ARNALDUR INDRIÐASON LA SIGNORA IN VERDE (Grafarþögn, 2001) 1 Appena prese l'osso dalle mani della bimba, che era seduta ...
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ARNALDUR INDRIÐASON LA SIGNORA IN VERDE (Grafarþögn, 2001) 1 Appena prese l'osso dalle mani della bimba, che era seduta per terra e lo masticava, si accorse che era umano. La festa di compleanno era giunta al culmine e il chiasso si era fatto insopportabile. Il ragazzo delle consegne a domicilio era arrivato con le pizze e se n'era andato, i bambini si erano ingozzati e avevano bevuto bibite gasate senza mai smettere di urlare. Poi si erano alzati da tavola tutti insieme, come in risposta a un segnale convenuto, ed erano corsi via di nuovo, alcuni armati di pistole e mitragliette giocattolo, i più piccoli con macchinine o dinosauri di plastica. Non riusciva a capire a cosa giocassero. Per lui erano solo strepiti; una gran confusione, insomma. La madre del festeggiato era impegnata a preparare i pop-corn nel forno a microonde. Gli disse che per calmare un po' i ragazzi voleva provare ad accendere la televisione e infilare una cassetta nel videoregistratore. Se non avesse funzionato, li avrebbe spediti fuori. Era la terza volta che festeggiava l'ottavo compleanno di suo figlio e aveva i nervi a fior di pelle. Tre feste di compleanno una dietro l'altra! Prima erano andati a mangiare fuori con tutta la famiglia in un locale carissimo dove suonavano musica rock da spaccare i timpani. Poi c'era stata la festa con parenti e amici, un ricevimento degno di una prima comunione. Quel giorno, invece, il bambino aveva invitato i compagni di scuola e gli amichetti del quartiere. La donna aprì il forno a microonde, estrasse il sacchetto gonfio di popcorn, ce ne infilò un altro e pensò che in futuro avrebbe semplificato le cose. Una festa sola e basta. Come quando era piccola lei. Quel giovanotto sul divano, muto come una tomba, non l'aiutava di certo. Aveva cercato di chiacchierare, ma poi ci aveva rinunciato e, anzi, trovava stressante averlo nella stessa stanza. Parlare con lui era impensabile; il fracasso dei bambini era tale che alla fine aveva desistito. Non si era nemmeno offerto di aiutarla. Si limitava a stare seduto e a fissare un punto davanti a sé senza dire una parola. La timidezza lo uccide, pensò la donna. Non l'aveva mai visto prima. Doveva avere circa venticinque anni, il fratellino era stato invitato alla festa da suo figlio. I due avranno avuto quasi vent'anni di differenza. Era molto magro; sulla porta le aveva stretto la
mano con le dita lunghe e il palmo umido e reticente. Era venuto a prendere il fratello, ma il piccolo non ne voleva sapere di tornare a casa perché la festa era in pieno svolgimento. Così aveva deciso di entrare un attimo. Finirà presto, gli aveva detto lei. I suoi genitori abitavano nel condominio in fondo alla strada, ma erano all'estero, quindi nel frattempo doveva badare lui al fratellino; normalmente abitava in affitto in centro, le spiegò. Esitava imbarazzato sulla soglia. Il bambino, intanto, si era lanciato di nuovo nella mischia. Adesso stava seduto sul divano e guardava la sorellina del festeggiato, una bimba di un anno, che gattonava sul pavimento davanti alla loro stanzetta; era vestita di bianco, con un fiocco in testa, e di tanto in tanto emetteva dei gridolini, come se stesse parlando da sola. Maledisse mentalmente suo fratello. Non era a suo agio seduto in quella casa sconosciuta. Si chiese se doveva offrirsi di dare una mano. La donna gli aveva detto che suo marito avrebbe lavorato fino a tardi. Lui aveva annuito, cercando di sorridere. Quando lei gli propose Coca-Cola e pizza, declinò l'offerta. Notò che la bambina era seduta e teneva stretto una specie di giocattolo che mordicchiava sbavando copiosamente. Sembrava che avesse le gengive irritate, forse stava mettendo i denti, pensò. Andò verso di lui a gattoni con quell'affare in mano e il giovane si chiese cosa fosse. La piccola si fermò, si girò a sedere sul pannolino e lo guardò a bocca aperta. Un filo di saliva le scendeva sul bavaglio. Si infilò il giocattolo in bocca, fra le gengive sdentate, e gattonò di nuovo verso di lui. Poi cominciò a piangere, così il giocattolo le cadde di bocca; lo ritrovò con una certa difficoltà, raggiunse il giovane, si aggrappò al bracciolo del divano e rimase in piedi accanto a lui, traballante ma determinata. Lui le prese il giocattolo e lo osservò. La bambina lo guardò confusa e si mise a strillare con tutte le sue forze. Non ci mise molto a capire che stava tenendo in mano un osso umano, lungo dieci centimetri; una costola, quindi. Nel punto in cui si era rotto era biancastro e consunto, le estremità non erano più aguzze e dentro la frattura si vedevano piccole chiazze brune, come di terra. Sospettò che fosse parte di una costola e si rese conto che doveva avere parecchi anni. La madre sentì la bimba strillare, diede un'occhiata in soggiorno e la vide in piedi accanto al divano e al giovane sconosciuto. Posò la ciotola dei popcorn e le si avvicinò, la prese in braccio e guardò il ragazzo che non pareva prestare attenzione né a lei né alla figlia in lacrime.
«Cos'è successo?» chiese la donna preoccupata, cercando di consolare la piccola. Parlava a voce alta per farsi sentire, visto il baccano che facevano i bambini. Il ragazzo le guardò, poi si alzò e le porse l'osso. «Dove l'ha trovato?» le chiese. «Cosa?» rispose lei. «L'osso. Dove ha trovato quest'osso?» «Quale osso?» gli domandò la donna. Quando la bimba vide di nuovo il suo giocattolo, smise di piangere e cercò di afferrarlo, incrociando gli occhi per lo sforzo di concentrazione, un copioso filo di saliva che le gocciolava dalla bocca aperta. Prese l'osso, se lo avvicinò al viso e lo guardò, tenendolo fra le manine. «Credo sia un osso umano» disse il giovane. La bambina se lo infilò in bocca e si tranquillizzò di nuovo. «Che stai dicendo? Quale osso?» chiese la madre. «Quello che sta mordendo adesso la bambina» rispose lui. «Credo che sia un osso umano.» La madre guardò sua figlia che biascicava l'osso. «Non l'ho mai visto prima. Che vuol dire, un osso umano?» «Credo sia un pezzo di costola» le spiegò lui. «Studio medicina» aggiunse, come per giustificarsi, «sono al quinto anno.» «Una costola? Che stupidaggine. L'hai portata tu?» «Io? No. Non sa da dove viene?» le chiese. La madre osservò sua figlia e poi all'improvviso afferrò l'osso, glielo strappò dalla bocca e lo gettò per terra. La bimba ricominciò a piangere. Il giovane lo raccolse per osservarlo meglio. «Magari suo figlio lo sa...» Guardò la donna che a sua volta guardò lui con un'espressione incredula. La madre si accorse che la bambina piangeva forte. Osservò l'osso e si voltò verso la finestra del soggiorno, da cui si vedevano le case in costruzione nei dintorni, si concentrò di nuovo sull'osso e infine vide arrivare di corsa suo figlio dalla stanza dei bambini. «Tóti!» lo chiamò, ma lui non le diede ascolto. Allora si fece largo tra la folla di invitati e lo trascinò di fronte allo studente di medicina, benché con qualche difficoltà. «È tuo?» gli chiese, mentre il giovane gli porgeva l'osso. «L'ho trovato» rispose Tóti, che non voleva perdersi nemmeno un attimo della sua festa di compleanno.
«Dove?» gli domandò la madre, e depose a terra la bambina, che la fissò, incerta se ricominciare a piagnucolare o meno. «Fuori» disse il bambino. «È un bel sasso. L'ho lavato.» Aveva il fiatone. Una goccia di sudore gli scendeva lungo la guancia. «Fuori dove?» gli chiese la mamma. «Quando? Che stavi facendo?» Tóti la guardò. Non riusciva a capire se l'aveva combinata grossa, ma dall'espressione della madre pareva proprio di sì e si domandò cosa potesse aver fatto. «Ieri, credo» rispose. «Nelle fondamenta di quella casa là. C'è qualcosa che non va?» La mamma e il giovane sconosciuto si guardarono negli occhi. «Potresti indicarmi esattamente dove l'hai trovato?» gli chiese la donna. «Dai, c'è la festa» controbatté lui. «Andiamo» insisté la madre. «Facci vedere.» Prese in braccio la bambina e spinse il figlio fuori dal soggiorno, verso la porta d'ingresso. Il giovane studente li seguiva a breve distanza. Quando il festeggiato era stato portato via, tra gli altri piccoli invitati era sceso il silenzio e si erano messi tutti a guardare quella signora che spingeva Tóti davanti a sé con un'espressione severa e la sorellina in braccio. Si guardarono tra loro e poi si avviarono dietro al corteo. Era un quartiere edificato di recente, vicino al lago Reynisvatn. Il cosiddetto «Quartiere del Millennio». Era stato costruito sui pendii della collina di Grafarholt, sulla cui sommità troneggiavano i mostruosi serbatoi d'acqua marroni della centrale geotermica, la Örkuveita Reykjavíkur, una specie di cittadella fortificata che sovrastava i sobborghi della periferia. Su entrambi i lati dei serbatoi passava una strada, lungo la quale in pochi anni era sorta una casa dopo l'altra; qualcuna aveva il giardino, una scorta di torba appena sistemata e piccoli alberelli che dovevano ancora crescere molto prima di poter fare ombra ai residenti. La truppa di bimbi seguì il festeggiato a passi svelti verso est, oltre l'ultima casa, la più vicina ai serbatoi. In quella piana erbosa si ergevano condomini nuovi, mentre in lontananza, a Nord e a Est, si intravedevano le vecchie case di villeggiatura degli abitanti di Reykjavík. Come accade spesso in un quartiere in costruzione, i ragazzi si divertivano nei cantieri, salivano sui ponteggi e giocavano a nascondino all'ombra di mura solitarie, oppure scendevano nelle fondamenta scavate da poco per sguazzare nell'acqua che vi si raccoglieva. Tóti condusse il giovane sconosciuto, sua madre e tutta la combriccola
proprio nelle fondamenta di una di quelle case, poi indicò loro il punto in cui aveva trovato lo strano sasso bianco. Era così leggero e liscio che se lo era infilato in tasca e aveva deciso di tenerlo. Ricordava bene dove lo aveva trovato, così li precedette e si diresse senza indugio nel punto esatto, nella terra asciutta. Sua madre ordinò ai bambini di tenersi alla larga e, con l'aiuto del giovane, scese anche lei nello scavo. Una volta giù, Tóti le prese l'osso e lo sistemò nel terreno. «Stava qui, così» le disse, pensando ancora che fosse un buffo sasso. Era un tardo pomeriggio di venerdì e nel cantiere non lavorava nessuno. In alcuni punti erano state sistemate delle assi di legno per preparare la gettata di cemento, ma dove non erano ancora state deposte le casseforme si vedeva la terra. Il giovane si avvicinò e guardò attentamente il punto in cui il ragazzino diceva di aver trovato l'osso. Grattò con le dita e rimase inorridito quando in profondità vide quelli che sembravano i resti di un braccio. La donna notò che stava fissando qualcosa e ne seguì lo sguardo finché non li vide anche lei. Avvicinandosi ancora, le parve di distinguere una mascella e perfino un paio di denti. Rabbrividì, guardò di nuovo il giovane e poi sua figlia e istintivamente si mise a pulirle la bocca. Si era a malapena resa conto di cos'era successo, poi aveva sentito quel dolore alla tempia. Lui l'aveva colpita in testa senza preavviso, tanto rapidamente che il pugno non l'aveva nemmeno visto arrivare. O forse non credeva che l'avrebbe fatto davvero. Quella era stata la prima volta e negli anni a seguire avrebbe pensato spesso a come sarebbe stata la sua vita se l'avesse denunciato subito. Se lui glielo avesse permesso, chiaro. Non riusciva a capire perché l'avesse picchiata così all'improvviso, così lo guardò terrorizzata. Non era mai capitato prima. Erano sposati da tre mesi. «Mi hai picchiata» gli disse, portandosi la mano alla tempia. «Credi che non mi sia accorto di come lo guardi?» ringhiò lui a denti stretti. «Chi? Cosa? Vuoi dire Snorri? Come guardo Snorri?» «Credi che non me ne sia accorto? Che non abbia visto com'eri in calore?» Non conosceva quel lato del suo carattere. Non l'aveva mai sentito usare
quell'espressione. Essere in calore. Di che cosa stava parlando? Aveva scambiato qualche parola con Snorri sulla porta del seminterrato, per ringraziarlo di averle portato una cosa che aveva dimenticato di prendere quando si era trasferita dalla casa in cui lavorava come governante; non l'aveva invitato a entrare perché suo marito era stato intrattabile tutto il giorno e le aveva detto che non voleva vedere nessuno. Snorri aveva fatto una battuta sul commerciante per cui lei aveva lavorato, si erano fatti una bella risata e poi si erano salutati. «Era solo Snorri» gli disse. «Non fare così. Perché da questa mattina sei così di cattivo umore?» «Metti forse in dubbio quello che sto dicendo?» le chiese e le si avvicinò di nuovo. «Ti ho vista dalla finestra. Ho visto come gli svolazzavi intorno. Come una puttana!» «No, non puoi...» Le diede un altro pugno sul volto e lei andò a sbattere contro la piattaia in cucina. Era accaduto talmente in fretta che non aveva nemmeno avuto il tempo di proteggersi con le mani. «Non mi raccontare balle!» urlò lui. «Ho visto come lo guardavi. Ho visto come ci provavi con lui! L'ho visto con i miei occhi! Troia!» Un'altra parola che gli sentiva usare per la prima volta. «Mio Dio» sospirò lei. Il labbro superiore si era rotto e il sangue le scendeva in bocca; il sapore si mescolò a quello salato delle lacrime che le rigavano il viso. «Perché reagisci così? Che cosa ho fatto di male?» Le stava sopra come se fosse pronto a calpestarla. Il volto paonazzo avvampava di rabbia. Digrignò i denti e pestò con forza un piede per terra prima di girarsi e abbandonare il seminterrato a grandi falcate. Lei rimase dov'era, senza capire cosa fosse successo. In seguito le capitò di pensare sempre più spesso a quel momento, se avesse fatto qualche differenza cercare di reagire subito alla violenza, andarsene di casa e non tornare più, invece di non fare nulla, se non trovare motivi per addossarsi la colpa di quel gesto. Se suo marito aveva reagito così, qualcosa doveva pure aver fatto. Qualcosa di cui lei stessa forse non si rendeva conto ma che lui aveva visto; al suo ritorno avrebbe potuto parlargliene, così lui avrebbe promesso di non farlo più e tutto sarebbe tornato come prima. Non l'aveva mai visto comportarsi così nei suoi confronti e nemmeno con gli altri. Era un uomo tranquillo, anche piuttosto serio. Quasi assorto. Era un aspetto del suo carattere che le era piaciuto subito, non appena si
erano conosciuti. Lui lavorava a Kjós dal fratello del commerciante che l'aveva assunta e spesso andava da loro a consegnare merce di vario genere. Ormai si conoscevano da circa un anno e mezzo. Avevano più o meno la stessa età e lui diceva spesso che avrebbe voluto smettere di lavorare e imbarcarsi su un peschereccio, chissà. Lì sì che giravano dei bei soldi. Poi avrebbe voluto comprarsi una casa. Essere padrone di se stesso, insomma. Il lavoro dipendente sottometteva le persone, era un retaggio del passato e non ti lasciava niente in mano. Lei gli aveva detto che non le piaceva più stare a servizio dal commerciante. Era un uomo meschino, continuava a palpeggiare le tre dipendenti; sua moglie, invece, era una vecchia strega che le comandava a bacchetta. Non aveva alcun progetto particolare per il futuro. Non ci aveva mai pensato. Da quand'era in fasce, non aveva conosciuto altro che la fatica. Per lei la vita non era che quello. Lui continuava a trovare scuse per sbrigare commissioni dal commerciante e ogni volta si fermava da lei in cucina. Da cosa nasce cosa, si sa, e ben presto lei gli aveva raccontato che aveva una figlia. Le aveva risposto che lo sapeva già. Le aveva confessato anche di avere chiesto in giro di lei. Era la prima volta che si dimostrava interessato a conoscerla meglio. Gli aveva spiegato che la bambina avrebbe compiuto presto tre anni, poi era uscita per andarla a prendere sul retro della casa, dove stava giocando con i figli del commerciante. Quando era tornata con la piccola, lui le aveva chiesto quanti uomini aveva avuto, ma poi aveva sorriso, come se si trattasse soltanto di una battuta bonaria. In seguito per umiliarla avrebbe citato senza pietà la sua «lascivia», come la chiamava lui. Non chiamava mai la bambina per nome, ma utilizzava dei nomignoli dispregiativi, come «figlia di puttana» o «ritardata». Non aveva avuto tanti uomini nella sua vita. Le aveva raccontato del padre della bimba, un marinaio morto in mare al largo del Kollafjördur. Aveva solo ventidue anni, la sua barca era incappata in una burrasca e quattro membri dell'equipaggio avevano perso la vita. L'aveva appreso proprio quando aveva scoperto di essere incinta. Non erano sposati, quindi non poteva nemmeno definirsi vedova. Avevano in progetto il matrimonio, ma il suo futuro sposo era morto, lasciandola sola con una figlia illegittima. Lui era rimasto seduto ad ascoltarla in cucina e la donna aveva notato che la bambina non voleva nemmeno stargli accanto. Di solito non era ritrosa con le persone, ma quella volta si era tenuta stretta alla gonna di sua
madre e non aveva osato lasciarla nemmeno quando lui l'aveva chiamata a sé. Aveva estratto una caramellina dalla tasca e gliel'aveva data, ma la piccola si era nascosta ancora di più tra la gonna della mamma e si era messa a piangere, diceva che voleva tornare fuori dagli altri bambini. Eppure quelle caramelle erano le sue preferite. Due mesi più tardi si era fatto avanti con la proposta. Niente di romantico, non come aveva letto nei libri. Si erano visti qualche volta la sera e nei fine settimana per fare una passeggiata in paese o andare al cinema a vedere Chaplin. Quel piccolo vagabondo la faceva ridere di cuore. La donna si girava sempre a guardare il suo compagno, ma lui non si lasciava andare nemmeno a un sorriso. Una sera, usciti dal cinema, mentre aspettava una persona che gli avrebbe dato un passaggio fino a Kjós, le aveva chiesto di punto in bianco se non era meglio che si sposassero. L'aveva attirata a sé. «Voglio che ci sposiamo» le aveva detto. Ne era rimasta così sorpresa, nonostante tutto, che solo molto tempo dopo, sicuramente quando ormai le cose avevano preso una certa piega, si ricordò che non era stata una vera proposta e che non contemplava affatto quello che voleva lei. «Voglio che ci sposiamo.» Fra sé e sé aveva valutato la possibilità che lui le chiedesse di sposarla. In effetti il loro rapporto era arrivato a quel punto. Alla bambina mancava un padre. Lei voleva avere una famiglia sua. E altri figli. Pochi uomini avevano mostrato interesse per lei, forse a causa della bimba. Magari lei stessa non si riteneva molto interessante: era bassa e piuttosto rotonda, aveva il volto spigoloso, i denti un tantino larghi, le mani piccole ma fatte per lavorare, che sembravano sempre in movimento. Forse non avrebbe mai ricevuto una proposta migliore. «Che ne dici?» le aveva chiesto. Lei aveva annuito. Lui l'aveva baciata e si erano abbracciati. Poco tempo dopo avevano organizzato il matrimonio nella chiesa di Mosfell. Pochi invitati, solo loro due, gli amici dello sposo conosciuti a Kjós e due amiche della sposa di Reykjavík. Dopo la cerimonia, il prete li aveva invitati per un caffè. La donna aveva chiesto allo sposo dei suoi, della sua famiglia, ma lui era stato laconico al riguardo. Aveva detto di non avere né fratelli né sorelle, suo padre era morto quand'era piccolo e la madre non si era potuta permettere di tenerlo, così l'aveva mandato a crescere altrove. Era stato in diverse fattorie, finché non aveva trovato lavoro a Kjós. Lui, invece, non mostrava alcuna intenzione di chiederle della sua famiglia. Non sem-
brava interessato al suo passato. Allora lei gli disse che avevano avuto una sorte simile; anche lei non sapeva chi fossero i suoi genitori. Era stata data in affidamento e aveva cambiato una famiglia dopo l'altra a Reykjavík, finché non era finita a lavorare presso il commerciante. Lui aveva annuito. «Ricominceremo da capo» le aveva detto. «Dimentichiamo il passato.» Avevano preso in affitto un piccolo appartamento seminterrato lungo la Lindargata, non molto spazioso, c'era solo un soggiorno con cucina e poco altro. Il bagno era fuori in cortile. Lei aveva smesso di lavorare dal commerciante, perché suo marito le aveva detto che non avrebbe più dovuto guadagnarsi da vivere. Avrebbe pensato lui a lei. Avrebbe lavorato al porto, tanto per cominciare, finché non avesse trovato un impiego su un peschereccio. Sognava di partire per mare. Era rimasta in piedi accanto al tavolo della cucina, tenendosi la pancia tra le mani. Non glielo aveva ancora detto, ma era sicura di essere incinta. Ci sperava davvero. Avevano parlato di avere un figlio, ma lei non era sicura di cosa ne pensasse davvero suo marito, impenetrabile com'era. Se fosse stato un maschio, aveva già deciso il nome. Voleva avere un maschio. L'avrebbe chiamato Símon. Aveva sentito parlare di uomini che picchiavano le mogli. Aveva sentito parlare di donne che convivevano con le violenze dei mariti. Ne aveva sentite tante di storie. Non riusciva a credere che lui fosse uno di loro. Non riusciva a credere che lei fosse una di loro. Non riusciva a credere che potesse farle una cosa del genere. Doveva essere stato un episodio isolato, si disse. Deve aver creduto che ci stessi provando con Snorri, pensò. Devo fare attenzione che non si ripeta. Si era passata una mano sul volto e aveva tirato su col naso. Che uomo violento. Era uscito, ma sarebbe tornato a casa presto e le avrebbe chiesto scusa. Non poteva comportarsi così nei suoi confronti. Non poteva. Non poteva. Disorientata, era entrata in camera per controllare sua figlia. La bimba si chiamava Mikkelína. Quella mattina si era svegliata con la febbre e aveva dormito quasi tutto il giorno; era ancora addormentata. La prese in braccio e sentì che scottava. Si sedette con la bimba in grembo e cominciò a canticchiare a fior di labbra, ancora sconvolta e turbata per quell'aggressione: Fa' la nanna nel lettino ora spengo quel lumino
così splende il ricciolino tutto d'oro sul cuscino. La bambina respirava a fatica. La piccola cassa toracica si alzava e si abbassava, dal naso usciva un flebile fischio. Il volto era rosso. Cercò di svegliarla, ma Mikkelína non si muoveva nemmeno. Gridò. La bimba era grave. 2 Fu Elínborg a ricevere la comunicazione del ritrovamento delle ossa nel Quartiere del Millennio. Era rimasta sola in ufficio e stava uscendo, quando il telefono squillò. Esitò un attimo, guardò l'orologio, poi di nuovo il telefono. Aveva invitato gente per cena a casa sua e aveva passato tutto il giorno a pensare al pollo tandoori. Sospirò e alzò la cornetta. Elínborg aveva un'età indefinibile, fra i quaranta e i cinquant'anni, rotonda ma non grassa, ed era una gran cuoca. Era divorziata e aveva quattro figli, di cui uno adottato che se n'era andato di casa. Si era risposata con un meccanico che condivideva con lei la passione per la cucina e abitavano insieme con i tre figli in una villetta a Grafarvogur. Si era laureata in geologia molti anni prima, ma non aveva mai lavorato in quel campo. Aveva iniziato a collaborare con la polizia di Reykjavík per un impiego estivo e aveva finito per arruolarsi. Era una delle poche donne al dipartimento di polizia investigativa. Sigurđur Óli era nel bel mezzo di un amplesso selvaggio con la sua donna, Bergthóra, quando il cercapersone cominciò a suonare. Ce l'aveva attaccato alla cintura dei pantaloni, che erano per terra in cucina, ma quel bip-bip era intollerabile. Sapeva che non avrebbe smesso di suonare finché non fosse sceso dal letto. Aveva smontato prima, quel giorno. Bergthóra era rientrata a casa prima di lui e lo aveva accolto con un bacio profondo e appassionato. Poi la situazione gli era sfuggita di mano, così aveva lasciato i pantaloni in cucina, staccato il telefono e spento il cellulare. Si era dimenticato del cercapersone, però. Con un profondo sospiro, Sigurđur Óli guardò Bergthóra, che gli stava seduta sopra a gambe divaricate. Era sudato e rosso in volto. Dall'espressione della donna capì che non era pronta a lasciarlo andare. Lei chiuse gli occhi, gli si distese sopra e, con gentilezza, oscillò ritmicamente i fianchi
finché l'orgasmo sfumò e ogni muscolo del corpo tornò a rilassarsi. Quanto a lui, avrebbe dovuto attendere un momento migliore. Nella vita di Sigurđur Óli il cercapersone aveva la precedenza. Scivolò via da sotto il corpo di Bergthóra, che stava sdraiata con la testa sul cuscino, come stordita. Erlendur si trovava allo Skúlakaffi e stava mangiando della carne salata. Andava lì qualche volta, perché era l'unico locale di Reykjavík che proponeva i piatti tipici della cucina casalinga islandese, quelli che lui stesso avrebbe preparato se avesse avuto voglia di cucinarsi qualcosa. Anche l'arredo degli interni gli era congeniale, tutto in formica marrone consunta, vecchie sedie da cucina, alcune con la gommapiuma che spuntava dal rivestimento in plastica rotto, e il pavimento in linoleum, consumato dagli stivali di camionisti, tassisti e manovratori di gru, grossisti e marinai. Era seduto da solo a un tavolo appartato e si abbuffava di grassa carne salata, patate lesse, piselli e rape fumanti, il tutto immerso in una salsa farinosa e dolciastra. Il viavai dell'ora di pranzo era defluito da tempo, ma Erlendur era riuscito comunque a persuadere il cuoco a servirgli della carne. Si tagliò un grosso boccone, vi caricò sopra una patata e un pezzo di rapa, poi, con l'aiuto del coltello, prima di far sparire l'intero trofeo nelle sue fauci, lo ricoprì di salsa. Aveva già sistemato un altro malloppo simile sulla forchetta e se lo stava infilando in bocca, quando il cellulare che aveva lasciato sul tavolo di fianco al piatto si mise a squillare. Fermò la forchetta a mezz'aria e guardò un attimo il telefono, poi il cibo e ancora il telefono, infine di malavoglia rispose. «Perché non posso starmene un po' in pace?» disse, prima che Sigurđur Óli potesse parlare. «Ritrovamento di ossa nel Quartiere del Millennio» gli spiegò il collega. «Io ed Elínborg siamo diretti là.» «Che genere di ossa?» «Non lo so. Mi ha telefonato Elínborg, ci sta andando adesso. Ha già avvertito la scientifica.» «Sto mangiando» gli fece notare Erlendur lentamente. Sigurđur Óli stava quasi per lasciarsi scappare in quale attività era impegnato lui, ma si contenne in tempo. «Ci vediamo là fra poco» disse invece. «È sulla strada per il lago Reynisvatn, sotto i serbatoi sul lato nord. Non lontano dalla Vesturlandsvegur.» «Cos'è il Quartiere del Millennio?» chiese Erlendur.
«Che?» esclamò il collega, ancora irritato perché era stato interrotto con Bergthóra. «È un quarto di millennio? O il quarto millennio? Che secolo è? Un secolo non ha solo cento anni? Che vuol dire questa parola? Quartiere del Millennio. Che roba è?» «Mio Dio» sospirò Sigurđur Óli e appese. Tre quarti d'ora dopo, Erlendur stava parcheggiando la sua utilitaria giapponese malandata, vecchia di dodici anni, lungo la strada per Grafarholt, accanto alle fondamenta della casa in costruzione. La polizia era già arrivata sul posto e aveva delimitato l'area con del nastro giallo, che lui oltrepassò passandovi sotto. Elínborg e Sigurđur Óli erano scesi nello scavo e stavano accanto alla parete di terra. Di fianco a loro c'era il giovane studente di medicina che aveva notificato il ritrovamento delle ossa. La madre che aveva organizzato la festa di compleanno aveva radunato i ragazzini e li aveva riportati a casa. L'ufficiale medico di Reykjavík, un ometto grasso sulla cinquantina, stava scendendo una delle tre scale che erano state sistemate nelle fondamenta. Erlendur lo seguì. I media mostrarono un interessamento morboso per il ritrovamento delle ossa. Giornalisti e cronisti si erano raccolti davanti alla scena del crimine e anche i vicini del quartiere si erano schierati tutt'intorno. Alcuni si erano trasferiti lì da tempo; altri, invece, stavano ancora terminando di costruirsi la casa, ma rimasero con i martelli e i palanchini in mano, chiedendosi il perché di tanto chiasso. Era la fine di aprile, una bella e mite giornata di primavera. I tecnici della polizia scientifica stavano scavando con cautela. Raccoglievano la terra in piccole mestole che poi svuotavano dentro dei sacchetti di plastica. La parte superiore dello scheletro era già stata esumata. Si riusciva a distinguere un braccio, una sezione della cassa toracica e la parte inferiore della mandibola. «È l'Uomo del Millennio?» chiese Erlendur, avvicinandosi. Elínborg guardò con aria interrogativa Sigurđur Óli, che stava dietro a Erlendur, si portò l'indice alla tempia e disegnò dei movimenti circolari, come per dire che era matto. «Ho telefonato al Museo Archeologico» disse Sigurđur Óli, che aveva fatto finta di grattarsi la testa quando Erlendur si era voltato all'improvviso per guardarlo. «Sta arrivando un archeologo. Forse lui ci potrà dire di che cosa si tratta.»
«Non dovremmo chiamare anche un geologo?» chiese Elínborg. «Per esaminare il suolo, la posizione delle ossa rispetto al terreno e l'età degli strati.» «Non ci puoi aiutare tu?» le chiese il collega. «Non l'hai studiato?» «Non mi ricordo niente» confessò Elínborg. «So solo che quella roba marrone è terra.» «Non è nemmeno sepolto alla profondità canonica di due metri» fece notare Erlendur. «Sarà un metro, un metro e mezzo al massimo. L'hanno buttato lì in tutta fretta. E mi pare proprio che quelli siano i resti del corpo. Non è rimasto qui tanto. Non si tratta di uno dei primi colonizzatori dell'Islanda. Non è Ingólfur, insomma.» «Ingólfur?» domandò Sigurđur Óli. «Arnarson, uno dei primi colonizzatori vichinghi» aggiunse Elínborg per spiegargli meglio. «Perché crede sia lui?» chiese il medico distrettuale. «No, io non credo affatto che sia lui» precisò Erlendur. «Voglio dire, potrebbe sempre essere una lei» disse il medico. «Perché ritiene che debba per forza essere un uomo?» «O una donna, allora» convenne Erlendur. «Non importa.» Alzò le spalle. «Ci può dire qualcosa su queste ossa?» «Si distingue troppo poco» affermò il medico. «Meglio sbilanciarsi il meno possibile finché non le estraggono dalla terra.» «Maschio o femmina? Età?» «Impossibile dirlo.» Un uomo con un tradizionale maglione di lana e un paio di jeans, alto, con una gran barba brizzolata e incolta, e al posto dei canini due zanne gialle che gli fuoriuscivano dalla bocca, si avvicinò e disse di essere l'archeologo. Osservò il metodo adottato dagli agenti della scientifica e ordinò loro di smetterla con quelle bestialità, per l'amor di Dio. I due uomini con le piccole mestole esitarono. Indossavano tute bianche, guanti di gomma e mascherine di protezione davanti agli occhi. A Erlendur parevano appena usciti da una centrale nucleare. Lo guardarono e attesero istruzioni. «Dobbiamo scavare da sopra, per Dio» disse Zanna Gialla, sventolando le mani. «Lo volete tirare fuori con quelle mestole? Chi dirige questa squadra, insomma?» Erlendur si presentò. «Questo non è un reperto archeologico» gli disse Zanna Gialla, porgendogli la mano. «Mi chiamo Skarphédinn, piacere di conoscerla. Ma è me-
glio trattarlo come se lo fosse. Capisce?» «Non so nemmeno di cosa stia parlando» si arrese Erlendur. «Le ossa non sono rimaste sepolte per un'eternità. Circa settanta o sessant'anni. Anche meno. Ci sono ancora gli indumenti intorno.» «Gli indumenti?» «Sì, qui» disse Skarphédinn e indicò un punto con le dita grosse. «E sicuramente anche altrove.» «Credevo fosse carne» ammise Erlendur imbarazzato. «La cosa più intelligente da fare in questo caso, per non rovinare le prove, sarebbe lasciare che sia la mia squadra a tirarlo fuori, con i nostri metodi. Gli agenti della scientifica possono aiutarci. Dobbiamo recintare la zona qui accanto, scendere sopra lo scheletro e smettere di grattare la terra a quel modo. Non siamo abituati a perdere le prove. Anche la disposizione delle ossa può dirci molto. Tutto quello che gli troviamo intorno può darci delle informazioni.» «Che cosa crede sia successo?» chiese Erlendur. «Non lo so» rispose Skarphédinn. «È troppo presto per dirlo. Dobbiamo scavare e sperare che venga fuori qualcosa di utile.» «È qualcuno che è rimasto bloccato in una bufera, è morto assiderato ed è rimasto sepolto?» «Nessuno finisce così in profondità per caso» disse Skarphédinn. «Quindi è una tomba.» «Pare di sì» dichiarò Skarphédinn con sussiego. «Tutto sembra confermarlo. Allora, possiamo occuparci noi dello scavo?» Erlendur annuì. Skarphédinn raggiunse le scale a grandi falcate e scese nelle fondamenta. Erlendur gli stava alle calcagna. Una volta sopra lo scheletro, l'archeologo spiegò com'era meglio procedere. A Erlendur aveva fatto una buona impressione, sia lui sia quello che aveva detto, così poco dopo Skarphédinn chiamò la sua squadra al cellulare. Aveva preso parte a molti dei ritrovamenti archeologici più importanti dell'ultimo decennio e sapeva il fatto suo. Erlendur gli accordò la sua fiducia. Il responsabile della squadra scientifica era d'opinione diversa. Non apprezzava il fatto che gli scavi dovessero passare nelle mani di archeologi che non capivano un'acca delle analisi sui crimini. Avrebbero fatto prima a togliere lo scheletro dalla terra, così avrebbero potuto osservare sia la posizione sia eventuali tracce di violenza. Erlendur ascoltò la lezione per qualche minuto, poi lo interruppe e gli disse che Skarphédinn e i suoi avrebbe-
ro assunto la direzione degli scavi, anche se così ci avrebbero messo molto più tempo. «Le ossa sono qui da mezzo secolo, qualche giorno in più o in meno non farà differenza» disse, e dichiarò chiusa la questione. Erlendur si guardò intorno e osservò i nuovi edifici in costruzione. Scrutò i serbatoi della centrale geotermica dipinti di marrone e anche oltre, nel punto in cui sapeva trovarsi il lago Reynisvatn, poi si voltò e guardò il verde che si insinuava a est, dove terminavano i nuovi sobborghi. Quattro cespugli attirarono la sua attenzione: emergevano dalla bassa vegetazione a circa trenta metri di distanza. Si incamminò in quella direzione, gli sembrava fosse ribes rosso. Erano allineati verso est e, mentre ne accarezzava i rami spogli e nodosi, si chiese chi li avesse piantati in quella terra di nessuno. 3 Gli archeologi si presentarono con maglioni di pile e pantaloni termici, armati di pale e cucchiai; delimitarono una zona piuttosto ampia intorno alla fossa dello scheletro e verso l'ora di cena cominciarono a scavare con cautela. C'era ancora molta luce, come se fosse mezzogiorno; il sole non sarebbe tramontato prima delle dieci. La squadra era formata da quattro uomini e due donne che lavoravano metodicamente, senza alcuna fretta, ed esaminavano con minuzia ogni minima quantità di terra raccolta. Ormai non si capiva più che qualcuno aveva scavato una fossa. Il tempo e i lavori alla casa in costruzione avevano fatto la loro parte. Elínborg rintracciò un professore di geologia dell'università, che fu più che disponibile a fornire un aiuto alla polizia; infatti, abbandonò quanto stava facendo al dipartimento e si presentò sul luogo degli scavi mezz'ora dopo avere concluso la telefonata con l'ex studentessa. Era un uomo sulla quarantina, con i capelli neri, magro, e aveva una voce insolitamente profonda; aveva conseguito un dottorato in un'università di Parigi. Elínborg lo accompagnò alla parete di terra. La polizia aveva sistemato una tenda, in modo che non attirasse la curiosità di abitanti e passanti; la donna lo invitò a entrare. Una forte luce al neon illuminava la tenda proiettando un'ombra spettrale sul punto in cui si trovava lo scheletro. Il geologo si prese tutto il tempo necessario. Esaminò il suolo, prese un pugno di terra e lo sbriciolò fra le dita. Confrontò gli strati accanto allo scheletro con quelli che gli stavano
sopra e sotto e osservò da vicino la densità del suolo intorno alle ossa. Raccontò con orgoglio di essere stato chiamato già una volta in precedenza per coadiuvare gli inquirenti in un'indagine per un caso di omicidio; gli avevano chiesto di analizzare una zolla di terra che era stata trovata sulla scena del crimine e il suo aiuto era risultato fondamentale. Dopo si mise a dissertare sul fatto che esistevano testi specifici sulla criminalità e la geologia, una sorta di geologia legale, se Elínborg comprendeva cosa volesse dire. La donna ascoltò le sue divagazioni finché non perse la pazienza. «Da quanto tempo sta là sotto, allora?» chiese. «Non è facile dirlo» disse il geologo con voce profonda e fare accademico. «Credo non da molto.» «E in geologia a quanto tempo corrisponde 'non molto'?» domandò Elínborg. «Mille anni? Dieci?» Il geologo la guardò. «Non è facile dirlo» ripeté. «Non può rispondere con più precisione?» insisté Elínborg. «In anni.» «Non è facile dirlo.» «Quindi non è facile dire niente?» Il geologo la guardò e sorrise. «Mi scusi, stavo pensando. Che cosa vuole sapere?» «Da quanto tempo?» «Come?» «Da quanto tempo si trova qui sotto» sospirò Elínborg. «Tirando a indovinare, direi fra i cinquanta e i settant'anni. Dovrei fare altre ricerche più accurate, ma è l'ipotesi che mi sembra più plausibile. La densità del suolo... È escluso comunque che sia uno dei primi colonizzatori e che si tratti di un tumulo pagano.» «Questo lo sappiamo già» fece notare Elínborg, «ci sono dei brandelli di abiti...» «Questa striscia verde, qui» disse il geologo, indicando uno strato di terreno verdognolo in basso, «è argilla dell'era glaciale. Queste linee che compaiono a intervalli regolari, invece» continuò, additando una zona più in alto, «sono strati vulcanici. Il primo risale alla fine del quindicesimo secolo. È lo strato vulcanico più spesso formatosi nell'area di Reykjavík dall'epoca della colonizzazione. Questi sono gli strati più antichi, delle eruzioni dell'Hekla e di Katla. E qui, invece, si torna molto indietro nel tempo. Manca poco al basamento roccioso, come vede qui» e le mostrò un
ampio strato ghiaioso. «Questa è dolerite di Reykjavík, che copre tutta l'area intorno alla città.» Poi guardò Elínborg. «In confronto all'età del sottosuolo, la tomba è stata scavata solo un milionesimo di secondo fa.» Gli archeologi smisero di lavorare verso le nove e mezzo e Skarphédinn fece sapere a Erlendur che sarebbero arrivati piuttosto presto il mattino dopo. Non avevano trovato niente che fosse degno di nota e avevano appena cominciato a rimuovere lo strato di humus in superficie. Erlendur chiese se non potevano procedere un po' più velocemente, ma Skarphédinn lo guardò con un'espressione di disprezzo e gli chiese a sua volta se voleva che rovinassero le prove. Convennero di nuovo che estrarre quello scheletro dal suolo non era una questione di vita o di morte. La luce al neon all'interno della tenda era spenta. I giornalisti erano spariti. Il ritrovamento dello scheletro era stata la notizia di testa in tutti i telegiornali della sera. La televisione aveva mostrato Erlendur e la sua squadra nella fossa, e un'emittente aveva anche ripreso il momento in cui un giornalista aveva cercato di parlare con l'agente, ma lui l'aveva allontanato e se ne era andato via. Nel quartiere era tornata la calma. I colpi di martello tacevano. Chi stava lavorando alla propria casa era ormai sparito. Le persone che già abitavano lì stavano andando a dormire. Non si sentivano più bambini che gridavano. Due poliziotti con la volante erano stati incaricati di sorvegliare la zona durante la notte. Elínborg e Sigurđur Óli erano rientrati ciascuno a casa propria. Anche gli agenti della polizia scientifica che avevano collaborato con gli archeologi erano rincasati. Erlendur aveva parlato con Tóti e con sua madre dell'osso ritrovato. Il ragazzino si era esaltato per l'attenzione che stava ricevendo. Ci voleva pure questa, aveva sospirato la madre. Suo figlio aveva trovato lo scheletro di un uomo nei campi dei dintorni. «È il compleanno più speciale che mi sia mai capitato» disse Tóti a Erlendur. Anche il giovane studente di medicina era tornato a casa insieme al fratellino. Erlendur e Sigurđur Óli avevano scambiato due parole anche con lui. Aveva spiegato di essersi accorto che la bambina stava masticando un osso solo in un secondo momento. Quando lo aveva esaminato più da vicino, aveva capito che quell'affare era proprio una costola rotta. «Come hai fatto ad accorgerti subito che si trattava di un osso umano?» gli aveva chiesto Erlendur. «Avrebbe potuto essere di una pecora, per esempio.»
«Già, non era più probabile che fosse di una pecora?» domandò Sigurđur Óli il cittadino, che non ne sapeva nulla di quadrupedi islandesi. «Non potevo sbagliarmi» spiegò lo studente di medicina. «Ho seguito le autopsie, dunque era fuori questione.» «Ci sai dire da quanto tempo l'osso si trova sotto terra?» chiese Erlendur. Sapeva che avrebbe avuto i responsi del geologo chiamato da Elínborg, dell'archeologo e del medico legale, ma non gli dispiaceva sentire anche il parere dello studente. «Ho dato un'occhiata al suolo e, confrontandolo con lo stadio della decomposizione, stiamo parlando forse di una settantina d'anni. Non molto di più. Comunque io non sono un esperto.» «No, certo» disse Erlendur. «L'archeologo la pensa come te, ma nemmeno lui è un esperto.» Si rivolse a Sigurđur Óli. «Dobbiamo controllare tutte le persone scomparse in quel periodo, magari intorno ai primi del Novecento o negli anni '30 e '40. Anche prima. Vediamo che cosa troviamo.» Erlendur rimase accanto alla fossa, immerso nella luce del sole della sera, guardò verso nord, fino a Mosfellsbær, al Kollafjörđur e al monte Esja, e vide le case oltre la baia, sulla Kjalarnes. Scorse le auto lungo la Vesturlandsvegur, ai piedi del monte Úlfarsfell, che rientravano verso Reykjavík. Sentì che un'automobile si avvicinava alle fondamenta; ne scese un uomo dell'età di Erlendur, sulla cinquantina, grassoccio, con una giacca a vento blu e un berretto di lana. Sbatté la portiera, poi guardò l'agente e la volante della polizia, le fondamenta recintate e la tenda che nascondeva lo scheletro. «Lei è del fisco?» chiese seccato, mentre si avvicinava a Erlendur. «Del fisco?» ripeté lui. «Con voi non si sta mai in pace, cazzo» inveì l'uomo. «Ha un'ingiunzione o cosa?» «È suo questo lotto?» chiese Erlendur. «Chi è lei? Cos'è questa tenda? Che sta succedendo qui?» Erlendur spiegò l'accaduto all'uomo, che disse di chiamarsi Jón. Si scoprì allora che aveva un'impresa edile e che il terreno era suo, che era quasi in bancarotta e che veniva tartassato dai creditori. In quel cantiere non lavoravano da un po', ma spiegò che ci veniva regolarmente per controllare se c'erano dei danni alle fondamenta; quei maledetti ragazzi dei nuovi sobborghi facevano giochi cretini nelle case. Non aveva né visto né sentito i
notiziari sul ritrovamento dello scheletro e, mentre Erlendur gli spiegava le metodologie di scavo seguite dalla polizia e dagli archeologi, guardava incredulo la fossa. «Non ne sapevo niente e di sicuro i muratori non le hanno viste le ossa. Ma allora è una tomba antica?» chiese Jón. «Non lo sappiamo ancora» disse Erlendur, non troppo incline a dare informazioni. «Sa niente di quel terreno laggiù, a est?» gli domandò, indicando i cespugli di ribes rosso. «So solo che è un bel terreno edificabile» rispose Jón. «Non credevo di vivere tanto da vedere Reykjavík estendersi fin quassù.» «Forse la città è in preda a una smania edilizia» constatò Erlendur. «Il ribes cresce spontaneo in Islanda, lo sa?» «Il ribes? Non ne ho idea. Non l'ho mai sentito dire.» Parlarono un po' prima che Jón si accomiatasse e ripartisse con la macchina. Erlendur ebbe l'impressione che i creditori gli stessero mangiando tutti i terreni, ma se riusciva a farsi garantire un altro prestito aveva ancora una flebile speranza. Anche lui voleva andare a casa. Quella sera il sole tingeva il cielo a ovest di una bella luce rossa e la irradiava dal mare tutt'intorno. L'aria si stava facendo più fredda. Entrò nell'area degli scavi e scrutò con attenzione le zolle scure. Camminava lentamente per tutta la zona, dando calci al terreno, senza sapere cosa lo trattenesse. A casa non c'era nessuno ad aspettarlo, pensò, tra un colpo e l'altro. Né una famiglia a dargli il benvenuto, né una donna che gli raccontasse come aveva passato la giornata. Nessun bambino che gli dicesse com'era andata a scuola. Solo un rottame di televisore, una poltrona, una moquette lisa, le confezioni di cibo precotto in cucina e intere pareti di libri, che leggeva in solitudine. Molti riguardavano i casi di persone scomparse in Islanda, le vicissitudini dei viaggiatori che avevano esplorato le aree deserte del paese, tanti anni prima, e avevano incontrato la morte sui sentieri montani. All'improvviso sentì qualcosa di duro contro il piede. Era come se un piccolo sasso uscisse dal terreno. Gli tirò qualche pedata per smuoverlo, ma quello rimaneva ben saldo. Si chinò e cominciò a spostare la terra tutt'intorno con le mani, con cautela. Skarphédinn aveva detto di non toccare nulla mentre gli archeologi non c'erano. Erlendur afferrò il sasso senza pensarci, ma non riuscì a estrarlo dalla terra. Scavò più in profondità e ormai aveva le mani imbrattate quando arrivò
finalmente a un altro sasso della stessa forma, poi un terzo, e un quarto e un quinto. Si inginocchiò e spolverò la terra in ogni direzione. A poco a poco, l'oggetto venne alla luce e presto si ritrovò a fissare una cosa che, per quanto ne capiva lui, doveva essere una mano. Dal suolo spuntavano le cinque falangi delle dita e le ossa del palmo. Si rimise in piedi lentamente. Le cinque dita stavano ben separate l'una dall'altra, come se la persona sotto terra avesse allungato la mano per prendere qualcosa o per proteggersi, o forse per chiedere pietà. Erlendur rimase immobile, come folgorato. Le ossa si protendevano verso di lui quasi a chiedere clemenza e, nella fredda aria della sera, gli corse un brivido lungo la schiena. Volse lo sguardo verso i cespugli di ribes. «Eri vivo?» chiese a voce alta. Nello stesso istante gli squillò il cellulare. Gli ci volle qualche minuto per rendersene conto, lì al freddo, profondamente immerso nei suoi pensieri; poi lo estrasse dalla tasca e rispose. All'inizio non sentì altro che borbottii. «Aiutami» disse una voce che riconobbe subito. «Ti prego.» Poi la comunicazione si interruppe. 4 Il display del cellulare non aveva visualizzato il numero dal quale lo stavano chiamando. Gli era apparso «Anonimo». Era Eva Lind. Sua figlia. Fissò il telefono con un'espressione addolorata, come se una spina gli si fosse piantata in una mano, ma non la richiamò. Eva Lind aveva il suo numero, si ricordò dell'ultima volta che si erano parlati, quando la ragazza gli aveva telefonato per dirgli che non voleva vederlo mai più. Rimase immobile, sbalordito, e attese un'altra sua chiamata, che non arrivò. Allora saltò in macchina. Non aveva contatti con lei da due mesi. In sé non c'era niente di strano. Sua figlia viveva la sua vita senza dargli la possibilità di occuparsene più di tanto. Aveva quasi trent'anni. Una tossicodipendente. L'ultima volta che si erano visti avevano litigato di nuovo, in maniera furiosa. Era successo nel condominio in cui Erlendur viveva; Eva Lind si era precipitata fuori dalla porta dicendo che lo trovava ripugnante. Erlendur aveva un altro figlio, Sindri Snær, che non vedeva quasi mai. Lui ed Eva Lind erano piccoli quando se n'era andato di casa, lasciandoli con la madre. Sua moglie non gliel'aveva mai perdonata e non gli aveva
più permesso di avvicinarsi ai bambini. Aveva lasciato che fosse lei a decidere, ma se n'era sempre pentito. Una volta cresciuti, erano tornati loro a cercarlo. Quando Erlendur se ne andò velocemente dal Quartiere del Millennio e imboccò la Vesturlandsvegur per entrare in città, il freddo crepuscolo primaverile era già calato su tutta Reykjavík. Si assicurò di avere il cellulare acceso e lo posò sul sedile anteriore. Non sapeva molto della vita privata di sua figlia e non aveva idea di dove cominciare a cercarla, finché non ricordò un appartamento seminterrato nel quartiere dei Vogar, dove Eva Lind aveva abitato circa un anno prima. Prima controllò se fosse andata a casa sua, ma nel condominio non c'era alcuna traccia. Fece il giro dell'edificio di corsa e salì dalla scala di servizio. Eva aveva le chiavi del suo appartamento. Una volta entrato la chiamò, ma la ragazza non c'era. Gli venne in mente di telefonare a sua madre, ma non riuscì a decidersi a farlo. Negli ultimi vent'anni si erano a malapena parlati. Alzò la cornetta e telefonò al figlio. Sapeva che fratello e sorella si tenevano in contatto, anche se saltuariamente. Trovò il numero di cellulare di Sindri chiamando il servizio abbonati. E venne a sapere che lavorava fuori città e non aveva idea di dove fosse sua sorella. Erlendur esitò. «Cazzo» sospirò. Poi telefonò di nuovo al servizio abbonati e si fece dare il numero di telefono della sua ex moglie. «Sono Erlendur» disse, quando la donna rispose. «Credo che Eva Lind sia in difficoltà. Sai dove può essere?» Dall'altra parte silenzio. «Mi ha telefonato per chiedere aiuto, ma la comunicazione si è interrotta e non so dove sia. Credo che ci sia qualcosa che non va.» La donna non gli rispose. «Halldóra?» «Mi telefoni così, dopo vent'anni?» Sentì ancora un odio gelido nella sua voce, dopo tutto quel tempo, e si rese conto di aver fatto un errore. «Eva Lind ha bisogno d'aiuto, ma io non so dov'è» rispose lui. «Aiuto?» «Credo che ci sia qualcosa che non va.» «È colpa mia?» «Colpa? No. Non è colp...»
«Credi che io non abbia avuto bisogno di aiuto? Sola con due figli. Tu non c'eri ad aiutarmi.» «Halld...» «E adesso i tuoi figli sono allo sbando. Tutti e due! Stai cominciando a capire cos'è che hai fatto? Che cosa ci hai fatto? Che cosa hai fatto a me e ai tuoi figli?» «Tu non mi hai permesso di occup...» «Credi che io non abbia dovuto tirarla fuori dai guai un milione di volte? Credi che non abbia mai dovuto starle accanto? E dov'eri, tu, allora?» «Halldóra, io...» «Che cazzo di bastardo!» ringhiò lei a denti stretti, con rabbia. Gli appese il telefono in faccia. Erlendur si maledisse per averla chiamata. Salì in macchina e si recò nel quartiere dei Vogar, dove parcheggiò davanti a un condominio semiabbandonato, con alcuni appartamenti quasi sepolti sotto terra. Si fermò davanti a uno di questi e suonò il campanello che ciondolava dallo stipite della porta, poi, non sentendolo trillare all'interno, bussò. Attese impaziente di udire qualche fruscio, di vedere aprirsi la porta, ma niente. Afferrò la maniglia. La porta non era chiusa a chiave ed Erlendur entrò con circospezione. Si ritrovò subito in un ingresso angusto, dove sentì il flebile pianto di un bambino provenire da un punto imprecisato dell'appartamento. Avvicinandosi al soggiorno, fu accolto da un forte odore di urina e di feci. Una bambina di circa un anno era seduta per terra, esausta. Tremava a causa dei singhiozzi profondi, aveva il sederino nudo e indosso solo una maglietta sporca. Il pavimento era coperto di lattine di birra vuote, bottiglie di vodka, involucri di cibo preconfezionato e latticini ormai andati a male, e il forte odore di acido si mischiava al fetore degli escrementi della bambina. Nel soggiorno c'era poco altro, a parte un divano logoro sul quale era distesa una donna nuda, rivolta di schiena. Mentre si avvicinava al divano, la piccola non gli prestò alcuna attenzione. Erlendur prese il polso della donna e sentì che la vena pulsava ancora. Sul braccio notò i fori degli aghi delle siringhe. La cucina era attigua al soggiorno e accanto c'era un'altra stanzetta; lì trovò una coperta e vi avvolse la donna sul divano. C'era anche un piccolo bagno con una doccia. Sollevò la bimba dal pavimento e la lavò con cura con l'acqua calda, poi la coprì con un asciugamano. La bimba smise di piangere. La pelle in mezzo alle gambe era infiammata, l'urina le aveva fatto venire un eritema. Immaginò che avesse fame, ma non trovò nulla di
commestibile adatto a lei, tranne una barretta di cioccolata che teneva nella tasca della giacca. Ne staccò un pezzetto e glielo porse, parlandole per calmarla. Notò dei segni sulle braccia e sulla schiena, e il volto gli si contrasse in una smorfia. Scorse un lettino, tolse la lattina di birra e la carta di hamburger e vi adagiò la bimba con cautela. Mentre tornava nel soggiorno, sentì la rabbia montargli dentro. Non sapeva se la disgraziata sul divano fosse la madre. A lui non importava. Prese la donna e la portò in bagno, la depose sul piatto della doccia e aprì l'acqua fredda. La donna era come morta fra le sue braccia, ma sotto il getto della doccia si riebbe immediatamente, annaspò per riprendere fiato, urlò e cercò di proteggersi con le mani. Erlendur lasciò scorrere l'acqua per qualche minuto prima di chiudere il rubinetto, poi le tirò la coperta, la riportò in soggiorno e la fece sedere sul divano. Era cosciente ma stordita, e fissò Erlendur con occhi spenti. Poi si guardò intorno come se le mancasse qualcosa. All'improvviso se ne ricordò. «Dov'è Perla?» chiese, tremando sotto la coperta. «Perla?» disse Erlendur rabbioso. «È il tuo cane?» «Dov'è la mia bambina?» ripeté la donna. Poteva avere sui trent'anni, con i capelli corti e il volto truccato, anche se il trucco le era colato su tutta la faccia. Il labbro superiore era gonfio, aveva un gran bozzo sulla fronte e un livido intorno all'occhio destro. «Non hai nessun diritto di chiedere di lei» le rispose Erlendur. «Cosa?» «Hai spento le sigarette su tua figlia!» «Cosa? No! Chi... chi sei?» «È quel bastardo che ti picchia?» «Mi picchia? Cosa? Chi sei?» «Voglio portarti via Perla» le spiegò Erlendur. «E voglio prendere l'uomo che le ha fatto una cosa del genere. Quindi mi devi dire solo due cose.» «Portarmela via?» «Qualche mese fa, forse anche un anno, qui abitava una ragazza, ne sai qualcosa? Si chiama Eva Lind. Magra, capelli neri...» «Perla è una peste. Piange. In continuazione.» «Già. Povera te...» «Lo manda in bestia.» «Cominciamo da Eva Lind. La conosci?» «Non portarmela via. Ti prego.»
«Sai dov'è Eva Lind?» «Eva si è trasferita molti mesi fa.» «Sai dove?» «No. Era con Baddi.» «Baddi?» «Fa il buttafuori. Se la prendi, vado dai giornalisti. Capito? Vado dai giornalisti.» «Dov'è che fa il buttafuori?» La donna glielo disse. Erlendur si alzò e chiamò prima un'ambulanza, poi i servizi sociali di Reykjavík e spiegò brevemente la situazione. «Passiamo alla seconda domanda» disse Erlendur, mentre aspettava i paramedici. «Chi è quell'animale che ti picchia?» «Lascialo perdere» rispose la donna. «Così potrà andare avanti a fare i suoi comodi. È questo che vuoi?» «No.» «Allora chi è?» «È solo...» «Sì. Cosa? È solo, cosa?» «Lo vuoi prendere?» «Sì.» «Se lo vuoi prendere, lo devi ammazzare, altrimenti lui ammazza me» rispose lei, rivolgendogli un sorriso gelido. Baddi era un buttafuori muscoloso con la testa minuscola che lavorava in un locale di spogliarelliste in centro a Reykjavík, il Rosso Greifi. Quando Erlendur arrivò, all'ingresso non c'era lui ma un'altra montagna di muscoli, di corporatura simile, che gli indicò dove trovarlo. «Lui si occupa del privato» gli disse, ma Erlendur non capì subito. Rimase lì a fissarlo. «Lo show privato» precisò il buttafuori. «Lo spettacolo privato.» E poi alzò gli occhi al cielo, come rassegnato. Erlendur entrò nel locale illuminato con lampadine rosse a basso voltaggio. Nella sala c'erano il bancone del bar, pochi tavoli, qualche sedia e un paio di individui intenti a guardare una ragazza sul palco che si avvinghiava a un palo d'acciaio al ritmo ossessivo di una canzone pop. La giovane lo guardò, si mise a ballargli davanti, come se fosse un probabile cliente, e si slacciò il minuscolo reggiseno. Erlendur ricambiò lo sguardo con una compassione così profonda che la ragazza si agitò e inciampò, poi riprese
l'equilibrio, si allontanò sculettando e lasciò cadere a terra il reggiseno con disinvoltura, nel tentativo di recuperare la propria dignità. L'agente cercò di capire dove potessero tenersi gli show privati, poi vide un corridoio buio proprio davanti al palco e si avviò in quella direzione. Il corridoio era tinteggiato di nero e all'estremità opposta c'era una scala che portava nel seminterrato. Erlendur non vedeva bene, dunque scese lentamente, un gradino dopo l'altro, e arrivò a un altro corridoio dipinto di nero. Una lampadina rossa pendeva solitaria dal soffitto e in fondo giganteggiava una montagna di muscoli, con le braccia possenti incrociate sul torace, che lo fissava. Lungo il corridoio c'erano sei porte, tre su ogni lato. Da una delle stanze Erlendur sentì il suono di un violino, una serie di accordi malinconici. La montagna di muscoli gli si avvicinò. «Sei Baddi?» gli chiese. «Dov'è la tua bambina?» gli domandò il maciste con la testa piccola, che gli troneggiava sul collo tozzo come una verruca. «Volevo chiederlo a te» rispose Erlendur stupito. «A me? Io non gestisco le ragazze. Devi risalire a prenderne una e poi tornare qui sotto.» «Ah, volevi dire quelle» disse Erlendur, quando si rese conto dell'equivoco. «Io sto cercando Eva Lind.» «Eva? Ha smesso da un casino di tempo. Stavi con lei?» Erlendur lo fissò. «Come, ha smesso? Che vuoi dire?» «Veniva a lavorare qui qualche volta. Come fai a conoscerla?» Nel corridoio si aprì una porta e uscì un giovane, preso a sistemarsi la cerniera dei pantaloni. Nella stanza alle sue spalle Erlendur intravide una ragazza nuda che si chinava a raccogliere i vestiti per terra. L'uomo si infilò fra i due, diede una leggera pacca sulla spalla a Baddi e sparì su per le scale. La ragazza nella stanza guardò Erlendur e richiuse la porta di scatto. «Vuoi dire che stava qui sotto?» gli chiese stupito. «Eva stava qui sotto?» «Molto tempo fa. Adesso ce n'è una che le assomiglia» rispose Baddi con l'entusiasmo di un concessionario, e gli indicò una porta. «Studia medicina, è lituana. La ragazza col violino. La senti? Frequenta una scuola famosa in Polonia. Vengono qui, fanno qualche soldo e poi continuano a studiare.» «Sai dove posso trovare Eva Lind?»
«Non diciamo mai dove abitano le ragazze» replicò Baddi con un'espressione quasi beatificata. «Non voglio sapere dove abitano le ragazze» disse Erlendur stanco. Faceva attenzione a non perdere la pazienza, sapeva che doveva trattenersi e ottenere le informazioni che gli servivano con diplomazia, anche se la cosa che voleva di più al mondo era torcergli quella verruca sul collo. «Credo che Eva Lind sia in pericolo, mi ha chiesto di aiutarla» gli spiegò, con tutta la calma di cui era capace. «E chi saresti, tu, il suo papà?» lo derise Baddi con disprezzo, ridacchiando. Erlendur lo guardò e si chiese come arrivare a quella testolina tanto piccola. Quando Baddi si rese conto di aver colto nel segno, il ghigno che gli si era dipinto sul volto si raggelò. Aveva solo tirato a indovinare, come sempre. Fece lentamente un passo indietro. «Sei della polizia?» chiese, ed Erlendur annuì. «Questo posto è in regola.» «Non mi riguarda. Sai nulla di Eva Lind?» «È scomparsa?» «Non lo so» rispose Erlendur. «Per me sì. Mi ha parlato poco fa e mi ha chiesto di aiutarla, ma non so dove sia. Mi hanno detto che tu la conosci.» «Siamo stati insieme per un po', te l'ha detto lei?» Erlendur scosse il capo. «È impossibile stare con lei. È fuori di testa.» «Mi puoi dire dove si trova?» «È tanto che non la vedo. Ti odia. Lo sai?» «Quando stavi con lei, chi le procurava la roba?» «Vuoi dire chi era il suo pusher?» «Il pusher, sì.» «Vuoi metterlo dentro?» «Non voglio mettere dentro nessuno. Devo trovare Eva Lind. Mi puoi aiutare o no?» Baddi ci pensò su. Non era affatto obbligato ad aiutare quell'uomo, né tanto meno Eva Lind. Poteva pure andare a fare in culo, per quanto gli importava. Ma quel poliziotto aveva un'espressione in volto che gli suggeriva fosse meglio stare dalla sua parte che mettersi contro di lui. «Non so niente di Eva» rispose. «Parla con Alli.» «Mi?» «Non dirgli che ti ho mandato io, però.»
