TERRY BROOKS LA SFIDA DI LANDOVER (Witches' Brew, 1995) a Lisa. Per la sua presenza costante. E a Jill. Per aver tenuto ...
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TERRY BROOKS LA SFIDA DI LANDOVER (Witches' Brew, 1995) a Lisa. Per la sua presenza costante. E a Jill. Per aver tenuto duro. Tutti i bambini, tranne uno, crescono. Essi imparano presto che dovranno crescere, ed ecco in qual modo lo imparò Wendy. Un giorno, all'età di due anni, stava giocando in giardino; colse un fiore e, tenendolo in mano, corse da sua madre. Doveva essere proprio un quadretto delizioso, perché la signora Darling si mise una mano sul cuore ed esclamò: "Oh, se potessi rimanere così per sempre!". Questo fu tutto ciò che disse su quell'argomento, ma da quel momento Wendy seppe che doveva diventare grande. Dopo i due anni, tutti lo sanno: è quello il principio della fine. J.M. Barrie, Peter Pan 1 Mistaya Il corvo dagli occhi rossi stava appollaiato su un ramo della vecchia e imponente quercia bianca, nel punto in cui i rami erano più fitti e frondosi, e osservava la gente riunita per il picnic nella soleggiata radura sottostante. Così lo chiamava Holiday, "picnic". Una tovaglia dai colori sgargianti era stesa sulla rigogliosa erba primaverile, e su di essa i gitanti stavano vuotando il contenuto di parecchi cestini di cibo. Cibo che, si figurò il corvo, a un umano non privo di appetito sarebbe apparso invitante e delizioso. C'erano vassoi di carne e formaggio, ciotole di insalata e frutta, pezzi di pane e borracce di birra e acqua fresca. C'erano piatti e tovaglioli per ciascuno dei partecipanti e coppe per bere e attrezzi per mangiare. Un vaso di fiori selvatici era stato sistemato al centro del desco. Chi si dava più da fare era Willow, la silfide dalle trecce smeraldine e dalle forme esili e minute. Era tutta animata, e mentre lavorava rideva e parlava con gli altri. Il cane e il coboldo l'aiutavano: Abernathy, che era lo
Scrivano di Corte di Landover, e Parsnip, che svolgeva le mansioni di cuoco al castello. Questor Thews, il decrepito mago dalla barba bianca, si aggirava nei dintorni osservando stupefatto il rigoglio di piantine sconosciute e di strani fiori selvatici. Bunion, l'altro coboldo, quello pericoloso, alla cui sorveglianza quasi nessuno poteva sfuggire, pattugliava il perimetro della radura, sempre vigile. Il Re sedeva da solo su un lato della variopinta tovaglia. Ben Holiday, Alto Signore di Landover. Teneva lo sguardo fisso nel fitto degli alberi, perso nei suoi pensieri. Il picnic era stata una sua idea, una consuetudine diffusa nel mondo da cui proveniva. Lui lo stava proponendo agli altri, stava offrendo loro una nuova esperienza. A quanto pareva, ne godevano più di lui. Il corvo dagli occhi rossi stava perfettamente immobile al riparo dei rami della vecchia quercia, consapevole degli adulti ma realmente interessato solo alla bambina. Altri uccelli, alcuni dal piumaggio più variegato, alcuni più notevoli per la soavità del canto, sfrecciavano nei boschi circostanti svolazzando da qui a lì e viceversa, allegri e spensierati. Erano temerari e sfacciati; il corvo era volutamente invisibile. Nessun occhio, tranne quelli della bambina, sarebbe caduto lì; nessuna attenzione, tranne la sua, sarebbe stata attratta. Il corvo attendeva da più di un'ora che la bambina lo notasse, che i suoi muti richiami fossero ascoltati, che il suo silenzioso comando fosse eseguito e che i brillanti occhi verdi si volgessero in alto, tra i frondosi recessi. La bambina camminava di qua e di là, giocherellando, senza scopo apparente ma già alla ricerca di qualcosa. Pazienza, dunque, si disse il corvo dagli occhi rossi. Come per tante altre cose nella vita: pazienza. Poi la bambina si trovò direttamente al disotto, il suo visino si volse verso l'alto con gli occhi di un abbagliante verde smeraldo, occhi che cercavano e che improvvisamente trovarono. Gli occhi della bambina furono catturati da quelli del corvo, smeraldo contro cremisi, umano contro uccello. Tra di loro corsero parole che non avevano bisogno di essere pronunciate, un silenzioso scambio di pensieri sull'essere e l'avere, il bisogno e la perdita, sul potere della conoscenza e l'inesorabile necessità della crescita. La bambina rimase immobile come la pietra, a guardare in alto, e seppe che c'era qualcosa di immenso e meraviglioso da imparare, se fosse riuscita a trovare il maestro giusto. Il corvo dagli occhi rossi voleva essere quel maestro. Quel corvo era la Strega del Crepuscolo.
Ben Holiday si appoggiò sui gomiti e lasciò che gli odori del picnic suscitassero un brontolio nel suo stomaco vuoto. La colazione l'aveva fatta diverse ore prima, e dopo si era imposto di non mangiare altro. Per fortuna l'attesa era quasi finita. Willow stava aprendo i contenitori da mettere sulla tovaglia, aiutata da Abernathy e Parsnip. Era quasi giunta l'ora di mangiare. Era la giornata ideale per un picnic, con il cielo estivo terso e azzurro, il sole che scaldava la terra e l'erba nuova, ricacciando ancora una volta nel passato i rigori del gelo invernale. I fiori sbocciavano e le foglie tornavano a rinfoltire gli alberi. Le giornate ricominciavano ad allungarsi man mano che ci si avvicinava al cuore dell'estate, e le lune colorate di Landover si rincorrevano attraverso i cieli notturni per periodi di tempo sempre più brevi. Willow incontrò il suo sguardo e gli sorrise, e lui si sentì di nuovo perdutamente innamorato, come se fosse la prima volta. Gli sembrava di rivivere il loro primo incontro, quando l'aveva vista a mezzanotte nelle acque dell'Irrylyn e lei gli aveva detto che erano fatti l'uno per l'altra. «Potresti anche dare una mano, mago» disse seccamente Abernathy a Questor Thews, interrompendo le fantasie di Ben, chiaramente irritato dal fatto che quello avesse lasciato agli altri tutte le incombenze del pranzo. «Mmm?» Questor alzò gli occhi da uno strano fiore porporino e giallo, distratto. Il mago dava sempre l'impressione di essere distratto, che lo fosse realmente o meno. «Da' una mano!» ripeté Abernathy tagliente. «Chi non lavora non mangia, non era questa la morale della favola?» «Va bene, non c'è bisogno di scaldarsi tanto!» Questor Thews abbandonò i suoi studi per soddisfare il più pressante bisogno di accontentare il suo amico. «Aspetta, non si fa così! Ti faccio vedere io.» Bisticciarono ancora per un po', quindi intervenne Willow e si calmarono. Ben scosse la testa. Da quanti anni ormai si beccavano a quel modo? Da quando il mago aveva trasformato lo scrivano in un cane? Da prima ancora? Ben non ne era sicuro, un po' perché era l'ultimo arrivato del gruppo e la storia non era del tutto chiara neanche adesso, e in parte perché il tempo aveva perso significato per lui, da quando era arrivato lì dalla Terra. Ammesso che Landover fosse effettivamente separata dalla Terra, si corresse: una supposizione che era forse più teorica che reale. Dopotutto, come definire un confine costituito non da linee di demarcazione geografiche o da rilievi topografici, ma da nebbie fatate? Come distinguere tra
due territori divisi da una distanza che un singolo passo poteva colmare, ma soltanto con l'ausilio di parole o talismani magici? Landover era qui e la Terra li, una a sinistra e l'altra a destra, ma questo non dava nemmeno la più pallida idea della distanza fra l'una e l'altra. Ben Holiday era venuto a Landover quando le sue speranze e i suoi sogni di una vita felice nel suo vecchio mondo si erano ridotti in polvere, e la ragione aveva ceduto alla disperazione. Comprate un regno magico e troverete una nuova vita, prometteva l'annuncio nel Catalogo Natalizio di Rosen. Diventate il Re di un mondo in cui le fiabe della fanciullezza sono reali. L'idea era incredibile e irresistibile allo stesso tempo. Richiedeva un supremo atto di fede, e Ben aveva raccolto quel messaggio come un uomo caduto in mare che si aggrappi a una corda. Aveva perfezionato l'acquisto, e si era ritrovato nell'ignoto. Era giunto in un luogo che non poteva esistere, per scoprire che invece esisteva. Landover rispondeva totalmente alle sue aspettative, e non vi rispondeva affatto. Questa terra gli aveva lanciato una sfida quale non avrebbe mai pensato di dover affrontare. Ma in fondo gli aveva dato ciò di cui aveva bisogno: un nuovo inizio, una nuova possibilità, una nuova vita. Aveva catturato la sua immaginazione. Lo aveva completamente trasformato. E tuttavia, non finiva mai di stupirlo. Alcuni aspetti gli erano ancora oscuri. Come quell'affare dello scorrere del tempo. Qui era differente dal suo vecchio mondo; lo sapeva perché in più di un'occasione era passato da un mondo all'altro e aveva notato che le stagioni non erano in sincronia. Lo sapeva, anche, dagli effetti che la cosa aveva su di lui, o dalla mancanza stessa di tali effetti. C'era qualcosa di diverso nel suo modo di invecchiare quaggiù. Non era un processo progressivo, un tasso costante di cambiamento, minuto per minuto, ora per ora e così via. Era difficile da credersi, ma c'erano dei periodi in cui non invecchiava affatto. Prima ne aveva solo avuto il sospetto, ma ormai ne era certo. Era arrivato a questa conclusione osservando non il ritmo della sua crescita, difficilmente misurabile poiché mancava di distanza e obiettività. No, l'aveva notato osservando Mistaya. Le diede un'occhiata. Stava ritta ai piedi di una quercia bianca, vecchia e massiccia, con lo sguardo intenso rivolto in alto, tra i rami. Mentre la guardava, Ben corrugò la fronte. Se c'era una parola che avrebbe usato per descrivere sua figlia, probabilmente era quella: "intensa". La bimba si accostava a ogni cosa con la determinazione di un falco a caccia della preda.
Non c'era spazio per cadute di concentrazione o distrazioni. Quando si focalizzava su qualcosa, dedicava a quella cosa l'attenzione più totale. La sua memoria era prodigiosa e forse richiedeva che la bimba studiasse una cosa fino ad appropriarsene totalmente. Era uno strano comportamento per una bambina. Ma quanto a quello, Mistaya non era certo una bambina come le altre. C'era il fatto della sua età. Era da questo, dal suo studio del tasso di crescita della bimba, che Ben era stato in grado di verificare che i suoi sospetti su se stesso non erano campati in aria. Mistaya era nata due anni prima, misurati secondo il passaggio delle stagioni di Landover, le stesse quattro stagioni che si succedevano sulla Terra nell'arco di un anno. Questo avrebbe dovuto renderla "vecchia" di due anni. Ma non era così. In realtà non aveva per niente l'aspetto di una bambina di due anni. Era stata così quando aveva due mesi di vita. Adesso dimostrava quasi dieci anni. Stava crescendo a vista d'occhio, letteralmente. Nel giro di mesi cresceva di anni. E non seguiva neanche una progressione logica. Per un periodo non cresceva affatto; o perlomeno non in modo visibile. Poi improvvisamente, era capace di crescere di parecchi mesi o addirittura di un anno intero dalla sera alla mattina. La sua crescita era fisica, mentale, sociale ed emotiva, insomma misurabile sotto ogni rispetto. Non proprio simultaneamente o allo stesso ritmo, ma su un piano generale ogni singola caratteristica si allineava, prima o poi, a tutte le altre. Sembrava maturare mentalmente, prima di tutto; sì, di questo era convinto. Dopotutto, aveva parlato all'età di tre mesi. Mesi, non anni. Parlava come se ne avesse otto o nove. Adesso, a due anni o dieci anni o a qualsiasi parametro si volesse far riferimento parlava come una venticinquenne. Mistaya. Il nome l'aveva scelto Willow. A Ben era piaciuto subito. Mistaya. Misty Holiday, Festa Nebbiosa. Gli sembrava un bel gioco di parole. Suggeriva dolcezza e nostalgia e piacevoli ricordi. E poi sembrava descrivere con esattezza le circostanze della sua nascita. Quando Ben aveva visto la bimba per la prima volta, era appena riuscito a fuggire dalla Scatola Magica, mentre lei e sua madre erano fuggite dal Pozzo Infido, dove Mistaya era nata. Dapprincipio Willow non gli aveva detto della nascita; ma in fondo tutti e due custodivano segreti che era necessario svelare se volevano continuare a essere sinceri uno con l'altra, e alla fine se ne erano liberati. Lui le aveva detto come sotto le spoglie della Signora ci fosse la Strega del Crepuscolo; lei gli aveva detto di Mistaya. Era stato difficile ma salutare. Gli effetti di quel mutuo scambio di confidenze si fecero sentire
molto di più su Ben. Mistaya avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, date le circostanze della sua nascita. Nata come un virgulto da un albero, nutrita dai terreni della Terra di Landover e delle nebbie fatate, venuta al mondo negli umidi e nebbiosi penetrali del Pozzo Infido, Mistaya era un amalgama di mondo con mondo, sangue con sangue e magia con magia. Ma quella prima volta che lui l'aveva vista era lì, avvolta in coperte di fortuna, una bimba veramente perfetta, meravigliosa. Occhi di un verde mozzafiato che ti trapassavano il cuore, carnagione rosea, capelli biondo miele, e lineamenti che erano una mistura immediatamente riconoscibile di quelli di Ben e quelli di Willow. Ben aveva pensato fin dal primo momento che era tutto troppo perfetto per essere vero. Anche troppo presto cominciò a scoprire che aveva ragione. Guardò Mistaya bruciare l'infanzia nel giro di mesi. La vide muovere i primi passi e imparare a nuotare nella stessa settimana. La bimba cominciò a parlare e a correre allo stesso tempo. Sapeva leggere e fare i conti prima dell'anno. Ormai la mente di Ben vacillava alla prospettiva di essere il padre di una bambina dalle qualità prodigiose, un genio quale non si era mai visto nel suo vecchio mondo. Ma anche quel genere di aspettativa venne disattesa. La bimba maturava, ma mai con la stessa rapidità in ogni direzione, come lui si era figurato. Avanzava fino a un certo punto e poi semplicemente la sua crescita si arrestava. Per esempio, dopo aver acquisito i primi rudimenti di matematica, aveva perso totalmente interesse all'argomento. Aveva imparato a leggere e a scrivere, ma senza sviluppare ulteriormente né una cosa né l'altra. Sembrava trovare diletto nel saltare da una novità all'altra, e non c'era mai una spiegazione razionale per il fatto che progredisse sempre fino a un certo punto e non oltre. Non aveva mai mostrato alcun interesse per le cose dei bambini, fin dal giorno della sua nascita. Giocare con le bambole o con altri giocattoli, lanciare e prendere la palla e saltare la corda erano cose per altri bambini. Mistaya voleva sapere come quelle cose funzionassero, perché accadessero e cosa significassero. La natura l'affascinava. Faceva lunghe passeggiate, molto più lunghe di quanto Ben avrebbe creduto fisicamente possibile per una bambina così piccola, studiando continuamente tutto ciò che la circondava, facendo domande su questa o quella cosa, e conservando tutto con cura nei cassetti e negli archivi del suo cervello. Una volta, quando era molto piccola e cominciava appena a camminare, a pochi mesi di vita, lui la trovò con una bambola di pezza. Per un attimo pensò che potesse gio-
carci, ma poi lei lo guardò e gli chiese, con la sua voce seria e i suoi occhi intensi, come mai nel fabbricare quella bambola fosse stata scelta una particolare cucitura per attaccare gli arti. Questa era Mistaya. Dritto al punto e terribilmente seria. Quando si rivolgeva a lui lo chiamava "Padre". Mai "Papà" o "Babbino" o cose del genere. "Padre". O "Madre". Educata ma formale. Le domande che faceva erano serie e importanti, a suo parere, e non le trattava con leggerezza. Ben imparò a sua volta a fare altrettanto. Quando una volta si mise a ridere di qualcosa che lei aveva detto e che gli era sembrato buffo, la bimba gli lanciò uno sguardo che era un'esortazione a comportarsi da persona adulta. Non che lei non riuscisse a ridere o a trovare un lato umoristico nelle cose della vita; il fatto era che aveva idee molto particolari su cosa fosse buffo e cosa no. Abernathy la faceva ridere spesso. Lei lo stuzzicava senza pietà, sempre assolutamente seria come se non avesse la minima intenzione di prenderlo in giro, per poi aprirsi improvvisamente al sorriso non appena lui si rendeva conto di quanto stava succedendo. Lui sopportava tutto questo con sorprendente buonumore. Quando lei era molto piccola, aveva preso l'abitudine di montargli a cavallo e di tirargli le orecchie. Non c'era traccia di cattiveria da parte della bambina, soltanto un intento ludico. Abernathy non avrebbe tollerato una cosa del genere da nessun altro al mondo. Con Mistaya, invece, sembrava addirittura che si divertisse. Comunque, perlopiù Mistaya trovava gli adulti noiosi e restrittivi. Non apprezzava gli sforzi che essi facevano per proteggerla e guidarla. Non reagiva bene alla parola "no" o alle limitazioni che i suoi genitori e tutori le imponevano. Abernathy era il suo tutore, ma dovette confessare in privato che la sua brillante allieva spesso trovava noiose le sue lezioni. Bunion era il suo protettore, ma dopo che la bimba ebbe imparato a camminare aveva il suo bel da fare per tenerla d'occhio per la maggior parte del tempo. Lei voleva bene a Ben e Willow, ed era loro affezionata, anche se nella maniera strana e riservata che le era peculiare. Allo stesso tempo vedeva con chiarezza che essi erano troppo invischiati in atteggiamenti e convenzioni che non potevano trovare posto nella sua vita. Aveva un modo di guardarli, quando le davano una qualche spiegazione, che esprimeva senza ombra di dubbio la sua convinzione che essi non la comprendevano affatto, altrimenti non avrebbero sprecato il loro tempo in quel modo. Gli adulti erano un male necessario nella sua giovane vita, sembrava credere, e quindi si augurava di crescere in fretta. Quello poteva spiegare come mai fosse invecchiata di dieci anni in due anni soltanto, pensava
spesso Ben. Poteva spiegare come mai, quasi dal momento stesso che aveva cominciato a parlare, si rivolgesse a tutti gli adulti in modo adulto, usando frasi complete e grammaticalmente corrette. Era in grado di acquisire una struttura sintattica e di memorizzarla in un'unica lezione. Ormai, quando Ben conversava con lei, aveva l'impressione di intavolare una conversazione con se stesso. Lei gli parlava nella stessa identica maniera in cui lui si rivolgeva a lei. Ben presto rinunciò a ogni tentativo di parlarle come avrebbe fatto con una bambina normale o, ancora peggio, di parlarle con degnazione come se fosse l'unico modo per farsi ascoltare. Se ci si rivolgeva a Mistaya con degnazione, lei rispondeva immediatamente sullo stesso tono. Di fronte a sua figlia, Ben aveva grossi problemi a decidere chi fosse l'adulto e chi il bambino. L'unica eccezione a tutta questa problematica bambini-adulti era Questor Thews. La relazione fra la ragazza e il mago era completamente diversa da quelle con gli altri adulti, compresi i suoi genitori. Con Questor, Mistaya sembrava piuttosto contenta di essere una bambina. Per esempio, con lui non parlava come parlava con Ben. Ascoltava attentamente tutto quello che lui diceva, mostrava la massima attenzione per tutto quello che faceva, e in generale sembrava accettare di buon grado l'idea che il mago le era in qualche modo superiore. La loro relazione aveva diverse affinità con il tipo di rapporto che intercorre talvolta fra nonni e nipoti. Ben pensava che era fondamentalmente la magia di Questor a creare quel legame. Mistaya ne era affascinata, anche se i risultati non rispondevano esattamente alle aspettative del mago, cosa che accadeva fin troppo spesso. Questor le mostrava continuamente qualche piccola stregoneria, provando qualcosa di nuovo o sperimentando con questa o quella magia. Stava ben attento a non tentare qualcosa di pericoloso quando c'era Mistaya nei paraggi: ma lei era capace di stargli alle costole o di sedersi con lui per delle ore, nella speranza di poter intravedere anche una scintilla del potere che lui possedeva. Dapprincipio Ben si preoccupò. L'interesse di Mistaya per la magia sembrava molto affine al precoce fascino che il fuoco esercita sui bambini, e non voleva che si bruciasse. Ma lei non chiedeva di assistere a incantesimi o rune, non faceva mai domande su come funzionassero le piccole magie, e ascoltava ubbidiente e rispettosa gli ammonimenti di Questor sui pericoli inerenti a un uso incauto e sconsiderato delle pratiche magiche. Era come se lei non sentisse alcun bisogno di provare. Semplicemente considerava Questor una stupefacente curiosità, qualcosa da studiare ma
non da emulare. Era strano, ma non più strano di tutte le altre cose che riguardavano Mistaya. Certamente la sua affinità con la magia era del tutto comprensibile, considerate le sue origini: una bambina nata dalla magia, con ascendenti di magia, con la magia nel sangue. Cosa ne verrà da tutto ciò? si chiedeva Ben. Il tempo passava, e lui si ritrovò ad attendere con ansia un qualcosa di decisivo. Mistaya non era la bambina che si era immaginato quando Willow gli aveva detto che sarebbe stato padre. Non assomigliava minimamente a nessuno dei bambini che aveva conosciuto. Era un vero e proprio enigma. Lui la amava, la trovava affascinante e misteriosa, e non poteva immaginarsi la vita senza di lei. Mistaya aveva ridefinito per lui i termini "figlio" e "genitore" e l'aveva fatto ripensare giorno per giorno alla direzione che la sua vita stava prendendo. Ma nello stesso tempo lo spaventava, non per quello che era in quel momento, ma per quello che avrebbe potuto essere in futuro. Il futuro della ragazza era un viaggio lungo e misterioso, sul quale Ben temeva che non avrebbe avuto alcun controllo. Cosa poteva fare per essere sicuro che la sua nave andasse in porto senza problemi? Willow non sembrava angustiata da nessuno di questi interrogativi. Ma in fondo l'approccio di Willow all'educazione dei figli seguiva le stesse regole di tutte le altre cose della sua vita. La vita presentava delle scelte da operare, delle opportunità da sfruttare, e degli ostacoli da superare, e faceva ciò quando era ora, al momento giusto e non un attimo prima. Non c'era alcun senso a preoccuparsi di qualcosa su cui non si ha alcun controllo. Ogni giorno con Mistaya era una sfida da raccogliere e una gioia da assaporare. Willow dava a sua figlia quel che poteva e in cambio prendeva quel che le veniva offerto, e ne era gratificata. Non si stancava mai di ripetere a Ben che Mistaya era speciale, una bambina di mondi differenti e di razze diverse, di fate e umani, di Re e maestri di magia. Il Fato l'aveva segnata. Avrebbe operato meraviglie in futuro. Dovevano darle l'opportunità di farlo. Dovevano lasciarla crescere come più le piaceva. D'accordo, tutte cose sacrosante, pensava Ben sconsolato. Ma era più facile a dirsi che a farsi. Guardò sua figlia mentre lei stava lì a scrutare tra i rami di quella grande quercia e si chiese cosa avrebbe potute fare di più. Il compito di educarla gli sembrava impari. Si sentì sopraffare dalla consapevolezza di chi e di cosa ella fosse. «Ben, è ora di mangiare» annunciò Willow, interrompendo dolcemente i
suoi pensieri con la propria voce. «Chiama Mistaya.» Lui si tirò su, spazzando via dalla mente quei pensieri ingombranti. «Misty!» chiamò. Lei non si voltò a guardarlo, lo sguardo fisso sull'albero. «Mistaya!» Niente. Thews gli si accostò. «Di nuovo persa nel suo piccolo mondo, a quanto pare, Alto Signore.» Strizzò l'occhio a Ben, poi mise le mani a coppa davanti alla bocca. «Mistaya, vieni ora!» ordinò, con una vocina esile, quasi fragile. Lei si voltò, esitò per un momento, poi si mosse in fretta, con i lunghi capelli biondi scintillanti al sole, gli occhi smeraldini vivaci e luminosi. Lanciò un rapido sorriso a Questor Thews mentre gli sfrecciava accanto. Sembrò appena accorgersi di Ben. La Strega del Crepuscolo guardò la bimba allontanarsi dalla quercia per riunirsi agli altri. Si mantenne immobile nel fitto dei rami nel caso qualcuno di loro decidesse di dare un'occhiata più da vicino. Nessuno lo fece. Si raccolsero tutti attorno al cibo e alle bevande, ridendo e chiacchierando, ignari di quanto era appena accaduto. La ragazza adesso era sua, e il seme del suo possesso era piantato in profondità, bisognoso solo di essere nutrito perché la ragazza potesse essere reclamata. Quel tempo sarebbe venuto. Presto. Il piano della strega, lungamente studiato, si era messo in moto. Quando fosse stato completo, Ben Holiday sarebbe stato distrutto. Il corvo dagli occhi rossi ricordò, e i ricordi bruciavano come il fuoco. Due anni erano passati dalla fuga della Strega del Crepuscolo dalla Scatola Magica. Invelenita per il tradimento subito a opera del Re-fantoccio, punta nel vivo dal fallimento del suo tentativo di vendicarsi su sua moglie e sua figlia, aveva atteso pazientemente l'occasione giusta per colpire. Holiday l'aveva portata nella Scatola Magica, l'aveva intrappolata nei nebbiosi confini del Labirinto, le aveva rubato la sua identità, spezzato le sue difese, l'aveva spogliata della sua magia e spinta con l'inganno a concedersi a lui. Il fatto che nessuno di loro ricordasse la propria identità, e che non sapessero uno l'identità dell'altra, non aveva alcuna importanza. Il fatto che la magia di un essere potente li avesse intrappolati tutti e due assieme al drago Strabo non era affatto rilevante. In un modo o in un altro, Holiday era responsabile. Holiday aveva messo a nudo la debolezza di lei. Holiday l'aveva costretta a sentire per lui ciò che da tempo immemore aveva giurato di non voler sentire più per nessun uomo. Il fatto che l'avesse sempre
odiato era anche più irritante: rendeva impossibile accettare ciò che era accaduto. Mantenne la sua rabbia al calor bianco e prossima alla superficie. Ardeva di essa, e il dolore l'aiutava a rimanere determinata e certa di quel che andava fatto. Forse sarebbe stata soddisfatta se le avessero dato la bambina nel Pozzo Infido subito dopo la sua nascita. Forse sarebbe stato sufficiente reclamarla e distruggere sua madre per soprammercato, lasciando Holiday con quell'eredità come punizione per il suo tradimento. Ma le fate erano intervenute, impedendole di agire, e tutto questo tempo lei era stata costretta a convivere con la coscienza di tutto quello che aveva dovuto subire. Fino a ora. Ora, che la bambina era abbastanza grande da non dover dipendere da umani né da fate, abbastanza grande da scoprire verità che non erano state ancora rivelate e da essere reclamata con altri mezzi che non la forza. Mistaya sarebbe stata per la Strega del Crepuscolo il balsamo di cui la regina del Pozzo Infido aveva un bisogno disperato, per tornare a essere integra; e sarebbe stata allo stesso tempo l'arma che le serviva per farla finita con Ben Holiday. Il corvo dagli occhi rossi guardò in basso, a quel gaio convegno di amici e familiari, e pensò che era questa, per tutti loro, l'ultima occasione di felicità. Quindi si librò al disopra delle fronde ombrose e prese volando la via di casa. 2 Rydall di Marnhull Il mattino dopo, mentre il sole era ancora una falce di argentea luminosità sull'orizzonte orientale e la terra era ancora avvolta nelle ombre della notte, Willow si levò a sedere sul letto, con uno scatto così violento da destare Ben che era ancora immerso in un sonno profondo. Lui aprì gli occhi e la trovò rigida e tremante; le coperte erano gettate all'indietro e la sua pelle era fredda come il marmo. L'attirò subito a sé e la tenne stretta. Dopo un momento, il tremito cessò e lei lasciò che Ben la spingesse di nuovo sotto le coperte, dolcemente. «Ho avuto una premonizione» sussurrò non appena riuscì a parlare. Stava rannicchiata e immobile, come in attesa di qualcosa che dovesse colpirla. Lui non poteva vedere il suo viso, che stava sepolto contro il suo petto.
«Un sogno?» chiese, accarezzandole la schiena, cercando di calmarla. Il corpo di lei non perdeva la sua rigidezza. «Che cos'era?» «Non un sogno» rispose lei, muovendo la bocca contro la sua pelle. «Un presagio. Il senso di qualcosa che è in procinto di accadere. Qualcosa di terribile. Era una sensazione di tenebra, talmente intensa che mi ha sommerso come un fiume in piena, e mi è sembrato di annegare. Non riuscivo a respirare, Ben.» «Va tutto bene adesso» disse lui sommessamente. «Sei sveglia.» «No» disse lei d'un fiato. «Non va tutto bene, affatto. Il presagio riguardava tutti noi: te, me e Mistaya. Ma specialmente te, Ben. Sei in grave pericolo. Non posso essere certa dell'origine, solo degli effetti. Qualcosa sta per accadere, e se ci faremo trovare impreparati, saremo...» Si interruppe, timorosa di dire le parole. Ben sospirò e la circondò con le braccia. I lunghi capelli di smeraldo si sparsero sul cuscino aldilà delle spalle di lui. Ben fissò la stanza scura e silenziosa. Conosceva troppo bene Willow per mettere in discussione i suoi sogni e i suoi presagi. Erano parte integrante della vita degli esseri fatati, che si affidavano a essi come gli umani all'istinto. Raramente si sbagliavano. Willow era visitata in sogno da creature fatate e dai morti. Da loro riceveva consigli e avvertimenti. I presagi erano meno affidabili e meno frequenti, ma non meno preziosi ai fini degli effetti che intendevano raggiungere. Se Willow affermava che erano in pericolo, era cosa saggia darle il massimo credito. «Non c'era alcun accenno al tipo di pericolo?» chiese Ben dopo un momento, cercando di definire la cosa con più precisione. Lei scosse la testa, un piccolo movimento contro il suo corpo. Evitava di guardarlo. «Ma è enorme. Non ho mai sentito niente con tale intensità, dal giorno del nostro incontro.» Fece una pausa. «Ciò che mi angustia è che non so cosa lo abbia evocato. Di solito c'è un piccolo episodio, qualche notizia, qualche accenno che precede tali visite. I sogni sono mandati da altri per dar voce ai loro pensieri, per esprimere i loro consigli. Ma i presagi sono spettri senza volto e senza voce mandati solo per dare un avvertimento, per preparare a un futuro di incertezza. Essi vengono richiamati durante il sonno da esili fili di sospetti e dubbi che ci salvaguardano dall'imprevisto. Quando dormiamo ci si aprono sentieri che rimangono chiusi durante la veglia. Questo presagio, date le sue mostruose dimensioni, ne deve aver percorso uno davvero ampio e diritto, per giungere fino a me.» Si strinse contro di lui, nello sforzo di farglisi sempre più vicina, per
scacciare il ricordo che tornava a gelarle il sangue. «Niente ci ha minacciato negli ultimi mesi» disse Ben tranquillo, meditando. «Landover è in pace. La Strega del Crepuscolo e Strabo sono tranquilli. I Signori delle Pianure non litigano. Perfino gli Orchi delle Rupi non hanno provocato guai per un bel po' di tempo. Non ci sono interferenze nelle nebbie fatate. Nulla.» Quindi rimasero in silenzio, stesi assieme nel letto spazioso, a guardare la luce che strisciava lungo i davanzali delle finestre e le ombre che cominciavano a svanire, ad ascoltare i suoni del giorno che si risvegliava. Un minuscolo uccelletto di un rosso brillante si lanciò giù dai bastioni sfrecciando davanti alla loro finestra e scomparve. Willow sollevò finalmente la testa e lo guardò. I suoi lineamenti perfetti erano pallidi e marmorei. «Non so cosa fare» sussurrò. Lui la baciò sul naso. «Faremo tutto ciò che sarà necessario.» Si alzò dal letto e raggiunse con passi smorzati il lavabo installato in corrispondenza della finestra che dava a est. Si fermò a guardare di fuori, al nuovo giorno. In alto, il cielo era terso e la luce dell'alba era un mantello soffuso di luminosità che stava già tinteggiando la volta celeste con una profusione di verdi e azzurri. Le colline boscose, una ruvida coperta gettata sulle forme ancora dormienti della campagna, si stendevano a perdita d'occhio aldilà delle mura scintillanti di Sterling Silver. I fiori stavano cominciando a sbocciare nel prato oltre il lago che circondava il castelloisola. Nel cortile dabbasso, le sentinelle facevano il cambio della guardia, e gli stallieri erano già occupati a governare il bestiame. Ben si bagnò il viso con l'acqua che il castello provvedeva a riscaldare per il nuovo giorno. Sterling Silver era un'entità viva e possedeva la magia che gli consentiva di soddisfare tutti i bisogni del Re e della sua corte come farebbe una madre con i suoi bambini. Era stato una fonte di continuo stupore per lui, quando aveva messo piede a Landover per la prima volta, trovare un bagno pronto e alla temperatura ottimale a comando, avere luce a volontà ogni volta che lo desiderava, sentire le pietre del pavimento del castello calde sotto i suoi piedi nelle notti gelide, ottenere cibo raffreddato o riscaldato secondo il bisogno; ma era ormai abituato a questi piccoli miracoli e non ci badava più tanto. Quella mattina, tuttavia, per qualche ragione, si ritrovò a farlo. Si asciugò la faccia e guardò giù alla superficie scintillante dell'acqua raccolta nel lavabo. Il suo riflesso gli restituì lo sguardo: un sembiante forte, abbronzato e dai lineamenti asciutti con occhi di un azzurro penetrante, un naso a-
dunco e capelli che iniziavano a recedere dalle tempie. Il leggero tremolio dell'acqua gli conferiva rughe e storture che non aveva. Sembrava, pensò, che nulla fosse cambiato sul suo volto da quando era giunto li dal vecchio mondo. L'apparenza inganna, diceva il proverbio, ma in questo caso non ne era tanto sicuro. La magia era il nodo centrale dell'esistenza a Landover e dove c'era di mezzo la magia tutto era possibile. Come dimostrava Mistaya, rammentò, che non faceva altro che ridefinire continuamente quel particolare concetto. Willow si alzò dal letto e gli si accostò. Non portava vestiti, ma lo faceva, come sempre, con la massima noncuranza, e questo rendeva la sua nudità giusta e naturale. Lui l'abbracciò e la tenne stretta a sé, pensando una volta di più quanto fosse fortunato ad averla, quanto l'amasse e quanto disperatamente ne avesse bisogno. Ella era sempre la donna più bella che avesse mai visto, un luogo comune che era orgoglioso di sottoscrivere, e pensava che la sua bellezza originasse dal suo interno quanto dall'esterno. Con lei aveva ritrovato il grande amore che aveva perso quando Annie era rimasta uccisa nel vecchio mondo: gli sembrava tutto così remoto, adesso, che riusciva a stento a ricordare il fatto. Lei era la compagna per la vita, che Ben aveva pensato di non poter trovare mai più, qualcuno che gli dava forza, lo riempiva di gioia, era la bilancia della sua esistenza. Qualcuno bussò alla porta della camera da letto. «Alto Signore?» chiamò Abernathy brusco, con la voce agitata. «È sveglio?» «Sono sveglio» rispose Ben, tenendo ancora Willow stretta a sé e guardando oltre il viso di lei rivolto all'insù. «Spiacente, ma devo parlarle» lo informò Abernathy. «Immediatamente.» Willow scivolò via dalle braccia di Ben e si affrettò a coprirsi con una lunga vestaglia bianca. Ben aspettò che finisse e poi andò ad aprire la porta. Abernathy stava lì ritto, incapace di dissimulare, con un minimo di verosimiglianza, la sua impazienza e il suo turbamento. Ambedue le emozioni apparivano chiare dai suoi occhi. I cani avevano sempre un aspetto per qualche verso ansioso, e Abernathy, benché cane solo nella forma esteriore, non era un'eccezione alla regola. Si teneva rigido nella sua livrea oro e cremisi, la divisa da Scrivano di Corte, e le sue dita (tutto ciò che rimaneva della sua forma umana dal giorno della sua trasformazione in un Wheaten Terrier dal pelo raso, si gingillavano con i bottoni di metallo lavorato, come per accertarsi che fossero ancora al loro posto. «Alto Signore.» Abernathy si fece avanti e accostò il capo per sottoline-
are il carattere riservato del suo annuncio. «Mi dispiace dover inaugurare la sua giornata in questo modo, ma ci sono due cavalieri al cancello. Hanno l'aria di essere qui per lanciare qualche sorta di sfida. Rifiutano di mostrarsi a chicchessia se non a lei, e uno di loro ha gettato un guanto in mezzo al vialetto d'accesso. Sono in attesa della sua risposta.» Ben annuì, ricacciando in gola una mezza dozzina di risposte, non precisamente edificanti. «Vengo subito.» Chiuse la porta e prese a vestirsi in tutta fretta. Disse a Willow cos'era successo. Il lancio di un guanto a mo' di sfida suonava alquanto buffo per un terrestre del ventesimo secolo, ma a Landover non era una cosa da ridere. Qui erano sempre in auge i combattimenti secondo le regole, e quando un guanto veniva gettato non c'era nessun dubbio sul significato del gesto. Una sfida era stata lanciata ed era necessaria una risposta. Neanche un Re poteva ignorare un simile atto. O forse, pensò Ben mentre si infilava gli stivali, specialmente un Re. Si alzò e si abbottonò la giubba. Si soffermò a stringere il medaglione appeso al collo, il simbolo della sua carica, il talismano che lo proteggeva. Se c'era una sfida da raccogliere, la battaglia sarebbe stata combattuta dal suo campione, il cavaliere chiamato il Paladino, che aveva difeso tutti i Re di Landover, fin dalle origini. Il medaglione evocava il Paladino, che era in realtà l'alter ego del Re. Infatti era lo stesso Ben ad abitare il corpo e la mente del Paladino, quando combatteva le sue battaglie per lui, diventando il campione di se stesso, perdendosi temporaneamente nella vita e nelle virtù guerriere dell'altro. C'era voluto molto tempo perché Ben scoprisse la verità sulla natura del Paladino. Ma molto di più ce ne sarebbe voluto per scendere a patti con ciò che quella verità implicava. Lasciò andare il medaglione. Avrebbe avuto tempo di almanaccare su tutto questo: se si trattasse di una sfida guerresca, se il Paladino dovesse intervenire, se il pericolo fosse inimmaginabile, se, se, se... Prese Willow per un braccio e uscì dalla porta. Si mossero in fretta per i corridoi e salirono una rampa di scale che portava ai bastioni situati al disopra dell'entrata principale. Posto su un isolotto al centro di un lago, Sterling Silver era collegato alla terraferma da un sentiero su un terrapieno che Ben aveva fatto costruire (e ricostruire più di una volta) per consentire un rapido accesso ai visitatori. Landover non era in guerra, non era stata più in guerra da quando Ben era giunto a rilevare il Regno, e lui aveva deciso tanto tempo prima che non c'era ragione di isolare il Re dai suoi sudditi. Ovviamente, i sudditi non avevano l'abitudine di gettare guanti e lancia-
re sfide. Aprì la porta che dava sui bastioni e raggiunse la balconata prospiciente il terrapieno. Questor Thews e Abernathy erano già li in piedi, che parlottavano. Bunion faceva la ronda lungo i parapetti da un lato, agile e svelto, con gli artigli da coboldo che fornivano una presa sicura anche sulla pietra. Avrebbe potuto camminare agevolmente giù per le mura, se avesse voluto. I suoi occhi di un giallo brillante erano fessure minacciose, e l'intera chiostra dei denti si mostrava in quella che era la parodia di un sorriso. All'arrivo del Re e della Regina, Questor e Abernathy rivolsero loro uno sguardo preoccupato e si affrettarono a raggiungerli. «Alto Signore, lei deve risolvere la questione nella maniera che riterrà opportuna» disse Questor nel suo solito stile succinto «ma le raccomando un'estrema cautela. C'è un'aura di magia intorno a quei due che neanche i miei poteri sembrano in grado di penetrare.» «Che prova irrefutabile!» osservò sarcastico Abernathy, drizzando le sue orecchie di cane. Guardò Ben con aria addolorata. «Alto Signore, queste sono creature impertinenti, forse pazze, e se fossi in lei prenderei in seria considerazione l'idea di ospitarli per un po' nelle segrete del castello.» «Buon giorno anche a voi» li salutò allegramente Ben. «Bella giornata per gettare un guanto, vero?» Gratificò ognuno di loro con un sorrisetto ironico mentre si muoveva verso la balconata. «Vi dirò una cosa. Perché non ascoltiamo cosa hanno da dire prima di pensare alle possibili soluzioni?» Si spostarono in gruppo sulla terrazza e si fermarono alla balaustra. Ben scrutò in basso. Due cavalieri vestiti di nero stavano in mezzo al sentiero, mentre montavano cavalli neri. Il più grosso dei due indossava l'armatura e portava uno spadone e un'ascia da guerra attaccati alla sella. La visiera era abbassata. Quello più piccolo era tutto bardato e incappucciato e piegato in due sulla sella, come una vecchia ingobbita, mani e volto nascosti. Nessuno dei due si muoveva. Nessuno recava un qualche stemma o portava uno stendardo. Il guanto nero del cavaliere dall'armatura giaceva davanti a loro in mezzo al ponte. «Visto cosa volevo dire?» sussurrò Questor, enigmatico. Ben non vedeva niente, ma non faceva alcuna differenza. Non volendo prolungare oltre quella specie di confronto, Ben urlò ai due che stavano sul ponte: «Io sono Ben Holiday, Re di Landover. Cosa volete da me?» La visiera del cavaliere in armatura si sollevò leggermente. «Signore
Holiday. Io sono Rydall, Re di Marnhull e di tutte le terre a est oltre le nebbie fatate fino al Grande Baluardo.» La voce dell'uomo era profonda e roboante. «Sono venuto a chiedere la sua resa, Alto Signore. Preferirei farlo in maniera pacifica, ma se sarà necessario userò la forza. Io voglio la sua corona e il suo trono e il medaglione del potere. Io voglio il dominio sui suoi sudditi e sul suo Regno. Sono stato abbastanza chiaro?» Ben sentì il sangue salirgli fino agli occhi. «Ciò che mi è chiaro, Rydall, Re di Marnhull, è che tu sei un pazzo se ti aspetti che ti presti la minima attenzione.» «E lei è un pazzo se non mi darà ascolto» rispose rapido l'altro. «Mi ascolti bene prima di dire altro. Il mio Regno di Marnhull è aldilà delle nebbie fatate. Tutto ciò che esiste da quel lato del confine è di mia proprietà. Io me ne impadronii con la forza e con la potenza delle armi tanto tempo fa, e mi presi tutto. Per anni ho cercato il modo di attraversare le nebbie, ma la magia delle fate me lo ha sempre impedito. Adesso non è più così. Io ho fatto breccia nel suo baluardo più impenetrabile, Signore Holiday, e finalmente il suo reame è qui davanti a me, senza alcuna difesa. Il suo esercito è piccolo, formato da un numero ridicolo di armati. Il mio, invece, è numeroso ed esperto, e vi schiaccerebbe in un giorno solo. In questo momento è già ai confini, in attesa solo di un mio comando. A una mia parola invaderà Landover come un'epidemia e distruggerà tutto ciò che troverà sulla sua strada. Lei non ha nessuna ragionevole possibilità di fermarlo, e una volta che si sarà messo in moto, non sarà tanto semplice riassumerne il controllo. Non c'è bisogno che io sia più esplicito, vero, Alto Signore?» Ben diede una rapida occhiata a Willow e ai suoi consiglieri. «Qualcuno di voi ha mai sentito parlare di questo individuo?» chiese con calma. Tutti e tre scossero la testa. «Holiday, si arrende a me?» gridò di nuovo Rydall con la sua voce possente. Ben si voltò. «Non credo. Forse un altro giorno. Re Rydall, non riesco a credere che tu sia venuto qui con l'idea che io potessi fare quello che mi stai chiedendo. Nessuno ha mai sentito il tuo nome. Non porti nessuna prova della tua carica o dei tuoi eserciti. Stai lì seduto a cavallo a proferire minacce e richieste, e questo è tutto quello che sai fare. Due uomini, soli soletti, spuntati da chissà dove.» Fece una pausa. «Che ne direste se vi facessi prendere e sbattere in prigione?» Rydall rise, e la sua risata era fragorosa e profonda come la sua voce, e
decisamente malvagia. «Le consiglio di non provarci, Alto Signore. Non sarebbe tanto facile come può sembrare.» Holiday annuì. «Raccogli il tuo guanto e vattene a casa. Ho fame e devo fare colazione.» «No, Alto Signore. È lei che deve raccogliere il guanto se non accetta la mia richiesta di resa.» Rydall fece fare un passo avanti al suo cavallo. «La sua terra sbarra la strada al mio esercito, e io non posso girarci attorno. Non voglio. Cadrà nelle mie mani in un modo o in un altro. Ma il sangue di quelli che periranno non macchierà le mie mani: ricadrà sulle sue. A lei la scelta, Alto Signore.» «Io ho già scelto» rispose Ben. Rydall rise di nuovo. «Parole da uomo coraggioso. Be', non credevo certo che si sarebbe arreso a me facilmente; non senza qualche prova della mia forza, qualche ragione di credere che il suo rifiuto a sottostare alle mie condizioni potrebbe causare del male a lei o forse a quelli che ama.» Ben avvampò di nuovo, questa volta furioso. «Le minacce non funzionano con me, Rydall di Marnhull. La nostra conversazione è finita.» «Aspetti, Alto Signore!» esclamò frettoloso quell'altro. «Non abbia tanta fretta d'interrompere...» «Tornatevene da dove siete venuti!» scattò secco Ben, voltandosi per andarsene. Poi vide Mistaya. Stava da sola sui bastioni a parecchi metri di distanza, a guardare Rydall. Stava perfettamente immobile, i capelli biondo miele sparsi giù per le esili spalle, un'espressione intensa sul viso da folletto e gli occhi smeraldini fissi sui cavalieri ai cancelli. Sembrava dimentica di tutto il resto, totalmente concentrata sul luogo, giù in basso, dove erano in attesa Rydall e il suo compagno. «Mistaya» chiamò dolcemente Ben. Non voleva che stesse lì dove potevano vederla, non voleva che si sporgesse dai bastioni in quel modo. Sentì il sudore imperlargli la fronte. Alzò la voce. «Mistaya!» Lei non sentì o non volle sentire. Ben lasciò gli altri e andò da lei. Senza altre parole la prese dalla vita e la portò via dalle mura. Mistaya non fece resistenza. Gli mise le braccia al collo e lasciò che suo padre la mettesse giù. Ben tenne a freno la sua irritazione mentre si chinava per dirle: «Vai dentro, per favore.» Lei lo guardò curiosamente, come distolta da qualche profonda riflessione, poi si voltò obbediente, andò alla porta e scomparve.
«Alto Signore Ben Holiday!» chiamò Rydall dal basso. Ben digrignò i denti e si girò fulmineo a guardare giù per l'ultima volta. «Ho finito con te, Rydall!» urlò in risposta, furioso. «Lasci che dia l'ordine di farlo arrestare e portare davanti a lei!» scattò Abernathy. «Un'ultima parola!» gridò Rydall. «Ho detto che non pensavo che si sarebbe arreso senza qualche prova della verità di quanto affermo. Allora, Alto Signore, permette che gliene fornisca una? Una prova che sono in grado di fare quanto ho minacciato?» Ben trasse un profondo respiro. «La scelta spetta a te, Rydall di Marnhull. Ma ricorda una cosa: dovrai rispondere della tua scelta.» Ci fu un lungo silenzio, durante il quale tutti e due si guardarono fissi. Nonostante la sua collera e la sua determinazione, Ben sentì un brivido di gelo attraversargli il corpo, come un presentimento che Rydall avesse valutato con precisione il proprio avversario, più di quanto non avesse fatto lui. Era un momento critico. «Arrivederci, per il momento, Alto Signore Ben Holiday» disse alla fine Rydall. «Tornerò nel giro di tre giorni. Forse allora la sua risposta sarà diversa. Lascio il guanto lì dove si trova. Nessuno potrà raccoglierlo, tranne lei. E lei lo farà.» Fece dietrofront e partì al galoppo. L'altro cavaliere indugiò un momento, tutto ingobbito e immobile. Non si era mosso e non aveva aperto bocca per tutto il tempo. Non aveva mostrato niente di se stesso. Ora si voltò senza fretta e seguì le orme di Rydall. Insieme attraversarono la prateria in mezzo ai fiori selvatici e alle erbe, ombre nere contro la luce crescente, e scomparvero tra gli alberi in fondo. Ben Holiday e i suoi compagni li guardarono andare finché non scomparvero alla vista, senza dire una parola. Quel mattino la colazione fu più sobria del solito. Ben, Willow, Questor e Abernathy si sedettero in un gruppo compatto a un'estremità della lunga tavola da pranzo, piluccando il cibo e parlando. Mistaya l'avevano fatta mangiare da sola e quindi l'avevano mandata fuori a giocare. Ma poi, pensandoci bene, suo padre aveva dato incarico a Bunion di tenerla d'occhio. «Allora nessuno conosce questo Rydall?» ripeté ancora Ben. Continuava a tornare su quella domanda. «Siete sicuri?» «Alto Signore, quest'uomo è uno straniero a Landover» gli assicurò Questor Thews. «Non c'è nessun Rydall e nessun Marnhull da nessuna
parte, entro i nostri confini.» «Né, per quanto ne sappiamo, al di fuori di essi!» sbottò Abernathy, accalorato. «Rydall afferma di aver attraversato le nebbie fatate per arrivare qui, ma come prova abbiamo soltanto la sua parola. Nessuno può penetrare nelle nebbie, Alto Signore. Le fate non lo permettono. Solo la magia consente il passaggio, e solo le fate o le loro creature la posseggono. Rydall non mi sembra proprio una di quelle.» «Forse, come me, possiede un talismano che gli permette il passaggio» azzardò Ben. Questor si piegò in avanti e aggrottò la fronte. «Che ne dite del suo compagno con quel mantello nero? Vi ho detto che ho captato del magico in quei due, ma probabilmente non veniva da Rydall. Forse l'altro è una creatura magica, un essere fatato dello stesso tipo del Gorse. Un tale essere potrebbe assicurare il passaggio.» Ben tornò col pensiero al Gorse, il tenebroso essere fatato che era stato liberato e riportato su Landover al tempo della nascita di Mistaya. Una creatura di quella sorta era certamente in grado di controllare le nebbie fatate e di scaricare tutte le disgrazie che avesse voluto sulle spalle di chiunque gli avesse attraversato la strada. «Ma perché una creatura così potente dovrebbe essere al servizio di Rydall?» chiese all'improvviso. «Non dovrebbe essere il contrario?» «Forse la creatura fatata è sua schiava» intervenne Willow con calma. «O forse le cose non stanno così come sembra, ed è Rydall in realtà il servitore.» «Se quello dal mantello nero possiede la magia, potrebbe davvero essere così e apparire diversamente» rifletté Questor. «Vorrei aver potuto penetrare il loro travestimento.» Ben si appoggiò allo schienale della sedia. «Riflettiamo un momento. Questi due, Rydall e il suo compare, spuntano fuori dal nulla. Uno di loro, o forse tutti e due, possiede della magia, un bel po' di magia, dicono loro. Ma noi non sappiamo che cosa quella magia possa operare. Ciò che sappiamo è che loro vogliono la resa incondizionata del trono di Landover, e che sembrano convinti di poterla avere, in un modo o nell'altro. Perché?» «Perché?» ripeté Questor Thews perplesso. «Mettiamola sotto un altro aspetto» proseguì Ben. Spinse via il suo piatto e guardò il mago. «Loro hanno fatto una richiesta, senza offrire alcuna prova per spingerci a prenderla seriamente in considerazione. Non hanno rivelato alcuna magia, del tipo di quella che potrebbe indurre a più miti
consigli, e non hanno neanche dimostrato in qualche modo l'esistenza del loro millantato esercito. Hanno semplicemente fatto una richiesta e poi sono andati via, lasciandoci tre giorni di tempo per pensarci su. Pensare a cosa? Alla loro richiesta che abbiamo già respinto? Non credo.» «Tu credi che essi intendano darci qualche dimostrazione del loro potere» concluse Willow. Ben annuì. «Sì. Non ci hanno dato tre giorni per niente. E prima di partire hanno fatto una minaccia piuttosto ovvia. Rydall troppo in fretta ha fatto marcia indietro dalla sua richiesta di resa immediata. Perché farla se non aveva intenzione di sostenerla con la forza? Qui si sta giocando qualche gioco, di cui non credo che conosciamo ancora le regole.» Gli altri si limitarono ad annuire. «Cosa dobbiamo fare, Alto Signore?» chiese infine Questor. Ben si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe saperlo.» Ci pensò su per un momento. «Usiamo l'Osservatorio, Questor, per vedere se c'è qualche traccia di Rydall o del suo esercito qui a Landover. Possiamo fare una ricerca capillare. Non voglio mettere in allarme la popolazione spargendo la voce della sua minaccia finché non avremo scoperto se essa è reale, ma non ci farà male rinforzare i servizi di pattuglia ai confini per un po' di giorni.» «Non sarà neanche male aumentare il numero delle sentinelle qui al castello» ringhiò Abernathy, raddrizzandosi. «La minaccia, dopo tutto, sembrava diretta a noi.» Ben si dichiarò d'accordo. Dato che nessun altro aveva proposte da fare, si alzarono da tavola per intraprendere i lavori della giornata, la maggior parte dei quali era già fissata su un'agenda che veniva aggiornata da settimane, e non aveva niente a che vedere con Rydall e le sue minacce. Ben prese a occuparsi dei suoi affari in modo calmo e imperturbabile, ma la sua apprensione riguardo al Re di Marnhull rimaneva intatta. Quando ci fu tempo, Ben e Questor salirono nella torre più alta del castello, fino a una camera piccola e circolare, nella quale una metà della parete, tutt'attorno, era completamente aperta, dal pavimento al soffitto, per lasciare libera la vista sul territorio circostante. Una balaustra correva lungo il bordo, fino all'altezza della vita, per proteggere dal rischio di cadute, e un pulpito argenteo campeggiava al centro del semicerchio, rivolto verso le nuvole. Migliaia di rune erano incise nel metallo, a formare intricati ghirigori. Era questo l'Osservatorio. Ben chiuse a chiave la porta della camera, poi estrasse una consunta mappa di Landover da un cassettone su un la-
to e si diresse verso il pulpito. Spiegò la mappa sul leggio e la assicurò a esso con dei fermagli. Poi si sistemò direttamente davanti al pulpito, si afferrò alla balaustra, e focalizzò la sua attenzione sulla mappa. Una vibrazione calda cominciò a sprigionarsi sotto le sue mani. Si concentrò innanzitutto sulla regione dei laghi, perché era da lì che voleva cominciare la ricerca. Pochi secondi dopo le mura della torre parvero disintegrarsi, e lui si ritrovò a volare su Landover senza altro sostegno che la balaustra. Era un'illusione, ormai lo sapeva, perché in realtà si trovava sempre nel castello e soltanto la sua mente era libera di errare per Landover, ma l'illusione creata dalla magia dell'Osservatorio era impressionante. Sfrecciò sulle foreste della regione dei laghi, sui suoi fiumi, sui laghi e le paludi, con tutti i dettagli della regione chiaramente svelati ai suoi occhi, resi acuti come quelli di un'aquila in caccia. La ricerca si rivelò infruttuosa. Non c'era alcuna traccia di Rydall o del suo compagno dalla cappa nera o del loro esercito. I confini delle nebbie fatate erano tranquilli. Ben stava ancora meditando su tutto ciò a mezzogiorno, quando Willow lo prese in disparte. Uscirono in un giardino privato che si apriva proprio sulle stanze a pianterreno che la stessa Willow e Mistaya occupavano. Mistaya non c'era. Stava mangiando con Parsnip in cucina. «Ho intenzione di mandar via Mistaya» annunciò Willow senza preamboli, con gli occhi fissi su di lui. «Domani.» Ben rimase in silenzio per un momento, ricambiando lo sguardo. «Il tuo presagio?» Lei annuì. «Era troppo forte per ignorarlo. Forse l'arrivo di Rydall ne è stato la causa. Forse no. Ma mi sentirò meglio se Mistaya andrà via di qui per un po'. Potrebbe essere già difficile proteggere noi stessi.» Scesero giù per un tortuoso sentiero fino a un cespuglio di rododendri e lì si fermarono. Ben inspirò la fragranza dei fiori. Gli venne in mente la velata minaccia di Rydall sul male che avrebbe potuto colpire i suoi cari. E Rydall aveva visto Mistaya sulle mura. Incrociò le braccia e guardò lontano. «Hai ragione, probabilmente. Ma in quale luogo potremmo mandarla, che sia più sicuro di queste mura?» Willow gli prese la mano. «Da mio padre. Dal Signore del Fiume. So quanto sia stato scorbutico in passato, talvolta addirittura ostile. Io non lo difendo. Ma vuole bene a sua nipote e farà in modo che non le manchi nulla. Può proteggerla meglio di noi. Nessuno può entrare nel paese degli esseri fatati se non è invitato. La loro magia, benché ridottasi da quando de-
cisero di lasciare le nebbie, è sempre potente. Mistaya sarebbe al sicuro.» Aveva ragione, naturalmente. Il Signore del Fiume e la sua gente possedevano una notevole magia, e il loro paese era al sicuro dagli ospiti indesiderati. Trovare il modo di entrarvi senza una guida era quasi impossibile; ritrovare la via d'uscita era ancora più difficile. Ma Ben non era convinto. Il Signore del Fiume e sua figlia non andavano molto d'accordo, e benché il Signore della regione dei laghi fosse stato contento della nascita di Mistaya e fosse venuto a Landover a farle visita, era ancora isolato e indipendente com'era sempre stato. Accettava Ben come Re di Landover a denti stretti, convinto che la monarchia non arrecasse alcun vantaggio alla vita degli esseri fatati. Aveva osteggiato e respinto Ben in più di un'occasione, e non faceva alcuno sforzo per dissimulare le sue ambizioni a estendere il proprio dominio. Con tutto ciò, Ben temeva per la sicurezza di Mistaya a Sterling Silver, almeno quanto Willow. Ci aveva pensato dal momento stesso che aveva fatto scendere sua figlia da quel bastione. Se la premonizione di Willow era esatta (e non c'era ragione di credere che non lo fosse) allora il vero pericolo era qui, visto che la minaccia che incombeva sulla famiglia era principalmente diretta contro di lui. Era quindi ragionevole mandare Mistaya in un altro luogo, e non c'era posto più sicuro, al di fuori delle nebbie fatate, della regione dei laghi. «D'accordo» acconsentì. «Tu l'accompagnerai?» Willow scosse lentamente la testa. «No, Ben. La mia vita è con te. Io rimarrò qui. Se potrò, aiuterò a proteggerti. Forse avrò un'altra premonizione.» «Willow...» prese a dire Ben. «No, Ben. Non chiedermelo. Ti ho lasciato in passato quando non avrei voluto farlo, e ogni volta ti ho quasi perduto. Questa volta non andrò. Mio padre avrà la massima cura di Mistaya.» I suoi occhi la dicevano lunga sulla sua determinazione. «Al mio posto manda qualcuno di fiducia ad accompagnarla, perché sia al sicuro durante il viaggio. Manda Questor o Abernathy.» Ben le prese la mano. «Farò qualcosa di meglio. Li manderò tutti e due. Questor terrà a bada Mistaya, e Abernathy terrà d'occhio Questor perché non faccia un uso avventato della sua magia. E in più manderò una scorta della Guardia Reale per protezione.» Willow si strinse a lui senza parlare, e Ben l'abbracciò forte. Rimasero stretti uno contro l'altra sotto il sole di mezzogiorno. «Devo dirti che non
mi fa piacere mandarla via» mormorò Ben alla fine. «Neanche a me» sussurrò Willow in risposta. Ben poteva sentire il cuore di lei battergli contro il petto. «Prima ho parlato con Mistaya. Le ho chiesto cosa facesse sulle mura, con lo sguardo puntato su Rydall.» Fece una pausa. «Mistaya mi ha detto che lo conosce.» Ben s'irrigidì. «Lo conosce?» «Le ho chiesto com'era possibile, ma mi ha risposto che non ne era sicura.» Willow scosse la testa. «Penso che fosse confusa quanto noi.» Dopodiché rimasero silenziosi, sempre tenendosi stretti, osservando i giardini, e ascoltando i suoni degli insetti e degli uccelli che facevano da controcanto al più distante brusio delle attività nel castello. Un collegamento tra Mistaya e Rydall? Ben sentì una lama di gelo trafiggergli il fondo dello stomaco. «La manderemo via alle prime luci dell'alba» sussurrò, e sentì Willow rispondergli con un più forte abbraccio. 3 Haltwhistle Mistaya fu avvertita quella sera stessa dai genitori: avevano deciso di mandarla in visita a suo nonno nella regione dei laghi, e sarebbe partita al mattino. Nel suo tipico modo diretto di parlare, la ragazzina chiese loro se ci fosse qualcosa che non andava, e loro risposero di no. Ma il modo in cui lo dissero fu la conferma definitiva dei suoi dubbi. Tuttavia, lei era troppo furba per contraddire i suoi genitori, e si guardò bene dal chiedere loro il motivo di quella decisione (benché fosse quasi certa che c'entrasse in qualche modo l'uomo che si era presentato ai cancelli quella mattina) e si accontentò di lasciar cadere l'argomento finché non le si fosse presentata l'occasione di parlare a quattr'occhi con l'uno o con l'altra. Sicuramente pensava a sua madre, poiché lei era più sincera con sua figlia. Non perché suo padre volesse ingannarla; il fatto era che lui si ostinava a trattarla da bambina, e cercava continuamente di proteggerla da quelle che considerava le dure realtà della vita. Era un'abitudine seccante, ma Mistaya faceva del suo meglio per tollerarla. Suo padre faceva fatica a comprenderla, in ogni sua manifestazione, certamente più di sua madre. Lui la giudicava secondo parametri che non le erano familiari, parametri concepiti e sviluppati nel vecchio mondo da cui proveniva, il mondo chiamato Terra, dove la magia era praticamente sconosciuta e le creature
fatate venivano considerate un mito. Suo padre le voleva bene, naturalmente, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei. Ma l'amore e la comprensione non andavano necessariamente a braccetto, nella vita reale, e questo era il suo caso. Suo padre non era solo, nella sua perplessità. La maggior parte di quanti vivevano al castello trovavano la bambina un tantino strana, per un motivo o per l'altro. Ne era stata cosciente quasi dall'inizio, ma la cosa non la preoccupava. La sua fiducia in se stessa e la sua sicurezza erano tali che l'opinione degli altri non aveva pressoché nessuna importanza. Sua madre stava bene con lei, e suo padre, per quanto confuso, era comunque protettivo. Abernathy si lasciava fare da lei delle cose che a qualsiasi altro bambino sarebbero costate un rapido viaggio in camera, a meditare sul significato dell'espressione "buone maniere". Bunion e Parsnip erano strani quanto lei, tutti orecchie e denti e peli irti, sempre a cinguettare in quel loro misterioso linguaggio che erano convinti lei non capisse mentre lei, naturalmente, capiva. E poi c'era Questor Thews, il migliore di tutti. Voleva bene a quel vecchio come un bimbo ne vuole a un nonno speciale, o allo zio o alla zia del cuore; forse perché loro due erano misteriosamente legati, come se fossero venuti al mondo condividendo la stessa visione della vita. Questor non la trattava mai da bambina. Non disprezzava mai una sua domanda o un'opinione. La ascoltava quando parlava, e le rispondeva sempre. Era distratto, e pasticciava un po' quando le mostrava la sua magia, ma questo sembrava renderlo ancora più simpatico. Lei sentiva che Questor la trovava una persona realmente meravigliosa (una persona, non una bambina) e la credeva capace di qualsiasi cosa. Be', qualche volta la riprendeva e la correggeva, ma lo faceva in un modo tale che non si sentiva mai offesa; piuttosto, si sentiva commossa da tanto interesse. Certo, non la amava dell'amore sconfinato di sua madre, e non possedeva la ferrea determinazione di suo padre; inoltre, non provava probabilmente lo stesso senso di dedizione nei suoi confronti che era proprio dei suoi genitori: ma sopperiva a tutto questo con la sua amicizia, quel genere di amicizia che è raro trovare nel corso della vita. Mistaya fu contenta di sapere che Questor le avrebbe fatto da tutore nel suo viaggio a sud. Le faceva piacere che anche Abernathy fosse della compagnia, ma era particolarmente felice per Questor. Il viaggio stesso sarebbe stato un divertimento. Non si era mai allontanata dal castello da quando era una bambina piccola, appena capace di camminare, e comun-
que solo per una gita di un giorno. I picnic e le cavalcate non contavano. Questa era un'avventura, un viaggio in un posto che non aveva mai visto. Le scoperte sarebbero state un mucchio, e avrebbe avuto vicino Questor a dividerle con lei. Si sarebbe divertita un mondo. Doveva ammettere, considerando più a fondo la questione, che parte dell'attrazione derivava dalla prospettiva di allontanarsi dai suoi genitori. Quando c'erano loro in giro, lei era sempre sorvegliata con più attenzione e tenuta a freno con maggior severità. Non fare questo. Non toccare quello. Stai vicino. Allontanati. E le lezioni che si ostinavano a farle erano interminabili e per la maggior parte superflue in rapporto ai suoi veri interessi. Era quando si trovava da sola con Questor che sentiva i suoi orizzonti espandersi e le possibilità cominciare ad aprirsi. Molto del suo entusiasmo aveva a che fare con l'uso che il mago faceva della magia, un compito importante e veramente affascinante. Mistaya adorava osservare ciò che Questor riusciva a fare con i suoi incantesimi e con le formule, anche quando non tutto andava secondo le sue previsioni. Lei pensava che un giorno avrebbe potuto imparare a usare la magia come lui. Ne era certa. Aveva provato in segreto un paio di incantesimi, qualche formuletta magica, e si era accorta che era quasi riuscita a farle funzionare. Naturalmente, non ne fece parola con nessuno. Tutti, incluso Questor Thews, le dicevano che l'uso della magia era estremamente pericoloso. Tutti le dicevano di non pensarci nemmeno, a fare delle prove. Lei prometteva ubbidiente ogni volta che quell'ammonimento le veniva fatto, ma si teneva aperte delle possibilità. Lei sapeva, a differenza degli altri, che la magia era una parte integrale della sua vita. Sua madre le aveva parlato molto presto dei suoi diritti di nascita. Lei era figlia di un umano e di una creatura fatata. Era figlia di tre mondi, generata da tre suoli diversi. Era nata nel covile di una strega, la conca che chiamavano il Pozzo Infido, il rifugio della Strega del Crepuscolo. Tutto ciò che aveva nel sangue era intessuto di magia. Era per questo che, a differenza degli altri bambini, in due anni era arrivata all'età di dieci. Era per questo che cresceva a singhiozzo. Il suo modo di crescere era ancora alquanto oscuro, anche per lei, ma lei lo comprendeva senz'altro più dei suoi genitori. La sua intelligenza era sempre la prima a progredire, seguita dalle emozioni e dal corpo. Mistaya non poteva prevedere né controllare il quando e il come, ma era consapevole di una progressione ben precisa. Era inoltre convinta che la fanciullezza non fosse uno stato particolar-
mente importante né desiderabile, che si trattasse fondamentalmente di un passo necessario per poter diventare adulti: ed era questa la cosa che lei voleva realmente. I bambini erano poco più che animaletti domestici; li si curava, li si cibava regolarmente, spesso venivano mandati fuori a giocare, e non era loro consentito di fare molto di più. Gli adulti potevano fare qualsiasi cosa, se erano pronti ad accettarne le conseguenze. Mistaya aveva padroneggiato fin dall'inizio i meccanismi della dinamica della crescita, ed era ansiosa di saltare i preliminari per andare dritta al sodo. Sbuffava e recalcitrava alle restrizioni impostele sia dalla sua fisiologia che dai suoi genitori, incapace di esercitare un adeguato controllo su entrambe le cose. Un viaggio alla regione dei laghi da suo nonno giungeva come una gradita tregua. Quindi non ebbe alcuna difficoltà ad assecondare il volere dei suoi genitori in quella occasione, gioì segretamente per la sua buona sorte e cominciò a fare i suoi piani. Sembrava che non fosse stato posto alcun limite di tempo a questa visita, il che significava che avrebbe potuto durare diverse settimane. Per Mistaya andava benissimo. Tutta la primavera o addirittura anche tutta l'estate nella regione dei laghi con gli esseri fatati era una prospettiva eccitante. Suo nonno le piaceva, benché lo avesse incontrato una volta sola. Era venuto al castello a trovarla quando era piccolissima e aveva pochi mesi. Il Signore del Fiume era un uomo burbero, alto e dai lineamenti scarni, uno spirito acquatico con la pelle argentea e folti capelli neri che gli crescevano giù per la collottola e sugli avambracci. Era stato freddo e riservato nel suo primo approccio, come se disdegnasse approfondire la sua conoscenza, come se diffidasse di lei non sapendo chi o cosa fosse. Lei al contrario non si era fatta crescere l'erba sotto i piedi quando l'aveva incontrato. Incurante del suo riserbo, la bimba era andata dritta da lui e gli aveva detto «Ciao, nonno. Sono molto contenta di conoscerti. Saremo buoni amici, vero?» La disinvoltura e il candore operarono il miracolo. Suo nonno le si affezionò all'istante, sbalordito al vedere una bimba così piccola e già così spigliata, e compiaciuto che gli avesse chiesto la sua amicizia. La portò a fare una passeggiata, parlò a lungo con lei e infine la invitò ad andare a trovarlo a casa sua. Si fermò solo per un giorno, poi andò via. Sua madre disse che lui non amava dormire al chiuso e che i castelli, in particolare, lo opprimevano. Disse che era una creatura dei boschi, e che raramente si avventurava lontano da casa sua. Il fatto stesso che fosse venuto a trovarla era già un grosso complimento da parte sua. Mistaya, lusingata, aveva
chiesto quando sarebbe potuta andare a trovarlo, ma la richiesta era stata archiviata e apparentemente dimenticata. Da allora non l'aveva rivisto. Era curiosa di scoprire cosa pensasse di lei adesso. Dopo cena fu impegnata a fare i bagagli per il viaggio e non ebbe l'occasione di chiedere a sua madre o a suo padre notizie sull'uomo ai cancelli. Quella notte il suo sonno fu agitato, e si svegliò prima dell'alba. Dopo i baci e gli abbracci dei suoi genitori, a ricordarle la loro dedizione, alle prime luci si mise in viaggio con la sua scorta: Questor Thews, Abernathy e una dozzina di Guardie del Re. Cavalcava il suo pony preferito, Piè Leggero, e guardava il sole ricacciare le ombre oltre i prati e le colline fino alle scure foreste, mentre cominciava il nuovo giorno. Sei guardie cavalcavano davanti a lei, e sei alla retroguardia. Questor era al suo fianco, che montava un vecchio pezzato dal nome improbabile di Gufo. Abernathy, che detestava i cavalli, viaggiava all'interno del carro che trasportava i vestiti e gli effetti personali della ragazza. Un cocchiere guidava il tiro alla testa del carro lungo la pista erbosa che conduceva a sud. Mistaya attese che Sterling Silver fosse definitivamente fuori vista, quindi si accostò con Piè Leggero a Questor e chiese: «Chi era l'uomo ai cancelli, Questor? Quello che mio Padre non voleva che io vedessi?» Questor Thews sbuffò. «Un piantagrane di nome Rydall. Affermava di essere il Re di un paese chiamato Marnhull, che nessuno di noi ha mai sentito nominare. A sentir lui si troverebbe dall'altra parte delle nebbie fatate, ma io e te sappiamo quanto questo sia improbabile.» «È a causa sua che mi mandano da mio nonno?» «Sì.» «Perché?» Il mago fece spallucce. «Potrebbe essere più pericoloso di quel che sembra. Ha fatto delle minacce.» «Che tipo di minacce?» Le bianche sopracciglia cespugliose si unirono con veemenza. «Difficile dirlo; erano alquanto vaghe. Rydall vuole che tuo padre rinunci alla corona e lasci regnare lui al suo posto. Una vera assurdità. Ma ha lasciato intendere che sarebbe meglio per noi fare quello che dice. Tuo padre sta riflettendo.» Mistaya rimase in silenzio per un momento, soprappensiero. «Chi era l'altro, quello con la cappa nera?» «Non lo so.» «Un mago?»
