimi quindici anni non ho iniziato nessuno all'Arte. «Ma tempi malvagi sono su di noi. Gli Isolani devastano le nostre coste e Forgiano la nostra gente. Re Sagace e il principe Veritas usano la loro Arte per proteggerci. Grandi sono i loro sforzi e molti i loro successi, anche se la gente comune non immagina nemmeno quello che fanno. Ve l'assicuro, contro le menti che io ho addestrato gli Isolani hanno poche speranze. Possono aver ottenuto un pugno di meschine vittorie, cogliendoci impreparati, ma le forze che ho creato per opporci a loro prevarranno!» Galen sollevò le mani al cielo mentre parlava, con i pallidi occhi ardenti. Rimase a lungo in silenzio, guardando verso l'alto, con le braccia tese sopra la testa, come per strappare il potere dal cielo stesso. Poi lasciò lenta-
mente ricadere le braccia. «Io lo so» proseguì con voce più calma. «Io lo so. Le forze che ho creato prevarranno. Ma il nostro re, che tutti gli dèi lo onorino e lo benedicano, dubita di me. E poiché lui è il mio re, io m'inchino al suo volere. Egli richiede che io cerchi fra voi rampolli di un sangue minore, per vedere se qualcuno possiede il talento e la volontà, la purezza di intenti e la severità dell'anima per essere addestrato nell'Arte. Io lo farò, poiché il mio re me lo ha ordinato. Le leggende dicono che in tempi antichi molti venivano addestrati nell'Arte, e lavoravano accanto ai loro re per distogliere il pericolo dalle loro terre. Forse era veramente così; o forse le antiche leggende esagerano. In ogni caso, il mio re mi ha ordinato di tentare di creare un'eccedenza di adepti dell'Arte, e dunque io ci proverò.» Ignorò completamente le cinque o sei donne del nostro gruppo. Neanche una volta i suoi occhi le sfiorarono. L'esclusione era tanto evidente che mi chiesi in quale modo lo avessero offeso. Conoscevo Serena superficialmente, dato che anche lei era stata un'allieva promettente di Piuma. Potevo quasi sentire il calore del suo disappunto. Nella fila accanto a me, uno dei ragazzi cambiò posizione. In un lampo Galen balzò davanti a lui. «Siamo annoiati? Le chiacchiere di un vecchio ci rendono irrequieti?» «Soltanto un crampo al polpaccio, signore» replicò il ragazzo, scioccamente. Galen gli diede uno schiaffo con il dorso della mano che gli fece vacillare la testa. «Stai zitto, e resta immobile. Oppure vattene. Per me è lo stesso. E già evidente che ti manca la resistenza per raggiungere l'Arte. Ma il re ti ha giudicato degno di essere qui, e quindi cercherò di insegnarti.» Tremai dentro di me. Parlando al ragazzo, Galen aveva fissato me. Come se in qualche modo il movimento del ragazzo fosse stata colpa mia. Fui pervaso da una forte antipatia per Galen. Avevo ricevuto la mia parte di lividi da Poiana nel corso del mio addestramento con i bastoni e con le spade, e perfino Umbra mi aveva un poco malmenato dimostrando i punti sensibili e le tecniche di strangolamento, e i modi di mettere a tacere un uomo senza disabilitarlo. Avevo ricevuto la mia parte di scappellotti, pedate e sberle da Burrich, alcuni giustificati, altri segno della frustrazione di un uomo indaffarato. Ma non avevo mai visto un uomo colpire un ragazzo con tanto apparente gusto come aveva fatto Galen. Lottai per mantenere il viso impassibile e guardarlo senza dare l'impressione di fissarlo. Perché sapevo che se avessi distolto lo sguardo sarei stato accusato di non prestargli attenzione.
Soddisfatto, Galen annuì fra sé, e poi ricominciò la sua predica. Per dominare l'Arte, doveva prima insegnarci a dominare noi stessi. La mortificazione fisica era la chiave. L'indomani, avremmo dovuto arrivare prima che il sole fosse sorto. Non dovevamo indossare scarpe, calze, mantelli o alcun indumento di lana. Dovevamo essere a testa scoperta. Il corpo doveva essere scrupolosamente pulito. Ci esortò a imitarlo nelle sue abitudini di cibo e di vita. Evitare la carne, la frutta dolce, i piatti conditi, il latte e 'i cibi frivoli'. Suggeriva semolini e acqua fredda, pane semplice e radici bollite. Dovevamo scansare qualsiasi conversazione non necessaria, specialmente con quelli dell'altro sesso. Ci ammonì a lungo contro qualsiasi tipo di brama «sensuale», fra le quali includeva il desiderio di cibo, sonno o calore. E ci avvertì che aveva fatto preparare una tavola separata nel salone, dove avremmo mangiato cibo appropriato e non saremmo stati distratti da conversazioni futili. O da domande. Aggiunse l'ultima frase quasi come una minaccia. Poi ci sottopose a una serie di esercizi. Chiudete gli occhi e spingeteli verso l'alto finché potete. Cercate di farli girare completamente per guardare l'interno del vostro cranio. Sentite la pressione che si crea. Immaginate quello che vedreste se foste in grado di girare gli occhi fino a quel punto. Quello che vedete è degno e corretto? Con gli occhi sempre chiusi, restate in piedi su una gamba sola. Cercate di rimanere completamente immobili. Trovate un equilibrio, non solo del corpo, ma dello spirito. Allontanate dalla mente tutti i pensieri non degni, e potreste rimanere così indefinitamente. Mentre stavamo su una gamba sola, con gli occhi sempre chiusi, svolgendo i vari esercizi, Galen si muoveva fra noi. Potevo seguire i suoi movimenti dal suono del frustino. «Concentratevi!» ci ordinava, o «Tentate, almeno tentate!» Io stesso sentii il frustino almeno quattro volte quel giorno. Non era nulla, poco più di un tocco, ma era snervante essere toccato con una frusta, perfino senza dolore. Poi, l'ultima volta, mi colpì sulla spalla, e l'asta si appoggiò al mio collo nudo mentre la punta mi colpì al mento. Trasalii, ma riuscii a mantenere gli occhi chiusi e l'equilibrio precario su un ginocchio dolorante. Mentre si allontanava, sentii una goccia lenta di sangue caldo formarsi sul mento. Ci trattenne per tutto il giorno, lasciandoci andare quando il sole era una mezza monetina di rame sull'orizzonte e i venti della notte stavano alzandosi. Non ci aveva dato tregua neppure per mangiare, bere o qualsiasi altra necessità. Ci osservò con un sorriso tetro mentre gli passavamo davanti, e
solo quando fummo attraverso la porta ci sentimmo liberi di correre barcollando giù per le scale. Io ero morto di fame, con le mani gonfie e rosse per il gelo e la bocca tanto arida che non avrei potuto parlare neanche se lo avessi desiderato. Gli altri sembravano conciati allo stesso modo, anche se alcuni avevano sofferto molto più di me. Almeno io ero abituato a lavorare per lunghe ore, spesso all'aperto. Allegra, che aveva circa un anno più di me, era abituata ad aiutare madama Presta con la tessitura. Il suo viso rotondo era più bianco che rosso di freddo, e la sentii sussurrare qualcosa a Serena, che le prese la mano mentre scendevamo le scale. «Non sarebbe stato così male, se almeno ci avesse prestato un poco di attenzione» replicò Serena in un sussurro. E poi ebbi la spiacevole esperienza di vederle gettare uno sguardo indietro con timore, per controllare se Galen le avesse viste parlare fra loro. La cena quella sera fu il pasto più infelice che avessi mai sopportato a Castelcervo. Semolino freddo di grano bollito, pane, acqua e rape bollite e schiacciate. Galen, che non mangiava, presiedette al nostro pranzo. Non ci fu conversazione; non credo che ci guardammo nemmeno. Io consumai la mia porzione e lasciai la tavola quasi altrettanto affamato di prima. A metà strada su per le scale mi ricordai di Ferrigno. Ritornai in cucina per prendere le ossa e gli avanzi che la cuoca aveva messo da parte per me, e un boccale d'acqua per riempirgli il piattino. Mentre salivo le scale mi parvero un peso terribile. Strano che un giorno di relativa inattività fuori al freddo mi avesse stancato quanto un giorno di strenuo lavoro. Una volta entrato in camera, il caldo benvenuto di Ferrigno e l'appetito con cui consumò avidamente la carne furono come un balsamo guaritore. Non appena ebbe finito di mangiare, ci infilammo a letto. Lui voleva mordermi e giocare, ma ben presto ci rinunciò. Lasciai che il sonno si impadronisse di me. E mi svegliai con un sussulto nell'oscurità, temendo di aver dormito troppo a lungo. Un'occhiata al cielo mi disse che potevo arrivare in cima alla torre prima del sole, ma di poco. Non avevo tempo di lavarmi o mangiare o ripulire lo sporco di Ferrigno, ed era una buona cosa che Galen avesse proibito scarpe e calze, perché non avevo tempo di metterle. Ero troppo stanco perfino per sentirmi sciocco mentre correvo attraverso la fortezza e su per le scale della torre. Vedevo altri affrettarsi davanti a me alla luce di torce vacillanti, e quando emersi dalla tromba delle scale, la frusta di Galen si abbatté sulla mia schiena.
Mi morse con crudeltà inattesa attraverso la camicia sottile. Gettai un grido di sorpresa quanto di dolore. «Cammina come un uomo e controllati, bastardo» mi disse duramente Galen, e il frustino calò di nuovo. Tutti gli altri avevano ripreso i posti del giorno prima. Apparivano stanchi quanto me, e i più sembravano anche altrettanto sconvolti dal trattamento che Galen mi aveva riservato. Non ho mai saputo perché, ma presi silenziosamente il mio posto e rimasi lì a fronteggiare Galen. «Chiunque arriva per ultimo è in ritardo, e verrà trattato di conseguenza» ci avvertì. Mi parve una regola crudele, perché l'unico modo per evitare il suo frustino l'indomani era di arrivare abbastanza presto per vederlo cadere su uno dei miei compagni. Seguì un'altra giornata di disagio e maltrattamenti ingiustificati. Così mi sembra adesso. Così credo che lo riconoscessi allora, nel profondo del mio cuore. Ma Galen parlava sempre di dimostrarci degni, di renderci forti e resistenti. Lo faceva sembrare un onore restare fuori al freddo, con i piedi nudi che diventavano insensibili contro la pietra gelida. Ci spronò a una competizione, non solo l'uno contro l'altro, ma contro l'immagine squallida che aveva di noi. «Dimostrate che mi sbaglio» ripeteva continuamente. «Vi prego, dimostrate che mi sbaglio, che potrò mostrare al re almeno un allievo degno del mio tempo.» E quindi ci sforzavamo. Com'è strano adesso guardare indietro e meravigliarmi di me stesso. Ma nel giro di una giornata era riuscito a isolarci e a immergerci in un'altra realtà, dove tutte le regole della cortesia e del buon senso erano sospese. Stavamo in piedi in silenzio, al freddo, in posizioni variamente scomode, con gli occhi chiusi, indossando poco più della biancheria. E Galen camminava fra noi, infliggendoci ferite con il suo stupido frustino, e insulti con la sua dannata linguaccia. Occasionalmente ci colpiva, o ci urtava, cosa molto più dolorosa quando uno è congelato fino alle ossa. Quelli che trasalivano o vacillavano venivano accusati di debolezza. Per tutto il giorno ci rinfacciò la nostra indegnità, ripetendo che aveva acconsentito a cercare di insegnarci soltanto su richiesta del re. Le donne le ignorava, e sebbene parlasse spesso dei principi e re del passato che avevano adoperato l'Arte in difesa del regno, non menzionò neanche una volta le regine e le principesse che avevano fatto lo stesso. E neppure ci diede mai una visione generale di quello che stava cercando di insegnarci. C'era solo il freddo e la scomodità dei suoi esercizi, e l'incertezza di quando saremmo stati colpiti. Perché ci sforzassimo di sopportarlo, non lo so. Diventammo molto in fretta tutti complici della nostra stessa degradazione.
Il sole finalmente si avventurò di nuovo verso l'orizzonte. Ma quel giorno Galen aveva in serbo per noi due sorprese finali. Per alcuni istanti ci lasciò stare dritti, aprire gli occhi e stiracchiarci liberamente. Poi ci fece un'ultima predica, stavolta per metterci m guardia contro i membri del gruppo che avrebbero messo in pericolo l'addestramento di tutti con la loro sciocca mollezza. Camminava lentamente fra noi mentre parlava, serpeggiando fra le file, e io vidi molti roteare gli occhi e trattenere il respiro al suo passaggio. Poi, per la prima volta quel giorno, si avventurò nell'angolo della corte riservato alle donne. «Alcuni» ci ammonì mentre passeggiava «si ritengono al di sopra delle regole. Si ritengono degni di particolare attenzione e indulgenza. Tali illusioni di superiorità devono essere allontanate prima che possiate imparare alcunché. Non è affatto degno del mio tempo impartire queste lezioni a fannulloni e idioti. È una vergogna che siano riusciti a infiltrarsi nel nostro gruppo. Eppure sono fra di noi, e io onorerò il volere del mio re, e cercherò di addestrarli. Anche se conosco soltanto un modo per risvegliare menti tanto pigre.» Ad Allegra inflisse due rapidi colpi con il frustino. Ma spinse Serena a terra su un ginocchio, e la colpì quattro volte. Con mia vergogna, io rimasi lì con gli altri, mentre ogni colpo cadeva, e speravo solo che non gridasse, attirandosi ulteriori punizioni. Invece Serena si rialzò, vacillò una volta e poi rimase in piedi, immobile, guardando oltre le teste delle ragazze davanti a lei. Emisi un sospiro di sollievo. Ma poi Galen tornò, girando come uno squalo attorno a una barca di pescatori, parlando adesso di coloro che si ritenevano troppo bravi per condividere la disciplina del gruppo, che si concedevano carne in abbondanza mentre il resto dei discepoli si limitava a sane minestre e cibo puro. Mi chiesi a disagio chi fosse stato tanto stupido da visitare la cucina a ora tarda. Poi sentii il colpo bollente della frusta sulle mie spalle. Se avessi pensato che prima stava usandola con tutte le sue forze, ora dimostrò che mi sbagliavo. «Pensavi di ingannarmi. Pensavi che non avrei mai saputo che la cuoca mette da parte gli avanzi per il suo cocco, vero? Ma io conosco tutto quello che accade a Castelcervo. Non farti illusioni.» Compresi che stava parlando degli avanzi di carne che avevo portato a Ferrigno. «Quel cibo non era per me» protestai, e poi avrei voluto mordermi la
lingua. I suoi occhi luccicavano freddamente. «Menti per risparmiarti un poco di giusto dolore. Non dominerai mai l'Arte. Non ne sarai mai degno. Ma il re ha ordinato che io cerchi di insegnarti, e quindi cercherò. Malgrado te e la tua nascita miserabile.» Umiliato, subii i colpi che mi infliggeva. Mi insultava con ogni colpo, dicendo agli altri che le antiche regole che proibivano di insegnare l'Arte a un bastardo servivano appunto a evitare casi come questi. Alla fine, rimasi in piedi, in silenzio e pieno di vergogna. mentre Galen percorreva le file, infliggendo un colpo simbolico con il frustino a ciascuno dei miei compagni, spiegando che tutti dovevano pagare per i fallimenti degli individui. Non importava che quell'affermazione non avesse senso, o che la frusta cadesse leggera su di loro a paragone di quello che aveva appena fatto a me. Era l'idea che stessero pagando per la mia trasgressione. Non mi ero mai vergognato tanto in vita mia. Poi ci lasciò andare, verso un'altra cena senza allegria, come quella del giorno prima. Questa volta nessuno parlò sulle scale o a tavola. E dopo andai dritto in camera. Carne presto, promisi al cucciolo affamato che mi aspettava. Malgrado la schiena e i muscoli doloranti, mi costrinsi a ripulire la stanza, asciugando lo sporco di Ferrigno, e poi andando a prendere altri giunchi da spargere sul pavimento. Ferrigno era un po' offeso per essere stato lasciato solo tutto il giorno, e io mi preoccupai, comprendendo che non avevo idea di quanto sarebbe durato quel desolante addestramento. Attesi fino a tardi, quando tutta la gente normale della fortezza era a letto, prima di avventurarmi a prendere la pappa per Ferrigno. Temevo che Galen lo avrebbe scoperto, ma che altro potevo fare? Ero a metà strada della grande scalinata quando vidi luccicare una candela che veniva verso di me. Mi schiacciai contro il muro, improvvisamente sicuro che fosse Galen. E invece era il Matto, pallido e rilucente come la candela di cera che portava. Nell'altra mano aveva un vassoio di cibo con sopra un boccale d'acqua in equilibrio. Senza un rumore mi accennò di tornare in camera. Una volta entrati, con la porta chiusa, si rivolse a me. «Posso prendermi cura del cucciolo per te» mi disse asciutto. «Ma non posso prendermi cura di te. Usa il cervello, ragazzo. Che cosa mai puoi imparare da quello che ti sta facendo?» Io scrollai la testa, e trasalii. «È solo per renderci più forti. Non credo che possa andare avanti per molto prima che cominci a insegnarci vera-
mente. Posso sopportarlo.» Poi: «Aspetta» dissi, mentre somministrava pezzettini di carne dal vassoio a Ferrigno. «Come sai quello che ci sta facendo Galen?» «Ah, farei la spia» disse allegramente. «E non posso farlo. La spia, intendo.» Versò il resto del vassoio nella scodella di Ferrigno, gli riempì la ciotola dell'acqua e si alzò. «Nutrirò il cucciolo» mi disse. «Cercherò perfino di portarlo fuori un poco ogni giorno. Ma non ripulirò quando sporca.» Si fermò sulla porta. «Qui tiro la linea. Farai meglio a decidere dove vuoi tirarla tu. E presto. Molto presto. Il pericolo è più grande di quanto tu creda.» E poi era scomparso, con la sua candela e i suoi ammonimenti. Io mi distesi e mi addormentai ascoltando Ferrigno che rosicchiava un osso e brontolava fra sé come fanno i cuccioli. 15 Le Pietre Testimoni L'Arte, nella sua forma più semplice, consiste nella trasmissione del pensiero da una persona a un'altra. Può essere usata in vari modi. In battaglia, per esempio, un comandante può comunicare semplici informazioni e ordini direttamente ai suoi subordinati, se sono stati addestrati a riceverli. Un potente adepto dell'Arte può usare il suo talento per influenzare anche le menti non addestrate come quelle dei suoi nemici, infondendo in loro timore o confusione o dubbio. Pochi hanno tanto talento. Ma chi è incredibilmente dotato nell'Arte può aspirare a parlare direttamente con gli Antichi, coloro che si trovano appena al di sotto degli dèi. Pochi hanno mai osato farlo, e ancora meno hanno ottenuto quello che chiedevano. Tramite l'Arte un uomo è in grado di fare domande agli Antichi, così si dice, ma potrebbe ottenere risposta non alla domanda che ha posto, bensì a quella che avrebbe dovuto porre. E quella risposta può essere tale che non si può udirla e vivere. Poiché quando si parla con gli Antichi l'uso dell'Arte è più dolce e più pericoloso. E ogni praticante dell'Arte, debole o forte, deve sempre stare in guardia contro questo rischio. Infatti usando l'Arte il praticante prova un'intensità vitale, un sollevarsi dell'essere, che può distrarlo dal trarre il successivo respiro. Potente è questo sentimento, perfino negli usi più comuni dell'Arte, e conduce alla dipendenza, se l'intento non è forte. Ma l'intensità di questa esaltazione quando si parla con gli Antichi è qualcosa per cui non abbiamo paragone. Sia i sensi che la
coscienza possono essere strappati per sempre a un uomo che usi l'Arte per parlare con gli Antichi. Quell'uomo muore pazzo, ma è anche vero che muore pazzo di gioia. Il Matto aveva ragione. Non avevo idea del pericolo che affrontavo. Insistetti ostinatamente. Non ho cuore di descrivere nei particolari le settimane che seguirono. Basti dire che ogni giorno che passava Galen ci teneva più saldamente in pugno, ci manipolava e diventava anche più crudele. Alcuni allievi sparirono presto. Una fu Allegra. Cessò di venire dopo il quarto giorno. Da allora la vidi solo una volta; strisciava per la fortezza con volto tormentato e vergognoso. In seguito scoprii che Serena e le altre donne l'avevano evitata dopo che aveva abbandonato l'addestramento, e quando parlavano di lei non era come se avesse fallito una prova, ma come se avesse piuttosto commesso qualche azione vile e orribile per la quale non avrebbe mai potuto essere perdonata. Non so dove andò, so solo che lasciò Castelcervo e non tornò più. Come l'oceano estrae le pietruzze dalla sabbia e le stratifica alla linea di marea, così i colpi e le carezze di Galen vagliarono i suoi studenti. All'inizio ciascuno di noi cercava di essere il migliore. Non perché lo amassimo o lo ammirassimo. Non so che cosa provassero gli altri, ma nel mio cuore non c'era che odio per lui, un odio tanto forte che generò la risoluzione di non farmi spezzare da un uomo del genere. Dopo giorni di maltrattamenti, ottenere da lui una singola parola riluttante di riconoscimento era come un torrente di lodi da qualsiasi altro maestro. Giorni e giorni di umiliazioni avrebbero dovuto rendermi insensibile al suo scherno. Invece giunsi a credere a gran parte di ciò che diceva, e cercai invano di cambiare. Noi discepoli eravamo in continua competizione per ottenere la sua attenzione. Alcuni emersero chiaramente come suoi favoriti. Uno era Augusto, e spesso venivamo esortati a imitarlo. Io ero di certo il più disprezzato. Eppure questo non spegneva in me il desiderio ardente di distinguermi ai suoi occhi. Dopo la prima volta, non arrivai più per ultimo in cima alla torre. Non vacillai mai sotto i suoi colpi. E neppure Serena, che condivideva la distinzione di essere vilipesa. Serena divenne la seguace più abietta di Galen, e non levò mai una parola di critica contro di lui dopo quelle prime frustate. Eppure Galen trovava in lei continui difetti, la rimproverava e la insultava, e la colpiva molto più spesso di qualunque altra discepola. Questo, tuttavia, la rendeva soltanto più determinata a dimostrare che sapeva sopportare i suoi maltrattamenti; e lei stessa, dopo Galen, era la più intolle-
rante verso chiunque vacillasse o dubitasse del nostro addestramento. L'inverno si fece più rigido. Era freddo e scuro in cima alla torre, malgrado la luce che veniva dalla tromba delle scale. Era il posto più isolato del mondo, e Galen era il suo dio. Ci forgiò in un corpo unico. Ci ritenevamo discepoli scelti, superiori e privilegiati per essere addestrati nell'Arte. Perfino io, che sopportavo scherno e frustate, ne ero convinto. Disprezzavamo coloro che lui spezzava. In quel periodo vedevamo soltanto noi stessi, sentivamo soltanto Galen. All'inizio, Umbra mi mancava. Mi chiedevo che cosa stessero facendo Burrich e dama Pazienza. Ma con il passare dei mesi, simili occupazioni minori non apparivano più interessanti. Perfino il Matto e Ferrigno finirono per essere quasi una seccatura per me, tanto ostinatamente inseguivo l'approvazione di Galen. In quel periodo il Matto andava e veniva in silenzio. C'erano momenti, tuttavia, quando ero più che mai dolorante e stanco, in cui il tocco del naso di Ferrigno contro la guancia era il mio unico conforto, e momenti in cui mi vergognavo del poco tempo che dedicavo al mio cucciolo che cresceva. Dopo tre mesi di freddo e crudeltà, Galen ci aveva ridotti a otto candidati. Fu allora che cominciò il vero addestramento, e lui ci restituì una piccola misura di agio e dignità. All'epoca sembravano non soltanto lussi straordinari, ma doni di cui essergli grati. Un pugno di frutta secca durante il pranzo, il permesso di portare le scarpe, brevi conversazioni concesse al tavolo - tutto qui, eppure eravamo ignobilmente grati per questo. Ma i cambiamenti erano solo all'inizio. I ricordi ritornano vividi in lampi di cristallo. Rammento la prima volta che mi toccò con l'Arte. Eravamo in cima alla torre, ancora più spaziali fra noi ora che eravamo diminuiti di numero, e lui andava dall'uno all'altro, fermandosi un momento davanti a ciascuno, mentre gli altri attendevano in un silenzio reverente. «Preparate le vostre menti al tocco. Siate aperti, ma non indulgete in questo piacere. Lo scopo dell'Arte non è il piacere.» Serpeggiava fra di noi, senza un ordine particolare. Distanti come eravamo, non riuscivamo a vedere i visi degli altri, e neppure piaceva a Galen che i nostri occhi seguissero i suoi movimenti. Quindi sentivamo soltanto le sue parole brevi e severe, poi il respiro trattenuto quando ciascuno veniva toccato. A Serena disse disgustato: «Su aperta, ho detto. Non ritrarti come un cane bastonato.» Alla fine arrivò da me. Ascoltai le sue parole, e come ci aveva consigliato cercai di abbandonare ogni consapevolezza sensoriale, e aprirmi soltanto a lui. Sentii la sua mente sfiorare la mia, come un lieve solletico sulla
fronte. Rimasi saldo. Lo sentii farsi più forte, un calore, una luce, ma rifiutai di lasciarmi attrarre all'interno. Sentivo Galen dentro la mia mente, che mi fissava severamente, e usando le tecniche di focalizzazione che ci aveva insegnato (immaginate un recipiente di legno candido, e riversatevi dentro di esso, ci ripeteva sempre) riuscii a rimanere in piedi di fronte a lui, in attesa, consapevole dell'esaltazione dell'Arte, ma senza arrendermi a essa. Tre volte il calore mi percorse, e tre volte rimasi immobile. E poi lui si ritirò. Mi rivolse un cenno del capo riluttante, ma nei suoi occhi non vidi approvazione, piuttosto una traccia di paura. Quel primo tocco fu come la scintilla che finalmente accende la miccia. Compresi di cosa si trattasse. Ancora non ero in grado di farlo; non potevo spingere i pensieri lontano da me, ma avevo intuito una conoscenza che non potevo descrivere a parole. Sarei stato in grado di usare l'Arte. E con quella certezza la mia risoluzione si rinsaldò, e non c'era nulla, nulla che Galen potesse fare per impedirmi di impararla. Credo che Galen lo comprese, perché nei giorni che seguirono mi aggredì con una crudeltà che ora trovo incredibile. Mi infliggeva parole dure e sferzate, ma niente poteva dissuadermi. Una volta mi colpì in faccia con il frustino. Lasciò un segno visibile, e capitò che quando entrai in sala da pranzo ci fosse anche Burrich. Lo vidi spalancare gli occhi. Si alzò dal suo posto a tavola, con le mandibole strette in un modo che conoscevo fin troppo bene. Ma io distolsi gli occhi da lui e li abbassai. Burrich rimase per un momento a folgorare con lo sguardo Galen, che gli restituì un'occhiata sprezzante. Poi, con i pugni serrati, Burrich girò la schiena e lasciò la stanza. Mi rilassai, sollevato che il confronto fosse stato evitato. Ma poi Galen mi guardò, e il trionfo sul suo viso raggelò il mio cuore. Ora ero suo, e lo sapeva. Nella settimana successiva si mescolarono per me dolore e vittorie. Galen non perdeva un'occasione per denigrarmi. E tuttavia, io sapevo di eccellere in tutti gli esercizi a cui ci sottoponeva. Percepivo che gli altri annaspavano per seguire il suo tocco di Arte, ma per me era semplice come aprire gli occhi. Un giorno conobbi un momento di paura intensa. Era entrato nella mia mente con l'Arte, e mi aveva dato una frase da ripetere ad alta voce. «Io sono un bastardo, e porto vergogna al nome di mio padre» dissi ad alta voce, con calma. Galen parlò di nuovo nella mia mente. Attingi forza da qualche parte, bastardo. Questa non è la tua Arte. Credi che non ne scoprirò la sorgente? E allora io rabbrividii davanti a lui e mi ritrassi dal suo tocco, nascondendo Ferrigno nella mia mente. Il suo sorriso
mi mostrò tutti i denti. Nei giorni che seguirono, giocammo a nascondino. Io dovevo lasciarlo entrare nella mia mente, per imparare l'Arte. Una volta che si trovava lì, danzavo sui carboni ardenti per tenergli nascosti i miei segreti. Non soltanto Ferrigno, ma anche Umbra e il Matto, e Molly e Kerry e Dirk, e altri segreti più antichi che non avrei rivelato neanche a me stesso. Galen li cercava tutti, e io li allontanavo disperatamente dalla sua presa. Ma malgrado ciò, o forse a causa di ciò, mi sentivo sempre più forte nell'Arte. «Non prendermi in giro!» ruggì Galen dopo una certa sessione, e poi si infuriò mentre gli altri discepoli si scambiavano occhiate sconvolte. «Badate ai vostri esercizi!» li investì. Si allontanò a lunghi passi da me, poi si girò improvvisamente e si scagliò su di me. Mi aggredì a pugni e calci, e come aveva fatto una volta Molly non pensai ad altro che a proteggere il viso e il ventre. Mi tempestò di colpi che sembravano più la bizza di un bambino che l'attacco di un uomo. Ne avvertivo l'inutilità, e poi compresi con un brivido gelido che lo stavo respingendo. Non al punto che se ne accorgesse, ma abbastanza da fare in modo che ciascuno dei suoi colpi mancasse il bersaglio previsto. Sapevo, inoltre, che Galen non aveva la minima idea di quello che stavo facendo. Quando alla fine lasciò cadere i pugni e io osai alzare gli occhi, avvertii per un attimo che avevo vinto, poiché tutti gli altri in cima alla torre lo stavano fissando con sguardi misti di disgusto e paura. Era andato troppo oltre perfino per la sopportazione di Serena. Bianco in faccia, si distolse da me. In quel momento, sentii che aveva raggiunto una decisione. Quella sera, nella mia stanza, ero orribilmente stanco, ma troppo snervato per dormire. Il Matto aveva lasciato il cibo per Ferrigno, e io provocavo il cucciolo con una grossa giuntura di manzo. Aveva affondato i denti nella mia manica e la stava rosicchiando, e io tenevo l'osso appena fuori dalla sua portata. Era un gioco che gli piaceva, e ringhiava con finta ferocia scrollandomi il braccio. Era quasi completamente cresciuto, e sentivo con orgoglio i muscoli del suo piccolo collo tozzo. Con la mano libera gli pizzicai la coda e lui si girò ringhiando per affrontare il nuovo attacco. Mi passai l'osso da una mano all'altra, e i suoi occhi scattavano avanti e indietro mentre cercava di afferrarlo. «Niente cervello» lo presi in giro. «Pensi solo a quello che vuoi. Niente cervello, niente cervello.» «Proprio come il suo padrone.» Sussultai, e in quell'istante Ferrigno ebbe il suo osso. Si sdraiò a rosicchiarselo, rivolgendo al Matto solo un accenno di scodinzolata. Mi sedetti,
senza fiato. «Non ho neanche sentito la porta aprirsi. O chiudersi.» Il Matto ignorò la cosa e andò dritto al dunque. «Credi che Galen ti permetterà di riuscire?» Sorrisi, sicuro di me stesso. «Credi che potrebbe impedirlo?» Il Matto sedette accanto a me con un sospiro. «So che può farlo. E anche lui lo sa. Quello che non riesco a decidere è se sia abbastanza spietato. Ma sospetto di sì.» «Che ci provi, allora» dissi sprezzante. «Non ho scelta in questo.» Il Matto era mortalmente serio. «Speravo di dissuaderti dal tentare.» «Vorresti chiedermi di rinunciare? Adesso?» Ero incredulo. «Sì.» «Perché?» «Perché» cominciò lui, e poi si interruppe, frustrato. «Non lo so. Troppe cose convergono. Forse se strappo un filo il nodo non si formerà.» D'un tratto ero stanco, e l'esaltazione per il mio trionfo crollò davanti ai suoi severi ammonimenti. Il malumore ebbe la meglio e scattai: «Se non puoi parlar chiaro, perché parli?» Rimase in silenzio come se l'avessi colpito. «È un'altra cosa che non so» disse infine. Si alzò per andarsene. «Matto» cominciai io. «Sì. È quello che sono» disse, e se ne andò. E così insistetti, facendomi più forte. Divenni impaziente per il passo lento dell'addestramento. Ripetevamo gli stessi esercizi ogni giorno, e gradualmente gli altri cominciarono a dominare quello che a me sembrava tanto naturale. Come potevano essere stati così isolati dal resto del mondo? Come poteva essere così difficile per loro aprire le menti all'Arte di Galen? Il mio compito non era di aprire, ma piuttosto di tenergli chiuso quello che non desideravo condividere. Spesso, mentre mi toccava frettolosamente con l'Arte, percepivo un filamento indagatore che mi scivolava nella mente. Ma lo evadevo. «Siete pronti» annunciò un gelido giorno. Era pomeriggio, ma le stelle più luminose già apparivano nell'azzurro cupo del cielo. Sentivo la mancanza delle nuvole che il giorno prima ci avevano ricoperti di neve ma almeno avevano tenuto lontano quel freddo più penetrante. Piegai le dita dei piedi dentro le scarpe di cuoio che Galen ci aveva concesso, cercando di riscaldarle. «In precedenza vi ho toccato con l'Arte, per farvi abituare. Oggi, tenteremo una fusione completa. Ciascuno di voi si estenderà verso
di me come io mi estendo verso di lui. Ma state attenti! Molti di voi hanno cercato di resistere alle distrazioni del tocco dell'Arte, ma il potere di ciò che avete sentito non era altro che un semplice soffio. Oggi sarà più forte. Resistete, ma rimanete aperti all'Arte.» E di nuovo ricominciò a girare lentamente fra di noi. Attesi, snervato ma senza timore. Ero ansioso di provarci. Ero pronto. Alcuni chiaramente fallirono, e vennero rimproverati per la loro pigrizia o stupidità. Augusto fu lodato. Serena fu schiaffeggiata per essersi protesa in avanti troppo avidamente. E poi Galen arrivò da me. Mi preparai come per un incontro di lotta. Sentii la sua mente sfiorare la mia, e mi tesi cautamente verso di lui con il pensiero. Così? Sì, bastardo. Così. E per un momento fummo in equilibrio, sospesi come bambini sull'altalena. Lo sentii rafforzare il nostro contatto. Poi, improvvisamente, entrò con violenza nella mia mente. Rimasi senza respiro, in modo mentale piuttosto che fisico. Invece di essere incapace di respirare, ero incapace di dominare i miei pensieri. Galen perquisì la mia mente, saccheggiando la mia intimità, e io rimasi impotente davanti a lui. Aveva vinto e lo sapeva. Ma in quel momento di trionfo incurante trovai un'apertura. Lo afferrai, cercando di ghermire la sua mente come lui aveva fatto con la mia. Lo presi e lo tenni stretto, e per un istante vertiginoso ebbi la consapevolezza di essere più forte di lui, di poter forzare nella sua mente qualsiasi pensiero volessi. «No!» urlò, e oscuramente seppi che, in passato, aveva lottato in questo modo con qualcuno che aveva disprezzato. Qualcun altro che aveva vinto, come io intendevo fare. «Sì!» insistetti. «Muori!» mi ordinò, ma io sapevo che non sarei morto. Sapevo che avrei vinto, e concentrai la mia volontà, accentuando la stretta. L'Arte non si cura di chi vince. Non permette a nessuno di arrendersi ad alcun pensiero, neanche per un momento. Ma io lo feci, e quando lo feci, dimenticai di difendermi dall'estasi che è il miele e il pungiglione dell'Arte. L'euforia mi travolse, affogandomi, e anche Galen affondò in essa, cessando di esplorare la mia mente per cercare solo di tornare alla sua. Non avevo mai conosciuto un momento come quello. Galen lo aveva chiamato piacere, e io mi ero aspettato una sensazione piacevole, come il calore d'inverno, o il profumo di una rosa o un sapore dolce in bocca. Nulla del genere. Piacere è una parola troppo fisica per descrivere quello che provai. Non aveva nulla a che fare con la pelle o con il corpo. Mi pervase, mi sommerse come un'onda che non potevo respinge-
re. L'esaltazione mi riempì e mi attraversò. Dimenticai Galen e qualunque altra cosa. Lo sentii sfuggirmi, e sapevo che era importante, ma non me ne curai. Dimenticai tutto e trattenni solo quella sensazione da esplorare. «Bastardo!» tuonò Galen, e mi colpì con il pugno sul lato della testa. Caddi a terra, indifeso, poiché il dolore non era abbastanza per strapparmi al fascino dell'Arte. Sentii che mi prendeva a calci, ero consapevole del freddo delle pietre sotto di me, dure e taglienti, eppure sentivo di essere sorretto, affondato in una coperta di euforia che non mi permetteva di prestare attenzione alle percosse. La mia mente mi assicurava, malgrado il dolore, che tutto andava bene, che non c'era motivo di combattere o fuggire. Da qualche parte la marea stava ritirandosi, lasciandomi ansante sulla spiaggia. Galen era in piedi sopra di me, disordinato e sudato. Il suo respiro fumava nell'aria fredda mentre si chinava su di me. «Muori!» disse, ma io non udii le parole, le percepii. Galen mi lasciò andare la gola e io crollai. E sulla scia della divorante esaltazione dell'Arte venne a quel punto una consapevolezza del fallimento e della colpa tanto tormentosa da far apparire irrilevante il dolore fisico. Mi sanguinava il naso, respirare era penoso, e per la violenza dei calci mi ero escoriato la pelle sulle pietre della torre. I diversi tipi di dolore si contraddicevano a vicenda, ciascuno reclamando attenzione, al punto che non riuscivo a valutare quali danni avessi subito. Non riuscivo neppure a ricomponili abbastanza da alzarmi. E sopra ogni cosa incombeva la consapevolezza che avevo fallito. Ero sconfitto e indegno e Galen lo aveva dimostrato. Da molto lontano, lo sentii gridare contro gli altri, dicendo loro di stare attenti, perché avrebbe trattato così gli indisciplinati che non riuscivano a distogliere la mente dal piacere dell'Arte. E li avvertì di ciò che accadeva a chi cercava di usare l'Arte e invece cadeva sotto l'incantesimo del piacere che portava con sé. Questi sarebbe diventato privo di cervello, un grosso bambino, muto, cieco, incapace di tenersi pulito, dimentico del pensiero, dimentico perfino del cibo e dell'acqua, sino a morire. Perfino il disgusto non sarebbe stato abbastanza per una tale creatura. E io ero così. Crollai nella mia vergogna. Incapace di resistere, cominciai a singhiozzare. Meritavo il trattamento che mi aveva inflitto. Meritavo anche di peggio. Soltanto una sciocca pietà aveva trattenuto Galen dall'uccidermi. Avevo sprecato il suo tempo, avevo trasformato le sue attente istruzioni in una soddisfazione egoistica. Fuggii da me stesso, affondando
sempre di più dentro la mia mente, ma trovando solo disgusto e odio per me stesso stratificati in tutti i miei pensieri. Ero meglio se fossi morto. Se mi fossi gettato dal tetto della torre, non sarebbe ancora stato abbastanza per cancellare la mia vergogna, ma almeno non avrei più dovuto esserne consapevole. Giacqui immobile e piansi. Gli altri se ne andarono. Passandomi vicino ciascuno mi lanciava un insulto, uno sputo, un calcio o una sberla. Me ne accorsi a malapena. Rifiutavo me stesso più di quanto potessero fare loro. E poi se n'erano andati, e soltanto Galen incombeva su di me. Mi spinse con il piede, ma io ero incapace di reagire. Improvvisamente, era dovunque, sopra, sotto, attorno e dentro di me, e io non potevo rifiutarlo. «Lo vedi, bastardo» disse con calma superbia. «Ho cercato di dire loro che non eri degno. Ho cercato di spiegare che l'addestramento ti avrebbe ucciso. Ma tu non hai voluto ascoltare. Hai tentato di usurpare ciò che era stato dato a un altro. Di nuovo, ho avuto ragione. Ebbene. Non è stato tempo sprecato, se ci ha sbarazzato di te.» Non so quando se ne andò. Dopo un poco, compresi che era la luna che mi guardava, e non Galen. Rotolai sul ventre. Non potevo alzarmi in piedi, ma potevo strisciare. Lentamente, senza neppure sollevare completamente lo stomaco dal terreno, ma riuscivo a trascinarmi a fatica. Con un unico scopo, cominciai a dirigermi verso la parte bassa del muro. Avrei potuto arrampicarmi con fatica su una panca, e da lì in cima al muro. E poi - Giù. La fine. Fu un lungo viaggio, nel freddo e nell'oscurità. Da qualche parte sentivo un guaito, e mi disprezzavo anche per quello. Eppure crebbe mentre mi trascinavo, come una scintilla lontana diventa un fuoco man mano che ci si avvicina. Rifiutava di lasciarsi ignorare. Crebbe più rumoroso nella mia mente, una protesta lamentosa contro il mio fato, una minuscola voce di resistenza che mi proibiva di morire, che negava il mio fallimento. Era anche calore e luce, e si faceva sempre più forte mentre cercavo di trovarne la fonte. Mi fermai. Rimasi immobile. Era dentro di me. Più lo cercavo, più cresceva. Mi amava. Mi amava anche se io non potevo, non volevo, non riuscivo ad amare me stesso. Mi amava anche se io lo odiavo. Affondò i dentini nella mia anima, puntò le zampe e mi trattenne impedendomi di strisciare più oltre. E quando ci provai emise un ululato di disperazione, lacerandomi, proibendomi di infran-
gere una promessa tanto sacra. Era Ferrigno. Piangeva con il mio dolore, fisico e mentale. E quando cessai di strisciare verso il muro si diede a un parossismo di gioia, una celebrazione di trionfo per noi. E tutto quello che riuscii a fare per ricompensarlo fu di rimanere immobile e non tentare più di distruggermi. E lui mi assicurò che era sufficiente, che era una pienezza, che era una gioia. Chiusi gli occhi. La luna era alta quando Burrich gentilmente mi girò sulla schiena. Il Matto teneva la torcia e Ferrigno saltellava e danzava attorno ai suoi piedi. Burrich mi raccolse fra le braccia e si alzò, come se fossi stato ancora quel bambino appena affidato alle sue cure. Colsi un'occhiata del suo viso bruno, ma non vi lessi niente. Mi trasportò giù per la lunga scalinata di pietra, mentre il Matto reggeva la torcia a illuminare la via. E mi portò via dalla fortezza, riportandomi alle scuderie, nella sua stanza. Là il Matto lasciò Burrich e Ferrigno e me, e non ricordo che sia stata detta una parola. Burrich mi depose sul suo letto, e poi lo trascinò più vicino al fuoco. Con il ritorno del calore venne un grande dolore, e io affidai il mio corpo a Burrich e la mia anima a Ferrigno, e abbandonai la mia mente per lungo tempo. Aprii gli occhi nella notte. Quale notte, non lo sapevo. Burrich sedeva ancora accanto a me, senza sonnecchiare, senza neppure chinare il capo. Sentivo uno stretto bendaggio attorno alle costole. Sollevai una mano per toccarlo, ma rimasi perplesso alla vista di due dita steccate. Gli occhi di Burrich seguirono il mio movimento. «Non erano gonfie solo per il freddo. Erano troppo gonfie per capire se c'erano fratture o semplicemente distorsioni. Le ho steccate per sicurezza. Credo che se fossero rotte perfino tu ti saresti svegliato per il dolore mentre ci stavo lavorando.» Parlava con calma, come raccontandomi che aveva purgato un cane appena arrivato come prevenzione contro il contagio dei vermi. E proprio come la sua voce ferma e il tocco calmo funzionavano con un animale frenetico, allo stesso modo funzionarono su di me. Mi rilassai, pensando che se lui era tranquillo non poteva esserci molto che non andava. Infilò un dito sotto le bende che mi sostenevano le costole, controllando che fossero abbastanza tese. «Che è successo?» chiese, e si distolse da me per prendere una tazza di tè mentre parlava, come se la domanda e la mia risposta non avessero avuto grande importanza. Costrinsi la mia mente a ripercorrere le ultime settimane, cercando di trovare un modo per spiegargli. Gli eventi mi danzavano davanti, mi scivo-
lavano via. Ricordavo solo la sconfitta. «Galen mi ha messo alla prova» dissi lentamente. «Ho fallito. E mi ha punito per questo.» E con quelle parole mi travolse un'ondata di depressione, vergogna e colpa, spazzando via il breve conforto che avevo ricevuto dall'ambiente familiare. Accoccolato sulle pietre del focolare, Ferrigno si svegliò improvvisamente e si mise seduto. Di riflesso, lo tranquillizzai prima che potesse uggiolare. Stai giù. Riposati. Va tatto bene. Con mio sollievo, lui obbedì. E con mio sollievo ancora più grande, Burrich parve non accorgersi di quello che era passato fra noi. Mi porse la tazza. «Bevi questo. Hai bisogno di assumere acqua, e le erbe smorzeranno il dolore e ti permetteranno di dormire. Bevilo tutto, ora.» «Puzza» gli dissi, e Burrich annuì, e tenne la tazza per me poiché non riuscivo a piegare le mani troppo gonfie. Bevvi tutto e poi riappoggiai la testa sul cuscino. «Non c'è altro?» chiese cautamente, e io compresi a cosa si riferiva. «Ti ha messo alla prova su una cosa che aveva insegnato, e tu non la sapevi. E allora ti ha ridotto in questo modo?» «Non ci sono riuscito. Non avevo abbastanza... autodisciplina. Perciò mi ha punito.» I dettagli mi sfuggivano. La vergogna mi sommergeva, annegandomi nella disperazione. «A nessuno si insegna l'autodisciplina picchiandolo quasi a morte.» Burrich parlò attentamente, come rivelando la verità a un idiota. Rimise la tazza sul tavolo con movimenti molto precisi. «Non è stato per insegnarmi... forse non crede di potermi insegnare. È stato per mostrare agli altri che cosa sarebbe successo se avessero fallito.» «Con la paura non si insegna molto che valga la pena di conoscere» disse Burrich ostinato. E poi, con più calore: «Chi cerca di insegnare con la violenza e le minacce è un cattivo insegnante. Immagina di domare un cavallo in quel modo. O un cane. Perfino il cane dalla testa più dura impara meglio da una mano aperta che da un bastone.» «Tu mi hai colpito qualche volta, quando cercavi di insegnarmi qualcosa.» «Sì. Sì, l'ho fatto. Ma per scuotere, o avvertire, o svegliare. Non per danneggiare. Mai per spezzare un osso o accecare un occhio o storpiare una mano. Mai. Non dire mai a nessuno che ti ho colpito in quel modo, te o qualsiasi creatura affidata a me, perché non è vero.» Era indignato che avessi potuto perfino suggerirlo. «No. Su questo hai ragione.» Cercai una maniera per far comprendere a
Burrich perché ero stato punito. «Ma questa volta era diverso, Burrich. Un modo diverso di imparare, un modo diverso di insegnare.» Mi sentivo spinto a difendere la giustizia di Galen. Tentai di spiegare. «Me lo sono meritato, Burrich. Non era colpa del suo insegnamento. Non sono riuscito a imparare. Ho cercato. Ho cercato davvero. Ma come Galen, credo che ci sia un motivo per cui l'Arte non viene insegnata ai bastardi. C'è una macchia in me, una debolezza fatale.» «Stupidaggini.» «No. Pensaci, Burrich. Se fai accoppiare una cavalla da poco prezzo con un bello stallone, ottieni un puledro che può avere tanto la debolezza della madre che le qualità del padre.» Il silenzio si protrasse. Poi: «Dubito molto che tuo padre avrebbe giaciuto con una donna 'da poco prezzo'. Senza una qualche distinzione, un segno di spirito o di intelligenza, non l'avrebbe fatto. Non avrebbe potuto.» «Ho sentito dire che una fattucchiera delle montagne gli ha fatto un incantesimo.» Per la prima volta ripetei una storia che avevo sentito sussurrare spesso. «Chevalier non era tipo da farsi ingannare da simili magie. E suo figlio non è uno sciocco vile e debole di spirito, che se ne sta sdraiato a lagnarsi di meritare le botte.» Si chinò più vicino, mi toccò cautamente appena sotto la tempia. Una vampata di dolore fece vacillare i miei sensi. «Ecco quanto sei arrivato vicino a perdere un occhio per questo 'insegnamento'.» La sua rabbia stava crescendo, e io tenni la bocca chiusa. Gettò una rapida occhiata intorno nella stanza, poi si girò a guardarmi. «Quel cucciolo. È della cagna di Pazienza, vero?» «Sì.» «Ma tu non hai... oh, Fitz, per favore, dimmi che non ti sei procurato tutto questo usando lo Spirito. Se è per questo che l'ha fatto, non posso dire una parola o incontrare lo sguardo di nessuno nella fortezza o nell'intero regno.» «No, Burrich. Te lo giuro, non aveva nulla a che fare con il cucciolo. È stato il mio fallimento nell'imparare. La mia debolezza.» «Zitto» mi ordinò spazientito. «La tua parola è sufficiente. Ti conosco abbastanza bene da sapere che una tua promessa sarà sempre sincera. Ma quanto al resto, stai dicendo stupidaggini. Rimettiti a dormire. Io esco, ma tornerò presto. Riposati. È il miglior modo per guarire.» Burrich sembrava deciso ad agire, in qualche modo. Le mie parole sembravano finalmente averlo soddisfatto, convincendolo di qualcosa. Si vestì
in fretta, si mise gli stivali, infilò una camicia più larga e sopra indossò solo un giustacuore di cuoio. Ferrigno si alzò e uggiolò ansiosamente mentre Burrich usciva, ma non riuscì a trasmettermi la sua preoccupazione. Invece, si avvicinò al letto e si arrampicò, per infilarsi sotto le coperte vicino a me e confortarmi con la sua fiducia. Nella cupa disperazione che si impadronì di me, lui era la mia unica luce. Chiusi gli occhi, e le erbe di Burrich mi fecero affondare in un sonno senza sogni. Mi risvegliai più tardi quel pomeriggio. Una folata d'aria fredda precedette l'ingresso di Burrich nella stanza. Mi controllò, sollevandomi le palpebre con disinvoltura e poi percorrendo con mani esperte le costole e le altre contusioni. Emise un grugnito di soddisfazione, poi si cambiò la camicia lacera e infangata con una fresca. Intanto canticchiava, e sembrava di ottimo umore, in contrasto con i miei lividi e la mia depressione. Fu quasi un sollievo quando se ne andò di nuovo. Di sotto, lo sentii fischiettare e dare ordini agli stallieri. Sembrava tutto così normale, un comune giorno di lavoro, e desiderai essere laggiù con un'intensità che mi sorprese. Volevo ritrovarlo, l'odore caldo dei cavalli e dei cani e della paglia, i compiti semplici, svolti bene e completamente, e il buon sonno esausto alla fine della giornata. Lo desideravo, ma con il senso di indegnità che adesso mi riempiva sapevo che avrei fallito perfino in quello. Spesso Galen aveva sogghignato dei semplici garzoni della fortezza. Nutriva solo disprezzo per le cameriere e i cuochi, derisione per gli stallieri, e i soldati che ci difendevano con spada e arco erano, nelle sue parole, «manigoldi e idioti, destinati a sferzare il mondo, e a controllare con una spada ciò che non possono dominare con la mente». Perciò ora ero stranamente lacerato. Desideravo tornare a quelle attività che Galen mi aveva convinto a disprezzare, eppure mi tormentava il dubbio disperato di non riuscire a fare neppure quel poco. Rimasi a letto per due giorni. Un gioviale Burrich si occupava di me con chiacchiere allegre e una bonarietà che non riuscivo a comprendere. Il suo passo leggero e i movimenti sicuri lo facevano sembrare molto più giovane. Il fatto che le mie ferite l'avessero messo tanto di buonumore poteva solo contribuire alla mia depressione. Tuttavia, dopo due giorni di riposo, Burrich mi informò che troppa immobilità non faceva bene, e che era il momento di alzarmi e cominciare a muovermi se volevo guarire del tutto. Mi trovò varie commissioncelle da fare, nessuna abbastanza pesante da mettere alla prova la mia forza, ma più che sufficienti per tenermi occupato, dato che dovevo riposare spesso. Più che farmi fare esercizio, credo che volesse tenermi impegnato, poiché non avevo fatto altro che stare a letto a
guardare il muro e disprezzarmi. Di fronte alla mia incessante depressione, perfino Ferrigno aveva cominciato a rifiutare il cibo. Malgrado questo, rimaneva la mia sola vera fonte di conforto. Seguirmi per le stalle era la gioia più pura che avesse conosciuto. Mi trasmetteva ogni odore e ogni immagine con un'intensità che, malgrado la mia infelicità, rinnovava in me la meraviglia che avevo sentito per la prima volta quando ero stato immerso nel mondo di Burrich. Anche Ferrigno era selvaggiamente protettivo nei miei confronti: sfidò perfino il diritto di Fuliggine ad annusarmi, e si guadagnò un accenno di morso da Volpina che lo fece correre a nascondersi uggiolando dietro ai miei piedi. Implorai di avere il giorno successivo libero, e andai a Borgo Castelcervo. La camminata mi richiese più tempo di quanto avesse mai fatto, ma Ferrigno era felice del mio passo lento, perché gli dava il tempo di annusare ogni ciuffo d'erba e ogni albero lungo la strada. Pensavo che vedere Molly mi avrebbe risollevato lo spirito e restituito un qualche senso della mia vita. Ma quando arrivai alla bottega delle candele lei era occupata con ordini importanti per tre navi in partenza. Sedetti vicino al fuoco nella bottega. Suo padre sedeva davanti a me, bevendo e guardandomi storto. Sebbene la malattia l'avesse indebolito, non aveva cambiato il suo temperamento, e nei giorni in cui stava abbastanza bene per mettersi a sedere stava abbastanza bene anche per bere. Dopo un poco, rinunciai a qualsiasi tentativo di conversazione, e lo guardai semplicemente bere e criticare sua figlia mentre Molly lavorava freneticamente, cercando di essere efficiente e insieme ospitale con i clienti. La triste meschinità di tutto ciò mi rese infelice. A mezzogiorno Molly disse a suo padre che chiudeva la bottega per andare a consegnare un ordine. Mi diede una pila di candele, si riempì le braccia lei stessa e ce ne andammo, sbarrandoci la porta alle spalle. Le imprecazioni avvinazzate di suo padre ci seguirono, ma lei le ignorò. Fuori, nel pungente vento d'inverno, seguii Molly che camminava in punta di piedi verso il retro della bottega. Facendomi cenno di tacere, aprì la porta sul retro e mise dentro tutto quello che portava. Anch'io scaricai la mia pila di candele, e poi ce ne andammo. Per un poco, passeggiammo semplicemente per il borgo, senza parlare molto. Molly fece commenti sui lividi che avevo in faccia; io dissi solo che ero caduto. Il vento era freddo e implacabile, quindi le bancarelle erano quasi vuote sia di clienti che di mercanti. Molly rimase conquistata da Ferrigno, e il cane ne era entusiasta. Tornando indietro, ci fermammo a una
sala da tè, e la ragazza mi offrì un vino speziato e fece così tante coccole a Ferrigno che lui si girò sulla schiena senza altro pensiero che crogiolarsi nel suo affetto. Improvvisamente fui colpito da quanto Ferrigno fosse consapevole dei suoi sentimenti; eppure Molly non percepiva affatto quelli del cane, se non al livello più superficiale. Cercai cautamente verso di lei, ma la trovai elusiva e sfuggente, come un profumo che si sente forte e poi lieve nello stesso alito di vento. Sapevo che avrei potuto premere con maggiore insistenza verso di lei, ma in qualche modo sembrava inutile. Un senso di solitudine mi pervase, una malinconia mortale al pensiero che Molly non era mai stata e non sarebbe mai stata più consapevole di me che di Ferrigno. Così accolsi le brevi parole che mi rivolgeva come un uccello becca le briciole di pane secco, e non disturbai i silenzi che stendeva come una tenda fra di noi. Presto disse che non poteva rimanere a lungo, o sarebbe stato peggio per lei, perché anche se suo padre non aveva più la forza di colpirla, era sempre capace di spaccare il boccale della birra sul pavimento o buttar giù gli scaffali per mostrare che si sentiva trascurato. Sorrise mentre lo diceva, uno strano sorrisetto, come se il comportamento di suo padre fosse meno sconvolgente se in qualche modo lo ritenevamo buffo. Io non riuscii a ricambiare il sorriso e Molly distolse lo sguardo. L'aiutai con il mantello e ce ne andammo, camminando su per la collina, controvento. Improvvisamente mi parve una metafora per la mia intera vita. Sulla porta, Molly mi sbalordì con un abbraccio e un bacio all'angolo della bocca, un abbraccio tanto breve che fu quasi come essere urtato nella folla del mercato. «Pivello...» disse, e poi: «Grazie. Per aver capito.» E poi scivolò nella sua bottega e si chiuse la porta alle spalle, lasciandomi paralizzato e confuso. Mi ringraziava per averla compresa in un momento in cui mi sentivo più che mai isolato da lei, o da chiunque altro. Per tutta la strada di ritorno verso la fortezza, Ferrigno continuò a chiacchierare fra sé di tutti i profumi che le aveva annusato addosso, e come lei l'aveva grattato fra le orecchie proprio dove lui non riusciva mai ad arrivare, e del biscotto dolce che gli aveva offerto nella sala da tè. Era metà pomeriggio quando rientrammo alle stalle. Svolsi qualche lavoretto, e poi tornai nella stanza di Burrich, dove io e Ferrigno ci addormentammo. Mi svegliai con Burrich in piedi accanto al letto, il viso lievemente corrucciato. «Alzati, che vediamo come stai» ordinò, e io mi tirai in piedi stancamente e rimasi in silenzio mentre lui mi controllava le ferite con mani abili. Fu contento delle condizioni della mia mano, e mi disse che adesso potevo
evitare di bendarla, ma dovevo tenere le bende attorno alle costole e tornare a farmele sistemare ogni sera. «Quanto al resto, tienilo pulito e asciutto, e non grattarti le croste. Se qualcuna fa irritazione, vieni da me.» Riempì un vasetto di linimento per muscoli doloranti e me lo diede, e io dedussi che si aspettava che me ne andassi. Rimasi in silenzio, con il vasetto in mano. Una terribile tristezza sorse dentro di me, eppure non riuscivo a trovare le parole. Burrich mi guardò, aggrottò la fronte e distolse lo sguardo. «Ora piantala» mi ordinò irritato. «Cosa?» chiesi. «A volte mi guardi con gli occhi del mio signore» disse piano, e poi, con lo stesso vigore di prima: «Ebbene, che cosa pensavi di fare? Nasconderti alle scuderie per il resto della tua vita? No. Devi tornare indietro. Devi tornare indietro a testa alta e mangiare insieme alla gente della fortezza, e dormire nella tua stanza, e vivere la tua vita. Sì, e concludere quel dannato addestramento nell'Arte.» I suoi primi ordini mi erano apparsi difficili, ma l'ultimo, lo sapevo, era impossibile. «Non posso» dissi, incredulo per quanto era ottuso. «Galen non mi lascerebbe tornare nel gruppo. E anche se lo facesse, non recupererei mai tutte le lezioni che ho perso. Ho già fallito, Burrich. Ho fallito, tutto qui, e ho bisogno di trovare qualcos'altro da fare di me stesso. Mi piacerebbe imparare a addestrare i falchi, per favore.» Ascoltai le ultime parole con una certa sorpresa, perché in realtà quell'idea non mi era mai passata per la mente. La risposta di Burrich fu altrettanto strana. «No, perché i falchi non ti amano. Sei troppo caldo e non ti fai abbastanza gli affari tuoi. Ora ascoltami. Non hai fallito, idiota. Galen ha cercato di cacciarti via. Se non torni, lo lascerai vincere. Devi tornare e riprendere le lezioni. Ma» e qui mi fronteggiò, e la rabbia dei suoi occhi era tutta per me «non rimanere lì come un mulo mentre ti picchia. Il suo tempo e la sua conoscenza sono tuoi per diritto di nascita. Costringilo a darti quello che è tuo. Non scappare via. Nessuno ha mai ottenuto nulla con la fuga.» Fece una pausa, cominciò a dire qualcos'altro, e poi si fermò. «Ho perso troppe lezioni. Non riuscirò mai...» «Non hai perso niente» insistette ostinatamente Burrich. Si distolse da me, e io non riuscii a comprendere il suo tono quando aggiunse: «Non ci sono state lezioni da quando te ne sei andato. Dovresti riuscire a ricominciare da dove hai interrotto.» «Non voglio tornare.»
