NICCI FRENCH LA TERZA PORTA (The Red Room, 2001) a Karl, Fiona e Martha PROLOGO State attenti alle belle giornate. Succe...
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NICCI FRENCH LA TERZA PORTA (The Red Room, 2001) a Karl, Fiona e Martha PROLOGO State attenti alle belle giornate. Succedono brutte cose nelle belle giornate. Forse perché quando si è contenti si diventa distratti. E non fate progetti. Vi concentrate su un progetto e perdete di vista il resto, ed è allora che cominciano i guai. Una volta aiutai il mio professore a fare delle ricerche sugli incidenti. Andammo a parlare con persone che erano state investite, estratte da automobili, che erano rimaste vittime di incendi, o erano cadute dalle scale. Annotammo casi di corde rotte, cavi spezzati, pavimenti sprofondati, pareti crollate, soffitti caduti. Non c'è oggetto al mondo che non possa essere causa di disgrazia. Se non ti cade in testa, ti può far scivolare, o tagliarti, o ferirti quando cerchi di afferrarlo, o soffocarti. E quando gli oggetti finiscono nelle mani degli esseri umani, be', questa è tutta un'altra storia. Nel corso della ricerca incontrammo degli ostacoli. Alcune delle vittime degli incidenti erano impossibilitate a rispondere alle nostre domande in quanto morte. Cosa ci avrebbero raccontato? Nell'istante in cui il sostegno cede e l'addetto dell'impresa di pulizia cade dal ventesimo piano con la spugna ancora in mano, pensa forse qualcosa di diverso da «Oh, merda»? E gli altri? Al momento della disgrazia certe persone probabilmente erano stanche, altre felici, o depresse, o ubriache, o sotto l'influsso di droghe, o incompetenti, o distratte, o vittime di ciò che potremmo definire solamente (e con riluttanza) sfortuna. Ma tutte, di certo, avevano una cosa in comune: in quel momento la loro mente era altrove. E questa, in effetti, è la definizione di «incidente». Qualcosa che irrompe nei nostri pensieri, come un rapinatore in una strada tranquilla. Quando venne il momento di riassumere i risultati, il nostro compito si rivelò facile e difficile al tempo stesso. Facile perché la maggior parte delle conclusioni era ovvia. Come sta scritto sulle bottiglie degli alcolici: non mettersi alla guida in stato di ebbrezza. Non rimuovere la protezione di sicurezza dalla pressa, anche se sembra un impiccio, e non farla usare al ragazzino di quindici anni assunto da una sola settimana. Guarda da entram-
bi i lati, prima di attraversare la strada. Si trattava di mettere davanti agli occhi delle persone ciò che era ai margini della loro mente. Ma il problema è che non si riesce mai a mettere a fuoco tutto in una volta. Quando ci voltiamo a guardare a sinistra, ci esponiamo al rischio di essere investiti da destra. Suppongo che anche per me fu così: tutto cominciò perché guardavo dall'altra parte. Fu verso la fine di un bel pomeriggio di aprile. Bussarono alla porta del mio ufficio e, prima che riuscissi a dire alcunché, la porta si aprì e apparve il viso sorridente di Francis. «Il tuo appuntamento è stato cancellato» disse. «Lo so.» «Allora sei libera...» «Be'...» Alla Welbeck Clinic era pericoloso ammettere di essere liberi: ti trovavano subito qualcosa da fare, e di solito erano le grane di cui i colleghi più anziani non avevano voglia di occuparsi. «Potresti fare una valutazione per me?» si affrettò a chiedermi. «Be'...» Il suo sorriso si allargò. «Naturalmente si tratta di un ordine, ma per gentilezza te l'ho comunicato, come si usa, in forma interrogativa.» Uno degli svantaggi di lavorare in una clinica psichiatrica è dover rispondere a persone come Francis Hersh che, primo, non riesce neanche a dire buongiorno senza metterlo tra virgolette e senza fornirne subito un'analisi, e, secondo, ... lasciamo stare. Con Francis potrei andare avanti all'infinito. «Di che cosa si tratta?» «La polizia ha trovato un tizio che urlava per strada. Stavi per andare a casa?» «Sì.» «Bene. Lungo la strada puoi fare un salto alla centrale di Stretton Green? Dai una rapida occhiata al tizio di modo che loro lo possano rilasciare.» «D'accordo.» «Chiedi del detective Furth. Ti sta aspettando.» «Quando?» «Cinque minuti fa.» Telefonai a Poppy, e la beccai appena in tempo per dirle che sarei arrivata con qualche minuto di ritardo al nostro aperitivo. Solo una questione di lavoro.
È difficile valutare se colui che disturba la quiete pubblica sia una persona violenta, se sia semplicemente un ubriaco, uno che ha una malattia fisica o mentale, se sia confuso o sia stato solo frainteso, se sia una persona sgradevole ma innocua o invece, magari anche solo occasionalmente, sia effettivamente pericoloso. Normalmente la polizia tratta la faccenda in maniera piuttosto sbrigativa, e ci chiama solo quando ci sono ragioni serie e palesi. Ma l'anno prima era stato fermato e poi rilasciato un uomo che un paio di ore dopo, armato di un'ascia, aveva ferito dieci persone. Una donna di ottant'anni era morta. C'era stata un'inchiesta, i cui risultati si erano saputi di recente, e ora la polizia ci chiamava regolarmente. Ero stata alla centrale parecchie volte, con Francis o da sola. La cosa buffa, anche se per niente divertente, era che nel dare la nostra opinione su quegli individui seduti in una stanza a Stretton Green, quasi sempre tristi, confusi e puzzolenti, fornivamo alla polizia un alibi. Se qualcosa andava storto, davano la colpa a noi. Il detective Furth era un bell'uomo, pressapoco della mia età. Mi salutò con un'espressione divertita, quasi impudente, che mi fece temere di avere qualcosa fuori posto. Mi ispezionai velocemente i vestiti. Dopo qualche momento capii che quella era la sua espressione abituale. Aveva i capelli biondi pettinati all'indietro, una mascella squadrata che sembrava disegnata con il righello, e la pelle leggermente butterata. Forse da ragazzo aveva sofferto di acne. «Dottoressa Quinn» disse sorridendo e stringendomi la mano. «Diamoci del tu. Mi chiamo Guy e sono nuovo, qui.» «Ciao» risposi e sussultai alla sua stretta. «Non sapevo che fossi così... ehm... giovane.» «Mi dispiace» presi a dire, ma subito mi interruppi. «Sei Katherine, abbreviato in Kit. Me l'ha detto il dottor Hersh.» Kit era il nome con cui mi chiamavano gli amici. Ormai non ci badavo più, ma mi faceva sempre un po' impressione quando veniva usato da uno sconosciuto. «Allora, dov'è?» «Per di qua. Vuoi un caffè, un tè?» «Grazie, ma ho fretta.» Mi condusse attraverso gli uffici open space, fermandosi a una scrivania a prendere una tazza a forma di palla da rugby con la cima tagliata come un uovo alla coque. «Il mio portafortuna» disse, mentre lo seguivo attraverso una porta in
fondo. Si fermò fuori della stanza in cui si sarebbe svolto il colloquio. «Allora, chi è che devo vedere?» «Un tipaccio che si chiama Michael Doll.» «E?» «Gironzolava intorno a una scuola elementare.» «Abbordava i bambini?» «Non proprio.» «Allora che ci fa qui?» «I genitori hanno iniziato a organizzarsi. Distribuivano volantini, lo tenevano d'occhio e le cose hanno cominciato a farsi un po' pesanti.» «Per dirla in un altro modo, che cosa ci faccio qui?» Furth assunse un'aria evasiva. «Sei esperta di queste cose, no? Dicono che lavori a Market Hill.» «In parte, sì.» In effetti mi dividevo tra Market Hill, che è un ospedale per pazzi criminali, e la Welbeck Clinic, che fornisce assistenza psichiatrica a una clientela borghese. «Effettivamente è strano. Parla in modo buffo, bofonchia tra sé e sé. Ci domandiamo se sia schizofrenico o qualcosa del genere.» «Che cosa si sa di lui?» Furth tirò su con il naso, come se sentisse il fetore dell'uomo attraverso la porta. «Ventinove anni. Non ha un impiego regolare. Lavora saltuariamente come tassista.» «Ha subito condanne per offese al pudore?» «Qualcosina. Esibizionismo.» Scossi il capo. «Non pensi che la mia valutazione sia piuttosto inutile?» «E se fosse pericoloso?» «Vuoi dire, se potesse commettere qualche violenza in futuro? È il tipo di domande che facevo al mio capo quando ho cominciato a lavorare in clinica. Mi rispondeva che è molto difficile scoprirlo in anticipo.» Furth si accigliò. «Ho incontrato bastardi come Doll, dopo che hanno commesso un crimine. La difesa trova sempre qualcuno che viene a raccontare come abbiano avuto un'infanzia difficile.» Michael Doll aveva capelli folti, castani e ricciuti, che gli arrivavano alle spalle, e un volto scavato, con zigomi pronunciati. Aveva lineamenti stranamente delicati. Le labbra, in particolare, erano carnose come quelle di una donna giovane. Ma era strabico ed era difficile capire se mi stesse guardando o no. Aveva l'abbronzatura di chi passa molto tempo all'aperto, e l'aria di essere oppresso dalle pareti che lo circondavano. Teneva serrate
le grosse mani callose, come per impedire che tremassero. Portava dei jeans e una giacca a vento grigia che non riusciva a coprire il grosso maglione arancione, l'unico elemento appariscente del suo abbigliamento. Si capiva che, in un'altra vita e in un altro mondo, avrebbe potuto anche essere attraente, ma un'aria di squallore gli aleggiava intorno, come un cattivo odore. Quando entrammo, stava parlando rapidamente e in modo quasi incomprensibile con una poliziotta dall'aria annoiata, che si fece da parte con evidente sollievo quando mi sedetti al tavolo di fronte a Michael Doll e mi presentai. Non tirai fuori il taccuino. Non pensai che ce ne fosse bisogno. «Le farò qualche semplice domanda» dissi. «Ce l'hanno con me» bofonchiò Doll. «Stanno cercando di farmi dire delle cose.» «Non sono qui per parlare di ciò che ha fatto. Voglio solo cercare di capire come sta. D'accordo?» Si guardò intorno con aria sospettosa. «Non so. Sei della polizia?» «No, sono una dottoressa.» Spalancò gli occhi. «Pensi che sia malato? O pazzo?» «Lei che ne dice?» «Sono a posto.» «Bene» risposi, odiando il tono rassicurante e condiscendente della mia voce. «Prende delle medicine?» «Prendo della roba per la digestione. Ho dei dolori. Dopo mangiato.» Si batté la mano sullo stomaco. «Dove vive?» «Ho una stanza. A Hackney.» «Vive da solo?» «Sì. Perché, è un reato?» «No. Anch'io vivo da sola.» Doll fece un sorrisetto. Non simpatico. «Hai un ragazzo?» mi domandò. «E lei?» «Non sono finocchio.» «Voglio dire, ha la ragazza?» «Te l'ho chiesto prima io» fece aspramente. Era abbastanza pronto di spirito. E anche manipolatore. Ma non molto più matto di chiunque altro nella stanza. «Sono qui per sapere di lei.» «Sei come loro» disse con un tremito di rabbia nella voce. «Cerchi di
farmi dire quello che vuoi tu.» «Che cosa starei cercando di farle dire?» «Non lo so. Io... io...» cominciò a balbettare. Afferrò il tavolo con forza. Sulla tempia gli pulsava una vena. «Non voglio tenderle nessun trabocchetto, Michael» dissi, alzandomi. Poi mi rivolsi a Furth: «Ho finito». «E?» «Mi sembra a posto.» Di fianco sentivo Doll che borbottava, come una radio rimasta accesa. «Non gli domandi che cosa stava facendo fuori della scuola?» «Per quale motivo?» «Perché è un pervertito, ecco perché» rispose Furth, finalmente senza sorriso. «È pericoloso e non gli dovrebbe essere consentito di girare intorno ai ragazzini.» Continuò, rivolgendosi a Doll: «Non cantar vittoria, Mickey. Ti conosciamo bene». Doll era rimasto a bocca spalancata, come una rana o un pesce. Mi voltai per andarmene. Da quel momento non ho che sprazzi di memoria. Il rumore di qualcosa che va in frantumi. Un urlo. Dolore intenso. Uno spruzzo caldo sulla faccia e sul collo. Il pavimento che mi viene incontro precipitosamente. Un peso che mi schiaccia. Altre urla. Persone tutto intorno. Cerco di alzarmi, ma continuo a scivolare. La mano bagnata. La guardo. Sangue. Sangue dappertutto. Una quantità incredibile di sangue. Tutto è rosso. Vengo trascinata, sollevata. È un incidente. Io sono l'incidente. CAPITOLO 1 «E ho detto: "Sì, certo, credo in Dio". Ma Dio può essere il vento tra gli alberi e il fulmine nel cielo.» Si chinò in avanti e puntò la forchetta verso di me, quell'uomo con cui non sarei andata a casa alla fine della serata, e di cui avrei fatto in modo di perdere il numero telefonico. «Dio può essere la tua coscienza. Può essere un nome per l'amore. Può essere il Big Bang. "Sì" ho detto. "Credo che anche il Big Bang possa essere una religione." Ancora un po' di vino?» Si stava facendo tardi: sei bottiglie di vino in otto, e stavamo ancora mangiando il secondo. Tortino di pesce e piselli. Poppy era una delle cuoche peggiori che conoscevo. Sceglieva menu da mensa scolastica e preparava sciattamente quantità industriali di cibo. La guardai. Aveva il volto
arrossato. Discuteva di qualcosa con Cathy, gesticolando enfaticamente, piegata in avanti. Una manica le finì nel piatto. Era tirannica, ansiosa, insicura, forse infelice. Sempre generosa. Aveva organizzato quella piccola cena per festeggiare la mia guarigione e il mio imminente ritorno al lavoro. Sentì i miei occhi su di sé e mi rivolse lo sguardo. Sorrise e subito ebbe un'aria più giovane, la stessa espressione di quando l'avevo conosciuta, dieci anni prima. Il lume di candela rende tutti più belli. I volti intorno al tavolo erano luminosi, misteriosi. Osservai Seb, il marito di Poppy, medico psichiatra. I nostri territori confinavano. L'aveva detto lui, una volta. Io non avevo mai pensato alla mia professione in quei termini, ma quando Seb parlava del suo lavoro sembrava un cane da guardia, pronto ad abbaiare a chiunque si avvicinasse troppo. I suoi lineamenti affilati, curiosi, erano addolciti dalla luce debole e soffice. Cathy non era più scura e pesante, ma dorata e morbida. Suo marito, all'altro capo del tavolo, era avvolto da una segreta penombra, come anche l'uomo alla mia sinistra. «Le ho detto: "Abbiamo tutti bisogno di credere in qualcosa. Dio può essere i nostri sogni. Dobbiamo tutti avere dei sogni".» «Vero.» Mi infilai una forchettata di merluzzo in bocca. «Amore. "Che cos'è la vita senza l'amore?" ho detto.» Alzò la voce e si rivolse all'intera tavolata. «Che cos'è la vita senza amore?» «All'amore» esclamò Olive, di fronte a me, sollevando il bicchiere vuoto con una risata simile a un tintinnare di campane rotte. Era una donna alta, scura, spigolosa, con i capelli nero-blu raccolti in modo teatrale sulla testa. Più che un'assistente geriatrica sembrava una modella. Si sporse in avanti e piantò un sonoro bacio sulla bocca del suo nuovo fidanzato. «Chi vuole ancora del tortino di pesce?» «C'è qualcuno nella tua vita?» mi sussurrò il vicino di tavola. Era piuttosto brillo. «Una persona da amare?» Chiusi gli occhi cercando di non ricordare. Un'altra festa, un'altra vita, prima di essere stata vicina alla morte e di essere risorta con una cicatrice in mezzo al viso: Albie in una camera libera in casa altrui, con un'altra. Le mani sul vestito rosa fragola di lei, che sfilano le spalline; il seno morbido che si gonfia alle sue carezze. Lei che chiude gli occhi, piegando la testa all'indietro, il rossetto brillante sbavato. Lui che dice «No, non dobbiamo» con un biascichio da ubriaco, ma lascia, passivo e come privo di forze, che le mani di lei lo spoglino. Io sul pianerottolo che guardo, incapace di muovermi o di parlare. Allora pensai, osservando la scena: ogni gesto che rite-
niamo intimamente nostro appartiene in realtà a tutti. In quel momento Albie mi vide e io pensai che non ci sono poi tanti modi di scoprire il proprio uomo con un'altra. Non mi pareva originale. La sua bella camicia pendeva stropicciata fuori dei calzoni. Ci fissammo, con quella donna ciondolante fra di noi. Ci fissammo e sentii il mio cuore battere. Che cos'è la vita senza amore? «No» ho risposto. «Adesso non ho nessuno.» Poppy diede un colpetto al bicchiere. Sentii delle urla di bambini, di sopra. Poi un forte tonfo. Seb aggrottò la fronte. «Voglio fare un brindisi» disse, dopo essersi schiarita la gola. «Aspetta, fammi riempire i bicchieri.» «Tre mesi fa Kit ha avuto quel terribile... incidente...» Il mio vicino si voltò e studiò il mio viso. Sollevai una mano per coprire la cicatrice, come se il suo sguardo fosse di fuoco. «È stata aggredita da un pazzo.» «Be'...» cominciai a protestare. «Chiunque l'abbia vista in quel letto di ospedale, come l'ho vista io... quel che le ha fatto... eravamo disperati.» Il vino e l'emozione le fecero tremare la voce. Abbassai gli occhi sul piatto, imbarazzata. «Ma nessuno deve giudicarla dalle apparenze.» Arrossì preoccupata da quel che aveva detto e mi guardò. «Non voglio dire che...» Portai di nuovo la mano al volto. Lo facevo in continuazione, il gesto di autoprotezione che non ero riuscita a fare al momento dell'aggressione. «Ha l'aria gentile, ma è una donna forte, coraggiosa. È sempre stata battagliera ed eccola di nuovo qui con noi, e lunedì tornerà al lavoro. Questa serata è in suo onore e vorrei che tutti alzassero il bicchiere per brindare alla sua guarigione e... be', questo è tutto. Non sono mai stata brava a fare discorsi. Insomma, alla salute di Kit.» «A Kit» fecero tutti in coro. I bicchieri, sollevati, tintinnarono sopra gli avanzi della cena. I volti sorridenti brillavano guizzando al lume di candela. «Kit.» Riuscii a sorridere. Non avevo voluto quella festa e mi metteva a disagio. «Avanti, Kit, tocca a te» mi incitò Seb, sorridendo. Probabilmente conoscerete il suo volto o la sua voce. L'avrete sentito esprimere opinioni su tutto, dalle motivazioni dei serial killer, agli incubi dei bambini, alla pazzia delle folle. Mi faceva i complimenti, mi sorrideva e si dava da fare per mettermi a mio agio, ma in verità mi vedeva come un'irriducibile princi-
piante nella sua professione. «Non puoi rimanere zitta con quell'aria dolce e timida, Kit. Di' qualcosa.» «D'accordo.» Pensai a Michael Doll che attraversava la stanza con la mano alzata. Rividi il suo volto, la luce nei suoi occhi. «Non sono battagliera. Sono, anzi, l'opposto...» Di sopra ci fu un urlo, seguito da un altro. «Santo Cielo» esclamò Poppy, alzandosi da tavola. «Gli altri bambini a quest'ora sono a letto che dormono, non alzati a prendersi a botte. Torno subito.» «No, vado io» mi offrii, spingendo indietro la sedia. «Neanche per sogno.» «Davvero, mi fa piacere. Non ho ancora visto le bambine. Voglio dar loro la buonanotte.» Praticamente fuggii di sopra. Mentre salivo le scale, sentii dei passi risuonare per il corridoio e dei piagnucolii. Quando arrivai nella loro camera, Amy e Megan erano a letto sotto le coperte. Megan, che aveva sette anni, stava facendo finta di dormire, ma le palpebre tremavano per lo sforzo di tenerle chiuse. Amy, che ne aveva cinque, era sdraiata con gli occhi ben aperti. Vicino aveva un coniglietto di velluto con le orecchie malandate e due perline come occhi. «Ciao ragazze» le salutai, sedendomi sul letto di Amy. Alla luce della lampada da notte vidi che aveva un segno rosso sulla guancia. «Kitty» esclamò. Oltre ad Albie, erano le uniche persone che mi chiamavano Kitty. «Megan mi ha picchiata.» Megan si tirò su con aria indignata. «Bugiarda! E poi lei mi ha graffiata, guarda. Guarda che segno.» Mi mostrò la mano. «Mi ha detto che ho il cervello da gallina.» «Non è vero.» «Sono venuta a darvi la buonanotte.» Le osservai, sedute sul letto con le teste arruffate, gli occhi brillanti e le guance rosse. Misi una mano sulla fronte di Amy. Era calda e umida. Sapeva di pulito, di sapone e di sudore infantile. Aveva il naso coperto di lentiggini e il mento aguzzo. «Bambine, è tardi.» «Amy mi ha svegliata.» «Oh!» Esclamò Amy facendo con la bocca un cerchio perfetto d'indignazione. Sentii il brusio delle voci di sotto, il rumore delle posate sui piatti, una risata.
«Che cosa devo escogitare per convincervi a dormire?» «Ti fa male?» Amy mi mise un dito sulla guancia, facendomi trasalire. «Ora non più.» «La mamma dice che è una vergogna» disse Megan. «Davvero?» «E ha detto che Albie se n'è andato.» Albie aveva giocato con loro, aveva regalato lecca-lecca, aveva fatto il verso della civetta con le mani chiuse a coppa. «È vero.» «Allora non avrai bambini?» «Zitta, Amy, non essere maleducata.» «Forse un giorno o l'altro» risposi. Sentii come una leggera fitta di desiderio nel ventre. «Ma non adesso. Volete che vi racconti una storia?» «Sì» dissero in coro, trionfanti. Mi avevano accalappiata. «Una storia piccola.» Cercai di ricordarne una adatta. «C'era una volta una bambina che viveva con le sue sorellastre...» Le bambine grugnirono all'unisono. «Non quella.» «La bella addormentata allora? I tre porcellini? Riccioli d'oro?» «Che no-o-ia. Raccontacene una tutta tua» mi propose Megan. «Una inventata.» «Su due bambine...» mi suggerì Amy. «... che si chiamavano Amy e Megan...» «... e che si avventuravano in una casa disabitata.» «D'accordo. Vediamo.» Cominciai a raccontare senza avere idea di come avrei continuato. «C'erano una volta due bambine che si chiamavano Megan e Amy. Megan aveva sette anni e Amy cinque. Un giorno si smarrirono in un bosco.» «Come?» «Erano andate a fare una passeggiata con i genitori, era tardo pomeriggio ed era scoppiato un temporale con tuoni e fulmini e il vento che ululava tutt'intorno. Si nascosero nel tronco cavo di un albero, ma quando smise di piovere si accorsero di essere sole in un fitto bosco e di non avere la più pallida idea di dove fossero.» «Bella» commentò Megan. «Allora Megan disse: "Cammineremo fino a che troveremo una casa".» «E io cosa dissi?» «Amy disse: "Per calmare la fame mangeremo le more". Camminarono e camminarono. Caddero e si sbucciarono le ginocchia. Si fece sempre più
buio, il cielo era percorso dai lampi, e grossi uccelli neri svolazzavano sopra di loro, facendo versi orribili. Nei cespugli vedevano degli occhi che le sbirciavano... occhi di animali selvatici.» «Pantere.» «Non credo che ci fossero pantere...» «Pantere» ribatté Megan con fermezza. «D'accordo, pantere. Improvvisamente Megan vide una luce brillare tra gli alberi.» «E io...» «Anche Amy la vide, nello stesso momento. Si incamminarono verso di essa. Quando la raggiunsero, videro che proveniva da una lanterna a olio appesa sopra una vecchia porta di legno. Era la porta di una grande casa cadente. Aveva un aspetto sinistro, sembrava una casa di fantasmi, ma le bambine erano così stanche e spaventate e avevano così freddo che decisero di rischiare. Bussarono alla porta e udirono il suono echeggiare all'interno, come un colpo di tamburo.» Mi fermai un momento. Ora si erano zittite e avevano la bocca spalancata. «Ma non venne nessuno. Intorno a loro grandi uccelli neri strillavano sempre più numerosi, finché il cielo fu coperto da una nuvola scura di uccelli. Uccelli neri e lampi, e rimbombi di tuono, e rami di alberi che ondeggiavano al vento. Allora Megan spinse la porta con forza e questa si aprì con un cigolio. Amy prese la lampada a petrolio dell'entrata e insieme le due bambine entrarono nella casa cadente. Si tennero per mano e si guardarono intorno. «C'era un corridoio con acqua che scendeva dai muri. Lo percorsero finché non arrivarono in una camera. Era tutta dipinta di blu, con una fredda fontana blu che gorgogliava al centro e un alto soffitto blu. Udirono il suono di onde che si infrangevano su una spiaggia: era una camera d'acqua, di mari e di luoghi remoti, e le bambine capirono di essere lontane da casa come non lo erano mai state prima. «Avanzarono un poco e arrivarono in una seconda stanza. Era verde, con felci e piante, ricordava i parchi in cui andavano a giocare e fece venire loro nostalgia di casa come non l'avevano mai sentita prima. «Avanzarono un poco e si trovarono di fronte a una porta, chiusa e dipinta di rosso. Ancor prima di aprirla, per qualche misteriosa ragione ebbero molta paura di entrare in quella terza stanza.» «Perché?» domandò Megan. Allungò una mano e io gliela presi nella mia. «Dietro la porta rossa c'era la camera rossa. Sapevano che dentro quella
camera c'era tutto quello di cui avevano più paura. Cose diverse per Megan e per Amy. Qual è la cosa che ti fa più paura, Megan?» «Non so.» «Stare molto in alto?» «Sì. E cadere da una barca e morire. E il buio. E le tigri. E i coccodrilli.» «Questo c'era per Megan nella camera rossa. E per Amy?» «Amy odia i ragni» disse Megan allegra. «La fanno urlare.» «Sì, e serpenti velenosi. Allora aprirono la porta ed entrarono nella camera rossa. Si guardarono intorno ed era rossa dappertutto: rossa sul soffitto, alle pareti e sul pavimento.» «Ma che cosa c'era dentro?» domandò Megan. «C'erano i coccodrilli?» Mi fermai, in imbarazzo. Che cosa c'era nella stanza? Non avevo pensato a come finire la storia. Considerai l'idea di metterci una vera tigre che le avrebbe divorate entrambe. «C'era una piccola tigre di peluche» dissi. «E un coccodrillo di peluche.» «E un serpente di peluche.» «Sì, e una barchetta giocattolo e delle buone cose da mangiare e un bel letto morbido. E i genitori di Megan e di Amy. Che le misero a letto, rimboccarono le coperte e diedero loro un grosso bacio, e le bambine si addormentarono.» «Con la lucina della notte.» «Con la lucina della notte.» «Racconta un'altra storia» disse Megan. Mi chinai e baciai le due fronti. «La prossima volta» risposi, uscendo dalla loro camera. «Alla fine è un po' scaduta, mi pare.» Sobbalzai e mi voltai. Seb mi stava sorridendo. «Dove l'hai presa? Dalla raccolta di storie della buonanotte di Bruno Bettelheim?» Lo disse con un sorriso, ma io gli risposi seriamente. «Era un sogno che ho fatto in ospedale.» «Ma non credo che nella tua camera rossa ci fossero dei giocattoli e un letto caldo.» «No.» «Che cosa c'era?» «Non lo so» risposi. Mentivo. Al ricordo mi si strinse lo stomaco. In seguito rifiutai l'offerta di un passaggio a casa dal mio amico che credeva che Dio fosse il Big Bang, e feci a piedi il tragitto che separava l'ap-
partamento di Poppy e Seb dal mio, a Clerkenwell. Il vento freddo e umido mi soffiò sul viso e la cicatrice mi diede un leggero fastidio. Una mezzaluna galleggiava tra nubi sottili sopra la luce arancione dei lampioni. Mi sentivo felice, triste e un po' brilla. Dopo aver salutato le piccole, avevo fatto il mio discorso - sull'amicizia e su quanto mi avesse aiutata, dicendo tutte le frasi trite ma vere su come la vita ora mi fosse più cara - e avevo mangiato la torta di mele. Avevo salutato ed ero uscita. Ora ero sola. I miei passi echeggiavano nelle strade vuote, dove le pozzanghere mandavano bagliori e le lattine rotolavano, sbattendo. Un gatto venne a sfregarsi contro le mie gambe, poi scomparve nelle ombre di un viottolo. A casa c'era un messaggio di mio padre sulla segreteria telefonica. «Pronto» diceva con voce lamentosa. Faceva una pausa e poi ripeteva: «Pronto? Kit? Sono papà». Nient'altro. Erano le due di mattina ed ero completamente sveglia, con il cervello in funzione. Mi feci una tazza di tè. Una bustina e un po' d'acqua bollente. Un goccio di latte. Facile quando si è da soli. A volte mi capitava di cenare in piedi, appoggiata al frigo, o girando per la cucina. Un pezzo di formaggio, una mela, un pezzo di pane, un cracker sgranocchiato distrattamente. Succo d'arancia bevuto direttamente dalla confezione. Albie, invece, mi coccolava preparando cene abbondanti ed elaborate; carni, erbe e spezie; minestre profumatissime, formaggi dalle forme strane; vino a volontà. Mi sedetti sul divano a sorseggiare il tè. E dato che ero sola, e in vena di lacrime, tirai fuori la fotografia. Aveva la mia età, allora, lo sapevo, ma sembrava ridicolmente giovane, e sembrava passato un mucchio di tempo. Come una bambina lontana; una persona scorta in fondo a un giardino attraverso un cancello. Era seduta sull'erba, con un albero alle spalle, portava dei pantaloncini di jeans corti e logori e una maglietta rossa. Un raggio di sole le illuminava le ginocchia rotonde, nude. I capelli castano chiaro erano lunghi e tirati dietro le orecchie, a parte un ciuffetto che le cadeva su un occhio. Un momento dopo l'avrebbe spinto indietro. Aveva un volto morbido e rotondo, cosparso di piccole lentiggini, e occhi grigi. Mi assomigliava, tutti quelli che l'avevano conosciuta dicevano sempre: «Sei l'immagine di tua madre». «Povera cara» aggiungevano, intendendo me, lei, o tutte e due. Morì prima che fossi abbastanza grande da poterla ricordare, anche se continuavo a setacciare i miei primi fumosi anni di vita per cercare di trovarla, ai margini delle memorie sbiadite. Tutto ciò che mi era rimasto erano fotografie come quella, e storie su di lei che mi avevano raccontato.
Tutti avevano la loro versione. Di lei avevo solo le parole altrui. Così non era veramente mia madre che piangevo, ma l'idea dolorosamente tenera di lei. Sapevo, per via della data che mio padre aveva scritto meticolosamente sul retro, che era già incinta, anche se non si vedeva. Aveva il ventre piatto, ma io ero là, a galleggiarle dentro come un segreto. Per questo amavo quella fotografia: perché anche se nessun altro lo sapeva, era di noi due insieme. Io e lei e l'amore che ci stava davanti. La sfiorai con il dito. Mi sorrideva. Piango sempre quando la vedo. CAPITOLO 2 Da sempre i nuovi inizi mi rendono nervosa. Non riesco a credere fino in fondo alla possibilità di un rinnovamento. Un'amica una volta mi disse che era segno del mio essere più protestante che cattolica. Probabilmente intendeva dire che della vita mi trascino dietro tutto: panni sporchi e bagagli indesiderati compresi. Nondimeno, desideravo con tutta me stessa che il ritorno al lavoro rappresentasse un nuovo inizio. L'appartamento era ancora disseminato di tracce di Albie. Erano passati sei mesi e avevo ancora un paio di sue camicie nell'armadio e delle vecchie scarpe sotto il letto. Non me ne ero sbarazzata del tutto. Pezzetti di lui continuavano a riaffiorare, come frammenti di un naufragio trasportati a riva dopo una tempesta. Quella domenica sera mi infilai un paio di calzoni bianchi di cotone e un top arancione con le maniche a tre quarti e il pizzo intorno al collo, una specie di tunica. Misi il mascara, il lucidalabbra e una goccia di profumo dietro le orecchie. Mi pettinai i capelli e li annodai, ancora bagnati, in cima alla testa, tanto non aveva importanza. Sarebbe venuto e poi se ne sarebbe andato e io sarei rimasta di nuovo sola nel mio appartamento, con le finestre aperte, le tende chiuse, un bicchiere di vino e la musica. Una musica tranquilla. Mi studiai nello specchio della camera da letto. Avevo l'aria seria. Sorrisi e il mio riflesso mi sorrise a sua volta con ironia, le sopracciglia inarcate. Era in ritardo, naturalmente. Come sempre. Di solito arrivava ansimando, senza fiato, sorridendo e cominciando a scusarsi prima ancora che gli aprissi la porta. Entrava portando con sé un'ondata di idee, uno scoppio di risa. Finalmente Albie arrivò. Lo udii ridere prima ancora di vederlo. Mi voltai e me lo ritrovai vicino. Era più tranquillo oggi, un sorriso cauto sul viso.
«Ciao, Albie.» «Hai un bell'aspetto» disse, contemplandomi come se fossi un quadro che non aveva ancora deciso come giudicare. Si piegò a baciarmi su entrambe le guance. La sua barba mi grattò la pelle e la cicatrice, le sue braccia mi strinsero con forza. Aveva le dita macchiate di inchiostro. Lo osservai un momento, poi mi liberai dal suo abbraccio. «Allora, entra.» Sembrò riempire l'ampio soggiorno. «Come stai, Kitty?» «Bene» risposi con fermezza. «Sono venuto a trovarti in ospedale, sai. Quando l'ho saputo. Probabilmente non te lo ricordi. Anzi non lo ricorderai di sicuro. Eri conciata maluccio.» Sorrise, sollevò un dito e me lo passò sulla ferita. Sembrava che alla gente piacesse farlo. «Sta rimarginandosi bene. Penso che le cicatrici siano affascinanti.» Mi voltai. «Cominciamo?» Iniziammo dalla cucina. Prese il suo coltello speciale per i funghi, con uno spazzolino in fondo per togliere la terra, il servizio per la fondue con le sei lunghe forchette, il ridicolo grembiule a strisce e il cappello da chef che indossava ogni volta che cucinava, tre libri di cucina. Stufato di anguilla, ricordai. Soufflé di frutto della passione che era gonfiato troppo e si era bruciato. Tacos messicani ripieni di carne tritata, panna acida e cipolle. Mangiava con gusto, anche, facendo ondeggiare la forchetta, ficcandosi il cibo in bocca, discutendo e allungandosi sulla tavola, tra le candele, per baciarmi. Lo scorso Natale aveva mangiato tanta anatra innaffiata con vino rosso sincero che era finito al pronto soccorso convinto di avere un infarto. «E questo?» Gli mostrai un tegame di rame che avevamo comprato insieme. «Tienilo.» «Davvero?» «Certo.» «E tutti questi piatti spagnoli che...» «Sono tuoi.» Ma prese la vestaglia, i suoi spartiti di musica sudamericana per chitarra, i libri di poesia e di fisica, la cravatta color melanzana. «Penso sia tutto.» «Vuoi un bicchiere di vino?» Esitò un attimo, poi scosse la testa. «È meglio che vada.» Prese la borsa. «Buffo vecchio mondo, no?»
«È questo, allora?» «Che cosa?» «L'epitaffio sulla nostra relazione: buffo vecchio mondo.» Aggrottò la fronte. Due rughe verticali gli comparvero al di sopra del naso. Sorrisi per rassicurarlo che non aveva alcuna importanza. E anche lui sorrise quando si alzò per andarsene con gli scatoloni, e continuò a sorridere quando mi baciò per salutarmi, quando scese le scale per raggiungere l'automobile, quando partì. Dovevo guardare avanti, non indietro. La Welbeck Clinic è in una tranquilla strada residenziale di King's Cross. Quando fu costruita, alla fine degli anni Cinquanta, fu fatta in modo da non apparire un'istituzione opprimente. Dopotutto doveva essere un edificio in cui gli psichiatri risolvevano i problemi delle persone, ridavano loro la felicità e le rimandavano nel mondo. Quel che volevano, perché non apparisse istituzionale, era che non fosse vittoriana, con torri gotiche e piccole finestre ad arco. Sfortunatamente quel progetto ebbe tanto successo, fu così lodato e premiato, che divenne il modello per la costruzione di scuole elementari, centri medici e ricoveri per anziani, e ora la Welbeck Clinic aveva un aspetto molto istituzionale. Normalmente non la vedevo neanche più, come non mi accorgevo di respirare. Ci andavo tutti i giorni, ci lavoravo, parlavo, studiavo e bevevo caffè. Ma ora, salendo le scale dopo essere stata assente per mesi, vidi che l'edificio era vecchio, il cemento macchiato e crepato. Aprendo la porta, la sentii cigolare e raschiare lo scalino di pietra. Andai da Rosa e lei immediatamente uscì dall'ufficio e mi strinse in un lungo abbraccio. Poi mi spinse indietro per osservarmi con espressione indagatrice. Era vestita con semplicità, un paio di calzoni grigio scuro e un pullover blu. Aveva i capelli ormai quasi del tutto grigi e, quando sorrideva, il viso le si increspava tutto di piccole rughe. Che cosa stava pensando? Quando l'avevo conosciuta, quasi sette anni prima, sapevo che aveva alle spalle un lavoro straordinario sullo sviluppo infantile. Mi sorprendeva il fatto che quella grande esperta di bambini non ne avesse mai avuti di suoi, anche se a volte mi domandavo se noi tutti, suoi allievi alla clinica, non fossimo in competizione per diventare il suo figlio o la sua figlia più intelligente. C'era un non so che di materno nel modo in cui dirigeva la clinica, ma ciò non significava necessariamente che fosse dolce e indulgente come una madre. Era capace di esercitare una ferrea obiettività. «Ci sei mancata, Kit» disse. «Bentornata.» Non risposi, feci solo una
smorfia che voleva essere affettuosa. Avevo un senso di vuoto nello stomaco, un po' come al primo giorno di scuola. «Andiamo fuori a parlare» aggiunse Rosa vivacemente. «Che tempo bizzarro! Ora sembra si sia rasserenato.» Ci incamminammo verso il giardino sul retro, e Francis ci venne incontro per strada. Anche lui era vestito in modo informale, in jeans e camicia blu scuro. Come al solito non si era rasato e aveva i capelli in disordine. Gli piaceva apparire un artista più che uno scienziato. Quando fummo l'uno di fronte all'altra, allargò le braccia e mi strinse nel suo abbraccio. «Che piacere averti di nuovo qui, Kit. Sei sicura di essere pronta?» Annuii. «Ho bisogno di lavorare. È solo che... è un po' come rimontare in sella dopo una caduta da cavallo.» Francis fece una smorfia. «Per mia fortuna i cavalli li ho visti solo al cinema. È molto più sicuro.» Era piovuto, ma ora c'era il sole e le pietre bagnate del selciato brillavano ed esalavano vapore. Le panchine erano fradice, così rimanemmo in piedi un po' imbarazzati, come persone che si sono appena conosciute a un party. «Ricordami i tuoi impegni di oggi» domandò Rosa tanto per dire qualcosa. «Questa mattina devo vedere Sue.» Sue era una ventitreenne anoressica, così magra da sembrare trasparente. I suoi begli occhi erano come due laghi pieni d'acqua in un piccolo volto grinzoso. Sembrava una bambina, o una vecchia. «Bene» commentò vivacemente. «Prenditela comoda e facci sapere se hai bisogno di aiuto.» «Grazie.» «Ancora una cosa.» «Sì?» «Il risarcimento.» «Oh.» «Francis è dell'opinione che tu debba intentargli causa.» «Un caso dall'esito scontato» disse Francis. «Specie dal momento che ti ha ferito con la tazza del poliziotto.» Guardai Rosa. «Tu che cosa ne pensi?» «La decisione spetta solo a te.» «Non so. C'era una gran confusione. Sai che la procura ha...» cercai di ricordare le parole esatte della lettera che avevo ricevuto «... deciso di non
avviare un procedimento nei confronti del signor Doll. Forse hanno sbagliato loro, o forse è stata colpa mia. O è stato solo un incidente. Non so bene che cosa ne ricaverei.» «Più o meno un paio di centinaia di migliaia di sterline, secondo la stima di un esperto» rispose Francis con un sorriso. «Non sono sicura che Doll volesse veramente ferire qualcuno. Era solo agitato, in preda al panico. Ha preso la tazza e l'ha sbattuta contro il muro, si è tagliato e poi ha tagliato me. Era ridotto male anche prima che la polizia avesse finito con lui. Sapete quel che succede alla gente in simili situazioni. Perde la testa. Si uccide o si avventa sugli altri. Avrei dovuto essere preparata.» Guardai Rosa e Francis. «Siete scioccati? Mi vorreste più arrabbiata? Assetata del sangue di Doll?» Rabbrividii. «Ho saputo che i poliziotti l'hanno picchiato un bel po' prima di gettarlo in cella. Saranno furiosi ora che è uscito.» «Già» rispose Rosa seccamente. «Ed è stato Furth a sbagliare, anche se non lo ammetterà mai, naturalmente. In ogni modo non voglio portare questa faccenda in tribunale. A chi gioverebbe?» «La gente dovrebbe pagare per i propri errori» disse Francis. «Avresti potuto morire.» «Ma non sono morta. Sto bene.» «Pensaci, almeno.» «Ci penso in continuazione. Me lo sogno di notte. Per qualche ragione l'idea di far causa a qualcuno, in modo da ottenere un risarcimento in denaro, in questo momento non mi sembra pertinente.» «Capisco quel che dici» commentò Francis con un tono che mi fece venir voglia di torcergli il naso. Pioveva a dirotto quando tornai a casa; una pioggia insolitamente calda, che batteva sul parabrezza e produceva schizzi iridescenti ogni volta che un camion passava rombando. Il traffico stava cominciando a farsi pesante; avevo gli occhi arrossati e la gola irritata. Mi fermai vicino a casa e vidi che c'era un uomo alla porta. Aveva le mani ficcate nelle tasche dell'impermeabile e stava guardando la casa. Mi udì sbattere la portiera e si voltò. La sua chioma bionda brillò nella pioggia. Le labbra sottili si atteggiarono a un sorriso. Lo guardai a lungo e anche lui mi osservò. «Detective Furth» dissi.
Mi sentii esaminata e valutata dal suo sguardo, e dovetti farmi forza per non indietreggiare. «Ti vedo bene» mi disse sorridendo, come se fossimo vecchi amici. «Che cosa posso fare per te?» «Posso entrare un momento?» Alzai le spalle. Era più facile acconsentire. CAPITOLO 3 «Non sono mai stato qui» disse, guardandosi intorno. Non potei fare a meno di ridere. «Perché diavolo avresti dovuto. Ci siamo incontrati solo una volta, mi pare.» «Davvero?» Girava per la casa come se stesse pensando di comprarla. Poi andò alla finestra, che si affacciava sul piccolo prato del retro. «Bella vista» commentò. «Non si direbbe, da davanti. Un bel pezzetto di verde.» Non risposi e lui si voltò con un sorriso contraddetto dal suo sguardo. Si guardava intorno cauto, come un animale che teme un assalto alle spalle. Mi sembrava sempre che il mio appartamento cambiasse a seconda di chi ci entrava. Lo vedevo attraverso gli occhi altrui. O, meglio, lo vedevo come immaginavo lo vedessero gli altri. A Furth doveva apparire troppo spoglio, senza i necessari comfort e ninnoli. C'erano un divano e un tappeto su un pavimento di legno laccato, un vecchio stereo in un angolo e una pila di CD accatastati accanto. C'erano scaffali pieni di libri, e libri sul pavimento. Le pareti erano bianche e quasi completamente nude: quando un quadro, dopo settimane o mesi, smetteva di scombussolarmi e diventava per me solo un elemento di arredo, lo toglievo o lo regalavo. Alla fine non me ne erano rimasti che due. Uno, che mi aveva regalato mio padre quando avevo compiuto ventun anni, raffigurava due bottiglie sopra un tavolo. L'aveva fatto un artista modesto, suo vecchio amico, un lontano cugino. Non ci passavo mai davanti senza essere costretta a fermarmi. E poi c'era una fotografia del padre di mio padre con suo fratello e sua sorella, davanti a uno sfondo drappeggiato, scattata in uno studio fotografico all'incirca negli anni Venti. Mio nonno aveva un vestito da marinaretto. Tutti e tre i bambini avevano uno strano sorrisetto sul volto, come se stessero trattenendosi dal ridere per qualcosa di buffo non visibile nell'inquadratura. Era una bella foto. Un giorno, forse tra un centinaio d'anni, qualcuno l'avrebbe appesa al muro domandandosi con aria divertita chi fossero quei bambini. Osservai Furth e mi accorsi che per lui, ovviamente, non significava nul-
la. Sul volto aveva forse solo un briciolo di stupore. Tutto qui? È a questo che Kit Quinn ritorna tutte le sere? Mi venne troppo vicino e mi guardò negli occhi con un'espressione preoccupata che mi spaventò. «Come stai?» domandò. «La faccia è andata a posto?» Feci un passo indietro prima che mi sfiorasse la cicatrice. «Non pensavo che ci saremmo incontrati di nuovo» risposi. «Ci siamo rimasti male» riprese Furth, prima di aggiungere affrettatamente, «non che fosse colpa di qualcuno. Sembrava un animale impazzito. Ci sono voluti quattro uomini per bloccarlo. Avresti dovuto ascoltarmi quando ti ho detto che era un pervertito.» «È questo che sei venuto a dirmi?» «No.» «Allora perché sei qui?» «Per parlare.» «Di che cosa?» Assunse un'aria scaltra. «Ho bisogno di un consiglio.» «Cosa? Sei venuto qui per sottopormi un caso?» «Già. Mi piacerebbe scambiare due chiacchiere. Hai qualcosa da bere?» «Di che tipo?» «Una birra o qualcosa del genere.» Trovai una bottiglia in fondo al frigo e gliela portai. «Ti dà fastidio se fumo?» Andai in cucina a prendergli un piattino. Spinse via il bicchiere che gli avevo dato e bevve direttamente dalla bottiglia. Poi si accese una sigaretta e aspirò qualche boccata. «Sto lavorando sull'omicidio del Regent's Canal» disse infine. «Ne hai sentito parlare?» Ci pensai un momento. «Ho visto qualcosa sul giornale qualche tempo fa. Il corpo trovato vicino al canale?» «Giusto. Che cosa ne pensi?» «Triste.» Feci una smorfia. «Un articoletto al fondo di una pagina. Una giovane vagabonda. È finita sul giornale solo perché aveva delle brutte ferite. Non sanno neanche come si chiama, vero?» «Già. Ma abbiamo un sospetto.» Scossi il capo. «Bene, ma...» Alzò la mano. «Chiedimi il nome del sospetto.» «Come?» «Avanti.» Mi fece un largo sorriso e si appoggiò allo schienale della se-
dia con le braccia incrociate, in attesa. «D'accordo» risposi obbediente. «Chi è il sospetto?» «Anthony Michael Doll.» Lo fissai, mentre assorbivo la notizia. Lui mi guardò a sua volta con aria trionfante. «Ecco, vedi perché sei la persona adatta a questo lavoro? Perfetta, no?» «La possibilità di rifarmi. Ho perso l'occasione di sbatterlo in galera prima, così adesso forse posso contribuire a farlo condannare per omicidio. È questa l'idea?» «No, assolutamente no» disse lui con tono suadente. «Il mio capo vuole che tu faccia un lavoro per noi. Naturalmente, sarai pagata. E potrebbe rivelarsi divertente. Domanda al tuo amico Seb Weller.» «Divertente?! Come potrei resistere? La volta scorsa mi sono divertita un sacco.» Andai al frigorifero e presi una bottiglia già aperta di vino bianco. Me ne versai un bicchiere e lo alzai alla luce che stava svanendo. Bevvi un sorso e sentii il liquido ghiacciato scorrermi in gola. Guardai fuori della finestra, il sole rosso e basso nel cielo turchese. Aveva smesso di piovere e il tempo si stava aggiustando. Mi rivolsi di nuovo a Furth. «Perché pensi sia Doll?» Ghignò soddisfatto. «Vedi che ti interessa? Doll passa giorni interi a pescare nel canale. Ci va ogni maledettissimo giorno. Si è presentato quando abbiamo detto in giro che cercavamo persone che si trovavano nei paraggi.» Mi guardò con aria sarcastica. «Ti sorprende?» «Cosa?» «Che un uomo del genere si faccia avanti.» «Non necessariamente. Se è innocente, per lui è meglio presentarsi di sua spontanea volontà. E se è colpevole...» Mi fermai. Non volevo lasciarmi trascinare in inutili congetture. Lui ammiccò, come se mi avesse colto in fallo. «Se è colpevole» disse, «potrebbe piacergli l'idea di essere invischiato nell'inchiesta, anche solo marginalmente. Che cosa ne dici?» «È risaputo che gente di quel tipo ci sguazza.» «Già, è risaputo. Vogliono tenersi pronti, provare quanto sono furbi. Un piccolo divertimento extra. Razza di bastardi.» «Allora che cosa ha detto?» «Non l'abbiamo ancora interrogato.» «Perché no?»
«Lo lasceremo cuocere un po' nel suo brodo. Ma nel frattempo non siamo stati con le mani in mano. C'è questa giovane poliziotta, Colette Dawes. Una bella ragazza. E in gamba. È andata a conoscerlo. Vestita in borghese, naturalmente. L'ha fatto parlare. Hai capito come, no? Un drink, un po' di lusinghe, un po' di cosce scoperte, e intanto lo faceva parlare. Aveva un registratore e noi abbiamo i nastri. Ore di registrazione.» «È questa la vostra indagine?» domandai sconcertata. «Incaricare una poliziotta di far la civetta con lui?» Furth si piegò in avanti con l'espressione di chi vuole tagliar corto. «Non aggiungerò altro» disse con tono cospiratore. «Vogliamo solo la tua opinione professionale su di lui. In forma ufficiosa. Non ti ci vorrà molto. Devi solo dare un'occhiata ai verbali e poi incontrarlo brevemente. Sai di che cosa si tratta, no? Una valutazione preliminare.» «Incontrarlo?» «Certo. Ti crea problemi?» Naturalmente mi creava dei problemi, ma sapevo di non poter dire di no. «Nessun problema. Questa signora, Colette Dawes, sa quel che sta facendo?» Furth fece una smorfia. «Sa badare a se stessa. E poi ci siamo sempre noi. Senti, Kit, capisco che tu sia nervosa, ma abbiamo pensato che potesse servirti a star meglio.» Bevve un sorso di birra. E - pensai tra me e me volevate essere sicuri che non vi denunciassi per ottenere il risarcimento. «Grazie, dottore. Forse funzionerà.» «Allora, che cosa rispondi?» Mi alzai e andai alla finestra a guardare quel praticello intrappolato dietro palazzi di uffici. Era sera ormai, ma non faceva buio, il sole non era del tutto tramontato. La luce stava diventando da giallo aspro a dorata. «È una fossa per appestati.» «Che cosa?» «Durante la peste si buttavano i cadaveri in una fossa, li si ricopriva di calce viva e li si dimenticava.» «Spaventoso.» «Al contrario» dissi voltandomi verso di lui. «Ti dirò solo una cosa, per ora. Non so nulla del tuo caso. Penso che questa signora che gioca a fare Mata Hari sia un'idea del cavolo. Non so con che diritto facciate una cosa del genere e non voglio saperlo. A me sembra da irresponsabili, potrebbe persino essere illegale, ma io sono un medico, non un avvocato.» «Mi farai sapere, allora?»
«Sì.» «Quando?» «Che ne dici di un paio di giorni? Devo prima parlare con una persona.» «Mi farai uno squillo?» «Sì.» Se ne andò e io rimasi per parecchi minuti a guardare fuori. Rimasi a osservare l'erba, il verde che mutava e impallidiva nella serata brillante. Gente morta, gente morta ovunque. CAPITOLO 4 Telefonai subito a Rosa, a casa. Non potevo aspettare. «Furth è venuto a trovarmi» le dissi. «Chi?» «Il detective. Quello che era presente quando è successo, quando sono stata aggredita.» Le raccontai tutta la storia e mentre gliela raccontavo mi sembrava ancor più bizzarra e poco professionale. «E che cosa gli hai risposto?» domandò lei alla fine. «Mi ha colto alla sprovvista.» «Ma ti ha incuriosito.» «Incuriosito? Mi sono sentita trascinata dentro.» «Che cosa significa, Kit?» «Mi sveglio di notte e continuo a pensarci, come se stesse succedendo di nuovo. O se dovesse ancora accadere e potessi fare qualcosa per evitarlo, per portare indietro l'orologio. Mi sembra di essere di nuovo in quella stanza e c'è sangue rosso ovunque. Il mio. Il suo.» «Quindi vuoi incontrare di nuovo Doll per superare il trauma dell'incidente?» «Esatto.» «Be'... Ti dirò solo due cose e sono le due cose che dovevi avere in mente quando hai deciso di chiamarmi. La prima è che non so se ti farebbe bene vedere quell'uomo. La seconda è che non è poi molto importante se ti fa bene o no. Ti hanno chiesto di fare un lavoro. Sei in grado di svolgerlo?» «Sì, penso di sì.» Ci fu una pausa. «È pericoloso chiedere consiglio. Si rischia di non ricevere il consiglio che si voleva.» Sospirò. «Mi spiace, ma secondo me non dovresti farlo. Mi
stai ascoltando?» «Forse c'è la linea disturbata.» «Sì, probabilmente è così.» Misi giù il telefono. Aveva ricominciato a piovere. Che luglio bizzarro, con quelle continue tempeste calde. Andai alla finestra e guardai il giardino, il prato inzuppato. Una coppia, mano nella mano, sguazzava nell'erba, tra mucchi di fiori fradici e pozzanghere. Lei si girò verso di lui, ridendo nella semioscurità. Amore e lavoro, questo è ciò che ci permette di passare le giornate. Il telefono squillò, facendomi sobbalzare e svegliandomi dal mio sogno a occhi aperti. «Parlo con Kit?» La voce sembrava molto lontana. Gracchiante. Veniva dall'estero? Probabilmente no. New York sembra più vicina di Londra. E lo è, in un certo senso. «Sì?» «Sono Julie.» Silenzio. Julie, Julie,Julie. Il nome non mi diceva nulla. «Julie Wiseman.» «Oh, Julie. Ma pensavo che tu fossi...» Era partita. Era scomparsa dalla circolazione per lungo tempo. «Sono tornata a Londra.» Tornata da dove? Avrei dovuto saperlo? Cercai di immaginarla come l'avevo vista l'ultima volta. Capelli scuri e ricciuti, legati in cima alla testa, mi pareva. Ebbi un lampo di memoria, come un soffio di aria calda, che mi fece sorridere: sigarette a notte fonda in ristorantini a poco prezzo. Una notte facemmo così tardi che i cuochi uscirono dalla cucina con una bottiglia di vino e vennero a sedersi con noi. Insegnava matematica alle medie, ma si era licenziata e aveva cominciato a girare il mondo. Mi addolcii. Le dissi che mi era mancata e che mi sarebbe piaciuto rivederla. E lei rispose che sarebbe stato bello venire a trovarmi. E si spinse oltre. Mi tornò in mente. Quando era partita, aveva lasciato l'appartamento. Che cosa aveva fatto della sua roba? Conoscendola, doveva averla data tutta via. Julie era così, generosa con le sue cose e con quelle degli altri. Poteva venire a stare da me per un giorno o due? Ci pensai un momento, ma non mi venne in mente nessuna ragione per cui sarebbe stato meglio evitare di avere qualcuno qui con me, per un po'. Entrò portando con sé una ventata di paesi lontani. Lasciò cadere sul pavimento un grosso zaino e una borsa marrone di tela, sollevando un polverone. Aveva scarpe di cuoio marrone, ruvidi pantaloni kaki e una giacca
blu imbottita, dall'aria tibetana. Il suo volto non solo era abbronzato, ma sembrava levigato, stagionato, scolpito dalla vita all'aperto. E anche le mani e i polsi erano scuri e gli occhi, brillanti come pietre preziose, ridevano per qualche idea scherzosa ancora inespressa. «Accidenti, Kit, che cosa ti è successo alla faccia?» «A dir la verità...» Ma lei si era chinata e stava rovistando in un sacchetto di plastica. «Ti ho portato una cosa» disse. Mi aspettavo che tirasse fuori una statuetta antica di Buddha, scolpita a mano, ma era una bottiglia di gin comprata al duty free. «Pensavo che avresti avuto dell'acqua tonica, altrimenti vado giù un momento a comprarla.» Non c'erano dubbi sul fatto che dovevamo aprirla immediatamente. «Ce l'ho, non ti preoccupare.» «E posso prepararmi qualcosa? Ho dormito per circa tredici ore su un aereo.» «Da dove vieni?» «Mi sono fermata un paio di settimane a Hong Kong. Incredibile. Delle uova fritte magari.» «Con la pancetta?» «Sarebbe grandioso. E pane fritto, se hai del pane. Negli ultimi due mesi non ho fatto che sognare di ritornare in Inghilterra e farmi una di quelle belle colazioni inglesi: uova, pancetta, pomodori e pane, tutti fritti insieme.» «Allora vado a prendere dei pomodori. C'è un negozio aperto notte e giorno proprio all'angolo.» «Ho qualcos'altro per te.» Tirò fuori una stecca di sigarette Marlboro del duty free. «A dir la verità non fumo.» «Più o meno me lo immaginavo» disse Julie con un sorriso. «Ti spiace se ne accendo una?» «Niente affatto.» Quindici minuti dopo ero seduta di fronte a Julie al tavolo di cucina, con un gin tonic davanti. Lei alternava sorsi di gin a tè marrone scuro e mangiava con gusto la sua tardiva colazione. Intanto mi raccontava frammenti delle sue avventure: viaggi su carretti in montagna, canoe, autostop, fuochi all'aperto, cibi strani, un'alluvione, zone di guerra, brevi incontri sessuali, una relazione in un appartamento che si affacciava sul porto di Sydney, un passaggio su uno yacht che viaggiava tra le isole del Pacifico, un lavoro da
cameriera a San Francisco e poi le Hawaii e Singapore, o era San Paolo e Santo Domingo? E tutto ciò, beninteso, era solo un'anteprima. L'intera storia dei suoi viaggi mi sarebbe stata raccontata a tempo debito. «Adoro questo appartamento» disse. «L'ho sempre adorato.» Rimasi un momento perplessa. «Ci stavo già prima che tu te ne andassi?» «Certo» rispose, immergendo l'angolo di una fetta unta di pane in una pozza densa di tuorlo. «Ci sono venuta un sacco di volte. A cena.» Già. Ora me lo ricordavo. Mi sembrò quasi che mi facesse un rimprovero. Lei aveva fatto così tante cose, visto tanti strani tramonti, avuto tante «esperienze», e nel frattempo io ero rimasta qui, a Clerkenwell, a lavorare. Il mio lavoro mi era sembrato così importante che non avevo mai fatto una vacanza in tutto il periodo in cui Julie aveva viaggiato. Mi vidi nello specchio. Ero pallidissima. Come se Julie, dopo essere stata al sole, fosse tornata, avesse alzato un sasso e mi avesse trovata appiccicata al di sotto, umida e malaticcia. «Ma in un certo senso ti invidio» disse, senza averne affatto l'aria. «Sono scesa dalla scala, voglio dire la scala della carriera. Ora sono tornata e devo trovare un modo di rimontarci su. Eccomi qui. Di nuovo a casa e totalmente fuori del mercato del lavoro.» Fece una risata. Era palesemente - e a ragione, dovevo ammetterlo - molto fiera di se stessa. «E tu» proseguì, arrivando dove temevo, «che cos'hai combinato. Come hai fatto a procurarti quella ferita tremendamente sexy?» «Sono stata aggredita da un tipo in una cella della polizia.» «Mio Dio!» Sembrò sinceramente colpita. «Come mai?» «Non lo so. Perché è stato preso dal panico, immagino.» «Che cosa terribile.» Masticò rumorosamente per qualche secondo. «È stato brutto?» «Parecchio. È successo tre mesi fa e sono ritornata al lavoro solo oggi.» «Oggi? Non ti spiace che sia venuta, vero?» Il suo volto divenne ansioso. «Che ti sia piombata addosso in questo modo?» «No, va bene, se non è per troppo...» «Che cos'altro è successo? Oltre a essere aggredita da un pazzo e aver rischiato di morire, voglio dire.» Cercai di pensare a un evento significativo. «Albie e io ci siamo lasciati» risposi «definitivamente.» «Già» fece Julie comprensiva. «Mi ricordo che dicevi di avere problemi.» Cavolo, pensai tra me e me. Davvero? Tre anni fa? Mi sembrava di
vivere come uno di quei sommozzatori di una volta, che camminavano sul fondo del mare molto lentamente con degli stivali appesantiti dal piombo. «Allora c'è un altro?» «No. È successo di recente.» «E il lavoro?» «Sono ancora alla clinica.» «Ah.» Dovevo pensare a qualcos'altro da raccontarle. Era assolutamente necessario. «Mi hanno chiesto di fare un lavoro per la polizia. Potrebbe anche rivelarsi una sorta di consulenza.» Dirlo ad alta voce a una persona che ne era al di fuori mi fece sembrare reale la cosa. Tracannò un gigantesco sorso di gin, poi sbadigliò. Le vidi i denti bianchi, la lingua rosa e la gola. «Incredibile» disse. «Ti ho raccontato di quel tipo che ci ha caricate, me e un'amica, quando stavamo salendo sulle montagne Drakensburg?» Non me l'aveva raccontato, ma ci spostammo sul divano e lo fece. L'intera versione, questa volta. Fu confortante. Julie spaparanzata come un gatto che parlava con profondo piacere di quei pericoli remoti, mentre io di tanto in tanto sorseggiavo il drink e fuori la notte calava molto lentamente. E alla fine alzai gli occhi e Julie si era addormentata con il bicchiere ancora in mano, poiché il cervello probabilmente aveva detto al suo corpo forte che era in Thailandia o a Hong Kong, e che erano le tre del mattino. Le sfilai il bicchiere dalle dita e lei mormorò qualche parola incomprensibile. Poi andai a prendere un piumino dall'armadio della mia camera e la coprii, fino al mento. Sospirò e ci si avvolse dentro come un criceto nel nido. Non riuscii a trattenere un sorriso, osservandola. Quella vagabonda si trovava già più a suo agio di me nel mio appartamento. Tornai in camera da letto e mi spogliai. Era stata una giornata molto strana, piena di attività dopo mesi di convalescenza. La testa brulicava di pensieri. Mi sentivo la pelle fredda e delicata, come un ramoscello scortecciato. Andai a letto e mi tirai il piumino addosso, ma non riuscii a sistemarlo bene. Mi venne in mente la ragazza trovata morta vicino al canale. Lianne era il suo nome, o il nome che si era data. Lianne e basta. Una ragazza perduta senza un vero nome. Presto avrei scoperto qualcosa di più su di lei, forse domani. Domani avrei dovuto vedere Doll. Mi toccai la cicatrice. Chiusi gli occhi. Non era più accanto al canale, ovviamente, quella Lianne senza cogno-
me. Doveva essere in un armadietto freddo di metallo, archiviata. Sentii, quasi fisicamente, le dimensioni di Londra estendersi intorno a me in ogni direzione. In alcune case accadevano brutte cose. Ma cercai di convincermi che statisticamente avevano poca rilevanza. C'erano milioni e milioni di case in cui succedevano cose belle, o non succedeva niente e c'era solo solitudine e indifferenza. Era questo il dato statistico veramente incredibile: che ci fossero tante case in cui non capitava nulla di male. Il pensiero non mi rallegrò, ma a ogni modo mi addormentai. CAPITOLO 5 Il bilocale di Michael si trovava sopra un negozio di toilette per cani a Hackney, in una strada piena di negozi strani e squallidi, che non capivo come facessero a sopravvivere. C'era un tassidermista con un martin pescatore imbalsamato, lo sguardo fisso fuori della vetrina. A chi poteva venire in mente di imbalsamare un martin pescatore? C'era un negozio d'abbigliamento che vendeva grembiuli a fiori e calzoni di nylon con delle fettucce da infilare sotto i piedi; un negozio con tutto a meno di una sterlina; un fruttivendolo aperto giorno e notte con scatolette ammaccate impilate in piramidi sugli scaffali e un signore grasso alla cassa, con le dita nel naso. Numero 24A. Una delle finestre era coperta da plastica ondulata. C'era una luce accesa. Mi voltai verso Furth. «Non credo, sai, che le cose debbano andare così. Tu dovresti esaminare le prove e fare ipotesi su un sospetto, non esaminare un sospetto e vedere se si adatta al caso. Sto facendo questo lavoro solamente perché hai già combinato un gran casino, mandando da Doll la tua bella Colette con i suoi registratori e le gambe al vento.» «Certo» rispose mite, con gli occhi bassi sulla strada cupa. «Ma stai bene, vero?» «Bene, bene.» Non volevo dirgli che ero sveglia dalle tre del mattino, per l'ansia di prepararmi a questo momento. Quando scendemmo dall'auto, ebbi un attimo di panico e strinsi i pugni. Mi ero messa un paio di jeans neri, una maglietta bianca con le maniche lunghe e una vecchia giacca di pelle scamosciata. Mi ero legata i capelli. Volevo aver l'aria rilassata e disponibile, ma anche professionale. Ero il medico, amichevole ma non amico. Premetti il campanello, ma non riuscii a sentire se avesse suonato, di sopra. Non ci fu risposta. Suonai di nuovo e aspettai. Non venne nessuno.
Spinsi la porta e quella si aprì. Entrai chiamando ad alta voce: «Salve, Michael?». La mia voce aleggiò nell'aria stantia. Le scale erano strette e spoglie. Sulle assi di legno c'erano due dita di polvere. Le pareti erano di un verde ospedale. Misi la mano sulla ringhiera verniciata, che al tatto era appiccicosa come se prima di me ci fossero passate molte dita unticce. Non c'era spazio per salire affiancati. Mi incamminai per prima e Furth mi venne dietro. Sembrava stessimo montando sulla scala a chiocciola della torre di un castello. Salendo verso la porta in cima, avvertii un pesante odore di carne. Improvvisamente ebbi la sensazione che qualcosa non andasse. «Non va bene» dissi a Furth a voce bassa. «Che cosa vuoi dire?» sussurrò Furth. «Hai perso il coraggio?» Scossi il capo. «No, no. Devo vederlo da sola.» «Che cosa stai dicendo? Non te lo permetterei mai, per l'amor del Cielo.» «Non capisci? Di nuovo io e te. Che cosa penserà?» Furth si guardò intorno disperatamente, come in cerca di una persona in grado di prendere in mano la situazione. «Non entrerai in quella stanza da sola.» «Mi hai detto che è un piccolo miserabile pervertito. Qual è il problema?» «Ma ti ho anche detto che penso sia un assassino.» Riflettei un momento. «Rimani sulle scale. Io gli dirò che sei qui. Funzionerà.» Furth rimase un momento in silenzio. «Starò qua fuori. Fa' un urlo e mi precipito dentro. Mi hai sentito? Il minimo dubbio e urli.» «Perfetto» dissi, facendo un profondo respiro. «Sta' qualche gradino di sotto finché non sono dentro. Michael?» chiamai di nuovo, e bussai con decisione alla porta dipinta dello stesso verde deprimente. Qualcuno fece scorrere un chiavistello, poi aprì la porta di un paio di centimetri. «Che cosa vuoi?» Un piccolo segmento del volto di Doll apparve allo spiraglio. Aveva gli occhi leggermente iniettati di sangue; la fronte pallida era coperta di dozzine di minuscoli brufoli sottopelle. Ora l'odore era più forte. «Sono Kit Quinn, la dottoressa Quinn. La polizia le ha telefonato per avvisare che sarei venuta.» «Ma non ti aspettavo, non ho... Qui dentro è un casino. Sei venuta troppo presto. C'è un tremendo casino.» «Non importa.»
«Aspetta un momento.» La porta mi fu chiusa in faccia e udii dei rumori all'interno: cose che venivano trascinate sul pavimento, cassetti che venivano chiusi con un colpo, acqua che scorreva da un lavandino. Qualche minuto dopo la porta si riaprì, questa volta del tutto. E c'era Doll ad attendermi. Mi sforzai di sorridere e vidi che anche lui sorrideva. Con uno sforzo entrai. Si era lisciato i capelli dietro le orecchie e si era messo una qualche lozione. L'odore dolciastro, combinato con quello della carne, mi penetrò nelle narici. Gli tesi la mano. Fortunatamente era ferma. Lui me la strinse delicatamente. Aveva il palmo molle e sudato. Non mi guardava negli occhi. «Salve, Michael» dissi, e lui si scostò per farmi entrare nella stanza. Non appena varcai la soglia, udii un basso ringhio e poi una forma scura mi si scagliò contro. Vidi dei denti gialli, una lingua rossa, due occhi lucidi, e sentii il tremendo fetore dell'alito su di me prima che Doll lo fermasse. «Giù, Kenny!» Kenny era un grosso cane marrone nerastro. «Mi dispiace.» «Non importa. Non mi ha neanche toccata.» Una scarica di adrenalina mi andò in circolo. Dal fondo della gola di Kenny veniva ancora un ringhio. «No, mi dispiace, mi dispiace tanto.» «Ah, vuol dire questa.» Mi toccai il viso e lui fissò la cicatrice. «Mi dispiace» ripeté. «Scusami. Non volevo... È solo il modo in cui ti trattano... Non è veramente stata colpa mia, tu eri là e loro dicevano delle cose...» «Non sono qui per parlare di questo.» «Stai dalla loro parte.» «Non sto con loro. Voglio essere chiara con lei. Sono una dottoressa, parlo con persone che hanno dei problemi, o che hanno bisogno di parlare. E faccio delle consulenze per la polizia. Mi hanno accompagnata qui, ma ho detto ai poliziotti di rimanere fuori. Voglio che parliamo da soli.» «Sì. Mi hanno anche picchiato, sai?» Lo guardai e pensai al perché un uomo come Doll non avrebbe mai avuto un lavoro normale, per quale motivo le donne l'avrebbero sempre respinto. Non c'era una sola spiegazione. Semplicemente tutto in lui era leggermente spostato. Un po' come quegli ubriachi che cercano di sembrare sobri, curano tutti i dettagli ma non ingannano nessuno. Doll era l'imitazione di una persona normale. Aveva anche fatto uno sforzo speciale nei
miei riguardi. Si era abbottonato la camicia fino in cima e si era messo una cravatta. La cravatta non aveva nulla di strano, ma il nodo era incredibilmente stretto e piccolo. Sembrava impossibile da sciogliere. La logora giacca di velluto a coste era un po' troppo grande e lui aveva arrotolato una manica in fuori e una in dentro, per cui in una si vedeva la fodera, mentre nell'altra no. La cintura doveva avere uno strappo, perché era avvolta con il nastro isolante. Si era rasato, ma aveva dimenticato una larga zona sotto il mento, un improbabile arcipelago di barba. Non sapevo se fosse una persona malvagia o uno psicopatico. Sapevo che era povero e lo era sempre stato. Sapevo che viveva da solo. A volte le parole più importanti che ci vengono ripetute continuamente, da piccoli e da adulti, non sono «Ti amo» ma «Non puoi uscire in quel modo». Noi le interiorizziamo e ce le diciamo a nostra volta. Così cresciamo imparando a fare ciò che fanno gli altri, a dire quel che dicono gli altri, in modo da non essere notati. Ma ci sono uomini come Michael Doll a cui queste frasi non vengono mai dette, o non nel modo giusto. Per loro, fare le cose che fa il resto della gente è come parlare una lingua straniera: avranno sempre uno strano accento. «Tè, caffè?» Il sudore gli stava imperlando la fronte. «Tè, grazie.» Prese due tazze da una madia che per il resto era vuota. Una aveva la foto della principessa Diana sopra, l'altra il bordo sbeccato. «Quale vuoi?» «Che ne dice di quella con Diana?» Annuì come se avessi passato un test. «Era una donna speciale, Diana.» I nostri occhi si incontrarono per un momento, poi lui distolse lo sguardo. Si mise una mano sotto la camicia e si grattò vigorosamente. «La amavo. Vuoi, ehm...» indicò il divano. Mi sedetti con circospezione e dissi: «Sì, molti la amavano». Aggrottò la fronte, come per cercare le parole giuste, poi, arrendendosi, ripeté: «Era una donna speciale». In un angolo della camera disordinata, che fungeva da soggiorno e da cucina, c'erano due grosse ossa, e una nuvola di mosche ronzava su di esse e su una scodella posata sul pavimento, con dentro delia carne per cani in gelatina. Sul muro, sopra la piccola cucina sporca di grasso, c'era uno di quei calendari con donne nude dai seni enormi e sorrisi ammiccanti. Sul fornello c'era una pentola con dei fagioli raggrumati, in un angolo un televisore acceso, ma senza sonoro. Una linea bianca orizzontale tremolava in mezzo allo schermo. Il divano era coperto di peli di cane e di macchie di
cui non volevo sapere nulla. Sul pavimento c'erano lattine di birra, pacchetti di patatine e portacenere traboccanti. Attraverso la porta scorgevo una parte della camera da letto. Sul muro c'erano delle figure ritagliate da giornali e riviste. Da quel che potevo vedere, andavano da ragazze imbronciate e seminude a vera e propria pornografia. Alla parete c'erano scaffali che non contenevano libri, ma un ammasso di cose all'apparenza casuali: una ballerina di plastica con una gamba rotta al ginocchio, sei o sette radio vecchie e scassate, il campanello di una bicicletta, vari bastoncini sporchi di fango, un collare per cani, un taccuino con la figura di una tigre in copertina, uno yo-yo senza cordino, una brocca sbeccata, una fascia fermacapelli rosa con un fiore davanti, un sandalo azzurro, una spazzola, un pezzo di catena, una vaschetta di peltro, un rocchetto di filo, un mucchietto di graffette colorate, delle vecchie bottiglie di vetro. Pensai che un buon cinquanta percento dei cittadini inglesi avrebbe condannato Michael Doll all'ergastolo solo per quel che aveva fatto all'appartamento. Si accorse che guardavo e disse, un po' con orgoglio e un po' sulle difensive: «È roba che raccolgo. Dal canale. È incredibile quel che la gente butta via». Lo osservai mentre metteva una bustina di tè in ognuna delle tazze, poi quattro cucchiaini di zucchero nella sua. La mano gli tremava a tal punto che dello zucchero si rovesciò sul bancone. «Mi piace dolce» disse. «Vuoi un biscotto?» Non avrei potuto mangiare nulla che lui avesse anche solo guardato. «No» risposi. «Grazie.» Lui prese due biscotti da un pacchetto e li inzuppò nel tè fino a bagnarsi la punta delle dita. I biscotti divennero così molli che dovette tenerli con l'altra mano. Se li portò alla bocca e li mangiò, poi si leccò le dita. Aveva la lingua spessa e grigiastra. «Scusami» disse con un sorriso. Portai le labbra vicino alla tazza, facendo finta di bere. «Allora, Michael, sa perché sono qui?» «Dicono che devo parlarle della ragazza.» «Sono una dottoressa che lavora con persone che commettono atti criminosi di questo genere.» «Di quale genere?» «Atti di violenza contro le donne. In ogni caso la polizia mi ha chiesto consiglio sul caso del canale.» Un barlume di interesse comparve nell'occhio buono. Mi guardò con intensità. «Ovviamente» proseguii «mi interes-
sa parlare con chiunque abbia potuto vedere qualcosa. Lei è una delle persone che si sono fatte avanti. Ed era sul posto.» «Ci vado a pescare.» «Lo so.» «Vado a sedermi là ogni giorno, quando non lavoro. Si sta in pace, lontani dal rumore. Sembra di stare in campagna, in un certo senso.» «Mangia il pesce che pesca?» Doll sembrò disgustato e stupito. «Non sopporto il pesce. Così viscido e puzzolente. E non è il caso di mangiare nulla di ciò che si pesca in quell'acqua. Una volta ne ho portato uno al cane. Non l'ha toccato. No, li tengo nella rete e alla fine della giornata li ributto in acqua.» «Si trovava molto vicino al luogo nel quale è stata ritrovata la vittima.» «Già.» «Sa che cosa è successo?» «L'ho visto sui giornali. Non dicevano molto. Si chiamava Lianne. Ho visto una sua vecchia foto di quando era viva. Era una ragazzina. Sui diciassette anni, dicono. Solo una ragazzina. È terribile.» «È per questo che si è presentato alla polizia?» «La polizia l'ha chiesto. Volevano parlare con chiunque fosse sul posto.» «E lei quanto era vicino?» «Mi trovavo a pochi metri di distanza. Verso il fiume. Sono stato là tutto il giorno. A pescare, come ho detto.» «Se Lianne fosse passata per di là l'avrebbe vista.» «Non l'ho vista, ma forse è passata. Quando pesco, mi perdo nei miei pensieri. Lei l'ha vista?» «Chi?» «Ha visto il corpo?» «No.» «Le hanno tagliato la gola.» «Già.» «Si muore in fretta?» «Se si recidono le arterie principali, sì.» «Ci sarà stato un sacco di sangue, no? L'assassino ne sarà stato coperto.» «Credo di sì. Non sono quel genere di dottore. Ha pensato al delitto?» «Sì, naturalmente. Non riesco a togliermelo dalla mente. Per questo volevo sapere che cosa stesse facendo la polizia.» Feci finta di bere un altro sorso di tè. «Le interessano le indagini?» «Non mi è mai capitata una cosa del genere, prima. Pensavo che avrei
potuto collaborare, aiutare.» «Ha detto che non riesce a toglierselo dalla mente.» Si agitò sulla sedia. Prese un altro biscotto, ma non lo mangiò. Lo fece a pezzetti, sempre più piccoli, facendo sul tavolo un mucchietto di briciole. «Continuo a rivederlo nella mente.» «Che cosa rivede nella mente?» «Quella ragazza, che cammina lungo il canale e poi improvvisamente le tagliano la gola e muore.» Presi dalla tasca un pacchetto di sigarette, prelevate dalla riserva di Julie per l'occasione. Alzò gli occhi. Gliene offrii una e la accettò. Gli lanciai attraverso il tavolo la scatola di fiammiferi, come fossimo tra amici. «La polizia deve averle chiesto se si ricorda qualcosa in particolare.» «Sì.» «Voglio affrontare l'argomento da una diversa angolazione, che potrebbe risvegliarle dei ricordi. Voglio sapere quel che ha provato.» «Che cosa vuoi dire?» «Riguardo all'uccisione di Lianne.» Scosse le spalle. «Ci penso.» «Perché si trovava vicino?» «Credo.» «Che cosa pensa?» «Lo rivedo nella mente.» «Rivede che cosa?» «Quello» insistette. «Penso a come deve esser stato.» «Come pensa sia stato, Michael?» Si mise a ridere. «Non è il tuo lavoro? Non cerchi di immaginare che cosa si prova a uccidere le donne?» «Ha detto che non riesce a levarselo di mente.» «Non ho visto nulla, così lo immagino.» «Questo è ciò che mi interessa. Se non ha visto nulla, perché si è fatto avanti?» «Perché mi trovavo sul posto. La polizia l'ha chiesto.» «Si sente bene, Michael? Ha parlato con qualcuno?» «Vuoi dire un dottore?» «Sì.» «Per quale ragione?» «A volte serve parlare di queste cose.» «Ne ho parlato.»