5 Erlendur raggiunse in macchina l'estrema periferia della città, quella che dà sul porto, e pensò a Eva Lind e a Reykjavík. Lui non era nato lì e non si considerava originario della città anche se vi aveva abitato quasi tutta la vita e l'aveva vista dilatarsi lungo le baie e sulle colline circostanti, mentre nel resto del paese i centri abitati si spopolavano. La città moderna era stracolma di gente che non voleva o non poteva più vivere in campagna o sulla costa, si era trasferita per cominciare una nuova vita, al punto da perdere le proprie radici, e adesso si trovava lì senza un passato e con un futuro incerto. Lui non si era mai sentito a suo agio. Si sentiva estraneo a quel luogo. Alli era sulla ventina, segaligno, fulvo e lentigginoso; gli mancava un incisivo e aveva il volto scavato e un'aria malaticcia, inoltre aveva una brutta tosse. Era dove gli aveva detto Baddi, seduto a un tavolo nel Kaffi Austurstræti, da solo, davanti a un bicchiere di birra vuoto. Sembrava stesse dormendo, la testa gli ciondolava sul petto e le braccia erano incrociate sul torace. Addosso aveva un giaccone imbottito verde, sudicio, con il collo di pelliccia. Baddi gli aveva fornito una buona descrizione. Erlendur andò a sedersi al suo tavolo. «Sei Alli?» chiese, senza ottenere risposta. Si guardò intorno. Il locale non era molto luminoso e c'erano quattro gatti seduti ai pochi tavoli. Dalle casse appese in alto alla parete un famoso cantante country cantava una canzone triste sull'amore perduto. Il barista di mezza età era seduto su un alto sgabello dietro il bancone e leggeva Isfólkiđ. Erlendur ripeté la domanda e alla fine lo strattonò per la spalla; l'uomo si svegliò e lo guardò con occhi vacui. «Un'altra birra?» gli chiese Erlendur e cercò di sorridergli come poté. Sul volto gli si disegnò una smorfia. «Chi sei?» gli domandò Alli imbambolato. Non tentò nemmeno di mascherare l'espressione idiota che aveva in faccia. «Sto cercando Eva Lind. Sono suo padre e ho fretta. Mi ha chiamato chiedendo aiuto.» «Sei uno sbirro?» chiese Alli. «Sì» rispose Erlendur. Alli si raddrizzò e si guardò intorno guardingo. «Perché lo chiedi a me?»
«So che la conosci.» «Come?» «Sai dov'è?» «Mi offri una birra?» Erlendur lo osservò e per un attimo si chiese se stava usando il metodo giusto, ma continuò lo stesso, aveva molta urgenza. Si alzò e si avvicinò rapido al bar. Il barista alzò la testa riluttante da Isfólkiđ, depose il libro di malavoglia e andò a servirlo. Erlendur ordinò una birra grande. Stava tastandosi le tasche in cerca del portafoglio, quando si rese conto che Alli era sparito. Si guardò intorno velocemente e vide che la porta esterna stava ancora sbattendo sui cardini. Piantò lì il barista con il bicchiere pieno, uscì e vide il ragazzo correre verso il quartiere di Grjótathorp. Alli non era molto veloce e non aveva nemmeno tanta resistenza. Si voltò, vide che lo sbirro gli era alle costole e cercò di accelerare, ma era spompato. Erlendur lo raggiunse subito e lo atterrò con una spinta; allora si mise a piagnucolare. Dalle tasche gli caddero due flaconi di pillole che Erlendur raccolse. Sembravano pasticche di ecstasy. Lo tirò per la giacca e sentì tintinnare altre boccette. Quando gli ebbe svuotato le tasche, Erlendur si ritrovò fra le mani una fornitura completa di stupefacenti. «Mi... a... ammazzano...» balbettò Alli con il fiatone, alzandosi. In giro c'era poca gente. Una coppia di mezz'età sull'altro lato della strada aveva seguito la scena, ma si era affrettata ad andarsene non appena aveva visto Erlendur raccogliere un contenitore di pillole dopo l'altro. «Non m'interessa» rispose. «Non prendermi quella roba. Non sai come sono quelli...» «Quelli, chi?» Alli si appoggiò al muro di una casa e cominciò a piangere. «Stavolta non la passo liscia» disse, mentre gli colava il moccio dal naso. «Non me ne frega un cazzo. Quando hai visto Eva Lind l'ultima volta?» Alli tirò su col naso e all'improvviso rifilò a Erlendur uno sguardo tagliente, come se intravedesse una via d'uscita. «Okay.» «Cosa?» «Se ti dico di Eva, mi ridai la mia roba?» chiese. Erlendur ci pensò su. «Se sai di Eva, te la restituisco. Se menti, torno e ti uso come tappeto elastico.»
«Okay, okay. Eva è venuta da me oggi. Se la vedi, dille che mi deve dei soldi. Tanti soldi. Mi sono rifiutato di darle altra roba. Io non tratto con femmine incinte.» «Certo» disse Erlendur. «Un uomo di sani principi come te...» «È venuta con quel pancione, si è messa a belare, ha cominciato a fare un sacco di casino quando mi sono rifiutato di darle la roba e poi se n'è andata.» «Sai dove?» «Non ne ho idea.» «Dove abita?» «Quella è una bella figa senza un soldo. Ho bisogno di grano, capisci? Altrimenti mi ammazzano.» «Sai dove abita?» «Dove abita? Da nessuna parte. Sta in giro e basta. Sta in giro e scrocca. Crede di poterla avere gratis, la droga.» Alli sbuffò, pieno di disprezzo. «Come se uno gliela potesse regalare. Come se fosse un regalo e basta.» Quando parlava, dalla fessura del dente mancante usciva un leggero sibilo, così a un tratto sembrò un bambinone con addosso un giaccone lurido che cercava di darsi delle arie. Gli scese di nuovo del muco dalle narici. «Dove potrebbe essere andata?» Alli guardò Erlendur e tirò su col naso. «Me la dai indietro, la roba?» «Dov'è?» «Se te lo dico mi ridai tutto?» «Dov'è?» «Allora, se ti dico di Eva Lind ci stai?» «Se non menti. Dov'è?» «C'era una ragazza con lei.» «Chi?» «So dove abita.» Erlendur gli si avvicinò. «Ti restituisco tutto» gli disse. «Come si chiama la ragazza?» «Ragga. Sta proprio qui, in Tryggvagata. Là in fondo, in quel condominio grande davanti al molo.» Alli allungò una mano esitante. «Okay? L'hai promesso. Dammela. L'hai promesso.» «Non ci penso nemmeno a restituirti tutta questa roba, idiota» rispose
Erlendur. «E se avessi tempo, verrei con te in centrale in Hverfisgata e ti sbatterei al fresco. Quindi vedi che tutto sommato qualcosa ci guadagni lo stesso?» «No! Mi ammazzano! No! Dammi la roba, ti prego. Ridammela!» Erlendur non l'ascoltò nemmeno e se ne andò lasciandolo a singhiozzare appoggiato al muro della casa, mentre malediceva se stesso e sbatteva la testa in preda a una rabbia impotente. Erlendur riuscì a sentirne le imprecazioni per un bel po', ma con sua grande sorpresa notò che non erano indirizzate a lui bensì a se stesso. «Che cazzo di stronzo, sei uno stronzo, stronzo, stronzo, un maledetto stronzo...» Si voltò e vide che Alli si stava schiaffeggiando. Un bambino, avrà avuto quattro anni, con addosso solo i pantaloni del pigiama, a piedi nudi e con i capelli sporchi, aprì la porta e guardò Erlendur. L'agente si chinò verso di lui e, quando gli porse la mano per accarezzargli la guancia, quello ritrasse pronto la testa. Erlendur chiese se la sua mamma era in casa, ma il piccolo gli rivolse uno sguardo interrogativo e non gli rispose. «Eva Lind è da te, tesoro?» gli chiese. Erlendur sentiva che il tempo gli stava sfuggendo dalle mani. Erano passate almeno due ore da quando la figlia gli aveva telefonato. Cercò di scacciare il pensiero che fosse già troppo tardi per poterle essere di aiuto. Provò a immaginare in che genere di difficoltà si trovasse, ma preferì non insistere con quella tortura e si concentrò sulla ricerca. Dopo avere lasciato Alli, quella sera, almeno sapeva con chi si trovava la ragazza. Sapeva che era sempre più vicina. Il bambino non gli rispose. Scappò nell'appartamento e sparì. Erlendur lo seguì ma non riuscì a vedere dove si era cacciato. Lì dentro era buio pesto ed Erlendur tastò la parete con le mani in cerca dell'interruttore della luce. Ne trovò un paio che non funzionavano, finché non si rese conto di essere entrato in una cameretta. Finalmente riuscì ad accendere una lampadina solitaria che pendeva dal soffitto. Non c'era il pavimento, solo freddo cemento. Alcuni materassi sporchi erano disposti qua e là per casa e su uno di questi giaceva una ragazza, un po' più giovane di Eva Lind, con addosso un paio di jeans strappati e una maglietta rossa senza maniche. Aperta accanto a lei c'era una piccola cassetta di metallo con due siringhe. Un sottile laccio di plastica giaceva per terra arrotolato. Due uomini dormivano su un
materasso, entrambi di fianco a lei. Erlendur si chinò accanto alla giovane e la scosse, ma non ebbe alcuna reazione. Le sollevò la testa e la fece sedere, poi la schiaffeggiò leggermente. La donna mormorò qualcosa di incomprensibile. L'agente si alzò, la aiutò a rimettersi in piedi e cercò di farla camminare, allora si riebbe subito. Aprì gli occhi. Erlendur vide una sedia nella penombra e la fece sedere. Lei lo guardò, poi la testa le ricadde di nuovo ciondoloni sul petto. Lui la colpì in volto con delicatezza, per svegliarla. «Dov'è Eva Lind?» le chiese. «Eva» mormorò la ragazza. «Sei stata con lei oggi. Dov'è andata?» «Eva...» La testa le ricadde di nuovo sul petto. Erlendur vide il bambino in piedi sulla porta della camera. Teneva una bambola sotto il braccio e con l'altra mano reggeva un biberon vuoto che allungò verso di lui. Poi se lo infilò in bocca e lo sentì succhiare a vuoto. Prima di prendere il cellulare e chiamare aiuto, lo osservò e strinse forte i denti. Come aveva richiesto, arrivò un medico con l'autoambulanza. «Devo chiederle di farle un'iniezione» gli disse Erlendur. «Un'iniezione?» ripeté il medico. «Credo sia eroina. Ha del naloxone o del narcan nella valigetta?» «Sì, io...» «Devo parlare con lei. Subito. Mia figlia è in pericolo. Questa ragazza sa dove si trova.» Il medico guardò la giovane, poi il poliziotto e annuì. Erlendur l'aveva riadagiata sul materasso, ma passò qualche minuto prima che si riavesse. I paramedici erano accanto a lei e reggevano una barella. Il bambino era nascosto in camera. I due uomini erano ancora distesi, come storditi. Erlendur si chinò verso la ragazza che a poco a poco stava riprendendo coscienza. Guardò lui, poi il medico e infine gli uomini con la barella. «Che succede?» chiese a voce bassa, come se stesse parlando fra sé. «Cosa sai di Eva Lind?» le domandò Erlendur. «Eva?» «Era con te oggi pomeriggio. Credo che possa essere in pericolo. Sai dov'è andata?» «Eva non sta bene?» disse, poi si guardò intorno. «Dov'è Kiddi?»
«C'è un bambino là in camera» rispose Erlendur. «Ti sta aspettando. Dimmi dove posso trovare Eva Lind.» «Chi sei?» «Sono suo padre.» «Lo sbirro?» «Sì.» «Lei non ti sopporta.» «Lo so. Sai dov'è?» «Aveva dei dolori. Le ho detto di andare all'ospedale. Voleva andare a piedi.» «Dolori?» «Le faceva male la pancia.» «Da dov'è partita? Da qui?» «Eravamo a Hlemmur.» «Hlemmur?» «Voleva andare all'ospedale statale. Non è lì?» Erlendur si alzò e si fece dare dal medico il numero dell'ospedale. Telefonò all'accettazione e apprese che nelle ultime ore non si era presentata nessuna Eva Lind. Non era arrivata nessuna donna della sua età. Contattò il reparto maternità e cercò di descrivere sua figlia come meglio poté, ma l'ostetrica di guardia disse di non averla vista. Allora corse fuori dall'appartamento e raggiunse in un lampo Hlemmur. Non c'era anima viva in giro. La stazione degli autobus chiudeva a mezzanotte. Parcheggiò la macchina e percorse velocemente a piedi la Snorrabraut, si mise a correre lungo la strada davanti alle case del quartiere di Norđurmýri e diede un'occhiata veloce nei giardini, in cerca di sua figlia. Quando fu più vicino all'edificio dell'ospedale, la chiamò per nome, ma non ottenne alcuna risposta. Alla fine la trovò distesa in una pozza di sangue in un'aiuola fra gli alberi, a circa cinquanta metri dalla vecchia sede della clinica ostetrica. Non ci mise molto a trovarla. Ma era troppo tardi. L'erba sotto di lei era rossa di sangue e i pantaloni ne erano intrisi. Erlendur le si chinò accanto, guardò l'edificio e vide se stesso sparire dentro il portone con Halldóra, in un giorno di pioggia di tanti anni prima, il giorno in cui Eva Lind era venuta al mondo. Voleva morire nello stesso posto? Erlendur la accarezzò sulla fronte, incerto se muoverla oppure no. Vide che era incinta di almeno sette mesi.
Aveva cercato di fuggire, ma ormai ci aveva rinunciato da tempo. L'aveva lasciato due volte, quando abitavano ancora nel seminterrato di Lindargata. Dalla prima volta che l'aveva picchiata a quando aveva di nuovo perso il controllo, come diceva lui, era passato un anno intero. All'epoca lui parlava ancora delle violenze che le riservava. Lei non credeva che perdesse il controllo. Anzi, non le sembrava che avesse mai il pieno controllo di sé come quando cercava di ammazzarla di botte e le vomitava addosso gli insulti peggiori. Anche nei momenti di maggiore sfogo, era freddo e composto, sapeva bene cosa stava facendo. Sempre. Con il tempo si rese conto che, se avesse voluto sconfiggerlo, non doveva essergli da meno. Per questo il primo tentativo di fuga era destinato a fallire. Non si era preparata, ignorava quante possibilità di successo ci fossero, non sapeva a chi rivolgersi, così all'improvviso, una sera di febbraio, mentre soffiava un vento gelido, si ritrovò fuori casa con due bambini, Símon per mano e Mikkelína sulla schiena, senza sapere dove andare. Sapeva solo che doveva fuggire da quel seminterrato. Aveva parlato con il reverendo, ma lui le aveva detto che una brava moglie non lascia mai il proprio marito. Agli occhi di Dio e delle persone la coppia era sacra; certo, per rimanere insieme dovevano sopportare tante cose. «Pensa ai bambini» le aveva detto. «È proprio a loro che penso, infatti» gli aveva risposto, ma il pastore le aveva sorriso bonariamente. Non aveva cercato di rivolgersi alla polizia. In due occasioni i loro vicini avevano fatto sapere agli agenti che lui la picchiava, così erano andati nel seminterrato per placare una discussione, ma poi se n'erano andati. Lei si era presentata alla polizia con un occhio gonfio e un labbro spaccato, ma loro avevano detto al marito di darsi una calmata perché disturbavano la quiete pubblica. La seconda volta, due anni dopo, i poliziotti lo avevano richiamato per un confronto. Erano usciti un attimo con lui dall'appartamento e lei aveva urlato che l'aveva aggredita e che la voleva ammazzare e non era la prima volta. Le avevano chiesto se aveva bevuto. Lei non aveva capito la domanda. Ha bevuto? le avevano ripetuto. Lei aveva risposto di no. Non beveva mai. Fuori dalla porta avevano detto qualcosa al marito, poi lo avevano salutato con una stretta di mano. Quando se ne furono andati, lui le aveva accarezzato una guancia con la
lama del rasoio. Così quella sera, appena si fu addormentato, si caricò Mikkelína sulla schiena e spinse piano Símon fuori di casa, poi su per le scale del seminterrato. Dal vecchio scheletro di una grossa carrozzina trovata nei rifiuti aveva ricavato un passeggino per Mikkelína, ma quella sera, in un attacco di furia, lui glielo aveva rotto, come se sentisse che pensava di andarsene e volesse impedirglielo. Non aveva affatto preparato quella fuga. Alla fine si rivolse all'Esercito della Salvezza e le fu assegnato un posto in cui dormire al chiuso. Non aveva nessun parente, né a Reykjavík né altrove. Al mattino, non appena lui si svegliò, si accorse che se n'erano andati, così si alzò e uscì a cercarli. Si aggirava per la città al freddo, in maniche di camicia, poi li vide uscire dall'edificio dell'Esercito della Salvezza. Lei se ne accorse solo quando suo marito le strappò il bambino e le prese la bimba dalle braccia, poi se ne tornò verso casa in silenzio, senza dire una parola. Non guardò né a destra né a sinistra, e non si girò mai indietro. I bambini erano troppo impauriti per opporre resistenza, ma la donna vide Mikkelína allungare le manine verso di lei e scoppiare in un pianto silenzioso. Cosa le era venuto in mente? Così si affrettò a seguirli. Dopo il secondo tentativo, lui minacciò di ammazzarle i bambini, così, dopo quella volta, non cercò più di fuggire. Si preparò al meglio. Sognava di poter cominciare una nuova vita. Trasferirsi con i figli in un paesino sul mare, a nord, prendere in affitto una stanza o un appartamentino, trovare lavoro nell'industria del pesce e fare in modo che a loro non mancasse niente. Quella volta dedicò molto più tempo all'organizzazione. Decise di trasferirsi a Siglufjördur. Dopo gli anni difficili della grande depressione c'era abbastanza lavoro per tutti, e infatti un gran numero di persone si trasferiva lì da tutto il paese, così nessuno avrebbe fatto caso a una donna sola con due bambini. Finché non fosse riuscita a pagarsi una stanza, avrebbe potuto trovare posto nel dormitorio degli operai. Il viaggio in corriera non costava poco e suo marito metteva via ogni singola corona guadagnata al porto. Ci mise molto a risparmiare quanto le serviva. Prese con sé tutti gli indumenti dei bambini che riuscì a stipare in una piccola valigia, pochissimi oggetti personali e il passeggino di Mikkelína, che aveva risistemato ed era ancora utilizzabile. Si incamminò svelta verso la stazione delle corriere, guardandosi spesso intorno spaventata, come se si aspettasse di vedere il marito a ogni angolo.
Lui rincasò per pranzo, come al solito, e si rese subito conto che lo aveva lasciato. La donna sapeva che doveva fargli trovare il piatto pronto quando tornava a casa, e non si era mai permessa di venir meno all'impegno. Vide che il passeggino era sparito. L'armadio era rimasto aperto. Mancava la valigia. Si diresse a grandi falcate fino alla sede dell'Esercito della Salvezza, ricordando il primo tentativo di fuga, e quando gli dissero che sua moglie non era lì fece una scenata. Non ci credeva, così corse per tutto l'edificio, in ogni stanza e nel seminterrato ma, non trovando la sua famiglia da nessuna parte, si scagliò contro il direttore, il capitano dell'esercito, lo buttò a terra e minacciò di ucciderlo se non gli avesse detto dov'era. Quando infine comprese che sua moglie non si era rivolta a loro, si aggirò per la città, senza riuscire a trovarla. Entrò come un pazzo nei negozi e nei ristoranti, ma non la vide da nessuna parte; la rabbia e l'impotenza crebbero con il passare delle ore, finché tornò a casa fuori di sé dalla collera. Mise tutto sotto sopra in cerca di indizi su dove potesse essere andata, poi corse a casa di due colleghe dei tempi in cui lavorava come governante, si introdusse in casa loro e chiamò a gran voce la donna e i bambini, poi uscì, senza nemmeno scusarsi per quel comportamento, e sparì. La donna arrivò a Siglufjördur alle due di notte, dopo aver viaggiato quasi senza sosta per tutto il giorno. La corriera si era fermata tre volte e i passeggeri avevano avuto la possibilità di sgranchirsi le gambe e consumare il loro pranzo al sacco o comprare qualcosa alla tavola calda. Aveva preparato un boccone per i bambini, dei panini e una bottiglia di latte, ma avevano ancora fame quando la corriera raggiunse Haganesvík, a Fljót, dove li attendeva un traghetto che li avrebbe portati fino a Siglufjördur. Così a un tratto si ritrovò con i due figli sul piazzale davanti al molo, nel freddo della notte. Una volta trovati i dormitori degli operai, si rivolse al responsabile, che le diede una stanzetta con un letto singolo e le prestò un materasso da stendere per terra e due coperte; trascorsero così la loro prima notte di libertà. I bambini si addormentarono di sasso, mentre lei rimase sveglia a fissare il buio, senza riuscire a controllare il tremito che le scuoteva tutto il corpo, finché crollò in un pianto dirotto. Suo marito la trovò qualche giorno dopo. Un'eventualità che aveva preso in esame era che la donna avesse lasciato la città, magari con una corriera, quindi era andato alla stazione e si era messo a fare domande finché non aveva scoperto che si era diretta a nord, verso Siglufjördur. Parlò con il conducente, che si ricordava bene della donna e dei bambini, in particolar
modo della piccola minorata. Prese la prima corriera diretta a nord e arrivò a Siglufjördur poco dopo la mezzanotte. Girò da un dormitorio all'altro e infine, su indicazione del responsabile, che aveva svegliato spiegandogli la situazione, la trovò che dormiva nella sua stanzetta. Disse che la donna l'aveva preceduto, ma che con tutta probabilità non sarebbero rimasti a lungo in paese. Si introdusse in silenzio nella camera. Da una finestrella filtrava un flebile chiarore che proveniva dalla strada. Scavalcò i bambini sul materasso e si piegò su di lei fino a sfiorarle quasi il volto con il suo, poi la scrollò. Dormiva profondamente, così la scosse più forte, finché non aprì gli occhi; quando le lesse negli occhi un autentico terrore, sorrise. La donna voleva gridare aiuto, ma lui le chiuse la bocca con il palmo della mano. «Credevi davvero che ci saresti riuscita?» le sussurrò minaccioso. Lei lo fissò in volto. «Credevi davvero che fosse così facile?» Scosse il capo lentamente. «Sai cosa avrei voglia di fare adesso?» sibilò a denti stretti. «Voglio salire in montagna con la tua bimba, ammazzarla e poi sotterrarla dove nessuno la troverà mai; dirò in giro che la poverina è finita in mare. E sai una cosa? Lo farò. Lo farò adesso, subito. Se fiati, ammazzo anche il maschio. Dirò che è finito in mare pure lui.» Quando si voltò a guardare i bambini, sua moglie emise come un debole guaito e lui le sorrise. Le tolse la mano dalla bocca. «Non lo farò più» mormorò. «Mai più. Non lo farò mai più. Perdonami. Perdonami. Non so cosa avevo in mente. Sono matta. Lo so. Sono matta. Non farla pagare ai bambini. Picchia me. Picchiami. Più forte che puoi. Picchiami più forte che puoi. Possiamo uscire, se vuoi.» La sua disperazione lo riempì di disprezzo. «L'hai voluto tu» rispose lui. «Se è quello che vuoi, ti accontenterò.» Finse di protendersi verso Mikkelína, che dormiva di fianco a Símon, ma afferrò lui, quasi fuori di sé dal terrore. «Guarda» gli disse e cominciò a picchiarsi in volto. «Guarda.» Si strappò i capelli. «Guarda.» Si alzò e si buttò di nuovo all'indietro contro la testata di ferro del letto e, che fosse sua intenzione o meno, perse i sensi e gli cadde davanti. La corriera ripartiva il mattino successivo. La donna aveva lavorato qualche giorno alla salatura delle aringhe, così il marito la accompagnò a ritirare la paga. Il tutto si svolgeva in uno spiazzo all'aperto, dunque era ri-
uscita a tener d'occhio i figli che giocavano nelle vicinanze, altrimenti li lasciava in stanza. Lui spiegò al principale che dovevano tornare a Reykjavík. Avevano ricevuto notizie da sud che li avevano costretti a cambiare i loro progetti e adesso lei aveva un credito con loro. Il principale scrisse qualcosa su un foglio e li indirizzò all'ufficio competente. Mentre lo porgeva al marito, guardò la donna. Gli sembrò sul punto di dire qualcosa, ma fraintese la sua paura per timidezza. «Tutto a posto?» chiese il principale. «Sì» rispose l'uomo e se ne andò a grandi falcate con la moglie. Quando tornarono nel seminterrato a Reykjavík, lui non la toccò nemmeno. La donna era rimasta in mezzo alla stanza con addosso il suo misero cappottino e la piccola valigia in mano, aspettandosi le percosse peggiori di tutta la sua vita, ma niente. La gragnuola di colpi che si era inflitta da sola lo aveva colto di sorpresa. Non aveva voluto chiedere aiuto e aveva cercato di curarla da solo e farla riprendere; da quando si erano sposati era la prima volta che le mostrava delle attenzioni. Quando si fu ristabilita, le disse che non avrebbe dovuto lasciarlo mai più. Altrimenti li avrebbe uccisi, prima lei e poi i bambini. Era sua moglie e lo sarebbe sempre stata. Sempre. Dopo quella volta non tentò più di fuggire. Passarono gli anni. Il suo progetto di imbarcarsi su un peschereccio svanì nel nulla dopo soli tre tentativi. Soffriva molto il mal di mare e non c'era nulla che glielo facesse passare. A questo si aggiungeva un terrore dell'acqua di cui non riuscì mai a liberarsi. Aveva paura che il peschereccio affondasse o di cadere fuori bordo. Aveva paura del maltempo. Durante l'ultima uscita, avevano incontrato una burrasca così violenta che aveva creduto potesse rovesciare la barca, quindi era rimasto seduto sottocoperta a piangere perché temeva fosse giunta la sua ora. Non tornò più in mare dopo quella volta. Pareva incapace di dimostrare affetto a sua moglie. Nel migliore dei casi la trattava con una totale indifferenza. Per i primi due anni di matrimonio era come se si pentisse di averla picchiata o di averle rivolto tutti quegli insulti che la facevano piangere. Ma con il passare del tempo smise di mostrare qualsiasi segno di rimorso, come se quello che le faceva non fosse più una cosa fuori dal normale, né una deformazione nel loro rapporto, ma un provvedimento necessario e giusto. Qualche volta lei pensava che tanta violenza dimostrasse solo quanto suo marito fosse debole, nient'altro, e
forse anche lui lo sapeva dentro di sé. Più la picchiava, più si sentiva un miserabile. Dava la colpa a lei per questo. Le gridava che se la trattava a quel modo era colpa sua. Era lei che lo costringeva, perché era incapace di fare quello che le chiedeva. Non avevano molti amici e nessun conoscente in comune, quindi poco dopo essere andati a vivere insieme, lei era rimasta isolata. Le poche volte che vedeva le sue ex colleghe, non parlava mai delle botte che subiva e con il tempo perse i contatti. Si vergognava. Si vergognava di essere picchiata e colpita quando meno se l'aspettava. Si vergognava per gli occhi neri e le labbra spaccate e i lividi su tutto il corpo. Si vergognava per la vita che conduceva e che sicuramente per gli altri era incomprensibile, abominevole e orrenda. Voleva insabbiare ogni cosa. Voleva nascondersi nella prigione che lui le aveva costruito. Voleva chiudersi dentro e gettare via la chiave e sperare che nessuno la trovasse. Doveva accettare il fatto che lui la maltrattasse. In un certo senso era il suo destino, imprescindibile e immutabile. I bambini erano tutto per lei. Divennero i suoi amici e i suoi compagni, gli unici per cui valeva la pena di vivere, soprattutto Mikkelína, ma anche Símon, una volta cresciuto, e infine il più piccolo, che aveva chiamato Tómas. Sceglieva lei i nomi dei figli. Lui non se ne occupava mai, se non per lamentarsi. Perché mangiavano troppo. Perché di notte facevano un gran chiasso. I bambini soffrivano per le violenze subite dalla mamma, che li considerava un conforto prezioso per tirare avanti in qualche modo. Quell'uomo le annientò a suon di botte la poca stima che aveva di sé. Già per sua natura era schiva e modesta, sempre pronta a compiacere gli altri, gentile, disponibile, perfino remissiva. Quando le rivolgevano la parola sorrideva imbarazzata e doveva farsi coraggio per non sembrare timida. A lui pareva un atteggiamento meschino ed era questo che gli dava tutta l'energia necessaria per accanirsi contro di lei, finché non ne restava niente. Tutta la sua esistenza gravitava intorno a lui. Ai suoi capricci. Al suo servizio. Smise di curarsi come faceva una volta. Smise di lavarsi regolarmente. Smise di pensare al suo aspetto fisico. Le vennero le occhiaie, la pelle del volto si afflosciò e si ingrigì; teneva le spalle curve e la testa china sul petto, come se avesse paura di alzare lo sguardo come una persona normale. I bei capelli folti persero la vita e il colore di un tempo e le pendevano sporchi dalla testa. Se li tagliava da sola con le forbici da cucina quando le sembrava fossero diventati troppo lunghi. O quando a lui parevano troppo lunghi.
Sudicia troia. 6 Gli archeologi proseguirono gli scavi di buon mattino, il giorno dopo il ritrovamento dello scheletro. Gli agenti di polizia che avevano sorvegliato la zona di notte mostrarono loro il punto in cui Erlendur aveva scoperto la mano e Skarphédinn andò su tutte le furie quando vide il modo in cui era stata scavata la terra. Che razza di incompetenti, lo sentirono borbottare fin oltre mezzogiorno. Nella sua testa, lo scavo era una specie di rito sacro, in cui doveva essere prelevato ogni singolo strato di terreno affinché la storia di quello che vi giaceva sotto potesse essere rivelata e i suoi misteri risolti. Ogni più piccolo dettaglio faceva la differenza, ogni zolla poteva conservare una testimonianza importantissima, che gli incompetenti riuscivano solo a rovinare. Fra un ordine e l'altro impartito alla sua squadra, fece una predica furiosa a Elínborg e Sigurđur Óli, anche se loro non avevano fatto nulla di male. Il lavoro procedeva con estrema lentezza a causa delle scrupolose procedure degli archeologi. Lungo tutta l'area, in lunghezza e in ampiezza, erano state legate delle corde che delimitavano le varie zone secondo un sistema ben preciso. Era fondamentale che la posizione dello scheletro non venisse modificata; gli esperti si assicurarono che la mano non penzolasse, benché stessero ripulendo il terreno sottostante, e che ogni granello di terra venisse esaminato con cura. «Perché la mano emerge dal terreno?» chiese Elínborg fermando Skarphédinn, che le stava sfrecciando accanto, indaffarato. «Impossibile dirlo» le rispose. «Nel peggiore dei casi, la persona che giace lì sotto era viva quando l'hanno sepolta e ha cercato di opporre resistenza e di scavarsi una via di fuga.» «Viva!» sospirò Elínborg. «Scavarsi una via di fuga?» «Non deve essere andata per forza così. Non è escluso che la mano sia rimasta in questa posizione quando il corpo è finito nel terreno. È troppo presto per dirlo. E adesso non mi disturbi più.» Sigurđur Óli ed Elínborg si stupirono molto che Erlendur non si fosse presentato agli scavi. Certo, era un tipo strano e imprevedibile, ma sapevano anche che le persone scomparse, del passato o del presente, costituivano il suo interesse principale e, con un po' di fortuna, lo scheletro nel terreno poteva fornire la chiave per risolvere un vecchio caso di sparizione che
a lui sarebbe piaciuto moltissimo riaprire, fra documenti ingialliti. Dopo mezzogiorno Elínborg cominciò a chiamarlo sia a casa sia sul cellulare, senza ottenere risultati. Verso le due il suo telefonino squillò. «Sei lì?» disse una voce roca che lei riconobbe subito. «Dove sei?» «Faccio un po' tardi. Sei agli scavi?» «Sì.» «Li vedi i cespugli? Credo siano di ribes rosso. Si trovano circa trenta metri a est rispetto alla fossa, quasi in linea retta, solo spostati un po' verso sud.» «Cespugli di ribes?» Elínborg aguzzò la vista e osservò la zona per identificarli. «Sì» rispose, «li vedo.» «Sono stati piantati lì chissà quando, molto tempo fa.» «Sì.» «Cerca di scoprire perché. Se qualcuno ha vissuto lì. Se anni fa lì c'era una casa. Vai al catasto e procurati le mappe della zona, anche le foto aeree, se le hanno. Forse dovrai esaminare la documentazione dall'inizio del secolo fino almeno al 1960. Anche oltre.» «Credi che ci fosse una casa qui sulla collina?» disse Elínborg, guardandosi intorno. Non cercò nemmeno di nascondere il suo scetticismo. «Credo che dovremmo accertarcene. Che sta facendo Sigurđur Óli?» «Sta controllando le denunce di persone scomparse dal dopoguerra a oggi, tanto per cominciare. Ti sta aspettando. Dice che a te questo tipo di cose diverte moltissimo.» «Prima ho parlato con Skarphédinn, dice che durante la guerra lì c'era un accampamento militare, sull'altro versante, lungo il pendio meridionale di Grafarholt. Dove adesso c'è il campo di golf.» «Un accampamento?» «Sì, inglese o americano. Di militari. Con le caserme. Non ricorda come si chiamava. Dovresti cercare anche quello. Verifica che gli inglesi non abbiano denunciato la scomparsa di qualcuno proprio da lì. O gli americani che sono subentrati dopo.» «Inglesi? Americani? In guerra? Aspetta un attimo, dove la trovo questa roba?» chiese Elínborg sorpresa. «Quando sono subentrati gli americani?» «Nel 1941. Potrebbe essere stato un deposito viveri, almeno così crede Skarphédinn. Non escluderei l'ipotesi delle case di villeggiatura, sulla collina o lì intorno. Magari la scomparsa può essere collegata. Ci servono in-
formazioni, anche solo per sentito dire, oppure qualche sospetto. Dobbiamo parlare con le persone che hanno una casa nei dintorni.» «È un lavoro immane solo per un vecchio scheletro» disse Elínborg scontrosa, dando un calcio a una zolla di terra accanto alla fossa. «Che stai facendo?» gli chiese poi, con tono quasi accusatorio. «Nulla di divertente» rispose Erlendur, e appese. Tornò nel reparto di terapia intensiva con indosso un sottile camice di carta verde e una mascherina sul volto. Eva Lind giaceva in un letto spazioso in una stanza singola del reparto. Era collegata a macchinari e congegni di ogni genere di cui Erlendur non capiva nulla, e una maschera d'ossigeno le copriva il naso e la bocca. Rimase in piedi in fondo al letto a guardare sua figlia. Era in coma. Non aveva ancora ripreso conoscenza. Sul suo volto regnava una pace che Erlendur non le aveva mai visto prima. Una serenità che non conosceva. Così distesa, i tratti del suo viso sembravano più forti, le sopracciglia più nette, la pelle delle guance più tesa e gli occhi infossati. Non riuscendo a far riprendere conoscenza a Eva quando l'aveva trovata davanti al vecchio reparto di ostetricia, aveva chiamato il pronto intervento. Le aveva sentito il polso debole e l'aveva coperta con il suo soprabito, poi aveva cercato di prendersi cura di lei come poteva, ma non aveva osato spostarla. Prima che se ne rendesse conto, un'autoambulanza era arrivata sul posto, la stessa che avevano mandato in Tryggvagata, con lo stesso medico a bordo. Eva Lind fu sollevata con cautela sulla barella e introdotta nell'ambulanza, che poi percorse a gran velocità il breve tratto di strada fino all'ingresso del pronto soccorso. L'avevano portata direttamente in sala operatoria dov'era rimasta tutta la notte. A furia di camminare avanti e indietro, Erlendur aveva misurato la piccola sala d'attesa della chirurgia, chiedendosi se fosse il caso di avvertire Halldóra. Avrebbe preferito non telefonarle. Finalmente trovò una soluzione. Svegliò Sindri Snær e gli disse di sua sorella, poi gli chiese di mettersi in contatto con la madre in modo che potesse venire in ospedale. Scambiarono qualche parola. Sindri non prevedeva di venire in città a breve. Non vedeva il motivo di mettersi in viaggio per Eva Lind. La conversazione svanì nel nulla. Erlendur si accese una sigaretta dopo l'altra, proprio sotto il cartello che diceva VIETATO FUMARE, finché un chirurgo con la mascherina sul volto gli si avvicinò e lo prese a male parole perché aveva infranto il divie-
to. Non appena il medico se ne fu andato, gli squillò il cellulare. Era Sindri, con un messaggio da parte di Halldóra: non gli avrebbe fatto male prendersi qualche responsabilità, una volta tanto. Il chirurgo che aveva operato Eva Lind andò a parlare con lui verso mattina. La situazione non era buona. Non erano riusciti a salvare il feto e ancora non si sapeva se la ragazza ce l'avrebbe fatta. «È messa male» gli spiegò il medico, un uomo alto e snello sulla quarantina. «Sì» disse Erlendur. «Malnutrizione cronica e abuso di stupefacenti. Ci sarebbero state poche speranze che il bimbo potesse nascere sano, quindi forse... anche se ovviamente è brutto dirlo...» «Capisco» rispose Erlendur. «Non aveva mai preso in considerazione un aborto? In casi come questo è...» «Voleva averlo quel bambino» precisò. «Pensava che potesse aiutarla e anch'io l'ho incoraggiata. Cercava di smettere. C'è una piccolissima parte di Eva che vuole liberarsi da quest'inferno. Una parte minuscola, che ogni tanto emerge e vuole smetterla. Ma di solito è un'altra Eva quella che decide il corso delle cose. Più crudele e spietata, che io non riesco a capire. Un'Eva che vuole questo scempio. Quest'inferno.» Rendendosi conto che stava parlando con uno sconosciuto, Erlendur tacque. «Posso immaginare che sia difficile per dei genitori trovarsi in questa situazione» osservò il medico. «Che è successo?» «Distacco della placenta. Una corposa emorragia interna verificatasi a seguito della rottura del sacco, aggravata dall'effetto di stupefacenti che stiamo ancora analizzando. Ha perso molto sangue e non siamo riusciti a farle riprendere conoscenza. Il che non significa niente di preciso. È estremamente debole.» Tacquero entrambi. «Ha già contattato il resto della famiglia?» chiese il medico. «Così qualcuno potrà stare con lei, oppure...» «Non ho famiglia» gli spiegò Erlendur. «Io e sua madre siamo divorziati. Ma l'ho avvertita. Anche il fratello di Eva. Lavora fuori città. Non so se la mamma vorrà venire. È come se ormai ne avesse avuto abbastanza. È stato molto difficile per lei. Sempre.»
«Capisco.» «Ne dubito» tagliò corto Erlendur. «Nemmeno io lo capisco.» Estrasse alcune bustine di plastica e una confezione di pillole dalla tasca del soprabito e le mostrò al medico. «Può darsi che abbia preso qualcosa da qui» disse. Il medico prese la droga e la esaminò. «Pasticche di ecstasy?» «Pare di sì.» «Certo, questo potrebbe spiegare tutto. Le abbiamo trovato stupefacenti di ogni tipo nel sangue.» Erlendur esitò. Tacquero entrambi per qualche momento. «Sa chi era il padre?» chiese il medico. «No.» «Crede che la ragazza lo sappia?» Erlendur lo guardò e alzò le spalle rassegnato, poi tacquero di nuovo. «Morirà?» gli chiese infine, dopo qualche attimo. «Non lo so» rispose l'altro. «Dobbiamo sperare che vada tutto per il meglio.» Erlendur esitò a formulare la domanda successiva. L'aveva repressa, perché era davvero una cosa terribile, ma non era giunto ad alcuna conclusione. Non era sicuro di volerla formulare. Alla fine si arrese. «Potrei vederlo?» chiese. «Vederlo? Vuol dire...?» «Potrei vedere il feto? Posso avere il permesso di vedere il bimbo?» Il medico lo guardò, ma non c'era stupore sul suo volto, solo comprensione. Annuì e gli disse di seguirlo. Percorsero il corridoio ed entrarono in una stanzetta vuota. Il medico premette un interruttore, le luci al neon sul soffitto tremolarono prima di proiettare una luce azzurrata. Si avvicinò a un freddo tavolo di alluminio, sollevò un piccolo lenzuolo e rivelò il feto morto. Erlendur lo guardò e gli accarezzò la guancia con un dito. Era una femmina. «Mia figlia si risveglierà dal coma? Può dirmelo?» «Non lo so» rispose il medico. «È impossibile dirlo. Deve volerlo. Dipenderà molto da lei.» «Povera bimba» commentò Erlendur. «Si dice che il tempo risani tutte le ferite» commentò il medico, appena ritenne che Erlendur stesse per cedere. «Non solo quelle del corpo, ma an-
che dell'anima.» «Il tempo» concluse Erlendur, sistemando il lenzuolo sopra la bimba «non risana alcuna ferita.» 7 Rimase al capezzale di sua figlia fino verso le sei del pomeriggio successivo. Halldóra non si era fatta viva. Come aveva detto, Sindri Snær non era andato in città. Non c'erano altre persone da informare. Le condizioni di Eva Lind erano stazionarie. Erlendur non dormiva né mangiava dal giorno prima ed era esausto. Era stato al telefono con Elínborg tutto il giorno e aveva deciso di incontrare lei e Sigurđur Óli in ufficio. Accarezzò sua figlia sulla guancia e la baciò in fronte prima di uscire. Quando si sedette coi colleghi per la riunione di fine giornata, non disse una parola sull'accaduto. I due avevano avuto notizia di quanto era capitato a sua figlia verso mezzogiorno, grazie a un passaparola alla centrale di polizia, ma non osavano chiedergli i dettagli. «Stanno ancora grattando la terra sopra lo scheletro» disse Elínborg. «Vanno lentissimi. Credo che abbiano cominciato a usare gli stuzzicadenti. La mano che hai trovato tu è rivolta verso l'alto, sono arrivati fino al polso. Il medico distrettuale l'ha esaminata, ma dice di non poter stabilire altro, se non che si tratta di un essere umano e che aveva le mani piuttosto piccole. Non scuce molto, quel tipo. Gli archeologi non hanno trovato niente che possa spiegare cosa sia accaduto o chi si trovi sepolto lì sotto. Domani pomeriggio, o al massimo domani sera, dovrebbero arrivare al tronco, ma non significa che avremo risposte soddisfacenti sull'identità del morto. Ovviamente bisogna cercarle altrove.» «Io ho raccolto dei dati sui casi di persone scomparse a Reykjavík e dintorni» spiegò Sigurđur Óli. «Sono circa cinquanta quelli degli anni Quaranta e Cinquanta rimasti irrisolti, e magari potrebbe essere uno di quelli. Ho già preso le relative documentazioni e le ho divise per sesso ed età, sto aspettando solo la dichiarazione del medico legale sulle ossa.» «Vuoi dire che c'era qualcuno che abitava su questa collina ed è scomparso?» chiese Erlendur. «No, almeno a giudicare dagli indirizzi indicati negli incartamenti» rispose Sigurđur Óli, «ma in realtà non li ho ancora esaminati tutti e alcuni indirizzi non sono riuscito a identificarli. Quando avremo finito di riesumare lo scheletro e riceveremo la dichiarazione del medico legale con l'età,
l'altezza e il sesso della vittima, potremo sicuramente restringere un po' il campo, magari anche di molto. Comunque credo si tratti di qualcuno che abitava a Reykjavík. Secondo voi mi sbaglio?» «Dov'è l'unico medico legale che abbiamo?» chiese Erlendur. «È in ferie» rispose Elínborg. «In Spagna.» «Hai controllato se vicino ai cespugli c'era una casa?» domandò alla collega. «Che casa?» intervenne Sigurđur Óli. «No, non ci sono ancora arrivata» dichiarò lei, poi guardò l'altro agente. «Erlendur ritiene che una volta ci fosse una casa sul versante settentrionale della collina e crede che l'esercito inglese o americano abbia costruito laggiù un accampamento, ma più a sud. Vuole che parliamo con tutti i proprietari delle case di villeggiatura della zona, dal lago Reynisvatn fino a qui, e anche con i loro nonni, quindi andrò da un sensitivo per parlare con Churchill.» «Tanto per cominciare» commentò Erlendur. «Che teorie avete su queste ossa?» «Si tratta di un omicidio, senza alcuna possibilità d'equivoco» disse Sigurđur Óli. «Commesso mezzo secolo fa, o anche di più. Il cadavere è rimasto nascosto nel terreno per tutto questo tempo, e nessuno sapeva nulla.» «Quest'uomo, o meglio, questa persona» si corresse Elínborg «è stata chiaramente sepolta nel tentativo di occultare un crimine. Credo che il fatto parli da sé.» «Non è corretto dire che nessuno sa niente» precisò Erlendur. «Qualcuno che sa c'è sempre.» «Sappiamo che le costole sono rotte» rimarcò Elínborg. «Questo dovrebbe indicare una colluttazione.» «Ah, sì?» chiese Sigurđur Óli. «Ma sì, non ti pare?» disse Elínborg. «Non potrebbe essere stata una conseguenza della prolungata sepoltura?» azzardò il collega. «Il peso del terreno. Anche i cambiamenti di clima. L'alternanza di freddo e caldo. Ho parlato con il geologo che hai contattato, è stato lui ad accennare a questa ipotesi.» «Se là sotto hanno sepolto un essere umano, deve esserci stata per forza una colluttazione. È chiaro come il sole, no?» Elínborg guardò Erlendur e si accorse che era soprappensiero. «Erlendur?» lo chiamò. «Non è così?» «Se è un omicidio» disse lui, appena tornò in sé.
«Se è un omicidio?» gli fece eco Sigurđur Óli. «Non ne sappiamo niente» proseguì Erlendur. «Forse tempo fa qualcuno ha sepolto là sotto un parente. Forse la famiglia non aveva i mezzi per il funerale. Forse sono le ossa di qualche vecchietto che ha tirato le cuoia in casa ed è stato messo sotto terra cento anni fa, magari cinquanta. Quello che ancora ci manca sono informazioni precise. Almeno la smetteremo di tirare a indovinare.» «Ma non è obbligatorio seppellire le persone in terra consacrata?» domandò Sigurđur Óli. «Credo che se i tuoi congiunti ti vogliono in giardino, puoi farti seppellire dove vuoi» disse Erlendur. «E la mano rivolta verso l'alto?» chiese Elínborg. «Non indica una colluttazione?» «Sì» rispose Erlendur, «credo che sia accaduto qualcosa che è rimasto segreto per tutti questi anni. Qualcuno è stato nascosto in fretta e furia dove non avrebbe mai dovuto essere trovato, ma poi Reykjavík ci ha messo del suo. Dobbiamo scoprire cos'è accaduto.» «Se lui... Ammettiamo che sia un uomo» iniziò Sigurđur Óli. «Se l'Uomo del Millennio è stato ucciso tanti anni fa, come dici, a questo punto l'assassino non sarà già morto di vecchiaia? O quantomeno sarà vecchissimo e avrà un piede nella fossa, dunque sarebbe assurdo mettersi sulle sue tracce per assicurarlo alla giustizia. E probabilmente tutti quelli che hanno avuto a che fare con questa faccenda sono morti, quindi anche se prima o poi riuscissimo a capire cos'è successo, ci mancherebbero i testimoni. Per cui...» «Dove vuoi arrivare?» «Non abbiamo dei buoni motivi per decidere se sprecare energie per quest'indagine. Voglio dire, ne vale la pena?» «E allora ce ne infischiamo?» chiese Erlendur. Sigurđur Óli alzò le spalle come se a lui non importasse. «Un omicidio è un omicidio» disse Erlendur. «Anche se passano anni. Se si tratta di omicidio, dobbiamo capire cos'è accaduto, chi è stato ucciso e perché, e chi ha commesso il crimine. Credo che dovremmo procedere come in qualsiasi altra indagine. Raccogliamo informazioni. Parliamo con la gente. Magari con un po' di fortuna troveremo la soluzione.» Erlendur si alzò. «Se ci impegniamo a fondo, deve pure saltare fuori qualcosa» continuò. «Parliamo con i proprietari delle case di villeggiatura e con i loro nonni.»
Guardò Elínborg. «Scopriamo se vicino ai cespugli di ribes c'era una casa. Prendiamolo un po' a cuore, questo caso.» Poi li salutò distratto e si avviò lungo il corridoio. Elínborg e Sigurđur Óli si guardarono negli occhi e lui indicò la porta con un cenno del capo. La donna si alzò e seguì Erlendur in corridoio. «Erlendur» lo chiamò, per fermarlo. «Sì, che c'è?» «Come sta Eva Lind?» gli chiese, titubante. Lui la guardò e tacque. «In centrale abbiamo saputo come l'hai trovata. È stato terribile venire a sapere una cosa del genere. Se c'è qualcosa che io o Sigurđur Óli possiamo fare per te, non esitare a chiedercelo.» «No, niente» disse Erlendur spossato. «Se ne sta lì distesa in quella stanza e nessuno può farci niente.» Esitò. «Mentre la cercavo sono entrato nel suo mondo. In parte lo conoscevo già, perché avevo dovuto cercarla altre volte in quei posti, in quelle strade, in quelle case; ma ogni volta vedere la vita che conduce, come può ridursi, gli abusi che infligge a se stessa, mi coglie di sorpresa. Ho visto la gente di cui si circonda, che va a cercare quando ha bisogno o è disperata e per la quale fa cose indescrivibili.» Tacque. «Ma non è questo il peggio» concluse. «Non sono i tuguri o i piccoli criminali o gli spacciatori. È vero quello che dice sua madre.» Guardò Elínborg. «Il peggio che le poteva capitare sono io» proseguì, «perché io l'ho delusa.» Quando tornò nel suo appartamento, Erlendur si sedette in poltrona, esausto. Aveva telefonato all'ospedale per chiedere di Eva Lind e aveva saputo che la situazione era ancora stabile. Se ci fossero stati cambiamenti, lo avrebbero contattato loro. Ringraziò e appese. Poi rimase seduto a fissare davanti a sé, immerso nei suoi pensieri. Pensò a Eva Lind che giaceva in terapia intensiva, alla sua ex moglie e all'odio che ancora segnava la sua vita, al figlio con cui non parlava mai se non perché c'era qualche problema. Sentì il profondo silenzio che regnava nella sua vita. Sentì la solitudine intorno a sé. Sentì il peso di giorni incolore affastellati in una catena indi-
struttibile che gli si avvolgeva intorno e lo stringeva fino a soffocarlo. Mentre stava per cedere al sonno, col pensiero tornò alla sua infanzia, a quando dopo i bui mesi invernali ricominciava a splendere il sole e la vita era genuina, priva di paure, spensierata. Non accadeva spesso, ma qualche volta riusciva a sparire nella pace di allora e per un attimo gli sembrava di stare bene. Di riuscire a dimenticare per un attimo ciò che aveva perso. Quando si riebbe dal sonno profondo, si rese conto che il telefono suonava ininterrottamente ormai da un po', prima il cellulare nella tasca del soprabito e poi l'apparecchio di casa sulla vecchia scrivania, uno dei pochi mobili dell'appartamento. «Avevi ragione» gli disse Elínborg, quando alla fine andò a rispondere. «Oh, scusami, ti ho svegliato?» chiese. «Sono solo le dieci» aggiunse, in tono di scuse. «Come? Perché avevo ragione?» rispose Erlendur, non del tutto sveglio. «C'era una casa in quel punto, vicino ai cespugli.» «Ai cespugli?» «I cespugli di ribes. Gli arbusti sulla collina di Grafarholt. Era stata costruita negli anni Quaranta ma intorno al 1980 è stata demolita. Ho chiesto a quelli del catasto di contattarmi appena avessero scoperto qualcosa; li ho sentiti poco fa, hanno scartabellato gli archivi tutta la sera per trovarla.» «Che genere di edificio era?» chiese Erlendur fiacco. «Un appartamento, una scuderia, una cuccia per cani, una residenza estiva, un granaio, una caserma?» «Una casa» disse Elínborg. «Una specie di casetta di villeggiatura, o qualcosa del genere.» «Che?» «Una casa di villeggiatura!» «Di che periodo stiamo parlando?» «Prima del 1940.» «E chi è il proprietario?» «Si chiamava Benjamín Knudsen. Commerciante.» «Si chiamava?» «È morto. Molti anni fa.» 8 Quando Sigurđur Óli fece il giro della collina in macchina per cercare
una strada accessibile da cui salire, i proprietari delle case di villeggiatura sul pianoro a nord della collina di Grafarholt erano per lo più impegnati con i lavori di manutenzione primaverile. Elínborg era con lui. Alcuni stavano potando le siepi, altri cercavano di proteggere la loro abitazione dalle intemperie, altri ancora sistemavano le recinzioni; due persone avevano sellato i cavalli e stavano per uscire. Il sole era allo zenit e la giornata era limpida e senza vento. Sigurđur Óli ed Elínborg avevano parlato con qualche proprietario senza venire a capo di nulla, così si incamminarono lentamente verso le case che stavano più in basso. Vista la splendida giornata, non avevano alcuna voglia di stringere i tempi. Ne avevano approfittato per uscire un attimo dalla città, fare due passi al sole e chiacchierare con i residenti della zona, molto stupiti di vedere la polizia così di buon'ora. Alcuni avevano sentito la notizia del ritrovamento dello scheletro sulla collina, altri, invece, erano caduti dalle nuvole. «Ce la farà, o...?» chiese Sigurđur Óli, mentre ripartivano in macchina per raggiungere la casa successiva. Si erano messi a parlare di Eva Lind quando avevano lasciato la capitale e a intervalli regolari la conversazione tornava sullo stesso argomento. «Non lo so» rispose Elínborg. «Credo che non lo sappia nessuno. Povera ragazza» disse e sospirò profondamente. «E anche lui» aggiunse. «Povero Erlendur.» «È una tossica» le fece notare Sigurđur Óli serio. «Rimane incinta e si fa, come se non gliene fregasse un cazzo, così finisce per ammazzare il bambino. Non riesco a compatire gente del genere, non ce la faccio proprio. Non li capisco e non li capirò mai.» «Nessuno ti sta chiedendo di farlo» gli disse Elínborg. «Ah, no? Ogni volta che sento parlare di questi elementi è per dire come se la passano male. Per quanto ne so io...» iniziò, poi si trattenne. «Non riesco a compatire questa gente» ripeté. «Sono dei disgraziati. Nient'altro che disgraziati.» Elínborg sospirò. «Come si fa a essere perfetti come te? Sempre ben vestito, rasato e pettinato, una laurea presa negli Stati Uniti, le unghie curate. L'unico problema che hai è poterti permettere o meno dei vestiti all'ultima moda. Non ti stanchi mai? Non ti stanchi mai di te stesso?» «Nossignora» le rispose. «Che c'è di male nel mostrare un po' di comprensione per questa gente?»
«Sono dei disgraziati, e lo sai. Anche se è la figlia del capo, non per questo è migliore degli altri. È come tutti i disgraziati che stanno per strada e si fanno e poi smaltiscono la roba dentro qualche tugurio o nei centri di recupero prima di ricominciare a farsi, perché è questa l'unica cosa che vogliono: ciondolare in giro e farsi tutto il giorno.» «Come va fra te e Bergthóra?» gli chiese Elínborg poi, avendo ormai rinunciato alla speranza di fargli cambiare idea. «Benissimo» disse stancamente Sigurđur Óli e parcheggiò di fianco a un'altra casa. Bergthóra non lo lasciava in pace. Voleva farlo sempre, di mattina e di sera e a metà giornata, in tutte le posizioni pensabili e in ogni angolo della casa, in cucina e in salotto e anche nella piccola lavanderia, distesa e in piedi. E anche se all'inizio a lui piaceva, adesso cominciava a notare in sé qualche segno di stanchezza e a sospettare delle motivazioni della ragazza. Non che la loro vita sessuale fosse mai stata monotona, tutt'altro. Ma il desiderio e lo zelo di Bergthóra non erano mai stati così accesi e forti. Non avevano mai parlato seriamente di avere dei figli, anche se forse avrebbero dovuto cominciare a farlo. Ormai stavano insieme da tanto. Sapeva che Bergthóra prendeva la pillola, ma non riusciva a non pensare che volesse incastrarlo. Non ne avrebbe avuto bisogno, perché era molto legato a lei e non voleva vivere con nessun'altra. Ma le donne sono imprevedibili, pensò. Uno non sa mai cos'hanno per la testa. «Strano che il catasto non sappia chi abitava in quella casa, se mai ci ha abitato qualcuno» disse Elínborg, scendendo dalla macchina. «Gli archivi di quel periodo sono un disastro. Tantissime persone si sono trasferite a Reykjavík durante e dopo la guerra e la gente veniva registrata in maniera casuale mentre cercava di trovare una sistemazione. Credo che all'anagrafe si siano persi anche qualche nome. Hanno avuto parecchie difficoltà. L'uomo con cui ho parlato mi ha detto che ci avrebbe messo un bel po' a trovare i nomi.» «Magari non ci abitava nessuno.» «Non importa se qualcuno ci ha abitato a lungo o meno. Forse i proprietari sono stati registrati altrove e non hanno mai comunicato il cambio di indirizzo. Forse si sono fermati qui per qualche anno, magari solo qualche mese, durante la crisi degli alloggi di Reykjavík, e poi dopo la guerra si sono trasferiti in una caserma dell'esercito, come baraccati. Che te ne pare di questa teoria?» «Tanto di cappello all'uomo col Burberry.» Il proprietario della casa li accolse sulla porta; era un uomo anziano,
magro e rigido nei movimenti, con pochi capelli bianchi e una camicia azzurra leggera sotto cui traspariva la canottiera, un paio di pantaloni di velluto grigi e delle scarpe da ginnastica nuove. Li invitò a entrare e, quando Elínborg vide tutte le cianfrusaglie all'interno, si domandò se non vivesse in quella casa tutto l'anno. Glielo chiese. «Diciamo di sì» rispose l'uomo, sedendosi in poltrona e indicando loro le sedie del tavolo da pranzo in mezzo al soggiorno. «Ho cominciato a costruire questa casa quarant'anni fa e poi, se ricordo bene, ho trasferito tutto qui con la mia Lada cinque anni fa. O magari sei. Faccio sempre una gran confusione. Non avevo più voglia di abitare a Reykjavík. È una città tremenda, e poi...» «Si ricorda se sulla collina c'era una casa di villeggiatura, magari tipo la sua, forse abitata tutto l'anno?» tagliò corto Sigurđur Óli, che non aveva voglia di sentire una conferenza. «Mi riferisco a quarant'anni fa, quando ha cominciato a costruire la sua.» «Una casa di villeggiatura ma abitata tutto l'anno, eh? Che razza di...?» «Era su questo versante di Grafarholt, isolata» precisò Elínborg. «Era stata costruita poco prima della guerra.» Guardò fuori dalla finestra. «Doveva vederla da questa stanza.» «Mi ricordo di una casa laggiù, ma non l'avevano verniciata e neanche finita del tutto. È sparita tanto tempo fa. Sicuramente era una casa di villeggiatura piuttosto ben fatta, o almeno avrebbe dovuto esserlo, e anche bella grande, più della mia, ma era in un totale stato di abbandono. Era un miracolo che non crollasse. Le porte non c'erano e le finestre erano rotte. A volte ci passavo, quando avevo ancora voglia di andare al lago Reynisvatn a pescare. Ho smesso da tempo.» «Allora non ci abitava nessuno?» chiese Sigurđur Óli. «No, all'epoca no. Non era abitabile. Era completamente in rovina.» «Allora mi sta dicendo che non ci abitava nessuno» disse Elínborg. «Non si ricorda di nessun inquilino?» «Perché volete saperlo?» «Abbiamo trovato uno scheletro là sulla collina» spiegò Sigurđur Óli. «Non ha visto il telegiornale?» «Uno scheletro umano? No. Cioè le ossa di chi abitava in quella casa?» «Non lo sappiamo. Non conosciamo ancora la storia dell'edificio e di chi vi abitava» commentò Elínborg. «Sappiamo chi era il proprietario, ma è morto molto tempo fa e non abbiamo ancora trovato informazioni sugli inquilini. Si ricorda per caso se durante la guerra dall'altra parte della collina,
a sud, c'era un accampamento militare? Un deposito o qualcosa del genere?» «C'erano accampamenti in tutta la zona» rispose il vecchio. «Sia inglesi sia americani. Non ne ricordo nessuno in particolare perché è stato prima che mi trasferissi. Molto prima. Dovreste parlare con Róbert.» «Róbert?» chiese Elínborg. «È stato uno dei primi a costruirsi una casa qui sulla collina. Se non è morto. Sapevo che era in un ospizio. Róbert Sigurđsson. Se è ancora vivo, lo troverete di sicuro.» All'ingresso non c'era il campanello, quindi Erlendur bussò alla robusta porta di quercia con il palmo della mano, sperando che dall'interno lo sentissero. La casa apparteneva a Benjamín Knudsen, un agiato commerciante di Reykjavík, che era morto all'inizio degli anni Sessanta. I suoi eredi erano il fratello e la sorella, che alla sua morte si erano trasferiti laggiù e ci avevano abitato fino alla fine dei loro giorni. Nessuno dei due si era sposato, ma la sorella aveva avuto una figlia al di fuori del matrimonio, che faceva il medico ed era nubile, per quanto era riuscito a saperne Erlendur. Adesso abitava al piano ammezzato e affittava l'appartamento al piano superiore. Erlendur ci aveva parlato per telefono. Dovevano vedersi a mezzogiorno. Le condizioni di Eva Lind erano immutate. Le aveva fatto visita prima di andare al lavoro ed era rimasto seduto a lungo accanto al letto a osservare gli strumenti che monitoravano ogni suo segno vitale e i tubicini nel naso, in bocca e nelle vene. La ragazza non riusciva a respirare da sola e la pompa, quando si alzava e si abbassava, emetteva come un risucchio. L'elettrocardiogramma era regolare. Uscendo dal reparto di terapia intensiva, aveva parlato con un medico che gli aveva detto di non aver riscontrato alcun cambiamento. Erlendur gli aveva chiesto se c'era qualcosa che potesse fare, allora lui gli aveva detto di parlarle il più possibile, anche se era in coma. Doveva farle sentire la sua voce. Spesso parlare con un malato in quelle condizioni aiutava anche i familiari. Li aiutava a gestire il trauma. Eva Lind non se n'era andata, doveva tenere ben presente quel particolare quando stava con lei. La pesante porta di quercia finalmente si aprì e una donna sulla sessantina si presentò e gli porse la mano. Elsa. Era snella e aveva un viso affabile, poco truccato, i capelli tinti di nero, corti e con la riga da parte; era vestita con un paio di jeans e una camicia bianca, senza anelli né bracciali o colla-
ne. Lo portò in soggiorno e gli fece cenno di sedersi, decisa e sicura di sé. «E che ossa credete che siano?» chiese, dopo che Erlendur le ebbe spiegato il motivo della sua visita. «Non lo sappiamo ancora, ma un'ipotesi è che siano collegate alla casa di villeggiatura che si trovava lì accanto e apparteneva a suo zio Benjamín. Ci passava molto tempo, laggiù?» «Tutt'altro, credo che non ci sia mai andato» disse a bassa voce. «È una storia tragica. La mamma diceva sempre che era bello e intelligente e che aveva guadagnato una fortuna, ma poi aveva perso la sua fidanzata. Un giorno era sparita, così. Aspettava un bambino, sa?» Erlendur pensò subito a sua figlia. «Lo zio non si riebbe più. Si occupava poco o niente della gestione del negozio e dei suoi averi, così andò tutto in rovina, credo, finché non gli rimase solo questa casa. Morì nel fiore degli anni, diciamo.» «Com'è sparita la sua fidanzata?» «Si pensa che si sia buttata in mare» rispose Elsa. «O meglio, così ho sentito dire.» «Era depressa?» «No, almeno a quanto si sapeva in giro.» «E non l'hanno mai più trovata?» «No. Lei...» Elsa si fermò a metà frase. All'improvviso fu come se avesse capito dove voleva arrivare l'agente e lo fissò prima incredula, poi addolorata e infine offesa e sdegnata insieme. Si fece rossa in volto. «Non ci posso credere.» «Cosa?» disse Erlendur e notò che all'improvviso era cambiata e che adesso gli era ostile. «Lei crede che si tratti della fidanzata dello zio. Che sia il suo scheletro!» «Io non credo proprio niente. È la prima volta che sento parlare di questa donna. Non abbiamo idea di chi giaccia lì sotto. È troppo presto per dire chi sia o chi non sia.» «Perché è tanto interessato a lei? Cosa sa che io non so?» «Niente» rispose Erlendur sorpreso. «A lei non è passata per la mente la stessa cosa, quando le ho detto del ritrovamento dello scheletro? Suo zio aveva una casa nelle vicinanze. La sua fidanzata è sparita. Noi troviamo uno scheletro. Non ci vuole molto a fare due più due.» «È impazzito? Vuol farmi credere che...»
