Terry Brooks Il viaggio della Jerle Shannara
LA STREGA DI ILSE Traduzione di Riccardo Valla
MONDADORI A Carol e Don Mc...
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Terry Brooks Il viaggio della Jerle Shannara
LA STREGA DI ILSE Traduzione di Riccardo Valla
MONDADORI A Carol e Don McQuinn
per aver dato alla parola “amici”
più significati di quelli che riesco a valutare
1 Hunter Predd pattugliava la distesa dello Spartiacque Azzurro a nord dell’isola di Mesca Rho, estremo avamposto del Wing Hove ai margini delle acque territoriali degli Elfi, quando vide l’uomo aggrappato al relitto. Era abbandonato sul legno come una bambola di pezza, con la testa appoggiata alle tavole e la faccia a poca distanza dall’acqua, un braccio mollemente avvolto attorno allo stretto relitto per non scivolare. Sole, vento e pioggia gli avevano bruciato e devastato la pelle ed era vestito di stracci. Era così immobile da non permettere di capire se fosse ancora vivo. In effetti era stato lo strano rollare del suo corpo tra le morbide onde a richiamare lo sguardo di Hunter Predd. Ossidiana stava già planando in direzione del naufrago, senza bisogno del tocco del padrone per sapere il da farsi. Aveva gli occhi più acuti di quelli dell’elfo e aveva scorto l’uomo nell’acqua assai prima di lui, cambiando subito rotta per effettuare il salvataggio. Trovare e salvare i naufraghi delle navi affondate faceva parte del suo addestramento. Il Roc riusciva a distinguere a mille iarde di distanza un pezzo di legno o un pesce da un essere umano. Eseguì un largo giro con le grandi ali distese, e scese verso l’acqua per raccogliere l’uomo con una presa salda ma delicata. I grandi artigli si avvolsero con sicurezza ma dolcemente attorno alla forma inerte, poi il Roc si alzò di nuovo in volo. Limpido e sconfinato, il cielo della tarda primavera si stendeva su di lui come una cupola azzurro brillante, illuminata dalla luce solare che permeava l’aria tiepida e si rifletteva in lampi argentei sulle onde. Hunter Predd diresse la sua cavalcatura verso la terra più vicina, un piccolo atollo ad alcune miglia da Mesca Rho. Là avrebbe deciso cosa fare, ammesso che si potesse fare qualcosa. Raggiunsero l’atollo in meno di mezz’ora, e per tutto il tragitto Hunter Predd mantenne basso e regolare il volo di Ossidiana. Nero come l’inchiostro e ancora nella prima maturità, quel Roc era il terzo che usava da quando era Cavaliere Alato del Wing Hove e di sicuro il migliore. Oltre a essere forte e robusto, Ossidiana aveva un eccellente sesto senso e prevedeva quello che Hunter voleva senza bisogno di ordini. Erano insieme da cinque anni, non molti per un cavaliere e la sua cavalcatura, ma sufficienti, nel loro caso, a far sì che agissero come se fossero tutt’uno nella mente e nel corpo. Avvicinandosi all’atollo dalla parte sottovento e battendo piano le ali, Ossidiana depose il suo carico su un lembo di sabbia asciutta e si posò sulle rocce vicine. Hunter Predd balzò di sella e corse verso la figura immobile. L’uomo non reagì quando il cavaliere lo voltò sulla schiena e cominciò a cercare segni di vita. Il cuore batteva. La respirazione era lenta e superficiale. Ma quando Hunter Predd gli guardò la faccia, vide che gli avevano cavato gli occhi e tagliato la lingua. Il naufrago era un elfo, notò il cavaliere, tuttavia non veniva dal Wing Hove, perché sulle mani e sui polsi non si scorgevano i segni delle redini. Hunter esaminò con attenzione il corpo alla ricerca di ossa rotte, ma non ne trovò. L’unico apparente danno fisico pareva quello alla faccia: soprattutto soffriva per l’ insolazione e la mancanza d’acqua. Il cavaliere svitò la borraccia e gli versò un po’ d’acqua sulle labbra, facendogliela gocciolare in gola. Le labbra dell’uomo si mossero leggermente. Hunter valutò le possibilità e decise di portare l’uomo a Bracken Clell, l’insediamento più vicino dove si potesse trovare un elfo guaritore capace di dargli assistenza. Non poteva portarlo a Mesca Rho perché l’ isola era solo un avamposto e lui e un altro cavaliere erano gli unici
abitanti. Se voleva salvare la vita dell’ uomo, doveva rischiare di portarlo nel continente, a est. Il cavaliere bagnò con l’acqua della borraccia la pelle dell’uomo e spalmò sulle scottature un unguento che l’avrebbe protetto da ulteriori danni. Non aveva con sé abiti di ricambio, perciò l’uomo avrebbe dovuto viaggiare con gli stracci che indossava. Cercò di nuovo di farlo bere, e questa volta la bocca dell’
uomo si mosse più avidamente e dalle labbra sfuggì un gemito. Per un istante cercò di aprire gli occhi martoriati, e mormorò qualcosa di incomprensibile. Come sempre, seguendo il procedimento consueto, il cavaliere frugò il naufrago e prese i due soli oggetti che aveva con sé. Entrambi lo sorpresero e destarono le sue perplessità. Li studiò con attenzione, e la sua fronte si aggrottò sempre più. Per non ritardare la partenza, sollevò l’uomo e lo collocò sull’ampia groppa di Ossidiana, aiutato dal Roc stesso. Con un’imbottitura e alcuni lacci lo assicurò alla cavalcatura, poi, dopo un’ultima occhiata, salì a sua volta e l’uccello si alzò in volo. Volarono per tre ore verso est, verso l’oscurità che avanzava, e si stava già avvicinando il tramonto quando avvistarono Bracken Clell. La popolazione di quella città portuale era una mescolanza di razze, con predominanza di Elfi, e i suoi abitanti erano abituati a vedere i cavalieri e i loro Roc andare e venire. Hunter Predd portò Ossidiana fino a una radura riservata agli atterraggi e il grande Roc planò agilmente tra gli alberi. Un messaggero scelto in mezzo alla folla di curiosi che si era radunata in pochi minuti venne mandato in città, e poco più tardi comparve il guaritore, con un gruppetto di infermieri. «Cosa gli è successo?» chiese l’uomo quando scorse le orbite vuote e la bocca ferita. Hunter scosse la testa. «L’ho trovato così.» «Hai qualche modo per identificarlo? Chi è?» «Non lo so» mentì il cavaliere. Attese che l’uomo e i suoi aiutanti sollevassero il naufrago e lo portassero nella casa del guaritore, dove l’ avrebbero ricoverato nell’infermeria del centro di cura, poi mandò Ossidiana a riposare su un posatoio più alto e infine seguì la folla. Ciò che sapeva non andava rivelato né al guaritore né ad altri di Bracken Clell. Ciò che sapeva era riservato per un solo uomo. Si sedette a fumare la pipa sotto il portico dell’infermeria e, deposti accanto a sé l’arco e il coltello da caccia, attese il guaritore. Il sole era tramontato, e l’ultima luce del giorno si stendeva sulle acque della baia creando macchie rosse e oro. Hunter Predd era un uomo minuto rispetto agli altri Cavalieri Alati del Wing Hove, ma robusto come una corda ritorta. Non era né giovane né vecchio, ma comodamente situato a metà e lieto di trovarvisi. Con quella pelle abbronzata e screpolata dal vento, la faccia segnata da rughe e gli occhi grigi sotto i folti capelli castani, sembrava esattamente ciò che era: un elfo vissuto sempre all’aria aperta. A un certo punto, mentre aspettava, prese il braccialetto e lo tese alla luce, per assicurarsi di non essersi sbagliato quando aveva riconosciuto lo stemma. La mappa la tenne in tasca. Un inserviente gli portò del cibo, e il cavaliere mangiò in silenzio. Quando ebbe finito, l’uomo ricomparve e portò via il piatto, senza dire nulla. Il guaritore non si era ancora fatto vedere. Era tardi quando infine apparve, e nel sedersi accanto a Hunter sembrava stanco e preoccupato. Si conoscevano da tempo: il guaritore era giunto nella città portuale solo un anno dopo che Hunter era tornato dalle guerre di frontiera ed era entrato nella guardia costiera dei Cavalieri Alati. Avevano preso parte insieme a più di una missione di salvataggio e, pur essendo assai diversi tra loro per vocazione e origine, condividevano molte idee sulla follia del mondo. Là, nelle retrovie della civiltà, ai margini della regione chiamata “Quattro Terre”, avevano scoperto di poter sfuggire a un po’ di quella follia.
«Come sta?» chiese Hunter Predd.
Il guaritore sospirò. «Non bene. Può darsi che sopravviva. Se si può chiamare vita. Ha perso gli occhi e la lingua. Gli sono stati strappati. L’insolazione e l’inedia hanno consumato le sue forze a tal punto che probabilmente non si riprenderà più. Si è svegliato varie volte e ha cercato di comunicare, ma non c’è riuscito.» «Forse, col tempo…» «Il problema non è il tempo» lo interruppe il guaritore, fissandolo negli occhi. «Non è in grado di parlare, e neppure di scrivere. Non si tratta solo della ferita alla lingua o della mancanza di forze. È la sua mente. La sua ragione se n’è andata. Le esperienze attraverso cui è passato l’hanno danneggiato irreparabilmente. Non credo che sappia dov’è, e neppure chi è.» Hunter Predd guardò in lontananza, nella notte. «Neppure il suo nome?» «Neppure quello. Non credo che ricordi nulla di quanto gli è successo.» Il cavaliere rimase in silenzio per qualche istante, riflettendo. «Lo puoi tenere qui ancora per qualche giorno, prendendoti cura di lui e sorvegliandolo? Voglio cercare di vederci chiaro.» Il guaritore annuì. «Da dove inizi?» «Arborlon, penso.» Un leggero rumore di passi lo fece girare di scatto. Apparve un inserviente con tè caldo e la cena per il guaritore. L’uomo rivolse loro un cenno del capo, senza parlare, e scomparve di nuovo. Hunter Predd si alzò, raggiunse la porta per controllare che fossero soli, poi tornò a sedere accanto al guaritore. «Sorveglia il malato, Dorne. Nessuna visita. Nulla, finché non avrai mie notizie.» Il guaritore bevve un sorso di tè. «Tu sai qualcosa di lui che preferisci non dirmi, vero?» «Ho un sospetto. È diverso. Ma ho bisogno di tempo per esserne certo. Puoi darmi quel tempo?» Il guaritore alzò le spalle. «Posso provare. Anche l’uomo nell’infermeria avrà da dire la sua, sul fatto di attendere fino al tuo ritorno. È molto debole. Devi sbrigarti.» Hunter Predd annuì. «Tutta la velocità che possono darmi le ali di Ossidiana» rispose piano. Dietro di lui, nella semioscurità della porta aperta, un’ombra si staccò da dietro una parete e si allontanò in silenzio. L’inserviente che aveva portato la cena al Cavaliere Alato e al guaritore attese fino a mezzanotte, allorché la maggior parte degli abitanti di Bracken Clell erano addormentati, per lasciare le sue stanze nel villaggio e inoltrarsi nella foresta che circondava l’abitato. Si muoveva rapido, senza bisogno di illuminazione: conosceva bene il cammino, dato che l’aveva percorso molte volte. Era un ometto rinsecchito, che aveva trascorso tutta la vita al villaggio e non attirava l’attenzione. Abitava da solo e aveva pochi amici. Serviva da più di tredici anni nella casa del guaritore, silenzioso, senza mai lamentarsi, privo di immaginazione ma fidato. Queste caratteristiche lo rendevano adatto come inserviente del guaritore, ma ancora più adatto come spia.
Raggiunse le gabbie nascoste in un pollaio buio, dietro la vecchia capanna nella quale era nato. Quando il padre e la madre erano morti, la proprietà era passata a lui in quanto primogenito maschio. Non era granché, come eredità, e l’uomo non aveva mai accettato di non avere diritto ad altro. Perciò, quando gli
si era presentata l’occasione, l’aveva afferrata al volo. Poche parole orecchiate qua e là, una faccia o un nome riconosciuti in base alle chiacchiere udite nelle taverne, qualche frase smozzicata mormorata da coloro che erano stati salvati dall’oceano e portati al centro per essere curati: tutto questo poteva avere un certo valore per le persone giuste. Per una, in particolare, non c’erano dubbi. L’uomo sapeva cosa ci si aspettava da lui: la donna l’aveva chiarito fin dall’inizio. Era la sua padrona, e non tollerava deviazioni dalla linea di condotta che gli aveva prefissato. Voleva sapere chi entrava nella casa del guaritore e tutto quello che diceva, se si trattava di qualcosa di importante. Era lui a decidere quando era il caso di farsi vivo, e naturalmente a subire le conseguenze di un eventuale errore. Doveva essere rapido e deciso. La sua padrona poteva accettare una perdita di tempo, ma non la perdita di una buona occasione. A volte si sbagliava, ma la donna non si irritava e non lo biasimava. Qualche errore era prevedibile. In genere l’uomo sapeva riconoscere le notizie meritevoli di attenzione. Erano necessarie pazienza e perseveranza. Lui le aveva entrambe, e tutt’e due gli erano state utili. Questa volta era certo di essersi imbattuto in qualcosa di veramente grosso. Aprì la porticina della gabbia e prese uno degli strani uccelli che la donna gli aveva dato. Erano creature dall’aspetto malvagio, con l’occhio acuto e il becco affilato, lunghe ali nere, corpo sottile. Lo osservavano con attenzione quando si avvicinava, o li toglieva dalle gabbie, o legava un messaggio alle zampe, come in quel momento. Lo osservavano attenti, e pareva che controllassero la sua efficienza per fare rapporto alla loro comune padrona. All’uomo non piaceva essere fissato a quel modo, perciò li guardava il meno possibile. Una volta legato il messaggio, lanciò l’uccello in aria, e l’animale s’innalzò nell’oscurità e sparì. Volavano solo di notte, quegli uccelli. A volte tornavano con messaggi della padrona, altre volte senza messaggi, e attendevano che li rimettesse nella gabbia. Non si era mai chiesto la loro origine. Aveva la sensazione che fosse meglio limitarsi ad accettarli per la loro utilità. Rimase a fissare il cielo buio. Aveva fatto quello che poteva. Adesso doveva solo attendere. La donna gli avrebbe dato gli ordini successivi. Lo faceva sempre. Chiuse la porta del pollaio in modo da nascondere nuovamente le gabbie e rifece in silenzio la strada dell’ andata. Due giorni più tardi Allardon Elessedil era appena uscito da una lunga seduta del Gran Consiglio degli Elfi, nella quale si era discusso del rinnovo degli accordi commerciali con le città del Callahorn e dell’ interminabile guerra che combattevano contro la Federazione come alleati dei Nani, quando lo avvertirono che un Cavaliere del Wing Hove lo attendeva per conferire con lui. Era tardi ed era stanco, ma il cavaliere era giunto ad Arborlon dal porto meridionale di Bracken Clell, a due giornate di volo, e rifiutava di riferire il messaggio a una persona diversa dal re. L’aiutante che riferì ad Allardon la presenza del Cavaliere Alato fece chiaramente capire che l’uomo non si sarebbe lasciato convincere. Il re degli Elfi annuì e seguì l’aiutante fino alla stanza dove lo aspettava il cavaliere. Gli accordi con il Wing Hove prevedevano che i messaggeri gli parlassero in privato. In base a un patto stipulato all’inizio del regno di Wren Elessedil, i Cavalieri servivano gli Elfi come esploratori e messaggeri lungo la costa dello Spartiacque Azzurro da più di centotrent’anni. In cambio di questo servizio ricevevano beni e denaro: un patto che i re e le regine degli Elfi avevano
trovato utile in più di un’occasione. Se il cavaliere aveva
chiesto di parlare con Allardon in privato, doveva avere una buona ragione per farlo, e lui non intendeva ignorarlo. Accompagnati da due della sua Guardia, Perin e Wye, Allardon e il suo aiutante lasciarono l’edificio del Consiglio e attraversarono i giardini fino al palazzo degli Elessedil. Allardon era re da più di vent’anni, dalla morte della madre, la regina Aine. Era di altezza media e di costituzione normale, ancora scattante nonostante gli anni, con mente acuta e fisico robusto. Solo dai capelli grigi e dalle rughe si poteva capire l ’età avanzata. Discendeva in linea retta dalla grande regina Wren Elessedil, che aveva fatto uscire gli Elfi e la loro città dalla desolazione dell’isola di Morrowindl, dove li avevano respinti la Federazione e l’ odiato Regno delle Ombre. Allardon era il suo bis-bisnipote e per tutta la vita aveva avuto l’impressione di doversi misurare con lei. Era difficile farlo, in quei tempi. La guerra con la Federazione divampava da dieci anni e non dava cenno di voler cessare nell’immediato futuro. Due anni prima, la coalizione del Sud, formata da Uomini della Frontiera, Nani ed Elfi, aveva bloccato l’avanzata della Federazione al disotto del Duln, nella catena del Prekkendor. Adesso gli eserciti erano in posizione di stallo, su un fronte che da allora non si era più spostato e che continuava a consumare vite ed energie in quantità allarmante. Sulla necessità della guerra non c’erano dubbi: il tentativo della Federazione di riconquistare le Terre di Confine perse all’epoca di Wren Elessedil era un’invasione vera e propria, e non era tollerabile. Ma il re continuava a pensare che la sua antenata avrebbe saputo porvi fine, dopo tutto quel tempo, mentre lui non c’era riuscito. Niente di ciò aveva a che fare con la questione sul tappeto, si rimproverò. La guerra contro la Federazione aveva l’epicentro all’incrocio fra le strade principali delle Quattro Terre e non si era ancora estesa alla costa. Per il momento, era quanto meno contenuta. Raggiunse la stanza dove il Cavaliere Alato lo aspettava e congedò subito i suoi accompagnatori. Un membro della sua Guardia era nascosto a breve distanza, pronto a fermare un tentativo di omicidio, anche se Allardon non aveva mai sentito che un cavaliere si fosse trasformato in assassino. Quando i suoi accompagnatori furono usciti, tese la mano al cavaliere. «Mi dispiace di averti fatto aspettare. Ero a una riunione del Gran Consiglio e il mio aiutante non ha voluto disturbarmi.» Strinse la mano robusta dell’altro e gli osservò la faccia abbronzata. «Ci conosciamo, vero? In passato mi hai già portato dei messaggi, una volta o due.» «Una volta» rispose il cavaliere. «Ma è passato molto tempo. Non hai motivo di ricordarti di me. Mi chiamo Hunter Predd.» Il re degli Elfi annuì sorridendo, anche se non ricordava quel nome. I Cavalieri del Wing Hove non badavano all’etichetta, né lui aveva voglia di soffermarsi su simili particolari. «Cos’hai per me, Hunter?» Il cavaliere infilò la mano nella tunica e ne trasse una corta catenella di metallo e un pezzo di cuoio. Mostrandoli tutt’e due, disse: «Tre giorni fa ero di pattuglia sulle acque a nord dell’isola di Mesca Rho, dove c’è un nostro avamposto. Ho trovato un uomo che galleggiava sul relitto di un’imbarcazione. Era in fin di vita per l’insolazione e la disidratazione. Non so da quanto tempo fosse là, ma penso da parecchio. Gli avevano strappato gli occhi e la lingua prima del naufragio. Portava questo». Per prima gli allungò la catenella metallica, che era un braccialetto. Allardon la prese, la
guardò bene e impallidì. Il braccialetto recava lo stemma degli Elessedil: il fiore del sacro Ellcrys circondato da un anello di Sangue Infuocato. Erano passati più di trent’anni dall’ultima volta che aveva visto quel braccialetto, ma lo riconobbe subito. Staccò gli occhi dal monile per fissare il cavaliere. «Lo portava l’uomo che hai trovato?» chiese a bassa voce.
«Ce l’aveva al polso.» «E l’hai riconosciuto?» «Ho riconosciuto lo stemma del braccialetto, non l’uomo.» «C’era qualcos’altro che permettesse di identificarlo?» «Soltanto questo. L’ho frugato con attenzione.» Tese ad Allardon il lembo di pelle. Era consumato, macchiato dall’acqua e sbrindellato ai bordi. Il re degli Elfi lo aprì con cautela. Si trattava di una mappa, con simboli e parole tracciati in inchiostro sbiadito e sbavati in alcuni punti. La studiò minuziosamente, cercando di capire di cosa si trattava. Riconobbe il profilo delle Terre Occidentali, lungo lo Spartiacque Azzurro. Una linea tratteggiata correva da un’isola all’altra, in direzione nordovest, e terminava in corrispondenza di una strana barriera di picchi. C’erano nomi sotto ciascuna isola e sotto la barriera, ma non li riconobbe. Ai margini della mappa la scrittura era indecifrabile. I simboli che decoravano e forse identificavano certe località rappresentavano creature bizzarre e spaventose che non aveva mai visto. «Riconosci qualcuno di questi luoghi?» chiese a Hunter Predd. Il Cavaliere Alato scosse la testa. «La maggior parte del territorio indicato sulla mappa è al di là della zona da noi pattugliata. Le isole sono fuori portata, per i nostri Roc, e i nomi non mi sono familiari.» Allardon si avvicinò alle alte finestre provviste di tende che si aprivano sui giardini, e guardò per qualche istante le aiole fiorite. «Dov’è l’uomo che hai trovato, Hunter? È ancora vivo?» «L’ho lasciato a casa del guaritore di Bracken Clell. Quando sono partito era vivo.» «Hai parlato a qualcuno del braccialetto e della mappa?» «Solo a te. Neppure al guaritore. È un amico, ma so quando è meglio tacere.» Allardon annuì in segno di approvazione. «Lo sai davvero.» Ordinò che gli portassero due bicchieri di birra ghiacciata e una caraffa piena per quando li avessero finiti, e mentre aspettava la sua mente galoppava. Era rimasto stupefatto dai due oggetti salvati dal naufragio e da quello che gli era stato detto, e anche sapendo ciò che sapeva, non capiva bene cosa fare. Aveva riconosciuto il braccialetto, e di conseguenza anche l’identità dell’uomo che lo portava. Non li vedeva da trent’anni e non si aspettava di rivederli. Non aveva mai visto la mappa, ma anche senza decifrarne la lingua o leggerne i simboli riusciva a intuire che cosa raffigurava. Gli tornò in mente la madre Aine, morta vent’anni prima, e al ricordo del suo dolore negli ultimi anni di vita gli spuntarono le lacrime. Giocherellò con il braccialetto, soprappensiero, rivivendo quei tempi. Trent’anni prima sua madre, la regina, aveva autorizzato una spedizione via mare alla ricerca di un tesoro di enorme valore, sfuggito alle Grandi Guerre che avevano distrutto il Mondo Antico. La spedizione era stata decisa in seguito a un sogno della veggente di sua madre, una sensitiva di grande potere e di enorme notorietà. Il sogno mostrava una terra di ghiaccio nella quale si
trovava una città in rovina con un fortino che nascondeva e proteggeva un tesoro di valore incommensurabile. Quel tesoro era in grado di cambiare addirittura il corso della storia e la vita di tutti coloro che entravano in contatto con esso.
La veggente aveva espresso i suoi dubbi sul sogno, perché sapeva che i sogni possono ingannare. Non era chiara la natura del tesoro, e il luogo dove cercarlo era vago, in terre sconosciute dall’altra parte dello Spartiacque Azzurro che nessuno aveva mai visto. Non c’erano indicazioni su come raggiungerlo, non veniva detto come individuarlo, e la sua descrizione si limitava a una serie di visioni. Forse, aveva avvertito la veggente, era meglio che quel sogno restasse tale. Ma il fratello maggiore di Allardon, Kael Elessedil, era rimasto affascinato dalle possibilità suggerite dal sogno e dalla sfida dell’esplorazione di una terra sconosciuta. Aveva visto nel sogno il proprio destino e aveva supplicato la madre di lasciarlo andare. E alla fine la regina aveva acconsentito. Kael Elessedil aveva avuto il comando di una spedizione composta di tre navi ed era partito. Prima di partire, la madre gli aveva dato le famose Pietre Magiche azzurre che un tempo appartenevano alla regina Wren. Le Pietre li avrebbero guidati a destinazione e protetti dal pericolo. La loro magia avrebbe riportato a casa gli Elfi sani e salvi. Quando aveva lasciato Arborlon per raggiungere la costa, dove lo attendevano le navi che la madre gli aveva assegnato, Kael Elessedil portava il braccialetto che adesso suo fratello aveva in mano. Da allora Allardon non l’aveva più visto. La spedizione non era mai tornata. Le navi, gli equipaggi, suo fratello, tutto e tutti, erano semplicemente svaniti. Una dopo l’altra erano state inviate squadre di ricerca, ma non era mai stata trovata traccia degli Elfi scomparsi. Allardon sospirò lentamente. Fino a quel momento. Fissò il braccialetto che teneva in mano. Fino a quello. La scomparsa di Kael aveva cambiato tutto, nella sua famiglia. La madre non si era mai ripresa dalla perdita del primogenito, e aveva trascorso gli ultimi anni consumando lentamente la salute e la speranza a mano a mano che le ricerche fallivano e infine venivano abbandonate. Alla sua morte Allardon era divenuto re al posto del fratello, cosa che non aveva mai desiderato. Pensò all’uomo in fin di vita, cieco e senza voce, affidato alle cure del guaritore di Bracken Clell e si chiese se suo fratello era finalmente tornato a casa. Arrivò la birra e Allardon andò a sedere con Hunter Predd su una panchina in giardino e continuò a rivolgergli le stesse domande, affrontando la questione da vari punti di vista, assicurandosi di avere saputo tutto quello che c’era da sapere. E forse perché capiva, almeno in parte, il trauma subito dal re degli Elfi a causa delle notizie che gli aveva portato, Hunter Predd non si tirò indietro. Non fece domande, cosa di cui Allardon gli fu grato, ma si limitò a rispondere a quelle che gli venivano poste e rimase assieme al re per tutto il tempo necessario. Alla fine del colloquio, Allardon chiese al Cavaliere Alato di fermarsi per la notte, in modo da essere a sua disposizione se avesse preso qualche decisione che richiedeva il suo aiuto. Non era un ordine, bensì una richiesta. Avrebbe dato cibo e alloggio a lui e alla sua cavalcatura, e la sua permanenza sarebbe stata vista come un favore. Hunter Predd acconsentì. Quando fu di nuovo solo nel suo studio, dove si chiudeva a riflettere sulle questioni che richiedevano di soppesare le varie possibilità e di operare una scelta, Allardon Elessedil pensò al da farsi. Dopo trent’ anni e con le gravi ferite subite, forse non avrebbe riconosciuto il
fratello, ammesso che l’uomo affidato alle cure del guaritore di Bracken Clell fosse davvero Kael. Ma doveva presumere che lo fosse, perché il braccialetto era autentico. A impensierirlo era la mappa. Che farne? Ne intuiva l’importanza, ma non riusciva a interpretarla a sufficienza per capirne l’utilità. Se avesse allestito una nuova spedizione, decisione che stava già prendendo seriamente in considerazione, prima avrebbe dovuto cercare di scoprire i rischi da affrontare.
Aveva bisogno di qualcuno capace di tradurre le parole della mappa. Qualcuno che gliene rivelasse il significato. C’era una sola persona in grado di farlo, a quanto ne sapeva. Ormai era buio, la tranquillità della notte era scesa sulle foreste dell’Ovest, i tetti e le pareti delle case cittadine svanivano per farsi sostituire da macchie di luce che testimoniavano della presenza dei loro abitanti. Nel palazzo degli Elessedil tutto taceva. La regina era con le figlie, intenta a ricamare un mantello per il suo compleanno: dono che doveva essere una sorpresa. Il figlio maggiore, Kylen, comandava un reggimento sul fronte di Prekkendor, mentre il più giovane, Ahren, era a caccia nelle foreste del Nord, accompagnato da Ard Patrinell, capitano della Guardia Reale. Considerando l’ampiezza della sua famiglia e la portata della sua autorità come re, si sentiva straordinariamente solo e inerme di fronte a quello che sapeva di dover fare. Ma come? Come raggiungere lo scopo voluto? L’ora di cena era passata da tempo, ma rimase nello studio a riflettere. Era difficile fare il necessario, perché l’uomo con cui doveva trattare era per molti versi una maledizione, per lui. Tuttavia doveva affrontarlo, superando le riserve e le ostilità del passato. Poteva farlo perché rientrava nei suoi doveri di re, e già in passato, in altre occasioni, aveva fatto concessioni analoghe. Invece sarebbe stato difficile persuadere l’altro uomo a venirgli incontro. Di conseguenza doveva trovare un approccio che non suscitasse un immediato rifiuto. Alla fine capì di avere già a disposizione ciò che gli occorreva. Avrebbe inviato come ambasciatore Hunter Predd, il Cavaliere Alato. E lui avrebbe accettato sia perché capiva l’importanza e le conseguenze delle notizie che gli aveva portato, sia perché Allardon contava, come ulteriore stimolo, di acconsentire a una richiesta che i Cavalieri del Wing Hove avevano più volte espresso. Quanto all’uomo che poteva tradurgli la mappa, avrebbe ascoltato l’ambasciata perché non aveva riserve nei riguardi dei Cavalieri, e perché avrebbe trovato di suo gusto i modi diretti, pratici, di Hunter Predd. Non aveva alcuna certezza, comunque. Il suo progetto poteva andare incontro a un insuccesso, nel qual caso sarebbe stato costretto a compiere un altro tentativo, forse ad andare di persona. L’avrebbe fatto, se ogni altro approccio fosse fallito. Ma faceva affidamento sulla curiosità del suo avversario e sulla sua mente portata all’indagine: non sarebbe riuscito a resistere alla sfida rappresentata dall’enigma della mappa, né al fascino dei suoi segreti. La sua stessa natura glielo impediva. Qualunque cosa fosse, e quell’ uomo era molte cose, era in primo luogo uno studioso. Il re degli Elfi prese la mappa del Cavaliere Alato e la distese sullo scrittoio. L’avrebbe fatta copiare, per proteggersi da un eventuale smarrimento. E copiare accuratamente, simboli e parole incluse, perché il minimo errore avrebbe fatto fallire l’impresa. Ma la cosa poteva essere fatta in modo ottimale, e mantenendo la discrezione: uno scriba poteva copiare la mappa senza conoscerne l’origine o l’ importanza. Comunque, il re contava di rimanere con lo scriba per l’intera durata del lavoro. Presa la decisione, inviò un aiutante a chiamare la persona di cui aveva bisogno e si sedette ad aspettare il suo arrivo. La cena poteva attendere ancora.
2 Quella stessa notte, mentre ad Arborlon Allardon Elessedil attendeva l’arrivo dello scriba
che doveva copiargli la mappa portata da Hunter Predd, la spia che si era insinuata nella casa del guaritore di Bracken Clell ricevette la risposta al messaggio inviato alla sua padrona due giorni prima. Non era il tipo di risposta da lui previsto.
La donna lo attendeva nelle sue stanze, quando vi fece ritorno al calar della notte, al termine del lavoro, con la mente altrove. Forse pensava di andare nella foresta e controllare le gabbie, più tardi, per vedere se uno dei corrieri alati fosse tornato con un messaggio. Forse pensava solo alla cena e al letto. Comunque non si aspettava di vederla. Sorpreso e allarmato dalla sua comparsa, trasalì ed emise un grido di stupore quando la donna uscì dall’ombra. Lei lo tranquillizzò con poche parole, poi attese pazientemente che si riprendesse quanto bastava per salutarla nel modo dovuto. «Padrona» mormorò l’uomo, posando a terra un ginocchio e inchinandosi. Lei si compiacque nel constatare che non aveva dimenticato le buone maniere. Non la vedeva da anni, ma si ricordava qual era il suo posto. In piedi davanti a lui, lei lo lasciò in quella posizione ancora per un istante, poi gli sussurrò parole rassicuranti, dolci e leggere, ma sottilmente imperiose. Era avvolta da capo a piedi in un mantello grigio e aveva la faccia nascosta dal cappuccio. La spia non l’aveva mai vista durante il giorno, né era mai riuscito a cogliere i suoi lineamenti. Era un enigma, l’ombra di una presenza più che un’identità. Faceva sempre tutt’uno con la notte: era una creatura che veniva percepita più che vista, e che poteva essere presente anche quando non la si vedeva. «Padrona, sono in possesso di informazioni importanti» mormorò la spia senza sollevare lo sguardo, aspettando che lei gli desse il permesso di alzarsi. La Strega di Ilse lo lasciò dov’era, riflettendo. Sapeva ben più di quello che l’uomo immaginava perché disponeva di poteri che andavano al di là della sua comprensione. Il messaggio ricevuto – le parole, la grafia, l’odore della sua pelle sulla carta – le aveva rivelato che lui la giudicava una cosa urgente. Dal modo in cui si presentava ora – il contegno, la voce, l’atteggiamento – riusciva a decifrare le sue emozioni. Aveva il dono di sapere sempre qualcosa di più di quello che gli altri erano disposti a dirle. La sua magia li spogliava di ogni maschera e li rendeva trasparenti come acqua di fonte. La Strega di Ilse levò la mano coperta dal mantello. «Alzati» ordinò all’uomo. Lui obbedì, ma continuò a tenere la testa bassa, gli occhi fissi a terra. «Non pensavo che venissi di persona.» «Trattandosi di te e di informazioni di tale importanza, era il meno che potessi fare.» Cambiò posizione e si piegò leggermente in avanti. «Parla, ora. Dimmi quello che hai saputo.» La spia rabbrividì per il piacere e l’ansia di esserle utile. La Strega sorrise, all’ombra del cappuccio. «Un Cavaliere del Wing Hove ha salvato un elfo naufragato e l’ha portato dal guaritore della nostra comunità» esordì la spia, e osò sollevare gli occhi fino a fissarle il fondo della veste. «All’uomo sono stati strappati gli occhi e la lingua, e il guaritore dice che è quasi pazzo. Io concordo con lui, da quanto ho visto. Il guaritore non riesce a determinare la sua identità, e anche il cavaliere dice di non conoscerla, ma ha dei sospetti. Il cavaliere ha preso qualcosa all’uomo, prima di portarlo qui. Io l’ho visto: un braccialetto con lo stemma degli Elessedil.» Ora la spia osò guardarla in viso. «Il Cavaliere Alato è partito per Arborlon due giorni fa. L’ho sentito dire al guaritore la sua destinazione. Ha portato con sé il braccialetto.»
La Strega lo fissò per un momento, immobile come le ombre fra le quali si confondeva. Un braccialetto con lo stemma degli Elessedil, rifletté. Il Cavaliere Alato l’aveva portato ad Allardon Elessedil perché lo identificasse. Di chi era quel braccialetto? Come interpretare il fatto che era stato trovato su un naufrago cieco, muto e non più sano di mente?
Le risposte erano chiuse nella mente del naufrago. Doveva convincerlo a rivelarle. «Dov’è adesso quell’uomo?» chiese. La spia si protese verso di lei con vivacità e incrociò le mani portandosele al petto, come per pregare. «È nell’infermeria del guaritore, curato ma mantenuto in isolamento fino al ritorno del Cavaliere Alato. Nessuno ha il permesso di entrare o di parlargli.» Sbuffò con disprezzo. «Come se si potesse! Non ha più la lingua per rispondere, giusto?» Lei gli indicò di mettersi in un angolo, e l’uomo si mosse come un burattino. «Aspettami qui» gli disse. «Aspetta che torni.» Poi uscì nella notte, una figura spettrale che sgusciava lieve e silenziosa tra le ombre. La Strega di Ilse amava il buio, vi trovava il conforto che non riusciva ad avere alla luce del giorno. L’ombra la calmava e la celava, addolciva le punte e i bordi taglienti, toglieva lucidità e chiarezza. La vista diveniva meno importante, perché gli occhi si lasciavano ingannare. Un movimento in un punto cambiava l’aspetto di qualcosa che stava in un altro. Ciò che era innocuo alla luce diventava sospetto al buio. Era come la sua vita: un collage di immagini e voci, di ricordi che avevano dato forma alla sua vita, non tutti in sequenza, non tutti legati tra loro con un senso compiuto. Come le ombre con le quali si immedesimava, la sua vita era un mosaico di tessere spezzate e di connessioni interrotte che chiedeva di essere riparato e ricomposto. Il suo passato non era scolpito nella pietra, ma tracciato sull’acqua. «Reinventa te stessa» le aveva detto il Morgawr molto tempo prima. «Reinventa te stessa, e sarai imperscrutabile per tutti coloro che vorrebbero scoprire chi sei veramente.» Nelle tenebre e nell’oscurità della notte, poteva farlo più facilmente. Poteva tenere per sé il suo aspetto e nascondere la sua vera natura. Poteva lasciare che cercassero di immaginarlo, e così facendo continuare a ingannarli. Attraversò il villaggio senza problemi. Incontrò poche persone, ma anche quelle poche non si accorsero della sua presenza, quando le passarono accanto. Era tardi, quasi tutti dormivano, e quelli che erano ancora svegli preferivano passare la notte nelle birrerie e nelle case di piacere, presi dai loro vizi e dalle loro esigenze, ciechi a tutto ciò che stava al difuori. La Strega poteva perdonare le debolezze, a quegli uomini e a quelle donne, ma non poteva accettarli come uguali. Da tempo non fingeva più di credere che la comune origine li legasse in qualche modo significativo. Lei era fatta di fuoco e di ferro. Era nata con la magia dentro di sé, era nata per avere il potere. Il suo destino era cambiare per i propri fini la vita degli altri e non farsi cambiare da loro. La sua unica passione consisteva nell’innalzarsi al disopra del destino che le avevano assegnato da bambina e nel vendicarsi perché avevano osato farlo. Lei diventava sempre più grande di loro, ed essi sarebbero stati eternamente inferiori. Un giorno avrebbe permesso a quelle persone di pronunciare di nuovo il suo nome, un giorno l’avrebbe pronunciato lei stessa, e non se ne sarebbero mai più dimenticati. Un nome non più seppellito nelle ceneri della sua infanzia, com’era successo. Non sarebbe stato gettato via, come un qualsiasi frammento del passato perduto. Sarebbe salito in alto, con il volo leggero del falco, e avrebbe brillato con lo splendore argenteo della luna. E sarebbe rimasto per sempre nella mente di tutti. La casa del guaritore era davanti a lei, vicino agli alberi della foresta circostante. Era arrivata nel tardo pomeriggio dalla Malaterra, allontanandosi dalla sicurezza della sua casa per rispondere al messaggio della spia, poiché ne sentiva l’importanza e voleva scoprire di persona i segreti che nascondeva. Aveva lasciato la sua averla da guerra nel boschetto sotto la scogliera, con un cappuccio sulla testa feroce e gli artigli impastoiati. Se non avesse fatto così, l’animale
sarebbe fuggito. Era talmente selvatico che neppure la sua magia riusciva a trattenerlo, quando era assente, ma come uccello da combattimento non aveva uguali. Perfino i giganteschi Roc lo temevano, perché l’averla combatteva fino alla morte senza
preoccuparsi della propria sicurezza. Nessuno l’avrebbe vista perché lei aveva lanciato una fattura di proibizione attorno all’animale per tenere lontani i curiosi. All’alba contava di tornare da lei e di ripartire, qualunque fosse il risultato di ciò che doveva fare. Entrò furtiva nella casa del guaritore, silenziosa come un gatto, e dalle stanze centrali andò verso l’ infermeria, canticchiando piano quando passava davanti agli assistenti, chiudendo la loro mente e inducendoli a distogliere gli occhi, in modo che nessuno la vedesse. Quanto a coloro che erano di guardia fuori della porta del naufrago, chiusa da una tenda, li fece addormentare. Si afflosciarono sulle sedie o sui tavoli o contro le pareti, il loro respiro divenne più lento e profondo. C’era silenzio e quiete nella casa del guaritore, e il suo canto raggiunse facilmente i bersagli. Riempì l’aria della sua musica, un dolce manto che avvolse la cautela e la vigilanza pronte a scattare. Presto si trovò sola e libera di compiere il suo lavoro. Lo trovò nel suo lettino, con una leggera coperta sul corpo febbricitante e le tende della finestra tirate per escludere la luce. Il naufrago dormiva sul giaciglio che gli era stato assegnato. Aveva la pelle scorticata e coperta di vesciche, e si vedeva luccicare l’unguento che il guaritore aveva applicato sulle scottature. Il suo corpo era scavato dalla mancanza di cibo, il cuore batteva debolmente nel petto, la faccia martoriata era scheletrica, le palpebre infossate entro le orbite, la bocca una ferita rossa dietro le labbra screpolate. La Strega di Ilse lo osservò attentamente per qualche momento, in modo che i suoi occhi assorbissero ogni particolare, e notò i lineamenti tipici dell’elfo, i capelli grigi che indicavano come ormai non fosse più giovane, la rigida postura del collo e delle dita che gridavano silenziosamente di tormenti indicibili. Non le piacevano le vibrazioni emanate dall’uomo. Era stato torturato con determinazione e l’avevano usato per cose che preferiva non sapere. Non le piacevano il suo odore e i brevi suoni che emetteva. L’uomo viveva in un altro luogo e in un altro tempo, incapace di scordare quello che aveva sofferto, e la cosa non era gradevole. Quando lo toccò, sfiorandolo delicatamente sul petto con le dita sottili e fredde, l’uomo sobbalzò come se fosse stato colpito. La Strega si affrettò a calmarlo con la sua magia, cantando piano per placarlo, per dargli pace e sicurezza. La schiena inarcata si rilassò lentamente, le dita contratte lasciarono la stretta di morte sulla coperta del letto. Dalle labbra screpolate sfuggì un sospiro. Per quell’uomo, pensò la Strega, qualsiasi tipo di sollievo era il benvenuto, e continuò a cantare, per superare le sue difese ed entrare nella sua mente. Quando si fu di nuovo assopito e fu completamente assoggettato alla sua volontà, la Strega gli posò le mani sul corpo febbricitante per estrarne pensieri e sentimenti. Doveva aprire ciò che stava nascosto nella sua mente: esperienze, dolori, segreti. Doveva farlo attraverso i sensi dell’uomo, ma soprattutto attraverso la sua voce. Non poteva più parlare come le persone normali, ma era ancora in grado di comunicare. Occorreva solo trovare la maniera di convincerlo a farlo. Alla fine, non risultò difficile. Lo legò a sé con il canto, mentre lo sondava con delicatezza, e lui cominciò a emettere i piccoli e indecifrabili suoni di cui era capace. Trasse da lui un brontolio, un mormorio, un ansito. Ciascuno di quei suoni le trasmise un’immagine di ciò che l’uomo sapeva, e lei le accumulò e le fece proprie. Erano suoni inumani, traboccanti di dolore, ma lei li assorbì senza battere ciglio, sommergendolo in un’ondata di compassione, di rassicurazione e di pietà, di gentilezza e di promesse di guarigione. “Parlami. Torna a vivere attraverso di me. Dammi tutto ciò che nascondi e in cambio io ti darò
la pace.” Lui lo fece, e le immagini erano vivide, colorate, stupefacenti. C’era un oceano: azzurro, vasto, inesplorato. C’erano isole, una dopo l’altra, alcune verdi e lussureggianti, altre spoglie e rocciose:
ciascuna emanava una sensazione diversa, ciascuna nascondeva qualcosa di mostruoso. C’erano frenetiche, disperate battaglie in cui le armi cozzavano e gli uomini morivano. C’erano sentimenti di tale intensità, di tale nuda forza, da nascondere gli eventi da cui erano mossi e da rivelare le ferite lasciate nell’ uomo. E alla fine del viaggio c’erano alte colonne di ghiaccio che arrivavano fino al cielo gelido e coperto di nubi, e le loro grandi masse si aprivano e si chiudevano come i denti di un gigante mentre un raggio sottile di fiamma magica delle Pietre degli Elfi passava tra esse per illuminare qualcosa che stava al di là. C’era una città in rovina, antichissima, ma abitata da mostruosi protettori. E c’era una rocca, sepolta nella terra, custodita da metalli lucenti e da occhi infuocati, e in essa era contenuta una magia che… La Strega di Ilse restò senza fiato nel cogliere l’ultima immagine: l’immagine della magia che il naufrago aveva trovato nella fortezza sepolta. Una magia di incantesimi evocati con le parole, ma straordinariamente numerosi! Il numero sembrava infinito, iniziava da tenui macchie di luce e si perdeva nell’ombra e il loro potere sembrava pronto a scattare, per alzarsi nell’aria in una trama così vasta da coprire l’intero pianeta! L’uomo si dibatté sotto le sue dita perché il potere che la Strega esercitava su di lui si era momentaneamente allontanato a causa della sua perdita di concentrazione. Tornò a cantare, lo ricoprì con la sua melodia, entrò ancora più a fondo nella sua mente per tenerlo sotto controllo. “Chi sei? Dimmi il tuo nome!” Il corpo dell’uomo sussultò, si contorse, e dalla sua bocca uscì un suono terribile. “Dimmelo!” Infine le rispose, e la Strega capì l’importanza del braccialetto. “Che altro avevi? Cos’altro, che parlava del tuo viaggio?” L’uomo cercò di opporsi, senza sapere a che cosa si opponesse, certo solo di doverlo fare. Lei sentì che quell’opposizione non veniva da lui, che qualcuno gli aveva messo nella mente la necessità di farlo, o che era successo qualcosa che lo spingeva a comportarsi così. Ma lei era forte, la sua magia era sicura, e l’ uomo non disponeva di difese capaci di resisterle. Lei vide una mappa. Disegnata su un vecchio pezzo di cuoio e scritta di suo pugno. Una mappa, pensò subito lei, che ormai non era più lì, ma in viaggio verso Arborlon e il re degli Elfi. Cercò di scoprire cosa c’era scritto sulla mappa, e per un momento, attraverso i gemiti e i brontolii, riuscì a ricostruire una vaga immagine. Colse qualche nome e qualche simbolo qui e là, vide una serie di trattini che collegavano alcune isole dello Spartiacque Azzurro, al largo della costa del Continente Occidentale. Era il percorso che portava alle colonne di ghiaccio e alla terra dove si trovava il fortino. Ma parole e disegni scomparvero quando l’uomo ebbe un’ultima, forte convulsione e rimase immobile sotto le sue dita, senza più parole, senza più pensieri, privo di forze. La Strega interruppe il canto magico e si allontanò da lui. Non sarebbe riuscita a ottenere altro, e quello che le era stato detto era sufficiente per rivelarle ciò che doveva fare. Tese l’orecchio per un momento, per assicurarsi che la sua presenza non fosse ancora stata scoperta. Il
naufrago giaceva immobile sul lettino, così sprofondato in se stesso che non ne sarebbe mai più uscito. Forse sarebbe sopravvissuto, ma non si sarebbe mai ripreso. Lei scosse la testa. Era inutile lasciarlo in quella condizione.
Kael Elessedil, figlio della regina Aine, un tempo destinato a diventare il re degli Elfi. I fatti erano successi prima della sua nascita, ma lei sapeva la storia. Era dato per disperso da trent’anni, e quello era il suo triste destino. La Strega di Ilse si avvicinò a lui e si sfilò il cappuccio, mostrando il viso che pochi avevano il privilegio di vedere. Sotto la veste che la copriva completamente, non era affatto quella che sembrava. Era molto giovane, da poco giunta alla maturità, e aveva lunghi capelli neri, occhi di un azzurro sorprendente, lineamenti dolci e incantevoli. Da bambina, quando portava il nome che non pronunciava più, andava a guardarsi nello specchio di un laghetto formato dal ruscello che scorreva non lontano dalla sua abitazione e cercava di immaginare l’aspetto che avrebbe avuto da grande. A quell’epoca, quando la cosa le importava, non si giudicava bella. E non pensava di essere bella adesso, quando la cosa non le importava più. Nei suoi occhi e nel suo viso comparvero calore e tenerezza mentre si chinava a baciare sulle labbra quell ’uomo in fin di vita. Prolungò il bacio per tutto il tempo necessario a togliere il respiro dai suoi polmoni, e a quel punto l’uomo morì. «La pace sia con te, Kael Elessedil» gli sussurrò all’orecchio. Uscì dalla casa del guaritore come vi era entrata, dopo essersi nascosta sotto il cappuccio, una presenza simile a un’ombra, che non richiamava l’attenzione. I servitori si sarebbero svegliati dopo la sua uscita, ignari di quanto era successo, inconsapevoli di avere dormito o che il tempo era passato. La Strega stava già setacciando le immagini raccolte e soppesava le varie possibilità. La magia scoperta da Kael Elessedil aveva un valore incommensurabile. Anche senza sapere esattamente di che cosa si trattava, lei lo sentiva. Doveva impadronirsene, naturalmente. Doveva portare a compimento ciò che a lui non era riuscito: trovare la magia, appropriarsene e riportarla indietro. Era certamente protetta, come accadeva nel caso di magie simili, ma non esistevano difese che lei non potesse superare. La sua linea di condotta era già decisa, restava solo da mettere a punto i particolari. Quella che doveva cercare ora, anche se non le era strettamente necessaria per il successo, era la mappa. Sgusciando fra le ombre di Bracken Clell, esaminò i sistemi per procurarsela. Il Cavaliere Alato l’aveva portata ad Allardon Elessedil ad Arborlon, insieme con il braccialetto di Kael. Il re degli Elfi avrebbe capito l’importanza di entrambi, ma non sarebbe stato capace di tradurre le parole scritte sulla mappa. Né avrebbe potuto approfittare, come lei, dei pensieri del fratello. Avrebbe cercato qualcuno in grado di decifrare i simboli misteriosi, per comprendere che cosa aveva scoperto il fratello. A chi poteva rivolgersi? La risposta le si affacciò alla mente prima ancora di terminare di formulare la domanda. Poteva rivolgersi a una sola persona: l’unico in grado di decifrarli. Il grande nemico di lei, l’uomo privo di un braccio e dalle sopracciglia scure, ferito nel corpo e nell’anima. La sua nemesi, ma uguale a lei nell’uso sottile della magia. Nel comprendere le implicazioni di tale evento, il tenore dei suoi pensieri cambiò all’istante. Non era la sola a dare la caccia a quella magia, e il tempo diventava prezioso. Non poteva
permettersi il lusso di lunghe riflessioni e attente pianificazioni. Avrebbe dovuto affrontare una sfida che l’avrebbe messa alla prova come mai in precedenza. Lo stesso Morgawr poteva decidere di prendere parte a una lotta di tale portata.
Aveva rallentato il passo, ma ora riprese a camminare veloce. Doveva pensare a cose più immediate. Prima di tornare alla Malaterra con quelle notizie, doveva concludere il lavoro a Bracken Clell, chiudere tutte le partite in sospeso. La spia attendeva ancora di sapere il valore delle sue informazioni. Si aspettava di essere complimentato per la sua diligenza e pagato bene per il suo impegno. Lei doveva occuparsi di entrambe le aspettative. Eppure, mentre si muoveva silenziosa attraverso il villaggio e si avvicinava all’abitazione della spia, i suoi pensieri tornavano con insistenza al confronto che la aspettava, in un futuro ancora troppo vago perché lo si potesse determinare, in un luogo forse assai lontano dalle terre che percorreva ora: un confronto di volontà, di magie e di destini. Lei e il suo avversario, impegnati in una lotta all’ultimo sangue per la supremazia, come nel sogno da lei fatto in passato. L’immagine le bruciava nei pensieri come un carbone ardente e infiammava la sua immaginazione. Quando entrò nella stanza, trovò la spia ad attenderla. «Padrona» disse, posando con reverenza un ginocchio a terra. «Alzati» gli ordinò. L’uomo si alzò, senza sollevare la testa, lo sguardo. «Hai agito bene. Ciò che mi hai riferito mi ha aperto porte che finora avevo solo sognato.» Vide l’uomo sorridere per l’orgoglio e stringere le mani pregustando il premio che gli sarebbe toccato. «Grazie, padrona.» «Sono io che devo ringraziarti» rispose. Infilò la mano in una tasca interna e ne trasse un sacchettino di cuoio che tintinnava in modo seducente. «Aprilo quando sarò uscita» disse a bassa voce. «Ti auguro la pace.» Lasciò subito la casa, accingendosi all’ultimo compito che la attendeva. Uscì dal villaggio e raggiunse la casetta fatiscente che apparteneva alla spia, tolse dalla gabbia i suoi uccelli e li liberò perché tornassero alla Malaterra. Li avrebbe trovati ad aspettarla. La spia non ne aveva più bisogno. Nel sacchetto pieno d ’oro che aveva ricevuto si nascondeva un piccolo serpente il cui morso era così letale che bastava un graffio delle sue zanne a dare la morte. La spia non avrebbe aspettato il mattino per contare le monete, l’ avrebbe fatto subito. L’avrebbero trovato, naturalmente, ma nel frattempo il serpente sarebbe sparito e il denaro sarebbe sparito alla stessa velocità. In un quartiere come quello in cui abitava la spia, tutti sapevano che i morti non hanno bisogno dell’oro. Non pensò più alla cosa mentre tornava al luogo dove aveva impastoiato e incappucciato la sua averla da guerra. Anche se erano molte e dislocate in tutte le Quattro Terre, la Strega non rinunciava facilmente alle sue spie. Tendeva a proteggerle ferocemente quando erano utili e fidate come quella che aveva lasciato. Anche la migliore spia, comunque, può essere scoperta e costretta a tradire, e lei non poteva correre il rischio che ciò accadesse. Una vita era un piccolo prezzo da pagare per mantenere il vantaggio sul suo peggiore nemico. Ma come impadronirsi della mappa? Quale sotterfugio impiegare che il suo temibile avversario non riuscisse a indovinare? Per qualche istante rifletté sulla possibilità di mettersi di persona a caccia della mappa.
Tuttavia toglierla dalle mani di Allardon Elessedil, che doveva averla già ricevuta, nel cuore della terra degli Elfi, era un compito troppo pericoloso e non lo si poteva affrontare senza un’accurata pianificazione. Poteva cercare di intercettarla mentre la portavano al suo nemico, ma come individuare il mezzo di cui si sarebbero
serviti per portargliela? Inoltre, poteva essere troppo tardi anche per quello. No, doveva prendere tempo. Doveva riflettere. Doveva trovare un modo più sottile per ottenere ciò che voleva. Raggiunse la sua cavalcatura, le tolse i legami e il cappuccio tenendola ferma con la magia, poi si sedette tra il collo robusto, coperto di penne, e il punto dove le ali si univano al corpo, e il grande uccello prese il volo. Il tempo e l’astuzia l’avrebbero ripagata, pensò con allegria, mentre il vento le soffiava sulla faccia e gli odori della foresta lasciavano il posto alla fresca purezza dell’aria notturna, che spazzava via le nubi e faceva risplendere le stelle. Il tempo e l’astuzia, e la potente magia con cui era nata, l’avrebbero resa padrona del mondo.
3 Come tutti i Cavalieri del Wing Hove, Hunter Predd era un uomo pragmatico. Quando la vita gli serviva una mano di carte che non gli piaceva, la accettava come meglio poteva e continuava a fare quello che doveva. I viaggi all’interno delle Quattro Terre, molto al di là del territorio degli Elfi, rientravano in quella categoria. Non gli piaceva viaggiare nell’entroterra, men che meno verso posti dove non era mai stato. Uno di quei posti era Paranor. Era rimasto sorpreso quando Allardon Elessedil gli aveva chiesto di portare laggiù la mappa. Sorpreso perché era il tipo di missione da affidare a un elfo di terra, non a un Cavaliere del Wing Hove. Ma era una persona diretta, incapace di sotterfugi, e aveva chiesto al re il motivo della scelta. Il re gli aveva spiegato che il destinatario della mappa poteva avere domande alle quali solo lui era in grado di rispondere. Se voleva, un altro elfo poteva accompagnarlo nel viaggio, ma non avrebbe detto nulla che Hunter non sapesse, perciò non aveva bisogno di un compagno. Il compito era semplice. Doveva consegnare la mappa a quella persona perché la esaminasse. Doveva portargli il saluto e l’omaggio di Allardon Elessedil e invitarlo ad Arborlon, per discutere con il re degli Elfi sul possibile utilizzo delle informazioni in essa contenute. C’era un tranello in tutto quel bel discorso, e Hunter Predd, che non era uno sciocco, lo intuì fin dall’ inizio. Il re degli Elfi lo serbò per ultimo. La persona cui il cavaliere doveva consegnare la mappa era il druido chiamato Walker, e la destinazione del cavaliere era Paranor, la Fortezza dei Druidi. Walker. Perfino Hunter Predd, che di rado lasciava la costa dello Spartiacque Azzurro, ne aveva sentito parlare. Si diceva che fosse l’ultimo dei Druidi: un protagonista tenebroso della storia delle Quattro Terre, del quale si raccontava che era in vita da più di centocinquant’anni ma che era ancora giovane. Aveva combattuto contro il Regno delle Ombre all’epoca di Wren Elessedil. In seguito era scomparso per decenni, per ricomparire una trentina d’anni prima. Le altre informazioni note al cavaliere erano ancora più vaghe. Si diceva che fosse uno stregone dotato di una grande magia, che avesse cercato di fondare una congrega di stregoni ma che non gliel’avessero permesso, che viaggiasse ancora in incognito nelle Quattro Terre per raccogliere informazioni e cercare discepoli. Tutti lo temevano e nessuno si fidava di lui. A parte Allardon Elessedil, a quanto pareva. Il re garantiva che non c’era nulla da temere, nessun motivo per diffidare. Walker era uno storico e uno studioso, il solo uomo in grado di decifrare i disegni e le parole della mappa.
Dopo avere riflettuto sulla proposta, Hunter Predd aveva accettato la missione di portare la mappa a est
non per dovere o per sollecitudine o per qualcosa che riguardasse i suoi sentimenti per il re degli Elfi, che erano di generico disinteresse. Aveva accettato perché il re gli aveva promesso, in cambio di quel servizio, la cessione al Wing Hove di un’isola che i cavalieri desideravano da tempo, appena a sudovest dell’Irrybis. Una buona proposta, si era detto Hunter nell’udire l’offerta: gli si era presentata una buona occasione e il rischio era accettabile. In realtà non vedeva grandi rischi, per quanto esaminasse la proposta. possibile che il
Naturalmente era
re degli Elfi non gli raccontasse tutto, anzi, ne era sicuro. Politici e regnanti si comportavano così. D’altra parte, non c’era motivo per Allardon Elessedil di mandarlo a morire. Il re desiderava conoscere le informazioni nascoste nella mappa, visto che il naufrago su cui l’aveva trovata era suo fratello. Un druido poteva riuscire a decifrarla, soprattutto se era colto come riteneva il re degli Elfi. Hunter Predd non conosceva alcun Cavaliere del Wing Hove che avesse mai trattato con quell’uomo, né aveva mai sentito qualcuno del suo popolo parlare male dei Druidi. Valutando i rischi a lui conosciuti, che era quanto di meglio potesse fare, e paragonandoli al guadagno, aveva finito per accettare. Così era partito verso mezzogiorno puntando a est, in direzione delle pianure di Streleheim. Le attraversò senza incidenti e volò verso i Denti del Drago, al disopra del Callahorn, scegliendo un passaggio stretto e sinuoso fra i monti alti e frastagliati: un passaggio che a piedi sarebbe stato invalicabile, ma largo quanto bastava al suo Roc per passare. Attraversò velocemente la zona montuosa e ben presto si trovò sulla foresta di Paranor. Fece atterrare Ossidiana accanto a un laghetto dove potevano bere e riposarsi. Mentre si occupava della sua cavalcatura, osservò l’altra sponda del lago, dove gli alberi si univano a formare una parete nera, una massa contorta e minacciosa. Come sempre, provò tristezza per coloro che erano costretti a passare tutta la vita a terra. Il sole era quasi al tramonto quando vide la Fortezza dei Druidi. Era facile trovarla dall’aria. Sorgeva su un promontorio immerso nei boschi, e le sue guglie e i suoi merli illuminati dall’ultimo sole si stagliavano netti sull’orizzonte. La Fortezza si scorgeva da parecchie miglia di distanza; mura di pietra e tetti spigolosi puntati verso il cielo, una presenza cupa e imponente. Allardon Elessedil gliel’aveva descritta nei dettagli prima della partenza, ma il Cavaliere Alato l’avrebbe riconosciuta comunque. Non poteva essere niente di diverso da quello che era: un luogo da cui potevano prendere il volo le voci più tenebrose, il nascondiglio dell’ultimo appartenente a un Ordine i cui membri ispiravano tanta sfiducia e paura da spingere la gente a evitare persino la loro ombra. Hunter Predd guidò Ossidiana fino a una piccola radura, accanto alla base del promontorio su cui sorgeva la Fortezza. Lunghe ombre coprivano il territorio circostante, scivolavano dagli antichi alberi e si distendevano in forme strane e irriconoscibili. Solo la Fortezza, che si levava al disopra dei boschi e delle ombre, silenziosa e cristallizzata nel tempo, era ancora immersa nella luce del sole. Il cavaliere la guardò con diffidenza. Sarebbe stato più semplice farsi portare da Ossidiana in cima alla salita anziché lasciarlo lì e salire a piedi, ma non voleva rischiare un atterraggio troppo vicino alle mura. Lì, almeno, gli alberi offrivano protezione e rifugio, e c’era spazio per fuggire. Per un cavaliere, la salvezza del suo animale era sempre la principale preoccupazione. Non aveva bisogno di impastoiare o incappucciare il gigantesco uccello perché i Roc erano
addestrati a rimanere dove li si lasciava e ad arrivare quando li si chiamava. Ossidiana rimase dunque ai piedi del pendio e al limitare della foresta, mentre Hunter Predd percorreva la breve salita. Arrivò alle alte mura proprio mentre il sole calava definitivamente lasciando nell’ombra la costruzione. Guardò in alto, alla ricerca di qualche segno di vita. Non avendone scorti, si diresse al portone più vicino, che era chiuso e sbarrato. Ai lati di esso c’erano due porte più piccole e provò ad aprirle, ma erano chiuse a chiave. Fece un passo indietro e tornò a guardare in alto.
«Ehi, della rocca!» gridò. Non ebbe risposta. L’eco della sua voce svanì nel silenzio. Attese con pazienza. Il cielo diventava via via più scuro. Si guardò attorno: se non avesse ottenuto risposta al più presto, avrebbe dovuto scendere e accamparsi per la notte. Tornò a sollevare la testa e scrutò i parapetti e le torri. «Ehi! Ho un messaggio da parte di Allardon Elessedil!» Tese l’orecchio nel silenzio che seguì. Si sentiva piccolo e insignificante, all’ombra dell’enorme Fortezza. Forse il druido era in viaggio. Forse era lontano di lì, e la sua missione era una perdita di tempo. Aggrottò la fronte. Come si poteva sapere se il druido c’era? La domanda venne interrotta da un improvviso movimento al suo fianco. Si voltò di scatto e si trovò di fronte al più grosso gatto selvatico che avesse mai visto. Un’enorme bestia nera che lo fissava con occhi brillanti come lanterne, e con l’espressione di un uccello affamato che ha visto un insetto succulento. Hunter Predd rimase perfettamente immobile, non poteva fare altro. L’enorme gatto pareva pronto a saltargli addosso, e le armi di cui lui disponeva erano del tutto inadeguate. L’animale, comunque, non si muoveva, si limitava a studiarlo, con la testa leggermente abbassata tra le spalle robuste, la coda che si muoveva debolmente nell’oscurità. A Hunter Predd bastarono pochi istanti per notare come in quel gatto selvatico vi fosse qualcosa di strano. Nonostante la dimensione e l’evidente forza, era vagamente trasparente, e larghe parti del suo corpo sparivano e ricomparivano con il passare dei secondi, prima una zampa, poi una spalla, poi la schiena e così via. Era l’animale più bizzarro che avesse mai visto, ma questo non bastò a fargli cambiare idea, perciò continuò a rimanere immobile. Alla fine il gatto parve soddisfatto dell’indagine, si girò e fece qualche passo, poi tornò a guardarlo. Hunter Predd non si mosse. Il gatto si allontanò di qualche passo poi si girò di nuovo a guardarlo. Di lato al portone principale si era aperta silenziosamente una porticina rinforzata di ferro. Il gatto si diresse da quella parte, poi si fermò e si guardò alle spalle. Dopo che ebbe ripetuto un paio di volte il movimento, il cavaliere capì. L’animale lo aspettava, lo invitava a superare la porta e a entrare nella Fortezza. Hunter Predd non aveva alcuna obiezione. Respirò a fondo, lasciò la strada ed entrò nella Fortezza dei Druidi. L’uomo che un tempo si chiamava Walker Boh e che adesso era semplicemente Walker aveva visto arrivare il cavaliere quando era ancora molto lontano. Le linee magiche d’allarme l’avevano avvertito dell ’avvicinarsi di estranei ed era uscito sulle mura, dove non poteva essere visto. Aveva osservato il cavaliere atterrare con il suo Roc e salire a piedi fino alla porta della Fortezza. Avvolto nella veste nera che delineava la sua figura alta e robusta, aveva visto il nuovo venuto studiare le mura. Poi l’uomo aveva chiamato, ma Walker non aveva risposto. Era curioso di sapere cos’avrebbe fatto il visitatore. Aveva aspettato, perché attendere finché non era sicuro era una saggia precauzione. Quando però il cavaliere aveva chiamato una seconda volta dicendo che gli portava un messaggio di Allardon Elessedil, Walker aveva inviato Bisbiglio a prenderlo. Il grosso gatto selvatico era sceso in silenzio, obbediente, perché sapeva cosa doveva fare. Walker l’aveva seguito, chiedendosi perché il re degli Elfi di Terra si servisse di un Cavaliere del Wing Hove per mandargli un messaggio. Le ragioni potevano essere due. In primo luogo
il re sapeva quello che Walker avrebbe risposto a un elfo di Arborlon e in particolare al suo re, e sperava che un cavaliere ottenesse risultati migliori. In secondo
luogo costui doveva avere conoscenze profonde sul messaggio. Mentre scendeva dall’alto delle mura, si strinse nelle spalle e rinunciò ad almanaccare. Presto avrebbe saputo. Quando arrivò in fondo alla scala ed entrò nel cortile, il Cavaliere Alato e Bisbiglio lo stavano aspettando. Tirò indietro il cappuccio e si scoprì la testa e il viso mentre si avvicinava per salutare il nuovo venuto. Non c’era nulla da guadagnare nel cercare di intimidire quell’uomo. Chiaramente, il cavaliere era un veterano addestrato, abituato a tutto, ed era venuto a Paranor perché aveva accettato di farlo, non perché vi era stato obbligato. Non aveva alcun dovere di fedeltà nei riguardi degli Elessedil. I Cavalieri del Wing Hove erano notoriamente indipendenti, quasi come i Corsari, e se quello era arrivato fino a Paranor, così lontano dalla sua regione e dalla sua gente, ci doveva essere un buon motivo. Walker era curioso di conoscerlo. «Io sono Walker» si presentò, tendendo la mano al cavaliere. L’altro gliela strinse con un cenno del capo. I suoi occhi grigi esaminarono il viso abbronzato, la barba nera, i lunghi capelli, i lineamenti forti, la fronte spaziosa e gli occhi penetranti del druido. Non parve accorgersi che gli mancava un braccio. «Hunter Predd.» «Arrivi da molto lontano, cavaliere» osservò Walker. «Pochi vengono qui senza un buon motivo.» L’altro borbottò: «Nessuno, penso». Si guardò attorno e infine posò gli occhi su Bisbiglio. «È tuo?» «Nella misura in cui un gatto selvatico appartiene a qualcuno.» Walker lo osservò. «Si chiama Bisbiglio. Il motivo sta nel fatto che dovunque io vada sono preceduto e seguito da bisbigli. Si adatta al modo in cui sono andate le cose per me. Ma credo che tu lo sappia già.» Il cavaliere annuì in maniera poco impegnativa. «E si presenta sempre così, un pezzo sì e un pezzo no, come se non arrivasse mai tutto?» «Quasi sempre. Dicevi di avere un messaggio di Allardon Elessedil. Il messaggio è per me, vero?» «Sì.» Hunter Predd si passò sulle labbra il dorso della mano. «Hai un po’ di birra?» Walker sorrise. Un uomo diretto, che non faceva complimenti: un cavaliere fino all’osso! «Entra.» Gli fece strada fino a una porta nella rocca principale. Andò nella stanza dove conservava il cibo e le bevande e dove mangiava da solo, prese due coppe e un bricco e li posò su un tavolino situato da un lato. Accennò al cavaliere di sedersi, si accomodò davanti a lui e riempì i bicchieri. Bevvero in silenzio, a lunghe sorsate. Bisbiglio era scomparso. In genere non entrava nella rocca se non veniva chiamato. Hunter Predd posò il boccale e raddrizzò la schiena. «Quattro giorni fa pattugliavo lo Spartiacque Azzurro attorno all’isola di Mesca Rho e ho trovato un uomo nell’acqua.» Proseguì il racconto: il ritrovamento dell’elfo, le sue pessime condizioni, la scoperta del braccialetto e della mappa, il trasporto fino al guaritore di Bracken Clell, il proseguimento del suo viaggio fino ad Arborlon e l’incontro con Allardon Elessedil. Il braccialetto, riferì, era appartenuto al fratello del re, Kael, scomparso trent’anni prima nel corso di una spedizione alla ricerca di una magia rivelata da un sogno alla veggente della regina Aine. «So di quella spedizione» annuì Walker e gli fece segno di continuare.
Non c’era molto altro da riferire. Dopo avere determinato che il bracciale apparteneva a Kael, Allardon Elessedil aveva esaminato la mappa e non era riuscito a decifrarla. Che vi fosse tracciata la rotta seguita dal fratello per arrivare alla magia desiderata era chiaro, però si poteva ricavarne ben poco di più. Aveva
chiesto a Hunter di portarla da Walker, che, secondo lui, era il solo capace di aiutarlo. Walker per poco non scoppiò a ridere. Era tipico del re degli Elfi cercare aiuto dal druido come se il rifiuto di aiutarlo a sua volta non significasse nulla. Ma non lo disse. Prese invece il pezzo di cuoio consunto che il cavaliere gli porgeva e lo posò sul tavolo davanti a sé, senza aprirlo. «Hai dato da mangiare a sufficienza al tuo Roc?» chiese, staccando gli occhi dalla mappa per guardare il cavaliere. «Devi uscire questa notte?» «No» rispose Hunter Predd. «Per il momento, Ossidiana è a posto.» «Perché non mangi qualcosa e poi fai un bagno caldo e ti riposi? Hai viaggiato molto, nei giorni scorsi, e devi essere stanco. Io studierò la mappa e domattina parleremo di nuovo.» Preparò una zuppa calda per il cavaliere, portò pesce secco e pane, e lo guardò con soddisfazione mentre mangiava ogni cosa e beveva parecchie birre. Lasciò la mappa dov’era, sul tavolo, senza mostrare interesse. Non era ancora certo di quello che aveva in mano, e voleva essere sicuro delle proprie azioni, prima di mostrare al cavaliere una reazione che poteva essere riferita al re degli Elfi. Il difficile rapporto con Allardon Elessedil non gli permetteva di dargli qualcosa per niente. Era già abbastanza sgradevole dover rispettare le convenzioni della cortesia con un uomo che aveva fatto cos” poco per meritarlo. Ma in un mondo in cui le alleanze erano necessarie e, nel suo caso, tendevano a essere rare, doveva giocare partite di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Quando Hunter Predd ebbe mangiato, si fu fatto il bagno e si fu addormentato, Walker tornò al tavolo e prese la mappa. Poi attraversò numerose sale ammuffite e salì una scala a chiocciola fino alla biblioteca, che si trovava nella rocca fin dall’epoca di Galaphile. Sugli antichi scaffali si allineavano libri di scarsa importanza, pieni di registrazioni eseguite dai Druidi sul clima e sulle coltivazioni, con elenchi di cognomi delle famiglie nobili, nascite e morti. Ma dietro quegli scaffali, in una stanza protetta da una magia che soltanto lui poteva superare, c’erano leStorie dei Druidi, i favolosi libri che contenevano l’intera storia dell’Ordine e della magia conosciuta e usata dai suoi membri nel corso di più di un migliaio di anni. Walker si sedette comodamente in mezzo ai ricordi dei suoi predecessori, aprì la mappa e cominciò a studiarla. Per farlo gli occorse molto tempo, assai più di quanto aveva pensato. Quello che trovò lo sorprese. La mappa era affascinante e assai promettente. Era importante, senza alcun dubbio, ma non poteva determinarne esattamente il valore finché non avesse tradotto le scritte sui margini, in gran parte annotate in una lingua a lui non familiare. Comunque, aveva libri che permettevano di tradurre quelle scritte, e alla fine si decise, andando agli scaffali che nascondevano leStoriee i loro segreti sul potere. Allungò una mano dietro una fila di libri e schiacciò una serie di borchie metalliche. Si liberò un gancio e una parte della scaffalatura ruotò su se stessa. Walker s’infilò nell’apertura e giunse in una stanza con pareti, pavimento e soffitto di granito, nella quale c’erano solo una lunga tavola e quattro sedie. Accese le torce che bruciavano senza far fumo collocate in anelli alle pareti e rimise a posto dietro di sé lo scaffale rotante. Posò la mano su un punto della parete di granito, palmo e dita distesi, e abbassò la testa per concentrarsi. Tutte le conoscenze dei Druidi fin dall’inizio dell’Ordine appartenevano
ora a lui. Gli erano state date quando aveva riconquistato Paranor ed era divenuto un druido, tanti anni prima. Usò una piccola parte di quelle conoscenze per richiamare leStorie dei Druididal loro nascondiglio. Una luce azzurra gli scaturì dalle dita e si propagò entro la pietra, come vene attraverso la carne. Un attimo più tardi la parete scomparve e apparvero i libri del suo Ordine, allineati sugli scaffali in lunghe
file e in sequenza numerata, con rilegature di cuoio e lettere d’oro. Quella notte trascorse molto tempo sui libri, esaminandone parecchi per cercare la chiave del linguaggio della mappa. Quando lo trovò, rimase confuso e sorpreso. Derivava da una lingua parlata nel Vecchio Mondo, prima delle Grandi Guerre, una lingua morta da duemila anni. Una lingua di simboli più che di parole. Si chiese come avesse fatto, un elfo della sua epoca, a imparare un simile linguaggio. E perché l’ aveva usato sulla mappa? Rifletté su quelle domande, ma tutte le risposte che gli vennero in mente erano allarmanti. Lavorò sulla traduzione fin quasi all’alba, prestando molta attenzione a non sbagliare interpretazione e a non balzare alle conclusioni. Più avanzava nella decifrazione, più cresceva la sua emozione. La mappa era la chiave di una magia di tale valore, di tale potere, da lasciarlo senza fiato. Doveva fare uno sforzo per non mettersi subito alla sua ricerca, mentre ne immaginava le potenzialità. Per la prima volta dopo molti anni vedeva un modo per assicurarsi ciò che gli era stato negato per tanto tempo: un Consiglio dei Druidi, indipendente da tutte le nazioni, che lavorava per risolvere i più difficili problemi della vita e migliorare l’ esistenza di tutti i popoli delle Quattro Terre. Quel sogno gli era sfuggito per trent’anni, fin da quando si era destato dal Sonno Magico e si era avventurato nel mondo per mantenere la promessa fatta a se stesso quando era diventato un druido. Il suo progetto prevedeva un consiglio di delegati di tutte le razze e di tutte le terre, di tutti i governi e di tutte le province, dedito esclusivamente allo studio, all’apprendimento e alla scoperta. Ma fin dall’inizio erano sorte forti resistenze, non solo da parte di coloro dai quali poteva aspettarsi ostilità, ma da tutti. Perfino dagli Elfi, e in particolare da Allardon Elessedil e da sua madre. Nessuno era disposto a dare a Walker l’autonomia che lui reputava necessaria. Nessuno voleva assegnare un vantaggio a un altro. Tutti erano diffidenti, intimoriti dagli effetti della presenza di un forte Consiglio dei Druidi in un equilibrio di poteri molto precario. Nessuno voleva correre il rischio che il druido chiedeva loro. Walker sospirò. Le loro richieste erano ridicole e inaccettabili. Se le nazioni e le loro popolazioni non erano disposte a inviare delegati e a lasciarli liberi di dedicarsi alla vita dei Druidi, era inutile perdere tempo a pensarci. Non era riuscito a convincerli che se avessero accettato le sue offerte, col tempo ne avrebbero tratto profitto tutti. La gente era convinta che i Druidi non fossero affidabili, che avrebbero solo creato problemi. La storia dimostrava che i Druidi erano responsabili di ogni guerra fin dal primo Consiglio dei Druidi di Paranor. Era stata la loro magia, la magia praticata nella segretezza, a distruggerli, e si trattava di un’esperienza che nessuno intendeva ripetere. Adesso la magia apparteneva a tutti. Era un ’epoca nuova, con nuove regole. Se si fosse permesso ai Druidi di ricostituirsi, sarebbe stato necessario controllarli. Non ci si poteva accontentare di qualcosa di meno. Alla fine il tentativo era fallito, Walker era stato bandito da tutti e a bloccarlo completamente erano poi sorte piccole ostilità, egoismi e miopie che l’avevano lasciato furioso e stupito. Aveva fatto affidamento sugli Elfi quali battistrada, ma gli Elfi l’avevano rifiutato come tutti gli altri. Dopo la morte della regina Aine, aveva riposto le sue speranze in Allardon Elessedil, ma il re degli Elfi aveva annunciato di voler seguire i desideri della madre. Non avrebbe inviato Elfi a studiare a Paranor e non avrebbe approvato un Consiglio dei Druidi. Walker doveva fare da solo. Ma adesso, pensò Walker con una sorta di euforia, aveva trovato il modo di cambiare tutto. La
mappa gli forniva una leva superiore a qualsiasi altra. Questa volta Allardon non avrebbe potuto rifiutargli il suo aiuto. Naturalmente, si affrettò a dirsi, se fosse riuscito a trovare la magia sfuggita a Kael Elessedil e alla sua spedizione. Se l’avesse recuperata dalla fortezza dov’era nascosta e avesse superato le sue difese. Se, infine, fosse sopravvissuto al viaggio lungo e pericoloso che conduceva laggiù.
Per farlo aveva bisogno di aiuto. Rimise leStorie dei Druidisugli scaffali, fece un gesto circolare con la mano e chiuse la parete magica. Quando la stanza tornò a sembrare vuota, spense le torce, passò nella biblioteca e chiuse accuratamente la scaffalatura mobile. Si guardò attorno per qualche istante, per assicurarsi che ogni cosa fosse come l’ aveva lasciata. Poi, dopo essersi infilato in tasca la mappa, salì sulle mura per guardare il sole che sorgeva. Mentre osservava la prima luce argentea dell’alba allargarsi nel cielo, fu raggiunto da Bisbiglio. Il grosso gatto si accoccolò accanto a lui, e pareva in cerca di compagnia. Ciascuno di loro aveva solo l’altro come conforto, pensò il druido. Fin da quando gli era apparsa l’ombra di Allanon. Fin da quando erano rimasti chiusi nel limbo dimenticato di Paranor. Fin da quando aveva riportato nel mondo la Fortezza dei Druidi divenendo l’ultimo membro dell’Ordine. Fin da quando era morto Cogline. Anche gli altri erano morti: gli Ohmsford, Morgan Leah, Wren Elessedil, Damson Rhee. I soli sopravvissuti erano lui e il gatto selvatico. E tutt’e due, per molti versi, erano ormai due proscritti, due vagabondi solitari in un mondo che, durante il suo Sonno Magico, era profondamente cambiato. Ma a preoccuparlo non erano i cambiamenti delle Quattro Terre, quella mattina, bensì l’impressione che le informazioni della mappa e la ricerca della sua magia l’avrebbero costretto a diventare quello che non aveva mai voluto essere: un druido nel senso antico, un manipolatore di persone e un tessitore di progetti, un venditore di informazioni disposto a sacrificare tutto e tutti per raggiungere ciò che riteneva necessario. Come il vecchio Allanon. Era l’aspetto dei Druidi che aveva sempre disprezzato. Sapeva che l’avrebbe disprezzato anche in se stesso quando l’avesse visto affacciarsi. Era sicuro che si sarebbe affacciato, e forse l’avrebbe cambiato per sempre. Il sole comparve all’orizzonte con un lampo d’oro brillante. La giornata si annunciava chiara, luminosa e tiepida. Walker sentì i primi raggi del sole sulla faccia. Una piccola cosa, ma di buon augurio. Negli ultimi anni, la sua vita si era sempre più chiusa su se stessa. Adesso era giunto il momento di ampliarla in modi che non avrebbe creduto possibili. “Bene” si disse, come per accantonare quelle riflessioni. Sapeva cosa doveva fare. Doveva andare ad Arborlon e parlare con Allardon Elessedil. Doveva convincere il re degli Elfi che potevano lavorare insieme per scoprire il segreto della mappa. Doveva convincerlo a organizzare una spedizione per andare alla ricerca della magia di cui parlava la mappa, e mettere lui al comando. Doveva trovare il modo di farsi alleato il re degli Elfi senza fargli sospettare che l’ idea era sua. Doveva rivelare solo una parte delle sue conoscenze, non tutte. Doveva agire con cautela. Batté le palpebre per vincere la stanchezza e si ripeté che lui era Walker, l’ultimo dei Druidi, l’ultima speranza per gli ideali superiori che il suo Ordine aveva sposato con tanta fermezza quando era stato costituito. Se voleva che le Quattro Terre si unissero in pace, la magia doveva essere controllata da un Consiglio dei Druidi che non doveva rispondere a un solo governo o a una sola nazione, ma a tutti. Soltanto lui poteva ottenere quel risultato. Soltanto lui conosceva il modo. Si chinò su Bisbiglio e gli posò gentilmente la mano sulla testa massiccia. «Tu devi rimanere qui, vecchio amico» sussurrò. «Devi fare la guardia finché non tornerò.»
Si raddrizzò e si stiracchiò. Hunter Predd dormiva in una stanza buia e non si sarebbe svegliato ancora per un po’. Walker poteva dormire un’ora prima di partire. Doveva bastargli.
Seguito dal gatto selvatico, che appariva e spariva come un miraggio alla nuova luce del giorno, lasciò le mura e tornò nella rocca.
4 Con un leggero cigolio della tenuta da volo di cuoio nero, Redden Alt Mer attraversò a grandi passi l’ accampamento della Federazione per raggiungere il campo d’aviazione, e tutti si girarono a guardarlo. A richiamare l’attenzione di alcuni erano i lunghi capelli rossi che gli scendevano lungo la schiena come lingue di fuoco. Per altri era il suo portamento tranquillo, disinvolto, sicuro di sé: un uomo alto e robusto che trasudava forza e dinamismo. Per la maggior parte di quegli uomini era la sua leggenda. Settantotto vittorie ratificate in centonovantadue missioni, tutte con la stessa nave volante, tutte portate a termine senza gravi danni. Volare con Redden Alt Mer portava fortuna, dicevano i veterani. In un luogo e un tempo in cui l’ aspettativa di vita di un aviatore non superava i sei mesi, Alt Mer era sopravvissuto per tre anni senza un graffio. Aveva una buona nave, certo, ma ci voleva qualcosa di più per rimanere vivi al fronte. Ci volevano abilità, coraggio, esperienza e una buona scorta della merce più preziosa: la fortuna. Il comandante le aveva tutte. Ne era impregnato. Aveva passato quasi tutta la vita in volo: a sette anni era mozzo, a quindici anni primo ufficiale di bordo, cinque anni più tardi comandante. Quando i venti della fortuna cambiavano, dicevano i veterani, Redden Alt Mer sapeva sempre scegliere quali cavalcare. Il corsaro non pensava mai a cose simili: in guerra, pensare alla fortuna portava iella. E ancor più iella portava chiedersi se era diverso da ogni altro. Essere un’eccezione alla regola era una buona cosa, ma non era il caso di chiedersi come mai lui era vivo mentre tanti altri erano morti. Gli avrebbe fatto perdere lucidità. E non avrebbe contribuito a farlo dormire meglio. Mentre attraversava l’accampamento, scambiò qualche saluto e qualche battuta con coloro che lo conoscevano: un leggero motteggio che destava un sorriso. Sapeva cosa pensavano di lui e accettava la sua parte di amico di tutti. Che male poteva fargli? In guerra è meglio avere qualche amico in più. Lui era in quella guerra già da tre anni, e da due bloccato nelle alture del Prekkendor, mentre le forze di terra della Federazione e dei Liberi si facevano a pezzi giorno dopo giorno. Alt Mer era un corsaro del porto di March Brume, a sudovest, sullo Spartiacque Azzurro. Era un veterano di innumerevoli conflitti ancor prima di arruolarsi su quel fronte. Non era esagerato dire che aveva passato l’intera vita sulle navi da guerra: per poco non era nato in mare, ma suo padre, anche lui comandante, era riuscito a tornare in porto con sua madre poco prima del parto. Fin da quando aveva accettato il primo incarico come mozzo, era sempre vissuto in volo. Non sapeva spiegare perché amasse tanto quella vita, la faceva e basta. Si sentiva a posto quando volava, come se gli venisse tolta una rete di divieti e obblighi in cui era avviluppato. Quando era a terra pensava sempre al momento in cui sarebbe di nuovo stato in volo. E quando era in volo, non pensava ad altro. «Ehi, comandante!» gli gridò un soldato con il braccio al collo e la faccia bendata, che veniva avanti zoppicando. «Mandami un po’ della tua fortuna!» Redden Alt Mer sorrise e gli mandò un bacio. Il soldato rise e lo salutò con il braccio sano. Il corsaro continuò a camminare, assaporando l’odore e il sapore dell’aria, pensando a quanto gli mancava il mare. La maggior parte della sua carriera si era svolta a ovest, sullo Spartiacque Azzurro. Era un mercenario, come la maggior parte dei Corsari, e accettava l’ingaggio migliore,
alleandosi a chi pagava di più per i suoi servigi. In quel momento era la Federazione a offrire la paga migliore, e lui combatteva per quella. Ma cominciava a sentire una ben nota inquietudine, il desiderio di qualcosa di nuovo. La guerra contro i Liberi continuava da più di dieci anni. Non era la sua guerra, e per di più non aveva molto senso per lui. Il denaro poteva attirarti solo per un tempo limitato, quando il tuo cuore era da un’altra parte.
Inoltre, chiunque tu fossi, presto o tardi la fortuna sarebbe finita. E in quel momento era meglio trovarsi altrove. Uscì dal rumoroso disordine di tende e bivacchi per entrare nel campo di volo. Le navi da guerra erano ancorate ai loro ormeggi, galleggiavano poco al disopra del terreno, con le vele-luce dei doppi alberi rivolte verso il sole. In gran parte erano state fabbricate nella Federazione, e si vedeva. Grandi bestioni, brutti e ingombranti, ricoperti di metallo e dipinti con le insegne del reggimento, quando erano in volo si muovevano lente nel cielo, simili a grossi insetti incerti. Come trasporto truppe e arieti da sfondamento erano eccezionali, ma come navi da attacco, capaci di colpire in fretta e con precisione, lasciavano molto a desiderare. Se quelle navi erano ben comandate, e molte non lo erano, la loro sopravvivenza sul fronte era pressoché la stessa dei loro comandanti ed equipaggi. Proseguì senza guardarle. Lì nessuno si sognava di scherzare con lui come i semplici fanti. Gli ufficiali e gli avieri della Federazione lo disprezzavano. I Corsari erano mercenari, non soldati di carriera. I Corsari combattevano solo per denaro e se ne andavano quando volevano. I Corsari non davano alcun peso alla causa della Federazione o alla vita degli uomini che si erano sacrificati per difenderla. Ma la cosa peggiore era la consapevolezza che gli ufficiali e gli equipaggi dei Corsari erano molto migliori di quelli della Federazione. Quando eri in volo, la fede nella causa non serviva a mantenerti in vita. Alcune frasi offensive vennero scagliate contro di lui, da dietro l’anonimato degli scafi coperti di metallo, ma le ignorò. Nessuno avrebbe osato dirgliele in faccia. Non lo facevano più, da quando aveva ucciso l’ ultimo che ci aveva provato. Le agili, affusolate navi corsare gli si fecero incontro mentre arrivava alla fine del campo. La prima era la Black Moclips, con la lucida chiglia di legno e metallo che scintillava alla luce del sole. Era la migliore nave che avesse comandato, un incrociatore progettato per la battaglia, svelto a reagire a qualsiasi movimento delle vele-luce e all’allargamento e al restringimento dei tubi radianti. Lunga trenta braccia e larga dodici, assomigliava a una grossa razza nera. La cabina di pilotaggio, bassa e larga, era situata nel centro, su una tolda sostenuta da coppie di pontoni che davanti e dietro diventavano arieti da sfondamento. Una doppia serie di cristalli di diapso convertiva in energia cinetica la luce raccolta dalle vele collettrici attraverso i tubi radianti. Di lì, poi, le valvole di Parse espellevano l’energia cinetica e facevano muovere la nave. Il ponte di comando era a prua, e il pilota stava al centro di esso, con i comandi accuratamente protetti dai proiettili nemici. Tre alberi – a prua, a poppa e al centro – portavano le vele-luce: una vela ciascuno, di forma bizzarra, larghe e diritte in basso, dove erano legate ai boma, ma curve in alto, fino alla punta triangolare. Quel disegno permetteva di mantenerle tese durante i cambiamenti d’assetto e offriva meno resistenza al vento. Per restare vivi in volo servivano velocità e potenza, entrambe disponibili in pochi secondi. Furl Hawken uscì dall’ombra della nave e corse lungo il campo, verso di lui, con la lunga barba bionda che ondeggiava da una parte all’altra. Quando lo raggiunse, gli si affiancò. «Siamo pronti, comandante. Bella giornata per partire, vero?» «Ci aspetta un volo liscio.» Redden Alt Mer posò la mano sulla spalla del suo ufficiale in seconda. «Notizie di Little Red?» Furl Hawken masticò qualcosa che teneva in bocca, tabacco o altro, e abbassò gli occhi. «È rimasta a letto perché non stava bene, comandante. Dev’essere influenza. La conosci. Se avesse potuto, sarebbe venuta.»
«Sei sempre stato il peggior bugiardo nel raggio di cento miglia. Sarà in qualche taverna, o peggio.» L’uomo fece la faccia offesa. «Be’, può darsi che sia così, ma per il momento faresti meglio a lasciar
perdere, visto che abbiamo un problema più urgente.» Scosse la testa. «Come se non ne avessimo in continuazione, da qualche tempo in qua. Come se i grugniti non venissero tutti dallo stesso porcile.» «Ah, i nostri amici del Comando della Federazione?» «Abbiamo con noi nientemeno che un generale comandante di squadra con due tirapiedi. A scopo di osservazione, mi dice. Esplorazione del fronte. Una giornata nei cieli. Al diavolo! Io ho continuato ad annuire e a sorridergli come la moglie del marinaio quando il marito le dice che non s’imbarcherà più.» Redden Alt Mer annuì distrattamente. «È la miglior cosa da fare con quella gente, Hawk.» Avevano raggiunto laBlack Moclips. Prese la scala di corda e salì fino al ponte dove lo aspettavano il generale della Federazione e i suoi aiutanti di stato maggiore. «Generale» lo salutò affabilmente. «Benvenuto a bordo.» «I miei rispetti, comandante Alt Mer» rispose l’altro. Non si presentò, e questo rivelò al corsaro l’idea che aveva di lui. Era un uomo minuto, con la faccia affilata e la pelle olivastra. Secondo Redden Alt Mer, negli ultimi dodici mesi non aveva trascorso una sola giornata al fronte. «Siamo pronti al decollo?» «Pronti e in assetto di partenza, generale» rispose Redden Alt Mer. «Il tuo primo ufficiale?» «Indisposizione.» Era quanto Little Red si sarebbe augurata una volta che lui le avesse messo le mani addosso. «Il signor Hawken può prendere il suo posto. Signori, è il vostro primo volo?» La risposta gli venne dall’occhiata che si scambiarono i due aiutanti del generale. «Sì» confermò quest’ultimo, con un’alzata di spalle. «Il tuo compito sarà rendere istruttiva l’esperienza. Il nostro apprendere tutto quello che puoi insegnarci.» Red ordinò all’ufficiale in seconda di alzare le vele: «Tirale su, Hawk». Poi si rivolse agli ospiti: «Oggi vedremo un po’ di azione, generale» avvertì. «Potrebbe diventare pericoloso.» Il generale sorrise in modo condiscendente. «Siamo soldati, comandante. Staremo benissimo.» “Idiota pomposo” pensò Redden Alt Mer. “Starai bene se ti farò stare bene io.” Osservò il suo equipaggio, tutto di Corsari, salire sugli alberi per sciogliere le vele e mettere in posizione i tubi radianti. Le navi volanti erano macchine meravigliose, ma per manovrarle occorreva una disposizione mentale che ai soldati della Federazione mancava. I meridionali andavano bene sul terreno, a eseguire manovre di fanteria. Erano insuperabili quando si trattava di gettarsi a corpo morto attraverso una breccia, come sacchi di sabbia, e di affidarsi al numero per schiacciare il nemico. Ma quando erano in aria non sapevano mai cosa fare l’istante successivo. Ogni loro capacità intuitiva svaniva. Ogni loro conoscenza sulla conduzione della guerra si prosciugava e volava via al primo soffio di vento che gonfiava le vele. I Corsari, invece, erano nati per quella vita. Ce l’avevano nel sangue, nella loro storia, nel modo in cui erano vissuti per duemila anni. Reagivano male all’irreggimentamento e alle
manovre militari. Reagivano bene alla libertà. E volare sulle grandi navi aeree significava essere liberi. Migratori per natura e per tradizione, erano sempre in viaggio: per loro, rimanere fermi era inconcepibile. La Federazione non l’ aveva ancora capito, e continuava a mandare osservatori per cercare di scoprire le conoscenze che i loro mercenari possedevano e tenevano segrete.
Il guaio era che non si trattava di qualcosa che si potesse insegnare. Gli uomini delle Terre di Confine che combattevano per i Liberi non erano migliori dei soldati della Federazione. E neppure i Nani. Solo gli Elfi avevano imparato a veleggiare sfruttando le correnti aeree con la stessa agilità dei Corsari. Un giorno la situazione sarebbe cambiata. Le navi aeree erano ancora una novità per le Quattro Terre. Le prime erano state costruite una ventina d’anni prima. Erano in servizio come navi da guerra da meno di cinque anni. Solo pochissimi carpentieri navali conoscevano bene la meccanica delle vele-luce, dei tubi radianti e dei cristalli di diapso ed erano in grado di utilizzarli nel modo migliore. Usare la luce come energia era un sogno antico, realizzatosi solo occasionalmente, come nel caso delle navi aeree. Ma una cosa era costruirle, un’altra farle volare. Occorrevano abilità, intelligenza e istinto per mantenerle nell’aria, di conseguenza la maggior parte andava distrutta più a causa di conduzione inadeguata, perdita di controllo e panico che per danni bellici. I Corsari navigavano per mare su mercantili e vascelli pirata da più tempo di ogni altro popolo, e il passaggio alle navi volanti era facile per loro. Come mercenari avevano un grande valore per la Federazione. Tuttavia gli uomini del Sud continuavano a illudersi che spiando il modo in cui i Corsari riuscivano a far sembrare il tutto così facile, non avrebbero più avuto bisogno dei loro comandanti ed equipaggi. Questo spiegava la presenza dei suoi passeggeri, gli ultimi tre di una lunga serie di ottimisti ufficiali della Federazione. Redden Alt Mer sospirò rassegnato. Non poteva farci niente. Hawk aveva già brontolato a sufficienza per tutt’e due. Prese posto nella cabina del pilota e controllò gli uomini che terminavano di fissare i tubi radianti e di tendere le vele. Anche le altre navi si preparavano al decollo, e i loro equipaggi eseguivano le stesse manovre. Sul campo, intanto, il personale di terra si preparava a sciogliere gli ormeggi. Sentì pulsare nelle vene la vecchia passione e la vista gli si schiarì. «Scopri i cristalli, Hawk!» gridò all’ ufficiale in seconda. Furl Hawken passò l’ordine agli uomini addetti alle valvole di Parse, dove i cristalli ricevevano la luce convogliata dai tubi radianti. La schermatura dei cristalli era costituita di sottili cappucci di metallo coperti da teloni assicurati a perni: bastava togliere teloni e cappucci per dare al pilota, nella sua cabina, il controllo della nave. Alt Mer provò a muovere le varie leve, dando potenza poco per volta. LaBlack Moclipssi sollevò e tese i cavi d’ormeggio, cambiando leggermente assetto a mano a mano che la luce si trasformava in energia e veniva espulsa attraverso le valvole di Parse. «Sciogliere gli ormeggi!» ordinò. Il personale di terra sciolse le gomene e laBlack Moclipssi sollevò senza scosse, guadagnando quota con sicurezza. Alt Mer girò la ruota che aumentava l’inclinazione dei tubi radianti per mandare più luce ai cristalli. L’assetto della nave cambiò leggermente e alle spalle del corsaro gli ufficiali della Federazione si affrettarono a cercare un appiglio. «I cavi di sicurezza e le cinghie sono appesi alla paratia» disse loro. «Legatevene una alla vita, nel caso si dovesse ballare.»
Non controllò se avevano seguito il suggerimento. Se non l’avevano fatto, la pelle che rischiavano era la loro.
Qualche istante più tardi sorvolavano gli altipiani del Prekkendor, a una quota di un centinaio di braccia. LaBlack Moclipsguidava una flottiglia di sette navi che seguivano in formazione sparsa. Le navi potevano salire comodamente ad altezze tre o quattro volte superiori, ma Alt Mer preferiva tenersi vicino al suolo, dove i venti erano meno forti. Guardò i due rostri che tagliavano l’aria ai lati del ponte, simili a due corni neri, curvi verso l’alto, sullo sfondo verde del terreno. Bassa e piatta, laBlack Moclipsassomigliava a un uccello da preda in volo fluido e silenzioso nel cielo del mattino. Il vento andava nella loro direzione e l’equipaggio si affrettò ad approfittare di quell’energia supplementare. Alt Mer ridusse l’afflusso di luce dai tubi alle valvole anteriori lasciando fare al vento. Furl Hawken continuava a gridare istruzioni e incitamenti con voce tonante, e faceva muovere gli uomini con precisione da una postazione all’altra. Abituato ai movimenti di una nave in volo, l’equipaggio non indossava cavi di sicurezza. Li metteva solo in caso di combattimento. Alt Mer azzardò un’occhiata alle proprie spalle per controllare gli ufficiali della Federazione. “Azzardò”, perché se avesse cominciato a ridere di loro si sarebbe trovato nei guai. La situazione, comunque, era migliore di quanto temeva. Il generale e i suoi aiutanti si afferravano al mancorrente: avevano le nocche bianche per la forza con cui si tenevano stretti, ma nessuno era stato male e nessuno si copriva gli occhi. Il corsaro rivolse loro un cenno rassicurante e li cancellò dalla mente. Quando laBlack Moclipssi fu allontanata dal campo della Federazione e si avvicinò alle linee avanzate dei Liberi, diede l’ordine di preparare le armi. LaBlack Moclipsne portava una buona scorta, tutte stivate nel centro della nave. Archi, frecce, fionde e giavellotti venivano usati per gli attacchi a distanza, mentre per il combattimento corpo a corpo si usavano lance e spade. Per tirare vicino a sé una nave nemica si usavano lunghe picche uncinate e grappini legati a funi: si agganciava la nave nemica per stracciarne le vele o distruggerne i tubi radianti. La ventina di soldati della Federazione che fino a quel momento si era tenuta sottocoperta uscì dal boccaporto e si armò. Alcuni presero posizione dietro i parapetti, altri passarono alle catapulte che scagliavano secchiate di schegge metalliche e palle di pece incendiata. Tutti erano veterani di innumerevoli battaglie aeree a bordo dellaBlack Moclips. Alt Mer e i Corsari lasciavano a loro il combattimento per occuparsi solo della nave: occorreva la massima concentrazione per mantenerla stabile nel pieno della battaglia, per posizionarla in modo che i soldati potessero usare le armi e per utilizzarla, quando era possibile, come ariete. L’equipaggio combatteva solo nell’eventualità di un abbordaggio. Guardando i soldati prendere le armi e mettersi in posizione con impazienza, il comandante corsaro fu colpito dalla quantità di energia che gli uomini riuscivano a dispiegare allo scopo di uccidersi l’un l’altro. Furl Hawken comparve improvvisamente al suo fianco. «Tutto pronto, comandante. Equipaggio, armi e nave.» Con un cenno della testa, indicò dietro di sé. «Come stanno i nostri impavidi passeggeri?» Alt Mer si guardò alle spalle. Uno degli aiutanti si era sciolto dal cavo di sicurezza ed era curvo sul secchio dei rifiuti. L’altro era pallido e faceva del suo meglio per non guardare il compagno. Il generale dal viso affilato e dall’uniforme nera stava scribacchiando su un notes, dopo essersi messo al riparo in una sorta di nicchia. «Forse preferivano che rimanessimo a terra» commentò Redden, senza alcun tono particolare. «Mi chiedo se faranno rapporto anche sul funzionamento del loro stomaco» rise Hawk,
allontanandosi. LaBlack Moclipssuperò le linee dei Liberi e si diresse verso i loro campi di volo; le altre navi che l’ accompagnavano si allargarono ai suoi fianchi. Due erano dei Corsari, cinque della Federazione. I due comandanti dei Corsari e uno di quelli della Federazione erano abili e degni di fiducia. Gli altri stavano lì a fare numero, finché il nemico o qualche errore non li avesse abbattuti. Redden Alt Mer affrontava la
situazione cercando di tenersi lontano da loro. Le prime navi dei Liberi si stavano alzando in volo per affrontarli. Il comandante corsaro prese il cannocchiale e studiò le loro insegne. Dieci, undici, dodici… le contò mentre si alzavano, una dopo l’ altra. Cinque erano degli Elfi, le altre dei Liberi. Non era il tipo di battaglia che gli piaceva. Secondo gli ordini, lui doveva affrontare e distruggere tutte le navi nemiche che incontrava senza subire danni. Come se la cosa potesse cambiare l’esito della guerra. Cancellò quel pensiero con un’alzata di spalle. Avrebbe affrontato le navi degli Elfi lasciando che gli altri combattessero tra loro. «Allacciate i cavi di sicurezza, signori!» gridò agli ospiti della Federazione e ai soldati, e afferrò saldamente i comandi mentre le navi nemiche si avvicinavano. A duecento iarde dal nemico e con una velocità prossima ai venti nodi, allontanò laBlack Moclipsdalla formazione e scese in picchiata verso terra. Si riportò orizzontale, aumentò la velocità e risalì dietro le navi dei Liberi. Mentre risaliva sul loro lato sottovento, le sue catapulte cominciarono a lanciare pezzi di metallo e palle infuocate contro le vele e la chiglia delle navi avversarie. Una nave venne avvolta dalle fiamme e cominciò ad andare alla deriva. Una seconda rispose all’attacco con le catapulte. Ma Alt Mer aveva già manovrato per togliere laBlack Moclipsdalla linea del fuoco e i pezzi di metallo fischiarono sopra di loro. Pochi secondi più tardi, tutte le navi avevano ingaggiato battaglia, e a terra gli uomini di entrambi gli eserciti interruppero la lotta per alzare gli occhi al cielo. Le navi da guerra scivolavano avanti e indietro, alzandosi e abbassandosi con scarti improvvisi, mentre le palle infuocate descrivevano scie rosse nel cielo azzurro, e frecce e pezzi di metallo sibilavano seguendo le loro mortali traiettorie. Due navi della Federazione entrarono in collisione e precipitarono a vite agganciate una all’altra, incapaci di manovrare, con le schermature a pezzi e i cristalli che assorbivano una tale quantità di energia da esplodere a mezz’aria. Un’altra nave virò bruscamente per evitare uno scontro, compiendo una manovra temeraria che indicava come il pilota fosse stato colto dal panico. Una nave dei Liberi sbandò scontrandosi con una dei Corsari e si udì un secco stridore di piastre metalliche. I tubi radianti si spezzarono con fragore facendo slittare le navi lontano una dall’altra. Dappertutto c’erano uomini che urlavano di collera, paura, dolore. LaBlack Moclipssalì nell’occhio del ciclone, simile a un leviatano che emergesse da un mare in tempesta. Redden Alt Mer la portò di lato, fuori dal gruppo, all’inseguimento di una nave di Elfi che manovrava per mettersi in posizione. Palle di fuoco volavano nell’aria davanti ad Alt Mer, ma lui scivolò al disotto, inclinando la nave per avere il nemico alla portata delle sue armi. La nave degli Elfi virò per attaccare. Quel comandante non era un codardo, pensò il corsaro ammirato. Piegò a sinistra e si alzò bruscamente, e con la punta ricurva del rostro di destra colpì l’albero maestro degli Elfi facendone cadere la vela. La nave degli Elfi sobbalzò e faticò a rimanere in assetto. LaBlack Moclipsfece un ampio giro e si preparò all’attacco. «Tenetevi forte!» gridò Alt Mer, con i capelli rossi che sventolavano dietro di lui come una bandiera. Ma una seconda nave si stava avvicinando da destra, una nave della Federazione con il ponte in rovina,
la cabina di comando distrutta e l’equipaggio che cercava freneticamente di riprendere il controllo. Dal centro della tolda uscì un’alta fiammata che salì ad avviluppare l’albero maestro. Alt Mer tenne salda la Black Moclips, ma tutt’a un tratto la nave della Federazione ruotò su se stessa e sbandò minacciando la collisione.
Il comandante corsaro ruotò il timone per indietreggiare e aprì tutti gli schermi dando la massima potenza alle valvole di Parse. LaBlack Moclipsbalzò in alto sfiorando la nave della Federazione che le passava al disotto. Con i pontoni colpì la cima degli alberi e strappò le vele. Alt Mer imprecò a bassa voce. Era già abbastanza doversi occupare delle navi nemiche. Convinto di trovare la nave degli Elfi parzialmente fuori combattimento, fece compiere una stretta virata allaBlack Moclipse scoprì invece, davanti a sé, la nave della Federazione che aveva appena evitato. In qualche modo, la nave colpita era riuscita a fare un giro e adesso si trovava davanti a lui. Redden Alt Mer si buttò sui controlli delle valvole nel tentativo di passare sopra la prua dell’altro vascello. Ma la nave della Federazione continuava a sbandare a sinistra e a destra. Era un tizzone incendiato e il suo equipaggio privo di comandante cercava disperatamente di chiudere i tubi radianti prima che la sovralimentazione dei cristalli la facesse capovolgere. Le vele erano in fiamme e i cristalli esplodevano. Gli uomini della Federazione gridavano terrorizzati. Alt Mer non sarebbe riuscito a spostarsi in tempo «Tenetevi!» gridò a chiunque lo sentisse. «Tenetevi!» LaBlack Moclipscolpì la nave della Federazione appena sotto il ponte di trinchetto, in corrispondenza della vela di prua. Per l’urto sussultò e beccheggiò con violenza, ma assorbì il colpo attraverso i rostri. Anche così, la forza della collisione scaraventò Alt Mer sui comandi. Alle sue spalle scorse gli ufficiali della Federazione volare attraverso il ponte. Le funi trattennero abbastanza in fretta il generale e uno dei suoi aiutanti, ma il cavo cui era assicurato il secondo aiutante si spezzò e lo sfortunato rotolò sul ponte, volò sopra il parapetto e scomparve. Alt Mer lo udì gridare mentre precipitava. «Comandante!» gli gridò il generale, furioso e spaventato. Ma non c’era il tempo di rispondere. Due navi degli Elfi avevano intravisto la possibilità di eliminare il loro principale nemico e si stavano avvicinando a tutta velocità. Alt Mer gridò di prepararsi a una manovra di disimpegno e lanciò la nave in un tuffo che scaraventò il generale e l’aiutante superstite nella direzione contraria a quella di prima. Una nave degli Elfi gli si mise alle spalle, e subito Alt Mer manovrò portandosi sotto la seconda: laBlack Moclipsvirò e scese agilmente sotto il suo tocco. Il generale della Federazione continuava a gridare dietro di lui, ma non gli prestò attenzione. Fece salire la Black Moclipsin una stretta spirale e le catapulte fecero fuoco contro le navi degli Elfi, che risposero ai colpi. La scarica di frammenti metallici colpì la vela di prua di una di esse e, con uno dei colpi più fortunati che Alt Mer avesse mai visto, danneggiò anche il timone. La nave sobbalzò e cercò di riacquistare velocità. Alt Mer la ignorò e rivolse la sua attenzione all’altra. Una scarica di frammenti di metallo colpì la chiglia e il ponte dellaBlack Moclips, che si inclinò sotto l’urto, ma la corazza resistette e Alt Mer puntò contro il nemico. «Tenetevi!» gridò, spingendo avanti i comandi per dare più energia ai cristalli. LaBlack Moclipssi scontrò con la seconda nave degli Elfi e ne colpì l’albero maestro a metà altezza circa. L’albero si spezzò come se fosse stato abbattuto da un forte vento e cadde sul ponte, trascinando con sé vele e tubi radianti. Privo di oltre un terzo della sua potenza, il comandante fu costretto a oscurare i cristalli e a portare a terra la nave. Alt Mer tenne fuori tiro laBlack Moclipse osservò le due navi degli Elfi che cominciavano a scendere, rollando e beccheggiando, lottando per restare in assetto, mentre gli equipaggi
cercavano freneticamente di rimettere in posizione i tubi radianti. Tutt’intorno a loro, le navi dei Liberi scendevano a terra rinunciando alla lotta. Quattro navi della Federazione erano state abbattute e bruciavano al suolo. Due di quelle ancora in volo erano danneggiate, una in modo grave. Alt Mer abbassò lo sguardo verso le navi
colpite dei Liberi e diede l’ordine di ritirarsi. Un attimo più tardi, il generale della Federazione gli gridava qualcosa negli orecchi. La sua faccia affilata era rossa e sudata. Si era sciolto dal cavo di sicurezza e si era trascinato lungo il ponte. Con una mano stringeva la ringhiera della cabina di pilotaggio, con l’altra gesticolava furiosamente. «Cosa credi di fare, comandante?» Alt Mer non aveva idea di cosa volesse dire e non gli piacque il suo tono di voce. «Torniamo a casa, generale. Allacciati il cavo.» «Li hai lasciati scappare!» ribatté l’altro, ignorando le sue parole. «Li hai lasciati scappare!» Alt Mer si sporse a guardare le navi dei Liberi. Si strinse nelle spalle. «Lasciali perdere. Non voleranno per un bel pezzo.» «Ma quando lo faranno, saranno di nuovo in cielo a dare la caccia alle nostre navi! Capitano, ti ordino di distruggerle!» Il corsaro scosse la testa. «Non sei tu a dare ordini su questa nave, generale. Torna al tuo posto.» Il generale della Federazione lo afferrò per la giubba. «Sono un ufficiale superiore, comandante Alt Mer, e ti do un ordine!» Redden Alt Mer ne aveva abbastanza. «Hawk!» gridò. In un istante, il suo ufficiale in seconda lo raggiunse. «Aiuta il generale a rimettersi il cavo di sicurezza, per favore. Assicurati che sia ben legato. Generale, ne discuteremo più tardi.» Furl Hawken sollevò di peso l’ufficiale, che continuava a gridare in modo incoerente, lo portò fino alla ringhiera e lo assicurò di nuovo alla sua cinghia, togliendo poi la chiavetta di sblocco. Tornò da Alt Mer e gliela lanciò strizzando l’occhio. «Peccato che Little Red non possa vederlo» mormorò con un sogghigno. “Facile, adesso che siamo in volo” pensò il corsaro, aggrottando la fronte, mentre riprendeva i comandi. “All’atterraggio sarà tutto diverso.” Il generale non era tipo da lasciar correre, e c’era da dubitare che una corte marziale desse ragione a un mercenario contro un ufficiale regolare. In quell’esercito bastava il sospetto di insubordinazione per metterti sotto accusa. La correttezza del suo comportamento non aveva importanza, e neppure il fatto che su una nave volante, come su una nave che viaggiava per mare, la decisione finale spettasse al comandante. La Federazione avrebbe protetto il suo uomo, e lui sarebbe stato degradato o congedato. I suoi occhi verdi scrutarono l’orizzonte a occidente, dove le montagne si stagliavano sullo sfondo turchino del cielo. Il vantaggio di essere un pilota di navi aeree stava nel fatto di poter sempre raggiungere un altro luogo prima di sera. Per un momento pensò di prendere laBlack Moclipse andarsene, senza preoccuparsi di tornare a terra. Ma la nave non era sua e lui non era un ladro, non in quel momento, almeno. E poi non poteva lasciare lì Little Red. Era meglio che tornasse a terra, raccogliesse la loro roba e se ne andassero al tramonto. Prima di rendersene conto, sentiva già l’odore dello Spartiacque Azzurro e rivedeva i colori della primavera a March Brume.