Questor la guardò, mostrando la sorpresa sul volto affilato. «Sì, forse. C'era qualcosa di magico in lui. L'hai sentito anche tu?» Lei annuì. «Credo di conoscere uno di loro.» La sorpresa si mutò in stupore. «Davvero? Come puoi?» Lei corrugò la fronte. «Non lo so. L'ho sentito mentre stavo li sulle mura.» Fece una pausa. «Dapprincipio pensavo che fosse l'uomo grosso, Rydall. Ma adesso non ne sono sicura. Può darsi che fosse l'altro.» Si strinse nelle spalle, già stanca dell'argomento. «Pensi che vedremo qualche fantasma di palude lungo la strada, Questor?» Viaggiarono speditamente per tutto il giorno, facendo parecchie pause per far riposare i cavalli e una sosta per il pranzo, e al tramonto avevano raggiunto le sponde meridionali dell'Irrylyn. Lì fecero il campo per la notte. Mistaya andò a nuotare nelle acque calde del lago, poi pescò il necessario per la cena con Abernathy e un paio di Guardie del Re. Presero parecchie dozzine di pesci in men che non sì dica, tanto che Mistaya ebbe a lamentarsi con lo scrivano della eccessiva facilità di quella pesca. Mentre le guardie portavano i pesci al campo per pulirli e cucinarli, la ragazza e il cane si sedettero da soli sulle rive del lago, a osservare le acque color argento mentre il sole s'immergeva in uno sfolgorio di rosso e rosa dietro l'orizzonte lontano. «Pensi che la Madre e il Padre siano in pericolo, Abernathy?» gli chiese lei quando furono soli, con la faccia e la voce incredibilmente serie. Abernathy considerò la domanda per un momento, poi scosse la testa arruffata. «No, Mistaya, non credo. E anche se lo fossero, non sarebbe la prima volta. Quando si è un Re o una Regina, il pericolo è sempre in agguato. Quando disponi del potere, di qualsiasi potere, c'è sempre pericolo. Ma i tuoi genitori sono pieni di risorse e sono sopravvissuti a un'infinità di cose. Se fossi in te non mi preoccuperei per loro.» Mistaya gradì quella risposta e annuì amabilmente. «D'accordo, non lo farò. Tu e Questor rimarrete con me quando saremo a Elderew?» «Solo per un giorno o poco più. Poi dobbiamo tornare. Tuo padre avrà bisogno di noi. Non possiamo stare via per molto.» «No, naturalmente no» convenne lei, alquanto elettrizzata all'idea di rimanere lì da sola. Anche suo nonno conosceva la magia. Si chiese se sarebbe riuscita a persuaderlo a insegnarle un po' di cose. E se lui le avrebbe permesso di sperimentare qualcosa. Una forma nebulosa emerse dagli alberi su un lato e andò a fondersi con alcuni cespugli che correvano lungo la riva del lago. Mistaya e Abernathy
erano seduti su un grappolo di rocce levigate, sopraelevate rispetto ai cespugli, e potevano quindi vedere qualsiasi cosa lì attorno. A nessuno dei due era sfuggito quel movimento furtivo. «Un fantasma di palude?» chiese Mistaya in un sussurro di eccitazione. Abernathy scosse la testa. «Qualche sorta di creatura. Non molto vecchia e neanche tanto sveglia, a giudicare dalla sua mancanza di circospezione.» Lei gli diede una piccola gomitata. «Perché non gli abbai, eh, Abernathy? Una bella abbaiata sonora?» «Mistaya...» «Ti prego... non ti tirerò le orecchie per il resto del viaggio.» Il cane sospirò. «Grazie tante.» «Dai» lo incalzò Mistaya. «Solo una volta; voglio vederlo saltare.» Abernathy masticava a vuoto. «Uhm.» Poi abbaiò: un'esplosione improvvisa e acuta che lacerò il silenzio del crepuscolo. Sotto di loro, la creatura balzò come una molla dai cespugli fra i quali si nascondeva e si fiondò di nuovo nella foresta come lanciato da una catapulta. Mistaya non stava più nella pelle dalle risate. «È stato bellissimo! È stato uno spasso! Mi fai morire quando fai così, Abernathy! Mi fa ridere da matti!» Lo strinse in un abbraccio e gli tirò leggermente le orecchie. «Mi fai proprio ridere, vecchia palla di pelo.» «Uhm» ripeté Abernathy. Ma era visibilmente soddisfatto. Il pesce fu cucinato a puntino, e la cena fu deliziosa. I componenti della piccola carovana mangiarono tutti assieme, e tutto venne consumato con appetito. Era meglio di un picnic, concluse Mistaya. Rimase sveglia fino a tardi, scambiando storielle con le Guardie del Re, nonostante l'evidente disapprovazione di Abernathy, e quando finalmente si avvolse nelle coperte, rifiutando la trapunta di piume che era stata portata per sua comodità (le Guardie del Re, dopotutto, non la usavano), cadde subito in un sonno profondo. Senza sapere il perché, si svegliò quando era ancora buio. Tutti attorno a lei dormivano saporitamente: la maggior parte, soprattutto Questor Thews, ronfava emettendo suoni che facevano pensare a un cancello arrugginito. Lei strizzò gli occhi, si levò a sedere e si guardò attorno. Un paio di occhi la stavano fissando da appena qualche passo di distan-
za, mandando luminosi riflessi giallognoli alla luce dei fuochi morenti. Mistaya aguzzò la vista, senza alcuna paura. Gli occhi che la guardavano appartenevano a un cucciolo di fango. Non ne aveva mai visto uno, ma sapeva qual era il loro aspetto dalle descrizioni che Abernathy ne aveva fatto nelle sue interminabili lezioni sulle specie endemiche di Landover. Aspettò che il suo sguardo si abituasse al buio per assicurarsene. Il cucciolo di fango aspettò con lei. Quando poté vedere chiaramente, Mistaya si trovò faccia a faccia con una strana creatura caratterizzata da un corpo oblungo colorato in varie tonalità di bruno, zampe corte con piedi palmati, una sorta di muso vagamente simile a quello di un roditore, grandi orecchie canine penzolanti, e una coda da lucertola, liscia e affusolata. Sicuro, pensò, un cucciolo di fango. Strinse le labbra e gli mandò un bacio. Il cucciolo di fango strinse gli occhi. Lei si ricordò improvvisamente che i cuccioli di fango erano considerati esseri fatati. Li si vedevano raramente in giro per Landover, e quasi mai al di fuori della regione dei laghi. «Sei molto carino» sussurrò. Il cucciolo di fango per tutta risposta scodinzolò. Si spostò di qualche passo, poi si voltò indietro, in attesa. Mistaya si levò dalle coperte. Il cucciolo di fango si mosse di nuovo. Non c'era dubbio sulle sue intenzioni, pensò Mistaya. Che fortuna! Già un'avventura! Si infilò gli stivaletti e strisciò per il campo addormentato seguendo le orme del suo nuovo compagno. Il cucciolo di fango si accertò di non andare mai troppo avanti, guidandola deliberatamente. Troppo tardi Mistaya si ricordò che c'era una sentinella di guardia a ciascuna estremità del campo, e fu quasi addosso a una di esse prima di potersi fermare. Ma la sentinella sembrò non vederla. Aveva lo sguardo fisso nella notte, assente. Il cucciolo di fango gli passò accanto indisturbato, seguito da Mistaya. Magia! Pensò la ragazza, e la sua eccitazione crebbe. Il cucciolo di fango la portò via dall'Irrylyn inoltrandosi nei boschi circostanti. Fecero un bel po' di strada, districandosi in un fitto groviglio di alberi e cespugli, guadando ruscelli, scendendo giù per forre e risalendo colline. La notte era calda e silenziosa, e l'aria era pregna del profumo di pini e gelsomini. I grilli cantavano e piccoli roditori correvano frusciando nel sottobosco. Mistaya studiava ogni cosa, ascoltava ogni suono e non si lasciava sfuggire niente. Non aveva idea di dove stessero andando, ma non
aveva alcuna paura di smarrirsi. Era convinta che il cucciolo di fango la stava conducendo da qualcuno, e sperava che si trattasse di una creatura magica. Giunsero finalmente a una radura nella quale un'ampia falce di luna si rifletteva scintillante su un piccolo acquitrino ricoperto d'erba che segnava la fine della corsa di un ruscello disceso da qualche lontana sorgente sulla collina. L'acqua era ricolma di piante e di gigli notturni, ed era liscia come l'olio. Il cucciolo di fango proseguì fino a trovarsi a pochi passi dall'orlo e lì si accucciò. Mistaya gli si accostò e attese. L'attesa non fu lunga. Quasi immediatamente la superficie dell'acquitrino s'increspò per poi aprirsi, e una forma cominciò a delinearsi. Era una donna completamente ricoperta di fango, che quando prese una forma definita apparve lubrica e liscia e scura. Si levò torreggiante su Mistaya, molto più imponente di qualsiasi altra donna la ragazza avesse mai visto, con le sue forme doviziose scintillanti di perline d'acqua sotto la luce lunare. Rimase ritta sulle acque del laghetto come su terreno solido, e i suoi occhi si aprirono a incontrare quelli di Mistaya. «Ciao, Mistaya» la salutò, con una voce morbida e ricca che mormorava di terra umida e di ombre fresche. «Ciao» rispose Mistaya. «Io sono la Madre Terra» disse la donna. «Sono amica di tua madre. Ti ha parlato di me?» Mistaya annuì. «Tu eri la sua migliore amica quando era una ragazzina. Le parlasti di mio padre prima che giungesse a Landover. Tu ti prendi cura della terra e delle cose che vivono su di essa. Tu puoi fare magie.» La Madre Terra rise sommessamente. «Qualche piccola magia. La maggior parte di ciò che faccio è semplicemente lavoro duro. Allora, ti piace la magia?» «Si, tantissimo. Ma non mi è consentito farne uso.» «Perché è pericoloso per te.» «Sì.» «Ma tu non lo credi?» Mistaya esitò. «Non è che proprio non ci creda. Soltanto che non vedo come posso imparare a difendermi dai suoi pericoli se non posso mai esercitarla.» Gli occhi della donna brillarono come pozze d'argento fuso. «Una buona risposta. L'ignoranza non protegge; la conoscenza protegge. Lo sapevi, Mistaya, che io aiutai tua madre a prepararsi per la tua nascita? Le asse-
gnai il compito di raccogliere le terre dalle quali tu sei nata. Feci tutto questo perché sapevo qualcosa sul tuo conto che tua madre ignorava. Sapevo che la magia sarebbe stata una parte importantissima della tua vita, e che tu non avresti potuto proteggerti dai suoi effetti se il tuo corpo non fosse stato costituito in parte dai suoi elementi. Tu avevi bisogno di terra delle nebbie fatate, oltre ché di quella proveniente dai mondi di tua madre e di tuo padre.» «Io sono una creatura fatata?» chiese rapida Mistaya. La Madre Terra scosse la testa. «Non è tanto semplice definire la tua natura, bambina» rispose. «Tu non sei semplicemente una cosa o l'altra, ma un misto di parecchie. Tu sei speciale. Non c'è nessun altro come te nell'intera Landover. Cosa ne pensi?» Mistaya stette un po' soprappensiero. «Immagino che dovrò abituarmi.» «Questo non sarà tanto facile» proseguì la Madre Terra. «Ci saranno ostacoli che dovrai superare, a ogni angolo. Tu penserai che è stato difficile crescere, ma diventerà ancora più difficile, molto di più. Dure lezioni ti aspettano. Ci saranno prove che potranno distruggerti se non starai attenta. L'esperienza è l'inevitabile maestra di tutti i bambini che si avviano a diventare adulti, piena di rivelazioni e scoperte, di delusioni e ricompense, e di successi e fallimenti. Il trucco sta nel trovare un equilibrio a tutto questo e riuscire a sopravvivere per volgere le conoscenze in saggezza. Questo sarà doppiamente arduo per te, Mistaya, perché le tue saranno le prove e le lezioni di tre mondi diversi, e dovrai stare particolarmente attenta a dove mettere i piedi.» «Io non ho paura» disse coraggiosamente Mistaya. «Di questo sono a conoscenza.» Mistaya aggrottò la fronte, pensierosa. «Madre Terra, puoi vedere che cosa mi aspetta? Puoi leggere nel futuro?» Gli occhi argentei della Madre Terra si chiusero e si aprirono lentamente come quelli di un gatto. «Oh, bambina, vorrei poterlo fare. Come sarebbe facile la vita. Ma non posso. Quello che vedo sono delle possibilità. Il futuro potrebbe essere questa o quella. Di solito può essere un mucchio di cose. Vedo sprazzi di fosche nubi e di arcobaleni nelle vite di coloro che abitano la mia terra, e talvolta posso anticipare o alterare ciò che potrebbe essere. Il futuro non è mai fisso, Mistaya. Per ciascuno di noi è una tela bianca sulla quale dobbiamo dipingere la nostra vita.» «La Madre e il Padre credono che siamo in pericolo» disse la ragazza. «È vero?»
«Sì, è così» rispose la Madre Terra. «Una di queste nubi fosche di cui parlavo viene verso di voi. Metterà alla prova la vostra determinazione e sfiderà le vostre capacità di comprensione. Sembra una nube terribilmente scura, e dovrete stare molto attenti. È per questa ragione che ti ho attirato qui da me, stanotte.» «Per avvertirmi?» «Per qualcosa di più, Mistaya. Tu sei stata già avvertita, e il mio avvertimento non serve a niente.» La Madre Terra luccicò mentre alzava un braccio per indicare. «Il cucciolo di fango che ti ha condotta da me si chiama Haltwhistle. Mi ha servito bene e a lungo. Tua madre lo conosce da quando era bambina. Haltwhistle è una creatura fatata, venuto un tempo dalle nebbie per essere il mio compagno. I cuccioli di fango sono in grado di vivere sia dentro che fuori delle nebbie, e servono qualcuno di loro scelta. Sono indipendenti nella loro scelta, ma da quel momento in poi restano sempre fedeli. Essi dispongono di un genere di magia fatata molto potente. È una magia buona, una magia di guarigione. È un antidoto per quelle magie che vengono usate per danneggiare o per distruggere. Non può proteggere completamente da esse, ma può alterare i loro effetti in modo tale da limitarli. La magia di Haltwhistle fa questo per quelli che serve e talvolta per i loro amici.» Mistaya diede un'occhiata a Haltwhistle, che la stava guardando con occhi grandi e appassionati. «Sembra molto simpatico» disse. «È tuo adesso» disse dolcemente la Madre Terra. «Io te lo concedo per il tempo che ti ci vorrà per diventare donna. Mentre tu crescerai, Haltwhistle sarà il tuo compagno e protettore. Ti preserverà da una parte di quel male che potrebbero arrecarti quelle nubi scure di passaggio nella tua vita.» Il suo braccio ricadde in un luccichio di chiar di luna. «Ma tieni presente questo, Mistaya. Haltwhistle non può proteggerti da tutto. Nessuno può farlo. Se contro di te verrà usata la magia oscura, lui potrà diventare il tuo scudo. Ma se la magia oscura sarà la tua, lui non potrà fare niente per aiutarti. Ciò che sceglierai di fare con la tua vita, dovrà essere una responsabilità soltanto tua. Le conseguenze delle tue azioni e delle tue decisioni dovranno ricadere su di te. Farai degli errori e ti comporterai da sciocca, e Haltwhistle non potrà fare niente per fermarti. Queste sono lezioni che dovrai affrontare, per crescere.» Mistaya corrugò la fronte e serrò le labbra. «Io non farò errori e non mi comporterò da sciocca se dipenderà da me» disse con ostinazione. «Starò
ben attenta alle scelte che farò, Madre Terra.» Gli strani occhi dell'altra sembrarono intristirsi di colpo. «Tu farai del tuo meglio, bambina. Non aspettarti di più.» Mistaya si fermò a pensare. «Posseggo della magia che mi possa aiutare?» chiese impulsivamente. «Magia che sia proprio mia?» «Si, Mistaya, ce l'hai. E forse ti aiuterà. Ma ti potrebbe anche danneggiare. Se dovessi scegliere di usarla, ti esporrai a dei rischi.» «Ma io non so neanche cosa sia. Come posso usarla? Come può farmi del male?» «Col tempo» disse la Madre Terra «imparerai.» Mistaya sospirò d'impazienza. «Adesso mi sembri mio Padre.» «È tempo per te di tornare» l'avvisò la Madre Terra, ignorando le sue lamentele. «Prima però, ci sono alcune cose che devi sapere di Haltwhistle. Lui sarà sempre con te, ma tu non lo vedrai sempre. Veglierà su di te nella maniera che riterrà più opportuna, quindi non disperare se di tanto in tanto non riuscirai a trovarlo. Inoltre, non dovrai mai cercare di toccarlo. I cuccioli di fango non sono fatti per essere toccati. Sta' attenta. Infine, ricorda questo. Haltwhistle non ti chiederà mai acqua né cibo. Penserà da sé a procurarsi il necessario. Ma tu devi pronunciare il suo nome almeno una volta al giorno. Lo potrai dire in qualsiasi modo, l'importante è che tu lo dica. Se trascurerai di farlo, rischierai di perderlo. Se lui non si sentirà necessario, ti lascerà e tornerà da me. Hai compreso tutto?» Mistaya annuì convinta. «Si, Madre Terra. Haltwhistle sarà trattato benissimo.» Si interruppe. «Madre Terra, io sono in viaggio per andare a trovare mio nonno nella regione dei laghi. Cosa devo fare se lui si rifiuterà di accogliere Haltwhistle in casa sua? È un uomo molto rigido e severo su certe cose.» «Non preoccuparti, bambina» la rassicurò la Madre Terra «I cuccioli di fango sono creature fatate. Vengono e vanno dove e quando vogliono. Non possono essere tenuti fuori da un posto che vogliono visitare, se non con potenti magie. Haltwhistle sarà con te dovunque andrai.» Mistaya guardò il cucciolo di fango e sorrise. «Grazie, Madre Terra. Grazie per Haltwhistle. Gli voglio già bene.» «Arrivederci, Mistaya.» La Madre Terra cominciò ad affondare nuovamente nell'umidità. «Ricorda quanto ti ho detto, bambina.» «Senz'altro» rispose Mistaya. «Arrivederci. Poi gridò» Aspetta! Quando ti vedrò di nuovo? Ma lo spirito elementare era già scomparso, inghiottito dal fango. L'ac-
quitrino scintillava debolmente con piccole increspature nel punto in cui si era immersa, alla luce della luna. La radura era vuota e silenziosa. Mistaya improvvisamente ebbe di nuovo sonno. Era stata un'avventura meravigliosa, e se ne aspettava ancora tante. Sbadigliò e si stiracchiò, poi sorrise ad Haltwhistle. «Anche tu sei stanco?» chiese dolcemente. Haltwhistle la guardò. «Torniamo a dormire. D'accordo, ragazzo?» Haltwhistle agitò la coda a mo' di risposta. Non sembrava del tutto sicuro di esserlo. Ma Mistaya stava già avviandosi, così il cucciolo di fango la seguì servizievole. Insieme, tornarono indietro attraverso i boschi verso il campo e verso il destino che li attendeva. 4 Il sortilegio Il corvo dagli occhi rossi, che nella forma umana era la Strega del Crepuscolo, stava appollaiato in alto, tra i rami di un noce, e guardava Mistaya che tornava al campo sbucando dai boschi immersi nell'oscurità della notte. La ragazza si materializzò all'improvviso, un'ombra furtiva e silenziosa. Resi ciechi alla sua presenza dalla magia della Madre Terra, gli uomini di guardia non la videro, e i loro sguardi, pur rivolti nella sua direzione, la passavano da parte a parte, come se non ci fosse niente. La ragazza andò rapidamente alla sua coperta, vi si avvolse, si mise giù e chiuse gli occhi. In pochi secondi si addormentò. Il corvo puntò un occhio acuto sulla radura e sui boschi circostanti. Non c'era traccia del cucciolo di fango. Molto bene. La presenza del cucciolo di fango aveva scombinato i piani della Strega del Crepuscolo. Non aveva previsto la sua apparizione, e ancora non conosceva la sua particolare funzione. Era al corrente del fatto che serviva la Madre Terra, naturalmente, ma quello non spiegava il motivo per cui avesse avvicinato la ragazza. Un avvertimento da parte della Madre Terra? Forse. Anzi, era probabile che fosse proprio così. Ma perché la Madre Terra aveva avvertito la ragazza proprio quella notte? Conosceva le intenzioni della strega? Aveva in qualche modo messo in guardia la ragazza? Niente di tutto ciò sembrava probabile. Proprio come la Strega del Crepuscolo non poteva penetrare la magia della Madre Terra per scoprire come mai avesse mandato il cucciolo di fango, così la Madre Terra non poteva penetrare la magia della strega per svelare qual era il destino che aspettava la
ragazza. Ognuna di loro poteva percepire un senso delle intenzioni di quell'altra, ma non più di quello. Era una specie di stallo. Così ogni tentativo di seguire il cucciolo di fango e la ragazza allo scopo di scoprire le intenzioni della Madre Terra sarebbe stato rapidamente rintuzzato. Peggio, esso avrebbe rivelato la presenza della Strega del Crepuscolo nella regione dei laghi, e questo avrebbe probabilmente compromesso tutto irrimediabilmente. A ogni modo, la ragazza era ritornata sola, quindi la Madre Terra doveva aver finito con lei. Il fatto stesso che fosse tornata dimostrava che quasi certamente essa non sapeva nulla dei piani della strega, quindi probabilmente non c'era motivo di preoccuparsi. Non che la Strega del Pozzo Infido sarebbe stata molto in ansia, in ogni caso. Se anche la Madre Terra o il suo messaggero a quattro zampe avessero deciso di interferire, la Strega del Crepuscolo avrebbe trovato il modo di far loro rimpiangere una tale decisione per molto tempo a venire. La magia della strega era molto più forte di quella della Madre Terra, e come niente avrebbe potuto mandare quella forma elementare a nascondersi frettolosamente in qualche tana. Il corvo dagli occhi rossi batté le palpebre soddisfatto. Tutto andava come doveva. La Madre Terra aveva probabilmente mandato a chiamare la ragazza per fare la sua conoscenza, essendo un'amica di vecchia data di sua madre, e anche la sua protettrice. Adesso la ragazza era di nuovo lì dove la strega la voleva, addormentata tra i suoi protettori decisamente inutili, beatamente ignara di come la sua vita fosse in procinto di cambiare. La Strega del Crepuscolo sapeva già che Holiday avrebbe deciso di mandare via sua figlia dopo aver sentito Rydall minacciare apertamente la sua famiglia. Sapeva già in anticipo, esattamente, cos'avrebbe fatto il Re di Landover. Il presagio della silfide, quello che la Strega del Crepuscolo le aveva mandato in sogno, tenebroso e terribile quanto solo la strega avrebbe potuto concepirlo, aveva piantato il seme di quell'idea. L'apparizione di Rydall aveva portato il seme a maturazione. Qualunque altra cosa fosse accaduta, Holiday e la silfide non avrebbero corso rischi con la loro beneamata figliola. La Strega del Crepuscolo non sapeva dove la ragazza sarebbe stata mandata, benché avesse subito indovinato che doveva trattarsi della regione dei laghi e degli esseri fatati: ma questo, in realtà, non aveva importanza. Dovunque Mistaya fosse andata, la Strega del Crepuscolo sarebbe rimasta in attesa. E adesso l'ora era venuta. Guidati dall'istinto, oltre ché dalla vista, gli occhi rossi fecero un'ultima
ricognizione della radura e dei boschi che la circondavano, una definitiva perlustrazione delle ombre e delle tenebre dove qualcosa avrebbe potuto nascondersi. Niente si rivelò. Gli occhi rossi scintillarono. La Strega del Crepuscolo sorrise dentro di sé. Gli uomini immersi nel sonno e la ragazza appartenevano a lei, adesso. Il corvo spiegò le ali, lasciando il ramo che gli era servito da posto di vedetta, si librò per qualche momento verso l'alto, descrivendo cerchi sulla radura, e poi planò di nuovo verso il basso in una lenta spirale. Si era ormai nelle ultime ore della notte morente, quelle che conducono al nuovo giorno, quelle in cui il sonno è più profondo e i sogni hanno dominio incontrastato. Oscurità e silenzio avviluppavano gli uomini e la ragazza e i loro animali, e nessuno avvertì la presenza del corvo calante. Passò sulle loro teste non visto e non udito. Li sorvolò una seconda volta per accertarsene, ma neanche le sentinelle, di nuovo vigili adesso che la ragazza era tornata e l'incantesimo visivo della Madre Terra non c'era più, videro nulla. Il corvo virò lentamente a sinistra sorvolando Mistaya, poi tornò indietro, stendendo la sua ombra sul piccolo fagotto immobile, come il tocco consolante di una mano materna. A ogni passaggio, una strana polvere verde che luccicava e vorticava alla luce lunare, veniva sparsa dalle scure ali del corvo come il polline da un fiore, e fluttuava verso il basso per andare a posarsi sulla piccola dormiente. Quattro passaggi fece il corvo, e a ognuno di essi la polvere verdastra cadde come un velo muschioso. Mistaya la inspirò nel sonno, sorrise alla sua fragranza, e si rimboccò la coperta per rassicurarsi. Gradatamente il suo sonno divenne più profondo, e lei si allontanò sempre più dalla coscienza, fluttuando. I sogni la rapirono, nel complotto delle sue più vivide immaginazioni, e la ragazza fu trasportata velocemente via nella loro luce. Il corvo si levò ancora una volta verso il cielo e fece un cerchio per tornare al riparo degli alberi. Adesso la ragazza avrebbe dormito finché la Strega del Crepuscolo non fosse stata pronta per il suo risveglio. Avrebbe dormito e non avrebbe avuto alcuna parte in ciò che stava per succedere. Scendendo a saltelli da un ramo all'altro, lentamente, il corvo si avvicinò al suolo sempre al riparo delle fronde fino ad arrivare a circa un metro dal terreno. Poi riprese la sua forma di Strega del Crepuscolo, materializzandosi da piume e ali in un vortice di atri paludamenti, per ritrovarsi eretta sulla terra, fra le ombre della notte. Alta e regale, la sua bellezza abbagliante e gelida come neve appena caduta, i capelli neri con quell'unica
stria bianca tirati indietro sul volto aquilino, il sorriso duro come pietra, la strega raccolse attorno a sé tutta la sua magia e uscì dal bosco nella radura illuminata dalla luna. Nel sogno, Mistaya era un uccello dal piumaggio candido come la neve che sorvolava una terra dai brillanti colori. C'erano foreste di verde smeraldo, campi gialli come l'oro e color menta primaverile, montagne di liquirizia e cioccolato, colline di scarlatto e di viola, laghi di azzurro, e fiumi di argento e oro. Dappertutto un tappeto di fiori selvatici, sparsi per la campagna come polveri fatate. Un uccello dalle piume nere volava al suo fianco, indicandole la strada, mostrandole il miracolo laggiù in basso. L'altro uccello non parlava: non aveva bisogno di parole. I suoi pensieri e le sue sensazioni nutrivano il corpicino piumoso di Mistaya. La ragazza veniva portata come da un vento, e tutt'e due veleggiavano abbandonandosi alle sue correnti, cavalcavano i suoi improvvisi sbuffi ascensionali, si distendevano per librarsi seguendo le sue inclinazioni. Era meraviglioso, e le dava l'intossicante sensazione di avere tutto il mondo sulla punta delle ali. Il volo proseguì, e passarono su persone che guardavano in su. La gente allungava il collo e indicava col dito. Alcuni la chiamarono a gran voce e le fecero dei segnali. Erano persone che aveva conosciuto in un'altra vita, in un'altra forma, e che si era lasciata alle spalle. Forse un tempo l'avevano amata e protetta; forse l'avevano perfino aiutata a nutrirsi quando era solo un esserino implume. Ora stavano cercando di attirarla di nuovo da loro, di tirarla giù per poterla mettere in gabbia. Le invidiavano la libertà che lei aveva trovato. Non sopportavano di non poter più controllare il suo destino. C'erano rabbia e delusione e invidia nelle loro voci urlanti, e lei si rinsaldò nella sua volontà di volare ben al disopra di loro. Continuò il suo volo senza rallentare, senza guardarsi indietro. Continuò il suo volo incontro al futuro. Accanto a lei, l'uccello dalle penne nere si voltò a guardarla, e lei poté vedere i suoi occhi rossi brillare di approvazione. Dopo essere uscita completamente allo scoperto, dal riparo degli alberi, la Strega del Crepuscolo volse la sua attenzione prima di tutto alle due sentinelle che montavano la guardia alle due estremità della piccola radura. Fece in modo che quelli la vedessero, tutta intabarrata e incappucciata, un'imponente figura nera, minacciosa come la morte. Quando le puntarono
contro le armi, istintivamente consci del pericolo che rappresentava, lei alzò le braccia e li trafisse con la sua magia, due lampi gemelli di malefico fuoco verde. Le sentinelle ne furono avvolte prima di poter gridare, e quando il fuoco morì erano state trasformate in due rocce, delle dimensioni di una pagnotta di pane, che fumavano e crepitavano come tizzoni ardenti. La Strega del Pozzo Infido fece qualche altro passo avanti. Puntò il dito alla corda che tratteneva gli animali della carovana, ed essa prese fuoco e s'incenerì. I cavalli, fra i quali anche Piè Leggero e Gufo, schizzarono via come fulmini. La Strega del Crepuscolo fece un gesto quasi casuale verso il fuoco di bivacco del campo, ridotto ormai a un mucchietto di ceneri morenti, ed esso avvampò di nuova vita, sollevandosi al cielo come se fosse diventato un feroce fantasma vomitato dalla terra. Un momento dopo anche il carro di Mistaya era in preda alle fiamme. A quel punto gli altri membri della Guardia del Re si svegliarono, stringendo gli occhi alla luce improvvisa, saltarono fuori dalle coperte e cercarono istintivamente di raggiungere le armi. Furono pietosamente lenti, e la Strega del Crepuscolo trasformò cinque di loro prima che potessero rendersi conto di quanto stava accadendo, avvolgendoli nella sua magia e trasformandoli in pietre. Gli altri furono più svelti, alcuni abbastanza rapidi da saltar su e slanciarsi verso di lei. Ma lei li puntò con le mani uno dopo l'altro, scuro angelo di distruzione, e tutti furono abbattuti. In pochi secondi anche l'ultimo era scomparso. Adesso la radura era totalmente sgombra, a eccezione della strega, della ragazza dormiente e degli sbigottiti e confusi Questor Thews e Abernathy, che si erano messi davanti a Mistaya per farle da scudo. Tutto era accaduto così in fretta, che essi avevano avuto appena il tempo di svegliarsi e di correre al suo fianco. Questor Thews stava tracciando una qualche specie di incantesimo protettivo, disegnando figure d'ombra al chiarore del fuoco ravvivato, con le sue mani vecchie e rinsecchite come ramoscelli. La Strega del Crepuscolo neutralizzò l'incantesimo prima che potesse formarsi e si fece avanti per mostrarsi in piena luce. Tirò indietro il cappuccio e si rivelò. «Non si affanni, Questor Thews» gli consigliò mentre quello si apprestava a tentare di nuovo. «Questa volta nessuna magia potrà salvarvi.» Il vecchio la guardò, tremante di rabbia e di indignazione. «Strega del Crepuscolo, che cos'ha fatto?» esclamò in un roco sussurro. «Fatto?» ripeté lei, indignata. «Niente che non avessi la ferma intenzio-
ne di fare, mago. Niente che non avessi programmato per due lunghi anni. Adesso cominciate a rendervi conto di quanto la situazione sia disperata, per voi?» Abernathy si stava spostando lentamente, alla ricerca di un'arma da usare contro di lei. Lei fece un gesto brusco e lui s'irrigidì sul posto. «È meglio, scrivano, che lei rimanga dove si trova.» Gli sorrise, soddisfatta del senso di potere che la stava invadendo. Questor Thews si raddrizzò, nel tentativo di riacquistare la sua dignità. «Si è spinta troppo in là, Strega del Crepuscolo» dichiarò con coraggio. «L'Alto Signore non potrà tollerare tutto questo.» «L'Alto Signore sarà fin troppo occupato a rimanere vivo, penso» replicò lei, mentre il sorriso si allargava. «Eh sì, penso proprio che avrà il suo bel da fare. Peccato che voi non sarete lì per aiutarlo. Nessuno di voi.» Questor Thews vide la verità, in quel momento. «È venuta per la ragazza, vero? Per Mistaya?» «Lei appartiene a me» disse la strega. «È sempre appartenuta a me! È nata dalla mia terra, nel mio regno, dalla mia magia! Avrebbero dovuto darmela allora, ma le fate s'intromisero. Ma non questa volta, mago. Questa volta l'avrò. E quando avrò finito, lei non vorrà più lasciarmi.» Il fuoco ruggì e scoppiettò nel silenzio assoluto della notte, un'entusiastica dimostrazione di complicità nello schema della strega. Questor Thews e Abernathy erano come spaventapasseri intrappolati nella sua luce, incapaci di fuggire. Ma essi rifiutarono di crollare. «Holiday verrà a cercarla» insisté ostinato il vecchio «anche se noi non ci saremo più.» La Strega del Crepuscolo rise. «Lei non mi ascolta come si deve, Questor Thews. Holiday se la dovrà vedere prima con Rydall, e Rydall non avrà pace finché non lo avrà distrutto. Io ho organizzato tutto, e farò in modo che vada come dico io. Il Re di Marnhull è una mia creatura, e porterà a compimento la distruzione di Holiday com'è vero che il sole sorgerà domani. Holiday combatterà contro il suo destino, e lo spettacolo mi allieterà non poco, ma alla fine dovrà soccombere. Privato di sua figlia, dei suoi amici, e alla fine anche di sua moglie, morirà tutto solo e derelitto. Niente, meno di questo, potrà soddisfarmi. Niente, meno di questo, servirà a ripagarmi per quello che mi ha costretto a sopportare.» «Rydall è una sua creazione?» sussurrò il mago, sconvolto. «È tutta una mia creazione: tutto ciò che è successo e tutto ciò che sarà. Vedere il Re-fantoccio ridotto a niente è diventato lo scopo della mia vita,
e non rimarrò delusa.» Abernathy azzardò un passo avanti. «Strega del Crepuscolo, lei non può farlo. Lasci andare Mistaya. È solo una bambina.» «Solo una bambina?» Il sorriso si dileguò dal volto della strega. «No, scrivano, non è precisamente così. È qui che vi sbagliate, tutti. Io dovrei saperlo. In lei rivedo me stessa. Vedo quello che ero. Vedo quello che lei può diventare. Io le darò la conoscenza che voi vorreste tenerle nascosta. Io la plasmerò come dovrebbe essere plasmata. Che questo sia il vostro ultimo pensiero. Quando avrò finito con lei, lei diverrà per me lo strumento della distruzione del Re-fantoccio!» Quando ebbe finito di parlare, vide la disperazione nei loro occhi e aspettò la loro reazione. Questor Thews stava già cercando furtivamente di recuperare quel che restava della sua bistrattata magia per operare un incantesimo di protezione, muovendo le dita contorte all'ombra del suo corpo scheletrico. Lei sorrise all'inutilità dei suoi sforzi. Nessuno di loro vide Haltwhistle sbucare dalle ombre della foresta per piazzarsi proprio nella radura nell'estremità più lontana, procedendo cautamente con i suoi piedi palmati, con gli occhi atteggiati a un'espressione di vigile tristezza. «Cosa ha intenzione di farci?» chiese Abernathy, azzardando una rapida occhiata di sottecchi a Mistaya. Si stava chiedendo come mai non si svegliasse. «Sì, Strega del Crepuscolo, che cosa?» la incalzò Questor Thews. Tentava di guadagnare tempo, in modo da poter completare le formule del suo incantesimo, senza rendersi conto che era già troppo tardi. «Trasformerà anche noi in delle rocce?» La Strega del Crepuscolo sorrise. «No, mago, non mi comporterei in modo così prosaico nei suoi confronti. E neanche nei suoi, scrivano. Voi siete stati una fonte costante di irritazione per me, ma questa è l'ultima volta che interferite. Le vostre vite finiscono qui. Nessuno vi vedrà mai più.» Ci fu un momento in cui il tempo si congelò, mentre le parole della strega venivano portate via dallo scoppiettio del fuoco. Poi le mani di Questor Thews si levarono, e la magia sfolgorò in un ampio cerchio davanti a lui. Abernathy si voltò velocemente verso Mistaya e si chinò su di lei nel tentativo di portarla via. La Strega del Crepuscolo rise. A braccia tese, fece esplodere il fuoco verde dalla punta delle dita, e la sua magia balzò in avanti in un impeto d'energia e di malefiche intenzioni per inghiottire le sue vittime.
Mentre accadeva tutto questo, la testa di Haltwhistle s'inclinò, il suo corpo si afflosciò, il pelo sulla collottola si rizzò, e qualcosa di simile a un misto di ghiaccio e chiar di luna si levò dalla sua forma accovacciata e sfrecciò attraverso la radura. Un istante prima che la magia della Strega del Crepuscolo colpisse Questor Thews e Abernathy, frantumando in mille pezzi il patetico scudo del mago, la luna ghiaccio li raggiunse. Poi il fuoco della strega li consumò, e scomparvero istantaneamente. Non rimase null'altro che fumo, e il puzzo di materia carbonizzata e disintegrata. La Strega del Crepuscolo fece un giro su se stessa. Cos'era quello che aveva visto? Quello strano chiarore spuntato dal nulla? I suoi occhi perlustrarono rapidamente la radura, per poi puntarsi sui boschi aldilà. Nulla. Aguzzò lo sguardo. C'era stato qualcosa, o no? Portò in alto le mani e mandò luce stregata nel fitto degli alberi, cercando di scoprire una qualsiasi presenza vivente nascosta là in mezzo. Piccoli roditori, insetti e una manciata di uccelletti di terra si dispersero di fronte al suo potere. Ma non c'era nient'altro. Alla fine si girò indietro, vagamente insoddisfatta. La radura era completamente sgombra, a parte lei e la ragazza. Le Guardie del Re erano state mutate in pietre. Il mago e il cane erano scomparsi, e non si sarebbero visti mai più. Tutto era andato secondo le sue intenzioni. Era libera di portare avanti i suoi piani. Eppure.. Con un moto d'irritazione mise da parte le sue apprensioni, si avvicinò alla ragazza addormentata, e la osservò. Ci sarà tanto da fare con te, piccola, pensò soddisfatta. Tante lezioni da insegnarti, tanti segreti da rivelarti, tanti trucchi da mostrarti. Puoi sentire quello che sto pensando? La ragazza si mosse sotto le coperte, sognando. Sì, dormi, la esortò in silenzio la Strega del Pozzo Infido. Domani comincia la tua nuova vita. Quindi si chinò e sollevò la ragazza facendole culla con le braccia. Leggera, era, come una trapunta di piume. La Strega del Crepuscolo guardò la sua nuova figlia e sorrise. Poi trasformò l'aria intorno a loro in una nebbia ghiacciata. Un momento dopo la radura era deserta. 5 La sfida
Esattamente tre giorni dopo la sua prima comparsa Rydall di Marnhull tornò a Sterling Silver. Questa volta Ben Holiday lo aspettava. Non aveva mai dubitato che Rydall sarebbe tornato per mantenere la sua promessa. L'unico interrogativo insoluto era: quale forma di coercizione avrebbe esercitato il Re di Marnhull per persuadere Ben a soddisfare le sue ridicole richieste? Già sveglio prima dell'alba, Ben aveva pensato di fare una corsa per schiarirsi le idee. Si allenava ancora regolarmente, come soleva fare ai tempi in cui praticava il pugilato: un regime di footing, pesi e allenamento al sacco leggero e a quello pesante. Ancora appassionato di boxe, talvolta faceva a pugni con qualche soldato della Guardia, ma nessuno di loro aveva sufficiente esperienza in quello sport per opporgli una resistenza accettabile. O forse semplicemente glielo lasciavano credere. Quindi si allenava da solo, perlopiù. Quella mattina si preparò alla corsa, poi perse interesse alla cosa. Decise invece di salire sui bastioni con Willow e Bunion ad aspettare l'alba e Rydall. La notte era stata gelida, e quando l'oscurità cominciò a dileguarsi a occidente e l'oriente a illuminarsi, Ben trovò che durante la notte una nebbia bassa era uscita dagli alberi per fermarsi sul prato che fronteggiava il castello. Indugiava sull'erba umida, fumigando grigia e fitta in una linea ininterrotta che partiva dai boschi fino alle acque del lago. Quando il sole squarciò l'orizzonte orientale in una macchia d'argento, la nebbia prese a recedere dalla riva dove il terrapieno congiungeva il castello alla terraferma, e apparve Rydall. Stava in sella al suo destriero, tutto corazzato e irto di armi, con il suo silenzioso compagno intabarrato di nero piegato sulla sella del suo cavallo scuro, e tutti e due avevano lo stesso aspetto della prima volta, come se non si fossero mai mossi di li. Ben li guardava dalle mura del castello senza parlare, aspettando un loro movimento. Il guanto gettato da Rydall tre giorni prima era ancora per terra in mezzo al ponte. Ben aveva dato ordine di toglierlo, ma nessuno era stato in grado di farlo. Sembrava che il guanto fosse stato inchiodato al ponte. Nessuno era riuscito a sollevarlo; anzi, nessuno era riuscito a spostarlo di un millimetro, neanche Questor Thews. Qualche forma di magia lo teneva incollato al suolo, e l'unico sistema per toglierlo di li sarebbe stato di sradicare il ponte. Ben non era disperato a tal punto, e così il guanto era rimasto dov'era. Era li, adesso, che luccicava lievemente per l'umidità, un promemoria di quanto il Re di Marnhull aveva promesso.
«Holiday!» gridò seccamente Rydall. Nessun appellativo tipo "Re" o "Alto Signore", questa volta. Nessun falso rispetto. «Ci ha ripensato, alla mia richiesta?» «La mia risposta è la stessa!» gridò in risposta Ben. Sentì Willow avvicinarglisi al fianco. «Lo sapevi già!» Il cavallo di Rydall scalpitò impaziente. La sua mano si levò in un gesto di diniego. «Allora devo chiederle di cambiarla. O meglio, devo insistere. Non ha più scelta. Le cose sono cambiate dall'ultima volta che ci siamo visti. Io ho sua figlia.» Ci fu un lungo silenzio. Le mani di Willow strinsero forte il braccio di Ben, e lui la sentì tirare bruscamente il fiato. La gola di Ben si serrò in risposta a quelle parole. Io ho sua figlia. Ma Mistaya era al sicuro. Da due giorni era nella regione dei laghi da suo nonno, ben fuori dalla portata di Rydall. Non era così? «Le dissi che avrei trovato il modo per persuaderla a darmi ascolto» proseguì Rydall, spezzando il momentaneo silenzio. «Adesso credo che lei debba farlo. Sua figlia è importante per lei, suppongo.» Ben tremava di rabbia. «Questo è un altro dei tuoi giochetti, Rydall! Ti avverto che la mia capacità di sopportazione nei tuoi confronti è praticamente esaurita!» Il gesto di diniego venne ripetuto. «Questo è ancora da vedere. Comunque, non mi aspetto che lei mi creda sulla parola. Non sarebbe da lei, Holiday. Lei appartiene a quei genere di uomini che pretendono delle prove anche quando la verità li sta guardando dritto negli occhi. Va bene, allora.» Fischiò, e un paio di cavalli apparvero dalla cortina di nebbia bassa. Ben sentì un tuffo al cuore quando si avvicinarono. Uno era Piè Leggero e l'altro Gufo. Non era possibile sbagliarsi sul loro marchio. Sorpassarono Rydall e si avviarono su per il ponte. «Manda giù qualcuno e fatti portare ciò che troveranno legato alla sella del pony» gridò Rydall ancora una volta. Ben lanciò un'occhiata a Bunion. Il coboldo corse via all'istante, una macchia scura contro la pietra del castello. Incapace di parlare, avvampante di collera, Ben rimase li in piedi, con Willow stretta al suo fianco. Un momento dopo Bunion era di ritorno. Non c'era alcuna espressione sulla sua faccia strana, incartapecorita. Porse a Ben una collana e una sciarpa. Ben le studiò attentamente e, con la morte nel cuore, le passò a Willow.
Appartenevano a Mistaya. Le indossava al momento della partenza per la regione dei laghi. «Oh, Ben» sussurrò Willow, quasi senza fiato. «Dove sono Questor Thews e Abernathy?» gridò Ben a Rydall. «Dove sono gli uomini della scorta?» «Impacchettati, al sicuro» rispose Rydall. «Adesso è pronto ad ascoltare le mie richieste, Alto Signore di Landover?» Ben soffocò le emozioni che minacciavano di privarlo del suo buon senso. Circondò Willow con un braccio, per sostenere se stesso non meno che per sostenere lei. Ancora non voleva accettare quel che gli veniva detto. Non era concepibile che Rydall avesse catturato Mistaya con tanta facilità. Come aveva fatto? Come aveva potuto sopraffare la sua scorta? Questor Thews e Abernathy sarebbero morti prima di lasciare che la prendessero. «Rydall!» gridò improvvisamente, sorpreso lui stesso dalla forza che trovava nella propria voce. «Io non cederò il trono di Landover e non tradirò il suo popolo per nessuna ragione. Non accetterò ricatti. Sembra che tu ti diverta, a dare la caccia ai bambini, e questo mi fa dubitare delle tue pretese di conquista alla testa di eserciti con migliaia di guerrieri. Io credo che tu sia un codardo.» Rydall rise. «Parole coraggiose per un uomo nella sua posizione. E infatti non mi aspetto adesso che lei rinunci al trono, più di quanto me lo aspettassi prima. Non ho preso sua figlia per costringerla col ricatto ad accettare le mie richieste, ma per persuaderla ad ascoltarmi. Prima non l'avrebbe fatto. Adesso non può rifiutarsi. Ascolti bene, allora. Non credo che lei possa permettersi di non farlo.» Rydall indicò il guanto. «La sfida che io lancio non è quella che aveva previsto. Come ho detto, non mi aspetto che lei mi ceda il suo trono. Ho fatto la richiesta perché dovevo farla, naturalmente. Un Re deve sempre tentare per prima cosa quella più facile. È nella natura della conquista. Qualche volta un avversario può accettare. Io non ho mai pensato che lei potesse essere uno di questi, ma era necessario verificarlo. Adesso quella è una fase superata, e non è più tempo di giocare, né di negoziare: adesso siamo faccia a faccia con la realtà. Io ho sua figlia e i suoi amici. Lei ha il mio regno. Uno di noi deve rinunciare a qualcosa. Chi dovrà essere?» Rydall spinse il suo cavallo in avanti, fino all'inizio del ponte. «Io penso che dovrà essere lei, Re di Landover, ma sono disposto a sistemare la questione in maniera onorevole. Una sfida, dunque, come ho detto prima. La sfida è questa. Io manderò sette campioni a fronteggiarla. Ognuno verrà
nel momento che io deciderò. Ognuno avrà un aspetto diverso dagli altri. Tutti verranno per ucciderla. Se lei riuscirà a impedirglielo, se sarà capace di ucciderli per primo, tutti e sette, allora io libererò sua figlia e i suoi amici, e rinuncerò a ogni pretesa sul trono di Landover. Ma se uno solo di loro riesce nel suo intento, allora il suo regno sarà mio e la sua famiglia sarà mandata in esilio per sempre. Accetta? Se sì, esca dal castello e venga sul ponte a raccogliere il mio guanto.» Ben lo guardò incredulo. «È pazzo» sussurrò a Willow, che annuì senza fiatare. «Lei ha un campione a sua difesa» proseguì Rydall. «Tutti conoscono il Paladino, il cavaliere errante del Re, nonché suo protettore. Avrà qualche forma di difesa contro le creature che manderò.» Creature, adesso, pensò Ben. Non campioni. «So che nessuno ha mai sconfitto il Paladino. Questo vuol dire che lei ha una ragionevole possibilità di vincere, no? Accetta?» Ben ancora non rispondeva, la mente in subbuglio mentre considerava la proposta. Era ridicolo, ma era l'unica possibilità di riavere indietro Mistaya. Gli dava tempo per scoprire dov'era e fors'anche per liberarla. E con lei Questor Thews, Abernathy e i suoi soldati. Ma l'accordo stesso era una follia! La propria vita misurata contro quella dei sette assassini di Rydall? Se avesse accettato questa sfida, se fosse sceso sul ponte per raccogliere il guanto, sarebbe stato vincolato come dal giuramento più sacro. C'erano testimoni presenti, e le leggi di Landover non gli avrebbero consentito di mancare alla sua parola una volta che l'avesse impegnata. Avrebbe potuto uccidere Rydall e sciogliere il patto, ma le opzioni che gli si presentavano erano estreme e assolutamente circoscritte. «Se non accetta» gridò improvvisamente Rydall «farò legare sua figlia e i suoi amici ad altrettanti cavalli, e li metterò alla testa dei miei eserciti quando invaderemo il regno. Moriranno per primi, prima che uno solo dei miei uomini cada. Questo mi dispiacerebbe ma si renderebbe necessario se dovessi chiedere ai miei uomini di dare la loro vita a causa della sua ostinazione. Gliel'ho già detto una volta, preferirei ottenere il suo regno senza spargimento di sangue. E lei potrebbe desiderare la stessa cosa, seppur per differenti motivi. La mia sfida le offre questa possibilità. Accetta?» Ben adesso stava pensando che se accettava, doveva anche accettare il fatto che avrebbe dovuto diventare il Paladino per rimanere vivo; non una o due volte, ma sette volte. Era questa la sua maggior paura. Era costantemente in lotta con il senso di straniamento che lo assaliva ogniqualvolta doveva consegnare se stesso al suo alter ego. Ogni volta diventava sempre
più difficile conservare la propria identità. Trasformarsi nel Paladino implicava una immersione totale nell'essere di quell'altro. Ogni volta, era un po' più difficile tornar fuori dal guscio corazzato, fuori dai ricordi, fuori dalla vita che apparteneva al suo campione. Se accettava la sfida di Rydall, doveva fronteggiare non solo la prospettiva di essere ucciso in combattimento, ma anche quella di acquisire per sempre l'identità della sua metà oscura. «Alto Signore, accetta?» chiese Rydall ancora una volta. «No, non farlo!» esclamò improvvisamente Willow, afferrandolo per un braccio. «C'è di mezzo qualcosa di più di quanto ti ha detto! Qualcosa si nasconde dietro le parole di Rydall! Lo sento, Ben!» Si mise davanti a lui. C'erano lacrime nei suoi occhi. La sua voce era così bassa, che a malapena riusciva a sentirla. «Anche se dobbiamo perdere Mistaya, non accettare.» Cosa doveva esserle costato dire quella cosa, Ben non poteva minimamente immaginare. La circondò con le sue braccia e la tenne stretta. Willow era violentemente protettiva nei confronti di Ben. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per saperlo al sicuro. Da questo lui prese la sua forza. La scostò da sé e si chinò su di lei. «Devo tentare» le disse dolcemente. «Se non lo faccio, come potrò vivere in futuro con me stesso?» La baciò, poi si voltò. Facendo cenno a Bunion di seguirlo, attraversò i bastioni fino alla scala che conduceva giù. «Aspettami qui» disse a voce alta a Willow. Scese giù per le scale pensando a cosa avrebbe dovuto fare una volta raccolto il guanto. Le sue possibilità erano ben poche. Doveva trovare Mistaya, Questor, Abernathy e le sue guardie, e liberarli. Quella era la prima cosa. Poi doveva persuadere Rydall a ritirare la sua sfida e la sua minaccia su Landover. O, se non ci fosse riuscito, ucciderlo. L'alternativa era affrontare i sette sfidanti di Rydall e sperare di ucciderti prima che loro uccidessero lui. Ma era proprio costretto a ucciderli? Forse poteva semplicemente sconfiggerli. Ma non gli era sembrato che le parole di Rydall avessero indicato una possibilità di scelta. "Creature", le aveva chiamate Rydall la seconda volta. Ben si sforzò di immaginare di che genere di creature potesse trattarsi. Attraversò il cortile fino ai cancelli principali, con Bunion che lo seguiva a un passo. Il coboldo teneva i denti serrati in una smorfia terrificante: era chiaro cosa stava pensando. «Stai calmo, Bunion» lo avvertì Ben, pacato. «Prima è necessario che Mistaya e gli altri tornino qui da noi.» Il coboldo grugnì qualcosa in risposta, e Ben sperò che fosse la risposta
che lui desiderava. Attraversò il cancello e uscì sul ponte. Il giorno stava rischiarando, il cielo era terso e azzurro, gli ultimi residui di nebbia si stavano dissipando, sul prato che fronteggiava il lago del castello. Rydall e il suo muto compagno stavano in sella ai loro cavalli e aspettavano. Ben imboccò il ponte, attento al minimo segno di tradimento, mentre la sua rabbia cresceva a ogni passo. Forse Bunion non aveva tutti i torti. Cosa ci voleva a evocare il Paladino e sbarazzarsi di Rydall una volta per tutte? Non molto, se avesse deciso di farlo, pensò. Ma Mistaya che fine avrebbe fatto? All'improvviso si chiese se questo non fosse tutto un elaborato trucco; se i cavalli, la collana, la sciarpa non fossero altro che esche destinate ad attirarlo allo scoperto. Si chiese se Rydall avesse realmente in ostaggio Mistaya e la sua scorta. Suppose che poteva essere tutta una ben congegnata menzogna. Ma in fondo al cuore sapeva che non lo era. Giunse all'estremità più lontana del ponte e si fermò. I cavalieri lo fissavano dall'alto delle loro cavalcature. Senza una parola Ben si chinò a raccogliere il guanto. Venne via dal ponte senza alcuno sforzo, come se nient'altro che la forza del pensiero l'avesse tenuto inchiodato lì per tre giorni. Ben si raddrizzò e guardò direttamente Rydall. Il Re di Marnhull era molto più imponente di quanto gli fosse apparso dal castello, un uomo di dimensioni sorprendenti e dall'indubbia possanza. Il suo compagno dalla cappa nera, al contrario, sembrava più piccolo. I volti di ambedue erano accuratamente nascosti dietro l'elmo e il cappuccio, rispettivamente. Ben lanciò il guanto a Rydall. L'omone lo prese con facilità e lo sventolò beffardamente a mo' di saluto. «Non scambiare questo mio gesto per qualcosa che non è, Rydall» disse Ben senza scomporsi. «E tieni presente questo. Se succederà qualcosa a Mistaya o a Questor Thews o ad Abernathy o a una qualsiasi delle mie guardie, ti darò la caccia dappertutto, dovessi scendere anche tra le fiamme di Abaddon!» Rydall si chinò in avanti. «Non dovrà mai cercarmi così lontano, Holiday. E non pensi, neanche per un attimo, che la cosa mi spaventerebbe, se lei decidesse di farlo.» Tirò le redini e fece girare il cavallo. «Tre giorni, Alto Signore di Landover. La prima delle mie creature verrà a trovarla, allora. Se fossi in lei, comincerei a pensare al modo di restare vivo.» Spronò violentemente la sua cavalcatura, e il destriero balzò in avanti. Anche questa volta il suo compagno dalla cappa nera indugiò. Ben avvertì
un paio di occhi che lo studiavano di sotto alle ombre fonde del cappuccio, come se cercassero di scoprire qualcosa. Paura, forse? Ben rimase a piè fermo, restituendo lo sguardo con decisione. Poi Bunion gli fu al fianco, sibilando furioso all'indirizzo del cavaliere, facendosi avanti tutto zanne e artigli. Allora anche il secondo cavaliere fece dietrofront e si lanciò al galoppo sulle orme di Rydall, attraverso il prato. Ben rimase li con il suo coboldo protettore a guardarli, finché non furono scomparsi fra gli alberi. Quando furono di nuovo al sicuro tra le ombre della foresta, dove neanche la luce del nuovo giorno era ancora penetrata, i cavalieri fermarono i cavalli e smontarono. La Strega del Crepuscolo si tolse il mantello che l'aveva occultata e, sbarazzandosi della forma gobba e contorta che aveva assunto per rendersi irriconoscibile, riportò il corpo al suo aspetto normale. Quindi le sue mani si levarono a formare un semplice incantesimo di invisibilità, una precauzione in più nel caso improbabile che qualcuno capitasse da quelle parti. Quando l'incantesimo fu completo, usò la magia una seconda volta per riportare i cavalli alla loro forma originaria: due piccole lucertole, striate di verde e di nero, che schizzarono rapide su per il suo braccio per andare a nascondersi fra le pieghe dei suoi drappeggi. Rydall stava a guardare, con la visiera ancora abbassata. «Non sembra spaventato» azzardò, petulante. La Strega del Crepuscolo si mise a ridere. «No, non ancora. Per il momento, la sua collera gli serve da scudo. Non è ancora sicuro che sua figlia sia in mano nostra. Dovrà accertarsi di quello, prima che la paura lo attanagli. Poi le mie creature andranno a fargli visita, una dopo l'altra, e la paura monterà. Comincerà a immaginarsi ogni genere di cose, una più brutta dell'altra. Andrà alla nostra ricerca e non riuscirà a trovare la benché minima traccia. Darà l'addio a ogni speranza. Dopodiché, ci puoi giurare, il terrore s'impadronirà di lui.» «Ha la silfide che lo aiuta, non dimenticarlo.» Un lampo di collera passò negli occhi rossi della strega. «Non farti beffe di me, Re Rydall, che non fosti mai né Re né Rydall. Tu mi servi a comando; bada di non dimenticarlo mai.» L'altro rimase immobile davanti a lei senza fiatare, duro come la pietra. Ma lei avvertì la sua esitazione e ne fu compiaciuta. «È vero, per adesso può contare su di lei» ammise. «Ma alla fine farò in modo di strappargli anche la donna. Alla fine rimarrà completamente solo.»
Rydall si agitò, impaziente. «Mi sentirei più tranquillo su tutta questa storia se conoscessi il tuo piano fino in fondo. E se qualcosa andasse storto?» Lei si raddrizzò tanto da dargli l'impressione di crescere proprio davanti ai suoi occhi. «Niente andrà storto. Ho programmato tutto con troppa attenzione. Quanto a voler conoscere le mie intenzioni, è meglio per il momento che alcune cosette le tenga per me. Tu sai quanto basta.» Gli diede un'occhiata freddamente valutativa. «Ora ti rimanderò a casa. Sbriga i tuoi affari e aspetta la mia chiamata.» Rydall distolse lo sguardo; la sua armatura scricchiolò. «Avrei potuto ucciderlo sul ponte e la faccenda sarebbe stata sistemata una volta per sempre. Avresti dovuto consentirmelo.» «E rovinare tutto quello che ho programmato e organizzato in questi due anni?» La Strega del Crepuscolo era incredula. «Vuoi scherzare? Oltretutto, non sono così sicura che l'avresti battuto. Non mi hai mai dato una prova in tal senso.» Lui stava per protestare, un grugnito di rabbia che già gli montava in gola, ma lei lo bloccò con un gesto della mano. «Sta' zitto. Farai come dico. La rovina di Holiday è affar mio. La tua parte nella faccenda è già stabilita. Non voglio discussioni. Non vorrai mica metterti a discutere con me, vero?» Ci fu un lungo silenzio da parte dell'altro. «No» rispose infine. «Bene. Se vuoi la morte di Holiday, e io so che la vuoi, allora lascia che me la sbrighi io. Vai, adesso.» Fece danzare le sue mani nell'aria davanti a sé, e Rydall scomparve in una colonna di nebbia che saliva verso l'alto. Aspettò finché non fu sicura che Rydall fosse tornato nel posto dal quale era venuto. Non le piaceva, quell'uomo, e non si fidava di lui, ma in questa faccenda tornava utile e sarebbe stato il suo burattino finché non l'avesse portata a termine. Finché Holiday non fosse morto. Chiuse gli occhi con voluttà mentre vedeva con la mente gli ultimi momenti del Re fantoccio. Si era figurata la scena infinite volte, dandole forma, affinandola, lustrandola finché non era diventata perfetta. Poteva vederne ogni dettaglio. Poteva vederlo respirare per l'ultima volta, vedere l'espressione dei suoi occhi nel rendersi conto di cosa gli era stato fatto, sentire la disperazione nella sua voce mentre cercava di urlare. Sì, sarebbe accaduto. Con la massima certezza. Per il momento, comunque, c'erano altre cose che richiedevano la sua attenzione.
Levò le mani al cielo un'ultima volta. Un nembo di nebbia scura l'avvolse, ed era scomparsa. Il cervello di Ben Holiday era già in piena attività mentre riattraversava il ponte per tornare nel castello. Willow era scesa dai bastioni e lo stava aspettando. Gli corse incontro e lui la strinse a sé nello sforzo di calmare i tremiti che scuotevano tutti e due. «La riporteremo qui» le sussurrò, e sentì i pugni di lei stringersi contro la sua schiena. «Te lo prometto.» Poi si rivolse a Bunion, che li seguiva a ruota. «Parti immediatamente per la regione dei laghi» ordinò al coboldo. «Di' al Signore del Fiume che sua nipote è stata rapita da Rydall di Marnhull e chiedigli che ci dia una mano a cercarla. Digli che ogni aiuto da parte sua sarà altamente apprezzato, e che sua nipote stava andando a mettersi sotto la sua protezione, quando è stata catturata. Assicurati che quest'ultimo punto sia ben chiaro. Durante il viaggio tieni sempre gli occhi aperti per il minimo segno che possa farci capire che cosa è accaduto. E, Bunion» aggiunse «sta' ben attento. Non correre rischi. Ho già perso Questor e Abernathy. Non voglio perdere anche te.» Il coboldo sorrise e mostrò i denti. Non era probabile che potesse accadere qualcosa a una creatura capace di far fuori un essere delle caverne o un fantasma di palude senza il minimo sforzo, ma Ben era rimasto spaventato dalla facilità con cui Rydall aveva fatto prigionieri coloro che aveva mandato a proteggere Mistaya. Ammesso che fosse andata veramente così. Non ne era ancora sicuro, ma doveva essere preparato al peggio. La visita di Bunion al Signore del Fiume era necessaria. Bunion si girò e sparì così in fretta che Ben aveva già quasi dimenticato il motivo per il quale aveva mandato il suo reale messaggero. I coboldi erano le più veloci creature viventi. Un viaggio alla regione dei laghi per loro era questione di un giorno, sì e no. Tali strani esseri, con il corpo tutto peloso e setoloso, le gambe arcuate e le braccia contorte, la faccia scimmiesca e i denti numerosi e affilati come quelli di un alligatore, erano un amalgama di tratti bizzarri e diversissimi. Ma i coboldi avevano servito i Re di Landover per molti anni, ed erano aggressivi e leali. Ben sapeva che poteva contare su Bunion. Si avviò nel cortile d'ingresso, con Willow al suo fianco. «Vado di sopra, a usare l'Osservatorio. Forse potrò trovare qualche traccia di Misty. Ti dispiace cancellare tutti i miei impegni per oggi? Scenderò appena possibi-
le.» S'inerpicò nella torre più alta del castello e raggiunse l'Osservatorio, il magico strumento che consentiva di viaggiare da un capo all'altro del paese senza lasciare Sterling Silver. Invocò la magia, si levò dalla torre come alzandosi in volo, e con gli occhi della mente perlustrò tutta la campagna senza trovare sua figlia o i suoi amici o qualche indicazione di cosa fosse loro accaduto. Fece rapidamente visita a Elderew, la dimora del Signore del Fiume, ma non c'era niente che mostrasse che gli esseri fatati fossero al corrente di quanto era successo. Da lì andò fino ai confini orientali, esplorando i margini delle nebbie fatate dalle Fonti di Fiamma verso sud, ma non c'era traccia di Rydall o di Mistaya o di qualcosa che potesse condurlo da uno o dall'altra. Cercò Strabo, ma il drago non era in vista. Probabilmente dormiva in uno dei pozzi di fuoco che chiamava casa. Si spostò a nord sui Melchor e infine arrivò al Pozzo Infido, i cui recessi erano l'unico luogo che l'Osservatorio non poteva penetrare. La magia della Strega del Crepuscolo non lo consentiva. Si fermò un momento, pensando che quelli che cercava avrebbero potuto facilmente essere nascosti lì, e lui non l'avrebbe mai saputo. Ma era arduo ipotizzare che la Strega del Crepuscolo fosse coinvolta in questa faccenda. Per quanto lo odiasse, odiava ancora di più gli stranieri. Non avrebbe mai complottato con qualcuno che avesse intenzione di invadere Landover. Inoltre, nessuno l'aveva vista da diversi mesi. Ben si spostò. Passò l'intera mattinata a perlustrare il paese alla ricerca di Mistaya e dei suoi amici, e non trovò la benché minima traccia di nessuno di loro. Era come se fossero scomparsi dalla faccia della terra. Quando alla fine rientrò nella camera e scese dal pulpito era esausto. L'uso dell'Osservatorio, tramite la magia, l'aveva estenuato, e in cambio si ritrovava con un pugno di mosche. Era scoraggiato e impaurito. Scese in camera da letto e si addormentò. Quando si svegliò, Willow era seduta accanto a lui, ansiosa di notizie. Ma lui non poteva dargliene. Passarono il resto della giornata ad aggiornare sull'agenda gli appuntamenti e gli impegni della settimana, finendo per cancellarne la maggior parte. Alcuni dovettero essere mantenuti perché c'erano obblighi che non si potevano ignorare. Ma in fin dei conti fu soltanto un patetico tentativo: Ben riusciva a pensare a ben poco, oltre alla scomparsa di sua figlia e degli amici. Non sapeva come procedere. Sembrava che non ci fosse altro da fare che rimanere in attesa degli sfidanti di Rydall. Gli erano stati concessi tre giorni. Poi sarebbe comparso il primo.
Non parlò di questo con Willow, ma vedeva nei suoi occhi e sentiva dalla sua voce che lei pensava alla stessa cosa. Una battaglia all'ultimo sangue da ripetere per sette volte, se voleva sopravvivere. Un uso, ripetuto sette volte, del corpo corazzato del Paladino e delle sue virtù guerriere. Una resa di se stesso, moltiplicata per sette, alla vita e ai ricordi di un essere il cui unico scopo era quello di distruggere i nemici del Re. Era una prospettiva a dir poco terrificante. Quella notte dormirono malissimo, svegliandosi spesso per abbracciarsi, per stare vicini nel silenzio a pensare che cosa i giorni a venire tenessero in serbo per loro. Ben non si era mai sentito così svuotato. Riflettendoci su, gli sembrava di aver tradito Mistaya, mandandola via; si diceva che avrebbe dovuto tenerla vicina a sé, al suo fianco. Forse in quel modo avrebbe potuto proteggerla meglio da Rydall. Non lo disse a Willow, naturalmente. Era troppo facile, ormai, usare il senno di poi, quando era troppo tardi perché potesse servire, quando i giochi erano fatti. Non c'era niente da guadagnare a rimuginare sui "se" della situazione. Ciò che rimaneva da fare era tentare in qualche maniera di rimettere le cose a posto. Ma come poteva farlo? Cos'altro c'era di intentato? A mezzogiorno del dì seguente Bunion era di ritorno. Aveva visto il Signore del Fiume. Mistaya e gli altri non avevano mai raggiunto Elderew. Nessuno degli esseri fatati aveva la minima idea di cosa fosse loro capitato. Non c'era alcuna traccia del loro passaggio da quelle parti. Ben Holiday e Willow si scambiarono un lungo sguardo d'impotenza e cercarono di nascondere la loro disperazione. 6 Seduzione Al suo risveglio Mistaya si trovò avviluppata in un nebuloso lucore e in un profondo silenzio. Giaceva stesa sul terreno, ancora avvolta nella sua coperta, ma lontana dal luogo dove si era addormentata. Lo sapeva per istinto. Sapeva anche che aveva dormito a lungo. Era ancora intorpidita, con le membra rigide, gli occhi confusi e con tutto il corpo ancora immerso in quella sorta di pesantezza che viene solo dopo un lungo sonno. Le era accaduto qualcosa. Qualcosa d'inaspettato. Si levò a sedere e si guardò attorno. Era sola. Non c'era nessuna traccia di Questor, Abernathy o delle Guardie del Re. Gli animali erano scomparsi. Il suo bagaglio e il carro mancavano. Non era sorpresa. Era stata allon-
tanata da tutto ciò mentre dormiva. Credeva di non essere più nemmeno nella stessa regione. L'aspetto delle cose era completamente diverso. Levò in alto lo sguardo. Non c'era nessun cielo visibile. C'erano alberi tutt'attorno, ma erano antichi e ricoperti di liane e muschio. La luce era grigia e caliginosa di nebbia; aveva l'odore e il sapore di terra umida e marcescente. Strano a dirsi, le sembrarono sensazioni familiari. Si levò in piedi e si spolverò. Non aveva paura. Avrebbe dovuto averne, supponeva, ma non era così. Non ancora, almeno. C'era una stranezza nelle cose che non riusciva a spiegarsi, ma non le era stato fatto alcun male. Si chiese cosa ne fosse stato di Questor e Abernathy, ma la loro scomparsa non la portava ancora a concludere che si trovava in pericolo. Scrutò tutt'attorno con attenzione, girando su se stessa per esplorare tutto ciò che era possibile esplorare, e non scoprì altro che gli alberi secolari e il silenzio caliginoso. Quando ebbe completato la rotazione, si trovò faccia a faccia con una donna imponente, regale. «Benvenuta, Mistaya» le disse la donna, sorridendo. Un sorriso gelido. «Dove mi trovo?» chiese Mistaya, pensando nello stesso tempo: Io conosco questa donna. La conosco. Ma come? «Sei nel Pozzo Infido» rispose la donna, calma e immobile contro la mezza-luce. Aveva un mantello nero. I suoi capelli erano neri con un'unica striscia bianca al centro. La sua pelle era bianca come l'alabastro. Gli occhi... «Ti ricordi di me, vero?» disse la donna, con un tono dichiarativo più che interrogativo. «Sì» rispose Mistaya, ormai certa di questo ma incapace di spiegarsi il perché. Questo era il Pozzo Infido, aveva detto la donna, e solo una persona viveva nel Pozzo Infido. «Tu sei la strega del Crepuscolo.» «Sì, sono io» rispose la strega, compiaciuta. Gli occhi, prima argentei, diventarono improvvisamente rossi. «Tu sei l'uccello, il corvo» disse all'improvviso la ragazza. «Al picnic. Mi stavi guardando.» Il sorriso della strega si allargò. «Sì, è così. E tu guardavi me, vero? La tua memoria è eccellente.» Mistaya si guardò attorno incerta. «Cosa faccio qui? Mi ci hai portata tu?» La strega annuì. «Sì. Tu dormivi quando il vostro campo fu attaccato dagli uomini al servizio di Re Rydall di Marnhull, l'uomo che è venuto re-
centemente al castello di tuo padre. Te ne ricordi?» Mistaya annuì. «L'attacco è stato improvviso e inatteso. È stato portato con lo scopo di rapire te. Se tu fossi nelle mani di Rydall, lui potrebbe costringere tuo padre a fare quel che gli ha chiesto: rinunciare alla corona di Landover e andare in esilio con la sua famiglia. I tuoi genitori credevano che Rydall non avrebbe saputo del tuo viaggio alla regione dei laghi, da tuo nonno, ma lui è più pericoloso di quanto possano immaginare. Fortuna che io ti tenevo d'occhio, che mi preoccupavo della tua sicurezza. Ho potuto farti sparire con la magia prima che ti catturassero. Ti ho portata qui, nel Pozzo Infido, per farti stare con me.» Mistaya non disse nulla, ma i suoi occhi parlavano per lei. «Non mi credi, vero?» disse la Strega del Crepuscolo. Le labbra di Mistaya si serrarono in una linea sottile. «Mio padre non sarebbe contento di sapermi qui» disse con calma. «Perché non siamo amici e non si fida di me» ammise la strega con una scrollata di spalle. «È vero. Ma sta di fatto che lui sa che ti trovi qui, e può scegliere di fare quello che vuole.» Mistaya aggrottò la fronte. «Lo sa?» «Certamente. Ho già mandato ad avvertirlo. In segreto, naturalmente, così Rydall non lo saprà. Ho dovuto agire in fretta, al momento dell'attacco, e quindi non ho potuto scambiare neanche una parola con i tuoi amici. Penso che stiano bene, ma non ho potuto rimanere lì per accertarmene. Questor Thews mi ha dato l'impressione di poter far fronte all'attacco, e sospetto che, scomparsa tu, l'attacco dev'essere stato ritirato subito. Dopotutto, non c'era motivo di portarlo avanti.» «Perché io ero con te.» «Esatto. Ma Rydall questo non lo sa. Pensa che sei tornata a Sterling Silver o che hai proseguito per Elderew, per andare da tuo nonno. Nessuno di questi posti è sicuro, naturalmente. Lui ti cercherà lì. Non penserà di venire a cercarti quaggiù. È meglio che tu stia con me finché questa faccenda non sarà sistemata. Tuo padre sarà d'accordo con me, quando ci avrà pensato bene.» Mistaya trascinò i piedi, sforzandosi di pensare. Non credeva una parola di quello che aveva sentito. «Come sai di Rydall? Perché mi osservavi?» «Ho dell'interesse per te, Mistaya» rispose lentamente la Strega del Crepuscolo. «Io so di te cose che neanche tu conosci. Volevo dirtele, ma non ero sicura di come farlo. Ti ho seguita, aspettando l'occasione giusta. So
quali sentimenti nutrano tuo padre e tua madre nei miei confronti. Non siamo sempre andati d'amore e d'accordo. Qualche volta ci siamo scontrati. Ma una cosa ci accomuna, ed è l'interesse che nutriamo per te.» Fece una pausa. «Lo sai, Mistaya, che tu sei nata nel Pozzo Infido?» Mistaya corrugò la fronte. «Dici davvero?» «Tua madre non te l'ha detto, vero? Lo pensavo, infatti.» La Strega del Crepuscolo si spostò da un lato. Sembrava non curarsi di nulla, mentre guardava tra gli alberi. «Ti ha detto che tu puoi fare delle magie?» Mistaya rimase a bocca aperta. I suoi occhi smeraldini scintillarono d'interesse. «Sul serio? Magia vera?» «Naturalmente. Ogni strega è versata nella magia.» La Strega del Crepuscolo le lanciò una rapida occhiata, e gli occhi rossi brillarono. «Lo sapevi che sei una strega, no?» Mistaya trasse un respiro molto profondo prima di rispondere. «No, non lo sapevo. Mi stai mentendo?» La strega non rispose. Invece, fece un gesto vago nell'aria davanti a sé, e apparvero due sedie e un tavolo. Il tavolo era coperto da una tovaglia scarlatta ed era carico di frutti, noci, pane, formaggio e sidro. «Siediti» disse la strega. «Mangiamo qualcosa mentre parliamo.» Mistaya esitava, ma la fame vinse la sua riluttanza e la ragazzina sedette di fronte alla Strega del Crepuscolo. Ancora diffidente, provò una noce e poi una fetta di formaggio. Tutt'e due le cose avevano un sapore delizioso, e così andò avanti col resto del cibo e una tazza di sidro. La Strega del Crepuscolo stava seduta di fronte a lei e masticava distrattamente una fetta di pane. «Ti dirò una cosa, Mistaya» disse. «Ti ho portata qui perché si è presentata l'occasione, e temevo che non ce ne sarebbe stata un'altra. È stato un puro caso, naturalmente. Se avessi aspettato che tu venissi da sola, o che i tuoi genitori ti ci mandassero (ammesso che fossi stata abbastanza sfrontata da fare la richiesta, visto che loro non me l'avrebbero mai proposto) tu probabilmente non saresti venuta affatto. Non porto rancore, per questo. Comprendo come vanno le cose. Non godo di una buona reputazione, in più di un posto e presso molta gente. Sono sicura che avrai sentito delle cattiverie sul mio conto» Mistaya sollevò lo sguardo dal cibo, con un lampo di preoccupazione negli occhi verdi. Ma non c'era ombra di minaccia nella voce della strega, e neanche sul suo volto. «Non devi aver paura di me» la rassicurò la strega. «Tu sei qui per esse-
re protetta, non per essere maltrattata. Sei libera di andartene in ogni momento. Ma sarei contenta se mi dessi ascolto, prima. Cosa ne pensi?» Mistaya ci pensò su, masticando una manciata di noci, poi assentì. «Bene. Sei comprensiva. Penso veramente che tu sia più sicura qui che con la tua famiglia.» La Strega del Crepuscolo fece un gesto di fastidio con la mano. «Rydall è uno straniero, un pretendente al trono, un conquistatore di terre minori che vorrebbe annettere Landover ai suoi possedimenti. Quali che siano le differenze tra me e tuo padre, su una cosa siamo d'accordo. Landover non deve essere governata da Rydall. Io sono una strega, Mistaya, e le streghe sanno cose che gli altri non sanno. Le sentono prima e le comprendono fino in fondo. Rydall mi fu noto nel momento in cui spuntò dalle nebbie che aveva attraversato con il suo compagno dalla cappa nera. Il suo mago, a quanto ho scoperto. Un essere molto potente, uno che, forse, è potente quanto me. Sapevo di loro e li ho seguiti nella loro visita a casa tua. Ho sentito le loro richieste. Sapevo cosa avrebbero fatto. Quando sono venuti a prenderti, li aspettavo.» Guardò di nuovo in mezzo agli alberi, pensierosa. «Ma avevo altri motivi per intervenire proprio in quel momento. Volevo portarti qui. Volevo che passassi un po' di tempo con me nel Pozzo Infido. Sentivo che l'occasione non si sarebbe ripresentata, e quindi ero ansiosa di sfruttarla. Io penso che sia importante che tu apprenda la verità su te stessa: importante per te e per me.» «Per te?» Mistaya appariva dubbiosa. «Sì, Mistaya.» Le mani della strega si carezzavano l'un l'altra come minuscoli micetti bianchi. «Io sono la Strega del Pozzo Infido, l'unica strega in tutta Landover, e ho aspettato tanto perché ce ne fosse un'altra. Voglio rivelare ciò che so. Voglio parlare con qualcuno che condivida la mia passione per la magia. Tu sei quella persona.» Mistaya aveva smesso di mangiare. Stava fissando la Strega del Crepuscolo, affascinata. «Pensavo di poter avere della magia» disse con calma, esitante, pensando alla Madre Terra. «Qualche volta, quasi potevo sentirlo. Ma non ne ero sicura.» «Tu non sei istruita nel suo uso, non sei esperta nell'evocarla, e la realtà della sua esistenza ti è stata tenuta celata. Ma la magia è tua» disse la strega. «È sempre stata tua.» «Perché non mi è stato detto?» Mistaya non era ancora convinta, ma stava cominciando a esplorare le possibilità. «Perché i miei genitori e lo stesso Questor mi hanno sempre detto che l'uso della magia (di qualunque
magia) è pericoloso? Stai dicendo che mi hanno mentito?» La Strega del Crepuscolo scosse la testa. «Assolutamente no. Non l'avrebbero mai fatto. Loro semplicemente ti hanno tenuta lontana da ciò che, a parer loro, tu non eri ancora pronta per apprendere. Col tempo ti avrebbero detto tutto. Io penso che abbiano sbagliato a tenerti all'oscuro di questo per tanto tempo, naturalmente. Ma ora ci sono altre ragioni per dirtelo, ragioni che non hanno niente a che fare con la differenza di opinioni fra i tuoi genitori e me, e che hanno tutto a che fare con la venuta di Rydall e del pericolo che rappresenta per tuo padre.» «Quale pericolo?» chiese Mistaya in fretta. «Dimmelo.» Ma la Strega del Crepuscolo scosse la testa e alzò una mano affusolata. «Abbi pazienza, Mistaya. Lascia che ti dica le cose a modo mio. Quando avrò finito potrai raccogliere le idee.» Si alzò di nuovo, è Mistaya si alzò con lei. La Strega del Crepuscolo fece qualche rapido gesto, e la tavola con il cibo e le bevande scomparve. La radura in cui si trovavano era di nuovo sgombra, a parte loro. La Strega del Crepuscolo sorrise a Mistaya. Lo stesso sorriso gelido. Ma questa volta sembrò alla ragazza più consolante, più accettabile. Si ritrovò a ricambiarlo quasi senza rendersene conto. «Saremo amiche, tu e io» disse la strega, inarcando un sopracciglio che sembrò voler toccare la ciocca bianca che divideva in due la sua capigliatura nerissima. «Ci racconteremo tutti i nostri segreti. Vieni con me.» Si mosse attraverso la radura e s'inoltrò nel bosco senza guardare indietro. Mistaya la seguì, curiosa adesso, ansiosa di sentire qualcos'altro di ciò che la strega aveva intenzione di dirle. Non pensava più alle circostanze che l'avevano portata nel Pozzo Infido. Non pensava più neanche ai suoi genitori o a Questor Thews e Abernathy. Pensava invece alla sua magia, la magia che aveva sempre saputo di possedere, la magia che aveva così disperatamente agognato. Adesso, finalmente, le sarebbe stata rivelata. Lo avvertiva nelle parole stesse di quella donna imponente. Quando ebbero percorso una breve distanza fra gli alberi, laddove la nebbia era abbastanza fitta da potersi tagliare e la luce una sottilissima lamina, la Strega del Crepuscolo si fermò e si voltò a guardare la ragazza. «Non ti spaventi facilmente, vero, Mistaya?» chiese. Mistaya scosse la testa. «Non trovi che la magia sia un motivo per piangere e nascondersi sotto le coperte come fanno certi bambini quando scoppia un temporale con tuoni e lampi?» Mistaya scosse nuovamente la testa, questa volta con un'espressione risoluta di sfida sul volto.
«Io non ho paura di niente!» disse con audacia, e ne era quasi convinta. La Strega del Crepuscolo annuì, gli occhi argentei e sereni ancora una volta. «Io ti ho portata qui nel Pozzo Infido perché sei una strega. Una strega» ripeté con enfasi «come me. Tu sei nata nel Pozzo Infido, nata da quel suolo che è stato consacrato ripetutamente dalla mia magia, nata da un retaggio di sangue fatato, nata in un mondo in cui i forti e i sicuri sono benedetti con l'uso del potere. Per questo motivo tu sei quasi un enigma per i tuoi genitori. Un enigma. Conosci questa parola?» Mistaya annuì. «Un mistero.» «Si, un mistero. Perché non ce n'è un'altra come te in tutta Landover. Tu hai delle capacità che loro neanche sospettano. Tu hai una magia che io soltanto posso comprendere. Io posso insegnarti a imbrigliare il tuo potere per usarlo nel modo migliore. Nessun altro può fare per te quello che posso fare io. Non i tuoi genitori. Non Questor Thews. Nessuno. Nessuno di loro condivide la nostra natura di streghe, e perciò nessuno di loro può darti quello di cui hai bisogno. Si, l'uso della magia può essere davvero molto pericoloso. Non è un segreto. Ma il pericolo viene dal non comprendere ciò che la magia può fare e dal non avere la certezza di sapere sempre come tenerla sotto controllo. Capisci?» Mistaya annuì ancora una volta, con prontezza adesso, eccitata dalla promessa implicita nelle parole dell'altra. «Bene. Guarda, ora.» La Strega del Crepuscolo si piegò e raccolse un fiore selvatico con i boccioli ancora chiusi. Lo tenne in alto davanti a Mistaya. Poi alzò un dito e carezzò un minuscolo bocciolo. Il bocciolo vibrò e si aprì a formare un fiore scarlatto. «Visto? La magia l'ha portato alla vita. Adesso provaci tu.» Porse lo stelo con i suoi numerosi boccioli e un unico fiore sbocciato a Mistaya, che lo prese con cautela e lo tenne davanti a sé come se fosse fatto di vetro. «Concentrati su un bocciolo» disse la Strega del Pozzo Infido. «Concentrati sul pensiero di come sarà quando si aprirà in fiore. Porta il senso della sua nascita alla vita in fondo al tuo corpo, nel fondo più fondo dove c'è solo oscurità e le figure che formiamo nella nostra immaginazione. Concentrati sul fiore che faresti e poi alza lentamente le dita e tocca il bocciolo.» Mistaya fece come le era stato detto, focalizzando ogni grammo di energia su un'immagine mentale del bocciolo che si faceva fiore. Alzò le dita e toccò il fiore dolcemente, esitante. Il bocciolo si aprì a metà e poi si fermò.