«Non voglio farle credere niente.» «...che lui l'avrebbe uccisa? Che Benjamín avrebbe prima ammazzato e poi sepolto la sua fidanzata senza dire niente a nessuno per tutti quegli anni, finché non è morto lui stesso, un uomo completamente distrutto?» Elsa si era alzata e stava misurando il pavimento della stanza a grandi passi. «Aspetti, io non ho detto niente» sospirò Erlendur, e si domandò se forse non era il caso di essere un po' più diplomatico. «Proprio niente di niente» disse. «Credete che sia lei? Le ossa che avete trovato sono sue?» «Sicuramente no» rispose Erlendur, senza avere nulla di concreto in mano. Voleva tranquillizzare la donna a qualsiasi costo. Di sicuro aveva dimostrato ben poco tatto. Aveva lasciato intendere cose di cui non aveva alcuna prova e se n'era pentito. «Sa niente della casa di villeggiatura?» disse, cercando di cambiare argomento. «Ci abitava qualcuno, più o meno cinquanta, sessant'anni fa, durante la guerra o subito dopo? Al momento all'anagrafe non risulta niente.» «Mio Dio, cosa mi tocca sentire» sospirò Elsa. «Come? Che mi stava dicendo?» «Può darsi che suo zio abbia dato in affitto la casa» aggiunse Erlendur. «C'era forte carenza di abitazioni a Reykjavík durante la guerra e subito dopo, e gli affitti erano alti, quindi mi è venuto in mente che magari potesse averla affittata a qualcuno a un prezzo contenuto. O magari l'aveva venduta. Ne sa qualcosa?» «Sì, credo di aver sentito dire che l'avesse data in affitto, ma non so a chi, se è questo che mi sta chiedendo. Mi scusi se ho reagito così. È solo che... Che ossa sono? Uno scheletro intero? Uomo, donna o bambino?» Adesso si era tranquillizzata. Si era ripresa. Si era messa di nuovo a sedere e lo guardava negli occhi con un'espressione curiosa. «Pare che sia uno scheletro intero, ma non l'abbiamo ancora riesumato del tutto» disse Erlendur. «Suo zio teneva qualche documento riguardante i suoi affari o i suoi averi? Qualcosa che non è stato ancora buttato via?» «Lo scantinato è pieno delle sue cianfrusaglie. Carte e scatoloni di ogni tipo di cui non sono mai riuscita a disfarmi e in cui nemmeno ho mai avuto voglia di guardare. Di sotto c'è anche la sua scrivania con qualche mobile da ufficio. Presto avrò il tempo di passare in rassegna tutta quella roba.» Lo disse con un tono come di rimpianto, ed Erlendur pensò che forse non era soddisfatta di quanto le aveva riservato la vita, cioè abitare da sola
in quella casa enorme, un retaggio del passato. Si guardò intorno e gli parve che tutta l'esistenza della donna fosse in un certo senso un retaggio del passato. «Crede che...?» «Prego. Può frugare dove vuole» rispose lei, sorridendo distratta. «Stavo pensando una cosa» disse Erlendur, alzandosi. «Lei sa perché Benjamín aveva dato in affitto la casa? Gli mancavano i soldi? Non mi sembra che ne avesse particolarmente bisogno. Aveva questo immobile e il negozio. Mi ha detto che con il tempo gli è sfuggito tutto di mano, ma durante la guerra doveva aver guadagnato abbastanza per passarsela più che bene.» «No, non credo che avesse bisogno di denaro.» «Allora perché?» «Mi pare che gliel'abbiano chiesto. Quando la gente cominciò a trasferirsi a Reykjavík dalla campagna, durante la guerra. Penso che avesse avuto compassione di qualcuno.» «Quindi può anche darsi che non abbia mai chiesto denaro per l'affitto?» «Non ne so niente. Non posso credere che lei pensi che Benjamín abbia...» S'interruppe a metà frase, come se non avesse il coraggio di esprimere a voce quello a cui stava pensando. «Io non credo niente» disse Erlendur, cercando di sorridere. «È troppo presto.» «Io non ci posso nemmeno pensare.» «Mi dica un'altra cosa.» «Sì?» «Ha dei parenti in vita?» «Chi?» «La fidanzata di Benjamín. C'è qualcuno con cui posso parlare?» «Perché? Perché vuole insistere con questa faccenda? Mio zio non avrebbe mai potuto farle del male.» «Lo capisco. Ma abbiamo questo scheletro, le ossa saranno pure di qualcuno, e non posso farle sparire. Devo prendere in considerazione ogni possibilità.» «Aveva una sorella e so che è ancora viva. Si chiama Bára.» «Quando è scomparsa la ragazza?» «È stato nel 1940» rispose Elsa. «Mi hanno detto che è successo in una bellissima giornata di primavera.»
9 Róbert Sigurđsson era vivo, ma ancora per poco, pensò Sigurđur Óli. Gli si sedette di fronte nella stanza insieme a Elínborg e, mentre guardava il volto spento del vecchio, decise che non gli interessava affatto campare oltre i novant'anni. Rabbrividì. Róbert era senza denti e aveva le labbra esangui, le guance infossate e pochi ciuffi di capelli radi e incolore che spuntavano in ogni direzione sul cranio spettrale. Era collegato a un respiratore artificiale posto su un carrellino accanto a lui. Ogni volta che doveva dire qualcosa, si toglieva la mascherina d'ossigeno con la mano tremante ed esalava due o tre parole prima di riposizionarla al suo posto. Róbert aveva ceduto da tempo la sua villetta, che era stata poi rivenduta e infine abbattuta per far spazio a un altro edificio. Sigurđur Óli ed Elínborg avevano contattato i proprietari della nuova casa poco dopo mezzogiorno e da loro avevano saputo tutta la storia, anche se in maniera poco chiara e coerente. Mentre rientravano dalla collina, avevano chiamato in centrale e chiesto di cercare il vecchio. Avevano così scoperto che si trovava all'ospedale di Fossvogur e che aveva appena compiuto novant'anni. Elínborg aveva parlato con il personale medico e poi aveva spiegato il caso a Róbert, che se ne stava seduto sulla sedia a rotelle tutto rattrappito e inspirava ossigeno puro dal respiratore artificiale. Un fumatore incallito. Nonostante le precarie condizioni fisiche, pareva essere completamente lucido, e annuiva per far intendere che capiva ogni parola e aveva ben compreso cosa volessero gli agenti. L'infermiera, che li aveva seguiti nella stanza e adesso stava in piedi dietro la sedia a rotelle, disse loro di non trattenersi a lungo e di non stancarlo. L'uomo si tolse la mascherina con le mani tremule. «Ricordo...» iniziò con voce molto bassa e rauca, ma si rimise la mascherina e inspirò l'ossigeno. Poi se la tolse di nuovo. «...la casa, ma...» Su la mascherina. Sigurđur Óli guardò Elínborg e poi diede un'occhiata all'orologio, senza cercare di dissimulare la propria impazienza. «Non preferisci...» gli suggerì la collega, ma in quel momento la mascherina si abbassò. «... non ricordo altro che...» continuò Róbert, distrutto perché gli man-
cava il fiato. Su la mascherina. «Non preferisci andare in mensa a prenderti qualcosa da mangiare?» propose Elínborg a Sigurđur Óli, che guardò di nuovo l'orologio, poi il vecchio, poi ancora la donna, e infine uscì dalla stanza sospirando. Giù la mascherina. «... una famiglia che abitava lì.» Su la mascherina. Elínborg attese un istante per capire se l'uomo aveva intenzione di continuare, ma Róbert taceva e lei si chiese come poter formulare le domande in modo che potesse rispondere solo sì o no usando la testa, senza dover parlare. Gli spiegò che voleva fare un tentativo e l'uomo annuì. Chiarissimo, pensò lei. «Lei aveva una casa sulla collina durante la guerra?» Sì. «Questa famiglia abitava nella casa in quegli anni?» Sì. «Si ricorda i nomi di chi abitava quella casa all'epoca?» No. «Era una famiglia numerosa?» No. «Una coppia con due figli, tre o di più?» Róbert mostrò tre dita esangui. «Una coppia con tre figli. Lei le incontrava mai queste persone? Ha mai avuto a che fare con loro, oppure non li conosceva?» Elínborg aveva già dimenticato la regola del sì e del no, così Róbert si tolse la mascherina. «Non li conoscevo.» Poi se la riposizionò sul volto. L'infermiera, in piedi dietro la sedia a rotelle, cominciava a inquietarsi e fissò Elínborg come per dirle di smetterla subito, altrimenti era pronta a intervenire. Róbert si tolse di nuovo la maschera. «...morti.» «Chi? Quella gente? Chi è morto?» Elínborg si avvicinò al vecchio e attese che parlasse di nuovo. Lui si portò ancora la mano tremante alla mascherina d'ossigeno e se la tolse. «Povero...» Elínborg si accorse di quanto faceva fatica e lo aiutò come poteva. Lo fissò e attese che continuasse. Giù la mascherina. «...vegetale.»
A Róbert cadde la mascherina dalle mani, gli si chiusero gli occhi e la testa gli ciondolò sul petto. «Ecco» disse l'infermiera brusca, «adesso gli ha dato il colpo di grazia.» Prese la maschera e la sbatté con forza immotivata sul volto di Róbert, che stava seduto con la testa china e gli occhi chiusi come se si fosse assopito; o forse stava davvero morendo, pensò Elínborg. Si alzò e osservò l'infermiera spingerlo fino al letto e sollevarlo come fosse un fuscello per poi coricarlo. «Lo vuole ammazzare con le sue scemenze, questo povero vecchietto?» la rimproverò l'infermiera, una donna vigorosa sulla cinquantina, i capelli raccolti in una crocchia sulla nuca, con camice, pantaloni e zoccoli bianchi. Guardò Elínborg con un'espressione torva. «Non avrei mai dovuto permettervelo» borbottò, accusando se stessa. «Non sopravviverà di certo a questa giornata» disse a voce alta, rivolta di nuovo alla poliziotta, in tono chiaramente accusatorio. «Mi spiace» si scusò Elínborg, senza rendersi conto del perché lo stesse facendo. «Credevamo che potesse aiutarci a scoprire l'identità di un vecchio scheletro. Spero che non stia troppo male.» Disteso sul letto, all'improvviso Róbert aprì gli occhi. Si guardò intorno come se stesse cercando di capire dove si trovava e, malgrado le proteste dell'infermiera, si tolse la mascherina d'ossigeno. «Veniva spesso» ansimò, senza fiato. «Dopo. Una donna... verde... ai cespugli...» «I cespugli?» ripeté Elínborg. Ci pensò su un attimo. «Vuol dire i cespugli di ribes?» L'infermiera gli aveva sistemato ancora una volta la mascherina sul volto ma Elínborg vide che Róbert stava annuendo. «Chi era? Si riferiva a lei stesso? È lei che ricorda i cespugli di ribes? Ci andava lei? Andava lei ai cespugli?» Róbert scosse il capo piano. «Adesso se ne vada e lo lasci in pace» ordinò la donna a Elínborg, che si era alzata e chinata verso Róbert, ma non troppo vicino per non irritare l'infermiera più del necessario. «Me lo può raccontare?» continuò Elínborg. «Sapeva chi era quella persona che andava spesso ai cespugli di ribes?» Róbert aveva richiuso gli occhi. «Dopo?» continuò Elínborg. «Che vuol dire dopo?» Róbert aprì gli occhi, alzò le vecchie braccia ossute e fece cenno di vole-
re un foglio e una matita. L'infermiera scosse il capo e gli disse di riposare, perché si era sforzato anche troppo. Lui le afferrò la mano e la guardò con aria supplichevole. «Non se ne parla» rispose. «Vuole farmi la cortesia di andarsene?» disse poi a Elínborg. «Non possiamo lasciar decidere lui? Se morisse questa sera...» «Possiamo?» domandò la donna. «Possiamo, chi? Per caso lei lavora qui da trent'anni con questi pazienti?» sbottò. «Per favore se ne vada, prima che chiami qualcuno e la faccia allontanare.» Elínborg lanciò un'occhiata a Róbert, che aveva chiuso ancora gli occhi e sembrava addormentato. Guardò l'infermiera e si avviò riluttante verso l'uscita. Lei la seguì e le chiuse la porta alle spalle non appena fu in corridoio. Elínborg pensò di chiamare anche Sigurđur Óli per far capire all'infermiera quanto fosse importante che il vecchio dicesse loro tutto quello che sapeva, ma lasciò perdere. Di sicuro il collega avrebbe innervosito ulteriormente la donna, facendola arrabbiare. Elínborg uscì in corridoio e vide Sigurđur Óli in sala mensa, seduto a mangiarsi una banana; pareva di cattivo umore. Stava per raggiungerlo, poi esitò. Si voltò a guardare la porta della stanza di Róbert. In fondo al corridoio c'era un piccolo disimpegno, una specie di vano per la televisione; Elínborg ci andò e si nascose dietro una grande pianta che stava in un vaso enorme e arrivava fino al soffitto. Rimase in attesa come un leone nella tana, con gli occhi fissi sulla porta. Non ci volle molto perché l'infermiera uscisse dalla camera, sfrecciasse lungo tutto il corridoio e attraversasse la sala mensa per raggiungere il reparto successivo. Non si accorse di Sigurđur Óli che masticava la sua banana, e a sua volta l'agente non vide lei. Elínborg sgattaiolò fuori dal suo nascondiglio e raggiunse in punta di piedi la stanza del vecchio. Era disteso sul letto, addormentato, con la mascherina sul volto, proprio come l'aveva lasciato. Le tende erano state tirate, ma la luce fioca della piccola lampada accanto al letto diffondeva nell'oscurità un lieve chiarore. Gli si avvicinò, esitò un attimo e si guardò rapidamente intorno prima di trovare il coraggio di scuoterlo. Róbert non dava alcun segno di vita. Elínborg ci riprovò, ma quello dormiva come un sasso. Pensò che doveva essere caduto in un sonno profondissimo, se non addirittura in un coma mortale, e si mordicchiava le unghie mentre decideva se era il caso di scuoterlo più forte o sparire e dimenticare tutta la faccenda. Non aveva detto un granché. Solo che qualcu-
no si aggirava intorno ai cespugli di ribes sulla collina. Una donna verde. Stava quasi per andarsene, quando all'improvviso Róbert aprì gli occhi e la fissò. Elínborg non sapeva se l'avesse riconosciuta, ma lo vide annuire e si accorse che addirittura le sorrideva dietro la mascherina d'ossigeno. Fece lo stesso cenno di prima per chiedere un foglio e una matita, e lei cercò nelle tasche del soprabito il blocco per appunti che portava sempre con sé e la penna. Glieli sistemò fra le mani e l'uomo cominciò a scrivere con la mano tremolante grandi lettere maiuscole. Impiegò molto tempo e intanto Elínborg fissava terrorizzata la porta della stanza, aspettandosi che l'infermiera entrasse da un momento all'altro e si mettesse a urlarle degli insulti. Voleva dire a Róbert di sbrigarsi, ma non avrebbe osato mettergli fretta per niente al mondo. Quando ebbe finito di scrivere, le mani esangui ricaddero sulle coperte insieme al blocco e alla penna, e l'uomo richiuse gli occhi. Elínborg prese il blocco, voleva leggere quello che vi aveva scritto, ma all'improvviso il monitor dell'elettrocardiogramma collegato al vecchio cominciò a suonare. Nel silenzio della stanza il suono era assordante ed Elínborg si prese un tale spavento che sussultò. Guardò un attimo Róbert, incerta sul da farsi, e poi uscì di corsa dalla stanza e imboccò il corridoio fino alla sala mensa, dove Sigurđur Óli era ancora seduto a finire la sua banana. Da qualche parte scattò un allarme. «Hai cavato niente da quella cariatide?» le chiese Sigurđur Óli, quando Elínborg andò a sedersi accanto a lui con il fiato corto. «Che c'è che non va?» aggiunse, appena la vide trafelata e ansimante. «Niente, tutto a posto» rispose lei. Una squadra di medici, infermieri e paramedici passarono di corsa dalla sala mensa e attraversarono tutto il corridoio fino alla stanza di Róbert. Poco dopo apparve un uomo con un camice bianco che spingeva un macchinario, un defibrillatore secondo Elínborg, e che sparì a sua volta nel corridoio. Sigurđur Óli osservò la squadra scomparire dietro l'angolo. «Che cazzo hai combinato?» disse, voltandosi verso la collega. «Io?» sospirò lei. «Niente! Io! Che vuoi dire?» «Perché sei così sudata?» le chiese. «Non sono sudata.» «Che cos'è successo? Perché corrono tutti? Ti manca quasi il fiato.» «Non ne ho idea.» «Hai saputo qualcosa da lui? È il vecchio che sta per morire?» «Dai, cerca di mostrare un po' più di rispetto per queste persone» gli dis-
se Elínborg, guardandosi intorno inquieta. «Che cosa hai saputo da lui?» «Non ho ancora controllato» rispose lei. «Non è meglio se ce ne andiamo?» Si alzarono e uscirono dalla sala mensa, lasciarono l'ospedale e andarono a sedersi in macchina. Sigurđur Óli mise in moto. «Allora, che ti ha detto?» le chiese impaziente. «Me l'ha scritto su un foglio» gli spiegò Elínborg e sospirò. «Povero vecchietto.» «Su un foglio?» Estrasse dalla tasca il blocco per appunti e lo sfogliò finché non trovò la pagina su cui Róbert aveva scritto. C'era una sola parola, scarabocchiata dalla mano tremante di un uomo in punto di morte, uno sgorbio quasi incomprensibile. Le ci volle del tempo per decifrare che cosa c'era scritto, poi ne ebbe la certezza, anche se non ne capì il significato. Fissò l'ultima parola lasciata da Róbert in questa vita: STORTA Quella sera c'erano le patate. Non gli sembravano lessate a sufficienza. O almeno così credeva lei. Potevano essere troppo lesse, sfatte, crude, non sbucciate, sbucciate male, troppo sbucciate, non tagliate a metà, senza salsa, con la salsa, fritte, non fritte, in purè, troppo dense, troppo diluite, troppo dolci, non abbastanza dolci... Non riusciva mai a capirlo. Era una delle sue armi più pericolose. Le botte arrivavano sempre senza preavviso e quando meno se lo aspettava, soprattutto quando tutto sembrava andare per il meglio, mai quando sentiva che c'era qualcosa che non gli andava a genio. Era un maestro nel tenerla sulle spine e lei non era mai sicura di sé. In sua presenza era sempre come appesa a un filo, sempre pronta a fare tutto quello che gli piaceva. Preparargli il piatto in tavola all'ora giusta. Fargli trovare i vestiti pronti al mattino. Tenere a freno i figli. Tenere Mikkelína lontana da lui. Servirlo in tutte le maniere, anche quando sapeva che era del tutto inutile. Aveva smesso da tempo di sperare che le cose migliorassero. La sua casa era la sua prigione. Una volta finito di mangiare, scontroso come sempre, suo marito prese il piatto e lo mise nel lavello. Poi si voltò di nuovo verso la tavola, come se volesse uscire dalla cucina, ma si fermò davanti a lei, che era ancora sedu-
ta. La donna non osava alzare lo sguardo, osservava i due bambini che erano seduti con lei e continuavano a mangiare. Ogni muscolo del suo corpo era all'erta. Forse sarebbe uscito senza toccarla. I figli la guardarono e deposero lentamente le forchette. In cucina regnava un silenzio mortale. All'improvviso le afferrò la testa e gliela sbatté sul piatto, che si ruppe, poi la tirò ancora per i capelli e la strattonò all'indietro tanto forte che cadde dalla sedia e finì per terra. L'uomo rovesciò piatti e bicchieri dal tavolo e diede un calcio alla sedia, che andò a schiantarsi contro il muro. Le girava la testa per la caduta. Era come se tutta la cucina stesse girando. Cercò di alzarsi, anche se per esperienza sapeva che era meglio rimanere immobile, ma le era venuta una voglia perversa di provocarlo. «Stai ferma, troia che non sei altro» le urlò e, quando si fu sistemata sulle ginocchia, si chinò su di lei e sbraitò: «Ti vuoi alzare?» La tirò per i capelli e le sbatté il volto contro la parete, assestandole un calcio nella coscia che le fece perdere del tutto la sensibilità nella gamba; cadde di nuovo a terra con un grido. Le sgorgava il sangue dal naso e nelle orecchie sentiva un ronzio che quasi copriva le grida del marito. «Prova ad alzarti ora, puttana!» le urlò. Stavolta rimase dov'era, si rannicchiò, cercando di proteggersi la testa con le mani, e attese che le si rovesciasse addosso una pioggia di calci. L'uomo alzò un piede e glielo affondò nel fianco con tutta la sua forza e lei boccheggiò per il dolore che sentiva nel petto. Si chinò, la prese per i capelli, le sollevò il viso e le sputò in faccia, poi le sbatté di nuovo la testa per terra. «Sudicia puttana» ringhiò. Poi si alzò e si guardò intorno: dopo quella sfuriata, la cucina era a pezzi. «Guarda come l'hai ridotta, cretina» le urlò. «Metti subito tutto a posto o ti ammazzo!» Si allontanò da lei indietreggiando, lentamente, e cercò di sputarle di nuovo addosso, ma non aveva più saliva. «Maledetta disgraziata» disse. «Non servi a niente. Non riesci a fare bene niente, cazzo. Sei una troia buona a nulla. Te ne renderai conto, prima o poi? Te ne renderai conto?» Non gli importava di lasciarle segni visibili sul corpo. Sapeva che nessuno ci avrebbe fatto caso. Accadeva raramente che ricevessero visite. Sul pianoro sottostante c'erano alcune villette isolate, ma pochi si spingevano fin lassù, anche se la statale fra Grafarvogur e Grafarholt non passava lon-
tano, e nessuno andava mai a trovarli di proposito. Abitavano in una casa presa in affitto da un signore di Reykjavík, non ancora completata perché il proprietario aveva perso ogni interesse e gliel'aveva affittata a poco, purché terminasse lui i lavori. All'inizio l'uomo si era dedicato alla casa con entusiasmo e l'aveva quasi finita, ma poi si era reso conto che al proprietario non interessavano i suoi sforzi, per cui da quel momento l'abitazione era caduta in rovina. Era fatta di legno e aveva un soggiorno con cucina annessa, dotata di una stufa a carbone per cucinare, due stanze con una stufetta ciascuna e un corridoio in mezzo. Non lontano dalla casa c'era un pozzo dove prendevano l'acqua al mattino, due secchi ogni giorno, che poi lasciavano sul tavolo in cucina. Si erano trasferiti lì circa un anno prima. Dopo l'occupazione britannica, tutti si erano precipitati a Reykjavík dalle campagne in cerca di un impiego. Loro avevano perso l'appartamento nel seminterrato. Non potevano più permetterselo. Gli affitti erano saliti alle stelle da quando erano affluiti tutti nella capitale a lavorare per gli inglesi. Una volta trovata quella casa ancora in costruzione a Grafarholt e trasferitosi lì con la famiglia, l'uomo aveva cominciato a cercare qualcosa da fare che si confacesse alla nuova situazione e consegnava il carbone nelle fattorie intorno a Reykjavík. Ogni mattina scendeva fino al bivio per Grafarholt, dove il furgone del carbonaio lo caricava e poi lo riportava alla sera. A volte la donna pensava che avesse voluto andarsene da Reykjavík solo perché nessuno sentisse le sue grida di aiuto quando la picchiava. Una delle prime cose che aveva fatto lei dopo che si furono trasferiti sulla collina era stato piantare degli arbusti di ribes rosso. Trovava quel posto molto spoglio, così li aveva piantati a sud della casa. Dovevano segnare l'estremità meridionale dell'orto che pensava di coltivare. Voleva seminare altre piante, ma lui riteneva che fosse una perdita di tempo inutile e le aveva proibito di occuparsene. Rimase ferma sul pavimento e attese che il marito si calmasse o che uscisse per andare in città con i suoi amici. A volte andava a Reykjavík e passava la notte fuori, senza darle alcuna spiegazione. La faccia le bruciava e le faceva male e sul torace sentiva lo stesso dolore che aveva provato quando si era rotta una costola due anni prima. Sapeva che non era per le patate. Né per la macchia che aveva trovato sulla camicia appena lavata. Nemmeno per il vestito che si era cucita e che a lui era sembrato provocante, tanto da farglielo a pezzi. E nemmeno perché i figli piangevano di notte, cosa di cui incolpava lei. «Che madre patetica! Falli tacere o li ammaz-
zo!» Sapeva che ne era capace. Sapeva che poteva spingersi a tanto. Quando videro il padre che si accaniva contro la loro mamma, i due maschi scapparono dalla cucina, ma Mikkelína rimase con lei, come sempre. Riusciva a malapena a muoversi senza che qualcuno la aiutasse. Rimase nel suo giaciglio, sulla panca in cucina, dove dormiva e rimaneva tutto il giorno perché così era più semplice tenerla d'occhio. Di solito non dava segni di vita quando l'uomo rientrava a casa e, appena cominciava a insultare sua madre, si tirava la copertina fin sulla testa con la mano buona, e avrebbe voluto sparire. Non vide cosa stava succedendo. Non voleva guardare. Sotto la coperta udiva le urla del padre e le grida di dolore della madre, e rabbrividì quando la sentì sbattere contro la parete e poi cadere a terra. Si rannicchiò e cominciò a recitare in silenzio, mentalmente: Fa' la nanna nel lettino ora spengo quel lumino così splende il ricciolino tutto d'oro sul cuscino. Quando finì, in cucina regnava di nuovo il silenzio. Ma passò ancora qualche momento prima che osasse togliersi la coperta dalla testa. Fece capolino con estrema cautela, ma non lo vide in giro. Guardò verso il corridoio e notò che la porta d'ingresso era aperta. Forse se n'era andato. Si sollevò e vide sua madre distesa per terra. Si avvolse nella coperta, scivolò giù dalla panca e si trascinò lungo il pavimento passando sotto il tavolo fino a raggiungere la povera donna, che era ancora lì raggomitolata e immobile. Mikkelína le si avvicinò. Era magrissima e debole, le era difficile strisciare sul pavimento duro. Se aveva bisogno di muoversi, la portavano i fratelli o sua madre. Lui mai. Aveva spesso minacciato di ammazzare quella piccola cretina, di strozzare quell'infelice nella sua brandina schifosa! Storpia! Sua madre non si mosse. Sentì che Mikkelína le era arrivata alle spalle e le accarezzava la testa. Il dolore alle costole non si placava e le usciva ancora del sangue dal naso. Non capiva se aveva perso i sensi o meno. Credeva che il marito fosse ancora in cucina, ma se c'era Mikkelína era impossibile. Non c'era nulla che la ragazzina temesse più del suo patrigno. Si drizzò con cautela, sospirando dal dolore e tenendosi il fianco dove
lui le aveva tirato un calcio. Doveva averle rotto le costole. Si girò sulla schiena e cercò Mikkelína. La figlia aveva pianto e aveva un'espressione terrorizzata in volto. Quando vide il viso insanguinato di sua madre, si spaventò e ricominciò a piangere. «È tutto a posto, Mikkelína» sospirò lei. «Andrà tutto bene.» Si alzò lentamente, con grande difficoltà, sorreggendosi al tavolo della cucina. «Ce la faremo.» Si toccò il fianco e sentì il dolore che penetrava come un coltello. «Dove sono i ragazzi?» chiese, guardando la figlia per terra. Mikkelína indicò la porta ed emise un suono che comunicava quanto fosse agitata e spaventata. Sua madre l'aveva sempre trattata come una persona normale. Il suo patrigno, invece, non faceva che darle della cretina e chiamarla con epiteti anche peggiori. Mikkelína aveva contratto la meningite all'età di tre anni e allora l'avevano data per spacciata. Era rimasta per giorni fra la vita e la morte all'ospedale di Landakot, dalle suore, e a sua madre non avevano consentito di stare con lei, malgrado le avesse implorate piangendo davanti al reparto. Una volta scesa la febbre, Mikkelína si era ritrovata completamente priva di forze in tutto il lato destro, nel braccio, nella gamba e anche nella muscolatura facciale, ecco perché aveva quell'aspetto un po' deforme, con un occhio mezzo chiuso e la bocca sghemba, tanto che sbavava. I due maschietti sapevano di non essere in grado di difendere la madre; il piccolo aveva sette anni e l'altro dodici. Conoscevano l'umore del padre quando si accaniva contro di lei, tutte le brutte parole che usava per caricarsi e la rabbia che lo prendeva quando le urlava addosso tutti quegli insulti. Allora scappavano subito, Símon, il più grande, per primo. Prendeva suo fratello e lo portava via, spingendolo davanti a sé come un agnellino tremante, terrorizzato perché temeva che suo padre potesse scaricare su di loro la sua furia. Prima o poi avrebbe portato con sé anche Mikkelína. E prima o poi sarebbe stato in grado di difendere sua madre. Spaventati, i fratelli erano scappati di casa e si erano diretti verso i ribes. Era autunno e i cespugli erano nel pieno della fioritura, verdi e frondosi e carichi di piccoli frutti rossi pieni di succo, che scoppiavano fra le dita quando li raccoglievano per metterli nei vasi e nei barattoli che dava loro la mamma. Si gettarono a terra dall'altro lato dei cespugli ad ascoltare le impreca-
zioni e gli improperi del padre, il fracasso dei piatti rotti e le grida della madre. Il piccolo si coprì le orecchie, ma Símon guardò dentro la finestra della cucina, che rischiarava il crepuscolo con una luce giallastra, e si costrinse ad ascoltare le urla della donna. Non si copriva più le orecchie. Se voleva portare a termine quel che doveva fare, era indispensabile che ascoltasse. 10 Elsa non aveva esagerato quando gli aveva parlato dello scantinato della casa di Benjamín. Era zeppo di cianfrusaglie e per un attimo a Erlendur caddero le braccia. Era tentato di chiamare anche Elínborg e Sigurđur Óli, ma poi decise di aspettare. Lo scantinato misurava circa novanta metri quadrati ed era suddiviso in diversi vani, senza porte né finestre, e dentro c'erano pile di scatoloni di cartone, alcuni etichettati, ma perlopiù anonimi, che una volta contenevano bottiglie di vino o sigarette, oppure casse di legno, di tutte le dimensioni possibili e piene di robaccia di ogni tipo. C'erano anche vecchie credenze, bauli, valigie e svariati altri oggetti che erano ammassati lì da tempo: biciclette polverose, un tagliaerba, un vecchio barbecue. «Può frugare quanto vuole in mezzo a questa roba» gli disse Elsa quando lo accompagnò di sotto. «Se posso aiutarla in qualcosa, non si faccia problemi a chiamarmi.» In un certo senso compativa questo poliziotto accigliato che ogni tanto le sembrava pensieroso, con indosso un cardigan logoro sotto una vecchia giacca lisa sui gomiti. Quando gli parlava e lo guardava negli occhi, avvertiva in lui una certa sofferenza. Erlendur sorrise debolmente e la ringraziò. Due ore dopo trovò i primi documenti del commerciante Benjamín Knudsen. Fare ricerche nello scantinato era una cosa atroce. Non c'era alcuna organizzazione nel materiale. Il ciarpame vecchio si mischiava al più recente in grandi pigne, che Erlendur esaminava e poi spostava per poter avanzare nel marasma. Eppure gli pareva che più si faceva strada a piccoli passi, più le scartoffie tra cui annaspava erano vecchie. Aveva voglia di un caffè e di una sigaretta, e stava valutando se disturbare Elsa o prendersi una pausa e andare a cercare una caffetteria. Non riusciva a togliersi Eva Lind dalla mente. Aveva con sé il cellulare, in qualsiasi momento avrebbe potuto ricevere una telefonata dall'ospedale. Si sentiva in colpa per non essere accanto a lei. Forse avrebbe dovuto
prendersi qualche giorno di ferie per rimanere vicino a sua figlia e parlarle come gli aveva detto di fare il medico. Doveva stare con lei e non lasciarla da sola in terapia intensiva priva di conoscenza, senza una famiglia, senza nemmeno una parola di conforto, completamente sola. Ma sapeva che non sarebbe mai stato capace di rimanere seduto al suo capezzale senza far niente, ad aspettare. Il lavoro per lui era una specie di medicina. Doveva tenersi occupato per distrarsi. Per evitare di pensare troppo al peggio. All'impensabile. Mentre continuava a rovistare nello scantinato, cercò di concentrarsi. In una vecchia scrivania trovò fatture di grossisti intestate all'Emporio Knudsen. Erano scritte a mano ed ebbe qualche difficoltà a decifrare la grafia, ma pareva riguardassero merci d'importazione. Altre fatture simili erano nella cassettiera e la prima impressione che Erlendur ricavò di Benjamín Knudsen fu che importasse derrate alimentari. Accanto ai numeri comparivano voci come caffè e zucchero. Non c'era niente sulla costruzione della casa di villeggiatura nella campagna fuori Reykjavík, dove adesso stavano edificando il Quartiere del Millennio. Il bisogno di fumare alla fine ebbe la meglio e nel seminterrato Erlendur trovò una porta che dava su un giardino ben tenuto. La vegetazione cominciava appena a riprendersi dopo il lungo inverno, anche se mentre fumava, inspirando con foga il fumo nei polmoni, non ci badò molto. Finì due sigarette in poco tempo. Proprio quando stava per tornare nello scantinato, il telefono nella tasca della giacca squillò. Rispose. Era Elínborg. «Come sta Eva Lind?» gli chiese. «È ancora priva di conoscenza» rispose lui brusco. Non aveva voglia di chiacchierare. «Qualcosa di nuovo?» le domandò poi. «Ho parlato col vecchio, Róbert. Aveva una casa sulla collina. Non sono molto sicura di dove volesse arrivare, ma si ricordava di qualcuno che curava i tuoi cespugli.» «I cespugli?» «Quelli accanto allo scheletro.» «I cespugli di ribes? Chi era?» «Poi credo sia morto.» Erlendur sentì Sigurđur Óli che sghignazzava in sottofondo. «Quello dei cespugli?» «No, Róbert» precisò Elínborg. «Quindi da lui non sapremo altro.» «E chi era quello dei cespugli?»
«Non è molto chiaro» disse Elínborg. «Pare che questa persona ci andasse spesso, dopo. È stata l'unica cosa che ho saputo da lui. Poi ha cominciato a dire qualcos'altro. Ha detto 'donna verde' e basta.» «Donna verde?» «Sì. Verde.» «Dopo, spesso e verde» ripeté Erlendur. «Dopo che cosa? Che voleva dire?» «Come ho detto, è stato molto sconclusionato. Credo che possa essere stata... credo che fosse...» Elínborg esitò. «Cosa?» chiese Erlendur. «Storta.» «Storta?» «È stata l'unica descrizione che ha dato di questa donna. Il vecchietto non riusciva più a parlare, così mi ha scritto quest'unica parola, storta. Poi si è addormentato e credo che gli sia successo qualcosa di brutto, perché una squadra di medici è arrivata di corsa da lui e...» La voce di Elínborg stava sfumando. Erlendur rimuginò per qualche momento sulle sue parole. «Allora, pare che una certa donna sia andata spesso agli arbusti di ribes qualche tempo dopo qualcosa.» «Forse intendeva dopo la guerra» aggiunse Elínborg. «Ricordava chi abitava nella casa?» «Una famiglia» rispose la collega. «Una coppia con tre figli. Non sono riuscita a sapere altro da lui.» «Quindi nella zona abitavano delle persone?» «Pare di sì.» «E lei era storta. Come si fa a essere storti? Quanti anni ha Róbert?» «Ne ha... o ne aveva, non so... più di novanta.» «È impossibile sapere con certezza che cosa abbia voluto dire con questa parola» disse Erlendur, quasi fra sé. «Una donna storta nei cespugli di ribes. Ci vive qualcuno nella casa di villeggiatura di Róbert? È ancora in piedi?» Elínborg gli spiegò che lei e Sigurđur Óli avevano parlato con gli attuali proprietari quello stesso giorno, ma questa presunta donna non era mai stata nominata durante la conversazione. Erlendur disse loro di tornare a parlare con i proprietari e chiedere se non avevano notato delle persone intorno ai cespugli e se magari non si trattava di una donna. E anche di provare a rintracciare i parenti di Róbert, se ne aveva, per sapere se aveva mai par-
lato con loro della famiglia sulla collina. Quanto a lui, disse di voler frugare un altro po' nello scantinato prima di andare all'ospedale da sua figlia. Tornò a esaminare le scartoffie del commerciante e, mentre osservava il seminterrato, si chiese quanti giorni gli sarebbero occorsi per controllare tutta quella roba. Zigzagò fra i mucchi di carte per raggiungere la scrivania di Benjamín e si rese conto che conteneva solo documenti e fatture riguardanti il negozio, l'Emporio Knudsen. Erlendur non se ne ricordava, ma sembrava si trovasse in Hverfisgata. Un paio d'ore più tardi, dopo aver bevuto un caffè con Elsa e fumato altre due sigarette nel giardino sul retro, s'imbatte in un baule verniciato di grigio deposto sul pavimento dello scantinato. Era chiuso, ma la chiave era nella serratura. Erlendur dovette fare forza per girarla e aprire il baule. All'interno c'erano altri documenti e delle buste legate con un elastico, ma nessuna fattura. Fra le lettere c'erano anche delle fotografie, alcune incorniciate. Erlendur le osservò. Non aveva idea di chi fossero le persone ritratte, ma ritenne che il soggetto di alcune foto fosse Benjamín stesso. Una raffigurava un uomo alto e bello, con una pancetta incipiente, davanti a un negozio. L'occasione era ovvia. Sulla porta del negozio c'era un'insegna: EMPORIO KNUDSEN. Erlendur osservò altre immagini e vi trovò lo stesso uomo; in alcune era insieme a una donna più giovane ed entrambi sorridevano alla macchina fotografica. Tutte le fotografie erano state scattate all'esterno in giornate di sole. Le depose per prendere una pila di buste e si rese conto che erano le lettere d'amore che Benjamín aveva scritto alla sua futura moglie. Si chiamava Sólveig. Alcune erano solo brevissimi messaggi e dichiarazioni d'amore, altre erano più dettagliate e contenevano resoconti di eventi quotidiani. Tutte rivelavano un grande affetto nei confronti della fidanzata. Le lettere sembravano disposte in ordine cronologico ed Erlendur ne lesse una, anche se con qualche riserva. Sentiva quasi di violare qualcosa di sacro e se ne vergognava. Come se si fosse appostato fuori da una finestra e stesse sbirciando all'interno. Mia adorata, mi manchi terribilmente, mia diletta. Ho pensato a te tutto il giorno e conto i minuti che ci separano. La vita senza di te è come un inverno freddo, incolore, vuoto e morto. E pensare che starai via due intere settimane. A dire il vero non so come farò.
Il tuo amato, Benjamín K. Erlendur ripose la lettera nella busta e ne estrasse da sotto il mucchio un'altra, che era molto più dettagliata e parlava dell'intenzione del commerciante di aprire un negozio in Hverfisgata. Aveva grandi progetti per il futuro. Aveva letto che nelle città americane c'erano dei negozi enormi che vendevano articoli di ogni tipo, sia capi d'abbigliamento sia cibarie. La gente sceglieva da sola sugli scaffali le cose che voleva comprare e poi le metteva in un carrello che spingeva per tutto il negozio. Andò all'ospedale verso sera per stare accanto a Eva Lind. Prima telefonò a Skarphédinn, il quale gli disse che gli scavi sulla collina procedevano bene, ma non volle fare alcuna previsione sulla data in cui sarebbero riusciti a raggiungere lo scheletro. Nel terriccio non avevano ancora trovato niente che potesse indicare cosa aveva causato la morte dell'Uomo del Millennio. Prima di partire, Erlendur chiamò anche il medico di Eva Lind e seppe che le sue condizioni erano ancora stazionarie. Quando entrò nel reparto di terapia intensiva, vide una donna vestita con un cappotto marrone seduta sul bordo del letto di sua figlia; era quasi entrato in stanza quando si rese conto di chi era. Si irrigidì, si fermò all'istante e tornò lentamente indietro, dalla porta fino al corridoio, poi rimase a guardare la donna da lontano. Gli dava le spalle, ma sapeva che era lei. Aveva la sua stessa età, stava seduta ricurva, grassoccia, con un paio di pantaloni da ginnastica fucsia sotto il cappotto marrone; si portava un fazzoletto al naso e parlava a Eva Lind a bassa voce. Non sentiva cosa le stesse dicendo. Notò che aveva i capelli tinti, ma doveva essere passato del tempo dall'ultima volta che li aveva ritoccati, perché la ricrescita bianca era ben visibile lungo la scriminatura. Involontariamente pensò a quanto era invecchiata. Era naturale. Aveva tre anni più di lui. Erano vent'anni che non la vedeva così da vicino, da quando se n'era andato, lasciandola sola con due figli. Non si era più risposata, come Erlendur, ma aveva convissuto con vari uomini, alcuni migliori di altri. Glielo aveva detto Eva Lind una volta cresciuta, quando aveva cominciato a cercarlo. Anche se all'inizio la ragazza era stata molto diffidente nei suoi confronti, nonostante tutto fra di loro si era creata una certa complicità, e lui cercava sempre di fare tutto quello che poteva per la figlia. Lo stesso era
accaduto con il maschio, che però era molto più distante. Non aveva quasi nessun contatto con lui. E con questa donna che adesso sedeva accanto a Eva Lind in vent'anni aveva scambiato sì e no qualche parola. Erlendur osservò la sua ex moglie e indietreggiò lungo il corridoio. Si chiese se fosse il caso di entrare e avvicinarsi, ma non riuscì a decidere. Temeva delle grane e non voleva fare scenate in un posto del genere. Anzi, non voleva fare scenate da nessuna parte. Fosse stato per lui, non ne avrebbe mai fatte nella vita. Non avevano mai risolto il loro rapporto in modo dignitoso ed era una delle cose che Eva Lind gli rimproverava di più. Il modo in cui se n'era andato. Si voltò e uscì a grandi passi lungo il corridoio, pensando alle lettere d'amore nello scantinato di Benjamín Knudsen. Se ne era dimenticato e, quando tornò a casa, la domanda che gli ronzava in testa restava ancora senza una risposta; si abbandonò pesantemente sulla poltrona e lasciò che il sonno gliela scacciasse dalla mente. Halldóra era mai stata la sua amata? 11 Fu stabilito che Erlendur, Sigurđur Óli ed Elínborg si sarebbero occupati da soli del «Mistero delle ossa», come lo chiamavano i media. Il dipartimento di polizia investigativa non poteva permettersi di assegnare al caso altri agenti, perché non era nella lista delle priorità. Era in corso un'inchiesta di primaria importanza su un pesante traffico di stupefacenti che richiedeva tempo e uomini, e il dipartimento non poteva schierare altre forze in una ricerca storica, come aveva spiegato Hrólfur, il loro superiore. Anzi, non c'era nemmeno la certezza che si trattasse di un crimine. Il giorno seguente, al mattino presto, prima di andare al lavoro, Erlendur fece visita all'ospedale e rimase al capezzale della figlia per due ore. Le sue condizioni erano immutate. Non vide l'ex moglie da nessuna parte. Rimase a lungo in silenzio a osservare il volto magro e ossuto della figlia e pensò al passato. Cercò di ricordare le ore trascorse con lei quand'era piccola. Eva Lind aveva tre anni quando lui e Halldóra si erano separati, ricordava che dormiva nel letto in mezzo a loro. Si rifiutava di stare nel suo lettino anche se era nella loro stanza, perché l'appartamento era piccolo; una sola camera, il soggiorno e la cucina. Scendeva, si buttava sul lettone dei genitori e si rannicchiava in mezzo a loro.
Ricordava quando si era presentata sulla porta di casa sua, ormai quasi adulta, dopo averlo rintracciato. Halldóra gli negava il diritto di vedere i bambini. Ogni volta che ci provava, lei gli vomitava addosso insulti e a lui sembrava che ogni parola che gli diceva non potesse essere più giusta. A poco a poco smise di andare a trovarli. Quando si era trovato Eva Lind sulla porta non la vedeva da un sacco di tempo, eppure la sua faccia gli era risultata subito familiare. Aveva sul volto l'espressione sua e dei suoi. «Non mi inviti a entrare?» gli aveva detto, dopo che lui l'aveva fissata per un bel po'. Portava un giubbotto di pelle nera, dei jeans scoloriti e un rossetto nero sulle labbra. Le unghie erano dipinte di nero. Fumava ed espirava dal naso. Aveva ancora un'espressione da adolescente, quasi intatta. Erlendur aveva esitato. Non se ne capacitava. Poi l'aveva invitata a entrare. «La mamma è andata fuori di testa quando le ho detto che volevo venire a trovarti» gli aveva spiegato, avvolgendolo in una scia di fumo e andandosi a buttare sulla sua poltrona. «Ha detto che eri un disgraziato. L'ha sempre detto. A me e a Sindri. 'Quel cazzo di disgraziato di vostro padre.' E poi: 'Siete proprio come lui, cazzo, due disgraziati'.» Eva Lind era scoppiata a ridere. Cercava un posacenere per spegnere la sigaretta, ma lui le aveva preso il mozzicone e lo aveva buttato. «Perché...» aveva cominciato, senza riuscire a concludere la frase. «Volevo solo vederti» aveva detto la ragazza. «Volevo solo vedere che cazzo di faccia avevi.» «E che faccia ho?» «Quella di un disgraziato» aveva risposto lei. Lo osservava. «Allora non siamo poi tanto diversi» aveva aggiunto lui. Eva Lind lo aveva fissato a lungo e gli era parso di vederla sorridere. Quando Erlendur arrivò in ufficio, Elínborg e Sigurđur Óli si accomodarono nel suo ufficio e gli raccontarono di non avere ricavato niente parlando con i proprietari della casa di villeggiatura di Róbert. Non avevano mai notato nessuna vecchia storta, come l'avevano definita loro, in nessun punto della collina. La moglie di Róbert era morta una decina di anni prima. Avevano avuto due figli. Uno di loro, il maschio, era morto a sessant'anni e la femmina, una donna sulla settantina, aspettava la visita di Elínborg. «E Róbert? Non possiamo ricavare altro da lui?» chiese Erlendur.
«Róbert è morto ieri sera» rispose Elínborg, con un vago senso di colpa nella voce. «Era stanco di vivere. Davvero. Credo abbia pensato di averne abbastanza. Era un povero vegetale, ecco cos'ha detto. Dio, non vorrei mai consumarmi in quel modo in ospedale.» «Ha scritto un messaggio su un blocco per appunti poco prima di morire» disse Sigurđur Óli. «'È stata lei'.» «Oh, che bella battuta» replicò Elínborg. «Come mi dai sui nervi.» «Per oggi non dovrai più vederlo» disse Erlendur, indicando il collega. «Ho intenzione di mandarlo nello scantinato di Benjamín, il proprietario della casa, a disseppellire indizi.» «Ma cosa credi di trovare lì dentro?» chiese Sigurđur Óli, mentre il sorriso gli si gelava sul volto. «Se ha dato in affitto la casa, deve pure aver scritto qualcosa fra le sue carte. Non può essere altrimenti. Abbiamo bisogno dei nomi delle persone che abitavano lì. L'anagrafe non sembra in grado di trovarli. Quando li avremo, potremo confrontarli con gli elenchi delle persone scomparse e capire se c'è qualcuno ancora in vita. Poi, non appena verrà portato alla luce, dovremo far analizzare lo scheletro per sapere il sesso e l'età.» «Róbert ha parlato di tre figli» spiegò Elínborg. «Uno almeno dovrà pur essere ancora vivo.» «Ecco tutto quello che abbiamo» riassunse Erlendur, «e non è molto: nella casa di villeggiatura di Grafarholt abitava una famiglia di cinque persone, una coppia con tre bambini, intorno agli anni della guerra. Sappiamo per certo che hanno abitato lì, ma potrebbero non essere stati gli unici inquilini. A un primo esame pare che questa famiglia non abbia mai dichiarato la residenza laggiù. Dato che per il momento non sappiamo altro, possiamo anche pensare che sepolto sotto terra ci sia qualcuno di loro, oppure che loro conoscevano. Inoltre, un loro conoscente, cioè la donna che ricorda Róbert, andava lì...» «Spesso, e dopo, ed era storta» concluse Elínborg. «Non può significare che era zoppa?» «Ma allora non avrebbe scritto zoppa?» fece notare Sigurđur Óli. «Che ne è stato di quella casa?» chiese Elínborg. «Non ce n'è traccia, lassù.» «Magari lo scoprirai tu per noi, nello scantinato o dalla nipote di Benjamín» disse Erlendur al collega. «Io mi sono completamente dimenticato di chiederglielo.» «Ci servono questi nomi, poi dobbiamo confrontarli con le liste delle
persone scomparse in quegli anni e il gioco è fatto. Non è abbastanza ovvio?» concluse Sigurđur Óli. «Non necessariamente» disse Erlendur. «Che vuoi dire?» «Stiamo parlando solo di persone scomparse registrate nei nostri archivi.» «Di quali altre persone scomparse dovrei parlare?» «Di quelle non denunciate. Non è detto che tutti notifichino alle autorità chi sparisce dalla propria vita, chi si trasferisce e non si fa più vedere o chi lascia l'Islanda e con il tempo viene dimenticato. E poi ci sono quelli che muoiono nelle aree deserte a causa del maltempo. Se avessimo una lista di tutti i morti all'epoca in questa zona a causa del maltempo, dovremmo controllare anche quella.» «Io credo che possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che non è il nostro caso» rispose Sigurđur Óli con un tono autoritario che cominciava a dare sui nervi a Erlendur. «È escluso che quest'uomo, o chiunque sia la persona che sta lì sotto, sia morto a causa del freddo o del maltempo. Qualcuno l'ha sepolto. C'è premeditazione.» «È esattamente quello che volevo dire» disse Erlendur, che sapeva tutto sulle storie delle orribili sofferenze patite nelle aree deserte. «Il nostro tizio si mette in cammino per la brughiera. È pieno inverno e si prevede brutto tempo. Tutti cercano di dissuaderlo. Lui non ascolta i consigli, pensa di farcela. La cosa più sorprendente nei racconti sulle persone che rimangono bloccate dal maltempo è che non ascoltano mai i consigli degli altri. È come se qualcosa le attirasse verso la morte. Si dice che siano predestinate. Come se volessero sfidare la sorte. Comunque, quest'uomo crede di farcela. Poi lo sorprende una bufera molto più intensa di quanto immagini. Perde l'orientamento. Smarrisce la strada. Infine resta sepolto sotto un cumulo di neve e muore assiderato. Ormai si è allontanato troppo dai sentieri più battuti che voleva seguire. Per questo il corpo non viene mai ritrovato e viene dato per disperso.» Elínborg e Sigurđur Óli si guardarono l'un l'altra senza sapere di che cosa stesse parlando il capo. «Si tratta di una tipica sparizione islandese e solo noi che abitiamo in questo paese e sappiamo come il tempo possa peggiorare all'improvviso la possiamo comprendere; sappiamo anche che la stessa storia può ripetersi a intervalli regolari senza che nessuno la metta in discussione. L'Islanda è così, pensa la gente, scuotendo la testa. Certo, in passato, quando ci si spo-
stava a piedi da una fattoria all'altra, era un'eventualità molto più comune. Su cose del genere sono stati scritti interi volumi; non sono il solo a interessarsi all'argomento. Le modalità di spostamento in verità sono cambiate molto solo negli ultimi sessanta o settant'anni. La gente spariva e, anche se ovviamente nessuno se ne faceva una ragione, aveva un'idea precisa del proprio destino. Era raro che ci fossero i presupposti per considerare una scomparsa del genere un crimine o un caso poliziesco.» «Che vuoi dire?» chiese Sigurđur Óli. «Che ragionamento è?» gli fece eco Elínborg. «E se una di queste persone non si fosse mai incamminata verso la brughiera?» «Come?» domandò Elínborg. «E se la famiglia avesse sostenuto che la persona in questione era partita per la brughiera o voleva raggiungere la fattoria successiva, oppure gettare le reti in mare, e poi non se ne era saputo più niente? Iniziavano le ricerche, poi la vittima non veniva più trovata e veniva data per dispersa.» «Quindi sostieni che tutta la famiglia avrebbe tramato per farla fuori?» domandò Sigurđur Óli, scettico riguardo alla teoria di Erlendur. «Perché no?» continuò lui. «Sarebbe stata accoltellata, picchiata, uccisa e poi sepolta in giardino» aggiunse Elínborg. «Finché Reykjavík non diventa così grande che non ha più pace nemmeno nella tomba» concluse Erlendur. Sigurđur Óli ed Elínborg si guardarono l'un l'altra, poi fissarono di nuovo il capo. «Benjamín aveva una fidanzata che è scomparsa in circostanze misteriose» proseguì Erlendur. «Nel periodo in cui la casa di villeggiatura era in costruzione. Si diceva fosse finita in mare, ma Benjamín non fu più lo stesso dopo la disgrazia. Pare avesse in progetto di rivoluzionare il commercio a Reykjavík, ma quando la donna sparì si ritrovò a pezzi e con il tempo il fiorente negozio che aveva gli svanì fra le mani.» «Ma secondo la tua nuova teoria, lei non è scomparsa, no?» si intromise Sigurđur Óli. «Certo che è scomparsa.» «Ma l'ha uccisa lui?» «A dire il vero, faccio fatica a immaginarlo» disse Erlendur. «Ho letto le lettere che le scriveva e mi pare che non potesse farle niente di male.» «Allora è stata la gelosia» azzardò Elínborg, avida lettrice di romanzi
d'amore. «L'ha uccisa per gelosia. Pareva sinceramente innamorato di lei. L'ha sepolta lassù e non ci è più tornato. Punto e basta.» «Quello che mi chiedo» continuò Erlendur «è se non sia una reazione eccessiva per un giovane, anche se gli è morta la fidanzata. Poniamo pure che si fosse suicidata. Mi pare di capire che dopo la sua scomparsa Benjamín non si sia più ripreso. Ci può essere qualcos'altro dietro?» «Avrà conservato una sua ciocca di capelli?» si chiese Elínborg quasi fra sé, ed Erlendur pensò che avesse ancora in testa i libri rosa. «Forse l'ha incorniciata o messa in un medaglione» aggiunse. «Se l'ha amata tanto...» «Una ciocca di capelli?» ripeté Sigurđur Óli. «Come al solito, lui non ha afferrato il nocciolo della questione» commentò Erlendur, che invece aveva capito benissimo dove voleva arrivare Elínborg. «Che ciocca?» insisté Sigurđur Óli. «Se non altro, potremmo almeno escluderla.» «Chi?» chiese Sigurđur Óli. Li osservò a turno, un po' meno sorpreso. «State parlando dell'analisi del DNA?» «E poi c'è la donna della collina» disse Elínborg. «Sarebbe bello rintracciarla.» «La donna verde» rifletté Erlendur pensieroso, quasi fra sé. «Erlendur?» lo chiamò Sigurđur Óli. «Sì?» «È ovvio che quella donna non può essere verde.» «Sigurđur Óli?» «Sì?» «Credi che sia scemo?» In quel momento, sulla scrivania di Erlendur squillò il telefono. Era Skarphédinn, l'archeologo. «Sta andando tutto bene» disse. «Potremmo scoprire le ossa fra due giorni circa.» «Due giorni!» esclamò Erlendur. «Più o meno. Non abbiamo ancora trovato niente che si possa definire un'arma. Forse vi sembrerà che stiamo procedendo troppo meticolosamente, ma io credo che sia meglio gestire la cosa nel modo ottimale. Vuole venire a dare un'occhiata?» «Sì, stavo proprio venendo da lei» disse Erlendur. «Magari lungo la strada ci compra delle paste?» chiese Skarphédinn ed Erlendur si vide davanti i due incisivi gialli. «Delle paste?» sbottò.
«Sì, viennesi» rispose Skarphédinn. Erlendur appese e chiese a Elínborg di andare con lui a Grafarholt, mentre Sigurđur Óli sarebbe dovuto andare nello scantinato di Benjamín per cercare di trovare qualcosa sulla casa che il commerciante aveva costruito e di cui non si era più occupato dopo che la sua vita era diventata una desolazione. Lungo la strada per Grafarholt, Erlendur ripensò alle persone scomparse e a chi si smarriva a causa del maltempo, e si ricordò della storia di Jón l'Orientale. Era morto assiderato, probabilmente a Blöndugil nel 1780. Il suo cavallo era stato rinvenuto con la gola tagliata, ma di Jón non si era trovato altro che una mano. Stava dentro un guanto di lana blu fatto a maglia. In tutti i peggiori incubi di Símon, il mostro era suo padre. Era sempre stato così, almeno da che si ricordava. Aveva paura di quel mostro più di qualsiasi altra cosa nella vita e, quando metteva le mani addosso a sua madre, tutto ciò che voleva era poterla aiutare. Si immaginava lo scontro inevitabile come in un libro di avventure, dove il cavaliere sconfiggeva il drago sputafuoco, ma nei sogni Símon non vinceva mai. Il mostro dei suoi incubi si chiamava Grímur. Quando li aveva scovati nel dormitorio dello stabilimento per la lavorazione del pesce di Siglufjördur, Símon era sveglio e lo aveva sentito sussurrare a sua madre che avrebbe ammazzato Mikkelína in montagna. Aveva scorto il terrore sul volto della donna e l'aveva vista perdere il controllo all'improvviso e sbattersi con tutta la sua forza contro il letto fino a perdere conoscenza. Allora Grímur si era placato. Lo aveva visto quando cercava di farla rinvenire dandole uno schiaffo dopo l'altro. Ne aveva sentito l'odore acre e aveva sepolto la faccia nel materasso, così spaventato che aveva chiesto a Gesù di portarlo in cielo con sé. Non aveva sentito altro di quanto Grímur aveva sussurrato alla mamma. Aveva udito soltanto i suoi lamenti. Repressi, come quelli di un animale ferito, insieme alle bestemmie del padre. Aveva aperto appena gli occhi e aveva visto Mikkelína che lo fissava nel buio con le pupille dilatate, in preda a un terrore indescrivibile. Símon aveva smesso di pregare il suo Dio e aveva smesso anche di parlare con Gesù, il suo buon fratello, anche se sua madre gli aveva detto di non rinunciare mai a credere in lui. Símon sapeva come stavano le cose,
ma ormai non ne parlava più con lei, perché dalla sua espressione aveva capito che non le piaceva stare ad ascoltare. Lui sapeva che nessuno, e tantomeno Dio, avrebbe potuto aiutare sua madre ad avere la meglio su Grímur. Lo sapeva bene che Dio era il creatore onnipotente e onnisciente del cielo e della terra e che Dio aveva creato Grímur come tutti gli altri e che Dio teneva in vita quel mostro e che Dio permetteva che aggredisse la sua mamma e la trascinasse per i capelli lungo il pavimento della cucina e che le sputasse addosso. E a volte Grímur aggrediva Mikkelína, quella cretina maledetta, e la picchiava e la derideva, e a volte picchiava anche Símon e gli tirava calci o pugni, una volta così forte che gli aveva fatto saltare un dente dalla gengiva superiore e sputare sangue. Gesù il buon fratello. Il migliore amico dei bambini. Grímur sbagliava a dire che Mikkelína era una cretina. Símon pensava che fosse più intelligente di tutti loro messi insieme. Ma non diceva mai nemmeno una parola. Era sicuro che fosse capace di parlare, solo non voleva farlo. Era sicuro che avesse scelto il silenzio e immaginava anche il perché: aveva paura di Grímur, proprio come lui, anzi, anche più di lui, visto che, parlando di lei, qualche volta l'uomo diceva che avrebbero dovuto buttarla nella spazzatura insieme al suo rottame di passeggino, perché era una demente totale e si era stancato di doverla mantenere senza che facesse niente in casa, se non essere di peso agli altri. E diceva anche che era una ritardata e gettava il ridicolo su tutta la famiglia. Quando Grímur si esprimeva in quel modo e rideva dei deboli tentativi che faceva sua madre per difenderla da quelle malignità, stava bene attento che la bambina lo sentisse in modo chiaro e distinto. Anche se lui la copriva di insulti e la chiamava con gli epiteti peggiori, a Mikkelína non importava, ma non voleva che sua madre si preoccupasse per lei. Quando la guardava, Símon glielo leggeva negli occhi. Il legame che aveva con Símon era sempre stato molto forte, molto più che con il piccolo Tómas, che invece era chiuso e introverso. La mamma sapeva che sua figlia non era affatto ritardata. La aiutava sempre a fare degli esercizi, ma solo quando Grímur non la vedeva. Le scioglieva i muscoli delle gambe. Le sollevava la mano atrofica, che era contratta e richiusa a pugno, e le spalmava sul fianco paralizzato un olio che preparava lei stessa con le erbe della collina. Pensava addirittura che prima o poi sarebbe riuscita a camminare, così la sosteneva e intanto passeggiava con lei avanti e indietro per la stanza, spronandola e infondendole fiducia.