Portò lentamente la nave al campo e lasciò che il personale di terra la trascinasse fino agli ormeggi e la ancorasse, poi andò a liberare il generale e il suo aiutante. Nessuno dei due fece parola, nessuno dei due lo guardò. Non appena furono liberi, schizzarono via dalla nave come se avessero avuto il fuoco alle
calcagna. Alt Mer non badò loro, ma si occupò dei danni subiti dallaBlack Moclipse si accertò che provvedessero alle riparazioni. Stava pensando a essa come alla nave di un altro. In cuor suo le aveva già detto addio. Come dovette constatare, perse troppo tempo in quella sorta di commiato. Stava scendendo con la scaletta di corda e non aveva ancora messo piede sul campo di volo quando vide comparire il generale con un drappello di soldati della Federazione. «Comandante Alt Mer, sei in arresto per avere disobbedito a un ufficiale superiore in battaglia. Un comportamento da impiccagione, credo. Vediamo chi comanda adesso, eh?» Cercò di rivolgergli un sorriso minaccioso, ma non ci riuscì, e divenne paonazzo per la rabbia. «Portatelo via!» Furl Hawken e l’equipaggio fecero per avvicinarsi, le armi in pugno, ma Redden Alt Mer fece loro cenno di rimanere dov’erano. Si sfilò la cintura con la spada e il pugnale, poi passò davanti al generale, senza guardarlo, e consegnò le armi al comandante del drappello, un uomo dai capelli grigi con cui aveva bevuto varie volte. «Ci vediamo stasera, Hawk» disse al suo ufficiale in seconda. Si fermò per qualche istante a guardare laBlack Moclips. Sapeva che non l’avrebbe più rivista. Era la nave migliore che avesse mai comandato, e forse non ne avrebbe mai avuto un’altra così. Sperava che il suo nuovo comandante ne fosse degno, ma ne dubitava. In qualsiasi caso, ne avrebbe sentito la mancanza più di quanto desiderasse. «Signora mia, grazie» le mormorò. «È stato grandioso.» Poi, fissando il comandante del drappello e senza degnare di un’occhiata il generale, si strinse nelle spalle per mostrare indifferenza. «Va’ pure, comandante. Mi affido alle tue capaci mani.» Qualunque cosa pensasse dell’intera faccenda, il comandante del drappello fu abbastanza intelligente da tenerlo per sé.
5 L’arcigno sergente di carriera continuò a bere al banco, nel retrobottega del fabbro della compagnia, per più di un’ora prima di trovare il coraggio di avvicinarsi a Little Red. La donna sedeva da sola a un tavolo in fondo alla sala, nascosta dall’ombra e da uno studiato disinteresse per tutto ciò che la circondava, che consigliava di non avvicinarsi. Forse il sergente l’avrebbe capito cinque boccali di birra prima, quando la sua mente era abbastanza lucida da avvertirlo di non fare sciocchezze. Ma la collera per l’umiliazione inflittagli da lei la notte precedente, unita al falso coraggio dato dall’alcol, alla fine l’ebbero vinta. Era un uomo grande e grosso e le si piazzò davanti usando la propria mole come implicita minaccia. «Noi due abbiamo un conto in sospeso, Little Red» dichiarò a voce alta. Tutti si voltarono. Alcuni soldati si alzarono e raggiunsero l’uscita. La moglie del fabbro, che nel pomeriggio stava al banco al posto del marito, lo guardò aggrottando la fronte. Nell’altra stanza, in mezzo al calore soffocante della forgia, il ferro picchiava sul ferro e il metallo sfrigolava mandando nuvole di vapore quando veniva tuffato nell’acqua. Rue Meridian non alzò la testa. Con le mani attorno al boccale, continuò a fissare un
punto indefinito dinanzi a sé. Era lì perché voleva stare da sola. Avrebbe dovuto trovarsi sullaBlack Moclips, ma ormai
aveva perso interesse a quella guerra e pensava solo alla costa e alla sua terra. «Mi ascolti?» chiese con ira il sergente. Oltre alla voce, Little Red aveva sentito anche l’odore del sergente, del suo fiato, del corpo e dei capelli non lavati, dell’uniforme macchiata. Si chiese se si fosse accorto di quanto era divenuto sudicio vivendo nel campo, ma ritenne di no. «Ti credi importante, vero?» continuò l’uomo. Forse il fatto di non ricevere risposta gli dava coraggio. Si avvicinò di un passo. «Quando ti parlo, mi devi guardare, corsara!» Little Red sospirò. «Non è sufficiente doverti ascoltare e sopportare la tua puzza? Devo anche guardarti? Mi pare un po’ eccessivo, non credi?» Per un momento l’uomo si limitò a fissarla, leggermente confuso. Poi rovesciò il boccale di birra che lei teneva tra le mani ed estrasse la corta spada. «Mi hai imbrogliato, Little Red! Nessuno può fare una cosa simile! Voglio indietro i miei soldi!» Lei si appoggiò alla spalliera della sedia e alzò lo sguardo. Gli lanciò una breve occhiata e distolse di nuovo gli occhi. «Non ti ho imbrogliato, sergente.» Gli rivolse un affabile sorriso. «Non ne avevo bisogno. Lanci così male che non era necessario. Quando migliorerai, e può darsi che un giorno o l’altro tu ci riesca, allora potrei forse essere costretta a imbrogliarti.» La faccia barbuta dell’uomo s’infuriò ancora di più. «Ridammi il mio denaro!» Come per magia, nella mano di lei comparve un coltello da lancio. Subito l’uomo fece un passo indietro. «L’ho speso tutto, fino all’ultimo centesimo. Anche perché non era molto. Che ti piglia, sergente? È da un ’ora che continui a bere, perciò di soldi ne hai.» L’uomo mosse le labbra come se avesse difficoltà a parlare. «Tu pensa a darmi i miei soldi.» La sera precedente Little Red l’aveva vinto in una gara di lancio del coltello, anche se la parola “gara” era un po’ fuori posto, trattandosi del peggior lanciatore di coltello da lei incontrato. La sconfitta gli era costata denaro e orgoglio, un prezzo che evidentemente non era disposto a pagare. «Togliti dai piedi» gli disse in tono annoiato. «Tu non sei nulla, Little Red!» sbottò lui. «Solo una piccola strega imbrogliona!» Per un attimo lei si chiese se non fosse il caso di ucciderlo, ma non aveva voglia di subire le conseguenze di quell’azione, perciò rinunciò all’idea. «Vuoi la rivincita, sergente?» gli chiese. «Un colpo solo. Se vinci ti do indietro i tuoi soldi. Se vinco io, mi paghi una birra e mi lasci perdere. D’accordo?» L’uomo la guardò con sospetto, come se cercasse di capire qual era il trucco. Lei attese con pazienza, guardandolo negli occhi e soppesando sul palmo il coltello da lancio. «Va bene» disse infine l’uomo. Lei si alzò, agile nel suo vestito scuro da corsaro, con i colorati nastri avvolti attorno alle spalle e alla vita, i lunghi capelli rossi che luccicavano alla luce della lampada.
Rue Meridian era una bella donna in base a qualsiasi metro di giudizio, e parecchi uomini ne erano stati attirati quando si era unita all’armata della Federazione. Ma il loro numero era diminuito bruscamente, dopo che un paio di quelli che avevano cercato senza successo di imporle le loro attenzioni erano finiti
per qualche settimana all’ospedale. Gli uomini la giudicavano ancora attraente, ma adesso stavano assai più attenti al modo in cui si le si avvicinavano. Non c’era niente di delicato in Little Red. Era alta e con le spalle larghe, snella e scattante. Il suo soprannome era un omaggio a Big Red, il suo fratellastro Redden Alt Mer. Avevano gli stessi capelli rossi e la stessa corporatura slanciata, gli stessi occhi verdi, lo stesso sorriso e lo stesso carattere insofferente. Avevano la stessa madre, ma padri diversi. Nel loro clan, come in molti altri dei Corsari, gli uomini andavano e venivano, ma le donne rimanevano. Il sergente cercò un bersaglio. La notte precedente avevano usato un cerchio nero grande come un’ unghia, disegnato su un pilastro di legno. Avevano lanciato a turno i coltelli, due lanci ciascuno. Il sergente aveva mancato il bersaglio tutt’e due le volte, lei no. L’uomo si era lamentato, ma aveva pagato, forse intimorito dalla presenza di molti Corsari e soldati. Non si era parlato di imbrogli, la sera prima, e neppure di restituire i soldi. Doveva averci pensato per tutta la notte. «Eccolo» disse, indicando lo stesso cerchio nero sul pilastro e fermandosi sulla stessa linea che avevano disegnato sulle assi del pavimento. «Ehi! Ehi!» si lamentò subito la moglie del fabbro. «La scorsa notte hai rotto tutta una fila di bicchieri sbagliando il tiro. La tua mira è scarsa come il tuo giudizio, Blenud Trock! Lancia i tuoi coltelli da un’altra parte, questa volta!» Il sergente la guardò furibondo. «Avrai i tuoi soldi quando io riavrò i miei!» Trock. Era la prima volta che Rue Meridian sentiva il suo nome. «Andiamo laggiù, sergente» suggerì. Lo allontanò dal banco e lo guidò verso il fondo della stanza. L’edificio improvvisato era addossato a una collina e una macchia di umidità aveva tracciato una V sulla parete posteriore. Al disopra della macchia c ’era una trave da cui cadeva di tanto in tanto una goccia d’acqua. Si fermò a sei iarde di distanza e con la punta del piede tracciò una linea nella polvere e nel sudiciume. Non era il locale più pulito che avesse mai frequentato, ma non era neppure il più sporco. Quel tipo di locali andava e veniva con i movimenti dell’esercito. Quello era durato perché l’esercito era di stanza laggiù da diverso tempo. Era illegale, ma lo lasciavano stare perché i soldati avevano bisogno di un po’ di distrazione in quel luogo deserto, a parecchie miglia dalla città più vicina. Si passò una mano nei capelli respingendoli indietro e guardò il sergente. «Stiamo tutt’e due su questa linea. Una volta pronti, quando la goccia cade dalla trave noi tiriamo contro la V. Chi arriva più vicino al vertice della V ha vinto.» «Uhm!» brontolò l’uomo, prendendo posto. Mormorò qualche altra parola che la donna non riuscì a capire. Con il coltello in mano, si portò sulla linea. «Pronto» annunciò. Little Red inspirò a fondo e rilassò le braccia lungo i fianchi. Teneva il coltello nel palmo della mano destra e la lama era fredda e liscia contro la pelle del polso e dell’avambraccio. Una piccola folla si era radunata dietro di loro: soldati giunti in licenza dal fronte, lieti di un piccolo diversivo. Little Red capì che entrava altra gente, ma la stanza rimase stranamente
silenziosa. La donna cominciò a sentire un vago senso di distacco, come se la mente si fosse separata dal corpo. I suoi occhi, però, rimasero fissi sulla trave da cui pendeva una lunga fila di goccioline, piccole punte di spillo che riflettevano la luce sullo sfondo scuro dell’ombra. Quando finalmente si formò una goccia grossa che cadde, il suo braccio scattò verso l’alto, con un movimento così veloce da risultare impercettibile, e il coltello le uscì dalla mano piantandosi nel vertice
della V prima ancora che il sergente avesse lanciato il suo. La lama del sergente si piantò a una spanna dal bersaglio. Alcuni spettatori applaudirono, altri acclamarono. Rue Meridian recuperò il coltello e andò al bar a riscuotere la vincita. La moglie del fabbro aveva già posato sul banco il boccale di birra. «Questo lo paghi tu, sergente Trock» annunciò ad alta voce, rivolgendo un largo sorriso a Rue. «E prima di andare via.» Il sergente si avvicinò alla parete ed estrasse il suo pesante coltello. Per un momento lo soppesò nella mano, mentre lanciava a Rue Meridian un’occhiata velenosa, poi lo rinfoderò sotto la divisa e si avvicinò con aria minacciosa alla donna. «Non pago» annunciò, fermandosi di fianco a lei. «Fa’ tu» rispose lei, sorseggiando la birra. «Se non paghi, qui dentro non ci torni» lo avvertì la moglie del fabbro, irritata. «Piantala di dare fastidio.» «Non pago perché mi hai imbrogliato!» rispose l’uomo, parlando a Rue. «Hai lanciato prima che la goccia si staccasse. Era chiaro come il sole.» Si levò un mormorio di dissenso tra i presenti e molti scossero la testa, ma nessuno gli diede del bugiardo. Imbaldanzito, l’uomo si piegò verso di lei, avvicinandosi tanto che Rue sentì il calore del suo respiro e la puzza del suo fiato. «Sai qual è il tuo problema, Little Red? Hai bisogno che qualcuno t’ insegni le buone maniere. Allora non saresti così piena di…» Il resto della frase gli rimase nella gola perché sentì il coltello della donna graffiarlo sotto il mento. «Faresti meglio a pensarci prima di continuare, sergente» gli sussurrò. «Hai già detto quanto basta a convincermi che forse sarebbe meglio tagliarti la gola e farla finita con te.» Nella stanza scese il silenzio. Nessuno si muoveva, neppure la moglie del fabbro, che rimase ferma a guardarli con un canovaccio in mano e la bocca spalancata. Anche il sergente boccheggiò perché Rue Meridian aveva sollevato il coltello, costringendolo ad alzare il mento. L’arma era comparsa così all’improvviso che l’uomo aveva ancora le mani lungo i fianchi e il coltello nel fodero. «Non volevo…» «Non volevi dire» lo interruppe lei, bruscamente «che devo imparare le buone maniere, vero?» «Sì…» L’uomo deglutì a fatica. «E, in qualsiasi caso, non intendevi dire che un rozzo imbecille come te abbia qualcosa da insegnarmi, vero?» «No…» «Desideravi dirmi che ti dispiace di avere affermato che ti ho imbrogliato e di avermi rovinato la contemplazione pomeridiana di cose che amo e che sono lontane, vero?» «Vero, vero!» Lo fece indietreggiare, continuando a tenergli il coltello puntato contro il collo. Quando l’uomo fu lontano dal banco, abbassò la mano e gli tolse le armi. Poi lo spinse a sedere su una seggiola.
«Ho cambiato idea» lo informò, mentre faceva scomparire il coltello nell’abito. «Non voglio che mi paghi la birra, scommessa o meno. Voglio che tu te ne stia a sedere tranquillo qui dove sei, finché non deciderò
che te ne puoi andare. Se ti vedo muovere un muscolo, farò finta che la V che hai in mezzo alle gambe sia quella che c’è sulla parete e tenterò di nuovo la sorte con un lancio.» L’uomo abbassò involontariamente lo sguardo e poi lo sollevò di nuovo. La rabbia che gli si leggeva negli occhi era temperata solo dalla paura. Era convinto che la donna avrebbe fatto quello che aveva promesso. Little Red stava per prendere il suo boccale di birra quando la porta si aprì con violenza ed entrò di corsa Furl Hawken. Tutti si voltarono verso di lui, e Hawken si fermò subito, sorpreso dall’innaturale silenzio, e si guardò rapidamente attorno. Infine la vide. «Little Red, è successa una cosa. Dobbiamo andare.» Lei rimase al suo posto, sollevò il boccale, se lo portò alle labbra e bevve l’intero contenuto come se disponesse di tutto il tempo del mondo. Tutti guardavano in silenzio. Nessuno si muoveva. Quando ebbe terminato, posò il boccale sul bancone e si accostò al sergente. Si chinò su di lui, come per sfidarlo a fare qualcosa. Poi, visto che non si muoveva, gli disse piano: «La prossima volta che ti vedo, ti ammazzo». Gettò una moneta sul bancone e strizzò l’occhio alla moglie del fabbro. Poi uscì seguita da Furl Hawken e si trovò in mezzo al calore e al frastuono della forgia. Attraversarono in fretta il labirinto di incudini, fornaci e mucchi di rottami di ferro e, facendosi strada in mezzo alla folla del pomeriggio, raggiunsero il gruppo di baracche del campo: cucina, arsenale, ospedale, centro di comando, stalle, magazzini. Il cielo era azzurro e senza nuvole, il sole una palla di fuoco che calcinava le alture brulle e l’esercito accampato. Rue Meridian scosse la testa con fastidio. Dal giorno precedente non vedeva la luce del sole e il chiarore le faceva pulsare la testa. «Big Red è arrabbiato con me?» chiese mentre lasciavano le baracche e raggiungevano le tende dell’ accampamento. «Big Red è in prigione e rischia vent’anni di lavori forzati, se non peggio» brontolò il suo compagno, avvicinandosi a lei e tenendo bassa la voce. «Questa mattina abbiamo avuto tre passeggeri, tre ufficiali della Federazione. Uno è volato fuori bordo durante l’attacco, è stato un incidente, ma è morto lo stesso. Il loro capo era furioso. E si è infuriato ancora di più quando tuo fratello si è rifiutato di inseguire un paio di navi dei Liberi in avaria e distruggerle invece di lasciarle atterrare. Quando siamo tornati al campo, ha fatto arrestare Big Red, promettendogli una brusca fine della carriera.» Lei scosse la testa. «E possiamo fare qualcosa? Voglio dire, con parole e procedure ufficiali?» Furl Hawken alzò le spalle. «Siamo Corsari, Little Red. Tu che ne pensi?» Lei gli posò la mano sulla spalla massiccia. «Penso che sono stufa di questo posto, di questa gente, di questa guerra, di tutta la faccenda. Penso che dobbiamo cambiare lavoro. Che c’importa di questa guerra? Siamo qui solo per denaro, e ne abbiamo più che a sufficienza per un bel po’ di tempo.» Furl Hawken scosse la testa. «I soldi non sono mai sufficienti, Little Red.» «Anche questo è vero» ammise lei. «Inoltre, qui non si sta poi tanto male» aggiunse Hawken, in tono nostalgico. «Comincio ad
abituarmi. Ti prende un po’ alla volta: tutto questo terreno piatto e questo spazio, la polvere e la sabbia…» Lei gli diede uno spintone scherzoso. «Non prendermi in giro! Anche tu odi questo posto!»
L’uomo le sorrise. «Be’, forse hai ragione.» «È ora di tornare a casa, Hawk» dichiarò lei con fermezza. «Chiama gli uomini, raccogli i bagagli, ritira la paga, prendi rifornimenti e cavalli per tutti, e troviamoci tra un’ora sulla strada del Sud.» Gli diede un’ altra spinta e rise. «Va’, sbruffone!» Attese che si fosse allontanato, poi si voltò a guardare il recinto in cui la Federazione teneva delinquenti e forzati: incatenati all’aperto o in baracche di legno dove, in un giorno di sole, il cervello friggeva. All’idea che il fratello fosse finito in una di quelle baracche, Little Red sentiva montare la collera. L’ atteggiamento della Federazione nei riguardi dei Corsari non era cambiato, anche se combattevano da tre anni per loro. I Corsari erano mercenari, e i mercenari erano un male necessario. Il fatto che avessero prestato un ottimo servizio non aveva importanza. Né che molti di loro fossero morti per la Federazione. Non importava neppure che si fossero dimostrati i migliori piloti e, in generale, i migliori combattenti. Agli occhi di molti uomini del Sud, i Corsari erano inferiori per il semplice fatto di essere Corsari, e né le loro capacità né i loro successi avrebbero mai cambiato quello stato di cose. I Corsari erano disprezzati da tutti per le loro abitudini nomadi. Se non avevi una terra tua, un governo e un esercito, non avevi potere. E senza potere, faticavi a ottenere rispetto. I Corsari vivevano alla loro maniera da duemila anni, in accampamenti nomadi e divisi in clan. Credevano che la terra appartenesse a tutti, ma soprattutto a coloro che la percorrevano. La terra era la loro madre, e condividevano con gli Elfi il concetto che dovesse essere protetta e curata. Di conseguenza, gli Elfi erano la razza più tollerante e permettevano ai Corsari l’accesso alle foreste dell’Ovest, li lasciavano lavorare come mercanti nell’ entroterra e come marinai lungo la costa. Altrove, invece, non erano altrettanto benvenuti e correvano sempre il pericolo di essere scacciati o peggio: tranne i periodi in cui erano ingaggiati come mercenari per combattere guerre che non avevano niente a che fare con loro. Rue Meridian e il fratello, accompagnati da varie decine di altri, avevano lasciato la zona vicina al villaggio costiero di March Brume ed erano venuti nell’Est per servire la Federazione in quella guerra. La paga era buona e i rischi accettabili, dato che i Liberi non erano molto più abili dei Federali nella navigazione aerea. C’erano vere e proprie battaglie, ma i Corsari le vedevano soprattutto come esercitazioni nell’arte di tenersi lontani dagli incompetenti. Comunque, rifletteva Little Red, anche quell’attività era diventata noiosa ed era giunto il momento di andarsene. Soprattutto adesso. Da settimane Rue Meridian cercava una scusa per andar via, ma il fratello aveva insistito perché rispettassero i termini del loro ingaggio. Scosse la testa. Come se la Federazione meritasse la loro fedeltà, visto che continuava a trattarli come subumani. E adesso questa cosa. Mettere Big Red in ceppi per un’ assurdità come aver rifiutato di obbedire a un ordine di un ufficiale che non aveva alcun diritto di darlo. Su una nave volante, la parola del comandante era legge. Ma si trattava solo di un’ennesima scusa per mettere in riga i Corsari, per piazzargli sul collo lo stivale della Federazione. “Che imbecilli!” si ripeté. Una volta privi dei Corsari che le manovravano, sarebbe stato
interessante vedere cosa sarebbero riusciti a fare, con le loro navi volanti. Attraversò a testa bassa l’accampamento, ignorando i fischi e i complimenti, le grida e gli inviti, limitandosi a un’alzata di spalle o a un gesto quando era necessario. Controllò le armi: la spada sottile, i coltelli da lancio infilati nella cintura, lo stiletto nascosto nello stivale, la fionda infilata nella spallina, che le ricadeva sulla schiena in mezzo alle sciarpe di seta. Una qualsiasi di quelle armi sarebbe stata sufficiente.
Assaporava già l’aroma del mare, la salsedine acre dell’aria, l’odore di legno dei pontili e delle darsene, quello di pesce della riva, il fumo dei focolari accesi all’aperto, al calar del sole, per allontanare dalle abitazioni e dalle birrerie il gelo della notte. Lì, nell’entroterra, l’odore era solo quello della polvere e della siccità, del terreno indurito e delle piogge torrenziali, che in poche ore inondavano tutto e sparivano. Tre anni di polvere e di calura, di uomini e di animali che puzzavano gli uni peggio degli altri, senza mai vedere il blu dell’oceano, erano più che sufficienti. Quando passò accanto a una cucina, vide un cuoco che conosceva e si fece dare un pasto, lo coprì con un foglio di carta e se lo portò via. Big Red doveva avere fame. Poi si diresse verso il carcere con l’atteggiamento di chi sta passeggiando. «Ehi, Little Red» la salutò allegramente una guardia. «Vieni a trovare il fratellino?» «Vengo a prenderlo» rispose lei, con un sorriso. L’altra guardia mormorò: «Uh, sarà difficile». «Oh, neanche tanto» replicò lei. «Il comandante del carcere c’è?» «O mangia o si sta facendo un pisolino, decidi tu» rise la prima guardia. «Cos’hai, lì?» «Il pranzo di Big Red. Posso vederlo?» «Certo. L’abbiamo messo all’ombra, accanto al muro, sotto la passerella. Abbiamo cercato di farlo stare comodo, finché la cosa non sarà risolta, anche se non vorrei essere al suo posto, a giudicare dalla faccia dell’ufficiale che l’ha portato qui. Una faccia che non prometteva niente di buono.» Scosse la testa. «Un peccato quello che è successo, Little Red. Tuo fratello ci piace.» «Ah, ti piace lui, e io no?» La guardia arrossì. «Hai capito cosa volevo dire. Dai, lascia le armi, fammi controllare il pacchetto e poi va’ pure a trovarlo.» Lei gli consegnò la cintura con i coltelli e la spada, poi si sfilò la fionda. Tenne però lo stiletto nello stivale. In questo mondo, non sempre con le buone maniere si ottiene tutto. Sorrise e attraversò il cancello. Il fratello era dove le avevano detto le guardie, sul retro della baracca e sotto la passerella. La guardò avvicinarsi senza muoversi: era incatenato ai polsi, alle caviglie e alla vita, e le catene erano fissate ad anelli sulle mura. Le guardie andavano avanti e indietro sulla passerella e si riparavano nelle torrette, all’ ombra. Nessuno pareva particolarmente desideroso di sprecare energia. Little Red s’inginocchiò e fissò Big Red negli occhi, inarcando un sopracciglio. «Non ti vedo molto bene, fratello maggiore.» Redden Alt Mer inarcò a sua volta un sopracciglio. «Pensavo che fossi a letto malata.» «Ero malata nel cuore» rispose lei. «Ma mi sento molto meglio, adesso che stiamo per cambiare aria. Penso che abbiamo concesso all’esercito della Federazione tutto il tempo che meritava.» Lui scacciò una mosca che gli passava davanti alla faccia, e le catene sferragliarono. «Non sarò certo io a oppormi. Il mio futuro come mercenario non sembra granché promettente.»
Little Red si guardò attorno. Il campo risuonava di gente che brontolava e imprecava, di catene che tintinnavano, di passi di stivali sulla passerella. L’aria era secca, rovente e immobile, l’odore di corpi
sudici, di sudore e di escrementi regnava sovrano. Little Red si sedette a gambe incrociate davanti al fratello e appoggiò in terra il pacchetto con il pranzo. «Che ne diresti di mangiare qualcosa?» Gli porse il cibo e il fratello cominciò a mangiare con appetito. «Parli bene» le disse. «Ma come facciamo, in pratica? Pensavo che avresti trovato un modo per farmi uscire di qui.» Lei si ravviò i capelli e gli strizzò l’occhio. «Vuoi dire che non l’hai trovato? Eppure, il modo di entrare l’ hai trovato da solo.» «No, mi hanno aiutato.» Masticò un pezzo di pane, riflettendo sulla questione. «Hai niente da bere?» Lei infilò la mano sotto la tunica e gli porse una borraccia. Big Red bevve una lunga sorsata. «Birra» disse in tono di approvazione. «Che succede, è il mio ultimo pasto?» Lei assaggiò un pezzetto di fagiano arrosto. «Speriamo di no.» «Allora?» «Allora facciamo passare un po’ di tempo, finché Hawk non avrà preparato tutto per la partenza.» Si fece dare la borraccia e bevve. «Inoltre, forse non avremo il tempo di mangiare, una volta partiti. Non penso che ci fermeremo prima di notte.» Big Red annuì. «Non lo penso neanch’io. Allora hai un piano!» Lei gli sorrise. «Cosa pensavi?» Finirono di mangiare, terminarono la birra, poi rimasero tranquilli a sedere finché Rue Meridian non giudicò che fosse passato un tempo sufficiente e che Furl Hawken fosse ormai pronto. Allora si alzò, si ripulì delle briciole, prese gli avanzi del pranzo e si diresse verso la baracca del comandante del campo. Lungo la strada, gettò gli avanzi nel mucchio di composta. Anche lì ci si doveva prendere cura della Madre Terra. Entrò nella baracca senza bussare e si chiuse la porta alle spalle. Il comandante dormiva, con lo schienale della sedia appoggiato alla parete dietro la scrivania. Era un uomo corpulento, con la faccia rossa e mani e guance coperte di cicatrici. Senza rallentare, Little Red fece il giro della scrivania e con l’impugnatura dello stiletto gli assestò un colpo sulla nuca con tutte le sue forze. L’uomo si afflosciò a terra senza un grido. Alla parete erano appesi mazzi di chiavi. La donna scelse quello su cui era scritto il nome del fratello e tornò alla porta. Non appena vide passare una guardia, la chiamò. «Il comandante vuole vedere mio fratello. Portalo qui, per piacere.» La guardia, abituata a ricevere ordini da tutti, non fece domande. Prese le chiavi e si allontanò. Qualche minuto più tardi ritornò con Big Red, che camminava lentamente perché aveva i ferri ai polsi e alle caviglie. Little Red si scostò per farli entrare, chiuse la porta, poi, con un colpo di taglio dietro l’orecchio, stordì la guardia. Il fratello la guardò. «Molto efficiente. Pensi di eliminare allo stesso modo l’intera guarnigione?» «Non credo che sarà necessario.» Con le chiavi aprì i ferri ai polsi e alle caviglie e gli tolse la
catena. Big
Red si massaggiò con soddisfazione i polsi e si guardò attorno in cerca di un’arma. «Lascia perdere» disse lei, con un gesto impaziente. Prese dal tavolo un foglio di carta intestata della Federazione e scrisse una breve nota. Terminato di scrivere, rilesse e annuì. «Ottimo. Sei un uomo libero. Andiamo.» Nascose lo stiletto nello stivale, poi uscirono dalla baracca e si diressero verso i cancelli. Il fratello si guardava attorno nervosamente. Prigionieri e guardie li osservavano. «Sai quello che fai?» le chiese. Lei rise e gli diede una spinta. «Guarda.» Quando arrivarono al cancello, le due guardie cui aveva affidato le armi li stavano aspettando. Little Red mostrò loro il foglio di carta intestata. «Che ti dicevo?» disse allegramente alla prima guardia, porgendole il foglio. «Fammi vedere» rispose l’uomo, sospettoso, scrutando con attenzione la carta. «Lo puoi vedere da te» gli disse lei, indicando le parole. «È affidato alla mia custodia in attesa che le cose si chiariscano. Te l’avevo detto che non sarebbe stato difficile.» La seconda guardia si avvicinò alla prima e guardò a sua volta lo scritto. Nessuno dei due pareva del tutto sicuro sul da farsi. «Non avete capito?» insistette lei, con voce irritata, puntando il dito sulla carta. «L’esercito non può permettersi di tenere in prigione il suo miglior pilota, con una guerra in corso. Non certo perché c’è un particolare ufficiale che la ritiene una buona idea. Avanti! Ridammi le mie armi! Hai già guardato abbastanza quell’ordine! Cos’hai, non sai leggere?» Lo guardò con ira. Nessuna delle due guardie rispose. «Devo andare a svegliare di nuovo il comandante? Se l’è già presa abbastanza la prima volta…» «Va bene, va bene» si affrettò a dire la prima guardia, ricacciandole in mano il foglio. Le riconsegnò la spada, i coltelli e la fionda e li fece uscire dal cancello. Camminarono in silenzio per un po’, infine Redden Alt Mer commentò: «Stento a crederci». Lei si strinse nelle spalle. «Non sanno leggere. E anche se lo sapessero, non avrebbe importanza. Nessuno avrebbe capito che l’ho scritto io. Quando li interrogheranno, diranno che avevo un ordine di rilascio firmato dal comandante. Chi potrebbe negarlo? Questo è l’esercito, fratello. Un soldato non farebbe mai un’affermazione che rischiasse di metterlo nei guai. Faranno un gran chiasso per un giorno o due, poi decideranno che stanno meglio senza di noi.» Big Red si massaggiò le braccia per riattivare la circolazione e guardò il cielo senza nuvole. «Tre anni in questo posto dimenticato. Soldi o non soldi, è fin troppo» disse. Sospirò e si batté la mano sulla coscia. «Però mi dispiace lasciare laBlack Moclips. Mi dispiace davvero tanto.» Little Red annuì. «Lo so. Mi sono chiesta se potevamo portarla via. Ma sarebbe difficile rubarla, Big Red. Troppa gente di guardia.» «Troveremo un’altra nave» rispose lui, lasciando cadere l’argomento. Tornò camminare con la consueta vivacità. «Da qualche parte.»
a
Uscirono dal campo e si diressero a sud dove, superate alcune colline, si giungeva alla città di Dechtera e
alle pianure dell’Ovest. Una volta attraversato il fiume Rappahalladran e le pianure seguenti, i Corsari sarebbero arrivati a casa. Furl Hawken li attendeva in una piccola valle, con una decina di Corsari, i cavalli e i rifornimenti. «Hawk!» lo salutò Redden Alt Mer, alzando la mano. Poi si voltò a guardare l’accampamento, già lontano alle loro spalle. «Be’, per qualche tempo ci siamo divertiti. Non come nel luogo dove andremo, qualunque esso sia, ma ci sono stati anche momenti piacevoli.» Rue Meridian scosse la testa. «Mio fratello, l’eterno ottimista.» Si scostò dagli occhi una lunga ciocca di capelli. «Speriamo che questa volta tu abbia ragione.» Dieci minuti più tardi si erano lasciati alle spalle la Federazione e galoppavano verso la costa e lo Spartiacque Azzurro.
6 Alla prima luce dell’alba, il druido noto come Walker uscì dalla camera che gli era stata assegnata nel palazzo estivo al suo arrivo, la sera precedente. La città di Arborlon era ancora addormentata, tutti gli Elfi riposavano e solo la guardia notturna e coloro che iniziavano a lavorare la mattina presto erano svegli. La sua figura alta e magra, avvolta nelle vesti nere, i capelli e la barba neri, percorse senza rumore il cortile del palazzo e le strade della città, fino a raggiungere l’ampia ansa del Carolan. Sapeva di essere seguito da una guardia di palazzo, un Cacciatore Elfo assegnato a lui dal re. Allardon Elessedil non era una persona che amasse correre rischi, perciò la presenza di un cane da guardia non era inattesa e il druido non se ne preoccupò. Giunto sulle alture davanti al Carolan, da cui si coglieva la visuale delle foreste dell’Ovest fino alle punte irregolari della catena dello Sperone Roccioso a sud e alle montagne del Kensrowe a nord, si fermò. La luce dell’alba aveva superato la cima degli alberi che gli stavano alle spalle, ma la notte avvolgeva ancora l’Occidente, e le ombre viola e grigie rimanevano adagiate come veli sulle cime degli alberi e sulle vette dei monti. Nella conca del Sarandanon, piccoli laghi e affluenti riflettevano la luce con lampi argentei in mezzo a un mosaico di campi e fattorie. Più avanti, le acque del lago Innisbore luccicavano come una lastra metallica dalla superficie irregolare, coperte di uno strato sfilacciato di nebbia. Ancora oltre, lo sguardo si perdeva sull’enorme distesa dello Spartiacque Azzurro, ed era laggiù che Walker si sarebbe forse dovuto recare. Osservò lentamente il paesaggio che lo circondava, assaporandone i colori e le forme. Pensò alla storia della città. Alla resistenza offerta al tempo di Eventine Elessedil contro l’attacco dei demoni sfuggiti alla Proibizione a causa dell’indebolimento dell’Ellcrys. Al viaggio che l’aveva portata dalle Terre dell’Ovest, nel Ruhk e nella magia del Loden, fino all’isola di Morrowindl: le sue case, la sua gente e la sua storia erano scomparse come se non fossero mai esistite. Al viaggio di ritorno, quando Wren Elessedil l’aveva riportata nelle Quattro Terre, dove avrebbe resistito all’attacco degli Ombrati. Ogni volta Elfi e Druidi erano stati alleati, legati dal comune desiderio che le terre e i loro abitanti rimanessero liberi. “Dov’è finita quell’alleanza?” si chiese adesso, con amarezza. Ai piedi dei monti, gonfio per lo scioglimento della neve delle alture e per le piogge primaverili, il Rill Song scorreva con fragore fra gli argini. Walker ascoltò il suono lontano, tranquillizzante, del fiume in piena che veniva riecheggiato dagli alberi fino a lui. Lo ascoltò senza fare una mossa, avvolto nel silenzio delle alture, desideroso di non disturbarlo. Si
sentiva un estraneo, in quel luogo, e al tempo stesso a casa. Non veniva ad Arborlon da venticinque anni e aveva pensato di non tornarvi mai più, finché fosse rimasto in vita Allardon Elessedil. La sua ultima visita aveva scavato tra loro un solco incolmabile. Eppure era lì, e
il solco che gli era parso incolmabile gli pareva adesso privo d’importanza. Continuando a pensare al passato, tornò sui suoi passi. Era venuto ad Arborlon dal re degli Elfi per disperazione. Tutti i suoi sforzi per spingere le razze a mandare loro rappresentanti a Paranor per studiare le arti dei Druidi erano falliti. Da allora era vissuto da solo a Paranor, e aveva ripreso a scrivere la storia delle Quattro Terre. Non aveva altro da fare. La sua amarezza era acuta. Era intrappolato in una vita che non aveva mai cercato. Walker era un druido riluttante, reclutato dall’ombra di Allanon in un momento in cui non c’erano Druidi e la presenza di almeno uno di essi era indispensabile per la sopravvivenza delle razze. Aveva accettato il legame di sangue lasciato dal morente Allanon, centinaia d’anni prima, alla sua antenata Brin Ohmsford non perché lo desiderasse, ma perché il destino l’aveva messo in una posizione per cui soltanto lui era in grado di soddisfare quel mandato. L’aveva fatto per senso di responsabilità. Perché sperava di riuscire a cambiare l’immagine e l’operato dei Druidi, di permettere all’Ordine di guidare i progressi della civiltà con lo studio comune e con la partecipazione di tutta la popolazione delle Quattro Terre. Scosse la testa. Come era stato sciocco e ingenuo. Le differenze tra razze e nazioni erano troppo grandi perché una sola organizzazione le superasse, tanto meno un singolo uomo. I suoi predecessori lo sapevano e si erano comportati di conseguenza. Prima avevano mostrato la forza, poi la ragione. Il potere esigeva rispetto, il rispetto forniva la base da cui invitare alla ragione. Lui però non aveva né l’uno né l’altra. Era un isolato, solo e anacronistico agli occhi di quasi tutti. I Druidi avevano lasciato le Quattro Terre fin dall’epoca di Allanon. Un tempo troppo lungo perché qualcuno li ricordasse com’erano e li rispettasse. Troppo lungo per fungere da catalizzatori del cambiamento in un mondo in cui i cambiamenti erano lenti, contrastati e minuscoli. Esalò seccamente il fiato, come per cacciare via quei ricordi amari. Tutto ciò apparteneva al passato e forse lo si poteva seppellire. Forse adesso, senza che lui l’avesse cercata, aveva la chiave per fare quello che gli era stato negato per tanto tempo. I Giardini della Vita si levarono davanti a lui, illuminati dal sole e vibranti di colori primaverili. All’ingresso c’erano membri della Guardia Nera, rigidi sull’attenti, e passò loro davanti senza guardarli. Nei giardini era custodito l’Ellcrys, il più sacro dei talismani degli Elfi: l’albero che consentiva il persistere della Proibizione, il muro evocato in tempi antichi per tenere lontani i demoni e i mostri che avevano minacciato di sovvertire il mondo. Raggiunse il punto dove l’albero cresceva, su una piccola altura, separato dalle altre piante, bellissimo con i rami color dell’argento e le foglie rosse, avvolto nella serenità e nella leggenda. Un tempo quell’albero era una donna, che alla fine del suo ciclo vitale sarebbe stata sostituita da una delle Prescelte che se ne prendevano cura. Era una trasformazione miracolosa, e richiedeva un sacrificio e una dedizione che Walker conosceva perfettamente. Qualcuno parlò accanto a lui: «Mi chiedo sempre se mi sorveglia, se, per la mia responsabilità su tutti, sono costantemente sotto la sua vigilanza. Mi chiedo sempre se sono all’altezza delle sue aspettative». Walker si voltò e vide Allardon Elessedil. Non lo incontrava da venticinque anni, ma lo riconobbe all’ istante. Allardon era più vecchio e grigio, più stanco e consumato dalle preoccupazioni, perfino il vestito che indossava aveva un colore scialbo ed era privo di
ostentazione. Ma il suo portamento era ancora regale e dava sempre un’impressione di grande saldezza morale. Non era uno dei grandi re degli Elfi. Quell’onore gli era stato negato sia dai tempi, che non gli avevano offerto l’occasione di diventarlo, sia da un carattere poco portato per l’inquietudine e la ricerca. Era un re amministratore, un governante che riteneva suo principale dovere mantenere le cose com’ erano. I rischi erano per gli altri uomini e per le altre razze, e gli Elfi della sua epoca non erano più all’ avanguardia del progresso, nelle Quattro Terre.
Il re degli Elfi non gli tese la mano né gli diede il benvenuto. Rimaneva ancora da vedersi, pensò Walker, come si sarebbe concluso l’incontro. Il druido tornò a guardare l’Ellcrys. «Non possiamo sapere cosa ci si aspetta da noi, re degli Elfi, e sarebbe presuntuoso cercare di scoprirlo.» Il re non parve offendersi per quelle parole. «Ti sei riposato?» gli chiese. «Certo. Ho dormito tutta la notte. Ma alla prima luce dell’alba ho sentito il bisogno di venire qui. Ti ho creato problemi?» Allardon Elessedil sollevò la mano per fargli capire di non preoccuparsi. «Nient’affatto. Sei libero di andare dove vuoi.» “Sì, ma non di fare quello che desidero” si disse Walker. Pensò alla propria amarezza, alla disperazione, nel lasciare Arborlon tanti anni prima. Ma il tempo aveva un po’ alleviato il dolore, e adesso quelle lontane emozioni erano per lo più ricordi. Era un’epoca nuova, e il re degli Elfi cominciava a invecchiare e aveva bisogno di lui. Se avesse agito con prudenza, avrebbe ottenuto ciò che gli era stato negato per molto tempo. Era una sensazione strana, inebriante, e doveva cercare di non farla trasparire, se voleva godere di quel vantaggio. «La famiglia sta bene?» chiese, sforzandosi di essere cordiale. L’altro si strinse nelle spalle. «I figli crescono e scelgono le strade che preferiscono. Ascoltano sempre meno le mie parole. Ho il loro rispetto, ma non la loro obbedienza. Sono sempre più un padre, per loro, e sempre meno un re, e si sentono autorizzati a ignorarmi.» «Cosa vorresti che facessero?» chiese Walker. «Oh, quello che tutti i padri vogliono dai figli.» Il re degli Elfi rise. «Che stessero più vicino a casa, che non corressero rischi, che si accontentassero del mondo conosciuto. Kylen lotta dalla parte dei Liberi in una guerra che non condivido. Ahren vagabonda nel Nord alla ricerca di un futuro. I miei figli pensano che io sia eterno e mi lasciano solo a governare.» Alzò le spalle. «Penso che siano uguali a tutti i figli.» Walker non fece commenti. La sua opinione non sarebbe stata bene accolta. Secondo lui, se i figli di Allardon Elessedil non avessero seguito le orme del padre, tanto meglio sarebbe stato per tutti. «Sono lieto che tu sia venuto» si arrischiò a dire il re, dopo un momento di silenzio. Walker sospirò. «Sapevi che l’avrei fatto. Si tratta davvero di Kael?» «Io credo di sì. Portava il braccialetto al polso. Se non fosse stato suo, l’avrebbe tenuto in tasca. Comunque, domani lo sapremo. Speravo che la mappa ti colpisse quanto bastava per farti venire fin qui. L’hai studiata?» Walker annuì. «Tutta la notte, prima di partire in volo per Arborlon, ieri.» «È autentica?» chiese Allardon. «Difficile rispondere. Dipende da quello che intendi. Se si tratta di sapere quello che è successo a tuo fratello, la risposta è sì. Potrebbe essere la mappa del viaggio durante il quale è scomparso. Il suo nome non appare nelle scritte, ma dalle condizioni del cuoio,
dall’inchiostro e dal modo in cui è disegnata, penso che sia stata tracciata negli ultimi trent’anni e che dunque possa essere di suo pugno. La calligrafia è la sua?»
Il re degli Elfi scosse la testa. «Non saprei dire.» «È scritta in una lingua arcaica, una lingua non più usata da quando le Grandi Guerre hanno cambiato per sempre il Vecchio Mondo. Sai dove tuo fratello può avere imparato quella lingua?» L’altro rifletté per qualche istante, poi si strinse nelle spalle. «Non saprei. Quanta parte delle scritte sei riuscito a decifrare?» Walker cambiò posizione e si assestò la lunga veste; tornò a volgersi verso il Carolan. «Non possiamo camminare un poco? Sono anchilosato e indolenzito dopo il viaggio di ieri e penso che un po’ di moto mi farebbe bene.» Cominciò a muoversi adagio lungo il sentiero e il re degli Elfi si mise al suo fianco senza fare commenti. Attraversarono in silenzio i giardini per un po’, e il druido lasciò cadere il discorso. L’avrebbe ripreso quando fosse stato pronto. Che Allardon Elessedil aspettasse come aveva aspettato lui. Volse l’ attenzione ad altro, osservò la complessa simmetria con cui le varie specie di piante si alternavano, ascoltò il cinguettio degli uccelli, alzò lo sguardo sulle nuvole che vagavano simili a veli di seta sullo sfondo azzurro del cielo primaverile. L’equilibrio della vita. Tutto come doveva essere. Si guardò attorno. «L’uomo che avevi incaricato di sorvegliarmi pare avere perso interesse al proprio lavoro.» Il re degli Elfi gli sorrise rassicurante. «Non aveva l’incarico di sorvegliarti. Doveva aspettare che ti svegliassi e venire ad avvertirmi, in modo che potessimo parlare.» «Ah, volevi parlarmi in privato. Infatti, non vedo neppure le tue guardie. Siamo soli.» S’interruppe. «Vuol dire che ti senti al sicuro, con me?» Il re gli rivolse un sorriso imbarazzato. «Nessuno oserebbe attaccarmi, mentre sono con te.» «Ti fidi più di quanto merito» commentò Walker. «Perché?» «Perché non parlavo di un attacco da parte di altre persone.» Chiaramente, la conversazione metteva sempre più nell’imbarazzo il re. “Bene” pensò Walker. “Ti devi ricordare come stavano le cose tra noi, l’ultima volta che ci siamo visti. Ti devi chiedere se io non sia un pericolo assai più grave di quelli che sei abituato ad affrontare.” Uscirono dai giardini e si avviarono lungo i margini del bosco. Il sole illuminava le interminabili catene verdi dei monti, e l’oscurità della notte si allontanava dalle foreste e dalle valli. Walker si diresse a una panca collocata sotto un grande acero, che con i rami la proteggeva come un enorme ombrello. Sedettero vicini, druido e re, e per qualche tempo si limitarono a guardare il gioco di colori rosso e oro, la mescolanza di ombra e di luce a occidente. «Non ho nessun motivo per aiutarti, Allardon Elessedil» disse Walker, dopo qualche minuto. Il re degli Elfi annuì. «Vero, ma forse ci sono dei motivi che non sai. Non sono la stessa persona del nostro ultimo incontro. Mi dispiace che allora sia finita com’è finita.» «Il tuo dispiacere non può essere superiore al mio» rispose Walker, senza guardarlo. «Possiamo continuare a rinfacciarci il passato oppure pensare a quello che
potremmo fare se
decidessimo di dimenticarlo» rispose il re degli Elfi, in tono grave e preoccupato, ma deciso. «Preferirei ricominciare da capo.» Walker si voltò verso di lui. «Cosa proponi?» «La possibilità di costituire il Consiglio dei Druidi da te desiderato, di iniziare il lavoro che un tempo sognavi, con il mio sostegno e la mia approvazione.» «Uomini e denaro contano più del sostegno e dell’approvazione» osservò seccamente il druido. Il re degli Elfi aggrottò la fronte. «Li avrai tutt’e due. Avrai tutto quello che ti occorre, se mi darai quello che ti chiedo. Adesso, parlami della mappa. Sei riuscito a decifrare le iscrizioni?» Walker rifletté per qualche istante prima di rispondere: «Quanto basta per dirti che dovrebbe mostrare la strada per il tesoro sognato dalla veggente di tua madre, trent’anni fa. Come ho detto, la scrittura è arcaica e oscura. Alcuni simboli si prestano a più di una interpretazione, ma ci sono nomi e rotte, e descrizioni sufficientemente chiare per rivelare la natura della mappa. Bisogna viaggiare verso ovest, allontanandosi dalla costa dello Spartiacque Azzurro, fino a raggiungere tre isole, a distanze crescenti una dall’altra. In ciascuna si nasconde una chiave. Usandole tutte insieme, si apre una porta». Continuò: «La porta conduce a una fortezza sotterranea posta sotto le rovine di una città chiamata Castledown. Le rovine si trovano su un promontorio a nordest di un luogo chiamato Cerchio di Ghiaccio. Nelle rovine c’è un tesoro, un potere capace di cambiare completamente la vita. Una magia di parole, sopravvissuta alla distruzione del Vecchio Mondo e alle Grandi Guerre grazie al fatto che era conservata in quella sorta di cassaforte. L’origine della magia non è chiara, ma le iscrizioni della mappa la indicano come superiore a qualsiasi altra». S’interruppe. «Essendo stata trovata sul naufrago cieco e muto, insieme col braccialetto di tuo fratello, tenderei a pensare che, seguendo le indicazioni della mappa, si possa conoscere il destino di Kael e forse anche la natura della magia nascosta laggiù.» Tacque e lasciò che il re raccogliesse i propri pensieri. Sulle colline cominciavano ad apparire gruppi di Elfi per iniziare il lavoro della giornata. Le guardie cambiavano turno. Mercanti e cacciatori provenienti dall’Ovest con i carri pieni di merce attraversavano il Rill Song su zattere e traghetti e si avviavano sulla salita dell’Elfitch. I giardinieri iniziavano il lavoro nei Giardini della Vita: eliminare le erbacce e i rami secchi, mettere a dimora le piante e spargere il fertilizzante. Qua e là si scorgeva una Prescelta, nella sua veste bianca. Alcuni bambini giocavano mentre gli insegnanti li conducevano nelle aree di studio per insegnare loro a diventare Guaritori nelle Quattro Terre. «Quindi suggerisci una spedizione come quella organizzata da mio fratello tanti anni fa?» chiese infine il re. Walker sorrise lievemente. «Lo stesso suggerimento che daresti tu, altrimenti non mi avresti fatto venire.» Allardon Elessedil annuì. «Se vogliamo conoscere la verità, dobbiamo seguire la rotta segnata nella mappa e controllare dove porta. Altrimenti non saprò mai cos’è successo a Kael. Non saprò mai dove sono finite le Pietre Magiche che portava con sé. La loro perdita è forse la più grave. Non è facile ammetterlo, ma non posso fingere che le cosa stiano
diversamente. Le Pietre sono un tesoro ereditario degli Elfi, trasmesso a noi dalla regina Wren, e sono le ultime del loro genere. Senza quelle Pietre siamo un popolo molto inferiore a quello di un tempo e le rivoglio indietro.» Walker lo fissò con espressione indecifrabile. «Chi comanderà la spedizione, Allardon?» Non ci fu alcuna esitazione nella risposta del re: «Tu, se accetti. Io sono troppo vecchio. Posso dirlo a te,
anche se non lo direi a nessun altro. I miei figli sono troppo giovani e inesperti. Anche Kylen. È forte e deciso, ma non ha l’esperienza necessaria per guidare una spedizione di questo genere. Mio fratello aveva con sé le Pietre Magiche, ma neppure quelle sono state sufficienti a salvarlo. Forse i poteri di un druido risulteranno più efficaci». «Se accetto, mi dai la tua parola che gli Elfi appoggeranno la creazione di un Consiglio dei Druidi indipendente, libero di studiare e sviluppare tutte le forme di magia?» «Sì.» «Un Consiglio dei Druidi che non dovrà obbedire ad alcuna nazione o popolo o governatore, ma solo alla propria coscienza e alle regole dell’Ordine?» «Sì.» «Un Consiglio dei Druidi che condivida le sue scoperte con tutti i popoli, se e quando tali scoperte possono essere applicate pacificamente e per il miglioramento di tutte le razze?» «Sì, sì» rispose il re, con impazienza. «Tutto quello che mi hai già chiesto una volta e che ti ho negato. Devi però capire» si affrettò ad aggiungere «che non posso parlare per le altre nazioni e per gli altri regnanti, ma solo per gli Elfi.» Walker annuì. «Se gli Elfi fanno da guida, gli altri li seguono.» «E se tu scompari come mio fratello, tutto finisce lì. Io non sarò legato a un accordo con un morto: non un accordo di questo genere.» Lo sguardo di Walker vagò sui Giardini della Vita e si posò sugli uomini che se ne prendevano cura, curvi sul loro lavoro. Gli ricordavano il suo compito, la necessità di prendersi cura delle razze, la promessa dei Druidi di proteggerle e di farle progredire. Perché la loro finalità si era dimostrata così difficile da raggiungere, benché fosse così chiaramente giusta? Se le piante avessero avuto l’intelligenza degli uomini, si sarebbero dimostrate altrettanto renitenti di fronte agli sforzi di chi se ne prendeva cura? «Ci siamo capiti, Allardon» disse piano. Guardò in faccia il re e aspettò che gli sparisse dal viso l’ espressione irritata. «Ancora una cosa. I tesori che dovessi scoprire nel corso di questa spedizione, magici o altro, appartengono ai Druidi.» Il re degli Elfi scuoteva già la testa per indicare il suo disaccordo. «Sai che non posso accettare. Dell’oro e dei metalli preziosi non m’interessa niente. Ma la magia che troverai, in qualunque forma, appartiene agli Elfi. Sono io che autorizzo e organizzo questa spedizione. È il mio ruolo a richiederlo. Ho diritto alla proprietà di quello che troverai.» «Per conto del tuo popolo» precisò Walker. «Naturalmente!» «Con questo intendi dire che i diritti degli Elfi sono superiori a quelli delle altre razze, benché la magia possa aiutare anch’esse?» Il re arrossì e gonfiò il petto. Si sporse in avanti, con aria combattiva. «Non cercare di farmi sentire colpevole per la protezione che intendo dare al mio popolo, Walker! È il mio dovere! Se lo faranno anche gli altri, forse si arriverà a un equilibrio.»
«Fatico a capire come tu da una parte appoggi un Consiglio dei Druidi che dà uguali diritti a tutte le razze,
e dall’altra cerchi di tenere per te quello che potrebbe essere loro più utile. Dovrei fare una spedizione solo per te, per poi rinunciare ai suoi risultati?» Walker s’interruppe per riflettere. Infine aggiunse: «La magia appartiene a tutti, re degli Elfi, in particolare quando può colpire tutti. La condivisione della magia deve cominciare in qualche punto. Facciamola cominciare da qui». Allardon Elessedil lo guardò con durezza, ma il druido non abbassò gli occhi e non cambiò espressione. Gli istanti si prolungarono e nessuno dei due parlò. «Non posso accettare» ribadì il re degli Elfi. Walker aggrottò la fronte. «Ti propongo un patto» disse. «Un compromesso fra le nostre posizioni. Condivideremo in pieno tutto ciò che troverò, magia o altro. Ma possiamo accordarci sulla natura della condivisione. La magia che potrete usare senza il mio aiuto sarà vostra, ma quella che posso usare solo io apparterrà a me.» Il re lo osservò. «In questo accordo, il vantaggio è tuo. Tu sai usare la magia meglio di me o del mio popolo.» «La magia che ha una natura elfica è facilmente comprensibile per gli Elfi e deve appartenere a loro. Le Pietre Magiche, per esempio, se riusciremo a trovarle, apparterranno a voi. Però la magia che ha un’altra origine, qualunque sia la sua natura, non può essere rivendicata dai soli Elfi, specialmente se non la sanno usare.» «Non esiste altra magia all’infuori di quella che gli Elfi hanno portato dal mondo di Faerie! Lo sai!» «Allora non c’è niente di cui ti debba preoccupare.» Il re scosse la testa, senza sapere cosa aggiungere. Poi commentò: «In tutto questo si nasconde un tranello». «Dimmelo.» «Va bene, va bene!» sospirò l’elfo. «Dobbiamo chiudere la questione. Accetto il tuo compromesso. La magia elfica che può essere usata da noi resta nostra. Il resto sarà affidato al Consiglio dei Druidi. L’ accordo mi piace poco, ma posso accettarlo.» Si strinsero la mano, senza bisogno di altre parole. Walker si alzò e guardò verso est, al di là degli alberi. L’orlo della sua veste nera si agitava alla brezza. Allardon Elessedil si alzò a sua volta. Nonostante l’ora mattutina, i suoi lineamenti erano già stanchi e tirati. «Che intendi fare, adesso?» Il druido riportò lo sguardo sul re. «Mi occorrono il Cavaliere del Wing Hove e il suo Roc.» «Hunter Predd? Glielo dirò. Vuoi andare a Bracken Clell?» «Vieni con me, se ci vado?» chiese il druido. «O ci sei già andato?» Allardon Elessedil scosse la testa. «Contavo su di te.» «Forse è tuo fratello, quell’uomo in fin di vita.» «Forse. Ma sono passati trent’anni, e ho pianto la sua morte molto tempo fa.» Il re degli Elfi sospirò. «Se dovessi venire con te, le cose si complicherebbero. La Guardia insisterebbe per venire e proteggermi. Occorrerebbe un altro Roc. È meglio che io resti qui.»
Walker annuì. «Allora andrò da solo, e poi proseguirò alla ricerca di una nave e dell’equipaggio.»
«Potrei occuparmene io» propose Allardon. «Sì, ma preferirei che mi aiutassi in un altro modo, visto che preferisci rimanere qui. La nave e l’ equipaggio devono avere certe caratteristiche, e devo occuparmene di persona. Mi affido a te per quanto riguarda i nostri difensori. Cacciatori Elfi, naturalmente, ma anche qualcun altro. Uomini della Frontiera e Nani, direi. Sei disposto a cercarli per me?» Il re degli Elfi annuì. «Quanti ne desideri?» «Venti o venticinque tra cui scegliere. Non di più.» Tornarono verso i giardini, camminando senza fretta. Attorno a loro, la città di Arborlon cominciava a svegliarsi. «Una ventina di spade e di archi è un po’ poco» osservò il re. «Se è per quello, neanche tre navi con equipaggio completo e decine di Cacciatori Elfi sono state sufficienti» osservò Walker. «Preferisco affidarmi alla velocità e alla segretezza, e al cuore e al coraggio di pochi, piuttosto che al numero.» «Allora prendi solo una nave?» «Una basterà.» Allardon Elessedil abbassò lo sguardo. «Bene, io non verrò, come ho detto, ma invierò qualcuno al mio posto.» «Manda chi vuoi, ma…» Walker si stava schermando gli occhi per proteggerli dal riflesso del sole, e così poté vedere il lampo del metallo, quando l’arma venne scagliata. L’assassino era un giardiniere, un uomo che era passato inosservato per le vesti che indossava, uno dei tanti che lavoravano nel prato. Si era alzato come per spostare gli attrezzi, e all’improvviso era comparso il coltello. Con un gesto della mano, Walker deviò l’arma, che rimbalzò come se avesse colpito un muro. Ma adesso giungeva all’attacco il secondo assassino, armato di balestra. Era un altro finto giardiniere: inginocchiato in un’aiola di gialle giunchiglie, lanciò tre dardi in rapida successione. Walker spinse il re lontano dalla loro traiettoria e intercettò anche quell’attacco. Un terzo assassino si lanciò su di loro con una spada e un pugnale. Tutti e tre erano Elfi: i loro lineamenti erano inconfondibili. Ma avevano gli occhi fissi e vacui, e il druido vide subito che la loro mente era stata alterata per spingerli ad attaccare il sovrano. In tutto il parco si levò un coro di urla a mano a mano che gli altri Elfi comprendevano cosa stava succedendo. I soldati della Guardia Nera accorsero in difesa del re, puntando le pesanti picche. I Cacciatori Elfi uscirono rapidi da dietro gli alberi. Ma tutti erano troppo lontani. Walker fece un gesto in direzione dell’assassino armato di spada e pugnale, e una forma massiccia, eterea, si materializzò davanti all’uomo: un enorme gatto selvatico scaturito dal nulla per intercettarlo. L’ uomo gridò e si gettò a terra, abbandonando le armi, mentre la bestia si scagliava contro di lui e poi svaniva, lasciandolo raggomitolato e tremante sul terreno. Gli altri due assassini tornarono ad attaccare, silenziosi e decisi, evitando il complice, la follia negli occhi vacui. Si lanciarono contro il druido e vennero sbattuti lontano come pupazzi di carta. Con le vesti nere che si allargavano, simile a un’ombra scaturita dall’inferno, Walker passò dall’uno
all’altro, disarmandoli e fermando il loro assalto.
Ma le guardie erano ormai abbastanza vicine da poter contrattaccare. Atterriti per il loro re, reagirono d’ istinto, ma in modo scriteriato. Una grandinata di lance e di frecce abbatté gli assassini, lasciandoli sul terreno coperti di sangue, moribondi. Anche il terzo uomo venne abbattuto da quel fuoco di sbarramento perché si era rialzato mentre già volavano le frecce. Walker gridò agli Elfi di fermarsi, di lasciare a lui gli assassini, ma era troppo tardi. Era troppo tardi anche per salvare Allardon. Una freccia indirizzata agli assassini colpì il re degli Elfi in pieno petto. Il re boccheggiò per l’impatto, cadde all’indietro e piombò a terra in un mucchio informe. Walker non ebbe alcuna possibilità di proteggerlo. Tutto teso a fermare gli assassini, non riuscì a opporsi in tempo alle guardie del re. S’inginocchiò accanto al sovrano, gli sollevò le spalle e gli tenne alta la testa. «Re degli Elfi?» sussurrò. «Mi senti?» Allardon Elessedil aveva gli occhi aperti, e li mosse nell’udire la voce del druido. «Sono ancora qui.» I Cacciatori Elfi li avevano circondati e avevano chiamato un guaritore con le medicine. I giardini erano divenuti un vortice di attività: gli Elfi sopraggiungevano da tutte le parti per vedere cos’era successo. La Guardia Nera formò un anello attorno al re ferito e respinse la folla. Gli assassini erano a terra morti, coperti del loro sangue, distesi nell’erba fitta, illuminati dal sole. Allardon Elessedil tossì e dalle labbra gli uscì un fiotto di sangue. «Chiamate uno scriba» ordinò. «Subito.» Ne venne trovato uno, quasi immediatamente: un giovane, giunto a malapena alla maturità, che s’ inginocchiò pallido e spaventato accanto al suo re. «Via tutti fuorché il ragazzo, il druido e due testimoni» intimò Allardon Elessedil. «Signore, non posso…» disse un capitano della Guardia, ma il re gli fece segno di allontanarsi. Quando si fu liberata un’area attorno a loro, il re degli Elfi guardò lo scriba. «Scrivi quello che ti dico» sussurrò, fissando Walker mentre parlava. «Tutto.» Con attenzione, elencando i minimi particolari, ripeté l’accordo che aveva raggiunto con il druido pochi minuti prima. Si doveva allestire una spedizione avente Walker come capo. La spedizione doveva seguire la rotta descritta in una mappa la cui copia era custodita dallo scriba reale, nel palazzo. La spedizione doveva cercare le Pietre Magiche perdute. E così via. Lentamente, con fatica, ripeté l’intero accordo, compresa la parte relativa alla magia recuperata. Arrivò il guaritore e si occupò della ferita, ma il re continuò a parlare, con una smorfia di dolore, il respiro affannoso, battendo gli occhi come se faticasse a mettere a fuoco. «Ecco fatto» disse quando ebbe terminato di dettare. «Mi hanno ucciso inutilmente. Porta a buon fine la spedizione, Walker. Promettimelo.» «Sta morendo dissanguato» avvertì il guaritore. «Dobbiamo portarlo nel mio ospedale ed estrarre subito la freccia.» Servendosi del braccio sinistro sano e del moncherino del destro, Walker sollevò il re degli Elfi come se fosse privo di peso e lo portò via dal giardino. Per tutto il tempo continuò a parlargli, incoraggiandolo a essere forte, a non arrendersi, a lottare per la vita, perché aveva ancora tante cose meritevoli da fare. Circondato dalla Guardia, trasportò Allardon come se fosse
un bambino addormentato, tenendolo gentilmente tra le braccia, con la testa appoggiata contro la spalla.
Il re parlò ancora, ma le sue parole erano così deboli che solo Walker poté sentirle. Ogni volta il druido rispose con fermezza: «Hai la mia promessa. Ora cerca di non stancarti». Ma a volte anche le esortazioni dei Druidi possono essere insufficienti. Quando arrivarono all’ospedale, Allardon Elessedil era morto.
7 Era passato mezzogiorno quando Walker riuscì a procurarsi una copia delle note dello scriba e a portarla a Ebben Bonner, primo ministro dell’Alto Consiglio degli Elfi e capo del governo provvisorio in attesa dell’incoronazione del primogenito di Allardon Elessedil. Tenendo conto delle straordinarie circostanze della morte del re, il primo ministro approvò la richiesta del druido di partire per Bracken Clell, in modo da rispettare gli accordi con il defunto sovrano. Walker sostenne che c’erano tutti i motivi per ritenere che gli Elfi dalla mente alterata responsabili della morte di Allardon Elessedil fossero stati mandati per fermare la spedizione che avrebbe dovuto seguire la rotta della mappa. Non era certo un caso che l’attacco fosse giunto proprio quando il re e il druido si erano accordati per organizzare una simile spedizione, soprattutto tenendo conto che era il loro primo incontro dopo venticinque anni. Il re aveva certo pensato che non fosse una coincidenza, altrimenti non avrebbe dedicato gli ultimi istanti di vita a dettare le istruzioni per la spedizione. Evidentemente qualcuno aveva saputo della mappa e del tesoro da essa rivelato. Occorreva un certo sforzo di immaginazione per pensare a una connessione tra la morte del re e la comparsa della mappa, ma era meglio compiere quello sforzo che non fare nulla. Walker pensava che se i nemici del re erano tanto temerari da colpire nella capitale degli Elfi, con la stessa facilità avrebbero colpito a Bracken Clell. Il naufrago ospitato presso il guaritore correva grave pericolo. Forse Walker avrebbe potuto raggiungerlo in tempo. Forse sarebbe riuscito a scoprire se si trattava davvero di Kael Elessedil. Per il viaggio si fece assegnare Hunter Predd e Ossidiana. Il Cavaliere Alato non vedeva l’ora di allontanarsi dal caos scoppiato attorno a lui ed era francamente curioso di sapere come sarebbe andata a finire la storia del naufrago e della mappa. Gli era bastata una parola di Walker e, senza fare domande, aveva sellato Ossidiana, pronto a mettersi in volo. Erano partiti nel primo pomeriggio, mentre la gente di Arborlon stentava ancora ad accettare la notizia della morte del re. Alcuni l’avevano appena saputo, perché tornati allora da un viaggio o distratti dalle esigenze della vita. Molti non credevano che fosse vero. Il druido stesso non sapeva cosa credere. La morte improvvisa del re l’aveva sconvolto. Ne era rimasto colpito quanto gli Elfi: gli era difficile accettare il fatto di non averlo incontrato e non avergli parlato per venticinque anni, e poi di averlo visto morire, il mattino stesso del loro incontro. Ora rimpiangeva l’ostilità che aveva dimostrato al re nel loro ultimo colloquio, si vergognava di essersi quasi augurato la sua morte. Non aveva alcuna colpa, ma si vergognava lo stesso. Il re era già nella camera ardente, in attesa del funerale e della sepoltura. Erano stati inviati messaggeri ai figli: a est verso il fronte dove Kylen lottava a fianco dei Liberi, e a nord nelle foreste dove Ahren era a caccia. La notizia della morte del re degli Elfi si diffondeva in lungo e in largo nelle Quattro Terre. Walker però non poteva più pensarci. Adesso doveva occuparsi della sicurezza del naufrago e dei preparativi per la spedizione descritta nella mappa che aveva con sé. Era
convinto che chi aveva inviato gli assassini del re l’avesse fatto per impedirgli di acconsentire alla spedizione: infatti, finché non fosse stato incoronato un nuovo re, l’Alto Consiglio degli Elfi si sarebbe limitato all’ordinaria amministrazione. Ciò che salvò Walker dal rimanere bloccato fu la rapida decisione di Allardon Elessedil di registrare,
quasi letteralmente con il suo ultimo respiro, il loro accordo sulla spedizione, cosicché il druido poté mettersi in azione senza dover aspettare. E, se i sospetti del druido erano corretti, era assai probabile che chi aveva inviato gli elfi assassini avesse anche deciso di compiere lo stesso viaggio. Sicuro e instancabile, Ossidiana portò il suo padrone e Walker al disopra del fitto bosco di Drey e dell’ acquitrino dei Matted Brakes. All’approssimarsi del tramonto oltrepassarono la guglia isolata del Pykon e dal nastro argenteo del Rill Song passarono ai boschi antistanti lo Sperone Roccioso. Il buio si avvicinava quando Hunter Predd guidò il Roc verso un’ampia radura. Mandò l’animale a riposare fra gli alberi, mentre lui e il druido si accampavano. Accesero il fuoco in un piccolo avvallamento, stesero i loro sacchi a pelo su un soffice tappeto di aghi, sotto un antico pino, e cucinarono la cena. Simili a due ombre della foresta, druido e Cavaliere Alato mangiarono in silenzio ascoltando i rumori della notte. «Strana giornata» commentò l’elfo, sorseggiando la birra con il compagno di viaggio. «C’è da chiedersi come funziona la vita. C’è da chiedersi perché la gente abbia ancora voglia di diventare re.» Walker annuì, gli occhi fissi lontano. «Nel Wing Hove dovete avere pensato la stessa cosa, molto tempo fa.» «Vero. È una delle ragioni per cui abbiamo un Consiglio che fa le leggi e prende le decisioni, non un uomo soltanto.» Il cavaliere scosse la testa. «Ucciso dalla sua stessa gente. Allardon era un brav’uomo, Walker. Perché l’hanno fatto?» Il druido lo fissò. «Non sono stati loro. Li ho guardati negli occhi. Qualunque motivo avessero per assalire il re, non erano le stesse persone di qualche giorno prima. Il loro cervello era stato alterato in modo permanente. Dovevano attaccare il re, ucciderlo con un mezzo qualsiasi e poi morire.» Hunter Predd aggrottò la fronte. «Com’è possibile costringere un uomo a fare una cosa del genere?» «Con la magia.» «Magia degli Elfi?» Walker scosse la testa. «Non ne sono ancora certo. Se fossero sopravvissuti, forse avrei potuto dirlo. Da morti non possono dirmi niente.» «Chi erano? Non penso che fossero veri giardinieri.» «Nessuno è riuscito a identificarli. Erano Elfi, ma non di Arborlon. Uomini duri, con una vita non facile, almeno a giudicare dalla loro faccia e dalle mani. Probabilmente avevano già ucciso altri uomini, prima.» «Eppure…» «Eppure, devono avere avuto qualche spinta per uccidere un re degli Elfi. Chiunque li ha reclutati ha fornito quell’incentivo mediante la magia.» Walker fissò negli occhi il compagno. «Mi spiace di averti fatto partire così di fretta, ma non potevo aspettare. Penso che il nostro naufrago sia in pericolo. E il nostro viaggio non finirà laggiù. Nelle prossime settimane dovrai portarmi in altri luoghi, Hunter Predd. Avrò bisogno del tuo aiuto.»
Il Cavaliere Alato bevve il resto della birra e riempì di nuovo il boccale dall’otre di pelle. «A dire la verità, non vedevo l’ora di andarmene. Non per la morte del re, ma perché non vado molto d’accordo con le città. Qualche giorno mi basta. Io mi trovo meglio in volo, qualunque sia il rischio.»
Il druido gli rivolse un sorriso tirato. «Il giorno in cui hai deciso di portare la mappa e il braccialetto ad Arborlon, pare che tu ti sia cacciato fino al collo in una situazione che non prevedevi.» L’elfo annuì. «Va bene così. Ero curioso di vedere come sarebbe andata a finire.» Sorrise a Walker. «Non sarebbe una vergogna, se mi privassi di questa possibilità?» Dormirono indisturbati e all’alba ripresero il viaggio verso sud. Nel corso della notte il tempo era cambiato e nubi pesanti erano giunte dalla costa a coprire il cielo da un orizzonte all’altro. L’aria era tiepida e priva di vento, aveva odore di pioggia, e in lontananza, verso ovest, il rombo del tuono echeggiava minaccioso. La terra che sorvolavano era coperta di ombre, una copertura che parlava di segreti e nascondigli che non dovevano essere svelati. Walker cominciava già a sospettare l’identità del nemico che cercava di minare i suoi sforzi. Nelle Quatto Terre non erano in molti ad avere al loro comando una magia tanto forte da alterare la mente, e si contavano sulle dita quelli che disponevano di un numero sufficiente di spie per sapere quanto succedeva nella regione che andava da Bracken Clell ad Arborlon. Temeva di avere agito troppo lentamente, ma nello stesso tempo sapeva che non avrebbe potuto essere più veloce. Lui era un uomo solo, mentre il suo avversario, se davvero si trattava della persona che lui sospettava, era a capo di un piccolo esercito. Ossidiana li portò attraverso le gole frastagliate e i profondi canaloni delle montagne dello Sperone Roccioso, tenendosi abbastanza basso da non farsi scorgere, ma abbastanza alto da superare le alture. Sorvolarono la grande conca della Malaterra, asilo di esiliati e banditi provenienti da tutte le altre terre. Al centro, la Fossa era una macchia scura e terribile, una distesa di sabbie mobili che, se vi fossero caduti, li avrebbe inghiottiti. Al di là, al confine meridionale della zona disabitata, oltrepassarono il profondo labirinto delle montagne di Irrybis e giunsero in vista dello Spartiacque Azzurro. Si era messo a piovere, e in breve i due viaggiatori si trovarono inzuppati. Era ormai vicino il tramonto quando arrivarono al porto di Bracken Clell. In un’oscurità non interrotta dalla luce della luna e delle stelle, proseguirono adagio attraverso sentieri fangosi e resi scivolosi dalla pioggia, avvolti nel mantello e incappucciati, simili a due spettri nella notte. «Siamo quasi arrivati» avvertì il Cavaliere Alato avvolto nel mantello, quando giunsero in vista delle luci del porto. Arrivarono alla casa del guaritore, dove Hunter Predd aveva lasciato il naufrago pochi giorni prima. Salirono gli scalini che conducevano al portico, si scrollarono la pioggia dal mantello e bussarono. Mentre attendevano, sentirono giungere dall’interno un basso mormorio e videro alcune sagome muoversi dietro le tende, nella stanza illuminata. Ad aprire la porta venne un elfo magro e brizzolato, dall’espressione gentile e stanca e dall’aria interrogativa. Sorrise nel riconoscere Hunter Predd e invitò tutt’e due a entrare. «Il mio amico Dorne» disse a Walker il Cavaliere del Wing Hove. «Quest’uomo» disse poi al guaritore, indicando il druido e senza approfondire la cosa «è un incaricato di Allardon Elessedil ed è venuto a dare un’occhiata al nostro naufrago.» Non fornì altre spiegazioni e non accennò
alla morte del re. Il guaritore parve
accontentarsi delle spiegazioni. Strinse la mano a Walker, con gravità. «Ho brutte notizie per te. Ho fatto del mio meglio, ma non è stato sufficiente. L’uomo che Hunter Predd mi ha affidato è morto nel sonno alcuni giorni fa.»
Walker accolse con calma la notizia. Non ne era affatto sorpreso. Confermava anzi i suoi sospetti. Chiunque avesse mandato gli assassini di Allardon Elessedil aveva eliminato anche il naufrago. «Lo avete seppellito?» «No.» Il guaritore si affrettò a scuotere la testa. «L’ho messo nella casa fredda, in attesa del ritorno di Hunter da Arborlon.» «E la sua stanza? La stanza dov’è morto? È occupata?» «È vuota. L’abbiamo pulita, ma non vi abbiamo ancora messo un nuovo paziente.» Il guaritore passò lo sguardo dall’uno all’altro. «Venite ad asciugarvi accanto al fuoco. Vi darò della minestra calda. C’è un bel freddo, fuori.» Li fece sedere davanti al fuoco nella sala principale, prese i loro mantelli e portò coperte perché si asciugassero. Alcuni assistenti del guaritore andavano e venivano, presi dalle loro incombenze, davano un ’occhiata ai due viaggiatori, ma non facevano commenti. Walker non prestò loro attenzione: pensava al naufrago. Non poteva più interrogarlo da vivo. Sarebbe riuscito a ricavarne qualcosa da morto? Il guaritore tornò con ciotole di minestra e bicchieri di birra. Lasciò che incominciassero a mangiare, poi prese una sedia e si sedette accanto a loro. Era stanco e nervoso, come c’era da aspettarsi, ma Walker non colse cattive intenzioni in lui; non era un uomo malvagio. Il guaritore chiese del viaggio e scambiò con loro qualche parola. La pioggia aveva ripreso a cadere, e il rumore delle gocce sul tetto e sulle finestre era un suono sordo, costante. Le luci che brillavano nelle case circostanti divennero sempre più vaghe e indistinte. «L’uomo da te curato, Dorne, ha parlato con qualcuno?» chiese infine Walker. Il guaritore scosse la testa. «Con nessuno.» «Qualcuno è venuto a vederlo, anche solo per qualche istante?» «No, mai.» «Le sue condizioni sono cambiate in qualche modo, prima che morisse?» «No.» «E dopo la morte, c’era in lui qualcosa di diverso?» Il guaritore rifletté per qualche istante. «Be’, forse in ciò che è accaduto leggo più di quanto dovrei, ma mi pareva in pace.» Si strinse nelle spalle. «La morte, però, è spesso una liberazione dalla sofferenza, e quell’uomo soffriva molto.» Walker rifletté su quelle parole. Nel focolare, un pezzo di legno scoppiettò e lanciò scintille tutt’intorno. «È morto qualcun altro, nel villaggio, negli ultimi due giorni? Una morte inattesa?» Il guaritore sgranò gli occhi. «Sì, è proprio così. Un uomo che lavorava qui come assistente. Non guaritore, ma servitore. L’hanno trovato morto nei boschi, non lontano dalla sua capanna. Anzi, è stato trovato per caso, perché è un posto dove passa poca gente. È stato morso da un serpente, una specie molto velenosa. Rara da noi, a dire il vero. Una specie che si trova nella Malaterra.» Walker posò la ciotola e si alzò. «Mi puoi far vedere la stanza dov’è morto
quell’uomo?» chiese al guaritore. «Hunter, finisci pure di mangiare. Posso andare da solo.»
Seguì Dorne lungo il corridoio, fino a una stanza in fondo all’edificio. Poi congedò il guaritore dicendogli di tornare da Hunter Predd e assicurandolo che ci avrebbe messo poco. Il guaritore gli propose di accendere il candeliere, ma Walker gli rispose che per quello che doveva fare era più adatta l’oscurità. Rimasto solo, si portò nel centro della stanza e, avvolto nell’oscurità, ascoltò il rumore della pioggia e osservò il movimento delle ombre. Dopo qualche minuto chiuse gli occhi e assaggiò il sapore e l’odore dell’aria, cercando di diventare parte di ciò che lo circondava. Lasciò che i suoi pensieri si spegnessero e che il suo corpo si rilassasse. Dal corridoio gli giungeva ancora il basso mormorio. Si isolò con cura anche da quello. Il tempo scivolò via. Lentamente, cominciò a trovare frammenti di ciò che cercava: i residui di una forte magia impiegata non molto tempo prima. Erano frammenti diversi, alcuni suoni leggeri, altri guizzi di movimento che lo raggiungevano anche se teneva gli occhi chiusi, altri ancora tracce dell’odore di chi aveva praticato la magia. Non erano sufficienti a fornirgli un’immagine intera, ma confermavano i suoi sospetti. Aprì gli occhi, soddisfatto. L’impiego della magia non si poteva mai nascondere del tutto a coloro che sapevano come cercare. Rimaneva sempre un residuo a testimoniarlo. Tornò nella sala principale, dove lo attendevano Hunter Predd e Dorne. «Mi puoi accompagnare alla casa fredda?» chiese al guaritore. «Devo vedere il corpo del naufrago.» Il guaritore annuì, dopo avere premesso che l’edificio era lontano. «Non è la notte più adatta per uscire, con questo tempo» aggiunse. «Andrò da solo» rispose Walker. «Basta che mi indichi la strada.» Il druido si avvolse nel mantello umido e uscì. Seguendo le istruzioni del guaritore, girò attorno alla casa finché non arrivò al retro, e si allontanò nella pioggia. La foresta iniziava a venti passi dall’edificio, e la casa fredda da lui cercata era a un altro centinaio di passi. Abbassando la testa per proteggersi dalla pioggia e dai rami bassi, Walker procedette lungo un sentiero di terra battuta da cui passavano solo il guaritore e i suoi assistenti. In lontananza si levava il rombo del tuono, e il vento proveniente dall’oceano agitava i rami. Alla fine del sentiero c’era la casa fredda, una grotta scavata ai piedi di un’altura coperta di vegetazione. Vicino alla porta si scorgeva una cascata che alimentava un ruscello. La maniglia della porta era gelida e scivolosa; il druido impiegò qualche istante ad aprire. Una volta dentro non si udiva più il rumore dell’acqua. Infilate in anelli sulla parete c’erano varie torce e su un ripiano esche e acciarini per accenderle. Walker ne accese una che lasciò sulla parete e una seconda che prese in mano. Si guardò attorno. Era in una grande stanza quadrata e interamente rivestita, dal pavimento al soffitto, di lastre di pietra. Numerose nicchie alle pareti contenevano slitte di legno per i corpi e nella pietra del pavimento erano scavati canaletti di scolo per l’umidità e i fluidi corporei. Al centro della stanza c’era un tavolo con il piano metallico, ora vuoto, che veniva impiegato dal guaritore per esaminare i corpi. Nell’ ombra di una parete si vedevano strumenti chirurgici che luccicavano come occhi di predatori. La stanza puzzava di sangue e di morte, e il druido procedette in fretta a fare quello che doveva. Il corpo
del naufrago era in una nicchia bassa all’estremità della sala. Walker tirò verso di sé il corpo e tolse il lenzuolo da cui era coperto. La faccia dell’uomo era bianca ed esangue alla luce della torcia, il corpo era rigido e la pelle pareva di cera. Walker lo guardò senza riconoscerlo. Se era stato Kael Elessedil, ora
non aveva alcuna somiglianza con lui. «Chi sei?» sussurrò Walker al morto. Infilò in un anello sulla parete la torcia che aveva con sé e delicatamente accostò le dita al petto dell’ uomo, muovendole adagio in giù sul torso e poi in su fino alle spalle. Passò le dita sulla gola e sulla fronte, sulle tempie e sulle guance, cercando qualche risposta. «Dimmi qualcosa» mormorò. Fuori, un rombo di tuono scosse la terra, ma il druido non si interruppe. Posò le dita sugli occhi dell’ uomo e sentì le palpebre cedere sotto il suo tocco. Poi, scese lentamente lungo il naso e le guance. Quando arrivò alle labbra esangui, tirò indietro le dita di scatto, come se fosse stato punto. “Ecco” disse tra sé. “È di qui che gli è stata tolta la vita!” La magia non si era ancora dissipata, benché fossero passati due giorni, ed era ancora così forte da bruciare. Accarezzò in fretta le labbra. Non era stata usata la forza. La morte era giunta dolcemente, ma veloce e intenzionale. Tuttavia, prima di ottenere la liberazione finale, la mente del naufrago era stata svuotata di tutto quello che conteneva. Walker fece un passo indietro. Adesso conosceva l’identità del morto: la conosceva con certezza. I frammenti della magia usata su di lui confermavano che era Kael Elessedil. Varie domande gli si affacciarono tutte insieme alla mente. La persona che aveva ucciso il naufrago aveva frugato nella sua memoria? Credeva di sì. L’assassino aveva cercato nella mente di Kael le informazioni che il druido aveva trovato nella mappa. Una cupa certezza si formava nel turbine dei suoi pensieri: solo una persona era in grado di farlo. Una persona verso cui Walker non nutriva ostilità, ma che lo odiava e avrebbe voluto distruggerlo. Da tempo temeva di incontrarla, e avrebbe preferito rimandare lo scontro. Lei, invece, sarebbe stata lieta di anticiparlo. Tornò a guardarsi attorno, nella penombra della camera, e per la prima volta si accorse del gelo che vi regnava. Doveva cambiare il suo piano. Se si fosse trattato di qualsiasi altro nemico, non ne avrebbe avuto bisogno, ma uno scontro con quella donna l’avrebbe costretto a rivelare un segreto che era rimasto nascosto per tanti anni. Purtroppo non aveva potuto impedire che la verità venisse nascosta, ma era inutile rimpiangere il passato: poteva solo cambiare l’avvenire, e a un prezzo molto alto. Rimise a posto il corpo di Kael Elessedil, spense le torce e uscì. L’oscurità e la pioggia tornarono ad avvolgerlo. “Devo sbrigarmi” si disse. Aveva pensato di mettersi subito alla ricerca di una nave e di un equipaggio, ma quella parte del suo compito doveva aspettare. C’era una cosa più importante, e occorreva farla subito. Entro la mezzanotte del giorno successivo doveva andare a parlare con i morti.
8 L’indomani Walker lasciò Bracken Clell prima dell’alba. Seduto sul dorso di Ossidiana, alle spalle di Hunter Predd, osservava il cielo screziato da una cortina di pioggia rischiararsi fino al colore dell’argento. La pioggia era diminuita d’intensità, ma non era cessata. Il cielo scuro e grigio copriva di ombra e foschia il terreno fradicio.
Raggomitolato nel mantello da viaggio, di nuovo gelido e bagnato, il druido si rifugiò nelle proprie
riflessioni per far passare il tempo e riesaminò la situazione nel dettaglio. Sapeva cosa si doveva fare, ma più volte rimpianse di non avere altre persone con cui condividere le responsabilità. Sentirsi così solo lo scoraggiava, riduceva pressoché a nulla il margine di errore che gli era permesso. Ricordò quanto aveva disprezzato il lavoro dei Druidi, in gioventù, soprattutto quello di Allanon, e tornò a pentirsene. Volarono per l’intera mattinata, con una sola sosta per far riposare Ossidiana e mangiare. Verso mezzogiorno superarono il Tirfing e si lasciarono alle spalle le Terre dell’Ovest. Sorvolarono le foreste del Duln, poi il nastro sottile del Rappahalladran. La pioggia diminuì, le nubi grigie si mossero verso sud e all’orizzonte apparvero squarci di cielo azzurro. Ora volavano in direzione nordest, lungo il margine delle Terre di Confine, sotto il Tyrsis e attraverso il lago Arcobaleno. Quando si fermarono a mangiare sulla sponda occidentale del lago, la giornata era divenuta chiara e luminosa, i loro abiti cominciavano ad asciugarsi e a riscaldarsi al sole e tornava in tutt’e due l’interesse per la missione. «Quel naufrago era davvero Kael Elessedil?» chiese Hunter Predd, quando finirono il fagiano freddo che Dorne aveva dato loro la mattina, alla partenza. Walker annuì. «Sì. All’inizio non ne ero certo. L’ultima volta che l’ho visto era poco più che un ragazzo e in qualsiasi caso non lo ricordo bene. Ma anche se mi fossi ricordato il suo aspetto di allora, sarebbe stato difficile riconoscerlo dopo quello che ha patito. Però c’erano altri segni, varie tracce sparse qua e là, che mi hanno rivelato la sua identità.» «Non è morto nel sonno, vero? E neppure per cause naturali. Qualcuno l’ha aiutato a morire.» Il druido annuì lentamente. «Proprio così. Come lo sai?» Il Cavaliere Alato si strinse nelle spalle e si stiracchiò. «Dorne è un guaritore di grande talento e assai scrupoloso. Il naufrago era sopravvissuto in mare per parecchi giorni prima che lo trovassi io. Nell’ ospedale di un guaritore mi aspettavo che sopravvivesse qualche giorno di più.» Rivolse a Walker un’ occhiata interrogativa. «La stessa persona che ha mandato gli assassini?» Il druido annuì. «Penso di sì. Per uccidere quell’uomo, per portargli via la vita, è stata usata la magia. Magia molto simile a quella impiegata sugli uomini inviati a uccidere Allardon Elessedil.» Per qualche istante il cavaliere rimase in silenzio. Sorseggiò la birra, con lo sguardo perso nella distanza. Poi chiese: «Sai già chi è il tuo nemico?». “La mia nemica” pensò Walker. “Implacabile e mortale.” Rivolse un sorriso ironico al compagno: «Questa notte ne saprò di più». Il Cavaliere Alato pulì le stoviglie e le impacchettò, si assicurò che il suo animale avesse mangiato e bevuto a sufficienza, poi indicò a Walker di montare dietro di lui. Proseguendo verso est, attraversarono il lago Arcobaleno, passarono a sud della foce del Mermidon, sulle ampie, dirupate alture delle montagne di Runne. Sul lago videro delle barche da pesca, ma i pescatori non alzarono lo sguardo, assorti nel loro lavoro. La giornata si consumò, il sole scese verso l’orizzonte e la luce cominciò ad affievolirsi. La luna si accese nel cielo e accanto a essa comparve una sola stella. Le ombre si allungavano sulla
terra sotto di loro, si protendevano come dita determinate a prenderla e affidarla alla notte. Era già tramontato il sole quando superarono il confine meridionale delle pianure di Raab e si diressero verso i Denti del Drago. Le grandi cime seghettate erano scure e indistinte: una parete insuperabile che
chiudeva l’intero orizzonte settentrionale. La temperatura era scesa e Walker si strinse nel mantello per riscaldarsi. Hunter Predd, invece, pareva insensibile al freddo. Walker si meravigliò per la sua resistenza ai cambiamenti di temperatura, ma probabilmente per diventare un Cavaliere del Wing Hove bisognava essere così. Era buio pesto quando giunsero alle colline che portavano al luogo dove Walker intendeva andare. Guidato dalla luce della luna e delle stelle, Ossidiana si posò su un pendio brullo, a una buona distanza da rocce e cespugli che potevano nascondere nemici o essere d’impaccio nel caso di una fuga precipitosa. Dopo avere provveduto ai bisogni del Roc, il cavaliere e il druido allestirono il campo, accesero il fuoco, e cucinarono qualcosa da mangiare. In lontananza, sentivano i richiami da caccia degli aironi notturni e l’ ululato stridulo dei lupi. La luce lunare inondava le pianure del Sud e dell’Est, e in quella luce pallida si muovevano ombre furtive. «Pensavo a quel naufrago» commentò Hunter Predd, dopo un lungo silenzio. Avevano quasi finito di mangiare e il cavaliere era seduto a una certa distanza dal fuoco. Aveva una tazza di birra in mano e con il tacco dello stivale scavava oziosamente un solco sul terreno duro. «Come può un cieco essere sfuggito ai suoi carcerieri senza un aiuto?» Walker alzò la testa. «Come può essere riuscito a lasciare il posto dov’era imprigionato, dovunque fosse, e ad attraversare lo Spartiacque per arrivare fino a noi?» Il Cavaliere Alato aggrottò ancor di più la fronte. «Se Kael Elessedil tornava dal viaggio compiuto trent’anni fa, deve aver fatto molta strada. Un cieco non ci sarebbe riuscito, da solo.» «No» convenne Walker. «Non si sarebbe riuscito.» L’elfo si sporse verso di lui. «C’è un’altra cosa che mi dà da pensare. Come si è procurato la mappa? A meno che non l’abbia disegnata lui stesso, o l’ha rubata o gliel’hanno data. Se l’ha disegnata lui, l’ha fatto prima che gli cavassero gli occhi. Ma com’è riuscito a nasconderla a coloro che l’hanno catturato? Se invece l’ha disegnata un altro, qualcuno deve avergliela data. In un caso come nell’altro, dev’essere stato aiutato. Anche per fuggire. Dove sono coloro che l’hanno aiutato?» Walker annuì. «Sono le domande giuste, Hunter Predd. Le domande che io stesso mi rivolgo da parecchi giorni. La tua mente è acuta come il tuo intuito, cavaliere.» «Tu hai qualche risposta?» chiese Hunter, ignorando il complimento. «Nessuna che possa comunicare, per il momento.» Si alzò e posò il piatto e la tazza. «È ora che vada. Non tornerò prima del mattino, perciò ti consiglio di dormire. Non venire a cercarmi, per quanto tu possa essere tentato di farlo. Capito?» Il cavaliere annuì. «Non hai bisogno di dirmi di stare lontano da queste montagne. Ho sentito le storie sulle “cose” che le abitano. Sono soddisfatto di rimanere qui dove mi trovo adesso.» Si avvolse ancor più strettamente nel mantello. «Buona fortuna a te.» Lungo il cammino che portava dalle colline ai Denti del Drago faceva più freddo che nel fondovalle e a mano a mano che il druido saliva, la temperatura si abbassava sempre più. Fra le massicce pareti di roccia, la notte era silenziosa e comunicava una profonda impressione di vuoto. La luna era scomparsa dietro i monti e c’era solo la luce delle stelle a illuminare la via, ma quel debole chiarore era sufficiente per il druido. Camminava su un sentiero stretto e
pietroso che serpeggiava in mezzo a massi ciclopici. Il guazzabuglio di rocce frantumate faceva pensare che una catastrofe avesse cambiato completamente il
paesaggio in tempi ormai dimenticati. Forse la zona era occupata da un’altra montagna. Adesso c’erano solo rovine. Gli occorsero più di due ore per arrivare a destinazione, e quando vi giunse era quasi mezzanotte. Superata un’ultima altura, Walker scorse davanti a sé la valle d’Argilla e il favoloso Perno dell’Ade. Il lago era nel centro del bacino, le sue acque immobili erano cupe e prive di vita entro la conca di lucida pietra nera che ricopriva il fondo e i fianchi della valle. La luce delle stelle si rifletteva sulla pietra, ma quella che colpiva il Perno dell’Ade veniva completamente assorbita. Nella valle, nulla si muoveva. Racchiusa nella coppa delle alte e solitarie cime dei Denti del Drago, aveva l’aspetto di una tomba. “Cosa non molto lontana dal vero” pensò Walker, guardando la distesa inanimata. Si voltò verso la valle d’Argilla, si sedette appoggiando la schiena a una grande lastra di roccia e scivolò in un sonno leggero. Il tempo si consumò senza che Walker se ne accorgesse, e quando aprì gli occhi la notte era quasi finita. Allora si alzò e scese al fondo della conca, facendosi strada con cautela in mezzo ai detriti, attento a non incespicare perché i bordi di quelle rocce erano affilati come rasoi. Solo lo scricchiolio dei sassi sotto i suoi stivali rompeva il silenzio della sua discesa. La valle era ancora illuminata dalle stelle, perciò raggiunse senza difficoltà la riva del lago un po’ prima dell’alba: il momento in cui gli spiriti dei morti potevano venire evocati per rivelare i segreti nascosti a tutti i vivi. Laggiù, unica figura vivente sul fondo della grande valle, si preparò a quello che sarebbe successo di lì a poco. Al suo arrivo, le acque del Perno dell’Ade avevano preso un aspetto diverso; ora, appena al disotto della superficie, brillavano di una luce che non era il riflesso di quella delle stelle, ma emanava da qualche sorgente interna. Si aveva l’impressione di qualcosa che si muoveva, si destava e si accorgeva della sua presenza. Era una sensazione che non si coglieva con la vista. Walker tenne lo sguardo e l’attenzione fissi sul lago, cercando di ignorare tutto il resto, consapevole che ogni interruzione della concentrazione, dopo avere iniziato, avrebbe mandato a monte i suoi sforzi e forse gli avrebbe causato un danno. Quando fu in pace con se stesso e pienamente concentrato, cominciò a evocare i morti. Parlò sottovoce, perché non era necessario che la sua voce andasse lontano, e gesticolò adagio, perché la precisione era più importante della velocità. Disse il suo nome, la sua storia, la sua richiesta, invitando i morti a rispondere e il lago a lasciarli liberi. Mentre parlava, le acque cominciarono a muoversi: prima in una sorta di vortice lento, poi con maggiore violenza. Grida sommesse si levarono dal fondo, chiamando con voci esili ed eteree, sussurri che divennero grida sottili come carta. Il Perno dell’Ade sibilò e ribollì, liberando le voci che conteneva prima in piccole fontane di schizzi, poi in veri e propri geyser che salivano alti nell’aria. La luce sotto la superficie del lago si accese e pulsò, e la valle rabbrividì. Poi dal fondo della terra echeggiò un rombo, e al disopra delle acque comparvero gli spiriti, forme bianche e trasparenti che salivano lente nell’aria, legate da sottili scie di vapore, liberate per pochi, preziosi istanti dall’Aldilà per tornare alla terra che avevano lasciato con la morte. Le loro voci si intrecciarono in un gemito sempre più acuto che fece rabbrividire il druido e gli raggelò le ossa. Ma Walker non indietreggiò di fronte alla loro avanzata, vincendo la parte di lui che gli gridava di fuggire, di voltarsi, di avere paura. Le anime si levarono in un turbine, protendendosi verso ciò che avevano perso, cercando di riavere quanto era loro negato.
Ne comparve un numero sempre più grande, che riempì completamente la conca della valle, fino a non lasciare alcuno spazio vuoto. “Chi ci chiama? Chi osa?” Poi un’enorme e spaventosa ombra nera si levò dall’acqua e allontanò da sé gli altri spiriti come se fossero foglie. Una figura avvolta in un mantello, che prese forma a mano a mano che saliva, un braccio
teso a spazzare via gli sciami di spettri che indugiavano troppo vicino. Il Perno dell’Ade ribollì in risposta alla sua comparsa, schizzando acqua dappertutto e colpendo con le gocce la faccia e le mani del druido. Walker sollevò il braccio, in un gesto protettivo, e la figura avvolta nel mantello si volse subito verso di lui. Sospesa nello spazio, cominciò a perdere una parte della sua oscurità, divenne più trasparente, e dalla sua nera copertura affiorò la forma umana, come ossa visibili in mezzo alla carne. Scivolò sulle onde agitate del lago e assorbì tutto lo spazio che la circondava, attirando a sé tutta la luce finché non rimase null’altro. Quando si trovò sopra Walker, rimase immobile, incombente su di lui, e inclinò leggermente la testa avvolta nel cappuccio, la faccia coperta dall’ombra. In tono piatto e privo di passione, la sua voce inondò il momentaneo silenzio della valle. «Che vuoi sapere da me?» Walker s’inginocchiò, non per paura, ma per rispetto. «Allanon» disse, e attese che l’ombra lo invitasse a parlare. Più a ovest, dove i boschi impenetrabili nascondevano e difendevano gli abitanti come fa l’oceano con le creature marine, l’alba si affacciava anche sulla Malaterra. Sotto i suoi alberi secolari regnava sempre la penombra, anche nei giorni d’estate e nel momento in cui il sole era più alto. Le ombre avvolgevano il mondo degli abitanti della foresta, e per molti di loro non c’era differenza tra giorno e notte. Luogo selvaggio, dove si spingevano pochi estranei e in cui rimaneva solo chi era fatto per quella vita, la più pericolosa che si conoscesse, la Malaterra era il covo di tutti coloro che preferivano sfuggire alla luce del sole. La Strega di Ilse era una di essi. Era nata in un’altra parte delle Quattro Terre, dove il sole splendeva luminoso, ma si era da tempo abituata a quella vita crepuscolare, scoprendo che era la più adatta a lei. Viveva laggiù pressoché da sempre, ossia da quando aveva cinque anni. Ce l’aveva portata il Morgawr quando gli emissari del druido avevano ucciso i suoi genitori e cercato di rapirla per farne una loro schiava. Il Morgawr le aveva dato una casa, la sua protezione e la sua conoscenza della magia, in modo che potesse raggiungere l’età adulta e scoprire il proprio destino. L’oscurità in cui era cresciuta le piaceva, ma non le aveva mai permesso di farne una sua schiava. A volte, come lei sapeva, si finisce per diventare schiavi delle cose che ci fanno star bene. Lei non intendeva che ciò accadesse. Dipendere da qualcosa o qualcuno era per gli sciocchi e i deboli. Quella notte, mentre lavorava sulle immagini rudimentali che aveva prelevato dalla mente di Kael Elessedil prima di dargli la morte, sentì l’agitazione dell’aria che segnalava il ritorno del Morgawr. Si era allontanato dalla loro abitazione da più di una settimana senza informarla delle sue intenzioni, lasciandola a se stessa fino al ritorno. Ormai era adulta, agli occhi del Morgawr oltre che ai propri, e lui non sentiva il bisogno di controllarla come un tempo. Non si era mai confidato con lei, perché un’azione così contraria alla sua natura sarebbe stata inconcepibile. Il Morgawr era un mago, solitario e indipendente per natura. Era in vita da un tempo lunghissimo,
nel suo fortino della Fossa, nel cuore della Malaterra, non lontano dalla cima nota come Guglia Nera. Una volta, si raccontava, quelle caverne erano occupate dalle due streghe sorelle, Mallenroh e Morag, che si erano distrutte tra loro. Una volta, si diceva anche, il Morgawr le aveva rivendicate come sorelle. La Strega di Ilse non sapeva se era vero; il Morgawr non ne parlava mai, e lei era troppo intelligente per fare domande.
La magia nera cresceva rigogliosa nella Malaterra, pur essendo nata da altri tempi e da altre persone, in un mondo che aveva toccato il massimo del suo splendore prima delle Grandi Guerre. La magia era radicata nella terra, laggiù, e il Morgawr traeva forza dalla sua presenza. Non era come lei, non era nato per la magia. Ne aveva ottenuto il dominio assorbendola goccia a goccia e accumulandola in sé, studiando e sperimentando, con una lenta e tortuosa esposizione agli effetti collaterali che l’avevano trasformato irrimediabilmente. Sollevando gli occhi dal proprio lavoro, la Strega di Ilse vide guizzare le candele poste ai lati della porta, poi le ombre tornarono a ricomporsi sull’antico pavimento di pietra. Posò la mappa e si alzò per accoglierlo e la veste grigia le ricadde sui fianchi flessuosi con un leggero fruscio. Si ravviò i lunghi capelli, scoprendo il viso da fanciulla e i sorprendenti occhi azzurri. Una giovane donna: così l’avrebbe giudicata un visitatore inatteso. Una giovane donna appena giunta all’età adulta. Ma lei non lo era affatto, non lo era mai stata. Il Morgawr non avrebbe mai commesso un simile errore, anche se una volta l’aveva fatto. A lei era bastato un attimo per fargli capire che non era più una bambina e neppure un’apprendista, ma una donna, e una sua pari. Da allora, le cose tra loro erano cambiate, e lei sentiva che non sarebbero mai più tornate come prima. Il Morgawr comparve sulla soglia, massiccio e cupo nel lungo mantello nero. Il suo corpo alto e muscoloso aveva ancora forma umana, ma tendeva sempre più ad assomigliare ai Mwellret con cui trascorreva gran parte del tempo. Aveva ormai la pelle grigia e scagliosa e priva di peli, i lineamenti poco marcati, senza caratteristiche particolari, gli occhi come quelli dei rettili. Era capace di cambiare forma come i Ret, ma assai meglio e con una versatilità superiore, perché aveva la magia ad aiutarlo. Un tempo numerosi, i Ret erano ridotti a una piccola comunità. Erano una razza che si teneva nascosta e amava manipolare gli altri, e forse era per quello che il Morgawr li ammirava. La guardò senza togliersi il cappuccio, con occhi vuoti e gelidi. Un tempo lei ne sarebbe rimasta terrorizzata e avrebbe fatto di tutto perché non la guardasse così. Ora invece gli restituì lo sguardo, e il suo era ancora più freddo e vuoto. «Allardon Elessedil è morto» le comunicò. «Ucciso per errore dalle sue stesse guardie, in un tentativo di assassinio compiuto da Elfi dalla mente alterata. Conosciamo qualcuno capace di usare la magia in quel modo?» Non era domanda che richiedesse risposta, e la Strega la ignorò. «Mentre eri via» gli rispose tranquillamente «è stato trovato un naufrago che andava alla deriva sullo Spartiacque Azzurro. Aveva con sé un braccialetto degli Elessedil e una mappa. Un Cavaliere del Wing Hove l’ha portato a Bracken Clell. Una delle mie spie me l’ha riferito. Quando sono andata a dare un’ occhiata, ho scoperto la sua identità. Era Kael Elessedil. La mappa era già in viaggio per raggiungere il fratello, ma dai ricordi del naufrago sono riuscita a estrarre gran parte di quello che vi era scritto.» «Non sta a te decidere di togliere la vita a un re!» sibilò con ira il Morgawr. «Avresti dovuto consultarmi, prima di agire!» Lei s’irrigidì. «Non ho bisogno del tuo permesso per fare ciò che ritengo necessario. Togliere una vita, la vita di chicchessia, è affare mio e solo mio!» Per l’effetto che ottenne, fu come se gli avesse detto che entro un’ora sarebbe sorto il sole. Il Morgawr accolse l’affermazione con indifferenza, senza fare la minima mossa. «La mappa?»
chiese. «È la mappa di un tesoro, un tesoro di magia costituita da parole, proveniente dal Vecchio Mondo, prima delle Grandi Guerre.» Usò la voce per convincerlo, per trasmettergli il proprio senso di urgenza. Lui si
sarebbe accorto di quello che faceva, ma era ancora vulnerabile. «La magia è nascosta in un fortino, in una terra al di là dello Spartiacque Azzurro. Kael Elessedil c’è stato e ha visto la magia. Esiste, ed è molto potente. Purtroppo anche il fratello è venuto a saperlo. Finché non l’ho fermato, aveva intenzione di cercarla.» Il Morgawr entrò nella stanza, ma, invece di avvicinarsi a lei, proseguì fino alla parete, come per recuperare qualcosa dagli scaffali. Una pozione? Un appunto relativo a qualche scoperta? Poi rallentò e si fermò, e disse con una voce gelida come il ghiaccio: «Tu intendi andare al posto suo, piccola strega?». «Quella magia dovrebbe essere nostra.» «Intendi dire tua, vero?» Rise piano. «Ma così è giusto che sia.» «Potresti venire con me» disse lei, augurandosi che rispondesse di no. Lui piegò la testa da rettile, riflettendo. «La scoperta è tua. Cerca di procurartela, se vuoi, ma senza di me. Se la magia apparterrà a tutt’e due, per me va bene.» La Strega attese, sapendo che avrebbe aggiunto qualcos’altro. «Ma?» chiese infine. Il Morgawr la guardò con occhi che brillavano. «Andrai da sola?» «Dall’altra parte dello Spartiacque Azzurro? No. Mi occorreranno una nave e un equipaggio.» Fece una pausa. «C’è una complicazione.» Il Morgawr rise piano, con una leggera ironia. «Ne avevo l’impressione, dal modo in cui ti sei occupata di questa cosa. Che tipo di complicazione?» Lei gli si avvicinò di alcuni passi e lo guardò, per fagli vedere che non aveva paura, che sapeva bene cosa voleva. La padronanza di sé era di grande importanza presso i Mwellret e presso il Morgawr in particolare. Se pensavano che una persona parlava con sicurezza, era difficile che si opponessero. Il Morgawr era un grande mago, aveva trascorso tutta la vita a impadronirsi di magie capaci di distruggere i nemici in un attimo. La strega era uguale a lui, adesso, ma doveva fare attenzione. «Prima di morire, Allardon Elessedil ha inviato la mappa a Paranor e ha chiamato Walker ad Arborlon.» «Il druido!» esclamò il mago, con voce carica d’odio. «Il druido. Ha fatto in tempo ad accordarsi per una spedizione di ricerca, prima di assistere alla morte del re. Se la fortuna ci avesse favorito, sarebbe morto anche lui, ma purtroppo è ancora vivo. Guiderà una spedizione di Elfi incaricata di cercare quella magia.» Il Morgawr la osservò per qualche momento, senza parlare. «Uno scontro con il tuo principale nemico. Penso che tu non veda l’ora.» «È un nemico formidabile.» «Un nemico che hai giurato di uccidere» confermò il mago. «Forse è arrivato il momento.» «Forse. Ma sono più interessata alla magia che alla morte del druido.»
Il Morgawr sollevò una mano munita di artigli. «Un druido, qualche Cacciatore Elfo, un comandante e un equipaggio. Pochi altri, se conosco bene Walker. Raccoglierà un gruppo forte per affrontare la ricerca, soprattutto perché sa che è già fallita quella di Kael Elessedil. Benché avesse con sé le Pietre Magiche.»
Girò la testa verso di lei. «E le Pietre, piccola strega? Che ne è delle preziose Pietre degli Elfi?» Lei scosse la testa. «Non ne so nulla. Non le ha riportate indietro. I suoi ricordi non mi hanno rivelato cosa ne è stato. Forse sono andate perdute.» «Forse» disse il Morgawr, con voce meno tagliente, in tono pensieroso. «Dov’è adesso il druido?» «Era a Bracken Clell, ieri. Se n’è andato e non è ancora ricomparso. Le mie spie lo tengono d’occhio.» Il mago annuì. «Lo lascio a te. So che troverai la maniera di occupartene. A me il compito di farti avere quanto ti occorre per iniziare la ricerca: una nave, un comandante, un equipaggio e alcuni protettori fidati. Te li fornirò io, piccola strega. Avrai tutto ciò che ti occorre.» Alla Strega non piacque il modo in cui lo disse: sapeva che con quel favore intendeva sorvegliarla, forse perfino controllarla mentre era lontana. Il Morgawr non si fidava più di lei. Mentre un tempo lui era l’ insegnante e lei l’allieva, adesso erano uguali. Peggio ancora, come lei sapeva, erano rivali, non ancora avversari, ma destinati a diventarlo. Lei, però, non poteva rifiutare il suo aiuto, perché sarebbe stato come ammettere di avere paura di lui. E questo non l’avrebbe mai ammesso. «Qualunque aiuto tu mi possa dare, sarà il benvenuto» gli disse, chinando leggermente la testa in segno di riconoscenza. Per il momento, era meglio farlo stare tranquillo. «Da dove iniziamo?» «Dai particolari della mappa che hai ricostruito grazie ai ricordi di Kael Elessedil.» Guardò il tavolo e i disegni posati su di esso. «È l’inizio del tuo lavoro?» Senza aspettare la risposta, si avvicinò per esaminarli. L’alba era giunta da un bel pezzo quando Walker lasciò la valle d’Argilla. L’incontro con l’ombra di Allanon gli aveva risucchiato le forze in modo inatteso. Da molto tempo non si recava al Perno dell’Ade, da molto tempo non ne aveva bisogno, e si era scordato di quanto fosse logorante quell’esperienza. Richiedeva troppa concentrazione, troppa intuizione per interpretare le parole dell’ombra. Benché le conoscenze del druido fossero estese e sapesse cosa attendersi, era necessario procedere con cautela, quando si ascoltava, senza saltare a conclusioni erronee o dimenticare ciò che veniva detto. Quando gli spiriti dei morti furono scomparsi e il sole si fu levato al disopra dell’orizzonte, Walker aveva abbassato lo sguardo e fissato la propria immagine sulla superficie del laghetto, di nuovo immobile, e si era visto invecchiato, coperto di rughe. Per un attimo aveva pensato a se stesso come a un uomo vecchissimo. La giornata si annunciava luminosa e soleggiata, la pioggia dei due giorni precedenti era scomparsa verso est, l’aria tornava a portare odore di linfa e di esseri viventi. Nelle ore successive, rifece adagio il cammino percorso all’andata, troppo stanco per andare veloce, e impiegò il tempo per riflettere su quanto aveva saputo. L’ombra di Allanon gli aveva parlato di un passato a lui già noto, di un presente da lui sospettato, e di un futuro incomprensibile. Di genti e paesi noti e di altri ignoti. Di enigmi e di strane visioni, e il tutto era una grande confusione nella sua mente: per chiarire ogni cosa, avrebbe dovuto riposarsi e riflettere con calma. Ma il suo piano d’azione era chiaro, e Walker sapeva dove doveva andare.