«Molto bene, Mistaya» approvò la strega, prendendo lo stelo dalla sua mano e gettandolo via. «È stato tanto difficile?» Mistaya scosse prontamente la testa. Aveva la bocca secca e il cuore le batteva forte. Aveva veramente operato un atto di magia. Aveva sentito il bocciolo rispondere al suo tocco, l'aveva visto tremare lievemente, proprio come aveva fatto con la Strega del Crepuscolo. Ma c'era stato di più. C'era stata una corrente di qualcosa di argenteo e vellutato nel profondo del suo essere che l'aveva carezzata come un gatto lasciandola calda e ansiosa di ripetere l'esperienza. La mano flessuosa della strega sfiorò la sua. Mistaya non respinse il tocco. Sembrava familiare, e quindi piacevole. «Prova questo» disse la strega. Si chinò e raccolse un bruco striato di nero e arancione. Il bruco si appallottolò nel palmo della sua mano, poi si srotolò dopo un momento e cominciò a strisciare per mettersi in salvo. La strega toccò il bruco, e quello divenne istantaneamente d'oro. «Adesso tu puoi farlo tornare com'era» le assicurò, tendendo verso Mistaya il palmo aperto con il bruco di sopra. «Concentrati. Figurati nella mente ciò che intendi fare. Scendi giù nel tuo profondo per raggiungere il senso di ciò che dovrà accadere.» Mistaya si bagnò le labbra, poi le strinse. Si concentrò con la massima intensità che le era consentita sul bruco, figurandoselo vivo, vedendolo trasformarsi da metallo in materia organica. Lo vide nella sua mente, poi lo sentì nel cuore. Si allungò e toccò il bruco. Il bruco ritornò ancora una volta nero e arancione e cominciò a strisciare via. «Ce l'ho fatta!» esclamò in preda all'eccitazione. «Hai visto? Ce l'ho fatta! Ho usato la magia!» Dimenticò tutto in quell'istante: i suoi dubbi, gli interrogativi, i suoi genitori e i suoi amici. La Strega del Crepuscolo lasciò libero il bruco e si chinò rapidamente di fronte alla ragazza, con gli occhi taglienti come vetro. «Adesso lo capisci, Mistaya. Adesso vedi la verità di ciò che puoi fare. Ma quello è stato niente, quel pezzettino di magia che hai appena messo in atto. Quello era solo l'inizio di ciò che puoi ottenere. Ma devi ascoltare quello che ti dirò. Devi studiare le lezioni che ti darò. Devi mettere in pratica quello che ti mostrerò. Dovrai lavorare molto duramente. Sei convinta di volerlo fare?»
Mistaya annuì volenterosa, i capelli biondi splendenti dell'umido della giungla, gli occhi brillanti come quelli di un gatto in una caverna. «Sì, lo sono. Ma...» A quel punto si fermò, ritornando in sé e rinnovando il ricordo delle circostanze che l'avevano portata nel Pozzo Infido. «Mio padre...» «Tuo padre sa che tu sei qui e verrà a prenderti se non riterrà opportuno che tu rimanga» rispose la Strega del Crepuscolo in fretta, con voce vellutata. «La domanda cui devi rispondere è se tu vuoi rimanere o no. Adesso la scelta è veramente tua. Ma prima che tu faccia quella scelta, c'è qualcos'altro che devi sapere. Ricordi che ti ho detto che c'era un'altra ragione per stare qui con me, per apprendere appieno il tuo potenziale, per esplorare la tua magia?» Rimase in attesa, impaziente. Mistaya esitò, poi annuì. «Ricordo. Hai detto che me l'avresti detto dopo.» La Strega del Crepuscolo sorrise. «Abbastanza giusto. A suo tempo e luogo, avevo detto. Allora ascolta attentamente, adesso. Rydall di Marnhull è andato di nuovo da tuo padre, dopo la tua partenza. Gli ha detto che userà la magia del suo mago per distruggerlo. Questor Thews tenterà di proteggere tuo padre, ma non ha poteri sufficienti per farlo. Il mago di Rydall è molto più potente.» Alzò un dito affusolato e toccò delicatamente Mistaya sulla punta del naso. Come il bacio del serpente. «Ma tu hai le possibilità, Mistaya, di diventare ancora più potente. Tu hai la magia, ancora latente ma innegabilmente presente dentro di te, per sconfiggere Rydall e il suo mago e salvare tuo padre. Io avverto quel potere, ed è per questa ragione che ho ritenuto giusto portarti qui e prepararti al tuo destino. Perché tu, oltre a essere la figlia del Re, sarai una strega dal potere non trascurabile, e la tua maestria nell'amministrare queste due prerogative determineranno il corso della tua vita.» Mistaya la guardava a bocca aperta. «Sarò in grado di salvare mio padre? La mia magia sarà così forte?» «Forte quanto la più potente magia che tu possa immaginare.» La strega fece una pausa, sorridendo ancora, improvvisamente intenta. «La Madre Terra non ti ha detto niente di tutto questo?» «Si, lei...» Mistaya esitò; non era certa del perché lo facesse, ma le venne di pensare che non era prudente rivelare tutto a qualcuno che sapeva già così tanto. Il suo incontro con la Madre Terra, dopo tutto, doveva essere un segreto. «Mi ha detto qualcosa del mio retaggio, ma ha lasciato che fossi io a scoprire la natura della magia che posseggo, qualunque essa sia,
oppure che fossero i miei genitori a decidere quando fosse opportuno mettermene al corrente.» All'improvviso si ricordò di Haltwhistle. Dov'era il cucciolo di fango? Anche lui era rimasto sul luogo dell'attacco quando la Strega del Crepuscolo l'aveva portata nel Pozzo Infido? Voleva chiederlo alla strega, ma di nuovo qualcosa la trattenne dal farlo. La Strega del Crepuscolo non aveva menzionato Haltwhistle quando aveva parlato degli altri. Forse non sapeva del cucciolo di fango. «La Madre Terra è tua amica, come lo era di tua madre» proseguì la Strega del Crepuscolo. «Una buona amica, suppongo; non è così?» Mistaya annuì. «Ti ha chiamato a sé prima dell'attacco. Io stavo guardando. L'ha fatto per avvertirti del pericolo?» «No» rispose Mistaya, pensando di nuovo: Perché questo non lo sa? «Allora che cosa voleva da te?» chiese l'altra dolcemente. «Dimmelo.» Mistaya scrollò le spalle, un riflesso puro e semplice. Esteriormente era calma, internamente di ghiaccio. Qui stava accadendo qualcosa che lei non capiva. Si sforzò di atteggiare un sorriso. «Mi avvisò che c'erano dei pericoli sulla nostra strada e che dovevo muovermi con cautela. Mi disse di tenere gli occhi aperti.» Aspettò, con il sorriso che le si era gelato sul viso mentre la strega la guardava nel profondo degli occhi. Non mi crede! Stava pensando, e si chiese tutt'a un tratto perché quella cosa fosse tanto importante, e cos'era che la spaventava in quel modo. Poi gli occhi della Strega del Crepuscolo si abbassarono, e la donna si alzò. Le sue mani bianche e sottili si posarono sulle piccole spalle di Mistaya. «Vuoi restare con me nel Pozzo Infido, Mistaya? Vuoi studiare la magia con me?» Mistaya si rinfrancò a quel tocco, prese coraggio a quelle parole e tornò a sentirsi rassicurata con la stessa rapidità con la quale si era adombrata. «Quanto dovrei rimanere?» chiese timidamente, sempre col pensiero a suo padre. «Quanto vorrai. Puoi andare via quando ti pare. Ma» disse la strega e si abbassò di nuovo, avvicinando il viso «una volta che sarai partita per far ritorno a casa, non potrai più tornare. È così che vanno le cose. Una volta che avrai iniziato la tua istruzione, dovrai rimanere finché non sarà completa, oppure dovrai rinunciarci del tutto.» «Ma se mio padre viene a cercarmi, allora cosa...?» «Allora parleremo con lui e verrà presa una decisione» rispose l'altra.
«Ma Mistaya, tu devi comprendere questo. La magia è un fragile vascello, che può trasportare un grosso potere ma può andare in frantumi come un pezzo di vetro. Non la si può trascurare una volta che ci si sia spinti in alto mare. Quindi se dobbiamo cominciare le tue lezioni, tu devi assicurarmi che t'impegnerai a portarle a termine. Puoi farlo?» Mistaya pensò a come il bocciolo era fiorito e il bruco era tornato alla vita. Pensò alla sensazione della magia che si diffondeva nel suo corpo, liscia e vellutata. Le sue apprensioni sulle cause della sua presenza nel Pozzo Infido sembravano inconsistenti in rapporto a questo. «Posso» rispose con fermezza. «Quindi accetti di rimanere?» Mistaya annuì, con la determinazione risoluta dei bambini. «Si.» La Strega del Crepuscolo le sorrise con benevolenza. «Allora cominceremo subito. Vieni con me.» Si girò e si diresse di nuovo verso la radura. «Ora bisogna seguire delle regole, Mistaya» disse mentre avanzavano in mezzo alla nebbia. «Devi prestarmi ascolto e fare come ti dico. Non devi mai usare la tua magia senza di me. Dovrai usare la magia nei modi che io ti indicherò, anche quando non capirai che cosa io stia cercando di insegnarti. E...» Guardò indietro per assicurarsi che gli occhi di Mistaya incontrassero i propri. «Non devi mai lasciare il Pozzo Infido senza di me.» Lasciò che le parole si depositassero. «Perché Rydall ti cercherà, e io non mi perdonerei mai se tu dovessi cadere nelle sue mani per la mia trascuratezza. Quindi staremo sempre vicine per tutto il periodo che trascorrerai sotto la mia tutela. Non lasciare mai questo rifugio. Hai capito?» Mistaya annuì. Aveva capito. La strega si voltò, e benché Mistaya non potesse vederlo, c'era un sorriso soddisfatto sul suo volto liscio e gelido. C'era trionfo negli occhi tinti di rosso. Passarono tutta quella giornata a lavorare sulle lezioni della Strega del Crepuscolo. Alcune erano incomprensibili per Mistaya, proprio come la strega le aveva anticipato. Alcune erano esercizi che non avevano scopo apparente. Altre erano cariche del potere che Mistaya poteva sentire scaturire da se stessa come le pulsazioni nel corpo quando correva. Altre ancora erano così delicate e serene da non suscitare alcuna sensazione, ed erano soltanto parole o piccoli gesti nell'aria. Quando il giorno finì, Mistaya, rimasta sola, prese a pensare, con senti-
menti contrastanti, a quanto aveva conseguito. Da una parte, aveva sentito e visto la magia che albergava nel profondo del suo essere, una creatura strana e fugace che si destava alla vita e mostrava subitanei sprazzi della sua fisionomia quando lei trovava il modo di attirarla fuori dalla sua tana. D'altro canto, i modi della sua comparsa e del suo impiego erano enigmatici e arcani. La Strega del Crepuscolo sembrava soddisfatta, ma Mistaya era rimasta confusa. Una volta, per esempio, si erano impegnate nella creazione di un mostro. Il mostro era stato scelto nella sua forma dalla stessa Mistaya, incalzata dalla sua nuova tutrice perché desse fondo a tutta la sua creatività, incoraggiata da lei a fare la sua creatura invulnerabile ai limiti della sua fantasia. La Strega del Crepuscolo era stata particolarmente compiaciuta dei suoi sforzi in quell'occasione. Aveva detto che aveva fatto benissimo. Aveva detto che avrebbero provato con un altro il giorno dopo. Mostri? Mistaya non capiva, ma le era stato detto che questo sarebbe successo, a volte, vero? Imbacuccata nella coperta vicino al fuoco che la strega le aveva acceso per riscaldarsi, guardava nell'oscurità del Pozzo Infido, nelle tenebre immote, e si chiedeva se stava facendo la cosa giusta. Scoprire la magia che possedeva era eccitante, ma in quello studio c'era una qualità proibita che non poteva ignorare. Suo padre avrebbe veramente approvato? Doveva essere così, se non veniva a prenderla. Ma dopotutto, forse non sapeva quello che lei stava facendo con la Strega del Crepuscolo. Se, sapendolo, avesse manifestato l'intenzione di fermarla, lei che cosa avrebbe fatto? Chissà. Era vero che era più sicura lì che in altri posti dove Rydall avrebbe saputo come trovarla. Era anche vero che li era molto più interessante. La Strega del Crepuscolo era affascinante, traboccante di una strana sapienza, depositaria di un'esotica tradizione. Benché fosse indubitabilmente l'insegnante, nei loro studi trattava Mistaya come sua eguale, e a Mistaya questo piaceva. La lusingava il rispetto che le veniva accordato in qualcosa che le era stato negato a casa sua. Sarebbe rimasta un po', decise. Abbastanza a lungo per vedere cosa sarebbe successo. Poteva sempre partire, dopotutto. La Strega del Crepuscolo aveva detto così. Poteva andar via quando voleva, se era pronta a pagare il pegno di perdere la sua istruzione. Sì, sarebbe rimasta un altro po'. Pensò di nuovo ad Haltwhistle. Sarebbe stato sempre con lei, aveva promesso la Madre Terra. Era così? Il cucciolo non richiedeva cibo o ac-
qua o cure particolari. Bastava solo che Mistaya pronunciasse il suo nome almeno una volta al giorno per tenerlo vicino a sé. Si portò una mano alla bocca: non l'aveva chiamato! Non aveva detto il suo nome nemmeno una volta. Non ci aveva pensato. Aprì la bocca e poi si bloccò. La Strega del Crepuscolo non sapeva del cucciolo di fango. Cosa avrebbe detto? Avrebbe mandato via Haltwhistle? E Mistaya con lui? La bocca di Mistaya si serrò. Dopotutto, non faceva alcuna differenza se il cucciolo di fango non c'era. Tanto valeva scoprirlo prima di continuare a preoccuparsi inutilmente. «Haltwhistle» disse in tono sommesso, quasi impercettibile. In un attimo il cucciolo di fango le fu accanto, guardandola dall'oscurità con quegli occhi grandi e languidi. Felicissima, Mistaya cercò di toccarlo, e si fermò. Non bisogna mai toccare un cucciolo di fango, aveva ammonito la Madre Terra. Mai. «Ehi, ragazzo» sussurrò, sorridendo. Haltwhistle agitò la sua strana coda in risposta. «Hai chiamato, Mistaya?» domandò la Strega del Crepuscolo dall'oscurità di fronte a lei, e la testa di Mistaya scattò bruscamente in alto. Di colpo, la Strega del Pozzo Infido comparve, chinandosi su di lei. «Hai detto qualcosa?» Mistaya strinse gli occhi e guardò verso Haltwhistle. Il cucciolo di fango era già scomparso. «No, niente. Devo aver parlato nel sonno.» «Buonanotte, allora» disse la strega, e scivolò via. «Buonanotte» disse Mistaya. Trasse un profondo respiro e lo esalò lentamente. Cercò di nuovo Haltwhistle. Il cucciolo di fango riapparve, materializzandosi dalle tenebre della notte. Lei lo guardò per un momento, sorridendo. Poi chiuse gli occhi e sprofondò nel sonno. 7 Bumbershoot Quando il fuoco magico della Strega del Crepuscolo li avvolse, in quel preciso istante, Landover scomparve e il tempo si fermò. Una luce morbida e soffusa racchiuse Abernathy come in un bozzolo, e questi perse completamente di vista Questor Thews. Lo scrivano fluttuava, sospeso nella luce, avvolto nel silenzio e consumato da un torpore che lo svuotava di tut-
ti i suoi sensi. Non sapeva cosa gli stesse accadendo. Suppose che fosse morto e che questa era la sensazione che provavano i morti, ma non ne era sicuro. Cercò di muoversi e non ci riuscì. Cercò di vedere aldilà della bianca luminosità che lo circondava e non poté fare neanche quello. Riusciva a stento a formulare un pensiero coerente. Non sapeva nemmeno se stesse respirando. Poi la luce scomparve in un'improvvisa raffica di vento e colori brillanti, e le immagini, i suoni, i sapori e gli odori della vita tornarono rapidamente a fuoco con brillante nitidezza. La regione dei laghi era scomparsa. Era praticamente sicuro che anche Landover fosse scomparsa. Si ritrovò seduto su una spianata erbosa che si stendeva tutt'attorno a una grossa vasca di pietra. Al centro della vasca c'era una fontana dalla quale scaturiva un pennacchio d'acqua che s'inarcava in alto a formare uno sbruffo come di piume. L'acqua catturava la luce creando minuscoli, scintillanti arcobaleni. C'era gente seduta per tutto il prato e ai bordi della fontana. Dei bambini giocavano nella fontana, scavalcando il basso bordo di pietra, sfrecciando dentro e fuori sotto gli spruzzi, ridendo e rincorrendosi l'un l'altro. Era estate, e la giornata era calda e soleggiata. Abernathy si levò a sedere dritto e si guardò attorno. C'era gente dappertutto. Era una sorta di sagra, e tutti erano in festa. Aldilà della strada c'erano un paio di giocolieri. Un pagliaccio andava in giro sui trampoli. A una bancarella vicina un ragazzino si stava facendo dipingere la faccia. Vialetti delimitavano il prato, e quello più vicino a lui era pieno zeppo, per tutta la sua lunghezza, di chioschi improvvisati dov'erano in vendita manufatti di artigiani e artisti: prismi di vetro, intagli in legno, sculture in metallo e indumenti di tutti i tipi. Altri vialetti erano ingombri di carri e bancarelle che vendevano cibo e bevande. Sgargianti cartelli indicavano i tipi di cibi e di bibite offerti. Abernathy non riconobbe i nomi. Ma poteva leggere le insegne. Se non fosse stato a Landover non avrebbe potuto farlo. Il suo primo pensiero fu: Dove sono, allora? Il secondo fu: Perché non sono morto? Un uomo con i capelli neri lunghi e arruffati e una folta barba percorsa da striature color porpora stava accanto a una donna che portava i capelli divisi in tante treccioline che scendevano tutte in fila ed erano fissate con delle perline, e in punta avevano dei campanellini. Tutti e due portavano orecchini d'oro e catenelle al collo e sfoggiavano, dipinte sulla faccia, due rose incorniciate da cuori rossi. Erano rimasti allibiti a guardare Aber-
nathy. «Ehi, amico, è stupefacente!» dichiarò l'uomo con deferenza. «Come hai fatto?» «È stata una specie di magia?» chiese la donna. Abernathy non sapeva di cosa stessero parlando. Ma riusciva a capirli, e quello era un mistero come il fatto di leggere le insegne. Si guardò attorno confuso. Da ogni lato giungeva la musica, che si andava a confondere con le grida e le risate. I vialetti erano fiancheggiati da imponenti edifici in pietra e padiglioni affollati all'inverosimile. Gli edifici non sembravano familiari; ma allo stesso tempo lo erano. La musica era di svariati tipi, ma nessuno di essi immediatamente riconoscibile. Era ad alto volume e decisamente disarmonica. Un gruppo di musicanti occupava un palco che era stato montato aldilà del padiglione, sull'altro lato della fontana. La musica che suonava era rauca e amplificata, tanto che sembrava venir fuori dall'aria stessa. Bandiere e pennoni e banderuole garrivano al vento a ogni angolo. La gente ballava e cantava. C'era qualcosa di movimentato da qualunque parte si guardasse. «Ehi, di sicuro sai fare altre cose, non è così?» gli stava chiedendo l'uomo dalla barba striata di porpora. «Dai, facci vedere qualcos'altro!» lo incalzò la sua compagna. Abernathy sorrise e scrollò le spalle, augurandosi che l'uomo e la donna si togliessero di torno. Insomma, cosa stava succedendo lì? Non era morto, ovviamente. Allora cosa gli era accaduto? Si passò le mani sul corpo per prova, e per assicurarsi di essere tutto intero Niente sembrava fuori posto. Due braccia, due gambe, un corpo, dita e unghie, che poteva sentire all'interno degli stivali. Tutto a posto e sotto controllo. Si passò le dita fra i capelli, lisciandoseli all'indietro. Si strofinò il mento e scoprì che aveva bisogno di una rasatura. Si aggiustò gli occhiali sul naso. Sembrava che tutto andasse bene. Allora si voltò dall'altra parte e si trovò faccia a faccia con Questor Thews. Il mago lo stava guardando. Lo stava guardando come se non lo avesse mai visto in vita sua. «Questor Thews, va tutto bene?» chiese Abernathy ansioso. «Che diavolo sta succedendo?» La bocca di Questor si aprì, ma nessuna parola ne uscì. Abernathy si irritò all'istante. «Mago, che cosa ti succede? La magia della strega ti ha forse reso muto? Smettila di guardarmi a quel modo!» Il braccio scarno dell'altro si levò come per tener lontano uno spettro.
«Abernathy?» chiese con tono chiaramente incredulo. «Sì, naturalmente. Chi altri?» scattò secco Abernathy. Poi si rese conto che c'era qualcosa che non andava, nel suo amico, qualcosa di serio. Era nei suoi occhi, nel suono della sua voce, nella sua incapacità di accettare ciò che era ovvio, nel non riconoscere neanche il suo vecchio amico, santi numi. Lo shock, forse. «Questor Thews perché non ti stendi un momentino?» gli suggerì gentilmente. «Vuoi che ti vada a prendere un po' d'acqua o un bicchiere di birra?» Il mago lo guardò un po' più a lungo, poi scosse in fretta la testa. «No, non è... è... va tutto bene, davvero, ma tu...» Si fermò, palesemente perplesso. «Abernathy» disse con calma. «Che cosa ti è successo?» Adesso toccava ad Abernathy guardare. Successo a lui? Si guardò ancora una volta. Lo stesso corpo, le braccia, le gambe, gli indumenti familiari, tutto al suo posto. Tornò a guardare l'altro, scuotendo la testa sconcertato. «Di cosa stai parlando?» Doveva parlare ad alta voce per sovrastare la musica. Il volto scarno, dalla barba bianca, subì una serie di contorsioni davvero incredibile. «Tu sei... ti sei trasformato! Guardati! Non sei più un cane!» Non più un cane... Abernathy scoppiò a ridere, poi si fermò, ricordando. Era vero: lui era un cane! Un Terrier dal pelo morbido, trasformato così per evitare che il perfido figlio del vecchio Re, Michel Ard Rhi, gli arrecasse danni peggiori, e poi rimasto in quel modo perché Questor non era stato capace di ridargli il suo aspetto umano. Sì, un cane. Soltanto, realizzò di colpo, scioccato, che non era più un cane. Era di nuovo un uomo! «Accidenti» disse in un soffio, ancora incredulo. «Non può essere! Che mi venga...!» In preda all'eccitazione, intraprese un minuzioso esame del suo corpo. Sì, quelle erano braccia e gambe e dita e unghie. Il suo corpo era tornato! Il suo corpo umano! Cominciò a darsi schiaffi come un matto, toccandosi sotto i vestiti. Non pelo, ma pelle, come ogni uomo normale! Adesso stava cominciando a piangere, con le lacrime che gli rigavano le guance. Si frugò alla ricerca di qualcosa con cui potersi guardare, e alla fine afferrò uno dei bottoni argentati che chiudevano la sua livrea decorata. Gettò uno sguardo nella minuscola superficie levigata e la vista gli mozzò il fiato. Era la sua faccia umana che gli restituiva lo sguardo, la faccia che non aveva visto per più di trent'anni.
«Sono io!» sussurrò, ingoiando a vuoto. «Guarda, Questor Thews, sono veramente io! Dopo tutto questo tempo!» Mentre rideva, si mise a singhiozzare forte, tanto che pensò di poter svenire. Ma Questor Thews gli si accostò e lo sorresse mettendogli le mani sulle spalle. «Mio vecchio amico» dichiarò gongolante, mentre piangeva anch'egli. «Sei tornato!» Poi, in una spontanea e alquanto insolita, per loro, dimostrazione d'affetto, si ritrovarono ad abbracciarsi e a darsi pacche sulle spalle, incapaci, per il momento, di spiccicare parola. Il pubblico che si era raccolto mentre questa scena si svolgeva, guardava incerto. C'era ormai un numero cospicuo di persone che, attratte in un primo momento dagli strani costumi e dall'ovvio interesse dell'uomo e della donna che per primi li avevano interpellati, si trattenevano ormai perché convinti che si trattasse di una sorta di dramma teatrale inscenato all'aria aperta. In effetti, pensavano, la rappresentazione non era male, anche se un po' inadatta all'occasione. Ci fu uno scoppio di educati applausi. Abernathy continuò a tenersi stretto a Questor Thews, come se lasciandolo rischiasse di trasformarsi ancora una volta. Assaporava l'aria e il tepore del sole, e l'odore del cibo, e ascoltava beato la musica come se non avesse mai potuto fare quelle cose in vita sua. Se fosse rinato, pensò, si sarebbe sentito esattamente così! «Cosa ci è successo?» riuscì alla fine a dire, sottraendosi all'abbraccio dell'altro. «Come ho fatto a trasformarmi? Com'è accaduto?» Questor lo lasciò andare con riluttanza, poi scosse la testa, con i capelli sottili che sparavano da tutte le parti, risultato del suo abbraccio entusiastico. «Non lo so» dichiarò perplesso. «Non ci capisco niente. Pensavo fossimo morti!» La folla si profuse in un altro applauso. Abernathy a questo punto divenne consapevole della loro presenza, tre o quattro cerchi di spettatori tutt'attorno al mago e a lui. Ne fu turbato, suo malgrado, e si sentì profondamente imbarazzato. «Questor Thews, fa' qualcosa!» implorò con calore, indicando il capannello di gente che li circondava. Il mago si guardò attorno sorpreso, ma riuscì in qualche modo a conservare il suo sangue freddo. «Salute a tutti!» esclamò. «Qualcuno può dirci dove ci troviamo?» Ci furono risate tra la folla. «Al Bumbershoot» fu l'immediata risposta di un ragazzo alto e allampa-
nato. «Bumbershoot?» ripeté Questor Thews dubbioso. «Sicuro. Bumbershoot, sapete, il festival delle arti.» Il ragazzo sorrise. Si stava divertendo, a qualunque gioco stessero giocando. «No, no, lui voleva dire la città» disse un tizio tarchiato. Anche lui si stava divertendo. «Siete a Seattle, nello Stato di Washington, ragazzi.» «Stati Uniti d'America» aggiunse un'altra voce. Altri nomi e luoghi vennero gridati, avendo gli spettatori deciso che si trattava di uno spettacolo che prevedeva la partecipazione del pubblico. Tutti erano entusiasti, e la folla s'ingrossò ancora. «Questor!» disse Abernathy bruscamente. «Ti rendi conto di dove ci troviamo? Siamo nel vecchio mondo dell'Alto Signore! Siamo stati trasportati ancora una volta aldilà delle nebbie fatate!» Il mago rimase a bocca aperta. «Ma come può essere accaduto? La Strega del Crepuscolo aveva tutte le intenzioni di distruggerci! Cosa facciamo qui?» «Chiedete a Scotty di tirarvi su una baracca!» gridò qualcuno. «Sono quelli di "Star Trek"?» chiese qualcun altro speranzoso. Gli spettatori si sbellicarono dalle risate e presero a battere ritmicamente le mani per incoraggiare i due. La musica dal padiglione era momentaneamente cessata, e sembrava che tutti i partecipanti al festival avessero improvvisamente deciso di convergere su di loro, alla ricerca di nuove emozioni. Con ritardo, Abernathy si rese conto che la loro inaspettata comparsa aveva richiamato tutta quella attenzione, e non c'era da stupirsi, visto che si erano materializzati in quel modo dal nulla come... be', come per magia; che era esattamente il modo in cui loro erano giunti lì, naturalmente, ma il problema era proprio quello: questa era la Terra, il vecchio mondo dell'Alto Signore, e la magia qui non veniva praticata. O meglio, non veniva tollerata. Perlopiù, non si credeva neanche alla sua esistenza. La folla pensava che quei due facessero parte del festival, come i giocolieri e quelli sui trampoli e così via. Qualunque magia possedessero era un'illusione. Era tutto un trucco per divertire. «Dobbiamo districarci da questa situazione in tutta fretta!» insisté Abernathy con un sussurro soffocato e ansioso. «Questa gente è convinta che ci stiamo esibendo per loro in qualche sorta di spettacolo!» Saltò rapidamente in piedi, guardandosi mentre faceva così, guardando la sua persona umana, continuando a stupirsi del fatto che si trovava lì, ritornato a essere quello che era un tempo, miracolosamente, impossibil-
mente. La voce non voleva quasi uscirgli dalla gola. «Dobbiamo discutere bene di tutto questo... di tutta questa faccenda! Ma da soli, Questor Thews!» Il mago assentì con enfasi esagerata, e si alzò con lui. Erano abbigliati alla moda di Landover, e apparivano abbastanza fuori luogo a meno che non si desse per scontato il loro ruolo di intrattenitori in costume. Il mago decise rapidamente che era meglio continuare su quella falsariga, piuttosto che cercare di mandar via il pubblico con ragionamenti o improbabili spiegazioni. Era confuso quanto Abernathy riguardo a quel che era successo, e altrettanto desideroso di sedersi in un posticino tranquillo per tentare di trovare il bandolo della matassa. «Ehm! Signori e signore! Posso chiedervi un po' di attenzione?» Si rivolse alla folla con il suo tono più autoritario, levando le mani in un gesto di abbraccio per conquistare l'attenzione generale. Tutti si zittirono di colpo. «Io e il mio collega abbiamo bisogno di qualche momento di pausa per prepararci, prima di procedere con il secondo atto. Quindi vi preghiamo di allontanarvi per un po': andate a fare quel che dovete fare, godetevi le altre attrazioni del festival e fra... be', diciamo un'ora, ci ritroviamo tutti qui. O no» aggiunse sottovoce. «Grazie, grazie mille.» Abbassò le braccia e si voltò. La folla non si mosse. Nessuno era ancora preparato ad andarsene, qualcuno non era neanche incline a pensare di doverlo fare. Poteva essere tutta una messinscena, prevista dal copione. Due stranieri da un altro mondo arrivati misteriosamente in questo: era affascinante. Cosa sarebbe accaduto dopo? Nessuno voleva perdersi il seguito. Ci fu un po' di scalpiccio, ma pochissimo movimento sui lati. «Così non funziona!» protestò Abernathy, irritato, confuso e sopraffatto da tutta la situazione. «Accidenti, mago, tirami fuori di qui!» Questor Thews sospirò, per niente sicuro di come farlo, poi, con la faccia atteggiata alla più ferrea decisione, prese per un braccio Abernathy, e marciò con lui direttamente in mezzo alla folla. «Per favore, scusate, grazie, sì, siete molto gentili, scusate, per favore.» La folla si divise, educatamente seppur a malincuore. Questor Thews e Abernathy ne uscirono intatti e si allontanarono velocemente attraversando il prato del festival fino a un grappolo di edifici e di chioschi alimentari. «Dove stiamo andando?» chiese Abernathy, non osando guardarsi alle spalle per vedere se qualcuno li avesse seguiti. «Dove ci sarà possibile, suppongo» rispose Questor con un'alzata di spalle. «Considerato che non abbiamo idea di dove si trovi una qualsiasi
cosa.» Si avviarono per un vialetto, passando davanti al pittore di facce, poi davanti a un tizio che faceva girare trottole, superando parecchi carri di cibi e bevande, e si ritrovarono su un riquadro erboso che fronteggiava una struttura cavernosa in vetro e metallo dalla quale proveniva un tipo di musica dal suono particolarmente sgradevole. «Cos'è quel rumore?» chiese Questor, scuotendo disperato la testa. «Rock and roll» rispose distrattamente Abernathy. «Ne ho sentita una certa quantità l'ultima volta che sono stato qui.» Dei ricordi si destarono nella sua mente, ma lui li scacciò. Si voltò, afferrò Questor per le spalle e gli fece fare una mezza rotazione così che si trovarono faccia a faccia. «Mago, che sta succedendo? Guardami! Non so se ridere o piangere! Sono di nuovo un uomo, per l'amor del cielo! Com'è potuto accadere? Sicuramente non erano queste le intenzioni della Strega del Crepuscolo! Lei stava tentando di ucciderci! Perché non siamo morti? Perché siamo qui?» Questor serrò le labbra, e strinse rapidamente gli occhi. «Be', o qualcosa non ha funzionato nella sua magia, oppure un'altra magia è intervenuta e ha modificato l'esito previsto. Io propenderei per la seconda ipotesi.» Questor alzò una mano e toccò la faccia dell'altro. La mano tremava. «Accidenti, perbacco, c'è anche qualcos'altro! Abernathy, sei cosciente del fatto che non sei invecchiato neanche di un giorno, da quel momento, tanti anni fa, che ti trasformai da uomo in cane?» «Non è possibile!» esclamò Abernathy assolutamente incredulo. «Neanche un giorno? Ma no, devo essere invecchiato! Perché non avrei dovuto? Dev'essere la magia, vero? Quella che tu pensi abbia interferito? Mi ha cambiato di nuovo, non solo in un uomo, ma nell'uomo che ero una volta. Questor, come mai? Perché avrebbe funzionato in questo modo?» Si guardarono l'un l'altro sconcertati, in silenzio, mentre il suono della musica che giungeva dalla sala li sommergeva, le risate e l'allegria del festival esplodevano tutt'attorno, alieni in una terra straniera, esiliati con mezzi che non erano in grado di comprendere appieno. Ah, ma io sono di nuovo un uomo! pensò Abernathy, con gioia e un pizzico di terrore. Sia quel che sia, io sono tornato a essere quello che ero e che ho sempre desiderato di essere! Questor Thews scosse la testa. «Non voglio nasconderti che tutto ciò è molto strano» dichiarò solennemente. «Scusate...» Si voltarono nel sentire la voce della ragazza, e la videro che stava a po-
chi passi da loro, e li guardava. Doveva essere all'incirca sui sedici anni, azzardò Abernathy, piuttosto piccoletta, con capelli biondi ricci e una spruzzata di lentiggini sulla zona del naso. Indossava pantaloncini corti da spiaggia, una camicetta azzurro cielo piuttosto attillata con delle scritte, e sandali. Aveva l'aria perplessa. «Ero tra la folla un momento fa» disse, studiandoli intensamente, in particolar modo Abernathy. «Dopo vi ho seguiti perché la vostra voce... So che vi sembrerò sciocca, ma il fatto è che... mi ricordate qualcuno...» Si arrestò, e inarcò le sopracciglia. Improvvisamente guardò Questor Thews. «Io mi ricordo di lei. Adesso ne sono sicura. Lei si chiama Questor Thews.» Questor e Abernathy si scambiarono una rapida occhiata. «Ci ha sentiti parlare» disse subito Abernathy. «No, non è vero.» La ragazza scosse la testa con enfasi e avanzò di un passo. «Abernathy è invece il suo nome, esatto? Lei non è più un cane! Ecco perché ero così confusa. Ma la sua voce è la stessa. E i suoi occhi. Non si ricorda di me? Io sono Elizabeth Marshall.» Sorrise speranzosa. «Sono Elizabeth.» Allora si ricordò. Elizabeth, dodici anni quando l'aveva vista l'ultima volta, una bambina che si aggirava per le sale di Graum Wythe, il castellofortezza di Michel Ard Rhi, un tempo Principe di Landover e figlio del vecchio Re nei giorni prima di Ben Holiday. Abernathy era stato spedito sulla Terra da un altro degli stupidi incantesimi di Questor, era piombato nella stanza dei trofei del suo peggior nemico ed era destinato a una rapida morte, quando Elizabeth l'aveva trovato e gli aveva salvato la vita. Insieme si erano sforzati, con successo, di tenere segreta la presenza di Abernathy a Michel, e di fare in modo che lo scrivano trovasse una via per tornare a Landover. Elizabeth lo aveva seguito passo passo. Perfino quando fu scoperta e la sua stessa incolumità fu in pericolo, si era rifiutata di tradire il suo amico. «Non avrei mai pensato di poterla rivedere» disse lei sommessamente, come se non fosse ancora sicura di parlare veramente con lui. «Neanch'io» disse quasi senza fiato Abernathy, incredulo. Allora lei si avvicinò in fretta e lo abbracciò. «Non riesco a crederci» disse con la faccia sepolta nella sua spalla, tenendolo stretto a sé. «È veramente pazzesco.» «Be', si» approvò lui, incapace di dire altro, e restituì l'abbraccio. Poi la ragazza si svincolò. C'erano lacrime nei suoi occhi. «Guardatemi,
piango come una bambinetta.» Si strofinò via le lacrime. «Quando vi ho visti, tutti e due, circondati da tutta quella gente, non riuscivo a credere che potesse essere vero. Voglio dire...» S'interruppe, scuotendo la testa. «Abernathy, cosa ci fai qui?» Lui si strinse nelle spalle, imbarazzato. «Non credo proprio di saperlo. Stavamo giusto cercando di scoprirlo. Non sappiamo davvero come siamo finiti qui. È una lunga storia.» La guardò. «Sei cresciuta.» Lei si mise a ridere. «Be', non del tutto, ma un po' sì, dall'ultima volta che ci siamo visti. Fra qualche mese faccio sedici anni. Allora, arrivederci. E arrivederci anche a te, Questor Thews.» «Felicissimo di averti rivista» replicò Questor. Si schiarì la gola. «Ah, mi domandavo, Elizabeth, se potremmo chiederti una cortesia...» «Non avete un posto dove andare, vero?» lo anticipò lei prima che avesse terminato la frase. «Naturalmente. Siete appena arrivati? Be', dovete avere un posto dove stare, finché sarete qui. Quanto avete intenzione di restare?» Questor sospirò «È piuttosto arduo, per il momento, stabilirlo.» «Non importa, potete stare da me. Abito ancora a Woodinville, ma non a Graum Whyte. Abbiamo una casa, il mio papà e io, lungo la strada, non lontano. Papà fa ancora il sovrintendente della proprietà e si occupa del castello. Ma starà via fino alla fine della settimana prossima, e così abbiamo la casa tutta per noi. A parte la signora Ambaum. È la governante. E anche la mia tutrice.» Ridacchiò. «Vi racconterò dopo. Abernathy, non credo ai miei occhi. Guardati!» Abernathy arrossì. «Be'» fece per dire. «Forse dovremmo andare, ora» consigliò Questor. «A casa tua, Elizabeth. Abbiamo proprio bisogno di metterci seduti a parlare.» «Sicuro» approvò subito Elizabeth. «Avverto i miei amici che vado via. Sono venuta fin qui con l'autobus, quindi dovremo prendere quello, per andare a casa. Penso di avere denaro abbastanza per tutti e tre. Spero di si, perché scommetto che voi non ne avete. Gente, questa sì che è una stranezza, rivedersi così dopo tanto tempo, che ne dite?» Questor Thews annuì, guardando distrattamente la gente e il festival. La musica rotolava negli spazi liberi tra un edificio e l'altro. Bandiere e palloncini fluttuavano al soffio della brezza tiepida. Odori di cucina impregnavano l'aria. Risate e canti si levavano da ogni lato. Bumbershoot, festival delle arti. Seattle, Washington, Stati Uniti. Il vecchio mondo dell'Alto Signore. Adesso Elizabeth. Era strano, sicuro. Era anche la più colossale
coincidenza che gli fosse mai capitata; o forse era qualcosa di molto più complicato. Non lo disse, ma lui propendeva per la seconda ipotesi. Pensò che avrebbero fatto bene a mettere a posto tutti i pezzi del mosaico, prima che accadesse qualcos'altro. 8 I reduci di Graum Wythe Dopo che Elizabeth si fu scusata con i suoi amici, guidò Abernathy e Questor Thews attraverso il caos del Bumbershoot passando davanti a un edificio chiamato Center House, una collezione di attrazioni meccaniche risonante delle urla dei bambini, e poi oltrepassando una serie di chioschi alimentari fino a giungere alla piattaforma d'attesa di una monorotaia, qualcosa di assolutamente nuovo per Questor, che, a differenza di Abernathy, non aveva passato tanto tempo nel vecchio mondo dell'Alto Signore. Dopo una breve attesa salirono su un treno e si diressero al centro della città. Abernathy dimostrò, con suo grande diletto, molta familiarità con le cose, ulteriormente ringalluzzito dall'incredibile evento della sua trasformazione. Mentre correvano sulla monorotaia e ne seguivano il tracciato verso gli alti palazzi della città, lui continuava a fissare il suo riflesso nel vetro del finestrino, ancora non del tutto convinto che potesse essere vero, e preoccupato, in fondo al cuore, che il suo aspetto potesse cambiare di nuovo da un momento all'altro. Ma era vero, e niente faceva pensare che la trasformazione potesse essere reversibile. Era se stesso, ancora una volta, un uomo completo: in effetti, esattamente lo stesso uomo che era stato quando Questor lo aveva trasformato in cane, dall'aspetto piuttosto normale, altezza e peso nella media, capelli scuri e diritti a incorniciare il suo volto da intellettuale. Gli occhiali senza montatura erano posati confortevolmente sul naso, e gli si adattavano alla perfezione, come se non facesse alcuna differenza il fatto che lui fosse un uomo e non più un cane. Gli occhi erano distanziati e di colore bruno. La sua bocca era piena e il mento deciso. Una faccia comune, certo, ma pur sempre una faccia in tutto e per tutto. Ed era la sua. Guardandola nel vetro del finestrino, si sentiva come se un pesante fardello gli fosse stato tolto dalle spalle. L'ultima volta che era stato nel mondo di Ben Holiday, era stato costretto a farsi passare per un vero cane, a scanso di spiacevoli e imbarazzanti incidenti. La magia qui non era ben accetta. Qui non si era mai sentito di cani parlanti. Abernathy
era stato un fenomeno di colossale richiamo, e c'era stato più di un tentativo di sfruttare la situazione. Così aveva strisciato di qua e di là come un ladro nella notte, fingendo di essere ciò che non era, imbarazzato e spaventato. Adesso poteva camminare dappertutto come chiunque altro perché aveva l'aspetto di chiunque altro. Si trovava perfettamente a suo agio. Be', non del tutto, ma certamente più che se fosse stato ancora un cane. Questa, dopotutto, non era la sua terra. Ma quando finalmente sarebbe tornato a Landover... Quel pensiero lo fece sorridere. «Come ci si sente?» gli chiese Elizabeth tutt'a un tratto. Era stata a guardarlo. «A essere di nuovo un uomo?» Abernathy ebbe il pudore di arrossire. «Sembra che io non la voglia proprio smettere di guardarmi. Scusatemi. Ma è una sensazione meravigliosa. Non posso dirvi quanto. È passato così tanto tempo, Elizabeth, da quando fui...» S'interruppe. «Io... sono molto felice.» Lei sorrise in risposta. «Sai una cosa? Sei proprio un bell'uomo.» Abernathy rimase senza fiato. Sentì le sue guance avvampare. «No, dico davvero» insisté lei. «Lo sei.» Lui si aspettava a questo punto di sentire un commento maligno da parte di Questor Thews, ma il mago non prestava attenzione alla conversazione; perso nei suoi pensieri, guardava da tutt'altra parte, gli occhi fissi nel vuoto. Abernathy mormorò qualcosa di incomprensibile a Elizabeth e si mise a guardare dal finestrino gli edifici che passavano. Basta con il narcisismo. Doveva mettersi a pensare, ora. Doveva cercare di scoprire cosa stava succedendo. Cos'era che li aveva portati in quel luogo e in quel tempo, che lo aveva fatto tornare uomo e l'aveva ancora una volta legato in qualche modo a Elizabeth. Come Questor, anche lui pensava che come coincidenza fosse un po' troppo spropositata. Aveva la sensazione che ci fosse qualche macchinazione in atto, qualcosa che probabilmente avrebbe dovuto comprendere e che invece gli sfuggiva. Ma per il momento era così coinvolto dalla sua trasformazione che non riusciva a imporsi di pensare a qualcos'altro. Si guardò nel finestrino ancora una volta e gli venne quasi da piangere. Non aveva forse il diritto di assaporare quella gioia per qualche altro momento? Dopo tutto, aveva atteso per tanto tempo! Al capolinea della monorotaia scesero, ed entrarono in un alto edificio circondato da altri edifici altrettanto alti, il tutto a formare un complesso molto imponente, quasi schiacciante, e da lì fecero delle scale (alcune del-
le quali mobili) fino a una stazione sotterranea, dove presero un autobus. Questor non sapeva niente neanche di autobus, così Abernathy si azzardò a spiegare come funzionavano e sbagliò tutto. Elizabeth ridacchiò e li corresse tutti e due. Ormai erano abbastanza lontani da Bumbershoot perché la gente cominciasse a notare il loro abbigliamento alquanto strano: Questor nella sua tunica grigia a quadrettoni cuciti assieme con le sue fusciacche dai colori sgargianti, e Abernathy nella sua mantella da viaggio a righe cremisi con gli orli argentei; ma nessuno fu così scortese da dire qualcosa. L'autobus percorse un primo tratto sottoterra, fermandosi due volte, e poi sbucò all'aperto da una galleria, tuffandosi nella luce del sole del tardo pomeriggio. Erano su una strada intasata di altri veicoli sparsi anche su altre corsie che si perdevano in lontananza. Procedevano tutti con una certa lentezza. I tre erano seduti nel retro dell'autobus e guardavano fuori dai finestrini, e per qualche tempo nessuno disse granché. «Ben Holiday e Willow stanno bene?» chiese infine Elizabeth rivolta ad Abernathy. Lui rispose di sì. Poi le disse di Mistaya. Una cosa ne richiamava un'altra. Quando vide che Questor non gli lanciava occhiate particolari a suggerirgli cautela, Abernathy andò avanti a raccontare della Strega del Crepuscolo e dell'attacco alla carovana che era stata organizzata per accompagnare la ragazzina da suo nonno. Teneva la voce bassa così da non farsi sentire dalle persone sedute accanto. Non che fosse tanto probabile che quello accadesse, con tutto il rumore che faceva l'autobus. Le raccontò di come avessero pensato che la loro fine fosse giunta quando la Strega del Crepuscolo aveva evocato la sua formidabile magia, per poi ritrovarsi inesplicabilmente nel vecchio mondo dell'Alto Signore, a Seattle, al Bumbershoot. Il resto era noto anche a lei. «È tutto molto strano» disse lei alla fine. «Mi chiedo come abbiate fatto a finire quaggiù.» «Effettivamente» disse Questor Thews, senza guardare. «Mi piacerebbe vivere nel vostro mondo» esclamò la ragazza improvvisamente. «Succedono sempre tante cose.» Abernathy la guardò sorpreso, poi distolse rapidamente lo sguardo. Rimasero sull'autobus fino alla fermata di Woodinville, poi scesero e percorsero un bel pezzo di strada a piedi in campagna. Case e traffico svanirono in lontananza, il tempo rinfrescò, e il sole calò verso le montagne che si stagliavano all'orizzonte. La campagna era ondulata e boscosa attorno a loro, piena di odori pungenti e del canto degli uccelli. La strada che
seguivano correva diritta e senza impedimenti a perdita d'occhio, assolutamente deserta. «Vi devo parlare della signora Ambaum» disse Elizabeth dopo un po'. Aveva la faccia tutta tirata, com'era sua abitudine ogniqualvolta doveva affrontare un argomento spinoso. «È la governante. Vive con noi. Papà è spesso via da casa, e lei bada a me quando lui non c'è. È abbastanza simpatica, ma pensa che tutti i ragazzi (cioè io e chiunque abbia meno di ventun'anni o giù di lì) non possano stare lontani dai guai. Non che pensi che noi andiamo a cercarceli; semplicemente è convinta che non possiamo evitarli. Così passa un sacco di tempo a studiare il modo di tenermi tappata in casa, per la mia sicurezza. Ha avuto quasi un collasso quando le ho detto che andavo con l'autobus al Bumbershoot, ma papà le aveva detto che non c'era problema, e quindi non ha potuto fare molto. Comunque, faremo bene a propinarle una storia credibile sul vostro luogo di provenienza, altrimenti avremo dei guai.» «La verità non funzionerebbe, suppongo?» chiese Questor. Elizabeth sorrise. «La verità la farebbe andar fuori di testa.» «Potremmo cercarci un altro posto, se ci sono tanti problemi» propose Abernathy. «Come no, potremmo stare in una stalla, o forse anche fuori, nei campi» dichiarò Questor, lanciandogli un'occhiata non proprio benevola. «Davvero, Abernathy.» «No, no, dovete stare da me» insisté in fretta Elizabeth. «Abbiamo un sacco di spazio. Ma ci serve una storia per la signora Ambaum. Che ne dite di questa? Abernathy, tu puoi essere mio zio, che è venuto a trovarmi da Chicago. E Questor Thews è un tuo amico, un professore di... geologia. Siete alla ricerca di fossili. No, dovete partecipare a un convegno sulle specie estinte che si tiene all'Università, e siete passati a salutare papà, non sapendo che è fuori città, e io vi ho chiesto di restare da noi. Ecco, questa dovrebbe funzionare.» «Ci affidiamo a te» annunciò Questor Thews. Sorrise coraggiosamente. «Se avremo fortuna, la nostra visita sarà breve.» «Io scommetto di no» disse Elizabeth, e nessuno dei suoi compagni se la sentì di contraddirla. Dopo un po' arrivarono a una casa di due piani, defilata dalla strada in un boschetto di abeti e cornioli, circondata interamente da aiuole, il vialetto ornato di petunie e il cortile costellato di rododendri. L'edificio aveva le pareti in legno ed era dipinto di bianco con decorazioni di un blu intenso.
Fioriere traboccanti di fiori abbellivano la facciata, e un patio coperto con varie sedie a dondolo correva per tutta la sua lunghezza. Diversi abbaini sporgevano dal tetto spiovente, con le finestre dalle tendine colorate, e massicci comignoli in pietra prolungavano i muri sia sul fronte che sul retro. La luce del sole colpiva a sprazzi la casa e il cortile, filtrando tra gli alberi, e un gatto bianco e arancione comparve alla vista per poi sparire in un intrico di cespugli. Elizabeth li condusse lungo il vialetto fino alla porta e suonò il campanello. Non ci fu risposta. A quanto sembrava, la signora Ambaum era uscita. Elizabeth ficcò una mano in tasca e tirò fuori una chiave, aprì la porta e li fece entrare. «Dovremo trovare una spiegazione anche per il fatto che non avete bagagli» dichiarò una volta che si fu assicurata che la signora Ambaum era effettivamente uscita. «Questo potrebbe essere più difficile di quanto sembri.» Mostrò loro la camera da letto al secondo piano che li avrebbe ospitati, poi li portò dabbasso in cucina, li fece accomodare al tavolo della colazione e si mise a preparare dei panini. In breve tempo poterono mangiare. Sia Abernathy che Questor si resero conto di aver più fame di quanto avessero pensato, e consumarono velocemente tutto ciò che era stato loro servito. Quando ebbero finito, mentre il giorno cominciava già a sfumare nell'imbrunire, presero a parlare di ciò che era successo. Rimasero seduti a tavola, con la sedia ben accostata, appoggiando braccia e gomiti sul piano di legno lucido, le mani intrecciate davanti a loro o messe a coppa sotto il mento, un terzetto meditabondo anche se perplesso. «Be', possiamo essere certi almeno di questo, io credo» dichiarò Questor Thews aprendo la discussione. «La Strega del Crepuscolo aveva intenzione di provocare la nostra distruzione, e non di spedirci su questo mondo. Noi ci troviamo qui, perciò, a dispetto dei suoi sforzi, e non a causa di essi.» «D'accordo, sì, naturalmente» approvò con impazienza Abernathy. «Fin qui c'eravamo già arrivati, mago. Dicci qualcosa di nuovo. Cosa dici di me, per esempio?» «Tu fosti trasformato in quello stesso momento. Trasformato di nuovo in un uomo e poi mandato qui, con me.» Questor si strofinò i baffi, aggrottando profondamente la fronte. «In qualche modo, è tutto collegato, non credi?» «Non so cosa pensare» ammise Abernathy. «Che cosa intendi con "tutto collegato"?»
Questor inalberò le dita davanti alla faccia. «Noi dobbiamo presumere, come dicevo prima, che ci sia stato un intervento magico inteso a impedire che la strega ci distruggesse. Un intervento di chi, allora? Potrebbe essere venuto dagli esseri fatati, forse dallo stesso Signore del Fiume, che tentava di salvare sua nipote. Oppure potrebbe essere venuto dalla Madre Terra; è sempre stata vicina a Willow e avrebbe tutti i motivi per voler proteggere la figlia della sua amica.» Abernathy corrugò la fronte. «Nessuna delle due ipotesi mi sembra pienamente plausibile. Se il Signore del Fiume o la Madre Terra tenevano sotto controllo Mistaya, come avrebbe fatto, innanzitutto, la Strega del Crepuscolo a minacciarci così da vicino? Comunque, io non ho visto niente che autorizzasse a pensare che Mistaya fosse in procinto di essere salvata, quando noi siamo scomparsi.» «È vero, non è convincente» ammise Questor. Elizabeth, che era stata ad ascoltare attentamente, ma senza intervenire, disse: «Non potrebbe essere stata la stessa Mistaya a salvarvi? Ha della magia che può usare?» Tutti e due la guardarono, considerando la possibilità. «Un'idea eccellente, Elizabeth» disse Questor dopo un momento. «Ma Mistaya, ammesso che possieda un qualche tipo di magia, non è esperta nel suo uso, mentre la magia che ha potuto deviare o modificare quella della strega era sofisticata e usata con maestria.» «Inoltre» intervenne Abernathy «Mistaya stava ancora dormendo. L'ho visto quando l'ho guardata per vedere se le avevano fatto del male. Dormiva come se niente fosse accaduto. Io penso che la strega potrebbe aver operato un incantesimo per impedirle di svegliarsi.» «Possibile senz'altro» approvò Questor. Si appoggiò allo schienale e strinse le labbra. «Bene, allora. Qualche altra magia è intervenuta e ci ha salvato la vita. Ci ha mandato sul vecchio mondo dell'Alto Signore, ha trasformato Abernathy e ci ha dato la capacità di parlare e di comprendere questo linguaggio. Ma (e questo è significativo) ci ha mandato qui, proprio nel posto dove siamo comparsi l'ultima volta, dove Abernathy fu inavvertitamente scambiato per il Darkling, nel sito di Graum Whyte, in quella che fu una volta la dimora di Michel Ard Rhi. E» disse accennando eloquentemente a Elizabeth «a pochi passi di distanza da lei.» Abernathy spalancò gli occhi. «Aspetta un minuto, Questor Thews. Che cos'hai detto un momento fa?» «Ciò che tutti abbiamo detto a un certo punto, dopo esserci incontrati al
festival di Bumbershoot: che l'essere capitati qui, nei pressi di Graum Whyte e praticamente fra le braccia di Elizabeth, è una coincidenza troppo grossa da mandar giù. Sarei pronto a scommettere che c'è una ragione per tutto quello che ci è successo. Chiunque o qualsiasi cosa ci abbia salvato la vita non l'ha fatto per puro caso. L'ha fatto con preveggenza e con intenzione. Siamo stati salvati per un motivo preciso. Siamo stati mandati qui, nel vecchio mondo dell'Alto Signore, ma in un luogo specifico come Graum Wythe, deliberatamente.» Fece una pausa, meditando. «Elizabeth, non hai detto che Graum Wythe esiste ancora?» «Venite a vedere» li invitò, alzandosi dal tavolo. Li guidò dalla cucina per una porta che dava sul cortile posteriore, un prato ben curato che si stendeva oltre una macchia di abeti fino a uno steccato. Li portò a metà strada dallo steccato, dove gli alberi si aprivano, poi si fermò e indicò a destra. Li, stagliato contro l'orizzonte alla pallida luce del sole calante, stava Graum Wythe. Il castello sorgeva solitario su un'altura, circondato dalle sue mura e protetto dalle sue torri. Stava li isolato e immutabile, nero e torreggiante contro la notte che stava per inghiottirlo. Elizabeth abbassò il braccio. Chiazze di luce solare comparivano a tratti tra i suoi capelli ricci. «Ancora lì, proprio dove l'hai lasciato. Ti ricordi, Abernathy?» Abernathy rabbrividì. «Ne farei volentieri a meno, di quel ricordo. È più minaccioso che mai, devo dire.» Un improvviso pensiero lo gelò ancora di più. «Michel Ard Rhi non è mica tornato, vero?» «Oh no, naturalmente no.» Elizabeth rise, disarmante. «Si è trasferito in Oregon, a parecchie centinaia di miglia di distanza. Ha donato Graum Wythe allo Stato per farne un museo. È stato istituito un fondo fiduciario per amministrare la tenuta. Mio padre è l'amministratore capo. Sovrintende a tutto. No, non preoccuparti. Michel è scomparso da un bel pezzo.» «La mia magia ce ne diede la certezza» puntualizzò Questor Thews, piccato. «Lo spero bene» bofonchiò Abernathy, pensando, mentre lo diceva, che la magia di Questor Thews non aveva mai brillato per affidabilità. Tornarono in casa e ripresero il loro posto a tavola. L'oscurità era calata, e l'ultimo barlume di luce del giorno era svanito. Elizabeth offrì loro dei bicchieroni di latte e un vassoio di biscotti. Questor si servì senza farsi pregare, ma Abernathy scoprì di aver perso il suo appetito. «Quindi niente di tutto questo è una coincidenza; fa tutto parte di qual-
che piano misterioso» lo scrivano concluse dubbioso. «Quale piano?» Questor lo squadrò come se fosse uno scolaro disattento, sollevando le sopracciglia. «Be', naturalmente a questo non so dare una risposta. Se lo sapessi, non avremmo bisogno di intavolare questa discussione, non credi?» Abernathy lo ignorò. «Un intervento di magia ci ha salvato dalla Strega del Crepuscolo e ci ha spedito nel vecchio mondo dell'Alto Signore, la Terra, ma in particolare a Graum Wythe e da Elizabeth.» Guardò Elizabeth. Poi guardò Questor. «Ancora non capisco.» «Neanch'io ne sono tanto sicuro» ammise Questor Thews. «Ma supponiamo per un momento che l'entità che ci ha aiutato l'abbia fatto per aiutare anche Mistaya. Per quanto ne sappiamo, nessuno sa cos'è accaduto alla bambina tranne noi. Noi sappiamo che la Strega del Crepuscolo l'ha rapita. Sappiamo che la strega intende usare la bambina per vendicarsi dell'Alto Signore e che Rydall di Marnhull fa parte del suo piano. Se potessimo comunicare questo a Ben Holiday, lui potrebbe forse far qualcosa per mandare a monte i piani della strega. Forse è questo che ci si aspetta che facciamo. Siamo vivi e in questo luogo per una ragione specifica, Abernathy. Quale miglior ragione che scoprire un modo per fermare la Strega del Crepuscolo prima che porti a compimento il suo piano?» «Guerriero vivo è buono per un'altra battaglia, non è così?» sentenziò Abernathy, grattandosi la testa con le dita invece che con la zampa posteriore, senza rendersene neanche conto. «Forse ci hanno mandati qui semplicemente per toglierci di mezzo. Forse il nostro salvatore dopo ha salvato anche Mistaya.» Ma Questor Thews scosse la testa energicamente. «No. No, sono quasi certo che non è andata in quel modo. Prima di tutto, se il nostro salvatore è stato li per tutto il tempo, a sorvegliare la situazione in attesa del momento cruciale (come dev'essere stato il caso, visto l'intervento fulmineo) perché non ha salvato Mistaya prima? Perché aspettare fino all'ultimo momento? Se il nostro salvatore stava sorvegliava la situazione semplicemente per toglierci di mezzo, come dici tu, perché mandarci fin quaggiù? Perché non rimandarci a Sterling Silver o da quelle parti? No, Abernathy, noi siamo qui per qualche motivo, e questo motivo ha qualcosa a che fare con la possibilità di strappare Mistaya dalle grinfie della strega.» «Tu pensi che la risposta a tutto questo si trovi a Graum Whyte, non è così?» dichiarò Elizabeth, saltando per prima alla logica conclusione. «È così» confermò Questor Thews. «Graum Whyte è un vasto ricettaco-
lo di manufatti magici, alcuni dei quali piuttosto potenti. Uno di quei manufatti potrebbe aprirci la strada per tornare a Landover. O fornirci qualche mezzo per neutralizzare la strega. Rimane il fatto che senza una magia di qualche tipo, siamo intrappolati qui e impossibilitati ad aiutare l'Alto Signore o Mistaya. Non abbiamo modo di attraversare le nebbie fatate. Nessuno sa dove ci troviamo. Nessuno verrà a cercarci. Io credo che qualcuno o qualcosa si aspetti che noi troviamo la via per tornare a casa. Credo che dobbiamo trovarla, se vogliamo che Ben Holiday e Mistaya siano salvati.» I tre si guardarono l'un l'altro, soppesando il valore delle parole del mago. «Forse» approvò infine Abernathy. «Non c'è nessun "forse". Graum Wythe racchiude la risposta al nostro dilemma» proseguì solennemente Questor Thews. «Ma la chiave per Graum Wythe sei tu, Elizabeth. Noi siamo stati mandati da te perché tuo padre amministra il castello e tutti i suoi tesori. Tu hai vissuto nel castello e le sue stanze ti sono familiari. Hai accesso a posti che sono interdetti agli altri. Quello che ci serve è in quel castello, da qualche parte. Ne sono certo. Non dobbiamo fare altro che trovarlo.» «Possiamo iniziare domani mattina quando il castello apre» promise Elizabeth. «Questo non sarà difficile. Il peggio sarà trovare quello che vi serve senza avere la minima idea di che cosa si tratti.» «Vero» ammise Questor Thews scrollando leggermente le spalle. «Ma tutto questo cos'ha a che fare con la mia trasformazione da cane in uomo?» chiese Abernathy ancora una volta. Stava ancora aspettando una risposta alla sua domanda quando si udì il rumore di una chiave che girava nella toppa della porta principale, e poi quello della porta che si apriva. Tre teste si girarono come fossero una. «Elizabeth, sei in casa?» chiamò una voce di donna. «La signora Ambaum!» annunciò Elizabeth, facendo una smorfia. Almeno per il momento, il quesito di Abernathy era rimasto senza risposta. La signora Ambaum si dimostrò meno terribile di come era stata dipinta. Era una donna massiccia e impettita con i capelli che cominciavano a ingrigirsi, dalla faccia ambigua e dalla mente sospettosa, ma non era il tipo della maligna. Elizabeth le sciorinò la sua spiegazione sulle circostanze della visita di Abernathy e Questor e dell'invito fatto loro da parte della
ragazza di fermarsi lì; la signora Ambaum, dopo qualche domanda di rito e una dichiarazione formale che la sollevava da ogni e qualsiasi responsabilità, accettò la loro presenza senza ulteriori discussioni, ritirandosi nella sua stanza sul retro della casa per farsi una tisana e guardare la televisione. Si astenne dal fare commenti sugli insoliti indumenti e dall'indagare sul motivo della mancanza di bagaglio. Questor e Abernathy andarono a letto alquanto sollevati. Si alzarono presto al mattino, ma rimasero nella loro stanza finché Elizabeth non andò a chiamarli. Aveva portato loro alcuni dei vestiti di suo padre, che perlopiù erano della taglia giusta e abbastanza di moda e quindi molto meno appariscenti dei loro. Si vestirono e scesero per la colazione. Elizabeth li informò che la signora Ambaum era già uscita per andare a passare la giornata da sua sorella. Mangiarono in fretta, ansiosi di intraprendere la loro ricerca a Graum Wythe, poi misero a posto i piatti e uscirono con Elizabeth che faceva strada. Era una giornata splendida, soleggiata e senza una nuvola. Gli uccelli cantavano sugli alberi, e l'aria era pregna del profumo di fiori e abeti. Tutti e tre sorridevano amabilmente mentre lasciavano la casa e percorrevano il vialetto fino in fondo al giardino, per poi svoltare a sinistra e imboccare la strada che menava al castello. Elizabeth prese a braccetto Abernathy, sorridendo con aria di cospirazione. Abernathy stava tutto rigido e imbarazzato. «Stai veramente bene con i vestiti di papà» gli disse lei. «Molto distinto. Dovresti vestire sempre così.» «Dovrebbe anche sorridere un po' di più» aggiunse Questor Thews d'impulso. «È così incredibile, Abernathy, che tu sia di nuovo qui» proseguì la ragazza, stringendogli affettuosamente il braccio. «Guardati, guardati un po'! Chi potrebbe credere a una cosa simile? Non è meraviglioso? Non sei felice?» «Molto» riconobbe Abernathy, sfoderando la sua migliore espressione facciale, benché si stesse ancora chiedendo quale sarebbe stato il prezzo da pagare per la sua sconvolgente, ma ancora inspiegabile, trasformazione. C'era sempre un prezzo per quel genere di cose. Riandò col pensiero ai cristalli dell'occhio della mente di Horris Kew. Un prezzo, sempre. Elizabeth indossava una maglietta a maniche corte grigio-celeste che diceva qualcosa a proposito dei rifiuti di Seattle, un paio di jeans, e delle consunte scarpette da tennis. I suoi capelli erano scarmigliati ad arte, e si
era truccata con ombretto viola per gli occhi e rossetto color magenta scuro per le labbra. Abernathy pensò che era cresciuta terribilmente in fretta, ma se lo tenne per sé. «Hai una famiglia?» gli chiese lei tutt'a un tratto. «Una moglie e dei figli?» Lui scosse la testa, come un bambinetto avvilito. «Tuo padre e tua madre?» «Li ho persi tanti anni fa.» Se ne ricordava appena. «Fratelli e sorelle?» «No, ho paura di no.» «Mmm. È piuttosto triste, non credi? Forse dovrei adottarti!» Fece un sorriso smagliante. «Scherzo. Ma tu potresti veramente far parte della mia famiglia, visto che è così piccola e potrebbe acquisire un altro membro, o anche due. Cosa ne dici? Un'adozione non ufficiale, d'accordo?» «Grazie, Elizabeth» replicò lui, ed era davvero commosso. Caracollavano lungo la strada, il vecchio con barba e capelli di un bianco elettrico, il giovane con occhiali senza montatura e lo sguardo pensoso, e la ragazza dai riccioli che sembrava la loro accompagnatrice, alla volta di Graum Wythe come Dorothy e i suoi compagni alla Città di Smeraldo di Oz. Tranne che, naturalmente, Graum Wythe, per quanto imponente e simile a un castello, non aveva nient'altro in comune con la Città di Smeraldo. Non era verde o luminoso, ma grigio-pietra e tetro. Nessuna strada dai mattoni gialli portava alla sua entrata, solo asfalto. Nessun campo di papaveri circondava le sue mura, anche se le sue vigne coltivate mostravano ancora qualche tocco di verde. Era medievale e aveva l'aspetto di una fortezza, senza stendardi a garrire sui bastioni, soltanto con le bandiere degli Stati Uniti e dello stato di Washington a segnalare il suo ingresso. Comunque, né Abernathy né Questor Thews sapevano niente di Oz e della Città di Smeraldo. Se avessero dato il minimo peso alla questione, probabilmente non avrebbero potuto fare a meno di mettere a confronto il grigiore di Graum Wythe con lo splendore di Sterling Silver, per esempio. In realtà, stavano pensando a tutt'altro. Abernathy stava cercando di figurarsi cosa sarebbe stata la sua vita adesso che non era più un uomo in forma di cane, ma un uomo reale. Cercava di immaginare se stesso nel suo nuovo ruolo alle prese con le più svariate situazioni. Questor Thews, d'altra parte, stava rimuginando sulla domanda della sera prima formulata dal suo amico, e cioè che cosa avesse a che fare la sua trasformazione con il loro arrivo nel mondo dell'Alto Signore, e sperava che i suoi sospetti, an-
cora non espressi, si dimostrassero infondati. Il piccolo gruppo giunse al basso muro di pietra che cingeva il castello e varcò i cancelli di ferro aperti, fino al ponte levatoio. Graum Wythe si ergeva davanti a loro, un grappolo poderoso di torri e merlature. Il ponte levatoio era abbassato e la saracinesca sollevata, così s'inoltrarono nell'ombra delle mura, attraverso il cancello d'ingresso, per ritrovarsi all'aperto, nel parcheggio del castello. Graum Wythe sembrava totalmente deserta. Un'unica macchina era posteggiata in fondo al parcheggio riservato ai visitatori. La bancarella dei souvenirs, ricavata in quella che era stata una guardiola, era chiusa e sbarrata. Graum Wythe sembrava deserta. «È tutto a posto» assicurò Elizabeth ai suoi compagni. «Il museo non è ancora aperto al pubblico, ma noi possiamo entrare.» Li guidò attraverso il parcheggio e su per le scale che conducevano al portone principale fasciato di ferro. Picchiò il pesante battente sulla sua placca e attese. Un momento dopo la porta si aprì, e un uomo che lei salutò come Harvey, avendola riconosciuta, sorrise e li lasciò entrare. Si trovarono nello stesso atrio dove parecchi anni prima Ben, Willow e Miles Bennett (il vecchio socio nell'ufficio legale di Ben, reclutato di forza per l'occasione) tutti e tre vestiti per la notte di Halloween, avevano organizzato la fuga di Abernathy dalle segrete di Michel Ard Rhi. Abernathy si guardò intorno con un po' di magone, ma la minaccia di Michel e delle sue guardie era svanita ormai da tempo e l'atrio stesso presentava delle nuove decorazioni che includevano tappezzerie vivaci, chioschi di opuscoli e un banco di accettazione che Harvey presidiava. Dopo aver fornito ad Harvey la stessa spiegazione su Questor e Abernathy che aveva dato con successo alla signora Ambaum, e dopo aver scambiato qualche convenevole con lui, Elizabeth condusse il mago e lo scrivano nelle viscere del castello. Passarono il resto della giornata a cercare. La loro ricerca fu limitata in un primo tempo ai corridoi e alle stanze aperte al pubblico, e quindi ai manufatti e alle suppellettili in esposizione. La maggior parte degli oggetti fu da Questor Thews riconosciuta per quel che era. Quasi nessuno di essi possedeva magia propria. Ma alcuni di essi sì, e un paio di volte il mago si sentì obbligato a esprimere la sua riprovazione sulla scelta inopportuna di esporre questo o quell'oggetto al pubblico, alla luce dei pericoli che sarebbero potuti derivare da un cattivo uso del suo potenziale magico. Comunque, da nessuna parte gli riuscì di trovare l'oggetto elusivo e ancora non identificato che stavano cercando. Si giunse a mezzogiorno passato senza alcun risultato. Consumarono il
pranzo nel piccolo punto di ristoro situato nei locali dell'antica cucina del castello. Ormai stavano arrivando visitatori a carrettate, e autobus pieni di turisti. Gli affari stavano decollando. Per evitare la calca, Elizabeth li condusse nelle stanze di servizio e nei magazzini del castello, quelli tenuti chiusi al pubblico, per frugare fra quelle cose considerate di poco conto oppure non ancora pronte per essere esposte. C'erano cumuli di casse dappertutto, ma riuscirono comunque a tirarne giù la maggior parte per gettare uno sguardo all'interno. Vari armadi erano ricolmi di strane rocce e minerali, incisioni e sculture, dipinti e opere d'arte di tutti i tipi, e nessuno di quegli oggetti sembrava in qualche modo utilizzabile. Un'ora dopo la chiusura del castello Harvey li avvertì che avrebbero dovuto uscire e tornare l'indomani. Riluttanti arrancarono verso casa, senza che i loro sforzi avessero portato ad alcun risultato. Questor Thews era particolarmente frustrato. «È li, lo so» mormorò, scuotendo l'ispida testa canuta «Non posso sbagliarmi su questo. È li, ma non riesco a vederlo, ecco tutto. Tutto quello che possiamo fare è tornare domani e ritentare. Maledizione!» Abernathy ed Elizabeth si scambiarono una rapida occhiata. Nessuno di loro si rammaricava alla prospettiva di proseguire la ricerca il giorno dopo. Se Questor li avesse guardati, avrebbe notato che Elizabeth teneva Abernathy per la mano. Se avesse continuato a guardare, avrebbe notato che sul volto di Abernathy non c'era più traccia d'imbarazzo. 9 Apparizioni Il primo dei campioni di Rydall di Marnhull apparve esattamente come promesso tre giorni dopo che Ben Holiday ebbe accettato la sfida del Re. Al sorgere del sole, era già in attesa fuori dei cancelli di Sterling Silver, una figura forte e solitaria ferma all'imbocco del ponte, che fissava il castello. Era un uomo di grosse dimensioni e di evidente possanza fisica. In una terra dove i guerrieri raggiungevano spesso i due metri e dieci di altezza, quest'uomo arrivava facilmente ai due e quaranta. Era un gigante dal torso massiccio, le spalle ampie e le gambe come tronchi d'albero, coperto di pelli di animale legate con stringhe di cuoio sul corpo muscoloso. Gli stivali legati agli schinieri arrivavano a metà coscia, e fasce borchiate di protezione per i polsi erano allacciate ai guanti di cuoio. Una barba nera e una capigliatura folta e ruvida oscuravano buona parte della faccia, ma i
suoi occhi erano ben visibili, scintillanti alla luce del sole nascente. Non aveva che un'arma, una mazza di legno segnata dalle battaglie, fasciata da strisce di ferro battuto. Ben Holiday stava con Willow e Bunion sui bastioni del castello e osservava il campione di Rydall. Il suo arrivo non era una sorpresa, naturalmente. Sin da quando Mistaya era scomparsa con Questor Thews e Abernathy, Ben si era convinto che Rydall faceva sul serio. Di fatto, nessuno aveva mai sentito parlare di lui o di Marnhull, o aveva la minima idea del suo luogo di provenienza e del suo attuale rifugio; nessuno sapeva (ed era questa la cosa più importante) che fine avessero fatto la figlia di Ben e i suoi amici. Ma tutto questo non sminuiva affatto la certezza e la portata della sua minaccia. Usando l'Osservatorio, Ben aveva perlustrato Landover da un capo all'altro per tutti e tre i giorni concessigli dopo la partenza di Rydall, e aveva trovato esattamente... nulla. Non v'era traccia di Rydall, nessuna traccia del suo passaggio, e nessun indizio utile a scoprire dove diavolo potesse essersi cacciato. Anche Bunion si era messo alla ricerca, sfruttando la sua velocità di coboldo e i suoi straordinari poteri nel seguire le tracce. Anche lui aveva fallito. Alla fine, un'unica soluzione appariva possibile, benché improbabile: in qualche modo il Re di Marnhull era effettivamente riuscito a penetrare le nebbie fatate da una terra esterna. Dopo aver fatto questo, aveva catturato Mistaya e le sue guardie, inclusi Questor e Abernathy, ed era tornato indietro per la stessa strada, lasciando a Ben Holiday l'onere di raccogliere la sfida che lui gli aveva lanciato, combattendo da solo contro i sette che sarebbero venuti per distruggerlo. Ben scosse la testa, rassegnato. Si era svegliato poco dopo la mezzanotte, e non si era più riaddormentato, agitato per l'arrivo di questo primo distruttore. Non era spossato, neanche un po' stanco, soltanto triste. Era costretto a combattere contro questa creatura, chiunque o qualunque cosa fosse, e probabilmente a distruggerla. L'avrebbe fatto nelle vesti del suo alter ego, il Paladino, ma questo non toglieva che lui sarebbe stato comunque ancora una volta il guerriero e forse l'uccisore. Avrebbe dovuto subire l'ineluttabilità della sua trasformazione nel guerriero dall'armatura che proteggeva i Re di Landover, una trasformazione che temeva e detestava, perché ogni volta accadeva che un pezzetto in più della sua persona scivolasse nell'abisso di oscura follia che avviluppava la vita del Paladino. Guerriero e cavaliere errante, protettore e campione, il Paladino era prima di tutto un distruttore al quale nessun uomo sano di mente avrebbe mai voluto essere legato. Ma Ben Holiday lo era. E lo sarebbe stato per sempre, da
ora fino alla fine. Ma fui io a fare questa scelta quando rinunciai alla mia vecchia vita per questa nuova, si redarguì. La decisione è stata mia. «Forse potremmo limitarci a ignorarlo» disse Willow pacata. Ben le diede un'occhiata, ma lei teneva gli occhi fissi sul gigante. «Se teniamo i cancelli sbarrati, cosa può fare? Potrebbe stancarsi di star lì fuori. Il tempo è dalla tua parte, Ben. Lascialo stare.» Ben ci pensò su. Poteva farlo. Poteva lasciare il gigante dov'era e stare a vedere cosa succedeva. Non era una cattiva idea, anche se poteva rappresentare un problema per chi volesse uscire dal castello o entrarvi. Ma una decisione del genere non contribuiva certo a dare lustro alla sua immagine di Re. Lo relegava al ruolo di prigioniero nel suo stesso palazzo. «Non ha fatto richieste?» chiese Ben a Bunion, ancora soppesando le possibilità. Il coboldo cinguettò sommessamente. No, il gigante non aveva parlato. «Bene.» Ben serrò le labbra. «Lo faremo aspettare un po'. Facciamo prima colazione, adesso che sappiamo che lui è qui. Poi vedremo.» Fece per andarsene e all'improvviso il braccio del gigante si levò per puntarsi direttamente su di lui. Non era possibile fraintendere il gesto. Non voltarti, diceva. Non mostrarmi la schiena. Ben fece dietrofront e tornò sulle mura. Il braccio si abbassò, e il gigante riprese la sua posizione di attesa, con una mano posata sulla cintola e l'altra sull'impugnatura del massiccio randello. Gli strani occhi lampeggiavano. L'imponente figura sembrava scolpita nella pietra. «Sembra che non approvi la tua idea, Willow» mormorò Ben, sentendo la mano della donna chiudersi sulla sua. Poteva immaginare cosa stesse pensando: sta' attento. Non reagire alle sue provocazioni. Non farti trascinare nella lotta se non sei pronto. Non gli disse: "Non andare". Sapeva che era suo dovere. Sapeva che lui non poteva evitare quel confronto e tutti quelli che sarebbero seguiti, se volevano rivedere viva Mistaya. Odiava quella situazione tanto quanto lui, ma ambedue avevano capito, nel momento in cui Rydall era venuto ad annunciare la scomparsa della loro figlia, che erano ormai intrappolati in quel gioco mortale, e che in qualche modo dovevano riuscire a vincere. «In cosa consiste la sua forza?» chiese lei all'improvviso, indicando il gigante con un gesto irritato della mano. «È grosso e forte, ma non può stare alla pari del Paladino. Perché hanno mandato lui?» Anche Ben si era posto quella domanda. Il Paladino era meglio armato e
protetto. Come poteva quel gigante sperare di sconfiggerlo? Al suo fianco, Bunion cinguettò sommesso. Voleva andar giù e saggiare la forza del gigante, per vedere quale fosse il suo potenziale, per trovare il suo punto debole. Ben scosse la testa. Non avrebbe rischiato la vita di nessuno, fuorché la propria, in quella lotta contro Rydall. Non quando le vite di Mistaya, di Abernathy e di Questor erano già minacciate. «Ci proibisce di lasciare le mura» disse alla fine Ben. «Cosa accadrà se disobbediremo? Forse dovremmo provare. Bunion, sta' pronto e sorveglia la situazione.» Tenendo stretta la mano di Willow, si allontanò dalle mura e andò fino alle scale scoperte che scendevano a chiocciola attorno alla torretta di guardia per portare nel cortile sottostante. Non erano neanche al secondo scalino quando Ben sentì il sibilo di avvertimento di Bunion. Il gigante stava cominciando a brillare come un miraggio nel calore del mezzogiorno estivo. L'aria tutt'attorno era quasi liquida, e i colori dell'iride si sgranavano sulla sua superficie come foglie d'autunno dietro un vetro. Ben indugiò, in attesa. Poi Bunion sobbalzò e guardò rapido Ben. Il gigante era scomparso! Ben guardò il coboldo, incerto sul da farsi, poi si avviò ancora una volta verso di lui, per vedere di persona. Nello stesso momento udì il singulto di Willow. Girò su se stesso e seguì lo sguardo di lei fino al cortile giù in basso. Soldati e domestici fuggivano da tutte le parti, mentre la luce riempiva il centro del cortile in uno sfolgorio di colori accecanti. Il gigante ricomparve, venuto fuori dall'aria, giunto adesso fra le mura stesse del castello. Sorse dal nulla, immane e tenebroso. L'enorme mazza riposava sulla sua spalla, e attorno a lui c'era un'aura minacciosa. Un drappello di guerrieri si avvicinarono cauti, frapponendosi tra il gigante e il loro Re. Erano già sul punto di scontrarsi. Ma Ben sapeva che non poteva permetterlo. «Fermatevi dove siete!» gridò. I soldati lo guardarono impazienti. Anche lo sguardo del gigante si levò. Ben sentì Willow lasciare la sua mano, ma non poté risolversi a guardarla. Ficcò una mano nella tunica e ne estrasse il medaglione dei Re di Landover, il talismano che li proteggeva dai pericoli. Tenendola in alto così che catturasse i raggi del sole, evocò riluttante il Paladino. Una bianca luce brillante sfolgorò istantaneamente ai piedi delle scale della torre di guardia, e da quella luminosità emerse il Paladino. Era a piedi, e armato del suo spadone già sguainato e di una mazza ferrata appesa
alla cintura. Era protetto da un'armatura argentea, luccicante ai raggi del sole di mezzogiorno. Ben avvertì istantaneamente un collegamento fra loro due, come di serrature che scattassero alla perfezione, un'immagine che andava formandosi nella sua mente, una strana combinazione di fuoco e ghiaccio che si fondevano per dare origine a qualcosa di totalmente diverso. Fasci di sensazioni e pensieri cominciarono a legarli, a unirli fino a farli diventare uno. Ben fu portato dal suo corpo fin nell'armatura del Paladino su un'onda di luce. Si trovò come incastonato nell'altro, stretto da dozzine di mani, avviluppato e racchiuso nel ferro, tutt'uno con le armi del suo protettore. Fu sommerso da ricordi di battaglie combattute e vinte lungo il corso di mille vite. Sprofondò in tempi e luoghi arcaici, quasi dimenticati. S'incarnò nella sua altra persona, e quella persona si erse nella furia assetato di sangue per affrontare il gigante di Rydall. Si scontrarono con irruenza, nel clangore e nello stridio delle armi, metallo contro legno ferrato che cozzavano: per una attimo le armi parvero immobilizzarsi una contro l'altra, poi scivolarono via. I due si staccarono con un grugnito, e quindi si urtarono di nuovo con fragore. Il gigante era possente e determinato, e si serviva della sua forza terrificante e delle sue membra poderose per schiacciare la sua preda. Ma il Paladino aveva troppa esperienza di battaglie per lasciarsi sopraffare così facilmente. Un momento dopo sbilanciò il gigante da un lato, facendogli cadere il randello dalle mani, e poi lo gettò a terra. Il gigante cadde pesantemente, ruzzolò per scansare la lama della spada che incombeva su di lui, e balzò di nuovo in piedi, senza un graffio e con la mazza già pronta nelle mani. Si scagliò fulmineo sul Paladino. Il Paladino parò un altro colpo mostruoso e colpì il gigante su un lato della testa. Il gigante stramazzò e ruzzolò via, con il sangue che imbrattava la terra polverosa nel punto della sua caduta. Poi si rimise ancora una volta in piedi: il sangue si stava asciugando e la ferita già si rimarginava. Per la prima volta il Paladino esitò. Il gigante doveva essere ferito, ma le sue ferite erano guarite immediatamente. Ogni colpo avrebbe dovuto rallentarne lo slancio o indebolirlo; e invece non era così. Il gigante attaccava di nuovo, adesso ancora più forte di prima, scagliandosi sul Paladino con tale veemenza che il campione del Re fu spinto all'indietro, contro il muro del castello. Il gigante lo inchiodò li, strappandogli la spada e puntandogli la terribile mazza sotto il mento per spezzar-
gli il collo. Il Paladino cercò di svincolarsi dalla stretta mortale e non ci riuscì. Il gigante grugniva nello sforzo di spingere la mazza contro il collo del Paladino. Gli occhi scuri scintillavano. Il grande corpo ansimava poderoso. Il respiro del Paladino non trovava sbocchi. Non riusciva a liberarsi dalla stretta. Disperato, sferrò un pugno con le mani guantate di ferro all'addome del gigante, con tutta la forza. Il gigante grugnì di dolore. Il Paladino lo colpì di nuovo, questa volta nella giuntura delle costole. Il gigante indietreggiò, stringendosi la parte dolorante, e lasciò andare la mazza. Il Paladino lo colpì ancora, questa volta proprio in mezzo agli occhi. Il gigante ruzzolò all'indietro e crollò al suolo. Ma poi, inverosimilmente, si rimise in piedi, saldo come se non fosse mai caduto, agitando bellamente la mazza mentre tornava ad avanzare. Il Paladino aveva perso la spada, e allora impugnò la mazza che portava legata alla cintura. Era più corta del randello del gigante, ma altrettanto mortale. Eppure, non c'era arma che potesse eguagliare la rapidità con cui il gigante si riprendeva ogni volta che veniva abbattuto. Era come se a ogni colpo acquistasse nuova forza. Il gigante attaccò di nuovo il Paladino, martellando il suo corpo corazzato con colpi così poderosi che fecero schizzar via la mazza come fosse un giocattolo. Il Paladino si avvinghiò al suo avversario, balzando all'interno del micidiale raggio d'azione del randello. Serrando le braccia attorno al corpo gigantesco, lo sollevò per poterlo scaraventare al suolo. Il gigante ruggì di sgomento. L'attacco portato in questo modo evidentemente lo metteva in difficoltà. Il Paladino strinse più forte. Insieme, i combattenti barcollarono attraverso il cortile, rantolando e tendendosi nello sforzo della lotta. Il gigante, che non aveva più la sua clava, tentava di svincolarsi, picchiando con le braccia massicce sul corpo corazzato del Paladino. Ma il Paladino aveva scoperto qualcosa di utile. Quando sollevava il suo avversario, il gigante s'indeboliva visibilmente. Il suo attacco perdeva di furia e intensità. Ululava per la palese inferiorità. Voleva essere rimesso giù, e allora il Paladino si sforzò di tenerlo sollevato, per spezzare il suo contatto con la terra, perché era dalla terra, com'era ormai chiaro, che il gigante traeva la sua forza. Infine il Paladino portò il gigante presso gli scalini della torre di guardia e lo gettò sulla pietra. Il gigante scalciava e si divincolava per ruzzolare dalle scale fino alla terra del cortile, ma il Paladino teneva duro e non gli consentiva di liberarsi. Il gigante ruggì di nuovo, e ora il sangue gli sgor-
gava dalle nari e dalla bocca, colando dalle ferite a ogni movimento. Il Paladino spinse il suo avversario ancora più su per le scale, allontanandolo ulteriormente dal terreno del cortile, ed esso crollò con un improvviso, convulso rantolo. Ancora per qualche altro gradino il Paladino sospinse il grosso corpo, e adesso il gigante non poteva più respirare. Le sue braccia ricaddero, e le gambe giacquero scomposte di traverso per le scale. Il Paladino lo tenne li, inchiodato e impotente, finché non fu morto. Quando la vita lo abbandonò, il gigante si mutò in polvere. Più tardi, quando il Paladino fu svanito e Ben fu tornato in se stesso, si chiese se avrebbe potuto risparmiare la vita del gigante. Non era una questione semplice da risolvere. C'era il problema di sapere se il Paladino gliel'avrebbe permesso, poiché quando Ben era il Paladino, era soggetto all'etica e alle regole di vita del cavaliere, ed esse erano estremamente diverse dalle sue. Il Paladino non aveva alcun interesse a tenere in vita un nemico. I nemici dovevano essere uccisi rapidamente e senza alcun rimorso. Ben non era certo di poter esercitare controllo sufficiente sul suo alter ego per consentirgli anche la minima considerazione di pietà per la vita di un nemico. C'era anche il problema di sapere se il gigante si sarebbe dimostrato riconoscente o se avrebbe disprezzato la compassione al pari del Paladino e avrebbe continuato a combattere fino alla morte. C'era infine il problema di sapere se il gigante stesso fosse reale. Alla morte si era ridono in polvere, e le creature in carne e ossa non si disintegravano con quella velocità. Sembrava probabile che il gigante fosse una creazione magica e che la sua distruzione fosse inevitabile a confronto di una magia più potente. Tutte queste considerazioni non contribuivano affatto ad alleviare il senso di disagio che Ben provava per quel che aveva dovuto fare. La responsabilità di aver ucciso il gigante non veniva diminuita dal fatto che esso potesse essere qualcosa di diverso da un uomo mortale. La sua morte era stata più che reale, ed era dovuta alle mani di Ben. Poteva ancora sentire gli sforzi del gigante affievolirsi mentre lo teneva inchiodato sui gradini della torre. Non avrebbe mai più dimenticato gli occhi dell'altro mentre la vita li abbandonava. Tornò in camera da letto con Willow e dormì un po', tentando di sfuggire a quell'esperienza. Lei vegliò sul suo riposo, stesa accanto a lui sul letto, passando le mani fresche sul petto e sulle braccia di lui, sussurrando con voce dolce e consolatoria. Ben non sapeva come avrebbe potuto vivere
senza di lei, tanto gli era vicina, tanta parte rappresentava nella sua vita. Se il Paladino era il suo lato oscuro, lei senza ombra di dubbio ne era il lato più luminoso. Era una creatura solare; questo gli infuse coraggio, e Ben si addormentò nel calore e nella pace. Quando si svegliò, era mezzogiorno. Allora mangiò, affamato e desideroso di dedicarsi alle questioni che richiedevano la sua attenzione. Non parlò a Willow di quanto era accaduto. Non le aveva mai detto la verità sul Paladino (in effetti, non l'aveva mai detto a nessuno). Solo lui sapeva che il Re di Landover e il suo campione erano due in uno, indissolubilmente legati dalla magia del medaglione, irrevocabilmente avvinti nella difesa del reame. Solo lui sapeva che quando il Paladino appariva, quell'altro veniva sommerso, il primo soppiantava e reprimeva il secondo, ed era dominatore. Ma diventava sempre più difficile per Ben tenere segreta questa cosa a sua moglie. Lo sforzo di ricomporsi dopo ogni trasformazione, di mantenersi integro mentre brandelli di se stesso venivano strappati via, cominciava a diventare evidente. Non poteva evitare il fatto che quando era il Paladino si gloriava della potenza della magia che lo trasformava e non voleva ritornare a essere quello di prima. Un giorno, temeva, avrebbe finito per soccombere al suo incantesimo. Le visite al castello includevano una delegazione di membri del comitato di riforma agraria, che lui aveva nominato sovrintendenti nel quadro di ristrutturazione per l'applicazione delle tecniche agricole e di irrigazione in varie parti del regno, particolarmente nelle aride Lande Orientali, e lui ebbe un lungo convegno con loro per discutere dei progressi da loro compiuti nel convincere i Signori delle Pianure a fornire manodopera e materiali per il suo progetto. Gli esiti del convegno furono contraddittori, ma abbastanza incoraggianti, tanto da convincerlo a programmare una visita ai pochi che ancora si mostravano recalcitranti; uno di costoro, fatto notevole ma non sorprendente, era Kallendbor di Rhyndweir. Kallendbor osteggiava puntualmente ogni sua proposta, e due anni prima si era lasciato persuadere a sollevarsi in rivolta contro di lui dalle macchinazioni di un tenebroso essere fatato chiamato Gorse. Kallendbor, senza lasciarsi tanto pregare, aveva levato le armi contro il Re, e così Ben Holiday lo aveva severamente punito. Un anno in esilio e la perdita di certi titoli e possedimenti era stata la punizione decretata. Kallendbor aveva accettato il verdetto senza lamentarsi, consapevole forse che la pena avrebbe potuto (alcuni sostenevano che avrebbe dovuto) essere molto più severa. Il suo anno di esilio era stato scontato, e alcuni dei suoi beni e dei suoi titoli gli erano stati
reintegrati. Ma lui persisteva nel suo atteggiamento ostruzionistico e provocatorio a ogni occasione, ed era chiaro a Ben che Kallendbor non aveva imparato praticamente nulla dalle infelici esperienze del passato. Dopo la riunione col comitato, Ben passò a ricevere parecchi dei suoi rappresentanti giudiziari, cosa che richiese pochissimo tempo, dopodiché si dedicò all'esame di una serie di documenti legali concernenti dispute sulla proprietà. Il fatto di dover sbrigare quelle faccende senza l'abile supporto di Abernathy gli riportò alla mente il rapimento di Mistaya. Meditò di nuovo sull'inadeguatezza degli sforzi da lui operati per trovarla, cercando di scacciare la disperazione che l'assaliva ogniqualvolta veniva sfiorato dall'idea di poterla perdere. Il suo odio per Rydall, già al calor bianco, crebbe a dismisura. Che il Re di Marnhull dovesse usare sistemi così spregevoli per indurlo a giocare quello squallido gioco di mettere in campo un campione contro l'altro, era una cosa imperdonabile. Ma era anche sconcertante. Sembrava mancare di equilibrio; mancava di buon senso. Qualcosa in quella storia suggeriva che c'erano più pezzi, nel mosaico, di quanti ne vedesse Ben. Forse avrebbe considerato la questione più a lungo, se non fosse arrivato Bunion di gran carriera per annunciare che un altro dei campioni di Rydall era comparso. Ben rimase sbigottito. Un secondo, così presto? Aveva appena finito di dare il fatto suo al primo! Sembrava che Rydall avesse tutte le intenzioni di definire in fretta la questione del trono di Landover. Ben si diresse ai bastioni, con Bunion che faceva da battistrada. Le guardie facevano ala al suo passaggio, pronunciando parole d'incoraggiamento e di sdegno per questa ulteriore sfida. Ormai tutti si rendevano conto di cosa stesse accadendo, sapevano che una forza ignota e straniera stava tentando di impadronirsi del trono. Landover era in pace da due anni, da quando era stato sconfitto il Gorse, ma adesso c'era una nuova minaccia. Ben accolse le parole delle guardie con un cenno del capo e con occasionali risposte d'incoraggiamento. Fu raggiunto da Willow, con i capelli smeraldini sparsi al vento dietro di sé e il volto meraviglioso indurito dalla sua ferrea determinazione, mentre s'inerpicava per le scale della torre di guardia. Le Guardie del Re si stavano assiepando in forze nel cortile, pronte a marciare. I serventi stavano apprestando una fila di destrieri. Tutti si preparavano alla battaglia. Ben salì sulle mura sovrastanti il ponte levatoio, con Willow e Bunion al suo fianco, e si fermò impietrito.