«Con chi?» «Con un amico.» «E?» Scosse le spalle. «Abbiamo parlato.» Ci fu una pausa. «Lei si interessa al caso. C'è nulla in particolare che vuol sapere?» I suoi occhi si mossero evasivamente. «Mi interessa ciò che la polizia sta facendo. Voglio sapere come stanno andando le cose. Mi sembra strano essere stato sul posto e non sapere niente.» «Quando non riesce a toglierselo di mente, cosa immagina?» Rifletté un momento. «È come quando si accende e si spegne una luce molto rapidamente. Vedo la donna.» «Che donna?» «Una donna qualsiasi. La vedo sull'alzaia lungo il canale. Un uomo la segue, la afferra, le taglia la gola. Lo vedo e rivedo in continuazione.» «E che cosa prova?» Rabbrividì. «Non lo so. Nulla. Semplicemente non riesco a togliermelo dalla mente. Volevo solo aiutare.» Aveva la voce lamentosa e alta, come quella di un bambino piccolo. Ricordai le informazioni sulla sua vita che avevo letto nel dossier, alla centrale di polizia dove ero andata a parlare con Furth: messo sotto la tutela dei servizi sociali a otto anni, perché trascurato dalla madre alcolizzata e picchiato dal padre adottivo. Venti strutture residenziali e dieci coppie di genitori adottivi fino ai sedici anni. Una lunga storia di enuresi notturna, fughe, prepotenze subite a scuola e poi perpetrate. Aveva torturato un gatto in una delle case adottive, e aveva dato fuoco alle coperte del letto in un'altra. A tredici anni era stato trasferito in un reparto speciale per ragazzini disturbati, dove il suo comportamento violento aveva subito un'escalation. Diventato maggiorenne, viveva in squallidi bed&breakfast, girovagava per le strade con gli occhi allucinati e spiava le ragazze nei parchi. «Nessuno ascolta» continuò in modo stizzoso. «Questo è il problema. Nessuno ascolta mai. Dici qualcosa e non ti sentono neanche, perché credono tu sia un pezzo di merda. È così che mi chiamano. Non ascoltano quello che dici. Per questo vado a pescare dove non devo incontrare nessuno. Ci posso stare tutto il giorno. Anche quando piove. La pioggia non mi dà fastidio.» «Nessuno l'ha mai ascoltata?» «Nessuno. Mai. Neanche lei.» Immaginai intendesse sua madre. «Non le
importava di me. Non è mai venuta a vedermi dopo che mi hanno portato via. Non è mai venuta. Non so se è ancora viva. Se avrò mai un bambino o una bambina» qui il suo tono divenne tremendamente sentimentale «lo coccolerò, lo vizierò e non lo lascerò andar mai via.» Un lungo frammento di cenere gli si sbriciolò sui calzoni. «E nelle case? La ascoltavano?» «Quelli? Non farmi ridere. A volte facevo delle brutte cose, non riuscivo a farne a meno. Ero pieno di rabbia dentro di me e dovevo farla uscire, e loro mi picchiavano e mi chiudevano nella mia stanza e non mi facevano uscire neanche se continuavo a piangere.» Gli occhi gli si riempirono di lacrime. «Nessuno ti ascolta.» «E gli amici?» domandai con cautela. Scosse le spalle e spense la sigaretta a terra. «Ragazze?» Doll si innervosì. Prese a giocherellare con la stoffa dei pantaloni guardando altrove. «C'è una signora» disse. «Le piaccio, almeno dice così. Le racconto delle cose.» «Che tipo di cose.» «Ciò che sento, roba del genere.» «Sentimenti?» «Sì, sentimenti. E altre cose.» «Sentimenti che prova per le donne?» Borbottò senza coerenza. «I sentimenti che prova per le donne, Michael, la rendono ansioso?» «Non lo so.» «Le piacciono le donne?» Ridacchiò nervosamente e disse: «Naturalmente. Sono a posto da questo punto di vista». «Voglio dire: le piacciono come persone? Ha delle amiche?» Scosse il capo e si accese un'altra sigaretta. «Quando pensa alla ragazza che è stata assassinata, che cosa prova?» «Quella Lianne, era scappata da casa. Non le do torto. Anch'io sono scappato da casa. Ho sempre pensato che mia mamma avrebbe finito per riprendermi. Ma se mi comparisse davanti adesso, le spaccherei la faccia. Gliela spaccherei con una delle sue bottiglie, fino a fargliela sparire. Le servirebbe di lezione.» «Lei voleva aiutare la polizia, perché sapeva di essere stato in quel luogo?»
«Già. Continuo a pensarci. Non riesco a fermarmi. Mi ci faccio su delle storie.» Mi guardò, poi distolse gli occhi. «Ritorno al canale, mi siedo e penso che potrebbe succedere di nuovo. Potrebbe, vero? Potrebbe succedere di nuovo, proprio vicino a dove sono seduto.» «Le fa paura?» «Più o meno. Una specie di...» si leccò le labbra. «Una specie di paura e di...» «Eccitazione?» Si alzò e prese ad aggirarsi per la stanza angusta. «Mi credi?» «In che senso?» «Mi credi?» ripeté cupamente. Esitai prima di rispondere. «Sono qui per ascoltarla. Per ascoltare la sua versione della storia. È il mio lavoro: ascoltare le storie della gente.» «Ritornerai? Pensavo che saresti stata molto arrabbiata con me dopo... sai... quel che è successo. Ma non mi tratti come un poco di buono.» «Certo che no.» «E sei carina. Non fraintendermi, non sto cercando di... farti la corte. Sei una signora. Mi piacciono i tuoi occhi. Grigi. Come il cielo. Mi piace il modo in cui mi guardi.» Furth era seduto tristemente sulle scale. Quasi inciampai su di lui. «Allora, che cosa ne pensi?» mi domandò, come se fossi emersa dal padiglione degli insetti allo zoo. Uscimmo e montammo in auto. Doll probabilmente ci osservava dalla finestra. Mi avrebbe visto con Furth. Che cosa avrebbe pensato? Tirai giù il finestrino e lasciai che il vento caldo mi soffiasse in volto. Qualche pesante goccia di pioggia schizzò contro il parabrezza e il cielo divenne livido. «Poveretto.» «Tutto qui? È questo il tuo profilo di quell'uomo? Poveretto? È l'uomo che ti ha rovinato la faccia, ricordi?» Sospirai. «D'accordo. Povero, triste, ignorante, non amato, disturbato, incattivito, solo, vizioso, spaventato, ipocrita, lacrimoso.» Furth sogghignò. «E questo è solo l'inizio. Adesso viene il bello.» CAPITOLO 6 Alla centrale di polizia mi lavai il viso con l'acqua fredda e mi asciugai con il sottile asciugamano di carta del distributore, levandomi le ultime
tracce di rossetto. Mi spazzolai i capelli e li legai più stretti, senza lasciare ciocche libere. Mi tolsi gli orecchini e li riposi nella tasca laterale della borsa. Avevo la sensazione che qualcosa di soffice e quasi impercettibile, come una ragnatela o un capello, mi sfiorasse il viso. L'aria era tiepida, spessa e stagnante. Gettai un'occhiata veloce a me stessa nello specchio pieno di macchie. Ero seria e pallida. E scialba. Ma adesso andava bene così. Furth mi aspettava in piedi in mezzo agli scatoloni. Aveva un minuscolo cellulare premuto all'orecchio, seminascosto dai capelli lucidi, ma non appena mi vide se lo infilò nel taschino sul petto. «Questi maledetti telefoni non funzionano più, qui» disse. «Metà dei computer è già stata portata via. In metà delle stanze non ci sono più sedie. Non c'è più neppure la carta igienica nei cessi.» Poi scosse la mascella ben modellata. «Andiamo di sopra.» Lo seguii in una piccola stanza quadrata con un ficus morto e piegato in un angolo, e una finestra bloccata dalla vernice. In un altro angolo c'era una sedia mezza rotta. Sul tavolo, al centro, c'era un grosso registratore e una scatola di nastri con etichette dalle scritte piccole e ordinate. Ci sedemmo uno di fronte all'altra. Le nostre ginocchia si toccavano quasi, sotto il tavolo, e io mi tirai un po' indietro appoggiandomi sui braccioli di legno della sedia. «Pronta?» mi domandò, sollevando una mano. «L'abbiamo portata un po' avanti in modo che si trovi al punto più interessante.» Annuii, e lui schiacciò il bottone PLAY con l'indice. Dapprima non riconobbi la voce. Innanzitutto era più acuta. E il ritmo era completamente differente, a volte molto rapido, tanto che riuscivo a malapena a capire ciò che veniva detto, e poi, improvvisamente, lento e strascicato. Per qualche secondo pensai che il registratore non funzionasse bene, che le pile si stessero scaricando, ma era inserito in una presa della corrente e, quando mi sporsi per vedere, il nastro girava regolarmente. «Ci vado. Ci vado di notte quando non riesco a dormire, e mi capita spesso, Dolly, pensando alle...» Premetti il pulsante STOP. «Dolly?» Furth fece un piccolo colpo di tosse. «È il nome che Colette, la poliziotta Dawes, si è data. Delores, abbreviato in Dolly. Capisci, lui è Doll e lei Dolly. È così che ha iniziato la conversazione. Sbattendo le lunghe ciglia e dicendo con sorpresa: "Che coincidenza, anch'io mi chiamo Doll!" Niente male, vero?»
«Sconcertante.» Si mise a ridere. «Vuoi continuare?» «Continuiamo.» «... alle donne.» «Continua, Michael» lo incitò la poliziotta. «Va' avanti.» «Vado nel posto in cui è accaduto. Quando non c'è nessuno ed è tutto buio, e mi metto dove stava lei.» «Sì?» «Sì, Dolly, è giusto?» «Certo.» «Vado là e immagino, immagino che accada di nuovo, come allora. Questa ragazza che cammina lungo l'alzaia ed è molto carina. Giovane, più o meno diciassette anni, con i capelli lunghi. Mi piacciono i capelli lunghi. Come i tuoi, Dolly, quando li lasci sciolti. E immagino per un momento di seguirla, qualche passo indietro. Lei sa che le sto dietro, ma non si volta. Mi accorgo che lo sa. Ha il collo rigido e cammina un po' più velocemente. Ha paura. Ha paura di me. Mi sento alto e forte. Virile. Non si può fare i furbi con me. Lei accelera il passo e anch'io. Mi avvicino.» Ci fu una pausa, silenzio, il rumore del respiro e il sibilo dell'ambiente circostante. La poliziotta Colette Dawes disse di nuovo «Va' avanti», questa volta piuttosto bruscamente, come se fosse la sua maestra. «Mi avvicino» ripeté. Doll parlava più lentamente. «Lei si volta e vedo che ha la bocca e gli occhi spalancati, e sembra un pesce, uno dei miei pesci prima che li ributti nell'acqua sporca.» Ascoltai il suono della risata di Michael Doll. Una risata nervosa, liquida. Perlomeno lei non si unì a lui. Silenzio. Furth e io rimanemmo a sentire il rumore del nastro che girava. Guardai le cassette nella scatola. Ce n'erano altre tre, etichettate e datate. Doll ricominciò a parlare, «Sono un uomo cattivo per questo? Sono cattivo per ciò che ho detto, Dolly?» «La odiavi, Michael?» «Se la odio?» domandò con stizza. Presi nota mentalmente del cambiamento di tempi verbali. Avrei voluto avere un blocco di carta davanti, in modo da prendere qualche piccolo appunto pedante e concentrarmi su di esso. «No, non la odio. La amo, naturalmente. La amo. Amo. Amo.» Furth si allungò e spense il registratore, poi si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. «Allora?»
Spinsi indietro la sedia e mi alzai. Mi sentivo soffocare in quella minuscola stanza. La attraversai e andai a guardare dalla finestra il muro di fronte, lo sgocciolio sottile che veniva giù da una grondaia che perdeva. Sporgendomi un po' forse sarei riuscita a vedere un pezzetto di cielo grigio. «Vorrei parlare con la poliziotta Dawes.» «Ma per l'amor del Cielo, non farla tanto lunga. Vogliamo solo la tua opinione professionale, basata sulla sua storia passata, l'impressione che ti ha fatto, la confessione registrata sui nastri. Che tipo di uomo è Doll secondo la tua opinione professionale. L'hai sentito tu stessa. È stato lui. Ha praticamente confessato di aver ucciso la ragazza e ora si eccita al pensiero, masturbandosi nella sua squallida camera, notte dopo notte, guardando le sue foto porno e ripensando a lei. È un pervertito e un assassino. Non certo una persona raccomandabile. E tu lo sai meglio di tutti. Sai di che cosa è capace. Scrivi semplicemente un paio di paragrafi su quello che pensi di lui.» «Solo una parola con Colette Dawes e poi scriverò il rapporto. D'accordo?» Fece un grosso sospiro. Si ficcò le mani nelle tasche. «Vedrò ciò che posso fare» rispose. Una donna con una cartelletta e un plico di buste in mano entrò dalla porta. Capii immediatamente perché Doll si fosse fidato di lei: aveva capelli biondi, un viso liscio dai contorni morbidi, che sembrava non avere asperità, non avere ossa, e la pelle chiara cosparsa da un rossore permanente. E sembrava molto giovane. Ci stringemmo la mano. «Furth le ha parlato di me?» «Non molto. Lei è una dottoressa o qualcosa del genere.» «Sì. Furth voleva dei consigli su Michael Doll. Ho visto il suo dossier e ho ascoltato dei pezzi delle registrazioni.» Sollevò il plico di buste e se le strinse al petto con entrambe le mani, come uno scudo. «Sì?» «Volevo scambiare due parole velocemente.» «Sì, il detective Furth me l'ha detto. Non ho molto tempo, sto svuotando dei classificatori.» «Un quarto d'ora, non di più. Andiamo a fare due passi?» Sembrava diffidente, ma spinse le buste in fondo alla scrivania e mormorò qualcosa che non capii all'ufficiale di servizio. Scendemmo le scale in silenzio, l'una dietro l'altra, e uscimmo. La centrale di polizia di Stretton Green è su una
strada secondaria e tranquilla, ma basta un minuto a piedi e si arriva su Stretton Green Road. Lì c'è un negozio di prodotti salutistici che serve il caffè durante il giorno: ci sedemmo a un tavolino in un angolo. Andai al banco e ordinai due caffè a una ragazza che leggeva il giornale seduta alla cassa. «Dieci» dissi, dopo che la ragazza ci lasciò con le tazze di caffè. «Che cosa?» «Piercing. Tre in un orecchio, quattro nell'altro, due nel naso e uno sul labbro inferiore. E chissà quanti altri.» Colette bevve un sorso di caffè e non rispose. «Colette, posso darle del tu?» «Certo.» «Bene. È notevole quel che sei riuscita a tirar fuori da Doll» dissi. Lei scrollò le spalle. «È stato difficile?» Un'altra scrollata. «Dove ha avuto luogo quel colloquio?» «In posti diversi.» «Voglio dire quello in cui lui descrive l'assassinio nei particolari.» «Eravamo nel suo appartamento.» «Ti piaceva Doll?» Alzò gli occhi di colpo e poi guardò altrove. Sulla sua pelle chiara apparvero delle chiazze rosse. «Ovviamente no.» «Provavi simpatia per lui?» Scosse il capo. «No, dottoressa.» «Kit.» «Kit, senti» stava diventando furente. «Non hai visto il rapporto del patologo?» continuò. «No, non è di mia competenza. Io mi occupo solamente di Michael Doll.» «È un uomo pericoloso, non lo sai?» «Lo so assai bene.» «Che cosa vuoi, allora? Vuoi aspettare che commetta un altro assassinio? O che la prossima vittima riesca a resistergli e ce lo venga a consegnare? È questo che aspetti?» Mi appoggiai allo schienale della sedia. Non risposi e lei continuò. «Questa è una di quelle belle indagini poliziesche vecchio stile. Furth e altri hanno passato giorni e notti a esaminare tutti quelli che si trovavano sul luogo del delitto. È stato Furth a trovare il materiale su Doll, non te l'ha detto?»
«No.» «Gli sono diventata amica, l'ho fatto parlare. Non è stata una cosa piacevole, perciò non capisco dove tu voglia arrivare.» Bevvi un sorso di caffè lentamente, attenta a non finirlo. Non volevo ancora che se ne andasse. «Voglio semplicemente raccogliere tutte le informazioni possibili su Michael Doll, d'accordo?» Fece un gesto di assenso quasi impercettibile. «Allora, Colette, qual era il tuo piano dopo che sei riuscita a conoscerlo?» «Volevo semplicemente farlo parlare.» «Dell'omicidio?» «Già.» «Sarà stato difficile, vero? Mi puoi parlare delle vostre conversazioni?» Una ciocca di capelli le scivolò sulla fronte e lei la spinse indietro. Scivolò di nuovo e lei cercò di legarla. «Doll non ha molti amici. Penso avesse disperatamente bisogno di parlare con qualcuno.» «O di avere un'amica.» «Esatto.» «Sì» dissi. «Da quanto lo conosci?» «Non molto. Non più di un paio di settimane.» «Mi pare di capire che ci sono tre o quattro cassette con le vostre conversazioni, e che ciò che ho sentito proviene dall'ultima. Giusto?» «Giusto.» «Com'erano le prime?» «Che cosa vuoi dire?» «Ha parlato dell'assassinio?» «No.» «Sei stata tu a sollevare l'argomento?» «In un certo senso.» «Ne ha parlato subito?» «Ho dovuto conquistarmi la sua fiducia.» «Vuoi dire che doveva fidarsi di te prima di raccontarti di aver ucciso una persona?» «Non ha proprio confessato, no? Per questo hanno chiamato te.» Misi entrambi i gomiti sul tavolo e avvicinai il viso a quello di Colette. «Ho parlato con un mucchio di persone con problemi terribili, che avevano fatto cose terribili, e la cosa difficile, all'inizio, è far loro capire che è nel loro interesse essere onesti con te, raccontandoti tutto. Come hai fatto a ot-
tenere questo?» «Hai una sigaretta?» «Sì» dissi e tirai fuori dalla borsa il pacchetto che avevo portato per Doll. «L'ho incoraggiato a parlare liberamente. Gli ho detto che volevo conoscere i suoi segreti.» «Gli hai detto che volevi conoscere i suoi segreti e lui ti ha raccontato di aver commesso un assassinio?» «Non è andata così. Gli ho parlato delle sue fantasie.» «Non nel pub, mi sembra. Queste conversazioni sono avvenute nel suo appartamento.» «Sì.» «Hai diretto la conversazione verso argomenti di sesso e violenza?» Tirò una boccata dalla sigaretta. «L'ho incoraggiato a parlare. Come si fa di solito. Come fai tu.» «C'è stata una specie di scambio? Gli hai raccontato delle fantasie e l'hai invitato a confidare le sue?» «Ho cercato di farlo parlare. Volevo dimostrargli che non sarei stata scioccata da nulla di ciò che mi avrebbe raccontato.» «Ma le prime conversazioni che hai avuto con Doll non hanno portato a nulla?» «A ben poco.» «Ovviamente Furth e gli altri hanno ascoltato i nastri.» «Ovviamente.» «E hanno detto che non stavano portando a nulla.» «In effetti non stavano portando a nulla.» «E ti hanno detto: "Torna e cerca di fare meglio".» «Non esattamente.» «Ti hanno detto di sforzarti di più.» «Che cosa vuoi dire?» «Mi immagino che abbiano detto qualcosa del genere: "Perché Doll dovrebbe aprirsi? Devi incoraggiarlo un po' di più".» «Non so dove tu voglia arrivare. L'ho solo fatto parlare.» «Certamente. Ciò che ho sentito era veramente disgustoso. Non c'è dubbio, Colette, sei ritornata da lui e sei uscita con il bottino.» «Ho fatto il mio lavoro.» «Hai incontrato quell'uomo strano, disturbato, asociale e al terzo o quarto incontro lui ti fornisce il racconto raccapricciante di una fantasia omici-
da nei confronti di una donna. Hai capito dove voglio arrivare, vero?» «Ho fatto il mio lavoro.» Mi feci avanti tanto da toccarle quasi il naso con il mio. «Hai fatto sesso con Michael Doll?» Si tirò indietro. «No» rispose con un sussurro. Poi, più forte: «No». Le tenni gli occhi addosso con fermezza. «Avevi addosso i fili del registratore. Fare sesso sarebbe stato difficile. Forse non è stato proprio sesso.» «No» disse, scuotendo il capo. Si sfregò l'occhio destro. «Bene» feci dolcemente. «Andiamo.» Riprendemmo la strada in silenzio, finché non fummo sui gradini della centrale. Lì mi fermai e la trattenni. «Colette» dissi. Lei guardò da un'altra parte. «Chi ti ha preparata per quest'incarico? Chi ti ha dato consigli?» «Solamente Furth.» «Già. E ora come ti senti al riguardo?» «Come dovrei sentirmi?» «Forse turbata.» «Perché? Questo è il problema con la gente come te. Pensate sempre che tutti si debbano sentire traumatizzati.» «Cercavo solo di essere comprensiva.» «Non ho bisogno di comprensione.» Ci separammo freddamente e subito dopo chiamai Furth. Lui sembrò del tutto sicuro di sé. «Allora?» mi domandò. «Voglio ascoltare tutti i nastri» risposi. CAPITOLO 7 Dormii a sprazzi, svegliandomi spesso, e alla fine mi alzai tardi. Trangugiai un po' di caffè, mentre mi preparavo di corsa. Julie uscì dalla sua camera con indosso nient'altro che una delle mie vecchie giacche: doveva averla trovata nell'armadio della stanza che avevo in parte trasformato in studio. E che ora era diventata la sua. Dovevamo parlare di parecchie cose. Aveva l'aria di un roditore appena svegliato dal letargo. I capelli erano un ammasso lanoso, gli occhi piccoli, come se dovesse difendersi dalla luce. «Non sapevo che ti alzassi così presto» disse. «Ti avrei preparato la colazione.» «Sono le nove meno venti e sono di corsa.» «Farò la spesa.»
«Non ti preoccupare.» «Non è un problema.» Ritornai alla centrale di polizia con quello spiacevole senso di ineluttabilità che provavo a quindici anni, quando mi trovai ad affrontare le prime vere difficoltà della vita. Ero al volante, con ogni fibra del corpo tesa. La spina dorsale mi pareva un'asta di metallo. I muscoli del collo erano rigidi, la mascella involontariamente contratta. La testa pulsava come se qualcuno mi stesse tamburellando sulle tempie con le nocche. «Che idiota» borbottavo tra me e me a denti stretti, ferma in coda a un semaforo che continuava a passare dal verde al rosso senza che le automobili si muovessero per via di un camion che stava bloccando la strada. Pioveva a dirotto. Fuori qualche passante camminava in fretta sotto l'ombrello, cercando di evitare le pozzanghere e la cacca dei cani sui marciapiede. La grigia, intasata, sporca Londra. Il mio rapporto era accanto a me, sul sedile di fianco. In tutto seicento parole. Breve ed essenziale. Accanto, in un sacchetto di plastica, c'erano i nastri. Alla centrale di polizia parcheggiai in retromarcia e inavvertitamente urtai un'altra macchina. La cosa buffa è che quando succede a te è come se l'automobile fosse la tua pelle. «Merda.» Il retro della mia auto era premuto contro una BMW dall'aspetto tremendamente costoso, di un blu lucido. Scesi nella pioggia scrosciante ed esaminai il lungo graffio sottile che avevo fatto all'altra automobile. La mia aveva subito ben di peggio, con il fanale rotto e un pannello della carrozzeria che si era accartocciato come un giornale. Pescai un taccuino dalla borsa e scrissi un biglietto di scuse con il numero di targa della mia auto e il mio numero di telefono, lo piegai varie volte per proteggerlo dalla pioggia e lo misi sotto il tergicristallo della BMW. Avevo dimenticato di portare un ombrello ed ero bagnata fradicia. L'acqua mi gocciolava giù per il collo. Presi il rapporto e lo buttai nella borsa. Furth era seduto a un tavolo della sala conferenze con una cartelletta davanti a sé, ma quando entrai si alzò e mi fece un cenno amichevole. Con lui c'erano una donna che avevo già incontrato una volta, con i capelli prematuramente grigi e un viso liscio e placido, un poliziotto giovane, magro come uno stecco, e un uomo massiccio con pochi capelli arruffati intorno a una chierica pelata e piccoli occhi blu, astuti.
«Stavamo parlando di te» disse Furth. «Non ti fischiavano le orecchie? Dammi il soprabito. Conosci già Jasmine, vero? Jasmine Drake. E l'ispettore Oban, il mio capo. Vuoi qualcosa, caffè, tè?» Guardai Oban un po' preoccupata. «Non badi a me» fece lui. «Sono qui solo per dare un'occhiata.» «Niente, grazie» risposi, accomodandomi su una sedia arancione di plastica e posando il rapporto, nella sua busta bianca, davanti a me. «Mi hai chiesto di consegnartelo di persona. Eccolo.» «Bene» disse Furth, dando un'occhiata di traverso a Oban. Poi mi strizzò l'occhio. «Ha l'aria gentile, ma bisogna stare attenti.» Infilai un dito sotto il risvolto sigillato della busta e la aprii. «Lo vuoi?» «Prima di iniziare, ti informiamo che abbiamo messo dentro Doll.» «Che cosa?» «A parte il rapporto, le cose si stanno muovendo. Mentre parliamo, nel canale ci sono i sommozzatori. Abbiamo la sua stessa testimonianza che lo lega al luogo del delitto, poi il comportamento sospetto prima e dopo il fatto e la confessione registrata, naturalmente. Sembra che tutti i tasselli combacino. Tutto fatto secondo le regole, non preoccuparti. E abbiamo anche chiesto l'assistenza legale gratuita. John Coates. È già al lavoro. Dovresti conoscerlo.» L'avevo incontrato una volta con Francis. Carino, sempre sorridente. Più il tipo del consulente bancario che dell'avvocato. Guardai Jasmine Drake, ma stava scribacchiando sul suo taccuino e non alzò gli occhi. Lanciai uno sguardo a Oban e notai con sgomento che i suoi occhi chiari erano fissi su di me. Tirai fuori l'unico foglio del rapporto e lo posai sul tavolo. «Tutto lì?» disse Furth. «Ce lo riassuma, per favore, dottoressa Quinn» disse Oban. «Rilasciatelo.» La stanza si riempì di silenzio. Udii il mio cuore battere. Con regolarità. Mi sentivo meglio, adesso che avevo sputato il rospo. «Che cosa?» «A meno che esistano altri indizi di cui non sono stata informata, non mi pare ci siano abbastanza prove contro di lui. Almeno per il momento.» Furth si fece rosso in viso. Fu il momento peggiore. Pensava fossi dalla sua parte e invece non lo ero. «Non sai di che cosa stai parlando» disse senza guardarmi negli occhi. Feci un respiro profondo. «Allora non avresti dovuto chiedermi di scrivere un rapporto.»
«È al tuo maledetto rapporto che mi riferisco» disse Furth, con un'improvvisa, irosa ilarità, del tutto fuori luogo. «Ti è stato semplicemente chiesto di fare una valutazione di Doll. Tutto qui. Una semplice relazione. È un pervertito, no? Ed è tutto quello che devi dire. Anthony Doll è un pervertito.» «È un giovane disturbato con fantasie violente.» «Allora...» «Fantasie. C'è differenza tra una fantasia e un'azione.» «Ha confessato e confesserà di nuovo. Vedrai.» «No. Ha raccontato delle fantasie mentre compiva atti sessuali con la poliziotta Dawes.» Mi guardai intorno. Avevo ottenuto quel che volevo. Era caduto il silenzio. «Sapevate che quando lei lo ha incoraggiato - per usare le sue parole - a parlare, lo stava masturbando e gli permetteva di accarezzarla? Siete stati voi a incoraggiare questo tipo di azione, senza dirglielo proprio esplicitamente? Avrebbe ottenuto di più in quel modo. Non aveva ottenuto informazioni abbastanza interessanti, prima? Comunque non ha importanza. Non è una confessione, è pornografia.» «Senti, Kit» Furth aveva il volto di fuoco «non avrei mai dovuto chiedere la tua opinione. È stato un errore. Avrei dovuto capire che dopo l'incidente il tuo giudizio non sarebbe stato obiettivo. Ti stai identificando con Michael Doll, lo stai proteggendo per qualche strano motivo. È come quando ci si innamora del proprio carceriere.» Lanciò uno sguardo a Oban, poi tornò a me. «Pensavamo di aiutarti, ma ora vedo che ci siamo sbagliati. Era troppo presto. Forse dovremmo semplicemente dirti grazie, per ora, e rimborsarti.» Risposi, più tranquillamente possibile: «Hai chiesto a Colette Dawes di ottenere una confessione da Michael Doll. Sapeva di che cosa si trattava? Non si è fatta prendere la mano?» «È un assassino» disse Furth con aperto disprezzo. «Lo sappiamo e dovresti saperlo anche tu, maledettamente bene. Dobbiamo solo dimostrarlo davanti a una giuria. La poliziotta Dawes ha fatto un buon lavoro in condizioni difficili.» Lo guardai negli occhi, «È stata una tua idea?» Furth fece uno sforzo palese per parlare con calma. «Abbiamo un assassino. Secondo la mia opinione. Abbiamo raccolto delle prove. Abbiamo una confessione. Se abbiamo fatto qualche eccezione alle regole, pensavo che almeno tu avresti approvato. Siamo dalla parte delle donne, di colei che è stata uccisa e delle altre che lo saranno.»
«Credo che tu mi abbia fraintesa» dissi, sentendo che la voce mi tremava. Era nervosismo o rabbia? «Non sto dicendo che Michael Doll non possa aver ucciso questa donna, ma che non ci sono prove. Io sono qui in veste di esperta di persone con problemi, di pazzi criminali, non come avvocato, ma immagino che quel nastro sarebbe inammissibile in qualsiasi tribunale. Dirò di più: penso che se un giudice lo ascoltasse, non solo non lo ammetterebbe, ma invaliderebbe il processo per le ovvie manipolazioni.» Lo guardai, osservai il suo bel volto. «Se fossi in te, seppellirei quel nastro in una buca molto profonda e pregherei che l'avvocato di Doll non venga a sapere della sua esistenza. In ogni caso, non voglio più avere a che fare con questo caso.» «È la prima cosa sensata che hai detto.» Fu la goccia che fece traboccare il vaso. «Tutta questa faccenda» dissi, quasi annaspando, «è un'oscenità bella e buona. E lei» dissi rivolta a Jasmine Drake, «dovrebbe saperlo assai bene. Non intendo solo come ufficiale di polizia, ma come donna. E ciò vale anche per lei» mi voltai verso Oban, che era seduto in disparte con un'espressione distratta sul viso largo, morbido e leggermente arrossato. Guardai con rabbia il rapporto sul tavolo, quel rapporto espresso in un linguaggio calmo e scientifico. Oban non mi rispose. Si alzò e, mentre apriva la porta, guardò mestamente Furth, come un segugio molto vecchio e grinzoso. «Rilasciatelo» disse con voce bassa e quasi indifferente. «Chi?» «Mickey Doll. Nient'altro?» Nessuno rispose. Allora mi guardò. «Ci mandi la sua fattura, dottoressa. Grazie.» Ma non sembrò particolarmente riconoscente. Gli avevo rovinato la giornata. Poi uscì. Jasmine Drake lo seguì, guardandomi con gli occhi socchiusi prima di scomparire nel corridoio. Rimasi sola con Furth, seduto in silenzio a fissare il muro. Mi alzai per andarmene. Il rumore della mia sedia che strisciava sul pavimento lo svegliò dalle sue fantasticherie. Sembrò sorpreso che fossi ancora lì. Parlò come in sogno. «Sarà colpa tua, quando agirà di nuovo. L'ha fatto a te, l'ha fatto a quella ragazza, e là fuori c'è un'altra donna a cui probabilmente... dobbiamo dire "probabilmente"? A cui prossimamente lo farà.» «Arrivederci» gli dissi andandomene. «Sono, ehm...» «Tieni d'occhio i giornali» aggiunse, alzando la voce per essere udito. «Questa settimana o la prossima, lo troverai lì.»
CAPITOLO 8 Ero talmente arrabbiata che avrei voluto compiere un'azione estrema e violenta, come lanciare un grosso oggetto contro una vetrina, o andarmene dal Paese, assumere un'altra identità e non ritornare ma più in Inghilterra. Ma mi sarei accontentata di tornare a casa, chiudermi dentro a chiave e non uscire più per una settimana. Quando ritornai all'automobile, la BMW non c'era più. Senza dubbio ne avrei presto avuto notizie da una compagnia di assicurazioni. «Il nostro cliente ci ha notificato...» Un graffio che prendeva due pannelli della carrozzeria. Quanto sarebbe costato? Nel mio appartamento c'era una meravigliosa atmosfera di allegro vuoto. Julie non era a casa. Era un'opportunità preziosa. Preparai un bagno, versai nell'acqua dei sali esotici dai nomi assurdi, afferrai un giornale e una rivista e mi immersi come un tricheco. Rapidamente misi da parte il giornale e presi la rivista: lessi dei cinque migliori finesettimana in case di campagna a meno di cento sterline, imparai sette modi di stupire il mio uomo a letto, e risposi a un questionario intitolato Sei una pantofolaia o una festaiola? Risultai una festaiola. Perché andavo alle feste così raramente? Alla fine misi da parte anche la rivista e lentamente mi immersi nell'acqua in modo da avere solo naso e bocca sopra la superficie. Sentii il telefono squillare, poi la voce della segreteria telefonica, ma non mi preoccupai. Immaginai di essere immersa in una soluzione salina studiata in modo da permettere un galleggiamento perfetto, mantenuta alla stessa temperatura del corpo umano. Buio. Sentii dei rumori e poi la porta che sbatteva. Julie. Doveva averla chiusa con un calcio. Era ora di ritornare al mondo. Mi asciugai lentamente, come per ritardare l'inevitabile, poi mi avvolsi l'asciugamano intorno al corpo e uscii. «Fantastico» esclamò Julie. «Un bagno in pieno giorno. È così che si deve vivere.» «Sembra leggermente trasgressivo» ammisi, anche se mi irritò essere considerata un'edonista da una persona che aveva passato anni a girovagare per il mondo. «Non darti pensiero per la cena» continuò Julie vivacemente. «Ho consultato un paio dei tuoi libri di cucina e poi sono andata a fare la spesa. Sei a casa stasera?»
«Sì, ma veramente non avevo in programma...» «Bene. Lascia che mi prenda cura di te. Sarà tutto molto leggero e molto sano. A proposito, c'era un messaggio per te sulla segreteria telefonica, da una certa Rosa. Spero di non averlo cancellato per sbaglio.» L'aveva cancellato. Andai in camera e mi vestii rapidamente e semplicemente. Non dovevo uscire. Mi infilai un paio di jeans bianchi e un maglioncino azzurro. Ero tentata di ignorare il messaggio di Rosa. Non riuscivo a immaginare che potesse essere una buona notizia. Ma poi contai fino a tre e la chiamai. «Dobbiamo vederci» mi disse Rosa immediatamente. «Per quale ragione?» «Ha a che fare con la polizia. Mi pare di capire che non hai seguito il mio consiglio. Non mi sorprende, ma sarebbe stato carino se me lo avessi detto.» «Oh» feci, con il cuore che mi si stringeva. «Allora vengo domani mattina?» «Preferirei vederti oggi. Non ti spiace se passo da te?» «Certo che no.» «Sarò lì tra un'ora» disse Rosa, e riappese. Misi svogliatamente un po' d'ordine in soggiorno, mentre dalla cucina provenivano i rumori leggermente allarmanti di Julie. Non erano passati neanche quarantacinque minuti, quando sentii suonare alla porta. Corsi giù per le scale e aprii con un finto saluto allegro, che mi si gelò sulle labbra non appena guardai fuori, sui gradini d'entrata. Non riuscii a emettere nient'altro che un «Oh», lo stesso che probabilmente avevo detto a Rosa al telefono. «Non sono da sola» disse Rosa. Non era da sola. Vicino a lei c'era l'ispettore capo Oban. Dietro di lui un'auto. Una BMW. «Mi dispiace per la macchina» fu la prima cosa che mi venne da dire, ma mi resi conto che avrei fatto meglio a non parlare. «È stata colpa mia. Pagherò subito. So che la prima regola, quando succede un incidente, è non ammettere la propria responsabilità, ma è stata tutta colpa mia.» Rosa assunse un'aria perplessa e Oban fece un debole sorriso. «Un problema di parcheggio» le disse, a mo' di spiegazione. Poi mi rivolse di nuovo lo sguardo. «Allora era lei! C'era una nota, ma la pioggia l'aveva cancellata. Non si preoccupi, penso che rientri negli incidenti di lavoro.» «Ed è vero, in un certo senso» replicai.
Avevo esaurito le sciocchezze da dire, così tenni aperta la porta e mi scostai per lasciarli entrare. Dapprima avevo pensato, in modo piuttosto paranoico, che la causa di quella visita fosse il danno all'automobile. Ma evidentemente non si trattava di ciò. Allora che cosa stava succedendo? C'era stata qualche lamentela ufficiale? Li seguii sulle scale. Quando entrammo nel soggiorno, Julie uscì dalla cucina, facendo un'entrata piuttosto spettacolare con un grembiule da macellaio a righe, oltretutto mio. Fu sorpresa. Presentai tutti. Oban le strinse la mano un po' goffamente. «Lei è... ehm...» «Julie, un'amica che sta qui da me per qualche giorno» intervenni io. Che cosa intendeva dire? Poi guardai Julie, alta, abbronzata, amazzonica. Mio Dio, probabilmente aveva pensato che fossimo gay. Pensai un momento alla possibilità di spiegare il nostro rapporto, poi decisi che non aveva senso. «Stavo preparando la cena» disse Julie con aria orribilmente domestica. «Volete rimanere?» «Sono qui per lavoro» intervenni io in fretta. Il pensiero di me e Julie che cominciavamo ad avere ospiti come una coppia mi dava i brividi. «Lei è veramente un ispettore di polizia?» domandò Julie a Oban. «Sì, lo sono veramente.» «Deve essere incredibile.» «Non sempre.» Oban guardò Rosa che aveva preso un libro dallo scaffale e lo stava sfogliando con aria concentrata. «Può scusarci un momento?» disse premurosamente a Julie. «Che cosa? Io?» fece Julie sorpresa. «Ritorno subito in cucina.» E si eclissò. Quando fu sparita, Rosa rimise il libro sullo scaffale e si voltò verso di me. «Accomodatevi» li invitai. Ci sedemmo tutti, piuttosto goffamente: Rosa e io sul divano, mentre Oban prese una sedia e la piazzò di fronte a noi. «Dan Oban mi ha telefonato questa mattina...» «Rosa» la interruppi, «so che avrei dovuto...» Sollevò una mano per interrompermi. «Aspetta» disse. Si voltò verso Oban. «Dan?» Evidentemente si conoscevano bene. «Mi dispiace» tornai alla carica, prima che lui potesse parlare. «Ero piuttosto agitata, ed ero così arrabbiata per quell'idea della trappola, che non sono riuscita a trattenermi. Non mi sono comportata in modo professionale
e...» «Avevi ragione» disse Oban, passando al tu. Non riuscivo a vedere la sua espressione, perché parlava piegato in avanti, sfregandosi gli occhi. Era stanco. «Che cosa?» «È stata un'idea disastrosa. Avevi ragione tu. Ho parlato con una persona dell'Ufficio Legale e, come hai detto tu, il nastro è inammissibile come prova. Quella povera ragazza ha menato Doll per il naso.» Fece un sorrisetto impacciato a Rosa, ma lo represse di fronte allo sguardo serio di lei. «Allora» feci, scrollando le spalle, «bene.» «Ma non sono venuto qui per questo. Ho telefonato alla dottoressa Deitch perché ti vorrei di nuovo.» «Di nuovo?» «Hai fatto un buon lavoro, intelligente. Ti voglio nelle indagini.» «Non penso sia una buona idea.» «Perché?» «Per molte ragioni. Innanzitutto, mi ci vedi a lavorare di nuovo con Furth? Era furente.» «Furth è un mio problema. E comunque non è più incaricato del caso. Adesso me ne occupo io.» «E poi non credo di aver nulla da offrire. Non ho molta esperienza di queste cose. Anzi non ne ho affatto. Lavoro solo con uomini come Doll. Non saprei cosa fare.» Oban si alzò e si diresse verso la finestra, poi si voltò. «Si tratta di un caso semplice» disse. «È uno dei delitti più comuni e orribili. Si incontra una donna in un luogo solitario, la si uccide, si scappa. L'assassino è ancora là fuori. Ci vuole solo un po' di fortuna e lo becchiamo.» «Perché hai telefonato a Rosa?» gli domandai sospettosa. «Perché non a me?» «Perché voleva sapere che cosa ne pensavo» intervenne Rosa. «Vuoi dire, voleva sapere se sono matta?» Rosa non riuscì a restare impassibile. «Non credo che questo meriti un commento. Voleva sapere se era giusto chiedertelo.» «E tu cosa hai risposto?» «Che doveva chiedertelo.» «Vuoi dire, chiedermi se era giusto chiedermelo?» Scosse le spalle. «Che cosa ne dici?» mi domandò Oban.
«Ci penserò» risposi arrendevolmente. «Bene» fece Oban. «Ti voglio a bordo. Poni tu le condizioni. Hai carta bianca. Ti darò tutto ciò che ti occorre.» La porta si spalancò e apparve Julie con un vassoio in mano. Dove diavolo l'aveva trovato? Sopra c'erano tre piatti. «Prima che diciate di no, vi comunico che non si tratta di una cena. È solo uno snack. Lo gradisce, vero, ispettore Oban?» «Con molto piacere» rispose lui, guardando golosamente il vassoio. «Che cos'è?» «Prosciutto e fichi, un'insalata di carciofi, e una piccola omelette di zucchini. Vado a prendere dei piatti.» Ritornò non solo con i piatti e le posate, ma anche con i bicchieri e una bottiglia di vino rosso stappata. Era una bottiglia di vino molto caro che Albie si era dimenticato di riprendere, ma se ne sarebbe ricordato prima o poi. Dunque, Julie si stava dimostrando utile. Ci riempì i bicchieri con generosità, e sia Oban sia Rosa si servirono da tutti e tre i piatti. «Molto buono, Julie» disse Rosa. «Delizioso» fece Oban. «Devo dire che sembra un bel ménage. Da quanto lei e Kit, ehm...» «Solo da un paio di giorni» rispose Julie vivacemente. Scolai il mio vino in un sorso. CAPITOLO 9 Il giorno dopo, quando andai a una riunione a Stretton Green, Oban mi diede un abbraccio che mi fece sentire più una nipote prediletta che una consulente. Poi mi portò in giro per l'ufficio a incontrare la squadra, in gran parte nuova, che si sarebbe occupata delle indagini sull'omicidio del canale. «Grazie per ieri sera» mi disse. «Era tutto delizioso. Ma dimmi» e si guardò intorno con un'espressione canzonatoria. «Quando vi siete, ehm, incontrate, tu e Julie?» «Non lo so. Anni fa. Era un'amica di amici. Non sono veramente...» «Carine. Voi due siete una bella, ehm...» «Senti» dissi con una certa urgenza. «Penso sia meglio...» Mi interruppi perché Oban mi stava accompagnando per gli uffici open space che sembrava fossero stati appena visitati dai ladri: schedari con tutti i cassetti aperti, documenti sparsi sui tavoli, scatole di cartone piene di tazze macchiate.
«Ci stiamo trasferendo» mi spiegò, dando un calcio a un rotolo di nastro adesivo che si trovò davanti. «L'avevo capito.» «Ed è un maledetto disastro. Hai mai fatto un trasloco?» «Sì. Orribile.» Mi guardai intorno per vedere se c'era Furth ma, con mio sollievo, non era all'orizzonte. E poi mi arrabbiai con me stessa. Per quale motivo dovevo sentirmi in colpa? Non ero stata io a volere questo. Ci fermammo in fondo all'ufficio, in un angolo. Oban fece un cenno a delle persone piegate sulle scrivanie e un piccolo gruppo di detective, formato da uomini e donne, chiuse cartelline, interruppe telefonate e si radunò intorno a noi. Oban fece un colpetto di tosse a mo' di introduzione. «Vi presento la dottoressa Kit Quinn. Lavora alla Welbeck Clinic e al Market Hill Hospital per i malati di mente criminali.» Si voltò verso di me. «Non ti presenterò tutti ora. Li incontrerai man mano.» «Salve» feci, cercando di rivolgere un sorriso a tutti. In quel momento entrò Furth, si piazzò sulla porta e incrociò le braccia sul petto. «È stato grazie alla dottoressa Quinn» continuò Oban, «che abbiamo fatto uscire Michael Doll.» Quella dichiarazione non fu proprio accolta con un giro di applausi. Al contrario, ci furono dei mormorii in fondo e uno scalpiccio. «E se qualcuno di voi ha dei problemi in proposito, venga da me. Nessun giudice avrebbe mai accettato prove simili. Quindi, datevi una mossa, d'accordo? E nel frattempo procurate alla dottoressa Quinn quel che le occorre.» Altri mormorii. Ebbi l'impressione che non tutti fossero contenti di avermi tra i piedi. «Kit, vuoi dire qualcosa?» Non mi aspettavo di dover fare un discorsetto. Rivolsi uno sguardo agli occhi ostili puntati su di me. «Bene» cominciai. Odiavo iniziare senza sapere come avrei proseguito. «Vorrei solo dire che non sono qui per insegnarvi a fare il vostro lavoro, ma piuttosto per indicarvi una diversa direzione, per darvi dei consigli.» «È stato Doll» esclamò uno di loro. Non riuscii a vedere chi. «Davvero?» feci in mancanza di una risposta più efficace. «Sì.» Ora riuscii a identificare chi aveva parlato. Un uomo in fondo, in maniche di camicia, alto, con il fisico da giocatore di rugby. Oban si fece avanti. «Allora trovami delle prove convincenti, Gil.» «E se lei si sbagliasse? Se fosse stato Doll?» «Senta, non ho mai detto che Doll è innocente. Ho detto che non ci sono prove. Adesso voglio esaminare ciò che avete trovato e far finta di non a-
ver mai udito il suo nome.» Qualcuno borbottò qualcosa che non capii, qualcun altro sghignazzò. «Adesso basta» esclamò Oban seccamente. «La riunione è chiusa. Mi dispiace, Kit» continuò, guardando con sdegno i suoi detective. «Vorrei poter dire che non è una brutta squadra, ma purtroppo non è vero. So, però, che sei in grado di tener loro testa. Ti lascio con Guy, d'accordo?» «OK.» Ma la cosa non mi piaceva molto. Oban se ne andò e gli altri si dileguarono, senza aver l'aria particolarmente indaffarata. Guardai Furth. «Posso portarti una tazza di tè?» mi domandò con una certa cautela, ma gentilmente. «Tra un minuto, grazie.» «Hai qualche idea, allora?» «No» risposi onestamente. «Non ne ho. In ogni caso a questo stadio le idee sarebbero di ostacolo. Voglio esaminare il materiale a mente vuota.» Furth fece un sorrisetto. «Non vedo che bisogno abbiamo di assumere delle menti vuote dal momento che abbiamo Gil. Ma te l'ho già detto, questo è un caso semplice.» «Davvero?» «Una ragazzina scappata di casa trovata morta presso un canale.» «È una cosa semplice?» Furth scrollò le spalle e si guardò intorno, forse temendo che qualcuno stesse origliando mentre spiegava ovvietà a una boriosa strizzacervelli. «I pervertiti scelgono prostitute e ragazzine balorde perché sono prede facili. Le prendono sui canali perché sono luoghi deserti. Non ci passa nessuno.» «Sì, l'ho letto.» «Non sei d'accordo?» «Posso darti un consiglio?» Furth strinse le labbra. Probabilmente aveva voglia di mandarmi al diavolo una volta per tutte, ma non poteva. «È per questo che ti paghiamo» rispose. «A volte è troppo facile mettere un'etichetta a una persona. Forse potrebbe esserci utile non pensare a Lianne come a una ragazzina balorda. Ci impedisce di vederla come un individuo.» «Era una ragazzina scappata da casa.» «Lo so. Ma sarà stata anche altre cose.» «Tipo una prostituta?» fece con un mezzo risolino, poi, quando vide l'espressione sul mio viso, si bloccò. «No, non intendevo quello. Era una giovane donna. Aveva una storia, un
passato, una famiglia, un nome.» «Che non conosciamo.» «Quanti anni aveva?» «Sedici, diciassette, circa.» «Come sappiamo che si chiamava Lianne?» «Non lo sappiamo. Sappiamo solo che è il nome con cui si presentava. Un certo Pavic, che dirige un ostello lì vicino, l'ha identificata.» «Ma suppongo sia solo questione di tempo scoprire chi fosse realmente, da dove venisse.» «Che cosa te lo fa pensare?» Aveva un sorrisetto sulle labbra. «Tutti sono in qualche elenco, qualche computer, qualche registro, no?» «Sai quante ragazze scappano di casa?» «Tante, lo so.» «Decine di migliaia.» «Lo so.» «E sono solo quelle di cui veniamo informati, e che non riusciamo a trovare. Quelle che qualcuno, da qualche parte, vuole che troviamo. E tutte le altre, come Lianne, di cui non importa niente a nessuno, che semplicemente scompaiono un giorno e non fanno più ritorno? Come facciamo a trovarle, se nessuno denuncia la loro scomparsa? È come un maledettissimo ufficio bagagli smarriti di un aeroporto. Ci sei mai stata? A me è capitato, al Cairo: un enorme magazzino pieno di valigie, quasi tutte completamente coperte di polvere e mangiate dai ratti. È difficile trovare la tua quando ha il cartellino con l'indirizzo, figuriamoci se non ce l'ha!» «Lianne non è una valigia.» Mi guardò fisso. «Non ho detto che sia una valigia. Ho detto che è come una valigia.» «Quel che voglio dire è che dobbiamo pensare a lei come a una ragazza, non un oggetto smarrito. Non una poveretta fuggita di casa.» «E il canale? Possiamo chiamarlo canale o pensi sia un fiume travestito?» «Stavo cercando di dire che può servire guardare le cose con altri occhi. Ma probabilmente è un consiglio che devo dare più a me che a te.» «Bene» fece a bassa voce. «Aspettiamo con ansia il tuo contributo. Che cosa posso fare per te?» «Non te l'ha detto Oban?» Cercai di assumere un tonò autorevole, come se sapessi esattamente che cosa stavo facendo. «Voglio una stanza tranquilla e poi vorrei esaminare tutto ciò che avete trovato.»
«Nient'altro?» fece con forzata gentilezza. «Mi piacerebbe una tazza di tè, per favore. Con solo un goccio di latte e niente zucchero.» Furth mi condusse in una stanza angusta e senza finestre che dall'odore sembrava fosse stata usata in precedenza come deposito di qualche sostanza corrosiva e illegale. Dentro non c'era nient'altro che una scrivania e una sedia di plastica. Dopo un paio di minuti arrivarono due poliziotte con un fascio di cartelline. Fui delusa di quanto fossero inconsistenti. Della vita di Lianne non si sapeva quasi nulla, e non avevano neanche raccolto molti dati sulla sua morte. Cominciai a leggere. Rimasi nella stanzetta per un'ora e tre quarti. Lessi di ferite da taglio e dichiarazioni di testimoni, guardai le fotografie del suo corpo pallido scattate sulla scena del delitto, il volto nascosto nell'erba bassa dietro a dei cespugli presso il canale. Alla fine pensai: tutto qui? CAPITOLO 10 Alla radio dissero che era l'estate più piovosa dal 1736. Parcheggiai in una pozzanghera e rimasi seduta in auto per un minuto, mentre l'acqua scrosciava sul parabrezza e rimbalzava giù dal cofano. Chiusi gli occhi e udii la pioggia rombarmi in testa. Non ero abituata a vedere cadaveri. Il medico legale mi stava aspettando. Alexandra Harris. La conoscevo. Non sembrava un medico legale, ammesso che i medici legali debbano avere un aspetto particolare, ma piuttosto un'attrice di film di serie B degli anni Trenta, un po' invecchiata, voluttuosa nel suo soprabito bianco, i capelli neri che le ricadevano in boccoli intorno al volto ovale, pallido, e l'aria sognante. O forse era semplicemente stanca. Aveva gli occhi cerchiati. «Alexandra» le dissi, mentre ci stringevamo la mano, «grazie di avermi ricevuta.» «Non c'è di che. È il mio lavoro. Guy mi ha detto che hai già visto il rapporto.» «Sì, non sei stata tu a fare l'autopsia, però.» «No, è stato Sua Signoria. Voglio dire Brian Barrow. Sir Brian. Oggi insegna. Che cosa vuoi sapere esattamente?» «Voglio solo farmi un'idea.» «Un'idea?» Mi guardò con aria dubbiosa, come se improvvisamente quell'incontro non fosse poi una così bella trovata. «Un'idea su di lei» aggiunsi in modo poco convincente. «Su Lianne.»
«Non hai mai visto un cadavere? Non c'è molto da vedere.» «Se ho visto un cadavere? Ho studiato Medicina. Ne ho avuto uno a disposizione per sei mesi.» «Scusa. Vuoi che ti porti a vederla?» «Sì, grazie.» Feci scorrere le dita sull'impugnatura della mia valigetta. Volevo vedere il corpo di Lianne, non guardare soltanto le spettrali fotografie a colori in cerca di indizi. Aveva avuto una vita breve e solitaria e, ora che era morta, non c'era nessuno che ne avesse molta nostalgia. Volevo toccarla, stare un momento vicino al suo corpo. Non pensavo che Alexandra potesse capirmi, e forse non mi capivo neppure io. «Devo cambiarmi?» domandai. «Vuoi dire metterti il vestito da ballo?» fece Alexandra con un sorrisetto. «No, siamo piuttosto informali riguardo al modo di vestire qui.» «Scusa, per me sono cose nuove. Non ho ancora imparato a scherzarci su.» «Vuoi che parli come uno delle pompe funebri?» «Voglio vedere Lianne» insistetti gentilmente. Il sorriso scomparve dal volto di Alexandra. E non fu più cortese come prima. La seguii attraverso due porte a ventola, udendo il ticchettio dei miei tacchi sul pavimento. Eravamo in un altro mondo, freddo, silenzioso e sterile. Un mondo sotterraneo, pensai. Sotto i leggeri vestiti estivi avevo la pelle d'oca. Sentivo il cuore battermi forte; che strano, tutti quei corpi, ma solo i nostri due cuori che battevano. Capii quel che Alexandra voleva dire. Lianne appariva come se qualsiasi traccia della sua vita in un mondo confuso e affollato le fosse stata strofinata via dal corpo. Era molto pulita. Non pulita come quando ci si lava. Pulita come quando si strofina un lavandino e si finisce con l'avere le mani arrossate e grinzose. Aveva la testa scoperta e un piccolo foro al lobo di un orecchio. Per Sir Brian Barrow non doveva esser stato un lavoro facile: le aveva praticato un'incisione sul collo leggermente sotto la lacerazione. Poi l'aveva ricucita. La ferita del coltello c'era ancora ma, ripulita dal sangue, sembrava finta, di plastica. Avevo assistito a operazioni chirurgiche in passato, e il forte odore di cibo per gatti della carne e del sangue non mi avevano più abbandonato. Ma qui l'odore era diverso, era un odore acre di medicine, che mi punse le narici. Lianne aveva un volto rotondo, con una manciata di lentiggini sul naso.
La bocca era piccola e scolorita. Le toccai una guancia con un dito e sentii la carne fredda come un sasso. La morte sulla punta delle dita mi fece rimanere senza fiato. Aveva capelli rosso rame, lunghi, arruffati e malamente divisi nel mezzo. Quando mi piegai per osservarli da vicino, notai le doppie punte. I capelli continuano a crescere dopo la morte, lo sanno tutti. I capelli e le unghie, ma quando sollevai cautamente un lembo del lenzuolo per esporre un braccio, vidi che Lianne aveva le unghie mangiate fino all'attaccatura. Aveva mani piccole e paffute. Per qualche ragione furono le mani a commuovermi più di tutto. Avevano un aspetto morbido, come se si potessero ancora piegare per afferrare qualcosa. Le toccai il palmo e anch'esso era freddo come il marmo. Feci un respiro profondo e tirai via il lenzuolo in modo da lasciare solo i piedi coperti. Osservai il corpo per intero; e quella visione mi si riversò nel cervello e ci rimase impressa. C'era la lunga incisione di Sir Brian, che dal collo arrivava ai peli rossicci del pube. Non completamente diritta. C'era un piccolo taglio intorno all'ombelico, come una strada che si biforca nei pressi di un monumento antico. La ferita era stata ricucita con precisione, come dovesse servire da dimostrazione a una lezione di economia domestica. Dovevo concentrarmi sulle ferite importanti. La gola era stata tagliata in modo preciso ed efficiente, da un lato all'altro, ma c'erano anche dei piccoli segni di coltello sullo stomaco, sulle spalle, sulle cosce. Ce n'erano diciassette, persi il conto la prima volta e dovetti ricominciare. I seni alti e piccoli erano intatti, come l'area genitale. Sapevo dal rapporto dell'autopsia che non aveva ferite né nella vagina né nel perineo. Mi avvicinai a Lianne. Nella mia mente continuavo a chiamarla con quel nome. Le gambe non erano rasate. Le braccia erano coperte di peluria. Aveva un paio di grossi graffi sul polso sinistro, probabilmente dovuti ai rovi del canale, dove era stata trovata. Una cicatrice sul ginocchio sinistro. Forse una caduta da bambina. La immaginai da piccola, ancora con i codini e senza denti, che correva in qualche giardino un giorno d'estate, senza pioggia, pensando che la vita sarebbe stata sempre bella e divertente. Questo è quel che mi commuove dei bambini: la fiducia che la vita sarà bella. Domanda a un bambino di sei anni che cosa vuole fare da grande, e risponderà il pilota, il primo ministro, il ballerino, la pop star, il calciatore, il milionario. Che cosa avrà voluto fare Lianne? Quali che fossero i suoi sogni, erano finiti. Lei era qui, ora, anche se, naturalmente, Lianne non era affatto qui. C'era solo il suo corpo gelato e dallo strano colore. Qui non c'era nessun altro oltre a me. Nessun alito di vita in quella stanza se non il
mio. Non avevo mai provato prima un tale senso di assenza. Le sollevai il lenzuolo dai piedi e vidi che aveva le unghie dipinte di rosso, lo smalto scheggiato. Toccai la cicatrice sul ginocchio. E le toccai di nuovo la mano con le unghie morsicate. Sollevai una ciocca di capelli color rame: anche quelli sembravano morti. Ogni cellula e particella del suo corpo aveva finito il suo corso. Sentivo il sangue pulsarmi dentro, l'aria entrare e uscire dai miei polmoni, le immagini colpirmi gli occhi, i capelli pizzicarmi la pelle umidiccia. Basta. Tirai su il lenzuolo, assicurandomi di averla ricoperta completamente, senza lasciar fuori neanche una ciocca di capelli. Avrei voluto dire qualcosa, una cosa qualsiasi, per rompere il silenzio, ma non riuscii a pensare a nulla, così mi schiarii la gola rumorosamente. Immediatamente Alexandra ricomparve. Doveva esser rimasta ad aspettarmi fuori della stanza. «Finito?» «Sì.» Lianne era stesa in un cassetto e con uno sforzo Alexandra lo richiuse in ciò che sembrava un enorme schedario. «Nulla che non fosse scritto sul rapporto, vero?» mi domandò con una leggera asprezza. «Volevo vedere le ferite.» Presi la cartella e l'impermeabile e uscii, barcollando un po' nella pioggia scrosciante. Sollevai il viso al cielo e lasciai che la pioggia vi cadesse sopra come lacrime. Ritornai nel mio cubicolo alla centrale e rilessi il dossier di Lianne, anche se lo conoscevo ormai piuttosto bene. Dapprima guardai il foglietto con la biografia: giovane donna conosciuta con il nome di Lianne; età stimata, circa diciassette anni; si suppone sia arrivata nella zona di Kersey Town sette o otto mesi fa; ha dimorato brevemente presso l'ostello diretto da William Pavic; altrimenti, secondo la testimonianza di un paio di compagni vagabondi interrogati dalla polizia, dormiva nei parchi, sulle panchine e negli androni dei negozi o, a volte, da qualche amico più fortunato che viveva in un bed&breakfast. Tutto qui, non c'era nulla sul suo carattere, le amicizie, le relazioni sessuali. Non si diceva se fosse vergine oppure no. Presi la cartina del luogo in cui era stato trovato il corpo, dove una x indicava il punto esatto. Poi chiamai Furth. «Vorrei vedere il luogo in cui è stata trovata» gli dissi. «Magari questo pomeriggio, dopo il mio lavoro alla clinica. Diciamo verso le cinque, è possibile?»
«Ti farò accompagnare da Gil» mi rispose. Riuscii quasi a sentirlo sorridere. «Qui è dove Doll l'ha ammazzata» commentò Gil, guardandomi di sbieco. Si tirò indietro per permettermi di vedere. Il corpo di Lianne era stato trovato su un argine piuttosto erto, dietro il ceppo di un albero morto, dove crescevano erbacce, prezzemolo selvatico e ortiche. Si vedeva ancora, dai gambi spezzati o piegati, il punto in cui il corpo era caduto, a testa in giù. La testa era stata spinta nell'intrico delle erbacce. I piedi, con le ballerine bianche e calze vistose a strisce rosse, erano probabilmente appoggiati contro una bottiglia rotta. Sui cespugli e nell'acqua di un marrone oleoso c'erano brandelli di plastica e, nella fanghiglia del sentiero lungo il canale, scatole di sigarette e mozziconi. Davanti al luogo in cui era stata trovata Lianne c'era un cavallino di plastica; probabilmente caduto a qualche bimbetto. E dietro di esso vidi la ruota di una bicicletta, arrugginita e piegata. «Ed è stata trovata da un ragazzo?» «Già. Un certo Darryl non ricordo più cosa.» «Pearce.» «Sì. Uno che faceva jogging. Gli sta bene. Ha letto la sua dichiarazione? L'ha trovata che stava morendo. Più o meno. Stava correndo per di qui e l'ha sentita gridare.» «Ma quando l'ha trovata era morta.» «Un coglione. È rimasto a gironzolare qui intorno per dieci minuti, non sapendo che cosa fare. Spaventato a morte, praticamente. Poi, quando si è fatto coraggio ed è andato a vedere, ci ha chiamato e siamo arrivati, Lianne era morta. Se non avesse aspettato tanto, lei avrebbe potuto dirgli chi era stato. E ci avrebbe risparmiato tutte queste indagini.» «Non è stato sospettato?» «Naturalmente. Ma non ha toccato il corpo. Lianne era ricoperta di sangue, come doveva essere anche l'assassino. Abbiamo fatto un sacco di test su Darryl, sulle fibre, tutto. Non è risultato niente.» «E c'era questa donna, Mary Gould» dissi quasi a me stessa. «Sì, la cara vecchietta con il pane per le anatre. È arrivata dall'altro lato dei cespugli, dagli appartamenti, ha visto il corpo e se l'è svignata. Ha telefonato solo il giorno dopo. L'abbiamo messa in lista d'attesa per la medaglia. Mi voltai verso il punto in cui Lianne era stata trovata e lo osservai at-
tentamente. «E poi Doll si è fatto avanti un paio di giorni dopo per dire che si era acquattato qui intorno» disse Gil. «Non ha usato esattamente queste parole.» Lo guardai in cagnesco e lui mi fece di nuovo il suo sorrisetto impudente e si mise a fischiettare. Cercai di immaginare la scena. Quando l'avevano trovata, aveva addosso una gonna molto corta di Lycra rossa, tirata sopra il bacino. Non le erano state tolte le mutande. Aveva una camicia di cotone color porpora e non portava il reggiseno. Indossava quei vestiti quando era morta, e non le erano stati tolti in seguito. Le coltellate le erano state inferte attraverso la camicia. Al polso sinistro aveva uno di quegli orologi digitali che regalano nelle autorimesse, e intorno al collo un ciondolo dorato dalla forma di un cuore spezzato con sopra una scritta rosa: Miglior... C'era qualcuno, da qualche parte, che doveva avere l'altra metà del cuore, con la scritta ... amica? Telefonai a Poppy, la mia migliore amica. Avevo bisogno di sentire una voce calda. «Kit! Com'è andata la prima settimana di ritorno al lavoro?» In lontananza si udivano le urla delle bambine. E il tintinnio di un cucchiaio. Poppy stava mescolando qualcosa. Solo quattro giorni, pensai. «Strana» risposi. «Molto strana.» «Ho cercato di telefonarti prima. Mi ha risposto una donna che non conoscevo.» «Julie. Non l'hai conosciuta anni fa? Forse era prima che ci fossi tu. È stata via.» «Non ti ha detto che avevo telefonato?» Non me l'aveva detto. «Chi è? Aspetta un momento... Megan! Amy! Venite a prendere il latte caldo con il miele! Scusa. Questa Julie...» «È stata via, in viaggio per il mondo. Starà da me, per un po'.» «E non ti secca?» «Non ancora.» «Ma va tutto bene? Oh, Cristo, pulisci subito quella roba. Va' a prendere uno straccio o qualcosa, sta colando dappertutto.» «Devi andare?» «Temo di sì. Ti richiamo.» Il giorno prima avevo fatto la spesa: un pacco di pasta fresca, un baratto-
lo di peperoni rossi e della salsa chili, un paio di quelle buste con l'insalata già lavata. Ma erano scomparsi. Come anche la fetta di cheesecake al limone e zenzero. Nel frigo non c'era quasi niente se non un paio di litri di latte, del mascarpone e - le sollevai per esserne assolutamente sicura - un paio di mutandine nere, nuove, con il cartellino del prezzo ancora attaccato. Bussai alla porta di Julie. Nessuna risposta. La aprii. C'erano vestiti, compresi alcuni dei miei, gettati dappertutto. Sul classificatore, dove aveva portato uno specchio dal bagno, c'erano vasetti di crema e tubetti di rossetto. Vicino al letto sfatto, le mie pantofole. Non avevo voglia di andare di nuovo a fare la spesa, ero troppo stanca, così tostai delle fette di pane e le mangiai con la marmellata e una tazza di cioccolata. Ripresi le pantofole e mi misi la vestaglia. Poi tirai fuori l'album da disegno. Mi sedetti al tavolo e, sorseggiando la cioccolata bollente, cercai di disegnare Lianne. Non il volto, però; le mani piccole e infantili, con le unghie mangiucchiate fino all'attaccatura. Le mani sono difficili da disegnare, più difficili dei piedi o dei volti. È quasi impossibile azzeccare le proporzioni giuste. Le dita sembrano sempre banane, il pollice viene piegato ad angoli improbabili. Non riuscii a farle bene e, dopo ripetuti tentativi, abbandonai l'impresa. Ero seccata per le mutandine nere nel frigo, per la pioggia che sbatteva alla finestra e per la strana sensazione di aver perso qualcosa. CAPITOLO 11 Essere attivi mette in moto l'adrenalina. Quella mattina, invece di starmene a mollo nel bagno caldo, feci una doccia veloce e mi lavai i capelli. Non mi curai di asciugarli, li strofinai solo energicamente con un asciugamano e li pinzai sulla testa. Bevvi il caffè mentre mi infilavo un vestito e dei sandali. Poi presi le chiavi dell'automobile, una mela e misi tutto in borsa. Uscii riuscendo a evitare Julie, che era seduta al tavolo di cucina con una tazza di tè davanti e l'aria sonnacchiosa di un gatto sdraiato al sole. Andai direttamente alla Welbeck Clinic e parcheggiai al solito posto, sotto l'albero di acacia. La mattina era nebbiosa e umida. Non c'era ancora nessuno se non un addetto alle pulizie che passava l'aspirapolvere avanti e indietro per l'ingresso. Una volta in ufficio chiusi la porta e aprii le finestre che si affacciavano sul piccolo giardino del retro. Non c'erano fogli nel vassoio della posta in
uscita, ma ce n'era una piccola montagna in quello delle cose da evadere. Pazienti che dovevo vedere, cose rimandate di cui mi dovevo occupare, corrispondenza a cui dovevo rispondere, moduli da compilare, riviste da leggere, inviti da cui liberarmi. Secondo la mia segreteria telefonica avevo ventinove messaggi. Accesi il computer e trovai una dozzina di e-mail. Avevo letto da qualche parte che certi uomini d'affari ne ricevono fino a duecento al giorno. Non era giusto. Non potevano essere ridistribuite a chi era solo e non ne riceveva nessuna? Alle nove la montagna di carte si era notevolmente ridotta; avevo rifiutato inviti a conferenze in tre Paesi diversi; avevo separato i pazienti in tre pile: da visitare, da non visitare e casi incerti; avevo riempito di appuntamenti parecchi spazi bianchi dell'agenda. La sedia era circondata da palle di carta stropicciata. Sentivo i rumori della clinica che ritornava alla vita: telefoni che suonavano in altri uffici, porte che sbattevano, il brusio di conversazioni in corridoio. Andai alla macchinetta del caffè al piano terra, e tornai nell'ufficio con il caffè che mi si rovesciava sulle dita. Tirai fuori gli appunti su Lianne e fissai le frasi che avevo scritto, finché gli occhi non mi si offuscarono e non riuscii più a distinguere che dei geroglifici. L'unico che avrebbe potuto darmi qualche risposta era il tizio che gestiva l'ostello dove lei a volte aveva dormito o era andata a fare un bagno caldo, a consumare un pasto tiepido, a prendere dei vestiti puliti. Will Pavic. D'impulso presi il telefono e feci il suo numero. «Sì.» La voce era brusca e impaziente. «Potrei parlare con Will Pavic, per favore?» «Sì.» Ci fu una pausa. «Parla Will Pavic?» «Sì.» Questa volta sembrava più irato. «Buongiorno. Sono la dottoressa Quinn e sto lavorando per la polizia...» «Mi dispiace, non voglio avere a che fare con la polizia. Sono sicuro che lei mi capirà, date le circostanze.» E mise giù il telefono. «Bastardo» mormorai. Presi la mela dalla borsa e la mangiai lentamente, lasciando solo il torsolo. Poi feci il numero di casa. «Pronto!» Julie sembrava molto più vivace di come l'avevo lasciata. «Sono io, Kit. C'è una cosa che mi ha tormentato tutta la mattina. Perché c'è un paio di mutandine nel frigo?» «Ooops!» Scoppiò a ridere. «Ho letto in una rivista che, se fa caldo, è
meraviglioso mettersi un paio di mutandine gelate. Tutto qui.» «Ma non fa tanto caldo.» «Per questo sono ancora nel frigo. Sto aspettando.» Così, risolto quel mistero, telefonai di nuovo a Will Pavic. «Sì.» Stessa voce, stesso tono. «Signor Pavic, sono Kit Quinn. Per favore, può ascoltare ciò che ho da dirle prima di mettere giù il telefono?» «Signorina Quinn...» «Dottoressa.» «Dottoressa Quinn.» Pronunciò il titolo come se fosse un insulto. «Sono molto occupato.» «Come ho detto, o stavo cercando di dire, sto aiutando la polizia nelle indagini sulla morte di Lianne.» Ci fu una pausa. «Lianne che è stata trovata presso il canale, ha presente?» «So di chi sta parlando, ma non capisco come potrei aiutarla.» «Volevo parlare alle persone che la conoscevano. Che sapevano che vita facesse, che amici frequentasse, che cosa la preoccupasse, se fosse il tipo di persona che...» «Certamente no. Non permetterò che i giovani qui siano importunati da voi. Hanno già abbastanza problemi.» Feci un respiro profondo. «E lei, signor Pavic?» «Io che cosa?» «Posso parlare con lei di Lianne?» «Non ho nulla da dire. La conoscevo appena.» «La conosceva abbastanza bene da identificarne il corpo.» «Sapevo che aspetto aveva, naturalmente.» Lo disse con voce aspra. Immaginai un uomo arcigno e severo con un volto dai lineamenti affilati e occhi acuti. «Non credo sia il tipo di discorso che le interessa, vero? Lei vuole sapere della sua mente, giusto?» La sua voce era sarcastica. Non volevo perdere la pazienza. Più lui si innervosiva, più io diventavo calma. «Non mi ci vorrà molto.» Udii una penna battere rapidamente contro una superficie. «Molto bene, che cosa vuole sapere?» «Posso venire a parlarle di persona?» Non volevo assolutamente che il colloquio si svolgesse al telefono. «Ho una riunione tra meno di un'ora e dopo...» «Sarò da lei tra quindici minuti» dissi. «È molto gentile da parte sua, signor Pavic, le sono grata.» Questa volta fui io a mettere giù il telefono. Af-
ferrai la borsa e la giacca e corsi fuori dall'ufficio prima che potesse richiamarmi. Il Centro per la gioventù Tyndale era un edificio anteguerra grande e poco attraente, con finestre di metallo, posto tra un pub sudicio e quello che doveva essere uno dei più brutti condomini di Londra: sporchi blocchi di cemento con piccole finestre torve, alcune delle quali sfondate. Su un lato c'era un murale dai colori vivaci, fiori e ghirigori che salivano serpeggiando fino al tetto. Una sorta di Jack e la pianta di fagioli. A circa due metri da terra, sopra il disegno, c'era la scritta, tracciata da un'altra mano, Va' a farti fottere. Sull'altro lato della strada c'erano case abbandonate con finestre e porte sbarrate da assi, e giardinetti invasi dalle erbacce. Per strada, due adolescenti con le teste rasate stavano dando calci a una pallina da tennis molto malconcia ma, quando mi avvicinai alla porta, si fermarono e mi guardarono con sospetto. «Salve.» Non capii se la ragazza che mi aprì fosse una delle giovani ospiti o un'assistente. Aveva i capelli color porpora, parecchi piercing sulle sopracciglia e sul naso e un sorriso dolce. Ai piedi portava delle enormi ciabatte pelose. Dietro di lei vidi un largo ingresso da cui partivano dei corridoi, e udii, provenienti dal piano di sopra, i battiti insistenti di una musica rap e delle urla. «Sono la dottoressa Quinn. Ho appuntamento con Will Pavic.» «Appuntamento?» urlò una voce fuori della mia visuale. «Falla entrare.» La ragazza si scostò. L'ingresso era di un giallo chiaro. In un angolo c'era un esile alberello in un vaso, contro una parete un tavolino coperto di volantini e, vicino alle scale dove un gatto color zenzero sonnecchiava, c'era un vecchio divano. Notai subito che l'ambiente era stato progettato in modo da non apparire intimidatorio verso chiunque varcasse la soglia. Will Pavic stava in una piccola stanza di fronte, con la porta aperta. Era seduto a una scrivania e mi guardò al di sopra del computer. Doveva essere sulla quarantina, con capelli a spazzola più o meno della stessa lunghezza della barba scura e ispida, e sopracciglia spesse e scure. Alla luce dell'ufficio sembrava monocromo e scolpito, come se fosse stato tagliato da un pezzo di granito. Aveva il volto accigliato. Mentre attraversavo l'atrio, dirigendomi verso di lui, si alzò, ma rimase dietro la disordinata fortezza della scrivania. «Salve» feci.
Mi strinse la mano con fermezza, ma frettolosamente. «Si sieda» rispose, indicandomi una sedia dallo schienale rigido nell'angolo. «Metta pure le carte per terra.» Mi schiarii la gola. Feci un sorriso nervoso, che non ricambiò. Dietro di lui il muro era totalmente tappezzato da fogliettini gialli promemoria. Improvvisamente mi resi conto di non avere un'idea precisa di quel che dovevo chiedergli. «Mi dispiace, ma non capisco bene. Questo è un alloggio per ragazzi?» «No» rispose. «Che cos'è allora? Una struttura convenzionata con il comune?» «Le autorità locali non hanno nulla a che fare con noi. E neppure il governo. O i servizi sociali.» «Chi se ne occupa?» «Io.» «Sì, ma lei a chi risponde?» Scrollò le spalle. «Ma di fatto come funziona?» domandai. «Semplice. Questo è un posto dove i giovani senza una casa possono stare per un breve periodo. Noi cerchiamo di aiutarli un po', facciamo qualche telefonata e poi li rimandiamo per la loro strada.» «Ha rimandato Lianne per la sua strada?» Il suo volto si raggelò. «Senta, io qui sto cominciando da zero» dissi, sorridendogli. Non rispose, rimase come un computer spento. «Voglio cercare di scoprire il più possibile di Lianne. Non intendo i movimenti nelle ore precedenti alla morte o le ultime persone che l'hanno vista. Questo è compito della polizia. A me interessa di più sapere che tipo di ragazza fosse.» Il suo telefono squillò, ma lasciò che rispondesse la segreteria telefonica. «Non la conoscevo sotto quell'aspetto» rispose. «Quanto tempo è stata qui?» «Non è mai stata qui. Non nel modo che intende lei. Veniva occasionalmente. Conosceva della gente.» «Mi sembra che le cose non quadrino. Se la conosceva così poco, perché è stato lei a identificare il corpo? Come ha fatto la polizia a risalire a lei?» «La polizia è risalita a me perché ha messo la faccia di Lianne su un manifesto, e un cittadino coscienzioso ha fatto una telefonata anonima dicendo di sapere che Lianne era stata a Tyndale. E sono stato io a identificarla perché ero l'unica persona abbastanza rispettabile, secondo loro, che avesse ammesso di conoscerla. Ma questa è Kersey Town, non il quartiere da
cui proviene lei.» «Lei non sa da dove vengo io.» «Posso immaginarlo» rispose con un lieve sorriso, finalmente. «Voglio sapere solo che tipo fosse, signor Pavic. Sa qualcosa della sua storia, del suo passato, per esempio? O dei suoi amici?» Sembrò irritato, a disagio. «Non capisce. Non voglio sapere niente della vita di queste persone. Non voglio far finta di essere loro amico. Cerco di dar loro un piccolo aiuto pratico e la maggior parte delle volte non ci riesco. Tutto qui. Le persone che scappano hanno le loro buone ragioni per farlo, dottoressa Quinn. Pensa che lo facciano per divertimento? Lianne probabilmente aveva le sue buone ragioni.» «Secondo lei potrebbe essere stata oggetto di violenze?» domandai. Non rispose e mi sentii stupida per avergli fatto quella domanda. «Era sola» sbottò all'improvviso. «Una giovane donna sola, ansiosa, spaventata, arrabbiata. Una persona che lei probabilmente giudicherebbe in cerca di affetto. Va bene?» «E lei non vuol essere d'aiuto?» Si piegò sulla scrivania, il volto duro. «Ma in questo ho già fallito. Ancora una volta.» «Io...» «Devo andare ora. Ho una riunione.» «Posso accompagnarla alla metropolitana?» «Prendo la macchina.» «Potrebbe lasciarmi a una fermata di metropolitana per strada, allora. Ho ancora solo un paio di domande. Da che parte va?» «Blackfriars Bridge.» «Proprio davanti a casa mia» dissi, sorvolando di proposito sul fatto che avevo lasciato l'automobile parcheggiata alla Welbeck Clinic. Sospirò ostentatamente. «D'accordo.» Attraversammo l'ingresso insieme. Una ragazza incredibilmente carina, con bei capelli lunghi, entrò di corsa. «Ci sto provando, cazzo!» ci urlò in faccia, e poi prese le scale come una saetta, singhiozzando. «Si drogava?» domandai, sedendomi sul sedile anteriore della Fiat arrugginita di Will Pavic. «Altre domande, eh?» «Ero curiosa.»