«Non farmi perdere tempo a discutere» ribadì seccamente Burrich. «Non azzardarti a mettere alla prova la mia pazienza. Ti ho detto quello che devi fare. Fallo.» Improvvisamente avevo di nuovo cinque anni, e un uomo in una cucina teneva a bada una folla con uno sguardo. Rabbrividii, spaventato. In quel momento era più facile affrontare Galen che sfidare Burrich. Perfino quando aggiunse: «E dovrai lasciare quel cucciolo con me fino a quando non avrai finito con le lezioni. Restar chiuso tutto il giorno in camera tua non è la vita giusta per un cane. Il suo mantello perde splendore e i muscoli e non crescono nel modo giusto. Ma farai bene a tornare qui ogni sera per occuparti di lui e di Fuliggine, o dovrai risponderne a me. E anche su questo non m'importa un accidente del parere di Galen.» Dunque ero stato congedato. Trasmisi a Ferrigno che doveva rimanere con Burrich, e lui accettò con una equanimità che mi sorprese e allo stesso tempo ferì i miei sentimenti. Abbattuto, presi il mio vasetto di unguento e risalii stancamente alla fortezza. Raccolsi un poco di cibo in cucina, perché non avevo il cuore di affrontare una cena nella Sala Grande, e andai nella mia stanza. Era fredda e buia: niente fuoco nel camino, niente candele nei candelabri, e i giunchi sporchi sul pavimento puzzavano. Presi candele e legna, accesi un fuoco, e mentre aspettavo che il calore allontanasse un poco di freddo dai muri e dal pavimento di pietra, mi affaccendai a raccogliere i giunchi dal pavimento. Poi, come Trina mi aveva consigliato, ripulii per bene la stanza con acqua bollente e aceto. In qualche modo mi era venuta in mano una bottiglia di aceto profumato di dragoncello, e così alla fine la stanza aveva un buon profumo. Sfinito, mi gettai sul letto, e mi addormentai chiedendomi perché non avessi mai scoperto come si apriva la porta segreta che conduceva agli alloggi di Umbra. Ma non avevo dubbi che Umbra mi avrebbe semplicemente mandato via, perché era un uomo di parola e non avrebbe interferito finché Galen non avesse finito con me. O finché non avesse scoperto che io avevo finito con Galen. Mi svegliarono le candele del Matto. Rimasi completamente disorientato, poi lui disse: «Hai giusto il tempo di lavarti e mangiare ed essere comunque il primo in cima alla torre.» Aveva portato una brocca di acqua calda, e pagnotte tiepide dai forni della cucina. «Non ci vado.» Era la prima volta che vedevo il Matto sorpreso. «Perché no?» «Non ha senso. Non posso farcela. Semplicemente non sono portato, e
sono stanco di sbattere la testa contro un muro.» Gli occhi del Matto si spalancarono ancora di più. «Credevo che andassi bene, prima...» Era il mio turno di essere sorpreso. «Ah sì? Perché credi che mi abbia deriso e picchiato? Come ricompensa per il mio successo? No. Non sono neanche riuscito a capire che cosa ho fatto. Tutti gli altri mi avevano già sorpassato. Perché dovrei tornare? Per permettere a Galen di dimostrare ancora più completamente che aveva ragione?» «Qui» disse con circospezione il Matto «c'è qualcosa che non va.» Considerò per un momento. «Ti avevo chiesto di rinunciare alle lezioni. Tu non hai voluto. Te lo ricordi?» Riandai con la mente alla nostra conversazione. «A volte sono testardo» ammisi. «E se adesso ti chiedessi di continuare? Di andare in cima alla torre, e insistere?» «Perché hai cambiato idea?» «Perché quello che ho cercato di prevenire è successo. Ma tu sei sopravvissuto. Quindi adesso cerco di...» Le sue parole si spensero. «È come hai detto tu. Perché parlo, se non posso parlar chiaro?» «Se l'ho detto io, mi dispiace. Non è una cosa da dire a un amico. Non me lo ricordo.» Il Matto sorrise. «Se tu non te lo ricordi, non lo ricordo neanch'io.» Tese le mani e prese le mie. La sua stretta era stranamente fresca. Un brivido mi percorse al tocco. «Continueresti, se te lo chiedessi io? Da amico?» La parola sembrava tanto strana sulle sue labbra. La pronunciò senza derisione, cautamente, come se dicendola ad alta voce il suo significato potesse andare in frantumi. Gli occhi senza colore trattennero i miei. Scoprii che non potevo dire di no. Quindi annuii. Malgrado tutto, mi alzai con riluttanza. Il Matto mi osservò con interesse impassibile mentre mi riassettavo i vestiti in cui avevo dormito, mi buttavo acqua in faccia e poi divoravo il pane che aveva portato. «Non voglio andare» gli dissi mentre finivo la prima pagnotta e cominciavo la seconda. «Non capisco a che cosa può servire.» «Non so perché se la prenda tanto per te» concordò il Matto. Il familiare cinismo era tornato. «Galen? Deve farlo, il re...» «Burrich.» «A lui piace comandarmi a bacchetta» protestai, e perfino a me parve in-
fantile. Il Matto scosse la testa. «Non te lo immagini proprio, vero?» «Che cosa?» «Che il capo stalliere ha tirato Galen giù dal letto e lo ha trascinato alle Pietre Testimoni. Io non ero lì, ovviamente, altrimenti potrei dirti che Galen imprecava e lo colpiva, ma il capo stalliere non gli badava. Semplicemente ha incassato la testa sotto i colpi, ed è rimasto in silenzio. Ha afferrato il Mastro d'Arte per il colletto e se lo è tirato dietro, lo ha quasi strozzato. E i soldati e le guardie e gli stallieri lo hanno seguito, prima un rivoletto di uomini e poi un torrente. Se io fossi stato lì, potrei dirti che nessuno ha osato interferire, perché sembrava che il capo stalliere fosse diventato quello che era una volta, un uomo dai muscoli d'acciaio con una rabbia cupa come la follia quando si impadroniva di lui. Nessuno, allora, osava sfidare quella rabbia, e quel giorno è stato come se Burrich fosse tornato quello di un tempo. Magari zoppicava, ma nessuno se n'è accorto. «Quanto al Mastro d'Arte, si dibatteva e imprecava, e poi è rimasto immobile, e tutti hanno pensato che avesse rivolto il suo potere contro l'avversario. Ma se lo ha fatto non ha avuto effetto, se non che il capo stalliere ha accentuato la stretta attorno al suo collo. E se Galen ha cercato di spronare altri a sostenerlo, nessuno ha reagito. Forse sentirsi strangolato e sbatacchiato è stato sufficiente a infrangere la sua concentrazione. O forse la sua Arte non è tanto forte come si dice. O forse troppi ricordano troppo bene i suoi maltrattamenti per essere vulnerabili alle sue arti. O forse...» «Matto! Vai avanti! Cos'è successo?» Un velo di sudore avvolgeva il mio corpo e io rabbrividii, senza sapere cosa sperare. «Io non ero lì, ovviamente» affermò dolcemente il Matto. «Ma ho sentito dire che il bruno ha trascinato lo smilzo fino alle Pietre Testimoni. E là, continuando a tener fermo il Mastro d'Arte al punto da impedirgli di parlare, ha pronunciato la sua sfida. Dovevano combattere. Niente armi, solo le mani, proprio come il Mastro d'Arte aveva aggredito un certo ragazzo il giorno prima. E se Burrich avesse vinto, le Pietre avrebbero testimoniato che Galen aveva colpito il ragazzo senza motivo, e non aveva il diritto di rifiutare di insegnargli. E Galen voleva rinunciare alla sfida e andare dal re in persona, solo che il bruno aveva già chiamato le Pietre a testimoni. E così hanno combattuto, più o meno come un toro combatte contro una balla di fieno quando la butta in giro e la calpesta e la trafigge con le corna. E quando ha finito, il capo stalliere si è chinato e ha sussurrato qualcosa al Mastro d'Arte, prima di girarsi insieme a tutti gli altri e di lasciarlo disteso
lì, con le Pietre testimoni dei suoi lamenti e del suo sangue.» «Che cosa ha detto?» domandai. «Io non c'ero. Io non ho visto e non ho sentito niente.» Il Matto si alzò e si stiracchiò. «Arriverai in ritardo, se indugi» mi fece notare, e se ne andò. E io lasciai la mia stanza, perplesso, e salii in cima all'alta torre fino al nudo Giardino della Regina, e comunque arrivai per primo. 16 Lezioni Secondo le antiche cronache, gli adepti dell'Arte erano organizzati in confraternite di sei. Questi gruppi di solito non includevano nessuno che avesse sangue reale, ma erano limitati a cugini e nipoti della linea diretta, o a coloro che mostravano propensione e venivano giudicati degni. Una delle più famose, la Confraternita di Schermaglia, è uno splendido esempio di come dovrebbe funzionare una confraternita. Una donna di nome Schermaglia e gli altri membri della sua confraternita, fedeli alla regina Visione, erano stati addestrati da un Mastro d'Arte chiamato Tattico. I membri della confraternita si erano scelti a vicenda, e poi lo speciale addestramento di Tattico li aveva uniti in un gruppo compatto. Sia che fossero sparsi per i Sei Ducati a raccogliere o diffondere informazioni, o che fossero radunati allo scopo di confondere e demoralizzare il nemico, le loro imprese divennero leggendarie. Nel loro ultimo atto di eroismo, narrato nella ballata Il sacrificio di Schermaglia, concentrarono la loro forza e la incanalarono alla regina Visione durante la battaglia di Besham. All'insaputa della regina sfinita, le diedero più di quanto potessero permettersi, e nel mezzo dei festeggiamenti per la vittoria i membri della confraternita furono scoperti nella loro torre, svuotati e morenti. Forse l'amore popolare per la Confraternita di Schermaglia veniva in parte dal fatto che tutti erano menomati in un modo o nell'altro: tutti e sei erano ciechi, zoppi, dal labbro leporino o sfigurati dal fuoco, eppure nell'Arte la loro forza era superiore a quella della più grande nave da guerra, e più determinante nella difesa della regina. Durante gli anni pacifici del regno di re Generoso, l'addestramento nell'Arte per la creazione di confraternite fu abbandonato. Le confraternite esistenti furono disperse a causa della vecchiaia, della morte o semplicemente della mancanza di scopo. L'addestramento nell'Arte cominciò a essere limitato ai principi, e per un certo tempo fu visto come un'arte piut-
tosto arcaica. All'epoca delle scorrerie della Nave Rossa, soltanto re Sagace e suo figlio Veritas erano praticanti attivi nell'Arte. Sagace fece uno sforzo per trovare e reclutare antichi praticanti, ma la maggior parte erano anziani o non più abili. Galen, all'epoca Mastro d'Arte per Sagace, ricevette il compito di creare nuove confraternite per la difesa del regno. Decise di mettere da parte la tradizione. L'appartenenza alle confraternite fu assegnata, piuttosto che reciprocamente scelta. I metodi di insegnamento di Galen erano duri, tesi a far sì che ciascun membro fosse una parte disposta a tatto di un corpo unico, uno strumento che il re potesse usare a suo piacimento. Questo aspetto particolare fu un'idea esclusiva di Galen, che offrì a re Sagace come dono personale la prima confraternita d'Arte da lui creata. Almeno un membro della famiglia reale espresse il suo disgusto per l'idea. Ma erano tempi disperati, e re Sagace non poté resistere alla tentazione di usare l'arma che gli era stata messa in mano. Quanto odio. Oh, come mi odiavano. Ciascun discepolo emergeva dalla tromba delle scale sul tetto della torre e mi trovava lì in attesa, e mi evitava accuratamente. Sentivo il loro disprezzo, palpabile come secchiate di acqua fredda. Quando apparve il settimo e ultimo, il freddo del loro odio era come un muro attorno a me. Ma io rimasi in silenzio, controllato, al mio solito posto, e incontrai tutti gli sguardi che si levarono su di me. Quello, credo, fu il motivo per cui nessuno mi rivolse la parola. Furono costretti a prendere posto attorno a me. Non parlarono neanche fra loro. E attendemmo. Il sole sorse, e superò perfino il muro attorno alla torre, e ancora Galen non era arrivato. Ma gli altri rimasero al loro posto e attesero, e quindi io feci lo stesso. Infine, sentii i suoi passi irregolari sulle scale. Quando emerse, batté le palpebre nella pallida luce del sole, mi gettò un'occhiata e trasalì visibilmente. Io non mi mossi. Ci squadrammo. Galen dovette avvertire il carico di odio che gli altri mi avevano imposto e ne fu compiaciuto, così come della benda che portavo ancora sulla tempia. Eppure incontrai i suoi occhi e non trasalii. Non osavo. Fui consapevole della delusione degli altri. Nessuno poteva guardare Galen senza vedere la batosta che aveva preso. Le Pietre Testimoni lo avevano giudicato carente, e chiunque se ne sarebbe reso conto a prima vista. Il suo viso scavato era un panorama di viola e verde diluito in giallo. Il
labbro inferiore era spaccato a metà, e tagliato vicino all'angolo della bocca. Portava una veste dalle maniche lunghe che gli coprivano le braccia, e lo stile ampio e fluente contrastava in modo tanto brutale con le sue solite camicie e tuniche strettamente allacciate che era come vederlo in camicia da notte. Anche le mani erano livide e gonfie, ma non ricordavo di aver visto lividi sul corpo di Burrich. Conclusi che Galen le aveva usate in un vano tentativo di proteggersi il viso. Portava ancora il frustino, ma dubitavo che avesse la capacità di brandirlo efficacemente. E così ci studiammo. Non provavo soddisfazione per i suoi lividi o per il suo disonore; piuttosto una specie di vergogna. Avevo creduto con tanta forza nella sua invulnerabilità e superiorità che la dimostrazione della sua semplice umanità mi faceva sentire sciocco. Questo fece vacillare la sua impassibilità. Due volte aprì la bocca per parlarmi. La terza volta, girò la schiena alla classe e disse: «Cominciate gli esercizi a corpo libero. Vi osserverò per vedere se vi muovete correttamente.» Ogni parola terminava smorzata attraverso le labbra doloranti. E mentre noi, obbedienti, ci allungavamo e ci piegavamo e ci inchinavamo tutti insieme, Galen strisciava goffamente per il giardino della torre. Cercava di non appoggiarsi al muro, di non riposare troppo spesso. Non si udiva più il battere ripetuto della frusta contro la coscia che in precedenza aveva ritmato i nostri sforzi. Piuttosto la stringeva come se avesse avuto paura di lasciarla cadere. Da parte mia, ero contento che Burrich mi avesse costretto ad alzarmi e a muovermi. Le costole fasciate non mi permettevano la piena flessibilità di movimento che Galen in precedenza aveva preteso da noi, ma mi sforzai più che potei. Quel giorno Galen non ci mostrò nulla di nuovo, solo un ripasso di quello che già sapevamo, e la lezione finì presto, perfino prima che il sole tramontasse. «Vi siete comportati bene» ci comunicò con voce flebile. «Vi siete guadagnati queste ore libere, perché sono contento che abbiate continuato a studiare in mia assenza.» Prima di congedarci, chiamò ciascuno per un breve tocco dell'Arte. Gli altri se ne andarono con riluttanza, gettando ripetuti sguardi indietro, curiosi di vedere come mi avrebbe trattato. Man mano che il numero dei miei compagni calava, mi preparai a un confronto solitario. Ma anche quello fu una delusione. Galen mi chiamò, e io andai, silenzioso e apparentemente rispettoso come gli altri. Rimasi davanti a lui come avevano fatto loro, e lui mi passò brevemente la mano davanti al viso e sopra la testa, un paio di volte. Poi disse con voce fredda: «Ti schermi
troppo bene. Devi imparare ad allentare il controllo sui tuoi pensieri se vuoi riuscire a trasmetterli o a ricevere quelli degli altri. Vai.» E me ne andai, come gli altri, ma con rimpianto. Privatamente mi chiedevo se avesse fatto un vero tentativo di usare l'Arte su di me. Non avevo sentito il suo tocco. Scesi le scale, dolorante e amareggiato, chiedendomi perché ci stavo ancora provando. Andai in camera mia, e poi alle scuderie. Diedi una strigliata sbrigativa a Fuliggine mentre Ferrigno ci guardava. Mi sentivo irrequieto e insoddisfatto. Sapevo che avrei dovuto riposare, altrimenti me ne sarei pentito. Passeggiata sulle pietre? suggerì Ferrigno, e io accettai di portarlo in città. Mentre scendevamo dalla fortezza, il cane galoppava e annusava descrivendo cerchi attorno a me. Era un pomeriggio inquieto dopo una mattinata calma; all'orizzonte stava addensandosi una tempesta. Ma il vento era stranamente tiepido per la stagione, e io sentii che l'aria fresca mi schiariva la mente, e il ritmo costante della camminata calmò e distese i muscoli che gli esercizi di Galen avevano lasciato contratti e doloranti. Il chiacchiericcio sensoriale di Ferrigno mi ancorava saldamente al mondo circostante, e non mi permetteva di indulgere nella mia frustrazione. Mi dissi che era stato Ferrigno a condurci dritti dritti alla bottega di Molly. Come un cucciolo, era tornato dove era stato accolto tanto bene. Quel giorno il padre di Molly era rimasto a letto, e la bottega era abbastanza tranquilla. Soltanto un cliente indugiava a parlare con Molly. Lei me lo presentò come Diaspro. Era ufficiale su un vascello mercantile di Baia delle Foche, non ancora ventenne, e mi parlò come a un bambino di dieci anni, sorridendo per tutto il tempo a Molly come se io non fossi stato davanti a lui. Era pieno di racconti di Navi Rosse e tempeste di mare. Portava un orecchino con una pietra rossa, e una barba recente gli si arricciava lungo il mento. Ci mise un'eternità per scegliere le candele e una nuova lampada d'ottone, poi se ne andò. «Chiudi la bottega per un poco» esortai Molly. «Andiamo alla spiaggia. Oggi c'è una brezza deliziosa.» La ragazza scosse la testa con rimpianto. «Sono indietro con il lavoro. Dovrò fabbricare candele tutto il pomeriggio, se non ho clienti. E se i clienti arrivano, devo essere qui.» Mi sentii irragionevolmente deluso. Cercai verso di lei, e scoprii che in realtà aveva voglia di andare. «Non sono poi rimaste molte ore di luce» dissi in tono persuasivo. «Puoi sempre fare candele questa sera. E i tuoi clienti torneranno domani se oggi trovano chiuso.»
Molly inclinò la testa, apparve pensierosa, e bruscamente mise da parte gli stoppini che aveva in mano. «Sai, hai ragione. L'aria fresca mi farà bene.» E prese il mantello con un'alacrità che riempì di gioia Ferrigno e sorprese me. Chiudemmo la bottega e ce ne andammo. Molly assunse il suo solito passo vivace. Ferrigno le giocherellava attorno, felice. Parlammo, con moderazione. Il vento faceva sbocciare le rose sulle sue guance, e i suoi occhi sembravano più lucenti per il freddo. E a me parve che mi guardasse più spesso, e più pensierosamente di quanto faceva di solito. Il borgo era silenzioso, e il mercato pressoché deserto. Andammo alla spiaggia, e camminammo tranquillamente dove solo pochi anni prima correvamo e strillavamo. Mi chiese se avevo imparato ad accendere una candela prima di scendere le scale di notte, e quello mi lasciò perplesso, finché non ricordai che avevo spiegato i miei lividi con una caduta per una scala buia. Mi chiese se il maestro e lo stalliere erano ancora in rotta, e da questo compresi che la sfida di Burrich e Galen alle Pietre Testimoni era già diventata una specie di leggenda locale. La rassicurai che la pace era tornata. Trascorremmo qualche tempo raccogliendo un certo tipo di alga con cui lei voleva insaporire la zuppa di pesce quella sera. Poi, dato che io ero senza fiato, sedemmo al riparo di alcune rocce e guardammo Ferrigno che faceva ripetuti tentativi di liberare la spiaggia dai gabbiani. «Allora. Ho sentito che il principe Veritas sta per sposarsi» cominciò Molly in tono ciarliero. «Cosa?» chiesi, meravigliato. La ragazza rise di cuore. «Pivello, non ho mai incontrato nessuno tanto immune dai pettegolezzi come te. Come fai a vivere lassù alla fortezza e non sapere nulla dell'argomento di tutti i discorsi del borgo? Veritas ha accettato di sposarsi, per assicurare la successione. Ma al borgo si racconta che è troppo occupato per corteggiare qualcuno, quindi Regal gli troverà una dama.» «Oh, no.» Il mio sbigottimento era sincero. Mi immaginavo il grosso e rude Veritas al fianco di una delle donnine di zucchero filato di Regal. Ogni volta che c'era una qualche festa alla fortezza, il Culmine della Primavera o il Cuore dell'Inverno o il Giorno del Raccolto, ecco che arrivavano, da Chalced e Armento e Orso, in carrozze o su palafreni dalla ricca gualdrappa o in portantina. Indossavano vesti come ali di farfalla, mangiavano con la delicatezza di un passero e sembravano svolazzare e posarsi sempre nelle vicinanze di Regal. E il principe sedeva in mezzo a loro, con i
suoi abiti di seta e velluto color pastello, e si faceva bello mentre le loro voci musicali tintinnavano attorno a lui e i loro ventagli e fazzoletti tremavano fra le loro dita. «Trappole da principe» le chiamavano, nobildonne che si mettevano in mostra come merce nelle vetrine delle botteghe, sperando di sposare uno dei reali. Il loro comportamento non era sconveniente, non proprio. Ma a me sembrava disperato, e Regal mi appariva crudele quando sorrideva all'una e poi danzava tutta la sera con l'altra, solo per alzarsi a far colazione tardi e offrire un giro per i giardini a una terza. Erano le sue adoratrici. Provai a immaginarne una al braccio di Veritas mentre stava a guardare i danzatori a una festa, o intenta a tessere silenziosamente nel suo studio mentre Veritas studiava e disegnava le sue amate mappe. Niente passeggiate in giardino - Veritas andava a camminare al porto e nei campi, fermandosi spesso per parlare con pescatori e aratori. Scarpine eleganti e gonne ricamate sicuramente non lo avrebbero seguito fin lì. Molly mi infilò una monetina in mano. «Perché?» «Per sapere a che cosa stavi pensando, tutto concentrato. Sei rimasto seduto sulla mia gonna quando ti ho chiesto due volte di alzarti. Non credo che tu abbia sentito una sola parola di quello che ho detto.» Sospirai. «Veritas e Regal sono tanto diversi che non riesco a immaginare uno che sceglie una moglie per l'altro.» Molly apparve confusa. «Regal sceglierà una moglie bella e ricca e di sangue nobile» spiegai. «Che sappia ballare e cantare e suonare il cembalo. Sarà vestita splendidamente e a colazione porterà gioielli fra i capelli, e profumerà sempre dei fiori che crescono nelle Giungle della Pioggia.» «E Veritas non sarebbe contento di una donna così?» Dalla perplessità sul viso di Molly si sarebbe detto che cercavo di convincerla che il mare era minestra. «Veritas merita una compagna, non un accessorio di moda» protestai con disprezzo. «Se io fossi al suo posto, cercherei una donna che sa fare le cose. Non soltanto scegliere i gioielli o intrecciarsi i capelli. Dovrebbe essere capace di cucire una camicia, o di occuparsi del giardino, e avere qualcosa di speciale che è tutto suo, come copiare libri o conoscere le erbe.» «Pivello, quelli non sono lavori da signore raffinate» mi rimproverò Molly. «Le dame devono essere graziose e decorative. E poi sono ricche. Non hanno bisogno di fare certi lavori.»
«Invece sì. Guarda dama Pazienza e la sua cameriera, Trina. Sono sempre indaffarate. I loro alloggi sono una giungla delle piante della signora, e le maniche delle sue vesti sono sempre un po' appiccicose perché ha lavorato la carta, oppure la vedi piena di foglie fra i capelli quando torna dal giardino delle erbe, ma è bellissima lo stesso. E la bellezza non è poi così importante in una donna. Ho guardato le mani di Trina mentre creava una rete da pesca da un pezzo di corda di iuta per uno dei bambini della fortezza. Le sue dita sono veloci e abili come quelle di qualsiasi pescatore al porto; è un tratto di grazia che non ha niente a che fare con il suo viso. E Poiana, che insegna l'uso delle armi? Adora lavorare l'argento e creare incisioni. Ha fatto un pugnale per il compleanno di suo padre, con l'impugnatura a forma di cervo che salta, eppure modellata tanto abilmente che si adatta alla mano, senza un'irregolarità o una sporgenza. Ora, quello è un bell'oggetto che vivrà a lungo dopo che i suoi capelli saranno diventati grigi e le guance rugose. Un giorno i suoi nipoti guarderanno quel lavoro e penseranno alla donna abile che era.» «Lo credi veramente?» «Certo.» Mi assestai sulle rocce, improvvisamente consapevole di quanto Molly mi stesse vicina. Mi mossi, eppure non mi spostai veramente. Giù alla spiaggia, Ferrigno si tuffò nuovamente in uno stormo di gabbiani. La lingua gli arrivava quasi alle ginocchia, ma continuava a galoppare. «Ma se le nobildonne fanno tutte queste cose, si rovineranno le mani con il lavoro, e il vento asciugherà i loro capelli e abbronzerà i loro visi. Certamente Veritas non merita una donna che sembra uno scaricatore di porto!» «Certamente sì. Più di quanto meriti una donna che sembra un grasso pesce rosso in una boccia.» Molly ridacchiò. «Una donna che cavalchi accanto a lui al mattino quando porta Cacciatore fuori a galoppare, capace di dare un'occhiata a una sezione di mappa che ha appena finito e comprendere davvero che è un bel lavoro. È questo che merita Veritas.» «Non sono mai andata a cavallo» obiettò improvvisamente Molly. «E so a malapena leggere.» La guardai con curiosità, chiedendomi perché sembrasse improvvisamente tanto afflitta. «Che importa? Sei abbastanza sveglia da imparare qualsiasi cosa. Guarda tutto quello che hai imparato da sola sulle candele e le erbe. Non mi dire che te l'ha insegnato tuo padre. A volte quando vengo
alla bottega i tuoi capelli e il tuo vestito profumano di erba fresca, e io capisco che hai fatto esperimenti per scoprire nuovi profumi per le candele. Se tu volessi leggere o scrivere di più, potresti imparare. Quanto ad andare a cavallo, ti verrebbe naturale. Sei forte e ben equilibrata... guarda come ti arrampichi sulle rocce delle scogliere. E gli animali si affezionano a te. Mi hai praticamente sottratto il cuore di Ferrigno...» «Ma dai!» Mi diede una spinta con la spalla. «Parli come se qualche signore dovesse arrivare a cavallo dalla fortezza e portarmi via.» Pensai ad Augusto con le sue maniere pompose, o a Regal che le strisciava dietro. «Eda ti salvi. Saresti sprecata con loro. Non avrebbero il cervello per capirti, o il cuore per apprezzarti.» Molly abbassò lo sguardo sulle sue mani consumate dal lavoro. «E allora chi mi apprezzerebbe?» chiese piano. I ragazzi sono degli idioti. La conversazione era cresciuta e si era intrecciata attorno a noi, e le parole mi venivano naturali come il respiro. Non avevo intenzione di lusingarla, o di corteggiarla sottilmente. Il sole cominciava a immergersi nell'acqua, e sedevamo vicini l'uno all'altra, mentre la spiaggia davanti a noi era come il mondo ai nostri piedi. Se in quel momento avessi detto «Io», credo che il suo cuore sarebbe cascato nelle mie mani goffe come un frutto maturo da un albero. Credo che avrebbe potuto baciarmi, e si sarebbe legata a me di sua libera volontà. Ma non riuscii ad afferrare l'immensità di ciò che ero giunto a provare per lei e che comprendevo all'improvviso. Ciò allontanò la semplice verità dalle mie labbra, e rimasi seduto in silenzio. Un attimo dopo arrivò Ferrigno, fradicio e pieno di sabbia, e ci saltò addosso, quindi Molly balzò in piedi per salvare la gonna, e l'opportunità fu perduta per sempre, soffiata via come spuma nel vento. Ci alzammo e ci stiracchiammo, e Molly esclamò che era tardi, e io sentii d'un tratto tutti i dolori del mio corpo che stava guarendo. Sedermi e raffreddarmi su una spiaggia gelida era una stupidaggine che certamente non avrei mai fatto con un cavallo. Accompagnai Molly a casa, e ci fu un momento imbarazzante davanti alla sua porta, prima che lei si chinasse e abbracciasse Ferrigno. E poi ero da solo, a parte un cucciolo curioso che voleva sapere perché camminavo così piano e insisteva che era mezzo morto di fame e voleva correre e fare la lotta lungo tutta la strada su per la collina fino alla fortezza. Salii lentamente, raggelato dentro e fuori. Riportai Ferrigno alle scuderie, augurai la buonanotte a Fuliggine e poi tornai alla fortezza. Galen e i
suoi pupilli avevano già finito il loro magro pranzo e se n'erano andati. La maggior parte della gente della fortezza aveva mangiato, e io mi ritrovai a tornare verso le antiche abitudini. C'era sempre cibo in cucina, e compagnia nella sala delle guardie lì accanto. I soldati andavano e venivano a tutte le ore del giorno e della notte, quindi la cuoca teneva sempre una pentola a bollire sul gancio, aggiungendo acqua e carne e verdura man mano che il livello si abbassava. C'erano anche vino e birra e formaggio, e la compagnia semplice dei difensori della fortezza. Mi avevano accettato come uno di loro dal primo giorno in cui ero stato affidato alle cure di Burrich. Perciò mi preparai un pasto semplice, non misero come quello che mi avrebbe somministrato Galen, ma neanche abbondante e sontuoso come lo desideravo. Così Burrich mi aveva insegnato; mi cibai come avrei nutrito un animale ferito. Ascoltai le conversazioni casuali attorno a me, concentrandomi sulla vita della fortezza come non avevo fatto per mesi. Ero sbalordito da tutto quello che la mia totale immersione nell'insegnamento di Galen mi aveva impedito di scoprire. Più che altro si parlava di trovare una moglie a Veritas. C'erano le solite battute grossolane che ci si può aspettare dai soldati su un argomento del genere, e anche un bel po' di commiserazione per la sfortuna di farsi trovare una moglie proprio da Regal. Che l'unione sarebbe stata basata sulle alleanze politiche non era mai stato in dubbio; la mano di un principe non poteva essere sprecata in frivolezze come la sua libera scelta. Lo scandalo che aveva circondato l'ostinato corteggiamento di Pazienza da parte di Chevalier derivava in gran parte da quello. Pazienza veniva dal cuore del reame, figlia di uno dei nostri nobili, un uomo già molto ben disposto verso la famiglia reale. Da quel matrimonio non era emerso alcun vantaggio politico. Dunque Veritas non sarebbe stato sprecato in quel modo. Specialmente con le Navi Rosse che ci minacciavano lungo tutta la nostra frastagliata costa. E così le ipotesi proliferavano. Chi sarebbe stata? Una donna dalle Isole Vicine, a nord delle nostre terre, nel Mare Bianco? Quelle isole erano poco più che frammenti rocciosi delle ossa della terra che spuntavano dal mare, ma una serie di torri costruite su di esse ci avrebbe permesso di avvistare in anticipo i predoni del mare che si avventuravano nelle nostre acque. A sud-est delle nostre frontiere, oltre le Giungle della Pioggia dove nessuno regnava, c'erano le Coste della Spezia. Una principessa di quelle terre avrebbe offerto pochi vantaggi difensivi, ma alcuni caldeggiavano i favorevoli accordi commerciali che avrebbe potuto portare con sé. A giorni
e giorni verso sud-est, oltre il mare, c'erano numerose grandi isole dove crescevano gli alberi bramati dai costruttori di navi. Si poteva forse trovare laggiù la figlia di un re disposta a scambiare i suoi venti caldi e frutti morbidi per una fortezza in una terra rocciosa e circondata dal ghiaccio? Che cosa avrebbero chiesto per una morbida donna del Sud e per il commercio con la sua isola dagli alti alberi? Pellicce, dicevano alcuni, e grano, dicevano altri. E poi c'erano i regni delle montagne dietro di noi, che custodivano gelosamente i passi verso la tundra. Una principessa delle montagne avrebbe portato l'alleanza del suo popolo guerriero, oltre che legami commerciali con gli intagliatori d'avorio e i pastori di renne che vivevano al di là dei loro confini. Alla loro frontiera meridionale c'era il passo che conduceva alle sorgenti del grande Fiume Pioggia, serpeggiante attraverso le Giungle della Pioggia. Ciascuno dei nostri soldati aveva sentito gli antichi racconti dei templi abbandonati e colmi di tesori sulle rive di quel fiume, delle alte divinità di pietra che ancora custodivano le sacre sorgenti, e delle pepite d'oro che brillavano nei torrenti minori. Forse una principessa delle montagne, dunque? Ciascuna possibilità veniva dibattuta con una raffinatezza politica che Galen non avrebbe mai sospettato in quei semplici soldati. Mi alzai e li lasciai, vergognandomi per averli sottovalutati; in così poco tempo Galen mi aveva indotto a considerarli armigeri ignoranti, tutti muscoli e niente cervello. Avevo vissuto fra loro per tutta la vita. Avrei dovuto sapere che non era vero. Anzi, lo sapevo. Ma la mia fame di innalzarmi, di dimostrare al di là di ogni dubbio il mio diritto alla magia dei re, mi aveva reso disponibile ad accettare qualsiasi sciocchezza che Galen decidesse di presentarmi. Qualcosa scattò dentro di me, come se il pezzo fondamentale di un gioco a incastro fosse andato improvvisamente a posto. Ero stato corrotto con l'offerta della conoscenza come un altro uomo sarebbe stato corrotto con il denaro. Non avevo una grande opinione di me stesso mentre salivo le scale verso la mia camera. Andai a dormire con la risoluzione che non avrei più permesso a Galen di ingannarmi, o di convincermi a ingannare me stesso. Decisi anche con la massima fermezza che avrei imparato l'Arte, non importava quanto sarebbe stato doloroso o difficile. E così, nel buio del mattino dopo, mi rituffai interamente nelle mie lezioni e nelle mie abitudini. Ascoltavo ogni parola di Galen, mi spingevo a fare ogni esercizio, fisico o mentale, fino al limite delle mie capacità. Ma mentre la settimana, e poi il mese, si consumava dolorosamente, mi senti-
vo come un cane con un pezzo di carne sospeso appena al di là della portata dei suoi denti. Per gli altri, evidentemente qualcosa si stava muovendo. Fra di loro si stava creando una rete di pensieri condivisi, una comunicazione che li portava a guardarsi l'un l'altro prima di parlare, che permetteva loro di compiere gli esercizi fisici comuni come un essere solo. Scontrosi e riluttanti, venivano messi in coppia con me a turno, ma da loro non percepivo niente, e loro si allontanavano rabbrividendo da me, protestando con Galen che la forza che esercitavo verso di loro era un sussurro o un ariete da sfondamento, senza vie di mezzo. Vicino alla disperazione, li osservai mentre danzavano a coppie, ciascuno condividendo il controllo dei muscoli dell'altro, o mentre uno camminava bendato in un labirinto di carboni ardenti, guidato dagli occhi del suo compagno seduto. A volte sentivo di possedere l'Arte. L'avvertivo crescere dentro di me, aprirsi come un seme che germoglia, ma non sembravo in grado di dirigerla o controllarla. Un momento era dentro di me, rimbombante come la marea contro le scogliere, e il successivo era scomparsa e tutto in me era sabbia asciutta e deserta. Al suo culmine, potevo costringere Augusto ad alzarsi in piedi, a inchinarsi, a camminare. Un attimo dopo lui rimaneva a fissarmi, sfidandomi anche solo a contattarlo. E nessuno sembrava in grado di entrare nella mia mente. «Abbassa la guardia, abbatti i tuoi muri!» mi ordinava rabbiosamente Galen, in piedi davanti a me, cercando invano di comunicarmi banalissime indicazioni o suggerimenti. Io sentivo la sua Arte sfiorarmi appena; ma non potevo permettergli di entrare nella mia mente più di quanto potessi rimanere indifferente mentre un uomo mi infilava una spada fra le costole. Per quanto cercassi di costringermi, mi ritraevo dal suo tocco, fisico o mentale, e non sentivo affatto il tocco dei miei compagni. Loro compivano progressi giornalieri, mentre io li osservavo e lottavo per dominare i fondamenti più essenziali. Venne il giorno in cui Augusto fu in grado di guardare una pagina, e dall'altra parte del tetto il suo compagno la lesse ad alta voce, mentre altre due coppie giocavano una partita a scacchi in cui coloro che ordinavano le mosse non potevano affatto vedere fisicamente la scacchiera. Galen era molto contento di tutti, tranne che di me. Ogni giorno ci congedava dopo un tocco, che raramente avvertivo. Ogni giorno venivo lasciato andare per ultimo, e Galen freddamente mi ricordava che sprecava il suo tempo con un bastardo soltanto perché glielo ordinava il re. La primavera stava avvicinandosi, e Ferrigno non era più un cucciolo.