Parlava sempre con Mikkelína come se fosse una persona normale e diceva a Símon e a Tómas di fare altrettanto. Quando Grímur non era a casa, la portava con sé, qualsiasi cosa dovesse sbrigare. Loro due si capivano a vicenda. E anche i suoi fratelli ne afferravano ogni movimento e ogni espressione del volto. Le parole erano superflue fra di loro; anche se lei le conosceva tutte, non le usava mai. La loro mamma le aveva insegnato a leggere e la cosa che le piaceva di più, oltre a essere portata fuori al sole, era proprio leggere o anche ascoltare qualcuno che leggeva un libro. Ma poi, un giorno d'estate, dopo che il mondo intero era entrato in guerra e sulla collina erano arrivati gli inglesi, dalla sua bocca cominciarono a uscire delle parole. Símon la stava riportando a casa dopo una giornata trascorsa al sole. Voleva posarla di nuovo nel suo lettino in cucina, perché stava calando la sera e cominciava a far freddo, ma Mikkelína, che quel giorno era stata incredibilmente vivace, mise il broncio e poi aprì la bocca e tirò fuori la lingua, felice perché era stata all'aria aperta, e all'improvviso emise un suono che colse la mamma tanto di sorpresa da farle cadere di mano un piatto, che finì nell'acquaio e si ruppe. Dimenticò per un attimo il terrore che altrimenti l'avrebbe colta dopo una goffaggine del genere e si voltò subito a guardare sua figlia. «EMAAEMAAA» ripeté. «Mikkelína!» ansimò sua madre. «EMAAEMMAAA» gridò Mikkelína, ruotando la testa dalla gioia, trionfante per quell'impresa. La donna le si avvicinò piano, come se non credesse alle sue orecchie, e guardò sua figlia tanto intensamente che a Símon parve di vederle spuntare le lacrime agli occhi. «Emaaemaaa» disse di nuovo Mikkelína, allora la mamma la prese dalle braccia del fratello e la depose con cautela sulla panca in cucina, infine le accarezzò la testa. Símon non aveva mai visto sua madre piangere. Qualsiasi cosa le facesse Grímur, lei non piangeva mai. Urlava per il dolore, chiamava aiuto, lo pregava di smettere o sopportava le botte in silenzio. Ma Símon non l'aveva mai vista piangere. Credeva che stesse male e la abbracciò, ma lei gli disse di non preoccuparsi. Era la cosa più bella che le potesse accadere nella vita. Lui comprese che piangeva non solo per quello che era successo a Mikkelína, ma anche per ciò che era riuscita a fare la piccola, perché l'aveva resa più felice di quanto si fosse mai permessa di essere. Nei due anni successivi, Mikkelína migliorò di continuo e ora riusciva a
pronunciare intere frasi, tutta rossa in volto per lo sforzo, con la lingua fuori, scuotendo la testa avanti e indietro in preda agli spasmi, tanto che pareva quasi staccarsi dal corpo esausto. Grímur non sapeva che era capace di parlare. Lei si rifiutava di dire una sola parola in sua presenza, e anche la madre glielo teneva nascosto, perché non voleva attirare l'attenzione dell'uomo, nemmeno sulle conquiste della figlia. Si comportavano come se nulla fosse accaduto. Come se tutto fosse come prima. Qualche volta Símon aveva sentito sua madre accennare esitante a Grímur di Mikkelína, se non fosse stato il caso di pensare a un aiuto per lei. Riusciva a muoversi meglio, crescendo diventava sempre più forte, e le sembrava che fosse in grado di imparare qualcosa. Sapeva leggere e le stava anche insegnando a scrivere con la mano buona. «È una cretina» rispondeva Grímur. «Non illuderti che sia nient'altro che una cretina. E smettila di parlarmi di lei.» La donna obbedì, perché faceva tutto quello che Grímur le diceva di fare, e l'unico aiuto che Mikkelína ricevette fu quello che le davano la mamma e Símon e Tómas, quando la portavano fuori al sole e giocavano insieme a lei. Símon non aveva molto da dire a Grímur, anzi, evitava suo padre il più possibile, ma talvolta, suo malgrado, era costretto a seguirlo. Una volta cresciuto, gli risultò di grande aiuto; infatti, cominciò a portarlo con sé nelle sue spedizioni fino a Reykjavík per fare provviste. Per arrivare in città impiegavano circa due ore, scendevano a Grafarvogur, poi attraversavano il ponte sul fiume Ellidaá e tagliavano per i quartieri di Sundir e Laugarnes. A volte prendevano anche la strada che passava per il pendio di Háaleiti e solcava Sogamyri. Símon si teneva sempre dietro il padre, a una distanza di quattro o cinque passi, e Grímur non gli parlava mai né si occupava di lui se non quando lo caricava di cibo e gli ordinava di portarlo a casa. Il tragitto di ritorno poteva durare anche tre o quattro ore, a seconda del carico. A volte Grímur rimaneva in città e non si faceva vedere per giorni. In quelle rare occasioni, a casa regnava una sorta di felicità. Durante i loro giri per Reykjavík, Símon notò un aspetto di Grímur che accettò dopo molto tempo e forse non capì mai del tutto. A casa era taciturno, scontroso e violento. Non sopportava che gli rivolgessero la parola. Quando apriva bocca, non faceva che imprecare e poi insultava e offendeva i figli e la moglie; si faceva servire in tutto e per tutto e guai a chi non obbediva. Ma quando stava con altri, sembrava che il mostro calasse la
maschera e diventasse quasi un essere umano. Le prime volte, Símon si aspettava che Grímur si comportasse come a casa e coprisse di insulti le persone o le prendesse a pugni. Aveva paura, ma ciò non accadeva mai. Anzi, all'improvviso era come se Grímur volesse compiacere tutti. Chiacchierava allegro con il commerciante di turno, si inchinava quando entrava qualcuno nello spaccio e dava a tutti del voi. Sorrideva perfino. Salutava con una stretta di mano. A volte, quando incontrava qualcuno che conosceva da tempo, Grímur scoppiava a ridere, una risata profonda e vivace, non quella strana risata secca e maligna che a volte gli usciva di bocca quando insultava sua moglie. La gente gli domandava di Símon e lui gli posava una mano sul capo dicendo che era suo figlio, sì, era già così grande. Le prime volte, lui abbassava la testa, come se si aspettasse di ricevere uno scappellotto, ma Grímur minimizzava quel gesto, scherzandoci su. Gli ci volle molto tempo per abituarsi all'incomprensibile doppiezza del padre. Non riconosceva questo suo nuovo modo di fare. Non capiva perché Grímur si comportasse in una maniera a casa e in un'altra, completamente diversa, non appena usciva. Non capiva come facesse a essere umile e remissivo e inchinarsi e dare del voi agli altri quando invece a casa comandava tutti a bacchetta e disponeva della vita e della morte di ciascuno. Quando Símon ne parlò a sua madre, lei scosse stanca la testa e gli disse, come sempre, di guardarsi bene da lui. Di fare attenzione a non irritarlo. Non importava se era Símon o Tómas o Mikkelína a istigarlo, oppure se andava su tutte le furie per qualcosa che era accaduto fuori casa: Grímur si accaniva contro sua moglie. Poteva passare un mese fra un'aggressione e l'altra, anche quasi un anno intero, ma le botte non cessavano mai del tutto e a volte erano anche piuttosto frequenti. Questione di settimane. Variavano di intensità. A volte era solo un pugno che arrivava dal nulla, a volte, invece, la rabbia lo sfigurava e allora scaraventava per terra la donna e la riempiva di calci. E non era solo la violenza fisica che gravava come un incubo sulla famiglia e sulla casa. Le parole di Grímur sortivano lo stesso effetto di una frustata in faccia. I commenti denigratori su Mikkelína, quella cretina ritardata. La ramanzina sarcastica che Tómas incassava perché non riusciva a smettere di bagnare il letto di notte. Símon, quel fannullone del cazzo, non si spicciava mai. E tutto quello che la mamma era costretta ad ascoltare mentre loro cercavano di coprirsi le orecchie. A Grímur non importava se i ragazzi lo vedevano quando si accaniva contro di lei o la insultava con termini che tagliavano come pugnali.
Per il resto, si occupava di loro molto poco, quasi per nulla. Si comportava praticamente come se non esistessero. Di rado si metteva a giocare a carte e lasciava perfino vincere Tómas. A volte, la domenica, andavano tutti insieme a passeggio a Reykjavík e comprava loro le caramelle. Ogni tanto anche Mikkelína poteva seguirli e Grímur si procurava un passaggio per tutti sul furgone del carbone, così non dovevano portarla in spalla. Durante quei giri, pochi e inusuali, a Símon sembrava quasi un essere umano. Quasi un padre. Nelle rare occasioni in cui vedeva Grímur non nei soliti panni del tiranno, gli sembrava misterioso e imprevedibile. Una volta era seduto in cucina a bere un caffè e guardava Tómas giocare per terra; aveva sfiorato il piano del tavolo con il palmo della mano e aveva chiesto a Símon, che stava per svignarsela, di versargliene ancora. E mentre il figlio eseguiva, gli disse: «Quando ci penso, mi fa andare in bestia». Símon si fermò con il bricco fra le mani e rimase immobile di fianco a lui. «Mi fa andare così in bestia» ripeté l'uomo, continuando ad accarezzare il tavolo. Símon si allontanò, indietreggiando lentamente, e depose il bricco sul piano di cottura. «Mi fa andare così in bestia vedere Tómas giocare qui per terra» continuò. «Non ero molto più grande di lui.» Símon non si era mai immaginato suo padre a un'età diversa da quella che aveva, né aveva mai pensato che un tempo potesse essere stato diverso. Adesso, all'improvviso, era un bambino, come Tómas, e Símon colse degli aspetti di lui completamente nuovi. «Siete amici tu e Tómas, vero?» Símon annuì. «Vero?» ripeté, e il bambino rispose di sì. Suo padre era ancora seduto e accarezzava il piano del tavolo. «Anche noi due eravamo amici.» Poi tacque. «Mi hanno mandato laggiù, da quella donna» disse infine Grímur. «All'età di Tómas. Ci sono rimasto anni.» Tacque di nuovo. «E suo marito...» Smise di accarezzare il tavolo con la mano e strinse il pugno. «Maledetto bastardo. Accidenti a lui, maledetto bastardo.»
Símon indietreggiò lentamente. Poi suo padre sembrò calmarsi di nuovo. «Non lo capisco nemmeno io il perché» confessò. «E non riesco a controllarmi.» Finì il caffè, si alzò, andò in camera e chiuse la porta. Ma prima prese Tómas in braccio e lo portò con sé. Con il passare degli anni, Símon percepì un cambiamento in sua madre e, mentre cresceva e maturava, acquisiva anche un maggiore senso di responsabilità. Non era stato un cambiamento repentino, come quando Grímur si trasformava all'improvviso e diventava quasi un essere umano; anzi, al contrario, la donna era cambiata in modo graduale e subdolo, in un lungo periodo, in molti anni, e lui avvertiva il significato di quella trasformazione dimostrando una sensibilità non da tutti. Sentiva in modo sempre più netto che ciò era pericoloso, forse non meno di quanto lo era Grímur, e che inevitabilmente toccava a lui intervenire prima che fosse tardi. Mikkelína era troppo debole e Tómas troppo piccolo. Solo lui avrebbe potuto aiutarla. Símon aveva difficoltà a comprendere questo cambiamento o a presagirne gli effetti, ma ne era stato più cosciente che mai da quando Mikkelína aveva emesso la prima parola. I progressi della bambina avevano reso felice sua madre in modo inesprimibile e per un attimo sembrava che il torpore fosse stato spazzato via: aveva sorriso e abbracciato Mikkelína e i due figli e, nelle settimane e nei mesi successivi, l'aveva aiutata a imparare a parlare, esultando a ogni sua piccola conquista. Ma poco dopo per sua madre tornò tutto come prima, come se l'uggia che si era dissipata fosse tornata a incombere su di lei, più grave di prima. Talvolta, dopo aver pulito da cima a fondo la casetta, tanto che non si vedeva nemmeno un granello di sporco, rimaneva seduta sul bordo del letto e fissava davanti a sé per ore. Fissava davanti a sé un vuoto muto con gli occhi semichiusi, lo sguardo infinitamente triste, infinitamente sola al mondo. Una volta, quando Grímur l'aveva colpita sul volto e poi era uscito di casa furioso, Símon le si era avvicinato e l'aveva trovata con il coltello da cucina in mano, il palmo rivolto verso l'alto, che si accarezzava lentamente il polso con la lama. Appena si era accorta di lui, gli aveva sorriso con un angolo della bocca e aveva riposto il coltello nel cassetto. «Che fai con il coltello?» chiese Símon. «Controllo la lama. Li vuole affilatissimi, lo sai.» «È tutto diverso in città» disse Símon. «Lì non è cattivo.» «Lo so.»
«È contento e sorride.» «Sì.» «Perché non è così anche a casa con noi?» «Non lo so.» «Perché qui è così cattivo?» «Non lo so. Sta male.» «Vorrei che fosse diverso. Vorrei che fosse morto.» Sua madre lo guardò. «No. Non parlare così di lui. Non puoi pensare queste cose. Tu non sei come lui e non lo sarai mai. Né tu né Tómas. Mai. Mi hai sentito? Ti proibisco di pensare queste cose. Non puoi.» Símon osservò sua madre. «Raccontami del papà di Mikkelína» le chiese. Qualche volta l'aveva sentita parlare di lui con la figlia e immaginava come sarebbe stato il suo mondo se non fosse morto. Immaginava di essere anche lui figlio di quell'uomo e sognava una famiglia in cui suo padre non era un mostro ma un amico e un compagno che amava i suoi bambini. «È morto» rispose sua madre con un lieve tono di accusa nella voce. «E basta.» «Ma lui era diverso» insisté Símon. «Tu saresti stata diversa.» «Se non se ne fosse andato? Se Mikkelína non si fosse ammalata? Se io non avessi incontrato tuo padre? Che senso ha pensare a queste cose?» «Perché è così cattivo?» Glielo chiedeva spesso e lei non sempre rispondeva, come se ormai avesse cercato per anni una risposta a quella domanda senza riuscire a trovarla. Fissò davanti a sé come se Símon non fosse più lì, come se fosse sola, e gli rispose quasi fra sé, triste e stanca e lontana, come se niente che potesse dire o fare avesse più alcuna importanza. «Non lo so. So solo che noi non ne abbiamo colpa. Non è colpa nostra. È qualcosa che ha dentro. Prima pensavo fosse per causa mia. Cercavo di trovare qualcosa di sbagliato che avevo fatto e che l'aveva reso furioso, e tentavo di cambiare. Ma non sono mai riuscita a sapere cosa fosse e qualsiasi cosa facessi era inutile. Ormai ho smesso da tempo di sentirmi colpevole e non voglio che tu o Tómas o Mikkelína riteniate che sia colpa vostra. Anche se lui impreca e vi urla tutti quei rimproveri. Non è colpa nostra.» Guardò Símon. «Il poco potere che ha in questo mondo ce l'ha su di noi, e non vuole
mollarlo. Non lo mollerà mai.» Símon guardò il cassetto dove tenevano i coltelli da cucina. «Non c'è niente che possiamo fare?» «No.» «Cosa volevi fare con il coltello?» «Te l'ho detto. Stavo controllando il filo della lama. Li vuole ben affilati.» Símon le perdonò quella menzogna perché sapeva che stava cercando, come sempre, di proteggerlo, di salvaguardarlo, di assicurarsi che la sua esistenza risentisse il meno possibile di quella vita spaventosa. Quella sera, quando Grímur tornò a casa, nero di carbone fino alla radice dei capelli, era di umore insolitamente gaio e si mise a parlare con la moglie di una cosa che aveva sentito dire a Reykjavík. Si sedette sullo sgabello della cucina e volle del caffè e le disse che al lavoro avevano parlato di lei. Grímur non capiva perché, ma avevano parlato di lei durante la consegna del carbone e avevano detto di essere sicuri che fosse una di loro. Una dei «Figli del giudizio», che erano stati concepiti alla cisterna del gas. La donna gli dava la schiena e preparava il caffè senza dire una parola. Símon era seduto al tavolo. Tómas e Mikkelína erano fuori. «Alla cisterna del gas!» E poi Grímur rise, con la sua risata maligna e catarrosa. Qualche volta tossiva del muco nero per via della polvere di carbone, ed era nero anche intorno agli occhi, alla bocca e alle orecchie. «Nell'orgia del giudizio, in un cazzo di cisterna del gas!» urlò. «Non è così» sussurrò lei e Símon trasalì, perché non aveva mai, mai sentito sua madre contraddire il marito. La fissò e sentì un sudore gelido corrergli lungo la schiena. «Scoparono e si sbronzarono tutta la notte perché pensavano che il mondo stesse per finire e così sei venuta al mondo tu, disgraziata!» «È una menzogna» rispose lei, più decisa di prima, senza alzare la testa dall'acquaio. Volgeva le spalle a Grímur, la testa china sul petto e le piccole spalle ingobbite come se vi si volesse nascondere in mezzo. Grímur aveva smesso di ridere. «Mi stai dando del bugiardo?» «No» replicò lei, «ma non è andata così. È un malinteso.» L'uomo si alzò. «È un malinteso» ripeté, scimmiottando la donna. «So quando è stata costruita la cisterna. Io sono nata prima.»
«Mi hanno detto anche un'altra cosina. Mi hanno detto che la tua mamma era una puttana e tuo padre un vagabondo e che ti hanno buttata nella spazzatura quando sei venuta al mondo.» La donna fissava il cassetto aperto e Símon si rese conto che stava guardando il coltello da cucina. Guardò il figlio e poi di nuovo il coltello, e il ragazzino comprese per la prima volta che sarebbe stata capace di usarlo. 12 Skarphédinn aveva fatto sistemare un enorme tendone bianco sopra la zona dello scavo e, quando Erlendur vi entrò per ripararsi dal sole primaverile, si rese conto che i lavori procedevano incredibilmente a rilento. Accanto alle fondamenta della casa era stata circoscritta un'area di circa dieci metri quadrati e lo scheletro era incastrato a un'estremità. La mano era rivolta verso l'alto, come prima, e due uomini in ginocchio scavavano il terreno con piccoli pennelli e cucchiai e lo analizzavano passandolo al setaccio. «Non sono un po' troppo meticolosi?» chiese Erlendur, quando Skarphédinn gli si avvicinò per salutarlo. «In uno scavo non lo si è mai abbastanza» rispose l'archeologo con il solito sussiego, fiero che la sua squadra stesse ottenendo buoni risultati con il suo metodo. «E lei, primo fra tutti, dovrebbe rendersene conto» aggiunse. «Non se ne sta servendo per una specie di campo studi?» «Un campo studi?» «Per gli studenti di archeologia. Non è il corso che tiene all'università?» «No. Senta, noi lavoriamo con scrupolo. Non c'è altro modo di procedere.» «Magari non avete fretta» disse Erlendur. «Alla fine ci arriveremo» concluse Skarphédinn, passandosi la lingua sulle zanne. «Mi pare di capire che il medico legale sia in ferie in Spagna» fece notare Erlendur. «Dovrebbe tornare fra qualche giorno. Non c'è fretta, quindi. Sembra che abbiamo tutto il tempo.» «Chi può essere la persona che sta lì sotto?» chiese Elínborg. «Non riusciamo ancora a determinare se è uomo o donna, giovane o vecchio» disse Skarphédinn. «E forse non spetta a noi farlo. Ma credo che non ci sia più alcun dubbio che sia stato commesso un omicidio.» «Potrebbe essere una giovane donna incinta?» chiese Erlendur.
«Lo sapremo presto» replicò Skarphédinn. «Presto?» domandò l'agente. «Non con questo sistema, però.» «La pazienza è una virtù» commentò l'archeologo. «Una virtù.» Erlendur voleva dirgli dove poteva infilarsela la sua virtù, ma Elínborg lo interruppe. «L'omicidio potrebbe anche non essere stato commesso in questo posto» disse, come dal nulla. Era d'accordo con gran parte di quanto aveva detto Sigurđur Óli il giorno prima, quando si era messo a criticare Erlendur perché lo trovava troppo concentrato sulla prima idea che gli era balenata in mente riguardo alle ossa, ovvero che la persona che stava sotto terra aveva abitato sulla collina, addirittura in una delle case di villeggiatura nei dintorni. Era sua opinione che fosse una stupidaggine concentrarsi su una casa che ormai non esisteva più e su gente che forse ci aveva abitato o forse no. Quando Sigurđur Óli aveva bocciato la teoria perché infondata, Erlendur era all'ospedale, ed Elínborg aveva deciso di sentire cosa aveva da dire il capo. «La vittima potrebbe essere stata uccisa, diciamo, in centro, ed essere stata portata fin qui in seguito. Io e Sigurđur Óli ne stavamo parlando ieri.» Erlendur frugò con le mani nelle tasche del soprabito, poi estrasse l'accendino e un pacchetto di sigarette. Skarphédinn lo guardò severo. «Non si fuma all'interno della tenda» gli disse scocciato. «Allora usciamo» propose a Elínborg «e non disturbiamo la virtù.» Una volta fuori, si accese una sigaretta. «Certo, avete ragione» iniziò. «Non è certo che l'omicidio - sempre che si tratti di omicidio, perché ancora non lo sappiamo - non è certo, dicevo, che sia stato commesso qui. Mi pare» continuò, espirando una densa nuvola di fumo «che abbiamo tre ipotesi tutte ugualmente probabili. In primo luogo c'è la fidanzata di Benjamín Knudsen, che è sparita quand'era incinta e tutti pensavano fosse finita in mare, Per qualche motivo, forse per gelosia, come hai detto tu, Benjamín l'ha uccisa e l'ha nascosta qui, vicino alla sua casa, e da quel momento non si è più ripreso. In secondo luogo, questo qualcuno potrebbe essere stato ucciso a Reykjavík, forse anche a Keflavík, oppure ad Akranes, comunque in un posto qualsiasi nelle vicinanze, e poi portato qui e sotterrato perché venisse dimenticato da tutti. Infine, ci sono molte probabilità che qui ci abitasse qualcuno, che sia stato commesso un omicidio e che il corpo sia stato sepolto davanti alla porta di casa perché non si poteva fare altrimenti. Forse era un viandante, un ospite, qualcuno degli inglesi che vennero qui durante la guerra e che costruirono le caser-
me sull'altro versante della collina o gli americani che subentrarono poi, o forse qualche famigliare.» Erlendur buttò per terra il mozzicone e lo calpestò. «Personalmente, e non so spiegarne il motivo, preferisco quest'ultima ipotesi. L'idea della fidanzata di Benjamín sarebbe la più semplice, se riuscissimo a collegare a lei le ossa. La seconda ipotesi, invece, è quella che ci metterebbe più in difficoltà, perché si tratta di una persona scomparsa sempre che sia stata denunciata - in una zona ampia e molto abitata, un fatto avvenuto molti anni fa. Ci sono troppe piste aperte da seguire.» «Se scoprissimo che insieme alle ossa lì sotto ci sono i resti di un feto, praticamente non avremmo già trovato la risposta?» azzardò Elínborg. «Sarebbe una soluzione molto semplice, come ho detto. Abbiamo qualche documentazione su questa gravidanza?» chiese Erlendur. «Che vuoi dire?» «Abbiamo prove certe che la ragazza aspettasse un bambino?» «Vuoi dire che Benjamín avrebbe mentito? Che non era incinta?» «Non lo so. Magari era incinta, ma non era lui il padre.» «Pensi che l'avesse tradito?» «Finché gli archeologi non ci daranno qualcosa di definitivo, possiamo specularci all'infinito.» «Cosa può essere accaduto a questa persona?» sospirò Elínborg vedendosi davanti agli occhi le ossa nella terra. «Forse se l'è meritato» disse Erlendur. «Chi?» «Questa persona che dici tu. O magari è quello che ci auguriamo tutti. Speriamo che la vittima non sia stato un innocente.» Si mise a pensare a Eva Lind. Se lo meritava, lei, di trovarsi in terapia intensiva, fra la vita e la morte? Era colpa sua? Si poteva incolpare qualcuno, a parte lei stessa? Tutto quello che le era successo non era solo colpa sua? Quella dannata dipendenza non era un problema solo suo? Oppure magari aveva anche lui una parte di responsabilità? La ragazza ne era sicura e quando credeva che il padre fosse ingiusto nei suoi confronti, non mancava di farglielo sapere. «Non te ne saresti mai dovuto andare via» gli aveva urlato una volta. «Tu mi disprezzi, ma non sei migliore di me. Anche tu sei un disgraziato, cazzo!» «Non ti disprezzo affatto» le aveva risposto, ma lei non l'ascoltava nemmeno.
«Tu mi disprezzi, come se fossi un pezzo di merda» gli aveva gridato. «Come se tu fossi migliore di me. Come se tu fossi più intelligente o migliore di me. Come se tu fossi migliore di me, della mamma e di Sindri! Te ne sei andato, come un gran signore, e non ci hai più considerati. Come se tu fossi... come se tu fossi chissà chi, Dio onnipotente, cazzo.» «Ho cercato...» «Hai cercato un cazzo! Cosa hai cercato? Niente. Un cazzo di niente. Sei scappato, disgraziato che non sei altro.» «Non ti ho mai disprezzato» aveva detto lui. «Non è vero. Non so perché dici una cosa del genere.» «Invece sì. L'hai fatto. È per questo che te ne sei andato. Perché siamo mediocri. Così schifosamente mediocri che non ci sopportavi più. Chiedilo alla mamma! Lei lo sa. Lei dice che è tutta colpa tua. Di tutto. È colpa tua. Anche la mia situazione. Cosa te ne pare, eh? Che cazzo di Dio onnipotente sei?» «Quello che dice la mamma non è del tutto vero. È arrabbiata e amareggiata e...» «Arrabbiata e amareggiata! Se tu sapessi davvero quanto è arrabbiata e amareggiata e quanto ti odia... E quanto odia noi ragazzi, perché non era colpa sua se te ne sei andato, perché lei è una madonnina infilzata. Era colpa NOSTRA. Mia e di Sindri. Te ne rendi conto, accidenti a te? Te ne rendi conto, cretino?» «Erlendur?» «Eh?» «Tutto bene?» «Certo. Tutto bene.» «Voglio andare a trovare la figlia di Róbert.» Elínborg si alzò e gli agitò una mano davanti agli occhi, come se fosse caduto in trance. «Vai tu all'ambasciata inglese?» «Eh?» Erlendur tornò in sé. «Sì, rimaniamo d'accordo così» disse poi soprappensiero. «Rimaniamo d'accordo così. Ah, senti, Elínborg...» «Sì.» «Appena le ossa vengono alla luce, fai venire qui l'ufficiale medico, così ci dà un'occhiata. Skarphédinn non ne capisce nulla. Mi ricorda sempre di più un orco delle favole dei Grimm.» 13
Prima di andare all'ambasciata inglese, Erlendur passò dal quartiere dei Vogar e parcheggiò la macchina non lontano dal seminterrato in cui abitava Eva Lind e dove lui aveva cominciato a cercarla. Pensò alla bambina con i segni di bruciature trovata nell'appartamento. Sapeva che era stata sottratta alla madre e che adesso si trovava sotto la tutela dei servizi sociali, e pure che l'uomo con cui la ragazza viveva era il padre. Una breve ricerca gli aveva rivelato che l'anno precedente la donna era andata due volte al pronto soccorso, una con un braccio rotto e l'altra con ferite di vario tipo che aveva detto di essersi procurata in un incidente stradale. Effettuando un altro semplice controllo era venuto a sapere che il suo convivente era noto alla polizia, ma non per maltrattamenti. A suo carico c'era una denuncia per effrazione e spaccio di stupefacenti ed era in attesa di giudizio. Una volta era stato in prigione per una serie di reati minori, fra cui una tentata rapina in un negozio. Erlendur rimase seduto a lungo in macchina a osservare la porta dell'appartamento. Si trattenne dal fumare e stava per mettere in moto e andarsene, quando la porta si aprì. Uscì un uomo avvolto dal fumo della sigaretta, che gettò nel giardino di fronte alla casa. Era di media altezza, piuttosto robusto, con i capelli scuri e lunghi, vestito di nero dalla testa ai piedi. L'aspetto corrispondeva alla descrizione fornita nella documentazione della polizia. L'uomo sparì dietro l'angolo ed Erlendur se ne andò in silenzio. La figlia di Róbert accolse Elínborg sulla soglia. Le aveva telefonato per avvertirla del suo arrivo. La donna si chiamava Harpa ed era costretta su una sedia a rotelle, le gambe magrissime e senza vita e il tronco forte, come le braccia. Elínborg fu colta di sorpresa quando aprì la porta, ma non disse niente. La donna la fece accomodare. Lasciò la porta aperta ed Elínborg entrò e la richiuse alle sue spalle. L'appartamento era piccolo ma accogliente, ed era stato studiato su misura per la proprietaria; la cucina e il bagno erano dotati di appositi accessori e in soggiorno gli scaffali dei libri non erano più alti di un metro. «Le faccio le mie condoglianze per suo padre» disse Elínborg, vergognandosi un po', e seguì Harpa in soggiorno. «La ringrazio» rispose lei. «Era molto anziano. Spero di non arrivare alla sua età. L'ultima cosa che vorrei è finire ammalata in un istituto, aspettare la morte per anni e consumarmi nell'attesa.» «Stiamo raccogliendo informazioni su chiunque possa aver abitato in una casa di villeggiatura di Grafarholt, sul versante nord» le spiegò Elín-
borg. «Non molto distante dalla vostra proprietà. È stato più o meno durante la guerra, anche prima. Abbiamo parlato con suo padre poco prima che morisse e ci ha detto che si ricordava di una famiglia, ma purtroppo non ha saputo dirci molto di più.» Elínborg si mise a pensare alla mascherina d'ossigeno sul volto di Róbert. Al fiato corto e alle mani esangui. «Mi diceva che avete trovato uno scheletro» disse Harpa, accomodandosi i capelli che le erano scesi sulla fronte. «L'hanno fatto vedere in televisione.» «Sì, abbiamo trovato uno scheletro nella zona e stiamo cercando di stabilire a chi appartenga. Ricorda la famiglia di cui ci ha parlato suo padre?» «Avevo sette anni quando la guerra ha raggiunto l'Islanda» iniziò Harpa. «Ricordo i militari a Reykjavík. Abitavamo in centro, sulla Laugavegur, ma io all'epoca non capivo cosa stesse succedendo. Erano anche sul versante meridionale della collina. Avevano eretto delle caserme e una fortificazione. C'era una lunga feritoia da cui spuntava la bocca di un cannone. Era tutto molto drammatico. A me e a mio fratello era stato proibito di arrivare fin là. Ricordo che tutto intorno c'erano delle recinzioni di filo spinato. Non ci andavamo spesso. Trascorrevamo molto tempo nella casa che aveva costruito papà, ma soprattutto durante l'estate. Ovviamente nelle abitazioni vicine c'erano numerose altre famiglie, persone che conoscevamo poco.» «Mi pare di aver capito da suo padre che c'erano tre bambini in quella casa. Potrebbero avere avuto la sua stessa età.» Elínborg lanciò un'occhiata ad Harpa. «Forse lei non era in grado di spostarsi molto.» «Invece sì» disse Harpa, picchiando le nocche sulla sedia a rotelle. «È successo più tardi. Un incidente in automobile. Avevo trent'anni. Non ricordo bambini sulla collina. Forse in altre case di villeggiatura, ma non lì.» «Ci sono dei cespugli di ribes non lontano dal luogo in cui sorgeva la casa e dove abbiamo trovato le ossa. Suo padre ha parlato di una donna che ci andava dopo qualcosa, mi pare di avere capito. Lo faceva spesso, almeno credo che abbia detto così, probabilmente era vestita di verde ed era storta.» «Storta?» «È quel che ha detto, anzi, che ha scritto.» Elínborg prese il foglio che aveva scarabocchiato Róbert e lo consegnò ad Harpa. «Pare fosse nel periodo in cui la casa era ancora vostra» continuò Elín-
borg. «Mi sembra di aver capito che l'abbiate venduta verso il 1970.» «Nel '72» precisò Harpa. «Ha mai notato questa donna?» «No, e non ho mai sentito mio padre parlarne. Mi dispiace di non potervi essere di nessun aiuto ma non l'ho mai vista, non ne so niente e non ricordo le persone che abitavano in quella casa, almeno secondo quanto sostiene lei.» «Ha idea di cosa abbia voluto dire suo padre con questa parola, storta?» «Quello che significa. Diceva sempre quello che pensava e niente di più. Era un uomo molto preciso. Una brava persona. Anche con me. Dopo l'incidente. E anche quando mio marito mi ha lasciata. Ha retto per tre anni, poi se n'è andato.» A Elínborg parve di vederla sorridere, ma sul suo volto non c'era alcun sorriso. L'incaricato all'ambasciata britannica di Reykjavík accolse Erlendur con una cortesia e un contegno così perfetti che gli venne quasi da inchinarsi. Disse di essere un segretario. Era molto alto e magro, con un completo impeccabile e un paio di scarpe di vernice che scricchiolavano quando camminava; parlava un islandese quasi perfetto, con grande gioia di Erlendur, che invece parlava un inglese pessimo e lo capiva ancora peggio. Tirò un sospiro di sollievo appena si accorse che, in quella conversazione, non sarebbe stato lui in svantaggio. L'ufficio del segretario era impeccabile come lui ed Erlendur pensò alla sua scrivania, che invece sembrava sempre il teatro di un'esplosione. L'uomo - «Mi chiami pure Jim», aveva detto - gli offrì una sedia. «Mi piace che qui in Islanda non siete affatto formali» esordì. «Abita qui da molto?» gli chiese Erlendur, in effetti senza sapere perché si comportasse come una vecchietta invitata per il tè. «Sì, da quasi vent'anni» annuì. «Grazie per avermelo chiesto. E, guarda caso, l'ultimo conflitto mondiale è uno dei miei interessi principali. Ciò che è successo in Islanda, voglio dire. Ho scritto la tesi per il master alla London School of Economics sull'argomento. Quando mi ha chiamato per le caserme, ho pensato che avrei potuto aiutarla.» «Ha imparato molto bene l'islandese.» «Grazie. Mia moglie è islandese.» «Allora, queste caserme?» arrivò dritto al punto, Erlendur. «Ecco, non ho avuto molto tempo, ma da noi in ambasciata ho trovato
alcuni documenti sulla costruzione degli accampamenti militari durante la guerra. Forse avremo bisogno di richiedere ulteriori informazioni, veda lei. Ma c'erano alcune caserme nel punto in cui adesso si trova il campo da golf di Grafarholt.» Jim prese dei fogli dal tavolo e diede una scorsa. «C'era anche... Come si dice? Fortificazione? Rifugio? Ah, sì, una torretta, forse. Un cannone enorme. La fortificazione era occupata da un plotone del Sedicesimo Fanteria, ma non ho ancora scoperto chi stava nelle caserme. Mi pare di capire che vi fosse un deposito viveri. Per quale motivo si trovasse lassù, non lo so per certo, ma c'erano caserme e fortificazioni in tutta la zona, verso la valle di Mosfellsdalur e fino ai fiordi di Kollafjördur e Hvalfjördur.» «Come le ho detto per telefono, ci stavamo chiedendo se non fosse scomparso qualcuno sulla collina. Sa se è stata denunciata la scomparsa di qualche soldato?» «Crede che le ossa ritrovate siano di un soldato inglese?» «È improbabile, ma pensiamo che la vittima sia stata sepolta durante la guerra, e visto che nella zona c'erano gli inglesi, se non altro non sarebbe male poterli escludere.» «Darò un'occhiata, ma non so per quanto tempo vengano conservati i documenti. Credo che poi nel 1941, quando ce ne siamo andati, in quelle caserme, come in tutte le altre, siano subentrati gli americani. Gran parte delle nostre truppe sono state inviate all'estero, ma non tutte.» «Quindi gli americani hanno gestito le caserme di Grafarholt?» «Controllerò di persona. Posso parlarne all'ambasciata americana e sentire cosa dicono. Le risparmio la fatica.» «Avevate la polizia militare, no?» «Sì, infatti. Forse è meglio cominciare da lì. Ci vorranno alcuni giorni. Se non settimane.» «Abbiamo tutto il tempo» rispose Erlendur, pensando a Skarphédinn sulla collina. Sigurđur Óli si annoiava a morte nello scantinato di Benjamín. Elsa l'aveva accolto alla porta, l'aveva accompagnato al piano di sotto e l'aveva lasciato lì. Stava rovistando da quattro ore in scaffali e cassetti e scatoloni di ogni sorta, senza sapere esattamente che cosa stesse cercando. Il pensiero andava spesso a Bergthóra e si chiedeva se, una volta rincasato, sarebbe stata la stessa ninfomane che era da alcune settimane. Aveva deciso di
chiederle apertamente se tanto interesse per lui era dovuto a qualche motivo particolare, magari il desiderio di avere un figlio. A quel punto sapeva che si sarebbe presentata un'altra difficoltà, di cui avevano discusso qualche volta senza giungere ad alcuna conclusione: non era arrivato il momento di celebrare un matrimonio con tutti i crismi? Era la domanda che le bruciava sulla punta della lingua ogni volta che lo baciava con tutto quel trasporto. Lui in verità non aveva ancora preso una decisione in merito e ogni volta evitava di darsi una risposta. Il filo dei suoi pensieri procedeva più o meno così: la loro convivenza andava benissimo, l'amore anche, perché rovinare tutto con il matrimonio? Tanto casino per niente. La festa di addio al celibato. Le navate della chiesa. Gli ospiti. I preservativi gonfiati nella stanza della sposa. Era tutto così grottesco. Bergthóra non voleva sentir parlare di cerimonia civile. Lei voleva uno spettacolo di fuochi artificiali e tanti bei ricordi che le avrebbero scaldato il cuore quando fosse stata vecchia. Sigurđur Óli bofonchiava che gli sembrava troppo presto per pensare alla vecchiaia. La questione non era risolta, chiaramente spettava a lui decidere, ma non aveva idea di cosa desiderasse: non voleva sposarsi in chiesa ma nemmeno ferire Bergthóra. Lesse alcune lettere d'amore di Benjamín Knudsen e, come Erlendur, percepì il suo amore sincero e l'affetto per la donna che un giorno era svanita nel nulla per le strade di Reykjavík e si diceva fosse finita in mare. Mia diletta. Amatissima. Quanto mi manchi. Quanto amore, pensò Sigurđur Óli. Era capace di uccidere? Le carte riguardavano più che altro l'Emporio Knudsen e ormai aveva perso le speranze di trovare qualcosa di utile, quando da un vecchio cassettone estrasse un foglio con scritto: Höskuldur Thórarinsson anticipo per affitto Grafarholt 8 kr. Firm. Benjamín Knudsen Erlendur stava uscendo dall'ambasciata quando gli squillò il cellulare. «Ho trovato un inquilino» disse Sigurđur Óli. «Almeno credo.» «Cosa?» chiese Erlendur. «Della casa di villeggiatura. Sto uscendo adesso dallo scantinato di Benjamín. Non avevo mai visto tante cianfrusaglie in vita mia, cazzo. Ho tro-
vato un biglietto: c'è scritto che un tale Höskuldur Thórarinsson ha pagato l'affitto per Grafarholt.» «Höskuldur?» «Sì. Thórarinsson.» «Che data c'è sul biglietto?» «Nessuna. Né giorno, né anno. È una fattura col timbro dell'Emporio Knudsen. La ricevuta per l'affitto è scritta sul retro, firmata da Benjamín. Poi ho anche trovato alcune fatture per della roba che potrebbe essere materiale edile. È tutto sul conto dell'emporio e le fatture sono datate 1938. Potrebbe essere che abbia cominciato a costruire la casa in quel periodo, o per lo meno ci stava lavorando.» «In che anno abbiamo detto che è sparita la sua fidanzata?» «Aspetta, l'ho scritto qui.» Erlendur attese che il collega controllasse. Sigurđur Óli prendeva appunti durante le riunioni, una cosa a cui lui non era mai riuscito ad abituarsi. Lo sentì sfogliare delle pagine, poi tornò al telefono. «È sparita nel 1940. In primavera.» «Quindi Benjamín sta costruendo la casa in quel periodo, poi interrompe i lavori e la dà in affitto.» «E Höskuldur è uno degli inquilini.» «Hai trovato qualcos'altro su questo tizio?» «No, non ancora. Non dovremmo cominciare da lui?» chiese Sigurđur Óli, che sperava di liberarsi dello scantinato. «Ci penserò io» rispose Erlendur e aggiunse, con grande sconforto del collega: «Vedi se in quel ciarpame trovi ancora qualcosa su di lui o su qualche altra persona. Potrebbero anche esserci altri biglietti come quello». 14 Uscito dall'ambasciata, Erlendur rimase seduto a lungo accanto al letto di Eva Lind e si chiese più volte di che cosa avrebbe potuto parlarle. Non aveva idea di cosa dirle. Fece qualche tentativo, ma senza risultato. Da quando il medico aveva accennato al fatto che sarebbe stato un bene se le avesse parlato, aveva pensato più volte a degli argomenti, ma non era giunto ad alcuna conclusione. Accennò al tempo, ma poi cambiò idea. Cominciò a descriverle Sigurđur Óli e le disse che in questi giorni gli sembrava molto stanco. Ma su di lui non c'era molto altro da aggiungere. Cercò di trovare un commento da fare
su Elínborg, ma abbandonò anche quest'idea. Le raccontò della fidanzata di Benjamín Knudsen che si diceva si fosse buttata in mare e delle lettere d'amore che aveva trovato nella cantina. Le disse di aver visto la madre accanto al suo letto. Poi tacque. «Che hai contro la mamma?» gli aveva chiesto Eva Lind una volta che era andata a trovarlo. «Perché non vi parlate?» Sindri Snær era con lei, ma si era fermato poco, poi erano rimasti seduti nella penombra da soli. Era dicembre e alla radio passavano le canzoni di Natale; Erlendur l'aveva spenta, ma Eva Lind voleva ascoltarle, dunque l'aveva riaccesa. Era già incinta di qualche mese ed era pulita e, come sempre quando si trovava con lui, si era messa a parlare della famiglia che non aveva mai avuto. Sindri Snær non ne parlava mai, invece; non parlava mai di sua madre o di sua sorella o di quello che non era mai successo. Quando Erlendur gli si rivolgeva era taciturno e schivo. Non gli fregava un granché di suo padre. Stava qui la differenza tra fratello e sorella. Eva Lind voleva conoscerlo e non esitava a metterlo di fronte alle sue responsabilità. «Io e tua madre?» aveva detto Erlendur a voce bassa. «Non possiamo spegnere questa litania natalizia?» Aveva cercato di prendere tempo. Le domande di Eva sul suo passato lo mettevano sempre in imbarazzo. Non sapeva che risposte dare su quella vita coniugale tanto breve, sui figli che aveva avuto, sul perché era sparito. Non aveva risposte per quelle domande e talvolta lei finiva per arrabbiarsi. Quando si trattava di questioni famigliari, era estremamente suscettibile. «No, io le voglio sentire le canzoni di Natale» aveva risposto lei, così Bing Crosby aveva continuato a cantare White Christmas. «Non l'ho mai, dico mai, sentita parlare bene di te, eppure deve pur averci visto qualcosa in te. Almeno all'inizio, quando vi siete conosciuti. Com'è stato?» «Lo hai chiesto a lei?» «Sì.» «E che ha detto?» «Niente. Perché dovrebbe dire qualcosa di positivo su di te? Non ce la fa. Non ce la fa ad ammettere che in te c'è qualcosa di buono. Com'è andata? Perché proprio voi due?» «Non lo so» le aveva detto Erlendur, ed era vero. Cercava di essere sincero. «Ci siamo conosciuti in un locale. Non lo so come. Niente di preordinato. È successo e basta.» «Ma cosa avevi in testa?»
Erlendur non le aveva risposto. Aveva pensato a quei figli che non conoscevano mai i genitori e che non riuscivano mai a sapere chi fossero in realtà. Entravano nella loro vita quando era già in corso, senza sapere niente. Non li conoscevano, se non come padre e madre o superiore e protettore. Non arrivavano mai a capirne i segreti, personali o condivisi che fossero, e il risultato era che i genitori restavano degli sconosciuti, come qualunque altra persona incontrata nel corso della vita. Aveva pensato a come i genitori riuscivano a tenere lontani i figli, finché non rimaneva altro che un'acquisita cortesia, una sincerità artefatta nata dalle esperienze comuni invece che dall'affetto sincero. «A che cosa pensavi?» Le domande di Eva Lind avevano aperto una piccola ferita in cui lei continuava a graffiare. «Non lo so» aveva ripetuto Erlendur tenendola lontana, come aveva sempre fatto. Lei lo sentiva. Forse si comportava così proprio per ottenere quella reazione. Per avere un'ulteriore conferma di quanto fosse distante da lui e non riuscisse a capirlo. «Devi pure averci trovato qualcosa in lei.» Talvolta nemmeno Erlendur capiva se stesso, come avrebbe potuto farlo Eva Lind? «Ci siamo conosciuti in un locale» le aveva ripetuto. «Non mi aspetto ci sia un gran futuro in cose del genere.» «E così te ne sei andato e basta.» «No, non me ne sono andato e basta» aveva detto Erlendur. «Non è stato così. Ma alla fine ho fatto i bagagli perché era finita. Non abbiamo... Non lo so. Forse non c'è un modo giusto. E se anche ci fosse, noi non l'abbiamo trovato.» «Ma non era finita» aveva insistito Eva Lind. «No» aveva risposto Erlendur. Ascoltava Bing Crosby alla radio. Guardava fuori dalla finestra i grandi fiocchi di neve che cadevano pigri al suolo. Guardava sua figlia. I piercing alle sopracciglia. Il bottoncino di metallo nel naso. Gli anfibi militari che riposavano sul tavolino del soggiorno. Lo sporco sotto le unghie. La pancia che sporgeva dalla maglietta nera e che cominciava a ingrossarsi. «Non è mai finita» aveva concluso lui. Höskuldur Thórarinsson abitava in un piccolo appartamento nel seminterrato della graziosa villetta della figlia nel quartiere di Árbær e, a sentire lui, se la passava bene. Era basso e agile nei movimenti, i capelli grigio ar-
gento e la barba brizzolata intorno alla bocca minuta; indossava una camicia da lavoro a quadri e un paio di pantaloni di velluto beige a coste. Elínborg l'aveva rintracciato. All'anagrafe non c'erano molte persone che si chiamavano Höskuldur e che erano ormai in pensione. Aveva telefonato quasi a tutti, ovunque risiedessero entro i confini nazionali, poi l'Höskuldur di Árbær le aveva detto che era stato in affitto da Benjamín Knudsen, poveretto, davvero un brav'uomo, Lo ricordava bene, anche se non era rimasto a lungo in quella casa. Erlendur ed Elínborg si sedettero in soggiorno a casa sua e presero a chiacchierare del più e del meno; lui, intanto, aveva già preparato il caffè; era di Reykjavík, ci era nato e cresciuto, e accidenti a questi conservatori, che spremono la vita dei pensionati come se fossero dei perdigiorno qualsiasi che non sanno prendersi cura di se stessi. Erlendur decise di mettere un freno alla logorrea del vecchio. «Perché è andato ad abitare sulla collina? Non era troppo isolato per un cittadino come lei?» «Accidenti se lo era» disse Höskuldur, versando il caffè nelle tazze. «Ma non c'erano alternative. Non per me, almeno. Era impossibile trovare casa a Reykjavík in quel periodo. In tempo di guerra ogni bugigattolo si era riempito. All'improvviso tutti i bifolchi avevano trovato lavoro e guadagnavano dei bei soldi, e non avevano più bisogno di farsi pagare con una ciotola di skyr o un grappino. Se non trovava di meglio, la gente dormiva nelle tende. I prezzi delle case erano saliti alle stelle e io mi sono trasferito lassù. Che genere di ossa avete trovato?» «Quando si è trasferito?» chiese Elínborg. «È stato più o meno verso il 1943, se ricordo bene. O nel '44. Credo in autunno. In piena guerra.» «E quanto tempo ha abitato lì?» «Ci sono stato un anno. Fino all'autunno successivo.» «E ci abitava da solo?» «Con mia moglie, la cara Ellý. È morta.» «Quando?» «Sono già tre anni. Crede che l'abbia sepolta in collina? Le sembro una persona del genere, cara mia?» «Negli archivi non risulta nessuno che risiedesse in quella casa» proseguì Elínborg senza rispondere alla sua domanda. «Né lei né nessun altro. Non ha presentato la dichiarazione di residenza?» «Non ricordo com'è andata. Non si doveva presentare niente allora. C'era
la crisi degli alloggi. C'era sempre qualcuno che pagava meglio di noi, ma poi sentii parlare della casa di Benjamín e andai a chiedergli informazioni. I suoi inquilini se n'erano appena andati e io gli feci compassione.» «Sa chi abitava lì prima di lei?» «No, ma ricordo che la casa era tirata a lucido.» Höskuldur finì il caffè, si riempì di nuovo la tazza e ne bevve un altro sorso. «Era tutto pulito e in ordine» continuò. «Come, pulito e in ordine?» «Sì, ricordo che Ellý l'aveva notato in modo particolare. Era così contenta. Tutto strigliato e pulito, non si trovava nemmeno un granello di polvere. Era come entrare in un albergo. Non che noi fossimo persone trasandate. Tutt'altro. Ma l'avevano tenuta proprio bene quella casa. Sicuramente era di una casalinga che sapeva il fatto suo, diceva la mia Ellý.» «Quindi non ha mai trovato segni di violenza o qualcosa del genere?» chiese Erlendur, che fino a quel momento era rimasto seduto in silenzio. «Macchie di sangue sulle pareti?» Elínborg lo guardò. Che si stesse prendendo gioco del vecchio? «Sangue? Sulle pareti? No, niente sangue.» «Quindi tutto in ordine?» «Tutto in ordine. Proprio così.» «C'erano delle piante accanto alla casa, quando ci abitava lei?» «C'erano degli arbusti di ribes, sì. Lo ricordo bene perché quell'autunno erano pieni di bacche e ci abbiamo fatto la marmellata.» «Non li ha piantati lei? O Ellý, sua moglie?» «No. Erano già lì quando ci siamo trasferiti.» «Non ha idea di chi siano le ossa che abbiamo trovato nel terreno?» chiese Erlendur. «È per questo che siete venuti? Per sapere se ho ammazzato qualcuno?» «Crediamo che il corpo di una persona sia stato sepolto durante la guerra o perlomeno in quel periodo» gli spiegò Erlendur. «Ma lei non è sospettato di alcun omicidio, figuriamoci. Ha mai parlato con Benjamín delle persone che abitavano nella casa prima di voi?» «Direi di no» rispose Höskuldur. «Una volta ero andato a pagare l'affitto e avevo accennato che la casa era ben tenuta, così avevo fatto i complimenti a chi c'era stato prima di noi. Lui non sembrava interessato. Un uomo davvero misterioso. Aveva perso sua moglie. Si era buttata in mare, ho sentito dire.» «La fidanzata. Non erano sposati. Ricorda degli inglesi?» chiese Erlen-
dur. «O americani, se non altro, verso la fine della guerra?» «Dopo l'occupazione, nel 1940, la collina era piena di inglesi. Avevano eretto delle caserme sull'altro versante e usavano un cannone per difendere Reykjavík dalle incursioni dei nemici. Ho sempre pensato che fosse tutto uno scherzo, ma Ellý mi diceva di non prendere niente alla leggera. Poi gli inglesi se ne andarono e subentrarono gli americani. C'erano loro quando arrivai io. Gli inglesi se n'erano andati da tempo.» «Ne conosceva qualcuno?» «Direi proprio di no. Stavano molto sulle loro. Non puzzavano come gli inglesi, diceva la mia Ellý. Erano molto più puliti e dignitosi. Più eleganti. Era tutto molto più raffinato, con loro. Come nei film di Clark Gable. O Cary Grant.» Grant era inglese, pensò Erlendur, ma non aveva voglia di correggere quel so-tutto-io. Notò che anche Elínborg lasciò perdere. «Avevano costruito anche delle caserme migliori» continuò Höskuldur impavido. «Molto, molto più belle. Gli americani avevano cementato il pavimento e non usavano legno marcio come gli inglesi. Avevano caserme migliori. Tutto quello che aveva a che vedere con gli americani era migliore. Era migliore e pure più in ordine.» «Sa chi ha preso la casa, dopo che lei e Ellý siete andati via?» chiese Erlendur. «Sì, li abbiamo incontrati e gli abbiamo fatto vedere la proprietà. Un bracciante della fattoria di Gufunes con moglie, due figli e un cane. Gente a posto, ma neanche sotto tortura riuscirei a ricordare come si chiamavano.» «Sa niente delle persone che abitavano nella casa prima di voi e che l'avevano lasciata tanto pulita?» «Niente, se non quello che mi raccontò Benjamín quando gli dissi che la casa era davvero in ordine, ma che io e Ellý non saremmo stati da meno.» Erlendur tese le orecchie ed Elínborg si raddrizzò sulla sedia. Höskuldur tacque. «Sì?» lo spronò l'agente. «Vuol sapere che disse? Una cosa riguardo alla donna.» Höskuldur tacque di nuovo e bevve un sorso di caffè. Erlendur attendeva impaziente che continuasse il suo racconto. A Höskuldur non era sfuggito il suo interessamento: sapeva di averlo in pugno. Era come se gli avesse messo un biscotto davanti al muso e adesso quello aspettasse scodinzolando un suo segnale.
«Era una cosa molto interessante, devo ammetterlo» disse Höskuldur. Quei poliziotti non se ne sarebbero andati via a mani vuote. Non da lì. Sorseggiò dell'altro caffè e si concesse tutto il tempo necessario. Mio Dio, pensò Elínborg. Quando si deciderà a parlare, il buon uomo? Ne aveva avuto abbastanza di vegliardi che le morivano davanti agli occhi o si davano tutte quelle arie nella solitudine della loro vecchiaia. «Credeva che l'uomo la battesse.» «La battesse?» ripeté Erlendur. «Com'è che si dice oggi? Violenza domestica?» «Picchiava sua moglie?» chiese Erlendur. «Così diceva Benjamín. Era uno di quei meschini che picchiano la moglie e anche i figli. Io non ho mai alzato un mignolo contro la mia Ellý.» «Le ha mai detto come si chiamavano quelle persone?» «No, e se l'ha fatto me lo sono dimenticato. Ma mi disse un'altra cosa, a cui ho ripensato spesso, in seguito. Disse che lei, la moglie di quest'uomo, era stata concepita nella vecchia cisterna del gas di Raudarárstígur. Verso Hlemmur. O per lo meno era quello che pensava la gente. Proprio come si pensava che Benjamín avesse ammazzato sua moglie. La sua fidanzata, cioè.» «Benjamín? La cisterna del gas? Ma di che sta parlando?» Erlendur non riusciva a raccapezzarsi. «La gente diceva che Benjamín avesse ammazzato la sua fidanzata?» «Alcuni pensavano di sì, all'epoca. Lui stesso lo diceva.» «Che l'aveva ammazzata lui?» «No, che la gente pensava che le avesse fatto qualcosa di male. Non che l'avesse ammazzata. A me non l'ha mai detto. Io non lo conoscevo per niente. Ma di certo la gente lo sospettava e ricordo che si parlava di gelosia.» «Maldicenze?» «Certo, tutte maldicenze. La gente ci sguazza. Vive per parlare male di chi le sta intorno.» «Aspetti, cos'è questa storia della cisterna del gas?» «È la ciliegina sulla torta. Non ne avete mai sentito parlare? Si pensava che la fine del mondo fosse vicina, così alcuni si abbandonarono a un'orgia nella cisterna del gas, per tutta la notte; devono essere stati concepiti parecchi bambini e pare che questa donna fosse una di quelli, o così almeno riteneva Benjamín. Si chiamavano i Figli del giudizio.» Erlendur guardò Elínborg e poi di nuovo Höskuldur.
«Mi sta prendendo in giro?» chiese. Lui scosse la testa. «Fu a causa della cometa. La gente pensava che si sarebbe schiantata sulla Terra.» «Che cometa?» «Ma come, che cometa? Halley, no?» disse quasi urlando quel so-tuttoio, indignato per l'ignoranza di Erlendur. «La cometa di Halley! Si pensava che avrebbe urtato contro la Terra e che il pianeta si sarebbe consumato nel rogo dell'inferno!» 15 Elínborg aveva rintracciato la sorella della fidanzata di Benjamín, così disse a Erlendur che sarebbe andata a parlare con lei dopo avere salutato Höskuldur. Lui annuì e la informò che sarebbe passato dalla biblioteca nazionale per cercare qualche articolo sulla cometa di Halley. Quando si venne al dunque, Höskuldur non seppe dire molto su quanto era accaduto davvero; com'è tipico dei so-tutto-io, sapeva solo quel che diceva la gente, ma si comportava come se conoscesse ogni cosa; girò intorno alla questione finché Erlendur non ebbe più voglia di ascoltarlo e lo salutò piuttosto bruscamente. «Cosa pensi di quanto ha detto?» chiese alla collega appena rientrati in macchina. «Quella storia sulla cisterna del gas è completamente assurda» rispose lei. «Sarà interessante vedere cosa scoprirai sulla questione. Invece quello che ha detto sulle maldicenze è verissimo. Tutti provano una gioia particolare a parlare male dei vicini. Ma questo non ci dice se Benjamín fosse un assassino o meno, e lo sai.» «Sì, ma com'è quel detto? 'Vox populi, vox Dei'?» «Ah, i detti popolari» borbottò Elínborg. «Lo chiederò alla sorella della fidanzata di Benjamín. Dimmi un'altra cosa, piuttosto. Come sta Eva Lind?» «Se ne sta distesa sul letto ed è come se dormisse in pace. Il dottore dice che le devo parlare.» «Parlare?» «Crede che senta le voci anche se è in coma e che le faccia bene.» «E di che cosa le parli?» «Ancora di niente» disse Erlendur. «Non so cosa dirle.»