«Mi dica quando devo girare.» «Non ancora. Perché è così aspro?» «Mi sembra una risposta ragionevole.» «A che cosa?» «A tutto. A tutta questa merda.» E il gesto che fece, togliendo le mani dal volante, comprendeva tutto: il traffico, la conversazione, io seduta accanto a lui quando voleva essere solo, la morte di Lianne, la vita in generale. Facemmo il resto del tragitto in silenzio, a parte le istruzioni che gli fornivo. Si fermò davanti alla mia porta, e io scesi. «Kit! Ehi, Kit!» Mi cascarono le braccia. «Ciao, Julie.» «Perfetto tempismo. Avevo dimenticato le chiavi.» Si chinò e sorrise a Pavic attraverso la portiera aperta. «Will Pavic» bofonchiai. «Julie Wiseman.» Si piegò, infilandosi nell'auto, così che la gonna le salì sulle cosce e il seno le si gonfiò sotto la camicia sottile. «Buongiorno Will Pavic. Sale un momento?» «Mi ha solo dato un passaggio. Deve andare a una riunione.» Julie mi ignorò. «Tè? Caffè?» «No, grazie» rispose Pavic con notevole cortesia. Allora ero solo io. «Grazie per il passaggio» dissi, e voltai loro le spalle. Lasciai la porta aperta in modo che Julie potesse entrare e salii di sopra, anche se di lì a poco sarei dovuta tornare alla clinica a riprendere l'auto. Avevo tempo per bere qualcosa di fresco, almeno. Lasciai scorrere l'acqua dal rubinetto, e ci misi sotto le dita. Udii i passi di Julie che saliva rumorosamente le scale. «Wow! È bellissimo!» «Credi?» «Proprio il mio tipo. Tenebroso, forte, silenzioso. L'ho invitato a cena.» Mi girai di colpo. «Che cosa?» «L'ho invitato a cena.» Sorrise trionfalmente. Farfugliai qualcosa di incoerente e lei sorrise e si tolse i sandali con un calcio. «Non va bene star lì ad aspettare. Non sono come te, Kit. Sapevi che si possono dividere le persone in erbivore e carnivore?» «Io...» «Tu sei un'erbivora, io una carnivora. E lui è un carnivoro.» «Ha accettato?» riuscii a dire.
«Domani. Alle otto. Non è riuscito a inventare una scusa in tempo.» «Andrò fuori.» «Non vai mai fuori» disse con il tono di tagliar corto. «E poi non puoi. Gli ho detto che avevamo degli amici a cena e di unirsi a noi se era libero. Allora, chi pensi di invitare?» «Julie...» «E che cosa farò per cena?» «Senti...» «E soprattutto, che cosa mi devo mettere? Potresti prestarmi il vestito rosso?» CAPITOLO 12 Dopo essere andata a riprendere l'auto, mi sedetti in soggiorno a guardare delle carte, mentre Julie era sotto la doccia. Continuava a farsi docce, cantando stonate canzoni di Natale fuori stagione. Forse viaggiando aveva preso l'abitudine di una pulizia estrema. Pensai alle barzellette sugli inglesi che circolavano tra i miei colleghi americani e australiani: disordinati, sporchi, con denti guasti e case polverose. Se vuoi nascondere qualcosa nel bagno di un inglese, qual è il posto migliore? Sotto il sapone. Me l'avevano raccontata una sera tardi a una conferenza a Sydney. Rilessi il rapporto sulla scena del delitto. Guardai le fotografie. Chiusi gli occhi e cercai di immaginare come doveva essere stato laggiù, vicino al canale. C'era qualcosa che mi irritava, che mi faceva quasi impazzire, come quando si cerca di afferrare una cosa al di fuori della propria portata. Tuttavia era anche una sensazione eccitante. Qualcosa si stava muovendo. Avevo fotocopiato le cartine che mostravano i luoghi e le fissavo con un senso di impotenza. Che cosa c'era di preoccupante? Julie uscì raggiante dalla doccia. Indossava dei jeans tagliati, una maglietta molto stretta che non le arrivava all'ombelico ed era senza reggiseno. Un reggiseno sarebbe stato fuori posto. Aveva in mano una bottiglia di vino bianco e due bicchieri. Senza una parola ne riempì uno e me lo porse. Poi ritornò in cucina e portò una ciotola cinese piena di olive. La posò sul tavolino basso, si sedette sul divano con le ginocchia contro il petto e cominciò a sorseggiare il vino. Così feci anch'io. Era meravigliosamente freddo. Osservai Julie. Era molto attraente, abbronzata, così a suo agio nel suo corpo. Pensai a Oban e sorrisi. In quel momento sembravamo una coppia. Lui doveva aver pensato che Julie fosse un buon partito per me. E io
potevo vedere i vantaggi dell'essere gay. Era così faticoso con gli uomini. La loro sostanziale estraneità, la roba diversa in bagno, tutto. Bevvi un altro sorso. Purtroppo non potevo farci niente. Probabilmente dipendeva dall'educazione o dalle pressioni della società, ma ormai ero un'irriducibile eterosessuale. «Prendi un'oliva» mi invitò Julie. «Sono andata a Soho questo pomeriggio. È bellissimo, e ho comprato queste olive ripiene di acciughe e peperoncini. Sono molto piccanti.» Ne mangiai una, ed effettivamente fu come se mi avessero messo un fiammifero acceso sulla lingua, ma bevvi un altro sorso di vino e il freddo sul piccante fu una sensazione meravigliosa. «Buone» dissi. «Camminavo e intanto pensavo: devo trovare tre cose. Un lavoro, un posto in cui vivere e un uomo. Per questo ho acciuffato quel tizio di fuori. È sposato?» «Non lo so.» «Gay?» «Non l'avevo mai visto prima.» «Se trovi uno che non è omosessuale, ha un bell'aspetto, riesce a mettere due parole insieme ed è libero, bisogna immediatamente andare all'attacco.» «Secondo la mia esperienza, se le persone sono libere di solito c'è una buona ragione.» «Vuoi dire che potrebbe avere qualche malattia?» Mi misi a ridere. «Sentì, Kit, non sto scherzando. Non mi piace invadere la tua casa. Voglio dire che sto effettivamente cercando un posto per vivere.» «Non importa.» «So che sto intralciando il tuo stile di vita.» «Ho uno stile?» domandai. «Non mi pare, so di essere a volte un po' bisbetica, ma se fossi da sola probabilmente non saprei cosa fare in casa.» «Pensavo che saresti andata in giro di più, in cerca di indizi.» Mi allungai a prendere la bottiglia e riempii di nuovo i nostri bicchieri fino all'orlo. «Mi dispiace, ma esamino soprattutto documenti.» Julie si mise due olive in bocca, poi cominciò a tossire e buttò giù un grosso sorso di vino. Il viso le divenne paonazzo. «Sospetti di qualcuno?» riuscì a dire alla fine, annaspando. «Non sto cercando una persona sospetta. Sto esaminando tutto ciò che posso con occhi differenti, per vedere se mi viene in mente qualcosa sul ti-
po di persona che bisogna cercare. Devo solo osservare con lucidità, senza preconcetti, un po' come con quegli indovinelli tipo: Antonio e Cleopatra giacciono morti, uno accanto all'altra. Vicino a loro c'è una pozza d'acqua e dei cocci di vetro. Come sono morti?» «Soffocati, Antonio e Cleopatra sono pesci rossi» rispose Julie istantaneamente. «Oppure quell'uomo che sale sull'ascensore al piano terra, schiaccia il bottone del decimo piano e poi fa a piedi gli altri cinque piani, mentre quando scende, sale sull'ascensore al quindicesimo piano e va fino al piano terra senza fermarsi, perché?» «Perché è nano e non arriva al pulsante del quindicesimo piano.» «Allora credi che troveranno l'assassino?» «Dipende. Se smette di ammazzare, allora no, credo di no.» «Non sei molto ottimista.» «Sai quanti omicidi vengono commessi in un anno?» «Che cosa? In tutto il mondo?» Mi misi a ridere. «No, in Inghilterra e nel Galles.» «Non ne ho la più pallida idea. Cinquemila?» «Centocinquanta, duecento, qualcosa del genere. La maggior parte, forse i due terzi, viene risolta subito. Quasi tutti sono commessi da persone che la vittima conosceva, mariti, o membri della famiglia. Oppure una lite davanti a un club, dei tifosi di calcio, un rapinatore che uccide una vecchietta, e che viene preso mentre scappa. Per il resto, ci sono le famose prime quarantott'ore d'oro in cui l'assassino è preso con le mani nel sacco. Quando, cioè, è ancora coperto di sangue, si comporta in modo strano, nasconde le armi e i vestiti, copre le sue tracce. È solo dopo molti giorni, quando la polizia esaurisce tutte le idee, che si pensa di ricorrere a una persona come me. L'arma del delitto non è stata trovata. Il sangue è stato lavato. Se un testimone avesse visto qualcosa, si sarebbe già presentato. Sai quando si perdono le chiavi e si ricomincia a guardare nei posti in cui si è già cercato? Siamo in questa fase, adesso.» «Mi sembra una situazione disperata.» Presi un'altra oliva. Era deliziosa. «La polizia non è particolarmente preoccupata. Non ci sono parenti che sbraitano, non c'è la stampa che preme per dei risultati. Ma la situazione ha un lato positivo. Se è disperata, almeno non può essere peggiore.» «È per questo che sei andata a parlare con quel tipo, Will?» «Sì. Lianne... Be', c'è un mucchio di gente come lei in questa zona.» «Vuoi dire prostitute e ragazzine scappate di casa?»
«Voglio dire giovani donne che vagano per la città, che non hanno relazioni stabili, che fanno lavori saltuari. E penso che Will Pavic conosca quel mondo meglio di chiunque altro.» «Che cosa fa? Il protettore?» «Dirige un ostello in cui si rifugiano alcuni di questi ragazzi.» Sorrisi all'espressione di delusione di Julie. «Mi dispiace, non è un avvocato, né un dottore, né un produttore televisivo. Ho capito dall'espressione dei poliziotti tutte le volte che salta fuori il suo nome che non è molto amato o stimato. In ogni modo, come avrai sentito, non era particolarmente desideroso di comunicare con me, quindi magari il tuo piano di irretirlo potrebbe risultare utile. Mentre si innamora di te, potrebbe cominciare a parlare con me. O ti secca che ci sia anch'io?» «Per l'amor del Cielo, ci devi essere. Devi dare una mano.» Julie doveva uscire quella sera, ma io finii la bottiglia di vino e rilessi per l'ennesima volta la documentazione su Lianne. Guardai di nuovo la cartina e poi sbottai in una sorta di grugnito. «Ecco qua» dissi alla stanza vuota. Non era una grande scoperta. Non c'era da correre in giro urlando. Ma era pur sempre qualcosa che mi faceva riflettere. Quando arrivai all'ufficio del detective Furth, la mattina dopo, lui mi guardò come se fossi l'ex moglie andata a riprendersi il suo stereo. «Sì?» fece. «Ho pensato qualcosa.» «Bene» dichiarò seccamente. «Ma non c'era bisogno che venissi di persona. Avresti potuto semplicemente telefonare. Avresti risparmiato a tutti dei problemi.» «Non dobbiamo essere nemici.» «Che cosa vuoi dire?» domandò con tono innocente. «Non importa. Vuoi sapere che cosa ho pensato?» «Non vedo l'ora.» «Guarda la cartina.» «Ho la mia.» «Vuoi sentire o no ciò che ho da dire?» «Per favore, raccontami quel che hai pensato, sono tutto orecchi.» Mi sedetti di fronte a lui. La sedia era odiosamente bassa e mi fece sentire come una scolaretta che guarda il preside a faccia in su. «Perché il canale?» domandai.
«Perché è un luogo isolato.» «Sì, ma guarda la carta.» Distesi la mia fotocopia sulla scrivania. «Ci sono luoghi molto isolati lungo il canale, ma dov'è stato trovato il corpo? Guarda qui, Lianne è stata trovata vicino al complesso residenziale Cobbett.» «È un posto piuttosto isolato» ribatté Furth in modo vivace. «Conosco quel luogo come le mie tasche. Ci sono molti cespugli, è malamente illuminato, di notte è deserto. Inoltre l'assassino poteva scappare lungo il canale in entrambe le direzioni oppure arrivare alle strade tagliando per scorciatoie.» «È quel che ho pensato guardando la cartina. È un posto a cui si può arrivare in macchina. Guarda, è vicinissimo al parcheggio del complesso residenziale.» «E allora?» «C'è un'altra cosa che non mi convince. Lianne è stata sgozzata, le hanno tagliato la carotide. Aveva i vestiti inzuppati di sangue. Ho guardato il rapporto della scena del delitto per vedere se c'era sangue. Niente.» Furth scrollò le spalle. «Allora?» «Non è strano?» «Così, su due piedi, non direi. Se è stata trascinata all'indietro, il sangue potrebbe semplicemente essere andato su di lei e sull'assassino. Forse non si è guardato in altri punti. O quelli della squadra omicidi non ne hanno fatto menzione. Che senso avrebbe avuto?» «Questo: che Lianne non sia stata uccisa sul canale. E se ci fosse stata portata già da morta? Hanno scelto quel posto perché ci potevano arrivare in macchina, ed era buio e deserto, come hai detto tu.» «È questa la tua idea?» disse Furth vivacemente. «Sì.» Si alzò, andò al classificatore e aprì un cassetto. Rovistò dentro, tirò fuori una cartellina grigia, ritornò alla scrivania e ve la gettò sopra. La aprii e la guardai. «Lo riconosci?» «Sì.» «Darryl Pearce. È stato lui a trovare il corpo di Lianne, ricordi? Ti ricordi come l'ha trovato? Ha udito un gemito o un urlo soffocato. È rimasto un po' là intorno, quel codardo. Alla fine si è deciso, ha frugato tra i cespugli e l'ha trovata. Qual è la tua tesi? Il tuo assassino avrebbe portato una persona
mezzo morta nella sua auto? Sai quanto tempo ci vuole a morire con una ferita di quel genere?» «Ho pensato anche a questo.» «Allora che cosa diavolo stai facendo qui?» «Una delle cose che cerco di tenere a mente è non dare troppa importanza a ogni singola prova. Perché potrebbe essere sbagliata. Ti ricordi la caccia allo squartatore dello Yorkshire? L'hanno cercato nel posto sbagliato per circa un anno perché si erano affidati a una registrazione su nastro fasulla.» «Pensi che quella mezza cartuccia di Darryl Pearce abbia abbastanza cervello da costruire una testimonianza fasulla?» «Me lo sono chiesto. Ho cercato di capire se abbia commesso un errore o abbia inventato quella storia per coprire qualcosa, ma non sono arrivata a nessuna conclusione.» «Allora?» «Mary Gould.» «Fammi ricordare.» «La donna che ha trovato il corpo.» Furth diede segni di voler concludere la conversazione. «Quella tizia che ci ha telefonato il giorno dopo, perché era troppo spaventata per farsi avanti subito. Non ha detto nulla di importante. Non ci è stata di grande aiuto.» «Ha visto il corpo, ma nella sua dichiarazione non dice che Lianne era ancora viva. Che cosa ne pensi?» «Potrebbe non ricordarselo, oppure non averlo notato.» «È difficile non notare una persona che sta morendo dissanguata.» «Potrebbe essere arrivata sul luogo del delitto subito dopo la morte di Lianne.» Gettai un'occhiata a Furth. Aveva un'espressione un po' meno sprezzante. Sembrava cominciasse a essere incuriosito, nonostante tutto. «Allora» continuai «seguendo la tua ricostruzione dei fatti, Darryl Pearce sente un lamento. Lui afferma che si trovava sull'alzaia, presso il canale. Poi, mentre decide il da farsi, Lianne muore e Mary Gould arriva dall'altra parte, dalla direzione del complesso residenziale. Si spaventa e scappa prima che Darryl arrivi e scopra quel che ora è il corpo morto di Lianne. Non ti sembrano un po' troppe cose per novanta secondi?» «Hai un suggerimento migliore?» «Ho un'alternativa. Mary Gould trova il corpo, urla e poi scappa. Darryl ode quel grido e pensa provenga da Lianne. È tutto qui quel che ho da dire.
La dichiarazione di Darryl Pearce è l'unica prova che abbiamo che Lianne fosse ancora viva tra quei cespugli presso il canale.» Furth si piegò in avanti. «Merda» fece con aria meditabonda. «Hai capito che cosa voglio dire?» «Devo pensarci sopra.» «C'è ancora una cosa.» «Che cosa?» domandò Furth, guardando nel vuoto alle mie spalle. «Se siamo d'accordo che l'assassinio non sia avvenuto presso il canale...» «Cosa non vera» mi interruppe Furth. «... allora non è il luogo a essere significativo, ma il modo in cui l'assassinio è stato commesso. Questo potrebbe voler dire che, se ci troviamo davanti a un assassino che colpisce a caso una qualsiasi vittima vulnerabile, forse ci sono stati altri omicidi simili. Potrebbe servire controllare altri casi. Che cosa ne pensi?» «Prenderò in considerazione la cosa.» «Vuoi che ne parli a Oban?» «Lo farò io.» «Bene» risposi vivacemente. E, avendo rovinato la mattina a Furth, me ne andai sentendomi stranamente allegra. CAPITOLO 13 Quando si ha a cena un ospite problematico, bisogna invitare qualche caro amico, spiegandogli la situazione e promettendogli di invitarlo di nuovo a una serata veramente divertente, in un prossimo futuro. Presi in considerazione questa possibilità, ma poi ebbi un'ispirazione. Pensai: al diavolo, perché far passare alle persone che mi sono care una serata noiosa? Avevo un'idea migliore. C'era un piccolo gruppo di persone in un angolo del mio cervello, come un'emicrania sempre sul punto di esplodere: erano quelli con cui dovevo sdebitarmi e che non mi decidevo mai a invitare. C'era Francis della Welbeck Clinic, per esempio. Mi aveva invitata a cena a casa sua a Maida Vale. C'era stata una discussione terribile, non mi ricordo più a che proposito, qualcuno se n'era addirittura andato via prima, e Francis c'era rimasto male e si era sbronzato. Avevo descritto la serata a Poppy, e lei aveva pensato che fosse stata divertente e buffa, in un certo senso, ma in verità non lo era stata affatto. Francis aveva evitato di guardarmi negli occhi per giorni e non ne aveva mai più parlato. Eppure avevo
il sospetto di dover ricambiare in qualche modo, e questa mi sembrava una buona occasione, se non altro perché gliel'avrei proposto con così poco preavviso che quasi sicuramente non avrebbe accettato. Gli telefonai al lavoro e gli dissi che avevo qualche amico a cena il giorno successivo: poteva venire? Magnifico, rispose. A domani. Poi c'era Catey. L'avevo conosciuta perché all'università il suo ragazzo era il miglior amico di un tizio con cui ero uscita per un po'. Era una conoscenza piuttosto lontana e non ci eravamo trovate particolarmente simpatiche, ma la tiepida relazione con lei reggeva, anno dopo anno, grazie a un persistente susseguirsi di inviti; una cena un anno, un cocktail l'anno successivo, che io ricambiavo al ritmo di un invito ogni quattro dei suoi, più o meno. Di nuovo sperai che non potesse venire e mi esonerasse, così, dall'obbligo per un altro anno o due. In effetti lei dapprima mi disse di essere impegnata, ma poi esclamò «Ma no, sono sicura di potermi liberare» e aggiunse che voleva farmi conoscere il suo nuovo quasi fidanzato, Alastair. Mi chiamò tre minuti dopo e confermò di aver sistemato tutto. Ci vediamo domani. Splendido, risposi. Julie volle cucinare a tutti i costi e io accettai di buon grado, dato che quell'imminente disastro era stata una sua idea. Quando arrivai a casa, poco prima delle sette, l'appartamento era saturo di buoni odori. La tavola era apparecchiata. Il soggiorno era in ordine. Andai in cucina. In un angolo c'era un piatto grande che mi ero dimenticata di avere. Doveva essere andata a frugare nel fondo della credenza. Era pieno di verdure: pomodori, melanzane, zucchine, cipolle tagliate a fette. «Hai detto di preparare cose semplici» disse Julie. «Questo è l'antipasto, verdura marinata. Poi c'è un risotto. Ho il brodo pronto. E ho preso della frutta e della ricotta qui all'angolo.» «Io ho comprato del vino» dissi sommessamente. «Allora siamo a posto.» «Come hai fatto a fare tutto questo?» «Che cosa vuoi dire?» «Tutta questa roba che sta sul tavolo, questo piatto di verdure che potrebbe figurare su una rivista. E non ci sono libri di cucina aperti con macchie di olio sopra.» Julie si mise a ridere. «Non so cucinare. Questo non è cucinare. Ho solo bollito o fritto delle verdure e poi le ho spruzzate con un po' d'olio di oliva e di aceto e ci ho messo su qualche erbetta.» «Sì, ma dove hai imparato a farlo senza programmare, preoccuparti e
lamentarti e fare un macello?» Mi guardò stupita. «A cos'altro stai pensando? Stai paragonando bollire del riso con esaminare cadaveri e capire come sono morti?» Feci una smorfia. «Non è esattamente quel che avevo in mente.» «Ma il vestito?» continuò Julie. «Non hai mica cambiato idea sul vestito?» Julie era fin troppo strepitosa con quel vestito. E con quei capelli scompigliati, il viso, le braccia e le gambe ancora abbronzati, il rossetto e solo un tocco di mascara, sembrava più una di quelle cantanti da bar esotico, che la commensale in una cena con alcuni dei miei amici più insipidi. «Sei bellissima» le dissi, e lei fece un mezzo sorriso, come se fosse uno scherzo, come se stessimo giocando a fare le signore. «Non sarò in grado di competere. Non metterò nulla di speciale stasera.» «Non ti dispiace?» disse Julie con aria lievemente allarmata. «Rivuoi il tuo vestito? Sono sicura di riuscire a scovare qualcos'altro.» Scossi la testa. «È tuo. Quel vestito non vuole più essere indossato da me.» Provai cinque abiti diversi. Volevo ottenere un effetto complicato e sottile. Non volevo pensassero che stessi cercando di far colpo in quella che era, dopotutto, una cena senza pretese. Sarebbe stato patetico. Optai per un vestito semplice, nero, non pretenzioso, ma neanche da festa campestre. Quando emersi dalla camera da letto, Julie fischiò e mi fece ridere. «Incredibile. Sei incredibile. È questo che chiami non mettere nulla di speciale?» Andai da lei e la feci girare verso il grande specchio antico sul muro. Mi sporsi dalla sua spalla e ci scrutammo a vicenda con occhi critici. «Siamo sprecate per questa gente» dissi. «Dovremmo andare in qualche posto così alla moda che non l'ho neanche sentito nominare.» «Pensavo fossero i tuoi migliori amici» disse Julie. «Piuttosto delle persone con cui mi dovevo disobbligare. Ti ricordi quell'ispettore, Oban?» «Certo.» «Pensa che siamo gay.» «Che cosa?» «Credo di sì.» Julie ridacchiò, poi il suo volto si accigliò. «È stato per qualcosa che abbiamo fatto?»
«Penso fosse solo perché siamo due donne che vivono insieme e tu cucini. Un ménage carino.» «E per lui eccitante, suppongo.» «Forse.» Si voltò di nuovo verso lo specchio. «Capisco possa essere attraente» disse pensierosa. «Solo che io ho sempre avuto a che fare con gli uomini. Non so perché.» Suonarono alla porta. Guardai l'orologio. Un minuto alle otto. «Non sanno che le otto significa le nove?» dissi andando alla porta sulla strada. Era Catey, con Alastair timidamente dietro. Catey era ben vestita, con un abito verde chiaro, e Alastair con giacca e cravatta. Sembrava fosse venuto direttamente dal lavoro. Mi baciarono su tutte e due le guance e mi diedero una bottiglia di spumante e un grosso mazzo di fiori. «Ho sentito tanto parlare di te» disse Alastair. Che cosa avrai mai sentito di me, avrei voluto rispondergli. Ma mi limitai a sorridere. «Abbiamo tanto da raccontarci» disse Catey, e corse su per le scale. Con un briciolo di disperata improvvisazione, riuscii a fare durare i nostri racconti fino alle otto e dieci, quando arrivò Francis. Aveva una camicia bianca, e un vestito così orribile (di un qualche strano tessuto, e tanto stropicciato che sembrava l'avesse indossato senza stirarlo) che immaginai fosse costato più della mia automobile. Aveva portato dello champagne. Si guardò intorno. «È un momento importante per me» disse. «Questo è l'appartamento in cui Kit non fa entrare mai nessuno.» Catey e Alastair si guardarono intorno con nuovo interesse, un po' come quando, alla National Gallery, si guarda appena un quadro per poi scoprire dalla guida che è il dipinto tedesco più importante del XV secolo, allora si torna indietro dicendo a se stessi: «A ben pensarci...» Lanciai uno sguardo a Julie, l'unico modo per tentare di spiegarle che, per essere più precisi, questo era l'appartamento in cui non lasciavo entrare Catey o Francis. «Nessuno di voi si conosce» dissi. «Questa è Julie, che al momento sta da me e che stasera ha cucinato praticamente tutto. Francis, che è mio collega alla clinica. Catey che è una vecchia amica. E Alastair.» «Alastair lavora alla City» intervenne Catey. «Fa qualcosa di completamente incomprensibile, naturalmente. Ho sentito l'altro giorno alla radio che il sessanta percento delle persone non ha idea di quel che il loro partner faccia al lavoro. A proposito, Kit, che cosa è successo alla persona con cui tu... sai?»
Ero tentata di dire «No, non so», invece risposi, a voce bassa, che non ci vedevamo più, e cadde il silenzio. Francis aprì lo champagne e si riempì il bicchiere, poi si mise a gironzolare per il soggiorno guardando i mobili, i quadri, i libri, come per analizzarmi, ed effettivamente era ciò che stava facendo. Mi ricordava uno di quei grossi e grassi bombi che d'estate entrano da una finestra e ronzano per la casa finché non si riesce a ricacciarli fuori con una rivista. Nel frattempo Catey cominciò a parlare di questa zona, di com'era interessante e di come fossi stata furba a venirci a stare già da tempo. Conclusa la sua ispezione, Francis si sedette sul divano tra me e Julie. «Com'è stato il ritorno al lavoro?» disse, ponendo fine alla conversazione sulla situazione immobiliare di Londra. «Domanda impegnativa» risposi. «Stai ancora facendo la stessa cosa?» domandò Catey vivacemente. «Be'...» «In taxi spiegavo ad Alastair che cosa fai. Mi è venuto in mente perché mi stavo chiedendo se sapevi qualcosa del terribile omicidio dell'altro giorno.» Rimasi sorpresa. Come faceva Catey, che, da quel che sapevo, lavorava ancora in una galleria, a sapere del mio coinvolgimento nell'assassinio di Lianne? «Quale?» «Quello di Hampstead Heath. Quella madre che è stata uccisa. Philippa Burton. Aveva una bimba.» «No, non mi occupo di quello.» «È come con Lady Di. La gente va a mettere i fiori sulla strada. Ce ne sono per un raggio di più di cento metri. Una persona ha lasciato un libro di memorie. Ali e io ci siamo andati una volta, solo per vedere, ed è straordinario. Il traffico è intasato, c'è un mucchio di poliziotti, file di persone. Donne che piangono, uomini che mettono i bambini sulle spalle perché possano vedere. Perché la gente fa queste cose?» «Che cosa ne pensi, Francis? Qual è la tua opinione professionale?» Rispose con un briciolo di preoccupazione nella voce. «Non è il mio campo, ma forse la gente crede che nel luogo in cui è successa una cosa, bella o brutta, ci sia un'energia speciale. E ci va per starci vicino.» «Interessante» intervenni io. «La gente vuole essere vicina per sentirsi parte del dramma.» «E ne è coinvolta» aggiunse Julie. «Sono stati turbati quando hanno sa-
puto la notizia e vogliono mostrarlo. Non c'è nulla di male in questo, no?» «No» dissi, e rivolsi lo sguardo a Catey. «Sto lavorando a un assassinio avvenuto in un luogo in cui la gente non va a depositare fiori.» «Perché?» Scrollai le spalle. «La vittima era una ragazza senza casa. Il suo corpo è stato trovato vicino a un canale. Non mi pare che ci sia nessuno particolarmente interessato a quest'omicidio.» «Triste» disse Catey, ma non aggiunse altro sull'argomento. Alle nove meno dieci, nonostante Will Pavic non fosse ancora comparso, decisi di cominciare la cena. Ci sedemmo lasciando, per insistenza di Julie, un posto libero vicino a lei, nel caso Pavic arrivasse. Le verdure, l'olio di oliva e il pane esotico che Julie aveva tirato fuori quasi per magia erano straordinari. Mi sembrava di essere al ristorante con il vantaggio di avere i miei mobili intorno. Il risotto era squisito, insaporito con l'acetosella, che pensavo fosse un'erbaccia e che colpì molto Catey. Ricevetti qualche complimento in quanto organizzatrice della cena. Avevamo quasi finito il risotto quando ci fu uno squillo alla porta. Era Will, in jeans, camicia blu, scarpe da ginnastica e la giacca sotto il braccio. Mi fece sentire sproporzionatamente elegante, il che era ridicolo. Era lui, semmai, a doversi scusare. «Ho avuto una brutta giornata» spiegò. «Avrei dovuto telefonare per dire che non potevo venire, ma non ho il tuo numero.» «È sull'elenco» risposi asciutta. «Be', a dir la verità non so se c'è ancora. Probabilmente avresti potuto fartelo dare da qualcuno. Vicni a mangiare. Noi abbiamo già cominciato.» Mi seguì di sopra. Dentro, alla luce più intensa, vidi che aveva l'aria stanca e provata. Lo presentai alle persone intorno al tavolo, che sembrarono imbarazzate, come se si sentissero in colpa per aver cominciato a mangiare. Julie venne avanti con un sorriso smagliante, gli strinse la mano e gliela tenne stretta, conducendolo al posto vicino a lei. Will gettò la giacca sul divano, quando ci passò davanti. «Devi recuperare» disse Julie. «Ti spiace se ti metto tutto assieme nel piatto?» Lui sorrise e fece di sì con il capo. «Rosso o bianco?» «Quello che vuoi.» Per qualche minuto mangiò vigorosamente, lanciando ogni tanto uno sguardo intorno al tavolo, ma soprattutto concentrandosi sul cibo. «Forse dovremmo aggiornare Will» disse Julie. «Come in una soap opera. Abbiamo discusso di questa zona. Io come al solito ho parlato dei miei
viaggi. Tu non ne sai nulla, te li racconterò dopo. Catey e Alastair si sono recati nel posto in cui è stato commesso un omicidio, a Hampstead Heath, e hanno firmato il libro delle condoglianze...» «Veramente no...» «E Alastair stava parlando del lavoro alla City.» Pavic diede uno sguardo ad Alastair. «Dove lavori?» «Vicino a Cheapside.» «Che azienda?» Alastair sembrò perplesso. «Hamble's.» «Pierre Dyson.» «Be', sì» ribatté Alastair. «Voglio dire, non l'ho mai veramente incontrato, ma sì, è il mio capo. Lo conosci?» «Sì.» Ci fu silenzio. «Scusa» fece Alastair, «come hai detto che ti chiami?» «Will Pavic» intervenni io. «Aspetta un momento. Ora ricordo. Wahl Baker, vero?» Fu Will a sembrare a disagio ora. «Giusto.» «Mi fa piacere conoscerti, Will. Ho sentito tanto parlare di te.» «Vuoi dire dell'ostello?» domandai. «No, no» rispose Alastair in modo sdegnoso. «Non voglio mettere in imbarazzo il tuo ospite, ma ha diretto il fondo monetario di Wahl Baker per dieci anni. Anni leggendari. Fantastico.» «Non è stato così fantastico» rispose Will pacatamente. «Lascia che sia io a dirlo» disse Alastair. «Non sapevo che lavorassi alla City» dissi. «Non più» rispose Will e poi fece silenzio, mentre la conversazione volgeva in altre direzioni. Per il resto della cena lanciai occhiate furtive a Julie e Pavic di fronte a me. Udii frammenti di quel che gli raccontava lei, qualcosa sul Messico e qualcos'altro sulla Thailandia. Le risposte di lui erano brevi e non riuscii a sentirle. Dopo cena andammo a sederci sul divano con il caffè, il tè, e, per Catey, un intruglio che sapeva di medicinale. Will aiutò a sparecchiare e ci trovammo in cucina insieme. «Non è proprio il tuo genere di persone, credo» dissi. Non sorrise. «Che cosa sai del mio genere di persone? Mi sembrano a posto.» «Mi mettevo anch'io nel numero.»
Fece un sorriso sarcastico. «Julie è carina, però» mi feci scrupolo di aggiungere. «Mi sembra carina» rispose lui. Ci fu un momento di silenzio. «Non riesco a credere che tu abbia cambiato il lavoro alla City con l'ostello a Kersey Town.» «Conosci la City?» «Conosco Kersey Town.» «Mi sembrava una buon'idea, allora.» «E adesso?» Aprì la bocca, poi la richiuse e sembrò riflettere prima di rispondere. «Mi spiace» disse infine, «ma penso sia un argomento troppo ampio per questa cucina e in questa cena.» «Allora suppongo dovrei esserne dispiaciuta. A proposito, ho parlato a una persona che ti conosce.» Un barlume di interesse. «Sì?» «Un detective che si chiama Furth. Sta lavorando al caso di Lianne. Lo conosci?» «Sì, lo conosco.» «Mi ha messo in guardia contro di te.» «Mi sembra tipico di Furth.» «Neanche a me piace.» Will impilò i piatti con attenzione vicino al lavandino e si voltò a guardarmi. «Non so che cosa vuoi, Kit, ma non mi interessa ciò che pensi della polizia o di chiunque altro.» Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Gettai il tovagliolo sul tavolo della cucina e mi avvicinai a lui con fare combattivo. «Che cosa diavolo sei venuto a fare qui? Sei arrivato tardi, e ti sei messo in un angolo a fare battutine sarcastiche, come un adolescente, con l'aria imbronciata. Pensi di essere molto meglio di me, vero?» Will si cacciò le mani nelle tasche e si fece serio. «Sono venuto perché l'invito della tua amica mi ha colto di sorpresa e non ho saputo che cosa dirle. E mi dispiace di essere arrivato tardi. Come ho detto, è stata una brutta giornata.» «Anch'io ho avuto una brutta giornata.» «Non ho intenzione di fare una gara di brutte giornate.» «Non sono una nemica.» «No?» disse, e uscì dalla cucina. Lo seguii e arrivammo in soggiorno quasi insieme. Ero rossa e furiosa. Non so come fosse lui.
«Stavamo dicendo» era Catey a parlare, «che quel che hai fatto è incredibile; abbandonare tutto, un lavoro fantastico, e andare a lavorare in questo ostello.» Pensai che Will sarebbe stato orribile con Catey quanto lo era stato con me in cucina, ma rispose quasi benevolmente. «Non è stato poi così incredibile» disse. Si voltò verso Alastair. «Voglio dire, perché non lasci il tuo bel lavoro?» Alastair sembrò perplesso. «Be', non so, a dir la verità. Probabilmente perché non voglio.» Will allargò le mani. «Io ho voluto. Tutto qui.» Julie si fece avanti - anzi si infilò, se è la parola giusta - tra di noi porgendo una tazza di caffè a Will. «Perché sei così poco gentile con Kit?» domandò. Lui sobbalzò e mi guardò quasi di traverso. «Poco gentile?» ripeté. «Forse sono prevenuto. Quando ho messo su l'ostello, mi aspettavo che la gente mi aiutasse, la polizia, gli assistenti sociali. Non è andata così. Ora desidero solo che ci lascino in pace. Così a volte rispondo in maniera aggressiva.» «Io voglio solo essere d'aiuto» dissi, accorgendomi di essere un tantino patetica. «Sei arrivata troppo tardi» rispose. «Lei è morta. Anch'io sono arrivato troppo tardi.» Sorrise tristemente. «Ecco una cosa che abbiamo in comune.» Bevve un sorso di caffè inghiottendolo di colpo. «Mi dispiace, ma penso sia meglio che vada.» «No, non a causa mia.» «Non è per causa tua. Non sono in vena di compagnia, stasera.» Salutò tutti gentilmente e fece i complimenti a Julie per la cena. Julie lo accompagnò fuori e quando ritornò mi sussurrò: «La ricerca continua». Cercai di ridere ma ero scossa, e con il pretesto di andare a preparare dell'altro caffè mi ritirai in cucina a lavare i piatti. Quando ritornai, con il bricco del caffè, vidi che il mio piano di vendicarmi su quelle persone non aveva per niente funzionato. Francis stava parlando di se stesso, Julie stava parlando del Taj Mahal al tramonto, Catey stava parlando di Alastair, Alastair stava in silenzio con quella sua aria modesta. Riuscii a versare il caffè e a berlo senza quasi dire nulla. Dopo un bel po' di tempo se ne andarono con preoccupanti promesse di rivederci presto insieme, e vidi persino che Francis e Alastair si scambiavano numeri di telefono sulle scale, una scena da incubo: i miei oneri so-
ciali rischiavano di moltiplicarsi. Rimasi sola con Julie. Feci una smorfia. «Scusami di averti inflitto tutto ciò» dissi. «Non scusarti. Mi sono piaciuti. E ti vogliono bene. Sei fortunata ad avere tanti amici.» Per un breve momento sembrò quasi malinconica. «Dovrei essere io a scusarmi con te. Il mio piano Pavic non ha funzionato.» «Non importa. Il piano andava benissimo. Il problema era Pavic.» Sorrise e si scolò il bicchiere. Lo posò e mi venne vicino. Mi mise una mano sulla guancia e mi baciò sulle labbra, molto delicatamente. «Se diventerò lesbica, tu sarai la prima persona che cercherò di sedurre. Buonanotte.» CAPITOLO 14 Avevo ragione: il lamento proveniva dalla testimone, o perlomeno lei aveva emesso un lamento. Un poliziotto chiamò la signorina Mary Gould: ripensandoci bene, fu certa di avere urlato quando aveva visto la povera ragazza. Non era nei guai, vero? Allora era stato un errore presumere che Lianne fosse stata uccisa presso il canale. «Quindi» dissi a Furth, «non c'è nessuna ragione di pensare che sia stato Doll piuttosto che chiunque altro, no?» «Signora» fece lui, avvicinando il viso al mio tanto che gli vidi le macchie gialle sui denti, l'eritema causato dalla rasatura sul collo e le rughe di stanchezza intorno alla bocca, «è solo un modo di girare intorno alle cose. È stata uccisa vicino al canale, da Doll.» «Sarebbe il caso di esaminare altri omicidi, non ti sembra?» «L'abbiamo già fatto. Gil e Sandra hanno passato quattro ore, questa mattina, a esaminare i casi insoluti di omicidio a Londra negli ultimi sei mesi, e non è risultata nessuna corrispondenza. Quindi la tua teoria è errata. Mi dispiace. C'è solo quel cadavere per te, non una strage.» «Che cosa cercavate?» «Siamo poliziotti esperti, sai. Somiglianze nel modo di uccidere, nelle vittime, nell'area geografica. Non abbiamo trovato niente. Nessuna vagabonda, nessun corpo mutilato, o località simili. Zero assoluto.» «Posso vedere i casi?» Si strofinò gli occhi e sospirò. «Tu dovresti aiutare, non metterti tra i piedi. Che senso ha?»
«Cerco cose diverse» risposi pacatamente. Scrollò le spalle fiaccamente. «Se hai voglia di sprecare un giorno, sono affari tuoi.» «Ce ne sono molti?» «Una trentina, a meno che tu voglia estendere la ricerca al Bronx.» «Dove vado a esaminarli?» «Toglieremo qualcuno dalla caccia ai criminali e ti daremo un terminale.» «Allora quando posso cominciare?» Guardò l'orologio e mormorò qualcosa tra i denti. Poi rispose: «Tra una mezz'oretta». «Grazie.» «Potrei chiederti una cosa?» domandò, con tono più rilassato. «Che cosa?» «Sei sempre sicura di avere ragione?» Socchiusi gli occhi e sentii un piccolo nodo di panico prendermi allo stomaco. «Ti sbagli» risposi. «Non sono mai sicura. È questo il punto.» Tredici degli omicidi irrisolti erano di ragazzi, uccisi a tarda notte o nelle prime ore del mattino, fuori da nightclub, pub, partite di football, feste. Diedi una rapida scorsa ai loro casi: preso a randellate, accoltellato, colpito con una bottiglia rotta. In dodici dei tredici casi la vittima aveva bevuto grandi quantità di alcol; il tredicesimo era un ragazzo nero di diciannove anni trovato morto sotto la motocicletta ancora con i fari accesi. Aveva il cranio fratturato. Investito da un'automobile, probabilmente un incidente. O forse un assalto razzista. Poi c'erano due prostitute, una trovata morta nella sua piccola stanza sopra un ristorantino di kebab, i cui proprietari si erano domandati da dove venisse quel puzzo; un'altra picchiata a morte in una zona desolata a Summertown. Non lontano da Lianne. Mi soffermai brevemente sul suo caso: Jade Brett, ventidue anni, positiva all'HIV, nessun parente stretto. Probabilmente non c'entrava nulla, ma presi nota. C'erano parecchi barboni, avvinazzati con il fegato a pezzi, trovati morti vicino a panchine nei parchi, o davanti ai negozi dove di solito dormivano. C'erano sette bambini e, benché il loro assassinio fosse rimasto insoluto, in tutti i casi tranne uno la polizia aveva indirizzato le indagini sui membri della famiglia e i conoscenti. Ma non erano pertinenti alle mie ricerche. E naturalmente c'era Philippa Burton, trentadue anni, alta borghesia, ri-
spettabile, diventata famosa dopo la morte. Il suo fu il solo nome che riconobbi. Evidentemente agli altri non erano stati dedicati che un paio di paragrafi nelle ultime pagine di qualche giornale. Osservai i particolari del caso. Come sapevo già, era stata aggredita a Hampstead Heath, vicino al parco dove la sua bambina stava giocando, e trovata, parecchie ore dopo, all'estremità opposta, deserta, dell'Heath, a faccia in giù tra gli alberi e i cespugli. Era stata colpita alla testa parecchie volte. Aveva un taglio sulla guancia sinistra e dei lividi appena visibili sui polsi. Non c'erano segni che indicassero violenza sessuale. Mi sfregai gli occhi e fissai lo schermo. Poi presi il telefono e feci il numero di Furth. «Vorrei vedere il corpo di Philippa Burton. E il suo dossier.» «Che cosa?» Non era un «Che cosa hai detto?», ma un «Di che cosa diavolo stai parlando?» «Posso?» «Perché?» ripeté forte. Lo sentivo respirare. «Perché lo desidero.» «Ci stai prendendo in giro, dottoressa? Stai per caso facendo ricerche per il tuo lavoro?» «Capisco che...» «Vuoi sapere che cosa penso?» «Che cosa?» «Hai un problema. Dopo l'aggressione di Doll. Lo dicono anche altri.» «Allora perché mi hanno chiamato?» «Me lo stavo chiedendo anch'io.» «Comunque sono qui. Posso vedere il corpo?» «Solo perché potrebbe essere interessante? Neanche per sogno.» Mi sbatté il telefono in faccia. Fissai lo schermo del computer per qualche secondo, poi presi di nuovo il telefono interno e chiesi di essere messa in comunicazione con Oban. «Posso venire da te?» «Certo. Adesso?» «Sì, per favore.» «D'accordo.» Oban mi guardò: i suoi occhi sembravano più chiari che mai. Passarono alcuni secondi prima che rispondesse. «Non capisco bene, Kit, che cosa
stai cercando.» Non parlai, non c'era molto da dire, dato che neanch'io lo sapevo, e probabilmente stavo facendo la figura dell'idiota, per la gioia di tutta la centrale di polizia. «Hai consigliato di non fare supposizioni. Ora stai supponendo che l'assassino di Lianne abbia ucciso anche qualcun altro. Perché? Pensi che ci possa essere un legame con il caso di Philippa Burton. Perché? Aiutami a capire, Kit.» Fu molto più difficile rispondere a lui, con il suo tono gentile e pacato, che alle sfuriate di Furth. «Non sto facendo supposizioni. Sto solo dicendo che se Lianne non è stata assassinata vicino al canale, e non ci sono ragioni ora per presumerlo, bisogna prendere in considerazione aspetti che prima erano stati trascurati.» Oban fu estremamente paziente con me. «Per amore della discussione, diciamo che tu abbia ragione. Ignoriamo il fatto che la squadra di Furth ha già esaminato i casi di omicidio recenti. Perché Philippa Burton? Non riesco a vedere il nesso.» Poi prese a contare le differenze sulla punta delle dita: «Le vittime sono diverse, le ferite sono diverse, le zone della città sono diverse, anche socialmente. E c'è un'altra cosa, sto parlando dei sentimenti dell'ufficio: puoi contare su una riserva di disponibilità, forse anche di sensi di colpa, da parte di tutti, per via dell'incidente. Ma sta' attenta a non esaurirla». Di nuovo non risposi e mi sforzai di sostenere il suo sguardo e non abbassare gli occhi. «D'accordo» continuò con un sospiro. «Va' a dare un'occhiata.» «Grazie.» «Non dipende da noi, naturalmente, ma non dovrebbero esserci problemi. Chiederò a Furth di organizzare la cosa; non ne sarà molto contento. So che è un idiota, ma ha fiuto. Non hanno tutti torto.» Mi guardò fisso, senza sorridere. «Be'...» feci una risatina, che sembrò più un singhiozzo. «Perché questo caso è così importante per te, Kit?» Scrollai le spalle. «Sto cercando di lavorare con scrupolo.» «Ho sentito che hai visto Will Pavic.» «Come hai fatto a saperlo?» «Un personaggio complicato. Sapevi che era un pezzo grosso alla City?» «L'ho sentito dire.» «Non conosco bene i fatti, ma ha avuto un esaurimento nervoso, ha ab-
bandonato tutto e adesso cerca di essere la Madre Teresa di Londra Nord.» «Mi sembra una buona cosa.» «È più complicato di così. Non conosce l'ambiente.» Mi guardò di nuovo con aria inquisitoria. «E non è molto disponibile con la polizia.» «A quanto pare la cosa è reciproca» risposi seccamente. «Cerchiamo solo di persuaderlo che la Legge è uguale per tutti. Non farti ingannare dal suo fascino.» Finalmente mi fece sorridere. Pensai al Pavic della sera precedente, con la sua testa ispida e gli occhi sprezzanti. «Nessun pericolo.» Oban aveva ragione. Furth aveva ragione. Allora perché non ero d'accordo con loro? Posai di nuovo gli occhi sul corpo di Philippa Burton adagiato sul lettino. Un corpo sottile, liscio, con fianchi rotondi, seni alti, e sottili smagliature sul ventre, probabilmente in seguito alla gravidanza. Le mani erano lunghe e aggraziate, le unghie curate e dipinte con uno smalto rosa perla, lo stesso di quelle dei piedi. Il corpo era integro, se non per i segni intorno ai polsi delicati. Sembrava una bella statua, avvolta nelle pieghe di un lenzuolo. Ma sopra il busto levigato, il lato sinistro della testa era sfondato. La bionda chioma era appiccicata al sangue scuro. Non provai alcun impulso di toccarla o soffermarmi sul suo corpo. Lei aveva un marito e una figlia che la piangevano, dozzine di amici scioccati, una folla di persone che si era innamorata della sua figura. C'erano stati articoli sui giornali; politici che avevano fatto la coda per rendere omaggio a quella madre modello, uccisa in modo tanto brutale da un diabolico mostro. Non dobbiamo fermarci finché non lo troviamo, e discorsi del genere. Centinaia di persone sarebbero andate al suo funerale, avrebbero mandato fiori. Ma io rimasi a fissarla perché avevo un pensiero, come un prurito, che non riuscivo a scacciare. Era stata trovata a faccia in giù, come Lianne. Sapevo benissimo che ciò non bastava a collegare i due omicidi. Ma intuivo un legame sottile, se solo fossi riuscita a vedere la cosa sotto un altro aspetto. Lasciai l'obitorio e andai a fare una passeggiata all'Heath. Non pioveva, ma era una giornata grigia e pesante. L'erba era bagnata e gli alberi grondanti. Non c'erano molte persone in giro, solo un paio di ragazzi che facevano jogging, gente che portava a spasso il cane e gettava bastoncini nell'erba fradicia. Passai velocemente accanto al parco giochi, al laghetto, e salii su per la collina dove nelle giornate di sole la gente va a far volare gli aquiloni. Non avevo una meta, giravo a caso, arrovellandomi invano.
CAPITOLO 15 C'era già un gruppo di detective che non nutriva molta fiducia in me. Ora avrei dovuto affrontarne un altro. Almeno facevano parte della stessa centrale, ma forse questo non era così positivo, dato il modo in cui mi consideravano. Oban fu gentile, nonostante le sue perplessità, e parlò bene di me con il capo dell'inchiesta sull'omicidio di Philippa Burton. Così il giorno dopo mi trovai seduta davanti all'ispettore Vic Renborn. Era un uomo grande e pelato, con qualche capello color zenzero sopra le orecchie e sulla nuca, e un volto rosso fuoco che faceva spavento. Immaginai i dottori fare scommesse su cosa l'avrebbe colpito prima, se un infarto o un ictus. Parlava con un leggero ansito, come se lo sforzo di avermi aperto la porta fosse stato eccessivo. «Oban mi ha detto che è interessata a Philippa» disse, riferendosi alla vittima con disinvoltura, come se fosse un'amica nella stanza accanto. «Sì.» «Lo sono tutti.» «Lo so.» «Ho dovuto mandare poliziotti in divisa a dirigere il traffico e badare alla folla nella zona in cui è stata trovata. Abbiamo dovuto installare dei semafori e creare un parcheggio temporaneo. C'è gente che arriva da tutto il Paese e lascia messaggi e fiori. Ho appena parlato con uno psicologo canadese. È a Londra per promuovere un libro e mi offriva il suo aiuto. Ho persino un astronomo. Vero?» Guardò per conferma una poliziotta seduta in un angolo con un taccuino. «Un astrologo.» «Astrologo. E un paio di sensitivi. Una donna il mese scorso ha sognato l'assassino. Qualcun altro ci ha detto di essere in grado di trovare il killer se gli diamo un pezzetto dei vestiti sporchi di sangue. La stampa ci sta addosso. Mi sembra che qui stia diventando un circo. Tutti vogliono aiutarmi. Ma non ho niente. Oltretutto stiamo anche traslocando e non ho neppure un posto in cui nascondermi. Anche lei è qui per aiutarmi?» «Non sono particolarmente interessata a questo caso.» «Immagino di dovermi sentire sollevato. Oban mi ha detto che si sta occupando dell'omicidio di una vagabonda trovata presso il canale.» «Giusto. Nessun sensitivo si è fatto avanti per questo delitto. Non interessa a nessuno.»
«Che cosa vuole sapere di Philippa Burton?» «Non so bene.» «Non è solo perché è un caso di profilo più alto?» «Che cosa vuol dire?» «Voglio solo informarla che ho già un consulente psicologico, Seb Weller, lo conosce?» «Sì.» «Bravo?» Rimasi un momento in silenzio. «Non sono qui per competere» risposi prudentemente. «Il nostro problema è che abbiamo una sola testimone e ha tre anni.» «Ha detto qualcosa?» «Ha parlato molto. Le piace il gelato alla fragola, Il Re Leone, e gli animaletti di peluche. Non le piacciono gli avocado né i rumori forti. Abbiamo una psicologa infantile che passa il tempo a giocare con lei. Una certa Westwood. La conosce?» «Sì, conosco la dottoressa Westwood.» Il cuore prese a battermi spiacevolmente. Non volevo dire a Renborn che Bella Westwood era stata la mia insegnante. Noi, suoi allievi, la rispettavamo tutti profondamente; era giovane, molto bella e intelligente, e insegnava seduta sulla scrivania dondolando le gambe snelle. Per me sarebbe stato sempre difficile considerarla mia pari. Un maestro rimane sempre un maestro. Quando avrò settant'anni, e lei ottanta, sarà sempre la persona che aveva scritto a margine del mio progetto: Attenta a non confondere istinto e ipotesi, Katherine. Ora mi stavo facendo strada nel suo mondo, mettendo anche in discussione i suoi giudizi. «Allora, che cosa vuole?» domandò Renborn. «Vorrei parlare con il marito. Forse vedere la bambina, se è possibile.» Aggrottò la fronte. «Non vedo perché no, ma per la bambina è meglio che parli con la dottoressa Westwood. Non so se le permetterà di vederla. Ci sono regole complicate su ciò che si può dire alla bambina. Perlomeno, io non le capisco.» «Bene. Parli alla dottoressa Westwood e senta che cosa dice.» «D'accordo. Le farò sapere.» «Aspetterò.» Renborn fece un grugnito. «Se esce un momento, la chiamo subito.» Ebbi appena il tempo di andare a bere un po' d'acqua alla fontanella nel corridoio, che Renborn uscì dall'ufficio con un'aria perplessa e non partico-
larmente contenta. «Conosceva la dottoressa Westwood?» mi domandò. «L'ho incontrata qualche volta» risposi vagamente. «Mmmh. Pensavo che la mandasse a quel paese. È quel che ha fatto con tutti gli altri. C'è qualcosa sotto, per caso?» Pronunciò quest'ultima frase con una specie di smorfia simile a un sorriso. «Allora è d'accordo, vero?» «La vedrà questo pomeriggio.» «Grazie mille» risposi, riorganizzando mentalmente la mia giornata. «Senta, non ho idea di quel che stia facendo, ma se scopre qualcosa, per favore lo venga a dire prima a me. Sarei molto seccato se venissi a saperlo leggendolo sulla prima pagina del "Daily Mail".» «Voglio solamente essere d'aiuto» risposi, dicendo la stessa cosa che avevo detto a Pavic. Era diventato il mio nuovo slogan. Suonava un po' melanconico. «Ecco, sembra proprio un'astronoma.» «Astrologa» lo corresse la poliziotta. «La stavo mettendo alla prova.» «Come stai, Kit?» disse Bella, osservandomi con un'espressione di simpatia. Mi ricordai che mi aveva mandato dei fiori in ospedale e una cartolina con il disegno a penna di una donna piegata che si spazzolava i lunghi capelli; la sua scrittura era brillante e ardita. Avevo tenuto i fiori a lungo, anche dopo che avevano cominciato a ingiallire. Avevo sempre desiderato che Bella pensasse bene di me. Non bisogna essere un genio per capire che lei e Rosa erano le mie figure materne, le figure che per me rappresentavano l'autorità e il conforto. «Meglio, credo.» Eravamo sedute nell'auto vecchia e malandata di Bella, bloccate nel traffico. Aveva il volto sottile, delle piccole rughe intorno agli occhi e sopra le labbra, fili di grigio nei capelli castani folti e ricciuti. Era vestita in modo semplice ma sofisticato. Con i suoi pantaloni scuri e il maglioncino marrone chiaro era elegante quanto bastava per asserire la sua professionalità, per mostrare di non essere un'improvvisatrice, ma abbastanza casuale da risultare rassicurante. «Ti ringrazio di lasciarmi vedere Emily.» «Non lo farei se non avessi fiducia in te, ma devo ammettere che non capisco che cosa tu stia cercando qui.» Alzò una mano per fermarmi, quando cominciai a parlare. «Non mi interessa particolarmente, purché tu
non confonda la bambina, o non la rattristi. Cosa che sono sicura non accadrà.» Nella sua affermazione era implicito un avvertimento. Non poteva essere più esplicita. «Il mio compito è semplicemente parlare con Emily e, se necessario, offrirle aiuto. Le indagini della polizia sono al di fuori della mia area di competenza.» Non ebbe bisogno di aggiungere «e della tua». «Allora che cosa stai facendo con lei?» «Le ho chiesto che cosa ricordava.» «Proprio così, direttamente?» «Perché no? So che cosa pensi, che sembra troppo semplice e aperto. Lo scorso anno ho dovuto occuparmi di un bambino di quattro anni che era nell'appartamento quando sua madre è stata violentata e uccisa. Aveva passato otto ore da solo con il corpo della madre. Era gravemente traumatizzato, quasi incapace di parlare. Ricordi il caso?» Annuii. «In quell'occasione il problema era farlo star bene, oltre che cercare di sapere che cosa aveva visto. Fu difficile, dovemmo impiegare una serie di strategie oblique. Giochi, disegni, storie, sai bene che genere di cose. Ma Emily è semplicemente stata lasciata al parco giochi dalla madre. Non ha subito traumi, non presenta angosce manifeste. Non si è turbata quando le abbiamo fatto delle domande e sembra che non abbia nulla di particolare da ricordare. Stava giocando con altre bambine e a un certo punto non ha più visto sua madre. Questo è stato leggermente traumatico, ma non sembra abbia assistito alla scomparsa o al rapimento.» «I bambini di tre anni non sono molto bravi a rispondere alle domande dirette.» Bella si mise a ridere. «Non ti preoccupare. Ho giocato con lei. L'ho vista interagire con gli amichetti, giocare con i suoi pupazzetti di peluche. A volte dobbiamo ammettere, per quanto sia doloroso, che tutta la nostra sensibilità e i nostri trucchi non significano niente se non c'è niente da scoprire.» Attraversammo Hampstead, salendo sulla collina e scendendo dal lato opposto, nelle vie residenziali dei ricchi. Bella svoltò in una strada tranquilla e accostò. «Stanno con la madre di Philippa, che vive nelle vicinanze. Dovrebbe essere un segreto.» «La polizia crede che siano in pericolo?» «Più che altro vuole difenderli dalla stampa, penso.» Bella rimase un momento ferma, senza scendere dall'auto. Osservai la grande casa. «La madre di Philippa deve essere piuttosto ricca» commen-
tai, dicendo un'ovvietà. «Molto» rispose Bella. Tamburellava sul volante con le dita. «Senti, Kit, hai qualche problema?» «Non so.» Mi guardò con durezza, con un'espressione leggermente ansiosa. Mi stava valutando. Ero diventata matta? Strinse i denti e aprì la portiera. Parlai con Jeremy Burton nel bel giardino sul retro della casa della suocera, dove il prato morbido girava intorno ad aiuole ben curate. Bella mi aveva presentato vagamente come una collega. Sapevo che lui lavorava in un'azienda di software. Anzi, forse ne era il proprietario, o uno dei soci. Aveva trentotto anni, ma sembrava più vecchio. I capelli stavano ingrigendo, il viso appariva provato, gli occhi erano iniettati di sangue. «Ci sono stati dei progressi?» domandò. «Mi dispiace, non so niente. Deve chiedere alla polizia.» «Gli unici poliziotti che vedo sono quelli in divisa. Dovrebbe essercene uno appostato qua intorno. Non sanno nulla. Mi sento... mi sento nel buio totale.» Si sfregò gli occhi. «Non credo siano stati fatti grandi passi avanti.» «Non prenderanno nessuno.» «Perché lo pensa?» «Non si dice così? Se non si trova subito l'assassino, non lo si trova più?» «Diventa più difficile.» «Allora, che cosa posso fare per lei?» «Le faccio le mie condoglianze per sua moglie.» «Grazie.» Socchiuse gli occhi, come se non riuscisse a vedere bene. «Deve essere stato uno shock terribile. Dov'era quando l'ha saputo?» «L'ho già detto. L'ho detto tante volte che non mi sembra neppure più vero.» Si fermò un momento e si sforzò di fare un sorriso triste. «Mi dispiace, non sono del solito umore allegro. Ero a casa. Lavoro a casa almeno un giorno alla settimana.» «Philippa era angosciata? Mi scusi, le spiace se la chiamo Philippa? Mi sembra strano parlare in questo modo di una persona che non ho conosciuto. Ma chiamarla signora Burton mi fa sentire un ispettore delle tasse.» «Grazie.» «Perché?» «Per avermelo chiesto. Sa, sui giornali la chiamano Pippa. Nessuno l'ha
mai chiamata così in vita sua. Io la chiamavo Phil, a volte. Ora dappertutto si parla di Pippa, Pippa questo e Pippa quello. Penso che usino questo diminutivo perché è più efficace nei titoli. Philippa è troppo lungo.» Sospirò e si passò la mano nei capelli. «E la risposta è: no, non mi sembrava angosciata. Era felice. La solita di sempre. Niente di diverso. Eravamo felici insieme, anche se a volte adesso mi sembra di non riuscire a ricordare bene più nulla.» «Signor Burton...» «Ciò che veramente non capisco è che cosa abbia a che fare l'umore di Phil con la sua morte.» «Mi interessano i modelli di comportamento. Forse sto facendo la stessa domanda che deve essersi fatto anche lei, e cioè, perché proprio Philippa?» «Tutto era normale» disse, con un tono non risentito ma perplesso. «Umore normale, stato mentale normale, modelli di comportamento normali. Mentre lo dico, e lei mi guarda, mi sembra, invece, tutto sospetto e strano. E poi che cosa significa "normale"?» «Viveva in modo abitudinario?» «Suppongo di sì. Si occupava di Emily, badava alla casa, vedeva gli amici, la madre, andava a fare compere. Gestiva la nostra vita insieme. Eravamo una coppia molto tradizionale.» «Ha visto degli amici durante la sua ultima settimana?» «L'ho già detto alla polizia, ha visto la madre ed è uscita con Tess Jarrett.» Presi nota mentalmente del nome. «Se qualcosa l'avesse turbata, gliene avrebbe parlato?» «Dottoressa...» «Quinn, Kit Quinn.» «D'accordo. Non c'era nulla che la turbasse. È uscita ed è stata uccisa da un folle. Lo dicono tutti. Senta, non so che cosa voglia da me. Tutti vogliono qualcosa. La polizia vuole che pianga alla televisione, o che crolli e confessi di averla uccisa io. La stampa vuole Dio sa che cosa. Emily vuole, be', lei vuole sapere quando la mamma ritornerà a casa, suppongo. Non lo so.» Sospirò e mi guardò con gli occhi iniettati di sangue. «Non so» ripeté. «E lei che cosa vuole?» Si sfregò gli occhi. Appariva stanco e triste. «Andare a casa con Emily e ritornare al lavoro. Essere lasciato in pace e tornare alla normalità.» «Solo che non è possibile.» «Lo so» rispose mestamente. «Lo so. Quel che voglio davvero è svegliarmi una mattina e scoprire che è stato un sogno. Infatti tutti i giorni,
quando mi sveglio, per un attimo non mi ricordo ciò che è successo, e poi sono assalito dalla realtà. Sa che cosa vuol dire? Dover rivivere continuamente tutto quanto?» Rimasi in silenzio per un momento, mentre lui teneva gli occhi abbassati sull'erba. «Sua moglie è mai stata impegnata in qualche tipo di lavoro sociale? Con bambini abbandonati, questo genere di cose?» «No. Lavorava per una casa d'aste quando ci siamo incontrati, ma dopo aver avuto Emily ha smesso.» «Non aveva alcun legame con la zona di Kersey Town?» «Forse avrà preso una metropolitana da lì.» Insistetti ancora un po' su quegli argomenti, prendendoli alla larga, ma arrivai sempre allo stesso punto: che senso aveva fare domande sul carattere e l'umore della moglie se era stata vittima di un pazzo? Alla fine mi alzai. «La ringrazio di aver parlato con me» dissi, tendendogli la mano. Lui me la strinse. «Mi dispiace se le mie domande le sono parse un po' strane.» «Non più strane di quasi tutto ciò che mi è stato chiesto. Sa che un giornale mi ha offerto cinquantamila sterline per parlare di che effetto fa avere la moglie ammazzata?» «Che cosa ha risposto?» «Non sono riuscito a pensare a una risposta. Ho riattaccato. Lei vuole parlare con la bambina. Emily non ha alcun legame con la zona di Kersey Town, glielo dico subito.» «Mi ci vorrà solo un minuto.» «Pam le farà strada. È mia suocera.» Una bella signora dai capelli grigi stava aspettando alla porta finestra che conduceva in giardino. Il suo volto aveva un pallore cinereo, il colore di una donna che aveva provato un intenso dolore. Jeremy Burton ci presentò. «Le faccio le mie condoglianze per sua figlia» le dissi. «Grazie» rispose, inclinando il capo. «La dottoressa Quinn vuole vedere Emily» disse Burton. «Per quale ragione?» «Solo per un momento.» Pam Vere mi condusse lungo un corridoio. «Emily sta giocando con un'amichetta in questo momento. Va bene?» «Certo.» Pam aprì la porta e vidi due bambine accucciate sul tappeto che disponevano in cerchio dei peluche. Una aveva codini castano scuro, l'altra ric-
cioli più chiari: lì per lì non riconobbi Emily e provai un attimo di panico. Era come una lotteria. Chi delle due sarebbe stata scelta come colei la cui madre era stata brutalmente assassinata? Pam avanzò verso la bambina con i capelli più scuri. «Emily» disse, «c'è una signora che vuole parlarti.» La bimba alzò gli occhi con un'espressione spaventata. Io mi sedetti vicino a lei. «Ciao, Emily. Mi chiamo Kit. Come si chiama la tua amica?» «Becky» rispose l'amichetta. «Becky Jane Tomlinson.» Becky cominciò immediatamente a chiacchierare a ruota libera. Io rimasi seduta mentre mi presentavano i giocattoli uno per uno. Gli ultimi furono gli orsetti buoni e quelli cattivi. «Perché sono cattivi quelli?» domandai. «Perché sono cattivi.» «Che cosa fate con i giocattoli?» «Giochiamo» rispose Emily. «Li porti mai al parco giochi? Li porti in altalena o nella sabbiera?» «Faciuto. Faciuto tutto con Bella.» «Fatto» la corresse Pam. Mi misi a ridere. «Sei una bambina intelligente, Emily, e mi dispiace che tua mamma sia morta.» «La nonna dice che è con gli angeli.» «E tu che cosa dici?» «Io non penso che sia andata così lontano. Ritornerà.» Gettai uno sguardo a Pam Vere e vidi sul suo volto un'espressione di profonda angoscia. «Allora, posso ritornare a trovarti? Se mi viene in mente un'altra cosa da chiederti?» «Va bene» rispose Emily, ma si era già voltata dall'altra parte. Sollevò un koala dagli occhi tristi e premette le labbra sul suo naso nero di plastica, canticchiando dolcemente. «Sono così fiera di te» la sentii mormorare. «Così fiera.» CAPITOLO 16 Ritornando a casa nel traffico dell'ora di punta mi sentivo stanca, e fui contenta che Julie non ci fosse. Aveva un colloquio con una casa discografica, anche se non sapevo bene che cosa c'entrasse lei, che era un'insegnante di matematica e una viaggiatrice, con l'industria musicale. Aprii la finestra per lasciare entrare l'aria della sera. Dal giardino sul retro salivano le
voci dei bambini. Andai in bagno, aprii i rubinetti e versai nell'acqua dell'olio profumato. Poi mi tolsi i vestiti sporchi e mi infilai nella vasca. L'acqua era scivolosa e profumata. Mi rilassai e chiusi gli occhi. Il telefono squillò. Maledizione, non avevo acceso la segreteria telefonica. Perché il telefono suona sempre quando si è in bagno? Aspettai, ma non smise. Allora uscii, mi avvolsi in un asciugamano e andai tutta gocciolante in soggiorno, lasciando una traccia di impronte bagnate dietro di me. «Pronto?» Sulle braccia mi scoppiavano delle bollicine di sapone. «Kit Quinn?» gracchiò una voce che doveva provenire da un cellulare. «In persona.» «Parla Will Pavic.» «Oh» feci, nel silenzio che seguì quell'annuncio. «Volevo scusarmi per ieri sera.» «Fa' pure.» «Che cosa?» «Hai detto che volevi scusarti.» Dall'altro capo ci fu un borbottio, che poteva essere di offesa o di divertimento. «Mi dispiace di essere stato poco gentile. Contenta?» «Eri ovviamente stanco e poi è stato un invito stupido. Non ci pensare. Non ha nessuna importanza.» «C'è una cosa che ti potrei dire di Lianne.» Ebbi un sussulto di sorpresa. «Sì?» «Non molto, a dir la verità. Ma... be', sono a circa un chilometro da casa tua e ho pensato che potevo fare un salto. Solo per un paio di minuti. Se non hai compagnia.» «Va bene. Sono sola.» Pensai all'acqua vellutata in bagno. «A presto, allora. A proposito, come hai fatto a trovare il mio numero?» «Avevi ragione. Non è stato difficile.» Tirai via il tappo dalla vasca e mi infilai un paio di vecchi jeans e una maglietta. Non avevo voglia di fare sforzi particolari per Will Pavic. Mentre lo aspettavo, diedi un'occhiata al telegiornale per vedere se c'erano novità su Philippa Burton. Non era più la prima notizia, era passata al terzo posto: i detective stavano ancora perlustrando la zona; sul luogo in cui era stato trovato il corpo venivano portati fiori e giocattoli. Fecero vedere una nuova fotografia di lei in cima a una collina, con pantaloni di cotone corti e larghi e una maglietta. Rideva, i capelli serici che sventolavano alla brezza e le braccia che stringevano la figlia dagli occhi scuri.
Pensai a Emily che nascondeva il viso nel koala e gli sussurrava parole che doveva averle detto sua madre: «Sono così fiera di te». Forse anche mìa mamma mi diceva cose così prima di morire. Mio padre non era mai stato molto bravo a raccontarmi di lei. Diceva solamente, incupendosi: «Be', ti amava tanto, naturalmente». Come se mi potesse bastare. Avrei voluto molto di più: tutti gli stupidi diminutivi e vezzeggiativi, i giochi che faceva con me, il modo in cui mi stringeva e mi teneva in braccio, le cose che voleva per me, le speranze che aveva. Per tutta la vita me le ero inventate. Tutte le volte che andavo bene a scuola, mi dicevo che mia mamma sarebbe stata contenta. Quando divenni una dottoressa, mi domandai se l'avrebbe voluto per me. Anche ora, quando mi guardo nello specchio, con il viso di mia madre e i suoi grandi occhi grigi, faccio finta di non osservare il mio riflesso, ma lei in persona, finalmente accanto a me, dopo tanti anni di attesa... Il campanello della porta squillò. Questa volta Will aveva un abito scuro, ma non la cravatta. Aveva gli occhi cerchiati di rosso ed era terreo. Sembrava avesse bisogno di dormire per un centinaio di anni. «Vuoi qualcosa da bere?» gli domandai. «No, grazie. O forse un caffè.» Rimase in mezzo al soggiorno, a disagio. Gli preparai il caffè e mi versai un bicchiere di vino. «Latte? Zucchero?» «No.» «Un biscotto?» «No, va bene così.» «Perché non ti siedi? A meno che tu non sia di fretta...» Riuscì a fare un piccolo sorriso, poi si sedette sul divano. Io mi misi sulla sedia di fronte a lui e resistetti all'impulso di chiacchierare del più e del meno per rompere il silenzio tra di noi. Mi fissò cupo. «Ti ho detto che non conoscevo veramente Lianne.» «Sì.» «Ed è vero. Dozzine di adolescenti varcano la mia soglia ogni settimana. Vicne dato loro un posto in cui stare, se ne hanno bisogno, informazioni sulle diverse possibilità se le vogliono. Li mettiamo in contatto con varie organizzazioni, se è questa la loro intenzione. Ma non facciamo domande. È il nostro principio, in un certo senso è la ragione che mi ha spinto a metter su Tyndale. Non cerchiamo di dir loro ciò che è meglio. Non li giudichiamo. Tutti gli altri lo fanno, noi no. Stabiliamo alcune regole, ma al di fuori di esse non chiediamo nulla. Questo è ciò che rappresenta il Centro,
un luogo in cui sono liberi di pensare a loro stessi, anche se ciò significa commettere errori dolorosi...» Si interruppe bruscamente. «Ma tutto ciò non ha importanza.» «Non è vero, ha...» «Lianne è stata al Centro tre volte negli ultimi sei mesi circa» continuò. «Le prime due era molto ottimista sul suo futuro. Diceva di voler fare la cuoca. Circa un quinto dei ragazzi che vengono da noi vogliono diventare cuochi. Le procurammo dei volantini di corsi di cucina. Ma la terza volta, l'ultima in cui l'abbiamo vista, era depressa. Molto, a dir la verità. Chiusa in se stessa e indifferente.» «Hai idea del perché?» Bevve il caffè e fissò il fondo della tazza. «La sua migliore amica si era uccisa qualche settimana prima.» «Quanti anni aveva?» «Quattordici o quindici. Forse sedici. Non lo so con precisione.» «Come si conoscevano?» «Non ne ho idea. Una volta sono venute al Centro insieme, ma ovviamente si conoscevano da prima. Probabilmente frequentavano gli stessi luoghi.» «Perché l'ha fatto?» Alzò le spalle. «Non si sa. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perché non lo fanno in molti di più. Daisy.» «Si chiamava così?» «Daisy Gill. Sembra un nome allegro, no?» E, per la prima volta da quando lo conoscevo, fece un vero sorriso, genuino anche se triste e fugace. Sorrisi anch'io, lui si voltò e guardò fuori della finestra. «Vuoi un bicchiere di vino?» «Allora adesso hai un altro elemento» disse, ignorandomi, «da aggiungere a ciò che sai già. Uno: Lianne aveva problemi. Due: Lianne è stata uccisa.» «Forse. Vino?» «No, niente vino. Sono a posto così. Arrivederci.» Si alzò e mi porse la mano. Gliela strinsi. «Grazie» dissi, e fu in quel momento che Julie varcò la porta con il viso lucido ed eccitato, la bocca aperta per dirmi qualcosa. Ci fissò stupefatta. «Che sorpresa» esclamò alla fine. Will le fece un cenno con il capo. «Stavo uscendo.» «Un bicchiere di vino?» farfugliò. «Birra?»
«No, grazie.» Alla porta si voltò. «Volevo dire...» Si fermò e mi lanciò uno sguardo. «Che mi dispiace di esser stato poco gentile alla festa. La cena era deliziosa.» E se ne andò. «Be'» disse Julie, voltandosi verso di me. «Sei una furbacchiona.» «È venuto per due minuti. Voleva dirmi una cosa a proposito della ragazza che è stata uccisa.» «Sì, sì. Va bene, tanto non mi interessa più. È troppo cupo per me. Vuoi sapere la novità?» «Avanti.» «Ho trovato lavoro.» «No!» «Sì. Comincerò tra un mese. Ho detto che avevo degli altri impegni prima.» «Ne hai?» «No, ma è meglio non sembrare troppo liberi, no?» «Congratulazioni. Sono sicura che sarai bravissima, qualsiasi cosa sia.» «Non lo so.» Fece un risolino. Poi aggiunse: «Adesso comincerò a cercare una casa». «Senza fretta» dissi istintivamente, prima di riuscire a fermarmi. Avrei dovuto riabituarmi a stare da sola. Chiusi gli occhi per un attimo. «Perché non lo convinci a tornare?» «Di che cosa diavolo stai parlando?» «Non urlare. Di Albie. Sono sicura che anche tu gli manchi. Mancheresti a chiunque fosse sano di mente.» «Non lo voglio indietro.» Con mia sorpresa non era più una bugia. Se n'era andato di sua spontanea volontà e, se sentiva la mia mancanza, certamente la sentiva nelle braccia di un'altra donna. A queste condizioni non lo volevo. Volevo un uomo che appartenesse solo a me. Volevo essere la più amata. È ciò che desideriamo tutti, no? CAPITOLO 17 Ero stanca, avevo le ghiandole leggermente ingrossate, e la gola che mi bruciava quando deglutivo. Non mi sentivo di andare al lavoro, così prolungai la colazione di pane tostato, miele e tè forte. Il tavolo della cucina era inondato di luce. Avrei voluto rimanere lì seduta per tutto il giorno, le
mani intorno alla tazza tiepida, i piedi nelle ciabatte calde, a sentire i suoni che provenivano dalla strada e magari anche a guardare un po' di televisione. Ma squillò il telefono: era Oban. Voleva parlarmi. «Stiamo parlando.» «Voglio dire, di persona.» «Quando?» «Puoi venire alle dieci?» Guardai l'orologio. «Penso di sì. Devo cancellare una riunione.» «Bene.» «Ci sono stati sviluppi?» «A quanto mi risulta, no.» «Allora di che si tratta?» «Te lo dirò di persona.» Per tutto il tragitto non feci che immaginare possibilità belle e brutte, ma soprattutto brutte. Tuttavia non mi venne in mente nulla di così catastrofico come quello che trovai quando alle dieci in punto entrai nell'ufficio di Oban. Era seduto alla scrivania. Chiaramente non stava lavorando, ma aveva l'aria di essere in attesa. Non era solo. C'era una donna, in piedi, alla finestra, che mi dava la schiena. Quando si voltò, riconobbi Bella. Mi guardò intensamente, poi distolse gli occhi. E, seduta sul divano contro la parete, c'era Rosa della Welbeck Clinic. «Che cosa significa tutto questo?» domandai. Oban fece un sorrisetto imbarazzato. «Accomodati, Kit» disse, indicandomi la sedia davanti alla scrivania. Incapace di pensare con lucidità, mi sedetti e immediatamente me ne pentii, perché mi trovai più in basso di tutte le altre persone della stanza. Oban fece un cenno a Rosa. «Dottoressa Deitch?» Rosa si morsicò il labbro inferiore. Era un modo per farmi capire che stava per dirmi qualcosa di più doloroso per lei che per me. Si piegò in avanti e unì le mani in un atteggiamento quasi di preghiera. «Kit, voglio dire subito che mi assumo la responsabilità di tutto ciò.» «Tutto che cosa?» domandai, sapendo che era proprio quello che voleva domandassi. Avrei dovuto rimanere zitta e invece ripetei: «Tutto che cosa?» «Sentiamo» cominciò Oban, guardandomi con gentilezza, cosa che mi fece sentire ancor peggio, «o meglio, io sento e penso che Rosa sia d'ac-
cordo con me, di essere stati ingiusti a spingerti in questa faccenda senza il dovuto riguardo al, ehm, al livello di competenza e...» «Ti sei lasciata prendere parecchio, vero, Kit?» lo interruppe Rosa gentilmente. «Dapprima» continuò Oban, «ti abbiamo chiesto un parere di routine, la rapida valutazione di un tipo sospetto. Sentivamo il dovere di chiederlo a te. Tu hai svolto l'incarico in modo ammirevole e te ne siamo grati. Poi, e ammetto che è stata tutta colpa mia, ti ho chiesto un maggior impegno. Ma recentemente... be', ci sono state delle chiacchiere...» «Bella?» dissi, girandomi sulla sedia per guardarla. Bella mi guardò con fermezza. «Non ho detto nulla contro di te, Kit. Ma dopo che hai finito di parlare con Jeremy Burton e con la madre di Philippa, ho dovuto dire all'ispettore Renborn che non sapevo spiegarmi perché avevi voluto vederli. La descriverei una sorta di spedizione esplorativa, ma non capivo che cosa tu stessi cercando. Si tratta di un caso delicato, che sta suscitando molto interesse.» «Lo so» dissi. «Volevo solo...» «Mi associo a ciò che ha detto la dottoressa Deitch» intervenne Oban. «Do la colpa a me stesso per averti spinto in questa situazione difficile.» «Non vuoi che continui a lavorare per voi?» Ci fu un momento di silenzio. «Pensiamo che sia successo troppo presto per te» intervenne Rosa. «E che questo caso ti abbia particolarmente toccato, con conseguenze non del tutto positive per te.» «Che cosa vuoi dire?» «Rosa mi ha parlato della tua storia passata» disse Oban. Guardai Rosa. «Kit, ho solo detto a Dan che circostanze personali, come aver perso la mamma da piccola, potrebbero in un certo senso...» il volto le si arrossò «... be', aver influito sulla tua capacità di giudizio.» «Oh...» Rimasi seduta un momento in silenzio, con le guance che mi bruciavano. Poi deglutii dolorosamente. «Forse hai ragione. Forse mi sono lasciata coinvolgere troppo. Ci tengo, mi interessa, non so quale sia il grado giusto di interessamento. Ma ciò non significa che abbia torto. E non ho depistato le inchieste. Non sono andata a dire ad altri che cosa dovessero fare. Ho semplicemente seguito linee diverse di ricerca.» «Senti» disse Oban. «Qui non si tratta di una delle tue ricerche accademiche. Parli come se potessimo permettere a chiunque di venire a mettere il naso nelle indagini su un delitto per puro interesse personale. Non è così.