Mentre seguivo le mie lezioni, Fuliggine partorì, una bella puledra generata dallo stallone di Veritas. Una volta vidi Molly, e camminammo insieme quasi senza parole attraverso il mercato. C'era una nuova bancarella, con un uomo rozzo che vendeva uccelli e animali catturati e messi in gabbia da lui. Teneva corvi e passeri, una rondine, e una giovane volpe tanto debole a causa dei vermi che si reggeva a malapena in piedi. La morte l'avrebbe liberata più presto di qualsiasi compratore, e perfino se avessi avuto abbastanza soldi era in uno stato tale che le medicine per i vermi l'avrebbero solo avvelenata insieme ai suoi parassiti. La scena mi disgustò, quindi rimasi lì, cercando verso gli uccelli per suggerire loro di beccare un certo pezzettino luminoso di metallo che avrebbe aperto le porte delle loro gabbie. Ma Molly pensò che stessi fissando le povere bestie, e la sentii più che mai fredda e lontana. Mentre l'accompagnavamo a casa, Ferrigno uggiolò implorando la sua attenzione, e così conquistò una coccola e una carezza prima che ce ne andassimo. Gli invidiavo la capacità di uggiolare tanto bene. I miei guaiti sembravano cadere nel nulla. Con la primavera nell'aria, tutti al porto si prepararono, perché presto sarebbe stato tempo da predoni. Ormai mangiavo con le guardie ogni sera, e ascoltavo con attenzione tutte le dicerie. I Forgiati divenuti briganti infestavano tutte le nostre strade, e le storie delle loro depravazioni e razzie facevano il giro delle taverne. Erano predatori privi di onestà e misericordia, più di qualsiasi animale selvaggio. Facile dimenticare che erano stati umani, e odiarli con impareggiabile veleno. Il timore di essere Forgiati aumentò in proporzione. I mercati vendevano pastiglie di veleno ricoperte di zucchero che le madri potevano dare ai figli se la famiglia veniva catturata dai pirati. Si diceva che alcuni abitanti dei villaggi costieri avessero radunato tutti i loro beni e si fossero trasferiti verso l'interno, abbandonando le occupazioni tradizionali di pescatori e mercanti per diventare agricoltori e cacciatori, lontano dalla minaccia del mare. Certamente la popolazione di mendicanti al borgo stava crescendo oltre misura. Un Forgiato arrivò a Borgo Castelcervo e camminò per le strade intoccabile come un pazzo, servendosi di quello che voleva dalle bancarelle del mercato. Prima che passassero due giorni era scomparso, e sussurri tetri dicevano di aspettare che il suo corpo venisse gettato sulla spiaggia. Altre voci affermavano che era stata trovata una moglie per Veritas fra la gente delle montagne. Alcuni dicevano che era per assicurare l'accesso ai passi; altri che non potevamo permetterci un nemico potenziale alle spalle mentre lungo tutte le nostre coste dovevamo temere le Navi
Rosse. E c'erano ulteriori sussurri che il principe Veritas non stesse affatto bene. Alcuni dicevano che era stanco e malato, e altri ridacchiavano perché lo sposo era già nervoso e sfinito. Alcuni lo deridevano dicendo che si era messo a bere e che lo si vedeva solo di giorno quando il suo mal di testa era al peggio. Queste ultime voci mi preoccuparono più di quanto avrei immaginato. Nessuno dei reali aveva mai badato molto a me, almeno non in maniera personale. Sagace si occupava della mia educazione e del mio benessere, e tempo prima aveva comprato la mia lealtà, cosicché adesso gli appartenevo senza neanche il pensiero di un'alternativa. Regal mi disprezzava, e avevo imparato a evitare i suoi sguardi sfuggenti, e gli urti gratuiti o le spinte furtive che un tempo erano bastate a far barcollare un ragazzo più piccolo. Ma Veritas era stato gentile con me, nella sua maniera distratta, e amava i suoi cani e il suo cavallo e i suoi falchi in un modo che potevo capire. Volevo vederlo alto e orgoglioso al suo matrimonio, e speravo un giorno di trovarmi dietro al suo trono così come Umbra stava dietro a quello di Sagace. Mi auguravo che stesse bene, eppure in caso contrario non avrei potuto farci nulla, e non potevo neanche incontrarlo. Anche se avessimo avuto gli stessi orari, raramente ci muovevamo negli stessi ambienti. Non era ancora piena primavera quando Galen fece il suo annuncio. Il resto della fortezza stava preparandosi per la Festa della Primavera. Le bancarelle del mercato venivano scartavetrate e ridipinte a colori vivaci, e i rami degli alberi venivano portati al coperto e la loro crescita abilmente accelerata perché potessero ornare la tavola del banchetto alla Vigilia di Primavera con boccioli e minuscole foglie. Ma Galen non aveva in mente per noi tenere foglie nuove e dolci di pasta d'uovo spruzzati di semi di carris, e neppure spettacoli di marionette o danze della caccia. Invece, con la venuta della nuova stagione, saremmo stati messi alla prova, per rivelarci degni o essere scartati. «Scartati» ripeté, come se avesse condannato a morte coloro che non sarebbero stati prescelti. L'attenzione degli altri discepoli non poteva essere più concentrata. Cercai confusamente di comprendere che cosa avrebbe significato il mio fallimento. Ero convinto che non mi avrebbe messo alla prova onestamente, e che anche in tal caso non l'avrei superata. «Quelli di voi che si dimostreranno degni diventeranno una confraternita. Una confraternita come non si è mai vista, oserei dire. Al culmine della Festa della Primavera, io stesso vi presenterò al vostro re, ed egli vedrà la meraviglia di ciò che ho realizzato. Dato che siete arrivati tanto lontano
con me, sapete che non ho intenzione di svergognarmi davanti a lui. Quindi io stesso vi metterò alla prova, fino al vostro limite, per essere sicuro che l'arma che metto nelle mani del mio re sia degnamente affilata. Fra un giorno, io vi spargerò come semi nel vento, per tutto il regno. Verrete portati via di qui, su cavalli veloci, fino alle vostre destinazioni. E là ciascuno di voi sarà lasciato solo. Nessuno saprà dove sono gli altri.» Fece una pausa, forse per permettere a ciascuno di sentire la tensione che pulsava nella stanza. Sapevo che tutti gli altri vibravano in armonia, condividendo un'emozione comune, quasi una mente comune, mentre ricevevano le loro istruzioni. Sospettavo che sentissero molto di più delle semplici parole che uscivano dalle labbra di Galen. Mi sentii come uno straniero che ascolta parole in un linguaggio sconosciuto. Avrei fallito. «Dopo che sarete stati lontani per due giorni, verrete chiamati. Da me. Vi dirò chi contattare, e dove. Ciascuno di voi riceverà l'informazione che gli serve per ritornare qui. Se avete imparato, e imparato bene, la mia confraternita sarà qui alla Vigilia di Primavera, pronta per essere presentata al re.» Di nuovo la pausa. «Non pensate, tuttavia, di dover semplicemente ritornare a Castelcervo entro la Vigilia di Primavera. Dovrete essere una confraternita, non piccioni viaggiatori. Da come tornerete e con chi, avrò la prova che avete dominato la vostra Arte. Siate pronti a partire per domani mattina.» E poi ci lasciò andare, uno per uno, di nuovo con un tocco per ciascuno, e una parola di lode per ciascuno, tranne che per me. Rimasi davanti a lui, aperto quanto potevo, vulnerabile quanto osavo, eppure il tocco dell'Arte contro la mia mente fu più lieve del soffio del vento. Mi fissò mentre alzavo lo sguardo su di lui, e non avevo bisogno dell'Arte per sentire che mi odiava e mi irrideva. Emise un suono di disprezzo e distolse lo sguardo, lasciandomi andare. Cominciai ad allontanarmi. «Sarebbe stato molto meglio» disse con quella sua voce cavernosa «se ti fossi buttato giù dal muro quella notte, bastardo. Molto meglio. Burrich ha pensato che ti avessi maltrattato. Ti stavo solo offrendo una via d'uscita, la più onorevole che avresti potuto trovare. Vattene e crepa, ragazzo, o almeno vattene. Disonori il nome di tuo padre con la tua stessa esistenza. Per Eda, non so come fai a essere vivo. Che un uomo come tuo padre sia potuto cadere in tali abissi da giacere con quella cosa e lasciare che tu venissi al mondo va al di là della mia immaginazione.» Come sempre, c'era quella nota di fanatismo nella sua voce mentre parlava di Chevalier, e i suoi occhi divennero quasi ciechi di idolatria. Quasi
distratto, si girò e si allontanò. Raggiunse la cima delle scale, e poi si voltò, molto lentamente. «Devo chiederlo» disse, e il veleno nella sua voce era affamato d'odio. «Sei il suo calamita, che ti permette di risucchiare la forza da lui? È per questo che è tanto possessivo nei tuoi confronti?» «Calamita?» Non conoscevo quella parola. Galen sorrise. Il suo volto cadaverico si fece ancora più simile a un teschio. «Credevi che non l'avessi scoperto? Credevi che saresti stato in grado di attingere alla sua forza per questa prova? Non potrai. Stanne certo, bastardo, non potrai.» Si girò e scese i gradini, lasciandomi lì in piedi sulla cima della torre. Non avevo idea di cosa significassero le sue ultime parole, ma la forza del suo odio mi aveva lasciato nauseato e debole come un veleno iniettato nel mio sangue. Mi ricordai dell'ultima volta che mi aveva lasciato sul tetto della torre. Mi sentii spinto a camminare fino al bordo della torre e guardar giù. Quell'angolo della fortezza non si affacciava sul mare, ma c'erano numerose rocce taglienti ai suoi piedi. Nessuno sarebbe sopravvissuto a quella caduta. Se fossi riuscito a prendere una decisione ferma in un secondo, avrei potuto allontanarmi da tutto quanto. E quello che Burrich o Umbra o chiunque altro potesse pensarne non avrebbe dovuto preoccuparmi. L'eco lontana di un guaito. «Arrivo, Ferrigno» mormorai, e voltai le spalle allo strapiombo. 17 La prova La Cerimonia dell'Uomo di solito ha luogo entro una luna dal quattordicesimo compleanno di un ragazzo. Non tutti ricevono quest'onore. Ci vuole un Uomo per proporre il candidato e dargli un nome, e questo Uomo deve trovare altri dodici Uomini che riconoscono che il ragazzo è degno e pronto. Vivendo fra i soldati, ero al corrente della cerimonia, e sapevo abbastanza della sua gravità e selettività che non mi aspettavo certo di prendervi parte. Per prima cosa, nessuno sapeva quando ero nato. E poi, non avevo idea di chi fosse un Uomo, e tanto meno se ne esistessero dodici che mi avrebbero trovato degno. Eppure, in una certa notte, mesi dopo che ebbi sopportato la prova di Galen, mi svegliai e trovai il mio letto circondato da figure in lunghe vesti e cappucci. Entro i cappucci scuri intravidi le maschere dei Pilastri. Nessuno può riferire o scrivere dei dettagli della cerimonia. Credo di
poter dire almeno questo: quando ogni vita fu posta nelle mie mani - pesce, uccello e bestia - scelsi di liberarla, non alla morte ma alla sua naturale esistenza. Quindi nulla morì durante la mia cerimonia, e quindi nessuno banchettò. Perfino nella mia disposizione d'animo di quel momento, sentivo che attorno a me c'era stato abbastanza sangue e morte da durare una vita, e rifiutai di uccidere con le mani e con i denti. Il mio Uomo scelse comunque di darmi un nome, quindi non deve essere rimasto completamente deluso. Il nome è nell'antica lingua, che non ha alfabeto e non può essere scritta. E non ho mai neanche trovato qualcuno con cui condividere la conoscenza del mio nome di Uomo. Ma qui posso rivelare, credo, il suo significato antico. Catalizzatore. Colui che opera il cambiamento. Andai dritto alle scuderie, da Ferrigno e poi da Fuliggine. L'agitazione mentale che provavo al pensiero del mattino si comunicò al mio corpo, e rimasi nello stallo di Fuliggine, nauseato, con la testa contro la sua spalla. Burrich mi trovò lì. Riconobbi la sua presenza e la cadenza costante dei suoi passi mentre percorreva il corridoio delle stalle. Si fermò bruscamente fuori dallo stallo di Fuliggine. Avvertii che mi guardava. «Ebbene. Adesso che c'è?» chiese rudemente, e dalla voce io sentii quanto fosse stufo di me e dei miei problemi. Se fossi stato lievemente meno infelice, il mio orgoglio mi avrebbe spinto a raddrizzarmi e a dichiarare che non c'era nulla. Invece mormorai contro il mantello di Fuliggine: «Domani Galen intende metterci alla prova.» «Lo so. Tutto d'un tratto mi ha richiesto alcuni cavalli per il suo stupido piano. Avrei rifiutato, se non avesse avuto il sigillo del re che gli dava l'autorità. E non so altro se non che vuole i cavalli, quindi non chiedermelo» aggiunse ruvidamente quando alzai lo sguardo. «Non te lo chiederei mai» gli dissi offeso. Avrei dimostrato onestamente a Galen chi ero, o non l'avrei dimostrato affatto. «Non hai speranze di superare la prova che ha escogitato, vero?» Burrich era disinvolto, ma sentii che si preparava a essere deluso dalla mia risposta. «Nessuna» risposi piatto, ed entrambi rimanemmo in silenzio per un momento, ascoltando il suono definitivo di quella parola. «Ebbene.» Burrich si schiarì la gola e si tirò su la cintura. «Allora farai meglio a finire in fretta e tornare qui. Non è che tu non abbia avuto successo con gli altri addestramenti. Un uomo non può aspettarsi di riuscire in
tutto quello che tenta.» Cercava di far apparire poco importante il mio fallimento nell'Arte. «Suppongo di no. Ti occuperai di Ferrigno per me mentre sono lontano?» «Lo farò.» Cominciò a girarsi, poi si voltò di nuovo, quasi con riluttanza. «Quanto sentirà la tua mancanza quel cane?» Percepii l'altra domanda, ma cercai di evitarla. «Non lo so. Ho dovuto lasciarlo da solo così tanto durante queste lezioni, temo che non la sentirà affatto.» «Ne dubito» osservò con intenzione Burrich. Si girò. «Ne dubito davvero molto» ripeté mentre si allontanava fra le due file di stalli. E io seppi che sapeva, ed era disgustato, non solo perché io e Ferrigno condividevamo un legame, ma perché rifiutavo di ammetterlo. «Come se fosse possibile ammetterlo, con lui» mormorai a Fuliggine. Dissi addio ai miei animali, cercando di comunicare a Ferrigno che sarebbero passate diverse pappe e diverse notti prima che mi rivedesse. Lui si agitò e implorò e protestò che dovevo portarlo, che avrei avuto bisogno di lui. Ormai era troppo grosso per tirarlo su e coccolarlo. Mi sedetti per terra, Ferrigno mi salì in grembo e io lo abbracciai. Era così caldo e solido, così vicino e reale. Per un momento sentii che aveva ragione, che avrei avuto bisogno di lui per sopravvivere a quel fallimento. Ma mi ricordai che lui sarebbe stato lì, ad aspettarmi al mio ritorno, e gli promisi diversi giorni dedicati interamente a lui una volta tornato. Lo avrei portato in una lunga caccia, come non avevamo mai avuto il tempo di fare. Adesso, suggerì lui, e presto, promisi io. Poi tornai alla fortezza per preparare un cambio di vestiti e qualche provvista per il viaggio. Il mattino dopo, la partenza mi parve molto pomposa e drammatica e poco sensata. Gli altri candidati alla prova apparivano nervosi ed esaltati. Fra tutti, io ero l'unico che non sembrava impressionato dai cavalli irrequieti e dalle otto lettighe coperte. Galen ci mise in fila e ci bendò mentre più di una cinquantina di persone stavano a guardare. La maggior parte erano parenti o amici dei discepoli, o i pettegoli della fortezza. Galen pronunciò un breve discorso, apertamente rivolto a noi, parole già sentite: che saremmo stati portati in luoghi diversi e lasciati lì; che dovevamo collaborare, usando l'Arte, per ritornare alla fortezza; che se avessimo avuto successo saremmo diventati una confraternita e avremmo servito meravigliosamente il nostro re e avremmo dato un contributo essenziale alla sconfitta dei Pirati della Nave Rossa. L'ultima parte impressionò gli spettatori, e li
sentii bisbigliare mentre venivo scortato alla mia lettiga e aiutato a salire. Così passò per me uno squallido giorno e mezzo. La lettiga oscillava; senza aria fresca sul mio viso o un paesaggio per distrarmi, presto mi venne la nausea. L'uomo che guidava i cavalli aveva giurato di restare in silenzio, e mantenne la sua parola. Quella sera facemmo una breve pausa. Mi fu dato un magro pasto, pane e formaggio e acqua, e poi fui di nuovo caricato a bordo e gli scossoni e le oscillazioni ricominciarono. Circa a mezzogiorno dell'indomani, la lettiga si fermò. Ancora una volta fui aiutato a smontare. Non scambiammo una parola, e io rimasi in piedi, rigido e con il mal di testa e bendato sotto un forte vento. Quando sentii i cavalli che se ne andavano, decisi che avevo raggiunto la mia destinazione e cercai di slegare la benda. Galen l'aveva annodata tanto strettamente che mi ci volle qualche istante per toglierla. Ero in piedi sul pendio erboso di una collina. La mia scorta era già lontana verso una strada che si snodava oltre la base della collina, e scomparve in fretta. L'erba era alta attorno alle mie ginocchia, gelata dall'inverno ma verde alla base. Vedevo altre colline erbose con i fianchi punteggiati di rocce, che riparavano ai loro piedi strisce di bosco. Scrollai le spalle e mi girai intorno per orientarmi. Era un terreno collinoso, ma sentivo l'odore del mare e udivo la bassa marea da qualche parte verso est. Avevo la sensazione inquietante che la zona fosse familiare; non ero mai stato in quel particolare punto, ma la disposizione del terreno non mi era nuova. Mi girai, e a ovest vidi la Sentinella. Non si poteva confondere la sua cima biforcuta. Avevo copiato una mappa per Piuma meno di un anno prima, e il creatore aveva scelto la caratteristica cima della Sentinella come motivo decorativo per il bordo. Dunque. Il mare da quella parte, la Sentinella laggiù, e con un improvviso senso di vuoto allo stomaco seppi dov'ero. Non lontano da Forgia. Mi trovai a girare velocemente in cerchio per scrutare il fianco della collina, i boschi circostanti e la strada. Non c'era nessuno. Estesi i miei sensi per cercare, quasi freneticamente, ma trovai solo uccelli e piccola selvaggina e un cervo, che sollevò la testa e annusò l'aria, chiedendosi che cos'ero. Per un attimo mi sentii rassicurato, finché non ricordai che i Forgiati che avevo incontrato in precedenza erano stati trasparenti a quel senso. Scesi lungo il fianco della collina sino a diversi massi sporgenti, e sedetti in quel riparo. Non che il vento fosse freddo; la giornata prometteva l'imminente primavera. Avevo bisogno di qualcosa di solido contro la schiena, e di sentire che ero un bersaglio meno visibile che in cima alla
collina. Cercai di pensare freddamente al da farsi. Galen ci aveva suggerito di rimanere tranquilli dove eravamo stati depositati, meditando e mantenendo i sensi all'erta. In qualche momento dei due giorni successivi, lui avrebbe cercato di contattarmi. Nulla toglie coraggio a un uomo come l'attesa del fallimento. Non credevo che avrebbe cercato veramente di contattarmi, e tanto meno che avrei ricevuto un segnale chiaro se l'avesse fatto. E neppure mi illudevo che il punto dove aveva scelto di lasciarmi fosse un luogo sicuro. Senza pensare ulteriormente, mi alzai, esaminai di nuovo la zona per vedere se qualcuno mi stava guardando, poi mi diressi verso l'odore del mare. Se ero dove pensavo di essere, dalla riva avrei potuto vedere Isola Ramosa e, se la giornata era limpida, forse Isola Balumina. Anche una sola delle due mi sarebbe bastata per capire quanto ero lontano da Forgia. Mentre camminavo nella campagna, mi dicevo che volevo soltanto vedere quanto sarebbe stata lunga la camminata fino a Castelcervo. Soltanto uno sciocco avrebbe pensato che i Forgiati rappresentassero ancora un pericolo. Certamente l'inverno li aveva sterminati, o li aveva lasciati troppo affamati e indeboliti per costituire ancora una minaccia. Non davo credito ai racconti secondo cui si univano in bande come tagliagole e ladri. Non avevo paura. Volevo solo vedere dov'ero. Se Galen davvero voleva contattarmi, il luogo non avrebbe dovuto essere un ostacolo. Ci aveva assicurato innumerevoli volte che si proiettava verso la persona, non verso il posto. Avrebbe potuto trovarmi sulla spiaggia come in cima alla collina. Nel tardo pomeriggio mi ritrovai in cima a una scogliera affacciata sul mare. Vidi Isola Ramosa, e oltre a essa una nebbia che doveva essere Balumina. Ero a nord di Forgia. La strada costiera verso casa avrebbe attraversato le rovine di quella città. Non era un pensiero confortante. E adesso, che fare? A sera, ero di nuovo sulla collina, rannicchiato a terra fra due massi. Avevo deciso che quello era un posto buono come un altro per aspettare. Malgrado i miei dubbi, sarei rimasto dove ero stato lasciato fino allo scadere del tempo stabilito per contattarmi. Mangiai pane e pesce salato, e bevvi una quantità moderata di acqua. Il mio cambio di vestiti includeva un altro mantello. Mi ci avvolsi e rifiutai severamente la tentazione di accendere un fuoco. Per quanto piccolo, sarebbe stato un faro per chiunque si fosse trovato a passare sulla strada sterrata che fiancheggiava la collina. Non credo che ci sia qualcosa di più crudelmente fastidioso del nervosismo incessante. Tentai di meditare, di aprirmi all'Arte di Galen, e intanto
rabbrividivo di freddo e rifiutavo di ammettere che ero terrorizzato. Il bambino in me continuava a immaginare figure buie e lacere che strisciavano senza rumore attorno a me su per il fianco della collina. I Forgiati mi avrebbero picchiato e ucciso per il mantello che indossavo e per il cibo nella mia sacca. Mentre tornavo verso la collina avevo tagliato un ramo da usare come bastone, e lo stringevo fra le mani, ma sembrava un'arma inadeguata. Di tanto in tanto mi assopivo malgrado le mie paure, ma sognavo sempre Galen che rideva del mio fallimento mentre i Forgiati mi si avvicinavano, e continuavo a svegliarmi di scatto, scrutando freneticamente nella notte per vedere se i miei incubi erano reali. Vidi l'alba attraverso gli alberi, e poi sonnecchiai a tratti per tutta la mattina. Il pomeriggio mi portò una specie di stanca pace. Mi divertii a cercare gli animali sul fianco della collina. I topi e gli uccelli erano solo vivide scintille di fame nella mia mente, e i conigli poco più, ma una volpe in cerca di una compagna era piena di lussuria, e più oltre un cervo consumava il pelo vellutato delle corna con la determinazione di un fabbro all'incudine. La serata fu molto lunga. Incredibile quanto mi fosse difficile accettare, con il calare della notte, che non avevo percepito nulla, neppure la più lieve pressione dell'Arte. O Galen non aveva chiamato, o io non l'avevo sentito. Mangiai pane e pesce nell'oscurità e mi dissi che non aveva importanza. Perun poco, cercai di darmi forza con l'indignazione, ma la mia disperazione era troppo viscida e oscura perché le fiamme della rabbia la sconfiggessero. Ero sicuro che Galen mi avesse imbrogliato, ma non sarei mai stato in grado di provarlo, neppure a me stesso. Mi sarei chiesto per sempre se il suo disprezzo verso di me fosse stato giustificato. Nell'oscurità completa, appoggiai la schiena contro la roccia, il bastone sulle ginocchia, e decisi di dormire. I miei sogni furono confusi e amari. Regal incombeva su di me, e io ero di nuovo un bambino che dormiva nella paglia. Lui rideva e aveva un coltello in mano. Veritas scrollò le spalle, e mi rivolse un sorriso di scusa. Umbra si distolse da me, deluso. Molly sorrise a Diaspro che stava dietro di me, dimenticandosi della mia presenza. Burrich mi afferrò per il colletto della camicia e mi scrollò, dicendomi di comportarmi come un uomo, non come una bestia. Ma io mi distesi sulla paglia e su una vecchia camicia, rosicchiando un osso. La carne era ottima, e non pensavo a nient'altro. Mi sentivo molto al sicuro fino a quando qualcuno non aprì una porta della stalla e la lasciò spalancata. Un malvagio refolo di vento strisciò sul pavimento fino a raggelarmi, e io sollevai la testa con un ringhio. Sentii
l'odore di Burrich e della birra. Burrich avanzò lentamente nel buio e borbottò «Va tutto bene, Ferrigno» passandomi vicino. Misi giù la testa mentre cominciava a salire le scale. Improvvisamente ci fu un grido e due uomini rotolarono giù dalle scale, lottando fra loro. Balzai in piedi, ringhiando e abbaiando. Mi caddero addosso. Uno stivale mi colpì, e io afferrai con i denti la gamba e strinsi le fauci. Presi più lo stivale e il pantalone che la carne, ma l'uomo sibilò di rabbia e di dolore, e mi colpì. Un coltello mi affondò nel fianco. Strinsi i denti più forte e resistetti, ringhiando con in bocca la preda. Altri cani si erano svegliati e abbaiavano, i cavalli battevano gli zoccoli nei loro stalli. Ragazzo! Ragazzo! Chiamai aiuto. Sentivo che il ragazzo era con me, ma non venne. L'intruso mi diede un calcio, ma io non lo lasciai andare. Burrich giaceva nella paglia e io sentivo l'odore del suo sangue. Non sì muoveva. Udii la vecchia Volpina buttarsi contro la porta di sopra, cercando invano di raggiungere il suo padrone. Di nuovo, e poi ancora, il coltello affondò in me. Chiamai forte il mio Ragazzo un'ultima volta, e poi non riuscii più a resistere. Scagliato via con un calcio, colpii il fianco di uno stallo. Stavo annegando, sangue in bocca e nelle narici. Passi di corsa. Dolore nel buio. Strisciai più vicino a Burrich. Spinsi il naso sotto la sua mano. Non si muoveva. Voci e una luce più vicina, vicina, vicina... Mi svegliai sul fianco buio della collina. Stringevo tanto forte il bastone che le mani erano intorpidite. Neanche per un istante pensai che fosse stato un sogno. Continuavo a sentire il coltello fra le costole, il sapore del sangue in bocca. Come il ritornello di una macabra canzone, i ricordi si ripetevano, la corrente d'aria fredda, il coltello, lo stivale, il sapore del sangue del mio nemico, e del mio sangue. Tentai di capire che cosa aveva visto Ferrigno. Qualcuno era in cima alle scale della stanza di Burrich, ad aspettarlo. Qualcuno con un coltello. E Burrich era caduto, e Ferrigno aveva sentito l'odore del sangue... Mi alzai e raccolsi le mie cose. La piccola presenza calda di Ferrigno nella mia mente era fioca e sottile. Debole, ma c'era. Cercai cautamente, e poi mi fermai quando sentii quanto gli costava darmi una risposta. Buono. Stai buono. Sto arrivando. Ero raggelato e mi tremavano le ginocchia, ma il sudore era viscido sulla mia schiena. Neanche per un attimo misi in dubbio quello che dovevo fare. Scesi a lunghi passi dalla collina fino alla strada sterrata. Era una via mercantile, una pista di ambulanti, e sapevo che se l'avessi seguita avrei incontrato prima o poi la strada costiera. Così avrei
fatto, sarei tornato a casa. E se Eda mi favoriva, sarei arrivato in tempo per aiutare Ferrigno. E Burrich. Avanzai in fretta, costringendomi a non correre. Una marcia costante mi avrebbe portato più lontano e più in fretta di un folle scatto nell'oscurità. La notte era limpida, la pista diritta. Solo una volta considerai che stavo rinunciando per sempre a dimostrare di saper usare l'Arte. Tutto quello che avevo speso - tempo, sforzi, dolore - tutto sprecato. Ma non potevo assolutamente restare seduto ancora per un intero giorno aspettando che Galen cercasse di raggiungermi. Per aprire la mia mente al possibile tocco dell'Arte di Galen, avrei dovuto allontanare il tenue legame con Ferrigno. Non l'avrei fatto. A conti fatti, l'Arte valeva molto meno di Ferrigno. E di Burrich. Perché Burrich, mi chiesi. Chi poteva odiarlo abbastanza da tendergli un'imboscata? E proprio fuori dai suoi alloggi. Lucidamente, come se avessi dovuto fare rapporto a Umbra, cominciai a mettere insieme i fatti. Qualcuno che lo conosceva abbastanza bene da sapere dove viveva; questo escludeva le conseguenze fortuite di una disputa in qualche taverna di Borgo Castelcervo. Qualcuno che aveva portato un coltello; questo escludeva che volessero semplicemente riempirlo di botte. Il coltello era stato affilato, e chi lo impugnava sapeva usarlo. Trasalii di nuovo al ricordo. Quelli erano i fatti. Cautamente, cominciai a costruire supposizioni su di essi. Qualcuno che conosceva le abitudini di Burrich e che provava un serio rancore verso di lui, abbastanza serio da ucciderlo. Il mio passo rallentò improvvisamente. Perché Ferrigno non si era reso conto che c'era un uomo lassù in attesa? Perché Volpina non aveva abbaiato attraverso la porta? Per scivolare davanti ai cani nel loro territorio ci voleva qualcuno capace di muoversi furtivamente. Galen. No. Volevo che fosse Galen, tutto qui. Rifiutai di balzare alle conclusioni. Fisicamente, Galen non era all'altezza di Burrich, e lo sapeva. Neppure con un coltello, nell'oscurità, con Burrich mezzo ubriaco e colto di sorpresa. No. Galen avrebbe potuto volerlo, ma non l'avrebbe fatto. Non personalmente. Avrebbe mandato un altro? Ci riflettei, e decisi che non lo sapevo. Dovevo meditarci più a fondo. Burrich non era un uomo paziente. Galen era il nemico più recente che si era fatto, ma non l'unico. Continuai a montare e rimontare i fatti, cercando di raggiungere una conclusione solida. Ma semplicemente non c'era abbastanza su cui costruire.
Alla fine arrivai a un torrente, e bevvi con moderazione. Poi camminai ancora. I boschi si fecero più fitti, e la luna era per lo più oscurata dagli alberi che bordavano la strada. Non mi voltai indietro. Insistetti, finché la mia pista non si unì alla strada costiera come un torrente che affluisce in un fiume. Seguii verso sud la strada più larga, splendente come argento sotto la luna. Trascorsi la notte camminando e riflettendo. Mentre i primi filamenti striscianti dell'alba cominciavano a riportare il colore nel paesaggio, mi sentii incredibilmente stanco, ma non meno ossessionato. L'ansia era un fardello impossibile da abbandonare. Mi aggrappavo al sottile filo di calore che mi diceva che Ferrigno era ancora vivo, e pensavo a Burrich. Non potevo sapere quanto fosse grave. Ferrigno aveva sentito l'odore del suo sangue, quindi il coltello aveva colpito almeno una volta. E la caduta per le scale? Cercai di accantonare la preoccupazione. Non avevo mai sospettato che Burrich potesse rimanere ferito in tal modo, tanto meno avevo immaginato la mia reazione. Non seppi trovare un nome per quella sensazione. Mi sentivo soltanto vuoto, pensai. Vuoto. E stanco. Mangiai un poco senza smettere di camminare e riempii il mio otre a un torrente. A metà mattina il tempo si rannuvolò e per un poco mi spruzzò di pioggia, solo per schiarirsi altrettanto bruscamente nel primo pomeriggio. Continuai a passi veloci. Mi ero aspettato qualche tipo di traffico lungo la strada costiera, ma non vidi nulla. Nel tardo pomeriggio, la strada si spostò più vicina alle scogliere. Attraverso una piccola insenatura, scorsi sotto di me ciò che un tempo era stata Forgia. La pace del luogo era raggelante. Dalle capanne non si levavano spire di fumo, nessuna barca stava entrando in porto. Sapevo che il mio percorso mi avrebbe portato ad attraversare il paese. L'idea non mi piaceva, ma il filo caldo della vita di Ferrigno mi trascinava avanti. Sollevai il capo a uno strascicare di piedi sulla pietra. Soltanto i riflessi esercitati con il lungo addestramento di Poiana mi salvarono. Mi girai, pronto con il bastone, e roteai in un cerchio di difesa colpendo con uno schianto la mandibola di quello che mi stava alle spalle. Gli altri indietreggiarono. Altri tre. Tutti Forgiati, vuoti come la pietra. Quello che avevo colpito si rotolava urlando sul terreno. Nessuno gli badava tranne me. Gli sferrai un altro rapido colpo nella schiena. Urlò più forte e si dimenò. Perfino in quella situazione, il mio atto mi sorprese. Accertarsi che un nemico impedito rimanesse tale era puro buon senso e lo sapevo, ma sapevo anche che non avrei mai potuto prendere a calci un cane ululante come feci con
quell'uomo. Eppure combattere quei Forgiati era come lottare con dei fantasmi. Non avvertivo alcuna presenza in loro; non avevo alcuna percezione del dolore inflitto al ferito, nessuna eco della sua rabbia o della sua paura. Era come sbattere una porta, una violenza senza vittime, e lo percossi di nuovo per essere sicuro che non cercasse di afferrarmi mentre lo oltrepassavo con un balzo verso uno spazio libero sulla strada. Feci danzare il bastone attorno a me, tenendo a bada gli altri. Apparivano laceri e affamati, eppure sentivo che se fossi fuggito sarebbero stati più veloci di me. Io ero già stanco, e loro erano come lupi morti di fame. Mi avrebbero inseguito fino a farmi crollare. Uno si avvicinò troppo e io lo colpii di striscio al polso. L'uomo lasciò cadere un coltello da pesce arrugginito e si strinse la mano sul cuore, fissandosela fra le urla. Di nuovo, gli altri due non badarono al ferito. Indietreggiai con destrezza. «Che cosa volete?» chiesi. «Che cos'hai» disse uno. La voce era arrugginita ed esitante, come inutilizzata per lungo tempo, e le sue parole non avevano alcuna inflessione. Si muoveva lentamente attorno a me, in un ampio cerchio, costringendomi a girare su me stesso. Morti che parlano, pensai, e non riuscii a impedire che il pensiero echeggiasse nella mia mente. «Niente» ansimai, affondando con il bastone per impedire a uno di farsi troppo sotto. «Non ho niente per voi. Niente soldi, niente cibo, niente. Ho perso tutto, lungo la strada.» «Niente» disse l'altro, e per la prima volta compresi che era stata una donna, un tempo. Ora era una vuota marionetta malevola, e i suoi occhi spenti improvvisamente si illuminarono di avidità. «Mantello. Voglio il tuo mantello.» Parve compiaciuta di aver formulato questo pensiero, e si distrasse abbastanza da permettermi di colpirla allo stinco. Abbassò lo sguardo alla botta come sorpresa, poi continuò ad avanzare zoppicando verso di me. «Mantello» fece eco l'altro. Per un momento si guardarono torvi nell'ottusa comprensione della loro rivalità. «Io. Mio» aggiunse l'uomo. «No. Ti uccido» propose con calma la donna. «Uccido anche te» mi ricordò, e si avvicinò di nuovo. Menai il bastone verso di lei, ma la donna balzo indietro, e poi lo afferrò mentre le passava vicino. Mi girai, giusto in tempo per percuotere quello a cui avevo già danneggiato il polso. Poi lo superai di slancio e corsi lungo la strada. Corsi goffamente, stringendo il bastone in una mano mentre lottavo con l'altra per aprire la fibbia del mantello. Alla fine si sganciò e io me lo lasciai cadere di dosso continuando a
correre. La legnosità nelle mie gambe mi avvertì che era la mia ultima scommessa. Eppure, pochi istanti dopo, i Forgiati chiaramente lo raggiunsero, poiché li sentii che se lo contendevano fra grida di rabbia e stridori. Pregai che bastasse a tenerli occupati tutti e quattro e continuai a correre. La strada faceva una curva, non molto brusca ma sufficiente per nascondermi alla loro vista. Continuai a correre e poi trotterellai finché ebbi fiato prima di azzardarmi a guardare indietro. La strada brillava ampia e vuota dietro di me. Mi obbligai ad avanzare, e l'abbandonai quando vidi una zona adatta. Trovai una intricata macchia di rovi selvatici e mi intrufolai a forza nelle sue profondità. Tremante e sfinito, mi accovacciai sui talloni nel folto dei cespugli spinosi e tesi le orecchie in attesa di un qualsiasi suono di inseguimento. Trassi qualche breve sorso dal mio otre, e cercai di calmarmi. Non potevo permettermi quel ritardo; dovevo tornare a Castelcervo; ma non osavo riemergere. Tuttora non concepisco come sia riuscito a addormentarmi lì dentro, ma così fu. Mi risvegliai gradualmente. Ero stordito, come convalescente da una grave ferita o da una lunga malattia. I miei occhi erano gonfi, la bocca impastata e acida. Mi costrinsi ad aprire le palpebre e mi guardai attorno sbalordito. La luce stava calando, e una cortina di nubi aveva sconfitto la luna. Il mio sfinimento era stato tale che mi ero appoggiato ai cespugli di rovi e avevo dormito malgrado una moltitudine di punture penetranti. Mi districai con molta difficoltà, lasciando indietro brandelli di vestito, capelli e pelle. Emersi cautamente dal mio nascondiglio come un animale braccato, non soltanto cercando fino a dove potevano arrivare i miei sensi, ma anche annusando l'aria e scrutando tutto attorno a me. Sapevo che il mio cercare non mi avrebbe rivelato alcun Forgiato, e sperai che gli animali della foresta li avrebbero visti e avrebbero reagito, se ce n'erano nei dintorni. Ma tutto era silenzioso. Uscii prudentemente sulla strada, ampia e vuota. Gettai una sola occhiata al cielo, e poi mi avviai verso Forgia, mantenendomi vicino al ciglio della strada, dove le ombre degli alberi erano più fitte. Tentai di muovermi veloce e silenzioso, senza avere molto successo in alcuna delle due cose. Non pensavo più a nulla tranne che a stare all'erta e al bisogno di tornare a Castelcervo. La vita di Ferrigno era appena un filamento nella mia mente. Credo che la sola emozione ancora attiva in me fosse la paura che mi spingeva a guardarmi dietro le spalle e a controllare i boschi su entrambi i lati
della strada mentre camminavo. Era buio pesto quando arrivai alla collina che sovrastava Forgia. Per qualche tempo rimasi a guardare il paese, in cerca di un qualsiasi segno di vita, poi mi spinsi a continuare. Si era levato il vento, e a strappi mi concesse il chiaro di luna. Era un dono infido, che ingannava proprio mentre rivelava. Agitava le ombre negli angoli delle case abbandonate, e suscitava riflessi improvvisi che luccicavano come coltelli nelle pozzanghere sulla strada. Ma nessuno camminava per le vie di Forgia. Gli abitanti consueti l'avevano abbandonata non molto tempo dopo quella fatale razzia, ed evidentemente anche i Forgiati se n'erano andati, una volta privi di cibo e comodità in quel luogo. Il paese non era mai stato ricostruito dopo la razzia, e una lunga stagione di tempeste invernali e maree avevano pressoché portato a termine ciò che le Navi Rosse avevano cominciato. Solo il porto appariva quasi normale, tranne che per gli approdi vuoti. I frangiflutti si allungavano curvi sulla baia come mani protettive chiuse sui moli. Ma non c'era più nulla da proteggere. Avanzai cautamente attraverso la desolazione che era Forgia. Mi formicolava la pelle mentre oltrepassavo le porte traballanti sugli stipiti marci degli edifici bruciacchiati. Fu un sollievo allontanarmi dall'odore nauseabondo delle capanne vuote e fermarmi sulle banchine davanti all'acqua. La strada procedeva diretta verso il porto e poi seguiva la curva dell'insenatura. Un muraglione di pietre rozzamente lavorate l'aveva protetta dall'avidità del mare, ma un inverno di maree e tempeste senza l'intervento dell'uomo la stava distruggendo. Le pietre si staccavano, e i tronchi sospinti dal mare come arieti da assedio, ora abbandonati dalla marea, intasavano la spiaggia sotto di essa. Un tempo i carretti pieni di lingotti di ferro venivano trascinati per quella strada fino alle navi in attesa. Camminai lungo il muraglione, e vidi che ciò che dalla collina era apparso tanto permanente avrebbe forse resistito a un altro paio di inverni senza manutenzione, prima di essere reclamato dal mare. Sopra di me, le stelle brillavano a intermittenza attraverso le nuvole veloci. Anche la luna evasiva si ammantava e si scopriva, concedendomi di tanto in tanto un'occhiata del porto. Il sussurro delle onde era come il respiro di un gigante ubriaco. Era una notte uscita da un sogno, e quando guardai l'acqua il fantasma di una Nave Rossa tagliò i raggi di luna entrando nel porto di Forgia. La carena era lunga e liscia, gli alberi privi di vele mentre scivolava nell'insenatura. Il rosso dello scafo e della prua brillava come sangue appena versato, come se solcasse la gora di un macellaio in-
vece di una distesa di acqua salata. Nella città morta alle mie spalle, nessuno levò un grido di avvertimento. Rimasi in piedi come un idiota, incollato al muraglione, rabbrividendo davanti a quell'apparizione, fino a quando lo scricchiolio dei remi e l'argento delle gocce sul bordo di un remo resero reale la Nave Rossa. Mi buttai per terra schiacciandomi sul sentiero, poi rotolai giù dalla liscia superficie della strada, finendo fra i massi e la legna accumulata dal mare lungo il muraglione. Non riuscivo a respirare per il terrore. Mi era andato il sangue alla testa, e mi pulsava, e non c'era aria nei polmoni. Dovetti abbassare la testa contro le braccia e chiudere gli occhi per recuperare il controllo di me stesso. A quel punto i suoni sommessi che perfino un vascello furtivo non può evitare giunsero deboli ma distinti fino a me attraverso l'acqua. Un uomo si schiarì la gola, un remo vibrò nello scalmo, qualcosa di pesante cadde rumorosamente sul ponte. Attesi un grido o un ordine che rivelasse che ero stato visto. Nulla. Alzai la testa cautamente, scrutando attraverso le radici sbiancate di un tronco. Tutto era immobile, tranne la nave che si avvicinava sempre di più mentre i rematori la conducevano nel porto. I remi si alzavano e si abbassavano all'unisono, in un silenzio quasi completo. Presto riuscii a sentirli parlare in un linguaggio simile al nostro, ma la parlata era così brutale che a malapena comprendevo il significato delle parole. Un uomo balzò oltre la murata con una cima e avanzò nell'acqua fino a riva. Ormeggiò l'imbarcazione a non più di due lunghezze da dove giacevo nascosto fra i massi e i tronchi. Altri due balzarono fuori, con i coltelli in mano, e si arrampicarono su per il muro. Corsero lungo la via in direzioni opposte e presero posizione come sentinelle. Uno era quasi direttamente sopra di me. Mi feci piccolo e immobile. Mi tenni attaccato a Ferrigno nella mia mente, allo stesso modo di un bambino che stringe un giocattolo adorato come protezione contro gli incubi. Dovevo tornare a casa da lui, quindi non dovevo farmi scoprire. La consapevolezza di dover riuscire nel primo intento in qualche modo faceva sembrare più possibile il secondo. Altri uomini sbarcarono frettolosamente. Il loro comportamento rivelava la familiarità con quelle operazioni. Non riuscivo a capire perché fossero approdati lì fino a quando non li vidi scaricare barili vuoti. Li fecero rotolare rumorosamente lungo il sentiero, e io ricordai di essere passato vicino a un pozzo. La sezione della mia mente che apparteneva a Umbra notò che dovevano conoscere bene Forgia, per aver attraccato quasi esattamente
davanti al pozzo. Non era la prima volta che quella nave si fermava lì a rifornirsi d'acqua. Avvelena il pozzo prima di andartene, mi suggerì quell'angolo della mia mente. Ma non avevo portato niente di utile, e non avevo il coraggio di fare altro che rimanere nascosto. Altri pirati erano emersi dalla nave e si stavano sgranchendo le gambe. Udii una discussione fra una donna e un uomo. L'uomo voleva il permesso di accendere un fuoco con la legna, per arrostire della carne. La donna glielo proibì, dicendo che non erano arrivati abbastanza lontano, e che un fuoco sarebbe stato troppo visibile. Dunque avevano compiuto di recente una razzia, con cui si erano procurati carne fresca, e non troppo lontano da lì. La donna gli diede il permesso per qualcos'altro che non riuscii a capire del tutto, fino a quando non li vidi scaricare due botti piene. Un altro uomo scese a terra con un prosciutto intero sulla spalla e lo lasciò cadere con uno schiocco carnoso su una delle botti messe in piedi. Estrasse un coltello e cominciò a tagliarne alcuni pezzi, mentre un altro apriva l'altra botte. Non se ne sarebbero andati per qualche tempo. E se accendevano davvero un fuoco, o rimanevano fino all'alba, l'ombra del mio tronco non sarebbe più stata un rifugio. Dovevo andarmene di lì. Fra nidi di pulci di mare e mucchi viscidi di alghe, passando sotto e in mezzo ai tronchi e alle pietre, mi trascinai sul ventre attraverso la sabbia e i sassolini. Giuro che ogni radice spezzata mi si impigliava nei vestiti, e ogni pezzo di pietra sporgente mi bloccava la strada. La marea era cambiata. Le onde si infrangevano fragorosamente contro le rocce, e il vento soffiava via la spuma. Presto mi trovai zuppo. Cercai di sincronizzarmi con il rumore delle onde per confondere i lievi fruscii che producevo. Le rocce erano irte di cirripedi, e la sabbia mi si infilava negli squarci aperti nelle mani e nei piedi. Il bastone divenne un fardello incredibile, ma non potevo abbandonare la mia unica arma. Finalmente non riuscivo più a vedere o sentire i predoni, ma ancora non osavo alzarmi, e continuavo a strisciare e a rannicchiarmi da una pietra a un tronco. Alla fine mi avventurai sulla strada e l'attraversai strisciando. All'ombra di un magazzino cadente, mi alzai, schiacciato contro il muro, e mi guardai attorno. Tutto era silenzioso. Osai avanzare di un paio di passi sulla strada, ma anche da lì non riuscivo a vedere la nave o le sentinelle. Forse questo significava che loro non potevano vedere me. Trassi un respiro per calmarmi. Cercai Ferrigno, come certi si battono le tasche per accertarsi che i loro soldi siano al sicuro. Lo trovai, ma debole e silenzioso, la sua mente come uno stagno tranquillo. Arrivo sussurrai, temendo di costringerlo a
uno sforzo. E mi avviai di nuovo. Il vento era implacabile, e gli abiti zuppi di acqua salata mi si appiccicavano addosso e mi irritavano. Ero affamato, gelato e stanco. Le scarpe bagnate erano una tortura, ma non pensavo neanche a fermarmi. Trottavo come un lupo, continuando a muovere gli occhi da una parte e dall'altra, tendendo le orecchie verso qualsiasi suono alle mie spalle. Un momento la strada era vuota e nera davanti a me. Il momento successivo, l'oscurità si era trasformata in figure umane. Due davanti e, quando mi girai di scatto, un altro dietro. Il rumore delle onde aveva coperto i loro passi, e la luna incostante mi permetteva di vederli solo a sprazzi mentre coprivano la distanza. Appoggiai la schiena al muro solido di una costruzione, preparai il bastone e attesi. Li guardai avvicinarsi, silenziosi e striscianti. Ne fui sorpreso; perché non gridavano, perché l'intera ciurma non veniva a vedermi catturare? Ma questi si scrutavano l'un l'altro tanto quanto scrutavano me. Non cacciavano in branco, ma ciascuno sperava che gli altri morissero nell'uccidermi e abbandonassero il bottino. Erano Forgiati, non predoni. Un freddo terribile sorse dentro di me. Il minimo rumore di uno scontro avrebbe attirato i predoni, ne ero sicuro. Così se non mi finivano i Forgiati mi avrebbero finito i predoni. Tuttavia, quando tutte le strade portano alla morte, non c'è ragione di sceglierne una di corsa. Avrei preso le cose come venivano. Ce n'erano tre. Uno aveva un coltello. Ma io avevo un bastone, ed ero stato addestrato a usarlo. Erano magri, laceri, affamati almeno quanto me, e altrettanto intirizziti. Credo che una fosse la donna della notte prima. Mentre si avvicinavano, in assoluto silenzio, compresi che erano consapevoli dei pirati e li temevano quanto li temevo io. Non era rassicurante considerare quanto dovessero essere disperati per attaccarmi lo stesso. Un attimo dopo mi chiesi se i Forgiati provassero disperazione o qualunque altra cosa. Forse erano troppo intontiti per comprendere il pericolo. Tutta l'arcana conoscenza furtiva che Umbra mi aveva trasmesso, tutte le strategie eleganti e brutali di Poiana per combattere due o più avversari, si persero nel vento. Quando i primi due mi vennero a tiro, sentii il minuscolo calore che era Ferrigno affievolirsi fra le mie mani. «Ferrigno!» gridai, pregando disperato che in qualche modo rimanesse con me. Quasi vidi con i miei occhi la punta di una coda fremere nell'ultimo tentativo di agitarsi. Poi il filo si spezzò e la scintilla si spense. Ero solo. Una forza nera mi inondò come una follia. Avanzai, affondai l'estremità del bastone in faccia a un uomo, lo trassi velocemente indietro e continuai il movimento fino a trafiggere la mandibola della donna. Il legno crudo le
strappò via la parte inferiore del viso per la forza del colpo. La colpii di nuovo mentre cadeva, e fu come massacrare uno squalo nella rete con una mazza. Il terzo mi urtò brutalmente con una spallata, pensando, suppongo, di essere troppo vicino per il mio bastone. Non m'importava. Lasciai cadere il bastone e lottai con lui. Era scheletrico e puzzava. Lo spinsi sulla schiena, e il suo fiato sapeva di putrefazione. Lo aggredii con unghie e denti, inumano quanto lui. Mi avevano tenuto lontano da Ferrigno mentre moriva. Non m'importava cosa gli facevo, mi bastava fargli male. L'uomo contraccambiava. Gli sfregai la faccia sui sassi, gli cacciai un pollice in un occhio. Lui mi affondò i denti nel polso e mi graffiò a sangue la guancia. E quando alla fine smise di lottare contro la mia presa che lo strangolava, lo trascinai al muraglione e gettai il suo corpo sulle rocce. Rimasi in piedi ansando, con i pugni ancora stretti. Rivolsi uno sguardo selvaggio verso i pirati, sfidandoli a venirmi a prendere, ma la notte era immobile, a parte le onde e il vento e il gorgoglio sommesso della donna che agonizzava. O non avevano sentito, o erano troppo preoccupati di restare nascosti per andare a indagare i suoni della notte. Attesi nel vento che qualcuno si prendesse la briga di venire a uccidermi. Nulla si mosse. Una sensazione di vuoto mi sommerse, sostituendo la follia. Tanta morte in una sola notte, e tanto insignificante, tranne che per me. Lasciai gli altri corpi martoriati in cima al muraglione diroccato, in balia delle onde e dei gabbiani. Mi allontanai. Non avevo provato nulla per loro quando li avevo uccisi. Né paura, né rabbia, né dolore, neppure disperazione. Erano solo cose. E mentre cominciavo la mia lunga marcia di ritorno verso Castelcervo, finalmente non sentii più nulla dentro di me. Forse, pensai, la Forgiatura è contagiosa e io l'ho presa. Non riuscii a preoccuparmene. Nella mia mente rimane poco di quel viaggio. Camminai per tutto il tempo, gelato, stanco e affamato. Non incontrai altri Forgiati, e i pochi viaggiatori che vidi su quel tratto di strada avevano poca voglia quanto me di parlare con uno sconosciuto. Pensavo solo a ritornare a Castelcervo. E a Burrich. Quando raggiunsi Castelcervo la Festa della Primavera era iniziata da due giorni. Le guardie alla porta cercarono dapprima di fermarmi. Io li guardai. «È il piccolo bastardo» esclamò uno senza fiato. «Dicevano che eri morto.» «Sta' zitto» lo redarguì l'altro. Era Guanto, che conoscevo da tempo, e disse in fretta: «Burrich è stato ferito. È su all'infermeria, ragazzo.»
Annuii, e li lasciai. In tutti gli anni che avevo trascorso a Castelcervo, non ero mai stato all'infermeria. Solo Burrich, e nessun altro, aveva curato le mie malattie infantili e le mie disavventure. Ma sapevo dove si trovava. Camminai senza vedere nulla fra i capannelli e i gruppi di festaioli, e improvvisamente mi sentii come quando avevo sei anni e stavo arrivando a Castelcervo per la prima volta. Ero rimasto attaccato alla cintura di Burrich, per tutta la lunga strada da Occhio di Luna, con la sua gamba ferita e bendata. Ma neanche una volta mi aveva messo sul cavallo di un altro, o mi aveva affidato alle cure di un altro. Mi aprii la strada fra la gente con le loro campanelle e fiori e dolci, fino a raggiungere la fortezza interna. Dietro alle caserme c'era un edificio isolato di pietra intonacata. Non c'era nessuno, e io attraversai senza ostacoli l'anticamera ed entrai nella stanza successiva. Il pavimento era cosparso di giunchi puliti, e le finestre ampie lasciavano entrare a fiotti l'aria e la luce della primavera, eppure la stanza mi diede lo stesso un senso di chiusura e malattia. Non era un buon posto per Burrich. Tutti i letti erano vuoti, tranne uno. Nessun soldato rimaneva a letto nei giorni della Festa della Primavera, a meno che non vi fosse costretto. Burrich giaceva a occhi chiusi, su una stretta branda, in una macchia di sole. Non l'avevo mai visto tanto immobile. Aveva spinto via le coperte e il suo petto era bendato. Avanzai in silenzio e sedetti sul pavimento accanto al letto. Era immobile, ma riuscivo a percepirlo, e le bende si muovevano con il suo respiro lento. Gli presi la mano. «Fitz» disse lui, senza aprire gli occhi. Mi afferrò forte. «Sì.» «Sei tornato. Sei vivo.» «Sì. Sono tornato subito, il più in fretta possibile. Oh, Burrich, temevo che fossi morto.» «Io pensavo che tu fossi morto. Gli altri sono tutti tornati giorni fa.» Trasse un respiro faticoso. «Ovviamente, quel bastardo ha dato a tutti gli altri un cavallo.» «No» gli ricordai, senza lasciargli la mano. «Sono io il bastardo, ricordi?» «Scusa.» Aprì gli occhi. Il bianco del sinistro era venato di sangue. Cercò di sorridermi. In quel momento notai le tracce di gonfiore sul lato sinistro del suo viso. «Allora. Siamo proprio una bella coppia. Dovresti mettere un unguento su quella guancia. Sta facendo infezione. Sembra il graffio di un animale.»