La sorella della fidanzata di Benjamín era al corrente dei pettegolezzi, ma negò decisa che ci fosse un fondo di verità. Si chiamava Bára ed era molto più giovane della sorella scomparsa; abitava in una grande villa di Grafarvogur, era ancora sposata con un grossista e viveva nell'agio, come dimostravano il mobilio voluminoso, í ricchi gioielli che portava e la condiscendenza con cui trattava gli estranei, come l'agente di polizia nel suo soggiorno. Elínborg le aveva spiegato in poche parole al telefono di che cosa voleva parlarle e pensò che la donna non si era mai dovuta preoccupare dei soldi in tutta la sua vita, perché si era sempre potuta permettere quello che desiderava, e che non aveva mai avuto a che fare con gente che non fosse al suo livello. Probabilmente aveva smesso da tempo di preoccuparsi per qualsiasi cosa. Ebbe la sensazione che fosse la stessa esistenza che si prospettava anche alla sorella prima di sparire. «Mia sorella era molto legata a Benjamín, non ho mai capito il perché. Ai miei occhi era spaventosamente noioso. Veniva da una buona famiglia, non gli mancava nulla. I Knudsen sono una delle migliori casate di Reykjavík. Ma non era un uomo interessante.» Elínborg sorrise. Non capiva che cosa volesse dire Bára e lei lo notò. «Era un gran sognatore. Non riusciva a stare con í piedi per terra, aveva grandi progetti per la gestione dell'emporio; in realtà si sono realizzati tutti anni fa, anche se lui non è vissuto abbastanza per beneficiarne. Ed era gentile con la gente comune. Le governanti non dovevano nemmeno dargli del voi. Ormai non ci si dà più del voi. La cortesia non esiste più. Tantomeno le governanti.» La donna spolverò con la mano della polvere inesistente dal tavolino. Elínborg notò dei grandi quadri a un'estremità della stanza, due ritratti, uno di Bára e uno del marito. L'uomo pareva un po' malinconico e snervato, distratto. Bára aveva i tratti del viso decisi e sembrava trattenere un ghigno subdolo, così Elínborg non poté fare a meno di pensare che in quel matrimonio la vincitrice era lei. Compativa il poveretto del quadro. «Ma se lei ritiene che abbia ucciso mia sorella, si sbaglia» disse Bára. «Quelle ossa di cui mi ha parlato, vicino alla casa di villeggiatura, non sono le sue.» «Perché ne è così sicura?» «Lo so e basta. Benjamín non avrebbe mai potuto fare del male a una mosca. Era fatto così. Un inetto spaventoso. Un sognatore, come le dicevo. L'ha dimostrato anche quando è sparita. Non è stato più capace di fare nul-
la. Ha smesso di occuparsi del negozio. Ha smesso di farsi vedere in giro. Non si è più ripreso. La mamma gli restituì le lettere d'amore che aveva mandato a mia sorella. Ne aveva lette alcune, diceva che erano belle.» «Eravate unite, lei e sua sorella?» «No, non direi proprio. No. Io ero troppo più giovane. Lei mi sembrava già adulta, anche nei primi ricordi che conservo di lei. Nostra madre diceva sempre che assomigliava a nostro padre. Volubile e con un brutto carattere. Depressa. Ha fatto la stessa fine.» «La stessa fine?» chiese Elínborg. «Sì» ribatté Bára stizzosa, «la stessa fine. Si è suicidato anche lui.» Lo aveva detto come se la cosa non la riguardasse. «Lui però non è sparito. Oh, no. Si è impiccato in sala da pranzo. Al gancio del lampadario. Davanti a tutti. Ecco il riguardo che ha avuto per la famiglia.» «Dev'essere stato difficile per voi» commentò Elínborg, che le stava seduta di fronte, tanto per dire qualcosa. La signora Bára le rivolse uno sguardo accusatorio come se la incolpasse per averle fatto ricordare tutto quanto. «È stato più difficile per mia sorella. C'era molto affetto fra di loro. Una cosa del genere lascia il segno. Povera ragazza.» Si sentì una traccia di compassione nella sua voce, ma solo per un attimo. «È stato...?» «È stato qualche anno prima che lei sparisse» rispose Bára e all'improvviso Elínborg ebbe la sensazione che le stesse nascondendo qualcosa. Che quella storia fosse una messinscena, del tutto priva di ogni sentimento reale. Ma forse quella donna era fatta così. Prepotente, arida e noiosa. «Bisogna riconoscerlo, però: Benjamín era buono con lei» continuò. «Le scriveva lettere d'amore e cose del genere. Al tempo i fidanzati facevano lunghe passeggiate a Reykjavík. Un fidanzamento del tutto nella norma. Si erano conosciuti all'Hótel Borg, che allora era l'unico locale decente, si incontravano, facevano passeggiate, qualche viaggio, e così la cosa andò avanti come succede di solito fra i giovani. Lui le aveva chiesto la mano; credo non mancassero più di due settimane al matrimonio quando mia sorella sparì.» «Si dice che si sia buttata in mare, mi pare di capire» azzardò Elínborg. «Sì, la gente ricamò molto su questa storia. La cercarono per tutta Reykjavík. In molti presero parte alle ricerche, ma non venne ritrovato nemmeno un suo straccio. Fu mia madre a darmi la notizia. Mia sorella era u-
scita di casa alla mattina. Voleva andare a far spese ed era entrata in vari negozi, all'epoca non ce n'erano tanti, senza però comperare niente. Aveva incontrato Benjamín nel suo emporio e poi non l'abbiamo più vista. Lui disse alla polizia e a noi che avevano litigato. Per questo si è sempre ritenuto responsabile per come sono andate le cose e se l'è presa così a cuore.» «Perché si diceva che si fosse gettata in mare?» «Qualcuno disse di aver visto una donna che scendeva verso la spiaggia, nel punto in cui adesso finisce Tryggvagata. Indossava un cappotto simile a quello di mia sorella ed era alta più o meno come lei. Questo è tutto.» «Per cosa avevano litigato?» «Una sciocchezza. Riguardo al matrimonio. L'organizzazione. O almeno così disse Benjamín.» «Ma lei crede che ci sia qualcos'altro.» «Io non ne so niente.» «Ed esclude che le ossa ritrovate siano sue?» «Sì. Non ho in mano niente per sostenerlo. Non posso provarlo. Ma la trovo una cosa assolutamente inverosimile. Non riesco nemmeno a immaginarlo.» «Sa niente degli inquilini della casa di Benjamín a Grafarholt, che abitavano lì anche durante la guerra? Forse era una famiglia di cinque persone, una coppia con tre figli. Le dice niente?» «No, ma sono sicura che durante la guerra lassù ci abbia sempre abitato qualcuno. Per via della crisi degli alloggi.» «Ha qualcosa di sua sorella, come una ciocca di capelli? Forse in un medaglione?» «No, ma Benjamín ne conservava una. Ho visto mia sorella tagliarsela. Quando era andata a nord, a Fljót, per due settimane, in estate, a far visita ai nostri parenti, lui le aveva chiesto di lasciargli qualcosa come ricordo.» Non appena risalita in macchina, Elínborg telefonò a Sigurđur Óli. Il collega stava uscendo dallo scantinato dopo una giornata lunga e noiosa. Gli disse di tenere gli occhi aperti nel caso trovasse una ciocca di capelli della fidanzata di Benjamín. «Potrebbe stare dentro un bel medaglione» gli suggerì. Sentì che l'altro sospirava. «Dai, forza» lo incoraggiò Elínborg. «Potremmo anche risolvere il caso, se troviamo la ciocca. Sarebbe semplicissimo.» Spense il cellulare e stava per partire quando le venne un'idea improvvisa, così spense il motore. Rimase un attimo ferma a pensarci, mordendosi
il labbro inferiore senza sapere cosa fare. Decise di agire. Quando aprì la porta, Bára fu molto sorpresa di rivederla. «Ha dimenticato qualcosa?» chiese. «No, solo una domanda» disse Elínborg imbarazzata. «Poi me ne vado.» «Mi dica» rispose Bára impaziente. «Ha detto che sua sorella indossava un cappotto il giorno che è scomparsa, vero?» «Sì, e allora?» «Com'era?» «Com'era? Un cappotto normalissimo che le aveva regalato mia madre.» «Voglio dire» precisò Elínborg, «di che colore era? Lo sa?» «Il cappotto?» «Sì.» «Perché me lo chiede?» «Così, per curiosità» replicò Elínborg, che non voleva darle troppe spiegazioni. «Non me lo ricordo» ammise Bára. «No, certo» disse Elínborg. «Capisco. Grazie, e mi scusi per il disturbo.» «Ma mia madre diceva che era verde.» In quello strano periodo erano cambiate tante cose. Tómas aveva smesso di bagnare il letto. Non scatenava più la rabbia di suo padre e per qualche ragione, che a Símon era oscura, Grímur aveva cominciato a dimostrare al figlio minore più attenzioni del solito. Pensò che magari era cambiato dopo l'arrivo dei militari. O forse era Tómas che stava cambiando. Sua madre non parlò mai della cisterna del gas per cui Grímur la derideva tanto, così alla fine anche lui aveva smesso di parlarne. Piccola bastarda, le diceva, la chiamava «testa di gas», poi raccontava della grande cisterna dove si era tenuta l'orgia la notte in cui si pensava che la Terra sarebbe sparita, perché la collisione con la cometa l'avrebbe fatta a pezzi. Símon non capiva un granché di ciò che raccontava suo padre, ma vedeva che la mamma ne rimaneva molto turbata. Sapeva che le sue parole la ferivano come le percosse. Una volta che lui e Grímur andarono in città, passarono davanti alla centrale del gas e suo padre gli indicò la cisterna ridendo e gli disse che sua madre era stata concepita lì. E poi rise ancora più forte. Era uno degli edifici più grandi di Reykjavík e Símon la trovava inquietante. Un giorno de-
cise di chiedere a sua madre di spiegargli cos'erano l'edificio e la grande cisterna che lo incuriosivano tanto. «Non ascoltare le sue sciocchezze» gli disse lei. «Dovresti saperlo, ormai, com'è fatto. Non bisogna badare a quello che dice. Non bisogna farci caso.» «Ma che è successo nella cisterna?» «Niente che io sappia. È tutta roba che si è inventato lui. Non so dove l'ha sentito dire.» «Ma dove sono la tua mamma e il tuo papà?» Lei tacque e guardò il figlio. Combatteva con questa domanda da una vita e adesso, nella sua innocenza, Símon l'aveva formulata a voce alta e lei non aveva idea di cosa rispondergli. Non sapeva dov'erano i suoi genitori, non l'aveva mai saputo. Quando era più giovane aveva chiesto di loro, ma non ne aveva cavato niente. I suoi primi ricordi erano di una casa piena di bambini a Reykjavík; poi, una volta cresciuta, aveva saputo che non era sorella né figlia di nessuno e che era l'amministrazione municipale a pagarle le spese. Spesso rimuginava su quelle parole, ma non era mai riuscita a capire cosa significassero, se non molto più tardi. Un giorno era stata trasferita ed era andata ad abitare insieme a una coppia anziana come una sorta di domestica, poi, più grande, era andata a lavorare per il commerciante. Era stata quella la sua vita prima di conoscere Grímur. Le erano sempre mancati dei genitori o un posto che potesse chiamare «casa», una famiglia con cugini, zii, nonni e sorelle e fratelli, e fra l'adolescenza e l'età adulta si era chiesta spesso chi fosse e chi fossero i suoi genitori. Non sapeva dove trovare la risposta. Immaginò che fossero morti in un incidente. Era la sua unica consolazione, perché non riusciva a immaginare che l'avessero abbandonata, lei, la loro figlia. Pensò che le avessero salvato la vita e poi fossero morti. Che avessero sacrificato la loro vita per lei. Se li immaginava sempre così, come eroi che lottavano per la loro vita e per quella della figlia. Non riusciva ad accettare che i suoi genitori fossero ancora vivi. Era impensabile. Quando aveva conosciuto il padre di Mikkelína, lo aveva convinto ad aiutarla a cercare la risposta alle sue domande, così si erano presentati in vari uffici, ma non avevano trovato nessuna informazione, se non che era orfana; il nome dei genitori non era stato specificato quando era stata iscritta per la prima volta all'anagrafe. Ovunque veniva definita un'orfana. Il suo certificato di nascita non fu mai trovato. Insieme al marinaio era andata a trovare la famiglia dove aveva vissuto con gli altri bambini e aveva
parlato con quella che ricordava essere la madre adottiva, ma anche da lei non era riuscita a ottenere nulla. «Ci hanno pagato per te» le aveva detto. «Avevamo bisogno di soldi.» La donna non aveva mai chiesto niente sui genitori della bimba. Aveva smesso da tempo di farsi domande, poi quel giorno Grímur era tornato a casa sostenendo di sapere dove fossero e come fosse venuta al mondo; quando aveva parlato dell'orgia nella cisterna del gas, gli aveva visto un ghigno sul volto. Mentre osservava Símon, le affiorarono alla mente tutti questi pensieri sul suo passato e per un attimo fu come se volesse dirgli qualcosa che avrebbe cambiato tutto, ma poi rinunciò e lo pregò di non farle più domande del genere. Nel mondo imperversava la guerra e ormai era arrivata anche fin sull'altro versante della collina, dove i soldati inglesi avevano cominciato a erigere edifici a forma di pagnotte di pane che si chiamavano «caserme». Símon non capiva quella parola. Al loro interno pareva ci fosse qualcosa con un nome altrettanto incomprensibile. Un «deposito viveri». Talvolta correva con Tómas a osservare i militari. Avevano portato sulla collina legname, grandi travi per i tetti, lamiera ondulata e materiale per recinzioni, rotoli di filo spinato e sacche di cemento, una betoniera e una ruspa per liberare il terreno dove sarebbero sorte le caserme. Avevano costruito una fortificazione rivolta a ovest, verso Grafarvogur, e un giorno i due fratelli videro gli inglesi trasportare lassù un enorme cannone; fuoriusciva di molti metri, la bocca era enorme e spuntava da una feritoia, pronta a fare a pezzi i nemici, i tedeschi, che avevano dichiarato guerra e ammazzavano tutti quelli che gli capitavano a tiro, anche bambini come loro. I soldati alzarono una recinzione intorno alle caserme, che erano otto e furono erette in un batter d'occhi; ci misero un cancello e dei cartelli con scritto in islandese: È SEVERAMENTE VIETATO L'ACCESSO AI NON AUTORIZZATI. Accanto al cancello c'era una garitta dove stava sempre di guardia un militare armato di fucile. I soldati ignoravano i due ragazzini, che a loro volta si tenevano a debita distanza. Quando faceva bel tempo e il sole splendeva, Símon e Tómas portavano anche la sorella, la facevano sedere nell'erba e le mostravano cosa stavano costruendo i militari e il cannone che usciva dalla feritoia. Mikkelína se ne stava lì seduta a guardare tutto quello che le si presentava davanti, sempre pensierosa e muta, e Símon pensava che avesse paura di quello che vedeva. I soldati indossavano tute mimetiche color verde muschio con cinture e
scarpe nere e robuste allacciate fino al polpaccio, qualche volta avevano un elmetto in testa e portavano fucili e pistole nelle fondine. Quando faceva caldo si toglievano la giacca e la camicia e stavano a torso nudo al sole. A volte si tenevano delle esercitazioni e allora i militari si nascondevano, correvano e poi si buttavano a terra e sparavano. La sera, dall'accampamento si sentiva un gran chiasso e della musica. A volte veniva suonata da un apparecchio che strideva, così tutte le canzoni avevano un tono metallico. Oppure di notte i soldati cantavano canzoni della loro patria: Símon sapeva che si chiamava Gran Bretagna e secondo Grímur era un impero. Raccontavano alla madre tutto quello che succedeva sull'altro versante della collina, ma lei dimostrava ben scarso interesse. Poi una volta la portarono con loro e rimase a guardare per un bel po' l'accampamento degli inglesi e una volta a casa si mise a parlare di tutto quel trambusto e del pericolo che correvano, e proibì ai ragazzi di aggirarsi là intorno perché non si poteva mai sapere cosa poteva succedere quando gli uomini avevano delle pistole in mano e lei non voleva che accadesse loro qualcosa di male. Il tempo passava e un giorno nelle caserme arrivarono gli americani e quasi tutti gli inglesi se ne andarono via. Grímur disse che erano stati condannati a morte, ma gli americani sarebbero stati benissimo in Islanda e loro non dovevano avere alcun timore. Grímur aveva smesso di trasportare carbone e adesso lavorava per gli americani, perché all'accampamento c'erano soldi e lavoro a sufficienza. Un giorno era sceso lentamente dalla collina ed era andato a chiedere lavoro al deposito; senza alcuna difficoltà aveva ottenuto un impiego come addetto ai viveri e alla mensa. Da quel giorno il regime alimentare della famiglia cambiò. Grímur portò a casa una lattina rossa con la chiave. Arrotolò il coperchio della latta attorno alla chiave, poi rovesciò il barattolo e sul piatto uscì un bel pezzo di carne rosa circondato da una gelatina trasparente che tremolava ed era gustosa e salata. «Prosciutto» disse Grímur. «Nientemeno che dagli Stati Uniti.» Símon non aveva mai mangiato niente di così buono in vita sua. In un primo momento non pensò a come quel cibo nuovo fosse arrivato sulla loro tavola, ma quando un giorno Grímur arrivò con una scatola piena di quelle lattine e la nascose in casa, notò l'espressione preoccupata della madre. A volte Grímur partiva per Reykjavík con un sacco pieno di lattine e altri articoli che Símon non conosceva e quando tornava a casa contava le corone e i centesimi sul tavolo della cucina, e allora lui lo vedeva felice come non mai. Non era più tanto offensivo con la mamma. Aveva
smesso di parlare della cisterna del gas. Adesso accarezzava Tómas sulla testa. In casa affluivano merci di ogni genere. Sigarette americane e gustoso cibo in scatola, perfino frutta e addirittura calze di nylon, che tutte le signore di Reykjavík avrebbero desiderato, stando a quanto diceva la donna. Le merci, però, si fermavano ben poco in casa loro. Una volta Grímur arrivò con una scatolina che aveva il profumo più straordinario che Símon avesse mai sentito. Suo padre la aprì e permise a tutti loro di assaggiarne un po'; disse che era gomma da masticare, che gli americani ruminavano di tanto in tanto come vacche. Non si poteva inghiottire, si doveva sputare dopo poco e prenderne un'altra striscia. Símon, Tómas e perfino Mikkelína ricevettero un pezzo di quella gomma rosa e profumata, e ruminarono come se non avessero mai fatto altro nella vita, poi la sputarono e ne ebbero una nuova. «Si chiama 'chewing gum'» spiegò loro. Grímur imparò presto a cavarsela con l'inglese e divenne amico dei militari; quando i soldati erano in licenza, talvolta li invitava a casa e allora Mikkelína veniva chiusa nello sgabuzzino, i ragazzi dovevano pettinarsi e la mamma mettersi il vestito buono e rendersi presentabile. I soldati avevano modi gentili, salutavano con una stretta di mano, si presentavano e davano caramelle ai bambini. Si sedevano, chiacchieravano e bevevano dalle bottiglie. Poi si congedavano e se ne andavano in città con la camionetta; allora la casa, che non riceveva mai altri ospiti, tornava immersa nel silenzio. Spesso però i militari andavano direttamente a Reykjavík e tornavano alle caserme a notte fonda, cantando felici; si sentivano le loro urla e i richiami, e un paio di volte si sentirono perfino come degli spari, ma non di cannone, perché se avessero sparato dal cannone avrebbe significato che, come diceva Grímur, a Reykjavík erano arrivati í maledetti nazisti e li avrebbero uccisi tutti in un attimo. Lui andava spesso in città con i soldati per divertirsi insieme a loro, poi tornava a casa canticchiando qualche canzonetta americana che aveva imparato. Símon non aveva mai sentito Grímur cantare, prima di quell'estate. E una volta fu testimone di un fatto veramente strano. Un giorno, uno dei soldati andò al lago Reynisvatn per pescare le trote. Poi scese lungo la collina con la sua canna, fischiettando tutto il tempo, e si diresse verso est, fino al lago Hafravatn, dove trascorse gran parte della giornata. Era una bella giornata estiva, lui passeggiava sulla riva e gettava
l'esca ogni volta che ne aveva voglia. Non sembrava che pescasse per qualche motivo particolare, voleva solo godersi la scampagnata sul lago. Stava seduto, fumava e prendeva il sole. Verso le tre ne ebbe abbastanza, o almeno così sembrava: prese la canna da pesca e la piccola sacca, vi mise le tre trote che aveva pescato quel giorno e, tranquillo come sempre, risalì lentamente lungo la collina. Ma invece di oltrepassare la casa di Grímur, si fermò e disse qualcosa di incomprensibile a Símon, che aveva osservato da vicino i suoi movimenti e adesso si trovava di fronte a lui. «Are your parents in?» gli chiese il soldato sorridendo, poi diede un'occhiata in casa. La porta era aperta, come sempre quand'era bel tempo. Tómas aveva accompagnato Mikkelína al sole sul retro e si era disteso accanto a lei. La madre era dentro, impegnata nelle faccende domestiche. Símon non capì cosa gli aveva chiesto il soldato. «You don't understand me?» disse. «My name is Dave. I'm an American.» Símon comprese che aveva detto di chiamarsi Dave e annuì. Dave gli mostrò la sacca, l'appoggiò a terra, la aprì e tirò fuori le tre trote, poi le depositò lì accanto. «I want you to have this. You understand? Keep them. They should be great.» Símon lo guardò senza capire. Dave sorrise, aveva i denti bianchi e lucenti. Era basso e magro, il volto ossuto, i capelli scuri e folti pettinati con la riga da una parte. «Your mother, is she in?» gli chiese. «Or your father?» Símon non mostrò di averlo capito. Dave si sbottonò la camicia, estrasse un quadernetto nero e lo sfogliò finché non trovò il punto esatto. Si avvicinò a Símon e indicò con il dito la frase sul quaderno. «Can you read?» gli domandò. Símon lesse la frase che gli aveva indicato. Era in islandese e quindi comprensibile, ma dopo ne veniva una in lingua straniera che lui non riusciva a decifrare. Dave lesse la frase in islandese a voce alta e con molta cura. «Mi chiamo Dave» disse. «My name is Dave» ripeté in inglese. Poi indicò un'altra cosa e passò il libro a Símon, che lesse a voce alta. «Mi chiamo... Símon» disse e sorrise. Anche il soldato fece altrettanto. Poi trovò un'altra frase e la mostrò al ragazzino. «Come sta, signorina?» lesse Símon.
«Yes, but not miss, just you» precisò e rise, ma Símon non lo capì. Dave trovò la parola nel libretto e gliela mostrò. «Madre» lesse a voce alta e Dave lo indicò e annuì. «Dov'è?» gli chiese il soldato in islandese e Símon capì che gli stava chiedendo di sua madre. Gli fece cenno di seguirlo ed entrò con lui in casa fino alla cucina, dove la donna era seduta al tavolo e rammendava dei calzini. Sorrise a Símon quando lo vide entrare, ma appena si accorse di Dave, il sorriso le si congelò sul volto, i calzini le caddero dalle mani e balzò in piedi, capovolgendo la sedia. Dave si spaventò quanto lei e avanzò sventolando le mani. «Sorry» disse. «Please, I'm so sorry. I didn't want to scare you. Please.» La donna si era precipitata verso l'acquaio e fissava per terra, non osava alzare lo sguardo. «Fallo uscire» pregò il figlio. «Please, I will go» rispose Dave. «I'm sorry. I'm going. Please, I...» «Portalo via» ripeté. Stupito dalla sua reazione, Símon li guardò a turno e vide che il soldato indietreggiava, finché non sparì dalla cucina e uscì. «Perché mi hai fatto questo?» chiese a Símon. «Entrare in casa con un uomo. Che cosa significa?» «Scusa» le disse il ragazzino. «Credevo che non ci fossero problemi. Si chiama Dave.» «Che cosa voleva?» «Voleva darci il pesce che ha pescato nel fiume» le spiegò. «Credevo che non ci fossero problemi. Voleva solo darci le trote.» «Dio, come mi sono spaventata. Signore mio caro, come mi sono spaventata. Non devi più farmi una cosa del genere. Mai più! Dove sono Mikkelína e Tómas?» «Sul retro.» «Stanno bene?» «Bene? Sì. Mikkelína voleva stare al sole.» «Non devi farmi mai più una cosa del genere» ripeté lei e uscì per controllare la figlia. «Mi hai sentita? Mai più.» Poi girò l'angolo e andò sul retro della casa; accanto a Tómas e a Mikkelína vide il soldato che fissava sbalordito sua figlia. Lei faceva le sue smorfie e allungava la testa verso il sole per vedere chi stesse lì in piedi sopra di loro. Non vedeva il soldato in volto perché aveva la luce in faccia. Dave guardò la madre e poi di nuovo Mikkelína che si dimenava sull'erba accan-
to a Tómas. «I...» iniziò, poi tacque. «I didn't know» disse. «I'm sorry. Really I am. This is none of my business, I'm sorry.» Si girò e se ne andò a grandi falcate, e loro lo guardarono sparire. «Tutto bene?» chiese la madre e si chinò su Mikkelína e Tómas. Adesso che il soldato se n'era andato e non sembrava voler fare loro alcun male, era più tranquilla. Prese in braccio la figlia, la portò in casa e la depose sulla sua branda in cucina. Símon e Tómas la seguirono. «Dave non è cattivo» le spiegò Símon. «Lui è diverso.» «Si chiama Dave?» chiese la donna soprappensiero. «Dave» ripeté. «Non è come David in islandese?» disse, quasi rivolta a se stessa più che a loro. E poi accadde la cosa che a Símon era sembrata tanto strana. La mamma aveva sorriso. Tómas era sempre stato introverso, solitario e riservato, un po' nervoso e taciturno. Durante l'inverno precedente e anche quell'estate fu come se Grímur notasse in lui, più che in Símon, qualcosa che risvegliava il suo interesse. Passava del tempo con Tómas, sedeva a parlare con lui in un'altra stanza e quando una volta Símon gli chiese di che cosa avevano parlato, il fratellino non gli rispose, allora lui insisté e alla fine seppe che avevano parlato di Mikkelína. «Che cosa ti ha detto di lei?» gli chiese. «Niente» rispose. «Sì, dai, cosa?» ripeté Símon. «Ma niente» disse Tómas con un'espressione imbarazzata, come se stesse nascondendo qualcosa. «Dimmelo.» «Non voglio. Non voglio che lui mi parli. Non voglio.» «Non vuoi che lui ti parli? Vuoi dire che non vuoi che ti dica quello che ti dice? Vuoi dire questo?» «Non voglio niente» concluse Tómas. «E smettila anche tu di parlare con me.» Così passarono le settimane e i mesi, e Grímur mostrò la sua predilezione verso il figlio minore in vari modi. Símon non ascoltava mai le loro conversazioni, ma una sera, quando l'estate era già passata da tempo, scoprì che cosa facevano. Grímur si stava preparando per andare a Reykjavík con le merci prese dal deposito militare, aspettava un soldato di nome Mike che doveva aiutarlo e disponeva di una camionetta che avrebbero riem-
pito di prodotti da vendere in città. Sua moglie stava preparando la cena con cibo proveniente dal deposito, naturalmente. Mikkelína era sulla sua branda. Símon notò che Grímur stava spingendo Tómas verso la piccola e gli sussurrava qualcosa all'orecchio, sorridendo come faceva quando prendeva in giro i figli con i suoi commenti meschini. La donna non aveva notato niente e in realtà Símon non capiva bene cosa stesse succedendo, finché Tómas si avvicinò a Mikkelína, sospinto da Grímur, le si piantò davanti e le disse: «Troia». Poi si voltò di nuovo verso Grímur, che rise e gli diede una pacca sulla nuca. Símon guardò la madre accanto all'acquaio. Doveva aver sentito tutto, eppure non si muoveva e in un primo momento non mostrò alcuna reazione, come se volesse lasciar perdere e fare finta di nulla. Ma Símon vide che aveva in mano un coltello per sbucciare le patate e le nocche erano sbiancate dalla forza con cui stringeva il manico. Poi si voltò piano con il coltello in mano e fissò Grímur. «Questa è una cosa che non devi mai fare» gli disse, con voce tremante. Grímur la guardò e smise di ghignare. «Io?» le chiese. «Cos'è che non devo fare? Di che stai parlando? Io non faccio niente. È stato il bimbo. È stato il mio Tómas.» La donna fece un passo verso il marito, brandendo ancora il coltello. «Lascialo stare.» Grímur si alzò. «Che hai intenzione di fare con quel coltello?» «Non ti permettere» disse lei, e Símon capì che aveva già cominciato a tirarsi indietro. Sentì un fuoristrada fuori dalla casa. «Eccolo» urlò. «È arrivato Mike.» Grímur guardò prima fuori dalla finestra, poi la moglie e per un attimo la tensione si allentò. Lei posò il coltello. Mike apparve sulla porta. Lui sorrise. Quella notte, quando tornò a casa, Grímur malmenò la moglie. Il mattino dopo la donna aveva un occhio nero e zoppicava. I figli avevano sentito i suoi lamenti mentre lui la picchiava. Tómas si era infilato nel letto di Símon e aveva fissato suo fratello al buio, in preda al terrore, balbettando di continuo come se, così facendo, potesse cancellare quello che aveva fatto. «...Perdonami, non volevo, perdonami, scusa, scusa, scusa...»
16 Elsa accolse Sigurđur Óli sulla porta e lo invitò a entrare per un tè. Mentre la seguiva in cucina, pensò a Bergthóra. Quella mattina, prima di andare al lavoro, avevano litigato. Lui aveva rifiutato i suoi approcci sessuali e si era messo a spiegarle impacciato le sue preoccupazioni, finché la ragazza non si era agitata sul serio. «Ehi, aspetta un attimo» gli aveva detto. «Non ci sposeremo mai? Mi stai dicendo questo? Dobbiamo rimanere in una specie di limbo di convivenza senza che fra noi ci sia nulla di definito, così i nostri figli saranno dei bastardi? Mai.» «Bastardi?» «Sì.» «Stai pensando alla chiesa?» «Alla chiesa?» «Vuoi un matrimonio in grande? Con il mazzolino di fiori e il vestito da sposa e...» «Ti fa schifo l'idea?» «E poi quali figli, scusa?» le aveva chiesto Sigurđur Óli, pentendosene subito, perché si era accorto che Bergthóra si era fatta ancora più scura in volto. «Come, quali figli? Non vuoi avere dei figli?» «Ma si, no, sì... Voglio dire, non ne abbiamo mai parlato» aveva risposto. «Penso che dovremmo parlarne. Non è che puoi decidere da sola se avremo o meno dei figli. Non è giusto, e non è quello che voglio. Non ora. Non subito.» «Verrà il momento» gli aveva detto Bergthóra. «Spero. Abbiamo tutti e due trentacinque anni. Non manca molto prima che sia troppo tardi. Ogni volta che cerco di parlarne, tu cambi discorso. Non vuoi né figli né matrimonio, niente di niente. Non vuoi niente. Stai diventando come quello sfigato di Erlendur.» «Che?» Sigurđur Óli era rimasto come fulminato. «Che vuol dire?» Ma Bergthóra era già uscita per andare al lavoro e l'aveva lasciato da solo con la prospettiva di un futuro agghiacciante. Elsa si accorse che l'agente era soprappensiero quando lo vide seduto in cucina a fissare la tazza. «Vuole altro tè?» gli chiese. «No» replicò Sigurđur Óli. «Grazie. Elínborg, che lavora con me a que-
sto caso, mi ha detto di chiederle se per caso le risulta che suo zio Benjamín conservasse una ciocca di capelli della sua fidanzata, magari in un piccolo medaglione o in una scatolina, o cose del genere.» Elsa ci pensò su. «No» rispose, «non ricordo nessuna ciocca di capelli, ma non so bene cosa ci sia fra le cose di mio zio, là sotto.» «Elínborg dice che dovrebbe esserci. Lo ha saputo dalla sorella della ragazza. Ci ha parlato ieri e lei le ha raccontato che Benjamín avrebbe avuto una ciocca di capelli dalla fidanzata prima che partisse per un viaggio, mi pare di capire.» «Non mi risultano ciocche di capelli, né sue né di nessun altro. La mia famiglia non è particolarmente romantica, non lo è mai stata.» «C'è qualcosa di suo nello scantinato? Della fidanzata, intendo dire.» «Perché volete i suoi capelli?» chiese Elsa invece di rispondere e osservò con sguardo inquisitore Sigurđur Óli, che esitava. Non sapeva cosa le avesse detto Erlendur. La donna gli risparmiò la fatica di pensarci. «Così potrete assicurarvi che ci sia lei sepolta sulla collina, vero?» continuò. «Vi serve qualcosa di suo, così potete fare l'analisi del DNA per capire se sotto terra c'è proprio lei, e allora direte che ce l'ha messa mio zio e che è lui l'assassino. È così?» «Stiamo solo valutando tutte le possibilità» disse Sigurđur Óli, che voleva evitare di far arrabbiare Elsa come era già successo con Bergthóra solo una mezz'ora prima. La giornata non era cominciata bene. Per niente. «È venuto l'altro poliziotto, quello triste, e ha lasciato intendere che Benjamín fosse in parte responsabile per la morte della sua fidanzata. E adesso, se trovate una sua ciocca di capelli, lo potrete dimostrare. Non capisco come possiate ritenere che l'abbia uccisa Benjamín. Perché avrebbe dovuto farlo? Che motivi aveva? Nessuno. Assolutamente nessuno.» «No, certo, nessuno» la tranquillizzò Sigurđur Óli. «Ma dobbiamo pur stabilire di chi sono quelle ossa e perché si trovano lì sotto, e per il momento non abbiamo ancora niente in mano, se non che Benjamín aveva una casa sulla collina e che la sua fidanzata è scomparsa. Sarà curiosa anche lei. Vorrà pur sapere di chi sono quelle ossa.» «Non ne sono sicura» disse Elsa, che si era calmata un po'. «Ma io posso continuare a cercare in cantina, vero?» chiese Sigurđur Óli. «Certo, ma sì, naturalmente. Non voglio impedirglielo.» L'agente finì il suo tè e poi scese in cantina, pensando a Bergthóra. Non
conservava una sua ciocca di capelli in un medaglione, anzi, riteneva di non aver bisogno di niente per ricordarsi di lei. Non aveva nemmeno una sua foto nel portafoglio, come facevano alcuni, che tenevano con sé la fotografia della moglie e dei figli. Non si sentiva a suo agio. Doveva parlare a fondo con Bergthóra. Mettere in chiaro le cose. Non voleva diventare come Erlendur. Sigurđur Óli cercò fra gli effetti di Benjamín Knudsen fino a mezzogiorno, poi fece un salto in un fast food, si comprò un hamburger, che sbocconcellò appena, e lesse il giornale davanti a una tazza di caffè. Tornò nello scantinato verso le due del pomeriggio, maledicendo l'ostinazione di Erlendur. Non aveva trovato assolutamente niente che potesse spiegare la scomparsa della fidanzata di Benjamín, né aveva scoperto chi, oltre a Höskuldur, aveva preso in affitto la casa di villeggiatura durante la guerra. Non aveva trovato la ciocca che Elínborg, accanita lettrice di romanzi rosa, era sicura esistesse. Era il secondo giorno che passava nello scantinato e ne aveva abbastanza di quelle cazzate. Elsa lo aspettava sulla porta e lo invitò a entrare. L'agente cercò di inventare qualche scusa su due piedi, ma non fu abbastanza veloce a declinare l'invito senza sembrare ingrato, cosi la seguì in soggiorno. «Ha trovato qualcosa, là sotto?» gli chiese. Sigurđur Óli era certo che, nonostante l'interesse che dimostrava, la donna volesse soltanto carpirgli qualche informazione. Non gli passò per la mente che potesse sentirsi sola, sensazione che Erlendur aveva avvertito subito, pochi minuti dopo essere entrato in quella casa lugubre. «Di sicuro non la ciocca di capelli» rispose Sigurđur Óli sorseggiando il suo tè, che era ormai freddo. Elsa lo aveva aspettato. La guardò e si chiese cosa ci fosse sotto. «No» convenne lei. «È sposato? Mi scusi, la cosa certo non mi riguarda.» «No. Be', sì... no, non sono sposato ma convivo» spiegò lui nervoso. «Avete figli?» «No, niente figli» replicò Sigurđur Óli. «Non ancora.» «Perché no?» «Come?» «Perché non avete ancora figli?» Che succede? pensò Sigurđur Óli, e sorseggiò il tè per prendere tempo. «Lo stress, penso. C'è sempre un sacco da fare. Abbiamo tutti e due un
lavoro che ci impegna molto, così... be', non c'è tempo.» «Non c'è tempo per i figli? Ma che avete di meglio da fare? Cosa fa la sua ragazza?» «È socia in una ditta di computer» disse Sigurđur Óli, pronto a ringraziare per il tè e dire che aveva fretta e doveva andarsene; non aveva intenzione di sopportare un interrogatorio sulla sua vita privata da parte di una zitella di Vesturbær che una vita di solitudine aveva reso chiaramente un po' strana, come diventano tutte le vecchie zitelle, finché non si ritrovano a mettere il naso negli affari degli altri. «È una brava ragazza?» gli chiese. «Si chiama Bergthóra» rispose Sigurđur Óli, sul punto di perdere il controllo. «È una bravissima ragazza.» Sorrise. «Perché mi sta...?» «Io non ho mai avuto una famiglia» lo interruppe Elsa. «Non ho mai avuto figli. Nemmeno un marito. Del marito non m'importa, ma i figli mi mancano. Magari oggi avrebbero una trentina d'anni. Più verso i quaranta. A volte ci penso, sa? Adulti. Con figli a loro volta. Non so davvero cosa sia successo. All'improvviso uno si ritrova vecchio. Sono un medico. Non c'erano molte donne iscritte a medicina quando ho cominciato l'università. Ero come lei, non avevo tempo. Non avevo tempo per una vita mia. Quella che sta vivendo adesso non è la sua vita. È solo il lavoro.» «Be', già. Adesso credo di dover...» «Nemmeno Benjamín ha avuto una sua famiglia» continuò Elsa. «Era l'unica cosa che voleva. Farsi una famiglia. Con quella ragazza.» Poi si alzò e Sigurđur Óli fece altrettanto. Credeva che stesse per salutarlo, ma la donna si avvicinò a un grande mobile con belle ante di vetro e i cassetti intagliati, ne aprì uno ed estrasse una scatolina cinese: dentro c'era un medaglione d'argento appeso a una catenina. «Sì, conservava una ciocca dei suoi capelli» gli disse. «Nel medaglione c'è anche una sua foto. Si chiamava Sólveig.» Elsa sorrise timidamente. «L'amata di Benjamín. Non credo che sia lei quella sepolta là sotto. L'idea è intollerabile. Significherebbe che Benjamín le ha fatto del male. Non l'ha fatto. Non può averlo fatto. Ne sono convinta. Questa ciocca lo proverà.» Consegnò il medaglione a Sigurđur Óli. L'agente si sedette di nuovo, lo aprì con cautela e vide un ricciolo nero sopra la fotografia della sua proprietaria. Senza toccarla, fece cadere la ciocca sul coperchio del medaglione per poter vedere la foto. Mostrava il volto dai tratti minuti di una ragazza sui vent'anni, con i capelli scuri e le sopracciglia arcuate sopra due occhioni grandi che guardavano sfuggenti la macchina fotografica. L'espres-
sione della bocca era decisa, il mento definito, sottile e ben fatto. La fidanzata di Benjamín. Sólveig. «Mi deve scusare se ho esitato» gli spiegò Elsa. «Ho ripensato a tutta la questione, l'ho valutata meglio e ho sentito che non sarei riuscita a distruggere questa ciocca di capelli, qualsiasi cosa fosse emersa dall'indagine.» «Perché l'ha nascosta?» «Dovevo pensarci su.» «Sì, ma anche...» «Mi è preso un mezzo colpo quando il suo collega - Erlendur, si chiama, non è così? - ha cominciato a insinuare che poteva esserci lei là sotto, ma poi quando ci ho riflettuto meglio...» Elsa alzò le spalle, come rassegnata. «Anche se l'esame del DNA risultasse positivo» cominciò Sigurđur Óli, «non significa che Benjamín sia l'assassino. L'analisi non dà questo tipo di risposte. Se è la sua fidanzata, potrebbero esistere altri motivi per cui Benjamín...» Elsa lo interruppe. «La ragazza l'aveva mollato, come si dice oggi. Aveva rotto il fidanzamento, anche se forse è un modo di dire antiquato. Benjamín ce lo rivelò solo dopo molto tempo. Parlando con mia madre, in punto di morte. Me l'ha detto lei. Io non l'ho mai raccontato a nessuno prima d'ora. E avrei portato questo segreto con me nella tomba se non aveste trovato quelle ossa. Sapete già se sono di un uomo o di una donna?» «No» rispose Sigurđur Óli. «Vi ha mai detto per quale motivo aveva rotto il fidanzamento? Perché l'aveva lasciato?» Avvertì che Elsa esitava. Si guardarono negli occhi; Sigurđur Óli sapeva che la donna aveva già detto anche troppo per potersi tirare indietro. Sentì che voleva dirgli tutto quello che sapeva. Come se portasse una croce pesantissima e fosse venuto il momento di deporla. Finalmente, dopo tutti questi anni. «Il bambino non era suo» iniziò. «Il bambino non era di Benjamín?» «No.» «Non era incinta di lui?» «No.» «Allora di chi?» «Lei deve capire che erano altri tempi» proseguì Elsa. «Oggi abortire è come bere un bicchier d'acqua. Il matrimonio non ha più un significato particolare, nemmeno per chi vuole avere un figlio. C'è la convivenza. Si
divorzia. Si va a stare con qualcun altro. Si fanno altri figli. Si divorzia ancora. Non era così, una volta. Per una donna, avere un figlio al di fuori del matrimonio era assolutamente impensabile. Era considerata un'infamia, veniva emarginata. Chiamata una poco di buono. Non c'era nessuna pietà.» «Me ne rendo conto» disse Sigurđur Óli e si mise a pensare a Bergthóra, cominciando a poco a poco a capire perché Elsa gli aveva fatto domande sulla sua vita affettiva. «Benjamín era pronto a sposarla» continuò Elsa. «O almeno così disse a mia madre, dopo. Sólveig non era d'accordo, però. Voleva rompere il fidanzamento e glielo disse chiaro e tondo. Così, senza nessun preavviso.» «Chi era? Il padre del bambino, intendo.» «Quando lo lasciò, chiese a Benjamín di perdonarlo perché lo lasciava. Lui non la perdonò. Aveva bisogno di più tempo.» «Ed è sparita?» «Lo salutò, poi non la videro più. Verso sera, quando non si presentò a casa, si misero a cercarla e Benjamín prese parte alle ricerche con tutto se stesso, ma non la trovarono mai più.» «E il padre del bambino?» chiese ancora Sigurđur Óli. «Chi era?» «Lei non lo rivelò a Benjamín. Lo lasciò senza dirglielo. O almeno così spiegò lui a mia madre. Anche se lo sapeva, non gliel'ha detto.» «Chi potrebbe essere stato?» «Chi potrebbe essere stato?» ripeté Elsa. «Non ha importanza. L'unica cosa che conta è chi è stato veramente.» «Vuol dire che lui è coinvolto nella sua scomparsa?» «Secondo lei?» chiese Elsa. «Lei e sua madre non avete mai avuto un sospetto?» «No, nessuno. E nemmeno Benjamín, che io sappia.» «Avrebbe potuto mentire?» «Non so risponderle. Ma credo che non abbia mai mentito in vita sua.» «Che so, magari per non attirare l'attenzione su di sé.» «Io non credo che sia mai stato sospettato, ed è trascorso molto tempo prima che raccontasse a mia madre questo particolare. È stato proprio prima di morire.» «Non ha mai smesso di pensare a lei.» «È quello che diceva sempre mia madre.» Sigurđur Óli rifletté per un momento. «È stata la vergogna a spingerla a suicidarsi?» «Sì, sicuramente. Non solo aveva ingannato il suo innamorato, che l'ado-
rava e voleva sposarla, ma aveva in grembo un figlio non suo e rifiutava di dire chi fosse il padre.» «Elínborg, l'agente che lavora con me, ha parlato con la sorella. Lei le ha detto che anche il loro padre si è suicidato, impiccandosi. E che era stato un brutto colpo per Sólveig perché c'era un legame molto stretto fra di loro.» «Un brutto colpo per Sólveig?» «Sì.» «Che strano!» «Perché?» «Si è impiccato, in effetti, ma di certo Sólveig non ne è rimasta turbata.» «Che vuol dire?» «È stato proprio il dolore a fargli commettere un gesto del genere.» «Il dolore?» «Sì.» «Che...?» «O per lo meno questa è la mia opinione.» «Quale dolore?» «Per la scomparsa di sua figlia» disse Elsa. «Si è impiccato dopo che era sparita.» 17 Finalmente Erlendur aveva qualcosa di cui parlare a sua figlia. Aveva fatto molte ricerche nella biblioteca nazionale e aveva raccolto informazioni da giornali e riviste pubblicati a Reykjavík nel 1910, l'anno in cui la cometa di Halley era passata accanto alla Terra con la sua scia di cianuro mortale. Aveva ottenuto un permesso speciale per sfogliare i giornali anziché utilizzare il lettore di microfilm. Gli piaceva moltissimo sfogliare le riviste e i giornali vecchi, sentirli frusciare, annusare l'odore della carta ingiallita e toccare con mano la sensazione del tempo che conservavano nella carta frusciante, allora, adesso e per sempre. Si faceva sera quando sedette accanto a Eva Lind e iniziò a raccontarle delle ossa ritrovate a Grafarholt. Le disse che gli archeologi avevano demarcato piccole aree sopra il luogo in cui si trovavano le ossa e che Skarphédinn aveva i canini talmente grossi che la bocca non gli si chiudeva mai del tutto. Le raccontò dei cespugli di ribes e di quanto aveva detto Róbert sulla donna storta e verde. Le parlò di Benjamín Knudsen, della sua
fidanzata che un bel giorno era sparita e dell'effetto che aveva avuto la scomparsa su di lui; e le raccontò anche di Höskuldur, che aveva preso in affitto la casa durante la guerra e di quanto aveva detto Benjamín della donna che viveva sulla collina e che era stata concepita nella cisterna del gas la notte in cui tutti pensavano che la Terra sarebbe stata distrutta. «Era l'anno in cui morì Mark Twain» precisò. La cometa di Halley si dirigeva a una velocità spaventosa verso la Terra e la sua coda era piena di gas venefici. Anche se non si fosse schiantata contro il pianeta, facendolo a pezzi, la coda l'avrebbe investito e avrebbe distrutto ogni forma di vita; i più pessimisti si immaginavano di morire nel fuoco e nell'acido. Fra la gente si diffuse il panico per la stella cometa, non solo in Islanda ma in tutto il mondo. In Austria, a Trieste e in Dalmazia la popolazione vendeva í propri averi quasi per niente, così da poter vivere nel lusso il poco tempo che riteneva le rimanesse. In Svizzera le scuole femminili si svuotarono delle allieve più anziane, perché le famiglie credevano giusto essere tutti insieme quando la stella avrebbe polverizzato la Terra. Il clero ebbe l'ordine di spiegare l'astronomia alla gente comune per placare almeno in parte il terrore che era dilagato. A Reykjavík si diceva che molte donne non si alzassero dal letto per il terrore del giorno del giudizio e, come era stato scritto da un giornale, molti credevano che il freddo intenso di quella primavera dipendesse dalla stella. Gli anziani ricordavano altri durissimi inverni e tutti in coincidenza con il passaggio di una cometa. In quegli anni, molti abitanti di Reykjavík ritenevano che la risorsa del futuro fosse il gas. Lampioni a gas erano disseminati per tutta la città, benché non bastassero a illuminare le strade a dovere; anche nelle case erano diffuse le lampade a gas. C'era un progetto a breve termine per erigere una moderna centrale nella periferia della città, che avrebbe provveduto al fabbisogno dei residenti negli anni a venire. Il sindaco aveva concluso un accordo con una compagnia tedesca e da Brema venne inviato l'ingegnere Carl Franke insieme a un gruppo di specialisti per cominciare a costruire la Gasstöd Reykjavíkur, che fu operativa dall'autunno del 1910. Il gassometro era una struttura enorme, millecinquecento metri cubi di volume, e veniva chiamato «campana a gas» perché galleggiava sull'acqua e si alzava o sprofondava a seconda di quanto combustibile conteneva. Gli abitanti di Reykjavík non avevano mai visto una prodezza del genere e si riversavano nella periferia per controllare come procedevano i lavori. La centrale era quasi pronta quando, la notte del 18 maggio, alcuni di es-
si vi si radunarono. Ritenevano che la cisterna fosse l'unico posto del paese in grado di offrire qualche speranza di protezione dai vapori venefici della cometa. In breve si diffuse la notizia che quella notte alla cisterna si sarebbe tenuto un festino e tutti si precipitarono a prendere parte all'ultima notte di baldoria prima del giudizio finale. Nei giorni successivi, i racconti di quanto era accaduto quella notte circolarono per la città. Girava voce che la gente fosse ubriaca fradicia e avesse fatto orge fino al mattino, o almeno finché non fu palese che il mondo non sarebbe finito, né per lo scontro con la cometa di Halley né per l'inferno provocato dalla sua scia. Molti sostenevano anche che fossero stati concepiti dei bambini ed Erlendur si chiese se magari, molti anni dopo, uno di loro avesse incontrato il proprio destino e fosse stato sepolto a Grafarholt. «L'ufficio del direttore della centrale è ancora in piedi» spiegò a Eva Lind, senza sapere se lei lo sentiva o meno. «Ma per il resto è sparita ogni traccia. Dopo tutto, la risorsa del futuro non era il gas, ma l'elettricità. La centrale si trovava in Raudarárstígur, dove adesso c'è la stazione degli autobus di Hlemmur; malgrado fosse anacronistica, si rivelò comunque utile perché, quando faceva molto freddo e il tempo era brutto, i senzatetto vi cercavano riparo e si scaldavano vicino agli impianti di combustione, soprattutto di notte, e spesso nelle giornate invernali più buie la sala principale era molto animata.» Mentre Erlendur le raccontava quella storia, Eva Lind era rimasta immobile. Del resto lui non sperava che desse qualche segno di vita. Non credeva nei miracoli. «La centrale era stata edificata su un terreno chiamato Elsumýrarblettur» continuò, e sorrise per lo scherzo del destino. «Dopo che la centrale fu smantellata e la cisterna rimossa, rimase incolto per molti anni. In seguito, laggiù fu eretto un fabbricato, che adesso ospita la centrale di polizia di Reykjavík, proprio dove c'è il mio ufficio. Nel punto esatto in cui si trovava la cisterna del gas.» Erlendur tacque. «Stiamo ancora aspettando la fine del mondo» proseguì, «che sia per colpa di una cometa o di qualcos'altro. Ciascuno di noi aspetta la sua fine del mondo. Qualcuno la invoca. Qualcuno la desidera. Altri la evitano. Quasi tutti la temono. Le mostrano rispetto. Non tu, invece. Tu non potresti mai mostrare rispetto a qualcuno. E non temi nemmeno la fine del tuo piccolo mondo.»
Erlendur rimase seduto in silenzio a osservare sua figlia e si chiese che significato avesse parlarle in quel modo, visto che sembrava non sentire niente di quello che le diceva. Ripensò alle parole del medico; forse faceva bene anche a lui. Raramente era riuscito a parlare con lei in tutta tranquillità. Ogni loro rapporto era stato caratterizzato da una profonda tensione e non avevano avuto spesso la possibilità di sedersi con calma e parlare sereni. Certo, non che in quel momento stessero parlando. Erlendur sorrise debolmente. Lui parlava, ma lei non ascoltava. In questo senso, le cose fra di loro non erano affatto cambiate. Forse non era quello che voleva sentirgli dire Eva Lind. Il ritrovamento delle ossa e la centrale del gas, la cometa e l'orgia. Forse voleva che le raccontasse qualcos'altro. Di sé. Di loro. Si alzò, si chinò su di lei, la baciò sulla fronte e uscì dalla stanza. Era immerso nei suoi pensieri e, invece di voltare a destra in corridoio per lasciare il reparto, senza nemmeno rendersene conto prese la direzione opposta, e si avviò verso la terapia intensiva, passando di fianco a stanze in penombra in cui altri pazienti si trovavano fra la vita e la morte, collegati alle strumentazioni più avanzate. Si accorse di aver sbagliato direzione solo in fondo al corridoio. Stava per tornare indietro, quando una donna di bassa statura uscì dall'ultima camera e gli si piantò di fronte. «Mi scusi» disse, con voce un po' stridula. «No, scusi lei» rispose lui agitato, guardandosi intorno. «Non volevo venire da questa parte. Volevo uscire dal reparto.» «Io sono stata chiamata» proseguì la donna. Aveva pochi capelli ed era grassoccia, con un gran seno, una maglia viola senza maniche e il viso rotondo e cordiale. Erlendur notò la peluria scura sopra il labbro superiore. Lanciò una rapida occhiata nella stanza da cui era uscita e vide un uomo anziano disteso sul letto sotto le coperte, il volto scavato e cadaverico. Seduta su una sedia accanto a lui c'era una signora avvolta in una lussuosa pelliccia, che si portava un fazzoletto al naso con la mano guantata. «C'è ancora qualcuno che crede nei medium» gli disse la donna a bassa voce, quasi fra sé. «Mi scusi, non ho sentito...» «Mi è stato chiesto di venire» ribadì, scostando gentilmente Erlendur dalla porta. «Sta morendo. Non c'è più niente da fare. Sua moglie gli è accanto. Mi ha chiesto di provare a mettermi in contatto con lui. È in coma e dicono di non poter più fare altro, ma lui si rifiuta di morire. È come se
non volesse andarsene. Mi ha chiesto di aiutarlo, ma non sono riuscita a percepirlo.» «Percepirlo?» chiese Erlendur. «Nell'aldilà.» «Nell'aldilà? Lei è una medium?» «La moglie non capisce perché debba morire. Era uscito di casa qualche giorno fa, poi non ha più avuto sue notizie, finché la polizia non l'ha avvertita che aveva avuto un incidente stradale sulla Vesturlandsvegur. Stava andando nel Borgarfjördur. Un camion ha sbandato e gli è finito addosso. Dicono che non c'è alcuna speranza di salvarlo. Morte cerebrale.» Alzò la testa e vide che Erlendur la fissava senza capire. «È una mia amica.» L'agente non capiva di cosa stesse parlando o del perché gli sussurrasse quella storia nel corridoio semibuio, come se fra di loro ci fosse una sorta di cospirazione. Non aveva mai visto quella donna prima di allora; la salutò piuttosto bruscamente e fece per andarsene, ma lei lo afferrò per un braccio. «Aspetti» gli disse. «Come?» «Aspetti.» «Mi scusi, ma la cosa non mi...» «C'è un bambino nella tempesta» iniziò la donna. Erlendur non aveva capito bene. «C'è un bambino nella tempesta» ripeté lei. La guardò impietrito dallo stupore e ritirò il braccio come se fosse stato pugnalato. «Di che sta parlando?» le chiese. «Sa chi è?» gli domandò la donna, guardandolo. «Non ho la minima idea di dove voglia arrivare» le rispose Erlendur brusco, poi si voltò e si avviò a grandi falcate lungo il corridoio, in direzione del segnale luminoso che indicava l'uscita. «Non deve aver paura» gli disse la donna alle spalle. «Lui l'ha accettato. Ha accettato quanto è successo. Non è stata colpa di nessuno.» Erlendur si fermò, si voltò piano e fissò quella donnina minuta in fondo al corridoio. Non capiva la sua ostinazione. «Chi è questo bambino?» gli chiese. «Perché è con lei?» «Non c'è nessun bambino» sbottò Erlendur. «Non so cosa significhi. Io non la conosco e non so di chi stia parlando. Mi lasci in pace!» urlò.
Poi si girò e uscì di corsa dal reparto. «Mi lasci in pace» ringhiò a denti stretti. 18 Edward Hunter era stato ufficiale dell'esercito americano in Islanda durante la seconda guerra mondiale ed era uno dei pochi membri delle forze armate a non essersene andato a conflitto concluso. Il segretario dell'ambasciata britannica, Jim, l'aveva rintracciato senza alcuna difficoltà tramite la rappresentanza diplomatica americana. Stava cercando militari inglesi e americani ancora in vita e, secondo le informazioni del Ministero degli Interni britannico, non erano molti. La maggior parte dei soldati inglesi che erano stati in Islanda avevano perso la vita combattendo in Africa e in Italia o sul fronte occidentale, durante lo sbarco in Normandia nel 1944. Fra i soldati americani di stanza in Islanda, invece, erano stati pochi quelli inviati in seguito su altri fronti; i più avevano servito l'esercito sull'isola fino alla fine della guerra. Alcuni erano rimasti, si erano sposati e col tempo avevano ottenuto la cittadinanza islandese. Fra questi c'era anche Edward Hunter. Erlendur ricevette la telefonata di Jim di prima mattina. «Ho parlato con l'ambasciata americana e mi hanno indicato questo Hunter. Volevo risparmiarle la fatica, così ci ho parlato personalmente. Spero non le dispiaccia.» «La ringrazio» rispose, ancora insonnolito. «Hunter abita a Kópavogur.» «Dagli anni della guerra?» «Purtroppo non lo so.» «In ogni modo abita ancora qui» commentò Erlendur, sfregandosi gli occhi. Non aveva dormito molto bene quella notte, un sonno discontinuo e interrotto da brutti sogni. Aveva ancora in mente quanto gli aveva detto la sera prima in reparto quella donna bassa dai capelli radi. Non credeva affatto che i medium rivestissero il ruolo di intermediari con l'aldilà e nemmeno che vedessero qualcosa che gli altri non vedevano. Riteneva invece che fossero degli impostori, tutti quanti, abili a individuare dei particolari nella vita degli altri e a leggere il linguaggio del corpo, perfino l'abbigliamento, per dedurne poi informazioni fondamentali su cui costruire la loro presunta conoscenza profonda dell'individuo in questione, che magari per
metà corrispondeva al vero ma che per il resto era completamente errata; un semplice calcolo delle probabilità, nient'altro. Una volta aveva parlato in ufficio con Elínborg di quelle cose e le aveva classificate come cazzate assolute, con grande sconforto della collega. Lei, invece, credeva nei medium e nella vita dopo la morte, e per qualche motivo aveva pensato che anche lui fosse aperto a idee del genere. Forse perché veniva dalle aree meno abitate del paese. Si era rivelato un grande malinteso, però. Non era assolutamente incline al sovrannaturale. Eppure c'era qualcosa nell'atteggiamento di quella donna all'ospedale e in ciò che gli aveva detto, ed Erlendur non riusciva a smettere di pensarci, tanto da rovinarsi il sonno. «Sì, ha sempre abitato qui in Islanda» rispose Jim, poi si scusò per averlo svegliato, non era sua intenzione, ma credeva che in primavera tutti gli islandesi si alzassero presto al mattino, come lui, perché quella luce infinita non dava tregua. «Aspetti, ha detto che ha sposato un'islandese?» «Gli ho già parlato» proseguì Jim con accento inglese, come se non avesse sentito la domanda. «La sta aspettando. Il colonnello Hunter ha prestato servizio nella polizia militare per un certo periodo qui a Reykjavík e si ricorda di un... come si dice... un illecito, ecco, di cui è ansioso di parlarle. Proprio nell'accampamento sulla collina. Ho usato la parola giusta, illecito?» Quando Erlendur era andato a trovarlo all'ambasciata, Jim gli aveva detto di avere una grande passione per la lingua islandese e di darsi molto da fare per non usare solo le parole più comuni. «Bella parola» commentò Erlendur, cercando di mostrarsi interessato. «Che illecito?» «Glielo dirà lui stesso. Io andrò avanti a cercare di scoprire casi di militari morti o scomparsi. Dovrebbe chiederlo anche al colonnello Hunter, magari sa qualcosa.» Poi si salutarono ed Erlendur andò in cucina, ancora intorpidito, per farsi un caffè. Era ancora immerso nei suoi pensieri. Un medium avrebbe saputo dire dove si trovava esattamente una persona che stava fra la vita e la morte? Non ci credeva, ma rifletté: se questo offriva un po' di conforto a chi aveva perso una persona cara, lui non poteva certo opporsi. Non importava da dove provenisse il conforto. Il caffè era bollente e quando lo portò alla bocca si scottò. Evitò di pensare a ciò che lo aveva più tormentato durante la notte e la mattina, riuscendo così a limitare i danni.
Più o meno. Quando Edward Hunter, ex colonnello dell'esercito statunitense, accolse Erlendur ed Elínborg nella sua casa di Kópavogur, col tradizionale cardigan di lana e la barba bianca e incolta, sembrava molto più islandese che americano. Aveva i capelli arruffati e un aspetto trasandato, ma si mostrò cordiale e gentile: strinse loro la mano e li pregò di chiamarlo solo Ed. In questo, a Erlendur ricordò Jim. Disse loro che sua moglie era andata in America a trovare la sorella. Lui invece ci tornava sempre più di rado. Per strada, Elínborg aveva raccontato a Erlendur quanto aveva saputo da Bára sulla fidanzata di Benjamín, cioè che indossava un cappotto verde il giorno in cui era sparita. A lei sembrava un dettaglio interessante, ma il collega tagliò corto e le rispose in maniera piuttosto sgarbata che non credeva ai fantasmi. Allora capì che il discorso era chiuso. Ed li fece accomodare in un soggiorno spazioso; guardandosi intorno, Erlendur ebbe la sensazione che fossero rimaste ben poche tracce della vita militare, perché si trovò di fronte due quadri raffiguranti tetri paesaggi islandesi, statue di creta, anch'esse islandesi, e qualche foto di famiglia incorniciata. Niente che ricordasse l'esercito o la guerra mondiale. Ed sapeva del loro arrivo e aveva preparato caffè, tè e qualche dolcetto; dopo una breve chiacchierata cortese, che annoiò tutti e tre, il vecchio entrò nel vivo del discorso e chiese come poteva essere loro d'aiuto. Parlava un islandese quasi perfetto, frasi brevi e concise come se la disciplina militare avesse da tempo ripulito tutto da ogni inutilità. «All'ambasciata britannica, Jim ci ha detto che durante la guerra lei ha prestato servizio qui in Islanda, fra l'altro per un certo periodo anche nella polizia militare, ed è a conoscenza di un illecito verificatosi nelle caserme di Grafarholt, dove adesso c'è il campo da golf.» «Sì, adesso ci vado regolarmente a giocare» convenne Hunter. «Ho sentito le notizie sullo scheletro ritrovato e Jim mi ha detto che ritenete possa appartenere a uno dei militari che erano qui durante la guerra, un inglese o un americano.» «È accaduto qualche incidente alle caserme?» chiese Erlendur. «Rubavano» rispose Hunter. «Succedeva in quasi tutti i depositi. Credo si possa definire 'sottrazione di beni dello stato'. Un gruppo di militari rubava le provviste e le rivendeva agli islandesi, a Reykjavík. Hanno cominciato con poco, poi í ladri hanno acquisito maggior sicurezza e i furtarelli iniziali si sono trasformati in un'operazione di grandi dimensioni. Era co-
involto anche il sottufficiale responsabile del deposito viveri. Sono stati processati tutti. Hanno lasciato il paese. Lo ricordo benissimo. Tenevo un diario e dopo aver parlato con Jim ci ho dato un'occhiata. Mi è tornato in mente. Ho anche telefonato a un mio amico di allora, Phil, che era il mio superiore. Abbiamo ripercorso insieme tutta la storia.» «Come avete scoperto il furto?» chiese Elínborg. «Si sono lasciati prendere la mano dall'avidità. È difficile tenere nascosti ammanchi di quelle dimensioni. Girava voce che ci fossero delle irregolarità.» «Chi era coinvolto?» Erlendur prese una sigaretta e Hunter annuì per fargli capire che poteva fumare. Elínborg gli lanciò uno sguardo di rimprovero. «Perlopiù soldati semplici. L'ufficiale con il grado più alto era il responsabile del deposito. E c'era almeno un islandese. Un uomo che abitava sull'altro versante della collina.» «Ricorda come si chiamava?» «No. Abitava lì con la sua famiglia, in una casupola ancora da verniciare. Ci abbiamo trovato molta refurtiva, presa dal deposito viveri. Ho scritto nel diario che aveva tre figli, di cui uno, la femmina, era disabile. Gli altri due erano maschi. La madre...» Hunter tacque. «Che cosa aveva la madre?» chiese Elínborg. «Ci stava dicendo qualcosa riguardo alla madre.» «Credo che non facesse una bella vita.» Hunter tacque di nuovo e si fece pensieroso, come se stesse cercando di tornare indietro nel tempo fino al momento delle indagini sui furti in questione e a quando aveva fatto irruzione in quella casa e si era trovato davanti una donna vittima di violenze domestiche, ne era certo. Non si trattava di una sola aggressione recente; era chiaro che subiva percosse prolungate e sistematiche, sia fisiche sia psicologiche. Quando era entrato nella casa con altri quattro poliziotti militari, l'aveva notata appena. Aveva visto subito la ragazzina handicappata distesa sulla branda in cucina. Poi i due ragazzi accanto a lei, immobili, che guardavano terrorizzati i soldati irrompere in casa loro. Aveva visto l'uomo al tavolo della cucina alzarsi in piedi di scatto. Era stata un'irruzione a sorpresa ed era ovvio che non li aspettava. Capivano immediatamente con chi avevano a che fare e se le persone che avevano di fronte costituivano una minaccia. Quell'uomo non avrebbe creato difficoltà.