Quando giunse all’accampamento dove aveva lasciato il Cavaliere del Wing Hove, Hunter Predd lo stava aspettando. Aveva tolto il campo, fatto i bagagli e stava passando la spazzola sulle penne scure di Ossidiana, fino a farle brillare. Il Roc vide Walker per primo e chinò la testa feroce per avvertire il
padrone. Hunter Predd si volse, abbassò la spazzola e attese che il druido li raggiungesse. Senza parlare, diede a Walker una fetta di pane spalmata di marmellata e una tazza d’acqua e tornò a prendersi cura della sua cavalcatura. Il druido si sedette sull’erba e mangiò con appetito. Nella sua mente si susseguivano le immagini del Perno dell’Ade e l’arrivo degli spiriti dei morti: l’ombra di Allanon che incombeva su di lui, oscurando la luce delle stelle, gli occhi luminosi nel buio, la voce profonda e imperiosa come un’eco di terremoto. Walker lo rivedeva, ne sentiva la cupa presenza, ne udiva la voce. Quando l’ombra di Allanon si era allontanata con la prima luce del sole, il druido aveva avuto l’ impressione che il mondo fosse giunto alla fine, l’aria era divenuta un mulinello di ombre, luccicante di spiriti, e si era nuovamente riempita delle grida dei morti. Le acque del Perno dell’Ade erano tornate a zampillare, come se qualche leviatano stesse per affiorare, e i morti erano stati di nuovo richiamati al loro regno, lasciando quello dei vivi. Walker si era sentito strappare l’anima, gli era parso che una parte di lui andasse via con loro. E, in un certo senso, era proprio così. Smise per qualche istante di mangiare e fissò un punto indefinito dello spazio. Se avesse pensato troppo a quello che lo attendeva, se avesse riflettuto troppo sulle richieste che gli aveva posto l’ombra di Allanon, avrebbe cominciato a rivolgersi domande pericolose. A mantenerlo sano di mente era il pensiero di quello che si rischiava: la vita delle persone affidate a lui, la sicurezza delle Quattro Terre, il suo sogno che il Consiglio dei Druidi divenisse realtà prima della sua morte. Quell’ultima esigenza lo spingeva più delle altre, perché era la sola che giustificava la sua decisione di divenire un druido: una decisione che lo turbava ancora, perché non aveva mai approvato i Druidi. Se doveva essere uno di loro, voleva esserlo a modo suo, un tipo di druido che potesse vivere senza vergognarsi. Quando ebbe finito di mangiare e di bere, si alzò. Hunter Predd, nel sentire il fruscio delle sue vesti, si voltò verso di lui e smise di accudire il Roc. «Dove andiamo, Walker?» chiese. Il druido guardò per alcuni istanti un volo di aironi che passavano sopra di loro, diretti al lago Arcobaleno. «A sud» rispose infine, con lo sguardo fisso e lontano. «A trovare qualcuno che possiede una magia pari alla mia.»
9 Bek Rowe avanzava furtivo in mezzo alle erbe più alte, ai margini di una radura sotto una serie di colline fittamente alberate, e ascoltava il rumore del cinghiale che raspava fra i cespugli di fronte a lui. S’ immobilizzò nel sentire che il vento cambiava, e cercò di tenersi sottovento rispetto alla preda. Ne ascoltò i movimenti, per controllare di quanto si fosse spostato. Quentin Leah aspettava in mezzo agli alberi, alla sua sinistra. Cominciava a essere tardi, il sole stava già scendendo e rimaneva solo un’altra ora di buona luce. Davano la caccia a quel cinghiale fin dal mattino, l’ avevano seguito in mezzo alle sterpaglie delle colline e nel fitto del bosco, in attesa dell’occasione favorevole per ucciderlo. Le probabilità che ci riuscissero erano scarse anche nelle migliori condizioni. La caccia al cinghiale con arco e frecce era rischiosa e difficile. Ma, come per gran parte delle cose che interessavano loro, era la sfida ad attrarli. Il lieve profumo delle foglie nuove e dell’erba si mescolava al sentore pungente della terra e del legno, e Bek respirò a fondo per tranquillizzarsi. Non riusciva a scorgere l’animale, e questi, avendo la vista molto corta, non poteva certamente vedere lui. Ma il senso dell’olfatto del
cinghiale era più acuto del suo, e una volta che avesse colto l’odore di Bek, la sua reazione sarebbe stata imprevedibile. I cinghiali erano animali feroci e collerici, e quando si imbattevano in qualcosa che non capivano potevano
indifferentemente fuggire o attaccare. Il vento cambiò di nuovo direzione e Bek si affrettò a gettarsi a terra. Il cinghiale aveva cominciato a muoversi verso di lui, l’avanzata segnalata da grugniti. Bek si stava avvicinando alla maturità, ma era ancora un ragazzo, muscoloso e di bassa statura, compensata però dall’agilità, dalla velocità e da una forza sorprendente. Quentin, che aveva cinque anni più di lui e già si considerava adulto, diceva sempre a tutti che non dovevano lasciarsi ingannare, che Bek era molto più robusto di quanto pareva. Se ci fosse stato da lottare, diceva l’Highlander, avrebbe voluto avere Bek Rowe a proteggergli le spalle. Era un’ affermazione un po’ esagerata, naturalmente, ma a Bek piaceva sentirla. Soprattutto perché era suo cugino a parlare, e nessuno si sarebbe mai sognato di sfidare Quentin Leah. Incoccando una freccia nell’arco, Bek riprese ad avanzare. Era abbastanza vicino al cinghiale da sentirne l’odore, e l’esperienza non era piacevole, ma significava che presto avrebbe dovuto colpirlo. Si spostò a destra, seguendo i rumori dell’animale e chiedendosi se Quentin fosse ancora in mezzo agli alberi, sul fianco della collina, o se si fosse già avvicinato alle spalle dell’animale. Gli alberi proiettavano grandi ombre che si allungavano nella radura davanti a Bek come dita protese, mentre il giorno finiva. Una scura forma irsuta si mosse nell’erba dinanzi a lui, il cinghiale che usciva allo scoperto, e Bek s’immobilizzò. Lentamente sollevò l’arco, e cominciò a tendere la corda. Proprio in quell’istante, un’ombra enorme passò sopra di lui, scivolando sulla radura come un’onda di oscurità. Spaventato dalla sua comparsa, il cinghiale fuggì, sollevando zampilli di terra e lanciando una cacofonia di squittii. Bek si alzò con un sospiro, ma scorse solo la schiena dell’animale, la fila di vertebre sotto la pelle, mentre scompariva in mezzo ai cespugli, in direzione del bosco. In pochi istanti, la radura tornò vuota. «Per tutti gli spiriti!» mormorò Bek, abbassando l’arco e passandosi la mano nei corti capelli neri. Si alzò e guardò verso gli alberi. «Quentin?» chiamò. L’alto Highlander uscì dal nascondiglio. «L’hai visto?» «Solo la schiena quando l’ombra l’ha fatto scappare. Hai visto che cos’era?» Quentin si era già avviato tra l’erba della radura. «Qualche tipo di uccello, no?» «Da queste parti non ci sono uccelli così grossi.» Bek scrutò il cielo. S’infilò l’arco a tracolla e rimise la freccia nella faretra. «Solo sulla costa ci sono uccelli di quelle dimensioni.» «Può darsi che si sia perso» commentò Quentin, con un’alzata di spalle. Scivolò su una chiazza di fango e si rialzò imprecando sottovoce. «Forse dovremmo tornare a dare la caccia alle pernici.» Bek rise. «Forse dovremmo tornare a dare la caccia ai lombrichi e limitarci a pescare.» Quentin lo raggiunse e scosse la testa disgustato, lasciando cadere arco e frecce. «Siamo stati fuori tutto il giorno, e cosa portiamo a casa? Niente. Non abbiamo scagliato neppure una freccia in tutta la giornata. Quel cinghiale faceva tanto chiasso che avrebbe svegliato un morto. Non era proprio difficile trovarlo!» Poi rise. «Almeno abbiamo la pernice di ieri per calmare la fame e un po’ di birra per medicare l’orgoglio ferito. È la parte migliore della caccia, mangiare e bere alla fine della giornata!» Bek gli sorrise e, dopo che Quentin ebbe ripreso le armi, tornarono al campo. Quentin era alto
e aveva spalle robuste. Portava i capelli rossi a coda di cavallo, alla maniera degli Highlander. Bek era suo cugino e veniva dalla pianura. Non aveva mai adottato lo stile delle montagne, anche se viveva con Quentin e la sua famiglia praticamente da sempre.
Il fatto di non conoscere la propria origine gli aveva dato un forte senso d’indipendenza. Poteva non sapere chi era, ma sapeva di sicuro chi non era. Suo padre era un lontano cugino di Coran Leah, padre di Quentin, ma abitava nella regione del fiume Argento. Bek lo ricordava solo come un’ombra indistinta, con la faccia scura dall’espressione forte. Era morto quando Bek aveva solo due anni. Gli avevano diagnosticato una malattia inguaribile, e allora aveva portato il bambino dal cugino Coran, il solo parente rimastogli. Non aveva nessun altro a cui affidarlo. Non ce n’erano altri. La madre di Bek era morta e non aveva fratelli. In seguito, Coran Leah aveva detto al giovane che suo padre gli aveva fatto un grande favore, in passato, e che era stato lieto di ricambiare. Questo per dire che sebbene Bek fosse sempre vissuto come un Highlander, in realtà non lo era e non pensava a se stesso come a uno di loro. Quentin approvava il suo atteggiamento: «Perché andare contro la propria natura?» gli diceva. «Piuttosto che fingere di essere un’altra persona, meglio essere uno diverso da tutti gli altri.» Bek approvava l’idea, ma non sapeva bene che cosa volesse dire “diverso da tutti gli altri”, perciò non ne parlava mai. Presto o tardi, si diceva, avrebbe dovuto decidere, e allora avrebbe capito. «Ho fame» disse Quentin, mentre si inoltravano nel bosco. «Una fame sufficiente a mangiare da solo tutto quel cinghiale, se decidesse di venirmi a morire davanti!» Aveva sul viso un’espressione allegra, in cui si rifletteva tutta la sua personalità. Quentin Leah era una persona trasparente. Non conosceva sotterfugi, finzioni e scaltrezze: era diretto, esprimeva apertamente pensieri e opinioni. Bek, invece, era portato a fare attenzione alle parole che pronunciava e alle emozioni che mostrava: una parte di lui si sentiva sempre estranea, fuori posto, e di conseguenza conosceva il valore della cautela. Questo non valeva per Quentin, che si apriva e mostrava esattamente quello che era: se vi andava, bene, se non vi andava, faceva lo stesso. «Sicuro che fosse un uccello?» gli chiese Bek, ancora perplesso per la grande ombra comparsa improvvisamente. Quentin si strinse nelle spalle. «L’ho solo intravisto, non ne so a sufficienza per parlarne con cognizione di causa. Come hai detto tu, sembrava uno di quei grandi uccelli che vivono sulla costa, neri, agili e feroci.» Rifletté come tra sé. «Un giorno o l’altro, mi piacerebbe cavalcarne uno.» Bek sbuffò. «Ti piacerebbe fare un mucchio di cose. Tutto, se ci riuscissi.» Quentin annuì. «Sì, ma certe cose più di altre. E questa è una.» «A me basterebbe rivedere quel cinghiale.» Bek spostò un ramo che gli impediva il passaggio. «Altri due istanti e l’avremmo…» «Lascia perdere» gli disse Quentin, posandogli una mano sulla spalla. «Riprenderemo la caccia domani. Abbiamo tutto il resto della settimana, e prima o poi ne prenderemo uno. Perché non dovremmo riuscirci?» “Be’, intanto perché i cinghiali sono forti e veloci” avrebbe voluto dirgli Bek. “E poi perché sono assai più bravi loro a nascondersi che noi a scovarli.” Ma lasciò perdere. Se avessero catturato il cinghiale quel giorno, per il resto della settimana non avrebbero più avuto nulla da fare e preferiva non pensare a ciò che Quentin avrebbe inventato, con tutto quel tempo libero.
Le ombre si stendevano sulla foresta in macchie sempre più scure, la luce spariva in fretta a mano a mano che il sole scendeva dietro l’orizzonte e la notte iniziava la sua avanzata. Alcuni riccioli serpentini di nebbia cominciavano a comparire nel fondo delle valli, là dove il sole mancava da parecchie ore e l’
umidità era più radicata. Dalle radure cominciava a levarsi il canto dei grilli e dal folto dei rami giungeva il richiamo degli uccelli notturni. Bek piegò le spalle per proteggersi dal vento gelido proveniente dal Rappahalladran. Forse poteva suggerire di andare a pesca, l’indomani, tanto per cambiare. Non era eccitante come la caccia al cinghiale, ma le possibilità di successo erano superiori. Inoltre, rifletté, mentre pescava poteva dormire. Sognare a occhi aperti e viaggiare con la mente. Pensare al proprio futuro. Questo sarebbe stato un ottimo esercizio, dato che non ne aveva ancora scelto uno. «Eccolo di nuovo» disse all’improvviso Quentin, indicando davanti a sé, in mezzo agli alberi. Bek provò a guardare, ma per quanto si sforzasse la vista, non vide nulla. «Di che parli?» chiese. «L’uccello di prima, quello che è passato sulla radura. Un Roc, ecco come si chiama. Per un momento l’ ho visto affiorare dalle montagne, poi è tornato dietro.» «I Roc non viaggiano nell’entroterra» commentò Bek. “A meno che” aggiunse mentalmente “non portino un Cavaliere del Wing Hove.” Ma che ci poteva fare, laggiù, un Cavaliere del Wing Hove? «La luce del tramonto a volte inganna» disse. Quentin parve non averlo udito. «Non era molto lontano dal nostro campo, Bek. Spero che non ci rubi le scorte.» Scesero lungo il pendio, attraversarono la valle e cominciarono ad arrampicarsi sul fianco del colle seguente, dove avevano allestito il campo. Cessarono di parlare e si concentrarono sulla salita, scrutando tra le ombre sempre più fitte. Il sole era sceso sotto l’orizzonte e la foresta era ammantata di un’oscurità piena di piccoli movimenti. Su ogni cosa era calato il silenzio del crepuscolo, come se tutti gli esseri viventi attendessero per scoprire chi si decideva a cantare per primo. Senza volere, anche Bek e suo cugino cominciarono a camminare facendo meno rumore. In quelle foreste dell’Altopiano il buio era sempre fitto, quando scendeva la notte, soprattutto se non c’ era la luna, come in quel momento, e la sola luce era quella delle stelle. Bek provava un’inquietudine indefinibile: l’istinto gli diceva che c’era qualcosa che non andava, anche se i suoi occhi non riuscivano a scoprire cosa. Arrivarono al campo senza incidenti, ma, come se ragionassero all’unisono, si fermarono ai margini della radura e si guardarono attorno in silenzio. Dopo un momento, Quentin toccò sul braccio il cugino e si strinse nelle spalle. Tutto sembrava a posto. Entrarono nella radura, raggiunsero il punto dov’erano nascoste le loro scorte, fra i rami di un albero, e constatarono che non erano state toccate. Poi andarono a cercare la loro attrezzatura da campo, nella forcella di un enorme acero, e trovarono intatta anche quella. Presero i sacchi a pelo e li stesero accanto al pozzetto per il fuoco scavato al loro arrivo, due giorni prima. Poi sciolsero la corda cui erano legate le provviste e le calarono fino a terra. Quentin cominciò a cercare le vettovaglie e le pentole per preparare la cena. Bek andò alla ricerca di rametti per accendere la legna raccolta la mattina. Vicino a loro, nell’oscurità, un uccello rapace lanciò un grido acuto e volò via alla ricerca di preda o di compagnia. Bek alzò lo sguardo, scrutò in mezzo alle ombre, infine accese il fuoco. Una volta che la fiamma ebbe attecchito, raggiunse il margine della radura e si chinò a
raccogliere altra legna. Quando si rialzò, si trovò faccia a faccia con uno straniero dal mantello nero. L’uomo era a meno di un passo di distanza, incombeva anzi su di lui, ma non l’aveva sentito arrivare. Il giovane s’immobilizzò, con le braccia attorno al fascio di legna secca e il cuore in gola. Ogni sorta di messaggi si agitò nel suo cervello, ma non riuscì a rispondere a nessuno.
«Bek Rowe?» chiese a bassa voce lo straniero. Bek annuì, ammutolito. La faccia dello straniero era nascosta sotto il cappuccio, ma la sua voce, roca e profonda, aveva un che di rassicurante. Bek sentì il panico affievolirsi leggermente. Quentin Leah parve percepire l’arrivo dello straniero. Lasciò la zona illuminata dal fuoco e si avvicinò al punto dov’erano fermi Bek e l’uomo. «Bek? Tutto a posto?» Si avvicinò. «Chi c’è?» «Quentin Leah?» gli chiese il nuovo venuto. L’Highlander venne avanti, la mano sull’impugnatura del lungo coltello da caccia. «Chi sei?» Lo straniero attese che fosse vicino a Bek. «Mi chiamo Walker» disse. «Mi conoscete?» «Il druido?» chiese Quentin, senza staccare la mano dal coltello. «Proprio così.» L’uomo spinse indietro il cappuccio e mostrò la faccia. «Vengo a chiedervi un favore.» Quentin lo guardò con scetticismo, aggrottando la fronte. «Un favore? A noi?» «Be’, lo chiedevo a te, in particolare, ma visto che c’è anche Bek, lo chiederò a tutt’e due.» Guardò verso il fuoco. «Possiamo sederci mentre parliamo? Avete qualcosa da mangiare? Oggi ho fatto molta strada.» Come se fossero arrivati a una tregua, lasciarono l’oscurità e si sedettero attorno al fuoco. Bek osservò con attenzione il druido. Era un uomo imponente, alto, scuro di pelle, i capelli e la barba lunghi e neri, una faccia sottile indurita dal sole e dal vento. Aveva un’età indefinibile, né giovane né vecchio. Aveva perso il braccio destro fin sopra il gomito, e la manica della tunica era piegata sul moncherino e fermata con una spilla. Nonostante la mutilazione, trasmetteva un senso di forza e di sicurezza di sé, e nei suoi strani occhi si leggeva un inconfondibile avvertimento di stare alla larga. Aveva detto di essere venuto a cercarli, ma adesso che li aveva trovati non pareva particolarmente interessato a loro. Teneva lo sguardo fisso nell’ oscurità, come in attesa. Più che il suo aspetto, a incuriosire Bek era la sua storia, e cercò di ricordare quanto sapeva di lui. Il druido abitava a Paranor, nell’antica Fortezza, con gli spettri degli antenati e dei compagni. Si diceva che fosse un discendente diretto di Allanon, oltre che suo successore, e che fosse già in vita all’epoca del trisavolo di Quentin, Morgan Leah, e della più famosa regina degli Elfi, Wren Elessedil. E che avesse combattuto con loro contro il Regno delle Ombre. Se questo era vero, il druido aveva più di centocinquant’anni. Tutti coloro che avevano conosciuto quei tempi erano morti da tempo. E pareva strano e vagamente allarmante che il druido fosse sopravvissuto ai normali esseri umani. Bek sapeva molte cose dei Druidi. Aveva cercato di conoscere tutto il possibile, a causa del loro antico collegamento con la famiglia Leah: fin dal tempo delle lotte contro il Signore degli Inganni c’era sempre stato un Leah in ogni impresa dei Druidi. La maggior parte della gente aveva paura di loro e della loro magia, ma gli Highlander li avevano sempre difesi. Se non ci fossero stati i Druidi, dicevano, la gente delle Quattro Terre avrebbe avuto una vita molto diversa, e a un prezzo cui preferivano non pensare. «Dicevi di avere fatto molta strada, oggi?» chiese Quentin, spezzando il silenzio. «Da dove vieni?»
Walker lo fissò. «Prima dai Denti del Drago. Poi da Leah.» «Allora era il tuo Roc» disse Bek, che all’improvviso aveva ritrovato la voce.
Il druido si voltò verso di lui. «Non è mio. Ossidiana appartiene a un Cavaliere del Wing Hove che si chiama Hunter Predd. Tra poco dovrebbe arrivare. Prima doveva prendersi cura della sua cavalcatura.» S’interruppe. «Ci avete visti, vero?» «La vostra ombra» rispose Quentin. Mentre gli altri parlavano, aveva steso su una padella alcune lunghe fette di pesce affumicato e aveva aggiunto farina, erbe aromatiche per insaporirle e una buona dose di birra per renderle più tenere. «Eravamo a caccia di cinghiali» aggiunse. Il druido annuì. «Tuo padre me l’ha detto.» Quentin lo guardò stupito. «Mio padre?» Walker allungò le gambe. «Ci conosciamo. E ditemi, siete riusciti a prendere quel cinghiale?» Quentin tornò a osservare il pesce e scosse la testa. «No, è scappato. È stato spaventato dall’ombra del Roc.» «Oh, vi chiedo scusa. Però farvi tornare al campo per parlarvi era più importante che vedervi prendere un cinghiale.» Bek sgranò gli occhi. Intendeva dire di averlo fatto fuggire intenzionalmente, e che il Roc non era passato per caso? Lanciò un’occhiata al cugino, ma Quentin aveva distolto lo sguardo perché aveva sentito avvicinarsi qualcuno. «Ecco il nostro amico, il cavaliere» annunciò Walker, alzandosi. Hunter Predd si avvicinò al fuoco. Era un elfo magro come una corda ritorta, con mani robuste e occhi acuti. Rivolse un cenno della testa all’Highlander e al cugino quando il druido fece le presentazioni, poi si sedette di fronte a quest’ultimo. Per qualche minuto, Walker parlò ai due giovani dei Roc e dei Cavalieri del Wing Hove, spiegando la loro importanza per gli Elfi dell’Ovest, poi chiese a Quentin notizie della sua famiglia. La conversazione proseguì mentre l’Highlander preparava il pesce, abbrustoliva il pane e aggiungeva qualche verdura. Per tutto il tempo Bek continuò a guardare con attenzione Walker, chiedendosi che favore il druido volesse da loro, come mai conosceva Coran Leah, perché era accompagnato da un Cavaliere del Wing Hove e altre infinite domande. Fecero in tempo a cenare, a bere qualche bicchiere d’acqua di fonte e a sciacquare pentole e stoviglie prima che Walker fornisse al giovane le risposte desiderate. «Voglio che veniate con me in un viaggio» spiegò il druido, bevendo la birra che Quentin gli aveva servito. «Tutt’e due. Sarà un viaggio lungo e pericoloso. Può darsi che passino mesi, prima di tornare, può darsi che occorra un tempo superiore. Dobbiamo attraversare lo Spartiacque Azzurro fino a una terra che nessuno finora ha mai visto. Quando saremo laggiù, dovremo recuperare un tesoro. Abbiamo una mappa, sulla quale sono scritte alcune istruzioni su ciò che occorre fare per trovarlo. Ma c’è anche un’altra persona che gli dà la caccia, una donna molto pericolosa, che farà di tutto per impedirci di raggiungerlo.» Non c’erano stati preliminari che li preparassero alla notizia: il tono era privo di enfasi, come se annunciasse loro un’escursione in zattera lungo il Rappahalladran. Bek Rowe non si era mai allontanato dall’Altopiano, e adesso arrivava un tizio a chiedergli di fare mezzo giro del mondo. Stentava a credere ai propri orecchi.
Hunter Predd fu il primo a rompere il silenzio. «Una donna?» chiese, incuriosito. Walker annuì. «La nostra nemica è una maga molto potente che si fa chiamare Strega di Ilse. È l’allieva di un mago chiamato il Morgawr. I loro nomi derivano da un antico linguaggio del mondo di Faerie, che in gran parte è andato perduto. Quello della donna significa “la strega che canta”, quello di lui significa “lo spettro”. Abitano nell’Ovest, nelle profondità della Malaterra, e raramente ne escono. Come abbia fatto la Strega a sapere della mappa e del nostro viaggio, non lo so. Ma per quella mappa ha causato la morte di almeno due uomini. La conoscete?» Bek e Quentin si guardarono scuotendo la testa, ma il cavaliere annuì con una smorfia. «Quanto basta per stare alla larga» disse. «Temo che non sarà possibile.» Walker incrociò le gambe e li guardò. «Uno dei morti è Allardon Elessedil, il re degli Elfi. Se la Strega di Ilse è stata disposta a ucciderlo per impedirci di cercare il tesoro descritto nella mappa, non esiterà a uccidere noi. Uomo avvisato mezzo salvato, nel nostro caso.» Fissò Quentin e Bek. «L’altra persona uccisa è il possessore della mappa, un naufrago che Hunter ha trovato alla deriva nello Spartiacque Azzurro, poco più di una settimana fa. Il viaggio che vi propongo inizia da lui. Era Kael, il fratello maggiore di Allardon Elessedil, e faceva parte di una spedizione di Elfi partita trent’anni fa per la stessa nostra ricerca. Sono scomparsi tutti. Non è mai stata trovata traccia di loro o delle loro navi. La mappa posseduta dal naufrago pare indicare che abbiano trovato qualcosa di molto importante. Spetta a noi scoprire che cosa.» «Intendi navigare fino all’altra sponda dello Spartiacque per cercare questo tesoro?» chiese Quentin, in tono dubbioso. «Non navigare, Highlander» rispose il druido. «Volare.» Scese il silenzio, interrotto da uno scoppiettio del fuoco. «Sui Roc?» volle sapere Quentin. «Su una nave volante.» Cadde nuovamente il silenzio. Anche Hunter Predd era sorpreso. «Perché vuoi che veniamo anche noi?» chiese infine Bek. «Per varie ragioni» rispose Walker, fissandolo. «Per il momento, però, dovete credermi senza prove. A parte voi tre, non ne ho ancora parlato con nessuno. Alcuni particolari li ho decisi da pochissimo tempo, e altri devo ancora chiarirmeli. Mi occorrono alcune persone con cui discuterli, persone di cui mi fidi. Intelligenti e volenterose, capaci e coraggiose. Hunter Predd è una di esse, tu e tuo cugino siete altre due.» Bek sentì il cuore balzargli in petto. Attese con ansia che il druido proseguisse. «L’utilità di Hunter è evidente» proseguì Walker. «È un esperto veterano dei cieli, e intendo prendere un piccolo numero di Cavalieri del Wing Hove come scorta per la nostra nave volante. Hunter sarà il loro capo, se accetta l’incarico. Così facendo, però, dev’essere certo di poter anticipare il mio pensiero e di poter reagire come imposto dalle circostanze.» Proseguì, senza staccare gli occhi da Bek: «Anche lo scopo di Quentin è evidente, benché lui non lo sappia. Quentin è un Leah, il più vecchio dei figli di Coran, ed è l’erede
di una grande magia. Non c’è nessun altro che io possa reclutare per questo viaggio in grado di fornirci una magia come la sua. Una
volta ci saremmo potuti affidare alle Pietre Magiche, ma quelle degli Elfi sono andate perdute con Kael Elessedil. La Strega di Ilse dispone di alleati che posseggono una loro magia. Inoltre, incontreremo alcune forme di magia anche durante il viaggio. Nessuno potrebbe vincere da solo. Quentin mi deve aiutare». L’Highlander lo guardò come se fosse impazzito. «Non parlerai di quella vecchia spada, quella che mio padre mi ha affidato quando sono entrato nella virilità? Quell’anticaglia è solo un simbolo e niente di più! La Spada di Leah, trasmessa lungo le generazioni e impugnata dal mio trisavolo Morgan contro la Federazione quando ha combattuto per la libertà dei Nani, dopo la sconfitta del Regno delle Ombre! Tutti conoscono la leggenda, ma...» Rimase senza parole e si limitò a scuotere la testa, rivolgendo a Bek uno sguardo interrogativo. Fu però Walker a rispondere. «Conosci quell’arma, Quentin. L’hai impugnata, no? E quando l’hai estratta dal fodero devi avere notato che era in perfette condizioni. È un’arma vecchia di secoli. Come lo spieghi, se non col fatto che è infusa di magia?» «Ma quella spada non fa niente!» protestò Quentin, esasperato. «Lo dici perché hai cercato di evocare la sua magia e non ci sei riuscito?» L’Highlander sospirò. «Mi sento uno stupido ad ammetterlo, ma conoscevo le leggende e volevo vedere se erano vere. Onestamente, ammiro quella spada. Come peso e come bilanciamento è eccezionale, e sembra davvero nuova.» S’interruppe, con un’espressione di dubbio e di cauta aspettativa. «È davvero magica?» Walker annuì. «Sì, ma la sua magia non risponde al capriccio: solo al bisogno. Non può essere evocata per curiosità. Ci dev’essere una minaccia per chi la impugna. Quella magia viene da Allanon e dalle ombre dei Druidi vissuti prima di lui e non può essere selvaggia o arbitraria. La Spada di Leah ha molto valore, Highlander, ma lo scoprirai solo quando sarai minacciato dalle creature delle tenebre e dovrai proteggerti da esse.» Quentin Leah diede un calcio a una pietra. «Se verrò con te, avrò la possibilità di scoprirlo di persona, vero?» Il druido lo guardò senza fare commenti. «Ne avevo l’impressione.» Quentin si guardò gli stivali per un momento, poi lanciò un’occhiata a Bek. «Una vera avventura, cugino. Una sfida superiore alla caccia al cinghiale. Che ne pensi?» In un primo momento, Bek non rispose. Non sapeva cosa pensare. Quentin era più fiducioso, più disposto ad accettare quello che gli si diceva, soprattutto quando gli veniva offerto ciò che cercava. Già da vari anni aveva chiesto il permesso di unirsi ai Liberi per combattere contro la Federazione, ma il padre gliel’aveva negato, ricordandogli che non aveva alcun obbligo verso di loro, ma solo verso la sua casa e la sua famiglia. Inoltre, come primogenito, ci si aspettava che contribuisse all’istruzione dei fratelli e di Bek. Quentin avrebbe voluto attraversare le Quattro Terre in lungo e in largo, per vedere tutto ciò che contenevano, ma finora non gli era stato concesso di allontanarsi dalle Highlands. Ed ecco che, all’ improvviso, gli veniva permesso di andare assai al di là dei confini dell’Altopiano. Bek era molto eccitato, ma, diversamente dal cugino, non era disposto a lanciarsi alla
cieca in quell’ avventura. «Forse Bek si domanda perché gli ho chiesto di venire» disse Walker, tornando a fissare il ragazzo.
Bek annuì. «Vero.» «Allora te lo spiego.» Il druido si sporse verso di lui. «Ho bisogno di te per motivi completamente diversi, e che riguardano quello che sei e il tuo modo di pensare. Hai mostrato una salutare dose di scetticismo nei riguardi delle mie parole. E questo è bene. Ti piace riflettere sulle cose prima di dare un giudizio. Vuoi valutare ogni aspetto, e per ciò che mi occorre da te, questo atteggiamento è essenziale. Mi serve una sorta di mozzo, nel viaggio, una persona che possa andare ovunque senza che gli vengano rivolte domande, qualcuno la cui presenza sia data per assodata, ma che ascolti e veda tutto quello che succede. Ho bisogno di qualcuno che faccia queste cose per conto mio. Che svolga indagini quando occorre e riferisca su ciò che io posso non avere notato. Insomma, mi occorre un altro paio d’occhi e un altro paio di mani. Un ragazzo come te ha l’intelligenza e l’istinto per capire dove mettere al lavoro quelle mani e quegli occhi.» Bek aggrottò la fronte. «Ci siamo appena conosciuti, come fai a essere così sicuro?» Il druido lo guardò con espressione di rimprovero. «È mio compito conoscere queste cose, Bek. Pensi che mi sbagli?» «Potresti sbagliarti. E allora?» Il druido gli sorrise. «Perché non cercare di scoprirlo?» Poi si rivolse a tutti: «Un’altra cosa: quando inizieremo il viaggio, avremo certe idee l’uno dell’altro. Col tempo queste idee cambieranno a causa delle situazioni e degli avvenimenti, che potranno avere effetti imprevedibili. In totale saremo una quarantina, e mi piacerebbe poter pensare che tutti avremo la stessa perseveranza, ma non sarà così. Alcuni supereranno le difficoltà, ma altri verranno a mancarci proprio quando avremo maggiormente bisogno di loro. È nella natura delle cose. La Strega di Ilse tenterà di impedire la nostra partenza e in seguito, una volta partiti, di farci raggiungere la meta. Inoltre potremmo incontrare nemici peggiori di lei. Perciò dobbiamo imparare ad affidarci soltanto a noi stessi e a coloro che si saranno dimostrati attendibili. È una responsabilità enorme, ma ho grande fiducia in voi, tutt’e tre». Li guardò con grande serietà. «Ecco quanto vi dovevo dire. Allora, siete con me in questa spedizione?» Per primo parlò Hunter Predd. «Sono stato con te fin dall’inizio, Walker, e penso che cercherò di essere con te fino alla fine. Quanto alla mia attendibilità, posso dire che farò del mio meglio. Una cosa, però, la so: posso trovare i cavalieri che ti servono per questa spedizione.» Walker annuì. «Non posso chiedere di più.» Guardò i due cugini. «E voi?» Quentin e Bek si scambiarono un’occhiata. «Che ne dici, Bek?» chiese Quentin. «Andiamo?» Bek scosse la testa. «Non so. Tuo padre potrebbe non essere d’accordo.» «Gli ho già parlato» disse Walker. «Vi dà il permesso di venire, se volete. Tutt’e due. Ma la decisione spetta a voi.» In quell’istante, Bek Rowe poté vedere il futuro che aveva cercato fino ad allora: lo vide chiaramente, come se già fosse giunto. Non i singoli avvenimenti, le sfide che avrebbe conosciuto, le creature e i luoghi che avrebbe visto: tutto questo lo immaginava, ma in modo ancora indistinto. Quelli che vedeva erano i cambiamenti che un simile viaggio avrebbe portato
in lui: cambiamenti preoccupanti. Molti sarebbero stati profondi e duraturi, avrebbero influito irrevocabilmente sulla sua vita. Bek li percepiva come successivi strati di pelle che gli venivano strappati, uno alla volta, per mostrare che era cresciuto. Tante cose erano destinate a succedere in un viaggio come quello, e coloro che sarebbero tornati – Bek era abbastanza onesto con se stesso da accettare l’idea che alcuni fossero destinati a morire – non sarebbero mai più
stati quelli di prima. «Bek?» chiese Quentin. Il giovane pensò alla propria condizione. Era uscito dal nulla ed era arrivato dove si trovava, un estraneo accettato nella casa di un Highlander, un viaggiatore per il semplice fatto di provenire da un altro luogo e da un’altra famiglia. La vita era una sorta di viaggio, e lui poteva compierlo stando chiuso in casa oppure uscendo nel mondo. Per Quentin la decisione era stata semplice. Per Bek lo era meno, ma forse era altrettanto inevitabile. Guardò Walker e annuì. «D’accordo. Vengo.»
10 L’indomani, mentre tornavano a casa, Bek Rowe continuò a ripensare alla sua decisione. Anche se ormai aveva scelto, non riusciva a smettere di rimuginare. Per come stavano le cose, aveva preso la decisione giusta. C’erano in ballo molte vite e la responsabilità della ricerca di quella magia misteriosa. Se poi la spedizione aveva lo scopo di procurare a tutte le nazioni una magia che le avrebbe fatte progredire, e Walker aveva spiegato loro come questo fosse possibile, allora era la cosa giusta da fare. Tuttavia in fondo alla mente sentiva suonare un campanello d’allarme. Il druido, ne era certo, gli aveva detto la verità. Ma un druido, come voleva il suo Ordine, era sempre assai reticente quando si trattava di fornire informazioni, e Bek era sicuro che gli nascondesse qualcosa. Molte cose, probabilmente. Bek l’ aveva capito dalla sua voce e dal modo in cui aveva parlato loro: pesando le parole. Walker sapeva più di quello che aveva detto, e Bek aveva l’impressione che i suoi timori sull’impatto che il viaggio avrebbe avuto nelle loro vite traessero origine dai segreti del druido. Se però non avesse accettato l’invito, sarebbero sorti altri problemi. Quentin aveva deciso di seguire Walker ancor prima che Bek parlasse, ma da tempo l’Highlander cercava la scusa per allontanarsi da casa. E il fatto che il padre avesse accettato – una decisione sorprendente – aveva eliminato l’ultimo ostacolo. Quentin per lui era come un fratello e, anche se era più vecchio di lui, nei suoi riguardi adottava un atteggiamento protettivo. In ogni caso, amava il cugino e non riusciva a immaginare di rimanere a casa se lui fosse partito. Tutto questo era molto ragionevole, ma continuava ad avere uno sgradevole presentimento. Tuttavia non poteva fare nulla, perciò durante il loro ritorno a casa preferì accantonare la questione. Camminarono per tutto il giorno sulle Highlands, salendo colli e attraversando boschi e prati, ruscelli e laghetti, vallate e colline. Impiegarono assai meno tempo che durante l’andata, perché Quentin era ansioso di arrivare a casa per prepararsi alla partenza. Anche questo era fonte di preoccupazione per Bek. Walker li aveva invitati a seguirlo e poi era partito per regioni ignote. Non aveva aspettato che si unissero a lui né si era offerto di portarli con sé. Non aveva neppure dato loro un luogo d’incontro. «Voglio che torniate a Leah domattina» aveva detto, prima che si addormentassero. «Parlate con vostro padre. Accertatevi del fatto che vi dà il permesso di allontanarvi. Poi preparate il vostro bagaglio, senza dimenticare la spada, sellate due forti cavalli e mettetevi in viaggio verso est.» Est! Non era la direzione sbagliata? Bek l’aveva chiesto subito. Gli Elfi non abitavano a ovest? Non era laggiù che doveva iniziare il viaggio?
Ma il druido gli aveva assicurato che prima di recarsi ad Arborlon dovevano andare a est. I due giovani dovevano portare a termine un incarico per lui: un compito di cui non poteva occuparsi di persona perché non ne aveva il tempo. Forse Quentin avrebbe avuto l’occasione di mettere alla prova la spada, e Bek di
valutare le proprie doti intuitive. Forse avrebbero incontrato una persona che sarebbe risultata utile nei giorni seguenti. I due giovani non avevano potuto muovere obiezioni, perciò avevano accettato di fare quanto richiesto. “Come Walker aveva previsto” si diceva adesso Bek, il quale sospettava che il druido avesse presentato le sue argomentazioni in modo da non lasciare alternative. Quando Walker parlava, Bek scopriva di dargli ragione ancor prima di udire le sue parole. Qualcosa nella voce del druido lo spingeva a essere d’ accordo con lui. Magia, supponeva. La magia non era sempre stata una componente della storia dei Druidi? E non era il motivo per cui la gente ne aveva paura? «Quel tizio che dobbiamo incontrare» disse all’improvviso, rivolgendosi a Quentin. «Truls Rohk» precisò il cugino. Bek si sistemò sulle spalle il pesante zaino. «Truls Rohk. Che razza di nome è? Chi è? Non ti preoccupa il fatto di non saperne niente, neppure che aspetto ha?» «Ci ha spiegato come trovarlo. Ci ha detto dove andare e come arrivarci. Ci ha affidato un messaggio per lui. Non ci occorre nient’altro, mi pare.» «Non saprei dirlo, dato che non abbiamo idea di che cosa ci aspetta.» Bek scosse la testa. «Abbiamo accettato molto in fretta questa missione, Quentin. Cosa sappiamo di Walker, dei Druidi, della mappa? Solo quanto basta a farci venir voglia di andare a zonzo dall’altra parte del mondo. Ti sembra una decisione intelligente?» Quentin si strinse nelle spalle. «Per come la vedo io, abbiamo un’ottima occasione per viaggiare, per vedere il mondo al di là del nostro Altopiano. Quante volte abbiamo avuto una simile possibilità? E nostro padre ci ha dato il permesso. Un vero miracolo!» Bek sbuffò. «Un vero ricatto, più probabilmente.» «Non nostro padre» rispose Quentin, scuotendo la testa. «Prima si farebbe uccidere. Lo sai anche tu.» Bek annuì, seppure a malincuore. «Perciò, vediamo come si mettono le cose, prima di dare un giudizio. Facciamo questa prova. Se dovessimo scoprire che non siamo all’altezza, possiamo sempre rinunciare.» «Non più, una volta che saremo a bordo di una nave che sorvola lo Spartiacque Azzurro.» «Tu ti preoccupi troppo.» «Certo. E tu troppo poco.» Quentin gli sorrise. «Vero. Ma preoccupandomi poco sono più tranquillo di te che ti preoccupi troppo.» Ecco com’era fatto Quentin, portato a non perdere tempo su quello che poteva succedere, soddisfatto di vivere alla giornata. Era difficile discutere con una persona così appagata della sua vita: bastava dargli una giornata di sole e la possibilità di camminare per dieci miglia, ed era a posto. Anche se si avvicinava una tromba d’aria o se la zona pullulava di Cacciatori dei Nani. Quentin pensava che le disgrazie succedono quando uno ci pensa troppo.
Bek lasciò perdere quelle riflessioni. Non sarebbe riuscito a cambiare la testa di Quentin, e non sapeva
se valesse la pena di farlo. Del resto, il cugino aveva ragione: dovevano lasciare che le cose andassero avanti un poco, e decidere poi. Il sole era tramontato e la nebbia azzurrina della sera aveva già cominciato a coprire l’Altopiano quando finalmente comparve davanti a loro la città di Leah, costruita su un rilievo affacciato sulle pianure a sudest, e sul fiume Rappahalladran e le foreste del Duln a ovest. Il territorio di Leah si allargava attorno all’abitato in una serie di fattorie e di campi. La città era una monarchia all’epoca di Allanon, e vari membri della famiglia Leah vi avevano regnato ininterrottamente per novecento anni. Alla fine, però, la monarchia era scomparsa e le Highlands erano finite sotto l’ influenza della Federazione. Solo da una cinquantina d’anni la Federazione si era ritirata nelle città a sud del Prekkendor e il governo era passato a un Consiglio di anziani. Coran Leah, come membro di una delle famiglie più insigni dell’Altopiano, aveva avuto un seggio nel Consiglio e di recente era stato nominato primo ministro. Aveva accettato con riluttanza l’incarico, ma vi si era applicato con dedizione per giustificare la fiducia dimostratagli dalla sua gente. Secondo Quentin, la politica andava bene per i vecchi, e la città di Leah era una goccia nel mare. Il mondo era vasto e vi succedevano tante cose, nessuna delle quali dipendeva da Leah. Intere nazioni ignoravano l’esistenza delle Highlands. Se voleva avere qualche influenza sul destino delle Quattro Terre, Quentin doveva lasciare l’Altopiano e avventurarsi nel mondo. Ne aveva parlato così tante volte con il cugino che a Bek veniva voglia di urlare quando si affrontava il discorso. Infatti lui non era per niente di quell’idea. Il resto del mondo non gli interessava: era soddisfatto di stare dov’era. Per lui, il desiderio di Quentin era un’ossessione. Tuttavia era costretto ad ammettere che almeno Quentin aveva una meta, mentre lui non ne aveva. Attraversarono ancora qualche miglio di campi, di pascoli con mucche e cavalli, oltrepassarono villaggi e case e arrivarono alla città vera e propria. La casa dei Leah sorgeva nel punto dove un tempo s’innalzava il palazzo reale quando la famiglia dominava le Highlands. Il palazzo era andato distrutto durante l’occupazione da parte della Federazione: bruciato, si diceva, dallo stesso Morgan Leah come sfida contro coloro che l’avevano occupato. In ogni caso, il padre di Coran l’ aveva sostituito con una tradizionale casa a due piani, con i cornicioni sporgenti e numerosi abbaini, balconi profondi e caminetti di pietra in ogni stanza. C’erano ancora i vecchi alberi, il giardino era pieno di fiori, e i viottoli di pietra che portavano dalla casa alle strade vicine erano coperti da pergolati ad arco di piante rampicanti. All’interno e davanti all’ingresso erano già accese alcune luci che davano alla grande casa un aspetto caldo e accogliente; mentre si avvicinava, Bek non poté fare a meno di chiedersi quanto tempo sarebbe passato prima che riprovasse quella sensazione. Fecero in tempo a cenare con tutta la famiglia, Coran e Liria e i quattro giovani Leah. I bambini continuarono a chiedere particolari delle loro avventure, soprattutto della caccia al cinghiale. Quentin le descrisse in modo assai più emozionante di quanto non fossero state realmente, accontentando i tre fratelli e la sorella con la storia romanzesca di come avessero evitato di essere uccisi da un branco di cinghiali inferociti. Coran scosse la testa e Liria sorrise, e ogni discussione sull’improvviso arrivo di Walker e sulla spedizione venne rinviata. Terminata la cena, quando Liria portò a letto i bambini, Bek lasciò soli Quentin e il padre, a parlare del druido, e andò a fare un lungo bagno caldo per togliersi dai muscoli la fatica e il
sudiciume della caccia. Rinunciò a pensare ai suoi problemi e si limitò ad assaporare il piacere del contatto con l’acqua calda. Quando si fu rivestito, andò nella stanza di Quentin e lo trovò seduto sul letto, intento a studiare l’antica
spada. Il cugino alzò la testa nel vederlo arrivare. «Coran ha detto che possiamo andare.» Bek annuì. «Non ne ho mai dubitato. Walker non è così sprovveduto da mentire su un simile particolare.» Si ravviò una ciocca di capelli ancora umidi. «Ti ha detto perché questa volta ci permette di andare?» «Gliel’ho chiesto. Mi ha risposto che è in debito con il druido, per qualcosa che è successo parecchio tempo fa. Non mi ha detto cosa. Anzi, ha cambiato discorso.» Aggrottò la fronte e continuò: «In realtà non pareva preoccupato per la nostra partenza o per la comparsa di Walker. Pareva più… deciso, potrei dire. Era difficile capirlo, ma prendeva la cosa molto seriamente. Calmo, ma serio. E si è assicurato che prendessi la spada». Abbassò gli occhi sulla lama. «La stavo guardando» aggiunse, con un sorriso. «Continuo a dirmi che se riuscissi a concentrarmi a sufficienza forse potrei scoprire qualcosa. Può darsi che la spada mi parli, mi dica il segreto della sua magia.» «Credo che tu debba fare come ha detto Walker. Aspettare di averne bisogno, per capire la sua efficacia.» Bek si sedette a sua volta sul letto. «Walker aveva ragione, la spada è perfetta. Non c’è un solo graffio. Ha centinaia di anni, ma sembra nuova. Non potrebbe essere così, se non fosse in qualche modo protetta dalla magia.» «Lo penso anch’io.» Quentin osservò la spada e passò le dita sulla superficie liscia. «Tutta questa cosa mi fa sentire un po’ strano. Se la spada è magica e io devo impugnarla, saprò cosa fare al momento giusto?» Bek rise. «Quando mai non hai saputo cosa fare? Tu sei nato pronto, Quentin.» «E tu sei nato due volte più intelligente e intuitivo di me» rispose il cugino, senza scherzare. Posò lo sguardo su Bek. «Conosco la mia forza e le mie debolezze. Posso parlarne onestamente. So che mi getto a capofitto nelle cose, come ho fatto per questa spedizione. A volte è giusto così, a volte no. Mi affido a te per non allontanarmi troppo dalla realtà.» Bek si strinse nelle spalle. «Sempre lieto di riportarti al nido.» Gli sorrise. «Ci conto.» Quentin tornò a guardare la spada. «Se non vedo ciò che è necessario fare, se confondo ciò che è giusto con ciò che è sbagliato, mi affido a te. Può darsi che questa spada sia magica» continuò sollevandola «e che possa fare cose meravigliose. Può darsi che possa salvare vite. Ma forse è come tutte le magie, e può essere anche pericolosa. È nella natura della magia operare non solo a favore, ma anche contro chi la usa. Non voglio causare danni con questa magia, Bek. Non voglio usarla affrettatamente.» Era un’affermazione assai profonda, e Bek pensò che il cugino non si fidava a sufficienza di se stesso. Tuttavia gli rivolse un cenno d’assenso. «Adesso va’ a fare un bagno» gli disse, alzandosi. «Non riesco a ragionare bene, se puzzi tanto!» Tornò nella propria stanza e cominciò a preparare gli abiti che gli servivano per il viaggio. Intendevano partire presto, per poter contare su un’intera giornata di cammino. Sarebbe loro occorsa una settimana per trovare Truls Rohk e raggiungere poi Arborlon. Per quanto tempo
sarebbero rimasti lontano? E com’ erano le altre terre, al di là dello Spartiacque Azzurro? C’era clima caldo o freddo, secco o umido? Si guardò attorno aggrottando la fronte e tornando a pensare che sapeva ben poco della spedizione. Ma erano pensieri inutili: con un’alzata di spalle, tornò al suo lavoro.
Aveva quasi terminato quando Coran Leah si presentò alla porta e disse, con aria grave: «Possiamo parlare per qualche minuto?». Senza aspettare risposta, entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Per un momento rimase fermo, come se non sapesse cosa fare. Poi raggiunse la panca dove Bek aveva posato gli abiti, si fece posto e sedette. Il giovane lo guardò stupito. «Cos’è successo?» gli chiese. Coran Leah scosse la testa. A cinquant’anni e con i capelli grigi, aveva ancora una bella presenza: era un uomo robusto e perfettamente in forma, con occhi azzurri e sorriso pronto. Nella città di Leah tutti gli volevano bene e avevano un’alta considerazione di lui. Era il tipo di persona che si faceva un punto d’ onore nel compiere le piccole cose che gli altri trascuravano. Se qualcuno aveva bisogno, Coran Leah era il primo a cercargli aiuto, o a soccorrerlo di persona. Aveva educato i figli con le parole pacate e la gentilezza, e Bek non ricordava mai di averlo sentito urlare. Se avesse dovuto scegliersi un padre, non sarebbe andato a cercarne uno diverso da Coran. «Ho continuato a pensare a questo viaggio, da quando Walker è venuto a trovarmi ieri e mi ha esposto le sue richieste. Ci sono alcune cose che ignori, Bek, cose che non sa neppure Quentin: le sappiamo solo io e Liria. Aspettavo il momento giusto per dirtele, e penso che non sia più il caso di aspettare.» Raddrizzò la schiena e si posò le mani sulle ginocchia. «Non è stato tuo padre a portarti qui, tanti anni fa. È stato Walker. Mi disse che tuo padre era morto in un incidente, lasciandoti solo, e mi chiese di tenerti con me. In realtà io non avevo molti rapporti con Holm Rowe, non lo vedevo da più di dieci anni quando sei venuto a vivere con noi. Non sapevo che avesse figli. Non sapevo neppure che fosse sposato. Mi parve strano che tuo padre ti mandasse da me, perché vivessi con noi, ma Walker mi disse che era la sua volontà. Mi convinse che era la cosa giusta da fare.» Scosse la testa. «Il druido sa essere molto convincente, quando vuole. Gli chiesi se tuo padre lo conosceva bene, visto che ti aveva affidato a lui. Mi rispose che non aveva avuto molta scelta: in quel momento c’era solo lui, e tuo padre era stato costretto a fidarsi.» Bek posò la camicia che aveva in mano. «Be’, so anch’io quanto è convincente. Me ne sono accorto di persona. Com’è riuscito ad avere il tuo permesso per farci partire?» Coran Leah sorrise. «Mi ha detto le cose che deve avere detto a voi: che ha bisogno di tutt’e due, che è in gioco la vita di molte persone, che lo richiede il futuro delle Quattro Terre. Ha detto che siete abbastanza maturi per decidere di persona, ma che dovevo darvi la libertà di farlo. A tutta prima non ero d’accordo con lui, poi ho riconosciuto la verità di quanto diceva. Tu sei abbastanza grande, sei quasi adulto. Quentin lo è già. Io vi ho tenuti con me quanto potevo.» Si strinse nelle spalle. «Forse ha davvero ragione. Forse la vita di molte persone dipende dal vostro viaggio. Spetterà a voi scoprirlo.» Bek annuì. «Faremo attenzione» lo rassicurò. «Ci prenderemo cura l’uno dell’altro.» «Lo so. Mi sento meglio, se andate tutt’e due invece di uno solo. Liria è dell’idea che non dovreste partire, ma questo perché è una madre e le madri la pensano così.»
«Credi che la spada di Quentin sia davvero magica? Che possa fare quello che dice Walker?» Coran sospirò. «Non lo so. La storia della nostra famiglia dice di sì. Walker ne pare certo.» Bek si sedette davanti a lui, sulla sponda del letto. «Non so se andare sia giusto, e capisco che ci sono molte cose che ignoriamo. Forse non valutiamo fino in fondo il rischio che corriamo. Ma ti assicuro che
non faremo sciocchezze.» Coran annuì. «Fa’ attenzione a questo genere di promesse, Bek. A volte è difficile mantenerle.» Fece una pausa. «Mi resta un’ultima cosa da dirti. Mi era già venuta in mente in passato, ma l’ho tenuta per me. Ci ho pensato di nuovo ieri, quando Walker è ricomparso sulla mia soglia. Ecco di cosa si tratta. Sul fatto che Holm Rowe fosse tuo padre e ti abbia mandato a vivere da me ho solo la parola del druido. Ho cercato di controllare, in seguito, ma nessuno ha saputo dirmi dove e quando fosse morto Holm. Nessuno ha saputo darmi notizie di lui.» Bek lo guardò stupito. «Allora il mio vero padre potrebbe essere qualcun altro?» Coran lo fissò. «Per me sei come un figlio, Bek. Io ti voglio bene come ai figli del mio sangue. Ho fatto del mio meglio per allevarti nel modo giusto. Io e Liria abbiamo fatto del nostro meglio. Ora che stai per partire, non voglio che ci siano segreti tra noi.» Si alzò. «Ti lascio ai tuoi bagagli.» Fece per avviarsi verso la porta, poi cambiò idea e tornò indietro. Abbracciò Bek e lo strinse a sé. «Fa’ attenzione, figlio mio» sussurrò. Poi uscì, e lo lasciò solo. Bek concluse che il suo passato era incerto quanto il suo futuro.
11 Pioveva di nuovo quando Hunter Predd e Walker arrivarono, trasportati da Ossidiana, a March Brume, un porto sulla costa dello Spartiacque Azzurro, a nord di Bracken Clell. Il cattivo tempo era iniziato poco prima del tramonto, dopo una giornata di viaggio dall’Altopiano di Leah, e ai due viaggiatori era parso che la pioggia e la notte scendessero insieme. March Brume occupava una fascia di costa rocciosa entro un golfo protetto da alti scogli a nord e da una vasta palude di acqua salmastra a sud. Alle spalle della cittadina si innalzava una foresta che si stendeva lungo la valle retrostante l’abitato. Poco più a sud di quella valle, su uno stretto altopiano, il Roc lasciò i suoi due passeggeri, in modo che potessero passare la notte al riparo in una vecchia capanna di cacciatori. March Brume era abitata per lo più da uomini del Sud, anche se vi erano piccole colonie di Elfi e di Nani. Da secoli la cittadina era famosa per i cantieri navali, dove si costruivano tutti i tipi di imbarcazione, dalle canoe monoposto alle fregate a tre alberi. Artigiani di tutte le Quattro Terre si recavano nel piccolo villaggio a offrire i loro servigi. Nei suoi arsenali non c’era mai disoccupazione per progettisti e costruttori, e i guadagni erano buoni per tutti. Virtualmente, tutti coloro che abitavano nella città erano in qualche modo legati al lavoro dei cantieri. Poi, ventisette anni prima, Ezael Sterret, un corsaro famoso, ex pirata e brigante, ma con un suo geniaccio da inventore, aveva progettato e costruito la prima nave volante. Era un vascello goffo e lento, che rispondeva male ai comandi, ma era riuscito a volare. A Sterret avevano fatto seguito altri costruttori, e ciascuno aveva apportato migliorie; nel giro di un paio d’anni, il modo di viaggiare era cambiato e così la natura dei cantieri di March Brume. Qualche nave tradizionale veniva ancora costruita nei cantieri del vecchio porto di mare, ma non nella stessa quantità di un tempo. La maggioranza delle navi in costruzione era adesso del tipo volante, e i clienti con il borsellino meglio fornito e con le maggiori esigenze erano quelli che venivano dagli alti comandi della Federazione e dei Liberi.
Non erano però questi i motivi che avevano spinto Walker a recarsi là anziché in un altro qualsiasi dei dieci e più cantieri che si incontravano lungo la costa. A portarlo a March Brume era stato il tipo di costruttori che vi abitavano: Corsari, persone di cui tutti diffidavano, nomadi per l’intero corso della loro
storia, che perfino in quel porto, dove erano pressoché stabili, andavano e venivano a proprio capriccio. E gli abitanti del luogo, oltre a essere i migliori costruttori di quel tipo di navi e i migliori piloti, accettavano incarichi da parte di chiunque e, una volta che ci si fosse accordati con loro, mantenevano con rigore la parola data. Walker intendeva controllare di persona la verità di quella generale convinzione, anche se i suoi antichi legami con i Corsari tendevano a confermarla. Sua cugina, la regina degli Elfi Wren Elessedil, era cresciuta tra i Rover, i Corsari appunto, e aveva imparato presso di loro le arti della sopravvivenza che l’ avevano mantenuta in vita quando aveva raggiunto l’isola di Morrowindl, dove aveva recuperato il popolo perduto degli Elfi. Nel corso degli anni, i Corsari avevano aiutato altri membri della famiglia di Walker, il quale aveva trovato in loro degli alleati solidi, fidati e pieni di risorse. Come lui, i Corsari erano vagabondi, e amavano stare per conto loro. Anche quando vivevano in comunità stabili, come in quella città, tendevano a isolarsi dalle altre popolazioni. Tutto questo non dava fastidio a Walker. Più fosse riuscito a tenere nascosta la sua attività, meglio sarebbe stato per lui, anche se non credeva di poter mantenere a lungo segreti la sua presenza o il suo scopo. La Strega di Ilse avrebbe cercato di scoprirli entrambi, e presto o tardi ci sarebbe riuscita. Hunter Predd si diede da fare per accendere il fuoco nella vecchia capanna di cacciatori, così dormirono all’asciutto. All’alba, Walker chiese al Cavaliere del Wing Hove di andarsi a procurare del cibo per rifornire le loro scorte e di aspettare il suo ritorno. Sarebbe stato via per alcuni giorni, lo avvertì, perciò non si doveva preoccupare se non l’avesse visto tornare presto. La giornata si era schiarita, la pioggia si era trasformata in una nebbia che si adagiava sugli alberi e sulle rocce come un sudario, il cielo si era illuminato a sufficienza per lasciar scorgere il sole dietro le nuvole. Walker attraversò la foresta finché non trovò un sentiero, che seguì fino a una strada la quale lo portò al villaggio. March Brume era costituita da un gruppo di edifici grigi e impregnati d’acqua, con i cantieri in riva al mare e le case nell’entroterra. I colpi dei martelli sovrastavano il rumore delle onde, intercalati ai sibili delle seghe, allo sfrigolio dell’acqua in cui veniva tuffato il ferro rovente estratto dalle forge e alle imprecazioni dei lavoratori. Già a quell’ora il villaggio era affollato e attivo, abitanti e visitatori riempivano le strade, diretti al posto di lavoro e abbigliati in modo pittoresco. Walker, avvolto nel mantello per nascondere il braccio mancante, non era una figura così notevole da richiamare l’attenzione. Per le strade di March Brume andava e veniva gente di ogni tipo, e in tutti i luoghi dove dominavano i Corsari le persone imparavano a farsi i fatti propri. Il druido si diresse senza fretta verso i moli, attraversando la zona commerciale al centro della città. Soldati della Federazione nelle uniformi nere e argento oziavano qua e là in attesa di prendere accordi con i venditori di navi. C’erano anche soldati dei Liberi, meno numerosi e meno appariscenti, ma venuti per lo stesso motivo. Era strano, pensò il druido, vederli davanti al medesimo cantiere come se fosse la cosa più naturale del mondo, mentre in qualsiasi altra occasione si sarebbero affrontati subito con le armi in pugno. L’uomo che cercava frequentava un mercato all’estremità meridionale del villaggio, non lontano dai primi moli. Era una sorta di spaventapasseri, vestito di abiti di un rosso brillante ormai sbiadito. Era così magro che quando si curvava per resistere a un’improvvisa raffica di vento, pareva piegarsi come una canna. Un ciuffo di barba scura gli sporgeva dal mento appuntito, sugli orecchi gli pendevano i capelli spettinati. Una livida cicatrice rossa gli correva dalla fronte al
mento passando sul naso come il segno di una frustata recente. L’uomo era fermo di lato al viavai di gente dalle parti delle stalle, accanto a una fontana, e piegava la testa in modo curioso, come se cercasse una guida nel cielo. Con una mano tendeva una ciotola di
metallo, con l’altra gesticolava verso i passanti, come per dire loro che se decidevano di ignorarlo, lo facevano a loro rischio e pericolo. «Venite subito, senza timori, senza esitazioni, senza paura!» Aveva la voce sottile e acuta, ma richiamava l’attenzione. «Una moneta per la vostra pace mentale, pellegrini» continuava. «Una moneta per conoscere il vostro futuro. Prendete le decisioni migliori, amici. Concedetevi un momento per conoscere il destino da evitare, il passo sbagliato che non dovete compiere, la strada in discesa che potreste imboccare senza saperlo. Venite! Venite!» Walker si fermò dall’altra parte della piazza e lo osservò in silenzio per qualche tempo. Di tanto in tanto qualcuno si fermava, metteva una moneta nella ciotola di metallo e si chinava ad ascoltare quello che l’ uomo gli mormorava. Faceva sempre la stessa cosa: prendeva la mano del consultante e gli passava la punta delle dita sul palmo, e per tutto il tempo continuava ad annuire. Una volta o due, quando l’uomo cambiò posizione o andò a bere alla fontana, la veste rossa si scostò rivelando che aveva una gamba sola e l’altra era di legno. Walker rimase dov’era finché la pioggia non si infittì e allontanò la folla, spingendo anche l’uomo a rifugiarsi sotto un cornicione. Allora il druido attraversò la piazza, raggiunse l’uomo vestito di rosso come se volesse ripararsi accanto a lui e si fermò al suo fianco. «Chissà se sai leggere il futuro di un uomo che deve fare un viaggio lungo e pericoloso in una terra sconosciuta?» chiese, osservando la pioggia. L’uomo continuò a guardare il cielo, ma spostò gli occhi per un attimo. «Alcuni uomini hanno già viaggiato a sufficienza per cinque normali vite umane» replicò. «Farebbero meglio a starsene a casa, invece di tentare ancora la sorte.» «Forse non hanno scelta.» «Paladini di ombre che si rivelano soltanto a loro, cercatori di risposte a segreti sconosciuti, sempre alla ricerca di qualcosa che metta fine alle loro inquietudini.» Il mendicante allargò le mani. «Sei stato lontano per molto tempo, pellegrino» continuò. «Lassù, chiuso nella tua Fortezza, solo con i tuoi pensieri e i tuoi sogni. Davvero intendi compiere un viaggio in terre lontane?» Walker sorrise a fior di labbra. «Sei tu che leggi il destino, Cicatrix. Non io.» L’uomo annuì. «Oggi lettore del destino, domani soldato invalido, domani l’altro pazzo. Come te, Walker, anch’io sono un camaleonte.» «In questo mondo facciamo quello che dobbiamo fare.» Il druido si accostò a lui. «Ma non ti ho cercato per una delle abilità che hai elencato, per ragguardevoli che siano. Mi serve un’informazione presa dalla grande scorta che possiedi, e preferirei che questa informazione non giungesse ad altri orecchi.» Cicatrix prese la mano del druido e gli passò le dita sul palmo, continuando a guardare il cielo. «Intendi fare un viaggio in una terra sconosciuta, pellegrino?» chiese infine, in un sussurro. «Forse cerchi un mezzo?» «Del tipo che vola. Veloce e robusto. Non una nave da guerra, ma, all’occorrenza, in grado di
resistere a un attacco. Non una nave da corsa, ma capace di volare come se fosse nata per questo. Il suo costruttore deve avere intuito visionario, e la nave deve possedere un cuore.»
Il lettore del futuro rise. «Tu cerchi un miracolo, pellegrino. Ti sembro una persona capace di procurartelo?» «In passato l’hai fatto.» «Allora è un passato che torna a tormentarmi. Ecco il guaio di doversi mantenere all’altezza delle aspettative altrui, quando quelle aspettative si basano su ricordi dubbi. Bene.» Continuò a passare la mano sul palmo di Walker. «Il tuo nemico in questa impresa porta abiti argento e neri?» chiese. Walker guardò lontano, nella pioggia. «Il mio nemico ha gli occhi dappertutto e uccide con il canto.» Cicatrix emise un lieve fischio. «Una strega con magie da strega, allora. Sta’ lontano da lei, Walker.» «Cercherò. Ora ascolta con attenzione. Mi occorrono una nave e un costruttore, un comandante e un equipaggio. Devono essere persone forti, coraggiose e disposte ad allearsi con gli Elfi contro qualsiasi nemico.» S’interruppe. «La fama di March Brume verrà messa alla prova come non è mai successo.» «Anche la mia» commentò Cicatrix. «Certo.» «Se dovessi deluderti, non ti rivedrei più, pellegrino?» «Ti augureresti di non rivedermi.» Cicatrix rise senza alcuna allegria. «Minacce? No, non da te, Walker. Tu non minacci mai nessuno, tu riveli solo la tua preoccupazione. Un povero invalido come me fa bene a stare attento, ma non ad agire per paura.» Smise di passare le dita sulla mano di Walker. «Il premio per coloro che partecipano è ragionevole, dato il rischio?» chiese poi. «Ben più che ragionevole. Gli Elfi spalancheranno i loro forzieri.» «Ah.» L’uomo annuì un paio di volte, piegando in modo strano la testa, lo sguardo diretto verso nessun punto in particolare. Lasciò la mano di Walker. «Quando farà buio» disse «vieni al porto in fondo alla strada di Verta. Mettiti in un punto dove ti si possa vedere. Misteri si apriranno e segreti verranno svelati. Forse ci sarà un viaggio verso terre ignote.» Walker gli passò un sacchetto pieno di monete d’oro, e Cicatrix se lo infilò con destrezza in tasca. Si voltò lentamente e si allontanò zoppicando. «Arrivederci, pellegrino. Buona fortuna.» Walker trascorse il resto della giornata passeggiando lungo i moli, studiando le navi in costruzione e gli uomini che le costruivano, ascoltando discorsi sulla navigazione e raccogliendo piccole informazioni. Mangiò in una grande taverna del porto, in mezzo a molta gente, fingendo disinteresse e nello stesso tempo cercando le spie della Federazione che, come sapeva, c’erano di sicuro.
La Strega di Ilse lo cercava, era decisa a trovarlo. Non si faceva illusioni: quella donna non si fermava mai, l’avrebbe attaccato non appena le fosse stato possibile, per finire quanto aveva iniziato ad Arborlon con l’uccisione del re degli Elfi. Se fosse riuscita a ucciderlo o a metterlo fuori combattimento, la spedizione non sarebbe mai partita e la Strega avrebbe potuto cercare il tesoro da sola. Non aveva la mappa, ma forse aveva i ricordi del naufrago cui attingere, e per quanto ne sapeva Walker,
probabilmente erano sufficienti. Rifletté su un possibile scontro con lei, un confronto forse inevitabile. Rifletté sulla crudeltà del caso e del destino, sulle occasioni perdute e le partite da giocare, e attese con pazienza che scendesse la notte. Quando giunse il buio, attraversò la città, velata dalla nebbia che si era levata dal mare con la discesa della temperatura e la fine della pioggia. Al termine della giornata lavorativa, le forge e gli arsenali si erano svuotati, e nel silenzio si udiva chiaramente il rumore delle onde contro la riva. I mercanti avevano chiuso le botteghe, gli ambulanti avevano riposto le merci. Le osterie, le taverne e le case di piacere erano piene e rumorose, ma le strade erano deserte. Varie volte si fermò nell’ombra e attese, tendendo l’orecchio e guardandosi attorno. Per raggiungere la sua destinazione non prese una strada diretta, ma attraversò il villaggio in diagonale, accertandosi di non essere seguito. Nonostante quelle precauzioni, però, non si sentiva al sicuro. Passava inosservato agli occhi di coloro che non sapevano di lui, ma era facilmente riconoscibile agli occhi di chi lo cercava. La Strega doveva avere comunicato il suo aspetto alle spie che la servivano. Walker pensò che avrebbe fatto meglio a travestirsi, ma questo era parlare col senno di poi, e il senno di poi non ha molto valore. Alla fine della strada di Verta, avviluppata nella nebbia e nel silenzio, si fermò alla debole luce di un lampione. In riva all’oceano si stendevano i moli, e le luci del villaggio consentivano di vedere gli scafi parzialmente costruiti e i ponteggi di sostegno. Nessuno si muoveva nella penombra della notte. Nessun rumore interrompeva il suono della risacca. Era fermo da alcuni minuti soltanto quando un uomo si materializzò dall’oscurità e si diresse verso di lui. Era alto e aveva lunghi capelli rossi legati con una sciarpa dai colori vivaci. Dall’aspetto sembrava un corsaro e aveva il passo ondeggiante dei marinai; quando un colpo di vento gli aprì il mantello, il druido scorse una tuta di cuoio da pilota di navi volanti. L’uomo sorrise nell’avvicinarsi, come se fossero vecchi amici che si incontravano dopo una lunga separazione. «Sei Walker?» chiese, fermandosi davanti al druido. La debole luce del lampione fece luccicare gli orecchini d’oro. Walker si limitò a un cenno della testa. L’altro gli rivolse un inchino. «Sono Redden Alt Mer. Cicatrix mi ha detto che intendi compiere un viaggio e che hai bisogno di aiuto.» Walker aggrottò la fronte. «Non mi sembri un costruttore di navi.» Il sorriso di Redden Alt Mer si allargò. «Questo forse dipende dal fatto che non lo sono» rispose. «Ma so dove trovare l’uomo che cerchi. So come procurarti la nave più veloce e agile che sia mai stata costruita, arruolare il migliore equipaggio che abbia mai navigato nel cielo aperto, e poi portarti in volo dovunque tu voglia andare… perché io sarò il tuo comandante.» S’interruppe e piegò leggermente la testa. «Pagando il giusto, s’intende.» Walker lo studiò. Quell’uomo era un pavone pieno di sé, ma con un sottofondo pericoloso. «Come posso essere certo che sei in grado di fare tutto ciò, Redden Alt Mer?
Come faccio a sapere che sei l’ uomo di cui ho bisogno?» Il corsaro lo guardò stupito. «Mi ha inviato Cicatrix. Se ti fidi di lui al punto di mandarlo a cercarmi, questo dovrebbe essere sufficiente.»
«Cicatrix ha commesso anche errori.» «Solo con chi non lo paga, quando vuole dargli una lezione. Tu l’hai pagato, vero?» Poi il corsaro sospirò. «Va bene» riprese. «Ecco le mie credenziali, visto che il mio nome non ti dice niente. Sono nato su una nave e navigo fin da bambino. Per quasi tutta la vita ho fatto il comandante. Conosco l’intero Occidente e ho esplorato la maggior parte delle isole conosciute dello Spartiacque Azzurro. Ho passato gli ultimi tre anni a pilotare navi per la Federazione. E, soprattutto, in questi tre anni non sono stato abbattuto una sola volta.» «E dovrei fidarmi al punto di crederti?» Walker gli si avvicinò. «Nonostante il fatto che mi hai messo una persona alle spalle, con un pugnale in mano e pronta a colpirmi se non accetto?» Alt Mer annuì lentamente, senza smettere di sorridere. «Ottimo. So qualcosa dei Druidi e dei loro poteri. Sei l’ultimo del tuo Ordine e non godi di molto rispetto nelle Quattro Terre, perciò mi è parso prudente metterti alla prova. Un vero druido, mi è stato detto, sente la presenza di un aggressore. Un vero druido si accorge di essere minacciato.» Si strinse nelle spalle. «Semplice cautela. Nessuna offesa.» Walker non cambiò espressione. «Nessuna offesa. Sarà un viaggio lungo e pericoloso, se decideremo che sei l’uomo adatto, Redden Alt Mer. Capisco che tu non voglia compierlo in compagnia di uno sciocco o di un bugiardo.» Fece una pausa. «Naturalmente, neppure io.» Il corsaro rise. «Little Red!» chiamò. Una donna alta, dai capelli rossi, uscì dalla nebbia dietro Walker, e si guardò attorno nell’oscurità, dando l’impressione di fidarsi ancora meno del suo compagno. Quando rivolse un cenno della testa ad Alt Mer, che glielo restituì per indicarle che tutto era a posto, la somiglianza tra i due divenne innegabile. «Mia sorella, Rue Meridian» la presentò Alt Mer. «Sarà il mio ufficiale in seconda quando partiremo. E mi guarderà le spalle durante il viaggio, come ora.» Rue Meridian tese la mano e Walker gliela strinse. La donna aveva una stretta forte e fissò Walker senza abbassare lo sguardo. «Benvenuto a March Brume» disse. «Togliamoci dalla luce mentre trattiamo i nostri affari» suggerì Alt Mer in tono allegro. Condusse la sorella e Walker lontano dalla luce velata dei lampioni, in un vicolo buio in mezzo alle case. Sulla strada, dietro di loro, un ragazzino passò di corsa rincorrendo un cerchio metallico che spingeva davanti a sé con un bastone. «Dunque a noi» disse Redden Alt Mer, sfregandosi le mani con entusiasmo. «Dove ci porterà il viaggio?» Walker scosse la testa. «Non posso dirlo a nessuno finché non saremo al sicuro.» Il corsaro lo guardò stupefatto. «Non puoi dirlo a me? Vuoi che accetti di portarti in un viaggio privo di destinazione? Andiamo a nord, sud, est, ovest, su, giù…?» «Andiamo dove dico io.»
Alt Mer borbottò qualcosa poi disse: «Va bene. Abbiamo merce da portare?».
«No, andiamo a cercare una cosa.» «Quanti passeggeri?» «Un po’ più di trenta. Meno di quaranta.» Il corsaro aggrottò la fronte. «Per una nave di quella dimensione, mi occorre un equipaggio di almeno dodici uomini, compresi me e Little Red.» «Te ne concedo dieci.» Alt Mer arrossì. «Ci imponi un po’ troppe restrizioni, per essere uno che non sa nulla di navi!» «Quanto paghi?» si affrettò a chiedere la sorella. «Qual è la vostra normale paga per un lungo viaggio?» chiese a sua volta Walker. Adesso che erano arrivati all’aspetto più importante dell’affare, Rue Meridian lanciò un’occhiata al fratello. Alt Mer rifletté per qualche istante, poi disse una cifra. Walker annuì. «Ve la pago come anticipo, e al ritorno vi darò il doppio.» «Il triplo» disse subito Rue Meridian. Walker la fissò. «Cosa vi ha detto Cicatrix?» «Che hai amici ricchi e nemici potenti.» «Due buoni motivi per scegliere noi» commentò Alt Mer. «Specialmente se i nemici dispongono di una magia uguale alla tua» aggiunse la donna. «Una persona capace di uccidere con il semplice suono della sua voce.» Alt Mer sorrise di nuovo. «Oh, certo. Conosciamo gli esseri della Malaterra. Le sue streghe e i suoi maghi.» «Si dice» intervenne la sorella «che tu fossi accanto ad Allardon Elessedil, quando è stato ucciso.» «E si dice pure che ha fatto una specie di patto con te, un patto che gli Elfi intendono rispettare.» Alt Mer gli rivolse un’occhiata interrogativa. Walker scrutò la strada deserta, poi tornò a guardare i fratelli dai capelli rossi. «Voi due avete sentito un mucchio di voci.» Il comandante corsaro si strinse nelle spalle. «È nostro dovere, quando dobbiamo rischiare la vita.» «La qual cosa fa sorgere una domanda.» Il druido li osservò entrambi. «Perché siete disposti a venire con me in questo viaggio? Perché scegliere questa spedizione quando ce ne sarebbero altre, meno pericolose?» Redden Alt Mer rise. «Buona domanda. Le risposte sono molte. Vediamo se riesco a dartele. Prima di tutto c’è il denaro. Tu ci offri più di quello che ci darebbe chiunque altro. Molto di più. Siamo mercenari, perciò rizziamo subito gli orecchi, quando la cifra è cospicua. In secondo
luogo ci sono le dall’esercito della lavoro potrebbero qualche altra parte,
sgradevoli circostanze che si sono accompagnate alla nostra recente uscita Federazione. Non è stata del tutto volontaria, e i nostri vecchi datori di venire a cercarci per saldare il conto. Sarebbe meglio per noi trovarci da se dovesse succedere. Un lungo viaggio
lontano dalle Quattro Terre darebbe loro il tempo sufficiente per disinteressarsi a noi.» Sorrise come un bambino che si vede regalare le caramelle. «In terzo luogo c’è la sfida di raggiungere una terra sconosciuta, di andare dove nessuno è mai stato, di vedere qualcosa per primi, di trovare un nuovo mondo.» Sospirò e allargò le braccia. «Non sottovalutare l’importanza di una simile avventura, per noi. È difficile spiegarlo a qualcuno che non vola o naviga o esplora come noi, per tutta la vita. Si tratta della nostra natura, e a volte è la molla più importante.» «Soprattutto dopo la nostra esperienza con la Federazione, dove lavoravamo solo per il denaro» aggiunse la sorella. «È ora di provare qualcos’altro, di più soddisfacente, anche se pericoloso.» «Non rivelargli troppo presto il nostro modo di pensare, Little Red!» la redarguì il fratello. Si rivolse al druido. «Adesso basta parlare delle ragioni delle nostre scelte» disse. «Lasciami dire qualcosa delle tue, del motivo per cui hai deciso di venirci a cercare. Non parlo di noi due in particolare, di me e di Little Red, anche se siamo le persone che cerchi. Parlo dei Corsari. Tu sei qui, amico mio, perché tu sei un druido e noi siamo Corsari, e perché tra noi ci sono molte cose in comune. Siamo dei forestieri in tutte le Terre, e lo siamo sempre stati. Siamo tollerati a malapena e guardati con sospetto. Amiamo viaggiare e riteniamo di appartenere a tutto il mondo, e non vediamo le cose in termini di nazioni e di governi. Noi diamo importanza all’amicizia e alla lealtà, alla saldezza del cuore e della mente, oltre che a quella del corpo, ma diamo ancora più valore all’intelligenza. Puoi essere la persona più coraggiosa mai comparsa sulla terra, ma sei inutile se non sai come e dove scegliere di dare battaglia. Come sto andando?» «Un po’ troppo enfatico» commentò Walker. L’alto corsaro rise. «Un druido col senso dell’umorismo! Chi l’avrebbe mai detto? Be’, hai capito cosa intendo dire, perciò è inutile che prosegua. Siamo fatti l’uno per l’altro, e per avventure che la gente normale non saprebbe neppure concepire. Tu hai bisogno di noi, Walker, perché noi faremo fronte comune contro tutto. Siamo disposti a gettarci tra le fauci della morte per darle una tirata alla lingua. Lo facciamo perché è questa la ragione della vita, quando si è Corsari. Dimmi se sbaglio.» Walker si limitò a scuotere la testa, un po’ per la sorpresa e un po’ perché era d’accordo. «Il guaio è che lui ci crede davvero» disse la sorella, con aria sconsolata. «Il mio timore è che la cosa diventi contagiosa e che un giorno si attacchi anche a me. Quel giorno, nessuno di noi riuscirà a ragionare correttamente.» «Via, Little Red. Tu dovresti darmi una mano, invece di buttarmi a terra.» Alt Mer sospirò e fissò Walker con cordialità. «C’è anche il fatto innegabile che nessun altro, con il coraggio e le capacità necessarie, ti darebbe ascolto per un’impresa del genere. Solo i Corsari sono abbastanza temerari da accettare la tua offerta, pur rispettando il tuo bisogno di segretezza.» Sorrise. «Allora, cosa decidi?» Walker si strinse nel mantello. La nebbia che si era spinta fin dentro il vicolo si agitò al movimento dell’ aria. «Lasciamo che la notte porti consiglio. Domani parleremo con il tuo costruttore e vedremo se corrisponde a quello che dici. Voglio vedere il suo lavoro e dare un giudizio su di lui, prima di decidere.»
«Bene!» esclamò il corsaro. «Una risposta onesta!» S’interruppe subito, però, e fece la faccia desolata. «A parte un particolare. Non abbiamo una notte per dormirci sopra. Se ti interessa la nostra proposta, dobbiamo partire subito.»
«Partire?» chiese Walker, sorpreso. «Questa notte.» «Per andare dove?» «Be’, dove dico io» rispose il corsaro, ripetendo le parole che Walker gli aveva detto poco prima. Sorrise alla sorella. «Temo che non mi giudichi molto intelligente, dopotutto.» Tornò a guardare Walker. «Se il costruttore che cerchi fosse a March Brume, non avresti bisogno di noi per trovarlo, vero? E non ti sarebbe utile, se svolgesse il suo lavoro sotto gli occhi di tutti.» Walker annuì. «Giusto.» «Per fornirti le rassicurazioni che cerchi, è necessario un breve viaggio, ed è meglio partire con il favore delle tenebre.» Walker guardò in alto, come per controllare il tempo. Non si scorgevano luna o stelle, e la visibilità era di una quindicina di passi a causa della nebbia. «Un viaggio a piedi, mi auguro.» Il corsaro tornò a sorridere con superiorità. La sorella lo guardò con disapprovazione. Walker sospirò. «Quando partiamo?» Redden Alt Mer prese sottobraccio la sorella. «Subito.» Il ragazzo col cerchio di ferro e il bastone rimase nascosto nell’oscurità del molo, dall’altra parte della strada, finché il terzetto non fu uscito dal vicolo e non si fu allontanato. Ma anche allora non si mosse. Era stato avvertito a proposito del druido e dei suoi poteri e non intendeva affrontarli. Gli bastava averlo trovato. Non gli era stato chiesto altro. Quando fu sicuro di essere di nuovo solo, uscì dal nascondiglio, abbandonò cerchio e bastone e corse verso i boschi che circondavano il villaggio. Era piccolo per la sua età e selvaggio come un animale, snello, forte e mal vestito, non proprio un ragazzo di strada, ma poco di più. Non aveva mai conosciuto il padre e aveva perso la madre quando aveva solo due anni. L’aveva allevato la nonna, mezza cieca, ma il ragazzo si era reso indipendente da lei ancora prima di compiere sei anni. Era intelligente e abile, e aveva trovato il modo di mantenere tutt’e due in un ambiente che altrimenti li avrebbe divorati in un solo boccone. In meno di un’ora, sudato e impolverato, raggiunse una fattoria abbandonata, al di là delle ultime abitazioni di March Brume. Il suo respiro affannato era l’unico suono che rompeva il silenzio, quando entrò nel granaio e si diresse ai silos in fondo. Nell’ultimo c’erano le gabbie. Tirò la sbarra, entrò nel silo, accese una candela e scrisse con accuratezza un appunto. La signora per cui raccoglieva di tanto in tanto le informazioni gli avrebbe pagato bene quel messaggio, pensava eccitato. Quanto bastava per comprarsi il coltello che gli piaceva da tempo. Quanto bastava perché lui e la nonna potessero mangiare bene nelle settimane seguenti. Legò il messaggio alla zampa di uno degli strani uccelli dallo sguardo feroce che la signora gli aveva dato, uscì tenendo con cura l’animale sotto il braccio e lo lanciò nella notte.
12 Redden Alt Mer e Rue Meridian accompagnarono Walker lungo i moli, per un bel tratto, poi si avviarono su uno stretto pontile di legno. Si fermarono accanto a una vecchia barca con un
solo albero e
il timone a poppa manovrato da una lunga barra. I due corsari tennero ferma l’imbarcazione mentre il druido saliva, poi sciolsero gli ormeggi. Pochi secondi più tardi erano lontani dai moli, dal villaggio e dalla vista della terraferma. I corsari misero Walker a prua con l’ordine di fare attenzione a eventuali relitti galleggianti e alzarono l’ albero. Walker si guardò attorno inquieto. Dal poco che si riusciva a vedere, non poteva capire dov’ erano o dove stavano andando, ma la cosa non pareva avere importanza. Una volta issata la vela, un leggero vento di mare la gonfiò. Alt Mer si mise a poppa, la sorella si sedette accanto all’albero e la barca si avviò rapida sulle onde. Era una strana esperienza, perfino per un druido. Di tanto in tanto si scorgeva qualche stella in uno squarcio tra le nuvole, e una volta o due comparve anche la luna, alta sulla loro destra. Ma, a parte quello, navigarono in un calderone di nebbia e di oscurità, su un mare immobile come l’olio. Per fortuna l’acqua era calma, anche se scura come l’inchiostro, e la prora la tagliava con un fruscio regolare. Redden Alt Mer fischiettava e canticchiava tra sé, la sorella guardava fisso nella notte. Non si udiva alcun grido d’uccello, non si scorgeva alcuna luce. Walker tornò a pensare all’ambiguità e all’ incertezza del compito che lo attendeva. A preoccuparlo non era solo l’avventura di quella notte, bensì l’ intera impresa. Era vaga e nebulosa come il buio che lo circondava in quel momento, immersa in domande senza risposta e possibilità vaghe. Alcune cose le conosceva, altre poteva immaginarle, ma il resto era un mistero, ed era la parte maggiore di quanto aveva davanti. Veleggiarono per alcune ore nel loro bozzolo nero e immutabile, avvolti nell’oscurità e nel silenzio. Fu una sorpresa quando Rue Meridian accese una lampada a olio e la agganciò all’albero. La luce si sforzò coraggiosamente di vincere le tenebre, ma riuscì a illuminare solo poche iarde. Per tutto il tempo Redden Alt Mer aveva continuato a tenere nel cavo del braccio la barra del timone. Rivolse un cenno d’assenso alla sorella, che si spostò a prua per cambiare posto con Walker. Poco più tardi, davanti a loro emerse all’improvviso dalla notte un’imbarcazione molto più grande. Anche nell’oscurità, Walker scorse cinque o sei persone al lavoro sulle vele dei due alberi. Dalla nave venne calata una cima e Rue Meridian la legò alla prua. Il fratello spense la lampada, ammainò la vela, poi tornò a sedere. La nave si mosse rimorchiando la barca. «Adesso non abbiamo niente da fare finché non saremo arrivati» disse Alt Mer. Si stese sulla panca e si addormentò. Rue Meridian si sedette accanto a Walker. Dopo qualche istante, la donna disse: «Non c’è mai niente che lo turbi. L’ho visto dormire anche in volo, durante una battaglia. Non è sconsiderato o noncurante. Big Red è sempre pronto, quando c’è bisogno di lui. Semplicemente, è capace di riprendere in mano tutta la situazione in un attimo, quando è il momento». Si guardò intorno nel buio, mentre parlava. «Ti dice che è il migliore perché è convinto di esserlo. Ti dice di voler essere il tuo comandante perché è sicuro che quel posto sia suo. Puoi pensare che sia avventato o vanitoso, ma non lo è affatto. È soltanto abilissimo nel pilotare le navi volanti.»
S’interruppe. «Anzi» riprese dopo un istante «è più che abilissimo, è eccezionale, ha un talento innato. È il migliore che abbia mai visto. Lo dicevano i soldati sul fronte del Prekkendor. Lo dicono tutti coloro che lo conoscono. Pensano che sia fortunato, ed è vero, ma la fortuna se la procura lui stesso con la sua
intelligenza e la sua bravura.» Lo fissò. «Ti sembrano le parole di una sorella minore che parla del fratello maggiore da lei idolatrato?» Sbuffò. «È vero, ma non mi lascio ingannare dai sentimenti. Da troppo tempo lo proteggo e gli faccio da coscienza. Siamo figli della stessa madre, ma abbiamo padri diversi. Non abbiamo mai conosciuto bene i nostri padri, ne abbiamo solo qualche vago ricordo. Erano marinai, nomadi. Nostra madre è morta quando eravamo ancora molto giovani. Mi sono occupata di lui per gran parte della sua vita: nelle cose pratiche sono sempre stata molto più abile. Lo conosco, lo capisco. Ho ben presenti i suoi pregi e i suoi difetti, la sua forza e le sue debolezze. L’ho visto vincere e perdere. Non sono disposta a mentire su di lui con nessuno, soprattutto con me stessa. Perciò quando ti dico che Big Red vale il doppio degli altri uomini, mi devi credere. Quando ti dico che è il miglior pilota che tu possa trovare per il tuo viaggio, mi devi ascoltare.» «Ti ascolto» rispose Walker a bassa voce. Lei gli sorrise. «Già. Dove potresti andare, se non volessi ascoltarmi? Sei il mio uditorio forzato.» S’interruppe per osservarlo. «Tu sei intelligente, Walker» riprese. «Vedo che rifletti in continuazione. Ti guardo negli occhi e vedo la tua mente al lavoro. Tu ascolti, valuti, e poi esprimi il giudizio. Prenderai in modo autonomo la decisione sulla spedizione e su di noi. Ciò che ti dico non influirà per nulla. E infatti non è questa la ragione per cui ti parlo di Big Red. Lo faccio perché tu sappia come la penso.» S’interruppe e attese la sua risposta. Walker annuì e disse: «Mi sembra giusto». Con un sospiro, lei cambiò posizione. «Francamente, il denaro non m’interessa» riprese. «Ne ho a sufficienza. Quello che non ho è la pace mentale, o un senso del futuro, o qualcosa in cui credere ancora. Una volta avevo tutte queste cose, quando ero più giovane. Poi, nel corso degli anni, le ho perse. Sono stanca nel cuore, consumata. Negli ultimi tre anni, il tempo passato al fronte a dare la caccia ai Liberi sul Prekkendor, a ucciderne qualcuno di tanto in tanto, a incendiare le loro navi e i loro campi, ha appassito la mia anima. L’intera faccenda era assurda. Una guerra per il possesso di un territorio, per il dominio di una nazione o dell’altra… che importanza hanno queste cose? A parte il denaro, non ho guadagnato niente da quella esperienza.» Lo fissò con gli occhi verdi. «La tua spedizione, invece, mi sembra diversa. Non mi pare che un druido si preoccupi di cose così miserabili. Dimmi la verità: questa spedizione può darmi qualcosa di più?» Parlava con tale convinzione che Walker rimase per un momento senza parole davanti a tanta profondità di sentimenti.. «Non ne sono sicuro» rispose infine. «In quello che vi propongo di fare c’è ben più del denaro. Ci sono delle vite in gioco, oltre alle nostre. Libertà che rischiano di perdersi, e forse cambiamenti in meglio o in peggio per il mondo intero. Non vedo abbastanza lontano, nel futuro, per poter avere certezze. Posso però dirti una cosa: la riuscita della nostra missione potrebbe risultare molto importante anche per te, in futuro.» Rue Meridian sorrise. «Dobbiamo andare a salvare il mondo dunque, è così?» Walker le rispose senza cambiare espressione: «Può darsi». Il sorriso scomparve dalla faccia di lei.
«Va bene, non scherzo più» rispose. «Non cercherò di dire che forse esageri. Mi permetterò di credere a
quello che hai promesso: non può farmi male. Un po’ di fiducia da parte di entrambi potrebbe essere un buon inizio, non pensi?» Il druido annuì, con un sorriso. «Penso di sì.» Le grida degli uccelli salutarono l’arrivo dell’alba, e mentre l’aurora illuminava le tenebre, all’orizzonte comparvero alcune scogliere massicce, rupi spoglie esposte al vento e alle onde. A tutta prima pareva che non ci fosse alcuna apertura nella formidabile barriera. Invece la nave accese una lanterna e la sollevò, e un paio di lampade le risposero da terra indicando il passaggio. Anche così, il druido non riuscì a scorgerlo finché non l’ebbero raggiunto. La luce era ancora fioca, l’aria offuscata dalla nebbia, e il rumore delle onde che s’infrangevano contro gli scogli era un inconfondibile avvertimento di tenersi lontano. Ma il comandante della nave andò avanti senza esitare, facendo rotta in mezzo a rocce abbastanza grandi da affondare perfino la sua nave, non soltanto la barca su cui si trovava Walker. Redden Alt Mer era di nuovo sveglio e pilotava con mano sicura. Walker gli lanciò un’occhiata e notò la sua espressione soddisfatta. L’uomo si divertiva, tutto preso dal piacere di navigare: un piacere che molte persone non sarebbero riuscite a condividere. Accanto a lui, anche Rue Meridian sorrideva. Usciti dalle rocce, si trovarono in uno stretto canale dalle acque agitate. Sulle loro teste volavano gabbiani e cormorani, i cui richiami echeggiavano striduli sulle pareti di roccia. Davanti a loro si stendeva un’ampia baia, circondata da dirupi boscosi, con cascate la cui origine si perdeva altissima nella nebbia. Quando passarono dalla turbolenza del canale alla relativa calma del porto, i suoni del vento e della risacca si affievolirono e le acque si acquietarono. Dietro di loro, le lampade che li avevano guidati si spensero. In mezzo alla nebbia e all’oscurità comparvero i primi segni di un villaggio. Impossibile sbagliarsi sulla sua natura: sulla riva si scorgeva un cantiere navale, completo di gru e di moli, di forge e di magazzini di legname. Sul lato a nord della baia erano ancorate alcune navi, che apparivano lunghe e scure sulle acque argentee, e dal luccichio dei tubi radianti e dall’insolita inclinazione delle vele-luce, chiuse e in attesa di essere sciolte, Walker comprese che erano navi volanti. Quando arrivarono alla spiaggia, la nave gettò l’ancora e pochi istanti più tardi venne calata una lancia con un paio di marinai ai remi. La piccola imbarcazione raggiunse la barca del druido e dei Corsari e li prese a bordo. Alt Mer e la sorella salutarono familiarmente i marinai ma non presentarono il druido. Gli uomini remarono fino a terra, nella luce ancora incerta dell’alba, e sbarcarono presso un molo. C’erano già alcuni facchini che portavano avanti e indietro grossi sacchi; gli artigiani cominciavano allora la giornata di lavoro. Il rumore di seghe e di martelli ruppe il silenzio, e il villaggio parve svegliarsi tutto insieme. «Da questa parte» disse Redden Alt Mer, avviandosi lungo il pontile. Quando furono sulla terraferma, passarono in mezzo ai cantieri, alle forge e alle gru, fino a un edificio affacciato sul mare. Davanti a esso c’era un ampio portico, con alcuni tavoli su cui erano appoggiati enormi fogli di carta tenuti ferma da mattoni. Alcuni uomini passavano da un foglio all’altro, studiandoli e apportando correzioni.
L’uomo che controllava il lavoro alzò la testa e scese a salutare i nuovi venuti. Era un tipo massiccio, con braccia e gambe grosse come tronchi, capelli neri spettinati e faccia rossa, parzialmente nascosta da una
folta barba. Portava le sciarpe colorate e gli orecchini amati dai Corsari, e anche se aggrottò la fronte, parve lieto del loro arrivo. «Salute a tutti» disse. Fissò Walker. «Spero che tu sia uno di quei clienti sordi, muti, ciechi e pronti a condividere una bella quantità di denaro con coloro che ne hanno meno di te. Se così non è, tanto vale che ti uccida subito e la facciamo finita. Big Red conosce le regole.» Walker non cambiò espressione né si mostrò preoccupato, neppure quando sentì il gemito di Redden Alt Mer. «Mi è stato detto che venendo qui avrei potuto accordarmi con il miglior costruttore di navi esistente. Sei tu?» chiese. «Sì.» L’uomo guardò con sospetto Alt Mer, poi tornò a guardare Walker. «Non mi sembri uno stupido, ma non mi sembri neppure uno con il borsellino rigonfio. Chi sei?» «Mi chiamo Walker.» L’omone lo studiò in silenzio. «Il druido?» Walker annuì. «Bene, bene, bene. La cosa può risultare interessante, dopotutto. Che ci fa un druido fuori da Paranor, di questi tempi? Non penso che esca per qualcosa di piccolo.» Gli tese una mano enorme e si presentò: «Spanner Frew». Walker gliela strinse. Gli parve di stringere una morsa di ferro. «I Druidi vanno dove c’è bisogno di loro» spiegò. «Dev’essere piuttosto difficile, quando i Druidi sono uno solo.» Rise della sua stessa battuta: una risata che sembrava un rombo di tuono. Poi riprese: «Come mai hai avuto la sfortuna di metterti in combriccola con questi due ladri? Non che la giovane Rue non sia in grado di far girare la testa a tutti, me incluso». «Me li ha mandati Cicatrix.» «Un uomo coraggioso e sfortunato» disse il costruttore di navi, con un grave cenno del capo, cosa che sorprese Walker. «Ha perso tutto fuorché l’intelligenza in un naufragio non dovuto a lui, ma di cui fu accusato lo stesso. Lo sapevi?» «Solo le voci che circolano. Ho conosciuto Cicatrix in altri luoghi e in altri tempi. Quanto basta per fidarmi di lui.» «Ben detto. Così sei finito con Big Red e Little Red e sei venuto a cercare un costruttore di navi. Questo significa che hai in mente un viaggio e hai bisogno di una nave adeguata. Parlamene.» Walker gli fece un breve riassunto di quanto gli occorreva e dell’uso che intendeva farne, fornendo a Spanner Frew le stesse informazioni che aveva fornito a Redden Alt Mer, ma cercò di blandirlo come poté. Aveva già deciso che quell’uomo gli piaceva. Rimaneva da scoprire la sua abilità di artigiano. Quando Walker ebbe finito, Spanner Frew aggrottò la fronte. «Quello di cui parli è un viaggio molto lungo. Potrebbe richiedere anni» osservò. Walker annuì.
«Nella nave dovrai tenere tutto, cabine, scorte e il necessario per quando arriverai a destinazione. Dovrà essere in grado di difendersi dai nemici che puoi incontrare. Dovrà essere robusta, perché sullo
Spartiacque Azzurro ci sono tempeste che in pochi minuti distruggono una nave normale.» Senza bisogno di fare domande, l’uomo continuò a elencare le esigenze di Walker: «Avrai bisogno di armi da utilizzare sia a terra che in aria. Ti serviranno ricambi che non potrai trovare: tubi e vele-luce, cristalli e tutto il resto. Un grosso ordine. Molto grosso». Lanciò un’occhiata agli uomini che lavoravano dietro di lui, poi al porto. «Hai abbondanti risorse e il borsellino pieno?» Walker annuì di nuovo. Spanner Frew incrociò le braccia. «Ho la nave che fa per te. L’ho appena finita, è una specie di prototipo, la prima di una nuova serie. In tutte le Quattro Terre non esiste una nave simile. È una nave da guerra, ma costruita per viaggi lunghi e per un servizio prolungato. Volevo metterla sul mercato, un articolo speciale per quegli sciocchi che continuano a cercare di uccidersi sul Prekkendor. Se gli fosse piaciuta, e ne ero certo, gliene avrei costruito qualche dozzina e sarei andato in pensione da uomo ricco.» Sorrise. «Ma preferirei venderla a te. Le vuoi dare un’occhiata?» Li portò fino in fondo al cantiere, dove la spiaggia lasciava il posto a una serie di affioramenti rocciosi e dove si scorgevano i velieri che Walker aveva intravisto al suo arrivo. C’era una decina di navi di varie dimensioni, ma solo una attirò lo sguardo del druido: ancora prima che Spanner Frew parlasse, capì che era la nave che gli aveva descritto. «È quella» gli disse il costruttore, con un cenno affermativo. «L’hai vista subito, vero?» Era costruita come un catamarano, ma molto più grande. Bassa e snella, aveva un aspetto minaccioso. Il legno, i ponti e le stesse vele erano di colore scuro, e i due alberi erano leggermente inclinati, dando così l ’impressione che fosse in moto anche quando era a riposo. La tolda poggiava su due pontoni ravvicinati le cui estremità erano ricurve verso l’alto in due corni, davanti e dietro. La parte centrale dei pontoni era suddivisa in postazioni da combattimento che potevano contenere uomini e armi. I parapetti che si prolungavano sui fianchi, sulla prua e sulla poppa erano al tempo stesso magazzini e ripari, dal maltempo e dagli attacchi nemici. Tra i due alberi c’era la cabina di pilotaggio, sopraelevata sulla tolda e racchiusa tra scudi per proteggere il pilota. Davanti e dietro gli alberi erano situati i bassi alloggi per l’equipaggio e i magazzini, ampi ma ricurvi per assecondare la forma della tolda e dei pontoni e ridurre la resistenza al vento. Gli alloggi si estendevano dalla tolda alla linea d’immersione, guadagnando parecchio spazio. Tutto era lucido e scintillava come se fosse di metallo, anche alla prima luce del mattino. «È magnifica» disse Walker, voltandosi verso Spanner Frew. «Come vola?» «Vola da quello che è: un sogno. L’ho fatta alzare io stesso e ho fatto i voli di prova. Farà tutto quello che le chiederai e anche qualcosa di più. Non ha la stazza e l’armamento di una regolare nave da guerra, ma compensa questo deficit con la velocità e l’agilità. Naturalmente» aggiunse, lanciando un’occhiata a Redden Alt Mer «ha bisogno di un comandante come si deve.» Walker annuì. «Ne sto cercando uno, infatti. Hai qualche suggerimento?» Il costruttore scoppiò a ridere, piegandosi su se stesso per lo sforzo. «Ah, molto divertente! Spero che tu abbia visto la faccia di Big Red, quando l’hai detto. Sembrava che l’avessi tirato per i capelli! Ah-ah-ah, mi fai davvero ridere, druido!»
Walker era tornato a guardare la nave con espressione solenne. «Be’, sono lieto di averti divertito, ma il problema è serio. L’accordo per l’acquisto della nave comporta che il costruttore viaggi con essa.»
Spanner Frew smise subito di ridere. «Come? Cos’hai detto?» «Mettiti al mio posto» rispose Walker con calma, senza staccare gli occhi dal porto e dalla nave. «Sono uno straniero che cerca di acquistare una nave da persone famose per fare contratti che si possono interpretare in più maniere. I Corsari non mentono nei loro rapporti d’affari, ma talvolta piegano le regole nel modo a loro più favorevole. A me sta bene. Faccio parte di un Ordine che si comportava nella stessa maniera. Ma come proteggermi in una situazione in cui tutto il vantaggio è dall’altra parte?» «Devi tenere in mano la situazione…» cominciò il costruttore di navi, ma Walker lo interruppe con un gesto. «Ascolta. Redden Alt Mer mi dice di essere il miglior comandante di navi volanti oggi esistente. Rue Meridian lo conferma. Tu mi dici che sei il miglior costruttore di navi vivente e che la tua nave è la migliore che sia mai stata costruita. Insomma, siete tutti concordi nell’affermare che non posso trovare di meglio, e in effetti tendo a essere d’accordo con voi. Da quello che ho visto e sentito, tendo a credervi. Ma dato che vi darò metà del denaro in anticipo, come assicurarmi di non avere commesso un errore?» Si voltò verso di loro e li fissò tutt’e tre. «Portandoti con me. Non penso neppure per un momento che tu navigheresti su una nave o con un comandante di cui non ti fidi. Se vieni con me, significa che ti fidi di entrambi e che non mi hai ingannato.» «Ma io non posso venire!» gridò Spanner Frew, infuriato. Walker lo fissò. «Perché?» «Perché… perché sono un costruttore, non un marinaio!» «Certo. Ed è per questo che ti voglio con me. Le riparazioni di cui parlavi, quelle che potrebbero essere necessarie dopo uno scontro con i nemici o una tempesta, mi sentirei meglio se ci fossi tu a controllarle.» Il costruttore indicò con enfasi la riva dietro di loro. «Non posso abbandonare tutti questi progetti! C’è bisogno di me, qui! Ci sono altre persone, competenti quanto me, che possono venire con voi!» «Fa’ rimanere loro» gli rispose con calma Walker. «Se sono competenti quanto te, puoi lasciare loro nel cantiere.» Fece un passo avanti, arrivando quasi a toccarlo. Ma Spanner Frew, con la faccia rossa e la fronte aggrottata, non cedette. «Non l’ho detto a molti, ma lo dico a te» continuò il druido. «La nostra missione è assai più importante di quello che puoi fare qui. Coloro che verranno con me devono avere coraggio e forza di volontà a un livello posseduto da pochi. Tu sei uno di quei pochi. Non deludermi. Non rifiutare prima di riflettere. Pensa bene a tutto quello che ti ho detto, prima di decidere.» Scese il silenzio. Infine, Redden Alt Mer si schiarì la voce: «Mi sembra una proposta onesta, Spanner». Il costruttore si voltò verso di lui, irritato. «Me ne infischio di quello che giudichi onesto o disonesto, Big Red! Non è una cosa che ti riguardi!»
«Lo riguarda dall’inizio alla fine» intervenne brusca Rue Meridian. Gli rivolse un sorriso ironico. «Che ti piglia, Barba Nera? Sei diventato vecchio e pauroso?» Per un attimo, Walker ebbe l’impressione che il rude costruttore stesse per esplodere. Lo vide stringere i pugni per l’ira e la frustrazione. «Non permetterei a nessun altro di parlarmi così!» disse infine, soffiando
come un gatto. Un coltello apparve come per magia nella mano di Rue. In un attimo la donna lo lanciò in aria, lo afferrò al volo e tornò a nasconderlo. «Una volta eri un ottimo pirata, Spanner Frew» lo stuzzicò. «Non ti viene voglia di tornare a esserlo? Da quant’è che non navighi sullo Spartiacque?» «Da quanto non ti lasci portare dal vento fino a una nuova terra?» aggiunse il fratello. «Ti sentiresti di nuovo giovane, Spanner. Il druido ha ragione, vieni con noi.» Rue Meridian guardò Walker. «Dovrai pagarlo, naturalmente. La stessa cifra che dai a me e a Big Red.» Era un’affermazione, non una domanda, e il druido confermò con un cenno della testa. Spanner Frew passò lo sguardo incredulo dall’uno all’altro. «Tu ne sei convinto, vero?» chiese a Walker. Il druido annuì. «Per tutti gli spiriti!» imprecò a bassa voce il costruttore. Poi si strinse nelle spalle. «Per adesso lasciamo perdere. Facciamo colazione, e vediamo come ci sentiremo con lo stomaco pieno. Ho una fame tale che divorerei un cavallo, sella e finimenti compresi. Ah!» esclamò, dandosi un pugno sulla pancia. «Venite anche voi, banda di ladri! Pensare di trascinare un onest’uomo in un viaggio verso il nulla! Raggirare un povero costruttore di navi per convincerlo che può offrire qualcosa a un gruppo di matti, con una donna più matta ancora! Abbiate pietà di me, mi auguro che non mi abbiate anche svuotato il borsellino!» Si avviò verso l’abitato continuando a lanciare epiteti e a protestare. Agli altri non rimase che seguirlo. Fecero colazione in una grande sala comune raccolta sotto una tenda, con la cucina sul fondo, per far uscire meglio il fumo, e i tavoli e le panche davanti. Tutto aveva un’aria improvvisata e rustica, e quando Walker chiese a Spanner da quanto erano lì, il costruttore gli disse che si spostavano ogni due anni per proteggere la loro attività. Erano Corsari vecchio stile, e la natura della loro vita e dei loro affari comportava una certa quantità di rischio e richiedeva segretezza. Attribuivano molto valore all’anonimato e alla mobilità, anche quando non erano minacciati da coloro che li consideravano un fastidio o li giudicavano nemici, e si sentivano più sicuri se cambiavano periodicamente residenza. Non era difficile, spiegò il corsaro. Lungo la costa c’erano decine di piccoli golfi nascosti come quello, e solo i Cavalieri del Wing Hove, altrettanto schivi e amanti della solitudine, li conoscevano. Mentre mangiavano, Spanner Frew spiegò che chi lavorava e abitava lì vi portava spesso anche la famiglia, e il cantiere forniva cibo e alloggio a tutti. I giovani delle famiglie imparavano l’arte della costruzione o venivano impiegati nelle attività collaterali. Tutti contribuivano al benessere della comunità ed erano tenuti al segreto sulla collocazione e sull’operato del cantiere. Erano segreti noti a loro, ma i Corsari non rivelavano mai quel genere di cose agli estranei, a meno che non si trattasse di persone fidate. Di conseguenza, Walker non avrebbe mai trovato Spanner Frew se Cicatrix non avesse per prima cosa rassicurato Redden Alt Mer sulle sue intenzioni.
«Altrimenti saremmo venuti a cercarti a March Brume e ci saremmo accordati là» gli spiegò il costruttore, tra un boccone e l’altro. «E adesso che ci penso, sarebbe stato meglio per me!» Comunque, alla fine della colazione, Spanner Frew parlava come se stesse prendendo in esame la possibilità di accompagnare Walker. Cominciò a elencare le attrezzature e i rifornimenti necessari,
consigliando dove immagazzinarli, riflettendo sul tipo di equipaggio occorrente e proponendosi come timoniere, ruolo da lui rivestito anni prima, all’epoca in cui andava per mare. Il costruttore rassicurò Walker dicendogli che Redden Alt Mer era il miglior comandante che conoscesse e la scelta giusta per il viaggio. Non parlò di Rue Meridian, a parte qualche commento sul suo aspetto incantevole e la sua lingua tagliente, ma era chiaro che considerava fratello e sorella una coppia formidabile. Walker parlò poco, lasciò che a condurre la conversazione fosse il ciarliero costruttore, notò le occhiate che si scambiava il terzetto e prese mentalmente nota del modo in cui interagivano tra loro. «Una cosa dev’essere chiara fin dall’inizio» disse Redden Alt Mer a un certo momento, rivolgendosi al druido. «Se ti accettiamo come capo della spedizione, devi accettare a tua volta che io abbia il comando di tutto quello che riguarda la nave. Quando saremo in volo, tutte le decisioni sulle manovre e sulla sicurezza dell’equipaggio e dei passeggeri saranno affidate a me.» Né Rue Meridian né Spanner Frew fecero commenti. Dopo qualche istante di riflessione, Walker annuì a sua volta. «Tutto» corresse cortesemente «tranne la destinazione e la rapidità del volo. In questo devi seguire le mie indicazioni. La decisione su dove andare e a che velocità riguarda solo me.» «Tranne i casi in cui possiamo correre rischi, magari senza saperlo» rispose Big Red con un sorriso, per non cedere su tutta la linea. «Allora dovrai seguire il mio consiglio.» «Allora ne discuteremo» concluse Walker. Raggiunsero la nave e Spanner Frew la mostrò loro da poppa a prua, spiegando com’era costruita e quello che era in grado di fare. Walker ne studiò con attenzione la struttura, dai portelli di combattimento alla cabina di pilotaggio, prese nota di tutto, rivolgendo domande quando era necessario, e convincendosi via via del fatto che la nave corrispondeva a quanto gli serviva. Ma stava già valutando lo spazio disponibile e pensava che ne sarebbe occorso più del preventivato per le armi e le provviste. Di conseguenza occorreva ridurre il numero dei combattenti. Agli Elfi la cosa non sarebbe piaciuta, ma non c’era altro da fare. Quaranta uomini erano troppi. Al massimo la nave poteva accoglierne trentacinque, e avrebbero occupato tutto lo spazio disponibile. Discusse a lungo con i due corsari sul migliore utilizzo dello spazio. Redden Alt Mer disse che l’ equipaggio poteva dormire in coperta, su amache tese tra gli alberi e i parapetti, e Spanner Frew suggerì di ridurre provviste e attrezzatura se c’era la possibilità di rifornirsi durante il viaggio. Seguire il suggerimento era una sorta di scommessa sulle esigenze del viaggio, ma a suo favore c’era la presenza dei Cavalieri del Wing Hove, che avrebbero potuto aiutarli a trovare i rifornimenti. Questo permetteva di correre rischi che altrimenti sarebbero stati troppo alti. Verso la fine della giornata avevano steso un elenco delle modifiche occorrenti e una lista delle scorte e delle dotazioni necessarie. L’equipaggio poteva essere raccolto da Redden Alt Mer nei porti vicini. Nave, comandante ed equipaggio, compreso Spanner Frew, potevano essere ad Arborlon nel giro di una settimana.
Walker era soddisfatto. Tutto procedeva come si era augurato, e dopo una buona notte di sonno, contava di ripartire per March Brume.