«Forgiati» cominciai, e non riuscii a spiegare oltre. Dissi solo, sottovoce: «Mi ha lasciato a nord di Forgia, Burrich.» La rabbia gli contrasse il viso. «Non ha voluto dirmelo. Non ha voluto dirlo a nessuno. Ho perfino mandato un messaggero da Veritas, per chiedere al mio principe di costringerlo a rivelare che cosa ti aveva fatto. Non ho avuto risposta. Dovrei ucciderlo.» «Lascia perdere» dissi, ed ero sincero. «Sono tornato e sono vivo. Ho fallito la sua prova, ma non mi ha ucciso. E come tu mi hai detto, ci sono altre cose nella mia vita.» Burrich si mosse leggermente nel letto. Compresi che questo non lo confortava. «Ebbene. Ci resterà malissimo.» Emise un respiro tremante. «Mi hanno teso un'imboscata. Qualcuno con un coltello. Non so chi.» «Come stai?» «Non bene, alla mia età. Un giovincello come te probabilmente si darebbe una scrollata e andrebbe davanti. Però è riuscito a pugnalarmi una volta sola. Ma sono caduto, e ho battuto la testa. Sono rimasto privo di sensi per due giorni. E poi, Fitz... Il tuo cane. Una cosa stupida, priva di senso, ma ha ucciso il tuo cane.» «Lo so.» «È morto in fretta» affermò Burrich, come se fosse stata una consolazione. Mi irrigidii a quella bugia. «È morto bene» lo corressi. «E se non fosse morto, tu saresti stato pugnalato più di una volta.» Burrich rimase immobile. «Tu eri là, vero?» indovinò alla fine. Non era una domanda, e non c'era modo di sbagliarsi sul significato. «Sì» mi sentii dire semplicemente. «Eri là, quella notte, con il cane, invece di provare l'Arte?» La sua voce si levò offesa. «Burrich, non è stato come...» Strappò la mano dalla mia e si girò, ritraendosi il più possibile. «Vattene.» «Burrich, non è stato Ferrigno. Semplicemente io non ho l'Arte. Quindi lasciami avere quello che ho, lasciami essere quello che sono. Non uso questo potere per fare del male. Anche senza, sono bravo con gli animali. Tu mi hai costretto a esserlo. Se lo uso, posso...» «Sta' lontano dalle mie scuderie. E sta' lontano da me.» Si girò di nuovo a guardarmi, e con mia meraviglia un'unica lacrima gli percorse la guancia bruna. «Tu hai fallito? No, Fitz. Io ho fallito. Ho avuto il cuore troppo te-
nero per fartelo passare a suon di botte quando hai dato i primi segni. 'Allevalo bene' mi aveva detto Chevalier. È stato l'ultimo ordine che mi ha dato. E io l'ho deluso. E ho deluso anche te. Se tu non ti fossi immischiato con lo Spirito, Fitz, saresti stato in grado di imparare l'Aite. Galen sarebbe riuscito a insegnarti. Non c'è da stupirsi che ti abbia mandato a Forgia.» Fece una pausa. «Bastardo o no, avresti potuto essere un buon figlio per Chevalier. Ma hai gettato via tutto. Per cosa? Per un cane. Io so che cosa può essere un cane per un uomo, ma tu non puoi gettar via la tua vita per un...» «Non solo un cane» lo interruppi quasi brutalmente. «Ferrigno. Il mio amico. E non è stato solo per lui. Ho smesso di aspettare e sono tornato indietro per te. Pensando che tu potessi avere bisogno di me. Ferrigno è morto giorni fa. Ma io sono tornato per te, pensando che potevi aver bisogno di me.» Rimase in silenzio tanto a lungo che pensavo che non mi avrebbe più parlato. «Non dovevi» disse piano. «Sono capace di badare a me stesso.» E con voce più dura: «Lo sai. Lo sono sempre stato.» «E a me» ammisi io. «Hai sempre badato a me.» «E guarda che cosa ne abbiamo ricavato» bisbigliò Burrich lentamente. «Guarda che cosa ti ho lasciato diventare. Adesso sei soltanto... Vattene. Vattene e basta.» Mi girò di nuovo le spalle, e io sentii che qualcosa lo abbandonava. Mi alzai lentamente. «Ti preparerò una lavanda dalle foglie di melitoto per quell'occhio. Te la porterò questo pomeriggio.» «Non portarmi niente. Non voglio favori da te. Vai per la tua strada, e sii quello che vuoi essere. Ho finito con te.» Parlava al muro. Nella sua voce non c'era misericordia né per se stesso né per me. Gettai un'occhiata indietro mentre lasciavo l'infermeria. Non si era mosso, ma perfino la sua schiena appariva più vecchia, e più piccola. Quello fu il mio ritorno a Castelcervo. Ero una creatura diversa dal ragazzo ingenuo che era partito. Il fatto che non fossi morto come si supponeva suscitò poco clamore, e io non lo incoraggiai. Dopo aver lasciato Burrich, andai dritto in camera. Mi lavai e mi cambiai i vestiti. Dormii, ma non bene. Per il resto della Festa della Primavera, mangiai di notte, da solo in cucina. Scrissi un appunto a re Sagace, avvertendolo che forse i predoni usavano regolarmente i pozzi di Forgia. Il re non mi fece avere risposta, e io ne fui contento. Non cercavo il contatto con nessuno. Con molta pompa e cerimonia, Galen presentò la sua perfetta confrater-
nita al re. Soltanto un altro, a parte me, non era riuscito a ritornare. Adesso mi vergogno di non riuscire a ricordare il suo nome, e se mai ho saputo che cosa gli è successo, me ne sono dimenticato. Come Galen, suppongo di averlo liquidato come insignificante. Galen mi parlò soltanto una volta per il resto di quell'estate, e indirettamente. Ci incrociammo nel cortile, non molto tempo dopo la Festa della Primavera. Lui passeggiava e chiacchierava con Regal. Mentre mi passavano accanto, mi guardò sopra la testa di Regal e disse con un sogghigno: «Più vite di un gatto.» Io mi fermai e li fissai fino a quando entrambi furono costretti a guardarmi. Obbligai Galen a incontrare il mio sguardo; poi sorrisi e annuii. Non lo affrontai mai riguardo al suo tentativo di farmi morire. In seguito parve non notarmi mai; i suoi occhi scivolavano su di me, oppure usciva dalla stanza quando io entravo. Mi parve di aver perso tutto con la perdita di Ferrigno. O forse nella mia amarezza mi disposi a distruggere il poco che mi era rimasto. Rimasi arroccato nella fortezza per settimane, insultando sottilmente chiunque fosse abbastanza sciocco da parlarmi. Il Matto mi evitava. Umbra non mi convocava. Vidi Pazienza tre volte. Le prime due volte che risposi alla sua chiamata, feci solo un minimo tentativo per essere civile. La terza, annoiato dalle sue chiacchiere sulle talee delle rose, semplicemente mi alzai e me ne andai. La dama non mi chiamò più. Ma venne un momento in cui sentii che dovevo aprirmi a qualcuno. Ferrigno aveva lasciato un grande vuoto nella mia vita. E io non avevo immaginato che il mio esilio dalle scuderie sarebbe stato tanto devastante. Gli incontri casuali con Burrich erano incredibilmente imbarazzanti mentre imparavamo dolorosamente a fingere di non vederci. Bramavo di andare da Molly, di raccontarle tutte le mie disgrazie, tutto quello che mi era successo da quando ero arrivato la prima volta a Castelcervo. Immaginai nei dettagli che ci saremmo seduti sulla spiaggia mentre parlavo, e come, una volta finito, lei non mi avrebbe giudicato e non avrebbe cercato di offrirmi consiglio, ma mi avrebbe solo preso la mano e sarebbe rimasta immobile accanto a me. Alla fine, avrebbe saputo ogni cosa, e io non avrei più dovuto nasconderle nulla. Non osavo immaginare di più. Desideravo disperatamente, e temevo con il timore noto solo a un ragazzo il cui amore ha due anni più di lui. Se le rivelavo tutte le mie sofferenze, mi avrebbe considerato un bambino sfortunato e avrebbe avuto pietà di me? Mi avrebbe odiato per tutto quello che non le avevo mai det-
to? Una dozzina di volte quel pensiero allontanò i miei passi da Borgo Castelcervo. Ma un paio di mesi dopo, quando finii per avventurarmi al borgo, i miei piedi traditori mi portarono alla bottega delle candele. Per caso avevo con me un cestino e una bottiglia di vino di ciliegie, e quattro o cinque roselline gialle e spinose che avevo ottenuto, spellandomi le mani, dal Giardino delle Donne, dove la loro fragranza superava perfino le aiuole di timo. Mi dicevo di non avere un piano. Non dovevo raccontarle tutto di me. Non ero neppure costretto a vederla. Potevo decidere via via. Ma alla fine tutte le decisioni erano già state prese, e non avevano nulla a che fare con me. Arrivai giusto in tempo per vedere Molly che se ne andava con Diaspro. Tenevano le teste vicine, e lei si sporgeva verso di lui mentre parlavano sommessamente. Fuori dalla porta della bottega, lui si fermò per guardarla in viso. Lei alzò gli occhi a incontrare i suoi. Quando l'uomo tese una mano esitante per toccarle gentilmente la guancia, Molly era improvvisamente una donna che io non conoscevo. La differenza di due anni fra noi era un vasto golfo che non potevo mai sperare di varcare. Girai l'angolo prima che potesse vedermi e voltai la schiena, tenendo il viso basso. Mi superarono come se fossi stato un albero o una pietra. Molly gli teneva la testa sulla spalla, e camminavano lentamente. Ci misero un'eternità a scomparire alla vista. Quella notte mi ubriacai più di quanto avessi mai fatto, e mi svegliai il giorno dopo nei cespugli a metà strada su per la via verso la fortezza. 18 Assassinii Umbra Stella d'Autunno, consigliere personale di re Sagace, realizzò uno studio dettagliato della Forgiatura durante il periodo che precedette le guerre della Nave Rossa. Dalle sue tavolette ricaviamo quanto segue: «Netta, figlia del pescatore Gill e della contadina Ryda, fu presa viva dal suo villaggio Buonacqua nel diciassettesimo giorno dalla Festa della Primavera. Fu Forgiata dai Pirati della Nave Rossa e restituita al villaggio tre giorni dopo. Il padre fu ucciso nella stessa scorreria, e la madre, avendo cinque figli più piccoli, era scarsamente in grado di badare a Netta. La ragazza, al momento della sua Forgiatura, aveva quattordici estati. Arrivò da me circa sei mesi dopo. «Quando mi fu portata per la prima volta, era sporca, lacera e forte-
mente indebolita dalla fame e dalle intemperie. Su mio ordine fu lavata, vestita e alloggiata in stanze a cui avevo facile accesso. Mi comportai con lei come avrei fatto con un animale selvatico. Ogni giorno le portavo il cibo con le mie mani, e rimanevo con lei mentre mangiava. Feci in modo che le sue stanze fossero tenute calde, il giaciglio pulito, e che fosse provvista delle piacevolezze che una donna potrebbe aspettarsi; acqua per lavarsi, spazzole e pettini, e tutto quello che le poteva servire. Inoltre, feci in modo che avesse il necessario per il ricamo, dato che prima della Forgiatura aveva nutrito grande amore per simili lavori di abilità, e aveva creato diversi pezzi raffinati. La mia intenzione in tutto questo era di vedere se, trattato amichevolmente, un Forgiato non poteva tornare a una sembianza della persona che era stato. «Anche un animale selvatico avrebbe potuto diventare un poco più docile in tali circostanze. Ma a ogni cosa Netta reagiva con indifferenza. Aveva perso non solo le abitudini di una donna, ma anche il buon senso di un animale. Mangiava a sazietà, con le mani, e poi lasciava cadere per terra quello che avanzava, e lo calpestava. Non si lavava, né si prendeva cura di se stessa in alcun modo. Perfino la maggior parte degli animali insozzano soltanto una zona della tana, ma Netta era come un topo che lascia cadere dovunque i suoi escrementi, senza riguardo neanche per il giaciglio. «Era in grado di parlare in maniera comprensibile, se decideva di farlo o voleva qualcosa con sufficiente forza. Quando parlava di sua spontanea volontà, era di solito per accusarmi di averle rubato qualcosa, o per pronunciare minacce contro di me se non le davo immediatamente quello che voleva. Il suo atteggiamento abituale verso di me era di sospetto e di odio. Ignorava i miei tentativi di condurre una conversazione normale, ma affamandola riuscii a ottenere risposte in cambio di cibo. Ricordava chiaramente la sua famiglia, ma non si interessava a ciò che era stato di loro. Anzi, rispondeva a quelle domande come se avesse parlato del tempo di ieri. Del momento della sua Forgiatura, disse solo che erano stati tenuti prigionieri nella stiva di una nave, con poco cibo e il minimo indispensabile di acqua. Non ricordava di aver mangiato nulla di insolito o di essere stata toccata in alcun modo. Quindi non poté fornirmi alcun indizio sul meccanismo della Forgiatura. Questa fu per me una grande delusione, perché avevo sperato che imparando il modo di fare una cosa si potesse scoprire come disfarla. «Cercai di ricondurla a un comportamento umano ragionando con lei, ma senza risultato. Sembrava comprendere le mie parole, ma non se ne
curava. Perfino quando le venivano date due pagnotte, con l'avvertimento che doveva risparmiarne una per l'indomani o stare senza, lasciava cadere la seconda pagnotta per terra, la calpestava, e al mattino mangiava gli avanzi incurante dello sporco. Non manifestava alcun interesse verso il ricamo o qualunque altro passatempo, neppure i giocattoli colorati di un bambino. Se non mangiava o dormiva, si accontentava di sedere o di giacere distesa, con la mente inattiva come il corpo. Se le si offrivano dolci o bocconcini appetitosi, ne mangiava fino a vomitare, e poi ne mangiava ancora. «La curai con svariati elisir e tè di erbe. La feci digiunare, la sottoposi al vapore, le diedi una purga. Docce calde e fredde non avevano altro effetto che di aizzarla. La feci dormire per tutto un giorno e una notte, senza cambiamenti. La riempii a tal punto di corteccia di efedra che non poté chiudere occhio per due notti, ma questo la rese solo irritabile. Per un certo periodo la viziai con gentilezze ma, come quando la trattavo con la massima severità, ciò non faceva differenza nel modo in cui lei trattava me. Se aveva fame, si comportava piacevolmente e sorrideva quando glielo ordinavo, ma non appena il cibo veniva fornito, ignorava ogni altro ordine e richiesta. «Era ferocemente gelosa del territorio e dei suoi beni. Più di una volta tentò di attaccarmi, solo perché mi ero avventurato troppo vicino al cibo che stava mangiando, e una volta perché improvvisamente aveva deciso che voleva l'anello che avevo al dito. Regolarmente uccideva i topi attirati dalla sua sporcizia, afferrandoli con incredibile rapidità e sbattendoli contro il muro. Un gatto che un giorno si avventurò nelle sue stanze incontrò lo stesso destino. «Sembrava non avere cognizione del tempo trascorso dalla sua Forgiatura. Poteva offrire resoconti accettabili della sua vita precedente, se le veniva ordinato mentre aveva fame, ma i giorni trascorsi dalla sua Forgiatura erano per lei solo un lungo 'ieri'. «Da Netta non riuscii a scoprire se qualcosa le fosse stato aggiunto o portato via per Forgiarla. Non sapevo se si trattasse di qualcosa che aveva consumato o annusato o sentito o visto. Non sapevo neppure se fosse il lavoro della mano e dell'arte di un uomo, o l'opera di un demone del mare come quelli su cui gli abitanti delle Terre Lontane dichiarano di aver potere. Da quel lungo e faticoso esperimento, non imparai nulla. «Una sera misi nell'acqua di Netta una tripla dose di pozione per dormire. Feci lavare il suo corpo e pettinare i capelli, e la rimandai al suo
villaggio perché ottenesse una rispettosa sepoltura. Almeno una famiglia fu in grado di porre la parola fine a una stona di Forgiatura. La maggior parte delle altre devono chiedersi, per mesi e anni, che cosa sia accaduto di coloro che un tempo erano loro cari. La maggior parte sta meglio senza saperlo.» A quell'epoca si sapeva che più di mille anime erano state Forgiate. Burrich parlava sul serio. Non volle più avere a che fare con me. Non ero più benvenuto alle stalle e ai canili. Roano in particolare ne trasse un piacere selvaggio. Anche se spesso era assente insieme a Regal, quando era alle scuderie spesso mi bloccava l'ingresso. «Permettetemi di portarvi il vostro cavallo, signorino» diceva ossequiosamente. «Il capo stalliere preferisce che siano gli stallieri a occuparsi degli animali all'interno delle scuderie.» E così dovevo restare lì, come un signorotto incompetente, mentre Fuliggine veniva sellata e mi veniva condotta. Roano stesso ripuliva il suo stallo, le portava da mangiare e la strigliava, e lei aveva accolto prontamente il suo ritorno. Quella vista mi divorava come un acido. Era solo un cavallo, mi dissi, e non era colpa sua. Ma fu un ulteriore abbandono. Improvvisamente avevo troppo tempo fra le mani. Avevo sempre trascorso la mattina a lavorare per Burrich. Ora il mio tempo apparteneva solo a me. Poiana era occupata a preparare le reclute per la difesa. Se volevo addestrarmi con loro ero il benvenuto, ma erano tutte lezioni che avevo imparato tempo prima. Piuma era partito, come ogni estate. Non riuscivo a trovare un modo per chiedere scusa a Pazienza, e non pensavo nemmeno a Molly. Perfino le mie spedizioni alle taverne di Castelcervo erano ormai solitarie. Kerry era apprendista di un burattinaio, e Dirk era andato per mare. Ero solo e non avevo nulla da fare. Fu un'estate di infelicità, e non solo per me. Ero solitario e amaro e nessuno dei miei vestiti mi andava più bene, scattavo e ringhiavo con tutti gli sciocchi che mi rivolgevano la parola, e bevevo fino a stordirmi diverse notti alla settimana; ero tuttavia consapevole di come i Sei Ducati fossero tormentati. I Pirati della Nave Rossa, più audaci che mai, perseguitavano le nostre coste. Quell'estate, oltre alle minacce, cominciarono anche a fare richieste. Grano, bestiame, il diritto di prendere quello che volevano dai nostri porti, il diritto di portare a riva le loro navi e vivere delle nostre terre e della nostra gente per l'estate, la possibilità di scegliere schiavi dai nostri paesi... ciascuna richiesta era più intollerabile della precedente, e le sole cose ancor più intollerabili erano le Forgiature che seguivano a ogni rifiuto
del re. La gente comune abbandonava le città portuali e costiere. Non si poteva biasimarli, ma ciò lasciava le nostre coste ancora più vulnerabili. Vennero ingaggiati altri soldati, e poi ancora, quindi si dovettero esigere tributi per pagarli, e la gente borbottava sotto il fardello delle tasse e la paura dei Pirati della Nave Rossa. Ancora più strani erano gli Isolani che, rinunciando alle scorrerie, arrivavano con le navi alle nostre coste con le famiglie per chiedere asilo, e raccontavano storie efferate di caos e tirannia nelle Isole Esterne dove ora spadroneggiavano le Navi Rosse. La loro presenza poteva essere sia un bene che un male. Venivano arruolati fra i nostri soldati per quattro soldi, sebbene pochi si fidassero veramente di loro. Ma almeno i loro racconti delle Isole Esterne sotto la dominazione della Nave Rossa erano abbastanza sconvolgenti da togliere a chiunque la tentazione di cedere alle richieste dei Pirati. Circa un mese dopo il mio ritorno, Umbra mi aprì la porta. Ero offeso per come mi aveva trascurato, e salii la scala più lentamente di quanto avessi mai fatto. Ma quando arrivai in cima, l'uomo alzò lo sguardo dal mortaio in cui stava schiacciando semi con un pestello, e il suo viso era stanco. «Sono felice di vederti» disse, senza la minima felicità nella voce. «È per questo che sei stato tanto pronto a darmi il bentornato» osservai acidamente. Smise di pestare. «Mi dispiace. Pensavo che ti servisse un po' di tempo per stare solo, per ritrovare te stesso.» Tornò a guardare i suoi semi. «Anche per me questo inverno e questa primavera non sono stati facili. Vogliamo cercare di lasciarceli alle spalle e andare avanti?» Era un suggerimento gentile e ragionevole. Sapevo che era saggio. «Ho qualche alternativa?» chiesi sarcastico. Umbra finì di schiacciare i suoi semi. Li versò in un setaccio a maglia fine e li mise su una scodella a sgocciolare. «No» disse infine, come se ci avesse pensato bene. «No, non ne hai, e neppure io. In molte cose, non abbiamo scelta.» Mi percorse dalla testa ai piedi con gli occhi, e poi rimestò di nuovo i suoi semi. «Tu» decretò «non berrai altro che acqua o tè per il resto dell'estate. Il tuo sudore puzza di vino. E per uno così giovane, i tuoi muscoli sono molli. Un inverno delle meditazioni di Galen non ha fatto per niente bene al tuo corpo. Vedi di esercitarlo. A cominciare da oggi, imponiti di salire alla torre di Veritas quattro volte al giorno. Gli porterai il cibo, e il tè che ti insegnerò a preparare. Non gli mostrerai mai un viso immusonito, ma sarai sempre allegro e amichevole. Forse occuparti di
Veritas per un poco ti convincerà che avevo le mie ragioni per non concentrare la mia attenzione su di te. Eseguirai questo incarico ogni giorno che sarai a Castelcervo. In altri giorni compirai altre missioni per me.» Non gli erano servite molte parole per risvegliare in me la vergogna. Il modo in cui percepivo la mia vita crollò in pochi istanti dalla tragedia solenne all'autocompatimento infantile. «Sono stato pigro» ammisi. «Sei stato stupido» concordò Umbra. «Hai avuto un mese per assumere il controllo della tua vita. Ti sei comportato come un... un moccioso viziato. Non mi stupisco che Burrich sia disgustato da te.» Da molto tempo avevo smesso di sorprendermi per quello che Umbra sapeva. Ma questa volta, ero sicuro che non conosceva la vera ragione, e non desideravo condividerla con lui. «Hai già scoperto chi ha cercato di ucciderlo?» mi chiese. «In effetti... non ci ho provato.» Ora Umbra apparve disgustato, e poi perplesso. «Ragazzo, davvero non sei te stesso. Sei mesi fa avresti rivoltato le scuderie per scoprirlo. Sei mesi fa, con una vacanza di un mese, avresti riempito ogni giorno. Che cosa ti turba?» Abbassai lo sguardo, percependo la verità nelle sue parole. Volevo dirgli tutto quello che mi era successo; volevo non raccontarne una parola a nessuno. «Ti dirò ciò che so dell'attacco contro Burrich.» E così feci. «E questa persona che ha visto tutto» chiese Umbra quando ebbi finito «conosceva l'uomo che ha attaccato Burrich?» «Non è riuscito a vederlo bene» risposi esitando. Inutile dire a Umbra che conoscevo esattamente l'odore dell'aggressore ma ne avevo soltanto un'immagine molto vaga. Umbra rimase in silenzio per un momento. «Ebbene, per quello che puoi, tieni un orecchio al terreno. E mi piacerebbe sapere chi si è fatto tanto temerario da cercare di uccidere il capo stalliere del re nella sua stessa scuderia.» «E allora non pensi che sia stato semplicemente un contrasto privato di Burrich?» chiesi cautamente. «Forse sì. Ma non saltiamo alle conclusioni. A me sembra una mossa del cavallo. Qualcuno sta preparando un piano, ma ha saltato la prima casella. A nostro vantaggio, spero.» «Puoi dirmi perché lo pensi?» «Potrei, ma non lo farò. Voglio lasciare la tua mente libera di fare supposizioni, indipendenti delle mie. Adesso vieni. Ti mostrerò il tè.»
Mi dispiaceva che non mi avesse chiesto nulla del tempo trascorso con Galen o della mia prova. Sembrava accettare il mio fallimento come se fosse stato previsto. Ma mentre mi mostrava gli ingredienti che aveva scelto per il tè di Veritas, fui inorridito dalla forza degli stimolanti che stava usando. Avevo visto Veritas molto poco, anche se Regal era stato fin troppo in evidenza. Questi aveva trascorso l'ultimo mese ad andare e venire, sempre appena tornato o sul punto di partire, e ogni corteo sembrava più ricco e ornato del precedente. Mi sembrava che usasse la scusa del corteggiamento di suo fratello per mettersi in mostra più di un pavone. L'opinione comune era che fosse costretto a farlo per impressionare coloro con cui negoziava. Quanto a me, lo consideravo uno spreco di soldi che sarebbero potuti andare a finanziare le difese. Quando Regal era assente provavo sollievo, perché ultimamente il suo antagonismo nei miei confronti aveva compiuto un balzo, e il principe trovava nuovi mezzucci per esprimerlo. Le poche volte in cui avevo visto Veritas o il re mi erano sembrati entrambi angosciati e sfiniti. Veritas in particolare pareva quasi stordito. Apatico e distratto, mi aveva notato solo una volta, e con un sorriso stanco mi aveva detto che ero cresciuto. Quella era stata tutta la nostra conversazione. Ma avevo notato che mangiava come un invalido, senza appetito, evitando carne e pane, come se masticare e ingoiare fosse uno sforzo eccessivo, mantenendosi invece a semolini e zuppe. «Sta usando troppo l'Arte. Me lo ha detto Sagace. Ma perché lo consumi tanto, perché gli bruci la carne dalle ossa, non so spiegarmelo. Quindi gli somministro tonici ed elisir, e cerco di farlo riposare. Ma lui non può. Non osa, dice. Mi racconta che tutti i suoi sforzi sono necessari per ingannare i nocchieri delle Navi Rosse, per farle finire sulle rocce, per scoraggiare i loro capitani. E così si alza dal letto, va alla sua sedia vicino alla finestra, e resta seduto lì per tutto il giorno.» «E la confraternita di Galen? Non lo aiutano?» Lo chiesi quasi con gelosia, quasi sperando di sentire che non facevano differenza. Umbra sospirò. «Credo che Veritas li usi come io userei i piccioni viaggiatori. Li ha mandati alle torri, e si serve di loro per inviare avvertimenti ai soldati, e per conoscere subito gli avvistamenti delle navi. Ma il compito di difendere la costa non lo affida a nessun altro. I membri della confraternita, mi dice, sono troppo inesperti; potrebbero tradirsi con coloro su cui usano l'Arte. Io non mi intendo di queste cose. Ma so che non può continuare molto a lungo. Prego che arrivi la fine dell'estate, che le tempeste d'in-
verno ricaccino a casa le Navi Rosse. Vorrei che ci fosse qualcuno a sostenerlo in questo lavoro. Temo che lo consumerà.» Lo presi come un rimprovero per il mio fallimento e affondai in un silenzio torvo. Vagai per le sue stanze, trovandole familiari e aliene al tempo stesso dopo mesi di assenza. I suoi strumenti per trattare le erbe erano sparsi in giro come al solito. Quatto era dappertutto e lasciava pestiferi pezzi di ossa in tutti gli angoli. Come sempre, c'era un assortimento di tavolette e pergamene vicino a varie sedie. Questo gruppo in particolare sembrava trattare soprattutto degli Antichi. Ne sbirciai qualcuna, attirato dalle miniature a colori. Una tavoletta più vecchia e più elaborata raffigurava un Antico come una specie di uccello dorato dalla testa umana coperta di capelli simili a piume. Cominciai a decifrare le parole. Era scritta in Piche, un'antica lingua nativa degli stati meridionali di Chalced. Molti dei caratteri dipinti si erano consumati, o si erano staccati dal legno antico, e io non ero mai stato disinvolto con il Piche. Umbra comparve al mio fianco. «Sai,» disse gentilmente «non è stato facile per me, ma ho mantenuto la mia promessa. Galen ha richiesto il controllo completo dei suoi discepoli. Ha espressamente ottenuto che nessuno potesse contattarti o interferire in alcun modo con la tua disciplina e la tua istruzione. E come ti ho detto, nel Giardino della Regina sono cieco e non ho potere.» «Ne ero consapevole» borbottai. «Eppure non ho disapprovato le azioni di Burrich. Solo la parola che avevo dato al mio re mi ha impedito dal contattarti.» Fece una cauta pausa. «È stato un periodo difficile, lo so. Vorrei averti potuto aiutare. E tu non dovresti stare troppo male per aver...» «Fallito.» Inserii la parola mentre lui ne cercava una più gentile. Sospirai, e improvvisamente riconobbi il mio dolore. «Lasciamo perdere, Umbra. Non posso cambiare ciò che è stato.» «Lo so.» Poi, ancor più cautamente: «Ma forse quello che hai imparato dell'Arte può tornarci utile. Se mi aiuti a comprenderla, forse posso trovare un modo migliore per sostenere Veritas. Per tanti anni, questa conoscenza è stata tenuta troppo segreta... se ne parla a malapena nelle antiche pergamene, se non per dire che una certa battaglia fu volta dall'Arte del re in favore dei suoi soldati, o che un certo nemico fu confuso dall'Arte del re. Eppure non c'è nulla su come si faccia, o...» La disperazione strinse di nuovo le fauci su di me. «Lascia perdere. I bastardi non possono saperlo. Credo di averlo dimostrato.»
Il silenzio cadde fra noi. Alla fine Umbra sospirò pesantemente. «Ebbene. Forse è così. Negli ultimi mesi ho studiato anche la Forgiatura. Ma ho scoperto solo ciò che non è, e ciò che non serve ad annullarla. La sola cura che ho trovato è la più antica, quella che funziona con tutto.» Arrotolai e legai la pergamena che avevo in mano, prevedendo ciò che stava per succedere. Non mi sbagliavo. «Il re mi ha incaricato di affidarti una missione.» Quell'estate, in tre mesi, uccisi diciassette volte per il re. Se non avessi già ucciso, di mia volontà e per mia difesa, mi sarebbe venuto forse più difficile. Le missioni potevano sembrare semplici. Io, un cavallo, e due ceste di pane avvelenato. Percorrevo le strade dove i viaggiatori avevano riferito di essere stati aggrediti, e quando i Forgiati mi attaccavano fuggivo, lasciandomi dietro una scia di pagnotte. Forse se fossi stato un normale soldato sarei stato meno spaventato. Ma per tutta la vita ero stato abituato ad affidarmi al mio Spirito per avvertire la presenza di altre persone. Così, era come lavorare senza usare gli occhi. E scoprii in fretta che non tutti i Forgiati erano stati mercanti e tessitori. Il secondo gruppetto che avvelenai comprendeva diversi soldati. Fui fortunato che la maggior parte di loro stessero disputandosi le pagnotte quando fui trascinato giù da cavallo. Ricevetti una ferita profonda di coltello, e tuttora porto una cicatrice sulla spalla sinistra. Erano forti e competenti, e sembravano lottare come un tutto unico, forse perché erano stati addestrati a quel modo, ai tempi in cui erano pienamente umani. Sarei morto, se non avessi gridato che era sciocco lottare con me mentre gli altri si mangiavano tutto il pane. Mi lasciarono andare, io risalii di corsa a cavallo e scappai. I veleni non erano più crudeli del necessario, ma affinché fossero efficaci anche in dose minima dovevamo usare i più brutali. I Forgiati non morivano pacificamente, ma era la fine più rapida che Umbra potesse escogitare. Strappavano avidamente la morte dalle mie mani, e io non ero costretto ad assistere alle loro convulsioni schiumanti, o a vedere i cadaveri lungo la strada. Quando le notizie dei Forgiati uccisi raggiunsero Castelcervo, Umbra raccontò che probabilmente erano morti per aver mangiato pesce corrotto preso in torrenti infettati, e questa voce si diffuse in fretta. I parenti raccoglievano i corpi e li seppellivano come si conveniva. Io mi dissi che probabilmente erano sollevati, e che i Forgiati avevano incontrato una fine più rapida che se fossero morti di fame durante l'inverno. E così mi abituai a uccidere, e avevo quasi una ventina di morti alle spalle prima che mi
capitasse di dover guardare un uomo negli occhi e poi ucciderlo. Anche questo non fu poi molto difficile. Era un signorotto minore, proprietario di terre fuori da Torlago. A Castelcervo si venne a sapere che in un momento d'ira aveva colpito la figlia di una domestica e l'aveva lasciata inferma di mente. Sarebbe già stato sufficiente per suscitare l'oltraggio di re Sagace. Ma il signorotto aveva pagato pienamente il debito di sangue, e la domestica, accettandolo, aveva rinunciato a qualsiasi forma di giustizia da parte del re. Ma alcuni mesi più tardi arrivò a corte una cugina della ragazza che richiese un'udienza privata con Sagace. Io fui mandato a confermare il suo racconto, e vidi che la ragazza era tenuta come un cane ai piedi della sedia del signorotto, e anche che il suo ventre aveva cominciato a gonfiarsi. E così non mi fu troppo difficile, mentre l'uomo mi offriva da bere in bei bicchieri di cristallo e mi scongiurava di raccontargli le ultime notizie della corte del re a Castelcervo, trovare il momento di sollevare il suo vino alla luce e lodare la qualità del bicchiere e del contenuto. Me ne andai qualche giorno più tardi, avendo compiuto la mia missione, con i campioni di carta che avevo promesso a Piuma, e il signorotto mi fece pervenire i suoi auguri per un buon ritorno a casa. Quel giorno era indisposto. Morì fra sangue e follia e schiuma alla bocca, circa un mese dopo. La cugina accolse la ragazza e il bambino. Non ho mai avuto rimpianti, né per l'assassinio né per la scelta di una morte lenta. E quando non infliggevo la morte ai Forgiati, mi occupavo di sua signoria il principe Veritas. Ricordo la prima volta che salii tutti quei gradini fino alla sua torre, bilanciando fra le mani un vassoio. Mi aspettavo di trovare una guardia o una sentinella alla sommità. Non ce n'erano. Bussai alla porta, e non ricevendo risposta entrai in silenzio. Veritas sedeva in uno scranno vicino a una finestra. Una brezza d'estate dall'oceano soffiava nella stanza. Avrebbe potuto essere una camera piacevole, piena di aria e di luce in una calda giornata estiva. Invece mi parve una cella. C'era Io scranno vicino alla finestra, e accanto un tavolino. Negli angoli e lungo le pareti il pavimento era polveroso e cosparso di frammenti di vecchi giunchi. E Veritas aveva il mento sul petto come se stesse sonnecchiando, tranne che ai miei sensi la stanza pulsava del suo sforzo. Era spettinato, il mento coperto da una barba di un giorno. I vestiti gli si afflosciavano addosso. Richiusi la porta con il piede e portai il vassoio al tavolo. Lo deposi e attesi in silenzio. E in pochi minuti Veritas tornò da dovunque fosse andato. Mi guardò con lo spettro del suo antico sorriso, e poi guardò il vassoio.
«Che cos'è?» «La colazione, signore. Tutti hanno mangiato ore fa, tranne voi.» «Ho già mangiato, ragazzo. Questa mattina presto. Un'orrenda zuppa di pesce. I cuochi dovrebbero essere impiccati per questo. Nessuno dovrebbe affrontare un piatto di pesce appena alzato.» Parve incerto, come un vecchio traballante che cercava di ricordare gli anni della sua giovinezza. «Quello è stato ieri, signore.» Scoprii i piatti. Pane caldo ricoperto di miele e uvetta, carne fredda, un piatto di fragole e una scodellina di panna per accompagnarle. Porzioni piccole, quasi da bambino. Versai il tè fumante in una tazza. Era pesantemente speziato di zenzero e menta, per coprire il sapore caratteristico dell'efedra. Veritas gettò un'occhiata alla tazza, poi guardò me. «Umbra non si arrende mai, vero?» L'aveva detto con disinvoltura, come se il nome di Umbra venisse pronunciato ogni giorno alla fortezza. «Dovete mangiare, se volete continuare» dissi in tono neutro. «Suppongo di sì» rispose stancamente Veritas, e si rivolse al vassoio come se quel cibo elegantemente presentato fosse stato solo un altro dovere da compiere. Mangiò senza appetito, e bevve il tè in un'unica sorsata stoica, come una medicina, senza farsi ingannare dallo zenzero o dalla menta. A metà del pasto si interruppe con un sospiro, e guardò fuori dalla finestra per un poco. Poi, come tornando al presente, si costrinse a consumare ogni portata. Mise da parte il vassoio e si appoggiò allo schienale dello scranno, sfinito. Lo fissai. Avevo preparato il tè io stesso. Tutta quella corteccia di efedra avrebbe fatto balzare Fuliggine oltre le pareti dello stallo. «Mio principe?» Non ottenendo alcuna reazione gli toccai lievemente la spalla. «Veritas? Tutto bene?» «Veritas» ripeté come stordito. «Sì. Lo preferisco a 'signore', o 'mio principe', o 'vostra signoria'. Questa è una mossa di mio padre, è lui che ti ha mandato. Ebbene. Posso ancora sorprenderlo. Ma sì, chiamami Veritas. E digli che ho mangiato. Obbediente come sempre, ho mangiato. Vai, ora, ragazzo. Ho da lavorare.» Parve scuotersi con uno sforzo, e ancora una volta il suo sguardo si allontanò. Sistemai i piatti il più silenziosamente possibile sul vassoio e mi diressi verso la porta. Ma mentre sollevavo il saliscendi lui parlò di nuovo. «Ragazzo?» «Signore?» «Ah-ah!» mi avvisò lui.
«Veritas?» «Leon è nelle mie stanze, ragazzo. Portalo fuori per me, vuoi? Si è immalinconito. Non c'è ragione che tutti e due ci consumiamo a questo modo.» «Sì, signore. Veritas.» E così il vecchio cane da caccia, ormai non più nel fiore degli anni, fu affidato alle mie cure. Ogni giorno lo prendevo dalla stanza di Veritas e andavamo a cacciare sulle colline dell'entroterra e sulle scogliere e sulle spiagge, in cerca di lupi che da almeno vent'anni non scorrazzavano più da quelle parti. Come aveva sospettato Umbra, ero in pessima forma, e dapprima riuscivo appena a tener dietro al vecchio cane. Ma con il passare dei giorni tornammo tutti e due in buone condizioni, e Leon prese perfino un paio di conigli per me. Ora che ero esiliato dal regno di Burrich, non mi facevo scrupoli a usare lo Spirito quando mi pareva. Tuttavia, come avevo scoperto tempo prima, potevo comunicare con Leon, ma non c'era alcun legame. Non sempre mi dava ascolto; capitava perfino che a volte non mi credesse. Se fosse stato soltanto un cucciolo, sono sicuro che avremmo potuto legarci l'uno all'altro. Ma era vecchio, e il suo cuore apparteneva per sempre a Veritas. Lo Spirito non significava il dominio sulle bestie, ma soltanto uno sguardo nelle loro vite. E tre volte al giorno salivo i ripidi gradini della scala a chiocciola per spingere Veritas a mangiare e a fare un poco di conversazione. A volte era come parlare a un bambino o a un vecchio rimbambito. Altre volte chiedeva di Leon, e mi interrogava sugli avvenimenti di Borgo Castelcervo. A volte ero assente per giorni a svolgere i miei altri incarichi. Di solito non sembrava accorgersene, ma una volta, dopo l'avventura in cui ricevetti la mia ferita da coltello, mi guardò caricare goffamente i suoi piatti vuoti sul vassoio. «Come riderebbero nelle loro barbe, se sapessero che ammazziamo la nostra gente.» Rimasi raggelato, chiedendomi come rispondere, perché per quel che ne sapevo le mie missioni erano note soltanto a Sagace e Umbra. Ma gli occhi di Veritas erano di nuovo lontani, e io me ne andai in silenzio. Senza averne l'intenzione, cominciai a compiere cambiamenti attorno al principe. Un giorno, mentre mangiava, spazzai la stanza, e più tardi quella sera portai su un sacco di giunchi ed erbe per il pavimento. Temevo di essere una distrazione per lui, ma Umbra mi aveva insegnato a muovermi silenziosamente. Lavoravo senza parlare, e Veritas non diede mostra di notare il mio andare e venire. Ma la stanza fu rinfrescata, e i fiori di verbe-
na mescolati ai giunchi avevano un effetto vivificante. Un giorno entrai e lo trovai appisolato nel suo scranno dal rigido schienale. Portai su alcuni cuscini, che lui ignorò per diversi giorni, e poi un giorno li dispose a suo piacimento. La stanza rimaneva spoglia, ma io capivo che gli era necessaria così, per conservare la concentrazione. Quindi gli portavo solo i conforti più essenziali, niente arazzi o tende, niente vasi di fiori o campanelle tintinnanti al vento, ma vasi di timo fiorito per calmare i mal di testa che lo tormentavano e, in una giornata di tempesta, una coperta per difendersi dalla pioggia e dal freddo che entravano dalla finestra aperta. Quel giorno lo trovai addormentato sulla sedia, abbandonato come un morto. Lo avvolsi nella coperta come se fosse stato un invalido, e gli misi davanti il vassoio, ma lasciandolo coperto, per tenere il cibo in caldo. Sedetti sul pavimento accanto al suo scranno, appoggiato a uno dei cuscini che aveva scartato, e ascoltai il silenzio della stanza. Sembrava quasi una giornata pacifica, malgrado la pioggia battente dell'estate fuori dalla finestra aperta, e il vento di tempesta che entrava a folate di tanto in tanto. Dovevo essermi addormentato, perché mi svegliai e sentii la sua mano sul capo. «Ti chiedono di sorvegliarmi a questo modo, ragazzo, perfino quando dormo? Che cosa temono, dunque?» «Nulla, che io sappia, Veritas. Mi dicono soltanto di portarti il cibo, e fare in modo per quanto possibile che tu mangi. Nulla di più.» «E coperte e cuscini, e vasi di fiori profumati?» «Quello è opera mia, mio principe. Nessun uomo dovrebbe vivere in questo deserto.» E in quel momento, mi resi conto che non avevamo aperto bocca, e mi raddrizzai di scatto e lo guardai. Anche Veritas parve tornare in sé. Si agitò nel suo scomodo scranno. «Benedico questa tempesta, che mi permette di riposare. L'ho nascosta a tre delle loro navi, persuadendo le vedette che fosse solo una tempesta d'estate. Ora stanno sudando ai remi e scrutano attraverso la pioggia cercando di mantenere la rotta. E io posso carpire pochi momenti di sonno meritato.» Fece una pausa. «Ti chiedo perdono, ragazzo. A volte, ormai, l'Arte sembra più naturale delle parole. Non volevo interferire con te.» «Non importa, mio principe. Ero solo sorpreso. Io stesso non sono in grado di usare l'Arte, se non debolmente e in maniera erratica. Non so come ho fatto ad aprirmi a voi.» «Veritas, ragazzo, non il tuo principe. Un principe non se ne sta in una camicia sudata, con una barba di due giorni. Ma cosa sono queste scioc-
chezze? Devono averti insegnato l'Arte! Ricordo bene come la lingua di Pazienza abbia abbattuto la fermezza di mio padre.» Si permise un sorriso stanco. «Galen ha cercato di insegnarmi, ma non ero adatto. Con i bastardi, mi dicono che spesso...» «Aspetta» ringhiò Veritas, e in un istante era dentro la mia mente. «Così è più veloce» spiegò, come per scusarsi, e poi, borbottando fra sé: «Che cos'è questo, che ti ottenebra a tal punto? Ah!» e se n'era andato di nuovo, il tutto con la stessa facilità e destrezza di Burrich che toglieva una zecca dall'orecchio di un cane. Rimase seduto a lungo, in silenzio, e io feci lo stesso, meravigliato. «In me è forte, come lo era in tuo padre» disse. «In Galen no.» «E allora come ha fatto a diventare Mastro d'Arte?» domandai sottovoce. Mi chiesi se Veritas lo diceva soltanto per alleviare il mio dispiacere del fallimento. Veritas esitò, come per evitare un argomento delicato. «Galen era il... beniamino della regina Désirée. Un favorito. La regina suggerì enfaticamente che Galen diventasse apprendista di Sollecita. Spesso penso che la nostra vecchia Maestra d'Arte fosse disperata quando lo prese come apprendista. Vedi, Sollecita sapeva di essere in fin di vita. Credo che agì con troppa fretta, e verso la fine rimpianse la sua decisione. E penso che Galen non avesse neanche metà dell'addestramento necessario quando divenne 'maestro'. Eppure eccolo qui; è tutto quello che abbiamo.» Veritas si schiarì la gola e parve a disagio. «Parlerò con la massima chiarezza, ragazzo, poiché vedo che sai tenere la bocca chiusa quando è prudente farlo. Galen ricevette quel posto come premio, non perché lo meritasse. Non credo che abbia neanche compreso pienamente che cosa significhi essere il Mastro d'Arte. Oh, sa che la posizione implica potere, e non si fa scrupolo a usarlo. Ma Sollecita non si limitava a pavoneggiarsi, sicura di una posizione elevata. Sollecita era la consigliera di Generoso, e il collegamento fra il re e tutti coloro che usavano l'Arte per lui. Si prese l'impegno di cercare e addestrare tutti coloro che manifestavano vero talento e la saggezza per usarlo bene. Questa confraternita è il primo gruppo che Galen abbia addestrato da quando io e Chevalier eravamo ragazzi. E io non li considero ben addestrati. No, sono solo addomesticati, come le scimmie e i pappagalli quando si insegna loro a imitare gli uomini, senza comprendere quello che fanno. Ma sono tutto quello che ho.» Veritas guardò fuori dalla finestra e parlò in tono sommesso. «Galen non ha stile. È rozzo come lo
era sua madre, e altrettanto presuntuoso.» Fece una pausa improvvisa, e il sangue gli salì alle guance come se avesse detto qualcosa di poco prudente. Riprese in tono più sommesso. «L'Arte è come un linguaggio, ragazzo. Non ho bisogno di urlare per comunicarti quello che voglio. Posso chiederlo per favore, o alludervi indirettamente, o farlo capire con un cenno e un sorriso. Posso usare l'Arte con qualcuno, e lasciarlo convinto che compiere la mia volontà sia stata tutta un'idea sua. Ma tutto questo sfugge a Galen, sia nell'uso che nell'insegnamento dell'Arte. Le privazioni e il dolore sono solo un sistema per abbassare le difese; l'unico sistema in cui Galen creda. Ma Sollecita usava l'astuzia. Mi faceva osservare un aquilone, o un granello di polvere sospeso in un raggio di sole, concentrandomi su di esso come se non ci fosse stato nient'altro al mondo. E improvvisamente era lì, dentro la mia mente con me, sorridente e piena di lodi. Mi insegnò che essere aperti significa solo non essere chiusi. E che si entra nella mente di un altro soprattutto quando si è disponibili a uscire dalla propria. Lo capisci, ragazzo?» «In qualche modo» esitai. «In qualche modo» sospirò Veritas. «Potrei insegnarti a usare l'Arte, se solo ne avessi il tempo. Non ce l'ho. Ma dimmi questo: le tue lezioni andavano bene, prima che ti mettesse alla prova?» «No. Non avevo mai avuto propensione... aspetta! Non è vero! Che cosa sto dicendo, che cosa stavo pensando?» Anche se ero seduto, vacillai improvvisamente, e la mia testa si staccò bruscamente dal bracciolo dello scranno di Veritas. Il principe tese una mano e mi sostenne. «Sono stato troppo frettoloso, suppongo. Sta' calmo, adesso, ragazzo. Qualcuno ti ha ottenebrato. Ti ha confuso, più o meno come faccio io con i piloti e i nocchieri delle Navi Rosse. Li convinco che hanno già guardato le stelle e che la loro rotta è giusta mentre in realtà stanno dirigendosi verso una corrente infida. Li convinco che hanno superato una mira che ancora non hanno avvistato. Qualcuno ti ha convinto che non eri in grado di usare l'Arte.» «Galen.» Parlai con sicurezza. Potevo quasi indicare il momento esatto. Quel pomeriggio era entrato con violenza nella mia mente, e da quel momento nulla era più stato lo stesso. Avevo vissuto in una nebbia, per tutti quei mesi... «Probabilmente. Tuttavia, se sei riuscito anche solo un poco a usare l'Arte con lui, sono sicuro che hai visto che cosa gli ha fatto Chevalier. Galen odiava a morte tuo padre, prima che Chev lo trasformasse in un cane al
guinzaglio. Ci dispiacque per questo. Avremmo rimediato, se avessimo capito come fare, senza farci scoprire da Sollecita. Ma Chev era forte con l'Arte, e allora eravamo soltanto ragazzi, e Chev era arrabbiato quando lo fece. E fu una ripicca per qualcosa che Galen aveva fatto a me, ironicamente. Anche quando Chevalier non era arrabbiato, subire l'Arte da lui era come essere calpestato da un cavallo. O piuttosto, buttato in un fiume in piena. Incalzava, si precipitava nella tua mente, scaricava le informazioni e scappava.» Fece di nuovo una pausa, e tese la mano per scoprire una ciotola di zuppa sul vassoio. «Suppongo di aver sempre pensato che tu sapessi queste cose. Ma che io sia dannato, non so come avresti potuto. Chi te lo avrebbe detto?» Mi concentrai su una sola informazione. «Tu potresti insegnarmi a usare l'Arte?» «Se avessi tempo. Molto tempo. Sei molto simile a come eravamo Chev e io, quando abbiamo imparato. Erratico. Forte, ma incapace di incanalare questa forza. E Galen ti ha... ebbene, ti ha lasciato delle cicatrici, suppongo. Non posso neanche cominciare a penetrare le tue barriere, e dire che sono forte anch'io. Dovresti imparare ad abbassarle. È difficile. Ma potrei insegnarti, sì. Se io e te avessimo un anno di tempo, e nient'altro da fare.» Spinse via la zuppa. «Ma non l'abbiamo.» Le mie speranze crollarono di nuovo. Quella seconda ondata di delusione mi avvolse, schiacciandomi su pietre di frustrazione. I miei ricordi andarono al loro posto, e in una vampata di rabbia compresi tutto quello che mi era stato fatto. Se non fosse stato per Ferrigno, mi sarei schiantato alla base della torre quella notte. Galen aveva cercato di uccidermi, con la sicurezza di una pugnalata. Nessuno avrebbe mai saputo che mi aveva picchiato, se non la sua leale confraternita. E non essendoci riuscito così, mi aveva tolto la possibilità di imparare l'Arte. Mi aveva rovinato, e io avrei... Balzai in piedi, furioso. «Ehi! Devi essere lento e cauto. Hai subito un torto, ma non possiamo avere discordia entro la fortezza proprio adesso. Tienitelo dentro fino a quando non potrai risolverlo silenziosamente, per amore del re.» Inchinai la testa alla saggezza del suo consiglio. Veritas sollevò il coperchio da un piccolo uccello arrosto, lo lasciò ricadere. «Perché vorresti imparare questa Arte, in ogni modo? È una bruttura. Non è un'occupazione adatta a un uomo.» «Per aiutarti» dissi senza pensare, e poi scoprii che era vero. Un tempo sarebbe stato per dimostrare di essere il vero e degno figlio di Chevalier,
per impressionare Burrich o Umbra, per innalzare la mia posizione alla fortezza. Ora, dopo aver osservato ciò che Veritas faceva, giorno dopo giorno, senza lode o addirittura senza che i suoi sudditi lo sapessero, scoprii che volevo solo prestargli il mio aiuto. «Per aiutarmi» ripeté lui. I venti di tempesta stavano calando. Con rassegnazione sfinita, sollevò gli occhi alla finestra. «Porta via il cibo, ragazzo. Adesso non ho tempo.» «Ma hai bisogno di forza» protestai. Mi sentivo in colpa perché si era dedicato a me anziché al cibo e al sonno. «Lo so. Ma non ho tempo. Mangiare richiede energia. Curioso, vero? In questo momento non ne ho abbastanza per il cibo.» I suoi occhi stavano cercando in lontananza, ora, guardando attraverso i rovesci di pioggia che cominciavano appena ad attenuarsi. «Ti darei la mia forza, Veritas. Se potessi.» Mi guardò in modo strano. «Ne sei sicuro? Davvero sicuro?» Non riuscii a comprendere la veemenza della sua domanda, ma conoscevo la risposta. «Certo che ne sono sicuro.» E, più piano: «Sono un uomo del re.» «E sei del mio stesso sangue» affermò lui. Sospirò. Per un momento apparve nauseato. Guardò di nuovo il cibo, e di nuovo fuori dalla finestra. «Ci sarebbe appena il tempo» sussurrò. «E potrebbe bastare. Dannazione a te, padre. Devi sempre vincere? Vieni qui, dunque, ragazzo.» Nelle sue parole c'era un'intensità che mi spaventò, ma obbedii. Quando fui accanto alla sua sedia, tese una mano. Me la mise sulla spalla, come se avesse avuto bisogno d'aiuto per alzarsi. D'un tratto lo stavo guardando dal pavimento. Avevo un cuscino sotto la testa, e la coperta che avevo portato per il principe mi era stata gettata addosso. Veritas era in piedi, affacciato alla finestra. Tremava per lo sforzo, e potevo quasi percepire le ondate violente della sua Arte. «Dritto sugli scogli» disse con profonda soddisfazione, e si girò di scatto dalla finestra. Mi sorrise, un sorriso antico e feroce che svanì lentamente mentre mi guardava. «Un vitellino mandato al macello» disse con rimpianto. «Avrei dovuto immaginarlo che non sapevi di cosa stavi parlando.» «Che mi è successo?» riuscii a chiedere. Mi battevano i denti, e tutto il mio corpo tremava come in preda al freddo. Temetti che le mie ossa schizzassero fuori dalle articolazioni. «Tu mi hai offerto la tua forza. Io l'ho presa.» Versò una tazza di tè, poi
si inginocchiò per avvicinarmela alle labbra. «Bevi con calma. Avevo fretta. Non ho detto che Chevalier era come un toro con la sua Arte? Cosa dovrei dire di me stesso, allora?» Aveva recuperato l'antica rustica concretezza e il buonumore. Era un Veritas che non avevo visto per mesi. Riuscii a ingoiare un sorso di tè, e sentii la corteccia di efedra pungermi la bocca e la gola. I brividi si calmarono. A sua volta, Veritas bevve con disinvoltura dalla tazza. «Nei tempi antichi,» disse in tono disinvolto «il re traeva forza dalla sua confraternita. Mezza dozzina di uomini o più, tutti in sintonia l'uno con l'altro, in grado di mettere in comune la forza e offrirla quando necessario. Era quello il loro vero scopo. Fornire forza al loro re, o al loro uomo chiave. Non credo che Galen l'abbia davvero capito. La sua confraternita è solo un elegante soprammobile. O un gruppo di cavalli, tori e asini, tutti aggiogati assieme. Non sono affatto una vera confraternita. Non hanno un'unica mente.» «Hai tratto forza da me?» «Sì. Credimi, ragazzo, non lo avrei fatto, ma ne avevo un bisogno improvviso, e pensavo che tu sapessi quello che stavi offrendo. Hai affermato di essere un uomo del re, il termine antico. E poiché siamo tanto vicini di sangue, sapevo di poter attingere a te.» Rimise la tazza sul vassoio con un tonfo. Il disgusto gli incupì la voce. «Sagace. Mette in moto gli avvenimenti, fa girare le ruote, fa oscillare il pendolo. Non è un caso che sia stato tu a portarmi da mangiare, ragazzo. Voleva renderti disponibile a me.» Fece un rapido giro per la stanza, poi si fermò, in piedi davanti a me. «Non succederà di nuovo.» «Non è stato così male» risposi debolmente. «No? Perché non cerchi di alzarti, allora? O anche solo di metterti a sedere? Sei soltanto un ragazzo, da solo, non una confraternita. Se io non avessi compreso la tua ignoranza e non mi fossi ritirato, avrei potuto ucciderti. Il tuo cuore e il tuo respiro si sarebbero semplicemente fermati. Non ti consumerò in questo modo, non importa chi me lo chieda. Ecco.» Si chinò e senza sforzo mi sollevò e mi piazzò nel suo scranno. «Rimani qui seduto per un poco. E mangia. A me non serve, adesso. E quando starai meglio, vai da Sagace da parte mia. Riferiscigli che mi distrai. Voglio che sia uno sguattero a portarmi da mangiare, d'ora in avanti.» «Veritas» cominciai. «No» mi corresse lui. «Di' 'mio principe'. Perché in questo sono il tuo principe, e non accetterò obiezioni. Ora mangia.»
Chinai il capo, infelice, ma il cibo e l'efedra nel tè servirono a rinvigorirmi più in fretta di quanto mi aspettassi. Presto fui in grado di stare in piedi, di mettere i piatti sul vassoio e poi di portarli via. Mi sentivo sconfitto. Sollevai il saliscendi. «FitzChevalier Lungavista.» Mi fermai, paralizzato dalle parole. Mi girai lentamente. «È il tuo nome, ragazzo. L'ho scritto io stesso, nel diario militare, il giorno che fosti portato da me. Credevo che sapessi anche questo. Smettila di pensare a te stesso come 'il bastardo', FitzChevalier Lungavista. E fa' in modo di andare a parlare con Sagace oggi stesso.» «Addio» dissi piano, ma il principe stava già di nuovo guardando fuori dalla finestra. E così ci trovò il culmine dell'estate. Umbra con le sue tavolette, Veritas alla sua finestra, Regal a corteggiare una principessa per suo fratello, e io a uccidere silenziosamente per il mio re. I Ducati dell'Interno e della Costa si divisero in fazioni al tavolo del consiglio, sibilando e sputando come gatti per una lisca di pesce. E sopra a tutti stava Sagace, che teneva ogni filo teso come fa un ragno, attento alla minima vibrazione. Le Navi Rosse ci colpivano, come lucci attorno a esche di carne, strappando pezzi della nostra gente e Forgiandoli. E i Forgiati divennero un tormento per il paese, sia come mendicanti o predatori che come fardello per le loro famiglie. La gente aveva paura a pescare, a commerciare o a coltivare le pianure degli estuari vicino al mare. Eppure bisognava alzare le tasse per nutrire i soldati e le sentinelle che sembravano incapaci di difendere il regno malgrado il loro numero crescente. Sagace mi aveva sciolto con riluttanza dal mio servizio a Veritas. Il mio re non mi aveva chiamato per più di un mese quando improvvisamente fui convocato a colazione. «Non è un buon momento per sposarmi» obiettò Veritas. «Non ho tempo. Restiamo solo fidanzati per un annetto. Certamente questo vi basterà.» Guardai l'uomo pallido e scarno che divideva la colazione del re e mi chiesi se questo era il principe robusto e gioviale che ricordavo dalla mia infanzia. Era peggiorato tanto in un solo mese. Giocherellò con un pezzo di pane, lo rimise sul tavolo. La luce della vita all'aria aperta aveva abbandonato le sue guance e gli occhi; i capelli erano opachi, i muscoli flaccidi. Il bianco degli occhi era ingiallito. Se fosse stato un cane, Burrich gli avrebbe dato una medicina per i vermi. Senza essere interpellato, dissi: «Ho cacciato con Leon due giorni fa. Mi ha preso un coniglio.»