E mi dispiace doverlo dire, ma in un certo senso stai ostacolando il nostro lavoro. Stai irritando i miei uomini, calpesti l'erba altrui, e, a quanto pare, senza un valido motivo. Capisco che tu sia turbata da queste vittime. Lo siamo tutti. Tutti noi vogliamo prendere gli assassini. Tu ci hai aiutati» aggiunse più gentilmente, «ma ora riteniamo di dover procedere oltre.» «Posso dire una cosa prima? Prima di andarmene, intendo.» Oban si appoggiò allo schienale della sedia. «Naturalmente.» «Innanzitutto dimmi con una frase come descriveresti l'assassinio di Lianne.» «Un assassinio ordinario, da parte di uno psicopatico, di una vittima esposta. Il crimine è stato commesso da una persona che odia e teme le donne in maniera patologica. Ciò spiega le pugnalate violente.» «E l'assassinio di Philippa Burton?» «Completamente differente. Non saprei da dove cominciare. Lei è stata colpita duramente con un oggetto non appuntito. Era una vittima ad alto rischio per l'assassino. È stata prelevata in un luogo pubblico, mentre era con una bambina. Tipo di persona diverso, metodo diverso, località diversa, livello di violenza diverso. Ma tu non sei d'accordo.» Mi alzai in piedi. Dovevo darmi un'aria autorevole. Andai alla finestra e guardai fuori. Sul retro della centrale di polizia c'era una sorta di terra di nessuno. C'erano tre cassonetti traboccanti, dei grossi bidoni di metallo e pile di assi. Da una parte, c'era un'esplosione di buddleia che spuntava dal cemento, di un porpora fiammeggiante. Le farfalle ci svolazzavano intorno e sembravano dei pezzetti di carta gettati al vento. Questo era piacevole. Mi voltai nuovamente verso i miei ostili interlocutori. «Quando ho esaminato la documentazione su Philippa Burton, ho sentito come un campanello d'allarme suonare.» «Che cos'era, Kit?» mi domandò Rosa nel momento stesso in cui Oban diceva: «Non ti abbiamo assunto per sentire dei campanelli. Ci sono sensitivi che ci chiamano tutti i giorni per Philippa Burton e che sentono suonare campanelli». Pensai al mio gruppo di pazienti a Market Hill: avevo imparato da loro cose che nessun altro in quella stanza conosceva. Avevo quel vantaggio, almeno. «Le persone si lasciano dietro una firma» dissi. «Sempre, anche quando cercano di coprirla, perché la firma di un assassino è un po' come il significato di una poesia. C'è il significato letterale, e ce n'è uno nascosto, di cui neanche il poeta è consapevole.» Mi affrettai, ansiosa di arrivare alla fine di ciò che volevo dire prima di perdere il loro interesse. «Ciò che ha
attirato la mia attenzione riguardo all'assassinio di Philippa Burton è stato il fatto che giacesse a faccia in giù. Come Lianne.» Mi interruppi un momento e gettai uno sguardo a Oban. La sua espressione rimase gentile, sembrava persino pietosa. «Tutto qui?» commentò. «Avevamo già preso in considerazione questo.» «Avete mai visto una persona uccisa da poco con il viso voltato in su?» domandai. «Credo di sì» rispose Oban, dubbioso. «Io ne ho viste molte in fotografia. Gli occhi di una persona morta sono oscenamente statici, aperti, e guardano in su, in maniera accusatoria, forse. È comprensibile che, se si uccide qualcuno, lo si voglia voltare a faccia in giù, in modo che non ti guardi.» «Forse, ma per l'amor del Cielo, Kit, un corpo è come una fetta di pane imburrato. Può cadere solo in due modi, con il lato del burro in su o in giù. Non è abbastanza per costruirci su un caso.» «Ricordi le ferite sul corpo di Lianne? Dove si trovavano?» «Sull'addome, sullo stomaco, sul petto e sulle spalle.» «Nella parte frontale. E tuttavia è stata deposta a faccia in giù. È come dipingere un acquarello e poi appenderlo con la faccia rivolta al muro.» Guardai Rosa. Stava facendo una smorfia. «Mi sembra strano» disse «che tu parli di queste donne come se fossero opere d'arte.» «Lo so, ma di fatto sono opere d'arte. Sono opere malvagie, fatte da un incompetente e prive di qualsiasi interesse estetico, ma sono opere d'arte e dobbiamo interpretarle. È ciò che faccio all'ospedale, e tu lo sai. Interpreto i crimini come se fossero sintomi e modelli. Cerco i significati. Che cosa dici delle ferite?» «Brutali» rispose Oban, «impulsive.» «Non sono le parole che userei. Userei piuttosto l'aggettivo deboli. Precise. Per certi aspetti sembrava una brutale aggressione a scopo sessuale, ma qualcosa mi dice che non è vero.» Vidi che Oban sussultava di nuovo. «Non che non ci siano segni di un delitto a sfondo sessuale. Gli psicopatici a volte uccidono le donne per punirle della minaccia sessuale che rappresentano. Ma in quei casi l'aggressione è diretta al seno e ai genitali. Qui no. I colpi erano tutti sopra la vita e avevano evitato del tutto il seno. Ciò è molto raro e questo modo di infierire, come una picchiettatura, è anche più raro. Inoltre la vittima è stata adagiata a faccia in giù.» «Non è abbastanza» ripeté Oban. Stava pian piano perdendo la pazienza.
«Dove sono i collegamenti? Due corpi voltati a faccia in giù?» «Ho visto parecchie donne assalite in modo simile a Philippa Burton. Erano aggressioni molto violente. Il fatto che fosse presente anche il figlio rappresentava un'attrattiva in più, come avere un pubblico o un'altra vittima. Ma nel nostro caso l'assassino non ha voluto che la bambina fosse presente. Davanti al corpo di Philippa Burton ho avuto la sensazione di una sorta di ritegno. Voglio dire, pensateci: odiate le donne, avete appena ucciso una donna e avete un oggetto simile a un martello in mano. Perché non darci dentro?» Oban mi mise una mano sulla spalla. «Kit, non ci stai offrendo nulla di concreto. D'accordo, hai avuto una sensazione, però non riesco a capire che utilità possa avere.» Mi fregai gli occhi con le dita. Avevo detto la mia e mi sentivo svuotata. Aveva ragione. Che cosa c'era di concreto, in tutto quel che avevo detto? Che cosa c'era da fare? Non avevo voglia di pensarci, volevo solamente strisciare via, ma con un ultimo sforzo riuscii a dire ancora qualche parola. «D'accordo» continuai debolmente. «Ho finito. Dirò un'ultima cosa. Sappiamo che il cadavere di Lianne è stato portato sull'alzaia del canale nel cofano di una macchina.» «Non sappiamo affatto una cosa del genere» fece Oban con irritazione. «E il corpo di Philippa Burton è stato trovato a due chilometri di distanza da dov'è stata vista l'ultima volta. Così, molto probabilmente vi è stata portata in macchina. Sono stati fatti controlli per cercare di individuare tracce o fibre?» «No, non sono stati fatti, come ben sai» rispose Oban con ferocia. «Né abbiamo fatto riscontri con i delitti di Jack lo Squartatore. Non abbiamo tempo.» «È l'ultimo suggerimento che vi do, fate quei controlli!» «Perché mai...» «Per favore!» Avrei voluto piangere. «Per favore!» CAPITOLO 18 Non so come riuscii a uscire dalla centrale senza versare una lacrima e a testa alta. Feci addirittura un cenno di saluto alla signora della reception. Raggiunsi l'automobile, ma le mani mi tremavano tanto che feci cadere le chiavi a terra e dovetti annaspare un po' per trovarle. Gli occhi mi pungevano, come se fossero pieni di sabbia. Dovevo andare via di lì, andare da
qualche parte dove nessuno mi potesse vedere. Non volevo che mi si guardasse con compassione. Anche a me era capitato di rivolgere sguardi del genere. Una volta, in una vita diversa. Tutto mi sembrava lontano in modo impossibile, come se stessi osservando il mio passato attraverso un telescopio capovolto. Montai in auto. Per un minuto rimasi con il capo contro il poggiatesta e gli occhi chiusi. Mi stava scoppiando un feroce mal di testa. Misi in moto l'automobile e uscii dal parcheggio facendo attenzione e guardandomi intorno. Immaginai che Rosa, Bella e Oban mi stessero osservando dalla finestra scambiandosi sguardi preoccupati. Sarei mai più riuscita a guardarli in faccia? Arrivai al piccolo sagrato triangolare della chiesa tra la drogheria e l'orologiaio, non lontano dal mio appartamento, scesi dall'automobile e andai a sedermi sull'erba con la schiena contro il bel faggio color rame. A volte ci venivo con Albie. Il prato era ancora umido per la pioggia della notte passata, e sentii il freddo penetrarmi nelle ossa. Volsi il viso al sole, che stava sgusciando fuori da una nuvola grigia. Un merlo cantava a squarciagola proprio sopra di me. Respirai profondamente. In dentro, in fuori, in dentro, in fuori, cercando di liberarmi dal panico. Poi mi alzai stancamente e ritornai all'auto. Le gambe non tremavano più, ma le sentivo ancora pesanti. La testa mi pulsava. Prima di ripartire, tirai giù il parasole e mi osservai allo specchietto per qualche secondo. Guardai la cicatrice, che correva su tutta la guancia, e poi mi allungai in avanti per vedere solo i miei occhi. Sperai che Julie non fosse a casa ma, mentre armeggiavo con la chiave nella serratura, venne alla porta e la aprì. Aveva le guance arrossate. Mi gettò un'occhiata un po' affannata e disse con voce vivace: «Kit! Hai visite. Gli ho detto che non sapevo quando saresti tornata, ma ha voluto aspettarti. Mi ha detto che è un tuo amico». Mi tolsi la giacca e andai in soggiorno. Da sopra il divano spuntava una nuca. «Non sei venuta a trovarmi» fece una voce dolce e acuta. Era Michael Doll, con un paio di jeans sporchi e un gilè grigio vecchissimo con aloni di sudore sotto le ascelle. «Michael!» Non sapevo che cosa dire. Era come il mio incubo ricorrente, venuto ad acquattarsi in casa mia. «Ho aspettato» disse lamentosamente. «Come hai fatto a sapere dove abito?»
«Ti ho seguita dalla centrale della polizia, una volta» rispose, come se fosse la cosa più normale del mondo. «Non mi hai mai notato.» «Vado» disse Julie. «Se non ti spiace. O vuoi che rimanga?» «Da quanto tempo è qua?» le sussurrai, voltando le spalle a Michael che era tornato a sedersi sul divano. «Un'ora buona.» «Mio Dio, mi dispiace. Avresti dovuto telefonarmi.» «L'ho fatto. Ti ho lasciato tre messaggi sul cellulare.» «Mio Dio» ripetei. «Tutto bene?» «Sì. No. Non lo so. Non avresti dovuto farlo entrare.» «Kit» disse Michael dal divano. «Mi sembra abbastanza innocuo. Non mi ha mai tolto gli occhi dal seno, però.» «Non è vero» fece Michael, come se la cosa non avesse poi molta importanza. «Perché non sei venuta a trovarmi, come mi avevi promesso?» «Ho avuto da fare.» «Avevi promesso che saresti venuta.» «Lo so, ma...» «La gente dovrebbe mantenere le promesse.» «Sì.» «Altrimenti non è giusto.» «Hai ragione.» Dovevo dire il meno possibile. Non permettergli di rivendicare alcun diritto. Soprattutto sbatterlo fuori, ma senza che se la prendesse. Annuì come se fosse soddisfatto e si mise le mani sulle ginocchia. Aveva una cicatrice recente lungo l'avambraccio sinistro e una brutta crosta sul polso. «Posso avere una tazza di tè? Io te l'ho offerto.» «Ne hai già bevute tre» intervenne Julie. «Con quattro cucchiaini di zucchero, grazie.» «Devo uscire ora, Michael. Mi dispiace, ma non puoi rimanere.» «E uno dei biscotti che mi ha dato la tua amica.» Si passò la lingua sulle labbra. Mi sentii male. «Michael, senti...» «E posso andare in bagno?» Aveva la fronte e il labbro superiore imperlati di sudore. «Di là.» Non appena ebbe chiuso la porta, mi voltai verso Julie. «Senti, puoi far-
mi un piacere? Puoi chiamare la polizia con il mio cellulare stando fuori dell'appartamento? Ti do il numero.» Il pensiero di telefonare alle persone che mi ritenevano pazza e chiedere loro di venire a proteggermi dall'uomo che avevo impedito loro di arrestare mi fece rabbrividire. Mi presi la testa tra le mani. «Kit?» «Sì. Scusa. È solo che... Merda. Non so che cosa fare. Probabilmente è innocuo, ma non voglio correre dei rischi stupidi.» «Dammi il telefono, allora.» Mi tese la mano. «Su, facciamo quel che bisogna fare.» «Forse gli sto facendo una cosa terribile. O la sto facendo a me stessa.» «Non ho la più pallida idea di quel che stia succedendo, ma se è pericoloso, chiamiamo e facciamolo sloggiare. Su.» «No, aspetta. Aspetta un momento.» Sentii lo sciacquone dal bagno. «Telefona a Will Pavic. Lui saprà come comportarsi.» «Pavic?» «Per favore. Non mi viene in mente nessun altro in questo momento. Telefonagli da fuori.» «Qual è il suo numero?» «È nella memoria del telefonino. Sotto Pavic.» «D'accordo. È una cosa da matti.» «Lo so, grazie.» «E se non lo trovo, o se...» Doll uscì dal bagno e Julie balzò fuori verso il portone. Notai con approvazione che tolse il chiavistello. «Vado a mettere su l'acqua» dissi con eccessiva enfasi. «Vivi sola, qui?» «No.» «Sei sposata?» «Perché me lo chiedi?» «La tua amica mi ha detto che non sei sposata.» «Allora lo sai già.» Evitare il conflitto. Non metterlo con le spalle al muro. Non coglierlo in fallo. «Hai detto quattro cucchiaini di zucchero?» «E un biscotto.» «Sei venuto per dirmi qualcosa?» «Perché non hai la moquette?» «Michael, c'è qualcosa...» «Buffo, non avere la moquette. È come non essere in una vera casa, in
un certo senso. Anche dove ero io c'era la moquette in tutte le stanze. La mia era marrone. Moquette marrone e pareti bianche, con quei pezzettini nella carta da parati.» «Schegge di legno.» «Sì. Mi sdraiavo sul letto e toglievo quei pezzetti con le unghie. La mattina, quando se ne sono accorti, mi hanno picchiato. Ma non riuscivo a fermarmi. Come quando ti togli le croste. A volte lo facevo per ore. Tutt'intorno al letto e sotto le lenzuola c'erano grumi di carta. Come avere le briciole nel letto, anche quando non le vedi le senti sulla pelle. Sai quel che voglio dire?» «Sì» risposi debolmente. Versai l'acqua bollente sul suo tè e aggiunsi il latte. «Ecco. Prendi pure i biscotti.» «Hai delle sigarette?» Andai a prendere la borsa e tirai fuori il pacchetto da dieci rimasto da quando ero stata a trovarlo nel suo monolocale. Ce n'era rimasta una. «Fiammiferi?» Gli porsi una scatola di fiammiferi. Ne accese uno e si mise la scatola in tasca. «Dovevi far vedere che non ti importava, quando ti picchiavano. Ma io piangevo sempre. Anche quando avevo quattordici, quindici anni. Non riuscivo a trattenermi. Mi prendevano in giro, mi chiamavano piagnone, e io piangevo ancora di più. A letto strappavo la carta da parati per tutta la notte e piangevo, piangevo sempre. Sapevo che mi avrebbero scoperto e picchiato, avrei pianto davanti a tutti e sarei stato preso in giro dagli altri ragazzi.» Prese la tazza e bevve rumorosamente. Della cenere gli cadde addosso, e lui se la scrollò di dosso facendola finire sul divano. «Non hai idea.» «No» risposi. «Piango ancora. Alla centrale di polizia ho pianto. Te l'hanno detto?» «No.» «Hanno riso di me quando ho pianto.» «Non è stato carino.» «Credevo di esserti simpatico.» Essere decisi. «Michael, te l'ho detto, ho avuto da fare.» «Ho aspettato. Non sono andato al canale. Ho aspettato che venissi a parlare con me.» «Ho dovuto lavorare.» «Sei come tutti gli altri. Pensavo fossi diversa.»
Una montagnola di cenere gli cadde sul ginocchio. Gettò il mozzicone di sigaretta acceso nella tazza del tè e lo sentii sibilare. Avrebbe potuto uccidere Lianne, pensai. Facilmente. Se avesse riso di lui quando le faceva un complimento, o se piangeva. «Posso avere un'altra sigaretta?» «Sono rimasta senza. Vuoi che andiamo insieme a comprarne delle altre?» «Non importa.» Tirò fuori un pacchetto dalla tasca. Era quasi pieno. Me ne offrì una, ma scossi il capo. «Devo uscire, Michael.» Will non sarebbe mai arrivato. Si fece cupo. «Non ancora. Voglio parlare.» «Di che cosa?» «Solo parlare. Come hai detto tu. Hai detto che potevo dire qualunque cosa.» «Quello era un incontro professionale» gli ricordai gentilmente. Un'espressione di incomprensione gli passò sul viso. «Era per lavoro.» «Vuoi dire che non mi dicevi la verità?» «No, non intendevo questo.» «Penso ancora a lei.» «A Lianne?» «Sì. Nessuno vuole ascoltarmi, ma ero là, capito? Ero là.» «Forse.» «No, non forse. Perché dici forse? Ero là e...» La porta si spalancò. Non avevo udito i passi sulle scale. Doll si alzò di scatto dal divano, facendo cadere la tazza e spargendo a terra tè e cenere bagnata. «Salve, Michael» lo salutò Will. Avanzò con la mano tesa e Doll la prese e la strinse. «Non stavo facendo niente di male.» «Certo che no.» «Allora perché sei qui?» «La dottoressa Quinn è un'amica.» Non aveva ancora guardato nella mia direzione. «Vi conoscete?» «Sì.» «Allora ci conosciamo tutti.» Improvvisamente mi parve piccolo e magro, lì in piedi in quei suoi orribili calzoni sporchi. Mi sentii sciocca e provai vergogna per le mie paure.
«Vi conoscete?» dissi, facendo eco a Doll. Will si voltò verso di me, perplesso. «Pensavo che l'avessi capito. Non è poi una gran coincidenza, se ci pensi. Come va la pesca, Michael?» «Non ci sono più andato» bofonchiò Doll. «Peccato, ora che il tempo sta migliorando. Michael è un grande pescatore, sai?» disse rivolto a me. «Sì, lo so.» «Vado dalle tue parti, Michael, posso darti un passaggio?» Guardò l'orologio. «Puoi ancora passare qualche ora al canale prima che faccia buio.» «Il buio non mi dà fastidio.» «Be', lascia che ti dia un passaggio in ogni caso. Sono sicuro che la dottoressa Quinn ha del lavoro da fare.» «Sì» mormorai. «Grazie.» «Tutto bene?» «Sì.» «Non sembra. Forse dovresti riguardarti di più.» Mi diede un'occhiata tagliente. «E dovresti anche mettere una sicura alla porta.» «Ce l'ho. Solo che Julie... Be', sai...» «È appostata fuori, in ciabatte. Sei pronto, Michael?» Uscirono insieme. Guardai dalla finestra Will che aiutava Doll a salire in auto. Doll gli disse qualcosa e Will si mise a ridere e gli diede un colpetto sulla spalla. Poi chiuse la portiera. Alzò gli occhi alla finestra. Mimai un grazie con le labbra, attraverso il vetro, ma non reagì. Si limitò a fissare, come se non riuscisse a vedermi bene. Poi si voltò. Julie si precipitò dentro. «Raccontami tutto.» «Non ora. Mi sento male.» CAPITOLO 19 La conferenza stampa fu organizzata all'ultimo minuto, ma ci si aspettava una gran folla e alla centrale di polizia di Stretton Green non c'erano locali abbastanza ampi da contenere tutti, anche se più della metà delle stanze era stata svuotata. Era stata riservata in fretta e furia una sala conferenze all'Hotel Shackleton, all'angolo, e quando arrivai era affollata di uomini e donne in abito scuro che si spingevano e urlavano nei cellulari. Faceva un caldo insopportabile. Un tizio in divisa cercò di aprire una finestra senza riuscirci. Mi misi in fondo, vicino alla porta, dove fortunatamente passava dell'aria un po' meno calda e sgradevole.
Quattro uomini in abito grigio varcarono baldanzosamente la porta. Oban, Furth, Renborn e il vice di Renborn, Paul Crosby. Mi sfiorarono quasi, ma non mi notarono, circondati com'erano da quattro poliziotti in divisa e dalla loro aria di non aver tempo da perdere. Si fecero strada tra la gente e salirono sul palco in fondo alla sala. Si misero a sedere al tavolo e istantaneamente furono assaliti dalle luci della televisione, che li posero al centro dell'attenzione. Una poliziotta portò una brocca d'acqua e quattro bicchieri. Bevvero tutti un sorso con piglio severo. Sul tavolo c'era un microfono. Oban gli diede un colpetto con un dito, producendo un suono come di un manico di scopa contro un muro. Il brusio si calmò, quasi fosse stata spenta una radio. «Signore e signori» cominciò, «pochi di voi mi conoscono. Sono l'ispettore capo Daniel Oban di Stretton Green. Arriverò subito al punto. Siamo qui per annunciare un significativo passo avanti nell'inchiesta sull'assassinio di Philippa Burton.» Ci fu un mormorio e Oban, da esibizionista qual era, fece una pausa, assaporando il momento. «Dieci giorni prima dell'assassinio della signora Burton, lungo il tratto del canale che passa attraverso la zona di Kersey Town, è stato trovato il corpo di una giovane donna assassinata, una certa Lianne, come veniva chiamata dagli amici. Pensiamo che questi due omicidi siano stati commessi dalla stessa persona.» Detto ciò, bevve un sorso d'acqua e strinse i denti, probabilmente per non prorompere in un inopportuno sorriso. «Fatemi finire» continuò. «Una delle conseguenze è che due inchieste per omicidio finora separate saranno unificate. Essendo l'ufficiale più anziano, ne sarò io il titolare. Ma non occorre dire che Vic Renborn e la sua squadra hanno fatto un ottimo lavoro e continueranno a lavorare in stretto contatto con me.» Fece un cenno solenne a Renborn, che rispose annuendo brevemente con aria professionale. Immediatamente dalle prime file si alzò una foresta di mani. Oban indicò una persona che non riuscii a vedere. «Sì, Ken?» «Su quali basi i due omicidi sono stati collegati?» «Come la maggior parte di voi probabilmente saprà, di solito viene usata l'analisi delle fibre per stabilire un legame tra un corpo e un sospetto. In questo caso abbiamo trovato delle fibre dello stesso tipo sui vestiti di entrambe le donne.» «Che genere di fibre?» «Inizialmente pensavamo che le due donne fossero state assassinate nel luogo in cui sono state trovate. Ora sospettiamo che siano state uccise al-
trove e poi trasportate su un veicolo in un posto relativamente isolato, dove il loro corpo è stato abbandonato. Crediamo che queste fibre provengano dal veicolo in cui sono state trasportate. Quel che abbiamo trovato è una forma di...» Oban abbassò gli occhi su un foglietto «... di polimero sintetico che è presente su entrambi i corpi.» Si alzò un'altra persona. Una donna con in mano un microfono. «Come siete arrivati a collegare i due omicidi?» A questo punto Oban si concesse un sorrisetto. «Un aspetto fondamentale di qualsiasi indagine su un omicidio è mettere a confronto le informazioni provenienti da diversi reparti della polizia metropolitana e non solo. Vorrei dire che finora siamo stati un modello di cooperazione e vorrei darne atto, di nuovo, a Vic Renborn e alla sua squadra.» «Ma perché ha paragonato questi due assassini? Le sembra che siano simili?» «A prima vista no. Ma ci sono alcuni possibili fattori che li collegano.» «E quali sono?» Assunse un'aria misteriosa. «Spero che capirete, se non ne parliamo ora.» «Può dirci qualcosa sul tipo di persona che state cercando?» Oban si guardò intorno. «Vic? Vuoi rispondere tu?» «Grazie» rispose Renborn, con un sorriso modesto. «Ci sembra di vedere in questo caso una progressione, un'escalation. La prima vittima, Lianne, è quel che chiamiamo un bersaglio facile. Era una ragazza fuggita da casa, che viveva in ostelli, nell'ambiente della droga e della prostituzione. Era accessibile e vulnerabile. Nel caso di Philippa Burton l'assassino è stato più audace. Non voglio denigrare Lianne, che è stata tragicamente uccisa, ma la signora Burton era una donna rispettabile, con una bambina. Costituiva un bersaglio più difficile. Sembra che l'assassino stia passando ad atti criminosi che presentano una maggiore difficoltà.» Si alzò un'altra mano. «Non avete nulla di più specifico?» «L'assassino usa una macchina. Ci siamo anche avvalsi della consulenza di uno psichiatra con grande esperienza nel tracciare il profilo dei criminali.» Sapevo chi era: Seb Weller. «Egli ci ha fornito un profilo provvisorio di cui ho l'autorizzazione a svelare solo qualche particolare. È bianco. Tra i venticinque e i trentacinque anni, probabilmente più verso i trentacinque. Sospettiamo che abbia visto Philippa Burton e abbia commesso il delitto non solo perché la desi-
derava, ma perché provava invidia per ciò che aveva, per il fatto che fosse agiata e avesse una bambina.» «Allora sta dicendo che si tratta di un serial killer.» «No» rispose Oban velocemente. «Siamo ragionevoli. Sto solo dicendo che c'è un uomo pericoloso in libertà, probabilmente munito di auto, quindi chiediamo ogni possibile collaborazione da parte del pubblico.» «Allora colpirà di nuovo» urlò una voce dal fondo. «Non voglio allarmare nessuno. Lo prenderemo. Ma nel frattempo le persone, soprattutto le donne nei luoghi pubblici, devono essere particolarmente prudenti. Devono tenere gli occhi aperti, d'accordo?» Si guardò attorno. «Altre domande?» Una donna di mezz'età si alzò in piedi. «Non ci ha spiegato che cosa vi ha indotto a collegare i due casi.» Si occupò Oban di spiegare la faccenda. «Non è una domanda facile. Come ha sentito, un'indagine come questa si basa su analisi altamente tecnologiche, ma anche sul vecchio intuito. Abbiamo interrogato centinaia di testimoni potenziali, abbiamo dragato il canale, abbiamo condotto indagini casa per casa, abbiamo setacciato le due zone in cui sono stati trovati i corpi. Ma ciò nonostante, alla fine siamo ricorsi all'esperienza e all'istinto.» Fece un sorriso da vecchio zio. «Chiamiamolo "fiuto", per mancanza di un termine migliore. Abbiamo avuto il sentore che ci fosse un collegamento, anche se non sapevamo bene quale fosse. È questo che ci ha indotto a fare dei controlli. Ci sono cose che fanno suonare campanelli d'allarme.» «Perché il killer ha scelto quelle vittime?» «Pensiamo che le scelte siano state dettate dall'opportunità. L'assassino ha visto la possibilità e ha agito. È questa apparente casualità che rende gli assassini psicopatici così difficili da catturare.» «Avete dei sospetti?» «Non voglio fare commenti, per ora. Dirò solo che stiamo interrogando alcune persone.» «È vero che state usando un sensitivo per trovare l'assassino? È un uso lecito del denaro dei contribuenti?» «Innanzitutto, non stiamo usando nessun sensitivo. D'altra parte, se c'è qualcuno che mi aiuta a trovare l'assassino, non mi importa se usa le foglie di tè o altri strumenti. E su questa nota di speranza, penso sia meglio chiudere. State tranquilli, vi terremo informati di ogni sviluppo. Adesso, ci scuserete, ma dobbiamo tornare al lavoro. Abbiamo molto da fare.»
Venti minuti dopo eravamo al Lamb and Flag, un pub lì vicino con una grande collezione di finimenti d'ottone per cavalli e molto frequentato dai poliziotti. Oban bevve un sorso dalla sua pinta di birra amara e alzò il boccale con aria meditabonda. «Quando parlavo di noi poliziotti ovviamente eri inclusa, Kit. So che avrei dovuto mettere in evidenza i tuoi meriti...» Bevvi un sorso della mia acqua frizzante e mi sentii molto snob. Non avevo voglia di sembrare un'astemia noiosa, ma erano solo le undici di un giorno feriale. «Non mi interessano gli onori...» cominciai. «Il punto è» continuò Oban «che fa bene al morale lodare la squadra. Che lo meriti o no. Ma sta' tranquilla, se andrà tutto storto, sarà a te che daremo pubblicamente la colpa.» «Sì» fece Furth dall'altro lato del tavolo. Aveva appena messo un secondo boccale di birra vicino al primo, che sembrava ormai pericolosamente vicino alla fine. «Sei dei nostri, Kit. Purché non ti eclissi di nuovo. Non riesco a tener dietro al tuo entrare e uscire dal caso. Ti sei ritirata più spesso di Frank Sinatra. Comunque, salute.» L'ultimo dito di birra scomparve dal boccale numero uno. Era così che i ragazzi facevano i carini con me, anche se mi era spesso difficile distinguere quando lo erano davvero da quando fingevano di esserlo. Non mi era sempre chiaro se mi stessero dando una pacca sulla schiena o una pugnalata. Forse bisognava essere uno di loro per capirlo. «Non ho capito bene la faccenda del profilo, Vic» dissi con circospezione. «Non dare la colpa a me, bellezza. Stavo citando Seb. Stai dicendo che ha sbagliato?» «No, ma stiamo tirando a indovinare. Diciamo che l'assassino è bianco perché i serial killer non superano quasi mai i confini razziali. Questo lo so. Il pericolo di questi profili è che escludono interi filoni di indagine.» «Pensavo che questo fosse l'obiettivo.» «Non se lasciano fuori il filone giusto.» «Ho sentito la tua teoria» disse Furth un po' troppo forte. «Un assassino psicopatico gentile. A proposito, vuoi una patatina?» Mi offriva le sue patatine: segno che ero di nuovo a bordo. Ne presi una e la sgranocchiai rumorosamente. «Non ho detto che è gentile. Ma ci sono assassini in un certo senso gentili.» Da qualche parte qualcuno rise sguaiatamente. «Dico sul serio. Ho avuto un caso in cui una bambina è stata uccisa e seppellita dalla madre, che l'aveva avvolta nelle coperte come per metterla a letto. Penso solo che
dobbiamo guardarci dal dare qualcosa per scontato. Tutto qui.» «Ma allora che cosa facciamo?» disse Oban. «Questo è il nostro problema. Continui a dire quel che non si deve fare. Ma che cosa dobbiamo fare? Dove dobbiamo cercare?» «Non lo so» risposi, e trangugiai il resto dell'acqua. «Dobbiamo essere aperti alle varie possibilità, tutto qui.» «No» disse Furth. «Fai le cose troppo difficili, cara. All'inizio è stato cauto, poi ha preso una persona in pieno giorno. Sta diventando più audace. Vuole suscitare scalpore. Scommetterei qualsiasi cosa che diventerà sempre più temerario e che la prossima volta, o quella ancora dopo, lo prenderemo. E indovina un po': il suo nome sarà Mickey Doll.» Ignorai il nome di Doll. «Lo fai sembrare un gioco.» «No» intervenne Oban. «Non è vero.» Bevve un lungo sorso di birra e si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Forse ci comportiamo come un sacco di cialtroni, ma ciò non significa che lo siamo.» «Forse un po' lo siamo, capo» disse Furth, suscitando grandi risate. Era come cenare con una squadra di rugby. CAPITOLO 20 Dopo la mattina alla clinica, avevo un pomeriggio libero. Comprai per il pranzo un croissant caldo ripieno di formaggio e spinaci, poi mi preparai una coppa di lamponi grandi, rossi, freddi di frigo, dolci e con una lieve traccia di fermentazione. Li mangiai lentamente, uno alla volta, macchiandomi le dita e assaporando quei momenti liberi. Fuori l'aria era spessa e splendente, dopo la pioggia notturna. Le foglie scintillavano sugli alberi. Cercai di riflettere. Pensai a Lianne e a Philippa, soffermandomi, mentalmente, sui loro volti. Sapevo com'era Philippa da viva. Avevo visto molte sue foto; con quel corpo snello e armonioso e i suoi morbidi capelli, ogni sua fibra appariva levigata e lucidata. Di Lianne sapevo solo com'era da morta, unghie mangiucchiate e capelli in disordine. Non sapevo di che colore avesse gli occhi, o come fosse il suo sorriso. Dovevo conoscere meglio quelle due giovani donne, poiché anche la violenza casuale ha delle ragioni. Avrei cominciato con Lianne, che era morta prima, e sembrava non aver lasciato tracce. Mangiai l'ultimo lampone e risciacquai la coppa. La polizia non forniva alcun aiuto concreto. Non avevano scoperto chi fosse Lianne, e nemmeno da dove venisse; non erano riusciti a rintracciare nessuno che la conosces-
se; non potevano dirmi nulla che non sapessi già, e cioè che era una ragazzina fuggita da casa, una delle migliaia di ragazze scomparse che vagano per le strade delle grandi città. La polizia si imbatteva in persone come Lianne in continuazione. Le ragazze come lei si drogano, o rubano, o diventano prostitute. «Sono vittime che si trasformano in delinquenti» commentò una volta Furth. Feci per controbattere, ma poi lasciai perdere. Eravamo nuovamente nemici che fanno finta di essere amici. Non sapevo che cos'altro fare, così mi rivolsi di nuovo a Pavic. Dovetti prendere il coraggio a due mani per telefonargli. In tutti i nostri incontri ero stata in una posizione di scoraggiante svantaggio, ma l'ultimo era stato il peggiore. Feci un respiro profondo e composi il numero. Rispose una donna e mi disse che non c'era, ma che lo aspettavano da un momento all'altro. Lasciai il mio numero, quasi sollevata. Poi aspettai, aggirandomi per l'appartamento, guardando fuori della finestra e sfogliando riviste, semplicemente per smorzare l'attesa. Il telefono suonò un quarto d'ora dopo. Lo presi al terzo squillo perché non pensasse che mi ci ero seduta vicino. «Parla Pavic.» «Mi dispiace molto disturbarti di nuovo» cominciai. Feci una pausa, ma lui non la riempì. «Ho bisogno del tuo aiuto.» «Lo immaginavo» rispose laconicamente. «Devo parlare con persone che conoscevano Lianne. Ho bisogno di qualcuno che mi indichi la direzione giusta.» «Kit...» «Per favore.» «D'accordo.» «Mio Dio, è stato più facile di quanto pensassi.» Non rise. Forse aveva dimenticato come si fa. «Devo venire all'ostello?» «Vediamo. Sei libera, diciamo, alle sei?» «Sì.» «Vediamoci all'autolavaggio, quello su Sheffield Street. È qui vicino.» «L'autolavaggio?» «Sì. È un posto grosso. Non puoi non vederlo. A presto.» «Riguardo all'altro giorno...» cominciai, ma Pavic non c'era già più. Riguardai gli appunti e chiamai la clinica per sapere se c'erano dei messaggi. Poi andai dal parrucchiere all'angolo, che recentemente aveva cominciato a farsi chiamare "salone" e aveva rimodernato il locale con gran
profusione di bianco, argento e luci al neon. Un ragazzo con la testa rasata, un paio di calzoni neri larghi e una maglietta nera senza maniche mi avvolse in una vestaglia bianca di nylon e mi fece sedere davanti a uno specchio enorme. Si mise dietro di me, mi prese la testa tra le mani esperte e mi domandò che cosa volevo fare. «Tagliarli.» Sollevò qualche ciocca dei miei capelli castani e mi esaminò per alcuni secondi. «Farli un po' più sfrangiati, forse? Un po' scompigliati?» «Semplicemente tagliarli.» «Colpi di sole? Un po' di rame. Va molto, al momento.» «Magari la prossima volta.» «Bei capelli» borbottò, facendoseli scivolare tra le dita prima di mettermi un asciugamano sulle spalle e condurmi a un lavandino. Mi piegai all'indietro e lasciai che una donna minuscola, con capelli che sembravano tagliati con le cesoie, mi versasse sulla testa acqua tiepida in abbondanza e mi massaggiasse la cute con uno shampoo che sapeva di cocco. Fu meraviglioso. Chiusi gli occhi per ripararmi dalla luce. Poi il ragazzo mi venne intorno con delle forbici dalla lunga lama e una foresta di mollette alla cintura, che man mano mi metteva nei capelli. Tagliò ciuffi di capelli con un rumore preciso, e le ciocche caddero dolcemente a terra. Quando dei pezzetti di capelli mi finirono sul viso, si chinò in avanti e me li soffiò delicatamente via dalla guancia. Dopo mi sentivo molto meglio. Quando scuotevo la testa, i capelli ondeggiavano, come in quelle pubblicità di balsami miracolosi. Corsi a casa e mi feci una doccia veloce, poi infilai i jeans bianchi, una maglietta color biscotto, delle ballerine e la vecchia giacchetta scamosciata. Mi sentivo pulita, fresca, pronta per l'appuntamento. L'autolavaggio si trovava in mezzo a una fila di magazzini decrepiti vicino al canale. Ci arrivai poco prima delle sei ma, mentre mi avvicinavo, vidi che Will mi stava già aspettando sul marciapiede. Mi fermai e lui salì sul sedile di fianco. Un'automobile ci superò e svoltò nel deposito. «Dove hai la macchina?» «A lavare, naturalmente.» «Per questo mi hai dato appuntamento qui, perché volevi lavare la macchina?» «Lianne ci ha lavorato per qualche settimana, all'inizio dell'anno. Ho pensato fosse un buon posto per cominciare le tue ricerche, per quanto non
so se ci siano rimaste molte delle persone che la conoscevano. La popolazione qui è piuttosto transitoria.» «Lavava le macchine?» «No. Questo lo fanno solo gli uomini. Incassava e dava la ricevuta. La donna che fa di solito quel lavoro era in ospedale per un'operazione all'anca. È un'amica.» Mentre parlava, una donna uscì dal deposito e venne verso di noi. Era enorme, aveva una peluria sul mento e i capelli radi. Will aprì la portiera e lei si chinò con difficoltà. «Diana, ti presento Kit. Kit, Diana.» Mi sporsi oltre Will e le diedi la mano. Aveva una stretta decisa e occhi intelligenti. «Vuoi sapere di Lianne?» Pronunciò la E alla fine del nome, e mi domandai da dove venisse. «Sì. Te ne sarei grata.» «Allora, entrate? Sarò da voi tra un paio di minuti.» «Penso che prima mi farò lavare la macchina.» Mi sorrise. «Che tipo di lavaggio?» Guardai i diversi tipi di lavaggio scritti con il gesso su una grossa lavagna fuori del deposito. «Il superiore.» Per la prima volta Will mi guardò con un barlume di approvazione. «Sono dodici sterline e mezzo.» Le consegnai il denaro, che infilò con destrezza in una tasca della gonna. Poi si raddrizzò e mi indicò di far passare l'automobile attraverso delle porte gigantesche. «Tirate su i finestrini» ordinò. «Si rimane dentro?» domandai a Will. «A quanto pare.» Entrai e immediatamente mi trovai in un altro mondo, buio, bagnato e brulicante di attività. Dei violenti getti d'acqua ci colpirono da tutte le direzioni e sei uomini, con indosso stivaloni e guanti di gomma, si avvicinarono all'automobile e presero a lustrarla con lunghe spazzole. Li guardavo attraverso i finestrini insaponati. L'uomo chino sul mio cofano aveva baffi da tricheco e rughe tristi su un volto dalle mascelle forti e dagli zigomi slavi. Quello sul lato di Will sembrava un adolescente, era molto nero, molto alto e molto magro e aveva occhi a mandorla incredibilmente belli. Sembrava un divo del cinema. C'era anche un uomo più anziano, forse cinese, che pulì energicamente il mio finestrino. I nostri occhi si incontrarono e mi sorrise attraverso l'acqua che scorreva sul vetro. «Che genere di posto è questo?» «Un posto dove si lavano le macchine.» «Grazie tante» risposi con sarcasmo. «Voglio dire, da dove viene tutta
questa gente?» Will mi lanciò uno sguardo obliquo. «Perlopiù si tratta di profughi. Sanno che qui possono lavorare per un po' di tempo senza che nessuno faccia loro domande. E vengono pagati in contanti.» «E persone come Lianne.» «A volte ci mando dei ragazzi. È un lavoro sicuro. La paga non è male. Si tengono lontano dalla strada e guadagnano finché non trovano qualcos'altro.» Un uomo con un impermeabile giallo mi fece segno di avanzare. Lentamente entrai in mezzo a getti d'acqua pulita per sciacquare via il sapone dalla macchina. E uomini, questa volta vestiti normalmente, ci si avvicinarono. Dietro di noi un'altra automobile si mise in posizione. «Incredibile!» Will sembrava soddisfatto, come se avesse organizzato lui la cosa per farmi piacere. «Riguardo a Doll» dissi alla fine. «Mi dispiace.» «Perché?» «Per averti disturbato. Dopotutto mi conosci appena, ma non sapevo che cos'altro fare.» «Perché non hai chiamato la polizia?» «Non volevo metterlo nei guai. E, a essere sincera, ero anch'io in una posizione un po' imbarazzante. È una lunga storia. Troppo lunga.» Annuì come se non fosse curioso. «Hai fatto bene a chiamarmi.» «È pericoloso, allora?» «Non lo so. È...» Esitò per qualche secondo. «È un disgraziato.» Mi fecero di nuovo segno di avanzare, questa volta in un piccolo garage. «Qui dobbiamo scendere» disse Will. «Ora puliscono l'interno. Ritornerà, comunque.» «Doll?» «Gli piaci. Pensa che lo capisci.» «Oh.» Non seppi che cosa dire. «E ti ritiene molto bella» aggiunse, come se fosse una cosa piuttosto buffa. Scesi dall'auto e aspettai Will. Immediatamente salirono a bordo altri quattro uomini, due con stracci e secchi, uno con un pennello per raggiungere fessure e angoli, e l'ultimo con un aspirapolvere industriale. A questo punto arrivò Diana con due tazze di caffè. «Gonzalo» disse, indicandomi un ragazzo. «Conosceva Lianne quando lavorava qui.»
Gonzalo aveva capelli scuri e lisci, pelle olivastra, un sorriso timidissimo e una stretta di mano molle e delicata. «Salve» dissi, e lui chinò il capo. Portava una maglietta rosa con sopra Bart Simpson. «Allora conoscevi Lianne?» «Lianne? Sì.» «Eravate amici?» «Amici?» Parlava con un forte accento straniero e probabilmente non capiva molto di quel che gli dicevo. «Eravate amici, tu e Lianne?» ripetei. Aggrottò le sopracciglia. «Da dove vieni, Gonzalo?» Il volto gli si schiarì. Si diede un colpo sul petto. «Colombia. Bella.» «Non parlo lo spagnolo.» Mi voltai verso Will. «Sai lo spagnolo?» «No, ma sicuramente neanche Lianne lo sapeva. Gonzalo, Lianne era contenta?» «Contenta?» Scosse la testa. «Non contenta.» «Triste?» «Triste, sì, e anche questo.» Si mise una mano sulla bocca in maniera teatrale. «Spaventata?» domandai. «Arrabbiata?» suggerì Will. «Persa» intervenne Diana. Mi diede una tazza di caffè e io ne bevvi un sorso. Era amaro e tiepido. «Lo si legge negli occhi. Capita spesso, qui.» Mosse il mento massiccio e ispido nella direzione degli uomini, che sciamavano come api sulle automobili. «E l'hai visto negli occhi di Lianne?» Scrollò le spalle. «L'ho incontrata appena. È stata qui quando io non c'ero. Sembrava un po' chiusa in sé, forse. Non si mescolava molto con la gente. Non ti sembra?» disse rivolta a Will. «Forse» rispose lui con cautela. Non avevo mai incontrato una persona così restia a prendere una posizione. «Be', non si può darle torto. Ma era onesta, questo lo devo dire: a quanto mi risulta non si è mai messa in tasca dei soldi.» Li osservai, quella donna grassa e quell'uomo triste. Gonzalo dondolava, spostando il peso da un piede all'altro. «Grazie» gli dissi. Mi fece il suo sorriso timido e se ne andò. La mia auto era scintillante, dentro e fuori. L'uomo con i baffi da tricheco le stava dando gli ultimi ritocchi. «E grazie anche a te» dissi a Diana. «Ti sono riconoscente.»
Si strinse nelle spalle. «Sei amica di Will.» Non ne ero tanto sicura. Lanciai uno sguardo a Will. «Ti va di bere qualcosa?» Sembrò leggermente sorpreso. «D'accordo» rispose, come se non fosse riuscito a trovare una scusa in tempo. «Perché non mi segui? Conosco un posto qui vicino.» Lasciai qualche moneta di mancia e ci dirigemmo, sulle nostre automobili lustre, giù per una stradina laterale lungo i magazzini. Non ero mai stata da quelle parti, era una Londra che non avevo mai visto. Andammo in un pub lungo il canale. Davanti aveva un'aria piuttosto tetra e malmessa, ma sul retro aveva una veranda sull'acqua, dove andammo a sederci con i nostri succhi di pomodoro. Il cielo stava assumendo uno strano color marrone, piccoli aliti di vento facevano increspare l'acqua scura e oleosa, e cadde qualche grossa goccia di pioggia. «Ti piace?» mi domandò Will in modo sognante. «Che cosa? Il succo?» «Il canale.» «Mi sembra piuttosto sporco.» Sorseggiò il suo drink. «Devono ripulirlo. Hai sentito parlare delle costruzioni in progetto?» Guardai l'acqua nera. Il magazzino di fianco non aveva tetto, le finestre erano sfondate e dentro si vedevano cataste di macchinari mezzi rotti e arrugginiti. Dappertutto c'erano macerie e strana immondizia di cui non volevo sapere troppo. «Chi potrebbe aver voglia di costruire in questa zona?» «Stai scherzando? Due chilometri quadrati di terreno edificabile in mezzo a Londra? In un paio di anni qui ci saranno bar, palestre e appartamenti con garage privati.» «Ed è una buona cosa?» Scolò tutto il bicchiere. «Diventerà un posto rispettabile» rispose. «Lo dici come se fosse una parolaccia. Sarà un bene per i tuoi ragazzi. Ci sarà più lavoro.» «Non per loro. Li spingeranno in un altro quartiere dove diventeranno il problema di qualcun altro.» Rabbrividii e lui mi guardò. «Hai freddo?» Scossi la testa, ma lui si tolse ugualmente la giacca e me la mise sulle spalle. Per un momento fui sorpresa dal fremito che mi scosse quando sentii le sue mani sulle spalle. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che qualcuno mi aveva toccata.
CAPITOLO 21 «Ancora non ci posso credere.» «Già» risposi a caso. «Voglio dire, quel genere di cose non succede, no? Non a gente che conosciamo. Non riesco a crederci.» Scosse il capo da una parte all'altra, come per schiarirsi le idee. «Povera Philippa» esclamò. «Già.» «E povero Jeremy. Ed Emily. Che cosa succederà a Emily? Che tragedia! Ma chi può fare una cosa del genere?» Poiché non era una vera domanda, non risposi. Sorseggiai il caffè che mi aveva offerto e aspettai. Tess Jarrett, accovacciata nell'ampia poltrona della serra, nella sua casa elegante, sembrava una piccola castagna lucida. Era piccola e rotonda, ma non grassa. Aveva una testa piena di riccioli di un castano luminoso, occhi marroni screziati, pelle color del miele che brillava di salute e agiatezza, braccia rotonde e abbronzate, una bocca minuscola con denti perfetti e unghie di perla alle piccole mani e ai piedi curati, calzati nei sandali. Era, disse, la migliore amica di Philippa. L'amica del cuore. Ardeva di orrore ed eccitazione. «Eravamo inseparabili» disse. «E ancor di più quando sono nate Emily e Lara. Hanno quasi la stessa età e noi due abbiamo entrambe lasciato il lavoro, così passavamo un sacco di tempo insieme. Era piacevole.» Era difficile immaginare Tess nel ruolo di mamma. Sebbene avesse trentadue anni, sembrava una bambina pronta a mettersi il dito in bocca. «Da quanto vi conoscevate?» «Dal liceo.» Spalancò gli occhi. «Il che vuol dire che la conosco da metà della mia vita. Anzi, la conoscevo. Non riesco ad abituarmi a usare il passato.» «È difficile» assentii. «E poi, naturalmente, dopo che ci siamo sposate, siamo andate a stare vicino. Hampstead e Belsize Park sono a dieci minuti a piedi. Ci incontravamo varie volte alla settimana. Andavamo a fare spese.» Sistemò le pieghe dell'abito di cotone color pastello. «Questo vestito l'abbiamo comprato insieme poco prima che morisse, per quando andrò in Grecia con Rick e i bambini. Anche Rick e Jeremy andavano d'accordo. Povero Jeremy.» Sospirò profondamente. «Tess» dissi, interrompendo il silenzio che era seguito alle sue parole, «a volte riusciamo a sapere qualcosa dell'assassino, conoscendo la vittima.
Per questa ragione sono qui.» Annuì. Il suo volto assunse un'espressione tragica. «Sì» mormorò, «lo so.» «Per cui non ho bisogno di conoscere i suoi ultimi movimenti o cose del genere. Questo è compito della polizia. A me interessano i suoi umori, come stava. A volte gli amici ne sanno più della famiglia.» «Sapevo tutto di Philippa» rispose enfaticamente. «Non avevamo segreti. Per esempio» abbassò la voce e si chinò in avanti, «le ho raccontato quando avevo dei problemi con Rick, poco dopo la nascita di Lara. A volte per gli uomini è un problema quando nasce un bambino, non crede? Non gli dedichiamo più tanta attenzione. Siamo stanche e dobbiamo alzarci la notte ad allattare. A dir la verità credo che siano gelosi. In fondo, gli uomini sono dei bambini anche loro, no? Che cosa stavo dicendo? Sì, così Rick era diventato molto irascibile e piuttosto esigente, sa cosa intendo, e io non avevo voglia... be', l'ho detto a Philippa. Mi ha aiutato semplicemente parlarne. Philippa sapeva ascoltare. Non era una chiacchierona come me.» Fece una risatina infantile e io mi unii per gentilezza. «A volte» continuò, «penso che fossimo così amiche proprio per questo. Io ero la chiacchierona estroversa, lei era più...» Si fermò e mi guardò accigliata. «Sì?» Non volevo che si fermasse proprio ora che finalmente parlava di Philippa. «Riservata, una che si teneva un pochino fuori delle cose, capisce quel che voglio dire? Io, invece, sono esattamente l'opposto.» «Era una sua scelta, pensa? Stare al di fuori?» «Oh, sì. Era molto felice. Non l'ho mai vista piangere. Non è strano? Io piango in continuazione. Piango quando vedo Dumbo e Bambi con Lara e quando ci sono dei film un po' lacrimosi. E al telegiornale, quando fanno vedere i bambini che muoiono di fame; e a volte quando Lara piange, anche se l'ho sgridata io. E piango anche quando lei fa qualcosa per la prima volta. Ero un fiume di lacrime quando ha detto "mamma" per la prima volta. Non riesco a trattenermi. Stupido, no? Piango quando sono felice e quando sono triste. Ma Philippa non era così. Anche all'inizio della nostra amicizia, non era così.» «Il che non vuol dire che fosse felice» dissi in modo neutrale. «No.» Distese le gambe e dimenò le dita dei piedi. «Certo che no. Ma mi è sempre sembrata una persona solida. Non una che ha alti e bassi come me. Io sono un pendolo. Una volta sulla luna e poi sottoterra. Sono fatta così. Invece Philippa non perdeva la testa, nemmeno quando da ragazza
aveva i fidanzatini. Era... paziente. Sapeva aspettare e vedere. In ogni caso non ha avuto poi molti fidanzati. Era molto tranquilla. Non perdeva mai la pazienza con Emily, non come me con Lara, quella scimmietta. Era decisa, ma non andava su tutte le furie. "Come diavolo riesci a essere così?" le dicevo. "Dicevo": difficile abituarcisi.» Sbatté gli occhi marroni e lungo la guancia le scivolarono le prime lacrime. Le porsi un fazzoletto. «Grazie, e mi scusi.» «Com'era la sua relazione con Jeremy?» «Be', come potrei descriverla? Io e Rick litighiamo, a volte, e poi facciamo la pace. Vale quasi la pena di litigare quando poi si fa la pace, non è vero? Ma lei e Jeremy non litigavano mai. Erano molto cortesi l'uno con l'altra. Lui le portava i fiori immancabilmente tutti i venerdì. Non è carino? Mi piacerebbe che anche Rick lo facesse. I suoi fiori preferiti erano le rose gialle e i fiori di pisello. Era brava in giardino. Ha visto il suo giardino? Adesso Jeremy ed Emily sono tornati a casa, mi pare, dopo essere stati dalla mamma di lei. Devo andarli a trovare. In ogni caso, non li ho mai visti in atteggiamento affettuoso, ma probabilmente erano così per carattere. Voglio dire, è difficile sapere quel che succede nella vita altrui. E quando è nata Emily erano eccitatissimi. Sa, le ho detto una cosa non vera. Ho visto Philippa piangere una volta. Sono andata a trovarla subito dopo che era nata Emily, penso fosse il giorno dopo, in ospedale. Io ero incinta di Lara: ero come uno di quei pupazzi tutti tondi che ritornano su quando li spingi giù, con la differenza che se qualcuno mi avesse spinta io sarei rimasta a terra per sempre. Odio gli ospedali. Mi fanno pensare alla morte. Tutti quei deprimenti muri verdi. Philippa era seduta a letto e aveva quel piccolo fagotto in braccio e lo guardava e, quando sono arrivata, ha alzato gli occhi e ho visto che aveva il volto bagnato di lacrime. Mi ha detto: "È così bella. Guarda com'è bella. La mia bambina". Allora, naturalmente, mi sono messa a piangere anch'io, e poi Emily si è svegliata e ha cominciato a urlare. Amava Emily. Per questo...» Si interruppe di colpo. «Sì» dissi con delicatezza. «Oh, probabilmente non è niente.» Aspettai. Moriva dalla voglia di parlare. «A volte pensavo che avesse una relazione.» «Mmmh?» mormorai. «Non so perché, e forse non dovrei dirlo, ma lo intuivo dal suo modo di comportarsi. Non stava molto a casa durante il giorno. Credo che le donne abbiano un sesto senso per captare queste cose. Non mi sognerei mai di
andare a dirlo in giro. E poi forse non è vero, ma avevo l'impressione che stesse succedendo qualcosa.» «Sa con chi potrebbe aver avuto una relazione?» «No. Avrebbe potuto avere un sacco di uomini. Voglio dire, è molto carina. Era. Magra e bionda, che fortuna. Molti uomini non si sarebbero fatti scappare l'occasione. Nemmeno Rick. Non voglio dire che stesse con lei, ovviamente, ma sa come sono gli uomini dopo che la passione si spegne con la moglie, si sono sistemati e la vita gli sembra un po' noiosa. Succede a tutti, e in ogni caso Rick ha sempre avuto un debole per Philippa. Ma non mi fraintenda, non sto assolutamente dicendo che fosse lui. Dio, l'avrei capito di sicuro. Intuito femminile. E ucciderei Rick se facesse una cosa simile, e poi Philippa era la mia migliore amica da sempre...» Si interruppe e mi guardò con aria confusa, come se si fosse imbrogliata nelle parole. «Sto solo dicendo che conosceva un mucchio di uomini, mariti di amiche e uomini che frequentavano gli stessi giri. Ma non ho nessun sospetto in particolare. Comunque nelle ultime settimane di vita mi sembrava avesse qualcosa.» «Qualcosa?» «Mmmh, forse dovrei dire qualcuno. Era distratta. Aveva un'aria eccitata, misteriosa. Un paio di volte non è venuta agli appuntamenti, e non l'aveva mai fatto prima. E poi si inventava delle scuse patetiche. Era irrequieta. Non del tutto presente. Si era innamorata. Ne sono sicura.» Lasciai la casa di Tess mezz'ora dopo, a mezzogiorno. Mi sentivo svuotata. Prima di lei avevo rivisto il marito e la madre di Philippa. Jeremy era tornato a casa sua, che era un po' più piccola e un po' più nuova di quella di Pam Vere. Il giardino lungo e stretto aveva un frutteto in fondo, e un'altalena appesa a uno dei meli. Erano stati molto meno aperti di Tess. Non penso nascondessero qualcosa, ma sembravano riservati di natura. Lui era confuso e disperatamente triste. Lei stordita e un po' assente. Avevo due messaggi sul cellulare. Uno di Poppy, che mi domandava come mai non mi facessi più viva. L'altro di Will. Diceva solamente: «Per favore, chiamami». «Sì» abbaiò al telefono, quando lo chiamai. «Sono Kit.» «Aspetta un minuto.» Lo udii dare delle istruzioni a qualcuno lì vicino. «Kit? Puoi venire qui stasera verso le sei?» «Perché?»
«Delle persone vogliono vederti.» «Conoscevano Lianne?» «Perché dovrebbero venire a vederti sennò?» Aprii la bocca per ribattere, poi la richiusi. «Penso di riuscire ad arrivare in tempo.» «A presto, allora.» E riagganciò. Sembrava un uomo con un sacco di pensieri per la testa, come uno sciame di api. CAPITOLO 22 Suonai il campanello e mi venne ad aprire un ragazzo con i capelli rasta e il tatuaggio di una coccinella sull'avambraccio. Pensai fosse uno dei residenti, invece era un volontario che prestava servizio all'ostello. Disse di chiamarsi Greg. A differenza della volta precedente, ora il Centro brulicava di attività. Un gruppo di adolescenti stazionava nell'atrio, fumando sigarette. Attraverso una porta aperta vidi una sala giochi con alcune persone impegnate in una partita a biliardo. Dal piano di sopra si udivano provenire delle voci. Greg mi portò nell'ufficio di Will, e aprì la porta senza bussare. «Salve» dissi a Will. «Sei stato gentile. Grazie.» «Ringrazia loro, non me. Ti stanno aspettando di sopra. Ti mostro la strada?» «Quanti sono?» «Cinque, credo, a meno che qualcuno se ne sia andato. Potrebbe succedere.» La stanza era calda e l'aria pesante. In un angolo c'era un biliardino e due ragazzi ciondolavano vicino, avvolti in una nebbia di fumo di sigarette. Uno aveva la testa rasata e attraversata da una cicatrice bianca, l'altro era tarchiato e piuttosto irsuto. Quando entrai alzarono il capo, ma non diedero segno di avermi notato. Le altre tre erano ragazze o giovani donne. Erano sedute sulle poltrone e per terra. Tra di loro c'era la ragazza molto carina che avevo visto quando ero venuta a parlare con Will Pavic la prima volta. Alzò gli occhi e si rabbuiò leggermente. Aveva sopracciglia spesse e scure e occhi verdi ombrosi. «Salve» dissi avvicinandomi a loro. «Sono Kit.» Nessuno aprì bocca. Andai a stringere la mano a ognuna di loro, accorgendomi quasi subito che era un errore. Sembravano imbarazzate, e in quella fornace avevano le mani molli e sudaticce.
«Grazie per avermi voluta incontrare.» Mi sedetti sul pavimento, tirai fuori un pacchetto di sigarette che avevo comprato e le offrii in giro. Ciò attirò la loro attenzione. Tutti ne presero una, anche se stavano già fumando. «Mi dite i vostri nomi?» «Spike» rispose il ragazzo con la testa rasata vicino al biliardino. Gli altri scoppiarono a ridere per qualche ragione che non capii. «Laurie.» Era quello peloso. «Carla» sussurrò la ragazza nera seduta alla mia destra. «Catrina» si presentò un'adolescente con la peggiore acne che avessi mai visto e una bellissima criniera di capelli rossi. «Sylvia.» Era la ragazza dagli occhi verdi. Sorrise con aria scaltra. «Almeno, questo è il nome che mi sono data.» «Cercherò di ricordarli. Will probabilmente vi ha detto perché sono qui. Voglio cercare di sapere il più possibile di Lianne, perché più sappiamo, più abbiamo la possibilità di scoprire chi l'ha uccisa. Per esempio, ci aiuterebbe enormemente sapere da dove veniva, qual era il suo vero nome, la sua storia, questo.» Ci fu un silenzio di tomba. «Ma a parte ciò» continuai, «vorrei semplicemente scoprire che tipo di persona era.» «Will ci ha detto che sei a posto» disse Spike con tono interrogativo. «Vuol dire che non andrai di corsa dalla polizia a riferire quello che ti diciamo» aggiunse Sylvia. «Non che ti diremmo qualcosa. All'altra non abbiamo mai detto niente.» «Quale altra?» «Non sei la prima.» «La polizia ha già parlato con voi?» Sylvia si strinse nelle spalle e una sorta di silenzio ambiguo calò nella stanza, rotto solo dal rumore di un fiammifero acceso da Spike. «In ogni modo» dissi alla fine, «non andrò a dir loro nulla che non abbia a che fare con Lianne, d'accordo?» Ci fu un generale grugnito di assenso. «Da quanto tempo bazzicava da queste parti, lo sapete?» «Will ha detto circa sei mesi» rispose Spike. «Chi di voi l'ha vista per ultimo, vi ricordate?» «Io.» Carla intervenne senza alzare gli occhi. «Che cosa avete fatto insieme?» «Siamo andate a spasso, a guardare le vetrine. Abbiamo parlato delle cose che ci saremmo comprate se avessimo avuto i soldi. Vestiti e cose buone da mangiare, CD. Non avevamo neanche un soldo, però. A meno che Lianne...» Si interruppe.
«Sì?» «Era molto brava a sfilar portafogli» intervenne Laurie con ammirazione. «Riusciva a infilare la mano in qualsiasi borsa. Andava con Daisy alle fermate della metropolitana. Erano una coppia infernale. Una sbatteva contro qualcuno e l'altra gli sfilava il portafogli.» «Furbe» disse Spike. «Daisy Gill?» domandai. «Sì, quella che si è ammazzata.» «Come vi siete conosciute?» domandai a Sylvia. «Qui. Era molto timida. O piuttosto...» arricciò il piccolo naso e si spinse i capelli biondi dietro le orecchie, meticolosamente, «... non parlava molto. Non di se stessa. Non ha mai detto da dove veniva, ma scommetto che veniva da qualche parte di Londra. Conosceva Londra molto bene.» «Scommetto che è stata sotto tutela per un pezzo.» Fu Catana a parlare. «Perché lo dici?» «Si vede. L'ho incontrata solo quella volta. Qui, come Sylvia, un paio di mesi fa. Abbiamo fatto una partita a ping pong, lei era una schiappa e si infuriava quando uno degli altri la prendeva in giro. È tutta un'altra storia, se si è sotto tutela.» «È come un odore» fece Spike con un risolino. «È orribile.» Sylvia si voltò verso di lui. «Che cosa stupida hai detto!» Lui le strizzò l'occhio. «Non preoccuparti, tu non puzzi. Tu sei roba di lusso.» «Comunque io so per certo che era sotto tutela, perché una volta mi ha raccontato di una casa in cui era stata» continuò Sylvia, ignorandolo. «Voleva invitare un'amica a dormire lì la notte di Natale. Aveva la sua stanza, quindi non era poi un gran problema, ma gli assistenti non glielo avevano permesso. Tipico di come vanno le cose in quei posti. Burocrazia. Dissero che nessuno poteva avere ospiti a dormire. Era contro il regolamento. Allora Lianne ha raccontato che lei e la sua amica si sono barricate nella sua camera senza uscire, e poi il giorno dopo, per punizione, non hanno potuto partecipare al cenone di Natale. Né avere dolciumi. Ma lei ha detto che comunque era contenta di averlo fatto, per protesta. Però non ha detto dov'era quella casa d'accoglienza. Era davvero molto misteriosa.» «Non gliel'hai chiesto?» «Rispetto la privacy della gente.» «So che a volte dormiva nel parco. Diceva che era meglio di molti degli schifosi alberghi di questa zona.»
«È stata in molte di queste case?» domandai. «Probabilmente» rispose Sylvia. «Molti di noi ci sono stati prima di arrivare alla nostra età.» Lo disse con aria quasi compiaciuta, il bel volto falsamente modesto. «Non aveva famiglia, così molto probabilmente ha girato per diverse case.» «Guardate me.» Mi voltai verso la voce dolce e monotona di Catrina. «Io sono stata in dodici famiglie adottive e otto case d'accoglienza.» «Io sono stato con una famiglia adottiva per quasi due anni» disse Laurie. Sotto quella massa di peli e capelli, il suo viso era grassottello e infantile. Non sembrava avere più di quattordici anni. «Sì? E poi che cosa hai fatto di male?» domandò Catrina. «Si sono trasferiti al nord. Hanno detto che non avevano posto nella casa nuova. Sembrava bello là, avevano il giardino. Erano vicini al mare.» Non c'era autocommiserazione nella sua voce. «Mi potete parlare delle relazioni sessuali di Lianne?» chiesi con cautela. Cadde il silenzio. Spike spense la sigaretta furiosamente. «Lo chiedo perché potrebbe essere d'aiuto. Ha subito violenze, per esempio?» «Probabilmente» rispose Sylvia con indifferenza. Spike sbatacchiò la maniglia del biliardino rumorosamente. Sul volto aveva un brutto ghigno. Mi sembrava stesse trattenendo le lacrime. «Perché dici una cosa del genere?» «Perché è stata a lungo sotto tutela.» «Vuoi dire che la gente che rimane a lungo sotto tutela subisce violenze sessuali?» «Ne ho abbastanza» sbottò Spike. «Me ne vado.» Ma non si mosse. Lo osservai. Sul suo viso pallido erano apparse delle macchie rosse. «Allora pensi che abbia subito delle molestie sessuali?» «Non direi necessariamente sessuali» rispose Catrina. «Ma non si passa per quelle esperienze incolumi, capisci? Si smette di essere bambini molto in fretta.» «Non si ha più fiducia in nessuno» aggiunse Laurie. Finalmente venne a sedersi con le ragazze, mentre Spike indugiava sulla porta. Tirai fuori il pacchetto delle sigarette e lui venne avanti a prenderne una, ma non si sedette. «Aveva dei ragazzi?» Si guardarono. «Non ho visto nessuno» rispose Sylvia. «E lei non l'ha mai detto. Un mucchio di persone lo direbbe per vantarsi, vero? Ma Lianne non ha mai
raccontato niente del genere. Guarda che però nessuno di noi la conosceva bene.» Di nuovo si guardò intorno e tutti scossero il capo. «Era qui solo di passaggio.» «Era amica di Daisy» disse Carla. «Mi ricordo che una volta sono entrata nella loro camera mentre si dipingevano le unghie dei piedi ridacchiando. Ognuna di un colore diverso. Carino» disse con un briciolo di malinconia. «Lianne non rideva molto. Mi hanno detto che volevano tenere da parte i soldi che rubavano per metter su un ristorante insieme.» Sul gruppo calò il silenzio, mentre pensavano alle due ragazze, ora entrambe morte. All'improvviso mi apparvero giovani e indifesi, anche Spike, ancora in piedi, con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra e le mani nelle tasche. Rimasi immobile, non volendo interrompere quel momento. «Una volta mi ha baciato» disse Laurie con la faccia scarlatta. «Le ho detto che non volevo.» Si interruppe. Carla gli prese la mano e se la mise in grembo con un gesto inaspettatamente toccante e materno. «Insomma le ho detto così, non so perché, forse perché quella settimana avevo avuto un colloquio con l'assistente sociale e mi aveva detto che non c'era nessuno disposto ad adottarmi; mi sentivo uno schifo, triste e solo, come succede a volte. Lei era seduta senza fare niente al piano di sotto, dove c'è il tavolo da biliardo, e non c'era nessun altro. A un certo punto mi ha baciato. Mi ha preso la faccia e mi ha baciato.» Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Carla gli diede dei colpetti sulla mano. «L'ho sentita piangere» prese a dire Spike, all'improvviso e con voce roca. Mentre parlava, si avvicinava alla porta, come se volesse fuggire. Nessuno disse nulla. «L'avevo incontrata solo il giorno prima. Abbiamo fatto una litigata furiosa perché mi aveva preso la radio e diceva che era sua. Era proprio una piccola ladra. Be', era di giorno e non c'era nessuno, e io arrivavo da non so dove.» Mi gettò un'occhiata furtiva e continuò: «Insomma ho sentito questo rumore provenire dal piano di sopra. Dapprima non ho capito che cosa fosse. Era strano, come un gatto che veniva torturato o qualcosa del genere. Sono salito pian piano su per le scale e proveniva dalla sua camera. Lei stava miagolando e piagnucolando proprio tipo un gatto. Rimasi lassù per un secolo e non smetteva. Continuava a piangere e piangere come se le si spezzasse il cuore». «Sei entrato?» Corrugò la fronte. «Non volevo metterla in imbarazzo» rispose. Feci capolino alla porta di Will. Stava fissando lo schermo del computer,
ma le mani erano appoggiate stancamente alla scrivania. «Ancora al lavoro?» Mi appoggiai al muro. Sentivo le gambe deboli e la testa che ronzava per la fatica. «Come? Sì, mi sa di sì.» «Posso chiederti una cosa?» «Mmmh?» «Hai qualcuno che ti aspetta, a casa?» «No.» «Lo immaginavo.» Lo guardai. La sua faccia sembrava di sasso. Mi chinai, la presi tra le mani e gli diedi un bacio sulle labbra. Poi mi voltai e me ne andai, e lui rimase seduto. CAPITOLO 23 Il lavoro dovrebbe essere divertente. Darsi da fare è uno dei grandi piaceri della vita, e il lavoro è l'attività principale per la maggior parte di noi. Qualsiasi cosa si faccia, dovrebbe essere divertente. La gente ha la capacità di far diventare divertenti le cose più strane. Per fortuna. La prescriverei quasi, questa capacità di trarre piacere, come una medicina contro la depressione, la noia e le paure che funestano tante vite. E tuttavia a volte trovo difficile accettarla. Quando avevo dodici anni, andai al funerale di mia nonna. Uscimmo dal crematorio e fummo accompagnati al Parco della Rimembranza, uno spazio con siepi basse e ordinate e un piccolo praticello. Gli adulti gironzolavano un po' a disagio, leggendo i messaggi sulle corone. Dopo qualche minuto me la svignai. Mi ricordo due cose. La prima era il fumo che usciva dal camino: mi domandai se quella fosse mia nonna. Poi il parcheggio dei carri funebri. Era una tiepida giornata di primavera, e gli impresari di pompe funebri erano seduti sui cofani delle automobili. Alcuni si erano tolti la giacca e, con le maniche della camicia arrotolate, fumavano e chiacchieravano. Un paio di loro rideva per qualche battuta che ero troppo lontana per udire. È stupido, lo so, anche per una bambina di dodici anni, ma allora capii che gli impresari di pompe funebri non erano tristi per la morte di mia nonna. In realtà a loro importava ben poco. Mentre tornavo a casa in auto con mio padre, gli raccontai piuttosto arrabbiata quel che avevo visto e gli dissi che non bisognava pagarli, visto che avevano mostrato così poco rispetto. Mio padre mi spiegò pazientemente che gli impresari andavano a
due o tre funerali ogni giorno e non potevano essere tristi per tutti. Perché no? ribattei. Era il loro mestiere, essere tristi. Mio padre non riuscì a convincermi. E decisi che per quel lavoro bisognava essere degli psicopatici insensibili, capaci di apparire contriti mentre venivano trasportate le bare, e poi di correre a casa a guardare la televisione, giocare con i bambini e dire di aver passato una buona giornata al lavoro. Naturalmente ero cresciuta e avevo capito: chi se ne frega se il chirurgo che deve operare tuo figlio per un difetto alla valvola cardiaca è un insensibile pallone gonfiato che pensa solo alla reputazione e ad andare a giocare a golf il prima possibile. L'essenziale è che sia il migliore nel suo campo. Allora, che cosa mi aspettavo da Oban, da Furth e da tutti gli altri? Quando c'erano le telecamere, adottavano l'espressione contrita e il linguaggio adatti all'occasione. Erano distrutti, assolutamente distrutti. Era un caso increscioso, erano tutti scioccati. Ma in realtà si stavano divertendo. Prendiamo Oban: non era esattamente festoso, ma aveva un nuovo slancio nel passo. Era comprensibile. Gli avevano affibbiato un caso di omicidio oscuro e disperato, che nessuno voleva e a cui nessuno prestava attenzione, se non quando qualcosa andava storto. E poi, come Cenerentola, si era trasformato nell'omicidio dell'anno, e tutti lo cercavano. Quando andai a trovarlo, la mattina dopo essere andata a Kersey Town, fu come cercare di vedere il primo ministro. Mi fece un cenno amichevole. «Sei di fretta?» domandò. «Non particolarmente.» «Bene, allora vieni con me che intanto parliamo.» Non fu un affare semplice: era continuamente al telefono, o conteso da due o più persone. Era come parlare dal marciapiede della stazione a una persona su un treno in movimento. Cominciai a raccontargli dell'incontro con i ragazzi che conoscevano Lianne, ma mi interruppe subito: «C'è bisogno che sia messo al corrente di queste cose, Kit?» «Senti, Oban...» «Dan» insistette. «L'ambiente e la storia delle vittime è tutto ciò che abbiamo.» Si fermò un momento e fece un grugnito dubbioso. «Non sono convinto, Kit. Finché non vedo qualcosa di specifico, dobbiamo attenerci a quel che ho detto alla conferenza stampa. L'ipotesi è che si tratta di un assassino che colpisce quando ne ha l'opportunità. Hai parlato a Seb? Mi sembra d'ac-
cordo con questa teoria.» «No, non gli ho parlato.» In effetti stavo rimandando la cosa. Ed era una delle ragioni per cui non avevo ancora telefonato a Poppy; non avevo nessuna voglia di trovare Seb. «Lo vedremo tra un minuto, così gli potrai parlare subito.» «Non sarà necessario.» «E non voglio nessuna rivalità tra voi due.» «Non c'è nessuna rivalità.» «A proposito, Kit, hai parlato con qualcuno del nostro signor Doll?» «No. Con chi avrei dovuto parlarne?» Fui colpita da un pensiero. «È venuto a casa mia.» Oban scrollò le spalle. «Stacci attenta.» «Così ovviamente Julie sa di lui.» «Ovviamente» ripeté Oban con una luce maliziosa negli occhi. «Oh, e ne ho parlato a Will Pavic. Will lo conosceva già.» «Di nuovo Pavic?» Oban fece un altro grugnito. «Ti stai ficcando in una strana compagnia. Sta facendo una bella strada, quel tipo.» «Già.» Oban divenne serio. «No, dico sul serio, Kit. Pavic ha irritato un mucchio di gente in questa zona. Gli assistenti sociali lo odiano. Ci sono un paio di giornalisti che vorrebbero fargli la pelle.» «Per quale motivo? So che non è facile andar d'accordo con lui, ma sta solo cercando di dare una mano.» «Davvero?» ribatté Oban dubbioso. «Non tutti sarebbero d'accordo. Ci sono voci in giro, anzi più che voci, che nel suo ostello si spacci la droga. Alcuni dicono che lui faccia finta di non vedere, altri che rastrelli una percentuale. Ti assicuro che, se fa un passo falso, farà una brutta fine. In ogni caso, non è di questo che parlavamo. Un paio di giornalisti mi ha telefonato per Mickey Doll.» «Per quale ragione?» «Solo domande. È vero che è stato interrogato in relazione agli omicidi? Potrebbe essere accusato? Perché è stato rilasciato?» «Come hanno fatto a sapere di lui?» «Questa centrale somiglia a una maledetta agenzia stampa. Se uno scorreggia, c'è subito un altro che telefona ai giornali.» «Che cosa hai risposto?» «Per dirla in due parole, se ti telefonano e ti fanno domande su di lui, mandali da me. Ah, eccolo qui.»
Mi aspettavo di vedere Michael Doll, invece era Seb, lo psichiatra preferito dai media. Il marito di Poppy e il mio quasi amico. Sembrava pronto ad andare in onda al telegiornale dell'una. Aveva dei calzoni neri perfettamente stirati, stivaletti e una giacca di pelle nera spettacolare, sopra una camicia di un bianco splendente. Aveva i capelli scarmigliati ad arte e la barba di un giorno. Venne avanti, mi baciò su entrambe le guance e poi mi abbracciò. «Kit» esclamò. «Non è fantastico? Lavorare allo stesso caso, intendo.» «Meraviglioso» esclamai, avvolta dalle sue braccia e molto a disagio. «Come sta Poppy?» «Che cosa? Oh, bene, magnificamente. Sai com'è Poppy.» Ridacchiò e fece l'occhiolino a Oban. «Kit e io ci conosciamo da un mucchio di tempo.» «Naturalmente.» «Lei e mia moglie sono inseparabili. Così questo mi sembra un affare di famiglia.» «Allora conosci Julie?» domandò Oban. «Julie?» Seb si rabbuiò. «Conosco Julie, Kit?» «Spero di non aver fatto una gaffe» aggiunse Oban con fare malizioso. «No» risposi in fretta, arrossendo. «Senti, è da un pezzo che volevo...» «Non importa. Ci sono cose di cui dobbiamo parlare. Aspettate un momento.» Il suo cellulare stava di nuovo squillando. «Oban mi stava parlando delle tue opinioni sul caso» dissi a Seb, mentre aspettavamo. «Alcune le conoscevo già. Mi pare di averti sentito parlare di questo alla radio, ma non sono certa di aver colto le conclusioni. Dovevano mandare in onda un disco.» «Uh, già» fece distrattamente. Oban si mise il telefono in tasca e si unì di nuovo a noi. «Dobbiamo parlare di come coordinarci» disse. «Certo. Sono molto contento che Kit sia a bordo.» Seb elargì di nuovo il suo smagliante sorriso e mi toccò sulla spalla. «Ho sempre desiderato che fosse un pochino più ambiziosa nel lavoro. Ma suppongo che dobbiamo rivedere le gerarchie della squadra. Due indagini separate sono state unificate e io ero il consulente dell'omicidio principale.» «Ma l'omicidio di Lianne è accaduto prima, Seb. Vuoi dire che l'assassinio di Philippa Burton è più importante?» «Intendo dire che era un'indagine più in grande. In ogni caso adesso abbiamo due consulenti psicologi e voglio che le cose siano chiare. Per for-
malizzarle.» «Non capisco» risposi. «Be', per esempio, proprio un esempio a caso: ci dovrebbe essere continuità e coerenza nella presentazione al pubblico delle opinioni psicologiche.» «Intendi dire che vuoi andare tu alla televisione e alle conferenze stampa» intervenne Oban con durezza. «Per me va bene» interloquii. «Allora siamo d'accordo» fece Oban. «Era solo un esempio ipotetico» continuò Seb, «ma anche per me va bene, se è questo che vuoi. Accetto la responsabilità.» «Tuttavia Kit deve mantenere una posizione centrale» riprese Oban con fermezza. «Dopotutto è stato grazie a lei che le due indagini sono state fuse.» «Sì, l'ho sentito» rispose Seb. «Hai avuto una bella fortuna.» Feci un profondo respiro. Non avrei risposto alle provocazioni. «Che risultati ci sono sull'analisi delle fibre?» domandai. «Sono riusciti a sapere di che macchina si tratta?» Oban scosse il capo. «Puoi vedere i rapporti tecnici, se vuoi. È un tipo molto specifico di fibra sintetica colorata. Proviene decisamente dalla stessa fonte, ma non è detto che sia il tappetino dell'automobile. Potrebbe essere una coperta o un pezzo di stoffa o un centinaio di altre cose. Il risultato non ci è d'aiuto, purtroppo.» Si mise le mani nelle tasche dei calzoni e sembrò assente. «Devo andare. Devo incontrare uno della sede principale. Poi devo vedere una serie di rabdomanti che vogliono dare la caccia all'assassino. O almeno è quel che credo. Degli idioti con dei bastoni biforcuti.» Se ne andò e piantò in asso Seb e me, che rimanemmo a disagio, senza sapere bene che cosa fare. «Come sta Poppy?» gli domandai, poi mi ricordai di averglielo già chiesto. «Oh, sai» rispose guardando al di sopra della mia spalla. «A proposito, avevo intenzione di telefonarti. Te l'ha detto Poppy? Megan e Amy non hanno dormito per giorni dopo la tua storia della buonanotte. Si svegliavano urlando.» «Mi dispiace. Non volevo...» «No, stavo scherzando. Un'idea interessante, però. Mi ha fatto pensare. L'hai presa da qualche parte?» «Mi pare di averti detto che era un sogno che continuo a fare dopo l'incidente.»