Poi Hunter aveva scorto la donna. Era l'inizio della primavera e dentro la casa era già quasi buio; gli ci era voluto qualche momento per abituarsi all'oscurità. La donna era quasi nascosta in un disimpegno che gli era parso un piccolo corridoio. All'inizio aveva creduto di avere a che fare con un ladro che tentava la fuga. Si era affrettato verso il corridoio e aveva estratto la pistola che teneva nella fondina sul fianco. Aveva urlato qualcosa e puntato l'arma nel buio. La ragazzina aveva cominciato a urlare. I due ragazzi gli si erano avventati contro insieme, dicendo cose che lui non capiva. E dal buio era uscita quella donna, che non avrebbe più dimenticato per il resto della sua vita. Aveva capito subito perché si nascondeva. Aveva brutti lividi sul volto, il labbro superiore tumefatto e un occhio talmente gonfio che non riusciva a tenerlo aperto, ma lo guardava spaventava con l'altro e aveva chinato la testa quasi d'istinto. Come se credesse che voleva picchiarla anche lui. Aveva uno straccio di vestito sopra un altro indumento, le gambe nude, fatta eccezione per un paio di calzini e delle vecchie scarpe logore. I capelli erano sporchi e le ricadevano sulle spalle in ciocche spesse. Gli era parso che zoppicasse. Era l'essere umano più miserevole che avesse mai visto nella sua vita. La guardava mentre cercava di tranquillizzare i ragazzi e aveva capito che non era per l'aspetto fisico che cercava di nascondersi. Piuttosto, aveva cercato di nascondere la vergogna che provava. I figli tacevano. Il maggiore si era accoccolato contro la madre. Ed si era voltato verso il marito, aveva riposto la pistola nella fondina, gli si era avvicinato e lo aveva colpito forte in faccia con il palmo aperto. «È andata così» disse Hunter, concludendo il suo racconto. «Ho perso la testa. Non so come sia successo. Non so cosa mi abbia preso. È stato incomprensibile, davvero. Si viene addestrati, capite, addestrati ad affrontare qualsiasi cosa. A mantenere la calma, qualsiasi cosa succeda. Come potete immaginare, con la guerra e tutto il resto era fondamentale non perdere l'autocontrollo, mai. Ma quando ho visto quella donna... Quando ho visto cosa aveva dovuto sopportare, e sicuramente non solo una volta, mi sono immaginato la sua vita alla mercé di quell'uomo e mi è scattato qualcosa dentro. È successo qualcosa che non sono stato in grado di controllare.» Hunter fece una pausa. «Sono stato per due anni nella polizia di Baltimora, prima che cominciasse la guerra. Non si chiamavano violenze domestiche allora, ma erano lo stesso un gran brutto affare. Ne ho viste anche lì e ho provato sempre un
profondo disprezzo per quegli animali. Ho capito subito cosa succedeva in quella casa, e poi l'uomo ci aveva anche derubato... Be', in ogni modo è stato processato dal vostro tribunale» aggiunse poi, come per scacciare dal profondo il ricordo di quella donna. «Credo che non abbia ricevuto una condanna pesante. Sicuramente dopo pochi mesi è tornato a casa a picchiare quella poveretta di sua moglie.» «Stiamo parlando di violenze domestiche molto gravi» commentò Erlendur. «Delle peggiori. È stato tremendo vedere quella donna» disse Hunter. «Tremendo. Come ho detto, mi sono accorto subito di cosa stava succedendo. Ho cercato di parlarle, ma non capiva una parola di inglese. Ho riferito la faccenda alla polizia islandese, ma mi hanno detto di non poter fare molto. Le cose non sono cambiate tanto da allora, mi pare di capire.» «Non ricorda i nomi di queste persone, vero?» chiese Elínborg. «Non sono sul suo diario?» «No, ma considerata la questione del furto dovreste avere una documentazione a riguardo. E poi l'uomo lavorava al deposito viveri. Devono esserci per forza le liste dei dipendenti islandesi dell'accampamento di Grafarholt. Forse è passato troppo tempo.» «E i militari?» chiese Erlendur. «Quelli condannati dal vostro tribunale, intendo.» «Sono rimasti in prigione per qualche tempo. Rubare dalle scorte era un reato diffuso ma molto grave. Dopo sono stati inviati al fronte. Era una specie di condanna a morte.» «E i colpevoli li avete presi tutti?» «Questo non lo so. I furti però sono cessati. Negli inventari non si registravano più anomalie, così il caso è stato chiuso.» «Quindi non crede che qualcuno di loro sia collegato alle ossa?» «Non saprei dirlo.» «Non ricorda qualche persona scomparsa fra le vostre fila o fra quelle degli inglesi?» «Vuol dire una fuga?» «No. Una scomparsa inspiegabile. È per via dello scheletro. Magari sa a chi appartiene o se può essere un militare americano del vostro accampamento.» «Non ne ho idea, assolutamente.» Parlarono con Hunter ancora a lungo. Sembrava gli facesse piacere conversare con loro. Dava l'impressione di divertirsi a rivangare il passato,
armato del suo prezioso diario; in breve si misero a chiacchierare degli anni del conflitto mondiale in Islanda e degli effetti della presenza dell'esercito, finché Erlendur tornò in sé. Non poteva perdere tutto quel tempo. Si alzò ed Elínborg fece altrettanto, poi ringraziò l'ospite a nome suo e della collega. Anche Hunter si alzò e li accompagnò alla porta. «Come avete scoperto il furto?» chiese Erlendur sulla soglia. «Scoperto?» ripeté Hunter. «Chi vi ha messo sulle tracce dei colpevoli?» «Ah, capisco. Alla centrale di polizia ricevemmo una telefonata su un furto consistente dal deposito viveri.» «Chi fece la spia?» «Non ci siamo mai arrivati, temo. Non abbiamo mai saputo chi fosse.» Símon rimase accanto a sua madre e osservò stupefatto il militare che, con un'espressione strana, di sorpresa mista a rabbia, attraversò la cucina dando loro le spalle e colpì Grímur in piena faccia, tanto forte da farlo cadere. Gli altri tre soldati rimasero immobili sulla porta, mentre quello che aveva aggredito Grímur gli stava sopra e urlava parole incomprensibili. Símon non credeva ai suoi occhi. Guardò Tómas, che non aveva ancora distolto lo sguardo da quanto stava accadendo, e poi guardò Mikkelína, che fissava terrorizzata l'uomo disteso per terra. Infine guardò sua madre e vide che aveva le lacrime agli occhi. Grímur era stato colto di sorpresa. Quando avevano sentito le due camionette dei militari avvicinarsi a casa, la donna si era affrettata a nascondersi nel disimpegno perché nessuno la vedesse con l'occhio nero e il labbro spaccato. Il marito non si era nemmeno alzato dal tavolo, come se non fosse affatto preoccupato che alla fine quanto faceva con gli altri ladruncoli all'accampamento potesse essere scoperto. Aspettava che i suoi amici militari gli portassero della merce da lasciare a casa sua. Verso sera sarebbero andati in città a vendere parte del bottino. Adesso Grímur aveva denaro a sufficienza e cominciava a dire di volersene andare dalla collina e di voler comprare un appartamento, perfino di voler acquistare un'automobile, ma solo quando era particolarmente in vena. I militari lo presero. Lo fecero salire su una delle camionette e lo portarono via. Il capo, che lo aveva buttato a terra come se nulla fosse, quello che gli era saltato addosso e l'aveva picchiato come se non sapesse quant'e-
ra forte, prima di andarsene aveva detto qualcosa alla donna e poi si era congedato, non con il saluto militare ma con una stretta di mano, ed era salito sull'altro veicolo. Ben presto nella piccola casa tornò il silenzio. La donna era rimasta nel disimpegno, come se non si fosse ancora resa conto dell'irruzione. Si strofinò piano gli occhi e fissò davanti a sé, in un vuoto che solo lei poteva contemplare. Non avevano mai visto Grímur disteso per terra. Non l'avevano mai visto cedere. Non avevano mai visto qualcuno che gli urlava addosso. Non l'avevano mai visto inerte. Non capivano cosa fosse successo. Com'era potuto succedere? Perché Grímur non aveva aggredito i militari e non li aveva picchiati a sangue? I figli si guardarono l'un l'altro. Il silenzio in casa era opprimente. Si volsero verso la madre e all'improvviso si udì uno strano suono provenire dalla branda dov'era acquattata Mikkelína. Si accorsero che stava ridacchiando; poi i ridolini diventarono una risata vera e propria, che all'inizio cercò di reprimere, ma invano, così si lasciò andare. Anche Símon sorrise, poi scoppiò a ridere pure lui e Tómas fece altrettanto e di lì a poco tutti e tre ridevano di gusto, gli spasmi incontrollabili riecheggiavano per la casa e si propagavano per tutta la collina nel tepore primaverile. Due ore più tardi arrivò un furgone dell'esercito per recuperare la refurtiva rubata da Grímur e i suoi compagni. I tre ragazzini osservarono l'automezzo che se ne andava, corsero sulla collina e videro che entrava nel deposito, dove venne scaricato. Símon non capiva esattamente cosa fosse successo e non era sicuro che sua madre lo sapesse, ma Grímur era stato condannato alla prigione e non sarebbe tornato a casa per i mesi successivi. All'inizio le cose non cambiarono affatto. Era come se non si fossero ancora resi conto che Grímur non c'era più. O almeno che per il momento non ci sarebbe stato. La donna sbrigava le faccende come aveva sempre fatto e non esitava a usare le provviste sottratte con l'inganno per sfamare se stessa e i figli. Poi si trovò un lavoro alla fattoria di Gufunes, che distava una mezz'ora a piedi da casa loro. Quando il tempo era bello, i due fratelli portavano Mikkelína fuori al sole. A volte andava con loro sul lago Reynisvatn a pescare le trote. Se avevano fortuna, la mamma le cucinava in padella, un vero manicaretto. Così trascorsero alcune settimane. A poco a poco, la morsa che Grímur stringeva su di loro anche da lontano si allentò. Era più facile svegliarsi la mattina, le ore trascorrevano spensierate e le serate passavano in una tranquillità
prima sconosciuta e così piacevole che rimanevano svegli a chiacchierare e a giocare insieme finché non crollavano dal sonno. Ma l'effetto della lontananza di Grímur si manifestò soprattutto sulla donna. Un giorno, quando finalmente si rese conto che il marito non sarebbe tornato a casa nell'immediato futuro, lavò con cura il letto matrimoniale. Prese i materassi e li portò in cortile per far prendere loro aria ed eliminare la polvere e la sporcizia. Portò fuori anche i piumini e li sbatté, cambiò le lenzuola, lavò a turno i suoi ragazzi con il sapone verde e l'acqua calda in una grande tinozza che aveva sistemato in cucina e infine si lavò con cura i capelli, il viso, che portava ancora i segni evidenti delle ultime percosse, e tutto il corpo. Prese uno specchio, titubante, e si guardò. Si accarezzò l'occhio e il labbro. Era dimagrita, l'espressione del volto si era fatta più dura, i denti sporgevano un poco, gli occhi si erano infossati e il naso, che una volta si era rotto, mostrava una protuberanza quasi impercettibile. Verso la mezzanotte prese con sé i suoi figli, Mikkelína, Símon e Tómas, e li portò nel lettone, dove dormirono tutti e quattro insieme. Dopo quella volta dormirono sempre abbracciati alla madre: Mikkelína da sola a destra e i due ragazzi a sinistra, beati. Non andò mai a trovare Grímur in prigione. Per tutto il tempo in cui lui rimase lontano non nominarono mai il suo nome. Una mattina, poco tempo dopo che l'uomo era stato portato via, il soldato Dave si incamminò sulla collina con la canna da pesca, passò davanti alla loro casa, fece un cenno del capo a Símon che stava fuori e proseguì lungo il sentiero fino al lago Hafravatn; il ragazzino lo seguì di nascosto, a una certa distanza, e si distese per spiarlo. Dave trascorse tutto il giorno vicino al lago, tranquillo come sempre, e sembrava non gli importasse nulla se pescava qualcosa o meno. Aveva preso tre trote, comunque. Verso sera tornò alla casetta con i tre pesci legati insieme. Era titubante, o almeno così sembrava a Símon, che era rincasato e lo guardava dalla finestra della cucina, facendo attenzione a non essere visto. Alla fine il soldato si decise, si avvicinò e bussò alla porta. Símon aveva detto a sua madre del soldato, lo stesso che un giorno aveva dato loro le trote, e lei era uscita a vedere cosa stava facendo, poi era rientrata, si era guardata allo specchio e si era sistemata i capelli. Era come se sapesse che, di ritorno verso l'accampamento, le avrebbe fatto visita. Era pronta ad accoglierlo. Aprì la porta e Dave sorrise, disse qualcosa di incomprensibile e le porse
i pesci. Lei li prese e lo invitò a entrare. Lui entrò esitante e rimase in cucina, in piedi, come un soprammobile fuori posto. Salutò i ragazzi con un cenno del capo; Mikkelína si allungava e si dimenava, come per studiare meglio quel militare che era venuto da tanto lontano e adesso si trovava proprio nella loro cucina, con l'uniforme e quello strano copricapo a forma di barca capovolta; all'improvviso l'uomo si ricordò di non esserselo tolto e rimediò subito, imbarazzato. Era di media altezza, sicuramente sulla trentina, magro e con delle belle mani che adesso torcevano quella barchetta capovolta come se stessero strizzando il bucato. La donna gli indicò una sedia accanto al tavolo della cucina e lui si sedette, con i ragazzi accanto. Lei gli preparò il caffè, quello vero, preso dal deposito viveri, che Grímur aveva rubato e i militari non avevano scoperto. Dave sapeva come si chiamava Símon e riuscì anche a capire che il fratellino si chiamava Tómas: non aveva alcuna difficoltà a pronunciare i loro nomi. Mikkelína gli sembrò un nome molto buffo, lo ripeté più volte in un modo così comico che li fece ridere tutti. Disse di chiamarsi David Welch e di essere americano, veniva da un posto che si chiamava Brooklyn. Disse di essere un soldato semplice. Loro, però, non capivano. «A private» disse, ma l'intera famiglia lo guardò sbalordita. Sorseggiò il caffè e sembrò molto soddisfatto. La donna gli si sedette di fronte, all'altra estremità del tavolo. «I understand your husband is in jail for stealing» continuò. Lei non reagì. Guardò i ragazzi, poi estrasse un biglietto dal taschino e se lo rigirò fra le dita come se fosse incerto sul da farsi. Infine lo fece scorrere sul tavolo e lo porse alla madre. Lei lo prese, lo aprì e lesse cosa c'era scritto. Guardò l'uomo meravigliata e poi di nuovo il biglietto, come se non sapesse esattamente cosa farne. Poi lo ripiegò e se lo infilò nella tasca del grembiule. Tómas riuscì a far capire a David di ripetere «Mikkelína», poi scoppiarono di nuovo a ridere e alla ragazzina si contrasse il faccino per la gioia. David Welch fece visita alla casa sulla collina con regolarità per tutta l'estate e si conquistò l'amicizia della donna e dei suoi figli. Andava a pescare ai laghi e regalava loro tutto quello che prendeva, inoltre portava dal deposito viveri piccole cose che potevano servire. Si divertiva con i ragazzi, che erano particolarmente felici di stare con lui, e aveva sempre con sé il suo taccuino per farsi capire. Si divertivano da matti quando Dave provava a dire qualcosa in islandese. La sua espressione seria non aveva nien-
te a che vedere con quello che diceva e con il modo in cui lo diceva; quando parlava in islandese sembrava un bambino di tre anni. Ma imparava in fretta; fu sempre più semplice capirsi. I ragazzi gli mostravano i posti migliori per andare a pescare, lo seguivano sulla collina e anche fino al lago e imparavano da lui qualche parola in inglese e i testi delle canzonette americane che riconoscevano, perché le avevano sentite all'accampamento. Si creò un legame speciale con Mikkelína. Non passò molto tempo che l'aveva già conquistata completamente, così cominciò a portarla fuori quando c'era il sole e a controllarne i progressi. Si comportava con lei come aveva sempre fatto la madre, le muoveva mani e piedi, la sosteneva per camminare e la aiutava a fare esercizi di ogni genere. Un giorno portò con sé un medico dall'accampamento perché le desse un'occhiata. Il medico la visitò con attenzione e le fece qualche test. Le guardò gli occhi e la bocca con una pila, le torse la testa e le tastò la gola e la spina dorsale. Aveva portato dei blocchi di legno di varie forme e le chiese di infilarli nelle cavità corrispondenti di una scatola. La ragazzina impiegò un attimo. Gli dissero che si era ammalata a tre anni e che capiva quando le parlavano, ma che non diceva quasi niente. Gli confermarono che sapeva leggere e che sua madre le stava insegnando a scrivere. Il medico annuiva come se comprendesse tutto, con un'espressione composta in volto. Dopo la visita parlò a lungo con Dave e quando se ne fu andato il soldato riuscì a spiegare ai famigliari che Mikkelína era perfettamente in grado di intendere. Non era una novità, per loro. Poi disse che con il tempo, gli esercizi giusti e tanta fatica, Mikkelína avrebbe potuto camminare da sola. «Camminare!» La donna si lasciò cadere sulla sedia della cucina. «E anche parlare» aggiunse Dave. «Forse. Non è mai stata da un medico prima?» «Non capisco» gemette lei. «She is okay» le disse Dave, «just give her time.» Ma ormai non lo ascoltava più. «È un uomo orribile» esclamò all'improvviso e i figli tesero le orecchie perché non l'avevano mai sentita parlare di Grímur in quel modo. «Un uomo orribile» ripeté. «Un'anima meschina e diabolica che non merita di vivere. Non capisco perché uomini come lui debbano vivere. Perché vengano al mondo. Non lo capisco proprio. Perché si comportano come vogliono? Come mai vengono al mondo? Cos'è che lo trasforma in un simile mostro? Perché si comporta come una bestia, un anno dopo l'altro, e picchia i
suoi figli e li mortifica e mi offende e mi malmena finché mi viene solo voglia di morire e penso a come poter...» Emise un sospiro profondo e si sedette accanto a Mikkelína. «Alla fine ti vergogni di essere la vittima di un uomo così; sparisci, ti chiudi in una solitudine totale e impedisci a chiunque di entrare nel tuo mondo, anche ai tuoi figli, perché non vuoi che nessuno si avvicini, meno che mai loro. E rimani lì ad aspettare la violenza successiva, che arriva all'improvviso; lui è pieno di odio per qualcosa che non capisci nemmeno cosa sia, e tutta la vita è solo un'infinita attesa prima di un nuovo maltrattamento. Quando arriverà? Quanto farà male? Cosa l'avrà scatenato? Come poterlo evitare? Più cerco di compiacerlo, più lui mi disprezza. Più mostro sottomissione e paura, più lui accumula odio nei miei confronti. E se mi ribello, gli do motivo di picchiarmi a sangue. Non faccio mai la cosa giusta. Mai. «Finché l'unica cosa a cui pensi è che finisca, non importa come. Solo che finisca.» In casa regnava un silenzio di tomba. Mikkelína stava immobile sul suo lettino e i fratelli si erano avvicinati lentamente alla madre. Ascoltavano ammutoliti ogni parola. Prima di quel momento, non aveva mai aperto uno spiraglio sulle sofferenze che sopportava da tanto tempo che ormai si era dimenticata il resto. «Andrà tutto bene» la rincuorò Dave. «Ti aiuterò io» disse Símon serissimo. Lei lo guardò. «Lo so» rispose. «L'ho sempre saputo, mio povero Símon.» I giorni passavano e Dave trascorreva il suo tempo libero con loro e rimaneva sempre più a lungo con la donna, in casa oppure a passeggio intorno al lago Reynisvatn e al lago Hafravatn. I figli avrebbero voluto stare di più con lui, perché adesso non andava più a pescare con loro e aveva sempre meno tempo per Mikkelína. Ma non importava. Avevano notato com'era cambiata la madre, lo attribuivano a Dave ed erano felici per lei. Un bel giorno d'autunno, quasi sei mesi dopo che Grímur era stato portato via dalla polizia militare, Símon vide da lontano Dave e sua madre che tornavano verso casa. Stavano molto vicini e gli sembrò che si tenessero per mano. Quando furono quasi arrivati, si lasciarono le mani, distanziandosi un poco, e Símon capì che non volevano essere visti. «Cosa volete fare, tu e Dave?» chiese a sua madre una sera, quando la
collina era già avvolta nel crepuscolo. Erano seduti in cucina. Tómas e Mikkelína stavano giocando a carte. Dave aveva trascorso la giornata con loro e adesso era tornato alle caserme. La domanda era rimasta sospesa a mezz'aria per tutta l'estate. I bambini se l'erano posta a vicenda e avevano immaginato varie soluzioni, che comunque finivano tutte allo stesso modo: Dave sarebbe diventato il loro papà e avrebbe cacciato per sempre Grímur, così loro non lo avrebbero visto più. «Cosa vuoi dire?» ribatté lei. «Quando lui tornerà» rispose Símon, notando che Mikkelína e Tómas avevano smesso di giocare e lo stavano guardando. «C'è tempo per pensare a quello» disse la donna. «Non tornerà per un po'.» «Ma cosa pensi di fare?» Mikkelína e Tómas fissarono il fratello e poi la madre. Lei scrutò Símon e poi volse lo sguardo verso gli altri due. «Vuole aiutarci» aggiunse. «Chi?» chiese Símon. «Dave. Vuole aiutarci.» «Che vuol fare?» Il ragazzino guardò sua madre e cercò di capire. Lei lo fissò dritto negli occhi. «Dave conosce le persone come lui. Sa come liberarsi di loro.» «Che vuol fare?» ripeté Símon. «Non preoccuparti» rispose sua madre. «Ci libererà di lui?» «Sì.» «Come?» «Non lo so. Dice che è meglio saperne il meno possibile, non dovrei nemmeno dirvelo. Non so cos'abbia intenzione di fare. Forse vuole parlare con lui. Spaventarlo finché non ci lascia in pace. Dice di avere qualche amico nell'esercito che può aiutarci, se ce ne fosse bisogno.» «Ma che succede se Dave va via?» le chiese. «Se va via?» «Se va via da qui» spiegò. «Non starà sempre da noi. È un soldato. Continuano a mandare via le truppe, all'accampamento ne arrivano sempre di nuove. Che facciamo in quel caso?» Lei lo guardò. «Troveremo una soluzione» rispose a bassa voce. «Troveremo una soluzione.»
19 Sigurđur Óli telefonò a Erlendur e gli raccontò del suo incontro con Elsa, secondo cui era coinvolta un'altra persona, cioè l'uomo che aveva messo incinta Sólveig, la fidanzata di Benjamín, la cui identità era ancora sconosciuta. Discussero per qualche momento della faccenda, poi Erlendur disse al collega che aveva saputo dall'anziano ufficiale, Edward Hunter, del furto al deposito viveri e che il padre di famiglia della casa sulla collina era implicato nella questione. Edward riteneva anche che la moglie fosse vittima di violenze domestiche, confermando così quanto Höskuldur affermava di aver appreso dal commerciante Benjamín. «Questa gente è morta e sepolta da tempo» rispose Sigurđur Óli stanco, «non so perché stiamo rivangando il passato. È come inseguire dei fantasmi. Non incontreremo mai nessuna di queste persone, né riusciremo a parlarci. Sono dei fantasmi tutti quanti, fantasmi, nient'altro.» «Stai parlando della donna in verde della collina?» chiese Erlendur. «Elínborg dice che il vecchio Róbert ha visto il fantasma di Sólveig con un cappotto verde, per cui effettivamente stiamo inseguendo dei fantasmi.» «Ma non vuoi scoprire chi c'è sotto terra, con quella mano in aria, come se fosse stato sepolto vivo?» «Ho rovistato in un buco di scantinato sudicio per due giorni interi e non me ne potrebbe fregare di meno» sentenziò Sigurđur Óli. «Non me ne potrebbe fregare di meno neanche di tutte queste maledette cazzate» aggiunse con enfasi, poi chiuse la conversazione. Elínborg aveva salutato Erlendur fuori dalla casa di Hunter. Era stata convocata insieme ad altri agenti per accompagnare alla Corte Suprema di Reykjavík un presunto criminale, un noto imprenditore coinvolto in un grosso traffico di stupefacenti. I media stavano mostrando un inesauribile interesse per il caso e i giornalisti stazionavano di continuo davanti al tribunale; quel giorno molti imputati sarebbero stati trasferiti lì per il processo, così all'ultimo momento la donna aveva cercato di sistemarsi meglio che poteva. Magari durante il collegamento con i telegiornali nazionali finiva in televisione, quindi era meglio avere addosso qualcosa di decente e almeno un po' di rossetto sulle labbra. «I capelli!» sospirò, cercando di pettinarli con le dita.
Il pensiero di Erlendur, come sempre, era rivolto a Eva Lind, che si trovava ancora in terapia intensiva ma senza la certezza che se la sarebbe cavata. Stava ripensando al loro ultimo litigio nel condominio dove abitava lui, due mesi prima. Era ancora inverno, faceva freddo, era buio e la neve copriva ogni cosa. Non voleva litigarci. Non avrebbe voluto lasciarsi andare. Ma lei non aveva mollato. Come al solito. «Non puoi trattare così il bambino» le aveva detto, cercando per l'ennesima volta di farla ragionare. Supponeva fosse di circa cinque mesi. Quando aveva capito di essere incinta, si era data una regolata e dopo due tentativi sembrava fosse riuscita a smettere di farsi. Lui l'aveva appoggiata come aveva potuto, ma sapevano entrambi che il suo sostegno contava ben poco e, in virtù del rapporto che c'era tra loro, meno si occupava della figlia, più possibilità c'erano che lei ottenesse dei risultati. L'atteggiamento di Eva Lind nei confronti di suo padre era contraddittorio. Voleva la sua compagnia ma lo biasimava in tutto e per tutto. Esasperava i contrasti fra di loro senza cercare una via di mezzo. «E tu che ne sai?» gli aveva risposto. «Che ne sai di bambini? Io il mio posso sempre metterlo al mondo. E lo farò da sola.» Erlendur non sapeva cosa prendesse, se droghe o alcol o entrambi, ma quando le aveva aperto la porta e l'aveva fatta entrare, aveva visto che quasi non era in sé. Si era seduta sul divano, anzi, si era lasciata cadere. La pancia sporgeva dalla giacca di pelle sbottonata e la gravidanza cominciava a essere evidente. Sotto portava solo una maglietta leggera. Fuori c'erano almeno dieci gradi sotto zero. «Credevo che avessimo...» «Non abbiamo niente» lo aveva interrotto. «Tu e io non abbiamo niente. Niente.» «Credevo che tu avessi deciso di aver cura del tuo bambino. Di assicurarti che non gli capitasse niente di male. Che quel veleno non avesse effetti su di lui. Volevi smettere, ma probabilmente sei troppo furba. Sei troppo furba per pensare come si deve a tuo figlio.» «Taci.» «Perché sei venuta?» «Non lo so.» «È la tua coscienza. Non è così? È la coscienza che ti rode, e ti aspetti che ti mostri comprensione per le condizioni disperate in cui sei. Per questo sei venuta. Per farti compatire e metterti a posto con la coscienza.» «Sì, infatti, se vogliamo parlare di coscienza sporca questo è proprio il
posto giusto, pezzo di merda.» «Se fosse stata una femmina, avevi già deciso il nome. Ti ricordi?» «Tu l'avevi deciso. Non io. Tu. Come sempre. Tu decidi tutto. Se te ne vuoi andare, te ne vai, non te ne frega un cazzo di me e di tutti gli altri.» «Doveva chiamarsi Audur. Lo volevi, questo bambino.» «Credi che non sappia cosa stai cercando di fare? Credi che non ti legga dentro? Hai una paura del cazzo... Io lo so cosa ho in pancia. Lo so che è un essere vivente. Una persona. Lo so. Non c'è bisogno di ricordarmelo. Non ce n'è bisogno.» «Bene» aveva detto Erlendur. «Sembra che ogni tanto te ne dimentichi. Ti dimentichi che non devi più pensare solo a te stessa. Non sei più soltanto tu che ti fai. Quando ti fai, si fa anche il bambino e così lo danneggi molto, molto più di te stessa.» Aveva fatto una pausa. «Forse non abortire è stato un errore» aveva aggiunto. Lei lo guardava. «Vaffanculo!» «Eva...» «La mamma me l'aveva detto. Lo so cosa volevi.» «Di che stai parlando?» «E puoi anche dire che è una bugiarda e una mediocre, ma io lo so che è vero.» «Cosa? Cosa stai dicendo?» «Lei lo diceva che avresti negato.» «Negato, cosa?» «Che non mi volevi.» «Come?» «Quando l'hai messa incinta, non mi volevi.» «Cosa ti ha detto tua madre?» «Che non mi volevi.» «È una bugiarda.» «Volevi che andasse ad abortire...» «È una bugia...» «... e adesso sei qui a giudicarmi, nonostante ce la metta tutta. Stai sempre a giudicarmi.» «Non è vero. Non c'ho mai nemmeno pensato. Non so perché ti abbia detto una cosa del genere, ma non è la verità. L'aborto non è mai stato preso in considerazione. Non ne abbiamo mai parlato.»
«Lo sapeva che avresti detto così. Mi aveva avvertita.» «Avvertita? Quando te l'ha detto?» «Quando ha saputo che ero incinta. Mi ha spiegato che tu volevi mandarla ad abortire e anche che l'avresti negato. Mi ha anticipato tutto quello che mi avresti detto.» Eva Lind si era alzata e si era avviata verso la porta. «Sta mentendo, Eva. Credimi. Non so perché ti abbia detto una cosa del genere. So che mi odia, ma non pensavo così tanto. Ti sta manipolando per metterti contro di me. Lo capisci da sola che sostenere una cosa del genere è... è... ripugnante. Glielo puoi anche dire.» «Diglielo da solo se hai il coraggio!» gli aveva gridato Eva Lind. «Dirti una cosa del genere e inventarsi questa storia per rovinare il nostro rapporto è ripugnante.» «Io, invece, le credo.» «Eva...» «Taci.» «Ti dirò perché non può essere vero. Perché non potrei mai...» «Non ti credo!» «Eva... Avevo...» «Stai zitto. Non credo a una sola parola di quello che dici.» «Allora vattene da qui» le aveva detto. «Ecco, infatti» aveva risposto lei per provocarlo. «Liberati di me.» «Vattene!» «Sei tu ripugnante!» gli aveva urlato lei, poi si era precipitata fuori dall'appartamento. «Eva!» le aveva gridato, ma ormai se ne era andata. Non aveva più avuto sue notizie, finché, due mesi dopo, mentre era sul luogo del ritrovamento dello scheletro, non era squillato il cellulare. Erlendur era seduto in macchina, fumava e pensava che avrebbe dovuto reagire diversamente, mettere da parte l'orgoglio e cercare Eva Lind quando la rabbia si era spenta. Dirle che sua madre stava mentendo, che non aveva mai pensato all'aborto. Che non avrebbe mai potuto farlo. Non avrebbe dovuto permettere che la ragazza gli inviasse una richiesta di aiuto. Non era abbastanza matura per sopportare una situazione del genere, non aveva capito in che stato si trovava e non si rendeva conto delle sue responsabilità. Era cieca di fronte a se stessa. Erlendur temeva il momento in cui avrebbe dovuto darle la notizia, una
volta ripresa conoscenza. Se mai si fosse svegliata. Tanto per fare qualcosa, prese il telefono e chiamò Skarphédinn. «Dimostri un po' di pazienza» disse l'archeologo «e smetta di chiamarmi. Le faremo sapere quando arriveremo allo scheletro.» Sembrava quasi che le indagini sul caso le dirigesse lui, perché di giorno in giorno diventava sempre più arrogante. «E quando?» «Non è facile dirlo» rispose, ed Erlendur si figurò i suoi denti gialli sotto la barba. «Lo vedremo, prima o poi. Ci lasci lavorare in pace.» «Qualcosa mi potrà pur dire, però. È un uomo o una donna?» «La pazienza è la virtù dei...» Erlendur chiuse la conversazione. Si stava accendendo un'altra sigaretta, quando squillò il cellulare. Era Jim, dall'ambasciata britannica. Edward Hunter e l'ambasciata americana avevano trovato una lista con i nomi dei dipendenti islandesi impiegati al deposito viveri e se l'era appena fatta inviare per fax. Non aveva trovato niente su eventuali sospetti all'epoca in cui l'accampamento era in mano agli inglesi. C'erano nove nomi sulla lista, Jim glieli lesse al telefono. Erlendur non ne riconobbe nemmeno uno, così gli diede il numero di fax del suo ufficio, in modo che potesse inoltrargliela. Attraversò in auto il quartiere dei Vogar e parcheggiò come al solito a una certa distanza dall'appartamento seminterrato in cui aveva fatto irruzione qualche giorno prima in cerca di Eva Lind. Attese e pensò a cosa potesse spingere una persona a comportarsi come faceva quell'uomo nei confronti della ragazza e della bambina, ma non giunse ad alcuna conclusione, se non la solita, ovvero che doveva essere un gran bastardo. Non sapeva cosa ne avrebbe fatto di lui, se aveva intenzione di agire o restare a spiarlo da lì. Non riusciva a togliersi dalla mente le bruciature sulla schiena della piccola. L'uomo aveva negato di averle fatto del male e la madre aveva confermato la sua versione, quindi le autorità potevano fare ben poco se non togliergli la figlia. Il caso era in mano al procuratore. Forse sarebbe stato incriminato. Forse no. Erlendur valutò le varie possibilità. Erano poche, tutte pessime. Se fosse entrato nell'appartamento la sera che stava cercando Eva Lind e aveva visto la piccola con le bruciature sulla schiena, sicuramente gli sarebbe saltato addosso, a quel sadico. Ma ormai erano passati alcuni giorni e non poteva più affrontarlo così, all'improvviso, per quello che aveva fatto alla piccina. Non poteva presentarsi davanti a lui e menarlo, anche se lo voleva
più di ogni altra cosa. Erlendur sapeva che parlarci sarebbe stato inutile. Quelli come lui ridevano delle minacce. Sì, gli avrebbe riso in faccia. Nelle due ore in cui rimase seduto in macchina a fumare, non vide nessuno entrare o uscire dalla casa. Infine si diede per vinto e andò all'ospedale da sua figlia. Cercò di dimenticare la questione, come tutte le altre cose che, con il tempo, era stato costretto a dimenticare. 20 Quando tornò dalla Corte Suprema, Elínborg ricevette una telefonata da Sigurđur Óli. Le disse che con tutta probabilità Benjamín non era il padre del bambino che Sólveig aspettava e che ciò aveva portato alla rottura del fidanzamento. Le disse anche che il padre di Sólveig si era impiccato dopo la scomparsa della figlia e non prima, come aveva detto sua sorella Bára. Prima di ritornare a Grafarvogur, Elínborg fece un salto all'anagrafe e sfogliò í vecchi certificati di morte. Non le piaceva che qualcuno le mentisse, soprattutto anziane signore di buona famiglia che si attribuivano dei privilegi e guardavano gli altri dall'alto in basso. Bára ascoltò il resoconto di quanto aveva detto Elsa sul padre sconosciuto del figlio di Sólveig senza cambiare espressione in volto, proprio come il giorno precedente. «L'ha già sentita questa storia?» le chiese Elínborg. «Che mia sorella era una puttana? No, non l'ho mai sentita e non capisco perché mi sia venuta a dire queste cose. Dopo tutti questi anni. Non lo capisco. Lei dovrebbe lasciarla in pace. Non merita queste malignità. Che... che cos'ha in mano questa Elsa per provarlo?» «Il racconto di sua madre» disse Elínborg. «Che lo ha saputo da Benjamín?» «Sì. E non lo aveva raccontato a nessuno prima di essere in punto di morte.» «Avete trovato una ciocca di capelli a casa sua?» «Sì, infatti.» «E volete farla analizzare insieme alle ossa?» «Suppongo di sì.» «Quindi pensate che l'abbia uccisa lui. Che Benjamín, quello smidollato, abbia ammazzato la sua fidanzata. Mi sembra improbabile. Molto improbabile. Non capisco come possiate crederlo.»
Bára tacque e si fece pensierosa. «Allora la notizia uscirà sui giornali?» chiese. «Questo non lo so» rispose Elínborg. «La storia delle ossa ha suscitato molto scalpore.» «No, mi riferivo al fatto che mia sorella è stata uccisa.» «Sì, se quella è la conclusione a cui giungeremo. Lei sa chi poteva essere il padre del bambino?» «Benjamín era l'unico.» «Non è stato mai menzionato nessun altro? Sua sorella non ha mai parlato con lei di qualcun altro?» Bára scosse la testa. «Mia sorella non era una puttana.» Elínborg si schiarì la voce. «Lei mi ha detto che suo padre si era suicidato qualche anno prima di sua sorella.» Si guardarono per un attimo negli occhi. «Adesso è meglio che se ne vada» tagliò corto la donna e si alzò. «Non sono stata io a cominciare a parlare di suo padre. Ho controllato il certificato di morte all'anagrafe. L'anagrafe non mente quasi mai, ma forse qualcun altro sì.» «Non ho più nulla da dirle» concluse Bára, ma aveva perso la solita espressione arrogante. «Io credo che lei me ne abbia accennato perché, in fondo, voleva parlarne.» «Figuriamoci, che idiozie!» sbottò. «Adesso si mette pure a fare la psicologa?» «È morto sei mesi dopo la scomparsa di sua sorella. Sul certificato non si dice se si è suicidato. Non figurano le cause della morte. Probabilmente siete persone troppo perbene per poter usare la parola 'suicidio'. 'È deceduto all'improvviso nella sua abitazione', così c'è scritto.» Bára le voltò le spalle. «C'è qualche speranza che possa cominciare a dirmi la verità?» disse Elínborg, alzandosi anche lei. «Che cosa c'entra suo padre? Perché me ne ha parlato? Chi era il padre del bambino di Sólveig? Era lui?» La donna non ebbe alcuna reazione. Nell'elegante salone, il silenzio fra di loro era quasi palpabile. Elínborg si guardò intorno in quella stanza spaziosa, osservò tutti gli oggetti di buon gusto, i due ritratti, il mobilio costoso, il pianoforte nero, la fotografia di Bára insieme al presidente del Partito
Progressista Islandese in un ambiente esclusivo. Quanti oggetti morti, pensò fra sé. «Tutte le famiglie hanno i loro segreti, no?» ammise infine Bára, sempre dando le spalle a Elínborg. «Suppongo di sì» rispose l'agente. «Non è stato mio padre» disse Bára controvoglia. «Non so perché le ho mentito sulla sua morte. È una cosa che mi è uscita quasi involontariamente. Se proprio vuole fare la psicologa, dovrebbe dire che, in fondo, volevo confessarle tutto. Ho taciuto così a lungo che quando ha cominciato a parlare di Sólveig il guscio si è rotto. Non lo so.» «Allora chi è stato?» «Nostro cugino» disse Bára. «Il figlio del fratello di nostro padre. A Fljót. Accadde durante una vacanza, in estate.» «Come l'avete scoperto?» «Era completamente diversa quando tornò a casa, quella volta. La mamma... nostra madre lo notò subito e poi, con il passare del tempo, non fu più possibile nasconderlo.» «Raccontò a vostra madre cos'era successo?» «Sì. Nostro padre andò subito a trovarli a nord. Non so altro. Quando tornò, il ragazzo era stato mandato all'estero. Devono averlo deciso in campagna. Il nonno aveva un grosso appezzamento di terreno. Erano solo due fratelli. Mio padre si trasferì qui a sud, fondò un'azienda e fece fortuna. In politica simpatizzava per Jónas di Hrifla. Lo adorava.» «Cosa accadde a suo cugino?» «Niente. Sólveig disse che l'aveva fatto contro la sua volontà. Che l'aveva violentata. I miei genitori non sapevano come procedere, non volevano denunciarlo, considerate tutte le battaglie legali e le malignità che ne sarebbero conseguite. Il ragazzo tornò in Islanda qualche anno dopo e si sistemò a Reykjavík. Mise su famiglia. È morto circa vent'anni fa.» «E Sólveig e il bambino?» «Volevano costringerla ad abortire, ma lei si rifiutava. Non voleva uccidere il bimbo. Così un giorno scomparve.» Bára si voltò di nuovo verso Elínborg. «Si può dire che quella vacanza a Fljót ci ha rovinato. Ha distrutto la nostra famiglia. Sicuramente ha plasmato tutta la mia vita. Per orgoglio bisognava tenere tutto nascosto. Non se ne poteva parlare. Non si doveva assolutamente menzionare quello che era successo. Se ne occupò mia madre. So che si chiarì con Benjamín, in seguito. Gli spiegò com'erano andate le
cose. Così la morte di mia sorella era solo affar suo. Di Sólveig, intendo. Un suo problema, una sua scelta. Una sua follia momentanea. Noi eravamo a posto. Eravamo puliti e rispettabili. Era lei che era impazzita e si era buttata in mare.» Elínborg la guardò e all'improvviso provò compassione per lei e pensò all'infinita menzogna che doveva essere stata la sua vita. «Aveva fatto tutto da sola» continuò Bára. «La cosa non ci riguardava. Era un suo problema.» Elínborg annuì. «Non è suo lo scheletro sepolto» disse Bára. «Mia sorella è in fondo al mare e si trova lì da più di sessanta terribili anni.» Erlendur sedette al capezzale di Eva Lind dopo aver parlato con il medico, il quale gli aveva ripetuto le stesse cose: che la situazione era immutata e che solo il tempo avrebbe rivelato cosa le riservava il futuro. Erlendur si accomodò accanto al letto e si chiese di cosa avrebbe dovuto parlarle quella volta, ma non riuscì a trovare niente da dirle. Il tempo passava. Il reparto era immerso nel silenzio. Di tanto in tanto sfilavano davanti alla porta un medico o un'infermiera con gli zoccoli di gomma bianchi che cigolavano sul pavimento di linoleum. Quel cigolio... Erlendur guardò sua figlia e quasi automaticamente cominciò a parlarle a voce bassa, a raccontarle della scomparsa di una persona, su cui si scervellava da tempo e che forse, malgrado fossero passati tutti quegli anni, doveva ancora essere compresa a fondo. Cominciò a raccontarle di un ragazzino che si era trasferito con i suoi genitori a Reykjavík dalla campagna e che sentiva sempre la mancanza dei campi. Era troppo giovane per capire come mai si erano trasferiti in città, che all'epoca non era una città vera e propria ma un grande paese in riva al mare. Comprese solo in seguito che molte cose avevano influito su quella decisione. Il nuovo ambiente gli era risultato estraneo fin dal primo momento. Era cresciuto in modo semplice, nella campagna isolata, con le bestie, le estati tiepide, gli inverni rigidi e le storie sulla gente che aveva sempre abitato le fattorie dei dintorni; erano perlopiù piccoli contadini, poverissimi da generazioni. Quelle persone erano i suoi eroi, i protagonisti delle storie che aveva sentito da piccolo, i racconti della vita di campagna che lui conosceva in prima persona. Storie di vita quotidiana, che venivano raccontate da de-
cine di anni e descrivevano viaggi perigliosi e disastri, oppure aneddoti così divertenti da costringere chi li raccontava a trattenere il fiato per il gran ridere o a esplodere in colpi di tosse tali da farli piegare in due, scossi dalle risate. Erano tutte storie che narravano di persone con cui aveva vissuto o che aveva conosciuto, oppure che abitavano in campagna da secoli; zii e nipoti e nonne e bisnonne e nonni e bisnonni dei tempi passati. Conosceva tutti quei personaggi attraverso le loro storie, anche chi era morto da tempo ed era stato sepolto nel piccolo cimitero accanto alla chiesetta, quando era ancora in uso; storie di ostetriche che guadavano fiumi gelati per aiutare le donne a mettere al mondo i bambini; storie di contadini che penavano per salvare il bestiame durante bufere indescrivibili; storie di braccianti che rimanevano bloccati nella neve mentre tornavano alle stalle; storie di preti annegati; storie di fantasmi e di mostri; storie di vita che facevano parte della sua. Quando i genitori si erano trasferiti in città, le aveva portate tutte con sé. Avevano riadattato un bagno pubblico costruito ai margini della città dai militari inglesi durante la guerra e l'avevano trasformato in una piccola casetta, perché non potevano permettersi nient'altro. La vita cittadina non si addiceva al padre, che era ammalato di cuore ed era morto poco dopo essersi trasferito a sud. Sua madre allora aveva venduto la proprietà, si era presa un appartamentino in un seminterrato malmesso vicino al porto e aveva trovato lavoro in una fabbrica per la conservazione del pesce. Il ragazzino non sapeva cosa fare una volta finita la scuola dell'obbligo. Non aveva voglia di continuare a studiare. Forse non gli interessava. Così si era messo a fare il manovale e aveva trovato impiego nell'edilizia. Dopo aveva preso il mare. Poi aveva letto un annuncio: cercavano uomini in polizia. Non ascoltava più quelle storie, che andarono perdute. Tutta la sua gente era scomparsa, dimenticata e sepolta nelle aree desertiche disabitate. Lui stesso era un relitto alla deriva in una città che non aveva niente da dirgli. Anche se avesse voluto tornare indietro, non c'era più nessuno da cui andare. Sapeva di non essere adatto a vivere in città. Non sapeva esattamente perché. Ma dentro di sé non l'abbandonava mai la nostalgia per una vita diversa, si sentiva sradicato e a disagio, e quando sua madre morì comprese di aver perduto anche l'ultimo legame con il passato. Allora aveva cominciato a frequentare le sale da ballo. In una, il Glaumbær, aveva incontrato una ragazza. Ne aveva conosciute altre, ma allora cercava solo rapporti occasionali. Questa era diversa, più decisa, e sentì che lo aveva in pugno. Era accaduto tutto così in fretta che non se ne
era nemmeno accorto. Avanzava pretese che lui soddisfaceva senza una motivazione particolare e, prima di rendersene conto, l'aveva sposata e aveva avuto una figlia. Avevano preso in affitto un piccolo appartamento. Lei aveva moltissimi progetti per il futuro, voleva altri figli, comprare una casa, parlava sempre spiccia e decisa, con un tono di voce impaziente, come se vedesse la sua vita ormai avviata su un tracciato ben definito che niente al mondo avrebbe potuto ostacolare, mai. Un giorno l'aveva guardata e si era reso conto che quella donna non la conosceva affatto. Poi avevano avuto un altro figlio e lei aveva cominciato a comprendere quanto fosse lontano il marito. Quando suo figlio era venuto al mondo, se ne era rallegrato a malapena e aveva già cominciato ad accennare al fatto che voleva darci un taglio e andarsene. Lei lo sentiva. Gli aveva chiesto se c'era un'altra donna, ma lui l'aveva guardata senza capire la domanda. Non gli era mai passato per la testa. Doveva esserci un'altra per forza, gli aveva detto lei. Non era per quello, le aveva giurato, cercando di spiegarle come si sentiva e cosa pensava, ma lei non voleva saperne. Aveva avuto due figli da lui e adesso non poteva certo pensare di voler lasciare lei e i bambini. I suoi figli. Eva Lind e Sindri Snær. Due nomi che aveva scelto la mamma. Lui non li considerava parte di sé. Non capiva il suo ruolo di padre, ma comprendeva che aveva delle responsabilità. Sapeva che aveva dei doveri nei loro confronti, a prescindere dalla madre o dal rapporto che c'era tra di loro. Le aveva detto che ci teneva al bene dei suoi figli, voleva una separazione consensuale, ma la moglie gli aveva risposto di scordarsela, poi aveva preso in braccio Eva Lind, tenendola stretta. Aveva compreso al volo che voleva usare i figli per tenerlo con sé, ed era sempre più convinto di non voler vivere con lei. Era stato tutto un grandissimo errore fin dall'inizio, avrebbe dovuto agire da tempo. Non sapeva cosa gli era passato per la testa in tutti quegli anni, ma ora quella storia la doveva chiudere. Aveva cercato di convincerla a fargli tenere i bambini alcuni giorni alla settimana o al mese, ma lei glielo aveva negato categoricamente, dicendogli che se l'avesse lasciata, non li avrebbe visti mai più. Li avrebbe cresciuti lei. Così era sparito. Era sparito dalla vita di quella bambina di due anni seduta sul pannolino che lo guardava uscire dalla porta con il ciuccio fra le mani. Un piccolo ciuccio bianco che cigolava appena quando lo mordeva. «Abbiamo sbagliato tutto» disse Erlendur. Quel cigolio... Chinò la testa. Credeva che l'infermiera fosse passata di nuovo davanti
alla porta della corsia. «Non so che ne è stato di quell'uomo» disse Erlendur con voce appena percepibile e guardò sua figlia, la guardò in volto, che non aveva mai visto così sereno. I tratti erano più netti. Fissò il macchinario che la teneva in vita. Poi abbassò di nuovo lo sguardo al pavimento. Rimase così a lungo, poi si alzò e si chinò su Eva Lind per baciarla sulla fronte. «È sparito e credo si sia perso di nuovo; si è perso molto tempo fa e non sono sicuro che prima o poi riuscirà a ritrovare la sua strada. Non è colpa tua. È successo prima che tu venissi al mondo. Credo che stia cercando se stesso, ma non sa perché, né cosa stia cercando esattamente e di certo non lo troverà mai.» Erlendur guardò Eva Lind. «Se non l'aiuti tu.» Alla luce della piccola lampada del comodino, il suo volto era come una maschera fredda. «So che lo stai cercando anche tu e so che se c'è qualcuno che può trovarlo, quella sei tu.» Le voltò le spalle pronto ad andarsene, quando vide la sua ex moglie sulla porta. Non sapeva da quanto era lì. Non sapeva quanto avesse ascoltato di quello che aveva detto a Eva Lind. Indossava lo stesso cappotto marrone di sempre sopra la tuta da ginnastica, ma portava le scarpe con il tacco alto, che rendevano ridicolo tutto l'abbigliamento. Erano più di vent'anni che non la vedeva a quattr'occhi e si rese conto di quanto fosse invecchiata: i tratti del viso avevano perduto la loro nitidezza, le guance si erano appesantite e aveva il doppio mento. «È stata una schifosa bugia quella che hai detto a Eva Lind sull'aborto.» Era furioso. «Lasciami in pace» ribatté Halldóra. Anche la voce era invecchiata. Era rauca. Troppe sigarette, fumava da troppo tempo. «Su cos'altro hai mentito ai ragazzi?» «Vattene» rispose lei e si scostò dalla porta per farlo uscire. «Halldóra...» «Vattene» ripeté. «Vattene e lasciami in pace.» «Li abbiamo voluti entrambi i nostri figli.» «Non te ne sei pentito?» gli chiese. Erlendur non capiva cosa volesse dire. «Credevi che loro avrebbero scelto di venire al mondo?»
«Cos'è successo?» le domandò Erlendur. «Quand'è che sei diventata così?» «Vattene» ribadì lei. «Sei bravo in questo. Vattene. Vattene! Lasciami in pace con lei.» Erlendur la fissò. «Halldóra...» «Vattene, ho detto!» Alzò la voce. «Vattene via. Subito. Vattene! Non ti voglio più vedere! Non voglio più vedere la tua faccia!» Erlendur le passò accanto, uscendo dalla stanza, e lei gli chiuse la porta alle spalle. 21 Quella sera Sigurđur Óli concluse la sua ricerca nello scantinato senza aver scoperto nulla di più su altri eventuali inquilini della casa di Benjamín. Non gli importava. Era contento di potersi liberare da quell'incarico. Quando tornò a casa, Bergthóra lo stava aspettando. Aveva comprato del vino rosso e lo stava bevendo in cucina. Ne diede un bicchiere anche a lui. «Io non sono come Erlendur» le disse. «Non puoi pensare una cosa tanto orribile di me.» «Ma tu vuoi essere come lui» rispose Bergthóra. Stava cucinando la pasta e aveva acceso una candela sul tavolo. Proprio un bell'ambientino per un'esecuzione, pensò Sigurđur Óli. «Tutti gli uomini vogliono essere come lui» continuò. «Ma no, perché dici così?» «Vogliono stare soli con se stessi.» «Non è giusto. Non puoi nemmeno immaginare che vita di merda faccia Erlendur.» «Almeno devo capire come va il nostro rapporto» disse Bergthóra, versando il vino rosso nel bicchiere del compagno. «D'accordo, chiariamolo.» Sigurđur Óli non conosceva una donna più pratica di Bergthóra. La conversazione non avrebbe riguardato l'amore della loro vita. «Ormai stiamo insieme da... Da quanto? Tre o quattro anni, e non sta accadendo niente. Niente. Ti metti a fare smorfie da cretino ogni volta che parlo di qualcosa che abbia vagamente a che vedere con un impegno. Abbiamo ancora la separazione dei beni. Sposarsi in chiesa mi sembra da escludere; matrimoni di altro tipo non lo so. Non siamo registrati come
conviventi. Secondo il tuo modo di vedere, i figli sono un sistema solare lontanissimo. E allora mi chiedo: che cosa ci resta?» Non c'era traccia di rabbia nelle parole di Bergthóra. Per il momento stava solo cercando di capire a che punto fosse arrivato il loro rapporto e che direzione stesse prendendo. Sigurđur Óli decise di approfittarne, prima che la situazione gli sfuggisse di mano. Aveva avuto tutto il tempo per pensarci, durante le ricerche noiose nello scantinato. «Restiamo noi» rispose Sigurđur Óli. «Noi due.» Trovò un CD, lo mise nel lettore e scelse un brano a cui pensava da quando Bergthóra aveva cominciato a fargli pressioni perché si impegnasse con lei. Marianne Faithfull iniziò a cantare la storia di Lucy Jordan, una casalinga di trentasette anni che sognava di guidare con un'auto sportiva per le strade di Parigi, il vento freddo fra i capelli. «Ne parliamo da un sacco di tempo, ormai» le disse. «Di cosa?» chiese Bergthóra. «Del nostro viaggio.» «Vuoi dire in Francia?» «Sì.» «Sigurđur...» «Andiamo a Parigi e prendiamo a noleggio una macchina sportiva» le propose. Erlendur era bloccato in una tempesta furiosa e non vedeva a un palmo dal naso. La bufera gli sferzava il volto ed era circondato dal buio e dal freddo. Cercava di lottare, ma non riusciva ad avanzare di un passo, così volse la schiena al vento e si accucciò, mentre la neve gli si accumulava addosso. Sapeva che sarebbe morto e non poteva farci niente. Il telefono cominciò a suonare ininterrottamente, penetrando nella tempesta, finché all'improvviso il maltempo si placò, il vento tacque ed Erlendur si svegliò sulla poltrona del soggiorno di casa sua. Sulla scrivania il trillo era sempre più forte e non gli dava tregua. Irrigidito, si alzò per andare a rispondere, ma il telefono smise di suonare. Rimase lì accanto e attese che ricominciasse, ma non accadde niente. Aveva ancora un modello vecchio, senza display, quindi non aveva idea di chi avesse cercato di mettersi in contatto con lui. Immaginò che fosse una di quelle stronze del telemarketing che voleva rifilargli un aspirapolvere con tostapane in omaggio. La ringraziò comunque per averlo salvato dalla tempesta.
Andò in cucina. Erano le otto di sera. Cercò di coprire il chiarore primaverile con le tende, ma la luce trovava comunque il modo di penetrare, raggi di sole polverosi che illuminavano l'oscurità dell'appartamento. La primavera e l'estate non erano le sue stagioni preferite. Troppa luce. Troppa frivolezza. Voleva inverni bui e pesanti. Non trovò niente di commestibile e si sedette al tavolo, con la mano sotto il mento. Era ancora intontito dal sonno. Era rincasato verso le sei dall'ospedale dov'era ricoverata Eva Lind, poi si era seduto sulla poltrona, si era addormentato e aveva dormito fino alle otto; ricordava la tempesta del sogno e quando si era accucciato di schiena, aspettando la morte. Faceva spesso quel sogno, in molte versioni diverse. Ma c'era sempre questa implacabile e gelida tempesta che gli penetrava nelle ossa fino al midollo. Sapeva come sarebbe andata a finire se il telefono non l'avesse svegliato. Poi ricominciò a squillare ed Erlendur si chiese se ignorarlo e non rispondere. Alla fine si alzò ciondolando, andò in soggiorno e alzò la cornetta. «Pronto, Erlendur?» «Sì» disse lui, schiarendosi la gola. Riconobbe subito la voce. «Sono Jim, dell'ambasciata. Mi scusi se le telefono a casa.» «Era lei prima?» «Prima? No, non l'ho chiamata io. Il fatto è che stavo parlando con Edward Hunter e ho ritenuto di dovermi mettere subito in contatto con lei.» «Ah sì, c'è qualcosa di nuovo?» «Il colonnello sta lavorando al caso per voi e volevo solo rendervi partecipi delle sue scoperte. Ha telefonato negli Stati Uniti, ha esaminato il suo diario e ha parlato con diverse persone e crede di sapere chi fece la spia sul furto al deposito viveri.» «Chi è stato?» «Non me l'ha detto. Ma mi ha chiesto di informarla che la aspetta a casa sua.» «Stasera?» «Sì. No. Anche domani mattina. Forse è meglio domattina. Voleva andare a dormire presto.» «È stato un islandese a fare la spia?» «Glielo dirà lui. Buonanotte e mi scusi se l'ho disturbata.» Jim riagganciò ed Erlendur fece lo stesso. Era ancora in piedi accanto al telefono quando ricominciò a squillare. Stavolta era Skarphédinn. Si trovava sulla collina.
«Domani scopriremo le ossa» gli disse, senza preamboli. «Era ora» rispose Erlendur. «Ha chiamato lei prima?» «Sì. È appena rientrato?» «Esatto» mentì. «Avete trovato qualcosa di utile, lì sotto?» «No, niente, ma volevo dirle che... Buonasera, buonasera... ehm, aspetti, lasci che l'aiuti, ecco... sì, scusi, dov'eravamo rimasti?» «Mi stava dicendo che domani scoprirete le ossa.» «Sì, più o meno verso sera, suppongo. Non abbiamo trovato niente che possa indicare come il corpo sia finito nel terreno. Forse troveremo qualcosa sotto le ossa.» «Allora ci vediamo domani.» «Arrivederci.» Erlendur riagganciò. Non era ancora del tutto sveglio. Pensò a Eva Lind, chissà se qualcosa di quanto le aveva detto le sarebbe mai arrivato. E poi pensò ad Halldóra e all'odio che ancora provava dopo tutti quegli anni. E si chiese per la milionesima volta come sarebbe stata la sua vita e la loro se non avesse deciso di andarsene. Non trovava mai una risposta. Fissò davanti a sé, senza guardare niente di preciso. Qualche raggio di sole filtrava in soggiorno attraverso le tende, squarciando l'oscurità che lo circondava con una ferita luminosa. Guardò le tende. Erano di velluto spesso e toccavano terra. Spesse tende verdi che tenevano lontano il chiarore primaverile. Buonasera. Buonasera. Lasci che l'aiuti... Erlendur osservò il colore verde scuro delle tende. Storta. Verde. Skarphédinn, con chi...? Scattò in piedi e afferrò la cornetta. Non ricordava il numero del suo cellulare e, in preda alla disperazione, chiamò il servizio abbonati per farselo dare. Poi telefonò all'archeologo. «Skarphédinn? Skarphédinn?» urlò. «Che c'è? È ancora lei?» «A chi ha detto buonasera, prima? Chi stava aiutando?» «Che cosa?» «Con chi stava parlando?» «Chi? Perché è così agitato?» «Chi c'è lassù con lei?»