Veritas si girò verso di me, e il fantasma dell'antico sorriso gli fluttuò sul volto. «Hai portato il mio cane a caccia di conigli?» «Gli è piaciuto. Tuttavia sente la vostra mancanza. Mi ha riportato il coniglio, e io gli ho fatto i complimenti, ma non mi è sembrato soddisfatto.» Non potevo dirgli come il cane mi avesse guardato, dicendo chiaramente non lo faccio per te con gli occhi e con l'atteggiamento. Veritas prese il bicchiere. La mano ebbe un lievissimo tremito. «Sono contento che vada d'accordo con te, ragazzo. È meglio che...» «Il matrimonio» interloquì Sagace «rincuorerà il popolo. Sto diventando vecchio, Veritas, e sono tempi duri. La gente non vede la fine dei loro problemi, e io non oso promettere soluzioni che non abbiamo. Gli Isolani hanno ragione, Veritas. Non siamo più i guerrieri che un tempo colonizzarono queste terre. Siamo diventati un popolo sedentario, e possiamo essere minacciati in modi che non spaventerebbero nomadi e vagabondi. Allo stesso modo possiamo essere distrutti. Quando un popolo sedentario cerca la sicurezza, cerca la continuità.» Qui alzai lo sguardo bruscamente. Quelle erano le parole di Umbra, ci avrei scommesso la testa. Questo significava che Umbra stava aiutando a organizzare il matrimonio? Il mio interesse crebbe, e mi chiesi di nuovo perché fossi stato convocato a quella colazione. «Si tratta di rassicurare la nostra gente, Veritas. Tu non hai il fascino di Regal, e neppure lo stile con cui Chevalier convinceva chiunque di poter affrontare qualsiasi problema. Non è per sminuirti; hai il maggior talento per l'Arte che io abbia mai visto nella nostra linea, e in altri tempi le tue abilità di soldato sarebbero state più importanti della diplomazia di Chevalier.» Mi sembrava sospettosamente un discorso preparato. Osservai Sagace fare una pausa. Caricò un pezzo di pane con formaggio e sottaceti e lo addentò pensierosamente. Veritas sedeva in silenzio, osservando suo padre. Sembrava attento e allo stesso tempo perplesso, come un uomo che cerchi disperatamente di restare sveglio e vigile mentre vorrebbe solo mettere giù la testa e chiudere gli occhi. Le mie brevi esperienze con l'Arte e la doppia concentrazione che richiedeva per resistere alla sua attrattiva pur piegandola al proprio volere, mi fecero ammirare l'abilità con cui Veritas la usava ogni giorno. Sagace guardò da Veritas a me, e poi di nuovo il viso di suo figlio. «Più semplicemente, hai bisogno di sposarti. Non solo, hai bisogno di un figlio. Darebbe coraggio al popolo. Direbbero: 'Ebbene, non può andare poi così
male, se il nostro principe non ha paura di sposarsi e avere un figlio. Sicuramente non lo farebbe se tutto il regno fosse sull'orlo del collasso'.» «Ma voi e io comunque sapremmo la verità, non è vero, padre?» C'era una traccia di ruggine nella voce di Veritas, e un'amarezza che non vi avevo mai sentito. «Veritas» cominciò Sagace, ma suo figlio lo interruppe. «Mio re» disse formalmente. «Voi e io sappiamo che siamo sull'orlo del disastro. E adesso, proprio adesso, non possiamo allentare la vigilanza. Non ho tempo per il corteggiamento e le cerimonie, e ancor meno per i sottili negoziati di un fidanzamento reale. Finché il tempo è bello, le Navi Rosse continueranno le loro scorrerie. E quando diventerà brutto, e le tempeste le ricacceranno ai loro porti, allora dovremo rivolgere la mente e le energie a rafforzare le nostre coste, e a addestrare equipaggi per compiere scorrerie a nostra volta. È di questo che voglio discutere con voi. Costruiamoci la nostra flotta, non grasse navi mercantili che ancheggiano per i mari invogliando i pirati, ma snelle navi da guerra, come quelle che avevamo un tempo e che i nostri carpentieri più anziani sanno ancora costruire. E portiamo questa guerra agli Isolani, sì, anche attraverso le tempeste dell'inverno. Un tempo avevamo grandi marinai e guerrieri. Se cominciamo adesso la costruzione e l'addestramento, la primavera prossima potremmo almeno tenerli lontani dalla nostra costa, e forse per l'inverno potremmo...» «Ci vorrà denaro. E il denaro non fluisce più in fretta da popolazioni terrorizzate. Per raccogliere i fondi di cui abbiamo bisogno, dobbiamo dare sufficiente fiducia ai nostri mercanti perché continuino a commerciare, e liberare i contadini dal timore di portare al pascolo le loro bestie sui prati e le colline della costa. Tutto fa capo al tuo matrimonio, Veritas.» Veritas, tanto animato quando parlava di navi da guerra, si appoggiò allo schienale afflosciandosi su se stesso, come se un pezzo di struttura dentro di lui avesse ceduto. Quasi mi aspettavo di vederlo crollare. «Come volete, mio re» disse, ma mentre parlava scosse la testa, negando le sue stesse parole. «Farò quello che ritenete più giusto. Questo è il dovere di un principe verso il suo re e il regno. Ma come uomo, padre, è così amaro e vuoto, prendere una donna scelta da mio fratello minore. Scommetto che se prima vede Regal, non mi riterrà un buon affare quando si troverà al mio fianco.» Veritas si guardò le mani, con le cicatrici delle battaglie e del lavoro che ora risaltavano chiaramente sulla pelle pallida. Sentii il suo nome risuonare nelle sue parole quando disse piano: «Sono sempre stato il vostro secondo
figlio. Dietro a Chevalier, con la sua bellezza, la forza e la saggezza. E ora dietro a Regal, con la sua astuzia e il suo fascino e tutte le arie che si dà. So che pensate che lui sarebbe un re migliore di me. Non sono sempre in contrasto con voi. Sono nato secondo e sono stato allevato per essere secondo. Ho sempre creduto che il mio posto sarebbe stato dietro al trono, non su di esso. E quando pensavo che Chevalier sarebbe stato il vostro successore, non mi dispiaceva. Mio fratello mi ha dato una grande ricchezza. La fiducia che riponeva in me era un onore; mi rendeva parte di tutto quello che realizzava. Essere la mano destra di un tale re sarebbe stato meglio che essere re di una terra minore. Credevo in lui come lui credeva in me. Ma lui non c'è più. E non credo di sorprendervi quando dico che non c'è un simile legame fra Regal a me. Forse ci sono troppi anni di differenza; forse Chevalier e io eravamo tanto vicini che non abbiamo lasciato spazio per un terzo. Ma non credo che Regal stia cercando una donna che possa amarmi. O una che...» «Sta cercando una regina!» lo interruppe brutalmente Sagace. Sapevo che non era la prima volta che discutevano di questo argomento, e avvertivo che Sagace era particolarmente seccato che io avessi sentito queste parole. «Regal non sta cercando una donna per te, o per sé, o qualcun'altra di queste sciocchezze. Sta cercando una donna che sia regina di questo paese, di questi Sei Ducati. Una donna che possa portarci la ricchezza e gli uomini e gli accordi commerciali di cui abbiamo bisogno adesso, se dobbiamo sopravvivere alle Navi Rosse. Mani morbide e un dolce profumo non costruiranno le tue navi da guerra, Veritas. Devi accantonare questa gelosia per tuo fratello; non puoi tenere a distanza il nemico se non hai fiducia in coloro che stanno dietro di te.» «Esattamente» disse Veritas in tono sommesso. Spinse indietro la sedia. «Dove vai?» domandò Sagace, irritato. «A compiere il mio dovere» disse brevemente Veritas. «Dove posso andare, altrimenti?» Per un istante, perfino Sagace parve sorpreso. «Ma hai appena toccato il cibo...» Gli mancarono le parole. «L'Arte uccide tutti gli altri appetiti. Voi lo sapete.» «Sì.» Sagace fece una pausa. «E so anche, come lo sai tu, che quando questo succede un uomo è vicino all'abisso. L'appetito per l'Arte divora, non nutre.» Entrambi sembravano avermi completamente dimenticato. Mi feci piccolo e discreto, rosicchiando il mio biscotto come un topolino in un ango-
lo. «Ma che importa se un uomo viene divorato, quando il regno è salvo?» Veritas non si curò di nascondere l'amarezza nella sua voce, e a me era chiaro che non stava parlando solo dell'Arte. Spinse via il suo piatto. «Dopo tutto,» aggiunse con pesante sarcasmo «non è che voi non abbiate un altro figlio per prendere il mio posto e portare la vostra corona. Un figlio non marchiato dagli effetti dell'Arte sugli uomini. Un figlio libero di sposarsi con chi vuole.» «Non è colpa di Regal se non sa usare l'Arte. Era un bambino malaticcio, troppo fragile perché Galen lo addestrasse. E chi avrebbe potuto prevedere che due principi addestrati nell'Arte non sarebbero stati sufficienti?» protestò Sagace. Si alzò bruscamente e passeggiò per tutta la stanza. Si affacciò al davanzale della finestra e osservò il mare sotto di sé. «Faccio quello che posso, figlio mio» aggiunse a voce più bassa. «Pensi che non mi importi, che non veda come ti stai consumando?» Veritas sospirò pesantemente. «No. Lo so. È la stanchezza dell'Arte che parla così, non io. Uno di noi, almeno, deve mantenere la mente limpida e cercare di afferrare il quadro completo di ciò che sta succedendo. Io non ho altro da fare che estendere i miei sensi e poi decidere, cercare di distinguere il nocchiero dal rematore, annusare le paure segrete che l'Arte può amplificare, trovare i cuori pavidi della ciurma e cibarsi di loro per primi. Quando dormo, li sogno, e quando cerco di mangiare, me li ritrovo conficcati in gola. Voi sapete che non mi è mai piaciuto, padre. Non mi è mai sembrato degno di un guerriero, strisciare nell'ombra e spiare le menti degli uomini. Datemi una spada ed esplorerò volentieri le loro viscere. Preferirei storpiare un uomo con un coltello che costringere i segugi della sua mente ad azzannargli i calcagni.» «Lo so, lo so» annuì gentilmente Sagace, ma non credo che lo sapesse veramente. Io, almeno, comprendevo il disgusto che Veritas provava per la sua missione. Devo ammettere che lo condividevo, e capivo che in qualche modo il principe ne era contaminato. Ma quando mi gettò un'occhiata, il mio viso e i miei occhi erano privi di qualsiasi giudizio. Più in profondità dentro di me c'era lo strisciante senso di colpa per non essere riuscito a imparare l'Arte, e quindi per non essere utile a mio zio in quel momento. Mi chiesi se guardandomi pensasse di attingere di nuovo alla mia forza. Era un pensiero spaventevole, ma mi preparai alla richiesta. Invece Veritas si limitò a sorridermi benevolo, anche se un poco assente, come se quel pensiero non gli fosse mai passato per la testa. E mentre si alzava e passa-
va vicino alla mia sedia, mi spettinò come se fossi stato Leon. «Porta fuori il mio cane per me, anche se è solo per cacciare conigli. Odio lasciarlo nelle mie stanze ogni giorno, ma il suo continuo implorare senza capire mi distraeva dal mio dovere.» Annuii, sorpreso dai sentimenti che emanavano da lui. Un'ombra dello stesso dolore che avevo provato io quando ero stato separato dai miei cani. «Veritas.» Il principe si girò alla chiamata di Sagace. «Ho quasi dimenticato di dirti perché ti ho convocato qui. Si tratta, naturalmente, della principessa delle montagne. Ketkin, credo che si chiami...» «Kettricken. Io almeno mi ricordo come si chiama. Una ragazzina ossuta, l'ultima volta che l'ho vista. Dunque, è lei che avete scelto?» «Sì. Per tutte le ragioni che abbiamo già discusso. Ed è stata fissata una data. Dieci giorni prima del Giorno del Raccolto. Dovrai lasciare la fortezza durante la prima parte del Periodo del Raccolto per arrivare in tempo. Là si terrà una cerimonia, davanti alla sua gente, che vi legherà e sancirà tutti gli accordi, e un matrimonio formale più tardi, quando tornerai qui con lei. Regal manda a dire che devi...» Veritas si era fermato, e il suo viso si era incupito di frustrazione. «Non posso. Lo sapete che non posso. Se abbandono il lavoro che sto facendo qui mentre è ancora il Periodo del Raccolto, non ci sarà più un regno a cui riportare una moglie. Gli Isolani sono sempre più avidi e più sfrenati nell'ultimo mese prima che le tempeste dell'inverno li ricaccino sulle loro maledette coste. Credete che quest'anno sarà diverso? Potrei riportare qui Kettricken per trovarli a banchettare a Castelcervo, con la vostra testa su una picca ad accogliermi!» Re Sagace apparve irritato, ma si controllò. «Credi davvero che potrebbero minacciarci a tal punto se tu abbandonassi i tuoi sforzi per una ventina di giorni?» «Ne sono sicuro» affermò stancamente Veritas. «Tanto quanto sono sicuro che in questo momento dovrei essere al mio posto, non qui a discutere con voi. Padre, dite loro che il matrimonio deve essere rimandato. Andrò a prenderla non appena avremo una buona coltre di neve sul terreno, e una fausta tormenta che ricacci a frustate tutte le loro navi ai porti.» «Non può essere» obiettò Sagace con rimpianto. «Hanno le loro usanze, è gente delle montagne. Un matrimonio stipulato in inverno porta un raccolto sterile. Dovrai prenderla in autunno quando la terra accoglie i semi, o nella tarda primavera, quando i piccoli campi di montagna vengono colti-
vati.» «Non posso. Quando la primavera arriva alle loro montagne, qui c'è il tempo bello, e abbiamo i pirati alle porte. Di certo devono capirlo!» Veritas scuoteva la testa, come un cavallo irrequieto tenuto a briglia corta. Non voleva trovarsi lì. Per quanto gli fosse spiacevole lavorare con l'Arte, essa lo chiamava. Voleva dedicarcisi, lo voleva in un modo che non aveva nulla a che fare con la protezione del suo regno. Mi chiesi se Sagace lo sapesse. Mi chiesi se lo sapesse Veritas stesso. «Capire è una cosa» spiegò il re. «Insistere perché infrangano le loro tradizioni è un'altra. Veritas, va fatto, va fatto adesso.» Sagace si strofinò la testa come se gli facesse male. «Ci serve questa unione. Ci servono i suoi soldati, i suoi doni nuziali, il sostegno di suo padre. Non si può aspettare. Non potresti magari partire in una lettiga coperta, senza doverti preoccupare del cavallo, e continuare a lavorare con l'Arte mentre viaggi? Potrebbe perfino farti bene, uscire e andare un poco in giro, prendere aria e...» «NO!» tuonò Veritas, e Sagace si girò dove si trovava, come intrappolato contro il davanzale. Veritas avanzò fino al tavolo e ci picchiò sopra il pugno, mostrando un'irritabilità che non avevo mai sospettato in lui. «No e poi no e poi no! Non posso fare il mio lavoro per tenere i pirati lontani dalle nostre coste mentre vengo sballottato in una lettiga. E no, non andrò da questa moglie che avete scelto per me, da questa donna che ricordo a malapena, in una lettiga come un invalido o un demente. Non voglio che mi veda così, e neppure voglio sentire i miei uomini che ridacchiano alle mie spalle, dicendo 'oh, guarda come è ridotto il prode Veritas, trasportato come un vecchio paralitico, ceduto a una qualche donna come una puttana delle Isole'. Dov'è finito il vostro cervello se riuscite a escogitare piani tanto stupidi? Voi siete stato fra la gente delle montagne, conoscete le loro usanze. Pensate che una delle loro donne accetterebbe un uomo così malridotto? Perfino nelle loro famiglie reali sì espongono i bambini che nascono deboli. Mandereste a monte il vostro stesso piano, e nel frattempo abbandonereste i Sei Ducati ai pirati.» «Allora forse...» «Allora forse c'è una Nave Rossa che proprio adesso è in vista di Isola Uovo, e già il suo capitano sta dubitando del brutto sogno che ha fatto la notte scorsa, e il nocchiero sta correggendo la rotta, chiedendosi come può aver confuso a tal punto le mire della nostra costa. Già tutto il lavoro che ho fatto la notte scorsa mentre voi dormivate e Regal danzava e beveva
con i suoi leccapiedi sta andando in fumo, mentre noi stiamo qui a chiacchierare inutilmente. Padre, organizzate pure questo matrimonio. Organizzatelo come volete e come potete, basta che non mi diate altro da fare che usare l'Arte mentre il tempo bello affligge le nostre coste.» Mentre parlava Veritas si stava già muovendo, e la porta sbattuta della stanza del re quasi sommerse le sue ultime parole. Sagace rimase a fissare la porta per qualche istante. Poi si passò la mano sugli occhi, strofinandoli, ma non avrei saputo dire se fosse stanchezza o lacrime o semplicemente un bruscolo. Guardò la stanza, aggrottando la fronte quando i suoi occhi mi incontrarono, come se fossi stato stranamente fuori posto. Poi, parve ricordare perché mi trovavo lì e osservò asciutto: «Dunque, è andata bene, non è vero? E comunque, bisogna trovare un sistema. E quando Veritas va a prendere la sua sposa, tu andrai con lui.» «Se lo desiderate, mio re» sussurrai. «Lo desidero.» Si schiarì la gola, poi si girò di nuovo a guardar fuori dalla sua finestra. «La principessa ha solo un fratello maggiore. Non è un uomo robusto. Oh, una volta era sano e forte, ma sui Campi Ghiacciati si è preso una freccia nel petto. Gli è passata attraverso, così è stato detto a Regal. E le ferite esterne nel petto e nella schiena sono guarite. Ma d'inverno tossisce sangue, e d'estate non può stare a cavallo né addestrare i suoi uomini per più di mezza mattina. Conoscendo la gente delle montagne, è sorprendente che sia ancora l'erede al trono. Di solito non tollerano i deboli.» Riflettei in silenzio per un momento. «Le usanze della gente delle montagne sono come le nostre. Maschi o femmine, i figli ereditano in ordine di nascita.» «Sì. È così» confermò Sagace, e sapevo che stava già pensando che sette ducati potevano essere più forti di sei. Per questo ero stato convocato a colazione. «E il padre della principessa Kettricken?» chiesi. «Come sta di salute?» «È forte e robusto quanto si potrebbe desiderare, per un uomo della sua età. Sono sicuro che regnerà bene per almeno altri dieci anni, tenendo il regno saldo e sicuro per il suo erede.» «Probabilmente per allora i nostri problemi con le Navi Rosse saranno finiti da tempo. Veritas sarà libero di rivolgere la sua mente ad altre cose.» «Probabilmente» concordò sommessamente re Sagace. I suoi occhi finalmente incontrarono i miei. «Quando Veritas va a prendere la sua sposa, tu andrai con lui. Capisci quali sono i tuoi doveri? Confido nella tua di-
screzione.» Chinai la testa. «Come desiderate, mio re.» 19 Viaggio Parlare del Regno delle Montagne come di un regno significa partire da un'incomprensione di base della zona e della gente che la abita. È altrettanto impreciso riferirsi alla regione come Chyurda, anche se i Chyurda costituiscono il popolo dominante. Piuttosto che un tratto continuo di campagna, il Regno delle Montagne è costituito di vari villaggi abbarbicati sui fianchi delle montagne, piccole valli di terreno coltivabile, centri di scambio sorti lungo le strade sconnesse che conducono ai passi, e clan di pastori e cacciatori nomadi che percorrono la campagna inospitale fra l'uno e l'altro. Un popolo tanto variegato difficilmente può unirsi, dato che i loro interessi sono spesso in conflitto. Stranamente, tuttavia, la sola forza più potente dell'indipendenza e delle tradizioni isolazionistiche di ciascun gruppo è la lealtà che portano al loro 're'. Le tradizioni ci dicono che questa linea ebbe inizio con una profetessagiudice, una donna non soltanto saggia ma anche filosofa. Fondò una teoria di governo secondo cui il capo è l'assoluto servitore del popolo, e deve essere completamente privo di interessi personali. Non ci fu un momento preciso in cui il giudice si trasformò nel re; piuttosto si trattò di una transizione graduale, man mano che si diffondeva la fama dell'onestà e della saggezza della venerabile di Jhaampe. Mentre un numero sempre crescente di persone andava a cercare consiglio in quel luogo, disposto a rispettare la decisione del giudice, fu solo naturale che le leggi di quell'insediamento finissero per essere rispettate in tutte le montagne, e che un numero sempre crescente di persone adottasse le leggi di Jhaampe come proprie. E così i giudici divennero re, ma, incredibilmente, mantennero la loro condizione di servitù autoimposta e di sacrificio di se stessi per il bene del loro popolo. La tradizione di Jhaampe è ricca di racconti di re e regine che si sacrificarono per la loro gente, in ogni possibile maniera, difendendo pastorelli da animali selvaggi o offrendosi come ostaggi in tempi di faide. Alcune storie fanno apparire la gente delle montagne come un popolo duro, quasi selvaggio. In realtà, la terra che abitano non permette compromessi, e le loro leggi rispecchiano questa condizione. È vero che i
bambini deformi vengono esposti o, più comunemente, annegati o avvelenati. Gli anziani spesso scelgono l'Isolamento, un esilio volontario dalla famiglia fino a quando il freddo e la fame pongono fine a tutte le infermità. Un uomo che infrange la parola data può subire il taglio parziale della lingua oltre che una multa di valore doppio dell'accordo violato. Tali costumi possono apparire stranamente barbarici agli abitanti dei regni più tranquilli dei Sei Ducati, ma sono particolarmente adatti al mondo del Regno delle Montagne. Alla fine, la volontà di Veritas finì con il prevalere. Non trasse dolcezza da questo trionfo, ne sono sicuro, perché la sua cocciuta insistenza fu avvalorata da un improvviso aumento nella frequenza delle scorrerie. In un mese, due villaggi furono bruciati e un totale di trentadue abitanti presi per la Forgiatura. Diciannove di essi a quanto pare portavano addosso le fiale di veleno ormai popolari, e scelsero il suicidio. Una terza città, più popolosa, fu difesa con successo, non dalle truppe reali ma da una milizia mercenaria ingaggiata e organizzata dagli abitanti. Molti dei combattenti, ironicamente, erano immigrati isolani, che mettevano a frutto uno dei loro pochi talenti. E le i mormorii contro l'apparente inattività del re aumentarono. Servì a poco cercare di spiegare il lavoro di Veritas e della confraternita. La gente aveva bisogno di navi da guerra che difendessero la costa, e le chiedeva a gran voce. Ma ci vuole tempo per costruire le navi, e i mercantili che già si trovavano in acqua erano vascelli pingui e goffi a paragone delle snelle Navi Rosse che ci tormentavano. La promessa di avere le navi da guerra entro la primavera era di scarso conforto per i contadini e gli allevatori che cercavano di proteggere i raccolti e il bestiame dell'anno. E i ducati senza sbocco sul mare protestavano sempre più rumorosamente per le tasse più pesanti richieste per difendere una costa che non apparteneva loro. Da parte loro, i signori dei Ducati della Costa si chiedevano con sarcasmo come avrebbe fatto la gente dell'interno senza i suoi porti e le navi mercantili per far circolare le proprie merci. Durante un incontro del Concilio Supremo ebbe luogo un rumoroso alterco in cui il duca Ariete di Riccaterra suggerì che non sarebbe stata una grave perdita cedere le Isole Vicine e Punta Pelliccia alle Navi Rosse se questo le avesse convinte a rallentare le loro scorrerie, e il duca Fortebraccio del ducato dell'Orso ribatté minacciando di interrompere tutto il traffico commerciale lungo il Fiume Orso, per vedere se Riccaterra la considerava una perdita altrettanto trascurabile. Re Sagace riuscì a far aggiornare il concilio prima che venissero
alle mani, ma non prima che il duca di Armento avesse reso chiaro che stava dalla parte di Riccaterra. Le linee di divisione si facevano più nette ogni mese che passava e a ogni richiesta di tasse. Chiaramente ci voleva un modo per ricostituire l'unità del regno, e Sagace era convinto che bastasse un matrimonio reale. Così Regal danzò la sua danza diplomatica, e si decise che la principessa Kettricken avrebbe pronunciato la sua promessa a Regal facente le veci del fratello, alla presenza di tutta la sua gente, e la parola di Veritas sarebbe stata data da Regal. Sarebbe seguita una seconda cerimonia a Castelcervo, naturalmente, con un'adeguata rappresentanza della gente di Kettricken come testimoni. E nel frattempo, Regal rimaneva nella capitale del Regno delle Montagne, a Jhaampe. La sua presenza là generava un flusso regolare di emissari, doni e provviste fra Castelcervo e Jhaampe. Raramente passava una settimana senza un corteo in arrivo o in partenza. Castelcervo era in continuo fermento. Mi sembrava un modo goffo e inopportuno di stipulare un matrimonio. I due si sarebbero sposati quasi un mese prima di vedersi. Ma la convenienza politica era più importante dei sentimenti dei partecipanti, e le celebrazioni separate furono organizzate. Dopo che Veritas aveva attinto alla mia forza mi ero ripreso in fretta. Mi ci volle più tempo ad afferrare del tutto che cosa mi aveva fatto Galen ottenebrandomi la mente. Credo che lo avrei affrontato, malgrado il consiglio di Veritas, ma aveva lasciato Castelcervo insieme a un corteo diretto a Jhaampe, per farsi accompagnare fino ad Armento, dove desiderava visitare alcuni parenti. Sarebbe tornato dopo la mia partenza per Jhaampe, quindi rimaneva fuori dalla mia portata. Ancora una volta, avevo troppo tempo a disposizione. Continuavo a occuparmi di Leon, che però non mi richiedeva più di un'ora o due ogni giorno. Non ero stato in grado di scoprire di più sull'attacco a Burrich, e neanche Burrich dava segno di volermi riammettere alla sua presenza. Avevo fatto un giro a Borgo Castelcervo, ma quando mi capitò di passare davanti alla bottega delle candele, la trovai sbarrata e silenziosa. Chiesi al negoziante accanto e scoprii che la bottega era chiusa da dieci giorni e anche più, e che se non volevo comprare finimenti di cuoio potevo andare altrove e smettere di seccarlo. Pensai al giovane che avevo visto l'ultima volta con Molly, e amaramente augurai loro discordia. Dato che mi sentivo solo, decisi di andare a cercare il Matto. Non avevo mai cercato di provocare un incontro con lui. Si rivelò più elusivo di quan-
to avessi potuto immaginare. Dopo aver girato per alcune ore per la fortezza, a caso, sperando di incontrarlo, mi feci abbastanza audace da andare nella sua stanza. Sapevo da anni dove si trovava, ma non c'ero mai stato, e non solo perché si trovava in una zona remota della fortezza. Il Matto non invitava alla confidenza, tranne quella che sceglieva di offrire, e solo quando decideva di offrirla. Viveva in cima a una torre. Piuma mi aveva detto che un tempo era stata una stanza delle mappe e aveva offerto una vista perfetta sul territorio attorno a Castelcervo, ma successive aggiunte alla fortezza avevano bloccato la vista, e torri più alte l'avevano soppiantata. Aveva perso la sua utilità, se non come alloggio di un Matto. Ci salii quel giorno, verso l'inizio del tempo del raccolto. Era già una giornata torrida e appiccicosa. La tromba delle scale era tutta chiusa, e le scarse feritoie servivano solo a illuminare le particelle di polvere che danzavano nell'aria tranquilla, sollevate dai miei passi. Dapprima l'oscurità era parsa un ristoro dall'afa del resto della fortezza, tuttavia man mano che salivo la torre sembrava farsi più calda e angusta, quindi quando raggiunsi l'ultimo pianerottolo mi sembrava che non fosse rimasta aria da respirare. Sollevai un pugno stanco e battei sulle assi solide della porta. «Sono io, Fitz!» chiamai, ma l'aria calda e immobile smorzò la mia voce come una coperta bagnata su una fiamma. Posso usarla come scusa? Posso dire di aver pensato che non mi sentisse, e di essere entrato per vedere se c'era? O dirò che ero talmente accaldato e assetato da voler cercare una boccata d'aria o un sorso d'acqua nelle sue stanze? La ragione non importa, suppongo. Misi la mano sul saliscendi della porta, lo sollevai ed entrai. «Matto?» chiamai, ma potevo avvertire che non c'era. Non come percepivo normalmente la presenza o l'assenza della gente, ma per il silenzio che vi trovai. Eppure rimasi sulla soglia a bocca aperta, davanti a un'anima messa a nudo. Lì c'era luce, e fiori, e colori a profusione. C'era un telaio in un angolo, e ceste di bel filo sottile in tinte brillantissime. Il copriletto e le tende alle finestre aperte erano diverse da qualsiasi cosa avessi mai visto, intessute in disegni geometrici che in qualche modo suggerivano campi di fiori sotto un cielo azzurro. Un'ampia ciotola di ceramica ospitava fiori galleggianti e un sottile pesciolino argenteo nuotava fra i gambi e sopra ai sassolini lucenti che ne rivestivano il fondo. Provai a immaginare il pallido e cinico Matto in mezzo a tutto quel colore e arte. Avanzai ancora di un passo nella
stanza, e vidi qualcosa che mi fece vacillare il cuore in petto. Un bambino. Dapprima mi parve proprio questo, e senza riflettere mossi altri due passi e mi inginocchiai accanto alla cesta che l'ospitava. Ma non era un bambino vero, piuttosto una bambola, realizzata con tale incredibile abilità che quasi mi aspettavo di vedere il piccolo petto sollevarsi nel respiro. Tesi la mano verso il pallido volto delicato, ma non osai toccarlo. La curva della fronte, le palpebre chiuse, il debole colore rosato sulle guance minuscole, perfino la manina appoggiata sulle coperte erano più perfette di qualsiasi cosa creata dall'uomo. Non riuscii a immaginare in quale delicata argilla fosse stato realizzato, o quale mano avesse tracciato le minuscole ciglia che si curvavano sulle guance. Il piccolo copriletto era ricamato interamente di viole del pensiero, e il cuscino era di raso. Non so per quanto tempo rimasi inginocchiato lì, in silenzio, come se fosse stato davvero un bambino addormentato. Ma alla fine mi alzai. Indietreggiai uscendo dalla stanza del Matto, e mi richiusi piano la porta alle spalle. Scesi lentamente la miriade di gradini, lacerato fra il timore di incontrare il Matto che saliva, e oppresso dalla consapevolezza di aver scoperto un abitante della fortezza che era almeno solo quanto me. Umbra mi convocò quella notte, ma quando andai da lui pareva non avere altro scopo che vedermi. Sedemmo quasi in silenzio davanti al focolare nero, e io pensai che sembrava più vecchio che mai. Come Veritas era divorato, così Umbra era consumato. Le mani ossute apparivano quasi disseccate, il bianco degli occhi iniettato di sangue. Aveva bisogno di dormire, e invece aveva scelto di chiamarmi. Eppure sedeva lì, immobile e silenzioso, mangiucchiando il cibo che aveva messo in tavola. Alla fine, decisi di aiutarlo. «Temi che non sarò capace di farlo?» gli chiesi piano. «Fare cosa?» chiese con fare assente. «Uccidere il principe delle montagne. Rurisk.» Umbra si girò per guardarmi dritto in faccia. Il silenzio continuò per un lungo momento. «Non sapevi che re Sagace mi ha affidato questo incarico?» balbettai. Lentamente Umbra si rivolse di nuovo al focolare vuoto, e lo studiò attentamente come per leggere in fiamme invisibili. «Io sono solo l'artigiano che realizza lo strumento» disse infine, sommessamente. «Altri usano ciò che io creo.» «Credi che sia una missione... cattiva? Sbagliata?» Trassi un respiro. «Da quello che mi hanno detto, non gli rimane molto da vivere in ogni
caso. Potrebbe quasi essere una misericordia, se la morte arrivasse tranquillamente nella notte, invece di...» «Ragazzo» commentò Umbra con calma. «Non fingere mai di essere qualcosa di diverso da ciò che sei. Noi siamo assassini. Non agenti misericordiosi di un re saggio. Assassini politici che infliggono la morte per sostenere la nostra monarchia. Ecco cosa siamo.» Ora ero io a studiare i fantasmi delle fiamme. «Me lo stai rendendo molto difficile. Più difficile di quanto già non fosse. Perché? Perché mi hai trasformato in ciò che sono, se poi cerchi di indebolire la mia risoluzione...» La mia domanda si spense mentre ancora la stavo formulando. «Io penso... non importa. Forse è una specie di gelosia in me, ragazzo mio. Probabilmente mi chiedo perché Sagace usi te invece di me. Forse ho paura di non essere più utile al re. Forse, ora che ti conosco, vorrei non aver mai cominciato a trasformarti in quello che...» E fu il turno di Umbra di rimanere in silenzio, mentre i suoi pensieri andavano dove le parole non potevano seguirli. Considerammo la mia missione. Non si trattava di impartire la giustizia del re. Non era una sentenza di morte per un crimine. Era la semplice rimozione di un ostacolo verso un potere più grande. Rimasi seduto immobile fino a quando non cominciai a chiedermi se l'avrei fatto. Poi sollevai gli occhi al coltello da frutta d'argento affondato nella mensola del camino di Umbra, e pensai di conoscere la risposta. «Veritas ha protestato in tuo favore» disse improvvisamente Umbra. «Protestato?» chiesi debolmente. «Con Sagace. Primo, per il fatto che Galen ti ha maltrattato e ti ha imbrogliato. Ha esposto formalmente la sua protesta, dicendo che ha privato il regno della tua Arte, in un momento in cui sarebbe stata particolarmente utile. Ha suggerito a Sagace, in maniera informale, di risolvere lui stesso la faccenda con Galen, prima che la prenda in mano tu.» Guardando il viso di Umbra, capii che gli era stato rivelato tutto il contenuto della mia discussione con Veritas. Non ero sicuro di come reagire. «Non lo farei, non mi vendicherei di Galen. Non dopo che Veritas mi ha chiesto di non farlo.» Umbra mi rivolse uno sguardo di silenziosa approvazione. «Così ho risposto a Sagace. Ma mi ha detto di riferirti che se ne occuperà lui. Questa volta è il re ad amministrare la sua giustizia. Dovrai aspettare e considerarti soddisfatto.» «Che cosa farà?»
«Questo non lo so. Non credo che lo sappia neanche Sagace, per ora. Quell'uomo va ammonito. Ma dobbiamo tenere a mente che, se bisogna addestrare altre confraternite, Galen non deve sentirsi troppo bistrattato.» Umbra si schiarì la gola, e disse più sommessamente: «E Veritas ha esposto anche un'altra protesta al re. Ha accusato Sagace e me, abbastanza brutalmente, di essere disposti a sacrificarti per amore del regno.» Improvvisamente capii che era per questo che Umbra mi aveva chiamato quella notte. Rimasi in silenzio. Umbra parlò più lentamente. «Sagace ha affermato di non averlo neppure considerato. Da parte mia, non avevo idea che una cosa del genere fosse possibile.» Sospirò di nuovo, come se separarsi da quelle parole gli costasse molto. «Sagace è un re, ragazzo mio. La sua prima preoccupazione è sempre per il suo regno.» Il silenzio fra noi si prolungò. «Stai dicendo che mi sacrificherebbe. Senza remore.» Umbra non staccò gli occhi dal camino. «Te. Me. Perfino Veritas, se lo ritenesse necessario alla sopravvivenza del regno.» Poi si girò a guardarmi. «Non dimenticarlo mai.» La sera prima che il corteo nuziale lasciasse Castelcervo, Trina venne a bussare alla mia porta. Era tardi, e quando mi disse che Pazienza desiderava vedermi, chiesi scioccamente: «Adesso?» «Ebbene, domani parti» mi fece notare Trina, e io la seguii obbediente, come se fosse stato molto logico. Trovai Pazienza seduta in una sedia imbottita, con una vestaglia bizzarramente ricamata sopra alla camicia da notte. Aveva i capelli sciolti sulle spalle, e quando mi sedetti dove mi indicava, Trina ricominciò a spazzolarglieli. «Ho aspettato che tu venissi a scusarti con me» osservò Pazienza. Immediatamente aprii la bocca per farlo, ma la dama mi accennò di rimanere in silenzio con un gesto irritato. «Tuttavia, discutendone stanotte con Trina, ho scoperto che ti avevo già perdonato. Ho concluso che i ragazzi devono semplicemente esprimere un dato ammontare di villania. Ho deciso che non intendevi fare del male, quindi non devi scusarti.» «Ma a me dispiace» protestai. «Semplicemente non riuscivo a trovare le parole...» «È troppo tardi per scusarsi adesso, ti ho perdonato» affermò Pazienza vivacemente. «E poi, non c'è tempo. Sono sicura che a quest'ora dovresti
essere a dormire. Ma dato che questo sarà il tuo primo vero incontro con la vita di corte, volevo darti qualcosa prima che tu te ne andassi.» Aprii la bocca, poi la richiusi. Se voleva considerare questo viaggio come il mio primo vero incontro con la vita di corte, non avevo intenzione di discutere con lei. «Siediti qui» disse imperiosamente, e indicò un punto vicino ai suoi piedi. Mi sedetti obbediente. Per la prima volta, notai che aveva in grembo una scatoletta. Era di legno scuro, e sul coperchio era intagliato un cervo in bassorilievo. Mentre la dama l'apriva, colsi per un attimo il profumo del legno aromatico. Pazienza estrasse un orecchino a bottone e me lo avvicinò all'orecchio. «Troppo piccolo» borbottò. «Che senso ha indossare gioielli se nessun altro può vederli?» Ne prese e ne scartò diversi, con commenti analoghi. Finalmente ne tirò fuori uno che era simile a un pezzo di rete d'argento con impigliata una pietra blu. Fece una smorfia, poi annuì con riluttanza. «Quell'uomo ha buon gusto. Qualunque altra cosa gli manchi, ha buon gusto.» Me lo accostò di nuovo all'orecchio, e senza il minimo preavviso cacciò il gancio attraverso il lobo. Urlai e mi schiacciai una mano sull'orecchio, ma Pazienza l'allontanò con una manata. «Non fare il bambino. Brucerà solo per un minuto.» Una specie di chiusura assicurava l'orecchino sul retro, e senza pietà la dama mi piegò l'orecchio fra le dita per allacciarla. «Ecco. Gli dona molto, non pensi anche tu, Trina?» «Decisamente» concordò Trina sopra al suo eterno chiacchierino. Pazienza mi liquidò con un gesto. Mentre mi alzavo per andarmene, disse: «Ricordati questo, Fitz. Che tu sappia usare l'Arte o no, che tu porti il suo nome o no, sei il figlio di Chevalier. Fai in modo di comportarti con onore. Ora vai a dormire un poco.» «Con questo orecchio?» chiesi, mostrandole il sangue sulle dita. «Non ci avevo pensato. Mi dispiace...» cominciò Pazienza. «È troppo tardi per scusarsi. Vi ho già perdonata. E grazie.» Trina stava ancora ridacchiando quanto me ne andai. Mi alzai presto al mattino dopo, per prendere il mio posto nel corteo nuziale. Portavamo ricchi doni come pegno del nuovo legame fra le famiglie. Alla principessa Kettricken stessa andava una cavalla purosangue, gioielli, stoffa per vestiti, servitori e rari profumi. E poi c'erano i doni per la sua famiglia e la sua gente. Cavalli e falchi e oro lavorato per suo padre e suo fratello, ovviamente, ma i doni più importanti erano quelli offerti al suo
regno, perché, in accordo con le tradizioni di Jhaampe, la principessa apparteneva al suo popolo più che alla sua famiglia. E così c'erano animali da riproduzione, bovini, pecore, cavalli e pollame, e potenti archi di tasso che la gente delle montagne non aveva, e attrezzi per lavorare il metallo fatti di buon ferro di Forgia, e altri doni che dovevano servire a migliorare le condizioni di vita della gente delle montagne. E poi c'era la conoscenza, sottoforma di alcuni dei migliori erbari miniati di Piuma, diverse tavolette mediche, e una pergamena sulla caccia con il falco che era la copia attenta di un trattato composto da Falconiere in persona. Questi ultimi doni erano ufficialmente la ragione per cui accompagnavo il corteo. Erano stati affidati alla mia custodia, insieme a una generosa scorta delle erbe e delle radici menzionate nell'erbario, e di semi per far crescere quelle che non si conservavano bene. Non era un dono banale, e presi seriamente la responsabilità di consegnarlo sano e salvo, tanto quanto prendevo sul serio l'altra mia missione. Tutto fu attentamente confezionato e poi deposto in uno scrigno di cedro intagliato. Stavo controllando per l'ultima volta i pacchetti prima di portare lo scrigno nel cortile quando sentii il Matto dietro di me. «Ti ho portato questo.» Mi girai e lo trovai in piedi appena oltre la soglia della mia stanza. Non avevo neppure sentito la porta aprirsi. Mi stava offrendo un sacchetto di cuoio chiuso da legacci. «Che cos'è?» chiesi, e cercai di nascondergli sia i fiori che la bambola nel tono della mia voce. «Purga marina.» «Un emetico? Come dono nuziale? Suppongo che alcuni lo troverebbero appropriato, ma le erbe che porto possono essere piantate e coltivate nelle montagne. Non credo...» «Non è un dono nuziale. È per te.» Presi il sacchetto con sentimenti contrastanti. Era una purga eccezionalmente potente. «Grazie per aver pensato a me. Ma di solito non sono soggetto alle malattie dei viaggiatori, e...» «Di solito, quando viaggi, non corri il rischio di venire avvelenato.» «C'è qualcosa che stai cercando di dirmi?» Cercai di usare un tono leggero e brillante. Stavolta mi mancavano le solite facce sarcastiche e le prese in giro del Matto. «Solo che saresti saggio a mangiare poco, o niente del tutto, se il cibo non è preparato da te.» «A tutte le feste e festeggiamenti che ci saranno?»
«No. Solo a quelli in cui desideri sopravvivere.» Si girò per andarsene. «Mi dispiace» dissi frettolosamente. «Non intendevo essere invadente. Ti stavo cercando, e avevo tanto caldo, e la porta non aveva il catenaccio, quindi sono entrato. Non intendevo ficcare il naso.» Mi dava la schiena e non si girò mentre chiedeva: «E ti è piaciuto?» «Io...» Non riuscivo a pensare a qualcosa da dire, a un modo per rassicurarlo che quello che avevo visto lassù sarebbe rimasto chiuso nella mia mente. Mosse due passi e stava accostando la porta. Sbottai: «Mi ha fatto desiderare che ci fosse un posto che mi assomiglia tanto quanto la tua stanza assomiglia a te. Un posto che terrei altrettanto segreto.» La porta si fermò un istante prima di chiudersi. «Accetta qualche consiglio, e potresti sopravvivere a questo viaggio. Quando consideri i motivi di un uomo, ricorda di non misurare il suo grano con il tuo secchio. Potrebbe non usare affatto la stessa unità di misura.» La porta si chiuse, e il Matto era scomparso. Ma le sue ultime parole criptiche e frustranti mi fecero pensare che forse mi aveva perdonato l'invasione. Mi cacciai la purga marina nel giustacuore. Non la volevo, ma adesso avevo paura a lasciarla a casa. Gettai un'occhiata in giro per la stanza, ma come sempre era un luogo spoglio e pratico. Madama Presta si era occupata di prepararmi i bagagli, non fidandosi a lasciarmi in mano i miei nuovi vestiti. Avevo notato che il cervo con la sbarra sul mio stemma era stato sostituito da un cervo con le corna abbassate per caricare. «Lo ha ordinato Veritas» fu tutto quello che disse la sarta quando glielo chiesi. «Mi piace di più del cervo barrato. E a te?» «Suppongo di sì» replicai, e quella fu la fine della questione. Un nome e uno stemma. Annuii fra me e me, mi misi sulle spalle il mio scrigno di erbe e pergamene, e scesi per unirmi al corteo. Per le scale incontrai Veritas che saliva. Dapprima quasi non lo riconobbi, perché camminava come un vecchio artritico. Mi spostai per lasciarlo passare, e poi lo ravvisai quando mi gettò un'occhiata. È strano scambiare per uno sconosciuto un uomo un tempo familiare. Notai che adesso i vestiti gli pendevano addosso, e i cespugliosi capelli scuri che ricordavo erano spruzzati di grigio. Mi sorrise con fare assente, e poi, come se gli fosse venuto in mente d'un tratto, mi fermò. «Stai partendo per il Regno delle Montagne? Per la cerimonia nuziale?» «Sì.» «Vuoi farmi un favore, ragazzo?»
«Naturalmente» dissi, sorpreso dalla ruggine nella sua voce. «Parlale bene di me. Sinceramente, bada; non chiedo bugie. Ma parla bene di me. Ho sempre pensato che tu avessi una buona opinione di me.» «È vero» ammisi alla sua schiena che si allontanava. «È vero, signore.» Ma lui non si girò e non rispose, e io mi sentii come quando il Matto mi aveva lasciato. Il cortile brulicava di uomini e animali. Questa volta non c'erano carri; le strade che conducevano nelle montagne erano notoriamente cattive, e si era deciso che avrebbero dovuto bastare le bestie da soma per viaggiare velocemente. Non era bene che il seguito reale arrivasse in ritardo al matrimonio; era già abbastanza brutto che lo sposo non partecipasse. Le greggi e le mandrie erano state mandate giorni prima. Ci aspettavamo che il nostro viaggio richiedesse due settimane, e ne avevamo a disposizione tre. Mi occupai di far legare lo scrigno di cedro su un mulo, e poi rimasi ad aspettare vicino a Fuliggine. Perfino nel cortile pavimentato la polvere si sollevava fitta nella torrida aria estiva. Malgrado tutta l'accurata programmazione il corteo sembrava nel caos. Intravidi Trancia, il valletto preferito di Regal. Regal lo aveva rimandato a Castelcervo un mese prima, con istruzioni specifiche su certi abiti che aveva bisogno di farsi fare. Trancia seguiva Mani, tentennando e facendo rimostranze e, di qualunque cosa si trattasse, Mani sembrava spazientito. Quando madama Presta mi aveva dato le ultime istruzioni su come prendermi cura dei miei nuovi abiti, aveva anche rivelato che Trancia si portava tanti nuovi abiti, cappelli e accessori per Regal che gli erano stati assegnati tre muli. Immaginai che la cura dei tre animali fosse toccata a Mani, dato che Trancia era un eccellente valletto, ma timoroso alla presenza degli animali grossi. Borrasca, il braccio destro di Regal, li seguiva minaccioso, con aria fosca e impaziente. Sull'ampia spalla portava ancora un altro baule, e forse era quell'ulteriore bagaglio che infastidiva Trancia. Presto li persi nella folla. Fui sorpreso di trovare Burrich che controllava le cavezze dei cavalli da riproduzione e della cavalla per la principessa. Certamente avrebbe potuto farlo il responsabile dei cavalli, pensai. E poi, quando lo vidi montare in sella, compresi che anche lui avrebbe fatto parte della processione. Mi guardai attorno per vedere chi lo accompagnava, ma non scorsi nessuno degli stallieri che conoscevo, a parte Mani... Roano era già a Jhaampe con Regal. Così Burrich si era addossato quel compito. Non ne ero sorpreso. Augusto era lì, a cavallo di una bella puledra grigia, e attendeva con impassibilità quasi inumana. Già il tempo trascorso nella confraternita lo a-
veva cambiato. Era stato un ragazzo grassoccio, silenzioso ma simpatico. Aveva gli stessi capelli neri e cespugliosi di Veritas, e avevo sentito dire che somigliava al cugino da ragazzo. Riflettei che con l'aumentare dei suoi doveri di praticante dell'Arte probabilmente avrebbe finito per assomigliare a Veritas ancora di più. Sarebbe stato presente al matrimonio, come una specie di finestra per Veritas mentre Regal pronunciava le promesse di matrimonio da parte di suo fratello. Regal era la voce, Augusto gli occhi, meditai fra me. Io chi ero? Il pugnale? Montai in sella a Fuliggine, soprattutto per allontanarmi dalla gente che si scambiava addii e raccomandazioni dell'ultimo minuto. Pregai Eda che ci mettessimo in strada. Parve volerci un'eternità per formare la fila tortuosa e per finire di legare e fissare i fagotti. E poi, quasi improvvisamente, gli stendardi furono alzati, suonò un corno, e la linea di cavalli, muli carichi e persone cominciò a muoversi. Alzai lo sguardo una volta, e vidi che Veritas era addirittura uscito sulla cima della torre e ci stava guardando partire. Gli feci un cenno, ma dubito che mi abbia riconosciuto in mezzo a tanti. E poi eravamo fuori dalle porte, e salivamo lungo i tornanti fra le colline che conducevano lontano da Castelcervo e verso ovest. Il nostro sentiero ci avrebbe portati a risalire le rive del fiume Cervo, da guadare dove era più ampio e meno profondo, vicino al confine con il ducato di Armento. Da lì avremmo attraversato le ampie pianure di Armento, in un caldo ustionante che non avevo mai conosciuto, fino al Lago Blu. Dal Lago Blu avremmo seguito un fiume chiamato semplicemente Freddo che aveva le sorgenti nel Regno delle Montagne. Dal Guado del Freddo cominciava la strada mercantile che conduceva fra le ombre delle montagne e saliva, sempre di più, fino a Passo Tempesta, e di lì alle fitte foreste verdi delle Giungle della Pioggia. Non saremmo arrivati fin là, ma ci saremmo fermati a Jhaampe, la cosa più vicina a una città che il Regno delle Montagne possedesse. In un certo senso, fu un viaggio privo di avvenimenti, se si trascura tutto ciò che inevitabilmente avviene durante simili viaggi. Dopo i primi tre giorni o giù di lì, tutto si assestò in una quotidianità decisamente monotona, variata soltanto dai diversi paesaggi. In ogni piccolo villaggio o paese lungo la strada la gente veniva fuori ad accoglierci, presentando i loro auguri e felicitazioni ufficiali per i festeggiamenti nuziali del principe ereditario. Ma quando raggiungemmo le vaste pianure di Armento, i villaggi si fecero radi. Le ricche fattorie e città commerciali del ducato erano lontane, a
nord del nostro percorso, lungo il Fiume Vin. Percorremmo le pianure abitate soprattutto da pastori nomadi, che creavano insediamenti soltanto nei mesi d'inverno quando si stabilivano lungo le vie commerciali per quella che chiamavano 'la stagione verde'. Oltrepassammo mandrie di pecore, capre, e cavalli; o, più raramente, i pericolosi maiali selvatici che chiamavano haragar. Tuttavia il nostro contatto con la gente di quella regione era di solito limitato alla vista delle loro tende coniche in lontananza, o di qualche pastore dritto sulla sella, che sollevava il vincastro in segno di saluto. Mani e io rinfrescammo la nostra amicizia. Dividevamo il cibo e un piccolo fuoco da campo alla sera, e lui mi raccontava delle continue preoccupazioni di Trancia: la polvere che si infilava nelle vesti di seta, e tenere lontane le tarme dai colli di pelliccia, e il velluto che poteva consumarsi durante il lungo viaggio. Quanto a Borrasca, lo vedeva a tinte più fosche. Io stesso non ne conservavo buoni ricordi, e Mani lo considerava un compagno di viaggio opprimente, dato che Borrasca sembrava sempre sospettarlo di rubare dai bagagli di Regal. Una sera Borrasca si spinse fino al nostro fuoco, dove pronunciò laboriosamente un vago e indiretto ammonimento contro chiunque cospirava per derubare il suo padrone. Il tempo bello reggeva, e se sudavamo di giorno la notte era abbastanza piacevole. Dormivo sdraiato sopra la coperta, e raramente mi preoccupavo di trovare altro riparo. Ogni sera controllavo i contenuti del mio scrigno, e facevo del mio meglio per evitare che le radici si seccassero completamente e che le pergamene e le tavolette si schiacciassero per lo spostarsi del carico. Una notte mi svegliai sentendo Fuliggine che nitriva rumorosamente, e mi parve che lo scrigno di cedro non fosse esattamente dove l'avevo messo. Ma un breve controllo dimostrò che tutto era in ordine, e quando lo menzionai a Mani, lui si limitò a chiedermi se stavo lasciandomi contagiare da Borrasca. I villaggi e le mandrie che oltrepassavamo ci fornivano spesso cibo fresco, con grande generosità, quindi soffrimmo ben poche privazioni durante il viaggio. L'acqua fresca non era abbondante come avremmo voluto durante l'attraversamento di Armento, ma ogni giorno trovavamo qualche sorgente o pozzo polveroso a cui abbeverarci, quindi anche quello non fu un grosso problema. Vidi Burrich molto poco. Si alzava prima degli altri e precedeva la carovana principale, in modo che i suoi protetti trovassero l'erba migliore da brucare e l'acqua più pulita. Evidentemente voleva che i suoi cavalli fosse-
ro in condizioni smaglianti all'arrivo a Jhaampe. Anche Augusto era quasi invisibile. Sebbene fosse tecnicamente il comandante della spedizione, lasciava l'organizzazione al capitano della sua guardia d'onore. Non riuscivo a capire se lo facesse per saggezza o per pigrizia. In ogni caso, se ne stava per lo più per conto proprio, anche se permetteva a Trancia di occuparsi di lui e di dividere la sua tenda e i suoi pasti. Per me era quasi un ritorno all'infanzia. Le mie responsabilità erano molto limitate. Mani era un compagno allegro, e bastava poco per spingerlo a frugare nella sua vasta provvista di racconti e pettegolezzi. A volte trascorrevo quasi l'intera giornata prima che ricordassi che, alla fine di quel viaggio, avrei ucciso un principe. Tali pensieri di solito mi venivano quando mi svegliavo nelle ore più buie della notte. Il cielo di Armento sembrava molto più fitto di stelle della notte sopra a Castelcervo, e io le fissavo e mentalmente ripassavo i modi per eliminare Rurisk. C'era un altro scrigno, minuscolo, impacchettato accuratamente dentro la sacca che conteneva i miei vestiti e gli effetti personali. Lo avevo preparato con grande preoccupazione e ansia, poiché quella missione andava eseguita alla perfezione. Doveva essere un lavoro pulito, che non sollevasse il minimo sospetto. E il tempismo era di importanza critica. Il principe non doveva morire mentre eravamo a Jhaampe. Nulla doveva gettare la minima ombra sugli sponsali. E neppure doveva morire prima che la cerimonia fosse conclusa a Castelcervo e il matrimonio regolarmente consumato, perché poteva sembrare un cattivo presagio per la coppia. Non sarebbe stato facile organizzare la sua morte. A volte mi chiedevo perché la missione fosse stata affidata a me invece che a Umbra. Era una specie di prova, e se l'avessi fallita sarei stato messo a morte io stesso? Forse Umbra era troppo vecchio per questa sfida, o troppo prezioso per essere messo a repentaglio? Forse non poteva smettere di occuparsi della salute di Veritas? E quando strappavo la mia mente da queste domande, tornavo a chiedermi se usare una polvere che avrebbe irritato i polmoni danneggiati di Rurisk per farlo soffocare a morte. Forse potevo cospargerne il suo cuscino e il letto. O dovevo offrirgli un rimedio contro il dolore, che lo avrebbe reso dipendente e lo avrebbe attirato verso una morte nel sonno? Avevo un tonico che diluiva il sangue. Se i suoi polmoni già sanguinavano in maniera cronica, sarebbe potuto bastare quello per dargli il colpo finale. Possedevo anche un veleno rapido e mortale e insapore come l'acqua, se avessi trovato un sistema per essere sicuro di farglielo incontrare in un momento sufficientemente lontano nel tempo.