«Camera rossa. Un'idea interessante. Una camera di sangue. Pensi che sia una specie di utero? Tua madre è morta, vero? Credi che esprima il desiderio di ritornare nel suo utero morto?» Ebbi il forte impulso di colpire Seb sulla testa con un oggetto pesante. «No, non penso. È una storia sulla grande paura che ho provato quando sono stata ferita al viso.» «Forse» disse Seb meditabondo. «Pensi di scrivere di quest'argomento? Hai intenzione di fare un articolo?» «No, i miei studi riguardano di solito sogni altrui.» «Bene, bene.» La mattina successiva, molto presto, il telefono squillò. Era Oban. «Prendi un giornale.» «Che cosa vuoi dire? Che giornale?» «Uno qualsiasi, maledizione.» E mise giù il telefono. Andai di corsa dal giornalaio vicino alla fermata della metropolitana, e cinque minuti dopo avevo un tappeto di giornali aperti sul tavolo. Lo sguardo familiare, leggermente ansioso e abbagliato di Michael Doll fissava Julie e me da una marea di enormi titoli: Arresto per l'omicidio di Pippa. «Sono innocente» dice il sospettato. Lo strano passato del probabile killer di Pippa. Pippa. Di nuovo quel nome, della lunghezza giusta per i titoli. E dov'era Lianne? A chi importava? Esaminai i giornali. C'era tutto. Gli interrogatori, un resoconto singolarmente dettagliato di quel che era saltato fuori dai nastri di Colette, il rilascio sulla base di ciò che veniva definita una «ragione tecnica». C'era il racconto abbastanza vago della sua vita e della sua storia: gli istituti, il carcere minorile, i piccoli reati sessuali. Una giovane giornalista del «Daily News» era riuscita a ottenere un'intervista «esclusiva», come se fosse difficile per una giovane donna far parlare quell'uomo pateticamente solo. Poi, ecco, finalmente veniva fatto il nome di Lianne. Doll si era vantato di essere stato vicino al luogo del delitto. E, peggio ancora, aveva negato di essere tra i sospettati. No, niente affatto, diceva, era un testimone importante, era la sola persona ad aver visto qualcosa. L'articolo era corredato da una foto di Doll nella sua camera, con l'aria fiera di sé. Descritta dalla giornalista - una donna giovane, ricca e intelligente che si trovava davanti un uomo povero, disperato, spostato - quella camera costituiva di per sé una forma di accusa. L'articolo finiva con una nota pruden-
ziale che sembrava stesa su indicazione di un avvocato: «Non vogliamo dire che Mickey Doll sia coinvolto in alcun modo nel delitto. Non è sospettato. Non sono state trovate prove che lo colleghino ai tragici omicidi di Lianne e della giovane mamma Philippa Burton. Tuttavia uomini come Mickey Doll, con le sue fantasie di violenze sessuali e la fedina penale non immacolata, rappresentano una comprensibile minaccia per la comunità, le nostre famiglie, i nostri bambini. Andando a intervistare un uomo come Doll, pubblicando la sua foto, rivelando il suo indirizzo, non vogliamo, ovviamente, incoraggiare alcuna azione contro di lui da parte del pubblico. Non sarebbe legale, anche se comprensibile, anche se le preoccupazioni della gente sarebbero legittime. È ora che siano i politici a muoversi». Julie prese l'intervista e la lesse facendo colazione con il caffè e la scodella di frutta che mangiava di solito. «Mmmh» commentò alla fine. «Non coglie in pieno tutto il suo charme.» Ma il giorno successivo Oban mi disse, piuttosto casualmente, che Doll era all'ospedale. Un cittadino indignato gli si era avventato contro in un pub e gli aveva spaccato la faccia con una bottiglia rotta. «Così anche lui ha una cicatrice in viso» aggiunse allegramente. «Pare che abbia chiesto di te, ma non andrei a trovarlo se fossi al tuo posto.» «No, non credo sia una buona idea» assentii, sentendomi un po' in colpa, e cercai di non pensare più a Doll. CAPITOLO 24 Due giorni dopo l'aggressione a Doll, tornai a casa dei Burton, non perché la ritenessi un'idea particolarmente proficua, ma perché fui spinta da Oban. «Quel tizio ha qualcosa di strano.» «Un mucchio di gente ha qualcosa di strano» risposi. «Non è abbastanza turbato.» Mi domandai che cosa volesse dire. A me Jeremy Burton era sembrato molto turbato, con quel suo volto disperato e stanco, i mezzi sorrisi mesti e sgomenti. Esisteva forse una quantità giusta di sofferenza? E come si faceva a misurarla? Pensai alle centinaia di persone che avevano messo fiori nel luogo in cui era stato trovato il corpo di Philippa, che avevano pianto copiosamente per la morte di quella giovane e graziosa madre e si erano preoccupate della bimba piccola che rimaneva sola. Era dolore? Non feci parola a Oban delle mie riflessioni, naturalmente; si sarebbe limitato a sollevare le sopracciglia ironicamente, e a mandare Seb invece di me.
Andai da loro una domenica mattina, come aveva chiesto Jeremy Burton. La porta mi fu aperta dalla madre di Philippa, che mi accompagnò nella cucina luminosa. Dappertutto c'erano fiori, iris vellutati e pallidi, margherite un po' avvizzite, e vasi di gigli bianchi, il cui profumo greve e opprimente riempiva la casa. Passando davanti al soggiorno, vidi due pile di biglietti di condoglianze sul caminetto e sul tavolino. Guardai fuori della finestra di cucina. Il padre e la figlia erano insieme in giardino, seduti su una panchina di ferro battuto, e davano la schiena alla finestra. Lui stava facendo le parole crociate e lei dondolava le gambe avanti e indietro. Qualcosa lo fece voltare, io sollevai una mano e mi incamminai verso di loro, sull'erba. Mi fece un cenno di risposta. Avevo temuto di dovermene tornare indietro, ma non sembrava dispiaciuto di vedermi. Ci stringemmo la mano. Ripiegò il giornale, leggermente imbarazzato, ma non prima che avessi il tempo di notare che non aveva riempito neanche una casella. Portava una maglietta con il collo aperto e dei pantaloni corti color kaki, ma aveva comunque un aspetto elegante e ordinato. Ci sono persone che sembrano sempre rispettabili, altre no. Anche se Doll si fosse fatto un bagno, tagliato i capelli, rasato, curato le mani, messo un abito da mille sterline, avrebbe sempre avuto l'aria un po' sporca e spiacevole. Non sarebbe riuscito a togliersi di dosso il passato. «Guarda» disse Emily. Mi accucciai. Aveva deposto i suoi tesori accanto a sé sulla panchina. C'era un sasso grigio e uno bianco aguzzo, un bastoncino biforcuto, una piuma, una piccola zolla di muschio, una pallina rosa sporca di fango, un vecchio collare per gatti, un bastoncino di legno da gelato, un tubetto di plastica. «Guarda» ripeté, e aprì il pugno grassottello. Sul palmo della mano aveva una piccola conchiglia. «Dove l'hai trovata?» le domandai. Mi indicò il vialetto di ghiaia vicino alla porta di cucina. «È molto carina» esclamai, e lei richiuse il pugno. Aveva un vestito estivo a pallini e i capelli puntati dietro le orecchie, che le facevano sembrare il viso più sottile di come lo ricordavo. «Andrò a portarli alla mamma» continuò a voce alta. Guardai per un attimo il padre. «Vuole dire che andrà a metterli sulla tomba di Phil, dopo che sarà sepolta» mi spiegò sussultando. «È stata un'idea di mia suocera, che Emily
raccogliesse cose per la mamma. Io non ne sono molto convinto. Sembra prendere l'idea un po' troppo alla lettera.» Aggrottò le sopracciglia e gli comparve un piccolo solco sulla fronte. «Che cos'altro hai trovato?» domandai a Emily. Scese con cautela giù dalla panchina, sempre con la conchiglia in mano, e cominciò a raccogliere i suoi tesori con l'altra mano. «Vicni a vedere» disse. «Posso venire tra un minuto? Prima devo parlare con tuo papà.» Annuì. I sassi, il pezzetto di muschio e il tubo di plastica caddero sull'erba. Si inginocchiò e cominciò a raccoglierli. Il padre non fece alcun gesto per aiutarla. Aveva le mani nelle tasche dei pantaloni corti, il giornale infilato sotto un braccio. Gli lanciai un'occhiata. Il volto era livido per la stanchezza. «Ti faccio una proposta, Emily. Ti porto io queste cose quando vengo a vedere che cos'altro hai trovato per la mamma.» «Promesso?» «Sì.» «Non dimenticartelo.» Indicò il tubetto di plastica che era ai miei piedi. «Non lo dimenticherò.» La osservammo mentre si allontanava lentamente. «Pensa che Philippa ritornerà.» «Davvero?» Guardai le sue gambette diritte e sottili scomparire attraverso la porta di cucina. «Non vuole sedersi?» mi domandò, indicando la panchina. «Grazie.» «Caffè?» «No, grazie.» Si sedette anche lui, all'estremità opposta. «Ho saputo del suo contributo.» «Be'...» «L'avevo sottovalutata, credo.» «Come sta?» gli domandai. «Bene.» «Riesce a dormire?» «Sì. Be', non proprio. Sa, mi sveglio e...» non finì la frase. «Mangia?» Annuì. «Ho parlato con Tess Jarrett qualche giorno fa. Mi ha detto che nelle ultime settimane prima della morte Philippa sembrava inquieta. Pensa che
sia vero?» «No, non credo.» Aspettai. «Mi dispiace, ma è tutto quello che ho da dire.» «Non le sembrava avesse qualcosa per la mente?» Guardò a terra, come se volesse far finta che non ci fossi. «Mi sembrava la stessa di sempre.» «Mi racconti della sera prima della sua morte. Descriva la vostra serata insieme.» Sospirò e cominciò a intonare con voce monotona: «Sono ritornato dal lavoro alle sette. Emily era a letto e Philippa le stava leggendo una storia. Le abbiamo dato tutti e due la buonanotte». «Che cosa ha detto Philippa, quando le ha dato la buonanotte?» «Che cosa ha detto?» Socchiuse gli occhi. «Non me lo ricordo. Siamo andati di sotto, ho versato un bicchiere di vino per ciascuno e siamo andati a fare un giro del giardino insieme. Era una bella serata.» La voce gli era diventata un po' meno spezzata. «Abbiamo cenato fuori, là.» Indicò il tavolo sotto la veranda. «Che cosa avete mangiato?» «Moussaka. Insalata verde.» «Di che cosa avete parlato?» «Non mi ricordo.» Apparve angosciato. «Non riesco a ricordarmi nulla se non che a un certo punto mi ha chiesto se pensavo che stesse invecchiando.» «Che cosa ha risposto?» Si diede un colpetto sui calzoncini. «Devo averle risposto che a me sembrava sempre molto bella, ma non ricordo le parole esatte.» «Quindi non c'era nulla di diverso in lei, o nella sua relazione con lei?» Prese a parlare, ora, come se si stesse svegliando da un sonno profondo. «Diverso? Non so a che cosa voglia alludere. Pensa che questo abbia a che fare con me? O con lei? Non era depressa. Non beveva. Non prendeva droghe. Non vagava per Kersey Town come quella ragazza...» «Lianne.» «Esatto. Si alzava la mattina e mi preparava la colazione. Badava alla casa e a Emily. Vedeva le amiche. Era contenta. Parlava di tornare al lavoro, di avere altri bambini un giorno o l'altro.» La voce gli si spezzò, ma continuò: «Poi, una mattina, dopo avermi preparato la colazione e aver messo a posto la casa, è uscita con sua figlia ed è stata improvvisamente assassinata. Fine della storia. Questo è quel che pensa la polizia in ogni ca-
so, e anche quell'altro dottore che è venuto a fare domande. Se lei ha dei motivi per vederla in un altro modo, per favore me li dica. Voglio sapere». Mi alzai. «Mi dispiace averla addolorata.» Mi chinai a raccogliere il pezzetto di muschio, i due sassi e il tubo di plastica. «Va bene se vado a portarli a Emily?» «Probabilmente è nella sua camera. In cima alla prima rampa di scale.» «Grazie.» Emily stava sistemando degli animaletti di plastica su uno scaffale. Mi accovacciai accanto a lei con le mani a coppa. «Ecco le tue cose.» «Gli elefanti vanno con i leoni o con i cavalli?» «Per me vanno con i leoni. Mi fai vedere quello che hai raccolto per tua mamma?» Si alzò e andò al letto, e da sotto tirò fuori una grande scatola di cartone. Una per una depose le cose sul pavimento: un vasetto di marmellata, la testa di un cardo, parecchie figurine dei pacchetti di cereali, tre bottoni, un filo di perle di plastica, una biglia, un pezzetto di una stoffa arancione di seta, della carta da pacchi lucida, un cagnolino di porcellana sbeccato, una mela. Osservai il suo viso. Era completamente concentrata sul suo compito. «Qual è il tuo oggetto preferito?» Mi indicò la biglia. «Che cosa sarebbe piaciuto di più alla mamma?» Ebbe un momento di esitazione, poi indicò la stoffa arancione. La porta si aprì e la madre di Philippa si affacciò dentro. «Scusatemi» disse con la sua voce ferma e piacevole, «ma da un minuto all'altro deve arrivare un'amichetta di Emily.» Mi fece sentire come se mi fossi insinuata in quella cameretta con un falso pretesto. «Certo.» Rimisi con cura nella scatola di cartone gli oggetti che avevo in mano. «Ciao, Emily.» «E la conchiglia» disse senza alzare gli occhi. «La conchiglia è bella. A lei piacevano le cose belle.» Albie mi chiamò. Voleva solo salutarmi, disse. Voleva sapere come me la cavavo. Tenni in mano la cornetta con una certa cautela, come se mi potesse far male. Entrambi aspettammo che fosse l'altro a dire qualcosa. Poi ci salutammo educatamente. Telefonai a mio padre, ma non lo trovai. Avrei voluto accanto qualcuno che mi dicesse: «La vita può essere dura, ma non preoccuparti, cara, tutto
andrà benone». Qualcuno che mi abbracciasse e mi accarezzasse i capelli. Volevo mia madre. Ridicolo, ma era così. Sarebbe mai andato via, quel desiderio? Avrei continuato a sentire la mancanza di mia madre per tutta la vita, tutti i santi giorni? Presi il telefono con l'intenzione di chiamare Will. L'appartamento era così silenzioso che sentivo il ticchettio dell'orologio al polso, il cuore che mi batteva e il rumore che di tanto in tanto facevano le foglie secche sugli alberi di fuori. Ma non chiamai. Che cosa gli avrei detto? «Sono sola, per favore puoi venire a tenermi stretta?» Mi versai un bicchiere di vino e accesi due candele. Poi spensi la luce e andai a sedermi sul divano. Una zanzara ronzava da qualche parte nella semioscurità. Fuori si mise di nuovo a piovere, e il vento sospirava tra gli alberi. Che cosa sapevo di lui? Niente, se non che aveva lasciato un lavoro importante alla City per gestire un ostello di ragazzi sbandati e senza tetto; che la polizia non si fidava di lui e sospettava che nella sua casa si spacciasse droga; che era scostante, ombroso e aveva un brutto carattere. Lo volevo in quel momento perché era così diverso dall'esuberante Albie, e perché sembrava un corvo, un uccello solitario. Volevo raggomitolarmi nella sua miseria sfilacciata e far stare meglio entrambi. Alla fine non dovetti cercare Will, perché fu lui a venire da me. La sera successiva, dopo che ero già andata a dormire, suonò il campanello. Mi infilai la vestaglia e guardai l'orologio. Era mezzanotte passata: probabilmente Julie aveva di nuovo dimenticato la chiave. Andai alla porta a tentoni, ancora ingarbugliata in strani sogni. Me lo trovai davanti e, quando mi vide, alzò un po' le spalle. «Non riuscivo a dormire» disse. Mi scostai e lui salì le scale davanti a me. Andò a sedersi sul divano. Gli versai un bicchiere di whisky e ne presi uno anch'io, più piccolo. Ero imbarazzata di avere i capelli scompigliati e la vestaglia in cattivo stato. Non mi veniva in mente niente da dirgli. Sembrava così grande ed estraneo al mio appartamento. Come avevo fatto ad avere il coraggio di baciarlo, di fantasticare su di lui? Rimanemmo in silenzio a sorseggiare il whisky. Non si era neanche tolto il soprabito, e fissava il bicchiere come se contenesse una risposta. Alla fine fui io a fare la prima mossa, perché non sopportavo più di continuare a stare seduta in quel pesante e tetro silenzio. Andai al divano e mi chinai su di lui. Non lo baciai: sarebbe apparso un gesto troppo intimo. Gli sbottonai il soprabito e poi la camicia e lui si appoggiò all'indietro mostrando il petto pallido e chiudendo gli occhi, mentre lo toccavo con mani
esitanti e lo osservavo. Sollevò le mani e mi prese il viso a occhi chiusi. Mi sedetti a cavalcioni sulle sue gambe, aprii la vestaglia e gli premetti la testa contro il seno, sentendo battere il mio cuore. «Dovresti fare attenzione» mormorò. Non sapevo di che cosa stesse parlando. Non me ne importava. Eravamo degli estranei in cerca di conforto. Fuori la pioggia scrosciava a ondate contro la finestra. CAPITOLO 25 Quando il telefono squillò, mi sembrò un'ora assurda. Fuori era buio. Avevo le palpebre appiccicate. Quanto avevo dormito? Ero nel mio letto, ma avevo una strana sensazione. Non ero dal solito lato, ma da quello di Albie. Mi allungai e mi accorsi con una fitta allo stomaco che ero sola. Will se n'era andato. «Sì?» fu l'unica cosa che riuscii a dire. «Parlo con Kit?» «Chi parla?» «Furth. Tutto bene?» «Che cosa?» domandai stupidamente. «Scusa, mi hai appena svegliato.» «C'è una macchina che sta venendo a prenderti. Ce la fai a prepararti?» «Per quale motivo?» «Il capo vuole vederti all'ospedale.» «Che ospedale?» Ci fu una pausa. «Che t'importa di quale ospedale?» «Non so. Che cosa è successo?» «Non ho tempo adesso. Ti metto al corrente quando arrivi. Ce la fai? O devo dire che non riesci a venire?» Il mio cervello si stava mettendo in moto, anche se lentamente, come una lucertola distesa al sole su un sasso. Riuscii, comunque, a capire che Furth sperava mi scusassi e sbattessi giù il telefono. «Non ci sono problemi» risposi, invece. «Dove ci vediamo?» «Lo sa l'autista» bofonchiò lui, e mise giù il telefono. L'auto stava arrivando. Avevo solo due minuti. Andai di corsa alla doccia, aprii l'acqua fredda e pensai a Will, al modo in cui ci eravamo tenuti stretti, come due nuotatori che stanno annegando. Quale dei due stava portando l'altro a fondo? Che cosa diavolo era successo? Perché se n'era anda-
to in quel modo, come un ladro? Poi aprii l'acqua bollente, in modo che mi bruciasse la pelle. Ripensai alla sua espressione quando era venuto dentro di me, quasi un singulto, un'intimità che da tanto mi mancava. Poi ero venuta anch'io, semplicemente vedendo lui. Mi aveva tenuta così stretta che mi aveva spaventata e ora non c'era più. Era tutto qui? Bene, pensai. Bene che cosa? Mi asciugai rapidamente e cominciai a vestirmi. Mi stavo abbottonando la camicetta quando arrivò Julie, nuda. Evidentemente non aveva mai visto quei film in cui l'attrice, scendendo dal letto, si avvolge immediatamente in un accappatoio. Mi ero domandata se volesse mettere in mostra il suo seno così maledettamente prosperoso per un corpo tanto sottile, ma sapevo che non era così. Semplicemente non ci faceva caso, cosa che trovavo ancor più allarmante. «Che cosa succede?» mi domandò. «La casa è in fiamme?» «Lavoro. Pare sia successo qualcosa. Non so che cosa.» «Mio Dio, sembra una cosa importante.» «Non lo so. Mi hanno appena telefonato.» Non mi sentivo ancora così sveglia da formulare frasi complesse. «Vuoi un caffè?» «Non penso ci sia tempo. Stanno per venire a prendermi in macchina.» Julie mi sorrise. «Ho sentito che hai avuto compagnia.» «Chi te lo ha detto?» «No, voglio dire, vi ho sentiti. Attraverso il muro.» «Ma per l'amor del Cielo, Julie...» «No, no. Non ci potevo fare niente. Sono i muri. Sono come carta.» Mi sentii avvampare. «Be', è molto imbarazzante. Mi dispiace non averti fatto dormire. Pensavo fossi via.» «Sono ritornata. Ma non devi sentirti in colpa. Mi ha fatto piacere. Ti meriti un po' di divertimento.» «Non è stato proprio un divertimento» risposi, sentendomi una zia vecchia e bigotta. «Davvero?» fece lei, assumendo ora un'espressione preoccupata. «A me sembrava vi divertiste. Chi era lui?» Sbuffai un po' stizzita. «Per combinazione era Will. Will Pavic.» «Cristo. È strano. Voglio dire, bene. Pavic. Dio. È sveglio?» «No, a dir la verità se n'è andato.» «Andato? Giusto. Will Pavic. È incredibile. Quando torni, voglio sapere tutti i particolari.» «Julie! Uno, non ti racconterò un bel niente. Due, mi pare che tu sappia
già tutto.» Ci fu uno squillo alla porta. Nel silenzio delle due e mezzo di notte sembrava un allarme antincendio. «E, tre, devo andare.» Mentre uscivo, Julie stava dicendo: «Will Pavic. È fantastico. Ma non è un po' strano?» Scossi il capo e uscii. L'automobile fuori sembrava un minitaxi. Un uomo in divisa mi tenne la porta aperta. «La dottoressa Quinn?» «Mi porta dall'ispettore Oban?» «Non lo so. La devo lasciare al St. Edmund.» «Bene.» Durante il tragitto gli domandai se sapesse di che cosa si trattava. Quando mi rispose di no, rimasi in silenzio a guardare fuori del finestrino. Era notte fonda, ma Londra non è mai veramente ferma. C'erano camioncini dei giornali, automobili, gente che camminava, persone che finivano la giornata mescolate a chi la cominciava. Sentii il polso accelerare. Passai in rassegna varie ipotesi. Un altro assassinio. Un arresto. Che cosa poteva essere successo di tanto importante? «È una vera dottoressa?» mi domandò l'autista. «Più o meno.» «Conosce qualcuno in questo ospedale?» «Non a quest'ora della notte.» L'auto si fermò all'entrata del pronto soccorso del St. Edmund. Fuori c'era un poliziotto in divisa che sembrava un portiere. Appena scesi dall'auto, borbottò qualcosa alla radio sul risvolto della giacca. E ricevette una risposta gracchiante e incomprensibile. «Sono Kit Quinn» dissi. «Sì. La porterò di sopra.» L'ospedale è uno di quei posti che non chiudono mai del tutto, come gli aeroporti e le centrali di polizia. E mi piace proprio per quell'interminabile brusio, che continua anche quando fuori è buio e i bravi cittadini sono a letto. All'esterno c'erano delle ambulanze, un dottore e un'infermiera ci superarono di corsa, si sentivano richiami a voce alta da varie parti. Una giovane donna pallida con un soprabito bianco era seduta in un angolo, con un caffè e un panino dall'aspetto poco invitante, mentre un tizio stava cercando di riempire un modulo. L'ufficiale mi condusse oltre, per delle scale e poi per un lungo corridoio. Sul fondo vidi Oban, seduto su una panca. Anche lui mi scorse da lontano, così, prima di poter parlare, passarono alcuni imbarazzanti secondi, durante i quali mi fece un cenno e abbassò poi gli
occhi a osservarsi le unghie con molto interesse. Non riuscii a leggere la sua espressione. Triste? Trionfante? Era difficile da interpretare. Sembrava un parente ansioso che aspetta notìzie, un padre in attesa, ma preoccupato. E aveva un pessimo aspetto. Arruffato, non rasato, grigio per la fatica. «Grazie di essere venuta, Kit» borbottò. «Allora, che cosa c'è? Un altro omicidio?» «No» disse, e con uno sforzo palese tentò di sorridere. «Penso di aver vinto la scommessa con te. Se era una scommessa. Mi piacerebbe esserne più contento.» «Che scommessa?» «Mi pareva di averti detto che il nostro assassino andava in giro in macchina e che avrebbe colpito di nuovo se ne avesse avuto l'occasione. Tu eri dubbiosa. Ora ha colpito di nuovo. O almeno ha cercato.» «Che cosa vuoi dire? Chi c'è qui dentro?» «La signorina o signora Bryony Teale, di trentaquattro anni.» «È ferita in modo grave?» «No, non fisicamente. Ho chiesto a un dottore di venire a parlarti.» «Che cosa è successo?» «Bryony Teale stava stupidamente camminando lungo il canale stasera. C'è gente che si comporta come se fossimo in un paesino. Ed è stata avvicinata e aggredita da un uomo. Fortunatamente sull'argine sono sbucate due persone e quell'uomo è fuggito. Hanno detto di aver sentito una macchina andar via di corsa.» Rimasi in silenzio, riflettendo sull'accaduto. «Sei sicuro che ci sia un legame?» «Ci stiamo lavorando. Ma il posto era quello, quasi lo stesso punto dove abbiamo trovato il corpo di Lianne. Mi sembra un fatto significativo.» «Maledizione. E ci sono testimoni?» «Due.» «Hanno visto la macchina?» Oban scosse il capo tristemente. «Sarebbe troppo facile, non ti pare? Hanno aiutato Bryony. Era in uno stato pietoso.» «E lei non ha detto niente?» «Non ancora. È sotto shock, non riesce quasi a parlare.» «Allora che cosa ci faccio io qui?» «Vorrei che fossi tu a parlarle. Adesso o dopo, quando sarà in grado. Voglio vedere quel che riesci a cavarne. Ipnotizzala, falle passare una luce davanti agli occhi, o un pendolino, fa' qualsiasi cosa, ma scopri quello che
sa.» «Naturalmente, e Seb?» «Non è il suo genere di lavoro. Non preoccuparti. A Seb ci penserò io. È meglio che sia una donna.» «Dottoressa Quinn?» Mi voltai e mi trovai accanto un medico, un uomo quasi pelato, molto pallido, circa della mia età e con un'espressione leggermente ostile. Eravamo qui a fargli perdere tempo e a occupare spazio. Aveva l'aria di chi doveva essere in almeno altri due posti. «Sì.» «Sono il dottor Steen. Mi pare lei voglia sapere in che condizioni è Bryony Teale.» Guardò sulla cartellina. «Non è mia paziente, ma ho guardato la sua cartella. Non presenta ferite, se non qualche abrasione superficiale. È in stato di shock, cosa comprensibile. Il dottor Lander le ha somministrato le cure del caso, l'ha idratata, riscaldata, e la tiene sotto osservazione. Dovrebbe star meglio domani mattina.» «Ha una famiglia? È stato avvertito qualcuno?» Steen scrollò le spalle. «Non è mia paziente, mi dispiace.» «Posso parlare con lei?» Guardò la cartellina con aria sconsolata, come se si aspettasse di trovare la risposta alla mia domanda. «Non so. Potrebbe non essere una buona idea.» «Non importa. Sono abituata a pazienti come lei. Non sarò invadente.» «D'accordo. C'è un'infermiera con lei, mi pare. Io devo scappar via.» E così fece. «Allora, vado a vederla?» «Prova.» Avevo la mano sulla maniglia, ma mi fermai. «Non capisco» dissi. «Mi pare che in un certo senso sia uno sviluppo positivo del caso. Abbiamo dei testimoni. Nessuno è stato ucciso. Perché questa tetraggine?» «Non sono tetro, solo confuso. E la cosa non mi piace.» «Che cosa vuoi dire?» «C'è una cosa che non ti ho detto.» «Sarebbe?» «Questi due testimoni, quelli che hanno messo in salvo Bryony...» «Sì?» «Uno di loro è Mickey Doll.»
CAPITOLO 26 Mi sarebbe piaciuto vedere la mia faccia. «Doll?» ripetei stupidamente. «Doll?» Oban mi fissò tristemente e annuì. «È di nuovo un testimone?» «Già.» «Ma è...» mi interruppi. Non sapevo che cosa dire o che cosa pensare. «Sì.» «Ma perché?» «Ci sto lavorando.» Ci fu una lunga pausa. Non riuscivo a muovermi, a parlare e nemmeno a pensare. «Allora» dissi alla fine, «è meglio che vada da questa signora.» La prima cosa che mi colpì furono i capelli, lunghi e del colore delle albicocche mature. Poi notai le mani, strette a pugno sul lenzuolo che la ricopriva. Mi avvicinai al letto seguita dall'infermiera di turno, una donna enorme che camminava con un'andatura dondolante, facendo scricchiolare il linoleum logoro con le scarpe. «Non la agiti, adesso» mi disse, prendendo uno dei polsi sottili di Bryony fra le sue enormi dita e trattenendolo per un minuto, con la testa piegata di lato come fosse in ascolto. Poi se ne andò scricchiolando, e la porta si chiuse con uno scatto dietro di lei. «Salve, Bryony» dissi e lei mi guardò come se non riuscisse a mettermi a fuoco. Aveva le pupille dilatate. Portai vicino al letto una sedia di metallo e mi sedetti, accorgendomi di aver indossato delle calze spaiate. «Mi chiamo Kit.» «Salve» mormorò, sforzandosi di mettersi a sedere e facendo cadere in avanti i capelli arancione chiaro. Aveva un volto interessante, con zigomi pronunciati e la mandibola decisa. Gli occhi erano di un marrone chiaro, quasi dorati. «Adesso lei è sotto shock, ma è al sicuro. Non deve aver paura. D'accordo?» Annuì e fece un mezzo sorriso. «Mi dispiace» disse a bassa voce. «Mi dispiace essere così debole.» Le sorrisi a mia volta. «Non si scusi. Ha bisogno di qualcosa? Del tè? Qualcosa da mangiare?» «No.» «Si sta facendo giorno» feci un gesto indicando la piccola finestra. Di fuori la luce stava diventando grigia. «La notte è quasi finita.»
«Voglio andare a casa.» «Sono sicura che potrà farlo molto presto. Dove abita?» «A casa» ripeté vagamente e si portò una mano alla testa. «Perché mi sento così strana?» «Ha avuto un'esperienza traumatica. È normale sentirsi strani.» Si passò le dita sul volto, come per tastare i propri lineamenti e ricordare chi fosse. «Che cosa è successo?» «Non si ricorda?» Oban sarebbe stato ancor più tetro, venendo a sapere una cosa del genere. «Mi ricordo qualcosa, come attraverso una nebbia. Mi dica che cosa è successo. Per favore.» Si allungò un poco e mi toccò il dorso della mano dolcemente. Pensai a quei pochi secondi confusi alla centrale di polizia di Stretton Green, la sensazione di calore del sangue sul volto. «È stata aggredita presso il canale questa notte. Ma è stata fortunata. Due uomini le sono venuti in aiuto e il suo aggressore è fuggito. Ovviamente qualsiasi cosa si ricordi ci sarà di aiuto, ma non si sforzi. Lasci che le cose affiorino da sé, non opponga resistenza.» Annuì e si sedette più diritta, tirando su il lenzuolo. «Mi fa male la testa e ho sete. Potrei avere un bicchiere d'acqua?» Le versai dell'acqua in un bicchiere di plastica e glielo diedi. Lo prese con la mano che tremava violentemente, tanto da rovesciarne qualche goccia sul lenzuolo, e dovette tenerlo fermo con l'altra mano. «Grazie» disse. «Mio Dio, come sono stanca. Sono così stanca. Sta arrivando Gabriel?» «Gabriel?» «Mio marito.» «Sono sicura che la polizia lo avrà avvertito.» «Bene.» Si appoggiò di nuovo e i capelli si sparsero sul cuscino. «Prima di mettersi a riposare, potrebbe dirmi che cosa ricorda?» «Ricordo... ricordo un'ombra nel buio.» Chiuse gli occhi. «E qualcuno che urlava.» Gli occhi le si spalancarono all'improvviso. «Non riesco» disse. «Per favore, non adesso. È tutto confuso. Se tento di ricordare, le immagini svaniscono, come quando si cerca di ricordare un sogno. Un sogno orribile.» «Non importa. Si prenda del tempo. Ha riconosciuto la persona che l'ha assalita?» «No! No, sono sicura che altrimenti me la ricorderei. O no?»
«E gli uomini che l'hanno aiutata?» domandai nel modo più neutrale possibile. «Che cosa?» Sbatté gli occhi e si sfregò il volto. «Li aveva visti prima, quei due uomini?» «Visti? No. Non so. Non so. Chi sono? Aspetti un momento.» Mi alzai e andai alla piccola finestra, dove il giorno stava spuntando. Di fronte c'era un'altra camera. Vidi un letto vuoto, un comodino, un telefono su un carrello, uguale a quello della stanza di Bryony. Avevo il cervello in ebollizione. Che cosa diavolo ci faceva Doll in quel luogo? Avrei dovuto parlare anche con lui. In seguito, però. Avevo la bocca impastata per il whisky trangugiato la sera passata, gli occhi che mi dolevano nelle orbite. Sentivo il bisogno di un caffè. «Non lo so» disse alla fine. «Mi dispiace.» «Bryony.» Mi voltai di nuovo verso di lei. Mi stava fissando, aspettando che parlassi. «È molto importante che, se ricorda qualcosa, qualsiasi cosa, anche un dettaglio irrilevante, lo dica a qualcuno. Alla polizia o a me. Ma ne parli. D'accordo?» Annuì. In quel momento la porta si aprì e Oban si affacciò nella stanza. «Signora Teale» disse, «c'è una persona per lei. Suo marito sta per arrivare.» «La lascio, adesso, ma verrò a vederla più tardi, se non le spiace» dissi, dirigendomi verso la porta dove mi aspettava Oban, l'ampia fronte affaticata e accigliata per l'ansia. Mi fece cenno di sì con il capo e socchiuse gli occhi. «Ebbene?» sibilò Oban non appena fummo nel corridoio. «Non ricorda molto.» «Maledizione» esclamò. Poi ripeté: «Maledizione, maledizione». «Ma ci riuscirà. Adesso è sotto shock. Dalle tempo.» «Tempo, dici. Il tempo è proprio ciò che non abbiamo. E se dovesse colpire di nuovo?» Un uomo alto ci passò davanti. Immaginai fosse il marito. Aveva il naso diritto, capelli e sopracciglia folti e scuri. Mi ricordava la figura di un imperatore romano su uno dei libri che avevo da bambina. «Vuoi che le parli più tardi?» domandai a Oban. «Lo faresti?» «Certo. E, come hai detto tu stesso, penso sia meglio che le parli una donna, visto quel che è successo.» «Già.»
«E Doll? Dovrei vedere anche lui?» «Maledizione» disse di nuovo. «Non lo so. Adesso è alla centrale a fare una dichiarazione.» «Allora non è stato lui ad assalirla, no?» domandai cautamente. «Mio Dio, Kit, chiedimelo tra qualche ora. Anche l'altro testimone è alla centrale. Un tipo a posto, una volta tanto.» «Un uomo in abito scuro con cellulare, vuoi dire.» «Proprio così. In ogni modo, adesso vado là e spero di scoprire qualcosa di più.» Fece un grugnito disgustato. «Forse.» «D'accordo. Allora fammi uno squillo. Sul cellulare, potrei essere fuori.» «Va bene, grazie.» Aveva un tono preoccupato. Si riusciva quasi a sentire il suo cervello mulinare, come una ruota nel fango. Poi aggiunse: «Sai che cosa mi fa veramente incavolare?» «Che cosa?» «Che abbiamo tre testimoni, se contiamo quel maledetto Mickey Doll. Uno è una bambina che ha perso la mamma. L'altro è sotto shock. E l'ultimo è un maledetto pervertito e uno spostato che non riesce a mettere tre pensieri insieme e che oltretutto è sospettato, o lo sarebbe, se fosse possibile. Ho bisogno di un attimo di respiro.» «Datti tempo. Forse sei a una svolta.» «Forse.» «A dopo, allora.» Un'auto della polizia mi riportò a casa di primo mattino, ma le strade erano già piene di automobili. I selciati bagnati luccicavano al sole. I giornalai stavano tirando su le saracinesche di metallo e i fruttivendoli asiatici sistemavano arance e cestini di prugne in piramidi, fuori dei negozi. Un camion della spazzatura procedeva lentamente, raccogliendo i sacchi dell'immondizia lasciati sul lato della strada. Mi appoggiai allo schienale e osservai Londra che mi passava davanti. Pensai a Will, al suo volto aggrottato al lume di candela, e a Bryony Teale con quei capelli color albicocca, il sorriso, le mani tremanti. La immaginai accanto a Lianne e a Philippa. Mi toccai la cicatrice. Benvenuta nel club, pensai. Poi cercai di non pensare più a niente. CAPITOLO 27 Julie era ancora a letto. La sentii rigirarsi sul divano nella camera che
molto tempo fa era stata il mio studio. Misi l'acqua sul fuoco e riempii il macinino di grani di caffè. Cercai di non fare troppo rumore, ma sentii Julie bofonchiare attraverso le pareti. Annusai profondamente il caffè. Nel frigo trovai una pesca, che divisi in quarti e misi su un piatto, e un barattolino di yogurt greco. Sorseggiai lentamente il caffè forte e ricco, e intanto mangiai a piccoli bocconi la pesca e a cucchiaiate lo yogurt. Erano le sette. Dovevo organizzare un incontro con Doll e forse anche con l'altro testimone. Dovevo andare a trovare Bryony Teale. E volevo vedere Will. Mi toccai il collo e la guancia: la pelle era soffice e tenera. Chiusi gli occhi e lasciai che il viso di Will mi affiorasse alla mente. Forse non avrebbe voluto rivedermi, forse era finita così, dopo qualche ora nel mezzo di una notte insonne. Julie entrò barcollando, con indosso una camicia da uomo che somigliava tremendamente a una di quelle di Albie. Dove l'aveva pescata? «Ciao» disse distrattamente, e andò al frigo. Si versò una tazza di latte e lo bevve d'un fiato. Poi si voltò verso di me con dei baffi bianchi sul labbro superiore. «Tutto bene?» «Direi di sì.» «Emergenza passata?» «Per ora.» «Bene. Vuoi una fetta di pane tostato?» «No, grazie.» Andai alla finestra, e rimasi a osservare la strada, come se Will dovesse passare di lì. «Vorrei...» mi interruppi. «Sì? Dimmi.» Avevo il suo numero di casa. Perché no? Lo chiamai. Il telefono squillò parecchio prima che rispondesse, e poi la sua voce impastata bofonchiò qualcosa come un «Unngh». «Sono io, Kit.» Ci fu un altro suono incomprensibile seguito da una pausa. Forse stava riorganizzando i pensieri. «Ti sei svegliata adesso?» «Sono appena tornata a casa.» «Che cosa vuoi dire?» «Sono stata chiamata fuori.» «Oh.» Ci fu una pausa. «Hai voglia di fare colazione?» «Adesso?» «Che ore sono?» Udii dei tramestii e un grugnito. «Ci vediamo alle ot-
to?» «Da te?» «Non mangio quasi mai a casa.» Rimasi delusa. Volevo vedere la sua casa. Si dice che a casa propria si è più forti, ma non è vero. Il proprio territorio è il luogo in cui si è più vulnerabili, poiché rivela quel che siamo. Per qualche ragione trovavo difficile immaginare che Will Pavic avesse una casa sua. Mi diede le istruzioni per arrivare a ciò che descrisse come un caffè piuttosto essenziale, dove si fermava andando al lavoro. Misi giù il telefono. Quante ore di sonno avevo avuto? Una, forse due. Mi sembrava di avere un omino piccolissimo dentro la testa, che mi pungeva dietro gli occhi con degli spilli leggermente caldi. Andai in bagno, riempii il lavandino di acqua fredda, ci immersi il viso e lo tenni sotto il più possibile. Mi guardai allo specchio con l'acqua che colava. Era reale quello che era successo la notte scorsa? Ora i ricordi erano offuscati, slegati, come in un sogno. Quella faccia, la mia, era la miglior prova che qualcosa era successo. Ero pallida e avevo gli occhi cerchiati. Che bell'aspetto! L'Andy's Café era pieno di fumo e di persone in giacca a vento e scarponi pesanti. Will mi fece un segno con la mano da un angolo lontano. Mi sedetti davanti a lui e non ci toccammo. «Io prendo uova fritte con tutto il resto, e tu?» «Solo un caffè.» «Non ti consiglio il loro caffè.» «Un tè, allora.» «Niente da mangiare?» «Ho preso qualcosa a casa.» La colazione di Will arrivò su un grande piatto ovale insieme a due tazze di tè dal tipico colore marrone scuro. Will caricò sulla forchetta un po' di uovo, bacon e pomodoro. «Mi dispiace» disse, prima di infilarsi il boccone in bocca. «Di che cosa?» Dovette masticare a lungo e ingoiare prima di poter rispondere. E bevve anche un sorso di tè. «Di essermene andato in quel modo. Ho difficoltà a dormire. Divento irrequieto. A quel punto è meglio che vada via.» Non dissi nulla e Will continuò a mangiare. Senza guardarmi. «Non devi scusarti. Vorrei che tu fossi onesto con me. Sono stanca di fare giochetti con le persone. Sono proprio stanca.»
Will raccolse del tuorlo con un pezzo di pane fritto. Era quasi più di quanto potessi sopportare a quell'ora del mattino. Se lo mise in bocca e prese a masticare vigorosamente. Si pulì la bocca con un tovagliolo di carta e alzò gli occhi per guardarmi. E allora mi accorsi di come lo facesse raramente. Di solito guardava di lato, o sopra le mie spalle. L'avevo visto nudo, ero stata a letto con lui, eppure non l'avevo quasi guardato negli occhi. Aveva qualche anno più di me, doveva essere sui quaranta, ma sembrava più vecchio. I capelli gli stavano diventando grigi e il viso era segnato da minuscole rughe sugli zigomi particolarmente pronunciati. Ma gli occhi erano grigi e molto chiari, come quelli di un bambino. «Era solo che» cominciò, colorandosi un poco sul viso. «Ti ho guardata mentre dormivi. Ti ho tolto i capelli dal viso. Dormivi profondamente.» Sorrise leggermente. «Eri bellissima.» «Senti, non devi... So che non sono...» «Sta' zitta e ascolta. Quel che cercavo di dirti è che sembravi diversa. Era la prima volta che non ti vedevo triste o in ansia o...» Esitò e poi disse: «O troppo fiduciosa». «Troppo fiduciosa» ripetei. Quanto era patetico, mi faceva sentire come un cane che sta per essere preso a calci. «Avevi l'aria un po' triste anche quando sei venuta da me e mi hai baciato. Ma quando dormivi e non sapevi di aver qualcuno vicino, sembravi così giovane e pacifica.» Bevvi il tè rimasto. Era diventato ancor più scuro e amaro. «E» continuò «ho avuto l'illuminazione improvvisa che la cosa migliore che potevo fare per te era non restare.» «Non ho bisogno di essere protetta. So decidere da sola quel che è meglio per me. E comunque penso che tutto sommato tu sia abbastanza felice, nel tuo tetro modo di fare. Soprattutto considerato il numero di persone che ti odiano. È incredibile. Avrei pensato che andare d'accordo con la polizia e i servizi sociali facesse parte del tuo lavoro.» «Non ho un lavoro» rispose Will accigliandosi. «Molti ragazzi cerco di tenerli alla larga dalla polizia e dai servizi sociali.» «Parli come se fossero lì fuori, pronti a prenderti.» «Lo sono.» «Ho sentito dire che si spaccia droga nell'ostello. Ti potrebbero accusare di favoreggiamento. Potresti beccarti dieci anni.» «Che vadano a farsi fottere.» «Ma tu permetti che si spacci?»
Fece un grugnito vago. «Non ho registratori nascosti, sta' tranquillo.» Scrollò le spalle. «Hai visto il posto. Ovviamente teniamo fuori gli spacciatori. Ma è il loro mondo. Cerchiamo di aiutare quei ragazzi. È complicato. Non è come leggere una relazione a un seminario.» «Sai che cosa penso?» A quel punto si concesse di distendere i lineamenti e apparire più o meno di buon umore. «No, Kit. Non so che cosa pensi.» «Penso che in fondo in fondo non ti dispiacerebbe essere arrestato e mandato in galera, solo per confermare la tua visione del mondo.» «Non mi interessano questi bei gesti.» «Dipende se consideri il martirio un gesto.» Lo guardai, incerta se sarebbe montato su tutte le furie o avrebbe fatto la sua risata sarcastica. Apparve insicuro. «Forse è lusinghiero essere odiati» disse alla fine. «Penso che questa potrebbe essere una delle definizioni della paranoia. Forse l'idea che tutti ci prendano di mira è preferibile al timore di essere ignorati.» «Ma hai appena detto che potrebbero realmente arrestarmi.» «Già. L'avevo dimenticato. Mi chiederai mai di venire a casa tua?» «Che cosa intendi?» «Hai detto che hai difficoltà a dormire in luoghi poco familiari. Sono curiosa di vedere come ci riesci nel tuo letto.» Guardò l'orologio. «Ti inviterei adesso, ma sono le nove meno venti. Devo incontrare delle persone.» «Non volevo dire questo.» Sul viso gli passò un'espressione di imbarazzo che non gli avevo mai scorto prima. «Certo. Quando vuoi.» «Che ne dici di stasera?» «È una possibilità. Ti devo solo avvertire, tra le varie cose, che la casa è molto austera. Voglio dire, che manca il tocco femminile.» «Sono contenta di sentirtelo dire.» Improvvisamente si fece più serio. «Non aspettarti troppo da me, Kit» disse, ritornando al solito tono più secco. Feci un sospiro. «Non penso di aspettarmi molto» risposi sbadigliando. «Stanca?» «Penso che oggi sarà un po' dura.» «Che cos'è successo la notte scorsa?»
Mi appoggiai allo schienale della sedia e lo guardai. «Vuoi veramente saperlo? Non è molto interessante.» «Sì, voglio saperlo.» Allora ordinai altri due tè e gli riassunsi gli eventi della notte all'ospedale. «E che cosa farai adesso?» mi domandò, quando ebbi finito. «Era in stato di shock quando l'ho vista. Tornerò a parlarle nei prossimi giorni e vedrò se riesco a scoprire qualcosa.» «Camminare lungo il canale dopo mezzanotte» fece Will con sdegno. «Da non crederci!» «Vuoi dire che se l'è cercato?» «Voglio dire che è un'idiota.» Bevve un sorso di tè. «Come si chiama il marito?» Ci pensai un momento, cercando di dissipare dal cervello la aebbia, spessa come zuppa di piselli. «Gabriel» risposi. Di nuovo il sorriso sarcastico. «Lo conosci?» «So chi è.» «Chi è?» «Hai sentito parlare di quel teatro che ha aperto in uno dei capannoni vicino alla ferrovia? Il Sugarhouse o qualcosa del genere. Mimi ungheresi, artisti che camminano sui trampoli. È lui.» «Mi pare di averne sentito parlare.» «Sovvenzioni provenienti dal gioco del lotto. Progetti per ridare vita alla comunità. Dovrebbe andarsene al diavolo, tornare a Islington, e non assalirebbero più sua moglie.» «Ridar vita alla comunità è il tuo lavoro, no?» Will non rispose ma fece scorrere il dito sul bordo della tazza. Poi mi guardò. «Che cosa stai facendo?» «Che vuoi dire?» «Voglio proprio dire questo, che cosa stai facendo? Stai cercando di fare ottenere qualche risultato alla polizia o pensi che riuscirai a prendere l'assassino da sola?» «Sono una consulente, tutto qui» risposi a disagio. «Non devi convincere me. Che cosa ne so io? Da quel che capisco c'è un tizio che va in giro in macchina a uccidere le donne. Sono persone pericolose, bisogna prenderle. Tutto questo è chiaro. Ma non capisco quello che vuoi fare tu. O perché. Perché sei così coinvolta? Che cosa stai cercando?» Con il dito mi sfiorò gentilmente la cicatrice sul volto, facendomi rabbri-
vidire. «Sei già stata colpita una volta. Non ti basta?» Gli presi la mano. «Smettila. Ti dovrei presentare dei detective. Sembra che pensiate tutti la stessa cosa di quel che sto facendo. Ma intanto devo farlo, questo lavoro inutile.» «Non ho detto che sia inutile. Ho detto che non lo capisco.» Mi piegai e lo baciai. «Il problema, a dir la verità, è che di solito si capisce solo alla fine, quando è troppo tardi, se sia stato utile o no. Arrivederci.» «A stasera?» «Vuoi che venga?» «Vuoi che te lo chieda in ginocchio?» Mi guardai intorno. «Non qui. Senti, sono qua, fiduciosa, come mi hai definita tu. E te l'ho detto che volevo vederti di nuovo, stasera, a casa tua. E tu?» «Sì» rispose con voce così bassa che sembrava un sussurro. «Sì.» Ci fissammo. Quando me ne andai era ancora lì, seduto, con il piatto unto davanti, il tè freddo e il volto duro. Dopo dodici ore l'avrei di nuovo abbracciato. CAPITOLO 28 Finalmente un testimone che parlava chiaro, diceva quel che pensava e discuteva di fatti concreti, senza permettere alle proprie congetture di falsare il giudizio. Mi strinse la mano con fermezza e si schiarì la gola prima di parlare. Gli occhi mi bruciavano fastidiosamente e mi sentivo intossicata da tutto il caffè e tè forte che avevo bevuto quella mattina. «Dottoressa Quinn» mi presentai. «Terence Mack, ma mi chiamano Terry.» «Ha l'abitudine di andare a passeggio lungo il canale dopo la mezzanotte?» gli domandai. Sospirò: «Non penso che uno come me debba preoccuparsi». In effetti aveva ragione: era un uomo energico, con polsi e nocche pelosi e sproporzionati lobi delle orecchie. L'abito grigio gli stava un po' stretto sul petto; sopra la camicia bianca indossava una cravatta a righe rosse e nere che mi dava il voltastomaco. Anche lui doveva esser stato sveglio quasi tutta la notte, ma non sembrava affatto stanco. Stava seduto diritto e vigile. Nonostante ciò, non ci fu di alcun aiuto. Come quasi tutti i testimoni, aveva capito quel che era successo solo a cose fatte. Avevo la sua dichia-
razione davanti. Era breve e precisa; aveva anche preso nota dell'ora esatta dell'aggressione: l'una e diciannove minuti secondo il suo orologio, che era esatto, si poteva esserne certi. Stava camminando lungo il canale, disse, perché aveva incontrato dei clienti di Singapore al vicino Pelham Hotel, e poi non era riuscito a trovare un taxi. La stradina lungo il canale era la via più breve per raggiungere l'incrocio trafficato vicino alla stazione di Kersey Town, dove c'era un parcheggio di taxi. «Stavo uscendo dal tunnel» mi disse. «Là dentro c'è luce. Quando sono uscito al buio, per un momento non ho visto nulla. Sa come succede.» Annuii. «Ho sentito un rumore e ho scorto delle sagome che si azzuffavano vicino all'argine. Poi mi sono praticamente trovato questa donna tra le braccia, che urlava.» «E che diceva...» guardai la dichiarazione «... "Aiuto! Aiuto, per favore, aiutatemi".» «Forse ha ripetuto "Aiuto" anche più volte, non ricordo con precisione. Urlava a un paio di centimetri dalle mie orecchie. Avevo i suoi capelli negli occhi e non riuscivo a vedere molto.» «E dopo non ha visto nulla.» «Solo quest'altro tizio.» «L'altro testimone?» Sollevò le sopracciglia cespugliose. «Un tipo dall'aria strana.» «Che cos'ha fatto?» «Chi?» «Il tipo dall'aria strana.» «Ha aiutato.» «Ed è sicuro che ci fosse un altro uomo?» «Che cosa vuol dire? Di che cosa pensa si trattasse?» Guardai di nuovo la dichiarazione. «Qui non ci sono descrizioni.» Apparve lievemente in imbarazzo. «Tutto si è svolto così rapidamente. Solo sagome nel buio e la donna tra le braccia. Non ho capito bene cosa stesse succedendo. Però ho preso nota dell'ora.» «Ha fatto bene. Com'era Bryony, voglio dire, la donna?» «Un po' scioccata. Un po' isterica. Diceva che andava tutto bene, che non aveva bisogno di niente, anche se era in uno stato terribile. Poverina. Sta bene adesso?» «È traumatizzata, ma si rimetterà in sesto, penso. Che cosa faceva Doll, l'altro signore, mentre lei telefonava?» «Non molto. La teneva stretta, si accertava che stesse bene. Certo non la
persona più indicata in caso di emergenza. Intanto lei piangeva, ma piano. Si reggeva al mio braccio, gemendo e chiedendomi di stare con lei. Era sotto shock, lo vedevo. Le mani le tremavano, ansimava. Spero che le abbiano dato del tè con molto zucchero, è la cosa migliore dopo uno shock. Posso farle una domanda?» «Certo.» «La persona a cui ho fatto la dichiarazione, un certo Gil mi pare, ha detto che l'aggressore probabilmente è lo stesso uomo che ha ucciso Philippa Burton.» «Ha detto questo?» «È vero?» «Non lo so.» «Avrei dovuto prenderlo. Avrei potuto. Non avevo capito quel che era successo.» «È sicuro di non ricordare nulla della quarta persona, altezza, colore dei capelli, vestiti?» Scosse il capo con rammarico. «È finito tutto così rapidamente.» «Ha visto dov'è andato?» «No. Suppongo su per i gradini che portano alla strada, ma non l'ho visto. Avrei dovuto seguirlo, vero?» «Ha telefonato per chiedere aiuto, questa è stata la cosa più importante. È compito della polizia correr dietro ai malintenzionati.» «Tremava. Le ho messo la mia giacca sulle spalle finché non sono arrivate la polizia e un'ambulanza.» «Bene. Ha fatto bene.» «L'assassino di Philippa Burton... Sarebbe stato proprio un bel colpo...» «Una bella signora» disse con voce tremante. «Una signora così bella e minuta.» «Michael» lo richiamai, cercando di catturare il suo sguardo che vagava per la stanza inquieto e a tratti si rivolgeva alla finestra che dava sul parcheggio. «Due volte» continuò con un tono strano, acuto. «Mi è capitato due volte, Kit. Ci sono stato due volte.» Aveva un aspetto terribile con quella ferita in suppurazione che partiva dalla narice sinistra, sfiorava l'angolo della bocca e arrivava al mento, distorcendogli il viso e fissando sulla bocca uno strano ghigno. Il taglio era gonfio e violaceo, e mi sembrava che lui avesse stuzzicato i punti, perché
dalla pelle gli uscivano le punte dei fili di nylon. Anche adesso, parlando, non riusciva a tenere le mani lontane dalla ferita, ma continuava a toccarla e a tormentarla. Aveva il labbro gonfio e continuava a fregarlo con la punta della lingua. Sulla fronte aveva una grossa escoriazione. Un occhio era iniettato di sangue. I capelli erano sporchi e i vestiti gli cadevano addosso, come se in un paio di settimane avesse perso parecchi chili. Emanava un cattivo odore, un odore pesante e acre che riempiva la piccola stanza. «Perché io, Kit?» domandò con voce nervosa. «Perché sempre io?» «Non lo so» risposi del tutto sinceramente. «Ma tu stai bene, no? Sei l'eroe del momento.» «Una bella donna» ripeté. I suoi occhi inquieti si fermarono su di me per un momento. «Non bella come te. Tu rimani sempre la più bella, non preoccuparti. Aveva i capelli soffici, però.» Emise un debole miagolio che mi fece rabbrividire. La sua dichiarazione era un groviglio di contraddizioni: aveva visto un uomo enorme, una specie di gigante, che cercava di strangolare Bryony; lei era sfuggita all'aggressore e si era buttata tra le sue braccia tese; lui l'aveva salvata; aveva visto l'uomo scappare su una giardinetta blu, anzi, forse non blu, ma rossa; e forse non era una giardinetta, ma a pensarci bene era scappato lungo il canale; Bryony era svenuta. «Dimmi solo quello di cui sei certo, Michael. Perché eri al canale a quell'ora di notte?» «Ero andato a pescare. È l'ora migliore, con la luna piena. Non c'è nessuno in giro che faccia rumore.» «Dov'eri? Proprio sul bordo?» «Al mio posto. Nascosto dall'oscurità, vicino al tunnel, dove nessuno mi vede, ma io posso vedere tutto.» «E che cosa hai visto?» «La donna. L'uomo che l'ha aggredita. E l'altro uomo. Terry. L'hai conosciuto? L'abbiamo aiutata, abbiamo fatto scappare l'aggressore e abbiamo salvato lei.» «Puoi descrivere l'aggressore?» «Un tipo grande.» «Nient'altro?» «No. Ho solo visto delle sagome e poi mi sono alzato. Penso di essermi alzato, non so esattamente, ero confuso. Tutti sarebbero stati confusi, Kit. Sono andato e mi sono aggrappato a lei in modo che lui non la prendesse.» «Sei sicuro? Sei proprio sicuro che sia andata in questo modo? Che tu
l'abbia tirata via?» «Certo.» Sorrise con la sua bocca deforme. «L'ho salvata. Sono sicuro di averla salvata. Lei se ne è resa conto? I giornali dicono cose terribili su di me, ma io l'ho salvata. Diglielo! Di' a tutti quello che ho fatto, Kit, tutti devono saperlo. Saranno dispiaciuti di quel che hanno detto di me. Saranno tutti dispiaciuti.» Si toccò di nuovo il viso e si leccò il labbro spaccato. «Che cos'è successo dopo?» «Dopo?» «Dopo che l'hai liberata.» «Poi quest'altro uomo è uscito dal tunnel, lei è corsa da lui e l'aggressore è scappato. Lei continuava a gridare. Non pensavo si potesse gridare così forte.» «Michael, senti. Cerca di pensare. C'è qualcosa che ricordi, qualcosa che hai visto o sentito, non importa che cosa, che non hai raccontato alla polizia o a me?» «Le ho accarezzato i capelli per confortarla.» «Sì.» «E l'altro uomo, quello che è uscito dal tunnel, ha detto, scusa la parolaccia, Kit, ha detto molto forte: "Che cazzo". Scusa» disse Doll con aria compunta. «Michael, adesso dove vai?» «Dove vado?» I suoi occhi si posarono su di me. «Non credo di poter venire da...» «Dovresti andare a casa. Prepararti un bel pranzo, cambiarti i vestiti, riposare.» «Riposare» ripeté. «Già, le cose mi sono sfuggite un po' di mano. Mi hanno dato delle pastiglie, ma non so dove le ho messe.» «Va' a casa, Michael.» «Sono al sicuro?» «La polizia ti protegge?» «Hanno detto che mi tengono d'occhio.» «Bene» dissi, e gli sorrisi. Mescolata alla confusione per quel che era successo, alla profonda stanchezza, al disgusto per Doll, provai una fitta di tenerezza, alquanto strana e poco gradita, nei confronti di quell'uomo con il viso sfregiato, gli occhi arrossati e la generale aria di impotenza e disperazione. «Penso che tu possa stare tranquillo. Non succederà più. Sta' solo attento.» «Kit. Kit.»
«Sì?» Ma non aveva niente da dirmi. Mi fissò per qualche secondo e i suoi occhi si riempirono di lacrime che gli colarono lungo le guance, gli passarono sul taglio e finirono sul collo sporco. Erano le undici. Avevo due ore, prima della riunione con Oban e Furth, e tre prima dell'appuntamento con Bryony Teale a casa sua. Pensai di andare a farmi una doccia e magari un riposino, ma poi, improvvisamente, mi parve di non essere più stanca, anzi, mi sentii particolarmente lucida, come se stessi sulla cima di un'alta montagna e respirassi aria pulita. Pensai di andare a prendere qualcosa da mangiare, ma l'idea del cibo mi diede la nausea. Avevo solo voglia di un bicchiere di acqua fresca che purificasse e diluisse il caffè amaro che avevo buttato giù. Uscii dalla centrale di polizia e mi comprai una bottiglia di acqua minerale; poi andai in un giardinetto lì vicino, dove c'erano delle panchine e dei cespugli di rose un po' appassite. Mi sedetti al sole e bevvi l'acqua guardando la gente che mi passava davanti. Il tepore era piacevole, dolce e confortante. Sospirai, chiusi gli occhi e sentii il sole farmi il solletico sul collo. Per la testa mi scorrevano le immagini, inconsistenti ma suggestive, degli eventi delle ultime ventiquattr'ore: il rantolo di Will, la sua mano sul seno. Lo rividi come mi era apparso quella mattina, molto attento a non promettermi niente. Ripensai al volto di Bryony sul cuscino dell'ospedale, ai suoi capelli arancione chiaro, agli occhi color caramello, alle mani tremanti. E poi a Doll, con la sua triste incoerenza e il volto deformato e sudaticcio. E infine ripensai all'altro testimone, Terence Mack, con quelle mani squadrate e irsute, che era rimasto momentaneamente accecato dalla luce del tunnel. Nessuno aveva visto la cosa più importante. Tutti guardavano nella direzione sbagliata. Il dramma era avvenuto nell'oscurità. Rimasi a riflettere a lungo su quella panchina, mentre il sole andava e veniva. La gente usciva dagli uffici e veniva a mangiare panini sul prato. Pensai ad Albie, ma mi sembrò ormai un ricordo lontano, l'immagine di un uomo che rideva, con la testa rovesciata all'indietro e i denti bianchi scintillanti; un perfetto estraneo. Era difficile credere che per mesi ero andata a dormire desiderando che fosse vicino a me e mi ero svegliata ricordando che mi aveva offesa e che non sarebbe mai più ritornato a prendermi tra le braccia e a dirmi che gli dispiaceva. Mai più. Non mi avrebbe mai più abbracciato e toccato. «Mai»: che parola dura, tagliente, netta come un coltello.
E stasera avrei visto Will. Sarei andata a casa sua e avrei fatto di tutto per farmi notare, e per un po' sarei stata felice. Mi alzai, e a fatica tornai a pensare a Bryony Teale. CAPITOLO 29 Oban mi aveva riferito al telefono, non certo per farmi un complimento, che Bryony Teale era disposta a parlare soltanto con me, che rappresentavo un orecchio femminile comprensivo. Andai da Bryony a piedi e, poco prima di arrivare alla casa, un'auto mi si accostò e una mano mi fece cenno di avvicinarmi. Poi comparve Oban. Aprì la portiera e mi invitò a sedermi accanto a lui sul sedile posteriore. Disse che voleva parlarmi prima che andassi da Bryony. Avrei preferito rimanere fuori, anche se la giornata era grigia, ma Oban era ovviamente più a suo agio in auto: era il suo ufficio mobile. «Carino» dissi guardando fuori del finestrino. «Però è una brutta zona» aggiunse Oban con disappunto. L'abitazione dei Teale faceva parte di una fila di case a schiera disposte su una linea curva. Le case erano alte e strette, tardo-vittoriane. Alcune erano malandate, una aveva le finestre sbarrate da assi, ma altre mostravano i segni evidenti che la zona stava salendo di tono: portoni dai colori brillanti con pomoli e battenti di ottone, muri di mattoni con i giunti appena rifatti, imposte di metallo alle finestre dei piani inferiori. Oban mi indicò un punto in fondo alla strada. «Dieci anni fa, là si è verificato un brutto incidente.» «Che cosa è successo?» «Un paio di ragazzini stavano percorrendo questa strada per andare a Euston Road, quando si sono imbattuti in una gang di altri ragazzini, che li ha inseguiti e ha preso uno di loro vicino a quelle rotaie. L'hanno picchiato, e alla fine qualcuno l'ha ammazzato con una coltellata.» Tornò a guardare la casa. «Non capisco come mai ci sia gente che voglia venire a stare qui.» «Ho sentito dire che stanno cercando di migliorare la zona.» Oban fece una smorfia. «Già. E questo è il ringraziamento che ricevono. Sono così maledettamente ingenui. Tutto questo l'ho già visto. La signora che cammina lungo il canale come se fosse una stradina di campagna. Voglio dire, non sono un grande ammiratore delle stradine di campagna, ma è stupido. Hai sentito di quella donna, un paio di anni fa, che stava in un hotel di questa zona?»
«Non so, sento storie su un sacco di donne.» «Camminava sulla strada, dei ragazzi l'hanno trascinata sull'argine e l'hanno violentata. Poi le hanno chiesto se sapeva nuotare: lei è stata furba e ha risposto di no. Così l'hanno buttata nel canale e la donna è riuscita a mettersi in salvo raggiungendo l'altra riva a nuoto.» «Allora qual è il tuo consiglio? Stare a casa con la porta chiusa a chiave e il televisore acceso?» «Sarebbe più sicuro.» «Sarebbe meglio, invece, se tutti andassero a passeggiare lungo il canale.» «Chi ha voglia di passeggiare lungo un canale puzzolente?» Decisi di finirla con quei discorsi. «Che ne dici di andare a parlare a Bryony Teale?» Oban apparve titubante. «Sarebbe meglio che ci andassi tu da sola. All'inizio, almeno.» «Non so se riusciremo già a ottenere qualcosa da lei. Sembrava parecchio malmessa la notte scorsa.» «Fa' del tuo meglio e portaci qualcosa di utile.» Poi la voce di Oban divenne un mormorio quasi indistinto. «Come hai detto?» Oban ricominciò a parlare, ma si trattò di una sorta di nervoso farfugliamento. «È quel maledetto Doll» riuscì finalmente a dire. «C'è dentro in qualche modo. Non so come, ma è coinvolto.» «Hai detto che era solo un testimone.» «Testimone un corno» sbottò con il viso paonazzo. Il poliziotto che fungeva da autista si voltò e mi lanciò un'occhiata. «Voglio seppellirlo, quel bastardo. Chiedile di Doll. Chiedile che cosa ci faceva lì.» «Mi dispiace ma, da quel che ne so, il collegamento tra i fatti è dato dal luogo, lo stesso tratto del canale, e dal tipo di aggressione. Quello è il posto in cui Doll passa la vita, seduto là con la sua canna e le sue esche. E c'è la testimonianza della donna e di quell'altro tizio. Dicono che ha aiutato Bryony.» Oban fece un risolino sarcastico che sembrò un grugnito o un colpo di tosse. «Non ho la più pallida idea di quel che stia succedendo, ma Doll c'è dentro fin dall'inizio. In qualche modo è invischiato nella faccenda. Ne sono sicuro. E lo sai anche tu. L'hai visto, hai visto dove vive.» Rabbrividii. «Sì, d'accordo, glielo chiederò. Devo solo bussare alla porta?»
«Sì. C'è una poliziotta in casa loro da stamattina, si chiama Devlin. Ti aprirà lei.» «E tu che cosa farai?» «Me ne vado. Se sarà in grado di fare una dichiarazione manderò uno dei miei uomini.» Mentre aprivo la portiera, Oban mi mise una mano sul polso. «Mi raccomando, fa' un buon lavoro, Kit. Sono disperato.» La giovane poliziotta aprì la porta. «Dottoressa Quinn?» «Sì. Come sta la signora?» «Non so. Non ha parlato molto.» Mi guardai intorno. Il pavimento e le scale erano privi di moquette e lucidi, ma l'interno aveva un'aria lievemente sciatta. A un gancio su una parete era appesa una bicicletta. Nell'ingresso c'erano scaffali con file di libri economici malandati, e vidi che sul pianerottolo in cima alle scale c'erano altri scaffali pieni di libri. Il corridoio conduceva in cucina, oltre la quale c'era un giardino. Vicino a me si aprì una porta e ne uscì un uomo, lo stesso che avevo visto all'ospedale. Non si era fatto la barba e aveva i capelli, scuri e ricciuti, in disordine. Portava una felpa blu scuro, jeans e scarpe da tennis logore senza calze. Non aveva un bell'aspetto, probabilmente aveva dormito ancora meno di me. Era alto circa un metro e ottanta. Mi diede la mano: «Sono Gabe» disse. «L'ho vista all'ospedale, la notte scorsa. O questa mattina.» «Oh, sì, mi scusi. Non ero nelle condizioni migliori. Posso offrirle qualcosa?» «Preparo io il tè» si offrì la poliziotta Devlin con fare autorevole, e si diresse verso la cucina come una cameriera. «Come sta sua moglie?» L'espressione di Gabe si fece preoccupata. «Non so. Meglio della notte scorsa.» «Bene, posso scambiare una parola con lei?» Gabe sembrò a disagio. Si mise una mano in tasca, poi la tolse di nuovo. «Le posso fare una domanda, prima?» «Certo.» «Bry è stata aggredita dal tipo che ha commesso quegli altri orrendi delitti?» «È possibile. L'aggressione è avvenuta nel medesimo punto in cui è stato trovato uno dei corpi.» «Ma sembra una teoria così inverosimile. Perché l'assassino dovrebbe ritornare nel punto in cui ha già commesso un omicidio? Sarebbe così ri-
schioso.» «Sì, ma succede. Gli assassini ritornano.» «Già» fece Gabe, come parlando a se stesso. Provai l'impulso di mettergli una mano sulla spalla per offrirgli conforto, ma era meglio lasciarlo parlare. «Volevo sapere, forse le sembrerà stupido o paranoico, se Bry è in pericolo. Potrebbe cercare di aggredirla di nuovo?» Riflettei un momento. Volevo rispondergli in modo preciso. «Secondo i funzionari che stanno indagando, colui che compie questi reati agisce quando ne ha l'opportunità. Di notte, lungo il canale, sua moglie era un bersaglio facile.» Gabe mi guardò con occhi estremamente attenti. «Ma lei, che cosa ne pensa?» «Deve sapere che sono stata assunta dalla polizia come consulente, per suggerire altre possibili idee. Prendo in considerazione direzioni differenti. Ho sempre sospettato che ci fosse un legame tra le prime due vittime.» «Che cosa? Perché?» Gabe Teale sembrava sentirsi nel mezzo di un brutto sogno. «Non lo so. È una sensazione, ma potrei sbagliarmi. Anzi, probabilmente mi sbaglio. La polizia non è d'accordo, questo è certo. Volevo solo essere franca con lei.» «Ma se lei non si sbaglia...» parlava lentamente, come attraverso una nebbia di stanchezza e tensione, «... vorrebbe dire che Bry è ancora in pericolo.» «Non si preoccupi. Sicuramente la polizia le offrirà ogni protezione. Stia tranquillo.» «Bene» disse con aria poco rassicurata. «Grazie.» «Posso vedere sua moglie ora?» gli chiesi il più gentilmente possibile. «La accompagno. Preferisce parlarle da sola?» «Dipende da lei. Sono sicura che sua moglie preferirebbe lei fosse presente.» «È qui» disse, appoggiandosi a una porta e spingendola. Guardò dentro. «Bry? C'è la dottoressa.» Lo seguii in una grande sala, ottenuta abbattendo un muro divisorio tra due stanze. Da un lato, attraverso l'ampia finestra, si vedeva la strada, e dall'altro lato, attraverso una porta a vetri, il giardino. Bryony Teale era seduta su un grosso divano color ruggine nella zona che dava sul giardino. Portava un maglioncino di un arancione vivace e dei pantaloni a tre quarti, blu. Era accovacciata con i piedi nudi sotto di sé. Il marito mi avvicinò una
poltrona e andò a sedersi sul divano, vicino alla moglie, in modo che lei gli si potesse appoggiare. Si scambiarono uno sguardo e Gabe le sorrise per rassicurarla. Sopra di lei, sulla parete, c'era una foto delle dimensioni di un poster, di una bambina in una strada urbana deserta. La bambina era vestita in modo elaborato, sembrava una zingarella, ma quel che soprattutto mi colpì furono gli occhi scuri e ardenti, che guardavano direttamente nell'obbiettivo. Era come se la bambina si fosse voltata in quel momento e avesse fissato lo sguardo straordinariamente intenso sul fotografo. Probabilmente era stata questione di un attimo; il momento successivo avrebbe guardato da un'altra parte. Faceva venir voglia di conoscerla, di sapere che cosa le era successo, dov'era adesso. «È incredibile» dissi. Bryony si voltò e con uno sforzo sorrise. «Grazie» rispose. «L'ho scattata io.» «Fa la fotografa?» «Non so se mi posso ancora definire fotografa» rispose tristemente. «Ho difficoltà a trovare qualcuno che pubblichi le mie foto.» «Lo immagino.» «Ho scattato questa foto l'anno scorso, a poche centinaia di metri da qui. Stavo camminando e ho incontrato questa bambina con la sua famiglia. Erano dei rifugiati romeni. Non è bella?» La guardai di nuovo. «Ha l'aria fiera.» «Forse l'ho spaventata.» «Come sta?» «Mi dispiace essere così a terra.» «Non sia ridicola. Non deve dimostrare nulla. Non è neanche obbligata a parlare con me, se non lo desidera.» «No, no. Lo voglio. Io non sono così.» La osservai con attenzione. Stava palesemente meglio di come l'avevo vista all'ospedale, ma era ancora pallida e aveva gli occhi cerchiati. «Chiunque sarebbe traumatizzato da ciò che ha passato lei. Allora, suppongo che per lavoro lei vada parecchio in giro in luoghi strani.» «Abbastanza.» «Ma deve stare attenta. Stavo parlando poco fa con l'ispettore capo delle indagini e lui non pensa che camminare lungo il canale di notte sia una buon'idea.» «Continuo a dirglielo» intervenne Gabe. «Ma lei non ha paura. Ed è una
testona. Ha sempre amato camminare.» «Adesso la penso in modo un po' diverso.» «Be', forse non è il caso che vada in giro da sola e di notte» continuai allegramente, notando i primi accenni di una discussione. «Se la sente di parlarne?» «Vorrei essere d'aiuto.» «Se ha dei problemi, me lo dica che mi fermo.» «Va bene.» «Mi può raccontare quel che è successo?» «Ho passato tutto il giorno a pensarci e ripensarci, ma non credo che sarò di grande aiuto. È successo così in fretta. Stavo camminando lungo il sentiero sull'argine, quando mi sono sentita un braccio addosso, che mi tirava violentemente, e mi sono messa a urlare. Poi sono comparse queste altre persone che mi hanno afferrata. Sembra stupido, ma subito non ho capito che stavano cercando di aiutarmi. Quell'uomo è scappato prima che mi rendessi conto di cosa stava succedendo.» «Tutto qui?» «Tutto?» «Senta, dopo l'aggressione lei era in stato di shock. Non deve sminuire quel che le è successo.» «Oh.» Fece una risatina tremolante. «Be', per essere onesti, ero spaventata a morte. È vero che il genere di lavoro che faccio mi porta a vagare nei posti più strani, e se fossi una che si spaventa facilmente non combinerei nulla di buono. Dovrei limitarmi a scattare degli autoritratti in giardino.» Fece un'altra risatina. «Ma, per essere onesti, penso di essere andata a camminare lungo il canale come per sfida, le sembra da matti?» «No. Mi sembra imprudente, non da matti.» «Be', avevo abbastanza paura di camminare al buio.» Alzò gli occhi su Gabe, che le fece un piccolo cenno di incoraggiamento. «E poi quella sagoma mi è venuta addosso e mi sono sentita le sue mani dappertutto. Ho pensato di morire, o che sarei affogata, o che mi avrebbe violentata.» Rabbrividì. «Quando ci ripenso, cerco di dirmi che non è stato niente, ma credevo mi avrebbe ucciso, solo perché ero stata così stupida da andare sul canale di notte. L'ho sognato la scorsa notte e mi sono svegliata piangendo.» «Ha notato qualcosa di quell'uomo?» Scosse il capo sconsolata. «Era buio. Penso fosse abbastanza basso. E forse aveva i capelli molto corti. Ho quest'immagine in mente. Tutto qui.»
«Bianco?» «Sì, almeno penso di sì.» «Ricorda che cosa aveva indosso?» «No.» «O che cosa non aveva? Un abito? Un soprabito lungo? Dei pantaloni corti da jogging?» Fece un sorrisino. «No, niente di tutto ciò.» «Un'ultima domanda. Potrebbe dire qualcosa dei due testimoni?» «In che senso?» «Che cosa hanno fatto?» Bryony sembrò perplessa. «Non capisco. Mi pare lo sappia già. Hanno fatto scappare quell'uomo.» Non sapevo bene che cosa dire. Feci un altro tentativo. «Da ciò che mi dice, tutto era terribilmente confuso. Deve aver avuto l'impressione di essere aggredita da tre persone. O da due che sono state spaventate dalla terza.» «Perché?» «Così, solo una curiosità.» Bryony sembrò riflettere. «Sto cercando di ripassare i fatti nella mente, ma non posso che ripetere quel che ho detto. Sono stata assalita da un uomo che poi è scappato.» «Allora un aggressore e due testimoni che l'hanno fatto scappare?» «Sì.» Apparve più confusa che mai. «Ne è sicura?» «Sì. No. Abbastanza, per quanto mi è possibile.» «Se sporgerà denuncia alla polizia le faranno molte altre domande di questo tipo. È incredibile quante cose si riescano a ricordare quando vengono fatte le domande giuste.» «Farò del mio meglio, dottoressa Quinn.» «Per favore, chiamami Kit e diamoci del tu. Quando mi chiamano dottoressa Quinn mi guardo intorno per vedere con chi stanno parlando.» «D'accordo, Kit. Posso dire un'altra cosa?» «Certamente.» Deglutì. «Sono molto grata per tutto ciò che è stato fatto per me, ma... ma...» «Che cosa?» «Mi chiedo se non sia stato solo un tentativo di borseggio. Forse aveva solo intenzione di prendermi la borsa.»