«Vuol dire chi ho salutato?» «Il mio non è un videotelefono. Non posso vederla. Ho sentito che ha detto buonasera a qualcuno. Chi c'è lì con lei?» «Non è più qui con me. È andata... aspetti, è lì accanto ai cespugli.» «Ai cespugli? Vuol dire i cespugli di ribes? È vicino ai cespugli di ribes?» «Sì.» «Che aspetto ha?» «È... La conosce? Chi è quella signora? Perché è così agitato?» «Che aspetto ha?» ripeté Erlendur e cercò di calmarsi. «Stia calmo.» «Quanti anni ha?» «Anni?» «Mi dica solo quanti anni crede che abbia!» «Una settantina. No, forse quasi ottanta. Difficile dirlo.» «Com'è vestita?» «Vestita? Ha un cappotto verde lungo fino alle caviglie. Sarà alta più o meno come me. Ed è zoppa.» «Zoppa?» «Zoppica. Ma non è solo quello. Cioè, è come se fosse un po', non so...» «Cosa? Cosa? Cosa sta cercando di dirmi?» «Non so come poterla descrivere... è... è come se fosse storta.» Erlendur gli appese il telefono in faccia e corse fuori nella serata estiva, dimenticando di dire a Skarphédinn che doveva trattenere quella donna a ogni costo. Il giorno in cui Grímur tornò a casa, era passato già del tempo dall'ultima volta che Dave era stato da loro. Era arrivato l'autunno e con esso la morsa del vento da Nord; un sottile strato di neve copriva il terreno. La collina si ergeva ben sopra il livello del mare e l'inverno arrivava prima rispetto alla piana di Reykjavík, che stava assumendo un aspetto sempre più urbanizzato. Ogni mattina Símon e Tómas andavano in città con lo scuolabus e tornavano la sera. La loro madre raggiungeva tutti i giorni a piedi la fattoria di Gufunes, dove si occupava della mungitura e di altre incombenze quotidiane. Usciva prima dei figli ed era già a casa quando loro tornavano da scuola. Mikkelína rimaneva da sola e si annoiava. Quando sua madre rincasava dal lavoro non stava più in sé dalla gioia, e quando entravano anche Símon e Tómas e scagliavano i
libri di scuola in un angolo, la sua felicità cresceva. Dave era un ospite abituale. Lui e la donna si capivano sempre meglio e rimanevano a lungo seduti al tavolo della cucina, sperando che i ragazzi e Mikkelína li lasciassero in pace. Di tanto in tanto, quando volevano un po' di spazio per loro, andavano in camera da letto e si chiudevano dentro. Símon notava talvolta che Dave accarezzava la mamma sulla guancia o le risistemava una ciocca di capelli che le era scesa sul volto. Oppure le sfiorava una mano. Andavano anche a fare lunghe passeggiate lungo le rive del lago Reynisvatn e da lì sulle colline circostanti, e ogni tanto si spingevano perfino nella valle di Mosfellsdalur e fino a Helgufoss. Durante quelle gite portavano con loro uno spuntino perché stavano fuori anche tutta la giornata. A volte li accompagnavano i tre figli; Dave portava Mikkelína sulla schiena come se fosse un fuscello. Chiamava queste uscite «picnic»; Símon e Tómas la trovavano una parola molto buffa e lo imitavano. «Picnic, picnic, picnic, picnic» chiocciavano, come delle galline. A volte, durante i picnic oppure in cucina, Dave e la mamma rimanevano seduti a parlare di cose molto serie. Una volta anche in camera, quando Símon aprì la porta per entrare. Erano seduti sul bordo del letto, Dave le teneva la mano, insieme guardarono verso la porta e gli sorrisero. Non sapeva di cosa stessero parlando, ma non doveva essere qualcosa di piacevole perché riconobbe l'espressione che aveva sua madre, la stessa di quando non stava bene. E così tutto finì in un freddo giorno di autunno. Grímur tornò a casa al mattino presto, quando la moglie era già andata a Gufunes e Símon e Tómas stavano andando a prendere lo scuolabus. Faceva un freddo pungente; riconobbero il padre che saliva lungo il sentiero della casa tenendosi ben stretta la giacca logora per ripararsi dal vento del Nord. Lui non li vide, però. Nel crepuscolo autunnale non lo distinguevano bene in volto, ma Símon immaginò il suo sguardo duro e gelido mentre si dirigeva verso casa. I ragazzini lo aspettavano da un giorno all'altro. La mamma aveva detto loro che ormai aveva scontato la pena per il furto, che sarebbe tornato e che dovevano aspettarselo in qualsiasi momento. Símon e Tómas osservarono Grímur salire verso casa e si guardarono l'un l'altro. Entrambi pensarono la stessa cosa. Mikkelína era sola. Si era svegliata quando la madre e i fratelli si erano alzati, poi si era riaddormentata e di solito dormiva fino a tardi. Sarebbe stata sola ad accogliere Grímur. Símon cercò di immaginare la sua reazione quando si fosse accorto che la moglie non era in casa e che non c'erano nemmeno i figli maschi,
ma solo Mikkelína, che odiava da sempre. Lo scuolabus era arrivato e aveva suonato due volte il clacson. Il conducente aveva visto i ragazzi e quando non poté più aspettarli mise di nuovo in moto e sparì lungo la strada. Loro rimasero immobili dov'erano senza dire una parola, poi si incamminarono lentamente verso casa. Non volevano lasciare sola Mikkelína. Símon pensò di correre dietro a sua madre o mandare Tómas a prenderla, ma poi si rese conto che non c'era fretta che si incontrassero; la mamma doveva godersi quell'ultimo giorno di pace. Videro Grímur entrare in casa e chiudersi la porta alle spalle, e si misero a correre. L'unica cosa a cui pensavano era Mikkelína addormentata sul letto matrimoniale, dove non avrebbe dovuto trovarsi per niente al mondo. Aprirono con cautela la porta e si introdussero furtivi, Símon davanti e Tómas alle calcagna, per mano. Entrarono in cucina e videro Grímur vicino all'acquaio. Era di spalle. Tirò su col naso e sputò. Aveva acceso la luce sopra il tavolo della cucina, per questo ne distinguevano solo il profilo. «Dov'è vostra madre?» chiese, sempre girato. Símon pensò che li avesse visti fin dall'inizio, per strada, e li avesse sentiti entrare. «È al lavoro» rispose. «Al lavoro? Dove? Dove lavora?» gli chiese il padre. «Nella fattoria di Gufunes» precisò. «Non sapeva che oggi tornavo?» Grímur si voltò verso di loro e si avvicinò alla luce. I fratelli lo fissavano mentre emergeva dall'oscurità, dopo tutto quel tempo, e spalancarono gli occhi appena videro il suo volto nella luce fioca. Gli era accaduto qualcosa. Su una guancia aveva una bruciatura estesa fino all'occhio, che stava mezzo chiuso perché la palpebra si era cotta con la pelle. Grímur sorrise. «Non è bello il vostro papà?» I due fratelli fissarono quel volto sfigurato. «Ti fanno il caffè e poi te lo buttano in faccia.» Si avvicinò a loro. «Non perché vogliono farti confessare. Sanno già tutto, perché qualcuno glielo ha già detto. Non è per questo che ti buttano in faccia il caffè bollente. Non è per questo che ti rovinano la faccia.» I ragazzi non capivano cosa stesse accadendo. «Andate a chiamare vostra madre» ordinò Grímur e guardò Tómas, che si era acquattato dietro suo fratello. «Vai in quella maledetta fattoria e por-
tami quella vacca.» Con la coda dell'occhio, Símon vide qualcosa muoversi in camera da letto ma non osò per niente al mondo voltarsi a guardare. Mikkelína si era alzata. Ormai era capace di sostenersi da sola e riusciva a muoversi aiutandosi con degli appoggi, ma non si azzardò a entrare in cucina. «Vai!» urlò Grímur. «Subito!» Tómas trasalì. Símon non era sicuro che suo fratello si ricordasse la strada. Era stato alla fattoria con la mamma una volta o due in estate, ma adesso non era ancora giorno, faceva freddo e lui era ancora un bambino. «Vado io» si offrì Símon. «Vai tu un cazzo» sbottò Grímur. «Muoviti!» gridò a Tómas, che si staccò barcollante dal fratello e aprì la porta nel freddo, chiudendosela con cura alle spalle. «Vieni, caro Símon, e siediti qui accanto a me» disse Grímur, e la rabbia sembrò improvvisamente svanita. Símon avanzò titubante e si sedette su una sedia. Vide di nuovo un movimento nel disimpegno davanti alla camera da letto. Sperava che Mikkelína non uscisse. C'era un piccolo vano ripostiglio e pensò che avrebbe potuto nascondersi lì, senza che Grímur se ne accorgesse. «Non hai sentito la mancanza del tuo vecchio papà?» gli disse e si sedette di fronte a lui, che annuì, senza staccare gli occhi dalla bruciatura. «Che cosa avete fatto quest'estate?» chiese e il figlio lo fissò senza dire una parola. Non sapeva da dove cominciare a dire bugie. Non poteva raccontargli di Dave, delle sue visite e degli incontri misteriosi con la madre, le passeggiate, i picnic. Non poteva dirgli che loro quattro dormivano insieme nel lettone, tutte le sere. Non poteva raccontare di quanto era cambiata la mamma da quando lui era andato via, e che il merito era solo di Dave. Le aveva restituito l'entusiasmo per la vita. Non poteva raccontargli che al mattino si faceva carina. Che aveva un aspetto diverso. Che diventava più bella ogni giorno che trascorreva con Dave. «Allora, niente?» domandò Grímur. «Non è successo niente in un'estate intera?» «Era, era... ha fatto bel tempo» disse Símon disperato, senza distogliere gli occhi dalla bruciatura. «Bel tempo, Símon. Bel tempo» ripeté Grímur. «E tu hai giocato qui in collina e all'accampamento. Conosci qualcuno all'accampamento?» «No» rispose pronto. «Nessuno.» Grímur sorrise.
«Hai imparato a mentire quest'estate. È incredibile quanto si faccia presto a imparare a dire le bugie. Hai imparato a mentire quest'estate, Símon?» Al ragazzino tremava il labbro inferiore. Era un riflesso inconscio che non riusciva a controllare. «Solo un soldato» disse poi. «Ma non lo conosco bene.» «Conosci un soldato. Ecco. Non si dovrebbero dire le bugie, Símon. Chi mente, come fai tu, si infila sempre in qualche guaio e va a finire che nei guai ci infila anche gli altri.» «Sì» convenne e si augurò che fosse finita lì. Sperava che Mikkelína uscisse e li interrompesse. Si chiese se doveva dirgli che la sorella era nel disimpegno e che aveva dormito nel suo letto. «Chi conosci all'accampamento?» gli chiese il padre e Símon sentì che stava sprofondando sempre di più in un pantano. «Solo un soldato» disse. «Solo un soldato» ribadì Grímur, accarezzandosi la guancia e grattandosi la cicatrice con l'indice. «E chi sarebbe? Mi fa piacere sapere che non sono tanti.» «Non lo so. Qualche volta va a pescare al lago. A volte ci regala le trote che prende.» «Ed è buono con voi ragazzi?» «Non lo so» rispose Símon, benché sapesse che Dave era la persona migliore che avesse mai conosciuto. In confronto a Grímur, era un angelo mandato dal cielo per salvare la loro madre. Dov'era Dave? pensò. Se solo venisse subito. Pensò a Tómas al freddo, lungo la strada per Gufunes, e a sua madre che non sapeva nemmeno che il marito era tornato. E pensò a Mikkelína nel disimpegno. «Viene spesso qui?» «No, solo qualche volta.» «Veniva anche prima che finissi dentro? Quando uno finisce dentro, Símon, vuol dire che è stato messo in prigione. Non significa necessariamente che sia colpevole di qualcosa di brutto, ma solo che è stato messo in prigione. Che è finito dentro. E non ci hanno messo molto a decidere. Hanno parlato tanto sul fatto di dare l'esempio. Gli islandesi non devono rubare all'esercito. Un brutto affare, davvero. Hanno dovuto processarmi in tutta fretta e darmi una pena pesante, così nessuno avrebbe fatto come me, nessuno si sarebbe messo a rubare. Capisci? Tutti devono imparare dai miei errori. Ma tutti rubano, mica solo io. Fanno la stessa cosa e ci guadagnano.
Veniva anche prima che mi mettessero dentro?» «Chi?» «Quel soldato. Veniva anche prima che andassi in prigione? Quello che hai conosciuto.» «Pescava nel lago qualche volta, prima che te ne andassi.» «E dava alla mamma le trote che pescava?» «Sì.» «Pescava tante trote?» «A volte. Però non è bravo a pescare. Fuma in riva al lago, e basta. Tu peschi molto di più. Anche con le reti. Tu peschi molto di più con le reti.» «E quando ha dato le trote alla tua mamma, si è fermato in casa? È entrato a bere il caffè? Si è seduto a tavola?» «No» rispose Símon e si chiese se la bugia che stava dicendo era davvero una bugia, ma non riuscì a decidersi. Era spaventato e confuso, il labbro gli tremava, così ci teneva sopra le dita, cercando di dare le risposte che pensava volesse sentire, senza per questo creare problemi alla madre, se per caso suo padre avesse appreso qualcosa che non doveva sapere. Símon stava conoscendo un altro lato di Grímur. Non aveva mai parlato tanto con suo padre prima ed era stato preso in contropiede. Era in difficoltà. Non capiva esattamente cosa non dovesse sapere e cercava in tutti i modi di proteggere sua madre. «È mai venuto in casa?» gli chiese; adesso il tono della voce era cambiato, non era più tenero e viscido, bensì duro e deciso. «Solo un paio di volte, così.» «E che cosa ha fatto?» «Niente.» «Già, niente. Hai ricominciato a mentire, vero? Hai ricominciato a mentirmi? Sono tornato a casa dopo essere stato umiliato per mesi e l'unica cosa che sento sono bugie. Vuoi mentirmi un'altra volta?» Le sue domande erano come frustate sul volto di Símon. «Che hai fatto in prigione?» azzardò, nella flebile speranza di poter parlare di qualcos'altro che non fossero Dave e sua madre. Perché Dave non veniva? Non sapevano che Grímur era uscito di prigione? Non ne avevano parlato durante quegli incontri segreti, quando lui le accarezzava le mani e le sistemava i capelli? «In prigione?» ripeté Grímur, cambiando il tono della voce, che divenne di nuovo tenero e viscido. «Ho sentito delle storie in prigione. Di ogni tipo. Si sentono dire un sacco di cose e non ti bastano mai, perché nessuno vie-
ne a trovarti, e non hai notizie da casa, se non quelle che portano i nuovi detenuti, e poi fai amicizia con le guardie e anche loro te ne raccontano di nuove. E ovviamente hai un sacco di tempo per rimuginare su tutto quello che hai sentito.» Un asse del pavimento cigolò appena dal disimpegno e Grímur fece una pausa, poi continuò come se nulla fosse accaduto. «Certo, tu sei giovane, Símon; aspetta, quanti anni hai, adesso?» «Ne ho quattordici, quasi quindici.» «Sei un adulto, ormai, quindi magari capisci di cosa sto parlando. Si sente tanto parlare di queste ragazze islandesi che vanno a letto con i militari. Quando vedono un uomo in uniforme è come se perdessero la testa; e poi si sente dire che i soldati sono dei gran gentiluomini, che aprono la porta alle signore e sono cortesi e vogliono ballare con loro e non si sbronzano mai, hanno sigarette e caffè e altre cose di ogni genere e vengono da posti dove tutte vorrebbero andare. E noi, invece, siamo dei bifolchi. Siamo solo dei campagnoli, Símon, e le ragazze non ci degnano nemmeno di uno sguardo. Ecco perché voglio saperne di più di questo soldato che va a pescare nel lago, perché tu mi hai deluso.» Símon guardò il padre e fu come se le forze lo abbandonassero. «Ho sentito dire tante di quelle cose su questo soldato, invece tu non lo conosci nemmeno. A meno che, ovviamente, non mi stia mentendo, e non mi pare una gran bella cosa da fare, mentire al proprio padre quando invece un soldato viene qui tutti i giorni e passa l'estate a fare le passeggiate con la mamma. Tu non ne sai niente?» Símon tacque. «Tu non ne sai niente?» ripeté Grímur. «A volte sono andati a fare una passeggiata» rispose Símon, mentre gli si riempivano gli occhi di lacrime. «Ecco, vedi?» disse Grímur. «Lo sapevo che eravamo ancora amici. Sei mai andato con loro?» Non aveva alcuna intenzione di mollare. Grímur lo guardava con la faccia bruciata e con l'occhio mezzo chiuso. Símon sentiva di non potergli opporre resistenza ancora a lungo. «A volte siamo andati al lago, lui portava la merenda. Come facevi tu qualche volta, quando ci davi quei barattoli che si aprivano con una chiavetta.» «E poi ha baciato la tua mamma al lago?» «No» disse Símon, felice di non dover mentire stavolta. Non li aveva
mai visti baciarsi, infatti. «Allora che facevano? Si tenevano per mano? E tu che facevi? Perché permettevi a quest'uomo di andare con tua madre a fare una passeggiata sul lago? Non ti è venuto in mente che io potevo non essere d'accordo? Non ti è mai venuto in mente?» «No» rispose Símon. «Allora nessuno ha pensato a me durante queste passeggiate. È così?» «No.» Grímur si sporse in avanti, sotto la luce, e la bruciatura rosso fuoco si fece più visibile. «E come si chiama quest'uomo che ruba le famiglie altrui e crede che vada bene così e nessuno fa niente per impedirglielo?» Símon non gli rispose. «Come si chiama quest'uomo che prende la moglie degli altri e pensa che vada bene così?» Símon tacque ancora. «Quello che mi ha tirato il caffè in faccia, Símon, quello che mi ha conciato così la faccia, lo sai come si chiama?» «No» disse Símon, a voce tanto bassa che si sentì appena. «Lui non è andato in prigione, anche se mi ha aggredito e mi ha bruciato il viso. Che ne pensi? Come se tutti questi soldati fossero dei santi. Ti sembra che siano dei santi?» «No.» «Tua madre è un po' ingrassata, quest'estate?» chiese Grímur, come se all'improvviso gli fosse venuta in mente un'altra idea. «Non perché è una vacca della fattoria, Símon, ma perché è andata a fare passeggiate con i soldati dell'accampamento. Ti pare che sia ingrassata?» «No.» «Eppure a me sembra probabile. Ma lo scopriremo poi. L'uomo che mi ha buttato il caffè in faccia, lo sai come si chiama?» «No.» «Si è fatto delle idee sbagliate, non so come; sostiene che io non sono buono con tua madre. Che le ho fatto qualcosa di brutto. Tu sai che qualche volta ho dovuto insegnarle come comportarsi. Anche quest'uomo lo sa, ma non ha capito perché. Non ha capito che le donne come tua madre devono sapere chi comanda, con chi sono sposate e come devono comportarsi. Lui non capisce che qualche volta bisogna far schioccare un po' la frusta. Era molto arrabbiato quando ha parlato con me. Io conosco un po'
d'inglese perché avevo dei buoni amici all'accampamento e ho capito quasi tutto quello che mi ha detto, ed era davvero arrabbiato con me a causa di tua madre.» Símon non toglieva gli occhi dalla bruciatura. «Quell'uomo, Símon, si chiama Dave. Adesso non voglio che tu mi dica bugie; il soldato che è così buono con tua madre, che lo è da questa primavera e da tutta l'estate e adesso che è autunno, può essere che si chiami Dave?» Símon ci pensò un po' su senza distogliere lo sguardo dalla ferita. «Se ne occuperanno loro» disse Grímur. «Se ne occuperanno loro?» Símon non sapeva cosa intendesse suo padre, ma di certo non era niente di buono. «La talpa è di là in corridoio?» chiese Grímur, indicando il disimpegno con un cenno del capo. «Che?» Símon non immaginava di chi stesse parlando. «La cretina. Credi che ci stia ascoltando?» «Non so niente di Mikkelína» rispose, e in un certo senso era la verità. «Si chiama Dave?» «Può essere» tentennò. «Può essere? Non sei sicuro? Come lo chiami, tu? Quando parla con te o quando ti abbraccia e ti accarezza, come lo chiami?» «Non mi ha mai ac...» «Come si chiama?» «Dave.» «Dave! Grazie, Símon.» Grímur si piegò di nuovo indietro e si levò dalla luce, poi abbassò la voce. «Vedi, ho sentito dire che si scopava tua madre.» In quel momento la porta si aprì e la donna entrò in casa, con Tómas alle calcagna, e il freddo alito di vento che li accompagnava fece venire un brivido lungo la schiena madida di sudore di Símon. 22 Erlendur era arrivato sulla collina quindici minuti dopo aver parlato con Skarphédinn. Non aveva con sé il cellulare, altrimenti l'avrebbe chiamato per strada e gli avrebbe chiesto di trattenere la sconosciuta finché non fosse arrivato.
Era sicuro che si trattasse della donna che il vecchio Róbert aveva detto di aver visto accanto ai cespugli di ribes: storta e vestita di verde. Sulla Miklubraut non c'era molto traffico ed Erlendur passò lungo Ártúnsbrekka alla velocità massima che gli consentiva la sua macchina, poi piegò verso est per la Vesturlandsvegur e imboccò la strada a destra per Grafarholt. Parcheggiò accanto alle case in costruzione, non lontano dagli scavi. Skarphédinn stava lasciando il sito e aveva appena messo in moto, ma si fermò. Erlendur scese dall'auto e l'archeologo abbassò il finestrino. «Come mai è venuto? Perché mi ha sbattuto il telefono in faccia a quel modo? È successo qualcosa? Perché mi guarda così?» «La donna è ancora qui?» chiese Erlendur. «Quale donna?» L'agente volse lo sguardo in direzione dei cespugli e credette di vedere un movimento. «È lei, quella là?» chiese, aguzzando lo sguardo. Non vedeva bene da quella distanza. «La donna vestita di verde. È ancora qui?» «Sì, sta là» disse Skarphédinn. «Ma che succede?» «Glielo dico più tardi» rispose Erlendur e si incamminò. A mano a mano che si avvicinava, i cespugli di ribes si facevano più nitidi e una figura verde cominciò a prendere forma. Si affrettò, per paura che la donna potesse sparire da un momento all'altro. Stava in piedi accanto ai cespugli spogli, teneva un ramo con la mano e guardava a Nord, verso il monte Esja. Pareva immersa nei suoi pensieri. «Buonasera» la salutò Erlendur quando le fu abbastanza vicino. La donna si voltò. Non si era accorta di lui. «Buonasera» rispose. «È una bella serata» commentò Erlendur, tanto per dire qualcosa. «La primavera è sempre stato il periodo più bello, quassù» disse lei. Doveva sforzarsi per parlare. Le dondolava la testa ed Erlendur notò che doveva concentrarsi in modo particolare su ogni parola. Non le uscivano spontaneamente. Una mano era nascosta nella manica e non si vedeva. Aveva un piede torto che spuntava sotto il lungo cappotto verde, e pendeva a sinistra, come se avesse la schiena curva. Poteva avere circa ottant'anni, l'aspetto energico, i capelli grigi folti e spessi che le scendevano fino alle spalle. Il volto era cordiale ma accorato. Erlendur notò che muoveva la testa non soltanto quando parlava. I movimenti erano minimi ma involontari, come se avesse dei piccoli spasmi a intervalli regolari. Non sembrava mai del tutto ferma.
«Lei è di queste parti?» chiese Erlendur. «E adesso la città si è estesa fin quassù» disse, senza rispondergli. «Non l'avrei mai immaginato.» «Già, questa città si espande in ogni direzione» fece notare Erlendur. «Sta indagando sul ritrovamento delle ossa?» chiese all'improvviso. «Sì.» «L'ho vista al telegiornale. A volte vengo quassù, soprattutto in primavera, come adesso. Di sera, quando è tutto tranquillo e abbiamo ancora questa bella luce primaverile.» «È bello quassù» convenne Erlendur. «È di qui o delle vicinanze?» «Stavo proprio venendo da lei» disse la donna, anche stavolta senza rispondere alla sua domanda. «Volevo mettermi in contatto con lei domattina. Ma è un bene che mi abbia trovata. Era venuto il momento.» «Il momento?» «Che la storia venisse fuori.» «Che storia?» «Abitavamo qui, accanto a questi cespugli. La casa non esiste più da tanto tempo. Non so cosa ne è stato. È andata in rovina con gli anni. Fu mia madre a piantare questi cespugli, faceva la marmellata in autunno, ma non era solo per quello che li aveva voluti. Voleva un giardino riparato, per coltivare erbe aromatiche e dei bei fiori rivolti a sud verso il sole, e la casa l'avrebbe protetto dal vento del Nord. Lui non glielo permise. Come non le permise di fare tante altre cose.» Guardò Erlendur e mentre parlava la testa le si muoveva a scatti. «I miei fratelli mi portavano fuori quando c'era il sole» disse sorridendo. «Non c'era nulla che mi piacesse di più che stare qui seduta al sole, e strillavo per la felicità quando venivamo in giardino. E giocavamo insieme. Inventavano sempre nuovi giochi da fare con me perché non potevo muovermi molto. A causa della mia invalidità, che allora era molto più grave. Cercavano di tenermi con loro qualsiasi cosa facessero. L'avevano presa da mia madre. Tutti e due, all'inizio.» «Che cosa?» «La bontà.» «Un signore anziano ci ha informati che a volte vedeva una donna vestita di verde venire qui a curare i cespugli. La descrizione corrisponde a lei. Abbiamo ritenuto che potesse essere qualcuno della casa che si trovava qui.» «Sapete della casa?»
«Sì, e sappiamo di qualche inquilino, ma non di tutti. Pensiamo che durante la guerra ci abbia abitato una famiglia di cinque persone, forse vittime di violenze da parte del padre. Ha nominato sua madre e i due fratelli, e se lei è la terza figlia tutto coincide con le notizie che abbiamo.» «Ha parlato di una donna vestita di verde?» chiese sorridendo. «Sì. Di una donna verde.» «Il verde è il mio colore preferito. Lo è sempre stato. Per quanto mi ricordi.» «Non si dice che le persone che amano il verde sono concrete?» «Può darsi benissimo.» Sorrise. «Io sono terribilmente concreta.» «Può dirmi qualcosa della sua famiglia?» «Abitavamo nella casa che stava qui.» «Violenze domestiche?» La donna guardò Erlendur. «Sì, violenze domestiche.» «È stato...» «Come si chiama?» lo interruppe. «Erlendur.» «E lei ha famiglia, Erlendur?» «No, sì, cioè una specie di famiglia, credo.» «Non è sicuro. La tratta bene, questa sua famiglia?» «Io credo...» Esitò. Non si aspettava di dover rispondere lui a delle domande e non sapeva cosa dire. L'aveva trattata bene la sua famiglia? Non proprio, pensò. «Forse è divorziato» disse la donna, guardando gli abiti trascurati dell'uomo. «In effetti, sì» rispose. «Volevo chiederle... Mi pare che stessimo parlando delle violenze domestiche.» «Una definizione accettabile per un assassino dell'anima. Parole innocue per chi non sa cosa ci sta dietro. Lo sa cosa vuol dire convivere con un terrore costante per tutta la vita?» Erlendur tacque. «Convivere con l'odio ogni singolo giorno e senza tregua, qualsiasi cosa uno faccia, senza poter mai fare niente per cambiare la situazione, fino a perdere la propria volontà, fino a rimanere ad aspettare sperando che le percosse successive non siano pesanti come le precedenti?»
Erlendur non sapeva cosa dire. «A poco a poco le botte diventano atti di sadismo, perché l'unico potere che ha un uomo violento è quello che esercita su sua moglie, ed è un potere totale, perché sa che lei non potrà mai fare niente. È inerme e dipende da lui in tutto, perché non solo la minaccia, non solo la tormenta con il suo odio e la sua rabbia, ma anche con l'odio verso i suoi figli e le dice chiaro e tondo che se provasse a ribellarsi al suo potere farebbe del male anche a loro. Nonostante la violenza fisica, nonostante il dolore e le percosse, le ossa rotte, le ferite, i lividi, gli occhi neri, le labbra spaccate, tutto questo non è niente in confronto alla tortura mentale. Un terrore costante, costante, che non si placa mai. I primi anni, quando mostrava ancora qualche segno di vita, cercava di chiedere aiuto e ha provato anche a fuggire, ma lui l'ha trovata e le ha sussurrato che avrebbe ammazzato sua figlia e l'avrebbe sepolta in montagna. Lei sa che ne sarebbe capace, così si dà per vinta. Si dà per vinta e mette la propria vita nelle sue mani.» La donna volse lo sguardo verso l'Esja e a ovest, dove si distingueva la sagoma del ghiacciaio Snæfellsjökull. «E comincia a vivere all'ombra del marito» proseguì. «I suoi tentativi di ribellione si spengono e con loro la voglia di vivere e la sua vita diventa la vita del marito e lei non è più viva, è morta, e si aggira come una creatura del buio alla continua ricerca di una via d'uscita dalle percosse e dai tormenti dell'anima e dalla sua stessa esistenza, perché non vive più una vita propria ma esiste solo nell'odio del marito. «Alla fine ha la meglio lui. «Perché lei è morta. Una morta vivente.» La donna fece una pausa e passò la mano sui rami nudi dei cespugli. «Fino a quella primavera. Durante la guerra.» Erlendur tacque. «Chi giudica un uomo per aver ucciso un'anima?» continuò. «Me lo sa dire? Com'è possibile accusare qualcuno di aver ucciso un'anima, portarlo davanti a un giudice e condannarlo?» «Non lo so» disse Erlendur, che non capiva del tutto di che cosa la donna stesse parlando. «Siete arrivati allo scheletro?» chiese lei soprappensiero. «Domani» rispose Erlendur. «Lei sa chi si trova lì sotto?» «Si è dimostrata come queste piante» disse la donna debolmente. «Chi?» «Come i cespugli di ribes. Non hanno bisogno di tante cure. Sono parti-
colarmente robusti, sopportano ogni clima, anche gli inverni più duri, e poi l'estate successiva sono ancora verdi e belli e i frutti sono sempre rossi e succosi, come se niente fosse accaduto. Come se l'inverno non fosse mai venuto.» «Mi scusi, ma lei come si chiama?» chiese Erlendur. «Quel soldato l'aveva riportata alla vita.» La donna tacque e fissò i cespugli come se fosse stata trasportata in un altro luogo e in un altro tempo. «Lei chi è?» ripeté Erlendur. «Il colore preferito della mamma era il verde. Diceva che era il colore della speranza.» Alla fine tornò in sé. «Mi chiamo Mikkelína» disse, poi sembrò esitare. «Era un mostro» continuò, «sfigurato dall'odio e dalla rabbia.» 23 Erano quasi le dieci di sera e cominciava a far freddo, così Erlendur chiese a Mikkelína se non voleva andare a sedersi in macchina. Altrimenti avrebbero parlato meglio l'indomani. Era un po' tardi e... «Va bene, andiamo in macchina» disse la donna e si avviò. Camminava lentamente, scartando verso sinistra ogni volta che appoggiava il piede torto. Erlendur, che la precedeva di poco, la condusse fino all'auto, aprì la portiera e la aiutò a sedersi. Poi si portò al posto di guida, passando davanti al cofano. Non capiva come fosse arrivata alla collina. Non gli sembrava che avesse un'auto propria. «È venuta in taxi?» le chiese, mentre si sedeva al volante e metteva in moto. Il motore era ancora caldo, così si riscaldarono in fretta. «Mi ha dato uno strappo Símon» gli disse. «Tornerà fra poco a prendermi.» «Abbiamo cercato di ricavare qualche informazione sulle persone che abitavano qui. Suppongo che si tratti della sua famiglia, ma da quanto abbiamo appreso, più che altro da persone anziane, c'è qualcosa di strano. La storia della centrale del gas di Hlemmur, per esempio.» «La prendeva sempre in giro per quello» spiegò Mikkelína, «ma io non credo che sia stata concepita durante l'orgia della fine del mondo, come le diceva. Magari lui sì. Forse è quello che gli hanno detto, l'avranno deriso quand'era giovane, o anche più tardi, e così si è vendicato su di lei.»
«Così crede che suo padre sia stato concepito nella centrale del gas?» «Non era mio padre» precisò. «Mio padre era morto. Era un marinaio ed era morto in mare, e mia madre lo amava. Da piccola era quella l'unica mia consolazione, che non fosse lui mio padre. Mi odiava in modo particolare. La cretina, mi chiamava. Per la mia condizione, sa? Mi sono ammalata a tre anni, sono rimasta paralizzata e ho perso la parola. Credeva che fossi ritardata. Mi chiamava così, la cretina. Ma io capivo tutto. Ho sempre capito. Non ho mai ricevuto nessuna delle cure che oggi sembrano scontate. E non ho mai detto una parola perché vivevo nel terrore costante di quell'uomo. Non è insolito per un bambino che subisce dei traumi diventare taciturno e perdere perfino la parola. Credo sia quello che è successo a me. Solo molto più tardi ho imparato a camminare, ho cominciato a parlare e mi sono messa a studiare. Ho una laurea. In psicologia.» Fece una pausa. «Non sono mai riuscita a scoprire chi fossero i suoi genitori» continuò. «Li ho cercati. Per capire cosa fosse successo e cosa stesse succedendo, e perché. Ho cercato di scoprire qualcosa sulla sua infanzia. Lavorò come bracciante in qualche fattoria, l'ultima volta a Kjós, dove conobbe la mamma. Il periodo della sua formazione, quello che a me interessa di più, lo trascorse nella regione della Mýrarsýsla, in un piccolo casale che si chiamava Melur. Non esiste più. La coppia che viveva lì aveva tre figli, ma la contea li pagava per tenerne altri; fino a poco tempo fa gli indigenti vivevano a spese della comunità. Questa coppia era ben nota perché trattava molto male quei poveretti. Ne parlavano anche i vicini delle fattorie tutt'intorno. Venne sporta denuncia quando un bambino affidato a loro morì per malnutrizione e percosse. Gli fu praticata un'autopsia al casale con modalità molto primitive, considerati gli standard del tempo. Era un bambino di otto anni. Scardinarono una porta e gli praticarono l'autopsia lì sopra. Sciacquarono gli organi interni nel lago vicino alla fattoria. Scoprirono che aveva subito 'trattamenti eccessivamente duri', come si definivano all'epoca, e fu possibile dimostrare che era stata quella la causa del decesso. Lui deve aver vissuto tutto quanto di persona. Forse erano amici, perché stava a Melur nello stesso periodo. C'è il suo nome nei documenti del processo. Risultava malnutrito e con ferite sulla schiena e sulle gambe.» Mikkelína fece una pausa. «Non sto cercando di giustificare quello che ha fatto e come ci trattava» aggiunse. «Per quello non ci sono giustificazioni. Ma volevo sapere chi era.»
Tacque di nuovo. «E sua madre?» chiese Erlendur. Sentiva che la donna voleva dirgli tutto quello che riteneva importante, ma a modo suo. Non voleva insistere. Doveva lasciarle il tempo per raccontare ogni cosa. «È stata sfortunata» iniziò Mikkelína di punto in bianco, come se fosse l'unica conclusione sensata a cui era possibile giungere. «È stata sfortunata a incontrarlo. Non c'è altro da dire. Non aveva famiglia, ma se non altro aveva ricevuto una buona educazione a Reykjavík, e faceva la governante in una bella casa quando lo conobbe. Non sono riuscita a scoprire nemmeno chi fossero i suoi genitori. Anche se fossero stati registrati all'epoca, le carte sono sparite.» Mikkelína guardò Erlendur. «Ma almeno ha conosciuto l'amore vero, prima che fosse troppo tardi. È entrato nella sua vita al momento giusto, credo.» «Chi? Chi è entrato nella sua vita?» «Io e Símon, mio fratello, non ci eravamo resi conto di come stava. Non sapevamo della tensione che aveva sopportato in tutti quegli anni. Io avevo preso molto a cuore il trattamento che il mio patrigno riservava alla mamma e soffrivo per lei, ma ero più forte di Símon. Povero, povero Símon. E poi Tómas. Aveva preso troppo da suo padre, lui. Troppo odio.» «Adesso ho perso il filo. Chi entrò nella vita di sua madre?» «Era di New York. Un americano. Di Brooklyn.» Erlendur annuì. «La mamma aveva bisogno di amore, di qualcuno che l'amasse, di dignità, della conferma di essere viva, di essere una persona. Dave le restituì l'autostima. La rese di nuovo una persona. Ci siamo chiesti spesso perché trascorresse tanto tempo con la mamma. Che cosa vedesse in lei, quando nessuno la degnava di uno sguardo se non il mio patrigno, e solo per picchiarla. Ma poi Dave glielo spiegò. Le disse che voleva aiutarla. Disse che quando l'aveva vista la prima volta che era venuto con le trote - andava spesso a pesca al Reynisvatn - aveva capito subito. Aveva riconosciuto i segni delle violenze domestiche. Lo aveva notato dal suo aspetto, glielo aveva letto negli occhi. Nel volto, nei movimenti. In un attimo aveva compreso tutta la sua storia.» Mikkelína tacque e guardò la collina dove crescevano i cespugli di ribes. «Anche Dave aveva subito la stessa sorte. Era cresciuto proprio come me, Símon e Tómas. Suo padre non era mai stato denunciato né condannato né punito per aver picchiato a morte sua moglie. Dave l'aveva vista mo-
rire. Erano molto poveri, lei aveva preso la tubercolosi, che la portò alla morte. Suo padre la picchiò proprio prima che morisse. Dave era adolescente e non aveva alcuna autorità su di lui. Se ne andò di casa lo stesso giorno in cui sua madre morì e non tornò più. Qualche anno dopo si arruolò nell'esercito, prima che cominciasse il conflitto. Venne mandato qui a Reykjavík durante la guerra. Un giorno entrò in una casupola e vide di nuovo il volto di sua madre.» Erano ancora seduti in silenzio. «Quella volta, però, era abbastanza grande per reagire» concluse Mikkelína. Una macchina passò lentamente accanto a quella di Erlendur e si fermò vicino al terreno dove un tempo sorgeva la casa. Scese un uomo, che guardò verso i cespugli. «Ecco Símon, è venuto a prendermi» gli spiegò Mikkelína. «Si è fatto tardi. Le dispiace se continuiamo domani? Può venire a casa mia, se vuole.» Aprì la portiera e chiamò l'uomo, che si voltò. «Lei sa chi si trova sotto terra?» le chiese Erlendur. «Domani» disse Mikkelína. «Ne riparliamo domani. Non c'è fretta. Non c'è alcuna fretta.» L'uomo si avvicinò e l'aiutò a scendere. «Grazie, caro Símon» disse la donna, uscendo dall'auto. Erlendur si allungò sul sedile per vederlo meglio. Poi aprì la sua portiera e scese. «Ma non può essere Símon» esclamò, guardando l'uomo che la aiutava. Non aveva più di trentacinque anni. «Come?» domandò Mikkelína. «Non si chiamava Símon, suo fratello?» chiese l'agente e guardò ancora l'uomo. «Certo» convenne lei e sembrò capire la sorpresa di Erlendur. «Questo è un altro Símon» disse poi, sorridendo debolmente. «Questo è mio figlio, a cui ho dato il suo nome.» 24 Il mattino seguente Erlendur tenne una riunione nel suo ufficio con Elínborg e Sigurđur Óli e raccontò loro di Mikkelína e di quanto gli aveva detto, poi li informò che l'avrebbe rivista più tardi. Era sicuro che gli avrebbe rivelato chi si trovava sotto terra, chi aveva sepolto la vittima e per-
ché. Le ossa sarebbero state estratte verso sera. «Perché non te lo sei fatto dire ieri?» chiese Sigurđur Óli, che si era svegliato rinfrancato, dopo una serata tranquilla con Bergthóra. Avevano discusso del futuro, anche di avere dei figli, e si erano trovati d'accordo su come gestire tutto al meglio, perfino sul viaggio a Parigi e sulla macchina sportiva da prendere a noleggio. «Così la possiamo finire con queste cazzate» aggiunse. «Queste ossa mi hanno proprio rotto il cazzo. Mi ha rotto pure lo scantinato di Benjamín. E anche voi due.» «Voglio venire anch'io da lei» disse Elínborg. «Credi che sia la ragazza disabile che Hunter vide in casa quando arrestarono quell'uomo?» «Con tutta probabilità, sì. Aveva due fratellastri, che ha chiamato per nome. Símon e Tómas. Corrispondono ai due ragazzini che vide lui. E poi c'è questo soldato americano che li aiutò, si chiamava Dave. Voglio chiedere di lui a Hunter, non so il cognome, però. Credo che sia giusto andarci cauti con la donna. Ci dirà tutto quello che abbiamo bisogno di sapere. In questo caso non serve a niente affrettare le cose.» Guardò Sigurđur Óli. «Hai finito nello scantinato di Benjamín?» «Sì, ho finito ieri. Non ho trovato niente.» «È escluso che sepolta là sotto ci sia la sua fidanzata?» «Sì, almeno credo; si è buttata in mare.» «È possibile avere delle prove su questo stupro?» domandò Elínborg. «Credo che la prova si trovi in fondo al mare» disse Sigurđur Óli. «Com'è che l'hanno definita, 'una vacanza a Fljót'?» chiese Erlendur. «Un vero idillio campestre» sorrise il collega. «Che idiota!» lo riprese il capo. Hunter accolse Erlendur ed Elínborg sulla porta di casa e li fece accomodare in soggiorno. Il tavolo da pranzo era coperto di documenti che riguardavano l'accampamento, per terra c'erano fax e fotocopie e diari, e altri libri aperti erano sparsi per tutta la stanza. Erlendur ebbe l'impressione che avesse condotto un vero e proprio lavoro di ricerca. Hunter sfogliò una pila di carte sul tavolo. «Qui da qualche parte ho una lista di islandesi che lavoravano all'accampamento» disse. «L'ha trovata l'ambasciata.» «Abbiamo rintracciato un'abitante della casa in cui lei fece irruzione» gli spiegò Erlendur. «Credo che sia la ragazza disabile di cui mi ha parlato.» «Bene» rispose Hunter concentrato. «Bene. Eccola qui.»
Passò all'agente una lista scritta a mano con i nomi di nove islandesi che lavoravano nell'accampamento. Erlendur conosceva la lista. Jim gliela aveva letta al telefono e voleva inviargliene una copia. Ricordò all'improvviso di aver dimenticato di chiedere a Mikkelína il nome del suo patrigno. «Sono riuscito a risalire alla persona che ha fatto la soffiata. Che tradì i ladri. Il mio ex collega della polizia militare di Reykjavík abita a Minneapolis. Siamo rimasti in contatto, così l'ho chiamato. Ricordava bene tutta la faccenda e con una sola telefonata ha trovato il nome dell'informatore.» «E chi era?» chiese Erlendur. «Si chiamava Dave ed era di Brooklyn. David Welch. Un soldato semplice.» Era lo stesso nome che aveva menzionato Mikkelína, pensò Erlendur. «È ancora vivo?» chiese. «Non lo sappiamo. Il mio amico sta cercando di trovarlo tramite il Pentagono. Può essere che sia stato mandato al fronte.» Elínborg aveva convinto Sigurđur Óli a indagare con lei sugli islandesi che avevano lavorato al deposito viveri, per scoprire dove abitassero adesso, o almeno per rintracciare i loro discendenti, ma Erlendur le diede appuntamento più tardi per andare da Mikkelína. Prima voleva tornare all'ospedale a trovare Eva Lind. Entrò nel corridoio del reparto di terapia intensiva e guardò la stanza di sua figlia, che giaceva immobile come al solito, con gli occhi chiusi. Con suo grande sollievo, Halldóra non c'era. Guardò di nuovo lungo il corridoio dove era entrato per sbaglio la sera prima e aveva avuto quella strana conversazione con la donna minuta riguardo al bambino nella tempesta. Avanzò a piccoli passi fino all'ultima stanza e vide che era vuota. La signora in pelliccia se n'era andata e sul letto dove si trovava quell'uomo fra la vita e la morte non c'era più nessuno. Anche la donna che diceva di essere una medium se n'era andata ed Erlendur si chiese se quell'episodio fosse accaduto davvero o se non fosse stato solo un sogno. Rimase per un attimo sulla porta, poi si girò ed entrò nella stanza di sua figlia, accostando piano la porta. Voleva chiudersi dentro, ma non c'era la chiave. Sedette al capezzale di Eva Lind, in silenzio accanto al letto, e pensò al bambino nella bufera. Passò del tempo prima che trovasse il coraggio, poi trasse un profondo sospiro. «Aveva otto anni» disse a Eva Lind. «Due meno di me.» Pensò alle parole della medium, al fatto che lui l'aveva accettato, che
non era stata colpa di nessuno. Quelle parole tanto semplici, dette così, di punto in bianco, a lui non dicevano niente. Era rimasto nella tempesta tutta la vita e il tempo non aveva fatto altro che intensificarla. «Persi la presa» disse a Eva Lind. Sentì l'urlo nella bufera. «Non riuscivamo più a vederci» continuò. «Ci tenevamo per mano, quindi non eravamo lontani l'uno dall'altro, eppure a causa della neve non lo vedevo. E poi persi la presa.» Tacque. «Per questo non te ne puoi andare. Per questo devi farcela e tornare a essere di nuovo sana. So che la tua vita non è un letto di rose e tu la distruggi come se non valesse niente. Come se tu non valessi niente. Ma non è vero. Non è giusto che lo pensi. Non puoi pensare una cosa del genere.» Erlendur osservò sua figlia nella flebile luce della lampada sul comodino. «Aveva otto anni. Te l'ho già detto? Un bambino come gli altri, simpatico e sorridente, ed eravamo amici. Non è scontato, sai? Di solito ci sono dei contrasti. Zuffe, parolacce e litigi. Ma non fra di noi. Forse perché eravamo così diversi. La gente ne restava incantata, inconsciamente. Alcuni sono fatti così, ma io no. Hanno qualcosa che infrange ogni barriera, perché si presentano così come sono, non hanno nulla da nascondere, non si difendono, sono loro stessi, puri e semplici. I bambini così...» Erlendur tacque. «Tu ogni tanto mi ricordi quel bambino. Me ne sono accorto solo di recente. Quando sei venuta a cercarmi dopo tutti questi anni. C'è qualcosa in te che mi ricorda lui. Qualcosa che stai rovinando, e per questo mi fa star male il modo in cui tratti la tua vita, e sembra che io non possa farci niente. Sono impotente, come quando mi trovavo nella bufera e sentii che stavo perdendo la presa. Ci tenevamo per mano e io persi la presa e in quel momento lo sentii e capii che era finita. Che saremmo morti tutti e due. Avevamo le mani rattrappite e non c'era più contatto. Non gli sentii più la mano, se non in quel brevissimo attimo in cui la persi.» Erlendur tacque e guardò il pavimento. «Non so se è questo il motivo di tutto. Avevo dieci anni e da allora mi sono sempre sentito colpevole. Una sensazione che non mi sono mai scrollato di dosso. Non voglio farlo. Questa pena è come una fortezza intorno a un dolore che non voglio lasciare andare. Forse avrei già dovuto farlo da tempo, accettare la vita che si era salvata e darle qualche possibilità. Ma
non è accaduto e certo non succederà da qui in avanti. Tutti abbiamo il nostro fardello. Il mio non è peggiore di chi ha perso una persona amata, ma io non riesco ad affrontarlo, in nessun modo. «È come se qualcosa mi si fosse spento dentro. Non riuscii più a trovarlo e lo sogno sempre e so che è ancora là da qualche parte che vaga nella bufera, solo e abbandonato e freddo, finché non cadrà in un punto dove nessuno lo troverà mai più, e la tempesta infuria alle sue spalle e in un attimo è coperto di neve ed è inutile, per quanto cerchi e urli, non lo sento più e lui non mi sente, e l'ho perso per sempre nella bufera.» Erlendur guardò Eva Lind. «Era come se fosse andato direttamente da Dio. Io venni trovato. Venni trovato e sopravvissi ma lui l'avevo perso. Non riuscivo a dirgli nulla. Non riuscivo a dirgli dov'ero, quando lo persi. Non vedevo a un palmo in quella maledetta bufera. Avevo dieci anni ed ero quasi congelato e non riuscivo a dire niente. Organizzarono le squadre di ricerca, la gente girò con le torce per la brughiera, da mattina a sera, per giorni, e urlavano e infilavano lunghi bastoni nella neve, si dividevano in gruppi, avevano i cani con loro. Noi sentivamo i richiami e sentivamo i cani, ma non successe niente. Non successe mai niente. «Non lo trovammo più. «Poi ho incontrato una donna qui in corridoio che mi ha detto di avere un messaggio per me dal bambino nella bufera. E ha detto che non è stata colpa mia e che non devo aver paura. Che significa? Non credo a cose del genere, ma cosa dovrei pensare? Per tutta la vita è stata colpa mia, anche se so bene, e da tempo, che ero troppo piccolo per poter fare qualcosa. Eppure il senso di colpa mi tormenta come un cancro che alla fine porta alla morte. «Perché non era un bambino qualsiasi, quello che tenevo per mano e che persi. «Perché il bambino nella bufera... «... era mio fratello.» La donna sbatté la porta al freddo vento autunnale e nel crepuscolo della cucina scorse Grímur seduto al tavolo davanti a Símon. Non lo vedeva bene in volto. Non l'aveva più rivisto da quando l'avevano portato via nella camionetta dell'esercito, ma nell'attimo in cui sentì di nuovo la sua presenza in casa e lo vide nel crepuscolo, la paura l'attanagliò. Lo aspettava quell'autunno, ma non sapeva con precisione quando sarebbe uscito di ga-
lera. Appena aveva visto Tómas correrle incontro, aveva capito immediatamente cos'era accaduto. Símon non osava muoversi, ma tenendo la schiena rigida voltò la testa all'indietro, verso la porta, e vide sua madre che lo fissava. Aveva lasciato la mano di Tómas, che era scappato a nascondersi nel disimpegno davanti alla camera dove stava Mikkelína. Vide il terrore negli occhi del figlio. Grímur si era seduto su una sedia in cucina e non si era più mosso. Così trascorsero alcuni attimi in cui non si sentì nient'altro che il gemito del vento e il respiro della madre, ansante per la corsa in salita. La paura che aveva di Grímur, attenuatasi durante la primavera, sgorgò di nuovo in tutta la sua potenza e in un attimo la donna tornò quella di sempre. Come se non fosse successo nulla nel periodo in cui era stato via. Non aveva più forza nelle gambe, la morsa di dolore allo stomaco si faceva sempre più acuta, l'espressione del volto perse la dignità acquisita di recente, curvò le spalle, si fece più piccola che poté. Sottomessa. Obbediente. Pronta al peggio. I suoi figli videro il cambiamento che avveniva in lei mentre stava sulla soglia della cucina. «Io e Símon stavamo parlando» disse Grímur, spostando ancora una volta il viso alla luce per mostrare la bruciatura. Quando lo vide e la cicatrice rosso fuoco le apparve davanti, la donna spalancò gli occhi. Aprì la bocca come per dire qualcosa o lanciare un urlo, ma non le uscì niente e fissò il marito incredula. «Ti piace?» le disse. C'era qualcosa di strano in lui. Qualcosa che Símon non riusciva a individuare con esattezza. Era più sicuro di sé. Più compiaciuto. Era lui ad avere il potere adesso, si vedeva da come si stava comportando verso la famiglia; in realtà lo aveva sempre avuto, ma c'era qualcos'altro, qualcosa di pericoloso e, quando Grímur si alzò lentamente dal tavolo, Símon si chiese cosa potesse essere. Grímur si avvicinò a sua madre. «Símon mi ha detto del soldato che viene qui con le trote, quello che si chiama Dave.» La donna tacque. «È stato un militare di nome Dave a farmi questo» disse, indicando la cicatrice. «Non riesco ad aprire l'occhio, perché lui ha ritenuto giusto buttarmi in faccia del caffè bollente. Prima l'ha scaldato nella caffettiera finché non è stata così rovente da aver bisogno di una presina per tenerla in mano, e quando credevo che volesse versarmene una tazza, me l'ha rove-
sciata addosso.» La donna lo guardò, poi fissò il pavimento, immobile. «L'hanno lasciato entrare in cella mentre ero ammanettato con le mani dietro la schiena. Credo sapessero cosa voleva fare.» Si diresse minaccioso verso Mikkelína e Tómas nel disimpegno davanti alla camera. Símon era seduto al tavolo della cucina come se vi fosse stato inchiodato. Grímur si voltò di nuovo verso la moglie e le si avvicinò. «Era una specie di ricompensa» continuò. «Sai perché?» «No» disse lei a voce bassa. «No» la scimmiottò Grímur. «Eri troppo impegnata a scopartelo.» Sorrise. «Non mi meraviglierei se lo trovassero a galleggiare sul lago. Come se ci fosse cascato dentro mentre pescava le tue trote.» Grímur le stava vicinissimo e all'improvviso le posò una mano sulla pancia. «Credi che abbia lasciato qualcosa?» chiese a voce bassa e minacciosa. «Durante le scampagnate sul lago? Che dici, ha lasciato qualcosa? Sappi che se qui dentro c'è qualcosa di suo, io te lo ammazzo. Chissà, magari lo brucio, come ha fatto lui con la mia faccia.» «Non dire così» gli intimò la donna. Grímur la guardò. «Come l'ha saputo, quella bestia, che rubavamo?» le chiese. «Chi credi gli abbia detto cosa stavamo facendo? Ne sai qualcosa, tu? Forse non siamo stati abbastanza cauti. Forse ci ha visti. Ma forse ha dato una trota a qualcuno e ha visto tutta quella roba qui dentro e si è chiesto da dove venisse e ha chiesto alla piccola troia che abita qui se lei lo sapeva.» Grímur strinse la presa sulla pancia. «Non riuscite a guardare un'uniforme senza aprire le gambe.» Símon si alzò lentamente alle spalle di suo padre. «Che ne dici se ci facciamo un caffè?» propose Grímur alla donna. «Che ne dici se ci facciamo un caffè caldo, di quelli che ti tirano su? Se Dave ce lo permette. Credi che lo farà?» Rise. «Magari ne prende un sorso con noi. Lo aspetti? Credi che arriverà a salvarti?» «No» disse Símon, dietro di lui. Grímur mollò la presa dalla pancia della donna e si voltò verso il figlio. «Non farlo» insisté.
«Símon!» lo richiamò sua madre brusca. «Smettila!» «Lascia stare la mamma» disse lui con voce tremante. Grímur si voltò di nuovo verso la donna. Mikkelína e Tómas osservavano quello che stava succedendo dal disimpegno davanti alla camera. Poi si chinò verso di lei e le sussurrò qualcosa all'orecchio. «Magari un giorno sparirai anche tu, come ha fatto la fidanzata di Benjamín!» La donna guardò Grímur, pronta a ricevere le percosse che sapeva inevitabili. «E tu cosa ne sai?» «Le persone spariscono. Persone di ogni tipo, anche quelle a modo. E quindi anche la feccia come te può sparire. Chi andrebbe in giro a chiedere di te? A meno che magari non venga a cercarti tua madre, dalla cisterna del gas. Lo credi possibile?» «Lasciala stare» ribadì Símon, che stava ancora accanto al tavolo della cucina. «Símon, credevo che fossimo amici» gli disse Grímur. «Io, te e Tómas.» «Lasciala stare» ripeté. «Devi smettere di farle del male. Devi smetterla e andartene. Devi andare via e non tornare mai più.» Grímur gli si era avvicinato e lo fissava come se gli fosse del tutto estraneo. «Sono stato via. Sono stato via sei mesi e questa è l'accoglienza? La stronza ha una tresca coi soldati e il piccolo Símon vuole mandare via suo padre. Sei diventato abbastanza grande per affrontarmi? Lo credi davvero? Credi che sarai mai abbastanza grande, un giorno, da vedertela con me?» «Símon!» gridò sua madre. «Va tutto bene. Vai con Tómas e Mikkelína a Gufunes e aspettatemi là. Mi hai sentito? Fa' come ti ho detto.» Grímur ghignò in faccia a suo figlio. «E la stronza si è messa anche a comandare. Ma chi si crede di essere? Cazzo, quante cose sono cambiate in così poco tempo.» Grímur guardò verso il disimpegno davanti alla camera. «E la balorda? Anche la cretina ha qualcosa da dire? Mha, mha, mha, mha, maledetta ritardata, avrei dovuto tirarti il collo tanti anni fa. È questo il modo di ringraziare? È questo il modo di ringraziare?» urlò nel corridoio. Mikkelína si nascose nel buio del disimpegno e sparì dalla sua vista. Tómas rimase a fissare Grímur, che gli sorrideva. «Ma io e Tómas siamo amici» disse. «Lui non tradirebbe mai il suo pa-
pà. Vieni qui, ragazzo mio. Vieni dal tuo papà.» Tómas gli si avvicinò. «La mamma ha telefonato» disse. «Tómas!» urlò sua madre. 25 «Non credo che Tómas volesse aiutarlo. Credo piuttosto che pensasse di aiutare la mamma. Forse aveva pensato di spaventarlo e così farle un favore. Ma soprattutto non credo che sapesse cosa stava facendo. Era così piccolo, povero bambino.» Mikkelína tacque e fissò Erlendur. Lui ed Elínborg erano seduti nel soggiorno di casa sua e avevano ascoltato il racconto su Grímur e sua madre: come si erano conosciuti, quando l'aveva picchiata per la prima volta, come le violenze erano aumentate con il tempo e lei aveva cercato per due volte di fuggire e lui aveva minacciato di ucciderle i figli. Aveva raccontato loro della vita in collina: i militari, l'accampamento e i furti, e poi Dave, che pescava nel lago, l'estate in cui Grímur era stato messo in galera, il soldato e sua madre che si erano innamorati e i due fratelli che la portavano fuori al sole, poi i picnic e il freddo mattino d'autunno in cui il suo patrigno era tornato a casa. Mikkelína si era presa tutto il tempo di cui aveva bisogno per raccontare, cercando di non tralasciare nessun particolare che riteneva importante nella storia della sua famiglia. Erlendur ed Elínborg stavano seduti sorseggiando il caffè che aveva offerto loro; assaggiarono anche la torta, l'aveva preparata appositamente perché sapeva che l'agente sarebbe passato a trovarla. Accolse anche Elínborg con piacere sincero e chiese quante donne ci fossero nella polizia scientifica. «Quasi nessuna» rispose lei, sorridendo. «È un peccato e una vergogna» disse Mikkelína e la invitò a sedersi. «Le donne dovrebbero occupare ovunque posizioni di prestigio.» Elínborg guardò il collega, che sorrise appena. Era andata a cercarlo in ufficio dopo mezzogiorno, sapeva che era stato all'ospedale e l'aveva trovato particolarmente avvilito. Gli aveva chiesto delle condizioni di Eva Lind, che temeva fossero peggiorate, ma lui le aveva risposto che era stabile e quando gli aveva chiesto come stava e se poteva fare qualcosa, lui aveva scrollato la testa e le aveva detto che non c'era nient'altro da fare se non aspettare. Le era sembrato che l'attesa cominciasse a pesargli, ma non
aveva osato parlargliene. Sapeva per esperienza che Erlendur non sentiva alcun bisogno di parlare di sé con gli altri. Mikkelína abitava al pianterreno di un piccolo condominio di Breidholt. La sua casa era piccola ma accogliente e, mentre la donna preparava il caffè, Erlendur girò per il soggiorno e osservò le fotografie della sua famiglia, almeno così pensava. Non ce n'erano molte e nessuna gli sembrò scattata sulla collina. Cominciò a raccontare un po' di sé mentre trafficava in cucina e loro la ascoltavano dal soggiorno. Si era messa a studiare tardi, quando ormai aveva quasi vent'anni, e nello stesso periodo aveva affrontato la prima terapia riabilitativa per il suo handicap, facendo subito enormi progressi. A Erlendur parve che stesse parlando un po' troppo di sé, ma non glielo fece notare. Con il tempo si era diplomata alle serali, era andata all'università e a circa quarant'anni aveva preso una laurea in psicologia. Ormai aveva smesso di lavorare. Qualche anno prima di finire gli studi aveva adottato un bambino che aveva chiamato Símon. Per motivi che era superfluo spiegare nei dettagli, crearsi una propria famiglia sarebbe stato complicato. Sorrise ironica. Raccontò che andava regolarmente sulla collina in primavera e in estate per guardare i cespugli di ribes, e in autunno coglieva i frutti per fare la marmellata. Ne aveva ancora un po' dell'anno precedente e la fece assaggiare agli agenti. Elínborg, che di cucina se ne intendeva, si complimentò. Mikkelína gliene regalò un barattolo, scusandosi perché era davvero poca. Poi disse loro che nel corso degli anni e dei decenni aveva visto la città espandersi fino a comprendere prima Breidholt e poi Grafarvogur, e poi ampliarsi alla velocità di un fulmine fino a Mosfellsbær e infine anche sulla collina di Grafarholt, dove aveva vissuto un tempo e a cui erano legati i suoi ricordi più dolorosi. «Non ho che brutti ricordi di quel posto» disse, «se non di quella breve estate.» «È nata con questo handicap?» le chiese Elínborg. Aveva cercato di formulare la domanda nel modo più cortese possibile, ma si rese conto che era impossibile. «No» rispose Mikkelína. «Mi sono ammalata quando avevo tre anni. Sono stata in ospedale. La mamma mi ha detto che allora i genitori non potevano stare in reparto con i bambini. Lei non riusciva a capire una regola tanto impietosa e disumana che le vietava di stare all'ospedale con sua figlia, seriamente ammalata e quasi in punto di morte. Impiegò alcuni anni
per comprendere che con la terapia potevo riacquistare quello che avevo perso, ma il mio patrigno non le permetteva di prendersi cura di me, né di portarmi dal medico o di informarsi sulle cure. Ricordo qualcosa del periodo precedente la malattia, ma non so se siano sogni o realtà. Comunque, c'è il sole e io sono in giardino, probabilmente nella casa dove la mamma faceva la governante, e corro a perdifiato e grido, è come se lei mi stesse inseguendo. Non ricordo altro. Solo che ero capace di correre.» Mikkelína sorrise. «Faccio spesso sogni del genere. Sono sola e mi muovo come voglio, non mi ciondola sempre la testa quando parlo, controllo i muscoli del viso senza che mi distorcano i lineamenti in ogni direzione.» Erlendur posò la tazza. «Ieri mi ha detto che ha chiamato suo figlio col nome di suo fratello, Símon.» «Símon era un ragazzo d'oro. Era il mio fratellastro. Non aveva preso affatto da suo padre. Almeno io non ci vedevo niente di lui. Era come la mamma. Tenero, comprensivo e disponibile. Non riusciva a sopportare di vedere qualcuno soffrire. Odiava suo padre e l'odio lo ha rovinato. Non avrebbe mai dovuto odiare nessuno. E durante tutta l'infanzia era come noi, spaventato. Qualche volta, quando suo padre perdeva il controllo, iniziava a tremare. Guardava nostra madre che veniva picchiata a sangue. Io mi tiravo le coperte sopra la testa, ma avevo notato che Símon qualche volta assisteva alle aggressioni ed era come se volesse crearsi una corazza per quando sarebbe stato più grande e più forte e avrebbe affrontato suo padre. Quando sarebbe stato abbastanza grande per vedersela con lui. «Qualche volta cercava di intervenire. Si metteva davanti alla mamma e lo sfidava. Lei aveva più paura di questo che delle botte. Non riusciva nemmeno a pensare che potesse capitare qualcosa ai suoi figli. «Che bambino tenero, Símon.» «Parla di lui come se fosse rimasto un bambino» disse Elínborg. «È morto?» Lei tacque e sorrise. «E Tómas?» le chiese Erlendur. «Eravate in tre, no?» «Sì, Tómas. Era diverso da Símon. Suo padre lo sentiva.» Mikkelína tacque. «A chi aveva telefonato sua madre prima di tornare a casa?» le chiese Erlendur. Mikkelína non gli rispose, si alzò e andò nella sua camera. Elínborg ed Erlendur si guardarono l'un l'altra. Poco dopo tornò con in mano
un biglietto ripiegato. Spiegò cos'era, lesse quello che c'era scritto e lo passò a Erlendur. «La mamma mi diede questo biglietto. Ricordo bene quando Dave lo fece scivolare sul tavolo della cucina per darglielo, ma non abbiamo mai saputo cosa c'era scritto. Me lo mostrò solo più tardi. Molti anni dopo.» Erlendur lesse il messaggio. «Dave doveva aver chiesto a qualche islandese o a un militare che parlava la nostra lingua di scriverglielo. La mamma lo conservò sempre e io lo porterò con me nella tomba.» Erlendur lo guardò. Le parole erano scritte in lettere maiuscole, impacciate, ma erano molto chiare. SO COME TI TRATTA. «La mamma e Dave si promisero che si sarebbero messi in contatto quando il mio patrigno fosse uscito di prigione, così lui sarebbe andato ad aiutarla. Non so esattamente in che modo pensavano di farlo.» «Non poteva chiedere aiuto a Gufunes?» chiese Elínborg. «Dovevano lavorarci in molti, lì.» Mikkelína la guardò. «Mia madre aveva subito violenze per quindici anni. Violenze fisiche, perché lui la picchiava, e spesso in maniera così brutale che doveva rimanere a letto per giorni, anche più a lungo. Ma era anche una forma di violenza psicologica, forse peggiore delle botte perché, come ho detto a Erlendur ieri, la distruggeva. Aveva cominciato a disprezzarsi come suo marito la disprezzava; spesso pensava al suicidio ma soprattutto per noi, per i suoi figli, non lo commise mai. Dave l'aiutò molto nei sei mesi che passò con lei, ma mia madre non avrebbe mai potuto chiedere aiuto a nessuno se non a lui. Non aveva mai parlato con nessuno di quello che aveva dovuto sopportare in tutti quegli anni e credo che fosse pronta a sopportare le botte ancora, se necessario. Nel peggiore dei casi, il marito l'avrebbe picchiata e tutto sarebbe tornato come prima.» Mikkelína guardò Erlendur. «Dave non venne mai.» Guardò Elínborg. «E niente fu più come prima.» «Ah, sì, ha telefonato?» Grímur afferrò Tómas per le spalle. «A chi ha telefonato? Non dobbiamo avere nessun segreto. La tua
mamma crede di poter avere dei segreti, ma è un grave errore. Può essere pericoloso.» «Non usare il bambino» gli disse lei. «Adesso si è messa pure a comandarmi» rispose Grímur, massaggiando le spalle di Tómas. «Cazzo, quanto cambiano le cose. E dopo?» Símon prese posto accanto a sua madre. Mikkelína si avvicinò a loro. Tómas cominciò a piangere. Gli si formò una macchia scura sui pantaloni, sul cavallo. «E le ha risposto qualcuno?» chiese Grímur; il sorriso di prima si era dileguato, il tono ironico era sparito, adesso era serio in volto. Loro non toglievano gli occhi dalla cicatrice. «Non ha risposto nessuno» intervenne la donna. «Nessun Dave che venga a salvare la situazione?» «Non c'è nessun Dave» continuò. «Chi sarà stato a fare la soffiata?» chiese Grímur. «È partita una nave questa mattina. Stracolma di soldati. Pare ci sia bisogno di soldati in Europa. Non possono fare tutti la bella vita qui in Islanda, dove non c'è niente da fare se non scopare le nostre donne. O magari l'hanno preso. Era una questione molto più grave di quanto immaginassi e sono saltate tante teste, molto più importanti della mia. Ufficiali. Non tirava una bella aria.» Spinse via Tómas. «Non ne erano affatto contenti.» Símon era in piedi accanto a sua madre. «C'è solo una cosa in tutto questo che non capisco» disse Grímur, che ormai si era avvicinato alla moglie. Loro ne sentivano l'odore acre. «Non la capisco, davvero. Non ci arrivo proprio. Posso anche accettare che ti sia calata le mutande davanti al primo uomo che ti ha messo gli occhi addosso quando non c'ero. Sei solo una puttana. Ma cosa pensava lui?» Si toccavano quasi. «Che ci ha visto in te?» Le prese la testa fra le mani. «Sudicia troia schifosa.» «Quella volta credevamo che l'avrebbe picchiata fino ad ammazzarla. Eravamo pronti. Io tremavo dalla paura e Símon non stava meglio di me. Mi chiedevo come arrivare al coltello in cucina. Ma non successe niente. Si guardarono negli occhi, ma invece di picchiarla lui indietreggiò.» Mikkelína tacque.