In un'armatura tutta d'argento, con la lancia alzata nel saluto, un cavaliere solitario stava in attesa all'inizio del terrapieno che conduceva al castello. Era immediatamente riconoscibile, anche da quella distanza. Ben Holiday si ritrovò a guardare il Paladino. Stette a guardare, ammutolito dallo shock, incapace di credere a quel che stava vedendo. Il Paladino? Così, senza essere evocato? Era venuto a combattere contro il suo padrone? Rydall era forse riuscito a rivoltarglielo contro? «Questo non può essere» mormorò. «Quello non è il Paladino.» Fu Willow la prima a dirlo. «Non può esserlo. Tu non l'hai chiamato, e nessun altro può farlo. Questo cavaliere è un impostore, un simulatore.» Be', pensò Ben amaramente, se è una copia bisogna dire che è riuscita fin troppo bene. Comunque, non c'era niente da fare. Si trovava a far fronte allo stesso dilemma che gli si era presentato all'apparizione del gigante. Temporeggiare non serviva a niente. Se si fosse rifiutato di incontrare il cavaliere all'esterno, in men che non si dica se lo sarebbe ritrovato tra le mura del castello. Ben poggiò le mani sulle pietre delle mura e cercò di decidere se aveva abbastanza forza per affrontare così presto un altro scontro. Non era tanto una questione di forza fisica, perché la sua trasformazione nel Paladino ne richiedeva molto poca, ma lo sforzo mentale ed emotivo era tremendo. Alla fine di quest'altra battaglia, quando un altro sfidante fosse rimasto morto sul terreno, sarebbe stata la sua psiche a essere danneggiata dagli strali della lotta. Guardò con la faccia scura a questa nuova minaccia di Rydall. Questa, almeno, non aveva volto, ma la prospettiva di dare battaglia a se stesso (o a una parte di se stesso) era snervante, anche se non era una parte reale ma soltanto qualcosa che ne aveva l'aspetto... Diede un taglio a tutte quelle elucubrazioni. Troppe erano le minacce mortali che lo pressavano. In questo affare non gli era concessa alcuna scelta. Se Rydall avesse mandato altri tre campioni quello stesso giorno, lui avrebbe dovuto comunque affrontarli tutti. «Ben» disse Willow sommessamente, prendendolo per un braccio. Lui annuì. «Lo so; non hai bisogno di dirmelo. Ma non posso far sloggiare quel coso laggiù limitandomi a ignorarlo.» «Ci dev'essere un altro trucco per sconfiggerlo» disse lei «proprio come c'era per il gigante.» Poi lo lasciò riluttante, e lui tirò fuori il medaglione. Un momento dopo
evocava il Paladino. Provò un certo senso di sollievo quando lo vide apparire in uno sfolgorio di luce dalla foresta che iniziava dove finiva il prato; adesso poteva essere certo che il campione di Rydall non era il vero Paladino. Il suo protettore si diresse verso l'impostore, con la lancia in resta per l'attacco. Ben si sentì di nuovo trasportato, questa volta assecondando il cambiamento, abituato a esso fin dal mattino, accogliendolo quasi con piacere. L'armatura del Paladino si chiuse attorno a lui, i suoi ricordi presero a scorrergli nel sangue, e la brama di battaglia era un torrente di calore che scorreva impetuoso per le ossa e per i muscoli, fino al ferro delle sue armi. Il Paladino spronò ai fianchi il suo destriero, e la bestia balzò in avanti all'attacco. Di fronte a lui, il falso cavaliere spronò a sua volta e si slanciò nella sua direzione. Con le lance in resta, galopparono sullo spiazzo erboso della prateria in uno strepito di zoccoli e si scontrarono in un fracasso di ferro e di quercia spezzata, mentre tutt'e due le lance si frantumavano. Ancora in sella, con gli scudi che stridevano e crepitavano, i combattenti fecero dietrofront per riportarsi in posizione d'attacco, e impugnarono le azze. Corsero uno contro l'altro per la seconda volta, facendo roteare le armi. Il Paladino deviò la pesante lama dell'altro cavaliere e il suo avversario fece lo stesso con la sua. Un secondo colpo andò a segno, ma il suo avversario fece altrettanto. I cavalieri si tempestavano di colpi a vicenda, e poi ambedue le azze si spezzarono all'impugnatura e caddero al suolo, rotte e inservibili. Tirando selvaggiamente le redini dei loro destrieri per portarli in posizione, i combattenti impugnarono gli spadoni. Una terza volta si scontrarono, con le lame degli spadoni che rosseggiavano al sole del tramonto, armi e armature che sprizzavano scintille. I cavalli erano esausti, soffiando e sbuffando per la fatica di portare i loro corazzati cavalieri e di assorbire l'urto dei colpi inferti. Alla fine si accasciarono assieme, sbalzando di sella i cavalieri, per poi rialzarsi tremanti e rimanere li con il capo abbassato e il sangue sul muso, incapaci di andare avanti. I Paladini gemelli si rialzarono a loro volta, con lo spadone ancora fra le mani, e avanzarono in un attacco a piedi. Se erano stanchi, non lo dimostravano. Si portarono l'uno verso l'altro con lucida determinazione, ed era chiaro a chiunque guardasse che nessuno dei due avrebbe ceduto prima di aver finito l'altro. Sulle mura del castello, Willow osservava la lotta con crescente apprensione. A ogni colpo andato a segno, ne corrispondeva uno uguale dall'altra
parte. I Paladini erano duplicati esatti uno dell'altro, nel girarsi e caricare, nel colpire e nel parare, nel muoversi con mosse sincronizzate in una bizzarra danza di distruzione. Presto divenne impossibile per lei distinguere uno dall'altro. Il vero Paladino avrebbe dovuto essere in grado di distinguersi dall'altro per la sua esperienza e la sua abilità in battaglia, ma sembrava nell'impossibilità di farlo. Più la lotta andava avanti, più diventava impossibile distinguere il vero dal falso. Attaccavano e si difendevano esattamente allo stesso modo: colpo su colpo, ferita per ferita, lesione contro lesione. Nessuna differenza nel loro aspetto, nessuna variazione nella loro strategia, nessuna contromossa che non fosse istantaneamente imitata. Qualcosa non quadrava nella battaglia che si prolungava, e Willow non tardò molto a rendersi conto di cosa fosse. Il Paladino non poteva acquisire vantaggio in questa battaglia, perché stava combattendo contro se stesso. Era come guardarsi in uno specchio, vedere la propria immagine riflessa tornare indietro, vedere tutto ciò che si fa imitato alla perfezione. Il riflesso si stancava e rallentava in sincronia con la persona reale, mai prima. Finché uno rimaneva davanti allo specchio, non poteva sfuggirgli... Si fermò di colpo. In quel momento capì qual era il segreto del campione di Rydall. Vide anche in qual modo potesse essere sconfitto. «Ben!» urlò al disopra del clangore di corazze e spadoni. Lo strinse, ma non ottenne risposta. Lui rimaneva li, accanto a lei, a guardare la battaglia, immobile, muto, apparentemente in trance. «Ben!» gridò di nuovo, scuotendolo più forte. Lui si girò verso di lei, un movimento appena percettibile. Sembrava che la stesse guardando da una distanza incommensurabile. «Ben, richiama il Paladino!» gridò. «Mandalo via! Il campione di Rydall gli sta rubando la sua forza. Se ne sta servendo! Ascoltami, Ben! Se tu mandi via il Paladino, anche il campione di Rydall scomparirà!» In un angolino remoto della sua mente Ben udì la supplica. Ma era troppo lontano per rispondere, intrappolato nel corpo del Paladino, ingabbiato nella terribile lotta contro il suo doppio, un avversario che sembrava conoscere ogni sua mossa, anticipare ogni suo tentativo di sorpresa, controbattere ogni sua strategia. «Ben!» sentì la voce chiamarlo frenetica. «Ben, ascoltami!» Il Paladino ignorò la preghiera e rinnovò il suo attacco. Credette di avvertire un cedimento nel suo nemico. Si rifiutò di ammettere che rifletteva il proprio. Presa dalla disperazione, Willow lasciò andare l'inerte Ben e scese a
perdifiato giù dalle mura. Ben non sembrava in grado di reagire; gli stava accadendo qualcosa che lei non riusciva a spiegarsi. Visto che lui non poteva rispondere alle esigenze del Paladino, toccava a lei farlo. Raggiunse il cortile dabbasso, afferrò una lancia da una rastrelliera, passò davanti a un drappello di Guardie del Re che stavano davanti ai cancelli aperti ad assistere allo scontro in corso fuori dalle mura del castello, saltò in groppa al più vicino destriero e, incurante delle grida che si levarono immediatamente alle sue spalle, spronò il cavallo e uscì dai cancelli. Attraversò al galoppo il ponte levatoio e si gettò nella prateria aldilà di esso, dirigendo verso i combattenti. Grida di allarme la seguirono, ma lei non se ne curò. Sapeva cosa doveva fare. Il Paladino e il campione di Rydall erano impegnati in una battaglia di doppi che aveva lo scopo di distruggerli entrambi. L'unica possibilità di salvezza per il Paladino consisteva nell'infrangere la magia di cui si nutriva il campione di Rydall. Questa volta non era la terra a sostenerlo, com'era accaduto con il gigante, ma la forza stessa e l'abilità del Paladino. Il campione di Rydall era una specie di spirito demoniaco, un riflesso nello specchio che si nutriva del suo originale, imitandolo, copiando ogni sua mossa, risucchiandogli la vita. Ma se lo specchio si fosse offuscato... Raggiunse i combattenti e passò loro accanto senza rallentare, graffiando i loro corpi corazzati con la lancia abbassata. Fu sufficiente per attirare la loro attenzione. Si voltarono simultaneamente, vedendola per la prima volta. Lei manovrò le redini e fece girare il cavallo, tenendo la lancia in resta in segno di sfida, e preparandosi a caricare di nuovo. Entrambi i Paladini erano visibilmente confusi, un'incertezza che nasceva dal significato della sua presenza li. Doveva sperare che questa intromissione fosse sufficiente per spezzare la magia che li teneva incatenati, che Ben in qualche modo riuscisse ancora a comunicare con il Paladino, e che il suo protettore potesse trovare il modo di mettere in atto le sue preghiere. «Indietro!» gridò furiosa, e scagliò la lancia contro di loro. Il più vicino dei due si liberò della lancia che gli passava accanto dandogli una manata come se si fosse trattato di una mosca. L'altro, rimasto a qualche passo di distanza, eseguì gli stessi movimenti, come un burattino. Ecco, pensò lei trionfante, quella è la creatura di Rydall! Spronò per portarsi sotto al vero Paladino, fin dove il coraggio le consentiva, e trattenne il cavallo ancora una volta. Sul prato era calato il silenzio. Guardò il Paladino. «Inguaina la spada e ritirati!» disse. «Solo così po-
trai vincere!» Ci fu un lungo momento di silenzio e d'incertezza, di confronto tra la silfide e i due cavalieri in armatura. Poi, bruscamente, il vero Paladino rinfoderò il suo grosso spadone. Un cenno della mano guantata di metallo fece avvicinare il suo esausto destriero. Il Paladino rivolse lo sguardo a Willow per un momento e poi montò in sella. La luce del sole mandò bagliori dall'armatura argentea mentre si dirigeva verso Sterling Silver. Una scheggia di luminosità sfrecciò verso i bastioni del castello e venne catturata dal medaglione appeso al collo di Ben Holiday, facendolo fondere. Poi cavallo e cavaliere scomparvero in un lampo di luce, e il Paladino non c'era più. Willow si volse rapidamente verso l'altro cavaliere, trattenne il respiro, e attese. La creatura di Rydall rimaneva impalata a guardare l'aria nella quale si era dissolto il Paladino. Con la scomparsa del suo nemico, la sua vita non aveva più scopo. Costretto dai dettami di quella stessa magia che l'aveva creato, imitò il suo originale per un'ultima volta Rinfoderando la spada, si avviò al suo destriero e montò in sella. Ma non c'erano disposizioni per la sua partenza. Non c'era magia per sostenerlo oltre questo momento. E così esso semplicemente si smontò crollando al suolo in una cortina di ceneri che il vento disperse. Willow rimase da sola sul prato. Aveva visto giusto. Una volta che il Paladino fosse scomparso, per qualsiasi motivo, il campione di Rydall non avrebbe potuto sopravvivere. Concedendosi un sorriso di soddisfazione e di sollievo, fece lentamente ritorno al castello e a Ben. 10 Ardsheal Era ancora chiaro, il sole indugiava sul ciglio dell'orizzonte nell'ombra delle montagne a occidente, quando il messaggero del Signore del Fiume apparve a Ben e Willow alla porta della loro camera da letto. Si erano ritirati per lavarsi e vestirsi per la cena, fisicamente esausti dagli eventi del giorno ma mentalmente ed emotivamente sulla corda, incapaci di pensare al riposo prima di essersi un po' calmati. Come facesse la creatura a sapere dove trovarli, o come fosse arrivata fin li senza farsi vedere era un argomento che potevano tranquillamente lasciare alla speculazione di altri. Ben
sapeva ormai che gli esseri fatati, fra cui anche Willow, potevano passare quasi dappertutto tra gli umani senza farsi vedere. Il messaggero bussò con delicatezza, e quando Willow aprì la porta, era li in piedi, immobile e impassibile. Era uno spiritello dei boschi, smilzo e nodoso come il paletto di una staccionata e con gli occhi luminosi come gemme in una faccia quasi priva di altri lineamenti. S'inchinò rispettoso a Willow e attese che Ben li raggiungesse sulla porta. «Alto Signore» salutò, e si profuse in un secondo inchino. «Il mio Padrone, il Signore del Fiume, chiede che sua figlia e il marito di lei vengano subito a Elderew per parlare con lui. Vorrebbe sapere qualcosa in più sulla scomparsa di sua nipote e gradirebbe dare consiglio e assistenza ai suoi genitori. Verrete?» Ben e Willow si scambiarono una breve occhiata. Nessuno dei due aveva molta voglia di muoversi di li, in quel momento, ma entrambi si resero conto istantaneamente che c'erano delle buone ragioni per accettare l'invito. Se rimanevano li dov'erano, avrebbero ben presto ricevuto la visita di un altro dei campioni di Rydall. Forse spostandosi da un'altra parte avrebbero potuto evitarlo. Guadagnare tempo per la ricerca di Mistaya e per una soluzione alla sfida di Rydall era una delle poche possibilità rimaste loro. Poteva anche darsi che il Signore del Fiume, una creatura dalla grande magia, intendesse offrir loro un talismano o un incantesimo da usare per la loro protezione. Quantomeno poteva aver notizie di sua nipote, poiché sapeva della sua sparizione già da qualche giorno e ormai doveva aver frugato la regione dei laghi e anche più in là per trovar tracce della bambina. Non ci furono parole tra di loro, ma Ben e Willow spesso comunicavano a un altro livello, e le parole non erano sempre necessarie. «Di' al Signore del Fiume che verremo» disse Ben al messaggero. Lo spirito annuì, s'inchinò ancora e andò via. Si allontanò seguendo il corridoio fra le ombre crescenti del tramonto e si dileguò, letteralmente. Ben e Willow cenarono in camera, preferendo rimanere soli e isolati il più possibile. Il castello era ancora in subbuglio, con le Guardie del Re impegnate nel cambio della guardia e nell'organizzazione della pattuglia di ronda. Due attacchi nello stesso giorno erano un caso inaudito. Perfino Bunion era fuori in esplorazione, nel tentativo di scoprire, seguendone le tracce, l'origine dei defunti campioni di Rydall; quantunque fosse pronto a scommettere che non c'era un bel niente. Tutti gli appuntamenti erano stati cancellati per i giorni seguenti, e l'intera guarnigione del castello era in stato di allerta. Nessuno poteva entrare o uscire dal castello senza severi
controlli. Tali precauzioni, comunque, avevano un valore relativo, quando c'era di mezzo la magia, come l'apparizione poco ortodossa del messaggero da Elderew aveva dimostrato. A parere di Ben non c'era dubbio che Rydall padroneggiasse un bel po' di magia, e avrebbe probabilmente fornito i mezzi, ai suoi campioni, per aggirare le comuni precauzioni messe in atto per fermarli. Probabilmente era il compagno di Rydall dalla cappa nera quello che forniva quella magia e Rydall stesso che ne disponeva a suo piacimento, ma, in ogni caso, questo non faceva alcuna differenza. I primi due campioni mandati a distruggerlo possedevano la magia, e c'era da scommettere che i cinque successivi ne avrebbero posseduta ancora di più. Così Ben e Willow discussero della loro situazione a cena e giunsero di nuovo alla conclusione che sarebbe stato meglio per tutti se si fossero recati alla regione dei laghi a passarvi qualche giorno. Forse Rydall avrebbe avuto dei problemi a trovarli. Forse la loro partenza avrebbe costituito un intoppo ai suoi piani. Rimanendo dov'erano, in impotente attesa, avrebbero fatto esattamente il suo gioco. Inoltre, c'erano poche speranze di trovare Mistaya o Questor e Abernathy senza qualche aiuto dall'esterno. L'Osservatorio si era più volte dimostrato inefficace. Tutti i tentativi di ricerca nella campagna erano falliti. Ma c'era sempre la possibilità che qualcuno con cui non avessero ancora pensato di parlare potesse sapere qualcosa. O che qualcuno con poteri più grandi dei loro e con risorse a loro negate, come il Signore del Fiume, potesse confortarli con notizie utili. Decisero di andare quella notte, di partire con la protezione dell'oscurità, prima del nuovo giorno. Speravano di allontanarsi non visti, per non dover incontrare un altro dei campioni di Rydall. Ben in particolare era sofferente per gli scontri della giornata. Willow non poteva determinarne il motivo. Ben era ancora reticente su ciò che era accaduto durante la seconda battaglia, sul perché non avesse risposto alle sue preghiere, perché fosse apparso così distaccato da quanto stava accadendo eppure così provato quando tutto fu finito. Lui l'aveva ringraziata per il suo aiuto, non l'aveva rimproverata affatto per essere uscita allo scoperto sul campo di battaglia, e poi aveva lasciato cadere di colpo l'argomento, rinchiudendosi a riccio dentro se stesso finché non era apparso il messaggero del Signore del Fiume. Willow, da parte sua, non lo aveva forzato. Era evidente che questo era un argomento che lui avrebbe affrontato quando fosse stato pronto, e lei era soddisfatta di aver contribuito alla sconfitta della creatura di Rydall. Allo stesso tempo, era preoccupata per ciò che sarebbe accaduto la
prossima volta. Non le era piaciuto il comportamento di lui durante la battaglia del Paladino. Se c'era qualche problema, non era giusto che lei ne fosse tenuta all'oscuro. Aspettarono che tornasse Bunion, abbastanza prudenti da decidere di portare il coboldo con loro per una maggior sicurezza. Dopo aver lasciato istruzioni a pochi uomini fidati sulle cose da farsi in loro assenza, cioè di cancellare gli ultimi appuntamenti della settimana successiva e di dichiarare che il Re era in vacanza, Ben e Willow partirono, uscendo da una porta laterale a est, presero la barca sul lago per raggiungere l'altra sponda, e trovarono Bunion, che era già al suo posto con il baio di Ben, Giurisdizione, e la cavalla saura dal muso bianco di Willow, Gru. Con Bunion a piedi, all'avanguardia, montarono in sella e si avviarono al trotto nella notte. Viaggiarono finché non fu quasi l'alba. Ormai erano ben lontani da Sterling Silver e si approssimavano alla regione dei laghi. Ad alcune miglia dall'Irrylyn s'inoltrarono in un fitto boschetto di frassini e noci, smontarono, impastoiarono i cavalli, si avvolsero in coperte leggere e si addormentarono. Mentre Bunion, apparentemente instancabile, montava la guardia, loro riposarono fino alla tarda mattinata del giorno seguente. Quando si svegliarono, Willow tirò fuori il formaggio, il pane, la frutta e la birra che aveva portato per loro, e consumarono il tutto in un punto soleggiato alla base di un noce decrepito e contorto. Bunion comparve un attimo a buttar giù un boccone, per poi allontanarsi di nuovo, ansioso di far sapere del loro arrivo alla gente della regione dei laghi. Una volta giunti all'interno della regione, era l'opinione di tutti, Rydall avrebbe dovuto sudare per raggiungerli. Quando Ben e Willow ebbero finito di mangiare, si rimisero in viaggio verso sud. Bunion li avrebbe ripresi strada facendo. La mattinata era torrida e afosa, e il solleone picchiava sulla foresta come il maglio di un fabbro. Nessuna brezza venne a ristorarli lungo il cammino, e quando raggiunsero l'Irrylyn, Willow spinse Gru al riparo di una piccola insenatura lungo la riva del lago, smontò, legò il cavallo a un albero, si liberò dei vestiti e si immerse in acqua. Ben la seguì. Nuotarono nel lago per un po', galleggiando sul dorso, guardando ai rami degli alberi e al cielo, senza dire parola. Ben rinnovò il ricordo di quanto impetuosa Willow fosse stata. Rammentò la prima volta che l'aveva incontrata, li nelle acque di quel lago subito dopo il tramonto, in attesa di un lui che non sapeva chi fosse. Tu sei mio, gli aveva detto. Mi è stato predetto al momento del mio concepimento. Sapevo che saresti venuto.
Adesso nuotò fino a lui, lo abbracciò, lo baciò e disse: «Ti amo.» Poi nuotò via di nuovo. Uscirono dal lago freschi e rilassati, si rivestirono, montarono in sella e si rimisero in viaggio. Cavalcarono fin dopo mezzogiorno, quando giunsero in prossimità del bosco antico che marcava il confine tra Elderew e il paese degli esseri fatati. Bunion stava aspettando nel punto in cui la pista cominciava a confondersi con la vegetazione. Il Signore del Fiume li stava aspettando, li informò. Un po' più avanti avrebbero incontrato delle guide che li avrebbero scortati fino alla città. Lasciarono la pista che terminava li e cominciarono ad addentrarsi zigzagando nel mostruoso intrico di abeti e conifere, noci americani e querce bianche, olmi e frassini. Gli alberi svettavano torreggianti, oscurando il cielo, cancellando la luce. In alcuni punti, che non vedevano mai il sole, c'era freddo e oscurità. Il silenzio era tale che la foresta sembrava priva di vita. Ma Ben poteva già avvertire degli occhi puntati su di loro. Quando il terreno si fece soffice e l'aria cominciò a odorare di palude e acquitrino, le guide che erano state promesse apparvero, creature dai lunghi peli verdi che pendevano dalla testa e dalle membra come fili di seta, figure sottili e filamentose che si confondevano con la foresta e potevano introdursi in qualsiasi fessura, anche nella più stretta e impervia. Le guide li condussero per un sentiero lungo e tortuoso attraverso gli alberi giganteschi e su terreno incerto. Da ogni parte, nella nebbia in continua formazione, spuntavano facce dagli occhi chiari e curiosi, che un momento dopo erano già sparite. La palude li chiudeva da un lato e dall'altro, e creature acquatiche emergevano dal limo e dall'erba per vederli passare. Il tempo passava. Elderew sorgeva nel cuore del bosco antico, ben protetta da elementi naturali e magici, e nessuno poteva penetrarvi se non invitato. Gli esseri fatati erano gente riservata, diffidenti del mondo esterno, sospettosi delle creature che lo abitavano. Ben aveva fatto parecchio per sradicare quelle paure e quella diffidenza, e gli abitanti della regione dei laghi adesso si avventuravano in altri luoghi del paese, e talvolta, al loro ritorno, portavano a Elderew gente di fuori. Ma le vecchie abitudini e i dubbi radicati erano duri a morire, e ci sarebbe voluto del tempo perché le barriere cadessero completamente. Ben avrebbe potuto trovare la strada di Elderew con l'aiuto di Willow o di Bunion, ma sarebbe stato da zotici ignorare la tradizione e le leggi dell'ospitalità. Le guide del Signore del Fiume erano una cortesia riservata agli ospiti di riguardo. Ben si sforzò di pazientare. Presto si lasciarono alle
spalle i territori paludosi, e presero a inerpicarsi di nuovo su terreno solido. Qui gli alberi erano più imponenti, più antichi e più solidi, legni duri che avevano raggiunto la venerabile età di duecento anni e più. L'aria si fece calda e pulita, odorosa di sole e di fiori selvatici. Apparve un piccolo gruppo di persone. Alcuni salutarono timidamente. C'erano bambini, fra di loro, che sfrecciavano coraggiosi tra i cavalli, ridendo e scherzando. La pista ricomparve, come sorta dal nulla, ben segnata e ampia laddove gli alberi si aprivano. Più avanti, si presentava alla loro vista la città di Elderew, un miracolo di ingegneria e di inventiva che non mancava mai di stupire Ben. La città era situata in una zona di alberi vecchi e massicci dal legno duro che erano anche più giganteschi delle sequoie californiane. I rami di questi alberi erano intrecciati in modo tale da formare viottoli sopraelevati, e la città sorgeva a livelli differenziati, dal terreno fino ai rami mediani del bosco antico, adagiati come una manciata di giocattoli fra le braccia di un bambino. Case e negozi fiancheggiavano strade e arborei sentieri, un'intricata ragnatela di piste. Il sole filtrava dal canovaccio di rami portanti formando lunghi festoni di luce che facevano da contrappunto alle ombre e illuminavano vivamente la naturale penombra. C'era un incessante viavai: gli esseri fatati erano un popolo industrioso che comprendeva l'importanza di impegnarsi nel lavoro. Molto di quel lavoro aveva a che fare con piccoli prodotti di magia, la loro specialità. Una buona parte della loro attività era finalizzata alla cura e al consolidamento del loro mondo boscoso. Era affascinante scoprire su quanti aspetti della loro vita essi potessero influire con i loro sforzi. Ben Holiday, come Re di Landover, cominciava appena a impararlo. Willow rivolse a Ben un sorriso rassicurante, come a promettergli che la sua città natale rappresentava sempre per loro un rifugio sicuro. Continuarono a cavalcare in silenzio, con Bunion che li precedeva a piedi con le guide, osservando la complessità di Elderew che si dispiegava davanti ai loro occhi man mano che gli alberi si facevano più maestosi e i livelli sovrapposti divenivano più visibili. Più avanti, l'anfiteatro che ospitava le principali feste degli esseri fatati si apriva accogliente in segno di saluto. Costituito da alberi intrecciati a formare un ampio ferro di cavallo, con i posti a sedere ricavati su rami che partivano dall'alto per scendere giù fino al suolo, direttamente nell'arena, l'anfiteatro era strabiliante quanto la città che serviva. Il Signore del Fiume li stava aspettando al suo ingresso, in piedi in mez-
zo ai suoi serventi, vestito in maniera sobria e anonima. Per chi non lo conoscesse, sarebbe stato impossibile distinguerlo da tutti gli altri solo dal suo abbigliamento. Però il suo portamento lo tradiva. Era un uomo alto, snello e dall'aspetto fuori del comune, uno spirito acquatico con la pelle argentata, tanto granulosa da assomigliare alle squame dei pesci, con una fitta capigliatura nera che, come quella di Willow, gli scendeva giù dall'interno degli avambracci e dai polpacci, e con lineamenti tanto duri e affilati da sembrare scolpiti nella roccia. Il suo volto era una maschera senza espressione, ma gli occhi erano luminosi e vivacissimi, e Ben aveva imparato a leggere i pensieri del Signore del Fiume da quello che gli passava negli occhi. Il Signore del Fiume andò loro incontro mentre rallentavano e smontavano, dirigendosi subito verso Willow per abbracciarla rigidamente e sussurrarle che era contento del suo arrivo. Willow ricambiò l'abbraccio, altrettanto a disagio nel salutarlo. Il loro rapporto rimaneva problematico, distaccato e intriso di diffidenza. La madre di Willow era una ninfa dei boschi talmente selvaggia che poteva sopravvivere soltanto nella foresta, e il padre di Willow non le aveva mai perdonato di non essere andata a vivere con lui. Willow era stata per lui, durante la crescita, un costante promemoria di quel torto ricevuto dalla donna che aveva amato e che non era riuscito a trattenere più di una notte. Aveva colpevolizzato sua figlia per ciò che rappresentava, abbandonandola affettivamente dall'infanzia in poi, lasciando che crescesse nell'isolamento. Anche dopo che era cresciuta, era stata per lui una fonte di delusioni. Suo padre non aveva approvato il matrimonio con Ben, che era un umano e uno straniero, per quanto incoronato nuovo Re di Landover. Willow (era questa la sua opinione) aveva tradito la sua gente. C'era voluto del tempo perché lui accettasse quella decisione. Adesso era meno freddo e distante di quanto fosse stato all'inizio, ma i vecchi rancori non erano facili a morire, per tutti e due. Tuttavia il Signore del Fiume era sinceramente preoccupato per Mistaya, la nipote che rappresentava in qualche modo il superamento degli attriti che invece ancora compromettevano in parte il rapporto tra padre e figlia. Se c'era qualcosa che poteva fare per aiutare la ragazzina, di sicuro non avrebbe risparmiato gli sforzi. Era per questo che Ben e Willow si erano risolti di andare a Elderew. Il Signore del Fiume lasciò sua figlia e riservò un formale inchino a Ben. Era tutto quello che Ben poteva aspettarsi. Annuì col capo, in risposta.
«Ci sarà una cena in vostro onore, stasera» li informò il Signore del Fiume, sorprendendoli entrambi. «Mentre vanno avanti i preparativi, noi parleremo un po'.» Li portò via dall'arena, dove si approntavano panche e si apparecchiavano tavole con sgargianti tovaglie, e li condusse ai parchi che fronteggiavano Elderew spingendosi fino agli edifici più vicini della città. I bambini li sorpassavano correndo al loro passaggio, incuranti delle grida di avvertimento degli adulti. A Ben tornarono in mente altri tempi e altri luoghi, Annie e i bambini che avrebbero potuto avere, i parchi di Chicago in estate, i sogni che da tempo aveva abbandonato. Ma la memoria indugiò su quelle immagini solo un momento. Ormai pensava raramente al suo vecchio mondo. Non aveva molti motivi per farlo. Attraversarono la zona dei giochi e giunsero a un vialetto che correva lungo un ruscello, curvando e serpeggiando tra le fitte conifere come se cercasse di sfuggire ai loro piedi. Persero di vista i bambini e i loro sorveglianti, ridotti ormai a grida e risate in lontananza. I tre adesso camminavano da soli, benché si potesse star sicuri che i guardiani del Signore del Fiume li seguivano passo passo nascosti tra gli alberi, invisibili e silenziosi. Quando raggiunsero una radura deserta dove c'erano due panchine una di fronte all'altra, davanti a un laghetto contornato da aiuole, il Signore del Fiume li invitò a sedersi. Ben e Willow sedettero su una panchina, e il Signore del Fiume si accomodò automaticamente sull'altra. «Qui non ci disturberà nessuno» li assicurò, dando con i suoi strani occhi uno sguardo indagatore alla radura inondata di sole. Tornò a guardare i suoi ospiti. Quando parlò, il suo tono era di rimprovero. «Avreste dovuto avvertirmi che intendevate mandare qui Mistaya. Vi avrei mandato una scorta per sua protezione.» «Non c'è stato tempo» replicò Ben con calma, reprimendo l'impulso di rispondergli a tono. «Pensavo che Questor Thews e una dozzina di Guardie del Re fossero una protezione sufficiente. Speravo che Rydall fosse troppo concentrato su di me per badare a loro.» «E adesso Mistaya è un'arma nelle sue mani, da usare contro di lei» dichiarò severo il Signore del Fiume. «Hai saputo qualcosa?» chiese Willow, nel tentativo di smorzarne la collera. Il Signore del Fiume scosse la testa. «Questo è ciò che so. Ho potuto scoprire il posto dove si è verificato l'attacco. Un notevole quantitativo di magia è stato usato per il rapimento di Mistaya. Ancora parecchi giorni
dopo se ne potevano notare le tracce. Non ho potuto determinare la sua fonte. Non c'erano tracce di attaccanti o difensori. Non c'erano impronte che partissero dal luogo dello scontro.» A Ben non era sfuggito la parola scelta dall'altro. Luogo dello scontro. Si sforzò di pensare ad altro. «Nessuna impronta. Come può essere?» I lineamenti scolpiti del Signore del Fiume si mutarono in ombra. «O sono stati tutti distrutti o non è stato necessario, per i sopravvissuti, allontanarsi a piedi.» Fece una pausa. «Come dicevo, un bel po' di magia è stata utilizzata nell'attacco.» «Ha scoperto qualcosa da quel momento?» Il Signore del Fiume scosse la testa. «Non ho mai sentito parlare né di Rydall né di Marnhull. Non esistono nei confini di Landover. Ho tentato di identificare Rydall e il suo compagno dalla cappa nera, senza successo. Ho istituito un servizio di sorveglianza; ho fatto mettere trappole. Non sono reperibili, da nessuna parte.» «Neanche Mistaya o la sua scorta?» «No.» Ben annuì. Guardò Willow e lesse la delusione nei suoi occhi. Lei aveva sperato di poter trovare una buona notizia, per quanto piccola. «Quindi non ci siamo avvicinati per niente alla soluzione del mistero della scomparsa di Mistaya» concluse, cercando di non suonare amareggiato. «Perché ci ha fatti venire, allora?» Il Signore del Fiume sedeva delicatamente appoggiato al bordo della panchina, e li guardava senza alcuna espressione visibile sul volto e senza alcuna emozione dipinta negli occhi. «Io ho richiesto la vostra presenza» corresse, con voce piana e calma. «Vorrei offrirvi il mio aiuto per far tornare Mistaya a casa sua. È vero che non ho potuto far molto finora, ma forse adesso posso recuperare il tempo perduto.» Fece una pausa, aspettando la loro risposta. Ben fece un cenno di approvazione. «Ogni aiuto che potrà darci sarà grandemente apprezzato» disse. Questo sembrò rassicurare il Signore del Fiume. Ci fu un rilassamento delle sue spalle, appena percettibile. «Lo so che non siamo stati amici» disse con calma. «So che le nostre relazioni non sono state delle più calorose.» Volse lo sguardo da Ben a Willow, includendo ambedue nella sua asserzione. «Questo non vuol dire che voglio il vostro male. Non è così. Voi sapete anche quanto ci tenga a Mistaya. Dobbiamo fare di tutto perché non le succeda niente.» «Si» approvò Ben.
«Puoi rintracciarla?» chiese Willow all'improvviso. Il Signore del Fiume esitò. «Forse.» Le diede uno sguardo lusinghiero. «Non escluderei a priori che possa essere tu stessa a trovarla. Né scarterei la possibilità che lei trovi il modo di liberarsi da sola. È una bambina piena di risorse. E molto potente. Possiede una grande magia, Willow. Lo sapevi?» Willow e Ben si scambiarono un'altra occhiata, questa volta di sorpresa. Scossero la testa all'unisono. «L'ho sentito la prima volta che l'ho vista» affermò il Signore del Fiume. «Il suo potere è latente, ma indiscutibile. È un essere fatato dallo straordinario potenziale, e quando scoprirà il suo talento, le si apriranno illimitate possibilità.» Ben stava a guardare, cercando di decidere se questa era una cosa positiva. Non aveva mai considerato seriamente la possibilità che Mistaya potesse avere l'uso della magia. Ora gli sembrava ridicolo non averlo fatto. Il suo retaggio glielo permetteva, e il suo strano modo di crescere certamente avrebbe dovuto suggerirlo. Ma era sua figlia, e rimaneva il fatto che lui si era sempre rifiutato di credere che fosse diversa da come se l'era aspettata. «Non gliel'hai detto?» chiese dolcemente Willow. Il Signore del Fiume scosse la testa. «Non spettava a me. Come nonno, almeno questo lo so.» «Rydall se ne accorgerà, di questa sua predisposizione alla magia?» chiese Ben all'improvviso. Il Signore del Fiume ci pensò su. «Se anche lui è una creatura magica, come sembra (se per esempio è uno di noi, un essere imbevuto di magia) allora dovrei dedurne che riconoscerà il potere della bambina.» «Ma lei non lo sa, e quindi la magia non potrà esserle d'aiuto» ragionò Ben «A meno che Rydall non le riveli la verità. Oppure a meno che lei non lo scopra da sé.» Il Signore del Fiume si strinse nelle spalle. «Vi sto dicendo della sua magia soltanto perché sappiate che non è completamente indifesa in questa situazione. È comunque una bambina indipendente e piena di risorse. Potrebbe trovare il modo di salvarsi.» «Ma tu continuerai la tua ricerca» lo pregò Willow. «Non lascerai nulla d'intentato per aiutarla.» Il Signore del Fiume annuì. «Non smetterò di cercarla finché non l'avremo trovata. Non lascerò nulla al caso, Willow. Dovresti conoscermi bene ormai.» Sembrava offeso da quei dubbi. «Ma l'aiuto immediato che
posso offrire non è a lei, ma a te. O, più esattamente» si corresse, guardando Ben «a lui.» Un uccellino screziato di giallo e di nero volò giù dagli alberi e atterrò sulla sponda più lontana del laghetto. Li guardò solennemente, con gli occhietti vispi e brillanti, poi si piegò rapidamente per bere. Intinse il becco due o tre volte, poi s'involò e scomparve. Il Signore del Fiume stette a guardarlo pensieroso. «Il pericolo è per lei, Alto Signore» lo avvisò, riportando lo sguardo su Ben. «Rydall, chiunque sia e da qualunque luogo provenga, sta tentando di distruggerla. Usa Mistaya a questo scopo, e chiunque si abbassi a usare un bambino per ottenere la morte di un nemico è senz'altro pericoloso. Ho sentito degli scontri di ieri. Il rischio per lei è grande, e non diminuirà a meno che Mistaya non venga ritrovata e Rydall sconfitto. Ma questo potrebbe richiedere del tempo. Non sarà facile. Nel frattempo, dobbiamo fare in modo che lei, Ben, rimanga vivo.» Ben non poté trattenere un sorriso. «Sto facendo del mio meglio, gliel'assicuro.» Il Signore del Fiume annuì. «Ne sono più che certo. Il problema è che lei non ha risorse sufficienti. Non ha una magia da contrapporre a quella di Rydall, eccetto quella del Paladino. Rydall lo sa; immagino che faccia affidamento proprio su questo. C'è qualcosa di strano in questa sfida che ha lanciato. Sette campioni mandati a distruggere il Paladino, e se uno ci riesce, lei dovrà abdicare. Perché? Perché giocare a questo gioco? Perché non imporle semplicemente di lasciare subito il trono, sotto la minaccia di uccidere sua figlia?» «Me lo sono chiesto anch'io» ammise Ben. «Allora sarà d'accordo con me quando affermo che in questo gioco c'è qualcosa di più di quel che vediamo. Rydall le sta nascondendo qualcosa d'importante. Sta celando una sorpresa.» Il Signore del Fiume distolse lo sguardo. «E quindi forse anche lei dovrebbe preparargli una sorpresa.» Si alzò bruscamente. «Ho qualcosa che forse apprezzerete. Venite con me.» Ben e Willow si alzarono e tutti e tre lasciarono la radura per addentrarsi ancora di più nella foresta. Non camminarono molto, seguendo un viottolo stretto e tortuoso che li condusse in una fitta abetaia. Il suolo era un tappeto di aghi, e l'aria era pregna del loro profumo. Tra quegli alberi il silenzio era pressoché totale: i suoni erano attutiti dal terreno soffice della foresta e dai pesanti rami verdi che si piegavano a lambirli.
Il sole stava affondando negli alberi a occidente, un astro rosso in una caligine scarlatta. Il tramonto ricopriva le selve di ombre affusolate e di freschi recessi che mormoravano della notte calante. Raggiunsero una seconda radura. Una figura stava lì in attesa, intabarrata e incappucciata. Non si mosse quando essi comparvero alla vista. Rimase perfettamente immobile. Il Signore del Fiume li portò fino a una distanza di un paio di metri dalla figura e si fermò. Sollevò un braccio e fece un cenno. La figura levò le mani in risposta e si abbassò il cappuccio. Era una creatura indefinibile per sesso e origine, dalla pelle color del legno e con una bocca, un naso e degli occhi che non erano altro se non fessure sul suo volto piatto, quasi privo di lineamenti. C'era una fiammella di luce in fondo agli occhi, ma niente di più. Era di dimensioni e corporatura normali, ma il suo corpo era completamente liscio e sottile e lustro e duro sotto la cappa. Ben guardò Willow. Negli occhi di lei c'era un lampo di riconoscimento, e qualcos'altro che lui non vi aveva visto da tanto tempo. C'era paura. «Questo è un Ardsheal» disse il Signore del Fiume a Ben. «È uno spirito elementare. Non ha bisogno di mangiare, bere o dormire. Non richiede niente per la sua sopravvivenza. È stato creato dalla magia degli esseri fatati con un unico scopo: proteggerla. Willow lo sa. Un Ardsheal è un osso duro per qualsiasi essere vivente. Niente è più pericoloso.» Ben annuì in risposta, incerto su cosa dire. Non si aspettava quel regalo. Non era sicuro di volerlo. Lanciò uno sguardo all'Ardsheal. Non accennò a rispondere. Sembrava in coma. «Questa creatura mi proteggerà?» ripeté. «A prezzo della vita» rispose il Signore del Fiume. «Un Ardsheal è molto pericoloso, Padre» osservò Willow con voce sommessa. «Solo per i suoi nemici. Non per voi. Non per l'Alto Signore. Eseguirà tutti i suoi ordini. In mancanza di indicazioni precise, farà l'unica cosa che gli è stata impartita: vi proteggerà.» Guardò curiosamente Willow. «Hai ancora paura di loro?» Lei fece cenno di sì, con uno strano sguardo negli occhi. «Sì.» Ben era soprappensiero e non notò lo sguardo. «Perché ha deciso di darmi questo?» chiese alla fine. «Voglio dire, l'Ardsheal invece di qualche altra forma di magia?» «Una buona domanda.» Il Signore del Fiume si voltò a guardarlo, con l'Ardsheal che era diventato la sua ombra. «Rydall si aspetta che il Paladino la difenda. Deve aver motivo di credere che prima o poi non riuscirà a
farlo in maniera adeguata. Forse questo accadrà. Se sarà così, l'Ardsheal ci sarà. Lei si difende contro un nemico che non conosce né comprende. Quindi ha bisogno di una difesa che il suo nemico, a sua volta, non si aspetta. L'Ardsheal sarà quella difesa. Lo prenda. Sarà anche motivo d'incoraggiamento. Le darà il tempo di cercare Mistaya, darà tempo a tutti noi.» Avanzò di un passo, avvicinando la faccia scolpita nella pietra. «È necessario che lei viva, Alto Signore Ben Holiday. Se lei muore, è molto probabile che sua figlia muoia con lei. È viva per un solo scopo: attirarla in trappola. Una volta che quello scopo sia stato raggiunto, cosa le fa credere che consentiranno alla bimba di continuare a vivere? Consideri attentamente per un momento la natura del suo nemico.» Ben sostenne lo sguardo del Signore del Fiume e fece come gli veniva consigliato. «Ha ragione» disse Willow con calma, quasi con riluttanza. Ben si trovò immediatamente d'accordo. Non ci voleva poi tanto per riconoscere il valore di un secondo protettore. Forse gli avrebbe dato un vantaggio contro le creature di Rydall. Se anche per una volta sola gli avesse permesso di non evocare il Paladino, avrebbe già costituito un valido aiuto. «Accetto il suo dono» disse infine. «Grazie.» Il Signore del Fiume annuì soddisfatto. «Una buona decisione. Adesso andiamo a mangiare.» Il banchetto fu sontuoso e stravagante, perfettamente in sintonia con la concezione che gli esseri fatati avevano dei festeggiamenti. C'erano tavole cariche di cibi, brocche di birra ghiacciata, ghirlande di fiori, grandi e bambini vestiti con abiti dai colori sgargianti, e musica e danze dappertutto. Il Signore del Fiume fece sedere Ben e Willow a capotavola, annunciò la loro presenza a tutti gli intervenuti, diede loro il benvenuto nella regione dei laghi e fece loro un brindisi a nome di tutto il suo popolo. Per tutta la sera, mentre i festeggiamenti andavano avanti, gli abitanti di Elderew vennero a salutarli di persona, alcuni portando piccoli regali, altri augurando loro ogni bene. La cosa fece sorridere Ben e Willow e li aiutò a rilassarsi. Per alcune ore si dimenticarono di Rydall di Marnhull e delle disgrazie che aveva loro arrecato. Mangiarono e bevvero e risero con la gente di Elderew, presi nel vortice dell'allegria e della festa, accarezzati dalla fresca brezza che veniva dagli alberi e dal calore della gente che li circondava. A mezzanotte si ritirarono in una piccola casetta per gli ospiti attrezzata
per alloggiarli. Si gettarono sul letto, esausti ma sorridenti, stesi uno accanto all'altra, stringendosi per esorcizzare tutte le paure e i dubbi che con tanta fatica avevano fino allora messo da parte, e sprofondarono finalmente nel sonno quando la stanchezza prese il sopravvento. Qualche tempo dopo, parecchie ore prima dell'alba, Ben si svegliò, si svincolò dalle braccia di Willow, si alzò e andò alla finestra. Il mondo esterno era illuminato da una sola mezzaluna e da stelle che scrutavano in basso attraverso un grappolo di nuvole basse e il fitto intrico dei rami. Guardò fuori nel buio, cercando l'Ardsheal, chiedendosi se fosse lì. Non l'aveva più visto, da quando il Signore del Fiume gliel'aveva presentato. In quel momento era stato più che reale, ma adesso, in qualche modo, gli appariva come un'immagine indottagli dal sogno. Un Ardsheal è molto pericoloso, Padre, aveva detto Willow. Poi lo vide, in mezzo agli alberi, un'ombra in più nella notte. Non l'avrebbe visto affatto se non si fosse mosso, soltanto un po' quando aveva guardato, per fargli sapere che c'era, che stava di guardia, che lo proteggeva. Perché Willow ne era tanto impaurita? Era una cosa buona o cattiva, visto il suo scopo? Lui non lo sapeva. Mise le due domande nella credenza della sua mente che conteneva tutti gli interrogativi senza risposta e se ne tornò a letto. Domani avrebbe cercato di scoprirlo. Si strinse forte contro il corpo di Willow, l'avviluppò con le sue braccia, e stette lì a vegliare tenendola per parecchio tempo prima di riaddormentarsi. 11 Il racconto della strega I giorni di Mistaya nel Pozzo Infido scorrevano così velocemente che lei faceva appena in tempo a rendersi conto del loro passaggio. Affascinata dalle sue lezioni sull'uso della magia, tutta presa dall'esplorazione dei suoi poteri appena scoperti, e logorata dall'intensità delle richieste della Strega del Crepuscolo, prestava poca attenzione allo scorrere del tempo. Avrebbe potuto esser li da pochi giorni; oppure da settimane. In realtà, la cosa non aveva importanza. Ciò che contava era quello che stava facendo e i progressi conseguiti nel farlo. Di questo era contenta, ma mai soddisfatta. Aveva appreso moltissimo; non aveva ancora appreso abbastanza. Non pensava quasi mai ai suoi genitori e a casa sua. Erano per lei una
considerazione estranea e ininfluente. Una volta stabilito che essi sapevano dov'era e che perciò non doveva preoccuparsene, li aveva completamente messi da parte. La sua crescente fiducia nella Strega del Crepuscolo e il suo entusiasmo per gli studi le rendevano facile questo compito. All'inizio non era stata tanto sicura che fosse un bene per lei rimanere li. Non era sicura che i suoi genitori sapessero veramente dov'era. Ma le rassicurazioni della strega e il suo stesso desiderio di crederci presto la convinsero che le sue paure erano infondate e che tutto andava bene. La Strega del Crepuscolo le aveva detto che poteva andar via quando avesse voluto, quindi sarebbe stato piuttosto facile scoprire se la strega le aveva mentito. Quella per Mistaya era prova sufficiente che le era stata detta la verità. Inoltre, la sua crescente padronanza nella magia sarebbe stata utile al padre nella sua battaglia contro Rydall, e questa convinzione rappresentava per lei un ulteriore incentivo a rimanere. Suo padre aveva bisogno di lei; non doveva deluderlo. Lo scorrere del tempo risentiva anche della natura del luogo in cui si trovava. Il Pozzo Infido induceva a confondere il giorno con la notte, la luce con l'oscurità, il dopo con l'adesso, rendendo tutto estremamente omogeneo. La giungla del Pozzo Infido, con il suo fitto intreccio vegetale a mo' di tetto, teneva tutto in un nebbioso grigiore. La luce del sole non penetrava mai. La luna e le stelle non erano mai visibili. La temperatura subiva di rado variazioni notevoli, e l'aspetto del paesaggio che circondava Mistaya era monotono e ordinario. Quel po' di colore e di luminosità che vi si potevano trovare nascevano solo dalla sua magia, dai prodigi che operava e dalle meraviglie che scopriva. La Strega del Crepuscolo le trasmetteva sempre più, a ogni lezione, la capacità di guardare in se stessa, di rivolgere la propria attenzione verso l'interno in modo tale da vedere soltanto ciò che creava e quasi nulla del mondo esterno. La strega era una valida insegnante: mai impaziente con la sua allieva, alternava le lodi alle correzioni, le forniva dei piccoli aiuti quando necessario e non sviliva o criticava mai un tentativo fallito. Mistaya aveva l'impressione che all'inizio la Strega del Crepuscolo fosse interessata unicamente ai risultati; ma, man mano che cresceva la sua passione nello scoprire la magia latente della ragazza, la strega si era fatta prendere sempre più dai meccanismi che stavano alla base del processo magico. L'insegnante ne sembrava sorpresa quanto l'allieva; e questo sembrò creare fra di loro un legame più stretto. E ormai erano molto vicine, tanto vicine che Mistaya stava cominciando
a pensare alla Strega del Crepuscolo come a una seconda madre. Questo non le sembrava strano. Naturalmente nessuno avrebbe mai preso il posto della sua vera madre, ma non c'era motivo per cui non potesse averne più di una, ognuna con funzioni diverse nell'ambito della sua esistenza. La Strega del Crepuscolo era una presenza forte, e la sua padronanza della magia e la rivelazione dei suoi segreti erano delle notevoli attrattive per la ragazza. Mistaya era molto giovane e facilmente influenzabile. La Strega del Crepuscolo l'aveva salvata da Rydall. L'aveva portata al Pozzo Infido per tenerla al sicuro. Le stava insegnando le arti magiche così avrebbe potuto aiutare suo padre. Si stava dimostrando una buona amica e una saggia consigliera. Mistaya non avrebbe potuto chiedere di più. Tuttavia la sfiorava ancora, in qualche momento, l'ombra di un dubbio. Perlopiù era Haltwhistle, con le sue regolari apparizioni notturne in segreto, a ridestare in lei l'incertezza. Mentre da una parte non si tormentava più sui suoi genitori o su Questor Thews e Abernathy, la costante presenza del cucciolo di fango le rammentava che c'era un'altra vita ad attenderla oltre i confini del Pozzo Infido. Per quanto si sforzasse, non riusciva a scacciare i ricordi di quell'altra vita, e benché Haltwhistle non dicesse o facesse mai nulla per interferire, in qualche modo lei sapeva che esso era lì perché quei ricordi rimanessero vivi. Era sconcertante dover accettare questa situazione, ma lei aveva sempre in mente l'ammonimento della Madre Terra sui pericoli che avrebbe incontrato, e la sua promessa che il cucciolo di fango l'avrebbe protetta sempre se l'avesse tenuto al suo fianco e si fosse ricordata di chiamare il suo nome almeno una volta al giorno. Allora cercò una via di mezzo, immergendosi di giorno negli insegnamenti della Strega del Crepuscolo, e abbandonandosi di notte a occasionali considerazioni su ciò che si era lasciata alle spalle. Haltwhistle non la tradiva mai. Era rischioso, per lei, mantenere il segreto sulla presenza del cucciolo di fango. La Strega del Crepuscolo non avrebbe approvato, benché forse non spettasse proprio a lei concedere quell'approvazione. Di quando in quando, a Mistaya pareva di vederlo, mentre la guardava lavorare, confuso nella nebbia e nel grigio, al riparo della giungla. Lo vedeva a pezzettini: una volta gli occhi, i piedi la volta dopo, le orecchie o il naso un'altra volta ancora. Di notte compariva al suo più sommesso sussurro, accucciato appena fuori della sua portata nella nebbiosa oscurità, appena più tangibile della caligine dalla quale si materializzava. Buon vecchio Haltwhistle, lo vezzeggiava lei. E sorrideva al suo scodinzolio.
Ma i dubbi affioravano anche in altre occasioni, e non avevano niente a che fare con l'apparizione di Haltwhistle. Il più preoccupante era legato all'insistenza della strega sulla creazione dei mostri. All'inizio ce n'erano stati solo due, e Mistaya aveva accettato quel compito come uno stadio naturale nel suo processo di apprendimento. Ricordava quel che gli era stato detto, e cioè che le sarebbero state chieste cose che lei non avrebbe capito, e che avrebbe dovuto accettare senza discussioni. E così faceva. Cerca di immaginare cose contro cui non ci sia difesa, l'incoraggiava la Strega del Crepuscolo. Mistaya cominciò con delle creature di cui aveva letto in un libro che suo padre aveva portato con sé dal suo vecchio mondo, un libro che lei aveva trovato relegato in un angolino della sua biblioteca personale, quasi dimenticato. Il titolo aveva a che fare con la mitologia o il mito o qualcosa del genere. Il libro era avvincente per il soggetto che trattava e la stranezza del linguaggio, e Mistaya l'aveva letteralmente divorato per poi metterlo da parte. Ma il ricordo delle sue creature non l'aveva abbandonata. Il gigante che prendeva la sua forza dalla terra. Il mutante che poteva duplicare chiunque o qualunque cosa gli si parasse davanti. Aveva costruito i suoi primi due mostri basandosi su quei personaggi. Non erano neanche dei mostri veri e propri, in effetti erano soltanto delle cose imbevute di poteri inumani. La Strega del Crepuscolo si era dimostrata abbastanza soddisfatta dei suoi sforzi fino a oggi, quando aveva annunciato, alquanto bruscamente, di desiderare che Mistaya desse vita a un terzo mostro, questa volta meno umano e più potente dei primi due. Per la prima volta da quando era arrivata, Mistaya discusse un ordine. Che scopo c'era a creare un terzo mostro? Qual era il motivo di questo esercizio, visto che lo aveva eseguito già due volte? Giusto per un momento pensò che la strega si sarebbe infuriata. I suoi strani occhi si fecero più scuri e i tendini sul suo collo affusolato si tesero. Poi distolse momentaneamente lo sguardo, nascondendo il volto, e con la stessa rapidità tornò a guardarla. «Mistaya, ascoltami» disse. Era calma, pacata, serena. «Speravo di risparmiarti questo, ma a quanto pare non è possibile. Tuo padre è già stato attaccato da Rydall e dal suo mago. Contro di lui vengono mandate delle creature, e lui è costretto a servirsi della magia di Questor Thews e del Paladino per sopravvivere. Finora ha avuto la meglio. Ma il mago di Rydall evocherà potenze ancora più grandi. Alla fine tuo padre potrebbe non essere più in grado di difendersi. Allora toccherà a te. La miglior difesa contro un mostro è un altro mostro. Ecco lo scopo di questo esercizio.»
La logica della Strega del Crepuscolo ebbe ragione dei dubbi di Mistaya. Così la ragazza lavorò sodo alla sua creazione per tutta la giornata. Il tramonto era vicino, e lei era esausta. Gli insegnamenti della strega l'avevano fatta progredire parecchio nell'uso della sua magia, e qualcosa di ciò che faceva la spaventava. Alcune delle creazioni che immaginava e portava alla vita erano veramente terrificanti. Ma la Strega del Crepuscolo stava ben attenta a spazzare via tutto, a riporle nell'armadietto dei tentativi falliti, e a chiudere per bene il tutto. Mistaya era sollevata. Non voleva rivederle mai più, neanche una. Adesso sedeva da sola davanti a un piccolo fuoco di bivacco (l'unica luce che la strega ammetteva dopo il tramonto) a lavorare la pasta per farne pane da friggere con le verdure. Parsnip le aveva insegnato come fare. Cucinava quasi unicamente per sé, poiché la Strega del Crepuscolo mangiava meno di Haltwhistle. In effetti, la strega di rado s'attardava dopo la fine delle lezioni, e scompariva da qualche parte per rimanere da sola. Qualche volta rimaneva lì vicino, soltanto fuori vista; quando faceva così, Mistaya poteva avvertirne la presenza. Più si conoscevano, più la ragazza diventava sensibile alla presenza della strega. Era come se qualcosa, nella loro comune propensione per la magia, le avvicinasse fisicamente, oltre ché emotivamente, come se si formassero dei legami che consentivano alla ragazza di apprendere sempre di più sulle azioni della strega. Non poteva leggere i pensieri della Strega del Crepuscolo o sondarne la mente, ma poteva avvertire la sua presenza e i suoi movimenti. Mistaya si chiedeva se accadesse lo stesso alla strega, ma in qualche modo sapeva che non era così. Quella sera la strega non si ritirò come faceva di solito, ma venne invece a sedersi con Mistaya davanti al fuoco. Guardava la ragazza affaccendata, in silenzio: la osservò lavorare la pasta e fare la sfoglia, ricavarne delle piccole forme circolari, lavare e pulire le verdure, per poi mettere il tutto a cuocere in una padella con l'olio. Continuò a guardare Mistaya che toglieva la pietanza dal fuoco e la mangiava. Sedeva immobile come una statua, a osservare tutto, come se ciò che vedeva fosse la cosa più interessante che avesse mai visto. Mistaya la lasciava stare. Sapeva che quando la Strega del Crepuscolo fosse stata disposta a parlare, lo avrebbe fatto. Sapeva anche che la strega aveva qualcosa da dirle. Fu solo quando la padella e i piatti furono lavati e messi via nell'ampia credenza di legno che campeggiava nel mezzo della radura come se appartenesse a essa, che la strega si decise a dire: «Sono soddisfatta di te, Mi-
staya. Mi sento rincuorata dai tuoi progressi.» La ragazza alzò gli occhi a guardarla. «Grazie.» «Specialmente il tuo risultato di oggi è stato notevole. Ciò che hai creato era davvero meraviglioso. Ne sei soddisfatta anche tu come me?» «Sì» mentì Mistaya. La faccia bianca e gelida della Strega del Crepuscolo si rivolse in alto, verso la nebbia, come a cercare le stelle, e poi si abbassò di nuovo in direzione del fuoco. «Ti dirò la verità. Non ero certa che tu fossi all'altezza del compito che ti avevo affidato. Temevo che tu non fossi in grado di padroneggiare la magia.» I suoi occhi si spostarono, a fissare la ragazza. «Ho sempre saputo con certezza che la tua era una magia forte. Era chiaro che le tue potenzialità di usarla erano praticamente senza limiti. Ma il possesso della magia non è mai abbastanza. Ci sono elementi immateriali che limitano il successo di chi opera. Uno è il desiderio. Determinazione, ci vuole. Concentrazione e il senso della finalità. La magia è come un grosso gatto. Tu puoi imbrigliarne e dirigerne l'energia, ma non devi mai guardare da un'altra parte e non devi mai mostrare la paura nei tuoi occhi.» «Io non ho paura della magia» dichiarò fermamente Mistaya. «Appartiene a me. È come una vecchia amica.» La Strega del Crepuscolo le rivolse un sorriso, breve e appena accennato. «Si, me ne sono accorta. Tu la tratti proprio come tratteresti un amico. Ti trovi a tuo agio con essa, pur non usandola con leggerezza. Il tuo senso di equilibrio è ottimo.» Fece una pausa. «Mi ricordi me stessa quando avevo la tua età.» Mistaya strinse gli occhi. «Davvero?» La Strega del Crepuscolo guardò attraverso di lei, in qualche luogo lontano. «Moltissimo. Mi sembra strano, a pensarci, ma una volta avevo la tua età. Ero una ragazza che scopriva i suoi talenti nascosti. Ero una novizia che cercava di farsi una vita, alla ricerca dei propri limiti come strega. Ero più piccola di te quando scoprii per la prima volta di possedere la magia. È stato tanto tempo fa.» S'interruppe, continuando a guardare lontano nell'oscurità. Mistaya si fece più appresso. «Raccontami» la incoraggiò. La Strega del Crepuscolo scrollò le spalle. «Il passato è passato.» «Ma mi piacerebbe ascoltare. Voglio sapere come ti sentivi. Potrebbe aiutarmi a capire me stessa. Per favore, racconta.» Gli strani occhi rossi tornarono al presente, appuntandosi sulla ragazza.
Sembrarono trapassarla con tanta ferocia che per un momento Mistaya ne fu atterrita. Poi la vampa si mutò in un qualcosa di consunto e sbiadito. «Sono nata nelle nebbie fatate» prese a dire la Strega del Pozzo Infido, con la figura alta e snella immobile come ombre di luna in una notte immota. Si ravviò i capelli corvini con le dita sottili. «Come te, ereditai il sangue di più di un mondo. Come te, ereditai il dono. Mia madre era una fattucchiera venuta da uno dei mondi che confinano con Landover, un mondo dove la magia è temuta. Era molto potente, e poteva andare da un mondo all'altro attraversando le nebbie a suo piacimento. Non era una creatura fatata, ma poteva aggirarsi fra di esse senza nessun problema. Un giorno, mentre andava da un mondo all'altro, incontrò mio padre. Mio padre era un Changeling, un bimbo scambiato dalle fate, una creatura che non aveva una forma propria ma poteva scegliere di assumerne una qualsiasi, a seconda delle sue necessità. Vide mia madre e se ne innamorò. Si trasformò in qualcosa che la attrasse. Un lupo, tutto zanne e pelo nero. Alla fine la sedusse e la fece sua.» La sua voce era piatta e priva di emozione, ma c'era in essa un qualcosa che a Mistaya non sfuggì. «La tenne con sé per un po', poi l'abbandonò, preso da altri interessi. Era una creatura volubile e irresponsabile, come tutto il popolo fatato, incapace di comprendere le esigenze e le responsabilità dell'amore. Io nacqui da quella unione, concepita nella follia della luce di primavera, all'avvicendarsi del secondo ciclo, quando gli strali dell'inverno si sciolgono nel disgelo.» Il suo sguardo si perse ancora una volta. Le sue parole, benché liriche e poetiche, erano nondimeno incomprensibili per la ragazza. «Mio padre prese la forma di un lupo quando mi concepì con mia madre. Mia madre si unì a lui nell'amplesso come una bestia e non fu da meno, io credo, per furia e passione.» Strinse gli occhi, per scacciare qualche immagine che si era formata nella sua mente. «Dal loro accoppiamento io presi una parte di ciascuno, bestia e virago, fatato e umano, magia di un mondo e magia dell'altro. Nacqui con occhi che ti avrebbero gelata viva. Nacqui con l'abilità di trasformarmi in una bestia. Nacqui con il disprezzo della vita e della morte.» Guardò Mistaya. «Ero ancora una bambina, e fui presto sola. Mio padre scomparve prima che venissi al mondo. Mia madre mi fece nascere, ma poi venne portata via.» S'interruppe, mentre l'eco delle sue parole imperlava di amarezza il silenzio. Mistaya aspettava, badando bene di non parlare.