Nessuno di questi pensieri conciliava il sonno, eppure di solito l'aria fresca e la fatica di cavalcare tutto il giorno bastavano a contrastarli, e spesso mi svegliavo al mattino, elettrizzato dal nuovo giorno di viaggio. Quando finalmente avvistammo il Lago Blu, fu come un miracolo in lontananza. Da anni non mi trovavo così lontano dal mare per tanto tempo, e fui sorpreso dall'impressione che mi fece. Ogni animale nella carovana dei bagagli riempì i miei pensieri con l'odore pulito dell'acqua. Il panorama divenne più verde e più dolce mentre ci avvicinavamo al grande lago, e dovevamo stare attenti a impedire ai cavalli di ingozzarsi d'erba durante la notte. Schiere di barche a vela svolgevano i loro commerci sul Lago Blu, e i colori delle vele indicavano non solo la merce che vendevano ma la famiglia per cui navigavano. Gli insediamenti lungo il lago erano costruiti su palafitte. Fummo accolti favorevolmente, e banchettammo a pesce d'acqua dolce, che aveva un sapore strano per il mio palato abituato ai pesci del mare. Mi sentivo un grande viaggiatore, e Mani e io fummo quasi travolti dall'opinione che avevamo di noi stessi quando una notte alcune ragazze dagli occhi verdi, di una famiglia di commercianti di grano, arrivarono ridendo al nostro fuoco. Avevano portato con loro piccoli tamburi dai colori brillanti, e ciascuno emetteva una nota differente; suonarono e cantarono per noi fino a quando le loro madri vennero a cercarle e le riportarono a casa fra mille rimproveri. Fu un'esperienza esaltante, e quella notte non pensai affatto al principe Rurisk. Ora viaggiavamo verso ovest e verso nord, trasportati attraverso il Lago Blu su chiatte che mi sembravano del tutto inaffidabili. Sull'altra riva ci ritrovammo improvvisamente in terre boscose, e i giorni caldi di Armento divennero un lontano ricordo. Il nostro sentiero ci condusse attraverso immensi boschi di cedri, punteggiati qua e là da macchie di betulle bianche e spruzzati di ontani e salici nelle zone un tempo bruciate. Gli zoccoli dei nostri cavalli rimbombavano sulla terra nera del sentiero nella foresta, e gli odori dolci dell'autunno ci circondavano. Notammo uccelli insoliti, e un giorno scorsi un grande cervo di un colore e aspetto che non avevo mai visto e non vidi mai più. I cavalli non trovavano da brucare di notte, e fummo contenti del grano che avevamo portato dalla gente del lago. Di notte accendevamo i fuochi, e Mani e io condividemmo una tenda. Ormai la nostra via ci conduceva costantemente verso l'alto. Salimmo tortuosamente fra i pendii più ripidi, e sicuramente stavamo addentrandoci fra le montagne. Un pomeriggio incontrammo una delegazione da Jhaam-
pe, mandata ad accoglierci e a guidarci. Da quel momento ci parve di viaggiare più in fretta, e ogni sera venivamo intrattenuti da musicisti, poeti e giocolieri, e banchettavamo con le prelibatezze che ci offrivano. Fu fatto ogni sforzo per accoglierci e onorarci. Eppure, li trovai piuttosto strani e quasi spaventosi nelle loro differenze. Spesso fui costretto a ricordare quello che mi avevano insegnato tanto Burrich che Umbra riguardo alle belle maniere, mentre il povero Mani si isolò quasi completamente da questi nuovi compagni di viaggio. Fisicamente, la maggior parte erano Chyurda, ed erano come me li ero aspettati: gente alta e pallida, con occhi e capelli chiari, e alcuni con i capelli rossi come il pelo di una volpe. Erano un popolo muscoloso, le donne quanto gli uomini. Tutti sembravano portare un arco o una fionda, ed erano palesemente più a loro agio a piedi che a cavallo. Vestivano di lana e cuoio, e perfino i più umili indossavano belle pellicce come se fossero state camicie fatte in casa. Avanzavano a lunghi passi accanto a noi, e sembravano non trovare alcuna difficoltà a mantenere per tutto il giorno il ritmo dei nostri cavalli. Camminavano cantando lunghe canzoni in un'antica lingua che sembrava quasi luttuosa, eppure punteggiate da grida di vittoria o di gioia. In seguito scoprii che ci stavano cantando la loro storia, in modo che potessimo conoscere meglio a che genere di popolo il nostro principe ci stava unendo. Dedussi che erano, per la maggior parte, menestrelli e poeti, gli 'ospitali', come si chiamavano nella loro lingua, tradizionalmente mandati ad accogliere i visitatori e a renderli felici di essere venuti ancor prima di arrivare. Nei due giorni successivi il nostro sentiero si allargò, dato che altri sentieri e strade vi si immettevano con l'avvicinarsi a Jhaampe. Divenne un'ampia strada commerciale, a volte pavimentata di ciottoli di pietra bianca. E più ci avvicinavamo, più nutrita diventava la nostra processione, perché fummo raggiunti da contingenti di villaggi e tribù che si riversavano dalle zone più distanti del Regno delle Montagne per vedere la loro principessa unirsi in matrimonio al potente principe delle terre basse. Ben presto, fra cani e cavalli e una specie di capra che usavano come bestia da soma, fra carri carichi di doni e gente di ogni tipo e condizione che ci seguiva con tutta la famiglia o in gruppi dietro di noi, arrivammo a Jhaampe. 20 Jhaampe
«... e così lasciateli venire, la gente a cui io appartengo, e quando raggiungono la città, che possano sempre dire: 'Questa è la nostra città e la nostra casa, finché desidereremo restare'. Che ci siano sempre spazi, che (parole illeggibili) - delle mandrie e delle greggi. Allora non ci saranno stranieri a Jhaampe, ma soltanto vicini e amici, che vanno e vengono come desiderano.» E il volere del Sacrificio fu osservato in questa, come in tutte le cose. Così lessi anni dopo, nel frammento di una tavoletta sacra dei Chyurda, e in tal modo finalmente giunsi a capire Jhaampe. Ma quella prima volta, mentre cavalcavamo su per le colline verso la città, rimasi deluso e insieme sbigottito da quello che vedevo. I templi, i palazzi e gli edifici pubblici mi ricordavano immensi boccioli chiusi di tulipani, sia nel colore che nella forma. La forma deriva dai ripari un tempo tradizionali di pelle tesa dei nomadi che fondarono la città; il colore puramente all'amore della gente delle montagne per i colori in ogni cosa. Ogni edificio era stato ridipinto di fresco in vista del nostro arrivo e delle nozze della principessa, e quindi tutti splendevano m modo quasi accecante. Le sfumature di viola sembravano dominanti, sottolineate dal giallo, ma vi erano rappresentati tutti i colori. La vista di Jhaampe si potrebbe paragonare, forse, alla scoperta di una macchia di crochi che cresce fra la neve e la terra nera, poiché le rocce spoglie e nere delle montagne e i sempreverdi scuri fanno risaltare lo splendore degli edifici. Inoltre, la città stessa è costruita su una zona ripida esattamente come Borgo Castelcervo, quindi, quando qualcuno la contempla dal basso, i suoi colori e le sue linee appaiono in strati, come un'abile composizione di fiori in un cesto. Mentre ci avvicinavamo, tuttavia, scorgemmo fra i grandi edifici tende e capanne temporanee e minuscoli ripari di ogni tipo. Infatti a Jhaampe soltanto gli edifici pubblici e le case reali sono permanenti. Tutto il resto è solo l'andare e venire di una marea di persone che vengono a vedere la capitale, a chiedere un giudizio al Sacrificio, come chiamano il re o la regina che ivi domina, o a visitare i depositi del loro tesoro e della loro conoscenza, o semplicemente a commerciare con altri nobili o a rendere loro visita. Le tribù vanno e vengono; le tende vengono drizzate e abitate per un mese o due, e poi un mattino al loro posto si trova solo nuda terra battuta, fino a quando un altro gruppo non viene a occupare la zona. Eppure non è un luogo disordinato, poiché le strade sono ben definite, con scale di pietra costruite nelle zone più ripide. In tutta la città si trovano a intervalli pozzi e
sale da bagno e torrenti, e si seguono regole severissime sulla spazzatura e sui rifiuti. È anche una città verde, perché la sua periferia è costituita di pascoli per coloro che portano con sé mandrie e cavalli, e l'ombra degli alberi e la posizione dei pozzi definiscono le zone per piantare le tende. Entro la città ci sono distese di giardini, fiori e alberi scolpiti, curati più abilmente di quelli che ho visto a Castelcervo. I visitatori lasciano nei giardini le loro creazioni, sottoforma di sculture di pietra o incisioni nel legno o creature d'argilla dipinte a colori vivaci. In un certo senso mi ricordarono la camera del Matto, perché anche lì trovai colori e forme disposte semplicemente per il piacere dello sguardo. Le nostre guide ci fecero fermare in un pascolo fuori dalla città, e ci fecero capire che era stato preparato per noi. Dopo un poco fu chiaro che si aspettavano che lasciassimo lì i nostri cavalli e muli e procedessimo a piedi. Augusto, capo nominale della carovana, non affrontò la situazione con grande diplomazia. Inorridii mentre spiegava irritato che eravamo molto più carichi del previsto, e che molti erano troppo stanchi per apprezzare l'idea di una camminata in salita. Mi morsi il labbro e mi costrinsi a rimanere in silenzio, assistendo all'educata confusione dei nostri ospiti. Certamente Regal conosceva queste usanze; perché non ci aveva avvertiti, per evitarci di cominciare la nostra visita apparendo ignoranti e rigidi? Ma la gente ospitale che si occupava di noi si adattò rapidamente ai nostri strani costumi. Ci invitarono a riposare, e ci pregarono di essere pazienti con loro. Per un poco rimanemmo lì a far niente, cercando vanamente di apparire a nostro agio. Borrasca e Trancia si avvicinarono a Mani e a me. Mani aveva ancora qualche sorso di vino in un otre e lo fece passare, mentre Borrasca ricambiò con riluttanza condividendo alcune strisce di carne affumicata. Parlammo, ma confesso che non prestai molta attenzione al discorso. Avrei voluto avere il coraggio di andare da Augusto, e chiedergli di essere più adattabile alle usanze di quel popolo. Eravamo loro ospiti, ed era già abbastanza brutto che lo sposo non fosse venuto di persona a portare via la sua sposa. Osservai da lontano Augusto che si consultava con alcuni nobili anziani che erano venuti con noi, ma dai cenni e scuotimenti del capo dedussi che stavano solo dandogli ragione. Pochi istanti dopo, un torrente di robusti giovani e fanciulle chyurda apparve sulla strada sopra di noi. Erano stati chiamati alcuni portatori per aiutarci a trasportare i nostri beni in città, e da qualche parte spuntarono tende colorate per i servitori che sarebbero rimasti lì a occuparsi dei cavalli e dei muli. Mi dispiacque scoprire che anche Mani sarebbe rimasto indie-
tro. Gli affidai Fuliggine. Poi mi caricai sulla spalla lo scrigno di cedro delle erbe e mi appesi la sacca all'altra spalla. Mentre mi univo alla processione che si dirigeva in città, sentii l'odore di carne arrostita e patate cotte, e vidi i nostri ospiti che montavano un padiglione aperto su un lato e disponevano tavoli all'interno. Decisi che Mani non se la sarebbe cavata male. Quasi desiderai di non avere altro da fare che occuparmi degli animali ed esplorare quella città colorata. Non avevamo fatto molta strada su per i tornanti verso la città quando fummo accolti da uno stormo di lettighe portate da alte donne chyurda. Fummo entusiasticamente invitati a salire e a lasciarci trasportare, con molte scuse se il viaggio ci aveva stancati. Augusto, Trancia, i nobili più anziani e la maggior parte delle signore appartenenti alla nostra carovana furono fin troppo felici di approfittare dell'offerta, ma a me sembrava un'umiliazione. Tuttavia, sarebbe stato ancora più scortese rifiutare la loro educata insistenza, quindi cedetti il mio scrigno a un ragazzo visibilmente più giovane di me e salii su una lettiga portata da donne abbastanza vecchie da essere mia nonna. Arrossii agli sguardi curiosi dei passanti, che si chinavano a parlare velocemente fra loro mentre sfilavamo. Vidi poche altre lettighe, usate da persone palesemente vecchie e inferme. Strinsi i denti e cercai di non pensare a come Veritas avrebbe giudicato quella manifestazione di ignoranza. Mi sforzai di guardare amichevolmente i passanti e di mostrare in viso la mia gioia per i loro giardini e edifici aggraziati. Evidentemente ebbi successo, perché immediatamente la mia lettiga rallentò per darmi più tempo di ammirare il paesaggio, e le donne indicavano tutto quello che poteva essermi sfuggito. Mi parlavano in chyurda, e furono felici di scoprire che avevo una conoscenza essenziale del loro linguaggio. Umbra mi aveva insegnato il poco che sapeva, ma non mi aveva preparato alla musicalità di quella lingua, e presto mi fu chiaro che il timbro era importante quanto la pronuncia. Per fortuna avevo orecchio per le lingue, così azzardai coraggiosamente una conversazione con le mie portatrici, deciso a far sì che al momento di parlare con i nobili a palazzo non sarei più apparso come uno straniero idiota. Una donna si prese la briga di fornirmi un commento su tutto quello che ci passava accanto. Il suo nome era Jonqui, e quando le dissi che il mio era FitzChevalier, lo mormorò a se stessa diverse volte come per fissarselo in mente. Con grande difficoltà, persuasi le mie portatrici a fermarsi e lasciarmi scendere per esaminare un giardino. Non erano i fiori colorati ad attirarmi, ma una specie di salice che cresceva a spirali e riccioli piuttosto che con i
rami diritti a cui ero abituato. Feci scorrere le dita lungo la corteccia flessibile, ed ero sicuro che avrei potuto convincere un rametto a mettere radici, ma non osai prenderne un pezzo, temendo che fosse considerato scortese. Una donna anziana sì chinò accanto a me, sorrise e poi fece scorrere la mano su un'aiuola di erbe basse dalle foglie minuscole. Dalle erbe scompigliate si levò una fragranza straordinaria, e la donna rise ad alta voce per la gioia sul mio viso. Avrei voluto indugiare più a lungo, ma le mie portatrici insistettero con enfasi che dovevamo affrettarci a raggiungere gli altri prima che arrivassero a palazzo. Dedussi che ci sarebbe stata un'accoglienza ufficiale, e non potevo perderla. La nostra processione si snodò per una strada terrazzata, sempre più in alto, fino a quando le nostre lettighe non furono deposte fuori da un palazzo che era un agglomerato di strutture colorate simili a boccioli. Gli edifici principali erano viola sormontati di bianco, e mi fecero pensare alle erbe che crescevano lungo il fiume Cervo, lupini e piselli selvatici. Rimasi accanto alla mia lettiga, fissando il palazzo, ma quando mi rivolsi alle mie portatrici per manifestare la mia contentezza, erano scomparse. Riapparvero pochi istanti dopo, vestite di giallo zafferano e azzurro, pesca e rosa, come gli altri portatori, e camminarono fra noi, offrendoci ciotole di acqua profumata e panni morbidi per lavare la polvere e la stanchezza dal viso e dal collo. Ragazzi e giovani in tuniche azzurre strette da cinture portarono un vino di bacche e minuscoli dolci al miele. Quando fummo tutti ripuliti e ristorati con vino e miele, ci fu chiesto di seguirli nel palazzo. L'interno del palazzo mi parve esotico quanto il resto di Jhaampe. Un grande pilastro centrale sosteneva la struttura principale, e un esame più attento rivelò che si trattava dell'immenso tronco di un albero, con il gonfiore delle radici ancora evidente sotto le pietre di pavimentazione attorno alla base. I supporti dei muri elegantemente ricurvi erano allo stesso modo alberi, e in seguito scoprii che la 'crescita' del palazzo aveva richiesto quasi cento anni. Era stato scelto un albero centrale, la zona era stata ripulita e poi era stato piantato e curato il cerchio di alberi di sostegno, a cui era stata data forma durante la crescita tramite corde e potature, così tutti si inchinavano verso l'albero centrale. A un certo punto tutti gli altri rami erano stati tagliati e le cime degli alberi intrecciate a formare una cupola. Poi erano state create le pareti, dapprima con uno strato di stoffa finemente tessuta, successivamente verniciata fino a rimanere rigida, e poi ricoperta strato su strato di robusto panno fatto di corteccia. Il panno di corteccia era stato spalmato di una particolare argilla locale, e infine rivestito di brillante
vernice resinosa. Non scoprii mai se ogni edificio in città fosse stato creato tanto laboriosamente, ma la 'crescita' del palazzo aveva permesso ai suoi creatori di conferirgli una grazia vivente che la pietra non avrebbe mai potuto imitare. Non diversamente dalla Sala Grande a Castelcervo, l'immenso interno non aveva pareti divisorie ed era provvisto di un simile numero di focolari. Erano stati disposti vari tavoli, e vi erano zone evidentemente destinate alla cucina e alla tessitura e alla filatura e alla preparazione di conserve e a tutte le altre necessità di una grande casa. Le stanze private sembravano non più che alcove chiuse da tendaggi, o piccole tende disposte lungo il muro esterno. C'erano anche alcuni alloggi elevati, raggiungibili tramite una rete di scale di legno senza corrimano, che mi ricordarono tende rizzate su piattaforme. I piloni di sostegno di queste stanze erano tronchi d'albero. Il mio cuore sprofondò quando vidi la scarsa riservatezza di cui disponevo per il lavoro 'silenzioso' che dovevo compiere. Subito mi fu mostrata una camera-tenda. All'interno trovai il mio scrigno di cedro e la mia sacca di tela ad aspettarmi, oltre ad altra acqua tiepida e profumata per lavarmi e a un piatto di frutta. Mi cambiai rapidamente gli abiti da viaggio impolverati per indossare una tunica ricamata con maniche tagliate e brache di colore intonato che madama Presta aveva ritenuto adatta all'occasione. Ancora una volta riflettei sul minaccioso cervo che vi era effigiato, poi lo accantonai. Forse Veritas aveva pensato che il nuovo stemma fosse meno umiliante di quello che proclamava così chiaramente la mia illegittimità. Avrei dovuto accontentarmi. Il suono allegro di tamburelli misto a tintinnii vari mi giunse dalla grande sala centrale, quindi lasciai velocemente la camera per scoprire cosa stava succedendo. Su un palco disposto davanti al grande tronco e decorato di fiori e rami di sempreverdi, Augusto e Regal stavano di fronte a un vecchio fiancheggiato da due servitori in semplici vesti bianche. Una folla si era riunita in un ampio cerchio attorno al palco, e io li raggiunsi in fretta. Una delle mie portatrici, ora vestita di drappi rosati e incoronata d'edera, apparve subito al mio fianco. Abbassò lo sguardo su di me e sorrise. «Che cosa sta succedendo?» mi azzardai a chiedere. «Il nostro Sacrificio, uhm, ah, re Eyod, vi darà il benvenuto. E mostrerà a tatti voi sua figlia, che diventerà il vostro Sacrificio, ehm, ah, regina. E suo figlio, che governerà questo luogo per lei.» Una spiegazione esitante, con molte pause e molti cenni di incoraggiamento da parte mia. Con difficoltà, sia per lei che per me, mi indicò sua nipote, accanto a re
Eyod, e io riuscii a complimentarla goffamente dicendo che appariva sana e forte. In quel momento mi sembrava la cosa più gentile da dire della donna statuaria in piedi con atteggiamento protettivo accanto al suo re. Aveva un'immensa massa di quei capelli gialli a cui stavo cominciando ad abituarmi a Jhaampe, con alcune trecce avvolte attorno alla testa, e il resto le scendeva lungo la schiena. Il viso era grave, le braccia nude e muscolose. L'uomo dall'altra parte di re Eyod aveva qualche anno di più, ma le assomigliava come un gemello, tranne che i suoi capelli erano tagliati severamente alle spalle. Aveva gli stessi occhi color giada, il naso dritto e la bocca solenne. Quando riuscii a chiedere all'anziana portatrice se anche lui era un suo parente, sorrise come se fossi stato un po' tonto, e replicò che, naturalmente, era suo nipote. Poi mi fece cenno di tacere, come a un bambino, perché re Eyod stava parlando. Il re parlava lentamente e con chiarezza, ma anche così fui contento delle conversazioni con le mie portatrici, perché riuscii a decifrare gran parte del discorso. Ci accolse tutti formalmente, incluso Regal, poiché disse che in precedenza lo aveva accolto solo come l'emissario di re Sagace, e ora lo accoglieva come il simbolo della presenza del principe Veritas. Augusto fu incluso nel benvenuto, e a entrambi furono offerti diversi doni, pugnali tempestati di gioielli, un prezioso olio profumato e ricche stole di pelliccia. Quando le stole furono disposte sulle loro spalle, pensai con imbarazzo che entrambi ora apparivano più come manichini che come principi, perché a paragone dei semplici abiti di re Eyod e dei suoi aiutanti, Regal e Augusto erano coperti di braccialetti e anelli, e i loro vestiti erano di tessuto opulento e tagliato senza riguardo per l'economia o la comodità. A me sembravano due bellimbusti vanitosi, ma speravo che i nostri ospiti considerassero il loro aspetto bizzarro semplicemente come una parte delle nostre usanze esotiche. E poi, mentre sprofondavo nell'imbarazzo, il re fece avanzare il suo attendente, e lo presentò alla nostra compagnia come il principe Rurisk. La donna accanto a lui era, naturalmente, la principessa Kettricken, la promessa sposa di Veritas. E finalmente, compresi che le portatrici che ci avevano accolto con dolci e vino non erano le domestiche, ma le donne della casa reale, le nonne, le zie e le cugine della principessa, che secondo la tradizione di Jhaampe servivano il loro popolo. Rabbrividii al pensiero di aver parlato con loro in modo tanto familiare e disinvolto, e ancora una volta maledissi mentalmente Regal che non aveva ritenuto utile comunicarci qualcosa di più delle
loro usanze, invece della lunga lista di abiti e gioielli che desiderava per sé. La donna anziana accanto a me, dunque, era la sorella del re. Credo che percepisse la mia confusione, perché mi batté benignamente la mano sulla spalla e sorrise mentre arrossivo cercando di balbettare una scusa. «Perché, non hai fatto nulla di vergognoso» mi informò, e poi mi comunicò di non chiamarla «mia signora», ma Jonqui. Osservai Augusto che presentava alla principessa i gioielli scelti per lei da Veritas. C'era una rete di catena d'argento finemente intrecciata con gemme rosse per i suoi capelli, e una collana d'argento incastonata di pietre rosse più grandi. Inoltre un cerchio d'argento, lavorato come un ramo di vite, pieno di chiavi tintinnanti, e Augusto spiegò che erano le chiavi della dimora che avrebbe condiviso con suo marito a Castelcervo; e otto semplici anelli d'argento per le sue dita. Kettricken rimase immobile mentre Regal stesso le faceva indossare i gioielli. Pensai fra me che l'argento con le pietre rosse sarebbe stato meglio su una donna di colorito più scuro, ma la gioia fanciullesca di Kettricken era evidente nel suo sorriso abbagliante, e attorno a me la gente mormorava con approvazione nel vedere la loro principessa così adornata. Forse, pensai, a lei piacevano i nostri colori e accessori bizzarri. Fui grato per la brevità del discorso di re Eyod che seguì, perché aggiunse solo che ci dava il benvenuto e ci invitava a riposare, rilassarci e visitare la città. Se avevamo qualsiasi bisogno, dovevamo soltanto chiedere a chiunque incontravamo, e loro avrebbero cercato di soddisfarlo. L'indomani a mezzogiorno avrebbe avuto inizio la cerimonia di tre giorni dell'Unione, e il re desiderava che tutti fossimo ben riposati per apprezzarla meglio. Poi scese con i suoi figli per mescolarsi liberamente fra la folla, come se fossimo stati tutti soldati che smontavano dallo stesso turno di guardia. Jonqui evidentemente mi aveva preso in consegna, e non c'era un modo cortese di sfuggire alla sua compagnia, quindi decisi di imparare tutto quello che potevo sulle loro usanze, e il più in fretta possibile. Ma uno dei suoi primi atti fu di presentarmi al principe e alla principessa. Erano davanti ad Augusto, che sembrava spiegare come, attraverso di lui, Veritas avrebbe assistito alla cerimonia. Declamava le parole come se questo in qualche modo li avesse aiutati a comprendere. Jonqui ascoltò per un istante, poi evidentemente decise che Augusto aveva finito. Parlò come se fossimo stati bambini radunati a fare merenda mentre i nostri genitori conversavano. «Rurisk, Kettricken, questo giovanotto è molto interessato ai nostri giardini. Forse più tardi possiamo organizzare per lui un incontro con i
giardinieri.» Parve rivolgersi espressamente a Kettricken quando aggiunse: «Il suo nome è FitzChevalier.» Augusto aggrottò improvvisamente la fronte e corresse la presentazione. «Fitz. Il bastardo.» Kettricken apparve sbalordita dal soprannome, ma il volto pallido di Rurisk si accigliò un poco. Si girò verso di me, rivolgendo la spalla verso Augusto. Un movimento lievissimo, ma inconfondibile in qualsiasi lingua. «Sì» disse, passando al chyurda e guardandomi dritto negli occhi. «Tuo padre mi ha parlato di te, l'ultima volta che l'ho visto. Mi è dispiaciuto sentire della sua morte. Ha fatto molto per preparare la via a questo legame fra la nostra gente.» «Conoscevate mio padre?» chiesi sbalordito. Rurisk mi sorrise. «Certo. Lui e io stavamo trattando per l'uso del Passo della Roccia Azzurra, a Occhio di Luna, quando seppe di te per la prima volta. Quando finimmo di parlare di passi e di commercio come inviati, sedemmo a tavola insieme, e parlammo, come uomini, di ciò che avrebbe dovuto fare a quel punto. Confesso che ancora non capisco perché pensasse di non poter regnare. Le usanze di un popolo non sono quelle di un altro. E tuttavia, con questo matrimonio siamo più vicini a rendere i nostri due popoli un'unica gente. Pensi che lui ne sarebbe contento?» Rurisk mi stava concedendo tutta la sua attenzione, e il suo uso del chyurda escludeva efficacemente Augusto dalla conversazione. Kettricken sembrava affascinata. Il viso di Augusto dietro la spalla di Rurisk si fece immobile. Poi, con un tetro sorriso di puro odio per me, si girò e si riunì al gruppo attorno a Regal, che stava parlando con re Eyod. Per qualche ragione, avevo la completa attenzione di Rurisk e Kettricken. «Non conoscevo bene mio padre, ma penso che sarebbe stato contento di vedere...» cominciai, ma in quel momento la principessa Kettricken mi rivolse un sorriso brillante. «Ma certo, come ho fatto a essere così sciocca? Tu sei quello che chiamano Fitz. Non viaggi di solito con dama Maggiorana, l'avvelenatrice di re Sagace? E non sei il suo apprendista? Regal mi ha parlato di te.» «Che gentile» replicai senza espressione, e non ho idea di che altro mi dicesse, o come risposi. Potevo solo essere grato per non aver vacillato. E dentro di me, per la prima volta, compresi che quello che provavo per Regal andava al di là dell'antipatia. Rurisk aggrottò la fronte in un rimprovero fraterno a Kettricken, e poi si girò per ascoltare un domestico che gli chiedeva urgentemente istruzioni su qualcosa. Attorno a me la gente conversa-
va piacevolmente fra colori e profumi d'estate, ma io mi sentivo come se il mio stomaco si fosse trasformato in ghiaccio. Tornai in me quando Kettricken mi tirò per la manica. «Sono da questa parte» mi informò. «O sei troppo stanco per apprezzarle adesso? Se desideri ritirarti, nessuno si offenderà. Capisco che molti di voi erano troppo stanchi perfino per raggiungere la città a piedi.» «Ma molti di noi non lo erano, e ci sarebbe veramente piaciuto passeggiare tranquillamente attraverso Jhaampe. Mi è stato detto delle Fontane Azzurre, e sono ansioso di vederle.» Incespicai solo lievemente sulle parole, e sperai che avessero una qualche relazione con quello che Kettricken mi stava dicendo. Almeno non aveva nulla a che fare con il veleno. «Farò in modo che tu vi sia condotto, magari questa sera. Ma per adesso, vieni da questa parte.» E senza ulteriori esitazioni o formalità, mi condusse via dalla riunione. Augusto ci guardò mentre ci allontanavamo, e io vidi Regal girarsi e dire qualcosa privatamente a Borrasca. Re Eyod si era ritirato dalla folla, e ci contemplava benignamente da una piattaforma sopraelevata. Mi chiesi perché Borrasca non fosse rimasto con i cavalli e gli altri domestici, ma già Kettricken stava allontanando un paravento dipinto da un'apertura per uscire dalla stanza principale del palazzo. In effetti ci trovammo all'esterno, a camminare lungo un sentiero di pietra sotto una galleria di alberi. Erano salici, e i loro rami vivi erano stati intrecciati e tessuti sopra di noi per formare uno schermo verde al sole di mezzogiorno. «E tengono lontana la pioggia dal sentiero, anche. Almeno, la maggior parte» aggiunse Kettricken notando il mio interesse. «Questo sentiero conduce ai giardini ombreggiati. Sono i miei preferiti. Ma forse desideri vedere prima il giardino delle erbe?» «Sarò felice di vedere tutto dei giardini, mia signora» replicai, e almeno questo era vero. Là fuori, lontano dalla folla, avrei avuto una migliore possibilità di sbrogliare i miei pensieri e riflettere sulla mia posizione insostenibile. Con ritardo, stavo comprendendo che il principe Rurisk non aveva mostrato nessuna traccia delle ferite o della debolezza descritta da Regal. Dovevo prendere le distanze dalla situazione e riconsiderarla. Stava succedendo molto di più di quanto fossi pronto ad affrontare. Con uno sforzo strappai i pensieri dal mio dilemma e mi concentrai su quello che la principessa mi stava dicendo. Pronunciava chiaramente le parole, e trovai la sua conversazione molto più facile da seguire lontano dal rumore di fondo della grande sala. Sembrava conoscere bene i giardini, e mi fece capire che non era un passatempo ma una competenza che le era
richiesta come principessa. Mentre camminavamo chiacchierando, dovevo continuamente ricordare a me stesso che lei era una principessa e promessa a Veritas. Non avevo mai incontrato prima una donna come lei. Si comportava con quieta dignità, diversissima dalla consapevolezza della propria importanza che incontravo solitamente in coloro che erano più nobili di me. Ma non esitava a sorridere, o a entusiasmarsi, o a chinarsi per scavare nel terreno attorno a una pianta per mostrarmi un particolare tipo di radice che stava descrivendo. Strofinò la radice per liberarla dalla terra, poi con il suo coltello da cintura tagliò un pezzo dal cuore del tubero, per permettermi di gustarne il caratteristico sapore. Mi mostrò certe erbe aromatiche per condire la carne, e insistette che assaggiassi una foglia di ciascuna delle tre varietà, perché sebbene le piante fossero molto simili, il sapore era molto diverso. In un certo modo, era come Pazienza, senza la sua eccentricità. In un altro, era come Molly, ma senza la durezza che la ragazza era stata costretta a sviluppare per sopravvivere. Come Molly, mi parlava con diretta franchezza, come se fossi stato un suo pari. Mi trovai a pensare che Veritas avrebbe potuto apprezzare questa donna più di quanto si aspettasse. Eppure, un'altra parte di me si preoccupava all'idea di quello che Veritas avrebbe pensato della sua sposa. Non era un seduttore, ma il suo gusto in fatto di donne era evidente a chiunque lo avesse frequentato a lungo. E quelle a cui sorrideva di solito erano piccole e tonde e brune, spesso con i capelli ricci e una risata da ragazzina e manine morbide. Cosa avrebbe pensato di questa donna alta e pallida, che vestiva con la semplicità di una domestica e dichiarava di trarre grande piacere nell'occuparsi dei suoi giardini? Mentre la nostra conversazione proseguiva, scoprii che Kettricken sapeva parlare della caccia con il falco e dell'allevamento di cavalli con la familiarità di qualsiasi stalliere. E quando le chiesi che cosa faceva per divertirsi, mi disse della sua piccola forgia e dei suoi strumenti per lavorare il metallo, e sollevò i capelli per mostrarmi gli orecchini che si era creata. I petali d'argento finemente lavorati di un fiore stringevano una minuscola gemma come una goccia di rugiada. Una volta avevo detto a Molly che Veritas meritava una moglie competente e attiva, ma ora mi chiedevo se Kettricken sarebbe riuscita ad affascinarlo. Il principe l'avrebbe rispettata, lo sapevo. Ma era sufficiente il rispetto fra un re e la sua regina? Decisi di non andare in cerca di guai e continuai a parlare di Veritas. Le chiesi se Regal le avesse detto qualcosa del suo futuro marito, e Kettricken
rimase improvvisamente in silenzio. La sentii farsi forza mentre replicava di essere al corrente che Veritas era un erede al trono costretto ad affrontare i molti problemi del suo regno. Regal l'aveva avvertita che Veritas era molto più vecchio di lei, un uomo ordinario e semplice, che avrebbe potuto non interessarsi particolarmente a lei. Regal aveva promesso che non l'avrebbe abbandonata; l'avrebbe aiutata a adattarsi, facendo del suo meglio perché la corte non fosse un luogo solitario per lei. Così era preparata... «Quanti anni avete?» chiesi impulsivamente. «Diciotto» replicò lei, e poi sorrise alla mia sorpresa. «Dato che sono alta, la tua gente sembra pensare che io sia molto più vecchia» mi confidò. «Ebbene, allora siete più giovane di Veritas. Ma è una differenza che si trova spesso fra moglie e marito. Lui avrà trentatré anni a primavera.» «Lo avevo giudicato molto più vecchio» esclamò sorpresa. «Regal mi ha spiegato che hanno soltanto un padre in comune.» «È vero che Chevalier e Veritas erano entrambi figli della prima regina di re Sagace, ma non c'è poi molta differenza fra loro. E Veritas, quando non è oppresso dai problemi dello Stato, non è così cupo e severo come potreste immaginare. È un uomo che sa ridere.» Kettricken mi gettò un'occhiata di sbieco, come per controllare se stavo cercando di abbellirlo. «È vero, principessa. L'ho visto ridere come un bambino allo spettacolo di marionette alla Festa della Primavera. E quando tutti pestano il mosto per fare il vino dell'autunno, perché porta fortuna, lui non si tira indietro. Ma il suo più grande piacere è sempre stata la caccia. Ha un segugio, Leon, che gli è più caro di quanto certi uomini considerino i figli.» «Ma» Kettricken si azzardò a interrompere «sicuramente questo è com'era un tempo. Infatti Regal parla di lui come di un uomo più vecchio dei suoi anni, curvo sotto i problemi del suo popolo.» «Curvo come un albero carico di neve, che si rialza con la venuta della primavera. Le ultime parole che mi ha detto prima che io me ne andassi, principessa, erano un'esortazione a parlarvi bene di lui.» Kettricken abbassò gli occhi in fretta, come per nascondermi l'improvviso sollievo del suo cuore. «Vedo un uomo diverso, quando tu parli di lui.» Fece una pausa, e poi serrò fermamente le labbra, proibendosi di pronunciare la richiesta che io comunque compresi. «Io l'ho sempre visto come un uomo gentile. Gentile quanto può essere un uomo elevato a tale responsabilità. Prende molto seriamente i suoi doveri, e non si risparmia nel rendere servizio al suo popolo. È questo che gli
ha impedito di venire qui, da voi. È impegnato in una battaglia con i Pirati della Nave Rossa, e non avrebbe potuto combattere da qui. Rinuncia agli interessi di un uomo per compiere il suo dovere di principe. Non per freddezza di spirito, o per mancanza di vitalità.» Kettricken mi gettò un'altra occhiata laterale, combattendo un sorriso, come se le mie parole fossero una dolcissima lusinga a cui una principessa non doveva credere. «È più alto di me, ma solo un poco. I suoi capelli sono molto scuri, come la barba, quando la lascia crescere. I suoi occhi sono ancora più neri, eppure quando è infervorato scintillano. È vero che adesso nei suoi capelli c'è una spruzzata di grigio che non avreste trovato un anno fa. È anche vero che il suo lavoro lo ha tenuto lontano dal sole e dal vento, così le sue spalle non strappano più le cuciture delle camicie. Ma mio zio è comunque ancora un uomo di valore, e io credo che, quando il pericolo delle Navi Rosse sarà stato allontanato dalle nostre coste, tornerà a cavalcare e a gridare e a cacciare con il suo cane.» «Tu mi dai coraggio» mormorò Kettricken, e poi si raddrizzò, come se avesse ammesso la debolezza. Guardandomi seriamente, chiese: «Perché Regal non parla così di suo fratello? Credevo di essere destinata a un vecchio dalla mano tremante, troppo carico dei suoi doveri per vedere una moglie diversamente da un altro dovere.» «Forse lui...» cominciai, e non riuscii a pensare a una maniera diplomatica di dire che Regal spesso ingannava se gli faceva comodo. Lo giuro sulla mia testa, non avevo idea di come potesse fargli comodo rendere Kettricken tanto timorosa di Veritas. «Forse è... stato... poco gentile anche riguardo ad altre cose» Kettricken rifletté improvvisamente ad alta voce. Qualcosa parve allarmarla. Trasse un respiro, e poi divenne improvvisamente più franca. «Una sera cenammo nelle mie stanze, e Regal aveva forse bevuto troppo. Mi raccontò di te, dicendo che un tempo eri stato un bambino scontroso e viziato, troppo ambizioso per la tua nascita, ma che da quando il re ti aveva nominato suo avvelenatore sembravi contento della tua sorte. Disse che sembrava un mestiere adatto a te, dato che anche da ragazzo eri stato propenso a origliare e a strisciare nell'ombra e ad altre attività misteriose. Ora, non te lo dico per causare problemi, ma solo per farti capire quello che dapprima pensavo di te. Il giorno successivo Regal mi pregò di credere che mi aveva raccontato soltanto le fantasie del vino, piuttosto che i fatti. Ma una cosa che disse quella sera era troppo raggelante e spaventosa perché la potessi intera-
mente accantonare. Aveva detto che se il re mandava te o dama Maggiorana, sarebbe stato per avvelenare mio fratello, in modo che io fossi l'unica erede del Regno delle Montagne.» «Parlate troppo in fretta» la rimproverai gentilmente, e sperai che il mio sorriso non sembrasse rigido e sofferente come improvvisamente mi sentivo. «Non ho capito tutto quello che avete detto.» Disperatamente cercai di trovare una risposta. Perfino un bugiardo consumato come me si trovava a disagio in un confronto così diretto. «Mi dispiace. Ma tu parli tanto bene la nostra lingua, quasi come un nativo. Quasi come se tu la stessi ricordando, piuttosto che imparando. Parlerò più lentamente. Qualche settimana fa, no, è stato più di un mese fa, Regal è venuto nelle mie stanze. Mi aveva chiesto di cenare da solo con me, in modo che potessimo conoscerci meglio, e...» «Kettricken!» Era Rurisk, che la chiamava mentre veniva verso di noi sul sentiero. «Regal chiede che tu venga a incontrare i nobili e le dame che hanno fatto tanta strada per assistere al tuo matrimonio.» Jonqui lo seguiva in fretta, e mentre la seconda e inconfondibile ondata di vertigine mi colpiva, pensai che appariva troppo consapevole. E mi chiesi: quali passi avrebbe compiuto Umbra se qualcuno avesse mandato un avvelenatore alla corte di Sagace, per eliminare Veritas? Era fin troppo evidente. «Forse» suggerì improvvisamente Jonqui «Fitz Chevaker vorrebbe vedere le Fontane Azzurre adesso. Litress ha detto che lo accompagnerà volentieri.» «Forse più tardi questo pomeriggio» riuscii a dire. «Mi sento improvvisamente affaticato. Credo che tornerò nella mia stanza.» Nessuno di loro apparve sorpreso. «Devo farti mandare del vino?» chiese premurosa Jonqui. «O forse una scodella di minestra? Gli altri verranno presto convocati a pranzo. Ma se tu sei stanco non è un problema portarti il cibo.» Anni di addestramento vennero allo scoperto. Rimasi dritto, malgrado l'improvviso fuoco nel ventre. «Sarebbe molto gentile da parte vostra.» Mi costrinsi a fare un breve inchino, una raffinata tortura. «Sono sicuro che vi raggiungerò presto.» E mi congedai, e non corsi, e neppure mi buttai per terra piangendo in posizione fetale, come avrei voluto. Con passo tranquillo, ammirando le piante, attraversai di nuovo il giardino fino alla porta della grande sala. E i tre mi guardarono andarmene, parlando sottovoce fra loro di ciò che tutti
sapevamo. Mi rimaneva soltanto una via d'uscita, e poche speranze che avesse successo. Tornato in camera, estrassi la purga marina che il Matto mi aveva dato. Mi chiesi quanto tempo fosse passato da quando avevo mangiato i dolci al miele - perché quello era il sistema che avrei scelto io. Fatalista, decisi che mi sarei fidato del boccale d'acqua nella mia stanza. Una minuscola parte di me diceva che era una sciocchezza, ma con le ripetute ondate di vertigine che mi travolgevano ero incapace di ragionare oltre. Con mani tremanti sbriciolai nell'acqua la purga marina. L'erba secca assorbì l'acqua e divenne una poltiglia verde e appiccicosa, che riuscii a deglutire a malapena. Sapevo che mi avrebbe svuotato lo stomaco e le viscere. La sola domanda era: sarebbe stata abbastanza veloce, o il veleno dei Chyurda era già troppo diffuso nel mio corpo? Trascorsi una serata orribile, che non voglio descrivere. Nessuno venne nella mia stanza con minestra o vino. Nei momenti di lucidità, decisi che non sarebbero venuti fino a quando non fossero stati sicuri che il loro veleno aveva avuto effetto. Al mattino, conclusi. Avrebbero mandato un domestico a svegliarmi, e lui avrebbe scoperto la mia morte. Avevo tempo fino al mattino. Era passata mezzanotte quando fui in grado di stare in piedi. Lasciai la mia stanza nel massimo silenzio, per quanto me lo permettessero le gambe tremanti, e uscii nel giardino. Là trovai un pozzo, e bevvi fin quasi a scoppiare. Mi avventurai ulteriormente fra gli alberi, camminando con lenta cautela, perché mi faceva male tutto come se fossi stato picchiato e la testa mi rimbombava dolorosamente a ogni passo. Ma alla fine capitai in una zona di alberi da frutto elegantemente disposti a spalliera lungo un muro e, come avevo sperato, erano colmi di frutti. Me ne riempii il giustacuore. Li avrei nascosti nella mia stanza, come scorta di cibo da consumare senza pericolo. L'indomani avrei trovato una scusa per scendere al campo a controllare Fuliggine. Nelle mie borse da sella c'era ancora un poco di carne secca e pane duro. Speravo che sarebbe stato sufficiente per nutrirmi durante la visita. E mentre tornavo verso la mia stanza, mi chiesi che altro avrebbero tentato scoprendo che il veleno non aveva funzionato. 21 Principi
Dell'erba Carryme, i Chyurda dicono: «Una foglia per dormire, due per calmare il dolore, tre per una tomba misericordiosa.» Verso l'alba, finalmente mi appisolai, solo per essere svegliato dal principe Rurisk che spingeva bruscamente di lato il paravento d'ingresso della mia stanza. Fece irruzione brandendo una brocca piena d'acqua. L'abito svolazzante doveva essere una camicia da notte. Mi buttai rapidamente giù dal letto e riuscii a stare in piedi, ponendo il letto fra me e lui. Ero in trappola, malfermo e disarmato, a parte il mio coltello alla cintura. «Sei ancora vivo!» esclamò Rurisk meravigliato, poi avanzò su di me con la brocca. «Svelto, bevi questo.» «Preferirei di no» gli dissi, indietreggiando mentre lui avanzava. Vedendo la mia diffidenza, il principe si fermò. «Sei stato avvelenato» mi disse con la massima chiarezza. «È un vero miracolo di Chranzuli che tu sia ancora vivo. Questa è una purga, che sgombrerà il tuo corpo dal veleno. Prendila, e potresti ancora salvarti.» «Non c'è più niente da purgare nel mio corpo» gli dissi seccamente, e poi afferrai il tavolo mentre cominciavo a tremare. «Quando vi ho lasciato ieri sera sapevo che ero stato avvelenato.» «E non mi hai detto niente?» Rurisk era incredulo. Si rivolse alla porta, dove Kettricken ora si affacciava timidamente. Aveva i capelli acconciati in trecce disordinate e aveva gli occhi rossi di pianto. «Lo abbiamo evitato, e non certo grazie a te» le disse severamente suo fratello. «Vai a fargli un brodo salato con un poco della carne di ieri sera. E porta anche un dolcetto. Per me e lui. E del tè. Vai, sciocca!» Kettricken svicolò via come una bambina. Rurisk fece un cenno verso il letto. «Forza. Fidati di me e siediti, o rovescerai la tavola con il tuo tremito. Voglio parlarti sinceramente. Tu e io, FitzChevalier, non abbiamo tempo per la diffidenza. Dobbiamo parlare di molte cose, tu e io.» Mi sedetti, non tanto perché mi fidassi quanto per il timore che altrimenti sarei crollato. Senza formalità, Rurisk sedette all'altra estremità del letto. «Mia sorella» disse solennemente «è impetuosa. Il povero Veritas scoprirà che è più una bambina che una donna, temo, e in gran parte è colpa mia; l'ho viziata troppo. Ma, sebbene questo spieghi il suo affetto per me, non giustifica l'avvelenamento di un ospite. Soprattutto non alla vigilia del suo matrimonio con lo zio di questo ospite.» «Credo che la penserei esattamente allo stesso modo in qualunque momento» replicai, e Rurisk gettò indietro la testa e rise.
«Hai molto di tuo padre. Lui avrebbe detto lo stesso, ne sono sicuro. Ma devo spiegarti ogni cosa. Mia sorella è venuta da me giorni fa, per dirmi che venivi a eliminarmi. Le ho detto che non doveva preoccuparsi, e che me ne sarei occupato io. Ma, come ho detto, è impulsiva. Ieri ha visto un'occasione e l'ha afferrata, senza preoccuparsi di come la morte di un ospite potesse influenzare un matrimonio così attentamente preparato. Ha pensato solo a sbarazzarsi di te, prima che le promesse che la legheranno ai Sei Ducati rendessero un simile atto impensabile. Avrei dovuto sospettarlo quando ti ha portato tanto in fretta ai giardini.» «Le erbe che mi ha fatto assaggiare?» Rurisk annuì, e io mi sentii un idiota. «Ma dopo che le hai mangiate, le hai parlato in modo così onesto che ha cominciato a dubitare che fossi davvero un sicario. Quindi te lo ha chiesto, ma tu hai allontanato la domanda fingendo di non comprendere. Quindi ha di nuovo dubitato di te. E tuttavia, non avrebbe dovuto impiegarci tutta la notte per venire da me a raccontarmi quello che aveva fatto e i suoi dubbi se fosse stato saggio. Per questo, ti chiedo scusa.» «Troppo tardi per scusarti. Ti ho già perdonato.» Lo dissi senza pensarci. Rurisk mi guardò. «Questo era un modo di dire di tuo padre.» Gettò un'occhiata verso la porta un attimo prima che Kettricken entrasse. Una volta che lei fu nella stanza, il principe chiuse il paravento e le prese il vassoio. «Siediti» le disse severamente. «E impara un altro modo di affrontare un assassino.» Prese un pesante boccale dal vassoio e bevve un lungo sorso prima di passarmelo. Gettò un altro sguardo a Kettricken. «E se quello era avvelenato, hai appena ucciso anche tuo fratello.» Ruppe un dolcetto di mela in tre parti. «Scegline una» mi disse, e la prese per sé, e quella che scelsi successivamente la diede a Kettricken. «Così puoi vedere che questo cibo è sicuro.» «Non vedo molte ragioni per avvelenarmi questa mattina dopo essere venuti a dirmi che ero stato avvelenato ieri sera» ammisi. E tuttavia, il mio palato era all'opera, in cerca del minimo sapore strano. Ma non ne trovai traccia. Era una pasta ricca e friabile, farcita di mele mature e spezie. Anche se non avessi avuto lo stomaco tanto vuoto, sarebbe stata deliziosa. «Esattamente» disse Rurisk con la bocca piena, e poi mandò giù. «E se tu fossi un assassino,» e qui gettò un'occhiata per far tacere Kettricken «ti troveresti nella stessa posizione. Alcuni omicidi sono redditizi solo se nessuno sa che sono omicidi. Tale sarebbe la mia morte. Se tu dovessi uccidermi adesso, o addirittura se io dovessi morire entro i prossimi sei mesi,
Kettricken e Jonqui urlerebbero alle stelle che sono stato assassinato. Non è esattamente la base migliore per un'alleanza fra popoli. Sei d'accordo?» Riuscii ad annuire. Il brodo caldo nel boccale aveva calmato gran parte del mio tremito, e il dolcetto era un cibo divino. «Dunque. Siamo d'accordo che, se tu fossi un sicario, adesso non ci sarebbe profitto nell'assassinarmi. Anzi, sarebbe una grandissima perdita per te se io morissi. Infatti mio padre non guarda questa alleanza con il favore con cui la guardo io. Oh, lui sa che è saggia, per ora. Ma io la ritengo più che saggia. La ritengo necessaria. «Riferisci questo a Sagace. La nostra popolazione cresce, ma c'è un limite al terreno coltivabile. La selvaggina può nutrire soltanto un numero limitato di persone. Viene un momento in cui un paese deve aprirsi al commercio, specialmente un paese tanto aspro e roccioso come il mio. Avrai sentito dire, forse, che secondo le usanze di Jhaampe il re è il servo del suo popolo. Ebbene io li servo in questo modo. Faccio sposare a uno straniero la mia amata sorella minore, sperando di ottenere per il mio popolo grano e vie commerciali e ricchezze dalle terre basse, e il diritto di condurvi il bestiame nel periodo freddo, quando i nostri pascoli sono coperti di neve. Per questo sono disposto anche a fornirvi legname, i grandi tronchi diritti di cui Veritas avrà bisogno per costruire le sue navi da guerra. Sulle nostre montagne crescono querce bianche come non ne avete mai viste. Questo, mio padre ve lo rifiuterebbe. Ha una mentalità antica riguardo al taglio di alberi vivi. E come Regal, vede le vostre coste come una debolezza, il vostro oceano come una grande barriera. Ma io lo vedo come lo vedeva tuo padre: un'ampia strada che conduce in tutte le direzioni, e la vostra costa è per noi una via d'accesso. E non trovo offensivo l'uso di alberi sradicati dalle inondazioni e dalle tempeste annuali.» Trattenni il respiro per un attimo. Questa era una concessione importantissima. Mi trovai ad annuire alle sue parole. «Dunque, porterai le mie parole a re Sagace, e gli dirai che è meglio avermi amico da vivo?» Non riuscii a pensare a un motivo per rifiutare. «Non intendi chiedergli se voleva avvelenarti?» domandò Kettricken. «Se rispondesse di sì, tu non ti fideresti mai più di lui. Se rispondesse di no, probabilmente non gli crederesti, e penseresti che è un bugiardo oltre che un sicario. E poi, non basta un avvelenatore confesso in questa stanza?» Kettricken abbassò la testa e il rossore le soffuse le guance.
«Vieni, dunque» la incalzò Rurisk, e tese una mano conciliante. «Il nostro ospite ha bisogno di tutto il riposo possibile prima dei festeggiamenti di oggi. E noi dobbiamo tornare alle nostre stanze prima che l'intera casa si chieda cosa ci facciamo in giro in camicia da notte.» E così mi lasciarono, e io mi distesi sul letto a pensare. Che razza di gente erano questi? Potevo credere alla loro franca onestà, o era un grandioso imbroglio, per quali fini lo sapeva solo Eda? Avrei voluto che Umbra fosse lì. Sempre di più, sentivo che nulla era come sembrava. Non osavo assopirmi, perché sapevo che se mi fossi addormentato non mi sarei svegliato prima di sera. Presto arrivarono alcuni domestici con brocche di acqua calda e fresca, e frutta e formaggio su un vassoio. Ricordandomi che questi 'domestici' potevano essere più nobili di me, li trattai tutti con grande cortesia, e più tardi mi chiesi se non poteva essere quello il segreto di una casa armoniosa. Che tutti, domestici o nobiltà, fossero trattati con la stessa cortesia. Fu un giorno di grandi festeggiamenti. Le entrate al palazzo erano state spalancate, ed era arrivata gente da ogni valle e forra del Regno delle Montagne per assistere alla cerimonia. Si esibirono poeti e menestrelli, e furono scambiati ulteriori doni, inclusa la mia presentazione formale degli erbari e delle radici. Il bestiame da riproduzione mandato dai Sei Ducati fu presentato e poi suddiviso fra coloro che più ne avevano bisogno, o che più lo avrebbero fatto fruttare. Un singolo ariete o toro, con una femmina o due, poteva andare come dono comune a un intero villaggio. Tutti i doni, che fossero pollame o bestiame o granaglie o metallo, furono portati all'interno del palazzo, in modo che tutti potessero ammirarli. C'era anche Burrich - era la prima volta che lo vedevo da giorni. Doveva essere in piedi da prima dell'alba, perché presentò i suoi animali in maniera splendida. Ogni zoccolo era oliato di fresco, ogni criniera e coda intrecciata con nastri colorati e campanelle. La sella e i finimenti della cavalla destinata a Kettricken erano del cuoio più fine, e alla criniera e alla coda erano appese tante minuscole campanelle d'argento che ciascun colpo di coda era un coro di tintinnii. I nostri cavalli erano creature diverse dalla razza piccola e irsuta del popolo delle montagne, e attirarono una folla di curiosi. Burrich appariva stanco ma orgoglioso, e i cavalli rimanevano tranquilli in mezzo al clamore. Kettricken indugiò a lungo ad ammirare la sua cavalla, e io vidi che la sua cortesia e la sua deferenza stavano scongelando la riservatezza di Burrich. Quando mi feci più vicino fui sorpreso di sentirlo parlare in un chyurda esitante ma chiaro.
Ma per me quel pomeriggio aveva in serbo una sorpresa ancora più grande. Il cibo fu disposto su lunghe tavole, e tutti, abitanti del palazzo e visitatori, mangiarono liberamente. Gran parte delle vivande proveniva dalle cucine del palazzo, ma una parte ancora più considerevole era stata portata dalla gente delle montagne. Avanzavano senza esitazione per disporre sul tavolo forme di formaggio, pagnotte di pane scuro, carni secche o affumicate, sottaceti e ciotole di frutta. Poteva essere una tentazione, se il mio stomaco non fosse stato ancora tanto delicato. Ma il modo in cui il cibo veniva offerto mi colpì. Era un dare e prendere senza domande fra la nobiltà e i loro sudditi. Notai anche che non c'erano sentinelle o guardie di alcun tipo alle porte. E tutti si mescolavano e chiacchieravano mentre mangiavano. A mezzogiorno in punto il silenzio cadde sulla folla. La principessa Kettricken salì da sola il palco centrale. In parole semplici, annunciò a tutti che adesso apparteneva ai Sei Ducati e che sperava di servire bene quel paese. Ringraziò la sua terra per tutto ciò che aveva fatto per lei, per il cibo che aveva prodotto per nutrirla, le acque dei suoi ghiacciai e dei fiumi, l'aria delle brezze di montagna. Ricordò a tutti che offriva a un'altra terra la sua lealtà non per mancanza di amore verso la terra natia, ma piuttosto nella speranza che questo portasse beneficio a entrambe le terre. Tutti rimasero in silenzio mentre parlava, e mentre scendeva dal palco. E poi i festeggiamenti ricominciarono. Rurisk venne a cercarmi per vedere come stavo. Lo rassicurai che mi ero pienamente ripreso, anche se in verità avrei voluto andare a dormire. Gli abiti scelti per me da madama Presta erano l'ultima moda a corte, provvisti di maniche estremamente scomode e fiocchetti che cadevano dappertutto, e una vita stretta abbastanza da soffocarmi. Desideravo fuggire da quella calca per poter slegare alcuni lacci e sbarazzarmi del colletto, ma sapevo che se me ne fossi andato in quel momento Umbra avrebbe aggrottato la fronte al momento di fargli rapporto, e avrebbe preteso che io scoprissi in qualche modo tutto quello che era successo mentre ero assente. Rurisk avvertì il mio bisogno di tranquillità, poiché improvvisamente mi propose una passeggiata ai suoi canili. «Lascia che ti mostri l'effetto che ha fatto qualche anno fa l'aggiunta di un po' di sangue dei Sei Ducati per i miei cani» propose. Lasciammo il palazzo, e scendemmo rapidamente verso un edificio di legno lungo e basso. L'aria fresca mi schiarì la mente e mi risollevò lo spirito. All'interno, Rurisk mi mostrò un recinto dove una cagna sovrintende-
va a una cucciolata di cagnetti rossi. Erano piccole creature sane, dal mantello lucido, che giocavano a mordicchiarsi e rotolare nella paglia. Si avvicinarono subito, per niente timorosi. «Questi sono del lignaggio di Castelcervo, e sanno seguire una traccia perfino sotto la pioggia battente» mi annunciò Rurisk con orgoglio. Mi mostrò anche altre razze, incluso un minuscolo cane dalle zampette magre che secondo lui era capace di arrampicarsi su per un albero inseguendo la selvaggina. Emergemmo dai suoi canili nel sole, dove un cane più anziano dormiva pigramente su un mucchio di paglia. «Continua a dormire, vecchio. Hai generato abbastanza cuccioli da non dover mai più cacciare, se non fosse che ti piace tanto» gli disse allegramente Rurisk. Alla voce del suo padrone, il vecchio cane si tirò in piedi e venne ad appoggiarsi affettuosamente alle sue gambe. Alzò lo sguardo verso di me, ed era Nasuto. Lo fissai, e i suoi occhi color minerale di rame mi restituirono lo sguardo. Cercai piano verso di lui, e per un momento ottenni solo perplessità. E poi un'ondata di calore, di affetto condiviso e ricordato. Non c'erano dubbi, adesso era il cane di Rurisk; l'intensità del legame che c'era stato fra noi era scomparsa. Ma mi restituì grande affetto e caldi ricordi di quando eravamo stati cuccioli insieme. Mi chinai su un ginocchio, e accarezzai il mantello rossiccio diventato ispido con gli anni, e guardai negli occhi che cominciavano a mostrare l'offuscamento dell'età. Per un istante, al tocco della mia mano, il legame fu come era stato un tempo. Sentii che gli piaceva sonnecchiare al sole, ma ci voleva poco a convincerlo ad andare a caccia. Specialmente se Rurisk lo accompagnava. Gli battei la mano sulla schiena, e mi scostai da lui. Alzai gli occhi e vidi Rurisk che mi guardava perplesso. «Lo conoscevo quando era solo un cucciolo» spiegai. «Me lo ha mandato Burrich, affidato a uno scrivano itinerante, molti anni fa» mi disse Rurisk. «Mi ha portato grande piacere, come compagnia e aiuto per la caccia.» «Lo hai trattato bene» notai io. Ce ne andammo e ritornammo con calma al palazzo, ma non appena Rurisk mi lasciò io andai dritto da Burrich. Aveva appena ricevuto il permesso di portare i cavalli all'aperto, perché perfino le bestie più calme diventano irrequiete a stretto contatto con molti sconosciuti. Capivo il suo dilemma; mentre portava fuori alcuni cavalli avrebbe lasciato incustoditi gli altri. Alzò lo sguardo con diffidenza mentre mi avvicinavo. «Con il tuo permesso, ti aiuterò a spostarli» proposi. Il viso di Burrich rimase impassibile e educato. Ma prima che potesse
aprire la bocca per parlare, una voce dietro di me disse: «Ci sono qui io per questo, signorino. Voi potreste sporcarvi le maniche, o stancarvi troppo lavorando con le bestie.» Mi girai lentamente, sbalordito dal veleno nella voce di Roano. Guardai da lui a Burrich, ma Burrich non parlò. Lo fissai dritto negli occhi. «E allora ti accompagnerò, se posso, perché dobbiamo parlare di una cosa importante.» Le mie parole erano deliberatamente formali. Burrich mi fissò ancora per un istante. «Prendi la cavalla della principessa» disse alla fine «e quella puledra baia. Io prenderò i grigi. Roano, bada agli altri per me. Non ci metterò molto.» E così presi la testa della cavalla e la cavezza della puledra, e seguii Burrich mentre faceva avanzare i cavalli attraverso la folla e fuori dal palazzo. «C'è un recinto, da questa parte» disse, e nient'altro. Camminammo per un poco in silenzio. La folla si diradò rapidamente una volta che fummo lontani dal palazzo. Gli zoccoli dei cavalli risuonavano allegri sul terreno. Arrivammo al recinto, di fronte a un piccolo fienile con un capanno per i finimenti. Per un momento o due, parve quasi normale lavorare di nuovo accanto a Burrich. Tolsi la sella alla cavalla, e le asciugai il sudore nervoso mentre lui riempiva di granaglie una mangiatoia. Venne vicino a me mentre finivo con la cavalla. «È una bellezza» dissi con ammirazione. «Dalla mandria di messer Delbosco?» «Sì.» La sua parola troncò la conversazione. «Volevi parlarmi?» Trassi un profondo respiro, poi lo dissi con semplicità. «Ho appena visto Nasuto. Sta bene. Adesso è più vecchio, ma ha avuto una vita felice. Per tutti questi anni, Burrich, ho sempre creduto che quella notte tu lo avessi ucciso. Che gli avessi spaccato la testa, tagliato la gola, che lo avessi strangolato - ho immaginato una dozzina di modi diversi, mille volte. Per tutti questi anni.» Mi guardò incredulo. «Hai pensato che avrei ucciso un cane per qualcosa che avevi fatto tu?» «Sapevo solo che non c'era più. Non riuscivo a immaginare nient'altro. Pensavo che fosse la mia punizione.» Burrich rimase immobile per un lungo momento. Quando tornò a guardarmi, vidi il suo tormento. «Come devi avermi odiato.» «E temuto.» «Per tanti anni? E non hai mai imparato qualcosa di più su di me, non ti sei mai detto 'Lui non farebbe una cosa del genere'?» Scossi la testa lentamente.