Ma quella notte non poté riposare molto. L’attacco al cantiere fu sferrato poco prima del tramonto. Una sentinella appostata in cima a un promontorio, nel punto più alto del golfo, suonò il corno d’allarme: tre squilli secchi che mandarono in frantumi la serenità del crepuscolo e spinsero tutti a correre. Quando all’imboccatura del golfo, sullo sfondo del sole al tramonto, apparvero le sagome scure delle navi volanti, le donne, i vecchi e i bambini erano già fuggiti nella foresta e sui monti, e gli uomini erano pronti a difenderli. Ma le navi nemiche erano il doppio delle navi corsare, e poi erano già in volo e pronte a colpire. Entrarono in una lunga fila nera dall’ingresso del porto, volando a poche decine di braccia dall’acqua, i ponti affollati di uomini e armi. Dalle botti di pece e dalle catapulte piovvero sulle navi corsare e sui loro equipaggi palle di fuoco. Lance e frecce riempirono l’aria. Metà della navi corsare bruciarono e affondarono prima di riuscire ad alzare le vele. Decine di uomini morirono nelle successive esplosioni e molti altri affondarono nelle barche con cui cercavano di raggiungerli. Per puro caso, Walker e i suoi tre compagni riuscirono a evitare la sorte di tanta gente. Poco prima dell’ attacco erano saliti sulla nave per metterne alla prova la capacità di manovra. Perciò quando era stato dato l’allarme si trovavano a bordo, le vele aperte e i tubi radianti in posizione, l’ancora a malapena calata. I Corsari passarono subito all’azione, tendendo le vele e regolando i collettori. Con un colpo di spada tagliarono il cavo dell’ancora. In pochi secondi furono in volo, lanciati verso gli attaccanti come un grosso e veloce uccello nero. Anche con tre sole persone di equipaggio a bordo, la nave rispose con rapidità e agilità tali da dare l’impressione che le navi nemiche fossero ferme. Con un cavo di sicurezza assicurato alla vita, Walker si accucciò davanti alla cabina del pilota, dietro l’ albero di prua, e guardò la terra e il mare ruotare attorno a lui in un modo che dava il capogiro. Con Spanner Frew e Rue Meridian ai tubi radianti di prua e di poppa, Redden Alt Mer fece passare spericolatamente la loro nave sottile in mezzo alla linea scura degli attaccanti e per poco non entrò in collisione con le più vicine. Grosse sagome incombevano ai loro fianchi, scivolando via come fantasmi della notte, come grandi spettri in cerca di preda. Alcune passarono così vicine che Walker poté riconoscere le uniformi della Federazione indossate dai soldati che, inginocchiati ai posti di combattimento, scagliavano frecce e lance. «Tieniti forte!» gli gridò Alt Mer, da dietro la sua precaria posizione, poi spinse a fondo le leve di comando, nel tentativo di portarsi al disopra delle navi nemiche. Dappertutto, sullo sfondo chiaro del tramonto e degli incendi, si vedevano volare le sagome scure dei proiettili. Walker si appiattì contro la parete nera della cabina per proteggersi le spalle. Non voleva usare la magia perché preferiva non rivelare la sua presenza. Alla sua destra, accucciato in una delle postazioni di combattimento e così vicino a un vascello nemico da poterlo toccare allungando il braccio, Spanner Frew imprecava sotto una grandinata di frecce. Di fronte a lui, Rue Meridian correva temerariamente da un tubo radiante all’altro, evitando per miracolo il nugolo di frecce che le volava attorno e operava i cambiamenti con espressione cupa e decisa. La loro fuga venne sottolineata dallo scricchiolio della chiglia della loro nave che batteva contro la punta degli alberi dell’ultimo attaccante, quando alla fine riuscirono ad acquistare la sicurezza
del cielo libero. Tutt’intorno a loro, le ultime navi dei Corsari fuggivano nell’oscurità, sfiorando le cime dei monti e scomparendo lungo la costa. Sotto, gli attaccanti erano scesi sugli edifici del cantiere per incendiare ogni cosa e cacciare nella foresta gli ultimi abitanti. Sullo sfondo delle fiamme si scorgevano le punte sottili degli alberi delle navi, gli scafi scuri scivolavano dappertutto.
Quando la loro nave rallentò e si stabilizzò, Rue Meridian si avvicinò a Walker. «Quelle erano navi della Federazione!» esclamò con ira. Aveva la faccia sporca di sudore e di fuliggine. «Devono avercela con noi più di quanto pensavo. Tutta quella gente uccisa o cacciata via, le case e le navi bruciate, solo per una ripicca?» Walker scosse la testa. «Non credo che dessero la caccia a voi due.» Notando lo stupore della donna, la fissò negli occhi e aggiunse: «Non credo nemmeno che dietro questa caccia all’uomo ci fosse la Federazione». Lei ebbe un attimo di esitazione, poi annuì lentamente. Dietro di loro, seminascoste dietro i monti e ridotte a un bagliore rossastro sullo sfondo della notte, le case dei Corsari si riducevano in cenere e le navi distrutte affondavano.
13 A un paio di giornate di volo dallo Spartiacque Azzurro a dai Corsari, dopo avere preparato tutto per il viaggio ed essersi procurati le provviste, Bek Rowe e Quentin Leah erano partiti all’alba e avevano attraversato l’Altopiano diretti a est. La giornata era fresca e limpida, l’aria profumava intensamente di erba e di fiori, il sole era caldo. Dietro di loro, però, si ammassavano le nubi ed era prevedibile che prima di notte piovesse. Nelle migliori condizioni ci sarebbero voluti alcuni giorni per raggiungere le Terre dell’ Est e dare inizio alla ricerca del misterioso Truls Rohk. Ai vecchi tempi, prima dell’invasione dell’esercito della Federazione, non avrebbero potuto prendere quella strada. Direttamente davanti a loro si stendeva la pianura di Clete, che in quel punto era un’ampia, spaventosa palude, soffocata da alberi secchi e sterpaglie, avvolta nella nebbia e priva di vita. Al di là s’ incontravano le Querce Nere: un’immensa foresta che aveva fatto innumerevoli vittime, in gran parte perché vi si erano perse, ma, in passato, anche perché erano state divorate dai grandi lupi grigi che ne erano i feroci abitanti. Quella parte della regione era abbastanza minacciosa, ma il viaggiatore non era al sicuro neppure dopo avere attraversato la palude e il bosco, perché a est delle Querce Nere si stendeva la palude della Nebbia, un acquitrino traditore in cui, a quanto si diceva, stavano in agguato esseri dotati di grandi poteri, di formidabili magie. A sud della palude, e per un centinaio di miglia, si trovavano le pianure dei Tumuli, un altro territorio pericoloso, abitato dalle Sirene: piante mortali che attiravano e ipnotizzavano i viaggiatori imitando voci e forme, li afferravano con radici simili a tentacoli, li pungevano con aghi paralizzanti e divoravano poi a loro agio le vittime. I due cugini non avevano alcun desiderio di incontrare quelle creature, ma era difficile evitarle viaggiando a sud del lago Arcobaleno. Ogni percorso che aggirasse il lago a nord avrebbe allungato di tre giorni di viaggio e avrebbe comportato pericoli di genere diverso. Se invece avessero voluto aggirare il bosco da sud, sarebbero finiti nel Prekkendor, un luogo dove a nessuna persona sana di mente piaceva trovarsi. Anche la Federazione aveva visto quei pericoli, all’epoca della sua occupazione del territorio di Leah, perciò aveva costruito strade attraverso le pianure e il bosco per agevolare il transito di persone e merci. Molte di quelle strade militari erano in cattivo stato e non potevano più essere percorse dai carri, ma tutte erano ancora percorribili a cavallo. Quentin, essendo il più vecchio dei due, conosceva meglio le strade della zona ed era sicuro di poter raggiungere l’Anar senza difficoltà.
Come previsto, il primo giorno fecero molta strada. Nel pomeriggio erano già fuori delle Highlands e si erano addentrati nella palude di Clete. Sole e cielo erano scomparsi e i due cugini erano avviluppati da un velo grigio di nebbia, ma la strada rimaneva visibile e poterono proseguire il cammino senza difficoltà.
Rallentarono quando il terreno divenne più accidentato e gli alberi si chiusero sul sentiero, costringendoli a piegarsi sulla sella e a girare attorno a distese di sabbie mobili e a mucchi di rovi, a farsi strada in mezzo alla foschia. Intorno a loro si muovevano ombre, alcune proiettate da giochi di luce, altre da esseri che in qualche modo riuscivano a sopravvivere in quel territorio maledetto. Si udivano suoni, ma non si riusciva a identificarli. I due giovani interruppero le conversazioni ed ebbero l’impressione che il tempo rallentasse. Tutta la loro attenzione si concentrò sulla strada che dovevano seguire per non perdersi. All’avvicinarsi della notte erano ormai al sicuro, fuori della palude, ed erano entrati nel buio proibitivo delle Querce Nere. Lì la strada era meglio conservata e meno irregolare, era aperta e libera, e si inoltrava in un labirinto di ombre. Al calar del sole si fermarono in una radura e allestirono l’accampamento per la notte. Accesero il fuoco, cenarono e stesero le coperte. Per qualche tempo scherzarono e chiacchierarono, poi s’infilarono tra le coperte e si addormentarono. Il sonno durò fino a mezzanotte, allorché prese a cadere una pioggia così fitta che la radura si allagò in pochi minuti. Bek e Quentin raccolsero in fretta le loro cose e si rifugiarono sotto un’ampia conifera, coprendosi con i mantelli da viaggio. Per tutta la notte rimasero seduti sotto il tetto di foglie a osservare la pioggia che cadeva ininterrotta. All’alba erano rigidi e indolenziti e non molto riposati, ma ripresero il viaggio senza lamentarsi. In altre circostanze sarebbero partiti meglio equipaggiati, ma non avevano voluto animali da soma e provviste supplementari, preferendo viaggiare leggeri: in un viaggio di una settimana, qualche notte di gelo e di umidità era sopportabile, se permetteva di risparmiare giorni di cammino. Fecero una colazione fredda, poi per tutta la mattinata attraversarono le Querce Nere. Nel pomeriggio la pioggia terminò e i due giovani videro davanti a loro la piana dei Tumuli. Là giunti si diressero a sud, per non rischiare di entrare accidentalmente nella palude delle Nebbie: aggirata la palude, contavano di puntare a nord e di arrivare al fiume Argento. Al tramonto erano riusciti a raggiungere la loro meta, avevano evitato le Sirene e gli altri trabocchetti, si erano tenuti sulla strada finché non si era allontanata troppo verso sud, poi si erano spostati sul terreno aperto del bassopiano, mentre la pianura lasciava il posto a una successione di foreste e di basse colline, e davanti a loro compariva il nastro scintillante del fiume. Trovarono riparo in un boschetto di tigli e betulle e si accamparono sulla riva, dove il terreno era abbastanza asciutto da potervi stendere le coperte e accendere un fuoco. Abbeverarono i cavalli, diedero loro la biada e li strigliarono. Poi si scaldarono la cena e, con lo sguardo rivolto al fiume e alla notte, bevvero birra chiacchierando. «Mi piacerebbe sapere qualcosa di più a proposito di questo Truls Rohk» osservò Bek, dopo qualche minuto di conversazione. «Secondo te, perché Walker ce ne ha parlato così poco?» Quentin sollevò lo sguardo in direzione del cielo stellato e rifletté per qualche istante. «Be’, ci ha detto dove trovarlo» rispose. «Ha detto che bastava chiedere di lui e si sarebbe
fatto vivo. Per me è sufficiente.» «Per te, ma non per me. Non ci spiega il motivo per cui dobbiamo cercarlo. Perché è tanto importante?» Bek non era disposto ad accontentarsi di così poco. «Se dobbiamo convincerlo ad accompagnarci ad Arborlon, dovremmo almeno sapere perché. E se non volesse venire, che facciamo?»
Quentin sorrise. «Facciamo i bagagli e torniamo indietro. Se non vuole venire, il problema è di Walker, non nostro.» Fece una smorfia. «Ecco che ci ricaschi. Ti preoccupi senza ragione.» «Sì, me lo dici sempre. Perciò ti dirò un’altra cosa che mi preoccupa. Non mi fido di Walker.» Si fissarono nell’oscurità, senza parlare, mentre il fuoco cominciava ad abbassarsi. Nell’improvviso silenzio, si udirono più chiari i suoni della notte. «Che intendi dire?» chiese lentamente Quentin. «Pensi che ci abbia mentito?» «No.» Bek scosse la testa con forza. «Se pensassi una cosa simile, non sarei venuto. Non si tratta di questo. Io penso che sappia cose che non ci ha detto. Rifletti, Quentin. Come sapeva di te e della Spada di Leah? Sapeva che ce l’avevi tu ancora prima di parlare con noi. Da chi l’ha saputo? Ha continuato a tenerti d’occhio per tutti questi anni, in attesa dell’opportunità di chiamarti per una ricerca? E come ha convinto tuo padre a lasciarci partire, visto che Coran non ti ha mai lasciato andare a combattere con i Liberi?» S’interruppe. Avrebbe voluto rivelare a Quentin le parole di Coran sulla sua origine e chiedergli perché non gliene avesse mai parlato prima della comparsa del druido. Avrebbe voluto chiedere al cugino se immaginava il motivo che aveva portato il druido ad affidarlo ai Leah perché lo allevassero: un compito che di solito non rientrava tra quelli dei Druidi. Ma non era pronto a parlarne; stava ancora riflettendo sulle rivelazioni e prima di condividerle con altri voleva chiarire a se stesso i propri sentimenti. «Penso che tu abbia ragione» gli rispose all’improvviso Quentin, sorprendendolo. «Credo che il druido ci tenga segrete molte cose, non ultime la nostra destinazione e il vero motivo del viaggio. Ma ti ho sentito raccontare spesso la storia dei Druidi e so che questo è il loro comportamento abituale. Sanno cose che noi ignoriamo, e in genere amano tenerle per sé. Ma perché questo dovrebbe preoccuparti? Perché non lasci che tutto vada come deve andare, invece di stare in ansia? Guarda me. Ho una spada che dovrebbe essere magica, ma devo fidarmi ciecamente di un’arma che non ha mai dimostrato di esserlo.» «È diverso» insistette Bek. «No, per niente.» Quentin rise e si appoggiò su un gomito stendendo le lunghe gambe. «È la stessa cosa. Puoi passare tutta la vita a preoccuparti di ciò che non sai, oppure accettare i tuoi limiti e cercare di fare come meglio puoi. I segreti non hanno mai fatto male a nessuno, Bek. È rimuginare su di essi che fa male.» Bek lo guardò incredulo. «Questo è completamente sbagliato. I segreti possono fare molto male.» «D’accordo, cerchiamo di vederla in un altro modo.» Quentin terminò di bere la birra e si rimise seduto. «A che ti serve pensare tanto a segreti che forse non esistono? Soprattutto non sapendo cosa sono?» «Certo, certo» sospirò Bek. «Ma almeno sono pronto nel caso si presenti qualche brutta sorpresa. E, tenendo d’occhio Walker, non verrò colto con la guardia abbassata dalle sue verità parziali e dalle sue omissioni intenzionali.» «Bene. Sei pronto e non ti lascerai ingannare. Neanch’io, che tu ci creda o no, anche se non mi preoccupo quanto te.»
Quentin guardò il cielo, dov’era improvvisamente comparsa una stella cadente, svanita in qualche istante. «Non puoi essere pronto a tutto, Bek, e non puoi evitare di essere ingannato, di tanto in tanto. Qualunque cosa tu faccia, per quanto tu ci provi, a volte non puoi evitare un insuccesso.»
Bek lo guardò senza parlare. Quentin aveva ragione, si disse, ma non aveva voglia di approfondire quel tipo di considerazioni. Quella notte, Bek dormì senza essere disturbato dalla pioggia e dal freddo, sotto un cielo limpido, accarezzato dall’aria tiepida, e non sognò né si agitò nel sonno. Eppure si svegliò alle prime ore del mattino, nel momento in cui avrebbe dovuto dormire più profondamente, destato dalla luce delle stelle e da una profonda inquietudine. Il fuoco si era consumato e rimaneva solo la cenere grigia. Accanto a lui, Quentin russava, avvolto nelle coperte. Bek non sapeva quanto aveva dormito, ma la luna era ormai tramontata e la foresta attorno a lui era nera e silenziosa. Si alzò senza riflettere e si guardò attorno con cautela, cercando di individuare l’origine del suo malessere. Pareva non esserci alcun motivo. Si avvolse nel mantello perché all’improvviso gli pareva che l ’aria si fosse raffreddata, e scese fino alla riva del fiume Argento. Il fiume era gonfio per le piogge primaverili e lo scioglimento delle nevi dei monti di Runne, ma quella notte non era agitato e sulla sua superficie non si scorgevano relitti. Mentre il giovane lo fissava, un uccello notturno volò accanto a lui e s’infilò tra gli alberi, simile a un’ombra silenziosa e decisa. Bek trasalì nello scorgere quel movimento, poi si tranquillizzò e studiò la superficie scintillante dell’acqua, cercando di capire cosa l’aveva destato. Infine spostò l’attenzione sulla riva opposta e sugli alberi in ombra. Nulla. Respirò a fondo. Forse si era sbagliato. Stava già per tornare da Quentin quando scorse la luce: solo un debole luccichio, una sorta di scintilla in mezzo agli alberi della riva opposta. La fissò sbalordito e la guardò tremolare, poi divenire più luminosa mentre usciva dagli alberi e si avvicinava alla riva. La luce sobbalzò leggermente quando giunse sull’ acqua, poi attraversò il fiume come se galleggiasse nell’aria e si fermò sulla riva a pochi passi da lui. La luce brillò con maggiore vivacità, e il giovane ammiccò. Quando la vista gli si schiarì, davanti a lui c’ era una bambina, che teneva la luce sul palmo della mano. Gli pareva che avesse qualcosa di familiare, ma non avrebbe saputo dire perché. Era una bambina molto bella, con lunghi capelli neri e straordinari occhi azzurri, e un’aria così innocente da fargli male al cuore. La luce usciva da un cilindro di metallo lucido e proiettava sul terreno, tra di loro, un raggio lungo e sottile. «Lieta di vederti, Bek Rowe» gli disse la bambina sottovoce. «Mi riconosci?» Il giovane la fissò a occhi sgranati, incapace di parlare. Era comparsa dal nulla, come volando nell’aria, e senza dubbio si trattava di una creatura magica. «Hai deciso di compiere un viaggio lungo e difficile, Bek» gli sussurrò la bambina, con la sua voce infantile. «Vai in un luogo dove pochi sono andati e da cui solo uno ha fatto ritorno. Ma il viaggio più importante non è quello che ti porterà lontano per mare e per terra: è quello che compirai dentro il tuo cuore. L’ignoto che temi e i segreti che sospetti ti si riveleranno. Tutto sarà come dev’essere. Accettalo perché è nell’ordine delle cose.» «Chi sei?» sussurrò Bek. «Sono questo e quello. Ciò che vedi davanti a te e molte cose che non vedi. Sono un camaleonte dei tempi e delle età, e la mia vera forma è così antica che me la sono perfino
dimenticata. Per te sono due cose. La bambina che vedi e che ti sembra di aver conosciuto… e questo…» Da un istante all’altro, la bambina si trasformò in qualcosa di tanto orrendo che Bek si sarebbe messo a
gridare se la voce non gli si fosse strozzata in gola. La cosa era enorme e contorta e spaventosa, tutta avvolta in una pelle coperta di scaglie e cicatrici, i capelli ridotti a pochi peli ispidi e neri sulla testa e sulla faccia, occhi rossi dall’espressione folle e bocca distorta in un sogghigno che suggeriva orrori troppo terribili per immaginarseli. Incombeva sopra di lui, gigantesca anche se teneva la schiena curva, e muoveva con gesti ipnotici le mani munite di artigli affilati. «Sssono anche quesssto, Bek. Quesssta creatura dell’abissssso. Preferisci vedermi cosssì o come prima? Quale delle due forme?» «Torna com’eri» mormorò Bek sconvolto, con voce rauca. Aveva la gola secca per la paura. «Va bene, trovatello sssfortunato. Cosssa sssei disssposssto a fare perché ciò accada? Che parte di te sssei pronto a sssacrificare?» La creatura quasi lo sfiorava: gli artigli erano a poca distanza dalla sua tunica. Se ci fosse riuscito, Bek sarebbe fuggito, avrebbe chiamato Quentin, che dormiva a una ventina di passi. Ma non riusciva a fare nulla, solo a rimanere immobile a fissare l’apparizione. «Tu hai il potere di trasssformarmi nell’una o nell’altra» sibilò la creatura. «Non dimenticarlo.» Ancora una volta la creatura si trasformò in un batter d’occhio, e Bek si trovò davanti gli occhi chiari e gentili di un vecchio dal volto coperto di rughe. «Non avere paura, Bek Rowe» disse piano il vecchio, in tono rassicurante. «Questa notte non corri alcun pericolo. Ci sono qui io a proteggerti. Adesso mi riconosci?» Chissà come, il giovane lo riconobbe. «Sei il Re del fiume Argento» mormorò. Il vecchio annuì con soddisfazione. Era una leggenda delle Quattro Terre, un mito incontrato da pochi: il Re del fiume Argento era uno spirito, una creatura di magia, che viveva fin dai tempi più antichi, fin da prima che le Grandi Guerre distruggessero il mondo. Era vecchio come la Parola, a quanto si diceva: una creatura nata nel regno di Faerie e sopravvissuta alla fine di quel mondo. Abitava nel fiume Argento e proteggeva la regione circostante. Di tanto in tanto qualche viaggiatore lo incontrava, e a volte, quando era necessario, il Re gli dava il suo aiuto. «Ascoltami, Bek» gli disse a bassa voce il vecchio. «Ti ho mostrato il passato e il presente. Rimane da determinare il futuro. Il futuro dipende da te. Tu sei nello stesso tempo qualcosa di più e qualcosa di meno di quello che credi di essere: sei un enigma il cui segreto, una volta svelato, cambierà la vita di molte persone. Non avere paura di scoprire quello che devi, quello che ti senti spinto a scoprire. Non lasciarti distogliere dalla tua ricerca. Segui il tuo cuore. Fidati di ciò che ti rivela.» Bek annuì. Non era affatto sicuro di avere capito, ma non voleva ammetterlo. «Passato, presente e futuro, la simbiosi della nostra vita» continuò il vecchio, con serenità. «La nostra nascita, la vita, la morte, tutte legate in un unico pacchetto, e noi trascorriamo la vita terrena ad aprirlo. A volte vediamo con chiarezza ciò che osserviamo. A volte no. A volte accadono cose che ci distraggono o ci ingannano, e dobbiamo guardare con grande attenzione ciò che abbiamo dinanzi.» Infilò una mano nelle pieghe della veste e mostrò al giovane una catena cui era appesa una strana pietra color dell’argento. Gliela sollevò davanti agli occhi.
«Questa è una pietra di fenice» spiegò. «Quando ti sentirai perduto, ti aiuterà a trovare la strada. Non solo quella che non vedi con gli occhi, ma anche quella che non puoi trovare con il cuore. Ti mostrerà la
strada che ti permetterà di uscire dai luoghi bui nei quali ti sei perso e di raggiungere la tua destinazione. Quando ne avrai bisogno, toglila dalla catena e gettala in terra, in modo che si rompa. Ricorda. Il tuo corpo, il cuore, la mente… questa pietra ti rivelerà tutto.» Consegnò la pietra e la catena a Bek, il quale le prese con grande cautela. L’interno della pietra di fenice pareva pieno di liquido in movimento, una sorta di pozza in cui si correva il pericolo di cadere. La sfiorò guardingo: il movimento cessò subito e la superficie divenne opaca. «La puoi usare una volta sola» lo informò il vecchio. «Nascondila a tutti. È una magia indiscriminata. Serve chi la usa, anche se l’ha rubata. Custodiscila bene.» Bek si infilò la catena attorno al collo e nascose la pietra sotto la camicia. «Farò come dici» promise. La sua testa era un turbinio di pensieri: cercava di esprimere le decine di domande che all’improvviso gli si erano affacciate alla mente. Ma non riusciva a pensare con chiarezza, tutta la sua attenzione era concentrata sul vecchio e la sua luce. Il Re del fiume Argento lo guardava con espressione gentile, ma non gli offriva alcun aiuto. «Chi sono?» chiese infine Bek, disperato. Parlò senza pensare, le parole gli uscirono dalle labbra spinte dal bisogno, dall’urgenza. Era la domanda che lo assillava di più, perché da qualche giorno era diventata il grande mistero della sua vita. Il vecchio fece un gesto vago. «Tu sei quello che sei sempre stato, Bek. Però hai perduto il tuo passato e devi ritrovarlo. In questo viaggio lo ritroverai. Cercalo e anch’esso ti ritroverà. Abbraccialo e sarai libero.» Bek non era certo di avere udito bene le parole del vecchio. Che aveva detto? «Cercalo e anch’esso ti ritroverà.» Cosa significava? Ma il Re del fiume Argento aveva già ripreso a parlare, interrompendo i pensieri di Bek. «Adesso dormi. Prendi il dono che ti ho dato e riposa. Questa notte non possiamo fare altro e hai bisogno delle tue forze per ciò che ti aspetta.» Agitò di nuovo la mano davanti a lui, e Bek si sentì invadere da una grande debolezza. «Ricorda le mie parole, al tuo risveglio» gli disse ancora il vecchio, mentre si allontanava e la luce tornava a pulsare nella sua mano. «Ricordale.» Nella sua oscurità e nel suo silenzio, la notte divenne all’improvviso calda e accogliente come la sua camera da letto, a casa. Bek avrebbe voluto fare altre domande, sapere molte altre cose. Ma era tornato a stendersi sul terreno, aveva le palpebre pesanti e la mente annebbiata. «Aspetta» riuscì a bisbigliare. Il Re del fiume Argento era già svanito nella notte, e Bek Rowe scivolò nel sonno.
14 Quando Bek si svegliò, l’indomani mattina, era esattamente come quando si era addormentato, la sera prima: avvolto nella coperta, vicino alle ceneri. Gli occorsero parecchi minuti per superare la confusione e convincersi che i suoi ricordi sul Re del fiume Argento corrispondevano alla realtà. Gli pareva di avere sognato tutto: gli avvenimenti della notte erano vaghi e sconnessi nella sua mente. Quando però infilò la mano sotto la camicia, trovò la catena e la pietra di
fenice nel punto dove le aveva nascoste prima di cadere addormentato.
Si lavò e fece colazione come un sonnambulo, pensando che avrebbe dovuto dire qualcosa a Quentin sul suo incontro, ma non riuscì a farlo. Era un’abitudine che aveva preso dall’inizio del viaggio, e lo preoccupava. Aveva sempre condiviso tutto con il cugino. Erano sempre vissuti insieme e si fidavano l’ uno dell’altro, ma adesso aveva nascosto a Quentin sia la sua conversazione con Coran sia l’incontro con la creatura che si era presentata come Re del fiume Argento. Per non parlare, si affrettò ad aggiungere, del fatto di possedere la pietra di fenice. Non sapeva con esattezza perché si comportava così, ma aveva a che fare con il suo desiderio di capire bene quelle novità, prima di condividerle con altri. Aveva l’impressione di essere un po’ troppo cauto e forse anche egoista, ma in verità si sentiva confuso ed era innervosito dal fatto che tutte quelle cose succedessero insieme. Era già difficile accettare l’idea di fare un viaggio che l’avrebbe portato dall’altra parte del mondo. Quello era il sogno di Quentin, non il suo. E il druido aveva bisogno di Quentin, con la sua spada magica e il suo grande coraggio, non di lui. Aveva acconsentito ad accompagnarlo per fedeltà verso il cugino e per una sorta di accettazione fatalistica del fatto che se non fosse andato se ne sarebbe pentito per tutta la vita. Solo ora, dopo le parole di Coran e del Re del fiume, cominciava a chiedersi se aveva anche lui un suo ruolo nella spedizione, un ruolo che non aveva mai sospettato. Perciò non accennò a nulla quando mangiarono e fecero i bagagli in una giornata che si annunciava chiara e luminosa. Tranquillo come sempre, Quentin rideva e scherzava mentre cavalcavano e raccontava aneddoti, confinando Bek nel ruolo dell’ascoltatore e lasciandolo ai suoi dubbi. Risalirono il fiume in una mattinata piena di profumi primaverili e di canti d’uccelli, in mezzo a uno scenario di tutte le sfumature di verde, tra macchie colorate di fiori e riflessi argentei dell’acqua. Videro qualche pescatore seduto sulla riva o in una piccola barca alla fonda, in un angolo riparato, e incontrarono qualche viaggiatore, in gran parte mercanti che andavano da un villaggio all’altro. La giornata tiepida pareva trasmettere il buonumore, e destava in tutti sorrisi, cenni di saluto, parole cordiali. A mezzogiorno i due cugini avevano guadato il fiume Argento poco prima del punto in cui scompariva nelle profonde foreste dell’Anar e si erano avviati verso nord seguendo i margini della foresta. Da lì proseguirono fino a Depo Bent, un villaggio dei Nani che serviva da mercato con le altre razze, annidato all’ombra del Wolfsktaag, e al loro arrivo il sole era ancora alto. Depo Bent era poco più di un gruppo di capanne e magazzini sorto attorno a una radura, lungo l’unica strada che attraversava le pianure. Lì Bek e Quentin dovevano cercare Truls Rohk, anche se non avevano idea di chi interpellare. Iniziarono lasciando i cavalli presso una stalla il cui proprietario promise di strigliarli, abbeverarli e dare loro la biada. Persona pratica e di poche parole come tutti i Nani, per una piccola aggiunta accettò di prendersi cura del loro bagaglio. Liberatisi così dei cavalli e dell’equipaggiamento, i due cugini raggiunsero una taverna e consumarono un robusto pranzo a base di stufato, pane e birra. La taverna era frequentata soprattutto dai Nani del villaggio, ma nessuno prestò loro la minima attenzione. Quentin portava la Spada di Leah sulla schiena, alla maniera degli Highlander, e tutt’e due erano vestiti come la gente dell’Altopiano, ma se gli abitanti del luogo trovarono strano che i due cugini fossero così lontani da casa, non lo fecero trasparire.
«Truls Rohk dev’essere un nano» disse Quentin, mentre mangiavano. «Nessun altro sarebbe disposto a vivere qui. Un cacciatore di pellicce, forse.» Bek annuì, ma non riusciva a capire perché Walker volesse con sé un cacciatore di pellicce. Terminato il pranzo, cominciarono a chiedere dove potevano trovare l’uomo che cercavano e ben presto scoprirono che nessuno lo conosceva.
Cominciarono dal proprietario della locanda e proseguirono lungo la strada, dai negozi ai magazzini. Tutti li guardavano senza capire, nessuno conosceva un uomo chiamato Truls Rohk, nessuno aveva mai udito quel nome. «Forse non abita qui» commentò Quentin, dopo una ventina di insuccessi. «Forse non è facile trovarlo come Walker ci ha fatto credere» brontolò Bek. Tuttavia proseguirono la ricerca, passando da un edificio all’altro, mentre il pomeriggio si consumava. Alla fine avevano fatto l’intero giro del villaggio, fino a tornare alla stalla dove avevano lasciato cavalli e bagagli. Lo stalliere non si vedeva, ma su uno sgabello davanti all’entrata c’era un nano dall’aspetto robusto, vestito da boscaiolo, occupato a intagliare un pezzo di legno. Quando i cugini si avvicinarono alzò gli occhi, posò il coltello e il pezzo di legno e si alzò. «Quentin Leah?» chiese, con il tono di chi sa già la risposta. Quentin annuì e il nano gli tese la mano. «Sono Panax, la vostra guida» lo salutò. «La nostra guida?» gli fece eco Quentin, tendendo la mano a sua volta. Fece una smorfia, sorpreso dalla forza con cui l’altro gliela strinse. «Ci porti da Truls Rohk?» Il nano annuì. «Per così dire.» «Come sapevi che stavamo arrivando?» chiese Bek, sorpreso. «Tu devi essere Bek Rowe» disse Panax. Tese di nuovo la mano e Bek gliela strinse. «Me l’ha fatto sapere il nostro comune amico. Di tanto in tanto gli faccio qualche favore. Di alcuni di noi si fida quanto basta per chiederci aiuto, quando ne ha bisogno.» Si guardò attorno. «Andiamo in qualche luogo un po’ appartato, se vogliamo parlarne.» I due giovani lo seguirono lungo la strada, fino a un vecchio pozzo circondato da alcune panche, all’ ombra. Non sembrava una zona molto frequentata. Panax accennò loro di sedersi, poi prese posto di fronte a loro. Sotto gli alberi c’era fresco e silenzio, e tutt’a un tratto il traffico del villaggio e della strada parve molto lontano. «Avete mangiato?» chiese il nano. Aveva lineamenti rudi, una folta barba, e non era più giovane. Profonde rughe gli segnavano la fronte e la pelle era scurita dal sole e dal vento. Qualunque fosse la sua attività, la svolgeva all’aperto, e da parecchio tempo. «Mi date l’impressione di essere un po’ stanchi» osservò. «Forse perché è tutto il giorno che giriamo alla ricerca di Truls Rohk» rispose Bek, in tono acido. Il nano annuì. «Non credo che a Depo Bent lo conoscano. Se qualcuno lo conosce, non sa il suo nome.» I suoi occhi castani avevano uno sguardo distaccato, come se fissassero qualcosa al di là di ciò che era direttamente visibile. Bek lo guardò con fastidio. «Avresti potuto risparmiarci un mucchio di fatica trovandoci prima.» «Oh, nemmeno io sono qui da molto» rispose Panax, senza scomporsi. «Non abito nel villaggio.
Sto nelle montagne. Quando ho saputo che stavate arrivando, sono sceso a cercarvi. Sapevo che prima o poi sareste venuti a prendere i cavalli, così ho deciso di aspettarvi alla stalla.»
Bek avrebbe avuto qualcosa da dire, ma Quentin lo prevenne. «Fino a che punto sei al corrente di quello che sta succedendo, Panax? Sai cosa ci facciamo noi qui?» Il nano si strinse nelle spalle. «Walker è un druido. I Druidi non ritengono utile raccontare più di quanto giudicano necessario.» Quentin sorrise senza alcun turbamento. «Pensi che Truls Rohk ne sappia più di te?» «Penso che ne sappia di meno.» Panax scosse la testa, divertito. «Non sapete nulla di lui, vero?» «Solo che dobbiamo portargli un messaggio di Walker» rispose Bek, con voce un po’ più irritata del voluto. Sospirò. «Ti devo dire, comunque, che tutta questa segretezza mi piace poco. Come si può prendere una decisione su qualcosa, se non si hanno informazioni per valutarla?» Il nano rise. Un suono basso, cavernoso. «Intendi dire che cosa risponderà Truls Rohk alla richiesta di Walker che tu gli porti? Ah! Highlander, non è per questo che sei qui! Oh, so che hai un messaggio del druido. Lasciami indovinare. Devi dire a Truls Rohk qualcosa sulla missione che Walker intende compiere, per sapere se vuole partecipare. È così?» Aveva un’aria tanto divertita che Bek provò la tentazione di dirgli che si sbagliava, ma Quentin stava già facendogli grandi cenni d’assenso. «Dovete capire una cosa» continuò Panax. «Truls Rohk non dà una vera importanza alle missioni di Walker. Se se la sente di accompagnarlo, e di solito se la sente, lo accompagna. Per saperlo non c’era bisogno che voi due faceste tanta strada. No, Walker vi ha mandati per qualche altro motivo.» Bek lanciò una rapida occhiata a Quentin. “Per mettere alla prova la Spada di Leah” pensava il giovane. “Per metterci in una situazione che serva a determinare il nostro valore e la nostra decisione.” All’ improvviso, Bek provò una forte preoccupazione. Che tipo di sfida avrebbero dovuto affrontare? «Forse è meglio andare a parlare subito con Truls Rohk» si affrettò a dire, per farla finita. Ma il nano scosse la testa. «Non possiamo. Per prima cosa, non uscirà finché non farà buio. Non fa nulla alla luce del giorno. Perciò dovremo aspettare il tramonto. Secondo, non è esatto dire che noi andiamo a parlare con lui. Dev’essere lui a venire da noi. Potremmo dargli la caccia fino alla prossima estate senza mai vederlo.» Strizzò l’occhio a Bek. «È in qualche punto delle montagne dietro di noi, assieme a creature con le quali sia tu che io preferiamo non aver nulla a che fare, credimi.» Bek rabbrividì nell’udire quelle parole. Aveva sentito parlare degli esseri che vivevano nel Wolfsktaag, esseri mitici e leggendari, incubi divenuti realtà. Se si faceva attenzione non erano pericolosi, ma un solo passo falso poteva condurre al disastro. «Raccontaci qualcosa di Truls Rohk» chiese Quentin, senza alcun tono particolare. Panax lo guardò con grande serietà per un istante, poi sorrise in modo quasi gentile. «Forse è meglio aspettare che tu lo veda di persona.» Il nano cambiò argomento, e chiese notizie delle Terre del Sud e della guerra tra la Federazione e i Liberi. Ascoltò con attenzione le risposte e riprese a intagliare il pezzo di legno che stava lavorando mentre aspettava il loro ritorno davanti alla stalla.
Bek era ammirato dall’abilità di Panax nel dividere completamente la propria attenzione tra i due compiti. Non staccava gli occhi dai due giovani, ma le sue mani continuavano a intagliare il pezzo di legno. Il suo corpo massiccio si era trovato una posizione comoda e non l’aveva cambiata, a parte i movimenti precisi
delle mani e qualche cenno della testa. Impossibile capire se prestava attenzione alle loro parole o se era assorto nei suoi pensieri. Dopo qualche tempo, posò la scultura sulla panchina, accanto a sé: un bellissimo pezzo, un uccello in volo meravigliosamente intagliato. Senza degnarlo di un’occhiata, Panax infilò una mano nella tunica, prese un altro pezzo di legno e si rimise al lavoro. Quando Bek riuscì a trovare il coraggio di chiedergli che lavoro faceva, si strinse nelle spalle. «Oh, un po’ di questo e un po’ di quello.» Sulla sua faccia impassibile comparve un sorriso enigmatico. «Guido qualcuno di coloro che hanno bisogno di aiuto per attraversare le montagne.» Bek si chiese chi poteva avere bisogno di aiuto per attraversare il Wolfsktaag. Non certo coloro che abitavano nella regione, Nani e Gnomi che si guardavano bene dal passarvi. E neppure i cacciatori che vivevano nelle foreste dell’Anar, e che preferivano andare a caccia in luoghi più sicuri. Nessuno che conducesse una vita normale, perché le persone normali non avevano alcuna ragione di trovarsi su quei monti. “Guiderà persone come noi” si disse infine. “Gente che ha bisogno di parlare con tipi come Truls Rohk. Ma quanta gente?” Come se gli leggesse nei pensieri, il nano lo guardò e disse: «Non sono molte le persone, neppure tra i Nani, che hanno familiarità con queste montagne. Almeno, quanto basta per evitare pericoli e trabocchetti. Io li conosco perché me li ha mostrati Truls Rohk. Mi ha salvato la vita, e mentre guarivo dalle ferite mi ha insegnato. Forse si è sentito in dovere di aiutarmi a trovare un modo di restare in vita dopo che l’avessi lasciato.» Si alzò, si stiracchiò e raccolse la figurina che aveva intagliato. Porse l’uccello a Bek. «È tuo. Ti porterà fortuna contro tutte le cose che di tanto in tanto ti mettono paura. Come ogni buona scultura, ci sono cose che si capiscono meglio quando diamo loro una forma. Qualunque impresa Walker abbia in serbo per te, avrai bisogno di tutta la protezione che potrai trovare.» Si avviò senza attendere la loro risposta. «È ora di andare. Prima a casa mia, poi sulle montagne. Dovremmo essere là per mezzanotte e torneremo qui domani all’alba. Prendete con voi quello che vi serve e lasciate il resto. È al sicuro.» Bek s’infilò nella tunica la scultura e seguì il nano assieme al cugino. Uscirono da Depo Bent e si avviarono verso le basse colline ai piedi della catena del Wolfsktaag, mentre le ombre si allungavano davanti a loro, il sole calava a occidente e scendeva il crepuscolo. L’aria si raffreddò, la luce diminuì e a nord comparve una falce di luna crescente. Proseguirono di buon passo, uscendo gradualmente dalla pianura per inoltrarsi su un terreno sempre più accidentato. In breve tempo il villaggio sparì dietro gli alberi, e il sentiero scomparve. Panax faceva strada, a testa alta e sguardo attento. Non pareva avere dubbi sul cammino da prendere e non parlava. A loro volta Bek e Quentin rimasero in silenzio e si limitarono a osservare la foresta che li circondava, ad ascoltare i suoni della notte che cominciavano a filtrare nel silenzio del crepuscolo: i richiami dei rapaci notturni, il ronzio degli insetti, di tanto in tanto il grugnito di qualche animale più grosso. Nulla li minacciava, ma il Wolfsktaag incombeva davanti a loro come una parete nera, rocciosa e invalicabile: la sua reputazione li intimidiva.
Era già buio quando raggiunsero la capanna di Panax, un semplice rifugio di tronchi situato in una radura
accanto alla cima del colle, fuori vista. Accanto vi scorreva un ruscello, che i due giovani poterono udire pur non vedendolo, e gli alberi formavano un riparo contro il vento. Panax li lasciò fuori mentre entrava in casa. Tornò quasi subito con una fionda infilata nella cintura e un’ascia da guerra tipica dei Nani, a doppio taglio e manico lungo, appoggiata sulla spalla. «Statemi vicini e fate come vi dico» li avvertì quando li raggiunse. «Se siamo attaccati, usate le armi per difendervi, ma non cercate guai e non allontanatevi da me. Chiaro?» I due giovani annuirono, preoccupati. “Attaccati da chi?” avrebbe voluto chiedere Bek. Lasciarono la casa e la radura, si fecero strada in mezzo agli alberi fino ai primi pendii della montagna, e cominciarono a salire. Non si riusciva a distinguere il sentiero, ma Panax dava l’impressione di conoscerlo bene. Li fece zigzagare in mezzo a rocce, boschetti di alberi secolari, gole buie, inoltrandosi sempre più in mezzo ai pendii accidentati del Wolfsktaag. La notte era illuminata dalla luna e dalle stelle, e c’era luce sufficiente per mantenere l’orientamento. Salirono per parecchie ore, sempre più vigili a mano a mano che gli alberi si diradavano, i tratti di roccia si allargavano, il silenzio si faceva più profondo. Prese anche a fare freddo, l’aria di montagna divenne più sottile e cominciarono a scorgere il vapore del loro fiato. Di tanto in tanto passava sulle loro teste qualche ombra: rapaci notturni al lavoro, silenziosi e rapidi. Bek si trovò a pensare alla propria vita, un passato nascosto e avvolto in vaghe possibilità. Chi era lui in realtà, per essere stato portato da un druido a Coran Leah, tanti anni prima? Non solo il figlio orfano di un lontano parente, rimasto senza famiglia. Non un semplice bambino senza casa. Chi era lui, perché il Re del fiume Argento comparisse in modo così inatteso a fargli dono di una pietra di fenice e a dargli avvertimenti foschi e nebulosi? Ripensò a quante volte aveva chiesto informazioni sui suoi genitori e Coran e Liria avevano cambiato discorso. Fino a quel momento, la cosa non gli era mai parsa importante. Ogni tanto il fatto di non ricevere risposta, di doversi arrestare nelle sue ricerche, l’aveva irritato. Ma era vissuto bene con la famiglia di Quentin, e la sua curiosità non era mai stata così forte da spingerlo a insistere per ottenere risposte più esaurienti. Adesso si chiedeva se era stato troppo remissivo. O forse stava facendo tanto rumore per nulla, e la sua famiglia era solo quello che aveva sempre pensato, un fatto accidentale, senza altre conseguenze che quella di averlo affidato alle capaci mani dei suoi genitori adottivi. Stava cercando segreti inesistenti solo perché Walker era apparso così inopinatamente? La notte era sempre più profonda, buia e silenziosa, e la loro salita verso la cima rallentò. Poi in una parete rocciosa apparve un’apertura e da quella passarono in una valle sull’altro versante del monte. La foresta era fitta e impenetrabile, non si poteva immaginare cosa ci vivesse dentro. Panax proseguì, assorto nei suoi pensieri. Dal passo si giungeva al letto asciutto di un torrente che portava al fondovalle. Dall’altra parte della valle si alzavano le cime del Wolfsktaag sullo sfondo del cielo illuminato dalla luna, simili a sentinelle che montassero la guardia, ciascuna un po’ più velata dalla nebbia della precedente. Giunti sul fondovalle, Panax ordinò di fermarsi in una piccola radura racchiusa tra olmi giganteschi. «Dobbiamo aspettare qui» disse.
Bek osservò le ombre che li circondavano. «Per quanto?» «Finché Truls Rohk non si accorgerà del nostro arrivo.» Abbassò l’ascia e si diresse verso le ombre. «Aiutatemi ad accendere il fuoco.»
Raccolsero legna secca e con esca e acciarino accesero il fuoco. Le fiamme si alzarono pochi istanti più tardi illuminando lo spazio aperto della radura, ma senza riuscire a penetrare nel mare di oscurità che li circondava. Anzi, parevano sottolineare quanto erano isolati. La legna scoppiettava allegramente, ma la notte rimaneva silenziosa ed enigmatica. Il nano e i due cugini sedevano per terra senza parlare, schiena contro schiena per condividere il calore e tenere d’occhio le ombre. Di tanto in tanto, uno di loro aggiungeva al falò qualche pezzo di legno, prendendolo dalla piccola pila di rami raccolti prima, per mantenere vivo il segnale e illuminata la radura. «Potrebbe non essere nella valle, questa notte» disse Panax a un certo punto, spostando la schiena che era appoggiata a quella di Bek e costringendolo a piegarsi, spinto dalla sua massiccia figura. «Potrebbe non fare ritorno fino a domattina.» «Abita qui?» domandò Quentin. «Qui come in qualsiasi altro posto. Non ha una capanna o una tenda. Non ha proprietà e non mette neppure da parte il cibo per i momenti in cui potrebbe averne bisogno.» Il nano fece una pausa, riflettendo. «Non è una persona come noi.» Lasciò cadere l’argomento e né Quentin né Bek insistettero per proseguirlo. Per conoscere l’aspetto di Truls Rohk, dovevano aspettare che arrivasse. Lo stesso Bek cominciava a pensare che fosse preferibile non saperlo. Forse sarebbe stato meglio che la notte passasse e giungesse il mattino senza che succedesse niente. Forse avrebbero fatto bene a lasciar perdere quella missione. «Avevo solo vent’anni quando l’ho conosciuto» disse all’improvviso Panax, a bassa voce. «Mi è difficile ricordare com’ero allora, ma ero giovane e pieno di me, e cominciavo a capire che volevo essere una guida e che volevo vivere lontano dalla gente. Già da qualche tempo abitavo per conto mio. Avevo lasciato da giovane la mia casa e ne ero rimasto lontano, non ne sentivo la mancanza e non pensavo di pentirmene. Ero sempre stato piuttosto distaccato da tutti, perfino dai miei fratelli, e probabilmente, quando non mi hanno più visto, hanno tirato tutti un sospiro di sollievo.» Girò la testa in direzione di Bek. «Ero un po’ come te, cauto e sospettoso, poco disposto a lasciarmi ingannare, capace di badare a me stesso, ma ancora poco esperto del mondo. Avevo sentito parlare del Wolfsktaag e avevo deciso di andare a vedere di persona.» Sorrise. «Pensavo che, trovandosi proprio al centro delle Terre dell’Ovest, ci fosse un certo numero di persone che lo attraversava: quel tanto che permette a una guida di guadagnarsi da vivere. Perciò mi sono unito ad alcuni uomini che facevano quel lavoro, ma che alla fin fine sapevano assai meno di quanto lasciavano credere. Feci alcune traversate con loro e sopravvissi. Dopo un anno o due mi misi in proprio. Pensavo di poter fare meglio da solo. Poi un giorno mi persi e non riuscii più a venir fuori dai monti.» Il nano proseguì: «Ero partito in esplorazione, per cercare di capire come si collegassero tra loro alcuni passi e rendere più facile la traversata. Sapevo qualcosa degli esseri che abitano nel Wolfsktaag, o perché le altre guide me ne avevano parlato o perché io stesso li avevo visti. Alcuni non li vedi mai, naturalmente… a meno che non ti capiti un colpo di sfortuna. Molti si possono scacciare o evitare, almeno quelli fatti di carne e ossa. Ma dagli spiriti è meglio allontanarsi o nascondersi. Col tempo si impara a farlo. Quella volta mi sono dimenticato di stare attento. Mi ero perso ed ero disperato, e ho commesso un errore».
Sospirò e scosse la testa. «Mi dispiace ammetterlo, ancor oggi. Per tornare indietro sono passato per una zona che sapevo di dover evitare, ma pensavo di poterci rimanere solo il tempo indispensabile a venir fuori dalla situazione in cui ero. Poi sono caduto e mi sono lussato una caviglia, in modo abbastanza grave, tanto da poter camminare a malapena. Era quasi notte e con il buio una bestia mannara venne a
cercarmi.» Il fuoco scoppiettò bruscamente e Bek sobbalzò. Bestie mannare. Nelle Terre del Sud erano una sorta di leggenda: creature note a molti, ma viste da pochi. In parte spiriti e in parte animali, era difficile vederle, impossibile difendersi da loro: si nutrivano della vostra paura e prendevano forma dalla vostra immaginazione e non c’era quasi nulla che potesse resistere loro, neppure i grossi gatti selvatici. La possibilità di incontrarne una fece rabbrividire Bek. «Pensavo che vivessero solo nel profondo Anar, più a nordest» commentò. Panax annuì. «Una volta, forse, ma i tempi cambiano. Comunque, la bestia mannara mi ha attaccato e io ho lottato contro di essa per gran parte della notte. Ho combattuto così a lungo e così duramente che alla fine non sapevo neppure cosa stavo facendo. Cambiò forma molte volte, per attaccarmi, e mi ferì ben bene. Ma io tenni la mia posizione, con la schiena appoggiata a un albero, troppo ostinato per convincermi che non potevo vincere quella battaglia, anche se a ogni assalto diventavo sempre più debole e stanco.» S’interruppe per fissare nel buio. I due cugini aspettarono, convinti che riflettesse o ricordasse. Ma all’ improvviso il nano si alzò in piedi e afferrò a due mani l’ascia. «Laggiù c’è qualcosa che si muove…» cominciò a dire. Una forma scura e allungata scaturì tutt’a un tratto dalla notte, seguita da una seconda e poi da una terza. Pareva che le ombre si fossero animate, avessero preso forma e sostanza. Panax venne scagliato a terra e gemette per la violenza del colpo. Quentin e Bek rotolarono di lato, e le ombre passarono sopra di loro: ombre scure, con lampi di denti e di artigli, e profondi brontolii di gola. Ur-lupi! Bek afferrò il coltello che portava alla cintura e rimpianse di non avere un’arma migliore per difendersi. Un branco di ur-lupi era capace di abbattere qualsiasi altro animale. Panax si era rimesso in piedi e brandiva l’ascia bipenne, spostando il peso a sinistra e a destra, mentre le ombre si muovevano ai margini della zona illuminata, alla ricerca di un’apertura nella sua guardia. Di tanto in tanto, un animale si lanciava contro di lui, e il nano sferrava un colpo d’ascia in quella direzione, ma incontrava solo l’aria. Bek lanciò un grido di avvertimento a Quentin, che era rotolato lontano dal fuoco e lottava per rimettersi in piedi. Alla fine Panax si mosse per aiutarlo, ma nell’istante in cui spostò lo sguardo verso l’Highlander, un ur-lupo gli si lanciò contro e lo buttò a terra facendo volare via l’ascia. Per un istante Bek pensò che erano perduti. Gli ur-lupi uscivano di corsa dall’oscurità, ed erano così numerosi che il nano e i due giovani non avrebbero potuto fermarli neppure se fossero stati pronti a difendersi. E invece Panax e Quentin erano a terra e Bek aveva come sola arma il lungo coltello da caccia. «Quentin!» gridò Bek, disperato, e venne scagliato lontano da una forma che si era materializzata all’ improvviso alle sue spalle e l’aveva colpito. Un attimo dopo l’Highlander fu accanto a lui, la Spada di Leah impugnata a due mani. Quentin era pallido e intimorito, ma aveva lo sguardo deciso. Mentre gli ur-lupi li attaccavano, ruotò in un ampio arco l’antica arma e lanciò il grido di sfida: «Leah! Leah!». E la spada lampeggiò come se fosse stata incandescente, sulla sua lama lucida corsero fili di fuoco. Quentin rimase a bocca aperta, barcollò e per poco non cadde su Bek. I lupi fuggirono
freneticamente in tutte le direzioni e scomparvero nel buio. Quentin, sconvolto per l’accaduto ma eccitato, li inseguì impulsivamente.
«Leah! Leah!» gridava. Ma subito i lupi tornarono: attaccarono di nuovo, allontanandosi all’ultimo momento, quando il fuoco della spada si scagliava contro di loro. Panax si era di nuovo rimesso in piedi, con gli occhi sgranati per la meraviglia. Recuperò l’ascia e andò vicino all’Highlander. “Magia!” pensò Bek, mentre correva per unirsi a loro. Allora la Spada di Leah era davvero magica! Walker aveva ragione! Ma i problemi non erano finiti. Gli ur-lupi non avevano interrotto l’attacco: si erano limitati a evitare la difesa levata contro di loro e attendevano l’occasione per lanciarsi avanti. Erano troppo astuti per farsi cogliere di sorpresa e troppo decisi per rinunciare. La magia della spada poteva solo tenerli a bada. «Panax, sono troppi!» gridò Bek, in mezzo all’ululare e al ringhiare dei lupi. Afferrò un ramo infuocato per cacciarlo nelle fauci degli attaccanti. Semiaccecati dalla cenere e dal sudore, i tre voltarono la schiena al fuoco e scrutarono nell’oscurità. I lupi guizzavano in mezzo alle ombre, le loro sagome, mobili come argento vivo, erano pressoché invisibili. Si scorgevano brillare e poi scomparire i loro occhi, punti di luce che parevano volerli irridere. Incapace di stabilire da dove sarebbe arrivato il nuovo attacco, Bek agitava nell’aria, davanti a sé, il lungo coltello. D’un tratto si chiese se doveva usare la magia della pietra di fenice. Ma non capiva come avrebbe potuto aiutarli. «Presto ci salteranno addosso!» gridò Panax. Aveva la voce rauca e incrinata. «Per tutti gli spiriti! Sono troppi! Da dove sono venuti fuori?» «Bek, hai visto?» Quentin rideva quasi istericamente. «Questa spada è davvero magica, dopotutto! Bek, lo è davvero!» Bek giudicò del tutto immotivato l’entusiasmo del cugino e gliel’avrebbe detto se avesse potuto distrarsi, ma tutta la sua attenzione era rivolta ai movimenti degli assalitori. Non aveva energie da sprecare per Quentin. «Leah!» urlò il cugino, uscendo di scatto dal cerchio, fingendo di colpire le ombre e ritirandosi in fretta. «Panax!» gridò. «Cosa facciamo?» Poi qualcosa che era ancor più nero e veloce dei lupi passò propria scia
davanti a loro, trascinando sulla
un soffio d’aria gelida. I tre difensori si ritrassero istintivamente. Nella notte si levò un sibilo, simile a un soffio di vapore uscito dal crepaccio di un vulcano: i lupi cominciarono a ululare selvaggiamente e ad azzannare l’aria. Bek non riusciva a vederli nell’oscurità, ma udiva i rumori che facevano, suoni di rabbia, di paura, di odio. Un attimo dopo erano in fuga, scomparsi come se la foresta li avesse inghiottiti. Nel silenzio che scese sotto gli alberi, Bek trattenne il fiato e si abbassò fin quasi a inginocchiarsi, continuando a tenere puntato il lungo coltello. Accanto a lui, Quentin era immobile come una statua. L’oscurità si aprì di nuovo e alla luce del fuoco comparve una grossa figura sbrindellata, che non era del tutto umana ma non era neppure del tutto qualcos’altro. Venne avanti adagio, senza diventare riconoscibile, e prese forma ma non identità, costituita in parti uguali di sogni e di incubi.
«Cos’è?» sussurrò Quentin Leah. «Truls Rohk» rispose con un filo di voce Panax, e le sue parole suonarono gelide come il ghiaccio in pieno inverno.
15 Accovacciata nell’insidioso intrico della Malaterra, Grimpen Ward era piena di luce e pervasa di suoni. I clienti delle locande e delle case di piacere sciamavano lungo le strade, non perché avessero qualcosa da festeggiare, ma perché erano persi a se stessi e a coloro che un tempo li avevano conosciuti. Grimpen Ward era l’ultimo gradino della scala, il luogo di raccolta per tutti coloro che non avevano un altro posto dove andare. Uno straniero che facesse troppe domande rischiava di trovarsi senza borsellino o con la gola tagliata, anziché ricevere risposte; le risse scoppiavano spontanee, senza bisogno di pretesti particolari, e la sola regola di comportamento davvero importante consisteva nel farsi gli affari propri. Perfino Hunter Predd, benché fosse un veterano di innumerevoli brutti incontri, si comportava con grande circospezione quando incontrava qualcuno di Grimpen Ward. Un tempo, quella località era un sonnolento villaggio di cacciatori di pellicce che abitavano nella vasta e inesplorata distesa della Malaterra. Troppo lontana per avere altri generi di commercio, era sopravvissuta per molti anni come piccolo presidio. Ma c’era poco da guadagnare con il commercio delle pellicce, molto invece con il gioco, e così, lentamente, la natura del villaggio era cambiata. Gli Elfi lo evitavano, ma gli uomini del Sud e i Corsari trovavano che la sua posizione era perfetta per loro. Chiunque cercava di fuggire dal passato, da inseguitori che intendevano chiudere qualche vecchio conto, da sogni infranti e delusioni, chiunque non riusciva a sopportare le leggi e riteneva che la forza e l’ astuzia dessero diritto a tutto, chiunque pensava di potersi arricchire senza tanti scrupoli: prima o poi tutta questa gente finiva a Grimpen Ward. Alcuni vi rimanevano per poco, poi se ne andavano. Altri vi rimanevano più a lungo. E se non riuscivano a sopravvivere, vi rimanevano per sempre. Alla luce del giorno era un villaggio squallido e torpido, di case di legno, di strade di terra battuta e di vicoli in ombra, con gli abitanti chiusi in casa a dormire in attesa che scendesse la sera. Era circondato dalle foreste della Malaterra, alberi antichissimi e cespugli soffocanti, ed era sempre a rischio di venirne inghiottito. Nulla di quanto conteneva sembrava destinato a durare, come se tutto fosse stato messo insieme per un capriccio, in pochi giorni disperati, e dovesse essere abbattuto in settimana. La popolazione non si curava della città: contava solo quello che poteva offrire. Grimpen Ward aveva un’ aria cupa, scontrosa, che faceva pensare a un animale denutrito e chiuso in gabbia, in attesa dell’ opportunità di fuggire. Hunter Predd percorse sul chi vive le strade della cittadina, tenendosi lontano dalla luce e dai capannelli di gente davanti alle porte e sotto i portici delle taverne. Come Cavaliere del Wing Hove, preferiva gli spazi aperti; come uomo sensato, che aveva già visto Grimpen Ward e altri luoghi simili, sapeva cosa aspettarsi. Rallentò e infine si fermò all’ingresso di un vicolo dove tre uomini ne colpivano a bastonate un quarto, e intanto gli frugavano nelle vesti. L’uomo li implorava di non ucciderlo, aveva sangue sulla faccia e sulle mani. Uno degli assalitori rivolse a Hunter Predd un’occhiata dura, da predatore, per valutare la sua pericolosità. Il cavaliere fece come gli aveva detto Walker: fissò per qualche istante il malvivente, per fargli capire che non aveva paura, poi proseguì per la sua strada.
Grimpen Ward non era il luogo adatto ai teneri di cuore o a chi desiderasse combattere le ingiustizie. Non sarebbero sopravvissuti nell’atmosfera claustrofobica di quel covo di crudeltà e di rabbia. Lì ciascuno era o il cacciatore o la preda di un altro, senza vie di mezzo. Hunter Predd sentiva in pieno il peso di disperazione e di avvilimento che soffocava il villaggio, e ne era nauseato. Lasciò la parte centrale dell’abitato, le luci forti e il chiasso, e si addentrò in mezzo a un gruppo di baracche abitate da coloro che si erano dati all’esistenza crepuscolare dei sogni e delle droghe. Le
persone che ci vivevano non uscivano mai dai loro mondi privati, dai luoghi di fantasia che si erano creati. Nell’aria si coglieva l’odore delle sostanze narcotiche che bruciavano, mescolato al puzzo di sudore e di escrementi. Potevano evadere dalla vita a basso prezzo, una volta perso tutto ciò che possedevano. Imboccò un sentiero che spariva tra gli alberi, si guardò attorno con cautela per assicurarsi di non essere seguito, e continuò nell’ombra. Il sentiero proseguiva per un breve tratto, fino a una piccola capanna circondata da un boschetto di frassini e ciliegi. La capanna era linda e ben curata, con vasi di fiori alle finestre e l’orto sul retro. Era tranquilla, un’oasi di pace in mezzo al tumulto. Dietro una finestra si scorgeva una luce. Il cavaliere si avvicinò alla porta, ascoltò in silenzio per alcuni istanti, poi bussò. Venne ad aprirgli una donna grassa e dalla faccia tonda, con corti capelli grigi e il corpo informe. Aveva un’età indefinibile: si poteva solo dire che aveva passato da tempo la giovinezza e che avrebbe conservato quell’aspetto ancora a lungo, per cambiare solo nella vecchiaia inoltrata. Guardò senza interesse Hunter Predd, come se fosse una delle tante anime perdute che incontrava ogni giorno. «Non ho stanze da affittare. Prova altrove.» Il cavaliere scosse la testa. «Non cerco una stanza. Cerco una donna chiamata Addershag.» La donna sbuffò. «Arrivi tardi. È morta da cinque anni. A quanto pare, le notizie sono lente ad arrivare, nel luogo da dove vieni.» «Ne sei certa? È veramente morta?» «Morta come la giornata di ieri. L’ho sepolta io, qui dietro, a due braccia di profondità, e l’ho sepolta in piedi perché potesse dare il benvenuto a chiunque cercasse di disseppellirla.» Gli sorrise ironicamente. «Vuoi provare?» Hunter Predd ignorò la sfida. «E tu eri la sua apprendista?» La donna rise e fece una smorfia. «Niente affatto. Ero la sua domestica, mi prendevo cura della casa. Non ho mai sopportato il suo lavoro, ma l’ho servita bene, e lei mi ha lasciato la casa. La conoscevi?» «Solo di nome. Una grande veggente. Una persona che conosceva la magia. Pochi osavano sfidarla da viva, nessuno, penso, adesso che è morta e seppellita.» «Solo folli e disperati.» La donna lanciò un’occhiata alle luci del villaggio e scosse la testa. «Di tanto in tanto ne arriva qualcuno. Ne ho sepolti diversi che non hanno voluto ascoltare il mio consiglio di lasciarla stare. Io non ho il suo potere: faccio quello che ho sempre fatto, mi occupo delle sue cose, pulisco la casa. Adesso è mia, ma la tengo come se dovesse tornare da un momento all’altro.» Lo fissò con sguardo privo di espressione, in attesa dei suoi commenti. «Chi legge il futuro alla gente di Grimpen Ward, adesso che lei è morta?» chiese il cavaliere. «Ciarlatani e falsi veggenti. Ladri privi di talento, che ti portano via il denaro e ti mandano allo sbaraglio fingendo di farti trovare la fortuna. Sono arrivati dopo che è morta lei, affermando di essere quello che era lei, di poter fare quello che faceva lei.»
Sputò in terra, con disprezzo. «Li scoverà tutti e li brucerà vivi, per quello che fanno.» Hunter Predd rifletté per qualche istante. Doveva procedere con cautela. Quella donna tendeva a proteggere la sua eredità e non era disposta ad aiutarlo. Ma lui aveva bisogno di informazioni.
«Non c’è nessuno che possa sostituire l’Addershag» confermò il cavaliere. «A meno che non l’avesse scelto lei stessa. Ha mai avuto apprendisti?» Per un lungo istante, la donna lo guardò con sospetto. Si passò nervosamente una mano nei capelli. «Chi sei?» chiese infine. «Un messaggero» rispose Hunter Predd. «L’uomo che mi manda conosceva bene la tua padrona e condivideva la sua passione per la magia e i segreti. Anche lui vive da molti anni.» La donna aggrottò la fronte, che divenne simile a un pezzo di carta appallottolata, poi incrociò le braccia con aria difensiva. «Quell’uomo è qui?» «Qui vicino, ma preferisce non farsi vedere.» La donna annuì. «So di chi parli. Ma dimmi il suo nome, se vuoi che ti creda.» «Si chiama Walker» rispose il Cavaliere del Wing Hove. «Ah!» esclamò la donna, con grande soddisfazione. «Anche il famoso druido aveva bisogno del suo aiuto di tanto in tanto! Ecco quanto era potente la mia padrona, ecco di che considerazione godeva!» Lo disse in tono di trionfo. «Sarebbe potuta entrare nel suo Ordine, se avesse voluto, ma non ha mai desiderato essere altro che una veggente.» «C’è qualcuno» insistette lui, con gentilezza «a cui potrebbe rivolgersi, adesso che lei non è più tra noi?» Il silenzio si addensò attorno a loro, mentre la donna tornava a studiarlo e rifletteva. Sapeva qualcosa, ma non sembrava intenzionata a parlare. Hunter Predd attese con pazienza che si decidesse. «Una» disse infine, parlando come se avesse in bocca qualcosa di amaro. «Una sola, ma non era adatta. Aveva un difetto di carattere e sprecò il suo talento. La mia padrona le ha dato ogni possibilità di essere forte, ma ogni volta la ragazzina ha fallito. Alla fine se n’è andata via.» «Una ragazzina?» chiese con cautela Hunter Predd. «Era molto giovane, quando era con noi, una bambina. Ma già allora ragionava come un’adulta. Pareva un’adulta nonostante il corpo di bambina. Era molto seria e amante dei segreti, cosa che deponeva a suo favore, ma anche molto sentimentale, e questo era un difetto. Aveva un grande talento. Vedeva chiaramente il futuro, riusciva a distinguerne gli sviluppi e a leggerne i segni.» Sputò un’altra volta e proseguì in tono stanco: «Molto dotata. Con capacità che andavano al di là di quelle della veggenza. È stato questo a rovinarla». Il Cavaliere del Wing Hove era confuso. «Che intendi dire?» La donna lo guardò irritata e scosse la testa. «Non c’è motivo per cui ne parli io. Se sei curioso di saperlo, chiediglielo tu. Si chiama Ryer Ord Star. Abita qui vicino. Posso insegnarti la strada. Lo vuoi o no?» Hunter Predd si fece dare le indicazioni e la ringraziò dell’aiuto. Lei gli rivolse un’occhiata che esprimeva pietà e disprezzo. Non appena lui si voltò, si affrettò a chiudersi la porta alle spalle.
I boschi dove Walker lo attendeva, nei dintorni di Grimpen Ward, erano vuoti e silenziosi. Nulla si muoveva nell’oscurità e non si udiva alcun rumore. Il druido attese con pazienza, ma leggermente irritato,
perché gli dispiaceva lasciare al cavaliere la ricerca dell’Addershag. Non dubitava delle capacità di Hunter Predd, anzi, il cavaliere gli era parso una persona eccezionalmente abile, tuttavia avrebbe preferito occuparsene di persona. Quella di mettersi in contatto con la veggente era una sua idea e sapeva dove trovare la vecchia. Tuttavia, dopo l’attacco contro il cantiere di Spanner Frew, era chiaro che la Strega di Ilse era decisa a impedirgli di seguire il cammino indicato nella mappa. In apparenza era stata la Federazione ad attaccare il villaggio dei Corsari, ma il druido era convinto che le spie della Strega di Ilse dovevano averlo visto a March Brume e di lì la donna l’aveva seguito a nord fino al villaggio segreto. Era stato fortunato a sfuggirle, e ancora più fortunato a sfuggirle con la nave intatta. I suoi compagni – Redden Alt Mer, Rue Meridian e Spanner Frew – l’avevano riportato a March Brume protetti dall’oscurità e dalla nebbia della prima mattina, l’avevano lasciato nelle vicinanze del luogo dove Hunter Predd lo aspettava, poi erano andati alla ricerca di un equipaggio. Una volta riunito l’equipaggio avrebbero fatto rotta per Arborlon, si sarebbero presentati agli Elfi e al loro nuovo re e avrebbero aspettato l’arrivo del druido. Tutto questo avrebbe richiesto tempo, ma Walker ne aveva bisogno per due motivi. In primo luogo doveva aspettare che Quentin Leah e Bek Rowe trovassero Truls Rohk e raggiungessero Arborlon. Secondo, doveva parlare con una veggente. Perché una veggente? Hunter Predd gliel’aveva chiesto mentre, in sella al Roc, sorvolavano le cime dell’ Irrybis in direzione di Grimpen Ward. A che gli serviva una veggente se aveva già determinato lo scopo della mappa? La rotta del loro viaggio, gli aveva spiegato Walker, non si poteva individuare facilmente. «Pensa allo Spartiacque Azzurro» gli aveva detto «come a un vuoto sterminato e alle sue isole come a pietre affioranti per guadare un corso d’acqua. La stabilità di quelle pietre e i segreti delle acque sono sconosciuti.» L’Addershag poteva aiutarli a capire i pericoli. Sarebbe stata in grado di vedere una parte delle minacce, cosa stava in agguato, cosa poteva ucciderli se non fossero stati avvertiti. Una veggente poteva fornire suggerimenti utili, e nessuna meglio dell’Addershag. La sua abilità era famosa e anche se era minacciosamente imprevedibile, non aveva mai dato prova di ostilità verso di lui. Una volta, molto tempo prima, aveva aiutato la cugina di Walker, la regina degli Elfi Wren Elessedil, a cercare gli Elfi perduti. Era stato l’inizio di un legame che il druido aveva mantenuto vivo con cura. L’Addershag aveva accolto Walker varie volte nel corso degli anni, sempre con una certa riluttante ammirazione per la magia del druido, sempre con vaghe allusioni che la sua non era inferiore. Era in vita almeno dai tempi della giovinezza di Walker, senza il beneficio del Sonno Magico. Walker non aveva idea di come ci riuscisse. La sua dote di veggente costituiva per lei un peso e un conflitto, e la sua vita privata era un segreto rigorosamente protetto. Walker non era certo che Hunter Predd riuscisse a convincerla a parlargli. Era possibile che si rifiutasse, ma era meglio lasciarlo provare. In ogni caso, se il druido voleva arrivare a qualche risultato, doveva agire in fretta e in modo clandestino. Ma l’incertezza e l’attesa gli pesavano e rimpiangeva di non potersi muovere di persona. Il tempo era prezioso e il successo incerto. L’aiuto dell’Addershag era essenziale. La donna non
avrebbe accettato di accompagnarlo, ma poteva rivelargli che cosa avrebbe incontrato nel suo viaggio. L’avrebbe fatto con riluttanza, servendosi di parole ambigue e immagini confuse, ma sarebbe stato comunque un aiuto. Un leggero fruscio interruppe la sua concentrazione. Quando alzò Hunter Predd
gli occhi vide
materializzarsi nella notte. Il cavaliere era solo. «L’hai trovata?» chiese subito il druido. Hunter Predd scosse la testa. «È morta cinque anni fa. Me l’ha detto la donna che si prendeva cura di lei.» Walker fece un profondo respiro. Provava una forte delusione. Una bugia? No, una bugia simile non sarebbe durata a lungo. In condizioni normali, sarebbe venuto a conoscenza subito della morte della veggente, ma negli ultimi dieci anni si era chiuso nella Fortezza di Paranor e gran parte di ciò che era successo nel mondo non era mai arrivato fino a lui. Il Cavaliere del Wing Hove si sedette su un ceppo e bevve dalla borraccia. «C’è un’altra possibilità» disse. «Prima di morire, la veggente ha preso un’apprendista.» «Un’apprendista?» chiese Walker, aggrottando la fronte. «Una ragazza, Ryer Ord Star. Con un grande talento, secondo la donna che me ne ha parlato. Ma hanno litigato. La donna ha accennato a qualche difetto del suo carattere, ma non ha voluto aggiungere altro. Se volevo saperlo, mi ha detto, dovevo rivolgermi direttamente a lei. Non abita lontano di qui.» Walker rifletté sulle parole del cavaliere, valutando i rischi e i vantaggi. Ryer Ord Star? Non ne aveva mai sentito parlare. E non aveva mai saputo che l’Addershag avesse un’apprendista. Ma se era per quello, non aveva saputo neppure che era morta. Le notizie che gli erano giunte all’orecchio negli anni precedenti erano solo una parte degli eventi accaduti. Doveva controllare di persona per poter decidere. «Fammi vedere dove abita» disse. Hunter Predd lo condusse lungo una serie di sentieri che aggiravano il centro di Grimpen Ward permettendo di evitare il contatto con i suoi abitanti. L’oscurità li proteggeva e le foreste erano un vasto, impenetrabile labirinto in cui si muovevano soltanto loro. Lontani e distaccati, i suoni del villaggio si levavano in esplosioni nel silenzio che avvolgeva tutto, e lampi di luce apparivano e sparivano come occhi di animali da preda. Ma sia il cavaliere sia il druido sapevano come camminare senza farsi scorgere, perciò nessuno si accorse della loro presenza. Mentre sgusciava nell’intrico scuro degli alberi, Walker continuava a riflettere. Le sue possibilità si stavano consumando. Troppe persone su cui faceva affidamento erano morte: prima Allardon Elessedil, poi il naufrago, ora l’Addershag. Ciascuna rappresentava informazioni e assistenza insostituibili. A preoccuparlo di più, tuttavia, era la perdita dell’Addershag. Come compiere la missione senza disporre delle sue visioni? Allanon c’era riuscito, molti anni prima, ma Walker non era tagliato nella stessa roccia del suo predecessore e non pretendeva di essere uguale a lui. Faceva il possibile con quanto aveva a disposizione, soprattutto perché capiva la necessità di comportarsi così, non perché desiderava il ruolo in cui si era trovato. In passato, gli aspiranti druidi avevano sempre desiderato entrare nell’Ordine. La tradizione si era interrotta con lui. Non amava pensare a cos’era e a come lo era diventato. Non amava ricordare la strada che era stato costretto a percorrere per divenire quello che non aveva mai voluto divenire. Era un ricordo amaro, un peso difficile da portare sulle spalle. Era divenuto un druido a causa delle
macchinazioni di Allanon e delle insistenze di Cogline e nonostante i suoi cattivi presentimenti, perché alla fine la necessità era soverchiante. Non aveva mai pensato di dover avere qualcosa a che fare con i Druidi, di entrare a far parte di quanto essi rappresentavano. Era cresciuto con l’intenzione di staccarsi dall’eredità che si era
portata via tanti membri della sua famiglia: l’eredità di Shannara. Aveva deciso di dedicare la propria vita ad altro. “Ma queste sono cose vecchie” si disse, mentre pensava al suo insuccesso nell’opporsi al destino. Era convinto che ad addolorarlo di più, a pesargli maggiormente sulla coscienza non era l’avere mancato al proprio voto, cosa giustificabile con la necessità, ma la distanza tra la realtà e quanto si era ripromesso di fare nell’accettare il suo ruolo. Aveva giurato di non essere un druido come gli altri, come Allanon e Bremen prima di lui. Di non ricorrere ai sotterfugi e ai segreti. Di non manipolare le coscienze degli altri per raggiungere le sue finalità. Si era ripromesso di non ingannare nessuno, di essere aperto, diretto e onesto. Di rivelare ciò che sapeva, di dire sempre la verità. Adesso si meravigliò per tanta ingenuità. Qunto era stato sciocco e illuso! Come infatti aveva scoperto in seguito, le esigenze della vita non permettevano facili distinzioni tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Le scelte andavano effettuate tra sfumature di grigio, e ciascuna comportava la valutazione dei guadagni e delle perdite. Di conseguenza, la sua vita aveva finito per uniformarsi a quella dei Druidi che l’avevano preceduto, e col tempo anche lui aveva assunto le caratteristiche disprezzate negli altri. Aveva ricalcato le loro orme assai più di quanto avesse inteso fare. Senza volere, era divenuto come loro. Perché aveva capito che era necessario. Perché si doveva comportare in base a quella considerazione. Perché ogni volta, nel determinare il proprio comportamento, aveva dovuto considerare il bene superiore. “Prova a dirlo a Bek” pensò con una smorfia “quando tutto sarà finito. Prova a dirlo al ragazzo.” Uscirono all’improvviso dalla foresta e si trovarono in una radura in cui si scorgeva, buia e silenziosa, una casupola solitaria. Lontana dall’abitato, la casupola era in stato di abbandono, con le finestre pencolanti, il tetto sfondato, il cortile pieno di erbacce, l’orto non sarchiato. Pareva che da tempo non vi abitasse nessuno, che fosse stata lasciata andare in rovina. Poi Walker vide la ragazza. Sedeva all’ombra del portico, perfettamente immobile, ed era una cosa sola con l’oscurità. Quando posò gli occhi su di lei, la giovane si alzò subito e attese che si avvicinasse con Hunter Predd. Ora che la vedeva più distintamente alla luce della luna e delle stelle, il druido notò che era più vecchia di quanto gli era parso a tutta prima, non una ragazzina ma una giovane donna. Aveva lunghi capelli chiari, che in quella luce sembravano d’argento e le ricadevano in folte onde sulla faccia pallida e sottile. Era magra come un fuscello, così incorporea da dare l’impressione che il vento potesse portarla via. Indossava una semplice veste di lana, stretta alla vita da una treccia di tessuto. Calzava sandali consumati e impolverati e aveva al collo una strana collana di cuoio e metallo. Walker le arrivò davanti e si fermò senza parlare, Hunter Predd era al suo fianco. La donna lo guardava fisso, e non degnò di uno sguardo il cavaliere. «Sei quello che chiamano Walker?» gli chiese, con voce dal timbro acuto.
Walker annuì. «Mi chiamano così.»
«Sono Ryer Ord Star. Ti aspettavo.» Walker la osservò con curiosità. «Come sapevi del mio arrivo?» «Ti ho visto in un sogno. Eravamo in viaggio, lontano di qui, sullo Spartiacque Azzurro, a bordo di una nave volante. Eravamo circondati da nubi tempestose e dal cielo giungeva il rombo del tuono. Ma nelle nubi nere c’era qualcosa di ancora più nero, e io ti avvertivo di fare attenzione.» Fece una pausa. «Quando ho fatto quel sogno, ho saputo che saresti arrivato e che sarei partita con te.» Walker le rispose, con esitazione: «Non intendevo chiederti di venire con me, solo di…». «Ma io devo venire con te!» si affrettò a dire la giovane. Gesticolò con le mani per sottolineare la sua affermazione. «Ti ho sognato di nuovo, nei giorni seguenti. Devo venire con te sull’altra sponda dello Spartiacque, è mio destino farlo!» Parlava con tale convinzione che Walker, per qualche istante, rimase senza parole. Guardò Hunter Predd. Anche sulla faccia impassibile del Cavaliere del Wing Hove si scorgeva la sorpresa. «Vedi?» disse la donna, indicando una sacca di tela, posata in terra accanto a lei. «Ho già fatto i bagagli e sono pronta a partire con te. La scorsa notte ho sognato che arrivavi. Ho sognato perfino il momento preciso del tuo arrivo. Sogni simili sono piuttosto rari, anche per noi veggenti, e in genere non sono così numerosi. Quando lo sono, non bisogna ignorarli. Tu e io siamo legati, i nostri destini s’intrecciano in un nodo che non possiamo tagliare. Quello che succede a uno, succede a tutt’e due.» Lo guardò con grande serietà, leggermente sorpresa, come se non riuscisse a capire la sua esitazione. Walker, a sua volta, era sorpreso da tanta decisione. Per cambiare discorso, chiese: «Tu eri allieva dell’Addershag, vero? Perché l’hai lasciata?». La donna gesticolò di nuovo. «Diffidava di me. Non approvava il modo in cui impiegavo le mie doti. Sono una veggente, ma anche un’empatica. Entrambi i talenti sono molto forti dentro di me, e il bisogno di usarli tende a essere troppo acuto. Di tanto in tanto ne ho usato uno per influire sull’altro, e l’ Addershag urlava contro di me. “Non fare mai niente per cambiare quello che deve essere!” mi gridava. Ma se io posso eliminare le sofferenze di un’altra persona grazie alla divinazione del futuro, non vedo nulla di male nel farlo. Quel male può essere sopportato meglio da me che da altri.» Walker la fissò. «Tu leggi il futuro, vedi che sta per succedere qualcosa e allora usi il tuo potere empatico per alleggerire il male che ne risulterebbe?» Cercò di immaginare come la cosa potesse svolgersi, ma non ci riuscì. «E con quale frequenza puoi farlo?» «Di tanto in tanto, e con risultati limitati. A volte l’uso delle mie doti s’inverte. A volte vengo chiamata da qualcuno che soffre, vedo il futuro cui è destinato e agisco in modo da cambiarlo. È una dote imperfetta e io la uso con molta circospezione. Ma l’Addershag diffidava della mia dote empatica, diceva che finiva per influire sulle mie capacità di veggente. Forse aveva ragione. Sono le mie due metà, e non posso staccarle. Questo ti preoccupa?» Walker non sapeva cosa rispondere. A preoccuparlo di più era l’incapacità di prendere una decisione a proposito della ragazza. Pareva convinta di dover andare con lui, ma il druido non sapeva ancora bene se chiederle consiglio o meno.
«Tu dubiti di me» disse la veggente, e Walker annuì, non avendo ragione di nascondere il suo pensiero. La donna continuò: «Non hai ragione di temere della mia capacità di fare quanto occorre. Sei un druido, e gli istinti dei Druidi non mentono. Fidati di quello che ti dice il tuo istinto.»
Fece un passo avanti. «Un’empatica può darti la pace che non riesci a trovare in altro modo. Dammi la mano.» Lui obbedì senza riflettere, e la donna gli prese la mano. Aveva le mani morbide e calde, molto più piccole della sua. Passò lentamente le dita sul palmo di Walker e chiuse gli occhi. «Tu soffri molto, Walker» disse. Il druido sentì un prurito che divenne una sorta di sonnolenza, e poi di euforia. «Ti senti assediato da tutti i lati, senti sfuggire tutte le possibilità, il tuo fardello ti sembra sempre più pesante da sopportare. Odi te stesso per quello che sei, perché credi sbagliato esserlo. Nascondi le verità che potrebbero influenzare la vita di coloro che…» Walker ritrasse di scatto la mano e fece un passo indietro, scosso dalla facilità con cui era riuscita a entrare nel suo cuore. La donna aprì gli occhi e lo fissò. «Potrei liberarti di gran parte del tuo dolore, se mi lasciassi fare» mormorò. «No» rispose lui. Si sentiva nudo ed esposto in un modo che non gli piaceva affatto. «Il dolore mi ricorda chi sono.» Al suo fianco, Hunter Predd si mosse inquieto. Era stato testimone di parole che avrebbe preferito non sentire. Ma Walker non poteva farci niente. «Ascoltami» disse piano Ryer Ord Star. «Ascolta quello che ho visto nei miei sogni. Compirai il tuo viaggio attraverso lo Spartiacque Azzurro in cerca di qualcosa di importante. Più importante per te che per chiunque altro dei tuoi compagni. Coloro che ti accompagneranno saranno coraggiosi e forti di cuore, ma solo alcuni faranno ritorno. Uno ti salverà la vita. Un altro cercherà di togliertela. Uno ti amerà senza nulla volere in cambio, uno ti odierà con passione inestinguibile. Uno ti allontanerà dal cammino. Un altro ti riporterà su di esso. Ho visto tutto questo nei miei sogni, e in futuro vedrò altro ancora. Io devo essere i tuoi occhi, Walker. Noi siamo legati come se fossimo una sola persona. Portami con te. Devi farlo.» La sua voce tradiva una determinazione così profonda da lasciare pietrificato il druido. Pensò per un momento all’Addershag, a quanto gli fosse sempre parsa cupa e contorta, le sue parole taglienti e minacciose, con la voce che pareva uscire da un pozzo profondo in cui non doveva entrare nessun altro. Ma fino a che punto Ryer Ord Star era diversa da lei? Doveva avere incontrato molte difficoltà come apprendista di una donna simile. Riusciva a leggerlo dentro di lei. “Fidati del tuo istinto” l’aveva invitato. E Walker lo faceva sempre. Ma in quel momento il suo istinto era confuso e le sue conclusioni incerte. «Portami con te» ripeté lei, in tono pressante. Walker non guardò Hunter Predd perché sapeva cos’avrebbe visto nei suoi occhi. Non guardò neppure nel proprio cuore, perché conosceva già il timore che vi si nascondeva. Lesse invece il viso di lei, per essere certo di avere visto tutto, e pensò alle esigenze della sua missione. I luoghi in cui doveva recarsi richiedevano la presenza di una veggente. Ryer Ord Star aveva le doti necessarie e non c’era il tempo di cercare un’altra persona. Che non fosse l’Addershag era spiacevole. Che fosse non solo ben disposta, ma anche ansiosa di
accompagnarlo, era un dono che Walker non poteva rifiutare. «Prendi la tua sacca, Ryer Ord Star» le disse. «Questa notte voliamo fino ad Arborlon.»
16
Bek Rowe rabbrividì guardando la grande figura che, dopo avere messo in fuga i lupi, si voltava verso di loro. Quentin fece involontariamente un passo indietro, scordando l’euforia che si era impadronita di lui quando aveva scoperto la magia della Spada di Leah. Nessuno dei due osava respirare, mentre l’ immagine davanti a loro tremolava come un ramo mosso dal vento, in un gioco di luci e ombre che sembrava un’immagine riflessa su una finestra bagnata di pioggia o uno spettro visto con l’occhio dell’ immaginazione in un brusco cambiamento di luce. Poi il cencioso mantello tutto sbrindellato che avvolgeva la massiccia forma di Truls Rohk si gonfiò un’ ultima volta e gli ricadde sulle spalle. Mani e piedi si muovevano come grosse mazze di legno nel cerchio di oscurità da lui stesso proiettato, ma sotto il cappuccio non si distingueva nessun lineamento. Se Bek non avesse visto la sua forma vagamente umana, Truls Rohk sarebbe potuto passare ai suoi occhi per una bestia di quelle montagne. «Panax» disse con voce sibilante. «Che ci fai qui?» Pronunciò il nome del nano senza alcun calore. La sua voce aveva lo stridore del metallo e la frase terminava con un suono che assomigliava al soffio del vapore sotto pressione. Bek si era dimenticato del nano. Con l’ascia da guerra al fianco, Panax fissava la cupa creatura davanti a loro. Non mostrava paura, ma aveva l’aria allarmata e tesa. «Walker ti manda un messaggio» disse all’apparizione. Truls Rohk non accennò ad avanzare. «Walker» ripeté. «Questi due ragazzi sono delle Highlands» continuò Panax. «Il più alto è Quentin Leah. Il più giovane è suo cugino Bek Rowe. Hanno l’incarico di portarti il messaggio.» «Parlate» disse Truls Rohk ai due cugini. Bek guardò Quentin, che gli rivolse un cenno d’assenso. Si schiarì la gola e spiegò: «Walker ci ha chiesto di dirti che vuole fare un viaggio su una nave volante, un viaggio che lo porterà sull’altra sponda dello Spartiacque Azzurro. Va in cerca di un tesoro di grande valore, in una regione sconosciuta. Dice che ci sono altri alla sua ricerca: uno è un mago chiamato il Morgawr e l’altra una donna chiamata la Strega di Ilse». «Sssh! Anime nere!» disse seccamente Truls Rohk, così adirato da interrompere Bek. «Che altro, ragazzo?» Il giovane deglutì. «Dice che i suoi nemici hanno già ucciso il re degli Elfi, Allardon Elessedil, e un naufrago che portava la mappa del tesoro. Dice che ha bisogno del tuo aiuto per trovare il tesoro e proteggerlo da coloro che lo vogliono fermare.» Quando Bek finì di parlare, scese un lungo silenzio, seguito da un colpo di tosse che poteva essere una risata o qualcosa di meno gradevole. «Bugie» disse bruscamente Truls Rohk. «Anche con un braccio solo, Walker è in grado di proteggersi. Cosa vuole, veramente?» Bek lo guardò intimorito e confuso, poi lanciò un’occhiata a Quentin e Panax, ma non trovò aiuto nelle loro espressioni, e fu costretto a scuotere la testa. «Non so. È quanto ci ha detto. Non ha aggiunto altro. Vuole che tu…» «Vuole ben di più di quello che ha detto!» sibilò la voce rauca. «Tu, Highlander.» Indicò
Quentin. «Che magia possiedi?»
Il giovane non esitò. «Un’antica magia, recuperata soltanto oggi. Questa spada appartiene alla mia famiglia. Ha ricevuto la sua magia, a quanto mi è stato detto, ai tempi di Allanon.» «La usi male» commentò l’altro in modo conciso, con indifferenza. «E tu, ragazzo» si rivolse a Bek. «Possiedi anche tu qualche magia?» Il giovane scosse la testa. «No. Nessuna.» Si accorse che Truls Rohk lo studiava con attenzione; nel silenzio che scese tra loro, gli parve che qualcosa lo sfiorasse, gli passasse sulla fronte con la leggerezza di una piuma. Arrivò e scomparve così in fretta da fargli pensare di averlo solo immaginato. Truls Rohk fece un passo per avvicinarsi a lui, e con quel movimento rivelò un braccio e una gamba di enormi proporzioni, tutti muscoli e pelo ispido, nudi nell’aria della notte. Bek ebbe l’impressione che tenesse la schiena curva, sotto il mantello, come se fosse pronto a scattare: una posizione di all’erta che non lo abbandonava mai. Per quanto Truls Rohk sembrasse grosso, Bek ebbe l’impressione che sarebbe stato ancora più imponente se si fosse raddrizzato del tutto. Solo i Troll delle Rocce raggiungevano quella dimensione, ma Truls Rohk non aveva la pelle coriacea e i movimenti lenti di quella razza. Era troppo veloce e scattante, e la sua pelle era umana. «Il druido vi ha mandati perché veniste messi alla prova» disse poi. «Perché vi scontraste contro le vostre paure e superstizioni. La vostra magia e la vostra decisione sono armi non provate.» Si lasciò sfuggire una risata che divenne un sibilo. «Panax, qual è la tua parte in questo gioco?» Il nano brontolò irritato: «Io non gioco con nessuno. Mi è stato chiesto di accompagnare questi Highlander nel Wolfsktaag e di riportarli indietro. Mi pare che tu ne sappia più di me». «Un gioco all’interno di un altro gioco» mormorò la forma d’ombra, allontanandosi di qualche passo e poi voltandosi di nuovo. Questa volta Bek colse anche un volto sotto il cappuccio, al debole chiarore della luce del fuoco. La faccia era attraversata da profondi solchi rossi, e la carne sembrava sul punto di fondere come ferro messo nella forgia. «Giochi da druido» proseguì Truls Rohk, scomparendo di nuovo nelle ombre. «Giochi che non mi piacciono. Ma Walker è sempre una persona interessante da osservare.» Fece una pausa. «Che lo siano anche questi due?» Panax pareva confuso e non fece commenti. Truls Rohk indicò Quentin. «Quei lupi vi avrebbero uccisi se non fossi arrivato io. È meglio che ti alleni con la magia della spada, se speri di vivere a lungo.» Bek sentì gli occhi dell’essere posarsi su di lui. «E tu, ragazzo, farai bene a non fidarti di nessuno. Almeno finché non vedrai le cose meglio di adesso.» Bek si accorse che anche Quentin e Panax lo guardavano. Voleva chiedere a Truls Rohk cosa intendeva dire, ma era intimorito dalla gigantesca statura e dal mistero che lo circondava e non osò parlare. Con un ultimo suono sprezzante, Truls Rohk si allontanò. «Dove avete appuntamento con
Walker?» chiese, girandosi un’ultima volta verso di loro. «Arborlon» rispose subito Bek.
«Allora ci vediamo là» disse Truls Rohk, a bassa voce. «E adesso andate via da queste montagne, e in fretta!» Ci fu una folata di vento gelido, un fruscio nelle tenebre. Bek e Quentin rabbrividirono e chiusero gli occhi. Dietro di loro, il fuoco scoppiettò un’ultima volta e si spense. Quando riaprirono gli occhi, Truls Rohk era sparito. Molto più a sud, al di là dell’Altopiano di Leah e delle due città industriali di Wayford e Sterne, ad Arishaig, capitale della Federazione, il ministro della Difesa Sen Dunsidan veniva destato in quel momento da un tocco leggero sulla spalla. L’uomo batté gli occhi e guardò nella penombra senza vedere nulla e senza capire che cosa l’aveva svegliato. Era un uomo alto e massiccio, dormiva supino in un letto di enormi proporzioni, e la camera da letto era fredda e silenziosa. «Sveglia, ministro» gli sussurrò la Strega di Ilse. L’uomo posò gli occhi sulla figura snella, avvolta nel mantello e china su di lui. Ancora semiaddormentato, la salutò con sorriso: «Signora in Nero dei miei sogni». «Non dire altro, ministro» lo avvertì lei, indietreggiando di un passo. «Alzati e vieni con me.» Lo osservò con attenzione mentre obbediva. L’uomo aveva l’espressione calma e tranquilla, come se fosse la cosa più naturale del mondo che la Strega venisse a svegliarlo nella notte. Era un uomo di potere, avvezzo a non mostrarsi mai sorpreso o intimorito. Era ministro della Difesa della Federazione da più di quindici anni e una simile durata nell’incarico era dovuta anche al fatto di essere riuscito a seppellire molti uomini che l’avevano valutato in maniera sbagliata. A volte sembrava conciliante e addirittura distaccato, un osservatore esterno del campo di battaglia, una persona ansiosa di semplificare le cose per tutti. In realtà aveva la moralità e gli istinti di un serpente. In un mondo di predatori e di prede, preferiva far parte dei primi. Tuttavia sapeva perfettamente che la sua sopravvivenza dipendeva dal tenere segrete le sue preferenze, dal nascondere le sue ambizioni. Quando si sentiva minacciato, come forse si sentiva in quel momento, sorrideva. Ma dietro il sorriso, naturalmente, si nascondevano i denti. Senza parlare, la Strega di Ilse gli fece strada dalla camera da letto fino allo studio in fondo al corridoio. Là lui trattava i suoi affari, e dal fatto di essere condotto nello studio il ministro capì che la Strega intendeva parlargli di lavoro. Era un uomo di immensi appetiti, abituato a soddisfarli quando voleva. La Strega intendeva evitare malintesi e fargli capire che non era andata nella sua camera da letto per qualcos ’altro. Aveva visto il modo in cui la guardava e non le piaceva quello che gli leggeva negli occhi. Se avesse tentato di metterle le mani addosso, sarebbe stata costretta a ucciderlo. Non avrebbe avuto remore a farlo, ma non le avrebbe portato nessun guadagno. Il modo migliore per evitare quel genere di cose consisteva nel chiarire fin dall’inizio che il loro rapporto non era destinato a cambiare. Sen Dunsidan era non solo una spia, ma anche un alleato: un uomo ben piazzato nella gerarchia della Federazione, capace di farle favori in cambio di quelli che poteva fargli lei. Come ministro della Difesa conosceva l’uso del potere nell’arte di governare, ma conosceva
anche la necessità della cautela. Era astuto, paziente e meticoloso. La sua dedizione al lavoro era leggendaria. Una volta iniziata una cosa, andava sempre fino in fondo. Ad attirare la Strega di Ilse era stata però la sua ambizione. Sen Dunsidan non si accontentava di essere
ministro della Difesa. Non gli sarebbe bastato divenire ministro della Guerra, o degli Esteri, o Primo ministro. Forse non si sarebbe accontentato neppure di essere re, carica che non esisteva nell’attuale struttura della Federazione, ma che era vicina al segno. Ciò che desiderava era il potere assoluto, su tutto e tutti. All’inizio dei loro rapporti, lei aveva capito che se gli avesse mostrato il modo di raggiungere quel potere, l’uomo avrebbe obbedito a tutte le sue richieste. Raggiunsero lo studio ed entrarono. La stanza severa, dalle pareti foderate di pannelli di legno, aveva un aspetto vagamente intimidatorio. Le torce alle pareti avrebbero fatto più luce, ma il ministro si limitò ad accendere le candele posate su una grande scrivania. Alto e atletico, con i capelli argentei lunghi e sciolti, passò senza fretta da un punto all’altro della stanza. Era un uomo attraente, con una personalità magnetica, finché non si arrivava a conoscerlo; a quel punto diventava una persona da sorvegliare con attenzione. La Strega di Ilse ne aveva già incontrati sin troppi, come lui. A volte aveva l’impressione che il mondo ne fosse pieno. «Allora?» chiese il ministro, sedendosi comodamente in una poltrona e accomodandosi la vestaglia. Lei rimase a una certa distanza, avvolta nel mantello e con la faccia nascosta nell’ombra. Il ministro l’ aveva già vista parecchie volte, soprattutto perché le era stato necessario permetterglielo, ma lei non l’ aveva mai incoraggiato, anche se il suo interesse era evidente. Lo trattava in modo diverso dalle altre sue spie, perché l’uomo si considerava uguale a lei: il suo orgoglio e le sue ambizioni non gli avrebbero permesso nulla di meno. La Strega avrebbe potuto facilmente ridurlo in schiavitù, ma a quel punto la sua utilità sarebbe finita. Doveva permettergli di rimanere forte, altrimenti non sarebbe sopravvissuto nell’ arena politica della Federazione. «Le navi aeree che ti ho mandato non hanno fatto quello che era necessario?» chiese l’uomo, aggrottando lievemente le sopracciglia. «Hanno fatto quello che hanno potuto» rispose lei, in tono di voce neutro. Poi scelse con cura le parole. «Ma il mio avversario è forte e astuto, non si lascia sorprendere facilmente e non si è lasciato sorprendere neppure questa volta. È sfuggito.» «Una vera sfortuna.» «Un intoppo momentaneo. Lo ritroverò, e quando l’avrò ritrovato lo distruggerò. Nel frattempo ho bisogno del tuo aiuto.» «Per trovarlo o per distruggerlo?» «Né per l’una né per l’altra cosa. Ha a disposizione una nave volante, con un comandante e un equipaggio. Ne occorre una anche a me, se voglio raggiungerlo.» Sen Dunsidan la studiò con attenzione. Stava già riflettendo su quelle parole, come lei sapeva. Aveva capito subito che c’era più di quanto lei gli avesse detto. Se inseguiva qualcuno, doveva avere un motivo. La conosceva abbastanza bene per sapere che non avrebbe perso tempo a dare la caccia a qualcuno solo per ucciderlo. C’era dell’altro, qualcosa di importante per lei, e il ministro cercava di capire cosa ci avrebbe guadagnato. La Strega decise di scoprire le carte.
«Lascia che ti parli del mio interesse per questa spedizione» gli disse. «Non si limita a voler vedere distrutto il mio avversario. Io e lui cerchiamo la stessa cosa: una cosa rara, di grande valore. Se io riuscirò ad arrivarci per prima, ne trarremo beneficio tutt’e due, tu e io. La mia richiesta di aiuto presuppone che qualunque risultato io ottenga, intendo condividerlo con te.»
L’uomo annuì. «Come hai sempre così gentilmente fatto, Signora in Nero.» Sorrise. «Che tipo di tesoro cerchi?» La Strega esitò volutamente, come se stesse dibattendo se dirglielo o meno. Il ministro doveva pensare che fosse una decisione difficile e che lei finisse per decidere di favorirlo. «Una forma di magia» gli confidò infine. «Una magia molto speciale. Se riuscissi a impadronirmene, diverrei molto più potente di quello che sono. E se la condividessi con te, diventeresti il più forte fra tutti coloro che cercano il potere nella Federazione.» Fece una pausa. «Che ne dici?» «Oh, non saprei» rispose l’uomo, con una breve risata. «Un simile potere potrebbe essere eccessivo, per una persona semplice come me.» Tacque per un istante, poi riprese: «Ho la tua assicurazione che condividerai con me quella magia, al tuo ritorno?». «La completa ed esplicita assicurazione, ministro.» L’uomo s’inchinò leggermente. «Non potrei desiderare di più.» Da tempo la Strega l’aveva convinto di essere intenzionata a mantenere la parola, una volta data. La fiducia di lui era sostenuta, comunque, dalla convinzione che anche se lei non avesse mantenuto la parola, non avrebbe perso molto. «E dove si trova questa magia?» chiese l’uomo. Lei lo guardò a lungo, attentamente. «Sull’altra sponda dello Spartiacque Azzurro, su un altro continente, in un’antica città, un luogo strano. Pochi vi si sono recati. Nessuno è tornato.» Non gli parlò del naufrago o degli Elfi. Il ministro non aveva bisogno di saperlo. Gli disse solo quello che bastava per tenere vivo il suo interesse. «Nessuno è tornato» ripeté adagio l’uomo. «Non è una prospettiva molto rassicurante. E tu pensi di riuscire dove tutti hanno fallito?» «Tu che ne dici, ministro?» Lui rise. «Io credo che tu sia troppo giovane per simili intrighi e macchinazioni. Non pensi mai di dedicare un po’ di tempo a qualche piacere più tranquillo? Non ti auguri mai di poter mettere da parte i doveri, per qualche giorno, e fare qualcosa cui non hai mai pensato?» Lei sospirò stancamente. Quell’uomo era ottuso. Si rifiutava di accettare il fatto che i suoi approcci non erano bene accolti. Doveva mettere fine alla cosa prima che le sfuggisse di mano. «Se dovessi prendere in considerazione una simile ipotesi» disse con voce sensuale «conosci un posto dove potrei fuggire?» Lui la guardò con attenzione. «Certo.» «E mi faresti da guida e da compagno?» Il ministro raddrizzò la schiena, con aria d’aspettativa. «Ne sarei onorato.» «No, ministro, saresti morto, semplicemente, ed entro il primo giorno.» S’interruppe, per lasciargli assorbire l’impatto di quelle parole.
«Rinuncia ai tuoi sogni di quello che potrei essere. Non farli entrare nella tua mente e non esprimerli a parole. Mai più. Io non sono quello che immagini e meno ancora quello che speri. Sono più nera di quanto lo siano le tue peggiori azioni. Non pensare di conoscermi. Sta’ lontano da me, e forse riuscirai a sopravvivere.» Il viso dell’uomo era immobile, e nei suoi occhi era affiorato il dubbio. La Strega lo lasciò riflettere per un momento, poi sussurrò parole tranquillizzanti ridendo come una ragazzina: «Via, ministro. Tra noi non è necessaria questa severità. Siamo vecchi amici. Siamo alleati. Che dici della mia richiesta? Mi aiuti?». «Naturalmente» rispose subito l’uomo. Il ministro era soprattutto un animale politico e sapeva guardare in faccia la realtà prima degli altri. Non intendeva farla incollerire, né spezzare il loro rapporto, reciprocamente vantaggioso. Avrebbe finto di dimenticare i suoi maldestri approcci di poco prima. E la Strega, naturalmente, gli avrebbe permesso di farlo. «Una nave, un comandante e l’equipaggio» le assicurò, lieto di poter tornare nei suoi favori. Si passò la mano nei capelli argentei e sorrise. «Tutto a tua disposizione, Signora in Nero, finché ne avrai bisogno.» «I migliori che puoi darmi, ministro» lo avvertì. «Niente anelli deboli. Questo viaggio non sarà facile.» L’uomo si alzò, raggiunse la finestra dello studio e guardò la città. La sua abitazione si trovava in mezzo a un gruppo di edifici governativi della Federazione, in parte abitazioni, in parte uffici, tutti all’interno di un parco chiuso da un muro in cui nessuno era ammesso senza invito. La Strega di Ilse sorrise. Tranne lei, naturalmente. Lei poteva andare dove voleva. «Ti darò laBlack Moclips» disse a un tratto Sen Dunsidan. «È la nostra migliore nave da guerra volante, costruita dai Corsari e ormai ben sperimentata. Ha una storia assai notevole. Ha partecipato a più di duecento combattimenti e non è mai stata sconfitta e neppure danneggiata. In questo momento ha un nuovo comandante e un nuovo equipaggio, e sono ansiosi di venire messi alla prova. Tutti veterani, non fraintendermi, ma nuovi per la nave. Sono stati assegnati a essa quando il suo equipaggio di Corsari ha disertato.» Lei lo studiò. «Sono addestrati e fidati? Sono stati messi alla prova in battaglia?» «Due anni nel Prekkendor, tutti quanti. Sono un’unità forte e affidabile, ben guidata e completamente addestrata.» La Strega stava per aggiungere: “E mi serve anche una squadra completa di soldati della Federazione” quando la voce aspra del Morgawr la fermò: «Nessun soldato» disse il mago, che soltanto lei riusciva a udire. Era un inconfondibile ricordo dei suoi avvertimenti, quando lei gli aveva chiesto soldati per combattere gli Elfi. “Una nave, un comandante e l’equipaggio, niente di più. Non discutere” le aveva detto. S’irrigidì sotto le sue parole sferzanti, proiettate dall’ombra dietro Sen Dunsidan, dove il Morgawr stava acquattato. «Signora?» chiese con sollecitudine il ministro della Difesa, nel cogliere la sua esitazione. «Scorte per un lungo viaggio» disse lei, proseguendo come se nulla avesse interrotto i suoi pensieri e guardando direttamente il Morgawr, senza concedergli nulla. La irritava la sua insistenza nel voler tenere tutto sotto controllo, pur non essendo disposto a
partecipare di persona alla spedizione. Il Morgawr continuava a vedersi come il suo maestro, e lo era, ma ormai lei era una sua pari e non più sottoposta a lui. Lei aveva sempre posseduto la magia, anche prima che il
Morgawr andasse a prenderla e la aiutasse a ricostruire la sua vita infranta. Non era mai stata inerme o inconsapevole, e il Morgawr dimenticava un po’ troppo in fretta quanto lei fosse già forte quando l’aveva visto per la prima volta. «La nave ti verrà consegnata completamente equipaggiata e pronta per la partenza» disse Sen Dunsidan, richiamando la sua attenzione. «Una settimana basterà.» «Quattro giorni» replicò la Strega di Ilse, fissandolo negli occhi con fermezza. «Verrò io stessa a prenderla. Ordina al comandante e all’equipaggio di obbedirmi in tutto. In tutto, ripeto. Non voglio domande, né discussioni oppure esitazioni. Tutte le decisioni saranno solo mie.» Il ministro annuì senza entusiasmo. «Il comandante e l’equipaggio saranno avvertiti, Signora in Nero.» «Torna a letto» gli ordinò lei e si allontanò, congedandolo. La Strega rimase a contemplare il buio della notte fuori della finestra finché il ministro non se ne fu andato, poi tornò a guardare il Morgawr, che era uscito dall’ombra, alto, scuro e spettrale. L’aveva accompagnata in città, ma era rimasto nascosto mentre lei parlava. Le aveva detto di far credere a Sen Dunsidan che era lei ad avere il comando. “Com’è in realtà” avrebbe voluto rispondergli, ma era rimasta zitta. «Ti sei comportata bene» le disse, muovendosi senza fare rumore. «Non mi piacciono le tue interferenze quando sono con i miei agenti!» sbottò lei, irritata. «E neppure i tuoi richiami su quello che, secondo te, devo o non devo fare. Sono io che rischio la vita per impadronirmi di quella magia!» «Cerco solo di darti l’aiuto di cui hai bisogno» rispose lui, con calma. «Allora fallo!» esclamò lei. La sua pazienza era esaurita. «Abbiamo bisogno di soldati! Ci servono guerrieri esperti. Chi può procurarceli, se non la Federazione?» Il Morgawr fece un gesto con la mano, come per cancellare le sue obiezioni. «Posso procurarli io» rispose con indifferenza. «Ho già preso accordi. Una dozzina di Mwellret, comandati da Cree Bega. Saranno i tuoi guerrieri, i tuoi combattenti. Con loro al fianco, non avrai nulla da temere.» Mwellret. Alla sola idea le venne la pelle d’oca. Il Morgawr sapeva quanto lei li odiasse. Come combattenti erano selvaggi e indomiti, ma erano anche infidi. La Strega non riusciva a leggere nella loro mente. Resistevano alla sua magia e impiegavano sotterfugi e artifici propri. Per questo il Morgawr li amava e li impiegava. Avrebbero combattuto bene per difenderla, ma avrebbero anche agito come suoi custodi. Assegnarle un gruppo di Mwellret era un mezzo per tenerla in riga. Poteva rifiutare l’offerta, lo sapeva. Ma avrebbe dato prova di debolezza. Il mago avrebbe insistito perché lei li accettasse, avendo già preso la decisione che i rettili erano necessari. Interruppe bruscamente le sue riflessioni perché aveva capito qual era il vero significato dei Mwellret. Il Morgawr glieli voleva affiancare non solo perché non si fidava di lei o pensava che non volesse rispettare i suoi ordini.
Aveva paura di lei. Sorrise come se approvasse il suggerimento, e tenne nascosto quello che pensava veramente.
«Certo, hai ragione» convenne. «Dove potremmo trovare combattenti migliori? Chi oserebbe sfidare un Mwellret?» “Solo io” pensò. “Ma quando lo scoprirai, Morgawr, per te sarà troppo tardi.”
17 Quattro giorni dopo avere lasciato i monti del Wolfsktaag, Bek Rowe, suo cugino Quentin Leah e il nano Panax arrivarono nella valle di Rhenn. Bek aveva sentito raccontare le storie della valle fin da quando era nato, e non appena il terzetto a cavallo uscì dalle pianure e si avviò lungo il suo ampio corridoio erboso, gli vennero di nuovo tutte in mente. Lì, più di mille anni prima, gli Elfi e il loro re, Jerle Shannara, avevano combattuto contro le orde del Signore degli Inganni, in tre giorni di feroci combattimenti che avevano portato alla morte del druido rinnegato. E lì, più di cinquecento anni prima, la Libera Legione era corsa ad aiutare gli Elfi, assediati dalle orde di Demoni usciti dalla Proibizione. E sempre in quella valle, meno di centocinquant’anni prima, la regina degli Elfi Wren Elessedil aveva guidato gli alleati dei Liberi contro gli eserciti della Federazione di Rimmer Dall, spezzando la schiena all’occupazione da parte della Federazione e distruggendo il culto degli Ombrati. Bek alzò lo sguardo verso i ripidi pendii che chiudevano la valle e i profili netti dei monti. Nelle poche miglia di quella porta d’accesso alla terra degli Elfi avevano avuto luogo tutte le battaglie più importanti della loro storia eppure, mentre guardava la pianura, tranquilla e illuminata dal sole, nulla indicava che vi fosse mai successo qualcosa d’importante. Una volta Bek aveva sentito una persona commentare davanti a Coran che quel terreno era sacro per il sangue sparso da coloro che avevano dato la vita per la libertà delle Quattro Terre. «È un bel pensiero, ricco di nobiltà» aveva risposto Coran Leah. «Tuttavia avrebbe maggiore significato se il sacrificio di quegli innumerevoli morti avesse reso la pace un po’ più permanente.» Il ragazzo pensava a quelle parole mentre cavalcava nel silenzio del primo pomeriggio. La valle si stringeva a occidente, fino a diventare una stretta gola, una fortezza naturale di pareti a strapiombo e passaggi tortuosi, attraverso cui scorreva tutto il traffico diretto alle foreste della Terra dell’Ovest e ad Arborlon. Quei passaggi erano serviti agli Elfi come prima linea di difesa ogni volta che la loro terra era stata invasa. Bek non c’era mai stato, ma conosceva la storia di quei luoghi e ricordando le parole del padre fu sorpreso dalla differenza tra la realtà e le descrizioni. Tutti gli antichi eventi e i lontani tumulti svanivano nella vasta quiete, negli spazi aperti, nel profumo di fiori selvatici, nella brezza fresca e leggera e nel calore del sole, come se non avessero mai avuto luogo. Il passato era solo un ricordo sbiadito. Il giovane riusciva a malapena a immaginarlo e ora si chiedeva se gli Elfi pensavano a esso nello stesso modo, se costituiva anche per loro la testimonianza di quanto fossero effimere le vittorie militari. Si chiese se il viaggio che stava facendo gli sarebbe sembrato diverso, una volta terminato. Si chiese se era destinato a compiere qualcosa di duraturo. Non avevano fatto altri incontri, i quattro giorni erano trascorsi senza incidenti. I due cugini delle Highlands e il nano erano scesi dal Wolfsktaag dopo l’incontro con Truls Rohk e avevano passato il resto della notte e la mattina dormendo nella capanna di Panax, poi avevano fatto i bagagli, preso i cavalli ed erano partiti a mezzogiorno per Arborlon.