«Sì, uno dei testimoni l'ha detto. Ha detto che pensavi non fosse niente, che non volevi neanche chiamare la polizia. Lui ha insistito per farlo con il suo cellulare.» Rannicchiò le gambe tanto da avere le ginocchia fin quasi sotto il mento. Mi guardò con i suoi occhi stanchi. «Ti sembra strano?» Le feci il sorriso professionale più rassicurante che potei. «Niente affatto. Ti è mai capitato di vedere qualcuno inciampare e cadere? Anche se è piuttosto malconcio, di solito si alza e cerca di camminare come se non fosse successo nulla. È un forte impulso umano quello di fingere che le cose mantengano il loro corso normale. Lo si vede anche negli incidenti gravi. Ci sono persone ferite gravemente che vogliono andare al lavoro. È assolutamente naturale convincersi che non è successo niente. Forse è il cervello che cerca di difenderci dal trauma.» «Ma potrebbe essere vero.» La sua voce era supplicante. «Poteva essere semplicemente un borseggio, no? Un'orribile coincidenza.» «Potresti avere ragione. È una cosa che verrà sicuramente presa in considerazione. Ma ho già parlato con tuo marito di questo.» «Bene» rispose cupamente. Mi chinai in avanti. «Probabilmente te l'avranno già detto, ma voglio ripetertelo. È molto comune che chi passa attraverso questo genere di esperienze soffra di depressione. Si è confusi e si finisce per sentirsi colpevoli, o colpevolizzati.» Guardai Gabe. «So quel che vuol dire, so che a volte siamo un po' scortesi l'uno con l'altra. Ma non potrei mai dar la colpa di nulla a Bry.» «Non intendevo questo. Stavo solo cercando di dire che queste esperienze sono difficili da superare, anche per i partner.» Bryony si appoggiò allo schienale del divano e chiuse gli occhi. «Vorrei solo che tutto ciò finisse.» «Ormai tu sei fuori pericolo. Quel che vogliamo è che finisca per tutti.» Bryony si appoggiò a Gabe, che le accarezzò i capelli. Improvvisamente fui assalita da una piccola fitta di invidia e mi sentii superflua. Così, con un certo impaccio, mi congedai e uscii. CAPITOLO 30 Quando svoltai a sinistra, uscendo dall'arteria trafficata e infilandomi nella strada senza uscita dove abitava Will, rimasi leggermente delusa. La sua casa, come mi aveva detto al telefono, era uno dei due alloggi di una
costruzione vittoriana piuttosto piccola: quello con la porta verde bottiglia e un cancello di ferro nero, non quello con la rada siepe di ligustro e le finestre sbarrate da assi al primo piano. Non mi aveva detto, invece, che erano le uniche due case vecchie in un complesso residenziale nuovo, formato da palazzi alti, con percorsi pedonali e parcheggi per le auto, e un piccolo parco giochi. Due adolescenti andavano sulle altalene destinate ai bambini, fumando e facendo strisciare i tacchi sull'asfalto gommato. La casa di Will, con il giardinetto davanti e una staccionata curata, sembrava surreale, come se fosse stata piazzata lì per sbaglio. Avevo immaginato che lui sarebbe venuto alla porta ad aprirmi, mi avrebbe tirata dentro, guardata negli occhi e poi presa tra le braccia. Naturalmente non fu così. Will venne ad aprire con un cordless sotto il mento e mi fece segno di entrare senza dire altro. Poi scomparve in cucina, lasciandomi da sola in soggiorno, mentre il sorriso mi moriva sulle labbra. Ma almeno mi diede la possibilità di guardarmi un po' attorno. La stanza era quasi vuota. Se avessi parlato forte, probabilmente avrei sentito echeggiare la mia voce. C'erano, per essere precisi, quattro oggetti: un divano meravigliosamente ampio, di un giallo senape scuro; uno stereo lucido in un angolo; un porta CD girevole pieno di dischi, e uno di quei bellissimi mobili da farmacia con dozzine di piccoli cassetti, che si comprano per parecchie centinaia di sterline in dispendiosi negozi di antiquariato a nord di Londra. Tutto lì. Niente tavoli, sedie, televisore o videoregistratore. Nessun libro. Né ganci a cui appendere giacche e cappotti. Né quadri o fotografie alle pareti bianche. Nessun oggetto in giro. Pensai al mio appartamento: anche se era ordinato e abbastanza spoglio, era tuttavia pieno di un sacco di cianfrusaglie: matite e taccuini, libri, giornali e riviste; ciotole decorative con dentro dadi, chiavi, orecchini; portacandele, specchi, bicchieri, fiori. Invece lì non c'era assolutamente traccia del disordine della vita quotidiana. Mi tolsi la giacca scamosciata, la gettai sul divano e andai a dare un'occhiata ai CD. Nessun nome mi era noto. Andai al mobile da farmacia e cautamente aprii un cassetto. Era vuoto. Come anche altri tre. Nel quinto trovai una manciata di graffette e parecchi cassettini più avanti un pezzo degli scacchi rotto. Nient'altro. «Mi spiace.» Sussultai. Era entrato senza far rumore, come un gatto, e mi aveva beccata a curiosare tra le sue cose. Solo che non sembrava possederne molte, di cose.
«Ma ci vivi davvero, qui?» «Che cosa vuoi dire?» «Be', questo.» Indicai la stanza con una mano. «Che cosa fai quando sei qui? Non c'è niente. Nessun segno della tua presenza. È un po' spettrale. Non tanto minimalista, quanto ridotto al minimo.» «A me piace così.» «Da quanto vivi qui?» «Da un paio di anni.» «Due anni! E in due anni non hai accumulato niente? E prima dov'eri?» «In una casa molto piena.» «Con una moglie?» «Era una delle cose di cui era piena, sì.» «Allora te ne sei andato da tutto?» «Vuoi un resoconto completo, eh? Qualcosa da bere?» «Sì. Che cosa mi offri?» Lo seguii in cucina, che aveva solo una vaga rassomiglianza con le cucine a cui ero abituata. C'era un lavandino in fondo, vicino alla finestra, un grosso bidone della spazzatura in acciaio inossidabile e un frigorifero nell'angolo. Ma non vidi nessuno dei consueti arredi da cucina, neppure i fornelli. Contro una parete, però, era collocato un vecchio tavolo di abete con sopra un bollitore, un tostapane, un macinacaffè e due coltelli affilati. «Cristo, Will, questa cucina è strana.» «Whisky, gin, brandy, vodka, Campali, della strana acquavite islandese che non ho mai aperto?» Stava rovistando in un'alta credenza. «Oppure nel frigo c'è birra e vino. O succo di pomodoro.» Non avevo voglia di birra né di vino, e sicuramente non di succo di pomodoro. Volevo qualcosa che mi bruciasse la gola e mi entrasse subito in circolazione. «Proverò l'acquavite islandese.» «Sei coraggiosa. È meglio che ti faccia compagnia.» Andai alla finestra e guardai il giardino. Il sole stava tramontando, e nella semioscurità vidi un piccolo prato con un grosso alloro nel centro. Will mise dei cubetti di ghiaccio in due alti bicchieri e poi versò due dita di un liquido chiaro. «Grazie.» Alzai il bicchiere verso di lui per un brindisi, quindi ingoiai metà del contenuto. «Diavolo!» L'alcol mi colpì con forza, facendomi venire le lacrime agli occhi. «Tutto bene?» «Bevi anche tu.»
Lui bevve senza battere ciglio, poi depose il bicchiere sul tavolo. Will mi sembrava distante miglia e miglia, irraggiungibile. «Non capisco perché sei voluta venire qui» disse attraverso il grande spazio che ci divideva. Non mi curai di rispondere. Bevvi il resto del liquore d'un fiato. Per un momento vidi doppio, poi mi ripresi. Che importava quel che sarebbe successo? Almeno ero qui e qualcosa doveva accadere. «Allora, vuoi che me ne vada?» «No.» «Bene. Allora che cosa viene adesso?» «Qualcosa da mangiare?» «No, grazie.» «Hai dormito?» «No.» «Niente sonno, niente cibo.» «Non farò la prima mossa, Will.» L'alcol mi aveva resa audace. «D'accordo.» «Perché tocca a te.» «Per rispondere alla tua domanda, me ne sono andato perché un giorno mi sono svegliato con i postumi di una sbornia e ho provato un'indicibile nausea per tutto.» «Per il lavoro?» «Il lavoro, la mia abilità, l'incredibile capacità che avevo di ubbidire alla lettera e mai allo spìrito della Legge, i miei meschini successi, il bere, il vizio della cocaina, la casa con i suoi bei mobili antichi, il conto in banca, la ventiquattrore, il computer portatile e il cellulare che mi portavo al lavoro tutte le mattine presto sulla metropolitana affollata. Nausea per tutte le mie cose. Più hai e più vorresti avere: l'ultimo modello di cellulare, gli aggeggi più sofisticati, l'orologio che è anche computer. Nausea per la maledetta stiratrice per i pantaloni, gli abiti scuri e le cravatte, le feste in cui si beve, le riunioni con un mucchio di altri uomini vestiti come me; nausea per le vacanze a Cape Cod di cui si parla tanto, per le conversazioni sul golf, sul costo delle scuole e sui vini pregiati. Mi sono svegliato e ho capito che non potevo continuare. Neanche per un altro giorno. È stato un po' come un'intossicazione da alcol. Ho provato nausea per me stesso, una sorta di allergia per il mondo in cui vivevo, disgusto per come ero diventato insensibile a ciò che mi circondava. Ogni mattina e ogni sera passavo davanti a questi gruppi di ragazzi senza tetto, come quelli con cui passo le
giornate ora, davanti a barboni avvinazzati e a prostitute, e letteralmente non li vedevo, a meno che mi ostacolassero il cammino. Era come se non esistessero per me.» «Poi, improvvisamente, li hai visti?» «Non è stato esattamente come sulla via di Damasco.» «Ma è stata la tua coscienza che ti ha fatto lasciare tutto e mettere su il Centro?» «Non uso quella parola, a meno che debba cercare di ottenere una donazione per il Centro a un uomo d'affari in vena di generosità. Trovo che i politici l'abbiano svilita.» Aveva un tono sprezzante. «È stato più un impulso. Non farmi passare per un crociato. L'ho fatto per me, per salvare me stesso. Io sono l'unica persona che cerco di salvare. Vuoi ancora da bere?» «D'accordo, perché no? E tua moglie?» «È rimasta.» «Nella casa piena?» «Sì.» «Bambini?» «No.» «La vedi mai?» «No.» «Ti manca?» «No.» «Ti senti solo?» «No. Almeno non finora.» «Perché finora?» «Secondo te, Kit?» «Fai spesso questa cosa?» «Che cosa?» «Quella che stiamo per fare.» «No. E tu?» «No. Si capisce?» «La gente è molto diversa da come sembra.» «Come sembro io?» «Una persona spaventata che va avanti ugualmente.» «Di che cosa sarei spaventata?» «Non lo so. Da me?» «Perché dovrei essere spaventata da te?» Lo ero, però; ero piena di timore ed eccitazione.
«Dal mondo, allora. Hai paura di essere ferita.» «Dovrei essere io quella che dice cose trite e terapeutiche come queste.» «Bevi.» «Ho finito. E ora?» «Se ti chiedessi di venire di sopra che cosa risponderesti?» «Chiedimelo e lo scoprirai.» «Vuoi venire di sopra?» «Sì.» Prese la bottiglia per il collo e uscì dalla cucina con me dietro. Salimmo per le scale anguste e senza moquette che portavano alla camera da letto: un futon, un armadio, un'alta lampada a stelo e tende, inaspettatamente di un giallo allegro, semiaperte, che sventolavano alla brezza proveniente dalla finestra aperta. «Sbottonati la camicetta.» «Dammi la bottiglia, prima. Ho bisogno di coraggio.» «Sei davvero bella.» «Allora perché hai quell'aria sofferente?» «Perché sei bella.» «Grazie.» «Non devi aver fiducia in me, Kit.» «Non ho fiducia in te. Questo è il punto.» «Non sarò un bene per te.» «Questo non mi importa affatto.» Dopo rimasi allungata sul futon a guardare, fuori della finestra, la luna gibbosa nel cielo color inchiostro. Will giaceva accanto a me in silenzio, gli occhi semichiusi rivolti al soffitto. Poi disse: «Ho fame». «Io sete.» «Vuoi qualcosa da mangiare?» «Non mi sembra che ci sia molto da mangiare qui.» «Vero. Ma posso andare a prendere qualcosa. Italiano, indiano, cinese, thailandese, greco. E c'è anche un take away giapponese, qui vicino.» «Qualsiasi cosa.» «Non ci metterò molto.» Si infilò i vecchi jeans e una felpa grigia. «Non andartene.» Rimasi sul letto ad ascoltare i suoi passi giù per le scale di legno, la porta che si apriva e si richiudeva. Ero sola nella casa di Will. Dopo qualche minuto andai in bagno. Molto pulito e funzionale. Mi lavai e misi lo spesso
accappatoio blu attaccato alla porta, poi andai nella seconda stanza del piano superiore, una camera quadrata che si affacciava sul giardino. Là dentro c'era solo un pianoforte a coda e uno sgabello. Premetti uno dei tasti d'avorio e la nota aleggiò nell'aria. Forse era un po' scordato. Tirai su il coperchio dello sgabello e trovai degli spartiti stropicciati, annotati a matita sul margine superiore, e una lattina di birra. Scesi di sotto a cercare qualcosa da bere, perché avevo la bocca secca dopo quei superalcolici. Nell'ingresso squillò il telefono e si inserì la segreteria telefonica. «Will» sussurrò una strana voce maschile. «Will, sono io... Devo parlarti. Will? Ci sei? Per favore, è urgente.» Ci fu un silenzio, durante il quale sentii un ansito pesante. Scioccamente trattenni il respiro, come se chi chiamava mi potesse udire. Poi la telefonata si interruppe. Presi dal frigo una bottiglia di acqua frizzante e ne bevvi due bicchieri. Erano quasi le undici. Avevo dormito sì e no un paio d'ore negli ultimi due giorni. Ma non mi sentivo stanca, non proprio; anzi, ero fin troppo sveglia. La pelle formicolava, il cuore mi batteva forte, il cervello viaggiava, gli oggetti della stanza mi sembravano innaturalmente nitidi, come se fossero illuminati da dietro. Andai nel soggiorno e mi raggomitolai sul divano morbido e profondo. Così mi trovò Will, quando tornò un quarto d'ora dopo. Entrò con un grosso sacchetto e il volto preoccupato, triste e stanco, il volto di quando era solo. Poi mi vide: non sorrise, ma fu come se un'ombra si fosse dissolta. È merito mio, pensai, mentre mi scostavo per fargli posto. Non disse nulla, ma mi passò un braccio intorno e mi tirò a sé. Aveva le guance fresche per l'aria notturna. Poi sospirò e prese due vassoietti neri dal sacchetto. «Che bello, sembra un capolavoro. È un peccato distruggerlo.» «Dovremmo bere il sakè, con questo.» «Non voglio più bere alcolici.» «Ecco, mangia.» Mi diede un pezzetto di tonno crudo spalmato di una pasta verde piccante e intinto nella salsa di soia, e io lo masticai obbediente. Non sapeva di pesce o di mare. Sapeva solo di fresco. «Buono.» «E un altro.» «Mmmh.» «Non chiudere gli occhi.» «No, certo che no.» «Mangia questo. Kit, Kit.» Cercai di tenere gli occhi aperti, ma era tutto troppo bello perché potessi
resistere a lungo: la stanza tiepida, il divano profondo, l'accappatoio con il suo odore avvolto intorno al mio corpo nudo, il cibo poco familiare, un vago sentore di paura in fondo al ventre, una mano che mi accarezzava i capelli, nelle orecchie il suono della sua voce che pronunciava il mio nome. Il suo alito sulla guancia. Mi sentii scivolare in un'oscurità beata. CAPITOLO 31 Rimasi a osservare Michael Doll per qualche minuto, prima di avvicinarmi. Lungo il bordo del canale c'era una fila di uomini. Era mercoledì mattina. Non andavano a lavorare? Si udivano un paio di radioline accese ad alto volume, sintonizzate su canali diversi. I pescatori avevano canne lunghissime, che a volte occupavano tutta l'alzaia e raggiungevano l'altra sponda del canale. Mentre ero là passò un giovane ciclista, suscitando vari brontolii e un gran movimento di canne. C'erano un paio di gruppi di pescatori, assiepati attorno a un thermos con qualcosa di caldo dentro, ma gli altri perlopiù stavano da soli. Michael Doll per qualche ragione sembrava ancora più solitario, sulla sponda, lontano da tutti. Sapevano di lui? Il suo cane gli era accanto, immobile e con la saliva che colava dai denti gialli. Mi incamminai verso di lui, scavalcando canne e scatole di plastica con ami, mulinelli, esche. Nonostante non facesse freddo, Doll aveva un giaccone a quadretti rossi e neri, da taglialegna canadese, e un bel cappello blu scuro. Guardava di fronte a sé, e quando gli fui vicino mi accorsi che stava canticchiando sottovoce. Poi, come se avesse percepito il mio sguardo, si voltò. Sorrise, ma non con sorpresa. Sembrava mi stesse aspettando, e questo mi fece rabbrividire. «Ciao, Kit» disse. «Come stai?» «Bene» risposi, mettendomi le mani in tasca e dando un'occhiata intorno. «Non ti avevo mai visto pescare.» Emise un risolino. «Quaggiù la vita è bella. C'è brava gente.» Alzò la canna. All'amo non c'era niente. «Rubano i vermi, questi furbi bastardi.» Un altro risolino. Fece dondolare l'amo in modo da poterlo afferrare. Era seduto su uno sgabello pieghevole. Vicino allo stivale sinistro teneva una lattina da tabacco piena di lombrichi. Cercò con le dita finché trovò quello che gli serviva. «Sembra che gli altri usino esche» dissi. «Sono una perdita di soldi. I lombrichi si trovano dappertutto. Quanti se ne vuole. E sono più carnosi.» Con gli occhi socchiusi agganciò il povero
lombrico all'amo. «Strano, sai, che la gente si preoccupi delle volpi e delle piccole foche, ma non dei pesci o dei vermi. Voglio dire, guarda questo verme.» Spinse la punta dell'amo nel lombrico e ne venne fuori del liquido verde. Avevano il sangue, i vermi? Mi pareva di averlo studiato in biologia quando avevo più o meno tredici anni, ma non me lo ricordavo. «Guarda» disse, senza che ce ne fosse bisogno. «Si sta ancora divincolando. Si direbbe che stia soffrendo, e cercando di scappare, no? Fermati.» Quest'ultima ingiunzione era rivolta al verme. Altro che scappare: il verme veniva agganciato una seconda volta all'amo. «Chi può dire che i vermi non sentono il dolore come te o me?» «Allora perché li uccidi?» Doll fece di nuovo dondolare la lenza e il verme scomparve nelle acque scure del canale. Il piccolo galleggiante andò un po' su e giù e poi si mise diritto. «Non ci penso» rispose. «Sì che ci pensi. Ne stavi appunto parlando.» Aggrottò la fronte, concentrandosi. «Be', mi passa per il cervello, se è questo che vuoi dire, ma non mi ci soffermo. Sono solo vermi, no?» «Credo. Prendi molti pesci?» «A volte anche dieci. A volte sto qui tutto il giorno, sotto la pioggia, e non ne prendo neanche uno.» «E cosa ne fai?» «Li ributto dentro. Quando l'amo non è conficcato troppo in profondità. Quando sfili l'amo, a volte gli strappi la bocca o addirittura gli tiri fuori tutte le interiora. In quel caso tiro via la testa e poi lo do a un gatto che vive vicino a dove sto io. Gli piacciono un sacco.» Spinsi le mani in profondità nelle tasche e cercai di mantenere un'espressione interessata. Lo sentivo brontolare tra sé ma, facendo più attenzione, mi accorsi che stava parlando ai pesci, le invisibili creature di quell'acqua scura e oleosa, invitandoli a mangiare i suoi lombrichi. «Avanti» sussurrava. «Avanti, miei cari.» Sollevò l'amo. Non c'erano pesci, ma metà del lombrico era sparito. Fece una risata sibilante. «Che furbi sono, quei bastardi.» «Michael, a dire il vero sono qui per parlare di quel che è successo al canale.» Borbottò qualcosa di incomprensibile. «Non ti sembra strano che tu fossi qui quando è successo?» Si voltò. «Non è strano. Io sono sempre qui. È il mio territorio.» «D'accordo, è il tuo territorio, lo so. Hai riconosciuto quell'uomo? Ti ha fatto pensare a qualcosa?»
«No. È successo tutto troppo in fretta. Era buio. Non ho visto niente.» «Tutto bene, Michael? Non sei più stato aggredito?» «No» mi rispose sorridendo. «Tutto dimenticato. Dimenticato e perdonato.» Osservai con ansia il galleggiante. Ormai il verme doveva essere stato mangiucchiato per tre quarti. Non credevo di poter sopportare il tormento di un secondo verme a quell'ora del mattino. «Pensaci bene, Michael, e se ti viene in mente qualcosa, qualunque cosa, mettiti in contatto con me. Lo puoi fare attraverso la polizia.» «No, ho il tuo numero.» «D'accordo» risposi dubbiosa. «So dove abiti.» «Oppure puoi dirlo alla polizia.» «Guarda, un pesce, un maledettissimo pesce.» C'era effettivamente un pesce argentato, guizzante, che pendeva dalla lenza di Doll. Me ne andai di corsa prima di vedere estrarre le sue interiora. Tornando a casa passai davanti a un caffè con un invitante tavolino al sole. Mi sedetti, ordinai due espressi e cercai di mettere ordine nella mia testa. Quando arrivò la seconda tazzina, chiamai Oban. Bryony aveva fatto il suo resoconto e lui era giù di morale. «Come sai, da Mickey Doll non abbiamo ottenuto un cazzo, scusa la parola. Secondo la descrizione di Terence Mack, l'aggressore era un uomo piuttosto alto e secondo quella di Bryony piuttosto basso. Forse potremmo farli incontrare in modo che si mettano d'accordo.» «È stata una zuffa in piena notte, che cosa ti aspetti?» «Non riesco a credere che questo bastardo sia uscito allo scoperto, sia stato visto, e ancora non abbiamo un bel niente. Che cosa stai facendo?» «Sono seduta a bere un caffè.» «Vorrei essere con te. A proposito, ci farai una qualche relazione su quell'aggressione? Che cosa ne pensi?» «Bryony mi ha detto che pensa si sia trattato di un semplice borseggio non riuscito, che non abbia niente a che fare con il caso.» «Già, l'ha detto anche a noi. Che cosa le succede? Non vuole diventare famosa?» «Dovremmo prendere la cosa in considerazione.»
«Vuoi incaricare lei delle indagini? Sarei felice di liberarmene.» Non potei fare a meno di mettermi a ridere. «Sei ancora in linea, Kit?» «Non dobbiamo farci sviare» dissi. «Non è solo Bryony. Anche a me sembra che le cose non tornino.» «Come non tornano? Tornano sì! C'è il canale, c'è Doll. Dovrebbe bastare, anche per te.» «Stavo pensando alle aggressioni. Le prime due sono state eseguite con abilità, in un certo senso. Ma quest'ultima è avvenuta in maniera molto goffa.» «Smettila, Kit. Non vedi che c'è un'escalation? L'assassino sta diventando sempre più sprezzante del pericolo, ha bisogno di correre più rischi per ottenere la stessa eccitazione. Se i testimoni non fossero stati un rammollito e un pazzoide, l'avremmo preso. E in quanto a quel maledetto pazzoide...» «Non so, Dan, sono andata a parlare con Doll al canale.» «Non dirmi: pensi che sia troppo carino per aver fatto una cosa del genere.» «Al contrario. Se Doll fosse un assassino, sarebbe molto più crudele. L'ho appena visto mettere un verme sull'amo.» «È su questo che basi il tuo giudizio?» «Uno dei miei giudizi.» «Be', allora ti terrò alla larga da mio figlio di tredici anni. Dovresti vedere che cosa fa con gli scarabei e una lente di ingrandimento.» La mia tazzina da caffè era vuota e non sarei riuscita a berne un'altra. Avevo già la testa che mi ronzava. Il sole si era nascosto dietro una nuvola e l'aria era rinfrescata. «Allora, che cosa intendi fare?» gli domandai. Ci fu silenzio per alcuni secondi, tanto che cominciai a pensare che avesse riattaccato. «Ho la terribile sensazione che in realtà stiamo solo aspettando che l'assassino commetta qualche altra cretinata e venga preso. Nel frattempo cercheremo di fare della pubblicità. Ho comunicato ai giornalisti la nuova aggressione. Ho cercato di convincere la signora Teale ad andare alla televisione, ma non mi sembra che ne abbia voglia. Forse potresti convincerla tu.» «D'accordo.» «Qualche altra idea? Tu che cosa pensi di fare?» Fui io a rimanere in silenzio qualche secondo questa volta. Che cosa a-
vevo intenzione di fare? «Mi sa che riguarderò tutto daccapo. Ho la sensazione che mi sfugga qualcosa.» «Stai cercando altri collegamenti tra i casi?» «Non so.» «Ma Kit» fece Oban con un minimo cenno di esasperazione nella voce, «abbiamo già stabilito i legami. Sei stata tu a trovare il principale. Perché ne vuoi degli altri?» «Non so» dissi, sentendomi improvvisamente senza energia. «Forse sto solo brancolando nel buio.» «Sei stata tu a dirlo, non io. Fammi sapere se trovi l'interruttore.» E questa volta riattaccò davvero. Andai alla clinica e trascorsi la giornata a rispondere a telefonate e lettere, condussi una seduta con un ragazzo che aveva dato fuoco alla casa dei genitori adottivi, feci un colloquio con due persone in cerca di un lavoro che non avrebbero avuto. Commentai, discussi, argomentai, sempre con la mente altrove. Arrivai a casa solo alle otto, e sul tavolo c'era una nota: Sono fuori. Ritorno molto tardi. Il pazzo ha chiamato. Con affetto, J. Aveva ricordato qualcosa? Feci un lungo bagno durante il quale mi appisolai brevemente. Sapevo che ci si poteva addormentare alla guida, andare a sbattere e morire. Si poteva annegare nel bagno? Non volli correre il rischio. Uscii, infilai una vestaglia e chiamai Will. Non rispose. Guardai nel frigo e trovai una ciotola di riso, che mangiai in piedi. Sarebbe stata più buona scaldata, con un goccio di olio d'oliva e del parmigiano. Poi mangiai due cetriolini e un pomodoro. Nel frigo c'era una bottiglia di vino aperta e me ne versai un bicchiere. Accesi la radio e, senza grande sorpresa, mi accorsi che la voce in onda era di Seb Weller: stava parlando di Lianne e di Philippa. Mio Dio, che professionista. Le parole fluivano con facilità, non aveva esitazioni; di tanto in tanto faceva una piccola pausa per sembrare più spontaneo. «Questo caso tocca, ovviamente, una corda sensibile delle donne» disse. «Penso spesso che gli uomini non lo capiscano appieno.» «A parte te, naturalmente» borbottai, poi mi vergognai di me stessa. «Gli uomini non sanno che cosa significhi per le donne camminare lungo una strada buia o aspettare da sole a una fermata della metropolitana e sentire dei passi, udire strani rumori. Le donne, che siano audaci o prudenti, hanno sempre un nucleo nascosto di paura. Vorrei chiamarlo...» fece
una pausa «... vorrei chiamarlo la loro camera rossa...» «Oh, Cristo!» esclamai a voce alta. «Una camera rossa dove tutte le cose che temono di più...» Il telefono squillò e io spensi la radio con rabbia. «Sono io.» «Chi?» «Mike.» Mi ci volle un secondo per associare quel nome a Michael Doll. Eccolo di nuovo. «Salve.» «Che cosa stai facendo?» Provai una leggera nausea. Mi avrebbe domandato che cosa avevo indosso? Mi strinsi nella vestaglia. «Perché mi chiami, Michael? Hai ricordato qualcosa?» «Solo per sentirti. Sei venuta a trovarmi, giù al canale. Ti chiamo e basta.» Si interruppe. «Sono stato contento di vederti.» «Devo andare ora.» «D'accordo.» «Buonanotte.» «Dormi bene.» Non dormii affatto bene. Non dopo quella telefonata. Non riuscii ad addormentarmi per ore. E mi svegliai con la sensazione di non aver chiuso occhio. Mi sentivo la lingua appiccicata al palato. Eppure non avevo bevuto molto, no? Mi alzai alle otto e mezzo. Julie era seduta al tavolo con un bricco di caffè davanti e sfogliava un giornale. Altri giornali erano sparpagliati sul tavolo. Sembrava una domenica mattina, ma era giovedì. Era andata a dormire circa quattro ore dopo di me e sembrava una donna della pubblicità, tanto era riposata e fresca. «Che c'è di nuovo?» domandai. «Sono scesa a comprare un giornale e si parlava del tuo caso, così ne ho comprati altri.» «Non è proprio il mio caso.» «È incredibile. C'è una donna che dice di poter trovare l'assassino con le sue sfere di cristallo. Un tizio afferma che c'è di mezzo la luna. Poi uno psicologo. C'è anche una specie di identikit.» Tirò su il giornale. «Mi ricorda qualcuno, ma non riesco a capire chi. Proprio non mi viene in mente.» «Buster Keaton.»
«Esatto. Ma è morto, no?» «Mi pare di sì. Inoltre era così più o meno nel 1925.» Allora quello era ciò che avevano ricavato da Terence e Bryony. Mio Dio, dovevano essere disperati. «Ma non si parla di te» continuò Julie con un tono lievemente deluso. Forse sospettava che mi fossi inventata tutto, che non ci lavorassi sul serio, o solo a un livello molto marginale. «Hai voglia di leggere?» «No.» Bevvi un po' di caffè e mi vestii rapidamente. C'erano delle cose che volevo fare. Se non fossi riuscita a cavare un ragno dal buco, avrei mollato tutto, avrei fatto un tentativo di ritornare alla normalità, di smettere di vedere significati reconditi dappertutto e forme nelle nuvole. «Dobbiamo parlare» disse Julie, mentre le passavo davanti di corsa per uscire. «Dopo» risposi, correndo giù per le scale. Quando fui fuori, avvertii qualcuno vicino. Lo sentii dall'odore. Mi voltai. «'Giorno, Kit.» Era Doll, con il cane accanto. Aveva il medesimo giaccone e cappello del giorno precedente. Ci aveva aggiunto una sciarpa, però, legata al collo con due nodi molto stretti. Come avrebbe fatto a slegarla? E da quanto mi stava aspettando? «Michael, che c'è?» «Devo parlarti.» «Hai delle prove?» «Devo solo parlarti.» «Sono di fretta.» «Io no.» La stranezza della risposta mi fece fermare. «Devo andare» insistetti. Cominciai a camminare, e lui mi venne dietro. «Volevo venire a trovarti. Volevo vederti.» «Per quale motivo?» «Capisci. Ho bisogno di parlare.» Mi fermai. «Vuoi dire dei delitti?» Scosse il capo vigorosamente. In modo probabilmente doloroso. «Di certe cose, capisci?» Cercai di riflettere con lucidità. Quel che veramente desideravo era riuscire a svignarmela e non vederlo mai più. Ma aveva qualcosa di importan-
te da dirmi? «Michael, sto lavorando su questi delitti. Lo sai. Se hai qualcosa da dirmi al riguardo, ti sto ad ascoltare. Ma non ho tempo per altro.» «Perché?» «Perché ho molto da fare.» «È l'unica cosa che ti interessa, vero? Ti interessi a me solo perché potrei dirti qualcosa. Sei come tutti gli altri.» «Quali altri?» «Te lo dirò poi» rispose con il volto paonazzo. «Te lo dirò quando ne avrò voglia. Ti tengo d'occhio, sai. Ma me ne vado. Anch'io ho da fare. Non solo tu, maledizione.» E se ne andò, borbottando e muovendosi a scatti. Un ragazzo che veniva verso di lui lo evitò attraversando la strada. CAPITOLO 32 «Non so come aiutarla» disse Pam Vere. Era seduta su una poltrona davanti a me, ma era rigida, le mani tese sui braccioli, come se fosse sul punto di alzarsi di nuovo e mettermi alla porta. Ero nella stanza solitamente utilizzata da Philippa, inondata dalla luce che penetrava dalle portefinestre. I mazzi di fiori, che l'ultima volta si trovavano ovunque, erano spariti; la gente perde interesse rapidamente. C'era rimasto solo un vaso di fiori di pisello rosa e rosso scuri sul tavolo. Mi ricordai che Tess, l'amica ciarliera, aveva detto che erano i fiori preferiti di Philippa. Sul caminetto, dietro alla signora Vere, c'era una foto in bianco e nero della donna morta, per cui, guardando la madre, vedevo anche la figlia assassinata, con il sorriso serio e gli occhi scuri che sembravano osservare attentamente la stanza che aveva lasciato. Pam Vere pareva invecchiata di dieci anni dall'ultima volta che l'avevo vista. Doveva essere sulla sessantina, ma il suo volto era pallido e stanco, e le rughe tanto profonde da sembrare scavate nella pietra. La bocca era una linea sottile, gli occhi erano cerchiati. La volta precedente ero stata commossa da Emily e avevo immaginato che cosa dovesse essere per lei, tanto piccola, perdere la mamma, ma non avevo pensato - come feci ora, osservando quel volto sconsolato e quelle mani tremanti - a Pam che aveva perso la figlia, l'adorata unica figlia. «Non so come aiutarla» ripeté. «Mi rincresce molto disturbarla di nuovo. Le volevo solo chiedere se sarebbe possibile esaminare alcune delle cose di Philippa.»
«Perché?» «La polizia le ha già ispezionate?» «No, ovviamente no. Perché avrebbero dovuto? È stata uccisa da un folle, fuori...» Fece un vago cenno alla finestra. «Vorrei dare un'occhiata.» «Non vuole più parlare con Emily, vero?» «Non ora. È qui?» «Di sopra, nella sua stanza. La guardo io al momento, quasi sempre almeno. Vengo la mattina e rimango finché ritorna suo padre. Finché le cose si assesteranno un po'. Passa metà del tempo nella sua camera. Andrà presto alla scuola materna, comunque.» «Come sta?» «Si raggomitola spesso dentro una giacca di maglia che Philippa si metteva spesso. La usa come coperta e sta lì a succhiarsi il pollice. Il dottore dice che devo lasciarla fare, che si farà una ragione della morte di Philippa, a modo suo.» «Mi pare giusto» risposi, guardandola attentamente. La stavo irritando? Le sembravo invadente? «Jeremy fa le sue interminabili parole crociate e piange quando pensa che nessuno lo senta. Emily sta sdraiata per terra...» Si fregò gli occhi. «Io non so. Non so quale sia il modo migliore.» «E lei che cosa fa?» «Io?» Scrollò lievemente le spalle. «Faccio passare le giornate.» Si alzò bruscamente. «Che cosa cerca?» «Aveva un posto in cui teneva le sue cose, lettere, diari...?» Lei fece un profondo respiro, sussultando, come per un intenso dolore al petto. Sapevo che stava considerando la possibilità di chiedermi di andarmene e non tornare più. «C'è la scrivania nella camera da letto di sopra» disse alla fine. «Non so bene che cosa contenga, a parte bollette e lettere. Non abbiamo ancora guardato le sue cose.» Lanciò un'occhiata alla foto della figlia per un istante, poi distolse gli occhi. «Jeremy ha dato via quasi tutti i suoi abiti. Li ha dati all'Esercito della Salvezza. Mi sembra strano pensare che ci siano donne sconosciute con addosso i suoi bei vestiti. Aveva dei vestiti molto belli, sa. La polizia ha preso il diario.» «Sì, lo so.» «Non c'è niente da scoprire. È semplicemente andata al parco, un giorno, e non è ritornata a casa.»
«Posso vedere comunque la scrivania?» «D'accordo. Ma che importanza ha?» Mi sentii un'intrusa nell'ampia camera da letto, palesemente arredata con gusto femminile, che sembrava ancora condivisa da una coppia, con una toletta disordinata contro una parete e due cuscini sprimacciati sul letto. Ma uno dei lati del guardaroba aperto era vuoto, a parte gli attaccapanni nudi sul bastone, e sulla sedia vicino alla porta c'erano solo indumenti maschili. Lo scrittoio era vicino alla finestra che si affacciava sul giardino posteriore. Sopra c'era un vasetto di fiori secchi, un telefono cordless e varie fotografie. Mi ci sedetti, e guardai ancora una volta Philippa Burton, che questa volta teneva in braccio un'Emily più piccola, con le gambe avvinghiate alla vita della madre e le guance arrossate premute contro la guancia liscia e pallida di Philippa. Tirai giù la ribalta e trovai che dentro era tutto in ordine e pulito. La cosa sembrava poco promettente. Cominciai con i piccoli scomparti, foderati di tela verde: c'erano penne, matite appuntite, colla, scotch, due carnet di francobolli. Poi una risma di carta intestata, buste bianche e marroni, cartucce di inchiostro, cartoline non scritte, un mucchio di fatture con su scritto «Pagato». Le esaminai, ma non trovai nulla di strano: 80 sterline per sturare uno scarico; 109 per una cassetta di vino; 750 per otto sedie; e cose del genere. C'era un mucchietto di disegni di Emily: omini con testa e gambe ma senza corpo, delle macchie con i colori dell'arcobaleno, dei fiori un po' confusi, delle forme storte. Philippa li aveva datati sul retro. Era chiaramente una donna meticolosa. Trovai un cartoncino rigido e lucido che mostrava dei campioni di colori, con nomi tipo seppia e vecchio lino, giallo zafferano e rosso pompeiano. C'erano delle circolari di istituti di beneficenza che chiedevano donazioni; inviti per Philippa e Jeremy a feste a cui lei non sarebbe più andata; parecchie cartoline da luoghi di vacanza, messaggi scribacchiati e quasi illeggibili inviati da Pam e Luke, Bill e Carrie, Rachel e John, Donald e Pascal, dalla Grecia, dal Dorset, dalla Sardegna, dalla Scozia. E c'era anche un paio di lettere scritte a mano. Una di una certa Laura, che ringraziava Philippa e Jeremy per una cena. L'altra da Roberta Bishop, che si presentava come una vicina di casa e invitava Philippa, con abbondanza di punti esclamativi, a partecipare all'assemblea di quartiere per discutere dei parcheggi su strada e del progetto di mettere i dossi per rallentare il traffico.
Chiusi la ribalta e aprii il primo cassetto. Una risma di carta, una pila di opuscoli di posti di vacanza, vecchi estratti conto bancari ordinati cronologicamente e pinzati insieme. Li sfogliai in cerca di qualcosa che potesse attrarre la mia attenzione. Nulla. Philippa non era stata stravagante. Spendeva pressapoco la stessa cifra tutti i mesi; prelevava la medesima somma ogni settimana dal bancomat. Stavo per chiudere il cassetto, quando avvertii qualcosa in fondo, che sporgeva dietro la risma di carta: un libricino dalla copertina rosa che si intitolava Il sogno di Lucy. Era, diceva la copertina, un racconto erotico per donne. C'era la foto glamour di una donna di cui si intravedeva il seno nudo, la macchia scura di un capezzolo, il volto spinto indietro, i capelli che le ricadevano sulle spalle come acqua. Pensai di prendere il libro prima che Jeremy rovistasse nella scrivania, poi decisi di no. A Philippa non sarebbe più importato che lo trovasse. In fondo al cassetto c'era una grossa bambola in una scatola chiusa. Si chiamava Sally, aveva riccioli marroni, lunghe ciglia scure e grandi occhi blu che fissavano attraverso il cellophane. Mi diede un brivido. Nella scatola c'era anche un vasino e un biberon. Una spiegazione diceva che, se si dava a Sally dell'acqua, lei piangeva e faceva la pipì. Philippa doveva averla comprata per Emily, forse per il prossimo compleanno. Trovai anche un piccolo taccuino che aprii. Sulla prima pagina c'era una lista della spesa con le voci spuntate. Sulla seconda un elenco di cose da fare: telefonare all'idraulico, comprare i lacci delle scarpe, sbrinare il frigo, portare l'automobile dal meccanico per la revisione. La pagina successiva era coperta di scarabocchi di vari frutti. La quarta era vuota, a parte alcuni numeri di telefono di Londra appuntati sul margine. La quinta conteneva parole scarabocchiate, che guardai distrattamente mentre mi leccavo un dito per girare pagina. Ma mi fermai con il dito a mezz'aria. C'era scritto: Lianne. Fissai le lettere senza quasi osare muovermi, nel timore che scomparissero o si trasformassero in qualcos'altro. Improvvisamente mi sentii la gola secca. La parola non cambiò, per quanto la fissassi. Era sempre Lianne. Continuai a guardare la pagina come in sogno. Verso il fondo, scritto a caratteri più piccoli e circondato da punti interrogativi, ma nella grafia inconfondibile di Philippa, c'era il nome: Bryony Teal. Lianne e Bryony Teale, scritto senza la E finale. Philippa aveva scritto il nome delle altre due vittime. E c'era un altro nome, con un fiore scarabocchiato vicino, una margherita che alludeva a esso: Daisy. Con gran circospezione, come se fosse una bomba che mi potesse scop-
piare tra le mani, sollevai il taccuino e lo feci cadere in borsa. Quindi richiusi il cassetto. Per un minuto ancora rimasi alla scrivania, a guardare fuori della finestra, lasciando penetrare nella mia testa ciò che avevo appena visto. Una nuvoletta nera nascondeva il sole, per cui il parco era in ombra. Mentre guardavo fuori, Emily entrò di corsa nel giardino e si mise a parlare ad alta voce con la nonna, ancora in casa. Aveva dei pantaloncini di jeans e una maglietta a righe. Improvvisamente alzò gli occhi e mi vide, seduta alla finestra di sua madre: per un terribile momento il suo faccino si illuminò di una gioia insopportabile, e mi rivolse le braccia tese, la bocca aperta per chiamare un nome. Poi si afflosciò, le braccia le ricaddero sui fianchi. Sentii spuntarmi le lacrime agli occhi. Mi alzai e uscii dalla camera, con la borsa e il suo prezioso carico in spalla. Non facevo che pensare a quei nomi scritti sul taccuino. E a Bryony, alla quale avevo detto che non era in pericolo. CAPITOLO 33 Mi scusai di non poter partecipare alla riunione alla Welbeck Clinic. Cancellai il pranzo con Poppy e andai subito da Oban a fargli vedere quel che avevo trovato. Montammo sulla sua auto, dove lui continuò a bestemmiare, a sudare e a ripetermi che era una roba senza senso. La sua voce divenne un ronzio, come il traffico. Mi premetti le dita contro le tempie. Ci doveva pur essere una spiegazione. Evidentemente stavamo guardando le cose nel modo sbagliato. Se le avessimo esaminate da un altro punto di vista, sarebbero state diverse. Tutto ciò che non ha senso, prima o poi lo acquista. Chiusi gli occhi e cercai di rilassarmi. Aspettai di vedere una luce, ma non successe niente. Brontolai tra me e me e mi sfregai gli occhi. Oban era nero e neanche lui moriva dalla voglia di fare quella visita. Il suo cellulare squillò e lui abbaiò. «Sì. Sì, dimmi.» La sua espressione cambiò e lui si piegò leggermente in avanti, afferrando il volante con la mano libera. «Ripeti. D'accordo, ritorneremo subito dopo. Diciamo tra una mezz'ora, non di più. Non muoverti.» Riattaccò. «Maledizione» esclamò. «Che cosa?» «Maledizione.» «Sì, ma che altro?» Si fermò proprio davanti alla casa dei Teale facendo stridere i fremi.
«Non crederai mai a ciò che ho appena sentito» disse. «Avanti, raccontami.» «Non c'è tempo, ora. Te lo dico dopo» sbraitò, e balzò fuori dall'automobile. «No» mormorò Bryony. Il suo volto, quando ci vide, sbiancò, e gli occhi apparvero enormi e scuri. «No!» esclamò più forte questa volta, con violenza, e si portò le mani al viso come per una preghiera. «Non capisco. Non può essere vero. Che cosa significa?» «Non lo sappiamo» risposi. Lanciai uno sguardo a Oban per vedere se voleva aggiungere qualcosa alla mia laconica risposta, ma rimase immobile, gli occhi fissi sulle mani appoggiate al tavolo della cucina, come se stesse cercando di ricordare un sogno. Bryony aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi si prese la testa tra le mani. Gli splendidi capelli le caddero sul volto come una cortina. «Non può essere vero» la sentii mormorare. «Non può essere vero.» Dietro di noi, dai fornelli, si udì un sibilo e poi qualcosa che traboccava da una pentola. Un odore di zucchero bruciato riempì la cucina, ma lei non si mosse. Oban si alzò pesantemente e tolse la pentola dal fuoco, poi si avvicinò a Bryony che era accasciata sul tavolo. «Una delle vittime ha scritto il tuo nome» dissi. «Eppure dici di non averla mai incontrata?» «Non l'ho mai conosciuta. È vero» rispose lentamente. Oban appoggiò il viso grande e affaticato sulle mani. «Ne sei sicura? Incontriamo tante persone, magari senza neanche saperne il nome. O forse era lei che ti conosceva.» «Non l'ho mai conosciuta. Non pensi che me ne ricorderei, con tutta quella roba sui giornali? Non l'ho mai vista, non avevo mai sentito il suo nome prima che fosse uccisa.» «E neanche Lianne?» «Per l'amor del Cielo, no. Cos'altro posso dire?» rispose lamentosamente. «E le dice niente il nome Daisy? Daisy Gill?» domandò Oban, che aveva alzato la testa di colpo. «No, no. Chi è? Un'altra vittima?» Oban le diede in silenzio una fotografia che non avevo mai visto prima. La polizia lavora in fretta, quando deve. Era uno di quei riquadri con quattro foto che si fanno nelle cabine per strada. C'era una ragazzina con un
volto spigoloso, triangolare, e capelli neri in disordine. Nella prima era seria, con le labbra leggermente aperte che lasciavano intravedere un dente spezzato, nella seconda cominciava a sorridere e guardava di lato, probabilmente un amico fuori campo. Nella terza ridacchiava ed era voltata, tanto che parte della guancia sinistra era tagliata. Nella quarta non c'era che una mano che salutava nell'aria. Bryony fissò la foto per un minuto, poi la spinse via, scuotendo il capo violentemente. «No» farfugliò, e scoppiò in pianto. Mi allungai sul tavolo e le presi la mano. La afferrò come se stesse annegando e solo io la potessi salvare. «Eppure Philippa Burton ha scritto il suo nome prima di morire» disse Oban a bassa voce, quasi stesse parlando tra sé. «Cazzo, lo so!» sbottò Bryony tra le lacrime. «L'ho sentito bene. Mi dispiace. Scusatemi. So che non è colpa vostra. Ma è uno shock, per non dir di peggio.» Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e fece uno sforzo palese per ricomporsi, sedendosi diritta e spingendo i capelli dietro alle orecchie. «Devo controllarmi. Volete un caffè?» «Non dico mai di no a un caffè» risposi, nel momento in cui Oban diceva invece: «No, grazie». Bryony si alzò con un movimento aggraziato. Aveva una gonna lunga di cotone nero, una maglietta nera e i piedi nudi. Intorno a una caviglia portava una catenina d'argento. «Datemi un paio di secondi per inghiottire questo rospo» disse mentre andava al bollitore. Oban mi sorrise stancamente e si slacciò il bottone in alto della camicia. I suoi occhi azzurri sembravano più piccoli e chiari del solito e continuava a sbatterli, come per schiarire la vista. I radi capelli erano unti e non si era rasato. Per strada, tra le frenetiche chiamate sul cellulare, si era voltato verso di me e aveva bofonchiato «Ti voglio con me, d'ora in poi» non con tono perentorio, ma umile, come se da capo fosse diventato un supplicante. Non c'erano dubbi, ero l'eroina del momento: la donna che aveva trovato ciò che era invisibile a tutti gli altri. Non mi sentivo particolarmente brava. Avevo scoperto una pista, è vero, ma era una pista che non aveva senso. Anzi, distruggeva qualsiasi senso avessimo trovato fino a quel momento. Nel frattempo l'assassino era ancora in giro. Presi la fotografia di Daisy Gill e la osservai. Aveva un piercing sul sopracciglio e uno sulla lingua, e un pendente al collo. Nella terza foto, quella in cui stava scivolando via, lo vidi più chiaramente. Era un piccolo cuo-
re spezzato, come quello trovato sul corpo di Lianne con su la scritta Miglior... Mi domandai se su quello di Daisy ci fosse scritto ... amica. Guardai Bryony che versava il caffè in due tazze. Si mordicchiava il labbro inferiore ed era leggermente accigliata, ma quando si sentì osservata, si voltò e mi fece un sorriso mesto. «C'è tuo marito?» le domandai. «Gabe? No. È andato all'ufficio postale qui vicino. Sarà di ritorno da un momento all'altro. Di solito non comincia a lavorare prima del tardo pomeriggio. Prendi il latte, vero?» «Niente latte né zucchero, grazie.» Si sedette di nuovo al tavolo della cucina, avvolgendo le dita intorno alla tazza come per conforto. Improvvisamente sembrò molto giovane e vulnerabile. «Bene» disse, «e adesso che cosa succede?» Oban si schiarì la gola e rispose con pomposa insulsaggine, «Continueremo le indagini». Bryony lo fissò con aria incredula. «Senti» intervenni, «non ha alcun senso che una delle vittime conoscesse l'identità delle altre o delle potenziali altre. Non sappiamo quando Philippa abbia scritto i nomi, quindi non sappiamo se Lianne fosse già morta o no.» Esitai, ma lei era intelligente e aveva capito dove volevo andare a parare. «Per ora mi sembra ragionevole ipotizzare che non si sia trattato di un semplice tentativo di borseggio lungo il canale.» Annuì. Aveva le labbra bianche. «E che l'assassino non stia agendo a caso» aggiunsi gentilmente. «Capisco» mormorò. «Per cui adesso la polizia starà un po' con te, cercando di scoprire...» Mentre parlavo, udii il rumore di una chiave che girava nel portone principale, poi un fischiettare stonato nell'ingresso. «Gabe!» chiamò Bryony. «Gabe, sono in cucina. Con la polizia.» Il fischiettare si interruppe di botto. Gabe entrò togliendosi una giacca di pelle logora. Era teso in viso. «Che cos'è successo?» domandò. «Bry, stai bene?» «Non si allarmi, signor Teale» intervenne Oban, ma fu interrotto da Bryony: «Philippa Burton ha scritto il mio nome prima di essere uccisa». Gabriel aprì la bocca ma sembrò incapace di emettere suono. Rimase a fissare la moglie, e noi. Sembrava sbalordito.
«Il mio nome e quello di Lianne, e di un'altra ragazza che si chiamava Daisy» continuò Bryony lentamente, come per essere sicura che lui assorbisse la notizia. L'orrore sembrò dargli nuova calma e decisione. «Daisy Gill, ha detto?» «Proprio così, signora Teale.» «Così pare non sia stato un borseggio. E che volesse veramente uccidere me, non una donna qualsiasi.» Gabriel le si avvicinò e si inginocchiò vicino alla sua sedia. Le prese le mani e le baciò, e poi le mise il capo in grembo. Lei gli accarezzò dolcemente i capelli scuri e spettinati, poi gli sollevò il viso in modo che la guardasse. «Andrà tutto bene» mormorò. Mi sembrò che stesse rassicurando se stessa oltre che lui. «Andrà tutto bene, te lo prometto. Non succederà nulla. Mi senti, caro?» «Possiamo farle ancora un paio di domande prima di lasciarvi nelle mani capaci dei miei detective?» disse Oban. Gabriel si alzò e si mise dietro a Bryony con le mani sulle sue spalle. «Conoscete un certo Will Pavic?» domandò Oban. Lo fissai. Perché faceva quella domanda? «Non mi pare. Lo conosciamo, Gabe?» «Be', so chi è, naturalmente» rispose Gabriel. «Voglio dire, è molto conosciuto in questa zona.» «Perché?» continuò Oban. «Voglio dire, io per esempio non conosco neanche la tizia che abita alla porta accanto, per non dire la coppia che vive dall'altra parte della strada.» Gabriel alzò le mani. «Lo conosco nel senso che facciamo parte dello stesso mondo. Io dirigo un teatro di quartiere, e una delle cose che facciamo è cercare di coinvolgere alcune delle persone che si sentono più isolate e abbandonate dalla comunità. Lui dirige un ostello per ragazzi ed è abbastanza noto. È sempre pronto a, come potrei dire, creare maretta. Ogni tanto ci incrociamo, ma tutto qui. Perché? Perché mi chiede di lui?» «Per ora è tutto» disse Oban. «Ma penso che il detective Furth voglia parlare ancora con voi.» Li lasciammo in cucina, Gabriel con le mani sulle spalle della moglie, lei con il capo voltato a guardarlo. Sembrava terrorizzata e io fui pervasa da un senso di orrore. «Che cosa ne pensi, Kit?» mi domandò Oban, mentre tornavamo alla centrale. «Indovina che cosa ho saputo venendo qui: tra la casa dei Burton
e il Centro di Pavic ci sono state tre telefonate nel mese precedente alla morte della signora Burton.» «Oh» feci. Mi sentii raggelare fino alle ossa, anche se il giorno era afoso. «Tutto qui? Gesù, Kit, hai sentito bene? Le prime due chiamate sono durate più o meno un minuto. L'ultima ottantasette minuti. Che cosa ne pensi?» «Non so.» «Pavic, eh? Sarà interessante.» «Molto interessante» ripetei lentamente. Poi aggiunsi dolorosamente: «Penso che dovrei dirti una cosa». «Aspetta.» Fece dei numeri sul cellulare. «Dimmela dopo.» «D'accordo.» Appoggiai la fronte al finestrino e chiusi gli occhi per un momento. Che pasticcio colossale. CAPITOLO 34 Ci fermammo alla centrale di polizia. Oban saltò giù e prese a correre, tanto che per stargli appresso dovetti correre anch'io. «Che cosa facciamo?» gli dissi senza fiato, urlandogli dietro. «Parliamo con qualcuno.» Un poliziotto in divisa ci raggiunse da un corridoio laterale e si mise a camminare con Oban. «È già arrivato?» gli domandò Oban. «È nella due» rispose il poliziotto. «Vuoi che gli parli io?» «Facciamolo subito. Ci vorrà meno di un minuto.» Seguii Oban che svoltava prima a sinistra poi a destra lungo il corridoio. Arrivammo a una porta e Oban bussò energicamente. Gli fu aperto da una poliziotta che uscì facendogli un cenno di saluto con il capo. «Sta bene?» «Non so. Non ha praticamente aperto bocca, se non per sbadigliare» rispose la donna. «Rimani qui» disse a lei, non a me. «Non ci metteremo più di cinque minuti.» Mi tenne la porta aperta e io entrai. Non so che cosa mi aspettassi. Non avevo avuto tempo per pensarci. Così quando vidi Will Pavic mi sentii come se inaspettatamente mi avessero dato un pugno in faccia. Era appoggiato al tavolo, le mani in tasca. Si guardò intorno e i suoi occhi incontra-
rono i miei. Le gambe mi divennero molli. Non mostrò quasi nessuna reazione, se non la debolissima traccia di un sorriso sarcastico. Aveva un abito grigio, una camicia bianca, ed era senza cravatta. L'avevano arrestato? Toglievano ancora la cravatta agli uomini perché non si impiccassero? Mi voltai verso Oban. «Non sapevo...» fu tutto quello che riuscii a dire. «Non avevo capito...» «Il signor Pavic ha gentilmente accettato di venire a scambiare due parole. Dobbiamo chiarire con lui una cosa o due. Per favore, si sieda.» Oban gli indicò una delle sedie accanto al tavolo. Will si sedette, sempre senza parlare. Io mi appoggiai alla parete, vicino alla porta, il più possibile lontano da lui. Gli gettai un'occhiata, ma lui stava guardando il tavolo con aria annoiata; un'espressione che ormai riconoscevo, inflessibile, opaca. Farfugliai qualcosa, ma Oban era affabile e rilassato di fronte a Will, sembrava si fossero incontrati per bere qualcosa. «Ci sono stati degli sviluppi negli omicidi di Lianne e di Philippa Burton.» Nessuna risposta da parte di Will. Oban tossicchiò. «Forse ha saputo che c'è stata un'altra aggressione lungo il canale. Una certa Bryony Teale. Dovrebbe conoscere suo marito, Gabriel.» «Ne ho sentito parlare» rispose Will in modo inespressivo. «Ma non lo conosco.» «Anche lui aveva sentito parlare di lei. Ma lei è piuttosto conosciuto, vero, signor Pavic? E aveva contatti con Lianne, naturalmente. Fino a questa mattina devo ammettere che avevo dei grossi dubbi sul fatto che i due casi fossero collegati.» Will strizzò un po' gli occhi e il suo amaro sorriso si fece più palese, ma non parlò. «Non le è mai capitato di incontrare Bryony Teale?» continuò Oban. «Fa la fotografa e cammina spesso nella zona, lungo le strade e presso il canale.» «No» rispose Will. «E che mi dice di Philippa Burton? La conosceva? Vi siete mai incontrati? Ne aveva sentito parlare?» Strinsi i pugni dietro la schiena, piantandomi le unghie nelle mani. Will scosse il capo. «No» rispose. «In effetti, perché avrebbe dovuto? Viveva a Hampstead, era sposata con un uomo d'affari. Ma suppongo lei incontri gente di tutti i tipi.» Nessuna risposta. Questa volta Will mi guardò. Non abbassai gli occhi. Cercai di fargli capire che, benché facessi parte delle indagini, ero consa-
pevole di quanto fosse sgradevole la situazione e di come fosse inutile che lo interrogassero in quel modo. Era molto da comunicare attraverso un solo sguardo, e probabilmente apparve come un gesto di panico. Ma non aveva importanza. Will mi guardava con totale indifferenza. «Come stavo dicendo» continuò Oban, «non mi convincevano i legami tra i due casi. Pensavo che le due donne fossero state aggredite a caso. È stata la dottoressa Quinn a insistere sull'idea del collegamento. Adesso ha trovato una nota di Philippa Burton con su scritti i nomi di Lianne e di Bryony Teale. Incredibile, non pensa? I nomi di due delle vittime scritti da un'altra vittima.» Will scrollò le spalle con un gesto di stanchezza. «Ma di che si tratta?» «Ci sto arrivando. Abbiamo controllato le telefonate della signora Burton nell'ultimo mese di vita. La maggior parte ce le aspettavamo, erano alla madre, al marito sul lavoro, a un paio di amiche e a un'agenzia di viaggi. Ma ce n'erano alcune bizzarre. Per esempio il nove di luglio c'è stata una telefonata da casa dei Burton al suo ostello. Ora, so che cosa sta per dirmi, ma la telefonata non era indirizzata al telefono a pagamento che c'è nell'ingresso, quello che la gente usa per spacciare la droga.» «Quel telefono non viene usato per spacciare la droga» rispose Will. «Penso lei sappia che gli spacciatori preferiscono usare i loro cellulari.» «Quel che volevo dire è che la chiamata è stata fatta al telefono del suo ufficio. Volevamo sapere che cosa ha da dire in proposito.» Se fosse stato un esame di impassibilità, Will avrebbe preso il massimo dei voti. Ma non era un esame, e sapevo che una persona normale, nella situazione di Will, si sarebbe stupita del collegamento tra le donne e poi della chiamata fatta al suo telefono. Una persona normale e innocente avrebbe cominciato a comportarsi come se fosse colpevole. Will appariva solo annoiato. «Non ho nulla da dire» rispose. «Significa che si rifiuta di rispondere? È suo diritto.» «No, non intendo questo. Non so cosa vuole che dica. Mi faccia delle domande e io le risponderò.» «Ha parlato al telefono con Philippa Burton?» «No.» «Altre persone hanno accesso a quel telefono?» Un'altra scrollata di spalle. «Probabilmente.» «Non voglio un "probabilmente". Sì o no?» Will strinse i denti. «Sì.» «Accesso sorvegliato?»
«Io sono spesso fuori. La mia assistente, Fran, va nel mio ufficio in continuazione. E inoltre abbiamo un mucchio di aiutanti e volontari estemporanei. Sono sicuro che a volte il telefono rimane incustodito.» «Lianne stava all'ostello in quel periodo?» «Lianne non è mai stata all'ostello. A volte ci passava.» «È un punto importante, perché questa telefonata è stata fatta prima che entrambi gli omicidi fossero commessi.» «Ovviamente» rispose Will. «Mi dispiace» fece Oban. «Ho perso qualcosa? Che cosa è ovvio?» Will tamburellò leggermente con le dita sul tavolo. «Non è importante» rispose. «Ma cosa voleva dire?» Will sospirò. «Se queste persone si parlavano, allora doveva essere prima che fossero assassinate. Tutto qui quel che intendevo.» «Chi ha detto che si parlavano?» «Lei.» «No. Ho detto che dal telefono di Philippa è partita una chiamata diretta al suo. Avrebbe potuto parlare con lei, per esempio. Tuttavia, ora ci ha assicurato che non è stato così. Ma la telefonata avrebbe potuto essere diretta a qualcun altro, oppure fatta da qualcun altro. Ci sono infinite possibilità. Quindi ora più che mai sarebbe utile sapere quando Lianne è stata all'ostello. Ha delle documentazioni?» «Non sono molto precise.» «Peccato» commentò Oban, con tono meno benevolo. «Una documentazione dettagliata sarebbe stata di estrema utilità.» Will spinse indietro la sedia, come si fa di solito dopo aver finito un lauto pasto. Le gambe di metallo stridettero orribilmente sul pavimento. Per la prima volta sembrava coinvolto, il che, conoscendolo, era lo stesso che dire in collera. «Sa» rispose, «dopo anni di esperienza, ho scoperto che l'unico modo di impedire a gente come lei di accedere ai miei documenti era non tenerli.» Per un momento Oban si concentrò sull'atto di pulirsi le unghie da invisibili tracce di terra. «Signor Pavic, non sono interessato alle sue affermazioni politiche. Una giovane donna che passava del tempo al suo ostello è stata uccisa. Un'altra vittima ha telefonato all'ostello. Mi dispiace se trova la cosa noiosa.» Ci fu silenzio. Poi Will parlò con una voce bassa, ma gelida e chiara, per cui lo sentii bene. «Lavoro con queste persone tutto il giorno» disse. «Sono
invisibili. Succede qualcosa e improvvisamente intorno a loro c'è un grande interesse. E poi di nuovo il nulla. Così mi perdonerà se non sono grato della sua attenzione.» Si alzò. «Non mi sembra che lei capisca come funziona la mia casa. La gente non timbra un cartellino. Non scrive su un libretto quando usa il telefono.» Per la prima volta mi guardò con l'aria di riconoscermi. «Non è un collegio femminile. È più come una piccola roccia in mezzo al mare. La gente ci approda e ci si aggrappa per un po'. E poi è di nuovo trascinata via. Il massimo che posso sperare è che sia un po' più forte di quando è arrivata.» «Lianne era più forte quando se n'è andata?» Nonostante tutto, Will non riuscì a nascondere la tristezza nei suoi occhi. «Non lo so» rispose. Quando uscì, non mi guardò, e io non gli tesi la mano né gli dissi nulla. Ma quando se ne fu andato, mi morsicai il labbro e dissi a Oban, con voce malferma e frasi inarticolate, che nell'ultima settimana avevo frequentato Will Pavic. In un certo senso. Oban sembrò stordito, sbalordito, come se l'avessi svegliato da un sonno molto profondo per dirgli una cosa incomprensibile. «Pavic? Ma pensavo... Ma che cosa... Tu e lui? Oh, be'.» Aggrottò la fronte per la sorpresa. «Pavic? Ne sei sicura? Tu e lui, una coppia?» «Non siamo esattamente una coppia.» «Come mia moglie e io. So che cosa vuoi dire.» CAPITOLO 35 «Voglio che tu resti con me, adesso» disse Oban. Così ero di nuovo con lui sul prato inzuppato di Jeremy Burton, conscia che Emily ci stava guardando dalla camera da letto con il dito in bocca. Jeremy aveva insistito perché andassimo a parlare fuori, come se in casa si sentisse oppresso. Aveva solo una camicia a maniche corte, senza la giacca, ma non sembrava avvertire il vento fresco che soffiava in giardino. Io avevo una giacca, ma avevo ugualmente freddo. L'acqua mi stava inzuppando scarpe e piedi. «Non capisco» ripeté. Era praticamente tutto quel che aveva detto da quando eravamo arrivati. Aveva guardato le fotografie di Daisy, Lianne e Bryony, prendendole una per una e tenendole lontano dagli occhi come se fosse presbite, prima di restituirle a Oban. «No» aveva detto di ognuna. «No. Non ho mai visto questa faccia. Non ho mai udito questo nome. Assolutamente no. Non capisco perché me le stiate mostrando.»
«Sua moglie ha scritto i nomi delle altre vittime prima di morire» rispose pazientemente Oban. «Lianne. E il nome della donna che recentemente è stata aggredita vicino al canale, la signora Teale, Bryony Teale. Daisy Gill si è uccisa un paio di mesi fa ed era un'amica di Lianne. Sua moglie ha scritto anche il suo nome.» «Perché?» Jeremy scosse il capo vigorosamente e aggrottò la fronte, come se avesse difficoltà a distinguere le nostre sagome. «Perché?» Il suo volto si afflosciò. Era stanco. Aveva la pelle di un pallore grigiastro, gli occhi cerchiati di rosso e l'aria sofferente. «Non sappiamo il perché» rispose Oban. «Abbiamo solo trovato questa nuova prova, che ovviamente cambia la visione dei fatti.» «Philippa non le conosceva» insistette il marito. «Ha scritto i loro nomi.» «Deve essere un errore» ribatté affannosamente. «Non riesco a spiegarlo, ma deve esserci un errore. Non le conosceva.» «Perché ne è così sicuro?» domandai il più gentilmente possibile. «Me l'avrebbe detto.» «Che cosa le avrebbe detto?» «Qualsiasi cosa. Tutto. Mi diceva tutto quel che le succedeva.» Per un momento sembrò sul punto di scoppiare in lacrime, ma poi ci guardò, furente, e prese a camminare a grandi passi per il giardino. «Signor Burton» intervenne Oban con fermezza, «so che è uno shock per lei, ma...» «Non è uno shock, è come un brutto sogno.» «Potrebbe essere stata minacciata o...» «Non so perché abbia scritto quei nomi. Perché avrebbero dovuto minacciarla?» Si fermò di colpo e ritornò verso di noi. «So che cosa state pensando.» «Che cosa stiamo pensando?» «Che aveva qualcosa in mente. Che aveva una relazione o qualche sciocchezza del genere. O che l'avessi io. Che forse avevo una relazione con tutte quelle donne e lei l'ha scoperto. È questo che volete sentirmi negare? Ebbene, lo nego.» Si allontanò nuovamente. «Jeremy.» Lo raggiunsi e gli misi una mano sul braccio per farlo rallentare. «Per favore, ascolti con attenzione. Non stiamo alludendo a nulla né facciamo alcuna ipotesi. Per favore, mi ascolti. So che...» «Che cosa sa? Nulla. Non sono molto bravo a esternare le mie emozioni.
Non lo sono mai stato. Ma non significa che non provi nulla. Phil lo sapeva. Lei capiva quando ero giù di corda o preoccupato per qualcosa, per il lavoro, ad esempio. Quando rientravo a casa, lei mi dava un'occhiata e capiva se stavo bene o no. Non avevo bisogno di dirle nulla. Non eravamo appiccicosi, non ci si poteva chiamare una coppia appassionata. Ma ci sono tanti modi di amarsi e noi ci amavamo. Ora lei è morta e voi venite qui a insinuare chissà che cosa su noi e la nostra vita in comune. Avevamo una bella vita. Quella che volevamo. Non mondana, festaiola. Poi abbiamo avuto Emily. E cercavamo di avere un altro bambino. Allora saremmo stati una famiglia completa. È quello che diceva lei. Ora lei è morta e non saremo mai più una famiglia completa.» «Signor Burton...» E a questo punto vedemmo che stava piangendo. Era sotto il melo piegato dal peso della frutta quasi matura, e singhiozzava come un bambino, con il viso paonazzo e lucido di lacrime. «No» disse Pam Vere, seduta diritta su una sedia. Gli orecchini di ambra dondolarono quando scosse il capo vigorosamente. Non riconobbe alcuno dei volti. Ne era sicura. Perfettamente sicura. «Quanto tempo è stata con lei, signora Winston?» La signora Winston era grassoccia e aveva i capelli ricci. Sarebbe stata carina se non fosse stata troppo truccata e i suoi occhi non avessero avuto una luce furba e avida dietro le lenti spesse. Eravamo sedute nella sua cucina calda, con tre gatti che mi si strofinavano contro le gambe, e mangiavamo dei biscotti al cioccolato. Oban era ritornato alla centrale di polizia e si era mostrato contrario al mio desiderio di scoprire qualcosa di Daisy. «Dobbiamo concentrarci sui personaggi principali, Kit. E poi i miei uomini ci sono già stati in quella casa, hanno già parlato con quella donna.» «Quanto tempo?» La signora Winston aggrottò la fronte e bevve rumorosamente un sorso di tè. «Mi faccia pensare. Be', non è stata molto, a dir la verità. Di solito preferiamo che i nostri figlioli rimangano a lungo, che si sviluppi una relazione, che si sentano in famiglia. Abbiamo avuto una ragazza per quasi due anni. Vero, Ken?» Ken, che era grosso la metà, annuì. «Vero.» «Georgina. Si chiamava così. Una ragazzina deliziosa.» «Deliziosa» fece eco Ken. «Ma Daisy non è rimasta a lungo. Tre mesi o poco più.»
«Come mai è stata così poco?» «Non si è mai sentita a casa. Ci abbiamo provato, sa. Le abbiamo dato la sua camera, con tendine nuove che ho fatto per lei, e dei bei mobili. E l'abbiamo accolta bene, vero, Ken?» «Vero.» «Il giorno in cui è venuta le ho detto: "Daisy, considera questa la tua casa. E se hai dei problemi, piccoli o grossi che siano, vieni da me".» «Ed è mai venuta? Con dei problemi, voglio dire?» «No, mai. Era chiusa come una vongola. L'ho capito subito, dalla prima settimana, che non avrebbe funzionato. Vero, Ken?» «Vero.» «Si teneva sulle sue. Mangiava nella sua camera. Briciole dappertutto. Non faceva nessuno sforzo per unirsi a noi. E diceva cose terribili su mio figlio Bernie.» Avevo incontrato Berme: un ragazzone grande e grosso, sui diciassette anni, con una maglietta con sopra un teschio, che era venuto ad aprirmi la porta. «Quando lui cercava solo di essere carino.» «Quindi Daisy non le ha mai raccontato molto di quel che faceva?» «No, non ci diceva praticamente nulla. Era molto misteriosa.» «Ha incontrato qualcuno dei suoi amici?» «No. Usciva, ma non ha mai portato nessuno qui. A volte stava fuori anche la notte. Le ho detto: "Daisy, non mi importa che tu esca, qui c'è la chiave, ma devi dirmi a che ora ritorni". Ma non l'ha mai fatto.» Le misi davanti le fotografie. «No» disse osservandole. «L'ho già detto. Ovviamente riconosco questa, ma solo dalla televisione.» «Philippa Burton.» «Che cosa aveva a che fare una come lei con Daisy?» «Allora è sicura di non aver mai incontrato nessuna di loro?» «L'ho già detto alla polizia. No.» «Grazie» risposi stancamente. «Stavo solo facendo un controllo.» «Non è facile essere genitori adottivi. Probabilmente lei penserà che non mi importava niente di Daisy, ma ho fatto del mio meglio. Mi è spiaciuto molto quando ho saputo quel che le era successo. Vero, Ken? Ma non mi ha sorpreso.» «Perché no?» Scrollò le spalle. «Era una ragazzina arrabbiata, disgraziata, permalosa e maleducata; si infuriava per niente, piangeva nella sua camera, scagliava cose. A volte prendeva a calci i gatti. L'ho beccata. È stata l'ultima goccia.
Pensava di avere il mondo contro. È arrivato tutto troppo tardi.» «Che cosa è arrivato troppo tardi?» «Noi. Tutto.» «Grazie» le dissi, alzandomi per andare, con una gran voglia di lasciare quella cucina soffocante e quei gatti smaniosi. «Abbiamo fatto del nostro meglio.» «Ne sono sicura.» «Ma ci sono persone che non si possono aiutare.» «Non c'è bisogno che mi accompagni alla porta.» «Era il peggior nemico di se stessa.» «In un certo senso do la colpa a me» disse Carol Harman. «Chi l'ha trovata?» «Io. Il personale mi ha chiamata perché si era chiusa a chiave in camera e non rispondeva ai colpi alla porta. Allora ho aperto con il mio passepartout e l'ho trovata. Si era impiccata, ma lo sa già, non è vero?» «Sì.» «Sapevamo che era a rischio. Si tagliava, e non mangiava. Era sotto stretta sorveglianza, c'era una persona addetta a lei. Non sarebbe dovuto succedere.» «Doveva essere determinata» dissi. Quella donna mi piaceva. Non faceva alcun tentativo di giustificarsi nei miei confronti. «Non è stato solo un grido di aiuto.» «Se non ci fosse riuscita, forse non avrebbe più tentato. Chi lo sa? Era una ragazza difficile, molto cocciuta e bisognosa d'affetto. Con una vita terribile. Una volta mi ha confidato, "Nessuno mi ha mai detto di volermi bene".» «E che cosa le ha risposto lei?» «Che io le volevo bene, naturalmente, ma non suona molto spontaneo, quando viene da una persona che ti conosce solo da poche settimane ed è pagata per starti dietro.» «Perlomeno gliel'ha detto.» «Mah... Allora lei vuole sapere se ho mai visto qualcuna di queste donne. Ho incontrato lei, una volta.» Mise la punta di un dito sul viso di Lianne. «È venuta a trovare Daisy. Sono salite nella sua camera insieme. Tutto qui.» «Nessuna delle altre?» «No.»
«Perché pensa che l'abbia fatto?» «Parla di uccidersi? Non lo so. Aveva una vita triste, no? Non conosco nessun fattore particolare, ma non significa che non ci sia stato. Probabilmente perché alla fin dei conti era più facile che essere viva.» CAPITOLO 36 Il giorno dopo andai alla clinica, partecipai a una riunione sull'organizzazione del personale e feci finta di compilare un po' di carte. Ma avevo il cervello occupato dagli eventi delle ultime ventiquattro ore. Continuavo a pensare all'elenco di nomi, al volto bianco e distrutto di Bryony quando aveva saputo, ai singhiozzi di Jeremy sotto il melo. E non sapevo che cosa fare con Will. Era arrabbiato con me al punto da non volermi più parlare? Volevo ancora vederlo? Alle sei e un quarto gli telefonai. Alle nove meno dieci guardai l'orologio mentre Will me lo sfilava dal polso e lo metteva sul pavimento vicino al suo letto. Me lo rimisi, quando uscii dalla doccia. Erano da poco passate le dieci. Lui era a letto. Mi ci sdraiai accanto. Ero ancora umida e lui anche, ma di sudore, di sesso e di me. Io profumavo di sapone, mentre lui sapeva di me. «È stato meraviglioso» dissi, e poi cominciai a scusarmi. «Mi sento sempre stupida a dire una cosa del genere. Mi sembra di ringraziarti per qualcosa.» Mi misi a sedere contro il muro, alzando un cuscino, e mi guardai attorno. C'erano i rimasugli di una cena cinese. Una bottiglia di vino vuota e un'altra piena per tre quarti. I nostri vestiti sparpagliati. «Mi spiace per ieri pomeriggio. Non sapevo che cosa fare» continuai. «Non importa» rispose, facendo scorrere le dita sul mio corpo, ma senza guardarmi. «È questo che mi ha sorpresa. Sembrava proprio che non te ne importasse. A me la polizia fa paura, eppure ci lavoro. Tu non sembravi seccato.» «È un problema?» «Forse io sono più paurosa.» «È comprensibile.» «Vuoi dire a causa di questa?» Sollevai la mano e mi toccai la cicatrice. «Che cosa avresti voluto? Che mi mettessi in ginocchio e proclamassi la mia innocenza?» «Che cosa intendi con la tua innocenza?» «È quello che vuoi anche tu, no? Vuoi che ti guardi negli occhi e ti dica: "Kit, sono innocente. Che Dio mi aiuti".»
«No» protestai. «Ma...» «Ah-ah, allora c'è un "ma", dopotutto.» Si alzò. «Vado a fare la doccia.» Rimasi a letto, parzialmente coperta dal lenzuolo sottile, a pensare. Non appena ritornò in camera, avvolto in un grosso asciugamano bianco, dissi: «Sai qual è il problema?» «Quale problema? Il mio o il tuo?» «Non hai perso la freddezza neanche per un secondo. Hai sempre mantenuto un completo controllo.» «E la questione è: una persona innocente si sarebbe comportata in questo modo?» «Non ti importa?» «Che cosa?» Inarcò le sopracciglia. «Di quel che la gente pensa di me? Perché dovrebbe importarmi?» «No, non intendo di quel che la gente pensa di te. Voglio dire di... di Lianne, di Philippa e di Daisy. E adesso anche di Bryony, e del fatto che tu sia in qualche modo coinvolto. Anche se tecnicamente non hai assolutamente nulla a che fare con questo, ci sei dentro. E conoscevi alcune di quelle donne. Conoscevi Lianne, che era giovane e sola e aveva bisogno di aiuto e ora è morta. Sono morte, eppure tu rimani tranquillo con il tuo sorriso ironico, a segnare punti. Se non te ne importasse nulla non faresti questo lavoro. Quindi so che te ne importa...» «No, non lo sai. Non c'è un collegamento.» «Be', d'accordo, forse non te ne importa un accidente e lo trovo agghiacciante.» Will fece un sorriso cattivo. «Più agghiacciante della possibilità che sia capace di un omicidio? Forse» lasciò cadere a terra l'asciugamano, che formò una macchia bianca, e si infilò una vestaglia. «Forse la possibilità ti eccita, anche? Ti piace pensare che sarei capace di uccidere? Ti conosco, ti piace affrontare le tue paure, vero? Provare paura e non tirarti indietro?» Il tono era derisorio e crudele. Mi misi a sedere sul letto. «Senti, Will, non facciamo di questi giochetti. Per favore. Per quel che può valere, finora ho conosciuto qualche dozzina di assassini, credo. Forse anche di più. Per tutti ci sono grossi dossier che spiegano perché l'hanno fatto. Ma non conosco esempi di qualcuno che sia stato individuato in anticipo come potenziale assassino. Al contrario, molti di loro sono stati lasciati liberi da persone come me e hanno ucciso di nuovo. Così non sarò io ad alzarmi in piedi per dire che non potresti uccidere una donna.»
«Sei seduta.» «Che cosa?» «Non ti sei alzata in piedi, sei seduta.» «Per l'amor del Cielo. Quel che cercavo di dire è che ti guardavo, ieri pomeriggio. E improvvisamente ho pensato che ti faceva piacere essere creduto un assassino. Sarebbe stato perfetto. Saresti di nuovo stato una vittima. Il grande e incompreso Will Pavic. E avresti dimostrato che la polizia è stupida. Una situazione ideale per te, essere nel giusto mentre tutti gli altri hanno torto. Che poi è la tua generale visione del mondo.» Il sorriso di Pavic non vacillò. «Allora non sono riuscito a ingannarti?» Mi allungai, gli presi la mano e lo tirai sul letto accanto a me. Gli accarezzai i capelli corti e ispidi. Lo baciai sulla fronte. Gli misi il palmo della mano contro la guancia per un attimo e lui ci si appoggiò sopra. «Ho passato un anno piuttosto pesante» dissi. «Faccio dei brutti sogni.» «Kit...» «Era un po' che non avevo una vita sessuale e ora è la migliore che potessi desiderare, ed è bello. Bello non è la parola giusta, ma sai che cosa voglio dire. E a volte mi chiedo se non mi stia innamorando di te.» «Kit...» ripeté. Non stava più scherzando né sogghignando. Era già qualcosa. Anche se tutto stava per finire, era meglio che il suo disprezzo. «Forse hai ragione» continuai. «Sono attratta da te perché hai un brutto carattere e mi intimidisci. Anzi, in un certo senso mi fai paura. O forse ti voglio perché sembri infelice e io mi illudo di ridarti la felicità. Quella folle fantasia femminile di cui avrai probabilmente letto. Non importa. Sono felice semplicemente di sentirmi di nuovo desiderata. Di mettermi a pensare a te all'improvviso, mentre sto lavorando. Mi sento ritornare alla vita. Ma non mi piace stare con una persona a cui non importa di nulla e che non cede a nessuno. Non riesco a provare passione senza che ci sia tenerezza. Non sono abbastanza dura. E non riesco a fare giochini. Ecco, ho messo tutte le mie carte in tavola. Non ci sono assi, come puoi vedere.» Feci una risatina e lui non disse niente. «Forse ho bisogno di una persona più tranquilla.» Will sollevò una mano e mi spostò una ciocca di capelli bagnati dietro l'orecchio. «Penso che sarebbe più difficile per me che per te se smettessimo di vederci» continuai. «Io la prendo molto male, quando sono lasciata. Non sono brava in questo senso. Tu probabilmente te la cavi meglio. Scommetto che non passi molto tempo a guardarti indietro.»