«Oh, Fitz» mormorò Burrich addolorato. Uno dei cavalli venne ad annusarlo, e lui lo accarezzò con fare assente. «Io credevo che tu fossi cocciuto e intrattabile. Tu invece pensavi di aver subito una grave ingiustizia. Non c'è da stupirsi che fossimo tanto in contrasto.» «Si può rimediare» proposi piano. «Mi sei mancato, sai. Mi sei mancato molto, malgrado tutte le nostre divergenze.» Lo guardai riflettere, e per un momento o due pensai che mi avrebbe allungato una pacca sulla spalla e un sorriso e mi avrebbe detto di andare a prendere gli altri cavalli. Invece il suo viso si fece immobile, e poi severo. «E malgrado tutto, questo non ti ha fermato. Tu mi credevi capace di uccidere qualsiasi animale con cui usavi lo Spirito. Ma questo non ti ha impedito di farlo.» «Io non la vedo così» cominciai, ma Burrich scosse la testa. «Stiamo meglio separati, ragazzo. Meglio per tutti e due. Non ci possono essere incomprensioni se non c'è nessuna comprensione. Non potrò mai approvare o ignorare quello che fai. Mai. Vieni da me quando potrai dirmi che non lo farai più. Crederò alla tua parola, perché non hai mai infranto una promessa fatta a me. Ma fino ad allora, stiamo meglio separati.» Mi lasciò accanto al recinto e tornò a prendere gli altri cavalli. Rimasi lì a lungo, nauseato e stanco, e non soltanto per il veleno di Kettricken. Ma tornai a palazzo, parlai con la gente e mangiai, e addirittura sopportai in silenzio i sorrisi di scherno trionfante che Roano mi rivolse. Mi parve che in quella giornata fossero concentrati ben più di due giorni normali. Se non fosse stato per il mio stomaco che bruciava e gorgogliava, l'avrai trovata emozionante e suggestiva. Il pomeriggio e la prima sera furono dedicati ad amichevoli gare di tiro con l'arco, lotta e corse a piedi. Tutti partecipavano a queste gare, giovani e vecchi, maschi e femmine, e sembrava esserci una tradizione delle montagne che chiunque avesse vinto in un'occasione tanto fausta avrebbe avuto fortuna per un intero anno. Poi ci fu altro cibo, e canzoni, e danze, e uno spettacolo come quello delle marionette ma fatto tutto con le ombre su uno schermo di seta. Quando la gente cominciò a ritirarsi, ero più che pronto ad andare a letto. Fu un sollievo chiudere il paravento della mia camera e restare solo. Stavo finalmente togliendomi la mia fastidiosa camicia, e riflettendo che era stato un giorno veramente strano, quando qualcuno bussò alla porta. Prima che io potessi parlare, Trancia aprì lo schermo e scivolò dentro. «Regal richiede la tua presenza.» «Adesso?» chiesi con gli occhi pesti.
«Tu che ne dici?» domandò Trancia. Stancamente mi rimisi la camicia e lo seguii fuori dalla stanza. Gli alloggi di Regal erano a un livello superiore del palazzo, non esattamente al secondo piano, bensì su una terrazza di legno costruita su un lato della grande sala. Le pareti erano fatte di paraventi, e c'era una specie di balconata da dove si poteva guardar giù prima di scendere. Le stanze di Regal erano decorate molto più riccamente delle altre. In parte era evidentemente opera dei Chyurda, uccelli colorati dipinti su pannelli di seta e figurine incise nell'ambra. Ma mi sembrava che molti degli arazzi e delle statue e dei drappi se li fosse portati Regal per il suo piacere e comodità. Rimasi ad aspettare nell'anticamera mentre il principe finiva di fare il bagno. Quando uscì con calma in camicia da notte, io riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti. «Ebbene?» mi domandò. Lo guardai confusamente. «Mi avete convocato voi» gli ricordai. «Sì. Esatto. Vorrei sapere perché è stato necessario. Pensavo che tu avessi ricevuto una specie di addestramento in questo genere di cose. Quanto ancora avresti aspettato prima di farmi rapporto?» Non riuscii a pensare a una risposta. Non avevo considerato neppure remotamente di fare rapporto a Regal. A Sagace o Umbra, certamente, e a Veritas. Ma a Regal? «Devo ricordarti il tuo dovere? Fammi rapporto.» Raccolsi rapidamente le idee. «Volete ascoltare le mie osservazioni sul popolo dei Chyurda? O desiderate informazioni sulle erbe che coltivano? O...» «Voglio sapere cosa stai facendo per la tua... missione. Hai già agito? Hai un piano? Quando possiamo aspettarci risultati, e di che genere? Non voglio certamente che il principe mi caschi morto ai piedi, cogliendomi impreparato.» Non credevo alle mie orecchie. Sagace non aveva mai parlato così brutalmente o così apertamente del mio lavoro. Perfino quando la segretezza era assicurata, ci danzava attorno e mi lasciava trarre le mie conclusioni. Avevo visto Trancia andare nell'altra stanza, ma non avevo idea di dove fosse ora o come si propagasse il suono nell'alloggio. E Regal parlava come se stessimo discutendo di un cavallo da ferrare. «Stai facendo l'insolente, o sei soltanto stupido?» domandò. «Nessuno dei due» replicai con tutta la cortesia di cui disponevo. «Sono solo cauto. Mio principe.» Aggiunsi l'ultima parte sperando di portare la
conversazione a un livello più formale. «La tua cautela è sciocca. Del mio valletto mi fido, e qui non c'è nessun altro. Quindi fammi rapporto, mio assassino bastardo.» Pronunciò le ultime parole come se le avesse considerate brillantemente sarcastiche. Trassi un respiro e mi ricordai che ero un uomo del re. E in quel momento, in quel luogo, Regal era la cosa più vicina a un re che avrei trovato. Scelsi accuratamente le parole. «Ieri, nel giardino, la principessa Kettricken mi ha riferito che voi le avete detto che io sono un avvelenatore e che suo fratello Rurisk era il mio bersaglio.» «Bugia» disse con decisione Regal. «Non le ho detto niente del genere. O tu ti sei goffamente tradito, o lei stava solo cercando informazioni. Spero che tu non abbia rovinato tutto rivelandoti a lei.» Avrei saputo mentire molto meglio di lui. Lasciai correre i suoi commenti, e proseguii. Gli feci un resoconto completo del mio avvelenamento, e della visita mattiniera di Rurisk e Kettricken. Ripetei la conversazione parola per parola. E quando ebbi finito, Regal trascorse svariati minuti a guardarsi le unghie prima di rivolgermi di nuovo la parola. «E hai deciso un metodo e un momento?» Cercai di non mostrare la mia sorpresa. «Nelle presenti circostanze, ho pensato che fosse meglio abbandonare la missione.» «Che mancanza di fegato» osservò Regal con disgusto. «Avevo chiesto a mio padre di mandare quella vecchia baldracca, dama Maggiorana. Lei lo avrebbe già fatto fuori.» «Signore?» chiesi dubbiosamente. Il fatto che si riferisse a Umbra come a dama Maggiorana mi rese quasi certo che non sapesse assolutamente nulla. «Signore?» mi scimmiottò Regal, e per la prima volta compresi che era ubriaco. Fisicamente lo reggeva bene. Non puzzava, ma tutta la sua meschinità era emersa alla superficie. Sospirò pesantemente, come se fosse stato troppo disgustato per parlare, poi si stravaccò su un divano drappeggiato di coperte e cuscini. «Nulla è cambiato» mi informò. «Hai ricevuto una missione. Eseguila. Se sei astuto, farai in modo che sembri un incidente. Dato che sei stato così ingenuamente sincero con Kettricken e Rurisk, nessuno dei due se lo aspetterà. Ma voglio che venga fatto. Prima di domani sera.» «Prima del matrimonio?» chiesi incredulo. «Non pensate che la morte del fratello potrebbe spingere la sposa ad annullarlo?» «In tal caso sarebbe solo temporaneo. Ce l'ho in pugno, ragazzo. La ra-
gazza si lascia abbagliare facilmente. Questa parte è affar mio. Tu pensa solo a sbarazzarti di suo fratello. Adesso. Che metodo userai?» «Non ne ho idea.» Meglio dire così, invece di ammettere che non ne avevo intenzione. Sarei tornato a Castelcervo e avrei fatto rapporto a Sagace e Umbra. Se loro giudicavano che avessi scelto male, potevano fare di me quello che volevano. Ma ricordai la voce stessa di Regal, tanto tempo prima, che citava Sagace. «Non fare quello che non puoi disfare, fino a quando non avrai considerato quello che non potrai fare se lo farai.» «Quando lo saprai?» chiese Regal sarcastico. «Non lo so» ripetei, prendendo tempo. «Nel mio campo non si può agire in maniera avventata o approssimativa. Devo studiare Rurisk e le sue abitudini, esplorare le sue stanze e conoscere le abitudini dei suoi domestici. Devo trovare un modo per...» «Il matrimonio è fra due giorni» mi interruppe Regal. I suoi occhi si fecero distanti. «Io conosco già tutte queste informazioni. Quindi sarà più facile che progetti io l'assassinio per te. Vieni da me domani sera, e ti darò i tuoi ordini. Stai bene attento a questo, bastardo. Non voglio che tu agisca prima di avermi informato. Per me una sorpresa sarebbe spiacevole. Per te sarebbe mortale.» Alzò gli occhi fino a incontrare i miei, ma io mantenni il viso accuratamente inespressivo. «Puoi andare» mi disse regalmente. «Torna qui domani sera, alla stessa ora. Non costringermi a mandare Trancia a cercarti. Ha compiti più importanti. E non pensare che mio padre rimarrà all'oscuro della tua pigrizia. Ne verrà informato. Rimpiangerà di non aver mandato la Cagna Maggiorana a compiere questa piccola missione.» Si appoggiò pesantemente allo schienale del divano e sbadigliò, e io colsi una zaffata di vino, e l'odore sottile del fumo. Mi chiesi se stava prendendo le abitudini di sua madre. Tornai alle mie stanze, con l'intenzione di ponderare accuratamente tutte le mie opzioni e formulare un piano. Ma ero tanto stanco e ancora mezzo indisposto che mi addormentai non appena toccato il cuscino. 22 Dilemmi Nel sogno, il Matto stava accanto al mio letto. Mi guardava e scuoteva la testa. «Perché non posso parlar chiaro? Perché tu confondi tutto. Vedo un incrocio di strade attraverso la nebbia, e chi c'è sempre al centro? Tu. Credi che io ti tenga in vita perché sono ammaliato da te? No. È perché tu
crei così tante possibilità. Finché resti in vita, ci dai più scelte. Più scelte ci sono, più è possibile dirigersi verso acque più calme. Quindi non è per te, ma per i Sei Ducati che io ti proteggo. E il tuo dovere è lo stesso. Vivere, in modo da continuare a offrire possibilità.» Mi svegliai con lo stesso identico dilemma con cui ero andato a dormire. Non avevo idea di che cosa avrei fatto. Giacqui a letto, ascoltando i suoni casuali del palazzo che si svegliava. Avevo bisogno di parlare con Umbra, ma quello non era possibile. Quindi chiusi gli occhi e cercai di pensare come mi aveva insegnato lui. «Che cosa sai?» mi avrebbe chiesto, e: «Che cosa sospetti?» Dunque. Regal aveva mentito a re Sagace riguardo alla salute di Rurisk, e al suo atteggiamento verso i Sei Ducati. O, forse, re Sagace aveva mentito a me riguardo alle parole di Regal. O Rurisk aveva mentito riguardo alle sue inclinazioni verso di noi. Riflettei per un momento, e decisi di seguire la mia prima supposizione. Sagace non mi aveva mai mentito, questo lo sapevo, e Rurisk avrebbe potuto semplicemente lasciarmi morire invece che correre nella mia stanza. Dunque Regal voleva che Rurisk morisse. Ma lo voleva davvero? In tal caso, perché mi aveva denunciato a Kettricken? Forse lei aveva mentito. Riflettei. Improbabile. Forse avrebbe potuto sospettare che Sagace avrebbe mandato un assassino, ma perché accusare subito me? No. Aveva riconosciuto il mio nome. E sapeva di dama Maggiorana. E Regal mi aveva detto due volte, la sera prima, che aveva chiesto a suo padre di mandare dama Maggiorana. Ma allo stesso modo aveva rivelato il nome di dama Maggiorana a Kettricken. Chi voleva davvero mandare alla morte, quindi? Il principe Rurisk? O dama Maggiorana, o me, dopo la scoperta di un tentativo di assassinio? E in che modo questo sarebbe andato a suo vantaggio, e a vantaggio del matrimonio che aveva organizzato? E perché insisteva che io uccidessi Rurisk, quando ogni guadagno politico sarebbe andato perso senza di lui? Avevo bisogno di parlare con Umbra. Non potevo. In qualche modo dovevo decidere da solo. A meno che... Di nuovo i domestici mi portarono acqua e frutta. Mi alzai e indossai i miei fastidiosi vestiti, mangiai e lasciai le mie stanze. La giornata era del tutto simile alla precedente. L'atmosfera di festa stava cominciando a logorarmi. Tentai di usare a mio vantaggio il tempo che avevo a disposizione, aumentando la mia conoscenza del palazzo, i suoi meccanismi e la sua
struttura. Trovai le stanze di Eyod, di Kettricken e di Rurisk. Studiai attentamente la sala e i supporti della camera di Regal. Scoprii che Roano dormiva nelle stalle, come Burrich. Da Burrich me lo sarei aspettato; non avrebbe abbandonato la cura dei cavalli di Castelcervo prima di lasciare Jhaampe; ma perché Roano dormiva lì? Per fare colpo su Burrich, o per tenerlo d'occhio? Trancia e Borrasca dormivano nell'anticamera degli appartamenti di Regal, malgrado l'ampia disponibilità di stanze nel palazzo. Tentai di studiare la distribuzione e gli orari delle guardie e delle sentinelle, ma non ne trovai traccia. E per tutto il tempo tenni d'occhio Augusto. Passò gran parte del mattino prima che riuscissi ad avvicinarlo in circostanze tranquille. «Ho bisogno di parlarti. In privato.» Augusto apparve seccato, e girò attorno gli occhi per vedere se qualcuno ci stava guardando. «Non qui, Fitz. Magari quando torniamo a Castelcervo. Ho i miei doveri ufficiali da compiere, e...» Ero preparato alla sua risposta. Aprii la mano, per mostrargli la spilla che il re mi aveva dato tanti anni prima. «La vedi questa? L'ho avuta da re Sagace, molto tempo fa. E con la spilla, la sua promessa che, se mai avessi avuto bisogno di parlargli, dovevo solo mostrarla e sarei stato ammesso nelle sue stanze.» «Commovente» osservò cinico Augusto. «E hai qualche ragione per raccontarmi questa storia? Per impressionarmi con la tua importanza, forse?» «Ho bisogno di parlare con il re. Adesso.» «Non è qui» fece notare Augusto. Si girò per andarsene. Gli afferrai il braccio costringendolo a girarsi di nuovo. «Puoi contattarlo con l'Arte.» Mi scrollò via irritato, e girò di nuovo lo sguardo attorno. «No che non posso. E non lo farei, se potessi. Credi che chiunque conosca l'Arte abbia il permesso di interrompere il re?» «Ti ho mostrato la spilla. Te lo prometto, non la considererebbe un'interruzione.» «Non posso.» «Veritas, dunque.» «Non trasmetto con l'Arte a Veritas, a meno che non trasmetta lui per primo. Bastardo, tu non capisci. Hai seguito l'addestramento e hai fallito, e non hai proprio la minima comprensione di che cosa sia l'Arte. Non è come gridare un saluto a un amico dall'altra parte della valle. È una cosa seria, da non usare se non per ragioni serie.» Di nuovo mi voltò le spalle. «Voltati, Augusto, o lo rimpiangerai a lungo.» Colmai la mia voce di
minaccia. Era una minaccia vuota; non conoscevo davvero un modo per farglielo rimpiangere, se non lasciargli intuire che avrei spifferato tutto al re. «Sagace non sarà contento che tu abbia ignorato il suo pegno.» Augusto si voltò lentamente. Mi guardò con rabbia. «Va bene. Dunque lo farò, ma devi promettermi che te ne assumerai ogni responsabilità.» «Lo farò. Vuoi venire nelle mie stanze, dunque, e usare l'Arte per me adesso?» «Non c'è un altro posto?» «Le tue, allora» suggerii. «No, quello è anche peggio. Non prenderla male, bastardo, ma non voglio dare l'idea che ci frequentiamo.» «Non prenderla male, nobiluccio, ma per me è la stessa cosa.» Alla fine, su una panca di pietra, in una zona tranquilla del giardino delle erbe di Kettricken, Augusto sedette e chiuse gli occhi. «Che messaggio devo trasmettere a Sagace?» Ci pensai su. Dovevo giocare agli indovinelli, se volevo mantenere Augusto ignaro del mio vero problema. «Digli che la salute del principe Rurisk è eccellente, e che tutti possiamo sperare di vederlo vivere fino a tarda età. Regal desidera ancora dargli il dono, ma io non credo che sia opportuno.» Augusto aprì gli occhi. «L'Arte è un'importante...» «Lo so. Diglielo.» Così Augusto trasse alcuni respiri profondi, e chiuse gli occhi. Dopo alcuni momenti, li riaprì. «Dice di ascoltare Regal.» «Tutto qui?» «Era occupato. E molto irritato. Ora lasciami solo. Temo che tu mi abbia fatto passare da idiota davanti al mio re.» Avrei avuto una dozzina di risposte sarcastiche. Ma lo lasciai andare. Mi chiesi se aveva veramente usato l'Arte con re Sagace. Sedetti sulla panca di pietra e riflettei che non ne avevo ricavato assolutamente nulla, e avevo sprecato molto tempo. Mi venne una tentazione e provai. Chiusi gli occhi, respirai, mi concentrai, mi aprii. Sagace, mio re. Nulla. Nessuna risposta. Non dovevo aver trasmesso alcunché. Mi alzai e tornai nel palazzo. Di nuovo, quel giorno a mezzogiorno, Kettricken salì sul palco da sola. Con parole semplici come il giorno prima, annunciò di legarsi al popolo dei Sei Ducati. Da quel momento in poi, sarebbe stata il loro Sacrificio, in tutte le cose, per qualsiasi motivo richiesto dal popolo. E poi ringraziò la
sua gente, sangue del suo sangue, che l'aveva allevata e trattata bene, e ricordò loro che offriva a un altro popolo la sua lealtà non per mancanza di amore verso di loro, ma piuttosto nella speranza che questo portasse beneficio a entrambi i popoli. Di nuovo, il silenzio si prolungò mentre scendeva i gradini. L'indomani avrebbe dovuto promettersi a Veritas, come una donna si promette a un uomo. Da quello che capivo, Regal e Augusto sarebbero stati al suo fianco al posto di Veritas, e Augusto avrebbe usato l'Arte in modo che Veritas potesse vedere la sua sposa promettersi a lui. La giornata mi parve interminabile. Arrivò Jonqui e mi portò a visitare le Fontane Azzurre. Feci del mio meglio per apparire interessato e amabile. Tornammo a palazzo e ci trovammo altri menestrelli e festeggiamenti e l'ennesima esibizione artistica del popolo delle montagne. I giocolieri e gli acrobati si esibirono, i cani eseguirono i loro trucchi e gli spadaccini mostrarono la loro abilità in scontri preparati. Dovunque si vedevano spire di fumo azzurro, e molti passeggiavano e chiacchieravano agitando minuscoli turiboli. Comprendevo che per loro era come un dolce di semi di carris, una pazzia delle feste, tuttavia evitai le scie di fumo dei bracieri. Dovevo mantenere la mente limpida. Umbra mi aveva fornito una pozione per liberare la testa dall'ubriachezza, ma non ne avevo una contro il fumo e non sapevo se esistesse. E non ero abituato al fumo. Trovai un angolo più pulito e rimasi apparentemente ad ascoltare affascinato il canto di un menestrello, e intanto osservavo Regal da sopra la sua spalla. Regal sedeva a un tavolo, fiancheggiato da due bracieri d'ottone. Augusto, molto sulle sue, sedeva a una certa distanza da lui. Di tanto in tanto parlavano, Augusto seriamente, il principe con noncuranza. Non ero abbastanza vicino per sentire le parole, ma lessi sulle labbra di Augusto il mio nome e la parola Arte. Vidi Kettricken avvicinarsi a Regal, e notai che evitava di trovarsi direttamente sul percorso del fumo. Regal le parlò a lungo, languido e sorridente, e a un certo punto tese la mano per batterla sugli anelli d'argento che la principessa indossava. Sembrava appartenere alla categoria di coloro che il fumo rende chiacchieroni e presuntuosi. Kettricken pareva vacillare come un uccello sul ramo, ora avvicinandosi a lui con un sorriso, ora ritirandosi e facendosi più formale. Poi arrivò Rurisk e rimase in piedi dietro sua sorella. Parlò brevemente con Regal, e poi prese il braccio di Kettricken e la trasse via. Trancia apparve e rifornì i bracieri di Regal. Regal lo ringraziò con un sorriso sciocco e disse qualcosa, indicando l'intera sala con un cenno della mano. Trancia rise, e se ne andò. Poco dopo, arrivarono Roano e Borrasca per parlare con Regal. Augusto si
alzò e si allontanò indignato. Regal lo guardò male, e mandò Roano a riportarlo indietro. Augusto tornò, ma non di buon grado. Regal lo rimproverò e Augusto lo folgorò con lo sguardo, poi abbassò gli occhi e si arrese. Avrei tanto voluto essere abbastanza vicino da sentire quello che dicevano. Sentivo che decisamente stava succedendo qualcosa. Forse non aveva nulla a che fare con me e la mia missione. Ma in qualche modo ne dubitavo. Ripassai la mia misera scorta di fatti, sicuro che mi sfuggisse il significato di qualcosa. Ma poteva darsi che mi stessi sbagliando. Forse stavo reagendo in modo sproporzionato. Forse la via più sicura era semplicemente fare come Regal mi chiedeva e lasciare ogni responsabilità a lui. Forse era meglio risparmiare tempo e tagliarmi la gola da solo. Potevo, naturalmente, andare dritto da Rurisk, dirgli che, malgrado i miei migliori sforzi, Regal lo voleva ancora morto, e implorare asilo. Dopotutto, chi non avrebbe accolto con entusiasmo un sicario di professione che aveva già tradito un padrone? Potevo dire a Regal che avrei ucciso Rurisk e poi semplicemente non farlo. Considerai seriamente l'ipotesi. Potevo dire a Regal che avrei ucciso Rurisk, e poi uccidere lui. Era il fumo, mi dissi. Soltanto il fumo avrebbe potuto far apparire saggia una simile idea. Potevo andare da Burrich e rivelargli che ero un sicario, e chiedergli un consiglio sulla mia situazione. Potevo prendere la cavalla della principessa e scappare fra le montagne. «Allora, ti stai divertendo?» chiese Jonqui, avvicinandosi e prendendomi sottobraccio. Mi resi conto che adesso stavo fissando un giocoliere che si destreggiava con coltelli e torce. «Ricorderò a lungo questa esperienza» risposi. E poi suggerii una passeggiata nel fresco dei giardini. Più tardi quella sera, mi presentai alla camera di Regal. Questa volta mi fece entrare Borrasca, sorridendo piacevolmente. «Buonasera» mi accolse, e a me parve di entrare nella tana del lupo. Ma l'aria nella stanza era blu di fumo, e sembrava quella la fonte dell'allegria di Borrasca. Regal mi fece aspettare di nuovo, e sebbene io abbassassi il mento sul petto e respirassi lentamente, sapevo che il fumo mi stava influenzando. Controllati, mi ricordai, e cerca di reprimere l'esaltazione. Mi agitai sulla sedia diverse volte, e finalmente decisi di coprirmi visibilmente la bocca e il naso con una mano. Non servì molto a difendermi dal fumo. Alzai lo sguardo quando il paravento della camera più interna scivolò di
lato, ma era solo Trancia. Gettò un'occhiata a Borrasca, poi venne a sedersi accanto a me. Dopo un momento del suo silenzio, chiesi: «Adesso Regal mi incontrerà?» Trancia scosse la testa. «E... in compagnia. Ma mi ha affidato tutto quello che ti serve.» Aprì la mano per mostrarmi un minuscolo sacchetto bianco. «Ha ottenuto questo per te. Confida che approverai. Una piccola quantità mescolata nel vino causa la morte, ma non subito. Non ci saranno neanche sintomi di morte per diverse settimane, e poi verrà come una sonnolenza che aumenta a poco a poco. La vittima non soffre» aggiunse, come se questa fosse stata la mia preoccupazione principale. Frugai nella memoria. «Si tratta di gomma Kex?» Avevo sentito parlare di un simile veleno, ma non l'avevo mai visto. Se Regal aveva una fonte, Umbra avrebbe voluto saperlo. «Non ne conosco il nome, ma non importa. Ti basti questo. Il principe Regal dice che avrai l'occasione di usarlo stanotte. Dovrai creare tu l'occasione.» «Che cosa si aspetta da me? Che io vada nelle sue stanze, bussi ed entri con il vino avvelenato? Non è un po' troppo ovvio?» «Fatto in questo modo, certo che lo è. Ma sicuramente il tuo addestramento ti ha insegnato maggior finezza.» «Il mio addestramento mi dice che questi argomenti non si discutono con un valletto. Voglio un ordine di Regal, o non farò nulla.» Trancia sospirò. «Il mio padrone lo ha previsto. Questo è il suo messaggio. Per la spilla che porti e lo stemma sul tuo petto, te lo ordina. Rifiuta, e rinnegherai il tuo re. Commetterai un tradimento, e lui farà in modo che tu sia impiccato per questo.» «Ma io...» «Prendilo e vattene. Più aspetti, più si fa tardi, e più la tua visita alle stanze di Rurisk potrebbe suscitare sospetti.» Si alzò di scatto e mi lasciò. Borrasca sedeva come un rospo nell'angolo, osservandomi con un sorriso. Avrei dovuto uccidere tutti e due prima che fossimo ritornati a Castelcervo, se volevo conservare la mia utilità come assassino. Mi domandai se lo sapevano. Restituii il sorriso a Borrasca, sentendo il fumo pungermi in fondo alla gola. Presi il mio veleno e me ne andai. Arrivato alla base della scala di Regal, mi ritirai contro il muro dove era più buio, e mi arrampicai il più in fretta possibile sopra uno dei sostegni della stanza di Regal. Aggrappato come un gatto, mi rannicchiai contro i
sostegni del pavimento della stanza e attesi. E attesi. Fino a quando fra il fumo che mi girava nella testa, e la mia stanchezza, e i postumi delle erbe di Kettricken, mi chiesi se non stavo sognandomi tutto. Considerai, finalmente, che Regal mi aveva detto di avere richiesto specificamente dama Maggiorana. Ma Sagace aveva mandato me. Ricordavo quanto Umbra fosse rimasto perplesso. E alla fine rammentai le parole che mi aveva rivolto. Il mio re mi aveva gettato in pasto a Regal? E se lo aveva fatto, che cosa dovevo all'uno e all'altro? Alla fine, vidi Borrasca andarsene e, dopo un periodo che parve molto lungo, tornare con Roano. Riuscivo a sentire poco attraverso il pavimento, ma abbastanza per riconoscere la voce di Regal. Stava rivelando a Roano i miei piani per la serata. Quando ne fui certo, strisciai fuori dal mio nascondiglio, discesi lungo i sostegni e mi ritirai nella mia stanza. Lì mi accertai di avere con me un certo equipaggiamento speciale. Mi rammentai, fermamente, che ero un uomo del re. Lo avevo detto a Veritas. Lasciai la mia stanza e camminai in punta di piedi attraverso il palazzo. Nella grande sala, la gente comune dormiva su giacigli sul pavimento, in cerchi concentrici attorno al palco, per essere sicuri che l'indomani avrebbero avuto il posto migliore per assistere alla promessa della loro principessa. Camminai fra loro e non si mossero. Tanta fiducia, così malriposta. Le stanze della famiglia reale erano proprio in fondo al palazzo, le più lontane dall'entrata principale. Non c'erano guardie. Oltrepassai la porta della camera da letto del solitario re, e anche la porta di Rurisk, e mi fermai a quella di Kettricken. Era decorata di colibrì e fiori di gelsomino. Pensai che sarebbe piaciuta tanto al Matto. Bussai lievemente e attesi. Gli istanti passarono lenti. Provai di nuovo. Sentii il fruscio di piedi nudi sul legno, e il paravento dipinto si aprì. I capelli di Kettricken erano stati intrecciati da poco, ma alcune ciocche fini si erano già sciolte attorno al suo viso. La lunga camicia da notte bianca accentuava il suo colorito chiaro, così che sembrava pallida come il Matto. «Avevi bisogno di qualcosa?» chiese assonnata. «Solo una risposta.» Il fumo ancora si ingarbugliava con i miei pensieri. Volevo sorridere, volevo apparirle spiritoso e brillante. Pallida bellezza, pensai. Accantonai l'impulso. La principessa stava aspettando. «Se io uccidessi tuo fratello stanotte,» dissi cautamente «tu che cosa faresti?» Kettricken non trasalì nemmeno. «Ti ucciderei, naturalmente. Almeno, lo esigerei, secondo giustizia. Dato che adesso sono promessa alla tua famiglia, non potrei versare io stessa il tuo sangue.»
«Ma proseguiresti con il matrimonio? Sposeresti Veritas lo stesso?» «Non vuoi entrare?» «Non ho tempo. Sposeresti Veritas?» «Mi sono promessa ai Sei Ducati per essere la loro regina. Mi sono promessa al loro popolo. Domani pronuncerò la mia promessa all'erede al trono. Non a un uomo chiamato Veritas. Ma in ogni caso, pensaci, qual è la promessa più vincolante? Io sono già legata. Non è solo la mia parola, ma quella di mio padre. E di mio fratello. Non sarei felice di sposare un uomo che avesse ordinato la morte di mio fratello. Ma non è all'uomo che sono promessa. È ai Sei Ducati. Vengo offerta al regno, nella speranza che ciò porti beneficio al mio popolo. Là dovrò andare.» Annuii. «Grazie, mia signora. Perdonami se ho disturbato il tuo riposo.» «Dove vai, adesso?» «Da tuo fratello.» Rimase in piedi sulla porta mentre io mi giravo e mi incamminavo verso la camera di Rurisk. Bussai e attesi. Il principe doveva essere inquieto, perché aprì la porta molto più in fretta di Kettricken. «Posso entrare?» «Certamente.» Cortese come mi aspettavo. L'inizio di una risatina importunò la mia determinazione. Umbra non sarebbe orgoglioso di te in questo momento, mi dissi, e rifiutai di sorridere. Entrai, e Rurisk chiuse la porta dietro di me. «Vogliamo bere un po' di vino?» gli chiesi. «Se lo desideri» rispose il principe, perplesso ma educato. Sedetti su una sedia mentre Rurisk stappava una caraffa e versava il vino. C'era un turibolo anche sul suo tavolo, ancora caldo. Prima non lo avevo visto fare uso del fumo. Probabilmente aveva pensato che fosse più sicuro aspettare di trovarsi da solo nella sua stanza. Ma non si può mai dire quando arriverà la visita di un assassino con una tasca piena di morte. Allontanai un sorriso idiota. Rurisk riempì due bicchieri. Mi protesi in avanti, e gli mostrai il mio involucro di carta. Versai con precisione il contenuto nel suo vino, presi il bicchiere e lo feci girare per controllare che si sciogliesse bene. Glielo tesi. «Vedi, sono venuto ad avvelenarti. Tu muori. Poi Kettricken mi uccide. Quindi sposa Veritas.» Sollevai il mio bicchiere e sorseggiai il vino. Idromele. Da Armento, indovinai. Probabilmente parte dei doni di matrimonio. «E allora, Regal che cosa ci guadagna?» Rurisk osservò il suo vino con disgusto, e lo spinse da parte. Mi prese il
bicchiere di mano e bevve. Non c'era sorpresa nella sua voce. «Si libera di te. Immagino che non apprezzi la tua compagnia. È stato molto gentile con me, offrendomi molti doni, così come al mio regno. Ma se io morissi, Kettricken rimarrebbe l'unica erede del Regno delle Montagne. Sarebbe un vantaggio per i Sei Ducati, non è vero?» «Già non riusciamo a proteggere la terra che abbiamo. E io credo che Regal lo vedrebbe come un vantaggio per Veritas, non per il regno.» Sentii un rumore fuori dalla porta. «Questo sarà Roano, che viene a cogliermi sul fatto mentre ti sto avvelenando» ipotizzai. Mi alzai, andai alla porta e l'aprii. Kettricken entrò nella stanza spingendomi via. Richiusi il paravento in fretta dietro di lei. «È venuto ad avvelenarti» comunicò a Rurisk. «Lo so» disse solennemente suo fratello. «Ha messo il veleno nel mio vino. È per questo che sto bevendo il suo.» Riempì di nuovo il bicchiere dalla caraffa, e lo offrì a Kettricken. «Idromele» la esortò quando la principessa scosse la testa. «Non ci trovo nulla di divertente» scattò Kettricken. Rurisk e io ci guardammo e sorridemmo come due idioti. Era il fumo. Suo fratello sorrise benignamente. «Le cose stanno così. FitzChevalier ha scoperto stanotte di essere un uomo morto. Troppa gente sa che è un sicario. Se uccide me, tu ucciderai lui. Se non mi uccide, come fa a tornare a casa ad affrontare il suo re? Anche se il suo re lo perdona, metà della corte saprà della sua professione: questo lo rende inutile. I bastardi inutili sono una debolezza per la casa reale.» Rurisk terminò la sua conferenza tracannando il resto del bicchiere. «Kettricken mi ha detto che, perfino se io ti uccidessi stanotte, domani si prometterebbe lo stesso a Veritas» lo informai. Di nuovo, Rurisk non ne fu sorpreso. «Che cosa ci guadagnerebbe con un rifiuto? Soltanto l'inimicizia dei Sei Ducati. Infrangerebbe la promessa fatta al tuo popolo, una grande vergogna per il nostro. Verrebbe cacciata via, e nessuno ne trarrebbe vantaggio. Questo non mi riporterebbe in vita.» «E la tua gente non si ribellerebbe al pensiero di darla a un uomo del genere?» «Li proteggeremmo da questa nozione. O meglio, Eyod e mia sorella li proteggerebbero. Un intero regno deve entrare in guerra per la morte di un uomo? Ricorda, qui io sono il Sacrificio.» Per la prima volta compresi oscuramente che cosa significava. «Presto potrei causarti imbarazzo» lo avvertii. «Mi è stato detto che è un
veleno lento. Ma ho controllato. Non lo è. È un semplice estratto di colchico, ed è piuttosto rapido, se somministrato in quantità sufficiente. Per prima cosa, provoca tremiti.» Rurisk tese le mani sul tavolo, e stavano tremando. Kettricken appariva furiosa con noi. «La morte segue in fretta. E suppongo che io dovrò essere colto sul fatto e liquidato insieme a te.» Rurisk si strinse la gola, poi lasciò ricadere la testa all'indietro. «Sono stato avvelenato!» intonò drammaticamente. «Ne ho avuto abbastanza» sputò Kettricken, proprio mentre Roano strappava via il paravento. «Tradimento!» gridò. Impallidì alla vista di Kettricken. «Mia signora principessa, ditemi che non avete bevuto il vino! Questo bastardo traditore lo ha avvelenato.» La sua affermazione drammatica fu alquanto rovinata dalla mancanza di reazione. Kettricken e io ci guardammo. Rurisk rotolò dalla sedia sul pavimento. «Oh, piantala» sibilò la principessa. «Ho messo il veleno nel vino» dissi briosamente a Roano. «Proprio come mi è stato ordinato.» E poi la schiena di Rurisk si inarcò nella prima convulsione. Bastò un momento accecante per comprendere di essere stato ingannato. Veleno nel vino. Un dono di idromele di Armento, probabilmente offerto quella sera stessa. Regal non si era fidato di me. Era abbastanza facile avvelenare il vino, in quel luogo fiducioso. Guardai Rurisk inarcarsi di nuovo, sapendo che non potevo far niente. Già l'insensibilità si stava diffondendo nella mia bocca. Mi chiesi, quasi distrattamente, quanto fosse massiccia la dose. Avevo bevuto solo un sorso. Sarei morto lì, o su un patibolo? Kettricken stessa comprese, un attimo dopo, che suo fratello stava morendo davvero. «Bastardo senza cuore!» esplose guardandomi, e poi crollò in ginocchio al fianco di Rurisk. «Ingannarlo con scherzi e fumo, sorridere con lui mentre muore!» I suoi occhi lampeggiarono verso Roano. «Esigo la sua morte. Di' a Regal di venire qui, subito!» Io mi stavo spostando verso la porta, ma Roano fu più veloce. Ma certo. Niente fumo per lui quella notte. Era più veloce e più muscoloso di me, e la sua mente era più limpida. Mi serrò con le braccia e mi trascinò per terra. Mi sferrò un pugno nel ventre, la faccia vicina alla mia. Conoscevo quell'alito, quella puzza di sudore. Ferrigno l'aveva sentita prima di morire. Ma questa volta avevo il coltello nella manica, affilatissimo e trattato con il veleno più rapido che Umbra conoscesse. Glielo cacciai in corpo. Riuscì
a colpirmi due volte, due solidi destri, prima di ricadere al suolo, morente. Addio, Roano. Mentre crollava vidi improvvisamente un giovane stalliere lentigginoso che diceva: «Seguitemi, da bravi.» Avrebbe potuto andare in tanti modi diversi. Avevo conosciuto quell'uomo; uccidendolo avevo ucciso una parte della mia stessa vita. Burrich sarebbe stato molto seccato con me. Tutti quei pensieri impiegarono una frazione di secondo. Il braccio steso di Roano non aveva ancora colpito il pavimento che io già mi muovevo verso la porta. Kettricken fu anche più veloce. Usò una brocca d'ottone, credo. Vidi solo uno scoppio di luce bianca. Quando tornai in me, mi faceva male tutto. Il dolore più immediato era nei polsi, dato che le corde che me li legavano dietro la schiena erano insopportabilmente strette. Mi stavano portando - più o meno - da qualche parte. Né Borrasca né Trancia sembravano preoccuparsi particolarmente di evitare che urtassi il pavimento. C'era Regal, con una torcia, e un Chyurda che non conoscevo apriva la strada con un'altra torcia. Non sapevo neanche dove mi trovavo, se non che eravamo all'aperto. «Non possiamo metterlo da qualche altra parte? Un posto più sicuro?» stava domandando Regal. Qualcuno borbottò una risposta, e Regal disse: «No, hai ragione. Non vogliamo suscitare un trambusto proprio adesso. Domani basterà. Anche se non credo che vivrà tanto a lungo.» Una porta si aprì e io fui gettato a capofitto su un pavimento di terra battuta; la caduta fu a malapena attutita da uno strato di paglia. Inalai polvere e pula. Non riuscivo a tossire. Regal fece un cenno con la torcia. «Vai dalla principessa» ordinò a Trancia. «Dille che sarò lì immediatamente. Vedi se c'è qualcosa che possiamo fare per alleviare le sofferenze del principe. Tu, Borrasca, vai a chiamare Augusto alle sue stanze. Avremo bisogno della sua Arte, in modo che re Sagace sappia di aver allevato uno scorpione. Avrò bisogno della sua approvazione prima che il bastardo muoia. Se vivrà abbastanza a lungo da essere condannato. Vattene, adesso. Vai.» E se ne andarono, con il Chyurda che illuminava la via con la torcia. Regal rimase a guardarmi. Attese che i loro passi fossero lontani, poi mi diede un calcio selvaggio nelle costole. Lanciai un grido senza parole, perché la mia bocca e la gola erano insensibili. «Mi sembra che abbiamo già vissuto questa scena, non è vero? Tu che sguazzi nella paglia, e io che ti guardo, chiedendomi quale sfortuna ti abbia portato nella mia vita. Strano, come tante cose finiscano come sono cominciate.
«E anche la giustizia è in gran parte un cerchio. Considera come stai soccombendo al veleno e al tradimento. Proprio come mia madre. Ah, sei sorpreso? Pensavi che non lo sapessi? Invece sì. Conosco molte cose che non immagini. Tutto, dalla puzza di dama Maggiorana a come hai perso la tua Arte quando Burrich non ti ha più permesso di attingere alla sua forza. È stato svelto ad abbandonarti, quando ha visto che altrimenti avrebbe potuto costargli la vita.» Un tremito mi scosse. Regal gettò indietro la testa e rise. Poi emise un sospiro e si girò. «Peccato che non potrò restare a guardare. Ma ho una principessa da consolare. Poverina, promessa a un uomo che odia già.» A quel punto Regal se ne andò, o me ne andai io. Non ne sono sicuro. Fu come se il cielo si fosse aperto e io vi fossi rifluito. «Essere aperti» mi disse Veritas «è semplicemente non essere chiusi.» Poi sognai, credo, il Matto. E Veritas, addormentato con le braccia attorno alla testa, come per tenere dentro i pensieri. E la voce di Galen, che echeggiava in una stanza oscura e fredda. «Domani è meglio. Quando usa l'Arte, è a malapena consapevole della stanza dove si trova. Non abbiamo un legame abbastanza forte perché io possa riuscirci a distanza. Ci vorrà il contatto fisico.» Uno squittio nell'oscurità, un topo fastidioso, una mente che non conoscevo. «Fallo adesso» insistette. «Non essere sciocco» lo rimproverò Galen. «Dobbiamo perdere tutto, per colpa della fretta? Domani basterà. Lascia che di questa parte mi preoccupi io. Tu sistema ogni cosa lì. Borrasca e Trancia ne sanno troppo. E il capo stalliere ci ha infastiditi troppo a lungo.» «Mi lasci in mezzo a un bagno di sangue» squittì irritato il topo. «Attraversalo per raggiungere il trono» suggerì Galen. «E Roano è morto. Chi si occuperà dei miei cavalli mentre torniamo?» «Risparmia il capo stalliere, allora» disse Galen disgustato. E poi, riflettendo: «Lo sistemerò io, quando sarete tornati a casa. Non sarà un problema. Ma quanto agli altri, meglio sbrigarsi. Magari il bastardo ha avvelenato altro vino, nei tuoi alloggi... che peccato che i tuoi domestici lo abbiano bevuto.» «Già. Dovrai trovarmi un nuovo valletto.» «Faremo in modo che ci pensi tua moglie. Adesso dovresti andare da lei. Ha appena perduto suo fratello. Dovresti essere inorridito per quello che è successo. Cerca di dare la colpa al bastardo, piuttosto che a Veritas. Ma non essere troppo convincente. E domani, quando sarai in lutto come lei, ebbene, vedremo a cosa conduce la simpatia reciproca.»
«È grossa come una mucca e pallida come un pesce.» «Ma con le terre delle montagne, avrai un regno interno facile da difendere. Sai che i Ducati della Costa non ti aiuteranno, e Armento e Riccaterra non possono resistere da soli fra le montagne e la costa. E poi, non è necessario che lei viva più a lungo della nascita del suo primo figlio.» «FitzChevalier Lungavista» mormorò Veritas nel sonno. Re Sagace e Umbra giocavano agli astragali. Pazienza si mosse nel sonno. «Chevalier?» chiese piano. «Sei tu?» «No» dissi. «Non c'è nessuno. Proprio nessuno.» Lei annuì e continuò a dormire. Quando i miei occhi riuscirono a focalizzarsi di nuovo, era buio e io ero solo. Mi tremava la mandibola, e il mento e il davanti della camicia erano bagnati di saliva. L'insensibilità sembrava diminuita. Mi chiesi se questo significava che il veleno non mi avrebbe ucciso. Non mi sembrava importante; avrei avuto comunque poche possibilità di difendermi. Le mani erano intorpidite. Almeno non facevano più male. Avevo una sete orribile. Mi chiesi se Rurisk era già morto. Aveva bevuto molto più vino di me. E Umbra mi aveva detto che era un veleno rapido. Come in risposta alla mia domanda, un grido di assoluto dolore salì fino alla luna. L'ululato parve rimanere sospeso lassù, e strapparmi via il cuore mentre si alzava. Il padrone di Nasuto era morto. Mi gettai verso il cane, lo circondai con lo Spirito. Lo so, lo so, e un brivido ci percorse tutti e due mentre colui che aveva amato scompariva al di là del raggiungibile. La grande solitudine ci avvolse insieme. Ragazzo? Debole, ma reale. Una zampa e un muso, e la porta si aprì a poco a poco. Zampettò verso di me, e il suo naso mi diceva quanto puzzavo. Fumo e sangue e sudore di paura. Quando mi raggiunse, si distese al mio fianco, e mi mise la testa sulla schiena. Con il contatto tornò il legame. Ancora più forte adesso che Rurisk non c'era più. Mi ha lasciato. Fa male. Lo so. Passò molto tempo. Mi liberi? Il vecchio cane sollevò la testa. Gli uomini non sono capaci di soffrire come i cani. Dovremmo essere grati per questo. Ma dalle profondità della sua angoscia, Nasuto sì alzò lo stesso, e cominciò a rosicchiare i legacci con i suoi denti logori. Li sentii sciogliersi, un filo per volta, ma non avevo neanche la forza di strapparli. Nasuto girò la testa per roderli con i molari. Alla fine i legacci si ruppero. Portai le braccia in avanti. Tutto cominciò a far male in modo diverso. Ancora non sentivo le mani, ma potevo girar-
mi e togliere la faccia dalla paglia. Io e Nasuto emettemmo un sospiro simultaneo. Il cane mi mise la testa sul petto e io lo circondai con un braccio rigido. Un altro tremito mi scosse. I muscoli si contrassero e si rilassarono così violentemente che vidi puntini di luce. Ma passò, e io respiravo ancora. Aprii gli occhi di nuovo. La luce mi accecava, ma non sapevo se era reale. Accanto a me, la coda di Nasuto batté la paglia. Burrich lentamente si inginocchiò accanto a noi. Mise una mano gentile sulla schiena di Nasuto. Mentre i miei occhi si abituavano alla lanterna, scorsi il dolore sul suo viso. «Stai morendo?» mi chiese. La sua voce era tanto neutra che era come sentir parlare una pietra. «Non ne sono sicuro» cercai di dire. La mia bocca ancora non funzionava molto bene. L'uomo si alzò e si allontanò. Portò con sé la lanterna. Giacqui da solo nell'oscurità. Poi la luce tornò, e anche Burrich, con un secchio d'acqua. Mi sollevò la testa e me ne versò un poco in bocca. «Non ingoiarla» mi avvertì, ma non sarei riuscito comunque a controllare i muscoli. Mi sciacquò la bocca altre due volte, e poi quasi mi annegò cercando di farmi bere un sorso. Allontanai il secchio con mano legnosa. «No» riuscii a dire. Dopo un poco, la mia testa parve schiarirsi. Mossi la lingua contro i denti, e riuscii a sentirli. «Ho ucciso Roano» gli dissi. «Lo so. Hanno portato il suo corpo alle stalle. Nessuno ha voluto dirmi niente.» «Come hai fatto a trovarmi?» Burrich sospirò. «Soltanto una sensazione.» «Hai sentito Nasuto.» «Sì. L'ululato.» «Non intendevo quello.» Rimase in silenzio per lungo tempo. «Sentire una cosa non è come usarla.» Non riuscii a pensare a una risposta. Dopo un poco dissi: «È stato Roano a pugnalarti sulle scale.» «Davvero?» Burrich rifletté. «Mi ero chiesto perché i cani avessero abbaiato così poco. Lo conoscevano. Solo Ferrigno ha reagito.» D'un tratto le mie mani ripresero vita dolorosamente. Me le piegai sul petto e mi dondolai sopra di esse. Nasuto uggiolò. «Piantala» sibilò Burrich. «In questo momento non riesco a farne a meno» replicai. «Mi fa tutto
talmente male che sto traboccando da tutte le parti.» Burrich rimase in silenzio. «Mi aiuterai?» chiesi infine. «Non lo so» disse piano, e poi, quasi implorante: «Fitz, che cosa sei? Che cosa sei diventato?» «Io sono quello che sei tu» gli dissi onestamente. «Un uomo del re. Burrich, vogliono uccidere Veritas. Se lo fanno, Regal diventerà re.» «Di che stai parlando?» «Se restiamo qui mentre te lo spiego, succederà. Aiutami a uscire di qui.» Burrich parve impiegare una vita a pensarci. Ma alla fine mi aiutò a tirarmi in piedi, e io mi aggrappai barcollando alla sua manica, per uscire dalle stalle e nella notte. 23 Il matrimonio L'arte della diplomazia è la fortuna di conoscere più segreti del vostro rivale di quanto lui conosca i vostri. Trattate sempre da una posizione di potere. Queste erano le massime di Sagace. E Veritas le seguì sempre. «Devi trovare Augusto. È lui l'unica speranza di Veritas.» Eravamo seduti immersi nella luce pallida che precede l'alba sul fianco di una collina sopra il palazzo. Non eravamo andati molto lontano. Il terreno era ripido, e io non ero nelle condizioni adatte per una scampagnata. Cominciavo a sospettare che il calcio di Regal avesse rinnovato gli antichi danni inflitti da Galen alle mie costole. Ogni respiro profondo mi trafiggeva. Il veleno di Regal ancora mi faceva rabbrividire, e le ginocchia mi cedevano spesso e imprevedibilmente. Da solo non riuscivo a stare in piedi, perché le gambe non mi reggevano. Non potevo neppure aggrapparmi al tronco di un albero e tenermi dritto: non avevo forza nelle braccia. Nell'alba attorno a noi echeggiavano i richiami degli uccelli della foresta, gli scoiattoli radunavano scorte per l'inverno e gli insetti frinivano. Era difficile, nel mezzo di tutta quella vita, chiedersi quanta parte del danno fosse irreversibile. I giorni e la forza della mia gioventù erano forse già passati, e non mi restavano altro che tremiti e debolezza? Tentai di allontanare quella domanda, di concentrarmi sui problemi più gravi dei Sei Ducati. Rimasi immobile, come Umbra mi aveva insegnato. Attorno a noi, gli alberi erano
immensi, una presenza simile alla pace. Compresi perché Eyod non voleva tagliarli per il legname. Gli aghi erano morbidi sotto i nostri passi, il profumo era rilassante. Avrei voluto semplicemente sdraiarmi e dormire, come faceva Nasuto al mio fianco. Il nostro dolore era ancora mescolato, ma almeno Nasuto poteva sfuggire alla sua parte nel sonno. «Che cosa ti fa pensare che Augusto ci aiuterà?» chiese Burrich. «Ammesso che riesca a portarlo qui.» Ritornai con la mente al mio dilemma. «Non credo che sia coinvolto. Credo che sia ancora leale al re.» Presentai l'informazione a Burrich come frutto di attenta riflessione. Non era tipo da farsi convincere dalle voci fantasma che avevo sentito nella mia mente, perciò non potevo dirgli che Galen non aveva suggerito di uccidere Augusto, e che quindi probabilmente questi non era al corrente del piano. Ancora non ero sicuro io stesso di ciò che mi era successo. Regal non sapeva usare l'Arte. E anche in tal caso, come avrei fatto a origliare in una trasmissione dell'Arte fra altre due persone? No, doveva essere qualcosa d'altro, un'altra magia. Opera di Galen? Era capace di una magia tanto forte? Non lo sapevo. Non lo conoscevo così bene. Mi costrinsi a mettere tutto da parte. Per il momento, combaciava con i fatti che avevo, meglio di qualsiasi altra supposizione. «Se è leale al re, e non sospetta di Regal, allora è anche leale a Regal» fece notare Burrich come se io fossi stato un idiota. «E allora in qualche modo lo dovremo costringere. Veritas deve essere informato.» «Certo. Basterà che io vada dentro, punti un coltello alla schiena di Augusto e lo porti fuori. Nessun problema.» Ero a corto di idee. «Corrompi qualcuno che lo attiri qui. Poi saltagli addosso.» «Anche se conoscessi qualcuno da corrompere, cosa potremmo usare?» «Ho questo.» Toccai l'orecchino che portavo. Burrich lo guardò e quasi sobbalzò. «Dove l'hai preso?» «Me lo ha dato Pazienza. Appena prima che me ne andassi.» «Non ne aveva il diritto!» E poi, più sommessamente: «Credevo che fosse sceso nella tomba con lui.» Rimasi in silenzio, aspettando. Burrich distolse lo sguardo. «Era di tuo padre. Gliel'ho dato io.» Parlava sottovoce. «Perché?» «Perché così volevo, evidentemente.» Per lui il discorso era chiuso.