Viaggiavano leggeri, senza animali da soma e scorte, preferendo rifornirsi lungo la strada. C’erano innumerevoli insediamenti sparsi lungo le Terre di Confine, e i tre viaggiatori non avevano incontrato
difficoltà a procurarsi l’occorrente. Nel viaggio a ovest non avevano trovato ostacoli. Avevano attraversato le pianure di Rabb a nord del fiume Argento, seguito la costa del lago Arcobaleno sotto il Runne, evitato Varfleet e Tyrsis passando per le colline del Callahorn fino alle pianure a nord del Tirfing. Avevano infine costeggiato il fiume Mermidon verso la valle di Rhenn. Avevano tenuto un buon passo, ma senza affrettarsi; le giornate erano chiare e soleggiate, le notti fresche e silenziose. Non una sola volta avevano scorto o sentito Truls Rohk. Panax aveva asserito che non sarebbe successo, e così era stato. L’incontro con il cupo, formidabile Truls aveva lasciato sconvolti Bek e Quentin, ma solo il giorno successivo, dopo essersi allontanati da Depo Bent e dal Wolfsktaag, avevano trovato il coraggio di affrontare l’argomento. A quel punto Panax era disposto a dire loro quanto sapeva. «Naturalmente, è un uomo come noi» aveva risposto all’inevitabile domanda su che tipo di creatura fosse realmente Truls Rohk. «Be’, non proprio come noi, penso, o come le altre persone che conosciamo. Però è un uomo, non una bestia o uno spirito. Era un uomo del Sud, una volta, prima che andasse a vivere nelle montagne. Veniva dalle Terre di Confine sotto Varfleet, da qualche parte del Runne. I suoi erano cacciatori di pellicce, poveri immigrati che vivevano in maniera molto modesta. Me l’ha raccontato una volta, tanto tempo fa. Però in seguito non ha più accennato alla cosa. Soprattutto all’incendio.» Erano nelle pianure di Rabb, e cavalcavano verso ovest seguendo il sole, mentre il giorno cominciava a imbrunire. Nessuno dei due cugini aveva parlato, mentre il nano s’interrompeva per raccogliere i pensieri. «Quando aveva dodici anni, mi pare, ci fu un incendio. Il ragazzo dormiva con gli uomini in una tenda di pelli, che prese fuoco. Gli altri uscirono, ma lui si diresse dalla parte sbagliata e rimase intrappolato nelle pieghe della tenda senza riuscire a liberarsi. Il fuoco lo bruciò a tal punto da renderlo irriconoscibile. Pensarono che fosse moribondo; secondo me erano convinti che sarebbe stato meglio per lui morire. Ma fecero quel poco che potevano, e risultò che quel poco era sufficiente. Mi disse che era molto grande e robusto per la sua età, e che una parte di lui lottò contro il dolore e il pericolo e lo mantenne in vita.» Il nano aveva proseguito: «Sopravvisse, dunque, ma era così sfigurato che neppure la sua famiglia ne sopportava la vista. Non saprei dire quale fosse il suo aspetto. Dice che non osava guardarsi. Dopo di allora continuò a tenersi lontano da tutti, visse da solo nei boschi, come cacciatore, ed evitò la gente e i luoghi abitati. Quando fu abbastanza cresciuto per farlo, andò per conto suo, per vivere lontano da tutti. Era amareggiato e si vergognava di se stesso, e disse che in realtà quello che desiderava era la morte. Si recò nel Wolfsktaag, dato che aveva sentito le storie di coloro che vi abitavano. Pensava che nessun altro vivesse in quel luogo, e che poteva restarvi da solo per il tempo che gli rimaneva da vivere. «In quelle montagne, però, gli successe qualcosa. Non volle dirmi cosa. L’esperienza cambiò tutto il suo modo di pensare. Decise che voleva vivere. Che voleva guarire. Perciò si recò dagli Stors per avere medicine e unguenti, e le cure che potevano offrirgli, poi diede inizio a qualche rituale di autoguarigione. Non parlò neppure di quello. Non so se abbia funzionato o no. Lui mi disse di sì, ma continuò a nascondersi sotto quel mantello col cappuccio. Io non sono mai riuscito a vederlo chiaramente. Né la sua faccia né altre parti del suo corpo, e credo che nessuno l’abbia mai visto».
«C’è qualcos’altro» l’aveva interrotto Bek. «Tu dici che è umano, che è un uomo, sotto quel mantello, un uomo come te e me, ma non lo sembra affatto. Non assomiglia a nessun uomo da me conosciuto.» «Vero» aveva confermato Panax. «Non lo sembra. E per buone ragioni. Dico che è un uomo come noi
soprattutto perché non pensiate che sia nato da esseri diversi. Ma è divenuto qualcosa di più, ed è difficile stabilire esattamente cos’è quel di più. Io penso di capirlo un poco, comunque. Ha trovato il modo di assomigliare alle creature del Wolfsktaag, di divenire simile a loro. È capace di cambiare forma, lo so per certo. Può prendere l’aspetto degli animali e dei fantasmi, può divenire come loro. O, se preferisce, come gli esseri che li spaventano. È quello che ha fatto con gli ur-lupi. Per questo sono fuggiti. È una forza della natura che è meglio non stuzzicare, perché può assumere la forma necessaria per ucciderti. È già grande, grosso e veloce di suo, e il cambiamento di forma non fa che aumentare tutte le sue caratteristiche. È ferino e istintivo, sa come vincere in situazioni in cui noi penseremmo solo a fuggire. È a casa sua in mezzo a quelle montagne, in luoghi dove gli altri uomini non entrano. Per questo il druido lo vuole con sé. Truls Rohk supera ostacoli che nessun altro oserebbe affrontare. Risolve problemi che lascerebbero perplesso chiunque altro.» «E come l’ha conosciuto, Walker?» aveva chiesto Quentin. «Ha sentito parlare di lui, soprattutto voci, poi l’ha trovato. Solo lui poteva essere capace di farlo.» Panax aveva sorriso. «Non so se sia realmente riuscito a trovare Truls Rohk, so che gli è arrivato abbastanza vicino da richiamare la sua attenzione. Può darsi che non esista nessuno capace di trovare Truls Rohk se non vuole farsi trovare. Comunque, in qualche modo Walker l’ha trovato, e l’ha convinto ad accompagnarlo in uno dei suoi viaggi. Non so dove siano andati, quella prima volta, ma tra loro si è formato una specie di legame. In seguito, Truls Rohk era più che lieto di accompagnare il druido.» Aveva scosso la testa. «Comunque, non si sa mai. Non ascolta nessuno. Mi vuole bene, si fida di me, nella misura in cui può voler bene a qualcuno e fidarsi. Ma non mi dà confidenza.» «È inquietante» aveva detto Bek. «Non solo perché si nasconde o perché compare come un fantasma o perché cambia forma. E non basta sapere cosa gli è successo. Ti guarda dentro e ti dà l’impressione di vedere cose che tu non riesci a scorgere.» «Aveva ragione per quanto riguarda me e la spada» aveva ammesso Quentin. «Non sapevo bene cosa stavo facendo. Faticavo a tenere sotto controllo la magia, ad allontanare i lupi. Se non fosse arrivato, probabilmente ci avrebbero uccisi.» Truls Rohk aveva visto qualcosa anche in Bek, ma aveva preferito tenerlo per sé. Bek non riusciva a smettere di pensarci. «Non fidarti di nessuno» gli aveva detto il cambiatore di forma «finché non riuscirai a vedere meglio le cose.» Con quell’ammonizione, Truls Rohk aveva rivelato di conoscerlo meglio di quanto si conoscesse lui. Lungo tutto il viaggio dal Wolfsktaag ad Arborlon, Bek aveva continuato a pensare al modo in cui il cambiatore di forma l’aveva guardato, l’aveva studiato ed era andato al di là delle apparenze. Era una vecchia caratteristica dei Druidi, come Bek sapeva. Allanon era famoso per il modo in cui leggeva dentro le persone. Anche Walker aveva quella capacità. Truls Rohk non era un druido, ma quando ti guardava ti dava l’impressione di spellarti vivo. La discussione sul cambiatore di forma si era spenta dopo la prima notte, poiché Panax pareva avere esaurito le sue conoscenze e Quentin e Bek avevano preferito tenere per sé i propri pensieri. Erano passati ad altri argomenti, soprattutto alla spedizione che li attendeva e di cui il nano faceva adesso parte, ma della quale non sapeva nulla. Era entrato nel gruppo perché Walker aveva insistito, nel caso Truls Rohk avesse accettato di partecipare. Bek e Quentin avevano riferito a Panax quel poco che sapevano e i tre avevano passato il tempo a discutere sulla loro probabile meta e sul tesoro cercato da Walker.
Il nano aveva le idee chiare. «Non c’è nessun tesoro abbastanza grande da interessare a un druido. Un druido pensa solo alla magia. Walker cerca un talismano o un incantesimo o qualcosa del genere. Ed è così potente che lasciarlo cadere nelle mani della Strega di Ilse sarebbe un suicidio.»
Era un’affermazione convincente, ma nessuno riusciva a immaginare una magia tanto pericolosa. La magia esisteva da quando le nuove razze nate dalle Grandi Guerre avevano dovuto reinventarla per sopravvivere. Gran parte di quella magia era molto potente, e i Druidi l’avevano addomesticata o eliminata. Che potesse esistere una nuova magia, rimasta nascosta per tanti secoli e ora scoperta per caso, sembrava piuttosto improbabile. La magia non esisteva isolatamente da tutto il resto. Non compariva dal nulla. Qualcuno doveva averla evocata, perfezionata e messa in azione. «Per questo motivo Walker ha scelto persone come te, Highlander, con la tua spada magica, e Truls Rohk» aveva continuato Panax. «Magia per combattere un’altra magia, legata a uomini che possono usarla con successo.» Questo non spiegava perché avesse portato Bek e lo stesso Panax. Tuttavia il nano era per lo meno un esperto cacciatore ed era in grado di seguire le tracce, mentre Bek non aveva alcuna esperienza, in alcun campo. Di tanto in tanto la sua mano accarezzava la superficie liscia della pietra di fenice e il suo pensiero correva all’incontro con il Re del fiume Argento. Allora pensava che probabilmente non era figlio della persona di cui portava il nome, e questa possibilità lo spingeva a mettere in dubbio tutte le sue conoscenze. In quei momenti sentiva nuovamente su di sé gli occhi di Truls Rohk, quella notte sulla montagna. Un gruppo di Cacciatori Elfi li accolse allo sbocco della valle e li accompagnò attraverso i boschi, fino ad Arborlon. Una scorta era inconsueta per i visitatori, ma fu chiaro, fin dal momento in cui dissero i loro nomi, che li stavano aspettando. La strada che portava in città era larga e aperta, e cavalcare nelle ore del pomeriggio era quanto mai gradevole. La giornata era ancora chiara quando arrivarono in città, uscendo dall’ombra degli alberi per entrare in un tratto pianeggiante che terminava in corrispondenza di un precipizio. Arborlon era molto più grande e animata di Leah, con botteghe e abitazioni che si distendevano a perdita d’occhio, molto traffico sulle strade, e dappertutto abitanti di ogni razza. La capitale degli Elfi era un importante nodo commerciale, un centro in cui si scambiava ogni tipo di beni. Non c’erano le grandi forge e le fabbriche delle Terre del Sud e dei Troll delle Rocce che vivevano nel Nord, ma i loro prodotti erano visibili dappertutto, importati per poi essere rivenduti agli altri Elfi che vivevano più a ovest. Lungo la strada che portava in città incontrarono numerose carovane di merci, che entravano o uscivano, dirette a regioni meno accessibili: il Sarandanon a ovest, la Malaterra a sud e le nazioni dei Troll a nord. Quentin si guardò attorno, con un sorriso raggiante. «È per questo spettacolo che siamo qui, Bek» disse. «Non è tutto grande e meraviglioso, proprio come l’ immaginavi?» Bek tenne per sé i propri pensieri senza affidarli alle parole. Si chiedeva come potesse, quella gente il cui re era stato da poco assassinato, condurre la vita di sempre senza traccia di dolore, ma doveva ammettere che non potevano comportarsi diversamente. La vita proseguiva, indipendentemente dalla gravità degli avvenimenti che colpivano la cittadinanza. Non c’era da aspettarsi nulla di diverso. Attraversarono la città vera e propria e si diressero a sud, attraverso una serie di parchi e giardini, per raggiungere quello che era senza dubbio il palazzo degli Elessedil. A quel punto era già quasi sera, la luce diminuiva rapidamente, le torce in cima a pali lungo la strada e agli ingressi delle case illuminavano la via.
Le carovane incontrate per strada erano rimaste dietro di loro, e dall’ombra emersero gli uomini della Guardia Reale, i protettori del re e il cuore dell’esercito degli Elfi: individui stoici, silenziosi, dagli occhi
acuti. Presero i cavalli e li portarono nella scuderia, poi accompagnarono il nano e i due cugini lungo un sentiero, fra querce e alte erbe, fino a un padiglione aperto, affacciato sulla rupe, a una certa distanza dal palazzo. Nel padiglione c’erano panche e tavoli, con brocche piene di birra e acqua e altri rinfreschi. Le guardie indicarono i tavoli e li lasciarono soli. I tre viaggiatori rimasero per qualche istante immobili a guardarsi, nel padiglione deserto, come in attesa dell’arrivo di qualcuno, poi, vedendo che non succedeva niente, Panax si sedette, prese il coltello e un pezzo di legno e cominciò a sbozzare una nuova figurina. Quentin lanciò un’occhiata a Bek, si strinse nelle spalle e si versò da bere. Bek continuò a guardarsi attorno circospetto. Pensava alla Strega di Ilse, che aveva orchestrato la morte di un re degli Elfi a poca distanza da lì. L’idea che fosse così facile uccidere qualcuno nella capitale degli Elfi non gli piaceva, soprattutto adesso che anche lui era divenuto un possibile bersaglio. «Che hai?» gli chiese Quentin avvicinandosi con il bicchiere in mano. Portava sulla schiena la Spada di Leah come se l’avesse fatto per tutta la vita, e non da una sola settimana. «Niente» rispose Bek. Quentin mostrava già le prime trasformazioni causate dal viaggio, si lasciava alle spalle la vita precedente. Era il motivo per cui il cugino era partito, ma Bek stentava ancora ad accettare l’idea. «Mi chiedevo se Walker è già arrivato» disse. «Be’, a guardare la tua espressione, pare che tu tema di veder comparire da un momento all’altro Truls Rohk, magari da un buco che si spalanca nel terreno.» «Non ne escluderei la possibilità» mormorò Panax, dalla panca dov’era seduto. Anche Quentin prese a guardarsi attorno, ma il primo a scorgere le due figure che giungevano dal palazzo fu Bek. I due cugini non riuscirono a distinguere le facce nell’oscurità, neppure nei momenti in cui passavano sotto le torce. Solo quando giunsero al padiglione e si offrirono alla luce Bek e Quentin riconobbero la figura snella e robusta che veniva avanti. «Hunter Predd» lo salutò Quentin, tendendogli la mano. «Felice di vederti, Highlander» rispose il cavaliere. Sul viso abbronzato gli comparve un sorriso. Pareva sinceramente lieto di vedere Quentin. «Avete fatto un buon viaggio da Leah, vedo.» «Niente di preoccupante, neppure per un momento.» «E la vecchia spada che porti sulla schiena ti ha rivelato qualche segreto, nel corso del viaggio?» Quentin arrossì. «Uno o due. Non dimentichi nulla, vero?» Anche Bek diede la mano al Cavaliere del Wing Hove. Nel vederlo, un po’ della sua inquietudine si era dissipata. «Walker è già arrivato?» chiese. Hunter Predd annuì. «Sì. Tutti i partecipanti alla spedizione sono ormai qui. Voi siete gli ultimi.» Panax si alzò e si avvicinò e i due giovani lo presentarono al Cavaliere del Wing Hove. Poi
Hunter Predd si rivolse al suo compagno, un elfo alto e robusto, di età indefinibile, con i capelli grigi tagliati corti e occhi azzurro chiaro. «Vi presento Ard Patrinell. Walker voleva che lo conosceste. È al comando dei Cacciatori Elfi che verranno con noi.»
Strinsero la mano all’elfo, che rivolse loro un cenno senza parlare. Bek si disse che se mai una persona aveva avuto l’aspetto di un guerriero, quella persona era Ard Patrinell. Aveva il corpo e la faccia segnati da cicatrici, sottili linee bianche e lucide sulla pelle abbronzata, a testimonianza delle battaglie combattute e vinte. Da ogni suo movimento, anche dai minimi, si irradiava forza. Quando diede loro la mano, evitò di stringere troppo forte, ma Bek sentì il ferro che stava dietro. Anche il modo di camminare dava l’ impressione di una persona sempre pronta, capace di reagire in una frazione di secondo. «Sei il capitano della Guardia Reale» osservò Panax, indicando la mostrina sulla giubba dell’elfo. Ard Patrinell scosse la testa. «Lo ero. Adesso non più.» «Difficile conservare il posto di capitano della Guardia Reale quando il re viene assassinato mentre sei responsabile della sorveglianza» commentò Hunter Predd, senza mezzi termini. Panax annuì con aria pratica. «Bisogna sempre trovare un colpevole della morte di un re, anche quando non c’è colpa. Così la gente pensa che si sta facendo tutto il possibile.» Sputò per terra. «Comunque, Ard Patrinell, mi sembri un veterano. Hai combattuto sul Prekkendor?» Anche ora l’elfo scosse la testa. «Ho combattuto contro la Federazione, ma non là. Sono stato a Klepach e a Barrengrote quindici anni fa, quando ero ancora con i Cacciatori e non con la Guardia Reale.» Se le domande del nano l’avevano irritato, il capitano non lo diede minimamente a vedere. Da parte sua, Bek si chiedeva come si potesse affidare la responsabilità della spedizione di Walker a un capitano della Guardia in disgrazia. L’avevano rimosso dall’incarico solo come misura diplomatica, resa necessaria dalla morte del re, o c’era sotto qualcos’altro? Ard Patrinell aveva un’espressione straordinariamente calma, come se nulla potesse scuotere la sua fiducia o impedirgli di ragionare. Sembrava uno che ha visto e superato molti momenti pericolosi, e sa che il peggior nemico di un soldato è la perdita di controllo. Anche se sentiva di avere tradito la sua missione nei riguardi del re, non manifestava il peso di quel fallimento. Bek lo giudicò un uomo che capiva meglio di altri il valore della pazienza e della tenacia. «Cosa rimane da fare, prima della partenza?» chiese all’improvviso Quentin, cambiando argomento. «Impaziente di decollare, Highlander?» lo canzonò Hunter Predd. «Non ci vorrà molto. Abbiamo una nave volante, un comandante e un equipaggio. In questo momento stiamo caricando le provviste e l’ equipaggiamento. Il nostro capitano della Guardia ha già scelto una dozzina di Cacciatori Elfi per accompagnarci.» «Allora siamo pronti» affermò Quentin, con vivacità. Il suo sorriso si allargò. «Non proprio.» Il Cavaliere del Wing Hove pareva riluttante e continuare, ma incapace di trovare una scusa per non farlo. Guardò il panorama circostante, ormai offuscato dalla notte, come se la spiegazione potesse venire da quel buio. «Ci sono ancora da prendere alcuni accordi sulle condizioni della nostra partenza, alcune piccole controversie da risolvere.» Panax aggrottò la fronte. «Che controversie possono esserci, Hunter Predd?» Il cavaliere alzò le spalle mostrando un’indifferenza eccessiva, pensò Bek.
«Per prima cosa» rispose l’elfo «Walker ritiene che i partecipanti alla spedizione siano troppi. Lo spazio e le scorte non sono sufficienti per tutti. Vuole ridurre il numero di tre o quattro.»
«Invece il nostro nuovo re» aggiunse lentamente Ard Patrinell «vuole aggiungere un altro partecipante.» «Quello che chiedi non è soltanto irragionevole, è impossibile» ripeté con pazienza Walker, messo in difficoltà dall’intransigenza di Kylen Elessedil, della quale pensava di conoscere le ragioni. «Trenta è il massimo che possiamo portare. La stazza della nave non ne permette di più. Anzi, devo già trovare il modo di ridurre il numero di coloro che partono.» «Riduci il numero a ventinove e ne prendi un altro» rispose il re degli Elfi, stringendosi nelle spalle. «Il problema è risolto.» Erano nello studio privato di Allardon Elessedil, quello in cui il re aveva studiato la mappa del naufrago, ma soprattutto quello dove parlava con persone con cui non voleva farsi vedere o di argomenti che non voleva discutere apertamente. Quando il re degli Elfi parlava in pubblico o voleva mostrare la sua autorità, teneva corte nella sala del trono o presso l’Alto Consiglio degli Elfi. Allardon Elessedil credeva nel protocollo e nel cerimoniale, e li aveva usati entrambi in maniera attenta e giudiziosa. Il figlio, a quanto pareva, intendeva fare lo stesso. Walker attribuiva un notevole valore alla buona educazione e alla deferenza, ma solo in privato e senza dimenticare che il vecchio re aveva imposto un obbligo al figlio prima di morire. Il nuovo re Kylen Elessedil sapeva quello che doveva fare per Kael e gli Elfi scomparsi con lui trent’anni prima: doveva organizzare una spedizione di ricerca comandata dal druido. Gli Elfi dovevano mettergli a disposizione fondi per procurarsi una nave e un equipaggio, fornirgli rifornimenti e attrezzatura e assegnargli una squadra di Cacciatori Elfi per difendere la nave. Erano gli ordini dati in punto di morte da un re, e il figlio non intendeva certo sconfessarli come primo atto del suo regno. Questo però non significava che considerasse una buona idea andare alla ricerca di una nave e un equipaggio svaniti da tanti anni, nonostante la comparsa del naufrago, del braccialetto degli Elessedil e della mappa. Kylen non era come suo padre, aveva un carattere completamente diverso. Mentre Allardon Elessedil era attento, cauto e privo di ambizioni, il figlio era temerario e risoluto a lasciare la propria impronta nella storia. Il passato aveva poca importanza per Kylen: gli importavano il presente, e ancora di più il futuro. Era un giovane appassionato, del tutto convinto che la Federazione doveva essere distrutta e i Liberi vincere. Per la sicurezza degli Elfi non si sarebbe accontentato di nulla di meno. Aveva passato i precedenti sei mesi in guerra, a bordo di una nave volante, sul fronte del Prekkendor, ed era tornato solo perché il padre era morto e lui era l’erede designato. Non aveva un particolare interesse per la corona, a parte il fatto che gli permetteva di aumentare gli sforzi per abbattere la Federazione. Preso dalla febbre di vincere i nemici, il suo unico desiderio sarebbe stato quello di rimanere al fronte, al comando dei suoi uomini. In breve, avrebbe preferito che il padre fosse rimasto vivo. Così, ora, ansioso di tornare al fronte, era infastidito dal ritardo comportato dalla sua incoronazione. Ma Walker sapeva che non sarebbe ripartito finché non fosse stato risolto il problema della ricerca di Kael Elessedil e, cosa ancora più importante, l’Alto Consiglio degli Elfi non avesse convalidato la successione. A quest’ultimo desiderio, come Walker cominciava a capire, si doveva la sua insistenza nell’includere il fratello minore tra i partecipanti alla spedizione.
Kylen Elessedil smise di camminare avanti e indietro e fissò il druido. «Ahren è quasi un uomo ormai. È stato addestrato da colui che ho scelto di persona per comandare i Cacciatori della spedizione. È stato mio padre a volere per mio fratello quell’addestramento, cinque anni fa. Forse ne prevedeva la necessità più di quanto sospettassimo noi due.»
«Se è per questo, forse pensava che l’addestramento dovesse continuare finché non fosse diventato adulto» rispose Walker con calma, senza distogliere lo sguardo. «Tuo fratello è troppo giovane e inesperto per un viaggio come questo. Gli manca l’esperienza necessaria per giustificare la sua inclusione. Per fargli posto occorrerà lasciare a terra uomini più utili di lui.» Il re degli Elfi rispose all’osservazione con un brontolio: «Non puoi dare questo giudizio. Ahren è forse meno esperto di quel mozzo che hai voluto includere? Bek Rowe? Che ha da offrirti? O intendi lasciare a terra anche lui?». Walker rimase impassibile. «Tuo padre ha affidato a me la decisione su chi portare. Ho scelto con attenzione, e ciascuna scelta ha i suoi motivi. Non parlavamo di Bek Rowe, ma di Ahren Elessedil.» Il re degli Elfi tacque per qualche istante. Andò alla finestra e guardò fuori, nella notte. «Non ho alcun dovere di appoggiarti in questa missione, druido. Non sono tenuto a rispettare le volontà di mio padre, se le giudico sbagliate o se decido che le circostanze sono cambiate. Non ti conviene ostacolarmi.» Fissò Walker, in attesa della sua risposta. «La posta in gioco è molto alta» rispose Walker. «Così alta che cercherei un altro modo per fare il viaggio con o senza il tuo appoggio. Ti ricordo che tuo padre è morto per questo.» «Mio padre è morto per colpa di questo!» «Tuo padre mi ha creduto, quando gli ho assicurato che gli Elfi potevano guadagnare moltissimo da questa spedizione.» «Sì, ma ti rifiuti di spiegarmi di che cosa si tratta!» «Solo perché io stesso non ne sono certo.» Walker si avvicinò alla scrivania del re e appoggiò le punte delle dita sulla superficie lucida. «Si tratta di una magia che può darci molte cose, ma io devo scoprire la forma che quella magia prenderà. Rifletti però su una cosa, re degli Elfi! Se è così importante da indurre la Strega di Ilse a uccidere tuo padre e tuo zio, e a cercare di uccidere me per fermare la spedizione a tutti i costi, non è abbastanza importante per te?» Il giovane re incrociò le braccia, sulla difensiva. «Forse il tuo interesse per questa spedizione ti porta a esagerare, druido. Forse le cose non sono importanti come vuoi farmi credere. Non penso che il futuro degli Elfi dell’Ovest sia legato a una magia della cui esistenza non siamo neppure certi, che sarà difficile da trovare, se esiste, e che magari, una volta recuperata, non risulterà neppure utile. Può darsi che cada in mano al nemico e venga usata dalla Federazione nella guerra che combattiamo contro di essa. Il nemico che posso vedere è una minaccia assai più riconoscibile di un pericolo che posso solo immaginare.» Walker scosse la testa. «Perché discutiamo? Ne abbiamo già parlato, e a ripetere gli stessi discorsi non c ’è nulla da guadagnare. Io intendo compiere questo viaggio. Tu hai deciso di adempiere i desideri di tuo padre per ciò che riguarda l’appoggio degli Elfi. Ora discutiamo se includere nella spedizione un giovane privo di esperienza. Devo dirti perché, secondo me, tu vuoi includerlo?» Kylen Elessedil non rispose, ma Walker cominciò ugualmente a parlare. «È tuo fratello minore e il primo in linea di successione al trono. Non siete fratelli materni, siete figli di madri diverse. Se tu fossi ucciso sul Prekkendor, Ahren sarebbe nominato reggente se non re. Tu vuoi
assicurare il trono ai tuoi figli, ma il maggiore ha solo dieci anni. Tuo fratello, se fosse presente, sarebbe nominato suo protettore. La cosa ti preoccupa. Per tutelare tuo figlio e farne l’erede designato, vuoi mandare tuo fratello con me in un viaggio che durerà mesi, forse anni. Questo lo elimina come possibile successore, re o reggente che sia. Lo
allontana come minaccia.» Aveva parlato con calma, senza malignità, senza toni d’accusa. Quando ebbe finito, Kylen Elessedil lo fissò a lungo, come per soppesare la propria risposta. «Sei davvero sfrontato a dirmi questo» commentò infine. Walker annuì. «Te l’ho detto solo perché voglio capire come la pensi. Se Ahren Elessedil deve venire con me, vorrei sapere perché.» Il giovane re sorrise. «Mio padre non ha mai avuto simpatia per te. Ti rispettava, ma non ti ha mai amato. Eri altrettanto sfrontato con lui?» «Anche di più, direi.» «Ma non ti è mai servito, vero? Non ha mai accettato di aiutarti nel tuo desiderio di costituire un Consiglio dei Druidi indipendente, con sede a Paranor. Lo so. Mi ha informato.» Walker attese che proseguisse. «Adesso rischi tutto opponendoti a me. Parte del tuo accordo con mio padre consisteva nel suo appoggio a un nuovo Consiglio dei Druidi, al tuo ritorno. Hai lavorato venticinque anni per ottenere questo. Adesso vorresti rinunciare a tutto?» Walker continuò ad attendere, silenzioso nei suoi abiti neri. Kylen Elessedil lo fissò ancora per un istante, poi comprese di non poter ottenere di più e concluse: «Ahren vi accompagnerà come mio rappresentante personale. Io non posso venire, perciò verrà lui al posto mio. Questa è una spedizione degli Elfi, e il suo scopo riguarda gli Elfi. La scomparsa di Kael Elessedil deve trovare spiegazione. Le Pietre Magiche, se si ritroveranno, devono tornare a noi. Ogni magia esistente dev’essere nostra. Tutte queste cose riguardano gli Elfi. Qualunque cosa succeda, dev’ essere presente un Elessedil. Ecco perché mio fratello verrà con voi, e l’argomento è chiuso». Era una decisione definitiva, e non ammetteva repliche. Walker vide che a discutere ancora non avrebbe ottenuto niente. Quali che fossero le sue idee e le sue preoccupazioni su Ahren Elessedil, il druido sapeva quando era il momento di fermarsi. «Va bene» disse, e cambiò argomento. Era passata mezzanotte quando Quentin destò Bek dal sonno che l’aveva colto un’ora prima. Senza altre parole da parte di Walker sul destino della spedizione e sui suoi membri, avevano lasciato i giardini ed erano stati condotti nelle loro camere da un’altra delle silenziose Guardie Reali. Panax russava in un’altra stanza, Ard Patrinell e Hunter Predd erano scomparsi. «Bek, sveglia!» disse Quentin, scuotendolo per una spalla. Il giovane, che doveva recuperare tutta la stanchezza del viaggio dal Wolfsktaag alla capitale degli Elfi, emerse dal sonno e aprì gli occhi. «Che succede?» «Hunter Predd è appena tornato dal palazzo, dove ha parlato con Walker.» Quentin aveva gli occhi brillanti e la voce eccitata. «L’ho sentito arrivare e sono andato a vedere cos’aveva saputo. Ha detto di salutarti, per ora. È andato sulla costa a prendere altri due Cavalieri del
Wing Hove. Ormai è stato tutto deciso. Tra due giorni noi partiamo, Bek!»
«Due giorni…» gli fece eco il cugino, non ancora del tutto sveglio. «Sì, ma non mi hai ascoltato bene. Ho detto “partiamo”, tu e io!» Quentin rise tutto contento. «Walker ci ha tenuti tutt’e due! Ha lasciato a terra tre guardie e ha portato un solo guaritore. Forse ha lasciato a terra qualcun altro, ma non ne sono a conoscenza. Comunque, ha tenuto noi ed è questo che conta. Partiamo, Bek!» Subito dopo, Quentin s’infilò nel letto e si addormentò così in fretta che Bek, adesso del tutto sveglio, non riuscì a cogliere alcun intervallo di tempo tra la veglia e il sonno del cugino. Sembrava inevitabile che dovesse partire. Anche quando Hunter Predd l’aveva avvertito che c’erano troppi candidati per il viaggio e che qualcuno sarebbe rimasto a terra, non gli era mai venuto in mente di poter essere uno di loro. Eppure sarebbe stato logico che così fosse. Era il più giovane e il meno esperto. Tutto considerato, il primo cui si poteva rinunciare. Ma l’insistenza del druido e gli incontri con il Re del fiume Argento e Truls Rohk l’avevano convinto che la scelta non era caduta su di lui per caso e che era inestricabilmente legata ai segreti del passato e al verificarsi di eventi che dovevano ancora accadere. Se Bek era lì, voleva dire che la sua presenza era necessaria e che la sua vita stava per cambiare per sempre. Era ciò che Quentin desiderava per entrambi. Ma Bek Rowe cominciava a chiedersi se ottenere la realizzazione dei propri desideri non costituisse un pericolo.
18 L’indomani mattina, al suo risveglio, Bek Rowe vide che il sole splendeva e il cielo era azzurro, ma di Quentin Leah nessuna traccia. Gli occorse un momento per orientarsi, si ricordò di essere ancora ad Arborlon e balzò fuori del letto per vestirsi. Controllò nelle stanze vicine e notò che mancava anche Panax. Quando guardò fuori della finestra, vide che il sole era già alto: evidentemente aveva dormito più del previsto. Sul tavolino dell’anticamera c’erano cereali, formaggio e latte, e il giovane li ingurgitò a tutta velocità prima di uscire di corsa alla ricerca degli amici. Correva così veloce che andò a sbattere contro la figura incappucciata che stava arrivando. «Walker!» esclamò, sorpreso e imbarazzato, e balzò indietro in fretta. «Buongiorno, Bek Rowe» disse il druido, con un lieve sorriso all’angolo della bocca. «Dormito bene?» «Fin troppo» rispose Bek, con aria colpevole. «Mi dispiace, non intendevo essere un tale dormiglione…» «Ti prego, giovane viaggiatore, non essere così ansioso di scusarti.» Walker ridacchiava, adesso. Gli posò la mano sulla spalla. «Non ti sei perso niente, e non c’era niente che ti obbligasse ad alzarti. Hai fatto bene a dormire. Da casa vostra a Depo Bent e di lì ad Arborlon è stato un lungo viaggio. Preferisco che siate riposati, quando partiremo.» Bek sospirò. «Quando ho visto che Quentin e Panax si erano già alzati, ho pensato di avere dormito troppo.» Walker scosse la testa. «Ho incontrato l’Highlander mentre venivo qui. Si era appena alzato. Panax si era svegliato qualche minuto prima, ma non dorme mai molto. Non pensarci. Hai mangiato?»
Bek annuì. «Allora sei pronto per andare nel campo di volo e darti un’occhiata attorno. Vieni con me.»
Lasciarono le camere da letto e attraversarono i giardini del palazzo, allontanandosi dalla città per dirigersi verso il Carolan. Per strada incontrarono molti Cacciatori Elfi e molte Guardie Reali, ma pochi cittadini. Nessuno prestò loro attenzione. Quella zona era più tranquilla del centro della città: pareva poco frequentata da chi abitava e lavorava altrove. Giunti dietro i Giardini della Vita, il druido e il giovane oltrepassarono una coppia di armati della Guardia Nera che sorvegliavano un’entrata. I due erano immobili, parevano di pietra, e giganteggiavano su di loro nelle eleganti uniformi nere e negli alti cappelli, privi di decorazioni a parte l’orlo rosso. I giardini erano pieni di uccelli che volavano e cantavano, di farfalle colorate quanto i fiori su cui si posavano, ma le due guardie sembravano statue. Nel centro di quei giardini c’era il leggendario Ellcrys. Perfino Bek, che aveva viaggiato poco, ne conosceva la storia. L’Ellcrys era un albero magico e costituiva una Proibizione che impediva l’accesso ai Demoni, imprigionati e allontanati all’epoca di Faerie, millenni addietro, all’inizio della vita. In origine l’ Ellcrys era un’elfa dell’Ordine delle Prescelte ed era stata trasformata in albero a causa della sua esposizione al Fuoco di Sangue. Finché fosse rimasta forte e sana nel suo nuovo stato, la sua magia sarebbe riuscita a mantenere operante la Proibizione. Il giorno in cui si fosse indebolita, come prima o poi doveva succedere, un’altra Prescelta avrebbe preso il suo posto. Il bisogno di sostitute non si presentava spesso perché l’Ellcrys viveva mediamente un migliaio di anni, ma l’Ordine delle Prescelte era sempre pronto alla sostituzione. Una volta erano state uccise quasi tutte dai Demoni sfuggiti da una Proibizione troppo debole. Una sola era sopravvissuta, la giovane Amberle Elessedil, e si era sacrificata per divenire l’attuale Ellcrys. Bek ricordò che quella storia gli era stata raccontata da Coran quando era ancora molto piccolo. Il padre adottivo gli aveva narrato molte storie degli Elfi dell’Ovest e a Bek era sempre sembrato che il loro passato fosse più interessante e variegato di quello delle altre razze, anche se non li aveva mai conosciuti. Ora, nel vedere i Giardini della Vita e dopo avere attraversato la valle di Rhenn ed essere giunto ad Arborlon, ne aveva la prova. Ogni parte di quel territorio irradiava un’aura di magia e di incantesimo, e le storie che gli aveva raccontato Coran gli sembravano vive e reali. Forse, si disse, partire per quel viaggio non era stata una cattiva idea, ma questo non l’avrebbe mai ammesso con Quentin. «Truls Rohk è arrivato?» chiese a un tratto a Walker. Il druido non lo guardò. «Gli avete chiesto di venire?» «Certo» rispose Bek. «E lui ha detto che veniva?» «Sì.» «Allora è qui.» Walker pareva disposto a credere alla parola del cambiatore di forma, perciò Bek lasciò cadere l’ argomento. Del resto, non era affar suo. Il prossimo incontro con Truls Rohk poteva aspettare. Walker era già passato ad altro e parlava dei suoi piani per la partenza dell’indomani, della nave da rifornire e armare, dell’equipaggio e dei passeggeri, e diceva che tutto era pronto
per il viaggio. Pareva sicuro di sé e tranquillo, mentre esponeva i preparativi, ma quando Bek lo guardò con la coda dell’ occhio gli scorse nello sguardo un’espressione distante, come se i suoi pensieri fossero altrove.
Dopo essersi allontanati dalla città, dai Giardini della Vita e dal Carolan, si avviarono lungo una strada piena di traffico che attraversava i boschi e proseguiva a sud, fino a un’alta parete di roccia. Bek sentì il rumore da lontano poi, quando uscirono dagli alberi, vide il campo di volo e una decina di navi degli Elfi. Non aveva mai visto le navi volanti così da vicino. Di tanto in tanto ne aveva scorto qualcuna che sorvolava le Highlands, ma anche quando erano a terra era impossibile confonderle con qualcosa d’altro. Si libravano immobili al disopra del terreno, cullate dall’aria su cui galleggiavano, legate come uccelli prigionieri ai loro ormeggi. Viste da terra, sembravano assai più grosse, soprattutto dal punto dove si trovava Bek. Si scorgevano vasti ponti, a uno o più livelli, fissati su pontoni equipaggiati e armati con posti di combattimento. Su alcune navi le cabine e la timoniera erano a prua; su altre erano al centro della nave; sotto i ponti si scorgevano vari tipi di alloggi e di stive. Gli alberi si alzavano sullo sfondo del cielo, in numero da uno a tre. «Ecco la nostra nave» annunciò Walker a bassa voce, in tono distaccato. Anche senza che il druido glielo dicesse, Bek capì subito di quale si trattava. Era così diversa dalle altre da richiamare l’attenzione. Il profilo era basso e affusolato, e sebbene non apparisse meno formidabile delle altre come nave da combattimento, dava un’impressione di velocità e manovrabilità che mancava alle navi vicine. I due alberi gemelli affiancati, con i pennoni fitti a pettine, e le cabine retrocesse in fondo al ponte le davano un’aria più aerodinamica. La cabina del pilota, soprelevata sulla tolda, era al centro del ponte, fra i due alberi. Nei pontoni, che servivano anche da arieti da sfondamento e per questo terminavano con rostri minacciosamente rivolti verso l’alto, erano ricavate varie serie di posti di combattimento. Altre erano state costruite sul ponte, dietro i parapetti, che a loro volta erano inclinati verso l’interno per fornire una maggiore protezione dagli attacchi. Anche da ferma, la nave aveva un’aria bellicosa: immaginandola in volo, Bek sentì un brivido. Sui ponti si vedevano molti uomini, alcuni erano occupati con le corde per tendere le vele, altri portavano provviste o equipaggiamento. Quella mattina la nave era il fulcro dell’attività del campo, ed era evidente che il lavoro su di essa era iniziato ben prima dell’alba. «Aspetta qui, ti manderò qualcuno che ti troverà qualcosa da fare» disse all’improvviso Walker. Poi, senza attendere la risposta, si allontanò. Bek continuò a guardare la forma scura della nave aerea, e cercò senza successo di immaginare cosa si provasse a volare su di essa, a considerare quello strano vascello come una casa. Sapeva che un viaggio come il loro sarebbe durato settimane, forse mesi. Per tutto quel tempo sarebbero vissuti sulla nave senza toccare terra se non occasionalmente. Trenta persone, confinate in un piccolo guscio di legno e acciaio in costante movimento, alla deriva sul mondo. Era una prospettiva inquietante. «Bella ragazza, vero?» disse qualcuno accanto a lui. Bek si girò e vide un uomo alto, dai lunghi capelli rossi e gli occhi verdi, vestito con una bizzarra combinazione di sciarpe variopinte e lucido cuoio nero. «Altroché» rispose il giovane. «Tu devi essere Bek Rowe» disse l’uomo con un sorriso. Il modo di fare aperto era amichevole e disarmante. Vedendo il suo cenno d’assenso, l’uomo dai capelli rossi continuò: «Sono il comandante di questa bella signora. Redden Alt Mer». Tese la mano a Bek, il quale
gliela strinse. «Tu sarai il mio mozzo di cabina. Puoi chiamarmi signore o comandante. Oppure Big Red, come fanno tutti. Hai già navigato?» Il giovane scosse la testa. «Non proprio. Una volta o due sul lago Arcobaleno e qualche volta sui fiumi delle Highlands.»
L’uomo rise. «Per le Ombre! Mi hanno dato un mozzo che patisce il mal di mare! Nessuna esperienza del mare aperto o del cielo aperto? Cosa devo fare con te?» Bek fece una smorfia. «Sperare per il meglio?» «No, non possiamo affidarci alla speranza che te la cavi.» Tornò a sorridere. «Impari in fretta?» «Credo di sì.» «Bene, ci sarà utile. Ho solo questa mattina per insegnarti quello che posso prima della partenza, perciò dobbiamo cercare di approfittarne. Conosci le navi volanti, vero?» «Un poco.» Bek cominciava a sentirsi sciocco e lento di comprendonio, ma l’uomo alto non era né sgarbato né minaccioso. «Quando avrò finito, saprai tutto.» S’interruppe. «Per cominciare, un avvertimento, Bek. Io sono un corsaro, perciò devi tenere presenti due cose. Prima cosa: quello che ho dimenticato a proposito delle navi supera di gran lunga quello che gli altri riuscirebbero mai a imparare, e con l’equipaggio di Corsari che ho scelto, posso portare la nave in salvo in qualsiasi circostanza. Perciò non devi mai mettere in discussione le mie parole, né dubitare di me. Seconda cosa: non parlare mai male dei Corsari, neppure se pensi che non posso sentirti.» Attese la risposta, e Bek rispose: «No, signore». «Bene. Adesso veniamo alla parte più importante da ricordare.» Il viso del corsaro divenne serio, quasi assorto. «Il druido è a capo della spedizione, perciò sono tenuto a rispettare i suoi ordini, tranne i casi che coinvolgono la sicurezza della nave e dell’equipaggio. Mi ha ordinato di prenderti come mozzo di cabina. Benissimo. Ma noi due dobbiamo capirci. Lui vuole che tu gli faccia da occhi e orecchi a bordo. Vuole che tu sorvegli tutto e tutti, me incluso. A me sta bene. Sono convinto che tu possa farlo, e anche bene. Ma non credere che non sappia il motivo per cui sei qui realmente. D’accordo?» Bek arrossì. «Non sono una spia.» «Ho detto che lo sei? Ti ho fatto pensare che sei qualcosa del genere?» Il corsaro scosse la testa in segno di disapprovazione. «I ragazzi svegli tengono gli orecchie e gli occhi aperti in ogni caso. Non ho mai rimproverato nessuno perché lo faceva. Ho accennato alla cosa solo per farti capire che anche se il druido si crede più astuto degli altri, io lo sono almeno quanto lui. Non vorrei che tu pensassi al tuo comandante come a uno sciocco.» «Neanch’io» rispose Bek. «Bravo!» Redden Alt Mer pareva compiaciuto. «Adesso lasciamo perdere e cominciamo la lezione. Seguimi.» Portò Bek alla nave e lo fece salire sul ponte con la scala di corda. Poi cominciò a spiegargli nei particolari il funzionamento della nave. Le vele erano chiamate “vele-luce”. Raccoglievano la luce di qualsiasi tipo, sia diretta, sia ambientale, sia naturale, sia artificiale, per convertirla in energia. La luce poteva essere prelevata da qualsiasi sorgente, di giorno come di notte. La luce diretta era migliore, ma a volte non ce n’era e allora la luce ambientale era della massima importanza per la sopravvivenza della nave. L’energia luminosa raccolta dalle vele era convogliata, attraverso i tubi radianti, alle valvole di Parse, dei contenitori nei quali si trovavano i cristalli di diapso. I cristalli, quando venivano opportunamente preparati dai tecnici, convertivano l’energia luminosa in energia
cinetica che muoveva la nave. Coprendo in misura maggiore o minore i cristalli, si determinava l’intensità e la direzione della spinta
della nave. Quando ebbe finito di spiegare, Redden Alt Mer si fece ripetere tutto da Bek, parola per parola. Incuriosito dal processo e desideroso di sapere tutto sul modo in cui funzionava, il ragazzo ripeté ogni cosa senza errori. Il corsaro ne fu compiaciuto. Comprendere i principi del volo aereo era essenziale per imparare a pilotare le navi. Ma occorrevano anni per diventare un buon pilota, cosa che i militari della Federazione non erano ancora riusciti a capire. Coprire e scoprire i cristalli, assecondare le correnti d’aria, evitare i vuoti d’aria e le perdite di luce erano tutte manovre difficili da padroneggiare, che in un attimo potevano cambiare la spinta e il sostentamento di una nave. Senza ombra di vanità nella voce, Redden Alt Mer disse al ragazzo che i Corsari erano i piloti migliori perché erano abituati alla vita libera, perciò si adattavano al volo e lo capivano meglio degli altri uomini. «O donne» puntualizzò una giovane alta, dai capelli rossi, che poteva essere la sua gemella. Si affiancò a loro. Redden Alt Mer cercò di salvarsi dalla brutta figura presentando la sorella, Rue Meridian, come il miglior pilota che avesse mai conosciuto e il combattente migliore di qualsiasi uomo con cui avesse volato. Con il suo aspetto vistoso e i capelli rosso fiamma, l’atteggiamento pratico e sicuro di sé, la risata pronta e gli occhi sorridenti, la donna fece sentire Bek timido e goffo, ma anche lieto e soddisfatto. Non lo punzecchiò come aveva fatto il fratello e non espresse perplessità sulla sua presenza. Semplicemente, gli disse che era contenta di averlo a bordo. Ma sotto la facciata sorridente il giovane colse un nucleo d’ acciaio, qualcosa che era meglio non stuzzicare. La donna chiacchierò con loro per alcuni minuti, poi si congedò per andare a controllare il carico della nave. Quando si allontanò, lasciò in Bek un vuoto tangibile e sorprendente. Con Redden Alt Mer come guida, esaminarono la nave aerea da cima a fondo, e a mano a mano che passavano davanti alle varie parti della nave, il corsaro gli spiegava a cosa servivano. Terminata la spiegazione, ogni volta impose a Bek di ripetere le sue parole e ogni volta parve soddisfatto. Big Red mostrò al ragazzo la cabina di pilotaggio e tutti i cavi che correvano fino ai tubi e alle valvole, ai timoni e alle vele. In genere era l’equipaggio a compiere quelle manovre manualmente, ma in emergenza tutto poteva essere controllato dal pilota. Per l’atterraggio c’erano ancore e cavi d’ormeggio; c’erano poi armi di tutti i tipi, alcune manuali, altre fissate al parapetto e al ponte. Il corsaro portò Bek anche nelle cabine dell’equipaggio e nelle stive. Lo fece salire sui pennoni degli alberi per mostrargli come le vele erano fissate ai tubi, poi lo condusse accanto alle valvole per mostrargli il fissaggio dei cristalli. Gli fornì spiegazioni brevi, ma esaurienti. Voleva che il ragazzo capisse, e Bek era ansioso di assecondarlo. C’era solo una cosa della nave che il corsaro evitava con cura: una grossa cassa rettangolare appoggiata in piedi all’albero di prua, davanti alla cabina del pilota. Era coperta da un telone nero e legata all’albero con una strana corda rivestita di metallo. Le passarono vicino più volte, e la terza o quarta volta Bek non riuscì più a trattenersi. «Comandante, cosa c’è in quella cassa?» chiese, indicandola. Il corsaro si grattò la testa. «Non lo so. Appartiene al druido. L’ha portata a bordo l’altro ieri, nel cuore della notte, e quando l’ho vista mi ha detto che era necessario averla con noi, ma non
poteva dirmi cos’ era.» Bek la fissò. «Qualcuno ha cercato di vedere cosa c’è sotto il telone?»
Il corsaro sorrise. «Un ragazzo che la pensa come me! Accidenti, Bek Rowe, sei una meraviglia! Certo che abbiamo tentato! E non solo io.» S’interruppe, teatralmente. «Vuoi sapere cos’è successo?» Bek annuì. «Prova tu stesso.» Il giovane esitò. Tutt’a un tratto, la voglia gli era passata. «Fa’ pure, non ti succederà niente» lo incitò l’altro. Bek allungò la mano verso il telone, ma quando fu a una spanna di distanza, lungo tutte le corde cominciarono a saettare lingue di fuoco verde, che saltavano da un tratto di corda all’altro, come una rete di serpenti vivi. Il giovane tirò indietro di scatto la mano. Redden Alt Mer scoppiò a ridere. «Anche noi abbiamo fatto come te. Con la magia dei Druidi non c’è da scherzare.» Il corsaro continuò la lezione come se niente fosse. Dopo essere stato a bordo per un certo tempo, esauritasi l’eccitazione iniziale, Bek cominciò a notare un movimento della nave che in precedenza gli era sfuggito: una leggera ondulazione, degli strattoni alle corde d’ancoraggio. Non c’era vento, la giornata era calma e immobile e quel movimento pareva immotivato. Quando infine Bek ne chiese la ragione, Redden Alt Mer gli spiegò che era la risposta naturale delle navi ben progettate all’assorbimento di luce da parte delle vele. L’energia convertita la faceva galleggiare, e solo i cavi d’ancoraggio le impedivano di allontanarsi alla deriva, perché la sua inclinazione naturale era quella di prendere il volo. Il corsaro ammise di avere volato per tanti anni che ormai non notava più quel movimento. A Bek la nave diede l’impressione di essere viva, di avere una sua esistenza indipendente da quella degli uomini che volavano su di essa. Era una strana sensazione, ma più stava a bordo, più forte la sentiva. La nave si muoveva come un grande gatto che si desti lentamente, pigro e senza fretta, preparandosi a tornare in azione. Il movimento s’irradiava attraverso le assi del ponte fino ai suoi piedi e dentro il corpo, dandogli l’impressione di navigare su un mare liscio e immobile. Redden Alt Mer terminò la lezione a mezzogiorno e lo mandò a fare l’inventario con un corsaro di poche parole, Furl Hawken. Questi, che tutti chiamavano “Hawk”, lo degnò a malapena di un’occhiata, ma si comportò in modo abbastanza amichevole e si complimentò con lui per la rapidità con cui capiva le sue istruzioni. Una volta o due passò da loro Rue Meridian e ogni volta Bek rimase come paralizzato. «Fa quell’effetto a tutti» osservò Furl Hawken con un sorriso, quando vide la sua faccia. «Little Red ti spezza il cuore con un’occhiata. Fatica sprecata, però, con lei.» Bek avrebbe voluto sapere cosa intendeva dire, ma era troppo imbarazzato per continuare quel discorso. Alla fine della giornata, Bek aveva imparato gran parte di quello che c’era da sapere sul funzionamento della nave, sulle componenti che la muovevano, sulla natura dei rifornimenti e delle armi che trasportava. Aveva conosciuto gran parte dell’equipaggio, compreso il costruttore della nave, uno spaventoso corsaro di nome Spanner Frew, che urlava a tutti e pareva intenzionato a spaccare la testa a chiunque osasse contraddirlo. Accolse Bek con un brontolio
e poi lo ignorò. Bek preferì così. Si stava allontanando dal campo di volo, con il sole già basso alle spalle, quando il cugino lo raggiunse. «Sei salito sulla nave?» gli chiese Quentin con interesse, affiancandosi a lui. Aveva i vestiti tutti impolverati e macchiati di sudore. Era spettinato, con le braccia coperte di lividi.
«Non sono sceso dalla nave neppure un attimo» rispose Bek, e rivolse al cugino un mezzo sorriso. «Tu che cos’hai fatto, la lotta con un orso?» Quentin rise. «No. Walker mi ha ordinato di addestrarmi con i Cacciatori Elfi, e Patrinell ha lavorato con me tutto il giorno. Mi ha gettato a terra tante volte e mi ha colpito in tanti modi diversi da farmi capire una cosa sola: che non so nulla.» Indicò la spada che aveva sulla schiena. «Quest’arma non è quello che si dice, Bek.» Il cugino rise. «Probabilmente vale quanto colui che la impugna, Quentin. Comunque, devi ritenerti fortunato. Io ho passato tutta la giornata a capire che non so nulla di navi e di volo. Scommetto che la mia ignoranza del volo supera la tua della scherma.» Ridendo, Quentin gli diede uno spintone, e continuarono a scherzare per tutta la strada fino al palazzo, mentre il sole calava dietro le montagne e il crepuscolo oscurava la terra. Con il tramonto, sulla città scese il silenzio, mentre la gente tornava a casa e l’attività si fermava. Nei boschi attraversati dai cugini, vicino ai parchi e al palazzo, gli unici suoni erano le voci che giungevano da qualche abitazione. Erano quasi arrivati al sentiero che portava alle loro camere, quando Bek chiese tranquillamente: «Quentin, secondo te, qual è la vera ragione per cui siamo qui?». Il cugino si fermò e lo guardò senza comprendere. «Che cosa intendi dire?» Bek sospirò. «Rifletti. Perché siamo qui? Perché noi, con tutti quelli che Walker ha scelto?» «Perché Walker ritiene…» «So benissimo quello che Walker ci ha detto» lo interruppe Bek, con impazienza. «Ci ha detto che voleva due ragazzi svegli con cui discutere. Ci ha detto che tu gli servivi per la spada magica e io perché ho gli occhi acuti o qualcosa di simile. So cos’ha detto e ho cercato di credere alle sue parole da quando siamo partiti. Ma non ci riesco. Non ci credo.» Quentin annuì, imperturbabile. A volte, a Bek veniva voglia di strangolarlo. «Mi ascolti?» chiese irritato. Il cugino annuì di nuovo. «Certo. Tu non credi a Walker. Perché?» «Perché quello che dice non è plausibile.» Per sottolineare le parole, allargò le mani. «Tutti coloro che sono stati scelti per questa spedizione hanno anni di esperienza come esploratori e combattenti, sono stati in tutti gli angoli delle Quattro Terre e sanno come affrontare ogni sorta di pericoli. Invece noi cosa sappiamo? Niente. Perché prendere due nullità prive di esperienza come noi?» «Ha preso anche Ahren Elessedil» replicò Quentin. «E che mi dici della veggente, Ryer Ord Star? Non mi sembra molto robusta.» Bek gesticolò con impazienza. «Non parlo della sola forza. Parlo di abilità, esperienza, talento. Parlo di decisione! E noi ne abbiamo? Abbiamo passato la giornata ad addestrarci, per gli spiriti! Hai visto qualcun altro che si addestrava per questo viaggio? Sei davvero il solo cui Walker poteva rivolgersi per aiutarlo con la magia? Ci sei solo tu, in tutte le Quattro Terre? Dopo aver visto quello che è successo nel Wolfsktaag, quanto credi di poterlo aiutare ora come ora? Sii
onesto!» Quentin tacque per un istante. «Non molto» ammise infine, e per la prima volta gli comparve nella voce una sfumatura di dubbio.
«E io?» continuò Bek, con ira. «Sono l’unico paio d’occhi acuti cui può rivolgersi? Sono davvero così utile da indurlo a lasciare a terra vari Cacciatori Elfi con anni d’esperienza e perfino un abile guaritore? Siamo così meravigliosi, noi due, che non può permettersi di lasciarci a casa, pur avendo poco spazio a disposizione?» Si fissarono senza parlare, nell’oscurità crescente della sera. Da qualche casa delle vicinanze giunse una voce che chiamava un nome e si sentì sbattere una porta. Quentin scosse la testa. «Che intendi dire, Bek?» chiese. «Che non dovremmo partire? Che dovremmo rinunciare alla spedizione?» Stranamente, non era quella l’intenzione di Bek. Forse era la conclusione logica del suo ragionamento, forse era quello che un altro avrebbe fatto, tuttavia Bek Rowe era deciso a compiere il viaggio. Voleva partire quanto il cugino. Forse i suoi dubbi avevano a che fare con i segreti scoperti da quando Walker era comparso nelle Highlands, segreti che riguardavano l’identità di suo padre e le sue origini, il Re del fiume Argento e la pietra di fenice, Truls Rohk e il suo misterioso avvertimento di non fidarsi di nessuno. Forse era troppo ostinato per abbandonare l’impresa quando tante persone l’avrebbero giudicato male. Forse era convinto di dover compiere quel viaggio, nonostante le paure e i dubbi, perché avrebbe cambiato l’intero corso della sua vita. La ragione gli suggeriva di dire a Quentin: “Sì, dovremmo rinunciare e tornare a casa”. Ma si affrettò a metterla a tacere. «Intendo dire che non dobbiamo prendere per oro colato quello che Walker ci dice. I Druidi hanno i loro segreti e usano per i loro scopi le persone normali, come me e te. Sono abituati così. Hanno fama di ingannare la gente sui loro veri scopi, Quentin. Noi non conosciamo Walker. Non sappiamo cosa realmente desidera da noi. Penso che dovremmo stare molto attenti. Penso che…» Non trovò altre parole, e si limitò a fissare il cugino. «Pensi che dovremmo badare l’uno all’altro» terminò Quentin, con un cenno d’assenso. «L’abbiamo sempre fatto, non ti pare?» Bek sospirò. «Forse dobbiamo farlo ancora di più. E quando una cosa ci sembra poco chiara, come quella che ti ho detto, dobbiamo parlarne. Altrimenti, chi penserà a noi?» «Nessuno, probabilmente.» «Già.» Quentin lo guardò ancora per qualche istante, senza parlare, poi sorrise. «Sai una cosa, Bek? Se tu non avessi accettato di partire, non sarei partito neanch’io.» Bek lo guardò stupito. «Davvero?» Quentin annuì. «Per quello che hai detto. Non ci sono altre persone di cui mi fidi per guardarmi le spalle o discutere. Solo tu. Tu credi che io ti consideri un noioso fratello minore che porto con me perché sono obbligato a farlo, ma non è vero. Mi piace averti con me. Sono più alto e robusto di te, e in certi campi sono più bravo, ma tu hai un genio che io non ho nel capire le cose. Tu arrivi a verità che io non riesco a vedere, scopri cose che io non noto.» Fece una pausa e riprese: «Intendo dire che penso a noi due come uguali, e non solo come
fratelli. Io
faccio molta attenzione a come tu affronti le cose, che tu te ne accorga o no. Ed è sempre stato così. Non prenderò per buone le parole di nessuno senza prima averne discusso con te. Non devi chiedermi di farlo, lo farò lo stesso». Bek si sentì uno sciocco. «Avevo solo bisogno di dire a voce alta delle cose che pensavo.» Quentin sorrise. «E allora? Forse io avevo bisogno di sentirtele dire, e adesso è fatta. Andiamo a mangiare.» Raggiunsero i quartieri loro assegnati e per il resto della sera, finché non si addormentò, Bek pensò a quanto era affezionato a Quentin, come fratello, amico, confidente: più affezionato a lui che a qualsiasi altra persona. Per tutta la vita avevano condiviso le loro esperienze, e non riusciva a immaginare un altro modo di vivere. Rivolse a se stesso una promessa di un genere che non si rivolgeva da quando era piccolo e piena di un tipo di decisione che con il passare del tempo si era via via affievolita. Non sapeva cos’avrebbero incontrato nei prossimi giorni, lui e Quentin, ma si ripromise di aiutare il cugino, a qualunque costo.
19 L’alba irruppe con una vampata d’oro fra cielo e terra all’orizzonte e il campo di volo a sud di Arborlon cominciò a riempirsi di Elfi venuti ad assistere alla partenza della spedizione. Giunsero a migliaia, affollando le strade e i sentieri della foresta, fino a riempire di visi eccitati e impazienti tutto lo spazio tra il campo e la scarpata. Organizzato per unità e compagnie, un grosso contingente dell’esercito degli Elfi era già schierato attorno al campo, Cacciatori Elfi nell’uniforme verde pallido e Guardie Reali in verde smeraldo, Guardie Nere immobili e impassibili al pari degli alberi. Nel cielo, le navi che si erano già levate in volo giravano in cerchio come fantasmi, mosse dalla leggera brezza del mattino. Al centro del campo, solitaria e orgogliosa, c’era solo la nave della spedizione, con le vele spiegate, che strattonava i cavi d’ormeggio e pareva ansiosa di staccarsi da terra. Affiancato da Quentin e Panax, Bek Rowe era a poppa e osservava il campo riempirsi sotto di lui. Lungo il parapetto erano raccolti i Corsari che dovevano manovrare la nave, Cacciatori Elfi che dovevano difenderla e i pochi altri membri della spedizione scelti da Walker. Il druido era con Redden Alt Mer nella cabina del pilota, parlava adagio e lanciava occhiate in tutte le direzioni, la mano infilata nella veste nera. Ahren Elessedil se ne stava tutto solo accanto all’albero di prua, isolato dagli altri. Era un elfo minuto e di bassa statura, con lineamenti da adolescente e atteggiamento tranquillo. Mentre suo fratello Kylen era biondo di capelli e chiaro di pelle, come gli Elessedil, Ahren aveva la pelle olivastra e i capelli castani, come la grande regina Wren. Era salito a bordo con gli altri Elfi, ma si era separato da loro e da quel momento era rimasto appartato. Bek era dispiaciuto per lui. Il principe si trovava in una posizione difficile. Ufficialmente rappresentava la famiglia Elessedil e la corona, ma tutti sapevano che Walker era stato costretto a includerlo perché gliel’ aveva imposto Kylen. Correva voce che il nuovo re degli Elfi volesse toglierselo di torno. Con lui c’erano tutti, meno Truls Rohk. Del cambiatore di forma, nessuna traccia. Uno squillo di tromba richiamò lo sguardo di Bek verso il punto dove la folla si apriva per
lasciar passare il re degli Elfi e il suo seguito. Per prima comparve una lunga fila di Guardie Reali a cavallo, accompagnata da portastendardi con le insegne di tutti i re precedenti: stemmi personali ricamati su sfondi di tutti i colori. Quando furono nel campo ed ebbero preso posizione davanti alla nave, le trombe squillarono una seconda volta, poi tacquero. La folla fece silenzio e Kylen Elessedil sollevò le mani in
segno di saluto. «Cittadini di Arborlon! Amici Elfi!» La sua forte voce giungeva senza difficoltà in tutti gli angoli del campo. «Siamo qui per essere testimoni di un evento che segnerà la nostra epoca! Un gruppo di uomini e donne di grande coraggio partirà oggi, per nostro incarico e per il bene di tutti gli uomini liberi. Veleggeranno nei cieli del mondo alla ricerca di verità che ci sono sfuggite negli scorsi trent’anni. Nel loro viaggio tenteranno di scoprire il destino della spedizione organizzata dal fratello di mio padre, disperso trent’anni fa, delle navi e degli uomini partiti allora, e delle Pietre Magiche che avevano con loro e che fanno parte dell’eredità della nostra razza. Con questo viaggio, cercheranno tesori e magie che sono nostre di diritto, e che potranno essere usate da coloro cui sono destinate… tutti gli Elfi!» Dalla folla si levò un applauso, che divenne un ruggito. Bek guardò le persone che aveva vicino, ma non scorse alcuna espressione particolare, tranne un’aria vagamente divertita sulla faccia di Quentin, che però guizzò come una fiammella al vento e scomparve subito. «Mio fratello Ahren guida la spedizione per conto della mia famiglia e della nostra gente» proseguì Kylen, quando l’applauso si spense. «Dobbiamo complimentarci con lui per il suo coraggio e per il suo senso del dovere. Con lui partono alcuni dei nostri più coraggiosi Cacciatori Elfi, il nostro buon amico dei Druidi di Paranor, Walker, un gruppo di abili Corsari che condurranno la nave, e un pugno di altre persone scelte, provenienti da tutte le Quattro Terre, che contribuiranno con il loro talento e la loro esperienza a questo importantissimo tentativo. Salutateli tutti, amici! Mostrate loro la vostra riconoscenza!» Di nuovo si levò il ruggito, le bandiere ondeggiarono, l’aria si riempì di suoni e di colori, e lo stesso Bek, nonostante il cinismo, sentì una vampata di orgoglio. Kylen Elessedil alzò di nuovo le mani. «Nelle scorse settimane abbiamo perso un re molto capace e molto amato. Codardia e tradimento hanno tolto a tutti noi mio padre, Allardon Elessedil. È stato suo desiderio in punto di morte che questa spedizione partisse, e io sarei un ben misero figlio e suddito se non onorassi la sua volontà. Questi uomini e queste donne» indicò dietro di sé, verso la nave «condividono il mio desiderio. Tutto il possibile è stato fatto per assicurare loro il successo e un rapido ritorno. Li accompagnino i nostri auguri ora, nel momento della partenza, e il nostro pensiero dopo, finché non saranno felicemente tornati!» Astuto, pensò Bek, attribuire tutta la colpa al vecchio re, ormai morto e sepolto. Kylen aveva già imparato qualcosa della politica. Se la spedizione non fosse tornata, la colpa sarebbe stata di un altro. Se avesse avuto successo, il nuovo re avrebbe fatto in fretta a intascarne i meriti. Bek guardò Quentin e scosse la testa, il cugino si strinse nelle spalle e sogghignò. La folla applaudiva di nuovo e intanto un membro dell’Alto Consiglio degli Elfi porgeva al re una bottiglia verde, lunga e sottile. Il re la prese, fece voltare lo stallone e si portò sotto la prua della nave. Sollevando di nuovo le mani, tornò a girarsi verso la folla. «Perciò, come re degli Elfi di Terra e come sovrano delle Terre dell’Ovest, auguro un buon viaggio e il migliore successo a questa coraggiosa compagnia, e do alla nave l’amato e riverito nome di uno dei nostri. Questa nave si chiamerà Jerle Shannara!» Si voltò verso la nave, si alzò sulle staffe e scagliò la bottiglia contro uno dei rostri ricoperto di metallo.
Il vetro si spezzò in uno spruzzo di liquido chiaro e l’aria si riempì di cristalli argento e oro, poi di arcobaleni colorati, che schizzarono nel cielo per una decina di iarde e ricaddero su tutti coloro che stavano vicino al re, coprendoli di una fine nebbia cristallina.
Bek, il quale aveva sollevato meccanicamente il braccio per ripararsi la faccia, guardò la manica e vi scorse una polvere lucente; quando cercò di ripulirsi, la vide evaporare senza lasciare tracce. La folla proruppe in un nuovo applauso: «Lunga vita allaJerle Shannara!» e: «Lunga vita a Kylen Elessedil!». L’applauso continuò a lungo, innalzandosi al disopra della scarpata e andando a perdersi nelle foreste lontane, portato dal vento. Le trombe ripresero a suonare e si levò il rullo dei tamburi, mentre le bandiere dei passati re degli Elfi sventolavano. Gli uomini sciolsero i cavi che tenevano ancorata laJerle Shannara e la lunga nave scura decollò subito, volse la poppa al sole e si avviò in direzione ovest, acquistando subito velocità. La radura e la folla svanirono nella foschia del mattino, gli applausi e le grida si affievolirono e Arborlon e gli Elfi si allontanarono. Il primo giorno trascorse in fretta per Bek, anche se non quanto avrebbe voluto. Iniziò abbastanza bene. Redden Alt Mer lo portò nella cabina del pilota perché gli stesse vicino mentre eseguiva una serie di prove di volo, facendo compiere allaJerle Shannaravarie manovre che servivano a controllare i tempi di reazione della nave. A un certo punto il corsaro gli affidò per qualche istante i comandi, insegnandogli come manovrare il timone e i vari cavi. Bek gli ripeté quello che aveva imparato il giorno prima sulle componenti della nave e le loro funzioni. Tutto questo lo aiutò a distogliere l’attenzione dal movimento della nave, che rollava e beccheggiava spinta dal vento, ma non bastò a salvarlo. Alla fine, lo stomaco cominciò a sobbalzare manifestando un’ intenzione ben precisa. Redden Alt Mer vide la sua espressione e gli indicò il secchio in un angolo della cabina. «Non preoccuparti» gli disse, con un sorriso comprensivo. «Capita anche ai migliori.» Bek non gli credette, ma non poté fare nulla per evitare il peggio. Trascorse le ore successive a rimpiangere di non essere morto e a pensare che se il tempo fosse peggiorato anche di poco sarebbe morto davvero. Tra un conato e l’altro notò che la giovane e fragile veggente, Ryer Ord Star, soffriva del suo stesso male, seduta accanto all’albero con il secchio davanti, e che perfino l’impassibile Panax aveva un colorito verdastro. Nessun altro pareva soffrire, neppure Quentin, impegnato con uno dei Cacciatori Elfi, in un’apposita parte del ponte, ad allenarsi nella scherma, con una serie di affondi e parate, avanzate e ritirate, incalzato dall’impassibile Ard Patrinell. Molti di coloro che erano a bordo, gli spiegò più tardi Big Red, erano già stati sulle navi volanti, perciò erano abituati. Bek non avrebbe mai creduto che movimenti così insignificanti potessero far stare tanto male, ma, dopo avere controllato che il cavo di sicurezza fosse fissato correttamente, si costrinse a rimanere in piedi e a distrarre la mente guardando quello che succedeva intorno a lui. Nel pomeriggio aveva finito per abituarsi. Walker andò un paio di volte a cercarlo. La sua espressione severa era quella di sempre, e nulla nelle sue parole faceva pensare a delusione o disapprovazione. Semplicemente chiese al ragazzo e al comandante come procedeva l’insegnamento e rivolse loro un cenno affermativo quando ebbe la risposta. Arrivò e se ne andò così in fretta che Bek si chiese se si era accorto che stava male, tuttavia sembrava impossibile immaginare che non l’avesse notato.
In ogni caso, Bek superò l’esperienza e più tardi il Guaritore degli Elfi, Joad Rish, gli diede da masticare
una radice che l’avrebbe aiutato a fermare ulteriori attacchi. Il giovane ne assaggiò un pezzetto e la trovò amara, ma pur di tenere fermo lo stomaco avrebbe affrontato qualsiasi sacrificio. Si era quasi al tramonto, la lezione di volo era terminata, per quel giorno, e aveva recuperato il suo equilibrio quando gli si avvicinò Ahren Elessedil. Mentre se ne stava appoggiato al parapetto e ammirava il panorama, la scacchiera verde e bruna dei campi, il sole che scivolava verso l’orizzonte, il giovane principe degli Elfi gli si fermò accanto. «Ti senti meglio?» gli chiese Ahren con simpatia. Bek annuì. «Sì, anche se prima mi sembrava che lo stomaco volesse andarsene per conto suo.» L’altro sorrise. «Ti sei comportato bene, per essere la prima volta. Meglio di me. Io ho fatto il mio primo volo a dodici anni per imparare a stare sulle navi. Per ordine di mio padre. Riteneva che i suoi figli dovessero imparare in fretta le cose del mondo. Io non ero molto robusto e il volo non sembrava davvero cosa per me. Sono stato due settimane sulla nave, e sono stato male tutti i giorni. Il comandante non ha mai fatto commenti, ma io mi sono sentito umiliato. Non riuscivo ad abituarmi.» «La cosa che più mi ha stupito, è stata la rapidità con cui mi è venuta la nausea.» «Penso che si accumuli dentro, perciò, quando ti rendi conto di stare male, hai l’impressione che succeda all’improvviso.» Così dicendo, l’elfo si voltò verso di lui. «Io sono Ahren Elessedil.» Bek gli strinse la mano. «Bek Rowe.» «È stato il druido a volervi, vero? Tu e l’Highlander. Questo significa che sei speciale. Sai fare magie?» La domanda era tornata ad affacciarsi. Bek sorrise con aria colpevole. «Quentin ha una spada magica, anche se non sa usarla molto bene. Io non ho nessuna magia.» Pensò alla pietra di fenice, ma non ne parlò. «E tu?» Ahren Elessedil scosse la testa. «Tutti sanno perché sono qui. Mio fratello preferisce non avermi fra i piedi. È preoccupato perché, se gli capitasse qualcosa, io salirei al trono prima dei suoi figli, che sono troppo giovani per regnare. Strana preoccupazione, non credi? Se sei morto, che te ne importa?» Lo disse in tono triste, distaccato. «Mio padre» riprese «probabilmente sarebbe d’accordo con me. Non dava molta importanza alla successione e alla corona, e anch’io ci bado poco. Invece Kylen attribuisce loro grande valore, perché si è preparato a quel ruolo per tutta la vita. Non c’è mai stata molta simpatia tra noi. Comunque, forse è preferibile che io sia qui in questa spedizione, anziché ad Arborlon. Almeno non ci pesteremo i piedi.» Bek non fece commenti. «Sapevi che mio padre e Walker non potevano sopportarsi?» continuò Ahren, guardandolo negli occhi. Bek scosse la testa in segno di diniego. Il principe degli Elfi proseguì: «Qualche anno fa hanno litigato perché Walker voleva
ricostituire il Consiglio dei Druidi a Paranor. Voleva l’aiuto di mio padre, e lui non era disposto a darglielo. Per un sacco di anni non si sono più parlati. Strano che si siano accordati per questa spedizione, visto che non riuscivano a essere d’accordo su altro. Non ti pare?». Bek aggrottò la fronte.
Ahren non attese la sua risposta. «Forse hanno trovato in questa spedizione qualcosa che conveniva a entrambi e che non avevano trovato nell’idea del Consiglio dei Druidi. Nella spedizione è implicata qualche sorta di magia degli Elfi, e tutt’e due avranno avuto interesse a procurarsela. Penso che in realtà avessero bisogno l’uno dell’altro. Da una parte c’è quella mappa che soltanto Walker era in grado di leggere, dall’altra c’è il costo della nave e dell’equipaggio che soltanto mio padre poteva affrontare. E gli deve avere anche assegnato i Cacciatori Elfi per proteggerci. Ammesso che ciò sia possibile. Mio zio aveva le Pietre Magiche, ma non sono riuscite a salvarlo.» Il principe parlava con tanta disinvoltura di quegli argomenti che Bek si sentì incoraggiato a rivolgergli una domanda che, altrimenti, non gli avrebbe rivolta. «Ard Patrinell» disse «è stato rimosso dal comando della Guardia Reale, quando tuo padre è stato ucciso. Se non gode più del favore di tuo fratello e dell’Alto Consiglio, perché l’hanno messo al comando dei Cacciatori Elfi della spedizione?» Ahren sorrise. «Tu non sai ancora come funzionano queste cose, Bek. È stato mandato con noi proprio perché non gode più del suo favore. Kylen non vuole vederlo ad Arborlon più di quanto non voglia vedervi me. Ard è mio amico e protettore. Mi ha addestrato di persona per ordine di mio padre. Tutto quello che so di scherma e di tattica militare l’ho imparato da lui. Kylen non si è mai fidato di lui, e la morte di mio padre gli ha fornito la scusa perfetta per allontanare dalla città me e lui.» Rivolse a Bek una fredda occhiata di apprezzamento. «Tu mi sembri intelligente, Bek. Perciò lascia che ti dica una cosa. Mio fratello non pensa che torneremo, nessuno di noi. Forse, nel profondo del cuore, dove nasconde i suoi segreti, lo spera addirittura. Ha appoggiato questa spedizione perché non ha trovato nessun modo per uscirne. L’ha fatto perché nostro padre l’ha deciso in punto di morte e un re appena incoronato non può permettersi di ignorare il desiderio di un moribondo. Inoltre, con un colpo solo si libera di me, di Patrinell e del druido, tre persone che non gli sono né utili né simpatiche. Se non torneremo, avrà risolto definitivamente il problema, no?» Bek convenne: «Pare anche a me». Pensò ai sottintesi di quella situazione. «Non mi sento molto a mio agio, in questa spedizione» commentò infine. Ahren Elessedil piegò il capo, riflettendo. «Nessuno se l’aspetta. D’altra parte, può anche darsi che riusciamo a fregarlo. Può darsi che sopravviviamo.» Quella sera, quando terminarono di cenare e la nave si muoveva grazie alla luce delle stelle e passeggeri ed equipaggio si ritiravano per dormire, Walker convocò alcuni membri della spedizione per una riunione. Bek e Quentin erano tra i convocati, e la cosa li sorprese entrambi, dato che nessuno dei due si considerava tra i capi. Bek aveva riferito al cugino la conversazione con Ahren Elessedil e si erano chiesti chi altri sapesse, come il giovane elfo, che il re li considerava sacrificabili. Senza dubbio Walker, e anche Ard Patrinell, ma probabilmente tutti gli altri credevano che Kylen Elessedil e l’Alto Consiglio degli Elfi sostenessero la spedizione e si augurassero il suo successo. A parte forse i Corsari, aveva aggiunto Bek. Big Red e la sorella sembravano piuttosto svegli e nelle Quattro Terre era risaputo che i Corsari avevano orecchi ovunque.
Bek pensava che avrebbe fatto bene a riferire a Walker la conversazione, dato che il druido voleva sapere tutto ciò che accadeva sulla nave, ma non aveva avuto occasione di incontrarlo. E adesso che si erano riuniti nei quartieri di Redden Alt Mer sotto il ponte, Bek non ci pensò più. Oltre al druido e ai due cugini delle Highlands, alla riunione partecipavano Big Red e la sorella, Ahren Elessedil, Ard Patrinell e la veggente dall’aria fragile, Ryer Ord Star. Tuttavia, mentre gli altri si raggruppavano attorno a Walker, che
mostrava una mappa posata su un tavolino, la veggente si teneva nell’ombra. Timida e dall’aspetto infantile, con strani occhi luminosi e pelle chiara come pergamena, aveva lo sguardo di un animale selvatico pronto a scappare. «Domani a mezzogiorno raggiungeremo la costa dello Spartiacque Azzurro» esordì Walker, guardandoli a uno a uno. «Là incontreremo Hunter Predd e altri due Cavalieri del Wing Hove che ci accompagneranno nel viaggio come esploratori. Di lì muoveremo a nordovest, alla ricerca di tre isole. In ciascuna dovremo fermarci per recuperare un talismano necessario per proseguire. A bordo della nave nessuno conosce quelle isole, neanch’io. Sono al di là delle regioni esplorate dalle navi volanti o dai Roc. Nella mappa si parla di esse, ma non sono descritte in modo preciso.» «Inoltre» intervenne Redden Alt Mer, prendendo la parola «non siamo sicuri della distanza a cui si trovano. La direzione è segnata chiaramente, ma le distanze sono indicate in modo impreciso. Per di più, il nostro progredire può dipendere notevolmente dal clima che troveremo.» «Sulla base delle informazioni che sono riuscito a ricavare dalla mappa, il nostro comandante pensa che per arrivare alla prima isola occorra circa una settimana» proseguì Walker, indicando la mappa. «Questa copia riproduce la rotta che seguiremo e verrà lasciata qui per chiunque vorrà consultarla durante il viaggio. L’ho ingrandita perché si possa esaminarla meglio. Le isole che cerchiamo sono in queste posizioni.» Le indicò. «Flay Creech è la prima, Shatterstone la seconda, Mephitic la terza. Sono state scelte appositamente da chi ha nascosto i talismani che cerchiamo. Ciascun talismano è di sicuro protetto. Ciascuna isola custodita. Scendere su di esse sarà pericoloso, perciò limiteremo al minimo il numero di coloro che sbarcheranno.» «Che genere di talismano dovremo cercare?» chiese Ard Patrinell, chinandosi a guardare la mappa. «Chiavi» spiegò Walker. «Non conosco né la loro forma né la dimensione. Da ciò che è scritto sulla mappa, penso che siano tutte uguali, ma può darsi che mi sbagli.» «A cosa servono?» chiese Ahren Elessedil, con espressione grave. Walker gli sorrise. «A quello che ci si può aspettare da una chiave, principe. Aprono una porta. Quando avremo in mano le chiavi, proseguiremo il viaggio fino al Cerchio di Ghiaccio.» Indicò un simbolo sulla mappa. «Qui giunti, dovremo cercare la fortezza di Castledown. Le chiavi ci permetteranno di entrare in essa.» Per qualche istante scese il silenzio, mentre tutti studiavano con attenzione la mappa. Nell’ombra, gli occhi di Ryer Ord Star erano fissi sul viso di Walker, uno sguardo febbricitante, di grande concentrazione. Bek la guardava, ed ebbe l’impressione che quello sguardo in un certo senso si nutrisse di ciò che trovava sul viso del druido. «Come scenderete su quelle isole?» chiese Rue Meridian, interrompendo il silenzio. «Vi servirete della nave o dei Roc?» «I Roc, se possibile, perché ci danno una maggiore possibilità di manovra» rispose il druido. Lei scosse la testa. «Ripensaci. Servendoti della nave, ti puoi calare con una scaletta o un cesto. Se ti affidi ai Roc, devi farli atterrare, e a terra sono vulnerabili.» «L’osservazione è giusta» convenne Walker. Si guardò attorno. «Qualcun altro desidera parlare?»
Con sorpresa di Bek, fu Quentin a prendere la parola: «La Strega di Ilse sa queste cose?». Il druido osservò attentamente l’Highlander, poi rispose: «In buona parte».
«Perciò è una specie di gara tra noi e lei?» Walker rifletté prima di rispondere. «La Strega di Ilse non ha una copia della mappa. E, diversamente da me, non ha avuto la possibilità di studiare le sue iscrizioni. Ritengo che abbia raccolto le informazioni dalla mente del naufrago che aveva con sé la mappa. Credo che abbia una buona conoscenza della nostra rotta e delle nostre intenzioni, ma non penso che ne conosca i dettagli. La mente del naufrago era quasi del tutto perduta, e ho l’impressione che non conoscesse l’intero contenuto della mappa.» «Con quello che sa, ormai sarà partita con una sua nave» intervenne Ard Patrinell. «Cercherà di mantenere il contatto con noi, o aspettandoci lungo il cammino o seguendoci.» Era un’affermazione, e Walker non lo contraddisse. Invece, tornò a fissare i compagni. «Sono certo che tutti ci rendiamo conto dei pericoli che corriamo. È importante non dimenticarlo. Dobbiamo essere pronti a difenderci. È quasi certo che saremo costretti a farlo, probabilmente non una volta sola. E il nostro successo dipenderà dalla nostra preparazione e determinazione. State all’erta. In qualsiasi momento, guardatevi attorno e tenete alzata la guardia. La sola cosa che può sconfiggerci è la sorpresa.» Sollevò la mano per congedarli. «Penso che abbiamo parlato abbastanza, per questa sera. Andate a dormire. Ci incontreremo di nuovo domani sera, e poi tutte le sere, per discutere i nostri piani.» Lasciarono Redden Alt Mer nella sua cabina e si avviarono verso i loro alloggi. Walker fermò Bek toccandogli la spalla e lo trasse da parte. Quentin lanciò loro un’occhiata e proseguì senza commenti. «Vieni a fare due passi con me» disse il druido a Bek. Salirono sulla tolda e si appoggiarono al parapetto, soli sotto il cielo nero e un’infinità di stelle. Il vento dell’ovest accarezzava dolcemente il loro viso. Bek colse nell’aria un lieve sentore di mare. «Raccontami cosa ti diceva Ahren Elessedil» disse Walker, senza guardarlo. Bek obbedì, sorpreso dal fatto che il druido avesse notato la sua conversazione con l’elfo. Quando ebbe terminato, il druido continuò a guardare nel buio della notte, perso nei suoi pensieri. Bek attese, dicendosi che le sue parole non erano certo una novità per l’altro. «Ahren Elessedil è fatto di un materiale più robusto di quello che crede suo fratello» disse infine. Poi guardò Bek. «Sarete amici, in questo viaggio?» Bek rifletté per un attimo, poi rispose: «Certo». Walker annuì con soddisfazione. «Tieni orecchi e occhi bene aperti. In questo viaggio verrai a scoprire cose che io non so, ed è importante che ti ricordi di dirmele. Potrebbe non succedere per qualche tempo, ma prima o poi succederà. Una delle tue informazioni potrebbe salvarmi la vita.» Bek batté gli occhi per la sorpresa. «La nostra giovane veggente ha previsto che a un certo momento io sarò tradito, ma non sa dirmi quando o da chi. Ha visto che qualcuno cercherà di uccidermi e qualcuno cercherà di ingannarmi. Forse si tratta della stessa persona. Forse sarà fatto intenzionalmente, forse per caso.
Non ho modo di saperlo.» Bek scosse la testa. «Nessuno di coloro che ho incontrato a bordo di questa nave sembra volerti del male, Walker.»
Il druido annuì. «Potrebbe non trattarsi di una persona che è a bordo della nave. Potrebbe essere il nemico che ci insegue, o qualcuno che incontreremo lungo la rotta. Voglio dire che quattro occhi e quattro orecchi sono meglio di due. Tu sospetti ancora di non avere alcun ruolo in questa spedizione, Bek. Te lo leggo negli occhi, lo sento nella tua voce. Invece la tua importanza per me, e per noi tutti, è più grande di quanto tu pensi. Devi credermi. Un giorno, al momento giusto, ti spiegherò tutto. Per ora, fidati della mia parola e guardami le spalle.» Il druido si allontanò in silenzio nell’oscurità, lasciando Bek nella confusione. Cercava di credere alle parole del druido, ma non riusciva a convincersi di avere una reale importanza per il viaggio. Rifletté su quanto gli aveva detto, ma non trovò nessuna spiegazione plausibile. Si ripromise di fare la guardia a Walker perché gli pareva giusto. Se davvero sarebbe stato in grado di farlo in modo utile, comunque, era tutto un altro paio di maniche. Poi, bruscamente, ebbe l’impressione di essere osservato. La sensazione lo colpì all’improvviso, come un attacco. La forza di quella constatazione lo fece trasalire. Si guardò rapidamente attorno, ma vide solo il ponte della nave, con due Cacciatori Elfi immobili di sentinella. Nella cabina del pilota c’era Furl Hawken ai comandi. I tre non lo guardavano e sul ponte non c’era nessun altro. Tuttavia Bek continuava a sentirsi osservato. Avvertiva su di sé uno sguardo attento, pesante. Poi, con la rapidità con cui l’aveva colpito, la sensazione scomparve. Tutt’intorno a lui, la notte stellata era immersa nel silenzio. Si trattenne sul ponte ancora per qualche istante, per ritrovare il coraggio e la padronanza di sé, poi si affrettò a scendere sottocoperta.
20 All’inizio del pomeriggio seguente laJerle Shannaragiunse alla costa e virò verso la vasta distesa dello Spartiacque Azzurro in direzione dell’ignoto. Poco più tardi Hunter Predd e altri due Cavalieri del Wing Hove presero il volo dalle rocce dell’Irrybis per raggiungerli. Hunter Predd si accostò alla nave volante per salutare, poi si allontanò per andare a proteggere i fianchi. Per il resto della giornata e per la maggior parte dei giorni seguenti, i Cavalieri del Wing Hove volarono in formazione attorno alla nave, due a prua e uno a poppa, una presenza silenziosa e rassicurante. Quando Bek chiese a Walker, a un certo punto, cosa facevano di notte, il druido rispose che avevano varie possibilità. Potevano continuare a volare fino al mattino, alla velocità ridotta a cui si muoveva la nave nel buio. I Roc erano estremamente forti e resistenti, e potevano volare fino a tre giorni senza fermarsi. Il più delle volte, però, i cavalieri portavano le loro cavalcature su un’isoletta o un atollo lungo la rotta, davanti alla nave, dove animali e uomini mangiavano, bevevano e riposavano. Lavoravano a turno, con un cavaliere sempre accanto alla nave, anche di notte, come misura protettiva. Se a montare la guardia c’era un Roc, niente si poteva avvicinare senza essere visto. Viaggiarono per dieci giorni senza incidenti, e il tempo passò lento per Bek Rowe, in una tranquilla routine quotidiana. Ogni mattina si alzava e faceva colazione con i Corsari, poi seguiva Redden Alt Mer che ispezionava la nave e l’equipaggio. Si fermava con il comandante nella cabina del pilota, a volte da soli, a volte con qualche corsaro ai comandi, e Bek prima ripeteva la lezione del giorno precedente, poi apprendeva qualche altra particolare funzione della nave. Più tardi teneva per un po’ i comandi, regolando le vele o scoprendo i cristalli o serrando i tubi radianti.
Ogni tanto, quando Big Red era occupato altrove, Bek veniva affidato a Little Red o a Furl Hawken o addirittura al coriaceo Spanner Frew. Il costruttore inveiva contro di lui per la maggior parte del tempo, facendolo correre avanti e indietro con la sua lingua tagliente e i suoi commenti corrosivi, costringendolo a muoversi e a ragionare più in fretta del solito. Chissà come, la cosa gli dava sicurezza. Dopo essere sopravvissuto a Spanner Frew per un’ora o due, aveva l’impressione di poter sopravvivere a tutto.
Tra una lezione e l’altra dei Corsari, svolgeva i compiti di un mozzo di cabina, che includevano portare messaggi del comandante all’equipaggio, pulire la cabina del comandante e della sorella, fare ogni tre giorni l’inventario delle scorte, aiutare a servire i pasti e a lavare i piatti. Gran parte di quei lavori non era né divertente né emozionante, ma gli permetteva di incontrare tutti i passeggeri, di ascoltarne le conversazioni e di osservarne il comportamento. Nulla di ciò che vedeva gli pareva molto utile, ma continuò a fare come gli aveva detto Walker e a tenere occhi e orecchi aperti. Durante la giornata aveva poche occasioni di vedere Quentin, perché l’Highlander era sempre occupato ad addestrarsi con i Cacciatori Elfi e a imparare le tecniche militari da Ard Patrinell. Vedeva più di frequente Ahren Elessedil, che non si addestrava con gli altri e spesso non aveva niente da fare. Molte volte, Bek portava con sé il giovane elfo nei suoi lavori quotidiani, gli insegnava quel poco che aveva imparato sulle navi volanti, scambiava con lui storie e confidenze. Non disse ad Ahren più di quello che aveva detto a Quentin, ma gli rivelò tutto quello che aveva detto al cugino. Ora che passava più tempo con lui, cominciava a capire le parole di Walker, quando gli aveva detto che Kylen Elessedil aveva giudicato male il fratello. Ahren era giovane, ma era cresciuto in una famiglia e in una situazione politica che non tolleravano ingenuità e debolezze. Il principe possedeva una forza non immediatamente visibile, e di giorno in giorno Bek sentiva aumentare il rispetto per lui. Ogni tanto incontrava Panax e Hunter Predd, quando il Cavaliere del Wing Hove veniva a bordo per parlare con Walker o con Redden Alt Mer. Bek conosceva ormai per nome quasi tutti i Corsari, i quali l’ avevano accettato nel loro gruppo in un modo ufficioso, che gli assicurava l’amicizia anche se non la fiducia. Quanto agli Elfi, non aveva molte occasioni di incontrarli, soprattutto perché stavano in altre parti della nave. Parlava però con il guaritore, Joad Rish, un uomo alto e curvo con la faccia gentile e i modi rassicuranti. Al pari di Bek, anche il guaritore non era certo della propria utilità e si sentiva un po’ fuori posto. Però era un buon conversatore e amava parlare di cure e guarigioni che Bek non conosceva e che erano esclusive dei Guaritori Elfi. Bek parlò anche con la malinconica veggente, Ryer Ord Star, ma la giovane era timida e solitaria ed evitava tutti, tranne Walker, da cui, invece, non si staccava mai. Come se fosse affascinata dal druido, lo seguiva dappertutto, pendeva dalle sue labbra e sorvegliava ogni suo movimento. Quella fissazione era al centro delle conversazioni di tutto l’equipaggio, quando il druido non ascoltava, ma nessuno osava parlarne a lui, visto che Walker non pareva dare importanza alla cosa. Di Truls Rohk non si vedeva traccia. Panax ripeteva che il cambiatore di forma era a bordo, ma Bek non lo scorse mai. Poi, dieci giorni dopo avere lasciato la terra, finalmente avvistarono l’isola di Flay Creech. Era quasi mezzogiorno, il cielo era grigio e coperto di nuvole, il tempo cominciava a guastarsi per la prima volta da quando erano partiti. Una massa di nubi tempestose veniva da ovest, spinta da un vento leggero, e le nubi rade, a poppa, che li seguivano da qualche giorno, erano spinte via da correnti d’aria più fresca. Il mare sotto di loro era calmo e le onde s’infrangevano con regolarità sulla riva dell’isola, ma l’orizzonte era scuro e minaccioso.
Flay Creech non sembrava un luogo accogliente. Era un’isola grigia e spoglia, con una superficie costituita di montagnole lisce, solcate da una rete irregolare di profondi canali in cui si raccoglieva l’acqua di mare. A parte qualche arbusto e qualche ciuffo d’erba, non vi cresceva nulla. L’isola era piccola, poco più di mezzo miglio di diametro, e caratterizzata, nella parte meridionale, da un ammasso di rocce che assomigliava a una testa di lucertola con la bocca aperta e la cresta sollevata minacciosamente. Sulla
mappa che Walker aveva disegnato per l’equipaggio della nave, la testa di lucertola era il contrassegno che individuava l’isola. Redden Alt Mer fece fare lentamente il giro dell’isola allaJerle Shannara, a un centinaio di braccia di altezza, e tutti si sporsero dal parapetto per osservare il terreno inospitale. Anche Bek guardò giù con tutti gli altri, ma non vide nulla di interessante. Non c’era segno di vita e non si scorgeva alcun tipo di movimento. L’isola sembrava deserta. Quando ebbero girato per due o tre volte attorno all’isola, Walker fece un segno a Hunter Predd, che con i suoi Cavalieri del Wing Hove aveva continuato a seguirli. Il cavaliere si avvicinò in sella a Ossidiana e scosse la testa.Non avevano visto nulla nemmeno loro. Tuttavia non si sarebbero avvicinati per dare un ’occhiata perché il druido aveva loro ordinato di non atterrare per primi su nessuna delle tre isole dei talismani. I Roc e i loro cavalieri erano troppo preziosi e non dovevano correre rischi. Walker chiamò Redden Alt Mer e Ard Patrinell, e Bek e Quentin si avvicinarono per ascoltare. «Cos’hai visto?» stava chiedendo il druido al comandante mentre i ragazzi si avvicinavano. «Quello che hai visto tu. Niente. Ma nell’aspetto dell’isola c’è qualcosa che non mi convince. Cosa sono quei solchi che l’attraversano tutta?» Se l’isola piaceva poco a Redden Alt Mer, ad Ard Patrinell piaceva ancora meno. «Quello che vedo m’ ispira poca fiducia. Il terreno non corrisponde a nulla che io conosca. E l’intera isola ha qualcosa di falso, di innaturale.» Walker annuì. Anche lui era preoccupato. La superficie dell’isola era troppo levigata, i canali non parevano scavati dagli elementi naturali. Senza parlare, il druido raggiunse Ryer Ord Star e si chinò a parlare con lei. La veggente ascoltò con attenzione, poi incrociò le mani sul petto, chiuse gli occhi e s’immobilizzò. Bek e gli altri la guardarono, chiedendosi cosa stesse per succedere. La veggente aprì gli occhi e cominciò a parlare in fretta al druido. Quando ebbe terminato lui annuì, le strinse la mano e si allontanò per raggiungere Ard Patrinell e Redden Alt Mer. «Scendo a dare un’occhiata» spiegò. «Calatemi nel cesto e siate pronti a tirarmi su quando vi darò il segnale. Non scendete a recuperarmi né con la nave né con i Roc, nel caso qualcosa dovesse andare male.» «Penso che non dovresti scendere da solo» disse subito Ard Patrinell. Walker sorrise. «Va bene. Prenderò un uomo con me.» Girò loro la schiena e si rivolse a Quentin Leah: «Highlander, mi occorre una lama veloce e precisa per proteggermi. Ti interessa il lavoro?». Quentin acconsentì subito, mentre sul viso abbronzato gli compariva un sorriso. Prese la Spada di Leah che portava sulla schiena e strizzò l’occhio a Bek, poi seguì il druido da Furl Hawken, che stava preparando il cesto per la discesa. Ahren Elessedil si avvicinò a Bek e gli posò una mano sulla spalla. Anche Panax lo
raggiunse. «Che succede?» chiese il nano. Bek era troppo stupito per rispondere. Cercava ancora di capire perché Walker avesse scelto il cugino
invece del comandante degli Elfi o di uno dei suoi Cacciatori. Walker era già nel cesto, avvolto nella veste nera, e Quentin salì dietro di lui. Redden Alt Mer fece fare un giro alla nave, poi scese fino a una quota di poche braccia, al disopra di un piccolo tratto piano, sulla punta orientale dell’isola. Bek avrebbe voluto lanciare un grido d’incoraggiamento al cugino, avvertirlo di fare attenzione e di evitare i pericoli, ma non riuscì a parlare. Si limitò a rimanere fermo accanto al parapetto e a fissare i Corsari, che sollevavano il cesto con Walker e Quentin e lo calavano nel vuoto. Sotto gli occhi di tutta la nave, l’equipaggio fece scendere lentamente sull’isola il cesto e i suoi due occupanti. Mentre iniziavano la discesa, Walker continuava a pensare alle parole della veggente. «Vedo tre fori oscuri nello spazio e nel tempo, Walker. Tre fori che ti inghiottiranno. Giacciono nell’ acqua profonda che si stende sotto il cielo e il vento. Uno è cieco e non può vedere, ma ti troverà lo stesso. Uno ha bocche capaci di mangiarti intero. Uno è tutto e niente, e ti porterà via l’anima. Ciascuno custodisce una chiave che è diversa da quello che sembra. Vedo tutto questo entro un velo d’ombra che ti segue ovunque e cerca di stendersi su di te come un sudario.» Queste le parole che gli aveva detto la notte prima, quando si era presentata inaspettatamente da lui, dopo mezzanotte, per riferirgli un sogno che le aveva fornito qualche nuova indicazione sulla loro ricerca. Spaventata, con gli occhi sgranati, un’espressione di paura sulla faccia infantile, Ryer Ord Star l’aveva destato per comunicargli la sua strana visione. Come sempre, la visione era sopraggiunta senza che la cercasse, sepolta in mezzo ad altri sogni, ma era la sola parte importante di tutto ciò che le si era affacciato alla mente, chiara e precisa, uno sguardo infallibilmente profetico sul futuro. Walker aveva sorretto la giovane perché tremava e non era ancora del tutto sveglia. Era legata a lui in un modo che nessuno dei due capiva bene. L’aveva accompagnato nel viaggio perché pensava che fosse il suo destino, ma il suo legame con il druido era emotivo oltre che chiaroveggente. Aveva trovato in lui uno spirito uguale al suo, un’altra parte del suo essere, e si era affidata completamente alle sue cure. Walker non era d’accordo e avrebbe preferito un legame diverso, ma finora non aveva trovato il modo di liberarla da quella sorta di ossessione. Con gli occhi luccicanti di lacrime, la veggente l’aveva afferrato per il braccio e gli aveva raccontato il sogno, sforzandosi poi di trovarne il significato. La giovane non vedeva più di quanto le era dato di vedere, non aveva ulteriori intuizioni per aiutarlo, perciò si sentiva inutile. Ma Walker le aveva detto che la sua visione era chiara e che l’avrebbe aiutato a salvarsi, poi l’aveva tenuta tra le braccia finché non s’era calmata e non era tornata a dormire. Ma le rassicurazioni che le aveva dato erano fittizie, e in realtà lui non vedeva più in là del significato immediato delle parole. I fori bui erano le isole che cercavano. Su ciascuna c’era qualcosa di minaccioso ad attenderli. Le chiavi non avevano l’aspetto delle chiavi a loro note. Il velo d’ombra che lo seguiva e cercava di avvolgerlo era la Strega di Ilse.
Quanto agli occhi, alle bocche e agli spiriti, non aveva idea di che cosa fossero. La giovane li aveva visti in ordine di apparizione? Erano manifestazioni di pericoli reali o metafore di qualcosa d’altro? Era tornato dalla veggente, poco prima di scendere, chiedendole di ripetere tutto quello che aveva visto. Sperava che la donna gli rivelasse qualcosa di nuovo, di cui si era scordata la prima volta. Ma la descrizione del sogno era rimasta invariata e non c’erano state nuove visioni cui attingere: di conseguenza,
Walker non sapeva cosa l’aspettava sull’isola e doveva fare attenzione ai tre tipi di pericolo che gli erano stati predetti, finché uno di essi non si fosse rivelato. Portare con sé l’Highlander era un rischio, ma Quentin Leah era il solo ad avere a disposizione una vera magia, a parte Truls Rohk, e il druido voleva avere le spalle coperte mentre cercava la prima chiave. Quentin era giovane e inesperto, ma la Spada di Leah era un’arma potente e ormai l’Highlander si addestrava da due settimane con Ard Patrinell, il migliore spadaccino che Walker avesse mai visto. Nessuno degli altri Elfi gli aveva mai parlato della grande abilità di Patrinell, ma Walker aveva avuto occasione di osservarlo bene, in quel periodo, e aveva notato la sua perizia con la spada. Quentin imparava in fretta e già prometteva di superare il maestro, col tempo. Tanto era bastato per convincere il druido a correre il rischio di portarlo con sé. In realtà, Truls Rohk sarebbe stato una scelta migliore, ma per avere il suo aiuto avrebbe dovuto aspettare la notte. A Walker non piaceva la tempesta che si stava avvicinando, e in ogni caso preferiva che la presenza del cambiatore di forma rimanesse un segreto ancora per qualche tempo. Il cesto urtò contro la superficie dell’isola e il druido e l’Highlander si affrettarono a uscirne. Il giovane impugnava la spada con entrambe le mani, la punta in alto. «Resta vicino a me, Quentin» ordinò Walker. «Non allontanarti. Guardami le spalle, e anche le tue.» Si mossero veloci sulla superficie brulla dell’isola, tenendosi chinati e guardandosi attentamente attorno. Le rocce erano scivolose a causa del muschio e dell’umidità. Visti da vicino, i solchi apparivano ancora più misteriosi: erano scavati nella roccia come canali per l’irrigazione, ma non erano diritti e uguali, bensì tortuosi e irregolari, alcuni profondi fino a quattro piedi, e percorrevano tutta l’isola. Walker si guardò attorno, alla ricerca di fori dove potesse nascondersi qualche animale pericoloso, ma non ne vide: c’era solo nuda roccia e laghetti poco profondi. Proseguirono l’esplorazione, e Walker cominciò a cercare una traccia della chiave, un suggerimento della sua presenza nella roccia compatta e nell’acqua di mare che li circondavano. Dove poteva essere nascosta una chiave di quel genere? Se era magica, il druido avrebbe dovuto sentirne subito la presenza. Se non lo era, la ricerca avrebbe richiesto un tempo che forse non avevano. Si guardò attorno con cautela. Sull’isola nulla si muoveva, a parte l’ondeggiare di qualche filo d’erba agitato dal vento della tempesta che si avvicinava. All’improvviso, il druido colse qualcosa di anomalo, non la magia da lui prevista, ma una sorta di presenza vivente, anche se non riconoscibile. Era alla sua sinistra, in un ammasso di rocce spezzate che formava una sacca, vicino al margine meridionale dell’isola. Il druido si diresse subito da quella parte, camminando sul bordo di uno dei solchi, e si fermò in un punto dal quale poteva osservare ciò che gli stava attorno. Quentin Leah lo seguì senza parlare, a un passo di distanza, la spada che scintillava nel sole. Poi il sole sparì dietro un banco di fitte nuvole e l’isola venne avvolta nell’ombra. L’istante successivo il mare si animò con un’agitazione parossistica.
A bordo della nave, Bek Rowe trattenne il fiato vedendo le acque che circondavano l’isolotto ribollire e gonfiarsi con spaventosa ferocia. Il luminoso colore azzurro divenne nero, l’immobilità cristallina fu sconvolta mentre decine di corpi neri uscivano in massa, contorcendosi, dalle profondità dell’oceano. Erano anguille giganti, alcune lunghe più di dieci braccia, con il corpo scuro e maculato, e le bocche
spalancate irte di centinaia di denti affilati come rasoi: uscirono dall’acqua e si lanciarono sull’isola. Arrivavano da tutte le parti, scivolando agilmente nei profondi canali, che si sposavano perfettamente con i loro corpi. Bek comprese che quei canali si erano formati negli anni, a causa dei loro innumerevoli andirivieni. Uscivano fulminee dall’oceano e serpeggiavano da una pozza d’acqua salata all’altra, dirette verso i due uomini che cercavano di raggiungere un ammasso affiorante di rocce spezzate per affrontarle. «Per tutti gli spiriti!» esclamò Panax, guardando le anguille avanzare come un’unica massa frenetica. Le anguille erano così impazzite da scontrarsi l’una con l’altra mentre puntavano verso la preda. Alcune uscivano dai canali per il tempo sufficiente a passare davanti alle compagne, poi rientravano nei canali, dove potevano muoversi meglio. Altre, o perché furiose per il numero delle compagne, o perché affamate, mordevano le vicine. Si aveva l’impressione che l’intera isola si fosse bruscamente coperta di corpi, che brulicasse di creature scivolose in movimento. Bek non aveva mai sentito parlare di anguille così grandi, né aveva mai immaginato che in un solo posto se ne potesse trovare una tale quantità. Come riuscivano a sopravvivere così numerose attorno a quell’atollo spoglio? Neanche l’occasionale presenza di altre creature poteva mantenerle in vita tutte. Intanto, Walker cercava freneticamente qualcosa in mezzo alle rocce voltando la schiena ai mostri. Quentin le affrontava da solo, a poca distanza dal druido, da un piccolo affioramento di roccia su cui era salito per poter colpire da tutti i lati. Girò su se stesso per controllare l’avanzata dei predatori marini e si preparò a colpire. “Oh, ma quanti sono!” pensava Bek, inorridito. La prima anguilla raggiunse Quentin e scattò come un serpente, sollevandosi completamente dal canale. L ’Highlander calò la Spada di Leah con un movimento secco come una frustata, e la magia avvampò lungo la pesante lama. L’anguilla venne tranciata di netto, dietro le fauci spalancate, e ricadde contorcendosi per il dolore. Altre anguille piombarono subito su di essa e la fecero a pezzi. Una seconda anguilla cercò di colpire Quentin, che però calò di nuovo la spada, rapida e sicura, e anche la seconda bestia cadde a terra dibattendosi. Con un rovescio, l’Highlander ne eliminò una terza che si era alzata dietro di lui e la scagliò lontano. Walker si raddrizzò in mezzo alle rocce per il tempo necessario a evocare il fuoco dei Druidi, che gli scaturì dalle dita in un’esplosione di fiamma azzurra, bruciò le prime anguille e ricacciò nei canali le altre. Poi il druido tornò a chinarsi e a frugare in mezzo alle pietre. In pochi istanti le anguille tornarono, spalancando le fauci fameliche e passando sopra l’anello di fuoco che si andava spegnendo. “Sono troppe!” pensò di nuovo Bek, serrando disperatamente le mani sul parapetto della nave mentre una nuova ondata di attaccanti assediava Quentin e il druido. «Comandante!» gridò Ard Patrinell, disperato. Il corsaro dai capelli rossi si lanciò subito verso la cabina di pilotaggio. «Allacciatevi i cavi di sicurezza!» esclamò. «Andiamo a recuperarli!» Bek fece appena in tempo ad agganciarsi al cavo; un istante più tardi, laJerle
Shannarascendeva in picchiata verso l’isola.
Quentin Leah abbatté l’attaccante più vicina e ruotò subito su se stesso per affrontare la seguente. Aveva respinto il primo assalto, ma il secondo sembrava ancora più violento e determinato. I colpi del giovane erano rapidi e precisi, e ruotava agilmente su se stesso per offrire al nemico la schiena solo per pochi istanti, come gli aveva insegnato Patrinell nei loro addestramenti. L’Highlander era forte e veloce e non si lasciava prendere dal panico, nonostante la superiorità numerica dei nemici. Cacciava nelle Highlands da quando aveva imparato a camminare e già in passato aveva affrontato grandi pericoli e corso gravi rischi. Ma capiva che lì il tempo era troppo poco. Le grandi anguille cadevano sotto i colpi della sua spada magica, ma non si lasciavano spaventare dalla morte delle compagne. Avrebbero continuato ad attaccare, lo sapeva, finché non avessero ottenuto quello che volevano. Ed erano così tante che alla fine ci sarebbero riuscite. Cominciava ad avere le braccia stanche e a muoverle a scatti. La magia della spada gli prosciugava l’ energia e gli spezzava la volontà. Lo sentiva succedere e non poteva fare nulla per fermarlo. Aveva già varie ferite sulle braccia e su una gamba, dove i denti affilati delle attaccanti l’avevano azzannato, aveva la faccia bagnata di sudore e di spruzzi d’acqua marina. Con un brontolio rabbioso, Walker si raddrizzò e si girò mettendosi al suo fianco. «L’ho trovata!» gridò, toccando qualcosa che si era nascosto nella veste. «Adesso scappiamo! Da questa parte!» Lasciarono le rocce e corsero verso un piccolo tratto di terreno aperto, a una trentina di passi di distanza, scivolando in mezzo ai laghetti tappezzati di alghe. LaJerle Shannarascendeva rapida verso di loro, a vele spiegate e cavi tesi, e la sua forma scura si avvicinava sempre più. Le anguille tallonavano ormai Quentin e Walker, che si fermarono per opporre un’ultima resistenza: il druido con il fuoco che esplodeva dal braccio teso, l’Highlander con le vampate di luce magica della spada. Poi l’ombra della nave arrivò su di loro e una scaletta di corda li sfiorò: la loro salvezza. I due uomini si affrettarono ad afferrarla e furono sollevati e portati via mentre le mandibole delle anguille scattavano a pochi pollici di distanza. Qualche secondo più tardi erano lontani dall’isola e risalivano lungo la scaletta, sani e salvi. Bek fu uno di coloro che aiutarono il druido e l’Highlander a issarsi sulla nave che ormai si era innalzata al disopra dell’isolotto e delle sue anguille, le quali continuavano a contorcersi follemente, in preda alla frustrazione. Quando il cugino fu davanti a lui, sporco e insanguinato ma sorridente, Bek cercò di fare qualche battuta sul fatto di correre rischi e spaventarlo a morte, ma rinunciò e si limitò ad abbracciarlo. «Ahi, mi fai male!» gemette Quentin. Bek si affrettò a tirarsi indietro, e il sorriso del cugino si allargò. «Sei contento di rivedermi, Bek? Non avrai avuto paura, spero! L’hai visto anche tu. È stata una passeggiata!» Accanto a loro, Walker si frugava nella veste per mostrare l’oggetto recuperato e tutti si raccolsero attorno a loro. Fece vedere un rettangolo di metallo con alcune linee in rilievo che uscivano da un piccolo rigonfiamento quadrato che vibrava. Una luce rossa all’interno del quadrato si accendeva e si spegneva a intermittenza. Tutti la guardavano stupefatti. Bek non aveva
mai visto nulla del genere. «Cos’è?» chiese infine Panax. «Una chiave» rispose Walker. «Ma non del tipo che conosciamo. Questa chiave appartiene alla tecnologia del Mondo Antico, alla vecchia civiltà dell’uomo prima delle Grandi Guerre. È una specie di
macchina e ha una vita propria.» Lasciò che la osservassero ancora per qualche momento, poi tornò a infilarla nella veste. «Potrebbe rivelarci molti segreti, se riuscissimo ad aprirla» disse tranquillamente, poi strinse una spalla a Quentin in segno di ringraziamento e si allontanò. Il resto della compagnia si disperse e tornò al lavoro, lasciandosi alle spalle l’avventura dell’isola delle anguille. Joad Rish tagliò la tunica all’Highlander per potergli medicare le ferite. Quentin ricevette le congratulazioni di alcuni compagni, poi si sedette su un barile e strinse i denti mente il guaritore cominciava a lavorare. Bek gli rimase accanto e fu il solo a cogliere l’espressione impaurita che passò nello sguardo del cugino quando posò l’occhio sulle ferite e comprese di essere stato vicino alla morte. Comunque l’istante dopo l’Highlander tornò a sorridere, e con aria soddisfatta sollevò il pollice per dire: “E una!”. Bek gli restituì il sorriso. “E una!” pensò a sua volta. “Però ne restano ancora due.”