«Comunque ti voglio ancora vedere, Kit.» «Mi vuoi vedere alle tue condizioni.» «Quali sono le tue condizioni, allora?» «Non lo so» feci, con un piccolo singhiozzo. «Ma ci sono.» Sorrise. «È molto poco chiaro, sai?» «Lo so.» Mi diede un fazzoletto di carta e mi soffiai il naso. «Comunque, almeno per stasera, me ne vado. E forse è quel che dovrei fare definitivamente.» Gli misi un dito sulle labbra. «Sssh. Non dire più niente. Non ora.» Mi alzai e mi misi i jeans e la camicia. «Non mi piace che tu vada in giro da queste parti a quest'ora» disse Will. «Non mi succederà niente. Il mio nome non era sull'elenco.» Uscii dalla casa di Will e mi incamminai senza voltarmi indietro. La luna era piena e molto luminosa, e cerchiava di luce i bordi delle nuvole in cielo. Tremavo per la tensione. Sentivo le lacrime calde scorrermi giù per le guance, ma feci qualche profondo respiro e le asciugai. Andava meglio. Avevo fatto la cosa giusta, non c'era bisogno di agitarsi tanto. Probabilmente era tutto finito, ma non riuscivo a smettere di rimuginare. Dài, muoviti, mi spronai. Va' avanti. Ci sono cose più importanti a cui pensare. Non ho mai avuto paura di camminare di notte in città. Sono convinta che se si cammina con decisione, con l'aria di sapere dove si sta andando, si è sicuri. Nel mio lavoro ho passato molto tempo a parlare con uomini pericolosi, e ho spesso domandato loro come scelgano le vittime. La risposta è che di solito scelgono persone, soprattutto donne, che attraggono la loro attenzione perché sembrano insicure o deboli. Ho cercato di convincermi che se non si ha l'aria di essere una vittima, non lo si diventa. Forse mi sto illudendo. La casualità della sofferenza è insopportabile. Meglio credere che le persone siano responsabili di ciò che accade loro. Percorsi stradine deserte e buie, finché raggiunsi la luce, il rumore della strada principale e la stazione di Kersey Town. I taxi si fermavano stridendo, l'edicola vendeva i giornali di domani. Di solito sarei stata affascinata dalla visione della città notturna. Mi piace molto osservare gente che sembra nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Cerco di immaginare quali strane faccende e giri l'abbiano portata in quel luogo, mi invento storie. Ma ora nella mente avevo altre storie, che si mescolavano e si intrecciavano. Attraversai la strada trafficata e tagliai per la piazza, lasciandomi dietro il trambusto. Pensai a Bryony che camminava di notte lungo il canale. Era
stupido, aveva detto Oban, ma capivo quell'impulso. Il buio, la quiete, l'acqua scura che si muoveva appena, uno strano mondo segreto nel mezzo della città. Pensai a Philippa, a Hampstead Heath in pieno giorno, in un parco giochi affollato di bambini. Il cervello lavorava con tanta furia che arrivai a casa quasi senza accorgermene, benché avessi seguito una via tortuosa attraverso vicoli e stradine laterali. Ero a circa un centinaio di metri dalla mia porta, quando qualcosa mi scosse dai miei pensieri. Mi guardai intorno sorpresa. C'era qualcuno? Ero in una strada tranquilla con una fila di case da un lato e il sagrato di una chiesa dall'altro. Non vidi nessuno, ma poi, con la coda dell'occhio, colsi un movimento. Guardai più attentamente, ma non notai nulla. Qualcuno si era nascosto nell'ombra? Sarei arrivata alla porta in un minuto. Accelerai il passo, afferrai le chiavi nella tasca della giacca. Un minuto, anzi meno, trenta secondi. Presi a correre e raggiunsi la porta. Nel momento in cui infilai la chiave nella serratura, sentii una mano sulla spalla e lanciai un piccolo urlo per lo shock. Mi voltai con una stretta al petto. Era Michael Doll. Sentii il suo alito acre sul viso. «Ti ho raggiunta» disse con un sorriso. Cercai di pensare. Dovevo rimanere calma. Non eccitarlo. Convincerlo ad andarsene. Ma dovevo sembrare sorpresa. Non dovevo aver l'aria di dar per scontata la sua presenza. «Che cosa diavolo ci fai qui?» «Mi sei mancata. Non sei venuta a trovarmi.» «Perché dovrei venire a trovarti?» «Ho pensato a te.» «Mi stavi seguendo?» «No. Perché dovrei?» disse facendo un passo indietro e togliendomi gli occhi di dosso. Mi aveva seguita. Da quanto? Era fuori della casa di Will Pavic? «Sei stata con qualcun altro?» Qualcun altro? Che cosa stava succedendo? «Devo andare, ora.» «Posso entrare?» «No.» «Solo per pochi minuti.» «È troppo tardi. C'è la mia amica in casa.» Guardò in su. «Non ci sono luci accese.» «È a letto.»
«Voglio parlare.» Non riuscivo a credere di essere sulla porta di casa mia a mezzanotte e mezzo con Michael Doll che voleva salire a tutti i costi. «Devo andare.» «Altri li faresti entrare.» «Michael, è tardi. Devi andare a casa.» «Odio casa mia.» «Buonanotte» gli dissi con un sorrisetto poco amichevole e un leggero colpo sul braccio, che voleva significare comprensione, ma non veramente calore. «Voglio vederti» disse, ma più debolmente. «È tardi. Vado su.» Senza farlo troppo di fretta, mi infilai nell'androne e spinsi la porta, ma non si chiuse. Ci aveva infilato il piede in mezzo. Si avvicinò in modo da portare il viso contro la fessura. «Mi odi?» disse. Non era del tutto una domanda. «Vuoi che me ne vada. Non vuoi più vedermi.» Effettivamente volevo che se ne andasse. Che uscisse dalla mia vita definitivamente. «Non è così. È solo che sono stanca, ho avuto una giornata pesante.» Aveva il volto molto vicino al mio. Respirava con un sibilo, quasi un fischio. Allungò una mano attraverso la fessura e mi sfiorò sulla guancia. «'Notte, Kit» fece. Non risposi. La mano si ritirò. Sentii che non c'era più resistenza contro la porta e riuscii a chiuderla. Mi ci appoggiai contro con un senso di nausea. Sentivo ancora tracce di Michael Doll sul viso. E di Will Pavic dentro di me. Mi sembrava di aver l'odore di quei due uomini. Corsi di sopra e, anche se mi ero già fatta una doccia da Will, ne feci un'altra, lunga, finché l'acqua non divenne fredda. Poi frugai in un armadio e trovai una bottiglia di whisky. Me ne portai un bicchiere a letto e rimasi al buio a berlo, a grossi sorsi che mi bruciarono la gola e intorbidarono il cervello. CAPITOLO 37 Il mattino successivo telefonai a Oban e gli dissi di Michael Doll. Sembrò leggermente divertito. «Così hai un ammiratore. O dovrei dire un altro ammiratore.» «Non è divertente. Credo che mi stesse seguendo.» «Perché?» Esitai. Non volevo dirgli che probabilmente mi aveva seguito dalla casa
di Will. «Sta diventando un problema. Gira intorno a casa mia e mi tiene d'occhio. Non mi sento sicura.» Tossicchiò, ma poteva essere una risatina. «Non ci posso credere. Abbiamo passato le scorse settimane a cercare di convincerti che Doll è pericoloso, mentre tu insistevi che, al contrario, era un caro ragazzo incompreso.» «Non è quel che sto dicendo.» «Lo so, cara, ma tu non sai stare allo scherzo. Che cosa vuoi che faccia?» «Non so, ma sto cominciando a sentirmi minacciata da lui.» «E io che stavo cominciando a interessarmi a quell'altro tuo amico.» «Che cosa?» «È difficile evitarlo. Più ci penso più tutte le strade sembrano portare a Will Pavic e al suo maledetto Centro di spacciatori.» «È ridicolo.» «Forse. Ma dobbiamo pensarci bene. Se ti fa piacere, posso mandare qualcuno a dire a Mickey Doll che stia alla larga.» Sospirai di sollievo. «Potrebbe essere una buon'idea. Il problema è che, qualsiasi cosa faccia, che mi comporti da amica o mi arrabbi, mi pare sempre di incoraggiarlo. Non voglio trattarlo male, ma temo di non aver più il controllo della situazione.» «Non preoccuparti. Ci pensiamo noi. In modo carino, naturalmente. Vieni, oggi?» «Forse più tardi. Sarò alla clinica quasi tutto il giorno.» Quel mattino ero in una delle sale riunioni della clinica con una ragazza di quindici anni, Anita, sua madre, dal volto pallido e stordito, un'assistente sociale e un avvocato. Esaminai la documentazione. Il solito disastro. Anzi peggio. Le visite di controllo non erano state fatte, i farmaci non erano stati somministrati, i documenti erano andati persi. Tutto ciò era normale amministrazione. Ma un edificio scolastico era stato incendiato. Ed era scattato l'allarme. Anita aveva cercato di suicidarsi due volte, si era ripetutamente ferita, ma il suo caso era rimasto sepolto tra le carte. Se si dà fuoco a un edificio pubblico, però, si viene ascoltati. Bussarono e la porta si aprì. Era la receptionist della clinica. «Telefono per te» mi disse. Mi guardai intorno incredula. «Risponderò più tardi.»
«È la polizia. Dicono che ti hanno già cercata sul cellulare.» «L'ho spento. Di' loro che richiamerò tra un minuto.» «Mi hanno pregato di sottrarti a qualunque cosa stessi facendo. E stanno aspettando.» Mi scusai profusamente, uscii di corsa e andai a prendere il telefono. «È meglio che...» «Doll è morto.» «Che cosa?» «Nel suo appartamento. Vacci subito.» Quando ero andata a trovare Michael Doll nel suo appartamento a Hackney, avevo pensato che fosse una casa squallida e desolata per un uomo strano e solo. Doll mi era sembrato quel tipo di persona che sarebbe rimasta oscura in vita e la cui morte sarebbe passata inosservata. Non fu così. Era diventato famoso. Sulla strada c'erano tre automobili della polizia, un'ambulanza e altre auto non identificate, parcheggiate in doppia fila. L'area intorno all'entrata sulla strada era stata delimitata con un nastro. Fuori c'erano due poliziotti e un capannello di persone curiose. Mi feci avanti, mormorando delle scuse, e mentre mi avvicinavo ai poliziotti notai che le signore anziane con i carrelli della spesa mi guardavano con nuovo interesse. Chi potevo essere? Una detective? Una delle pompe funebri? Un poliziotto entrò e udii un grido soffocato. Dopo qualche istante uscì Oban. Pareva profondamente turbato, la faccia era di un incredibile grigio verdastro. Mi ritrovai a domandargli come stesse. «Gesù» disse a bassa voce. «Cazzo, è incredibile. Scusami.» Guardò con aria colpevole le vecchie signore. «Che cos'è successo?» «La squadra omicidi ha appena cominciato. Volevo che tu dessi un'occhiata. In modo da vederlo prima che lo portino via. Te la senti?» «Credo di sì» risposi, deglutendo. «Non è piacevole.» Dovetti indossare delle specie di retine per capelli sopra le scarpe. Oban mi disse di non toccare niente. Salire per le scale richiese una certa cautela perché erano state ricoperte con un lenzuolo. In cima Oban si voltò e mi disse di fare un respiro profondo. Aprì la porta con una spinta e si tirò indietro, lasciandomi entrare per prima. Il corpo era disteso scompostamente sul pavimento a faccia in giù, solo che la faccia non c'era più. Sembrava una scultura non finita. Riconobbi i
vestiti della notte precedente. Le suole delle scarpe erano rivolte verso di me. Il laccio della destra era sciolto. Calzoni di velluto a coste marroni. Giaccone. Sopra, solo una macchia scura e bagnata. Cominciai a parlare, ma avevo la bocca troppo secca. Dovetti deglutire parecchie volte. Sentii una mano sulla schiena. «Forza, cara» mi fece coraggio Oban. «Dov'è la testa?» domandai con una voce che non sembrava la mia. «Dappertutto. Colpi ripetuti e violenti con un oggetto molto pesante e non acuminato, molti dei quali inferti dopo la morte. Una sorta di frenesia. E questo è il risultato.» Mi guardai intorno. Era la camera rossa. La camera rossa dei miei incubi. Era stata un simbolo, per me, ma adesso ci stavo dentro. Pareva che l'avessero innaffiata di sangue con una pompa. C'era sangue sulle pareti e persino sul soffitto, grosse gocce che sembravano sul punto di caderci addosso, ma erano coagulate. «Le ferite al capo» disse Oban, guardandosi attorno, «sanguinano copiosamente, vero? Osservai la stanza cercando di rimanere calma, ma non potei fare a meno di pensare a quella presenza irritante e disgustosa davanti alla porta di casa mia, la notte scorsa, e al misero fagotto che ora giaceva sul pavimento. Gli avevo gettato una specie di maledizione. Avevo voluto che uscisse dalla mia vita per sempre. L'avevo voluto morto? «Guarda qui» mi disse Oban. Aveva in mano una busta trasparente con dentro un foglio di carta, su cui c'era scritto a lettere maiuscole: BASTADO OMMICIDA. «Era sul corpo. Hai visto? Non sanno neanche scrivere.» «Allora l'hanno beccato.» Oban annuì. «Che casa di merda. Tu c'eri già stata?» «Sì.» «Ho pensato che ti potesse essere utile dare un'occhiata. Prenditi tutto il tempo che ti occorre.» Le gambe mi tremavano. Feci per sedermi sul bracciolo di una poltrona, ma un uomo me lo impedì. Mi scusai. «Che casino» fece Oban. «Sembra un macello in un museo.» «Michael Doll era un collezionista» spiegai. Non dovevo sentirmi male. Deglutii con forza e presi delle boccate d'aria. Oban fece una smorfia. «Davvero? Che cosa collezionava?» «Tutto quello che trovava lungo il canale e che riusciva a trasportare. Era una specie di malattia.»
«Non invidio quelli che dovranno ripulire.» Continuò a parlare, ma io non lo ascoltavo più. Non riuscivo più ad ascoltare, perché improvvisamente notai una cosa. Attraversai la stanza, evitando con attenzione il corpo e andai a uno degli scaffali. Era tra un barattolo di marmellata e un rotolo di filo di ferro arrugginito. Qualcuno gridò qualcosa e sentii una mano che mi tratteneva. «Non tocchi niente» disse una voce. «Quello» dissi, indicando l'oggetto. L'uomo aveva dei guanti e lo prese con molta attenzione. «Che cos'è?» domandò Oban. «Dimmelo tu» risposi. «È uno di quei bicchierini per far bere i bambini piccoli. Che cosa c'è scritto sopra?» «Emily.» Sembrò confuso. «Non mi starai dicendo che Mickey Doll aveva una figlia che si chiamava Emily, vero?» «No. Ma Philippa Burton sì.» CAPITOLO 38 «Tutto bene?» mi domandò Oban, mentre ci allontanavamo dal marciapiede, dove il capannello era diventato una piccola folla. «Bene» lo rassicurai con voce ferma, sorridendogli. Non stavo tremando. Parlavo e respiravo normalmente. Tirai giù il finestrino e lasciai che l'aria tiepida mi soffiasse sul volto. «Incredibile, vero?» Il suo viso era ritornato normale e il tono gioviale, persino allegro. Sembrava più attento, ma anche più rilassato di come lo vedevo da settimane. Mi aspettavo quasi che si mettesse a fischiettare sommessamente. «Già.» «Brutto lavoro per gli uomini della squadra omicidi. Un incubo. Ma nonostante tutto questo, la gente proverà comprensione per gli assassini, penserà che sia giusto farsi giustizia da sé. Dobbiamo muoverci con prudenza alla conferenza stampa.» Chiusi gli occhi per un minuto e ripensai ai resti spappolati di Doll e al mare di sangue. Sangue rosso dappertutto; una camera rossa di sangue. «Allora il cerchio si è chiuso, Kit.» «Che cosa?»
«Era sempre Doll.» Feci un grugnito che non voleva essere necessariamente un assenso, e continuai a guardare fuori del finestrino aperto. Il cielo era blu e senza nuvole, il sole dorato; la gente per strada era vestita in modo colorato. Era una giornata estiva calda e luminosa. «Su, Kit, adesso smetti di pensarci. È finita, ammettilo.» «Ma...» «Fammi indovinare: non sei ancora convinta. Abbiamo trovato nella camera di Doll il bicchierino di Emily, accidenti, con il nome scritto sopra. Ovviamente il signor Burton dovrà confermarcelo, ma è come mettere i puntini sulle "i", non pensi? Ma tu non sei convinta. Che cosa ti ci vuole?» Si voltò verso di me e mi sorrise. Il suo tono era affettuoso, più che esasperato. «È solo che non capisco.» «E allora? Qualcuno forse capisce? Non abbiamo più bisogno che tu capisca. Non devi fare un seminario su questo caso ai tuoi colleghi. Avevamo solo bisogno di trovare il colpevole degli omicidi di quelle donne e ora l'abbiamo trovato, grazie al Cielo.» «No. Voglio dire, non ha senso.» «Ci sono un mucchio di cose che non hanno senso.» Sterzò per evitare un ciclista in tuta fosforescente, dando un colpo di clacson. «Ma Doll era l'assassino, Kit.» Non risposi. «Dài, dillo. Una volta sola. Non ti farà male.» «Non sto dicendo che penso tu abbia torto...» «Ma non vuoi neanche dire che ho ragione.» «No.» Fece una risatina. Poi mise la mano calda sulla mia. «Sei stata brava, Kit. Anche se, alla fine, il tuo istinto si sbagliava, hai fatto un ottimo lavoro. Non pensare che non abbia capito quanto debba esser stato difficile per te. Ma senza di te saremmo stati in alto mare. Ci hai tenuto sulla retta via.» «No» ribattei, e mi stupii di come fosse decisa la mia voce. «No. Vi ho dissuasi dall'accusare Doll settimane fa. Se l'aveste fatto, colpevole o no, ora sarebbe vivo. Tra un anno forse sarebbe approdato al mio ospedale. Gli avevo detto che poteva stare tranquillo.» «Non fa bene pensare a queste cose. Tutti abbiamo sbagliato, in questo caso, ma tu hai visto dei collegamenti che noi avevamo trascurato. Ci hai impedito di commettere degli errori. Hai evitato uno spaventoso casino.»
«Ma...» «Cristo, Kit, piantala. Basta con questi ma. Sei la donna più cocciuta con cui abbia mai avuto il piacere e il privilegio di lavorare.» «Lo metterò sul mio curriculum» risposi seccamente. «E la più onesta» aggiunse. Lo guardai, ma stava fissando la strada davanti a sé. Gli appoggiai una mano sul braccio. «Grazie, Daniel.» Il mio appartamento aveva l'aria trascurata, quasi non ci vivesse più nessuno. Le finestre erano chiuse, le tende mezzo tirate, come se fossi andata in vacanza, le superfici polverose. Non c'erano i soliti fiori freschi sul davanzale della finestra, ma un vaso di fiori appassiti; non c'era frutta nella ciotola sul tavolo di cucina; non c'erano libri aperti sul bracciolo del divano; non c'erano messaggi di Julie attaccati alla porta del frigo. Aprii il frigo. Era pulito e quasi vuoto: un cartone di latte parzialmente scremato, una vaschetta di burro, un barattolino di pesto mezzo pieno, un sacchetto di chicchi di caffè. Quand'era stata l'ultima volta che avevo visto Julie con un po' di calma? Con un leggero senso di vergogna mi accorsi che non me lo ricordavo. Negli ultimi giorni frenetici, Julie era stata come una specie di parentesi, presente ma ignorata, cancellata in un battito di ciglia. Mi ricordai vagamente che voleva parlarmi. Me l'aveva detto mentre le passavo davanti di corsa per andare da qualche parte. Quando era successo? La porta di quella che mi ero ormai abituata a pensare come camera sua era aperta, così ci misi il naso dentro. Ordinatissima. Julie lasciava sempre vestiti sul pavimento, il letto sfatto, rossetto e barattoli di creme aperti sul classificatore che aveva trasformato in comodino. Per un momento mi domandai se se ne fosse andata, ma la sua valigia era ancora sul pavimento, e l'armadio era pieno di vestiti. Ritornai nel soggiorno e aprii le finestre. Spolverai. Poi andai alla rosticceria all'angolo e comprai del formaggio di capra e un pezzo di parmigiano, pasta fresca, panna, salame italiano e prosciutto, olive ripiene di acciughe, biscottini alle mandorle, un vasetto di basilico, cuori di carciofo, quattro grossi fichi. Non volevo mangiare tutta quella roba, volevo solo averla in casa, come forma di benvenuto verso chiunque avesse varcato la soglia. Dopo la rosticceria andai dall'erbivendolo, dove comprai dei peperoni rossi e gialli, delle mele verdi, un melone, pesche noci, prugne violette e un grappolo di uva nera. Dal fioraio presi un mazzo di dalie sfacciatamente
grande. Ritornai a casa barcollando, con le buste di plastica che mi tagliavano le dita e i fiori che mi facevano il solletico al naso. Misi su il bollitore, macinai dei chicchi di caffè, infilai i fiori in un vaso di vetro, riposi il formaggio nel frigo, e rovesciai la frutta e la verdura in una grossa ciotola. Ecco. Se Julie fosse arrivata, avrebbe capito che ero ritornata a casa. Stavo pensando di fare un bagno, ma in quel momento il telefono squillò. «Sì?» «Kit, vengo a prenderti tra circa cinque minuti, d'accordo? Sono quasi da te adesso.» «Pensavo avessi detto che il caso era chiuso, Daniel.» «Lo è. Si tratta solo di una coda. Ti farà piacere, te lo prometto.» «Non mi piacciono le sorprese...» cominciai, ma la comunicazione si era interrotta. «Ci sei dentro dall'inizio, così ho pensato che dovevi esserci anche alla fine.» «Comunque voglio sapere dove stiamo andando.» Oban sorrise. «Non brontolare.» Qualche minuto dopo eravamo alla porta dei Teale. «Sei sicuro che sia in casa?» «Le ho telefonato prima.» Quando Bryony aprì la porta, fui colpita dal suo aspetto. Si era legata i capelli ramati e aveva il viso pallido e gli occhi pesti, come se non avesse dormito per giorni. Sembrava più magra, nei vecchi jeans e nell'enorme camicia bianca che aveva indosso, e il sorriso che ci fece non le illuminò gli occhi. «Entrate.» «Non ci vorrà molto, signora Teale» cominciò Oban non appena fummo in soggiorno. «Volevo solo chiederle se aveva mai visto...» Si mise un guanto sottile alla mano destra, si chinò sul sacchetto che aveva portato e, come un mago, tirò fuori baldanzosamente una piccola borsa di pelle. Bryony le diede uno sguardo e si portò le mani alla bocca. «Sì» mormorò. «È stata trovata nella casa di Michael Doll.» Mi guardò con aria trionfante. «Oh!» esclamò lei, annaspando come se fosse stata colpita allo stomaco e fosse rimasta senza fiato. Poi, di colpo, si mise a piangere, singhiozzando
con il viso tra le mani. Le lacrime le colarono tra le dita. Feci un cenno a Oban e lui si alzò e andò goffamente a metterle una mano sulla spalla. «Su. È tutto finito, signora Teale, Bryony. È morto. Ora è al sicuro.» «Al sicuro?» Alzò il volto bagnato con aria sbigottita. «Al sicuro?» «Sì. Non posso entrare nei particolari, ma le posso dire che siamo praticamente sicuri che Doll, l'uomo che si è spacciato per un testimone della sua aggressione, sia l'assassino. Era sempre stato sospettato, e questa mattina è stato trovato morto nel suo appartamento. Aveva in suo possesso oggetti che appartenevano sia a lei sia a Philippa Burton. Sapevamo che questa borsa era sua» e la sollevò facendola tintinnare, «perché contiene, tra le altre cose, le sue chiavi di casa con il cartellino. Forse ha preso anche qualcosa di Lianne, ma probabilmente non lo sapremo mai.» Le fece un cenno gioviale con il capo. «Trofei.» «Ma, come... che cosa...?» «Era già stato vittima di un'aggressione da parte di un cittadino desideroso, diciamo, di farsi giustizia da sé. E pensiamo che un'altra persona del genere l'abbia ucciso. Ma è ancora presto.» «La mia borsa» disse lei lentamente. «Aveva la mia borsa.» «Si ricorda di averla persa?» «No. Non so. Voglio dire, devo averla persa la notte in cui sono stata aggredita. Ma non pensavo... Sapevo di non averla più, ma non mi ricordavo quando l'avevo persa. Ero troppo confusa. Quando sono caduta, deve aver... Pensavo che mi stesse aiutando... Come ho fatto a pensare a una cosa del genere?» Rabbrividì violentemente e si cinse il corpo con le braccia. «Sta bene?» le domandai. Si voltò verso di me. «Dovrei» rispose. «Ma adesso, così all'improvviso, ho un po' di mal di stomaco. Voglio dire, andrà tutto a posto ora, vero? Non mi è ancora entrato bene in testa.» Sorrise con sforzo. «Sono stati giorni intensi.» Oban le tese la mano. «Arrivederci, signora Teale, ci rimetteremo presto in contatto con lei. Stiamo cercando di ricollocare tutti i tasselli. Anche se per te, Kit, non saranno mai del tutto a posto.» Mi guardò con aria soddisfatta. «Arrivederci, Bryony.» Volevo anch'io stringerle la mano, ma lei mi abbracciò e mi baciò su entrambe le guance. Aveva un odore di pulito e mi sembrò fragile e vulnerabile. «Sei stata molto carina» mi bisbigliò all'orecchio. «Grazie.»
«Soddisfatta?» mi domandò Oban quando uscimmo. «Non cantare vittoria, Dan, non è da te. Dove sei diretto ora?» «Alla conferenza stampa. Spero venga anche tu.» «Non perdi tempo, vero?» «Non quando ci sono dei risultati. Sali.» Mi aprì la porta dell'auto. «Non so perché ti permetto di trattarmi male.» Fece una risata nasale. «Non farmi ridere.» Per qualche oscuro motivo alzai la mano a toccarmi la cicatrice. «È buffo» dissi, «ma non mi ricordo più di quando non ce l'avevo.» «Non avevi che cosa?» «La cicatrice.» «Sei carina lo stesso» commentò Oban con un certo imbarazzo. Poi: «Dài, salta su, non possiamo stare fuori della porta della signora Teale a discutere del tuo aspetto tutto il pomeriggio». Quando tornai a casa era quasi buio. Le finestre non erano illuminate, quindi Julie non era ancora arrivata. Entrai e andai subito a fare un bagno. Meno di dodici ore prima avevo visto Doll morto. Il suo volto continuava a tornarmi alla mente, non solo quella massa di sangue che avevo visto sul tappeto, ma anche l'espressione con cui mi aveva guardata quando pescava al canale. Quel sorriso pieno di attesa. Aveva ucciso due donne, Lianne e Philippa. Aveva cercato di ucciderne una terza, Bryony. Tuttavia non riuscivo a reprimere un moto di pietà nei suoi confronti. Non aveva mai avuto una chance. Era stato un degenerato, un perverso, un assassino, ma non aveva mai avuto una chance. Avevo incontrato fin troppe persone come lui. «Ciao. Hai della schiuma nei capelli.» Mi tirai su. «Non ti ho sentita arrivare.» «Probabilmente perché eri sott'acqua. L'appartamento è carino.» «Mi fa piacere. Ultimamente l'avevo trascurato.» «Sì.» «È finita.» «Che cosa?» «Il caso. È finito. Sembra sia stato proprio Doll.» «Doll? L'uomo che è venuto qui?» «Sì.» «Cristo. D'ora in avanti starò più attenta ad aprire la porta.»
«Julie, perché non usciamo stasera? A meno che tu abbia altri impegni.» «Mi piacerebbe, ma sono piuttosto al verde al momento...» «Offro io. Ho un sacco di soldi e niente per cui spenderli.» «Oh, io sono bravissima a spendere.» Ordinai la zuppa, polpette di pesce thai, maiale e pollo satay, pasta e riso, gnocchi ripieni di spezie, gamberoni in salsa chili, calamari alla citronella e coriandolo, costine, e una bottiglia di vino sudamericano. Julie era impressionata e allarmata. «E due bicchieri di champagne» aggiunsi. «Che cosa sta succedendo?» «Come?» «Stai ordinando per sei persone. Non sei per caso incinta?» Lo champagne arrivò e brindammo. «È il mio capodanno.» «È agosto, Kit.» «L'anno può cominciare in qualsiasi momento.» «Non riesco a capire se stai festeggiando o cercando di annegare i dispiaceri.» «Un po' tutte e due le cose. Sono contenta che sia finita. Sono contenta che Doll non possa più fare del male. Ma non capisco come siano andate le cose. È sconcertante, i conti non tornano. E questo mi fa sentire...» «Frustrata?» suggerì Julie. «Di più. Come se le avessi deluse. Philippa e Lianne. Ti sembra da matti?» «Sì. Mi hai fatto preoccupare con i tuoi...» «Alla conferenza stampa Oban mi ha lodata fin troppo. È stato persino affettuoso. Mi sono sentita un'imbrogliona.» «Perché?» «Perché mi sembra di non averle ancora seppellite. Ti pare stupido?» «Sono morte e sepolte. E, quel che più conta, lui è stato preso.» «È morto.» «Oh.» Sembrò presa alla sprovvista. «Ucciso da qualche vendicatore solitario, che si sentirà del tutto giustificato quando si verrà a sapere che cosa ha fatto. Ecco la nostra cena.» La zuppa era così piccante che mi sembrò di mandar giù spilli e aghi. Dopo mi sentivo ardere. Poi mangiai tre gnocchi. Li masticai a lungo e dovetti fare uno sforzo per inghiottirli. Ma ci riuscii. «Mi dispiace di essere stata così ossessionata.»
«Non importa. Voglio solo sapere che cosa è successo con Will Pavic.» «Anche quella storia è finita. O potrebbe esserlo.» «Davvero? È stata veloce. Ma forse è meglio così. Era piuttosto tetro, no?» «Penso proprio che il motivo sia stato la tetraggine.» Addentai una costina e la mandai giù con un gran sorso di vino. Il volto spappolato di Doll mi apparve davanti, insieme a quella stanza, sporca del suo sangue, e del mio. «Allora perché è finita?» «Che cosa? Be', perché non voglio seguirlo su quella china. Vorrei cercare di essere felice.» «Mi sembra una buona idea.» Presi un anello di calamaro. Sembrava gomma. O un pezzo di budello. Lo rimisi sul piatto e fissai il riso beige. Tracannai dell'altro vino. Mi sentivo molto strana. «Devo dirti una cosa» borbottò Julie, attraverso la nebbia che avevo davanti. Sbattei gli occhi. «Che cosa?» «Me ne vado.» «Lo so. Ti trovi un appartamento per conto tuo.» «No, me ne vado di nuovo da questo Paese. Non lo sopporto. Mi sento in trappola. Non ho nessuna voglia di fare l'insegnante o di lavorare in una casa discografica, di andare in ufficio ogni giorno con un abito noioso, calze di nylon e scarpe di pelle. Così me ne vado di nuovo. Ti sembro una che ha problemi ad accettare la vita reale?» «Ho sempre pensato che non ci fosse nulla di male nell'evasione dalla realtà» le dissi, e la mia voce sembrava venire da molto lontano. «Voglio solo essere felice. Come te.» Sollevai il bicchiere. «Alla tua felicità.» «Non piangere, Kit. Saremo felici tutte e due. Contemporaneamente.» Ridacchiammo con le lacrime agli occhi. «E mentre sei brilla e commossa» aggiunse, «devo dirti che ho preso in prestito il tuo vestito nero di velluto senza chiedertelo, poi l'ho lavato nell'acqua calda ed è diventato strano. Il bordo è tutto ondulato. Mi dispiace.» CAPITOLO 39 La mattina successiva mi svegliai al rumore del vento, che faceva sbatte-
re i vetri delle finestre e frusciare gli alberi. Qualche foglia gialla scivolò sulla finestra cadendo. Per un orribile istante non riuscii a ricordare nulla: che giorno era, dov'ero, chi ero. Buio totale, tabula rasa. Rimasi in attesa che il vuoto si riempisse dei ricordi che pian piano cominciavano a riaffiorare. Doll senza volto, prima di tutto, disteso nel suo sangue in quella stanza in cui il sangue grondava dappertutto. Una camera di tortura. Poi Doll, questa volta con la faccia, le braccia alzate e un pezzo di porcellana in pugno, il sangue che schizzava ovunque, il mio. Restai stesa sul letto, con gli occhi aperti ma seguendo le immagini mentali. Mi sembrava di non aver fatto altro che correre e correre, in tutti quei mesi, pensando di lasciarmi dietro la camera rossa. E avevo girato in tondo, ritornando al punto di partenza. Andai direttamente a Kersey Town, e parcheggiai. D'impulso corsi a comprare dei fiori. Non avevo idea di che fiori le fossero piaciuti, o se le piacevano i fiori, ma comprai un grosso mazzo di anemoni violetti, rossi e rosa, ancora umidi, che sembravano una manciata di gioielli. Poi presi a correre, perché non volevo essere in ritardo. Arrivare in orario mi sembrava il minimo che potessi fare. Volevo renderle un tributo, dire «mi dispiace». Non so perché Lianne mi avesse colpita tanto. Non l'avevo mai conosciuta, ma anche lei era senza mamma, come me. Avevo visto il suo viso solo da morta, era rotondo, con le lentiggini sul naso. Non sapevo niente di lei e forse, se l'avessi incontrata mentre era ancora in vita, non mi sarebbe piaciuta o non avrei provato alcuna tenerezza nei suoi confronti. Non sapevo nulla della sua vita. Neppure il vero nome. Nessuno lo conosceva. Avrebbe potuto essere Lizzie, Susan, Charlotte, Alex. Chiunque. Era una ragazza sconosciuta che veniva sepolta a spese del comune, e forse l'unica persona presente al funerale sarei stata io, una donna che non l'aveva mai incontrata. Arrivai mentre uscivano le persone della funzione precedente, accompagnate fuori da una musica d'organo registrata che, dopo pochi minuti di silenzio, accompagnò dentro me. L'ambiente era piuttosto lungo, color crema, con file di panche di legno nuove. Di fronte a esse c'era la bara di Lianne. Ero l'unica presente. Non sapevo che cosa fare con i fiori. Dovevo metterli sulla bara? Che cosa si fa di solito? Mi guardai intorno, poi deposi gli anemoni vivaci sul coperchio della cassa chiara e lucida, con i manici dorati. Mi sedetti sulla prima panca e aspettai, mentre l'organo suonava.
Dopo un minuto circa sentii un fruscio e una signora venne a sedersi accanto a me. Aveva i capelli raccolti da una fascia, una giacca grigia scura e un vestito a fiori che sembrava si fosse infilata all'ultimo momento. Ci scambiammo un sorriso circospetto, poi lei mormorò: «Sono Paula Mann, del municipio». Aspettò un momento, poi continuò: «Non la conoscevo, ma sono stata io a organizzare il funerale. È morta nel nostro distretto, e dato che non aveva nessuno, poverina, spetta a noi e, quando possiamo, veniamo al funerale... A volte non ci riusciamo, ma non è giusto che se ne vadano senza nessuno». «Kit Quinn» mi presentai, e ci stringemmo la mano. Non solo una, ma due persone che ti hanno vista solo da morta. «Suppongo che neanche lei la conoscesse?» «No.» «Lo immaginavo. Spesso riusciamo a trovare qualche persona vicina, se esiste. C'è tanta gente che muore da sola! E non si sa nemmeno da dove venga. La dice lunga su come viviamo. Quanta solitudine.» Il suo viso simpatico si increspò. «Avete cercato di scoprire chi fosse, allora?» «È il mio lavoro. Sono una specie di detective, solo che di solito non c'è un delitto. Mi occupo dei morti che non vengono reclamati da nessuno, devo scoprire se ci sono parenti, o almeno un amico che si faccia carico del funerale, e se non trovo nessuno, lo organizzo io e dispongo delle cose del deceduto. Perlopiù le butto via. A volte ci rimango male, soprattutto quando trovo fotografie, o lettere, o cose che devono avere avuto un significato per qualcuno. Le impacchettiamo e le mettiamo in un deposito per qualche mese, poi le eliminiamo, bruciandole.» «Che cosa ha fatto delle cose di Lianne?» «Lei era diversa, non sappiamo neanche se possedesse qualcosa. Tutto ciò che abbiamo trovato è il suo corpo presso il canale.» «E questo non accade spesso?» «Non molto.» La musica d'organo si interruppe ed entrò il cappellano, per cui smettemmo di parlare. Ci guardò solennemente, poi appoggiò le mani sulla cassa semplice di Lianne, vicino al mio mazzo di fiori. Ma prima che iniziasse a parlare, ci fu un rumore dietro di noi. Mi voltai e vidi quattro ragazzi piuttosto imbarazzati sulla soglia. Li riconobbi immediatamente, anche se erano vestiti in modo molto diverso, con uno strano assortimento di abiti scuri che probabilmente si erano fatti prestare da amici. C'era Sylvia, con i
suoi occhi verdi, che sembrava un folletto; la ragazza nera e tìmida, Carla, che era stata l'ultima del gruppo ad aver visto Lianne viva; Spike con la testa rasata, e l'irsuto Laurie. Ognuno di loro aveva in mano un mazzo di fiori, anche se quello di Sylvia sembrava essere stato strappato da un giardino lungo la strada. Carla aveva comprato dei gigli enormi che sembravano di cera e che dovevano esserle costati molto. Ne sentivo il profumo a distanza. Sorrisi loro, ma non risposero. Forse non si ricordavano di me. Sembravano imbarazzati; Spike ridacchiava e dava dei colpetti a Laurie, mentre si avvicinavano alla bara per deporre i loro fiori vicino ai miei. Poi andarono a sedersi sulla panca di fianco alla nostra. Finalmente la funzione ebbe inizio. Il cappellano, fortunatamente, non fece finta di conoscere Lianne e non parlò di lei. Si limitò a celebrare velocemente il rito. A metà circa, ebbi la sensazione che qualcuno mi stesse fissando e mi voltai. Trasalii. Era Will. Con un austero abito nero e più che mai simile a un corvo, era seduto in fondo, con le braccia incrociate, e mi fissava. Ma non guardava me, guardava oltre, come se non ci fossi. I suoi occhi sembravano dei buchi sul viso emaciato, ispido. Aveva i capelli cortissimi e riuscii a vedere una piccola cicatrice bianca sul suo cranio. Mi voltai, ma continuai a sentire il suo sguardo bruciarmi sul collo. Quando la bara fu portata via, immaginai il corpo di Lianne che bruciava. Da una cella frigorifera al fuoco. Pensai al suo visetto dolce, alle unghie mangiucchiate, a quel ciondolo a forma di cuore: Miglior... Mi vennero le lacrime agli occhi, ma le cacciai indietro. Udii un pianto dall'altra parte del corridoio. Non era una delle ragazze, ma Laurie, che una volta aveva abbandonato il viso sgraziato tra le mani di Lianne e si era lasciato baciare sulla bocca. La timida Carla lo teneva per mano. Spike aveva gli occhi abbassati sui grossi stivali neri e non riuscii a vederlo in faccia. Solo Sylvia guardava davanti a sé, con i suoi tranquilli occhi verde mare. L'organo riprese a suonare e noi ci alzammo per andarcene. Will rimase seduto in fondo, con gli occhi fissi sul luogo in cui c'era stata la bara. Sembrava impassibile, ma vidi che aveva il volto bagnato di lacrime. Non si diede la pena di asciugarle o nasconderle. Andai da lui e gli tesi una mano. «Su» dissi. Mi guardò, ma quasi come se non mi riconoscesse. Gli presi la mano e lo tirai su. «Avanti, tra un minuto ci sarà un altro funerale. Non vorrai assistere anche a quello, no?» Lo condussi fuori, alla luce abbagliante. Aveva la mano fredda e si muoveva con rigidità. «Tutto bene, Will?»
Non rispose, e mi guardò senza vedermi. Tirai fuori un fazzoletto di carta dalla borsa e gli asciugai il volto. Rimase fermo e mi lasciò fare. Gli misi una mano sulla spalla, ma era come toccare un'asse. «Will? Will, posso portarti a casa?» «No.» Con una scossa si allontanò da me. «Dove hai la macchina?» «Sono venuto a piedi» riuscì a dire. Sembrava stordito, come se gli fosse caduto in testa un mattone. «Lascia che ti aiuti.» «Non ne ho bisogno.» Osservai il suo volto chiuso, la sua disperazione muta, e fui pervasa da tutta la vecchia tenerezza. Aveva bisogno di aiuto più di chiunque avessi mai incontrato. «Dài» gli dissi, e lo presi sottobraccio. «Facciamo due passi.» Ci allontanammo in silenzio dal crematorio. Mi seguì ciecamente, come se stesse camminando in una grotta buia. Avrei potuto portarlo in riva al canale e buttarlo nell'acqua marrone e non se ne sarebbe accorto. Ma pian piano sentii che si rilassava. Mi sarebbe piaciuto portarlo da me e coccolarlo, massaggiargli la nuca, fargli un bagno, preparargli il pranzo, farlo sorridere, guardarlo dormire al buio, tenerlo stretto, baciargli gli angoli della bocca infelice. Non per desiderio di sesso, ma di intimità. Di contatto umano, per sentire qualcun altro al fianco in questo freddo mondo di merda. Ma non me l'avrebbe mai permesso. Non in quello stato. «Sono in macchina. Ti do un passaggio a casa.» Non si oppose. Aprii la portiera e lo spinsi dentro. Alzò gli occhi su di me e sembrò sul punto di dire qualcosa, ma cambiò idea. Guidai in silenzio e lo lasciai al suo portone. Lo vidi rimanere fermo come un forestiero che non ha idea di dove si trovi. Con aria desolata. Telefonai a Poppy. I suoi saluti mi sembrarono freddini. «Che c'è?» le domandai. «Niente» rispose stizzosamente. Ma poi aggiunse: «Ho continuato a chiamarti e a lasciare messaggi a quella Julie e non ti sei mai data la pena di rispondere». «Scusami. Ho avuto un sacco da fare.» «D'accordo. Ma non puoi lasciare la gente in sospeso.» «Dài, Poppy, mi dispiace, scusami. Vuoi che venga a trovarti adesso?» «No. Seb e io usciamo per fare una chiacchierata. Non che servirà a mol-
to.» Fece una risatina amara. «Che cosa c'è? Qualcosa che non va?» «Be', sai, la solita storia. Uomo di successo e moglie casalinga.» «Vuoi dire...» «Non so, Kit. Parliamone un'altra volta, d'accordo? Devo andare a truccarmi un po'. In questo momento sembro una vecchia matrona trasandata.» «Non dire cose del genere.» «Perché no? È vero.» «No, sei bellissima.» «Non essere stupida. Non sto più in nessuno dei miei vecchi vestiti.» «Ma dai. Sei bellissima e lui non sa com'è fortunato.» Tirò su con il naso. «Mi dispiace se sono stata fredda.» «No, sono io che devo scusarmi.» Misi su l'acqua per la pasta. Desideravo con tutta me stessa sedermi sul divano mentre qualcuno mi preparava un tè con i biscotti, mi coccolava, si prendeva cura di me. Per un secondo sognai mia madre che mi accarezzava i capelli e mi diceva che potevo riposare tranquilla. Non mi reggevo in piedi per la stanchezza, le emozioni, il pensiero della bara di Lianne che scivolava in mezzo alle fiamme. Pensai a Poppy che si provava disperatamente un vestito dopo l'altro e vidi la sua espressione delusa davanti all'alto specchio della camera. E infine pensai a Will, tutto solo nella sua casa rimbombante. A un tratto non resistetti più. Mi infilai la giacca di camoscio e corsi all'auto. Guidai velocemente, impaziente a ogni semaforo. Quando aprì, aveva ancora indosso l'abito nero. Si fece da parte ed entrai, chiudendo la porta dietro di me. Lo condussi al divano, lo feci sedere e mi misi accanto a lui. Gli presi le mani fredde nelle mie calde, e ci soffiai sopra. Gli slacciai i primi bottoni della camicia. Gli sfilai le scarpe nere e rigide. «Ti preparo una tazza di tè» gli dissi, e lui non protestò. In cucina tostai due fette di pane e ci spalmai sopra della marmellata che trovai nel frigo. «Mi stai facendo da mamma» sospirò, ma staccò un grosso boccone di pane. Non gli domandai come mai era così triste. Mi limitai a guardarlo mangiare il pane tostato e a bere il tè. Poi lo portai di sopra e lo spogliai, come se fosse un bambino. Si sdraiò e io mi sedetti accanto a lui e presi ad accarezzargli la testa ispida. Alla fine chiuse gli occhi e io ritirai la mano. «Non
sto dormendo» mormorò dolcemente. «Sono venuta solo a vedere se stavi bene.» «Già. Non dovresti preoccuparti tanto degli altri, Kit.» «Non posso farne a meno.» «Ah.» Si allontanò da me. «Dovresti preoccuparti di più di te stessa, sai.» «Perché?» «La brava dottoressa.» «Will?» «Mmmh.» «Riguardo a ciò che ho detto...» Ma si era addormentato. Il suo volto affaticato si distese, le labbra si scostarono leggermente, le dita si rilassarono e si piegarono intorno al lenzuolo. Rimasi un momento a guardarlo, poi mi alzai, chiusi le tende e me ne andai. CAPITOLO 40 Ero leggermente in anticipo all'appuntamento, così mi comprai una birra e rimasi sugli scalini a guardare la gente che entrava a teatro. Il teatro di Gabe Teale, il Sugarhouse, era in un magazzino abbandonato che si ergeva sul terreno della ferrovia, tra grossi serbatoi del gas e il canale. Era stato ristrutturato sommariamente, con impalcature e gabinetti mobili, ma la gente che entrava, passando tra pile di macerie, era elegante. Il West End era a soli quindici minuti a piedi di distanza, ma sembrava un altro continente. Questo è un aspetto di Londra che trovo affascinante. Per quanto si sia su terreno sicuro e noto, non si è mai a più di cinque minuti da qualche luogo strano. La gente chic attraversava lentamente l'entrata improvvisata e poi si guardava intorno sorridendo con quell'infantile piacere di chi sta facendo una cosa familiare in un luogo improbabile, quasi segreto. O forse per autocongratularsi della propria audacia nel venire in un posto pericoloso e fuori mano. La folla cominciava ad assottigliarsi e la gente prendeva posto. Guardai l'orologio. Erano passati venti minuti. Non mi stava dando buca? No, stava arrivando, leggermente ansimante, e quando mi vide fece il patetico tentativo di rallentare il passo, per mostrare di non essere di fretta. «Non sono in ritardo, vero?» Oban si guardò intorno timidamente.
«Abbiamo ancora qualche minuto. Vado a prenderti qualcosa da bere?» Sbirciò il teatro. «C'è un bar, qui?» Alzai la birra a mo' di risposta. «Un doppio scotch.» Mi feci largo a stento tra la folla. Quando riuscii a conquistare il drink, il campanello suonò. «Dobbiamo sbrigarci» dissi, dandogli lo scotch, che lui tracannò in un sorso. «Ne avevo bisogno» esclamò con voce roca. «Non sono abituato a questo genere di cose.» «Neppure io. Sono mesi, anni forse, che non vado a teatro. Mi sembrava una bella cosa venire qui. Una specie di celebrazione.» Oban apparve dubbioso. «L'ultima volta che sono andato a teatro è stato nel 1985. Era una specie di musical. Su pattini a rotelle. Non ho sentito il bisogno di ripetere l'esperienza. Che cosa danno qui?» Guardai il programma. «Non lo so. Qualcosa sulla storia del quartiere.» Oban lanciò un'occhiata malinconica al bicchiere vuoto. «Non sapevo che avesse una storia, a parte quella criminale.» Una voce annunciò che lo spettacolo stava per iniziare. Entrammo per sederci, ma scoprimmo che non esistevano posti a sedere. Market Day non era una rappresentazione normale, così come il Sugarhouse non era un teatro normale. Era come girovagare in un carnevale al coperto. C'erano giocolieri, pagliacci, gente che camminava sui trampoli, o che faceva discorsi in piedi su scatole di legno. Bambini che giocavano, cantavano e urlavano. Persone di diverse età, in costume, recitavano delle scenette, uscendo da casse poste nel mezzo del palcoscenico. L'azione aveva luogo dappertutto e contemporaneamente, e bisognava andare in giro e fermarsi dove si voleva. Dapprima ciò mi irritò, perché avevo l'impressione di perdere qualcosa di importante da un'altra parte, ma dopo un po' mi rilassai e immaginai di visitare una città esotica. Oban all'inizio brontolò perché non c'era una vera e propria storia, ma poi fu scelto tra la folla da una bella maga, che gli domandò come si chiamava e che cosa faceva. Quando confessò di essere un poliziotto, ci fu una risata generale. Arrossì, e fu molto meravigliato di trovarsi un uovo nella tasca interna della giacca. Mi piacque molto, soprattutto perché non mi impedì di pensare liberamente. Osservai con grande curiosità l'uomo che camminava sul filo sopra di noi, ma nella testa mi ronzavano contìnuamente i ricordi di ciò che avevo passato negli ultimi mesi. Ripassai mentalmente i momenti salienti, cercando di dar loro un ordine. Cosa, ovviamente, impossibile. Ma per la prima volta, e in mezzo a una folla di gente allegra, non mi sembrò poi co-
sì importante. Nell'intervallo gli attori non scomparvero nei camerini, ma si mescolarono alla folla, presentandosi e attaccando discorso. Oban e io parlammo con uno dei giocolieri, con un suonatore di fisarmonica e con un gruppo di bambini che andava alla scuola elementare della zona. Poi Oban suggerì, con tono speranzoso, di andare a chiacchierare con la ragazza al bancone del bar, così ci recammo nel foyer, che non era che un altro settore del vecchio magazzino. Oban prese un gin tonic per me, e per sé un altro doppio scotch. La ragazza che lo servì doveva essere un'adolescente. Aveva i capelli molto corti e decolorati, e anelli alle orecchie, al naso e al labbro inferiore. Le domandai da quanto lavorava lì. «Da qualche settimana» rispose. «Sei di queste parti?» «Sì.» «Deve essere bello avere in zona un posto come questo.» «Sì» rispose, poi un tizio dietro di me ordinò una bottiglia di birra messicana piuttosto bruscamente, e noi ci allontanammo. «Cin cin» dissi a Oban, mentre i nostri bicchieri tintinnavano. «È chiaro che Gabe sta facendo tutto questo per la gente del quartiere. Mi sembra che il suo teatro somigli all'ostello di Will Pavic.» Oban sorseggiò il drink con un borbottio di piacere. «Penso che se la passi un po' meglio di Will Pavic. Questo non è proprio il mio tipo di spettacolo. Io preferisco le belle storie. Qui non riuscivo a seguire granché. Ma capisco che è un'operazione intelligente. Oh, guarda chi si vede.» Fece un cenno con il capo, mi voltai e vidi Gabe Teale che stava parlando con una coppia dall'aria molto chic. «Andiamo a salutarlo» proposi. «Mi sembra occupato.» «Allora lo interromperemo.» Ci facemmo largo tra la folla e attirai la sua attenzione dandogli un colpetto sul braccio. Gabe si voltò e trasalì. «Sorpresa!» esclamai. «Già.» Ci presentò la coppia con cui stava parlando. Non riuscii a capire i nomi, ma non aveva importanza perché ci diedero un'occhiata curiosa e poi se la svignarono verso un altro gruppo di conoscenti. «Non pensavi fossimo degli intellettuali» dissi. Ci guardò con aria genuinamente confusa. Credeva che stessimo insieme? Che cosa c'era in me, che induceva a scambiare chiunque mi fosse accanto per il mio o la mia compagna?
«Be'...» cominciò. «È fantastico» lo interruppi. «Non avevo capito che fosse un allestimento così in grande. E lo spettacolo è bellissimo, con tutta questa gente del quartiere che ci lavora.» Stavo parlando a vanvera. Dovevo smetterla. «Non è solo merito mio» rispose. «Io sono il direttore artistico. Poi c'è un consiglio di direzione e varie altre persone.» «Non essere modesto. C'è Bryony?» «Non lavora qui. È a casa. Non sta ancora molto bene.» Ci fu un momento di silenzio. «Be', suppongo tu abbia da fare.» «In effetti devo sistemare un paio di cose.» Ci stringemmo la mano formalmente, anche se la circostanza non avrebbe richiesto particolari solennità. Gabriel e Bryony non stavano per emigrare. Lui avrebbe continuato a lavorare nella zona, io ad abitarci, e tuttavia, essendo a Londra, probabilmente non ci saremmo più incontrati. Quando se ne fu andato, Oban mi sorrise. «Sembri molto allegro» gli dissi. «Lo sono. Ho passato un'ora e mezzo con te e non mi hai ancora detto che ho sbagliato tutto.» Non potei reprimere un sorriso. «Ci stavo arrivando» risposi. In quel momento suonò la campanella per annunciare il secondo tempo. Bevvi un sorso. «Anch'io sono abbastanza contenta. È stata una bella serata. Sono riuscita a distrarmi un po'. Il problema è che quando mi sento contenta comincio a preoccuparmi. Sono puritana, vedi. Credo che siamo contenti solo quando non sappiamo cosa succede altrove.» «Non sarai mai felice con quest'atteggiamento.» «Lo pensano tutti. Voglio solo dirti una cosa e poi me ne sto zitta. So che dobbiamo essere soddisfatti di noi, del lavoro ben fatto eccetera, ma ci sono dei dettagli che continuano a tormentarmi. Un po' come quando compri una camicia e, per quanto tu stia attento, tralasci sempre uno spillo che ti punge.» Oban sembrò confuso. «È questo che volevi dirmi? Delle camicie?» «No, senti. Doll è stato trovato morto con quei trofei.» «Non ci sono problemi al riguardo, vero? Sei tu l'esperta di questi uomini. Gli assassini tengono trofei, no?» «Sì. È del tutto normale. Lo fanno per mantenere potere sulle vittime, per rivivere l'esperienza. Ovviamente questi non sono trofei normali. Il bicchierino apparteneva alla bambina, che non era una sua vittima.»
«Già, ma è comunque un trofeo, no? Gli ricordava di aver ucciso la madre. E per quel che ne sappiamo ci poteva essere qualcos'altro che apparteneva a Philippa Burton in quell'immondezzaio in cui viveva.» «È vero. E allo stesso modo, la borsa di pelle che ha preso a Bryony non era un trofeo normale. Innanzitutto perché lei non era morta.» «L'ha presa nella colluttazione e se l'è tenuta. Gli poteva anche tornare utile. C'era dentro la chiave di casa di Bryony. Avrebbe potuto usarla.» «Sì. Ti dirò ancora solo due cose che non mi tornano e poi andiamo a vedere il secondo tempo e non ci pensiamo più. Adesso diciamo che è stato Michael Doll ad aggredire Bryony Teale sull'alzaia. Questo spiegherebbe perché era là. E l'altro testimone?» «Ci ho pensato» rispose Oban, bevendo un altro sorso di scotch. «Guardavamo le cose da un'angolatura sbagliata. Invece di Terence Mack e Mickey Doll che salvano Bryony da uno sconosciuto, abbiamo Terence Mack e uno sconosciuto che salvano Bryony da Mickey Doll. La situazione era confusa, così non c'è da stupirsi che né Mack né Bryony abbiano capito bene la dinamica dei fatti.» «E questo eroe sconosciuto è fuggito perché era troppo modesto per i ringraziamenti?» «Ci sono molte persone che non hanno voglia di avere a che fare con la polizia, anche solo come testimoni. Magari aveva addosso della droga, o qualcosa del genere.» «D'accordo. L'ultima questione: e l'elenco di Philippa Burton? Come ti spieghi le telefonate all'ostello?» Oban vuotò il bicchiere e lo rimise sul bancone del bar. «Innanzitutto non c'è alcun bisogno di conoscere la risposta. Quando un assassino muore prima di essere processato, c'è sempre qualche dettaglio che rimane oscuro. Ci sarà una ragione qualsiasi. Forse... Forse...» si guardò intorno «... forse Bryony ha fatto una fotografia a Lianne, e... e Philippa l'ha vista in una mostra e voleva comprarne una copia e...» «Bryony ha detto che non conosceva nessuna delle altre donne. E perché Philippa avrebbe telefonato all'ostello? E perché ciò avrebbe indotto Michael Doll a ucciderle tutte?» «Ho detto la prima cosa che mi veniva in mente» rispose Oban leggermente irritato. «Dammi un po' di tempo e ti trovo una spiegazione più plausibile.» «Ma non ti preoccupa la cosa?» «Quel che mi preoccupa è la mezza dozzina di omicidi di cui non ab-
biamo mai trovato il colpevole. Ci penso tutte le sere prima di andare a dormire. Una volta all'anno circa tiro fuori quei dossier e mi chiedo se non abbiamo trascurato niente o se non ci sono stati sviluppi su cui indagare. Questo caso è chiuso. E ciò mi rende felice. Non mi importa che ci sia qualche vuoto. Ricordati, la realtà è più complessa di noi. Non ci si può aspettare di capire tutto.» Avrei voluto aggiungere altro, ma avevo promesso e poi, dentro, c'era una banda di ottoni che aveva attaccato a suonare. CAPITOLO 41 Lottie e Megan stavano facendo un gioco intricato e incomprensibile sull'erba. Un'ora prima avevo regalato a Lottie un dinosauro di peluche, di un color porpora vivace, a Megan una lumaca rossa e bianca, sempre di peluche, e questi due animali avevano un ruolo importante nel gioco. Avevo dato un granchio blu e verde ad Amy, e lei stava rotolandosi giù per il pendio, incoraggiando il granchio a fare lo stesso. Dietro di loro, e dall'alto di Primrose Hill, si stendeva una'Londra piacevole e sfocata nella caligine di quell'afoso pomeriggio. Io ero spaparanzata su una coperta e sorseggiavo del vino bianco freddo, appoggiata su un gomito. «Voglio sapere tutto» mi disse Poppy. «Naturalmente Seb mi ha raccontato qualcosa...» Lanciò un'occhiata a Megan e poi ad Amy. «Megan, smettila! Smettila immediatamente o te lo porto via! Ma la versione di Seb credo sia piuttosto diversa dalla tua» aggiunse con tono secco. Mi distesi sulla schiena. «Non so se riuscirò a raccontare in modo coerente. Soprattutto in un pomeriggio come questo, con due bicchieri di vino bianco già in circolo.» Stavamo facendo un picnic di sole donne: tre bambine che giocavano sull'erba, due mamme e una non-mamma sedute su una coperta. Una delle mamme era Ginny, una vecchia amica di Poppy. I padri erano altrove; il marito di Ginny era andato a giocare a cricket, da qualche parte in campagna, e Seb era in uno studio televisivo da qualche parte nel centro di Londra. «Di che cosa sta parlando adesso?» domandai. «Ancora del caso di Philippa Burton?» «Penso di sì. Sta facendo pubblicità a questo libro che ha quasi finito.» «Sul caso? È veramente veloce.»
«Lo scriveva mentre si svolgevano i fatti.» «E le cose tra di voi vanno bene ora?» «Non proprio.» Lanciò un'altra occhiata alle bambine. «Ma adesso non posso parlarne.» «Certo. Mi dirai dopo.» «A proposito del libro, sarai molto lusingata. Sai perché?» Bevvi un sorso di vino. «Non so. Perché?» «L'idea gli è venuta, almeno in parte, da quella storia che hai raccontato alle bambine prima di andare a dormire, quando sei venuta a cena. Le ha tenute sveglie per un mesetto buono. Una storia su un castello, non era così?» «Come si intitola il libro?» «La camera rossa, mi pare. Ti dice niente?» «Sì, mi dice qualcosa. Era un incubo che avevo. La storia parlava di questo.» «Capisco. Seb deve avertene parlato.» Non risposi perché in quel momento mi sentii piombare, precipitare, tuffare nell'autocommiserazione. Ero stata sfregiata in faccia e avevo avuto un incubo che mi aveva perseguitata. E ora mi sembrava di essere stata derubata del mio incubo personale e privato. Scolai il bicchiere e poi pensai: ma chi se ne frega. Sparpagliati sulla coperta c'erano panini, frutta e bibite frizzanti che avevo preso in un blitz al supermercato: pane arabo, olive, grissini, delle tortine di carne di maiale, carotine, cime di cavolfiore. Immersi la punta di una carota in una salsa rosa e la assaggiai. Mi sentivo piacevolmente rilassata, là sdraiata a mangiucchiare, sorseggiare e chiacchierare, ma vedevo che l'attenzione delle altre due donne era sempre parziale. Che mi stessero dicendo qualcosa di urgente o stessero sgranocchiando una cima di cavolfiore, si guardavano sempre intorno in cerca delle bambine. A un certo punto cercai di rassicurarle facendo loro notare che erano solo a qualche metro di distanza, e Ginny immediatamente rispose raccontando dell'amica di un'amica che aveva lasciato incustodita per pochi minuti la bambina di tre anni in un giardino con un laghetto non più alto di qualche centimetro. Ginny era una donna dai capelli scuri e dall'aria tranquilla, con una bella risata. Era una madre così materna, che mi domandai come fosse prima di avere Lottie. Probabilmente una donna come me, che pensava di star bene così com'era. Chiusi gli occhi. Vicino alle mie orecchie Poppy gridò alle bambine di
venire a mangiare immediatamente. Ci fu una zuffa di piccoli corpi urlanti, perché una di loro era arrivata alla coperta senza aspettare l'altra, poi improvvisamente fui colpita da una sensazione di freddo sui jeans. Mi alzai con un urlo e mi accorsi che la bottiglia di vino mi si era rovesciata addosso mentre Megan mi scavalcava per andare a prendere delle polpettine di pollo. Quando vide quel che aveva fatto, le sue urla sommersero anche quelle della sorellina. Poppy prese tutte e due le bambine in braccio. «Non è successo niente, Megan, non piangere. Non fa niente, vero, Kit? Glielo vuoi dire anche tu?» «Non fa niente, Megan» ripetei obbediente. «Mi dispiace, Kit» continuò Poppy, «ma Megan ci rimane molto male per queste cose.» A quel punto Megan sembrava aver recuperato il suo buon umore e stava rosicchiando un pezzo di pollo. «E poi» disse Ginny allegramente «il vino bianco non macchia. Anzi, si usa proprio per togliere le macchie di vino rosso, vero?» «Mi sono solo un po' bagnata» dissi picchiettandomi i jeans con un pezzo di scottex. Pensavo di dover essere io a dire che non importava, non loro. «Dio» fece ridendo Poppy, «dovresti essere contenta che è solo vino. Non immagineresti mai che macchie ho sui miei vestiti.» Feci un sorriso leggermente teso e mi riempii di nuovo il bicchiere. «Sai» riprese Ginny, «un mucchio di mamme sono state molto colpite dai tuoi delitti.» «Non proprio miei» obiettai. «Quella povera bambina a cui hanno portato via la madre mentre giocava in un parco. Non ho praticamente più lasciato sola Lottie, da allora. So che è irrazionale.» Assentii con un mormorio. «Non ti ha depresso, Kit? Non l'hai trovata una cosa insopportabile?» Misi il bicchiere sulla coperta, poi ci ripensai e lo ripresi. «No. Mi ha fatto tristezza.» «Per quel che mi riguarda, ora che l'assassino non è più in giro, mi sento più tranquilla. Ho visto l'ispettore in TV. È stato molto carino con te.» Osservai le bambine. Amy era arrivata al dolce. Stava mangiando un muffin al cioccolato, ma ciò comportava un tale spargimento di briciole, impiastricciamento del viso e spappolamento del muffin che era difficile credere che qualcosa le finisse in bocca.
«Non è stata la soddisfazione che potresti pensare» dissi. «Quell'uomo, si chiamava Michael Doll, è stato trovato morto...» «Ucciso da un qualche vendicatore» interruppe Poppy. «Ovviamente non difendo un atto del genere» continuò Ginny. «Ma devo ammettere che, quando l'ho letto, la mia prima reazione è stata di sollievo.» Si tirò Lottie vicino e la abbracciò. «Non sarà giusto, ma almeno quell'uomo non farà più del male.» «O del bene» aggiunsi. «Ma tu dovresti sapere tutto di lui.» Poppy parlò con tono incoraggiante, intuendo il mio disagio. «L'ho conosciuto.» «Che impressione» esclamò Ginny. «Che tipo era?» «Faceva proprio impressione. Era molto disturbato, e piuttosto repellente, e anche un po' patetico.» «Ma che cosa si prova a conoscere una persona che ha fatto quelle cose terribili?» mi domandò Poppy. «Dovresti chiedere a Seb. Io non credevo che avesse commesso quei crimini ed è morto prima che facessimo chiarezza...» «Ma c'erano delle prove inconfutabili. L'ha detto la polizia.» «Già, c'erano delle prove fondate, fin troppo. Sfortunatamente non collimano molto, ma non vorrete sapere...» Le guardai. Non avevano affatto l'aria di voler sapere. Le due mamme erano attaccate alle loro bambine come da fili d'acciaio, i loro visi si voltavano incessantemente. Erano cadute? Erano scappate? Facevano troppo baccano? Erano troppo tranquille? Erano state assassinate? Pensai alla piccola Emily al parco giochi, che scavava nella sabbia mentre sua madre veniva portata via e colpita a morte. Immaginai la scena nella mente, come avevo fatto centinaia di volte prima, e misi Michael Doll nel ruolo del killer psicopatico. E qui ebbi una folgorazione. Saltai in piedi. «Dove vai?» mi domandò Poppy. «Hai l'aria di aver visto un fantasma.» «Forse l'ho proprio visto. Mi dispiace, ma devo scappare. Qualcosa...» «Posso guardare il sole?» chiese Megan. «No» urlò Poppy. «Non bisogna mai guardare il sole.» «Perché no?» «Perché brucia gli occhi.» «E se chiudo gli occhi?» Chiuse gli occhi. «Posso guardarlo se chiudo gli occhi?» «Sì, ma non vedi niente.»
«Non vedo nero. Vedo rosso. Perché?» «Non lo so» rispose Poppy. «Probabilmente è il sangue delle palpebre.» «Sangue? Evviva, vedo il mio sangue. Dài, guardiamo tutti il nostro sangue.» E le bambine presero a gironzolare barcollando per la collina verde e soleggiata, mentre io fuggii come se qualcuno mi stesse correndo dietro. CAPITOLO 42 Arrivai a casa senza fiato e con la testa pesante per il vino e il sole, ma chiamai immediatamente Oban. Era per strada. Sentivo il rumore del traffico e della gente che parlava. «Hai da fare?» gli domandai. «È il finesettimana» rispose. «Che cosa c'è? Mi vuoi portare all'opera?» «Volevo avvertirti che sto andando a vedere la bambina, Emily Burton.» «Che cosa?» «Sai, la figlia di Philippa Burton.» «So chi è. E... È...» Sembrò annaspare in cerca di fiato. «È un'idea del tutto sbagliata.» «Devo farle una sola domanda.» «Kit, Kit» disse con il tono di volermi calmare, come se dovesse cercare di convincermi a non buttarmi giù dalla finestra, «c'è sempre ancora una domanda da fare. Pensaci bene. Scombussolerai di nuovo quella povera famiglia. Diventerai matta e farai impazzire anche me. Lascia stare.» «Volevo chiederti se è necessario che venga con me un poliziotto.» «No, decisamente no. Per noi il caso è chiuso. Questo è un Paese libero e tu puoi andare a trovare chi vuoi, ma noi non c'entriamo più. Onestamente, Kit, mi sei simpatica, ma secondo me devi farti curare...» E la comunicazione si interruppe, forse perché Oban era entrato in un tunnel o semplicemente perché aveva ceduto alla disperazione. Un registratore. Avevo bisogno di un registratore. Dovevo averne uno da qualche parte. Dopo pochi minuti di ricerche trovai in fondo a un armadio un piccolo registratore mezzo scassato e poi, in un cassetto pieno di cianfrusaglie, scovai una cassetta polverosa, dei tempi del college. Avrebbe funzionato. Telefonai ai Burton. Mi rispose una donna. «Pronto, parlo con Pam Vere?» «Sì.» «Sono Kit Quinn. Si ricorda di me? Sono...»
«Sì, mi ricordo.» «Le volevo chiedere se potevo venire a passare qualche minuto con Emily.» «Non è in casa in questo momento.» «Potrei venire più tardi?» «Ma pensavo che fosse finita.» «Volevo solo mettere i puntini su qualche "i". E vedere come stava Emily.» «Sembra star bene. Gioca con le amichette e adesso c'è una au pair.» «Posso venire? Non ci metterò più di cinque minuti.» «Non voglio fare la difficile, ma è proprio necessario?» «Le sarei molto grata» risposi con fermezza, senza cedere. Ci fu una pausa. «Sarà di ritorno poco dopo le quattro. Magari le potrebbe parlare prima del tè.» «Ci vediamo, allora, grazie.» Fui ricevuta più formalmente delle volte precedenti. Arrivai prima di Emily e cercai una presa in cucina a cui attaccare il registratore. Feci un paio di prove, in preda al nervosismo, bofonchiando dei numeri nel microfono e poi riascoltandomi. Quindi riprovai ancora, stavolta con le lettere. Emily entrò in cucina di corsa come un folletto chiacchierino, vestita di un paio di calzoncini di tela sporchi di colore, e seguita da una au pair bionda. Sembrava molto contenta. La immaginai tra cinque anni, senza più ricordi della madre se non quelli legati alle fotografie e alle storie parzialmente inventate su Philippa che le sarebbero state raccontate da altri. Andò di corsa dalla nonna e la abbracciò. Quando mi vide, ammutolì. Mi accoccolai vicino a lei. «Ti ricordi di me?» Scosse il capo solennemente e guardò altrove. «Voglio farti vedere una cosa.» Aveva intenzione di fare la timida, ma la curiosità glielo fece dimenticare. Mi diede la mano e andammo al tavolo di cucina dov'era il registratore. Pam sedeva di fronte a noi, vigile. «Guarda.» «Che cosa?» Premetti il tasto di registrazione. «Di' qualcosa.» «Non voglio dire qualcosa.» «Che cosa fai all'asilo?»
«Niente» rispose con fermezza. Spensi il registratore, riavvolsi il nastro e lo riaccesi. Emily aprì la bocca per la meraviglia. «Fallo di nuovo» disse. «D'accordo.» Schiacciai il tasto di registrazione. Mi sedetti molto vicina a lei. Sapeva di sapone. «Allora, di che cosa parliamo?» Emily arricciò il naso e si mise a ridacchiare. «Non so. La tua cicatrice» disse, indicando il mio viso. «Già. Vedi? Ti sei ricordata.» «Ti fa male?» «Non più tanto. È quasi guarita.» «Posso toccarla?» «Sì.» Mi chinai ed Emily allungò un indice tozzo e me lo passò sulla cicatrice, dall'orecchio fino alla mandibola, facendomi solletico e pungendomi leggermente. Non provai alcun dolore. «L'altra volta, quando sono venuta, tu stavi giocando con la tua amica e abbiamo parlato del parco giochi. Tu ci stavi giocando quando tua mamma è andata via. Te lo ricordi?» «Sì.» «Un mucchio di persone te ne ha parlato, vero?» «Poliziotti.» «Sì. E questi poliziotti e poliziotte ti hanno chiesto se avevi visto tua mamma andare via con qualcuno e tu hai risposto di no.» Emily stava grattando la tavola. Vedevo che la stavo perdendo. La sua attenzione di bambina di quasi quattro anni era giunta alla fine. Guardai il registratore. Il nastro stava girando. Ero andata da loro con un solo colpo in canna, l'ultimo. L'avrei sparato e, se non fosse successo niente, avrei mollato tutto. Li avrei salutati con gentilezza e sarei ritornata a casa, a quei brandelli di vita che avevo fin troppo trascurato. Aprii la mano e la avvolsi intorno alla mano piccola, calda e appiccicosa di Emily. La schiacciai leggermente per richiamarla all'attenzione. Mi guardò. «Non voglio chiederti quello, Emily. Voglio chiederti un'altra cosa. Mi dici della donna carina?» «Che cosa?» domandò Emily. «Che cosa...» disse Pam, ma la zittii bruscamente, alzando una mano. «Emily, che cosa ti ha dato?»
«Niente.» «Niente?» «Un lecca-lecca.» «Carina» risposi. Sentivo il cuore battere all'impazzata, persino in testa. «Che cos'ha fatto. Ti ha spinta sull'altalena?» «Un po'. Mi ha portata nella sabbia.» Cercai di immaginare il parco giochi. La sabbiera era il punto più lontano dalla ringhiera dove Philippa guardava la figlia. «Divertente. E poi è andata via. Ti ha lasciata lì?» «Non so.» «Com'era quella signora?» «Che baaarba» disse Emily ad alta voce. «Era grande?» «Che bar-baaa.» «Sei stata gentile, Emily. Grazie.» La abbracciai. Lei si liberò e corse alla porta e poi fuori in giardino. Spensi il registratore e guardai Pam. Sembrava assorta in pensieri angosciosi. «Ma...» disse. «Non era quell'uomo? Che cosa faceva una donna...?» Avevo intenzione di andarmene subito, ma le dovevo una qualche spiegazione. «Avrei dovuto pensarci molto prima» dissi. «Non è difficile rapire una donna di notte, al buio, in un posto deserto. Lo si può fare anche in un luogo affollato e di giorno, solo che ci vuole un po' più di attenzione. Non si riesce facilmente a convincere una mamma a lasciare la bambina da sola, neppure in un parco giochi, neppure per un minuto. Deve esserci qualcuno che la tenga d'occhio. È ciò che mi è venuto in mente all'improvviso. Così ho pensato che doveva esserci una donna. Ed Emily ha sempre detto che la mamma sarebbe ritornata, vero?» Pam annuì, continuando a fissarmi. «Perché probabilmente è l'ultima cosa che Philippa le ha detto. Deve averle detto qualcosa tipo "Non preoccuparti, ritorno subito", ed Emily sta ancora aspettando.» Tolsi la presa del registratore dalla spina e mi alzai, stringendolo al petto come se me lo volessero rubare. «Devo andare.» «Allora aveva una complice» mormorò Pam. Scossi la testa. «Conoscevo Michael Doll. Non penso avesse nessun rapporto di amicizia con una donna.» A parte me, pensai. E con una fitta di dolore la lasciai seduta al tavolo di cucina, con le mani giunte come se stesse pregando.
CAPITOLO 43 Telefonai al Tyndale Centre dal cellulare, quando ormai ero molto vicina. Mi risposero che Will non c'era e, volendo indagare, percorsi il resto della strada, parcheggiai proprio di fronte e suonai. «Per caso c'è Sylvia?» domandai alla ragazza che mi aprì, una giovane con i capelli cortissimi e una ragnatela tatuata sulla guancia, pressapoco della stessa età degli ospiti. «No.» Quando parlava, la ragnatela si muoveva e si allungava. «La aspettate?» «Non saprei.» «Hai idea di dove potrei trovarla?» «Non saprei.» Prese una sigaretta da dietro l'orecchio e se la infilò tra le labbra. «Non sono autorizzata.» Accese la sigaretta. «Bene. Se la vedi, puoi dirle che Kit Quinn vuole chiederle una cosa? Ti scrivo il mio numero di telefono.» La ragazza non rispose, guardandomi con sospetto. «Mi conosce» aggiunsi. Tirai fuori dalla borsa il taccuino, scrissi il numero su una pagina e gliela diedi. Lei la mise sulla scrivania senza guardarla. «Grazie, e scusa il disturbo.» Ma quando fui sul punto di uscire, senza sapere bene dove andare, udii una voce: «Potresti cercarla alla fiera». Mi voltai e vidi un ragazzo accovacciato vicino al portone. Sembrava avere dieci anni, a parte la sigaretta che gli pendeva dall'angolo della bocca e il coltello a serramanico con cui giocava. «La fiera? Quella a Bibury Common?» Ci ero passata davanti venendo, e avevo provato un tremito di nostalgia per i giorni in cui amavo i vorticosi giri sull'ottovolante, i vistosi giocattoli di peluche e i giganteschi martelli di plastica che si vincevano quando si colpiva il bersaglio con fucili ad aria compressa poco precisi. «Sì.» Esitò. «Potrebbe darmi un paio di sigarette, signorina?» «Mi dispiace, non fumo.» «Dei soldi, allora.» Giunse le mani imitando per scherzo il gesto della preghiera. Lanciai un'occhiata alla ragazza alla scrivania, poi gli passai qualche moneta. «Ottimo. Grazie.» Stava calando la sera e la fiera si stava mettendo in movimento. Uomini in giacca di pelle, con i capelli tirati indietro dalla brillantina e i denti rovi-
nati, stavano lavorando con cacciaviti e martelli. La ruota panoramica girava lentamente contro il cielo crepuscolare, ma i sedili erano tutti vuoti. C'era una giostra con delle grosse tazze, un'altra con animali, l'autoscontro tenuto d'occhio da ragazzi magri in jeans attillati e gomma da masticare in bocca, un castello stregato, una casa degli specchi dall'aria traballante, di cui veniva messo a posto l'ultimo segmento, banchetti in cui si vincevano delfini, liquirizia di ogni tipo e brutti vasi se si riusciva a lanciare dei cerchi sulle bottiglie o a colpire l'occhio di un toro con una freccetta, camion che vendevano hamburger unti e grasse salsicce arancioni. E c'era fango, melma marrone dappertutto, dove le carovane avevano smosso il terreno. Cercai Sylvia. La gente stava cominciando ad arrivare, la musica metallica aveva attaccato a suonare. Un palloncino, lasciato andare da un bimbetto urlante, fluttuava in cielo. L'aria era satura dell'odore di fritto e di fumo di sigarette. Forse non c'era. Mi incamminai nel fango, guardando i gruppi di persone; ero sul punto di perdere le speranze, quando la vidi. Stava salendo su un autoscontro con un ragazzo di circa sedici anni. Non appena si sedettero, lui le mise un braccio sulle spalle e lei lo spinse via sdegnosa. Aveva i capelli legati in ciuffi ridicoli, e sembrava assai più giovane di come ricordavo, e felice, come se non avesse nessun pensiero al mondo. La osservai mentre circolava per la pista andando a sbattere qua e là, urlando di finta paura quando le venivano contro, sibilando e ridendo quando era lei a colpire qualcun altro. Quando smontò, le andai incontro. «Ciao, Sylvia.» «Ciao.» Non sembrò affatto sorpresa di vedermi. «Ti stavo cercando.» «Sì?» «Ho bisogno di chiederti una cosa. Ma non voglio interrompere la tua serata, così se preferisci ci possiamo vedere dopo.» «Non importa. Non ho più soldi comunque. Ciao, Robbie» congedò il ragazzo al suo fianco, il quale si allontanò goffamente, strascicando nel fango i pantaloni lunghi e larghi. «Vuoi qualcosa da mangiare o da bere?» «Non importa.» «Che ne diresti di...» «D'accordo, un hamburger con cipolle fritte e ketchup, patatine e una Coca.» Andai a comprare le cose che voleva presso un furgone. «C'è una panchina, laggiù, dove possiamo parlare» le proposi.