«Le fate la condannarono per i suoi sforzi di diventare una di loro. Si era unita con un essere fatato e aveva concepito una figlia, e questo non era consentito. Fu messa al bando, per questo. Fu mandata via dalle nebbie, con il divieto di tornarvi. Implorò le fate perché fossero clementi. Voleva che io avessi l'educazione e l'esperienza che soltanto loro potevano offrirmi. Voleva che prendessi della vita di mio padre oltre che della sua. Voleva tutto, per me. Ma fu respinta. Fu rimandata nel suo mondo. Era una sentenza di morte. Per troppo tempo aveva goduto del privilegio di viaggiare per le nebbie, di andare da un mondo all'altro, di volare a suo piacimento. Il confino in un mondo solo era insopportabile. Lei lo sopportò finché poté. Poi gettò alle ortiche ogni precauzione e cercò di attraversare ancora una volta le nebbie. Vi entrò, e non ne uscì mai più. Scomparve come fumo al vento.» Lo sguardo della Strega del Crepuscolo stava tornando a fuoco ancora una volta. La forza delle sue parole era palpabile. «Lo vedi quanto siamo simili? Come è successo a te, anche a me fu dato di scoprire chi ero senza l'aiuto di nessuno. Allo stesso modo, la verità sulla mia nascita mi venne tenuta nascosta. Fui affidata ad altre persone perché mi allevassero, un uomo e una donna che non comprendevano i miei bisogni, che non riconoscevano la magia che si sviluppava in me. Mi tennero finché io glielo permisi, e poi scappai. Avevo cominciato a prendere coscienza dei miei poteri, ma ancora non comprendevo il loro uso. Sentivo degli impulsi, ma non riuscivo a definirli. Come te, crebbi alla maniera delle fate, in sbalzi che eclissarono la mia misura umana. L'uomo e la donna erano spaventati di me. Se fossi rimasta, avrebbero potuto uccidermi.» "Come te" fu sul punto di dire, ma non lo fece. Ciononostante, Mistaya poté sentire il sussurro di quelle parole nel silenzio, e ne fu turbata. Lei non era come la Strega del Crepuscolo, naturalmente. Non in quel modo, almeno. Lo vedeva chiaramente. Tuttavia la strega sentiva un bisogno insopprimibile di credere che loro avessero in comune più di quanto ci fosse in realtà. Qui stava succedendo qualcosa che la ragazza non capiva, e questo la mise a disagio e la rese cauta. Gli occhi della strega luccicavano alla luce del fuoco. «Mi rifugiai in un bosco che si trovava sui confini delle nebbie fatate, un riparo per coloro che erano parte di due mondi e ben accetti in nessuno. Lì trovai dei compagni, alcuni di una specie, alcuni dell'altra. Non eravamo amici, ma avevamo molto in comune. Eravamo fuorilegge senza aver commesso reati; ci avevano condannati per quel che eravamo. Ci insegnammo l'un l'altro quel
che sapevamo e imparammo ciò che potemmo. Esplorammo i nostri talenti. Scoprimmo i segreti nascosti dentro di noi. Era pericoloso fare questo, perché non avevamo esperienza e alcuni dei nostri segreti potevano uccidere. Non pochi di noi morirono. Alcuni impazzirono. Io fui fortunata a sfuggire ad ambo le sorti e a ritrovarmi padrona del mio talento. Venni via che ero una donna ormai fatta e una strega di grande potere. Trovai e dominai la conoscenza.» La legna nel fuoco scoppiettò all'improvviso, spargendo per aria una pioggia di scintille. Mistaya sobbalzò, ma la strega non si mosse. Rimase di ghiaccio contro il bagliore del fuoco, rigida nella concentrazione. I suoi occhi si fissarono su Mistaya. «Ero più piccola di te quando seppi del mio potere. Ero sola. Non avevo qualcuno che mi guidasse, come tu hai me. Ma noi siamo simili, Mistaya. Io ero dura, dentro, e nulla poteva spezzarmi. Ero roccia. Nessuno poteva mentirmi. Nessuno poteva ingannarmi o prendermi in giro. Sapevo ciò che volevo e studiavo subito qualche sistema per ottenerlo. Io vedo tutto questo in te. Vedo la stessa determinazione. Tu farai tutto ciò che ti proporrai di fare, e nessuno potrà distoglierti. Ascolterai la ragione, ma essa non sarà sufficiente a dissuaderti dal seguire una linea d'azione, se il risultato che vorrai ottenere ti sembrerà importante.» Mistaya annuì, non tanto per approvazione, perché non era del tutto sicura di trovarsi d'accordo con quella dichiarazione, ma per incoraggiarla a proseguire. Voleva sentire di più. Era affascinata. «Dopo qualche tempo» disse lentamente la Strega del Crepuscolo «decisi che sarei entrata nelle nebbie fatate. Ero stata bandita, ma quello era successo prima di scoprire la portata dei miei poteri. Adesso, lo sentivo, le cose erano diverse. Appartenevo al mondo fatato. Era mio diritto viaggiare tra i mondi come aveva fatto un tempo mia madre. Andai sul ciglio delle nebbie e chiamai. Feci così per moltissimo tempo. Non ottenni risposta. Alla fine, entrai semplicemente nelle nebbie, decisa ad affrontare coloro che mi avevano bandita. Mi trovarono subito. Non mi diedero ascolto. Mi respinsero sui due piedi. Ero un'esiliata, e non fu sufficiente la mia magia a impedirlo.» La sua bocca si era serrata e indurita. «Non mi arresi. Tornai più e più volte, non disposta a cedere al loro volere, decisa piuttosto a morire. Passarono gli anni. Vissi parecchie vite, senza invecchiare. Ero inattaccabile dalle leggi del tempo. Ero più fatata che umana. Appartenevo alle nebbie. Eppure, non mi era concesso entrare.»
"Poi trovai uno squarcio che mi permise di addentrarmi non vista tra le nebbie. Cambiai forma per mimetizzarmi, per non farmi scoprire. Entrai nelle nebbie e mi nascosi tra le creature inferiori. Nessuno mi riconobbe. Rimasi prima sotto una sembianza, poi sotto un'altra, tenendomi sempre accuratamente discosta dalla luce della rivelazione. Fui accettata. Scoprii di potermi aggirare tra i fatati in tutta libertà. Cominciai a usare la magia come facevano loro. Elaborai i miei incantesimi e misi in atto i miei complotti, e vissi come loro. Il mio inganno aveva funzionato. Ero una di loro." Sorrise, cinica e amara. «E poi, come mia madre, mi innamorai.» La sua voce si fece improvvisamente piccola piccola, e fragile. «Trovai un essere così meraviglioso, così desiderabile che non riuscii a controllarmi. Dovevo averlo. Volevo disperatamente essere sua. Lo seguii, feci amicizia con lui, divenne il mio compagno, e alla fine mi diedi completamente a lui. Per giungere a questo, fui costretta a rivelarmi. Quando lo feci, lui mi ripudiò immediatamente. Mi tradì. Rivelò la mia presenza. Le fate non furono gentili. Fui bandita sui due piedi. Perché mi ero innamorata. Perché non ero stata abbastanza saggia.» Inarcò un sopracciglio, riflettendo amaramente. «Come mia madre.» Stava quasi per piangere, si rese improvvisamente conto Mistaya. Non c'erano lacrime, ma la ragazza poteva sentire contro la propria pelle la lama del dolore della strega, fredda e affilata. «Fui mandata qui» terminò la Strega del Crepuscolo. «Nel Pozzo Infido. Bandita dalle nebbie fatate, bandita dalla mia terra natale. Confinata a Landover per il resto della vita. Fu una punizione, capisci. Io avevo usato la mia magia e lasciato il mio marchio sul loro mondo, e non ero una di loro. Avevo trasgredito. Così fui punita. Fui messa all'ingresso di tutti i mondi che mi erano preclusi per sempre. Fui messa ai confini delle nebbie che non avrei mai potuto attraversare.» Intrecciò le mani, e le dita si strinsero quasi ad annodarsi. Scosse lentamente la testa da una parte all'altra. «No, le fate non furono gentili.» «Mi sembra che siano state molto ingiuste» interloquì con calma Mistaya. La Strega del Crepuscolo rise. «Questa parola non ha significato per il popolo fatato. Non ne hanno la minima concezione. C'è soltanto quello che è permesso e quello che non lo è. Se ci pensi, l'idea stessa di giustizia è una fola per bambini. Guarda il nostro mondo, qui a Landover. La giustizia viene amministrata da coloro che hanno il potere di negarla. Invo-
carne l'uso non è altro che la supplica di un pezzente quando ogni altro tentativo è fallito. "Siate giusti con me!" Com'è pietoso, e senza speranza!» Sputò fuori quelle parole disgustata. Poi si piegò in avanti con improvvisa intenzione. «Ho imparato qualcosa da quello che mi è stato fatto, Mistaya. Ho imparato a non supplicare mai, a non aspettarmi mai gentilezza, a non fare mai affidamento sul caso o sulla buona sorte. La mia magia mi sostiene. Il mio potere mi dà forza. Affidati a queste cose e sarai sempre protetta.» «E non innamorarti» aggiunse solennemente Mistaya. «No» confermò la strega, e sul suo volto si dipinse una tale furia che per un momento fu irriconoscibile, simile a una di quelle bestie delle quali poteva assumere le sembianze. «No» ripeté, una parola temprata nell'acciaio, e Mistaya seppe che pensava a qualcuno in particolare, a un tempo e un luogo che dovevano essere piuttosto vicini, a un evento che bruciava ancora dentro di lei come un ferro arroventato. «No, mai più.» Mistaya rimase immobile al bagliore vacillante del fuoco, e lasciò che la rabbia della Strega del Crepuscolo sbollisse, sforzandosi lei stessa di confondersi con le ombre della notte, di apparire inoffensiva e insignificante. Temeva che se avesse dimostrato di essere qualcos'altro, la collera della strega avrebbe potuto inghiottirla così com'era. La Strega del Crepuscolo la guardò come se avesse letto nei suoi pensieri, poi si rivolse a lei con un sorriso disarmante. «Noi siamo simili» disse una volta ancora, come se avesse bisogno di rassicurarsi. «Tu e io, Mistaya. La magia ci lega, streghe una volta e per sempre, nate con poteri che gli altri possono solo agognare senza mai possederli. Vivere da sole è la nostra benedizione e la nostra condanna. È il nostro destino.» La sua mano si levò e riempì l'aria di luce smeraldina, una polvere che si sparse nell'oscurità e ricadde come una manciata di scintille. Più tardi, quando si avvolse nelle coperte, Mistaya stava ancora pensando a quel che la strega le aveva rivelato. Tanta sventura, amarezza e solitudine nell'oscura vita dell'altra. Tanto furore. Come me, aveva ripetuto più volte la strega. Tu e io. L'incertezza di Mistaya crebbe quando meditò su quelle parole. Forse c'era più verità, in quelle pretese, di quanto lei stessa fosse disposta a riconoscere. Prima non ci aveva creduto, ma stava cominciando a pensarci. Forse, visto che era una strega, il suo posto era qui con la Strega del Cre-
puscolo. Era così preoccupata da questa eventualità che a stento si ricordò di chiamare Haltwhistle prima di addormentarsi. 12 Robot L'alba portò un cambiamento nelle condizioni del tempo sulla regione dei laghi, e quando Ben e Willow si svegliarono una pioggerellina insistente stava cadendo. Si vestirono, fecero una colazione leggera a base di frutta, pane e marmellata e latte di capra; si avvolsero nelle loro mantelle da viaggio e uscirono per andare a trovare il Signore del Fiume. Elderew era immersa nella nebbia e oppressa da un soffitto di nuvole grevi, e l'intreccio di rami che fungeva da copertura, carico di pioggia, stillava gelidi goccioloni su di loro mentre percorrevano la pista deserta che menava alla città. Non si affrettavano. Il Signore del Fiume doveva essere stato avvertito, ormai, che erano svegli. Sarebbe andato loro incontro prima che avessero avuto bisogno di chiamarlo, perché era fatto così. Ben si guardava furtivamente attorno alla ricerca dell'Ardsheal, ma non lo vide. Però poteva avvertire la sua presenza. Sentiva il suo sguardo trafiggere il buio. Il Signore del Fiume apparve quando erano ormai prossimi al centro della città, ritto da solo in mezzo a una radura che il sentiero attraversava. Salutò Ben con un cenno del capo e Willow con un breve abbraccio, due gesti che non concedevano molto al calore e all'intimità, e li avvisò che i loro cavalli erano pronti. Non li invitò a trattenersi ancora. Ora che aveva consegnato l'Ardsheal, si aspettava che proseguissero nella ricerca di Mistaya. Ricordò loro la promessa che avevano fatto, di tenerlo informato sui loro progressi. Dopo un po' sopraggiunse Bunion, che conduceva Giurisdizione e Gru: il corpo nodoso e ingobbito del coboldo gocciolava nell'oscurità, e i suoi occhi erano ridotti a gialle fessure. Quando Ben e Willow montarono in sella, il Signore del Fiume mise da parte ogni riserva, quel tanto che bastava per dichiarare che se ci fosse stato bisogno del suo aiuto per riportare a casa sua nipote, non dovevano far altro che mandarlo a chiamare, e lui sarebbe accorso. Fu un'inaspettata deviazione dal suo deliberato distacco nei loro confronti. Ben e Willow erano sorpresi, ma non lo dimostrarono. Lo presero in parola e partirono. Spiriti dei boschi li aspettavano ai bordi del bosco antico alle porte di
Elderew per ricondurli attraverso la palude e la massa boscosa che proteggevano la città. La pioggia continuava a cadere, un'acquerugiola che rendeva il suolo sotto gli zoccoli dei cavalli fangoso e sdrucciolevole. Quando le guide li ebbero scortati fino alla zona meno boscosa che si stendeva ai piedi di Elderew, i tre si fermarono a riposare prima di proseguire. «L'hai visto stamattina?» chiese Ben a Willow mentre si passavano la fiasca della birra, in piedi accanto ai cavalli al riparo delle fronde. «No» rispose lei. «Ma Bunion sì. Ha detto che sta seguendo le nostre tracce tenendosi nell'ombra in mezzo agli alberi, senza farsi distanziare. A Bunion non fa piacere saperlo vicino, e neanche a me.» Ben diede un'occhiata. Bunion stava accovacciato al riparo degli alberi, con un'espressione di malumore. «Non ha certo la faccia allegra, il che è tutto dire.» «Si considera la tua guardia del corpo. La presenza dell'Ardsheal sembra voler suggerire che lui non è capace di fare il suo lavoro.» Ben la guardò. «Neanche tu credi che l'Ardsheal dovrebbe essere qui, vero?» «No, al contrario. Credo che l'Ardsheal ti proteggerà meglio di chiunque altro.» Gli rivolse uno sguardo freddo e prolungato. «Però questo non vuol dire che mi piaccia portarmelo dietro.» Lui annuì. «Hai detto la stessa cosa ieri sera. Come mai?» Lei esitò. «Te lo dirò dopo. Stasera.» Stette in silenzio per un momento. «Ho detto a Bunion che l'Ardsheal è stato un regalo di mio padre e che sarebbe stato scortese, e forse anche pericoloso, rifiutarlo. Bunion l'ha presa per buona.» Ben guardò di nuovo il coboldo. Anche quello lo guardava, con gli occhi gialli luccicanti. Quando incontrò lo sguardo di Ben, sorrise come un alligatore affamato. «Be', spero che tu abbia visto giusto» disse distrattamente. I suoi occhi si spostarono a incontrare quelli di lei. «Ci ho pensato. Non dovremmo cercare di metterci in contatto con la Madre Terra? Sembra che lei sappia sempre tutto quello che succede a Landover. Forse potrebbe darci qualche lume su quanto è successo a Mistaya e agli altri. Forse sa qualcosa di Rydall.» La pioggia gocciolò dal bordo del cappuccio di Willow sul suo naso, e lei se lo tirò più avanti per coprirsi meglio. «Ci ho pensato anch'io. Ma la Madre Terra mi sarebbe già apparsa in sogno se avesse potuto aiutarmi in qualche modo. Mistaya è importante per lei, è la promessa di un futuro
speciale. Non permetterebbe mai che le venisse fatto del male se fosse in suo potere di evitarlo.» Ben diede un calcio a un pezzetto di legno marcio con lo stivale. «Vorrei che alcune di queste persone fossero più concrete con i loro aiuti» mormoro amareggiato. Lei gli rivolse un piccolo sorriso. «L'aiuto è un dono: non bisogna mai arrivare al punto di pretenderlo. Allora, che direzione dobbiamo prendere?» Lui scrollò le spalle e guardò di nuovo in mezzo agli alberi. Non sopportava di non riuscire a vedere l'Ardsheal. Era già abbastanza seccante sentire sul collo il fiato dei suoi nemici. Adesso doveva anche rassegnarsi a sentire quello del suo protettore? Sospirò. «Be', non vedo il motivo di tornare a Sterling Silver. Se lo facciamo, Rydall non farà altro che mandarci un nuovo mostro. E non avremo fatto alcun progresso nella ricerca di Mistaya.» Si accigliò, come se volesse disapprovare il suo stesso ragionamento. «Pensavo che potremmo andare nelle Pianure. Kallendbor conosce ogni avversario che abbia mai minacciato Landover. Ha combattuto contro la maggior parte di essi. Forse saprà qualcosa di Rydall e Marnhull. Forse avrà sentito qualcosa che ci potrebbe aiutare a ritrovare Mistaya.» «Di Kallendbor non c'è da fidarsi» lo ammonì Willow con calma. Lui annuì. «È vero. Ma non ha alcun interesse a favorire un'invasione straniera. Inoltre, mi è debitore per avergli risparmiato una punizione molto più severa di quella che gli diedi quando si alleò con il Gorse. E lui lo sa. Io penso che convenga tentare.» «Forse.» Lei non sembrava convinta. «Ma dovrai raddoppiare le attenzioni, se avrai a che fare con lui.» «Lo farò» la rassicurò Ben, chiedendosi quanta attenzione in più avrebbe dovuto usare adesso che aveva al suo fianco il Paladino, Bunion e l'Ardsheal, tutti pronti a proteggerlo. Montarono in sella e si rimisero in viaggio. Bunion, avvertito della loro nuova destinazione, scorrazzava in testa tra gli alberi, esplorando il territorio che avrebbero attraversato, lasciandoli alle temporanee attenzioni della invisibile guardia del corpo. L'Ardsheal, comunque, rimase nascosto. Il giorno scorreva con languida lentezza, il mattino divenne mezzodì, il mezzodì pomeriggio. La pioggia non accennava a smettere. Si dirigevano a nordest verso le Pianure, con gli alberi che si diradavano man mano che la regione dei laghi cedeva il passo alle colline sotto Sterling Silver. Sostaro-
no per il pranzo presso un ruscello, dove trovarono riparo sotto un annoso cedro. La pioggia gocciolava dai rami curvi, un costante picchiettio sul terreno inzaccherato. Il mondo attorno a loro era freddo e umido, e silenzioso. Quando il pasto fu finito, si rimisero in strada. Non incontrarono nessuno per tutta la giornata. Al calar della notte giunsero ai bordi delle Pianure, dove si stendevano le praterie che coprivano le province dei Signori minori di Landover, fino ai Melchor. Il tramonto era un chiarore grigio-ferro a occidente, sulle montagne lontane, con la luce plumbea che cercava debolmente di contrastare la notte incombente. Ben e Willow fecero il campo in un boschetto di Bonnie Blu e ciliegi, su un'altura che dominava le pianure. Bunion tornò per consumare la cena, un pasto freddo preparato senza il beneficio di un fuoco, e poi scomparve di nuovo. L'Ardsheal non comparve affatto. Quando la notte fu caduta e si trovarono soli nel suo silenzio profondo, con la pioggia che si era ridotta a una umida nebbiolina sospesa sulle praterie come il sudario di un fantasma, Ben circondò con un braccio Willow, la trasse a sé così che si trovarono entrambi a guardare nel buio che li circondava, e disse: «Parlami dell'Ardsheal.» Lei dapprincipio non disse nulla, restando immobile e rigida contro di lui mentre le sue braccia la cullavano. Lui poteva sentire il suo respiro, il sollevarsi e il rilassarsi del suo seno, il sommesso soffio di aria dalle sue labbra. Attese con pazienza, guardando oltre il velo dei suoi capelli al lenzuolo della nebbia aldilà, che s'ispessiva sempre più. «Gli Ardsheal sono sempre esistiti» disse lei alla fine. «Essi furono creati per proteggere gli esseri fatati dopo che ebbero lasciato le nebbie per venire nel mondo degli umani, perdendo così parte della loro magia. Gli Ardsheal erano una magia antica, nata dal culto della terra, e poiché erano spiriti elementari potevano essere evocati da qualsiasi luogo. Gli esseri fatati li usavano di rado, perché erano distruttori, plasmati da aspri rancori e disperati bisogni. Quando la minaccia crebbe a dismisura, e gli esseri fatati cominciarono a temere per la vita stessa della loro gente, gli Ardsheal furono evocati. Di solito ne bastavano pochissimi. In un lontano passato, prima del vecchio Re, quando Landover era di nuova formazione e dava ancora origine alle sue terre e alle sue genti, ci furono guerre tra umani ed esseri fatati. Gli umani furono i primi a occupare Landover; le creature fatate arrivarono in un secondo tempo e furono considerati degli invasori. Nelle battaglie che seguirono, gli Ardsheal furono chiamati a combattere contro le creature evocate dai maghi al servizio degli umani.»
Fece una pausa, per raccogliere i pensieri. «Quello è stato tanto tempo fa. Da allora, gli Ardsheal sono stati usati molto raramente. L'ultima volta risale a non molto tempo fa. Accadde quando uno dei demoni di Abaddon eluse le difese di Elderew travestendosi da essere fatato. Era una creatura stregonesca, un Changeling che cercava un varco per consentire l'ingresso ai suoi simili proprio nel cuore della regione dei laghi. La magia presente in quel luogo, pensava, sarebbe in quel modo appartenuta a loro. Così assunse l'aspetto di un abitante della regione dei laghi e venne nella città, e cercò di uccidere mio padre.» «Perché era il Signore del Fiume?» chiese sottovoce Ben. «Sì, per quello. Perché era a capo della sua gente.» Le parole di Willow erano quasi inudibili. «Il demone tentò e fallì. Ma nel tentativo di uccidere mio padre, distrusse parecchi altri, compresi molti bambini. Poi riuscì a fuggire. Ci fu un panico indescrivibile tra gli esseri fatati. E rabbia. Mio padre e gli anziani evocarono cinque degli Ardsheal e li mandarono in cerca del demone. Gli Ardsheal seguirono le sue tracce di casa in casa, rintracciandolo alla fine in uno dei suoi tanti travestimenti, e lo uccisero.» Trasse un profondo respiro. «Era nella mia casa che si nascondeva, quando lo trovarono. Aveva preso le sembianze di una delle mie sorelle. Era molto abile. Aveva fatto in modo di tornare nell'unico posto dove pensava di essere al sicuro, proprio nella casa del Signore del Fiume. Ma gli Ardsheal erano implacabili. Potevano seguire una traccia tramite il tocco, il fiuto, i sapori; percepivano il più piccolo rumore, perfino la variazione di temperatura determinata dal proiettarsi di un'ombra. Ciononostante, non erano perfetti. E non lo furono quella volta. Erano stati evocati in fretta e furia, in modo imperfetto. La fretta fu fonte di disattenzione. Il demone assunse parecchie forme prima di prendere quella in cui lo sorpresero. Quella che aveva preso subito prima era la forma di mia sorella Kaijelln. Gli Ardsheal ormai gli erano addosso, e quando entrarono in casa nostra, strappando via le porte come se fossero fuscelli, credettero che il demone fosse ancora Kaijelln.» "E così" sussurrò, con la voce tremante, "la uccisero senza aspettare di scoprire la verità. Agirono per istinto. La uccisero proprio davanti a me." Ben deglutì. Aveva la gola secca. «Tuo padre non riuscì a fermarli?» Willow scosse la testa. «Erano troppo rapidi. Troppo potenti. Un Ardsheal, quando attacca, è inarrestabile. Quel giorno fu così, con Kaijelln. Morì in un batter d'occhio.» Quindi rimasero a lungo in silenzio, mentre Ben teneva la silfide stretta
a sé, tutti e due immobili a fissare l'oscurità. Da qualche parte un uccello notturno emise il suo richiamo, e un altro rispose. L'acqua gocciolava dalle foglie nel silenzio più assoluto. «Avremmo dovuto lasciarlo dov'era» disse alla fine Ben. «Avremmo dovuto rifiutarlo.» «No!» La voce di Willow era dura e ferma questa volta. «Niente può resistere a un Ardsheal. Niente! Ne avrai bisogno per difenderti da qualsiasi altra cosa Rydall decida di mandarti. Inoltre, mio padre avrà preso ogni possibile precauzione per essere sicuro che questo faccia ciò che ci si aspetta da lui, e niente di più.» Si girò improvvisamente tra le sue braccia e lo guardò direttamente in faccia. «Non capisci? Non ha importanza che io ne abbia paura. L'unica cosa che conta è che ti salvi la vita.» Si sporse in avanti, portando il volto vicinissimo al suo. «Vedi quanto ti amo Ben Holiday!» Poi lo baciò e continuò a baciarlo finché lui non dimenticò tutto il resto. All'alba si rimisero in marcia. La giornata era grigia e nebbiosa, ma la pioggia era cessata. Bunion era tornato durante la notte e stavolta viaggiò con loro, e mentre procedevano in aperta prateria il coboldo faceva strada sgambettando alacremente davanti alle loro cavalcature. Anche l'Ardsheal si fece vedere, emergendo dalla foresta per prendere posizione una ventina di metri alle loro spalle. Mantenne quella distanza per tutto il viaggio, seguendoli come un'ombra. Quelli lo tennero d'occhio per un po', guardandolo di sottecchi, stupiti dalle movenze agili e fluide del suo passo. Non indossava nulla, e il suo corpo sembrava non avere fattezze: braccia, gambe, piedi, mani, torace e testa erano lisci e lucidi per l'umidità, la pelle era tesa e senza giunture, gli occhi dei buchi neri che guardavano diritti trafiggendo l'oscurità. Non dava segno di conoscerli, al suo andare; non parlò mai. Sostava quando lo facevano loro, aspettava pazientemente che si rimettessero in marcia, per riprendere subito la sua andatura costante. A metà mattinata smisero di guardarlo. Per mezzogiorno, avevano smesso del tutto di pensare a lui. Le praterie erano immerse in una fitta nebbia, e le città e le fattorie del popolo delle Pianure e le roccheforti dei Signori si materializzarono davanti a loro con spettrale immediatezza. Le scansarono tutte, ben decisi a raggiungere Rhyndweir e Kallendbor prima di essere sorpresi dalla notte. Comprarono della zuppa calda da un venditore a un mercato posto in prossimità di una cittadina e la sorseggiarono da ciotole di latta senza fermarsi.
Bunion finì la sua in un batter d'occhio e sparì. L'Ardsheal rimase indietro nella nebbia e non mangiò nulla. Ben e Willow cavalcavano in silenzio, fianco a fianco, contenti della compagnia uno dell'altra, senza sentire il bisogno di parlare. Ben passò buona parte della giornata a pensare al racconto dell'Ardsheal e di Kaijelln. Si ritrovò a paragonare l'Ardsheal al Paladino, entrambi distruttori, entrambi perfette macchine da guerra, entrambi al suo servizio e perciò sotto la sua responsabilità per qualunque danno potessero arrecare. Il confronto lo turbò più di quanto non volesse ammettere. Gli fece pensare di nuovo a ciò che la sua trasformazione nel Paladino stava facendo alla sua psiche. Avrebbe forse un giorno raggiunto il punto in cui la differenza tra loro non sarebbe stata più distinguibile? Sarebbe diventato come l'Ardsheal, una macchina di morte senza passioni, senza rimorsi, una creatura senza coscienza che serviva soltanto il suo padrone? Si trovò a pensare a come si era sentito quando, da Paladino, era rimasto intrappolato nella Scatola Magica, come era rimasto privo di ogni altra identità fuorché quella di campione del Re, come era stato perso a tutto tranne che alle sue abilità di guerriero. I pensieri giravano e si aggrovigliavano con insidiosa intenzione, rinnovando in lui i dubbi sulla fermezza dei suoi propositi nella battaglia contro i mostri di Rydall. Lottò con i suoi pensieri, ma non lasciò trapelare assolutamente nulla di quella lotta. Verso il tardo pomeriggio giunsero in vista di Rhyndweir. Il castello di Kallendbor sorgeva su un ripido promontorio alla confluenza dei fiumi Anhalt e Piercenal; con le sue mura, i bastioni e i pinnacoli, torreggiava cupo sulle praterie. Una cittadina sorgeva sotto le mura del castello, affollata e chiassosa, piena di acquirenti e venditori di mercanzie: commercianti, contadini, cacciatori di pellicce e artigiani di ogni tipo. La pioggia aveva ripreso a cadere, un'acquetta grigiastra che si mischiava alla nebbia e avviluppava case e persone, trasformandole in figure vaghe e scure nella caligine. Ben e Willow erano venuti senza fanfara, senza scorta e senza farsi annunciare. Non c'era nessuno ad aspettarli e nessuno a guidarli al palazzo. Ma questo collimava con le intenzioni di Ben. Voleva sorprendere Kallendbor, trovarlo impreparato, così da costringerlo a riceverli senza il vantaggio del preavviso. C'erano più probabilità di ottenere la sua collaborazione, se non gli fosse stato dato il tempo di valutare i pro e i contro. Ben rallentò quando giunsero all'Anhalt e al ponte che lo scavalcava fino al castello. Richiamò Bunion, poi si rivolse all'Ardsheal e gli fece cen-
no di avvicinarsi. Con sua sorpresa, esso fece quanto gli veniva richiesto. Venne a porsi direttamente al suo fianco, con il volto piatto e inespressivo, e gli occhi che guardavano dritto davanti a sé. Ben inarcò il sopracciglio, rivolto a Willow, disse a tutti di rimanere vicini e fece avanzare Giurisdizione. Attraversarono il ponte ed entrarono in città, cavalcando tra la gente e la pioggia mentre la luce del pomeriggio scemava per lasciare il posto a una fosca oscurità. La gente adesso si affrettava verso casa, così furono in pochi a badare ai cavalieri e ai loro fanti. Quelli che lo fecero distolsero rapidamente lo sguardo. Non era consigliabile fare troppe domande quando c'era di mezzo un Ardsheal. La piccola compagnia raggiunse le porte del castello e fu prontamente bloccata dalle guardie. Ci furono occhi spalancati, e proteste di ogni tipo, ma Ben si limitò a comandare al più vicino notabile di accompagnarli al palazzo. In ogni caso, chi di dovere sarebbe stato avvertito, e lui non aveva nessuna voglia di star lì ad aspettare che si decidessero a farlo. Un comandante, più coraggioso dei suoi compagni, si azzardò a protestare per la presenza dell'Ardsheal, e fu immediatamente zittito dalla secca risposta di Ben. L'Ardsheal era la guardia personale dell'Alto Signore. Dovunque andasse l'Alto Signore (o la sua Regina) lì sarebbe andato l'Ardsheal. Il comandante si mise da parte, e fu loro permesso di entrare. Attraversarono a cavallo cancelli e cortili lastricati, superarono parecchi livelli di difesa e gli acquartieramenti dei soldati al servizio di Kallendbor, fino al pianoro erboso su cui sorgeva il palazzo. La loro guida cercò di rallentare l'andatura, in modo che il suo Signore avesse il tempo di essere avvisato e di prepararsi, ma Ben spinse Giurisdizione in avanti passando quasi col cavallo sul corpo del troppo solerte funzionario. In pochi minuti furono davanti all'ingresso del palazzo e smontarono. A suo credito, Kallendbor uscì immediatamente a salutarli. Era solo, a parte il guardiano che rimase nervosamente in attesa sulla porta; apparentemente non c'era stato il tempo di convocare servitori o favoriti. Il Signore di Rhyndweir era un uomo alto e scheletrico con capelli di un rosso acceso, il cui colore sembrava rispecchiare la sua indole. Cicatrici di guerra gli solcavano le mani e gli avambracci, e sfregiavano un volto altrimenti bello. Portava uno spadone appeso alla cintola come se fosse un naturale complemento del suo vestiario. Quando andò a ricevere i visitatori era rosso in faccia e gli occhi erano furiosi, ma si profuse comunque in un inchino profondo e cerimonioso.
«Se avessi saputo del vostro arrivo, Alto Signore, vi avrei preparato un miglior benvenuto» aggiunse, riuscendo quasi a dissimulare la sua contrarietà. Adocchiò Bunion con uno sguardo e poi per la prima volta vide l'Ardsheal. «Cosa significa questo?» scattò, incapace ormai di nascondere la collera. «Perché portate qui questa creatura?» Ben guardò l'Ardsheal come se avesse dimenticato che era lì. «È un dono del Signore del Fiume. Mi serve da protezione. Vogliamo andare dentro all'asciutto a parlarne con calma?» Kallendbor esitò e diede l'impressione di voler protestare, poi sembrò ripensarci. Li portò via dalla pioggia, nell'ingresso principale, e poi per un lungo corridoio fino a un salotto dominato da un ampio camino in pietra che andava dal pavimento al soffitto. Le fiamme dei ceppi che ardevano nel focolare spandevano calore e luce da una parete all'altra e facevano danzare le loro ombre mentre gli ospiti si accostavano alle sedie per sedersi li davanti. Bunion era rimasto a governare i cavalli. L'Ardsheal si fermò accanto alla porta e si confuse con le ombre che si addensavano numerose sull'entrata. Kallendbor si sedette dall'altra parte rispetto a Ben e Willow. La sua collera non era sbollita. «Gli Ardsheal sono stati nemici del popolo delle Pianure per secoli, Alto Signore. Non sono i benvenuti, qui. Lei sicuramente deve saperlo.» «I tempi cambiano.» Ben guardò i bicchieri vuoti posati accanto alla caraffa di liquido ambrato sul tavolo che si trovava fra di loro e invitò con gli occhi Kallendbor a riempirne due e a porgerli a lui e a Willow. Le labbra del Signore di Rhyndweir erano serrate a formare una linea sottile, e le sue grosse mani erano strette a pugno. «È a suo agio, adesso, Alto Signore?» chiese sardonico. Ben annuì. «Non c'è male, grazie.» Ignorò il tono rude dell'altro. «Mi scuso per aver portato l'Ardsheal qui a Rhyndweir, ma le attuali circostanze suggeriscono particolari precauzioni. Suppongo che vi sia giunta voce delle minacce alla mia vita.» Kallendbor fece un gesto nell'aria, sbrigativo. «Da parte di Rydall di Marnhull? L'ho saputo. È passato ai fatti?» «Due attacchi, finora.» Kallendbor lo studiò. «Due. E altri cinque in programma, se non sbaglio. Ma niente può resistere al Paladino. E adesso dispone anche di un Ardsheal. Dovrebbero essere sufficienti a proteggerla.» Ben si sporse in avanti. «La sua delusione sarebbe terribile, se così fos-
se?» Per la prima volta Kallendbor sorrise, una smorfia feroce e sardonica. «Non siamo certo buoni amici, Alto Signore. Io non ho nessun motivo particolare per volerle bene. Ma neanche Rydall di Marnhull è mio amico.» «Lo conosci, allora?» incalzò Ben. Kallendbor scosse la testa. «Non so niente di lui. Deve venire da qualche posto fuori dei confini di Landover.» «Ma se è così, come ha fatto ad attraversare le nebbie?» «Come ha fatto lei, suppongo.» Kallendbor si strinse nelle spalle. «Usando la magia.» Ben sorseggiò la sua bevanda. Un vino piuttosto dolce. Non se lo sarebbe aspettato da Kallendbor. Al suo fianco Willow si agitava, insofferente di quella conversazione, ansiosa di porvi termine. Non le piaceva Kallendbor di Rhyndweir, e in generale tutto ciò che riguardava le Pianure. Apparteneva al popolo dei fatati, e i Signori delle Pianure non erano mai stati loro amici. Ben guardò per un momento il fuoco, poi di nuovo Kallendbor. «Questa è una breve visita. Una notte per asciugarci dalla pioggia, e po' andremo via. Ci farai portare da mangiare in camera, così potrai fare a meno di intrattenerci. L'Ardsheal starà vicino a noi, fuori vista. Anche Bunion può stare con noi.» Kallendbor annuì, e c'era un'espressione di evidente sollievo sul suo volto. «Come vi aggrada, Alto Signore. Farò portare acqua calda per il bagno.» Ben annuì. «C'è una cosa.» Si sporse in avanti così da scaricare tutto il peso del suo sguardo su Kallendbor. «Se mi sfiorasse il sospetto che sai qualcosa di Rydall e me lo tieni nascosto, ti farei gettare in catene.» Kallendbor s'irrigidì, e la sua faccia avvampò di rabbia. «Alto Signore, io non devo...» «Non ho dimenticato che ti alleasti con il Gorse contro di me, non molto tempo fa» proseguì Ben, interrompendolo. «Avevo tutto il diritto di esiliarti a vita e di confiscare tutti i tuoi beni. Avevo il diritto di metterti a morte. Ma tu sei un capo valoroso e un uomo che ha molta influenza sui suoi pari, e io tengo in gran conto la tua fedeltà al trono. E non volevo che le Pianure ti perdessero. Inoltre, credo che tu fosti mal consigliato in quella occasione. Tutti noi lo fummo, in certa misura.» Fece una pausa. «Ma se dovesse accadere di nuovo, non esiterei a riconsiderare la mia posizione nei tuoi confronti, Signore Kallendbor. Voglio
ricordarti questo.» Kallendbor annuì in maniera secca, quasi impercettibile. A stento riuscì a parlare. «È tutto, Alto Signore?» «No.» Ben sostenne il suo sguardo. «Rydall ha preso nostra figlia. Le tue spie forse non te l'hanno riferito. È in ostaggio finché il Paladino non sconfiggerà le creature che lui manderà a dare battaglia, o non ne sarà sconfitto. Io ora la sto cercando. Ma non c'è traccia di Rydall o di Marnhull. Nessuno sembra in grado di aiutarci, incluso te. Io sono deciso a riavere mia figlia, Kallendbor. Se tu puoi aiutarmi, sarebbe saggio da parte tua farlo.» Rimase in attesa. Kallendbor stette in silenzio per un momento. «Io non ho bisogno di prendere bambini in ostaggio per dichiarare guerra ai miei nemici» riuscì finalmente a dire. Sembrava che avesse problemi a pronunciare le parole. Ben si chiese come mai. «Allora mi manderai ad avvertire se sentirai qualcosa che potrebbe aiutarmi a ritrovare Mistaya?» incalzò. La faccia di Kallendbor si chiuse, piatta e inespressiva. C'era uno sguardo duro nei suoi occhi. «Avete la mia parola che farò tutto quello che posso perché vostra figlia torni a casa sana e salva. Non posso promettere di più.» Ben annuì lentamente. «Mi basta.» Ci fu un silenzio aspro e prolungato. Poi Kallendbor si mosse a disagio sulla sedia e disse «Se siete pronti, vi mostrerò le vostre stanze.» Almeno per il momento, ne avevano avuto abbastanza uno dell'altro. Venne la mezzanotte, e passò. La pioggia si rovesciava dai cieli, portata fino alle praterie da nubi temporalesche che avevano scavalcato la barriera delle montagne e avevano invaso l'oscurità. I lampi solcavano i cieli neri con nastri al calor bianco che saettavano e rintronavano. Sotto le mura di Rhyndweir le acque turbolente dell'Anhalt e del Piercenal sciabordavano contro gli argini, ingrossate e cariche di detriti. Ben Holiday non dormiva bene. Già due volte si era svegliato e si era alzato per guardarsi attorno. La prima volta lo aveva destato il silenzio, la seconda la furia della tempesta. Tutt'e due le volte era andato alla porta ed era rimasto ad ascoltare, poi si era recato alle finestre della torretta della camera da letto e aveva guardato dabbasso. Erano alloggiati nella torre occidentale, in camere normalmente riservate agli ospiti di riguardo, ai piani alti del palazzo, lontane dal personale di servizio e dagli altri ospiti. Dalle
loro finestre c'erano almeno una trentina di metri fino alle rocce del promontorio e alle acque dell'Anhalt. Dalla loro porta c'era una lunga discesa da fare, per una scala a chiocciola che passava per parecchi altri piani e stanze vuote prima di giungere all'atrio che conduceva all'ala principale del castello. Com'era tradizione, le stanze scelte per l'Alto Signore di Landover erano isolate e sicure, e offrivano un'unica possibilità di entrata. Questa notte, tuttavia, Ben non poteva fare a meno di pensare che esse offrivano, d'altra parte, una sola via d'uscita. Comunque, lui qui era al sicuro. Bunion stava di guardia proprio fuori della porta, e l'Ardsheal guardava le scale e l'atrio sottostante. Di fuori lampeggiava, tuonava e il vento ululava sulle pianure, una forza immensa e immutabile. Ma la tempesta non penetrò dove dormivano Ben e Willow, salvo che con il rumore del suo passaggio, e nient'altro poteva tenere sveglio l'Alto Signore. Eppure non riusciva a dormire. E quando dalle scale giunsero quei colpi pesanti e Bunion strillò un avvertimento, era già sveglio e seduto nel letto. Willow si levò istantaneamente a sedere accanto a lui, con la faccia scossa, gli occhi spalancati. La porta di quercia massiccia fasciata di ferro volò nella stanza, frantumata in schegge che a stento riuscivano ancora ad aggrapparsi agli attacchi scardinati. Qualcosa di scuro e gigantesco si stagliò sulla porta, abbattendo quella parte del muro di pietra che ostacolava il suo passaggio. Bunion si aggrappò alla cosa, azzannandola con i denti e artigliandola, ma quella non sembrò neanche notare il coboldo. Venne in camera da letto, buttando giù pietre e calcinacci, svellendo i cardini e quant'altro rimaneva della porta demolita. Un lampo esplose e illuminò la mostruosa apparizione mentre Ben e Willow guardavano increduli. Era un gigante racchiuso nel metallo dalla testa ai piedi. Mio Dio, pensò Ben impietrito dalla sorpresa, è un robot! Il ferro scricchiolava e gemeva mentre l'automa avanzava minaccioso verso di loro, a braccia alzate e mani aperte. L'intera creatura era formata da placche e giunture di metallo. Un robot! Ma non c'erano robot a Landover, né uomini meccanici di alcun tipo! Nessuno qui aveva mai neanche sentito parlare di una cosa del genere! Willow urlò e capitombolò dal letto, cercando spazio per muoversi. Ben strisciò all'indietro, s'impigliò nelle coperte, e cadde. La sua testa urtò violentemente contro la testiera di legno, e i suoi occhi si riempirono di luci accecanti e lacrime. "Ben!" sentì Willow gridare, ma non riuscì a rispon-
dere. Sapeva che doveva fare qualcosa, ma il colpo alla testa l'aveva scosso tanto da non fargli capire più niente. Un'arma! Aveva bisogno di un'arma! Attraverso il velo delle lacrime vide il robot afferrare Bunion e scagliarlo via come se il coboldo fosse fatto di carta. I piedi di ferro massiccio rimbombavano pesanti e cadenzati sul pavimento mentre il mostro si avvicinava al letto, ne afferrava la spalliera e la strappava via. Il letto crollò con un sobbalzo, e Ben si liberò ruzzolando, cercando di rimettersi in piedi. Bunion attaccò di nuovo, e questa volta il robot lo sbatté via con una manata, con tanta violenza che il coboldo colpì la parete con uno schianto pauroso, piombò al suolo e restò lì immobile. «Ben, chiama il Paladino!» urlo Willow, gettando coperte e pezzi di legno all'indirizzo del mostro in un futile tentativo di rallentarne il passo. Poi apparve l'Ardsheal, spuntando dal buio delle scale ed entrando in volo dalla porta, e aggredì il loro attaccante dal di dietro. La forza del colpo fece barcollare momentaneamente il robot, che poi si voltò. L'Ardsheal affrontò il gigante senza alcun timore, avvinghiandosi a lui nel tentativo di buttarlo giù. Un altro lampo saettò, illuminando i combattenti mentre lottavano per guadagnare terreno sul pavimento della stanza. Willow corse dall'altra parte, cercando di raggiungere Ben. Questi si era rimesso in piedi, ma si appoggiava alla parete più lontana, intontito. Un rivolo di sangue gli scorreva dalla tempia. Cercò a tastoni il medaglione per poter evocare il Paladino, ma con suo sommo orrore non riuscì a trovarlo. Il medaglione e la catenella che lo teneva legato al collo erano scomparsi! Il robot e l'Ardsheal andarono a sbattere contro il muro di pietra, allacciati in un combattimento mortale, avvinghiati in una terribile lotta come grossi orsi. L'Ardsheal serrò le mani su uno dei grossi avambracci metallici del gigante e cercò di torcerlo con forza terrificante. Si udì uno spaventoso scricchiolio di metallo che cedeva, e improvvisamente l'avambraccio e la mano si staccarono e caddero al suolo con uno schianto. Istantaneamente il robot abbracciò l'Ardsheal con tutte e due le braccia, serrò la mano integra sui resti del braccio fracassato e strinse le braccia in una morsa d'acciaio. L'Ardsheal s'irrigidì e gettò indietro la testa. Qualcosa dentro di lui si spezzò con una serie rumorosa di scatti. Willow afferrò un pezzo della porta fracassata, si gettò in avanti con un grido, e sbatté quel randello di fortuna sulla faccia del robot. Il robot non sembrò notarla, ancora tutto concentrato nello sforzo di finire l'Ardsheal. Ben, che aveva recuperato la vista, si slanciò in avanti, ormai lucido. Tirò
via Willow, afferrò una coperta, la lanciò sulla testa del robot e tirò dalle due estremità. Il gigante di metallo girò la testa, poi cominciò a roteare, sempre tenendo saldo l'Ardsheal ferito. Ma uno degli stivali di ferro s'impigliò nella coperta, ed esso inciampò. Per rimettersi in equilibrio, fu costretto a lasciare la presa. Immediatamente l'Ardsheal si liberò. Un liquido scuro gli scorreva giù dalla bocca e dal naso, e le sue giunture sembravano essersi staccate dai perni. Eppure sembrava non risentire delle sue ferite. Rinnovò l'attacco, martellando il robot con i pugni e facendolo arretrare verso le finestre aperte. Mentre il robot vacillava all'indietro, l'Ardsheal si catapultò su di lui con una carica feroce che portò i due combattenti nell'apertura protetta dall'inferriata. La pietra e l'intonaco cedettero sotto l'urto del loro peso combinato, e le sbarre vennero divelte. L'intelaiatura della finestra e parte del muro circostante caddero a pezzi. Poi l'Ardsheal tornò ad avvinghiarsi al robot, lo spinse fino all'apertura e le due creature piombarono fuori nella notte. Ben e Willow raggiunsero lo squarcio battuto dalla pioggia subito dopo, troppo tardi per vederli cadere, ma in tempo per sentirne lo schianto sulle rocce sottostanti e il tonfo nel fiume. La pioggia inzuppò le loro facce e le spalle mentre si sporgevano fuori nel buio, a scrutare in basso. Un lampo saettò, rivelando le mura del castello scivolose di pioggia, le rocce vuote e il fiume in piena. Niente si muoveva sulle rocce. Niente si vedeva nel fiume. Ben ricondusse Willow nella stanza e l'abbracciò forte. Lei affondò la faccia nella sua spalla, e Ben poté sentirla inspirare a pieni polmoni. «Rydall sia dannato!» imprecò lui nel suo orecchio, sforzandosi di non tremare. Lei gli piantò le dita nel braccio e annuì in una feroce, silenziosa approvazione. 13 Gli occhi del drago Fu solo in seguito che Ben scoprì di avere ancora addosso il medaglione. Abbassò gli occhi ed esso era li, appeso al collo con la sua catenella. Per un momento non riuscì a crederci. Lo sollevò e lo fissò. La familiare immagine incisa del Paladino che usciva a cavallo da Sterling Silver all'alba scintillò in risposta. Era tanto sicuro di averlo perso. L'aveva cercato, e
non c'era. «Ben, cosa c'è che non va?» chiese in fretta Willow, vedendo lo sguardo sul suo viso. Lui scosse la testa, lasciando ricadere il medaglione. «Niente, stavo solo...» S'interruppe, confuso. Il colpo alla testa quando era caduto all'indietro doveva averlo stordito più di quanto credesse. Ma ne era stato così sicuro! Aveva allungato la mano per prendere il medaglione, e non c'era! Willow lasciò cadere la questione, andò all'armadio e prese dei vestiti puliti. Qualche secondo dopo, un contingente delle guardie del palazzo vennero alla carica su per le scale, le armi in resta, pronti a rintuzzare l'attacco. Ben e Willow ormai erano impegnati a curare Bunion, e li ignorarono. Il coboldo era parecchio ammaccato, ma sembrava comunque in buone condizioni. I coboldi sono tipetti duri, pensò Ben con ammirazione, sollevato nel constatare che il suo amico non era stato seriamente ferito, e pensando che pressoché chiunque altro al suo posto sarebbe rimasto ucciso. Le guardie del palazzo rovistarono la stanza, guardarono fuori nella notte piovosa dallo squarcio nella parete, e più che altro apparivano a disagio per il fatto stesso di essere costretti a stare li. Era un po' colpa loro se l'attacco era quasi riuscito, e ora temevano le reazioni sia dell'Alto Signore che di Kallendbor al loro mancato intervento. Ben, da parte sua, era troppo preoccupato per perder tempo a lanciare accuse: si stava ancora scervellando sulla subitaneità dell'assalto e sulle circostanze che l'avevano accompagnato. Ma Kallendbor, quando irruppe nella stanza a petto nudo e con la spada in mano, non era affatto conciliante. Dopo aver ascoltato da Ben il racconto succinto dell'attacco, redarguì aspramente chiunque fosse a portata delle sue urla. Poi spedì una pattuglia in ricognizione sulle rive del fiume perché scoprissero se c'era qualche traccia del mostro di Rydall o dell'Ardsheal. Altri soldati li mandò in giro per il castello, perché si assicurassero che non vi erano altre minacce. Ben, Willow e Bunion furono trasferiti in altre stanze, e fu ordinato alle guardie di sorvegliarli strettamente per il resto della notte. Naturalmente sulle spine per quanto era accaduto, e ansioso di evitare ogni ulteriore contatto, Kallendbor bofonchiò un arcigno "buonanotte" e tornò a dormire. Un'esausta Willow seguì subito il suo esempio, imitata da Bunion. Ben, invece, rimase sveglio a lungo a pensare a quest'ultimo mostro. Due cose lo sconcertavano, e non riusciva a spiegarsele. La prima riguardava le circostanze dell'ingresso di quella creatura nel
castello. Come aveva potuto sfuggire alla sorveglianza delle guardie di Kallendbor e dell'Ardsheal? Era impensabile che qualcosa di così grosso e ingombrante potesse passare inosservato. Non avrebbe dovuto neanche superare i cancelli principali. A meno che, naturalmente, non avesse avuto alcun bisogno di attraversarli e fosse entrato nel palazzo per mezzo della magia; che era l'unica conclusione ragionevole. E questo gli fece sorgere il dubbio (benché la cosa apparisse un po' forzata) che la magia fosse stata usata anche nel corso della battaglia, per fargli credere di aver perso il medaglione. Altrimenti, come mai non era riuscito a trovarlo (anche se stordito dal colpo alla testa, anche nella frenesia di quei momenti) se era sempre appeso li al collo? La seconda cosa che lo assillava era che c'era qualcosa di vagamente familiare in quel robot, e non capiva come fosse possibile una cosa del genere. Non c'erano robot a Landover, e, per quanto ne sapeva, nessuno li aveva la più pallida idea di cosa potessero essere. Quindi doveva averlo visto nel suo vecchio mondo, in un film o in un giornaletto o qualcosa del genere, visto che anche laggiù i robot erano più che altro soggetti fantastici. Rovistò fra i suoi ricordi nello sforzo di rintracciare quello giusto, ma nulla gli venne in mente. Quando finalmente si addormentò, quasi al mattino, stava ancora tentando inutilmente di ricordare. Willow lo svegliò verso metà mattinata. I cieli erano di nuovo sereni; le piogge si erano spostate verso est. Lui rimase a letto per un po', a guardare Willow che gli sedeva accanto con lo sguardo basso e sorrideva in quel suo modo peculiarmente leggiadro, e d'impulso prese una decisione. Willow soffriva per la perdita di Mistaya e per la minaccia di Rydall tanto quanto lui. Non era giusto tenerle nascoste le sue riflessioni. Così le disse tutto, anche parte di ciò che non aveva mai rivelato prima a nessuno: che il Paladino e il medaglione erano collegati, che questo evocava quello a difesa dell'Alto Signore. Erano soli nella stanza, poiché Bunion era uscito molto prima per sbrigare degli affari personali, di cui non aveva rivelato la natura. Willow ascoltò attentamente tutto ciò che Ben aveva da dire, poi gli prese le mani e le tenne nelle sue. «Se il medaglione è stato manomesso» disse con calma, seduta sul letto accanto a lui «allora chi l'ha fatto doveva sapere che esso è la chiave per evocare il Paladino.» Lo guardò fisso per un momento. «Chi, oltre a me, sapeva questo?» La risposta era: nessuno. Neanche Questor Thews, che, dopo Ben, era
quello che ne sapeva di più sul medaglione. Quasi tutti sapevano che esso era un marchio distintivo e che apparteneva a chiunque regnasse su Landover come Alto Signore. Pochi sapevano che consentiva al suo possessore di attraversare le nebbie fatate. Soltanto Ben, e adesso Willow, sapevano che esso evocava il Paladino. In quel momento era quasi deciso a rivelarle fino in fondo le proprietà del medaglione, l'ultimo dei suoi segreti, i residui scampoli di verità. Le aveva detto come il medaglione lo legasse al Paladino, come gli consentisse di evocare il campione dell'Alto Signore. Perché non dirle anche che lui e il Paladino erano tutt'uno, che il Paladino era un altro aspetto di se stesso, un lato più oscuro che prendeva forma quando si approssimava la battaglia? Erano parecchie volte che pensava di rivelarle quelle cose. Era l'ultimo segreto sulla magia che non le aveva svelato, e quel fardello gli sembrò improvvisamente quasi insopportabile. Eppure non parlò. Non era pronto. Non era certo. L'immensità di una tale rivelazione avrebbe potuto portare a conseguenze imprevedibili. Non voleva mettere alla prova la dedizione di Willow per lui facendola partecipe di una verità così terribile. Temeva ancora adesso, anche dopo tanto tempo, di poterla perdere. «Dove andiamo ora, Ben?» chiese lei improvvisamente, interrompendo i suoi pensieri. «Non credo che tu abbia intenzione di trattenerti qui, vero?» «No» rispose lui, felice di poter cambiare argomento. «A quanto pare, Kallendbor non può esserci di alcun aiuto, quindi non c'è motivo di restare. Partiremo non appena mi sarò vestito e avremo messo qualcosa sotto i denti. Ma dov'è Bunion?» Il coboldo ritornò alla camera da letto proprio mentre Ben finiva di lavarsi e di vestirsi. La fasciatura fattagli da Willow la notte precedente, che era stata applicata alla peggiore delle sue ferite, un brutto taglio alla testa, era scomparsa. Bunion aveva potuto conservare un forte odore del robot, ed era sceso giù per le scale, seguendo a ritroso il suo percorso di quella notte. Il viaggio era stato breve. Molto dell'odore era stato cancellato dal calpestio delle guardie su e giù per le scale, ma ce n'era rimasto abbastanza per stabilire che il mostro di Rydall si era materializzato dal nulla sul pianerottolo del piano proprio sotto di loro. Ben guardò Willow, poi di nuovo Bunion. Sapevano tutti quello che questa scoperta significava. Bunion li avvisò anche che una minuziosa ricerca condotta nell'Anhalt e sulle sue sponde da parte dei soldati di Kallendbor non aveva rivelato alcuna traccia né dell'attaccante né dell'Ardsheal.
Si fecero portare la colazione e la consumarono in camera, poi prepararono i bagagli e scesero nell'atrio principale. Kallendbor si fece loro incontro, con la faccia arcigna e sottomessa per gli avvenimenti della notte. Ben lo avvisò della loro partenza, e un'ombra di sollievo passò negli occhi dell'altro. Ben non si era aspettato di più, visto che non potevano dirsi amici, anche nel migliore dei casi. Fece i suoi ringraziamenti al padrone di casa per la sua ospitalità e gli fece rinnovare la promessa che si sarebbe fatto vivo se avesse saputo qualcosa di Mistaya o di Rydall. Kallendbor li accompagnò alle porte del palazzo, dove trovarono i cavalli già sellati in attesa. Ben sorrise fra sé. Kallendbor non sarebbe mai stato un bravo giocatore di poker. Montarono in sella e uscirono dai cancelli della fortezza per dirigersi alla volta della città. Attraversarono il ponte sull'Anhalt e puntarono a sudovest, ripercorrendo i propri passi lungo la pista per Sterling Silver. Willow rivolse a Ben uno sguardo interrogativo, chiedendosi di nuovo quali fossero i suoi piani, ma lui si limitò ad alzare un sopracciglio, senza dire parola. Soltanto quando furono ben lontani dal castello e in piena prateria fece fare dietrofront a Giurisdizione e si fermò. «Non volevo che Kallendbor vedesse dove ci stiamo dirigendo veramente» disse a mo' di spiegazione. «E cioè?» «Verso est, alle Lande Sterili, dall'unica creatura ormai che potrebbe sapere qualcosa di Mistaya.» «Ho capito» rispose Willow tranquilla, afferrando al volo. «Con te parlerà. Tu gli piaci.» Lei annuì. «Può darsi.» Rifecero a ritroso il percorso fino all'Anhalt e seguirono il fiume per il resto della giornata. Prima di notte avevano raggiunto i margini delle Lande Sterili. Fecero il campo lì, trovando riparo in un frassineto su una collina che forniva un buon colpo d'occhio onnidirezionale sul territorio circostante. Mangiarono una cena fredda. Bunion si offrì di montare la guardia per tutta la notte, ma Ben non volle sentirne parlare. Anche il coboldo aveva bisogno di riposare, se voleva essere di aiuto nel caso fosse stato sferrato un nuovo attacco, il che non era affatto improbabile, visti gli ultimi avvenimenti. Poiché dipendevano tutti uno dall'altro, avrebbero diviso le responsabilità, insisté Ben. Quella notte non ci furono mostri, e Ben dormì indisturbato. Al mattino si sentiva ritemprato. Anche Willow appariva riposata. Tutti e tre si stava-
no preparando a quello che li attendeva. Anche Bunion si era fatto un quadro della situazione. Andò in avanscoperta mentre Ben e Willow seguivano a un'andatura più tranquilla. Si lasciarono le Pianure alle spalle e si addentrarono nelle Lande Sterili. La giornata era di nuovo nuvolosa e grigia, ma non sembrava minacciare pioggia. Anche senza il sole, l'aria era secca e calda, il terreno crepato e riarso, e la regione in cui si trovavano era priva di vita e immota come se fosse morta. Per mezzogiorno erano ben addentro nelle Lande, e Bunion fece ritorno per avvisarli che le Fonti di Fiamma erano proprio davanti a loro e che il Drago Strabo era lì. «Se c'è qualcuno che può conoscere Rydall, quello è Strabo» disse Ben a Willow mentre cavalcavano sulle aspre colline che circondavano le Fonti. «Strabo può andare dove vuole, e potrebbe essere capitato a Marnhull dopo aver attraversato a volo le nebbie fatate. In ogni caso, vale la pena di chiederglielo. Purché sia tu, a parlare con lui.» Strabo non aveva molta simpatia per Holiday, benché i loro rapporti fossero adesso meno freddi di un tempo, dopo la loro avventura nella Scatola Magica. Ma per Willow, il Drago nutriva una sincera propensione. Non perdeva occasione per dichiarare che i draghi avevano sempre avuto un debole per le belle damigelle, anche se qualche volta questa loro passione era stata fraintesa e si era sparsa la voce che preferissero piuttosto divorarle. Troppo vanitoso per ammettere la sua confusione in materia, si era lasciato comunque sedurre dalla silfide in più di un'occasione. Tuttavia, una visita alle Fonti di Fiamma restava comunque un'esperienza imprevedibile e incerta, e il drago Strabo non era certo un soggetto accomodante. Quando furono abbastanza vicini da sentire il calore dei pozzi, molto tempo dopo aver avvistato il fumo e avvertito l'odore, smontarono, impastoiarono i cavalli e proseguirono a piedi. Era arduo procedere sulle colline accidentate e desolate e fra i canaloni cosparsi di rocce. Bunion faceva strada come al solito, ma adesso stava loro più vicino. Camminavano da pochi minuti quando udirono un rumore di ossa fracassate. Bunion guardò di sopra la spalla e mise in mostra la chiostra dei denti in un sorriso senza allegria. Il drago stava mangiando. Poi giunsero in vetta a un crinale e lo videro. Stava acciambellato attorno alla bocca di una delle Fonti, con la sua mole di dodici metri di lunghezza nera come l'inchiostro, tutta tempestata di scaglie e aculei: un corpo poderoso, alternativamente liscio e nodoso. Si
stava cibando dei resti di quella che sembrava essere stata una vacca, benché fosse arduo stabilirlo dato che il drago aveva divorato quasi tutta la carcassa, escluse le zampe e un lombo. Le zanne annerite e minacciose brillarono nell'addentare un grosso osso, ripulendolo degli ultimi brandelli di carne. Gli occhi gialli, incappucciati da strane palpebre rossastre, erano puntati sull'osso, ma quando i nuovi venuti spuntarono dalla cresta per entrare nel suo campo visivo, il testone massiccio e cornuto si sollevò e fece un mezzo giro. «Una visita?» sibilò in maniera non precisamente invitante. Gli occhi gialli si allargarono e poi si strinsero. «Ah, Holiday, sei tu. Che noia. Cosa vuoi?» La voce era bassa e gutturale, caratterizzata da un fischio sibilante. «Aspetta, non dirmelo, fammi indovinare. Vuoi notizie su questa vacca. Hai fatto tutta la strada dagli agi del tuo luccicante castelluccio per venire a farmi una ramanzina su questa vacca. Be', risparmia il fiato. La vacca in questione si è persa. Si è spinta nelle Lande Sterili, e quindi è diventata mia. Dunque, niente predicozzi, ti prego.» Era sempre una sorpresa per Ben il fatto che il drago potesse parlare. Era qualcosa che cozzava contro ogni nozione acquisita nel suo vecchio mondo. Ma, d'altra parte, in quel mondo non c'erano neanche, i draghi. «Della vacca non m'interessa nulla» replicò Ben. Una volta aveva fatto promettere a Strabo che avrebbe smesso di rubare bestiame. Le fauci del drago si allargarono a dismisura, e ne uscì una specie di risata. «No? Be', in questo caso ti posso confessare che non era proprio entro i confini delle Lande quando me ne sono impadronito. Ecco, ora mi sento meglio. La verità ti renderà libero.» Strinse di nuovo gli occhi. «Bene, bene. Chi c'è con te, Holiday, la bella silfide?» Non chiamava mai Ben "Alto Signore". «Me l'hai portata in visita? No, non avresti mai tutti quei riguardi. Devi essere qui per qualche altra ragione. Di che si tratta?» Ben sospirò. «Siamo venuti a chiedere...» «Aspetta, hai interrotto la mia cena.» Le froge del drago sbuffarono, e ne seguì un rude colpo di tosse. «Educazione in tutte le cose. Vi prego, accomodatevi finché non avrò finito. Poi ascolterò quello che avete da dirmi. Se sarete brevi.» Ben guardò Willow, e con riluttanza si sedettero sulla collinetta con Bunion, in attesa che Strabo terminasse il suo pasto. Il drago se la prese comoda, frantumando ogni singolo osso e divorando fino all'ultimo rimasuglio di polpa, risparmiando solo gli zoccoli e le corna. Si dedicò alla cosa con ostentata minuziosità, schioccando le labbra e grugnendo di soddisfa-
zione a ogni morso. Fu una esibizione interminabile, e produsse l'effetto desiderato. Ben era così spazientito quando il drago ebbe finito che riusciva a stento a contenere la collera. Strabo gettò via uno zoccolo residuo e sollevò gli occhi in uno sguardo interrogativo. «Allora, sentiamo cosa avete da dirmi.» Ben cercò di trattenersi dal digrignare i denti. «Siamo venuti a chiedere il tuo aiuto per una faccenda» esordì, e poi dovette fermarsi. «Risparmia il fiato, Holiday» lo interruppe il drago, con un cenno brusco della zampa anteriore. «Ti ho già dato tutto l'aiuto che potevi aspettarti da me nel corso della tua vita; anzi, ancora di più di quanto ti sia mai meritato.» «Almeno prestami ascolto» lo pressò irritato Ben. «Devo?» Il drago cambiò posizione, come se cercasse di mettersi comodo. «Be', per amore della giovane e bella donzella lo farò.» Ben decise di andare al sodo. «Mistaya è scomparsa. Noi pensiamo che sia stata fatta prigioniera dal Re Rydall di Marnhull. Almeno lui afferma di averlo fatto. Stiamo tentando di ritrovarla.» Strabo lo fissò un momento senza parlare. «Si suppone che io debba sapere di cosa stai parlando? Mistaya? Rydall di Marnhull? Chi sarebbero queste persone?» «Mistaya è nostra figlia» disse Willow in fretta, intervenendo per evitare che Ben perdesse del tutto la pazienza. «Lei aiutò Ben a trovarci quando io la stavo portando fuori del Pozzo Infido.» «Ah, si, ricordo.» Il drago sorrise. «Povero me, che memoria! E l'avete chiamata Mistaya? Molto carino. Mi piace questo nome. Il suo suono promette una bellezza pari a quella di sua madre.» Vomitevole, pensò Ben inviperito, ma tenne la bocca chiusa. «È una bambina bellissima» confermò Willow, tenendo concentrata su di sé l'attenzione del drago. «Le voglio un bene dell'anima e sono decisa a riportarla a casa sana e salva.» «Lo credo bene» affermò indignato Strabo. «Chi è questo Re Rydall che l'ha rapita?» «Non lo sappiamo. Speravamo che lei ci potesse aiutare.» Willow fece una pausa. Strabo scosse lentamente il testone cornuto. «No. No, non mi pare. Non ne ho mai sentito parlare. L'ennesimo di una lunga lista di Re minori, suppongo. Ce ne sono a centinaia, letteralmente, tutti a far bella mostra di sé, tutti a pavoneggiarsi come se potessero far colpo anche solo per un minuto
su chiunque abbia un minimo di lignaggio.» Lanciò un'occhiata eloquente a Holiday. «Comunque, chiunque sia, non lo conosco. E viene da un posto chiamato Marnhull? Davvero? Marnhull? La parola mi fa venire in mente il contenuto di una noce.» Il drago scoppiò in una risata fragorosa, che culminò in un rantolo soffocato mentre cadeva all'indietro in una delle Fonti di Fiamma, sollevando una nuvola di cenere e di roccia sbriciolata. Si tirò su con visibile sforzo. «Marnhull! Ridicolo!» «Allora non hai mai sentito né l'uno né l'altro nome?» lo incalzò Ben, non più in grado di tenere la bocca chiusa. «Mai.» Strabo soffiò sporco e vapore dalle narici. «Non esistono, nessuno dei due.» «E fuori di Landover, oltre le nebbie fatate?» incalzò Ben, incredulo. «Neanche li?» Il grosso testone nero fece una brusca rotazione. «Holiday, adesso ascoltami bene. Io ho viaggiato per tutte le terre che siano mai esistite, e in qualcun'altra ancora. Ho visitato tutti i paesi che circondano le nebbie. Sono stato molto più in là. Ho vissuto a lungo, e viaggiare mi è sempre piaciuto... specialmente quando trovo un posto dove non sono il benvenuto e posso nutrirmi dei suoi abitanti.» Gli occhi gialli si chiusero. «Allora. Se esistesse una terra chiamata Marnhull, io l'avrei trovata. Se un re esistesse, di nome Rydall, io l'avrei saputo. Così non è. Quindi, non esistono.» «Di certo esiste qualcuno che si fa chiamare Re Rydall, visto che è venuto due volte a Sterling Silver a minacciarmi affermando che Mistaya è nelle sue mani, e ha promesso di mandare dei mostri che cercheranno di uccidermi!» La pazienza di Ben era agli sgoccioli. «Mistaya è scomparsa, e io sono stato attaccato già tre volte! Qualcosa sta accadendo, non credi?» «Non credo» dichiarò il drago con studiata indifferenza «visto che non so di cosa tu stia parlando. Ho ben altro da fare che stare a sentire i pettegolezzi locali. Se sei stato attaccato, la cosa mi giunge nuova. Ed è una cosa piuttosto irrilevante, aggiungerei.» Willow prese Ben da un braccio e lo tirò delicatamente via, poi fece un passo avanti a fronteggiare il drago. «Strabo, mi ascolti, la prego. Mi rendo conto che quanto le stiamo dicendo è di ben poco interesse per lei. Lei è impegnato in affari molto più importanti dei nostri. E se dice di non aver mai sentito di Rydall o di Marnhull deve essere così. Tutti sanno che i draghi non mentono mai.»
Questa era la prima volta che Ben sentiva una cosa del genere, ma Strabo sembrò compiacersene, e mostrò la sua approvazione con un galante cenno del capo. «Adesso devo chiederle, in nome dell'amicizia che un tempo ci ha uniti» proseguì Willow «di aiutarmi a trovare mia figlia. È scomparsa, e abbiamo perlustrato tutta Landover alla sua ricerca, senza successo. Abbiamo parlato con chiunque ci sia venuto in mente nel tentativo di scoprire dove si trova. Nessuno ci ha potuto aiutare. Lei è la nostra ultima speranza. Pensavamo che se c'era qualcuno che potesse conoscere Rydall o Marnhull, quello doveva essere lei. La prego, c'è qualcosa che potrebbe dirci, una cosa qualsiasi che potrebbe esserci d'aiuto? C'è qualcuno di sua conoscenza che potrebbe essere Rydall? O qualche luogo che potrebbe essere Marnhull?» Il drago rimase a lungo in silenzio. Tutt'attorno a lui, le Fonti di Fiamma eruttavano e tossivano, sputando ceneri e fumo. Il grigiore del giorno s'infittì mentre il sole si spostava a occidente, e le nubi s'ingolfavano nei cieli a formare una coltre spessa e ininterrotta. Sotto le nubi e il fumo, il paesaggio si stendeva in una opprimente solitudine, brullo e desolato. «Io ci tengo molto, alla mia privacy» disse infine Strabo. «Ecco perché vivo qui, sapete.» «Lo so» riconobbe Willow. Il drago sospirò. «Molto bene. Ditemi qualcos'altro di questo Rydall. Ditemi qualsiasi cosa sappiate o sospettiate.» Willow lo fece, senza tralasciare alcunché tranne le informazioni sul medaglione. Quando ebbe finito, Strabo meditò ancora un po'. «Bene, Holiday» disse poi pacato «sembra che io debba aiutarti ancora una volta, anche se questo mi ripugna non poco. L'aiuto che ti offrirò, comunque, sarà dovuto esclusivamente al considerevole affetto che nutro per l'avvenente silfide.» Si schiarì la gola. «Niente attraversa le nebbie fatate che io non sappia. È semplicemente così che vanno le cose. I draghi hanno vista e udito eccellenti, e niente sfugge alla loro attenzione.» Fece una pausa, pensoso. «Purché essi lo ritengano degno della loro attenzione, s'intende.» Sembrò rammentarsi del suo precedente diniego per quanto riguardava la conoscenza dei fatti accaduti a Sterling Silver. «Comunque, nessuno ha attraversato le nebbie di recente. Ma anche se mi sbagliassi (e suppongo che un momento di disattenzione potrebbe essermi capitato proprio mentre passava Rydall o chiunque altro) ci sarebbe ancora una traccia visibile di quel
passaggio. In parole povere, potrei scoprirlo comunque.» Rivolse loro un largo sorriso e aggiunse «Se decidessi di farlo.» Piegò la sua orrida testa verso Willow. «Mi chiedevo, mia Signora, se mi farebbe l'onore di offrirmi una delle sue squisite canzoni. Ogni tanto sento la mancanza del suono di una voce di ragazza.» Era questa la cosa che più desiderava al mondo: un tempo non avrebbe avuto il coraggio di chiederlo, ma ora sembrava aver superato quell'imbarazzo. Willow se l'era immaginato. In passato, la causa principale del suo fascino presso il drago era stato il canto, quindi non esitò a ricorrervi anche in questa occasione. C'era un implicito accordo, in atto, e il prezzo che il drago stava chiedendo in cambio del suo aiuto non era certamente alto. Willow cantò di prati e fiori di campo pieni di fanciulle danzanti e di un drago che era signore di tutto. Ben non aveva mai sentito quel canto, e lo trovò sdolcinato anzichenò, ma Strabo adagiò la testa cornuta sul ciglio di una delle Fonti e assunse un'espressione sognante. Quando Willow finì di cantare, il drago si era sciolto come neve al sole. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi a lanterna. «Quando tornerà dalla sua ricerca» gli disse lei ad alta voce, rammentandogli i termini del contratto «canterò un'altra canzone per lei, in segno di gratitudine.» La testa di Strabo si sollevò lentamente dal suo giaciglio, e i denti si profusero in un tentativo, pateticamente vano, di sorriso. «Je t'adore» dichiarò, languido. Senza altre parole, spiegò le grandi ali staccandole dal corpo serpentino e si levò in cielo, allontanandosi descrivendo ampi cerchi a spirale finché non fu tanto lontano da scomparire alla vista. Attesero per il resto della giornata e per tutta la notte il suo ritorno. Bunion andò a prendere le coperte, e tutti e tre fecero i turni di guardia, sistemati su un lato delle Fonti di Fiamma con il vento a favore, in modo da non dover respirare il fumo e la fuliggine. Lingue di fiamma si levavano dai crateri, e la roccia fusa gorgogliava a intervalli regolari, frustrando ogni loro tentativo di prendere sonno. A momenti il calore era intenso, e si attenuava solo quando una lieve brezza passava su di loro nel suo viaggio in cerca di un posto migliore. Ma erano abbastanza al sicuro, perché nulla avrebbe osato avventurarsi nella tana del drago. Era quasi l'alba quando Strabo tornò. Sbucò da un cielo in cui le lune di Landover erano già tramontate e le stelle stavano svanendo per lasciar po-
sto a un vago chiarore a oriente: la sua sagoma era una massiccia ombra scura che avrebbe potuto essere un trancio di cielo inaspettatamente strappato. Si diresse a terra con movimenti fluidi e delicati come una gigantesca farfalla, senza rumore, senza sforzo, a dispetto della mole mostruosa. «Signora» salutò Willow con la sua voce profonda e gracchiante. C'erano stanchezza e rammarico in quell'unica parola. «Ho volato sui quattro confini del paese, dalle Fonti di Fiamma ai Melchor, dalle Pianure alla regione dei laghi, da una catena di montagne e di nebbie all'altra. Ho perlustrato tutta la linea di demarcazione fra Landover e i mondi fatati. Ho fiutato tutte le tracce, studiato tutte le impronte, e investigato il minimo segnale. Non c'è traccia di Rydall di Marnhull. Non c'è traccia di vostra figlia.» «Nessuna?» chiese pacatamente Willow, come se si aspettasse che l'altro potesse ritrattare le sue affermazioni. La testa nodosa del drago oscillò. «Nessuno ha attraversato le nebbie nei giorni scorsi. Nessuno.» Sbadigliò, mostrando file su file di denti neri e storti. «Adesso, se volete scusarmi, avrei bisogno di dormire. Spiacente, ma non posso fare di più. Vi sciolgo dalla vostra promessa di cantare ancora. Mi rincresce dire che sono troppo stanco per poter ascoltare. Arrivederci a voi. Arrivederci, Holiday. Torna a trovarmi, qualche volta, ma non tanto presto, d'accordo?» Strisciò tra le rocce, si fece strada serpeggiando tra i crateri ribollenti, si acciambellò in mezzo ai detriti, e immediatamente prese a ronfare. Ben e Willow si guardarono in faccia. «Non ci capisco niente» disse infine Ben. «Com'è possibile che non ci sia la minima traccia?» Il volto di Willow era pallido e tirato. «Se Rydall non è venuto dalle nebbie, da dove è venuto? Dov'è adesso? Cosa ne ha fatto di Mistaya?» Ben scosse lentamente la testa. «Non lo so.» Si chinò a raccogliere la coperta e cominciò a ripiegarla. «So soltanto che qualcosa in tutta questa storia non va, e in un modo o nell'altro ne verrò a capo.» Prendendo la mano di Willow nella sua, e preceduto da Bunion che faceva da battistrada come sempre, girò sconsolato le spalle alle Fonti di Fiamma e al drago addormentato, e si avviò verso i cavalli. 14 Il vorme Uscirono dalla zona delle Fonti di Fiamma per inoltrarsi di nuovo nelle
Lande Sterili, in direzione ovest. Il sole faceva capolino sull'orizzonte dietro di loro, una pallida sfera bianca, offuscata dalla nebbia e dalle nubi e dalla pesantezza della calura nell'aria estiva. Era già caldo e minacciava ancora peggio. Le nubi si appressavano da occidente, cominciando ad addensarsi una sull'altra e promettendo di trasformarsi in pioggia prima della fine del giorno. Davanti ai viaggiatori la terra si stendeva dura e desolata. Ben cavalcava in silenzio, con l'umore tetro e disperato quanto la terra che attraversava. Ostentava coraggio, ma sapeva di aver giocato tutte le sue carte. Strabo era stato la sua ultima speranza. Ora che il drago aveva ammesso di non poter trovare Rydall, si trovava di fronte alla sconsolante prospettiva che Rydall fosse introvabile. E se non poteva trovare Rydall, non aveva speranza di trovare Mistaya, né Questor Thews, né Abernathy. Nel caso malaugurato che le cose fossero andate così, non avrebbe avuto altra scelta che tornare a Sterling Silver e mettersi a sedere in attesa che fossero gli altri mostri di Rydall a trovare lui. Tre sconfitti, e altri quattro da incontrare: non era un pensiero confortante. Già parecchie volte era stato sul punto di capitolare (non lui, si corresse, il Paladino: ma era la stessa cosa). Non pensava di poter sopravvivere ad altri quattro scontri; e, ammesso che ci fosse riuscito, non era davvero convinto di poter rivedere Mistaya. Era un pensiero terribile, e si maledisse in silenzio per averlo pensato. Ma era vero. Era ciò che credeva. Rydall non era il tipo da tener fede a un patto: non quest'uomo che divorava paesi, che mandava mostri a uccidere i loro Re, e che rapiva bambini da usare come ostaggi. No, Rydall giocava con le sue vittime, e quando si giocano giochi di questo genere si sta ben attenti a farsi da sé tutte le regole, in modo da non perdere mai. Non aveva importanza se il Paladino avrebbe sconfitto i sette sfidanti o meno. Mistaya non sarebbe tornata. A meno che Ben non l'avesse trovata e non l'avesse riportata a casa per conto suo. Il che, al momento, sembrava una cosa quanto mai improbabile. Pensò a quel che gli aveva riferito Strabo. Non c'era traccia del passaggio di Rydall nelle nebbie fatate. Non c'era traccia di Mistaya. Allora, questo cosa stava a significare? Che Rydall aveva mentito? Che a Strabo era sfuggito qualcosa? Ma Rydall aveva detto di essere venuto attraverso le nebbie. Aveva detto che il suo esercito era pronto a seguirlo. Anche quello attraverso le nebbie fatate. Forse, pensò Ben all'improvviso, il compagno di Rydall dalla cappa nera aveva della magia che facilitava tutto questo e
cancellava ogni traccia. Forse la magia era tale che poteva occultare il punto del passaggio. Ma Strabo non avrebbe trovato qualche segno di quella magia? Niente sfuggiva al drago. Possibile che Rydall fosse riuscito a fare quello che nessun altro poteva, e avesse ingannato la bestia? Poi a Ben venne in mente che c'era un altro modo per entrare in Landover, una via di cui si era dimenticato: il mondo demoniaco di Abaddon. Possibile che Rydall si fosse insinuato da quella parte? Ma, per fare questo, avrebbe dovuto evitare i demoni. O guadagnarsi il loro appoggio, come aveva fatto il Gorse, promettendo loro qualcosa in cambio. Era possibile che il Re di Marnhull avesse fatto questo? Non sembrava probabile. I demoni odiavano gli umani; non facevano mai accordi con loro se proprio non vi erano costretti. Un conto era allearsi con il Gorse, creatura imbevuta di magia nera, un altro era coalizzarsi con qualcuno come Rydall. Inoltre, Rydall aveva detto che per venire a Landover aveva attraversato le nebbie, e quello era un passaggio che non aveva niente a che vedere con il mondo infernale di Abaddon. Giurisdizione procedeva al passo, badando a poggiare bene gli zoccoli sul terreno roccioso, muovendosi così lentamente che dava quasi l'impressione di non avanzare affatto. Ben era assente, perso nei suoi pensieri. Willow gli cavalcava al fianco, guardandolo in faccia, evitando di distrarlo. Bunion camminava accanto a loro, spostando continuamente gli occhi brillanti da uno all'altra, per poi fissarli sul territorio desolato che avevano davanti. Non erano affari suoi. Alle loro spalle le Fonti di Fiamma erano scomparse nella curva dell'orizzonte, lasciando poco più di una macchia nera di fumo e cenere contro il cielo. Un corvo dagli occhi rossi sbucò fuori dalla notte che si stava rifugiando a occidente, e volò descrivendo pigri cerchi sulle loro teste, invisibile. Ben si stava spremendo le meningi per venire a capo di quel mistero. C'era di sicuro qualcosa che aveva tralasciato, o su cui si era sbagliato, o che non era stato in grado di riconoscere: qualcosa che lo avrebbe condotto da Rydall. Forse stava affrontando la cosa nel modo sbagliato. Supponiamo per un momento, si disse, che Rydall abbia mentito sulla sua identità, sui suoi titoli e sul suo luogo di provenienza. Era una supposizione abbastanza sensata, considerata la sua predilezione per i giochi. Inventa le regole di un gioco, mettile in atto e aspetta di vedere i risultati: sembrava una congettura abbastanza in linea con quanto sapeva di Rydall. La domanda che si era posto in un primo momento, e che aveva poi accantonato era: perché Rydall stava facendo tutto questo? Era lo stesso interrogativo
che si era posto il Signore del Fiume. Perché il Re di Marnhull mandava mostri a sfidare Ben invece di limitarsi a chiedere la sua vita in cambio di quella di Mistaya? Perché stava perdendo tanto tempo a sfidare il Paladino a singolar tenzone quando avrebbe potuto con altrettanta facilità marciare col suo esercito su Landover e prenderla con la forza? Per evitare spargimenti di sangue e di vite umane? Non sembrava probabile. In effetti (ma questa gli sembrava effettivamente una forzatura) Ben stava cominciando a chiedersi se Rydall avesse davvero qualche mira su Landover. La verità era che tutto quell'affare cominciava ad apparirgli qualcosa di prettamente personale. Ben non riusciva a sondarne il perché, ma ne aveva la netta sensazione. C'era qualcosa in quei mostri, nella natura della loro magia, e nei modi del loro attacco. Qualcosa. Rydall sembrava voler colpire non tanto l'Alto Signore in quanto Re di Landover, ma piuttosto Ben Holiday come persona, in sé e per sé. Landover appariva quasi un pretesto, una pedina da giocare per poi mettere da parte. Rydall non sembrava avere alcuna fretta di portare a termine la sua conquista. Non erano stati imposti limiti di tempo riguardo alla detronizzazione, e nessun accenno era stato fatto sui presunti tempi del passaggio delle consegne. L'unica cosa che sembrava contare erano le sfide. Perché Rydall stava sprecando tanto tempo se tutto ciò che voleva era persuadere Ben ad abdicare? Non immaginava che il Re l'avrebbe fatto comunque, se non c'era altro modo per riavere sua figlia? Non era così? Guardò in fretta Willow, trafitto da un lancinante senso di colpa per aver messo in dubbio la risposta. Lei gli restituiva lo sguardo, ma non c'era ombra di condanna o di sospetto nei suoi occhi verdi; soltanto preoccupazione e tristezza e, alla base di tutto, amore incrollabile. Improvvisamente provò vergogna. Conosceva la risposta, non era così? Quando Annie, sua moglie laggiù nel vecchio mondo, era morta assieme al bimbo che portava in grembo, lui aveva creduto di non potersi più riprendere; erano scomparsi, e lui non avrebbe mai potuto farli tornare. Adesso aveva Willow e Mistaya, e non poteva sopportare l'idea di perdere anche loro. Avrebbe rinunciato a tutto, pur di tenere loro. Si era giunti a metà mattinata, e le Lande Sterili tremolavano sotto la calura accecante. Ben si rivolse a Willow. «Ancora un miglio e ci fermeremo a riposare» le disse. «E a parlare un po'.»