21 Ci vollero altri due mesi di viaggio per giungere all’isola di Shatterstone. Bek aveva pensato di arrivarci prima, dato che erano occorsi loro solo dieci giorni per raggiungere Flay Creech. Tuttavia anche sulla mappa approssimativa disegnata da Walker la distanza appariva molto maggiore della precedente, e così era stato. Comunque le giornate passarono in fretta, fra lavori di routine e piccoli incidenti. Bek continuò a studiare la nave, la sua struttura, i meccanismi del volo e l’occorrente per la manutenzione. Ebbe la possibilità di lavorare su ogni sua parte, dalla lucidatura dei cristalli di diapso al collegamento dei tubi radianti. Gli fu permesso di salire sull’albero per controllare come i tubi erano collegati alle vele in modo da raccogliere la loro energia. Passò del tempo al timone e ai controlli e gli venne anche insegnato a tracciare la rotta. Alla fine dei due mesi, Redden Alt Mer lo considerava abbastanza competente da lasciarlo solo nella cabina di pilotaggio per varie ore di fila, in modo che si abituasse ai comandi e alle reazioni della nave volante. Per gran parte di quei mesi, il tempo continuò a favorirli. Ci furono alcune tempeste, ma non causarono danni alla nave né paura ai passeggeri. Alcune furono abbastanza violente da costringerli a rifugiarsi in una baia o dietro una scogliera sottovento di qualche isola. Un paio di volte vennero colpiti da forti burrasche mentre erano in volo, ma laJerle Shannaraera ben costruita e fatta per resistere. Certo fu d’aiuto avere a bordo il costruttore. Se qualcosa si guastava, Spanner Frew trovava il problema e lo risolveva subito: era ferocemente devoto alla sua creatura e la proteggeva come una chioccia armata di zanne, sgridando e picchiando chi la trattava male. Una volta Bek lo vide atterrare con un pugno un corsaro colpevole di avere rimosso con poca cura un cristallo di diapso. L’unica che pareva in grado di tenergli testa era Rue Meridian, la quale non si lasciava intimidire da nessuno. Di tutti i passeggeri, escluso il solo Walker, era l’unica a mantenere sempre la calma. Bek era intimorito in sua presenza e la guardava con un sentimento che non riusciva a nascondere. Se lei lo notò, lo tenne per sé. Era gentile con lui e lo aiutava sempre. A volte lo prendeva in giro, altre volte lo faceva ridere con qualche strizzata d’occhio e qualche commento a mezza voce. La donna fungeva da ufficiale di rotta, ma ben presto Bek scoprì che era molto di più. Fin dall’inizio gli fu chiaro che conosceva le navi quanto il fratello e che era il suo miglior consigliere. Era anche assai pericolosa. Andava sempre in giro con una scorta di coltelli e
sapeva come usarli. Una volta Bek la vide gareggiare con tre corsari nel lancio del coltello e vincerli senza difficoltà. Né il fratello né Furl Hawken gareggiavano mai con lei, e questo particolare era significativo. Probabilmente Rue Meridian non era
abile nell’uso delle armi come Ard Patrinell, ma a Bek non pareva il caso di incitarli a combattere tra loro per scoprirlo. La maggior parte del tempo, però, il giovane la passava con Ahren Elessedil. Insieme percorrevano la nave da cima a fondo, parlando di tutto quello che interessava loro. Be’, non tutto. Alcune cose, Bek non le aveva dette a nessuno. Aveva nascosto a tutti, anche al principe degli Elfi, la pietra di fenice e l’ incontro con il Re del fiume Argento. Ma diventava sempre più difficile nascondere quei segreti ad Ahren. Con il passare del tempo, la sua amicizia per il giovane elfo era diventata pari a quella per Quentin. A volte pensava che Ahren sarebbe stato il suo migliore amico, se Quentin non avesse rivendicato quella posizione per primo. «Dimmi cosa vorresti fare nella vita, Bek» gli chiese l’elfo una volta, mentre stavano appoggiati al parapetto prima di andare a dormire. «Se potessi fare quello che vuoi, cosa faresti?» Senza riflettere, Bek rispose: «Cercherei di scoprire la verità sulla mia nascita». Era fatta, non ne aveva l’intenzione ma l’aveva detto. Se gli fosse stato possibile, si sarebbe rimangiato le parole. Ma era troppo tardi. «Che intendi dire?» chiese Ahren, fissandolo. Bek esitò, cercando un modo di fare marcia indietro. «Intendo dire che sono stato portato da Coran e Liria quando ero piccolissimo. Sono stato affidato loro dopo che sono morti i miei. Non so nulla dei miei veri genitori. Non so la storia della mia famiglia.» «Avrai chiesto informazioni ai genitori di Quentin! Non ti hanno detto niente?» «Non ho rivolto loro molte domande. Crescendo, non ho più dato importanza alla cosa. Vivevo con loro e con Quentin. Erano la mia famiglia e questa era la mia storia. Ma ora voglio saperne di più. Forse comincio solo ora a capire che è importante per me, e adesso che lo penso, voglio sapere la verità.» Si strinse nelle spalle. «Curioso, vero?, chiedersi queste cose proprio qui, in mezzo al nulla.» Ahren sorrise. «In mezzo al nulla è sempre stato il posto più adatto per chiederci chi siamo.» Tutti i giorni, a mezzogiorno, mentre Bek pranzava con i Corsari o era ai comandi nella cabina di pilotaggio o boccheggiava con Panax nell’esigua ombra dell’albero maestro, Ahren Elessedil si allenava con Ard Patrinell per un paio d’ore, sotto il sole allo zenit, con le armi degli Elfi. A volte spade e pugnali, a volte arco e frecce, ascia o fionda. A volte i due si limitavano a parlare e Bek li vedeva gesticolare e mostrarsi disegni. L’ex comandante della Guardia Reale sottoponeva a un intenso addestramento il giovane che gli era affidato. Era il momento più caldo della giornata e l’addestramento diventava assai faticoso. Bek li vedeva insieme solo in quelle occasioni, e un giorno si decise a chiederne ad Ahren la ragione. «Una volta era il tuo insegnante» gli fece notare Bek. «Ed era tuo amico. Perché non stai mai con lui, a parte l’addestramento?» Ahren sospirò. «L’idea non è mia, è sua. È stato rimosso dal suo incarico perché la vita di mio padre era sotto la sua responsabilità. I Cacciatori Elfi al suo comando accettano la sua autorità perché l’ha ordinato mio fratello e perché attribuiscono molto valore alla sua esperienza e alla
sua abilità. Però non accettano più la sua amicizia per me. Quell’amicizia è finita con la morte di mio padre. Può continuare ad addestrarmi, visto che è stato mio padre a ordinarlo, di più non sarebbe accettato.» «Ma siamo in mezzo all’oceano» osservò Bek, perplesso. «Che importanza può avere, quaggiù?»
Ahren si strinse nelle spalle. «Ard dev’essere certo che i suoi uomini obbediscano agli ordini senza fare domande e senza esitare. Deve avere il loro rispetto. Cosa succederebbe se pensassero che cerca i miei favori per riavere quello che ha perso, magari col mio aiuto? Se credessero che serve più di un padrone? Ecco perché mi allena a mezzogiorno, sotto il sole, in modo più faticoso degli altri e non mi parla al difuori di quei momenti. Non mostra alcun favoritismo per me e non dà loro motivo di dubitare di lui. Capisci?» Bek non capiva del tutto, ma disse ad Ahren che aveva capito. «Inoltre» aggiunse Ahren «io sono il figlio cadetto di un re morto, e i figli cadetti dei re defunti devono imparare a cavarsela da soli.» Panax, schietto e irascibile come sempre, disse ad Ahren che se gli Elfi avessero perso meno tempo a litigare tra loro e ne avessero dedicato di più a fidarsi dei loro istinti, si sarebbero trovati meglio. Una volta era così, dichiarò senza mezzi termini. Le cose erano cambiate da quando era salita al potere l’ attuale cucciolata di Elessedil. Come il nano fosse arrivato a quella conclusione nei boschi dietro Depo Bent, Bek non riuscì a capirlo. Anche se conduceva un’esistenza isolata e solitaria, il nano pareva al corrente di tutto quello che succedeva nelle Quattro Terre. «Prendi la ridicola guerra tra i Liberi e la Federazione» borbottò a un certo punto, mentre erano seduti a guardare Patrinell e Ahren che duellavano con i bastoni. «Che senso ha? Lottano da cinquant’anni per il possesso di quel pezzo di terra e da cinquecento per il controllo delle Terre di Confine. Un po’ vincono gli uni, un po’ gli altri. Nulla cambia, nulla si risolve mai.» Guardò il giovane Highlander. «Non pensi che dopo tutto questo tempo dovrebbero aver trovato la maniera di mettersi attorno a un tavolo e risolvere la faccenda? Che difficoltà vuoi che ci sia? In apparenza si tratta di questioni di sovranità e di influenza territoriale, ma in sostanza si tratta di commerci e di economia. Basta trovare il modo di fargli dimenticare le loro discussioni su chi ha il diritto divino di governare e convincerli a parlare di alleanze commerciali e di ripartizione delle ricchezze generate da quelle alleanze, e la guerra finirà in due giorni.» «Ma la Federazione ha intenzione di impadronirsi di tutte le Terre di Confine!» osservò Bek. «Vogliono farle entrare nel loro Impero del Sud. Che mi dici di questo?» Il nano sputò con disprezzo. «Le Terre di Confine non faranno mai parte di alcun impero perché sono sempre state parte di tutte le Quattro Terre, a memoria d’uomo. A un abitante del Sud non importa nulla se la gente delle Frontiere è nella Federazione o no. Quello che gli importa è se gli archi di frassino che vanno tanto bene per la caccia e i nastri di seta che piacciono alle donne e le grandi ruote di formaggio e i barili di birra che provengono da Varfleet e le piante medicinali dello Streleheim arrivano al Sud!» Scosse la testa con espressione disgustata. «Gli unici che pensano all’annessione delle Terre di Confine sono i membri del Consiglio della Coalizione. Mandali una settimana nel Prekkendor e poi mi dirai se non cambiano idea!» Durante quel viaggio tra le isole accadde anche qualche curiosa avventura. Un giorno sotto la nave comparve una grande branco di balene, che viaggiavano verso ovest in direzione del sole al tramonto. Affioravano in superficie con imponenti sbuffi d’acqua e sonori schiaffi della coda e delle pinne, simili a grosse navi che corressero gioiose e spensierate sulle onde, senza bisogno di nessuno. L’Highlander e l’ elfo le ammirarono a lungo seguendo il loro procedere, e pensarono alla ristrettezza del loro mondo, e invidiarono la libertà di cui godevano quei giganti.
Un altro giorno comparvero centinaia di delfini che saltavano e si tuffavano con cadenza ritmica, piccoli scintillii bianchi nel profondo mare azzurro. A volte videro banchi di pesci in migrazione, alcuni con
enormi pinne dorsali, altri vistosamente colorati, sottili e veloci. Scorsero giganteschi calamari con tentacoli lunghi dieci braccia, che solcavano l’acqua come frecce, e predatori dall’aspetto pericoloso, con pinne che fendevano le onde come lame. Di tanto in tanto qualcosa a bordo della nave si rompeva e non si riusciva a trovare l’occorrente per la riparazione. A volte finiva un rifornimento. In questi casi si ricorreva ai Cavalieri del Wing Hove. Mentre uno rimaneva sempre accanto alla nave, gli altri due esploravano le isole alla ricerca del necessario. Due volte Bek ebbe il permesso di accompagnarli nella ricerca di acqua dolce, frutta e verdura per rifornire la cambusa. Un volta uscì con Hunter Predd sul suo Roc, Ossidiana, e una volta con un cavaliere chiamato Gill, in sella a Tashin. Entrambe le volte fu un’esperienza appassionante. Nel volo dei Roc c’era una libertà superiore addirittura a quella di una nave. I grandi uccelli erano molto più veloci, il loro volo era uniforme, senza scosse, le loro reazioni erano molto più rapide e la sensazione di cavalcare qualcosa di vivo era assai diversa da quella di viaggiare su una nave di legno e metallo. I Cavalieri del Wing Hove erano persone fiere e indipendenti e si tenevano isolati da tutti. Quando Bek riuscì a fare appello al proprio coraggio e a chiederne la ragione, il taciturno Hunter Predd gli spiegò pazientemente che per vivere come Cavaliere Alato occorreva ritenersi differenti da tutti. Ciò era dovuto al tempo trascorso in volo e alla libertà di cui si godeva quando si rinunciava alle sicurezze che gli abitanti della terraferma tenevano in così gran conto. Per poter svolgere il loro compito, i Cavalieri del Wing Hove dovevano essere indipendenti. Non dovevano sentirsi appesantiti da legami di nessun genere, tranne quelli con i Roc e con i compagni. Bek aveva l’impressione che a quell’atteggiamento contribuisse in gran parte il senso di indipendenza suscitato nei cavalieri dalla libertà del volo in sella ai Roc. Ma Hunter Predd e Gill gli piacevano e gli pareva inutile sindacare le loro idee. Se fosse stato un cavaliere, si disse, forse l’avrebbe pensata anche lui allo stesso modo. Quando Bek riferì ad Ahren le sue conversazioni con Hunter Predd, il principe degli Elfi scoppiò a ridere. «A bordo di questa nave ogni passeggero pensa che il suo modo di vivere sia il migliore, ma in genere preferisce tenere per sé le sue opinioni. Se i Cavalieri parlano così liberamente delle loro è perché possono sempre saltare in groppa al loro Roc e volarsene via se qualcuno protesta!» Ci furono pochi problemi nei giorni che seguirono la partenza dall’isola di Flay Creech e alla fine tutti si immersero in una tranquilla routine e adottarono un atteggiamento soddisfatto nei riguardi della vita a bordo. Solo quando un cavaliere avvistò finalmente l’isola di Shatterstone, tutto cambiò. Fu Gill, che era di pattuglia nel tardo pomeriggio in groppa a Tashin, ad avvistare per primo Shatterstone. Da giorni si aspettavano di avvistarla, avvertiti da Redden Alt Mer che aveva effettuato le misurazioni ed eseguito i calcoli. Tre piccole isole disposte in fila, avvistate pochi giorni prima, corrispondevano ad alcune indicazioni della mappa e segnalavano che la loro meta era vicina. Walker si trovava con il comandante nella cabina di pilotaggio, dietro Furl Hawken che era al timone quel pomeriggio, e stavano parlando dell’eventualità di cambiare rotta all’alba del giorno dopo quando sopraggiunse Gill con la notizia. Tutta l’attività si fermò mentre i passeggeri correvano al parapetto. Big Red virò a sinistra per seguire il Cavaliere Alato.
“Finalmente!” si disse il druido, mentre facevano rotta verso l’isola. L’inattività prolungata, la comodità della routine e l’assenza di progressi lo preoccupavano. Gli uomini dovevano tenere desta l’attenzione e la vigilanza, e invece stavano perdendo concentrazione. L’unica soluzione consisteva nell’agire. Quando Shatterstone giunse in vista, Walker sentì svanire le sue speranze. Mentre l’isola delle anguille,
Flay Creech, era piccola e uniforme, questa era grande e con una conformazione variata. Sorgeva dallo Spartiacque Azzurro in una confusione di cime altissime che sparivano in mezzo alle nubi e alla nebbia, tra le quali si aprivano gole profonde parecchie centinaia di braccia. La costa era rocciosa e inavvicinabile, priva di spiagge e approdi, tutta pareti di roccia che s’innalzavano verticalmente dall’oceano. L’intera isola era coperta di vegetazione lussureggiante, di alberi e cespugli avvolti da liane, e solcata dai fili argentei di innumerevoli corsi d’acqua che precipitavano dalle vette coperte di nubi e si perdevano nella vegetazione color smeraldo. Solo le cime più alte e le scogliere sottovento erano spoglie. Dall’alto delle rupi affacciate sul mare, numerosi uccelli scendevano in picchiata sulle onde, come fulmini, a caccia di cibo. Ai piedi delle scogliere, il mare s’infrangeva in grandi ondate spumeggianti. Walker fece fare allaJerle Shannaraun paio di giri dell’isola per prendere nota dei rilievi ed esaminare il terreno. In quell’isola, una ricerca accurata avrebbe richiesto settimane, forse mesi, senza dare la certezza di trovare la chiave, se fosse stata sepolta in qualche gola. Si chiese quale dei tre pericoli visti da Ryer Ord Star proteggesse la seconda chiave. Le bocche che potevano divorare erano chiaramente le anguille, perciò rimanevano il “qualcosa” che era cieco ma che riusciva lo stesso a trovarti, e il “niente” che poteva rubarti l’anima. Si era augurato che la donna avesse un’altra visione prima di arrivare a Shatterstone, ma così non era stato. Le sole indicazioni su cui basarsi erano quelle che gli aveva già fornito. Guardò l’impervia distesa dell’isola passare sotto di loro e rifletté che per il momento non potevano fare nulla. Era quasi notte, e non aveva intenzione di sbarcare una squadra con il buio. All’improvviso gli venne in mente che poteva inviare Truls Rohk. Il cambiatore di forma preferiva il buio in qualsiasi caso, e la sua sensibilità alla presenza della magia era acuta quanto quella del druido. I Cavalieri Alati scelsero un promontorio spoglio, sulla costa occidentale dell’isola, e lasciati laggiù i loro Roc iniziarono una breve ricognizione dell’area. Non trovarono nulla di minaccioso e decisero di trascorrervi la notte, rimandando al mattino ogni ulteriore esplorazione. Redden Alt Mer ancorò la nave a poca distanza, su un alto promontorio, a una decina di braccia dal terreno. Nessuno doveva lasciare la nave fino all’indomani, e nella notte si sarebbe mantenuta la guardia. L’oscurità cominciava a scendere, ma il cielo era sereno. Con il chiarore della mezzaluna e delle stelle sarebbe stato facile vedere chiunque cercasse di avvicinarsi. Dopo cena Walker riunì nella cabina di Redden Alt Mer il piccolo gruppo di consiglieri ed espose il suo piano per il giorno seguente. Non lo disse, ma per il momento aveva rinunciato all’idea di servirsi di Truls Rohk. Invece di inviare il cambiatore di forma, avrebbe esaminato l’isola in sella a un Roc, accompagnato da un cavaliere. Volando nelle gole e sui monti, avrebbe usato i suoi poteri di druido per cercare il nascondiglio. Dato che la chiave manifestava la sua presenza in modo particolare e probabilmente era l’unico oggetto del genere presente sull’isola, il druido aveva buone possibilità di individuarla. Se si fosse trovata in un punto accessibile, dove il cavaliere e il suo Roc non corressero rischi, l’avrebbe recuperata egli stesso. Ma le gole erano strette e non era facile per quei grandi uccelli dalle ampie aperture alari percorrerle in volo, perciò c’era il rischio che il recupero dovesse essere compiuto da uomini.
Tutti dissero che il piano del druido sembrava sensato, e la discussione si fermò a quel punto. L’indomani mattina, quando l’alba era solo un bagliore dorato all’orizzonte, Walker si allontanò con Hunter Predd e Ossidiana per condurre un metodico esame della costa occidentale dell’isola. Esplorarono per tutto il giorno, infilandosi in ogni gola, sorvolando ogni cima e ogni burrone, passando su ogni parte dell’isola in modo da non trascurare alcun punto. La giornata era chiara e luminosa, il clima
tiepido, il vento favorevole e la ricerca proseguì senza difficoltà. Al tramonto, Walker non aveva trovato assolutamente nulla. L’indomani prese il volo con Po Kelles, sul suo Roc dalle penne bianche e nere, Niciannon. Volarono trasportati da un forte vento del sud ed esaminarono il tratto più accidentato della costa dell’isola e là, poco dopo mezzogiorno, Walker avvertì la presenza della chiave. Era nascosta in una valle raggiungibile attraverso una spaccatura fra due alte montagne che poi proseguiva all’interno, coperta da una fitta giungla, estendendosi per più di cinque miglia. Non volendo correre il rischio di scendere con il Roc, il druido si limitò a determinare la posizione approssimativa della chiave, poi ordinò a Po Kelles di riportarlo alla nave. Sospendendo le ricerche per quel giorno, chiese a Redden Alt Mer di condurre la nave su una delle alture al disopra della valle e aspettarono che scendesse la notte. Il druido attese che si fossero addormentati, tutti a eccezione degli elfi che montavano la guardia, e chiamò Truls Rohk. Da quando era salito a bordo, non aveva visto il cambiatore di forma e non gli aveva parlato, tuttavia ne aveva sentito la presenza e sapeva che non era mai lontano da lui. Si fermò a poppa, a poca distanza dal cacciatore elfo che scrutava nell’oscurità della valle coperta dalla giungla, e trasmise a Rohk un silenzioso richiamo mentale. Stava aspettando che il cambiatore di forma si facesse vivo, quando all’improvviso si accorse che era già presente, nascosto nell’ombra vicino a lui, virtualmente invisibile a chiunque guardasse. «Che c’è, druido?» chiese Rohk in tono irritato, come se la chiamata l’avesse infastidito. «Dovresti esplorare la valle prima che faccia chiaro» gli rispose Walker, senza scomporsi. «Una ricerca veloce, niente di più. C’è una chiave, ed è fatta come questa.» Gli mostrò quella che aveva già trovato e lasciò che l’altro la prendesse, la soppesasse nella mano, sentisse la sua energia. Con un brontolio, Truls Rohk gliela restituì. «Vuoi che te la porti?» «No, non avvicinarti troppo» gli rispose Walker, guardandolo negli occhi. «Credo che riusciresti a prenderla, ma temo che il pericolo sia maggiore di quanto sospettiamo. Mi basta sapere dov’è. Andrò io stesso a cercarla domattina.» Il cambiatore di forma rise. «Non ti priverò mai della possibilità di rischiare la vita al posto mio, Walker. Tu dai meno importanza di me ai rischi.» Senza una parola, saltò al di là del parapetto e sparì. Walker lo attese fin quasi all’alba, sonnecchiando appoggiato al parapetto, la schiena rivolta all’isola, assorto nei propri pensieri. Nessuno lo disturbò, nessuno cercò di avvicinarsi. La notte era calma e tiepida, il vento del giorno aveva lasciato il posto a una lieve brezza che portava fino a quella quota l’ odore salmastro della spiaggia. Non si udiva alcun rumore. Nell’entroterra, l’oscurità avvolgeva ogni cosa in un nero silenzio. Forse Walker sognò, ma ogni ricordo del sogno era sparito quando Truls Rohk lo svegliò. «Che fai, Walker, sogni le isole del paradiso?» gli domandò il cambiatore di forma. «Spiagge di
sabbia e uccelli di tutti i colori? Frutta, fiori e venti tiepidi?»
Walker scosse la testa in segno di diniego e si destò del tutto. «Meglio così, perché nella valle che vuoi esplorare non ce ne sono» riprese Truls Rohk. La sua forma scura si spostò lungo il parapetto come una macchia liquida. «La chiave che cerchi si trova a tre miglia dalla costa, circa al livello del suolo, in una grande caverna. È ben nascosta dalla giungla, ma tu riuscirai a trovarla. In che punto della caverna è nascosta, non saprei dirtelo, non sono entrato perché c’era qualcosa che la sorvegliava.» Walker gli rivolse un’occhiata interrogativa. «Qualcosa di vivo?» «Qualcosa di cupo e vasto, privo di forma. Non ho sentito occhi su di me, Walker, ma solo una presenza, un movimento dell’aria, invisibile, onnipresente e maligno.» Niente occhi. Qualcosa di cieco? Walker rifletté sulle parole del cambiatore di forma. «Ho sentito sopra di me quella presenza per tutto il tempo in cui sono stato nella valle, ma non si è manifestata apertamente finché non sono arrivato nei pressi della caverna» proseguì Truls Rohk, e parve che riflettesse. «Era qualcosa che stava nella terra stessa, druido. Nel terreno della valle, negli alberi e nei cespugli.» S’interruppe per qualche istante, poi riprese: «Se decide di attaccarti, non penso che tu possa fuggire. Anzi, temo che tu non possa neppure allontanarti». L’istante dopo, il cambiatore di forma era scomparso, con la stessa rapidità con cui era arrivato. E Walker rimase solo. L’alba annunciò un giorno luminoso e caldo su un mare piatto e immobile. Il vento era cessato del tutto, e il cielo era di un azzurro senza nubi, con sfumature d’argento. L’orizzonte era un vuoto insondabile, dove acqua e aria si univano. Gli uccelli marini si levavano in volo lanciando i loro richiami, poi sparivano al di là della rupe per tuffarsi sulla superficie dell’oceano. Solo sulle cime dell’isola e nel fondo delle valli si addensava la nebbia che ne nascondeva i segreti, l’avvolgeva nella penombra. Walker scelse per la missione Ard Patrinell e tre Cacciatori Elfi. L’esperienza e la velocità erano più importanti della forza, nella giungla che copriva la valle, e il druido voleva essere accompagnato da guerrieri veterani, per affrontare il pericolo che si nascondeva nell’isola. Redden Alt Mer li avrebbe portati con laJerle Shannarafin dove la nave era in grado di giungere nella stretta valle, poi il druido e gli elfi si sarebbero fatti calare a terra e avrebbero proseguito a piedi. Con un po’ di fortuna, il tragitto da percorrere sarebbe stato breve. Una volta trovata la chiave, i cinque uomini sarebbero tornati al cesto e sarebbero stati riportati sulla nave. Quando gli altri si riunirono attorno a loro, il druido vide che i soldati avevano lo sguardo teso e che tutti erano preoccupati. La più preoccupata pareva Ryer Ord Star, il cui viso sottile era pallido di paura. Forse stavano ripensando alle anguille di Flay Creech, alle bocche fameliche e ai denti affilati, anche se nessuno osò dirlo. Su quella prima isola il druido aveva recuperato facilmente la chiave nascosta e nessuno si era fatto troppo male. Si chiedevano se la loro fortuna sarebbe durata ancora.
Dopo essersi legato al cavo di sicurezza, Redden Alt Mer avviò a bassa velocità laJerle Shannaralungo la valle e s’immerse nella nebbia che ne invadeva il fondo. La luce dell’alba diminuì progressivamente attorno a loro mentre la nave scivolava silenziosa fra le alte pareti di roccia e spariva nella massa di vapori lattiginosi.
Ben presto la visibilità si ridusse a una ventina di iarde. Alt Mer tenne il timone e fece procedere la nave con cautela, riducendo la velocità e avanzando a passo d’uomo. Rue Meridian si era portata a prua, in mezzo ai rostri, e segnalava al fratello ciò che scorgeva davanti alla nave dandogli le necessarie correzioni di rotta. Gli altri erano fermi accanto al parapetto: tacevano, guardavano, ascoltavano. La nebbia scendeva su di loro come una sottile patina lucida e condensava in goccioline sulla pelle e sugli abiti, costringendoli a battere gli occhi e ad asciugarsi la faccia. A parte la nebbia, che si muoveva come una mostruosa creatura primordiale, lenta e pesante, attorno a loro tutto era immobile. Con il passare dei minuti e l’infittirsi della nebbia, Walker cominciò a preoccuparsi per la visibilità nel fondovalle. Se dall’aria la visuale era tanto ridotta, come trovare la strada una volta sbarcati? I suoi istinti di druido gli offrivano una buona assistenza, ma la magia non poteva sostituire la vista. Sarebbero stati virtualmente ciechi. Giunto a quel punto dei suoi pensieri, s’interruppe bruscamente. Ecco di nuovo quella parola. Cieco. Ripensò alla visione di Ryer Ord Star e al nemico che li attendeva in una di quelle isole, un’entità che era cieca ma riusciva lo stesso a trovarti. Ripensò alla sensazione provata da Truls Rohk la notte precedente, quando era sceso da solo nella valle. Ma dall’aria, Walker non coglieva nulla. Davanti a loro la nebbia si diradò leggermente e si tornarono a vedere le pareti della valle, a poca distanza dai fianchi della nave. Redden Alt Mer fermò laJerle Shannarae attese che Little Red gli desse la rotta. Legata al suo cavo di sicurezza, la donna si sporse dal parapetto e scrutò nella nebbia sottostante, infine gli indicò di avanzare con cautela. Tre rami uscirono dalla foschia, come dita spettrali intenzionate ad afferrare la nave. Dagli alberi e dalle rocce pendevano enormi grovigli di liane. Poi la nebbia scomparve e laJerle Shannaraimboccò una gola imprevedibilmente libera e aperta. Il cielo riapparve sopra le loro teste, azzurro e amichevole, e sul fondovalle si poté distinguere un mare ininterrotto di verde, qua e là segnato da macchie più scure. Redden Alt Mer abbassò lo scafo fino a poca distanza dalle cime degli alberi, poi lo rimise in rotta, con cautela. Walker esaminava la valle dinanzi a loro e vide che si stringeva tanto che i rami degli alberi delle due pareti di roccia quasi si toccavano. La nave non poteva avanzare di più. Da lì in poi avrebbero dovuto camminare. Quando giunsero nel punto più stretto della gola, Redden Alt Mer abbassò laJerle Shannarafino a sfiorare gli alberi. Walker e i quattro Cacciatori Elfi si sciolsero dai cavi di sicurezza e montarono nel cesto. Una decina di braccia lo sollevò e lo spostò fuori bordo, poi lo calò lentamente in mezzo agli alberi. Quando si trovò con i piedi sul terreno. Walker segnalò a Rue Meridian, che continuava a sporgersi oltre il parapetto, che erano atterrati senza problemi. Poi, senza muoversi, si soffermò a esaminare il terreno che lo circondava in cerca di pericoli nascosti, ma non trovò niente. Per quanto sondasse l’ambiente con attenzione, non colse presenze minacciose. Eppure, c’era chiaramente qualcosa di strano. Dopo qualche istante comprese di che cosa si trattava. La giungla era un muro fitto, impenetrabile, di vuoto e di silenzio. Niente uccelli, notò Walker. Nessun animale. Neppure il ronzio di un insetto. A parte ciò che era radicato nella terra, in quel luogo non c’erano esseri viventi.
Walker scorse una breccia nelle rocce davanti a loro e indicò ad Ard Patrinell di avviarsi in quella direzione. Il comandante degli Elfi non rispose; si voltò verso i suoi Cacciatori e segnalò loro gli ordini senza parlare. Un robusto elfo di nome Kian si portò in testa, seguito da Walker, Patrinell, il sottile Brae e l’alto Dace. Lasciarono la gola ed entrarono nel passaggio, guardandosi attorno con cautela e cercando
di cogliere i pericoli che potevano essere in agguato. Walker continuò a saggiare la giungla proiettando sottili tentacoli di magia che sfioravano gli alberi leggeri come piume e poi svanivano. Il passaggio si stringeva progressivamente fino a divenire un corridoio largo poche decine di passi, ricoperto di alberi e liane. Occorreva farsi strada in mezzo alla vegetazione e aggirare le masse più grosse. Tutt’intorno a loro, dalla giungla non si levava un solo rumore. Proseguirono senza incontrare segno di vita. Lo stretto corridoio si allargò e le sue pareti divennero più alte, come se fossero entrati in una nuova gola, e il cielo tornò a ridursi a una striscia azzurra sulle loro teste. Il sole illuminava la vegetazione e si rifletteva nelle pozzanghere. Procedendo sul fondovalle, superata una strettoia i cinque uomini si trovarono in un’altra gola, molto più larga delle precedenti. Come vi mise piede, il druido venne afferrato da un’entità che lo scosse come una mano gigantesca potrebbe scuotere un minuscolo insetto. La mano invisibile uscì bruscamente dal terreno e gli fu addosso tanto in fretta da non dargli il tempo di reagire. Per qualche istante, il druido rimase come stordito. Forse l’entità aveva continuato a seguirli celando fino a quel momento la sua presenza, forse l’aveva trovato soltanto allora. Enorme e possente, priva di forma riconoscibile e di sostanza, era dappertutto nello stesso tempo, invisibile ma perfettamente reale. Il druido si abbandonò alla stretta, non oppose resistenza: voleva darle l’impressione di essere inerme. I Cacciatori Elfi lo guardarono senza capire, ma Walker non rivolse loro alcun cenno, non diede alcuna indicazione di essersi accorto della loro presenza. Si ritirò all’interno di se stesso, dove niente poteva toccarlo. Là, isolato da tutto, restò in attesa. Qualche istante più tardi, la presenza si ritirò, scivolando di nuovo nella terra, forse soddisfatta di non essere minacciata. Walker respirò a fondo per liberarsi da tutti gli effetti del contatto. L’attacco l’aveva scosso. Qualunque fosse la sua natura, l’entità che abitava nella valle possedeva poteri infinitamente superiori ai suoi. Era vecchissima, forse antica quanto il mondo di Faerie. Rivolse un cenno agli Elfi per segnalare che non gli era successo niente, poi si guardò attorno in fretta. Non voleva rimanere in mezzo alla vegetazione. Un affioramento di rocce spoglie formava una piccola montagnola in mezzo alla gola, una sorta di piccolo rifugio illuminato dal sole nella foschia della giungla. Forse da lassù avrebbe potuto esaminare meglio il territorio. Fece segno ai Cacciatori Elfi di seguirlo e si staccò dai cespugli per arrampicarsi sulla roccia. Mentre saliva, le tracce della presenza minacciosa si affievolivano. “Strano” si disse Walker raggiungendo la cima dell’affioramento. Da lassù osservò la gola. Non c’era molto da vedere. All’estremità opposta rispetto a loro, il canalone si allargava e il suo fondo si alzava in un lungo, tortuoso pendio che spariva nella nebbia e nell’ombra. Il druido non riuscì a scoprire cosa c’era al di là. Si guardò attorno, esaminando le pareti della gola vicino a loro, ma non ne ricavò indizi utili. Eppure sentiva una sorta di pressione mentale, prodotta dalle emanazioni di un oggetto situato a breve distanza. Chiuse gli occhi, svuotò la mente e cominciò a sondare con delicatezza, servendosi dei suoi sensi magici. Trovò quasi subito ciò che cercava, e spalancò
immediatamente gli occhi per confermare con la vista quello che aveva scorto con la chiaroveggenza.
Vide solo una macchia scura nella cortina verde che copriva la parete del canyon, a un centinaio di passi. Era la caverna trovata da Truls Rohk la notte prima. Per alcuni istanti fissò l’oscurità senza muoversi. La seconda chiave era là dentro e lo aspettava. Ma anche l’entità che la sorvegliava era in attesa. Per qualche istante si chiese come raggiungere la caverna, ma non trovò nessuna soluzione agevole. Si rivolse ai Cacciatori Elfi e fece loro segno di rimanere dove si trovavano. Poi scese dalle rocce e si diresse verso la caverna. Sentì ritornare quasi all’istante l’entità, ma ormai aveva già rivolto i pensieri all’interno di sé. Non era nulla, era un oggetto privo di scopo che si muoveva a caso, incapace di pensare. Si chiuse in se stesso prima che la sentinella riuscisse a scoprire le sue intenzioni, ed entrò nella caverna. Giunto all’interno, si fermò a raccogliere i pensieri. Non sentiva più la presenza che l’aveva seguito. L’ aveva lasciato quando aveva superato l’ingresso, proprio come aveva fatto ai piedi dell’ammasso di rocce. Evidentemente la roccia non la lasciava passare, si disse. Solo il terreno da cui traeva il proprio potere. Poteva lui usare quella limitazione per proteggersi in qualche modo? Allontanò quel pensiero e si guardò attorno con attenzione. La caverna era composta da una successione di camere, illuminate da fenditure della roccia che lasciavano filtrare sottili fili di luce dalla giungla soprastante. Walker cercò la chiave e la trovò quasi subito. Era bene in vista, su una piccola sporgenza rocciosa, assolutamente incustodita. Walker la studiò per un momento prima di prenderla, poi la esaminò di nuovo. Nell’aspetto era simile alla chiave che già possedeva: c’erano la stessa fonte di energia e la luce rossa intermittente, però i rilievi metallici formavano un disegno diverso. Walker osservò guardingo l’ingresso della caverna cercando la sentinella, un indizio di pericolo o di minaccia, ma non trovò nulla. Andò all’ingresso della caverna e si fermò a guardare la radura. Ard Patrinell e i suoi Cacciatori Elfi erano in cima al monticello di rocce e lo osservavano. Tutt’intorno, nella giungla che li circondava, niente si muoveva. Il druido rimase dov’era. Qualcosa avrebbe cercato di fermarlo. Impossibile che non lo facesse. L’entità che custodiva la chiave non gli avrebbe permesso di allontanarsi con essa. Adesso lo stava aspettando, fra gli alberi, là fuori, sul terreno da cui traeva la forza. Stava ancora chiedendosi cosa fare quando la terra davanti a lui eruttò in un’esplosione verde. A bordo dellaJerle Shannara, che si librava nella nebbia della prima gola, Bek Rowe osservava Rue Meridian fissare un tubo radiante accanto alla prua quando la voce di Walker echeggiò con grande chiarezza all’interno della sua mente. “Bek, siamo attaccati! Due gole più avanti. Di’ ad Alt Mer di venire con la nave. Calate il cesto e raccoglieteci! Presto!” Stupito da quel richiamo inatteso che proveniva dalla sua mente, il ragazzo sobbalzò alla voce del druido. Poi corse alla cabina del pilota. Non gli venne in mente di chiedersi se era un trucco. Non gli venne in mente che la voce poteva non essere reale. L’urgenza della richiesta gli
fece attraversare di corsa il ponte, gridando il nome di Big Red come se fosse stato punto da uno sciame di vespe.
In pochi istanti, la nave stava già volando tra le alte montagne e si era sollevata al disopra delle gole troppo strette, per portare soccorso ai cinque assediati. Dall’imboccatura della caverna, Walker fissò i Cacciatori Elfi isolati in cima alle rocce. L’intero suolo della gola era divenuto un intrico di liane e rami che si contorcevano e cercavano di afferrare tutto ciò che giungeva alla loro portata. Avevano ghermito Brae prima che riuscisse a difendersi, l’avevano fatto ruzzolare dall’altura e fatto a pezzi mentre gridava invano perché lo aiutassero. Gli altri tre Cacciatori Elfi erano indietreggiati fino al centro di quella specie di isola, avevano impugnato le spade e adesso colpivano freneticamente i tentacoli che cercavano di avvinghiarli. Walker s’infilò in una tasca la seconda chiave e fece ricorso al fuoco dei Druidi per distruggere la parete vegetale sorta dinanzi a lui. Le fiamme azzurre entrarono in profondità nella massa incendiando tutto ciò che toccavano, aprendo un passaggio. Walker continuò ad attaccare, bruciando la massa di fogliame tra lui e le rocce nel tentativo di raggiungere i compagni. In risposta al suo attacco, però, un peso enorme, implacabile, calò su di lui, costringendolo a piegarsi sulle ginocchia. Con uno sforzo, indietreggiò verso l’ interno della caverna per sottrarsi all’aggressione, e il peso diminuì. Il difensore della chiave non poteva raggiungerlo quando era protetto dalla roccia della caverna, ma lo avrebbe trattenuto là dentro per sempre. Adesso Walker capiva cos’era successo. Sia nella gola sia su Flay Creech, i custodi delle chiavi montavano la guardia contro ogni presenza estranea e i possibili ladri. Non erano entità pensanti e non si affidavano alla ragione: agivano per puro istinto. Sia le anguille sia la giungla erano stati alterati in modo da servire a un unico scopo. Ma come fossero riusciti a farlo e chi l’avesse fatto, Walker non ne aveva idea. Sapeva solo che quel potere era enorme, più che sufficiente a sconfiggere chiunque si fosse presentato, nonostante che la sua efficacia si limitasse a una piccola area. La giungla cercò di afferrarlo attraverso l’ingresso e Walker rispose di nuovo con il fuoco dei Druidi, carbonizzando rami e liane, riempiendo l’aria di nubi di fumo e di cenere. Se Redden Alt Mer non fosse arrivato in fretta, erano finiti. Gli Elfi non potevano sperare di resistere a un assalto prolungato, sull’ ammasso di rocce, e anche la magia di un druido aveva i suoi limiti. Spinto dalla disperazione, Walker tornò verso l’apertura, deciso a liberarsi. Allontanò la giungla in un nuovo tentativo di uscire. Quando si affacciò sulla soglia, vide laJerle Shannarapassare sopra di loro e sentì le grida dei passeggeri. Anche gli Elfi intrappolati sull’altura sollevarono lo sguardo, distraendosi per un istante, e Dane ne pagò lo scotto. Gettato a terra da una frustata delle liane, non riuscì a sfilare le gambe dalla loro implacabile presa. Scalciando follemente, lottò invano per liberarsi. Patrinell e Kian corsero subito ad aiutarlo, ma l’ elfo era già stato trascinato giù dall’altura, verso la morte. Poi un torrente di fuoco piovve attorno all’isoletta rocciosa circondando con un cerchio di fiamme i Cacciatori Elfi intrappolati. Versato dai barili collocati dietro le murate, il liquido incendiario piovve su liane e rami e immediatamente divampò il fuoco. Un istante dopo, sulla scia dei getti incendiari, venne calato il cesto, che si fermò accanto ad Ard Patrinell e Kian. Abbandonata la lotta contro la giungla, i due elfi saltarono dentro mettendosi in salvo. La giungla si scagliò contro Walker, liane e arbusti, rami e alberi, torcendosi come serpenti infuriati per cercare di catturarlo. Il druido si fermò sulla soglia della caverna e scatenò il suo
fuoco per impedire che la vegetazione lo afferrasse e lo gettasse a terra. Ancora qualche istante e si sarebbe liberato.
Ma il guardiano della chiave non era disposto a lasciarselo sfuggire. Di fianco al druido, dall’ombra, uscì un lungo ramo di rovo che lo colpì sulla faccia come una sferza. Spine lunghe un dito gli si piantarono nella pelle lacerandogli il braccio e il fianco. Walker sentì immediatamente entrare nella sua carne il fuoco gelido del loro veleno. Si strappò di dosso il ramo, lo gettò a terra e lo carbonizzò. Un istante più tardi, il cesto venne calato davanti a lui, il druido si trascinò faticosamente fino a esso e vi salì. Le liane cercarono freneticamente di afferrarlo mentre veniva issato a bordo. Con le ultime forze, Walker le bruciò, a una a una, lottando per non perdere i sensi. Una volta liberato dai rampicanti, il cesto prese rapidamente a salire. Anche la nave si alzò, allontanandosi nell’azzurro del cielo. Dal parapetto si sporsero facce ansiose, ma Walker le vide solo come macchie sfuocate. Cercò di metterle a fuoco, ma non ci riuscì. Si accasciò nel cesto e perse conoscenza. Nella gola, la vegetazione si contorceva in una massa di rami infuocati. Infine sparì in mezzo a nubi di fumo nero.
22 Walker rimase tra la vita e la morte per sei giorni e sei notti. Fulmineo e letale, il veleno dei rovi gli era entrato in profondità nell’organismo. Quando era stato riportato a bordo dellaJerle Shannara, era già privo di sensi. Per fortuna il guaritore Joad Rish riconobbe subito i sintomi e lo fece rinvenire per il tempo sufficiente a fargli inghiottire un antidoto, poi passò i minuti successivi ad applicare sulle ferite impacchi di foglie per estrarne il veleno. Gli sforzi del guaritore rallentarono la penetrazione del tossico e ne attutirono gli effetti mortali, ma non poterono contrastarlo del tutto. Per insistenza di Redden Alt Mer, Walker venne portato nella cabina del comandante e il guaritore lo avvolse nelle coperte per tenerlo al caldo, gli diede da bere molta acqua per evitare la disidratazione, gli cambiò regolarmente le fasciature e rimase a vegliarlo. L’organismo di Walker faceva più di quanto potesse fare il guaritore per mantenerlo in vita. Combatteva una lotta silenziosa che era evidente all’elfo, ma che la medicina non poteva aiutare. Bek Rowe rimase nella cabina per gran parte del tempo. Da quando Walker l’aveva chiamato durante l’ attacco della giungla, si sentiva legato al druido in un modo nuovo e inatteso. La constatazione che soltanto lui avesse sentito il richiamo di Walker aveva meravigliato tutti. Al momento nessuno aveva dato peso alla cosa, tuttavia Bek non faticava a indovinare cosa pensavano. Se il druido avesse potuto mandare il suo messaggio mentale alle altre persone, avrebbe chiamato Redden Alt Mer, che pilotava laJerle Shannarae poteva reagire più in fretta. Ma Big Red non aveva sentito nulla. E nemmeno Quentin o Panax o Ryer Ord Star, forse non l’aveva sentito neppure Truls Rohk. Soltanto Bek. Come poteva essere? Perché Bek era in grado di ricevere un simile messaggio, lui e nessun altro? E Walker come sapeva che Bek l’avrebbe udito? Queste domande lo assillavano, ma non avrebbe avuto risposta finché il druido non si fosse rimesso dalle ferite. Tuttavia non era questo il motivo che spingeva il giovane a stare di guardia
accanto a lui. Temeva che Walker, chiuso in se stesso mentre era fuori conoscenza, avesse bisogno di comunicare con lui e lo chiamasse di nuovo. Forse la distanza non costituiva un problema per Walker, ma ciò era vero anche
quando era malato? Se Bek non fosse stato vicino, forse il grido d’aiuto sarebbe rimasto inascoltato e non voleva esserne responsabile. Se c’era un modo per salvare la vita del druido, voleva essere presente per fornirglielo. Perciò continuò a sedere in silenzio accanto a Walker nella cabina di Redden Alt Mer e a osservare Joad Rish che lo curava. Di tanto in tanto dormiva, ma solo brevemente e di un sonno leggero. Ahren Elessedil gli portava da mangiare e Quentin e Panax venivano a trovarlo. Nessuno cercò di allontanarlo dalla cabina, anzi, tutti pensavano che il suo posto fosse accanto al druido. Inoltre, nessuno si sorprese del fatto che non fosse solo, a vegliare su Walker. Per tutto il tempo con lui ci fu la giovane veggente, Ryer Ord Star. Come aveva sempre fatto fin dalla partenza da Arborlon, la donna rimase al fianco del druido come un’ombra. Continuava a fissarlo attenta, la testa inclinata, senza mai distogliere lo sguardo, e studiava Joad Rish mentre gli praticava le sue cure, chiedendogli di tanto in tanto qualche spiegazione e poi rispondendogli con un cenno d’assenso come per approvare le sue azioni. Occasionalmente la donna parlava a Bek, ma limitandosi a qualche breve frase, senza staccare gli occhi dal druido. Bek la osservava con la coda dell’occhio, cercando di leggere nei suoi pensieri, di vedere nella sua mente se avesse avuto qualche visione sul destino di Walker, ma la veggente non gli rivelava nulla: il suo viso affilato da adolescente era una maschera impenetrabile. Una volta, dopo che Joad Rish fu uscito dalla cabina e li ebbe lasciati soli, mentre tutt’e due sedevano su una panca accanto al druido, al lume di una candela, Bek le chiese se Walker sarebbe sopravvissuto. «La sua volontà è molto forte» rispose piano la donna. «Ma ancora più forte è il suo bisogno di me.» Bek non aveva idea del significato di quelle parole, tuttavia non osò chiedere spiegazioni. Per qualche minuto cercò di farsi coraggio e di rivolgerle la domanda, poi vide arrivare Joad Rish e lasciò cadere l’ argomento. Ebbe però l’impressione che, secondo la giovane donna, la sua vita e quella del druido fossero legate. Due sere più tardi ne ebbe la certezza. Joad Rish aveva annunciato, qualche ora prima, di avere fatto per il druido tutto ciò che poteva: da quel punto in avanti, la guarigione doveva venire dal druido stesso. Non aveva perso la speranza e non aveva sospeso le cure, ma le condizioni di Walker non miglioravano ed era preoccupato. Bek stesso vedeva che il paziente aveva raggiunto un punto critico della sua lotta. Invece di dormire tranquillo, si agitava e si rivoltava nel sonno, delirava ed era madido di sudore. La sua grande forza di volontà pareva urtare contro un muro, e il veleno premeva inesorabile contro di essa. Il giovane aveva la sgradevole impressione che Walker stesse perdendo terreno. Ryer Ord Star doveva avere pensato la stessa cosa. Verso mezzanotte si alzò all’improvviso e disse a Joad Rish di farsi da parte e di darle la possibilità di aiutarlo. Il guaritore ebbe un attimo di esitazione, poi, per qualche motivo, decise di accogliere la richiesta. Forse conosceva la sua reputazione di empatica e si augurava che potesse fare qualcosa per aiutare il malato. O forse pensava di non poter più fare nulla, e allora perché non lasciarla provare? Si sedette accanto a Bek e assieme a lui osservò la giovane veggente.
Ryer Ord Star si chinò sul druido senza parlare. Come se fosse la sua ombra, si accostò a lui e gli prese la faccia tra le mani. Parlò piano, con gentilezza, pronunciando parole che Bek e Joad Rish non riuscirono a cogliere, mormorii che si persero tra i mille piccoli rumori della nave che volava nella notte, spinta dal vento. Continuò a lungo: a quanto poté capire Bek Rowe, cercò di legarsi a Walker con il
tocco delle mani e il suono della voce. Voleva che il druido sentisse la sua presenza. Voleva fargli sapere che era con lui. Poi posò la guancia contro la sua fronte, senza staccare le mani dal viso, e smise di parlare. Chiuse gli occhi e cominciò a respirare a fondo e con forza. Walker prese ad agitarsi, venne scosso da profondi spasmi, inarcò la schiena con violenza e iniziò ad ansimare e a gemere. La giovane non si staccò da lui mentre gemeva e anche il suo corpo si inarcò all’ unisono con quello del druido. Il suo viso sottile si coprì di sudore, rughe profonde si scavarono sulla sua fronte pallida. Joad Rish fece per alzarsi, poi ci ripensò. Né lui né Bek osavano scambiarsi un’occhiata, tutt’e due tenevano gli occhi fissi sulla veggente. La strana danza del druido e della giovane proseguì a lungo, con una successione di movimenti improvvisi e di risposte severe. La donna prendeva dentro di sé il veleno, la malattia e il dolore, comprese a un certo punto Bek, vedendo il suo corpo contorcersi e i suoi lineamenti contrarsi. Assorbiva in sé ciò che lo stava uccidendo. Ma così facendo non rischiava di morire? Una creatura tanto fragile non poteva avere una resistenza superiore a quella del druido. Nel guardarla all’opera, il giovane si sentiva inerme e frustrato, ma non poteva fare nulla. Poi, bruscamente, Ryer Ord Star cadde a terra e il guaritore e Bek balzarono in piedi e accorsero. Aveva perso i sensi. La adagiarono su alcune coperte, sul pavimento della cabina, e la coprirono. La donna dormiva profondamente, chiusa in se stessa: aveva preso in sé il veleno di Walker, la sua malattia e il suo dolore. Ora infatti il druido dormiva sereno, non si agitava più e il delirio era cessato. Joad Rish li visitò tutt’e due, sentì loro il polso e il battito del cuore, la temperatura e il respiro. Quando ebbe terminato, guardò Bek e scosse la testa. Non sapeva se la cura avesse avuto successo. Erano vivi, ma gli era impossibile dire se sarebbero rimasti in vita. Tornò a sedere sulla panca, senza parlare, e l’attesa ricominciò. All’alba, laJerle Shannaraincontrò la peggiore tempesta del viaggio. Redden Alt Mer l’aveva sentita arrivare per tutta la notte, segnalata da improvvisi sbalzi di temperatura e da cambiamenti di direzione del vento. Quando l’alba si levò in un cielo grigio come piombo con striature sanguigne, ordinò di legare le vele e di chiudere gran parte dei tubi radianti. A nordovest il cielo era solcato dai fulmini e dall’orizzonte avanzavano dense nubi nere. Lasciati i comandi al fidato Furl Hawken, Big Red scese sottocoperta per dare gli ordini ai suoi Corsari. Tutto ciò che poteva muoversi venne fissato con corde e tutti coloro che non facevano parte dell’ equipaggio ricevettero l’ordine di non uscire dalle cabine. Rue Meridian si recò nell’alloggio del fratello per assicurarsi che Walker fosse legato e per avvertire Bek, Ryer Ord Star e Joad Rish che la tempesta si stava avvicinando. Little Red se n’era appena andata che il vento cominciò a ululare sul ponte e in mezzo agli alberi come se fosse un animale vivo. Prese a cadere una pioggia torrenziale e l’oscurità scese sulla nave come un’onda soffocante. Redden Alt Mer si fece dare i comandi da Furl Hawken, ma gli ordinò di rimanere con lui.
Spanner Frew era a prua, per avvistare imprevisti ostacoli, e Little Red passò a poppa. L’equipaggio si era legato alle cime di sicurezza e si riparava dietro le murate in previsione di quanto stava per arrivare. La tempesta che sopraggiunse fu feroce. Li inghiottì in un solo boccone di nera furia che coprì ogni suono
e ogni luce, li inondò di pioggia e li sferzò con venti così selvaggi da dare l’impressione che volessero fare a pezzi la nave. Nel tentativo di sottrarsi alla tempesta, Big Red fece scendere laJerle Shannarafino a una trentina di braccia dalla superficie dell’oceano. Non intendeva portarsi troppo vicino alle onde, perché l’oceano era più pericoloso del vento. Da quel poco che poteva vedere dello Spartiacque Azzurro, illuminato a intermittenza dalla luce dei lampi, si convinse di avere compiuto la scelta giusta: la superficie dell’oceano era un calderone ribollente di schiuma e di onde frastagliate alte dieci, quindici braccia. In aria c’era da sobbalzare, ma laJerle Shannaranon rischiava di colare a picco. Cominciò a temere che i venti finissero per spaccare la nave. Pennoni e cime si abbattevano sul ponte, e volavano via spazzati dal vento. La nave era aerodinamica e poteva tener testa ai venti peggiori, ma la tempesta metteva a dura prova la sua resistenza e la faceva sobbalzare selvaggiamente, con scosse che rovesciavano lo stomaco ai passeggeri e li costringevano a stringere i denti. Redden Alt Mer cercava di mantenere la nave in assetto, ma ben presto neanche i suoi sforzi riuscirono a vincere la forza del vento. Non era più in grado di capire in che direzione viaggiavano, che velocità tenevano e neppure la loro posizione rispetto alla tempesta. Riusciva solo a tenere la nave con la prua al vento e a una certa distanza dalle onde. La lotta proseguì per tutta la mattina. Più volte Big Red diede i comandi a Furl Hawken per qualche minuto di riposo. Il vento lo assordava con il suo ululato e gli scorticava la faccia e le mani. Tutto il corpo gli doleva e aveva i crampi alle braccia e alle gambe per la fatica di tenere stretti i comandi. Ma ogni volta che si fermava per riposare, temeva di perdere troppo tempo. Perciò si permetteva solo pochi minuti di sosta. La responsabilità della nave e dell’equipaggio era sua e non intendeva scaricarla su altri. Furl Hawken era il migliore che si potesse trovare, ma la sicurezza della nave e dei suoi passeggeri ricadeva sul comandante. Avrebbe potuto condividere la fatica con Little Red, ma non sapeva dov’era. Non la vedeva da ore, non riusciva più a scorgere la prua e la poppa e coloro che vi si trovavano. Alla fine la tempesta passò, lasciando tutti fradici, doloranti e lieti di essere vivi. Era stata la peggiore che Redden Alt Mer avesse mai incontrato. Pensò che erano fortunati ad avere una nave robusta come la Jerle Shannara, e una delle prime cose che fece, dopo avere calcolato approssimativamente il punto ed essersi riportato su quella che gli pareva la rotta giusta, fu di lasciare i comandi a Furl Hawken per andarlo a dire a Spanner Frew. Un breve controllo dei presenti gli rivelò che nessuno mancava e solo alcuni accusavano lievi ammaccature. Anche Little Red ricomparve dal luogo dove s’era riparata per informarlo che avevano perso alcuni tubi e un paio di pennoni, ma non c’erano danni irreparabili. Il problema più grave stava nel fatto che un portello era finito sui barili dell’acqua e li aveva sfondati, cosicché erano privi d’acqua dolce. Occorreva cercare un’isola dove rifornirsi. Solo allora il comandante si ricordò dei Cavalieri del Wing Hove e dei loro Roc, che avevano affrontato la tempesta con i propri mezzi. Scrutò invano il cielo: erano scomparsi tutti e tre. Al momento non poteva fare nulla. Avevano mezza giornata di luce e intendeva approfittarne. Seguivano ancora la mappa di Walker e facevano rotta verso la terza isola. Anche se il druido non poteva essere d’ aiuto, era più sensato continuare il viaggio che tornare indietro o rimanere fermi. Se Walker fosse morto, Redden Alt Mer avrebbe deciso diversamente, ma finché era in vita intendeva proseguire.
«Chiama tutti in coperta e mettili al lavoro» disse alla sorella. «E controlla come sta il druido.» Little Red si allontanò subito, ma fu Bek Rowe a portargli le notizie che desiderava. «Adesso dorme tranquillo e Joad Rish pensa che si riprenderà.» Il giovane sembrava esausto, però sorrideva. «Non c’è
più bisogno della mia presenza, là sotto. Posso dare una mano in coperta.» Alt Mer sorrise e gli diede una manata sulla spalla. «Sei un bravo ragazzo, Bek. Sono fortunato ad averti come aiutante. Va bene. Fa’ quello che vuoi, ora. Da’ una mano dove c’è bisogno.» Il ragazzo corse subito ad aiutare Rue Meridian, che trascinava via un pennone rotto. Big Red lo guardò per un momento, poi tornò nella cabina, a tenere compagnia a Furl Hawken. Lanciò di nuovo un’ occhiata a Bek. «Quel ragazzo è innamorato di lei, Hawk» dichiarò con un sospiro. Furl Hawken annuì. «E chi non lo è? Sai quanto gli servirà, a lui o a chiunque altro?» Redden Alt Mer strinse le labbra, con aria pensosa. «Può qualche sorpresa.»
darsi che Bek Rowe ci riservi
L’altro corsaro sbuffò. «Può darsi che le mucche abbiano le ali.» Tornarono a cercare di determinare la posizione della nave, con bussola e sestante, e scrutarono l’ orizzonte alla ricerca di qualche punto di riferimento. Per il momento potevano soltanto attendere. Le stelle avrebbero permesso loro di fare il punto più accuratamente, una volta scesa la notte. L’indomani sarebbe tornato il sereno e avrebbero ripreso a navigare a tutta velocità. Forse i Cavalieri del Wing Hove sarebbero ricomparsi da dove si erano nascosti, forse Walker si sarebbe rimesso in piedi. Redden Alt Mer guardò ancora una volta Bek Rowe e sua sorella e sorrise. Chissà, pensò, forse c’erano mucche con le ali. Erano passate quasi ventiquattr’ore dalla tempesta quando i Cavalieri del Wing Hove comparvero all’ orizzonte, a est, sorvolando il mare placido nel cielo sereno. In testa c’era Hunter Predd. Calmo e tranquillo, si accostò alla nave e si rivolse a Redden Alt Mer: «Felice di vederti, comandante!» gli gridò. «Tutto a posto?» «Siamo sopravvissuti, cavaliere! Cosa vi ha trattenuti?» Hunter Predd sogghignò. Umorismo da Corsari. «Abbiamo visto arrivare la tempesta e abbiamo trovato un’isola dove aspettare che passasse. Meglio non farsi sorprendere in sella a un Roc, con una tempesta come quella. Siete molto fuori rotta, lo sapete?» Alt Mer annuì. «Stiamo cercando di tornare sulla rotta giusta. Abbiamo bisogno di acqua dolce. Potete trovarne?» Il cavaliere agitò il braccio. «Diamo un’occhiata. Non allontanatevi troppo in nostra assenza!» Seguito da Gill e Po Kelles, fece voltare Ossidiana verso ovest e si mise alla ricerca di un’isola. I Cavalieri Alati avevano superato la tempesta su un isolotto alcune miglia più a est, in un piccolo golfo riparato. Avevano perso i contatti con la nave e i suoi passeggeri, ma era stato inevitabile: far volare i Roc con un vento così forte sarebbe stato un suicidio. L’esperienza aveva insegnato loro a rifugiarsi nel primo luogo adatto, quando vedevano avvicinarsi un fortunale. Passata la notte sull’isola, erano ripartiti al mattino. I Roc erano uccelli intelligenti, con
una vista straordinariamente acuta e un senso dell’orientamento quasi infallibile. Seguendo un metodo impiegato innumerevoli volte in precedenza, i Cavalieri Alati avevano iniziato una ricerca che si snodava su cerchi sempre più vasti e che alla fine aveva loro permesso di avvistare laJerle Shannara.
Hunter Predd sospirò. Le tempeste e gli altri imprevisti della navigazione non lo preoccupavano molto, ma perdere il druido era completamente diverso. Pensava che Walker fosse ancora vivo per il semplice fatto che Redden Alt Mer non gli aveva annunciato la sua morte. Forse stava guarendo, ma la sua assenza, anche se solo temporanea, indicava drammaticamente l’anello debole della spedizione: solo Walker aveva la piena conoscenza di quello che intendevano ottenere. Certo, altri sapevano delle chiavi e delle isole, e della natura della loro destinazione. Inoltre la veggente aveva le sue visioni, e poteva dare loro qualche indicazione in più. Forse qualcun altro aveva informazioni utili al successo dell’impresa. Tuttavia Walker era il collante che teneva insieme tutti, il solo che capiva fino in fondo lo scenario complessivo. Aveva detto a Hunter Predd che gli serviva l’esperienza dei Cavalieri del Wing Hove per il successo della spedizione, gli aveva anche suggerito di tenere gli occhi bene aperti, ma per buona parte del tempo Hunter aveva l’impressione di brancolare nel buio. Non era mai sicuro di cosa doveva sorvegliare, a parte nello stretto contesto delle circostanze del momento. Era già abbastanza difficile operare in quel modo quando Walker era sano e salvo. Ma se il druido era malato, gli altri come potevano lavorare in modo efficace, senza saperne di più? Dovevano tirare a indovinare. Giunse alla conclusione che non si poteva continuare così. Esplorare un territorio sconosciuto, a molte miglia dalla terraferma, era pericoloso di per sé, ma farlo senza una chiara idea dello scopo era intollerabile. Probabilmente, anche altri sulla nave la pensavano come lui. Che dire di Bek Rowe e Quentin Leah? Anche loro ricevevano le confidenze del druido e avevano lo stesso incarico che era stato affidato a lui. Aveva scambiato solo qualche parola con entrambi dal giorno della partenza, ma certo i due giovani dovevano avere il suo stesso stato d’animo. Tuttavia Hunter Predd non aveva molta voglia di sollevare la questione. Era un cavaliere di lunga esperienza e capiva l’importanza dell’obbedienza senza discussioni. I capi non comunicavano sempre tutto a coloro che comandavano. Lui stesso era il primo a non farlo con Gill e Po. Ci si aspettava che accettassero i loro compiti e che facessero quello che gli veniva detto. Scosse la testa: se non c’era ordine, si correva il rischio dell’anarchia. Se però ce n’era troppo, si correva quello della rivolta. Bisognava camminare sul filo del rasoio. Stava ancora riflettendo su quel dilemma, quando vide l’isola. Davanti a loro c’erano ancora nubi tempestose, e a tutta prima pensò che l’isola fosse una di quelle nubi. Quando però si avvicinò, vide che le masse che aveva scambiato per nubi nere erano rocce simili a quelle che avevano visto su Shatterstone, consumate dal sole e dalle intemperie. All’interno, dove non batteva il vento, l’isola era fittamente coperta di vegetazione. Riparandosi gli occhi dal riverbero del sole, il cavaliere scorse le cascate che scendevano dalle rocce in lunghi nastri d’argento in mezzo al verde. In quell’isola avrebbero certamente trovato acqua dolce. Poi gli balzò all’occhio qualcosa di strano. Le scogliere erano punteggiate di centinaia di macchie scure: la roccia dei crepacci e delle pareti pareva butterata da millenni di erosione. “Cosa sarà?” si chiese Hunter Predd.
Fece voltare Ossidiana in quella direzione e indicò a Gill di mettersi alla sua sinistra e a Po Kelles alla destra. Con una lunga scivolata d’ala si avvicinarono all’isola e alle sue rocce, cercando di vederne meglio le caratteristiche nel sole del pomeriggio. Hunter Predd batté gli occhi. Una delle macchie scure si era mossa? Lanciò un’occhiata a Po, che gli
rivolse un cenno d’assenso. Anche lui l’aveva vista. Hunter Predd fece segno al compagno di tornare indietro. Stava cercando di richiamare Gill, che si era momentaneamente distratto a guardare un branco di balene che passava, quando un gran numero di quelle macchie nere si staccò dalle pareti. Sotto di lui, Ossidiana s’irrigidì e lanciò un grido d’allarme. Le macchie nere avevano aperto le ali, avevano preso forma e dimensione. Hunter Predd si sentì raggelare. Il Roc aveva riconosciuto il pericolo prima di lui. Averle! Averle da guerra! Gli uccelli più feroci e selvaggi che esistessero! Quell’isola, in cui i Roc e i loro cavalieri si erano imbattuti per caso, doveva essere il luogo di riproduzione dei letali volatili. Le averle non avrebbero perdonato quell’intrusione, anche se del tutto involontaria, nel loro territorio. I Roc erano i loro naturali nemici, e li avrebbero attaccati. Hunter Predd si affrettò a tornare indietro con Ossidiana, e Po Kelles su Niciannon non perse tempo e lo seguì. Con suo stupore, però, Gill continuò ad avanzare. O non aveva visto le averle, o non aveva capito di cosa si trattava. Era inutile lanciargli un grido d’avvertimento da quella distanza, perciò il cavaliere usò il fischietto di segnalazione. Sorpreso, Gill si voltò a guardare i compagni e vide che gli indicavano le forme scure. Solo allora si accorse delle averle. Tirò freneticamente le redini di Tashin, ma il Roc venne preso dal panico e invece di voltarsi e prendere quota scese a spirale verso l’oceano, per rimettersi in assetto solo all’ultimo momento. A quel punto si affrettò a volare verso Ossidiana e Niciannon, ma aveva perso troppo terreno e le averle erano vicine. Le averle da guerra erano capaci di notevole velocità, ma avevano poca resistenza. La migliore speranza, per un Roc, consisteva nel prendere quota e allontanarsi. Hunter Predd vide che Tashin non aveva sfruttato questa via di scampo e seppe che non sarebbe riuscito a sfuggire. Allora fece tornare indietro Ossidiana e volò all’attacco delle averle, nel tentativo di distrarle. Po Kelles e Niciannon furono quasi subito al suo fianco. I due Roc lanciavano grida furibonde contro le averle che si avvicinavano: il loro odio per quelle nemiche era pari all’odio delle averle per loro. Legati alla sella dalla cintura di sicurezza, gli uomini guidarono con le ginocchia e i talloni le loro cavalcature e presero i lunghi archi e le frecce bagnate in un letale estratto di erbe. Ormai erano vicini alle nemiche e cominciarono a scagliare frecce. Molte colsero il bersaglio. E nel veder cadere le compagne, alcune averle interruppero l’attacco e tornarono all’isola. Il grosso dello stormo, però, più di venti, calò su Gill e Tashin come una nube nera e li raggiunse a poca distanza dalla superficie dell’oceano. Al primo passaggio, Gill venne strappato dalla sella. Gli artigli appuntiti e i becchi uncinati sparsero dappertutto i pezzi del suo corpo, in una pioggia di sangue. Tashin durò pochi secondi di più. Contorcendosi sotto i colpi, per qualche istante riuscì ancora a sollevarsi, poi scomparve sotto uno sciame di corpi neri. Prima di toccare l’oceano, anche lui venne fatto a pezzi. Hunter Predd fissò la carneficina con rabbia impotente. Tutto era successo in pochi istanti. Un attimo erano in volo, l’attimo seguente erano scomparsi. Prima erano vivi, poi erano solo un ricordo, l’assurda perdita di una vita che non sarebbe dovuta succedere. Ma cos’avrebbe
potuto fare per evitarlo? Fece allontanare Ossidiana. Po Kelles e Niciannon lo seguirono. In poco tempo guadagnarono quota e ben presto furono al sicuro. Le loro inseguitrici non li rincorsero. Erano troppo occupate a volare in cerchio sul tratto di mare cosparso di penne e di sangue. I due Cavalieri del Wing Hove proseguirono il volo senza girarsi.
23 Dopo avere perso in pochi giorni tre dei loro compagni, i passeggeri dellaJerle Shannaraproseguirono il viaggio per altre sei settimane senza incidenti. Eppure, il malumore continuò a crescere e a esplodere al minimo pretesto. Forse era la tensione delle tante settimane passate in quello spazio ristretto, forse la crescente incertezza del loro destino, forse fu soltanto il cambiamento di clima, perché la nave adesso faceva rotta a nord e l’aria era diventata tagliente, le burrasche erano più frequenti. Qualunque fosse la ragione, tutti avevano i nervi a fior di pelle. Il cambiamento più visibile era quello avvenuto in Walker. Dopo essersi ripreso dalle ferite subite sull’ isola di Shatterstone, era diventato sempre più chiuso e inavvicinabile. Pareva sicuro di sé come sempre e altrettanto determinato nel suo scopo, ma si allontanava dai compagni in un modo che faceva capire come preferisse la propria compagnia alla loro. Si consultava regolarmente con Redden Alt Mer sui progressi compiuti ed era cortese con tutti, ma pareva farlo da una grande distanza. Aveva cancellato gli incontri serali nella cabina del comandante, annunciando che non erano più necessari. Ryer Ord Star lo seguiva come un cagnolino che avesse perso il padrone, ma lui pareva non vederla. Perfino Bek Rowe incontrava tante difficoltà a parlare con lui che dopo qualche tempo rinunciò a chiedergli perché avesse inviato proprio a lui, in particolare, il richiamo mentale da Shatterstone. Walker non era il solo a comportarsi in quel modo. Ard Patrinell continuava ad allenarsi tutti i giorni con i Cacciatori Elfi, oltre che con Quentin Leah e Ahren Elessedil, ma per il resto del tempo era virtualmente invisibile. Spanner Frew era come una nube tempestosa sul punto di scaricarsi: una volta si mise a litigare con Big Red, gridando così forte da far salire tutti sul ponte a guardarli. Anche Rue Meridian era diventata taciturna e cupa, tranne con il fratello e con Bek. Le piaceva stare con il ragazzo e passava gran parte del tempo a chiacchierare con lui. Nessuno capiva quella simpatia, ma il giovane ne approfittava il più possibile. Panax scuoteva la testa di fronte a qualsiasi cosa e passava il tempo a scolpire figurine di legno. Truls Rohk era uno spettro. Una volta Hunter Predd salì a bordo ed ebbe con Walker una discussione tesa, sottovoce, che non riuscì a soddisfare nessuno dei due, e alla fine il Cavaliere Alato era ancora più in collera di prima. Erano in viaggio da quasi quattro mesi e cominciavano ad accusare la stanchezza. Passavano intere giornate senza che si avvistasse terra, e capitava che quelle giornate si prolungassero fino a diventare settimane. Il numero di isole incontrate diminuì e fu necessario razionare l’acqua e le scorte. Raramente avevano a disposizione frutta fresca e si raccoglieva con i teloni l’acqua piovana. Il lavorosi fece sempre più noioso e monotono. Le giornate divennero tutte uguali aumentando l’insoddisfazione. Non c’era alcun rimedio per quello stato di cose: Rue Meridian lo spiegò a Bek, un giorno, mentre sedevano a chiacchierare. La vita a bordo era così e i viaggi lunghi erano i peggiori. Un po’ era dovuto al fatto che esploratori e avventurieri odiavano stare al chiuso. Anche i Corsari dell’equipaggio amavano muoversi più di quanto fosse consentito sulla nave. Nessuno di loro aveva mai preso parte a un viaggio tanto lungo e adesso scoprivano sentimenti e reazioni che non sospettavano di poter provare. Sarebbe cambiato tutto una volta giunti a
destinazione, ma fino a quel momento non potevano fare altro che sopportare il malcontento. «La vita del marinaio richiede molta fortuna, Bek» gli disse la donna. «Viaggiare sulle navi volanti è sempre difficile, anche con un comandante dell’esperienza di Big Red. L’equipaggio lo ama più per la sua fortuna che per le sua capacità. I Corsari sono superstiziosi e sempre alla ricerca di segni favorevoli. Non amano le nuove esperienze e i luoghi inesplorati se devono raggiungerli a prezzo della vita dei compagni.
L’ignoto li attira, ma preferiscono le cose familiari e rassicuranti. Bella contraddizione, vero?» «Pensavo che fossero più adattabili» rispose il giovane. Lei si strinse nelle spalle. «I Corsari sono un paradosso. Amano il movimento e i luoghi nuovi, ma non l’ignoto. Non si fidano della magia, però credono nel destino e nei suoi segni. Mia madre legge le ossa per scoprire il futuro dei figli. Mio padre legge le stelle. Non è sempre una cosa sensata, ma per chi mai lo è la vita? È meglio essere un nano o un corsaro? È meglio condurre un’esistenza prefissata e priva di sorprese o accettare che tutto cambi a ogni soffio di vento? Dipende dal punto di vista, non ti pare? Le esigenze di questo viaggio sono un’esperienza nuova per tutti, e ciascuno di noi deve trovare la propria risposta.» A Bek non dispiaceva farlo. Per natura era portato alla conciliazione e da tempo aveva imparato a vivere come imponevano le condizioni e le circostanze. Forse questo derivava dal fatto di essere un orfano affidato a una famiglia estranea e di essere cresciuto con il nome di un altro. O forse dal suo approccio verso la vita, consistente nel dubitare sempre di tutto: di conseguenza le incertezze della spedizione lo colpivano meno degli altri. In fin dei conti, non era entrato in quell’avventura con la stessa eccitazione dei compagni e il suo equilibrio emotivo era più stabile. Scoprì che, in una certa misura, la sua presenza aveva un effetto tranquillizzante sui membri della compagnia. Quando erano accanto a lui, parevano più sereni e meno irritabili. Non sapeva perché accadesse, ma era lieto di poter offrire loro qualcosa e faceva del suo meglio per suscitare il sorriso quando vedeva un muso lungo. Anche Quentin, da parte sua, contribuiva a rasserenare l’atmosfera della nave. Nulla pareva mai capace di turbarlo. Era sempre entusiasta e fiducioso e continuava ad affrontare la vita con occhi interessati: era l ’unico a godersi ogni giornata e ad attendere con eccitazione la successiva. Era nella sua natura, ovviamente, ma forniva l’ispirazione a chi aveva una natura meno generosa della sua. Poco dopo lo scontro con le averle, la nave seguì una rotta diretta ancora più a nord, in accordo con le istruzioni della mappa. Con il passare dei giorni, il clima si fece più freddo. L’autunno era arrivato e nell’ aria si sentiva un nuovo gelo; per gran parte del tempo il cielo rimase plumbeo, e sul parapetto della nave nelle mattine più fredde si formava un sottile strato di brina. Furl Hawken consegnò a tutti abiti pesanti, guanti e stivali, e la notte, sul ponte, vennero accesi fuochi perché gli uomini della guardia potessero riscaldarsi durante il turno. Le giornate si accorciarono e le notti si allungarono, e ogni mattina il sole si levò un po’ più a sud. I fiocchi di neve comparvero per la prima volta due giorni prima che laJerle Shannaraarrivasse all’isola di Mephitic. Walker si portò a prua per esaminare l’isola mentre si avvicinavano a essa. I Cavalieri del Wing Hove l’ avevano scoperta varie ore prima, mentre volavano in avanscoperta ai due lati della nave. Redden Alt Mer aveva subito aggiustato la rotta e adesso Mephitic si trovava davanti a loro, simile a un gioiello verde che luccicava nel sole di mezzogiorno. Come Walker aveva previsto, l’isola era diversa dalle due precedenti. Era bassa e larga, costituita di collinette, di foreste fittamente alberate e vaste pianure. Mancavano le alte rupi di Shatterstone e le rocce spoglie di Flay Creech. Era assai più grande di entrambe, al punto
che nella foschia della giornata autunnale, Walker non riusciva a individuarne l’estremità opposta. Non aveva un aspetto inospitale. Il territorio ricordava la Terra dell’Ovest tra Myriam e le pianure di Streleheim. Quando la nave scese
verso la riva e iniziò a girare lentamente attorno alla costa, il druido scorse piccoli daini al pascolo e stormi di uccelli in volo. Non c’era nulla fuori posto e non si scorgevano pericoli. Walker trovò ciò che cercava fin dal primo passaggio. Su un basso promontorio, nella parte ovest dell’ isola, c’era un massiccio castello con una foresta alle spalle e una spaziosa pianura davanti. Il castello era antico e diroccato, la saracinesca crollata, porte e finestre ridotte a vuote occhiaie, mura e cortili deserti. In altri tempi doveva essere stato una possente fortezza, e le mura e gli edifici adiacenti si prolungavano per quasi un miglio in tutte le direzioni. La fortezza vera e propria era grande come Paranor e altrettanto formidabile. Diversamente dalle altre due isole, delle quali era stato dato solo il nome, Mephitic era stata disegnata con cura sulla mappa del naufrago. In particolare era stata segnata la posizione della fortezza. La terza e ultima chiave, diceva la mappa, si trovava al suo interno. Walker si avvolse più strettamente nella veste nera e fissò il castello. Aveva notato la crescente irritazione dei suoi compagni e capiva che in parte era da imputare a lui. Si era volutamente staccato da loro, ma senza trascurare le conseguenze del suo agire e per motivi diversi da quelli che loro credevano. L’ inquietudine e il nervosismo erano effetti collaterali inevitabili. Conosceva particolari che i suoi compagni ignoravano, e uno l’aveva spinto a tenere le distanze dopo la sua guarigione. La situazione sarebbe cambiata una volta recuperata la terza chiave: allora avrebbero avuto maggiori speranze di raggiungere la loro meta, nella fortezza che doveva essere aperta dalle tre chiavi. La cosa non era semplice come sembrava, anzi non c’era mai nulla che fosse come sembrava. Nel dirsi questa verità provò un’amara soddisfazione, ma non riuscì a sentirsi meglio. Hunter Predd aveva il diritto di essere irritato con lui perché continuava a nascondere segreti. Tutti avevano il diritto di essere in collera, più di quanto pensavano. La situazione gli riportava alla memoria l’astio che aveva nutrito per i Druidi, in tempi lontani. Conosceva la natura del loro Ordine. Avevano poteri che usavano davanti a tutti e segreti di cui non parlavano mai. Ingannavano le persone e le manovravano. Erano specializzati nel creare avvenimenti e nel dirigere la vita altrui per il bene superiore delle Quattro Terre. Walker non aveva accettato queste cose allora e le accettava poco adesso, anche se era entrato a far parte del loro Ordine e della loro storia. Quando era divenuto un druido, perché era necessario assicurare la sopravvivenza all’Ordine e usare la magia per unire le razze, aveva giurato di non ricorrere mai alle vecchie tattiche. Ma doveva constatare una volta di più quanto fosse difficile mantenere quel lontano giuramento. Scopriva una volta di più la profondità della propria dedizione alla causa dei Druidi e al suo dovere. Ordinò a Redden Alt Mer di portare laJerle Shannarafino alla pianura davanti al castello e di ancorarla all’aperto, a varie centinaia di iarde dalle mura, in modo da poter sorvegliare tutti gli accessi. Riunì i compagni e disse loro che sarebbe entrato con una squadra nel castello, finché faceva giorno, per dare un’occhiata. Forse avrebbero trovato subito la chiave, com’era successo nelle altre due isole. Forse sarebbero riusciti a prenderla e ripartire. Però non voleva correre il rischio di cadere in una trappola come quella incontrata a Shatterstone, perciò avrebbe agito con cautela. Se avesse avvertito qualche forma di pericolo, sarebbe tornato immediatamente indietro e avrebbe ripreso la ricerca
l’indomani. E se avessero dovuto perdere qualche giorno a causa di un’eccessiva cautela, la cosa aveva poca importanza. Scelse Panax, Ard Patrinell e sei Cacciatori Elfi per accompagnarlo. Per qualche istante pensò a Quentin, poi scosse la testa. Quanto a Bek, non lo degnò neppure di un’occhiata.
La squadra scese dalla nave con una scaletta di corda e si avviò attraverso la pianura in direzione del castello. Camminarono in mezzo a erbe alte fino alla vita e arrivarono alla porta ovest, dove videro un ponte levatoio abbassato e marcio, una saracinesca bloccata in alto dalla ruggine. Si fermarono qualche istante, per permettere al druido di esaminare le ombre dietro ogni apertura, buie cavità nelle mura di pietra e calce, poi attraversarono con cautela il ponte ed entrarono nel cortile principale. Nelle pareti si aprivano decine di porte e decine di scale portavano nelle torri. Walker le esaminò tutte alla ricerca di possibili minacce, ma non trovò nulla. Poteva però sentire la presenza della chiave, debole e lontana, nelle profondità della rocca. Che tipo di guardiano la sorvegliava? «Uno è tutto e niente e ti porterà via l’anima.» Le parole della veggente echeggiarono nel silenzio della sua mente, preoccupanti ed enigmatiche. Per parecchi minuti Walker rimase fermo nel cortile per assicurarsi di quello che gli dicevano i suoi sensi magici, poi si avviò. Setacciarono le rovine dalle torri ai sotterranei, dal mastio ai pinnacoli, dalle sale ai cortili, dai parapetti ai camminamenti, esplorando rapidamente ma con una certa cura quel labirinto. Nulla interferì con i loro sforzi, nessun pericolo si presentò. Per due volte Walker credette di essere vicino alla chiave, di sentire più forte la sua presenza, di cogliere la sua particolare commistione di metallo ed energia, ma ogni volta la chiave gli sfuggì. La seconda volta divise i Cacciatori Elfi in coppie e ne inviò due con Ard Patrinell, due con Panax e due li tenne con sé, nel tentativo di circondarla. Ma nessuno riuscì a trovarla. La ricerca era frustrante anche per altri aspetti. La fortezza era una inestricabile successione di camere, cortili e corridoi, e una volta entrati si perdeva il senso dell’orientamento. I cercatori scoprivano costantemente di camminare in cerchio e finivano per ritrovarsi al punto di partenza, o, peggio ancora, a causa del disorientamento, molte volte, girato l’angolo di un corridoio o la curva di una scala si trovavano fuori dalle mura, mentre avrebbero dovuto essere dentro. Era un’esperienza fastidiosa e irritante per il druido, il quale però non pensava di doverla attribuire ad altro che alla bizzarra architettura del castello. Probabilmente era stato costruito in quel modo per trarre in inganno i nemici. Comunque fosse, il tentativo di portare a termine la ricerca venne sistematicamente frustrato perché ogni volta si trovavano al punto di partenza. Alla fine, furono costretti a rinunciare. Il sole del pomeriggio era ormai sceso sotto l’orizzonte e Walker non intendeva essere colto dall’oscurità all’interno del castello. L’edificio poteva non essere altrettanto accogliente, di notte, e non voleva essere costretto a scoprirlo a proprie spese. Anche se non erano riusciti a trovarla, sapeva che la chiave non era lontana. Era solo questione di tempo e la loro ricerca sarebbe finita. Tornò alla nave e convocò per la prima volta in quasi due mesi una riunione dei capi della spedizione, per fare rapporto ed esprimere la sua fiducia. Redden Alt Mer, Rue Meridian, Ard Patrinell, Ahren Elessedil, Ryer Ord Star, Quentin Leah e Bek Rowe furono rincuorati dalle sue parole. L’indomani, concluse il druido, avrebbero ripreso la ricerca della chiave mancante e questa volta sarebbero riusciti a trovarla. All’alba, Walker portò con sé tutti, tranne i Corsari, Ryer Ord Star, Truls Rohk e Bek. Vide la delusione nello sguardo di Bek, ma non poté farci nulla. Cercarono con diligenza, impiegando tutta la giornata, ma di nuovo restarono a mani vuote. Come il giorno prima, Walker sentì distintamente la presenza della chiave, ma non riuscì a trovarla. Cercò nel castello la magia
che poteva nasconderla, e continuò a stare all’erta contro un eventuale guardiano, perché era certo che ce ne fosse uno, ma senza risultato. La ricerca continuò per altri tre giorni. Ogni volta Walker portò con sé le stesse persone, suddividendole in gruppi diversi nella speranza che con una nuova combinazione riuscissero a vedere ciò che era sfuggito
agli altri gruppi. Dall’alba al tramonto, continuarono a perlustrare le rovine e ogni volta si accorsero di girare in cerchio, oppure di iniziare la ricerca all’interno e di finire per trovarsi all’esterno. Non venne scoperto niente di nuovo. Nessuno vide la chiave. La quinta notte, stanco e scoraggiato, il druido fu costretto ad ammettere, a se stesso anche se non agli altri, che non si approdava a niente. Aveva raggiunto un punto in cui cominciava a temere l’insuccesso. La sua pazienza era finita e la sua sicurezza iniziava a vacillare. Qualcosa, in tutta quella ricerca, lo stancava in un modo assai sottile e sgradevole. Mentre gli altri membri della compagnia si ritiravano nelle cabine per dormire, si soffermò a prua e per molto tempo continuò a riflettere sul da farsi. Gli sfuggiva qualcosa. La chiave c’era, la sentiva. Perché era così difficile localizzarla? Perché non riusciva a scoprire il suo nascondiglio? Se non c’era nessuna magia a proteggerla e non si coglieva la presenza di nessun guardiano, perché mai non riusciva a trovarla? Doveva provare un altro approccio, un metodo nuovo. Forse mandare qualcuno a esplorare il castello di notte. L’oscurità poteva cambiare l’aspetto delle cose. Era arrivato il momento di rivolgersi a Truls Rohk. A molta distanza alle spalle dellaJerle Shannara, a sudest dell’isola e invisibile dietro la curva dell’ orizzonte, laBlack Moclipsera immobile sulla superficie dell’oceano, ancorata per la notte. Sul ponte di coperta rinforzato da lastre di ferro, si muovevano le sentinelle Mwellret, avvolte nei mantelli e incappucciate, simili a spettri nell’ombra. L’equipaggio della Federazione era sottocoperta, nelle cabine, tranne il pilota, un vecchio soldato, asciutto e scattante come una frusta, chiuso nella sua repulsione verso le creature simili a rettili che la nave era costretta a trasportare. La Strega di Ilse condivideva quel sentimento. I Mwellret erano repellenti e pericolosi, ma anche lei era costretta a sopportarli. La presenza dei tirapiedi del Morgawr era il prezzo che aveva dovuto pagare per potersi mettere alla ricerca della magia della mappa. Se avesse potuto decidere lei, li avrebbe fatti a pezzi e dati da mangiare ai pesci. Non che il comandante Aden Kett e i suoi uomini amassero lei molto di più. I soldati della Federazione la odiavano quasi quanto i rettili: lei era una presenza tenebrosa che rimaneva distante da tutti, non forniva loro alcuna ragione per le proprie azioni e fin dal primo giorno aveva punito in modo esemplare uno di loro che le aveva disobbedito. L’aspetto umano era la sola cosa che l’aveva salvata fino a quel momento. Il fatto che disponesse di poteri incomprensibili e che non badasse loro se non per dare ordini li spingeva a fare sempre un largo giro per evitarla. Meglio così, naturalmente. Del resto, lei era sempre vissuta in quel modo. Avvolta nelle sue vesti grigie, si fermò davanti all’albero di prua e scrutò nella notte. Aveva continuato a seguire laJerle Shannarae i suoi passeggeri fin dalla loro partenza da Arborlon. LaBlack Moclipsera una nave da guerra formidabile ed efficiente e l’equipaggio della Federazione era costituito di marinai esperti, come le aveva promesso il ministro. Non c’era comunque il rischio di perdere il contatto. Lei aveva provveduto. Ma cosa succedeva adesso? Che cosa tratteneva all’ancora per tanti giorni la nave del druido? Per cinque giorni e cinque notti aveva atteso che recuperasse l’ultima chiave. Perché non c’era riuscito? A quanto pareva, l’enigma proposto da quell’isola era di più difficile
soluzione degli altri due. Walker era forse destinato a fallire? Avrebbe dovuto accorrere in suo aiuto?
All’idea, strinse le labbra. No, non lui. Anche senza un braccio, non si sarebbe lasciato sconfiggere così facilmente. Lo odiava e lo disprezzava, ma conosceva la sua forza e la sua intelligenza. Il druido avrebbe risolto il mistero e sarebbe riuscito ad arrivare alla fortezza che era la loro meta comune. A quel punto si sarebbero trovati faccia a faccia, e una vita intera di odio e di rabbia avrebbe trovato l’appagamento. Tutto si sarebbe svolto come previsto da lei. Il druido non l’avrebbe delusa. Eppure, non riusciva a liberarsi dall’incertezza, che continuava a tormentarla, pungente e insidiosa. Forse l’aveva sopravvalutato. Walker si rendeva conto di tutti i condizionamenti subiti in quella ricerca? Aveva riflettuto, come aveva fatto lei, sullo scopo nascosto del naufrago e della sua mappa? Aggrottò la fronte. Doveva presumerlo. Non poteva permettersi di pensare che così non fosse. Ma sarebbe stato interessante saperlo. Forse avrebbe potuto dirglielo la sua spia. Il rischio di perderla, però, era troppo grande e sconsigliava di prendere contatto con lei. Raggiunse la prua della nave e si soffermò per qualche tempo a scrutare nel buio, poi tirò fuori dall’abito una sfera lattiginosa di cristallo e la tese alla luce. Lentamente, cantò rivolta alla sfera e la nebbia svanì dal vetro lasciando il posto a un’immagine dellaJerle Shannara, ancorata sopra la pianura a occidente delle rovine del castello. Studiò con attenzione l’immagine, cercando il druido, ma non riuscì a vederlo. I Cacciatori Elfi montavano la guardia a poppa e a prua, e un corpulento corsaro sonnecchiava ai comandi. In mezzo alla nave, la strana cassa portata dal druido era sempre coperta e protetta dalle catene magiche. Cosa si nascondeva al suo interno, dietro quelle catene? Perché la custodiva così gelosamente? «Gli Elfi non sssossspettano la nossstra presssenza, padrona» sibilò qualcuno, dietro di lei. «Ucciderli tutti mentre dormono?» All’interruzione, la Strega sentì montare la collera. «Se torni ancora una volta a parlarmi senza permesso, Cree Bega, mi dimenticherò di chi ti ha mandato e ti scuoierò vivo.» Il Mwellret si chinò ossequente, come per scusarsi della sua indiscrezione. «Le mie ssscussse, padrona. Ma sssprechiamo il nossstro tempo e le buone occasssioni. Uccidiamoli e facciamola finita!» Come lo odiava! Il capo dei Mwellret sapeva che lei non poteva colpirlo. Il Morgawr gliel’aveva garantito, l’aveva costretta a giurarlo in sua presenza. Al ricordo, le veniva voglia di vomitare. Comunque, il Mwellret non aveva paura di lei in qualsiasi caso. Anche se non completamente immuni, quei rettili erano in grado di resistere al potere della sua magia, e Cree Bega più degli altri. La somma di tutte queste cose portava alla sua insopportabile arroganza e all’aperto disprezzo nei suoi confronti e rendeva quasi insostenibile il loro sodalizio. Ma lei era la Strega di Ilse, e non lasciò trasparire la sua irritazione. Nessuno poteva penetrare nelle sue difese se non era lei a volerlo. «Stanno lavorando per noi. Li lasceremo continuare finché non avranno finito. Poi potrai uccidere tutti quelli che vuoi. Tranne uno.» «Ssso che il druido è tuo, padrona» rispose il Mwellret. «A noi tutti gli altri piccoli uomini. Sssaremo sssoddisssfatti. Nani, uomini ed Elfi sssono nossstri.»
Lei passò una mano sulla sfera. L’immagine dellaJerle Shannarascomparve e il cristallo tornò opaco. La Strega s’infilò la sfera nella tasca interna, senza degnare di uno sguardo la creatura che gironzolava accanto a lei.
«Non c’è niente che sia tuo se non decido di dartelo» lo avvertì. «Ricordatene. Adesso sparisci.» «Sssì, padrona» rispose il rettile, senza mostrare rispetto o paura. E scivolò via nelle tenebre, come olio su una lastra di metallo nero. Lei non alzò gli occhi per controllare se si era allontanato. Non se ne prese la briga. Pensava che la sua promessa al Morgawr non aveva importanza. Una volta finita la ricerca, sarebbe stata la fine anche per quei rospi traditori. Tutti, nonostante la promessa fatta al Morgawr. E Cree Bega per primo. La notte era silenziosa e senza vento, e cullava tra le sue braccia laJerle Shannaracome se fosse un bambino. Bek Rowe si destò di soprassalto e si guardò attorno, nella cabina buia, ma sentì solo Quentin, Panax e gli altri russare. Qualcuno l’aveva chiamato per nome, sussurrando nella sua mente, una voce che non aveva riconosciuto, parole di cui s’era dimenticato al risveglio. Si era immaginato tutto? Si alzò, s’infilò gli stivali, prese il mantello e salì in coperta. Quando giunse in cima alla scala, si fermò per qualche istante a osservare nell’oscurità, come se il buio contenesse la risposta. Aveva udito con chiarezza il proprio nome. Qualcuno l’aveva pronunciato. Si passò la mano nei capelli ricciuti e si massaggiò gli occhi assonnati. La luna e le stelle erano come fari bianchi in un cielo di velluto nero. I profili della nave e dell’isola erano nitidissimi. Tutto era immobile, come incastonato nel ghiaccio. Raggiunse l’albero di prua, davanti al misterioso oggetto che Walker proteggeva così gelosamente. Tornò a guardarsi attorno, cercando sia dentro sia fuori di sé ciò che l’aveva attirato laggiù. «Cerchi qualcosa, ragazzo?» chiese accanto a lui una voce nota. Truls Rohk. Bek sobbalzò. Il cambiatore di forma era nascosto all’ombra della cassa, così vicino che se avesse allungato la mano l’avrebbe toccato. «Sei stato tu a chiamarmi?» chiese. «Una notte eccellente per scoprire qualche verità» gli sussurrò l’altro, con la sua voce aspra, non del tutto umana. «Hai voglia di provare?» «Di che cosa parli?» chiese Bek, sforzandosi di controllare la voce. «Canta per me. A bassa voce, come un gatto che fa le fusa. Canta come se volessi spingermi indietro solo con la voce. Hai capito cosa intendo dire?» Bek annuì, chiedendosi cosa diavolo volesse dimostrare il cambiatore di forma. Cantare? Spingerlo indietro con la voce? «Coraggio. Non chiedermi spiegazioni. Pensa a ciò che vuoi fare, e poi fallo. Concentrati.» Bek ci provò. Immaginò il cambiatore di forma, fermo accanto a lui, lo visualizzò nell’oscurità, poi cantò come se il suono, la sola vibrazione, potesse spostarlo. Il canto era a malapena udibile e, secondo Bek, inutile. «No!» esclamò Truls Rohk, adirato. «Più convinto! Dagli forza, figliolo!» Bek provò di nuovo, stringendo i denti, irritato per essere stato redarguito. Il canto ronzò e vibrò nella sua gola, uscì dalla bocca e dal naso, con ferma determinazione, e la sua forza fece
vibrare l’aria come se fosse diventata liquida. «Sì» mormorò questa volta Truls Rohk, in tono soddisfatto. «Proprio come pensavo.»
Bek smise di cantare e guardò nelle ombre, nella notte. «Come pensavi? Che cosa pensavi?» A lui il canto non aveva rivelato nulla. Cos’aveva rivelato a Truls Rohk? Una parte dell’oscurità che circondava la cassa del druido si staccò dalle ombre e prese forma, stagliandosi nella luce della luna e delle stelle. Una forma solo vagamente umana, grossa e spaventevole. Bek dovette fare appello a tutto il suo coraggio per non indietreggiare. «Io ti conosco, figliolo» sussurrò il cambiatore di forma. Bek lo fissò senza capire. «E come può essere?» L’altro rise. «Ti conosco più di quanto tu conosca te stesso. La verità su di te è un segreto. Non spetta a me rivelarlo. Dovrà essere il druido a farlo. Ma posso mostrarti un aspetto di quel segreto. Ti interessa?» Per un istante, Bek provò la tentazione di voltarsi e di andarsene. Nelle parole del cambiatore di forma c’ era qualcosa di cupo e minaccioso, che gli avrebbe cambiato la vita una volta rivelato. Lo capì istintivamente. «Noi ci assomigliamo, tu e io» disse Truls Rohk. «Noi non siamo quello che sembriamo o quello che credono gli altri. Noi siamo legati in modi sorprendenti, stupefacenti. Forse anche i nostri destini sono legati in qualche modo. Ciò che sarà dell’uno dipende da ciò che sarà dell’altro.» Bek non riusciva a capire. Riusciva a malapena a seguire le parole dell’altro, ma il significato gli sfuggiva. Non rispose. «Le bugie ci nascondono come le maschere nascondono i ladri, figliolo» continuò il cambiatore di forma. «Io perché ho scelto di essere così, tu perché sei stato ingannato. Noi siamo spettri che vivono nelle ombre. La nostra vera identità è un segreto gelosamente custodito. Ma il tuo è il più tenebroso. Il tuo affonda le radici nei giochi di potere di un druido e in una nera promessa di magia. Il mio è semplicemente il risultato di uno scherzo del destino e della folle azione di un genitore.» Fece una pausa. «Se vieni con me, ti racconterò la mia storia.» Bek scosse la testa. «Non posso sbarcare…» «Non puoi?» lo interruppe il cambiatore di forma. «Scendiamo sull’isola ed entriamo nel castello. Vieni con me e porteremo la terza chiave al druido prima che si svegli. È laggiù, e aspetta solo noi. Noi due possiamo fare quello che al druido non è riuscito. Trovare la chiave e portargliela.» Bek respirò a fondo. «Tu sai dov’è la chiave?» L’altro si mosse leggermente, e parve un’ombra passeggera nella luce lunare. «La sola cosa che importa è che so come fare. Qualche ora fa, il druido mi ha chiesto di cercarla, e io l’ho fatto, ma adesso ho deciso di tornare là e prenderla. Vuoi venire con me?» Il ragazzo era senza parole. Cosa stava succedendo? «Per te non dovrebbe essere difficile» continuò Truls Rohk. «Conosco il tuo cuore. Non ti è stato permesso di fare nulla. Sei a bordo per una ragione che non conosci. Ti sono state
raccontate bugie e sei stato indirizzato su false piste come se la tua volontà non contasse. Non sei stanco di tutto ciò?» Due giorni prima, Bek aveva trovato il coraggio di rivolgersi a Walker per chiedergli spiegazioni sulla chiamata mentale ricevuta mentre il druido era su Shatterstone. Walker gli aveva detto che per caso stava pensando a lui in quel momento e aveva proiettato verso di lui i suoi pensieri, senza riflettere. Era una bugia così evidente che Bek si era allontanato disgustato. Ora ebbe l’impressione che il cambiatore di
forma si riferisse proprio a quell’incidente. «È la tua occasione» insistette Truls Rohk. «Vieni con me. Noi due possiamo fare quello che non è riuscito a Walker. Hai paura?» Bek annuì. «Sì.» Truls Rohk rise. Una risata lunga e cavernosa. «Non dovresti. Tu non dovresti avere paura di niente. Comunque, ti proteggerò io. Vieni. Sottrai al druido qualcosa di ciò che sei. Fallo riflettere. Spingilo a riprendere in considerazione quello che pensa di te. Scopri qualcosa su te stesso, su ciò che sei. Non hai voglia di farlo?» A dire la verità, Bek non era del tutto sicuro di volerlo. A un tratto non era più sicuro di nulla. Il cambiatore di forma lo allarmava per molte ragioni alle quali preferiva non pensare, ma la principale era il suo oscuro suggerimento che Bek fosse assai diverso da quello che aveva sempre pensato di essere. Di solito, rivelazioni di quel tipo erano più un danno che un bene. E poi avrebbe preferito ottenerle in qualche altro modo, e non da quell’uomo. «Manterrò la mia promessa, ragazzo» gli sussurrò Truls Rohk. «Ti racconterò la verità su di me. Non la storia che hai sentito da Panax. Non ciò che immagini. La verità, quello che è realmente accaduto.» «Panax dice che sei stato ustionato in un incendio.» «Panax non sa nulla. Nessuno sa, a parte il druido, che sa tutto.» Bek lo fissò stupito. «Perché scegli me per questa confidenza?» «Perché siamo simili, come ti ho già detto. Siamo uguali, e forse, conoscendo me, potrai conoscere meglio te stesso. Forse. Quando ti guardo, mi sembra di vedere me stesso, molto tempo fa. Rivedo com’ ero, e il ricordo mi fa male. Raccontandoti la mia storia posso allontanare un po’ di quel dolore.» “E passarlo a me” pensò il giovane. Ma il cambiatore di forma lo incuriosiva. E le sue parole l’avevano affascinato. Guardò le rovine del castello, illuminate dalla luce lunare. Truls Rohk aveva ragione per ciò che riguardava la chiave, naturalmente. Bek avrebbe voluto fare qualcosa di più che servire come mozzo. Ed era irritato dalla lunga permanenza a bordo della nave. Voleva sentirsi parte della spedizione e non limitarsi a studiare le navi e il volo. Voleva compiere qualcosa d’importante. Trovando la terza chiave l’ avrebbe fatto. Ricordava però le anguille di Flay Creech e la giungla di Shatterstone, e si chiese quali terrori si nascondessero nel castello di Mephitic. Truls Rohk pareva sicuro di sé, ma le ragioni addotte dal cambiatore di forma per portarlo con sé erano assai discutibili. Comunque, gli altri erano andati e tornati sani e salvi. Doveva continuare a nascondersi nella nave per evitare i pericoli? Nell’accettare di prendere parte al viaggio sapeva bene che avrebbe corso dei rischi. Non poteva continuare a evitarli tutti. Ma doveva buttarsi nel pericolo volutamente? «Vieni, ragazzo» lo invitò di nuovo Truls Rohk. «La notte finirà presto, e noi dobbiamo agire finché c’è buio. La chiave ci aspetta. Ti proteggerò io. Tu farai lo stesso per me. E durante la
strada ci riveleremo i nostri segreti. Andiamo!»
Ancora per un istante, Bek esitò. Poi respirò a fondo. «Va bene» decise. Truls Rohk rise: una risata bassa e maligna. Qualche istante più parapetto e scomparvero nella notte.
tardi scavalcarono il
24 Truls Rohk era il frutto di una passione violenta, di una scelta sbagliata e di un incontro casuale: tre cose che non sarebbero mai dovute succedere. Suo padre era un uomo delle Terre di Confine, figlio e nipote di abitanti di quei luoghi, boscaioli e guide che erano sempre vissuti nelle zone selvagge dei monti di Runne. A quindici anni viveva già per conto suo e si era allontanato dalla famiglia. A venti era una leggenda, un esploratore che aveva attraversato in lungo e in largo il Wolfsktaag, guidando carovane attraverso le montagne ed esplorando regioni dove ben pochi erano penetrati. Sapeva delle creature che abitavano nel Wolfsktaag e non le temeva, ma era al corrente di quello che potevano fare. Aveva incontrato la madre di Truls Rohk a trentatré anni. Guidava carovane e cercava piste ormai da quasi vent’anni, ed era più a suo agio nelle foreste che nel mondo civile. Col passare del tempo si era sempre più distanziato dai villaggi e dai loro abitanti, e aveva cercato pace e serenità nell’isolamento. Il mondo che amava era assai duro, ma gli era familiare. I pericoli erano molti e in genere non perdonavano, ma li capiva e li accettava, li giudicava un prezzo equo da pagare per la bellezza e la purezza della foresta. Era sempre stato fortunato e non aveva mai commesso errori gravi o corso rischi inutili; aveva trasformato la sua fortuna in una sorta di fiducia in sé che contribuiva a salvaguardarlo. Aveva imparato a comportarsi con prudenza, ma anche con pragmatismo. Non aveva mai pensato che qualcosa potesse danneggiarlo, se avesse effettuato le scelte giuste. Aveva sofferto ferite e malattie, ma non erano mai state così gravi da impedirgli un pieno recupero. Il giorno in cui aveva incontrato la madre di Truls Rohk, però, la sua fortuna si era esaurita. Era stato colto dalla tempesta e stava cercando un riparo quando un albero che cresceva sul fianco della montagna, sopra di lui, era stato colpito da un fulmine. Si era spaccato con una grande esplosione ed era franato insieme a buona parte del fianco della collina. L’uomo delle Terre di Confine, che in passato era sempre riuscito a salvarsi, quella volta fu un po’ troppo lento. Un grosso ramo gli bloccò le gambe, poi pietre e terra lo colpirono facendogli perdere i sensi: in pochi istanti venne sepolto sotto una montagna di rocce e terra e perse conoscenza prima ancora di capire cos’era successo. Quando si svegliò, la tempesta era cessata ed era scesa la notte. Con sorpresa si accorse di potersi muovere di nuovo. Si trovava in una radura, lontano dalla frana e dal ramo che l’aveva colpito, con il corpo dolorante e la faccia insanguinata, ma vivo. Quando si rizzò su un gomito, si accorse che qualcuno lo fissava. Due occhi penetranti, che brillavano nell’oscurità, luminosi e ferini. “Un lupo” si disse, ma non cercò di impugnare il coltello e non si fece prendere dal panico. Fissò a sua volta l’osservatore, e aspettò per vedere cos’avrebbe fatto. Poiché non faceva nulla, si rizzò a sedere, pensando che al suo movimento si sarebbe allontanato. Invece non si mosse. Allora l’uomo delle Terre di Confine capì. L’osservatore era colui che l’aveva liberato dal ramo, dalle rocce e dalla terra, dalla sua tomba. L’osservatore gli aveva salvato la vita.
Quella sorta di battaglia di sguardi durò per qualche tempo, e né l’osservatore né l’uomo si mossero. Alla fine l’uomo parlò, chiamò l’osservatore e lo ringraziò per averlo salvato. L’osservatore rimase dov’era. L’uomo parlò a lungo, a voce bassa, con calma, perché era il modo più
efficace, e pian piano comprese che l’osservatore non era umano. A quanto capiva, era uno spirito. Un figlio del Wolfsktaag. Si stava avvicinando l’alba quando l’osservatore finalmente si avvicinò a sufficienza per farsi vedere chiaramente. Era una donna, ma non era umana. Scivolò fuori dall’ombra come se fosse costituita di acqua colorata, cambiando aspetto mentre avanzava: un momento era una bestia, il momento dopo un essere umano, poi un incrocio dei due. Pareva un tentativo di prendere forma, incerta su cosa essere. In tutte le sue variazioni, però, era bellissima, affascinante. S’inginocchiò accanto all’uomo e gli passò sulle guance e sulla fronte le dita morbide, strane. Sussurrò parole che l’uomo non capì, ma il tono di voce era inequivocabile: dolce, levigato come seta, e roco per la passione. Era una cambiatrice di forma, comprese l’uomo, una creatura del Mondo Antico, un essere di magia e di strani poteri. Qualche caratteristica dell’uomo, o forse qualcosa nella natura di lei, l’aveva attirata verso di lui. Lo fissava con un desiderio così incontrollabile che travolse anche lui in quel fuoco. Voleva l’uomo in modo primordiale, subito, e la risposta dell’uomo fu altrettanto forte e sfrenata. Si accoppiarono lì, nella radura, senza aspettare, e la frenesia che li spingeva era più terribile del divieto che colpiva quell’unione. Umani e spiriti… niente di buono poteva venirne, dicevano i vecchi. Poi lei lo portò nella sua caverna e per tre giorni si accoppiarono senza soste, fermandosi solo quando erano costretti, travolti dalla passione. L’uomo delle Terre di Confine dimenticò le ferite e i timori e la ragione. Accantonò ogni cosa per quella creatura meravigliosa e ciò che gli dava, si perse nel proprio bisogno irrefrenabile. Quando finì, lei era sparita. L’uomo si svegliò al quarto giorno e trovò il vuoto e il silenzio. Era solo, abbandonato. Si alzò, debole e malfermo, ma vivo in un modo che non aveva mai conosciuto in precedenza. L’odore e il sapore della creatura della foresta erano ancora nell’aria che respirava, sulla sua pelle, nella gola. La presenza di lei, i sensi invasi da lei, erano incisi a fuoco nella sua memoria. Pianse senza riuscire a fermarsi. Non sarebbe mai più stato lo stesso senza di lei. Lei l’aveva marchiato per sempre. Per mesi, continuò a cercarla. Batté il Wolfsktaag da cima a fondo, dimentico di ogni altra cosa. Mangiava, beveva, dormiva e cercava: non faceva altro, senza sosta. Le stagioni passarono, per poi ritornare. Trascorse un anno. Due. Non la vide mai. Non trovò mai traccia di lei. Poi un giorno, passati da poco i due anni, quando continuava a cercare perché non sapeva che altro fare, quando ormai aveva perso tutte le speranze, lei tornò. Si era alla fine dell’anno e le foglie cadevano formando disordinate distese pezzate di giallo, rosso e arancio sul terreno della foresta. L’uomo si era diretto a una fonte, per bere prima di riprendere la ricerca. Non sapeva dov’era e neppure dove stava andando. Si muoveva perché il movimento era la sola cosa che gli fosse rimasta. E a un tratto la vide, ferma davanti a lui, accanto alla fonte. Non era sola. Vicino a lei c’era un bambino, in parte umano, in parte animale, immediatamente riconoscibile dai lineamenti. Era il figlio dell’uomo delle Terre di Confine. Era già grande quasi come la madre, troppo per un normale bambino di soli due anni. Rapidissimo di movimenti, sguardo acuto, fissò guardingo il padre. Dall’espressione del suo viso, era
evidente che lo riconosceva e sapeva tutto di lui. Lo accettava come padre. La madre gli aveva detto la verità sulla sua nascita. L’uomo si avvicinò e li guardò impacciato, senza sapere come comportarsi. La donna della foresta gli parlò a bassa voce, con sincerità, e questa volta l’uomo comprese le sue parole. Si era unita a lui spinta da un desiderio irrefrenabile, da un’attrazione per lui inspiegabilmente forte. Ma non erano fatti l’uno per l
’altra e non potevano stare insieme. Tuttavia voleva fargli sapere che aveva un figlio. E lui, adesso che lo sapeva, doveva scordarsi di entrambi. Era un momento cruciale. L’uomo l’aveva cercata per tutto quel tempo, mentre lei si era quasi scordata di lui. Non aveva bisogno di lui, non desiderava la sua compagnia. Aveva la propria vita, la vita di uno spirito, e lui non poteva entrare a farne parte. La donna della foresta non capiva di averlo distrutto: lui non poteva dimenticarla, non poteva tornare a essere quello di prima. Apparteneva a lei, con la stessa certezza con cui il bambino era suo figlio. Anche se veniva da un altro mondo e aveva una vita diversa, apparteneva a lei e non voleva lasciarla. La implorò di rimanere. S’inginocchiò, quell’uomo forte e determinato, quell’uomo che aveva sopportato tanto, e la supplicò piangendo. Ma non servì a nulla. Peggio, fu inutile. Lei non capiva quell’ atteggiamento. Non aveva alcuna idea del perché si comportava così. Gli spiriti non piangevano e non supplicavano. Agivano come comandavano l’istinto e il bisogno. Per la donna, la scelta era chiara. Lei era una creatura delle foreste e del mondo degli spiriti, lui no. Non poteva stare con lui. Quando infine, ormai dimentica di lui, la donna si voltò per allontanarsi, l’uomo passò dalla disperazione alla collera. Senza pensare, ora che la sua vita era rovinata e il tormento troppo duro da sopportare, le saltò addosso e le piantò nella schiena il coltello da caccia, fino al cuore. Prima ancora di cadere al suolo, la donna era già morta. Un istante dopo, lui era di nuovo in piedi e aveva estratto il coltello dal corpo della madre per uccidere anche il figlio, ma il bambino non c’era più. L’uomo lo rincorse, la mente sconvolta e concentrata tutta al proprio interno, così che ai suoi occhi non esisteva nient’altro. Brandiva il coltello ancora sporco del sangue della donna della foresta, e minacciava le ombre che lo avvolgevano, il destino che gli aveva fatto perdere la ragione. All’ombra degli alberi, nel silenzio della foresta, cercò il bambino. La sua follia era profonda e completa. La sua vita era dominata dalla sete di sangue. Corse fino a cadere a terra stremato, e s’addormentò. Ma prima che potesse destarsi per riprendere la ricerca, il bambino lo trovò, gli sfilò il coltello dalla mano resa inerte dal sonno e con colpo sicuro ed esperto gli tagliò la gola. La voce bassa e gutturale di Truls Rohk tacque. Tenendosi curvo e nascosto alla vista, il cambiatore di forma continuò ad avanzare in mezzo alle erbe alte, davanti a Bek. Il giovane attese che riprendesse la storia, ma non lo fece. La faccia abbronzata di Bek era coperta di sudore, sia per l’orrore di ciò che aveva udito, sia per lo sforzo di seguire il compagno che camminava più in fretta di un uomo. Assistere all’uccisione della madre e poi essere costretto a uccidere il padre era un’esperienza troppo spaventevole perché la mente vi si potesse soffermare. Cosa doveva avere provato, vedendo quella follia quando aveva appena pochi anni? Anche se era una creatura del mondo degli spiriti, un cambiatore di forma non interamente umano, cos’ aveva provato? Qualcosa di inimmaginabile, concluse Bek, perché Truls Rohk era per metà un uomo e possedeva la sensibilità umana. «Sta’ basso» disse il cambiatore di forma, a mo’ di avvertimento. Si fermò e si voltò verso Bek. La faccia era nascosta nel cappuccio e il corpo era coperto dal mantello, però Bek sentiva sulla propria pelle il calore che emanava da lui. «Li ho sepolti in un posto dove nessuno li troverà mai. All’inizio non provai alcuna
emozione, solo più tardi, quando ebbi il tempo di riflettere.» La voce di Truls Rohk era adesso distante, pensosa. «L’
accaduto non mi parve tanto terribile finché non mi accorsi di avere perso le due sole persone che erano come me. Non eravamo identici fisicamente, ma c’era tra noi un legame di sangue. Erano i miei genitori. Nessun altro mi avrebbe amato come loro. Anche mio padre, forse, avrebbe potuto amarmi, se avesse avuto il tempo di riprendere la ragione. Se non fosse impazzito. Ero rimasto solo, e non appartenevo né a una razza né all’altra, né agli uomini né agli spiriti. Ero un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, e questo significava che non ero nessuno dei due.» Rise con amarezza. «Non ho mai cercato di vivere con gli uomini. Sapevo quale sarebbe stata la loro reazione. Una volta mi hanno visto, nelle montagne, e mi hanno dato la caccia come a un animale. Ho anche cercato di vivere con i cambiatori di forma, perché ce ne sono delle bande nel profondo del Wolfsktaag, e io sapevo come trovare i loro nascondigli. Ma hanno fiutato la mia parte umana e hanno capito cos’ero. Mia madre aveva oltrepassato una linea proibita, mi hanno detto. Aveva commesso un atto imperdonabile. Era morta per la sua leggerezza. La cosa migliore, mi dissero, era che morissi anch’ io. Non potevo essere uno di loro, dovevo vivere da solo.» Fissò Bek. «Adesso hai capito perché ci assomigliamo?» Il giovane scosse la testa in segno di diniego. Non ne aveva idea, e preferiva non approfondire. «Lo capirai» asserì Truls Rohk. Gli voltò la schiena e tornò a muoversi attraverso l’erba alta, avvicinandosi rapidamente all’ingresso del castello, una delle tante ombre della notte. Bek lo seguì, non sapendo che altro fare, continuando a chiedersi sia perché fossero simili sia cosa sarebbe successo. Era arrivato a quel punto perché si era fidato delle parole di Truls Rohk e perché desiderava essere qualcosa di più di un semplice spettatore, in quella spedizione, ma ora cominciava a chiedersi se aveva sbagliato. Il castello si levava dinanzi a loro, un labirinto di mura di pietra diroccate e di buchi neri dove le porte e le finestre erano crollate. La luna era scesa sull’orizzonte e le ombre proiettate dalle torri e dalle mura parevano lunghe tuniche nere distese sul terreno. Dall’interno delle rovine non giungeva alcun rumore. Nel buio non si scorgeva alcun movimento. Truls Rohk si fermò e lo fissò. «Il druido ha cercato il guardiano della chiave, nel castello, ma non gli è venuto in mente che il guardiano poteva essere lo stesso castello, e questo è stato il suo primo errore.» Continuò: «Si aspettava che il guardiano della chiave cercasse di difenderla attaccando e distruggendo coloro che si avvicinavano. Non ha pensato che il guardiano, invece, poteva affidarsi all’inganno, e questo è stato il suo secondo errore. Ha cercato le sue risposte servendosi della ragione e della magia, convinto che o l’una o l’altra gli avrebbe dato le risposte che cercava. Non ha pensato che il suo avversario non si affidava né all’una né all’altra, e questo è stato il suo ultimo errore». Lentamente si avvicinò a lui, nell’erba alta. Bek rabbrividì nel vederlo avvicinarsi, intimorito dal suo cappuccio in apparenza vuoto, in cui si scorgeva solo il luccichio degli occhi. «Il guardiano della terza chiave è uno spirito» spiegò Truls Rohk «e abita nelle pietre del castello. Non ha presenza propria perché lui è il castello stesso, e protegge in questo modo tutti i suoi tesori. La chiave è solo uno dei tanti, non riveste alcun particolare valore per lo spirito. Chi ce l’ha messa lo sapeva. Il castello custodisce nel medesimo modo tutte le sue
proprietà: le nasconde tutte, non rivela niente, è una sentinella immutabile. Il suo aspetto è un inganno, figliolo, come nel caso mio. Come nel tuo.» «Come faremo a vedere al di là dell’inganno?» chiese Bek, guardandolo con attenzione, ansioso di sapere.