«Non ho mai avuto tanta paura in vita mia. E dopo quella volta Símon non fu più lo stesso. Cominciò ad allontanarsi sempre di più. Povero Símon.» Abbassò lo sguardo al pavimento. «Dave sparì dalla nostra vita, tanto rapidamente come c'era entrato» continuò. «La mamma non ebbe più sue notizie.» «Si chiamava Welch di cognome» disse Erlendur. «E stiamo cercando di scoprire che ne è stato di lui. Come si chiamava il suo patrigno?» «Thorgrímur» rispose Mikkelína. «Ma lo chiamavano sempre Grímur.» «Thorgrímur» ripeté Erlendur. Ricordava di aver visto quel nome nella lista di islandesi che avevano lavorato al deposito viveri. Il cellulare che aveva in tasca si mise a squillare. Era Sigurđur Óli, che si trovava agli scavi. «Dovresti venire» gli disse. «Dove?» rispose Erlendur. «Dove sei?» «Qui, sulla collina. Sono arrivati alle ossa e credo che abbiamo scoperto chi si trova qui sotto.» «Chi si trova lì sotto?» «Sì, nella fossa.» «E chi è?» «La fidanzata di Benjamín.» «Che?» «Sì, la fidanzata di Benjamín.» «E perché? Perché credi che sia lei?» Erlendur intanto si era alzato ed era andato in cucina per questioni di riservatezza. «Vieni quassù e lo vedrai da te» disse Sigurđur Óli. «Non può essere nessun altro. Vieni a vedere.» E poi appese il telefono. 26 Erlendur ed Elínborg arrivarono a Grafarholt una quindicina di minuti dopo. Salutarono Mikkelína in fretta e furia e lei li guardò uscire dalla porta, meravigliata. Erlendur non le riferì cosa aveva raccontato Sigurđur Óli al telefono sulla fidanzata di Benjamín, disse solo che doveva andare perché le ossa stavano venendo alla luce, per cui doveva chiederle di interrompere il suo racconto per il momento. Le chiese di scusarli. Ne avrebbero riparlato più tardi.
«Non dovrei venire con voi?» chiese Mikkelína in corridoio, guardandoli uscire dalla porta. «Ho...» «Non adesso» la interruppe Erlendur. «Ne parleremo meglio più tardi. Ci sono nuovi sviluppi nel caso.» Sigurđur Óli li stava aspettando e li accompagnò da Skarphédinn, accanto alla fossa. «Oh, Erlendur» lo salutò l'archeologo. «Allora, ci siamo. Visto che alla fin fine non c'è voluto molto?» «Che cosa avete trovato?» chiese Erlendur. «È una donna» sentenziò Sigurđur Óli con supponenza. «Impossibile sbagliarsi.» «Perché?» domandò Elínborg. «All'improvviso sei diventato un medico?» «Non ci vuole un medico per capirlo» disse il collega. «È ovvio.» «Ci sono due scheletri nella fossa» spiegò Skarphédinn. «Uno di una persona adulta, probabilmente una donna, e l'altro di un bambino, molto piccolo, forse un feto. Eccolo lì.» Erlendur lo guardò meravigliato. «Due scheletri?» Guardò Sigurđur Óli, fece due passi avanti, poi diede un'occhiata nella fossa e capì immediatamente cosa voleva dire Skarphédinn. Lo scheletro più grande era stato scoperto quasi del tutto e gli apparve davanti agli occhi, con la mano alzata per aria, la mascella aperta piena di terra e le costole rotte. Nelle orbite vuote c'era della terra e dei ciuffi di capelli scendevano sulla fronte; la carne sul volto non si era ancora decomposta del tutto. Sopra c'era un altro scheletro minuscolo, rannicchiato in posizione fetale. Gli archeologi avevano spazzolato via la terra con cura. Le ossa delle braccia e delle gambe erano lunghe quanto una matita e il cranio come una pallina. Stava disteso sotto la cassa toracica dello scheletro adulto, con la testa rivolta verso il basso. «Chi altri potrebbe essere?» disse Sigurđur Óli. «Non è ovvio che sia la fidanzata di Benjamín? Era incinta. Com'è che si chiamava?» «Sólveig» rispose Elínborg. «Era già così avanti con la gravidanza?» disse, quasi come fra sé, e fissò gli scheletri. «A questo stadio si parla di bambino o di feto?» chiese Erlendur. «Io non ne ho idea» replicò Sigurđur Óli. «Nemmeno io» disse Erlendur. «Ci vuole un esperto. Possiamo prendere gli scheletri così come sono e portarli all'obitorio di Baronstígur?» chiese a
Skarphédinn. «Cosa vuol dire, così come sono?» «Uno sopra l'altro.» «Dobbiamo ancora ripulire lo scheletro adulto. Se togliamo altra terra, usando le spazzole più piccole e i pennelli, e gli andiamo sotto, con cautela, dovremmo poterli sollevare tutti e due insieme. Sì, credo che dovrebbe funzionare. Non volete farli analizzare qui dal medico? Nella fossa e in questa posizione, dico.» «No, voglio portarli all'obitorio» disse Erlendur. «Abbiamo bisogno di studiarli con cura nelle migliori condizioni.» Gli scheletri furono liberati interamente dalla terra verso l'ora di cena. Erlendur era presente al trasferimento, insieme a Elínborg e a Sigurđur Óli. Gli archeologi gestirono l'operazione e all'agente parve che lo facessero con grande professionalità. Non rimpianse di averli convocati per quel caso. Skarphédinn dirigeva l'intervento con la stessa efficienza che aveva mostrato fin dall'inizio. Rivelò a Erlendur che si erano un po' affezionati allo scheletro, lo avevano chiamato «l'Uomo del Millennio» in suo onore e ne avrebbero sentito la mancanza. Il loro compito però non era finito. Skarphédinn, che nel frattempo si era appassionato alla criminologia, voleva continuare a setacciare gli strati del suolo con i suoi uomini per trovare indizi che potessero spiegare cos'era accaduto sulla collina tanti anni prima. Aveva fotografato e filmato gli scavi a ogni stadio, sosteneva che fosse ottimo materiale per una lezione all'università, soprattutto se prima o poi Erlendur fosse arrivato a scoprire come le ossa erano finite sotto terra, aveva aggiunto, con un sorriso che rivelò i canini. Gli scheletri furono portati all'obitorio di Baronstígur, dove li avrebbero analizzati con scrupolo. Il medico legale era in vacanza con la famiglia in Spagna e non sarebbe tornato prima di una settimana almeno, come spiegò a Erlendur al telefono quella sera stessa - abbronzato, pronto per gustarsi una bella grigliata e già alticcio, pensò lui. Fu l'ufficiale medico di Reykjavík a seguire l'operazione, quando le ossa furono estratte dalla terra e sistemate nel furgone della polizia, e ad accertarsi che venissero recapitate al posto giusto. Come Erlendur aveva richiesto, i due scheletri non vennero separati ma furono trasportati insieme. Per mantenerli nella migliore condizione possibile, gli archeologi avevano lasciato anche molta terra fra di loro. Quindi, quello che si trovò sul tavolo dell'obitorio davanti a Erlendur e all'ufficiale medico, uno di fianco all'altro, immersi nell'intensa luce al neon della sala,
era un mucchio voluminoso. Gli scheletri erano avvolti in un grande lenzuolo bianco, che il medico scostò per osservarli con l'agente. «Quello che forse ci serve è definire prima di tutto l'età di entrambi» disse Erlendur, guardandolo. «Sì, l'età» rifletté il medico pensieroso. «Lei sa che c'è una differenza minima fra lo scheletro di un uomo e quello di una donna? Solo le ossa del bacino sono diverse, ma adesso non si vedono molto bene a causa dello scheletro più piccolo e della terra che sta in mezzo. Mi sembra che tutte e duecentosei le ossa di quello grande siano al loro posto. Le costole sono rotte, come già sapevamo. Si tratta di uno scheletro piuttosto grande, forse una donna molto alta. Questo è quanto sembra a una prima occhiata, ma per il resto preferirei non occuparmene io. Avete fretta? Non potete aspettare una settimana? Non sono specializzato in medicina legale, né nella datazione dei corpi. Potrebbero sfuggirmi dati di ogni tipo, che invece un esperto noterebbe, potrebbe valutare e darvi le giuste informazioni al riguardo. Se vuole un lavoro fatto come si deve, bisogna aspettare. Avete fretta? Non potete aspettare?» ripeté. Erlendur vide che gli si erano formate sulla fronte delle gocce di sudore e ricordò che qualcuno una volta gli aveva detto che sul lavoro era molto ansioso. «Non importa» disse Erlendur. «Non abbiamo fretta. Almeno credo. Sempre che questo ritrovamento non sia collegato a qualcosa che ancora non sappiamo e che non abbia implicazioni tragiche.» «Vuol dire che qualcuno potrebbe aver seguito gli scavi, sapere cosa c'è sotto e innescare una serie di eventi a catena?» «Vedremo» rispose Erlendur. «Aspettiamo pure il patologo. Non è una questione di vita o di morte. Ma veda comunque cosa può fare per noi. Lo analizzi in tutta tranquillità. Forse può liberare il piccolo scheletro senza sacrificare le prove.» L'ufficiale medico annuì come se non sapesse da che parte cominciare. «Vedrò quello che posso fare» disse. Erlendur decise quindi di parlare con Elsa, la nipote di Benjamín Knudsen, senza rimandare al giorno successivo, e andò a casa sua quella sera stessa con Sigurđur Óli. Lei li accolse sulla porta e li invitò a entrare in soggiorno. Si sedettero. A Erlendur sembrò più stanca del solito e temeva la sua reazione quando le avesse detto della scoperta di due scheletri; immaginò che fosse difficile per lei rivangare quella vecchia questione dopo
tutti quegli anni e scoprire che lo zio materno era implicato in un omicidio. Erlendur le disse cosa avevano scoperto gli archeologi; con tutta probabilità, si trattava della fidanzata di Benjamín. Mentre l'agente concludeva il suo resoconto, Elsa li guardò a turno senza riuscire a dissimulare la sua incredulità. «Non vi credo» sospirò. «Mi state dicendo che Benjamín ha ucciso la sua fidanzata?» «Ci sono forti possibilità...» «E l'avrebbe sepolta accanto alla casa di villeggiatura? Non ci credo. Non capisco dove vogliate arrivare. Deve esserci un'altra spiegazione. Deve esserci per forza. Benjamín non era un assassino, se volete saperlo. Siete stati liberi di girare per questa casa e frugare nello scantinato e avete fatto quello che avete voluto, ma adesso è troppo. Credete che vi avrei permesso di stare qui se io, anzi, se la nostra famiglia avesse avuto qualcosa da nascondere? No, questo è troppo. È meglio che ve ne andiate» disse, alzandosi. «Subito!» «Ma guardi che in questa faccenda lei non ha nessuna colpa» disse Sigurđur Óli. Lui ed Erlendur erano rimasti seduti immobili. «Non è che sapeva qualcosa e ce l'ha tenuto nascosto, oppure...» «Che cosa sta insinuando?» chiesa Elsa. «Che sapevo qualcosa? Che ero sua complice? Ha intenzione di arrestarmi? Mi vuol mettere in galera? Ma che modi sono questi?» sbottò, poi fissò Erlendur. «Stia tranquilla» la rassicurò lui. «Abbiamo trovato lo scheletro di un bambino insieme a uno scheletro adulto. È emerso che la fidanzata di Benjamín aspettava un figlio. Non è così strano pensare che sia lei, le pare? Non stiamo insinuando niente. Stiamo solo cercando di andare in fondo alla questione. Ci è stata di grandissimo aiuto e noi le siamo riconoscenti. Non tutti avrebbero fatto quello che ha fatto lei. Adesso che abbiamo recuperato le ossa, però, resta il fatto che i sospetti si concentrano soprattutto su suo zio Benjamín.» Elsa fissò ancora Erlendur, come se fosse un oggetto estraneo in casa sua. Poi sembrò rilassarsi un poco. Guardò Sigurđur Óli e poi ancora Erlendur e infine si rimise a sedere. «È un malinteso» disse. «E lo sapreste, se aveste conosciuto Benjamín come l'ho conosciuto io. Non avrebbe potuto fare del male a una mosca. Mai.» «Aveva scoperto che la sua fidanzata era incinta» azzardò Sigurđur Óli. «Volevano sposarsi. Era chiaramente molto innamorato di lei. Il suo futuro
si fondava su questo amore, sulla famiglia che voleva creare, sulla gestione del negozio, sulla sua posizione sociale in città. È stato un brutto colpo per lui. Forse si è spinto troppo in là. Il corpo della ragazza non è mai stato ritrovato. Si pensava che si fosse buttata in mare. Magari l'abbiamo trovata.» «Lei ha detto al mio collega che Benjamín non ha mai saputo chi aveva messo incinta la sua fidanzata» iniziò Erlendur prudente. Si chiese se non fossero stati troppo precipitosi e maledì il medico legale per essersene andato in Spagna. Forse avrebbero dovuto aspettare i risultati delle analisi e la dichiarazione del patologo. «È vero» convenne Elsa. «Non lo sapeva.» «Abbiamo appreso che la madre di Sólveig andò a trovare Benjamín e gli raccontò come stavano le cose. Quando ormai non c'era più nulla da fare, dopo che la ragazza era sparita.» Elsa si mostrò sinceramente meravigliata. «Non lo sapevo» rispose. «Quando è successo?» «Dopo» ripeté Erlendur. «Non lo so con certezza. Quindi, per qualche motivo, Sólveig non rivelò chi era il padre del bambino. Non raccontò a Benjamín cos'era accaduto. Ruppe il fidanzamento e non gli disse chi fosse il padre del bambino. Forse per proteggere la sua famiglia e il buon nome di suo padre.» «Che vuol dire, il buon nome di suo padre?» «Suo cugino, il figlio del fratello di suo padre, l'aveva violentata quando era andata a trovare la famiglia a Fljót.» Elsa sprofondò nella sedia e istintivamente si portò le mani alla bocca, incredula. «Non ci posso credere» sospirò. Nello stesso momento, dall'altra parte della città, Elínborg stava raccontando a Bára cosa avevano trovato nella fossa e che, secondo l'ipotesi più probabile, si trattava di Sólveig, la fidanzata di Benjamín. E che probabilmente là sotto ce l'aveva messa lui. Elínborg sottolineò che le stava raccontando tutto con la premessa che la polizia non aveva ancora niente in mano, se non il fatto che Benjamín era stato l'ultimo ad averla vista viva e che era stato trovato anche lo scheletro di un bambino. L'esame delle ossa, comunque, era ancora in corso. Bára ascoltò senza battere ciglio. Era sola, come l'altra volta, nella sua grande dimora, circondata dalla ricchezza, e non mostrava alcuna reazione. «Nostro padre voleva che abortisse» iniziò. «Nostra madre voleva che
andasse in campagna con lei, che avesse il bambino, lo desse in adozione, tornasse come se niente fosse accaduto e poi sposasse Benjamín. Ne avevano discusso più volte fra di loro, poi convocarono Sólveig.» Bára si alzò. «La mamma me lo raccontò dopo.» Si avvicinò a un massiccio canterano in quercia, aprì un'anta, prese un fazzolettino bianco e se lo portò al naso. «Le prospettarono queste due possibilità. Che desse alla luce il bambino e che il piccolo diventasse parte della nostra famiglia, non venne mai preso in considerazione. Sólveig cercò di parlarne con loro ma né il papà né la mamma la vollero ascoltare. Non volevano vedere quel bambino al mondo. Non ne volevano sapere niente. Volevano ucciderlo oppure darlo via. Nient'altro.» «E Sólveig?» «Non lo so» disse Bára. «Povera ragazza, non lo so. Lei voleva averlo, non riusciva a pensare ad altro. Era ancora una bambina anche lei. Non era altro che una bambina.» Erlendur guardò Elsa. «Se Sólveig non aveva voluto dirgli chi era il padre del bambino, è possibile che Benjamín l'abbia inteso come un tradimento nei suoi confronti?» le chiese. «Nessuno sa cosa sia accaduto fra loro durante l'ultimo incontro» disse Elsa. «Benjamín lo raccontò a mia madre a grandi linee, ma è impossibile sapere se gli abbia rivelato tutti i dettagli importanti. Davvero è stata violentata? Mio Dio!» Fissò i due agenti, uno dopo l'altro. «Sì, forse Benjamín l'ha preso come un tradimento» sussurrò poi. «Scusi, diceva?» chiese Erlendur. «Benjamín può anche aver ritenuto che lei lo avesse tradito» ripeté Elsa. «Ma questo non vuol dire che l'abbia uccisa e poi sepolta.» «Perché aveva taciuto» ribadì Erlendur. «Sì, perché aveva taciuto» convenne Elsa. «Si era rifiutata di dirgli chi era il padre del bambino. Lui non sapeva dello stupro. Credo che non ci siano dubbi, su questo.» «Può aver chiesto aiuto a qualcuno?» chiese Erlendur. «Magari qualcuno che lo facesse al posto suo?» «Non la capisco.» «Aveva affittato la casa di Grafarholt a un uomo violento, un ladro. In sé
la cosa non dice niente, ma è un dato di fatto.» «Non so di cosa stia parlando. Un violento?» «No, certo, per il momento basta così. Forse stiamo correndo troppo, Elsa. Probabilmente è meglio aspettare il referto del medico legale. Ci scusi se...» «No, figuriamoci, grazie a voi per avermi permesso di seguire le indagini. Ve ne sono grata.» «Le faremo sapere gli sviluppi del caso» disse Sigurđur Óli. «E avete la ciocca di capelli» gli ricordò Elsa. «Per l'identificazione.» «Sì» rispose Erlendur. «Abbiamo la ciocca.» Elínborg si alzò. Era stata una giornata lunga e voleva tornare a casa. Ringraziò Bára e le chiese di scusarla per il disturbo che le aveva procurato a quell'ora del pomeriggio. Lei le disse di non preoccuparsi. Accompagnò la donna alla porta e poi se la richiuse alle spalle. Un attimo dopo il campanello suonò e Bára aprì di nuovo. «Era alta?» le chiese Elínborg. «Chi?» domandò Bára. «Sua sorella. Era una donna molto alta, oppure di media altezza o piccola? Che struttura aveva?» «No, non era alta» disse Bára e sorrise debolmente. «Tutt'altro. Spesso la notavano perché era piccolissima. Era particolarmente minuta. Un soldo di cacio, come diceva mia madre. Ed era buffo vederla in giro con Benjamín, perché lui invece era uno spilungone e la dominava come una torre.» Poco prima di mezzanotte, l'ufficiale medico telefonò a Erlendur, che si trovava all'ospedale da sua figlia. «Sono qui all'obitorio» disse «e ho separato gli scheletri, spero di non aver rovinato nulla. Non ho una specializzazione in medicina legale. C'è tanta di quella terra sul tavolo e sul pavimento, un gran casino.» «E...?» chiese Erlendur. «Sì, ecco, scusi, abbiamo le ossa del feto, che in realtà era almeno di sette mesi, forse otto o anche nove.» «Sì» rispose Erlendur impaziente. «Ecco, in questo non c'è niente di strano. Solo...» «Sì?» «Può essere anche che fosse già venuto al mondo, quando è morto, oppure è nato morto. È impossibile dirlo. Ma quella che gli sta sotto non è la
madre del bambino.» «Aspetti, che...? Perché dice questo?» «La donna che stava sotto terra o che è stata sepolta insieme a lui, comunque voglia metterla, non può essere la madre del bambino.» «Non è la madre? Che vuol dire? E allora chi è?» «Non è la madre del bambino. È escluso.» «Perché?» «Non c'è alcun dubbio» rispose l'ufficiale medico. «Ce lo dicono le ossa del bacino.» «Le ossa del bacino?» «Lo scheletro adulto appartiene a un uomo. C'era un uomo sotto il bambino.» 27 L'inverno era stato lungo e difficile. La donna aveva continuato a lavorare alla fattoria di Gufunes e i figli prendevano lo scuolabus tutte le mattine. Grímur trovò di nuovo lavoro nel trasporto del carbone. L'esercito non aveva voluto più assumerlo dopo il furto. Il deposito viveri era stato chiuso e le caserme spostate in blocco ad Hálogaland. Erano rimaste solo le recinzioni e i pilastri e la piccola piazzola cementata davanti agli edifici. Il cannone fu portato via. La gente sosteneva che non mancasse molto alla fine della guerra. I tedeschi battevano in ritirata in Russia e si diceva che presto ci sarebbe stata una grande controffensiva sul fronte occidentale. Quell'inverno Grímur degnò a malapena di uno sguardo la moglie. Le rivolgeva appena la parola, se non per riversarle addosso degli insulti. Non condividevano più il letto matrimoniale. Lei dormiva in camera da Símon mentre Grímur aveva voluto tenere Tómas con sé. Tutti tranne il bambino avevano notato che la loro madre si era arrotondata, finché la pancia non spuntò come un ricordo agrodolce di quanto era accaduto quell'estate e un monito spaventoso per quello che sarebbe successo se Grímur avesse dato seguito alle sue minacce. Cercò il più possibile di non far notare il suo stato. Grímur la minacciava costantemente. Diceva che non le avrebbe fatto tenere in braccio quel figlio. Qualche volta diceva che glielo avrebbe ammazzato appena fosse venuto al mondo. Sosteneva che sarebbe diventato un ritardato come Mikkelína e che era meglio eliminarlo subito. Maledetta puttana degli americani,
così la chiamava. Ma quell'inverno non la picchiò. Si manteneva calmo e le girava intorno senza dire niente, come una belva selvaggia che prepara un agguato alla sua vittima. La donna cercò di parlare di separazione, ma Grímur le rise in faccia. Non rivelò la sua gravidanza alla gente di Gufunes e la nascose a tutti. Forse in fondo credeva che alla fine il marito sarebbe tornato in sé, che le sue minacce fossero vuote, che quando fosse arrivato il momento lui non avrebbe mantenuto quello che le aveva sempre detto e che, nonostante tutto, avrebbe fatto da padre al bambino. Alla fine ricorse a misure estreme. Non per vendicarsi di Grímur, anche se ne aveva tutti i motivi, ma per proteggere se stessa e il figlio che portava in grembo. Mikkelína comprese molto bene la tensione crescente fra sua madre e Grímur, in quell'inverno difficile, e notò anche il cambiamento in Símon, che la preoccupava non meno. Era sempre stato molto legato a sua madre, ma adesso, quando tornava a casa da scuola il pomeriggio e lei aveva finito di lavorare, non la abbandonava mai. Da quando Grímur era tornato dalla prigione quella fredda mattina d'autunno era molto più nervoso del solito. Evitava il padre come poteva e la sua ansia per la madre cresceva, anzi, si faceva più ossessionante ogni giorno che passava. Mikkelína lo sentiva parlare fra sé, e di tanto in tanto pareva che conversasse con qualcuno che lei non vedeva e che non poteva essere in casa, con qualcuno che non esisteva. Lo sentiva dire a voce alta cosa doveva fare per proteggere la mamma e il bambino che aspettava e che era del suo amico Dave. Che era suo dovere salvaguardare sua madre da Grímur. Che la vita del bambino dipendeva da lui. Non c'era nessun altro a cui affidarsi. Il suo amico Dave non sarebbe più tornato. Símon prendeva molto sul serio le minacce di Grímur. Gli credeva sulla parola quando diceva che il bambino non sarebbe vissuto, che l'avrebbe preso e non l'avrebbero più visto. Che l'avrebbe portato in montagna e sarebbe tornato senza di lui. Tómas era taciturno come sempre, ma col passare dell'inverno Mikkelína percepì un cambiamento anche in lui. Grímur lo teneva con sé di notte, da quando aveva proibito alla moglie di dormire nella camera matrimoniale e l'aveva mandata nel letto di Tómas, che per lei era troppo piccolo e scomodo. Mikkelína non sapeva cosa dicesse al fratellino, ma lui cominciò a trattarla in maniera completamente diversa da prima. Non voleva avere niente a che fare con lei e si era allontanato anche da Símon, benché fossero sempre stati molto uniti. La madre cercava di parlargli ma lui si teneva
alla larga, furioso, taciturno e disperato. «Símon sta diventando molto strano» sentì dire da Grímur a Tómas un giorno. «Sta diventando strano come tua madre. Fai attenzione a lui. Stai attento a non diventare come lui, perché allora saresti strano anche tu.» Una volta Mikkelína sentì sua madre che parlava con Grímur del bambino, l'unica volta che le permise di dire la sua opinione, a quanto ricordasse lei. Ormai la pancia era evidente e Grímur le proibì di continuare a lavorare a Gufunes. «Adesso smetti di lavorare, spiegherai che devi pensare alla famiglia» gli sentì ordinare Mikkelína. «Ma potresti dire che è tuo» rispose sua madre. Grímur le rise in faccia. «Potresti.» «Taci.» Mikkelína notò che anche Símon stava ascoltando. «Potresti anche dire che il figlio è tuo» ripeté la donna, suadente. «Non ci provare» replicò Grímur. «Non c'è bisogno che si sappia. Non c'è bisogno che la gente lo scopra.» «È troppo tardi, adesso, per cercare di salvare la situazione. Avresti dovuto pensarci quando andavi nella brughiera con quel bastardo di un americano.» «Potrei anche dare il bambino in adozione» propose lei cauta. «Non sono l'unica a essere in questa situazione.» «Oh, no» disse Grímur. «Mezza città si è scopata questi americani, cazzo! Ma non credere di essere migliore per questo.» «Non lo vedresti più. Lo do in adozione appena nasce e tu non lo vedrai nemmeno.» «Tutti sanno che mia moglie è la puttana degli americani» disse Grímur. «Lo sanno tutti che hai avuto una tresca.» «Non lo sa nessuno» ribatté lei. «Nessuno. Non lo sapeva nessuno di me e Dave.» «Come credi che l'abbia saputo io, stronza? Perché me lo hai detto tu? Credi che cose del genere non si sappiano in giro?» «Sì, ma nessuno sa che il bambino è suo. Non lo sa nessuno.» «Stai zitta» le intimò Grímur. «Stai zitta, sennò...» Così tutti attesero di vedere cosa avrebbe portato quel lungo inverno le cui conseguenze erano, in un certo senso, terribili e inevitabili. Poi Grímur cominciò ad ammalarsi.
Mikkelína fissò Erlendur. «Cominciò ad avvelenarlo quell'inverno.» «Ad avvelenarlo?» chiese lui. «Non sapeva cosa stava facendo.» «Come lo avvelenò?» «Ricorda il caso Dúkskot, a Reykjavík?» «La giovane che uccise suo fratello con il veleno per topi? Fu all'inizio del secolo scorso.» «La mamma non voleva ucciderlo ma solo farlo ammalare. In modo da poter avere il bambino e portarlo via prima che lui si rendesse conto che era tutto finito e che il neonato non c'era più. Nel caso Dúkskot, una donna aveva dato da mangiare del veleno per topi a suo fratello. Ne aveva messo una bella dose nello skyr e lui se ne era accorto, pur non capendo cosa fosse, ed era riuscito a raccontarlo perché era morto qualche giorno dopo. Per nascondere il sapore gli aveva dato anche dell'acquavite. L'autopsia aveva rivelato che si era trattato di avvelenamento da fosforo, una sostanza che agisce a rilento. Nostra madre conosceva quella storia, non so come, ma comunque a Reykjavík si era parlato molto dell'omicidio. Si procurò del veleno per topi a Gufunes. Ne rubava piccole dosi e gliele metteva nei pasti. Ne usava pochissimo alla volta, in modo che non sentisse sapori insoliti nel cibo né sospettasse qualcosa. Non teneva il veleno in casa, ne prendeva ogni volta la quantità che le serviva, finché non smise di lavorare alla fattoria, allora sottrasse una dose abbondante e la nascose in casa. Non aveva idea degli effetti che avrebbe avuto su di lui, né se dosi così piccole avrebbero funzionato, ma dopo qualche tempo il veleno sembrò agire. Grímur divenne più indolente, era spesso malato o stanco, vomitava. Non andava a lavorare. Rimaneva a letto in preda ai dolori.» «Non ha mai sospettato niente?» chiese Erlendur. «Non prima che fosse troppo tardi» disse Mikkelína. «Non aveva fiducia nei medici. E lei certamente non lo spronava a farsi visitare.» «Ma cosa aveva voluto dire, quando affermò che ci avrebbero pensato loro a Dave? Ne parlò mai?» «No, mai» rispose Mikkelína. «Forse se lo inventò. Una finta per spaventare la mamma. Sapeva che era innamorata di Dave.» Erlendur ed Elínborg erano seduti in soggiorno e ascoltavano il racconto. Avevano detto a Mikkelína che lo scheletro sotto quello del bambino nella fossa di Grafarholt era di un uomo. La donna aveva scosso la testa; se
non fossero scappati via con tanta fretta senza spiegarle nemmeno il perché, avrebbe potuto dirglielo lei stessa. Voleva avere notizie del piccolo scheletro e, quando Erlendur le chiese se voleva vederlo, gli rispose di no. «Ma vorrei avere le ossa quando non vi serviranno più» disse. «È venuto il momento che la piccola riposi in pace in terra consacrata.» «La piccola?» chiese Elínborg. «Sì, era una femmina» rispose Mikkelína. Sigurđur Óli aveva riferito a Elsa la scoperta dell'ufficiale medico. Il corpo nella fossa non poteva essere di Sólveig, la fidanzata di Benjamín. Elínborg telefonò a Bára e le comunicò la stessa notizia. Mentre Erlendur e la collega si stavano avviando verso casa di Mikkelína, Hunter gli telefonò sul cellulare per fargli sapere che non era ancora riuscito a scoprire che cosa fosse accaduto a David Welch; non sapeva se era stato mandato via dall'Islanda né quando poteva essere successo. Disse di voler continuare a indagare. Di primo mattino, Erlendur era andato a trovare sua figlia in terapia intensiva. La sua situazione era stabile, così era rimasto seduto accanto a lei per un bel po' e aveva continuato a raccontarle di suo fratello, che era morto nella brughiera non lontano da Eskifjördur quando lui aveva dieci anni. Stavano radunando il bestiame con il padre, quando erano stati sorpresi dal maltempo. I fratelli non erano più riusciti a vederlo e poi si erano persi. L'uomo aveva raggiunto il centro abitato più vicino, esausto. Erano state organizzate le squadre di ricerca. «Mi trovarono per qualche strana combinazione» disse Erlendur. «Non so perché. Mi scavai un rifugio nella neve, fui abbastanza lucido da farlo. Ero più morto che vivo quando infilarono un bastone nel cumulo di neve e per caso mi toccarono la spalla. Ci trasferimmo subito dopo. Non potevamo più abitare lì, sapendo che mio fratello era disperso nella brughiera. Provammo a ricominciare una nuova vita a Reykjavík. «Inutilmente.» In quel momento, nella stanza entrò un medico. Erlendur lo salutò e discussero insieme delle condizioni di Eva Lind. Immutate, fu il responso. Nessun segno che stesse migliorando o riprendendo conoscenza. Il medico si voltò verso la porta. «Non si aspetti miracoli» disse, e si stupì quando Erlendur gli rivolse un freddo sorriso.
Adesso Erlendur si trovava seduto davanti a Mikkelína e pensava a sua figlia in una stanza di ospedale e a suo fratello che giaceva nella neve, e le parole della donna gli giungevano come filtrate. «Mia madre non era un'assassina» disse. Erlendur la guardò. «Non era un'assassina» ripeté. «Credeva di poter salvare il bambino. Temeva per suo figlio.» Lanciò uno sguardo a Elínborg. «Infatti non lo uccise lei» precisò. «Non morì per il veleno.» «Ma lei ha detto che non sospettò niente finché non fu troppo tardi» rispose Elínborg. «Infatti» concluse Mikkelína. «Era troppo tardi.» La sera in cui accadde, Grímur era più spossato del solito, essendo rimasto a letto tutto il giorno in preda a forti dolori. La moglie cominciò a sentire le prime doglie e verso sera aveva già le contrazioni a brevi intervalli l'una dall'altra. Sapeva che era troppo presto. Il bambino sarebbe nato prematuro. Chiese ai ragazzi di portarle i materassi della loro camera e usò anche quello della branda di Mikkelína; si preparò un giaciglio sul pavimento della cucina e si distese verso l'ora di cena. Chiese a Símon e a Mikkelína di preparare delle lenzuola pulite e dell'acqua calda per lavare il bambino. Aveva dato alla luce tre figli in casa e sapeva come fare. Era inverno e faceva ancora buio, ma la temperatura si era alzata inaspettatamente e quel giorno aveva piovuto; presto sarebbe arrivata la primavera. Durante la giornata la donna era stata fuori a pulire il terreno intorno ai cespugli di ribes e a potare i rami secchi. Diceva che avrebbero dato dei bei frutti in autunno, così avrebbe fatto la marmellata. Símon non si era mai allontanato e le era stato accanto mentre lavorava, così lei aveva cercato di tranquillizzarlo, dicendogli che sarebbe andato tutto bene. «Invece no» aveva detto Símon, e lo aveva pure ripetuto. «Non andrà tutto bene. Non puoi avere il bambino. Non puoi. Te l'ha detto, lo vuole ammazzare. L'ha detto. Quando nascerà?» «Non ti preoccupare troppo» gli aveva risposto sua madre. «Quando nascerà, lo porterò io in città e lui non lo vedrà nemmeno. È malato, non può fare niente. Sta a letto tutto il giorno e non può fare niente.» «Ma il bambino quando nasce?»
«Può succedere in qualsiasi momento» lo aveva tranquillizzato. «Spero al più presto possibile, così la questione si chiude. Non aver paura, Símon. Devi essere forte. Fallo per me.» «Perché non vai in ospedale? Perché non lo lasci qui e non vai a far nascere il bambino?» «Non me lo permette» gli aveva confessato. «Verrebbe a prendermi e mi ordinerebbe di partorire in casa. Non vuole che si sappia niente in giro. Diremo che l'abbiamo trovato. Lo metteremo nelle mani di brave persone. Così vuole lui. Andrà tutto bene.» «Ma lui ha detto che lo vuole ammazzare.» «Non lo farà.» «Ho tanta paura» aveva detto Símon. «Perché deve andare a finire così? Non so cosa devo fare. Non so cosa devo fare» aveva ripetuto e sua madre aveva capito che era tormentato dall'ansia. Adesso la guardava distesa sui materassi in cucina, perché era l'unica stanza abbastanza grande, a parte quella matrimoniale; la donna cominciò il travaglio in silenzio. Tómas era nella stanza di Grímur. Símon si era avvicinato di soppiatto e aveva chiuso la porta. Mikkelína era accanto a sua madre, che cercava di fare meno rumore possibile. La porta della camera da letto si aprì e Tómas uscì nel disimpegno ed entrò in cucina. Grímur era seduto sul bordo del letto e si lamentava. Aveva mandato il figlio in cucina a prendere la ciotola di zuppa d'avena che aveva lasciato intatta. Gli aveva detto di mangiarla, se voleva. Tómas passò accanto a sua madre, a Símon e a Mikkelína e, abbassando lo sguardo, notò che la testa del bambino era uscita e che la donna spingeva con tutta la sua forza perché uscirono anche le spalle. Tómas prese la ciotola di zuppa e un cucchiaio e all'improvviso la donna vide con la coda dell'occhio che stava per mangiarsela. «Tómas! Per l'amor di Dio, non toccare quella zuppa!» urlò disperata. In casa scese un silenzio di tomba e i ragazzi fissarono la madre che stava seduta con il bambino appena nato fra le braccia e guardava Tómas, il quale trasalì tanto da far cadere la ciotola, mandandola in mille pezzi. Il letto cigolò. Grímur uscì nel disimpegno ed entrò in cucina. Osservò la donna e il bimbo appena nato che teneva fra le braccia con un'espressione di disprezzo sul volto. Guardò Tómas e vide la zuppa per terra. «Allora è vero?» disse piano, sbalordito, come se avesse finalmente trovato la risposta a un enigma con cui si misurava da tempo. Abbassò lo
sguardo verso la moglie. «Mi stai avvelenando?» gridò. Lei lo guardò. Mikkelína e Símon non osavano alzare la testa. Tómas era rimasto immobile, con i resti della zuppa per terra. «Cazzo, l'avevo sospettato! Tutta questa stanchezza. Questi dolori. La malattia...» Grímur si guardò intorno in cucina. Poi si avventò sugli scaffali e aprì tutti i cassetti. Era in preda alla rabbia. Rovesciò il contenuto per terra. Prese un vecchio sacco di farina e lo scaraventò contro il muro; quando si ruppe, si sentì cadere un vasetto di vetro. «È questo?» urlò, prendendolo. Grímur si chinò vicino alla moglie. «Da quanto va avanti?» sibilò. La donna lo fissò negli occhi. Una piccola candela ardeva sul pavimento accanto a lei. Mentre Grímur cercava il veleno, aveva afferrato in fretta un grosso paio di forbici che aveva vicino a sé e aveva scaldato la lama sulla fiamma della candela per tagliare il cordone ombelicale, che aveva poi legato con le mani tremanti. «Rispondimi!» urlò Grímur. Non ebbe bisogno di risposta. Lo lesse nei suoi occhi. Nel suo sguardo. Nella sua ostinazione. In fondo lo aveva sempre sfidato, risoluta, per quanto spesso la picchiasse, per quanto forte la picchiasse, lo vide nel suo muto dissenso, nello sguardo di sfida che gli restituiva, con il bastardo sanguinolento di un militare americano fra le braccia. «Lascia stare la mamma» disse Símon a voce bassa. «Dammelo!» urlò Grímur. «Dammi quel bambino, maledetta vipera!» Lei scosse la testa. «Lascia stare la mamma» ripeté il figlio, più forte. «Vieni qui, dammelo!» gridò Grímur. «O vi ammazzo tutti e due. Vi ammazzo tutti! Vi ammazzo! Tutti!» Grímur schiumava per la rabbia. «Troia che non sei altro! Mi vuole ammazzare! Credi di potermi ammazzare?» «Smettila» gridò Símon. La donna tenne il neonato stretto a sé con una mano e con l'altra cercò a tastoni le grosse forbici, ma non le trovò. Fissò Grímur e poi si guardò intorno spaventata per vedere dove fossero, ma erano sparite.
Erlendur guardò Mikkelína. «Chi le aveva prese, le forbici?» le chiese. Si era alzata e adesso stava accanto alla finestra del soggiorno. Erlendur ed Elínborg si guardarono. Stavano pensando la stessa cosa. «Lei è l'unica testimone di quello che è successo?» le domandò Erlendur. «Sì» rispose Mikkelína. «Non c'è nessun altro.» «Chi prese le forbici?» la sollecitò Elínborg. 28 «Volete conoscere Símon?» chiese Mikkelína. Aveva gli occhi umidi. «Símon?» disse Erlendur, senza sapere di chi stesse parlando. Poi si ricordò dell'uomo che era venuto a prenderla sulla collina. «Vuol dire suo figlio?» «No, non mio figlio, mio fratello» disse Mikkelína. «Mio fratello Símon.» «È vivo?» «Sì. È vivo.» «Allora dobbiamo parlare con lui» esclamò Erlendur. «Ne ricaverete ben poco» rispose lei, sorridendo. «Ma andiamo comunque a trovarlo. Gli piace ricevere visite.» «Non vuole finire di raccontare la sua storia?» chiese Elínborg. «Che bestia era, quell'uomo? Non posso credere che qualcuno si comporti così.» Erlendur alzò lo sguardo. Mikkelína si mise in piedi. «Vi racconto strada facendo. Andiamo a trovare Símon.» «Símon!» urlò la donna. «Lascia stare la mamma» gridò Símon con la voce tremante e, prima di rendersene conto, aveva infilato le forbici nel petto di Grímur. Quando ritrasse la mano, videro che la lama era penetrata nel torace fino all'impugnatura. L'uomo guardò suo figlio con un'espressione stupefatta, come se non capisse fino in fondo cos'era successo. Vide le forbici e parve incapace di muoversi. Guardò di nuovo Símon. «Mi vuoi ammazzare?» mormorò e cadde in ginocchio. Il sangue sgorgava dalla ferita sul pavimento; Grímur si piegò lentamente all'indietro e stramazzò a terra.
La donna teneva il neonato stretto al petto, ammutolita dal terrore. Mikkelína era immobile di fianco a lei. Tómas era ancora in piedi, fermo nel punto in cui aveva lasciato cadere la ciotola. Símon cominciò a tremare, ancora fermo accanto a sua madre. Grímur non dava segni di vita. In casa regnava un silenzio di tomba. Finché la donna non emise un lancinante grido di angoscia. Mikkelína tacque. «Non so se la bimba sia nata morta o se la mamma l'abbia tenuta tanto stretta che le morì soffocata fra le braccia. Era nata molto prematura. La aspettava in primavera, ma era ancora inverno quando venne al mondo. Non la sentimmo emettere alcun suono. La mamma non le pulì le vie respiratorie e la tenne con il volto affondato nelle vesti quando la strinse a sé, terrorizzata da Grímur. Per paura che gliela portasse via.» Seguendo le indicazioni di Mikkelína, Erlendur raggiunse una villetta singola molto sobria. «Contava sul fatto che suo marito sarebbe morto prima della primavera?» le chiese Erlendur. «Forse» rispose Mikkelína. «Lo avvelenava da tre mesi. Non era abbastanza.» Erlendur parcheggiò lungo il vialetto d'accesso e spense il motore. «Avete mai sentito parlare di ebefrenia?» chiese Mikkelína, aprendo la portiera. La donna fissò la bambina nata morta che teneva tra le braccia e la cullò con foga, singhiozzando. Símon pareva non notarla, fissava il corpo di suo padre come se non credesse a quello che vedeva. Sotto di lui aveva cominciato a formarsi una gran pozza di sangue. Il ragazzino tremava ancora come una foglia. Mikkelína cercò di consolare sua madre ma era impossibile. Tómas li oltrepassò e andò a chiudersi in camera, senza dire una parola. Senza mostrare alcuna reazione. Così passò un bel po' di tempo. Infine Mikkelína riuscì a calmare sua madre. Quando la donna tornò in sé, smise di piangere e si guardò attorno. Vide Grímur che giaceva nel sangue. Vide Símon accanto a lei tremare come una foglia, vide l'espressione di angoscia sul volto di Mikkelína. Così cominciò a lavare la sua bimba con l'acqua calda che le aveva preso Símon e la pulì con cura, con
movimenti lenti e misurati. Era come se sapesse cosa fare senza dover pensare ai dettagli. Poi la depose, si alzò e abbracciò Símon, che era rimasto immobile nello stesso punto; quando il tremore si placò, il ragazzino scoppiò a piangere con profondi singhiozzi. Lei lo fece sedere con le spalle rivolte al corpo del padre. Si avvicinò a Grímur, tolse le forbici dalla ferita e le buttò nel lavello. Poi si lasciò cadere su una sedia, esausta per il parto. Parlò a Símon di quello che dovevano fare e diede istruzioni anche a Mikkelína. Avvolsero Grímur in una coperta e trasportarono il cadavere fino alla porta. Uscì con Símon e si allontanarono dalla casa, poi il figlio cominciò a scavare una grossa buca. Quel giorno il cielo si era aperto, ma verso sera aveva ricominciato a piovere, una pioggia invernale fredda e intensa. In parte il terreno era ancora congelato. Símon si diede da fare con un piccone e, dopo aver scavato per due ore, lui e sua madre presero Grímur e lo trascinarono fin lì. Trasportarono la coperta sopra la fossa, vi lasciarono cadere il corpo e poi la sfilarono da sotto. Il cadavere si depositò nella terra con la mano destra sollevata, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di toccarla. La donna tornò in casa a passi lenti e pesanti, prese la bambina, la portò fuori nella pioggia gelida e la depose insieme al cadavere di Grímur. Stava per farsi il segno della croce, ma si fermò. «Lui non esiste» disse. Poi cominciò a riempire la fossa. Símon era lì accanto e guardava la terra nera e bagnata depositarsi sui cadaveri, che a poco a poco sparirono sotto le zolle. Mikkelína aveva cominciato a rassettare la cucina. Tómas era sparito. La fossa era già ricoperta da uno spesso strato di terra, quando Símon ebbe l'impressione che Grímur si muovesse. Con un brivido guardò sua madre, che invece non aveva notato niente, poi fissò di nuovo il corpo e vide con sgomento che il volto, seminascosto dalla terra, si muoveva. Aveva aperto gli occhi. Símon rimase agghiacciato. Grímur lo stava fissando. Símon emise un urlo di terrore e sua madre smise di spalare. Guardò il figlio, poi guardò in basso e si accorse che Grímur era ancora vivo. Rimase sul ciglio della fossa. La pioggia tamburellava e stava ripulendo il volto dell'uomo dalla terra. Símon e sua madre si guardarono per un attimo, poi Grímur mosse le labbra.
«Finisci!» E gli occhi si chiusero di nuovo. La donna guardò Símon. Poi la fossa. Di nuovo Símon. Prese la vanga e continuò a spalare come se non fosse successo niente. Grímur rimase sepolto sotto il terreno e non lo videro mai più. «Mamma» gemette Símon. «Vai a casa» gli disse lei. «È finita. Vai a casa e aiuta Mikkelína. Va', caro. Vai a casa.» Símon la guardò, china sulla vanga, bagnata fradicia dalla pioggia, che continuava a riempire la fossa. Poi si avviò silenziosamente verso casa. «Può essere che Tómas abbia pensato che fosse tutta colpa sua» disse Mikkelína. «Non ne ha mai parlato e si è sempre rifiutato di discuterne con noi. Si è chiuso completamente. Quando la mamma urlò e lui fece cadere la ciotola, si scatenò una serie di eventi che cambiò la nostra vita e causò la morte di suo padre.» Erano seduti in un soggiorno ordinato e aspettavano Símon. Avevano detto loro che era andato a fare una passeggiata nei dintorni, ma che sarebbe tornato da un momento all'altro. «Ci sono persone davvero gentili, qui» fece notare Mikkelína. «Non potrebbero trattarlo meglio di così.» «Nessuno è mai venuto a cercare Grímur o...» «La mamma pulì la casa da cima a fondo e quattro giorni dopo segnalò che suo marito si era diretto a piedi a est verso Selfoss, nella brughiera di Hellisheidi, e che non aveva più avuto sue notizie da allora. Nessuno aveva saputo della sua gravidanza o perlomeno nessuno le aveva mai chiesto niente. Nella brughiera furono inviate le squadre di ricerca ma lui ovviamente non venne mai più trovato.» «Che commissione poteva avere da sbrigare a Selfoss?» «La mamma non ebbe mai bisogno di scendere nei dettagli» rispose Mikkelína. «Nessuno le chiese mai spiegazioni sui giri del marito. Era un ex detenuto. Un ladro. A chi importava che cosa doveva fare a Selfoss? Nessuno si occupava di lui. Nessuno. C'era ben altro a cui pensare. Lo stesso giorno in cui la mamma denunciò la sua scomparsa, alcuni soldati americani avevano sparato a un islandese, uccidendolo.» Mikkelína sorrise appena. «Passarono i giorni. Poi divennero settimane. Non lo trovarono mai. Fu dato per disperso. Perduto. Una scomparsa come tante, in Islanda.»
Sospirò. «Fu per Símon che la mamma pianse di più.» Una volta che fu tutto finito, in casa regnò un silenzio inquietante. La donna rimase seduta al tavolo della cucina, ancora fradicia di pioggia, fissando davanti a sé con le dita sporche di terra, senza rivolgere ai figli alcuna attenzione. Mikkelína era seduta accanto a lei e le accarezzava le mani. Tómas non era ancora uscito dalla camera. Símon stava in cucina e guardava la pioggia fuori dalla finestra, le guance rigate di lacrime. Guardò sua madre e Mikkelína, poi di nuovo fuori dalla finestra, dove si distingueva il profilo dei cespugli di ribes. Infine uscì. Era bagnato, aveva freddo e tremava mentre si avvicinava ai cespugli, poi si fermò a toccare i rami nudi. Alzò la testa verso il cielo, la faccia contro la pioggia. Il cielo era nero e in lontananza rombavano dei tuoni. «Lo so» disse Símon. «Non c'era nient'altro da fare.» Tacque e chinò il capo, mentre la pioggia continuava a inzupparlo. «È stato difficile. È stato difficile e brutto, per tanto tempo. Non so perché si comportava così. Non so perché ho dovuto ucciderlo.» «Con chi stai parlando, Símon?» chiese sua madre, che era uscita per raggiungerlo, e lo abbracciò. «Sono un assassino» disse. «L'ho ammazzato io.» «Non ai miei occhi, Símon. Per me non potresti mai essere un assassino. Non più di quanto lo sia io. Forse è un destino che si è costruito lui da solo. Il peggio che possa succedere è che tu soffra ancora per com'era, adesso che è morto.» «Ma l'ho ammazzato io, mamma.» «Perché non c'era nient'altro che tu potessi fare. Devi capirlo, Símon.» «Ma sto tanto male.» «Lo so, Símon, lo so.» «Sto tanto male.» La mamma guardò i cespugli. «In autunno questi cespugli daranno i frutti e sarà tutto a posto. Mi hai sentito, Símon? Sarà tutto a posto.» 29 Quando la porta del ricovero si aprì, si voltarono verso l'atrio ed entrò un uomo sulla settantina, le spalle curve, i capelli bianchi e sottili su un volto
cordiale e sorridente, con un bel maglione spesso e un paio di pantaloni grigi. Un assistente aveva saputo che Símon aveva visite, così l'aveva accompagnato. Lo aiutò a voltarsi verso la stanza. Erlendur ed Elínborg si alzarono. Mikkelína gli andò incontro e lo abbracciò, e l'uomo le sorrise con il volto raggiante come quello di un bambino. «Mikkelína» le disse, con una voce stranamente infantile. «Ciao, Símon» lo salutò lei. «Sono qui con delle persone che volevano conoscerti. Questa è Elínborg e questo signore si chiama Erlendur.» «Io mi chiamo Símon» disse, stringendo loro la mano. «Mikkelína è mia sorella.» Erlendur ed Elínborg annuirono. «Símon è molto, molto felice» spiegò la donna, «anche se non lo siamo mai stati prima, ma adesso lui è felice e questo è l'importante.» Símon si sedette accanto a loro, tenendo Mikkelína per mano; le sorrideva e la accarezzava e sorrideva anche a Erlendur e a Elínborg. «Chi sono queste persone?» chiese poi. «Sono miei amici» disse Mikkelína. «Te la passi bene, qui?» gli domandò Erlendur. «Come ti chiami?» chiese Símon. «Erlendur.» Símon ci pensò su. «Ah, sei straniero?» gli chiese poi. «No, islandese» rispose Erlendur. Símon sorrise. «Io sono il fratello di Mikkelína.» La donna gli accarezzò la mano. «Sono poliziotti, Símon.» Allora li guardò, prima uno e poi l'altra. «Sanno tutto di quello che è successo» gli spiegò. «La mamma è morta» disse Símon. «Sì, la mamma è morta» convenne Mikkelína. «Parla tu» la pregò Símon supplichevole. «Parla tu con loro.» Guardava sua sorella ed evitava di rivolgere lo sguardo a Erlendur e a Elínborg. «D'accordo» gli disse. «Verrò a trovarti dopo.» Símon sorrise e si alzò, poi si avviò verso la porta e sparì a passi lenti lungo il corridoio. «Ebefrenia» spiegò Mikkelína.
«Ebefrenia?» domandò Erlendur. «Non sapevamo cosa fosse» confessò la donna. «Chissà come, ha smesso di crescere. È rimasto lo stesso ragazzo tenero e buono di sempre, ma lo sviluppo psichico non è andato di pari passo con quello fisico. L'ebefrenia è una variante della schizofrenia. Símon è come Peter Pan. Talvolta è connessa con la pubertà. Forse era malato anche prima. È sempre stato molto sensibile e quando sono accaduti quei fatti terribili è come se avesse ceduto. Aveva sempre convissuto con la paura e si è sentito responsabile. Pensava che fosse suo dovere proteggere nostra madre, semplicemente perché non c'era nessun altro. Era il più grande e il più forte, anche se forse in realtà si sentiva il più piccolo e il più debole.» «Ed è sempre stato in istituto, da quando era giovane?» chiese Elínborg. «No, ha abitato con me e la mamma finché lei è morta. Be', ormai sono passati ventisei anni. I malati come Símon sono ben gestibili, sono spesso docili e hanno un comportamento remissivo, ma hanno bisogno di molte cure costanti e la mamma ha badato a lui finché ha potuto. Ha lavorato per la nettezza urbana e per il comune quando era in grado di farlo. Raccoglieva la spazzatura con il punteruolo. Passeggiava in lungo e in largo per Reykjavík contando i rifiuti che metteva nel sacco.» Rimasero seduti in silenzio. «David Welch non si è mai più messo in contatto con voi?» chiese Elínborg. Mikkelína la guardò. «La mamma lo ha aspettato fino all'ultimo giorno» disse. «Non è più tornato.» Poi tacque. «Gli aveva telefonato da Gufunes quella mattina, quando il mio patrigno era tornato» ammise. «E ci aveva parlato.» «Ma allora perché non è venuto da voi?» domandò Erlendur. Mikkelína sorrise. «Si erano salutati» disse. «Lui stava andando in Europa. La sua nave salpava quella mattina e lei gli aveva telefonato non per dirgli del pericolo in cui si trovava, ma per salutarlo e assicurargli che andava tutto bene. Lui le disse che voleva tornare. Probabilmente è morto in guerra. Non ha mai avuto sue notizie, ma non vedendolo tornare...» «Ma perché...?» «Credeva che Grímur l'avrebbe uccisa. Per questo tornò da sola. Non voleva che lui l'aiutasse. Era una faccenda sua.»
«Doveva aver saputo che il suo patrigno stava uscendo di prigione e che si era sparsa la voce che Dave e sua madre avevano una relazione» disse Erlendur. «Il suo patrigno lo sapeva, aveva sentito dire qualcosa in giro.» «Non potevano saperlo, a dire la verità. Era stata una storia d'amore molto segreta. Non abbiamo mai capito come l'abbia saputo.» «E il bambino?» «Non avevano idea che fosse incinta.» Erlendur ed Elínborg tacquero a lungo mentre ripensavano alle parole di Mikkelína. «E Tómas?» chiese Erlendur. «Che ne è stato di lui?» «Tómas è morto. Aveva solo cinquantadue anni. Divorziato due volte. Ha avuto tre figli maschi. Non sono in contatto con loro.» «Perché no?» domandò l'agente. «Assomigliava a suo padre.» «In che senso?» «Ha avuto una vita orribile.» «Cioè?» «È diventato come suo padre.» «Vuol dire...?» Elínborg guardò curiosa Mikkelína. «Violento. Picchiava le mogli. Picchiava i figli. Beveva.» «Il rapporto fra lui e il suo patrigno era...?» «Non lo sappiamo» disse Mikkelína. «Non credo. Spero di no. Cerco di non pensarci.» «Che cosa voleva dire Grímur quando ha gridato dalla fossa: 'Finisci!' Stava chiedendo a sua madre di aiutarlo? Le stava chiedendo pietà?» «Ne abbiamo parlato tanto, io e la mamma; lei aveva una spiegazione ben precisa che la soddisfaceva e soddisfa anche me.» «Quale?» «Lui sapeva chi era.» «Non capisco» disse Erlendur. «Sapeva che persona era diventato, e io credo che dentro di sé conoscesse i motivi per cui si comportava così, anche se non lo disse mai. Sappiamo che aveva avuto un'infanzia difficile. Ma era stato piccolo anche lui e doveva pur avere qualche legame con il bambino che era, doveva pur avere qualcosa nell'anima a ricordarglielo. Anche quando era trasfigurato dalla rabbia e la sua cattiveria non conosceva confini, il bambino che aveva dentro forse gli gridava di smettere.»
«Sua madre era una donna incredibilmente coraggiosa» disse Elínborg. «Posso parlare con lui?» chiese Erlendur, dopo qualche momento di silenzio. «Vuol dire con Símon?» domandò Mikkelína. «Ci sono problemi se vado da lui da solo?» «In tanti anni non ha mai parlato di questo evento. La mamma credeva che fosse meglio così e ci siamo comportati come se non fosse mai successo niente. Dopo che è morta ho cercato di costringere Símon ad aprirsi, ma ho capito subito che era inutile. È come se conservasse solo qualche ricordo e tutto il resto fosse sparito. A volte è disposto a dire una frase o due, se insisto. Per il resto è completamente chiuso. Appartiene a un mondo diverso e più pacifico del nostro, che si è costruito da solo.» «Le dispiace?» chiese Erlendur. «Se è per me, faccia pure» disse Mikkelína. Il poliziotto si alzò, uscì nell'atrio e poi si avviò lungo il corridoio. Le porte delle stanze erano quasi tutte aperte. Vide Símon in camera sua, seduto sul bordo del letto a guardare fuori dalla finestra. Bussò alla porta e l'uomo si voltò. «Posso sedermi qui con te?» gli domandò e attese il suo permesso per entrare. Símon lo guardò, poi annuì, così Erlendur gli si sedette accanto. Sulla scrivania c'erano alcune fotografie. Erlendur riconobbe Mikkelína e credette che la donna più anziana in una delle foto fosse la loro madre. Si allungò per prenderla. La donna era seduta su una sedia al tavolo della cucina, con una vestaglia sottile di nylon a colori, del tipo che Erlendur ricordava essere di moda all'epoca: «vestaglie della Hagkaup», così le chiamavano. Rivolgeva un sorriso teso ed enigmatico alla macchina fotografica. Símon era seduto accanto a lei e rideva. A Erlendur sembrò che la foto fosse stata scattata nella cucina di Mikkelína. «È questa, tua madre?» gli chiese. Símon guardò la foto. «Sì. Quella è la mamma. È morta.» «Lo so.» Símon si mise a guardare di nuovo fuori dalla finestra ed Erlendur ripose la foto sulla scrivania. Rimasero seduti in silenzio per un bel po'. «Che cosa stai guardando?» gli chiese Erlendur. «La mamma mi ha detto che andava tutto bene» rispose, sempre guardando fuori dalla finestra.
«E infatti va tutto bene» confermò Erlendur. «Non mi vuoi portare via?» «No, non voglio portarti da nessun parte. Volevo solo conoscerti.» «Forse possiamo diventare amici.» «Sicuramente» disse Erlendur. Rimasero seduti entrambi in silenzio, a guardare dalla finestra. «Tu hai avuto un bravo papà?» gli chiese Símon all'improvviso. «Sì» rispose Erlendur. «Era un brav'uomo.» Tacquero. «Mi racconti di lui?» continuò Símon. «Sì, prima o poi te ne parlerò» disse Erlendur. «Sai, lui...» Erlendur tacque. «Cosa?» «Ha perso un figlio.» Guardarono fuori dalla finestra. «C'è solo una cosa che mi piacerebbe sapere» gli disse poi Erlendur. «Cosa?» rispose Símon. «Come si chiamava?» «Chi?» «La tua mamma.» «Perché lo vuoi sapere?» «Mikkelína mi ha raccontato di lei ma non mi ha detto come si chiamava.» «Si chiamava Margrét.» «Margrét.» In quel momento Mikkelína apparve sulla soglia e quando Símon la vide si alzò per andarle incontro. «Mi hai portato le bacche?» le domandò. «Mi hai portato i ribes?» «Te li porterò in autunno» rispose Mikkelína. «Quando verrà l'autunno, te li porterò.» 30 Nello stesso momento, in un occhio di Eva Lind, immobile nell'oscurità del reparto di terapia intensiva, si formò una piccola lacrima. Si ingrandì fino a diventare una grossa goccia che le scivolò lentamente dall'angolo dell'occhio lungo il volto e insinuandosi sotto la maschera dell'ossigeno le si depositò sulle labbra.
Qualche minuto dopo aprì gli occhi. FINE