Lei annuì senza dire niente. Continuarono lentamente a cavalcare. In alto, il corvo dagli occhi rossi fece una virata nella direzione dalla quale era venuto, e scomparve. La Strega del Crepuscolo volò velocemente fino alla gola che Holiday e i suoi compagni avrebbero dovuto attraversare, tenendo stretto nel becco il vorme che si dibatteva. Non riusciva quasi a contenere la rabbia. Aveva aspettato tutta la notte il suo arrivo, convinta che sarebbe stato costretto a tornare subito indietro, sicura com'era che il drago non l'avrebbe aiutato e l'avrebbe scacciato. Invece, la bestia era andata a caccia per lui (a caccia, come uno stupido cane!) e Holiday non era tornato indietro come previsto, ma aveva fatto il campo presso le Fonti di Fiamma, un posto che era pericoloso perfino per la sua formidabile magia. Così era stata costretta ad aspettare, a passare tutta la notte nelle Lande Sterili per non perdere di vista la preda. Come in risposta alla sua collera, il vorme si attorcigliò attorno al suo becco e cercò di morderla. Lei rise fra sé al vederlo digrignare i minuscoli denti. Un tempo era stato un verme qualsiasi, grasso e viscido e indolente. Adesso era la sua creatura e avrebbe assolto al compito cui lo aveva destinato, diventando il quarto mostro di Rydall. Era ancora sconcertata dal fatto che ci fosse stato bisogno di arrivare a quel punto. Il robot sarebbe stato sufficiente, se non fosse stato per l'Ardsheal. Che il Signore del Fiume, anche se c'era di mezzo sua nipote, dovesse offrire il suo appoggio a Holiday, era una cosa che la faceva infuriare. Holiday non era certo più amico del Signore del Fiume di quanto lo fosse del drago. Perché questi nemici dichiarati continuavano a offrire aiuti al Re-fantoccio e a interferire con i suoi piani? Che follia era questa? D'altra parte, pensava, cercando di vedere le cose sotto una luce migliore, che fin dall'inizio si era augurata che Holiday sopravvivesse fino al particolare epilogo che lei aveva concepito per lui, la fine che sarebbe venuta per mano della stessa Mistaya. Se fosse morto prima le avrebbe tolto una parte del piacere. E la comparsa dell'Ardsheal le aveva fornito nuova materia d'ispirazione per giocare con il perseguitato Alto Signore di Landover. Dopotutto, niente era perduto, giusto? Scese sulla spianata e planò nell'ombra di una gola che si apriva tra due alte colline che bloccavano il passo a oriente e a occidente. Holiday e i suoi compagni erano passati da quella gola per andare dal drago; le im-
pronte dei cavalli parlavano piuttosto chiaro. Sarebbero tornati per la stessa strada. Ma questa volta lei avrebbe fatto in modo che ci fosse il vorme ad aspettarli. Saltellò sul terreno con le sue zampette da uccello fino alla piccola pozza di acqua stagnante che si trovava all'ombra delle rocce e che il calore del giorno non aveva ancora fatto evaporare. Un po' d'acqua era tutto quel che ci voleva; soltanto un pochino, sarebbe stata più che sufficiente. Tenne il vorme sull'acqua, guardandolo mentre si divincolava per liberarsi. Era stanca di tenerlo. Era già seccante aver dovuto fare tutto il percorso fino alle Lande Sterili in forma non-umana, non avendo osato far uso della magia per timore di poter rivelare la propria presenza e mandare a monte il gioco. Ma tenere salda la presa su quel mostriciattolo per tanto tempo era veramente troppo. La notte precedente aveva potuto mollarlo, lasciandolo al sicuro sulle rocce dove il terreno era duro e roccioso e non offriva alla creatura nessuna via di fuga. Adesso era pronta a lasciarlo definitivamente. Stava pensando che le sarebbe piaciuto trattenersi da quelle parti per assistere allo spettacolo, ma era già troppo tempo che mancava dal Pozzo Infido, e non le piaceva lasciare la ragazza da sola. Mistaya diventava sempre più insofferente al tipo di lezioni che le impartiva ultimamente, e ai limiti che le venivano imposti. In effetti, il vorme era stata un'idea della Strega del Crepuscolo, concepita quando la ragazza si era dimostrata incapace di creare qualcosa di nuovo. Era ancora obbediente, ma c'erano dei segni che indicavano come la ragazza ormai mal sopportasse le regole che la strega le aveva imposto. Mistaya era incredibilmente dotata, sia per creatività che per talento, e sotto la tutela della strega le sue capacità di mettere in pratica la magia erano diventate formidabili. Se mai le fosse venuto in mente di sfidare la Strega del Crepuscolo... La strega scacciò quel pensiero con una smorfia. Non aveva paura di Mistaya. Non aveva paura di nessuno. Ma un po' di cautela non guastava. Prese la sua decisione. Era meglio tornare al Pozzo Infido il più presto possibile. Era meglio accertarsi che Mistaya non uscisse dalla retta via. Lasciò cadere il vorme nella pozza d'acqua e lo guardò affondare. Poi volò via rapidamente. Ben Holiday scrutò in lontananza, avvistando la gola che portava attraverso le accidentate colline delle Lande Sterili fino alle pianure aldilà. La luce era così scarsa, la sua chiarezza così offuscata dal calore e dalla neb-
bia, che tutto appariva vago e distorto. Perfino l'orizzonte tremolava come se fosse un miraggio che minacciava di dissolversi da un momento all'altro. Davanti a loro, la gola era un ammasso di ombre impenetrabili. Guidò Giurisdizione verso l'imbocco, con la mente presa da altre cose. Stava ripensando a quel robot. Perché era così familiare? Dove l'aveva visto? Ormai era assolutamente certo di questo, e gli sembrava d'impazzire nello sforzo di ricordare. A complicare le cose ci si metteva anche il sospetto, sempre più forte, di aver già visto anche gli altri mostri di Rydall. E ora era pronto a scommettere, dopo aver a lungo riflettuto, che li aveva visti dopo essere venuto a Landover. Eppure, come poteva essere? Non poteva averli visti vivi; se lo sarebbe ricordato. Forse Questor o Abernathy gliene avevano parlato? Qualcuno glieli aveva descritti? Aveva visto un disegno o una foto? Raggiunsero i margini delle ombre che segnavano l'imbocco della gola. Più avanti, il passaggio era scuro e vuoto. Ben spinse avanti Giurisdizione, mentre lo stomaco brontolava pregustando il pranzo imminente. All'improvviso Bunion lanciò un cinguettio d'allarme. Ben diede un'occhiata al coboldo, che stava guardando indietro, nel punto da cui erano venuti. Ne seguì lo sguardo, schermando gli occhi per proteggerli dal riverbero del sole. Dapprincipio non vide nulla. Poi intravide una piccola macchia nera che si stagliava bassa sull'orizzonte. La macchia sembrava ingrandirsi. Ben strinse gli occhi, incerto. «Cosa diavolo è...» Fu tutto quello che riuscì a dire: un attimo dopo il suolo davanti a loro eruttò una pioggia di terra e pietrisco, e qualcosa di immenso e di scuro si levò dalle ombre fonde della gola. Bunion si catapultò su Gru, strappando Willow dalla sella un istante prima che il cavallo fosse inghiottito tutto intero dalla cosa davanti a lui. Ci fu un urlo terrificante e un rumore di ossa infrante. La polvere e il calore riempivano l'aria. Giurisdizione balzò via in preda al panico, evitando di un pelo le mostruose fauci che adesso cercavano di azzannare lui, mentre si avventavano alla testa di Ben con feroce determinazione. Ben si aggrappò al cavallo imbizzarrito, riuscendo appena a intravedere la cosa che li stava attaccando: una sorta di mostruoso serpente, senza testa, senza occhi, tutto zanne e fauci, con il corpo purpureo liscio e fatto ad anelli, come... Come quello di un verme, dannazione! Ben portò istintivamente la mano al medaglione, ma Giurisdizione arretrava così violentemente, arrampicandosi sull'erta di una ripida altura,
scartando e scalciando preso dal terrore, che dovette rinunciare al tentativo e aggrapparsi alla sella e alle redini con tutt'e due le mani per non farsi disarcionare. Vide Bunion e Willow inerpicarsi sull'altra parete della gola per gettarsi fra le rocce. Il mostro si tuffò improvvisamente nel terreno, a strisciare nel sottosuolo, con l'enorme massa che scompariva come quella di una balena sotto la superficie del mare. Si spinse in basso, e la terra si sollevava su di esso mentre scavava la sua galleria, una galleria che conduceva direttamente a Ben. Ben spronò disperatamente Giurisdizione, tentando di spingere il cavallo giù per la china. Ma Giurisdizione era totalmente in preda al panico e il suo unico impulso era di salire ancora più in alto. Era una battaglia impari, gli zoccoli del cavallo slittavano senza speranza sui detriti di terra e roccia, e ogni progresso era impossibile. Ben fece scartare il cavallo e lo spinse lungo il fianco del pendio parallelo al crinale, sperando ancora di poterlo dirigere verso il basso. Alle loro spalle la terra si gonfiò deformandosi, segno che il mostro si voltava per seguirli. La distanza era di loro era ormai colmata. Preso dalla disperazione Ben mollò la presa sulla sella e tentò di afferrare il medaglione. Ma proprio in quel momento Giurisdizione inciampò e cadde, mandandolo a ruzzolare nella sterpaglia. Il cavallo terrorizzato si rimise immediatamente in piedi e stavolta si lanciò giù per la china, cercando una via di scampo. Ben non fu altrettanto fortunato. Stordito e ferito dalla caduta, si tirò faticosamente in piedi e cominciò a correre in avanti, senza avere alcuna idea di che cosa cercasse di raggiungere, cosciente solo che l'orrore sotterraneo gli era quasi addosso. Rocce e terriccio andavano in frantumi fragorosamente mentre la mole massiccia della creatura si scavava deliberatamente la strada per raggiungerlo. Ben cercò a tentoni il medaglione, sentendone la durezza attraverso il tessuto della veste, incapace di estrarlo dalle pieghe in cui si era impigliato. Sudore e sangue gli scorrevano negli occhi, accecandolo. Da un momento all'altro il suo avversario sarebbe emerso. Da un momento all'altro lo avrebbe sopraffatto. Poteva sentire il bordo liscio del medaglione, poteva toccare la sua superficie scolpita attraverso il tessuto. Un altro momento! Solo un momento...! Poi terra e roccia esplosero verso il cielo, sbalzandolo dal suolo e mandandolo a ruzzolare lontano. Ben perse la presa sul medaglione e atterrò sulla schiena con un secco rantolo, l'aria che gli schizzava via dai polmoni. La cosa-verme torreggiò su di lui, incrostata di terra e con il corpo inarcato, le fauci spalancate, la bocca protesa.
Ben si contorse nello sforzo di sfuggire, sapendo che era già troppo tardi, sapendo che non ci sarebbe riuscito. Il medaglione! pensò. Devo... Poi qualcosa di più grosso e di più nero e di più feroce del suo attaccante piombò giù dal cielo. Gli artigli ghermirono il corpo del mostro, strappandolo all'indietro, lontano da Ben. Mascelle gigantesche si serrarono, tranciando la cieca estremità. Questa, con le fauci ancora spalancate, ricadde in una pozza di liquido maleodorante, ma il corpo continuò a contorcersi freneticamente. Le mascelle scattarono e addentarono, più e più volte, e alla fine il mostro cadde senza vita. Strabo lasciò andare quel che ne era rimasto, sventagliò una volta l'aria con le grandi ali, e planò lentamente al suolo. Willow e Bunion stavano già accorrendo dall'altra parte della gola. «Sei veramente un impiastro, Holiday» sibilò il drago. La grossa testa oscillò da una parte all'altra, e gli occhi a lanterna si fermarono su di lui. «Un grosso impiastro.» «Lo so» ansimò Ben, boccheggiante, mentre si rimetteva in piedi. «Grazie, comunque.» Willow lo raggiunse d'un fiato e gli gettò le braccia al collo. «Grazie, Strabo» echeggiò, allentando la sua stretta su Ben quel poco che bastava per voltarsi a guardare il drago. «Lei sa quanto Ben sia importante per me. Grazie di cuore.» Strabo arricciò il naso. «Be', se vi ho dato motivo di sorridere, questo mi basta» dichiarò, con una punta di compiacimento nella voce ruvida. «Come hai fatto a sapere che eravamo nei guai?» chiese Ben. «Quando siamo partiti, dormivi.» Il drago ripiegò le ali contro il corpo, e abbassò le palpebre. «Le Lande Sterili sono mie, Holiday. Appartengono a me. Sono tutto ciò che mi è rimasto di quanto era un tempo sterminato. Perciò, esse vengono governate così come io stabilisco che lo siano. Nessuna magia è permessa qui, tranne la mia. Se c'è un'intrusione, ne sono immediatamente avvertito. Anche nel sonno, i miei sensi me lo dicono. Ho saputo di questa creatura dal momento che prese forma.» Fece una pausa. «Sapete cos'è?» Ben e Willow scossero la testa. «Questo è un vorme. V O R M E. Un comune verme che la magia ha trasformato in un predatore. Basta spruzzarlo d'acqua e diventa di proporzioni gigantesche, come ora lo vedete.» Strabo diede un'occhiata alle sezioni tranciate e sputò disgustato. «Un patetico pretesto per disturbare il mio riposo.»
«Ancora Rydall» disse Ben pacato. La testa di Strabo fece una rotazione. «Non so niente di Rydall» sibilò sommesso «ma so abbastanza delle streghe. I vormi sono fra le loro creature preferite.» Ben strabuzzò gli occhi. «La Strega del Crepuscolo?» disse alla fine. Il drago sollevò la testa. «Tra le altre.» Sbadigliò e guardò a est. «È tempo di tornare a letto. Cerca di restare vivo almeno quanto basta per uscire dalle Lande Sterili, Holiday. Dopo, non sarai più sotto la mia responsabilità.» Senza altre parole spiegò le ali, si alzò in volo e scomparve alla vista. Ben e Willow lo osservarono mentre si allontanava. Bunion stette con loro un momento, poi, su ordine di Ben, andò a recuperare Giurisdizione. Willow asciugò il sangue dal viso di Ben con una striscia di tessuto strappato dalla sua camicetta. Dopo un momento gli disse: «La Strega del Crepuscolo potrebbe essere coinvolta in questa storia?» Ben scosse la testa. «Con Rydall? Perché l'avrebbe fatto?» Il sorriso di Willow era duro e amaro. «Lei ti odia. Non ti sembra motivo sufficiente?» Ben guardò in distanza alle colline deserte, al bagliore del sole, lo sguardo perso nel nulla. Willow fini di pulirgli il volto e lo baciò delicatamente. «Ci odia tutti.» Ben annuì. Improvvisamente stava pensando a qualcos'altro. «Willow» disse «adesso ricordo dove ho visto i mostri di Rydall; tutti e tre.» La silfide indietreggiò di un passo. «Dove?» Lui la guardò, e c'era stupore nei suoi occhi. «In un libro.» 15 Poggwydd Mistaya si svegliò presto, quella stessa mattina, e si ritrovò da sola per la prima volta da quando era arrivata nel Pozzo Infido. La sua reazione fu di incredulità; la Strega del Crepuscolo non la lasciava mai sola. Si levò nell'alba grigia e caliginosa e si guardò attorno con impazienza, in attesa che la signora della conca si facesse vedere. Quando questo non avvenne, Mistaya la chiamò. Quando continuò a non mostrarsi, la ragazza misurò tutto il perimetro della radura alla sua ricerca. Non c'era alcun segno della Strega del Crepuscolo. Inaspettatamente, Mistaya provò un senso di sollievo.
Negli ultimi tempi si erano verificati notevoli cambiamenti, e il più rilevante riguardava i suoi rapporti con la strega. All'inizio la Strega del Crepuscolo era stata un'insegnante instancabile ed entusiasta, una compagna nelle arti magiche, ansiosa di farla partecipe della sua sapienza, un'amica segreta che poteva rendere edotta Mistaya nelle tecniche di utilizzo dei suoi poteri arcani e affascinanti. Mistaya era li per scoprire la verità sui suoi privilegi di nascita, aveva detto la Strega del Crepuscolo. Era li per trovare il modo di aiutare suo padre nella sua lotta contro Rydall di Marnhull. Si poteva operare del bene, con le capacità che avrebbe sviluppato. Ma, in qualche modo, tutto questo era andato perduto lungo la strada. Non sentiva più parlare né di Rydall né dei suoi privilegi ereditari. A malapena sentiva qualche accenno al mondo al di fuori della conca. Tutto quello che sembrava aver importanza, adesso, erano la rapidità e la diligenza dimostrate da Mistaya nell'eseguire le istruzioni della strega. La pazienza, che all'inizio era in primo piano, era stata messa da parte. La varietà e l'esplorazione erano state totalmente accantonate. Ormai da diversi giorni non facevano altro che usare la magia con un unico obiettivo: creare mostri. Oppure, se non erano impegnate materialmente a creare mostri, continuavano a parlarne. In questo processo, il rapporto studente-insegnante aveva subito un drastico deterioramento. Invece di continuare ad avvicinarsi sempre più una all'altra, Mistaya aveva l'impressione che lei e la strega si stessero progressivamente allontanando. Agli elogi e agli incoraggiamenti si erano sostituite critiche e repulsione. Le accuse fioccavano. Mistaya non si stava impegnando abbastanza. Non si concentrava. Non pensava. Sembrava aver raggiunto uno stadio negativo, che non le consentiva di fare alcunché di buono. Quando Mistaya aveva concepito il robot (un'altra delle creature che aveva visto nel vecchio libro di suo padre) la Strega del Crepuscolo si era mostrata entusiasta. Poi, neanche due giorni dopo, l'aveva liquidato dichiarandolo un fallimento. Non era abbastanza buono; voleva qualcosa di meglio. Mistaya aveva cercato di pensare a un nuovo mostro, ma, schiacciata dall'incalzante pressione delle richieste della strega e ormai quasi totalmente priva di interesse in quel progetto, non era stata in grado di tirar fuori un bel niente. Esasperata, la Strega del Crepuscolo aveva dato vita a un essere di sua creazione (un vorme, l'aveva chiamato) che, con l'aiuto di Mistaya, aveva trasformato da innocua creatura strisciante a pericoloso predatore. Questa volta Mistaya aveva espresso apertamente la propria disapprovazione, dicendo che era stanca di mostri, stanca di questo partico-
lare uso della magia, e ansiosa di sperimentare qualcosa di nuovo. La Strega del Crepuscolo aveva respinto le sue lamentele con un'occhiata velenosa, e le aveva rammentato la sua promessa di attenersi scrupolosamente alle istruzioni in cambio del privilegio dei suoi insegnamenti. Mistaya era stata tentata di sottolineare che l'accordo era diventato decisamente unilaterale, ma si era trattenuta. In realtà, non capiva cosa stesse succedendo. Nonostante le loro diversità, guardava ancora alla Strega del Crepuscolo come a una sua amica. C'era fra di loro una comunanza che trascendeva finanche la sua attuale insoddisfazione, ma Mistaya cominciava a rendersi conto che essa era basata essenzialmente sulla concretezza delle loro potenzialità magiche e assumeva sempre più l'aspetto di una intensa forma di competizione, come se in qualche modo tutte e due fossero coscienti che il loro destino era di essere rivali, piuttosto che amiche. Ogni giorno crescevano i dissapori e si assottigliavano i punti di contatto fra di loro, e la lacuna che le separava continuava ad allargarsi inesorabilmente. Mistaya non voleva che questo accadesse, ma si trovò impotente a evitarlo. La Strega del Crepuscolo non le prestava ascolto; non faceva alcuno sforzo per mediare o scendere a compromessi. Voleva che Mistaya facesse esattamente quanto le veniva detto, che non facesse domande, e reprimesse qualsivoglia obiezione. E Mistaya si rendeva conto sempre di più che non poteva farlo. Così quella mattina era da sola, e respirava l'aria come se fosse fresca e nuova. Un po' sospettosa della sua inaspettata libertà, operò un semplice incantesimo per accertarsi che la strega non stesse tentando di mettere in atto una qualche sorta di inganno. Ma nessuna traccia della strega si rivelò, e così lei chiamò Haltwhistle. Il cucciolo di fango comparve immediatamente, materializzandosi dal grigiore, con gli occhi pensosi, le orecchie leggermente drizzate e la coda scodinzolante. «Buon vecchio Haltwhistle» lo salutò lei con un sorriso. «Buongiorno a te.» Haltwhistle si accucciò e prese a sbattere la coda per terra. «Facciamo qualcosa, tu e io?» chiese al suo amico a quattro zampe. «Noi due da soli?» Diede uno sguardo tutt'attorno nella radura, come se si aspettasse che la risposta potesse giungere di là. La familiare cappa di caligine avviluppava ogni cosa. Alberi e arbusti erano immersi nel grigio, il cielo era invisibile, e il mondo era un bozzolo di silenzio. Era stanca di essere confinata in uno spazio così ristretto; voleva vedere aldilà di quel sudario di nebbia. Ricor-
dava il mondo esterno, e voleva posarvi di nuovo lo sguardo: la luce del sole, l'erba verde, i cieli azzurri, i laghi, le foreste, le montagne e gli esseri viventi. Ultimamente aveva pensato spesso ai suoi genitori, cosa che non aveva fatto per diverso tempo. Si chiedeva come mai non fossero venuti a trovarla, o non le avessero scritto o non si fossero messi in contatto con lei in qualche modo, per sapere come stava. E i suoi amici di Sterling Silver? Perché non aveva avuto almeno notizie di Questor Thews? Erano amici per la pelle. Che cosa era successo a tutti? Questo non l'aveva chiesto, alla Strega del Crepuscolo. Sapeva cosa le avrebbe risposto. Che prendevano tutte le precauzioni poiché Rydall la stava cercando. Che volevano essere certi che lei fosse al sicuro. Ma la risposta non la soddisfaceva come avrebbe dovuto. In un certo senso sembrava inadeguata. Ci doveva essere un modo per i suoi genitori di contattarla, anche lì. Volente o nolente, Mistaya stava cominciando a sentire nostalgia di casa sua. «Be'» dichiarò d'impulso. «Basta ciondolare qui attorno. Andiamo a fare una passeggiata.» Si mosse risoluta, e senza alcun ripensamento sulla decisione presa. Stava per esporsi a un grosso rischio, e lo sapeva. Intendeva arrivare fino al mondo esterno, dove la visibilità non era ridotta a quindici metri, dove c'erano luce e tepore, dove c'erano esseri viventi. Intendeva uscire dal Pozzo Infido, e questo significava infrangere gli ordini della strega. Strano a dirsi, la cosa non la turbava molto. Fece materializzare un gambo di Bonnie Blu da masticare, desiderosa di quel cibo che non assaggiava da un po' di tempo. Il viaggio fu facile. Un tempo non sarebbe riuscita a trovare la via che conduceva fuori dal Pozzo Infido. Adesso impiegava la magia con la massima naturalezza e si trovò alla base del pendio che portava sul ciglio della conca in men che non si dica. Trovò un viottolo e s'inerpicò verso la luce, con Haltwhistle che zampettava veloce alle sue calcagna. Qualche momento dopo, Mistaya emergeva dalla densa caligine per trovarsi in una giornata inondata di sole e di profumi estivi. Sorrise mentre la luce le ricadeva sul viso e sulle braccia. Strinse gli occhi per attenuare il bagliore e guardò prima a sinistra alle colline boscose con le loro ombre di un verde profondo e poi a destra a una vallata coperta di fiori di campo azzurri e gialli. Montagne dai riflessi porporini si levavano sul remoto orizzonte, con le vette carezzate dalle nuvole. Sugli alberi lì intorno volavano gli uccelli, e un coniglio selvatico sfrecciò nell'erba alta della valle.
«Bene, da che parte andiamo?» chiese Mistaya ad Haltwhistle con un sorriso luminoso e deciso. Poiché il cucciolo di fango sembrava non avere preferenze, scelse Mistaya per tutti e due. Si avviarono a est addentrandosi tra gli alberi, seguendo sentieri serpeggianti tra valloncelli e radure, alla scoperta di ruscelletti e quieti laghetti, scrutando le creature della foresta e individuando a naso noci e bacche. Mistaya s'inoltrava nel bosco senza curarsi di dove andava, conscia che la sua magia le avrebbe mostrato la via d'uscita non appena avesse voluto. Il pensiero di Rydall la sfiorò per un attimo, ma fu subito scacciato. Aveva attivato le sue difese, delle linee magiche che le consentivano di stare all'erta contro chiunque tentasse di avvicinarsi, in modo da essere sempre avvertita in anticipo di ogni incontro. A ogni modo, non credeva possibile che Rydall la trovasse li dentro. E come lui, nessun altro. Rimase sorpresa quando, mentre saltava da una pietra all'altra per attraversare un laghetto, avvertì la presenza di qualcuno a breve distanza. Interruppe quello che stava facendo e rimase perfettamente immobile, usando la magia per attivare le antenne. La Strega del Crepuscolo le aveva insegnato un sacco di cose. Rintracciò l'altro senza difficoltà. Un uomo, tutto solo. Non avvertiva pericolo da parte sua. Rimase indecisa sul da farsi, poi si disse che poteva essere divertente parlare con qualcuno. Dopotutto, erano settimane che non scambiava qualche parola con qualcuno che non fosse la strega. Gli avrebbe dato un'occhiata, e se le fosse sembrato inoffensivo, si sarebbe mostrata. Con Haltwhistle a rimorchio, scivolò tra gli alberi, camminando senza fare alcun rumore, avvolgendosi nella sua magia. Trovò la sua preda seduta a gambe incrociate in una radura, davanti a un piccolo fuoco, intento a masticare i residui di qualche animaletto che aveva arrostito. Era un tipo dallo strano aspetto, corto di membra, rotondetto e pieno di peli dappertutto. Aveva baffi che spuntavano dalla faccia come le setole di una spazzola e minuscole orecchie a punta, frastagliate alle estremità. I suoi vestiti erano di rozza fattura, fuori misura e consunti dall'uso. Portava un anello d'oro a un orecchio, con una penna malconcia che pendeva da esso. Era incrostato di fango e luridume dai piedi scalzi alla testa scoperta. Lei frugò nella memoria nel tentativo di identificare che sorta di creatura fosse, e alla fine decise che si trattava di uno Gnomo Va' Via. Abbastanza innocuo da poterci parlare, pensò Mistaya, e avanzò impettita nella radura.
«Buona giornata» lo salutò. Il tipo davanti al fuoco fece un tale salto da lasciar cadere per terra l'osso che stava spolpando. «Per tutti i diavoli, non farlo mai più!» esclamò, tutto scosso. «Potresti anche avvertire, no? A ogni modo, da dove spuntate fuori?» Si abbassò rapido a raccogliere l'osso, pulendolo con le dita. «Mi spiace» si scusò lei. «Non avevo intenzione di spaventarla.» «Spaventarmi! Non mi hai spaventato affatto! Nossignore!» Si mise immediatamente sulla difensiva. «Mi hai sorpreso, ecco tutto. Pensavo di essere solo, quaggiù. E avevo ogni motivo di crederlo, pure. Sapete, nessuno entra in questi boschi. Comunque, volete dirmi chi siete?» Lei indugiava. «Misty» disse; non amava particolarmente il nomignolo, ma in quei casi era meglio anteporre la cautela all'orgoglio. «E lei come si chiama?» «Poggwydd. E quell'animaletto così carino alle tue spalle, è tuo?» Aguzzò improvvisamente gli occhi. «Che cosa è?» Lei colmò la distanza che li separava e rimase in piedi accanto a lui, a guardarlo. Haltwhistle le andò dietro. «Cosa sta mangiando?» chiese, per tutta risposta. «Mangiando? Be', ehm... un coniglio, si, un coniglio. L'ho preso io stesso.» «Ha la coda piuttosto lunga per essere un coniglio, non crede?» Indicò gli scarti del pasto, posati accanto a lui in un disgustoso mucchietto. Poggwydd corrugò la fronte, stizzito. «Va bene, non me lo ricordo più. Forse non era un coniglio. Forse era qualcos'altro. Che differenza fa?» «Sembra un gatto.» «Potrebbe essere. E con questo?» Mistaya si strinse nelle spalle e sedette di fronte a lui. «Niente. Soltanto non vorrei che si facesse strane idee su Haltwhistle, tutto qui.» Indicò il cucciolo di fango, che stava fiutando il terreno. «Lei è uno Gnomo Va' Via, non è così?» «E sono fiero di esserlo» annunciò lui, con una boria inconsueta per un rappresentante del popolo forse più disprezzato di Landover. «Be', tutti sanno che gli Gnomi Va' Via mangiano gli animali domestici.» Poggwydd gettò via il suo osso, disgustato. «È una menzogna! Una sporca menzogna! Gli Gnomi Va' Via mangiano le creature selvatiche e naturali, non quelle di casa e del focolare! Di quando in quando qualche randagio capita tra le nostre grinfie, ma è colpa sua! Ascoltami, ragazzina,
dobbiamo mettere in chiaro una cosa prima di continuare questa conversazione. Non tollero di essere calunniato. Non tollero che si facciano basse insinuazioni sul mio conto. Non ho intenzione di star seduto qui a difendermi. Io c'ero prima, quindi se ti senti in diritto di mettere in dubbio l'integrità e la serietà degli Gnomi Va' Via, devi andartene subito!» Mistaya corrugò la fronte. «Mi sembra che lei sia un po' troppo scorbutico.» «Scorbutico, dici? Lo saresti anche tu, se dovessi passare la vita a sopportare le ingiurie degli altri. Gli Gnomi Va' Via sono stati accusati ingiustamente fin dall'alba dei tempi di crimini che non hanno mai commesso. Sono stati dileggiati e ridicolizzati senza riguardo alcuno, e nessuno ha mai pensato a quanto male si faceva loro. Una ragazzina innocente come te dovrebbe guardarsi bene dal seguire le orme dei suoi genitori ignoranti e prevenuti. Non tutto quello che si sente dire è vero, sai.» «D'accordo» ammise Mistaya. «Mi dispiace di essere stata sospettosa. Ma circolano un sacco di storie su di voi.» Poggwydd arricciò la sua faccia baffuta, disgustato. «Puah! Storie, hai detto bene!» Sbirciò nuovamente Haltwhistle. «Be', si può sapere che cos'è, allora?» «Un cucciolo di fango.» «Mai sentito.» Poggwydd porse una mano sudicia. «Vieni qui, Haltwhistle. Vieni, vecchio mio. Vieni che Poggwydd ti fa una carezzina.» «Non si devono accarezzare i cuccioli di fango» dichiarò in tutta fretta Mistaya. «Non si devono mai toccare.» Poggwydd la guardò diffidente. «Perché no?» «Perché è così. È pericoloso.» «Pericoloso?» Poggwydd tornò a guardare il cucciolo di fango. «Non sembra affatto pericoloso. Sembra stupido, piuttosto.» «Va bene, ma non lo deve toccare.» «Come vuoi.» Lo Gnomo fece spallucce. Guardò gli ossi che teneva ammucchiati in grembo. «Volete mangiare qualcosa?» Mistaya scosse la testa. «No, grazie. Cosa fa da queste parti?» Poggwydd rosicchiò un rimasuglio di carne da un osso. Aveva denti affilati. «Sono in viaggio.» Scrollò le spalle. «Mi godo la mia compagnia per un po', lontano dal trambusto e dal fracasso di casa mia, e scappo da questo e da quello.» «È nei guai?» «No, non sono nei guai!» La fulminò con un'occhiata stizzita. «Ho l'aria
di trovarmi nei guai? Ce l'ho? E, dimmi, che mi dici di te? Una ragazzina che si aggira proprio da queste parti, nel bel mezzo del nulla. Sei forse tu a trovarti nei guai?» Lei ci pensò un momento. Si disse che sì, effettivamente era nei guai. Ma non l'avrebbe certo detto a lui. «No» mentì. «No, eh? Cosa ci fai qui, allora, tutta sola? Una bella passeggiata, forse? Ti sei persa?» Lei serrò la bocca, sulla difensiva. «Non mi sono persa. Sono qui in visita.» «Ah!» Poggwydd fece una smorfia. «A visitare chi? La strega, forse? È a lei che sei venuta a fare visita?» Poi vide la sua espressione e cambiò registro. «Su, su, stavo solo scherzando; non ti devi spaventare» la rassicurò in fretta, fraintendendo il suo sguardo. «Ma lei sta proprio lì, sai? A circa un miglio da qui, nel Pozzo Infido. Non vorrai capitare da quelle parti. Ricordati solo questo.» Si schiarì la gola e si sbarazzò dell'ultimo osso. «Allora, chi vieni a trovare, da queste parti?» Mistaya sorrise timidamente. «Lei.» «Me? Ah, ah! Questa è buona! Sei in visita da me, non è così?» Si sganasciava dalle risate. «Allora non devi avere molta scelta. Viene a visitare me! Come se questa fosse una cosa per ragazzine!» «Be', è proprio così.» «Così che cosa?» «Le sto facendo visita. Star qui seduti a chiacchierare non è forse una visita?» Lui la guardò aguzzando gli occhi. «Sei fin troppo furba, tu, ragazzina. Misty, vero? Adesso, se siamo veramente amici, mi devi dire: chi sei?» Lei fece del suo meglio per apparire confusa. «Gliel'ho già detto.» «È vero. Misty, che si fa una passeggiata in mezzo al nulla. Che è venuta a far visita a un nuovo amico che non sapeva di avere fino a un momento fa.» Poggwydd agitò la sua faccia baffuta. «Be', tu mi puzzi di guai, quindi non credo di aver più voglia di parlare con te. Non voglio altri guai, nella vita. Gli Gnomi Va' Via ne hanno già abbastanza per conto loro. Arrivederci.» Si alzò e si spolverò, sollevando una nuvola di polvere e briciole. Lei rimase a guardarlo incredula. Faceva sul serio. Si tirò su anche lei. «Non capisco che importanza abbia la mia identità» sbottò stizzita. «Perché non possiamo semplicemente parlare?» Lui scrollò le spalle. «Perché a me non piacciono le ragazzine che fanno
le furbe, e tu lo stai facendo con me, vero? Tu sai chi sono io, ma io non so chi sei tu. Questo non mi piace. Non è leale.» «Non è leale?» esclamò lei. «Neanche un po'.» Lo osservò mentre raccoglieva i suoi pochi averi. «Ma neanche io so veramente chi sia lei» puntualizzò in fretta. «Non so niente di lei più di quanto lei sappia di me. Eccetto il suo nome. E lei conosce il mio, quindi siamo pari.» Lui interruppe quello che stava facendo e la guardò. «Be', d'accordo, credo che tu abbia ragione. Sì, credo di si.» Mise giù il suo fardello con un tintinnio di ferraglia e si rimise a sedere. Mistaya si sedette con lui. «Ti propongo un affare» disse lo Gnomo, levando un unico, lercio dito per maggior enfasi. «Tu mi dici qualcosa di te e io ti dirò qualcosa di me. Cosa ne pensi?» Lei allungò il suo dito e toccò quell'altro, per siglare l'accordo. «Prima lei.» Poggwydd si accigliò, scrollò le spalle e si dondolò all'indietro. «Uhm. Vediamo un po'.» Assunse un'aria ostentatamente pensosa. «Molto bene. Ti dirò cosa ci faccio da queste parti. Sono un cercatore di tesori al servizio del Re, dell'Alto Signore in persona.» Le rivolse uno sguardo da cospiratore. «Sono in missione speciale, alla ricerca di un prezioso scrigno d'oro che è nascosto da qualche parte in questi boschi.» Lei inarcò un sopracciglio. «Non è vero.» «È verissimo!» Lo gnomo s'indignò immediatamente. «E se anche non lo fosse, come faresti a saperlo?» «Lo so e basta.» Sorrideva, suo malgrado. Poggwydd la divertiva quasi quanto Abernathy. «Be', tu non sai un bel niente!» Agitò una mano in segno di diniego. «Sono stato cercatore di tesori per il Re per anni! Nei miei viaggi ho rinvenuto un bel po' di oggetti preziosi, ci puoi giurare! Sono più esperto di chiunque altro, nella caccia ai tesori, ed è per questo che l'Alto Signore mi stima. Ecco perché si serve di me.» «Io scommetto che neanche la conosce» insisté lei, presa dal gioco. Era la cosa più divertente che le fosse capitata da un bel po' di tempo. «Scommetto che non l'ha mai nemmeno vista, in tutta la sua vita.» Poggwydd era fuori di sé. «Sì che mi ha visto! Si dà il caso che io lo conosca benissimo! Conosco anche la sua famiglia. Conosco la Regina! E la
ragazzina, quella che è scomparsa! Potrei perfino essere io a trovarla, mentre cerco quello scrigno d'oro!» Lei strabuzzò gli occhi. Scomparsa. Tenne le labbra serrate. «Lei non la conosce. Si sta inventando tutto.» «Non è vero! Ti dirò una cosa, visto che sembri così decisa a fare la maleducata. La figlia dell'Alto Signore è enormemente più simpatica di te.» «No, che non lo è.» «Aha! Baggianate! Come fai a saperlo?» «Perché la figlia del Re sono io!» Le scappò detto prima di riuscire a trattenersi. Lo disse in un impeto d'indignazione e di orgoglio, ma immaginò che l'avrebbe detto comunque, perché questo era un gioco, e lui non poteva sapere se crederci o meno. Inoltre, era curiosa di vedere la faccia che l'altro avrebbe fatto a quella rivelazione. Ne era valsa la pena. Lo Gnomo rimase a bocca aperta, impietrito dallo stupore, balbettò qualcosa d'incomprensibile e poi si lasciò andare a un mostruoso grugnito. «Puf! Che scemenze! Che mucchio di balordaggini! E sarei io quello che racconta frottole?» «E non sono affatto scomparsa, oltretutto!» aggiunse con fermezza. «Sono giusto qui, con lei!» «Tu non sei la figlia dell'Alto Signore!» esclamò lo Gnomo con veemenza. «Non puoi esserlo!» «Come fa a dirlo?» lo scimmiottò lei. Poi si portò le mani alla faccia e simulò sorpresa. «Oh, mi scusi, dimenticavo che lei è il cacciatore di tesori personale del Re e conosce tutta la sua famiglia!» Poggwydd aggrottò la fronte. Si accovacciò sporgendosi in avanti, con il corpo rotondo che dondolava sulle gambe nodose e setolose, come se fosse in procinto di rovesciarsi del tutto. «Ascolta un po'» disse, scegliendo le parole. «Basta con le sciocchezze. Un conto è farsi passare per qualcun altro quando il gioco è innocuo, ma è tutt'altra faccenda scherzare sulle sventure altrui. Lo so che sei soltanto una ragazzina, ma so anche che sei abbastanza intelligente e cresciuta per comprendere la differenza.» «Ma di cosa sta parlando!» sbottò Mistaya, furiosa per essere stata ripresa in quel modo. «La figlia dell'Alto Signore!» ritorse stizzito lui. «Ecco di cosa sto parlando! Non dirmi che non lo sai.» S'interruppe di colpo. «Be', tutto sommato forse non lo sai davvero; una piccola ragazza tutta sola nei boschi,
che è incappata in un tipo come me. Allora, chi sei tu? Non l'hai ancora detto. Sei una di quelle fate, venuta fuori dalle nebbie a dare un'occhiata? Sei uno spiritello o qualche altra creatura della regione dei laghi? Non ne vediamo molti da queste parti. Non noi Gnomi Va' Via, in ogni caso.» Fece una pausa, per raccogliere le idee. «Be', ecco cos'è successo, se ancora non lo sai. La figlia dell'Alto Signore è scomparsa, e tutti la stanno cercando. È scomparsa da giorni, forse settimane, ma di sicuro è scomparsa, e squadre di ricerca hanno perlustrato Landover da un capo all'altro.» Si chinò su di lei, abbassando la voce come se temesse di essere udito. «Si dice che sia nelle mani di Re Rydall. Viene da qualche posto che si chiama Marnhull. L'ha rapita. E non ha intenzione di restituirla. Sta costringendo il campione del Re a battersi con dei mostri. Non l'ho visto coi miei occhi, ma l'ho sentito dire. A ogni modo, lei è scomparsa, e tu non dovresti prenderti gioco di lei.» Mistaya era esterrefatta. «Ma io sono lei!» insisté, con le mani sui fianchi. «Lo sono davvero!» Ci fu un movimento tra gli alberi, su un lato. Lei ne colse solo un barlume e si girò fulminea, pronta a fuggire, con il cuore in gola e una morsa allo stomaco. Il movimento si mutò in colore, un flusso di maligna luce verdastra che colmò gli spazi ombrosi tra tronchi e rami. Il colore si addensò e prese forma, aggregandosi a formare una figura umana, sottile e scura e inconfondibile. La Strega del Crepuscolo era tornata. La strega uscì dall'ombra, silenziosa come uno spettro. I suoi occhi rosso-sangue si fissarono su Mistaya. «Ti era stato detto di non lasciare il Pozzo Infido» disse con voce suadente. Mistaya gelò. Per un momento i suoi pensieri furono così sconvolti che non riuscì a pensare. Poi abbozzò un piccolo cenno di risposta. «Mi spiace» sussurrò. «Avevo voglia di rivedere il sole.» «Alzati e vieni qui» ordinò la strega. «Accanto a me.» «Era solo per un giorno» cercò di scusarsi Mistaya, spaventata, adesso, di quanto poteva capitarle, terrorizzata dall'espressione sul volto dell'altra. «Ero da sola, e non pensavo...» «Vieni qui, Mistaya!» l'interruppe la Strega del Crepuscolo, spazientita. Mistaya attraversò lentamente la radura, a testa bassa. Riuscì a lanciare un rapido sguardo all'indietro a Poggwydd. Lo Gnomo stava ritto davanti al fuoco, con gli occhi spalancati. Mistaya provò pena per lui. Era stata colpa sua.
«Sto aspettando, Mistaya» l'ammonì la strega. Gli occhi di Mistaya tornarono a posarsi sulla Strega del Crepuscolo. Si rese improvvisamente conto che Haltwhistle era scomparso. Era stato accucciato accanto a lei per tutto il tempo che aveva parlato con Poggwydd. Dov'era andato? Raggiunse la strega e si fermò, paventando la sorte che l'attendeva. La Strega del Crepuscolo si sforzò di sorridere, ma senza alcun calore. «Mi hai molto delusa» sussurrò. Mistaya annuì, vergognandosi senza sapere precisamente il perché. «Non lo farò più» promise. Si ricordò di Poggwydd. «Non è stata colpa sua» disse in fretta, guardando di sopra la spalla lo sfortunato Gnomo Va' Via. «Sono stata io. Lui non voleva neanche parlarmi.» Esitò. «Non gli farai del male, vero?» La Strega del Crepuscolo tese le mani e le posò sulle spalle della ragazza. Delicatamente, ma con fermezza, la spinse in là. «Naturalmente no. Non è altro che uno stupido Gnomo. Mi limiterò a rimandarlo di corsa a casa sua.» «Come dice?» azzardò Poggwydd, con una vocina fievole e timorosa. «Non c'è più bisogno di me, qui, vero? Voglio dire, io... io posso raccogliere le mie cose e posso...» Le mani della strega si levarono, e un fuoco verde prese improvvisamente vita sulla punta delle dita. Poggwydd squittì e si ritrasse terrorizzato. La Strega del Crepuscolo lasciò che il fuoco si ravvivasse, poi lo raccolse sul palmo delle mani e lo carezzò amorevolmente mentre osservava lo Gnomo. Mistaya cercò di parlare e scoprì che non poteva. Si volse alla strega, supplicandola con gli occhi, improvvisamente conscia che era ferma intenzione della strega, a dispetto della sua promessa, di fare del male a Poggwydd. Poi vide Haltwhistle. Il cucciolo di fango era appostato al limitare degli alberi appena al di fuori del campo visivo della strega. Aveva il pelo irto, e la sua testa era protesa in avanti come nello sforzo di concentrarsi. Qualcosa di bianco e di simile a ghiaccio stava levandosi dal suo dorso. Che cosa stava facendo? A un tratto la Strega del Crepuscolo scagliò il fuoco verde contro Poggwydd. Ma il ghiaccio/luna di Haltwhistle lo raggiunse per primo. Mistaya strillò al rumore dell'impatto. Il fuoco e il ghiaccio esplosero assieme, e Poggwydd svanì. Tutto ciò che rimase furono il fardello sfatto dello Gnomo e l'odore di cenere e fumo.
«Cos'è stato?» esclamò immediatamente la strega, spazzando con gli occhi la radura da un capo all'altro. Si rivolse a Mistaya. «L'hai visto? Si o no?» Mistaya strinse gli occhi. Il respiro le stava tornando a piccoli fiotti. Il ghiaccio/luna. L'aveva visto, naturalmente. Ma non l'avrebbe mai ammesso con la strega. Non dopo quello che era capitato a Poggwydd. Almeno Haltwhistle era scappato. Non c'era rimasta la minima traccia visibile del cucciolo di fango. Apostrofò aspramente la strega, con la voce scossa. «Che cosa hai fatto a Poggwydd? Ti avevo pregato di non fargli del male!» La strega rimase sconcertata dalla veemenza della ragazza. «Calmati» cercò di ammansirla. Muoveva ancora in giro gli occhi, a disagio. «Non gli è successo niente. L'ho spedito a casa, dalla sua gente, lontano da questi luoghi che non gli sono familiari.» Mistaya non voleva saperne di calmarsi. «Non ti credo! Non credo più una parola di quello che dici! Voglio tornare immediatamente a casa mia!» La Strega del Crepuscolo le rivolse uno sguardo freddo e distaccato. «Molto bene, Mistaya» disse con calma. «Ma prima ascolta quanto ho da dirti. Puoi fare questo per me, non è vero?» Mistaya annuì, a denti stretti. «Al tuo amico non è stato fatto del male» dichiarò con enfasi la strega. «Ma non potevo permettere che rimanesse qui. Quello che ti ha detto era vero, per quanto ne sapeva. Tutti pensano che tu sia nelle mani di Rydall. Tuo padre ha fatto in modo di convincerli. Ha messo in giro questa voce quando Rydall ha tentato di rapirti. Ha perfino mandato squadre in ricognizione per rendere più realistica la sua versione dei fatti. Ha fatto tutto questo per confondere Rydall e chiunque altro stia tentando di rintracciarti per suo conto. In questo modo tutti crederanno che non si sappia dove ti trovi.» Rivolse a Mistaya un sorriso d'incoraggiamento. «Ma adesso il piccolo Gnomo sa la verità. Supponi che vada a raccontare a qualcuno quello che gli hai detto. Supponi che riveli il posto del vostro incontro. Cosa succederebbe se queste informazioni giungessero alle orecchie delle spie di Rydall? Il rischio è troppo grande. Ecco perché l'ho rimandato nel posto dal quale veniva, e ho usato la mia magia per cancellare dalla sua memoria ogni traccia di questo incontro. L'ho fatto per proteggervi entrambi.» «Non ricorderà nulla?» chiese cautamente Mistaya. «Nulla. Così, nessun male è stato fatto, giusto?» La Strega del Crepu-
scolo si accostò alla ragazza. «Comunque, se vuoi andare a casa, puoi farlo anche subito.» Fece una pausa. «Oppure puoi stare con me altri tre giorni e poi partire. Se sceglierai di rimanere, ti farò una promessa. Non ti chiederò di fare altri mostri. Mi rendo conto che ne abbiamo fatti abbastanza. Sei stata più che paziente, e io sono stata fin troppo esigente nei tuoi confronti. Così proveremo qualcos'altro. Cosa ne pensi?» Mistaya la fissò, sorpresa dalla svolta inaspettata presa dagli eventi. Gli occhi della strega erano di nuovo argentei, morbidi e irresistibili. Mistaya rammentò com'erano andate le cose quando si erano incontrate per la prima volta, come la strega fosse stata disponibile a insegnare e lei ansiosa d'imparare. Rammentò la sua eccitazione quando, per la prima volta, aveva messo in pratica le sue arti magiche. Sentì svanire un po' della rabbia e della sfiducia. Le sarebbe piaciuto continuare le lezioni, pensò. Le sarebbe piaciuto rimanere. Non c'era bisogno di tornare a casa proprio in quel momento; dopotutto, Poggwydd era davvero in salvo e lei non sarebbe stata più costretta a fare mostri. «I miei genitori stanno bene?» chiese all'improvviso. La Strega del Crepuscolo si mostrò sorpresa. «Naturalmente sì. Dove credi che sia stata questa mattina? Ho assunto un'altra forma e sono andata a Sterling Silver per assicurarmene. Va tutto benissimo. Tuo padre e tua madre stanno bene. Questor Thews li protegge da Rydall, e così noi avremo il tempo di completare il tuo addestramento nell'uso della magia. Dopo sarai pronta per dare anche il tuo contributo alla lotta contro Rydall.» Mistaya guardava la strega senza parlare. Sembrava sincera. E Poggwydd non aveva fatto alcun accenno ai suoi genitori, era quindi improbabile che potessero essere in pericolo o che fosse successo loro qualcosa di male. Naturalmente, era difficile sapere quanta parte di quello che aveva detto lo Gnomo corrispondesse a verità. Improvvisamente si sentì molto confusa. Sospirò e distolse lo sguardo dalla strega. La radura era silenziosa e vuota, a parte loro. In alto, il sole illuminava i cieli e scendeva a fiotti attraverso gli alberi. Poteva quasi convincersi che Poggwydd non era mai stato li. «Bene» disse alla fine. «Penso che potrei restare per altri tre giorni.» «Sarebbe molto saggio da parte tua» la incoraggiò la Strega del Crepuscolo, e a Mistaya sfuggì la punta di durezza che venava quelle parole; e le sfuggì anche l'effetto rilassante che la sua decisione aveva prodotto sulla schiena della strega, fino a quel momento rigida. «Ma non devi più uscire dal Pozzo Infido.»
Mistaya annuì. «Non lo farò.» Guardò la strega con aria interrogativa. «Cosa studieremo adesso?» La Strega del Crepuscolo serrò le labbra. «Medicina» rispose. «Guarire tramite l'uso della magia.» Mise un braccio attorno a Mistaya e la condusse via dalla radura, verso la conca. «Mistaya» disse sommessamente «ti piacerebbe imparare a usare la tua magia per riportare in vita qualcosa che è morto?» Sorrise alla ragazza, e i suoi occhi erano pervasi dalla soddisfazione. 16 Nascondigli Dopo tre giorni di perquisizioni a Graum Wythe e nessun risultato, Questor Thews si fece convinto che in un certo senso stavano trascurando proprio l'evidenza. «Abbiamo i paraocchi!» annunciò tutt'a un tratto. Si sedette su una cassa da imballaggio posando il mento sulle mani, con la faccia accigliata e le cespugliose sopracciglia canute fieramente arcuate. «È qui, qualunque cosa sia, e noi semplicemente non lo vediamo!» Elizabeth e Abernathy lo scrutarono in silenziosa contemplazione. Erano segregati in uno degli innumerevoli magazzini di Graum Wythe, nelle più riposte viscere del castello, in una stanzetta senza finestre dove il sole non arrivava mai e l'aria era viziata e stantia. Avevano già frugato la stanza una volta, ed erano ora impegnati in una seconda ricerca. Sfortunatamente, avevano ormai frugato dappertutto almeno una volta, e cominciavano a perdersi d'animo. «Non dovremmo metterci tanto» dichiarò energicamente il mago. «Se qualcuno vuole che noi lo troviamo, questo qualcosa, se è quello il motivo per cui siamo stati mandati qui, allora dovremmo già esserci imbattuti nell'oggetto della nostra ricerca.» «Certo sarebbe d'aiuto sapere cos'è che stiamo cercando» osservò scoraggiato Abernathy, accomodandosi su una seconda cassa con un sospiro di stanchezza. Era stufo di rovistare tra vecchie scatole e in angoli polverosi. Aveva voglia di stare all'aperto, dove il sole splendeva e l'aria era pulita. Voleva godersi la sua nuova persona, ora che era stato finalmente restituito a se stesso. Tutti quegli anni da cane si erano volatilizzati rapidi come foglie disperse dal vento alla prima tempesta invernale, come se neanche uno di essi fosse mai passato realmente, e tutto quel periodo fosse
stato solo un brutto sogno dal quale si era ormai destato. Elizabeth serrò le labbra, provocando l'arricciamento del suo naso a patata. «Immagino che lei non avrà dubbi sul motivo della vostra presenza qui» disse timidamente a Questor Thews. «Non è possibile che la vostra venuta sia semplicemente un caso fortuito?» Si sedette accanto ad Abernathy. «O che vi abbiano mandato qui per qualche altra ragione?» «È possibile» ammise generosamente il mago «ma improbabile. Le conseguenze della magia di rado sono fortuite. Quasi sempre i loro esiti rispondono a scopi precisi. La Strega del Crepuscolo non avrebbe mai fatto l'errore di lasciarci in vita se era sua intenzione farci morire. No, la conclusione è inevitabile. Un'altra magia ha interferito e ci ha salvati. Fummo mandati qui con uno scopo, e io non riesco a pensare a nessun altro scopo che a quello di salvare Mistaya.» «È possibile che si sia sbagliato nel supporre che la magia si nasconde a Graum Wythe?» lo incalzò Elizabeth. «Non potrebbe essere in qualche altro luogo?» Questor Thews storse la bocca. «No. Dev'essere qui. Dev'essere una magia che ha avuto origine a Landover. Nient'altro potrebbe avere alcun senso!» Si guardarono l'un l'altra in silenzio per un momento, poi diedero un'occhiata alla stanza. «Non potrebbe esserci un secondo medaglione?» chiese all'improvviso Abernathy. «Un altro come quello dell'Alto Signore?» Questor inarcò un irsuto sopracciglio, pensieroso. Era una possibilità che non aveva preso in considerazione. Ma no; Michel Ard Rhi avrebbe trovato subito un talismano siffatto, e non si sarebbe dato tanta pena per costringere Abernathy a cedergli quello dell'Alto Signore quando lo scrivano era stato suo prigioniero a Graum Wythe parecchi anni addietro. Il mago scosse la testa. «No, è qualcos'altro, qualcosa che Michel non avrebbe riconosciuto. O perlomeno, qualcosa che non è riuscito a utilizzare perché non sapeva come fare.» Si strofinò pensosamente il mento barbuto. «Tutto questo è eccessivamente frustrante, devo dire.» «Dovremmo mangiare qualcosa, non credete?» suggerì Elizabeth, dando una gomitata scherzosa ad Abernathy. «A stomaco pieno si pensa meglio.» «Si pensa ancora meglio dopo un buon sonnellino» osservò Abernathy, restituendole la gomitata. Questor Thews li guardò senza parlare. Non gli piaceva quello che vedeva. Abernathy si stava crogiolando nella sua nuova vita. Era troppo soddisfatto di se stesso, sotto ogni rispetto, come se tornare a Landover non
significasse più niente per lui, ora che si ritrovava a essere un uomo. Stava dimenticando le sue responsabilità. L'Alto Signore e la sua famiglia dipendevano ancora da loro, e Questor temeva che Abernathy stesse perdendo di vista quella circostanza. Sapeva che non aveva il diritto di giudicare, ma ciò che stava accadendo era ovvio. Abernathy stava riscoprendo se stesso, e in quel processo stava ridimensionando la sua vita per adattarla alle mutate circostanze. Era una pericolosa propensione. Si schiarì rumorosamente la gola, facendo sobbalzare tutti e due. «Prima di mangiare o di appisolarci, forse potremmo discutere questa faccenda ancora una volta.» Abbozzò un sorriso per addolcire la durezza delle sue parole. «Solo per qualche altro minuto, se non vi dispiace. Ammetto di essere piuttosto disperato, in questo momento.» Elizabeth gli restituì il sorriso, rassicurante. «Non si preoccupi, Questor. Lo troverà, prima o poi, qualunque cosa sia.» Si passò le dita tra i capelli ricciuti. «E anche se così non fosse, questo posto non è poi tanto male, come trappola, che ne dice?» La sua voce suonava fin troppo speranzosa in quell'ultima domanda. Questor non osò esprimere quello che pensava. «Noi dobbiamo fare ritorno a Landover» insisté, calmo. «Dobbiamo trovare la magia che ce lo può consentire.» Elizabeth sospirò. «Lo so.» Non sembrava convinta. «Questa magia, qualunque cosa sia, dev'essere qualcosa che lei riconoscerebbe, qualora la vedesse, giusto? Se è veramente qui.» «Abbiamo già visto tutto almeno una volta» ribatté Abernathy, spingendosi gli occhiali sul naso. «Magari non abbiamo guardato nel modo giusto» ruminò Questor ad alta voce. Elizabeth spostò i piedi dalla cassa e prese a esaminarsi le scarpette. Si zittirono tutti di nuovo, meditabondi. «Aspettate un minuto» esclamò a un tratto Abernathy. «Forse ciò che stiamo cercando non è affatto un oggetto. Forse è per questo che continuiamo a non vederlo. È stato un sortilegio a portarci qui, una magia espressa con delle formule. E se ci fosse bisogno di un altro sortilegio per riportarci indietro?» Questor spalancò gli occhi, e balzò su dalla cassa istantaneamente. «Abernathy, tu sei un genio indiscusso! È così, naturalmente! Un sortilegio! Non è un talismano che dobbiamo cercare! Dobbiamo cercare un libro di magia! Abernathy ed Elizabeth si alzarono anch'essi, ma sembravano deci-
samente meno convinti della cosa.» Ma Michel non avrebbe riconosciuto un libro del genere? «chiese Abernathy dubbioso.» Non lo avrebbe usato per tornare a Landover, alla fine, quando voleva riconquistare il trono? Oppure, tuo fratello non l'avrebbe trovato quando Holiday lo sfidò? In effetti è stata un'idea mia, ma più ci penso e meno mi convince. Se c'è un incantesimo che permette di entrare a Landover, perché uno di loro non se n'è servito? «Forse perché non hanno potuto» osservò il mago, mettendosi prima su un lato dell'ingombra stanzetta, poi di nuovo sull'altro, a testa bassa, con le mani che si agitavano vivacemente. «Perché l'incantesimo con loro non funzionava, forse. Non lo so. Ma comunque penso che tu abbia messo il dito su qualcosa di grosso. Un sortilegio ci spedì qui. Sarebbe logico pensare che un altro sortilegio ci possa riportare indietro. Un rovesciamento della magia che ci ha portato qui. Un riaggiustamento delle parole...» Un atroce sospetto gli passò per la mente, un sospetto che lo aveva già sfiorato prima nella cucina di Elizabeth, quando stavano discutendo sui motivi che potevano aver determinato il loro arrivo lassù. In quell'occasione l'aveva scartato, rifiutandosi di considerarlo a fondo, incapace di contemplarne la possibilità. Adesso si ripresentava, e appariva fin troppo possibile per poter essere ignorato. Smise di passeggiare e guardò Abernathy con occhi spiritati. «Abernathy, mi riesce difficile esprimere questo, ma se...» Non riuscì a finire. Una vampa di luce esplose fra le ombre sul lato più lontano della stanza-magazzino, e tutti e tre si volsero bruscamente a guardare. La luce brillò intensa per un momento e poi svanì, lasciando nella sua scia uno Gnomo Va' Via decisamente malconcio e impaurito, che sedeva intontito e tremante sul pavimento di cemento. Quando vide che lo guardavano, annaspò e protese le mani a difendersi. «Non fatemi del male!» implorò, strizzando freneticamente gli occhi e cercando di arrotolarsi come un millepiedi. «Voglio solo andare a casa!» Questor Thews e Abernathy si scambiarono uno sguardo di sconcerto. Uno Gnomo Va' Via? Qui? Cosa sta succedendo? «Calma, calma, nessuno vuole farle del male» lo rassicurò Questor, avanzando per poi arrestarsi subito quando vide che lo Gnomo cominciava a boccheggiare. «Va tutto bene?» Lo Gnomo annuì senza troppa convinzione. «Se essere arrostiti al fuoco della strega lo si può definire "tutto bene", allora suppongo che sia così.» Fuoco di strega? Questor e Abernathy si scambiarono un secondo
sguardo. «Come si chiama?» lo interrogò Questor. Il piccolo e sudicio essere era tutto piegato in una posizione impossibile. «Via, la smetta. Nessuno di noi ha intenzione di farle del male. Siamo tutti amici qui.» Lo Gnomo tirò su col naso, incerto, facendo occhiolino di sotto le braccia incrociate. «Gli amici di noi Gnomi Va' Via sono estremamente rari» puntualizzò cupo. Era il soggetto più sciatto che si possa immaginare, lacero e sbrindellato, e aveva un disperato bisogno di un bagno. «Prima ditemi voi chi siete.» Questor sospirò. «Io sono Questor Thews. Questo è Abernathy. Quella è Elizabeth.» Indicò tutti a uno a uno. «Allora, ci dica: chi è lei?» «Poggwydd» rispose lo Gnomo Va' Via. Sembrava orgoglioso della cosa. Abbassò le braccia e si raddrizzò leggermente. «Questor Thews, il Mago di Corte? Dicevano che foste prigioniero di Rydall. Voi e il cane. È li che ci troviamo, nella prigione di Rydall? È lì che mi ha mandato la strega?» «Aspetti un minuto.» Questa volta Questor Thews si avvicinò allo Gnomo e lo aiutò con fermezza a rimettersi in piedi. «La strega, ha detto? Vuol dire la Strega del Crepuscolo?» Poggwydd annuì. «Chi altri?» Adesso era un po' più sicuro di sé. «È lei che mi ha fatto questo. Mi ha spedito qui, qualunque posto sia. Ha usato il suo fuoco di strega. Dite, non mi avete risposto. Ci troviamo nella prigione di Rydall? Cosa sta succedendo?» Questor Thews prese Poggwydd per un gomito, lo scortò fino a una cassa vuota, e lo mise a sedere. Lo Gnomo si strofinava il naso e si sforzava, senza successo, di assumere un'aria da coraggioso. Teneva gli occhi fissi su Questor, come se così facendo potesse evitare di incappare in qualcosa di peggio. «Poggwydd» lo apostrofò solennemente il mago. «Voglio che lei ci racconti tutto quello che è successo, tutto quello che può ricordare, specialmente sulla Strega del Crepuscolo.» «Posso farlo senz'altro» dichiarò lo Gnomo. Indugiò, sospettoso. «Mi promettete che non siete amici suoi?» «Prometto» replicò Questor. Poggwydd annuì, ci pensò bene, poi si schiarì solennemente la gola. «Bene, pensavo che mi avrebbe fatto del male; la strega, voglio dire. Aveva quello sguardo negli occhi. Era davvero furiosa con me per via della ragazzina. Mi aveva sorpreso a parlare con lei là fuori in una radura a circa un miglio dal Pozzo Infido. Roba da ridere. Non la conoscevo neanche;
era spuntata da chissà dove, da qualche parte in quei boschi, e aveva voglia di parlare. Così stavamo facendo, e poi è venuta la strega, e la ragazzina le ha chiesto di non farmi del male, dicendo che non era stata colpa mia, ma la strega non aveva l'aria di crederle, e così...» «Ehi! Stop! Un momento!» Questor levò le mani, implorante. Il sopracciglio andava e veniva frenetico. «Di quale ragazzina sta parlando? Che aspetto aveva? Le ha detto come si chiamava?» Poggwydd spalancò gli occhi, impaurito dall'espressione dell'altro. Allungò lo sguardo oltre il mago, fino agli altri due, non trovò aiuto, e allora tornò a guardare Questor. «Non saprei dire che aspetto avesse. Come faccio a ricordare? Era... piccola. Non molto grande, poteva avere dieci anni. Aveva le lentiggini e i capelli biondi.» Aggrottò la fronte. «Era molto sveglia. Mi prendeva in giro, mentre parlavamo. Pretendeva di essere... Diceva di essere la figlia...» Si arrestò, incerto su cos'altro dire. «Ha detto di chiamarsi Misty.» «Mistaya» disse Questor d'un fiato, indietreggiando. «Allora è la Strega del Crepuscolo che la tiene prigioniera. O almeno la teneva. È scappata, Poggwydd? È andata così?» Lo Gnomo Va' Via lo guardò istupidito. «Scappata? Non so se l'abbia fatto. Non so di dove venisse. Non sono neanche sicuro della sua identità. Ciò che so è che la strega era furiosa quando mi ha trovato che parlavo con lei, ed ecco perché sono qui!» Fece una pausa, sfregandosi il mento setoloso. Pezzi di lerciume volarono via. «Anche se forse non è del tutto esatto dire così. Sapete, ha chiesto alla strega di non farmi del male, la ragazzina. Ma non credo che la strega si curasse molto di lei: sembrava avere tutte le intenzioni di arrostirmi come una bistecca.» «Ma non l'ha fatto» intervenne Questor, cercando di mettergli fretta, ansioso di dare corpo ai suoi sospetti. Poggwydd scosse la testa. «Be', c'era questo cucciolo di fango, sapete. Credo che forse sia stato lui a evitare che accadesse.» Appariva di nuovo tutto confuso. «È possibile?» Riuscirono infine a cavargli fuori tutta la storia, anche se ci volle un bel po'. Appresero come Mistaya si fosse presentata al suo campo, non lontano dal Pozzo Infido, e gli avesse rivolto la parola. Seppero di Haltwhistle e di come sembrasse essere il compagno della ragazza. Infine, ascoltarono dell'inattesa apparizione della Strega del Crepuscolo, la sua collera nello scoprire Mistaya fuori del Pozzo Infido, e il suo attacco a Poggwydd, che sembrava essere stato in parte neutralizzato dalla magia del cucciolo di
fango, con il risultato dell'arrivo dello Gnomo a Graum Wythe. «Proprio come noi!» esclamò Abernathy mentre lo Gnomo finiva il suo racconto. Ormai quest'ultimo stava in piedi accanto a Questor Thews, e appariva alquanto rianimato. «Questor, a noi dev'essere capitata la stessa cosa. Il cucciolo di fango è intervenuto, ha trasformato la magia della strega, e ci ha mandato qui! Sembra che le cose si siano svolte esattamente allo stesso modo!» «Senz'altro» confermò Questor, stringendo le labbra e spremendosi le meningi. «Che posto è questo?» chiese ancora una volta Poggwydd. «Ancora non me l'avete detto.» «Fra un minuto» replicò Questor, distogliendo per un attimo lo sguardo per poi riportarlo su di lui. «Ma chi ha mandato il cucciolo di fango a Mistaya? Dev'essere accaduto quella notte, mentre dormivamo, prima dell'arrivo della strega. Eravamo nella regione dei laghi, quindi potrebbe essere stato il Signore del Fiume. Ma l'unico cucciolo di fango di cui abbia sentito parlare, fuori delle nebbie fatate, è quello al servizio della Madre Terra.» «Che differenza fa?» tagliò corto Abernathy. «Quello che importa è che la strega ha in suo potere Mistaya, e se ne serve per far del male all'Alto Signore, proprio come aveva promesso di fare. Avevi ragione, Questor Thews. Siamo qui per uno scopo, e deve aver qualcosa a che fare con Ben Holiday. Dobbiamo assolutamente scoprire quale sia.» «Un libro di sortilegi» rammentò Questor, tornando al punto di partenza di quella conversazione. «D'accordo, allora.» Fece dietrofront, si diresse in fretta da Poggwydd e pose le mani con fermezza sulle strette spalle dello Gnomo. «Dove ci troviamo non ha importanza, Poggwydd. L'importante è che lei non sia in pericolo immediato. Ma la ragazzina, Misty, si. Dobbiamo uscire di qui e tornare da lei. C'è qualcosa qui, in questo luogo, che può aiutarci a farlo... se riusciamo a trovarlo. Questo è quello che abbiamo intenzione di fare, in questo momento. Mentre noi cerchiamo, voglio che lei rimanga qui.» Poggwydd si guardò attorno dubbioso. «Perché dovrei farlo? Perché non posso andare a casa? Posso trovare la strada, se mi fate uscire di qui.» Questor lo guardò con simpatia. «Non da qui, non è possibile. Dovrà avere fiducia in me, su questo punto.» Fece una pausa, pensieroso. «Se lei ci proverà, Poggwydd, la Strega del Crepuscolo potrebbe rimetterle le mani addosso. Mi capisce?»
Lo Gnomo si affrettò ad annuire. Aveva capito, senz'altro. «Farò come dite» acconsentì, riluttante. «Quanto dovrò aspettare?» «Non lo so. Forse parecchio. Dovrà essere paziente.» Poggwydd tirò su col naso. «Non ho niente da mangiare. Sono affamato.» Abernathy alzò gli occhi al cielo. Questor strinse le spalle dello Gnomo e lo lasciò andare. «Lo so. Si faccia coraggio. Cercheremo di trovare qualcosa da mangiare e gliela porteremo. Ma lei dovrà rimanere dove si trova, a qualunque costo. Questo è importante, Poggwydd. Non deve lasciare questa stanza per nessun motivo. Ci siamo intesi?» Lo Gnomo si strofinò il naso e scrollò le spalle. «Intesi. Aspetterò. Ma cercate di fare in fretta.» «Faremo più in fretta che potremo.» Questor si allontanò, e tornò a guardare Abernathy ed Elizabeth. «Dobbiamo cominciare subito, turisti o non turisti. Prima le sale comuni, poi torneremo nei magazzini. Ma sarei pronto a scommettere che il libro che cerchiamo è proprio qui sotto il nostro naso.» «Sapete» disse Elizabeth soprappensiero «credo che ci fossero dei libri che erano tenuti separati dagli altri, perché erano scritti in una lingua che nessuno qui conosceva. Mio padre me ne parlò, una volta.» «Finalmente una traccia!» esclamò Questor con un moto di aperto entusiasmo. «Libri scritti nella lingua di Landover, portati qui da Michel o da mio fratello! Dovrebbero essere quelli giusti, no?» E con quelle parole, dopo un ultimo, rassicurante sorriso e un gesto della mano di Questor all'indirizzo di Poggwydd, uscirono dalla porta e ripresero a girare per il castello. La ricerca richiese più tempo del previsto, comunque, e durò fino al tardo pomeriggio, quando gli ultimi turisti si affrettavano a tornare alle loro macchine e agli autobus per andare a casa. Frugarono per due volte le stanze del castello, prima di trovare quello che stavano cercando. C'erano libri in ogni stanza, e la maggior parte di essi erano sotto chiave. Questo voleva dire tener d'occhio i libri e distrarre sia i turisti che i guardiani mentre le serrature venivano aperte e si procedeva a un rapido esame dei libri per scoprire se vi fosse quello che cercavano. Questor usava la magia sui lucchetti, il che accelerava le operazioni, ma il controllo dei libri richiedeva un enorme impiego di tempo, e per buona parte della giornata non si approdò a nulla.