Nello strano sguardo del cambiatore di forma si accese un bagliore. «Cercheremo di vedere con altri occhi» rispose. Erano giunti al limitare della distesa erbosa, a pochi passi dal ponte levatoio e dall’ingresso del castello. Mentre si avvicinavano si erano tenuti bassi, per nascondersi in mezzo all’erba, non perché il guardiano potesse vederli, dato che non aveva occhi, ma perché avrebbe percepito la loro presenza. «È giunto il momento di nasconderci in un modo diverso» disse Truls Rohk. Si curvò per cercare qualcosa nel mantello. «Per me è abbastanza facile, sono un cambiatore di forma e posso assumere qualunque aspetto. Per te è più difficile, ma gli strumenti li hai. Canta di nuovo per me. Questa volta, però, usa la voce come se ti nascondessi nell’erba, come se l’erba ti circondasse ancora. Ecco, infilati questo.» Porse a Bek un mantello vecchio, stracciato e pieno di macchie, e il giovane obbedì. L’indumento aveva l ’odore delle erbe in cui si doveva confondere. Perse qualche istante a drappeggiarselo addosso, poi guardò l’altro con espressione interrogativa. Truls Rohk annuì. «Avanti. Fa’ come ti ho detto. Canta per me. Usa il suono per cambiare l’aria che ti circonda. Agitala come acqua che rimescoli con un bastone. Allontana da te tutto ciò che ti circonda. Seppellisci profondamente dentro di te quello che non puoi allontanare. Fa’ in modo di diventare parte del mantello.» Bek ci provò e si perse nell’odore e nelle sensazioni del mantello, nell’immagine della pianura erbosa, penetrò in profondità nella terra e nelle radici, dove entrava solo qualche roditore e qualche insetto. Continuò a cantare a bassa voce, senza interruzione, per qualche momento, poi si arrestò e fissò con aria interrogativa il cambiatore di forma. «Adesso cominci a capirne un poco, vero?» gli sussurrò Truls Rohk. «Un poco di quello che sei. Ma solo un poco. Non ancora tutto. Andiamo.» Fece uscire Bek dal nascondiglio e lo guidò all’aperto. La sua forma cambiò visibilmente, nell’oscurità, divenne liquida, perse i lineamenti che lo distinguevano dallo sfondo della notte. Bek continuò a cantare a bassa voce, avvolgendo tutto se stesso nelle sensazioni e nell’odore del mantello, mascherandosi, nascondendo nella profondità del suo essere la propria natura e identità. Entrarono nel castello senza incontrare ostacoli, passando dall’oscurità del cortile principale alla penombra delle sale. Si addentrarono nelle rovine, veloci come una brezza proveniente dalla pianura erbosa. Davanti a loro comparvero pareti che parevano compatte e impenetrabili, ma Truls Rohk le attraversò senza difficoltà, seguito da uno stupefatto Bek. Dove non c’era nulla, comparvero rampe di scale e salirono o scesero com’era necessario. Porte si materializzarono e si chiusero dietro di loro. A volte l’aria stessa cambiò dalla luce all’oscurità, dal nero della pece alla trasparenza dell’acqua, alterando la natura del percorso davanti a loro. Gradualmente, Bek giunse a comprendere che l’intero castello non era quello che pareva: era un vasto labirinto di miraggi e illusioni incorporate nella pietra e intesi a ingannare, a fornire porte e corridoi che non conducevano da nessuna parte, a creare ostacoli dove non ne esistevano, a ottenebrare e confondere. Se non era magia, si chiedeva Bek, che altro era?
Raggiunsero un muro di pietra coperto di polvere e ragnatele, una barriera di pietre massicce, segnate dagli agenti atmosferici e dall’età. Truls Rohk si fermò e fece segno a Bek di stare dietro di lui. Fissò la
parete e agitò le braccia come per spostare l’aria dinanzi a sé. L’aria tremolò, e il cambiatore di forma divenne pressoché invisibile, il mero suggerimento di un’ombra, un velo di polvere sollevata da un alito di vento. Poi scomparve, assorbito dalla pietra, come se non fosse mai stato fuori di essa. Bek lo cercò invano. Non c’era nulla da vedere. Ma un istante più tardi era tornato, si materializzava dal nulla, prendeva forma dalla penombra, e la sua sagoma ammantata e incappucciata era liquida come le ombre con le quali si era confusa. Si fermò solo quel tanto che bastava per tendere la mano, aprire le dita e mostrare la terza chiave. Fu un errore. Per un istante, travolto dall’emozione del loro successo, Bek smise di cantare. Immediatamente il suo travestimento svanì e l’atmosfera del castello si trasformò. Un cambiamento avvertibile, un forte soffio di vento, un mulinello di polvere e foglie secche, un sospiro tormentoso che si riversò nei corridoi di pietra e nei cortili, un brivido che scaturiva dall’interno della terra. Bek cercò di riprendersi, di nascondersi di nuovo, ma era troppo tardi. Qualcosa di feroce e primordiale ululava lungo i corridoi e correva attraverso le pietre come una bestia selvaggia che avesse spezzato le catene. Bek sentì il petto stringersi, il cuore gelarsi. S’immobilizzò nel tentativo di innalzare una difesa che non possedeva. Fu Truls Rohk a salvarlo. Il cambiatore di forma lo sollevò di peso come se fosse un bambino, se l’infilò sotto un braccio che pareva d’acciaio e si lanciò in fuga. Corse lungo i corridoi e attraverso porte e cortili, saltò su pietre spezzate e s’infilò in antiche trincee difensive, sottraendo il giovane allo spirito rabbioso. Ma lo spirito era tutt’intorno a loro, infuso nella pietra del castello, e li attaccava da ogni lato. Davanti a loro, con un rumore assordante, si chiudevano porte invisibili, cancellate si serravano sferragliando, picche di ferro uscivano dal terreno, trabocchetti si aprivano davanti ai loro piedi. Saltando e contorcendosi, Truls Rohk si fece strada attraverso tutte quelle insidie, a volte ricorrendo alle pareti e anche al soffitto per trovare qualche appiglio per le mani o per i piedi. Nulla riusciva a fermarlo. Correva come se avesse preso fuoco. Bek usò la voce nel tentativo di aiutarlo, e riprese a cantare, senza sapere quello che faceva, ma desideroso almeno di provare. Cantò perché lui e Truls Rohk divenissero veloci e inafferrabili come uccelli, liquidi come l’acqua, eterei come l’aria. Mise nel canto tutte le cose cui riusciva a pensare, cambiando continuamente tattica, nel tentativo di confondere l’entità che li braccava. Si fuse nella creatura che lo portava via con sé, scomparve nell’odore della terra e dell’erba, nel contatto con i muscoli d’acciaio che lo tenevano stretto, negli istinti ferini del cambiatore di forma e nei suoi riflessi fulminei. Si perse completamente in un essere che non capiva, annullò se stesso, si spogliò della propria identità e ne sparse i frammenti nella notte. E all’improvviso si trovò disteso sul terreno, immerso nelle erbe alte, e comprese che erano di nuovo fuori. Truls Rohk era accucciato accanto a lui, la testa bassa, il petto ansante, e il suono del suo respiro era come il brontolio di un animale. Poi cominciò a ridere, dapprima in tono basso e gutturale, poi sempre più apertamente. Bek rise con lui, euforico ed esaltato perché avevano beffato la morte che li inseguiva. «Oh, non sei proprio quello che sembri, vero, ragazzo?» disse il cambiatore di forma, tra una risata e l’ altra. «Niente di quello che ti è stato detto per tutti questi anni! Sapevi di possedere
una voce simile?» Indicò il castello dietro di loro. «Cosa ho fatto?» chiese Bek, pur continuando a ridere.
«Magia!» Bek smise di ridere. Era disteso in mezzo all’erba e guardava le stelle, mentre la parola riecheggiava nella sua mente: «Magia! Magia! Magia!». “No” pensò. “Non è vero. Non ho mai posseduto alcuna magia e non ne so niente.” Sì, certo, aveva la pietra di fenice, il talismano che portava al collo, quello che gli aveva donato il Re del fiume Argento, e forse era stato quello a… «Tu ci hai salvato, ragazzo» disse Truls Rohk. Bek si voltò rapido verso di lui. «No, sei stato tu a salvarci!» La sagoma scura del cambiatore di forma si spostò, scivolò vicino a lui. «Io ti ho portato via, ma sei stato tu a tenere a bada lo spirito. Senza di te, ci avrebbe presi. Abita in tutte quelle rovine. Nasconde la verità sulla sua natura e sul suo aspetto. Si protegge con l’inganno, ma tu sei stato alla sua altezza, questa notte. Non lo capisci? Il tuo inganno è stato il più forte, tutto movimenti, suoni e colori... ah, ben fatto!» Si accostò a Bek, invisibile sotto il mantello e il cappuccio. «Dammi retta. Questa notte sei stato tu a salvarci, ma io ti avevo già salvato, in passato. Fui io a portarti via dalle rovine della tua casa e dal destino di morte della tua famiglia. Adesso siamo pari!» Bek lo fissò senza capire. «Di che cosa parli?» «Noi ci assomigliamo, figliolo» ripeté Truls Rohk. «Siamo nati dalle ceneri dei nostri genitori, dall’eredità del nostro sangue, da una storia e da un destino che non avremmo mai potuto cambiare. Siamo apparentati in modi che tu non sospetti. La verità è elusiva. Una parte l’hai scoperta questa notte. Il resto dovrai fartelo dire dall’uomo che la tiene in ostaggio.» Allungò una mano e posò sul palmo di Bek la terza chiave, chiudendogli poi le dita. «Portala al druido. Ti sarà grato di non dover andare lui a prenderla: abbastanza grato da rivelarti la verità che tiene a torto imprigionata. La fiducia genera fiducia, ragazzo mio. Guarda bene in te stesso prima di concedere fiducia. Tieni segreto quello che hai imparato questa notte. E ascolta le mie parole.» Poi svanì, scivolando via così rapido che il giovane non lo vide allontanarsi. Fissò l’erba in mezzo alla quale Truls Rohk era sparito e la vide ancora muoversi. Stupito, incapace di parlare, qualche istante più tardi vide un’ombra staccarsi dal terreno e arrampicarsi lungo un cavo d’ancoraggio della nave per poi sparire oltre il parapetto. LaJerle Shannarasi librava stagliandosi contro lo sfondo della notte, rischiarata dal primo bagliore dell’ alba. Bek attese di vedere ancora qualcosa. Non vedendo niente, si alzò stancamente e si avviò verso la nave.
25 «Hai disobbedito ai miei ordini, Bek» disse a bassa voce il druido, con un tono che fece raggelare il ragazzo. «Ti avevo detto di non lasciare la nave durante la notte, ma tu l’hai fatto lo stesso.» Erano soli nella cabina di Redden Alt Mer, dove altre volte erano stati comodamente in nove, ma dove quella mattina il druido dava l’impressione di occupare tutto lo spazio e Bek si sentiva in pericolo di essere schiacciato.
«Il mio ordine riguardava tutti, incluso te. Era molto chiaro. Nessuno doveva lasciare la nave senza il mio permesso. E soprattutto nessuno doveva andare nel castello.»
Bek era pietrificato davanti al druido, con la mano tesa a porgergli la terza chiave. Di tutte le possibili reazioni che si era immaginato, quella era la sola che non aveva previsto. Si era aspettato di essere rimproverato per il rischio corso, certamente. Si era aspettato una predica sull’importanza di rispettare gli ordini. Ma si era anche immaginato che alla fine Walker manifestasse gratitudine per il recupero della chiave. Non avrebbero dovuto perdere un altro giorno a frugare le rovine e a rischiare la sicurezza dei compagni. Non ci sarebbero stati altri ritardi. Con la terza chiave, potevano avviarsi alla destinazione finale e al tesoro che li attendeva. Ma adesso che gli era davanti, Bek non scorgeva segno di gratitudine negli occhi di Walker. Quando era tornato sulla nave, aveva pensato che l’idea di consegnare la chiave a Walker davanti a tutti, in modo da godersi i loro elogi ed essere finalmente riconosciuto come uguale agli altri, non avrebbe funzionato. Se avesse dato la chiave a Walker in pubblico, avrebbe dovuto spiegare come l’aveva ottenuta. Questo comportava rivelare a tutti l’esistenza di Truls Rohk, e certo il druido non l’avrebbe gradito, oppure parlare della sua magia, cosa che il cambiatore di forma gli aveva raccomandato di evitare. Era meglio consegnargli la chiave in privato e accontentarsi di sapere che il capo della spedizione si rendeva conto del suo valore. Ma non c’era alcun riconoscimento del suo valore, tra le reazioni di Walker. Il druido non si era nemmeno preoccupato di chiedergli come si fosse procurato la chiave. Nel momento in cui l’aveva vista, nella mano tesa di Bek, era impallidito di collera. Prese la chiave e fissò il giovane con sguardo duro e penetrante. Sul ponte, sopra di loro, i compagni si preparavano a un’altra giornata di ricerca, ignorando che non era necessario tornare nel castello. Il rumore dei loro movimenti echeggiava nel silenzio della cabina, un mondo lontano da quello che stava succedendo lì sotto. «Mi dispiace» disse infine il ragazzo, lasciando cadere la mano. «Non credevo che...» «È stato Truls Rohk a convincerti, vero?» lo interruppe Walker aggrottando la fronte per un nuovo accesso d’ira. Bek annuì. «Dimmi cos’è successo, allora» continuò il druido. «Dimmi tutto.» Con un certo stupore, Bek si accorse che non gli stava dicendo tutto. Gli disse quasi tutto. Gli raccontò che il cambiatore di forma l’aveva svegliato e gli aveva chiesto di accompagnarlo nei ruderi del castello per recuperare la chiave. Gli disse che secondo Truls Rohk erano simili e che il cambiatore di forma gli aveva raccontato la strana storia della sua nascita e dei suoi genitori. Gli raccontò come avevano raggiunto le rovine e come vi erano entrati, la scoperta della chiave e la fuga. Ma non fece parola della magia che secondo il cambiatore di forma lui possedeva. Non raccontò come la sua voce sembrasse generare quella magia. Tenne la scoperta per sé, perché non gli sembrava ancora il momento di affrontare la questione. Walker parve soddisfatto della spiegazione, e quando riprese la parola, una parte dell’ira era scomparsa dal suo sguardo e una parte del gelo dalla sua voce. «Truls Rohk sa che non dovrebbe coinvolgerti in queste cose. Sa che non dovrebbe rischiare inutilmente la tua vita. Ma è
impetuoso e imprevedibile, e le sue azioni non dovrebbero sorprendermi. Ma tu devi avere più giudizio, Bek. Non puoi lasciare che gli altri ti portino qua e là, dove vogliono. E se ti fosse successo qualcosa?» «Be’, e se anche fosse?»
Pronunciò le parole prima di riuscire a fermarsi. Non aveva intenzione di dirle, di sfidare il druido quel mattino, vista la sua imprevista reazione quando gli aveva consegnato la chiave. Ma si sentiva privato di qualsiasi riconoscimento per quanto aveva fatto ed era in collera. Dopotutto, non era Truls Rohk a portarlo dove voleva, ma lo stesso Walker. «Se non fossi tornato» continuò «che differenza poteva fare?» Il druido lo guardò con stupore. «Dimmi la verità, Walker. Io non sono qui perché avevi bisogno di un altro paio d’occhi e di orecchi. E nemmeno perché Quentin è mio cugino.» Ormai era andato troppo avanti e non poteva più tornare indietro, perciò proseguì: «In realtà, non sono neppure suo cugino, vero? Me l’ha detto Coran, prima che partissi: non è stato Holm Rowe a portarmi da lui. Mi ci hai portato tu. Hai detto a Coran che suo cugino mi aveva affidato a te, ma Truls Rohk mi ha detto di avermi tirato lui fuori dalle rovine della mia casa e di avermi salvato dal destino di morte della mia famiglia. Parole testuali. Chi dice la verità sul mio conto, Walker?». Per un lungo istante, il druido non parlò. «Tutti» rispose alla fine. «Nella misura in cui la conoscono.» «Ma io non sono né un Leah né un Rowe, vero?» Il druido scosse la testa. «No.» «Chi sono, allora?» Walker scosse di nuovo la testa. «Non sono ancora pronto a dirtelo. Devi aspettare, Bek.» Il giovane tenne a freno la collera e la frustrazione, sapendo che se avesse dato sfogo ai suoi pensieri la conversazione sarebbe finita e avrebbe perso la possibilità di sapere qualcosa. Con la pazienza e la perseveranza avrebbe ottenuto di più. «Non è stato per un caso o per una coincidenza che mi hai chiamato con la voce mentale, a Shatterstone, quando la giungla vi aveva intrappolati, vero?» chiese, adottando un altro approccio. «Tu sapevi di potermi raggiungere con una chiamata mentale.» «Sì» ammise il druido. «E come lo sapevi?» Anche ora il druido scosse la testa in segno di diniego. «Va bene.» Bek si sforzò di rimanere calmo. «Allora ti dirò una cosa che non ti ho riferito. Una cosa che mi è successa durante il viaggio da Leah ad Arborlon e che non ho detto a nessuno, neppure a Quentin. Nella nostra prima notte lungo la strada, mentre eravamo accampati accanto al fiume Argento, ho avuto un visitatore notturno.» Rapidamente gli parlò della comparsa del Re del fiume Argento. Gli disse che lo spirito gli era apparso sotto l’aspetto di una bambina che gli sembrava vagamente familiare, poi si era trasformato in un orribile e mostruoso rettile, infine in un vecchio. Ripeté quanto ricordava della loro conversazione e terminò parlando della pietra di fenice. Il druido non cambiò mai espressione durante il racconto, ma gli occhi scuri rivelavano le sue emozioni.
Bek terminò la storia e mosse nervosamente i piedi sulle assi del pavimento, nel silenzio che fece seguito
alla narrazione, temendo qualche altra accusa di mancanza di giudizio, ma Walker si limitò a fissarlo, come se lo vedesse sotto una nuova luce e cercasse di valutarlo. «Era davvero il Re del fiume Argento?» chiese il giovane. Il druido annuì. «Perché è venuto da me? Che ragione aveva?» Walker distolse lo sguardo per un momento, come se potesse trovare la risposta nelle paratie della nave. «L’immagine della bambina e del mostro hanno lo scopo di informarti, di aiutarti a prendere certe decisioni. La pietra di fenice serve a proteggerti se quelle decisioni risulteranno pericolose.» Adesso fu Bek a fissare il druido. «Che tipo di decisioni?» Walker scosse la testa. «Non intendi dirmi altro?» Il druido scosse di nuovo la testa. «Sei adirato con me anche per questo?» chiese Bek, esasperato. «Perché non te l’ho detto prima?» «Parlarmene sarebbe stata una buona idea.» Bek allargò le mani. «Forse te l’avrei fatto, Walker, se non avessi cominciato a chiedermi cosa ci faccio in questa spedizione. Ma una volta scoperto che non intendevi raccontarmi tutto, neanche a me è parso necessario raccontarti tutto!» Cominciava a gridare, ma non riusciva a evitarlo. «Te l’ho detto adesso perché non voglio continuare a ignorare la verità! Non mi sembra di chiedere molto!» Il druido sorrise e disse in tono ironico: «Chiedi molto più di quello che pensi». Il ragazzo strinse i denti. «Può darsi, ma lo chiedo lo stesso. Voglio sapere la verità.» Il druido, però, era irremovibile. «Non è ancora il momento. Devi pazientare.» Bek arrossì. Ardeva di rabbia e tutto il suo autocontrollo svanì in un istante. «Facile dirlo quando si conoscono le risposte. Non la penseresti allo stesso modo se fossi nei miei panni. Non posso costringerti a dirmi quello che sai, ma posso smettere di farti da occhi e orecchi finché non me l’avrai detto! Se non ti fidi abbastanza da dirmi quello che sai, non vedo perché dovrei aiutarti!» Walker rimase calmo e imperturbabile. «La decisione è tua, Bek. Il tuo aiuto mi mancherà.» Bek lo fissò ancora per un istante, cercando qualcos’altro da dire, poi rinunciò e uscì sbattendo la porta. Con le lacrime agli occhi, salì sul ponte per unirsi agli altri. Walker rimase nella cabina per qualche minuto, ripensando a ciò che era successo e cercando di capire se la decisione di non rivelare al ragazzo quanto gli aveva chiesto era giusta. Prima o poi avrebbe dovuto farlo. Tutto dipendeva da quello. Ma se l’avesse rivelato troppo presto, il ragazzo
avrebbe avuto troppo tempo per pensare alla sua origine e c’era il rischio che al momento di agire venisse paralizzato dal timore o dal dubbio. Era meglio tenerlo il più a lungo possibile lontano da quel peso, anche se così facendo scatenava la sua collera. Meglio lasciarlo ancora per un po’ nell’ignoranza. Eppure desiderava rivelare a Bek Rowe quello che sapeva fin dalla nascita del ragazzo, le cose che per
tanti anni aveva tenuto dentro di sé. Non vedeva l’ora di condividere con lui quello che aveva nascosto per tanto tempo. Osservò la chiave che aveva in mano, i rilievi di metallo e la luce rossa lampeggiante situata sulla fonte d’ energia. Adesso le aveva tutt’e tre, e niente gli impediva di entrare in Castledown. Niente. La parola gli echeggiò nella mente, una menzogna amara e terribile. Di tutte le bugie da lui alimentate nascondendo le verità che solo lui capiva, quella era la più insidiosa. Chiuse gli occhi. Cosa poteva fare per impedire a quelle verità di distruggerli tutti? Lasciò la cabina e salì sul ponte, dove riunì tutti attorno a sé. Mostrò la terza chiave e annunciò di averla recuperata con il determinante aiuto di Bek Rowe, durante la notte. Era giunto il momento di lasciare l’ isola e proseguire verso il Cerchio di Ghiaccio. Dai presenti si levò un applauso e Bek venne sollevato sulle robuste spalle di Furl Hawken e portato in giro per tutto il ponte come un eroe. I Cacciatori Elfi gli resero onore sguainando la spada, e Panax gli batté la mano su una spalla con tanta forza che Bek per poco non cascò giù dal suo incerto sedile. E per finire, Rue Meridian lo afferrò per le spalle e lo baciò con forza sulla bocca. Il ragazzo sorrise e salutò tutti, visibilmente compiaciuto di essere al centro dell’attenzione. Tuttavia, evitò di guardare Walker. “Abbastanza giusto” si disse il druido. “Sono loro ad avere bisogno di te e devi conquistarti la loro fiducia e il loro rispetto.” S’infilò in tasca la chiave, assieme alle altre due, e si allontanò. Per quasi una settimana il freddo aumentò mentre proseguivano verso il Cerchio di Ghiaccio, ostacolati da un vento di tramontana che li costringeva a chiudere le vele e a correggere la rotta per vincere la deriva verso sudovest. I mantelli e i guanti li aiutavano a resistere alle raffiche gelide, ma tutti le sentivano mordere la carne e rendere più denso il sangue, ed erano torpidi e nervosi. Avevano ridotto le razioni per non esaurire le scorte. Nessuno sapeva quanto sarebbe durato quel tratto del loro viaggio, ma la mappa indicava una discreta distanza, e di conseguenza molte settimane. Dopo Mephitic non avvistarono altre isole, e i Roc furono costretti ad appollaiarsi su piattaforme di legno che di giorno venivano fissate ai pontoni dellaJerle Shannarae di notte calate in mare e trainate. In conseguenza di questo, la loro avanzata rallentò notevolmente. Bek proseguì i suoi studi con Redden Alt Mer. Ormai si sentiva a casa propria ai comandi della nave, era capace di navigare e cambiare rotta senza chiedere aiuto, sicuro di sapere cosa fare nella maggior parte delle situazioni. Quando Quentin si addestrava con i Cacciatori Elfi, Bek passava il tempo libero con Ahren Elessedil, e parlavano di se stessi e della vita. Tutti erano cambiati in modo notevole, da quando erano partiti, ma nessuno quanto Ahren. A Bek pareva che fosse cresciuto fisicamente, che il suo corpo si fosse rafforzato e irrobustito grazie all’addestramento, che la sua scherma fosse ormai pari a quella di tutti gli altri Cacciatori imbarcati. Aveva sempre imparato con grande rapidità, ma Ard Patrinell aveva fatto meraviglie con lui. Era ancora un ragazzo come Bek, ma più allegro e spensierato, desideroso di fare amicizia con tutti, sicuro di sé e non più spaesato.
Lo stesso non si poteva dire di Bek. Dopo il battibecco con Walker, si era chiuso ancor più in se stesso, erigendo muri e chiudendo porte davanti ai compagni, convinto che, per il momento, era bene per lui essere meno disponibile. La sua decisione era alimentata dall’intenzione di non tornare sotto l’influenza di Walker. Evitava il druido e rimaneva con i vecchi amici, Quentin, Ahren, Panax, e Big e Little Red. Era
ancora amichevole e alla mano, ma in modo misurato, appesantito dai segreti che custodiva e dalle domande che lo assillavano. Più volte ebbe la tentazione di condividere quei segreti con Quentin o Ahren, ma non lo fece. Cosa ne avrebbe ottenuto? Si sarebbe limitato a trasferire il peso sulle spalle di un altro senza alleggerire le proprie. Nessuno poteva aiutarlo a scoprire qualcosa su se stesso, tranne il druido. Sapeva che bastava attendere, ma temeva che l’attesa fosse lunga. Alla fine della prima settimana dalla partenza da Mephitic, il clima peggiorò con l’arrivo di un fronte caldo da sud. Il vento cambiò direzione, portando con sé una parete di dense nubi, e la temperatura salì. L’aria limpida e gelida scomparve dietro un muro di fitte nebbie e un leggero vento umido, e tutti i colori sbiadirono nel grigio. Il giorno dell’arrivo del fronte c’erano ancora sufficienti varchi nelle nuvole da permettere di esaminare le stelle di notte e di tracciare la rotta. Il secondo giorno si scorgevano solo piccoli fazzoletti di cielo. Il terzo giorno la nave era completamente avvolta dalla foschia e il sole si ridusse prima a una macchia luminosa nel cielo sopra di loro, poi a un alone a malapena visibile, infine a un chiarore diffuso che era ovunque e in nessun luogo. Il quarto giorno, solo una tenue luminosità o una fitta oscurità permettevano di distinguere il giorno dalla notte e la visibilità era ridotta a una decina di iarde. Big Red aveva cercato inutilmente di uscire da quella specie di brodo e i Cavalieri del Wing Hove erano stati costretti a trattenersi sulle piattaforme in attesa che il fronte passasse. LaJerle Shannaraera avvolta in una penombra impenetrabile e in volute di nebbia. Alla fine Redden Alt Mer aveva ordinato di legare tutte le vele e di incappucciare i cristalli. Non riuscendo a vedere nulla, temeva di andare a sbattere contro qualche scogliera. Meglio aspettare che il tempo cambiasse, affermò, che rischiare il disastro. Tutti accolsero stoicamente la notizia e tornarono ai loro compiti. Non si poteva fare altro. Era sfibrante non vedere nulla, né cielo né mare né colori. Neppure le grida dei gabbiani e lo sguazzare dei pesci arrivavano fino a loro attraverso la coltre che li avvolgeva. Era come se fossero soli al mondo, fuori dallo spazio e dal tempo. Gli uomini si raccoglievano attorno ai parapetti e fissavano in silenzio la nebbia, sforzandosi di distinguere qualcosa. Perfino i Corsari parevano sconcertati dalla persistenza della nebbia. Sulla costa dello Spartiacque Azzurro e nel Wing Hove, la nebbia durava al massimo un giorno o due, poi veniva spazzata via dai venti. Lì, invece, dava l’ impressione di poter durare per sempre. Il quarto giorno si trascinò fino al quinto e al sesto senza cambiamenti. Era quasi una settimana che vedevano solo la nave e i compagni, e il silenzio cominciava a diventare snervante. Gli sforzi di tirar su il morale con canti e musiche parevano solo esacerbare il problema. Non appena la musica e i canti finivano, il silenzio tornava, profondo e immutabile. L’equipaggio di Corsari non aveva nulla da fare quando la nave era ferma. Anche l’addestramento dei Cacciatori Elfi era stato ridotto perché tutti passavano la giornata ai parapetti. La sesta notte, mentre Bek e Quentin erano appoggiati al parapetto e parlavano della nebbia che periodicamente avvolgeva le Highlands di Leah, il ragazzo udì uno strano rumore rompere il silenzio. Smise subito di parlare e fece segno a Quentin di tacere, poi tesero insieme l’orecchio. Il suono tornò a udirsi, una sorta di cigolio che ricordò a Bek quello delle vele contro gli alberi e i pennoni. Ma non veniva dallaJerle Shannara. Veniva da qualche punto alle loro spalle, dalla nebbia.
Perplessi, i due cugini si guardarono, poi tornarono a scrutare nella foschia. Il rumore si levò una terza volta e Bek si voltò a controllare se qualcun altro se n’era accorto. Spanner Frew era nella cabina di pilotaggio, la sua robusta sagoma era chiaramente visibile, e guardava verso di loro. Redden Alt Mer era salito sul ponte e si era fermato accanto al maestro d’ascia, con aria confusa. Da una parte e dall’altra, una manciata di uomini era ferma accanto ai parapetti. Nel silenzio che si prolungava, tutti stavano in attesa di qualche altro rumore.
Bek si piegò verso Quentin. «Cosa pensi di...» Non terminò la frase perché un’immensa forma nera uscì bruscamente dalla nebbia, un’ombra massiccia che si materializzò all’improvviso occupando l’intero orizzonte. Era sopra di loro, così vicina da lasciare a malapena il tempo di reagire. Bek indietreggiò, tirando Quentin per un braccio mentre la forma nera usciva dalla foschia, grande come una montagna. Dietro di loro si levò un grido d’allarme, coperto dalle strida di un Roc. I due cugini caddero sul ponte quando la forma nera speronò laJerle Shannaracon uno schianto di metallo e di legno. La nave sobbalzò e si levò una cacofonia di grida e bestemmie. Un attimo dopo, scoppiava il finimondo. Bek si mise in piedi e vide che la sagoma nera era incastrata sui rostri dellaJerle Shannarae con stupore capì che si trattava di un’altra nave. L’urto aveva dato ai due scafi un impulso che li faceva girare a spirale attorno a un centro comune, in un movimento che rendeva difficile a Bek restare in piedi. Un Roc si levò in volo, un’ombra nera che passò su di lui e sparì quasi subito. Poi una figura avvolta in un mantello e incappucciata saltò sul ponte e corse verso di lui. Bek la fissò con stupore, sorpreso dall’inattesa comparsa. Non ebbe neppure la presenza di spirito di prendere la spada, mentre si avvicinava a lui. Si limitò a rimanere dov’era. La figura prese forma e alla luce grigia comparve un muso da rettile, dominato da occhi senza palpebre e da una bocca contorta. Una mano munita di artigli si alzò verso di lui. «Piccoli uomini» sussurrò la creatura. Bek non riuscì a muoversi, terrorizzato. «Sssta’ fermo, adessssso» continuò la creatura, in tono ipnotico, e fece per afferrarlo. «No!» gridò il giovane, inorridito. Senza riflettere, per pura reazione al pericolo, usò la voce come aveva fatto quella notte su Mephitic, quando era entrato con Truls Rohk nelle rovine del castello, e vi mise tutta la magia che aveva scoperto laggiù. Sentì la forza del suo canto colpire la creatura, la sentì tremare sotto l’impatto. Poi Quentin lo spinse via e balzò davanti alla creatura. La Spada di Leah saettò nell’oscurità, con un singolo fendente che li abbagliò e spiccò la testa della creatura dal collo. Il rettile cadde senza un gemito e il suo sangue schizzò tutt’intorno. Altre creature dello stesso genere apparvero sui parapetti della nave fantasma, accalcandosi per guardarli, e tra l’una e l’altra si scorgeva lo scintillio delle armi. Corsari ed Elfi lanciarono grida di battaglia e accorsero vicino ai due cugini, brandendo le armi. Dalla nave nera cadde una grandinata di frecce, e alcune colpirono qualche membro dellaJerle Shannarae lo fecero a cadere sul ponte, contorcendosi per il dolore. Quentin spinse Bek dietro alcuni barili, sotto il castello di prua, gridandogli di tenere giù la testa. Un attimo dopo, entrambe le navi sobbalzarono di nuovo e si staccarono l’una dall’altra, con un cigolio del metallo e uno schianto del legno. Lentamente, pesantemente, i due colossi si allontanarono, con i passeggeri accalcati dietro i parapetti, a guardarsi senza parlare. «Tutti ai loro posti!» gridò Redden Alt Mer dalla cabina di pilotaggio. Muovendo rapidamente i comandi, allargò la vela maestra per raccogliere la maggior
quantità di luce
possibile, scoprì i cristalli di diapso per dare potenza e ruotò la nave per orientarla nella direzione in cui era sparita l’altra nave. I Corsari si sparsero sul ponte per fissare i tubi radianti e i Cacciatori Elfi, armi in pugno, si schierarono ai posti di combattimento. Tutti erano già in movimento quando Bek si rimise in piedi. «Cos’è successo?» chiese Bek a Quentin, ma il cugino era sparito. Dopo una rapida occhiata al mostro che giaceva a terra, Bek corse a raggiungere Big Red. Il comandante continuava a gridare ordini e scrutava, con espressione tesa, la coltre di nebbia davanti a loro. Anche Bek guardò. Per un istante l’altra nave ricomparve, enorme e spettrale nella notte: tre alberi che si stagliavano nella nebbia, fasciame e ponti che sfilavano nella foschia. Poi sparì di nuovo. «Ma è laBlack Moclips!» esclamò Redden Alt Mer, incredulo. Ancora per qualche minuto cercarono l’altra nave, ma non la scorsero più. Comparve Walker, il quale ordinò al comandante di ritirare gli uomini. «Meglio così» mormorò Big Red tra sé, ancora sconvolto da quanto aveva visto. «Combattere una battaglia aerea in questa zuppa di fagioli è una follia» commentò. I Cacciatori Elfi si erano raccolti attorno all’assalitore ucciso da Quentin per esaminarlo, e Bek sentì sussurrare varie volte la parola: «Mwellret». Non sapeva che cosa fosse un Mwellret, ma sapeva che la creatura assomigliava al mostro che gli aveva fatto vedere il Re del fiume Argento, molti mesi prima. Joad Rish era salito sul ponte e si occupava dei feriti. Riferì a Walker che nessuno era grave. Il druido chiese a Big Red un rapporto sui danni e suggerì di portare la guardia da due a quattro uomini. Bek era vicino al druido quando si fece l’appello, ma non gli parlò. Una volta che tutti si furono allontanati e Redden Alt Mer ebbe passato di nuovo i comandi a Spanner Frew, Walker si chinò verso il ragazzo, mentre gli passava davanti, e gli sussurrò che Truls Rohk era scomparso.
26 A bordo dellaBlack Moclipsil caos era ancora maggiore, e preludeva a uno scontro mortale. La Strega di Ilse dormiva quando era avvenuta la collisione tra le due navi, e la violenza dell’urto l’aveva scaraventata a terra dalla cuccetta. Si era alzata subito in piedi, si era infilata in un attimo le vesti scure ed era uscita dalla cabina, che teneva chiusa a chiave, per salire sul ponte principale. Al suo arrivo, i soldati della Federazione e i Mwellret correvano dappertutto, gridando e imprecando nella nebbia e nell’oscurità. Aveva raggiunto il punto di massimo assembramento e aveva visto i caratteristici alberi a pettine dellaJerle Shannara. Un Mwellret giaceva morto sulla tolda dell’altra nave, una prima salva di frecce e lance era già partita e da un momento all’altro sarebbe iniziato lo scontro vero e proprio. Di Cree Bega e del comandante della Federazione, Aden Kett, non si scorgeva traccia. Presa da una gelida furia, raggiunse la cabina del pilota e si fermò accanto a lui. L’uomo fissava incredulo la sarabanda che imperversava sul ponte e aveva le mani immobili sui comandi.
«Indietro tutta, subito!» gli ordinò.
L’uomo la guardò terrorizzato, ma non fece alcuna mossa. «Indietro tutta!» ripeté lei, furibonda, e le parole lo sferzarono con tanta forza da fargli tremare le ginocchia. Questa volta l’uomo reagì all’istante, attingendo energia dalle vele e scoprendo i cristalli di diapso. La Black Moclipssi tirò indietro di scatto, si disincagliò dall’altra nave con uno scricchiolio di legno e di metallo e rientrò silenziosa nella nebbia. Il pilota guardò la Strega senza parlare, in attesa di ordini. «Cos’è successo?» chiese lei, tutta fuoco e lame taglienti, avvolta nel potere della sua voce. «Padrona?» chiese lui, confuso. «Come abbiamo fatto a scontrarci con l’altra nave? Come può essere successo?» «Non lo so, padrona» balbettò l’uomo. «Io ho solo eseguito gli ordini…» «Ordini di chi? Io non ho dato ordine di avanzare! Io ho ordinato di rimanere all’ancora!» Era fuori di sé per la collera. Il pilota indicò vagamente a prora. «Il comandante Kett mi ha detto che gliel’ha ordinato il rettile…» La Strega uscì dalla cabina e si avviò a grandi passi a prua senza attendere il resto. Nascosta di nuovo nella nebbia, laBlack Moclipsera come un’isola, solitaria e alla deriva. L’equipaggio della Federazione era già al lavoro per riparare i danni ai rostri e al tavolato del ponte. Accanto alla murata di prua, un capannello di Mwellret si affollava attorno a Cree Bega, finalmente ricomparso. La Strega si diresse verso di lui senza rallentare e si fermò a un passo di distanza. «Chi ha annullato i miei ordini?» chiese. Cree Bega la guardò con insolenza, fissandola con i suoi occhi privi di palpebre. Lei sapeva cosa stava pensando: “Questa donna, questa bambina, mi parla come se fosse superiore a me. Ma per me non è niente. È umana, e tutti gli umani sono inferiori. Chi si crede di essere, per parlarmi così?”. «Padrona» la salutò con un frettoloso inchino appena accennato. «Chi ha annullato i miei ordini?» chiese di nuovo la Strega. «È ssstato un mio errore, padrona» ammise il rettile, senza traccia di rimorso nella voce sibilante. «Non vedevo nessssuna ragione per ssstare fermi, per non avvicinarci ai piccoli uomini. Temevo che sssi allontanassssero troppo.» Lei lo soppesò a lungo, con attenzione, prima di riprendere la parola. Sapeva dove quel discorso sarebbe andato a parare, ma non poteva tirarsi indietro. «Chi è al comando di questa spedizione, Cree Bega?» «Tu, padrona» rispose il rettile, in tono gelido. «Allora, perché hai creduto
ti sei preso la responsabilità di dare ordini senza prima consultarmi? Perché
di avere l’autorità di annullare un ordine che ho dato io? Pensi forse di essere più capace di me nel prendere le decisioni migliori in questo viaggio?» Il rettile si voltò lentamente per fronteggiarla, e la Strega capì che stava valutando l’opportunità di uno scontro aperto. Aveva con sé cinque dei suoi, mentre lei era sola. Nessuno di loro, da solo, le avrebbe
potuto tener testa. Insieme, forse, potevano farcela. La odiava e la voleva morta. Senza dubbio era convinto di poter compiere la missione senza di lei. Se fosse scomparsa nel viaggio, il Morgawr non avrebbe mai saputo cosa le era successo. Ma la cosa valeva anche per lui, naturalmente. «Ti parla come a un bambino!» esclamò il Mwellret più come un serpente.
vicino a Cree Bega, torcendosi
La Strega di Ilse non esitò. Fece un passo di lato, quanto bastava per togliersi dalla portata degli altri, e lanciò la sua magia contro il rettile che aveva parlato. La sua voce lo sferzò con un suono feroce, che raggelava le ossa, scagliò contro il rettile ogni briciola di potere che aveva a disposizione. La violenza dell ’attacco sollevò letteralmente lo sconvolto Mwellret, lo accartocciò in una massa informe, irriconoscibile, e infine lo lasciò cadere sulla tolda. Bastarono pochi secondi. Il Mwellret era morto ancor prima che i suoi compagni capissero cos’era successo. Poi la Strega affrontò con calma gli altri rettili. Era stato necessario punirne uno per tenere sotto controllo gli altri. Meglio uno qualsiasi che Cree Bega, la cui autorità era salda ed efficace, meglio tenersi il nemico noto che trovarsi accanto uno sconosciuto. Un cambio di comandante poteva portare variazioni che avrebbero fatto sorgere problemi. Per il momento, questo era sufficiente. Fissò Cree Bega negli occhi e vi scorse quello che cercava. Oltre all’odio per lei, c’era anche una sfumatura di dubbio e di paura. Ai suoi occhi non era più una ragazzina debole e vulnerabile. E, soprattutto, il rettile aveva rinunciato a prenderle le misure per la bara. «Padrona» disse con la sua voce fischiante, e si chinò in segno di sottomissione. «Non sfidarmi più, Cree Bega» lo avvisò lei. «Non metterti in testa di discutere i miei ordini o di cambiarli, in nessun modo. Obbediscimi, rettile, o troverò qualcun altro che lo faccia!» Continuò a fissarlo per alcuni istanti, poi gli voltò la schiena e si allontanò. Non si girò a guardarlo, non gli fece in alcun modo sospettare che avesse paura di lui. Dandogli l’impressione di credersi invulnerabile, forse il rettile avrebbe creduto che lo fosse davvero. Se gli dava l’impressione di non preoccuparsi della propria incolumità perché non ne aveva bisogno, il rettile ci avrebbe pensato due volte prima di tenerle di nuovo testa. Mentre tornava verso la cabina, tutti i sensi tesi per cercare altri segni di opposizione, le parve di cogliere qualcosa che era fuori luogo. Si fermò subito e rimase immobile, avvolta nelle sue vesti grigie. Ormai conosceva tutto ciò che riguardava laBlack Moclips: ogni passeggero, ogni magazzino di rifornimenti e di armi, ogni asse del fasciame, ogni lastra di metallo. Aveva infuso in se stessa l’atmosfera della nave, in modo da essere una cosa sola con essa e potersi accorgere se qualcosa cambiava. E adesso lo sentiva, un cambiamento sottile, così piccolo che per poco non le era sfuggito. Con attenzione, cominciò a sondare ciò che la circondava, alla ricerca di indizi. C’era stato un movimento, aveva avuto l’impressione di una presenza, di una creatura vivente che non apparteneva alla nave. Stava ancora cercando, quando davanti a lei comparve Aden Kett. «Padrona, la nave è perfettamente operativa e pronta a partire al tuo comando. Per ora abbiamo gettato l’ancora in attesa che la nebbia si diradi. Hai altri ordini?»
Era pallido e teso: aveva visto la fine del Mwellret. Ma era il comandante della nave ed era abbastanza dedito al suo lavoro da eseguire il suo dovere indipendentemente dai sentimenti personali. Lei si irritò per l’interruzione, ma si controllò.
«Grazie, comandante» gli disse, e l’uomo s’inchinò e si allontanò. La distrazione le aveva fatto perdere il debole collegamento con la presenza anomala. Si guardò di nuovo attorno, usando i suoi sensi magici per cercare. Ma non c’era più nulla. Forse era stato un uccello marino di passaggio a colpire i suoi sensi. Forse una residua presenza elfica dovuta al contatto con laJerle Shannara. Al pensiero della collisione, fece una smorfia. Un intero oceano d’aria per navigare e, chissà come, erano riusciti a sbattere contro il loro nemico. Era una situazione perfino ironica, oltre che irritante, ma non cambiava nulla. Walker sapeva di essere seguito. L’incontro di quella notte, benché spiacevole, non gli aveva rivelato nulla d’importante. Ora che aveva scoperto di averla così vicina, avrebbe cercato di sfuggirle più di prima, ma sarebbe stato inutile. Dovunque andasse, avrebbe trovato lei ad aspettarlo. Aveva preso le sue misure perché così fosse. Per qualche istante controllò le ombre che avvolgevano la nave, cercando ciò che le era sfuggito, poi si allontanò e scomparve nella sua cabina per riprendere il sonno interrotto. Bek fissò la figura di Walker che si allontanava. Truls Rohk non era più sulla nave. Il druido gliel’aveva sussurrato all’orecchio e poi si era allontanato. Gli occorse qualche istante per assorbire quelle parole, poi fece quello che avrebbe fatto chiunque: seguì Walker. Probabilmente, si disse poi, il druido l’aveva detto per porre fine al silenzio tra loro. In tal caso, aveva funzionato. Raggiunse il druido accanto al parapetto e, senza riflettere, chiese: «Dov’è?». Walker scosse la testa. «Suppongo che sia sull’altra nave.» “Con la Strega di Ilse” pensò Bek, ma non riuscì a dirlo ad alta voce. «Perché l’ha fatto?» chiese invece. «Difficile dirlo. Spesso Truls Rohk si comporta istintivamente. Forse voleva vedere cosa poteva scoprire. Forse ha un suo piano che non ha condiviso con noi.» «Ma se la Strega di Ilse lo scopre…» Walker si strinse nelle spalle. «Non possiamo fare niente, Bek. » stato lui a decidere.» S’interruppe per qualche istante, poi riprese: «Ho visto cos’hai fatto a quel Mwellret prima che Quentin intervenisse. Con la voce. Eri consapevole di quello che facevi?». Il ragazzo esitò, poi annuì. «Sì.» «E da quando sai di possedere quella magia?» «Da non molto. Dalla notte su Mephitic.» Walker aggrottò la fronte. «Di nuovo Truls Rohk. È stato lui a farti capire che la possedevi, vero? Perché non mi hai detto nulla?» Bek lo fissò con aria di sfida, senza rispondere. «È giusto. Neanch’io ti ho rivelato molto, vero?» Il druido guardò attentamente il ragazzo. «Forse è giunto il momento di cambiare questo stato di cose.» Bek sentì un tuffo al cuore. «Intendi rivelarmi la mia identità?»
Walker distolse gli occhi per fissare le volute di nebbia intorno a loro. Bek ebbe l’impressione che
riandasse mentalmente a un tempo assai lontano. «Sì» rispose infine il druido. Bek aspettò che parlasse, ma Walker rimase in silenzio, perso nei suoi pensieri, altrove, forse fra i suoi ricordi. Dietro di loro, i Corsari riparavano i danni alla prua della nave, dove i rostri avevano assorbito la maggior parte dell’urto, ma una sezione della tolda e della murata si era piegata per l’impatto. Gli uomini lavoravano da soli nella penombra. Quasi tutti gli altri, salvo gli elfi di sentinella, erano tornati a dormire. Anche Quentin era scomparso. Nella cabina del pilota, Spanner Frew fissava con ferocia i comandi come per sfidare la sorte a creare qualche altro incidente. «Te l’avrei detto prima, ma ho ritenuto che fosse meglio aspettare» esordì Walker in tono pacato. «Nasconderti la verità ha sempre angustiato me quanto te il fatto di non conoscerla. Ma volevo essere più vicino alla nostra destinazione, al Cerchio di Ghiaccio e a Castledown, prima di parlartene. Anche dopo quello che è successo su Mephitic e i sospetti suscitati in te da Truls Rohk, mi è parso consigliabile attendere.» Si voltò verso il ragazzo. «Adesso, però, tu sai di essere padrone di una magia, ed è pericoloso ignorarne l’origine e l’impiego. È una magia molto potente, Bek. Tu hai solo sfiorato la superficie della sua potenza, e non voglio che la usi inavvertitamente, senza essere pronto. Se saprai come opera e che cosa può fare, potrai padroneggiarla, altrimenti sarai in grave pericolo. Questo significa che devo dirti quello che so sulla tua origine, in modo che tu possa difenderti. Non ti sarà facile ascoltare quello che ti dirò. E, peggio ancora, non ti sarà facile convivere con la verità.» Bek lo ascoltò senza fare commenti. Esteriormente era calmo, ma dentro era teso allo spasimo. Ora il druido lo fissava in attesa della sua reazione, del suo cenno affermativo per continuare. Bek lo fissò a sua volta e annuì per fargli capire che era pronto. «Tu non sei né un Leah, né un Rowe e neppure un parente di quelle famiglie» disse Walker. «Tu sei un Ohmsford.» Al ragazzo occorse qualche istante per riconoscere il nome, per ricordarne l’origine. Poi gli tornarono in mente tutte le storie che aveva udito sui Leah e i Druidi. In tutte quelle antiche storie c’erano gli Ohmsford, fino a centotrent’anni prima, quando il trisavolo di Quentin, Morgan Leah, aveva combattuto contro il Regno delle Ombre. Prima di allora, Shea e Flick Ohmsford avevano combattuto con Allanon contro il Signore degli Inganni, Wil Ohmsford aveva aiutato Eventine Elessedil e gli Elfi contro le orde dei Demoni, e Brin e Jair Ohmsford erano andati alla ricerca dell’Ildatch nelle lontane terre dell’Est. Ma erano morti da secoli, e la famiglia Ohmsford si era estinta. Gliel’aveva detto Coran. «La tua magia è un’eredità della tua famiglia, Bek» continuò il druido, tornando a guardare a poppa della nave, nella nebbia. «Fu assorbita da Wil Ohmsford nel proprio corpo centinaia di anni fa, quando usò le Pietre Magiche per salvare la vita di due donne: una divenne l’Ellcrys, l’altra sua moglie. Ma aveva troppo poco sangue elfo nelle vene per poter usare le Pietre impunemente, e ne fu alterato in modo irrevocabile. Tuttavia ciò non si manifestò tanto in lui, quanto piuttosto nei suoi figli, Brin e Jair, che nacquero con la magia nella voce, esattamente come te. Era forte in entrambi, ma soprattutto nella bambina. Brin aveva il potere di trasformare con il suo canto gli esseri viventi. Poteva guarire oppure distruggere. Questo potere è chiamato “canto magico”.» Respirò a fondo. Bek lo fissava con estrema concentrazione.
«La magia si affacciò anche nelle successive generazioni, ma solo occasionalmente. Passarono cinquecento anni prima che si ripresentasse in modo significativo. Apparve nei fratelli Par e Coll
Ohmsford, che combatterono al fianco mio e della regina degli Elfi, Wren Elessedil, contro il Regno delle Ombre. La magia era molto forte in Par Ohmsford. Fortissima. E Par era il tuo trisavolo, Bek.» Si staccò dal parapetto e tornò a fissare il ragazzo. «Anche tra me e te c’è una parentela, ma non sto a dilungarmi sull’intero albero genealogico. Tutt’e due discendiamo da Brin Ohmsford. Ma mentre tu hai ereditato da lei il canto magico, io ho ereditato il mandato di sangue affidato a lei da Allanon in punto di morte, la promessa che uno dei suoi discendenti sarebbe stato il primo dei nuovi Druidi. Quel discendente ero io, anche se non volli crederlo quando mi fu rivelato e dopo, per molto tempo, non fui disposto ad accettarlo. Entrai nell’Ordine con riluttanza e lo servii assillato dai dubbi.» Sospirò piano, con una sorta di rimpianto. «Ti ho detto tutto. Siamo parenti, Bek, legati dal sangue oltre che dall’uso della magia.» Sorrise con amarezza. «Questi due legami mi hanno permesso di chiamarti quando siamo stati attaccati su Shatterstone, di collegarmi a te mediante il pensiero, mentre con gli altri non avrei potuto farlo. Non è stata una coincidenza, se ho chiamato te.» «Continuo a non capire» rispose Bek, confuso. «Perché non me l’hai raccontato fin dall’inizio? Perché tenerlo segreto? Non mi pare una cosa tanto pericolosa. Posso imparare a usare la mia magia. Ci può essere d’aiuto, vero? È per questo che mi hai fatto venire? Per la mia magia? Per il fatto che sono un Ohmsford?» Il druido scosse la testa. «Non è così semplice. In primo luogo, l’impiego della magia comporta una grande responsabilità e una minaccia assai concreta per chi la pratica. La magia è forte e a volte imprevedibile. Il suo uso può tradire. Può essere pericolosa, e non solo per gli altri, ma anche per te. La magia spesso reagisce come vuole lei e non come vuoi tu, e il tentativo di padroneggiarla può andare incontro a un insuccesso. Non è sempre un bene il fatto di sapere che la possiedi e che puoi evocarla. Una volta che ne hai scoperto l’esistenza, diviene un fardello che non puoi più posare. Per tutta la vita.» «Ma esiste» osservò Bek. «E non posso decidere se averla o meno. E poi tu mi hai portato con te perché la usassi, vero?» Il druido annuì. «Sì, Bek, ma c’è dell’altro. Io ti ho portato perché usassi la tua magia, ma anche per un’ altra ragione, assai più importante. I tuoi genitori e tua sorella erano gli ultimi Ohmsford. Ce n’erano altri, lontani cugini e così via, ma tuo padre era l’unico discendente in linea diretta di Par Ohmsford. Abitava con tua madre nel villaggio di Jentsen Close, a nordest del lago Arcobaleno, in una comunità agricola che veniva dalle pianure di Rabb. Ebbero due figli, te e tua sorella. Tua sorella si chiamava Grianne. Aveva tre anni più di te e in lei apparvero molto presto i segni della magia del canto. Tuo padre li riconobbe e mi mandò a chiamare. Sapeva dei legami di parentela tra noi. Io venni in visita da voi quando tu eri ancora in fasce e tua sorella aveva quattro anni. Grazie alla mia esperienza di druido, individuai la magia non solo in lei, ma anche in te.» S’interruppe per qualche istante. «Purtroppo anche il Morgawr scoprì l’esistenza di quella magia. Il Morgawr vive da lunghissimo tempo in un suo nascondiglio nella Malaterra. Probabilmente era un alleato degli Ombrati, ma non era uno di loro e non fu distrutto al pari di quelli. Ricomparve una cinquantina d’ anni fa e cominciò a estendere la sua influenza sulla Federazione. È un mago molto potente, ha legami con i Mwellret e con i cambiatori di forma. Grazie a quei legami venni a sapere del suo interesse per la tua famiglia. A quell’epoca ero
amico di Truls Rohk, il quale varie volte aveva seguito dei cambiatori di forma che si recavano a spiare la tua casa. Si limitavano a osservare, senza fare altro, ma era un chiaro avvertimento che c’era qualcosa di inquietante». S’interruppe perché alcuni Corsari erano scesi dal ponte di prua per recarsi sottocoperta; per quella notte il loro lavoro era terminato ed erano ansiosi di andare a dormire. Uno o due guardarono dalla loro parte, per poi distogliere lo sguardo. Pochi istanti più tardi, il druido e il ragazzo erano di nuovo soli.
«Avrei dovuto capire cosa stava succedendo, ma ero troppo occupato dalla creazione di un nuovo Consiglio dei Druidi» proseguì Walker, scuotendo la testa. «Non intervenni abbastanza in fretta. Una banda di Mwellret guidati dal Morgawr e avvolti in mantelli neri uccise i tuoi genitori e bruciò la tua casa fino alle fondamenta, facendo credere che fosse stato un attacco di fuorilegge Gnomi. Tua sorella ti nascose in una stanza frigorifera sotterranea e quando la presero disse che eri morto. Del resto era Grianne che volevano, per la sua magia, per il suo canto magico. Il Morgawr voleva impadronirsi di lei. Intendeva corromperla, farne la sua allieva, spingerla a usare per lui la sua magia. Con l’inganno le fece credere che a capo dei Mwellret ci fosse un druido che li teneva soggiogati. Io divenni per lei il nemico più odiato. Tutti i miei tentativi di farle sapere la verità, di salvarla, di ottenere la sua fiducia sono sempre falliti.» Indicò la parete di nebbia che li circondava. «Adesso mi dà la caccia, Bek, in qualche punto del mare di nebbia, con quell’altra nave.» Fissò il ragazzo. «Tua sorella è la Strega di Ilse.» Per qualche tempo rimasero in silenzio accanto al parapetto, a guardare la nebbia dove la donna che un tempo si chiamava Grianne Ohmsford era in agguato per dare loro la caccia. L’enormità della rivelazione si depositò pian piano su Bek. Ma era la verità o il druido continuava a giocare le sue partite con lui, anche adesso? Avrebbe voluto fargli molte domande, ma si mescolavano tra loro e premevano tutte assieme. Non capiva come avrebbe dovuto usare ciò che gli era stato detto. Intravedeva le possibilità, ma non riusciva ancora a valutarle. Gli tornò alla mente la visita notturna del Re del fiume Argento, tanti mesi prima, e le varie forme che la creatura del mondo degli spiriti aveva assunto: la bambina, che era il passato, e il mostro, che costituiva il presente. La bambina, ora capiva, era sua sorella. Ecco perché gli era parsa familiare: nella sua memoria rimaneva ancora qualcosa del viso infantile di lei. Il mostro era ciò che era divenuta, la Strega di Ilse. Ma il futuro restava ancora da stabilire, e a stabilirlo sarebbe stato Bek, che non doveva sottrarsi alla ricerca, al bisogno di sapere, a ciò che il cuore gi imponeva di fare. Tutte le domande si coagularono in una. Sarebbe stato capace di far tornare sua sorella com’era un tempo? «C’è un’ultima cosa, Bek» gli disse all’improvviso Walker. «Vieni.» Si staccò dal parapetto e si diresse verso il centro della nave. Il ragazzo lo seguì. Spanner Frew, dalla cabina del pilota, non li degnò di un’occhiata e continuò a scrutare nella nebbia. «Lei sa che sono vivo?» chiese Bek. «No, ti ritiene morto» rispose il druido. «Non ha motivo di credere che le cose siano andate diversamente. Truls Rohk ti trovò in mezzo alle rovine della tua casa tre giorni dopo il rapimento di tua sorella. Sorvegliava i cambiatori di forma e aveva visto i Mwellret tornare attraverso il Wolfsktaag. Scovò il nascondiglio che i rettili non erano riusciti a individuare. Eri quasi morto. Ti portò da me, e quando riprendesti a sufficienza le forze ti affidai a Coran Leah.» «Eppure mia sorella dà a te la colpa dell’accaduto.» «È ingannata dalla propria amarezza e dalle menzogne del Morgawr. La storia che le ha raccontato è assai diversa dalla realtà, ma lei ha finito per crederci. Adesso si è avvolta nei suoi poteri magici come in un bozzolo e chiude fuori tutto il resto del mondo. Cerca di essere una fortezza che nessuno possa espugnare.»
«Tranne forse io stesso? È per questo che mi hai voluto nella spedizione? È quello che voleva dirmi il Re
del fiume Argento?» Il druido non rispose. Si fermarono davanti al misterioso oggetto portato a bordo dal druido e avvolto in catene di magia. Era solitario e impenetrabile, appoggiato all’albero di maestra, una cassa rettangolare alta e stretta. La tela in cui era avvolta rivelava solo la sua dimensione, senza lasciar capire cosa ci fosse dentro. Le catene scintillavano per l’umidità della nebbia e a guardarle con attenzione parevano non avere un inizio e una fine. Bek si guardò attorno. Il ponte della nave era deserto, con l’eccezione del pilota e di un paio di sentinelle dei Cacciatori Elfi che stavano insieme a prua. Nessuno di loro sarebbe andato a poppa finché il druido parlava con il ragazzo. Con la nave ferma, il solo movimento veniva dalla nebbia che si agitava attorno a loro. «Gli altri non possono vedere quello che ti mostro ora, solo tu e io» disse il druido, a bassa voce. Passò la mano davanti alla cassa, e quella parte divenne trasparente. All’interno comparve una spada, con l’impugnatura in alto: un’arma sottile, di colore azzurro argento nel buio. L’impugnatura era vecchia e consumata, ma finemente incisa al bulino. Nell’elsa si scorgeva un pugno che teneva levata una torcia accesa. «Questa è la Spada di Shannara, Bek» sussurrò il druido, piegandosi verso di lui in modo che le sue parole non potessero essere udite da altri. «Anche questa è una tua eredità. Appartiene per nascita ai discendenti del re degli Elfi Jerle Shannara, da cui prende il nome questa nave. Solo uno Shannara può impugnare questa spada. Gli Ohmsford, che erano gli ultimi Shannara, portarono questa spada in battaglia contro il Signore degli Inganni e il Regno delle Ombre. La usarono per più di mille anni per difendere la libertà delle razze.» Posò la mano su una spalla di Bek. «Adesso tocca a te.» Bek conosceva anche quelle storie. Le conosceva tutte: le storie dei Druidi e delle Guerre delle Razze e tutto il resto. Nessuno aveva visto quel talismano da più di cinquecento anni, da quando Shea Ohmsford aveva affrontato il Signore degli Inganni e l’aveva distrutto, anche se si diceva che fosse riapparso nella battaglia contro il Regno delle Ombre. Una voce che, ad ascoltare le parole del druido, corrispondeva al vero. «La spada è il talismano della verità, Bek» continuò Walker. «Venne forgiata per difendere dalle menzogne che rendono schiavi e nascondono il vero. È un talismano potente, e richiede forza di volontà e saldezza di cuore per impugnarla. Chi la impugna non dovrà indietreggiare di fronte al dolore, al dubbio e alla paura che a volte nascono dall’abbracciare la verità. Tu sei un degno successore delle altre persone della tua famiglia che furono chiamate a impugnarla. Sei forte e deciso. Molte delle prove alle quali ti ho sottoposto nel corso del viaggio servivano ad accertarmene. Sarò franco con te. Senza il tuo aiuto, senza il potere della spada ad aiutarci, probabilmente saremo perduti.» Tornò a guardare la cassa e passò di nuovo la mano davanti a essa. La Spada di Shannara scomparve e tornarono ad apparire il telone e le catene. Bek continuò a fissarle, come se ancora scorgesse il talismano che custodivano. «Intendi dare a me la Spada di Shannara?» chiese. Il druido annuì.
Con voce tremante, il ragazzo rispose: «Walker, non so se sarò capace di...». «No, Bek» lo interruppe subito il druido, in tono gentile. «Non dire nulla, questa notte. Il domani arriverà presto. Ci sono molte cose da discutere, e ne discuteremo domani. Avrai di sicuro un sacco di domande da farmi, e io farò del mio meglio per rispondere. Lavoreremo insieme per prepararci a quello che succederà quando dovrai evocare la magia della spada.» Bek lo guardò preoccupato, ma il druido gli sorrise rassicurante. «No, non contro tua sorella, anche se un giorno potresti essere costretto a usarla in quel modo. No: questa prima volta la magia servirà per un altro scopo. Se ho letto bene la mappa, la Spada di Shannara è la chiave che ci permetterà di penetrare nel Cerchio di Ghiaccio.»
27 Allo spuntar dell’alba, Bek si alzò e cominciò a svolgere i suoi doveri di mozzo pervaso da una sorta di stupore, combattuto dalle rivelazioni della notte precedente, quando il druido lo intercettò all’uscita dalla cabina di Rue Meridian e gli disse di seguirlo. Il sole era sorto da un’ora e Bek era vestito e aveva fatto colazione. Aveva ancora alcuni lavori da compiere, ma la chiamata di Walker non ammetteva obiezioni. Salirono sul ponte di coperta e si diressero verso il parapetto di prora, vicino al punto dove si erano fermati la notte prima. Il cielo attorno a loro era sempre uguale, grigio, nebbioso, impenetrabile. Dovunque Bek guardasse, a destra o a sinistra, in alto o in basso, la luce e i colori erano gli stessi. La visibilità era ancora limitata a una decina di passi. I marinai già sul ponte sembravano spettri, eterei e non ancora del tutto formati. Redden Alt Mer era nella cabina di pilotaggio assieme a Furl Hawken, due Corsari erano al lavoro a poppa, occupati a collegare alcuni nuovi tubi radianti, e Quentin si allenava alla scherma con i Cacciatori Elfi sotto lo sguardo attento di Ard Patrinell. Nessuno alzò gli occhi mentre Bek passava e nessuno si comportò come se qualcosa in lui fosse cambiato, anche se nella sua mente era cambiato tutto. «Tanto per cominciare, tu sei sempre Bek Rowe» gli disse Walker, quando si furono seduti su una cassa piena di vele-luce. «Non devi usare il nome Ohmsford. È troppo conosciuto e attirerebbe su di te attenzioni indesiderate.» «Giusto» convenne Bek. «Inoltre non devi dire a nessuno quello che hai raccontato a me sulla tua magia o quello che hai saputo di te e della Spada di Shannara. Neppure a Quentin. Non una parola.» Attese qualche istante, finché non vide che Bek annuiva. «Infine non devi dimenticare che sei qui per farmi da occhi e orecchi, per ascoltare e osservare. Non era un incarico inutile, assegnato soltanto per tenerti occupato in attesa di rivelarti la tua identità. La magia ti dà capacità di osservazione che la gente comune non possiede. Io ho ancora bisogno del tuo talento: è importante adesso come lo era prima.» «Non mi sembra che sia servito a molto, finora» osservò Bek. «Quello che ti ho detto non mi è parso particolarmente utile.» Un sorriso ironico balenò sul viso del druido. «Davvero la pensi così? Forse non sei stato abbastanza attento.» «Ryer Ord Star ha visto qualcosa, nei suoi sogni, che ti può aiutare?» volle sapere Bek. «Anche
lei sta di guardia?»
«Fa quello che può. Ma la tua vista, Bek, anche se non è quella di una veggente, è la più utile.» Si avvicinò al giovane in modo da parlargli all’orecchio. «Ryer Ord Star sogna gli esiti delle vicende prima che accadano, ma tu individui le cause prima che siano in condizione di produrre effetti. Questa differenza è dovuta alla magia che possiedi, ricordalo.» Bek non capiva quello che gli diceva Walker, ma decise di rimandare ad altri momenti la riflessione su quelle parole. Si limitò ad assentire. Veli di nebbia grigia continuavano a passare davanti a loro, e i rumori delle spade e degli utensili di metallo avevano un suono sordo nella foschia che li avvolgeva: era come se ciascun gruppo di uomini formasse un’isola a sé stante e solo i rumori li collegassero in modo reale. «La Spada di Shannara» riprese Walker a bassa voce «non è come le altre armi. Né come le altre magie. Cerca la verità dove essa è occultata da inganni e menzogne e rivelandola conferisce potere. Ma questo potere ha un costo. Come tutti i talismani degli Elfi, la spada attinge il suo potere da colui che la impugna. La sua forza, e di conseguenza la sua efficacia, dipende interamente dalla forza di chi la brandisce. Più forte è colui che la usa, più efficace è la magia. Ma il legame tra i due è molto sottile. La Spada di Shannara si basa sulla volontà di chi la usa di liberarsi degli inganni personali, delle mezze verità e delle menzogne per poterle vedere chiaramente negli altri.» Lasciò a Bek qualche istante per assimilare quelle parole, poi riprese: «Questo succederà anche a te, Bek. Quando lo evocherai, il potere della spada cercherà di rivelarti le verità più vaste nascoste dietro magie altrui. Ma per capire quelle grandi verità, prima devi accettare le piccole verità che riguardano te. E questo richiede sofferenza e spirito di sacrificio». Il druido continuò: «Noi trascorriamo la vita sfuggendo alle cose che ci addolorano e ci disturbano. Reinventiamo noi stessi e la nostra storia collocando costantemente le cose nella luce più favorevole a noi. È nella natura umana comportarsi così. In genere i nostri sotterfugi sono piccoli, ma accumulandosi acquistano peso e vederli tutti insieme può risultare un’esperienza schiacciante. Inoltre ci sono altre verità che, una volta svelate, sembrano impossibili da sopportare, e di conseguenza le nascondiamo con grande cura». Walker proseguì: «Una volta affrontate queste verità personali, dovrai affrontare la verità sulle persone che ami, poi sul mondo che conosci attraverso le tue esperienze, e solo alla fine sugli inganni che intendi smascherare. Questo non sarà né facile né piacevole. La verità ti assalirà con la violenza di una spada d’ acciaio. Colpirà e taglierà. Potrà ucciderti, se non ti proteggerai da essa. La tua migliore difesa consisterà nel conoscere e accettare quello che avverrà. Puoi proteggerti abituandoti a sopportare quelle verità. Sono stato chiaro?». «Mi pare di sì» rispose Bek. «Ma non so come potrei prepararmi a qualcosa del genere. Non so che tipo di menzogne e di inganni ho nascosto nel corso degli anni. Devo cercare di elencarli tutti prima di usare la spada?» «No, l’hai detto tu stesso. Non puoi isolarli facilmente. Alcuni li hai dimenticati. Altri hai cercato di sfumarli con un’interpretazione più favorevole. Altri ancora non li hai mai riconosciuti come tali. Quello che devi fare, Bek, è capire in che modo opera la spada, per non essere colto di sorpresa dal suo potere e sopravvivere alle sue richieste.» S’interruppe, poi disse: «Lascia che ti racconti una storia».
Trascorse i minuti successivi raccontandogli la storia del re degli Elfi Jerle Shannara e del suo scontro con il Signore degli Inganni, mille anni prima.
La Spada di Shannara era stata forgiata da Bremen col fuoco dei Druidi in una città delle Terre del Sud, Dechtera, e portata a nord, in modo che un campione potesse combattere contro il Signore Nero e distruggerlo. Bremen, però, aveva sopravvalutato la capacità del re degli Elfi di adattarsi alle esigenze della spada e non l’aveva preparato a sufficienza. Quando Jerle Shannara fece appello alla magia della spada, non riuscì a imprimerle una forza sufficiente. Di conseguenza, fece a pezzi la forma fisica del Signore Nero, ma non riuscì a distruggerlo completamente. Sarebbe poi toccato al suo discendente Shea Ohmsford, cinquecento anni più tardi, terminare il lavoro. Walker concluse: «Il mio compito con te, Bek, consiste nell’accertarmi che tu non abbia le esitazioni di Jerle Shannara, che una volta evocata la magia della spada tu la usi con la forza necessaria. Questa prima volta l’impiego del talismano non sarà così esigente. Non si tratta di uno scontro con un’altra creatura magica che cercherà di distruggerti. Ci sarà solo una porta custodita da una magia impersonale e indiscriminata, incaricata di tenere lontani gli intrusi. È una buona prova con cui iniziare il tuo apprendimento». Bek si guardò i piedi, poi sollevò la testa e fissò Walker negli occhi. «Ma anche mia sorella, la Strega di Ilse, starà aspettando di mettermi alla prova.» «No. Non sa nulla di te o della spada. Ci sono forti probabilità che tu debba affrontarla, prima o poi, ma per adesso non è questa la tua principale preoccupazione. La tua prova verrà anche da altre fonti. Tutto ciò che è collegato a questa spedizione è avvolto in inganni e menzogne, Bek. Può sembrare abbastanza semplice: una mappa, un naufrago alla deriva sullo Spartiacque Azzurro, un viaggio fino a un luogo che è stato raggiunto da altre navi degli Elfi, trent’anni fa, prima che scomparissero, e l’attrattiva di un tesoro di valore inestimabile. Ma in tutto l’accaduto poche cose sono come appaiono. Se vogliamo avere successo, anzi, se vogliamo sopravvivere, ci occorre il potere della Spada di Shannara. Solo tu puoi usarla, Bek, perciò devi essere pronto a farlo quando ci sarà bisogno di quella magia. Io contribuisco con il fuoco e con le conoscenze dei Druidi. Quentin con il potere della Spada di Leah. Gli altri con le loro doti e la loro esperienza. Forse troveremo le Pietre Magiche scomparse. Però la magia della Spada di Shannara è vitale e necessaria per tutto ciò che tentiamo di fare. E il tuo addestramento all’uso di essa inizia oggi.» Trascorsero il resto della giornata e gran parte delle successive a parlare della magia della spada e del suo funzionamento. Walker comprendeva i princìpi, ma non aveva mai sperimentato il potere dell’arma, perciò erano costretti ad affrontare i problemi in via teorica. Non era molto diverso, pensava Bek, dall’addestramento di Quentin con i Cacciatori Elfi: incrociavano le spade, ma il combattimento non era reale. Dato che si poteva evocare il potere della spada solo quando ce n’era realmente bisogno, non c’era modo di metterne alla prova l’effetto su Bek. Perciò, oltre a parlare in generale dei modi con cui gli uomini ingannano se stessi, Walker gli insegnava quella sorta di accettazione che porta alla pace interiore, gli insegnava a guardare in profondità dentro di sé distaccandosi dalle preoccupazioni contingenti, ad affrontare gli argomenti dolorosi aprendosi a essi invece di respingerli. Era un esercizio faticoso e umiliante e a volte, alla fine della giornata, Bek era più confuso che all’inizio. Già faticava ad accettare la verità sulla sua storia e la sua famiglia, e adesso barcollava sotto la responsabilità della salvezza dei compagni che il druido gli affidava. Tuttavia capiva l’importanza del suo ruolo e di conseguenza faceva il possibile per prepararsi, applicandosi duramente, in modo da diventare più adattabile ed essere così pronto ad affrontare quello che poteva succedere una volta impugnata la spada.
Non trascurava però neppure gli altri suoi incarichi. Era sempre il mozzo della nave e continuava a comportarsi come tale. Tuttavia il tempo che trascorreva con il druido a parlare di magia, con Redden
Alt Mer nella cabina di pilotaggio e a svolgere i suoi lavori quotidiani gli riempiva quasi tutta la giornata. Vedeva sempre meno Quentin e Ahren Elessedil, ma se non altro questo lo aiutava a nascondere loro ciò che aveva appreso. Pochi giorni dopo il loro incontro con la Strega di Ilse, la nebbia svanì, i cieli si schiarirono, apparve di nuovo la sterminata distesa dello Spartiacque Azzurro e i Cavalieri del Wing Hove tornarono a levarsi in volo. La nave venne riparata e poté rifornirsi di viveri grazie alla scoperta di vari arcipelaghi. L’aria divenne gelida e i membri della spedizione dovettero indossare indumenti pesanti tutto il giorno. Tra un’ isola e l’altra vennero avvistati banchi di ghiaccio galleggiante e il cielo divenne grigio e invernale. Le giornate si accorciarono, la luce prese una sfumatura pallida, leggera, che annacquava tutti i colori della terra e del cielo. Bek continuava a chiedersi cos’avrebbero incontrato. Walker l’aveva avvertito che tutto ciò che circondava la spedizione era avvolto in menzogne e inganni. Se era così, quanti ne aveva scoperto il druido? Quali conoscenze gli teneva segrete? Nove settimane dopo avere lasciato Mephitic, con un vento polare carico di gelo e di nevischio, giunsero alla fortezza del Cerchio di Giaccio, circondata da altissime scogliere, e il ragazzo ebbe le risposte che cercava. La terra comparve all’orizzonte come un leggero ispessimento scuro, ma ci volle molto tempo prima che assumesse una forma. Si estendeva per miglia, adagiata come un serpente sul mare grigio-azzurro. Passarono ore prima che la nave si avvicinasse a sufficienza per distinguere una scogliera a strapiombo sul mare, così alta che la sua sommità svaniva nella nebbia. Sulla roccia si vedevano solo carcasse di alberi sbiancate dal sole e denudate dal vento. Simili a lampi bianchi e neri nel cielo, gli uccelli marini uscivano con alte strida dai loro nidi nascosti per tuffarsi nelle acque sottostanti. Una fila di isolotti erosi dal tempo e dagli elementi conduceva, come le pietre di un guado, ai piedi delle scogliere, atolli spogli che non offrivano rifugio o sostegno, privi di vegetazione se si eccettuavano alcune rustiche graminacee marine e grigi arbusti d’alta montagna. Walker fece fermare la nave quando erano ancora a miglia di distanza e inviò in avanscoperta i Cavalieri del Wing Hove per una rapida ricognizione. La loro esplorazione fu velocissima. Le scogliere erano abitate dalle averle e i Roc non potevano avvicinarsi. Lasciati Hunter Predd e Po Kelles su uno degli atolli più grandi, Walker ordinò a Redden Alt Mer di portare laJerle Shannarafino alla terraferma, ma l’esame ravvicinato aumentò le sue apprensioni. Le scogliere costituivano una parete compatta, impenetrabile, qua e là solcata da sottili crepacci invasi dalla nebbia e dal nevischio e virtualmente non percorribili. Le averle li guardavano con sospetto dai loro alti nidi, in attesa di vedere le loro intenzioni, e il vento soffiava giù dalla scogliera in raffiche imprevedibili, che percuotevano la nave quando si avvicinava. Walker ordinò di seguire per qualche tempo la costa. L’oceano aveva scavato caverne nella scogliera, e le rocce cadute dall’alto si erano ammassate formando bizzarri monumenti e affioramenti. Le onde colpivano con violenza la base della scogliera, entravano e uscivano dalle caverne portando via rocce e detriti.
Non si riuscì a scorgere alcun passaggio e Alt Mer si rifiutò di volare nella nebbia e nel vento dei crepacci: sarebbe stato un suicidio, dichiarò, e questo pose fine a ogni discussione. Scosse la testa quando Walker gli chiese se si poteva volare sopra la nebbia. A una quota di centinaia di iarde, in mezzo
a una nebbia ancora più fitta e a venti ancora più forti? Impossibile. Dalla mappa del naufrago, quella terra appariva come una penisola protetta da decine di miglia di scogliere simili e la sola apertura si trovava fra colonne di ghiaccio. Big Red tendeva a dare retta alla mappa. Ripresero il volo, proseguendo la ricerca, ma l’aspetto della costa rimase sempre uguale. Poi, alla fine della giornata, la scogliera si aprì all’improvviso e rivelò una baia, larga e profonda, che si prolungava fino a una catena di alte montagne incappucciate di neve. Dai varchi tra le cime, i ghiacciai si erano fatti strada fino alle rive: enormi blocchi di ghiaccio grigio-verdi e frastagliati, una morena glaciale che riversava nella baia ghiaccio e rocce così imponenti da formare piccole isole, alcune delle quali emergevano dall’acqua per centinaia di iarde. Nella baia il vento cessava, gli uccelli marini si affollavano in colonie e il fragore dell’oceano si smorzava. Solo l’occasionale scricchiolio del ghiaccio che si spezzava e si riformava e il boato dei blocchi che si staccavano dalla massa del ghiacciaio per precipitare lungo le gole interrompevano il profondo silenzio. LaJerle Shannaraattraversò le scogliere ed entrò nella baia, scivolando tra gli iceberg e le pareti di roccia, in mezzo agli sconosciuti rumori del ghiaccio in movimento, e si avviò nella penombra alla ricerca di un passaggio. La baia si ridusse a un canale, poi si aprì su una seconda baia e proseguì. La nebbia si addensò su di loro, formando una coltre così spessa da nascondere il sole e da avvolgerli in una luce pallida e cinerea. I colori sparirono progressivamente fino a confondere in un unico grigiore acqua, ghiaccio, nebbia e penombra. Con l’avvicinarsi del buio e la progressiva scomparsa dei colori, tutti avvertirono con forza la presenza di quell’ambiente, e provarono la sensazione terrificante di un’entità di dimensioni e potere enormi, di un gigante nascosto dietro la foschia e pronto a colpirli. I suoni che emetteva erano lo scricchiolio dei ghiacciai che si spezzavano e scivolavano nella baia, dei crepacci che si aprivano e si chiudevano, delle masse spinte inesorabilmente avanti dalla pressione e dal gelo. I passeggeri dellaJerle Shannara ascoltavano quei rumori come il viandante ascolta la tempesta che si accanisce contro la sua tenda: sempre con il timore di udire uno schianto rivelatore, che annunci il disastro. Poi il canale si restrinse di nuovo, questa volta a causa di colonne di ghiaccio così alte da chiudere completamente la baia: torri cristalline che s’innalzavano come una palizzata dalle acque. Attraverso varchi tra le colonne, Bek riusciva a scorgere una luce più forte e chiara, limpida, come se dall ’altra parte ci fosse un clima completamente diverso. Walker, accanto a lui, gli toccò una spalla, poi si rivolse a Redden Alt Mer e gli ordinò di fermare la nave. Sospesi in aria davanti alle colonne di ghiaccio, affacciati in silenzio ai parapetti, i passeggeri aspettarono. L’aria gelida pareva di cristallo e gli uccelli marini veleggiavano senza emettere alcun suono. Dalla nebbia giungeva il crepitio del ghiaccio che si spezzava, un’eco lontana e minacciosa. Poi, all’improvviso, le colonne cominciarono a muoversi, con una serie di spinte e rotazioni che facevano pensare a due mascelle che si chiudevano, a denti che masticavano. Sotto lo sguardo sgomento dei naviganti, le torri di ghiaccio si avvicinarono e si scontrarono tra loro, con un rombo più forte di quello del tuono, chiudendo l’accesso al canale. Il passaggio scomparve. Grandi schegge di ghiaccio precipitavano dall’alto delle torri e grandinavano nelle acque della
baia, e sulle torri si aprivano nuove crepe quando gli immensi leviatani di ghiaccio si colpivano tra loro con furia cieca, si ritiravano e si colpivano di nuovo. L’ acqua della baia ribollì e si levarono enormi onde a causa dell’intensità di quel violento movimento. Qualche minuto dopo, le colonne si mossero nuovamente, allontanandosi tra loro, prendendo nuove posizioni e dondolando gentilmente in mezzo alle onde che si acquietavano.
Il druido mormorò all’orecchio di Bek: «Quella è la Macina. Ed è quella che la Spada di Shannara dovrà vincere». Per ordine del druido, tornarono nella baia e volarono, lungo la costa, fino all’atollo dove li aspettavano i Cavalieri Alati. Ormai era quasi buio e Redden Alt Mer fece ancorare laJerle Shannaraper la notte. Bek rifletteva sulle parole del druido, cercando di capire come la magia della Spada di Shannara potesse aiutarli a passare in mezzo a quelle terribili torri mobili di ghiaccio. Non riusciva a immaginare in che modo il talismano li potesse aiutare. Walker l’aveva lasciato quasi subito per andare a conferire con il comandante dei Corsari e Ahren era venuto a occupare la sua attenzione, perciò non aveva modo di scoprirlo. Più che altro, doveva sperare che il druido sapesse il fatto suo. Quando ebbero gettato l’ancora e cenato, Walker convocò il suo consiglio di otto persone per un’ultima riunione. Questa volta partecipò anche Hunter Predd, portando il numero dei presenti a nove. Si incontrarono nella cabina di Redden Alt Mer: il druido, il comandante corsaro e sua sorella, Ard Patrinell e Ahren, Quentin e Bek, Ryer Ord Star e il Cavaliere del Wing Hove. Il cielo era nuvoloso e la notte così nera che era impossibile vedere il mare o l’atollo cui erano ancorati. «Domani attraverseremo le colonne di ghiaccio della Macina» li informò Walker quando tutti si furono riuniti. «Il comandante Alt Mer sarà al timone. Io sarò sul ponte, davanti all’albero di prua, e darò la direzione. Bek mi aiuterà. Tutti dovranno essere ai loro posti e pronti ad agire. Nessuno dovrà andare a prua finché non saremo passati, nessuno dovrà venirmi accanto.» Fissò Big Red. «Occorrerà apportare le correzioni di rotta rapidamente e con la massima precisione, comandante. Il ghiaccio non ci perdonerà errori. Dovrai ascoltare bene le mie parole e fare esattamente come ti dirò. Dovrai fidarti delle mie indicazioni, anche se ti sembreranno sbagliate. Non dovrai assolutamente cercare di interpretare le mie parole o di anticipare i miei desideri. Per questa sola volta, al comando ci sarò io.» Attese la risposta del corsaro. Redden Alt Mer lanciò un’occhiata alla sorella, poi fece un cenno d’ assenso. «Hunter Predd» proseguì Walker. «I Cavalieri del Wing Hove devono rimanere qui, le averle sono troppo numerose e i venti e la nebbia troppo insidiosi. Volate lungo la costa e trovate un posto migliore di questo atollo per aspettare il nostro ritorno. Se sarà possibile, torneremo a prendervi o almeno vi faremo sapere qualcosa. Ma ci vorrà del tempo. Potremmo rimanere assenti per parecchi mesi.» Fece una pausa. «Forse di più.» Il cavaliere dai capelli grigi annuì. «So cosa dobbiamo fare.» Intendeva dire che aveva capito: coloro che oltrepassavano le colonne del Cerchio di Ghiaccio correvano il rischio di non tornare. Intendeva dire che avrebbe aspettato finché non ci fossero state più speranze, poi avrebbe cercato di raggiungere le Quattro Terre. Ma Bek udì nelle sue parole qualcosa di più. Hunter Predd non era tipo da gettare la spugna facilmente. Se l’equipaggio dellaJerle Shannaranon fosse riuscito a tornare a casa, non sarebbe tornato neppure lui. Se il druido fece la stessa riflessione, non lo diede a vedere. «Ryer Ord Star ha avuto un’altra visione» disse, facendo segno alla giovane donna di avvicinarsi.
Lei fece un passo avanti, con riluttanza, a testa bassa, la faccia nascosta nell’ombra argentea dei lunghi capelli, gli occhi viola fissi a terra, e si portò accanto al druido come se fosse la sua ombra, come se soltanto lì si sentisse al sicuro, e si appoggiò addirittura a lui. Walker le mise la mano sulla spalla e la
invitò a parlare, ma lei attese ancora un momento prima di rispondere. «Vedo tre talpe che cercano di scavarsi una strada dentro la terra» disse con voce chiara, dal timbro acuto. «Hanno le chiavi per aprire una serratura. Una finisce in un labirinto senza uscita. Un’altra è intrappolata da lingue di fuoco. La terza è inseguita da cani di metallo. Tutt’e tre sono cieche e non possono vedere. Tutt’e tre hanno perso la strada e non la sanno più ritrovare. Ma una scopre una porta che conduce al passato. Al di là, l’avvenire la sta aspettando.» Quando ebbe finito di parlare, scese un lungo silenzio, poi Redden Alt Mer si schiarì la gola. «Un po’ vago, no?» disse rivolto alla veggente, con un sorriso di scusa. «Che cosa significa?» «Non lo sappiamo» rispose Walker per lei. «Potrebbe significare che uno di noi troverà l’ingresso a Castledown e il tesoro che sta dentro di esso. Quello potrebbe essere l’incontro del passato e del futuro. In ogni caso ci avverte di tre pericoli: un labirinto senza uscita, lingue di fuoco, e cani di metallo. Questo è ciò che dovremo affrontare quando metteremo piede sulla terraferma.» Lanciò un’occhiata a Ryer Ord Star. «Forse, prima di allora, avremo una nuova visione su cui riflettere.» “Insomma” si disse Bek “possiamo solo sperare!” E la discussione passò ad altri argomenti. Bek dormì molto male, quella notte, assillato da dubbi e cattivi presentimenti. Era sveglio quando spuntò l ’alba, nebbiosa e grigia come il piombo; il sole pareva una rossa fornace ai confini del mondo. Si fermò sul ponte e guardò la luce mutare da pallida a cupa, mentre il cielo assumeva un aspetto invernale, con strati di nubi, acqua e foschia. L’aria era gelida e umida, e sullo sfondo delle scogliere del Cerchio di Ghiaccio si scorgevano solo fiocchi di neve e gabbiani che roteavano alti. Anche le averle si erano levate in volo e battevano la costa a caccia di cibo; nel cielo si scorgevano le loro grandi sagome, tutte collo e ali, e le loro strida feroci echeggiavano sulle pareti rocciose. Walker salì sul ponte e si fermò quanto bastava a posare in modo rassicurante una mano sulla spalla di Bek prima di allontanarsi. Furono levate le ancore, distese le vele e laJerle Shannaradecollò dal suo riparo puntando a nord. I Cavalieri del Wing Hove partirono nello stesso momento, diretti a sud. Bek li guardò allontanarsi: due forme solitarie che salivano nel cielo sfruttando le correnti ascensionali, le grandi ali dei Roc tese nella debole luce invernale. In pochi istanti scomparvero nella foschia e Bek rivolse l’ attenzione a ciò che stava davanti a loro. A un miglio dalle scogliere, la nave risalì la costa in direzione dell’apertura che portava alla Macina. La colazione, a base di pane e formaggio e un bicchiere di birra, venne consumata a turni sul ponte. Le ore passarono lentamente e la giornata si rischiarò con altrettanta lentezza. L’aria si intiepidì quanto bastava a trasformare in pioggia la neve, e si levò un vento irregolare che sbatacchiava la nave da una parte all’altra. Bek si fermò per molto tempo con Redden Alt Mer nella cabina del pilota, mentre Walker camminava avanti e indietro lungo il ponte come un animale in gabbia. Il comandante scambiò poche parole con il ragazzo: tutta la sua attenzione si concentrava sui comandi e sulla nebbia che li circondava. Una volta incontrò lo sguardo di Bek e gli sorrise per un istante. «Andrà tutto bene, Bek» disse tranquillamente, poi distolse gli occhi. Bek Rowe, nato Ohmsford, non ne era del tutto certo, ma se la determinazione e la speranza
contavano qualcosa, forse avevano una possibilità di riuscita. Mettendo in dubbio perfino la padronanza del canto magico, diffidava della propria capacità di usare la magia. Tutto ciò era troppo nuovo e insolito perché si sentisse fiducioso. Aveva sperimentato la magia della sua voce, ma in modo così limitato e con così scarso controllo da non sapere ancora bene quali ne
fossero le possibilità. Quanto alla magia della Spada di Shannara, non aveva idea di quello che potesse fare. Poteva ripetere tutto ciò che Walker gli aveva detto. Intellettualmente ne capiva il comportamento e le funzioni, a parole sapeva dire che effetti avrebbe avuto, ma non riusciva a immaginarlo in modo concreto. Non aveva alcuna unità di misura per valutarne il potere, non aveva riferimenti cui paragonarla. Non cercò di ingannare se stesso. La magia della Spada di Shannara era certo immensa, soverchiante. L’ avrebbe inghiottito come un’onda di marea, e lui sarebbe stato fortunato a sopravvivere al suo impatto schiacciante, se avesse trovato il modo di affiorare alla superficie. Poteva solo sperare di non affogare fin dal primo istante. Walker non gliel’aveva detto, ma quella possibilità lui l’aveva letta nelle esitazioni tra una parola e l’altra. Stava per essere messo alla prova in un modo che non avrebbe mai immaginato. Walker pareva sicuro della sua riuscita, ma il druido non sarebbe stato dentro di lui, nel momento in cui la magia si sarebbe manifestata. Dopo qualche tempo, il giovane lasciò la cabina e andò ad appoggiarsi al parapetto. Quentin lo raggiunse e parlarono a bassa voce del giorno e del clima, evitando ogni riferimento alla Macina. L’Highlander era tranquillo e fiducioso, come sempre, e riuscì a rasserenare anche Bek. «Non è quello che aspettavamo?» chiese al cugino, con un largo sorriso. «Non è l’avventura che cercavamo?» Cosa c’ era dall’altra parte delle colonne, secondo Bek? In qualche modo, dovevano cercare di stare sempre insieme. Qualunque cosa succedesse, dovevano ricordare la loro promessa. Si era già a metà mattino quando raggiunsero l’apertura nella scogliera e lasciarono la costa battuta dal vento per rifugiarsi nel silenzio e nella tranquillità della baia. Il ruggito dell’oceano e il fischio del vento sparirono alle loro spalle e la baia con le sue scogliere e le sue nubi li avvolse come una chioccia amorevole. Tutti i passeggeri si affollarono ai parapetti per guardare la grigia distesa di acqua e ghiaccio. Sotto di loro passavano lastroni simili a grandi navi varate dai ghiacciai e avviate verso il mare. Il ghiaccio scricchiolava e crepitava nel silenzio, riempiendo d’apprensione il cuore e di timore lo sguardo. Bek era immobile come una statua, avvolto dal gelo e dal vuoto del silenzio. LaJerle Shannaraattraversò la prima baia ed entrò nel canale, con la nebbia che sfiorava gli alberi della nave e le ombre che ingannavano la vista facendo scorgere forme inesistenti. Nessuno parlò mentre la nave scivolava sopra gli iceberg e in mezzo alle scogliere, muovendosi così lentamente da sembrare quasi ferma. Gli uccelli marini volavano sopra di loro, silenziosi e spettrali. Bek li osservò volare al passo con la nave, tenere la stessa velocità, e fu colpito dal loro evidente interesse. Sentì un nodo alla gola e gli si mozzò il respiro quando comprese che aspettavano di spolpare le loro ossa una volta che la nave avesse raggiunto la Macina. Poco più tardi la nebbia si diradò quanto bastava per permettergli di scorgere le colonne di ghiaccio che sbarravano il loro cammino e ondeggiavano in modo ipnotico, seduttivo, nella foschia. «Vieni» gli disse Walker a bassa voce, facendolo trasalire. “Ci siamo” si disse, con una stretta allo stomaco. Ripensò alla sua certezza, alcuni mesi prima, quando aveva accettato di partecipare a quella spedizione destinata a cambiare per sempre la sua vita. Ed era stato così, ma non nel modo da lui previsto. Chiuse gli occhi per vincere una nuova ondata di paura e di dubbio. Capiva che il corso della sua vita era segnato, ma non riusciva ancora ad accettarlo, neanche ora. Eppure, doveva fare del suo meglio.
In silenzio, costringendosi a mettere un piede davanti all’altro, Bek seguì il druido.
28 Bek attese accanto alla cassa che racchiudeva la Spada di Shannara mentre Walker allontanava tutti e li
mandava a poppa. Redden Alt Mer era nella cabina di pilotaggio con Rue Meridian. Spanner Frew era a poca distanza, pronto a entrare in azione se ci fosse stato bisogno del suo aiuto. Furl Hawken era a capo della squadra di Corsari schierata a poppa e i Cacciatori Elfi agli ordini di Ard Patrinell si erano raggruppati lungo i parapetti, agganciati alle cinghie di sicurezza. Panax, Quentin e Ahren Elessedil erano tutti insieme, a destra dell’albero di poppa, e bisbigliavano tra loro. Bisbigliavano di lui, pensò Bek, ma era una sciocchezza. Tutti fissavano la Macina, la loro attenzione era rivolta ai suoi movimenti nella baia di ghiaccio fuso. Solo Walker conosceva il compito di Bek, e solo Walker sapeva che tutto dipendeva da lui. Il druido ricomparve al suo fianco. «Pronto, Bek?» Temendo di non riuscire a parlare, Bek si limitò a un cenno della testa. Non era pronto, naturalmente, non sarebbe mai stato pronto per una cosa così spaventevole. Non c’era modo di esserlo. Poteva solo augurarsi che il druido avesse ragione e che al momento buono avrebbe trovato un modo di usare la magia della spada. Ma guardando la mostruosa barriera davanti a lui, le migliaia di tonnellate di ghiaccio e roccia che li sovrastavano, non riusciva a immaginare come avrebbe potuto intervenire. Respirò adagio per calmare il battito del cuore, aspettando che succedesse qualcosa. LaJerle Shannara avanzava piano, ma con regolarità, verso le colonne, avvicinandosi alla barriera come se aspettasse l’ invito a entrare. Walker parlava ad Alt Mer, ma Bek non riuscì a concentrarsi sulle sue parole. Il cuore gli martellava nel petto e udiva solo il suono del proprio respiro e del ghiaccio che si spezzava. «Adesso, Bek» disse il druido sottovoce. Walker agitò la mano davanti a loro e nell’aria parve formarsi un mulinello che portò via la nebbia e i fiocchi di neve. Ogni cosa, ai lati del ragazzo e del druido, parve sfuocarsi: davanti a loro rimase solo una finestra da cui si vedevano il canale e i ghiacci. Come in risposta, le colonne cominciarono a muoversi. «Resisti, Bek» gli sussurrò Walker, toccandogli la spalla per rassicurarlo, e fissò le colonne di ghiaccio che si avvicinavano. Come due file di denti, le colonne si accostarono e sbatterono, triturando e frantumando il ghiaccio che esplose lanciando schegge in tutte le direzioni. L’acqua alla base delle colonne ribollì e le onde martellarono le scogliere, sollevando nuvole di spruzzi che andavano a confondersi con la nebbia. Bek rabbrividì a quella vista e a quei suoni, e curvò la schiena involontariamente. Aveva l’impressione che il ghiaccio si stringesse attorno a lui, lo schiacciasse, facesse a pezzi la nave e spappolasse i passeggeri. Lo sentiva come se stesse succedendo davvero, lo dilaniava facendogli provare un freddo mortale, insopportabile. Fermo sulla tolda dellaJerle Shannara, colpito dagli schizzi e assordato dal suono, ebbe l’impressione che l’anima gli venisse strappata dal corpo. Qualcosa bruciava davanti a lui, un faro nella nebbia, una fiamma nel grigiore. La guardò con meraviglia e si accorse di avere in mano la Spada di Shannara, abbagliante di luce. «Per tutti gli spiriti!» esclamò incredulo.
Non ricordava il momento in cui Walker gliel’aveva data, non sapeva da quanto la impugnava. Fissò la
sua luce, la vide correre lungo la lama sotto forma di nastri scarlatti che si avvolgevano sul metallo, avanti e indietro, prima fino alla punta, poi di lì all’impugnatura e alle sue mani. Un istante dopo, la luce lo pervase con un’ondata di calore, un formicolio che gli entrava nel corpo e negli arti. La luce lo inghiottì, lo consumò e lo fece suo. Bek ne fu catturato e sentì lievitare dentro di sé un tumulto di pensieri e di emozioni. Tutto ciò che lo riguardava cominciò a sparire, lasciando un’oscurità rischiarata unicamente dalla luce della spada. La nave, i compagni, la nebbia, le scogliere erano spariti. Bek era solo con se stesso, alla deriva sulla magia che si era impadronita di lui. “Aiutami” si trovò a pensare. Le immagini apparvero subito, non più quelle della Macina e delle sue rimbombanti colonne di ghiaccio, del mondo in cui viveva, ma quelle del mondo che si era lasciato alle spalle, della storia della sua vita. Una successione di ricordi lo riportò indietro nel tempo, ricordi di avvenimenti accaduti in passato e ora dimenticati. Bek divenne più giovane, più piccolo. Il primo ricordo fu una folla di visioni spaventose, di furia e di terrore, grida lontane e il respiro ansante di qualcuno che lo teneva tra le braccia e poi lo lasciava in un luogo buio e freddo. L’odore e il sapore del fumo e della fuliggine gli riempirono la gola e le narici, e si sentì invadere da un panico irrefrenabile. “Grianne!” urlò dentro di sé. Poi l’oscurità lo avvolse di nuovo, e comparve un’altra serie di immagini. Si rivide bambino con Coran e Liria. Giocava con Quentin e con gli amici, i fratelli e le sorelle più giovani, nella casa di Leah e nel giardino. Le scene erano cupe e trasmettevano un senso di accusa: ricordi cancellati, momenti in cui aveva mentito o ingannato, in cui il suo egoismo aveva causato dolore. Alcune scene gli erano familiari, altre se le era scordate. Tutte le debolezze della sua vita tornavano a rivelarsi una dopo l’altra, esposte a lui perché le vedesse. Prese isolatamente non erano molto gravi, ma il numero era schiacciante e dopo qualche istante Bek piangeva e gridava per farle smettere. Una folata di cupa caligine le spazzò via e comparvero le Quattro Terre, con tutte le malvagità e gli orrori della condizione umana. Assistette inorridito a carestie, malattie, massacri e saccheggi che decimavano le vite e le famiglie e il futuro stesso, su una scala così vasta che la scena occupava tutto l’orizzonte. Uomini, donne e bambini vittime della debolezza d’animo e di morale che affliggeva l’uomo. Tutte le razze ne erano colpite, tutte partecipavano alla barbarie. Non c’era né fine né attenuazione di quello stato di cose, e si aveva l’impressione che al mondo non ci fosse mai stato altro. Bek guardò con tristezza e orrore e sentì che tutto ciò era parte di lui. Era la storia della sua gente, di conseguenza era anche la sua storia. Eppure, quando tutto fu finito, si sentì purificato. Il ricordo portava all’accettazione e questa al perdono. Si sentì purificato non solo di quanto aveva compiuto lui, ma anche delle colpe degli altri, come se le avesse prese su di sé. Si accorse di essere stato rafforzato dall’esperienza, di essere rinato con l’ innocenza di un bambino e la comprensione di un adulto. L’oscurità sparì e si ritrovò sul ponte dellaJerle Shannara, con la spada levata, le braccia alzate. La magia di Walker lo isolava ai lati, ma la strada davanti a lui era chiara.
La Macina si era aperta di nuovo, le sue colonne di ghiaccio oscillavano seduttive, parevano invitarli a farsi avanti. Il loro gelo arrivava fino a lui. Sentiva il loro peso schiacciante. La stessa aria che le circondava sembrava infusa della loro forza e della loro imprevedibilità. Ma c’era anche qualcos’altro, lo sentì subito: qualcosa di artificiale, di fabbricato dall’uomo, non naturale, bensì frutto delle macchine e delle scienze.
Una mano si protese verso di lui: non una mano di carne e ossa, ma eterea, fatta di spirito, di una magia così grande e penetrante da trovarsi in tutto ciò che lo circondava. Bek si ritrasse d’istinto, si protesse con la spada e subito la mano scomparve. «Walker?» chiamò, confuso da quella presenza, ma nessuno gli rispose. Davanti a lui le colonne della Macina si muovevano ondeggiando nel mare di ghiaccio fuso, e i gabbiani continuavano a volare in cerchio Bek sentì dentro di sé il sapore e la temperatura dell’aria. Entrò nel ghiaccio delle colonne e nella pietra delle scogliere, nel movimento di quelle masse, nelle vibrazioni del ghiaccio che si spezzava. Divenne una cosa sola con ciò che lo circondava, e riuscì a indovinarne le intenzioni e a prevederne il comportamento. «Avanti» ordinò, gesticolando con la spada. Le parole sembravano uscire dalla bocca di un altro. «Lentamente.» Walker lo udì. LaJerle Shannarasi avviò guardinga verso le colonne. Come un fragile uccello, si addentrò fra le mostruose mascelle, infilandosi nelle fessure fra i denti. «Quindici gradi a manca» ordinò, e sentì Walker ripetere l’ordine. «Avanti piano» continuò. «Più veloce, ora.» La nave scivolò attraverso la selva di ghiaccio, come una falena tra le fiamme, minuscola e insignificante, incapace di proteggersi dal fuoco. Poi le colonne si spostarono e cominciarono a serrarsi. Bek lo sapeva per conoscenza interna, non solo grazie agli occhi, ma attraverso il suo collegamento con la terra, l’acqua e la pietra creato dalla spada. Dai passeggeri si levarono grida di paura. Il ragazzo le udì come udiva lo schianto delle onde contro le scogliere e il fruscio delle ali dei gabbiani nell’aria del mattino. Udì tutto, e non fece commenti. «Venti gradi a dritta» ordinò. «Rifugiamoci sotto quel crepaccio.» Lo disse a voce così bassa da stupirsi che qualcuno potesse udirlo. Ma Walker ripeté le istruzioni e Redden Alt Mer agì subito. Portò rapidamente laJerle Shannaraentro una nicchia che la protesse mentre le colonne si scontravano, l’aria si riempiva di spruzzi e l’acqua diveniva bianca di schiuma. Il boato di quella furia li assordò e li sconvolse: pareva che su di loro stesse piombando una valanga. In mezzo a quella follia, Bek ordinò di allontanare la nave dalla protezione approfittando di una momentanea apertura fra due colonne. La nave rispose come se fosse collegata al suo pensiero, e pochi istanti più tardi un cuneo di ghiaccio si staccò dalla cima del loro momentaneo rifugio e piombò a chiudere il crepaccio che avevano appena lasciato. Proseguirono nella foschia, tra gli scontri improvvisi e irregolari, tra le mascelle di ghiaccio che si chiudevano e lo stridore dei denti affilati. Come un minuscolo relitto sulla cima dell’onda, avanzarono zigzagando e serpeggiando, evitando a ogni istante per un soffio di essere schiacciati, cavalcando la schiuma, il vento e il gelo. Bek non riusciva a immaginare cosa pensassero i compagni. Più tardi Quentin gli riferì che,
dopo i primi momenti, non aveva visto granché, e comunque gli era passata la voglia di guardare. Bek gli rispose che anche per lui era stato lo stesso. «Sali! Presto! Prendi quota!» gridò tutt’a un tratto, e la nave si sollevò con un balzo improvviso che gettò
tutti a terra. In ginocchio, con la spada tesa e le gambe allargate per restare in equilibrio, Bek sentì l’ esplosione di un lastrone di ghiaccio, sotto di loro, e un’enorme scheggia, fatta rimbalzare dalla superficie dell’acqua, per poco non colpì come un proiettile la chiglia della nave prima di ricadere nel mare. Con la spada levata alla luce, la magia che lo legava all’aria, al mare e alla roccia, Bek continuò a gridare le sue istruzioni, facendo appello all’istinto più che alla vista, alle sensazioni più che al ragionamento, rispondendo a impulsi che lampeggiavano e sparivano dopo un istante, fidandosi del loro flusso e riflusso per guidare la nave. Non avrebbe saputo spiegare, né allora né poi, quello che stava facendo: si limitava a reagire, e l’impulso ad agire proveniva da qualcosa che stava al tempo stesso dentro di lui e fuori di lui, che non aveva né fonte né definizione, che stava negli elementi che lo circondavano. La luce si alternava all’ombra, a mano a mano che le colonne di ghiaccio della Macina si avvicinavano mancandoli per un soffio, scontrandosi ed esplodendo in una pioggia di schegge nella penombra. Perso dentro di sé, avviluppato nella magia, Bek sentì accadere tutto, e non vide nulla. Infine, davanti a loro, la nebbia cominciò a diradarsi, il movimento e il frastuono delle colonne di ghiaccio divennero sempre più lenti e deboli. Bek prese nota del cambiamento ma non si lasciò distrarre. Sentì la temperatura aumentare, il colore tornare, l’aria prendere odore di terra anziché di mare. La nave scattò in avanti, spinta da un’aspettativa e da una speranza che Bek non aveva provato in precedenza. Abbassò la Spada di Shannara e il suo collegamento con la magia s’interruppe. Il calore che l’aveva invaso defluì e la luce che percorreva la spada si spense. Ancora in ginocchio, esausto, si accasciò sul ponte. Respirò a fondo, riconoscente, con la testa abbassata tra le spalle. Walker gli prese dalle mani la Spada di Shannara e s’inginocchiò accanto a lui. «Siamo passati, Bek. Siamo al sicuro. Ben fatto, giovane Ohmsford.» Il ragazzo si accorse della mano del druido posata sulla sua spalla, poi scivolò nell’oscurità e non sentì più nulla. Quando riprese conoscenza, Bek era ai piedi dell’albero di maestra e Joad Rish era chino su di lui. Batté le palpebre e abbassò lo sguardo su se stesso, per un istante, come per assicurarsi di essere tutto intero, poi rivolse un’occhiata interrogativa al guaritore. «Come ti senti?» chiese l’elfo, con aria preoccupata. Bek per poco non scoppiò a ridere. Come poteva rispondere a una domanda del genere dopo quello che aveva passato? «Bene. Un po’ disorientato. Per quanto tempo sono rimasto privo di sensi?» «Pochi minuti. Walker ha detto che sei finito contro la cassa e hai battuto la testa. Vuoi provare a metterti in piedi?» Con l’aiuto del guaritore, Bek si alzò e si guardò attorno. LaJerle Shannarafaceva rotta in mezzo a un ampio canalone serpeggiante, tra pareti rocciose e brulle e piccole isole spoglie. Ma la nebbia si era diradata e nel cielo si scorgeva la luce chiara del sole. In cima alle scogliere crescevano alberi rigogliosi e i ghiacciai erano scomparsi. I ricordi si affollarono nella mente di Bek minacciando di travolgerlo, ma li allontanò.