«D'accordo» rispose amabilmente. Non sembrava curiosa, ma era certamente affamata. Quando arrivammo a sederci aveva finito quasi tutto. Aveva il mento unto e del ketchup sulle labbra. Si pulì con una manica e sospirò. «C'è una cosa per cui mi serve il tuo aiuto» cominciai. «Riguarda Lianne?» «Più o meno. Be', anche Daisy. L'amica di Lianne.» «Sì. Quella che si è fatta fuori.» «La conoscevi?» «La vedevo. A volte uscivamo insieme. Stesso giro.» «Sai se Will Pavic la conoscesse?» «Probabilmente. Voglio dire, avrebbe dovuto, no?» Il suo sguardo vagò in giro. «Potrei avere anche dello zucchero filato?» «Certo. Tra un minuto. Questa è una domanda difficile, Sylvia... hai idea se per caso Will Pavic sia mai stato con qualcuna delle ragazze del suo ostello?» «Stato?» ripeté come se fosse una parola straniera. «Sì, se ha avuto una relazione sessuale con qualcuna di loro.» «Se le ha scopate, vuoi dire?» Ridacchiò e mi diede un colpetto gentile sulla spalla. «Relazione sessuale» ripeté, imitando la mia voce. «Allora?» «Hai una sigaretta?» «No.» «Vabbe'.» Tirò fuori dalla tasca dei jeans le sue sigarette e se ne accese una. «Non credo.» «Ne sei sicura?» «Sicura? Certo che no. Non si può mai essere sicuri di cose di questo genere, no? Ma che io sappia, no.» Arricciò il piccolo naso e soffiò via il fumo. «Non è uno che tocca.» «Uno che tocca?» «C'è gente che ti mette la mano sulla spalla, sul ginocchio, ti dà dei colpetti quando ti parla.» Rabbrividì. «Che schifo, come se non sapessimo che cosa stanno facendo. Will non fa queste cose. Tiene le distanze.» «E Gabriel Teale? Daisy non ha mai fatto il suo nome?» «Gabriel? Che razza di nome stupido per un uomo. Non l'ho mai sentito.» «Dirige il Sugarhouse.» «Oh, quel posto. Il posto lo conosco, naturalmente.»
«Daisy ci andava mai?» domandai cercando di nascondere l'ansia nella mia voce. «Certo. Molti di noi ci sono stati. Ma non io. Non fa per me. Daisy sì, sicuramente. Doveva imparare a fare la ruota.» Sorrise. «Alla fine era bravissima. Riusciva a farla con le gambe completamente dritte e a farne un sacco di seguito. Si esercitava nelle camere.» Sentii l'eccitazione corrermi lungo la spina dorsale. Tirai fuori dalla borsa il programma del teatro e le mostrai il retro. «Ti ricordi che, quando ci siamo incontrate la prima volta, hai detto che qualcuno vi aveva fatto delle domande su Lianne? È questa la persona?» indicai con il dito la fotografia di Gabe. La scrutò. «Assolutamente no!» Fece una risatina. «La persona che voleva sapere di Lianne era una donna.» Mi fermai di colpo. «Non l'hai mai detto.» «Non l'hai mai chiesto.» Tirai fuori dalla borsa la foto di Bryony. «Era lei allora?» Sylvia strizzò gli occhi alla debole luce. «No.» «Ne sei sicura?» «Certo. Non le somigliava per niente. La donna che ho visto era bionda, innanzitutto.» In una sorta di stordimento tirai fuori un'altra foto. «Come questa?» «Sì. Sì, è quella. Ne sono sicura. Andava a ficcare il naso in giro, faceva domande con quel suo accento snob. Chi è?» Osservai il volto, sfiorandolo con un dito. «Una donna che si chiama Philippa Burton.» «Philippa Burton.» Sylvia guardò la fotografia e sul volto le passò un'ombra, una sorta di durezza. «È lei che ha ucciso Lianne allora?» «No» risposi. Poi aggiunsi: «Non so». «Sei strana. Ti senti male?» «No. Sono solo confusa. Vuoi lo zucchero filato?» «Lo prendi anche tu?» «No.» «Perché no? Lasciati andare, dai.» Voltò il viso astuto e delicato verso di me con fare imperativo. «Rilassati.» Fui pervasa da una strana sensazione di leggerezza. «D'accordo, prenderò un enorme zucchero filato rosa.» «Grande. E poi andiamo su quelli.» Indicò i seggiolini rotanti che giravano così velocemente da rendere impossibile distinguere le facce dei pas-
seggeri urlanti. «Ci penserò.» «Non pensarci. Vicni.» Mangiai lo zucchero filato. Mi si sciolse tra i denti e mi si appiccicò ai capelli e sulle guance. Poi andammo sui seggiolini rotanti. «Non voglio andarci.» Sylvia ridacchiò. La giostra si mise in moto, dapprima lenta, poi sempre più veloce, mentre nel contempo ogni seggiolino girava vorticosamente su se stesso. Cercai di dire qualcosa, ma i muscoli della mandibola sembravano essersi allentati. Il mondo divenne una macchia confusa. La forza centrifuga mi teneva piantata contro il sedile; lo stomaco mi sembrava da un'altra parte; i capelli appiccicosi mi sbattevano contro il viso. «Merda» dissi annaspando. «Urla» mi mormorò Sylvia all'orecchio. «Urla da spaccarti il petto.» Rovesciai la testa indietro e aprii la bocca. Urlai, udendo le mie urla al di sopra di tutte le altre. Urlai fino a spaccarmi il petto. CAPITOLO 44 Cercai maldestramente di azionare il registratore, impresa resa particolarmente difficile dallo sguardo scettico e di aperta disapprovazione di Furth e da quello deluso e imbarazzato di Oban. Probabilmente stavano già lavorando ad altri casi e si trovavano di fronte una donna ossessiva che non li lasciava in pace. Peggio ancora, una donna accucciata sotto il tavolo dell'ufficio di Oban che cercava, senza riuscirci, di inserire una semplice spina in una presa. Inveii a voce bassa, poi più alta. Una presa era solo una maledetta presa, no? Finalmente ci riuscii e posai il registratore sulla scrivania. «Ascoltate con attenzione. La registrazione non è di buona qualità. L'ho fatta su un vecchio nastro che ho trovato in fondo a un cassetto.» I due si scambiarono uno sguardo mentre premevo il tasto PLAY. Fu leggermente imbarazzante, perché non l'avevo riavvolto bene e il nastro cominciò con me che dicevo uno-due, uno-due e poi l'alfabeto. Lanciai uno sguardo a Oban. Si stava mordicchiando il labbro per cercare di non ridere. Non andò molto meglio in seguito, con l'interminabile chiacchiericcio tra me ed Emily sull'asilo e sulla mia ferita. Oban si dimenò sulla sedia, impaziente.
«Stava grandinando quando hai fatto la registrazione?» domandò Furth con le labbra arricciate. «C'è una specie di rumore di sottofondo nel nastro, lo so. Mi dispiace, ma volevo che sentiste tutto il colloquio in modo da capire il contesto.» Borbottò qualcosa tra i denti. «Che cosa?» «Niente.» Spensi il registratore e riavvolsi un po' il nastro. «Per l'amor del Cielo, non ci metteremo a riascoltarlo adesso, no?» «Voglio essere sicura che non abbiate perso nulla.» Emise un gemito ma, quando la conversazione arrivò agli eventi del parco giochi, sulla sua fronte apparve una ruga di concentrazione. Poi Emily disse che era stufa, ci fu uno scatto e uno scricchiolio, e ci trovammo nel bel mezzo di Hotel California. Era la registrazione di una festa degli anni Ottanta. I due uomini sorrisero. «Questa parte mi piace» disse Furth. «La qualità del sonoro è anche migliore.» «Allora, che cosa ne pensate?» «Faccelo risentire» disse Oban. «Solo l'ultima parte» aggiunse in fretta. Riavvolsi il nastro e lo feci ripartire cercando a caso, e risentimmo le risposte di Emily sulla donna. Prima della fine Oban stesso spense il registratore, poi si riappoggiò allo schienale della sedia con aria sconfortata. «Allora?» Guardò fuori della finestra, come se avesse visto qualcosa di affascinante che lo assorbiva completamente. Poi si voltò e sembrò come sorpreso che fossi ancora là. «Scusa, ma stavo pensando a un mese fa, quando siamo stati noi a farti sentire un nastro. Buffo come vanno le cose, no?» «Non direi» ribattei. «Che cosa vuoi che dica?» Avevo l'imbarazzante sensazione che le cose non stessero prendendo il verso giusto. «Non credo volessi sentirti dire qualcosa. Pensavo che saresti saltato sulla sedia per la sorpresa.» «Perché dovrei essere sorpreso?» Li guardai entrambi. L'espressione di Furth era stranamente gentile, il che mi fece star peggio. «Non sentite quel che sento io? Avremmo dovuto pensarci secoli fa: non si può far allontanare una mamma mentre sta guardando i bambini e c'è un mucchio di gente intorno. Doveva esserci una
donna, una donna che ha passato qualche minuto con Emily mentre Philippa Burton è stata convinta a salire sulla macchina in cui sarebbe stata uccisa.» «Io non sento questo» rispose Oban. «Che cosa senti?» Sbuffò come per respingere la questione. «Sento che vengono fatte a una bambina di tre anni domande tendenziose, e che lei dà risposte vaghe. Voglio dire, chi è questa "signora carina"? Potrebbe essere qualsiasi donna che nell'anno passato le ha comprato un lecca-lecca.» «Quindi non credi a Emily.» «Innanzitutto, come sai bene, quel nastro sarebbe assolutamente inammissibile come prova. Inoltre penso che sia una cazzata. Mi dispiace, Kit, ma credo che tu sia un po' ossessionata, stai cominciando a farmi perdere tempo.» «Allora non prendi in considerazione la possibilità che una donna sia coinvolta?» «Ne hai una in mente?» «Sì.» «Chi?» «Bryony Teale.» «Che cosa?» «Tra cinque minuti mi puoi buttare fuori, ma ascoltami.» «E ti ha ascoltato?» mi domandò Julie, sorseggiando il suo drink. Eravamo sedute in un nuovo bar a Soho che si chiamava Bar Nothing. A quanto pareva le superfici rigide e le linee diritte non erano più di moda. Quel posto era tutto divani color pastello e cuscinoni sul pavimento. Eravamo sedute al bancone, che non era morbido, altrimenti i drink non sarebbero stati in piedi, ma aveva un andamento dolcemente ondulato. Julie mi aveva vista a casa verso sera mentre urlavo, sbraitavo e sbattevo, metaforicamente, la testa contro il muro, così aveva insistito che l'unica cosa da fare era vestirci bene e uscire. Si era messa un altro dei miei vestiti, quello nero con le maniche di chiffon, ed era bellissima. Io avevo il vestito rosa attillato, comprato immaginandomi la protagonista di una di quelle canzoni blues in cui il cantante si lamenta di essere stato mandato via da casa da una donna diabolica. Speravo quasi che qualcuno venisse a dirci che stavamo violando qualche ordinanza del sindaco. Penso di aver messo in imbarazzo Julie, ordinando subito due margarita,
che probabilmente faceva un po' anni Novanta, se non Ottanta, ma avevo bisogno di qualcosa che agisse velocemente. «Sai che il rosa è proprio il tuo colore?» disse Julie al primo sorso. «Va d'accordo con i tuoi occhi grigi.» «E con la cicatrice.» «Non dirlo.» «Penso che vada meglio. Ti ricordi il Fantasma dell'opera? Non mi importa più quando me la toccano. Adesso mi sembra che pensino a una qualche operazione di plastica al viso mal riuscita.» Julie non rispose. Mi prese la faccia, piegandomela in modo da esporre la cicatrice alla luce, e la esaminò come se stesse valutando un soprammobile del mio appartamento. Pensai alla piccola Emily che faceva scorrere il dito sulla cicatrice. Finita l'ispezione, Julie sorrise. «Sembra raccontare una storia.» «L'unica cosa che questa cicatrice racconta è quanto poco tempo lui abbia avuto.» Julie trasalì e si scusò. Ordinammo un altro drink e cominciammo a parlare di lei. Raccontò dei viaggi, di vari uomini terribili e anche di un paio carini, dei suoi progetti; improvvisamente mi domandò se volevo partire con lei, e io inorridii di me stessa pensando: perché no? Perché non mollavo tutto e partivo? Verso la fine del secondo drink pensai addirittura: perché non mollare tutto e partire quella sera stessa? Trovammo un tavolo e ordinammo un paio di insalate e una bottiglia di vino, ma poi non mi sembrò abbastanza. Mi venne una gran voglia di carne rossa. Mi parve di notare che Julie sbiancasse quando arrivò: fettine sottili di carne cruda con sopra scaglie di parmigiano, il tutto condito con olio di oliva e limone. «So di essere carnivora» commentò, «ma preferisco la carne quando diventa di un bel color marrone.» Cercai di mantenere la conversazione centrata su Julie e la sua vita, ma non servì. Ero come un vulcano fumante, e mentre stavamo ancora mangiando l'insalata, il vulcano eruttò e le feci il resoconto animato degli ultimi giorni. «Sì, Oban ha ascoltato» ripresi da dove mi ero interrotta, i nostri bicchieri di nuovo pieni. «Voglio dire, ha ascoltato quello che gli ho detto. Mi ha sentita. Poi ha ripetuto le solite cose, che il caso era chiuso, che non dovevo far perdere loro tempo, non dovevo indurli a pensare che la vita è più complicata di quel che si pensa, o che il lavoro non sia stato ben fatto.» Mi fermai e scoppiai a ridere. Mi ero accorta che stavo puntando il dito
contro Julie con una certa veemenza, e che lei era indietreggiata per evitare di essere colpita. «Io non c'entro» disse, ridendo anche lei. «Non devi convincere me. Be', a dir la verità sì. Devo ammettere che non capisco che cosa stai cercando. Stai dicendo che la fotografa carina aiutava quel pazzo di Doll a uccidere la gente?» «No, no, Doll non ha niente a che fare con questo. Stava aiutando suo marito, Gabriel.» Julie bevve un altro sorso di vino rosso. «Non so» ribatté. «Avrei dovuto chiedertelo tre drink fa, almeno. Voglio dire, sono brave persone. Lui lavora per un teatro. Perché avrebbe dovuto uccidere quelle donne?» «E anche Doll.» «Cosa vuoi dire? Non è stato un vendicatore sconosciuto?» «No.» «Ma se mi hai detto che ha anche lasciato una nota?» «Sì, lo so. Bastado ommicida, con quei ridicoli errori di ortografia. È così patetico, ma ero talmente scioccata dalla scena del delitto che non ci ho pensato. Ma una persona che non sa neanche scrivere "bastardo", userebbe la parola "omicida"? Ricordi che cosa pensavo dei corpi di Lianne e di Philippa? Le ferite sembravano inferte da un assassino che voleva passare per uno psicopatico, ma senza vera convinzione. Dovresti vedere che cosa fanno al corpo delle donne i veri psicopatici.» «Meglio di no. Così questi sarebbero degli assassini gentili, giusto?» «Non lo stavano facendo per divertimento, ma perché pensavano di doverlo fare.» «E per che cavolo di ragione?» «Non ne ho idea. Ma non ha importanza. Questo è il bello. Prima non tornava niente e ora, invece, torna tutto. Ho scoperto che quella poveretta di Daisy aveva dei contatti con Gabe Teale. Ho visto una sua amica, ieri, che mi ha detto che lavorava al Sugarhouse. Lianne era preoccupata per Daisy e viene uccisa. E ho scoperto che Philippa Burton aveva a che fare con Lianne.» «Perché?» «Non ne ho idea. L'appunto che ho trovato nella sua camera mostra che aveva fatto il collegamento tra Lianne e Bryony. In ogni caso, è stata uccisa. E ora ho anche dimostrato che Bryony era coinvolta nel rapimento di Philippa.» «Davvero?» domandò Julie con tono dubbioso.
«Certo. Allora, dov'ero?» «Non so bene.» «Michael Doll. Quella specie di aggressione a Bryony non ha mai avuto senso. I giornali hanno fatto credere quasi a tutti che Doll avesse assassinato Lianne. Ma questo, per Gabriel e Bryony, voleva dire che Doll era stato sul luogo del delitto. Forse aveva visto qualcosa. Forse li aveva anche contattati e aveva minacciato Gabriel. Hanno fatto un tentativo poco riuscito di colpirlo in testa e di gettarlo nel canale, facendolo apparire come l'intervento di un vendicatore sconosciuto, ma poi improvvisamente spunta quel Terence Mack, Bryony viene afferrata, Gabe scappa, Doll non ha idea di quel che sta succedendo e a tutti sembra un'aggressione a Bryony. Non è un caso che lei fosse così scioccata.» «Be'...» «E così loro, o probabilmente solo Gabe, dato che Bryony era considerata in pericolo ed era sorvegliata dalla polizia, va a casa di Michael Doll a finire il lavoro. Bryony aveva preso il bicchierino di Emily quando aveva convinto Philippa ad andare con Gabriel in auto per fare una chiacchierata. Gabe uccide Doll e lascia il bicchierino. Doll muore, accusato ingiustamente, e il caso è chiuso.» Julie versò le ultime gocce di vino nei nostri bicchieri. «Ne vuoi ancora?» domandò. «No. Non voglio esagerare.» «Ma aspetta un minuto. Non c'era solo il bicchierino, no? C'era anche la borsetta di pelle. Pensi che l'abbia lasciata di proposito? Non era un po' troppo rischioso?» «Ci ho pensato. Non credo l'abbia lasciata di proposito. Avresti dovuto vedere la stanza, era piena di sangue. Gabe doveva esserne coperto.» «Se era là.» «Certo che era là! Coperto di sangue, si è spogliato per lavarsi in bagno e ha lasciato la borsa. L'hanno trovata, ma non vi hanno dato importanza perché è stata considerata un altro dei trofei di Doll.» Julie rimase in silenzio per un momento, con l'aria di star facendo complicate divisioni a mente. «Hai detto tutto questo a Oban in cinque minuti?» mi domandò alla fine. «Gli ho fatto un resoconto abbreviato.» «Non c'è da stupirsi che ti abbia buttata fuori.» «Non sei convinta?» «Non so. Devo digerire la cosa. Checché tu ne dica, prenderò un altro
drink.» Ordinò due brandy e bevve un sorso dal suo, con un brivido. «Allora che cosa hai intenzione di fare? Un altro tentativo con Oban?» Passai un dito sul bordo del bicchiere, producendo un trillo. «No» risposi pensosamente. «Ho esaurito la mia scorta di pazienza nei suoi confronti. Non so cosa fare. Ci ho pensato e ripensato. Sai che Paul McCartney, quando ebbe l'idea di Yesterday, passò giorni a cercare di capire dove l'avesse già sentita? Non riusciva a credere di averla inventata lui. Mi sto chiedendo se io non stia immaginando trame che in realtà non esistono.» Presi il bicchiere e bevvi un sorso infuocato. «Forse dovrei andare a parlare con loro.» «Con chi?» «Bryony e Gabe.» «Cioè andare a dir loro che credi siano dei serial killer?» «Mettere loro una pulce nell'orecchio, farli preoccupare. Forse agiranno di conseguenza.» Julie scolò il bicchiere. «Cioè non faranno niente, se sono innocenti, e ti ammazzeranno, se sono colpevoli.» «Non riesco a pensare a nient'altro.» Toccò a Julie, ora, puntarmi il dito contro. Un dito non del tutto fermo. «Quanto hai bevuto?» mi domandò. «Due margarita. Quasi una bottiglia di vino. E questo brandy.» E lo finii. «Esattamente. E spero che sia stato il vino a farti parlare. Probabilmente è stato sempre il vino, per tutta la serata e non solo in quest'ultima parte. Sono assolutamente sicura che domani mattina nessuna delle due si ricorderà niente di stasera. Specialmente io. Ma voglio che tu mi prometta che non farai nulla di stupido. Me lo prometti?» «Certo che te lo prometto» risposi con un sorriso. «Non so se ti credo.» Mi mise una mano sulla spalla e mi scosse, come se volesse svegliarmi. «Senti, Kit, non vedi che quel che stai facendo è completamente folle? Dico sul serio, completamente folle.» «No, io...» «Una cosa è mettersi in pericolo per una buona ragione. Non che lo consiglierei a nessuno, in ogni caso.» Si interruppe per fare un violento singulto, poi continuò: «Ma tu vuoi metterti in pericolo senza alcuna buona ragione. Come se la vita di due donne morte fosse più importante della tua stessa vita, capisci quel che voglio dire?» «Sì, ma io non la vedo in questo modo.»
«Certo, tu la vedi alla rovescia, o in modo capovolto. Stai cercando di salvare delle persone morte. Questo non è possibile.» «Lo so.» Portò il viso vicino al mio e ripeté, ad alta voce: «Non puoi salvare delle persone morte, Kit. Non puoi riportare nessuno in vita. Lascia stare». CAPITOLO 45 Quando ero adolescente, mio padre mi faceva bere un bicchiere di latte prima di andare alle feste. Diceva che creava una pellicola protettiva sullo stomaco. Avrei dovuto farlo anche ieri sera, pensai quel mattino svegliandomi. La luce che penetrava dalle tende semiaperte mi diede fastidio agli occhi prima ancora che li aprissi; mi sentivo la bocca secca. Socchiusi gli occhi per vedere l'orologio. Le sei e mezzo. Mi sarei concessa altri cinque minuti. Solo cinque, non di più. Il cuscino non mi era mai parso così morbido, né le membra così pesanti. Diedi un'altra occhiata insonnolita all'orologio, e proprio in quel momento le lancette segnarono le sei e trentacinque. Ancora qualche minuto. Mi ricordai di quando, da bambina, mi ammalai e mia zia venne a stare da noi perché mio padre potesse continuare ad andare al lavoro. In quei giorni immaginai che mia zia fosse mia madre e si prendesse cura di me come avrebbe fatto lei se non fosse morta. Ero a letto con i fumetti e sul tavolino accanto a me c'era una limonata, le tende erano semiaperte proprio come adesso, con la polvere che aleggiava nel fascio di luce. Ogni volta che emergevo dai sogni febbricitanti, sentivo mia zia muoversi al piano di sotto: armadi aperti e richiusi, il ronzio dell'aspirapolvere e della lavatrice, bicchieri che tintinnavano, passi che risuonavano per il corridoio, voci al portone. Mi ero sentita così protetta, sotto le coperte, sapendo che lei era a pochi passi da me. Avrei voluto avere una giornata come quella, ora. Poter stare a letto fino a tardi, sonnecchiare, passare da sogni inconsistenti a veglie sonnolente, di tanto in tanto andare in cucina in vestaglia e ciabatte a bere una tazza di tè. Aspettare una mano fresca sulla fronte. Fui scossa da un ronfo violento proveniente dalla camera di Julie. Aprii un occhio. Le sei e quaranta. Su, dissi a me stessa, e misi le gambe giù dal letto. Non appena alzai la testa, prese a martellarmi, poi si quietò un poco. Dopotutto non andava troppo male. Andai in bagno e mi spruzzai dell'acqua fredda in viso. Poi mi vestii il più velocemente e silenziosamente possibile. Prima di uscire, bevvi tre bicchieri d'acqua. Avevo una gran voglia
di un caffè forte e nero, ma non osai prepararmelo per timore di svegliare Julie. Avrebbe probabilmente chiuso la porta e gettato la chiave dalla finestra, se avesse saputo dove stavo andando. Ma avevo già escogitato un piano. Era una mattina di foschia. Le sagome delle case in fondo alla strada si profilavano vaghe all'orizzonte, le automobili avevano i fari accesi. Più tardi, probabilmente, sarebbe stata una bella giornata calda e luminosa, ma a quell'ora faceva un gran freddo. Avrei dovuto portarmi dietro una giacca, o mettermi un golf, invece della camicia sottile di cotone. C'era già un discreto traffico. Londra non è mai buia o silenziosa. Arrivai alle sette e mezzo in punto. Perfetto, sicuramente i direttori di teatro non si alzavano prima delle otto. Le tende della casa dei Teale erano tutte chiuse. E non mi parve ci fossero luci accese. Bene. Cercai di sistemarmi comodamente sul sedile dell'auto. Non avevo idea di quanto avrei dovuto aspettare: mi sarei dovuta portare una tazza di caffè, almeno. E qualcosa da leggere. Le uniche cose che avevo erano il libretto di istruzioni dell'automobile e un giornale di dieci giorni prima. Lessi il giornale, storie ormai dimenticate di una modella da una parte e una guerra da un'altra, di un ragazzo morto e di un tipo diventato miliardario con Internet. Faceva freddo e mi sentivo rigida e dolorante. Mi spazzolai i capelli e li pettinai all'indietro. Mi guardai allo specchietto dell'auto e rabbrividii vedendo il pallore mattutino dopo una sbronza. Mi spostai con irrequietezza sul sedile. Le tende dei Teale rimanevano chiuse. Tutto sommato avrei potuto dormire di più. Alle nove meno un quarto, al secondo piano si accese una luce. Avevo la bocca asciutta, e continuavo a ripetermi: ma perché diavolo sono qui? Che cavolo ci faccio? Alle nove meno cinque si aprì una tenda e per un momento vidi la sagoma di Gabriel alla finestra. Mi abbassai e sbirciai la casa con occhi affaticati. Dovevo fare pipì. Dopo qualche minuto furono aperte anche le tende al piano di sotto. E si intravidero due sagome: dovevano essersi alzati entrambi. Li immaginai nella loro bella cucina a fare il caffè, tostare il pane, parlare della giornata, salutarsi con un bacio. Il portone d'ingresso rimase chiuso. Potevo ancora tornarmene a casa e rimettermi a letto. Probabilmente Julie stava ancora dormendo, avvolta nelle coperte e con un braccio sugli occhi. Alla fine la porta si aprì e Gabriel uscì. Rimase qualche secondo sulla soglia, tastandosi le tasche per sentire se aveva le chiavi e parlando a chi
stava in casa. Portava dei jeans neri e una giacca di lana grigia, e sembrava uno dei miei amici. Dovevo aspettare qualche minuto. Guardai l'orologio dell'auto. Aspettai altri dieci minuti, poi scesi. Ero ancora in tempo per cambiare idea, ma alla fine bussai alla porta abbastanza forte e sentii dei passi. «Sì?» Bryony era in vestaglia, e se la teneva stretta sul petto con un gesto simile al mio. Mi fissò con occhi assonnati, quasi l'avessi buttata giù dal letto. La vidi deglutire con fatica. «Bryony» la salutai calorosamente, «spero di non disturbarti. Stavo passando di qui per andare da un paziente. Ho visto la tua casa e dato che sono ridicolmente in anticipo ho pensato di fare un salto a trovarti.» «Kit?» «E, per essere onesta, avrei bisogno del bagno e di un caffè, prima dell'appuntamento. Non ti ho svegliata per caso?» «No, scusa» rispose con uno sforzo palese. «È solo che non ti aspettavo. Ma entra, naturalmente. Metto su l'acqua. Il bagno è in fondo al corridoio.» Me lo indicò. Notai che si era mangiucchiata le unghie di recente. Come Lianne. «Grazie.» Quando tornai, stava mettendo dei chicchi di caffè nel macinino. «Hai l'aria stanca» le dissi. Sembrava più che stanca. Aveva perso peso, e mentre prima il suo corpo appariva forte, ora era flaccido. Le clavicole sporgevano. Il viso era gonfio, i bei capelli unticci, la guancia sinistra leggermente arrossata per uno sfogo. Quando sollevò il bollitore per portarlo alla caffettiera, vidi che le era venuto un eczema intorno a un polso, come un braccialetto. «Stai bene?» «Sono un po' giù di tono.» «Sì, me l'ha detto Gabriel. Ti ha raccontato che l'altra sera sono andata al Sugarhouse?» «No, non me l'ha detto.» «Sono le preoccupazioni che non ti fanno star bene?» «Forse» rispose lentamente. Versò due tazze di caffè e le posò sul tavolo. «Vuoi mangiare qualcosa o hai troppa fretta?» «Ho un sacco di tempo» risposi allegramente. «Ma non voglio nulla da mangiare. Questo è ciò che mi occorre» risposi sorseggiando il caffè bollente. «Sei stata dal medico?» «Per quale ragione?»
«Perché non stai bene.» «Mi rimetterò. In fondo adesso è tutto sistemato, no?» «Davvero?» «Voglio dire, è finito. Non devo più preoccuparmi.» La guardai. Giocherellava con la tazza. «L'ha detto la polizia.» «Lo so. Alla polizia piace chiudere un caso. Avere la soluzione, finire, andare al pub a festeggiare e passare a un altro caso.» «Non so granché di queste cose.» «Ma per te e me è diverso, vero?» «Forse dovrei andare a vestirmi.» Si alzò, afferrando di nuovo la cima della vestaglia. «È tardi. Ho da fare.» «Rimani con il ricordo di quel che hai passato.» Mi guardò con occhi piccoli, come se facesse un enorme sforzo per tenerli aperti. «E, per quel che mi riguarda, ci sono domande che non riesco a mettere da parte. So che è stupido, ma non riesco a piantarla. Perché una vittima dovrebbe scrivere il nome di un'altra vittima prima di morire? Come fa un assassino a portar via una donna in un parco, in pieno giorno, davanti alla sua bambina? Perché un testimone attendibile pensa che Michael Doll sia solo uno spettatore innocente?» «Non riesco...» Le labbra di Bryony erano bianche. «Non so.» «Perché una donna si lascia portar via dal parco giochi senza urlare e sbraitare, e perché la bambina non si allarma quando la madre se ne va?» Sorrisi. «Alla polizia questo non interessa più di tanto. Soprattutto ora che Michael Doll è morto. Per me invece è un problema distaccarmi dalle cose. Me lo dicono sempre. Comunque, in questo caso, ho raccolto questi frammenti di storia e ho cercato di metterli insieme. Ti dispiace se ti dico come?» Non reagì. «C'era una ragazza che si chiamava Daisy. Daisy Gill. Quattordici anni, ma ne dimostrava di più. Non l'ho mai incontrata. L'ho solo vista in fotografia e ho parlato con le sue amiche. Era infelice. I genitori l'avevano abbandonata, chi aveva il compito di occuparsene anche, se non peggio. Aveva un gran bisogno di amici e di adulti di cui fidarsi, che la facessero sentire un po' più protetta. È difficile per persone come te e me immaginare che cosa deve essere stata la sua vita. Doveva essere inasprita, sempre sola e spaventata.» Bryony scostò di nuovo, rumorosamente, la sedia dal tavolo, e si sedette. Appoggiò il mento alle mani e per la prima volta mi guardò con fermezza, gli occhi color caramello che contrastavano con il pallore del viso. «Daisy aveva un'amica, Lianne. Non conosco il suo vero nome né so da
dove venisse. Ma so che anche lei era una ragazzina infelice. Disperata. Ma almeno Lianne e Daisy avevano la loro amicizia. Non avevano altro, ma era pur sempre qualcosa. Probabilmente erano l'ancora di salvezza l'una dell'altra. Una volta cresciute, avrebbero voluto vivere insieme e mettere su un ristorante, nel quale preparare i maccheroni al formaggio. Questo è ciò che hanno detto i loro amici.» «Perché mi stai raccontando queste cose?» «Daisy si è uccisa. Si è impiccata nella triste stanzetta di quella che avrebbe dovuto essere la sua casa. Poi, qualche settimana dopo, Lianne è stata uccisa, al canale. E infine, poco dopo, è stata uccisa Philippa Burton, dalla stessa persona. Philippa Burton conosceva Lianne, non abbiamo idea di come o perché. Lianne conosceva Daisy. E la cosa buffa è che Daisy lavorava al Sugarhouse. Così tutto è collegato.» «Non è veramente tutto collegato» disse Bryony. «Questa è una zona piccola. E poi tra le vittime ci sono anch'io.» «Michael Doll» per un istante mi venne in mente l'ultima volta che l'avevo visto «si è semplicemente trovato impegolato nella storia. Tutto qui. Era al canale, dove nessuno poteva dargli fastidio, a pescare i suoi disgraziati pesci e poi a ributtarli in acqua.» «Ha ucciso quelle donne.» Bryony mise le mani di fronte a sé sul tavolo e si raddrizzò sulla sedia. «Era una scena terribile. Sai, ho visto il suo corpo.» «Ho sempre amato fare fotografie» prese a dire dolcemente Bryony. «Da quando avevo nove anni e mio zio mi ha regalato una piccola Instamatic per il compleanno. Io ho sempre sentito di poter vedere il mondo più chiaramente attraverso l'obbiettivo di una macchina fotografica. Mi sembrava acquistasse più significato. Cose brutte diventavano belle attraverso l'obbiettivo. Cose senza senso, comprensibili.» Alzò gli occhi alla fotografia della zingarella. «E sono brava. Non solo a scattare la foto, ma anche a sapere che cosa cercare. A volte passano settimane senza che faccia neanche una foto, poi un giorno vedo qualcosa. Un volto. Un evento. Il modo in cui cade la luce. Sento come un click nella mente. E mi pare di fare la mia piccola parte, di essere una testimone.» Si leccò le labbra pallide. «Per la società, in un certo senso, oltre che per me. Come Gabe con il suo teatro. È bravo in quel che fa.» «Lo so» risposi. «L'ho visto.» Nella cucina tutto era tranquillo, come se il mondo esterno avesse cessato di esistere. «Anche noi siamo stati trascinati in questa storia» continuò con un lungo
sospiro. «Ma non importa, vero? È finita. La polizia ha detto che è finita e che posso stare tranquilla. E l'hai detto anche tu. Prima o poi mi rimetterò in sesto. Ma sono così stanca. Sono così stanca che potrei dormire per cento anni.» Dietro di noi si udì un leggero scatto e nella stanza cadde il silenzio. Gli oggetti mi apparvero improvvisamente più chiari e nitidi: il vaso dei fiori sul davanzale della finestra, le tazze appese ai ganci, la piccola ragnatela sulla lampadina, il sole che brillava sulle pentole di rame proiettando forme geometriche sulle pareti, le mie mani, posate pacificamente in grembo. Udivo solamente il mio respiro, calmo, e il leggero ticchettio del mio orologio. Erano le dieci e ventidue minuti. Bryony sedeva immobile. Infine mi girai e vidi Gabe sulla porta. La richiuse con un secondo lieve scatto e ci guardò: i suoi occhi passarono da Bryony a me, e poi di nuovo a Bryony. Nessuno disse nulla. Il sole splendeva dalla finestra. Aprii la bocca per parlare, poi la richiusi. Che senso aveva? Non c'era più nulla da dire. Alzai un dito e lo passai sulla cicatrice, dall'attaccatura dei capelli alla mandibola. Per qualche ragione mi diede conforto. Mi ricordò chi ero. «Ho dimenticato la borsa» disse Gabriel. «È meglio che vada» feci io. Ma non mi alzai. «Stava passando di qui» spiegò Bryony con una voce diversa, anodina. Gabriel annuì. «Voglio andare a letto» borbottò poi, e si alzò barcollando. «Sto male.» «Era solo una visita. Abbiamo parlato un po'» dissi. «Di che cosa?» Gabe lanciò un'occhiata alla moglie. «Ha parlato di tutta quella faccenda» disse Bryony. «Ha fatto il nome di una ragazza. Come si chiamava?» «Daisy» intervenni io. «Daisy Gill.» «Si è uccisa. Era amica di Lianne. E lavorava al Sugarhouse.» «È così stupido» disse Gabriel stancamente. «Doveva essere tutto finito. Che cosa dicono alla polizia?» «È solo lei a occuparsene» sussurrò Bryony in modo impercettibile. «È sola.» Gabe venne verso di me. «Che cosa volevi?» mi domandò. Si chinò e mi toccò la spalla, dapprima in modo dolce, poi mi afferrò la camicia e mi tirò su. «Gabe!» esclamò Bryony. Lo guardai in faccia; era esausto, aveva gli occhi iniettati di sangue. Die-
tro di lui vidi il volto pallido di Bryony. Dietro di lei una porta chiusa. Non avevo scampo. «Hai intenzione di uccidere tutti?» domandai. Le sue mani erano calde quando me le mise al collo. Pensai al viso di mia madre nella fotografia che portavo con me dovunque andassi, come se mi potesse proteggere. Il modo in cui sorrideva e il modo in cui la luce del sole le carezzava la pelle pallida. Mia madre, seduta sull'erba. Il volto di Gabriel venne molto vicino al mio, come fosse un amante, e lo udii sussurrare: «Non volevamo questo». Sul volto aveva una smorfia di orrore. Socchiuse gli occhi, come se non sopportasse di vedere quel che stava per fare. Cercai di colpirlo, ma il suo corpo era solido e fermo, come una lugubre torre. Allora abbandonai ogni resistenza e lui cominciò a stringere. Contro ogni istinto, piegai leggermente le ginocchia. Il mondo divenne rosso e nero e doloroso. Sentii piangere. Poi alzai la mano destra il più velocemente possibile, aprii le dita a v e le scagliai verso i suoi occhi. Sentii del bagnato e un grido. Le sue dita si allentarono per un istante, poi si strinsero di nuovo. Trascinai la mano contro la sua guancia, sentendo la pelle lacerarsi sotto le unghie, poi mi agganciai alla sua bocca urlante e spinsi più forte che potei. Il suo ruggito mi riempì le orecchie; il dolore mi rintronò in testa e non riuscii a vedere che rosso, come di sangue. Continuai a spingere, sentendo sotto le mani qualcosa di molle, l'appiccicaticcio del suo sangue, il bagnato della saliva, il gelatinoso degli occhi. «Bryony. Finisci, per l'amor del Cielo. Bryony!» Qualcosa di nero sfrecciò nella nebbia rossa che avevo davanti. Alla fine chiusi gli occhi, ma sentii un forte rumore, come se un fucile avesse sparato a pochi centimetri di distanza da me, e le dita lasciarono la presa. Rotolai a terra con il viso contro le assi di legno del pavimento. Un altro rumore e intravidi un treppiede nero che si abbatteva ancora. Poi Gabriel mi cadde addosso. Il suo corpo coprì il mio, il suo sangue mi colò sul viso, i suoi ansiti mi sibilarono nelle orecchie. Lei urlava. Lo spinsi via e mi alzai: mi sembrava che tutto intorno a me girasse, e che il pavimento traballasse sotto i miei piedi. Gabriel giaceva nel suo sangue, con gli occhi chiusi. In testa aveva un grosso taglio, il volto era sfregiato e un occhio era completamente rosso. Ma il petto si alzava e si abbassava. Tolsi il treppiede dalle mani di Bryony e, tenendomi a lei, la condussi a una sedia e la spinsi a sedere. «Non sono cattiva» mi disse singhiozzando. «Non sono una persona cattiva. Sono buona. Sono una brava persona. È stato tutto un errore. Un orri-
bile errore.» CAPITOLO 46 La stanza per i visitatori del carcere di Salton Hill sembrava lo squallido bar di un quartiere malfamato. C'era anche una specie di boccaporto in un angolo, dove una donna, non molto diversa dalle carcerate, versava del tè da un grosso bollitore in bicchieri di carta, e vendeva spremuta d'arancia dall'aria artificiale. Biscotti con cerchi di marmellata in mezzo erano disposti su piatti di plastica. Dei bambini scorrazzavano, e tutt'intorno c'erano urla, stridio di sedie sul pavimento, fumo di sigaretta, e su ogni cosa aleggiava il puzzo della povertà. Nelle prigioni maschili ci sono criminali di tutti i tipi: gangster, psicotici, stupratori, imbroglioni, spacciatori. Ma nelle prigioni femminili le recluse hanno l'aria strana, triste, disperata. Le donne di solito non rapinano né violentano. Non sono criminali che considerano un anno di galera come una forma di sabbatico. Sono disperate, confuse, sono finite dentro perché rubavano nei negozi costrette dalla mancanza di soldi, o perché hanno messo un cuscino sulla faccia del loro bimbo. Erano sparpagliate fra i tavoli e fumavano, non facevano che fumare e parlare ai genitori imbarazzati e confusi, ai fidanzati, ai bambini irrequieti. La donna che controllò il mio permesso alla porta mi disse che Bryony stava arrivando, così comprai due bicchieri di tè e un pacchettino di biscotti, presi due bustine di zucchero e delle piccole spatole di plastica, dato che, evidentemente, fornire cucchiaini di plastica era un lusso eccessivo. Misi il tutto su un vassoio di cartone. Nulla di quel che c'era avrebbe potuto servire come arma; un'arma per ferire se stessi, innanzitutto, visto che eravamo in una prigione femminile. Mi sedetti al tavolo che mi era stato assegnato, il numero ventiquattro, e bevvi un sorso di tè così bollente che mi bruciò il labbro superiore. E prima di avere il tempo di appoggiarmi allo schienale e raccogliere i pensieri, me la trovai davanti. Aveva addosso i suoi vestiti, naturalmente, un maglione marrone a girocollo, pantaloni blu scuro, scarpe da tennis ai piedi nudi. Vidi che aveva ancora il braccialetto d'argento alla caviglia, ma non più la fede. Al suo posto c'era solo un leggero segno bianco. I capelli fiammeggianti erano tirati indietro e fermati sulla nuca. Ma non aveva un bell'aspetto. Non era truccata, così mi resi conto che prima lo era sempre stata, anche quando giaceva sfatta sul divano, la mattina dopo l'ag-
gressione. Aveva nuove rughe intorno agli occhi ed era pallidissima, come se fosse appena emersa da una grotta. Si sedette senza dire una parola. «Ti ho preso del tè» le dissi porgendole un bicchiere. «Grazie.» Si allungò a prendere le due bustine di zucchero. Ne strappò l'angolo e le versò nel tè, fissandolo. Poi lo mescolò a scatti. Vidi le bende intorno ai polsi. «L'ho saputo» dissi. Abbassò gli occhi. «Non l'ho fatto bene. Lo fanno così in televisione, ma non funziona, si richiude troppo presto. Avrei dovuto tagliarmi il braccio, nel senso della lunghezza. Sei venuta a ringraziarmi, suppongo.» Fui stupita dal repentino cambiamento di argomento. «Sono venuta perché Oban mi ha detto che volevi vedermi. Ma penso di doverti ringraziare. Stavo per morire. Mi hai salvato la vita.» «Questo avrà una certa importanza, non pensi? Il fatto che ti abbia salvato la vita.» «Penso che ne terranno conto.» «Ho collaborato. Ho detto tutto. Mi hai portato le sigarette?» Tirai fuori dalla tasca della giacca quattro pacchetti di sigarette e glieli passai lungo il tavolo, guardandomi intorno. «È permesso?» «Se hanno ancora il cellophane intorno. Hanno paura che ci si nasconda qualcosa.» Prese una sigaretta dal suo pacchetto e la accese. «Ero arrivata a fumare più o meno una sigaretta alla settimana, ma qui ho pensato, perché no? Non c'è molto altro da fare.» «Posso crederlo.» Si guardò intorno e sorrise. «Un bel cambiamento. Non mi avresti immaginata in un luogo simile, vero?» Osservai quella donna che aveva ucciso Lianne, Philippa e Michael Doll, poi guardai le altre patetiche recluse con chissà quali storie alle spalle, esaurimenti nervosi, difficoltà a pagare conti, panico che le aveva indotte a fare qualche sbaglio. «Ho conosciuto Gabe all'università. Tutti lo amavano. Avevo avuto solo due ragazzi prima di lui. Mi sono innamorata follemente. Pensavo di essere la ragazza più fortunata del mondo. Buffo, vero? Se non fossi stata la ragazza che ha accalappiato Gabe Teale, non sarei qua, adesso.» «Penso si possa dire lo stesso di qualsiasi cosa ti è successa. È la vita. Una cosa porta a un'altra.» «Lo trovo difficile da sopportare. Mi sento come se questa situazione mi fosse caduta addosso. Non sono cattiva. Amavo Gabe ed ero in suo potere,
e poi ho preso una decisione, voglio dire, mi sono trovata in una situazione, e poi in un'altra, e infine non ne ho potuto più e mi sono ribellata. È stato con te. E ora sono qui.» Si interruppe in attesa di una risposta, ma il disgusto mi impedì di parlare, così continuò: «Sai qual è il lato più curioso? Quando ti ho conosciuta, be', non in ospedale, ma quando sei venuta a casa, ho pensato che mi sarebbe piaciuto averti per amica. Saremmo andate a pranzo e avremmo chiacchierato». Mi era difficile respirare. Ma dovevo dire qualcosa. Ci volle uno sforzo per mantenere un tono calmo. «Non hai avuto la stessa sensazione con Lianne? O con Philippa? Voglio dire che avrebbero potuto essere tue amiche, che erano umane, come te, con speranze e paure, proprio come te? Con un futuro?» Spense la sigaretta in un piccolo portacenere di stagnola che era sul tavolo. Un oggetto innocuo. «Ti volevo vedere perché sei l'unica persona che mi è venuta in mente a cui potevo parlare. Che non mi avrebbe giudicata. Ho pensato che mi avresti capita. Come sta Gabe, a proposito? L'hai visto?» «Mi dispiace ma mi è stato detto di non parlarti in nessun modo di Gabe. Per motivi legali, mi sembra. Sta meglio, comunque. Fisicamente, voglio dire.» «Bene. Dov'ero? Ah, sì, stavo parlando di te. Tu te ne intendi di queste cose, vero? Ci ho pensato su. Ti ho salvato la vita. È un'attenuante, non pensi?» «Forse. Ma forse mi sbaglio.» «Penso non sia giusto che siamo entrambi trattati come assassini, come se fossimo ugualmente colpevoli di quel che è successo. Tu sei una donna, e un'esperta, speravo capissi che gli omicidi sono opera sua. In un certo senso io ero in suo potere. Penso che la gente lo possa capire. Anch'io sono una delle sue vittime. Alla fine mi sono ribellata ed è stato quando ti ho salvata. Sono tornata in me. È come se non fossi stata io finché non ti ho salvata.» Dopo aver detto ciò mi guardò dritto negli occhi per la prima volta. Stava sostenendo che le dovevo qualcosa? La sua vita per la mia? «Che cos'è successo a Daisy?» le domandai. «Niente. Si è suicidata. Lo sai, no?» «Aveva una relazione con tuo marito.» «Non ne so molto. A dir la verità le ragazzine si sono sempre gettate nel-
le braccia di Gabe. Non sto dicendo che lo giustifico. E non voglio far finta che mi piacesse. Da quel che so, lei era piuttosto instabile. Non ne aveva parlato con la polizia, vero?» «No.» «Bene, allora. Non è importante.» «Aveva quattordici anni, Bryony. Quattordici.» «Come ti ho detto, non ne sapevo niente. Ma il fatto è che quell'altra ragazza, quella Lianne, è venuta da noi e ha fatto una scena isterica. Aveva un'idea del tutto errata di Daisy. Probabilmente era sotto l'effetto di qualcosa.» «Ho visto il rapporto dell'autopsia. Non le sono state trovate tracce di droga nel sangue.» «Voglio solo dire che era fuori di sé. Ha cominciato ad agitarsi. Io sono arrivata nel bel mezzo di quella scenata e non sapevo cosa stesse succedendo. Urlava e sbraitava contro Gabe e me, poi improvvisamente è caduta e deve aver battuto la testa. È stato un incubo. Non capivo, ho visto solo che era morta e sono stata presa dal panico. Abbiamo cercato di rianimarla.» «Siete stati presi dal panico, così avete ripetutamente pugnalato il suo corpo. Intorno al seno e nell'addome. Poi l'avete scaricato vicino al canale. Deve essere stata un'idea tua. Conoscevi quel luogo per via delle lunghe passeggiate che facevi lì intorno.» «No» mormorò come in sogno. «È stata un'idea di Gabe. Ha fatto tutto lui. Era isterico. Ha detto che dovevamo farlo sembrare un altro tipo di assassinio, come se fosse stato commesso da persone diverse da noi. "Noi" ha ripetuto, sostenendo che c'eravamo dentro entrambi. Diceva che quella faccenda avrebbe potuto rovinare tutto, ma ora saremmo stati sicuri.» «Ma non vi sentivate sicuri, vero?» «No. Quella donna...» «Philippa Burton. Aveva un nome.» «Sì. Aveva avuto il nostro indirizzo dall'altra ragazza, da Lianne. È venuta in cerca di Lianne. Sapeva che l'avrebbe trovata da noi.» «Perché?» «Lianne le aveva parlato di Gabe. È quel che ci ha spiegato.» «No, voglio dire, perché cercava Lianne?» «Che importanza ha? Gabe aveva perso la testa. Non sapeva più che fare. Tutta questa storia, nel suo insieme, sembra orribile, ma quando la si scompone nei vari pezzi, si trova una... una spiegazione...»
«Stavi per dire una giustificazione?» Bryony rimase zitta un momento. Era alla terza sigaretta. «Sì, ma sarebbe sembrato cinico. E non voglio che tu pensi questo di me, Kit. Non mi importa quel che pensano gli altri, ma voglio che tu mi capisca.» «Allora che cosa è successo con Philippa?» «Gabe mi ha detto che aveva un'idea, le avrebbe parlato, avrebbe cercato di indurla a essere ragionevole. Abbiamo stabilito di incontrarla.» «A Hampstead Heath?» «Già. Io non sapevo quel che sarebbe successo. Le ha detto che voleva parlarle, darle una spiegazione soddisfacente. Io rimasi a guardare la bambina. Non avevo idea di quel che avrebbe fatto. Forse neanche lui lo sapeva. In seguito mi ha detto che è stato preso dal panico e l'ha assalita.» «E l'ha colpita con un martello e poi ha gettato il suo corpo sull'altro lato dell'Heath. Quindi presumibilmente aveva il martello con sé.» «Presumibilmente. È una prova contro di lui, vero?» «Sì. E tu eri con Emily ad aspettare che sua madre tornasse?» «Dopo un po' mi sono spaventata. Non arrivava nessuno. Così me ne sono andata. C'era un sacco di gente in giro, lei se la sarebbe cavata. Ma questa è la cosa che mi fa stare peggio, aver lasciato quella bambina da sola in quel modo.» «Posso capirlo. Ed è stato uno shock terribile quando sei tornata a casa e Gabe ti ha raccontato quel che era successo.» «Non era a casa. Non è tornato per un giorno intero. Mi ha detto che stava pensando di uccidersi.» «E doveva anche pulire la macchina.» «Non ci avevo pensato. L'unica cosa che potevo fare era starmene zitta. Ero in un inferno. Avrei voluto raccontare tutto, gridarlo ai quattro venti. Anche solo raccontandolo a te mi sento meglio. Morivo dalla voglia di sputar fuori l'intera verità.» «Poi c'era Michael Doll. Anche lui è stato sfortunato, no? Come te, voglio dire. Il posto che avevate scelto per disfarvi del corpo di Lianne era quello in cui andava tutti i giorni a pescare. L'avevate letto sui giornali.» «Già.» «Che cos'aveva contro di voi? Vi aveva visti?» «Non credo. È stato Gabe. Lui non aveva visto niente.» «Gabe ha perso qualcosa che Doll ha trovato?» «No.» «Allora che cos'è stato?»
«Niente.» «Che cosa vuoi dire?» «Non credo che sapesse niente. Ma Gabe era sempre più ossessionato dall'idea che quell'uomo fosse stato presente, che potesse sapere qualcosa. Diceva che era l'unico elemento che ci poteva incriminare.» «Così sei andata a trovarlo al canale. Non puoi negare di essere stata lì, quella volta.» «Infatti c'ero. Lo ammetto. A quel punto avrei fatto qualsiasi cosa pur di aiutare Gabe, perché tutto potesse finire.» «Qual era il piano? Colpirlo alla testa e buttarlo in acqua?» Cominciò a piangere. Ero preparata a quell'evenienza e le passai due fazzoletti. Si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. «Non lo so.» «Ma siete stati sorpresi. Sei stata bravissima. La tua testimonianza, una volta che ti sei ripresa dal trauma, è stata geniale. Quel criminale misterioso, differente dalla descrizione dell'altro testimone quel tanto da rendere entrambe le vostre dichiarazioni poco credibili. Che bravura!» «Non è stata bravura. Pensavo di diventare matta.» «E alla fine avete fatto fuori anche Doll.» «È stato Gabriel. Ha detto che quando Doll non fosse più stato in giro, e la colpa degli omicidi fosse ricaduta su di lui, sarebbe finito tutto.» «E tu che cosa hai risposto?» «Non avevo più volontà. Volevo solo che finisse.» «Quando hai lasciato Emily da sola, quando eri tanto preoccupata, ti sei portata via il suo bicchierino. E poi vi è tornato utile. Voi, o forse dovrei dire Gabriel, l'avete lasciato là, da Doll. Ha anche dimenticato una borsa di pelle. Ma la cosa non ha avuto conseguenze. Anzi, è stata un'altra prova a carico del povero Mickey Doll. Un miracolo. Ha contribuito a incriminare ancor di più quel poveretto. Dopotutto, quale assassino lascerebbe deliberatamente dietro di sé un oggetto capace di identificarlo? Siete stati tremendi con Doll, però.» Si soffiò di nuovo il naso. «Lo so e la cosa mi tormenta. Ma non riesco a pensare a che cos'altro avrei potuto fare.» «E poi c'ero io.» «Ero sul punto di dirti tutto. L'avevi capito, vero? Stavo per confessare quando lui è tornato. Non ne sei convinta. Te lo leggo negli occhi. Non sai se credermi o no. Ma non ho permesso che ti uccidesse. Di questo sei sicura.»
«Sì, di questo sono sicura. Improvvisamente ti sei opposta. Perché?» Si accese un'altra sigaretta e proseguì con aria riflessiva. «Ho pensato che sarebbe andata avanti per sempre, che non ci saremmo più sentiti sicuri, almeno non abbastanza per Gabe. Forse ero solo stanca.» Bevvi un sorso di tè. Era freddo, e aveva un gusto metallico, o forse era solo la mia bocca secca. Bryony si piegò verso di me con un'espressione ansiosa. «In questi giorni ho letto di una sindrome da dipendenza emotiva. È un modello comportamentale noto: una dipendenza delle donne nei confronti degli uomini, che le rende impotenti. Credo sia quello che è successo a me. Sono stata maltrattata per anni da Gabe. È un uomo difficile. Violento. E non era una situazione chiara, bianco o nero. La prima morte è stata un suicidio, una tragedia. Poi c'è stato l'incidente. Quando ci siamo trovati impegolati, avevo perso ogni capacità di iniziativa.» Tirò un'altra boccata di fumo e mi guardò con gli occhi socchiusi. «Pensi che mi crederanno?» «Molto probabilmente. Ho scoperto che la gente crede alle cose più strane. E tu sei giovane, carina, borghese, e questo aiuta.» «Tu sei un'esperta, sei stata fondamentale in questo caso. La polizia si fida di te. Mi aiuterai?» Feci un profondo respiro e misi le mani tremanti in tasca. «Penso di essere troppo coinvolta per figurare come testimone.» La sua espressione si fece più dura. «Kit, avrei potuto lasciarti morire. Ti ho salvata. Potremmo essere a casa in questo momento, e tu morta. Ti ho salvata.» Mi alzai. «Sono contenta di essere stata risparmiata. Mi dispiace non essere più espansiva, ma continuo a pensare a Emily e ai morti. Non riesco a togliermeli dalla mente. Erano persone vive e tu le hai uccise. Mi sembra che ti sia perdonata senza troppa difficoltà per ciò che hai fatto. L'abilità della gente di giustificarsi e non sentirsi mai responsabile non smette di stupirmi.» «Ma non hai ascoltato quel che ti dicevo? Sono devastata come tutti.» «Ti ho sentito dire che nulla di quanto è accaduto è stata colpa tua. Ti ho sentito dire che è stato sempre Gabe e mai tu. A quanto pare dovrebbe dispiacermi per te come mi dispiace per Daisy, Lianne, Philippa e Michael.» «Ho bisogno di aiuto.» La sua voce era piagnucolante. «Ho sempre avuto bisogno di aiuto.» Oban mi aspettava nel parcheggio. Soffiava un vento forte, quasi autun-
nale; chiusi gli occhi e lasciai che le folate accarezzassero il mio viso. Volevo che spazzassero via quel che era successo nell'ora precedente. Oban mi sorrise. «È stato come prevedevi? Si è presentata come una delle vittime di Gabriel Teale?» «Più o meno.» «Pensi che riuscirà a farla franca?» «No, se dipenderà in qualche modo da me» risposi, e rabbrividii. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. La luce stava scemando quando Oban mi lasciò all'inizio della mia via, ma anche a quella distanza riconobbi chi stava alla porta. Aveva un soprabito lungo; le mani nelle tasche, le spalle curve. Sembrava stesse su un dirupo, con il vento che gli soffiava intorno. Mi fermai di colpo ed ebbi la tentazione di scappare. O di corrergli incontro e gettare le braccia intorno alla sua cupa figura. Naturalmente non feci nessuna delle due cose. Camminai il più tranquillamente possibile lungo il marciapiede e, quando lui mi sentì e si voltò, riuscii a sorridergli. «Sto arrivando da Salton Hill» gli comunicai. «Oh» rispose con una smorfia. «Lei.» «Sì.» Fece un grugnito e infilò ancora di più le mani nelle tasche. «Almeno non ci saranno più quegli spettacoli teatrali di merda.» «Non sapevo che fossi andato a vederli.» «Non ce n'è stato bisogno.» Ci fu silenzio. Will sembrava una sentinella in servizio fuori del mio appartamento. Sbuffò. «Immagino che ti aspetti delle congratulazioni da me.» «Be'...» «Immagino che tu voglia sentirmi dire e ripetere che avevi ragione tu, e tutti gli altri al mondo, me incluso, avevano torto. Non è così? Vuoi un qualche cavolo di medaglia o qualcosa del genere.» Ridacchiai. «Fa' pure.» Aprii la porta e spostai con un calcio un mucchietto di posta sullo zerbino. «Vuoi salire?» Esitò. «Un bicchiere di vino? Birra? Dài.» Mi seguì di sopra. In cucina gli diedi una bottiglia di birra fredda di frigo e mi versai un bicchiere di vino rosso. Chiusi le tende, accesi una candela e la misi sul tavolo tra di noi. Lui bevve un sorso. «Come sta il tuo collo?» domandò. «O comunque la parte di te che lui...»
«Bene.» Osservai il suo viso alla luce incerta e guizzante della candela. Sapevo che non sarebbe cambiato. E prevedevo come sarebbe andata tra di noi: io che avrei continuato a sperare in qualcosa di più, che avrei continuato a chiedergli qualcosa che non poteva darmi. «Will...» cominciai. «Per favore.» Chiuse gli occhi per un momento. «Per favore.» Mi domandai chi stesse pregando. Non mi sembrava più che stesse parlando con me, ma con qualcuno dentro la sua testa. Mi allungai sul tavolo e gli misi una mano sul braccio. Fu come toccare una trave d'acciaio. Avrei voluto prendergli il viso tra le mani e baciarlo finché non mi avesse baciata anche lui. Avrei voluto che mi stringesse. Ma non si mosse, anche se aprì di nuovo gli occhi. «Non sei giusto con me» dissi alla fine. «No, suppongo di no.» Finì il resto della birra e si alzò, facendo stridere la sedia sul pavimento. Si guardò intorno. «Te ne vai da questa zona?» «Perché dovrei?» «Non lo so. Brutti ricordi. Trauma.» Scossi il capo. «Che brutti ricordi? Rimango.» «Bene» rispose, poi si corresse. «Voglio dire, è una zona interessante. In un certo senso.» «È quel che penso anch'io.» «Bene.» Abbassò la testa e mi diede un bacio sulla guancia. Sentii il suo respiro, la sua barba. Per un momento rimanemmo così, vicini l'uno all'altra al lume di candela. Poi lui si tirò indietro. «Sei stata brava. Te l'ho detto, vero?» «Non con queste parole.» «Non riesco a credere che tu sia andata da loro in quel modo, da sola. Dovresti badare di più a te stessa.» E poi se ne andò, con il cappotto che sventolava dietro di lui, e io rimasi dov'ero a guardarlo mentre usciva. CAPITOLO 47 Aiutai Julie a fare i bagagli. Fu una cosa piacevole, ma malinconica, resa ancor più mesta dal dolce clima ormai autunnale fuori delle finestre. Il faggio e il castagno erano gialli, dorati e color ruggine, e tra i loro rami soffiava un vento caldo, che staccava e sparpagliava allegramente le foglie. Nel cortile se ne erano formati dei piccoli cumuli che, di tanto in tanto, i
bambini andavano a calpestare con gli stivali, urlando di gioia. Il sole splendeva dietro un sottile velo di nubi. L'estate, che non era mai veramente arrivata, se ne stava andando. Julie stava partendo. Io rimanevo. «Questo è tuo.» Buttò da una parte un top color lavanda che non mettevo quasi mai. «E anche questa.» Una giacchetta di lana sottile volò per la stanza. «Mio Dio, non mi ero accorta di aver preso in prestito così tanta roba tua. Sono una gazza ladra.» E ridacchiò. Aveva gli occhi che brillavano e sprizzava energia ed entusiasmo da tutti i pori. Passammo tutta la mattina così, in modo un po' sconclusionato, fermandoci ogni mezz'ora circa per un tè. Facemmo delle pile separate di cose: una di ciò che avrebbe portato con sé; una di ciò che voleva riporre per quando sarebbe tornata; una di cose da buttare o da dare in beneficenza o da lasciare a me. Quest'ultima era la più grossa; Julie era in vena di liberarsi dei suoi possedimenti e dei suoi bagagli. Gettò un paio di scarpe nere con i lacci sopra un impermeabile di un giallo violento, che aveva comprato solo poche settimane prima, quando era stufa della pioggia. Ci mise sopra dei calzoni beige di cotone che, disse, le facevano un sedere buffo, una giacca che non le era mai veramente piaciuta, tre o quattro felpe, delle calze smagliate, una borsa con le perline, una gonna nera comprata per il presunto lavoro d'ufficio, che sollevò con indice e pollice come se mandasse un cattivo odore, una maglietta giallo limone, un maglioncino a girocollo color porpora. «Il tuo vestito rosso» disse, togliendolo dall'attaccapanni e passandomelo. «Tienilo.» «Che cosa? Non essere stupida. È tuo e ti sta benissimo.» «Mi piacerebbe che lo tenessi tu.» «Non è molto pratico.» Sembrava tentata, però, e lo accarezzò come se fosse vivo. «Puoi ficcarlo in fondo allo zaino. Non pesa praticamente niente.» «E se si rovina o lo perdo?» «È tuo. Dài, stai gettando via la roba come se non ci fosse un domani. Lascia anche a me questa possibilità.» «D'accordo.» Mi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia. «Tutte le volte che lo metterò, penserò a te.» «Va bene.» Temetti che mi spuntassero le lacrime agli occhi e mi diedi da fare a piegare inutilmente dei vestiti. «Sei stata carina.» «Non mi pare. Durante il tuo soggiorno a casa mia sono stata poco so-
cievole, di cattivo umore e nevrotica.» «A proposito di cattivo umore, che cos'è successo con Will Pavic?» «Niente.» «Vuoi dire che è finita?» «Non lo so. Finita è una parola grossa. Non ho praticamente mai finito niente in vita mia, anche quando l'ho voluto. Forse sto permettendo che sia lui a farla finita con me, non chiamandomi più. O forse mi chiamerà e allora... non so. Non so che cosa farò. Ma non è la persona adatta a me. È troppo duro, è un sasso su cui finirei sempre per andare a sbattere.» «Probabilmente hai ragione. Incontrerai presto qualcun altro, vedrai.» «E questi pantaloncini?» «Buttali. Il tuo livido sta andando via. È diventato giallastro, non è più di quel viola tremendo. Ti fa ancora male?» «Non tanto. Un po'.» Lo sfiorai. «Una strana estate.» «Puoi ben dirlo. Ora mi sembra tutto irreale, come una storia successa ad altri.» «Non hai mai l'impressione di giocare a fare la signora grande?» Mi accovacciai e presi un top senza maniche di un blu elettrico. «Questo dovresti prenderlo.» «Voglio dire, io non mi sento affatto adulta. Mi pare di essere solo a un passo da quando ero bambina. Ma in effetti non vivo da adulta, no? Vado in giro, non sono sistemata, non ho una carriera o delle prospettive a lungo termine, porto vestiti da adolescente, come questo top» aggiunse, raccogliendo quello blu e aggiungendolo alla pila di cose da portare. «Ma tu hai questo lavoro incredibile, e un appartamento lontano mille miglia da quelli in cui vivevamo da studentesse. Fai persino delle conferenze, santo Cielo. Ma è così che ti senti dentro?» «No.» Le gettai un paio di mutandine di seta e lei le ficcò nello zaino. «Mi sembra che sia tutto un gioco dietro al quale mi nascondo. Ma succede quasi a tutti di pensare che gli altri siano diversi e sistemati come noi non saremo mai. Se vivremo fino a ottant'anni probabilmente anche allora ci sentiremo così. Quando saremo sul letto di morte staremo ancora aspettando di crescere.» «Forse.» Mi sorrise. «Ma io sono veramente così. È per questo che scappo di nuovo. La vera vita non mi piace.» «Chi ha detto che a me piace?» Mi lanciò uno sguardo, una sirena in un mare colorato di vestiti. «Allora
dovresti venire con me.» «È troppo tardi.» «Non è mai troppo tardi.» «Non ci credo.» Squillò il telefono. «Vado io» disse Julie, saltando in piedi. «Tu va' a mettere su l'acqua.» Ma era per me. «La polizia» mi fece segno con la bocca, dandomi il ricevitore con un'alzata di spalle. «Kit Quinn?» «Sono io.» «L'ispettore Oban mi ha detto di chiamarla. Una certa signora Dear vuole mettersi in contatto con lei.» «La signora Dear? Non ne ho mai sentito parlare.» «Riguarda sua figlia, Philippa Burton.» «Pam Vere?» «Sì, vuole parlare con lei.» «D'accordo, le dia il mio numero.» «Probabilmente vuole che le racconti dei Teale» spiegai a Julie dopo aver messo giù il telefono. «Anche se Oban è andato subito a parlare con Jeremy Burton e non c'è più nulla da dire.» «Poveretta.» «Tra due giorni ci sarà il funerale, finalmente. Philippa era la sua unica figlia. Ora le resta solo Emily.» «Tu ci andrai?» «Probabilmente sì. Ci sarà un mucchio di gente.» «Io sarò in volo. Lontano.» «Mi piacerebbe solo sapere perché è dovuta morire. Mi sembra che la storia non sia ancora finita. Non sapere mi tormenta e probabilmente tormenterà anche loro, mille volte di più.» Pam Vere fu breve e asciutta al telefono. Desiderava incontrarmi prima del funerale, disse. Quel giorno stesso, se era possibile. Era libera a qualsiasi ora. Feci una smorfia ajulie e le risposi che potevo raggiungerla in una mezz'ora circa. «Preferirei che ci incontrassimo fuori.» «D'accordo.» Diedi un'occhiata al cielo incerto. «Che ne dice dell'Heath, è comodo per lei, no?» «Ho pensato che ci potremmo incontrare vicino al canale.»
«Al canale?» «Dov'è stata uccisa la ragazza.» «Lianne.» Odiavo il fatto che nessuno la chiamasse con il nome che si era scelta. Persino nei giornali, era sempre la ragazza senza tetto, la vagabonda. E odiavo gli aggettivi senza immaginazione che la stampa attribuiva ai loro casi: quello di Philippa era tragico, quello di Lianne solo triste. «Sì. Ci possiamo incontrare là?» Cercai di non mostrarmi sorpresa. «Se questo è quello che desidera...» Stava cominciando a piovere quando raggiunsi i gradini che portavano al canale. Ogni tanto qualche grossa goccia di pioggia cadeva nell'acqua, increspandola. Il luogo sembrava minaccioso, anche se ciò che mi faceva paura era già successo e apparteneva al passato. Pam Vere mi stava aspettando, in piedi, immobile, avvolta in un cappotto di cammello e una sciarpa. Non sorrise, ma mi diede la mano quando mi avvicinai. Aveva una stretta ferma e decisa. Anche gli occhi erano decisi nel viso pallidissimo. Notai che una volta tanto si era truccata con poca cura; di fianco al naso aveva una leggera macchia di cipria e sulle ciglia ricurve un piccolo grumo di mascara. «Grazie di essere venuta» mi disse formalmente. «Mi fa piacere.» «Ci sarà al funerale?» «Certo.» «Volevo dirle un'altra cosa. Non potevo dirla là.» Diede uno sguardo intorno, ai ciuffi di ortica, al sentiero fangoso cosparso di sacchetti di patatine, all'acqua viscida punteggiata dalla pioggia. «È avvenuto qui?» «Vicino al ponte» dissi, indicandoglielo. «Ha sofferto?» Non era quello che mi aspettavo, e mi ci volle un momento per raccogliere i pensieri. «Non credo. Non erano dei serial killer, non uccidevano per divertimento. L'avranno fatto il più velocemente possibile. Forse per sua figlia la cosa peggiore sarà stata sapere di aver lasciato Emily in pericolo.» Si schiarì la gola. «Voglio dire l'altra ragazza.» La fissai. «Chi? Lianne?» «Sì.» Tenne gli occhi sui miei. «Avrà sofferto?» «No. Penso che anche nel suo caso sia successo molto in fretta.»
La signora Vere annuì e poi aggiunse, con voce roca: «Ho sentito che l'hanno pugnalata dappertutto». «L'hanno fatto quando era già morta.» «Poveretta.» Una goccia di pioggia le cadde sulla guancia e scese verso la bocca. Lei non se l'asciugò. «Sì» risposi, domandandomi come mai Pam Vere volesse stare al canale sotto la pioggia con me. Si voltò e rimase a guardare l'acqua. «Philippa era una brava bambina» disse. «Forse abbiamo fatto troppa pressione su di lei, era la nostra unica figlia. A volte, quando guardo le foto di noi tre, penso a come era piccola e sola in mezzo a noi. Due adulti e una bambina piccola. Ma quando aveva undici anni suo padre è morto e siamo rimaste solo lei e io. E ha continuato a essere una brava bambina, ordinata, generosa, servizievole. Forse fin troppo. Non aveva molti amici da pìccola. Le piaceva giocare da sola, con la sua amatissima bambola. O stare con me, a fare le torte, andare a far spese e mettere a posto la casa. Non mi ha mai dato problemi. «E lo stesso a scuola. I giudizi scolastici erano ottimi. Non era brillante, ma lavorava sodo, ed era un piacere averla come allieva. Faceva sempre i compiti, non appena tornava a casa da scuola. Una ragazzina modello. Andava al tavolo di cucina a mangiare una fetta di pane e burro, e poi andava a fare i compiti, con la penna blu e la sua scrittura ordinata. Me la vedo, con la divisa blu scuro e la fronte aggrottata, che asciuga ogni riga di ciò che scrive. O mentre colora le cartine geografiche. Le piaceva colorare di blu le coste, di verde i boschi, tracciare le linee dei contorni. «Qualche giorno fa ho tirato fuori da una cassa i suoi quaderni e li ho guardati, tutti quei quaderni con la materia scritta nell'angolo in cima a destra, e sotto il suo nome e la classe. Ci sono cose che ricordo ancora come fosse ieri, il ritratto che si è fatta da piccola, per esempio, con i capelli che erano una macchia gialla e la bocca un semicerchio rosa. I bambini si disegnano sempre sorridenti, vero? Anche se Philippa non sorrideva spesso. Poi, in seguito, i disegni dei fiori, con stami e pistilli. I pianeti. Le sei mogli di Enrico VIII. L'algebra. Je m'appelle Philippa Vere e j'ai onze ans.» L'accento francese di Pam Vere era impeccabile. «E c'erano i diari di scuola. Il lunedì mattina scrivevano sul diario quel che avevano fatto durante il weekend, sa?» Annuii. Non volevo interromperla. «Li ho letti. E sa una cosa? C'ero sempre io. Scriveva sempre di quel che aveva fatto con la mamma. La mamma e io siamo andate nei negozi, la mamma e io siamo andate al parco giochi, la mamma mi ha preso un gattino che si chiama
Blackie, la mamma mi ha portata al museo. Improvvisamente mi sono accorta che nei suoi diari non c'era quasi nessun altro se non io e lei. Solo dopo averli letti mi sono resa conto di quanto fosse sola. Ma non si era mai lamentata.» Si voltò e mi guardò diritto in viso. «Si chiederà perché mai le sto raccontando tutto ciò, vero?» «Aveva bisogno di dirlo a qualcuno.» «Sono una donna anziana, ora. Non veramente vecchia, lo so. Sono un po' oltre la sessantina e potrei vivere altri trent'anni. Ma mi sento vecchia. Mi sento due volte più vecchia di come mi sentivo un anno fa. Lei non ha bambini, vero?» «No.» «Ha ancora la mamma?» «No. Mia madre è morta quando ero molto piccola.» «Allora è per questo.» «Per questo che cosa?» «Per questo sentivo il desiderio di parlare con lei. Philippa era una brava ragazza anche da adolescente. Si è fatta qualche amica, a volte usciva il sabato sera. Beveva anche un po', ma mai molto. Non fumava. Non prendeva droghe. Era molto carina, ma non se ne rendeva conto, e forse per questo neanche gli altri se ne accorgevano. Non si dava arie, non era aggressiva o civetta. Ho sempre pensato che fosse la ragazza più incantevole che conoscevo, ma ero sua madre e non ero obiettiva. Ero contenta, le dicevo sempre di non preoccuparsi di quel che facevano le sue amiche, che aveva un mucchio di tempo. Tempo.» Sorrise mestamente. «Non ne ha avuto tanto, alla fine.» Si interruppe bruscamente. «E poi che cos'è successo?» le domandai a bassa voce. «Poi ha incontrato una persona. Un ragazzo. Be', un uomo, a dir la verità, più vecchio di lei. Aveva solo quattordici anni, quando l'ha incontrato. Lui la vide per quel che era. Improvvisamente non sembrava più una ragazzina, stava sbocciando come donna. Io pensai semplicemente che stesse crescendo. Ora trovo difficile crederlo, ma veramente non avevo idea di quel che stava succedendo. Lo scoprii solo in seguito. Era così innocente, la mia piccolina. Pensava di essere innamorata di lui. E che lui lo fosse di lei. Se me ne fossi accorta, l'avrei messa sull'avviso.» Mi sorrise. «Vede, non le sto dicendo queste cose solo perché ho bisogno di parlare con qualcuno di Philippa. Un segreto è una cosa terribile. L'unico modo perché cessi di essere terribile è raccontarlo, ma non si può.
L'ha lasciata, naturalmente; è durato solo poche settimane. E lei aveva il cuore infranto, mentre io non sapevo niente.» Si voltò a guardare di nuovo il canale, poi aggiunse: «Ed era incinta». Le andai vicino e le rimasi accanto, guardando le acque dove si nascondevano i pesci di Doll. «Ha avuto il bambino?» «Ho scoperto che era incinta quando erano già passate ventisette settimane e mezzo. Così ha avuto la bambina. Abbiamo tenuto tutto nascosto, me ne sono incaricata io. Nessuno lo sapeva se non Philippa e io.» «Una bambina?» «Sì, una bambina che avrebbe compiuto diciotto anni qualche mese fa.» «Lianne?» Allora era più vecchia di quanto avevo pensato. «Ho detto alla scuola che Philippa soffriva di febbre ghiandolare. Andammo in Francia insieme, mentre era in attesa. Era molto tranquilla, come sotto shock, ma ha fatto quello che le ho detto. Non c'era altra scelta. Le hanno portato via la bambina quasi subito. Philippa voleva prenderla in braccio, la sua prima bimba. Ha pianto, singhiozzato e supplicato. È quasi impazzita. Ma non gliel'ho permesso. Non volevo che le si attaccasse. Non poteva avere una bambina, santo Cielo, era ancora una bambina lei stessa. Volevo che avesse una bella vita, un marito, tutte le cose che avevo pensato per lei. Così non le ho permesso di tenere in braccio la bambina. Ha pianto ininterrottamente per due giorni. Non avevo mai visto tante lacrime, era come una diga infranta. Poi riprese il dominio di sé. Il latte se ne andò, il ventre le ritornò piatto. Rientrò a scuola, fece gli esami e andò avanti fino all'università. Non ne parlò mai più.» «Signora Vere...» «Io, però, presi in braccio la bambina. Una cosina minuscola, grinzosa, rossa, con la pelle molle e occhietti blu gommosi. Mi ha preso un dito con il pugno e non me lo voleva lasciar andare, come se sapesse.» «Sapesse?» «Che ero sua nonna. La sua famiglia. La sua casa. La sua ultima possibilità. Sciolsi le sue piccole dita forti una a una e la riconsegnai.» «E poi è stata data in adozione?» «Sì, credo di sì. Non volevo che Philippa sapesse niente. Pensavo che la cosa migliore fosse chiudere definitivamente quel capitolo. Naturalmente cinque mesi fa, quando ha compiuto diciotto anni, ha potuto scoprire da dove veniva.» «Quelle telefonate.» «Non lo sapevo, dapprincipio. Non l'ho capito finché non ho saputo del-
le telefonate, tra Philippa e... e lei. Non mi stavo nascondendo la realtà. Lei probabilmente direbbe che non volevo sapere. Ma per diciotto anni non è passata nemmeno una settimana senza che pensassi a quella bimba che mi stringeva il dito e mi fissava. E mi chiedo se sia passata un'ora senza che Philippa ci pensasse. Ma non ne abbiamo mai parlato. Neppure dopo Emily, non ci siamo mai dette che cosa provavamo.» Infine mi guardò. «Questa è la ragione per cui volevo vederla, per sapere se mia nipote avesse sofferto.» Così tutta questa triste storia era la storia di una figlia che cercava la madre, e di una madre che cercava la figlia. «Mi chiedo se si siano incontrate prima di essere uccise» dissi alla fine. «A volte mi consolo a pensare che ci siano riuscite. Che Philippa abbia potuto abbracciare e stringere sua figlia. Ma non lo sapremo mai, vero?» «No, non lo sapremo mai.» Stavamo per lasciarci, quando Pam Vere mi mise una mano sulla manica. «Volevo chiedere se sarebbe possibile far seppellire mia nipote nella stessa tomba di mia figlia. Pensa che si possa?» «Lianne è stata cremata e le sue ceneri sono state disperse.» «Oh, capisco. Allora, pazienza.» Ritornai a casa a piedi. Risalii i gradini del canale e percorsi le stradine squallide. Dietro le finestre vidi gente intenta alle proprie attività: un uomo che stava suonando un violino; una donna al telefono in animata conversazione, una mano levata in aria; e al piano di sopra un bimbo piccolo, nudo, seduto in una stanza, che guardava la strada di fuori con un'espressione triste. Osservai le facce dei passanti. Nessun volto è ordinario. Tutti sono belli se li si guarda in un certo modo. Julie mi stava aspettando. Dalla cucina veniva odore di aglio, e sul tavolo c'era un vaso di rose gialle. Vicino alla porta stava il suo zaino, pieno, chiuso, l'etichetta di una linea aerea attaccata alla cinghia. Mi sedetti al tavolo e presi la foto di mia madre. Mi sorrise, brillando attraverso tutti gli anni in cui mi era mancata. Gli occhi chiari e grigi erano pieni di promesse. Il sole carezzava il suo volto giovane e felice. Mi sentii in pace e molto triste. Non ero mai stata brava ad affrontare gli addii. FINE