Finché, al termine della giornata, quando il tempo stava per finire e il castello stava chiudendo, Elizabeth si rammentò di una vecchia e massiccia libreria con le ante a vetri in uno studio del piano superiore, incassata in una rientranza che non era visibile dall'ingresso sbarrato da una corda. Li c'erano dei libri, pensava. Solo alcuni, ma se ne ricordava perché suo padre una volta aveva accennato alla loro copertina. Seguendo il suo suggerimento, si precipitarono nello studio mentre un campanello suonava la chiusura nell'atrio sottostante. Mentre la ragazza e Abernathy facevano la guardia, Questor scavalcò la corda e si fece strada zigzagando in una specie di percorso di guerra fatto di ogni tipo di mobilia, fino a giungere alla libreria. Sbirciò all'interno. Non c'era dubbio, i libri c'erano: all'incirca una dozzina, erano tutti avvolti in copertine di tessuto scuro che ne nascondevano il titolo. Il lucchetto della libreria era chiuso, ma bastò un sussurro di magia e le ante si aprirono. Emozionato, Questor trascurò un servizio di bicchieri d'ametista che si trovava in primo piano e tirò fuori il primo libro. Con sua somma delusione, trovò che era scritto in inglese e non aveva assolutamente niente a che fare con Landover. Ne controllò altri due. La stessa cosa. Un altro vicolo cieco, a quanto pareva. Con la speranza che cominciava a vacillare, andò avanti più rapidamente. Libri di giardinaggio, di viaggi e di storia. «Questor Thews, sbrigati!» sibilò Abernathy dalla soglia della stanza, mentre si avvicinavano rapide delle voci dal basso. Questor aprì l'ottavo libro della collezione e strabuzzò gli occhi. Era scritto in Landoveriano Antico, una lingua che i vecchi maghi usavano comunemente. Ne scorse rapidamente le pagine per accertarsene, mentre le voci si facevano sempre più distinte: risate, un veloce saluto a Elizabeth, la sua risposta. Febbrilmente, s'incuneò tra la parete e la libreria, dov'era invisibile a chiunque guardasse dalla porta. «Ancora a rovistare, Elizabeth?» chiese qualcuno, che si fermò aldilà delle corde. «Non hai fame?» «Oh, abbiamo quasi finito» rispose lei con una risatina nervosa. «Le dispiace se ci tratteniamo un altro po'?» «Un'ora» ammonì una seconda voce. «Poi andiamo via. Chiama se hai bisogno di qualcosa.» Le voci andarono affievolendosi lungo il corridoio per poi svanire. «Questor!» lo avvisò Abernathy per la seconda volta, chiaramente sulle spine. Questor abbandonò il suo nascondiglio e gettò uno sguardo alla sua sco-
perta. Con cautela tirò via la copertina scura. C'erano simboli in foglia d'oro impressi a fuoco sulla rilegatura in cuoio che dicevano: Mitologie del passaggio. «Maledizione!» mormorò, rimise a posto il libro ed estrasse il successivo. Storie delle Pianure. Afferrò il terzo. Trattato teorico sulla magia e sulle sue applicazioni. «Si, si, si!» sussurrò il mago, sollevato. Non aveva il tempo di leggerlo lì, lo sapeva. Controllò l'ultimo volume e non trovò nient'altro. Doveva sperare che quello che teneva fra le mani contenesse ciò che stavano cercando. Riattraversò velocemente la stanza fino alla porta. «Ce l'ho!» annunciò trionfante mentre raggiungeva Elizabeth e Abernathy. Improvvisamente suonò un allarme. Tutti fecero un salto, e a Elizabeth sfuggì un piccolo urlo. Questor ficcò rapidamente il libro nella borsa che aveva portato. «Cos'è successo?» ansimò, con barba e capelli canuti che sparavano in tutte le direzioni. «Cosa ho fatto?» «Non credo che lei abbia fatto alcunché!» Elizabeth lo afferrò per un braccio cercando di fermarlo mentre si girava frenetico di qua e di là, in cerca di immaginari assalitori. «È un allarme antincendio! Ma non riesco a immaginare cosa possa averlo fatto scattare!» Questor Thews e Abernathy si guardarono simultaneamente. «Poggwydd!» esclamarono. Si affrettarono lungo il corridoio fino alle scale e presero a scendere, spingendosi e urtandosi l'un l'altro, e parlando tutti assieme. «Non avremmo dovuto lasciarlo solo!» si lamentava Questor, tenendo stretta al petto la borsa con il suo prezioso contenuto. «Avremmo dovuto legarlo e imbavagliarlo!» dichiarò stizzito Abernathy. Dal basso giungeva l'eco delle grida. «Forse non si tratta di lui!» li incoraggiava Elizabeth. Ma era lui, naturalmente. Appena giunti in fondo alle scale videro Poggwydd trascinato da due guardie giurate. Lo Gnomo era tutto arruffato e coperto da capo a piedi da una patina di cenere. Si dibatteva e gemeva pateticamente mentre le guardie lo tenevano a distanza di braccia tra di loro e sembravano chiedersi chi o che cosa fosse la loro preda. «Ragazzi, ora le ho viste proprio tutte!» stava mormorando uno di loro. «Chiudi il becco e non mollare la presa!» grugnì irritato l'altro. Poggwydd si avvide di Questor Thews e stava per chiamare aiuto, ma il
mago fece un rapido gesto con una mano e lo stupito Gnomo Va' Via si ritrovò istantaneamente privato della voce. La sua bocca si torceva nel disperato, ma vano tentativo di gridare. «State indietro, gente» li avvertì una delle guardie mentre passavano trascinando lo Gnomo che tentava di liberarsi. «Cosa avete preso?» chiese Questor, simulando sorpresa. «Chi lo sa.» L'attenzione della guardia si rivolse momentaneamente a Poggwydd che stava tentando di morderlo. «Una specie di scimmia, suppongo. Lercia come un maiale e due volte più brutta. L'abbiamo trovato in cucina, che cercava di appiccare il fuoco. Sembrava quasi che stesse cercando di cuocersi del cibo che aveva rubato, ma via, è una scimmia, no? Comunque, se l'allarme non avesse suonato, era capace di ridurre il castello in cenere. Guardate com'è aggressivo! Piccolo demonio. Dev'essere scappato da uno zoo, o qualcosa del genere. Come ha fatto ad arrivare fin qui, Dio solo lo sa.» «Be', state attenti» li avvertì Questor, cercando di evitare lo sguardo furioso di Poggwydd. «Ci può giurare» rise la guardia. «Calma, calma, animaletto» disse Questor rivolto allo Gnomo che continuava a divincolarsi. «Vedrai che verranno presto a prenderti!» «Non sarà mai troppo presto, per quel che mi riguarda!» esclamò l'altra guardia, e lo sfortunato Poggwydd fu portato via che scalciava e si contorceva, attraverso la porta principale e fuori vista. Questor, Abernathy ed Elizabeth rimasero in silenzio a guardare in quella direzione, per un momento. Poi Questor disse «È stata colpa mia. Mi ero completamente dimenticato di lui.» «Tu gli avevi detto di restare dov'era» gli rammentò Abernathy, evidenziando una notevole mancanza di simpatia. «Avrebbe dovuto darti retta.» «Questor, come ha fatto a impedirgli di parlare?» chiese Elizabeth. Il mago sospirò. «Un piccolo incantesimo. Non potevo assolutamente permettere che rivelasse chi siamo, ed era esattamente quello che stava per fare. Inoltre, sarebbe molto peggio per Poggwydd se scoprissero che sa parlare. È meglio che lo credano un animale, ve l'assicuro.» «Lui è un animale» mormorò Abernathy. «Stupido Gnomo.» «Stupido o no, dobbiamo aiutarlo» disse d'impulso Elizabeth. «Quello che dobbiamo fare» annunciò in fretta Questor «è tornare a casa, dove io potrò studiare questo libro per scoprire se è quello che stiamo cercando.»
«È meglio che lo sia» bofonchiò Abernathy. «Di Graum Wythe ho visto tutto quello che m'interessava vedere!» «Dove credete che lo porteranno?» chiese Elizabeth, con la fronte corrugata dalla preoccupazione. «Nel posto dal quale crederanno che sia venuto, immagino» replicò distrattamente Questor. Stava scrutando nella borsa, dove c'era il libro. «Non voglio che ci dimentichiamo di lui una seconda volta» insisté Elizabeth. Si avviarono all'uscita. «Sembra così inerme.» «Credi a me, è tutt'altro che inerme» disse Abernathy arricciando il naso. Stava pensando alla tendenza degli Gnomi Va' Via a divorare cani e gatti randagi. «Non si meritano un'oncia della tua simpatia. Sono degli scocciatori, fatti e finiti.» Elizabeth gli prese la mano e la strinse. «Stai facendo il difficile, Abernathy. Non è colpa sua se si trova qui.» «Non è neanche colpa nostra. Non ne siamo responsabili.» «Ha ragione lei, Abernathy» intervenne Questor Thews. Abernathy incenerì il suo amico con gli occhi. «Lo so che ha ragione. Non c'è bisogno che tu me lo dica.» «Stavo solo cercando di mettere in chiaro...» «Dannazione, Questor Thews, perché continui a disquisire...» Sempre discutendo tra di loro mentre Elizabeth tentava invano di ristabilire qualche parvenza di pace, il mago e lo scrivano giunsero in fondo al corridoio fino all'ingresso principale del castello, per trovarsi poi all'esterno, nella luce calante. Davanti a loro una macchina della polizia della Contea di King stava giusto partendo. Dopo che furono tornati a casa di Elizabeth, Questor Thews rimase in piedi tutta la notte a leggere il libro trafugato. Sedeva tutto curvo in una poltrona in un angolo della camera da letto con una lampada che illuminava le pagine mentre le girava a una a una. Ben presto ebbe la certezza che quel libro era quello che stavano cercando, e che nascosta nel suo testo c'era la risposta all'enigma della loro insperata fuga dalla Strega del Crepuscolo. Trattato teorico sulla magia e sulle sue applicazioni. Erano proprio li, tutte le scoperte di tutti i maghi dagli albori di Landover, espresse sotto forma di postulati e di assiomi, teorie dimostrate e presunte: mancavano solo la ricetta e gli ingredienti di ogni singola pietanza. Erano teorie, non formule, ma erano quanto bastava per penetrare l'essenza delle cose. Que-
stor sapeva, oltretutto, cosa doveva cercare. Si diede dello stupido, ma dovette ammettere che l'ovvietà della verità che gli stava davanti era indiscutibile una volta che ne avesse accettata la possibilità. Continuò a studiare il libro instancabilmente, ignorando la fatica, vincendo la crescente paura, andando avanti a leggere con determinazione. Dall'altra parte della stanza Abernathy dormiva con la faccia rivolta verso il muro. Meglio così. Non voleva guardare in viso il suo amico proprio adesso. Qualche tempo dopo le lunghe, interminabili ore che seguivano la mezzanotte Questor Thews trovò ciò che stava cercando. Anche così, continuò a leggere, non volendo dare niente per scontato, riluttante a porre termine alla sua ricerca di una risposta migliore, anche se sapeva già che non l'avrebbe trovata. Lesse il libro fino all'ultima parola, e lo rilesse ancora. Studiò i singoli passi e considerò tutte le possibili alternative finché non gli fece male la testa. Poi tornò al passo che aveva scoperto per primo e lo lesse di nuovo, lentamente, con attenzione. Non c'era alcun dubbio. Era quello che stava cercando. Era la risposta che aveva voluto. Sospirò e posò il libro in grembo. Guardò di nuovo Abernathy, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. La sua faccia si corrugò, e sentì una fitta lancinante al petto. La vita era così ingiusta alle volte. Desiderò che le cose fossero diverse. Desiderò che questo non dovesse accadere a lui. Il suo corpo scheletrico si accasciò in un ammasso di vecchie ossa e di pelle raggrinzita, e il cuore diventò un macigno nel suo petto. Alla fine, spossato dalle emozioni, alzò il braccio, spense la luce e rimase seduto immobile nell'oscurità, ad aspettare il mattino. 17 Lo spettro «Il titolo del libro è Mostri dell'uomo e del mito» disse Ben a Willow, parlandole direttamente all'orecchio. Montarono in due su Giurisdizione ancora recalcitrante, Willow davanti e Ben di dietro. Bunion aveva recuperato la cavalcatura dopo una lunga caccia, e adesso si dirigevano di nuovo a occidente, verso le Pianure. Davanti a loro si ergeva la nera muraglia di un temporale in arrivo. Alle loro spalle rimanevano i resti del vorme e il puzzo sulfureo di cenere e gas dalle Fonti di Fiamma. Dal cielo, il sole picchiava inesorabile, un disco accecante al calor bianco che trasformava l'arida desolazione delle Lande Steri-
li Orientali in una fornace. La pioggia sarà un gradito sollievo, pensò stancamente Ben, cercando di scacciare il pensiero della sete incombente. «E le creature di Rydall erano in questo libro?» chiese Willow dopo un po', voltandosi a mezzo sulla sella per guardarlo un momento in faccia. Lui annuì nei suoi capelli di smeraldo, riempiendosi le nari del loro palpabile profumo. «Un gigante che prendeva la sua forza dal contatto con la terra, un dèmone che poteva replicare l'aspetto e le capacità di qualsivoglia nemico gli si parasse davanti, e un uomo meccanico robotizzato, corazzato e indistruttibile.» Si perse con lo sguardo nella infuocata distesa, cercando di distinguere la geografia del territorio contro il nero del temporale. «Non ricordo le singole storie altrettanto bene quanto la figura del robot. Quella è proprio sulla copertina, ed è esattamente corrispondente al mostro di Rydall. Ma sono tutti li. È come se Rydall avesse letto quel libro!» «Ma questo non è possibile, vero?» Ben sospirò. «Direi proprio di no.» Willow guardò di nuovo davanti a sé. Il paesaggio luccicava tremolando nel calore e nella polvere. Bunion era da qualche parte in esplorazione, per prevenire ulteriori guai. Se avesse individuato qualche pericolo, avrebbe cercato una via per aggirarlo. Un altro scontro nelle loro attuali condizioni era impensabile. «Dov'è questo libro?» chiese Willow. «In biblioteca con gli altri» rispose Ben. «È uno dei tanti che ho portato con me dalla mia vita passata, libri che pensavo mi sarebbe piaciuto tenere. Ricordo anche perché avevo scelto quello in particolare. Ce l'ho da quando ero ragazzo, e sembrava raffigurare una parte delle cose che speravo di trovare qui a Landover: come se ciò che non era reale nella mia vecchia vita potesse esserlo in questa.» Scosse la testa. «Il mio desiderio si è realizzato, a quanto pare.» Willow rimase silenziosa per un momento. «Ma come avrebbe fatto Rydall a venirne a conoscenza?» Ben scrollò le spalle. «Non riesco a immaginarlo. Non c'è una spiegazione plausibile. Perché avrebbe dovuto conoscere questo libro invece di qualunque altro? Ha studiato tutta la mia biblioteca? Forse la sua magia le consente di scegliere un libro a caso e di leggerlo senza neanche trovarsi li sul posto?» Inghiottì a vuoto, con la gola secca, e tenne sotto stretto controllo le sue reazioni. «La cosa su cui continuo a scervellarmi, Willow, è l'incoercibile sensazione che tutta questa faccenda sia di carattere pretta-
mente personale. Rydall che usa le mie stesse cose contro di me; che colpisce la mia famiglia e i miei amici; che rapisce Mistaya, Questor e Abernathy; che attacca te e me, perseguitandoci dappertutto con questa storia di mandare i suoi mostri contro il Paladino; che mi segue dovunque vada; proprio non mi convince. In teoria Rydall farebbe tutto questo per la questione del trono, ma non mi sembra, considerato il suo comportamento, che Landover sia il suo obiettivo primario.» Willow annuì senza guardarlo. «No» convenne, e ripiombò nel silenzio. Cavalcarono tutto il pomeriggio finché la burrasca non li raggiunse, proprio mentre giungevano alle Pianure. Nuvoloni neri si addensarono sulla loro testa, oscurando completamente il sole e il cielo azzurro, e la pioggia li investì, furiosa e accecante, inzuppandoli fino all'osso in un batter d'occhio. La polvere e lo sporco del viaggio ben presto vennero lavati via dal loro corpo, e l'aria attorno a loro rinfrescò. Giurisdizione procedeva nella guazza, con la testa bassa per ripararsi dalle raffiche di vento e dalla pioggia battente, e subito ricomparve Bunion per guidarli in un boschetto di aceri che costituì un efficace riparo contro l'acquazzone. Smontarono, si tolsero i vestiti, li strizzarono e poi li stesero ad asciugare vicino al fuoco che Bunion, non si sa come, era riuscito ad accendere. Seduti a gambe incrociate in un morbido tappeto erboso sotto le fronde protettive degli alberi, osservarono la burrasca che, dopo aver infuriato ancora un po' attorno a loro, si spostò. Calò l'oscurità, e il mondo aldilà del loro accampamento svanì. Si rivestirono, masticarono di malavoglia qualche gambo di Bonnie Blu, si avvolsero nelle loro mantelle da viaggio e si addormentarono rapidamente. Quando si destarono pioveva di nuovo, una pioggerellina lenta e insistente che cadeva da un cielo plumbeo, basso e greve. Tutta la zona attorno a loro, già alle prime luci dell'alba era immersa nel grigiore e nella nebbia. Montarono ancora una volta in sella a Giurisdizione e si avviarono sotto la pioggia. Bunion li precedette, come sempre, una sagoma piccola e inconsistente che sgambettò nell'oscurità fino a scomparire alla vista. La giornata estiva era calda e pregna dell'odore di terra bagnata. Davanti a loro, le praterie si stendevano a perdita d'occhio in una scacchiera di verdi e marroni, di campi coltivati e di rigogliosi pascoli, di foreste lussureggianti e colture in crescita, il tutto intervallato da fiumi e laghi che nella piovigginosa foschia assumevano l'aspetto di metallo fuso, con la superficie delle acque mossa dalla lieve brezza che spirava sulla pianura. Per mezzogiorno Bunion era tornato con un secondo cavallo. Non offrì
alcuna spiegazione sulle circostanze della sua cattura, e Ben e Willow non ne chiesero. Non era una bestia da fattoria; era un cavallo da corsa in piena regola. Willow si mise di fronte all'animale, una cavalla bruna, e le disse qualche parola d'incoraggiamento, poi montò dolcemente in sella e fece girare la bestia in modo da portarsi al fianco di Ben. Quindi gratificò Bunion di un sorriso e di una strizzatina d'occhio, e il coboldo ripartì. Continuarono a cavalcare per il resto di quella giornata e per la maggior parte della successiva. Per tutto il tempo continuò a piovere, e procedettero sempre completamente inzuppati, tranne per i brevi periodi in cui facevano il campo e riuscivano ad asciugarsi e a tenere lontana l'umidità grazie ai fuochi che Bunion sembrava sempre in grado di attizzare. Passarono da Rhyndweir e da parecchi altri castelli dei Signori delle Pianure, ma non si fermarono a chiedere riparo. Ben non aveva alcun interesse a incontrare gente, e preferiva ridurre al minimo il rischio di altri attacchi da parte di Rydall. Sorprendentemente, non ce ne furono. Poiché Rydall li aveva localizzati nelle Lande Sterili Orientali con il vorme, Ben ne aveva dedotto che fosse in grado di raggiungerli dovunque. Data la frequenza e l'intensità degli attacchi, se ne aspettava ormai un altro. D'altro canto, Rydall aveva già impiegato quattro dei sette sfidanti che aveva promesso, e forse stava riconsiderando la sua strategia. Comunque Ben pensò che non valesse la pena starci a rimuginare. Era semplicemente grato per quella tregua. Impiegò il tempo a pensare. Usando la sua mantella da viaggio come uno scudo contro le intemperie, affiancato da Willow, un silenzioso spettro a cavallo, e con la pioggia come una cortina che avviluppava ogni cosa in un silenzio grigio e umido, Ben Holiday diede un calcio allo sconforto e alla noia e si concentrò sull'enigma di Rydall di Marnhull. Cominciò a prendere in considerazione ipotesi che prima non aveva contemplato. Alcune di queste gli furono suggerite dal suo crescente senso di disperazione. Sentiva che il tempo gli sfuggiva. Prima o poi Rydall avrebbe mandato un mostro dal quale nessuno avrebbe potuto salvarlo: né il Paladino, né Strabo, né chiunque altro. Prima o poi le sue difese si sarebbero rivelate meno forti del solito, e la lotta per la sopravvivenza si sarebbe conclusa. L'unico modo per evitare che questo accadesse era scoprire il segreto che stava dietro a Rydall, e Ben non sembrava essersi avvicinato di un'acca alla soluzione di quel mistero. Così decise di smetterla di pensare in maniera prevedibile, di essere più innovativo, più audace. Doveva smetterla di farsi prendere in giro da Rydall. Doveva rifiutarsi di seguire le vie che il Re di Marnhull gli indicava e cominciare a tracciarne di proprie. Attorno a Ben
Holiday si stava tendendo una rete, e lui la sentiva stringersi a ogni nuovo filo che si aggiungeva alla trama. Doveva trovare il modo di recidere quei fili. Le sue meditazioni, comunque, non derivavano tanto dalla sua disperazione quanto dalla consapevolezza che nella rete accuratamente intessuta da Rydall c'erano alcuni fili sciolti. Prima di tutto, c'era la crescente certezza di Ben che la trovata di Rydall di mandare mostri a combattere contro il Paladino era parte di un gioco che era molto più incentrato sulla persona di Ben che non sul trono di Landover. In secondo luogo, lui aveva riconosciuto tre dei quattro mostri, e sapeva che venivano dalle storie contenute nel suo libro Mostri dell'uomo e del mito. Quei tre erano stati creati seguendo le descrizioni dello scrittore nei minimi dettagli, come se Rydall avesse copiato le creature direttamente dalle pagine del libro. Tre, ma non il quarto. No, il quarto, il vorme, proveniva da qualche altra parte. Una delle magie preferite delle streghe, lo aveva informato Strabo. A Landover questo voleva dire la Strega del Crepuscolo. Prima non aveva considerato seriamente la possibilità che la strega potesse essere coinvolta in quella storia. Perché avrebbe dovuto? Rydall era uno straniero, un usurpatore di poteri, un intruso le cui mire erano diametralmente opposte a quelle della Strega del Crepuscolo. D'altra parte, nessuno odiava Ben Holiday e la sua famiglia più di lei. Non fosse stato per l'ingombrante presenza di Rydall, tutto quell'affare avrebbe puzzato fortemente dei maneggi della strega. L'uso della magia nera, l'attacco alla famiglia e agli amici, e l'evidente tentativo di distruggerlo sembrava tutta opera della Strega del Crepuscolo. Anche se non aveva avuto sue notizie da più di due anni, non si aspettava che lei avesse dimenticato la sua implicita promessa di fargliela pagare per quello che le era capitato nella Scatola Magica. Per quello che era stata spinta a provare per lui quando erano entrambi privi della loro identità. Per quella che lei considerava la perdita della propria dignità. E se non ci fosse nessun Rydall? Certo, chiunque avrebbe potuto mascherarsi da Re di Marnhull; ma se lo stesso Rydall fosse tutta un'invenzione? Nessuno aveva mai sentito di Rydall di Marnhull: né il Signore del Fiume, né Kallendbor e neanche Strabo, che aveva viaggiato dappertutto. Nessuno era stato in grado di trovare Rydall o Marnhull. Non c'era traccia di Mistaya, Questor Thews o Abernathy. Non c'era alcun segno di un esercito invasore. L'unica evidenza fisica di Rydall in tutto quell'episodio l'avevano avuta quando il Re di Marnhull e il suo compare dalla cappa nera
erano apparsi ai cancelli di Sterling Silver. Allora, argomentò Ben, supponiamo che tutta questa faccenda non sia altro che una elaborata sciarada. Qual era, in fin dei conti, l'unico posto che non aveva perlustrato da quando Mistaya era sparita? Qual era l'unico posto che aveva ignorato perché non gli era facilmente accessibile e perché non gli era sembrato ragionevole guardare lì? Qual era l'unico posto che nessuno di loro aveva visitato? Il Pozzo Infido, il regno della Strega del Crepuscolo. I sospetti di Ben Holiday si concretavano. Quella che era partita come una disamina delle possibilità si tramutò presto in una minuziosa analisi dei fatti. La Strega del Crepuscolo nei panni di Rydall; non era certo meno plausibile di tutte le altre ipotesi che aveva esaminato. Oppure la strega nei panni del compare di Rydall, quello dalla cappa nera, come seconda alternativa. Rammentò il modo in cui il cavaliere incappucciato l'aveva studiato quando lui era sceso sul ponte a raccogliere il guanto, l'intensità di quello sguardo velato. Rammentò come i due cavalieri avessero osservato Mistaya quando lei era salita sulla merlatura. Il cuore gli si strinse, e sentì un gelo allo stomaco. Stava ormai per volgere al termine la loro terza giornata di viaggio, quando giunsero in vista di Sterling Silver. Il castello si materializzò nel grigiore come una visione resa vivida dalla fantasia oscura di un bambino, un baluardo luccicante e rigato dalla pioggia, irto di pinnacoli e bastioni, che s'induriva in pietra e calcina, legno e metallo, pennoni e stendardi man mano che si avvicinavano all'isolotto su cui sorgeva. Attraversarono il fossato avvolti da una cortina di nebbia e varcarono la soglia passando sotto la saracinesca sollevata. I servitori accorsero per prendere i cavalli e accompagnarli dentro, al riparo dalle intemperie. Ben e Willow si diressero in camera da letto senza una parola, si tolsero i vestiti inzuppati, si ficcarono in una vasca di acqua calda, e ci rimasero un bel po'. Quando una parte dei dolori e dei disagi del viaggio si fu dissipata, uscirono dal bagno, si asciugarono e indossarono abiti puliti. Poi Ben andò giù in biblioteca per dare un'occhiata da vicino alla sua copia di Mostri dell'uomo e del mito, e condusse Willow con sé. Individuò immediatamente il volume. Era sullo scaffale, esattamente nel punto in cui se lo ricordava. Lo tirò fuori e diede un'occhiata alla copertina. Eccolo li, senza alcun dubbio, il robot di Rydall. Prese a sfogliare le pagine e quasi subito trovò un disegno del gigante. Poi trovò la descrizione fatta dall'autore del demone che poteva replicare qualsiasi avversario.
Mostrò il libro a Willow. «Vedi? Perfettamente uguali ai mostri di Rydall.» Lei annuì. «Ma come ha fatto? Come ha fatto a sapere di questo libro e di questi particolari mostri? Ben, io stessa non sapevo di questo libro. Non sapevo neanche che fosse qui. Non ne abbiamo mai parlato, neanche una volta. Come faceva Rydall a conoscerlo?» Ben si rese conto che era vero. Non l'aveva mai preso per mostrarglielo, prima di allora. Non ne avevano mai discusso. Non c'era mai stata ragione di farlo. Lui l'aveva portato con sé attraverso le nebbie, l'aveva tolto dal suo pacchetto, sistemato nella biblioteca, e poi se n'era dimenticato. Fino a ora. Stava in piedi accanto alla silfide, e osservava quel libro, silenzioso. Fuori, la pioggia continuava a cadere con cupa e incessante monotonia, battendo sulla pietra con un ovattato picchiettio. Ben si sentì stranamente cullato, e gli sembrò di poter piombare nel sonno da un momento all'altro. Era più stanco di quanto non volesse ammettere, ma non poteva permettersi di dormire finché non avesse decifrato il mistero di Rydall e dei suoi mostri. Finché non avesse trovato un modo per riportare a casa Mistaya. Mistaya. Guardò sorpreso Willow. «Tu hai detto che non sapevi di questo libro. Ma sai chi lo conosceva? Mistaya. Una volta l'ho trovata che lo leggeva, sfogliandolo. Non dissi niente, non la interruppi. Credo che non si fosse neanche accorta che la guardavo. Era così piccola, e non pensavo che fosse in grado di capirlo...» S'interruppe, con la mente in subbuglio. «Willow» disse pacato «voglio che tu mi stia a sentire. Voglio che tu mi dica cosa ne pensi.» Allora le disse del suo sospetto che la Strega del Crepuscolo potesse aver creato Rydall, e che la Signora del Pozzo Infido potesse essere l'anima nera di tutto ciò che era loro capitato. Le spiegò tutte le sue ragioni, espose tutte le possibilità, e fornì tutti i puntelli per le sue congetture. Willow ascoltò attentamente, senza interrompere, finché non giunse alle conclusioni. «Il punto è» concluse in fretta Ben «che Mistaya potrebbe aver detto alla strega del libro, potrebbe aver fornito una descrizione dei mostri, potrebbe perfino aver fatto dei disegni. È abbastanza intelligente per aver potuto ricordare. Probabilmente ne aveva capito molto più di quanto le avessi riconosciuto.» «Ma perché avrebbe fatto questo?» Willow era ansiosa di saperlo. «Per-
ché avrebbe fatto qualcosa per aiutare la strega?» Ben scosse la testa. «Non lo so. Sto solo facendo delle ipotesi. Ma lei ha visto il libro, e se la Strega del Crepuscolo è Rydall, allora è stata la strega a rapirla. Ed è lei a tenerla prigioniera.» Willow gli rivolse uno sguardo fermo e prolungato, mentre considerava quella possibilità. «Ti ricordi quando ci chiedevamo chi fosse al corrente del collegamento tra il medaglione e il Paladino? Solo tu e io, dicesti tu. Ma anche la Strega del Crepuscolo lo sa. Era con te nella Scatola Magica quando usasti il medaglione.» Ben trasse un profondo respiro. «Hai ragione. Me n'ero dimenticato.» «Tu dicesti che era stata usata della magia per nascondere il medaglione quando fummo attaccati dal robot a Rhyndweir. La strega possiede quella magia.» Il volto di Willow era tirato. «Ben, dobbiamo andare nel Pozzo Infido.» Ben rimise al suo posto il libro sullo scaffale. «Lo so. Andremo domani, appena svegli. È troppo tardi adesso per rimettersi in viaggio. Siamo esausti. Abbiamo bisogno almeno di una notte di sonno in un letto asciutto.» Si avvicinò a lei e le cinse la vita con le braccia. «Ma non c'è dubbio che ci andremo» promise. «E se Mistaya è li, la riporteremo a casa.» Willow rispose all'abbraccio stringendosi a lui e posando la testa sulla sua spalla. Rimasero così in silenzio, traendo conforto e coraggio dalla loro unione, corazzandosi contro il senso di paura e d'incertezza che si agitava nel loro petto. All'esterno, le ombre si allungavano per il declinar del sole, e la pioggia cadeva più forte. Consumarono la cena da soli nella silenziosa oscurità della sala da pranzo, due figure curve e solitarie, una accanto all'altra, nel cerchio di luce della candela che tentava di tenere a bada il buio circostante. Non parlarono molto, troppo stanchi per intavolare una conversazione, troppo immersi nei propri pensieri. Quando ebbero finito, si ritirarono in camera da letto, si ficcarono sotto le coperte e piombarono subito nel sonno. Era mezzanotte quando Ben si svegliò. Rimase steso per un momento, cercando di orizzontarsi. Avvertiva un lieve bruciore laddove il medaglione toccava il petto, l'avvertimento che c'era qualcosa che non andava. Si levò lentamente a sedere, con le orecchie tese a captare il minimo rumore nell'oscurità. La pioggia era finalmente cessata, ma le nubi velavano ancora il cielo come un sudario, offuscando la luce delle lune e delle stelle. Po-
teva sentire l'acqua che colava dalle grondaie e dai bastioni, tonfi piccoli e soffocati nella notte nera come l'inchiostro. Accanto a lui, il respiro di Willow era calmo e regolare. Poi sentì qualcosa grattare contro la pietra fuori della finestra, un suono appena percettibile, un sussurro di pericolo in arrivo. Scivolò rapidamente fuori dal letto, senza alcun rumore, sentendo ormai il medaglione come un disco rovente contro la pelle. Fu percorso da un'ondata di panico. Sapeva cosa c'era in arrivo, e non era pronto. Era troppo presto. Si era voluto convincere che Rydall non avrebbe colpito così presto, che ci avrebbe pensato prima di mandare il suo quinto mostro. Ben gettò un'occhiata nella stanza, in cerca di aiuto. Dov'era Bunion? Non aveva più visto il coboldo dal momento del loro ritorno. Era da qualche parte li vicino? Si voltò verso il letto e verso Willow. Doveva farla uscire di li. Doveva portarla al sicuro, lontana da quanto stava per accadere. La prese per una spalla e la scosse delicatamente. «Willow!» sibilò. «Svegliati!» I suoi occhi si aprirono istantaneamente, brillanti come smeraldi anche nella semioscurità, grandi e profondi e pieni di comprensione. «Ben» disse. Poi la luce nella stanza si modificò, perché un'ombra si era stagliata contro la finestra, e Ben si voltò a guardarla. L'ombra si sollevò fino all'apertura e rimase li, accovacciata contro l'oscurità meno intensa della notte, stilizzata e sinuosa e in qualche modo terribilmente familiare. Ben non poteva vedere, ma poteva avvertire, gli occhi dell'ombra su di lui. Poteva sentire gli occhi prendergli le misure. Non si mosse, cosciente che se l'avesse fatto sarebbe morto prima di poter portare a termine qualunque abbozzo di reazione. La sua mano era già chiusa sul medaglione, come per istinto proprio, come se avesse raggiunto di propria volontà l'unico aiuto che gli fosse rimasto. Tenne il medaglione nella stretta delle dita, sentendo al tatto l'immagine incisa del cavaliere che usciva dal castello all'alba, il Paladino che lasciava Sterling Silver per dare battaglia in difesa del suo Re. Sentì l'immagine e scrutò l'ombra nella finestra, rendendosi conto che non era completamente liscia e tesa come aveva creduto, ma presentava squarci e lacerazioni, come una creatura che avesse subito qualche catastrofico incidente e ne conservasse le ferite perché non c'era possibilità di guarigione. Dall'ombra pendevano pezzi e brandelli, come se le fossero stati strappati interi strati di pelle. I tronconi spezzati delle ossa fuoriuscivano da giunture che non avevano più niente di integro.
Non emetteva alcun suono, ma Ben poteva sentire il muto lamento del suo ineluttabile dolore e della sua disperazione. Poi la testa dell'ombra si spostò leggermente, piegandosi da un lato, un po' di più, e un paio di occhi argentei luccicarono dal buio come quelli di un gatto. A Ben si mozzò il respiro. Era l'Ardsheal, tornato dal regno dei morti. Non ebbe il tempo di riflettere come questo potesse essere accaduto, nessuna possibilità di fare congetture sul suo significato. La sua risposta fu istintiva ed estranea sia alla ragione che alla speranza. Le sue dita si strinsero sul medaglione, e la luce esplose all'esterno in strali di accecante luminosità. Willow urlò. L'Ardsheal si scagliò addosso a Ben, una pantera nera sulla preda, più svelta del pensiero. Ma il Paladino apparve all'istante, uscito da una improvvisa esplosione di luce, impossibilmente brillante, che eruttò nella decina di metri che dividevano il Re dall'assalitore. Il cavaliere si erse in uno sfavillio di corazza e armi d'argento, intercettando l'Ardsheal a mezz'aria e rintuzzandone l'assalto. La violenza dell'impatto mandò l'Ardsheal a sbattere contro il muro di pietra, e fece barcollare il Paladino che indietreggiò andando a sbattere contro il suo Re. Un gomito corazzato cozzò contro la testa di Ben, che crollò sul letto accanto a Willow, talmente stordito da riuscire a stento a tenere la presa sul medaglione. L'Ardsheal si rimise in piedi in un batter d'occhio, tirandosi su con la sinuosità di un serpente e con un'agilità che ben poco si accordava con le sue disastrose condizioni fisiche. In un turbine di dolore e di stordimento, con la vista offuscata e la testa dolorante per il colpo, Ben lo vide alzarsi. Ma sentì il dolore e lo stordimento dall'interno dell'armatura del Paladino, dove la sua coscienza era ormai irrevocabilmente alloggiata, destinata a rimanere li fino al trionfo o fino alla morte. Vide Willow abbracciare il suo corpo materiale, e sussurrare frenetica qualcosa nelle sue orecchie. Si chiese, in una frazione di secondo, quali potessero essere le sue parole, rammentandosi che era stata sua intenzione farla uscire da quella stanza prima che la battaglia infuriasse. Intravide un fuggevole barlume della faccia dell'Ardsheal nell'oscurità, senza un occhio, con uno squarcio che andava dalla fronte fino al mento, la pelle tutta solcata da tagli e lesioni. Lo rivide mentre precipitava dalla finestra del castello di Rhyndweir, trascinando con sé il robot fino alle rocce sottostanti e a morte certa. Si chiese come fosse potuto sopravvivere. Poi la struttura mentale del Paladino si chiuse come una visiera, e tutto
quel che seppe furono gli antichi ricordi del cavaliere, fatti di battaglie vinte e di sopravvivenze. Si immerse nella sua altra personalità, più forte dell'acciaio, quella del veterano temprato da mille battaglie, dalle quali solo lui aveva potuto emergere vincitore. Si ritirò nella sua armatura e nella sua esperienza, lasciando fuori qualunque vita vi fosse aldilà di esse, lasciando fuori l'uomo e la donna sul letto alle sue spalle, il castello in cui combatteva adesso, il mondo circostante, il passato e il futuro, tutto quello che non era il qui e l'adesso e il nemico che cercava di distruggerlo. L'Ardsheal fece una finta a destra, spostandosi a sinistra: lo metteva alla prova. Era una cosa morta, a giudicare dall'aspetto dei suoi occhi argentei e spenti, dall'orrendo miscuglio di pelle e ossa, dalle ferite aperte che segnavano il suo corpo. Ma viveva oltre la morte, nutrito dalla magia che si agitava tra i suoi tessuti una volta senza vita e richiedeva da lui un ultimo sforzo prima di lasciarlo riposare in pace. Il Paladino avvertiva tutto questo, edotto del suo nemico per conoscenza innata e da qualche scintilla della ragione e della memoria di Ben Holiday. Guardò lo spettro davanti a lui spostarsi e spostarsi ancora, serpentino, in cerca di un varco. Lo vedeva per quel pericolo che era, una creatura forgiata dalla magia a un unico scopo: predare e distruggere. Lo vedeva come aveva visto ben pochi dei suoi avversari: come un suo pari. L'Ardsheal portò il suo attacco con la velocità del fulmine, così in basso che sarebbe stato arduo riuscire a togliere le gambe. Il Paladino si gettò sulla creatura nello sforzo di inchiodarla a terra, piantando vanamente la spada nel pavimento di pietra mentre l'Ardsheal ruzzolava via, agguantando la visiera del cavaliere e torcendola senza pietà. Il Paladino si svincolò dalla presa e si alzò per affrontare ancora una volta il suo nemico. Rapidità e forza, astuzia ed esperienza: l'Ardsheal aveva tutto, e non sentiva niente al di fuori della magia che lo sosteneva. Non si sarebbe fermato; non avrebbe mollato. Avrebbe continuato ad attaccare finché non avesse potuto attaccare più. Un Ardsheal è un osso duro per qualsiasi essere vivente. Niente è più pericoloso. Le parole del Signore del Fiume. Nell'ombra stava acquattato l'Ardsheal. Il Paladino pensò per un momento di estrarre lo spadone, ma l'arma era troppo ingombrante e poco maneggevole per un nemico siffatto. Le armi piccole si sarebbero rivelate più efficaci, quando si fosse presentata l'occasione; come doveva assolutamente essere, se voleva sopravvivere. Passò il pugnale nella sinistra, e portò la destra sul suo lungo coltello,
ma l'Ardsheal gli fu addosso in un lampo, a tirare, strappare e torcere l'armatura e le membra. Il Paladino barcollò all'indietro sotto la furia dell'attacco, e sentì lo stridio di giunture che si spezzavano, e lo scricchiolio delle placche che minacciavano di cedere. Rinunciando al pugnale, assestò un colpo con le mani unite corazzate contro il petto della creatura, e riuscì ancora una volta a respingerla. Essa gli fu di nuovo addosso in un batter d'occhio, come un animale selvaggio, forsennato oltre ogni comprensione, una cosa in preda alla follia. Era impossibilmente forte, e la sua forza era accresciuta dalla sua mancanza di sensazioni e dal flusso magico che lo animava. Combatteva senza remore di alcun tipo; battagliava senza le complicazioni che la ragione e le emozioni comportano. I suoi sforzi erano puri e senza restrizioni, la sua lotta tesa a un unico scopo. Avrebbe vinto o perso, ma in ogni caso sarebbe morto. Per la terza volta il Paladino lo respinse, e questa volta riuscì a estrarre il coltellaccio prima che l'Ardsheal si potesse riprendere. Al suo prossimo assalto, l'avrebbe infilzato con la lama e l'avrebbe squarciato in due. Il suo respiro era grosso e irregolare. Anche se non l'avrebbe mai ammesso, perché non poteva permettersi di farlo, la sua forza stava già cominciando a scemare. Non sapeva se dipendesse dal fatto che aveva combattuto tante battaglie in un arco di tempo così breve, oppure dalle precarie condizioni fisiche del Re che serviva, poiché ambedue le cose potevano contribuire a determinare la sua sopravvivenza. Lui si affidava solo a se stesso, ma era irrevocabilmente legato all'uomo che richiedeva i suoi servigi e gli infondeva la sua forza di volontà. Se il Re mancava di determinazione, anche lui avrebbe potuto risentirne. Ma tali pensieri non erano consentiti. Quindi si disse soltanto che doveva porre una rapida fine alla battaglia senza perdersi in congetture. L'Ardsheal lo seguiva furtivo nell'oscurità della stanza, un'altra delle vaghe ombre notturne che fuggivano la luce. Aveva rinunciato ad attaccare frontalmente; stava cercando di fare qualcos'altro. Il Paladino si spostò, voltandosi a seguire i suoi movimenti ma senza lasciare la sua postazione a difesa del Re e della Regina. La sua armatura era scardinata in parecchi punti, e diverse placche pendevano dalle giunture. Si stava riducendo a pezzi, sbrindellato come il suo attaccante. Avvertiva gli occhi dell'altro che lo studiavano, alla ricerca di un varco. Sotto l'armatura il Paladino era vulnerabile. L'Ardsheal lo sentiva. Sarebbe bastato un colpo solo, se il colpo fosse andato in profondità. Finse un rapido assalto e si ritirò. Ne simulò un altro. Il Paladino tenne
la posizione, imponendosi di non cadere nei suoi tranelli. Poi, in un lampo, intuì quello che l'Ardsheal stava tentando di fare. Stava cercando di allontanarlo dal Re e dalla Regina quel tanto che bastava per lasciarli scoperti. Li avrebbe uccisi perché sentiva, o forse addirittura lo sapeva, che questo avrebbe significato anche la sconfitta del Paladino. Come se avesse letto nei suoi pensieri, l'Ardsheal rinnovò il suo attacco. Si lanciò in una carica impetuosa e selvaggia, talmente fulminea che si trovò quasi aldilà del Paladino prima che questi potesse reagire. Tuttavia, quest'ultimo fece appena a tempo ad afferrare il braccio dell'Ardsheal mentre stava piombando sulla Regina, e a scaraventarlo via. Questa volta lo inseguì, deciso a porre termine alla lotta, ma fu di nuovo troppo lento, e l'Ardsheal poté risollevarsi e scomparire nuovamente nell'oscurità. Altre due volte lo spirito elementare tentò di eludere la sua guardia, e in ambedue le occasioni fu sul punto di riuscirci. Soltanto l'esperienza e la determinazione del Paladino poterono tenerlo a bada. Adesso, sul letto dietro di lui, la Regina stava piangendo: con singhiozzi soffocati, quasi muta nella sua sventura, nella sua disperazione. Era una donna forte, ma la sua paura era immensa e impossibile da tenere nascosta. Era terrorizzata dall'Ardsheal. Il Re era di nuovo sveglio. Si era piazzato davanti a lei, e teneva il medaglione teso davanti a sé come un talismano. Erano troppo fragili, il Paladino lo sapeva, per sopravvivere se lui fosse caduto. Quel pensiero era un chiodo nel cervello che si affrettò a strappare e a gettare lontano da sé. L'Ardsheal svanì nel vuoto, lasciando il Paladino a frugare freneticamente nell'oscurità. Poi riapparve dal nulla direttamente davanti a lui, un'indemoniata macchia nera che gli si fiondò addosso e lo trascinò al suolo. Tentò di rompere la sua guardia per superarlo, ma il Paladino, momentaneamente accecato e stordito dalla caduta, lo agguantò per una gamba e lo trattenne. L'Ardsheal aggredì il campione caduto, gli tirò calci, lo colpì, si aggrappò con tutte le forze all'armatura indebolita, per sventrargliela. Il Paladino provò dolore. Disperato, si rimise faticosamente in ginocchio sotto la tempesta di colpi, con un poderoso sforzo che venne quasi esclusivamente dal cuore, e per un'ultima volta scaraventò via l'Ardsheal. Questa volta, quando l'Ardsheal si rimise in piedi, aveva un braccio pendente, quasi completamente staccato. Ma il Paladino era tutto un'accozzaglia di armatura fracassata e giunture divelte, di muscoli doloranti e arti esausti, ritto sui propri piedi per pura forza di volontà. Aveva sangue nella bocca e sul corpo. Teneva ancora stretto il coltellaccio, sempre in at-
tesa dell'opportunità di usarlo. Ma ora il tempo volava. Il tempo fuggiva rapido. L'Ardsheal si fece avanti, una forza implacabile, inesorabile. In quel momento la porta della stanza si aprì violentemente, e una piccola furia pelosa si gettò nella mischia. Si catapultò sull'Ardsheal e lo fece indietreggiare fino al muro. Tutto zanne e artigli, Bunion sembrava fuori di sé dalla furia. L'Ardsheal aveva abbassato la guardia e, sorpreso dalla violenza dell'attacco del coboldo, barcollò. Si contorse selvaggiamente, nel tentativo di scrollarsi di dosso il suo assalitore. Il Paladino si slanciò in avanti, per cogliere finalmente l'occasione che aveva tanto atteso. Conficcò il pugnale nel cranio dell'Ardsheal con tanta forza da piantarvelo fino all'impugnatura. L'Ardsheal s'inarcò in avanti, mentre i suoi occhi argentei si riempivano di sangue. Con uno strattone si liberò di Bunion e si voltò ad affrontare il Paladino. Ma il cavaliere aveva sguainato lo spadone, e con gli ultimi scampoli di forza rimastigli, col taglio della lama calò un terribile fendente sul suo nemico. La lama prese l'Ardsheal fra il collo e la spalla e penetrò in profondità. Sembrò affettarlo in due, scendendo giù giù fino al cuore della creatura. L'Ardsheal crollò sotto il colpo. Si contorse nell'agonia, e nei terribili occhi c'era la traccia di qualche antico riconoscimento che neanche la più nera magia poteva cancellare. Gli occhi rimasero sbarrati, e la magia svanì. Per la seconda volta la morte si era impadronita dell'Ardsheal. Distrutto, esausto, una sbrindellata caricatura del cavaliere d'argento che era stato all'inizio della battaglia, il Paladino ritirò la spada e si voltò verso il Re di Landover rannicchiato sul letto. I loro occhi s'incontrarono e si fissarono. Provava la strana impressione di guardare se stesso. Stava per piegarsi su un ginocchio, quando fu catturato dalla luce del medaglione che la mano del Re teneva ancora ben in vista, e consegnato a un sonno ristoratore. Nel silenzio che seguì Ben e Willow poterono sentire la pioggia che riprendeva a cadere. Furono chiamate le Guardie del Re, e si provvide a portar via i resti dell'Ardsheal. I rumori della battaglia non erano stati percepiti: una circostanza che solo l'ipotesi di un uso mirato della magia poteva spiegare. Quando gli armigeri furono andati via e la stanza tornò a essere pulita e in ordine, Bunion si mise di guardia fuori della porta. Il coboldo si riteneva responsabile per quanto era accaduto. Era di nuovo uscito in perlustrazione, poco
fuori le mura del castello, ma, chissà come, proprio il nemico che stava cercando aveva trovato il modo di eludere la sua guardia e di entrare non visto nel castello. Non furono pronunciate parole, ma la mortificazione di Bunion era scritta a chiare lettere nell'espressione dei suoi occhi e nel luccichio dei denti. Quando Ben e Willow furono di nuovo soli, si aggrapparono uno all'altra come all'ultimo pezzo di solida roccia sull'orlo di un precipizio. Non parlarono. Rimasero in piedi stretti nell'oscurità, e trassero conforto dalla loro unione. Willow tremava nel caldo estivo. Ben, per quanto apparisse saldo, era interiormente scosso. S'infilarono di nuovo nel letto, nel buio non più rassicurante, con gli occhi che frugavano la stanza, le orecchie tese al più impercettibile dei rumori. Non riuscirono a dormire, e non ci provarono neanche. Ben cercò di calmare il tremore di Willow, fugando almeno temporaneamente il suo terrore per la cosa che era venuta a ucciderli. La tenne stretta contro di sé e cercò di trovare le parole per quello che doveva dirle, per la confessione che sapeva adesso di dover fare se voleva ritrovare la pace. Di fuori, la pioggia tamburellava sulla pietra e gocciolava dalle grondaie con ritmo regolare. «Devo dirti qualcosa sul Paladino» disse alla fine, pronunciando di getto le parole che gli sembrava di non poter ordinare come avrebbe voluto. «Non è facile da spiegare, ma devo provarci. Siamo la stessa persona, Willow. In questo momento, i dolori che lui prova sono tutti su di me. Posso sentire la sofferenza del suo corpo e delle sue membra, la consunzione della sua anima, la ferita che minaccia di spezzarlo in due. Lo sento quando combatte, ma lo sento anche in questo istante.» Trasse un respiro profondo. «È tutto quello che posso fare, tollerarlo. Ho la sensazione che potrebbe squartarmi, spezzarmi tutte le ossa e appiattirmi al suolo. Anche adesso c'è. Lui è scomparso, ma questo non ha importanza.» Sentì la testa di lei sollevarsi dalla sua spalla, nel tentativo di guardarlo in volto. Sentì le dita della donna muoversi sul suo petto, indagatrici. «Lui è parte di me, Willow. Questo volevo dirti. È parte di me e lo è sempre stato, da quando venni a Landover e raccolsi il medaglione della Sovranità. Il medaglione ci unisce, ci rende un'unica persona quando io lo chiamo dal luogo ignoto in cui è in attesa.» La guardò, e distolse rapidamente lo sguardo. «Quando il medaglione lo evoca, la magia trasferisce una parte di me nella sua armatura. Non il mio corpo o la mia mente, ma il cuore e la volontà e la forza: le cose di cui ha
bisogno. In qualche modo, il Re e il campione del Re sono la stessa persona. È questo il vero segreto del medaglione. È un segreto che non potevo svelarti.» Gli occhi smeraldini di Willow erano fermi quando lei lo guardò. «Perché non potevi?» chiese pacata. «Perché avevo paura del suo effetto su di te.» Si impose di guardarla negli occhi senza abbassare lo sguardo. «Ci sono state volte che volevo dirtelo. Sentivo che avrei dovuto, che era sbagliato non farlo, ma avevo paura. Come avresti reagito nel sapere che ogni volta che il Paladino veniva evocato ero io (o almeno una parte importante, necessaria di me) che dovevo impegnarmi in battaglia? Come avresti reagito all'idea che la morte del Paladino avrebbe potuto provocare la mia stessa morte?» Scosse la testa, confuso. «Ma c'è di peggio. Ogni volta che compare il Paladino e io divento un tutt'uno con lui, mi sembra di allontanarmi sempre più dalla mia vera natura. Io divento lui, e ogni volta è sempre più difficile tornare indietro. Io vivo nel costante timore che una volta o l'altra potrei non essere in grado di tornare perché non lo voglio, perché ho dimenticato chi sono, perché mi piace quello che sono divenuto. Il potere della magia è così seducente! Quando sono il Paladino, lui è tutto quel che voglio essere. Se il medaglione non mi riconsegnasse a me stesso, se non si riprendesse il Paladino, non credo che potrei mai tornare di mia volontà. Penso che potrei perdermi per sempre.» Il dolore negli occhi di Willow era terribile a vedersi. «Avresti dovuto dirmelo» disse tranquilla. Lui annuì, svuotato di parole. «Non capisci, Ben? Io mi diedi a te incondizionatamente quando ti trovai nell'Irrylyn. Io appartengo a te, e niente mi farebbe mai andar via. Niente!» «Lo so» affermò lui. «No, non lo sai, altrimenti non avresti aspettato tanto per dirmi questo.» La sua voce era morbida, ma il fondo era duro come l'acciaio. «Non c'è nulla che tu non puoi dirmi, Ben. Né ora né mai. Saremo uniti sempre, fino alla fine. Tu sai cosa ci hanno predetto. Conosci la profezia. Non dovresti mai mettere in dubbio la forza della sua verità.» «Avevo paura...» cominciò, ma lei lo zittì subito. «No, non ne parlare, adesso. Lascia stare.» Lo toccò delicatamente. «Dimmi piuttosto. Tutto il suo dolore si riversa in te? Tutto quello che ha sofferto per difenderti?» Lui chiuse gli occhi. «Mi sento come se dovessi cadere a pezzi. Mi sembra di morire, e non riesco a trovare la ferita che mi uccide. È dapper-
tutto, dentro e fuori. Io sono nei frammenti sparsi per tutta la stanza: nell'aria, nel rumore della pioggia, nel mio stesso respiro. Non so cosa fare. Il Paladino ha vinto, ma sembra che io abbia perso. Richiamarlo così presto è stato un colpo troppo duro da sopportare. Ha richiesto troppe delle mie energie, Willow. Il mio cuore non può reggere tanto!» «Shh, basta» lo consolò lei, stringendosi a lui. Lo baciò sulla bocca. «Il tuo cuore basta per tutti noi, Ben Holiday. È stato sempre la tua forza più grande. Sei sopravvissuto a una battaglia terribile. Nessun uomo normale avrebbe potuto fare quello che hai fatto tu. Non sottovalutarti. Non sminuire l'impresa che hai compiuto. Ascoltami. Il segreto del Paladino adesso è nostro, non dovrai portarne il peso da solo. È più facile portarlo in due. Io ti aiuterò. Troverò il modo di sorreggerti quando sarai stanco e amareggiato come sei adesso. Ti farò da scudo contro il dolore. Se dovrai diventare il Paladino per amore nostro, io troverò il modo di riportarti indietro. Sempre. Per l'eternità. Io ti amo.» «Non ne ho mai dubitato» replicò lui sommessamente. «Da gran tempo sarei finito, se l'avessi fatto.» Lei lo accarezzò dolcemente sulla fronte, baciandolo ancora. Lui sentì che pian piano si rilassava e cominciava ad assopirsi. «Dormi» gli sussurrò lei. Lui annuì, mentre il suo respiro si faceva più lento e profondo. Il dolore si attenuò parzialmente. I ricordi della battaglia nelle vesti del Paladino si smussarono, cedendo il posto alla morbidezza del tocco di Willow. Il sonno avrebbe ritemprato le sue forze, e al mattino avrebbe potuto ricominciare. Sarebbe rimasta soltanto un'aspra certezza, l'inesorabile consapevolezza che esso sarebbe tornato a ogni nuova trasformazione. E anche quella era possibile accettarla, supponeva. Perfino quella. Si indusse alla calma, ricacciò indietro paura e disperazione. Troverò Mistaya, pensò. La troverò sana e salva, e allora ne sarà valsa la pena. Riporterò a casa Questor Thews e Abernathy. La farò finita con Rydall di Marnhull e con i suoi giochi insidiosi. Nel silenzio della notte nera come la pece, quelle parole furono un sussurro di speranza. Andrò a cercare la Strega del Crepuscolo nel Pozzo Infido. Andrò lì a cercare la verità. Poi si addormentò. 18
Sogni di cane Quando Abernathy si svegliò la mattina seguente, dopo aver dormito particolarmente bene, considerati i traumatici eventi del giorno prima, Questor Thews era seduto su una sedia dall'altra parte del letto, e lo guardava come si guarda un moribondo. Era sconcertante. Abernathy strinse gli occhi, prese gli occhiali e rivolse al mago uno sguardo deliberatamente flemmatico e prolungato. «È successo qualcosa?» chiese. Il mago annuì, poi scosse la testa, incapace di decidersi. «Dobbiamo parlare, amico mio» annunciò a malincuore. Abernathy si mise quasi a ridere alla solennità di quella dichiarazione. Poi vide lo sguardo negli occhi spenti dell'altro e sentì il gelo attanagliargli lo stomaco. Questor Thews era profondamente turbato. «Bene» disse a mo' di risposta, e poi si zittì nuovamente, come se quell'unica parola avesse introdotto ed esaurito l'argomento, senza bisogno di ulteriori discorsi. Si levò a sedere sul letto, soffermandosi per un attimo, suo malgrado, ad ammirare il profilo armonioso delle sue braccia e delle gambe, per poi indugiare a considerare criticamente l'aspetto delle dita delle mani e dei piedi. Le prime erano lunghe e affusolate, mentre le seconde erano tutte rincagnate come quelle cose gommose che ultimamente aveva imparato ad apprezzare. Elizabeth ne teneva una scorta in cucina e gliene offriva in continuazione. L'idea che assomigliassero alle dita dei suoi piedi non l'impressionava affatto. Si schiarì la gola. «Di cosa ti piacerebbe parlare?» chiese, sperando che fosse qualcosa di diverso da Poggwydd. Questor Thews si riprese a sufficienza per alzarsi dalla sedia e andare fino alla finestra: uno spaventapasseri curvo e allampanato, con l'imbottitura che sfuggiva dalle cuciture. Aprì le tendine e guardò fuori, strizzando gli occhi per la luce. La giornata era calda e soleggiata, il cielo terso, il mondo in pieno risveglio. «Scendiamo giù nel cortile, a sederci all'ombra di quegli alberi» suggerì, sforzandosi, con poco successo, di apparire allegro. Abernathy sospirò. «Andiamo.» Si fece la doccia, si sbarbò e si vestì, e mentre faceva tutto questo si rese conto che l'argomento di cui Questor Thews voleva parlare era il libro. Trattato teorico sulla magia e sulle sue applicazioni. Abernathy si era di-
menticato del libro, tutto preso dall'inaspettata apparizione di Poggwydd a Graum Wythe e della sua conseguente cattura: lo Gnomo Va' Via era un altro esiliato da Landover, intrappolato in questo mondo come lui, ma con la differenza che mentre a Poggwydd non importava un fico secco di questo nuovo mondo, Abernathy si trovava ogni giorno sempre più a suo agio nel suo esilio. Il che significava, concluse, che il libro aveva rivelato a Questor qualcosa sul ritorno a Landover. Ecco perché il mago era ancora sveglio: aveva trovato la risposta che stava cercando e tentava di risolversi a dirlo ad Abernathy, che sapeva non molto propenso a tornare a casa. Eppure, pensava Abernathy fra sé e sé, in realtà lui era convinto quanto il mago che era necessario tornare, perché l'Alto Signore aveva bisogno di loro, Mistaya era nelle grinfie della strega, e qualcosa di tremendo sarebbe accaduto se loro non fossero tornati in tempo per impedirlo. Ma che cosa? Che cosa sarebbe accaduto? Avrebbe desiderato saperlo. Una piccola certezza in quel ginepraio certo non avrebbe guastato. Terminò di infilarsi le scarpe e uscì dal bagno per trovarsi di fronte a Questor. Il mago lo squadrò, sembrò sorpreso da ciò che vide, e distolse rapidamente lo sguardo. «Be', tanti ringraziamenti, veramente gentile!» sbottò Abernathy. «Cosa c'è, mi sono infilato i pantaloni alla rovescia? Oppure le scarpe sono del colore sbagliato?» «No, no.» L'altro si portò una mano alla fronte, addolorato. «Al contrario, sembri appena uscito da una sartoria.» Il mago agitò una mano per aria. «Mi spiace di essere stato rude. Ma sono stato su tutta la notte a leggere, e non m'interessava molto il finale della storia.» Abernathy annuì, senza avere alcuna idea di quale fosse l'oggetto della sua approvazione. «Perché non andiamo giù e non ci facciamo questa benedetta chiacchierata» incalzò, ansioso di farla finita. «Possiamo vedere se Elizabeth è sveglia e chiederle di unirsi a noi.» Ma Questor si affrettò a scuotere la testa. «No, preferirei che parlassimo a quattr'occhi.» Abbassò lo sguardo, poi si morse un labbro. «Per favore, fa' come ti dico.» Abernathy acconsentì. Uscirono dalla stanza da letto, percorsero il breve corridoio e scesero le scale. Nel passare davanti alla porta chiusa di Elizabeth, la sentirono cantare. Almeno qualcuno era allegro. Passarono dal salotto in cucina e si trovarono faccia a faccia con la signora Ambaum. Stava ritta davanti ai fornelli a preparare il tè, arcigna e spavalda come un cerbe-
ro, e decisamente trionfante quando si voltò a guardarli. «Ho parlato con il padre di Elizabeth, ieri sera. Non rammenta di avere uno zio di nome Abernathy. Quel nome non gli dice assolutamente nulla. Cosa avete da dire in proposito?» Con una mano afferrò un colino per il tè. Armata e pericolosa, se mai si fossero dimostrati tanto pazzi da tentare qualcosa. Abernathy sfoderò il suo sorriso più disarmante. «Sono anni che non ci vediamo. Eravamo ragazzi, l'ultima volta che ci siamo incontrati.» La donna storse un angolo della bocca. «Mi ha detto di avvisare Elizabeth che arriverà con il volo di stasera. Vuole darvi un'occhiata.» Abernathy strinse gli occhi: vedeva già la scena dell'incontro. La signora Ambaum piegò la testa, come se cercasse di dare una sbirciata in quella dell'altro. Questor Thews si affrettò a prendere l'iniziativa. «Pensa un po'!» esclamò. Prese Abernathy per un braccio e lo condusse via dalla domestica esterrefatta, fino all'uscita di servizio. «Non si preoccupi, adesso» le disse di sopra la spalla. «Sarà tutto sistemato in un batter d'occhio!» Scesero gli scalini del patio fino al cortile, con Abernathy che faceva uno sforzo sovrumano per non sbirciare di sottecchi la signora Ambaum, curioso di sapere se li stesse guardando. «Quella donna non mi fa certo paura» mormorò. Questor Thews fece una smorfia. «Be', siete pari. A quanto sembra, neanche lei si cura molto di te.» Si spostarono nel giardino sul retro, ben lontani dalla casa, dove orecchie curiose avrebbero potuto captare quello che dovevano dirsi. Abernathy guardò il cielo e abbracciò con gli occhi l'arco della sua vasta cupola azzurra. Inspirò il profumo dei fiori e dell'erba e della rugiada che ancora resisteva al sole. La signora Ambaum era già dimenticata. Giunsero a una vecchia panchina, laccata di bianco per proteggere il legno dalle intemperie, e si sedettero, con la faccia rivolta a occidente, dove, aldilà di una vuota distesa di campi, le Cascade Mountains svettavano con i loro picchi innevati nel cielo piatto. Dopo un breve silenzio, Abernathy si rivolse a Questor. «Be'?» disse. Il mago sospirò, si tormentò le mani in grembo, si agitò, e sospirò di nuovo. «Abbiamo un problema» disse. Abernathy attese finché non fu chiaro che Questor non sapeva come proseguire. «Ti dispiacerebbe esprimere più di una frase alla volta, Questor Thews? Altrimenti ci vorrà tutta la giornata.»
«Va bene, d'accordo.» Il mago era turbato. «Il libro. Trattato teorico sulla magia e sulle sue applicazioni. L'ho letto la notte scorsa. Anzi, l'ho letto due volte. L'ho esaminato in tutte le sue sfaccettature. Credo che sia quello che stiamo cercando.» Abernathy annuì. «Credi? Non è molto incoraggiante per noi poveri mortali che stavamo aspettando un si o un no definitivo.» «Be', è sulla magia (il libro, voglio dire) e la magia non è mai esatta. Come tu sai. E questo è un libro sulla teoria, un discorso sulle generali di come le magie funzionino, una dissertazione sui loro principi, sulle loro affinità. Quindi non dice, per esempio: "Prendete un occhio di tritone, aggiungete un piede di rana, e mescolate per tre volte in senso antiorario" o cose del genere.» «Be', lo spero bene.» «Certo, quello non è un vero incantesimo, naturalmente. Ma è un esempio di un sortilegio specifico in contrapposizione alla teoria generale. Questo è un libro di teoria, come ti dicevo, quindi non si può essere certi di nulla finché non si sia fatta una prova; si può soltanto applicare la teoria alla situazione particolare e avere una ragionevole certezza.» Abernathy corrugò la fronte. «Come mai tutto questo non mi rassicura? Mi chiedo. Come mai mi riporta alla mente ricordi di altri tempi?» Questor Thews gettò le mani al cielo. «Dannazione, Abernathy è una cosa seria! Non mi stai certo facilitando il compito, con le tue osservazioni caustiche! Fammi il favore, lascia stare le battute di spirito! Ascoltami, piuttosto!» Rimasero uno di fronte all'altro in silenzioso stupore. Il sorriso si spense sul volto di Abernathy. «Scusami» disse, sorpreso anche di aver potuto parlare. Questor annuì in fretta e liquidò le scuse con un cenno della mano. Non era necessario, tra amici, sembrava voler dire. «Teoria» proseguì, riprendendo il filo della sua conversazione. «Il libro rivela una teoria che io ricordo dai giorni in cui studiavo sotto le direttive del mio fratellastro, ai tempi del vecchio Re. Funziona più o meno così. Quando una magia interviene a modificare il risultato di un'altra, ad alterare quel risultato in maniera sostanziale, allora, per annullare le conseguenze della magia intervenuta bisogna usare una terza magia che riporti le cose esattamente al punto in cui erano. Quindi: la magia uno viene applicata, la magia due modifica il risultato, e la magia tre fa ritornare le cose così come erano prima che la magia due fosse applicata.»
Abernathy sgranò gli occhi. «Ma se le conseguenze della magia due vengono annullate, dove vanno a finire le conseguenze della magia uno?» «No, no, questo non ha alcuna influenza sulle cose! La magia uno si è già esaurita!» Le labbra sottili di Questor si serrarono, e le sopracciglia cespugliose si restrinsero. «Mi segui fin qui?» «La Strega del Crepuscolo ha tentato di ucciderci con la sua magia. Ha fallito per l'intervento di un'altra magia, quella che appartiene al cucciolo di fango, supponiamo. Adesso noi dobbiamo usare una terza magia per rimettere le cose a posto, esattamente com'erano. A questo punto non ti seguo più. Quali cose dovremmo rimettere a posto?» Gli occhi di Questor si chiusero. «Aspetta, c'è dell'altro. La seconda magia, per poter sopraffare la prima e allo stesso tempo facilitare l'eventualità futura del proprio annullamento, deve usare un catalizzatore, un potente fattore di aggancio, una conseguenza periferica che non possa essere scambiata per nessun'altra cosa al di fuori di quello che è. Questa conseguenza favorisce il predominio della seconda magia sulla prima. Si può pensare a essa come a una forma di sacrificio. In taluni casi, lo è davvero. Per esempio, il sacrificio di una vita per salvarne altre. È molto difficile operare la riconversione, in questo caso. Normalmente la conseguenza non ha altre valenze, nel corso degli eventi, oltre quella di fornire una chiara indicazione su ciò che è necessario rimettere a posto.» Trasse un profondo respiro. «Scusami. Lo so che è piuttosto confuso.» Ma Abernathy scosse lentamente la testa, mentre la sua faccia impallidiva. «Stai parlando di me, non è vero, Questor Thews? Stai dicendo che dovrei di nuovo trasformarmi in un cane. Non è così?» Il suo amico sospirò e annuì. «Sì.» «Tu credi che se userai la magia per farmi ritornare quello che ero, un cane, allora le conseguenze della seconda magia saranno annullate e saremo tutti rimandati a Landover. È questo ciò che pensi?» «Si.» «È ridicolo.» Ma dalla sua voce non ne sembrava convinto, e infatti non lo era. Una parte di lui gli stava già sussurrando che le cose stavano così. Una parte di lui aveva continuato a temere questo dal primo momento che aveva scoperto la sua fortuna. Era inevitabile che non dovesse godere di quella fortuna senza pagarne le conseguenze, che non dovesse sfuggire così facilmente al suo destino. Odiava pensarla così, ma non poteva evitarlo. Condannato dal fato. Consegnato al purgatorio. Gli era stata concessa una bre-
ve vacanza dalla realtà, niente di più. «Potresti sbagliarti» insisté, cercando di mantenere la calma, sentendo la disperazione montare già dentro di sé, avvertendo la sua vampa salirgli per il collo, fino alla faccia. «Può essere» riconobbe Questor Thews. «Ma io non lo credo. Abbiamo già stabilito che fummo mandati nel vecchio mondo dell'Alto Signore perché avessimo salva la vita e perché qualcosa nascosto quaggiù ci avrebbe aiutato a trovare il modo di tornare. La magia che ci ha mandati qui, e chiunque l'abbia usata, ci hanno fornito la chiave che apre la porta di questa prigione. Tutti i pezzi si incastrano al posto giusto, tranne la tua trasformazione; a meno che questa stessa trasformazione non sia la chiave. Non c'è altra ragione per cui avrebbe dovuto verificarsi. È un risultato troppo stupefacente per essere soltanto un effetto collaterale. Dev'essere qualcosa di più, e cos'altro potrebbe essere?» Abernathy si alzò in piedi (i suoi piedi di uomo) e si allontanò. Si fermò quando fu abbastanza lontano dal mago da sentirsi solo, e si mise a fissare un punto invisibile. «Io non lo farò!» gridò. «Non te l'ho chiesto!» replicò l'altro. Abernathy alzò le braccia al cielo, disgustato. «Non essere ridicolo! Certo che me lo stai chiedendo!» Si girò di scatto, con espressione di sfida. Questor Thews appariva vecchio e fragile. «No, Abernathy, non è così. Come potrei? Prima di tutto, sono stato io a trasformarti in un cane. Un incidente, sì, ma quella non è una scusa per quanto è successo. Ti trasformai da uomo in cane e poi non sono più riuscito a restituirti il tuo vero aspetto. Da allora, ho vissuto con quel fallimento, con quella stupidità, ogni giorno della mia vita. Adesso mi ritrovo, mio malgrado, in una posizione tale per cui dovrei trasformarti una seconda volta. Io devo rivivere i peggiori momenti della mia vita, sapendo, bada bene, che tuttora non sarei in grado di annullare le conseguenze della magia una volta che si siano realizzate.» C'erano lacrime negli occhi del vecchio, che le asciugò con rabbia. «Non esagero se ti dico che tutto questo per me è quasi intollerabile!» Anche per me, pensò cupamente Abernathy. Guardò il proprio corpo, la propria figura reale, la sua persona recuperata, e pensò per un momento a quello che avrebbe significato ritornare a essere un cane. Si raffigurò di nuovo sotto le spoglie di quella creatura goffa, risibile, dal pelo arruffato che era stato. S'immaginò intrappolato in quel corpo estraneo, in lotta per conservare la propria dignità, a combattere una battaglia ogni singolo
giorno della propria vita per convincere quanti lo circondavano che lui era umano come loro. Come poteva qualcuno pretendere che facesse un tale sacrificio? Era questo il prezzo per tornare a Landover? Ma lui sapeva che c'era di più. Quello era il prezzo richiesto per la sua vita. Se la misteriosa magia non fosse intervenuta, sarebbe morto. La Strega del Crepuscolo li avrebbe finiti. Tutti e due. E Questor Thews aveva indubbiamente ragione, per quanto doloroso fosse per lui il riconoscerlo. La sua trasformazione da cane in uomo aveva avuto uno scopo, e l'unico scopo che avesse un senso era quello che il mago aveva scoperto dopo lo studio del libro di magia. Quindi poteva restare o andarsene. La scelta spettava a lui. Questor non avrebbe tentato di persuaderlo, in nessun senso. Il mago aveva già abbastanza rimorsi, a quel riguardo, demoni con cui doveva confrontarsi ogni giorno. La decisione era stata lasciata ad Abernathy. Se avesse respinto la trasformazione, sarebbe stato obbligato a rimanere lì. C'erano i pro e i contro, in questa prospettiva, pensò. Senza scendere nei dettagli. Naturalmente, l'Alto Signore Ben Holiday era incastrato a sua volta: da questa parte non avrebbe potuto ricevere aiuto. D'altro canto, se avesse permesso a Questor di invocare la magia, sarebbe presumibilmente tornato in tempo per aiutare l'Alto Signore. Ma ci sarebbe riuscito davvero? Valeva effettivamente la pena di tornare? Avrebbe contribuito a raggiungere lo scopo, oppure le cose avrebbero seguito il loro corso, a prescindere dalla sua presenza? Se solo l'avesse saputo. Un conto era sapere che il suo ritorno avrebbe contribuito a salvare l'Alto Signore e la sua famiglia da Rydall e dalla Strega del Crepuscolo. Un altro era avere la certezza che non sarebbe servito a nulla. Lanciò un'occhiata alla casa. La signora Ambaum li stava guardando dalla finestra, sorseggiando soddisfatta il suo tè. Stasera, la vendetta: probabilmente era questo, che stava pensando. Ancora nessun segno di Elizabeth. Oltre la casa, dove la strada curvava allontanandosi dal giardino per scomparire dietro un'altura, il sole era una cortina di foschia tra gli alberi. Tornò da Questor Thews e si fermò di fronte a lui, con gli occhi fissi sulla vecchia faccia consunta. «Non penso davvero di poterlo fare» disse pacatamente. Il mago annuì, con la faccia accartocciata in un ammasso di rughe. «Non posso biasimarti.» Abernathy tese in fuori le mani e le guardò. Scosse la testa. «Ricordi anche la magia che usasti per trasformarmi quella prima volta?» Questor non alzò gli occhi, ma fece cenno di sì.