Sollevai le mani e cominciai a slacciarlo. «No» disse ruvidamente Burrich. «Lascialo dov'è. Non è un oggetto da sprecare per corrompere qualcuno. E in ogni modo questi Chyurda non si lasciano corrompere.» Aveva ragione. Cercai di escogitare altri piani. Il sole stava salendo. Galen avrebbe agito al mattino. Forse aveva già agito. Avrei voluto sapere che cosa stava succedendo nel palazzo sotto di noi. Sapevano che ero scomparso? Kettricken si stava preparando a promettersi a un uomo che avrebbe odiato? Trancia e Borrasca erano già morti? Se no, potevo avvertirli e far sì che si rivoltassero contro Regal? «Arriva qualcuno» Burrich si schiacciò per terra. Io mi stesi sulla schiena, rassegnato a tutto. Non avevo più la forza fisica di combattere. «La conosci?» sussurrò Burrich. Girai la testa. Era Jonqui, preceduta da un cagnolino che non avrebbe mai più scalato un albero per Rurisk. «La sorella del re.» Non mi presi neanche la briga di sussurrare. Aveva in mano una delle mie camicie da notte, e un istante dopo il minuscolo cane stava balzando felice attorno a noi. Cercò di provocare Nasuto al gioco, ma Nasuto si limitò a guardarlo luttuosamente. Un istante dopo, Jonqui marciò su di noi. «Devi tornare indietro» mi disse senza preamboli. «E devi sbrigarti.» «È difficile tornare indietro» le dissi «senza affrettarmi alla morte.» Controllai se la seguivano altri cacciatori. Burrich si era alzato e aveva assunto una posizione difensiva dietro di me. «Niente morte» mi promise la donna con calma. «Kettricken ti ha perdonato. Le ho parlato per tutta la notte, ma sono appena riuscita a convincerla. Ha invocato il suo diritto di parentela a perdonare un parente per un'offesa a un altro parente. Secondo la nostra legge, se un parente perdona un parente, nessuno può opporsi. Il tuo Regal ha cercato di dissuaderla, ma è riuscito solo a farla arrabbiare. 'Qui, mentre sono in questo palazzo, posso sempre invocare la legge del Popolo delle Montagne' gli ha detto. Re Eyod è d'accordo. Non perché non pianga Rurisk, ma perché la forza e la saggezza della legge di Jhaampe devono essere rispettate, da tutti. Quindi devi tornare a palazzo.» Riflettei. «E tu, mi ha perdonato?» «No» replicò lei con un soffio sarcastico. «Non perdono l'assassino di mio nipote. Ma non posso perdonarti per qualcosa che non hai fatto. Non credo che avresti bevuto il vino che avevi avvelenato. Neppure un poco. Chi conosce i pericoli dei veleni sa di non provocarli. Avresti soltanto fatto
finta di bere, e non avresti affatto parlato di veleno. No. Questa è opera di qualcuno che si ritiene molto astuto, e crede che gli altri siano molto stupidi.» Non lo vedevo, ma avvertii che Burrich abbassava la guardia. Eppure io non riuscivo a rilassarmi completamente. «Perché Kettricken non può semplicemente perdonarmi e lasciarmi andare? Perché devo tornare a palazzo?» «Non c'è tempo per questo!» sibilò Jonqui, la cosa più vicina a un Chyurda arrabbiato che avessi mai visto. «Devo perdere mesi e anni per insegnarti tutto quello che so sugli equilibri? A una trazione opporre una spinta, a un respiro opporre un sospiro? Pensi che nessuno riesca a sentire il potere che proprio in questo momento cambia direzione e inclinazione? Una principessa ha il dovere di farsi barattare come una mucca. Ma mia nipote non è una pedina da vincere ai dadi. Chiunque abbia ucciso mio nipote chiaramente voleva che morissi anche tu. Devo lasciargli vincere la partita? Non credo proprio. Non so chi preferisco che vinca; per il momento, non permetterò a nessun giocatore di essere eliminato.» «Finalmente un discorso sensato» approvò Burrich. Si chinò e senza preamboli mi rimise in piedi. Il mondo traballò in modo allarmante. Jonqui si avvicinò e mise la spalla sotto il mio braccio. Cominciarono a camminare, e i miei piedi sfioravano il terreno come quelli di una marionetta. Nasuto si alzò pesantemente e ci seguì. E così tornammo al palazzo di Jhaampe. Burrich e Jonqui mi trascinarono attraverso la gente riunita in tutti i giardini e nel palazzo, fino alla mia stanza. A dire il vero suscitai poco interesse. Ero soltanto uno straniero che la sera prima si era concesso troppo vino e troppo fumo. La gente era intenta alla ricerca di un buon posto da cui vedere il palco e non si curò di me. Non era un'atmosfera di cordoglio, quindi supposi che la notizia della morte di Rurisk non fosse ancora stata diffusa. Quando finalmente entrammo nella mia stanza, il viso placido di Jonqui si offuscò. «Io non ho fatto questo! Ho solo preso una camicia da notte, per farla annusare a Ruta.» 'Questo' era la demolizione della mia stanza, eseguita con metodo se non con discrezione. Jonqui si mise subito a rimettere in ordine, e dopo un istante Burrich l'aiutò. Io mi sedetti su una sedia e cercai di capirci qualcosa. Nasuto, inosservato, si accoccolò in un angolo. Istintivamente, gli estesi il mio conforto. Burrich immediatamente gettò un'occhiata verso di me, poi verso il cane sconsolato. Distolse lo sguardo. Quando Jonqui andò a
prendere acqua e cibo per lavarmi e nutrirmi, chiesi a Burrich: «Hai trovato un minuscolo scrigno di legno? Con una decorazione di ghiande?» Scosse la testa. Dunque avevano preso la mia scatola dei veleni. Avrei voluto preparare un altro pugnale, o anche una polvere da lanciare. Burrich non poteva sempre essere al mio fianco a proteggermi, e nelle mie attuali condizioni non ero in grado di allontanare un aggressore, o di correre. Ma gli strumenti del mio mestiere erano scomparsi. Potevo solo sperare di non averne bisogno. Sospettai che la perquisizione fosse opera di Borrasca, e mi chiesi se fosse stato il suo ultimo atto. Jonqui tornò con acqua e cibo, e poi si congedò. Burrich e io dividemmo l'acqua per lavarci, e con il suo aiuto riuscii a indossare abiti puliti e semplici. Burrich mangiò una mela. Il mio stomaco rabbrividiva al solo pensiero del cibo, ma bevvi l'acqua fresca del pozzo. Ci volle ancora uno sforzo di volontà per costringere i muscoli della gola a ingoiare, e sentivo l'acqua sciaguattare spiacevolmente dentro di me. Ma avevo il sospetto che mi facesse bene. Sentivo il tempo trascorrere, attimo dopo attimo, e mi chiesi quando Galen avrebbe compiuto la sua mossa. Il paravento si aprì. Alzai lo sguardo, aspettandomi di vedere di nuovo Jonqui, e invece entrò Augusto, in un'ondata di disprezzo. Cominciò subito a parlare, ansioso di compiere la sua missione e andarsene. «Non vengo qui di mia volontà. Vengo per ordine dell'erede al trono, Veritas, a riferire le sue parole. Questo è il suo messaggio preciso. È addolorato in modo inesprimibile da...» «Hai usato l'Arte con lui? Oggi? Stava bene?» Augusto ribollì alla mia domanda. «Non stava certamente bene. È addolorato in modo inesprimibile per la morte di Rurisk, e per il tuo tradimento. Ti consiglia di trarre forza da coloro che ti stanno intorno e che ti sono leali, perché ne avrai bisogno per affrontarlo.» «È tutto?» chiesi. «Dall'erede al trono, Veritas, sì. Il principe Regal ti ordina di raggiungerlo, e subito, perché mancano solo poche ore alla cerimonia, e deve prepararsi. Il tuo vile veleno, senza dubbio preparato per Regal, ha colto i poveri Trancia e Borrasca. Ora Regal dovrà arrangiarsi con un valletto impreparato. Gli ci vorrà più tempo per vestirsi. Quindi non farlo aspettare. È alle sorgenti calde, sta cercando di rilassarsi. Lo troverai lì.» «Che tragedia, un valletto impreparato» commentò acidamente Burrich. Augusto si gonfiò come un rospo. «Non è affatto divertente. Non hai perso anche tu Roano a causa di questo mascalzone? Come fai a sopporta-
re di aiutarlo?» «Te lo spiegherei, Augusto, se non fosse proprio la tua ignoranza a proteggerti.» Burrich si alzò, con aria pericolosa. «Anche tu dovrai affrontare le accuse» lo avvertì Augusto indietreggiando. «Devo riferirti, Burrich, che l'erede al trono Veritas non è ignaro di come hai cercato di aiutare il bastardo a fuggire, servendolo come se fosse lui il tuo re invece di Veritas. In base a questo sarai giudicato.» «Veritas ha detto così?» chiese incuriosito Burrich. «Sì. Ha detto che un tempo fosti per Chevalier il migliore degli uomini del re, ma sembra che tu abbia dimenticato come aiutare coloro che davvero servono il re. Ricordatelo, così ti ordina, e ti assicura che subirai la sua grande collera se non tornerai davanti a lui per ricevere quello che meritano le tue imprese.» «Me ne ricordo fin troppo bene. Porterò Fitz da Regal.» «Adesso?» «Non appena avrà mangiato.» Augusto lo guardò male e se ne andò. Non si può sbattere un paravento, ma fece del suo meglio. «Non ho voglia di mangiare, Burrich» protestai. «Lo so. Ma abbiamo bisogno di prendere tempo. Ho notato la scelta delle parole di Veritas, e ho trovato in esse più significati di Augusto. E tu?» Annuii, sentendomi sconfitto. «Ho capito anch'io. Ma è al di là delle mie possibilità.» «Ne sei sicuro? Veritas non lo crede, e lui conosce queste cose. E tu mi hai detto che è stato per questo che Roano ha cercato di uccidermi, perché sospettavano che tu attingessi alla mia forza. Quindi anche Galen crede che tu lo possa fare.» Burrich si avvicinò a me e si piegò rigidamente su un ginocchio, con la gamba zoppa tesa goffamente dietro di lui. Mi prese la mano inerte e se la mise sulla spalla. «Io ero l'uomo del re per Chevalier» mi disse piano. «Veritas lo sapeva. Vedi, io non conosco l'Arte. Ma Chevalier mi fece capire che per un simile trasferimento non era importante l'Arte quanto l'amicizia fra noi. Io sono forte, e nei momenti in cui lui ebbe bisogno di questa forza gliela offrii volentieri. Quindi l'ho già sopportato, in circostanze peggiori. Prova, ragazzo. Se falliremo, falliremo, ma almeno ci avremo provato.» «Non so come fare. Non so usare l'Arte, e certamente non so come attingere alla forza di un altro. E anche se lo facessi, se ci riuscissi, potrei ucciderti.»
«Se ci riesci, il nostro re potrebbe vivere. Io ho giurato di proteggerlo. E tu?» Lo faceva apparire tanto semplice. Così tentai. Aprii la mente, mi tesi verso Veritas. Provai, senza sapere come, ad attingere forza da Burrich. Ma tutto quello che sentivo era il cinguettare degli uccelli fuori dalla mura del palazzo, e la spalla di Burrich era solo un luogo dove appoggiare la mano. Aprii gli occhi. Non avevo bisogno di dirgli che avevo fallito; lo sapeva. Sospirò pesantemente. «Ebbene. Suppongo che ti porterò da Regal.» «Se non andassimo, ci rimarrebbe per sempre il dubbio di sapere che cosa voleva» replicai. Burrich non sorrise. «Sei di umore ben strano» commentò. «Sembra di sentir parlare il Matto.» «Il Matto parla con te?» chiesi incuriosito. «Qualche volta» replicò, e mi prese il braccio per aiutarmi ad alzarmi. «Si direbbe che più mi avvicino alla morte più le cose appaiono buffe.» «Per te, forse» ribatté Burrich irritato. «Mi chiedo che cosa voglia.» «Vuole trattare. Non può essere altro. E se vuole trattare, potremmo riuscire a guadagnare qualcosa.» «Parli come se Regal sapesse usare il buonsenso come tutti noi. Che io sappia non lo ha mai fatto. E ho sempre odiato gli intrighi di corte» protestò Burrich. «Preferirei pulire le stalle.» Di nuovo mi rimise in piedi. Se mai mi fossi chiesto che effetto facesse il colchico alle sue vittime, adesso lo sapevo. Non ritenevo che sarei morto. Ma non sapevo neanche che tipo di vita mi avrebbe lasciato. Le gambe mi tremavano, e le mie mani erano incapaci di mantenere la presa. Sentivo tutti i muscoli contrarsi in modo casuale. Il mio respiro e il battito del cuore erano irregolari. Avrei voluto rimanere immobile, ascoltare il mio corpo e valutare i danni. Ma Burrich guidava pazientemente i miei passi, e Nasuto ci seguiva a testa china. Non ero mai stato prima alle terme, ma Burrich sì. Un bocciolo di tulipano separato racchiudeva una sorgente calda ribollente, incanalata per usarla come bagno termale. Fuori stava un Chyurda; riconobbi quello che portava la torcia la sera prima. Non mostrò di trovare strana la mia ricomparsa. Si fece da parte come se ci avesse aspettato, e Burrich mi trascinò su per le scale fino all'entrata. Nuvole di vapore offuscavano l'aria, emanando odore di minerali. Superammo un paio di panche di legno; Burrich camminava cautamente sul liscio pavimento di mattonelle mentre ci avvicinavamo alla fonte del vapo-
re. L'acqua sgorgava da una sorgente centrale, racchiusa da un perimetro di mattoni. Da lì veniva incanalata verso altri bagni più piccoli, ottenendo una diversa temperatura in base alla lunghezza del canale e alla profondità della vasca. Il vapore e il gorgoglio dell'acqua corrente riempivano l'aria. Non lo trovavo piacevole; già facevo fatica a respirare. I miei occhi si abituarono alla penombra, e vidi Regal immerso in una delle vasche più grandi. Alzò lo sguardo quando ci vide. «Ah» disse, in tono soddisfatto. «Augusto mi ha detto che Burrich ti avrebbe condotto da me. Ebbene. Suppongo che tu sappia che la principessa ti ha perdonato per l'assassinio di suo fratello. E in questo luogo, almeno, così facendo ti difende dalla giustizia. Io lo trovo uno spreco di tempo, ma i costumi locali vanno onorati. La principessa dice che adesso ti considera parte della sua famiglia, e quindi anch'io devo trattarti come un parente. Non riesce a capire che non sei nato da un'unione legale, e che quindi non hai alcun diritto di parentela. Ah, non importa. Vuoi congedare Burrich e raggiungermi nella vasta? Ti vedo molto impacciato, tenuto su come una camicia stesa ad asciugare.» Parole tanto brillanti, tanto amichevoli, come se non fosse stato consapevole del mio odio. «Che cosa vuoi dirmi, Regal?» Mantenni la voce piatta. «Non vuoi mandare via Burrich?» chiese di nuovo. «Non sono pazzo.» «Ci sarebbe da discutere su questo, ma come vuoi. Suppongo che in tal caso dovrò mandarlo via io.» Il vapore e il rumore dell'acqua avevano nascosto bene l'avvicinarsi del Chyurda. Era più alto di Burrich, e il suo bastone era già in movimento mentre Burrich si girava. Se non avesse sostenuto il mio peso, avrebbe potuto evitarlo. Girò la testa, ma il bastone colpì il suo cranio con un suono terribilmente netto, come un'ascia che affonda nel legno. Burrich cadde, e io con lui. Piombai per metà in una delle vasche più piccole. Non scottava, ma quasi. Riuscii a tirarmene fuori rotolando, ma non fui in grado di rimettermi in piedi. Le gambe non mi obbedivano. Burrich accanto a me giaceva completamente immobile. Tesi una mano verso di lui, ma non riuscii a toccarlo. Regal si alzò, e fece un cenno al Chyurda. «Morto?» Il Chyurda spinse con un piede, quindi Burrich annuì secco. «Bene.» Regal apparve brevemente soddisfatto. «Trascinalo dietro a quel serbatoio profondo nell'angolo. Poi puoi andare.» Si rivolse a me. «Improbabile che qualcuno venga qui fino a quando la cerimonia non sarà
finita. Sono troppo occupati a disputarsi le posizioni migliori. E laggiù in quell'angolo... ebbene, dubito che lo troveranno prima di te.» Non riuscii a rispondere. Il Chyurda si chinò e afferrò Burrich per le caviglie. Mentre lo trascinava via, i suoi capelli scuri tracciarono come un pennello una scia di sangue sulle piastrelle. Una vertiginosa mistura di odio e disperazione fluì con il veleno attraverso il mio sangue. Una gelida determinazione crebbe e si consolidò in me. Ora non potevo sperare di vivere, ma quello non sembrava importante. Avvertire Veritas lo era. E vendicare Burrich. Non avevo piani, niente armi, nessuna speranza. Dunque guadagna tempo, mi consigliarono le parole di Umbra. Più tempo crei per te stesso, più aumenta la possibilità che si presenti un'occasione. Intrattienilo. Forse qualcuno verrà a vedere perché il principe non si sta vestendo per il matrimonio. Forse qualcun altro vorrà usare le sorgenti prima della cerimonia. Distrailo in qualche modo. «La principessa...» cominciai. «Non è un problema» concluse Regal per me. «La principessa non ha perdonato Burrich. Solo te. Quello che gli ho fatto rientra pienamente nei miei diritti. È un traditore. Deve pagare. E l'uomo che si è sbarazzato di lui era molto affezionato al suo principe Rurisk. Non ha alcuna obiezione a tutto ciò.» Il Chyurda lasciò le sorgenti calde senza guardarsi indietro. Le mie mani strisciarono debolmente sul pavimento di lisce mattonelle ma non trovarono un'arma. Intanto Regal era occupato ad asciugarsi. Quando l'uomo se ne fu andato, venne a torreggiare su di me. «Non hai intenzione di chiamare aiuto?» chiese vivacemente. Trassi un respiro, spinsi più lontana la paura. Radunai tutto il mio disprezzo per Regal. «A chi? Chi mi sentirebbe sopra al rumore dell'acqua?» «Dunque risparmi le tue forze. Saggio. Inutile, ma saggio.» «Pensi che Kettricken non verrà a sapere quello che è successo?» «Saprà che sei andato alle sorgenti calde, un'imprudenza, nelle tue condizioni. Sei scivolato e sei sprofondato sotto l'acqua calda, molto calda. Che peccato.» «Regal, questa è follia pura. Quanto sangue pensi di poter lasciare sui tuoi passi? Come spiegherai la morte di Burrich?» «Per rispondere alla tua prima domanda, quanto basta, finché si tratta di gente irrilevante.» Si chinò su di me, e mi afferrò per la camicia. Mi trascinò mentre mi dibattevo debolmente, come un pesce fuor d'acqua. «E quanto alla seconda, ebbene, è lo stesso. Pensi che si preoccuperanno in molti
di uno stalliere morto? Sei tanto ossessionato dalla tua superbia plebea che la estendi ai tuoi servitori.» Mi lasciò cadere con noncuranza quasi addosso a Burrich. Il suo corpo ancora tiepido era disteso a faccia in giù sul pavimento. Il sangue si stava rapprendendo sulle piastrelle attorno al suo viso, e gocciolava dal naso. Una lieve bolla di sangue si formò sulle sue labbra, si infranse con un debole respiro. Era ancora vivo. Mi spostai per nasconderlo a Regal. Se io riuscivo sopravvivere, anche Burrich aveva una speranza. Regal non notò niente. Mi tirò via gli stivali e li mise da parte. «Lo vedi, bastardo» continuò mentre si fermava per riprendere fiato. «Chi è spietato si crea le proprie regole. Così mi ha insegnato mia madre. La gente è intimidita da chi agisce senza apparente cura per le conseguenze. Comportati come se non potessi essere toccato, e nessuno ti toccherà. Considera l'intera situazione. Ad alcuni la tua morte dispiacerà, certo. Ma abbastanza per spingerli a compiere azioni che potrebbero minacciare la sicurezza di tutti i Sei Ducati? Penso di no. E poi, la tua morte verrà eclissata da altri avvenimenti. Sarei uno sciocco a non cogliere questa opportunità per eliminarti.» Regal era così maledettamente calmo, e superiore. Tentai di resistergli, ma era sorprendentemente forte per la vita viziosa che conduceva. Mi sentivo debole come un gattino mentre mi svestiva. Piegò accuratamente i miei vestiti e li mise da parte. «Basterà un alibi minimo. Se mi sforzo troppo di apparire innocente, la gente potrebbe pensare che sono preoccupato. Potrebbe cominciare a prestarmi troppa attenzione. Quindi semplicemente non saprò nulla. Il mio aiutante ti ha visto entrare con Burrich quando me ne sono andato. E adesso vado a sgridare Augusto perché non sei venuto a parlare con me in modo che io potessi perdonarti, come avevo promesso alla principessa Kettricken. Rimprovererò Augusto molto severamente per non averti portato da me di persona.» Si guardò attorno. «Vediamo. Una vasca calda e profonda. Proprio qui.» Tentai di afferrargli la gola mentre mi spingeva verso il bordo, ma Regal mi scosse via facilmente. «Addio, bastardo» disse con calma. «Perdona la fretta, ma mi hai fatto perdere molto tempo. Devo correre a vestirmi. O sarò in ritardo per il matrimonio.» E mi buttò dentro. La vasca era più profonda della mia altezza, costruita in modo che l'acqua arrivasse al collo di un Chyurda alto. Era dolorosamente calda per il mio corpo impreparato. Mi risucchiò tutta l'aria dai polmoni e io affondai. Spinsi debolmente sul fondo e riuscii a tirar fuori la testa. «Burrich!»
Sprecai il fiato chiamando qualcuno che non poteva aiutarmi. L'acqua mi si richiuse nuovamente sopra la testa. Non riuscivo a coordinare le braccia e le gambe. Andai a sbattere contro un lato della vasca e finii sotto prima di riuscire a riemergere e ingoiare una boccata d'aria. L'acqua calda stava sciogliendo i miei muscoli già flaccidi. Credo che sarei stato sul punto di annegare anche se mi fosse arrivata solo al ginocchio. Persi il conto di quante volte mi spinsi alla superficie per trarre un respiro. La pietra liscia e lavorata delle pareti sfuggiva alla mia presa tremante, e le costole mi pugnalavano di dolore ogni volta che cercavo di respirare a fondo. La mia forza fluiva via, sostituita dalla stanchezza. Così caldo, così profondo. Annegato come un cucciolo, pensai, sentendo l'oscurità che si chiudeva su di me. Ragazzo? chiese qualcuno, ma tutto era buio. Tanta acqua, tanto calda e profonda. Non riuscivo a trovare più il fondo, figuriamoci un lato. Lottai debolmente, ma non trovai nulla su cui far forza. Non c'era un sopra o un sotto. Inutile cercare di rimanere vivo. Non c'è più nulla da proteggere, quindi abbassa le difese, e prova a rendere un ultimo servizio al tuo re. Le mura del mio mondo crollarono, e io schizzai via come una freccia finalmente rilasciata. Galen aveva ragione. Non c'era alcuna distanza nell'Arte. Castelcervo era proprio qui, e Sagace! urlai disperato. Ma il mio re era intento ad altre cose. Era chiuso e fortificato, non importa quanto io infuriassi attorno a lui. Non poteva aiutarmi. Il mio corpo stava cedendo, legato da un tenue contatto alla mia mente. Ancora una possibilità. Veritas, Veritas! gridai. Lo trovai, lo colpii con le mani, ma non c'era un appiglio, una presa. Era altrove, aperto a qualcun altro, chiuso per me. Veritas! urlai, annegando nella disperazione. E improvvisamente fu come se un paio di mani forti avessero preso le mie mentre mi arrampicavo su per una rupe viscida, afferrandomi e tenendomi saldo e trascinandomi in salvo prima che scivolassi via. Chevalier! No, non può essere, è il ragazzo! Fitz? State immaginandolo, mio principe. Non c'è nessuno, qui. Prestate attenzione a quello che stiamo facendo. Galen, calmo e insidioso come il veleno mentre mi spingeva via. Non potevo resistergli; era troppo forte. Fitz? Veritas, insicuro adesso che mi facevo più debole. Non so dove, trovai una sorgente di forza. Qualcosa cedette davanti a me, e io tenni duro. Rimasi attaccato a Veritas come un falco sul suo polso. Ero lì con lui. Vidi attraverso gli occhi di Veritas la sala del trono addobbata a festa, il Libro degli Eventi sul grande tavolo davanti a lui, aperto per ricevere il resoconto del matrimonio. Attorno, con i loro abiti migliori
e gioielli più costosi, i pochi privilegiati che erano stati invitati a presenziare mentre Veritas assisteva alla promessa della sua sposa tramite Augusto. E Galen, che avrebbe dovuto offrire la sua forza come uomo del re, era pronto accanto a Veritas e lievemente dietro di lui, in attesa di prosciugare la sua forza vitale. Sagace, sul trono con corona e mantello, era del tutto ignaro, la sua Arte bruciata e spenta anni prima da un uso imprudente, e troppo orgoglioso per ammetterlo. Come un'eco, attraverso gli occhi di Augusto, vidi Kettricken pallida come una candela di cera su un palco davanti a tutto il suo popolo. Stava dicendo loro, semplicemente e dolcemente, che la notte precedente Rurisk aveva finalmente ceduto alla ferita di freccia ricevuta sui Campi Ghiacciati. Sperava di onorare la sua memoria offrendosi, nel matrimonio che lui aveva aiutato a preparare, all'erede al trono dei Sei Ducati. Si girò a fronteggiare Regal. A Castelcervo, la mano di Galen come un artiglio calò sulla spalla di Veritas. Irruppi nel suo legame con Veritas, lo spinsi via. Attento a Galen, Veritas. Attento al traditore, venuto per ucciderti. Non toccarlo. La mano di Galen si strinse sulla spalla di Veritas. Improvvisamente tutto era un vortice che risucchiava, disseccava, cercava di strappare ogni energia al principe. E non rimaneva molto da prendere. La sua Arte era così forte perché lui le permetteva di portargli via così tanto e così in fretta. L'istinto di conservazione avrebbe spinto chiunque altro a risparmiare le forze. Ma Veritas aveva speso le sue con noncuranza, ogni giorno, per tenere lontane le Navi Rosse dalle sue coste. Ora gli rimaneva pochissimo per quella cerimonia, e Galen lo stava assorbendo. E intanto si faceva più forte. Rimasi attaccato a Veritas, lottando disperatamente per ridurre la perdita. Veritas! gli gridai. Mio principe. Sentii un breve risorgere di forze in lui, ma tutto si faceva cupo davanti ai suoi occhi. Avvertii un fremito di allarme nella stanza mentre si afflosciava e si aggrappava al tavolo. L'infido Galen non lasciò la presa, chinandosi su di lui mentre crollava su un ginocchio, mormorando preoccupato: «Mio principe? State bene?» Gettai la mia forza a Veritas, riserve che non avevo sospettato in me stesso. Mi aprii e le lasciai andare, proprio come faceva Veritas quando usava l'Arte. «Prendila tutta. Morirei comunque. E tu sei sempre stato buono con me quando ero piccolo.» Sentii le parole con chiarezza come se le avessi pronunciate ad alta voce, e avvertii l'infrangersi di una presa mortale mentre l'energia rifluiva in Veritas tramite me. Risorse improvvisamente
alla forza, una forza animalesca e furibonda. La mano di Veritas si alzò per afferrare quella di Galen. Aprì gli occhi. «Sto bene» disse a Galen, con voce sonora. Girò lo sguardo sulla stanza mentre si rialzava. «Ero solo preoccupato per te. Sembri scosso. Sei sicuro di essere abbastanza forte per questo? Non devi tentare una sfida che va oltre le tue possibilità. Pensa a quello che potrebbe succedere.» E come un giardiniere strappa un'erbaccia dalla terra, Veritas sorrise, e strappò al traditore tutto quello che era in lui. Galen cadde, afferrandosi il petto, un guscio vuoto somigliante a un uomo. Gli astanti corsero a cercare di aiutarlo, ma Veritas, ora ricaricato, alzò gli occhi alla finestra e concentrò la sua mente in lontananza. Augusto. Ascoltami bene. Avverti Regal che il suo fratellastro è morto. Veritas rimbombava come il mare, e io sentii Augusto tremare sotto la forza dell'Arte. Galen era troppo ambizioso. Ha cercato di fare qualcosa che andava al di là della sua abilità. Peccato che il bastardo della regina non fosse soddisfatto della posizione che lei gli aveva dato. Peccato che il mio fratellino non sia riuscito a dissuadere il suo fratellastro dalle ambizioni mal riposte. Galen ha abusato della sua posizione. Il mio fratellino dovrebbe badare alle conseguenze della sua imprudenza. Un'altra cosa, Augusto. Fai in modo di dirglielo privatamente. Non molti sapevano che Galen era il bastardo della regina e il fratellastro di Regal. Sono sicuro che non vorrà che uno scandalo insozzi il nome di sua madre, o il suo. I segreti di famiglia vanno custoditi bene. E poi, con una forza che fece crollare Augusto in ginocchio, Veritas lo attraversò per comparire davanti a Kettricken, nella sua mente. Avvertii lo sforzo che fece per essere gentile. Vi attendo, mia futura regina. E per il mio nome, vi giuro che non ho avuto nulla a che fare con la morte di vostro fratello. Non ne sapevo nulla, e soffro con voi. Non voglio che veniate da me pensando che ho le mani coperte del suo sangue. Come lo sbocciare di un gioiello era la luce nel suo cuore mentre lo esponeva a Kettricken, affinché sapesse che non era stata premessa a un assassino. Senza preoccupazione per se stesso, si rese vulnerabile a lei, offrendo fiducia per costruire fiducia. Kettricken vacillò, ma rimase in piedi. Augusto perse i sensi. Il contatto cessò. E poi Veritas mi stava respingendo. Indietro, torna indietro, Fitz. È troppo, morirai. Indietro, lasciami! E mi diede una sberla come un orso, e io fui scagliato nel mio corpo senza voce e senza vista.
24 Conseguenze Nella Grande Biblioteca di Jhaampe c'è un arazzo che si dice contenga una mappa della via che attraverso le montagne porta alle Giungle della Pioggia. Come molte mappe e libri di Jhaampe, l'informazione che contiene era considerata tanto preziosa che è stata codificata sotto forma di indovinelli e rebus. Raffigurate sull'arazzo, fra molte immagini, si trovano le forme di un uomo bruno dai capelli scuri, robusto e muscoloso, che impugna uno scudo rosso e, nell'angolo opposto, un essere dalla pelle dorata. La creatura della pelle dorata è stata vittima di tarme e logorio, ma è ancora possibile notare che, nella scala dell'arazzo, è molto più grande di un umano, e forse dotata di ali. La leggenda di Castelcervo dice che re Savio cercò e trovò la terra natia degli Antichi tramite un sentiero segreto attraverso il Regno delle Montagne. Queste figure potrebbero rappresentare un Antico e re Savio? L'arazzo raffigura veramente il sentiero attraverso il Regno delle Montagne fino alla patria degli Antichi nelle Giungle della Pioggia? Molto tempo dopo venni a sapere come mi trovarono, appoggiato contro il corpo di Burrich sul pavimento di mattonelle delle sorgenti calde. Tremavo come in preda alla febbre, e non riuscivano a svegliarmi. Ci trovò Jonqui, anche se non saprò mai come le venne in mente di cercare alle sorgenti. Sospetterò sempre che fosse per Eyod ciò che Umbra era per Sagace, non un'assassina, forse, ma una persona in grado di conoscere o scoprire quasi tutto ciò che accadeva all'interno del palazzo. In ogni modo, prese in mano la situazione. Burrich e io fummo isolati in una stanza separata dal palazzo, e io sospetto che per un poco nessuno della spedizione di Castelcervo seppe dove fossimo o se eravamo ancora vivi. Jonqui si prese cura personalmente di noi con l'aiuto di un anziano domestico. Mi svegliai un paio di giorni dopo il matrimonio. Trascorsi a letto quattro dei giorni peggiori della mia vita, con le membra che guizzavano contro la mia volontà. Mi assopivo spesso, in modo torpido e spiacevole, e sognavo vividamente Veritas, o avvertivo che stava cercando di raggiungermi tramite l'Arte. I sogni dell'Arte non avevano senso per me; avevo solo la sensazione che Veritas fosse preoccupato per me. Coglievo solo frammenti isolati, come il colore delle tende della stanza da cui stava trasmettendo, o la sensazione dell'anello che si rigirava al dito con fare assen-
te cercando di raggiungermi. Uno scatto violento dei muscoli mi scuoteva dai miei sogni, e gli spasimi mi tormentavano fino a quando, sfinito, non mi assopivo di nuovo. I miei periodi di veglia erano altrettanto brutti, perché Burrich giaceva su una branda nella stessa stanza e non faceva molto di più che respirare con fatica. Il suo viso era talmente gonfio e illividito che lo si poteva riconoscere a malapena. Fin dall'inizio, Jonqui non mi aveva lasciato molte speranze sulla sua sopravvivenza, o sulla possibilità che tornasse l'uomo che era se anche fosse sopravvissuto. Ma Burrich aveva ingannato altre volte la morte. Il gonfiore gradualmente calò, i lividi svanirono, e quando si svegliò cominciò a riprendersi in fretta. Non aveva alcun ricordo di ciò che era successo dopo che mi aveva portato fuori dalla stalla. Gli dissi solo quello che aveva bisogno di sapere. Sarebbe stato più sicuro per lui non dirgli niente, ma glielo dovevo. Si rimise in piedi prima di me, sebbene dapprima soffrisse di momenti di vertigini e mal di testa. Ma in breve stava già ambientandosi nelle scuderie di Jhaampe ed esplorando la città a suo piacimento. Alla sera tornava, e conversavamo a lungo e sottovoce. Entrambi evitavamo gli argomenti su cui sapevamo che non saremmo stati d'accordo, e c'erano zone, come gli insegnamenti di Umbra, su cui non potevo essere aperto con lui. Soprattutto, tuttavia, parlavamo dei cani che aveva conosciuto e dei cavalli che aveva addestrato, e qualche volta raccontava brevi momenti della sua gioventù con Chevalier. Una sera gli dissi di Molly. Rimase in silenzio per un poco, e poi mi disse che aveva sentito che il proprietario della Bottega delle Api era morto indebitato, e che sua figlia, che si aspettava di ereditarla, era invece andata a vivere in un villaggio con alcuni parenti. Non ricordava quale villaggio, ma conosceva qualcuno che lo sapeva. Non mi derise, ma mi disse seriamente che prima di rivederla dovevo chiarirmi le idee. Augusto non usò mai più l'Arte. Quel giorno fu portato a braccia giù dal palco, ma non appena si riprese dal suo svenimento domandò di vedere subito Regal. Sono sicuro che consegnò il messaggio di Veritas. Infatti, sebbene Regal non venisse mai a visitare Burrich o me durante la nostra convalescenza, Kettricken venne, e riferì che Regal era assai ansioso che ci riprendessimo in fretta e completamente dai nostri infortuni, dato che, come aveva promesso, mi aveva perdonato pienamente. Mi raccontò come Burrich fosse scivolato e avesse battuto la testa cercando di tirarmi fuori dalla vasca quando avevo avuto un collasso. Non so chi abbia elaborato quella versione. Jonqui stessa, forse. Dubito che perfino Umbra avrebbe
potuto escogitarne una migliore. Ma il messaggio di Veritas fu la fine di Augusto come capo della confraternita, e di qualsiasi suo uso dell'Arte, per quel che ne so. Forse dopo quel giorno ebbe troppa paura, o magari quella forza gli aveva strappato via tutto il talento. Lasciò la corte e andò a Giuncheto, dove un tempo avevano governato Chevalier e Pazienza. Credo che sia diventato un saggio. Dopo il matrimonio, Kettricken si unì a tutta Jhaampe in un mese di cordoglio per suo fratello. Al mio letto giungevano soprattutto tintinnii di campanelle, inni e abbondante fumo d'incenso. Tutte le proprietà di Rurisk furono cedute. Eyod in persona venne da me, e mi portò un semplice anello d'argento che suo figlio aveva indossato. E la punta della freccia che gli aveva trafitto il petto. Non mi disse molto, se non per spiegarmi che cos'erano, e che dovevo tenermi cari quei ricordi di un uomo eccezionale. Mi lasciò a domandarmi perché quegli oggetti fossero stati assegnati a me. Trascorso il mese, Kettricken smise il lutto. Venne ad augurare a me e a Burrich una rapida guarigione, e a dirci addio fino al momento in cui ci saremmo rivisti a Castelcervo. Il breve istante in cui Veritas le si era mostrato attraverso l'Arte aveva eliminato tutte le sue riserve su di lui. Parlava di suo marito con un tranquillo orgoglio, e partì volentieri per Castelcervo, sapendo di essere stata data in moglie a un uomo onorevole. Non toccò a me di cavalcare al suo fianco alla testa di quella processione verso casa, o di entrare a Castelcervo preceduto da corni e acrobati e bambini con campanelli. Quello era il posto di Regal, e lui fece buon viso a cattivo gioco. Parve prendere a cuore l'avvertimento di Veritas. Non credo che Veritas lo abbia mai completamente perdonato. Tuttavia accantonò i piani di Regal come semplici scherzacci infantili, e credo che quello che abbia abbattuto Regal più di qualsiasi rimprovero pubblico. Coloro che sapevano dell'avvelenamento ne accusarono Borrasca e Trancia. Dopotutto, Trancia aveva ottenuto il veleno, e Borrasca aveva consegnato il dono di idromele. Kettricken finse di essere convinta che si fosse trattato di un'iniziativa imprudente dei domestici in favore di un padrone ignaro. E della morte di Rurisk non si parlò mai apertamente come di un avvelenamento. Così come il mio ruolo di assassino non fu rivelato. Qualunque cosa ci fosse nel cuore di Regal, il suo comportamento esteriore fu quello di un fratello minore che galantemente scortava a casa la futura cognata. Ebbi una lunga convalescenza. Jonqui mi curò con erbe che secondo lei avrebbero ricostruito ciò che era stato danneggiato. Avrei dovuto cercare di imparare le sue erbe e le sue tecniche, ma la mia mente non sembrava
riuscire a trattenere le cose più di quanto ci riuscissero le mie mani. Ricordo poco di quel periodo. Guarii dall'avvelenamento con frustrante lentezza. Jonqui cercò di distrarmi permettendomi di visitare la Grande Biblioteca, ma i miei occhi si stancavano in fretta e sembravano soggetti a tremiti come le mie mani. Trascorrevo gran parte delle mie giornate a letto a pensare. Per un certo tempo mi chiesi se volevo tornare a Castelcervo. Mi chiedevo se avrei potuto ancora essere il sicario di Sagace. Sapevo che se fossi tornato sarei stato costretto a sedermi a tavola con Regal e a vederlo seduto alla sinistra del mio re. Avrei dovuto trattarlo come se non avesse mai cercato di uccidermi, o di usarmi nell'avvelenamento di un uomo che avevo ammirato. Una sera ne parlai con franchezza a Burrich. Rimase seduto ad ascoltare in silenzio. Poi disse: «Non riesco a immaginare che possa essere più facile per Kettricken che per te. O per me, guardare un uomo che ha cercato di uccidermi due volte, e chiamarlo 'mio principe'. Devi decidere tu. Mi darebbe molto fastidio lasciargli pensare che si è liberato di noi spaventandoci. Ma se decidi che dobbiamo andare da qualche altra parte, allora ci andremo.» Credo che a quel punto compresi che cosa significasse l'orecchino. Quando lasciammo le montagne, l'inverno non era più una minaccia ma una realtà. Burrich, Mani e io ritornammo a Castelcervo molto più tardi degli altri, perché ce la prendemmo comoda. Io mi stancavo facilmente, e la mia forza era ancora molto erratica. Di tanto in tanto crollavo, cadendo dalla sella come un sacco di grano. Allora si fermavano per aiutarmi a risalire, e io mi costringevo ad andare avanti. Durante molte notti mi svegliavo tremando, senza neppure la forza di chiamare aiuto. Quelle ricadute erano lente a scomparire. Il peggio, credo, erano le notti in cui non riuscivo a svegliarmi, ma continuavo a sognare di annegare. Da un simile sogno mi destai una volta trovando Veritas in piedi al mio fianco. Potresti svegliare i morti, mi disse allegramente. Dobbiamo trovarti un maestro, almeno per insegnarti un po' di controllo. Kettricken trova un poco insolito che io sogni tanto spesso di annegare. Suppongo di dover essere grato che tu abbia dormito bene almeno durante la mia prima notte di nozze. «Veritas?» mormorai confuso. Torna a dormire, mi disse. Galen è morto, e io ho accorciato il guinzaglio di Regal. Non hai nulla da temere. Dormi, e smettila di sognare così forte. Veritas, aspetta! Ma il mio tentativo di protendermi verso di lui infranse
il tenue contatto dell'Arte, e non ebbi altra scelta che seguire il suo consiglio. Continuammo il viaggio, in un clima sempre più rigido. Eravamo tutti ansiosi di tornare a casa ben prima di arrivarci. Credo che Burrich avesse sottovalutato l'abilità di Mani fino ad allora. La sua tranquilla competenza ispirava fiducia ai cavalli come ai cani. Alla fine sostituì facilmente Roano e me nelle scuderie di Castelcervo, e l'amicizia che crebbe fra lui e Burrich mi costrinse a essere più consapevole della mia solitudine di quanto mi piace ammettere. La morte di Galen fu considerata alla corte di Castelcervo un tragico evento. Coloro che meno lo avevano conosciuto ne parlavano in modo più lusinghiero. Evidentemente il poveretto si era affaticato troppo, visto che il suo cuore aveva ceduto così in giovane età. Si parlò di dare il suo nome a una nave da guerra, come si addice a un eroe caduto, ma Veritas non avallò mai l'idea e non se ne fece nulla. Il suo corpo fu rimandato ad Armento per la sepoltura, con tutti gli onori. Se Sagace sospettò mai qualcosa di ciò che era successo fra Veritas e Galen, lo tenne ben nascosto. Né lui né Umbra me ne parlarono. La perdita del nostro Mastro d'Arte, senza neanche un apprendista per sostituirlo, non era un'inezia, specialmente con le Navi Rosse all'orizzonte. Di questo si discusse apertamente, ma Veritas rifiutò in modo assoluto di considerare Serena o chiunque altro dei discepoli di Galen. Non scoprii mai se Sagace mi avesse gettato in pasto a Regal. Non glielo chiesi mai, e neppure menzionai i miei sospetti a Umbra. Suppongo che non volessi saperlo. Cercai di impedire che il dubbio minasse la mia lealtà. Ma nel mio cuore, quando dicevo Mio re, intendevo Veritas. Il legname che Rurisk aveva promesso arrivò a Castelcervo perfino dopo di me, perché dovette essere trascinato via terra fino al fiume Vin prima di essere trasportato con zattere fino a Torlago, e da lì lungo il fiume Cervo fino a Castelcervo. Arrivò a metà dell'inverno, perfettamente conforme alle promesse di Rurisk. La prima nave da guerra completa fu battezzata in suo onore. Credo che Rurisk avrebbe capito, ma non avrebbe completamente approvato. Il piano di re Sagace ebbe successo. Erano trascorsi molti anni da quando Castelcervo aveva avuto un qualche tipo di regina, e l'arrivo di Kettricken suscitò interesse nella vita di corte. La tragica morte di suo fratello alla vigilia del suo matrimonio, e il coraggio con cui la principessa era andata avanti malgrado tutto, affascinò l'immaginazione del popolo. L'evi-
dente ammirazione di Kettricken per il suo novello sposo rese Veritas un eroe romantico perfino agli occhi del suo stesso popolo. Erano una coppia splendida: la giovinezza e la pallida bellezza di Kettricken mettevano in evidenza la tranquilla forza di Veritas. Sagace li mise in mostra ai balli che attirarono ogni nobile minore da ogni ducato, e Kettricken parlò con intensa eloquenza del bisogno che tutti si unissero per sconfiggere i Pirati della Nave Rossa. Così Sagace alzò le tasse, e già in mezzo alle tempeste dell'inverno cominciò la fortificazione dei Sei Ducati. Vennero costruite altre torri, e il popolo si offrì volontario per munirle. I carpentieri si disputavano l'onore di lavorare sulle navi da guerra, e Borgo Castelcervo era gonfio di volontari per fornire gli equipaggi. Per un breve momento, quell'inverno, la gente credette nelle leggende che aveva creato, e parve che le Navi Rosse potessero essere sconfitte con la pura forza di volontà. Non mi fidavo di quell'umore, ma rimasi a guardare mentre Sagace lo incoraggiava, e mi chiesi come sarebbe riuscito a mantenerlo quando la realtà delle Forgiature fosse ricominciata. Devo parlare di un altro, trascinato in quel groviglio di conflitti soltanto dalla sua lealtà verso di me. Fino alla fine dei miei giorni porterò le cicatrici che mi inflisse. I suoi denti logori affondarono diverse volte nella mia mano prima che riuscisse a trascinarmi fuori da quella vasca. Come ci sia riuscito, non lo saprò mai. Ma la sua testa era ancora appoggiata sul mio petto quando ci trovarono; i suoi legami mortali con questo mondo erano cessati. Nasuto era morto. Credo che abbia dato la sua vita liberamente, ricordando che eravamo stati buoni l'uno con l'altro, da cuccioli. Noi uomini non sappiamo soffrire come soffrono i cani. Ma soffriamo per molti, molti anni. Epilogo «Sei stanco» dice il mio giovane aiutante. È in piedi accanto a me e non so da quanto tempo si trovi lì. Tende adagio la mano per sollevare la penna dalla mia presa inerte. Stancamente guardo la leggera coda di inchiostro che ha tracciato sulla mia pagina. Credo di aver già visto quella forma, ma allora non era inchiostro. Una traccia di sangue quasi secco sul ponte di una Nave Rossa, versato dalla mia mano? O un filo di fumo nero contro il cielo azzurro mentre cavalcavo troppo tardi per avvertire un villaggio della razzia di una Nave Rossa? O il veleno che roteava e si schiudeva giallo in un semplice bicchiere d'acqua, veleno che avevo porto a
qualcuno con un sorriso? La piega naturale del capello di una donna rimasto sul mio cuscino? O la scia lasciata dai calcagni di un uomo nella sabbia mentre trascinavamo via i corpi dalla torre fumante di Baia delle Foche? La traccia di una lacrima lungo la guancia di una madre che si stringeva al petto il figlio Forgiato malgrado il suo pianto rabbioso? Come le Navi Rosse, i ricordi arrivano senza preavviso, senza misericordia. «Dovresti riposare» dice di nuovo il ragazzo, e io comprendo che sono lì seduto a Fissare una linea di inchiostro su una pagina. Non ha senso. Ecco un altro foglio rovinato, un altro sforzo da accantonare. «Mettili via» gli dico, e non protesto mentre lui raccoglie tutti i fogli e li raduna insieme a caso. Erbe e storia, mappe e riflessioni, tutta una confusione fra le sue mani come lo è nella mia mente. Non posso più ricordare che cosa avevo cominciato a fare. Il dolore è tornato, e sarebbe tanto facile calmarlo. Ma quella è la direzione della follia, come molti hanno dimostrato prima di me. Così mando invece il ragazzo a prendere due foglie di Carryme, radice di zenzero e menta per farmi un infuso. Mi domando se un giorno gli chiederò di portarmi tre foglie di quell'erba dei Chyurda. Da qualche parte, un amico sussurra: «No.» Robin Hobb Il debutto letterario di Robin Hobb è avvenuto nel 1995 con il libro che avete tra le mani, e cioè Assassin's Apprentice, il primo volume di una trilogia continuata con Royal Assassin (1996) e Assassin's Quest (1997). A tale trilogia ne è poi seguita un'altra ambientata nello stesso mondo fantastico ma con diversi protagonisti; di recente sono infine usciti altri due volumi incentrati sulla figura di Fitz, l'apprendista assassino. In realtà Robin Hobb è lo pseudonimo di Margaret Lindholm, nota agli appassionati come Megan Lindholm, autrice di una serie di libri fantasy discreti ma accolti con tiepido entusiasmo da pubblico e critica. Dopo aver deciso di dare una svolta alla sua carriera rilanciandosi con un nuovo tipo di fantasy, più ambizioso e impegnativo, in sintonia con questa scelta Lindholm ha scelto di cambiare anche identità. E in realtà i fatti le hanno dato ragione perché questo ciclo dell'assassino di corte è stato sicuramente uno dei maggiori successi della fantasy degli ultimi anni e ha raggiunto nelle classifiche di vendita dei maggiori 'booksellers' anglosassoni (come Amazon e Barnes & Nobles) i più importanti bestseller del genere, gareggiando alla pari con autori del calibro di Robert Jordan e Terry Goodkind.
Margaret 'Megan' Lindholm è nata il 5 marzo 1952 da genitori che si erano conosciuti in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale. A diciotto anni si è sposata e trasferita in Alaska, dove ha iniziato a scrivere soprattutto libri per bambini e articoli per giornali scolastici domenicali. Madre di quattro figli, Lindholm ha sempre desiderato essere una scrittrice. La sua prima pubblicazione professionale nell'ambito fantascientifico risale al 1979, quando Jessica Amanda Salmonson le comprò un racconto per l'antologia di fantasy Amazons!. In seguito Terry Windling, della Ace Books, le chiese di comporre un romanzo avente gli stessi protagonisti: nacque così Harpy's Flight (1983), primo della serie dei 'Cantori del vento' (Windsingers), seguito da The Windsingers (1984), The Limbreth Gate (1984) e Luck of the Wheels (1989). La Lindholm è nota soprattutto per Wizard of the Pigeons, del 1986, una toccante fantasy urbana, ambientata nella Seattle contemporanea tra poveri diseredati e senzatetto, dove la magia mantiene un'esistenza segreta, seguendo logiche eccentriche e raggiungendo quieti trionfi. In questo mondo si muove l'amico dei piccioni noto semplicemente col soprannome di Wizard (Mago), un reduce del Vietnam che vive di rifiuti e che è al centro di un sottile ma evocativo conflitto tra le forze del bene e del male. Siamo molto lontani dagli eroi e dalle epiche gesta delle consuete storie di fantasy, ma il romanzo ha un suo fascino e mostra una sapiente maestria nella gestione dei personaggi e nella descrizione dell'animo umano. Il potenziale narrativo della Lindholm esplode prepotentemente nelle due opere successive. Cloven Hooves (1991), ancora una fantasy contemporanea, si avvicina molto al mainstream come impostazione narrativa, e racconta, con numerosi riferimenti autobiografici (l'ambientazione nelle terre ghiacciate e desolate dell'Alaska e dello stato di Washington), la fanciullezza di Evelyn Potter, una ragazza di campagna che incontra casualmente, nei boschi della nativa Alaska, un fauno che lei chiamerà Pan. Il rapporto con Pan proseguirà poi nel corso della vita di Evelyn, assumendo un ruolo di riferimento nei momenti critici non privo di sfumature erotiche. Alien Earth, del 1992, rimane l'unica escursione dell'autrice nel campo della fantascienza pura. Ispirandosi a una tradizione che risale ai tempi di Aldous Huxley e del suo classico Brave New World, la Lindholm riprende qui il tema distopico della manipolazione genetica e ormonale dell'uomo a scopi 'sociali'. Nell'ambiente cupo e claustrofobico di una immensa stazione spaziale/astronave, i geni degli abitanti vengono modificali in modo che i bambini rimangano per decenni in uno stato prepuberale che ne faccia dei
cittadini esemplari e più manipolabili. Fortunatamente esistono alcune persone che si ribellano a questo tipo di imposizione: nasce così un movimento rivoluzionario che riporterà infine l'astronave verso la Terra e salverà l'umanità dalle sue stesse atrocità. Si tratta di un romanzo importante, decisamente memorabile, passato ingiustamente sotto silenzio alla sua pubblicazione. Arriviamo così alla metà degli anni Novanta e alla svolta decisiva nella carriera di quest'autrice, che coincide appunto con la stesura di questo ciclo dell'apprendista assassino. L'assassino di corte, in cui la Hobb introduce tutti i personaggi principali della serie, è un libro avvincente che riprende con molto garbo e genialità alcuni tra i temi più classici della fantasy moderna, dal trovatello di umili origini che scopre di avere in realtà sangue regale alla figura dell'apprendista mago alle prese con problemi più grandi di lui. Queste tematiche convivono qui con le trame e le congiure di palazzo che hanno fatto la fortuna di molti dei classici più recenti di questo filone letterario, a partire dall'epica saga del Ghiaccio e del Fuoco di George Martin (anche se Martin a mio avviso esagera con le sue trame estremamente bizantine). A differenza delle opere precedenti della Lindholm, come Wizard of the Pigeons e Cloven Hooves, qui siamo nel regno della fantasy più tradizionale: un ambiente vagamente medievaleggiante con un regno minacciato, guerrieri brutali, castelli decadenti, sovrani ambiziosi e corrotti, e una figura centrale che è il fulcro attorno al quale ruota tutta la vicenda e da cui dipendono le sorti del 'mondo'. A partire da qui Hobb si avvia su una strada più personale e originale. Il suo eroe, Fitz, è un 'bastardo' reale, figlio illegittimo di un principe e abbandonato dalla madre nelle mani del lato nobile della famiglia. Fitz è solo una fonte di imbarazzo per i suoi parenti reali, ma al contempo, a causa delle sue imprescindibili origini, è anche una minaccia per i sogni di potere del fratellastro maggiore. Situazione abbastanza difficile, ulteriormente complicata dal fatto che Fitz mostra segni inconfondibili del possesso non solo delle magiche abilità tipiche del suo lignaggio, ma anche dello 'Spirito', ('Wit', letteralmente 'ingegno'), un talento assai più antico e raro, una forma di magia che consente di comunicare con gli animali, assai temuta e odiata dalla gente comune. Fitz è uno dei personaggi più simpatici della fantasy moderna: la storia della sua educazione reale nel castello di Buckkeep e quella più segreta di 'assassino di corte' (da parte del vecchio assassino reale, una figura ambigua che rappresenta il servitore più fidato e sottile del re) sono descritte
con eccezionale empatia dall'autrice, che mostra di avere raggiunto una padronanza notevole dei suoi mezzi letterari e stilistici. Come in tutte le storie classiche, il passaggio dalla fanciullezza alla maturità richiede un pedaggio: ed è così anche per Fitz. La dote più ammirevole di questa serie è forse il fatto che la Hobb non ci risparmi i momenti dolorosi e inevitabili di questa transizione: un eroe che trionfa sempre e invariabilmente su tutte le sfide che si trova ad affrontare è un segno sicuro di debolezza narrativa e dimostra che il calibro dell'autore è invero mediocre. La Hobb non ha paura di far 'fallire' Fitz, e tuttavia i suoi fallimenti non ne diminuiscono la statura, anzi lo rendono un personaggio 'vero', con i suoi difetti e le sue debolezze, a volte ostinato e spesso tormentato dai rimorsi, ma sempre umano e intelligente. Raramente ho letto una serie di fantasy più godibile e divertente, così ricca di dettagli e di personaggi affascinanti, che attrae e magnetizza fin dalla prima pagina e che innalza inevitabilmente la sua autrice nei ranghi del pantheon della fantasy moderna, a fianco di scrittori importanti come Robert Jordan, George Martin, Terry Goodkind e Marion Zimmer Bradley. Sandro Pergameno FINE