La
Macina e le sue colonne di ghiaccio erano scomparse. Anche la Spada di Shannara era scomparsa, probabilmente riportata da Walker nella sua cassa. Rabbrividì pensando a tutto ciò che aveva passato, al senso di potenza che aveva provato. La magia della spada era come una droga, si accorse. Bastava una sola esperienza con essa per capirlo. Era stata una prova terribile e insieme esaltante, e gli aveva dato l’ impressione di poter sopravvivere a tutto, di essere invulnerabile.
Pochi istanti dopo giunse Quentin, che gli posò una mano sulla spalla e gli chiese come stava. Bek ripeté la spiegazione di Joad Rish, di avere battuto la testa quando la nave aveva fatto un balzo improvviso. Niente d’importante, disse, non valeva la pena di parlarne. Era una spiegazione così ridicola da fargli provare imbarazzo nel darla, ma capì che era ridicola solo se si conosceva la verità. A uno a uno, i passeggeri vennero a salutarlo e lui ripeté a tutti la stessa storia. Solo Ahren Elessedil gli rispose con una punta di scetticismo. «Di solito non sei così sbadato, Bek» gli disse sorridendo. «Dove hai messo i tuoi riflessi quando ne avevi bisogno? Un elfo non avrebbe perso così facilmente l’equilibrio.» «Cerca di fare più attenzione la prossima volta, nostro giovane eroe» scherzò Little Red, arruffandogli i capelli. «Non possiamo rischiare di perderti.»
invece
Comparve anche Walker, per qualche istante, tallonato dall’esile figura di Ryer Ord Star. Con espressione distaccata, gli rivolse un cenno d’assenso, senza fare parola, e se ne andò. Prima di allontanarsi a sua volta, la veggente studiò con attenzione il ragazzo. La mattina aveva lasciato il posto al pomeriggio e il panorama cominciò a cambiare. Le rupi scoscese cedettero progressivamente il passo a morbide alture coperte di una ricca vegetazione. Il fiume che sorvolavano si ramificò in decine di affluenti che attraversavano la foresta come una ragnatela e formavano laghi e paludi. Non si vedeva traccia dell’oceano: la penisola era così larga che non se ne scorgevano le coste. Dietro e ai lati l’orizzonte era coperto da nubi, che probabilmente indicavano la linea di costa. Bek capì che il rifiuto di Redden Alt Mer di volare in mezzo a quelle nubi per penetrare all’interno era stata una decisione giusta. Anche se fossero riusciti a oltrepassare i monti, probabilmente non avrebbero mai individuato quel fiume nel labirinto di corsi d’acqua che lo attorniavano. Per arrivare proprio a quello occorreva superare la Macina. Il fiume si restrinse, chiuso tra antichi boschi di cedri e abeti, e l’aria calda prese il profumo della loro resina. L’odore di mare, di alghe e salsedine era ormai svanito. Dopo le scogliere e il passaggio attraverso le colonne di ghiaccio, pareva di trovarsi in un mondo completamente diverso. Nel cielo si vedevano volare i falchi, dagli alberi si levava il richiamo dei corvi: il loro rauco verso echeggiava da una sponda all’altra del fiume. LaJerle Shannaravolava così bassa che a volte i suoi pennoni sfioravano i rami degli alberi. Il fiume sfociò in un grande lago circondato da foreste e alimentato da decine di affluenti. Su una sponda si scorgeva un’impressionante cascata, e vicino a essa molte altre, più piccole. Nell’aria si alzava il canto degli uccelli e un piccolo branco di cervi si affrettò a correre a nascondersi nella foresta all’arrivo della nave. LaJerle Shannaraentrò nella conca come una creatura marina giunta fin lì per caso, e Redden Alt Mer la fermò in mezzo al lago. Raccolti lungo i parapetti, i passeggeri poterono finalmente contemplare la loro destinazione e constatarono che non era nulla di speciale. Con i suoi boschi di querce e di conifere, il suo odore di resina e linfa, assomigliava a uno qualsiasi di una decina di luoghi delle Quattro Terre. Poi, con una leggera sorpresa, Bek notò che non era inverno, lì, anche se la stagione era quella. Da quando avevano oltrepassato la Macina, non avevano più incontrato ghiaccio, neve, vento gelido e basse temperature. Pareva che si fossero fatti strada fino all’estate.
«Non è possibile» mormorò.
Confuso e allarmato, si guardò in fretta intorno per vedere se anche gli altri l’avessero notato, ma nessuno pareva badarci. Attese un momento, poi raggiunse Walker, che era fermo, da solo, davanti alla cabina del pilota. Il druido guardava la costa, ma all’avvicinarsi del ragazzo si voltò. «Che c’è, Bek?» Il giovane si fermò accanto a lui, titubante. «Qui è estate, ma non dovrebbe esserlo.» Il druido annuì. «C’è un sacco di cose, qui, che non dovrebbero esserci. È davvero strano. Tieni gli occhi aperti.» Ordinò a Big Red di ancorare la nave, poi inviò una pattuglia di Elfi a cercare acqua dolce, avvertendoli di rimanere uniti e di non perdere di vista la costa. Gli altri sarebbero rimasti a bordo e la ricerca di Castledown sarebbe iniziata il mattino dopo. Per il momento occorrevano un inventario delle riserve a bordo, un rapporto aggiornato sui danni, la distribuzione delle armi alla pattuglia incaricata di scendere e la cena. L’indomani i Cacciatori Elfi, comandati da Ard Patrinell e da Ahren Elessedil, l’avrebbero accompagnato nella ricerca e con loro sarebbero andati Quentin, Bek, Panax, Ryer Ord Star e Joad Rish. I Corsari sarebbero rimasti sulla nave fino al loro ritorno. Prima che qualcuno potesse fare commenti o lamentarsi delle sue decisioni, convocò il consiglio nella cabina di Redden Alt Mer e si allontanò. Quentin disse a Bek: «Dev’esserci qualche novità, ci scommetterei. Credi che la veggente abbia avuto un ’altra visione?». Bek scosse la testa. Sapeva solo che Redden Alt Mer, il quale usciva allora dalla cabina con un’ espressione furiosa, non doveva aver preso bene la decisione. Quando gli otto membri del consiglio si furono riuniti nella cabina del comandante, il ragazzo scoprì subito di che cosa si trattava. «Non sono arrivato fin qui per essere lasciato sulla nave mentre tutti vanno a terra!» protestò il comandante. «Neanch’io» rincarò Rue Meridian, rossa in faccia per la collera. «Abbiamo fatto un mucchio di strada per scoprire cosa c’è qui. Ci chiedi troppo, Walker.» Nessun altro parlò. Erano riuniti attorno alla tavola sulla quale era posata la copia ingrandita della mappa del naufrago, tutti tranne Ryer Ord Star che si teneva in disparte e li guardava in silenzio. Il calore del nuovo ambiente non era ancora penetrato all’interno della nave: la cabina era fredda e umida come l’aria che si erano lasciati alle spalle quando avevano oltrepassato la Macina. Bek guardò coloro che lo circondavano e lesse sui loro visi tensione e attesa. Avevano impiegato molto tempo per arrivare a destinazione e le emozioni accumulate dentro di loro cominciavano ad affiorare. Walker si guardò attorno, poi indicò la mappa posata sul tavolo. «Secondo voi, come ha fatto il naufrago che aveva l’originale di questa mappa a compiere il viaggio di qui fino alla costa della Terra dell’Ovest?»
Aspettò qualche istante, ma nessuno rispose. «Ci vogliono mesi, perfino con una nave aerea. Come c’è riuscito un uomo cieco, muto e forse mezzo folle?» insisté. «Qualcuno deve averlo aiutato» rispose infine Bek, vedendo che il silenzio si prolungava. «Forse la stessa persona che l’ha aiutato a scappare.»
Il druido annuì. «E dov’è quella persona?» Anche ora, nessuno rispose. Bek scosse la testa perché non voleva assumersi il ruolo di portavoce degli altri. «Morto, disperso in mare durante la fuga, nel viaggio di ritorno» suggerì Rue Meridian. «Che intendi dire?» «Mettiamo che sia così» rispose Walker. «Tutti avete avuto la possibilità di studiare con cura la mappa, nel corso del viaggio. La maggior parte del testo non è sotto forma di parole, ma di simboli. Non è una scrittura della nostra epoca, risale a migliaia di anni fa, a prima che le Grandi Guerre distruggessero il Mondo Antico. Come ha fatto il naufrago a imparare quella lingua?» «Qualcuno gliel’ha insegnata» rispose Rue Meridian, con aria preoccupata. Si ravviò con impazienza i lunghi capelli rossi. «Ma perché?» «Già, perché?» le fece eco Walker. «Supponiamo che la spedizione degli Elfi guidata trent’anni fa da Kael Elessedil abbia raggiunto la destinazione come abbiamo fatto noi, e che poi le sia successo qualcosa. Sono stati uccisi tutti, tranne un solo uomo, forse lo stesso Kael. Le navi sono state distrutte e ogni traccia del loro passaggio è scomparsa. Come hanno fatto ad arrivare fin qui? Avevano una mappa, come noi? Dobbiamo pensare che sia stato così, se il naufrago ne ha disegnato una per noi. Per tracciare la mappa in nostro possesso, devono avere seguito la rotta che abbiamo seguito anche noi. Devono essere stati sulle tre isole di Flay Creech, Shatterstone e Mephitic, e devono aver trovato le chiavi che abbiamo trovato noi. In tal caso, però, come hanno fatto le chiavi a tornare nelle isole da cui erano state prese?» Nella cabina scese di nuovo un lungo silenzio. Qualcuno strisciò un piede per terra, a disagio. «Che intendi dire, Walker?» chiese infine Ard Patrinell. «Intende dire che siamo finiti in una trappola» rispose a bassa voce Redden Alt Mer. Bek fissò il comandante e ripeté mentalmente quelle parole, cercando di trarne un senso. «Ho riflettuto a lungo sull’intera situazione» disse Walker, con aria pensierosa, infilando il braccio sotto la veste. «Mi è sempre parso strano che un elfo avesse una mappa scritta in simboli che non poteva conoscere. Ed era molto comodo che la mappa dicesse con precisione quello che dovevamo fare per giungere qui. Le chiavi non erano particolarmente ben nascoste. In effetti, era facile prelevarle, una volta superate le creature o le entità che le proteggevano. Mi ha colpito il fatto che chiunque avesse nascosto le chiavi voleva controllare se eravamo in grado di vincere quei guardiani, più che impedirci di procurarcele. Mi ha fatto pensare al modo in cui i cacciatori prendono in trappola gli animali, mettendo lungo la strada le esche che li portano al trabocchetto: le esche non hanno alcun valore. I cacciatori pensano che gli animali siano astuti e cauti, ma che non abbiano un’intelligenza pari alla loro. Gli animali possono evitare per istinto una trappola con un’esca, ma non sono capaci di ragionare sullo scopo dell’esca. Nella ricerca delle tre chiavi mi è parso di vedere all’opera lo stesso ragionamento.» Si volse verso Big Red: «Sì, comandante, penso anch’io che sia una trappola». Redden Alt Mer annuì. «Le chiavi sono l’esca. Ma perché?»
«Già» disse Walker. «Perché non darci semplicemente una mappa e lasciarci cercare la strada? Perché perdere tempo con quelle chiavi?» Si guardò attorno, interrogando con lo sguardo, a uno a uno, tutti i presenti. «Per rispondere, bisogna ripensare alla prima spedizione. Allora fu usata una tecnica differente
per attirare gli Elfi in questo luogo, ma forse lo scopo era lo stesso. Chi ci ha fatti venire qui è interessato a qualcosa che noi possediamo. All’inizio non sapevo cos’era, ma adesso lo so: è la nostra magia. Chi ci dà la caccia, è interessato alla nostra magia. Per attirarci fin qui ha sfruttato il mistero della scomparsa della prima spedizione. Sa che possediamo la magia perché ha già provato la potenza delle Pietre Magiche portate da Kael Elessedil. Perciò si aspetta che anche noi possediamo la magia. Chiedendoci di recuperare le tre chiavi ha avuto la possibilità di misurare la natura e l’estensione della nostra magia. I guardiani delle chiavi avevano lo scopo di metterci alla prova. Se non fossimo riusciti a vincerli, non avremmo avuto alcun interesse per lui.» «Se lo sospettavi prima di partire, perché non ce l’hai detto?» chiese Redden Alt Mer, ancora più adirato di prima. «Anzi, perché venire qui?» «Non attribuirmi troppo credito a proposito di ciò che sapevo già allora» rispose con calma Walker. «Avevo dei sospetti, non certezze. Intuivo la possibilità che fosse così, ma non potevo esserne sicuro senza compiere il viaggio. Come spiegare tutto questo in modo sensato senza prima averlo sperimentato? No, comandante, prima era necessario compiere il viaggio. E anche sapendolo, non avrei cambiato idea. Chi ha distrutto Kael Elessedil e i suoi Cacciatori Elfi vuole fare lo stesso con noi. E non si fermerà a questo. È un’entità potente e pericolosa, e deve venire distrutta. Gli Elfi vogliono riavere le loro Pietre Magiche, e io voglio impadronirmi della magia accumulata dal nostro avversario. Ci sono validi motivi per essere qui, nonostante quello che sappiamo e l’ovvio pericolo. Motivi talmente validi da indurci ad accettare i rischi.» «Facile dirlo, per te, Walker» osservò Rue Meridian. «Tu hai la tua magia e le tue capacità di druido a proteggerti, ma noi abbiamo solo le nostre lame. A parte Quentin Leah che ha la spada, chi altri ha la magia per proteggerci?» Bek pensava di conoscere la risposta di Walker, ma il druido lo sorprese. «Non sarà la magia a salvarci» rispose infatti Walker. «E non sarà neppure la magia a darci il maggiore aiuto. Riflettete. Se il nostro avversario usa un linguaggio simbolico, un linguaggio inventato prima delle Grandi Guerre da un’umanità versata nelle scienze, allora è assai probabile che non possegga alcuna magia. Ci ha fatti venire qui perché desidera la nostra. Desidera quello che noi abbiamo e lui non ha. Il motivo di tutto questo è quanto dobbiamo determinare. Ma la possibilità di vincere il nostro avversario non si basa necessariamente sulla magia.» «È una supposizione un po’ campata in aria, druido» ribatté Little Red, senza mezzi termini. «Che mi dici dei custodi delle isole con cui abbiamo lottato? Le anguille sembravano abbastanza reali, ma la giungla vivente e il castello? Non c’era magia nei loro casi?» Walker annuì. «C’era, ma diversa da quella contenuta nelle chiavi. Le chiavi sono una tecnologia proveniente dal passato, conoscenze perdute all’epoca delle Grandi Guerre o forse anche prima. La magia del castello e della giungla viene da Faerie e risiede laggiù fin da quell’epoca. Le anguille sono probabilmente mutate dopo le Grandi Guerre. Il nostro avversario non le ha create, si è soltanto servito di loro. La cosa interessante è che le trappole sono state predisposte in modo da mettere alla prova la forza della nostra magia, ma le esche sono state collocate senza bisogno di vincere le entità che custodivano le isole. Come c’è riuscito il nostro avversario? Perché non ha sottratto la magia anche a loro? Perché ha fatto tanta fatica per attirarci qui?»
Guardò Big Red. «Il motivo per cui lascio i Corsari a bordo della nave invece di portarli con me e con i Cacciatori Elfi è questo: temo che il nostro avversario intenda rubare la nave. Sa che siamo qui, certamente, e sa come siamo arrivati. Sa pure che se ci porta via laJerle Shannarasaremo costretti a rimanere qui come naufraghi e non avremo più alcun potere. Non possiamo correre tale rischio, e chi può
proteggere la nave meglio delle persone che l’hanno costruita e guidata?» Redden Alt Mer gli rivolse lentamente un cenno d’assenso. «D’accordo. La tua idea è giusta, Walker. Ma come lotteremo contro quella cosa, se cercasse di assalire la nave? Non abbiamo magie da usare contro di essa, solo spade, e se è potente come suggerisci…» Walker lo interruppe alzando la mano: «Dopo che saremo sbarcati, domani, porterai via di qui laJerle Shannarae tornerai indietro lungo il fiume fino alla Macina. Lì salirai di quota e sorvolerai la penisola, fino alla costa, per recuperare i Cavalieri del Wing Hove. Quando li avrai trovati, li porterai in qualche rifugio sicuro lungo il fiume. Andando, esegui tutti le rilevazioni necessarie per poter poi tornare indietro. Fa’ volare tutti i giorni i cavalieri fino a questa baia e sulle vicine foreste, tutti i giorni, finché non ti segnaleremo di venirci a prendere. Se non vi metterete in qualche punto dove potete essere visti facilmente, sarete abbastanza al sicuro.» Big Red guardò la sorella, che si strinse nelle spalle. «Non mi piace l’idea di dividerci» disse poi. «Capisco che è consigliabile farlo, ma espone te e i tuoi a un grave rischio, se qualcosa dovesse andare male. Sareste costretti a rimanere qui, se non riuscissimo a trovarvi.» Walker rispose pronto: «Allora dobbiamo fare in modo che tu riesca a trovarci». «O se non riuscissimo a trovare i Cavalieri del Wing Hove» aggiunse Little Red. «Saranno i cavalieri a trovare voi. Staranno di guardia per vedere la nave. Assicuratevi di rilevare bene la rotta per il ritorno.» «Me ne occuperò io» gli assicurò Rue Meridian, fissandolo negli occhi. Bek passò lo sguardo da Quentin ad Ahren Elessedil ad Ard Patrinell e infine al pallido viso da adolescente di Ryer Ord Star. Tutti parevano convinti e decisi, ma nell’espressione della veggente si leggevano anche apprensione e conflitto. Sapeva qualcosa che non aveva detto loro. Bek lo sentì d’ istinto, come se avesse ancora in pugno la Spada di Shannara e ne usasse la magia per cercare la verità e squarciare il velo dietro cui la giovane celava i suoi sentimenti. Che cosa nascondeva loro? Qualche informazione sul loro destino? O sui pericoli che li attendevano nell’ entroterra? La osservò con la coda dell’occhio. Aveva rivelato tutto a Walker o gli aveva taciuto qualcosa? Bek non aveva ragione di rivolgersi quella domanda, non aveva alcun motivo per credere che nascondesse qualcosa al druido. Tuttavia nel modo in cui si teneva lontana da lui, da tutti gli altri, c’era qualcosa che lo insospettiva. «Terminiamo i preparativi, allora, e mangiamo qualcosa» concluse Walker, interrompendo le sue riflessioni. «Domani partiremo all’alba.» «Buona fortuna a te, Walker» disse Rue Meridian. Lui le rivolse un sorriso tirato. «Buona fortuna a tutti, Little Red.» Poi si avvolse nella sua veste nera e uscì dalla cabina.
29
Ancorata a una buona distanza dalla riva e a una decina di braccia al disopra della superficie dell’acqua, laJerle Shannaratrascorse la notte nella baia protetta dagli alberi. Per non correre rischi, Walker mise
una guardia completa, un uomo a prua, uno a poppa e uno nella cabina di pilotaggio, servendosi di Corsari perché i Cacciatori Elfi potessero riposare in vista della ricerca che li attendeva il giorno seguente. Tuttavia aveva l’impressione che quella notte non si sarebbe dormito molto. Nemmeno lui dormì, e passeggiando per i corridoi della nave incontrò pressoché tutti gli altri passeggeri. Erano tesi e inquieti e neppure l’assenza di vento e risacca riusciva ad alleviare il loro disagio. L’alba si presentò con una forte luce dorata che irruppe dall’orizzonte attraverso gli alberi illuminando il cielo di un azzurro profondo, preludio di una giornata dal clima perfetto. I membri della compagnia furono subito in piedi, lieti di quella scusa per rinunciare definitivamente al sonno. Venne preparata la colazione e furono distribuite armi e provviste. La pattuglia d’esplorazione si riunì sul ponte alla prima luce del mattino, con l’aria dura e decisa, e nessuno parlò molto. Tutti attendevano l’ordine della partenza. Walker non lo diede subito. Trascorse parecchio tempo a parlare con Redden Alt Mer e Rue Meridian, e poi con Spanner Frew. Mentre parlavano, percorrevano il ponte da un capo all’altro, gesticolando ora in direzione della nave, ora verso la foresta. Bek li guardava dal punto dove sedeva, accanto al parapetto, e intanto faceva l’ inventario di ciò che portava con sé, confrontandolo mentalmente con la lista che aveva fatto nella notte. Era pressoché disarmato, avendo solo un coltello e una fionda, e avrebbe voluto avere qualcosa di meglio per proteggersi. Ma Walker aveva insistito dicendo che non doveva portare altro e le sue rimostranze non gli avevano fatto cambiare idea. «Sarebbe una bella giornata per andare a caccia» osservò Quentin, che era venuto a sedere accanto a lui e aveva posato a terra lo zaino. Bek annuì senza fare commenti. Quentin aveva una spada corta alla cintura, arco e frecce sulle spalle e la Spada di Leah assicurata dietro la schiena alla maniera degli Highlander. Se avessero incontrato qualcosa di pericoloso, forse a Bek sarebbe convenuto affidarsi all’aiuto del cugino. «Pensi che ci siano cinghiali, da queste parti?» «Che importanza può avere?» A Bek quelle chiacchiere sembravano inutili e irritanti. «Me lo stavo solo chiedendo» proseguì Quentin, senza scomporsi. «A guardare queste foreste, mi pare di essere tornato dalle nostre parti.» Per non mostrarsi scontroso, Bek si costrinse a sorridergli. «Ci sono centinaia di cinghiali, ma senza di me non riusciresti a trovarne neppure uno.» «Davvero?» Quentin inarcò un sopracciglio. «E un giorno avrò qualche prova della tua grande abilità? O devo continuare a fidarmi della tua parola per tutta la vita?» Appoggiò la schiena controil parapetto e allungò le braccia per incrociarle dietro la testa. Appariva del tutto tranquillo, ma Bek sapeva che era una calma superficiale. Dentro di sé doveva essere ansioso quanto gli altri. Prendere in giro gli amici era un classico modo per vincere le preoccupazioni, e tutt’e due lo sapevano. L’avevano già fatto in passato, quando davano la caccia a qualche animale pericoloso, come un orso o un cinghiale, e correvano il rischio di essere feriti. Impediva loro di pensare a quello che sarebbe successo se le cose si fossero messe male e li aiutava a evitare quel tipo di paralisi graduale che entra nelle persone come una malattia e si rivela solo quando ormai è troppo tardi per prendere l’ antidoto.
Bek guardò dall’altra parte del ponte, dove i Cacciatori Elfi si affollavano attorno ad Ard Patrinell, parlavano a bassa voce e probabilmente scherzavano e si prendevano in giro.
Ahren Elessedil era a breve distanza dal gruppo e guardava gli alberi, dove indugiavano ancora le tenebre della notte e il silenzio era profondo e indisturbato. Il giovane principe era assai maturato durante il viaggio, ma nulla della sua maturità si poteva scorgere in quel momento. Pareva un bambino spaventato. Portava un arco e una spada corta, ma a giudicare dalla sua faccia sembrava che fosse disarmato come Bek. Il giovane lo guardò per un istante, pensando a come Ahren doveva sentirsi, alla sua responsabilità di capo nominale della spedizione, poi prese una decisione e si alzò. «Torno subito» disse a Quentin. Raggiunse Ahren e lo salutò con un sorriso cordiale. «Giornata nuova, avventura nuova» gli disse allegramente. «Almeno Ard Patrinell ti ha dato un arco e una spada veri.» Ahren trasalì nell’udire la voce di Bek, ma si riprese subito. «Che intendi dire?» chiese. «Guarda cos’ha dato Walker a me» gli rispose, indicando il coltello e la fionda. «Se mi assale un uccellino o uno scoiattolo, sono pronto a difendermi.» Ahren sorrise nervosamente. «Mi piacerebbe riuscire a parlare come te, ma posso appena muovere le gambe. Non so cosa c’è che non va in me.» «Quentin direbbe che non hai dato la caccia a un numero sufficiente di cinghiali selvatici. Sono venuto a chiederti un favore. Dovresti tenere una cosa per me.» Prima di ripensarci, si sfilò la collana con la pietra di fenice e la mise attorno al collo del principe degli Elfi. Lo fece d’impulso, e forse, se si fosse concesso il tempo di riflettere, non l’avrebbe fatto. L’elfo guardò la pietra e poi Bek con espressione interrogativa. «Temo di non essere stato del tutto onesto con te» ammise Bek. Poi raccontò all’amico una versione ridotta del suo incontro col Re del fiume Argento e del dono della pietra di fenice, senza citare le parti che riguardavano la sorella e lo scopo per cui lo spirito gliel’aveva data. «Perciò anch’io ho una magia, ma non l’ho detto a nessuno.» Si strinse nelle spalle. «Neppure a Quentin.» «Non posso accettarla!» esclamò Ahren con forza, e fece per togliersela dal collo. Bek gli fermò la mano. «E invece sì. Voglio che la tenga tu.» «Ma non è mia! Non è stata data a me, è stata data a te! E da una creatura di Faerie, per di più!» Poi la sua voce si addolcì. «Non è giusto, Bek. Non appartiene a me.» «Be’, non appartiene neppure a me. Almeno, in un certo senso. Considerala un prestito. Me la ridarai. Va bene così, credimi. Io ho Quentin a proteggermi, e lui ha un talismano che lo aiuta in quel compito. Tu hai Ard Patrinell, che però non possiede alcuna magia. Lungo la strada potremmo trovare le Pietre Magiche, ma per il momento hai bisogno di qualcos’altro. Perché non questa?» Bek vedeva che il giovane elfo desiderava accettare il dono, un talismano con vera magia che gli avrebbe dato sicurezza. In quel momento Ahren ne aveva bisogno più di lui. Tuttavia il principe degli Elfi era orgoglioso e non intendeva accettare nulla da lui, se la cosa avesse diminuito le difese dell’amico.
«Non posso» ripeté con ostinazione. «La prenderesti se ti dicessi che Walker mi ha dato un’altra magia con cui proteggermi?» Bek nascose la bugia dietro un’aria di grande sincerità.
Ahren scosse la testa dubbioso. «Che magia?» «Non posso dirlo. Walker me l’ha proibito. Non dovrei neppure dirti che la possiedo. Fidati di me. Non ti darei la pietra di fenice se non avessi altre protezioni, non ti pare?» Questo era abbastanza vero. Il fatto di possedere il canto magico gli dava sicurezza: anche privandosi della pietra, non sarebbe rimasto del tutto indifeso. Comunque, fino a quel momento la pietra non gli era servita a molto; forse sarebbe servita all’amico. «Per favore, Ahren, prendila. Mi basta la tua promessa che la userai per aiutarmi se ti dovessi accorgere che mi trovo nei guai. Io farò lo stesso per te con la mia magia. Io e Quentin abbiamo un accordo per proteggerci a vicenda. Possiamo averne uno anche noi due.» Attese, fissando Ahren negli occhi. Alla fine, il giovane principe annuì. «Va bene, Bek, ma solo per ora.» Passò le dita sulla pietra. «È calda, come se all’interno ci fosse una fonte di calore. E com’è liscia!» La fissò per qualche istante poi sorrise a Bek. «Credo che sia davvero magica, ma forse non avremo bisogno di scoprirlo. Forse non sarà necessario usarla.» Bek gli sorrise come se fosse d’accordo, ma non credeva minimamente a quella possibilità. «Può darsi.» «Grazie, Bek. Grazie davvero.» Bek stava tornando dal cugino quando Walker lo fermò e lo condusse da una parte. «È stata una sciocchezza» gli disse, ma non in tono severo. «L’intenzione era buona, ma l’azione in sé non è stata molto saggia.» Bek lo fissò. Dalla sua smorfia era chiaro cosa pensava delle parole del druido. «Ahren non ha nulla con cui proteggersi. Nessuna magia. È mio amico e non vedo niente di male nel dargli una cosa che può aiutarlo a sopravvivere.» Walker distolse lo sguardo. «Non mi hai ascoltato con l’attenzione che speravo, quando ho detto che la magia non è necessariamente la chiave che ci permetterà di sopravvivere. Ciò che ci manterrà in vita saranno i riflessi, il coraggio e le idee chiare.» Bek non cedette. «Forse il possesso della pietra di fenice lo aiuterà a trovare quelle qualità. Cosa ti preoccupa, Walker?» Il druido scosse la testa. «Così tante cose che non saprei da quale cominciare. Ma in questo caso la tua impulsività mi fa sorgere dei dubbi. Dare a un altro la magia che ti è stata affidata dal Re del fiume Argento potrebbe costarti più di quello che pensi. La magia della pietra di fenice non è una difesa. Il Re del fiume Argento sa, come lo so io, che possiedi la magia del canto. La pietra serve a qualcos’altro, forse a qualcosa che riguarda tua sorella. Dammi retta, Bek, e fattela restituire appena possibile. Promettimelo.» Il ragazzo non era del tutto persuaso, perciò quando gli rivolse un cenno d’assenso, lo fece senza molto entusiasmo. Gran parte di ciò che il druido gli aveva detto durante il viaggio continuava a insospettirlo. E anche quell’ultimo avvertimento gli lasciava dei dubbi. Nessuno poteva conoscere il futuro, né uno spirito né una veggente come Ryer Ord Star. Tutt’al più si poteva vederne qualche immagine isolata dal contesto, e le visioni potevano essere ingannevoli. «Intanto» proseguì Walker, interrompendo il filo dei suoi pensieri «ti do una cosa da portare.»
Da sotto la veste trasse la Spada di Shannara. La lama era in un fodero di cuoio morbido, ma il pomo con la mano che teneva la torcia era inconfondibile.
Bek la prese e la fissò attonito. «Pensi che ne avrò bisogno?» Il druido lo guardò con inattesa amarezza. «Penso che avremo bisogno di tutte le nostre risorse, una volta scesi dalla nave. Il posto di un talismano è nelle mani di chi riesce a utilizzarlo. Nel caso della Spada di Shannara, quelle mani sono le tue.» Bek rifletté per qualche istante, poi annuì. «D’accordo, la prendo. Non perché abbia paura per me, ma perché forse potrei usarla per proteggere gli altri. Per questo sono andato con Truls Rohk nelle rovine di Mephitic. E per questo ho accettato di usare la spada alla Macina. Ho preso parte a questo viaggio perché ho creduto a quello che mi hai detto la notte del nostro incontro: che potevo fare qualcosa di utile. E lo penso ancora. Faccio parte di questa compagnia, anche se non so ancora quale sia il mio ruolo.» Walker si curvò verso di lui. «Ciascuno di noi ha un ruolo da ricoprire e tutti stiamo ancora scoprendo quale sia. Nessuno di noi è superfluo. Ciascuno di noi è necessario. Fai bene a pensare ai tuoi amici.» Appoggiò la mano su una spalla del ragazzo. «Ma ricorda che possiamo fare poco per gli altri se ci scordiamo di badare a noi stessi. In futuro, non rinunciare troppo in fretta alle tue protezioni. Non sempre si può prevedere quello che ci occorrerà.» Bek aveva l’impressione che Walker pensasse a qualcos’altro e non alla pietra di fenice, ma dalle sue parole era chiaro che non aveva intenzione di parlarne. Ormai era abituato alle allusioni velate e ai significati reconditi del druido e non sentiva la necessità di approfondire la cosa. Walker gliene avrebbe parlato una volta giunto il momento. «Io e Ahren ci siamo promessi di rimanere insieme» spiegò al druido. «Di conseguenza la pietra di fenice non sarà mai lontana da me. Posso farmela ridare in qualsiasi momento.» Walker si raddrizzò, non lo ascoltava più. «È arrivato il momento di andare, Bek. Qualunque cosa succeda, ricorda quello che ti ho detto a proposito della magia.» Redden Alt Mer levò l’ancora e portò laJerle Shannaraattraverso le acque tranquille della baia fino a un ’ampia distesa di costa aperta. Servendosi di scalette di corda, la pattuglia degli esploratori sbarcò. Era costituita di diciassette persone: Walker, Bek, Quentin Leah, Panax, Ryer Ord Star, Joad Rish, Ahren Elessedil, Ard Patrinell e nove Cacciatori Elfi. Raccolsero le armi e le provviste e attesero che la nave si allontanasse lungo il fiume da cui era giunta. Quando fu scomparsa alla vista, Walker diede l’ordine di muoversi. Mise a capo del gruppo Ard Patrinell, affidandogli la responsabilità di difenderlo. Il comandante della Guardia Reale inviò Kreshen, una giovane cercatrice di piste, in avanscoperta a una cinquantina di iarde dal drappello per esplorare il terreno. Assieme a lei andarono due Cacciatori Elfi che le avrebbero protetto i fianchi. Quanto al resto della compagnia, la fece procedere a coppie, con Walker in testa e Panax in coda, ciascuno con un Cacciatore. A Quentin venne affidata la responsabilità del centro della formazione e di coloro che non erano esperti nel combattimento, in particolare di Joad Rish, Ryer Ord Star e Bek. Mentre camminavano, Walker si voltava di tanto in tanto a guardare il ragazzo, cercando di valutare il suo comportamento ora che gli aveva rivelato la verità su di lui. Era difficile determinarlo. Gli pareva che Bek si fosse adattato bene alle nuove responsabilità della magia del canto e della Spada di Shannara. Tuttavia Bek aveva una personalità complessa, difficile da capire, e restava da accertare come avrebbe reagito alle richieste della sua eredità. Al
momento il druido aveva appena scalfito la superficie delle sue reazioni. Il ragazzo non aveva ancora compreso la profondità del suo legame con l’intera situazione e non
c’era un modo facile di informarlo. Gli piacesse o meno, Bek sarebbe stato sempre più difficile da gestire. Tanto per cominciare, aveva un carattere indipendente, e il controllo che il druido aveva esercitato fino ad allora su di lui era per lo più la conseguenza di ciò che lui sapeva e il ragazzo ignorava. Adesso quel vantaggio se n’era in buona parte andato, e nel frattempo Bek era diventato diffidente nei suoi confronti. Arrivati a quel punto, Bek poteva sia comportarsi come si sentiva sia seguire i suggerimenti di Walker, e le sue scelte potevano rivelarsi fatali. Ancora una volta il druido pensò a quanto s’era allontanato dal suo antico giuramento di non usare i metodi di manipolazione delle persone tradizionali dei Druidi. Non riusciva a nascondersi il fatto che stava diventando di giorno in giorno sempre più simile ad Allanon. Tutte le sue promesse erano finite nel nulla. Era una conclusione allarmante e suscitava in lui una profonda tristezza. Poteva rispondere che almeno conosceva i suoi limiti, ma che utilità poteva avere quell’affermazione, se non era in grado di correggersi? Anche se poteva giustificare ogni cosa, sentiva di avere mancato di parola a se stesso. La pattuglia penetrò nella foresta, facendosi strada in mezzo agli alberi e salendo su per le colline che circondavano il lago. Il terreno era accidentato, attraversato da letti di torrenti, e a volte il loro cammino era bloccato da cespugli e tronchi caduti. Spesso si trovarono davanti fossati troppo larghi e profondi per essere attraversati. Un paio di volte si imbatterono in aree colpite da qualche tempesta, distese di legno morto così vaste che dovettero ritornare sui propri passi. Con il crescere delle deviazioni, divenne sempre più difficile determinare con esattezza il punto in cui si trovavano. Walker aveva una delle bussole di Redden Alt Mer, ma anche con quella fu impossibile seguire un percorso rettilineo. Tutt’al più poteva tenere conto di quanto avevano deviato rispetto alla direzione prefissata, ma la cosa non era granché utile. La giornata, comunque, rimase serena, il sole continuò a splendere e il canto degli uccelli li confortava e li rassicurava. Dall’ombra degli alberi nulla uscì a minacciarli. In tutta la foresta non videro niente di straordinario. Sembrava di essere nelle Quattro Terre. Tuttavia Walker continuò a guardarsi attorno. Nonostante le apparenze, sapeva che qualcosa li aspettava lungo la strada. Avrebbe preferito avere con sé Truls Rohk, per fargli controllare il cammino davanti a loro, ma il cambiatore di forma era sull’altra nave e doveva accontentarsi dei Cacciatori Elfi. Erano abili e bene addestrati, ma nessuno di loro sarebbe stato in grado di nascondersi come Truls. Si chiese se fosse riuscito a nascondersi anche sulla nave della Strega di Ilse e cosa stesse facendo. Scosse la testa. Per importante che fosse ciò che il cambiatore di forma faceva sulla nave della Strega, se fosse stato con lui in quel momento avrebbe potuto fare qualcosa di ancora più importante. La mattina finì e Walker e i suoi compagni erano ancora nella foresta senza avere scoperto nulla. La mappa indicava la baia e di lì segnalava di proseguire nell’entroterra, ma non diceva altro. Solo una linea tratteggiata conduceva a una X con la scritta “Castledown”. Non era spiegato che cosa fosse Castledown, né che aspetto avesse. Evidentemente, si diceva il druido, doveva essere inconfondibile. Fin dalla partenza, Walker aveva imparato che la mappa dava per scontate molte cose, perciò non si preoccupava per le istruzioni incomplete. Verso la fine del pomeriggio la sua fede venne premiata. Giunti in cima a una collina in mezzo a un boschetto di enormi querce, vide i tre Elfi mandati in avanscoperta fermi ad aspettarli. Senza parlare, con un’espressione solenne, Kreshen indicò davanti a sé.
Avrebbe potuto farne a meno. La collina digradava in una valle larga e profonda, di almeno cinque miglia per dieci. I pendii erano coperti di alberi, che formavano una sorta di anello verde sotto il sole del
pomeriggio. L’intero fondovalle era occupato dalle rovine di una città. Non era una città del loro tempo, Walker lo comprese subito. La cosa era evidente anche da dove stavano, a mezzo miglio di distanza. Gli edifici erano bassi e piatti, non più alti di quelli di Eldwist nel territorio del Re delle Rocce. Alcuni erano danneggiati, le pareti erano crollate o vi si scorgevano larghe crepe dagli orli seghettati e taglienti. Dai fori nei muri appariva l’interno distrutto dal fuoco. Dappertutto si vedevano rovine, alcune arrugginite ed erose dalle intemperie, altre ricoperte di licheni e muschi. Nei ruderi c’era un’uniformità che indicava chiaramente come nessuno vi abitasse da tempo immemorabile. A colpire subito il druido, ancor più della dimensione della città, fu il fatto che ogni cosa era di metallo. Pareti, tetti, pavimenti conservavano ancora in alcuni punti la lucentezza metallica. Anche certi tratti delle strade riflettevano il sole. E fin dove giungeva l’occhio, le rovine erano fatte di lastre e colonne di metallo. Erba e cespugli spuntavano da qualche fessura. Isolati boschetti crescevano in aree che forse erano state parchi, un tempo ben curati e adesso tornati allo stato selvaggio. Pur nella sua condizione presente, dopo che le distruzioni delle Grandi Guerre l’avevano ridotta a una rovina abbandonata, era evidente che un tempo quella era stata una grande città dalle linee architettoniche severe ma eleganti. «Per tutti gli spiriti!» esclamò Panax, pensando forse alle rovine da cui, nei primi tempi dopo l’olocausto, la sua gente ricavava il metallo per le forge. Walker scosse la testa. Le rovine di Castledown erano gigantesche. Non aveva mai pensato che potesse esistere una città così grande. Quante persone c’erano al mondo, se quello era un esempio della dimensione delle loro città? DalleStorie dei Druidisapeva che le cifre erano enormi, assai maggiori di adesso. Le città si contavano a migliaia, non a centinaia. Quante erano grandi come Castledown? Walker si sentì schiacciare dalle immagini, dai numeri, dalle possibilità, e si domandò che cosa, esattamente, stessero per incontrare. Per la prima volta si chiese se sarebbero stati davvero in grado di affrontarlo. Poi, all’improvviso, ebbe il sospetto che la sua supposizione iniziale non fosse corretta. Più guardava le rovine, più aveva l’impressione che non fossero state costruite per ospitare persone. Nel loro aspetto c’ era qualcosa che non andava. I fabbricati erano bassi, larghi e piatti, con finestre alte ed entrate ampie, privi di spazi individuali, più adatti ad altre destinazioni. Magazzini, forse. Fabbriche e cantieri. Edifici costruiti per ospitare macchine. Guardò i compagni. Tutti parevano stupefatti, guardavano la città come per comprenderne lo scopo, come se stentassero a crederla vera. Poi notò Ryer Ord Star. La veggente si teneva lontana dagli altri, come sempre, ma tremava, guardava in basso e stringeva i pugni. Ansimava e piangeva in silenzio. Walker la raggiunse e le posò la mano su una spalla, la attirò contro di sé. «Cosa c’è?» le chiese sottovoce. Lei lo fissò per un istante, poi scosse la testa e si appoggiò contro di lui, tuffando la faccia nella sua veste. Lui continuò a tenerla accanto a sé finché non si tranquillizzò, bastarono pochi minuti, poi si staccò da lei e ordinò ad Ard Patrinell di mettersi in cammino. Scesero dalla collina fino al fondovalle, si fermarono in una radura a cento iarde dall’inizio delle rovine e
si accamparono per la notte. Il sole era ormai sceso a sfiorare le colline a occidente e mancava meno di un’ora al tramonto. Era troppo tardi per tentare l’esplorazione della città. Walker era certo di avere trovato Castledown e ormai sapeva che il tesoro cercato era là, da qualche parte. Rimaneva da vedere come avrebbero fatto a trovarlo, ma preferiva affrontare la città con la luce del nuovo giorno. Da solo, mentre i suoi compagni allestivano il campo e preparavano la cena, raggiunse il margine delle
rovine e si fermò a osservare, nella luce che svaniva, gli edifici avvolti nell’ombra, le strade larghe, gli squarci nelle pareti di metallo, i tetti distrutti dagli elementi e dal conflitto e si rallegrò di non essere vissuto all’epoca di quella lontana guerra. Le razze odierne pensavano che la magia dei Druidi fosse potente, ma non avevano mai conosciuto la vera forza. La vera forza nasceva dalla scienza. Si chiese cosa si provasse a vivere in quei tempi lontani, prima che il Mondo Antico fosse distrutto. Cosa si provava a disporre di un potere capace di annientare intere città? Che effetto faceva sull’anima la possibilità di spegnere migliaia di vite con un gesto? All’idea si sentì rabbrividire. Provò spavento e malessere. Forse era ciò che aveva provato Ryer Ord Star. Forse era per quello che aveva pianto. Pensando a lei, Walker rifletté sulla visione delle isole e dei loro guardiani. Dopo avere descritto le chiavi, Ryer Ord Star gli aveva detto una cosa che il druido si era poi scordato, perché sul momento l’aveva giudicata ovvia: «Vedo tutto questo entro un velo d’ombra che ti segue ovunque e cerca di stendersi su di te come un sudario». Sul momento Walker aveva pensato che si riferisse alla Strega di Ilse e al suo instancabile inseguimento. Ma nel guardare le rovine di Castledown e nel sentire la presenza dell’entità in agguato laggiù, una presenza che avvertiva come una sorta di prurito sulla pelle, comprese di essersi sbagliato.
30 La mattina seguente, il sole si levò in mezzo a veli di nebbia e a una pioggia leggera. Fin dall’alba le nubi grigie nascosero il sole e parvero promettere una giornata uggiosa. Non c’era vento e l’aria sapeva di terra umida e di foglie nuove. La foresta era avvolta in un minaccioso silenzio che rendeva guardinghi e anche il rassicurante canto degli uccelli era scomparso. Le rovine di Castledown erano accovacciate nella pallida foschia che aveva coperto la valle, un luccicante rilievo con bordi affilati e superfici di scuro metallo striato di verde lucente a causa dei licheni e dei muschi bagnati. Walker divise la sua pattuglia in tre gruppi. Il primo era composto da Ard Patrinell, Ahren Elessedil, Joad Rish e tre Cacciatori Elfi, e doveva tenersi a destra. Quentin Leah e Panax, accompagnati da altri tre Cacciatori, dovevano stare a sinistra. Walker stesso, accompagnato da Bek, Ryer Ord Star e gli ultimi tre Cacciatori, si sarebbe tenuto al centro. Dovevano entrare in città con il gruppo centrale un po’ più avanti rispetto agli altri due, allargati a ventaglio ma in modo da non perdersi di vista. Avrebbero attraversato tutta la città e poi sarebbero tornati indietro lungo un altro gruppo di strade. Avrebbero ripetuto questo schema fino a completare l’esplorazione della città, soffermandosi a esaminare tutto quello che colpiva la loro attenzione. Se non fossero riusciti a trovare in giornata quello che cercavano, avrebbero ricominciato il giorno seguente. La città era molto vasta. Anche senza incontrare difficoltà, avrebbero potuto impiegare più di una settimana per esplorarla interamente. Tutti dovevano rimanere in silenzio e tendere l’orecchio, li avvertì. Nessuno doveva parlare. Ciascuno doveva stare attento ai compagni e tenere d’occhio il capogruppo, seguendo i suoi passi. Se scorgevano qualcosa che richiedeva un esame più approfondito, dovevano fare un segnale con la mano o fischiare. Dovevano tenersi bassi e usare gli edifici come copertura. C’era ragione di credere che il nemico che li attendeva avesse sparso trappole per tutta la città. Senza dubbio, il tesoro che cercavano doveva essere custodito con cura.
«Di che cosa si tratta, esattamente?» chiese Panax, inquieto. Come gli altri, anche lui aveva indossato il
mantello e si era alzato il cappuccio per ripararsi dal maltempo. In mezzo alla nebbia, assomigliavano a un gruppo di spettri. «Che cosa cerchiamo, Walker?» Il druido lo guardò senza rispondere. «Abbiamo fatto un mucchio di strada, e vorremmo saperlo» insistette il nano. La pioggia gli correva lungo la faccia. «Come possiamo trovare quello che cerchiamo, se non sappiamo di che cosa si tratta?» Dopo un istante di silenzio, Walker rispose: «Libri». Scese di nuovo il silenzio. «Di magie e incantesimi» spiegò il druido. «Conoscenze raccolte all’epoca del Mondo Antico, e poi andate perse nelle Grandi Guerre. Una parte di quelle magie può essersi salvata. Qui, a Castledown. È il tesoro di cui parla la mappa.» «Libri» mormorò il nano, incredulo. «Saranno di immenso valore per tutte le razze, se li troveremo» gli assicurò Walker. «Più di quello che puoi immaginare. Più di qualsiasi altro possibile tesoro. Ma hai ragione a essere scettico. A quanto ne sappiamo, nessun libro è sopravvissuto alle Grandi Guerre. Sono una delle prime cose che è andata distrutta, se non dal fuoco, dal tempo e dagli elementi. Gli scritti del Mondo Antico andarono perduti duemila anni fa, e solo le nostre tradizioni orali hanno conservato le informazioni in essi contenute. Tuttavia, anche quelle poche conoscenze si sono diluite col tempo e sono cambiate, e in gran parte sono diventate inutili. I libri che noi possediamo oggigiorno sono stati raccolti dai Druidi di Paranor, durante il Primo e il Secondo Consiglio. Gli Elfi ne posseggono alcuni ad Arborlon e la Federazione ne possiede ad Arishaig, ma la maggior parte si trova nella Fortezza dei Druidi. Si tratta però di libri del nostro mondo, non di quello antico. Perciò, se qui sono sopravvissuti dei libri, è perché sono stati chiusi in qualche luogo. Che si tratti di libri potrebbe non essere immediatamente chiaro. Potrebbero avere una forma diversa.» «Se i libri sono numerosi e hanno l’aspetto originale, per ospitarli occorrerà un grande edificio» commentò Bek. Walker annuì. «È la considerazione con cui inizieremo la ricerca. Cercheremo un magazzino, un contenitore, qualcosa che possa servire da custodia. Ma potremmo non riconoscerlo, quando gli saremo davanti. Dovremo essere di mente aperta. Ricordate inoltre che siamo venuti a scoprire cos’è successo a Kael Elessedil e alla sua spedizione, e a recuperare le Pietre Magiche degli Elfi.» Nessuno fece commenti. Dopo qualche momento, Quentin Leah si aggiustò sulla spalla la bandoliera della Spada di Leah e guardò il cielo. «Pare che smetta di piovere» commentò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Andiamo» aggiunse Panax, con un brontolio. Si avviarono lungo il terreno scoperto tra la foresta e l’inizio della città, come una fila di spettri in mezzo alla nebbia. Entrarono nella città in tre gruppi sparsi, a cinquanta iarde l’uno dall’altro. All’inizio camminarono in fretta perché scorgevano solo rovine e piccoli edifici contenenti macchine arrugginite. Non capivano cos’era ciò che vedevano, anche se una parte di quelle macchine aveva l’ aspetto di armi. Uno spesso strato di polvere si era depositato ovunque e nulla indicava che qualcuno fosse entrato in città in tempi recenti. Nulla sembrava
toccato da secoli, tutto era cristallizzato nel tempo. Ryer Ord Star camminava accanto a Walker, così vicina a lui da sfiorarlo. La notte precedente, mentre gli altri dormivano, gli aveva spiegato che cosa l’avesse allarmata. Nel buio della notte priva di luna, si era
inginocchiata presso di lui. «Le rovine sono il labirinto che ho scorto nella mia visione» gli aveva detto con un filo di voce. Walker le aveva appoggiato la mano su una spalla. «Ne sei sicura?» Fissandolo a occhi sgranati, la giovane aveva risposto: «Ho sentito anche la presenza delle altre due minacce. Quando ho visto la valle e ho guardato il labirinto, le ho sentite. Le lingue di fuoco e i cani di metallo. Sono qui che ci aspettano.» «Saremo pronti ad affrontarli» aveva risposto Walker. La giovane donna tremava, e il druido le aveva messo il braccio attorno alle spalle per farle coraggio. «Non avere paura, Ryer. I tuoi avvertimenti ci hanno sempre aiutato, a Flay Creech, a Shatterstone e a Mephitic. Ci saranno utili anche qui.» La veggente, però, aveva scosso la testa. «No, Walker. L’entità che ci aspetta qui è molto più grande e forte. È racchiusa nelle rovine e nella terra su cui sorgono. È antica, affamata e malevola, e ci sta aspettando. Sento il suo respiro. La sento vibrare nel movimento dell’aria e nell’alzarsi e abbassarsi della temperatura. È troppo potente per noi.» Walker aveva continuato a tenerla accanto a sé nell’oscurità vellutata cercando di calmarla, ascoltando il suo respiro farsi regolare. Alla fine, lei si era alzata e aveva fatto per allontanarsi. «Io morrò qui, Walker» aveva concluso. Ne era convinta, si disse ora il druido, e forse aveva scorto qualcosa, nelle sue visioni, che l’aveva indotta a pensarlo. Poteva essere solo una sua convinzione, ma a volte ciò era sufficiente perché finisse per accadere quanto si temeva. Walker si era proposto di tenerla d’occhio, di proteggerla, come del resto contava di fare per tutti, ma anche i poteri di un druido avevano i loro limiti. Si guardò alle spalle. La veggente si era affiancata a Bek, come se la vicinanza del ragazzo le desse sicurezza. Ottimo. Rimanere accanto a Bek era una buona idea. Tornò a guardare innanzi a sé, nel labirinto delle rovine, e sentì a sua volta ciò che aveva sentito la veggente: una presenza cupa e misteriosa che li attirava come un’esca infilata su un amo. A parecchie miglia di distanza, nel canale che portava alla Macina, ma ancora a una notevole distanza da essa, Redden Alt Mer era fermo accanto alla murata di poppa e scrutava nella foschia. Quel clima era impossibile. Era peggiorato da quando erano passati di lì due giorni prima. La giornata precedente era iniziata nel migliore dei modi, ma gradualmente il sole e il cielo sereno avevano lasciato il posto a nebbia e nuvole. Avevano ancorato la nave a parecchie miglia dal ghiaccio, lontano dalle colonne, ed era andato a dormire sperando di continuare il viaggio l’indomani mattina, come aveva chiesto Walker. E invece la nebbia era così fitta che Alt Mer riusciva a malapena a distinguere le pareti del canale e non vedeva per nulla il cielo. Peggio ancora, la nebbia mossa dal vento vorticava proiettando ombre ovunque e rendendo impossibile navigare. In quegli stretti confini, tra montagne, ghiacciai e venti che provenivano da tutte le direzioni, sarebbe stato temerario proseguire, perché non si vedeva dove si stava andando. Volenti o nolenti, occorreva aspettare che il tempo si schiarisse, anche se questo avrebbe comportato qualche giorno di ritardo.
Rue Meridian lo raggiunse; aveva i capelli lucidi per l’umidità. Non pioveva, ma la fine nebbiolina si posava dappertutto come un velo. Si guardò attorno e scosse la testa. «Sembra di essere dentro una
zuppa.» «E Madre Natura si diverte a mescolarla» rincarò Big Red, con un sospiro. «Il tutto per tenerci bloccati qui, suppongo.» «Potremmo tornare indietro e sperare in una schiarita. All’interno, il tempo potrebbe essere migliore.» «Potrebbe» ammise il fratello. «Se però risaliamo il canale, diventa più difficile trovare la rotta, al ritorno. Meglio andare il più possibile vicino alla costa.» Little Red sbuffò. «Dimentichi di avere il miglior navigatore che esista.» «Non lo dimentico. Comunque, una giornata d’attesa non ci farà male. Rimarremo all’ancora fino a domani. Se per allora non si sarà schiarito, faremo come dici tu. Risaliremo il canale e cercheremo di trovare un varco tra le nubi.» Little Red guardò il fratello negli occhi. «A nessuno piace star lì a girarsi i pollici, Big Red.» Volse lo sguardo attorno a sé, nella nebbia. «Se tendi l’orecchio, senti lo schianto di quelle colonne di ghiaccio. Senti lo scricchiolio dei lastroni che scivolano verso il mare. Fa venire i brividi.» «Allora, non tendere l’orecchio.» La donna rimase con lui ancora qualche istante, poi se ne andò. A Redden Alt Mer non piacevano né l’ attesa né la vicinanza della Macina né la nebbia che li circondava, ma non voleva essere impulsivo. Se doveva, sarebbe stato paziente. Dopo qualche minuto raggiunse Spanner Frew che lavorava su un cristallo di diapso danneggiatosi durante la collisione con laBlack Moclips. Il comandante era ancora perplesso per l’improvvisa comparsa della nave nera. Probabilmente aveva a bordo un equipaggio della Federazione e questo dava ad Alt Mer, con i suoi Corsari, un chiaro vantaggio, tuttavia non era ansioso di controllare se la supposizione fosse vera. LaBlack Moclipsera molto più grossa e potente dellaJerle Shannarae a distanza ravvicinata poteva forse farla a pezzi. In ogni caso, gli avrebbe fatto un certo effetto combattere contro la nave che aveva comandato per tanto tempo e alla quale aveva finito per affezionarsi. «Fatto qualche progresso?» chiese al costruttore. L’uomo aggrottò la fronte. «Ne farei di più se la gente non m’interrompesse con domande idiote. È un lavoro delicato.» Alt Mer lo guardò per un momento. «Sei riuscito a dare una buona occhiata all’altra nave, quando ci ha speronati?» «Buona come la tua.» «E l’hai riconosciuta?» «LaBlack Moclips. Impossibile sbagliarsi. Non mi piace che sia proprio quella a darci la caccia, ma d’ altra parte questa è più veloce e manovrabile.» S’interruppe per guardare controluce il cristallo, strizzando gli occhi per osservarlo meglio. «Basta tenerci a buona distanza e non avremo nulla da temere.»
Il comandante incrociò le braccia sotto il mantello. «Non si può essere sicuri di niente, in una caccia come questa. Può darsi che prima o poi siamo costretti ad affrontarla. E ti assicuro che l’idea non mi garba.»
Spanner Frew si raddrizzò, diede un’ultima occhiata al cristallo ed emise un brontolio soddisfatto. «Oggi non sarà un grave problema. Nessuno riuscirebbe a navigare con questa visibilità.» «A meno che non sia disposto a correre grossi rischi» lo corresse Alt Mer, tornando a guardare la nebbia. Il vento si era levato e la nave oscillava ai suoi improvvisi cambi di direzione. Il comandante attraversò adagio la tolda, controllando che tutto fosse in ordine, trovando qualcosa da fare per non pensare a quanto stava succedendo. Da qualche momento aveva iniziato a udire un leggero sibilo, ancora lontano ma inconfondibile. Guardò nella direzione da cui proveniva, quella della Macina. Forse era meglio spostare laJerle Shannarapiù indietro, lungo il canale. Forse era meglio cercare una baia dove rifugiarsi. Tornò accanto al parapetto di prua e il suono del vento lo avvolse, ma era stranamente caldo e confortevole. Si fermò ad ascoltarlo, stupito dal suo fascino. Venti di quel genere erano rari per un marinaio e in quel luogo parevano fuori posto come il clima del giorno prima. Appartenevano ad altri luoghi, ad altre parti del mondo. Come potevano esistere neve e ghiaccio così vicino alle foreste verdi e all’aria calda? Gli tornò in mente la sua infanzia a March Brume, i giorni trascorsi sulla terraferma, a vagare nelle foreste, a giocare con altri bambini. Quei giorni si erano consumati in fretta ma li ricordava ancora bene. Forse perché aveva trascorso la maggior parte della vita in volo e sul mare. Forse perché erano passati per sempre. Qualcosa comparve in mezzo alla nebbia, ma il corsaro fissò la sua forma scura con sguardo assente, incapace di darle un nome, come se non lo riguardasse. Accanto a lui, un corsaro si accasciò sul ponte e non si mosse più, colto da un sonno profondo. Redden Alt Mer lo guardò incredulo, poi fece per raggiungerlo. Ma le sue gambe non riuscivano a muoversi e le sue palpebre erano così pesanti che faticava a tenerle aperte. Era consapevole solo del suono del vento, che si era fatto più acuto e lo avvolgeva in sé, lo isolava da tutto. Troppo tardi comprese cosa stava succedendo. Fece alcuni passi e cadde in ginocchio. Sul ponte erano ammucchiati Corsari addormentati. Solo Furl Hawken era ancora in piedi nella cabina del pilota, ma aggrappato al timone, disteso sui comandi. Un’enorme sagoma nera si era accostata allaJerle Shannara. Redden Alt Mer udì i colpi dei grappini d’ abbordaggio che si piantavano nel legno e vide avvicinarsi una forma avvolta in un mantello. Da sotto un cappuccio uscì un viso, quello di una giovane donna che lo guardò con due occhi azzurri più gelidi di un ghiacciaio. Senza poter fare nulla, le ricambiò furioso lo sguardo. Poi tutto venne avvolto dal buio. Bek vide l’espressione tesa e preoccupata di Ryer Ord Star e le sorrise. La pioggia si era trasformata in una fine nebbia. La veggente batté le palpebre per far cadere dalle ciglia le goccioline, si asciugò la faccia e si accostò a lui. Il ragazzo si guardò attorno e cercò di individuare nella foschia i gruppi guidati da
Quentin e da Ard Patrinell. Scorse il cugino e il capitano della Guardia Reale, ma non vide Ahren Elessedil. In quella parte della città gli edifici erano più grandi e richiedevano più tempo per esaminarli. A volte gli esploratori finivano dietro una parete alta venti braccia e riuscivano a vedere i compagni solo quando passavano davanti a una porta sfondata o a un accesso creato dall’incendio.
Gli edifici erano tutti uguali: o vuoti o pieni di macchinari arrugginiti. In alcuni c’erano lunghi scatoloni con dischi e finestrelle che assomigliavano agli occhi vuoti di animali morti. In altri, macchinari enormi giacevano a terra come mastodonti caduti in un sonno interminabile. Le ombre si stendevano su tutti gli spazi aperti, sulle macchine e sulle rovine, da un edificio all’altro, come un’immensa ragnatela che avviluppava tutta la città. Bek cercò nuovamente di scorgere Ahren, ma gli Elfi sembravano tutti uguali, nei loro mantelli e con la testa nascosta sotto il cappuccio. All’improvviso sentì sorgere dentro di sé il dubbio e la paura. Si impose di fissare Walker, che gli stava davanti, e si disse che si comportava da idiota, si era lasciato contagiare dai timori di Ryer Ord Star. O forse dalla giornata buia e nebbiosa. O da quella strana città morta. Nel silenzio e nella penombra l’immaginazione giocava brutti scherzi. Ripensò ai libri cercati da Walker. Che se ne faceva, la gente dell’Antico Mondo, di libri di incantesimi? A quell’epoca non si praticava alcuna magia degna di questo nome. La magia era morta con il mondo di Faerie e gli stessi Elfi, che erano sopravvissuti mentre molte altre razze si erano estinte, avevano scordato pressoché tutta quella che conoscevano un tempo. Solo con la comparsa delle nuove razze e la fondazione del Consiglio dei Druidi a Paranor si era cominciato a riscoprirla. Perché Walker riteneva che esistessero libri di magia risalenti all’epoca precedente le Grandi Guerre? Più rifletteva su quell’argomento, meno riusciva a capirlo. Cominciò anche a farsi domande sulla creatura che li aveva attirati laggiù. Per rubare la loro magia, aveva detto Walker, ma cosa se ne faceva, se aveva a sua disposizione libri di magia? Cosa c’era di così importante nella magia posseduta da lui, da Walker e da Quentin? Che cosa aveva sconfitto la spedizione di Kael Elessedil, trent’anni prima? Poteva ripetere tutto quello che gli aveva detto Walker, ma la sua perplessità rimaneva. Attraversarono un gruppo di magazzini enormi e vuoti e giunsero a una zona di basse piattaforme che potevano essere state edifici o qualunque altra cosa. Tutte chiuse e senza finestre, parevano prive di scopo. Erano coperte di ruggine e di muschio, e luccicavano nella pioggia come enormi specchi rotti. Walker indugiò per qualche istante a osservarne una, poi appoggiò la mano contro una di quelle superfici e chiuse gli occhi per concentrarsi. Dopo qualche istante fece un passo indietro, guardò i compagni scuotendo la testa e indicò loro di proseguire. Le piattaforme scomparvero dietro di loro nella nebbia e giunsero a un’ampia spianata dal pavimento di metallo, costellata di muri dalle forme bizzarre e di pareti divisorie. La spianata si estendeva per centinaia di iarde in tutte le direzioni e dominava quella parte della città grazie alla sua sola dimensione. I muri e le pareti divisorie variavano in altezza da una a tre iarde ed erano lunghe dieci o quindici. Non erano collegati tra loro e parevano distribuiti a casaccio, senza uno scopo. Non formavano stanze, non contenevano macchine oppure mobilio. Diversamente dagli edifici incontrati fino a quel momento, non vi si scorgevano macerie. E neppure alberi, erba, cespugli. Tutto era perfettamente lucido e pulito. Nel centro della spianata, a malapena visibile nella penombra, si alzava un obelisco alto una trentina di braccia. Alla sua base era incassata un’unica, massiccia porta, ed era chiusa. Al disopra della porta lampeggiava una luce rossa. Walker fece fermare i compagni alzando la mano e scrutò l’intrico di muri e pareti divisorie sorvegliato dall’obelisco come da una torre di guardia, sotto l’occhio vigile della luce
ammiccante. Anche Bek osservò le rovine e sentì aumentare l’inquietudine. Nulla si muoveva. Tornò a guardare il druido e vide che studiava l’obelisco. Era evidente che temeva una trappola, ma era altrettanto evidente che doveva entrarvi. Ryer Ord Star si chinò verso Bek. «È l’entrata che cerchiamo» sussurrò con voce ansiosa. «Da quella
porta si arriva a Castledown. Le chiavi permettono di aprirla.» Bek la guardò, chiedendosi come lo sapesse, ma la veggente fissava il druido, dimentica di lui. Walker si voltò verso i compagni. Aveva un’espressione preoccupata ma rassegnata. «Aspettatemi qui» ordinò, a voce così bassa che Bek faticò a udirlo. Fece segno ai Cacciatori Elfi: «Anche voi». Rivolse un cenno a Quentin e Panax alla sua sinistra e ad Ard Patrinell alla sua destra, ordinando loro di non proseguire. Poi, da solo, si avviò verso la torre. La Strega di Ilse ispezionò il ponte dellaJerle Shannaraper assicurarsi che tutti i Corsari fossero addormentati. Li esaminò a uno a uno, poi ordinò a Cree Bega di salire a bordo e di inviare un Mwellret a controllare se qualcuno le era sfuggito. Il rettile incaricato scese sottocoperta e tornò dopo alcuni minuti, scuotendo la testa. La Strega annuì soddisfatta. Era stato più facile del previsto. «Portateli sotto e chiudeteli a chiave nei ripostigli» ordinò, allontanando Cree Bega con un cenno della mano. «Separateli.» Andò alla cabina del pilota e salì portandosi accanto al massiccio corsaro disteso sui comandi, poi esaminò da poppa a prua la nave catturata, assorbendone l’aspetto e la sensazione che trasmetteva. Una nave veloce e agile, osservò, più rapida e maneggevole della sua. I Mwellret sciamavano dai parapetti dellaBlack Moclipsper portare sottocoperta i marinai addormentati. Lei li guardò senza alcun interesse. La magia del suo canto li aveva sopraffatti prima che se ne accorgessero. Colti di sorpresa e incapaci di proteggersi in assenza del druido, non avevano potuto opporsi. La sua spia le aveva fornito fin dall’inizio un collegamento con laJerle Shannaraed era stato facile raggiungerla dopo aver superato la Macina. Mettere a dormire l’equipaggio grazie al canto magico era stato un gioco da ragazzi. Le era bastato trasformare la sua magia in un suono simile a quello del vento, dolce e carezzevole e irresistibile. Nemmeno oltrepassare le colonne di ghiaccio le aveva creato difficoltà, pur richiedendo un po’ di inventiva. Poiché preferiva non accostarsi neppure, aveva usato la magia per catturare una delle averle che facevano il nido sulla scogliera, le era salita in groppa e si era servita di essa per sorvolare le montagne. Nonostante la nebbia, era riuscita a guidare senza difficoltà laBlack Moclips.L’averla abitava in quei luoghi e sapeva come andare avanti e indietro attraverso le montagne. I venti erano pericolosi, ma non tanto da fermare la nave. Non aveva idea di come Walker fosse riuscito a superare le colonne, perché la magia del druido, anche se potente, non era abbastanza adattabile per quel tipo di compiti. La sua spia non era riuscita a comunicarle l’informazione. Non che importasse. Tutt’e due erano riusciti a passare. La gara tra loro era ancora aperta. A parte il fatto che adesso, per la prima volta, lei aveva in mano le carte migliori. Walker era a terra e senza mezzi di trasporto, anche se per il momento non lo sapeva. Senza una nave aerea, non poteva sfuggirle. Presto o tardi l’avrebbe raggiunto, a piedi o dall’aria, e l’unica domanda ancora in attesa di risposta era chi sarebbe arrivato prima: lei o l’entità che attendeva tra le rovine.
Anche a quel proposito, lei aveva un vantaggio sul druido: conosceva la natura dell’entità o, più precisamente, quello che non era. Lei era entrata nella mente di Kael Elessedil per scoprire dove si fosse perso per trent’anni. Così facendo, aveva visto attraverso i suoi occhi la cosa che l’aveva catturato e accecato e gli aveva strappato la lingua per poi usarlo. Walker non sapeva nulla di tutto ciò, e se non fosse stato attento, avrebbe fatto la stessa fine. Questo l’avrebbe distrutto come lei desiderava, ma le
avrebbe tolto la soddisfazione personale di vederlo morire per mano sua. Sì, Walker doveva stare molto attento. L’entità che li aveva attirati laggiù era paziente e arrivava lontano. Era pericolosa in una maniera che la Strega non aveva mai sperimentato e doveva stare attenta anche lei. Ma lei faceva sempre attenzione, era sempre in guardia contro l’imprevisto. Si era addestrata a lungo. Cree Bega la raggiunse. «I piccoli uomini sssono tutti chiusssi al sssicuro» le disse sibilando. «Lascia cinque dei tuoi a controllare che non escano. Il comandante Kett ci darà due uomini del suo equipaggio perché si occupino della nave. Gli altri seguiranno con laBlack Moclipscoloro che sono già sbarcati.» “Ti vengo a prendere, druido” si disse trionfante. “Ti sei già accorto che mi sto avvicinando?” Con espressione feroce e decisa scese dalla cabina di pilotaggio e tornò sulla sua nave. Quando iniziò l’attacco, Walker era più o meno a metà strada fra i compagni e l’obelisco, in mezzo al labirinto di muri e pareti divisorie. Sentì uno scatto secco, come se si aprisse un lucchetto o scattasse una molla, e si gettò a terra proprio mentre un filo sottile di brillante fuoco rosso saettava sopra di lui. Senza soffermarsi a riflettere, scagliò il fuoco magico contro la fonte della fiamma e fuse la minuscola apertura da cui era scaturita. E subito un’altra decina di fili di fuoco attraversò l’area in cui si trovava, e alcuni forarono il pavimento di metallo nel tentativo di raggiungerlo. Rotolando, il druido si mise al riparo di un muro e bruciò un’apertura dopo l’altra, spegnendo i fili di fuoco, facendo esplodere le aperture e intere sezioni di parete e riempiendo l’aria di fumo e dell’acre odore del metallo fuso. Poi si rialzò in piedi e corse verso l’obelisco, convinto che là avrebbe trovato ciò che controllava il fuoco. La veste gli impediva di correre e lo costringeva a camminare. “Lingue di fuoco.” Ripeté dentro di sé le parole mentre si faceva strada attraverso il labirinto, chinandosi dietro i muri mentre i sottili fasci di fiamma continuavano a cercarlo. La profezia di Ryer Ord Star si era realizzata. Si era addentrato di una ventina di passi nel labirinto quando le pareti cominciarono a muoversi. Senza preavviso, alcune si sollevarono, altre si abbassarono: una massa mobile di metallo che chiudeva alcuni accessi e ne apriva altri, con intere sezioni che uscivano dal pavimento mentre altre scomparivano in esso. Disorientato da quell’inattesa situazione, Walker rallentò per un attimo, e i fili di fuoco cominciarono di nuovo a convergere su di lui, e ce n’erano di nuovi che scaturivano dai muri accanto a lui mentre quelli vecchi ruotavano per aggiustare la mira. Disperato, scagliò contro di loro un’ampia ondata del suo fuoco magico, distruggendoli o deviandone la mira. Alle sue spalle si levarono alcune grida, in mezzo alla nebbia e al fumo, e parevano provenire da un pozzo di vuoto e di buio. «Non avvicinatevi!» gridò per avvertire i compagni, ma gli rispose solo l’eco della sua voce. I fasci di fuoco brillavano nella foschia, attraversando con mortale precisione la penombra. Si alzarono nuove grida, e il druido sentì il suo cuore perdere un colpo quando comprese che alcuni compagni non l’ avevano udito. Cercò di tornare da loro, ma le pareti si spostarono di nuovo, i fili di fuoco gli sbarrarono la strada e fu costretto a rinunciare.
“All’obelisco!” ingiunse a se stesso, nel silenzio della sua mente. Proiettando il fuoco magico attorno a sé, si voltò e tornò ad avanzare, la faccia coperta di sudore e di
pioggia. Qualcosa si mosse al suo fianco e sentì un suono di metallo che strisciava contro il metallo. Una vampata di fuoco esplose accanto a lui, mancandolo per meno di un palmo, perciò si abbassò e accelerò il passo, attraverso il mutevole labirinto, dimentico di tutto fuorché della necessità di raggiungere l’obelisco. Sentì la mano appiccicosa e quando abbassò gli occhi si accorse di avere le dita sporche di sangue. Una freccia di fuoco l’aveva colpito sul polso. Senza curarsi della ferita, alzò gli occhi per osservare l’obelisco dritto davanti a lui. Uscì d’impulso da dietro la parete che l’aveva protetto e finì quasi addosso a un granchio. Per un attimo, la sorpresa lo paralizzò. Che ci faceva lì un granchio? Poi si accorse che non era un animale, gli assomigliava soltanto. Aveva il corpo tondo e piatto come quello di un granchio, le stesse zampe articolate, ma era interamente di metallo, senza traccia di carne o di fusione tra animato e inanimato. Non ebbe il tempo di riflettere. Il granchio cercò di afferrarlo con le zampe flessibili, e lui lo colpì con il fuoco magico. Il granchio si rizzò sulle zampe e ricadde sul dorso agitando le zampe, mentre un filo di fumo si levava dal suo interno. Walker gli diede un’occhiata mentre lo superava: era tutto di metallo, come gli era parso fin dall’inizio. Guardandosi attorno, ne vide arrivare un secondo e un terzo e un quarto, e puntavano su di lui. “Cani di metallo!” La visione di Ryer Ord Star si stava avverando pezzo per pezzo: il labirinto, le lingue di fuoco, i cani di metallo. Un incubo che avrebbe distrutto il loro gruppo se non avesse trovato il modo di fermarlo. Si abbassò per evitare un altro fascio di fuoco, attraversò un’apertura tra due pareti in movimento e raggiunse la porta dell’obelisco. Dietro di lui regnava il caos. Udiva grida, rumore di metallo che sfregava contro il metallo, il crepitio delle lingue di fuoco, il rimbombo delle esplosioni. Vedeva il lampo caratteristico della spada di Quentin Leah. Sentiva il sapore della magia e l’odore del fumo. I suoi compagni erano attaccati e lui non faceva nulla per aiutarli. “Presto! Entra nella torre!” Scorse le fenditure per le chiavi in una placca di metallo accanto alla porta. In pochi istanti le tirò fuori dalla veste e le inserì nelle fessure. Le chiavi entrarono senza difficoltà e alcune luci si accesero sulla porta di metallo scuro, che si aprì per farlo passare. Walker si affrettò a entrare, mentre i granchi metallici stavano già per raggiungerlo, e la porta si chiuse alle sue spalle. Per un attimo non vide nulla nell’oscurità e attese che i suoi occhi si abituassero. Per prime scorse le lampade, alcune fisse e altre intermittenti, alcune rosse, altre verdi o gialle. Ce n’erano centinaia, davanti a lui, e parevano minuscole braci scintillanti nel buio. Quando riuscì a distinguere il pavimento e le pareti e il soffitto a sufficienza per procedere, Walker si avviò verso le luci. I controlli dei fili di fuoco e dei granchi meccanici dovevano essere lì. Era un regno di macchine, e le macchine della torre dovevano controllare quelle del labirinto. Disattivandone una si sarebbero disattivate anche le altre. Fu il suo ultimo pensiero prima che il pavimento si aprisse sotto di lui. Walker cadde nel vuoto.
31 Rue Meridian si svegliò quando sbatté con la testa contro la paratia del ripostiglio nella stiva di prua. Cercò di spostarsi e scoprì di essere inchiodata al pavimento da un peso morto. Il peso era costituito da Furl Hawken, privo di conoscenza e steso sul suo petto. Il vento ululava come un gatto scottato dall’olio bollente e la nave si impennava e rollava sotto le raffiche. Era scoppiata una tempesta, di quelle violente, per di più. A ogni sussulto della nave, lei veniva scagliata contro la paratia. Torcendosi e divincolandosi, si liberò di Hawk e si mise seduta, con la schiena contro la parete. Per qualche istante non riuscì a ricordare cos’era successo. Perché si trovava sottocoperta, in uno dei ripostigli? Stava montando un nuovo tubo radiante, aiutata da un corsaro, quando si era levato un dolce vento che l’aveva cullata come sua madre quando era bambina. E l’aveva fatta addormentare, pensò irritata, cominciando a capire cos’era successo. Si alzò e attraversò il ripostiglio, barcollando. Provò a muovere la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. Prevedibile, pensò con una smorfia. I Corsari erano prigionieri o morti, e probabilmente era stata la Strega di Ilse a sopraffarli. In qualche modo era riuscita a raggiungerli senza essere vista, li aveva addormentati con la sua magia e li aveva chiusi sottocoperta. Oppure, peggio ancora, non era stata la Strega ma l’entità che Walker era andato a cercare nell’entroterra. Ma era davvero peggiore, questa seconda ipotesi? Si massaggiò la testa nel punto dove aveva battuto contro la parete, e si chiese quanti colpi aveva dovuto prendere prima di svegliarsi. Troppi, concluse, sentendo il dolore estendersi dalla testa alla nuca e al collo. Si guardò attorno. Il ripostiglio era vuoto, a parte Hawk e lei. Gli altri erano in qualche altra stanza. Contro la parete erano accatastate varie casse, ma contenevano vele-luce, valvole di Parse e altri pezzi di ricambio. Né armi né attrezzi su cui contare per uscire. Guardò in basso sperando di vedere la spada e i coltelli da lancio, pur sapendo che dovevano averglieli tolti. Provò a cercare nello stivale, ma anche il pugnale era sparito. Chi l’aveva chiusa nel ripostiglio era stato abbastanza intelligente da perquisirla prima di rinchiuderla. Anche Hawk doveva essere stato disarmato. Non sarebbe stato facile uscire. Ma, naturalmente, ce l’avrebbe fatta. Little Red non ebbe alcun dubbio. Non era nella sua natura fermarsi davanti alle difficoltà. Non disperò e non si lasciò prendere dal panico. Era una corsara e fin dall’infanzia le era stato insegnato che i Corsari dovevano badare a se stessi perché nessuno l’avrebbe fatto al posto loro. Era chiusa in un ripostiglio della sua stessa nave e toccava a lei liberarsi. Sapeva già che sarebbe uscita. Qualcuno aveva commesso un grave errore pensando che non ci riuscisse. Qualcuno l’avrebbe pagata cara, per averla messa lì dentro. Un’improvvisa scossa della nave la scagliò barcollante contro una parete, e per poco non la fece cadere. Stava succedendo qualcosa di brutto e lei doveva salire in coperta subito, per scoprire di cosa si trattava. Coloro che l’avevano chiusa nel ripostiglio non parevano molto in grado di
governare la nave. Se c’era una tempesta, ci volevano dei buoni marinai per salvare laJerle Shannara. Per un istante le vennero in mente le colonne di ghiaccio della Macina, le scogliere verticali attorno a loro,
e sentì un nodo allo stomaco. Si chinò su Furl Hawken e lo scosse. «Sveglia, Hawk!» gli mormorò all’orecchio, tenendo la voce bassa in modo da non farsi udire da un’eventuale sentinella fuori della porta, anche se il frastuono della tempesta copriva ogni rumore. Cominciò a schiaffeggiarlo. «Sveglia!» L’uomo aprì le palpebre e brontolò come un orso. Lentamente, rotolò su un fianco e si prese la testa tra le mani. «Chi mi ha colpito?» chiese mettendosi seduto. «Mi sento ancora rintronare.» La nave sobbalzò, costringendolo ad appoggiarsi al pavimento. «Per tutti gli spiriti!» «Alzati» gli disse lei, tendendogli la mano. «Ci hanno addormentati e chiusi qui dentro e la nave è in mano a incompetenti. Dobbiamo fare qualcosa.» L’uomo si alzò faticosamente in piedi, appoggiandosi a lei mentre la nave veniva sballottata dal vento. «Dov’è Big Red?» «Non lo so. Da qualche altra parte.» Rue Meridian non si era ancora soffermata a pensare a quello che poteva essere successo al fratello. Dovevano averli separati per neutralizzarli meglio. Probabilmente l’ avevano chiuso in qualche altro ripostiglio. Vivo, però. Non voleva neppure prendere in considerazione l’ altra possibilità. Tornò ad accostarsi alla porta e appoggiò l’orecchio contro il legno per cogliere eventuali rumori, ma sentì solo l’ululato del vento, il sibilo delle vele e lo sbatacchiare di qualche oggetto che non era stato fissato bene. Si sedette con la schiena contro la parete e si sfilò uno stivale. Nel tacco, infilato nel cuoio, c ’era un uncino di metallo. «Vedo che non hanno trovato tutto» ridacchiò Hawk, avvicinandosi a lei. Rue Meridian tornò a infilarsi lo stivale e si alzò. «E su di te hanno trovato tutto?» L’uomo si tastò sotto il braccio sinistro, trovò una piccola apertura nella cucitura della giubba di pesante cuoio e ne trasse una lama lunga e sottile. «Pare di no» rispose. «Quanto basta per procurarci qualche arma vera, se avremo fortuna.» «Siamo Corsari, Hawk» rispose lei, cominciando a scassinare la serratura. «La fortuna ce la facciamo da soli.» In ginocchio accanto alla porta, cominciò a far girare l’uncino nella toppa. La serratura era nuova e ben oliata, in meno di un minuto cedette e la porta si aprì. Rue Meridian la schiuse leggermente ed esaminò il corridoio. In fondo si scorgeva solo una sagoma massiccia, appoggiata alla parete e girata a guardare su per la scala che portava sul ponte. Little Red chiuse di nuovo la porta. «Una sola guardia, ma grossa. Non capisco chi o che cosa è. Dobbiamo passarle davanti, però. Te ne occupi tu o ci penso io?» Furl Hawken serrò con forza il pugnale. «Ci penso io, Little Red. Tu pensa agli altri.» Si scambiarono un’occhiata. «Fa’ attenzione, Hawk» gli raccomandò. Uscirono in punta di piedi nel corridoio in penombra e si mossero senza fare rumore. Furl Hawken si diresse verso la guardia. LaJerle Shannaracontinuava a sobbalzare nella tempesta, il vento soffiava così forte che la guardia pareva incapace di pensare ad altro. Dal ponte giunse uno schianto, probabilmente un pennone che era caduto. La guardia scrutava su per la scala,
paralizzata. Rue Meridian esaminò le
porte più vicine, solo due. Dietro la più piccola c’erano barili d’acqua e di birra: non c’era posto per prigionieri, lì dentro. Nel ripostiglio accanto erano conservate vettovaglie. Poteva esserci qualcuno, ma i prigionieri dovevano essere nei ripostigli più grandi, a poppa. “Ancora pochi passi” pensava Rue Meridian, osservando Hawk che si muoveva cauto, quando il boccaporto si aprì e una figura bagnata di pioggia cominciò a scendere la scala. Il nuovo venuto vide subito i due corsari. Lanciò un grido di avvertimento alla guardia e si affrettò a tornare indietro. La guardia si girò all’istante verso Furl Hawken, una corta spada nella mano munita di artigli. Hawk si gettò contro di essa e Rue Meridian udì l’impatto dello scontro. Per un attimo scorse la faccia da rettile della guardia, coperta di scaglie, e pensò: “Un Mwellret!”. L’altro uomo, a giudicare dall’ uniforme, era invece un soldato della Federazione. Sentì un nodo allo stomaco. Lei e Hawk non erano in grado di affrontare i Mwellret. Doveva impedire al soldato che era scappato di avvertire gli altri. D’impulso, inseguì l’uomo, passando davanti a Hawk e al Mwellret. Salì di corsa gli scalini e giunse sul ponte, in mezzo alla tempesta. Il vento soffiava con una forza tale da strapparle i vestiti di dosso, la pioggia la bagnò in pochi istanti. La nave sobbalzava sotto il fortunale, con le vele-luce abbassate e i tubi radianti scollegati, come era giusto in quelle condizioni, ma per qualche motivo andava alla deriva in balia della confusione. Little Red vide tutto questo in un batter d’occhio mentre inseguiva il soldato. Lo raggiunse dopo pochi passi, sotto la cabina del pilota, dove un secondo soldato cercava di manovrare i comandi, e gli saltò sulla schiena, facendolo rotolare lungo il ponte fino a ridosso dell’albero di trinchetto. Il soldato cercava così disperatamente di fuggire che non ebbe neppure la presenza di spirito di estrarre le armi. Lo fece lei al posto suo, afferrando il lungo pugnale che portava alla cintura e piantandoglielo nel petto. Lo lasciò a esalare gli ultimi respiri e balzò in piedi. Il soldato della Federazione nella cabina di pilotaggio gridava aiuto, ma Rue Meridian non osò farlo tacere. Se l’avesse ucciso, la nave sarebbe stata completamente fuori controllo. Il vento copriva le grida dell’uomo, e Little Red si augurò che nessuno la udisse. Si diresse a poppa. Senza una corda di sicurezza cui legarsi, era costretta a tenere bassa la schiena e ad afferrarsi a ogni possibile appiglio. In mezzo alla nebbia e alla pioggia, vedeva le pareti grigie del canale e non molto lontano si udivano le colonne di ghiaccio della Macina cozzare l’una contro l’altra. Dopo un istante si imbatté in un altro Mwellret. Emerse da dietro l’albero con un grosso rotolo di corda. Incespicava e barcollava per i sussulti della nave, ma gettò a terra la corda, sfoderò un lungo coltello e si precipitò subito verso di lei. Rue Meridian cercò di scansarsi. Il rettile era assai più forte di lei; se l’avesse afferrata, non sarebbe più riuscita a sfuggirgli, a meno di non ucciderlo, e non era sicura di riuscirci. Ma non poteva scappare da nessuna parte. Si appoggiò allora al parapetto di dritta, poi si girò a fronteggiarlo. L’avversario correva verso di lei alla cieca. Lei aspettò che lo slancio lo portasse vicino, si lasciò cadere a terra e gli fece lo sgambetto. Il Mwellret prese l’equilibrio, sbatté contro il parapetto e, a un improvviso sobbalzo della nave, finì fuori bordo. “Questo è stato facile” pensò con la testa che le girava, sopprimendo un folle bisogno di ridere.
“Avanti il prossimo!” Il suo desiderio venne realizzato non appena si rimise in piedi. Due di quelle creature uscirono dal boccaporto di poppa e vennero verso di lei.
“Per tutti gli spiriti!” Rue Meridian rimase per un attimo interdetta, chiedendosi cosa fare. Aveva solo un lungo coltello, un’arma insufficiente per affrontare due Mwellret. Indietreggiò lungo il parapetto per guadagnare tempo e pensare a un modo di scendere sottocoperta per liberare il fratello e gli altri, ma i due rettili capirono le sue intenzioni e si allargarono per bloccare quel tentativo. Un istante più tardi, Furl Hawken uscì dal boccaporto di prua, coperto di sangue e gridando come un ossesso. Con la spada corta di un Mwellret in una mano e il suo pugnale nell’altra, si lanciò a testa bassa contro i due rettili che attaccavano Little Red. Le due creature si girarono verso di lui, ma furono troppo lente e incerte. Il massiccio corsaro buttò a terra il primo rettile, poi si catapultò sul secondo, piantandogli il pugnale nel petto. Rue Meridian corse subito verso il boccaporto. Hawk le aveva fatto guadagnare i preziosi secondi di cui aveva bisogno. Saltando gli ostacoli e scivolando sul ponte battuto dalla pioggia, arrivò alla scala, ma solo per vedere un altro Mwellret uscire in quel momento ad affrontarla. Questa volta non poteva fuggire. Il rettile le fu addosso in un istante e cercò di colpirla alla testa con la spada. Little Red riuscì a evitare il colpo, ma scivolò a terra, agitando inutilmente le braccia. Un improvviso sobbalzo della nave la salvò, e la spada del rettile si piantò nel legno del ponte. Si rimise in piedi e, mentre l’avversario si sforzava di estrarre la spada, gli piantò il coltello nel fianco. Con un sibilo, il Mwellret lasciò l’arma e afferrò Rue Meridian per il collo. Finirono tutt’e due a terra, e Little Red si sentì soffocare. Cercò di recuperare il coltello, ma l’ impugnatura era finita sotto il mantello di cuoio del rettile. Cominciò a scalciare e a lottare contro le mani che la stringevano, sferrò pugni, si dibatté come una gatta selvatica, ma non riuscì a liberarsi. Aveva già una macchia nera davanti agli occhi, le sue forze si affievolivano, sulla faccia sentiva il fiato del Mwellret, la sua puzza rivoltante. Brancolando alla ricerca di un’arma, trovò l’uncino che si era infilata in tasca quando aveva lasciato il ripostiglio. Lo prese e lo cacciò nell’occhio del rettile. Il Mwellret lanciò un urlo di dolore e si tirò indietro, lasciando la presa. Libera, lei si allontanò dal nemico, che barcollava tenendosi le mani sull’occhio. Con entrambe le mani e la poca forza che le rimaneva, la donna estrasse dal legno la spada del rettile e gliela piantò nella pancia. Sporca di sangue, fradicia di pioggia e con i lunghi capelli rossi incollati sul viso, Rue Meridian cadde in ginocchio e riprese fiato. La pioggia infuriava a rovesci, il vento ululava e soffiava, la nave ondeggiava e saltava come un organismo vivente. Little Red sentiva il ponte vibrare e scricchiolare come se stesse per spaccarsi. Uno schianto le fece alzare di scatto la testa. Un pennone spezzato dal vento era caduto sulla cabina del pilota. Il soldato della Federazione che era ai comandi fu schiacciato dalla massa di legno e metallo. La Jerle Shannaravolava senza controllo. Un attimo dopo, Little Red scorse Furl Hawken. Semisepolto sotto i rottami, il corsaro era steso sul cadavere di un Mwellret e vicino a un altro. Sanguinava da una decina di ferite, la sua faccia era una maschera di sangue. Aveva un pugnale piantato nella schiena e una spada nel fianco, ma impugnava ancora la spada e la guardava, gli occhi azzurri fissi e vacui. Sembrava fissare, attraverso di lei, qualcosa che solo lui riusciva a vedere. La donna soffocò un singhiozzo e pensò: “No, Hawk!” con gli occhi pieni di lacrime. Si alzò in piedi e corse verso di lui, pur sapendo che era troppo tardi ma rifiutando la realtà. Poi il
Mwellret che giaceva accanto a Hawk si voltò lentamente verso di lei. Aveva il muso sporco di sangue e gli occhi velati, ma la guardò con odio. Si alzò in piedi a fatica, strappò il pugnale dalla schiena di Hawk e si diresse verso di
lei. Rue Meridian indietreggiò, alla ricerca di un’arma, e, quando inciampò nel corpo del rettile da lei ucciso, afferrò la spada con cui l’aveva colpito e si volse ad affrontare il Mwellret. «Vieni a prendermi, rettile!» lo sfidò, tra le lacrime e la collera e un dolore insopportabile. Il Mwellret non disse nulla e si avvicinò guardingo. Rue Meridian si accucciò per non perdere l’equilibrio e contrastare il rollio della nave. Rimpianse di non avere i suoi coltelli da lancio. Forse, se li avesse avuti, avrebbe potuto uccidere il rettile prima che si avvicinasse, ma ora doveva servirsi della spada, non aveva il tempo di cercare i compagni e nessuno cui rivolgersi per farsi aiutare. Tutto dipendeva da lei. Se fosse morta, anche gli altri sarebbero morti. Anzi, forse erano già perduti, date le condizioni della nave. “Come Hawk.” Il Mwellret le fu addosso prima che lei se ne rendesse conto, un’enorme sagoma scura. Aveva mascherato le sue mosse dietro un fischio ipnotico che l’aveva distratta facendole perdere per alcuni secondi il senso del pericolo. Furono le lacrime a salvarla: con la spada puntata davanti a sé, mosse il polso per asciugarsi gli occhi e in quel momento vide il Mwellret e senza pensare sferrò un colpo. La lama scivolò sotto il braccio del rettile, alzato per colpire, e gli si piantò nel fianco. La creatura cadde su di lei e cercò di colpirla al petto. Rue Meridian deviò il colpo, ma la lama le ferì il braccio e la coscia. Urlò e afferrò il braccio del rettile, per impedirgli di colpirla una seconda volta. Stretti in un corpo a corpo rotolarono lungo il ponte, ciascuno dei due cercando di afferrare l’altro con la presa decisiva. La lotta era pari, perché il Mwellret era più forte, ma ferito e indebolito dalla perdita di sangue. Non trovando altre armi, il Mwellret cominciò a usare le unghie, stracciando la tunica di Rue Meridian e graffiandole la pelle. Lei urlò di dolore e di rabbia e indietreggiò. Sbatterono entrambi contro l ’albero, il rettile perse la presa e Little Red riuscì a liberarsi di lui con un calcio. Tuttavia il Mwellret riuscì ancora ad afferrarla per la caviglia mentre lei si allontanava carponi. La donna colpì il rettile con l’altro piede. La nave s’inclinò per un’improvvisa raffica di vento e tutt’e due rotolarono verso il parapetto. Un pennone rallentò la loro corsa, ma cedette sotto il loro peso combinato. In un groviglio di gambe, braccia e legno scheggiato, sbatterono contro il parapetto che, già danneggiato da urti precedenti, cedette sotto il colpo. La donna vide l’apertura e cercò freneticamente di gettarsi di lato. Non fu abbastanza svelta. In un attimo, Rue Meridian e il Mwellret scivolarono attraverso l’apertura e scomparvero nel vuoto. Priva di equipaggio e fuori controllo, con il ponte pieno di cadaveri e rottami, laJerle Shannararuotò lentamente su se stessa e cominciò a muoversi lungo il fiume, in direzione delle colonne di ghiaccio della Macina.
32 Bek era accanto a Ryer Ord Star quando era iniziato l’attacco contro Walker, ed era così vicino a lei da sentirla trattenere bruscamente il fiato quando il primo fascio di fuoco cercò di colpire il druido. La veggente barcollò, le sfuggì dalle labbra un grido acuto, poi si lanciò nel labirinto. Il ragazzo, stupito da quella inattesa reazione, rimase immobile, e fu uno dei tre Cacciatori Elfi a rincorrere la giovane donna. Gli altri due presero Bek per le braccia e lo tirarono indietro mentre lui lottava per liberarsi. Walker si era gettato a terra e dalle sue mani sprizzava il fuoco magico, che colpiva e neutralizzava i fori
da cui saettavano i raggi di fiamma. A destra e a sinistra del ragazzo, alcuni esploratori degli altri due gruppi sguainarono la spada e corsero ad aiutare il druido, lanciando il grido di battaglia. Poi i raggi di fiamma scaturirono anche dalle pareti in mezzo a cui correvano gli Elfi, tagliando i loro corpi
privi di protezione e facendoli a pezzi. Inorridito, Bek vide un elfo sparire sotto un fuoco incrociato, mentre il sangue e brandelli del corpo schizzavano dappertutto. Urla di dolore squarciarono l’aria, mescolandosi al fumo e all’acre puzzo di carne bruciata. Mentre il fuoco cercava di colpirli con i letali fili rossi, gli aspiranti soccorritori del druido si appiattirono sul pavimento metallico e strisciarono rapidamente dietro i muri. Bek vide uno dei raggi colpire Ryer Ord Star e farla cadere contro una parete, dove si afflosciò come un mucchio di stracci. L’elfo che la inseguiva era a una decina di passi, tagliato in due. Walker si era rialzato e gridava qualcosa verso di loro, ma le sue parole si perdevano nel tumulto. Senza aspettare la loro risposta, il druido proseguì, spettrale nella nebbia, continuando a lanciare la sua magia contro le sorgenti dei raggi di fiamma nel tentativo di raggiungere l’obelisco. Bek, disperato, si rivolse agli elfi che lo tenevano per le braccia. Con stupore vide che uno dei due era Kreshen, la cercatrice di piste. «Dobbiamo raggiungerlo!» le disse, cercando di nuovo di liberarsi. «Ci ha detto di rimanere qui» gli rispose lei con calma, gli occhi grigi fissi sul labirinto. «Andare laggiù è un suicidio.» Un rumore metallico sulla sinistra richiamò la loro attenzione. Dai bassi edifici che avevano sorpassato poco prima stava uscendo uno sciame di forme basse simili a ragni, e si dirigeva verso i superstiti del gruppo di Quentin e Panax. «Granchi» mormorò Kreshen. Bek rabbrividì. Gli elfi non sarebbero riusciti a sopravvivere contro di essi. Lo stesso Quentin, con la magia della sua spada, avrebbe incontrato difficoltà a fermarne tanti. Un labirinto senza uscita, le lingue di fuoco e adesso i cani di metallo: l’orrenda visione di Ryer Ord Star si era realizzata. «Usciamo di qui» disse Kreshen, tirandolo nella direzione da cui erano giunti. «Aspetta!» la interruppe Bek. Indicò il labirinto, dove Ryer Ord Star cercava di alzarsi in piedi. «Non possiamo abbandonarla! Dobbiamo aiutarla!» Spinta dal vento, una nube di fumo arrivò fino a loro. Kreshen fissò Bek per un istante, poi lo affidò al compagno. «Aspettate qui.» Corse senza esitazione nel labirinto, inseguita dai fili di fuoco. Per due volte si lanciò rotolando sotto i fili, e una volta saltò dietro un muretto appena un attimo prima che un raggio colpisse il punto dov’era passata. Ryer Ord Star si era rizzata sulle mani e sulle ginocchia, su un braccio le si allargava una macchia di sangue. Alla destra di Bek, altri granchi meccanici emergevano dalla penombra dirigendosi verso il gruppo di Ard Patrinell. Kreshen raggiunse Ryer Ord Star e la gettò a terra per evitare un raggio di fuoco. Poi, facendole tenere bassa la testa, la riportò indietro, nascondendosi dietro i muretti per evitare i raggi infuocati. “Non ce la faranno mai” pensò Bek. “Sono troppo lontane! Il fuoco è dappertutto.” Cercò la figura di Walker, ma il druido era scomparso. Il ragazzo non aveva visto dove fosse finito, non sapeva se era riuscito a raggiungere l’obelisco. Il centro del labirinto era invaso
dalla nebbia, da forme avvolte dal fumo, da improvvise esplosioni di fuoco rosso. Alla sua sinistra, la spada di Quentin lampeggiava ancora coraggiosamente; alla sua destra i ragni metallici sciamavano nel labirinto alla ricerca di Ard Patrinell, Ahren Elessedil e gli altri Cacciatori Elfi.
“Una trappola, era tutta una trappola” pensò Bek, la gola che bruciava per la rabbia e la frustrazione al pensiero delle occasioni perdute e delle decisioni sbagliate. Kreshen emerse dal fumo e dalla nebbia, al sicuro dalla ragnatela di fili di fuoco, portando con sé Ryer Ord Star. «Via, via!» gridò a Bek e al suo compagno, e tutti insieme si lanciarono attraverso le rovine della città. “Quentin!” gridò il giovane dentro di sé, senza poter fare nulla per il cugino. Avevano percorso una trentina di passi quando una coppia di granchi si parò davanti a loro. Davano l’ impressione di essere stati di guardia, ad attendere chiunque fosse riuscito ad arrivare fin lì. Erano emersi da una delle costruzioni basse e bloccavano il passaggio. Kreshen e il suo compagno balzarono subito alla difesa del giovane e della veggente. I granchi attaccarono, movendosi così velocemente da arrivare addosso agli elfi prima che potessero a difendersi. Kreshen riuscì a evitare il suo assalitore, ma l’altro elfo fu meno fortunato. Il granchio lo fece cadere, lo inchiodò sul terreno e con una delle chele di metallo gli staccò la testa. Bek vide tutto questo come in sogno: ogni movimento dell’elfo e del granchio gli parve durare in modo innaturale. La sua mente gli gridava di fare qualcosa, perché nessuno sarebbe venuto in loro aiuto. Paralizzato dall’orrore, vide l’elfo agitarsi inutilmente mentre le tenaglie del granchio facevano scaturire sangue dal suo collo. E in quel momento qualcosa scattò irresistibile impulso
dentro di lui. Dimentico di tutto ciò
che non era un
a reagire, Bek urlò. Una diga si ruppe e una collera, una disperazione, una frustrazione irresistibili lo attraversarono come un’onda torrenziale, liberando la sua magia, dandole vita e forza. Dura come l’ acciaio e affilata come un pugnale, la magia uscì da lui fulminea e attraversò i granchi come se fossero fatti di carta, facendoli immediatamente a pezzi e riducendoli in rottami. Avvolto in un alone di invincibilità, Bek sentiva solo l’euforia della propria magia. Un altro granchio comparve davanti a lui e lo distrusse con la stessa implacabile determinazione: la sua voce lo afferrò, lo sollevò e lo fece a pezzi che volarono lontano, simili a foglie portate via dal vento. Poi qualcosa lo tirò per una gamba, riportandolo indietro dall’inferno di ferocia in cui era finito. La sua voce si spense, riecheggiandogli negli orecchi, evocando visioni che gli lampeggiavano nella mente. Inginocchiata a terra, Ryer Ord Star lo tirava e lo fissava inorridita. «No, Bek, no!» gli diceva, come se glielo stesse ripetendo da tempo ma solo allora fosse riuscita a raggiungerlo. Lui la guardò senza capire, chiedendosi il perché di quel dolore e di quella disperazione. L’aveva salvata, no? Aveva trovato un altro impiego per la sua magia, aveva attinto a un potere superiore perfino a quello della Spada di Leah, forse addirittura a quello di Walker. Perché era così spaventata? Kreshen aiutò la veggente ad alzarsi e la affidò a Bek dicendogli: «Correte, adesso, e non guardatevi alle spalle». Ma Bek si voltò. Non poté farne a meno. E vide un incubo: nugoli di granchi meccanici,
fumo e fili di fuoco rosso. La visione di Ryer Ord Star li aveva inghiottiti tutti. I suoi occhi bruciavano per le lacrime. Nessuno poteva sopravvivere laggiù. Si udivano ancora grida ed esplosioni e scoppi di luce. Che ne era di Ard Patrinell, e di Ahren e di Panax? E di Quentin? Si rammentò della loro promessa: erano fratelli di spada, ciascuno doveva aiutare l’altro. Per le Ombre, dov’era finita quella promessa? «Corri, ti ho detto!» gli urlò Kreshen.
Bek obbedì, tuffandosi nella penombra con Ryer Ord Star aggrappata a un braccio che lottava per stare al passo. La giovane donna aveva ripreso a gemere per la disperazione, e Bek fu tentato di farla tacere. Una volta la guardò con quella intenzione, ma vide che correva a occhi chiusi e con una tale espressione di dolore da farlo rinunciare. Pensò alla magia che aveva scoperto. Un’eredità troppo grande, forse, un potere troppo forte. E nello stesso tempo il desiderio di provare di nuovo quell’ebbrezza, quella sensazione di onnipotenza. Un desiderio così intenso da farlo ansimare. Ne desiderava ancora, molta di più, prima di essere soddisfatto. Qualche istante più tardi il labirinto era alle loro spalle, le grida si spensero, e svanirono nell’oscurità e nella nebbia. Corsero a lungo, attraversando le rovine della città fino a tornare nella foresta, prima che Kreshen li facesse fermare in un bosco di querce, al riparo dalla pioggia. Piegati sulle ginocchia nella caligine e nell’ umidità, attesero che il cuore rallentasse i battiti. Accanto a lui, Ryer Ord Star si lamentava ancora a bassa voce, con gli occhi fissi nella distanza, come se guardasse qualche visione assai al di là del luogo dove si erano rifugiati. «Freddo e buio, fasce metalliche sul mio corpo, il vuoto tutt’intorno» mormorò, persa in qualche lotta interiore, dimentica di tutto ciò che la circondava. «E c’è una presenza qui, mi osserva…» «Ryer Ord Star» le sussurrò, chinandosi verso di lei. «Laggiù, dove il buio è più fitto…» «Mi senti?» chiese Bek, irritato. La giovane donna sobbalzò come se fosse stata colpita e sollevò le mani. «Walker! Aspettami!» Poi s’immobilizzò. Una strana calma scese su di lei. Si appoggiò all’indietro sui calcagni, le braccia incrociate sotto la veste, la schiena diritta, lo sguardo fisso nel vuoto. «Che cos’ha?» chiese Kreshen. Bek scosse la testa. «Non lo so.» Provò a passarle una mano davanti agli occhi, ma non ci fu nessuna reazione. La chiamò per nome, la scrollò per le spalle, ma non ebbe risposta. L’esploratrice e il giovane si guardarono impotenti, infine Kreshen sospirò e disse: «Io non ho rimedi per una condizione del genere. E tu, Bek? Sei una persona sorprendente. Riesci a fare qualcosa per lei?». Il giovane scosse la testa. «Temo di no.» Kreshen si passò una mano tra i corti capelli neri e lo fissò con attenzione. «Aspetta a parlare. Quello che è accaduto con quei granchi meccanici mi fa pensare che tu sia qualcosa di più di un comune mozzo.» Fece una pausa. «Magia, vero?» Bek annuì con espressione stanca. Ormai era inutile nasconderlo. «L’ho scoperto da poco. Su Mephitic sono stato io a trovare la chiave. Era la prima volta che la usavo. Ma non sapevo di
poter fare cose del genere.» Indicò vagamente nella direzione delle rovine, dei granchi che aveva distrutto. «Forse Walker lo
sapeva e l’ha tenuto segreto. Ho l’impressione che Walker conosca su di me un mucchio di cose che tiene segrete.» Kreshen si appoggiò sui calcagni e scosse la testa. «Druidi!» commentò. «Mi chiedo se è ancora vivo.» «Mi chiedo se uno solo di loro lo sia» commentò Bek, con la voce incrinata. La donna si alzò lentamente in piedi. «C’è un solo modo per scoprirlo. Comincia a fare buio. Io posso muovermi con maggiore sicurezza, una volta che la luce è scomparsa. Ma tu dovrai stare con lei» aggiunse, indicando Ryer Ord Star. «Te la senti?» Bek annuì. «Però preferirei venire con te.» Kreshen si strinse nelle spalle. «Anch’io, dopo avere visto come hai ridotto quei granchi. Ma non possiamo lasciarla sola. » «No» convenne lui. «Tornerò appena posso.» Si alzò in piedi e indicò un punto sulla sinistra. «Passerò attraverso gli alberi e arriverò alle rovine da un’altra direzione. Tu aspetta qui. Se qualcuno esce dal labirinto, è probabile che venga da questa parte e che tu lo veda. Ma fa’ attenzione a riconoscere bene chi arriva, prima di farti vedere.» Lo studiò per un momento, poi aggiunse: «E non avere paura di usare il tuo nuovo potere, se ce n’è bisogno». «Certo.» Gli rivolse un ultimo sorriso, poi sparì tra gli alberi. La sera giunse molto presto, l’ultima luce del giorno svanì e sotto gli alberi scese il buio. Il cielo era nascosto da nubi e nebbia, e la pioggia riprese a cadere. Bek condusse Ryer Ord Star sotto la chioma di un antico noce, al riparo dalla pioggia. Lei si lasciò portare senza mostrare di accorgersene, lontana da lui e da tutto, come se la presenza di Bek non facesse alcuna differenza. Eppure la faceva, pensò il giovane. Senza di lui, era alla mercé di chiunque la trovasse. Non era in grado di difendersi, e neppure di fuggire. Era completamente inerme. Si chiese come mai si fosse resa così vulnerabile, che cosa l’avesse spinta a isolarsi in quel modo. Aveva infatti l’impressione che l’avesse voluto. Forse c’era di mezzo Walker, perché tutto quello che la veggente faceva era legato al druido. Era in collegamento con lui, in quel momento, come Bek lo era stato per pochi momenti su Shatterstone? Quel contatto, però, durava da molto tempo. Erano ormai parecchie ore che la veggente non parlava e non reagiva. La osservò per qualche istante, poi perse interesse e si mise a tener d’occhio il sentiero, augurandosi di veder comparire dall’oscurità qualche compagno. Non potevano essere morti tutti, si diceva. Non Quentin, che era protetto dalla Spada di Leah. Venne assalito da una profonda amarezza. Chi credeva di illudere? Con tutti i fasci di fuoco e i granchi di metallo che aveva visto, sarebbe stato necessario un esercito di Cacciatori Elfi per uscire da quelle rovine. Forse neppure la magia del druido era stata sufficiente. Si appoggiò al tronco dell’albero e sentì la Spada di Shannara premere contro la sua schiena. Si era dimenticato di averla. Nella fuga dai raggi di fuoco e dai granchi, non aveva pensato di usarla come arma, anche se non capiva cosa avrebbe potuto farne. Non gli pareva che
la sua magia potesse risultare molto
utile. La verità. A che serviva la verità contro il fuoco e il metallo? Poteva essere utile come arma, certo, ma non contro quel tipo di nemico. Scosse la testa. “La più potente magia che esiste al mondo” gli aveva detto Walker, ma lui non riusciva a utilizzarla. Fino ad allora, la sua arma migliore era stata la magia della voce. Se solo fosse riuscito a capirne le possibilità e a controllarla meglio… Non terminò il pensiero, perché faceva affiorare dubbi e timori che non riusciva a individuare bene. Nell’ uso di quella magia c’era un pericolo, indefinibile ma reale. Non si fidava. Era seducente, ma il suo fascino aveva qualcosa di ingannevole. Ciò che creava una simile euforia e generava una tale dipendenza aveva certamente un prezzo, anche se Bek non sapeva di che natura. Cominciava a fare freddo e Bek rimpianse di avere perso il mantello durante la fuga. Osservò Ryer Ord Star, poi si chinò su di lei per avvolgerla meglio nelle vesti. La giovane rabbrividiva, anche se non se ne accorgeva, e Bek la strinse contro di sé per riscaldarla. Cos’avrebbero fatto, se Kreshen non avesse trovato superstiti? E se non fosse tornata? Bek chiuse gli occhi per non cedere ai dubbi e alle paure. Forse si addormentò per la stanchezza, esausto dagli eventi di quella giornata, perché la cosa successiva di cui si accorse fu l’avvicinarsi di qualcuno. Non fu il rumore dei passi a farlo destare, ma la percezione della vicinanza di un estraneo. Sollevò la testa che aveva appoggiato a una spalla della veggente e scrutò nell’oscurità, battendo gli occhi. Nulla si muoveva, ma c’era qualcosa, ancora lontano, ma veniva proprio verso di loro. E non arrivava dalla direzione delle rovine, bensì da quella dellaJerle Shannara. Si staccò dalla veggente e si alzò in piedi, tendendo l’orecchio. La notte era silenziosa, a parte il tamburellare delle gocce che cadevano sulle foglie. Fece per prendere la Spada di Shannara, ma dopo un istante abbassò la mano e si limitò a spostarsi di lato, immergendosi più profondamente nell’ombra. Sentiva la presenza del nuovo venuto come un’aura di calore o di luce. La sentiva come sentiva la propria pelle. Una figura avvolta nel mantello si materializzò all’improvviso davanti a lui, simile a uno spettro. Era una figura minuta, e il ragazzo non riuscì a identificarla. Si avvicinò senza rallentare, avvolta nel mantello col cappuccio: un mistero in attesa di essere svelato. Bek la guardò affascinato, incapace di decidere cosa fare. Una mano uscì dalla veste della figura e si tese verso Ryer Ord Star. «Dimmi cos’è successo» bisbigliò una voce femminile, delicata ma sicura di sé. «Perché sei qui? Avevi ordine...» Poi scorse Bek. Colta di sorpresa, s’irrigidì e abbassò la mano. Il giovane ebbe l’impressione che la sua presenza l’avesse sconcertata. «Chi sei?» gli chiese. Non c’era alcuna amicizia nella sua voce, non c’era traccia della precedente delicatezza. In un istante, l’ atteggiamento della donna era cambiato, e non in meglio. Ma il giovane sentì qualcosa di familiare, un legame così forte da non poter essere ignorato. La fissò, e capì subito chi era. «Chi sei?» ripeté la donna. La certezza del riconoscimento lasciò
Bek senza fiato. Gli anni svanirono come neve al sole e
nella sua mente affiorò un caleidoscopio di ricordi. In gran parte se n’era dimenticato finché non erano ricomparsi quando aveva usato la Spada di Shannara. In quei ricordi, lei lo teneva in braccio e correva attraverso il
fumo e le fiamme, in mezzo alle grida. Poi lo nascondeva in un luogo stretto e buio, per sottrarlo alla morte che li circondava. Anche lei, allora, era una bambina, in un luogo e in un tempo che Bek ricordava solo vagamente. «Grianne» rispose, pronunciando per la prima volta il suo nome, dopo tanti anni. «Sono io, Grianne. Sono tuo fratello.»