«Dopo tanti anni. Non è curioso?» Abernathy rivolse lo sguardo a se stesso. Non era tanto, che era tornato alla sua forma primitiva, ed era già a proprio agio nella sua vecchia pelle. «Mi piaccio come sono» sussurrò. Elizabeth apparve sulla porta. «La colazione!» Nessuno si mosse. Poi Questor agitò una mano. «Veniamo subito!» rispose ad alta voce. Guardò Abernathy. «Mi dispiace davvero.» Abernathy sorrise amaramente. «Ne sono convinto.» «Avrei dato qualsiasi cosa per non averti dovuto dire questo, perché non fosse così.» Si morse il labbro. «Se le cose non stessero così, giusto per fare un'ipotesi» scherzò Abernathy «finisce che rimango intrappolato qui neanche da uomo, ma da cane!» Questor Thews annuì, guardandolo negli occhi, stavolta. «Ma è così. Tu ne sei sicuro. Sicurissimo, vero?» Il mago annuì ancora una volta, senza parlare. «Devo decidere in fretta, giusto?» Abernathy insisté riluttante. «Se vogliamo essere di qualche aiuto all'Alto Signore e a Mistaya, dobbiamo tornare laggiù in fretta. Non c'è il tempo di riflettere tanto.» «No, ho paura che non ci sia.» «Perché allora non ne parli con me?» «Parlarne con te?» «Per convincermi, in un senso o nell'altro. Scegli una posizione. Discutile tutt'e due, se ti và. Ma dammi qualche argomento di discussione. Dammi qualcosa di confutabile. Dammi un'altra voce da ascoltare, che non sia la mia!» «Ti ho già spiegato...» «Basta con le spiegazioni!» Abernathy era improvvisamente livido. «Smettila di essere razionale! Smettila di essere passivo! Smettila di starmi d'attorno ad aspettare che prenda questa decisione tutto da solo!» «Ma la decisione dev'essere tua, Abernathy, non mia. Lo sai.» «Non lo so affatto! Non so proprio niente! Sono stufo marcio di essere all'oscuro di quanto accade nella mia vita! Tutto ciò che voglio è poter tornare alle cose com'erano un tempo, e non mi è consentito farlo! Mi si chiede ancora di esibirmi, proprio come facevo quando eravamo a quel Bumble vattelapesca di festival, solo che stavolta gli spettatori sono invisibili! Perché dovrei accettare di portare avanti questa sceneggiata? Sarebbe meglio mettersi a sedere e rifiutarsi di fare qualunque cosa!» «Non fare niente equivale a fare qualcosa!» Questor si stava scaldando
un po', a sua volta. «Una scelta viene fatta, comunque si agisca!» Abernathy serrò i pugni, infuriato. «Allora arriviamo sempre allo stesso punto, vero? Una scelta bisogna farla, in un senso o nell'altro, anche se in realtà la scelta non è affatto una scelta?» «Stai farneticando!» «Sto cercando di ragionare!» Questor Thews sospirò. «Perché non andiamo a fare colazione, e dopo forse...» «Ah, lascia stare! Torno!» «...le cose saranno un po' più facili.» Il mago s'interruppe di colpo. «Che cos'hai detto?» Abernathy lottò per mantenere la voce ferma. «Ho detto che torno! Voglio che usi la tua magia per trasformarmi!» Fece una smorfia quando vide l'espressione sulla faccia tormentata dell'altro e si calmò all'improvviso. «Non è una decisione così difficile, Questor Thews. Quando tutta questa storia sarà finita, voglio vivere in pace con me stesso. Se non c'è altra scelta che ridiventare cane, mi ci abituerò. Posso accettarlo se saprò che ho fatto tutto quello che potevo per aiutare l'Alto Signore e la sua famiglia. Ma se rimango uomo e poi vengo a sapere che mutandomi in cane avrei potuto salvare le loro vite... be', non c'è bisogno che ti dica altro.» Si schiarì la gola. «Inoltre, ho fatto un giuramento.» Per un lungo momento sembrò l'uomo più triste sulla faccia della terra. «Io sono Scrivano di Corte al trono di Landover e ho giurato di servire il suo Re. Sono obbligato a servirlo in tutti i modi possibili. In questo momento potrei desiderare diversamente, ma non posso cambiare questo stato di fatto.» Questor Thews sgranò gli occhi. I vecchi occhi erano fieri. «Sei veramente una persona fuori dal comune» disse sommessamente il mago. «Dico davvero.» Impulsivamente, gettò le braccia al collo del suo amico e lo strinse, con i baffi che sfregavano ruvidi sulla pelle liscia di Abernathy. «Be'» disse quest'ultimo in risposta, sopraffatto dalla reazione dell'altro. Scrollò le spalle per simulare indifferenza. «Veramente, anche tu.» Andarono in casa per fare colazione con Elizabeth. Si sedettero tutti e tre al piccolo tavolo della cucina, ingombro di scodelle di cereali e caraffe di latte. La signora Ambaum si affaccendò sussiegosa attorno a loro per un po', come se tentasse di tenere sotto controllo la situazione, poi rinunciò e scomparve dall'ingresso principale promettendo di far ritorno a mezzo-
giorno. Appena se ne fu andata, Elizabeth disse «Papà torna a casa stasera, con il volo da New York.» «Così ci ha riferito la signora Ambaum» la informò Questor. Non guardò Abernathy. Il suo amico stava mangiando con la testa quasi nel piatto e una mano sulla fronte. «Dobbiamo inventarci un'altra storia» proseguì Elizabeth. Si era lavata i capelli ricci, che erano ancora umidi, e rinfrescata la faccia. «Non sarà difficile. Ci basterà dire che la signora Ambaum aveva capito male e che voi...» Ma Questor stava già scuotendo la testa. «No, Elizabeth. Non sarà necessario. Abernathy e io ce ne andiamo.» «Andate via? Quando?» Questor sorrise tristemente. «Subito. Appena avremo finito di mangiare.» La delusione fu subito evidente. «Avete trovato un modo per tornare, vero?» Questor annuì. «Stanotte.» Lei si morse un labbro. Guardò Abernathy, accigliata. «Ma siete appena arrivati. Non potete stare qualche altro giorno? Forse posso...» «No, Elizabeth.» Abernathy si raddrizzò e incontrò lo sguardo disperato della ragazza con occhi gentili. «L'Alto Signore ha bisogno di noi. Mistaya ha bisogno di noi. Ogni ritardo potrebbe essere pericoloso. Non possiamo rimanere.» Elizabeth guardò i suoi cereali e li girò un po' con il cucchiaio. «Non mi sembra giusto. Non voglio fare l'egoista, e so che è importante che voi torniate. Ma siete qui da tanto poco.» Alzò gli occhi, per riabbassarli subito. «Erano quattro anni che aspettavo di rivedervi.» Abernathy non riusciva a parlare. La sua faccia era stravolta. Ci fu un breve silenzio. «E Poggwydd?» chiese lei alla fine. Questor si schiarì la gola. «Poggwydd verrà con noi. Abernathy e io cercheremo di farlo rilasciare non appena usciremo di qui.» «Vi accompagno» annunciò Elizabeth di getto. «No» disse Abernathy in fretta, pensando che fosse già abbastanza brutto il fatto che ci andassero loro due, ma rassegnato a quella inevitabile incombenza. «Lui vuole dire» intervenne in tutta fretta Questor «che appena Poggwydd sarà libero, noi saremo già in viaggio. Puf!» Cercò di abbozza-
re un sorriso, senza successo. «Se ci sarà qualche problema, non vogliamo che tu resti coinvolta. Non è così, Abernathy?» «Ma potreste aver bisogno del mio aiuto!» Elizabeth non aspettò di sentire quello che Abernathy aveva da dire. «Non siete pratici di Seattle! Come potrete orientarvi? Come farete a trovare Poggwydd?» «Be', forse in quest'ultimo compito tu potresti aiutarci» suggerì il mago, accomodante. «Elizabeth.» Elizabeth posò le mani sul tavolo e sospirò. «Se potessimo restare, lo faremmo. Se potessimo passare anche un altro po' di tempo con te, lo faremmo. Tu sei stata nostra amica. Specialmente mia. Due volte, adesso, non solo una. Ma ci sono limiti ai rischi che possiamo farti correre per causa nostra. Sarà già abbastanza dura spiegare di noi a tuo padre.» «Di lui non mi preoccupo! Non ho paura della signora Ambaum, né di nessun altro!» Era adamantina. «Lo so» rispose lui dolcemente. «Non ti sei mai fermata davanti a nessuno. Se l'avessi fatto, io non sarei qui adesso.» Sorrise tristemente. «Ma noi ci preoccupiamo per te. Temiamo che ti possa accadere qualcosa, e allora saremmo responsabili. Ricordi cosa accadde con Michel Ard Rhi? Ricordi quanto poco ci mancò che non restassi ferita? Mi spaventai a morte per te, quella volta! Non posso permettere che una cosa del genere possa ripetersi. Dobbiamo dirci arrivederci, adesso. Qui, a casa tua, dove ti sappiamo al sicuro. Ti prego, Elizabeth.» Lei stette un momento a pensarci su, e poi annuì. «D'accordo, Abernathy.» Ancora contrariata, sulla difensiva, imbronciata. «Suppongo.» Sospirò. «Be', almeno sei di nuovo un uomo, vero? Almeno non sei più un cane.» Abernathy sorrise stoicamente. «Sì, almeno non sono un cane.» Finirono la colazione in silenzio. Nel tentativo di scoprire cosa ne fosse stato di Poggwydd, Elizabeth chiamò la Polizia della Contea, e quelli le dissero di chiamare il responsabile del Controllo animali della Contea, che a sua volta la dirottò sul Rifugio animali della Contea a Elliott. Poiché nessuno sapeva con esattezza cosa fosse Poggwydd e quindi cosa farne di lui, lo Gnomo Va' Via era passato di mano in mano come una scarpa vecchia. La soluzione finale era comunque temporanea, come vennero a sapere quando la ragazza parlò con uno degli impiegati del rifugio per animali. Uno zoologo del Woodland Park e un antropologo dell'Università di Washington erano già stati
chiamati, e sarebbero arrivati in tarda mattinata per dargli un'occhiata. Le dispute territoriali si sarebbero appianate, e Poggwydd sarebbe stato mandato in qualche altro posto per ulteriori accertamenti. Elizabeth appese il ricevitore, riferì tutto quanto e concluse: «È meglio che vi affrettiate.» Fu chiamato un tassì per far arrivare Abernathy e Questor Thews alla loro destinazione, il rifugio per animali. Elizabeth diede loro il denaro per pagare. Stette con loro in fondo al vialetto finché l'auto non arrivò, scambiò con loro le ultime parole, consigliando cautela e incoraggiandoli, e diede loro il suo numero di telefono, caso mai le cose andassero a catafascio e avessero nuovamente bisogno di lei: sperava segretamente che si verificasse quest'ultima ipotesi perché sapeva che una volta andati nel loro mondo non sarebbero più tornati. Quando il tassì arrivò, li abbracciò entrambi e augurò loro buon viaggio. Baciò Abernathy sulla guancia e gli disse che lui era il suo migliore amico, anche se veniva da un altro mondo, e che lei lo avrebbe sempre aspettato perché sapeva che un giorno sarebbe tornato. Abernathy disse che avrebbe cercato di farlo. Le disse che non l'avrebbe dimenticata mai. Lei si mise a piangere, suo malgrado, e Abernathy dovette fare un grande sforzo per non piangere con lei. Poi Questor e Abernathy partirono, con l'auto che percorreva velocemente autostrade a quattro e cinque corsie, sfrecciava zigzagando tra un veicolo e l'altro e faceva il pelo a ogni genere di ostacoli e di barriere. Attraversarono un ponte, presero uno svincolo, percorsero una strada a due corsie a velocità leggermente ridotta, e svoltarono in un parcheggio adiacente a un edificio di mattoni rossi con un cartello che diceva "Rifugio per animali della Contea di King". Diedero il denaro di Elizabeth al tassista, rimisero i piedi su terreno solido con un inequivocabile senso di sollievo, e si diressero all'entrata. Il vialetto si biforcava, e le due ramificazioni portavano a due ingressi separati. Loro presero a sinistra e, varcata la soglia, si trovarono davanti a una scrivania: qui, un impiegato con l'aria seccata li rispedì fuori, sul vialetto che portava all'altro ingresso. Alla seconda scrivania una giovane donna in uniforme li guardò con aspettativa mentre entravano. «Il professor Adkins? Il signor Drozkin?» li salutò. Questor, con notevole presenza di spirito, prese la palla al balzo. Sorrise e annuì. La donna apparve sollevata. «Avete idea di cosa possa essere questo?» chiese. «Nessuno qui ha mai visto qualcosa del genere. Ci sta facendo pas-
sare un brutto quarto d'ora! Ho tentato di tutto (noi tutti l'abbiamo fatto) ma non riusciamo neanche ad avvicinarci. Dopo che la polizia l'ha portato qui, io l'ho fatto slegare e quello ha cercato di staccarmi una mano! E mangia di tutto! Sapete cosa sia?» «Credo di averne un'idea abbastanza precisa» disse Questor Thews. «Possiamo dargli un'occhiata?» «Naturalmente; da questa parte.» Era lieta di esaudire la loro richiesta, e scaricarsi così di quel fardello di nome Poggwydd. Abernathy la capiva benissimo. Li condusse dietro il banco, a una pesante porta di metallo, che disserrò e spalancò. Poi li guidò lungo un corridoio fino all'area delle gabbie. Poggwydd era alla fine dello stanzone, gettato in fondo alla gabbia più ampia. I suoi vestiti erano laceri, e il suo pelo era intriso di sporco e di sudore. Tagli e graffi lo segnavano da capo a piedi, e teneva la lingua penzoloni. Aveva un aspetto a dir poco miserevole, anche per uno Gnomo Va' Via. Quando li vide, balzò in piedi e si gettò contro la gabbia con una violenza inaudita. La percuoteva e la sbatacchiava e mordeva le sbarre in un accesso di furia, cercando di afferrarli. «È anche peggiorato!» dichiarò sbigottita la giovane donna. «Sarà meglio che prima lo tranquillizzi un po'!» «No, per favore, è meglio non perdere tempo» la interruppe Questor in tutta fretta. «Per il momento mi piacerebbe semplicemente osservarlo. Non mi interessa che si calmi. Può lasciarci soli per qualche minuto, signora...?» «Beckendall. Lucy Beckendall.» Gli porse la mano, e lui la strinse cordialmente, senza impegolarsi in una presentazione personale perché aveva già dimenticato il nome che aveva appena usurpato. «Allora, qualche minuto?» ripeté premuroso. «Rimarremo qui a distanza di sicurezza, e gli daremo un'occhiata come si deve.» Poggwydd correva su e giù per la gabbia, mostrando tutti i denti, agitando il pugno, tentando disperatamente di parlare. «Naturalmente» acconsentì lei. «Io starò qui, fuori della porta. Chiamatemi, se avrete bisogno di me.» Attesero finché la donna non fu uscita e non ebbe richiuso la pesante porta alle sue spalle. Questor guardò Abernathy, poi si avvicinò alla gabbia. «Smettila!» intimò a Poggwydd. «Datti un contegno e ascoltami! Vuoi
uscire di lì o no?» Poggwydd, ormai esausto, si accasciò al suolo e lo fulminò con lo sguardo. L'aria nella stanza era molto viziata e pregna dell'odore di medicinali. Abernathy si immaginò chiuso lì dentro per un giorno intero e si sentì improvvisamente solidale con lo gnomo, una volta tanto. «Ascoltami, adesso!» Questor si rivolse con fermezza a Poggwydd. «Non risolverai niente a saltare in quel modo come un pazzo! Siamo venuti appena abbiamo potuto, appena abbiamo saputo dove ti trovavi!» Poggwydd indicò la propria bocca, sconsolato. «Ah sì, naturalmente, vuoi dire qualcosa.» Questor corrugò la fronte minaccioso. «Sta' ben attento a tenere la voce bassa quando parli, che non ti sentano; altrimenti, ti zittisco di nuovo. Intesi?» Lo Gnomo Va' Via annuì cupamente. Questor disse qualche parola a bassa voce, fece un gesto, e la voce di Poggwydd tornò, con una specie di rantolo. «Ve la siete presa comoda, eh?» fu la prima cosa che disse. «Avrei potuto lasciarci le penne, in questo posto! Questa gente è un branco di animali!» Questor inclinò leggermente la testa in segno d'approvazione. «Scusaci. Ma adesso siamo qui. Siamo venuti a tirarti fuori e a riportarti a Landover.» La faccia dello Gnomo si accartocciò in un ammasso furioso di pieghe. «Be', e se non volessi venire? Se le dicessi che ne ho abbastanza di lei, Questor Thews? E del suo amico?» «Non sia ridicolo! Vuol rimanere qui?» «No, non voglio rimanere qui! Voglio uscire! Ma una volta uscito, voglio tornarmene da solo. Posso trovare la strada meglio di voi, ci scommetto!» «Lei non sarebbe capace di tornare a casa dal suo orticello, figuriamoci da un altro mondo! Cosa va cianciando?» «Lascialo stare, Questor Thews!» sbottò Abernathy. «Abbiamo già perso abbastanza tempo!» I tre cominciarono a discutere animatamente, ed erano ancora impegnati a farlo quando di colpo la porta di metallo si aprì e Lucy Beckendall comparve alla vista. Si zittirono tutti e tre all'istante. Lei guardò da uno all'altro, quasi certa di aver sentito la creatura in gabbia parlare. «Qui c'è qualcosa che non va» annunciò, con espressione diffidente e maldisposta. «Ci sono due signori lì all'ingresso che si sono presentati co-
me il professor Adkins dell'Università di Washington e il signor Drozkin dello Zoo di Woodland Park. Mi hanno mostrato la carta d'identità. Voi avete delle credenziali da mostrarmi?» «Naturalmente» dichiarò Abernathy in fretta, sorridendo e annuendo. Maledizione! Tornò in fretta verso la porta dalla linea delle gabbie, ficcando una mano in tasca, rovistando e scuotendo la testa. Quando raggiunse Lucy Beckendall alla porta, le mise con decisione le mani sulle spalle, la spinse attraverso l'apertura, e chiuse di nuovo la porta. «Questor Thews!» latrò, puntellandosi contro la porta mentre di fuori cominciavano già a bussare violentemente. «Aiutami!» Il mago si rimboccò le maniche, sollevò le braccia scheletriche, e spedì un grumo color blu elettrico di magia direttamente nella serratura. Serratura e maniglia si sciolsero e fusero all'istante. «Ecco, da quella parte non entreranno!» dichiarò soddisfatto. «E noi non usciremo!» Abernathy tornò di nuovo verso la gabbia. «Quindi spero che tu sappia quale dovrà essere la tua prossima mossa!» Questor Thews si rivolse a Poggwydd. «C'è solo una via d'uscita, signor Poggwydd: con noi, alla volta di Landover. Se la lasciamo qui, la rinchiuderanno in gabbia nel giro di qualche minuto. E dopo chi l'aiuterà? Dunque, mi dispiace che si sia trovato in questo pasticcio, ma non è stata colpa nostra. E non c'è tempo per sviscerare la questione.» Il bussare furioso dall'esterno aveva lasciato il posto a violente martellate, metallo su metallo nel punto di fusione della serratura. Questor strinse la bocca, e il suo dito ossuto si levò contro lo Gnomo. «Pensi solo a quello che le faranno! Esperimenti! Test! Intrugli di tutti i tipi! Cosa preferisce, Poggwydd? Landover e la libertà, o una gabbia per il resto della sua vita?» Poggwydd si leccò le labbra sudice, con gli occhi lucidi dal terrore. «Tiratemi fuori di qui! Verrò con voi! Non combinerò altri guai, ve lo prometto!» «Ottima scelta» mormorò Questor. «Si allontani dalla porta.» Lo Gnomo Va' Via si acquattò in un angolo. Questor fece un gesto, una specie di torsione con le mani, e la porta si spalancò. «Fuori!» intimò il mago. Poggwydd strisciò fuori docile come un agnellino e mogio come un cane bastonato. «Basta così!» ordinò Questor. «Non è successo niente! Si alzi!» Poggwydd si raddrizzò, col labbro tremante. «Non voglio più vedere
quella ragazzina! E neanche quel suo cucciolo di fango! Mai più!» Questor lo ignorò, già impegnato a disegnare un circolo sul pavimento di cemento con il tacco dello stivale. Quando ebbe finito, vi fece entrare lo gnomo e Abernathy. Stettero in piedi tutti e tre, uno accanto all'altro, nel caldo e nel silenzio mentre il mago inspirava a fondo, chiudeva gli occhi e cominciava a concentrarsi. «Spero che tu sappia cosa stai facendo» disse Abernathy con la massima calma, incapace di trattenersi. «Silenzio!» scattò il mago. Dietro la porta, alle martellate si era sostituito il brusio di numerose voci. Rinforzi, pensò desolato Abernathy. Poi qualcosa di pesante si abbatté sulla porta. Stavano cercando di sfondarla! Cardini e infissi tremarono per la violenza dei colpi. L'intonaco cricchiò e cominciò a sbriciolarsi. Chiunque fosse la fuori non avrebbe tardato a entrare. Questor prese a scandire le parole dell'incantesimo, lentamente, chiaramente, con ponderatezza. Si era calato in se stesso per concentrarsi, e sembrava incurante dei colpi e delle grida. Meglio così, pensò Abernathy. Niente di più facile, conoscendo il mago, che potesse distrarsi e sbagliare l'incantesimo. E in quel caso, in cosa si sarebbe trasformato? Un ravanello? Guardò Poggwydd. Lo Gnomo Va' Via teneva la testa abbassata e gli occhi serrati. Le sue braccia erano strette spasmodicamente attorno al corpo scarno. Be', non c'era da stupirsi, pensò Abernathy. Abbiamo tutti paura. Questor continuava a salmodiare, mentre il sudore gli imperlava la fronte. Abernathy poteva vedere la tensione sul suo volto. Mi sto trasformando di nuovo, pensò. E ogni momento di questo processo è una sofferenza. Abernathy provò un improvviso bisogno di urlare, di impedire al mago di fare quello che stava facendo, di fargli fare qualcos'altro. Ma represse quell'impulso: la decisione era presa, il suo destino accettato. Si guardò ancora una volta, deciso a stamparsi bene nella memoria ogni dettaglio della sua persona, non volendo ritrovarsi, dopo, a chiedersi il perché. Non era poi tanto male essere un cane, davvero. Non tanto. La luce si levò in alto tutt'attorno a loro, colmando il cerchio dal suolo al soffitto, avvolgendoli in uno sfolgorante cilindro. La voce di Questor salì d'intensità, e le sue parole schioccarono come lenzuola appese ad asciugare e sbattute dal vento. Poggwydd mugolò. Abernathy pensò a Elizabeth. Era contento che non fosse lì a vedere quello che stava succedendo. Era meglio che lo ricordasse come avrebbe dovuto essere.
La luce divenne un'accecante radiosità. Abernathy si sentì liquefare. Non era una sensazione inaspettata. L'aveva sperimentata già una volta, più di venti anni addietro. Chiuse gli occhi e si lasciò andare. 19 Veleno Ben e Willow impiegarono quasi due giorni per giungere al Pozzo Infido. Erano partiti all'alba del primo, accompagnati da Bunion e da una scorta di ventiquattro Guardie del Re, e si erano diretti prima a nord e poi a est, lasciando la regione collinare per rasentare i bordi delle Pianure. Da lì piegarono direttamente a nord e seguirono la linea delle colline boscose verso il covo della strega. La calura estiva non accennava a placarsi, e la sentivano umida e appiccicosa sulla pelle, che scintillava sotto il sole rovente come un foglio di cellophane. Inutile attendersi molto sollievo dalla brezza. C'era poca ombra. Il loro passo era lento ma costante, e sostavano spesso per ritemprare se stessi e le bestie. Tutt'attorno, la campagna era immota e arroventata. Fecero il campo laddove scorrevano le acque dell'Anhalt, provenienti dalla regione collinare dopo il lungo viaggio a valle dalle montagne occidentali. Si misero a sedere su un basso promontorio sovrastante il fiume, che avevano attraversato prima del tramonto, e stettero ad ammirare la luce calante che cangiava dal purpureo al rosato. Verso est, aironi e gru volavano bassi sulle acque sonnolente, in cerca del pasto serale. «Saremo lì per domani a mezzogiorno» dichiarò Ben dopo un lungo silenzio, ansioso di impegnare in qualche forma di conversazione una Willow insolitamente silenziosa. «Allora sapremo.» La voce della silfide era un sospiro sommesso e rassegnato. «Io lo so già. La Strega del Crepuscolo la tiene presso di sé. Lo sento. Ha voluto Mistaya dal primo istante, e alla fine ha trovato un modo per impadronirsene.» Stava spalla a spalla con Ben, lo sguardo perso nell'incipiente oscurità, ma la distanza tra loro due era inimmaginabile. Per tutto il giorno si era isolata, chiudendosi in se stessa. Adesso era in un luogo dove nessuno poteva raggiungerla, a meno che lei non volesse. Ben aveva atteso pazientemente che tirasse fuori tutto ciò che la tormentava, sperando di non essere lui stesso la causa di quello stato d'animo.
Si schiarì la gola. «Probabilmente pensa a Mistaya come a una sua proprietà. Mistaya sarebbe il riscatto del debito che lei crede le sia dovuto per quanto accadde nella Scatola Magica.» Willow rimase in silenzio per un momento. «Se fosse stata solo una questione di debiti o di una rivendicazione di proprietà, si sarebbe limitata a rapire Mistaya, e l'avrebbe finita li. Avrebbe chiesto un riscatto per la sua restituzione o l'avrebbe uccisa, con l'intento di farci del male. Invece, ha ideato questa complicata manovra, mettendo in campo Rydall di Marnhull e i suoi mostri. Mistaya rappresenta la posta in palio per questo gioco, ma anche qualcosa di più. Io credo che la strega abbia altri progetti per lei.» Ben la guardò. «Quali progetti?» Lei scosse la testa. «Non lo so. Forse c'entra in qualche modo la magia di Mistaya. È nata nel Pozzo Infido, e questo forse è un aspetto che le accomuna. O forse c'è di mezzo qualcosa di più oscuro. Forse ha intenzione di plasmare la mente di Mistaya per sintonizzarla con la sua.» «No, Mistaya non permetterebbe mai che questo avvenisse.» Ben fu percorso da un senso di gelo che arrivò fino alla punta de i piedi. «È troppo forte.» «Nessuno è più forte della Strega del Crepuscolo. La sua forza si nutre dell'odio.» Ben ammutolì, invaso da un'ondata di orrore al pensiero che Mistaya potesse diventare come la strega. Il buon senso gli suggeriva che questo non sarebbe mai potuto accadere. Le sue emozioni gli dicevano il contrario. Razionalità e istinto ingaggiarono una lotta dentro di lui, mentre osservava le ombre allungarsi sulla campagna, offuscare il fiume e le colline. «Lei arriverebbe a tanto, pur di ferirci, vero?» disse alla fine. «Lo farebbe.» Trasse un respiro profondo. «Ma questo cosa c'entra con l'enigma di Rydall?» «Rydall le dà il tempo di occuparsi di Mistaya. Rydall ci tiene impegnati, ci tiene a distanza e in costante smarrimento. Così non ci rendiamo conto della realtà, finché non è troppo tardi.» I suoi occhi erano spenti e smarriti quando Ben li fissò. «È tutto il giorno che stai pensando a questo, vero?» le chiese con calma. «È per questo che sei così lontana da me.» Lei lo guardò. Il suo sorriso era evanescente. «No, Ben. Mi sono preparata per domani. Ci sono forti possibilità che possa perdere Mistaya. Oppure te. O addirittura entrambi. Non è facile rassegnarsi a questa eventua-
lità, ma essa è ben presente, comunque.» «Non perderai nessuno di noi» promise Ben, circondandola con un braccio, attirandola a sé, conscio, nel momento stesso che lo faceva, di aver promesso qualcosa che forse non avrebbe potuto mantenere. Dormirono poco e male, irrequieti per il pensiero di quello che li attendeva, dei pericoli che avrebbero potuto incontrare. Si levarono all'alba, fecero una rapida colazione ed erano già in viaggio prima che il sole si fosse completamente staccato dall'orizzonte montuoso a oriente. La nuova giornata era altrettanto afosa e soffocante, ed essi la trascorsero come marinai su una nave in mezzo alla bonaccia. Bunion andava in avanscoperta, tenendo gli occhi ben aperti per individuare eventuali mostri di Rydall. Ne rimanevano altri due d'affrontare, e la Strega del Crepuscolo poteva decidere di sguinzagliarli proprio li. Se era vero che la strega vestiva i panni di Rydall. Qualche dubbio rimaneva nella mente di Ben, anche se Willow ne aveva la certezza. Ma ormai dubitava di tutto. Davanti a loro, la campagna si stendeva in un alternarsi di spiazzi irti di stoppie bruciate e di verdi chiazze boscose, con la calura che rendeva incerta la linea di separazione tra la pianura e le colline pedemontane. Ben tese l'orecchio al rumore del cuoio e degli zoccoli mentre i cavalli procedevano con decisione. Cosa avrebbe fatto quando avessero raggiunto il Pozzo Infido? Doveva scendere nella conca? Doveva evocare il Paladino? Come avrebbe affrontato la strega? Come avrebbe fatto a scoprire la verità su Mistaya? Diede un'occhiata a Willow, che cavalcava silenziosa al suo fianco. Quello che lesse sul suo volto lo persuase che era necessario trovare le risposte al più presto. La Strega del Crepuscolo seppe del loro arrivo molto prima che fossero in vista. L'aveva saputo quasi dal momento stesso che avevano lasciato Sterling Silver, e aveva sorvegliato attentamente lo svolgimento del viaggio. Lo scontro che aveva previsto dall'inizio sembrava ormai destinato ad aver luogo. In qualche modo Holiday aveva intuito la verità. Non sapeva come avesse fatto, ma di sicuro era così. Stava venendo al Pozzo Infido, e l'avrebbe fatto soltanto se avesse saputo la verità. L'apparente inevitabilità delle cose non le era sfuggita. L'Ardsheal aveva fallito, proprio come avevano fallito tutte le altre creature che aveva mandato. Secondo l'accordo di Rydall le restavano altri due mostri da mandare, ma mancava ormai il tempo di continuare in quel gioco, e a questo pun-
to le rimaneva un'unica possibilità. Si era divertita a giocare con Holiday, a vederlo in difficoltà, a guardarlo soffrire nel combattere contro i mostri, uno dopo l'altro, sforzandosi di rimanere vivo abbastanza a lungo per salvare la sua adorata figliola. Si era divertita a distruggerlo un po' alla volta, lasciandolo svuotato, fisicamente ed emotivamente, per mezzo di forze che lui non poteva neanche lontanamente immaginare. Come poteva sapere che era la stessa magia di Mistaya a lavorare contro di lui? Come poteva immaginare i danni che essa gli avrebbe arrecato? Era stato divertente, ma la soddisfazione più grossa di tutte doveva ancora venire. Soltanto questo pensiero riusciva a tenere a freno la sua rabbia e la sua frustrazione poiché, per quanto non volesse ammetterlo, neanche con se stessa, era delusa che Holiday fosse ancora vivo. Il suo spreco di tempo e di energie, di magia e di potere, non poteva essere cancellato con un colpo di spugna, anche se rientrava tutto nelle previsioni. La Strega del Crepuscolo odiava perdere, non sopportava che le venisse negato alcunché, anche quando, a mente fredda, doveva ammettere che le cose non sarebbero potute andare che così. Voleva Holiday morto, e ogni ritardo nel conseguimento di quel risultato, a prescindere dalle motivazioni, era per lei un intollerabile smacco. Tuttavia, aveva fatto il suo piano, e pensava che fosse infallibile. Mistaya era ancora sua, un suo inconsapevole strumento, e sarebbe stata utilizzata a puntino prima che questa faccenda fosse finita. Era meglio, forse, che il momento giungesse, prima che passasse altro tempo. Mistaya diventava sempre più difficile da gestire, sempre più riluttante a impegnarsi nelle applicazioni magiche impartite dalla strega, sospettosa del ruolo che era chiamata a svolgere. Era già irritante che si fosse rifiutata di collaborare alla creazione di un nuovo mostro dopo che il robot aveva fallito. Era intollerabile che si fosse presa la libertà di lasciare la conca del Pozzo Infido. Tuttavia la Strega del Crepuscolo aveva insistito. Aveva escogitato ancora un sistema per usare Mistaya, unendo la magia della ragazza alla propria per riportare in vita l'Ardsheal così da poterlo aizzare contro Holiday ma c'erano volute notevole astuzia e doti di simulazione da parte della strega per nascondere il vero scopo delle sue macchinazioni. Sarebbe stato difficile ingannare ulteriormente Mistaya. E tuttavia l'avrebbe fatto, si ripromise la Strega del Crepuscolo. Un'ultima volta. Aveva lasciato che Mistaya si sbizzarrisse a volontà con la sua magia, il primo giorno del viaggio di Holiday verso il Pozzo Infido. Aveva lasciato
che mettesse in pratica quello che voleva, incoraggiandola, elogiandola, mettendola a suo agio. Rimaneva solo un giorno, disse alla ragazza. Uno, e poi sarebbe andata a casa. La strega si aggirava nella conca come un leone in gabbia, quasi incapace di concentrarsi su qualcos'altro che non fosse l'imminente epilogo del piano che aveva concepito due anni prima e accarezzato per tutto quel tempo. Vagava senza meta nelle nebbie, vivendo e rivivendo quel momento nella sua mente, immaginandone lo svolgimento, assaporando già le dolci sensazioni che le avrebbe procurato. Holiday morto. Holiday distrutto, finalmente. Era divenuta per lei l'unica ragione di vita, il solo scopo per cui accettava di esistere. La fine di Holiday era diventata per lei indispensabile quanto l'aria che respirava. Quando calò la notte assunse la forma di un corvo e volò fino al luogo dove il Re-fantoccio dormiva in compagnia della silfide e delle sue guardie. Gli avrebbe volentieri artigliato la faccia per cavargli gli occhi dalle orbite, se avesse potuto farlo, tanto era il suo odio. Ma non era così stupida da correre dei rischi dopo aver preso tante precauzioni. Non si sarebbe defraudata, essa stessa, della soddisfazione di assistere all'epilogo che aveva tenuto in serbo per lui. Si assicurò che fosse ancora a una certa distanza dal Pozzo Infido, per avere il tempo necessario ai preparativi, e volò di nuovo nella tana ad aspettare. Il mattino seguente attese che Mistaya avesse fatto colazione prima di rivolgersi a lei. Oscuramente melliflua e vagamente minacciosa, si avvicinò alla ragazza con un sorriso, sfiorandole lievemente la guancia con la mano bianca e affusolata. «Tuo padre viene a prenderti oggi» la informò con la sua voce più suadente. Mistaya alzò lo sguardo, speranzosa. «Dovrebbe essere qui per mezzogiorno. Sei ansiosa di vederlo?» «Si» rispose la ragazza, e la palese aspettativa nel tono della sua voce fece digrignare i denti alla strega. «Ti riporterà a Sterling Silver, a casa tua. Ma tu non mi dimenticherai, vero?» «No» rispose la ragazza, sottovoce. «Abbiamo imparato un sacco di cose, insieme, tu e io.» La Strega del Crepuscolo guardò lontano, tra gli alberi. Mistaya si era allontanata da lei, da quando era tornata nel Pozzo Infido. Aveva preso le distanze, come soltanto i bambini sanno fare, quasi insofferente, prendendo tempo. Era una considerazione amara, per la strega. Si era aspettata qualcosa di più. «Ci
sono ancora molti segreti da imparare, Mistaya» le disse, cercando di recuperare una parte di quello che aveva perduto. «Un giorno te li insegnerò, se vorrai. Ti mostrerò tutto. Non hai che da chiedere.» Tornò a guardare Mistaya, con occhi limpidi. «Questa può essere anche casa tua. Un giorno potresti desiderare di venire a vivere qui con me. Tu puoi decidere che questo è il posto cui appartieni. Noi siamo simili sotto molti aspetti. Devi saperlo. Siamo differenti sotto altri. Io e te siamo streghe, e saremo sempre le migliori amiche una dell'altra.» Era quasi sincera nel dirlo. C'era abbastanza verità dietro quelle parole. Ma il destino aveva decretato, molto tempo prima, che questo non sarebbe mai potuto accadere. Il suo odio per Holiday, una, presenza così ossessiva, così mostruosa e violenta, l'aveva reso impossibile. Gli occhi di Mistaya si abbassarono, incerti. «Tornerò a trovarti. Quando non ci sarà più pericolo.» Il sorriso della strega era freddo e inespressivo. «Questo potrebbe verificarsi prima di quanto credi. Ho convinto Rydall a ritirarsi dalla sfida con tuo padre. Sarà qui anche lui, quando tuo padre arriverà. Una volta che se ne sarà andato da Landover, non ci sarà più bisogno di barriere fra di noi. Sono sicura che tuo padre e tua madre saranno d'accordo.» Mistaya corrugò la fronte. «Rydall si ritirerà? Per sempre? Ha rinunciato definitivamente?» «L'ho persuaso che è la cosa migliore per tutti i contendenti.» Gli occhi della Strega del Crepuscolo si strinsero. «La magia può risolvere tutto. Questo è quanto ho tentato d'insegnarti.» Mistaya si guardò i vestiti e se li strofinò mentre parlava. «Ho imparato tantissimo da te» sussurrò. «Sei stata una brava allieva» la lodò la strega. «Hai molto talento. Non dimenticare che sono stata io la prima a dirtelo, che sono stata io a rivelarti quello che nessun altro ti avrebbe rivelato, che ti ho aiutato a scoprire chi sei veramente. Nessun altro avrebbe fatto tutto questo per te. Soltanto io.» Ci fu un momento d'imbarazzato silenzio. La Strega del Crepuscolo percepì un cambiamento nell'equilibrio delle cose. «Ho qualcosa per te» disse alla ragazza. Mistaya sollevò gli occhi. La Strega del Crepuscolo infilò una mano fra le vesti e tirò fuori una catenella d'argento con un pendente. Quest'ultimo era scolpito a forma di rosa, con i petali minuziosamente disegnati, lo stelo e le spine finemente lavorate nel metallo. Prese la catena con il pendente e la mise attorno al collo di Mistaya.
«Ecco» disse, facendo un passo indietro. «Un dono per ricordarti di me. Finché la porterai, non dimenticherai mai il tempo che abbiamo trascorso assieme.» Mistaya sollevò il pendente dal petto e lo tenne delicatamente fra le dita. C'era sorpresa e gratitudine nei suoi occhi verdi. Il suo viso di bambina era raggiante. «È bellissima, Strega del Crepuscolo. Grazie. La porterò sempre, te lo prometto.» Qualche ora sarà sufficiente, si disse la strega, badando bene di tenersi il sorriso tutto per sé. Sufficiente per accogliere il tuo affezionato padre e per abbracciarlo un'ultima volta. Sufficiente perché la magia nascosta nel pendente faccia in modo che le spine della rosa pungano la pelle del Refantoccio e iniettino il loro mortale veleno nel suo corpo. Dopo, potrai fare quello che vuoi del mio regalo. Dopo che avrà assolto il suo compito. Dopo che tu avrai assolto il tuo. Questor Thews emerse dalla luce del suo incantesimo in un'ondata di torpore che lo fece quasi cadere. Barcollò per un attimo mentre la luminosità svaniva, tentando di rimettersi in equilibrio. Poi, trovando che i suoi piedi erano di nuovo su un terreno solido, si raddrizzò, strizzò gli occhi per scacciare le ultime tracce del suo malessere, e fece un rapido inventario di ciò che lo circondava. Con suo sollievo scoprì che era di nuovo a Landover. Un grappolo di pallide lune costellava il cielo di mezzogiorno, visibile attraverso il fitto schermo dei rami degli alberi. Tralci di Bonnie Blu facevano capolino tra cespugli e tronchi coperti di muschio. Odori familiari gli giunsero alle narici. Erano tutti segni inequivocabili. Ma benché si trovasse a Landover, non era più nella regione dei laghi. Il paesaggio era completamente diverso. Era da qualche altra parte, molto più a nord... «Per tutti i diavoli, adesso ne ho proprio abbastanza!» sbottò un irato Poggwydd, afferrando con forza una manica della casacca di Queston. Il mago fece un salto all'inaspettato tocco. «Io non so cos'ha fatto per riportarci quaggiù, ma credo che la prossima volta ci verrò a piedi! La prossima volta, ho detto? Mi morderei la lingua! La prossima volta? Che mi venga un colpo se ci sarà una prossima volta! Ah! Non credo proprio! Non per me!» Accartocciando la faccia come se tentasse di cancellarne totalmente i lineamenti, lasciò andare Questor e fece un fulmineo dietrofront. «Buona giornata a lei, signore! Buon giorno, buon giorno!» Ma si fermò di botto. «Povero me, che qualcuno abbia pietà di noi; ma che cosa gli è capitato?»
Stava guardando Abernathy. Lo Scrivano di Landover era a terra accanto a un venerando noce, e si stava osservando. Era di nuovo un cane, un terrier dal pelo morbido, arruffato e scomposto sotto i vestiti, con ciuffi di pelo che spuntavano dappertutto, le orecchie ritte, gli occhiali grottescamente appollaiati sul lungo naso. I suoi limpidi occhi bruni sembravano allo stesso tempo sorpresi e tristi mentre si studiava le dita umane, tutto ciò che rimaneva del suo vecchio corpo. Poi si scrollò, alzò gli occhi a guardare Poggwydd, e sospirò. «Qual è il problema, Poggwydd? Non ha mai visto un cane che parla?» La faccia rugosa e irsuta di Poggwydd si esibì in un campionario di bizzarre contorsioni mentre lui soffiava e sputacchiava nel tentativo di parlare. «Be', io... Be', naturalmente io... Mmm! Be', di certo non era un cane, prima!» Abernathy si rizzò faticosamente sulle gambe e si spolverò. «Cosa intende con "prima"?» «Pochissimo tempo fa! Giusto prima che fossimo inghiottiti dalla magia del mago! Lei era un uomo, dannazione!» Il sorriso di Abernathy era patetico, anche per un cane. «Quello era solo un travestimento. Io in realtà sono così, come sono adesso. Non se n'è accorto?» Sospirò di nuovo, e i suoi occhi si fermarono su Questor. «Be', avevi ragione, Questor Thews. Congratulazioni.» Questor rispose con un affrettato cenno della testa. «Sì, a quanto pare non mi ero sbagliato, grazie. Devo dire, ancora una volta, che avrei voluto che potesse essere altrimenti.» «Tutti noi desideriamo che le cose possano essere diverse, ma questo è il mondo reale, non è così? O perlomeno è reale per quanto ci riguarda.» Abernathy si guardò attorno disorientato. «A ogni modo, dove ci troviamo?» «Stavo giusto per chiederlo al nostro amico» rispose il mago, rivolgendosi a Poggwydd. Lo Gnomo Va' Via sembrò sorpreso dalla domanda. Gettò una rapida occhiata a destra e a sinistra, come per avere una conferma ai suoi sospetti, poi si schiarì solennemente la gola. «Siamo esattamente nel luogo dal quale siamo partiti, ecco dove siamo. Be', per meglio dire, da dove sono partito io. Qui è dove mi ha trovato quella ragazzina, mentre mi facevo gli affari miei, senz'arrecare a chicchessia il benché minimo...» S'interruppe di colpo quando vide gli occhi di Questor cominciare a incupirsi. «Ehm! Ciò che v'interessa sapere, suppongo, è che ci troviamo a circa un miglio dal
Pozzo Infido.» «Non capisco» buttò lì Abernathy, avvicinandosi agli altri due. «Cosa ci facciamo qui? Perché non siamo tornati nella regione dei laghi?» Questor Thews si sfregava furiosamente il mento, e si torceva i baffi a coda di topo mentre si spremeva le meningi. «Siamo qui, vecchio mio, perché Mistaya è qui: laggiù nel Pozzo Infido, con la strega. È qui che Poggwydd l'ha vista l'ultima volta. La Strega del Crepuscolo l'ha ricondotta nel Pozzo Infido, e non c'è motivo per credere che non ci sia tuttora. Siamo stati guidati qui per salvarla, a mio avviso.» «Non ci capisco un accidente!» dichiarò bruscamente lo Gnomo. «Ma va bene così, va proprio bene, perché io non voglio capirci un accidente! Voglio soltanto andarmene per la mia strada. Quindi, arrivederci a tutti e buona fortuna!» Ancora una volta fece per andarsene, questa volta diretto a est, lontano dal covo della strega. «Non è curioso di sapere cosa succederà con la Strega del Crepuscolo?» gli chiese ad alta voce Questor Thews. «Non voglio saperne più niente di niente!» Lo Gnomo non rallentò la sua andatura. «Ne so già molto più del necessario! Molto, molto di più!» Tirò calci al terreno, furioso, sollevando una nuvola di polvere. «Fatemi una cortesia, per favore. Se trovate quella ragazzina, porgetele i miei ossequi e ditele che non voglio vederla mai più. Niente di personale, beninteso, ma le cose stanno così.» La sua voce si alzò pericolosamente. «Spero che sia la figlia del Re! Spero che diventi Regina! Spero che quando deciderà di farsi un'altra passeggiata, se ne vada da qualche altra parte! Buona giornata!» S'inoltrò fra gli alberi e scomparve, una figura curva e cenciosa che lasciava nella sua scia uno sbruffo di gesti rudi e di indecifrabili mugolii. Questor se ne dimenticò immediatamente e si rivolse ad Abernathy, con sguardo intenso. «Tu sai cosa dobbiamo fare, vero?» Abernathy lo guardò come avrebbe fatto con un bambinetto. «Lo so perfettamente. Probabilmente meglio di te.» «Allora faremo meglio a muoverci. Ho un brutto presentimento.» Ed era effettivamente così. Era difficile descriverlo, ma impossibile sottovalutarlo. Quella sensazione non l'aveva mai lasciato nel vecchio mondo dell'Alto Signore: un impulso irrefrenabile a fare in fretta, a tornare a Landover il più presto possibile in modo da prevenire qualunque cosa la Strega del Crepuscolo avesse in mente di fare. Adesso quella sensazione era
ancora più forte, una crescente certezza che la trappola attorno a Holiday e alla sua famiglia si stava chiudendo e che soltanto loro potevano evitarlo. Forse era un po' da presuntuosi assumersi una responsabilità così gravosa, e anche un po' teatrale, ma Questor Thews aveva bisogno di credere che c'era una ragione per il sacrificio di Abernathy, che c'era una causa più gloriosa da servire. La sua magia era costata ad Abernathy la sua identità umana, ma li aveva restituiti a Landover, depositandoli nel luogo dove Mistaya era stata vista per l'ultima volta, e dov'era probabilmente tuttora prigioniera: questo doveva pur significare qualcosa. La Strega del Crepuscolo aveva detto loro che Rydall era una sua creatura, che lei aveva messo in moto una macchina che avrebbe schiacciato Holiday, e che Mistaya sarebbe stata lo strumento della sua distruzione. In qualche modo la strega si stava servendo della ragazza per mettere le mani sull'Alto Signore. Se loro l'avessero potuta raggiungere in tempo, forse il loro intervento poteva ancora essere decisivo. Si misero rapidamente in marcia tra le ombre, nella calura del mezzogiorno, per correre in soccorso della ragazza. Sciami di moscerini li assediavano, attirati dal loro sudore, stuzzicati dal loro passaggio. Questor cercava di scacciarli, immerso nei suoi foschi pensieri. Un cavallo sarebbe stata una benedizione, in quel momento, ma d'altra parte Abernathy non voleva avere niente a che fare con gli equini, così proseguire a piedi sembrava comunque la soluzione migliore. Attraversarono un ruscello e poi una radura costellata di fiori selvatici gialli e cremisi. Fringuelli sfrecciavano via dal nido e si tuffavano nel blu. Abernathy aveva il fiatone, ma Questor non rallentò il passo. Lui stesso era in difficoltà. Fece forza sulle vecchie ossa, ignorando i dolori alle giunture. S'impose di camminare ancora più in fretta. Si tirò su la veste e si gettò giù per i pendii, imboccò sentieri nell'erba alta, scavalcò cespugli di spine. «Questor Thews, aspetta!» sentì Abernathy ansimare, perché ormai lo scrivano si trascinava costantemente alle sue spalle. Il mago non lo ascoltò neanche per un attimo. Davanti a loro, la nebbia e il grigiore del Pozzo Infido erano già in vista. 20 Il cuore di Holiday Mistaya stava seduta con la Strega del Crepuscolo su un'altura erbosa presso i margini meridionali del Pozzo Infido, quando si profilarono all'o-
rizzonte suo padre e sua madre a cavallo. Li precedeva Bunion, spuntato dall'afa di mezzogiorno come un ragno uscito dal buco e acquattato sul terreno bruciato dal sole. Le Guardie del Re li proteggevano sui fianchi e alla retroguardia, armate di lance e di spade, tutto un luccichio di metallo nel sole accecante. Il gruppo rallentò quando la vide, e tutti tirarono le redini per fermare i cavalli. Mistaya poteva vedere la tensione scolpita sul volto di suo padre, poteva vedere il movimento dei suoi occhi che spaziavano sull'aperta distesa della prateria che lo separava da sua figlia, per poi fermarsi su Rydall. Il Re di Marnhull stava in sella al suo nero destriero a poca distanza da lei, sulla destra, nascosto dalla sua nera armatura e dal mantello, con la visiera calata, immobile sotto l'ombra di un frondoso castagno. Era già lì ad aspettare quando la strega e Mistaya erano salite sul ciglio della conca. Non aveva mostrato, in alcun modo, di averle viste. Non aveva fatto una mossa, né detto una parola, per tutto il tempo. Non faceva niente neanche adesso. Era immobile come una statua, rivolto nella direzione dalla quale stava giungendo il Re di Landover. La Strega del Crepuscolo si alzò, e Mistaya si alzò con lei. Gli occhi di Ben Holiday corsero immediatamente a sua figlia. Mistaya voleva correre da lui, chiamarlo ad alta voce, fare o dire qualcosa, qualsiasi cosa. Ma la strega gliel'aveva proibito. Fai parlare me, prima, l'aveva avvertita. Le trattative fra Rydall e tuo padre sono a uno stadio molto delicato. Dobbiamo stare attente a non comprometterle in nessun modo. Mistaya aveva capito. Non voleva fare niente che potesse mettere in pericolo suo padre. Voleva solo andare a casa. Ci aveva pensato sempre, da quando era tornata nel Pozzo Infido dopo il suo incontro con Poggwydd. Da quel momento la sua ansia era cresciuta costantemente, e adesso era eccitata, ma anche un po' timorosa alla prospettiva di rivedere i suoi genitori dopo tante settimane. Un impeto di emozione le invase il petto, le formò un groppo alla gola e le riempì gli occhi di lacrime. Non si era resa conto di quanto le fossero mancati, pensò. Non aveva realizzato quanto forte fosse il suo desiderio di tornare a casa. «Alto Signore!» gridò improvvisamente la Strega del Crepuscolo. «Sua figlia è qui con me, sana e salva. È pronta a tornare a casa. Io ho strappato a Re Rydall la sua promessa che così sarà. Lui ha acconsentito a ritirarsi da Landover. Non ci saranno più minacce, né altri attacchi. Lei deve solo impegnarsi a non pretendere da lui alcun risarcimento per quanto è accaduto.»
Mistaya aspettava con ansia. Ci fu un lungo silenzio, come se suo padre non sapesse cosa rispondere, come se quello che sentiva fosse totalmente inaspettato. Lo vide guardare sua madre, e sua madre rispondergli sommessamente. Bunion si muoveva irrequieto fra l'uno e l'altra, coi denti luccicanti e gli occhi fissi sulla strega. «Che ne è stato di Questor Thews e Abernathy?» urlò di rimando Ben Holiday. «Vi saranno restituiti anche loro!» rispose la Strega del Crepuscolo. Abernathy e Questor? Mistaya guardò interrogativamente la strega. Di cosa stavano parlando? Era successo qualcosa al mago e allo scrivano? Non erano tornati sani e salvi a Sterling Silver? Non era così che le aveva detto la strega? La Strega del Crepuscolo le rivolse un sorriso, con la faccia distante coperta dal cappuccio della sua veste nera. Non preoccuparti, diceva il sorriso. Lasciami fare. «Non chiederò alcun risarcimento se tutti stanno bene» sentì suo padre acconsentire, ma non le sfuggì il tono preoccupato della sua voce. Tornò con lo sguardo sullo spazio che li separava, una distesa erbosa brulla e riarsa, che fronteggiava la scura depressione del Pozzo Infido. Suo padre sembrava lontanissimo. La Strega del Crepuscolo le posò una mano bianca e sottile sulla spalla. «Devi andare da tuo padre, adesso, Mistaya» la esortò. «Quando te lo dirò, gli andrai incontro. Non deviare per nessuna ragione dalla tua strada. Va' direttamente da lui. Hai capito?» Mistaya annuì. Fu improvvisamente conscia che stava accadendo qualcosa, qualcosa che non sapeva definire, qualcosa di nascosto e probabilmente di pericoloso. Lo avvertiva nelle parole della strega, proprio come percepiva tante altre cose che la riguardavano. Esitò, chiedendosi cosa fare. Ma non c'era niente che potesse fare, lo sapeva. Nient'altro che acconsentire. Annuì in silenzio. «Alto Signore!» gridò ancora una volta la Strega del Crepuscolo. «Sua figlia sta venendo da lei! Smonti e le vada incontro a piedi! Venga solo! È questa la condizione che io pongo!» Di nuovo Mistaya poté vedere l'esitazione di suo padre, il suo ripensamento. Questa cosa non gli sembrava sicura, era evidente. C'era qualcosa che lo sconcertava, qualcosa che sembrava non tornargli. Pensò che forse avrebbe dovuto dirgli qualcosa per tentare di rassicurarlo, poi si rese conto che lei stessa non era tranquilla su come stavano andando le cose, era pre-
occupata quanto lui. I suoi occhi verdi andarono alla ricerca di Rydall. Il Re di Marnhull non si era mosso. Mistaya guardò in fretta la Strega del Crepuscolo. Anch'essa era immobile, e senza espressione. Suo padre smontò lentamente da cavallo e cominciò ad avanzare. Bunion accennò a seguirlo, ma lui bloccò il coboldo con un cenno della mano. «Vai adesso!» le sussurrò rapidamente all'orecchio la Strega del Crepuscolo. «Abbraccialo forte, anche da parte mia!» Mistaya si mosse riluttante, ancora immersa nelle proprie riflessioni, ancora a chiedersi confusamente cos'era che non andava. Avanzò nell'erba secca a piccoli passi, guardando suo padre che continuava a procedere, che si avvicinava sempre più. Si voltò a guardare la Strega del Crepuscolo, ma lei non rispose al suo sguardo e rimase immobile, una silhouette alta e scura contro la caliginosa foschia della conca. Mistaya si ravviò i capelli sulla faccia, e fece correre gli occhi verdi a destra e a sinistra. Suo padre veniva avanti, deciso, ma guardingo. La ragazza vide un sorriso preoccupato e incerto formarsi sulle sue labbra. Poteva vedergli chiaramente gli occhi. In essi leggeva il suo sollievo, come se lei fosse stata perduta e suo padre non si aspettasse di poterla rivedere. Mille domande le si affollarono nella mente. Perché la guardava in quel modo? Improvvisamente voleva fare quello che la Strega del Crepuscolo le aveva detto. Voleva stringere suo padre più forte che poteva, tenerlo stretto, sentire il contatto rassicurante del corpo di lui contro il suo. Voleva che lui la prendesse in braccio, offrendole riparo e protezione. Sentiva il bisogno di dirgli quanto le fosse mancato. Aveva bisogno di sentirsi dire che lui le voleva bene quanto prima. La giornata era calda e silenziosa, e la brezza che le sfiorava la faccia era secca come ali di mosca. Padre, sussurrò con un filo di voce, e si gettò in avanti. In quel momento un urlo improvviso, disperato si levò dal silenzio. «Alto Signore! Mistaya! Fermatevi!» Questor Thews sbucò dagli alberi alla sua sinistra, uscendo faticosamente dalle ombre per trovarsi in pieno sole. Trafelato e scarmigliato, con le vesti tutte lacere, le sgargianti fusciacche mezze sciolte e le cuciture quasi tutte sdrucite, correva verso di loro agitando le braccia, con i capelli e la barba canuta che svolazzavano al vento, e gli occhi selvaggi e spaventati come quelli di un animale inseguito dai cacciatori. Mistaya e suo padre si girarono bruscamente, sorpresi, a guardare quella figura cenciosa che ve-
niva arrancando verso di loro. Dagli alberi alle sue spalle, a una quarantina di metri da lui, fece la sua comparsa Abernathy, che sbuffava e ansava e tentava inutilmente di stargli dietro. Poi Mistaya sentì l'urlo furioso della Strega del Crepuscolo. La strega si era accucciata, come un gatto pronto a saltare, a braccia tese come per tener lontano qualcosa di terrificante. I suoi occhi, rossi come il sangue, catturarono quelli di Mistaya. «Vai da tuo padre!» strillò, in un accesso di collera. Mistaya si mosse in avanti, ubbidiente, quasi contro la sua volontà. Ma Questor Thews continuava ad avanzare, correndo testardamente nel caldo e nella polvere, con braccia e gambe che si muovevano forsennate. Di nuovo Mistaya si fermò, paralizzata. «Mistaya, non farlo!» gridò Questor Thews. «È una trappola!» Di colpo tutti quanti cercarono di raggiungerla: sua madre scattando in avanti in sella al suo cavallo, con le Guardie del Re alle calcagna e Bunion che correva davanti a tutti, la Strega del Crepuscolo che aveva sollevato le braccia allargando i suoi neri paludamenti come un grosso uccello da preda, Rydall che cercava di riprendere il controllo del suo cavallo nero imbizzarrito che rinculava, Abernathy che ruzzolava come una palla nell'erba secca, dopo aver perso completamente il controllo delle gambe, e suo padre che si produsse in uno scatto imperioso. Ma fu Questor Thews a raggiungerla per primo, slittando pericolosamente sull'ultimo pezzo di terreno che li separava e prendendola a volo come fosse stata una bambola di pezza, per poi stringerla contro il petto. «Mistaya!» sussurrò, sollevato. Poi una diabolica luce verde esplose tra di loro, schizzando fuori dal pendente come una pioggia di schegge di vetro. Questor Thews grugnì dal dolore, e il sangue sgorgò dal suo viso. La sua presa su Mistaya s'indebolì, e cadde in ginocchio, senza quasi la forza di aggrapparsi a lei. «Questor!» strillò Mistaya, terrorizzata. Si ritrasse quando si rese conto da dove fosse venuta quella luce, e si guardò subito il collo. Le spine che erano sullo stelo spuntavano dal petto del vecchio come chiodi, e il sangue che sgorgava dalle ferite inzuppava i vestiti laceri. Questor tremava, e le sue dita si erano rattrappite stringendosi come artigli. Boccheggiava. Mistaya estrasse le spine dal suo corpo, strappò il pendente e lo gettò via. Gli occhi di Questor si fissarono su di lei senza vederla, e poi il vecchio si afflosciò al suolo e rimase immobile. «Questor!» singhiozzò Mistaya. «Questor, alzati! Ti prego!»
Questor Thews non si mosse. Aveva smesso di respirare. Mistaya balzò in piedi, singhiozzando di rabbia e disperazione. «Strega del Crepuscolo!» urlò. «Fa' qualcosa.» Suo padre le si accostò e fece per toccarla, ma lei lo spinse via. Corse fino al punto dove si trovava il pendente, lo guardò, poi strinse gli occhi e li puntò oltre la pianura bruciata dal sole. «Strega del Crepuscolo!» La strega rimase ritta dov'era, impietrita, con il volto liscio e pallido privo di ogni espressione, ma con gli occhi colmi di una furia terribile. Le sue braccia si mossero veloci verso il basso, a liberarsi della magia che avevano raccolto. «Sei stata tu a darmi quel pendente!» urlò Mistaya. «È colpa tua se è accaduto questo!» La strega tracciò un gesto con la mano nell'aria davanti a sé. «Non sono responsabile di questo! Questor Thews non avrebbe dovuto interferire! È stato uno stupido!» «Io avevo fiducia in te!» strillò Mistaya. Ormai era li anche sua madre, che smontò in tutta fretta mentre le Guardie del Re arrestavano i cavalli alle sue spalle, con le armi sguainate, e Bunion sibilava minaccioso all'indirizzo della strega. «Mistaya, guardami» ordinò Willow. Ma Mistaya l'allontanò con un gesto della mano, prese il pendente dalla catenella, e lo mostrò alla Strega del Crepuscolo in tono accusatorio. «Questo era per mio padre, non è vero? L'avevi destinato a lui!» «Io non avevo...» «Basta con le menzogne!» «Sì!» urlò la strega. «Si, l'avevo preparato per lui! Il veleno doveva prendere la sua vita, non quella di quel vecchio stupido!» Mistaya tremava di collera. Il suo corpicino era teso come una lancia, tutto dritto e pronto a scattare. Le sue mani erano strette a pugno, e il suo volto rigato di lacrime. «Ti odio!» urlò. Gettò via il pendente. Le sue piccole mani si levarono, e da esse scaturì una sfera di fuoco, che andò a distruggere l'oggetto che giaceva al suolo, riducendo il metallo in polvere. Ben e Willow, loro malgrado, si ritrassero, sbalorditi dal potere che Mistaya possedeva. Finalmente giunse anche Abernathy, boccheggiante, con il fiatone e la lingua a penzoloni. Si chinò subito su Questor Thews, e poggiò il suo orecchio di cane sul petto del vecchio. «Il cuore non batte più!» sussurrò. Mistaya non diede segno di aver sentito. Adesso avanzava decisa verso
la Strega del Crepuscolo, tutta determinazione e ferrea volontà. «Tu lo devi aiutare, altrimenti...» sibilò. «Mi hai sentito, Strega del Crepuscolo?» La strega indietreggiò di un passo, e poi si raddrizzò. «Non credere di potermi minacciare, piccola stupida! Io sono ancora la tua signora e padrona!» «Tu non sei altro che una bugiarda e un'ingannatrice, e lo sei sempre stata!» l'apostrofò la ragazzina. «Tu mi hai ingannata! Mi hai usata! Cos'altro mi hai fatto fare? Che ne e stato di quei mostri che ti ho aiutato a creare, Strega del Crepuscolo? Il gigante di terra e l'uomo di metallo e tutti gli altri? A quale scopo erano destinati?» «Furono mandati a uccidere tuo padre» sentì sua madre rispondere alle sue spalle. «Chiedile di negarlo.» «Rydall!» La strega si rivolse fulminea al Re di Marnhull. «Volevi sbarazzarti di Holiday! Bene, eccolo qui! Uccidilo!» Rydall stava ancora lottando con il suo destriero, riuscendo a stento a tenere sotto controllo l'animale imbizzarrito. Alle parole della strega, si voltò di scatto a guardarla, irradiando pericolo dal corpo in armatura nera. Per un momento sembrò che fosse la strega l'oggetto della sua furia. Poi sguainò la spada, lanciò urla di sfida e spronò in avanti la sua cavalcatura, avventandosi su Holiday. Ma Bunion fu più lesto. Il coboldo corse verso il Re di Marnhull, mostrando i denti, una piccola macchia scura nella calura, e si gettò contro il muso del cavallo. L'animale s'impuntò, indietreggiò, scalciò e sbalzò di sella Rydall. Mentre cadeva, il suo piede destro rimase impigliato nella staffa. Appesantito dall'armatura, Rydall non riuscì a liberarsi. Ruzzolò al suolo e andò a finire sotto il cavallo che, scalpitando e indietreggiando, lo calpestò sotto gli zoccoli ferrati. Poi il cavallo si lanciò al galoppo, trascinando per la prateria il suo sventurato cavaliere. L'armatura si staccò a pezzo a pezzo, e il terreno si bagnò di sangue. Le Guardie del Re spronarono nel tentativo di catturare l'animale imbizzarrito, ma prima che potessero fermarlo Rydall di Marnhull era ridotto a un ammasso di membra martoriate e sanguinolente. Mistaya riprese ad avanzare verso la Strega del Crepuscolo. «No!» gridò la strega, chiaramente scossa. «Siamo pari, adesso! Una vita contro un'altra vita! Rydall ritorna da dove era venuto, e tu e io facciamo la stessa cosa, ragazzina!» Ma Mistaya non rallentò. Adesso avanzavano anche suo padre e sua madre, entrambi con un'espressione feroce sul volto. Bunion li seguiva rotolando come mercurio nell'erba ingiallita. Le Guardie del Re si allargaro-
no a ventaglio attorno a loro. Ben Holiday teneva il medaglione ben in vista, allungando una mano per esporlo in piena luce. Una smorfia di paura passò sul volto della strega. Si girò fulminea a fronteggiare il pericolo, con un'espressione belluina dipinta sul viso, mentre spezzoni di fuoco verde le sprizzavano dalle dita. Istantaneamente Mistaya puntò un dito contro di lei, urlando. La magia scaturì dalle mani della ragazzina, sotto forma di un raggio, e colpì la Strega del Crepuscolo sollevandola da terra. La strega annaspò sconvolta e ricadde all'indietro. Poi si rialzò furiosa. «No! Tu non puoi toccarmi! Non ne hai il diritto!» Si voltò verso Mistaya. La sua faccia terrea era orribile e distorta. Il suo autocontrollo era a pezzi. «Ti farò vedere io cosa può fare la magia, piccola strega! Ti rimanderò di nuovo nel posto che ti compete!» Le sue mani si levarono, mentre maligne fiammelle verdi scaturivano dalle dita. Mistaya intrecciò le braccia davanti a sé, a formare uno scudo. Poi, improvvisamente, comparve Haltwhistle: si materializzò sul ciglio del Pozzo Infido e si fiondò in avanti. Il ghiaccio si levò dalla sua collottola e si tramutò in nastri di vapore. La Strega del Crepuscolo se ne avvide con un attimo di ritardo. Si girò, ma il cucciolo di fango le corse direttamente addosso e la colpì alle gambe facendole perdere l'equilibrio. Dimenandosi selvaggiamente, incapace di controllare la sua magia, la strega crollò come un sacco di patate. E la magia scese, cadendo su di lei come una pioggia. La magia di Haltwhistle, rimasta i sospesa nella scia della sua corsa, andò a mescolarsi con quell'altra, la brina col fuoco, il ghiaccio col vapore. La Strega del Crepuscolo fu inghiottita. La strana miscela l'avviluppò e la consumò in un batter d'occhio. Ebbe appena il tempo di lanciare un urlo strozzato, e poi scomparve. Per un momento nessuno si mosse. Rimasero piantati dove si trovavano, aspettandosi quasi di veder riapparire la Strega del Crepuscolo. Ma non fu così, e allora Haltwhistle si avvicinò a Mistaya, che era rimasta impietrita davanti al pezzo di terra fumante dove si era trovata la strega. Mai toccare un cucciolo di fango, aveva detto la Madre Terra. Stai attenta. Haltwhistle guardò la ragazzina con occhi pensosi e scodinzolò piano. Mistaya scoppiò in lacrime. Suo padre si accostò a lei, s'inginocchiò e le posò le mani sulle esili spalle, sostenendola e guardandola negli occhi. «Va tutto bene, Mistaya» le disse. «Tutto bene.» E poi la tirò a sé e la tenne stretta contro il petto.
Poi la prese Willow, e l'abbracciò anche lei, cullandola, dicendole che era tutto finito, che era salva. Mentre faceva così, Ben si alzò e si recò nel punto in cui giaceva Rydall, un mucchio scomposto su una chiazza di terreno desolato presidiato da un circolo di Guardie del Re. Si accostò al Re caduto appoggiandosi su un ginocchio, sollevò la nera visiera e scrutò la faccia dentro di essa. Occhi iniettati di sangue si strinsero nello sforzo di guardarlo di sotto a una ciocca di capelli rossi. Ben Holiday scosse amareggiato la testa. «Kallendbor» mormorò. Il Signore delle Pianure tossì debolmente. Il sangue gli rigava il volto e la barba, e gli sgorgava copioso dalla bocca. «Avrei dovuto...» Ammazzarti il primo giorno... sul ponte levatoio. Non avrei dovuto... dare ascolto alla... strega. Trasse un ultimo respiro, sospirò e giacque immobile. Gli occhi rimasero sbarrati a fissare il vuoto. Ben richiuse la visiera. A quanto pareva, Kallendbor non era mai riuscito ad accettare le cose per quello che erano. Doveva essere davvero disperato per aver deciso di stringere alleanza con la Strega del Crepuscolo. Adesso Ben sapeva perché il robot a Rhyndweir li avesse potuti avvicinare senza essere scoperto. Adesso sapeva come aveva fatto la strega a usare la magia per fargli credere di aver perso il medaglione. Kallendbor aveva pensato a tutto. La strega doveva averlo avvertito dell'arrivo di Ben, e lui aveva teso la sua trappola per il Re di Landover e aveva aspettato che morisse. Adesso era il Signore di Rhyndweir che giaceva al suolo, morto, e probabilmente non si sarebbe mai avuta una spiegazione esauriente della follia che aveva causato tutto questo. Holiday si alzò e tornò alla sua famiglia, ma Mistaya era già piegata su Questor Thews, circondata dagli altri, con il faccino teso nella concentrazione. «Non può morire» stava dicendo quando Ben si avvicinò e s'inginocchiò accanto a lei. «È colpa mia. Tutta colpa mia. Devo rimediare. Devo.» Ben guardò Willow, e lei sollevò gli occhi commossi per incontrare i suoi. Questor Thews non respirava. Il suo cuore si era fermato. Nessuno poteva fare più niente per lui. «Mistaya, lui l'ha fatto per amor tuo» disse dolcemente Abernathy, toccandole una spalla. «Come tutti noi.» Ma Mistaya quasi non lo sentiva. D'impulso, prese la mano inerte di Questor. «La Strega del Crepuscolo mi ha insegnato qualcosa che potrebbe servire» mormorò con fierezza. «Mi ha insegnato a guarire. Anche i morti, qualche volta. Forse posso guarire Questor. Comunque, posso tenta-
re. Devo tentare.» Si dondolò sui talloni e chiuse gli occhi. Ben, Willow, Abernathy e Bunion si scambiarono sguardi incerti, diffidenti. Mistaya stava evocando la magia che la Strega del Crepuscolo le aveva rivelato, e dalla quale niente di buono era mai venuto. Non usarla, voleva dire Ben, ma sapeva che non doveva farlo. Il sole picchiava su di loro, e l'aria era pesante e umida per il caldo afoso. Tutt'attorno, la prateria era silenziosa, come se non ci fosse nessuna forma di vita o, se qualcuna ce n'era, fosse lì in attesa come loro per vedere cosa sarebbe successo. Mistaya rabbrividì, e un luminoso barbaglio corse dal suo corpo lungo il braccio fino a Questor Thews. Il mago giaceva immobile e inerte. Altre due volte il barbaglio di luce passò dal corpo di Mistaya a quello di Questor. Gli occhi della ragazzina vagarono come impazziti, e la sua testa si piegò in avanti, con i capelli che le si spargevano tutti sul volto. Di nuovo Ben pensò di intervenire, e di nuovo si trattenne dal farlo. Lei aveva il diritto di fare quanto era in suo potere, disse a se stesso. Aveva il diritto di provarci. Improvvisamente Questor Thews fece uno scatto. Il movimento giunse talmente inaspettato che Mistaya lanciò un piccolo urlo e lasciò andare la mano. Per un momento nessuno si mosse. Poi Abernathy si chinò rapidamente sul suo vecchio amico, stette in ascolto per un po', e guardò gli altri, sbalordito. «Sento il battito del suo cuore!» esclamò. «Sento il suo respiro! È vivo!» «Mistaya!» sussurrò Ben, e strinse a sé la ragazza. «Sapevo che potevo farcela, Padre» disse. Stava tremando, e lui poteva sentire un tremendo calore irradiarsi dal suo corpo. «Lo sapevo. Ce l'ho, la magia.» «È proprio così» approvò Ben, allarmato, e fece portare immediatamente pezze e acqua fredda. Anche gli altri abbracciarono Mistaya, tranne Bunion che si limitò a rivolgerle un sorriso a tutti denti. Le pezze furono applicate, le fu data acqua da bere, e la sua temperatura riprese a scendere. Sembrò recuperare. Ma la battaglia per salvare Questor non era ancora finita. Il cuore del vecchio batteva debolmente, il suo respiro era flebile, e non aveva ancora ripreso i sensi. Il veleno era ancora nel suo corpo, e benché Mistaya ne avesse neutralizzato in parte l'effetto, non era riuscita a bloccarlo del tutto. Allora Ben mandò parecchie delle sue guardie in cerca di un carro e diede disposizioni agli altri perché nel frattempo costruissero una rudimentale barella.
Poi attaccarono la barella a Giurisdizione, vi sistemarono Questor, e presero lentamente la strada di casa. Mistaya insisté nel voler viaggiare sulla barella accanto a Questor. Quando si trovò un carro, vi si trasferì anche lei, per non abbandonarlo. Gli tenne la mano per tutto il viaggio. Si rifiutava di arrendersi. 21 Un esemplare Per sei giorni dopo il loro ritorno a Sterling Silver Mistaya rimase al capezzale di Questor Thews dormiente. Gli tenne la mano quasi ininterrottamente. Lo lasciava soltanto se era necessario, e anche allora per pochissimo tempo. Mangiava sul letto, con un vassoio, e dormiva su un pagliericcio per terra. Di quando in quando Haltwhistle faceva la sua comparsa, materializzandosi dal nulla per farle sapere che le stava vicino, prima di scomparire ancora una volta. Più di una volta Ben Holiday scivolava in camera da letto a mezzanotte per coprire sua figlia con una coperta e carezzarle i capelli arruffati. Ogni volta era tentato di prenderla e portarla nel suo letto, ma lei era stata irremovibile nella sua decisione di rimanere li finché la cosa non si fosse risolta. Questor poteva riprendersi o morire, ma in ogni caso lei voleva essere lì quando sarebbe successo. Pezzo su pezzo, Ben ricostruì la storia di come la Strega al Crepuscolo avesse tentato di distruggerlo. Vennero a sapere da Mistaya il ruolo svolto dalla Madre Terra nel farle dono di Haltwhistle perché aiutasse a scombinare i piani della strega, e furono quindi in grado di dedurre da soli come il compito del cucciolo di fango consistesse anche nel far sì che ognuno di loro, pur se ingannato separatamente, potesse trovare il modo di ricongiungersi agli altri e di scoprire la verità. Abernathy aggiunse i suoi tasselli al mosaico, cercando di sorvolare sull'effetto che la trasformazione da cane a uomo e viceversa aveva avuto su di lui, e di minimizzare la parte da lui avuta nel salvare la vita a Ben. Ma Ben non lo permise, perfettamente conscio di quanto fosse costato al suo fedele scrivano rinunciare ancora una volta alla sua forma umana, dolorosamente consapevole che Abernathy avrebbe potuto non tornare mai più a essere quello che era stato. Parlarono pacatamente di Questor Thews e della sua determinazione nel salvare Mistaya. Si preoccuparono insieme di quali sarebbero state le conseguenze per la ragazza se Questor fosse morto. Willow passò lunghe ore a parlare apertamente con Mistaya della Strega
del Crepuscolo e della sua esperienza nel Pozzo Infido, alleviando una parte del male e del senso di colpa che sua figlia provava. Non era colpa di Mistaya, sottolineava, se la strega l'aveva usata per attirare suo padre in un tranello. Non era colpa sua se non si era accorta di quel che stava succedendo. Lei non aveva certo intenzione di far del male a suo padre o di aiutare in qualsiasi modo la strega. In realtà, lei aveva usato la sua magia nel tentativo (così credeva lei) di salvare la vita di suo padre. Al suo posto, sua madre avrebbe fatto la stessa cosa. Tutti loro erano stati ingannati dalla strega, e non era la prima volta. La malvagità della strega era insinuante e contorta, e avrebbe distrutto chiunque avesse avuto meno carattere e meno coraggio di lei. Mistaya doveva saperlo. Doveva accettare l'idea che lei aveva fatto del suo meglio. Suo padre, parlandole una volta da solo, le disse: «Tu devi perdonarti, quali che siano state le conseguenze del tuo comportamento, Mistaya. Hai fatto uno sbaglio, e quello fa parte della crescita. Crescere è doloroso per ogni bambino, ma per te lo è di più. Ricordi le parole della Madre Terra, che tu stessa ci hai riferito?» Mistaya annuì. Teneva stretta la mano di Questor, con un dito sul polso a sentire il debole pulsare del suo cuore. «Crescere, per te, sarà più difficile che per la maggior parte dei bambini. A causa di quel che sei e del luogo da cui provieni. A causa dei tuoi genitori. A causa della tua magia. Vorrei che potesse essere altrimenti. Vorrei poter cambiare le cose. Ma non posso. Dobbiamo accettare chi siamo in questa vita e renderla la migliore possibile. Ci sono delle cose che non possiamo cambiare. Tutto quello che possiamo fare è cercare di aiutarci a vicenda quando vediamo che c'è bisogno di aiuto.» «Lo so» disse lei dolcemente. «Ma questo non mi fa sentire meglio.» «No, non serve, suppongo.» Le si accostò e la tirò delicatamente a sé. «Sai, Mistaya, io non posso più permettermi di pensare a te come a una bambina. Almeno non come a una bimba di due anni. Tu sei cresciuta ben oltre, e io credo di essere l'unico a non essermene accorto.» Lei scosse la testa e tenne la faccia bassa. «Forse non sono così grande come tutti pensano. Ero tanto sicura di me stessa, ma niente di tutto questo sarebbe successo se fossi stata un po' più attenta.» Lui le diede una piccola stretta. «Se ti ricorderai di questo la prossima volta che userai la magia, sarai cresciuta abbastanza, per me.» Ben mandò a dire al Signore del Fiume che sua nipote era in salvo e sarebbe andata a trovarlo presto. Tornò al lavoro come monarca di Lando-
ver, benché una parte di lui fosse sempre nella camera con Mistaya, seduto accanto a Questor Thews. Mangiava e dormiva lo stretto necessario e gli riusciva difficile concentrarsi. Willow parlava con lui quando erano soli, facendolo partecipe dei suoi pensieri, dei suoi dubbi, e così si davano l'un l'altra quel po' di conforto che potevano. Parecchie altre volte Mistaya usò la sua magia per cercare di infondere forze nel corpo di Questor Thews. Metteva i suoi genitori al corrente delle sue intenzioni, così che potessero trovarsi li ad assisterla. La magia baluginava giù per il suo braccio fino al corpo del vecchio senza effetto apparente. Mistaya diceva che poteva sentire le membra lottare contro il veleno della strega, poteva sentire la battaglia che infuriava nell'organismo del vecchio. Ma non c'erano cambiamenti nelle condizioni del mago. I suoi battiti rimanevano lenti, la sua respirazione irregolare, ed era sempre senza sensi. Tentarono di nutrirlo con acqua e minestra, e una minima parte di ciò che le sue labbra toccavano veniva consumata. Ma era pelle e ossa, tutto cereo ed emaciato, uno scheletro adagiato sulle lenzuola, appena appena vivo. Mistaya cercò di irrobustirlo con altre forme di magia, sussurrandogli parole d'incoraggiamento, somministrandogli generose porzioni del suo amore per lui. Rifiutava di darsi per vinta. Voleva fortemente che si svegliasse per lei, che aprisse gli occhi e parlasse. Pregava che vivesse. I suoi genitori e Abernathy perdevano gradatamente le speranze. Lo leggeva nei loro occhi. Volevano crederci, ma erano fin troppo consci della disperata improbabilità della sua sopravvivenza. La profondità del loro attaccamento non si attenuava, ma lo sguardo nei loro occhi assumeva la piattezza della rassegnazione. Si stavano preparando a quello che vedevano come l'inevitabile epilogo. Abernathy non poteva più parlarle alla presenza di Questor. Ognuno di loro si stava ritirando in se stesso, tagliando i legami, mettendo a tacere i sentimenti, indurendosi. Lei cominciava a disperare. Cominciava a temere che il vecchio potesse rimanere così per sempre, sospeso tra la vita e la morte. Poi, al settimo giorno della sua veglia, mentre sedeva con lui nella camera da letto alle prime luci del mattino, a guardare dalle finestre l'alba che colorava il cielo, sentì la sua mano stringere inaspettatamente la propria. «Mistaya?» sussurrò con un fil di voce, e i suoi occhi si aprirono. Lei ebbe quasi paura di respirare. «Sono qui» sussurrò a sua volta, con le lacrime agli occhi. «Non ti lascio.»
Chiamò a gran voce sua madre e suo padre e, con la fragile mano del vecchio stretta saldamente nella sua, attese con ansia il loro arrivo. Vince aveva terminato il suo turno allo Zoo del Woodland Park di Seattle e stava andando verso la macchina quando cambiò improvvisamente direzione e tornò nella voliera, per dare un'ultima occhiata al corvo. Quel benedetto animale lo affascinava. Era esattamente dove lo aveva lasciato, appollaiato tutto solo su un ramo presso la cima della gabbia. Gli altri uccelli lo tenevano a distanza, non volendo averci niente a che fare. Non li si poteva biasimare. Era un essere dall'aspetto repellente. Neanche a Vince piaceva. Ma non poteva fare a meno di pensarci. Un corvo dagli occhi rossi. Nessuno mai aveva sentito qualcosa del genere. Nessuno, da nessuna parte. Era spuntato fuori dal nulla. Letteralmente. Lo stesso giorno di quell'incidente al Rifugio per animali della Contea di King, quando quei due matti che si erano fatti passare per Drozkin e Adkins avevano rubato quella scimmia o che diavolo era. Nessuno sapeva che fine avessero fatto. Si erano semplicemente volatilizzati, a voler credere alle chiacchiere che si erano sparse in giro. Poi, neanche due ore dopo, era comparso questo uccello, esattamente nella stessa gabbia dalla quale era scomparsa la scimmia. Cosa voleva dire quella coincidenza? Nessuno fu in grado di spiegarlo, naturalmente. Sembrava una di quelle storie sugli Ufo, una di quelle situazioni in cui strane cose capitavano alle persone coinvolte, ma nessuno poteva dimostrare che fossero realmente accadute. Vince credeva negli Ufo. Vince pensava che al mondo succedevano un sacco di cose che non si potevano spiegare, e per il fatto che non avessero una spiegazione non erano certo meno reali. E questo uccello era una di quelle cose. A ogni modo, ecco che quest'uccello, questo corvo dagli occhi rossi, si trova li in quella gabbia, stordito. Gli impiegati del Rifugio non erano degli stupidi. Riconoscevano un esemplare, quando lo vedevano, anche se non sapevano esattamente che tipo di esemplare fosse. Così lo immobilizzano e lo portano qui per poterlo studiare. Un uccello esotico, e quindi di proprietà dello zoo. Adesso spettava al Woodland Park il compito di identificarlo. Nessuno sapeva quanto tempo ci sarebbe voluto. Mesi, pensava lui. Forse anni. Vince si appoggiò alle sbarre, cercando di indurre l'uccello a guardarlo. Non ci riuscì. Non guardava mai nessuno. Ma avevi sempre l'impressione che ti stesse osservando. Di sottecchi, o qualcosa del genere. A Vince sa-
rebbe piaciuto conoscerne la storia. Ci scommetteva che era una bella storia. Ci scommetteva che era migliore di tutte le storie di Ufo. Quest'uccello nascondeva molte cose, che l'occhio non poteva vedere. Era evidente dal suo modo di comportarsi. In disparte, sdegnoso, pieno di un malcelato furore nei confronti della vita. Voleva uscire di lì. Voleva tornare nel luogo dal quale era venuto. Glielo potevi leggere in quegli occhi rossi, se guardavi abbastanza a lungo. Ma Vince non amava guardare il corvo negli occhi per troppo tempo. Quando l'aveva fatto, avrebbe quasi potuto giurare che quegli occhi erano umani. FINE